telefilm: maria proietti

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Comico.
Pairing: Freddo/Libano.
Rating: R/NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, AU.
- La signora Maria viene sfrattata da casa propria, e nonostante le reticenze iniziali dopo qualche ora non può che andare da suo figlio per cercare ospitalità. Quello che non sa è che, quando arriverà a casa, suo figlio non sarà solo.
Note: Che la vergogna scenda su di me. Precisazioni varie ed eventuali:
● Ispirata a una puntata di Forum XD Sì, quello con Rita Dalla Chiesa. *lacrima*
● L'AU non è temporalmente contestualizzato. Tutto è, sostanzialmente, molto casuale.
● La signora arancione esiste.
● Io la odio, la trovo la cosa più brutta che abbia mai scritto, ma va be'. *ride* Cosa non si fa per il #teamAngeli.
Scritta per la seconda missione dell'ultima settimana del COW-T @ maridichallenge, su prompt fandom!au.
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COSI’ È DECISO, L’UDIENZA È TOLTA

La signora Maria fu sfrattata verso le undici di una bella mattina di primavera. Dovettero accompagnarla fuori, perché lei non aveva alcuna intenzione di abbandonare l’appartamento di propria spontanea iniziativa. Aveva ricevuto l’avviso già da un paio di settimane, ed il giorno stesso lei aveva preparato le valigie, ma non se n’era andata. Era rimasta lì, coi suoi bagagli all’ingresso, ed aveva continuato la propria vita di sempre: faceva la spesa ogni tre giorni, comprava il minimo indispensabile, poi passava tutti i pomeriggi alla macchina da cucire, facendo la sarta per due lire per le signore del quartiere, che poi era l’unico modo che aveva trovato per sostenersi dopo la pensione senza chiedere un soldo a suo figlio, e la domenica andava in chiesa, senza mai saltare una funzione, non tanto perché avesse ancora qualcosa da chiedere a Dio – o, peraltro, qualche motivo per ringraziarlo – ma piuttosto perché si trattava di un’abitudine che le era entrata nelle ossa col passare degli anni, e non c’era modo di estirparla, ormai che era vecchia e tutti i cambiamenti la urtavano infinitamente.
Il padrone di casa s’era presentato quel giorno, convinto di trovare la casa già vuota, e invece la signora Maria era ancora lì, nel cucinino, che scolava maccheroni e mescolava il sugo nel tegamino. “Buongiorno, signor De Santis,” aveva detto, e il suo tono non era quello di una pazza che non si rendeva conto di quanto le stava accadendo intorno, quanto più quello di una donna perfettamente lucida, che vedeva con estrema chiarezza ogni cosa, e che di conseguenza stava agendo. Il signor De Santis l’aveva osservata preparare due piatti di pasta e metterli a tavola, poi la signora Maria s’era seduta al proprio posto e, scusandosi per la fretta, aveva cominciato a mangiare. “È che non so per quanto ancora c’avrò ‘n tavolo per appoggiarmi,” aveva detto.
Il signor De Santis era andato alla polizia subito dopo, aveva esposto la situazione e due agenti l’avevano seguito a casa per rendere effettivo lo sfratto. Al solo vederli, la signora Maria s’era alzata in piedi ed aveva riempito altri due piatti di pasta. Gli agenti avevano declinato l’offerta e si erano avvicinati con chiare intenzioni, sebbene vagamente intimoriti dalla situazione surreale. Lei non aveva aspettato altro: prima che i due uomini riuscissero a toccarla, s’era alzata in piedi – lasciando a metà il proprio pasto – si era ripulita con cura la bocca, s’era sciacquata le mani ed era andata all’ingresso, dove aveva recuperato le valigie.
Era uscita sulle sue gambe, e poi si era messa ad aspettare. E aveva aspettato a lungo, aspettò almeno sei o sette ore prima di prendere la decisione di presentarsi al figlio, ma quando cominciò ad imbrunire, quando il sole caldo della primavera andò a nascondersi dietro le colline all’orizzonte lasciandola in balia del venticello insistente della sera, che si prendeva gioco dei buchi e delle toppe del suo cappotto solleticandola fin nelle ossa, seppe di non avere altra scelta: l’assenza di una casa nella quale rifugiarsi diventò improvvisamente un problema ben più grave di tutti quelli che, solo pochi mesi prima, avevano posto fine alla sua relazione col proprio figlio.
L’indirizzo ce l’aveva. Arrivò poco prima di cena.
In quel momento, Freddo e Libano erano insieme.
*
Libano si lasciò sfuggire un mugolio profondo di fronte al quale Freddo non riuscì a trattenere un sorriso sbuffante che, vibrando attorno all’erezione del compagno, produsse un mugolio ben più convinto per il quale Freddo avrebbe volentieri riso un’altra volta, se non avesse saputo che ciò avrebbe innescato una reazione a catena che si sarebbe probabilmente conclusa con lui rantolante in un angolo di letto, scosso dalle risate fino alle lacrime, e il Libanese poderosamente incazzato – come ogni volta che si sentiva ingiustamente (o anche giustamente) preso in giro – che tirava giù tutti i santi del paradiso prima di lasciarlo lì ed andare a farsi una doccia. Per scongiurare il pericolo, cercò di rimanere serio e riprese a muoversi lentamente per tutta la sua lunghezza, scivolando lungo il suo sesso con la lingua ed accogliendolo in bocca fin quasi alla base, mentre Libano sollevava una mano e la perdeva fra i suoi ricci, spingendo la sua testa contro il proprio bacino e cercando di trattenere il più possibile il lento ondeggiare dei propri fianchi.
Quando Freddo sentì quel movimento cominciare a farsi più frenetico e incontrollato, si allontanò da lui, posando un lieve bacio sulla punta della sua erezione prima di risalire con la lingua lungo il suo corpo, insinuandosi fra le sue cosce per costringerlo a dischiuderle. Libano buttò lì un mugolio che si sarebbe potuto intendere come una vaga protesta, ma il Freddo lo ignorò, premendosi contro di lui in un gesto repentino e quasi violento che ricacciò ogni indugio di Libano nel profondo recesso della sua mente dal quale era partito, ed era già entrato quasi per metà dentro al suo corpo quando qualcuno suonò al campanello.
- Che, te fermi? – chiese Libano, spalancandogli addosso gli occhi con aria sinceramente sconcertata, - E movite! – sbottò, agitandosi sotto di lui per sopperire a quell’improvvisa, glaciale immobilità.
- Hanno suonato, Libano. – gli fece presente Freddo, uscendo dal suo corpo e mettendosi a sedere sul bordo del letto. – Aspetti visite? – domandò con aria seria, e per la prima volta il Libanese sembrò mettere a fuoco il motivo della sua preoccupazione.
- No. – rispose, tornando immediatamente padrone di se stesso ed allungandosi a recuperare i jeans appallottolati ai piedi del letto, - Tira fuori i feri.
Freddo annuì, alzandosi in piedi ed infilando i pantaloni in un gesto praticamente unico, prima di fare il giro del letto e recuperare le pistole conservate nel primo cassetto del comodino. Ne passò una a Libano ed aspettò che si fosse rivestito, mentre ascoltava il campanello squillare ancora, e poi entrambi uscirono dalla camera da letto, dirigendosi di soppiatto verso la porta. Dopo aver tolto la sicura alla propria pistola, Libano si sporse in avanti per guardare dallo spioncino, e quando Freddo lo vide spalancare gli occhi e la bocca, allucinato, si preparò al peggio, ed allungò una mano verso la maniglia con l’intenzione di aprire la porta e sparare a raffica su qualsiasi essere umano stesse in attesa lì sul pianerottolo.
Fortunatamente, Libano lo vide.
- Aò! – strillò, afferrandogli la mano e tenendola ben lontana dalla porta mentre contemporaneamente rimetteva la sicura alla pistola, - È mi’ madre! Che voi fa’?
- Che?! – sbottò Freddo, sottraendosi alla sua stretta con uno strattone e guardandolo come lo vedesse per la prima volta, - Che cazzo ce sta a fa’ tu’ madre qua?
- E che cazzo ne so io? Metti via er fero, va’. – concluse, nascondendo la propria pistola dietro la schiena mentre si affrettava ad aprire. – A ma’. – biascicò quindi, nel posare gli occhi sulla signora Maria che, contegnosa, rimaneva immobile sul pianerottolo con una valigia alla propria destra ed una alla propria sinistra. – Che succede?
La signora Maria gli lanciò una lunga occhiata inquisitoria e poi fece lo stesso con Freddo. Prese nota della loro seminudità, la soppesò, cercò di capirne i motivi, li capì e mandò giù anche quella.
- M’hanno sfrattata. – rispose. Avrebbe potuto ribattere al figlio con qualcosa come “so’ io che dovrei chiederlo a te,” indicando Freddo con un cenno del capo, ma lasciò perdere. Nella posizione in cui era, non si sentiva in diritto di farlo, e lei – contrariamente al figlio – era sempre stata brava a capire quale fosse il suo posto, e a rimanerci.
Libano spalancò gli occhi.
- Hanno fatto cosa? – esalò sconvolto, scostandosi dall’uscio per farle spazio, - Vie’ dentro. T’hanno buttata fori de casa? – ribadì, ancora incredulo. Lei annuì, dirigendosi in cucina come se conoscesse la planimetria dell’appartamento a memoria, cosa assolutamente impossibile, visto che non l’aveva mai visitato prima. – Ma’? – la chiamò Libano, andandole dietro come un cagnolino mentre Freddo tirava dentro le valigie per poi rimanere sulla porta ed occuparsi di chiuderla – dopo aver lanciato un’ultima occhiata sul pianerottolo, hai visto mai che magari la vecchia mamma era solo un’esca per distrarli, d’altronde la polizia ce l’aveva per vizio di usare i familiari dei criminali per spedirli al gabbio – prima di rifugiarsi in camera da letto per recuperare il resto dei suoi vestiti e rendersi quantomeno presentabile.
- Sì, Pietro. – disse la signora Maria, lanciando occhiate penetranti alla mobilia, ai fornelli ed al frigorifero, - Ce lo sapevi che prima o poi doveva succedere.
- È per questo che t’avevo detto de anna’ a stare in un posto mio! – si agitò immediatamente Libano, gesticolando isterico, - Ma io je faccio er culo a ‘sto bel tipo che t’ha buttata fori. Ma vedi se ‘n morto de fame qualunque se può permette’ di butta’ fori mi’ madre, ma vedi te.
- Statte bono, Pie’. – lo redarguì immediatamente lei, aggrottando le sopracciglia facendosi immediatamente rigida come un pezzo di marmo, ed ugualmente espressiva. – Quello che t’ho detto mesi fa nun cambia mica mo’. Non ce voglio anna’ a sta’ in una casa che chissà come l’hai pagata. Già venire qui… - si interruppe per qualche secondo, come cercando dentro di sé la forza per proseguire, - Già venire qui è stato abbastanza umiliante.
Libano la guardò con sgomento, sinceramente ferito, mentre Freddo, ormai completamente rivestito, si affacciava alla porta e stabiliva di restarsene lì sulla soglia, senza invadere troppo lo spazio, quasi appiattendosi contro la parete.
- Ma che stai a di’, ma’. – balbettò incerto, cercando di avvicinarsi a lei senza che lei mostrasse neanche la più pallida intenzione a sciogliersi un po’, - Che nun ce lo sai che casa mia è casa tua? Anzi, sai che famo, c’è ‘na bella casetta che ho comprato da mo’, nun ce sta nessuno dentro, è tutta ristrutturata, ‘n ce metto gnente a fa’ porta’ le tu’ cose là. Si voi—
- No. – lo interruppe lei, continuando a guardarlo con severa freddezza, - Non le voglio le case tue. O li sordi tuoi. – sospirò pesantemente, passandosi una mano sulla fronte. – Me serve solo che me fai sta’ ‘n po’ qui. Il tempo che m’organizzo, me cerco ‘na casa nuova. E poi nun me vedi più.
- Ma’. – cercò di insistere Libano, la voce quasi rotta da un singhiozzo, - Spe’ ‘n attimo. Parliamone.
- Non c’è niente da di’, Pietro. – disse lei, e per la prima volta da quando era arrivata gli rivolse un sorriso dolce, caldo. Materno. – Godemoseli, ‘sti giorni. Famo finta che te sei ‘na persona normale e che io so’ tu’ madre in vacanza da te pe’ ‘n po’. Va bene? – concluse, allungando una mano ad accarezzargli il profilo el viso, reso ruvido dalla barba.
Libano chiuse gli occhi e posò una mano sulla sua, stringendo dolcemente fra le proprie quelle dita pallide e sottili che l’avevano cresciuto.
- Va bene, ma’. – annuì alla fine. La lasciò andare subito dopo, abbandonando la cucina in gran fretta. Freddo, turbato da quello che aveva visto, ci mise un po’ a riscuotersi, ma quando ci riuscì si scusò con la signora e si affrettò a seguirlo in camera.
Lo trovò seduto sul letto, pensieroso come ogni volta che imprevisti di varia natura si presentavano sulla sua strada e lui si metteva a ragionare su come risolvere i problemi perché, finché questi non erano stati risolti, non riusciva a pensare a nient’altro.
- Mbe’? – gli chiese, sedendosi al suo fianco. Il Libanese gli sollevò addosso un paio d’occhi così spaesati da far pensare che non avesse neanche idea di dove si trovasse, in quel preciso istante.
- Mbe’ cosa? – chiese di rimando, e Freddo indicò la porta chiusa con il pollice.
- Mbe’ tu’ madre. – preciso, - Che famo?
Libano scrollò le spalle, tornando ad abbassare lo sguardo.
- Che dovemo fa’. – sbuffò, - Resta qua, almeno pe’ quarche giorno. Poi se vede.
Freddò inarcò un sopracciglio, incrociando le braccia sul petto.
- E ‘ndo la mettemo? Nun c’è mica ‘na stanza pe’ l’ospiti. – gli fece notare. Libano tornò a guardarlo, gli occhi pieni di incerta paura. Freddo seppe cosa stava per dirgli prima ancora che riuscisse a capirlo lui stesso. – Nun ce prova’. – disse infatti, ma Libano grugnì indispettito, fissandolo con astio.
- Nun c’è altro posto che ‘sta stanza, Fre’! – cercò di farlo ragionare, - Nun posso mica metterla sur divano!
- La poi manna’ da quarche altra parte! – sbottò lui, alzandosi in piedi e cominciando a camminare nervosamente attorno al letto, - O me ne posso anna’ io.
- Nun di’ cazzate, mo’. – borbottò immediatamente Libano, alzandosi in piedi per andargli dietro, - Sei ancora ferito. Te de qua nun esci, finché nun stai a posto.
- Sto a posto. – sbottò lui, quasi offeso, - È ‘n graffio, e te sei paranoico. Nun te capisco proprio, guardi ‘n faccia i feri che ti puntano contro come se so’ giocattoli, ma basta che me pigliano de striscio su ‘na spalla e fai er matto.
- Nun rompe’ li coglioni, Fre’. – tagliò corto Libano, afferrandolo per la spalla sana e costringendolo a voltarsi per guardarlo negli occhi, - Te resti qua. E pure mi’ madre.
- Bene! – strillò Freddo, spintonandolo violentemente, - Te dormi sul divano e io me metto in poltrona, me pare giusto, così ‘a signora può sta’ comoda ner letto.
- Nun parla’ così de mi’ madre, Fre’. – lo minacciò il Libanese, puntandogli un dito contro il naso e guardandolo storto. Freddo resistette a stento all’istinto di staccarglielo via dalla mano con un morso.
- Levame quel dito da davanti all’occhi. – ringhiò risentito, - E manda tu’ madre in un altro appartamento.
- Nun ce vole anna’. – rispose lui, abbassando la mano, - Senti, la cosa co’ mi’ madre è complicata, ma è così. E te muto, che nun me ne frega ‘n cazzo de quello che pensi. Te resti. Mi’ madre pure. – sospirò profondamente, cercando di calmarsi. – E poi che può succedere? È roba de ‘n par de giorni, al massimo. Porta pazienza.
Freddo sospirò a propria volta, rilassando le spalle e scuotendo lentamente il capo.
- A porta’ pazienza so’ bravo, a sopporta’ ‘e madri meno. – borbottò. Proprio in quel momento, dalla cucina, giunse l’urlo un po’ sguaiato della signora Maria che annunciava che la cena era pronta, calda e in tavola. Freddo si passò una mano sugli occhi e pensò di fuggire durante la notte. Libano sorrise.
- Te nun le hai mai assaggiate ‘e tagliatelle de mi’ madre, ve’? – domandò divertito, - Va’ che domani je chiedo se ce ‘e fa.
*
La cena si svolse nel più perfetto silenzio. Più che una madre in visita al figlio, la signora Maria sembrava una cuoca a disagio perché il padrone di casa, senza nessun motivo, aveva deciso di trattenerla per la cena, costringendola a sedersi con gli altri invitati ed a subire discorsi complessi e profondi di cui non capiva un accidenti. Nessun discorso complesso e profondo stava naturalmente avendo luogo, dal momento che Freddo per lo più non parlava e Libano, invece, non faceva che porre domande stupide tipo come t’a passi, ma’? – come voleva che se la passasse una donna appena sfrattata? – alle quali logicamente sua madre si rifiutava di rispondere.
Dopo aver mandato giù l’ultimo boccone di carne, fu la signora Maria stessa ad alzarsi per prima.
- Io me ne vado a letto. – annunciò con tono grave, dando per scontato di poter passare la notte in camera. Era così, naturalmente, ma Freddo avrebbe apprezzato di più se lei avesse chiesto il permesso di farlo. Fosse stata sua madre, l’avrebbe rimproverata per tutta quella sfacciataggine, ma era la madre del Libanese, e pertanto, se aveva capito bene come girava, era meglio stare zitti e tenersene alla larga, attività nella quale era praticamente un maestro.
Cercò di tenersi alla larga anche dal Libanese stesso, una volta che furono rimasti soli. La scoperta del divano-letto in soggiorno rese vagamente più leggero il suo animo, al punto da poter dire di non essere più così furiosamente arrabbiato con lui, ma comunque la presenza della signora Maria a non più di qualche metro di distanza lo inibiva a sufficienza anche senza bisogno di aggiungere il carico da undici della possibilità di ritrovarsi a scopare su un letto cigolante e con un Libanese al quale l’idea di stare zitto, mentre faceva sesso, non era mai andata giù.
Libano non fu, comunque, del suo stesso avviso. Non appena ebbero spento le luci e si furono infilati fra le coperte, sentì immediatamente le sue mani farsi strada sotto le lenzuola e fino al suo corpo, sulla sua pelle un po’ accaldata e resa ipersensibile dall’ansia e dal nervosismo.
- A Libano, - sbottò, cercando di allontanarsi da lui strisciando sul materasso verso il bordo del letto, - nun me pare ‘na grande idea.
- Mi’ madre c’ha er sonno pesante. – lo rassicurò lui, strisciandogli dietro fino a raggiungerlo, - E noi me pare che c’avemo ‘n discorso in sospeso.
- Quanno se ne va tu’ madre. – insistette Freddo, piantandogli entrambe le mani sul petto per spingerlo via. Libano oppose a quella spinta tutta la propria forza, schiacciandoglisi addosso fino a farsi sentire caldo e teso di voglia contro una sua coscia.
- Nun me vorrai mica fa’ aspetta’ così tanto. – sorrise Libano, scivolando lungo il suo collo con le labbra dischiuse, mordicchiando la sua pelle mentre gli accarezzava i fianchi e prendeva a muoversi contro di lui con lenta disinvoltura.
- Libano… - protestò Freddo, ma i suoi occhi chiusi, il capo inclinato, e le mani ancora poggiate sul petto del Libanese in una spinta ormai ridotta a carezza rassegnata parlavano molto più chiaramente della sua voce, e dicevano tutt’altro. La loro risposta piacque al Libanese più di quanto non gli fosse piaciuta l’altra, e lui decise perciò di accettarla come l’unica vaga mentre trascinava nuovamente Freddo verso il centro del letto e poi si sistemava sopra di lui, strusciando il proprio bacino contro il suo mentre insinuava senza la minima grazia un ginocchio fra le sue cosce, obbligandolo a dischiuderle.
- E ‘nnamo, Fre’… - implorò a bassa voce, unico uomo in grado di far sembrare un ordine ciò che in bocca a chiunque altro sarebbe suonato come una supplica. Non aveva alcun bisogno di chiedere, comunque, perché mentre le sue parole si infrangevano contro la pelle del collo di Freddo, sospinte dal suo respiro bollente ed erratico, lui l’aveva già accolto fra le proprie gambe, prendendo a muoversi lentamente sotto di lui per andare incontro alle sue spinte, riempiendo l’aria della stanza di ansiti incontrollati e ardenti, che scivolavano lungo le schiene di entrambi come fuoco liquido.
La luce si accese così all’improvviso che Freddo quasi si soffocò col proprio stesso cuore, sfuggito dal petto e risalito fino alla gola probabilmente alla ricerca di una via di fuga dal suo corpo. Scalciò il Libanese lontano da sé con una furia mai vista, tanto che quello dovette aggrapparsi al bracciolo del divano pur di non cascare sul pavimento trascinando con sé buona parte delle lenzuola ormai strappate dagli angoli a causa di tutto quel movimento.
- Disturbo? – chiese la signora Maria, apparendo da dietro lo schienale e guardandoli entrambi dall’alto come un avvoltoio pronto a scendere in picchiata per nutrirsi della carcassa di un qualche povero animale ucciso dall’afa del deserto.
- Ma’! – esclamò il Libanese, gli occhi spalancati, mentre Freddo afferrava le lenzuola e si copriva fin sotto al mento, - Che ce stai a fa’ qua?
- Nun me riesce de prende’ sonno. – spiegò la donna, scrollando le spalle, - A quest’ora fanno ‘e repliche de quella soap opera che me piace tanto. Oggi, co’ tutto quello che è successo, me la so’ persa. Che ve dispiace se me metto qua a guardare ‘a televisione finché nun m’addormento? – chiese, senza aspettare la risposta per prendere posto sulla poltrona tirando fuori da chissà dove un paio di ferri da uncinetto e un abbozzo di qualcosa che avrebbe potuto essere una sciarpa o un maglione e probabilmente non sarebbe mai diventato nessuna delle due cose.
Freddo si voltò a guardare il Libanese e lo implorò silenziosamente di fare qualcosa, ma lui non riuscì a fare altro che abbassare lo sguardo, in imbarazzo.
- E certo… - rispose, - Che problema c’è. – sospirò, mettendosi seduto ed allungandosi a recuperare il telecomando dal tavolino per accendere la tv.
Freddo sbuffò, si distese, si voltò su un fianco e cercò di dormire. Quando non ci riuscì, si alzò, andò in cucina, recuperò un paio di birre e poi tornò in salotto. A guardare la televisione, con Libano e sua madre.
*
Quando si svegliò, l’indomani mattina, la casa era invasa dal profumo della torta alle mele. L’ultima volta che si era svegliato con un profumo simile nelle narici era ancora un bambino, non aveva più di dieci anni, Gigio era un pupazzo rotondo col quale giocare dalla mattina alla sera e suo padre gli sembrava ancora l’essere umano più meraviglioso esistente sulla faccia della terra. Aprire gli occhi sul soffitto giallino del salotto di Libano, ancora rintontito da quell’odore, fu come continuare a sognare da sveglio. Mise i piedi per terra, si alzò in piedi, entrò in cucina e rimase per un paio di minuti buoni a fissare la signora Maria che maneggiava l’impasto per le tagliatelle, chiedendosi se fosse reale o se fosse solo frutto della sua immaginazione.
- Che c’hai da guarda’? – gli chiese lei ad un certo punto, seccata da quelle occhiate così insistenti, senza mai sollevare lo sguardo dal suo prezioso impasto, - Nun voi fa’ colazione?
- …sì, grazie. – rispose lui, annuendo vagamente e prendendo posto davanti all’unica porzione di tavolo non invasa dalla farina. C’erano già un piatto con una fetta di torta ed una tazzina fumante colma di caffè, davanti a lui.
- Come t’o sei fatto quello? – chiese la signora Maria. Non ebbe bisogno di guardarlo per fargli capire che si stava riferendo alla ferita sul braccio.
- Un incidente sul lavoro. – rispose lui, colto alla sprovvista da quella domanda. Lei gli sollevò addosso un’occhiata pesante ed ironica, inarcando un sopracciglio.
- Seh, lavoro. – commentò, e Freddo si morse un labbro. Era con la madre del Libanese che stava parlando, non c’era la minima possibilità che non fosse a conoscenza della vera attività del figlio, o che quantomeno non sospettasse qualcosa. – E te e mi’ fijo come ve siete conosciuti?
Freddo si schiarì la voce, allungando la mano a recuperare la fetta di torta e staccandone un generoso morso, trattenendosi a stento dal mugolare di piacere quando quella quasi gli si disciolse sulla lingua, tanto era morbida e dolce.
- Semo colleghi. – buttò lì, proseguendo con la metafora del lavoro e sperando che la signora Maria capisse e si risparmiasse le battute sarcastiche.
- L’avevo immaginato. – annuì lei, recuperando il mattarello per cominciare a schiacciare l’impasto. Freddo mandò giù un altro morso di torta. – E com’è che poi siete finiti a letto ‘nsieme? – domandò quindi la signora Maria, senza peli sulla lingua, e con quel pezzo di torta Freddo quasi ci si soffocò.
- Cosa…? – riuscì a biascicare fra un accesso di tosse e l’altro. La signora Maria smise di schiacciare l’impasto e si sedette, voltandosi a guardarlo con estrema severità.
- Com’è che siete finiti a letto ‘nsieme? – ribadì, - Nun so’ mica scema. Ce lo so cosa facevate ieri sera, quanno so’ venuta in salotto. E ce lo so cosa facevate pure quanno so’ arrivata. Mi’ fijo nun era mica come te, prima.
- Ferma ‘n attimo! – sbottò Freddo, mettendo via la torta e mandando giù il caffè in un unico sorso come per convincersi definitivamente che tutto ciò che stava accadendo stava accadendo davvero, - Ferma solo ‘n secondo, che vor di’ che su’ fijo nun era come me?!
- Che nun je piaceva de anda’ a letto coi maschi. – rispose la signora Maria, aggrottando le sopracciglia, - Che te serve che t’o scrivo?
Freddo scattò in piedi, allucinato.
- Signo’, io porto rispetto, ma si lei nun la finisce mo’ nun lo so se su’ fijo la ritrova, quanno torna a casa. – la minacciò, stringendo i pugni lungo i fianchi. Lei spalancò gli occhi, alzandosi in piedi a propria volta, oltraggiata.
- Ma come te permetti?! – scattò, stampandogli cinque dita contro una guancia e poi portando quella stessa mano al petto con aria melodrammatica, mentre Freddo spalancava gli occhi e la fissava sbigottito, - Che voi nega’ che te e mi’ fijo state ‘nsieme?
- No, signo’, - ringhiò lui, avanzando pericolosamente, - ma magari ero io che nun ero così prima de sta’ co’ su’ fijo, che dice? O magari non era così nessuno dei due ed è solo successo, no?
- Ma che stai a di’! – sbuffò lei, tirandogli un altro ceffone e poi tornando a rintanarsi dietro quell’aria da vergine pia, come se i ceffoni li tirasse per bontà d’animo, - Ce lo sanno tutti che quelli come voi portano l’altri sulla cattiva strada!
- Signo’, su’ fijo sulla cattiva strada ce stava già da mo’! – strillò lui, esasperato, - E mo’, si permette, prima de cavalle l’occhi co’ le mani mie, me ne vado! Mi stia bene e mi saluti Libano, je dica pure che mo’ nun se deve più preoccupa’ de che strada pija! – concluse, voltandosi per imboccare il corridoio ed andarsene. Libano, rientrato chissà da quanto, era lì sulla soglia della cucina, e li guardava entrambi, sconvolto.
- Ma che cazzo c’è? – esalò, le braccia inermi lungo i fianchi, - Che ve siete ‘mpazziti?
- Proprio a te cercavo! – sbottò Freddo, puntandogli un dito contro il petto, - Tu’ madre—
- Ce lo so che t’ha detto. – lo interruppe Libano, continuando a fissarlo con quell’aria sconvolta, gli occhi enormi che, sul viso pallido, sembravano perfino più grandi, - Sto’ a di’ solo che—
- A me nun frega un cazzo de quello che stai a di’! – strepitò istericamente Freddo, agitando le braccia e spintonandolo a caso, sfogando su di lui quello che non aveva potuto sfogare per rispetto dell’età sulla signora Maria, - Io so solo che o se ne va lei, o me ne vado io. – stabilì. Spintonato un’ultima volta, Libano andò a sbattere contro la parete, e oltre quella non poté più muoversi.
Spostò lo sguardo su sua madre che, gli occhi pieni di lacrime e le braccia sporche di farina fino ai gomiti, restava in un angolo della cucina come fosse assolutamente estranea a tutto quel casino. Poi prese un profondissimo sospiro, e si rassegnò.
- A ma’, - disse, - te devo parla’.
La signora Maria impallidì.
*
- Ed è quindi per questo motivo che siete venuti qui a Forum? – chiese la conduttrice bionda e un po’ cicciotta da dietro gli spessi occhiali rettangolari che indossava, riservando uno sguardo di tenera compassione per la signora Maria e regalandone uno aspro e severo a Libano, rannicchiato sulla poltroncina proprio accanto a quella di sua madre. – Suvvia, signor Proietti, sua madre s’è presa cura di lei per tutta la sua vita, si tratta solo di portare pazienza per qualche giorno, poi andrà via.
- Ma si je posso trova’ ‘na casa tutta sua, perché nun ce vole anna’ a sta’?! – insistette il Libanese, gesticolando animatamente e rivolgendosi al pubblico per un po’ di comprensione mentre sua madre, silenziosa, faceva la parte della genitrice sofferente e tradita.
- Se posso… - disse una signora la cui pelle verteva su una tonalità di arancione completamente innaturale e probabilmente modificato in laboratorio, - Questa situazione rispecchia in pieno la nostra società di oggi, dove figli ingrati preferirebbero lasciare le loro stesse madri a vivere sotto un ponte pur di non vedere intaccata la loro normalità quotidiana, e il fatto che lei viva con un uomo, signor Proietti, non è una giustificazione sufficiente per mostrarsi così ingrato nei confronti di chi, per lei, quando era ancora un bambino indifeso, ha fatto così tanto!
Libano smise di ascoltarla, incassando la testa nelle spalle e fissando con aria omicida un punto a caso nel vuoto, ingrugnito come non mai, fino a quando la conduttrice bionda non annunciò l’inizio della pubblicità. Solo allora, resistendo con sforzi sovraumani all’impulso di fiondarsi contro la donna arancione per decapitarla a mani nude approfittando dello stacco pubblicitario, si alzò in piedi e si concesse una passeggiatina dietro le quinte per sgranchirsi le gambe.
Freddo gli venne incontro quasi subito.
- Fre’! – lo chiamò sorridendo, genuinamente felice di vederlo, - Nun sapevo che volevi veni’ pure te.
- So’ venuto solo pe’ ditte che sei matto come un cavallo. – ribatté lui, fissandolo con tanto di quello sgomento da sembrare sotto l’effetto di qualche droga, - Tu’ madre ti convoca a Forum e tu ce vai? Ma te stai de fori! Basta, io chiudo. Parto, e te dico addio.
- Che?! – trasalì Libano, correndogli dietro quando lui si voltò e ricominciò a camminare per i corridoi degli studi, - Freddo! A Fre’! È mi’ madre, nun je potevo certo di’ de no!
- E no, certo! E chi t’o chiede! So’ io che dico no, e t’o dico adesso, bello chiaro e tondo: te nun me rivedi più, Libano! E tante care cose!
- Ma no, ma aspetta! – cercò di fermarlo lui, poggiandogli una mano sulla spalla. Freddo se ne liberò con uno strattone.
- Trenta secondi e si va in onda! – disse un assistente, passandogli velocemente accanto, e Libano sospirò pesantemente. Ci sarebbe stata un’occasione, nelle prossime ore, per corrergli dietro e riportarlo a più miti consigli. Ora doveva risolvere la questione con sua madre.
Mogio mogio, ritornò sui suoi passi, e tornò a sedersi alla poltroncina. Per tutto il tempo (anche quando il giudice, rientrando, gli faceva presente che la legge prevedeva per i figli l’obbligo di accudire i genitori al massimo delle loro possibilità, e che quindi, se la signora desiderava vivere in casa con lui, lui non poteva fare altro che accoglierla), non fece che fissare la signora arancione, desiderando di farla fuori nei modi più assurdi. Naturalmente, non riuscì ad attuarne neanche uno. Non per altro, solo che c’era il serio rischio che fosse radioattiva, o comunque tossica. Meglio starne alla larga.
*
- Scialoja! – lo chiamò Rizzo, entrando nel suo ufficio con uno stupido sorriso sulla faccia, - Mi sa che ti conviene mandare una lettera di congratulazioni a quelli di Forum, visto che sono riusciti a fare quello che tu in anni e anni non sei ancora riuscito a fare!
- Che…? – biascicò Scialoja, sollevando il naso dagli incartamenti che stava visionando e cercando a tentoni la caraffa piena di caffè per versarsene un po’ nel bicchierino di plastica che continuava a riempire al ritmo di una volta ogni quarto d’ora da quando era arrivato in commissariato quella mattina alle otto, - Rizzo, ma di che cavolo stai parlando?
- Ah, non hai saputo la bella novità? – continuò quello, sghignazzando divertito ed afferrando il telecomando immobile sulla scrivania di Canton – che lo squadrò con aria infastidita ma non osò dire altro – per accendere il televisore sistemato sul mobiletto ad angolo sul lato opposto della stanza. – Guarda qua, allora!
Sullo schermo apparve l’immagine del Libanese, intento a difendersi sul banco degli imputati di Forum, arringando le folle e rivolgendo loro ampi gesti ecumenici mentre spiegava per quale motivo non poteva ospitare in casa la propria madre, che nel frattempo restava in un angolo, pallida come un cencio e costantemente impegnata ad asciugarsi le lacrime con un fazzoletto di stoffa vecchio e logoro.
- Ma cosa…? – biascicò allucinato. Rizzo rise, posando il telecomando ed avviandosi verso il corridoio, tronfio e soddisfatto del proprio operato.
- Meraviglioso, no? Così adesso puoi tornare all’anagrafe, che è il posto che ti spetta di diritto. – considerò fra una risata e l’altra, sparendo in corridoio.
Canton fece fatica a richiudere la bocca, spalancata da parecchi secondi in segno di sorpresa. Si voltò verso Scialoja, notando che, pietrificato dallo sconforto, stava continuando a versare il caffè, che, ormai esondato dalla tazzina, stava provvedendo ad allargarsi in una macchia scura sulla scrivania per poi gocciolare sul pavimento.
- Commissario Scialoja…? – cercò di riscuoterlo, e Scialoja si voltò a guardarlo con gli occhi colmi di una tale sfiducia nel mondo che avrebbero commosso un sasso.
- Commissario Scialoja un cavolo, Canton. – disse alzandosi in piedi e recuperando il proprio cappotto, - Io do le dimissioni.
Fu l’ultima volta che lo vide.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Angst, Death, Spoiler per tutta la s1 e i primi due episodi della s2.
- "Che nun le voi ‘e porpette?"
Note: Niente, in realtà non ho proprio niente da dire, su questa storia, a parte il fatto che l'ho plottata e cominciata mentre ero lontana da casa, seduta su un letto non mio, e che quando l'ho cominciata accanto a me c'era la Tab, e che per questo motivo ho cercato di finirla in tempo per il suo compleanno, così da potergliela regalare. Lo so che non è un granché, più che altro è molto randomica, e poi - oh, mio Dio! - non è nemmeno slash, in realtà non è proprio un bel niente, ma mi sembrava un pensiero con un certo senso. Credo. Poi boh. XD Auguri, principessa.
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IN COMODATO D’USO

La macchina la riconosce subito, e non potrebbe essere altrimenti. Ricorda perfettamente quando ci ha messo le mani sopra la prima volta, quanto il ragazzino che la guidava gli sembrasse ridicolo e triste. Ricorda di aver guardato la vettura e di essersi chiaramente soffermato sul pensiero della sua evidente inutilità: chiunque altro, nella sua situazione, avrebbe tirato al Sorcio uno scapaccione in mezzo alla fronte e l’avrebbe rimandato a casa con la coda fra le gambe, ma a lui in qualche modo aveva fatto pietà. Sapeva dove sarebbero finiti i soldi di quella vendita: una siringa, una dose, un breve viaggio in paradiso prima di tornare sulla terra troppo velocemente per potersi fermare e poter evitare l’impatto. Uno schianto di quelli belli forti.
Ma Freddo quei soldi glieli aveva dati, nonostante Fierolocchio l’avesse preso da parte apposta per chiedergli se si fosse ammattito del tutto. “È uno scassone, Fre’,” gli aveva detto Fiero, guardandolo stupito, “nun ce li vale mica li sordi che je stai dando.” Ma Freddo sapeva che non era per la macchina che stava pagando. Non era quello lo scassone per il quale stava tirando fuori i soldi, no. Era per il Sorcio. Scassone uguale, neanche maggiorenne e già da rottamare. Ma ancora vivo. Meritava una possibilità, e magari con quei soldi invece di una pera ci si sarebbe comprato un bel caffè per svegliarsi e un paio di vestiti nuovi con cui presentarsi ad un colloquio di lavoro.
Il Sorcio poi coi suoi soldi ci si era fatto una pera, Freddo lo sapeva. Non la prima forse, ma una delle prime di tante. Una delle prime di troppe. Una delle prime di quelle che, una dopo l’altra, avrebbero lastricato la sua strada fino a portarlo dritto dritto fra le braccia di Scialoja, a sputtanare tutti quanti per paura, delusione e rabbia. Ma questo, ancora, in questo momento, Freddo non lo sa. In quel momento, tutto ciò che vede è la Mini di Libano, distrutta e sul fondo di un burrone.
È stato da Dandi, stamattina, e c’è andato apposta per chiedergli se fosse riuscito a recuperarla. “Sì,” gli ha detto lui, “quello stronzo de Priuetti padre ha fatto ‘n po’ de storie, ma ha mollato l’osso appena gli ho fatto ‘n po’ de paura.”
“E ‘ndo sta mo’ la Mini?” gli ha chiesto lui, e Dandi l’ha guardato con tanto d’occhi.
“Perché lo voi sape’?” ha domandato, inarcando un sopracciglio. Freddo s’è stretto nelle spalle.
“L’ho pagata,” ha risposto, “è mia.”
Dandi ci ha messo un po’ a fare mente locale, ma quando è riuscito s’è messo a ridere di gusto.
“E vor di’ che te devo ‘n centone, Fre’. La macchina nun ce sta più.”
Ed eccola lì, infatti, che non ci sta più. Freddo sa che, una decina di anni fa, quando il Terribile l’ha comprata, quella macchina doveva essere bella un sacco. All’ultima moda, compatta, elegante. Quando lui l’ha comprata dal Sorcio, era già vecchia e mezza scassata, ma adesso, semplicemente, non è più niente. Di ciò che era non resta che un mucchio di lamiere contorte e annerite dal fuoco ormai spento che le ha avvolte per ore in seguito alla caduta nel burrone.
Si avvicina circospetto: il fuoco e il calore si sono ormai estinti, ma la puzza di pelle e plastica bruciate è ancora forte nell’aria. Si sentiva già prima che lo scheletro bruciacchiato della vettura si mostrasse ai suoi occhi, smettendo di giocare a nascondino fra i radi cespugli che spuntano a ciuffi fra i sassi ricoperti di polvere e terriccio giallastro, ed è molto più intensa adesso che il cadavere della Mini è così vicino.
Freddo vorrebbe accarezzare ciò che resta della carrozzeria carbonizzata, ma non riesce – vede ancora troppo chiaramente un se stesso molto più giovane e spensierato allungare una mano e saggiare in punta di dita le imperfezioni della vernice scura sulle portiere e sui fianchi della macchina – perciò si limita ad accucciarsi accanto alla carcassa e scrutarla da vicino, ed è allora che lo vede.
Non ne resta molto – la fodera interna è andata, per esempio – ma qualcosa c’è ancora. Un pezzetto di una manica, brandelli del bavero, la zip quasi del tutto annerita. È la giacca di pelle del Libano. È assurdo che sia qui, ma c’è. E non è neanche una delle ultime che aveva comprato prima di morire, no, è quella che aveva addosso quando s’è introdotto nel suo garage a ferri spianati per riprendersi le armi che aveva comprato dal Terribile, è quella che aveva su durante il rapimento del barone Rosellini, ed è anche quella che indossava quella notte, la notte in cui il Freddo s’è presentato a casa sua per ridargli la macchina e l’ha trovato sulla porta, pronto a uscire, con sua madre alla spalle che urlava “ma ‘ndo vai? Che nun le voi ‘e porpette?”
*
- Che nun le voi ‘e porpette? – strilla la signora Maria, affacciandosi in corridoio dalla cucina. Ha i capelli scarmigliati ed il grembiule sporco di sugo, ma è una bella donna, dal volto giovanile, e queste imperfezioni, così come le piccole rughe che ridisegnano senza pietà il contorno del suoi occhi e della sua bocca, non fanno che renderla più interessante. È incredibile quanto somigli al Libanese. – Va’ che so’ bone, eh.
Libano ha una mano sullo stipite della porta e l’altra stretta a pugno attorno alla maniglia, e lo guarda. La sua espressione è così infantilmente stupita da fare quasi ridere.
- Che ce stai a fa’ qua? – chiede con un filo di voce. Freddo non fa in tempo a rispondergli, perché la signora lo nota e, asciugandosi le mani sul grembiule, esce in corridoio, guardandolo fisso.
- È ‘n amico tuo, Pie’? – domanda. Libano deglutisce, incapace di staccargli gli occhi di dosso, come non riuscisse a capacitarsi della sua presenza.
- Sì. – risponde alla fine, annuendo lentamente.
- Che resta a cena? – insiste la signora Maria, e Libano sembra riscuotersi dal proprio torpore tutto all’improvviso.
- Che? – scatta, la voce resa stridula dalla sorpresa e dall’agitazione, - No!
- E invece sì. – stabilisce perentoria la donna, allungandosi ad afferrare il figlio per un braccio sia per trattenerlo in casa che per scostarlo dall’uscio. – Vie’ dentro, - sorride, rivolgendosi al Freddo con aria divertita, - nun me capita spesso de incontra’ l’amici di Pietro. Com’è che ve siete conosciuti?
- Lavoriamo insieme, ma’. – cerca di tagliare corto Libano, roteando gli occhi, annoiato. – E ‘nfatti mo’ ce lasci anna’.
- Seh, lavorare, te? E quando mai? – ride amaramente la signora, spingendoli entrambi verso la cucina, - Assaggiate qualcosa, prima, che è già pronto in tavola. Com’è che te chiami, te?
- Fabrizio. – risponde immediatamente lui, teso come non gli è mai capitato di essere, neanche durante un interrogatorio. Ed ha solo dovuto dirle il proprio nome.
- Fabrizio. – annuisce lei, indicandogli la sedia ed invitandolo a prendere posto. Freddo lancia un’occhiata a Libano e lui la ricambia con sincero sconcerto, ma si stringe nelle spalle e poi, con l’aria di uno che non sa cos’altro fare, si siede. Freddo decide di imitarlo, accomodandosi a propria volta. – E te che fai nella vita? – chiede la signora Maria, servendo le polpette. Freddo si schiarisce la voce, imbarazzato, e Libano si passa una mano sul viso, evidentemente terrorizzato.
- Palazzinaro. – inventa. Libano lo guarda e Freddo gli legge negli occhi che vorrebbe scoppiare a ridere, ma fortunatamente non lo fa.
- Ah. – annuisce la signora Maria, servendogli un’abbondante mestolata di polpette al sugo, che si trasforma immediatamente in due mestolate di polpette al sugo, motivate probabilmente dal compiacimento che prova nel sentire che il figlio ha anche amici che lavorano, oltre ai tre scapestrati coi quali si ostina ad andare in giro di notte, - E senti, nun me lo poi trova’ ‘n lavoro pure a mi’ fijo? – domanda con una mezza risata, passando a riempire il piatto di Libano.
- T’ho detto che ce lavoramo già insieme! – insiste lui, visibilmente accigliato. La signora Maria sospira ancora, sollevando gli occhi al cielo in un’implorazione silenziosa.
- Pie’, te il lavoro nun sai manco ‘ndo sta de casa. – conclude, scuotendo solennemente il capo. Il Libanese posa la forchetta sul tavolo in un gesto secco e rumoroso. Mentre la porcellana del piatto contro il quale ha sbattuto ancora tintinna, scampanellando come le campane la domenica, lui si alza. Freddo non ha ancora toccato le sue polpette.
- ‘Nnamo, va’. – dice burbero, ignorando le proteste di sua madre e dirigendosi speditamente verso la porta. Non si guarda mai indietro, dà per scontato che Freddo lo stia seguendo, e in effetti, dopo essersi alzato a propria volta in piedi ed essersi scusato sommariamente con sua madre, Freddo lo segue.
- Nun lo sapevo mica che stavi ancora co’ tu madre. – dice dopo un po’. Stanno scendendo lungo la tromba delle scale, sono ormai arrivati al primo piano. Libano non aspetta di essere al piano terra per girarsi ed inchiodarlo contro la parete lì dove si trova, un braccio a schiacciargli il collo e l’altro a bloccare il suo quando, nel tentativo di difendersi, corre ad afferrare la pistola incastrata fra la schiena e i pantaloni.
- E allora come cazzo facevi a sape’ ‘ndo stavo? – chiede in un ringhio furioso, premendosi contro di lui per impedirgli di reagire e liberarsi dalla sua stretta, - Che cazzo de intenzioni hai, Soleri?
- T’ho detto… - ansima Freddo, cercando di scalciarlo lontano senza riuscirci, - T’ho detto che Soleri me ce chiamano solo ‘e guardie.
- E fra poco ‘n te ce chiamerà più nessuno si nun me dici che cazzo sei venuto a fa’ ‘n casa de mi’ madre. – insiste Libano, facendo scivolare una mano attorno alla sua vita e recuperando la sua pistola, prima di puntargliela dritta sullo stomaco, da sotto la maglietta. Nel sentire il metallo ghiacciato della canna contro il ventre, Freddo si riscuote all’improvviso, e con un colpo di reni più potente degli altri riesce a spingere lontano da sé il Libanese, aggrappandosi al corrimano per non cascare giù per terra mentre, indebolito dalla prolungata mancanza di ossigeno, cerca di riprendere fiato, ed osservandolo mentre anche lui recupera l’equilibrio, puntandogli sempre addosso la pistola.
- Calmati. – gli dice, - Nun so’ qui pe’ fa’ der male a tu’ madre. E quanto all’indirizzo tuo, l’ho trovato da me. C’avevo da parlatte.
Libano aggrotta le sopracciglia, scrutandolo incerto.
- E dimme. – lo invita con una scrollata di spalle.
- Metti via er fero. – ribatte Freddo con un mezzo sorriso, - E poi vie’ fori, che più che ditte ‘na cosa te la devo da’.
Il Libanese non sembra molto convinto dalle sue parole, ma mette via la pistola – naturalmente senza restituirgliela – e scende a piano terra, per poi uscire sul piazzale pieno di macchine parcheggiate proprio davanti casa. Fra le tante, c’è anche la sua.
- Nun te l’eri riportata al garage? – chiede, un mezzo sorriso ancora un po’ spaesato che nasce sulle labbra. Freddo scrolla le spalle, osservandolo mentre si avvicina alla vettura e ne accarezza le linee morbide con la stessa dolcezza con cui, suppone, accarezzerebbe i fianchi di una ragazza.
- Ho pensato che era meglio se la tenevi te. – risponde, avvicinandoglisi un passo dopo l’altro.
- E perché? – chiede ancora Libano, - L’hai pagata, no?
- Me puoi rida’ li sordi. – butta lì lui, e Libano si mette a ridere di gusto.
- Manco morto. – risponde, battendogli una pacca sulla spalla. – Tie’, te ridò er fero. – concede, sfilandosi la pistola dalla cintura e passandogliela, - È tutto quello che avrai da me.
Freddo sbuffa, recuperando l’arma e nascondendola immediatamente sotto la giacca.
- Famo che t’a lascio in comodato d’uso. – propone, incrociando le braccia sul petto. Libano gli lancia un’occhiata incerta.
- Sarebbe a di’?
- Sarebbe a di’ – spiega Freddo, sorridendo appena, - che mo’ nun me la ripaghi, ma io te la lascio lo stesso. Però te, quanno nun la usi più, m’a rendi.
La perplessità sul volto del Libanese si fa perfino più profonda, mentre lui soppesa le sue parole.
- E che ce guadagni te? – domanda, - Quanno smetterò de usalla sarà ‘no scassone.
Freddo sorride ironico, inclinando appena il capo.
- E perché, mo’ che te pensi che è? – lo prende in giro, e Libano scoppia a ridere, tirandogli una spallata che quasi lo manda a sbattere contro il cofano. – E piano, che si me l’ammacchi poi so io che ce perdo!
- Sì, sì, ce perdi, ce perdi… - ride ancora il Libanese, scuotendo il capo ed asciugandosi gli occhi, - ‘Nnamo, che te porto a pija’ ‘na birra, su ‘sto comodato d’uso. – lo invita, aprendo la portiera e prendendo posto al volante.
A Freddo non ci vogliono più che un paio di secondi per imitarlo.
*
Gli ci vuole molto più tempo per smettere di piangere. È la prima volta che piange da anni, e le due gocce che ha versato di fronte alla tomba del Libanese mentre lo seppellivano, naturalmente, non contano. Non erano niente. Questo sì che è pianto. Tanto forte che gli fa male il petto, la gola, perfino tutti i lineamenti del viso, contratti nello sforzo da minuti interi. Piegato su se stesso accanto alla carcassa fumante della mini, incapace di allungare una mano fra le lamiere per recuperare la giacca del Libanese – o almeno ciò che ne resta – piange per una quantità di tempo infinita. Gli sembra di veder tramontare il sole e vederlo poi di nuovo sorgere, anche se sa che è impossibile.
Quando si rimette in piedi, probabilmente non è passata più di mezz’ora. Ma non importa. Alla fine, è solo tempo. Lui la macchina non la riavrà più indietro. E qualcuno pagherà per questo.