rp: fler

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Fler/Bill (accennato), Fler/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, fandom!AU (Doctor Who), Underage.
- Fler ha sette anni quando un uomo misterioso atterra nel cortile sul retro di casa sua con una cabina telefonica blu tutta rotta che ripara con del nastro biadesivo ed un po' di colla.
Ne ha trentuno quando l'uomo, del tutto all'improvviso, si rifà vivo.
Note: Yeee *O*/ Evviva il COW-T perché mi permette di rimettere mano a robe cominciate millenni fa e dimenticate sotto le sabbie del tempo XD Per la precisione, l'idea di questo rip-off è nata mentre recuperavo il Doctor Who. Perdutamente innamorata della dinamica Dottore/Companion, ho deciso di scrivere un DW!rip-off per ogni singola OTP della mia vita, il Mollamy, il Jobra, il Dersecest, il Bleo, e poi volevo scrivere qualcosa anche in ambito german rap/TH, e questo è, sostanzialmente, quello che ne è venuto fuori. Yay? XD
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THE BOY WHO WAITED
PART ONE

Non aveva mai creduto che si fosse trattato di un sogno. Era un bambino incasinato, lo era sempre stato, non riusciva a ricordare un momento della propria infanzia in cui per un motivo o per l’altro non si fosse ritrovato immerso in problemi e guai di ogni tipo, ma era assolutamente certo di non essere mai stato fuori di sé abbastanza da perdere la cognizione di cosa fosse reale e cosa invece non lo fosse.
Nonostante la realtà alla quale era abituato non fosse in alcun modo piacevole – suo padre non c’era praticamente mai stato (di lui conservava il ricordo di un’ombra, di una voce sommessa e stanca, di una mano grande e callosa e di una ruga orizzontale proprio in mezzo alla fronte, immagini sbiadite che assumevano una consistenza vaga solo quando chiudeva gli occhi prima di addormentarsi, e che invariabilmente erano già sparite quando li riapriva il mattino dopo), sua madre lavorava tutto il giorno per cercare di tirare avanti come meglio poteva, il quartiere, be’, era Tempelhof, nascendoci dentro imparavi a conoscerlo per la giungla che era senza aspettarti niente di diverso dal fatto che mostrasse artigli e zanne ogni volta che provavi a fingere di poterti dimenticare di lei – si era sempre rifiutato, fin da piccolo, di vivere in un mondo di fantasia. La fantasia era un privilegio dei bambini con due genitori (due posti di lavoro, due stipendi). Era un privilegio di chi non doveva svegliarsi all’alba per andare a scuola a piedi. Un privilegio di chi poteva permettersi di tornare a casa ed accendere la televisione e passare le successive sei ore a stordirsi di cartoni animati prima che la mamma lo chiamasse perché era pronta la cena. Un privilegio di chi aveva una mamma che lo avrebbe chiamato nel momento in cui la cena sarebbe stata pronta.
Un privilegio che lui non aveva.
La fantasia era una bugia comoda che lui si era rifiutato di lasciarsi raccontare. Preferiva vivere nella realtà – spigolosa, dura, dolorosa ma sincera. Gli piaceva pensare di poterla conoscere, anche se ciò non significava avere anche solo il minimo potere di cambiarla. Ma era lì, tangibile, sicura. Non era un’illusione, era tutto ciò a cui dovevi abituarti, perché era tutto ciò che ti avrebbe accompagnato per il resto della tua vita. L’unica cosa davvero tua. Il tuo mondo.
Per questo motivo era sempre stato sicuro di non aver sognato, quella notte. Perché era vigile, perché i suoi occhi erano bene aperti e attenti, perché quell'uomo era apparso davvero, nel cortile di casa sua, lui e quella strana cabina telefonica. Non c'erano cabine telefoniche nel suo quartiere - c'era solo ciò che ne rimaneva dopo anni di vandalismo e tag di artisti di strada e vagabondi che le scambiavano per un comodo rifugio caldo in cui passare la notte - e di sicuro non ce n'erano mai state nel suo cortile, o in quel quadrato di ghiaia polverose e biancastra che sua madre chiamava cortile -, e così com'era vero che non ce n'era mai stata una era anche vero che non ce n'era più stata una dopo quella notte, e così come entrambe queste cose erano vere, Fler era sicuro di averla vista, lei e quell'uomo, e che non si fosse trattato di un sogno, né di un'illusione, né della fantasia di un bambino solo e triste e frustrato e spaventato dalla realtà.
Era accaduto veramente. Era accaduto veramente e non era stato un attimo, era stato delle ore. Era stato lo schianto - di cui nessuno sembrava essersi accorto -, era stato uscire in cortile e trovare quella cabina telefonica lì, ferma in mezzo al niente, avvolta dal fumo e dalla nebbia nel silenzio assoluto della notte. Era stato avvicinarsi e sfiorare con la punta delle dita la vernice blu con cui era dipinta, era stato sentirne lo smalto graffiato e sbiadito sotto i polpastrelli, era stato indietreggiare di qualche passo e trattenere il fiato mentre la porta si apriva con uno scricchiolio sinistro e quell'uomo altissimo dalla pelle scura e dal sorriso abbagliante ne veniva fuori con tutti i vestiti stropicciati ed un'espressione di scuse ad addolcire i tratti del viso.
Fler c'era, era lì. L'aveva visto. L'aveva sentito.
- Mi dispiace, - aveva detto l'uomo, allontanandosi dalla cabina telefonica ed osservandola con aria preoccupata, - ho combinato un disastro. Avresti mica del biadesivo e un po' di colla?
Fler l'aveva fissato a lungo in silenzio, le labbra dischiuse e gli occhi spalancati mentre cercava di fare mente locale chiedendosi se in casa ci fosse niente di quello che quell'uomo stava domandando. Alla fine aveva risposto di sì, era scappato di corsa dentro casa ed era salito al piano di sopra, infilandosi di corsa nello sgabuzzino all'interno del quale suo padre teneva tutti gli attrezzi del suo mestiere - qualunque fosse - prima di andare via di casa. Odiava lo sgabuzzino, non perché la lampadina si fosse fulminata anni prima e non fosse mai stata cambiata, condannando quella stanza minuscola ad un'eternità di buio - Fler non aveva alcuna paura del buio; non c'era niente, nel buio, a parte il buio, e il buio non poteva toccarti, né farti del male -, ma perché si trattava di una stanza chiusa, senza finestre, e puzzava dell'odore di papà invecchiato di mille anni, come se, nonostante lui fosse andato via, fosse rimasto un pezzo del suo corpo nascosto là dentro, e non riuscisse a nessuno di trovarlo per gettarlo via.
Aveva afferrato la cassetta degli attrezzi di papà e l'aveva trascinata fuori, in corridoio. Era di metallo, mezza arrugginita, ed i manici lasciavano sulle mani una traccia marroncina che puzzava incredibilmente. L'aveva aperta ed aveva rovistato all'interno, trovando ciò che gli serviva, ed era corso subito di sotto, senza riporre la cassetta degli attrezzi al proprio posto. Ci avrebbe pensato più tardi, o forse l'avrebbe lasciata lì, spostandola in un angolo del corridoio in modo che mamma non la notasse.
- Ho trovato questi... - aveva detto all'uomo, una volta tornato in cortile. Aveva teso la mano, mostrandogli il piccolo tesoro risultato della sua avventura, e l'uomo aveva sorriso, ringraziandolo con un cenno del capo.
- Vivi qui tutto da solo? - gli aveva chiesto, mentre si avvicinava alla cabina telefonica e cominciava a rattopparla. Fler si era mosso in avanti per guardarlo muoversi più da vicino.
- No. - aveva risposto, scuotendo il capo, - C'è mia mamma con me.
- Capisco. - aveva annuito l'uomo, sempre sorridendo, - E allora perché sei solo adesso?
Fler aveva abbassato lo sguardo. Era solo sempre, non soltanto in quel momento. Conosceva l'amore di sua madre come una certezza istintuale, ne era consapevole come era consapevole di tutte le altre cose reali che lo circondavano, le cose ovvie, il sole, la luna, il cielo, il letto, lo zucchero, lo zaino per andare a scuola, i lividi per le botte dei bulli, il sangue dal naso, la fame, la sete, il sonno, il bisogno di andare in bagno. Fra tutte queste cose c'era l'affetto di mamma, vero, eterno, tangibile, più tangibile perfino di mamma in sé.
Fler si sentiva amato. Sapeva di essere amato.
Ma si sentiva anche solo. E sapeva di essere solo.
Aveva scrollato le spalle, come se non gliene importasse poi tanto, continuando ad osservarlo lavorare.
- Tu da dove vieni? - gli aveva chiesto quindi, quando il peso del silenzio aveva cominciato a farsi insopportabile.
L'uomo aveva riso, incollando la porta scardinata al proprio posto.
- Un po' da tutte le parti. - aveva risposto. Fler l'aveva guardato con diffidenza, scrutando il suo profilo nel buio. Anche senza nemmeno una luce accesa se non quelle dei lampioni sulla strada dall'altro lato della casa, il tatuaggio che gli copriva un lato del collo era talmente grande e scuro da risultare perfettamente visibile.
Quello era sicuramente un tipo pericoloso. Solo un tipo pericoloso risponde così a domande talmente dirette.
- Non è un posto. - gli aveva fatto notare con aria imbronciata, ma l'uomo non aveva dato segno di averlo sentito, allontanandosi dalla cabina telefonica per osservarla da ogni parte con aria soddisfatta.
- Bene, - aveva detto quindi, - è a posto. - Poi si era voltato a guardarlo, sorridendo incoraggiante. - Vieni a fare un giro con me? - gli aveva chiesto.
Fler aveva aggrottato le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto ed indietreggiando ancora, sulla difensiva.
- Nemmeno ti conosco. - aveva protestato diffidente.
- Ma io sono il Dottore. - aveva risposto l'uomo con quel sorriso incrollabile ed un'aria di ovvietà che aveva costretto Fler a distendere i lineamenti del volto mentre si domandava distrattamente e curiosamente "ma il Dottore chi?".
L'uomo aveva socchiuso la porta della cabina telefonica, invitandolo ad avvicinarsi.
- Vieni con me. - gli aveva detto, - E' solo un giretto.
- Ma è troppo piccola quella. - aveva protestato Fler, indicandola e restando fermo dove si trovava.
L'uomo aveva sorriso ancora.
- È più grande dentro. - lo aveva rassicurato.
Fler aveva deglutito, voltandosi verso la porta sul retro, intenzionato a correre dentro senza più voltarsi indietro. Casa sua giaceva immobile e addormentata a pochi passi da lui. Era buia, troppo grande, vuota, e lui era tornato a guardare il Dottore senza nessun ripensamento.
Lui lo aveva portato in alto, lontano da casa sua, lontano dal quartiere, lontano da quel mondo al quale Fler aveva deciso di attaccarsi in maniera così disperata perché era l'unica cosa che conoscesse. Aveva aperto la porta della cabina telefonica, spalancandola sul blu intenso dell'universo, e gli aveva detto "guardati intorno, guarda com'è bello", e con le lacrime agli occhi Fler aveva guardato nella profondità di un abisso grande in maniera incalcolabile, e si era sentito minuscolo ed enorme, insignificante ed assoluto, e completamente senza fiato.
In orbita assieme alle stelle, aveva scoperto un nuovo tipo di realtà, una realtà sconosciuta, ma non per questo meno vera, non per questo meno sua. C'era altro oltre alla casa vuota, oltre alle strade sporche di Tempelhof, oltre alla verità dolorosa di Berlino, c'era altro oltre alle cose vere e brutte che erano state la sua unica possibilità fino al giorno prima.
Era fantastico, ma non era una fantasia, e Fler lo voleva. Lo voleva tutto, lo voleva per sé.
- So che cosa significa. - aveva detto il Dottore, sedendosi accanto a lui sul bordo della cabina telefonica, i piedi penzoloni sul vuoto assoluto, - Sentirsi soli, intendo. - aveva spiegato con un mezzo sorriso, - Sono l'ultimo rimasto della mia specie.
- E tutti gli altri che fine hanno fatto? - aveva chiesto Fler, voltandosi a guardarlo. Il riflesso dell'universo contenuto nei suoi occhi lo riempiva di sgomento.
- Li ho uccisi. - aveva risposto il Dottore, senza guardarlo. Per qualche motivo, Fler non ne aveva avuto paura.
Erano atterrati senza danni qualche istante dopo. Il cortile e la casa erano sempre uguali, vuoti e silenziosi anche se adesso i primi raggi di sole del mattino li accarezzavano incerti, donando loro un po' di colore.
- Adesso te ne andrai. - aveva detto Fler, guardando in basso le proprie scarpe da tennis sporche e impolverate. Non aveva avuto il coraggio di guardarlo ancora.
- Ma torno subito. - lo aveva rassicurato il Dottore con un sorriso, stringendogli con calore una spalla, - Starò via solo cinque minuti.
Fler aveva sollevato lo sguardo, ed aveva deciso di credere al suo sorriso.
Il Dottore non era più tornato, ma per anni Fler non aveva mai smesso di aspettarlo.
*
Bill si solleva sulle braccia e prende fiato, prima di lasciarsi ricadere su un fianco accanto a lui e pulirsi la bocca col dorso della mano. Fler, ancora intontito dall’orgasmo, steso sulla schiena e con braccia e gambe finalmente libere di rilassarsi dopo la tensione degli ultimi minuti, cerca di ricondurre il proprio respiro ad un ritmo meno affannoso, e intanto si volta a guardare il ragazzino, tutto intento a lisciarsi i capelli lungo le spalle, osservandone meccanicamente le punte con aria professionale per controllare che non siano rovinate.
- Come mai? – domanda distrattamente, afferrando un lembo del lenzuolo fra le dita ed usandolo per ripulirsi l’uccello.
- Mh? – cinguetta Bill, voltandosi a guardarlo, - Come mai cosa?
- Come mai il regalo. – spiega Fler con un sorriso, - Non lo fai mai.
- Non è un regalo e ommioddio che cosa orrenda da dire. – ride Bill, tirandogli uno schiaffo su una spalla e poi rotolando sullo stomaco, avvicinandosi un po’ di più. – Mi andava di farlo e basta. Cos’è, non si può?
- Ma sì, figurati. – ride anche lui, - Ti pare che mi stia lamentando? – commenta, schiaffeggiandogli piano il sedere. Bill si lascia sfuggire un urletto tanto carino quanto palesemente finto, e Fler ride ancora, alzandosi dal letto e stiracchiandosi davanti alla finestra.
- Tira le tende. – si lamenta Bill, appoggiando la testa sul cuscino, - Il Chaku è sempre lì di guardia e se scopre che ti ho fatto entrare senza pagare un’altra volta va a dire tutto a Tomi. Non voglio essere rimproverato di nuovo.
- Tuo fratello dovrebbe cominciare a farsi i fatti suoi. – sbuffa Fler, - Non aveva detto che i soldi che facevi tu erano solo tuoi e potevi tenerteli?
- Sì… - sospira Bill, - Ma poi ho fatto un casino.
Fler si volta a guardarlo, incuriosito.
- Un casino tipo?
Bill scrolla le spalle, come fosse una cosa di infima importanza.
- C’era questa borsa…
- Non dire altro. – ride ad alta voce Fler, chinandosi a recuperare i jeans da terra per indossarli, - Milledue? Millecinque?
- Tremila e nove. – sospira Bill.
Fler ride ancora.
- Ti vedo. – sghignazza, - Che entri tutto contento da Louis Vuitton—
- Era Prada.
- Irrilevante. – ride lui, - Ti vedo entrare tutto felice con tutte le tue banconote spiegazzate e strappate, mentre le commesse fuggono come impazzite di fronte alla tua maglia a rete e ai tuoi shorts.
- Non indossavo niente del genere. – borbotta Bill, sollevandosi in ginocchio sul letto ed incrociando le braccia sul petto magro, le belle sopracciglia dal disegno perfettamente simmetrico corrucciate in un’espressione offesa, - E non mi piace quando mi prendi in giro.
- Scusa, ma non posso farne a meno. – ride ancora Fler, avvicinandosi per stampargli un bacio innocente sulle labbra e poi piegandosi per recuperare la maglietta stropicciata dal pavimento, - Immagino che quando l’ha scoperto ti abbia cazziato per bene.
- Per giorni e giorni! – sbuffa Bill, scivolando giù dal letto e chiudendo le tende alla finestra, lasciandone aperto solo uno spiraglio per guardare fuori, alla strada tranquilla e silenziosa che dà sul retro del palazzo fatiscente in cui vive e lavora, - Mi ha detto che se tutto quello che devo fare coi soldi è comprare idiozie, allora è meglio che li tenga lui e mi passi qualcosa mensilmente. “Le borse non si mangiano, Bill,” mi fa, “Il cibo si mangia”. Ma sai cosa? A me di mangiare non frega proprio niente. Anche perché se ingrasso posso anche dimenticarmi di continuare a lavorare. Ma una borsa serve sempre!
- Certo, soprattutto se costa quasi quattromila euro. – ride Fler, raccogliendo la cintura da terra e stringendosela in vita, - Tuo fratello fa bene a tenerti al guinzaglio, - ammette poi, avvicinandosi ed appoggiandogli una mano sulla testa per lasciargli un bacio sulla tempia, - Lasciato a te stesso, appassiresti e moriresti come un fiore. Uno di quei fiori scemi, però. Tipo le margherite.
- Se morissi e rinascessi fiore, come minimo sarei una rosa centifolia. – ribatte Bill, offeso, voltandosi a guardarlo.
- Ed il fatto che tu abbia passato del tempo a pensare che tipo di fiore saresti se morissi e rinascessi vegetale è solo un’altra prova in più che tuo fratello fa bene a toglierti la patria potestà su te stesso. – commenta Fler, divertito. – Hai da mangiare, piuttosto? Ho un appuntamento importante alle quattro e mezza e non ho tempo di fermarmi da qualche parte.
- Devono esserci dei biscotti, di là. – risponde Bill distrattamente, indicandogli il cucinino nell’angolo, - Sulla mensola.
- Biscotti? – ride Fler, - Vivi di questo, adesso?
- Sono buoni e mi fanno sentire felice. – sbuffa Bill, facendogli una linguaccia, - Lasciami in pace.
- Va bene, va bene. – Fler ride ancora e si allunga a recuperare il pacchetto colorato, tirandone fuori un biscotto rotondo e spesso, farcito al cioccolato. – Mmh, i miei preferiti.
- Anche i miei. – sorride Bill. Poi torna a voltarsi verso la finestra, guardando fuori, e il suo sguardo si fa subito più scuro, quasi confuso.
- Cos’è? – sorride Fler, ingoiando mezzo biscotto in un solo morso ed avvicinandosi nuovamente alla finestra, avvolgendo un braccio attorno alla vita sottile di Bill e spiando fuori da sopra la sua spalla, - La tua guardia del corpo mi aspetta per prendermi a pugni?
- Eh? – mugugna Bill, così concentrato nella propria riflessione da realizzare con un secondo di ritardo quello che gli ha chiesto, - No, il Chaku non c’è, stranamente. Però… che strano, vivo qui da tanti anni ma non mi ero mai accorto che ci fosse una cabina telefonica su questa strada.
Le parole risvegliano in Fler il ricordo più prezioso della sua infanzia, quello di cui non ha mai parlato a nessuno. La notte in casa da solo, il botto, i rottami della cabina e il fumo che ne veniva fuori, e quell’uomo, l’uomo che gli aveva chiesto del nastro biadesivo e un po’ di colla e poi l’aveva portato a spasso per l’universo, riconducendolo a casa non più tardi di cinque minuti dopo, come se il tempo passato a fissare le stelle così da vicino da poterle quasi sentire bruciare sulla pelle non fosse mai nemmeno trascorso.
- Che cabina telefonica? – domanda, l’emozione che gli trema nella voce.
- Quella. – risponde Bill, indicandola oltre il vetro, - La vedi? Che poi, di quel colore lì non mi pare di averne mai viste in giro. Eppure sembra vecchissima. Le cose di cui uno non si accorge quando sta chiuso in casa a spalancare le gambe per gli estranei. Vedi? Se avessi una borsa potrei uscire, anche solo per vantarmene in giro, e allora potrei accorgermi… dove vai?
- Devo andare. – Fler si affretta a recuperare portafogli e cellulare dallo spoglio tavolo quadrato sul quale li ha lasciati entrando, e infilarli velocemente in tasca.
- Ma dove? – domanda Bill, aggrottando le sopracciglia con evidente preoccupazione, - Al tuo appuntamento?
- No. – borbotta confusamente lui, lanciando un’ultima occhiata fuori dalla finestra per assicurarsi che la cabina telefonica sia ancora lì, - Cioè… sì. Dopo. Prima devo controllare una cosa. Ci sentiamo. – conclude, prima di lanciarsi fuori dall’appartamento e giù per le scale.
Prega che la cabina sia ancora lì quando esce per strada, e quella c’è, e quando Fler se la ritrova di fronte non può fare a meno di fermarsi ad osservarla, per un secondo. È esattamente come la ricorda, il blu antico, un po’ rovinato delle assi di legno, quella targa, l’aria misteriosa. Si avvicina un passo dopo l’altro, senza rendersi conto che, man mano che avanza, comincia a correre sempre più velocemente, finché la cabina non prende ad avvicinarsi con una velocità pericolosa, e lui finisce per schiantarvisi sopra, tempestando la porta di pugni.
- Apri! – grida, - Lo so che sei là dentro! Vieni fuori!
Non smette di bussare e urlare finché non sente il suono inconfondibile della serratura che scatta, e solo allora, rendendosi conto di non essersi mai davvero aspettato che la porta si aprisse, salta indietro, allontanandosi repentinamente. La porta si apre con un cigolio sinistro, lasciando vedere solo buio per un po’, almeno fino a quando, dallo spiraglio, non fa capolino la testa di quell’uomo.
- Tu! – strilla Fler, puntandogli contro un dito.
- Io! – grida a propria volta l’uomo. Poi corruga le sopracciglia, fissandolo con gli occhi ridotti a due fessure, come quelli di un gatto, - Non sei la persona che mi aspettavo di vedere.
- Ah, no?! – insiste Fler, - Che strano! Forse perché quando sei andato via mi hai detto che saresti tornato in cinque minuti!
- Come, prego?
- Ed io avevo sette anni, allora!
- …oh. – il lume dell’intelletto sembra accendere improvvisamente lo sguardo scuro dell’uomo, che apre definitivamente la porta, senza però convincersi ad uscire dalla cabina e restando lì, sulla soglia, una mano sulla porta e l’altra sullo stipite, a guardarlo stupito, - Oh. Aspetta. Che ore sono.
- Forse ti interesserebbe sapere più che altro che anno è. – borbotta Fler, incrociando le braccia sul petto.
- Sì, anche. – annuisce il Dottore, - Ma soprattutto che ore sono.
Fler sospira, sollevando la manica della giacca per controllare l’orario sull’orologio da polso.
- Dieci alle quattro, perché?
- Ah! Bene. – risponde il Dottore, illuminandosi in volto, - Ho ancora tempo.
- No che non hai ancora tempo! – sbraita Fler, sbattendo una mano contro la porta blu, - Sei in ritardo di cinque minuti e ventiquattro anni!
- … sì, è vero, per quell’appuntamento sì. – annuisce il Dottore, - Non per l’altro, però.
- Non avevamo nessun altro appuntamento!
- Non io e te, è vero! – annuisce ancora il Dottore, con convinzione.
Fler lascia ricadere il braccio lungo il fianco, spiazzato.
- Vuoi dire che non sei qui per me? – domanda con un filo di voce.
- Come, prego? – ripete il Dottore, inarcando un sopracciglio.
- Non sei tornato qui per me! – sbotta Fler, sconvolto, - Avevi promesso di tornare, ed ora sei qui e mi vieni a dire che ci sei capitato per caso?!
- Tecnicamente no, non è un caso. – scuote il capo il Dottore, - Sono capitato qui perché, come ti dicevo, ho un altro appuntamento. Precisamente alle quattro e mezza.
- Non me ne frega niente! – ribatte Fler, gesticolando animatamente a mezz’aria, - Ti ho aspettato per più di vent’anni e tu hai la faccia tosta di ripresentarti adesso e dirmi che non mi stavi nemmeno cercando! Perché l’hai fatto?! Perché mi hai detto che saresti tornato se non ne avevi la benché minima intenzione?! Ero solo un bambino, mi hai preso in giro!
- Ma io avevo intenzione di tornare. – risponde il Dottore, placido, - Non pensavo onestamente di fare così tardi. Devo aver perso il senso del tempo.
- Sì? – domanda Fler, inarcando un sopracciglio, - Facendo cosa, esattamente?
Il Dottore scrolla le spalle.
- Un po’ di questo, - risponde, - Un po’ di quello.
Fler si passa una mano sul viso, sospirando stancamente.
- Certo.
È in quell’istante che la voce di Chakuza lo raggiunge, modulata nel classico grido cavernoso per il quale ormai ha imparato a conoscerlo e, in una certa misura – piccola, considerate le sue dimensioni –, anche a temerlo.
- Fler! – urla il nano pelato, correndogli incontro, - Ti ho visto!
- Merda. – sibila Fler, osservandolo avvicinarsi velocemente dall’angolo opposto della strada. Si volta verso il Dottore, piantandogli entrambe le mani sulle spalle e spingendolo verso l’interno della cabina, - Presto, fammi entrare!
- Intraprendente. – annuisce il Dottore, - Mi piace. Autoinvitarsi in casa altrui. Lo faccio spesso anch’io.
- Sta’ un po’ zitto! – sbotta Fler, irritato, spingendolo dentro e poi chiudendosi la porta alle spalle. Anche l’interno della cabina è uguale a come lo ricordava, immenso e un po’ freddo e stranissimo, con quella plancia di comando circolare proprio al centro e tutto il resto dell’arredamento bizzarro, scale che non si sa dove conducano, porte che non si ha idea su che stanza si aprano. Si volta a guardare fuori dallo spioncino e, per un secondo, vede solo il cranio rasato di Chakuza che prende tutto lo spazio, come un’enorme luna bianca e lucida. Poco dopo, lo sente picchiare contro la porta.
- Apri! – dice da fuori, - Ti ho visto! Apri! Ti avevo promesso che ti avrei spezzato le dita una ad una, se ti avessi rivisto da queste parti! Quindi ora apri!
- Oh. – considera il Dottore, apparentemente molto divertito dalle sue parole, - Fidanzato?
- Cosa?! – sbotta Fler, - No!
- Ex-Fidanzato, allora?
- Ma assolutamente no!
- Fidanzato del fidanzato, dunque.
- Ma cosa— smettila! – lo zittisce lui, premendogli entrambe le mani sulla bocca, - Dobbiamo andare via. Fai muovere questa cosa.
Il Dottore si allontana da lui, aggrottando lievemente le sopracciglia.
- Spazio personale, prego. – borbotta, sistemandosi addosso i vestiti. Fler li nota solo adesso per la prima volta. L’uomo indossa una tuta grigia palesemente nuova e palesemente costosa che però gli dà l’aria di essere qualcuno che si vesta con immensa modestia. Una specie di accattone di lusso, un povero dentro ricco fuori, uno di quelli che li guardi e sembra non vogliano farti pesare addosso tutti i loro soldi, ma in realtà vogliono mostrarti esattamente quanti ne hanno dandoti però l’impressione di non contarli nemmeno.
- Sei ricco? – gli chiede così, a bruciapelo.
- Mi sento una persona ricca, sì. – annuisce il Dottore, - Ho tanti amici, l’immensità dello spazio-tempo tutta per me, una bellissima astronave e—
- Tanti soldi? – suggerisce Fler.
Il Dottore inclina il capo e lo guarda come avesse appena detto l’idiozia del secolo.
- No. – risponde candidamente, - Non saprei che farmene.
- Beato te. – ribatte Fler, scrollando le spalle, - Ora, per favore, possiamo andarcene? Questa cosa può muoversi, no?
- È la seconda volta che la chiami cosa. – nota il Dottore, offendendosi quasi avesse chiamato “cosa” lui, - E ti sconsiglio vivamente di perseverare. È molto permalosa.
- Chi è permalosa? – domanda Fler, guardandolo con confusione evidente negli occhi.
- La TARDIS. – risponde il Dottore, allargando entrambe le braccia come a presentargli qualcuno che non può essere indicato direttamente. E questo perché si trova tutto intorno a loro. – Tempo e Relativa Dimensione Interna allo Spazio. È la mia astronave.
- Va bene, okay, ma può muoversi? – sospira Fler in tono lamentoso, - Quel gorilla là fuori vuole il mio sangue, e se non ce ne andiamo da qui prima o poi finirà per abbattere la porta ed entrare, e ti assicuro che non vuoi vedere di cosa è capace in tutto il suo imponente metro e mezzo di altezza.
- Non sembra granché imponente. – considera il Dottore, sollevando una mano a circa un metro e mezzo dal suolo, - Dici che è alto più o meno così? Sono sicuro che riuscirei a tenerlo lontano anche solo stendendo il braccio.
- Oh Dio mio, - ringhia Fler, frustrato, aggirandolo e muovendosi deciso verso la plancia, - Era così per dire! Non è altissimo, ma è più alto di un metro e mezzo, e comunque quello che non ha in altezza lo compensa in larghezza, per cui leviamoci dalle palle.
- Ma si può sapere almeno cos’è che gli hai fatto? – domanda il Dottore.
- A lui? – sbotta Fler, osservando la plancia con curiosità, cercando di ricordare come gliel’ha vista manovrare venti anni prima, - Niente. È la guardia del corpo di un mio amico. Non vuole che gli vada vicino.
- E perché non vuole che tu gli vada vicino?
- Perché poi finiamo sempre a letto insieme senza che io possa permettermi di pagarlo. – risponde Fler in un ringhio frustrato, - Come si pilota questa cosa?!
- … quasi tutto quello che hai detto mi confonde. – annuisce il Dottore, - Ma, in ogni caso, se fossi in te, non tirerei quella leva. – aggiunge, indicando una lunga leva grigia pochi centimetri alla sua sinistra con un cenno del capo.
Fler non ha nemmeno un ripensamento, mentre la afferra e la tira energicamente verso di sé.
Quello che accade dopo non è semplice da spiegare, e Fler non è neanche tanto sicuro di capirlo. Quello che sa è che il battere imperterrito dei pugni di Chakuza contro la porta della cabina blu si interrompe bruscamente, o forse è semplicemente nascosto dal rumore sempre più alto che l’astronave emette sollevandosi – o almeno così sembra dal tremito che la scuote e dall’improvvisa mancanza di equilibrio che manda Fler quasi disteso per terra – e poi cominciando a viaggiare.
Si fermano un paio di minuti dopo, e mentre ancora la TARDIS trema, cercando di stabilizzarsi, Fler si aggrappa alla plancia di comando e poi accetta l’aiuto del Dottore per riuscire ad alzarsi in piedi.
- Che… Che cosa è successo? – domanda confusamente, guardandosi intorno come non riuscisse più a riconoscere il luogo in cui si trova, anche se l’interno dell’astronave non è cambiato nemmeno di una virgola.
- Eh. – risponde il Dottore con un sospiro quasi paterno, - Te l’avevo detto, io, di non tirare la leva. Spero che tu non abbia impegni per il resto del pomeriggio. Anche se potrebbe essere un problema di relativa importanza. – aggiunge con una mezza risata.
Fler lo guarda per un paio di secondi con occhio bovino, e poi si lancia contro la porta, spalancandola.
Capisce di avere un problema quando, di fronte a lui, si apre un mondo sconosciuto di fronte al quale perfino la visione dell’immensità dell’universo di ventiquattro anni prima sembra impallidire.

continua
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Eko/Valezka, Fler/Chakuza.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash, Het.
- "Ora, io ho sempre saputo che un momento simile sarebbe arrivato, prima o poi, ma ho sempre creduto fermamente che sarebbero stati Bushido e la sua donna ad aprire le porte all’invasione delle bandiere color arcobaleno e delle tutine rosa shocking in pvc, e invece guarda cosa mi combinano questi due, prendono, si ubriacano e si vanno a sposare a Las Vegas, ma vi pare modo? Senza neanche un briciolo di romanticismo, nello squallore più totale! Almeno, quando m’immaginavo il matrimonio delle loro maestà, potevo immaginare qualcosa di un certo spessore, una roba tipo Carlo e Diana, per intenderci, con lunghi abiti bianchi con lo strascico, corone, gioielli di famiglia, vescovi che benedicono unioni volute dal Signore e via così. E invece mi sveglio una mattina e vedo che la prima coppia di rapper sposati fra loro della storia sono questi due deficienti con anelli grossi come quelli che le bambine trovano nelle uova di Pasqua, ma non ugualmente carini. Ma vi pare? È un disonore."
Note: Credete pure ai vostri occhi, la nuova shot del GD è qui! E, in un'incredibile concomitanza di buone notizie, non solo è una shot dal POV di Eko, un POV che, sappiamo, attendiamo tutti con impazienza, ma è anche, finalmente, l'ultimo spin-off prima di ricominciare a parlare di cose serie tipo LA TRAMA. Sì, non ce la siamo dimenticati. Anche questa serie ne ha una. No, l'argomento principale della serie non è il matrimonio del Flerkuza, anche se ne parliamo di nuovo anche in questa shot (perché non sarebbe il GD se lo stesso identico avvenimento non venisse riproposto in mille salse da due trilioni di POV differenti). Portate pazienza per questa lunghissima shot (Eko aveva voglia di raccontarci la sua INTERA ESISTENZA, scusate) e vi promettiamo che già nella prossima shot cose nuove ed incredibili cominceranno ad accadere!
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LIVING THE DREAM

In pratica è successo che Fler e Chakuza si sono sposati, e noi lo veniamo a sapere il giorno dopo quando, uscendo tutti dalle nostre camere e scendendo fino al piano terra per fare colazione, troviamo Bill e Bushido che fissano il vuoto aprendo e chiudendo la bocca come pesci rossi nell’acquario mentre Chakuza cerca di darsi un contegno spilluzzicando la colazione e Fler si regge un panno bagnato sulla testa, mentre la sua tazza di caffè nero viene riempita a intervalli regolari da un cameriere che pare messo lì apposta per fare solo questo.
Io, per la verità, neanche volevo scendere a fare colazione. Stavo bene in camera mia. Mi hanno piazzato in una ricostruzione in piccolo della foresta Amazzonica, con le liane che pendono giù dal soffitto e le pozze d’acqua sul pavimento in bagno, che non ho ancora capito se è per mantenersi in tono con l’ambiente o perché s’è rotto lo sciacquone e per tamponare l’esondazione in bagno ci ho dovuto mettere gli asciugamani. Tant’è che poi per fare i bisogni ho dovuto usare il bagno di Kay, che invece è stato infilato in una stanza della reggia di Versailles trasportata qui appositamente da Parigi, e ha le tende di broccato pure nella doccia. Una roba, veramente.
Comunque, io stavo lì tranquillo appeso alla mia liana e dondolavo a testa in giù, quando il telefono squilla urlando come Tarzan. Saltando agilmente da una liana all’altra, mentre il mio pigiama-perizoma svolazza nell’aria umida della foresta pluviale, giungo fino al comodino ed allungo un piede prensile verso la cornetta. La stringo fra le dita e la pianta del piede e, piegandomi con notevole nonchalance, la porto all’orecchio, rispondendo con un verso scimmiesco. Poi mi rendo conto che mi sono lasciato un po’ trasportare e mi riprendo.
- Pronto? – dico, e Kay, dall’altro lato, trattiene il fiato, prima di rispondere.
- Vieni giù, - mi fa, - abbiamo un problema.
Insomma, vado di sotto e poso gli occhi sulla coppia reale in stato catatonico, e ipotizzo che una maledizione sia stata lanciata sul nostro re e sulla nostra principessa. Sicuramente qualcosa che coinvolge il primo cavaliere e il consigliere di corte deve essere accaduta, perché mai Bushido e la principessa sono stati in questo stato, se non per cose che coinvolgessero Chakuza e il suo consorte privo di fissa dimora.
- Insomma, - domando, prendendo posto accanto al principino Tom che, gli occhi ancora chiusi ed evidentemente infastidito dall’essere stato buttato giù dal letto a quest’ora, dorme col naso affondato nella propria tazza, - che è successo?
Bushido continua a fissare il vuoto mentre la nostra reale sovrana prova a rispondermi, non ci riesce e pertanto tira fuori un fazzoletto di pizzo da non so dove e ci scoppia a piangere dentro, tutto scosso dai singhiozzi, mentre Fler si lamenta perché il suono del pianto di Bill lo infastidisce e Chakuza si passa una mano sul viso, spossato.
- Fler e Chakuza si sono sposati. – chiarisce per tutti Kay. Tom affonda di un altro paio di centimetri nella propria tazza, poi gorgoglia e si tira su, il naso impiastricciato di schiuma. Si pulisce con un tovagliolino e poi torna a dormire in piedi.
Io guardo il mondo – Bushido ancora imbambolato, Bill che piange più forte al solo sentire il problema che viene ripetuto ad alta voce da Kay, Fler e Chakuza che indossano degli anelli orrendi e quei due strani amici dei gemelli che, dimostrando molta più intelligenza di tutti noialtri, se ne stanno per fatti loro ignorandoci – e spalanco gli occhi.
- Mi sa che voi due vi siete bevuti il cervello, - dico, rivolgendomi alla coppia di novelli sposi, - e se ve lo dico io che fino a due minuti fa stavo penzolando giù da una liana, potete credermi.
- Stavi facendo cosa? – domanda Kay, fissandomi con un paio d’occhi pallati che sono tutto un programma, ma io lo liquido con un gesto della mano perché mi pare che qui i problemi siano ben altri. Questi due si sono sposati, non so se rendo l’idea. Ora noi torneremo in Germania e tutto il mondo titolerà che Fler e Chakuza sono la prima coppia di rapper tedeschi gay ad essersi unita in matrimonio. No, voglio dire. Chakuza e Fler. Ce li avete presenti?
Ora, io ho sempre saputo che un momento simile sarebbe arrivato, prima o poi, ma ho sempre creduto fermamente che sarebbero stati Bushido e la sua donna ad aprire le porte all’invasione delle bandiere color arcobaleno e delle tutine rosa shocking in pvc, e invece guarda cosa mi combinano questi due, prendono, si ubriacano e si vanno a sposare a Las Vegas, ma vi pare modo? Senza neanche un briciolo di romanticismo, nello squallore più totale! Almeno, quando m’immaginavo il matrimonio delle loro maestà, potevo immaginare qualcosa di un certo spessore, una roba tipo Carlo e Diana, per intenderci, con lunghi abiti bianchi con lo strascico, corone, gioielli di famiglia, vescovi che benedicono unioni volute dal Signore e via così. E invece mi sveglio una mattina e vedo che la prima coppia di rapper sposati fra loro della storia sono questi due deficienti con anelli grossi come quelli che le bambine trovano nelle uova di Pasqua, ma non ugualmente carini. Ma vi pare? È un disonore.
- Senti, non mi sembrano fatti tuoi. – protesta Chakuza, evidentemente di malumore. Dico io, se dovevi essere così uggioso, tanto valeva che non ti sposassi affatto. Ti ho forse obbligato io a farlo? No, sto esprimendo un’opinione su quello che credo sia stato un comportamento assolutamente folle. Puoi tu odiarmi perché do voce alle mie proteste? Ma assolutamente no. Qui mi sa che l’usciere di corte si sta prendendo delle libertà che se il nostro signore e padrone fosse in sé non gli concederebbe assolutamente. Solo che egli non è in sé, quindi mi tocca difendermi da solo.
- Sto solo dicendo – ribatto, fissandolo in cagnesco, - che non mi sembra una gran pensata quella di sposarvi. Non avete riflettuto sulle conseguenze di questo gesto? Il matrimonio è un vincolo sacro.
- Ah, e tu sei il massimo esperto in materia, suppongo! – sbotta Chakuza, battendo un pugno sul tavolo. Fler, al suo fianco, mugola dolorosamente e gli posa una mano sul braccio per tenerlo fermo. No, dico. Lo ripeto. Gli posa una mano sul braccio per tenerlo fermo! Ma delicatamente, come la moglie che è! Non credo di aver mai visto niente di più gay in vita mia, ed io ho accompagnato Bill a fare shopping. No, per dire.
Mentre ancora inorridisco per questa cosa della mano sul braccio – me la sognerò nei secoli a venire, il mio sonno non sarà mai più tranquillo e sereno, io che ho sempre dormito come un bambino, mi viene da piangere – Fler si toglie la pezza bagnata dalla testa e manda giù un po’ di caffè, per poi rivolgersi direttamente a me. Io mi metto a bere il mio latte macchiato perché ho paura che mi contagerà con la sua gaytudine se mi guarda dritto negli occhi. Come Medusa, ma con delle miniature dei Village People per capelli al posto dei serpenti.
- Eko, - mi spiega con pazienza, - eravamo ubriachi, non ci abbiamo riflettuto granché sopra e probabilmente abbiamo agito in maniera avventata, ma non siamo pentiti di averlo fatto e ci rendiamo perfettamente conto della nostra situazione adesso. Siamo molto contenti di come sono andate le cose, e ti pregherei di rispettare almeno questo.
- Sono contenti, loro! – strilla a quel punto Bill, il viso inondato da una marea di lacrime e mascara. La sua voce è talmente alta che Fler fa una smorfia e torna a nascondersi sotto il suo panno bagnato, sofferente. – Siete contenti, eh? E io non ho potuto nemmeno organizzare un rinfresco, o occuparmi dei fiori per decorare la cappella! Scommetto che non c’era nemmeno una rosa bianca sulla navata centrale!
- Io scommetto che non c’era nemmeno la navata. – borbotta Tom, gorgogliando col naso di nuovo tuffato nel caffellatte, e Bill torna a piangere, lanciando il fazzoletto ormai sporco alle sue spalle e centrando in pieno il cesto pieno di altri fazzoletti usati che il cameriere dritto in piedi dietro di lui regge fra le braccia, per poi prenderne un altro dal dispensatore che un altro cameriere, fermo al suo fianco, gli porge con sussiego.
Io sbatto le palpebre un paio di volte, fissandolo con sconcerto.
- No, dico, - sbotto, - è questo il problema? Cioè, tutta questa tragedia greca, - dico, indicando in un gesto omnicomprensivo i pianti, i fazzoletti, tutta la corte depressa forzata a scendere per la colazione ad orari indecenti eccetera eccetera, - non è perché quei due si sono sposati ma perché la principessa non è stata avvertita in tempo per organizzare le nozze?
Mentre Bill scoppia in lacrime un’altra volta, perché evidentemente le mie parole hanno fatto centro nel cuore del problema, Bushido sospira e sorseggia il proprio caffè con l’aria compunta di uno che soffre molto ma non vuole darlo a vedere per orgoglio personale; una faccia che per la verità ha spesso, perché voi dovete sapere che il nostro signore e padrone, qui, è convinto che tutto il mondo ce l’abbia con lui. C’è la vita vera, e poi c’è la vita che Bushido è convinto di vivere nella propria testa, e in questa deviazione della realtà il cosmo intero complotta contro la sua felicità, ma lui, con la sua forza, il suo eroismo e la sua caparbietà è sempre in grado di ribaltare situazioni senza speranza e risolvere ogni problema, mentre cavalca in sella al proprio stallone bianco panna verso il suo per sempre felici e contenti.
Naturalmente non c’è bisogno che io stia qui a dirvi che è tutta una montatura, che in realtà quest’uomo oltre al fatto che gli va sempre bene in generale ha anche una fortuna sfacciata che, tipo, gli permette di non morire mai, una roba che le persone normali purtroppo non possono neanche sognare, ma lui ci crede molto, e questo gli permette di andare in giro a fare quella faccia lì, la faccia dell’eroe tormentato, e crederci pure tantissimo, e risultare per questo molto convincente mentre beve il suo caffè e si pinza la radice del naso come non riuscisse a capacitarsi di avere tutte queste sfighe, poverino.
- Io, per la verità, di problemi con quello che è successo ne avrei parecchi. – dice, lanciando a Fler un’occhiata tale che mi viene voglia di agitargli una mano davanti alla faccia e dirgli “whoa, ehi, adesso, calmiamoci prima di scatenare un conflitto atomico solo perché il nostro ex amante si è sposato con l’usciere”, - Ma sì, sostanzialmente il problema che ha scatenato la tragedia sotto i tuoi occhi al momento è questo.
- Ci tenevo così tanto, Eko! – squittisce disperata la principessa, riemergendo dal fazzolettino usato e soffiandosi il naso con veemenza.
- Ma se neanche sapevi che avevano intenzione di farlo? – obietto io, inarcando un sopracciglio.
Bill si interrompe e per un paio di secondi cala il silenzio. E poi riprende a piangere con più convinzione.
- Sì, appunto! – dice, come se quello che ho appena detto fosse in qualche modo stato di aiuto alla sua causa, - Non ci tenevo solo perché non sapevo che sarebbe accaduto, ma una volta che è accaduto ho scoperto che ci tenevo tantissimo! Non capisci? Se me l’avessero detto, ci avrei tenuto un sacco!
- Bill, solo tu nel mondo puoi considerare l’interesse per un avvenimento retroattivo. – sospira Tom, facendo le bollicine nel caffellatte.
Nel mentre, però, io sono costretto ad ammettere che, in fondo, il ragionamento ha senso. Intendo, non è che Bill andasse in giro strillando di voler essere il wedding planner di Fler e Chakuza, ma non lo faceva solo perché non aveva idea del fatto che questi due volessero sposarsi. Probabilmente, se l’avesse saputo allora sì, sarebbe andato in giro strillando di voler essere il loro wedding planner e tutto. Ora da un lato sono grato a Chakuza e Fler per averci risparmiato l’imbarazzo, ma dall’altro mi dispiace per la povera principessa, che tiene a poche cose nel mondo – in genere tutte quelle sbagliate – e per giunta nessuno gliele dà mai.
- Okay. – annuisco quindi, e tutti si voltano a guardarmi con una preoccupazione decisamente fuori luogo, - C’è una sola soluzione, per questo.
- Eko, non credo che tu sia nella posizione di proporre soluzioni a problemi inesistenti. – borbotta Chakuza, guardandomi in cagnesco. Ma io vedo che la principessa ha sollevato gli occhi su di me e mi sta fissando speranzosa, e io non posso deluderla proprio adesso.
- Tu e Fler dovreste sposarvi di nuovo. – proseguo quindi, ignorandolo, - Qui, nella sala ricevimenti dell’albergo. Bill potrebbe avere il resto della giornata per organizzare l’evento, stasera potreste dire sì in una cornice meno squallida di una stupida cappella a Las Vegas con qualche finto prete ubriaco che vi benedice, e tutti sarebbero contenti.
- Eko! – si agita tutto Bill, lanciando via il fazzoletto e giungendo le mani sotto il mento, - Ma così, all’improvviso? Organizzare un matrimonio in sole dodici ore? È impossibile!
- Be’, - scrollo le spalle, guardando altrove, - se non pensi di potercela fare, meglio così, passeremo la serata fuori e ci divertiremo lo stesso.
- Stai scherzando?! – strilla a quel punto lui, saltando in piedi ed asciugandosi sommariamente gli occhi, - Mi metto subito al lavoro.
Abbandona la sala subito dopo, riapparendo dopo qualche secondo per afferrare suo fratello e Bushido e trascinarli via con sé, mentre loro gli sbraitano dietro di lasciarli andare immediatamente e lui, naturalmente, non sta affatto a sentirli.
A fare colazione restiamo solo io, Kay, i novelli sposi e i due amici dei gemelli, i quali spariscono a loro volta quando Bill si riaffaccia ed inarca un sopracciglio, segnale apparentemente sufficiente a convincerli a seguirlo con un sospiro.
- Nessuno ha chiesto il nostro parere. – nota a quel punto Chakuza, sconvolto.
Fler emette un lamento disperato, si toglie la pezza umida dalla faccia e si alza in piedi.
- Ho bisogno di dormire. – conclude, abbandonando il tavolo a propria volta.
Restando compostamente seduto, io mi godo il mio caffè ed il mio croissant, consapevole di aver compiuto anche oggi la mia buona azione quotidiana.
*
Con i preparativi, comunque, io non voglio avere niente a che fare. C’è solo un numero limitato di gaiezza che un uomo eterosessuale può sopportare prima di cominciare a dubitare delle proprie posizioni aperte e liberali, e Bill che si improvvisa wedding planner e si mette ad addobbare la sala conferenze dell’albergo riempiendola di nastri di seta, palle traslucide di vetro di boemia, rose rosa, giacinti e gelsomini supera abbondantemente quel numero già di per sé superato dal fatto che il matrimonio è quello di Chakuza e Fler, per cui io decido di lasciare ognuno alla propria occupazione – anche perché Bill il mio aiuto non lo ha chiesto – ed esco felice per le strade di Las Vegas.
Una cosa bella di Las Vegas è che fra il giorno e la notte non esiste la minima distinzione. Cioè, tu ti svegli tranquillo di buon mattino, bevi il tuo caffè, mangi il tuo biscotto, trangugi la tua fetta di pane tostato con burro e marmellata, poi prendi, esci e per strada sono le undici di sera. Cioè, non nel vero senso dell’espressione, intendo, non è che c’è una calotta di vetro sopra Las Vegas che simula il buio e il sorgere della luna eccetera eccetera, no; tu esci per strada a mezzogiorno e non è che è notte, c’è il sole e tutto, però ecco, locali che in qualsiasi altro posto nel mondo a quest’orario qui sarebbero chiusi a doppia mandata, a Las Vegas sono aperti.
Per cui io passeggio allegramente per strada mentre gente già ubriaca corre, urla e si bacia pubblicamente senza il minimo pudore, e poi trovo un localino simpatico che mi ispira, e decido di passare lì il resto della mia giornata.
Poi niente, entro, mi siedo, ordino una birra, guardo il palco e vedo che c’è sopra Valezka che canta, e decido che voglio passarci anche il resto della mia vita.
*
La cosa con Valezka è stata molto complicata. Lo è stata fin da subito, ma non sia mai detto di me che sono un uomo che non gli piacciono le cose complicate, perché io per le cose complicate impazzisco, cioè, mi piacciono proprio un botto, tant’è che vivo con Bushido. Cioè, non assieme, ma quasi, specie considerato il fatto che quando sei nel giro del Bu non c’è scampo, che tu viva a venti o a duecento metri da lui sarà sempre e comunque come se gli vivessi in casa. Bushido è il tipo che si presenta sulla porta di casa tua e ti dice “che stai facendo?”, e se tu tipo gli rispondi “guardavo porno in tv col dolby surround a volume massimo” ti strilla “non finché vivi sotto il mio tetto!”, e tu ti terrorizzi e gli rispondi di sì e spegni subito la televisione anche se dentro di te sei consapevole di non vivere sotto il suo tetto. È tutta una questione di modo di porsi, sapete, Bushido c’ha un po’ quell’atteggiamento che potrebbe vendere ventilatori in Lapponia.
Comunque, il punto non sono le enormi potenzialità di venditore di ventilatori porta a porta di Bushido, il punto è che Bushido è una cosa complessa, e il fatto che io sia un suo sottoposto dimostra che a me le cose complesse piacciono molto.
E infatti Valezka è tipo la cosa che mi è piaciuta di più in tutta la vita.
L’ho conosciuta che aveva ventun anni, ed io ne avevo diciannove. Eravamo due pischelli che non sapevano niente del mondo e volevano soltanto divertirsi, ma il punto non è tanto che fossimo giovani e avessimo voglia di divertirci, ma che non fossimo solo in due. Era infatti il duemiladue, e sapete cosa succedeva nel mondo fra il duemilauno e il duemiladue? Pacey e Joey si mettevano insieme, rovinando la vita di Dawson, e poi rovinandosi la vita a vicenda già che c’erano.
In sostanza, più o meno, è la stessa cosa che è successa a noi. Nel duemiladue, infatti, io lavoravo in un negozio di scarpe – no, lo so che sembra che quello che sto dicendo non abbia nemmeno una minuscola parvenza di logica, ma non è così, seguitemi e giuro che, alla fine, tutto avrà senso – da qualche anno, dopo aver lasciato la scuola, anche se in realtà sarebbe più corretto dire che è stata la scuola a lasciare me, nel senso che alla terza espulsione abbiamo entrambi capito che le nostre differenze erano inconciliabili, ed abbiamo pertanto deciso di prendere strade differenti, per la soddisfazione di entrambi.
Insomma, io lavoravo in questo negozio di scarpe che si chiamava Il Piede del Fauno, che voglio dire, è un nome ridicolo e anche fuorviante, perché i fauni hanno piedi caprini ma noi non vendevamo scarpe caprine, vendevamo scarpe normali. Era un lavoro part-time, stavo lì solo qualche ora ogni mattina, anche perché il proprietario, il vecchio signor Wagner, aveva qualcosa come otto miliardi di anni e riusciva a restare sveglio e presente a se stesso solo nella fascia oraria fra le dieci del mattino e mezzogiorno, però ecco, io mi divertivo abbastanza, la paga non era male, tutto considerato, e di lì passavano un sacco di ragazzi perché principalmente vendevamo scarpe da tennis e in quegli anni la scarpa da tennis era un must per tutti gli adolescenti in tutto il mondo.
Insomma, è stato lì che un giorno ho conosciuto Kool Savas. Ovviamente, ai tempi non era Kool, era solo Savas, però aveva un progetto. È importante avere un progetto, nella vita. Pensate a Bushido, lui un progetto ce l’aveva, ed era diventare il più grande rapper tedesco mai esistito. Oh, è dovuto passare per l’inferno, per riuscirci, ma c’è riuscito, eh. E tutto perché aveva un progetto.
Anche Savas ne aveva uno. Un pelo più modesto – aprire un’etichetta e diventare famoso – ma ce l’aveva. E un giorno entra al Piede, che gli servivano un paio di scarpe nuove, e mi trova lì che sistemo scarpe sugli scaffali cantando Ready to Die, e mi fa “Tu!”. Al che io mi volto e lo guardo, e tenete presente che io appunto ai tempi ero poco più di un pischello, mentre lui praticamente era già un uomo adulto. Per cui mi fa “canti bene”, e io ovviamente reagisco come reagiscono tutti i pischelli quando un uomo adulto fa loro un complimento, cioè da un lato mi sento fighissimo e dall’altro mi pongo due o tre dubbi su cosa il tipo voglia da me.
Lui mi fa “guarda, sto aprendo un’etichetta. Se ti va, vieni in studio e ti facciamo un provino”, e poi mi passa questo bigliettino da visita col suo nome, l’indirizzo e il numero di telefono.
Sul subito ero un po’ incerto, cioè, ero consapevole che non è che potessi rimanere impiegato al Piede del vecchio signor Wagner per sempre, anche perché lui aveva già passato l’ottantina e mi aveva già detto che, alla sua morte, il Piede sarebbe morto con lui. Per inciso, in questo momento il vecchio signor Wagner ha superato abbondantemente i novanta ma è ancora perfettamente vivo e vegeto, e il Piede assieme a lui. Comunque, niente, non è che io sognassi di diventare un cantante o chissà che, però mi sembrava che la prospettiva di mettermi a lavorare per un ventisettenne mi sorridesse un pelo di più che quella di lavorare per un ottantaduenne, per cui dico arrivederci al vecchio signor Wagner e, il giorno dopo, mi presento agli studi della Optik Records, faccio il mio provino e, fra poderose pacche sulle spalle e poderose dosi di birra alla spina, entro a far parte della grande famiglia di Savas.
Voi dovete capire, Savas, da quel momento in poi, per me è diventato una specie di punto di riferimento. Per dire, i miei erano divorziati, io sostanzialmente ero cresciuto senza un padre perché a quei tempi, capite, non era mica come adesso, quando un uomo se ne andava di casa non è che si prendeva bene coi diritti del padre, i finesettimana insieme, le visite giornaliere e tutto il resto. A quei tempi te ne andavi di casa e basta, e mio padre questo aveva fatto. Quindi niente, quest’uomo che non era assolutamente vecchio al punto da farmi da padre ma che in parte si comportava da tale, quest’uomo che mangiava solo lattuga e beveva solo latte di soia, quest’uomo che suo padre era stato prigioniero di guerra e che aveva vissuto l’infanzia fra la Germania e la Turchia, quest’uomo che a meno di trent’anni era già indipendente e sapeva esattamente cosa voleva dalla vita, per me era una specie di faro nell’oscurità, uno che io lo guardavo e pensavo ecco!, alla sua età io voglio avere le stesse cose che avrà lui, voglio fare le stesse cose che fa lui. Magari mangiando bistecche, anche, ma insomma.
In ogni caso, succede che Savas mi accoglie nella sua vita come una specie di orfano adottato, anche se non sono orfano e lui non mi adotta. Un pomeriggio restiamo alla Optik a lavorare a qualche beat fino a tardi e, ad un certo punto, il mio stomaco esplode in gorgoglii sinistri, e lui si mette a ridere e mi fa “vieni a cena da me, ti faccio conoscere la mia ragazza”.
E qui entra in gioco Dawson’s Creek, appunto. Insomma, Savas mi porta a casa da lui, entriamo e io sento questa voce dolce che viene da una stanza che, dall’ingresso, non riesco a vedere. E Savas fa “Vale? Ho portato ospiti”, e lei si affaccia.
Vedo prima i capelli. I ricci! Questo casco enorme di ricciolini bellissimi che sembra di trovarsi davanti all’improvviso Diana Ross al suo meglio solo un pelo più bionda! Io non so bene come funzionino i colpi di fulmine, non è che mi sia capitato molte volte di prendermi così bene all’improvviso con una ragazza, ma sono abbastanza sicuro che quello per Valezka sia stato un colpo di fulmine. Ma non uno di quelli scemi, che ti prendi una cotta e dopo due mesi, importante per quanto la relazione possa essere stata, è già tutto finito. No, io guardo Valezka, la sua pelle color caramello, quei ricciolini, il sorriso enorme e quegli occhi scintillanti da cerbiatta, e penso “è lei!”, con entusiasmo, proprio, con convinzione, perché era lei davvero.
Unico problema: è la ragazza di Savas, ovviamente. Cazzo!, penso, dico, ma si può essere più sfigati? Vi pare che la donna di cui devo andarmi a innamorare perdutamente può essere una ragazza normale, libera, disponibile? No! Dev’essere la cazzo di tipa del mio datore di lavoro nonché pilastro e faro luminoso attorno al quale la mia nuova vita ruota. Dico.
Insomma, da questa cena io esco completamente traumatizzato, perché da un lato ho incontrato la donna della mia vita e dall’altro è la donna del mio migliore amico. Tragedia. Novello Pacey del rap tedesco, mi aggiro depresso per la città per giorni sapendo di voler baciare questa donna senza poterlo fare. E mi prendo pure male con me stesso perché a me Pacey stava sul culo. Cioè, ti affido la mia donna e ti dico “prenditene cura finché io metto a posto la mia merda” e tu te la limoni alle mie spalle, restauri una barca in suo nome, diventi il beniamino della sua famiglia eccetera eccetera? Ma sei proprio stronzo.
E quindi sono lì che mi sento uno stronzo e non voglio e prego intensamente che qualche altra donna che non sia la fidanzata di Kool Savas mi appaia davanti rubandomi il cuore, quando un giorno che sono solo agli studi ovviamente si presenta Valezka, e io perdo completamente il senno.
Siccome Savas è fuori ma dovrebbe tornare fra poco, mentre lo aspettiamo ci sediamo e parliamo un po’, e viene fuori che abbiamo un sacco di cose in comune, tipo che a nessuno dei due piace la maionese, che entrambi pensiamo che la gente abbia un’opinione esageratamente negativa nonché discriminante sui piccioni e che sia io che lei proviamo sentimenti contrastanti nei confronti del crème caramel. Cioè, più che altro lei ride e mi dice che non aveva mai pensato a nessuna di queste cose nei termini in cui io gliele ho presentate, ma che ora che le ha sentite è perfettamente d’accordo con me e le piace il mio modo di pensare. Una roba in seguito alla quale io sento di avere ogni diritto possibile di immaginare una lunga vita priva di maionese, piena di piccioni e moderatamente dotata di crème caramel al suo fianco, se non che mentre io sono perso in queste mie legittime fantasie noto che lei è nervosa e un po’ triste e continua a guardare l’orologio come una che ha una cosa tremenda da fare e allo stesso tempo vuole farla il prima possibile e non vuole farla mai.
Al che le chiedo se c’è qualche problema, ed è lì che lei mi fa questo sorriso minuscolo e triste così bello che io ovviamente mi innamoro di lei il triplo, e mi spiega che è da qualche settimana che cerca di trovare il coraggio per lasciare Savas. “Oddio,” le faccio io, “Lo sapevo che sarebbe successo. È colpa mia!”, e lei scoppia a ridere e mi fa “Eko, sei un cretino”, e poi mi spiega che no, non è colpa mia. Mi spiega che lei e Savas si sono messi insieme tre anni prima, che lei era solo una ragazzina, quando l’ha conosciuto, e che lui era fighissimo e faceva un sacco di cose appropriatamente fighissime tipo nutrirsi per settimane intere solo di bieta e ravanelli e via così, e che lei s’è innamorata di lui anche perché lui che era così adulto non la trattava come una ragazzina e tutto il resto, una roba che io potevo capire perfettamente perché, insomma, per me era stato uguale. Per cui le dico che la capisco e lei mi fa “ah, ti sei innamorato di lui anche tu?”, e io lancio uno strillo e sollevo entrambe le braccia e dico “no!”, e lei ride e mi dice “ti stavo prendendo in giro”, e io mi innamoro di nuovo e capisco che la mia vita da quel momento in poi sarà un continuo innamorarmi di lei di nuovo e di nuovo, così, senza soluzione di continuità.
Mentre io realizzo questa cosa che un po’ mi spaventa ma che in generale mi piace e basta, lei continua e mi dice che sì, insomma, è rimasta innamorata di lui per un sacco di tempo, ma che ha l’impressione di essere cresciuta, adesso, e non si sente più così attaccata a lui. Gli vuole bene, gli è affezionata, l’idea di spezzargli il cuore la devasta, però insomma, lui sta cominciando a parlare di convivenza e lei ha bisogno di chiudere questa storia prima che diventi troppo grande e ingestibile.
E io la bacio.
Tipo che non me ne frega niente! Okay! Che ancora non l’abbia lasciato, che magari possa cambiare idea e decidere di restare con lui, trasferirsi in casa sua, sposarlo e fare con lui un milione di bambini! Che mi abbia detto che comunque non è certo a causa mia che vuole lasciarlo! Non me ne frega niente. La bacio e basta. E mi batte il cuore tantissimo perché lei mi piace così tanto che il terrore di venire respinto è quasi paralizzante. Ma non a sufficienza, evidentemente, perché alla fine la bacio comunque.
E ovviamente è quello il momento in cui Kool Savas rientra, e ci trova in quel modo lì che ci baciamo impunemente all’interno di un locale per il quale lui e lui solo paga l’affitto.
Insomma, non proprio la cosa migliore che poteva accadere, specie perché Valezka voleva lasciarlo per tutta una serie di motivi validissimi e onesti, e lui invece ci ha beccati a fare l’unica cosa che quei motivi li invalida tutti. A quel punto non conta più che lei volesse lasciarlo già da prima che ci conoscessimo, che sia semplicemente cresciuta e le sia passata la cotta adolescenziale e non si senta pronta a vivere tutto il resto della propria vita al fianco di un uomo di cui non è sicura di essere innamorata, no; l’unico motivo per cui lei vuole lasciarlo, dal punto di vista di Savas, è che io l’ho limonata in casa sua. Una roba falsa e pure un po’ triste, in definitiva, ecco, specie perché invalida tutta la questione del volergli ancora bene ed essere triste all’idea di spezzargli il cuore, una cosa che puoi dire quando lasci il tuo uomo perché ti è passata la cotta, ma che non puoi assolutamente dire quando lo lasci dopo che lui ti ha beccato a limonarti un suo sottoposto sul luogo di lavoro.
Insomma, Savas non la prende bene, ovviamente. Sfido io. Si lancia in tutta questa filippica un po’ imbarazzante, e come avete potuto, e in casa mia, e la mia donna, e io ti ho accolto come un fratello, e io ti ho dato l’opportunità della vita, e come ho potuto essere così cieco, e certo Eko che sei proprio uno stronzo e via così. Ci butta fuori entrambi, intimandoci di non farci più vedere o ci sguinzaglia contro i cani. E, dice, non in senso figurato. Al che io lo prendo in parola, perché non c’ho mezza voglia, proprio, di finire sbranato dai dobermann. Proprio ora, poi, che ho Valezka.
Lei è fantastica, ovviamente. Io mi scuso e lei mi sorride e mi abbraccia. “Non è colpa tua,” mi fa, e io sono già lì che penso che ora mi dirà addio e non vorrà più vedermi, e invece lei resta. Tipo che io mi ero trasferito in un appartamento che Savas mi aveva fatto affittare, si era anche preso cura lui della caparra e tutto il resto, e ovviamente non posso più restare lì, e lei mi fa “vieni a stare da me”. Che lei non è che stia in una reggia, poi, ma a me sembra che lo sia perché è un appartamento così carino e così pulito e così profumato, e tutte le stanze hanno una parete dipinta, ogni stanza di un colore diverso, e i mobili sono in tinta. Che poi sono i mobili dell’IKEA, ma non si nota perché sono così carini e il tutto è assemblato con tanto gusto che io boh.
E quindi niente, io per un po’ cerco qualche altro lavoro, non funziona niente, provo a chiedere al vecchio signor Wagner di riprendermi con sé che così almeno cerco di provvedere per la spesa come un brav’uomo dovrebbe fare per la sua donna, ma lui con quel suo unico dente residuo in bocca mi dice “aria, ragazzo!”, che ha già preso un altro tipo più giovane e scemo di me e può pagarlo la metà per fare il doppio delle cose.
Nel mentre, Savas non può sguinzagliarci contro i cani perché io e Valezka ci teniamo ben lontani dalla sua proprietà, ma nel mentre, per pura soddisfazione, mette in moto la macchina delle diss, e in un paio di settimane tutte le radio underground che passano rap locale risuonano del nome mio e di quello della mia ragazza affiancati ad epiteti non proprio piacevoli tipo troia, vacca, stronzo e derivati. Una roba di una tristezza immensa che va avanti per settimane, ma che dico settimane, mesi!, ma che dico mesi, no, mesi, giusto, non va avanti per più di qualche mese.
Perché? Perché a un certo punto arriva Bushido.
Bushido arriva che io ho da poco trovato lavoro in un bar e preparo caffè per gente triste con lavori seri dalle sei del mattino alle sei di sera. È un lavoro abbastanza schifoso che mi costringe a stare in piedi a fare sempre le stesse cose per dodici ore filate, che dopo mesi che tu sei stato un cantante è una roba un po’ schifa, ma anche che dopo anni passati a vendere scarpe da tennis per un matusalemme con un solo dente e la gengiva più bavosa del west è una cosa un po’ schifa, il che dovrebbe funzionare bene come termine di paragone, perché quanto credete che potesse essere bello lavorare per il vecchio Wagner? Ecco, lavorare al Falce di Luna era pure peggio. Volete sapere perché si chiamava così? Ecco, perché Youssuf, il proprietario, si vantava che il bar apriva quando ancora la luna non era tramontata, e chiudeva che già era sorta di nuovo da un pezzo. No, dico, vi pare un buon motivo per vantarsi? Io dico che se vi vantate per una roba simile siete degli schiavisti impenitenti che sfruttano i lavoratori bisognosi pagandoli dieci centesimi all’ora senza neanche permettere loro di portarsi a casa le mance, ecco.
Comunque, la cosa principale del Falce di Luna, oltra al fatto che è il posto peggio del mondo in cui lavorare, è che è un bar di Tempelhof. E voi a chi pensate se io dico Tempelhof? Eh, infatti.
Bushido mi si para davanti un giorno che sono le sette del mattino e io ho sonno. La cosa che ci accomuna, quella sulla quale troviamo subito terreno di comunicazione, è che ha sonno anche lui. Entra, mi fa “non ho dormito tutta la notte”, e io, che sono una persona sincera, dico “io sì, ma ho sonno uguale”. Al che lui mi guarda, si abbassa gli occhiali da sole palesemente troppo costosi sul naso e sorride divertito. Mi fa “e tu chi sei?”, e io potrei anche rispondergli dandogli tutti i miei dati anagrafici e una breve cronistoria della mia esistenza, ma mi dico, a che pro? E gli dico “sono Eko, il barista. Caffè?”, e lui fa “certo, Eko il Barista, caffè”.
Poco dopo entra Youssuf, che nel mentre era impegnato a scaricare il camioncino con le ciambelle. Entra con la sua bella confezione di ciambelle e vede che io ne voglio palesemente una, ma mica me la dà, lo stronzo. No! Si mette lì a sistemarle nella vetrinetta accanto al bancone, con compiacimento, proprio, che, se potesse, si metterebbe a cantare “ed Eko niente ciambelle, ed Eko niente ciambelle!”.
Ovviamente, Bushido e i suoi occhiali da sole palesemente troppo costosi se ne accorgono. E fanno, “Youssuf, Atze, fammi un favore, allungami una di quelle ciambelle, una di quelle con la crema, grazie”, che io non so neanche come facesse a sapere che volevo proprio quella lì, ma lo sapeva. Io non lo sapevo ancora, cazzo, ma lui sì.
E Youssuf, uno stronzo che io non gli ho mai visto neanche offrire una caramella a un moccioso, prende e gli dà la ciambella. “Certo, Atze,” gli fa. E io lì capisco che ho davanti un tipo importante. O pericoloso. O anche entrambi, perché porre limiti alla Provvidenza?
Comunque, lui aspetta che Youssuf sia sparito di nuovo, e poi, tranquillo come se non stesse succedendo niente, come se non stesse violando delle leggi, tipo, nel farlo, mi offre la ciambella. Lui la ciambella non l’ha nemmeno pagata, eh, gli è stata offerta a sua volta. E lui la offre a me. “Tieni,” mi fa, “Sembri avere fame.”
Dico, c’ho la faccia del bambino africano con la pancia rotonda e la mosca sull’angolo dell’occhio? Ce l’ho? Non mi pare. Ma la ciambella ha un aspetto appetitoso e io ho effettivamente fame, quindi mi faccio passare il rigurgito di orgoglio e la mangio, non prima però di aver fatto all’uomo un cenno di ringraziamento, non si dica che mia madre mi ha cresciuto ineducato.
Poi, mentre sorseggia il suo caffè, mi fa “io comunque ti conosco”, e a quel punto, mentre pulisco il bancone e servo gli altri clienti che man mano entrano ed escono dal bar, ci mettiamo a chiacchierare del più e del meno, chi sono, chi non sono, che ho fatto, che non ho fatto, dove mi ha già visto?, boh, forse da qualche parte mentre ero in concerto, o forse ha visto qualche video che hanno passato in televisione, e quando glielo dico lui s’illumina, spalanca l’occhione color cioccolato e mi indica. “Eko,” fa, “Eko Fresh!”, e io “presente!”, tristezza. Lui scoppia a ridere e mi fa “senti, sono curioso: cos’è successo davvero fra te e Kool Savas?”, e io, placido, “gli ho rubato la ragazza”. Pausa di silenzio. La pausa si prolunga. Io nel mentre gli ho preparato un altro caffè e lui, prima di parlare ancora, lo beve tutto. “Ma che, davvero?”, mi fa, e io annuisco. E mentre sono lì che penso con serietà alla mia vita, alle mie scelte e al fatto che servo caffè al banco di un bar nel quartiere peggiore di Berlino perché non sono stato in grado di tenere l’uccello nelle mutande, metaforicamente parlando, Bushido sorride. Sul momento è un sorriso che non riconosco, anche perché non lo conosco, come fai a riconoscere una cosa che non conosci? Passaggi logici che si perdono ovunque. Comunque, sul momento non lo riconosco, ma col passare degli anni imparerò a capire cosa vuol dire. Vuol dire soldi, e sembra che io sia appena diventato una gallina dalle uova d’oro.
“Eko il Barista,” mi fa lui, tirando fuori dal portafogli una banconota da cento euro e posandomela lì sul bancone, “Io ho un sogno.”
“Minchia,” penso io, occhieggiando la banconota, “Forse lo sto avendo pure io.”
Insomma, com’è, come non è, due giorni dopo torno a casa da Valezka con un contratto ed un sacco di soldi per produrre un album di coppia, io e lei insieme. È il periodo più bello della mia vita. Io e Valezka non facciamo altro che cantare insieme, limonare ovunque ed improvvisare pic nic sul tappeto peloso rosa del suo salotto. Nel mentre, io comincio a partecipare alle spese di gestione dell’appartamento, e quindi casa di Valezka piano piano diventa casa nostra, ed è una cosa bellissima. All’improvviso non importa più a nessuno dei due che fuori da quelle quattro stanze ci sia un mondo tremendo in cui sia io che lei abbiamo tradito la fiducia di un caro amico, ed ora che quel caro amico, ferito, ci odia, noi ci facciamo sovvenzionare da uno che sta facendo la propria fortuna sulle diss che riesce a produrre su qualsiasi altro rapper di una certa rilevanza della scena tedesca. A Bushido non importa che l’obbiettivo sia Sido, piuttosto che Fler, piuttosto che Kool Savas, gli interessa semplicemente averne uno, perché ogni volta che abbatte qualcuno sale di un gradino sul fianco della piramide sociale, e a lui interessa la cima. Poi, se glielo chiedi, lui ti dice che è un romantico, eh. Ti dice che lo sta facendo per proteggere il tuo amore e quello della tua donna, che la vostra storia l’ha commosso, che l’amore vince sempre e lui modestamente è il cavaliere dei puri di cuore e tutto il resto, ma la verità la sappiamo noi e la sa anche lui, quindi non importa.
Poi succede quello che succede sempre quando le cose vanno così bene che tu quasi non riesci a crederci: tutto finisce. E no, non succede d’improvviso. Non è che da un giorno all’altro cose che fino al giorno prima avevano sempre funzionato benissimo improvvisamente smettono di funzionare lasciandoti a piedi come l’auto nuova comprata due mesi fa e dalla quale non ti saresti mai aspettato un tradimento simile.
Le cose richiedono sempre una buona quantità di tempo prima di accadere. La cosa è che, mentre loro lavorano in background per rovinarsi come l’antivirus mentre navighi su YouPorn lavora in background per bloccare i peggio pop up e i peggio malware, tu non te ne accorgi. Non le noti nemmeno, le piccole cose che capitano. Loro capitano e tu niente, completamente ignaro. Chiaro che, quando poi ti esplodono in faccia come i palloncini quando li gonfi troppo, ti prendono di sorpresa. Ma non è che siano davvero sorprese, lo sono solo per te.
E infatti, quando Valezka dopo un paio d’anni di convivenza è venuta da me e mi ha detto “e allora?” è stata una sorpresa solo per me, che avevo vissuto quei due anni in uno stato di beatitudine perfetta inseguendo il sogno del cantante innamorato sotto protezione dell’eroe romantico del nuovo secolo; non è stato per niente sorprendente per lei, invece, che quei due anni li aveva vissuti aspettandosi qualcosa che non arrivava mai e che probabilmente avrebbe continuato a non arrivare mai se lei avesse continuato ad attenderla silenziosamente.
A quei tempi, tutta la questione mi sembrò surreale. Avevo ventidue anni, ma mi sentivo ancora un ragazzino, e sentirmi dire cose tipo “dobbiamo pensare al nostro futuro”, “ci servirà una casa più grande”, “mi piacerebbe avere un giardino” e “se fosse femmina potremmo chiamarla Cynthia” mi terrorizzò profondamente. Non ci avevo mai pensato, non avevo la minima intenzione di pensarci e mi sembrava assurdo che Valezka lo stesse facendo, per cui ogni volta che lei tirava fuori uno di questi argomenti con quella sua aria sognante e piena di speranza per il futuro la mia reazione era l’unica possibile: tacere.
E infatti sono stati i miei silenzi ad uccidere la nostra relazione. Un giorno lei è venuta da me – e posso solo immaginare quanto le sia costato raccogliere il coraggio e confrontarsi apertamente con me per una cosa che, avessi io avuto un cervello normale, non avrebbe avuto bisogno di nessun confronto – e mi ha chiesto “e allora?”, ed io non ho neanche potuto fare il finto tonto, perché sapevo esattamente a cosa si stava riferendo. E perciò le ho detto l’unica cosa che potevo dirle in una situazione come quella, che poi era la verità. “Non sono pronto, Vale,” le ho detto. E lei, donna con due palle così, che quando a me mi dicono che la donna era meglio nel Medioevo io m’incazzo perché come Valezka non ce n’erano mica, nel Medioevo, l’ha accettato. Non c’è stato odio o risentimento, nel nostro addio, niente stronzate del tipo “ho sprecato i migliori anni della mia vita per starti dietro”. Nessuno aveva sprecato niente, e lo sapevamo. Eravamo stati felici. Non c’era nessun motivo di rovinare il ricordo di ciò che era stato solo perché, da quel momento in poi, non poteva più esistere.
Quella sera, dopo aver preparato una borsa con un po’ di biancheria pulita e lo spazzolino da denti, sono uscito da casa di Valezka per non rimetterci più piede, e sono andato da Bushido. Lui mi ha accolto in casa sua, che ai tempi non era ancora la Villa Gialla, ma ci stavamo arrivando, e mi ha ascoltato pazientemente di fronte ad un’insalatiera piena fino all’orlo di kebab preso dal suo kebabbaro di fiducia. Dopodiché mi ha guardato con quegli occhi che fa sempre quando ti vuole bene ma pensa che tu sia stupido, e mi ha detto “Eko! Dopo tutta la fatica che abbiamo fatto per farvi diventare i nuovi Romeo e Giulietta del giovane rap tedesco,” e poi ci siamo messi a ridere. Al che mi ha chiesto come stavo, ed io ho risposto sinceramente che, tutto considerato, stavo piuttosto bene. Lui ha annuito, mi ha ospitato per la notte e il giorno dopo mi ha trovato un appartamento, che poi è quello in cui vivo ancora oggi, ed un contratto per entrare a far parte dell’Ersguterjunge.
Non è che io sia triste per come le cose sono andate, alla fine. Ho una visione della realtà semplicistica abbastanza da pensare che le cose vanno in un modo perché devono andare in quel modo lì, poi sta a te prenderne il meglio e non lasciarti sommergere dal peggio. Secondo me, se a fine giornata puoi andare a letto pensando “bene! Oggi non mi sono lasciato sommergere dal peggio”, hai già vinto. Ed io, modestamente, non mi sono lasciato sommergere mai. Anche perché sarebbe un problema, non so nuotare.
Ogni tanto, però, tipo adesso, o meglio adesso specialmente, visto che ce l’ho di fronte che canta l’ultimo successo di Alicia Keys, ripenso a Valezka e alla sua casa con le pareti colorate e al suo tappeto di pelo rosa sul quale facevamo lunghi pic nic indoor parlando della danza d’accoppiamento delle api o del ritrovamento di uno scheletro alieno in fondo all’Oceano Pacifico, e mi viene da pensa che sì, forse le cose sono andate esattamente come dovevano andare. Ma forse, se mi ci metto d’impegno, potrebbero tornare com’erano.
*
Mi si avvicina con quel sorriso che io non so come affrontare, seriamente. A parte che sono ridicolo perché la sto fissando come se fosse impossibile per lei trovarsi qui, mentre in realtà lo sapevo pure che s’era trasferita negli Stati Uniti un paio d’anni fa. È che mi fa un’impressione pazzesca trovarmela di fronte dopo tutto questo tempo.
Lei, ovviamente, è ancora bellissima, perché le persone che hai amato e che poi hai perso senza mai davvero smettere di amarle non diventano mai brutte. Anzi, semmai su di loro – ma solo su di loro – il tempo e la distanza hanno più effetto di una ricostruzione facciale completa, tipo, mentre tu hai sempre l’impressione che su di te il tempo sia passato senza pietà, rendendoti più vecchio e più brutto e con gli occhi un po’ più a palla e le guance un po’ più cascanti e la pancia un po’ più tonda e sporgente. E quindi io sono qui che la fisso chiedendomi se sia un fantasma o un’apparizione anche se so che non lo è, e tutto quello che riesco a pensare è “oddio, lei è bellissima e invece io sono diventato un roito!”, e mi prendo malissimo per questa cosa anche se coscientemente so che non è che posso essere diventato così tanto più brutto rispetto a quello che ero qualche anno fa, e poi lei finalmente arriva, si siede sulla poltroncina qui accanto a me, mi abbraccia stretto e mi chiama per nome. Così, con la voce della dolcezza. Ed io mi sciolgo perché questi anni che sono passati in mezzo a noi vengono spazzati via solo da quel nome, dal modo in cui lo pronuncia. Apro gli occhi e la guardo e siamo in quella casa, su quel tappeto peloso rosa. Anche se poi non è vero. Io mi sento come se fossi ancora lì.
E perciò potremmo parlare di un sacco di cose, tipo che lei potrebbe chiedermi come va, se sto con qualcuno, se ho in preparazione un nuovo album o anche qualche informazione sulle palesi pazzie che avvengono nella vita di noi tutti da quando Bushido è tornato dalla morte trasformandoci nell’avamposto tedesco dell’Arcigay, oppure io potrei chiederle cosa sta facendo per ora a parte le cover di Alicia Keys nei locali di Las Vegas, o potrei mettermi in ginocchio ed implorarla di uscire a cena con me anche se mi sa che a stento è mezzogiorno, ma niente di tutto questo accade. Io la guardo e le dico “sai cosa? Mi servirebbe qualcuno per cantare ad un matrimonio, stasera”. E lei mi fissa e la sua faccia dice tipo “cosa?”, e io annuisco. “Si sposano Chakuza e Fler,” dico, “Di nuovo. Ora, non sono sicuro che la principessa abbia previsto la presenza di una cantante, ma sono sicuro che le farà piacere. Vieni con me?”
E sono sicuro al cento percento che, di quello che dico, Valezka non capisca un accidente. Si starà chiedendo chi diamine sono Chakuza e Fler, perché sentano il bisogno di sposarsi un’altra volta, e soprattutto chi sia la principessa, ma non fa nessuna di queste domande, ed io non le do nessuna di queste risposte. Si mette a ridere, però, ed annuisce. Poi si alza e viene con me. È un buon inizio.
*
Quella sera, Valezka indossa un vestito pieno di volant e trine della stessa tonalità di fucsia degli orli e delle pochette che spuntano dai completi neri di Bill, di suo fratello e di Kay One, forzati a fare le damigelle d’onore in mancanza di donne più adatte allo scopo. Bushido, avvolto in un elegante completo grigio scuro, siede in prima fila, imbronciato come se gli fossero morti tutti i cani tutti insieme, una roba vergognosa. Io, infilato in un completo di lino beige, gli batto un paio di pacche sulla spalla.
- Coraggio, Atze, - gli dico, - È un po’ come dar via una figlia, no? – provo a consolarlo, mentre di fronte all’altare Fler e Chakuza si scambiano pigramente i loro anelli dalle forme improponibili per una seconda volta che non dev’essere per niente meno surreale della prima, sul sottofondo musicale di Bill che si perde in singhiozzi e di Valezka che canta No One.
- Ecco, appunto, Eko. – dice lui, ringhiando, - Ti pare che, se avessi una figlia, la darei in sposa ad uno come Chakuza?
E qui non aggiungo niente perché in effetti mi rendo conto che sarebbe crudele. Povero Bushido. Praticamente, se aveva un erede, nel mondo, quell’erede era Fler. Ora è come avere indirettamente regalato tutto il proprio impero a Chakuza. Il nano austriaco. Due volte! Avremo bisogno di molto champagne, più tardi.
La cerimonia finisce che il mal di testa di Fler è, se possibile, ancora peggiorato. Bill chiede a Chakuza di restare per un brindisi, ed è evidente che Chakuza vorrebbe dire sì perché è l’unica reazione che il suo corpo concepisce di fronte a Bill, un sì proprio generalizzato che si espande in tutte le direzioni e su tutti i piani di accettazione dell’uomo, ma prima di dare aria alla bocca si volta a guardare Fler, vede in che condizioni è e, miracolosamente, risponde di no.
- Devo riportarlo in camera o sviene. – aggiunge con una mezza risata. Fler gli tira un cazzotto contro una spalla che non dev’essere stato nemmeno tanto tenero, e lui non si lamenta neanche. Mi volto verso Bushido con l’intenzione di dirgli “guarda! Almeno lo tratta bene, con rispetto”, ma lui mi zittisce prima ancora che io possa provarci. Eh, se vuoi essere geloso della tua progenie, allora. Siilo. Cosa vuoi da me.
Lo lascio andare, che tanto prima di poter pensare razionalmente a questa cosa che Fler s’è sposato con l’uomo che gli ha rubato Bill gli serviranno degli anni, e mi volto verso Valezka.
- È sempre così, da voi? – mi domanda ridendo mentre si sfila dai capelli i fermagli fucsia intonati col vestito.
- In realtà ci hai preso in una giornata quasi normale. – rispondo io. La cosa divertente è che non è nemmeno una battuta, sono serissimo.
È ancora più divertente, però, quando lei mi chiede se ho qualcosa da fare e se non mi piacerebbe andare a cena insieme da qualche parte. Sul momento vado nel panico perché, oddio, cosa le rispondo? Cosa sta succedendo? Farò bene ad accettare? Dovrei ritrasformarmi in Tarzan e colpirla sulla nuca con una mazza per poi trascinarla in camera mia fra le mie liane e le mie pozze acquitrinose?, però alla fine mi calmo, le sorrido, annuisco, la prendo per mano e camminiamo tranquilli verso l’uscita.
Quando domani partiremo per abbandonare il Nuovo Mondo e tornare nel Vecchio, lei sarà seduta al mio fianco, sull’aereo. Ma in quel momento lì io ancora non lo so. Mi godo la serata, il casino per le strade, la voce dolce e melodiosa di Valezka mentre chiacchieriamo del più e del meno di fronte a una buona bistecca ed abbondanti dosi di vino rosso, e penso che l’inizio non è buono, è proprio ottimo. E dalle premesse sembra che possa solo migliorare.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Fler/OMC, Fler/Chakuza.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- "Io sono contrario all'utilizzo del mio nome completo. Quando hai un soprannome col quale tutti ti chiamano sempre, finisci sempre a conferire una certa sacralità ai momenti in cui il tuo nome viene detto per intero. Pertanto, è importante che questi momenti siano pochi, e soprattutto che poi siano davvero importanti per davvero, sennò che senso ha?"
Note: A meno tempo del pronosticabile dall'ultima shot postata, il GD torna a parlarvi di cose che avvengono o che comunque sono avvenute nel recente passato XD Sapevamo che Fler era andato a mollare Danny, prima di rimettersi con Chakuza; lo sapevamo perché appunto ce l'aveva detto Chakuza e Danny poi ce l'aveva confermato, ma cosa è successo veramente quel pomeriggio? Danny ce lo racconta, prendendo spunto da una telefonata che gli arriva dall'America un pomeriggio, e durante la quale Fler e il Chaku cercano di spiegargli gli avvenimenti che li hanno coinvolti in Paura e Delirio a Las Vegas. Enjoy!
(La fic partecipa anche alla seconda settimana del COW-T3, su prompt freddo.)
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REGEN

Quando arriva la telefonata, io sto facendo i compiti. Fare i compiti ha smesso di essere una cosa completamente surreale solo da qualche mese, per cui mi sto ancora abituando. E' un po' un casino, quando succedono cose come quella che è successa a me - nel senso che è un po' un casino quando hai una vita di merda, con tutti gli innumerevoli svantaggi della vita di merda, sì, ma anche con quei pochi, sporadici vantaggi tipo il fatto che, se tuo padre ti picchia ogni volta che gli passi sotto gli occhi e se, per tutto il resto del tempo, spacci per le strade del ghetto per tirare su i soldi per campare, di certo fare i compiti non rientra nelle tue priorità, ma in realtà neanche all'ultimo posto di un'ipotetica lista di cose da fare nell'arco della giornata. E' una cosa alla quale neanche pensi, visto che comunque il massimo della prospettiva di vita che hai è aspettare il limite d'età per mollare e dedicarti a tempo pieno alla tua attività principale, che poi probabilmente ti porterà a crepare in un vicolo con un coltello piantato nello stomaco prima di compiere vent'anni.
Quello che intendo dire è sostanzialmente che io, prima di essere rapito ed adottato da questi due pazzi - formalmente, la custodia ce l'ha Fler da solo, ma Chakuza non ha bisogno di firmare su nessun documento per imporsi nella vita degli altri, a lui basta esistere, e già devi ringraziare che, esistendo, non ti scartavetri i coglioni ventiquattro ore al giorno e sette giorni su sette -, i compiti non li facevo. Andavo anche sporadicamente a scuola, il che, suppongo, giustifica il fatto che in effetti sono una capra ignorante, cosa che mi porta, adesso, a fare un sacco di fatica per recuperare.
Nei telefilm, quando succedono cose tipo quella che è successa a me - non nel senso che qualcuno arriva, ammazza il genitore abusivo e adotta il figlio rimasto in vita per donargli una vita migliore; nel senso che qualcuno arriva e sistema la situazione dell'adolescente arrabbiato col mondo, risolvendo i suoi problemi e facendone un ragazzino migliore -, il ragazzino in questione automaticamente comincia a prendere ottimi voti ovunque. Ci avete mai fatto caso? Come se anni e anni passati nell'ignoranza più assoluta potessero essere spazzati via da due settimane di studio.
La realtà non si avvicina neanche lontanamente a questa versione dei fatti, è ovvio. Quando per anni e anni tu non hai studiato, non è che basti stare chino due settimane sui libri per diventare un genio.
Intanto, è già difficile prendere il ritmo. Intendo metterti lì seduto alla tua scrivania - se ne possiedi una; sulla penisola della cucina, nel mio caso -, tirare fuori i libri e cominciare a concentrarti. I primi tempi io non ne avevo mezza, sinceramente. Tutto quello che volevo era godermi la mia nuova libertà in cui potevo svegliarmi ogni mattina senza lividi e costole incrinate e potevo mangiare del cibo per comprare il quale non avevo dovuto spacciare per i tre giorni precedenti. Guardate che non sono mica cambiamenti da niente, eh. Sono robe che ti rivoluzionano l'esistenza. Io per dire volevo tutto meno che mettermi a studiare; volevo uscire, volevo andare al lago, volevo viaggiare - viaggiare, stupido Chakuza. Non restare a Berlino per non aggiungere assenze alle precedenti mentre lui e Fler se ne andavano tranquilli in America col resto della famiglia di beduini di Bushido -, volevo chiudermi in sala d'incisione e fare buon uso dei soldi di Fler per autoprodurmi e diventare il nuovo fenomeno del rap giovanile tedesco. Ecco, volevo fare un sacco di cose, ma di sicuro fra queste mille cose che volevo fare non era compresa l'idea di mettermi lì seduto a leggere riassunti di storia contemporanea e risolvere equazioni trigonometriche di secondo grado. Anche perché la prima mi annoia e le seconde semplicemente non le capisco.
Fossimo stati solo io e Fler, il problema neanche si sarebbe posto. Da uomini adulti, ci saremmo seduti attorno ad un tavolo ed io, molto sinceramente, gli avrei detto "senti, Fler, io ne ho piene le palle", e saremmo arrivati ad un accordo. D'altronde lui la scuola neanche l'ha finita, ed è venuto su benissimo. Non è che il diploma ti serva a tutti i costi per essere qualcuno nella vita.
Ecco, Fler l'avrebbe capito. Chakuza, naturalmente, no. Perché lui non viene dal ghetto, lui viene dalle montagne sulle quali, circondato da mucche e capre e dal verde della natura, oltre a venire su testone e insopportabile ha anche studiato fino al regolare conseguimento del diploma, per darsi al rap solo dopo essersi fatto una cultura. Da cuoco.
Insomma, come si può pretendere di ragionare con uno così? Non si può. E Fler, per qualche motivo che stento ancora a comprendere e che ho dovuto semplicemente accettare, perché così fai con le cose che sono in un determinato modo anche se tu non le capisci, tipo le equazioni trigonometriche di secondo grado, appunto, Fler, dicevo, gli è completamente asservito, per cui quando io mi sono seduto al tavolo con entrambi e, parlando con sincerità, ho detto loro che della scuola non ne potevo più, non me ne fregava niente e volevo mollarla, Chakuza ha fatto come un pazzo. "Ma stai scherzando?!" ha strillato, la pelata che riluceva della luce del lampadario sotto il quale si era strategicamente posto, abbagliandomi, "Ma dove pensi di andare senza un diploma?!"
Al che io ho capito subito che, con uno che ti si presenta con un argomento simile, non si poteva ragionare, e mi sono voltato verso Fler, sperando in un minimo di solidarietà sociale, per lo meno. Ma lui niente: mi ha guardato, lanciandomi un'occhiata come per dire "eh, che ci vuoi fare", mi ha buttato lì un mezzo sorriso e poi mi ha detto "hai sentito il Chaku. Vai a studiare".
No, dico. Che se mi serviva un'altra prova che si fosse trasformato nella madre che per troppi anni non ho avuto, eccola lì.
Insomma, siccome Chakuza è un uomo insopportabile che vive secondo schemi mentali del Millesettecento, io non ho potuto mollare la scuola, e in qualche modo ho dovuto farmela piacere, ma non è stato mica facile. Faccio ancora un sacco di fatica a non distrarmi anche solo gettando un'occhiata fuori dalla finestra, mentre studio, ed i miei voti raggiungono ancora a stento la sufficienza. Durante l'ultimo incontro genitori-insegnanti, di fronte al quale peraltro s'è presentato Fler, il prof di lettere l'ha guardato e gli ha detto "vorrei poterle dire che il ragazzo ha potenziale ma non s'impegna, ma..." e gli ha mostrato i miei voti e tutta la mia striscia positiva di sufficienze scarse.
Questo è il massimo che posso fare per ora, e lo accetto. Non ho mai preteso di essere più intelligente del minimo che mi servisse per sopravvivere al ghetto. Il mio cervello mi ha tirato fuori di lì, e pertanto ha svolto il suo compito più che egregiamente. Bravo, cervello. Non ti meriti di essere torturato e forzatamente costretto ad imparare le cinque declinazioni.
E' per questo che, ogni volta che mi metto a studiare, la prima cosa che spero è che capiti qualcosa di improvviso che mi distragga. E' un pensiero immediato, appena poso il culo sullo sgabello: capita!, penso, rivolto al guaio ideale che vorrei venisse a risolvere il mio problema, qualsiasi cosa tu sia, capita!
Non capita quasi mai niente, per inciso, ma oggi sì. Oggi mi arriva la telefonata.
Sono le cinque circa del pomeriggio, orario intorno al quale mi seggo sempre a studiare dopo essermi sfondato di cartoni animati per bambini e patatine (ho delle giustificazioni: queste cose non me le sono mai potuto godere, da piccolo; è tempo di recuperare), per cui immagino che lì da loro, negli Stati Uniti, dovunque essi si trovino in questo momento (il programma di Kaulitz era incasinato e confuso e sinceramente, non dovendo prendervi parte, non mi interessava nemmeno abbastanza da memorizzarlo), sia un qualche orario indecente tipo l'alba. Okay, magari no. Ma è sicuramente presto comunque.
- Pronto? - faccio, alzandomi immediatamente in piedi. Primo perché è un gesto che mi porta lontano dai compiti, e poi perché non riesco mai a stare fermo, quando sto al telefono. Devo camminare, andare in giro, toccare cose, guardare fuori dalla finestra.
- Daniel. - mi chiama Chakuza, ed usa il mio nome completo, una roba di un inquietante che non ve lo posso neanche descrivere. Io sono contrario all'utilizzo del mio nome completo. Quando hai un soprannome col quale tutti ti chiamano sempre, finisci sempre a conferire una certa sacralità ai momenti in cui il tuo nome viene detto per intero. Pertanto, è importante che questi momenti siano pochi, e soprattutto che poi siano davvero importanti per davvero, sennò che senso ha?
- Che c'è? - domando, già scazzato per il palese utilizzo scorretto del mio nome - perché non c'è niente di realmente importante che Chakuza possa avere bisogno di dirmi, è evidente - ed anche perché non ho per niente voglia di starlo a sentire sapendo che si trova dall'altro lato dell'oceano con Fler. Davvero, io so che lui non dimentica mai, neanche per un minuto, che per svariati meravigliosi mesi della mia vita io sono stato col suo uomo, e so che non lo dimentica perché è geloso e ossessivo come un orango, ma ogni tanto si comporta come se la nozione gli sfuggisse completamente, come se per me non fosse ancora fastidioso, nonostante tutto, sapere che lui, il suo metro e quaranta scarso, le sue gambette tozze e la sua stupida pelata hanno vinto contro il mio metro e novanta, le mie gambe chilometriche e la mia fluente chioma bionda. Come può questa cosa essere giusta, o anche solo reale? In che mondo?!
- Dunque... - comincia lui, e io so che sta già partendo da troppo lontano. Cioè, dai, hai una roba da dirmi? Dimmela. Non mi tenere qua al telefono per sempre, su una chiamata intercontinentale, poi. La sua testa è vuota fuori e dentro. - Senti, è successo qualcosa di importante. - blatera, - Niente di preoccupante, eh! Anzi, direi che è una bella notizia. Credo. - sembra rifletterci su seriamente, - Okay, forse non lo è completamente. Ma potrebbe esserlo, se tu ti preparassi a riceverla nella disposizione d'animo adatta. In che disposizione d'animo sei?
Guardo fuori dalla finestra, appoggiandomi al vetro. Lui mi ha chiamato usando il mio nome per intero, mi sta facendo perdere tempo nell'unico modo che mi fa rimpiangere i compiti, so da come ha introdotto la questione che non può che trattarsi di un'ottima notizia per lui ma una pessima notizia per me - e che quindi non può non riguardare Fler e la sua surreale relazione con lui -, quando avrò finito con questa pietosa telefonata ci saranno comunque le equazioni trigonometriche di secondo grado ad attendermi sulla penisola e, di fuori, sta cominciando a piovere.
- Pessima. - rispondo, scandendo bene le lettere di modo che la mia voce possa oltrepassare le barriere della sua usuale sordità stupidità-indotta e giungere inalterata a quel che resta delle sinapsi del suo cervello ridotto quasi in brandelli da anni e anni e anni di continuativa iperattività sessuale priva di logica e palesemente soddisfatta dal mondo non perché lui sia bello ma perché emette feromoni ai quali io sono immune ma un sacco di altre persone no.
- Oh. - dice lui, apparentemente deluso dalla mia rivelazione. - Oh. Okay. Ehm...
E' lì che sento la voce di Fler provenire come da un mondo lontano. "Chakuza. Che stai facendo. No," dice. Sento un sacco di casino e capisco che stanno lottando per la conquista del telefono. Non so ancora cosa volesse dirmi Chakuza, ma almeno ho capito che è qualcosa che Fler voleva dirmi per primo.
Il che mi dà la certezza definitiva che non possa trattarsi di niente di buono per me.
- Danny. - mi chiama, la voce rauca, pesante di sonno, un po' strascicata, come se stesse male, ma nonostante tutto dolce, come ogni volta che si rivolge a me, anche nelle situazioni peggiori. - Ehi.
Sospiro pesantemente, appoggiandomi al davanzale della finestra, la fronte contro il vetro freddo, gli occhi chiusi.
- Spara. - dico.
Lui non se lo fa ripetere due volte.
- Ieri io e Chakuza ci siamo sposati.
Nonostante il dolore sordo nel petto, non posso fare a meno di sorridere per la stupidità generica della frase.
- Dimmi almeno che hai fatto vestire di bianco lui. - lo prendo in giro, - La sposa più alta dello sposo non si può vedere.
- Sei un cretino. - ride lui, e poi gli sfugge fra le labbra un lamento sofferente, - Dio che mal di testa.
- Post-sbronza? - domando, riaprendo gli occhi e sbirciando di fuori. Comincia a piovere un po' più forte, la strada oltre la finestra si ammanta di un deprimente velo grigio. Appropriato.
- Già. - annuisce lui, con un sorriso stanco che gli sento nella voce e non fatico ad immaginare tendergli appena le labbra sottili, - Ieri è stato un po' un casino.
- Guarda, non avevo dubbi a riguardo. - rido io, scuotendo il capo e sospirando, - Una cosa del genere poteva succedere solo ubriacandovi come tacchini. Dove siete adesso?
- Se te lo dico, non smetterai mai più di prendermi per il culo. - sospira lui, arreso, e io scoppio a ridere.
- Las Vegas! - lo prendo effettivamente in giro io, - Che vergogna. Non ho parole. Oltre ad essere inguardabili, siete anche un cliché vivente. Buuuh.
- Ma stai un po' zitto, sì o no? - ride ancora lui, e poi lo sento sospirare profondamente. - Come stai? - domanda, e so che non mi sta chiedendo come sto in generale, se sono fisicamente a posto, e neanche come sta andando a scuola o nella mia esistenza da quando loro sono partiti, no; so che mi sta chiedendo come sto adesso, dopo aver sentito quello che aveva da dirmi.
Rido un po' tristemente, sospirando a mia volta.
- Non farmi neanche cominciare. - rispondo.
Lui resta in silenzio a lungo, e per la prima volta da quando abbiamo cominciato a parlare mi ritrovo a pensare che avrei preferito averlo qui, di fronte a me, mentre mi diceva questa cosa. Avrei preferito guardarlo in faccia. Adesso almeno saprei come prendere questo silenzio.
- Dai, quando torno ne parliamo meglio. - dice quindi, e la sua voce è di nuovo dolce e calma.
- Quando torni? - chiedo quindi io. Lui ride appena.
- Presto. - risponde, - Promesso.
Mi saluta e mette giù, ed io resto lì col cellulare in mano a guardare fuori dalla finestra per un tempo indefinito. La pioggia è andata aumentando d'intensità, nel corso della telefonata. Il cielo rosso del tramonto si è tinto di una sfumatura giallastra che contribuisce a rendere irreale il paesaggio oltre il vetro, come una vecchia foto virata in seppia.
Tutto sommato direi che avrei potuto prenderla un pelino meglio. Non è che non sapessi che prima o poi una cosa del genere sarebbe successa, cioè, non mi aspettavo il matrimonio a Las Vegas, ma dai, era ovvio che prima o poi quei due avrebbero formalizzato questa relazione assurda che si trascinano dietro ormai da anni. Sarebbe stato ridicolo il contrario. Ciononostante, speravo che sarebbe rimasto uno di quei legami che restano intesi senza diventare legalmente rilevanti, o che ne so. Cioè, insomma, lo so che un matrimonio da ubriachi a Las Vegas non ha alcuna rilevanza legale effettiva, ma lo stesso. Probabilmente mi dava soltanto fastidio l'idea che da qualche parte nel mondo, in qualche modo, Fler potesse dire a Chakuza sì.
Ma, insomma, me l'aspettavo. Prima o poi sarebbe comunque successo, io lo sapevo, ho avuto tutto il tempo di prepararmi all'idea, eppure fa schifo lo stesso, che vi devo dire. E' stupido, ma fa schifo lo stesso.
La pioggia fuori mi ipnotizza, e mentre io continuo a fissarla - e in questo momento delle equazioni trigonometriche non può fregarmi di meno, come dei compiti in generale, della scuola o, per la verità, di qualsiasi altra cosa, ecco -, mi colpisce all'improvviso il pensiero che pioveva anche quando Fler mi ha mollato, quando Chakuza è tornato da lui e lui l'ha magnanimamente riaccettato all'interno della propria vita anche se il nano pelato tutto si sarebbe meritato meno che una simile manifestazione di affetto e benevolenza.
Ero a casa mia, quel giorno. Ero anche abbastanza tranquillo, fra le altre cose, perché era un giorno feriale, uno di quei giorni in cui mio padre neanche si sprecava a tornare a casa. Aveva una routine molto precisa, lui, ci si poteva fidare. Usciva di casa il lunedì mattina e si andava a svaccare nel vecchio bar in fondo alla strada, ufficialmente un ritrovo per pensionati, ufficiosamente un buco di merda che puzzava di sporcizia e sudore e denti marci nel quale tutti gli altri stronzi disperati come lui di tutto il quartiere andavano a sfondarsi di birra dalla mattina alla sera per non doversi per forza guardare in faccia ed odiarsi.
Fino al sabato, non rientrava mai. Dormiva in giro, per strada, con gli altri stronzi ubriaconi come lui, che tanto non è che a casa ci fosse un giaciglio tanto più pulito che lo aspettasse. Poi, il sabato e la domenica il bar chiudeva, e lui era obbligato a rincasare. Lì cominciavano i guai per me, ma di quelli sapete già e io non ho proprio voglia di mettermi a rivangarli adesso che mi gira il culo per altri motivi.
Durante la settimana, però, non avevo problemi, questo va detto. Facevo il cazzo che mi pareva, in fondo, dopotutto. Mi bastava evitarlo per strada, perché quando mi beccava ci teneva proprio a gettarmi le braccia al collo ed alitarmi in faccia mentre, con quella voce piagnucolosa del cazzo, diceva a tutti i suoi compari "guardatelo qui, questo damerino del mio figliolo. Non c'ha la faccia più da stronzetto che abbiate mai visto?", e fingeva di giocare al padre burbero ma affezionato, schiaffeggiandomi leggermente le guance e poi ridendo come un indemoniato quando le vedeva diventare rosse. "Guardate che carina, la mia bambina. Magari un giorno vi ci faccio fare un giro, che tanto a lei piacerebbe, vero?"
Soprassediamo.
Insomma, quel giorno niente del genere stava accadendo, io ero a casa tranquillo per i fatti miei e, non dovendo uscire fino a sera per cercare di guadagnarmi il McDonald's del giorno dopo, mi ero messo in testa di risistemare casa, una roba che ogni tanto mi piaceva mettermi lì a fare, specie quando ero solo. Non tanto per dare un ordine alle cose che mi circondavano, quanto più per, be', semplicemente avere qualcosa da fare, per staccare la testa e non dover necessariamente pensare che ero felice di stare a casa mia solo come un cane, quando la maggior parte dei ragazzi della mia età avrebbero pagato oro per il contrario, solo perché l'alternativa era ancora peggio.
Insomma, stavo lì, e fuori sentivo il temporale infuriare, e già mi prendeva male al pensiero di quanto sarebbe stato freddo quella sera quando sarei dovuto uscire per forza, sperando peraltro che non piovesse ancora, quando sento suonare il campanello.
Nessuno mai suonava il campanello di casa mia. I vicini semplicemente ci ignoravano così come noi ignoravamo loro, e mio padre, naturalmente, aveva le chiavi. Ho sollevato il capo dal secchio pieno di acqua nera dopo la prima passata di straccio e, incuriosito dallo strano avvenimento, sono andato a sbirciare dallo spioncino.
Che lì dietro la porta ci fosse Fler era una cosa talmente assurda che sulle prime mi sono congelato sul posto. Stavamo insieme, se così si può dire, ormai da qualche mese, ma non era mai venuto a casa mia. Ci eravamo sempre incontrati da qualche parte, o ero andato io da lui. Questa era una cosa imprevista, ed io non lavoro bene con le cose impreviste - nel ghetto impari a temerle, le cose impreviste, a scappare più veloce che puoi nella direzione opposta quando una ti si presenta di fronte -, per cui non poteva portare niente di buono. E ancora non sapevo che cosa fosse venuto lì a dirmi.
"Danny?" mi ha chiamato lui, "Sei in casa?"
Scuotendo il capo per risvegliarmi dalla trance in cui vederlo mi aveva gettato, ho aperto la porta, fissandolo con occhi persi mentre stava fermo lì sul pianerottolo, con l'aria di uno che non ha la minima idea di cosa fare di se stesso, che sa di stare per combinare una cazzata epocale e che sostanzialmente resta in attesa di uno tsunami improvviso che cancelli completamente la città dalla faccia della terra per impedirgli di portare a compimento i propri propositi.
"Ma che cazzo ci fai qui?" l'ho apostrofato con grazia, scostandomi dalla soglia per farlo passare, "Sei fortunato che non c'è mio padre."
Lui mi ha lanciato un'occhiata vagamente risentita, come si sentisse offeso dal fatto che io potessi mettere in dubbio le sue capacità di sopravvivenza in una lotta ad armi pari con mio padre. Sfido chiunque ad ingaggiare una lotta ad armi pari con un ubriacone, dico io.
"Stavi pulendo?" mi ha chiesto, per nulla sorpreso dal fatto, come se per lui fosse assolutamente normale entrare e trovarmi lì con una fascia a tenere indietro i capelli e le maniche della maglietta arrotolate fin sotto alla spalla mentre stringevo fra le mani il bastone del mocio.
Ho annuito lentamente, ancora troppo stupito dalla sua presenza lì per articolare un qualsiasi pensiero coerente.
"Be', che c'è?" ho chiesto alla fine, dopo aver passato cinque minuti a fissarlo mentre lui fissava me, entrambi in piedi, ritti come due idioti in mezzo alla stanza col pavimento ancora umido.
Lui ha sospirato, passandosi una mano sugli occhi, poi sulla testa e dietro, fino alla nuca.
"Possiamo parlare?" ha chiesto. Io ho annuito fingendo indifferenza, mentre lo accompagnavo verso il divano e mi sedevo sulla parte sfondata per lasciare a lui la metà integra, ma in realtà ero nervoso. Come avrei potuto non esserlo? C'erano già troppi particolari che stonavano - lui era a casa mia, sembrava nervoso, non sorrideva. Non mi aveva nemmeno baciato.
Per la verità non è che, anche allora, la notizia mi sia arrivata così all'improvviso, senza darmi il tempo di prepararmi. Voglio dire, io e Fler avevamo cominciato a vederci molto meno già da un po', e inoltre sapevo che lui e Chakuza avevano ripreso a frequentarsi. Quella storia poteva finire solo con un omicidio, o con un matrimonio. E' consolante che sia finita con un matrimonio, ma non per me.
Insomma, dopo essersi seduto, Fler mi ha guardato intensamente negli occhi e, come prima cosa, mi ha detto che gli dispiaceva. Credetemi, fosse stato chiunque altro l'avrei preso a pugni sul muso e poi l'avrei scaraventato nel cassonetto dell'immondizia dall'altro lato della strada assieme ai sacchi di bottiglie vuote e confezioni di cibo da asporto unte che avevo raccolto per il soggiorno prima di spazzare e spolverare, ma era Fler, e i suoi occhi dicevano che gli dispiaceva davvero.
Ho sospirato, guardando in basso, alle mani che tenevo intrecciate mollemente in grembo.
"Sta succedendo, vero?" gli ho chiesto. Non è che volessi dargli una mano, in realtà non mi andava proprio di dargli una mano a lasciarmi, è che comunque la giornata - una delle rare giornate decenti della mia esistenza - era già stata rovinata, per cui tanto valeva uscirne in fretta.
"Danny," ha cominciato lui dopo l'ennesimo sospiro, facendo per spostarsi più vicino a me sul divano. Io gli ho piantato le mani sul petto, tenendolo dov'era.
"No, resta lì," ho detto, "Il divano. Da questa parte è sfondato. Se facciamo troppo peso cadiamo col culo per terra," ho aggiunto con un breve sorriso di scuse, per spiegarmi. Mentivo, naturalmente. Cioè, non è che mentissi proprio, era vero che se si fosse seduto anche lui da quella parte saremmo finiti col culo per terra, ma il punto è che se l'avessi voluto vicino non me ne sarebbe fregato un accidenti. Invece preferivo che restasse lì. Stavo morendo per un abbraccio, ma dentro di me sapevo di non volerlo. Non saprei spiegarlo meglio, era come dover combattere contro due dolori devastanti nello stesso momento, quella fitta di dolore acuta e profonda che mi dava il fatto che mi stesse lasciando - per Chakuza, poi - e quel dolore più intimo e sordo che con un abbraccio si sarebbe placato, ma che sarebbe tornato a pulsare con più forza una volta che inevitabilmente il momento fosse passato, perché quando lui fosse uscito da quella porta qualsiasi cosa avessimo costruito nel corso dei mesi precedenti sarebbe morta, rasa al suolo da due parole, dalle mani di un austriaco di merda che non sono in grado di fare altro che combinare danni e provocare devastazione nelle vite altrui, e forse fra me e Fler avrebbe potuto continuare ad esistere qualcosa, una sorta di qualche rapporto, ma non sarebbe più stato lo stesso, non sarebbe più stato perfetto, e quella cosa perfetta che c'era prima io l'avrei persa per sempre, perché non ero stato abbastanza furbo da assaporarla sapendo che prima o poi sarebbe finita quando ancora ce l'avevo.
Lui mi ha guardato, e tutto questo l'ha capito senza che io avessi bisogno di dirglielo. E' rimasto lì fermo, senza neanche toccarmi. Davvero, se qualcuno dovesse mai lasciarvi, nella vostra esistenza, vi auguro che sia una persona simile a Fler. Non ce ne sono tanti, nel mondo, che riescano a fare quasi ogni cosa tenendo sempre presente che le azioni hanno conseguenze, e che pertanto, in mezzo alla gente, bisogna muoversi con delicatezza.
"Mi dispiace davvero," mi ha detto, "E' che Chakuza..."
E io lì l'ho fermato, perché non avevo alcuna voglia di sentirmelo dire, ma d'altronde lui se lo aspettava, per cui non è che avesse davvero preparato qualcosa da dirmi a proposito di cosa Chakuza fosse o cosa rappresentasse all'interno della sua vita. Gli bastava dirmi "è che Chakuza...", ed a me bastava sentirmelo dire per capire che era tutto finito.
Quella sera non ci siamo detti niente di particolare quando poi l'ho riaccompagnato alla porta. Se avessimo smesso completamente di vederci, devo dire che sarebbe stato un addio davvero poco entusiasmante. Lui mi ha detto "allora vado", io ho risposto "ciao" e poi sono rimasto sulla porta ad osservarlo allontanarsi dopo aver tirato su sia il cappuccio della felpa che quello della giacca. Ancora pioveva, e lì per strada faceva un freddo della madonna mentre io pensavo che in effetti aveva senso, per una storia che era nata senza un nome, finire senza che quel nome venisse mai pronunciato, finire senza che venisse pronunciato neanche il nome di ciò che l'aveva uccisa.
Sono tornato in casa, e sapevo che prima di uscire avrei dovuto almeno dare una seconda passata di straccio, e magari portare fuori i quattro giganteschi sacchetti neri di plastica pieni di immondizia che avevo messo in fila in corridoio perché non mi fossero d'impaccio, ma poi guardandoli ho pensato che non m'importava veramente. Che anche pulire in giro in realtà era solo stato un modo come un altro per passare il tempo, che nessuno l'avrebbe notato, che mio padre non mi avrebbe fatto i complimenti per avergli fatto trovare casa pulita quando fosse tornato, che io stesso, quando fossi tornato all'alba dopo aver spacciato tutta la notte in giro fra strade e discoteche, non avrei notato le stanze per una volta non invase di sporcizia e ciarpame, non avrei notato l'odore di pulito, non mi sarei sentito meglio per averlo fatto, e questo perché non me ne fregava niente. Non era stato che un modo per riempire il vuoto fra un evento e l'altro, come farsi un solitario, come aprire l'armadio e fare il cambio stagione - a chi cazzo serve poi davvero il cambio stagione, dai -, come prepararsi un panino e mangiarlo guardando TRL e sputando merda su tutti gli artisti in classifica.
Insomma, ho tolto la fascia, ho srotolato le maniche della maglietta, mi sono infilato la felpa e la giacca e sono uscito fuori nella pioggia e nel freddo anch'io, sperando che mi risvegliasse da quello strano torpore che mi aveva preso dopo aver visto Fler, sperando che le strade del ghetto dessero un senso al mio vagare fra gli attimi nella sola attesa che prima o poi succedesse qualcosa che potesse cambiarmi definitivamente la vita.
A ripensarci adesso è divertente aver capito che, in effetti, nel momento esatto in cui Fler mi ha lasciato per Chakuza il meccanismo che si stava preparando a cambiarmi la vita per davvero si stava giusto mettendo in moto, ed avrebbe continuato a lavorare in sottofondo, senza fare rumore, fino a portarmi qui, in questa casa, di fronte a questa finestra, con la pioggia fuori e i compiti di trigonometria sulla penisola della cucina.
Sorrido nel chiudere il libro e il quaderno, mentre mi avvio verso l'ingresso per recuperare la giacca ed uscire, stavolta portando con me anche un ombrello. La distrazione è arrivata, e tutto sommato io potevo prenderla meglio, ma potevo anche prenderla peggio, quindi in fondo non mi lamento.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Bushido.
Rating: PG-13
AVVISI: Slash.
- "Il problema di Las Vegas, sostanzialmente, è che è uguale a come te la immagini, uguale a come te la mostrano nei film. Questa è, a mio parere, una cosa profondamente sbagliata. I film non ti devono mostrare le cose come sono, i film devono esagerare e ingigantire ed eccedere. Io devo essere consapevole, quando guardo Bruce Willis che si prende in corpo tre pallottole, cammina scalzo e si rotola sui vetri infranti, sopravvive a due esplosioni e si rialza intatto dopo essere stato sbalzato per trentacinque metri su un’autostrada dopo essere stato investito da un camion che viaggiava a una velocità di cento chilometri orari, che quello che sto guardando è fasullo, nella realtà non c’è."
Note: E insomma. *si schiarisce la voce, guardandosi intorno e poi battendo un paio di colpi sul microfono per verificare che funzioni* Si sente? Uno, due, tre, prova, uno, due, tre, prova. Salve a tutti! Buonasera. *si guarda intorno in maniera imbarazzata* Non so quante volte vi ho detto "ciao, gente, il GD è tornato!" sentendomi scema perché in realtà non se n'era mai andato XD Ecco, questa è una di quelle volte. Quindi, il GD è tornato! Ma questo non stupisce nessuno perché capita con una frequenza di una volta ogni due mesi XD
Stavolta, però, torna in maniera più consistente, riprendendo in mano la storyline principale (...circa. Okay, è uno spin-off anche questo, ma vi giuro che racconta cose che interessano a tutti voi, tipo il Flerkuza che convola a giuste nozze. Eh? Non ho detto niente) per raccontarvi cose assolutamente folli e ridicole. E' anche la penultima shot ambientata in America! Gioite! Dopo questa ce n'è solo un'altra, e poi i nostri torneranno nelle amate terre patrie per continuare a raccontarci altre cose ridicole. Sono sicura che non volete perderveli.
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PAURA E DELIRIO A LAS VEGAS

A me l’America non piace. Cioè, non so se l’America non mi piaccia, in realtà, perché l’America è grossa e lunga, cioè, intendo che è un continente molto esteso e tu non puoi passare un paio di settimane negli Stati Uniti in balia del piano-vacanze di una casalinga isterica così smaniosa che pare abbia messo piede fuori dalla Germania per la prima volta nella sua vita quando tu sai perfettamente che non è vero, e dire che l’America ti fa schifo. Principalmente perché non l’hai vista, hai visto solo quella frazione che la casalinga isterica di cui sopra, pianificando i tuoi spostamenti con una severità da generale nazista, ti ha permesso di vedere. Tutto il resto ti è ignoto, e in effetti tutto il resto è ignoto anche a me, ma posso dire con certezza che quello che ho visto dell’America non incontra il mio gusto, e d’altronde non avrebbe mai potuto essere altrimenti visto che, contrariamente alla quasi totalità del resto dei miei compagni di viaggio, io qui non ci volevo venire.
Seriamente. Quando Bill e Bushido, assisi sul loro trono di velluto e legno intagliato e laccato d’oro, hanno annunciato cerimoniosamente che saremmo partiti tutti assieme, come il circo che siamo, tutti si sono emozionati, perché Fler, per dire, al pensiero degli Stati Uniti si esalta ancora come un bambino, e New York è un po’ la sua Mecca personale, e per Bushido, Bill e Tom invece è un po’ come andare a stare nella cara, vecchia casa di villeggiatura che ormai si conosce a memoria ma si ama profondamente perché è comunque un posto che spezza la routine dei quattro palazzi in croce che sei sempre costretto a rivedere in loop quando resti a casa. Non vi dico poi la festa che hanno fatto Kay ed Eko, che pareva gli avessero annunciato, non lo so, che sarebbero presto stati ammessi in un club esclusivo che offre in dono ai propri iscritti un harem di vergini a testa.
Io, invece, non volevo partire. A me piace l’Austria, voglio dire, pure la Germania per la maggior parte del tempo mi sta sul cazzo perché è troppo metropolizzata, e quando tu sei uno che gli piace l’Austria, che gli piace stare nelle baite di montagna circondato solo da capre e vacche, che già il traffico sotto la finestra gli fa fare fatica a dormire, è chiaro che andare a passare tutti questi giorni in un posto in cui le macchine non si fermano mai, le persone parlano continuamente e di capre e vacche non se ne vedono nel giro di chilometri, non può essere la prima cosa da fare nella lista delle Cose Da Fare Assolutamente Prima Di Morire.
Ma sono partito, perché partivano tutti e non mi piaceva l’idea di fare il guastafeste e comunque Fler era così felice che non c’era proprio modo di disertare. Ci sono molte cose alle quali posso resistere – credo, anche se non ci ho mai provato, in realtà la resistenza non è proprio il mio forte – ma fra queste cose non c’è l’idea di andare in vacanza con Fler in un luogo distante miliardi di chilometri da Daniel. Lo so che non è una cosa bella da dire, o anche da pensare, e lo so che ormai il ragazzino in qualche modo è di famiglia, e non mi dà più nemmeno tutto questo fastidio, ma se mi si chiede, in tutta coscienza, “vuoi tu, Peter Pangerl, porre un oceano fra te, Patrick Losensky e Daniel Kobler?”, io, onestamente, non me la sento di dire che non voglio, sarebbe una menzogna bella e buona e io per lo più cerco di non mentire, visto che non sono capace di farlo.
Quindi sì, sono salito anch’io sull’aereo con tutti gli altri e ho ingoiato i numerosi rospi che mi è toccato mettere in bocca da quando ho messo piede in questo luogo che, peraltro, non presenta per me neanche un interesse di tipo scientifico-culinario. Voglio dire, sono passato davanti a dei ristoranti che avevano la faccia tosta di esporre davanti alla porta d’ingresso cartelli con sopra scritto “specialità di cucina americana”. Ma che specialità vuoi avere negli Stati Uniti? L’hot dog? Il pollo fritto? Capirei fossimo in Messico, ma qui! Gente che la cucina non sa nemmeno come la si usa, che i fornelli al più servono a scaldare i sughi pronti, che la cosa cotta più complessa che mangiano è la carne alla griglia. Suvvia. Era ovvio che mi sarei annoiato e infastidito oltre il limite consentito fin quasi a esplodere.
Ho sopportato, però. Avrei potuto essere molto più piaga di quanto non sia stato, avrei potuto guardare tutti in cagnesco e non lasciarmi coinvolgere quando Bushido, durante i pasti, mi chiamava al suo fianco per elencare il menu chiedendomi esplicitamente di riempirlo di assurdità se possibile nemmeno esistenti per far dannare i camerieri, avrei potuto stare sempre chiuso in camera senza seguire gli altri nei loro assurdi giri turistici, avrei potuto ignorarli tutti quanti quando si sono dati alla pazza gioia la mattina del provino, mentre i ragazzi stavano alla Maverick con Jost e noi siamo rimasti in albergo e poi Bushido ha avuto quella geniale idea della piscina ed Eko s’è messo a rincorrere quella ragazza con la gonnellina di mezze noci di cocco tenute su con un filo di spago, e invece no!, sono stato di compagnia, non mi sono immusonito troppo, ho bevuto, ho mangiato, cioè, ho partecipato a pranzi e cene senza affamarmi per protesta contro il trattamento palesemente poco equo che mi veniva riservato in quanto cittadino austriaco per nulla interessato a farsi una cultura sugli usi e i costumi statunitensi, ho supportato sua maestà nella nobile missione da lui scelta – fare impazzire tutti i capo-camerieri di tutti i (numerosi) alberghi in cui abbiamo soggiornato da quando siamo qui – e sono stato una compagnia generalmente piacevole anche se il più delle volte sono finito nella fila dietro con Kay ed Eko mentre Fler e Bushido andavano in giro tutti gonfi e tronfi a farsi belli per le strade di questa città orrenda con baracchini che vendono wurstel agli angoli sotto i semafori, persone che camminano venendoti addosso come se nemmeno ti vedessero e gente che dorme sotto i ponti avvolta nella carta di giornale.
Certo, però, non immaginavo che potesse esistere qualcosa di ancora peggiore rispetto a quello che avevo già visto. Mi sembrava di aver sopportato già abbastanza noia, luci notturne, venditori di hot dog e ragazze con lunghe chiome platinate finte ed enormi seni a palla finti e giganteschi sederi finti infilati in shorts di jeans costosi quanto una plastica facciale. E invece. Invece c’è Las Vegas.
Il problema di Las Vegas, sostanzialmente, è che è uguale a come te la immagini, uguale a come te la mostrano nei film. Questa è, a mio parere, una cosa profondamente sbagliata. I film non ti devono mostrare le cose come sono, i film devono esagerare e ingigantire ed eccedere. Io devo essere consapevole, quando guardo Bruce Willis che si prende in corpo tre pallottole, cammina scalzo e si rotola sui vetri infranti, sopravvive a due esplosioni e si rialza intatto dopo essere stato sbalzato per trentacinque metri su un’autostrada dopo essere stato investito da un camion che viaggiava a una velocità di cento chilometri orari, che quello che sto guardando è fasullo, nella realtà non c’è. È per questo che riesco a divertirmi. Perché so che, se un giorno dovessi darmi alla malavita e dovessi fuggire nella notte, non ci sarebbe nessun poliziotto in canotta nera con un caricatore per mitragliatore annodato in vita a mo’ di marsupio ad inseguirmi, e se anche un soggetto simile ci fosse, se io gli sparassi, lo lanciassi contro una vetrina infrangendola, gli piazzassi bombe sotto il sedere e infine lo investissi con un camion, lui morirebbe. Se non alla prima, alla seconda, o alla terza, o alla quarta. Prima o poi creperebbe, e io potrei scappare in Messico.
Quello che intendo è: è importante che i film ti mostrino la fantasia, così da darti gli strumenti per riconoscere la realtà. Confondere le due cose può essere pericoloso. Io diffido sempre dei film realistici, perché sapete come funzionano, i cosiddetti film “realistici”? Loro ti raccontano una storia verosimile, sì, ma poi ci mettono sempre quel particolare che non può accadere mai nella vita, tipo che lo sfigato di turno prende botte per tutto l’anno ma alla fine porta la reginetta della scuola al ballo scolastico, o tipo che la squadra più sfigata del campionato perde quindici partite di fila ma nella seconda parte della stagione cambia allenatore e quello mette tutti in riga ed alla fine loro vincono il titolo pur rimanendo dei bravi ed onesti calciatori da squadra di bassa classifica, o cose del genere. Il realismo è il cancro del cinema moderno, dico io, perché ti racconta una balla ma te la fa passare come una cosa plausibile, e tu ci credi, e questo porta solo casini. Più pallottole, meno lezioni di vita, questo voglio io dal cinema.
E quindi se il cinema mi mostra Las Vegas e i casinò e gli hotel e i bordelli di lusso e le insegne luminose e le conigliette di Playboy ad ogni angolo di strada e i turisti che spendono miliardi in una notte e la gente ubriaca che si diverte e tutte queste altre cose, mi aspetto che siano balle, e invece arrivi a Las Vegas e Las Vegas è esattamente così, uguale, precisa e sputata a com’era nei film che hai visto, e voglio dire, può esistere una cosa più sbagliata di questa? Io credo di no.
- Ma perché dobbiamo restare ancora? – chiedo, guardando malissimo l’entrata dell’albergo nel quale si suppone noi si dorma per le prossime due o tre notti, prima di tornare in Germania, - I Tokio Hotel hanno finito, no? Hanno già un radioso futuro che li attende fra le braccia di sua maestà, che per l’occasione assumerà il titolo di sua santità, suppongo. – dico sprezzante, - Potremmo anche tornare a casa, una buona volta.
Fler si allunga verso di me e mi tira uno scappellotto tanto forte che io quasi mi ribalto, mentre Jost mi passa accanto squadrandomi con malcelato schifo e poi prosegue il suo cammino oltre me con uno sbuffo stizzito.
- I ragazzi sono contenti di lavorare con Anis, - mi spiega Fler, mentre Bill, esaltato come un’adolescente in gita scolastica – e non sto mettendo apostrofi fra le parole a caso – informa suo fratello e Bushido di quanto meraviglioso sia l’albergo che lui e Fler hanno scelto appositamente per noi tutti, - ma ciò non vuol dire che siano felici all’idea di aver perso il treno con la Maverick, in qualunque modo ciò sia successo. – sospira, - Hanno bisogno di un po’ di svago.
- Sì, ma noi che c’entriamo?! – insisto io, pestando i piedi, - Io non mi sento depresso, o meglio, mi sento depresso, ma solo perché sono qui. Se tornassimo in Germania, starei subito meglio!
- Chaku, sei una rottura di palle. – commenta lui, sollevando gli occhi al cielo, - Non puoi provare a divertirti, per una volta?
- No! – sbuffo io, - Mi pare evidente di no! Voglio tornare a casa.
- Oh, tu non hai appena detto questa frase con questo tono di voce. – sibila Fler, voltandosi a guardarmi con sincero sconcerto.
- Sì, invece, l’ho detta. – annuisco io, per nulla imbarazzato dal palese sfoggio di infantilismo che mi sto concedendo con cognizione di causa, - Voglio tornare a casa. Odio questo posto. Voglio tornare a casa!
- Chakuza! – mi ferma lui, proprio nel momento in cui io stringo i pugni lungo i fianchi e quasi comincio a saltellare sul posto, - Abbi un minimo di contegno, santo Dio. Mi metti in imbarazzo. – borbotta, lanciando intorno a sé un paio di occhiate incerte.
- Tanto in questo posto incivile nessuno capisce il tedesco. – sbuffo io, contrariato. Lui inarca un sopracciglio.
- Dicevo con Georg e Gustav. Loro magari si aspettavano ancora che tu fossi una persona normale. – commenta incrociando le braccia sul petto.
- Ebbene non lo sono. – dico, scrollando le spalle, - Come d’altronde nessun altro in questo gruppo. E mi spieghi perché siamo venuti proprio in quest’albergo?!
- Perché è bello. – risponde lui con un mezzo sorriso, prendendomi per mano e cominciando a camminare in coda alla processione di gente che comincia ad entrare in hotel, - Le stanze sono tutte diverse, ognuna ispirata ad un tema differente, e vengono assegnate a caso. È divertentissimo, io e Bill quando siamo venuti qui in vacanza la prima volta ne abbiamo beccata una ispirata a Tarzan. Ti sarebbe piaciuta, c’erano anche i tanga leopardati nei cassetti.
- Ma che posto è questo?! – strillo allarmato, mentre entro in una hall tutto sommato normale, anche piuttosto elegante, piena di gente vestita benissimo che sorseggia martini e ride coprendosi la bocca col dorso della mano. - …no, sul serio, non sembra male. – commento calmandomi, mentre Fler ride divertito accompagnandomi all’ascensore, separandoci dal resto del gruppetto che comincia a sua volta a smembrarsi mentre le varie coppie vengono indirizzate verso ascensori diversi che conducono, suppongo, a diverse parti dell’albergo, - Adesso comincio ad avere paura di quello che troveremo in camera.
- Dai, se siamo fortunati becchiamo la stanza che hanno assegnato a me e a Bill al nostro… doveva essere il terzo o il quarto viaggio qui, sì. – annuisce.
- Ma si può sapere quante volte siete venuti qui insieme?! – sbotto irritato, mentre le porte dell’ascensore mi si chiudono a due centimetri dal naso.
- Era una stanza molto elegante, tutta nera e bianca. – racconta sognante Fler, ignorandomi o forse proprio non sentendomi, perso com’è nella sua testa, - Speriamo sia quella, dannazione alla mia memoria, non ricordo qual era il numero.
Io lo ignoro, perché non c’è molto altro che possa fare a parte afferrarlo per la nuca e fracassargli la testa contro una parete per farlo tacere, e perciò la sua voce rimane lì, una specie di sottofondo musicale mentre io cerco di pensare ad altro, tipo che massimo fra tre giorni sarò finalmente di nuovo a casa mia, dove mi accoglierà il familiare gocciolio di tutti i rubinetti sguarniti e quell’allegro rumore crepitante che fa tanto caminetto in cui si produce il forno elettrico ogni volta che sta acceso per più di venti minuti.
- Ah, eccola. – dice Fler, attirando la mia attenzione ed allontanandomi dai pensieri piacevoli ai quali mi stavo abbandonando, - La nostra stanza.
Lo affianco mentre lui lascia scivolare la tessera magnetica nell’apposita apertura e, quando la porta si spalanca sul palese universo parallelo che la nostra stanza è, impallidisco. Il perimetro della camera è ovale, e le pareti sono ricoperte di moquette viola traslucida, folta quasi come il pelo di un barboncino. Posso vedere fin da qui che, se mi appoggiassi al muro, la mia mano sparirebbe almeno fino al polso. C’è un armadio, in un angolo. Sembra in plastica. Ed è rosa. La sensazione è quella, straniantissima, di star guardando un mobile di Barbie ingigantito ed infilato in una stanza vera. Ho quasi paura di avvicinarmi ed aprirlo perché temo che, se tirassi la maniglia, le ante non si aprirebbero, ed io scoprirei che non sono vere ante, come quello non è un vero armadio, ma solo un blocco di plastica cavo con finte maniglie e finti solchi per far credere alla gente di poterlo aprire quando invece così non è.
Ma il pezzo forte dell’arredamento è un altro, ed i miei occhi lo registrano solo dopo, forse perché, ad un primo sguardo, l’immagine impressa nella mia retina era sembrata talmente assurda al mio cervello da non poter essere razionalizzata, motivo per il quale io avevo guardato la stanza e il letto non l’avevo neanche notato. Ma al secondo sguardo non posso proprio ignorarlo, e nel momento in cui comincio a rendermi conto della gravità della situazione sento provenire dal fondo della mia gola un rantolo esausto.
Il letto è un cuore enorme. Rosa, come l’armadio, ma morbido. È a forma di cuore la struttura in legno, è a forma di cuore la rete, è a forma di cuore il materasso, sono a forma di cuore pure le lenzuola ed i cuscini, tutto. Tutto sui toni del rosa, del bianco e del viola, per richiamare le pareti, suppongo, un tocco di classe che non può fare a meno di essere notato.
Fler allunga una mano ad accendere la luce. È rosa anche quella. E nel momento esatto in cui il lampadario – che sembra plastificato come l’armadio – si accende, si accende anche una fila di luci – neanche a dirlo: rosa – incastonate alla base del letto. Il quale, per pronto accomodo, si mette a ruotare su se stesso.
- Manca solo la colonna sonora. – uggiola Fler, sconcertato.
In quel momento, squilla il telefono. La suoneria sembra la musichetta di un carillon per bambini, con la differenza che suona molto somigliante a Lady Marmalade. E il Voulezvous couchez avec moi, ce soir? è polifonico.
Mentre io rimango in sconcertata contemplazione di questo disastro dell’arredamento moderno, una roba talmente pacchiana che anche se fossi ancora etero mi darebbe comunque i brividi dal disgusto, Fler attraversa la soglia, ne ha proprio il coraggio, ed io lo stimo molto per questo, e si avvicina al comodino sul quale è appoggiato il telefono, sollevandone la cornetta.
- Pronto? – risponde. Gli strilli ultrasonici che oltrepassano le barriere dello spazio e del tempo raggiungendo i miei timpani e facendoli esplodere in mille coriandoli sarebbero abbastanza per capire chi è il suo interlocutore, anche se qualche secondo dopo lui non lo esplicitasse. – Ciao, Bill. Dove siete finiti? Mh-hm, capisco. Noi siamo nella… - poggia una mano sulla cornetta, attirando la mia attenzione con un psst vagamente cospiratorio, - Chaku, - mi chiama sottovoce, - guarda un po’ dentro l’armadio, attaccato ad un’anta dovrebbe esserci un gagliardetto col nome della stanza.
- Ah, perché, si apre, quella roba? – chiedo, indicando l’armadio senza osare mettere piede nella stanza. C’è la moquette viola anche sul pavimento. Sarà alta almeno cinque centimetri. Scommetto che cresce spontaneamente e nessuno viene a tosarla perché ne hanno tutti paura. – E io non ci entro qua dentro, comunque.
Fler si china appena, apre il cassetto del comodino e ne tira fuori una sfilza di palle rosse attaccate l’una all’altra da supporti in plastica dello stesso colore, e me la tira addosso. Io la scanso con malcelato schifo, e mi concedo anche un urletto disgustato.
- Non fare il cretino. – mi rimprovera lui, ed io sospiro, rassegnandomi ad entrare ed aprendo l’armadio. Il gagliardetto c’è, sembra lo stemma della casata nobiliare delle Barbie dell’Ordine delle Vergini Devote al Rosa Fosforescente. Sopra c’è scritto “Pretty in Pink”. Se lo dice lui.
Riferisco il nome della stanza a Fler, che a sua volta lo riferisce a Bill. Sento la sua voce un po’ stridula chiedere “awww, il nome sembra così carino, com’è? È bella?”, e non lascia neanche il tempo a Fler di rispondere che subito si mette a strillare “io ed Anis siamo nella Presidential Beauty and Elegance! Ci fermiamo qui per cena, non scendiamo al ristorante. Voi restate in camera vostra?”
Fler mi lancia un’occhiata, e lo sgomento sul mio viso dev’essere tanto palese che non ha bisogno di pormi la domanda per rispondere.
- No, usciamo. – annuisce con sicurezza, - Porto il Chaku in giro. Sai cosa fanno gli altri? – chiede, una punta di speranza che rende più squillante il tono della sua voce, e che finisce immediatamente spazzata via dal suo volto quando Bill risponde blaterando qualcosa a proposito di Eko, di suo Kay One e di tournée per Las Vegas alla ricerca di ragazze da portarsi a letto coinvolgendo anche Tom e Georg per la bella presenza, mentre Gustav restava a dormire in camera propria per potersi svegliare all’alba ed uscire di buon’ora per scattare qualche bella foto del quartiere. – D’accordo. – sbuffa deluso, - Allora a doma—
- …cosa? – indago io, osservandolo allontanare la cornetta dall’orecchio per guardarla per qualche secondo come non potesse credere a ciò che ha appena sentito.
- Non ha neanche aspettato che finissi la parola! – sbotta sconvolto, riattaccando e lasciandosi ricadere stancamente sul letto. Io mi seggo al suo fianco, pensando chissà!, magari la consistenza morbida del materasso sotto il sedere mi ispira e riesco a sdraiarlo. Quest’orribile letto sembrerà meno orribile, se trovo un modo interessante per utilizzarlo.
E invece no, perché appena mi seggo alzo gli occhi al soffitto, giusto per capire se c’è la moquette anche lì, e vedo che, invece della moquette, c’è un enorme specchio, anche lui a forma di cuore, che riflette l’intera superficie del letto.
- …io qui non ci dormo. – sentenzia Fler, alzandosi istantaneamente in piedi. – Chaku. Usciamo.
- Sì. – annuisco, alzandomi a mia volta.
Io e lui non siamo mai stati così d’accordo in vita nostra, è prodigioso.
Finisce che c’infiliamo nel primo locale a portata di mano, che è un posto arredato come una tavola calda in mezzo al deserto, con gli sgabelli davanti al balcone e finti cactus di plastica pieni di lucine colorate fra un tavolino e l’altro.
Ci sediamo ad un tavolo accanto al quale un manichino vestito e acconciato come Uma Thurman in Pulp Fiction finge di ballare il twist. Ha i piedi imbottiti nudi e senza dita, è pallido come la morte e ha le labbra così rosse e le palpebre così nere da fare quasi paura. La parrucca che indossa è tutta scompigliata e, nel complesso, è l’immagine stessa della tristezza.
- Quando rientriamo ci facciamo cambiare stanza, Chaku, tranquillo. – cerca di rassicurarmi Fler, mentre fa cenno ad una cameriera di raggiungerci e lei, accelerando sui suoi pattini e disinteressandosi della gonnellina a quadretti che le si solleva sulle cosce nel movimento, si affretta ad obbedire, fermandosi proprio accanto a noi con un sorriso smagliante, già pronta a prendere l’ordinazione. – Due birre, grazie.
La ragazza prende nota e si allontana subito dopo. La sua lunga coda bionda termina in un boccolo dalla rotondità praticamente perfetta, che dondola sulla rotondità ugualmente perfetta del suo sedere mentre gira dietro il bancone per recuperare la nostra ordinazione. Io mi chiedo a cosa mi serva ancora notare cose del genere se tanto non le posso più toccare, e mi abbatto sul tavolino, sbuffando come una teiera.
- Già che ci sei, non potresti farci cambiare anche città? – provo in un uggiolio depresso, e Fler sospira, esasperato.
- Ne abbiamo già parlato. – mi ricorda, - Santo Dio, ti fa così fatica aspettare un paio di giorni?
- Se devo passarli in una stanza pelosa in cui tutta la mobilia è a forma di cuore, sì! – spiego io, rimettendomi dritto e battendo lievemente un pugno sul tavolo per sottolineare il punto della questione, e cioè che ho ragione. – Già in condizioni normali mi sarebbe di peso, perché voglio tornare a casa, ma così… e poi scommetto che la coppia reale ha una stanza come si deve, una stanza rispettabile! Spiegami perché noi siamo dovuti finire nel buduoir di Barbie Regina della Notte in Calze a Rete e Babydoll.
- Ti ho già spiegato che l’assegnazione delle camere è del tutto casuale, Chaku. – esala lui, scuotendo il capo e lanciando un’occhiata supplice al soffitto. Le nostre birre, nel mentre, arrivano, e Fler saluta la cameriera bionda con un sorriso fascinoso al quale lei risponde arrossendo e stringendosi nelle spalle prima di sparire in un elegante volteggio sui pattini a rotelle. Io grugnisco e afferro la mia bottiglia di birra, mandandone giù metà in un sorso solo.
- Non credere che non l’abbia visto. – borbotto cupamente, e Fler ride.
- Ci credo che l’hai visto, l’ho fatto apposta. – risponde in scioltezza, bevendo un paio di sorsi dalla propria bottiglia. Io spalanco gli occhi, sconcertato.
- Puttana. – sbotto, riprendendo a bere. Fler ride di nuovo, stringendosi nelle spalle.
- In qualche modo dovevo pur distrarti. – si giustifica, - Quello non fallisce mai.
- Ah, sì? – domando io, scettico, - Be’, se vuoi un suggerimento, non c’è bisogno di metterti a fare il cretino con le cameriere, per distrarmi. Mettiti in ginocchio, scendi sotto al tavolo e segui la scia luminosa verso il cavallo dei miei pantaloni. Quello mi distrae che è una meraviglia.
- E poi sono io, la puttana. – ride ancora lui, gettando indietro il capo. Io bevo ancora un po’ di birra e seguo la linea del suo collo. Improvvisamente, il letto luminoso e ruotante a forma di cuore in camera mi sembra meno orribile di prima. È un letto, dopotutto.
- Be’, io quantomeno certe cose le chiedo a te, non mi metto a fare il deficiente con altra gente a caso. – borbotto con disappunto, e lui torna a guardarmi, inarcando un sopracciglio.
- Ma se ti ho visto prima che le facevi una radiografia completa al culo come se ne andasse della tua vita? – mi prende in giro, e poi, notando che la mia bottiglia di birra è già vuota e che anche la sua si appresta a fare la stessa tragica fine nel giro di un altro sorso, chiede ad un cameriere di portarne altre due. Stavolta è un ragazzo, non avrà più di diciott’anni. È sui pattini anche lui, ha i capelli ricci e biondi e gli occhi di un azzurro tale che sembra finto. Faccio la radiografia anche al suo, di culo, mentre mando giù il primo sorso della mia nuova bottiglia di birra. Giusto per non farmi mancare niente. – Almeno non si può dire che tu faccia torto a qualcuno. – considera Fler, annuendo con una certa serietà, - Un po’ una categoria, un po’ l’altra. Non poniamoci limiti.
- Ma la pianti? – sbotto, tirandogli addosso un tovagliolino di carta strappato al dispensatore e appallottolato con furia fra due dita. Lui si scherma con un braccio, ridacchiando vago, e poi sembra placarsi, perché per un paio di minuti non dice una parola. Si limita a sorseggiare la propria birra guardandosi intorno con un sorriso un po’ ebete sulla faccia, e quando sento qualcosa intrufolarsi fra le mie cosce e strofinarsi insistentemente contro il cavallo dei miei pantaloni per un istante il mio cervello rifiuta categoricamente l’ipotesi che quel qualcosa possa essere una qualsiasi parte del corpo di Fler. Voglio dire, è così placido e calmo, sta guardando tutt’altro, e— e se non si ferma immediatamente saranno cazzi amari per tutti quanti. – Fler? – lo chiamo, deglutendo a fatica, - Guarda che scherzavo, prima.
- Scherzavi? – domanda lui, tornando a guardarmi con occhi grandi e puri, - Non capisco di cosa tu stia parlando. – esala con un filo di voce, tramutandosi in Bambi sotto ai miei occhi sconvolti e colmi di paura. Ho già visto abbastanza dell’America per dire che non mi piace. Adesso che ho visto cosa fa alla gente, posso affermare con estrema tranquillità che la odio, anche.
- Fler! – insisto io, alzando appena la voce perché sia chiaro che lo sto rimproverando e disapprovando tantissimo, - Ma sei ubriaco?! – chiedo, mandando giù un po’ di birra anch’io, per buona misura. Se lui è ubriaco, voglio esserlo anch’io. Non la voglio la responsabilità di quello che potrebbe accadere. Voglio ubriacarmi come mai sono stato ubriaco nella mia vita e poi dare la colpa a Bushido per qualunque guaio possiamo combinare io e Fler questa notte. Mi sembra una punizione giusta ed equa, voglio dire, lui mi ha portato in America. In qualche modo dovrà pagare. – Aspetta, - dico quindi, tornando per un attimo presente a me stesso, - ma come fai ad essere già ubriaco? Hai bevuto una bottiglia di birra e mezza, a voler esagerare.
Fler ridacchia divertito, facendo dondolare la sua bottiglia sul ripiano del tavolo e rischiando di rovesciarla un paio di volte.
- Potrei o non potrei aver bevuto qualcosa prima di arrivare in albergo, con Anis. – risponde, annuendo con ampi e lenti cenni del capo.
- Che diavolo vuol dire che potresti o non potresti?! – strillo sconvolto, battendo il palmo di una mano aperta sul tavolo, - O l’hai fatto, o non l’hai fatto! Ma soprattutto, quanto sei cretino se hai deciso di bere ancora pur sapendo di averlo già fatto? Li abbiamo già fatti due secoli fa, questi discorsi! Credevo che ormai ti sapessi controllare!
- Oh, andiamo, Chaku! – sbotta lui, roteando gli occhi, - Mi sto solo divertendo un po’. Non è che tutti gli alcolisti debbano per forza diventare astemi. Io non lo sono, per dire, a me bere piace.
- Sì, magari pure troppo. – sbuffo contrariato, - Dai, torniamo in albergo.
- No, c’è uno specchio enorme su quel letto. – risponde lui con una risatina divertita in maniera quasi criminale, - Non ci dormo là dentro. Chi ce la fa ad addormentarsi con la luce delle lampadine che ti si riflette sulla pelata e poi rimbalza sullo specchio e mi finisce negli occhi?
- Vorrà dire che terrò su il cappellino. – grugnisco, tirandogli uno schiaffetto contro una spalla ed alzandomi in piedi, - Dai, andiamo almeno a prendere un po’ d’aria. E poi questo posto fa schifo.
Inizialmente, Fler non è molto convinto della mia idea. Vorrebbe restare al locale ancora un po’, sospetto che non gli vada granché di muoversi, il che è molto male perché so per certo che se continua a bere e stare seduto prima o poi finisce che si addormenta, e in quel caso dovrò chiamare un carro attrezzi per riportarlo in albergo, motivo per il quale insisto e, alla fine, la spunto io. Andiamo un po’ in giro nella notte illuminata e chiassosa di Las Vegas, ma di aria fresca intorno a noi non ce n’è neanche a pagarne. Scommetto che in questo periodo a Berlino il venticello comincia già a soffiare fresco per le strade della città, e qui, invece? Caldo soffocante, sudato e appiccicaticcio. Questa città non ha lati positivi.
In compenso ha strade piene di lucine colorate di fronte alle quali Fler, in questo stato, è capace di restare immobile per minuti interi, in adorante contemplazione. Ed è durante una di queste adoranti contemplazioni alle quali io non bado, perché so che esaurito l’interesse si esauriscono anche loro, che Fler prende una decisione. Una decisione catastrofica, una decisione che cambierà le nostre vite per sempre, ed io sul momento nemmeno me ne accorgo perché, dopo averla pagata, mi sono portato via dal locale la seconda bottiglia di birra semivuota, ed ho continuato a sorseggiarla per tutto il tempo, e questo, lo ammetto, non ha giovato alla mia lucidità mentale.
Perciò, nel momento in cui Fler si ferma in mezzo al nulla e, fissando un punto a caso nel vuoto enorme che rimbomba dentro i suoi occhi, esala “ommioddio, Chaku, dobbiamo sposarci”, io, in un primo momento, non lo capisco.
- Eh? – biascico, fermandomi a mia volta e voltandomi a guardarlo. Lo trovo che non sta più fissando il vuoto dentro la propria testa, purtroppo, ma bensì qualcosa di decisamente più concreto. Una cappella, una di quelle che si vedono spesso nei film ambientati a Las Vegas in cui lui e lei, ubriachi fradici, si sposano senza essere pienamente coscienti di ciò che stanno per fare, e si risvegliano il giorno dopo con due anelli orrendi al dito, vestiti con costumi imbarazzanti e ridicoli, passando poi i successivi novanta minuti di pellicola a riempire se stessi e il telespettatore di paranoie sul matrimonio e sull’amore per poi scoprire che il contratto non è valido fuori da Las Vegas ma che loro due, in fondo, si amano abbastanza da procedere anche al rito vero, con tutti i crismi, per unirsi per sempre nei secoli dei secoli amen. Segue cerimonia in abito bianco che io non arrivo quasi mai a vedere perché con quei film di solito mi addormento intorno alla mezz’ora.
- Dobbiamo sposarci. – ribadisce lui, indicando la porta spalancata della cappella dalla quale escono un tizio che avrà come minimo sessant’anni abbracciato ad una tipa che ne avrà almeno quaranta di meno, e che camminano entrambi ondeggiando, ridendo ed agitando una bottiglia di champagne che sgocciola per strada. – Subito. Adesso. Lì.
- Fler, no! – cerco di riportarlo a più miti consigli, stringendogli una mano e provando a tirarlo via, - Dai, torniamo in albergo! Che c’entra sposarci adesso? Ma qui, poi? Avanti, è un cliché!
- È perfetto! – insiste lui, quasi saltellando sul posto e prendendo a trascinarmi verso la cappella, ottenendo peraltro molti più risultati di quanti ne abbia ottenuti io provando a trascinarlo dal lato opposto, - È questo il posto! Dev’essere qui. Coraggio, Chaku. È il grande momento!
- Ma il grande momento di cosa?! – strillo io, genuinamente terrorizzato, mentre attraversiamo l’entrata e ci dirigiamo speditamente verso un bancone vuoto sulla sinistra. O meglio, lui si dirige speditamente verso il bancone vuoto sulla sinistra. Io vengo trainato a rimorchio. – Fler, sul serio. Non sono abbastanza ubriaco per fare questa cosa.
- Io sì, invece. – mi liquida lui con una risatina divertita, premendo il palmo della mano contro il campanello dall’aria molto retrò poggiato sul tavolo. Il trillo si diffonde cristallino per la stanza e, pochi secondi dopo, un uomo vestito da prete che palesemente non è un prete né mai sarà un prete, con un bicchiere enorme di coca cola in una mano ed una confezione di patatine del McDonald’s nell’altra, si presenta al nostro cospetto e rutta.
- Avete suonato? – domanda, tirandosi un colpetto sul petto con un pugno chiuso, - Chiedo scusa. Stavo cenando.
- Vogliamo sposarci! – dice immediatamente Fler.
- No, non vogliamo. – piagnucolo io, provando a lanciare uno sguardo supplice al finto prete perché capisca che ho bisogno d’aiuto e mi salvi. Lui non lo capisce, e conseguentemente neanche mi salva.
- Invece sì. – insiste Fler, annuendo deciso, - Vogliamo sposarci e vogliamo una bottiglia di whiskey.
- Io posso darvi entrambe le cose. – annuisce il prete, poggiando cibo e bevanda sul tavolo e chinandosi ad aprire uno sportellino dietro il bancone, per tirarne fuori un’enorme bottiglia di liquore, - A cominciare dal whiskey. Per il matrimonio, sarà un po’ più complicato, ma non molto. Piacere, - sorride, porgendo la mano a Fler, - chiamatemi pure padre Isaiah.
- Piacere, padre. – sorride Fler, annuendo come se ci fosse qualcosa per cui annuire. Prende la bottiglia di whiskey e me la passa. – Tieni. – dice, - Fai in modo di essere ubriaco abbastanza per sposarti, fra una ventina di minuti.
Mi viene da piangere, ma prendo la bottiglia in mano e mi lascio ricadere su un’enorme poltrona rossa e morbidissima mentre osservo Fler e padre Isaiah volteggiare da un bancone all’altro, visionando enormi libri dai contenuti palesemente mistici ed oscuri che non possono portare nella mia vita nulla di buono.
Mi attacco alla bottiglia bevendo direttamente da lì, visto che non mi è stato fornito un bicchiere. Nel mentre, lancio un’occhiata all’altare, in fondo alla stanza. Un altro finto prete, più o meno dell’età del primo, ma con una faccia più grigia e l’aria di uno che è stato sveglio e al lavoro per diciotto ore filate, al punto da essere arrivato a reggersi in piedi solo tenendosi stretto ad una flebo di caffè endovena, sta sposando due tizi vestiti da Elvis e Marilyn. Sono carini, in qualche modo. Sembrano felici. Lei, avvolta nel suo abitino bianco e con una parrucca che le lascia scivolare sulla nuca qualche ciocca di capelli castana, si stringe a lui, infilato a forza in una tutina dorata aderentissima talmente appesantita dai decori e dalla brillantina da scivolargli quasi giù dalle spalle. Ridono, e quando dicono “sì” lo fanno urlando, come se ne andassero così orgogliosi da non riuscire a trattenere la gioia. Mi fanno sorridere, sorridere sinceramente. O forse è solo un effetto collaterale dell’alcool. La perdita totale di senno, intendo.
Come sia o come non sia non lo so, tutto ciò che so è che una mezz’ora dopo io sono ancora su questa poltrona e la bottiglia di whiskey è già semivuota. Il prete che ha sposato Elvis e Marilyn è sparito, quindi suppongo che il suo turno fosse finito, il che è un bene perché se dobbiamo sposarci tanto vale che ad unirci nel sacro vincolo del matrimonio di Las Vegas sia padre Isaiah, che quantomeno mi sembra un tipo sveglio.
- Chaku! – mi chiama ad un certo punto Fler, ed io sollevo lo sguardo e ci metto un po’ ad individuarlo. Lui e padre Isaiah si sono spostati praticamente dall’altro lato della cappella, vicino ad un grande banco frigo di fronte al quale Fler saltella e si sbraccia per farsi notare. Mi sollevo con un grugnito sofferente e disperato e, muovendomi come un orango in procinto di crollare in letargo – se gli oranghi vanno in letargo –, lo raggiungo.
- Cosa? – borbotto, guardando prima lui, poi padre Isaiah ed infine il banco frigo con aria molto sospettosa. Fler mi fa un sorriso da bambino così ampio da mangiargli via tutta la faccia.
- Prima ho scelto i nostri anelli. – mi racconta, mettendomi davanti al naso i due pugni chiusi, - Scegli la mano!
Io sospiro e batto uno schiaffetto lieve sulla destra. Fler ride e la schiude, rovesciandola col palmo verso l’alto così che io possa vedere cosa contiene. È un anello piuttosto grande, con un grottesco teschio con le orbite scavate e dipinte di rosso e tutti i denti in bella vista. È orripilante.
- E questo sarebbe il mio? – domando scettico. Fler annuisce, apre l’altro pugno e mi mostra il suo: altrettanto enorme, assomiglierebbe al mio in tutto e per tutto se non fosse decorato con un enorme cuore metallico con un lucchetto chiuso al centro. Benaugurante, non c’è che dire. – Fanno schifo. – sentenzio. Fler ridacchia.
- Sono meravigliosi. – stabilisce. – Comunque, ora ho scelto anche la torta. – continua, voltandosi verso il banco frigo, - Vediamo se indovini qual è!
- Mmh… - borbotto io, occhieggiando le belle torte dall’aspetto talmente perfetto da sembrare plastificate, come tutto da queste parti, mi rendo conto, tutte in fila sul bancone. Ce n’è una azzurra decorata da perline bianche, una bianchissima su cinque strati ed una bassa, ampia e rettangolare con delle decorazioni tali da far pensare al prato di un campo da calcio, ma scommetto che quella preferita da Fler è un’altra. – Quella rosa? – domando, indicando l’ultima sulla destra, e Fler batte le mani, annuendo compiaciuto.
- Bingo! – esulta, chinandosi a sfilarmi il cappellino per un secondo per lasciarmi un bacio sulla testa, prima di rimettere tutto a posto. – La tiri fuori, padre Isaiah!
Il prete, o quel che è, indossa brevemente un grembiule e, sorridendo divertito, apre il banco frigo, tirandone fuori la nostra bella torta e posandola sul tavolo accanto a noi. Fler ci si avvicina, rimirando il dolce da ogni lato e studiandolo come ci fosse qualcosa che non va.
- Che c’è? – domando, imitandolo e squadrandolo a mia volta. Fler si illumina e schiaccia con un dito l’omino di plastica che rappresenta lo sposo, facendo in modo di affondarlo nella panna fin quasi al petto.
- Adesso è perfetta! – ridacchia divertito, ed io non so se dovrei offendermi per la palese presa in giro alla mia statura, o soltanto preoccuparmi perché si è appena identificato con la sposa. Non vorrà mica che lo riporti in camera tenendolo in braccio?
- Bene, se volete seguirmi… - dice quindi padre Isaiah, facendoci strada verso l’altare, che è una specie di inginocchiatoio in plastica bianca tutto pieno di ditate e impronte di scarpe.
- Vieni qui, Chaku, inginocchiati. – dice Fler, inginocchiandosi per primo e tirandomi per la manica della maglietta per costringermi a fare lo stesso, - Facciamo le cose per bene.
- Non posso tornare a prendere la mia bottiglia di whiskey, prima? – piagnucolo io, senza fare in effetti troppa resistenza e prendendo posto al suo fianco, - Mi aiuterebbe molto.
- Sssh. – mi rimprovera lui, agitando un dito davanti alle labbra, - Sta per cominciare. – dice, come se stesse parlando di un film. O del matrimonio di qualcun altro.
Di quello che succede dopo non ho un ricordo precisissimo. Padre Isaiah dice qualcosa, sembra molto divertito, fa un discorso molto lungo sulla sacralità del vincolo che ci unirà e sull’importanza della famiglia come istituzione fondamentale della società, ma le parole precise che dice io non le ricordo, forse nemmeno le identifico, non mi interessano. Una cosa sola so, ed è che quando chiede a Fler se vuole prendermi come suo sposo, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, nella buona e nella cattiva sorte finché morte non ci separi, lui dice sì, e non lo dice come se fosse ubriaco. Il suo sorriso non è alcolico, la sua voce non è incerta, i suoi occhi sono chiari e limpidi e fissi nei miei. E quando rivolge la stessa domanda a me, la mia risposta è identica alla sua, sia nei modi che nelle intenzioni.
Quindi suppongo di sì. Sì, Fler. Lo voglio.
Quando ci alziamo, mi rendo conto che il sermone di padre Isaiah dev’essere stato di una certa lunghezza, perché mi fanno male le ginocchia. Fler si rimette subito a ridere, mi allaccia al collo e sussurra “ed ora lo sposo può baciare l’altro sposo”, prima di coprire le mie labbra con le sue. Io lo stringo alla vita, chiudo gli occhi e lo bacio profondamente, non so per quanti minuti. Tanti, comunque. Il suo sapore è piacevole, nonostante il retrogusto un po’ amarognolo della birra.
Quando ci separiamo, padre Isaiah ha indossato nuovamente il grembiule e ci ha tagliato due fette di torta.
- Mangiate, - dice, - io nel mentre vi impacchetto il resto.
Siamo fuori non più di dieci minuti dopo. Fler porta il pacco della torta come fosse un sacchetto della spesa, facendolo dondolare avanti e indietro lungo il suo fianco mentre io rimiro da ogni lato il mio anello trovandolo sempre meno brutto ogni secondo che passa. Ci sto facendo l’occhio, suppongo. Il suo è più brutto, c’è un cuore sopra. Sul mio, quantomeno, c’è solo un teschio. Una cosa con una sua dignità. Non fosse per quegli occhi rossi che lo fanno sembrare finto, sarebbe perfino un bel pezzo d’arredamento, visto che è grosso quanto un piccolo soprammobile. E pesante tanto quanto, peraltro.
È solo quando la mano di Fler si intreccia con la mia e mi volto a guardarlo che vedo che non ha più le guance rosse e il suo sorriso s’è fatto meno vago e infantile.
- Tu non eri ubriaco! – dico in un borbottio deluso, perché io invece adesso lo sono. Lui si mette a ridere.
- Invece sì. – annuisce, stringendo la presa sulla mia mano, - Ho bevuto davvero qualcosa, mentre stavo in giro con Anis. Però ho esagerato un po’ con le scene, lo ammetto. – ridacchia, - È che ero felice. Avevo bisogno di una spintarella.
- O non l’avresti mai fatto? – domando, continuando a guardarlo. Lui tiene il naso puntato per aria, e gli brillano gli occhi alla luce di tutte le insegne colorate che illuminano la strada che stiamo attraversando.
- No, forse no. – ammette, - Tu?
- Sicuramente no. – dico sinceramente. Lui, invece di arrabbiarsi, si mette a ridere e mi gira un braccio attorno alle spalle, stampandomi un bacio umido sulla guancia.
- Sei pentito? – mi chiede, restandomi appoggiato addosso.
Scuoto il capo con forza.
- Questo mai. – dico, cercando ostinatamente i suoi occhi finché non me li concede. Lui annuisce, sorridendomi serenamente. Vorrei che questa notte non finisse mai. Anche se sono confuso e un po’ nauseato e quella torta faceva schifo ed ho un anello orribile al dito e non credo di avere ancora realizzato pienamente cosa effettivamente io e Fler abbiamo appena combinato, vorrei che questi istanti potessero dilatarsi nel tempo e durare per sempre. Lo vorrei veramente.
E invece niente, perché il tempo c’ha questa brutta abitudine di passare, ed è sempre troppo poco, ma da un certo punto di vista va bene anche così, perché la cosa bella dei minuti che passano è che ce n’è sempre uno successivo, be’, almeno fino a quando non muori, ma non mi sembra questo il caso, e comunque adesso non ci voglio pensare. Per cui alla fine li prendo bene, questi secondi che non rimangono immobili e diventano altri secondi. Questi secondi in cui il sorriso di Fler si allarga, si istupidisce e si fa più sonnacchioso. Questi secondi che ci riconducono in albergo, su per l’ascensore e nella nostra stanza cuoriforme, rosa e pelosa.
- Non accendere la luce. – bisbiglia lui, tirandomi per un polso e trascinandomi verso il letto, - Sennò quell’affare si mette a girare. E poi non voglio vedere lo specchio.
Io annuisco, chiudendomi la porta alle spalle e seguendolo. Lui ricade sul materasso, io ricado su di lui e scoppiamo a ridere, ed il secondo dopo sto già scivolando con le labbra sul profilo del suo collo, che è da quando l’ho visto piegarlo al locale che sto pensando che vorrei baciarlo, e non mi sembra quasi vero di poterlo fare adesso, anche se i nostri mugolii sono sempre più bassi e confusi e i nostri movimenti sempre più lenti e goffi.
Alla fine non combiniamo niente. Fler si addormenta mentre gli sto slacciando la cintura, io rido e mi appoggio con la fronte contro la sua spalla, e questo è sufficiente, perché chiudo gli occhi e due secondi dopo sto già dormendo anch’io, con la sua cintura fra le mani e il teschio sull’anello che preme con forza contro la mia pancia, solo che sono tanto stanco e ubriaco che non ci faccio nemmeno caso.
Ci faccio caso l’indomani mattina, però, quando la terra improvvisamente si ribalta e io mi ritrovo col sedere sul pavimento dopo che il nord e il sud si sono capovolti, e tutto quello che riesco a capire è che Fler sta strillando e io sento un pizzicorino fastidioso proprio accanto all’ombelico.
- Ma cosa cazzo—?! – grida Fler dal bagno, prima di piegarsi sul water e vomitare anche l’anima, - Chaku! È tutta colpa tua! – strilla fra un conato e l’altro. Io sbatto le palpebre, fissando il vuoto con aria confusa. Che cosa è successo? Mi alzo in piedi e mi dirigo verso l’armadio, lo apro e guardo la mia immagine riflessa nello specchio fissato all’interno di una delle ante. Ho una faccia talmente stravolta… sono inguardabile.
Sollevo la maglietta, giusto per osservarmi la pancia, e quando vedo l’enorme stampa di un teschio sulla pelle arrossata spalanco gli occhi e comincio a ricordare.
Fler che vomita in bagno.
Quest’anello orribile che indosso.
La confezione in cartoncino ondulato della torta che abbiamo posato sul comò rientrando.
Oh, mio Dio.
- C’è nessuno? – chiede la voce un po’ stridula di Bill da fuori, battendo sulla porta come un indemoniato. Ogni colpo sul legno è una capriola del mio cervello, mentre Fler continua a vomitare e suppongo che ne avrà per un bel po’. Probabilmente ieri, quando mi ha detto di non aver bevuto poi così tanto, mentiva.
Mi dirigo verso la porta più per far cessare i colpi e far tacere Bill che perché mi vada davvero di mostrarmi al mondo in queste condizioni, per cui mi limito ad aprire e poi torno indietro, accasciandomi seduto sul letto come senza vita, le spalle curve, le braccia molli, il volto senza espressione.
- Ma che…? – borbotta Bill, facendosi strada all’interno della stanza, - Oddio, - commenta, incapace di trattenere una risatina, - questa suite è di una bruttezza che non si racconta.
Bushido, accanto a lui, tende l’orecchio e sente Fler che continua a diffondere nell’aria questa sinfonia di morte che mi accompagna ormai da cinque minuti buoni, e si irrigidisce come un pezzo di legno.
- Oh, no. – dice perentorio, ed io quasi vorrei scoppiare a ridere gonfiando il petto come un pollo e dirgli “ha! Visto? C’è qualcosa che non puoi controllare, e questa cosa è la nostra palese follia”. Lo farei davvero se non fosse ridicolo. No, ok, forse lo farei davvero anche se è ridicolo. È che ho troppo mal di testa.
- No cosa? – domanda Bill, con l’aria di un bambino che non abbia capito niente della vita in generale, descrizione che peraltro non si allontana di molto dalla realtà dei fatti, per quanto lo riguarda. I conati di Fler sembrano fermarsi, e mentre Bushido continua a fissarmi agghiacciato come avessi messo incinta la sua primogenita senza prima ottenere il suo consenso e la sua mano in matrimonio lo ascoltiamo esalare un sospiro soddisfatto e sereno che dura la bellezza di due secondi contati, dopo i quali riprende a vomitare come se non avesse già fatto la stessa identica cosa fino a due secondi prima. Cosa gli sarà rimasto nello stomaco da espellere non lo so, non voglio saperlo e nemmeno voglio provare a immaginarlo.
Io mi spalmo una manata sulla faccia. Bushido ringhia sottovoce. Bill esala un “non capisco” infantilmente confuso. Fler continua a vomitare.
Decido di prendere in mano la situazione. Mi alzo, raggiungo il comò, apro il pacchetto e ne indico il contenuto con un cenno del capo.
- Abbiamo molte cose di cui parlare. – esordisco con serietà. – Torta?
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Genere: Commedia.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, Lime, (kind of) Furry, Crack.
- "...e poi si sfilò il cappello dalla testa.
Mostrando due orecchie da gatto enormi proprio sulla sommità della stessa."

Note: XD Pazzia, io ce l'ho. Ultimo grazie alle Badwrong Week (e a me stessa che le ho create XD) @ maridichallenge, e specialmente in questo caso all'ultima settimana, dedicata ai kink vari non rientranti nelle settimane precedenti, per avermi dato la possibilità di fare qualcosa che in genere non faccio mai, o che comunque faccio molto raramente, che sarebbe recuperare vecchie fic lasciate a metà (o anche a meno di metà, come in questo caso) e concluderle XD Perdonami, Fler.
La storia partecipa anche alla challenge indetta da 500themes_ita, ispirandosi al prompt #14 (Tocco sconsiderato).
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
GERONIMO!

Quando Fler si presentò alla mia porta, quella domenica mattina, lo guardai per un secondo con aria sinceramente sconvolta, lo ammetto. Non è che le sue visite fossero proprio una cosa fuori dal mondo, intendo, anche se non lavoravamo insieme – Bushido era inspiegabilmente geloso della sua persona, come fosse cosciente di aver perso troppo tempo con lui e desiderasse perciò tenerlo solo per sé il più possibile, in modo da recuperare – eravamo comunque colleghi, frequentavamo gli stessi ambienti ed eravamo entrambi abbastanza strani da preferire starcene un po’ per i fatti nostri piuttosto che prendere parte alle sedute di gioco ed ubriacatura di gruppo che spesso avevano luogo in casa di Bushido.
A Fler piaceva dipingere. Che, voglio dire, uno non se l’aspetta, da un tipo simile, alto due metri e largo uno e mezzo. Uno si aspetta che il suo hobby sia andare in giro con un tirapugni in mano a pestare adolescenti sprovveduti nei vicoli di Tempelhof, mica sedersi sul divano, imbracciare la propria tavolozza e cominciare a spennellare sulla tela vedute della stessa Tempelhof tanto belle da fare invidia a Cézanne. E invece sì, lui amava dipingere. Ci si perdeva proprio, era quasi comico, poteva restare delle ore davanti alla tela vuota e quando tu magari gli passavi dietro e gli dicevi “ma che stai facendo?” lui serafico rispondeva “immagino”, ed era una cosa da morire, veramente. Poi d’accordo, ogni tanto lo prendevo per il culo dicendogli che, santo Dio, dov’erano finite le tag sui treni della metropolitana?, e lui mi tirava dietro tavolozza, tela e pennelli di tutti i tipi, però insomma, era divertente averlo tra i piedi – o meglio sul divano – mentre io invece mi davo da fare col mio, di hobby. Che per inciso, sì, è cucinare. E non voglio sentire una parola, al riguardo. Mi sfottono già abbastanza.
Comunque niente, fondamentalmente quando me lo vidi apparire di fronte mi stupii, sì, ma non perché fosse strano vederlo, giusto perché non mi ricordavo avessimo preso appuntamento, e infatti stavo ripulendo casa con le maniche della maglia tirate su fino ai gomiti e i guanti gialli di gomma che gocciolavano ovunque sulla moquette all’ingresso, il che era una cosa deplorevole, tant’è che quando me ne accorsi li sfilai subito e li appesi al risvolto del grembiule che avevo allacciato in vita.
Inizialmente, non me ne accorsi.
- Che c’è? – chiesi, guardandolo con aria stupita. Era strano vederlo senza il materiale per dipingere, dal momento che, in genere, quando si presentava a casa mia era per fare quello, visto che il porto di mare in cui Bushido viveva era sempre troppo incasinato per i suoi gusti mentre a casa mia, diciamocelo, non veniva mai un’anima, anche perché io sono quel tipo di padrone di casa che appena ti rilassi un attimo scatta e ti dice “quel cuscino l’avevo appena rimesso a posto, permetti?” e te lo toglie da sotto il braccio. Ma sto divagando.
Dicevo, era strano vederlo senza il suo solito corteo di tele e pennelli e matite e album da disegno, ma ancora più strano, oggettivamente, era vederlo con un cappello di lana e una giacca pesante addosso in pieno agosto. Voglio dire, la Germania è un paese freddo, non dico di no, ma qui si rasentava la pazzia.
- Fammi entrare. – disse lui, e io sul subito, distratto da tutto il resto, non mi accorsi del fatto che la sua voce suonava strana. Cioè, non proprio strana, però diversa dal solito. Non mi so spiegare, c’era una sorta di mwaaah, ma anche di fshhhh nel modo in cui suonava, una roba mai sentita prima.
- Ma stai male? – chiesi ancora io, facendomi di lato per lasciarlo passare.
- Sì. – rispose lui, entrando in casa mia come fosse la propria e poi voltandosi a guardarmi. – Chiudi la porta. – borbottò, nel notare come io non mi fossi mosso da lì e ancora lo guardassi con aria allucinata, la porta ancora aperta che lasciava a chiunque fosse passato di lì per caso la libertà di impicciarsi dei fatti nostri, quali che fossero, se solo avesse voluto.
Chiusi la porta e rimasi lì a guardarlo, i guanti gialli che ormai avevano trasferito tutta la loro acqua sul grembiule, il quale aveva naturalmente preso a gocciolare sulla moquette pure lui.
- Embe’? – domandai. Lui sospirò, si guardò intorno come volesse assicurarsi che le pareti non si fossero fatte crescere gli occhi mentre lui si distraeva, e poi si sfilò il cappello dalla testa.
Mostrando due orecchie da gatto enormi proprio sulla sommità della stessa.
- …mi prendi per il culo. – sbottai io, avvicinandomi con aria circospetta, - Sono finte.
- No. – rispose lui, gli occhi – dalla forma stranamente ovale e molto più allungata del solito, ora mi accorgevo. Per non parlare delle pupille. O del colore. Ma dove avevo guardato, fino a quel momento?! – sottili e minacciosi. – Sono vere. Le mie orecchie non ci sono più.
Mi avvicinai ancora, scrutandolo per bene da ogni lato. In effetti, le sue normali orecchie umane sembravano sparite. Erano sempre state lì, e ora non c’erano più, sostituite da due belle orecchie pelose di forma triangolare che, almeno in apparenza, sembravano morbidissime e molto carezzabili.
- Ma… quando è successo? – provai a domandare, allungando una mano verso le orecchie ed osservandolo ritrarsi e soffiarmi contro istintivamente. – Ma soffi!
- Stai zitto. – sbottò lui, sfilandosi anche la giacca e lasciando libera una lunga coda tigrata dalla punta arrotondata di agitarsi nervosamente da un lato all’altro, - Non lo so quando è successo. Mi sono svegliato così.
- Capisco… - annuii lentamente io, considerando la situazione, - E com’è successo?
- Ma cosa vuoi che ne sappia di com’è successo, Chakuza! – strillò a quel punto lui, improvvisamente isterico, i peli ritti sulle orecchie a punta e le braccia sollevate per aria, - Pensi che sarei qui, se sapessi com’è successo?! No, sarei nel posto giusto per risolvere la situazione! Che sicuramente non è questo, a meno di aver preso qualche strano virus l’ultima volta che sono venuto qui! Pensi di avere in casa qualche virus che trasformi gli esseri umani in gatti, Chakuza? Non credo proprio! Quindi non dire assurdità.
- …ma io non ho detto niente. – provai a fargli notare, fissandolo con occhi vuoti e anche un po’ terrificati, - Ti ho solo chiesto—
- Era una domanda stupida, ok?! – sbottò lui, lasciandosi cadere di botto seduto sul divano e poi miagolando di dolore per essersi schiacciato la coda da solo.
Lo osservai cercare una sistemazione sul divano e quindi decidere di acciambellarsi fra i cuscini, e poi andai a sedermi al suo fianco. In punta, che non si poteva sapere mai come avrebbe reagito a qualcosa.
- Scusa. – biascicai, mettendo le mani avanti, - Bushido lo sa?
- Certo che non lo sa! – strillò lui, guardandomi con terrore, - E non lo deve sapere! Chakuza: promettimi che non glielo dirai.
- Ma—
- Niente ma! – insisté lui, scuotendo vigorosamente il capo, la coda che dondolava veloce a destra e a sinistra, - Non deve saperlo! Chakuza! Prometti!
- Okay, okay! – annuii io, giusto per calmarlo, - Va bene, non glielo dirò! – sospirai, - Sei almeno stato in ospedale?
- Ma sei pazzo?! – sbottò Fler, guardandomi con gli occhi gialli spalancati e colmi di terrore, - Ma non la guardi la televisione? Se io ora vado in ospedale, - spiegò con competenza, - i dottori che mi visiteranno vorranno trattenermi per fare delle analisi genetiche! Sarò trattato come un mostro! Mi metteranno in una gabbia! Diranno che sono un alieno! E se poi fossi davvero stato contaminato dagli alieni? E se mi deportassero nell’Area 51? Ci hai pensato a questo, eh, Chakuza? È questo che vuoi? Che mi deportino e mi chiudano in un lager alieno per vivisezionarmi e testare cosmetici su di me?!
- No! – risposi io, allucinato, - Ma non faranno niente di tutto questo, Fler! Faranno delle analisi approfondite e scopriranno che malattia hai e ti cureranno, e poi ti lasceranno tornare a casa tutto intero senza provare su di te neanche un cosmetico, te lo prometto.
- Non ci credo! – miagolò Fler, afferrando un cuscino e stringendolo con forza fra le dita.
- Permetti. – dissi io, recuperandolo e mettendolo via, - Non vorrei che me lo rovinassi con gli artigli.
- Non ce li ho gli artigli, deficiente! – sbraitò lui, tirandomi una pedata, - E comunque in ospedale non ci voglio andare. Non ci vado.
- Va bene, va bene! – mi arresi io, roteando gli occhi e sospirando, - Allora che cosa vuoi fare?
- Non lo so. – rispose Fler, pensieroso, - Ho fame. Non riesco a pensare bene, quando ho fame.
- Mi dispiace, ma non ho cibo per gatti, in casa. – mi giustificai io, stringendomi nelle spalle, - Solo quello per Geronimo.
- Chi?
- Geronimo. – feci una pausa, - Il mio pesce rosso.
Fler si girò molto lentamente, cercandolo con lo sguardo.
- Non puoi mangiarlo. – borbottai io, mentre lui abbassava le orecchie e tornava a guardarmi, arrabbiato.
- Non lo voglio il tuo stupido pesce rosso! – sbottò, - E non voglio neanche il cibo per gatti! Preparami un sandwich. – si interruppe e poi arrossì, - Col tonno.
Faticai a trattenere una risata, mentre mi alzavo dal divano, annuendo.
- Okay. Ma tu fai il bravo. – mi raccomandai, puntandogli un dito contro, - E non combinare disastri mentre sono via.
- Chakuza. – disse lui, tetro, - Se non vuoi che mi faccia crescere gli artigli apposta per sfregiarti, sparisci dalla mia vista.
Stavolta non potei fare a meno di ridere mentre giravo sui tacchi e, cercando di riflettere sulla situazione contingente, mi ritiravo in cucina. Cucinare mi aiutava sempre a riflettere razionalmente sulle cose, per quanto semplice potesse essere la ricetta che stavo provando. Anche un semplice sandwich col tonno, sapete, ha bisogno di parecchi passaggi, per essere fatto bene. Non è che si possano prendere due fette di pane a casaccio, riempirle col tonno versandolo direttamente dalla scatoletta e poi dire “ecco fatto”. Non è mica così semplice. Tutte le ricette in realtà, anche le più intuitive, hanno bisogno di maestria per essere portate a termine come si deve. E tutte le ricette, man mano che le fai, ti aiutano a rendere ogni cosa più chiara, o almeno così la penso io, per cui quella mattina, con un Fler con le orecchie e la coda da gatto acciambellato sul mio divano buono in salotto, pronto a farsi unghie che non aveva nemmeno sulle mie tende e sulla mia moquette, avevo proprio bisogno di cinque minuti per cucinare e riflettere in tranquillità, per cui anche se Fler non mi avesse chiesto un sandwich probabilmente gliel’avrei offerto io.
Prima di tutto mi dedicai alla salsa. Mentre mescolavo maionese, senape e succo di limone, insaporendo la mistura con aglio e sottaceti tritati, cercai di ripensare all’ultima volta che avevo visto Fler. Era stato almeno un paio di giorni prima, durante uno dei numerosi incontri che il nostro signore e padrone amava tenere all’Ersguterjunge e si ostinava incomprensibilmente a chiamare “riunioni di lavoro” anche se poi nulla che avesse a che fare con un qualsiasi tipo di lavoro veniva mai discusso.
Quel pomeriggio, Fler sembrava stare bene, considerai mentre aggiungevo alla salsa il tonno, la cipolla rossa tritata fina, che non si deve neanche vedere che c’è, il sedano tritato e un po’ di coriandolo che alla scuola di cucina è la prima cosa che t’insegnano, che il coriandolo non è un festone e non c’entra niente col carnevale, ma in compenso per insaporire la roba come lui non c’è nessuno. Sembrava stare bene, sì, al solito era un po’ uggioso, ma questo perché appunto a lui diciamo che stare in compagnia un po’ gli sta sulle palle, il che a rivederlo nell’ottica della sua trasformazione in gatto aveva un sacco di senso, perché voglio dire, uno così schivo e scostante mai nella vita avrebbe potuto trasformarsi in un cane, poteva diventare solo un animale antipatico come il gatto.
E insomma, conclusi spalmando una fetta di pane con un’abbondante dose di salsa e poi rimpinzando il tutto con rucola e pomodoro tagliato a fette, non c’era stato nessun dettaglio, l’ultima volta che l’avevo visto, che potesse in qualche modo giustificare questa improvvisa trasformazione. Per cui, quando abbandonai la cucina col mio sandwich adagiato sul piatto in un letto di rucola decorata con un filo d’olio a fare un ghirigoro ondulato tutto attorno alla composizione, sicuramente ero molto fiero di me stesso e delle mie dote culinarie, ma dovevo anche ammettere che, questa volta, cucinare non era stato utile per rinvigorire le mie facoltà di pensiero coerente, e infatti mi sentivo più confuso di prima. Forse perché non avevo messo dell’acqua a bollire? Forse il punto della questione non era cucinare una qualsiasi cosa, ma cucinare qualcosa che riempisse la cucina di vapore acqueo atto a lubrificare le rotelle del mio cervello? Dovevo provare con le abluzioni.
- Fler? – lo chiamai rientrando in salotto e non vedendolo sul divano dove lo avevo lasciato, - Dove sei? Il tuo sandwich è pronto!
Ci misi ben poco a comprendere di essere stato raggirato, giusto il tempo che mi servì per voltarmi verso la boccia di vetro trasparente in cui avevo infilato Geronimo in attesa di allestire l’acquario per lui e per i numerosi fratelli che avevo intenzione di regalargli, e trovare Fler accucciato ai piedi del mobiletto di legno sul quale l’avevo posata, intento a picchiettarla con le nocche della mano chiusa a forma di zampa fra un miagolio e l’altro.
- Fler! – urlai, mandando quasi il sandwich per terra per lo spavento, - Non si fa! Cattivo gatto, cattivo!
Lui si voltò di scatto, fissandomi con occhi enormi e soffiandomi contro, cattivissimo, prima di correre a raggomitolarsi nuovamente sul divano, tutto accucciato in posizione da combattimento, pronto a saltare via, o anche a saltarmi addosso, se mi fossi avvicinato troppo.
Geronimo, fortunatamente, era sano e salvo, constatai con un sospiro di sollievo, prima di voltarmi a guardare Fler con estrema severità, avvicinandomi a lui circospetto ma deciso, puntandogli un dito contro.
- Fler! Sono molto deluso da te. – lo rimproverai, mentre lui guardava altrove come se non sapesse neanche di cosa io stessi parlando, - Non puoi mangiare Geronimo. Ti farebbe anche male, crudo!
Lui miagolò un sospiro triste, prendendosi la testa fra le mani e poi cominciando a pulirsi dietro le orecchie.
- Non volevo neanche mangiarmelo, lo stupido pesce! – commentò in un lamento, - È stata una roba di istinto! Volevo tirarlo giù da quella boccia e morderlo! Scommetto che poi l’avrei sputato. Sta peggiorando! Morirò!
- Non dire sciocchezze, adesso. – sbottai, sedendomi nuovamente al suo fianco, - Piuttosto, ragioniamo.
- Non voglio ragionare. – borbottò lui, leccandosi il dorso della mano e riprendendo a pulirsi, - Voglio solo… - si interruppe all’improvviso, fissando il vuoto con occhi terrorizzati.
- Fler? – lo chiamai preoccupato, mentre sentivo un rantolo inquietante emergere dalle profondità della sua gola, - Fler, stai bene?
Lui portò una mano al collo, massaggiandoselo confusamente, e poi, del tutto all’improvviso, cominciò a tossire, e tossiva un sacco, convulsamente, come avesse qualcosa che gli occludeva le vie respiratorie.
- Fler! – strillai nel panico, battendogli la schiena con la mano aperta, - Fler, che succede adesso?!
Lui si contorse, si piegò, tossi ancora, strabuzzò gli occhi e dopodiché vomitò una palla di pelo tigrato sul bracciolo del divano, mettendoci un’eternità di tempo, facendo un sacco di rumori spaventosi e poi tirando un enorme respiro liberatorio poco prima di fermarsi a fissare la pallina sbavata con gli stessi occhi pieni di sconcerto coi quali la stavo fissando io.
- Chaku. – disse in un tetro filo di voce, - Ho vomitato una palla di peli.
- …sì. – annuii io, poggiandogli una mano sulla spalla.
- Io non li ho nemmeno tutti questi peli addosso! – strillò, piagnucolando pietosamente, - Morirò! Morirò strozzato da una di queste cose! Non posso sopportarlo!
- Fler! – lo chiamai, cercando di tenerlo fermo sul divano, dal momento che lui aveva già preso a saltellare sui cuscini come un invasato, - Fler, Dio mio, calmati! Se ti agiti così è peggio! Abbi pazienza, dobbiamo sederci attorno a un tavolo e ragionare seriamente su—
- Ho sonno. – mi interruppe, smettendo di saltare all’improvviso e riprendendo a fissare dritto davanti a sé come se il comando “dormi!” venisse direttamente dal suo cervello, - Voglio dormire. – specificò, stendendosi su mezzo divano e facendosi tondo e piccolo come una palla, - Vedi, Chaku? È gravissimo. Voglio dormire. Ora mi addormenterò e non mi sveglierò mai più, ma allo stesso tempo so che non posso non addormentarmi. Ho sonno.
- …ha senso. – commentai io, osservandolo incerto, - Se hai sonno devi— No, Fler, dobbiamo parlare! Dobbiamo venire a capo di questa situazione.
- Dopo. – disse lui, perentorio, chiudendo gli occhi. Ronfò per qualche secondo, e poi li riaprì. – Lo odio questo divano. – sbottò infastidito, spostandosi fino a poggiare la testa sulle mie ginocchia. – Così va meglio. – sentenziò tornando a dormire come se niente fosse successo.
Io sospirai pesantemente: era palese che sarei rimasto lì a fare da cuccia al gatto per tutto il resto del pomeriggio, e non sarei riuscito ad alzarmi neanche per togliere di mezzo quella disgustosa palla di pelo semidigerito che Fler aveva gentilmente depositato sul bracciolo del divano. Sarebbe rimasta lì a sedimentarsi e una colonia di batteri avrebbe abitato al suo interno evolvendosi in una nuova razza di cui io sarei stato il sovrano, finché le creature non si sarebbero evolute abbastanza da rivoltarsi contro di me e uccidermi nel sonno. E per quel momento Fler non si sarebbe ancora risvegliato dal suo riposino pomeridiano.
Giusto per darmi qualcosa da fare, dal momento che cominciavo già ad annoiarmi esageratamente, presi ad accarezzarlo distrattamente dietro le orecchie. D’altronde, mi avevano incuriosito fin dal momento in cui le avevo viste, e adesso che erano sole, indifese e alla mia mercé non potevo certo trattenermi. Le strinsi delicatamente fra le dita e poi cominciai a grattare proprio nel punto in cui, sorprendentemente proprio come le orecchie dei gatti veri – non so cosa mi aspettassi, probabilmente di scoprire che in realtà erano attaccate a un cerchietto e Fler mi stava prendendo in giro. Sarebbe stato sicuramente meno assurdo – si attaccavano alla testa. Erano morbide e piacevoli al tatto, e non passarono che pochi minuti prima di accorgermi di qualcosa di assolutamente sconvolgente: Fler stava facendo le fusa.
- Chaku… - biascicò, gli occhi ancora chiusi e un sorriso beato a piegargli suo malgrado le labbra, - Che cosa stai facendo?
- Suppongo di starti facendo le coccole. – risposi io, divertito da quelle reazioni, continuando ad accarezzarlo mentre il rombo delicato delle sue fusa si faceva più deciso, vibrando contro le mie ginocchia, - Ti dà fastidio?
- No! – miagolò lui, rivoltandosi sulla schiena e gettando indietro il capo, offrendomi il collo e la pancia mentre teneva le braccia piegate con le mani chiuse sul petto, - Ma non dovresti farlo comunque, perché io non sono un gatto.
- Il tuo corpo sembra pensarla diversamente. – gli feci notare, ridacchiando appena, mentre scendevo a grattarlo sullo stomaco attraverso i vestiti. Lui miagolò compiaciuto, si agitò appena sul divano, spinse la pancia in alto in una muta ma evidente ricerca di altre carezze e poi, del tutto all’improvviso, spalancò gli occhi e si allontanò da me con uno scatto, fissandomi con odio.
- Cosa mi hai fatto?! – soffiò oltraggiato, - Pervertito!
In un primo momento, non capii neanche cosa stesse accadendo. La sola associazione della parola con la situazione in cui ci trovavamo non aveva il minimo senso. Fu solo quando abbassai lo sguardo e notai che Fler stava facendo tutto il possibile per restare accucciato in modo che non potessi vedere cosa gli accadeva fra le gambe, che compresi.
- Oh. – dissi, annuendo partecipe e cercando di avvicinarmi a lui con la mano tesa, come per invitarlo ad annusarla e rassicurarsi, - Ma non devi preoccuparti, Fler. È una cosa assolutamente normale.
- Cosa è assolutamente normale in me?! – strillò lui, raggomitolandosi il più possibile nell’angolo di divano più lontano da me, - Non c’è niente di assolutamente normale nella mia persona! Ero la cosa più assolutamente normale che si fosse mai vista sulla faccia della terra, e ora guardami, Chaku! Ho le orecchie da gatto! – sbraitò.
- E la coda. – aggiunsi io per completezza. Lui mugolò un mraowww straziato, accasciandosi su se stesso e nascondendo il volto fra i cuscini. – Ma questo non c’entra niente! – mi affrettai ad aggiungere io, scuotendo il capo ed andandogli più vicino, - Voglio dire, ti stavo accarezzando e suppongo che fosse piuttosto piacevole. Lo era? – domandai, per esserne sicuro. Fler si limitò ad annuire vagamente, sempre restando nascosto contro i cuscini. – Ecco. Per cui, capisci, è completamente naturale che il tuo corpo abbia reagito in questo modo. Ha reagito ad uno stimolo esterno nel modo più ovvio. Non è colpa tua.
- Hai ragione. – realizzò improvvisamente Fler, sollevando il viso e fissando il vuoto per qualche secondo, prima di voltarsi verso di me, - È colpa tua. È una tua responsabilità. Per cui, adesso, tu la farai sparire.
- Fler… - mugugnai io, sollevando uno sguardo supplice al cielo che, peraltro, dall’interno del mio appartamento non potevo neanche vedere, per ovvi motivi, - Non ti sembra di stare un po’ esagerando?
- Affatto. – stabilì lui, gattonando letteralmente verso di me e poi planandomi in grembo con incomprensibile grazia del tutto sproporzionata rispetto alla sua persona, la quale era peraltro del tutto sproporzionata rispetto alla mia. – Muoviti. – soffiò, guardandomi severamente mentre si sistemava meglio a cavalcioni sulle mie ginocchia.
- Ma dici sul serio? – domandai io, fissandolo negli occhi con sincero smarrimento. Lui sollevò una mano all’altezza del mio viso e tirò fuori gli artigli. Prima non c’erano. Era evidente che stava peggiorando.
Talmente evidente che decisi di motivare questa sua richiesta del tutto folle con la sua improvvisa e malsana condizione: non era Fler ad essere impazzito e chiedermi cose palesemente assurde, era il suo problema, il gatto dentro di lui, a pretendere queste cose. E siccome oltre a pretenderle mi minacciava di sfregiarmi, decisi di concedergliele, per istinto di conservazione.
Sospirando mentre pensavo a quante me ne avrebbe dette Fler una volta che fosse tornato normale, gli sbottonai i pantaloni mentre lui mi osservava con felina curiosità, agitando circospetto la coda a destra e a manca. Scoprii di non poterli abbassare più di tanto, perché lui, prima di uscire di casa, nel tentativo di darsi un po’ di sollievo li aveva bucati posteriormente, proprio sotto la cintola, per dare libero sfogo alla coda che ora li teneva ancorati lì dov’erano. Perciò quello che mi apprestavo a fare non solo sarebbe stato sbagliato, abbastanza indecente e probabilmente da galera in quanto abuso su animale o qualcosa di simile, ma sarebbe stato perfino scomodo. Non poteva andare meglio.
Contorcendomi per quanto possibile, riuscii a infilargli la mano nei pantaloni fino al polso, e cominciai a tastarlo di qua e di là. Là sotto, per mia fortuna, Fler sembrava ancora piuttosto normale. Lo accarezzai lentamente e lui chiuse subito gli occhi, premendosi contro di me in un prrraow soddisfatto ed appoggiandomi entrambe le mani alle spalle. Sentii subito le sue unghie venire fuori ed artigliare il tessuto della mia maglietta, e ringraziai mentalmente di indossarla, perché non ci tenevo proprio ad uscire da quella cosa, qualsiasi cosa fosse, tutto sfregiato.
Man mano che continuavo ad accarezzarlo, la natura di Fler sembrava farsi sempre più confusa. Miagolava, indubbiamente, ma allo stesso tempo aveva atteggiamenti inequivocabilmente umani quando ansimava, si premeva contro di me ed ondeggiava il bacino cercando di seguire il ritmo delle carezze imposto dalla mia mano.
- Chaku… - mugolò lamentoso, avvicinandosi ancora e sfiorando le mie labbra con le proprie senza però osare baciarmi per davvero. Abbiamo fatto trenta, mi dissi io, facciamo trentuno. Cosa poteva esserci di peggio che infilare le mani nelle mutande di un gatto? Baciarlo non poteva sicuramente essere considerata una cosa peggiore, per cui mi sporsi verso di lui, coprendo la distanza che ci separava e baciandolo lentamente, scoprendo con piacere che Fler, dei gatti, sembrava aver preso tutti i difetti ma anche, fortunatamente, tutti i pregi, compresa la lingua ruvida.
Il dettaglio fu piacevole abbastanza da distrarmi al punto che, improvvisamente, aprii gli occhi ed era tutto finito. Non ho idea di quanto sia durato, nel complesso, ma sospetto non molto, e non intendo dirlo a Fler, una volta che sarà tornato normale. Non si può mai sapere come reagirà, quel benedetto ragazzo.
Lo osservai sospirare soddisfatto, miagolare sereno e poi allontanarsi da me come se niente fosse successo, tornando a spalmarsi sul divano raggomitolato in una palla di calma e serenità. Io mi guardai la mano, feci una smorfia e mi alzai in piedi.
- Certo che sporchi un sacco. – borbottai, passando a recuperare la palla di pelo e dirigendomi in cucina per disfarmene e lavarmi le mani.
Quando tornai in salotto, lui stava già sonnecchiando felice.
- Eh, no, Fler, dai! – sbottai io, planando sul divano e saltellando un po’ per disturbargli il sonno, - Svegliati! Hai promesso che ne avremmo parlato, e mi sembra evidente che dobbiamo parlarne per forza, questa cosa non può andare avanti troppo a lungo.
Lui aprì gli occhi, improvvisamente sveglissimo, tornando a guardarmi con diffidenza.
- Ma di cosa vuoi parlare, Chaku?! – sbottò, - Cosa vuoi che ti dica?! Non è cambiato niente, nell’ultima mezz’ora! Non so ancora cos’è successo, non so ancora come e soprattutto non so come ritornare com’ero prima. In compenso, ho di nuovo fame. Dov’è quel sandwich?
Guardai il sandwich abbandonato nel proprio piattino e ormai irrimediabilmente e disgustosamente secco, e mi alzai nuovamente in piedi, recuperandolo.
- Te lo rifaccio. – acconsentii.
- Ma no. – provò a fermarmi lui, - Posso mangiare anche quello.
- No, no, te lo rifaccio. – insistei io. Avevo decisamente bisogno di riflettere. Stavolta, gliel’avrei fatto con qualcosa che necessitasse di essere cucinato, prima. Magari del pollo.
- Fa’ come vuoi. – scrollò le spalle lui, fissandosi con attenzione le unghie e poi grattando curiosamente la pelle del divano. Non lo rimproverai neanche, perché tanto sarebbe stato inutile.
Cucinai e riflettei per minuti interi, ma non servì a molto. In compenso, dopo un po’, sentii chiaramente la boccia di vetro precipitare sul pavimento e spaccarsi in mille pezzi, e fra il crash del vetro, lo splash dell’acqua e il meaowww di Fler, io non potei fare altro che piantare tutto in asso a tornare di corsa in salotto strillando “Geronimo!”.
Scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido, Fler/Chakuza (accennato).
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: AU, Angst, Violence, Lemon, Slash.
- Bill ha da poco compiuto diciott'anni, e batte le strade da quando ne aveva sedici. Ormai è abituato alla sua routine, e la notte e le strade fredde di Berlino sono il suo regno, ma quando prova ad adescare un agente in borghese tutto cambia: il ragazzo viene portato in prigione, dove subisce subito un tentativo di violenza al quale risponde altrettanto violentemente, riducendo il suo assalitore in fin di vita. Per questo motivo, viene condannato a scontare una pena di dodici anni nel carcere in cui è già recluso, ma fin dall'inizio è chiaro che la sua permanenza all'interno della struttura non sarà semplice e priva di pericoli: gli agenti di custodia lo odiano per quello che ha fatto al loro collega, gli altri detenuti lo vedono solo come un oggetto sul quale scaricare la frustrazione sessuale e non esitano a riempirlo di botte quando lui si nega, e in tutto questo ci si mette a rendere il tutto più difficoltoso anche Bushido, indiscusso boss del braccio in cui Bill è rinchiuso, che ha ricevuto ordine di proteggerlo direttamente dal direttore della prigione. Ma Bill è in grado di difendersi da solo, o almeno così crede, ed è bene intenzionato a dimostrarlo all'uomo e anche a chiunque altro voglia provare a mettersi sulla sua strada. Il problema è che, forse, non è così in grado di difendersi come crede.
Note: Il plot di questa storia risale ad anni fa - no, seriamente, non è che buttiamo lì le parole a caso, se diciamo anni state pur certi che intendiamo davvero anni - e riesce a vedere la luce solo adesso solo perché noi siamo estremamente culopese. E perché quando l'abbiamo plottato la Tab non aveva ancora visto Oz (dal quale questa storia attinge a piene mani in quanto ad ambientazione ed ispirazione generale), e non era pensabile scrivere una cosa simile senza aver prima visto almeno qualche episodio di quella serie.
Nel caso ve lo steste chiedendo, sappiamo perfettamente che ci sono delle incongruenze fra la realtà reale delle cose vere e il modo in cui certe cose accadono in questa storia (tipo che tutta la parte ambientata in prigione - quindi, uh, il 90%? *ride* - l'abbiamo scritta senza prima leggere trattati di 100 pagine sul sistema carcerario tedesco), e la cosa ci tocca molto limitatamente. Ma molto, credeteci. *rotolano felici per campi di tulipani alti venti metri* Buona lettura, se vorrete!
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ALLES GUTE KOMMT VON UNTEN

Come ogni mattina, quando si accendono le luci e le serrature automatiche che tengono chiuse le porte delle celle si aprono, Bushido si alza dal letto – che occupa da solo, forte del potere che esercita su tutto il braccio nonostante la propria condizione di detenuto – e si dirige verso il piccolo lavandino sormontato dallo specchio che occupa non più di una ventina di centimetri in un angolino della cella. Lancia un’occhiata annoiata al proprio riflesso e poi tira giù i boxer, concedendosi un po’ di sollievo davanti alla tazza del cesso, stando bene attento a non sporcare, perché alle pulizie in cella devono provvedere da soli, e lui ha preferito darsi alla criminalità organizzata piuttosto che pulire i cessi per guadagnare qualche spicciolo da ragazzino, figurarsi se si piega a farlo adesso che, facendolo, non vedrebbe neanche il becco di un quattrino.
Sbadiglia lavandosi attentamente le mani, e nel frattempo sbircia oltre le sbarre, nel corridoio. Qualche detenuto più mattiniero di lui è già uscito dalla propria cella ed ora si aggira per l’area comune come uno zombie, guardandosi intorno e studiando ogni particolare di quel luogo come se già non lo conoscesse a memoria. Le televisioni in fondo alla sala sono ancora spente, la sala computer, la biblioteca e la palestra sono ancora chiuse e gli unici suoni che si possono sentire sono quelli che producono le scarpe degli agenti di custodia che abbandonano le loro postazioni per farsi dare il cambio da quelli del turno di giorno, dopo le fatiche della notte passata in piedi a rigirarsi i pollici.
Pian piano, tutti i detenuti cominciano a venire fuori dalle coperte. Gli agenti di custodia prendono i loro posti e cominciano gli usuali giri. Presto, le varie sale ricreative saranno aperte, il biliardo posizionato lontano dai tavolini in un punto non troppo dislocato ma neanche troppo centrale dell’area comune sarà circondato di galeotti in cerca di un po’ di divertimento, e l’usuale vita del braccio A riprenderà a scorrere, pacifica, e niente turberà la sua quiete.
Niente succede mai, nel braccio A. Bushido tiene tutto sotto controllo.
Bushido è dentro da sei anni. Ne ha beccati molti di più, quando l’hanno preso, ma fra uno sconto e l’altro è riuscito a ridurli a sei. Entro un paio di mesi, finalmente avrà la sua udienza per provare ad uscire con la condizionale. Con la condotta che ha tenuto e con una buona lettera di presentazione da parte del direttore Jost, uscire sarà un gioco da ragazzi. E una volta fuori, potrà riprendere tranquillamente la sua vita.
Fino ad allora, però, nel braccio A deve continuare a non succedere niente. O meglio, tutto ciò che vi succede deve continuare ad essere tenuto costantemente sott’occhio, perché non accada nulla di troppo pericoloso. Le regole di Bushido sono chiare, cristalline: chi vuole, scopi, ma niente violenza; chi vuole farsi, si faccia, ma niente overdose; chi vuole prendere a cazzotti qualcun altro, non si crei troppi problemi, ma niente ammazzatine fuori controllo; chi vuole contrabbandare sigarette, riviste porno o il cazzo che gli pare, ne ha piena facoltà, ma se qualcuno viene beccato farà meglio a rimanere zitto, o a non farsi beccare affatto.
Così scorre la vita nel braccio A. Così Bushido fa buona guardia alla propria reputazione, ed anche alla propria futura libertà.
Nell’uscire finalmente dalla propria cella, quando le luci nella sala comune sono ormai state accese e perfino i televisori sono già stati sintonizzati sul telegiornale del mattino, lancia un cenno d’intesa ai suoi ragazzi sparsi in giro – Fler e Chakuza che si intravedono appena davanti ai lavandini nel bagno comune, intenti a lavarsi i denti, Eko e Kay già appollaiati sulle sedioline davanti alla tv che gridano alle guardie di cambiare canale per sentirsi rispondere di andarsene a fanculo, Saad seduto ad uno dei tavolini più distanti, le mani incrociate sotto il mento e un’aria pensosa a rendere duri e cupi i tratti del suo viso – e si compiace di vedere tutto in ordine. Fra un’ora al massimo, gli impiegati nel laboratorio tessile verranno smistati nella loro area, e dopo non molto anche gli addetti al servizio postale interno alla prigione abbandoneranno il braccio. Da ultimi, lui e i suoi ragazzi, verso le undici, andranno in cucina per cominciare a provvedere alla pulizia della sala mensa e al pranzo per tutti i detenuti. E la giornata passerà così, fra un’incombenza e l’altra, un po’ di svago in palestra e un’occhiata indagatrice lanciata in giro per il braccio per assicurarsi che nelle ore buche Sido e i suoi non combinino qualche cazzata di cui lui sarà costretto a pagare le conseguenze, fino al ritorno in cella e al buio.
Sbadigliando ancora un po’, si avvicina a Saad, prendendo posto accanto a lui. Il libanese lo saluta con un cenno del capo, continuando a fissare ostinatamente il vuoto, quell’espressione cupa dipinta sulla faccia. Lui e Baba Saad, com’è più noto per strada, si sono conosciuti per un caso fortuito; Bushido in quel periodo si trovava in carcere a scontare una pena di qualche mese per possesso illegale d’arma da fuoco. Saad, allora, era poco più che un ragazzino e infinitamente meno di un uomo. L’avevano fermato per guida in stato di ubriachezza e gli avevano trovato in tasca un po’ di merda, roba a basso costo, che intendeva rivendere per pagarsi qualche sfizio e magari un po’ di sesso, e così era finito dentro per qualche mese anche lui. Li avevano piazzati in cella insieme, Bushido s’era fatto raccontare la sua storia – la fuga dal suo paese devastato dalla guerra, i soldi che non bastavano mai, i genitori che avevano progressivamente smesso di interessarsi di lui, troppo pressati dalle difficoltà economiche – e poi gli aveva detto di fare il bravo per i mesi che gli restavano da scontare, ed andarlo a cercare a Tempelhof non appena fosse uscito. Avrebbe trovato lui un buon lavoro da affidargli, qualcosa per cui sarebbe stato protetto, entro i limiti per i quali si poteva essere protetti facendo un mestiere come il loro, e così, quando, qualche mese dopo di lui, anche Saad era uscito di galera, Bushido l’aveva subito preso fra i suoi, e l’aveva messo a spacciare su circuiti sicuri, roba buona. Non l’aveva più lasciato andare.
Quando Bushido è stato arrestato per la seconda volta, e s’è ritrovato a dover gestire la consapevolezza di dover rimanere in carcere per almeno altri sei anni, è stato a Baba Saad che ha lasciato tutto. Gli ha detto di tenere a bada ogni cosa, di circondarsi di amici fidati, nel caso dovesse succedere qualcosa anche a lui, e quando poi anche Saad è stato di nuovo messo dentro, salutandolo al suo arrivo non si è stupito di trovarlo sereno e sorridente. “Fuori è tutto a posto, Bu, si occupa di tutto D-Bo,” gli ha detto, e Bushido gli ha rifilato una gran pacca sulla spalla e si è sentito molto, molto orgoglioso di lui, come non si era mai sentito orgoglioso di nessun altro in vita sua.
- Mbe’? – gli chiede adesso, sistemandosi sulla sedia e tirando fuori dalla tasca dei pantaloni un mazzo di carte, che comincia immediatamente a mescolare, - Cos’è quella faccia scura?
Saad scrolla le spalle, come se improvvisamente, qualsiasi fosse il pensiero che l’aveva tenuto sulle spine fino a poco prima, ora non avesse più alcun problema nel mondo, e si volta a guardarlo, distogliendo gli occhi da quel punto vuoto che prima sembrava fissare con tanta intensità.
- Te lo dico io, non mi piace come si stanno mettendo le cose. – gli dice, facendogli cenno di distribuire pure le carte, se vuole. Bushido provvede immediatamente, senza risparmiarsi un sorriso di vago scherno per quel tono così cupamente profetico. Si fida di Saad, lavorando con lui ha imparato a tenere conto delle sue percezioni, ma ultimamente il ragazzo sembra essersi fatto inutilmente sospettoso, specie nei confronti di Sido, che è sì uno stronzo, ma non è un coglione, e sa bene quali sono i propri limiti, e quanto oltre può spingersi prima di sorpassarli.
- E come si starebbero mettendo queste cose? – domanda quindi, controllando con una rapida occhiata le carte che ha in mano e confrontandole con quelle che ha disposto sul tavolo.
Saad sospira, quasi offeso da quel suo tono così ilare, che deve giudicare estremamente fuori luogo.
- Ti dico che Sido sta macchinando qualcosa. – dice a bassa voce, cospiratorio, - Quello ormai non si accontenta più di niente. Droga, sigarette e porno non gli bastano più. L’altra volta l’ho visto parlare con due checche in un angolo del cortile, durante l’ora d’aria.
- E che ti devo dire? – scrolla le spalle Bushido, raccogliendo un paio di carte dal tavolo con una delle proprie e mettendole da parte in un mazzetto, - Si sarà svegliato con un certo languorino, quel giorno.
- Cazzone. – borbotta Saad per tutta risposta, allungandosi a tirargli uno scappellotto dietro la nuca e, già che c’è, sporgendosi per vedere cos’ha in mano, prima di fare la propria mossa. Bushido lo lascia libero di muoversi come crede, ridendo divertito, e poco dopo Saad riprende a parlare. – Bu, a quello non piace l’uccello, e il buco del culo nemmeno, e quella strafiga della sua signora viene a trovarlo due volte al mese. Ti dico che ha in mente qualcosa.
- Ma qualcosa tipo cosa? – ride Bushido, finendo di ripulire il tavolo dalle carte, - Scopa! Oggi ti tocca pulire la friggitrice.
Saad ignora sia l’ordine che l’esultanza con cui Bushido accompagna la vittoria, e continua a fissare l’ultima carta che gli è rimasta in mano, come fosse incerto sul da farsi.
- E se stesse organizzando un giro di prostituzione? – domanda curiosamente, e Bushido inarca un sopracciglio.
- Qui dentro? – chiede di rimando, accennando con le braccia all’ambiente chiuso che li circonda, e con un cenno del capo agli agenti di custodia che fanno la ronda tutto attorno a loro. Saad scrolla le spalle, come se questi fossero particolari del tutto irrilevanti.
- Sai meglio di me che se si vuole trovare un luogo appartato in cui fare qualcosa senza essere visti, qua dentro, lo si trova, esattamente come lo si trova di fuori. – gli fa notare. Bushido sbuffa, già annoiato dalla questione.
- Senti, facciamo così: - dice per tagliare corto, - io sono l’ultima persona che voglia guai in questo braccio, - lo rassicura, - per cui ti prometto che terrò le orecchie ben tese e, al primo segnale di pericolo, ci muoveremo per rimettere le cose a posto. Ok?
Saad sbuffa qualcosa, probabilmente un assenso, ma non è per niente soddisfatto dalla risposta. Tuttavia, evita di proseguire nelle proprie rimostranze quando vede avvicinarsi Fler e Chakuza che, giocando come due idioti a tirarsi colpi di asciugamano ancora umido sulla schiena e sul sedere, prendono posto sulle due sedie rimaste vuote attorno al tavolino. Fler, in particolare, gira la propria al contrario, in modo da potersi sedere a cavalcioni, il viso rivolto al grande cancello che separa il corridoio del braccio dal resto della prigione, insomma, la porta dalla quale chiunque voglia uscire e chiunque voglia entrare deve necessariamente passare.
- Oggi arriva un po’ di carne fresca. – dice con una certa eccitazione, le spalle tese sotto la canottiera così attillata da mostrare tutti i tatuaggi che ha addosso senza coprirne quasi neanche uno. La sua emozione è facilmente comprensibile, se si pensa che in prigione si hanno pochi svaghi oltre a quelli di vedere ogni tanto un po’ di facce nuove e prenderle di mira fino a quando non saranno diventate anche loro facce vecchie, ma Chakuza non coglie la sfumatura e, sbuffando infastidito, gli tira una scarpata.
- Attento che ti si vede sbavare da qui. – lo minaccia, mentre Fler ride e gli ritira indietro la scarpa, - Cazzo, guarda che non è femmina davvero, ci assomiglia soltanto. – borbotta, e Saad si volta a guardarlo, incuriosito.
- Allora è vero? – domanda, e Chakuza annuisce, incrociando le braccia sul petto.
- Sì, lo trasferiscono qui. E il mio consiglio personale e spassionato è di starne tutti alla larga. È un ragazzino instabile e pericoloso, e come ha staccato l’uccello a morsi a quella guardia giurata che ha cercato di farselo succhiare, può staccarlo a chiunque di noi.
Bushido ride divertito, recuperando le carte e riprendendo a mescolarle con destrezza.
- Capito, Saad? – dice in tono canzonatorio, - Stai attento a ciò che dice il Chaku! Se per caso una notte senti che l’uccello se ne sta uscendo dalle mutande da solo per andarsi a fare una passeggiatina in bocca alla puttana, svegliati di corsa e vallo a recuperare, o potresti non vederlo più tornare a casa!
- Sfotti, sfotti. – borbotta Chakuza, imbronciandosi, mentre Fler ride a crepapelle, piegato in due sulla spalliera della sedia, e Saad taglia il mazzo che Bushido gli porge, apparentemente nient’affatto divertito dalla piega che sta prendendo la conversazione. – Poi magari quello decide di ripetere la performance con qualche sventurato pure qui, e addio pace nel braccio. Chissà con chi se la prenderà Jost, quando avrà bisogno di un capro espiatorio?
- Oh, Chaku, ma quanto la fai lunga? – sospira Bushido, continuando a ridere e distribuendo carte a tutti e quattro, - Per evitare che uno ti stacchi il cazzo a morsi, basta non infilargli il cazzo in bocca, ti pare? Col fatto che questo Kaulitz arriva qui già famoso per meriti pregressi, scommetti che non dovrò nemmeno spargere la voce che è off-limits? Non gli si avvicinerà nessuno!
- Sarà. – commenta Fler, continuando a sbirciare il cancello di tanto in tanto, - Dicono che sia molto bello.
- Per quanto mi riguarda, - protesta Saad, - potrebbe avere pure il viso di un angelo, ma se in mezzo alle gambe ha un uccello, non è roba per me.
- Sei fortunato, dunque, il tuo arnese è salvo. – esulta Bushido, ridendo sguaiatamente mentre Fler gli fa eco e Chakuza, sentendosi probabilmente trattato con scarsa considerazione rispetto a quella che meriterebbe, continua a borbottare in una litania di grugniti intraducibili in dialetto austriaco stretto.
Passano solo un paio di minuti – in cui Bushido continua a battere tutti, distribuendo gli incarichi più disgustosi in cucina ogni volta che porta a casa un punto – e poi si sente scattare la serratura del cancello. Tutti i prigionieri che, nell’ultima mezz’ora, sono arrivati ad affollare la sala comune, alzano la testa, interrompendo le proprie attività di colpo per osservare i nuovi detenuti in arrivo. C’è qualche volto conosciuto, per qualcuno. Volano sorrisi e battute, qualche saluto in un italiano tanto finto e forzato da non riuscire nemmeno in parte a coprire l’accento tedesco – Bushido li odia quelli che fingono di saper parlare la lingua dei loro padri, pur essendo tedeschi che più tedeschi non si potrebbe; lui finge forse di saper parlare il tunisino, solo perché la sua pelle è del colore del caramello e quella testa di cazzo di suo padre ha avuto la geniale pensata di nascere in un paese pieno di morti di fame dal quale è dovuto fuggire prima di poter incontrare sua madre a Bonn? Certamente no – ma naturalmente in meno di un secondo tutti gli occhi vengono calamitati dalla figura magra e quasi trasparente che se ne sta rintanata dietro le figure più robuste degli altri detenuti.

Bill Kaulitz ha diciott’anni compiuti da tre settimane, e se ne sente addosso centodiciotto almeno mentre passeggia lentamente per la strada ormai quasi del tutto silenziosa, fatta eccezione per lo scalpiccio dei propri stessi passi sul marciapiede umido di brina. È tardi, o forse è molto presto. Saranno le cinque del mattino almeno, si vede già il sole rischiarare dal basso l’orizzonte e il cielo, fino a lambire perfino qualche nuvola. Le prime notti che ha passato solo per strada, Bill non poteva fare a meno di fermarsi affascinato a fissare l’alba, ogni volta che gli capitava di vederne una. Più che la poesia del fatto in sé, lo colpiva essere riuscito a sopravvivere alle notti, al loro gelo, al calore umido e appiccicaticcio delle mani che lo toccavano, lo tiravano, gli strappavano i vestiti di dosso, lo aprivano, lo frugavano, lo riempivano di lividi. Passeggiando verso la squallida stanzetta senza mobili che si ostina a chiamare casa più per rivendicazione di orgoglio che perché assomigli ad una casa vera, quante volte ha rallentato il passo per lasciare che l’aria fresca del mattino gli scacciasse un po’ di dosso quell’orribile calore che ormai aveva cominciato ad associare alla notte?
Ora questa poesia, o almeno quel poco che ne restava, s’è dispersa. Sopravvivere giorno dopo giorno ha smesso di essere un miracolo, è diventata routine. Il vero miracolo, si dice anche adesso, mentre intravede la propria scalcinata palazzina fare capolino in fondo alla strada e per questo comincia a rovistare nelle tasche della giacca per tirare fuori le chiavi del portone, il vero miracolo sarebbe crepare, una buona volta.
Suo fratello lo aspetta nascosto nell’ombra dietro un pilastro, dove la luce del lampione non può raggiungerlo. Nel notare l’ombra scura che gli si avvicina, Bill sussulta e tira fuori il coltellino che porta sempre con sé, puntandoglielo contro. Lui, però, si mette in favore di luce abbastanza in fretta da scampare a morte certa.
- Tomi. – esala Bill, richiudendo la lama e rimettendo a posto il coltellino nella tasca interna della giacca, - Quante volte ti ho detto di non arrivarmi mai alle spalle? Potevo ammazzarti.
- Scusa. – biascica Tom, tenendo le mani ben sollevate sopra la testa finché il coltello non sparisce, per poi lasciarsele ricadere come inermi lungo i fianchi. – Come stai? Era un po’ che non venivo a trovarti.
- Fa niente. – scrolla le spalle lui, distogliendo lo sguardo, - Ti ho detto mille volte di non farlo. Non voglio che ci vedano insieme.
- Bill, ti prego… - sospira suo fratello, allungando una mano verso di lui e accarezzandogli lievemente una guancia. Bill si ritrae all’istante, e Tom spalanca gli occhi. – È gonfia. – esala, avvicinandoglisi velocemente e scostandogli i capelli dal viso per guardarlo meglio mentre Bill cerca inutilmente di ripiegare il collo contro la spalla, come un cigno, nel tentativo di difendersi dal suo sguardo indagatore. – Ti hanno picchiato?
- Non è niente di grave. – risponde lui, minimizzando. – Adesso torna a casa, è quasi mattina. Devi andare a scuola.
Tom lo afferra per le spalle, e per qualche secondo sembra che voglia prendere a scuoterlo così forte da mandarlo in pezzi. Poi, però, si limita a tirarselo contro, appoggiandogli una mano sulla testa per costringerlo a reclinarla contro il suo petto. Bill fa un po’ di storie, ma quando il suo profumo dolce lo avvolge interamente non può fare a meno di lasciarsi andare, e stringere con forza fra le dita un lembo dell’enorme maglietta che indossa.
- Torna a casa con me. – gli chiede suo fratello, e Bill scuote il capo. Questa scena, negli ultimi anni, si è ripetuta talmente tante volte che a Bill ormai il solo pensiero di doverla ripetere ancora dà la nausea. Si allontana da suo fratello con un gesto secco.
- Vattene, Tom. – dice aspro, guardandolo con durezza. Tom si morde un labbro.
- Resto qui con te, stanotte, magari. – prova. Bill scuote il capo un’altra volta.
- Non sto ancora rientrando. – mente, ma quando capisce che Tom non ha intenzione di andarsene è costretto a cambiare i programmi per la serata, o quello che ne resta. – Sul serio, sto andando al bagno pubblico per vedere se c’è qualche vecchio rincoglionito insonne che ha ancora voglia di scopare. – dice, utilizzando di proposito tutti i termini più feroci, quelli che, lo sa, danno a Tom i brividi dal disgusto.
- Lascia stare, - insiste suo fratello, infilando le mani in tasca e tirandole fuori piene di soldi, - per stasera basta, ti do qualcosa io.
Bill prende le banconote dalle sue mani e le conserva, ma gli volta comunque le spalle.
- Tornatene a casa. – dice un’ultima volta, prima di dirigersi verso il bagno pubblico, un passo dopo l’altro.
Il posto è di uno squallore che lo atterrisce, ed è così ogni volta. Inizialmente, Bill pensava che sarebbe stato facile abituarsi a tutti quei terribili dettagli che ormai rappresentano la sua quotidianità, ma se questo è stato vero per il vivere da solo, per quel buco del suo appartamento, perfino per il dover battere le strade, per le scopate dolorose quando andava male e disgustose quando andava bene con i suoi clienti e per gran parte di tutte le altre cose che rendono la sua vita terribile e vergognosa, l’orrore che prova ogni volta che varca la soglia del bagno pubblico non è mai riuscito a sfumarsi in una sensazione meno spaventosa, o meno violenta. Ogni volta che entra lì dentro sente chiaramente un piccolo pezzo di sé che muore, ed è convinto che, quando finalmente creperà, sarà per colpa di questo dolore sordo e accecante che prova ogni volta che frequenta il bagno pubblico. Sarà lui ad ucciderlo, lui con le sue piastrelle sporche agli angoli e nelle intercapedini fra l’una e l’altra, quando il cemento emerge da sotto, lui ed i lavandini che funzionano uno sì e uno no, lui e le ragnatele agli angoli del soffitto, lui e le porte cigolanti dei cessi sempre sporchi, lui e i drogati che vengono a vomitare l’anima ogni notte, quelli che ogni tanto, accasciati contro la tazza del cesso, vomitano così tanto da non lasciarsi in corpo più niente, nemmeno il cuore che batte.
Bill morirà qua dentro, ne è certo, morirà perché sarà questo posto ad ucciderlo. Ma non stanotte.
Stanotte la luce al neon funziona a intermittenza e il bagno pubblico è silenzioso, eccezion fatta per un tipo che se ne sta in disparte, davanti all’ultimo lavandino, e si lava le mani con l’aria di uno che è lì a lavarsi le mani da un bel po’, in attesa di qualcosa che sembrava non dovesse arrivare mai, e che quando lo vede avvicinarsi si ferma istantaneamente, come se quel qualcosa che stava aspettando da tanto finalmente si fosse deciso a raggiungerlo.
Bill gli sorride, appoggiandosi alla parete accanto a lui e sporgendo in avanti il bacino mentre incrocia le braccia sul petto. È un bell’uomo, alto, magro, brizzolato. Ha occhi azzurri ed espressivi, appena segnati da qualche ruga d’espressione sul contorno. Potrebbe quasi andarci a letto solo per concludere in bellezza la serata, se non sapesse che la quasi totalità di quelli che vanno a puttane lo fanno solo perché nessun altro li vuole, il che automaticamente li inserisce nella categoria degli sfigati, o comunque di gente con la quale il resto della gente non va a letto. Certo, il tipo è carino, ma da qualche parte la fregatura dev’esserci. Magari puzza, magari non gli si rizza o resta su due minuti e poi si sgonfia subito, magari ce l’ha piccolo, o magari troppo grosso, magari è uno di quelli con la testa piena di un sacco di idee strane e pericolose e Bill sta andando a cacciarsi in un guaio ancora più enorme di quello in cui è già. La fregatura dev’esserci per forza, ma in questo momento tornare a casa non è un’opzione, perciò Bill non ci sta a pensare su più di tanto, e si butta.
- Ehi, - dice, guardandolo seducente, - ti va di divertirci un po’? Non costo molto, scommetto che resterai sorpreso.
E invece, a restare sorpreso è lui. Il tizio sorride, si apre la giacca, infila una mano nella tasca interna, tira fuori il distintivo.
- Polizia. – dice.
Eccola qua, la fregatura.
Si lascia condurre in centrale, anche perché sa che resistere non farebbe altro che peggiorare la sua situazione. Gli chiedono un documento d’identità, ma lui non ne ha uno. Il poliziotto che lo sta interrogando ghigna e gli fa sapere che una notte in gattabuia non gliela leva nessuno. D’accordo, pensa Bill, chi se ne frega, e quando il tizio gli chiede di identificarsi lui risponde sollevando il medio.
- È identificativo abbastanza? – domanda con aria di sfida. Il poliziotto gli sferra un manrovescio che, se non fosse ammanettato alla sedia, lo manderebbe giù per terra. Bill sente i muscoli delle spalle, delle braccia e del collo tirare dolorosamente, ma non fa una piega. Quando torna a guardare il poliziotto, gli scivola giù dalle labbra un rivolino di sangue.
- Mi fai schifo. – dice l’uomo, lanciandogli un’occhiata disgustata da così vicino che Bill può sentire l’odore del suo alito. Sa di mentine e caffè. Non è del tutto spiacevole. Quello di suo padre odorava allo stesso modo. – Tutti quelli come te mi fanno schifo.
Le similitudini fra il poliziotto e suo padre non si fermano all’odore dell’alito, pare.
Viene portato in carcere immediatamente. Il commissariato in cui l’ha trascinato il poliziotto che l’ha adescato per strada non è attrezzato per ospitare qualcuno per la notte. È un buco piccolo, squallido e triste all’interno del quale poliziotti assonnati che si tengono su un caffè dopo l’altro si aggirano con aria persa, consapevoli di stare gettando via la propria vita fra quattro mura, nascosti dentro una divisa, dietro a un distintivo, alle spalle di una pistola che avrà sempre più potere di loro. Per strada, Bill era altrettanto consapevole di stare buttando via se stesso, ma almeno non era costretto a nascondersi in una stanzetta satura di fumo e polvere. Le strade erano il suo regno, la sua casa, la sua unica, vastissima prigione. Lui aveva imparato a conoscerle e a non sentirsi solo e sperduto nella loro immensità.
Per questo motivo, la cella in cui lo scaraventano gli pare claustrofobica. In realtà è abbastanza consapevole del fatto che non si tratti di una cella propriamente piccola, anzi, è abbastanza spaziosa. C’è un letto, un letto vero, con un bel materasso di gommapiuma e la rete di metallo, che è molto più di quanto si possa dire del sottoscala in cui vive, c’è una finestra, un lavandino e un cesso pulito da usare, se ne ha voglia.
Non ne ha voglia. Resta tutta la notte raggomitolato in un angolo, sul pavimento, a tremare. Vuole uscire di lì, vuole uscire di lì immediatamente. È talmente sotto shock da non riuscire a pensare a niente. Si addormenta così, per inerzia, perché gli si svuota la testa e non riesce a tenersi sveglio solo ascoltando il rumore dei propri denti che battono.
Quando sente la serratura della cella scattare, si sveglia di soprassalto. È lucido, molto più di quanto non lo fosse quando si è addormentato, e non trema più. Anche la sua posizione è più rilassata. Fa per alzarsi da terra, d’altronde immagina che la guardia appena entrata sia venuta per accompagnarlo fuori, ma quello gli allunga addosso le mani con una tale velocità che Bill non fa in tempo a scansarsi, e lo manda a sbattere contro la parete alle sue spalle. Bill urla, sente il proprio grido vagare per tutto il corridoio silenzioso con la sola risposta dell’eco e contemporaneamente sente qualcosa nella propria spalla scricchiolare pericolosamente, e fa male, malissimo, ma non ha il tempo di urlare anche per quello che subito dovrebbe trovare la forza per urlare per il dolore che gli causa la mano della guardia stretta attorno al suo collo sottile, come volesse soffocarlo. Urlerebbe volentieri un’altra volta, adesso, sì, ma non riesce a trovare fiato a sufficienza.
Il poliziotto si prende tutto il tempo che gli serve per osservarlo accartocciarsi sul pavimento come una foglia morta, e poi slaccia la cintura e i pantaloni. La cintura la sfila proprio dai passanti, e quando si china su di lui la usa per legargli i polsi dietro la schiena. Bill geme di dolore e cerca di capire cosa cazzo stia succedendo, ma il poliziotto lo tira su di peso, lo scaraventa di nuovo contro la parete e subito dopo gli è addosso infilandogli l’uccello in bocca di prepotenza, tenendogliela aperta con il pollice e l’indice premuti contro le guance, la punta del cazzo che gli sfiora l’imboccatura della gola, costringendolo a tossire e contorcersi per lo stimolo di vomitare mentre quella bestia schifosa si muove, scopandogli la bocca senza vergogna, grugnendo come un animale, come l’animale che è.
Bill si sente soffocare, si sente soffocato dal vomito, dalla saliva, dalla presenza ingombrante che gli invade la gola con tanta forza e prepotenza da sembrare voglia attraversarlo tutto fino allo stomaco, e l’unica cosa che riesce a pensare è che lui, una cosa del genere, non l’ha mai fatta se non per soldi. Mai, mai nella sua vita.
E non intende cominciare a subirla adesso.
Cerca di rimettersi dritto, trova la forza di spingere l’erezione dell’uomo fuori dalla propria bocca di qualche centimetro, facendo pressione con la lingua, abbastanza per riprendere a respirare e consentirsi un po’ di tregua dai conati di vomito, per poter ragionare lucidamente. L’uomo si accorge subito di quello che sta succedendo, e ghigna, un po’ sorpreso, quando lo sente cominciare a succhiare docilmente.
- Troia…! – esala, riprendendo a spingersi dentro di lui, anche se, ora che sa di non doverlo più forzare, il suo ritmo s’è assestato su un tipo di violenza meno invasiva e più umiliante, - Lo sapevo che andavi solo addomesticato un po’… Che troia sei, succhialo, bravo.
Bill si permette perfino di mugolare appena, e quando l’uomo geme un “sì” arreso e perso, e molla la presa sul suo viso, Bill chiude i denti come tenaglie, stringendo forte.
L’uomo comincia a urlare immediatamente. Il suo grido è potente come una deflagrazione, non aumenta d’intensità coi secondi, è subito alto, rauco e grondante di dolore, e non fa che farsi sempre più disperato e senza scampo quando la guardia, in preda al panico, comincia a dimenarsi per sottrarsi a quella stretta mortale, con l’unico risultato di costringere Bill a stringere ancora di più la presa, come in un riflesso condizionato, come fosse un animale selvaggio che è finalmente riuscito ad agguantare la propria preda per il collo dopo un inseguimento sfiancante, e che adesso non ha la minima intenzione di lasciarla andare.
Non lo molla, neanche quando le luci nel corridoio si accendono. Neanche quando comincia a riempirsi di guardie. Neanche quando quelle stesse guardie si mettono a urlare, cercano di aprire la grata della cella che il bastardo, entrando, s’è richiuso alle spalle per evitare che lui fuggisse. Bill sorride storto, continuando a stringere quel cazzo disgustoso, ormai livido e sanguinolento, fra i denti serrati. Sono in prigione, in prigione insieme, e nessuno potrà salvarlo.
Per il momento in cui le guardie riescono a trovare un duplicato delle chiavi della cella per entrare, l’uomo è già svenuto. Si è accasciato a terra come senza vita, gli occhi chiusi, il respiro corto. Bill molla appena la presa, poi la stringe di nuovo e con uno scatto violento solleva la testa.
L’uomo spalanca gli occhi, lancia un grido lancinante e poi torna a stendersi per terra, contorcendosi come un’anguilla, mentre dal moncherino che gli è rimasto fra le cosce scorrono fiumi di sangue scuro e denso.
Bill sputa lontano il proprio pasto indigesto, e quando le guardie gli si avvicinano per tirarlo su e trascinarlo via, coi denti e le labbra ancora tutti sporchi di sangue, sta ancora sorridendo.
Di prigione non esce più. Non ha la minima idea di che fine abbia fatto l’agente che, a quanto pare, ha quasi ucciso. E sembra che a nessuno importi che quello la sua fine, qualunque sia stata, se l’è meritata, perché ha cercato di stuprarlo. Pare che il fatto che Bill non abbia quasi una casa, che si sia rifiutato di identificarsi, che faccia la troia per tirare a campare e che fosse stato rinchiuso in una cella per passare la notte in attesa di accertamenti, in qualche modo legittimasse lo stronzo che gli ha ficcato l’uccello in gola, che quasi lo incoraggiasse a farlo.
Lo tengono isolato in una cella finché il processo non finisce. Nel mentre, la sua storia fa il giro della prigione, o almeno così gli dice il detenuto incaricato dalla mensa di portargli da mangiare sotto la sorveglianza degli agenti di custodia. Bill piange ventiquattro ore al giorno, ma non vedere mai la luce del sole non lo aiuta a capire quanto tempo stia passando.
Lo tirano fuori di lì un giorno, gli dicono che è per presenziare al processo. Bill non ne capisce un cazzo. Non ha mangiato quasi niente, negli ultimi giorni, non si lava da settimane, o almeno così gli sembra, gli fa male una spalla e si sente debole, tanto da riuscire appena a camminare.
Una cosa, però, la capisce. I dodici anni che gli danno per aver quasi ammazzato quel figlio di puttana. Da scontarsi nel carcere in cui è già recluso. Capisce anche che, almeno, lo tireranno fuori dall’isolamento. Lo spostano al braccio A, o almeno così gli pare di capire. Perché è un braccio tranquillo, perché lì non ci sono mai casini, perché lì l’ordine è rispettato.
A Bill questo non interessa. Gli basta uscire dal buco dove è stato rinchiuso fino ad ora. Pensa che riuscirà perfino a sorridere quando, finalmente, si sarà lasciato alle spalle la cella d’isolamento.
Ma non è così.


Bushido gli lancia un’occhiata incuriosita, studiando la sua figura – il collo e i polsi magrissimi, la pelle quasi trasparente, gli occhi grandi e pesanti di trucco sbavato, i capelli lunghi e in disordine – e per un secondo il ragazzino incrocia il suo sguardo e sembra ricambiarlo con aria di sfida, corrugando le sopracciglia e tendendo le labbra fino a ridurle ad una linea sottile e livida di rabbia, che gli taglia in due il volto.
- È lui. – gli dice Fler, sporgendosi verso il suo orecchio per sussurrare, - Te l’avevo detto che era bello.
Bushido annuisce, pensieroso. Forse, dopotutto, un paio di voci gli toccherà farle circolare comunque.

*

La guardia viene a prenderlo a mezzogiorno, il momento meno opportuno per distoglierlo dalla cucina perché i suoi sono bravi ragazzi ma, senza l'ombra della sua persona a fargli venire la stretta al culo, quelli si siedono da una parte e se la prendono comoda, così poi i compiti si ammucchiano, le cose non vengono fatte, la gente s'incazza e la tensione sale. Vorrebbe fargli capire che fare quello che devono fare nei tempi in cui va fatto non ridurrebbe la loro virilità, ma permetterebbe a tutti quanti di farsi molto prima i cazzi propri; ma è difficile convincere qualcuno di una teoria astratta quando quello capisce soltanto le cose di cui può avere un riscontro immediato. E siccome lavorare quando nessuno ti guarda ti porta solo ad essere sfottuto dal resto della gente che ti circonda, quelli non fanno niente. Bushido, d'altronde, nemmeno si stupisce; lui lo sa che non tutti nascono capi e molti non nascono nemmeno soldati, ma stupide pecore incapaci di ragionare anche al livello più basilare. E' già abbastanza fortunato a dover gestire un branco di disadatti con poche perversioni che quando parla lo sta a sentire, non può anche pretendere da loro un'organizzazione di tipo pratico.
“Ferchichi,” lo chiama la guardia, porgendogli le manette già aperte e aspettandosi che lui faccia lo stesso con i propri polsi.
Bushido si volta aldilà del banco su cui poi appoggeranno i contenitori d'acciaio con il cibo da servire ai detenuti. Si pulisce la mano su uno straccio che tiene legato in vita e fa un cenno interrogativo alla guardia, senza mai staccare gli occhi dai suoi.
“Jost ti vuole nel suo ufficio,” precisa il secondino.
“Motivo?” Chiede Bushido, allungando le braccia perché quello possa chiudergli le manette intorno ai polsi. Il freddo del metallo e la stretta improvvisa – guarda caso sempre accidentalmente esagerata – non gli fanno nemmeno più effetto, sono diventati parte della routine che costituisce il tragitto per e dall'ufficio del direttore.
“Perché, Ferchichi? Se non ti piace, non vieni?” Sorride sprezzante la guardia, spingendolo in malo modo fuori dalla cucina.
Bushido ricambia con una smorfia strafottente, senza voltarsi verso l'uomo che gli cammina alle spalle. “Il grande capo chiama, dev'esserci qualcosa di grosso dietro.”
“Magari ti danno la grazia,” lo prende in giro la guardia, mentre lo scorta oltre l'area comune, dove i detenuti presenti si voltano a guardarli, subito incuriositi dalla novità. “Sei quello buono tu, no?”
Non capita spesso che Bushido finisca nei guai e sono in molti ad esserne contenti. Qualcuno più coraggioso ghigna nella sua direzione, altri si limitano a fissarlo con espressione indecifrabile.
Bushido serra la mascella e si sforza di non rispondere alla guardia. Sa per esperienza che c'è un limite ben preciso fin dove ci si può spingere a reagire con loro, poi quelle ti spaccano la testa a manganellate e tu hai comunque torto. Allunga il passo dietro suggerimento del secondino e, mentre cammina, lancia un'occhiata agli uomini di Sido che lo seguono con lo sguardo finché non sparisce oltre la prima cancellata. Sido però non c'è.
L'ufficio del direttore Jost è l'unica stanza del braccio A che sembri apparentemente un posto normale.
C'è una vera porta in legno, delle vere finestre – anche se sbarrate – e un vero arredamento.
L'uomo siede dietro una scrivania da ufficio larga quanto tutta la cella di Bushido e, quando lui e la guardia entrano dopo aver ottenuto il permesso, lo trovano indaffarato a firmare una gran quantità di fogli.
“Puoi andare, Hans, Grazie,” dice alla guardia, alzando soltanto una mano ben aperta.
Quella lancia un'occhiata a Bushido che ormai conosce la procedura e se ne sta in piedi a due metri dal direttore, le mani ammanettate bene in vista e il capo chino, anche se la sua espressione suscita più noia che ubbidienza. E' così che funziona con Jost, ti chiama e poi te ne stai tre ore ad aspettare che abbia finito i suoi comodi, come se tu non avessi niente di meglio da fare che contare i rombi sul suo tappeto indiano. Ancora non l'ha capito che pulire il pavimento dei cessi è sempre più emozionante che stare a sentire lui.
“Sta tranquillo, Hans,” dice Jost dopo qualche secondo di silenzio durante il quale non ha sentito la porta chiudersi, “il signor Ferchichi sa bene che aggredirmi non gli conviene.”
“Ma signore,” insiste Hans.
Jost mette ancora qualche firma, la sua stilografica graffia la carta con un suono fastidioso. Poi sospira e richiude la penna. “Vai pure, Hans,” ripete con calma ma con decisione. “Qua ci penso io.”
Nel braccio A non ci sono buone guardie. Ci sono solo guardie stronze e guardie che lo sono un po' meno. Bushido sa che Hans fa parte del secondo gruppo. E' uno che sa di fare un mestiere di merda che non vale i due spiccioli in più che guadagna, ma lo fa perché ha due marmocchi a casa e quelli devono mangiare. E' un coglione, naturalmente, come quasi tutte le divise, però è quel tipo di coglione che Bushido tollera perché almeno non ti colpisce per divertimento quando si annoia. Hans rompe i coglioni solo quando proprio gli gira male, che è più o meno quando comincia a pesargli di stare in questo buco con loro per delle settimane di fila e di vedere la moglie due ore al giorno mentre lei dorme, se va bene.
Hans gli lancia un'ultima occhiata e poi decide che se il direttore Jost vuole rischiare la vita di sua spontanea volontà, non è affar suo. Jost scrive ancora un po' e quando finalmente mette giù la penna, Bushido ha i crampi alle braccia, ma col cazzo che cambia posizione e lo dà a vedere.
“Ferchichi, siediti,” gli dice Jost, togliendosi gli occhiali da lettura e massaggiandosi la radice del naso.
Bushido non si muove, si limita a sollevare lo sguardo su di lui e a lasciar penzolare la testa di lato con aria annoiata. “Preferisco di no,” risponde.
Jost inspira tra i denti e poi si appoggia allo schienale della poltrona. “Fare il duro non ti servirà a niente,” gli dice per nulla colpito. “Non ti ho chiamato per qualcosa che hai fatto.”
“Non avrebbe potuto, non ho fatto niente,” ribadisce lui, sul viso un'espressione indecifrabile.
“Tu fai sempre qualcosa, Ferchichi,” commenta Jost. “Io devo solo provarlo.”
“Auguri,” sorride Bushido, scuotendo un po' le spalle in una risatina silenziosa.
Bushido e Jost possono dire di conoscersi da un sacco di tempo, anche se nessuno dei due la considera propriamente una conoscenza piacevole. All'epoca, lui faceva dentro e fuori dalla sua cella già da sei anni, quindi si può dire che quando Jost è arrivato a posare il culo sulla sua poltrona di pelle, la prigione gliel'hanno consegnata già con Bushido dentro che faceva il bello e il cattivo tempo come il capo quartiere che è. I primi tempi è stata dura perché lui non era affatto il direttore che è adesso, e Bushido ci godeva come un maiale a farlo impazzire. Gli isolamenti che si è fatto anche per delle cazzate durante i primi anni di Jost, sono quelli che sono valsi davvero la pena. Poi, col tempo, Jost ha tirato fuori le palle, si è guadagnato il suo rispetto – Bushido è disposto a capire solo quello, d'altronde – e le cose hanno iniziato ad ingranare diversamente. E' stato Jost a volere il suo trasferimento nel braccio A quando si è costituito e, anche se Bushido non ha mai promesso realmente di farlo, butta un occhio per impedire che la gente si accoltelli troppo, da quelle parti.
“Ti ho chiamato,” riprende Jost “Perché ho una questione da discutere con te.”
“Farà meglio ad essere interessante.” Bushido solleva un sopracciglio, scettico. “Perché la sala mensa è un posto delicato, Jost. E io sono in questo tuo ufficietto di merda da più di mezz'ora. Se qualcuno decide che era il momento buono per aprire in due qualche stronzo, non te la prendere con me.”
“Avrai notato i nuovi arrivi oggi,” dice Jost.
Bushido socchiude gli occhi e fa un cenno disinteressato col capo. “Può essere,” risponde vago.
“Uno di loro si chiama Bill,” continua Jost, pazientemente. “E' poco più che un ragazzino e gli hanno dato dodici anni per tentato omicidio.”
In quella descrizione Bushido non ha alcun problema a riconoscere il corpo esile ed emaciato che ha attraversato l'area comune incollato alla guardia, quella mattina, perciò annuisce. “E allora?”
“Sai perfettamente com'è la vita qua dentro per quelli come lui.”
Quando entri in galera puoi essere tre cose: puoi essere uno che si fa rispettare, uno che non lo fa e puoi essere morto. Difficilmente puoi farti i cazzi tuoi senza rientrare in nessuna delle tre categorie. Bushido conosce poche persone che ci riescono e sono tutti boss anziani, la cui morte scatenerebbe guerre di dimensioni tali che la gente preferisce starne alla larga. Naturalmente questo ragazzino, Bill, rientra nella seconda categoria. Non importa quanti uccelli abbia staccato a morsi, è carne da macello; se gli dice bene, diventerà la puttana personale di qualcuno. Se gli dice male, finirà per impiccarsi con le coperte come il frocio giamaicano quattro settimane fa.
“E' la legge della giungla, Jost” dice Bushido, con una scrollata di spalle. “Ma non si sa mai, magari tira fuori le palle e resta vivo.”
“Io preferirei non correre il rischio,” commenta Jost. “Vorrei che te ne occupassi tu.”
“Non se ne parla neanche,” risponde Bushido, immediatamente, lasciando perdere la calma mantenuta finora. “Io non faccio da balia a nessuno.”
“Devi soltanto tenerlo d'occhio,” spiega Jost. “Impedire che se ne approfittino e che si faccia ammazzare, o peggio, che si ammazzi da solo.”
“No,” Bushido scuote la testa con vigore.
“Tu dici di avere una certa influenza su questo carcere,” insiste Jost. “Se è davvero così, allora ti basterà far circolare la voce che è sotto la tua protezione e nessuno gli farà niente. Ti chiedo solo questo.”
Bushido ha cominciato a scuotere la testa a metà frase. “Tu non capisci, Jost,” gli dice avvicinandosi alla scrivania. Vorrebbe indicarlo, ma il movimento del polso si porta dietro tutte le manette, così rinuncia e cerca di essere convincente facendogli ombra sulla scrivania. “Quel tipo ha staccato l'uccello ad una guardia, ok? E' pazzo. Chissà che cazzo di casini potrebbe combinare. E io non voglio casini quando sono ad un passo dall'uscire da questo buco di merda con la condizionale.”
“Non è pazzo,” sospira Jost. “E' soltanto spaventato e probabilmente è stato aggredito.”
“Per me può anche aver morso la prima cosa che si è trovato in bocca perché aveva fame,” commenta Bushido. “Non me ne frega niente, Jost. Se quello combina qualche altra cazzata mentre è sotto la mia custodia, io di qui non esco più.”
Jost non vorrebbe arrivare a questo, ma non ha altra scelta. “La tua uscita dipende dalla mia parola,” gli fa notare con molta serietà. “E se ti rifiuti, io dirò che, a mio avviso, non ci sono gli estremi per darti la condizionale.”
Bushido trasfigura. “Che bastardo!” Sibila tra i denti. Fa un passo indietro come volesse andarsene, ma poi la rabbia è tanta che si riavvicina alla scrivania, battendoci sopra entrambe le mani. “Sei un grandissimo bastardo!”
“Se è l'unico modo di trattare con te...” Jost si stringe nelle spalle, allargando impotente le braccia.
“Questa me la paghi, Jost.”
Hans viene richiamato perché riporti Bushido nella sua cella. Stavolta il tragitto è più silenzioso e Bushido non guarda nessuno mentre attraversa l'area comune; è troppo impegnato a prevedere come gestire la catastrofe che potrebbe impedirgli di uscire.

*

Quando Bushido torna dall'ufficio di Jost, il ragazzino sta sistemando le sue cose sul letto di sopra.
Non ha perso tempo, quel bastardo, a spedirglielo come un pacco postale.
“Sembra che tu abbia un nuovo compagno di cella, Ferchichi,” commenta Hans ridendo di lui e lasciando scivolare gli occhi sul corpo di Bill. “Fate amicizia, mi raccomando.”
Bushido ignora le parole della guardia, troppo impegnato a cercare quelle adatte a spiegare al ragazzino come funzionano le cose qui, ma è Bill che lo anticipa non appena la porta della cella si chiude, dando loro una parvenza di privacy. “Tu sei Ferchichi, vero?” Chiede.
Bushido nota che lo hanno fatto lavare e cambiare. Pulito e con i capelli ancora umidi e tirati all'indietro sembra completamente diverso da come lo ha visto stamattina; è vagamente più adulto, ma solo alla prima occhiata. Poi la rotondità del viso e gli occhi impauriti e sgranati, nonostante i quintali di trucco, tradiscono la sua vera età.
“Mi chiamano Bushido,” risponde, annuendo. “E tu devi essere Bill.”
Il ragazzino annuisce, quindi si issa sul letto di sopra. Quando si siede le sue gambe penzolano fino a metà del letto inferiore. E' altissimo.
“D'accordo, Bill,” continua Bushido, grattandosi la nuca. “E' la prima volta che finisci in galera?”
“Sì,” risponde lui. “Per colpa di due sbirri di merda.”
“Gli sbirri non piacciono a nessuno,” risponde Bushido. E' una di quelle cose che vanno dette a prescindere, anche se in quel momento non servono a niente. Sono come le bestemmie, scaricano il nervoso. “D'accordo, le regole qua sono semplici. La cella dobbiamo pulirla noi, quindi vedi di non sporcare. Mangia quando ti dicono di mangiare, vai a letto quando ti dicono di dormire. Non cercare guai e loro non verranno a cercare te. ”
Bill lo guarda dall'alto del letto a castello, poi gonfia una guancia e sbuffa. “Illuminante. Senti Bushido,” dice, calcando sul suo nome come lo trovasse ridicolo. “So perché mi hanno spostato qui con te, d'accordo? Jost vuole che tu mi faccia da baby sitter. Ma io non so chi sei e nemmeno m'interessa saperlo. Non ho bisogno di protezione, so cavarmela benissimo da solo. “
Bushido solleva entrambe le sopracciglia. Un piccola ruga gli divide la fronte a metà mentre, per sicurezza, lo guarda di nuovo da capo a piedi per vedere se è ancora magro ed effeminato com'era due minuti fa, perché da come parla sembra uno capace di spaccare la faccia a parecchia gente. E invece no, è sempre il mucchietto d'ossa che gli sembrava.
“E, tanto per essere chiari,” continua Bill. “Anche se fuori di qui batto, non ti far venire strane idee perché non sono la puttana di nessuno, chiaro?”
Bushido ha l'impressione che il ragazzino abbia passato l'ultima mezz'ora a mettere insieme questo bel discorsetto da duro, convinto che qui dentro gli basti fare la voce grossa per essere lasciato in pace.
Se fosse un altro tipo di persona, diciamo una con i coglioni per davvero e non una che i coglioni li stacca e basta e solo perché glieli mettono a portata di mano, magari potrebbe anche andargli bene, ma se per aprire bocca e dare fiato ai denti si mette seduto e dondola i piedi, ecco, far finta di essere uno che sa come si sta al mondo non gli serve a niente. E' fortunato che Jost lo abbia spedito da lui. Solo due celle più avanti c'è uno che è dentro per stupro. Non lo avrebbe nemmeno fatto finire di parlare.
Bushido è rimasto fermo di fronte alla porta per tutto il tempo, per nulla impressionato.
“Hai finito?” Chiede, quando Bill, finito di usare la bocca a sproposito, la imbroncia cercando di darsi un tono.
“Sì,” risponde.
Bushido annuisce. “Bene,” commenta, un attimo prima di afferrarlo per la maglietta e tirarlo giù sul pavimento. “Allora, tanto per cominciare, questo è il mio letto e se non vuoi che ti prenda a pedate nel culo subito, ti conviene scendere,” gli dice, mentre il ragazzino si raccoglie dal pavimento. Bushido gli fa il favore di riconsegnargli anche la coperta e il rotolo di carta igienica che aveva ordinatamente riposto sul suo materasso. “Secondo, quello che fai fuori di qui sono cazzi tuoi. Se proprio vuoi farti scopare anche dentro la prigione, vai a chiederlo a qualcun altro. A me il tuo preziosissimo culo non interessa.”
Bill si spolvera i pantaloni aderenti e deglutisce forte per la rabbia che gli tende i lineamenti, ma non dice una parola mentre ripone di nuovo le sue cose sul materasso in basso.
“E terzo,” conclude Bushido afferrando con forza le sbarre del letto per riprendersi il suo legittimo posto. “Se non vuoi il mio aiuto, non sarò certo io ad insistere. Vedremo come te la cavi a proteggerti da solo.” Bushido si distende sul materasso e incrocia le braccia dietro la testa. Fissa il soffitto scrostato della cella, fingendo di pensare agli affari suoi e intanto ascolta il ragazzino che si muove piano e incerto per la stanza, mettendo a posto le sue cose. E' silenzioso e profuma un sacco. Bushido avrà un bel da fare ad abituarsi al suo odore ogni giorno per i prossimi mesi.

*

Quando Bill si sveglia, l’indomani mattina, non vede l’ora di uscire da quella gabbia di merda. Tutto, di quel luogo, lo infastidisce a morte. Le grate, le ombre scure agli angoli, il cazzo di rubinetto che gocciola e non ha smesso di gocciolare un secondo scandendo gli attimi di quella notte infinita, lo specchio sbeccato appeso alla parete che gli rimanda la placida immagine di Bushido addormentato, il viso contro la parete, la schiena che si muove appena al ritmo del suo respiro. Odia lui più di tutto il resto, lui e quel suo atteggiamento insopportabile, come se tutto gli fosse dovuto, perfino il rispetto che chiede senza avergli neanche mostrato perché pensa di meritarlo.
Quell’uomo non ha capito niente, di lui. Non sa niente di come ha vissuto, di quello che ha passato e di come è in grado di ridurre un uomo, se solo vuole, dentro e fuori da un letto – o da qualsiasi altro posto in cui sia possibile fare sesso.
Bill sa difendersi da solo. Bill non ha bisogno di nessuno. Tutto quello di cui ha bisogno adesso è poter uscire da questa prigione del cazzo e camminare in silenzio per le strade di Berlino di notte, ma questo semplicemente non accadrà, per cui gli tocca accontentarsi della cosa più simile che possa procurarsi al momento.
Lo fa immediatamente, appena le luci si accendono e le gabbie si aprono. Sente il rumore metallico e netto della serratura che scatta, e scatta anche lui, dritto in piedi, già pronto per uscire, i pantaloni e la maglietta ancora addosso. Non li ha tolti dalla sera prima, si è rifiutato di mettersi comodo, perché farlo avrebbe significato accettare quella sistemazione come definitiva. Non vuole farlo. Lui non appartiene a quella gabbia di metallo e musi duri. Lui appartiene alla notte fredda e alle stelle che puntellano il cielo scuro e spaventoso. È lì che tornerà. In qualche modo ci riuscirà.
Non oggi, però. Non oggi, né domani, probabilmente non fino a quando i dodici anni che deve scontare saranno terminati. Uscendo dalla cella e guardandosi intorno, Bill si fa qualche conto. Lui, di anni, adesso ne ha diciotto. Quando uscirà da quel buco di merda, ne avrà trenta. Mercato rovinato per sempre, dovrà cambiare completamente target e chissà se qualcuno lo vorrà ancora, rovinato come sarà a quell’età.
Sospira, lanciando occhiate disinteressate qua e là, e sta per sedersi ad uno dei tavoli quando una guardia gli si avvicina e gli chiede di seguirlo.
- Perché? – domanda lui, aggrottando le sopracciglia, e la guardia sospira scocciata, sollevando gli occhi al cielo.
- Il direttore vuole vederti. – spiega, - Ora piantala di fare storie e muovi il culo, se non vuoi che ti ci trascini.
Bill serra le labbra, quasi raggomitolandosi sulla sedia. Il suo istinto gli dice di non seguirlo. È un istinto che gli ha insegnato la strada, perché quando batti queste percezioni devi averle per forza. Certo, molto lo fa lo studio, moltissimo l’osservazione, ma ci sono certi uomini che apparentemente non forniscono nessun indizio, certi individui che ad un primo sguardo possono sembrare tranquilli, nient’affatto pericolosi, e che invece sono quelli dai quali dovresti guardarti di più. Sono quelli che possono fare male davvero. Sono quelli che impari ad evitare, perché nessuna quantità di denaro può valere la pena di ritrovarsi con la pancia aperta in due da un coltellino svizzero, o dall’aspettare che i conati di vomito di esauriscano, accasciato in un angolo di strada, dopo essere stato picchiato per ore fino a svenire, o peggio, dal ritrovarsi morto in un fosso senza neanche aver capito come, o perché, e senza che nessuno lo sappia mai, o abbia il minimo interesse a recuperare il tuo corpo.
Bill non è mai andato con qualcuno che gli desse una sensazione simile. A volte arrivavano ad offrire anche parecchio, cifre enormi, cifre che facevano pensare a Bill “che cazzo, non posso rinunciare ad una cosa simile solo per un fottuto presentimento, se invece è una persona normale con i soldi che mi offre campo senza scendere più in strada per i prossimi due mesi…”, salvo poi realizzare che nessuna persona normale offrirebbe tanto denaro per una semplice scopata in qualche lurido buco o in mezzo alla strada.
No, Bill segue sempre l’istinto, Bill con quella gente non ci va, Bill è sopravvissuto bene o male senza traumi troppo grossi proprio per questo motivo. E quest’uomo, questa guardia, gli dà la stessa sensazione, e perciò Bill vorrebbe potergli voltare le spalle ed allontanarsi nella notte come ha sempre fatto per difendersi da questi spaventosi presentimenti, ma stavolta non può. Non può perché non esiste un posto, in questa prigione, in cui lui possa fuggire, o sentirsi al sicuro. Non c’è la sua topaia a proteggerlo dalla strada e dal suo gelo penetrante, o dagli uomini e dal loro calore appiccicaticcio. Perciò, Bill si alza, si lascia ammanettare e segue la guardia fuori dal braccio A, a sguardo basso.
Naturalmente non conosce la prigione, e non sa dove si trovi l’ufficio del direttore – il quale, immagina, vorrà parlargli di quello che ha fatto a quell’altra guardia, probabilmente minacciarlo, che non gli salti in testa di rifarlo con qualche detenuto o, peggio, con un altro agente di custodia – perciò segue docilmente il proprio accompagnatore, cercando di non agitarsi troppo quando gli sembra di stare camminando da troppo tempo. In circolo.
Si fermano davanti a una porticina che Bill è abbastanza sicuro di avere già visto un paio di minuti prima, in mezzo a un corridoio che Bill è quasi certo di aver già percorso. Non può essere la stanza del direttore, perché non c’è neanche una fottuta targhetta, sopra. È una porticina ampia appena a sufficienza per far passare un uomo, è di un colore spento e smorto, lo smalto grigiastro sbeccato in più punti, e un minuscolo vetro opaco attraverso il quale è impossibile scrutare l’interno. La guardia la apre, e Bill vede che la stanza non è altro che uno sgabuzzino.
I polsi ancora stretti e immobilizzati dalle manette, si volta a guardare l’agente di custodia aggrottando le sopracciglia.
- Entra. – dice quello, seccamente.
- No. – risponde Bill, - Questo non è l’ufficio del direttore.
L’uomo stira sulle labbra un ghigno infastidito, ed estrae il manganello dalla propria custodia, appesa al cinturone proprio accanto alla fondina della pistola. Bill ha appena il tempo di realizzare cosa sta per succedere, e poi sente un dolore insopportabile alla base della schiena, il dolore come di qualcosa che si spezza, anche se è abbastanza sicuro di non essersi rotto niente. Ma le gambe gli cedono, gli si mozza il respiro all’altezza della gola e vede bianco all’improvviso, perdendo l’equilibrio e lasciando così alla guardia tutto il tempo ed il modo di spingerlo dentro la stanza con uno strattone violento, per poi entrare dietro di lui e chiudersi la porta alle spalle.
Bill finisce contro un mucchio di scatoloni semivuoti addossati contro la parete opposta. L’ambiente è piccolo, claustrofobico, non c’è modo di scappare. L’uomo non accende la luce, e quindi Bill non può vederlo arrivare. Cerca di aggrapparsi agli scatoloni per mettersi in piedi e provare quantomeno a schermarsi il viso e la testa con le braccia, ma lo scatolone al quale si aggrappa è quasi vuoto e cede immediatamente sotto le sue dita che si stringono convulsamente attorno al bordo, e al peso del suo corpo che sembra improvvisamente essersi raddoppiato, triplicato, quadruplicato, da quando la botta alla base della schiena gli ha messo fuori uso le gambe.
La guardia gli si avvicina – gli basta un passo – e comincia a picchiarlo col manganello. È buio, e non può vedere dove lo colpisce, ma Bill ha come l’impressione che non gli importerebbe anche se la luce fosse accesa. Si prende una manganellata sulla tempia, una sulla spalla, parecchie sulle braccia e poi una, più forte delle altre, sulla nuca. Vorrebbe svenire, o crepare, ancora meglio, ma nessuna delle due cose succede. Il colpo lo lascia rintontito, confuso, ma cazzo, fottutamente vigile. Si accascia sul pavimento, accartocciato nei pochi centimetri di spazio che le scope e gli strofinacci gli lasciano libero, e resta lì con gli occhi sbarrati, il dolore che gli esplode nel corpo come un bombardamento, e nessuna capacità di muoversi, neanche per urlare o piangere, mentre l’agente lo prende a calci sulla pancia, sui fianchi, sulla schiena, fra le gambe.
- Questo è per Jäger, stronzo figlio di puttana che non sei altro. – urla, continuando a picchiarlo, - E stai attento a dormire con un occhio solo, la notte, perché prima o poi ti strappo le palle nel sonno, testa di cazzo, così magari lo capisci quello che cazzo hai fatto.
Bill perde il senso del tempo. Dopo un po’, tutte le sue percezioni fisiche cominciano a farsi sbiadite, distanti. La voce dell’uomo si abbassa di volume, anche il dolore diventa meno pressante e intollerabile, è solo un’eco lontana. Bill trova perfino la forza di piegare l’angolo delle labbra in un sorriso sereno. Forse finalmente è la fine, forse sta crepando, forse riuscirà ad essere libero, finalmente. Non ci sarà più una prigione di metallo a costringerlo, ed anche la sua prigione di strade, fuori da lì, sarà finalmente dimenticata per sempre.
E invece no.
La guardia smette di picchiarlo, una volta soddisfatta la sua rabbia, e si allontana, col fiatone. Recupera uno degli strofinacci appoggiati su uno scaffale, trovandolo un po’ alla cieca e facendo cadere una bottiglia di detersivo che atterra sulla testa di Bill – lui nemmeno la sente, ovviamente – e ripulisce il proprio manganello, scaraventandogli lo strofinaccio sporco di sangue sul viso subito dopo. L’odore metallico e penetrante del sangue dà a Bill la nausea istantaneamente, ma non ha ancora recuperato abbastanza forza o capacità di muoversi per potersi lamentare.
La porta si apre, e Bill la vede appena. La guardia esce, e lo lascia lì riverso per terra. Lo trova un inserviente, più di un’ora dopo.
- Porca puttana. – sibila, e Bill, che ha tenuto gli occhi chiusi fino a quel momento, li riapre, e lancia un urlo devastante quando il tipo lo afferra da sotto le ascelle e lo rimette in piedi, per portarlo in infermeria.
Non male, come inizio.

*

Resta in infermeria una settimana. Ne odia l’odore, odia tutti i detenuti nei lettini attorno al suo, odia i medici e gli infermieri che lo trattano con supponenza, lo toccano appena, difficilmente lo curano. Lo lasciano semplicemente lì disteso, lo puliscono quando se la fa addosso perché non riesce a muovere le gambe abbastanza da arrivare fino al cesso, e poi aspettano che il suo corpo faccia tutta la fatica di rimettersi in sesto da sé.
- Sei giovane, - gli dice il medico che lo visita distrattamente il terzo giorno, verificando la buona strada di guarigione intrapresa dai suoi tagli e lanciando occhiate disinteressate agli ematomi che lo ricoprono per un buon novanta percento su tutto il corpo, - per due schiaffetti, non vale neanche la pena di tenerti qui troppo a lungo.
Bill vorrebbe sgranare gli occhi e rispondere “due schiaffetti?”, ma è abbastanza sicuro che non otterrebbe niente a parte uno sguardo gelido, ed in ogni caso è contento di potere uscire da lì prima possibile. Ha sempre odiato gli ospedali, l’ansia che gli mettevano addosso, il loro odore di malattia e morte e paura e medicinali. L’odore insopportabile dei guanti in lattice, poi, o quello delle garze disinfettate. È nauseante. Le rare volte in cui s’è messo nei guai abbastanza da avere bisogno di cure mediche, si è sempre assicurato di potersi rimettere abbastanza in fretta da lasciare l’ospedale dopo al massimo un paio di notti, anche se per questo gli toccava dover fingere di stare meglio di quanto in realtà non stesse.
Qui non può farlo, e piano piano i giorni si accumulano, diventano quattro, poi cinque, poi sei, e Bill non ne può più. Un giorno, il detenuto che porta il pranzo e la cena ai ricoverati dalla mensa si sofferma con lui un po’ più a lungo. È un uomo basso, tarchiatello, pelato, dal viso stranamente rassicurante, forse a causa degli occhi chiari dallo sguardo limpido. Bill non lo conosce, ma d’altronde non ha passato abbastanza tempo fra gli altri detenuti per poter dire di conoscere qualcuno, a parte Bushido.
- Ciao, - lo saluta l’uomo, organizzandogli il vassoio in grembo, per potergli servire il suo pasto, - io sono Chakuza. Bushido manda i suoi saluti.
Bill aggrotta immediatamente le sopracciglia, serrando le labbra in una smorfia infastidita.
- Puoi dirgli di ficcarseli su per il culo. – risponde acido, e Chakuza ridacchia, posando il piatto col pollo in mezzo al vassoio e sistemandogli attorno le posate e il bicchiere per l’acqua, lasciandogli un piattino con le verdure sul comodino.
- Può essere indisponente, alle volte. – commenta.
- Non me ne frega un cazzo. – ribatte Bill, - Non li voglio, i suoi saluti di merda.
- Mi ha detto anche di riferirti… aspetta, com’è che ha detto? - aggiunge l’uomo, fingendo di soffermarsi a pensare e picchiettandosi il mento con l’indice mentre piega le labbra in una smorfia ironicamente riflessiva, - Ah, sì: gran lavoro stai facendo, nel proteggerti da solo. – sogghigna, - Così ha detto.
Bill digrigna i denti, furioso.
- Vaffanculo. – risponde, - Tu e lui. – conclude, e getta il vassoio in terra con un ringhio stizzito.
Chakuza ridacchia e non fa una piega. Chiama un inserviente per pulire il disastro combinato da Bill per terra, e poi si allontana, per portare il pranzo agli altri detenuti.
All’alba del settimo giorno, i progressi di Bill sono sufficienti da permettergli di deambulare sulle proprie gambe, pur con una certa fatica. Due infermieri lo mettono in piedi, gli riconsegnano i propri vestiti e poi chiamano due guardie perché lo scortino fino al braccio A. Bill cammina lentissimo in mezzo a loro, e per tutto il tempo il cuore gli batte tanto forte che potrebbe esplodergli. È paura, Bill la riconosce. Continua a guardare con attenzione ogni angolo, ogni corridoio, ogni incrocio, per essere certo che i due non lo stiano facendo girare in tondo per poi ficcarlo in uno sgabuzzino e finire l’opera del compare, e quando finalmente vede l’enorme cancello che è l’ingresso del suo braccio esala quasi un sospiro di sollievo. Lo inghiotte subito, quando si ricorda che non c’è proprio niente di cui essere sollevato.
Si trascina faticosamente nella propria cella, lasciandosi andare sul letto e ringraziando mentalmente per non avere insistito nel pretendere quello di sopra. Chiude gli occhi e dorme, per la prima volta in sette giorni. In infermeria era sempre sotto antidolorifici, e si sentiva confuso, per la maggior parte del tempo. Non sentire gli arti lo terrorizzava. Chiudere gli occhi sembrava spaventoso come condannarsi a morte. Adesso riesce quantomeno a sentire tutto. E fa tutto piuttosto male, ma almeno è rassicurante abbastanza da potersi concedere di chiudere gli occhi e assopirsi. Sa che, in caso di pericolo, il dolore lo sveglierà e renderà i suoi sensi abbastanza acuti da poter fronteggiare il problema. O almeno lo spera.
Problemi, comunque, non se ne presentano. Quando riapre gli occhi, dev’essere già notte fonda, perché le luci sono spente, la gabbia è chiusa e non si sente volare una mosca, a parte il ronzio silenzioso del russare pacato di Bushido. Bill si mette a sedere e gli sfugge un gemito di dolore. La schiena fa ancora male. Bushido si sveglia immediatamente, Bill lo sente muoversi sul materasso e poi gettare le gambe nel vuoto per saltare a terra, e impreca sottovoce perché avrebbe preferito risparmiarsi questo momento, quello in cui questo stronzo di merda rigirerà il coltello nella piaga dandogli del coglione con tutte le ragioni per farlo.
“D’accordo,” pensa Bill, “andiamo,” e solleva gli occhi, aggrottando le sopracciglia in una smorfia scontrosa. Bushido lo guarda con una certa severità, le braccia incrociate sul petto, e resta in silenzio a lungo.
- Be’? – lo invita quindi Bill, il tono strafottente, - Coraggio, lo so cosa vuoi dirmi.
Bushido inarca un sopracciglio, e poi parla.
- Il direttore ha deciso di lasciarti a riposo per un altro paio di giorni, - dice, - finché non ti rimetti. Dopodiché, verrai assegnato alla mensa, e lavorerai con me e i miei ragazzi. Questo è quanto. – conclude, e poi si arrampica nuovamente al proprio posto.
Si riaddormenta quasi subito. Bill mormora un “vaffanculo” fra i denti, e poi torna a stendersi a propria volta, ma non chiuderà occhio per tutto il resto della notte.

*

I due giorni successivi gli passano addosso come polvere. Nemmeno li sente. Il dolore diminuisce, piano ma considerevolmente, e quando il secondo giorno riesce a trascinarsi in mensa per il pranzo – dopo aver digiunato per tutto il giorno precedente – riesce a sentirsi perfino abbastanza orgoglioso di sé.
Si guarda intorno con curiosità ed osserva il luogo in cui, da domani, comincerà a lavorare. La sala è enorme, ci sono tre grandissimi tavoli di metallo sistemati parallelamente in verticale, ed altri due sui due lati corti opposti della stanza, posizionati in orizzontale. L’effetto è abbastanza straniante, ma non fastidioso. C’è una certa idea di ordine che lo intriga. E poi sembra tutto molto pulito, che è una cosa sempre piacevole dopo aver passato una settimana in infermeria a rotolarti nel piscio e nel tuo stesso sangue.
Recupera il proprio pranzo e si siede in un angolo, lontano da qualsiasi cosa possa essere definita un gruppo. Non ha interesse a sviluppare relazioni con gli altri detenuti, e comunque non sta ancora abbastanza bene da poter considerare l’interazione sociale come un’opzione valida. A metà del purè di patate, cominciano a dolergli le ossa. È la posizione, immagina, sta seduto e con le spalle piegate per cercare di attirare meno attenzione possibile, e la sua schiena – abituata a restare perlopiù in posizione sdraiata negli ultimi giorni – non può sostenere il peso del suo corpo troppo a lungo. Lascia perdere il cibo, perché il dolore gli sta togliendo la voglia di mangiare, e comincia a prepararsi mentalmente al calvario che sarà alzarsi in piedi e percorrere il lungo corridoio che separa la mensa dal braccio A. Sta per alzarsi, quando sente addosso gli occhi di qualcuno, e nel guardarsi intorno scopre che si tratta di due detenuti che parlottano fra loro, ghignano, ridacchiano e lo indicano con evidenti cenni del capo. Aggrotta le sopracciglia e sporge il mento con aria strafottente, quando i ghigni e i gesti dei due cominciano a farsi troppo insistenti e allusivi.
- ‘Cazzo volete? – ringhia esasperato, e uno dei due gesticola indicando prima se stesso, poi il suo compare, poi Bill, e infine mimando un atto sessuale spingendo l’indice di una mano attraverso un cerchio formato da indice e pollice dell’altra mano. Bill rotea gli occhi, lascia andare uno sbuffo parzialmente annoiato e parzialmente esasperato, e solleva il medio. I due scoppiano a ridere e lui si riserva il diritto di considerare chiusa la questione, perciò si alza in piedi, svuota i resti del proprio vassoio nel cestino e poi comincia a muoversi lentamente verso il braccio.
Quando arriva in sala comune, gli viene quasi da piangere. Un po’ perché ce l’ha fatta, un po’ perché tutto il corpo gli fa male da impazzire. Ci ha messo tanto di quel tempo, a camminare, che per il momento in cui arriva la sala comune è già quasi tutta piena, perché anche tutti gli altri detenuti hanno già fatto ritorno. Bill cerca un tavolino vuoto al quale sedersi, ma non ne trova. I pochi posti liberi sono a tavoli già occupati, e lui non vuole avere a che fare con nessuna di quella gente.
Decide di tornare in cella, ma in questo momento non può muovere un passo in più. Non ce la fa proprio. Ha bisogno di respirare, di calmarsi, di riposarsi un attimo, perciò si lascia andare in un angolino per terra e si fa piccolo piccolo, stringendo le ginocchia al petto e raggomitolandosi in una palla, sperando che nessuno lo noti e tutti lo lascino in pace.
È una speranza vana, e se non altro Bill dovrebbe avere imparato almeno quello, nel corso dei suoi primi dieci giorni scarsi di permanenza in prigione, ma in qualche modo riesce comunque a sentirsi stupito quando sente qualcuno richiamare la sua attenzione e, nel sollevare lo sguardo, si rende conto che sono i due detenuti che ci hanno provato prima in mensa. Il più alto e grosso dei due ribadisce l’offerta, e Bill li fissa entrambi, incredulo.
- Sono ridotto una merda. – fa presente, allargando le braccia e mostrando il viso e il collo ancora pieni di ematomi, - Come cazzo fa a venirvi voglia di scoparmi? Io non lo so.
- Non rompere il cazzo, adesso. – dice il tizio più basso, allungandosi a cercare di afferrarlo per una spalla, probabilmente per tirarlo su e trascinarlo in un luogo più appartato. In un movimento del tutto istintivo, Bill allunga entrambe le gambe e gli tira un calcio su uno stinco, abbastanza forte da costringerlo ad allontanarsi con un lamento, per poi tirare su la gamba dolente e massaggiarla con entrambe le mani. La soddisfazione di averlo costretto a saltellare ridicolmente su un piede solo per il dolore dura non più di una manciata di istanti, però, perché subito gli effetti del movimento improvviso si fanno sentire, sotto forma di una scarica elettrica di dolore concentrato che si accende alla base della sua schiena e si arrampica lungo tutta la sua spina dorsale, annebbiandogli la vista e scombinandogli il cervello.
Bill cerca di muoversi, ma fa fatica a respirare e questo lo confonde ancora di più, e la parete è liscia, troppo liscia, non gli offre alcun appiglio, e pochi secondi dopo, quando lui è riuscito a piegarsi sulle ginocchia e sta cercando in qualche recondito anfratto del proprio corpo la forza sufficiente per puntare un piede a terra e sollevarsi in piedi, uno dei due detenuti comincia a prenderlo a calci nello stomaco, e poco dopo si aggiunge anche l’altro, e Bill pensa chiaramente no basta cazzo non ne posso più ammazzatemi o toglietevi dalle palle non le reggo più le botte non la reggo più la nausea non reggo più un cazzo voglio morire ammazzatemi ammazzatemi ammazzatemi cazzo o lasciatemi in pace, e non ha idea di quanto tempo duri quella tortura, ma sa che ad un certo punto s’interrompe bruscamente, e lui si ritrova riverso a terra, ancora vivo, scosso dai tremiti di paura e dolore, e i due detenuti hanno fatto un paio di passi indietro, e a frapporsi fra lui e loro c’è un uomo che non ha mai visto prima, e che quando parla fa sbiancare quei due con una facilità che a giudicare dalla sua stazza – è magro, e decisamente non alto – non ha alcun motivo di esistere.
- Avanti, ragazzi, le conoscete le regole. – li rimprovera con fare paternalistico, - Fuori dal braccio, potete fare il cazzo che volete. Qui dentro, però, non deve volare una mosca. Io per me vi lascerei pure divertirvi, - aggiunge sollevando le braccia, - ma Bushido, lo sapete, lui non è magnanimo come me. Fossi in voi, mi terrei alla larga. – conclude, annuendo compitamente. Bill trova forza sufficiente a tenere aperti gli occhi e seguire la scena, ma si azzarda a rimettersi seduto, raggomitolandosi tremante in un angolo, solo quando i due si sono allontanati abbastanza da non rappresentare più una minaccia.
Il tipo si volta verso di lui, avvicinandosi con aria circospetta. Si muove in maniera strana, vagamente scimmiesca, forse, anche se comunque sta moderatamente dritto e non ciondola. Ha solo un’aria particolarmente svagata e assurda, probabilmente motivata dai ridicoli baffetti che disegnano un arco sul suo labbro superiore.
- Ohi, stai bene? – gli domanda, e Bill lascia andare una risata amara che dura il tempo di capire che ridere fa troppo male.
- Secondo te? – domanda con supponenza, tirando su col naso e sentendo sulla lingua il sapore del sangue, - Cristo, odio questo posto. Non ne posso più di essere picchiato. – si lamenta, guardando per terra e stringendosi nuovamente le ginocchia al petto. il tizio si siede al suo fianco, una gambe distesa sul pavimento, l’altra piegata, a fare da appoggio per il braccio.
- Se ti unissi al gruppo di Bushido, non avresti più problemi. – considera, scrollando le spalle con naturalezza.
- Sì, il problema è che non voglio. – ribatte Bill in un mezzo ringhio, - Non me ne frega un cazzo di queste beghe da coglioni e da stronzi. Fate la voce grossa, ma siete chiusi in una fottuta prigione. E questo Bushido poi chi cazzo sarebbe, un qualche boss o qualcosa del genere? Be’, non governa un cazzo, a parte una decina di stronzi come lui, teste di cazzo abbastanza grosse da farsi beccare come stupidi.
Il tipo lo ascolta con attenzione e poi scrolla le spalle un’altra volta, per nulla colpito dalla sua arringa.
- Qualsiasi posto sia quello in cui uno vive, - spiega, - la cosa importante è averne il controllo, capito? Così ti eviti di venire abbordato da due troie come quelle, che poi perdono il controllo, e magari ti risparmi di finire picchiato ogni volta che cambia il vento. Io, comunque, sono Eko Fresh, ladro specializzato in furti e rivendita di automobili di lusso. – si presenta, porgendogli la mano. Bill la squadra con disinteresse ed inarca un sopracciglio, decidendo di non stringerla.
- Bill Kaulitz, puttana, specializzato in prenderlo su per il culo e staccarlo a morsi a quelli che glielo infilano a forza in gola. – procede sulla sua stessa falsariga, prendendolo in giro, - Ti basta, come curriculum?
Eko si mette a ridere, annuendo.
- Sono capacità sempre utili, specie in prigione. – dice con trasporto, come se per lui la faccenda fosse incredibilmente seria. – Comunque, Bushido ci ha spiegato che vuoi essere lasciato in pace. Se vuoi il mio parere, non sei capace di farti lasciare in pace, e neanche ti conviene, ma ehi, - scrolla le spalle un’altra volta, sollevando entrambe le braccia in un gesto di resa, - ognuno è padrone del proprio destino.
- Se il tuo capo del cazzo ti ha spiegato che non voglio balie intorno, perché ti sei messo in mezzo? – domanda Bill, aggrottando le sopracciglia, infastidito.
- Ah, ma quella è una questione completamente differente. – risponde Eko, scuotendo il capo, - Non l’ho fatto per te, l’ho fatto perché noi teniamo ordine nel braccio. Per “noi” intendo “il gruppo di Bushido”, e per “tenere ordine nel braccio” intendo… - ci riflette un paio di secondi, - be’, tenere ordine nel braccio. – conclude annuendo. – Se ti serve qualcosa, in ogni caso, io o uno dei miei compari possiamo darti una mano. C’è Baba Saad, - dice, indicando un tizio impegnato a confabulare di qualcosa con Bushido ad un tavolo, - che è il braccio destro di Bu.
- Bu? – domanda Bill, inarcando un sopracciglio e faticando a trattenere l’impulso di scoppiare a ridere, riuscendoci solo riportando a galla il ricordo di quanto gli avesse fatto male lo stomaco quando ci aveva provato poco prima.
- Sì, ma tu non chiamarlo mai così. – lo avverte Eko Fresh, - S’incazza anche con noi, quando lo facciamo, figurarsi cosa non farebbe con te. Poi, vediamo, ci sono Fler e il Chaku, Chakuza. – continua, indicando due tizi seduti accanto davanti alla tv, che ridono come deficienti per le battute di qualche stupido comico nel programma che sta andando in onda. – Fler fuori si occupava di corse clandestine e spaccio. Il Chaku invece era un individuo pericoloso. Ammazzava la gente, sai. Col cibo. Era uno chef.
- Non doveva essere granché bravo, allora. – ipotizza Bill, ed Eko scoppia a ridere.
- Ma no, - spiega, - era la sua copertura. Serviva i pasti, ed invece di condirli solo con le spezie, aggiungeva giusto quel tocco di cianuro. In modo da rendere la cena indimenticabile, capito come? – aggiunge ridacchiando, e facendogli l’occhiolino. Bill sbatte le ciglia un paio di volte, decisamente poco impressionato dalla battuta.
- E gli permettono di lavorare in cucina? – domanda.
- Ah! – esclama Eko, - Lo conosci, dunque.
- Portava il cibo in infermeria mentre ero ricoverato. – scrolla le spalle lui, - Cibo, e fastidiosi saluti da parte del vostro stupido capo.
Eko annuisce compunto, incrociando le braccia sul petto.
- Bushido ci tiene, alla buona educazione. – commenta, e Bill rotea gli occhi. – Comunque, questi che ti ho detto, be’, sono i buoni. – Bill lo guarda con inequivocabile ironia, ed Eko tossicchia, schiarendosi la voce, - Intendo, i meno cattivi dei cattivi. Se devi tenerti alla larga da qualcuno, quel qualcuno è Sido. – dice, indicando un tizio con gli occhiali e l’aria da nerd sfigato, seduto ad un tavolo con altre due persone. – Lui gestisce il traffico della droga e delle sigarette in tutta la prigione. Bushido glielo lascia fare, a patto che lui non crei problemi. Ma non è che Sido si diverta, a fare il sottoposto di Bushido, per cui bisogna sempre tenere gli occhi aperti.
- Ti ho già detto che a me di queste stronzate non frega un cazzo. – ribadisce Bill, tornando a raggomitolarsi su se stesso. Eko annuisce.
- Sì, ma io te lo dico perché è importante conoscere il luogo in cui si vive, se non lo si può comandare. Tieniti alla larga da Sido e da quei due lì, B-Tight e Tony D. Era gente che faceva roba sporchissima, fuori, e sarebbero perfettamente in grado di ricominciare a farla anche qua dentro, se si trovassero davanti all’occasione giusta.
- Va bene, d’accordo. – sospira Bill, guardando altrove, - L’hai finita la lezione? Mi sto annoiando.
Eko aggrotta le sopracciglia, offeso.
- Sai, - borbotta, alzandosi in piedi, - sei indisponente.
Si allontana senza una parola di più, e Bill sospira sollevato quando lo vede tornare a sedersi accanto a Bushido, al tavolino che divide con Saad. Dopodiché, cerca di spingersi in piedi facendo pressione sulle gambe, utilizzando tutta la poca forza che ancora gli resta, e si trascina in gabbia, lasciandosi ricadere sul letto come un peso morto.
Ripensa al primo giorno in cui s’è svegliato in quella cella e tutto ciò che voleva era uscirne il prima possibile. Ora, vorrebbe poterlo non dover fare mai più.

*

Jost firma documenti da quattro ore e non si sente più la mano.
I detenuti sono convinti che il suo ufficio sia una stanza dei bottoni dalla quale potrebbe far piovere oro, se solo lo volesse. La verità è che lui è solo un impiegato statale con una penna stilografica molto costosa. Dopo aver ascoltato i suoi collaboratori e aver preso decisioni per questioni di cui non ha esperienza di prima mano, il resto del suo tempo è diviso tra l'occuparsi delle cause legali che sono attualmente in corso per e contro il penitenziario – che sono un numero esageratamente alto – e cercare di seguire le direttive dei piani alti che sono spesso contraddittorie e seguono il soffio del vento.
Quando finalmente alza la testa dalla pila di fogli che non accenna ad esaurirsi, è solo perché hanno bussato alla porta. Una delle guardie lo avvisa che Ferchichi chiede un colloquio. Jost si appoggia allo schienale della poltrona in pelle e si massaggia gli occhi stanchi. “Fallo entrare,” dice, consapevole di aver appena permesso all'ennesimo problema di mettersi in fila insieme a tutti gli altri che deve ancora risolvere. Il tunisino non è mai latore di buone notizie.
“Che cosa vuoi?” Gli chiede, non appena quello mette piede in ufficio, trascinandosi svogliatamente fino alla solita zona di sicurezza a qualche metro dalla scrivania. La guardia di sicurezza si ritira ad un suo cenno.
“Ma come, David, non mi saluti nemmeno?” Ghigna lui, piegando la testa di lato e guardandolo con strafottenza.
“E' Jost per te, Ferchichi,” gli ricorda.
“Allora tu chiamami Bushido.”
Jost è direttore del penitenziario da più tempo di quanto sia effettivamente sano ed ha imparato che a volte con i detenuti è meglio trattare che non pretendere. Ma questa non è una di quelle volte. “C'è un motivo per cui ti trovi qui, Ferchichi o hai lasciato il tuo regno incustodito solo per venire fin qui a ricordarmi come ti chiami?”
“Il mio regno è ben sorvegliato, non si preoccupi,” Bushido sposta il peso da un piede all'altro e solleva le mani bloccate dalle manette per grattarsi il naso con l'indice. “Sono qui perché la sua bambolina non se la passa tanto bene.”
“La mia bambolina? …Intendi Kaulitz?””
Bushido mastica lo stecchino che tiene sempre incastrato tra i denti. “Sì, lui,” annuisce. “Non ce l'ha un altro posto dove metterlo? Se continua così, quello non supera la settimana.”
“Pensavo che il medico lo tenesse in infermeria.”
“C'è stato,” Bushido muove entrambe le mani a sinistra e poi le sposta di nuovo a destra. “Ma poi è tornato in prigione con tutti gli altri. Ed è qui che cominciano i casini.”
Jost sospira e si passa una mano sugli occhi; non che serva a qualcosa ma lo aiuta a tenersi occupato mentre Ferchichi gli racconta quello che già si era aspettato. “Che cos'è successo?”
“Niente, ancora,” dice lui. “Ma succederà e non sono sicuro che sarà un bel vedere. Quello non può andarsene in giro per i cazzi suoi senza che qualcuno gli metta gli occhi addosso, Jost. I guai se li tira addosso anche solo respirando. Senza contare che è una testa di cazzo, quindi non ha nemmeno abbastanza cervello per evitarli.”
“Se non mi sbaglio, tu e i tuoi dovevate tenerlo d'occhio.”
Bushido sposta lo stecchino da un lato all'altro della bocca. “Ci abbiamo provato, ma a quanto pare il ragazzino non gradisce la nostra protezione,” risponde, con un sospiro falsamente contrito. “E un paio delle sue guardie non ha familiarità con il concetto di etica professionale.”
Lo sguardo di Ferchichi è apertamente accusatorio, ma Jost preferisce soprassedere perché non ha né il tempo né la voglia di discutere al riguardo. Scuote il capo e si stringe nelle spalle. “Purtroppo non c'è molto che posso fare. Gli hanno dato dodici anni e deve passarli qui.”
“E' questa la nuova politica del penitenziario per diminuire il numero dei detenuti? Lasciarli al proprio destino sperando che crepino prima della fine della condanna?” Chiede Bushido, con noncuranza e come se, in effetti, la situazione dei suoi colleghi gli interessasse qualcosa.
Lui ha sempre accettato le cose per come stavano fin da quando è arrivato, salvo il fatto che ha preso il comando della situazione non appena ha messo piede nel braccio; per il resto, però, non si è mai mosso per migliorare le condizioni sue o degli altri detenuti, tutt’al più ha promesso di non farle peggiorare. E' per questo che Jost lo usa come mediatore: il suo attaccamento allo status quo è già più di quanto possa chiedere a qualunque altro detenuto.
“A te non è mai fregato niente di come vivete qua dentro.”
“Qua dentro,” annuisce Bushido, “inteso come la prigione in generale, ma non nella mia cella. Sono piuttosto interessato a che ne è di quei due metri di spazio in cui sono costretto a vivere.”
Jost sente l'emicrania partire dalla base del collo e risalirgli il cervello, pronta ad esplodere inesorabile in uno di quei mal di testa in grado di stenderlo su un divano per giorni. “Non ti seguo, Ferchichi,” geme, aprendo un cassetto laterale della scrivania e cercandovi dentro a casaccio, sicuro che ci sia una qualche pillola sparsa in grado di aiutarlo. “Cerca di farla breve. La vedi quella pila di fogli davanti a te? Aspetta ancora che ci lasci l'autografo.”
“Il ragazzino ha pensato bene di salvare il culo chiudendosi in cella,” spiega Bushido. “Non ne esce da giorni e io vorrei evitare che morisse di consunzione nel letto sotto al mio.”
“E che cosa vuoi che faccia? Non posso trascinarlo fuori di lì se non vuole.”
Bushido gli riserva uno dei suoi sorrisi storti. “Non avevo dubbi che l'avresti detto, David.”
“Jost.”
“Voglio il permesso di portare del cibo in cella,” spiega Bushido. “Per lui, s'intende.”
“Per lui, certo,” ripete Jost. La precisazione strappa un sorriso anche al suo mal di testa. “Sai perfettamente che non sono ammessi favoritismi.”
Bushido annuisce. “Conosco il regolamento,” annuisce. “Lo consideri una misura precauzionale. Se si sente male, sarà considerato un tentativo di suicidio. E lei sa meglio di me che è più facile gestire uno strappo alla regola che l'opinione pubblica.”
Jost lo sa molto bene. I cittadini desiderano sentirsi al sicuro, non vogliono i ladri, gli stupratori e gli assassini liberi per strada. Li vogliono dietro le sbarre e solo allora, quando non minacciano più i loro quartieri – quando in sostanza non sono più affare loro – sono subito disposti a dimostrare pietà e ad accusare la polizia carceraria di qualunque cosa accada. Se per qualche motivo un detenuto ne accoltella un altro oppure si appende per la gola, quelli non sono più il truffatore o l'assassino che fino al giorno prima dovevano essere mandati a morte. Sono vittime di un sistema carcerario violento e disumano. Ed ecco i picchetti, le petizioni, gli scioperi della fame di gente legata ai cancelli del penitenziario, gente che urla e strepita finché un politico non interviene per concedere la grazia prima delle prossime elezioni.
Jost è consapevole che le sue guardie non sono stinchi di santo, ma sa che fra le mura della prigione c'è sempre una forte tensione generata da un gran numero di uomini rinchiusi in un unico posto senza la possibilità di sfogarsi in alcun modo e con la sola compagnia di poliziotti che odiano per principio e di altri detenuti con i quali, quasi sicuramente, hanno qualche conto in sospeso. E' fisiologico che gli incidenti capitino e, per quanto lui cerchi di stare attento, è umano anche lui. Solo che, apparentemente, questa non è una giustificazione valida con cui rispondere ad un tentato suicidio, nel caso.
“Credi davvero che potrebbe aiutarlo?” Chiede Jost.
“Se è ancora vero che chi non mangia da giorni ha fame...”
Jost ha già preso un foglio bianco per scarabocchiarci velocemente sopra l'autorizzazione. “E va bene, facciamo questo esperimento,” gli dice, richiudendo la stilografica ma tenendosi il permesso che non rimane a Bushido, naturalmente, ma va ad infilarsi nella cartella di documenti che giornalmente lascia il suo ufficio per essere fotocopiata, inviata in triplice copia e poi archiviata dalla sua segretaria. “Torna pure con gli altri, avverto io le guardie.”
L'agente di custodia che ha accompagnato Bushido fino all'ufficio del direttore viene richiamato perché lo scorti di nuovo all'interno del penitenziario.
Bushido conosce ormai la strada a memoria, così avanza docilmente, un passo dopo l'altro, senza bisogno che la guardia alle sue spalle lo spintoni o gli dica di darsi una mossa. Non ci vede niente di ribelle nel piantarsi a gambe larghe in mezzo ad un corridoio come un mulo recalcitrante solo per dare a vedere che se ne frega degli ordini. Lui non ha bisogno di queste ridicole manifestazioni di testardaggine per farsi valere e lo ha insegnato anche ai suoi ragazzi, così che si distinguano fin da subito dalla feccia che segue Sido come le mosche la merda.
Quando arriva, la cella è silenziosa e il ragazzino è così raggomitolato in un angolo che alla prima occhiata nemmeno lo vede. Se ne sta seduto in terra, tra il cesso e il lavandino, le gambe strette al petto e lo sguardo fisso e un po' vacuo che gli ha visto addosso ogni giorno durante l'ultima settimana.
“Beh, se volevi disperarti e lasciarti morire, potevi anche farlo sul letto, sai?” Lo apostrofa, facendo un passo all'interno e lasciando che la guardia gli chiuda la porta alle spalle. Il ragazzino gli dedica appena un'occhiata ma non dice una parola mentre Bushido si volta e porge i polsi alla guardia attraverso le sbarre. “Ti spiace?” Chiede, con un sorriso sghembo. “I braccialetti cominciano a stringere.”
L'uomo sbuffa una mezza risata e lo libera dalle manette, poi si allontana facendo un cenno ad entrambi. “Fate i bravi, là dentro.”
“Hai sentito?” Bushido si rivolge di nuovo al ragazzino, ripiegando un po' le maniche della camicia. “Dovresti comportarti a modo e sederti come un essere umano.”
“Si può sapere tu che cosa cazzo vuoi?” Sbotta Bill.
Bushido non si scompone. “Fa piacere sapere che non ti è scomparsa la voce e che la usi sempre per dire cose tanto piacevoli,” lo prende in giro.
“Senti, non ho nessuna voglia di-”
“Sta' zitto, fammi il favore. Ti ho portato da mangiare,” dice Bushido, tirando fuori dalla tasca qualcosa avvolto in tovaglioli di carta e una di quelle bottigliette di plastica in cui viene distribuito il succo frutta. “Spero che tu non sia allergico alle fragole, perché questo era l'unico rimasto.”
Bushido appoggia il cibo sul letto di sotto e lo spinge verso il ragazzino, quindi si appoggia al tavolo che c'è nell'angolo della cella e resta in attesa. “Mangia,” ordina con un cenno del capo dopo che si è allontanato abbastanza da lasciar intendere che questo è il massimo dell'interazione che ha previsto con lui.
Bill rimane immobile per un lungo istante e poi allunga una mano a recuperare il fagotto. “Com'è che tu puoi portare cibo in camera?” Chiede sospettoso mentre svolge l'involucro di carta e ne estrae un panino rotondo e straripante di ripieno.
“Ho un permesso speciale” spiega Bushido. “Ma fossi in te non mi farei vedere.”
Lo stomaco di Bill fa le capriole di fronte a quel ben di Dio e, anche se vorrebbe continuare a fregarsene, il ruggito inarrestabile del proprio stomaco lo costringe a cedere. Il primo morso gli fa quasi salire le lacrime agli occhi, tanto che si ritrova a mugolare compiaciuto. “Questa non è come la merda che servono in sala mensa,” commenta. “Dove l'hai trovato?
Bushido sorride. “L'ho fatto fare a Chakuza appositamente per te.”
Bill allontana subito il panino dalla bocca e si chiede se è ancora in tempo per vomitare anche il morso che ha già mandato giù.
Bushido scoppia a ridere. “Tranquillo, è buono. Fidati,” gli dice. “L'ho fatto preparare a lui perché per poter avvelenare i cibi, prima doveva prepararli. Ed è un ottimo cuoco.”
Il ragazzino ci pensa su qualche istante e osserva il panino con la stessa diffidenza con la quale guarda Bushido. Quel tipo potrebbe volergli mettere le mani addosso un giorno o l'altro, ma di sicuro non ha alcun motivo per volerlo morto. E poi con tutti gli uomini che ha in giro per la prigione, perché prendersi la briga di portargli del cibo avvelenato in camera? Tanto valeva farlo ammazzare da qualcuno una delle tante volte che lo hanno pestato.
“Mangia, ti ho detto,” ripete Bushido, più severamente. “Il panino è a posto. Il direttore sa che ti ho portato del cibo, quindi se adesso cadi in terra morto stecchito, lui saprà che ti ho ammazzato io. Sei più tranquillo adesso? Forza.”
“Ora sì che mi sento più sollevato, sapendo che finirai in isolamento se crepo,” commenta ironico Bill, però tira un altro morso al panino. “Come fa uno come Chakuza ad avere il permesso di lavorare nelle cucine?”
“Infatti non ci lavora,” Bushido si stringe nelle spalle e, visto che Bill sta mangiando, può anche arrampicarsi sul suo letto e stendersi lì, con le braccia dietro la testa. “Porta solo i pasti in infermeria, ma se si vuole fare qualcosa, il modo lo si trova.”
Per qualche minuto sulla cella cade il silenzio, interrotto soltanto dal ruminare di Bill che si è evidentemente lasciato andare alla fame e sta divorando il cibo come non ne vedesse da giorni, cosa che in effetti non fa. Bushido attende pazientemente che il ragazzino abbia finito e, quando quello finalmente si alza in piedi, gli rivolge la parola senza nemmeno voltarsi a guardarlo. “Pensi di passare qui dentro tutti gli anni che ti hanno dato?”
“E anche se fosse?”
“Se così fosse ti direi che non mi pagano per portarti da mangiare,” risponde. “Tienilo a mente mentre cerchi di usare i tuoi super-poteri per campare dodici anni senza mettere in bocca neanche un pezzo di pane.”
Bill si stende sulla sua branda, il viso rivolto verso il muro di fronte a sé, reso più scuro dall'ombra del letto di sopra e solo allora, lontano dallo sguardo di Bushido, si permette di deglutire di preoccupazione. Non può passare tutto il suo tempo in quello schifo di cella ma, per come stanno le cose, non può nemmeno avventurarsi fuori. Bill non crede nel tempo che sistema le cose, soprattutto in galera, dove al massimo sono pronti a tirargliele di nuovo perché si sono scordati di averlo già fatto una volta.
“Ehi, ragazzino?” La voce di Bushido è calda e bassa, e sempre così impostata che Bill lo trova ridicolo. Ma chi si crede di essere questo marocchino impiantato in Germania? Che diavolo vuole da lui e dalla sua vita? Perché non lo lascia in pace un istante? E' per questo che non riesce a concentrarsi e a trovare una soluzione al suo attuale problema come fa di solito, perché quello lassù, abbarbicato sul suo stupido trono non sta mai zitto e pretende anche che lui gli risponda. “Cosa vuoi?”
“La mia offerta è sempre valida.”
“Fottiti,” Bill si raggomitola e diventa ancora più piccolo. “Ti ho già detto che non ne ho bisogno.”
“Il panino lo hai fatto fuori, però.” La voce di Bushido non cambia di tono. Resta pacata e venata da un leggero umorismo. “E un grazie sarebbe gradito, sai? Non è che se batti per strada devi essere maleducato.”
Bill sbuffa rumorosamente dalle narici. “Nessuno ti aveva chiesto niente.”
Non a parole, pensa Bushido. E' evidente che, da qui in avanti, se vuole evitare che la situazione degeneri, la volontà del ragazzino non va più presa in considerazione.

*

Proprio per questo motivo, la prima cosa che Bushido fa all’alba del terzo giorno di Bill Kaulitz nelle cucine, dopo averlo osservato finire in tre risse nel giro di quarantotto ore, e quasi violentato dietro le caldaie durante il suo turno di pulizie, è andare a fare una visitina al suo vecchio amico Jost.
Ci sono voluti tre giorni solo perché Bill si riprendesse abbastanza da decidere di potersi fare un giro fuori dalla propria cella. Ce ne sono voluti altri due di suggerimenti velati per convincerlo a mettersi a lavorare. Bushido non ha intenzione di sprecare tutta la fatica fatta solo perché questa prigione, come tutti i luoghi in cui le gabbie superano in numero le stanze, è abitata solo da animali.
Osservandolo sulla soglia della porta, accompagnato da un agente di custodia e con i polsi stretti nelle manette, Jost sospira. Bushido solleva una mano per salutarlo agitando le dita. L’altra segue la prima nel movimento, ma resta lì appesa alla propria manetta come un peso morto.
- Il mio non è un lavoro, - commenta, - è espiazione. Può andare, agente.
L’agente di custodia spinge poco delicatamente Bushido all’interno dell’ufficio e poi si allontana, chiudendosi la porta alle spalle.
- Buongiorno, David. – lo saluta Bushido, svaccandosi senza complimenti sulla poltroncina di fronte alla grande scrivania dietro la quale il direttore si nasconde.
David si pinza la radice del naso, inspirando ed espirando profondamente.
- Guarda, Ferchichi, usualmente sarei ben felice di rimproverarti, ricordarti che per te sono direttore o al massimo Jost e tutto il resto dei preliminari che ti piace tanto mettere in pratica quando devi parlare con me, - comincia, osservando un sorrisetto divertito farsi strada sulle labbra del detenuto, - ma sono giorni che non fai altro che entrare ed uscire dal mio ufficio, e sinceramente non ne posso più di vedere la tua brutta faccia giorno dopo giorno dopo giorno, perciò facciamola breve e tagliamo i convenevoli: cosa diavolo vuoi?
- Ci siamo alzati col piede sbagliato, stamattina, eh? – ride Bushido. David rotea gli occhi. Gli ha appena detto di voler tagliare i preliminari, ed ecco che lui insiste, come non l’avesse neanche sentito.
- Sempre, Ferchichi. Sempre, credimi. Ora, ti dispiacerebbe, per cortesia, vuotare il sacco e poi sparire dalla mia vista per sempre? – domanda con educazione, recuperando una pila di fogli da un cassetto e prendendo a fingere di leggerli con estremo disinteresse, giusto per darsi qualcosa da fare.
Bushido si prende il suo tempo, prima di rispondere. Non perché abbia bisogno di raccogliere i pensieri – Jost lo conosce abbastanza bene da sapere che Bushido non muove un passo per parlare con qualcuno se non sa già esattamente cosa deve dirgli e come deve farlo in modo da ottenere precisamente ciò che vuole – ma appositamente per snervarlo, sperando che infastidirlo in questo modo lo porti a concedergli una risposta veloce e affermativa, solo per toglierselo dai piedi quanto prima.
Inutile dire che sta funzionando.
- Dunque, a proposito del ragazzino che mi hai affibbiato… - comincia lentamente, e David rotea gli occhi, nauseato.
- Non ne posso più di sentirti parlare di quest’argomento. Non ne posso più di te in generale, ma di questa cosa in particolare, poi, non riesco più a tollerare nemmeno l’esistenza. Ora lo sposto in isolamento e tanti saluti. – minaccia in un ringhio impietoso, e Bushido, prevedibilmente, si mette a ridere.
- Mamma mia, David, dovresti prenderti un calmante. Una camomilla, almeno, se non vuoi ricorrere alla prescrizione del tuo psichiatra. – suggerisce con tono falsamente preoccupato. David deve dar fondo a tutto il proprio autocontrollo per impedirsi di afferrare il pesante fermacarte a forma di zampa di leone che ingombra una buona percentuale della sua lussuosa scrivania in legno massello e tirarglielo dritto sulla fronte, proprio in mezzo agli occhi. Sarebbe soddisfacente – oh, Dio, sarebbe così soddisfacente – ma con la fortuna sfacciata che ha Bushido riuscirebbe sicuramente a sopravvivere; lui, invece, finirebbe arrestato e incriminato per tentato omicidio, e probabilmente sarebbe recluso proprio nella stessa prigione che fino ad ora, con alterni risultati, ha diretto. Questo sarebbe di sicuro meno soddisfacente, perciò David pone un freno alla propria furia, e si limita ad inspirare ed espirare rumorosamente dal naso, provando a recuperare la calma.
- Non ho bisogno di nessuna prescrizione, Ferchichi. – ribatte, sospirando con rassegnazione. – Coraggio, sputa il rospo. Cos’è che vuoi ora? Il permesso di portarlo a pisciare e reggergli l’uccello mentre lo fa? Puoi. Contento? Ora vai.
Bushido rimane in silenzio per un paio di secondi, il sorriso abbandona velocemente le sue labbra e le sue sopracciglia si aggrottano visibilmente. David si permette un sorriso di trionfo.
- Sei il peggior direttore di prigione esistente sulla faccia della terra. – commenta.
- Oh, e il tuo parere mi interessa così tanto che penso che stanotte non dormirò. – ribatte David, con un altro mezzo sorriso. – Seriamente, Ferchichi. Sputa il rospo. Non ho tempo da perdere. Specialmente con te.
- D’accordo, d’accordo. – sospira lui, mettendosi seduto in maniera vagamente più composta, come a dargli un segnale tangibile delle proprie buone intenzioni a passare ad argomenti più seri. – Allora, lo voglio fuori dalla cucina.
David aggrotta le sopracciglia, accomodandosi meglio contro lo schienale della propria enorme poltrona girevole in vera pelle.
- Come, prego? – domanda incerto. Bushido non si scompone.
- Lo voglio fuori dalla cucina. – ribadisce, - Pensavo che sarebbe stato più semplice tenerlo sotto controllo lì, ma la verità è che non fa che creare problemi. O sono i problemi che continuano a trovarlo, questo non mi è ancora del tutto chiaro. In ogni caso, - scrolla le spalle, e le manette producono un suono tintinnante particolarmente fastidioso, in risposta al suo movimento, - non posso più tenerlo lì. Non solo non riesco a farlo stare tranquillo, ma finisce per rallentare il lavoro a tutti. I miei ragazzi si lamentano e una ciurma scontenta è una ciurma potenzialmente pronta all’ammutinamento. Lo sposti da qualche altra parte.
- Scusami mentre trattengo a stento le risate sulla metafora piratesca. – sbotta David, inarcando un sopracciglio, - E scusa anche mentre cerco di non soffocarmi d’ilarità mentre realizzo che tu supponi di poter venire qui in quest’ufficio a fare il bello e il cattivo tempo senza che io ti rida in faccia e ti mostri la via più breve per toglierti dalle palle presentando il tuo triste fondoschiena alla punta dei miei stivali da milleduecento dollari.
Bushido inarca le sopracciglia così tanto che sulla sua fronte si formano rughe ondulate e profondissime.
- Questa è la cosa più gay che io abbia mai sentito dire in assoluto in tutta la mia vita, non scherzo. – lo avvisa. Ancora una volta, David deve trattenersi dal reagire in maniera sconsideratamente ed inappropriatamente violenta. Questa conversazione lo sta portando sull’orlo di una crisi di nervi.
- Va bene, Ferchichi, basta così. – sospira, massaggiandosi stancamente le tempie, - Sono stufo. Non ne posso più. Dove vorresti che lo spostassi?
Bushido scrolla le spalle, come non ci avesse ancora pensato. David lo odia. Questi giochini lo irritano. Entrambi sanno perfettamente che Bushido ha già pianificato quella conversazione nei minimi dettagli, ed entrambi sanno anche che tutti i tentativi di David di accorciarla e modificarne il corso sono stati vani. Perché, quindi, continuare a trascinarla inutilmente per chissà quanti altri minuti?
- Magari in biblioteca. – si degna finalmente di rispondere, - È un posto tranquillo, ci sono solo due ingressi e non dovrebbe fare altro che stare seduto al computer a registrare i libri presi in prestito. Inoltre, lì i miei ragazzi potrebbero tenerlo d’occhio meglio e più discretamente, così anche lui non se ne accorgerebbe e la smetterebbe di rompere le palle e piantare casini apposta per dispetto nei miei confronti. – sorride, accavallando le gambe. – Mi sembra la soluzione migliore per tutti.
David lo fissa con malcelata rabbia per un paio di secondi, chiedendosi se quest’uomo sappia di fronte a chi si trova. Se ne abbia un minimo di consapevolezza, almeno.
- Lo sai perché ti ho affidato questo ragazzino, Ferchichi? – domanda, e quello fa una smorfia.
- Me lo chiedo continuamente. – risponde.
- Me lo sono chiesto anch’io. – annuisce David, - E la verità è che fino a questo momento non ne avevo un’idea precisa. Ma adesso sì.
L’espressione di Bushido cambia. Si fa più seria, perfino preoccupata, mentre sulle labbra di David si disegna un sorrisetto divertito.
- Sarebbe?
- Non me ne frega niente, di quel ragazzino. – spiega David, - O meglio, non più di quanto non mi freghi di un qualsiasi altro detenuto. Quindi, in realtà, molto poco. Ma sai quanti omicidi e suicidi ci sono stati fra i nuovi arrivati nel corso dell’ultimo anno? È meglio che non ti dica il numero preciso, perché sono di quelle stime che farebbero rizzare i capelli sulla testa anche a uno stronzo come te. Posso però dirti che in percentuale stiamo parlando di più della metà dei nuovi detenuti, la maggior parte dei quali ragazzi molto giovani, che in teoria uscendo di qui in una decina d’anni o meno avrebbero potuto rifarsi una vita. – David si prende qualche secondo per tenere Bushido sulle spine, osservando i suoi occhi farsi più scuri, perfino preoccupati. – La verità è che te l’ho affidato perché è un caso perso, Ferchichi. Perché se il ragazzino crepa, in qualsiasi modo, io avrò la scusa perfetta per tenerti ingabbiato qui dentro fino a che non avrai scontato la tua pena integralmente. Perché davvero, se c’è qualcuno in questa prigione che non merita di rivedere la luce del sole il più a lungo possibile, questo sei tu. E sai perché, Ferchichi?
- Perché lei è uno stronzo e mi odia, direttore? – risponde immediatamente Bushido, gelido, tornando ad una forma di cortesia che con lui non ha mai usato e che, per la prima volta, stabilisce fra loro una distanza, sintomo evidente del fatto che lui non ha più alcuna voglia di scherzare.
- No. – ridacchia David, stendendosi comodamente contro lo schienale della poltrona e intrecciando le mani in grembo, - Perché la prigione non ti ha insegnato niente, Ferchichi. Sei sempre la stessa feccia che eri quando sei entrato qui dentro, e non hai alcun diritto di uscire. Non sei stato rieducato. – il suo ghigno si allarga, - Ecco perché ti ho affidato il ragazzino. Perché tu fallirai, e io potrò tenerti qui dentro. Non perché ti odio, ma perché è quello che meriti.
Bushido scatta in piedi, osservandolo dall’alto con rabbia evidente. Le sue mani tremano.
- È tutto? – domanda. David si concede un altro sorriso soddisfatto.
- Il permesso per il trasferimento del detenuto Bill Kaulitz in biblioteca è accordato. – conclude, - È tutto, sì.

*

All’alba del terzo giorno di biblioteca, Bill si è già annoiato così tanto da ripensare alle botte e ai tentativi di stupro con nostalgia. Almeno, allora succedeva qualcosa. Invece, adesso ogni ora è una tortura, i minuti non passano mai, le giornate sono infinite. Se pensa che gli toccano dodici anni di questa merda, gli viene da vomitare. Saranno dodici e sembreranno ventiquattro, visto che, palesemente, il tempo in quella stanza silenziosa scorre due volte più lentamente di quanto non faccia in tutto il resto della prigione e del mondo.
Il primo giorno è stato perfino piacevole. Un agente di custodia l’ha scortato alla biblioteca, gli ha mostrato la postazione e gli ha gettato fra le mani un breve opuscolo che gli spiegava in sintesi ciò che doveva fare e il funzionamento di base del programma col quale avrebbe dovuto registrare i prestiti e le restituzioni.
La biblioteca non è molto frequentata, la maggior parte dei detenuti preferisce fare altro rispetto a leggere, evidentemente, e Bill non può certo biasimare nessuno, per questo – non si avvicinerebbe a un libro neanche se stesse morendo di noia e non ci fossero altri passatempi possibili nel raggio di chilometri – e per questo motivo fin dall’inizio non è che il suo lavoro sia stato granché faticoso. Ogni paio d’ore, al massimo, un detenuto che magari era rimasto lì a leggere per eternità, si avvicinava alla sua scrivania e gli sventolava il libro davanti, e Bill non doveva fare altro che inserire nel programma il codice del libro e il numero di riconoscimento del detenuto, e il suo lavoro era finito. È stato piacevole perché le sue ossa avevano ancora bisogno di riprendersi da una recente scarica di legnate, e poter stare sostanzialmente seduto a rigirarsi i pollici per una mattinata intera era stato riposante, perfino soddisfacente, allo stesso modo in cui era soddisfacente ritornare da scuola il venerdì pomeriggio e gettarsi a pancia in su sul proprio letto a fissare il soffitto per ore, come faceva spesso a quattordici anni.
Anche il secondo giorno è passato senza particolari traumi. L’unica cosa un po’ strana che è successa è stata quando, ad un certo punto del pomeriggio, dopo aver sghignazzato seduti ad un tavolo senza mai avere aperto un libro da quando erano entrati in biblioteca, tre detenuti gli hanno chiesto di trovare per loro un volume che non riuscivano ad individuare. Bill si è fatto dare il titolo ed ha scoperto che il libro si trovava in uno scaffale parecchio in alto. L’ha indicato ai detenuti sghignazzanti, chiedendosi cosa diavolo avessero da ridere e stabilendo in ultimo che non gli interessava minimamente, e poi ha detto loro di usare pure la scala per recuperarlo. A quel punto, uno di loro gli ha risposto che i detenuti comuni non hanno il permesso di utilizzare la scala per prendere i libri. È uno specifico compito del detenuto al quale è stata affidata la gestione della biblioteca, ha detto.
Bill li ha guardati tutti e tre aggrottando le sopracciglia.
- Ma che stronzata è? – ha chiesto. I detenuti hanno scrollato le spalle, e lui si è detto che, in fondo, si trattava di una regola abbastanza idiota da poter essere perfino vera, e sospirando pesantemente ha recuperato la scala da sé, spostandola in corrispondenza dello scaffale giusto per poi arrampicarsi verso l’alto, un piolo dopo l’altro, sentendo tutte le ossa scricchiolare sinistramente ad ogni passo.
È stato allora che i tre detenuti hanno ripreso a sghignazzare. E prima ancora che Bill potesse darsi del cretino e saltare giù dalla scala, quelli l’hanno afferrata per i due lati e hanno cominciato a scuoterla violentemente a destra e a sinistra.
Bill ha lanciato un gridolino terrorizzato, aggrappandosi all’ultimo piolo in alto e stringendolo forte fra le braccia nel tentativo di ancorarsi a sufficienza per non cadere rovinosamente per terra, mentre il suo corpo ondeggiava senza posa seguendo il movimento della scala, e quegli stronzi continuavano a ridere, senza fermarsi un secondo, e poi all’improvviso è finito tutto, senza che lui capisse come né perché. Un attimo prima il mondo oscillava pericolosamente da un lato all’altro, e l’attimo dopo invece era fermo.
- Che cazzo…? – ha sillabato, ancora terrorizzato, voltandosi a guardare i tre detenuti ed osservandoli arretrare un passo dopo l’altro mentre cercava di recuperare l’equilibrio sulla scala.
- S-Scusa… - ha detto uno dei tre, afferrando gli altri due per le maniche delle rispettive magliette per trascinarli indietro più in fretta, - Non volevamo…
- Non volevate cosa?! – ha strillato a quel punto lui, sconvolto, voltandosi per scendere dalla scala in due grandi passi, - Ma sparite, coglioni! Sparite!
I tre non se lo sono fatto ripetere due volte, e quello, bene o male, è stato l’unico episodio emozionante della giornata. Bill si è naturalmente ritrovato a chiedersi cosa sia stato a metterli in fuga in quel modo, perché – e di questo è abbastanza sicuro – di certo non è stato il suo stupido culo ondeggiante per aria in completa balia del loro ridicolo bullismo da adolescenti mai cresciuti. E d’altronde gli è capitato anche di chiedersi cosa ci facessero Chakuza e Baba Saad in un angolo della biblioteca, apparentemente intenti a rigirarsi i pollici, e da quanto tempo fossero lì in osservazione, visto che lui, prima di quel momento, non li aveva notati affatto.
Ma è stato solo un pensiero di fugace curiosità, ed è passato subito. Questo perché sostanzialmente non gli importa un accidenti di quello che succede in questa dannata prigione. Attorno a lui o a causa sua o per qualunque altra ragione. È tutto così incredibilmente stupido che lui semplicemente rifiuta di averci qualcosa a che fare.
Adesso, però, la domanda torna a farsi insistentemente avanti nel momento in cui, dopo una giornata intera a rigirarsi i pollici, accade qualcosa di perfino più strano. I due detenuti che l’hanno abbordato in mensa ormai quasi due settimane fa, e che poi l’hanno ridotto uno straccio quando lui si è rifiutato di scoparseli, entrano in biblioteca una decina di minuti prima dell’orario in cui usualmente l’agente di custodia passa a prenderlo e chiude la porta a chiave per la notte, prima di ricondurlo alla propria cella.
L‘ultimo ad entrare, il più grosso, si chiude la porta alle spalle. A parte loro due e Bill, la biblioteca è completamente vuota, e nell’accorgersene lui immediatamente aggrotta le sopracciglia, alzandosi in piedi ed affrontandoli a muso duro.
- Non è aria. – dice il più scontrosamente possibile. I due si lanciano un’occhiata divertita, e poi quello più basso si avvicina di un altro passo, mentre il suo compare afferra una sedia e la incastra fra il pavimento e la maniglia della porta, per bloccarla.
- Indovina a chi non frega un accidente di che aria tira? – dice il tipo più basso, ormai così vicino che Bill può percepire distintamente il puzzo nauseante del suo sudore. – Adesso fai il bravo e tirati giù i pantaloni, culetto d’oro. Mostraci per cosa pagavano i tuoi clienti quando stavi fuori. – conclude, avvicinandosi ancora, le mani protese verso di lui.
Bill scatta indietro, soffiando come un gatto.
- Non vi avvicinate. – ringhia. La maniglia della porta si muove, ma naturalmente chiunque si trovi al di là non riesce ad aprirla, - La guardia sarà qui a minuti.
- No, credo di no. – ridacchia il suo compare, il quale, Bill scopre quando si avvicina a propria volta, puzza anche più di lui, - Indovina chi ha messo da parte qualche risparmio per chiedere all’agente un gentile favore…?
Bill digrigna i denti, nauseato.
- Cos’è, un quiz a premi? – commenta, sbirciando la porta e notando che la maniglia continua a muoversi. Se la guardia è stata pagata, allora chi è che sta cercando di aprirla? Forse, se riesce ad essere abbastanza veloce da aggirare questi due stronzi e lanciarsi sulla sedia per toglierla di mezzo… prova a calcolare le proprie possibilità, ma scopre ben presto di aver fatto la scelta sbagliata. I due gli sono addosso molto prima che lui riesca a concludere i propri calcoli, e nel momento in cui sente le loro luride mani addosso Bill non può far altro che urlare.
La maniglia smette di girare convulsamente, e a Bill salta il cuore in gola. Magari un detenuto stava provando ad entrare ma, quando ha sentito il suo urlo, ha saggiamente deciso di evitare di farsi coinvolgere in qualche rissa o qualcosa di peggio. È stato stupido, è stato stupido a non scappare immediatamente quando questi due stronzi si sono intrufolati in biblioteca, è stato uno stupido a perdere tutto quel tempo invece di lanciarsi sulla sedia appena pensata la mossa, è stato stupido a urlare perché forse, se fosse rimasto in silenzio, chiunque stesse cercando di aprire la porta avrebbe continuato a provarci finché non ci fosse riuscito, e tutto quello che gli succederà da questo momento in poi è solo colpa sua e della sua stupidità. In qualche modo, lo merita perfino. Il suo corpo, intento a dibattersi fra le mani dei due detenuti, non la pensa allo stesso modo, ma è così.
In ogni caso, non importa: passano al massimo dieci secondi, e poi la porta viene letteralmente scardinata, e un uomo alto e pallido coi capelli cortissimi e gli occhi di un azzurro incredibilmente intenso fa irruzione all’interno della biblioteca, interrompendo i due detenuti nel momento in cui il più basso infilava una mano giù per i pantaloni di Bill mentre il più grosso lo teneva fermo.
- Oh. – dice il tipo, che Bill riconosce come quello che Eko Fresh gli ha indicato come Fler giorni prima, - Allora ho fatto bene a insistere. Mi serve un libro. È una faccenda di una certa importanza. – spiega, e proseguendo nel proprio discorso guarda più i due detenuti che Bill. – Il mio capo non sarà contento, se non torno con buone notizie. – conclude.
I due detenuti lo mollano con una serie di ringhi frustrati, e Bill deve aggrapparsi ad uno dei tavoli da lettura per non cadere per terra.
- Ho già spento il terminale. – balbetta, indicando il computer che giace immobile e silenzioso sulla scrivania, - Non posso registrare altri prestiti se non lo riavvio, e non c’è tempo. La guardia dovrebbe… - balbetta. Fler fa un gesto vago con la mano.
- Non verrà nessuna guardia a prenderti oggi. – borbotta, - Il libro non era urgente, comunque. Sta’ attento, quando torni al braccio. – conclude, voltandogli le spalle e attraversando la porta, o meglio, il passaggio al posto del quale prima c’era una porta che giace adesso per terra, quasi spaccata in due, con una crepa visibilissima che la taglia in due parti quasi uguali da sopra a sotto, e lasciandolo lì senza una parola di più.

*

Bill odia le cucine e la sala mensa.
Odia dover fare la fila con in mano il vassoio e doversi guardare alle spalle perché c'è sempre qualcuno che allunga le mani. Odia dover aprire bocca per chiedere quello che gli va o non gli va di mangiare. Odia dover fare il percorso a ritroso verso uno dei tavoli vuoti che sono sempre in fondo e rischiare che qualcuno gli faccia lo sgambetto o si avvicini con una scusa qualsiasi per sputargli nella minestra.
E' già successo, quando non lo hanno proprio sbattuto contro un muro e palpato fino all'arrivo sempre tardivo e rilassato delle guardie di sicurezza, naturalmente.
Preferiva quando poteva mangiare in cella, ma Jost si è degnato a venire di persona ad avvisarlo che il suo permesso speciale era stato revocato non appena è stato in grado di restare in piedi per più di dieci minuti senza stampelle. Grazie Jost, sempre il solito stronzo. E' qua da nemmeno un mese e ha già capito che la prigione è piena di teste di cazzo, gli altri detenuti sono degli animali ma tra guardie e direttore non è che la gente libera sia tanto meglio.
Si siede nell'angolo più lontano della sala, vicino al palco che per chissà quale cazzo di ragione è stato costruito proprio qui. Bushido gli ha detto che una volta ci facevano gli spettacoli, quelli di beneficenza, organizzati da qualche attore impegnato nel sociale ansioso di aiutare la comunità, ma poi c'è stata una rissa e Jost non ne ha più voluto sapere. Com'è nella sua politica, tutto quello che non può controllare viene eliminato. Pare che questo braccio non veda visite coniugali da due anni e mezzo, per dire, una roba che ha fatto impazzire un sacco di gente. E poi quello si stupisce che i suoi detenuti cerchino di infilarlo nel primo culo che vedono.
Bill infila la forchetta in quello che dovrebbe essere purè ma è solo un intruglio giallognolo della consistenza del cemento. Gli viene da vomitare solamente all'idea di mangiarlo, ma ha già sperimentato più volte che, nonostante stia praticamente seduto tutto il giorno, non sopravvive alla giornata se non mangia a sufficienza. Sarà che sta sempre teso come una corda di violino e così consuma più calorie di quando era fuori e passava il tempo scopando.
A furia di fare passi falsi e di rischiare la vita o lo stupro ad ogni sospiro, Bill ha imparato anche un'altra cosa, ossia a prendere coscienza della situazione che versa in ogni luogo in cui mette piede prima di decidere se è il caso di rimanervi. In realtà questo è un insegnamento che Bushido gli ha ficcato a forza nel cervello, ripetendolo fino alla nausea ogni volta che ha parlato nelle ultime settimane. Bill ha sempre finto di fregarsene, ma non può negare che fra le mille stronzate che quell'uomo si fa uscire di bocca ogni giorno credendo di avere una qualche importanza per lui, questa è una delle più sensate.
Al momento in sala ci sono tre guardie. Dovrebbero essere quattro, tanto per cominciare, e le uniche tre presenti non sono granché attente; questo potrebbe voler dire guai, se qualcuno ha qualcosa in mente, ma potrebbe anche voler dire che quelli non hanno voglia di lavorare.
Gli uomini di Sido siedono tutti insieme da una parte, ma ce ne sono alcuni sparsi per la stanza, come per non lasciare certe zone sotto il controllo totale degli uomini di Bushido. D'altronde anche quelli fanno la stessa cosa. Bill può più o meno inquadrare questa stanza come fosse il tabellone del Risiko con il quale lui e suo fratello passavano interi pomeriggi prima che la sua famiglia cadesse a pezzi.
A lui questo schieramento da battaglia sembra una gran cazzata, non capisce per quale motivo questa gente senta il bisogno di farsi la guerra. Per ottenere che cosa? Sempre in gabbia si dorme, alla fine.
Ha ingurgitato controvoglia primo e secondo e sta per attaccare una pallida imitazione di torta alla ricotta, quando l'ombra tozza di uno dei bestioni di Sido si allunga sul suo vassoio.
“Ehi, fiorellino,” grugnisce, per poi ridere divertito del modo esilarante con cui ha rotto il ghiaccio mentre si sedeva sul tavolo.
Bill cerca di ignorarlo, anche se come tattica non si è rivelata poi così utile in passato. Quando questi scimmioni ritardati non si sentono abbastanza considerati – il che significa, se non vedono che ti pieghi autonomamente a novanta per compiacerli – reagiscono in malo modo. “Che fai, fiorellino?” Dice di nuovo, invadendo il suo spazio e condividendo con lui l'alito pestilenziale. “Non mi guardi nemmeno? Sei timido?”
Bill sospira infastidito, la testa bassa e lo sguardo fisso sulla sua forchetta. Si sposta qualche posto più avanti con tutto il vassoio sperando che il tipo abbia altro di meglio da fare, ma ovviamente non è così. Anzi, quello lo segue sempre più divertito, scoppiando in una risata roca e catarrosa quando Bill raggiunge la fine del tavolo, dove si accorge che è seduto un altro degli uomini di Sido, pronto a ghignare sdentato nella sua direzione. “Vai da qualche parte, culetto d'oro? Non ti piace la compagnia?”
Bill sospira di nuovo, d'altronde era strano che nessuno lo avesse ancora importunato; è lì seduto da più di venti minuti. A pensarci bene non gli capita di essere inchiodato al muro da giorni e perfino nelle docce, alle quali deve avvicinarsi con estrema attenzione, nessuno si è più avvicinato.
“Senti bene, principessa,” sputa fuori il primo dei due uomini quando finalmente si accorge che non ha nessuna intenzione di rispondergli, “finora mi pare di essere stato gentile, ma la mia pazienza ha un limite.”
“Non ti conviene farlo incazzare, sai bellezza?” Gli fa eco quell'altro. “Potrebbe non essere piacevole.”
Bill fa in tempo ad alzare la testa per dirgli che in nessun modo uno dei due potrà mai essere piacevole visto il tanfo di morto che esalano, che Eko si siede di fronte a lui, mangiando placidamente un biscotto a piccoli morsi, proprio come il criceto a cui assomiglia.
“Sai, ragazzino, ci ho messo una vita a trovarti,” esordisce come se quei due non fossero nemmeno lì. “Sei sempre in un posto diverso. Non è che ho tempo che mi avanza per giocare a nascondino, sai?”
“Eko...?”
“Sì, sono io. Vedo che fai progressi.” Lui continua a smangiucchiare il suo biscotto e sputa le gocce di cioccolato in un angolo del vassoio per poi guardarle con malcelato disgusto. “Ti piace la cioccolata? Io odio la cioccolata. E' perché una volta, da piccolo, sono stato morso.”
I due uomini di Sido scendono immediatamente dal tavolo e ringhiano tra i denti qualcosa che Bill fatica a capire, ma è chiaro che non è stata la sola – e per altro modesta – presenza di Eko a farli desistere, ma quello che Eko in sé, con le sue quattro ossa scombinate, rappresenta.
Eko gli lancia un'occhiata apparentemente disinteressata, ma segue i due con la coda dell'occhio finché non sono spariti, andandosi a rintanare in mezzo ai loro comparsi.
“Non mi piace nemmeno l'uva passa,” continua allora Eko, come Bill si fosse dimostrato interessato in qualche modo all'argomento. “Come sapore non è neanche male, è solo che è facile scambiarla per cioccolata. Tu sei lì che mangi il tuo bel biscotto e lei se ne sta lì, tonda e scura, proprio come fa la cioccolata. E io non li sopporto quelli che si travestono e fanno finta di essere qualcun altro.”
Bill lancia un'occhiata intorno a sé: Chakuza, Fler e Saad fingono tutti di fare altro mentre lo tengono sotto controllo da punti diversi della stanza. Bushido naturalmente non c'è, ma Bill sa perfettamente che nessuno dei suoi uomini si muove senza che lui lo sappia.
Scatta in piedi e si dirige a passo spedito verso le celle. La guardia all'entrata non si spreca nemmeno a guardarlo abbastanza a lungo da capire di chi si tratti.
Eko non lo segue, chiede soltanto con estremo e calcolato ritardo: “Quello lo mangi?” Indicando la torta di ricotta, prima di appropriarsene.
Bill entra in cella come una furia, dando uno spintone a Bushido che se ne sta di fronte al lavandino, intento a lavarsi la faccia.
“Esattamente, quale parte di non mi serve il tuo aiuto non hai capito?” Sbraita, mentre Bushido fa un passo indietro senza scomporsi e recupera il proprio asciugamano.
Finisce anche di asciugarsi e rimettersi la maglietta prima di dedicargli il minimo sindacale della sua attenzione mentre ispeziona con cura il proprio riflesso. “Sentiamo, di quale assurda fantasia stai blaterando questa volta?”
“Prima quell'armadio a due ante che fa irruzione nella biblioteca spaccando in due la porta, poi il nano pelato in lavanderia e oggi quello schizzato, Eko, che mi si piazza davanti in mensa a parlarmi di quanto odia la cioccolata. Seriamente, sei tu che ti circondi di casi umani e malati mentali per sentirti normale o sono loro che vedono in te qualcosa di familiare e ti si avvicinano?”
Bushido si volta a guardarlo con estrema lentezza e quando i suoi occhi si fissano in quelli di Bill sono infastiditi. “Ekram non è affatto un malato mentale,” commenta con calma “e sta con me perché è un tipo a posto, ma sono certo che sia io che lui sopravvivremo anche se la pensi diversamente. Il tuo giudizio, d'altra parte, non ci tocca minimamente. C'è altro? Dovrei andare.”
Bill fa una smorfia oltraggiata. “Hai sentito quello che ti ho detto o sei anche sordo oltre che stronzo?”
Bushido, che lo ha appena superato per raggiungere l'entrata della cella, si ferma e inspira contando ben oltre il dieci per mantenere la calma. “Dovresti essere riconoscente,” gli fa notare. “Se puoi ancora camminare sulle tue gambe, non è certo per merito tuo.”
“Riconoscente? Non posso andare nemmeno al cesso senza che uno dei tuoi mi segua!”
“E' per la tua sicurezza,” ripete Bushido, la voce tesa dal nervosismo e dalla voglia, ormai fuori controllo, di prendere quel ragazzino insopportabile e scuoterlo finché non gli ha mescolato tutte quante le ossa.
“Nessuno ti ha mai chiesto di proteggermi!”
Bushido è un tipo paziente. Non è mai stato una di quelle teste calde che scattano alla prima offesa. E' uno che se l'è anche presa per niente, questo è vero, ma quando lo fai incazzare, prima di frantumarti la faccia ci pensa due volte perché così gli vengono in mente il doppio dei modi per farti fuori.
Questo ragazzino, però, petulante, lagnosa, potenzialmente pericolosa spina che Jost ha fatto in modo di ficcargli ben a fondo nel fianco, ha già sfidato la sua pazienza più di certi omicidi eseguiti per farlo uscire di testa. Per questo finisce per girarsi ed attaccarlo al muro. “Sentimi bene, ragazzino,” gli sputa addosso, premendogli forte la mano contro la giugulare perché, per una volta, cazzo, stia zitto. “Senza me che ti paro il culo, tu qua dentro non campi una settimana, il che per me non sarebbe un problema in generale, perché a me di te non me ne frega un cazzo. Il fatto è che io sto per uscire con la condizionale, ma Jost ti ha affidato a me. Il che significa che se tu muori, se ti violentano, se ti feriscono, qualunque cosa ti succeda mentre sei sotto la mia protezione, io mi fotto la condizionale.”
Bushido preme la mano contro il suo collo ancora una volta e poi allenta la presa, senza però lasciarlo andare. Il ragazzino boccheggia e tossisce, stringendogli forte le dita intorno al polso per cercare di sostenersi e non pendere floscio come uno straccio. “Quindi, come vedi,” continua Bushido, continuando a parlargli a due centimetri dalla faccia, “non è per te e per il tuo bel faccino che i miei uomini ti stanno addosso tutto il giorno. Il tuo culo è il mio foglio di via e non ho nessuna intenzione di perderlo solo perché tu credi di potertela cavare da solo. Sto proteggendo i miei interessi.”
Bushido resta a guardarlo in cagnesco ancora per qualche secondo, poi con un gesto stizzito lo lascia andare e Bill cade come un sacco vuoto a terra, tossendo forte e massaggiandosi il collo che è chiazzato di rosso là dove le dita di Bushido lo hanno stretto.
“A me non frega niente dei tuoi interessi,” dice roco, non appena ha recuperato fiato sufficiente per replicare. Bushido non si capacita di come questo ragazzino possa ancora aver voglia di fare lo stronzo quando palesemente ha appena rischiato di essere strangolato. E' controproducente perfino per lui, non ha nessun istinto di sopravvivenza e se lui – che deve tenerlo in vita per forza – ha già di nuovo voglia di ammazzarlo, quante probabilità ci sono che superi anche solo i primi sei mesi di permanenza?
“Fai un favore a te stesso e chiudi quella fogna,” replica.
“No,” Bill si rialza a fatica, aggrappandosi al muro e lo guarda furioso. “No, perché non sono io quello che ha bisogno di te. Io, in questa fogna, devo passarci sicuramente dodici anni. Ma tu? Tu hai bisogno che io faccia il bravo per uscire in anticipo. Non è così?”
Bushido si irrigidisce. I tratti del suo viso si fanno ancora più severi e tesi. Per un attimo lo guarda con tanto di quell'odio che se solo si lasciasse libero di seguire l'istinto probabilmente lo ammazzerebbe davvero. “Te lo dico per l'ultima volta, ragazzino. Chiudi quella cazzo di bocca, non hai la minima idea di quello che stai dicendo.”
In tutta risposta, Bill ride. E' un suono debole e ancora provato ma gli dà abbastanza forza da mettersi di nuovo dritto e guardarlo negli occhi. “Tu non puoi governarmi,” gli dice sprezzante. “Se io decidessi di dare il culo a tutta la fottuta prigione, se volessi sfondarmi di droga e scatenare risse per il solo gusto di vedere se sopravvivo, tu non potresti impedirmelo. Tu non potresti fare proprio un bel niente.”
Bushido ringhia e si fa avanti con tanta violenza da sbatterlo di nuovo contro il muro. Gli si preme addosso con tutto il corpo, sbuffandogli sul viso fiato caldo che sa di dentifricio e tabacco. “Col cazzo, ragazzino!” Sibila fra i denti. “Posso fermare chiunque cerchi di scoparti. Posso impedire alla gente di venderti la roba e posso terrorizzare a morte chiunque anche solo pensi di sollevare un dito su di te.” Mano a mano che elenca, riacquista la calma e la sua voce si fa più stabile e severa. “Tu qua dentro non vai nemmeno a pisciare se io decido che non puoi farlo. Io ho il controllo sulla tua vita, accettalo.”
Lo lascia andare con la certezza che Bill non replicherà.
Infatti, una volta libero, si limita a lanciargli un'occhiata infuocata, sbuffando inviperito, prima di sbattere violentemente le mani contro le sbarre della cella in segno di stizza e andarsene.

*

Sono le quattro e mezzo del pomeriggio e Fler è appena rientrato dalla palestra dove avrebbe voluto scaricare lo stress sollevando i pesi, come fa di solito, ma qualche stronzo si annoiava e ha scatenato la rissa. Bushido ha una politica molto severa riguardo alle risse, che consiste principalmente nel non scatenarle, non finirci in mezzo se non è necessario ed evitare di fermarle quando sono gli altri a cominciarle e tu non c'entri niente.
Così ha preso il suo asciugamano ed è tornato in cella con l'idea di fare qualche flessione mentre le guardie tentavano di impedire che quelli di Sido ammazzassero un povero Cristo la cui unica colpa, a quanto pare, è quella di essere arabo senza far parte del giro di Bushido.
Da quello che ha visto, Hassan o come diavolo si chiama, non ha molte speranze. Il pezzo di vetro acuminato gli ha perforato lo stomaco un po' troppo a sinistra per non aver preso il fegato.
Non che Fler sia un medico, ma dopo tre o quattro dei suoi compagni finiti in infermeria più o meno allo stesso modo, ci ha fatto l'occhio. Solo sei mesi fa, prima che Jost chiamasse Sido e Bushido nel suo ufficio per organizzare la tregua – che poi non è che l'abbiano fatta sul serio – Eko ha rischiato parecchio.
Un infame lo ha colpito alle spalle. Tre coltellate ben assestate su un fianco ed Eko si è accasciato a terra come una marionetta. C'era tanto di quel sangue che sembrava avessero sgozzato un vitello o roba simile. E' stato in coma una settimana. Fler era dieci metri più avanti a pulire una pentola quando è successo. Quando l'ha visto a terra era convinto che non si sarebbe più rialzato perché la ferita era davvero brutta e invece dopo sei giorni il turco apre gli occhi e chiede della gomma da masticare, così dal nulla. Un pazzo.
Mentre è lì che fa flessioni e pensa agli affari suoi, un'ombra si allunga sul pavimento proprio davanti a lui, così alza gli occhi e si trova davanti il ragazzino, appoggiato con noncuranza all'entrata della cella, così magro che sembra una sbarra anche lui.
“Bill,” mormora un po' spaesato mentre si alza da terra con un saltello.
“Bei muscoli,” commenta lui, con un sorriso che Fler non è ben sicuro di sapere interpretare. O meglio, lo saprebbe se non ci fossero tutta una serie di circostanze ad urlargli nelle orecchie che si sta sbagliando e, semplicemente, non capisce i ragazzi. “Devi allenarti parecchio.”
“Cosa ci fai qui? E' successo qualcosa?” Fler tossicchia e recupera l'asciugamano appeso al letto per asciugarsi la faccia.
Bill resta attaccato alle sbarre ma scivola comunque all'interno, con un movimento lento e calcolato finché non può aggrapparsi alla gamba del letto a castello per accarezzarla con fare allusivo. “Non posso venirti a trovare, adesso? ”
“No, no.” Fler ride. “Assolutamente. E' che di solito te ne stai sulle tue.”
“Sono solo timido,” risponde, guardandolo in modi che di timido non hanno assolutamente niente. “Ci metto del tempo a trovarmi davvero a mio agio.”
La risata che scappa di bocca a Fler è così squillante che lui si sente in colpa e mette le mani avanti. “Scusami, ma visto che fuori battevi...” si giustifica, senza per altro alcun tatto.
Bill non si scompone, il suo sorriso si tende e diventa più furbo. “Quello è solo lavoro,” commenta mentre si stringe nelle spalle e gli si avvicina, facendo strisciare un dito lungo il materasso. “Non è la stessa cosa.”
“Capisco,” commenta Fler. Fa un passo indietro e si guarda intorno, cercando qualcosa da fare, giusto per non dover stare lì immobile a guardare il ragazzino, visto che si muove in modi che scatenano in lui reazioni pericolose. “E adesso che ti senti a tuo agio, posso fare qualcosa per te?”
“In effetti sì,” risponde il ragazzino. “Mi hanno detto che potresti rifornirmi in caso... avessi bisogno.”
Fler comincia a scuotere la testa ancora prima di aprire bocca. “No, no, no, ragazzino,” sorride. “Niente droga da queste parti.”
“Non ne vendi?” Chiede Bill, ironico. Lo sanno tutti che a far girare la droga per Bushido ci pensa Fler, è un'informazione di dominio pubblico. Cultura Generale Carceraria, se perfino uno come lui lo sa.
“Di sicuro non a te,” specifica Fler che ora ridacchia quasi divertito. Appende l'asciugamano al suo gancio vicino al lavello e si schiaffeggia un paio di volte davanti allo specchio con un gesto molto simile a quello che Bill ha visto fare a Bushido nemmeno due ore prima.
“Guarda che posso pagarti,” lo rassicura.
Fler lo guarda attraverso il riflesso. “A parte che non credo tu abbia abbastanza soldi per farlo visto che non hai avuto modo di recuperarne da che sei qui dentro,” premette. “Non posso proprio. Ordini dall'alto.”
Per un attimo la maschera sul viso di Bill si frantuma, lasciando solo una smorfia infastidita.
Quel coglione di un tunisino ha proprio deciso di rendergli la vita un inferno, vero? Quello che più lo fa infuriare è che Fler sappia esattamente in che situazione si trova, che nessuno è venuto ancora a fargli visita e che perciò non ha un euro. Di tirare su due spiccioli succhiandolo in giro non c'è verso, chi non ha paura di quello che ha fatto alla guardia, ha paura degli uomini di Bushido che lo seguono come un'ombra; ma non hanno ancora fatto i conti con la sua testardaggine e il fatto che campa da solo per la strada da un sacco di tempo e non ha affatto bisogno di nessuno di loro.
Recupera il proprio sorriso smagliante e attraversa la cella, appoggiandosi al muro, appena accanto al lavello. I suoi fianchi distano solo qualche centimetro dalla mano di Fler che lancia loro uno sguardo con la coda dell'occhio e sposta impercettibilmente le dita più lontano. “E tu esegui gli ordini come un cagnolino?” Chiede Bill. “Lui comanda e tu stai a cuccia?”
Fler sospira. “Senti, va così, d'accordo?” Si stringe nelle spalle. “Devi stare pulito e rigare dritto. Sono le regole.”
“Le regole di chi?” Mormora Bill, spingendo in avanti il mento, le labbra appena dischiuse. “Uno come te non dovrebbe stare alle regole. Dovrebbe farle.”
Fler lo guarda intensamente per qualche istante, forse curioso o forse turbato, Bill non saprebbe dirlo, quale che sia, comunque, gioca a suo favore perché perde il sorriso e si fa teso. Non sembra più tanto convinto.
“Andiamo,” dice severamente, indicando l'entrata della cella con un cenno del capo. “Fuori di qui. Ti riporto nella tua cella.”
“E se invece trovassimo un accordo?” Chiede Bill, appoggiando la testa al muro dietro di lui e facendo ondeggiare il bacino, in quel modo un po' vezzoso che Fler ha visto usare solo alle ragazze e a certi uomini su cui non metterebbe mai le mani però. Bill è diverso, non fa parte esattamente di nessuna delle due categorie e questo gli sta fottendo il cervello in un modo che non gli piace per niente. “Quale accordo?”
Fler è così facile che Bill prova quasi della tenerezza.
Si stacca dal muro e gli si avvicina, ma non abbastanza perché lui senta il bisogno di indietreggiare, così quando ormai è a tanto così dal respirargli in faccia, Fler non ha più il tempo di muoversi e nemmeno vuole farlo. “Diciamo che tu mi dai quello che voglio,” dice Bill a bassa voce. Si allunga ad accarezzargli un braccio dal gomito al polso, intorno al quale poi stringe la mano chiusa a pugno. “ E io ti do quello che vuoi tu.”
Fler deglutisce e si schiarisce la gola, cerca se non altro di darsi un contegno mentre il suo corpo reagisce contro la propria volontà. Guarda altrove, cercando i motivi per cui dovrebbe continuare a rifiutare. Bushido gli ha salvato la vita più volte di quante riesca a ricordarne e di sicuro se vive bene in quel posto di merda è solo perché c'è il nome di Bushido a proteggerlo. Questo da solo dovrebbe essere sufficiente a fargli tenere le mani a posto, ma se gli serve qualche altra motivazione: Bushido è anche un amico e gli ha chiesto un favore – okay, glielo ha ordinato, ma Bushido è un po' quel tipo di amico che ti ordina le cose e tu le fai perché sai perfettamente che poi lui ricambierà il favore senza che tu nemmeno glielo abbia chiesto e quando più ne hai bisogno – e tu non dici di no ad un amico che ti chiede un favore.
“Non lo verrà a sapere nessuno,” continua Bill, facendosi così vicino che ormai gli sta spalmato addosso. Fler sente il calore del suo corpo attraverso la canotta leggera che indossa e le mani si muovono da sole per posarsi sui fianchi magri di Bill, che gli ridacchia in un orecchio. “Ti prometto che terrò la bocca chiusa,” mormora ancora, sollevandogli addosso uno sguardo da gatta in calore che ne basterebbe la metà perché lui gli saltasse addosso. “A meno che tu non voglia diversamente, ovvio.”
Fler sente le proprie restrizioni venire meno una ad una, come elastici troppo tirati che alla fine si spezzano. Si fotta Bushido, si fotta la prigione, si fotta il divieto di non toccarlo e non passargli niente; il ragazzino ha ragione, lui non è un balia. E gli ordini vanno bene, fintanto che hanno a che fare con loro, ma questo ragazzino chi cazzo è? Se ha tanta voglia di darlo via in giro e di farsi, non è un problema di Bushido. O magari lo è, ma di sicuro non è un problema di Fler.
Chakuza s'incazzerebbe come una bestia e gliela farebbe pagare cara se solo lo venisse a sapere, ma non sarà di certo lui a dirglielo e in questo momento, con lo stomaco che gli fa i salti di gioia al pensiero di poter infilare l'uccello da qualche parte, per una volta, invece di farselo sempre e solo menare – quando non deve fare da solo poi – , non ci pensa nemmeno che Bill potrebbe anche non mantenere la parola.
Così alla fine se ne frega, ringhia qualcosa e trascina Bill in un angolo della stanza, dietro al letto dove sarà più difficile notarli e soprattutto interromperli. Gli dà un bacio affamato e frettoloso, le sue labbra premono solo per un attimo contro le sue, nemmeno troppo convinte, come se fosse un convenevole da togliersi dai piedi il più in fretta possibile. Bill quasi trova interessante come Fler senta il bisogno di baciarlo prima di infilargli le mani nelle mutande. A quanto pare c'è della dolcezza sotto la scorza dell'uomo indurito dalla galera, pensa dando fondo ha tutta la malignità ironica di cui, fortunatamente, la natura lo ha provvisto.
Fler gli lecca le labbra, prima di spostarsi più in basso, sul suo collo, e lasciarvi una traccia umida di piccoli morsi confusi. Bill emette una risatina allegra – è trionfale, ma Fler nemmeno lo nota – mentre viene girato con poca grazia e appoggiato al muro. Apre bene i palmi delle mani contro la parete; lo ha già fatto così tante volte che il gesto di sistemarsi per mantenere l'equilibrio gli viene quasi automatico.
“Ehi, ragazzone,” dice mentre Fler, alle sue spalle, gli tira giù in fretta e furia i pantaloni, “Non dimentichi niente ?”
“Hmn?” Mugugna Fler, tenendogli una mano in mezzo alle scapole come avesse paura di vederselo scappare via di sotto gli occhi e armeggia con i propri pantaloni, imprecando perché, evidentemente, collaborano molto meno di quelli di Bill.
Il ragazzino, dal canto suo, manda indietro una mano, il palmo aperto e le dita che si chiudono e si aprono in un gesto molto chiaro. “Si paga in anticipo.”
Fler annuisce e si fruga nelle tasche dei pantaloni prima di lasciarli cadere a terra definitivamente.
Gli consegna la roba che lui si affretta ad infilarsi su per il naso, un po' perché ne sente improvvisamente il bisogno come non ne sentiva da giorni, e un po' perché sinceramente vuole già essere strafatto quando Fler gli entrerà dentro per iniziare a grugnire come un animale.
Ci mette più del previsto, in effetti. Quando lo sente farsi strada dentro di sé, Bill inarca la schiena e preme bene le mani contro la parete della cella che sembra improvvisamente un po' più sfocata e fa tanto ridere.
In ogni caso non ha molta importanza, perché lui non sa già più nemmeno dov'è.

*

Quando Bill torna in cella, si regge a stento sulle gambe. Ha un sorriso idiota sulla faccia che non promette niente di buono, e Bushido se ne accorge subito, perché li conosce, quei sorrisi lì. Li vede ogni giorno, stampati sulle facce instupidite dalla roba di tutti quei coglioni che non capiscono che quando sei chiuso in prigione – quando cioè sei confinato in un posto in cui altri decidono per te, stabilendo cosa devi fare, dove, quando e in che modo – l’unica possibilità che hai di mantenere un certo controllo sulla tua persona è evitare di fotterti la testa con la droga. Tanti la usano come una via di fuga, l’unico modo per evadere da una realtà di catene e sbarre di ferro, ma la verità è che la droga è l’esatto opposto. Cominciare a drogarsi quando si sta in galera significa rinchiudersi di propria spontanea iniziativa all’interno di una gabbia ancora più stretta di quella all’interno della quale ci si trova già, con possibilità di decidere per te stesso ancora più limitate rispetto a quelle che ti vengono concesse, che sono già fin troppo poche.
Drogarsi non è un problema perché fa male, drogarsi è un problema semplicemente perché è una cosa da idioti. E ti porta a fare cose idiote. E Bushido, in questo momento, non può permettere a Bill di fare cose idiote, non quando da ciò che fa può dipendere tanto di ciò che invece farà lui nel suo futuro.
- Ti vedo bene. – comincia, scendendo giù dal letto con un saltello e parandoglisi di fronte. Bill ride e scuote il capo.
- No, dai, oggi lasciami in pace, non mi va proprio di starti a sentire. – lo liquida, avvicinandosi al proprio letto con passo barcollante e lasciandovisi ricadere sopra con un sospiro soddisfatto e una mezza risatina. – Ah, sono tutto indolenzito. – commenta in un cinguettio compiaciuto, - Era un po’ che non mi divertivo così.
Bushido gli lancia un’occhiata disgustata, avvicinandoglisi e torreggiando sopra di lui, restando in piedi accanto al suo letto.
- Immagino. – commenta, - E immagino anche che ti sentirai un cazzo fiero di te stesso quando ti sarà passato lo sballo.
- Sai quanto me ne frega di essere fiero di me stesso? – ride Bill, rigirandosi sullo stomaco e dondolando le gambe in aria, - Faccio la troia, andiamo, quanta stima di me stesso pensi che abbia? E a cosa cazzo pensi che mi servirebbe averne? – ride ancora, ondeggiando con il capo a destra e a sinistra in un movimento fluido e delicato, come seguisse il ritmo ipnotico di una qualche canzone che solo lui può sentire. – Piuttosto, tu… - continua poi in un risolino ironico, voltandosi ancora sulla schiena e stiracchiandosi pigramente, - mi sa che faresti meglio a rivedere tutta l’alta considerazione che hai di te stesso, perché… ricordi tutte le tue belle parole sull’onnipotenza e tutta l’altra merda che hai in testa e con la quale ti sei convinto di essere chissà che cazzo di re dei re qua dentro? Be’, non vale una sega. – ride un’altra volta, dondolando ancora i piedi in aria.
Bushido inarca un sopracciglio, per nulla impressionato da quel suo continuo dimenarsi sul letto come un ragazzino di quattro anni.
- Cosa intendi? – domanda, una mano su un fianco e le sopracciglia aggrottate. Bill si lascia andare ad un altro risolino, e si sistema il cuscino sotto la testa, cercando di gonfiarlo per renderlo più comodo.
- Sono stato bravo, sai? – pigola, - Non sono andato da Sido a farmi dare la roba. Mh-hm. – scuote il capo, - Ho pensato che fosse più sicuro andare da qualcun altro. E poi… - ridacchia, - quando ho pensato alla faccia che avresti fatto sapendolo…! Cioè, non potevo rinunciare all’occasione.
Bushido trattiene il respiro per un paio di secondi, irrigidendo il braccio lungo il fianco mentre le dita della mano appoggiata sul fianco si contraggono impercettibilmente, tremando appena, dando a Bill una chiarissima idea di quanto sia arrabbiato, e di quanto stia cercando di tenere quella mano lì solo per non utilizzarla contro di lui.
- Cosa cazzo stai dicendo, ragazzino? – domanda Bushido, la voce bassa, cavernosa, pericolosa, e il sorriso di Bill si allarga.
- Sto dicendo che la droga me l’ha data uno dei tuoi ragazzi. – chiarifica una volta per tutte, stringendosi nelle spalle, - Evidentemente non ti sono tanto fedeli come pensi, visto che mi è bastato dimenare un po’ i fianchi per convincere Fler.
Bill non ha neanche il tempo di capire cosa esattamente stia succedendo. Un attimo prima è ancora disteso sul proprio letto e sente il corpo così piacevolmente pesante e intorpidito da riflettere sulla possibilità di farsi un pisolino come si deve, una volta tanto, e l’attimo successivo è in piedi, sollevato a qualche centimetro da terra, le dita di Bushido strette attorno al colletto della sua maglietta con tanta forza da chiuderglielo attorno al collo come una tenaglia, impedendogli di respirare. Si dimena, afferrando il polso dell’uomo con entrambe le mani e cercando di spingerlo ad allontanare la mano e lasciarlo andare, ma le dita dell’uomo neanche accennano ad allentare la presa, e Bill, sentendosi soffocare, perde la propria lucidità, e comincia a tempestargli il braccio di pugni e graffi, mentre tende spasmodicamente le gambe, per cercare di arrivare a toccare il pavimento almeno con le punte dei piedi, senza riuscirci.
- Potrei spezzarti in due con una mano sola. – ringhia Bushido, stringendo la presa e costringendo Bill a un gemito convulso, mentre gli occhi gli si riempiono di lacrime, - Sei talmente un’inutile testa di cazzo che nessuno piangerebbe la tua scomparsa. La tua unica fortuna è stata arrivare in un periodo in cui di teste di cazzo come te ne erano già crepate troppe, perché se così non fosse stato tu saresti già all’altro mondo, e Dio solo sa se non sarei più che felice di farti fuori io stesso, ma la verità è che non ne vali la pena neanche per un cazzo. – conclude, scaraventandolo nuovamente sul letto. Bill si porta una mano alla gola, ripiegandosi su se stesso, scosso dai colpi di tosse mentre cerca di riprendere a respirare, rantolando pietosamente. – La prossima volta che ti avvicini ad uno dei miei, ragazzino, posso assicurarti che le statistiche sulla mortalità dei nuovi detenuti saranno in fondo alla lista delle mie priorità. – dice gelido, guardandolo con disgusto, - Tienilo bene a mente.
Bill neanche gli solleva gli occhi addosso, ed anche se lo facesse, con la vista così offuscata non riuscirebbe neanche ad individuarlo. Lo sente andare via, però, ed è una sensazione incredibilmente fisica, come se ad abbandonare la cella non fosse solo un corpo, ma anche tutta la rabbia che conteneva.
Solo allora gli sembra di riuscire a ricominciare a respirare liberamente.

*

Fler era un ragazzino, quando Bushido l’ha conosciuto. Aveva quattordici anni ed era ridicolo in tutte le sue manifestazioni, specie in quella in cui si dava un sacco di arie da adulto senza poterselo minimamente permettere, con quegli occhi azzurri enormi e quelle guanciotte rosa, per non parlare dei capelli, che appena si azzardava a fare tanto di lasciarli crescere qualche centimetro cominciavano a diventare chiarissimi e ricci come quelli di un putto.
Al tribunale dei minori l’avevano spedito a ripulire i muri che aveva contribuito a imbrattare con le sue tag – che poi erano il motivo per cui, in quello stesso tribunale, ci era finito – e Bushido l’aveva conosciuto proprio durante uno dei suoi turni. Fler – allora era ancora solo Patrick – dipingeva di bianco un muro e ogni tanto ci sputava sopra, giusto perché fosse chiaro che non lo faceva per piacere, ma solo per obbligo, e che se fosse stato per lui l’avrebbe magari imbiancato lo stesso, si, ma solo per riprendere a scarabocchiarci sopra subito dopo.
A Bushido era piaciuto l’atteggiamento. Lo aveva trovato ridicolo, in generale, ma in realtà gli aveva ricordato molto di quel se stesso che, qualche anno prima, aveva affrontato le strade con la stessa stupida tracotanza, supponendo presuntuosamente di poterle comandare con uno schiocco di dita, prima ancora di conoscerle. Lui aveva imparato sulla propria pelle a non commettere più errori di valutazione come quello, ma al ragazzino poteva andare meglio. A lui poteva rendere le cose più facili.
Più di ogni altra cosa, gli erano piaciuti i suoi occhi. Lo sguardo ardente, colmo di passione. Per come la vedeva lui, l’unico modo di comandare la strada era amarla. Amarla con passione, non come un’amica, non come una sorella, proprio come un’amante, un’amante pericolosa, una di quelle dalle quali ti devi guardare le spalle, ma anche una di quelle dalle quali finisci sempre per ritornare, perché non puoi farne a meno, perché ti appartengono, perché tu appartieni a loro.
Fler aveva negli occhi il germoglio di quell’amore. Bushido aveva sempre pensato con un certo orgoglio di averlo aiutato a farlo sbocciare.
È per questo che adesso dover recidere il gambo fa male. Anche se Bushido sa che va fatto, perché un’insubordinazione del genere non può essere tollerata, non può essere perdonata, non può essere nemmeno punita e basta, perché per quanto esemplare possa essere la punizione il succo rimarrebbe lo stesso: Fler ha disobbedito ad un suo preciso ordine, e sotto nessuna circostanza Bushido può adesso permettergli di continuare a fare parte dei suoi uomini. Fler non può espiare. Fler è fuori e basta.
- Ma si può sapere che hai oggi? Sei un pezzo di legno. – sta dicendo Chakuza, con tono lamentoso, quando lui entra nella cella. Non ha molto tempo, fra poco le gabbie verranno chiuse e le luci spente per la notte. Vorrebbe potersi prendere il tempo che gli serve, non tanto per dire ciò che deve, quanto per accettare di doverlo fare, ma d’altronde non può dimenticare che è sempre in una prigione che si trova. Per quante siano le cose sulle quali può avere un’autorità, la propria libertà personale non rientra nell’elenco.
- Fler. – lo chiama con severità, per attirare la sua attenzione, - Patrick.
Nel sentire la sua voce, Fler si irrigidisce all’istante, e Chakuza fa lo stesso quando si accorge che l’ha chiamato per nome. Guarda prima Bushido e poi il proprio compagno con aria confusa, ma non si azzarda a spiccicare una parola. L’espressione ed il tono di voce di Bushido non glielo consentono.
- Mi chiedevo quando saresti arrivato. – dice Fler, teso come una corda di violino. Le sue labbra a stento si muovono. Ha i pugni serrati e poggiati sulle ginocchia, le nocche quasi bianche, e le dita che tremano impercettibilmente per il nervosismo. – Non so come scusarmi.
- Non puoi farlo. – risponde subito Bushido, la sua espressione non cambia di un millimetro, anche se dentro di sé sta urlando; sta urlando dalla frustrazione, sta urlando dalla rabbia, sta urlando a Fler che è stato uno stupido a buttare via tutto quando per una cosa così insignificante come una cazzo di scopata, ma non può lasciarsi travolgere dall’emotività adesso, e se è diventato ciò che è, è anche e soprattutto perché ha sempre avuto il controllo sulle proprie reazioni. Se vuole rimproverare a Fler di aver perso questo stesso tipo di controllo, non può farlo perdendolo a propria volta. – Non c’è niente che tu possa dire o fare per cancellare la tua colpa. Sai meglio di me cosa sono venuto a fare.
Fler abbassa lo sguardo, colpevole.
- Aspetta un attimo… - si azzarda ad intervenire Chakuza, - Di cosa cazzo stiamo parlando? Cos’è successo? – si volta a guardare il proprio compagno con apprensione evidente, - Fler, che cazzo hai combinato?
- Ascoltami bene, Chakuza. – dice Bushido, mentre Fler resta immobile, pronto ad affrontare la sua condanna, - E bada di dirlo anche agli altri. – precisa, ed a questo punto anche Chakuza non può fare altro che pietrificarsi, perché quello che sta accadendo lo capisce perfettamente; è un rituale rodato. – Questo pomeriggio, Fler ha disobbedito ad un mio ordine, fornendo droga a quella rottura di coglioni del ragazzino in cambio di una scopata del cazzo. Per questo motivo, da questo momento in poi Fler non fa più parte della banda. Non dovrete più rivolgergli la parola, né fraternizzare con lui in alcun modo. – si volta a guardarlo, aggrottando le sopracciglia, - In alcun modo, Chakuza.
Le labbra di Chakuza tremano appena, come in una protesta muta, perché è ancora troppo sconvolto dalle informazioni che ha appena ricevuto per realizzare appieno cosa le parole di Bushido significhino. Ma il silenzio di Fler è troppo prolungato, la sua rassegnazione troppo evidente per porsi ancora delle domande a riguardo. È tutto vero. E sono ordini ai quali non è possibile disobbedire.
- Sì, Bushido. – annuisce quindi. Lui risponde con un cenno del capo, abbandonando la cella subito dopo, e a quel punto Chakuza non può fare altro che voltarsi a guardare Fler, allibito.
Lui ha ancora lo sguardo basso.
- Mi dispiace, Chaku. – mormora, - Lui ha… insomma, mi ha offerto qualcosa che tu non hai mai voluto darmi. – prova a giustificarsi. Chakuza aggrotta istantaneamente le sopracciglia, stringendo i pugni attorno al lenzuolo del letto sul quale è seduto.
- Non provarci nemmeno, Fler. – ringhia, - Non provare a darmi la colpa per quello che hai fatto. Noi avevamo un patto. Hai tradito Bushido, hai tradito la banda. – rimane in silenzio per un secondo, mordendosi con forza la lingua per cercare di trattenersi dal concludere il proprio pensiero, senza riuscirci. – Hai tradito me. – sussurra. Fler gli solleva addosso uno sguardo perso e contrito che Chakuza non riesce ad ignorare come vorrebbe. Per questo guarda altrove, mentre le celle cominciano a chiudersi con gli usuali scatti metallici, e poco dopo anche le luci vengono spente.
Chakuza si spoglia meccanicamente, fissando il vuoto e tendendo l’orecchio. Fler sembra immobile, pietrificato. Lui prende posto nel proprio letto e si sistema sotto le coperte, il viso rivolto alla parete apposta per non guardarlo, né ora, né quando si spoglierà per salire sul proprio letto.
- Mi dispiace, Chaku. – dice la sua voce nel buio. È lontana, e non conta più niente. Chakuza nemmeno risponde.

*

Bill ha vomitato l'anima e si sente uno straccio. Non è che prima di finire in galera si facesse regolarmente – la regolarità sistematica è per i tossici, a lui serviva per sciogliersi – ma capitava di tanto in tanto e il suo corpo ne reggeva abbastanza da non disfarsi appena finiva l'effetto. A quanto pare è bastato un soggiorno da quelle parti per fargli passare del tutto il vizio. Quando ha riaperto gli occhi era buttato su una sedia della sala comune senza avere la minima idea di come ci fosse arrivato. Poi ha sentito il sapore di marcio in bocca e si è trascinato nei bagni per vomitare. Per un attimo, mentre era chino su uno dei lavandini e la testa gli girava da far paura, si è chiesto dove cazzo fosse perché il bagno era pulito come quello di casa dei suoi, ma era quasi certo di non aver mai fatto in tempo a vomitarci dentro prima che suo padre lo buttasse fuori a calci nel culo. Il cervello ci ha messo un po' a mettersi al passo e, intanto che lo faceva, Bill s'è trascinato fino al primo muro disponibile e si è seduto per terra, in attesa che il mondo smettesse di girare. Ora fissa il vuoto, di nuovo accasciato per terra. Potrebbe alzarsi, ma non ne ha voglia e comunque sul pavimento si sta bene e nei bagni c'è silenzio.
O almeno, c'era finché quel tipo assurdo, Eko, non spalanca la porta e si ferma sulla soglia, a metà di un passo, fissandolo con i suoi occhietti rotondi e idioti da topo. “Ah, bello mio, non hai mica una bella cera,” commenta schioccando la lingua e scuotendo la testa.
Bill emette un lamento e torna a nascondere la faccia nelle proprie braccia incrociate. “Fammi il favore, sparisci e lasciami in pace,” sibila.
Eko chiude la porta con un piede, ancora in quella ridicola posizione a metà di un passo e, visto che è semi-chinato in avanti, sembra uno di quegli angioletti che sputano acqua dalle fontane, solo tristemente più brutto. Si avvicina ai lavandini ignorando completamente la sua richiesta e apre con grande attenzione la sua busta da bagno, dalla quale esce ogni genere di oggetto inutile. “So che hai combinato un bel casino,” continua.
“Ti ho detto di andartene,” insiste Bill. “Lo farei io, ma è meglio se non mi alzo.”
“Infatti, sta' pure disteso,” annuisce Eko, del tutto sordo a qualsiasi cosa farfugli quando riesce a snodare la lingua intorpidita. “Sai, non è stata una mossa tanto furba la tua. Qua sono tutti piuttosto elastici con la proprietà privata, un oggetto non è mai veramente tuo finché anche gli altri possono vederlo, capisci cosa intendo? Per questo c'è un botto di gente che viene ricoverata con roba nella pancia o nel culo. Perché quando vuoi che nessuno ti tocchi qualcosa, è meglio se la butti giù. Con le persone però è diverso, specie se queste persone sono di qualcuno da un sacco di tempo,” Eko scuote ancora la testa, mentre si riempie la faccia di schiuma da barba. “Le persone non si toccano, quando le tocchi succede sempre casino, tanto casino. Sai quanta gente c'è morta perché aveva toccato qualcuno? Prova a dire un numero. No, ma non lo dire, tanto non ci avvicini nemmeno. Comunque tanta. E tu che cosa vai a fare? Non solo tocchi Fler che non era roba tua, era roba di Chakuza e prima ancora di Bushido, ma vai a farti, con la sua roba quando Bushido ti aveva espressamente proibito di fare una qualsiasi di queste cose.”
Bill si lamenta ancora una volta, a voce più alta. “Ma che problema hai tu quando ti si dice di toglierti dai coglioni?” Sbotta, decidendo infine che se quello non se ne va, tanto vale cercare di andarsene lui. Si tira su a sedere e il bagno gira ancora. La buona notizia è che smette subito, così lui può provare ad alzarsi.
“Non mi piace andarmene quando me lo dicono gli altri,” annuisce Eko, come fosse una domanda seria.
“Sì, come ti pare,” borbotta Bill, aggrappandosi al muro per tenersi su.
“Comunque, a mio modesto parere, dovresti ragionare su quello che è accaduto oggi,” continua Eko, radendosi con cura ma agitando anche il rasoio in maniera vaga e preoccupante. “Ma naturalmente non lo farai perché sei un deficiente.”
“Ehi!” Sbotta Bill. Vorrebbe farsi valere, ma quando stacca le mani dal muro, a stento si regge in piedi, così non gli rimangono che le parole. “Vacci piano, d'accordo?”
“Non devi mica vergognarti. Io ce l'ho un cugino deficiente. Si chiama Ismet e non capisce un cazzo di niente, ma gli vogliamo tutti bene lo stesso.”
Bill rotea gli occhi e si chiede se tornare in cella non sia comunque preferibile allo stare qui con questo pazzo che blatera. “Mi fa piacere,” commenta, decidendo di avanzare un lavabo dopo l'altro fino alla porta.
Quando però è quasi arrivato alla porta e ha faticosamente messo mano alla maniglia, Eko parla di nuovo. “Sei uscito dalla sua cella in condizioni pietose, non stavi nemmeno in piedi. Mentre lui buttava fuori Fler dal gruppo, tu facevi il giro della prigione, strusciandoti praticamente su qualunque cosa avesse un pisello e ti accasciavi in un angolo della sala comune, privo di conoscenza. E nonostante questo, nessuno ti ha toccato perché in questo posto ormai l'hanno capito che sei uno dei suoi. E le persone degli altri, come ho detto, non si toccano mai se non si è pronti a fare un gran casino.”
Bill si ferma, la mano ancora sulla maniglia e deglutisce forte, buttando giù saliva e vomito e anche qualcosa che non sa bene cos'è, ma non va giù e gli stringe la gola.
“Bushido sarà anche una testa di cazzo, te lo concedo, ma non è uno stronzo. Se ti tiene d'occhio è perché conosce questo posto meglio di te e conosce pure te più di quanto tu non ti conosca da solo,” dice Eko, fissandolo attraverso il riflesso dello specchio e battendo gentilmente il rasoio contro il bordo del lavandino. “Gli mancano due mesi per uscire di qui con la condizionale. Quindi si, a lui conviene che tu non ti faccia ammazzare ma più che a lui conviene a te, mi segui? Se ti sta col fiato sul collo, è perché il suo fiato qui è un fottuto campo di forza. Abbiamo perso uno dei nostri perché pensavi che il tuo culo non valesse abbastanza per tenerlo al sicuro. Pensaci prima di fare qualche altra cazzata e credere che Bushido fa lo stronzo con te perché non ha altro di meglio da fare. Prova a pensare a chi ha fatto lo stronzo per primo e a chi ha perso di più, per colpa di chi.”
Eko si volta e torna a radersi senza guardarlo più.
Bill resta lì ad aspettare che lo faccia per un po', la mascella serrata per la tensione. Le sue dita si stringono intorno al ferro della maniglia ancora una volta, poi la preme di scatto verso il basso e scivola fuori dal bagno in silenzio.

*

La loro cella non è molto grande e ha una sola finestra, ovviamente sbarrata; ma è così piccola che quando fuori fa brutto tempo entra a malapena un filo di luce e a metà pomeriggio sembra già sera inoltrata.
Quando supera la soglia e si guarda intorno, ci mette un po' ad inquadrare Bushido che è disteso immobile sul letto di sopra, ma è così sottile che, se non si gira di fianco, non sporge poi troppo dal materasso.
Anche se Bushido non si muove, però, Bill sa che è sveglio dal modo in cui respira. Per questo si aspetta di sentirlo aprire bocca non appena fa un passo all'interno e invece niente, il silenzio.
Bill ha la brutta abitudine di irritarsi quando non viene considerato, probabilmente perché attirare l'attenzione è l'unica cosa che sa fare e, quando non gli riesce nemmeno quello, non è una bella sensazione.
Rimane lì in piedi vicino alla porta per un po', senza sapere esattamente come comportarsi e poi decide di darsi qualcosa da fare lavandosi le mani nel piccolo lavandino della cella.
“Ho parlato con quel tipo, il turco,” dice, buttando lì il primo argomento che gli viene in mente. Non che Eko sia granché come argomento, ma visti i recenti sviluppi, è anche l'unico.
Dal letto non arriva nessuna risposta. Bushido continua a restare disteso con gli occhi chiusi.
“Tanto perché tu lo sappia, non l'ho avvicinato io,” continua Bill, ricordandosi di essere stato minacciato a riguardo nemmeno qualche ora prima. “E' venuto lui da me. Più che altro è andato al cesso e io ero già lì.”
Bushido si schiarisce la gola, ma senza aprire gli occhi.
Bill chiude il rubinetto e si asciuga le mani. “Quando parla non si capisce un cazzo,” dice ancora, buttando lì una mezza risata che però non copre la tensione crescente nella sua voce. “E poi tiene dei pastelli a cera nella bustina da bagno insieme al dentifricio. Non ci sta con la testa, vero?”
In tutta risposta, Bushido si volta di lato, dalla parte del muro. E Bill si rompe le palle.
“Guarda che lo so che sei sveglio,” gli fa presente e, quando l'uomo si ostina a non rispondere, afferra una delle gambe del letto a castello e lo smuove, producendo un rumore sgangherato di ferro che attira una delle guardie. Bill gli fa cenno che è tutto a posto e, dopo aver lanciato un'occhiata dubbiosa alla cella, l'uomo si allontana di nuovo. “Di' un po', hai intenzione di continuare a comportarti come un bambino di cinque anni ancora per molto?” Chiede, strafottente.
“Dovresti esserci abituato,” la voce di Bushido arriva un po' roca, forse perché è stato in silenzio per ore, ma non sgradevole come invece suona la sua la prima volta che apre bocca al mattino, “tu lo fai di continuo. Io mi sono solo adattato al tuo modello comportamentale.”
“Bel modo di dimostrare maturità, per uno che accusa me di essere una testa di cazzo,” replica Bill.
Fa per distendersi su letto ma, quando vede che Bushido si sta girando verso di lui, ci rinuncia per accoglierlo a braccia incrociate, guardandolo storto.
“Per tua informazione, io non devo dimostrare niente, ragazzino,” risponde, guardandolo dritto negli occhi senza nessuna esitazione, cosa che Bill non riesce a fare con continuità. “Tu invece, fino a prova contraria, sei ancora una testa di cazzo.”
Bill diventa paonazzo, incapace di controllare la propria rabbia. Per uno che, bene o male, ha dovuto imparare a tenere a bada le proprie emozioni per battere in strada, è un fallimento di proporzioni epiche non riuscire a sostenere una conversazione senza dare di matto. Ma la colpa è dello stronzo e del suo stupido modo di fare, come se il mondo dovesse sempre inginocchiarglisi ai piedi. E lui cretino, ha anche pensato che potesse esserci un modo per comunicare con questo idiota pieno di merda.
Tutte queste cose però non gliele dice perché anche se le sue labbra tremano e la sua lingua ha una gran voglia di sciogliersi e vomitargli addosso tutto quanto, la gola gli fa ancora male dove lui l'ha stretta.
“Sai che ti dico, torna a fare finta di dormire,” sputa quindi, infilandosi nel proprio letto infastidito, tanto per avere la scusa di allontanarsi per quel che può. “Non ho bisogno di te, né tanto meno di parlarti. Anzi, se non ti sento aprire bocca e sparare le tue stronzate, tanto meglio.”
“Per me va bene,” dichiara Bushido. “Se vuoi rinunciare alla mia protezione, sono affari tuoi. Ne riparliamo tra due settimane, magari per allora ti sarà tornato in mente come ti hanno conciato quando hai voluto fare per conto tuo.”
Bill fissa le molle del letto sopra il suo che ondeggiano un'ultima volta, segno che Bushido si è girato di nuovo. Pensava che si sarebbe sentito meglio dopo aver vinto una battaglia contro di lui, ma ha la bocca amara e non è sicuro si tratti solo di vomito.

*

È la prima volta che vede suo fratello da quando è rinchiuso in questo buco di merda, e non può fare a meno di sentirsi nervoso al riguardo. Ormai è in prigione da quasi due mesi, e naturalmente questa è la prima visita che riceve. È la prima volta che mette piede nella piccola sala accuratamente sorvegliata, piena di tavoli rotondi e sedioline basse e scomode. Le pareti sono grigie, il pavimento è grigio, anche i mobili sono tutti grigi, così come i distributori automatici sistemati in fondo alla stanza. L’unica cosa colorata, all’interno dell’ambiente, sono le merendine tutte in fila oltre i vetri, e naturalmente i vestiti dei parenti in visita.
Tom arriva in perfetto orario, e Bill ha immaginato questo momento molto a lungo durante i giorni che hanno seguito l’ultima telefonata che si sono scambiati, e ha sempre pensato che sarebbe stato composto, quando l’avrebbe visto, che non si sarebbe lasciato travolgere dalle emozioni, che l’avrebbe tenuto a distanza – d’altronde, era sempre stato bravissimo, in questo, almeno da quando era andato via di casa –, che avrebbe fatto di tutto per dare a Tom l’impressione di essere perfettamente in grado di cavarsela da solo, anche in un ambiente palesemente ostile come quello, ma la verità è che, dopo tutto quello che ha passato da quando è qui, vedere il suo volto lo scuote fin dentro, e non è capace di stare immobile, semplicemente deve seguire il primo impulso che gli attraversa i nervi e i muscoli, e salta in piedi, lanciandosi verso di lui per allacciargli le braccia al collo, nascondendo il viso contro il suo petto con un sospiro sollevato.
Tom lo accoglie fra le proprie braccia con la naturalezza di chi non ha mai perso l’abitudine a farlo, e Bill non può fare a meno di pensare che è incredibile che ci riesca ancora esattamente come quando erano più piccoli, anche se negli ultimi anni hanno passato molto più tempo lontani l’uno dall’altro che insieme. Il pensiero non manca di riempirlo di tristezza, come ogni volta, ma si forza a tenerlo lontano dalla propria mente fin da subito. È stata una sua scelta, in fin dei conti. Sarebbe ridicolo pentirsene adesso.
- Ehi. – lo saluta Tom, allontanandosi da lui per sorridergli un po’ tristemente e guardarlo da ogni lato, come ad assicurarsi che sia ancora tutto a posto, - Stai bene?
- Sì. – risponde Bill con un mezzo sorriso incerto, le mani ancora poggiate sul suo petto.
- Balle. – lo rimbrotta Tom, accarezzandogli una guancia, - Sei così magro che fai paura. Non mangi?
- Tomi, ti prego, da quando sei diventato nostra madre? – sbotta Bill, allontanandosi da lui e prendendo posto su una delle due sedie attorno ad uno dei pochi tavoli rimasti liberi. Lo sguardo di Tom si incupisce all’istante, quando lo sente nominare Simone. Si siede di fronte a lui e sospira.
- Perché non vuoi che le dica dove sei? – gli domanda apprensivo, - Verrebbe a trovarti.
- Appunto. – ribatte seccamente Bill, - Non ho mai voluto vederla quando vivevo praticamente per strada, cosa ti fa pensare che possa volerla vedere adesso che vivo in un posto ancora peggiore?
Tom sospira ancora, passandosi una mano sul volto.
- Non ha mai smesso di preoccuparsi per te. – dice a bassa voce.
- Non è esatto. – ritorce Bill, distogliendo lo sguardo, - Ha cominciato quando a me non serviva più, è diverso.
- Sei crudele, Bill. – lo rimprovera suo fratello, lanciandogli un’occhiata di fuoco, - Mamma ti ha sempre capito. Ti ha—
- Non mi ha mai difeso. – lo interrompe Bill, gelido, come non gli importasse nemmeno. – So che non l’ha fatto solo perché aveva paura di papà. Ma se pensi che questo possa giustificarla ai miei occhi, ti sbagli. Tu ti sei preso botte che non ti spettavano, per proteggere me. Lei non l’ha mai fatto.
Tom si copre il viso con entrambe le mani, scuotendo il capo.
- Dici cose agghiaccianti, Bill. – esala in un rantolo, - Per favore, sta’ zitto.
Bill obbedisce, serrando le labbra e guardando in basso, mordendosi con forza l’interno di una guancia. Riesce a capire perché Tom inorridisca al pensiero di suo fratello che giudica l’affetto dei propri familiari attraverso le botte che sono stati capaci di prendersi per difenderlo dalla furia di suo padre, ma allo stesso tempo non riesce ad immaginare nessun altro indice per misurare una cosa del genere, per cui per quale motivo non dovrebbe essere quello? Ha capito che poteva fidarsi di suo fratello quando Tom si era fisicamente messo di mezzo fra la sua guancia e il palmo ruvido della mano di suo padre. Sua madre non l’aveva mai fatto. Se poteva esserci un metro per stabilire chi dei due tenesse di più a lui, non poteva essere che quello, per quanto squallido e, probabilmente, fuori di testa potesse sembrare.
Aspetta che Tom si sia calmato, e quando lui finalmente smette di coprirsi il viso e torna a guardarlo si arrischia perfino a rivolgergli un sorriso incoraggiante. Tom risponde con un sorriso uguale, lasciando scivolare una mano sulla superficie del tavolo, a cercare la sua da stringere. Bill gliela concede senza indugiare, godendo del calore delle dita di suo fratello strette teneramente attorno alle sue.
- Non parliamone più. – dice Tom, scuotendo il capo, anche se è evidente che intende “almeno per ora”, - Sono felice che almeno tu abbia voluto vedere me. Finalmente. Sei uno stronzo.
Bill ridacchia, stringendosi nelle spalle e ravviandosi i capelli dietro un orecchio.
- Credimi, è stato meglio non vedersi fino ad adesso. – risponde. Se solo ripensa a tutti i lividi che ancora aveva addosso fino ad un paio di settimane fa, si sente male. Non avrebbe mai potuto farsi vedere da Tom ridotto in quelle condizioni, senza contare il dolore alla schiena che ancora ogni tanto lo tormenta. Sa bene, ad esempio, che quest’incontro non potrà durare più di una ventina di minuti, e questo non tanto perché gli incontri coi familiari siano regolati secondo una tabella oraria molto precisa e inamovibile – lo sono, comunque, come tutto in quel dannato posto – ma perché Bill sa che dopo venti minuti passati seduto su una sedia tanto scomoda la sua schiena comincerà a protestare molto vivacemente, e lui sarà costretto ad andare via se non vuole scoppiare a piangere davanti a Tom. È già tutto abbastanza difficile senza dover aggiungere l’umiliazione di una cosa simile.
È per questo che si è rifiutato anche solo di chiamarlo per così tanto tempo, ed è sempre per questo che, pur dopo averlo chiamato, aver parlato con lui due o tre volte ed avergli chiesto un po’ di soldi da mandargli con la posta e magari una maglietta ed un paio di pantaloni nuovi, visto che i suoi erano ormai ridotti a brandelli per i motivi più svariati, ha esitato ancora più a lungo prima di accettare che venisse a trovarlo, e questo nonostante sapesse – riusciva a sentirlo nella sua voce – quanto Tom fosse impaziente di vederlo, di sincerarsi che stesse bene osservandolo coi propri occhi.
Questo perché lui non sta bene. L’unico modo che ha di stare bene quando il dolore – non solo quello alla schiena – comincia a farsi troppo forte è andare da Sido, e farsi dare un po’ di roba. È per quello che gli servono i soldi. È per quello che continua a chiederne. Ma questo a Tom non può dirlo, non vuole dirglielo, malgrado suo fratello abbia dimostrato negli anni di essere perfettamente in grado di continuare ad amarlo nonostante tutta la merda che sputava o in cui si andava a cacciare ad intervalli regolari.
Tom lavora per sostenerlo. Piccoli lavoretti, naturalmente, perché suo padre non avrebbe mai accettato di dargli dei soldi da passare a lui, ma è sempre stato così, da quando Bill è scappato di casa. Bill ha cercato più e più volte, all’inizio, di dirgli di smetterla, di fargli capire che non aveva bisogno dei suoi soldi, che scopando in giro riusciva a mantenersi perfettamente, ma la verità è che erano tutte bugie, e Tom non ha mai sbagliato a leggerle nei suoi occhi, per cui per quanto Bill potesse tentare di allontanarlo Tom si rifiutava di lasciarglielo fare, ed è sempre tornato, portandogli sempre qualcosa. Dopo un po’, Bill ha smesso di sentirsi in colpa nell’accettare il suo denaro, ma quel senso di colpa è tornato a farsi sentire con prepotenza da quando quel denaro ha cominciato a finire puntualmente nelle tasche di Sido o di uno dei suoi spacciatori di fiducia sparsi per il braccio.
- Lo sai, Billi? – dice Tom, stringendo appena la presa delle proprie dita attorno alle sue, - Sono preoccupato.
Bill sospira, roteando gli occhi.
- Lo sei sempre. – sbuffa, scrollando le spalle.
- E ho sempre ragione ad esserlo, non ti pare? – insiste suo fratello, ma lo fa con un sorriso tanto dolce che è impossibile arrabbiarsi con lui.
- Sto bene. – ripete Bill, annuendo con più decisione. Non sa chi sta cercando di convincere, se Tom o se stesso. In ogni caso, non funziona granché bene.
Tom distoglie lo sguardo, stufo di sentirsi dire bugie e di poterle leggere così chiaramente nei suoi occhi. Preferisce ascoltare Bill mentire senza doverlo guardare. È più semplice fingere di potergli credere, così.
- D’accordo. – annuisce, alzandosi in piedi. Bill lo segue nel movimento all’istante. – Ti… ti manderò qualcos’altro, fra un paio di giorni. Al massimo una settimana. Puoi resistere, nel frattempo? – gli domanda, tornando a guardarlo negli occhi mentre gli accarezza il viso. Bill si appoggia al palmo della sua mano, annuendo lievemente, e stavolta non sta mentendo.
- Ho ancora qualcosa da parte, non preoccuparti. – lo rassicura. Tom sorride ed annuisce ancora, tirandoselo contro per un altro abbraccio.
Quando l’agente di guardia davanti alla porta comincia ad avvisare tutti i presenti che l’orario di visita sta per concludersi, Bill fa un sacco di fatica a lasciarlo andare.

*

Non passa neanche mezz’ora, che si sta già dirigendo verso la cella di Sido. Stringe le dita attorno alle banconote tutte spiegazzate che tiene in tasca, e non può fare a meno di pensare che incontrare Tom sia stato un errore madornale. Adesso la sola idea di spendere così quei soldi gli dà la nausea, ma è una nausea che non può permettersi, specie quando conosce quella che gli afferra lo stomaco e lo devasta quando sta troppo tempo senza una dose. Non è ancora mai andato in crisi d’astinenza – non ne ha avuto il tempo, e fortunatamente neanche il modo – ma quello che ha sentito nella sua vita, quello che ha visto durante gli anni di permanenza per le strade e la scossa di dolore nervoso che ha già provato sulla sua pelle quando ha lasciato passare troppo tempo fra una sniffata e l’altra sono tutte informazioni abbastanza circostanziate perché lui possa sapere al di là di ogni ragionevole dubbio che in quella condizione non intende trovarcisi proprio per un cazzo. E quindi, senso di colpa o meno, inghiotte amaro e si ferma davanti alla cella di Sido.
Appena fuori, proprio davanti alla porta, c’è un gorilla che sarà anche appena più basso di lui, ma in compenso è largo tre volte tanto. Bill ripensa con un po’ di nostalgia ai tempi in cui per strada per seminare uno stronzo come questo bastava un calcio nelle palle. Qui non può farlo – il rischio è di finire in buca, e non ci tiene affatto a farsi spogliare di tutti i suoi vestiti per finire abbandonato in una cella sotterranea sporca e maleodorante, senza finestra e con solo un secchio in un angolo per pisciare, per chissà quanto tempo – ed anche se potesse i giorni in prigione gli hanno insegnato la prudenza a suon di botte. E la sua schiena ancora ne risente, e ci tiene a ricordarglielo pungendo dolorosamente all’altezza dell’osso sacro. È già stato in piedi troppo a lungo.
- Fammi passare, Tony. – ringhia con evidente nervosismo. Quello sghignazza, incrociando le braccia sul petto.
- Magari oggi a Sido non va di vedere la tua faccia di cazzo, Kaulitz. Che ne pensi? – domanda, appoggiandosi con tranquillità alle sbarre dietro di lui. Sido, seduto su una sediolina di legno che tiene in equilibrio sui piedi posteriori, ha le gambe incrociate sulla superficie del tavolo di fronte a sé, e le mani intrecciate sullo stomaco. Osserva la scena senza mostrare né interesse, né disinteresse. Semplicemente attenzione.
- Tony, levati dai coglioni. – insiste Bill, le mani che tremano lungo i fianchi, - Ho i soldi. Non costringermi a ficcarteli su per il culo.
- Dici che mi piacerebbe? – chiede ancora quello, già ridendo fra sé per la battuta che sta per fare, - Te lo chiedo perché sai, il parere di un esperto è sempre importante.
Tutto il corpo di Bill è scosso da un tremito di frustrazione e impazienza, e sta quasi per tirargli un’unghiata in un occhio fregandosene della prudenza ed anche della paura di quante ne prenderebbe se si mettesse a litigare con Tony D, quando Sido tira giù le gambe dalla scrivania, mettendosi in piedi.
- Vatti a fare un giro, Tony. – dice gelido, incrociando le braccia sul petto ed appoggiandosi ad una parete. Tony D sta ancora ridendo, mentre si allontana verso la sala comune.
Bill irrompe nella cella come una furia, tirando fuori dalla tasca tutti i soldi che ha e schiantandoli contro la superficie del tavolo con stizza, guardando Sido negli occhi e digrignando i denti.
- Bella storia siete, voi maschi alfa di questo buco di merda. – non può fare a meno di commentare, - Vi nascondete tutti dietro chi ha le spalle più larghe di voi, sempre. Siete solo delle mezze seghe. Tu, quell’altro, tutti uguali. Avete tutti i vostri mastini favoriti coi quali fingere di poter fare la voce grossa anche se sapete perfettamente che se solo volessero potrebbero spezzarvi le gambe con uno schiocco delle dita. Mi fate pena.
Sido sorride, apparentemente neanche turbato dalle sue parole.
- Ciao, Bill. – lo saluta con un breve cenno del capo, - È un piacere anche per me.
- Non sono in vena di convenevoli, né di false cortesie, e sicuramente quello che ho detto fino ad ora non c’entra niente col piacere di vederti, che giusto per essere chiari non esiste. – batte con forza la mano sulle banconote sparpagliate sul tavolo, - Dammi quella merda e fammi tornare in cella.
Sido si prende il proprio tempo, prima di rispondere. Guarda lui, poi i soldi sul tavolo, poi di nuovo lui, e sorride ancora.
- Tu facevi la puttana, prima di finire qui. Correggimi se sbaglio. – comincia. Bill rotea gli occhi e lascia andare un lamento infastidito. Non c’è speranza di ottenere quello che vuole in tempi brevi, se ne rende conto anche da solo, sa capirlo quando qualcuno temporeggia nel tentativo di confonderlo, perciò lascia il denaro sul tavolo ed incrocia le braccia sul petto a propria volta, fissandolo dritto negli occhi, con attenzione.
- Non sbagli. Ora posso avere quello per cui ho pagato e andarmene? – domanda. Sido scuote il capo, smette anche di sorridere. La sua espressione si fa seria, perfino professionale, e Bill non sa più cosa aspettarsi da lui.
- Cosa penseresti, - dice, - se ti dicessi che ho una proposta per te?
- Penserei che non me ne frega niente e che ti sei bevuto il cervello. – sbuffa Bill, picchiettando nervosamente la punta del piede contro il pavimento, - Sido, qual è il tuo problema? – domanda annoiato, ma Sido non risponde. Si volta verso il tavolo, raccoglie tutte le banconote sparse sulla superficie, le spiana, le mette in ordine in un blocchetto che si prende perfino il tempo di pareggiare, e poi le porge a Bill.
- La mia proposta potrebbe permetterti di risparmiare questi spiccioli per qualcosa di meglio. – spiega, - Che ne so… ho sentito dire che se ne hai abbastanza da parte, puoi permetterti di corrompere qualche agente di custodia. – aggiunge con un mezzo sorriso, - E quando hai un agente di custodia dalla tua, la vita qua dentro può essere molto più semplice. E mi pare che a te un po’ di semplicità servirebbe eccome.
Bill gli lascia scorrere addosso un’occhiata incuriosita, anche se mantiene le braccia incrociate sul petto in segno di chiusura. Posa gli occhi sulle banconote che Sido continua tranquillamente a porgergli, e qualche secondo dopo gliele strappa di mano con un gesto secco, infilandosele sbrigativamente in tasca.
- Continua. – lo invita, senza però mostrare particolare interesse. Sido, comunque, sorride come se avesse vinto chissà che guerra.
- È da qualche mese che cerco di mettere su una nuova attività, da queste parti, - comincia vago, - ma purtroppo non ha ancora avuto modo di decollare perché, capisci bene, manchiamo in materia prima.
- …materia prima. – ripete Bill, inarcando un sopracciglio, - Posso solo immaginare di che tipo di materia prima si tratti, visto che ne stai parlando con me.
- Immagini bene. – ridacchia Sido, spostando il peso del corpo da un piede all’altro, per accomodarsi meglio contro la parete. – Insomma, ti sarai guardato intorno, da quando sei qua. Sei senza dubbio il più carino del gruppo. La gente pagherebbe per scoparti, come ben sai. E questo è un po’ il punto del mio discorso.
Bill rimane in silenzio per un paio di secondi, prima di concedersi un mezzo ghigno ironico.
- Non dirai mica sul serio? – sbotta, - Qui dentro? Vuoi farmi fare la puttana a tempo pieno qui dentro? Devo ricordarti che è per questo motivo che ci sono finito, qui?
Sido si stringe nelle spalle, sorridendo beato.
- Gli anni di esperienza nel campo contano, Kaulitz. – risponde semplicemente, - La mia proposta, comunque, è questa. Tu lavori per me, e in compenso… - si infila una mano in tasca, tirandone fuori una fialetta trasparente. Bill le lancia un’occhiata veloce e tutti i suoi sensi tornano ad acuirsi in un istante in maniera quasi dolorosa, pungendo sottopelle. La vuole. La vuole adesso. Direbbe di sì a qualsiasi cosa, per averla, e non riesce neanche a provare pena per se stesso mentre lo pensa. Ma se almeno può ottenerla senza per questo buttare via i soldi di Tom…
- D’accordo. – annuisce in fretta, afferrando la fialetta prima ancora che Sido possa aver sollevato completamente la mano. La stringe fra le dita con tanta forza che potrebbe spaccarla, ed è solo pensando a questo che cerca di allentare un po’ la presa. – Dimmi cosa devo fare.

*

Una delle docce gocciola. Solo nel bagno comune, appoggiato ad una parete e in nervosa attesa dell’uomo al quale ha appena venduto il culo per una fottuta dose il cui effetto non sarà durato più di cinque minuti, Bill non riesce a concentrarsi su nessun altro dettaglio. Gli effetti della dose stanno ancora scivolando via, sono lenti come l’acqua sporca agli angoli delle strade dopo che ha piovuto per ore, e si lasciano dietro la stessa velenosa traccia viscida e spiacevole. E il cazzo di rubinetto della doccia gocciola, e il suono si allarga dentro le sue orecchie in cerchi concentrici che gli fanno pulsare dolorosamente le tempie, e tutto quello che riesce a pensare è che plic il fottuto rubinetto della doccia plic gocciola plic. E lo stronzo non arriva. Plic.
Sta quasi per andarsene, dal momento che la schiena lo sta uccidendo e se resta in piedi un secondo di più palesemente morirà, quando il tizio che sta aspettando finalmente arriva. Solo che non è da solo. Non è uno, e non sono nemmeno due. Sono tre, e appena Bill riesce a mettere in moto il proprio cervello confuso abbastanza da contarli tutti, fa immediatamente un passo indietro.
- No. – dice risolutamente, - Io non le faccio queste stronzate. Potete tornare indietro e dire a Sido che per quello che mi interessa può anche andare a farsi fottere.
I tre si guardano fra loro, sembrano stupiti. Poi si lanciano sorrisi complici l’un l’altro, e riprendono ad avanzare verso di lui.
- Sai cosa, puttana? – dice uno di loro, allungano una mano ed afferrandolo per i capelli, tirandoli con forza ed obbligandolo a gemere di dolore mentre piega il capo all’indietro, cercando di seguire il suo movimento per non farsi troppo male, - Ce ne frega un cazzo di cosa fai o non fai. Abbiamo pagato, quindi ora tu stai buono e te lo fai mettere su per il culo, anche da tutti e tre contemporaneamente, se ci gira. Ci siamo capiti? – conclude con uno strattone. Bill quasi grida, ma poi si morde un labbro, e cerca di trattenere le lacrime che si stanno già raccogliendo fra le sue ciglia. Schiude gli occhi, guarda il tipo che lo tiene ancora stretto per i capelli, e digrigna i denti. Dopodiché, gli sputa in faccia.
- Certe cose le puoi ottenere solo pagando, quando sei una merda come quella che siete voi. – ringhia, e il tipo ringhia a propria volta, asciugandosi il viso col dorso della mano e poi afferrandogli la testa più saldamente, solo per spingerlo di faccia contro la parete.
Bill osserva il muro avvicinarsi quasi al rallentatore, e quando sbatte contro la superficie piastrellata e gelida il dolore gli esplode nella testa come una bomba, in macchie biancastre che gli offuscano la vista. Urla, e urla più forte quando qualcuno lo prende a calci nelle gambe, all’altezza delle ginocchia, che si piegano contro la sua volontà.
Il secondo dopo è rannicchiato sul pavimento, apre gli occhi e vede solo rosso e uno stronzo lo sta prendendo a calci nella schiena con tanta forza che lui non riesce a smettere di urlare. Semplicemente non riesce, ci prova a tenere la bocca chiusa, se non altro per non dare soddisfazione a questi psicopatici di merda, ma fa semplicemente troppo male, e il residuo della droga che ha sniffato non fa che amplificare la sensazione di dolore riempiendogli il corpo di brividi insopportabili, e lui continua a scuotersi e a urlare e gli stronzi continuano a calpestarlo, e quando uno dei tre gli sfila di dosso i pantaloni lui pensa “bene, cazzo, adesso almeno magari la smetteranno di picchiarmi e si concentreranno per scoparmi”, ma un altro dei tre stronzi gli si inginocchia accanto e gli sorride in un modo che gli fa quasi scoppiare il cuore di paura. Bill lo osserva sollevarsi la manica della maglietta fino al gomito e stringere la mano a pugno e pensa “no, cazzo, Dio, Dio, ti prego, no”, e ansima terrorizzato, e vorrebbe provare ad alzarsi in piedi e fuggire via, ma le gambe non rispondono, e la schiena fa male come gliel’avessero spezzata, e lui non riesce più a respirare, e poi le nocche dell’uomo premono contro di lui e lui urla così forte che si sente esplodere i polmoni nel petto, e strabuzza gli occhi, e poi qualcosa si spacca, e a lui non resta più fiato neanche per gridare.
Mentre la vista gli si annebbia, gli sembra di scorgere una figura familiare sulla porta del bagno. Una figura piccola, magra, che si muove in maniera strana. “Eko?” pensa, ma potrebbe essere un’illusione, così come la vocetta nasale che sillaba “merda”, un attimo prima che la figura scompaia, veloce com’è apparsa.
Un paio di minuti dopo, però, entrano in bagno cinque persone. Bill non vede un cazzo di quello che sta succedendo, non gl’importa nemmeno. Tutto quello che sa è che un attimo non respira, e l’attimo dopo qualcuno lo svuota, e lui può finalmente tornare a respirare. Anche se fa male. Come fa male tutto il resto.
Fa tutto così fottutamente male che non riesce a tenere gli occhi aperti abbastanza a lungo neanche per riconoscere Bushido che, mentre i suoi riducono quei tre bastardi in fin di vita, lo solleva di peso fra le braccia e lo trascina di corsa in infermeria.

*

Bill ha imparato a riconoscere l'infermeria dalla lampada che pende storta nel centro del soffitto pieno di crepe, così quando apre gli occhi non perde neanche un secondo a chiedersi dove si trovi. Impiega più tempo a capire perché sia di nuovo disteso su un letto e si senta stanco, assonnato e debole.
I ricordi arrivano insieme al dolore, quello sordo tra le gambe e quello più acuto e quasi insostenibile alla schiena che sembra essersi svegliata all'improvviso insieme a lui.
Geme infastidito e tenta di girarsi di fianco, che è l'unico modo che conosce per alleviare le fitte pungenti, ma non riesce. Non riesce nemmeno a capire quale arto sta muovendo quando lo muove. Se lo muove. Ha la testa così confusa, chissà quanti cazzo di antidolorifici gli hanno dato. Chissà quanto cazzo farebbe male senza; il solo pensiero lo fa rabbrividire.
Prova di nuovo a voltarsi, lancia un braccio sul materasso e afferra il lenzuolo. Cerca di usare quello per issarsi, ma gli sembra di pesare una tonnellata. Riesce soltanto a sollevarsi di qualche centimetro e, quando ricade giù, la schiena fa ancora più male e il dolore gli strappa di bocca un lamento disperato del quale si vergogna. E' così stanco che ha voglia di piangere.
Furioso, tira un pugno sul materasso mentre si morde forte un labbro per trattenere le lacrime di dolore e frustrazione. Non può stare disteso in quel modo un minuto di più, lo sa. “Dottoressa,” mormora. La voce gli esce debolissima e roca, rotta dal respiro affannato. Prova a chiamarla più forte ma non arriva nessuno. Gli fa male perfino la gola.
Mette insieme le forze, si concentra e si gira di scatto con un gesto rabbioso. Cercando alla cieca un appiglio a cui aggrapparsi, urta il vassoio che c'è sul comodino e quello cade, portandosi dietro una scodella, le posate e tutto il resto del suo pranzo, probabilmente. Ricade anche lui, sul materasso, e la fitta di dolore è così forte che lo riduce ai singhiozzi. “Vaffanculo!” Piagnucola. “Vaffanculo.”
“Ehi, piano” gli dice qualcuno, posandogli una mano sul braccio.
Bill fa uno scatto che gli strappa un'altra smorfia di dolore. Si volta a guardare chi è stato con tanto odio che quello fa un passo indietro. E' uno degli uomini di Bushido, quello basso e pelato.
“Tranquillo,” Chakuza tiene le mani bene in vista. “Non voglio farti niente. Mi sono avvicinato solo perché sembravi nei casini. Ti ricordi di me? Sono Chakuza.”
Bill lo guarda male un altro po' prima di sbuffare. “Mi hanno quasi stuprato, non ho mica perso la memoria,” replica infastidito. Si sforza di tirarsi su, ma anche mettersi seduto è un'impressa impossibile e per quanto tenti di nasconderlo, il dolore gli contorce i tratti del viso.
“Posso aiutarti?” Chiede Chakuza, prima di farsi avanti di nuovo.
Bill vorrebbe dirgli di andare a fanculo, ce l'ha sulla punta della lingua e la rabbia che prova per tutto e tutti indistintamente in questo momento vorrebbe tanto farglielo dire, ma non ce la fa più a stare in quella posizione. Così annuisce brevemente.
“Vuoi sederti?” Chiede l'uomo, sorreggendolo per il braccio.
Bill scuote la testa velocemente. “Di lato va bene,” lo informa mentre il peso sulla schiena si allenta e il dolore diventa più sopportabile. Adesso gli viene quasi da piangere per il sollievo.
“Ecco fatto. Va meglio?”
Bill annuisce sbrigativamente. Vorrebbe poter chiudere la conversazione adesso che non ha più voglia di accasciarsi e morire, ma Chakuza resta di fianco a letto e l'ombra della sua testa rotonda si allunga sulle coperte che sta fissando, impedendogli di ignorare completamente la sua presenza. Così sospira e si volta verso di lui con un sopracciglio sollevato. “Ti serve qualcosa?” Chiede.
“A me no, ma magari hai fame,” commenta lui. Voltandosi per recuperare un altro vassoio dal carrello che si trascina dietro.
Bill lancia un'occhiata al cibo che è finito per terra, dall'altra parte del letto.
“Lo avevo appoggiato sul comodino visto che dormivi,” si giustifica Chakuza, seguendo il suo sguardo mentre sistema il nuovo vassoio sul braccio mobile perché possa accedervi più facilmente.
Bill torna a guardare lui e quello che sta facendo. Chakuza dice cose talmente ovvie che non trova nessun argomento con cui replicare, perciò resta in silenzio mentre l'uomo appoggia con cura il piatto di carne e verdura, l'acqua, il pane e una porzione di budino alla vaniglia.
“L'hai fatta tu questa roba?” Chiede Bill.
“Non dirmi che hai paura,” commenta Chakuza, passandogli il tovagliolo e le posate, che poi sono solo una forchetta di plastica con le punte arrotondate e un cucchiaio, sia mai che gli venga in mente di sgozzare qualcuno. “Se serve a farti stare più tranquillo, non mi conviene avvelenare il cibo che servo. Non ho alcuna voglia di marcire qui dentro per sempre. “
Bill sbuffa dal naso, iniziando a tagliare la carne. “Lo dicevo perché ha un bell'aspetto,” precisa, con un ghigno. “Hai la coda di paglia, per caso?”
Chakuza non se la prende, ma a dirla tutta non sorride neanche. “Da queste parti è sempre meglio pensare al peggio e poi, nel caso, cambiare opinione,” commenta.
“Sì,” borbotta Bill. “Me ne sono accorto.”
“Sempre troppo tardi,” Chakuza nota l'occhiata che gli lancia una delle guardie e si affretta a fingersi indaffarato. In via del tutto eccezionale, decide che può raccogliere lui quello che è caduto. “Sei stato fortunato.”
Bill immagina che a fronte della possibilità di prendersi una malattia venerea, perdere un arto o l'uso cosciente del proprio corpo, lo strazio di una schiena a pezzi e dei dieci punti che gli hanno messo nel culo siano considerabili come una fortuna. Forse crepare lo sarebbe stato di più. “Infatti, non lo vedi come festeggio?” Chiede ironico. “Credo che lo champagne arriverà da un momento all'altro.”
“Dico sul serio,” insiste Chakuza. “Se non fosse stato per Eko, poteva andarti molto peggio.”
Allora era davvero lui la figurina magra che ha intravisto prima di perdere i sensi. “Mi è sembrato di vederlo,” mormora.
“Non doveva essere lì. Ti ha seguito di sua spontanea volontà, perché è pazzo o sa il cazzo perché,” spiega Chakuza, mentre impila i piatti sporchi sul carrello. “Dovresti ringraziarlo appena esci dall'infermeria.”
“Se mai uscirò, sarà il mio primo pensiero,” fa in modo di suonare ironico ma non gli riesce un granché bene, forse perché ogni volta che apre bocca gli torna in mente la paura che ha provato – che non era quella buona che ti tiene all'erta ma quella violenta e paralizzante che non ti serve a sopravvivere a niente, perché ti lascia inerme contro qualunque pericolo ti si pari davanti – ed è consapevole che se non ne ha provata di più lo deve soltanto a quell'uomo con la faccia da topo.
“Bene,” annuisce Chakuza, sollevandosi finalmente da terra. “E magari potresti provare a mostrare un po' di riconoscenza in generale. “
Bill gli alza subito addosso un'occhiata altezzosa e infastidita. “Prego?”
Durante tutto il tempo che ha passato là dentro, Bill si è abituato che alle sue reazioni scostanti la gente reagisce ridendo oppure trattandolo ancora più di merda di quanto lui non faccia con gli altri. Chakuza invece sospira. “E' normale che tu non voglia fidarti di nessuno qua dentro, soprattutto perché hai visto quanti pezzi di merda ci sono,” spiega. “Ma dopo che ti sei fatto un'idea di che aria tira, ti accorgi che un amico ti serve. Qua dentro da solo non puoi sopravvivere. Vale per tutti, non solo per quelli come te.”
“Che sarebbero?”
“Quelli che non si sanno difendere,” specifica Chakuza, con molta più pazienza di quanto, ancora una volta, Bill si aspetti da lui. “Ed è inutile che fai quella faccia, perché sei tu quello su un letto d'ospedale e io quello in piedi, quindi almeno su questo mi darai ragione.”
Bill non smette di fare nessuna faccia anzi, se possibile lo guarda perfino peggio, e fa schioccare la lingua. “Di' un po' ti manda lui, per caso?” Chiede, sviando il discorso.
“No, non mi manda nessuno perché, se ti è sfuggito, questo è il mio lavoro,” replica Chakuza. “Comunque Bushido era preoccupato per te. Quando Eko è venuto ad avvisarci, è sbiancato, che per lui è una bella impresa.”
Bill si fa scappare una risatina che gli esce camuffata come l'ennesimo sbuffo, ma è comunque riconoscibile, tanto che anche Chakuza ride.
“Non ci ha pensato un secondo, ragazzino,” aggiunge poi più serio, con una scrollata di spalle. “E dopo tutto quello che ci hai combinato e abbiamo... perso, per pararti il culo, forse sarebbe il caso che ti ricredessi, non ti sembra?”
A quel punto la guardia ne ha avuto abbastanza e si incammina verso di lui, costringendolo a recuperare il suo carrello senza poter aggiungere altro.
Bill è contento così perché sa di poter dire le parole che ha in gola una volta sola, e non sarà qui.

*

Jost è incazzato come una bestia.
Non che Bushido si aspettasse di trovarlo pacifico e pronto al dialogo, ma quando la guardia lo fa entrare nell'ufficio del direttore, lui ha appena finito di sbattere il telefono contro il muro dall'altra parte della stanza e quello, naturalmente, si è fracassato in tre pezzi.
“Sai che l'infarto è una delle più comuni cause di mortalità tra gli uomini della tua età, specialmente quelli che fanno un lavoro di merda come il tuo?” Commenta, mettendosi obbediente al suo posto, con le mani bene in vista davanti a sé.
“Stai zitto!” Urla Jost, senza che per altro Bushido sia colpito dalla violenza con la quale lo fa. “Abbi la decenza di tacere, almeno.”
Bushido chiude la bocca, ma con l'aria di uno che ti accontenta. Jost questa cosa di lui non la sopporta, come non sopporta tante altre cose, ma questa più delle altre perché Bushido non dovrebbe accontentare nessuno. Lui dovrebbe eseguire gli ordini perché è un detenuto. E i detenuti fanno questo, ma lui ovviamente si sente al di sopra di tutto. Ce lo ha scritto in faccia e alle volte Jost ha davvero una gran voglia di prenderlo a pugni finché non si stanca.
Alla fine si ricorda che non può e si ricorda anche che, fra tutte le cose che non può permettersi di fare, mostrarsi così vulnerabile è proprio l'ultima, pertanto emette un sospiro e lo guarda duramente. “Quello che è successo oggi è inammissibile,” inizia. “Da chiunque e da te più di chiunque altro.”
“Non mi sembrava di essere un detenuto speciale. “
“Ti sembra eccome, Ferchichi,” continua Jost. “Ti sembra eccome. Io garantisco per te per farti dare la condizionale e tu mi mandi d'urgenza tre uomini in ospedale?”
Bushido, in realtà, non ha mandato all'ospedale proprio nessuno. E' entrato in quel bagno, ha rotto il naso a uno dei tre e ha lasciato che i suoi si occupassero del resto mentre recuperava le quattro ossa di Bill per portarlo in infermeria. Jost lo ha fatto chiamare solo perché sa che Chakuza e gli altri ragazzi non si muovono senza che lui lo abbia ordinato.
“Chiamiamoli danni collaterali. Mi hanno attaccato, mi sono difeso.”
“Li hai quasi ammazzati.”
Bushido non fa una piega. “Quasi,” dice soltanto. “Si vede che sono scivolati e hanno battuto la testa nel modo sbagliato. Succede.”
“Piantala con le cazzate!” Sbraita David. “Con questa bravata hai messo a rischio la libertà vigilata! Non posso coprirti in eterno.”
Bushido fa qualche passo irritato verso la scrivania. “Vuoi parlare di cazzate, David?” Ringhia, a voce abbastanza alta da stabilire quanto sia incazzato ma non abbastanza da richiamare l'attenzione della guardia fuori. Jost si fa indietro per affrontarlo, ma senza paura. “Parliamo di cazzate! Pensi davvero che se mi sono mosso dalla mia cella per prendere a calci nel culo tre stronzi lo abbia fatto per divertirmi e rischiare di perdere tutto quello per cui ho lavorato finora? Te lo dico io, Jost, no. Li ho fatti pestare perché stavano per violentare il tuo fottuto ragazzino. “
“Avresti potuto chiamare le guardie.”
“Vuoi sapere la cosa divertente, Jost? Le ho avvertite le tue stramaledette guardie. Eko ha avvisato loro prima di me ma si vede che quelle sono sorde perché sono arrivate mezz'ora dopo. Se la prendono comoda i tuoi uomini, eh? Tanto c'è tempo. D'altronde che cazzo vuoi aspettarti da gente che sa benissimo quali zone è meglio non perlustrare se non si hanno né le palle né la voglia di intervenire!”
David si appoggia allo schienale della sedia e per un attimo guarda altrove. Fosse un qualsiasi altro detenuto, replicherebbe e magari negherebbe anche, ma con Anis Ferchichi no. Se fra loro c'è il rapporto che c'è – per quanto sbagliato possa essere – è anche e soprattutto perché non si sono mai detti cazzate a vicenda. Certo, Ferchichi ne spara di grosse ma non con la volontà di fargliele anche bere, e David non gli mente, nel bene e nel male. Pertanto annuisce, prendendo atto della pigrizia di guardie carcerarie che può permettersi di punire fino ad un certo punto.
C'è uno strano equilibro nelle carceri, fra gli occhi che si possono chiudere e i reati che non si possono commettere e mantenere la bilancia perfettamente in pari è il compito più difficile di tutti. Guarda caso il suo. “Chi è stato?”
“Sido, è stato,” sbuffa Bushido, mentre la rabbia lo abbandona come fosse bastato urlare per liberarsene. Torna anche al suo posto. “Non ti è arrivato l'ultimo numero del gazzettino ufficiale?”
“Siete sul piede di guerra, lo so,” replica Jost infastidito. Conoscere lo status quo della prigione è un fattore importante per mantenere tutto sotto controllo.
Bushido scuote la testa. “No, lui è sul piede di guerra,” precisa. “Io sto cercando di tenerlo buono.”
“Pestando a sangue tre dei suoi?”
“Ha iniziato lui.”
David annuisce ironicamente. “E questo non ha niente a che vedere con l'allontanamento di Fler?” Butta lì, come se fosse una cosa da nulla.
Bushido lo fulmina con lo sguardo. “No.”
David lo fissa dritto negli occhi per minuti interi e poi sorride. “Diciamo che faccio finta di crederti perché ne ho piene le palle di tutti e due,” commenta, recuperando qualche foglio e iniziando a scriverci sopra come se volesse in questo modo annunciare la fine della discussione. “Tu pensa a stargli lontano anche quando uscirà dalla buca. Spiegherò alla commissione la tua posizione, farò leva sul fatto che il tuo spirito comunitario è più spiccato di quello degli scagnozzi di Sido. E speriamo che questo faccia ombra sul fatto che è l'ennesima storia di droga.”
“Ti aiuterà il fatto che né te né la commissione avete prove a riguardo.”
“Le prove si trovano.”
Bushido ride. “Auguri, allora.”
Jost chiama la guardia e lo fa portare via senza abbassarsi a rispondergli ancora e a Bushido sta bene così. Sa che per un po' almeno le acque si calmeranno e lui potrà sistemare il macello che si è andato a creare, come al solito. Esce dalla stanza con la flemma di chi non ha nessuna fretta né di raggiungere qualche altro posto né di liberarti della sua presenza perché sa che ti dà fastidio e si lascia ricondurre docilmente nella cella che ancora vuota. Bill dev'essere ancora in infermeria.
Non si preoccupa però, Chakuza è lì a controllare e se fosse successo qualcosa, Bushido lo saprebbe già, pertanto si issa sul suo letto e si distende con uno sbuffo stanco, coprendosi gli occhi con un avambraccio.
E' così che Bill lo trova, quasi quaranta minuti dopo, quando faticosamente riesce a tornare in cella, con l'aiuto della guardia che è costretta a sostenerlo perché la schiena gli fa ancora male.
Rimane per un po' al centro della stanza, i rumori della prigione vanno affievolendosi, è quasi ora che spengano le luci, ormai.
“Sei tornato,” dice Bushido, senza cambiare posizione.
Bill annuisce e stringe i pugni lunghi fianchi, per darsi coraggio stavolta, ma le parole fanno tutto da sole. Escono più facilmente di quanto sperava, forse perché sono davvero sincere. “Grazie per oggi,” mormora.
Bushido gli fa solo un cenno. Non c'è bisogno di dire altro.

*

La vita nella prigione diventa più facile. Non che le pareti si colorino di rosa e i detenuti comincino a cantare in rima spargendo ovunque amore e gioia, ma almeno non tentano più di ammazzarlo, scoparselo o fare le due cose insieme e, per quanto lo riguarda, a Bill sta bene così. Naturalmente questo succede perché lui ha deciso di accettare la protezione di Bushido – il che significa che ovunque vada uno dei suoi uomini lo tiene d'occhio, in ogni momento della giornata – e quindi nessuno che abbia un cervello si azzarda anche solo ad annusarlo da lontano. Dopo la schiena a pezzi, i punti di sutura e una dose di legnate che in confronto quelle di suo padre erano carezze, Bill comincia quasi ad abituarsi e ad apprezzare la possibilità di farsi una passeggiata nel cortile senza rischiare la vita. Ad aiutare questo processo c'è anche il fatto che Bushido non gli fa mai pesare il fatto che glielo avesse detto. Non nomina mai quello che è successo in passato, non ne fa nemmeno un accenno. Dopo l'aggressione per volontà di Sido – che, intanto, pare non si sia ravveduto quando Jost glielo ha chiesto la prima volta dopo tre giorni e che, per questo, sia ancora chiuso in buca con nessuna prospettiva di uscirne tanto presto – Bushido ha ricominciato da zero, con lui e lo ha perfino trascinato via da quel buco di merda della libreria per farlo trasferire nelle cucine con i suoi ragazzi, adesso che può farlo senza rischiare niente.
Bill davvero non sa come possa ottenere sempre tutto quello che vuole con Jost. Lui e il direttore della prigione hanno parlato una volta soltanto, quando lui è entrato, e non è che si siano detti grandi cose.
Più che altro Jost ha tentato di avvisarlo che sarebbe stato un inferno, solo che non l'ha fatto un granché bene, perché è evidente che non ha proprio un'idea chiara di quello che succede là dentro, della droga che gira, della gente che sparisce le ore per poi tornare più sfatta di prima. Bill vuole credere che non lo sappia, anche se in fondo è consapevole che è così, perché se solo pensa che sia a conoscenza di tutto, ricomincia ad aver paura delle cose orribili che si nascondono dietro l'angolo e non ne ha proprio voglia; non ora che la tensione si è allentata al punto che arriva perfino a scherzare con gli altri, ogni tanto.
L'unica cosa che Bushido gli ha davvero ordinato di fare è andare alle sedute di recupero per la sua dipendenza. Non è che Bill abbia fatto i salti di gioia – lui non è certo il tipo che si alza in piedi e racconta i cazzi suoi ad un cerchio di altri disperati che si sono ridotti a sniffare qualunque cosa pur di dimenticarsi in che mondo vivono – ma questa al tunisino gliela doveva, anche solo perché grazie a lui cammina ancora. Lui è contento, il tipo che gestisce le sedute pure e tutti dicono che funzionerà. A Bill sembra che funzionerà perché non c'è più nessuno che gli venderebbe la roba ormai, ma che sia per un motivo o per l'altro va bene uguale, a lui conviene non avere più crisi. Non vuole trovarsi a strisciare ai piedi di qualcuno peggiore di Sido. Se qualcuno del genere c'è.
Insomma, per essere uno che i primi mesi li ha passati in infermeria, con l'unica speranza che, una volta uscito, non ce lo rimandassero troppo presto, la sua vita è sensibilmente migliorata e questo significa che, oltre ai doveri – fin troppi – ha anche un certo numero di piaceri che ora può godersi senza dover sempre pensare a quanto fa schifo la sua vita in generale. Anche perché, a ben pensarci, per come stanno le cose adesso, faceva ben più schifo fuori.
Qui dentro ha un letto, il riscaldamento e mangia tre volte al giorno, se si escludono le docce in comune e qualche detenuto che dovrebbe imparare ad usarle, giusto per non rischiare di ammazzarli tutti, sta quasi pensando che alla fine di questi dodici anni che gli restano da passare in cella, potrebbe mordere un altro paio di uccelli e prolungare il soggiorno. Ha cominciato a scherzare, appunto.
Ora che scandisce il suo tempo con le cose che ha da fare, è anche più facile farlo passare. Qualcuno gli ha detto che così è anche più facile rendersi conto di quanto ne passa, ma lui ha scrollato le spalle e come al solito è andato per la sua strada.
Bill ha il risveglio difficile, nel senso che potesse dormirebbe per metà della giornata e passerebbe l'altra metà a svegliarsi buttato su una sedia a caso, ma non può farlo naturalmente; per questo Bushido, fra le tante responsabilità, si è accollato anche quella di afferrarlo per l'orlo dei pantaloni e tirarlo giù dal letto, tutte le mattine alle sette precise, quando le luci si accendono. All'inizio è stato traumatico – leggi molto irritante – ma alla fine si è abituato e da qualche giorno a questa parte, riesce perfino a prevedere quando la sua mano si allungherà verso di lui e si scosta prima, saltando giù per conto suo.
Il lunedì non è diverso dalla domenica dentro una prigione, ma per chissà quale automatismo mentale sono tutti quanti più scorbutici. Loro delle cucine devono sistemare le scorte, ne arrivano di nuove ogni inizio settimana. Bill pensava che ci fosse qualcuno – chi, gli gnomi? Lo ha preso in giro Saad – che lo faceva per loro, perché non si intascassero qualcosa, ma poi ha scoperto che tutto il cibo arriva in grossi bidoni pesanti che per aprirli devi comunque portarli in cucina, aprirli e poi rimettere a posto. Quindi se proprio ti fotti qualcosa, hai comunque prima fatto il tuo dovere.
Il mercoledì, Eko lo ha convinto ad andare in palestra, anche se poi lui non solleva nemmeno un chilo e a Bill fare pesi non interessa, così finisce che si siedono sulla panca e Bill gli fa duemila domande su Bushido e sulla banda, cercando di dare un senso al groviglio sconclusionato di parole che è il linguaggio di quell'uomo.
Il venerdì ha le sedute di recupero, il che significa che deve recarsi in questa saletta adiacente l'infermeria, sedersi sulla sua piccola sedia di legno e stare a sentire gli altri che si pentono e si dolgono di aver fatto uso di droga, alcuni trovano anche la faccia tosta di assicurare ai presenti che senza si sta meglio. Sì, forse. A Bill non importa granché ma è molto bravo a fingere il contrario. Lui non ha ancora parlato. Il medico o quello che è che presiede le sedute gli ha chiesto un paio di volte come stava, lui ha risposto bene e poi sono stati a guardarsi negli occhi per cinque minuti annuendo. Ha ancora molta strada da fare, pare.
Il resto del tempo in cui non lavora, non finge di allenarsi in palestra e non si oppone ostinatamente all'auto analisi, lo passa con Bushido. Bill lo segue letteralmente passo passo ovunque vada.
Adesso che hanno sistemato la questione della protezione, quell'uomo lo incuriosisce. Si chiede che cosa lo abbia spinto a continuare a difenderlo nonostante tutto. Bill è perfettamente consapevole che la libertà vigilata di Bushido è legata al suo comportamento, ma sa anche che la possibilità di un privilegio così grande si perde anche solo per la metà delle cose che Bushido ha combinato per parare il culo a lui. Ad un certo punto avrebbe anche potuto andare da Jost, visto che sembrano tanto in confidenza, e fargli presente che Bill non era affare suo e invece non lo ha fatto.
In questi giorni lo ha osservato attentamente mentre parlava con i suoi ragazzi o tentava un dialogo con i suoi nemici che invece gli hanno riso in faccia. Bill era lì di fianco e nessuno gli ha posato gli occhi addosso, hanno fissato solo Bushido fintanto che ha parlato.
A quanto gli è sembrato di capire Bushido sta lavorando da tempo nel tentativo di trovare un accordo con Sido, una specie di tregua. Ci stava provando già prima che arrivasse lui ma con scarsi risultati e ora, con Sido chiuso in buca, è ancora peggio perché i suoi uomini gli si sono chiusi intorno e se hanno un qualche sentimento nei confronti della situazione è di odio profondo. Detestano Bushido e lo vorrebbero morto, così quando si presenta nelle loro celle accompagnato da Bill, è già tanto se lo fanno parlare. Bushido però non molla, così come non ha mollato con lui.
“Si può sapere chi te lo fa fare?” Chiede Bill mentre lasciano la cella di Tony D.
“Fare cosa?”
“Questo sforzo assurdo. Cerchi di entrare nella testa della gente anche se quella ha chiaramente il piombo fuso nel cervello. Insomma, guardali!” Bill accenna agli uomini di Sido che, alle loro spalle, ancora ridono di gusto. “Come puoi pensare che capiranno mai qualcosa?”
Le labbra di Bushido s'increspano in un sorriso appena accennato che Bill riesce a vedere solo perché lo sta fissando anche se lui non lo guarda. “Vuoi dire che dovrei lasciar perdere chi si ostina a ripetermi continuamente no?”
Bill alza gli occhi al cielo mentre lo segue nei bagni. “Questa è una situazione diversa,” precisa.
“No, non lo è.” Bushido si slaccia i polsini della camicia e li tira un po' su, quindi si toglie l'orologio e glielo passa prima di accingersi a lavarsi le mani. “Sono solo incredibilmente testardi perché credono che accettare una tregua sia segno di debolezza. Quello che non capiscono, perché sono così pieni di loro stessi da non vedere nient'altro, è che se smettessimo di farci la guerra potremmo ottenere molto di più qua dentro.”
“Tipo?” Chiede Bill, rigirandosi il grosso orologio da uomo tra le dita magrissime.
“Più sicurezza, più libertà, la fiducia di Jost,” elenca Bushido. “Se vedesse che non ci ammazziamo per un posto in mensa, forse sarebbe più ben disposto ad organizzare attività di cui finora non ha nemmeno voluto sentir parlare. Ha paura di quello che potrebbe succedere da un momento all'altro e non gli si può dare torto quando i detenuti non fanno che aggredirsi gli uni con gli altri.”
“Com'è che tu e Jost andate così d'accordo?”
Bushido scrolla le mani nel lavandino e le asciuga sui pantaloni. “Che cos'è, stamattina, la giornata delle domande?” Esclama ridendo e riprendendosi l'orologio. “Non dovresti essere da qualche altra parte?”
“Sfortunatamente per te no,” replica Bill, che è costretto ad asciugarsi le mani anche lui dopo che Bushido le ha sfiorate con le sue. “Allora?”
“Allora cosa?”
“Tu e Jost vi conoscevate?”
Bushido espira dal naso. “Lo sai, ragazzino, non vado molto d'accordo con gli interrogatori,” gli fa notare mentre si avviano insieme fuori dai bagni e di nuovo in direzione delle celle.
“Non è un interrogatorio, sto facendo conversazione.”
“Allora non ti dispiacerà se ti faccio io qualche domanda.”
Bill ha passato troppo tempo per strada a dubitare di chiunque gli si avvicinasse, nascondendo per questo ogni tipo di informazione personale, per essere entusiasta di quella prospettiva, perciò si irrigidisce un po'; ma trova comunque la faccia tosta di stringersi nelle spalle. “Che cosa vuoi sapere?” Chiede.
Si incamminano lungo il corridoio che porta alle celle. Apparentemente hanno un sacco di libertà, ma i percorsi sono segnati, non ci sono molte alternative. “Quello che ti è venuto a trovare è tuo fratello?” Chiede Bushido.
“Cosa fai, mi spii adesso?” Chiede Bill, lanciandogli un mezzo sorriso storto e nervoso, più che altro per prendere tempo.
“Con te non si sa mai,” scherza Bushido. “Comunque mi trovavo a passare da quelle parti. E, anche se non rispondi... siete due gocce d'acqua.”
“Tom ed io siamo gemelli,” sospira Bill.
“Ma non mi dire,” Bushido ride di cuore. Una cosa che prima faceva spesso, a quanto dice Eko, ma che Bill non gli aveva mai visto fare. E' un po' assurdo che rida proprio parlando di suo fratello che, per lui, è tutto tranne che un argomento di cui ridere. “E anche lui fa la tua stessa vita?”
Bill scuote la testa. “No, lui è il gemello buono.”
Per un po' smettono di discutere perché Bushido deve fermarsi a parlare con un paio di persone e Bill resta lì al suo fianco, in silenzio. Potrebbe allontanarsi per evitare definitivamente l'argomento, e accarezza l'idea di farlo, ma poi si rende conto che potrebbe andare in ben pochi posti e che alla sera Bushido lo inchioderebbe di nuovo, quindi tanto vale restare. O forse gli piace stare lì a guardarlo mentre ha a che fare con gli altri detenuti, il modo un po' impostato ed eccessivo con cui si presenta, la posa che assume – molto rilassata eppure autoritaria – Bill non ha idea di come ci riesca, ma sembra che per lui i muri della prigione non esistono. Da come si muove ti dà l'idea che una volta finito di chiacchierare potrebbe continuare a camminare oltre il corridoio, superare la cancellata e uscire all'aria aperta. Così, come niente.
“E il resto della tua famiglia?” Quando Bushido riprende il discorso, sono nella sala comune e lui era perso nei suoi pensieri. “Tuo padre e tua madre?”
Bill si stringe nelle spalle. “Ci hanno guardati e dopo un'attenta analisi hanno deciso che lui era più conveniente.”
“Vuoi dire che tu eri troppo problematico?”
“Troppo frocio,” precisa subito Bill, con un'asprezza nella voce che non nasconde niente dell'odio che prova.
Bushido annuisce come se quel breve scambio di frasi fosse stato sufficiente a fargli inquadrare l'intero problema. Si trattasse di qualunque altra persona, Bill ne dubiterebbe fortemente ma, trattandosi di Bushido, gli concede il beneficio del dubbio.
“Quindi tuo padre non accetta il tuo stile di vita.”
A Bill scappa da ridere. “Sì, è un modo come un altro di dirlo.”
Bushido gli lancia uno sguardo interrogativo, forse il primo da quando si conoscono. Bill sbuffa un'altra risata, una amara però. “Quando mio padre lo ha saputo mi ha preso subito a cinghiate per evitare che il Signore lo ritenesse responsabile, immagino. Dopodiché mi ha spedito da un prete e da un medico e quando il primo non mi ha esorcizzato come sperava e il secondo gli ha confermato che non era una malattia, mi ha preso a cinghiate di nuovo, perché secondo lui non se ne danno mai abbastanza di cinghiate a chi ama prenderlo nel culo, che è tutto ciò che ha capito lui quando gliel'ho detto.”
“E tua madre?”
Gli occhi di Bill si fanno più scuri, come se fosse più difficile per lui parlare con tanta leggerezza della madre. “Mia madre è rimasta in silenzio, come suppongo ci si aspettasse da lei,” sospira. “Mio fratello mi ha difeso per un po', ma casa mia non era più vivibile e così me ne sono andato. D'altronde gli rimaneva sempre un figlio con cui consolarsi.”
“Non li senti mai? Neanche adesso?”
“Non credo che sappiano che sono qui. L'ultima volta che ho visto mio padre è stato quando me ne sono andato. Mia madre ha continuato a volermi incontrare per qualche mese, cercando di convincermi a perdere le cattive abitudini. Poi si è stancata anche lei,” Bill si stringe nelle spalle. “Immagino fosse più facile fingere che ero morto piuttosto che sapermi per strada, non so.”
“Tuo fratello deve volerti molto bene,” commenta Bushido, mentre raggiungono la cella. Sistema alcuni articoli da bagno che gli sono arrivati per posta sulla mensolina sotto allo specchio. “E' lui che ti porta i soldi?”
Bill annuisce. “Non dovrebbe, ma è impossibile farlo smettere.”
“Ha la testa dura come suo fratello,” sorride Bushido. Davanti allo specchio si schiaffeggia piano la faccia, come fa di solito. Bill non ha capito se è per ridare tono al viso o per svegliarsi, anche se propende per la seconda visto che Bushido non sembra il tipo da maschere facciali. “Sei fortunato ad avere qualcuno che sta dalla tua parte. Quando sei nella merda fino al collo, anche una persona sola fa la differenza.”
Bill lo osserva con attenzione, non perde nemmeno il più piccolo dei movimenti. Quand'era più piccolo non era così bravo a notare i dettagli, ma col tempo le cose sono cambiate; ha dovuto imparare a riconoscere le situazioni dalle prime avvisaglie, in modo da potersi difendere. E ora scruta Bushido mentre si aggira per la cella e rifà il proprio letto in maniera metodica e veloce, la maniera di uno che abituato a fare gli stessi gesti da un sacco di tempo. “Per te chi c'era?”
“Chi ti dice che c'era qualcuno?” Chiede l'uomo, allungandosi a stendere bene il lenzuolo.
Bill si è seduto per terra e scrolla le spalle. “Hai l'aria di uno che aveva qualcuno dalla sua parte.”
Bushido non si volta, ma sorride. “Era mia madre,” risponde Bushido e Bill resta stupito perché in realtà non si aspettava che l'uomo rispondesse. “Mi ha sempre difeso, anche quando non me lo meritavo perché mio padre se lo meritava sempre meno di me.”
“Non andavate d'accordo?”
Bushido solleva una spalla. “Quand'era sobrio andava quasi tutto bene. Ma non lo era mai,” spiega con un sospiro. La sua voce ha il tono rassegnato di chi una situazione l'ha già vissuta ad ogni livello e, quale che sia, vi ha già trovato una soluzione. Mentre a Bill fa ancora male sapere che a casa sua non si può più fare il suo nome, Bushido sta solo raccontando un fatto come un altro che casualmente è successo a lui come poteva succedere a chiunque. “Picchiava mia madre ogni volta che poteva e picchiava me ogni volta che cercavo di difenderla. Ho sopportato finché non ha messo le mani su mio fratello, allora non ci ho visto più. Quella è stata la prima volta che sono finito in galera.”
“Lo hai ucciso?”
Bushido scuote la testa. “No, ma lui mi ha fatto arrestare per aggressione perché gli ho rotto il naso. Mi sono fatto sei mesi di riformatorio,” spiega. “Quando sono tornato a casa, però, lui non c'era. Mia madre lo aveva buttato fuori a calci.”
Bill annuisce e basta, perché non sa che cos'altro dire.
A quanto pare lui e Bushido non sono poi così tanto diversi.
Quando Chakuza compare sulla porta della cella ad avvertire Bushido che è ora di occuparsi della cucina, Bill si chiede cosa sarebbe cambiato nella sua vita se tornando dall'ospedale quel giorno, a sparire di casa fosse stato suo padre e non lui.
Poi scuote la testa e si affretta dietro Bushido quando lui lo chiama.

*

Decide di farlo quella notte. Non che ci abbia davvero pensato, in realtà, non l’ha certo programmato o pianificato, ma è qualcosa di cui il suo corpo sente un intenso bisogno, prima ancora della sua mente. Non può che immaginare che si tratti di un residuo di quando ancora viveva a casa sua, dove niente lo aiutava a capire di fronte a chi si trovasse più delle reazioni fisiche che aveva in sua presenza. Il modo in cui suo padre lo guardava, come se neanche riuscisse a reggere la sua vista tale era il disgusto che la sua persona gli suscitava, il modo in cui sua madre distoglieva dolorosamente lo sguardo trincerandosi dietro un muro di scuse e di falsa impotenza, il modo in cui invece Tom non smetteva mai, nemmeno per un secondo, di cercarlo con gli occhi, e con le braccia, ed a volte, nei momenti più duri, perfino con le labbra, quando sfiorava in un bacio infantile ma spaventosamente confortante qualche livido particolarmente vistoso su uno zigomo, o sull’angolo delle sue labbra.
Questa è probabilmente l’unica cosa che Bill ricorderà per sempre, di casa propria. E si tratta di un insegnamento che ha sempre seguito con scrupolosa attenzione.
Ed è per questo che quella notte scivola fuori dal proprio letto. Perché dopo le settimane che ha passato ad osservarlo, a seguirlo ovunque, a seguire perfino i suoi ordini fingendo che si trattasse di consigli per mandarli giù con meno difficoltà, c’è ancora qualcosa che vuole chiedere a Bushido, una domanda senza voce della cui risposta sente di avere bisogno più di qualsiasi altra cosa Bushido gli abbia mai detto, o dimostrato, o fatto capire a parole.
È un’azione che gli serve. Gli occhi che sfuggono o che restano incollati. Le mani che si avvicinano o si nascondono. I tocchi che si fanno curiosi o si ritraggono. Di questo ha bisogno. E dopo sarà facile, sì, sarà molto più facile capire il perché di molte cose. Perfino capire di più Bushido stesso.
La prigione è naturalmente avvolta nel buio più totale. Bill è rimasto sveglio tutto il tempo, per controllare gli agenti di custodia. L’ultimo è passato con la torcia una ventina di minuti fa, ed era il quarto. Ciò vuol dire che sono ormai quasi le cinque del mattino, fra un paio d’ore le celle verranno aperte e le luci riaccese, e nel frattempo nessun altro secondino dovrebbe passare a spiarli.
Bushido sembra dormire serenamente, il viso rivolto verso il muro. Le sue spalle si sollevano e si riabbassano lentamente, seguendo il ritmo placido del suo respiro, e Bill ne segue la linea con attenzione, rendendosi conto per la prima volta in quel momento di quanto in realtà sia quelle che tutto il resto del corpo di Bushido sia sottile. È strabiliante che, pur magro com’è, riesca a farsi rispettare da tutta quella gente. Se non lo conoscesse almeno un po’, se non sapesse che non è certo a causa della forza fisica di Bushido che tutti chinano il capo ad ogni suo ordine, non riuscirebbe neanche a crederci.
Gli viene perfino da sorridere, nel pensarlo, ma quando si accorge della piega che hanno preso le sue labbra – e i suoi pensieri – si affretta a scuotere il capo, liberandosi di quel fardello di melensaggini gratuite. Non è un ragazzino, non è stupido, e soprattutto di Bushido non gliene frega niente. Non in questo senso, almeno, e decisamente non prima di averlo sottoposto a quest’ultimo test.
Pianta le mani sul materasso e si issa senza difficoltà sul letto di Bushido, sedendosi sulla sponda per poi distendersi un attimo dopo, raggomitolandosi contro la schiena dell’uomo e strusciando il viso in mezzo alle sue scapole come un gattino in cerca di coccole, lasciandosi perfino sfuggire un mugolio minuscolo, giusto per attirare la sua attenzione e dargli una mano a svegliarsi, nel caso la sua improvvisa presenza da sola non sia riuscita nell’intento.
Bushido si sveglia – Bill lo sente nel ritmo del suo respiro, che cambia all’istante – ma non si agita. Sembra quasi che se l’aspettasse, anche se, in realtà, con Bushido non si può mai dire. Non ha quasi mai reazioni talmente improvvise o violente da far supporre che non immaginasse già che qualcosa dovesse prima o poi avvenire.
- Che cazzo stai facendo, ragazzino? – domanda, e infatti la sua voce è perfettamente tranquilla, perfino rilassata. Anche troppo.
Bill, comunque, sorride, allungando una mano a scivolare lungo il suo fianco, e poi avvolgendogli un braccio attorno alla vita.
- Non riuscivo a dormire, - risponde a bassa voce, lasciandogli baci lievissimi lungo la spina dorsale attraverso il tessuto di cotone sottile della canottiera che l’uomo indossa, - e perciò ho pensato di venire a farti una visitina. Magari potevi darmi una mano, - suggerisce, - o magari… - aggiunge con un altro sorrisino, la mano che scivola giù fra le gambe di Bushido, - potevo darla io a te.
Bushido non fa niente per fermarlo, e Bill non si accorge neanche di quanto questo dovrebbe deluderlo. Si è messo in questa situazione proprio perché voleva provare qualcosa a Bushido e a se stesso, d’altronde, perché voleva dimostrare che anche lui non è poi diverso da tutti gli altri uomini di quella prigione, perfino da tutti gli uomini che si sono avvicendati dentro e contro di lui per strada, e non stanno forse i fatti dimostrando che ha ragione? E non dovrebbe forse questo rattristarlo, o deluderlo, o perfino farlo arrabbiare, invece di costringerlo a sorridere stupidamente solo perché quest’uomo lo sta sostanzialmente lasciando fare?
Bushido lascia che la sua mano scivoli oltre l’elastico dei suoi pantaloni e lo stuzzichi lievemente attraverso i boxer. Si volta verso di lui, però, quando le dita di Bill superano anche quell’ultima barriera di tessuto, sfiorandolo leggermente. Non gli lascia il tempo di stringerlo, e nemmeno di accorgersi che i suoi tocchi non hanno davvero avuto su di lui l’effetto che Bill immagina abbiano avuto.
Bill allarga le braccia, accogliendolo contro il suo corpo, e non si accorge nemmeno che qualcosa non va, che Bushido non sta rispondendo come lui pensava che avrebbe risposto, come avrebbe dovuto rispondere.
Non se ne accorge finché non gli preme sulle labbra un bacio umido e gonfio di desiderio che non pensava nemmeno di stare provando. E sente quelle stesse labbra chiuse, e piegate in un sorriso sarcastico.
- Sul serio, ragazzino? – domanda Bushido, e Bill può sentire il trillo di una risata fra l’incredulo e l’ironico nella sua voce resa un po’ roca dalle ore di sonno, - Ci hai appena provato sul serio?
Bill ringhia, ritraendosi come si fosse scottato. Si stringe nelle spalle, aggrottando le sopracciglia e squadrando con fastidio l’espressione divertita di Bushido.
- Sei uno stronzo. – grugnisce, quasi tremando dalla rabbia e dalla vergogna. Bushido, per tutta risposta, ride.
- Ma davvero? – domanda, scuotendo il capo, - Forse, - ammette quindi, - ma tu sei ridicolo. Sentiamo, cos’è che pensavi, esattamente? – ridacchia ancora, - Che in fondo in fondo tutto quello che ho fatto l’ho fatto per il tuo bel culetto? O per la tua bella boccuccia? E sentiamo, - aggiunge in un’altra risata, sempre più divertita, - pensi davvero che, se fosse stato questo quello che volevo, non me lo sarei già preso? Con le buone o con le cattive?
Bill distoglie lo sguardo, stringendo i pugni.
- Chi se ne frega. – sbotta astioso, - Era solo una prova, comunque. Per cui, bravo, Bushido. L’hai superata. Non te ne frega un cazzo del mio corpo e non mi hai aiutato solo perché volevi scoparmi. Complimenti, sei il primo uomo onesto che incontro, peccato che tu sia in galera perché evidentemente la tua onestà è solo una stronzata di facciata. E vaffanculo. – cerca di concludere, voltandosi istantaneamente dall’altro lato per saltare giù dal letto, ma Bushido glielo impedisce, afferrandolo per un gomito e schiacciandoselo contro.
- Non puoi prendermi per il culo, ragazzino. – gli sussurra all’orecchio, - Una prova? Ma fammi il piacere. Questa non era una prova.
- Non so di cosa cazzo stai parlando. – soffia Bill, cercando di sfuggirgli, - Lasciami andare.
- Non prima di aver chiarito il punto. – insiste Bushido, stringendolo più forte. Bill si impedisce di gemere di dolore solo perché non intende in alcun modo dargliela vinta, non più di quanto non se la sia già presa lui da sé.
- Che sarebbe? – ribatte con supponenza, voltandosi a guardarlo da sopra una spalla, per quanto può. Bushido sta ancora sorridendo.
- Sarebbe che non ci sono vie d’uscita facili, nella vita, ragazzino. Mai. – risponde, - Qui dentro, poi. E men che meno con me. A me dici la verità, Bill. Anche quella che non vuoi dire a te stesso.
- Ti ripeto che non so di cosa cazzo stai parlando! – ringhia ancora Bill, riprendendo a dimenarsi per costringere Bushido a mollare la presa e ottenendo in cambio soltanto le sue dita che affondano con forza ancora maggiore nell’interno del suo gomito.
- Lo so io, allora. – dice Bushido, e sta ancora finendo di parlare quando la sua mano si posa ruvida fra le sue cosce, premendo appena, giusto per mettere in evidenza l’erezione svettante che gonfia il tessuto morbido dei suoi pantaloni. Bill si lascia sfuggire un gemito frustrato senza riuscire ad impedirselo per tempo, e subito dopo arrossisce così violentemente da farsi venire un capogiro. – Non dirmi che era solo una prova. – prosegue l’uomo, lasciandolo andare per poi quasi spingerlo giù dal letto. Bill atterra sui piedi, si piega appena per il dolore alla schiena e poi si volta a guardarlo. Bushido lo sta fissando con estrema serietà. Non ha bisogno di aggiungere “perché sappiamo entrambi che non lo era”.
- …tu sei solo un bastardo. – gli sibila contro, allontanandosi quasi di un passo. Bushido agita una mano come a scacciare via quelle idiozie, voltandosi nuovamente verso la parete.
A Bill non resta molto altro da fare che rintanarsi un’altra volta sotto le coperte. Molto più scomodamente di prima.

*

Bill non gli rivolge più la parola. Dal giorno dopo in poi, anzi, agisce quasi come se Bushido non esistesse davvero. Segue i suoi ordini in cucina solo perché non vuole problemi, e perché sa che ignorarlo anche in quel senso non avrebbe altra conseguenza che indurre Bushido a parlargli di più, fosse anche solo per rimproverarlo. Bill, invece, non ha alcuna voglia né intenzione di sentire ancora la sua voce, ed è per questo che fa in modo di rigare dritto quando sa che deve farlo, mentre per tutto il resto del tempo si limita a starsene sulle sue, le braccia incrociate sul petto e il broncio di uno che sia convinto di essere stato offeso in modo così plateale, palese e gratuito da non poter pensare nemmeno lontanamente alla possibilità di un perdono.
Il primo giorno, Bushido si limita a registrare la cosa sotto la categoria “stronzate da ragazzino capriccioso e infantile”, e non se ne preoccupa. Gli passerà, si dice, e anche se non gli passa, chi se ne frega? Purché stia lontano dai guai.
Il secondo giorno, la cosa comincia onestamente ad infastidirlo. Bill non risponde neanche ai più banali buongiorno e buonanotte, lo fissa come fosse un criminale – cosa che è, ma un tale livello di disgusto per la questione non dovrebbe certo rispecchiarsi negli occhi di Bill, dal momento che lui faceva la puttana – ed è generalmente indisponente quando non direttamente insopportabile.
Bushido sente lo scatto della serratura alle sue spalle quando le guardie spengono le luci augurando a loro modo la buonanotte ai carcerati, e sospira profondamente, restando in piedi accanto al letto. Bill finge palesemente di dormire, quasi completamente nascosto sotto le coperte.
- Bill. – lo chiama a bassa voce, ma lui, naturalmente, non risponde. – Bill! – ripete dunque, e Bill sbuffa rumorosamente, scattando a sedere e voltandosi a guardarlo.
- Cosa cazzo vuoi?! – sibila, onestamente dispiaciuto dal non potere urlargli in faccia come vorrebbe.
Bushido recupera la sedia di plastica accanto al tavolo e la trascina vicino al letto, sedendosi ed appoggiando i gomiti sulle ginocchia, piegandosi appena per poter guardare Bill più da vicino.
- Parlare. – risponde. Bill soffia, distogliendo lo sguardo.
- Io no. – ribatte secco. Bushido sospira un’altra volta, scuotendo il capo.
- Bill, non so cosa cazzo ti sia successo nella testa, ma qualsiasi cosa sia è un gran casino e ti tocca ripulirla. – dice quindi, - Credimi, posso capire per quale motivo tu possa esserti—
- Ma stai zitto! – lo interrompe Bill, voltandosi nuovamente a guardarlo con aria perfino incredula, - Ma sei un coglione o cosa?! Punto primo, qualsiasi cosa tu pensi di aver capito di me è sbagliata, questo posso dirtelo con sicurezza. Punto secondo, ti ho già detto che non voglio parlare, e potresti quantomeno fare finta di voler rispettare questo mio desiderio. E punto terzo, - i suoi occhi diventano sottili come quelli di un gatto, e ugualmente gelidi e distanti, - puoi comandare dentro questa prigione, Bushido, puoi comandare le mie azioni mentre lavoro, puoi perfino dirmi di stare zitto o levarmi dalle palle se non mi vuoi intorno, ma non puoi, Bushido, non puoi controllare quello che c’è nella mia testa. Per cui, piantala di ordinarmi di ripulire cose di cui non sai un cazzo, e vattene a dormire. Questa conversazione è finita. – conclude, tornando a distendersi sotto le coperte, fino a nascondersi quasi completamente.
Bushido ringhia fra sé, infastidito e frustrato. Non c’è proprio modo, si dice, di far funzionare le cose con questo ragazzino. E non riesce a capire perché non riesca a stargli bene anche così. Non è un uomo stupido, è sempre stato in grado di riconoscere una causa persa, ogni volta che se n’è trovata una davanti, ed è sempre stato abbastanza furbo da capire quando gli conveniva insistere su qualcosa, per quanto senza speranza potesse apparire, e quando invece fosse molto più utile girare i tacchi e scappare a gambe levate. Bill, decisamente, è qualcosa dalla quale dovrebbe scappare, anche perché ormai all’udienza per la libertà vigilata manca davvero pochissimo, ed a tutto dovrebbe pensare meno che a sistemare i rapporti con un ragazzino che, nel giro di un paio di settimane, se tutto va come pensa, non rivedrà mai più, ma semplicemente non riesce. Forse per ostinazione, forse per chissà quale altro motivo.
Ne parla con Saad, all’alba del terzo giorno di musi lunghi e occhiate al vetriolo. Lui lo fissa con una certa pietà, sospira e gli chiede “stai scherzando?”, e Bushido non saprebbe spiegare esattamente il perché di una reazione simile, perciò aggrotta le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto.
- Che cosa intendi dire? – borbotta contrariato, e Saad scuote il capo.
- Intendo dire che chi se ne frega, Bushido! – sbotta, - E in ogni caso, devi essere cieco, per non accorgertene. Ma poi fai sempre così, attorto a te succedono le cose più disparate, ma tu figurati se le noti. Ti ho detto mesi fa che credevo che Sido avesse in mente qualche stronzata delle tue, ma tu non mi hai creduto finché non hai visto coi tuoi occhi di che cosa stavo parlando! E anche stavolta è uguale, cose assolutamente palesi succedono tutte intorno a te e tu niente. È surreale come tu possa essere ancora vivo e soprattutto a capo di una qualsiasi banda.
- Saad, - grugnisce lui, - stai andando in cerca di rissa o cosa?
L’uomo si lascia sfuggire un mugolio esasperato, passandosi una mano sul volto.
- No, dico, - comincia, - esattamente, cos’è che ti aspettavi? Che non ti si appiccicasse al culo come una cozza? Quello come minimo il gesto più gentile che si è mai visto rivolgere è stata una bastonata sul naso. E tu gli hai salvato la vita qualcosa come duecento volte! Le sappiamo ancora fare le addizioni o no?
Bushido lo guarda, gli occhi bene aperti, le labbra appena dischiuse.
- …tu credi, mh? – riflette, abbassando lo sguardo, pensieroso.
- Io credo? Quanto te n’è mai fregato di quello che credeva chiunque che non fosse te stesso? – sospira Saad, lanciando uno sguardo supplice al cielo. – Quello che so, Bushido, è che qualunque sia il problema lo devi risolvere, ma non nella testa del ragazzino, nella tua. – precisa, puntandogli un indice contro, - Perché tu fra due settimane sei fuori di qui e noi che restiamo indietro, per non parlare dei fratelli che aspettano fuori, abbiamo tutti bisogno di una guida. E tu la testa devi averla dov’è giusto che sia. Sono stato chiaro?
Bushido gli lancia un’occhiata vagamente indisposta, sbuffando piano.
- Mi sto rompendo il cazzo di tutto questo rimproverarmi a caso. – sbotta, - Piantiamola.
- Chi è che ti ha rimproverato, oltre me? – domanda Saad, inarcando un sopracciglio.
“Bill,” sta per rispondere Bushido, ma si ferma per tempo. Saad, però, il suo mestiere lo sa fare bene, e lo capisce comunque. Fortunatamente, si limita a un mezzo sorriso ironico, e non commenta.
Quando arriva di fronte alla porta del bagno, dopo essersi preso almeno un paio d’ore per starsi un po’ a sentire e chiedersi se davvero intende esporsi in questo modo, ci trova davanti Chakuza, appoggiato alla parete, che fa la guardia, come pensava. Bill è incredibilmente abitudinario, un po’ perché l’abitudine è una sicurezza per chiunque, un po’ perché essere sorvegliato a vista ventiquattro ore su ventiquattro ti forza a fare più o meno sempre le stesse cose, più o meno sempre nello stesso modo, più o meno sempre allo stesso orario.
Chakuza spalanca gli occhi nell’accorgersi di lui, perché anche Bushido è un tipo abitudinario, ma contrariamente a Bill non lo si è mai visto fare una doccia a quest’ora del pomeriggio.
- Ohi. – lo saluta, sfilandosi il berretto per grattarsi confusamente la testa, - Com’è?
Bushido scrolla le spalle.
- È dentro, vero? – domanda, e Chakuza annuisce. – Fai in modo che non ci disturbi nessuno. – si raccomanda quindi, passandogli oltre con un asciugamano appoggiato sulla spalla. Chakuza lo osserva passare, incredulo, e quando Bushido si ferma, poco prima di oltrepassare il muricciolo che protegge le docce da sguardi indiscreti, quasi si paralizza sul posto. – Hai parlato con Fler, ultimamente? – domanda.
Chakuza abbassa istantaneamente lo sguardo.
- No. – risponde.
- Bene. – annuisce Bushido, cercando di ignorare la fastidiosa puntura di senso di colpa che percepisce da qualche parte fra lo stomaco e il cuore. Fosse anche solo per quello che ha fatto alla sua banda in generale e al suo rapporto con una delle persone che avesse di più care nel mondo nel particolare, non dovrebbe volere avere più niente a che fare con questo ragazzino. E invece dà le spalle a Chakuza, supera il muretto e si spoglia, entrando nella doccia accanto a quella che Bill sta usando ed aprendo l’acqua, armeggiando coi rubinetti per ottenere la temperatura che desidera prima di cominciare ad insaponarsi pigramente.
Per molti minuti non si sente altro che lo scosciare dell’acqua, e Bill riesce perfino ad illudersi che Bushido lo lascerà in pace, che magari sia entrato solo perché voleva farsi una doccia, non perché cercasse una scusa per parlargli. Ed invece, naturalmente, è così.
- Mi dispiace per quello che è successo. – dice. Bill si volta a guardarlo così di scatto che urta il sapone appoggiato sul muretto basso dietro di lui. Naturalmente, non si china a raccoglierlo.
- Cosa? – domanda, quasi senza fiato. Bushido si lascia sfuggire un sorriso vagamente intenerito, di fronte a tutta quella sorpresa.
- Cos’è, credevi che non fossi in grado di chiedere scusa a qualcuno quando mi rendo conto di essere nel torto? – lo prende in giro, inarcando un sopracciglio. Bill fa la stessa cosa, tornando a rilassarsi e sciacquarsi i capelli sotto la doccia.
- No, credevo proprio che non fossi in grado di renderti conto di quando avevi torto o meno. – risponde sarcastico, guardando altrove. Bushido ridacchia, scuotendo il capo.
- Sorpresa, dunque. – scrolla le spalle, e poi sospira. – Ascolta.
- Ho qualche speranza di risparmiarmi questa cosa? – chiede immediatamente Bill, lasciandosi sfuggire un mugolio già stanco, appoggiandosi alla parete.
- No. – ridacchia ancora Bushido, - Ora smettila di fare il bambino e stammi a sentire, prima che mi passi la voglia e ti mandi pesantemente a fanculo.
- Okay, okay… - sospira lui, stringendosi nelle spalle. – Parla.
Bushido finisce di sciacquarsi prendendosi tutto il tempo necessario per farlo, e solo dopo chiude i rubinetti e si volta verso Bill, appoggiandosi al muricciolo che separa le due cabine della doccia.
- Ragazzino, - sospira, concedendosi un breve sorriso rassicurante, - io ho trent’anni. – Bill inarca un sopracciglio, ed è lì lì per chiedergli “e allora?”, quando Bushido prosegue. – Io ho trent’anni, - ripete, - e tu sei un ragazzino convinto di avere visto tante cose, nella vita, ma la verità è che hai visto sempre le stesse, ripetute tante volte da sembrare tantissime, sì, ma sempre le stesse. Sei confuso, - dice, ignorando lo sguardo deluso e un po’ ferito di Bill che vaga altrove, sulle piastrelle bagnate lungo le quali scorre l’acqua che ancora gli piove addosso dalla doccia, - non hai idea di quello che vuoi, e qualsiasi cosa sia, io non potrei dartela, Bill. Ho l’udienza per la libertà vigilata fra due settimane, sarò fuori di qui prima che tu possa anche solo rendertene conto, e non posso… - si interrompe per un paio di secondi, osservando Bill stringersi nelle spalle così tanto da apparire improvvisamente minuscolo, molto più piccolo di quanto già usualmente non sia. – Non posso mettermi a giocare con te, non è così che mi comporto. Quello che volevi stanotte, io non posso dartelo. Non per poi uscire e lasciarti qui da solo. Capisci cosa intendo?
Bill mantiene lo sguardo basso, i capelli scuri fradici che scivolano a coprirgli il volto quasi nella sua interezza. Bushido non riesce a scorgere la sua espressione, ma la voce con cui parla, pochi secondi dopo, è sufficiente a dargliene un’idea più che precisa.
- Scopare o meno, a questo punto, non conta più un cazzo. – risponde, chiudendo di scatto il rubinetto ed afferrando l’asciugamano alle sue spalle, - Il danno ormai l’hai fatto comunque.
È sparito il secondo dopo, correndo sul pavimento bagnato, coperto a malapena dall’asciugamano avvolto attorno al corpo magro. Bushido lo osserva andare via sentendosi inspiegabilmente colpevole e stupido. Specie visto che tutto quello che riesce a pensare è che spera che, correndo a quel modo, non scivoli e non si faccia male da qualche parte.

*

Sido ci mette altri quattro giorni ad uscire dalla buca, e Bushido sa che non è certo per ciò che ha fatto che è stato rinchiuso là dentro così a lungo, quanto più per ciò che non ha detto. Se pensa a Jost e a quanti esaurimenti nervosi deve avere affrontato nel corso delle ultime settimane perché, ogni volta che scendeva in buca a chiedere a Sido una confessione, quello rispondeva sempre con un’alzata di spalle, gli viene da sorridere, e quasi la parte più cattiva di lui vorrebbe tirare a Sido una bella pacca sulla spalla e tornare amici come prima, anche se, applicata a loro, l’espressione perde di senso, dal momento che né quando stavano entrambi fuori, né da quando stanno entrambi dentro, si sono mai potuti chiamare amici.
In ogni caso, si tratta solo di una piccola parte di lui a desiderarlo, forse anche per quieto vivere, ma fortunatamente quella non è una voce alla quale Bushido si senta particolarmente incline a rispondere. Non adesso, forse mai.
Vederselo apparire di fronte in magazzino mentre fa la cernita della roba da mangiare e cerca di capire dove siano finiti i dieci barattoli di fagioli che mancano all’appello non lo aiuta ad essere condiscendente nei suoi confronti.
- Sido. – lo saluta con l’aria di uno che preferirebbe di gran lunga prenderlo a calci nelle palle, piuttosto che doverlo salutare, ma che comunque si piega a farlo per buona educazione, - Vedo che non sei neanche passato dal bagno, prima di venire a trovarmi. – osserva, accennando col capo alla barba che gli ricopre le guance e il mento, - Potevi quantomeno raderti, prima.
- Avevo fretta di venire a salutarti. – risponde Sido con un sorriso, gli occhi che lo scrutano febbrilmente, con tanto palese astio da poter fare quasi paura, se non fosse che Bushido sa di essere perfettamente in grado di gestire quest’uomo anche al suo peggio. – E poi, sai, dopo che passi in buca tanti di quei giorni da perderne il conto, l’ultima cosa che vuoi è tornare in cella. Preferisci gli ampi spazi, non so se rendo. La mensa è uno spazio molto ampio, e guarda caso volevo scambiare due parole con te, per cui ho pensato di prendere due piccioni con una fava. Ed eccomi qua.
- Bene. – risponde immediatamente lui, dando chiaramente segno di averlo a malapena ascoltato, - Ora che tutta questa montagna di cose di cui non m’interessa niente è finalmente uscita dalla tua bocca, e tu ti sei liberato di questo peso, che ne dici di tornartene in un luogo in cui puoi effettivamente stare e lasciarmi in pace, di modo che possa finire di lavorare?
Sido ghigna divertito, quasi compiaciuto dalla sua durezza.
- Non ti ruberò molto tempo. – lo rassicura, spostando il peso del corpo da un piede all’altro e muovendo qualche passo all’interno dell’ampio magazzino sul retro della mensa, sfiorando i vari barattoli e le varie lattine riposte sugli scaffali più per darsi un tono che perché gli interessi davvero cosa si trova lì. – Volevo solo ringraziarti per lo scherzetto che mi hai tirato. Mi ha fatto capire molte cose. È stato un bell’insegnamento.
- Ne sono lieto. – risponde Bushido con un sorriso smagliante, segnando sul bloc notes che porta con sé che all’appello mancano anche due interi sacchi di patate. Sarà esilarante andare da Jost a fare l’elenco degli assenti e poi osservarlo sclerare come un invasato per l’ennesimo furto di vettovaglie destinato a restare senza un colpevole. – Spero che non ti verrà più in mente di organizzare qualche altra stronzata delle tue. Hai visto che posso fermarti quando voglio, come voglio, e anche facendola franca. Cosa che di certo non rientra invece nelle tue competenze.
Il sorriso di Sido si allarga, mentre lui annuisce con sussiego.
- Hai ragione. – ammette, - Infatti, sai qual è la cosa più importante che questo sfortunato episodio mi ha fatto capire? – chiede retorico, appendendo entrambe le mani ai fianchi. Bushido si volta a guardarlo, aggrottando le sopracciglia, e Sido sorride ancora. – Mi ha fatto capire che tu la fai sempre franca, - prosegue, - e che questo gioca a mio favore. Sai perché, Bushido? Perché tu uscirai da questo posto. Presto, molto presto, il tuo culo nero sarà fuori da questa prigione, e per quanto solo Dio sappia quanto mi faccia incazzare la sola idea di te in libertà mentre io resto qui a marcire, non averti più fra le palle potrà portare solo benefici a me, ed a tutto quello che intendo fare una volta che a governare qui dentro sarò rimasto solo io.
Il tono di Sido si è fatto via via più serio man mano che il suo monologo proseguiva, ed in accordo con le parole che sentiva anche l’espressione di Bushido si è rabbuiata ed irrigidita sempre più. Le sue labbra sono ridotte ad una linea sottilissima, e i suoi occhi non sono che due macchie scurissime all’interno delle quali si agitano rabbia, irritazione e fastidio, e vedere il sorriso di Sido farsi sempre più ilare e compiaciuto con ogni secondo che passa non riesce a fare altro che indisporlo ancora di più.
- Sido, attento a te. – lo minaccia in un ringhio di gola, - Se ti azzardi a combinare qualcosa—
- Oh, ma non devi preoccuparti. – lo interrompe lui con una risata frivola, agitando una mano a mezz’aria come a scacciare via anche solo l’idea di poter complottare qualcosa mentre lui è ancora dentro, - Le settimane che ho passato in buca mi hanno insegnato il valore della pazienza. Saprò attendere, - precisa con un altro sorriso, più pericoloso degli altri, - e quando sarai fuori, Bushido, niente potrà più fermarmi. E quel tuo ragazzino, visto che ci tieni tanto, sarà il primo a pagarne le conseguenze.
Bushido si ferma, il sangue di ghiaccio nelle vene.
- Non ti permettere. – sibila. Sido sorride ancora.
- Ti lascio al tuo lavoro, Bushido. – conclude con un breve cenno del capo, prima di voltargli le spalle con la sicurezza di chi sa di non rischiare niente. – Buona giornata.

*

Bushido ha passato così tanto tempo in attesa di questa udienza che quando arriva, nemmeno riesce a crederci. E' come aver aspettato per anni qualcosa che, in fondo in fondo, non credeva si sarebbe mai davvero realizzata – anche se faceva di tutto per convincersi del contrario – e vedersela poi succedere davanti agli occhi di punto in bianco.
Tutto ciò che ha fatto in questi ultimi anni, e soprattutto in questi ultimi mesi, è stato in funzione del momento in cui si recherà in quell'aula di tribunale e ascolterà la volontà del giudice, ma è sempre stato un evento ancora lontano, vago, del tutto irreale, esattamente come la fine della condanna per qualunque carcerato che non abbia preso l'ergastolo. Tutti sanno che prima o poi usciranno; ma quel poi appare sempre un giorno troppo lontano per vederne l'alba.
Per questo Bushido è nervoso mentre si sistema la cravatta di fronte allo specchio nella sua cella; la tensione non lo ha fatto dormire e, nonostante la voglia che ha di lasciare questo buco di merda, era quasi meglio l'attesa infinita di un giorno ancora da definire che non quella ben calcolata delle ore e dei minuti precisi che lo separano da quell'aula di tribunale.
Bill è seduto sul suo letto, ma si finge estremamente interessato al libro che ha per le mani. Non gli parla da giorni – cioè dalla storia delle docce – ma Bushido al momento non ha il cervello abbastanza sgombro per potergli prestare attenzione. Non appena questa faccenda sarà sistemata, quando tornerà a prendere le sue cose prima di andarsene, gli parlerà di nuovo e cercherà di farsi odiare un po' di meno; anche perché di più gli sembra impossibile, a giudicare dal foro che Bill gli sta facendo dietro la testa quando lo guarda mentre crede di non essere visto.
Non riesce a tenere le mani lontane dalla cravatta, forse perché si sente strangolare e, per quanto la sposti e la muova e la snodi per riannodarla subito dopo, quella sembra sempre storta. Mentre se la fa passare di nuovo intorno al collo, ripassa mentalmente il percorso che dovrà fare. Jost è venuto personalmente ad informarlo in cella ieri sera. Ha detto che lo accompagnerà all'udienza e Bushido è contento di questo. Sa che ci saranno un sacco di stronzi in quell'aula e vuole averne almeno uno dalla sua parte.
La cella si fa improvvisamente più buia quando la figura massiccia di Fler si ferma sulla porta, occupandone praticamente tutta la superficie.
Bushido si volta e lo osserva, senza lasciar trasparire nessuna emozione. “Che cosa vuoi?” Chiede.
Bill solleva lo sguardo dal libro e li scruta entrambi con attenzione, facendosi istintivamente più piccolo nel tentativo di rendersi invisibile; d'altronde lo sa che la tensione che adesso rende elettrica l'aria l'ha generata lui e vorrebbe poter scomparire perché si sente pesare addosso la responsabilità.
“Devo parlarti,” mormora Fler, che sostiene il suo sguardo ma senza sfidarlo. La sua è un'occhiata coraggiosa ma piena di umiltà. Bill trova incredibile come sia chiaro e lampante che si sta scusando anche senza dire nemmeno una parola.
Bushido gli fa un cenno col mento.
Fler scuote la testa. “In privato,” precisa, indicando Bill con un movimento degli occhi che vorrebbe essere impercettibile ma non sfugge al ragazzino, il quale apre subito la bocca per parlare e viene puntualmente interrotto da Bushido che lo aveva già previsto.
“Bill, lasciaci da soli qualche minuto, per favore.”
“Questa è anche la mia cella,” gli fa notare lui.
Bushido nemmeno lo guarda. “Sono sicuro che puoi continuare a fare finta di leggere anche nel corridoio.”
Oltraggiato, Bill rimane letteralmente a bocca aperta per qualche secondo, forse in attesa di ipotetiche scuse che per nessun motivo potrebbero mai uscire dalla bocca del tunisino e, quando finalmente si rende conto che quei due – che stanno immobili a fissarsi – aspettano solo che lui se ne vada, sbuffa violentemente, afferra in malo modo il suo libro e quindi si piazza di fronte a Fler con aria imbronciata finché quello non si sposta e lo lascia passare.
Bushido lo osserva finché non lo vede sedersi per terra a gambe incrociate più avanti, nel corridoio, prima di invitare Fler all'interno. “Non ho molto tempo, quindi vediamo di farla breve,” commenta. “Tu non dovresti nemmeno essere qui.”
“Lo so, ma è una cosa importante e pensavo volessi saperla.”
Bushido allarga le braccia, invitandolo a proseguire.
Fler si guarda intorno, ma nelle vicinanze non c'è nessuno perché, quando alla mattina le porte si aprono, nessuno vuole rimanere in cella, così durante il giorno quasi tutti i carcerati sono in sala comune o in palestra e questo lascia a loro un po' di privacy. “Corre voce che Sido abbia in mente qualcosa per quando sarai all'udienza.”
“Sido si è premurato di venirmelo a dire di persona,” gli fa presente Bushido. “Ma stava solo facendo promesse che non può mantenere, come al solito, visto che non può fare nient'altro.”
Fler scuote la testa. “Stavolta no. Girano soldi. Qualcuno è stato pagato.”
Bushido torna subito serio e lo guarda, corrugando la fronte preoccupato. “Chi?”
“Non lo so, sto ancora cercando di scoprirlo,” risponde Fler. “La cosa certa è che si tratta di una cazzo di cifra enorme. Potrebbe essere per una persona sola, molto probabilmente per un gruppo, in ogni caso Sido si sta organizzando per quando sarai uscito di qui.”
Bushido rimane impassibile e solo la tensione dei suoi lineamenti lascia trasparire la rabbia che gli si agita nello stomaco. Le minacce a vuoto di Sido non le preoccupavano, ma i soldi sono tutt'altra storia. Da qualche parte, in quella prigione, c'è un uomo o un gruppo di uomini che hanno ricevuto del denaro e che devono tenere fede a quel pagamento. C'è un intero ingranaggio che si è messo in moto e va fermato.
Bushido si riscuote quando vede David, vestito di tutto punto imboccare il corridoio che porta alla cella. Il direttore si ferma a chiedere a Bill che diavolo ci fa buttato per terra come un barbone e il ragazzino risponde qualcosa di infastidito, agitando le mani. “Dovete scoprire di chi si tratta,” dice Bushido. “Uno, due, dieci uomini, non m'interessa. Trovateli e teneteli d'occhio, dovete essere pronti se e quando attaccheranno.”
Fler gli lancia un'occhiata a metà tra l'incredulità e la sorpresa e Bushido gli sorride quasi con tenerezza, anche se sul suo volto c'è anche quell'espressione preoccupata. “Di' pure ai ragazzi che ti mando io e se qualcuno ha da ridire, ci penserò appena torno dall'udienza,” commenta, abbracciandolo stretto e dandogli due pacche di bentornato sulle spalle.
“Non ti preoccupare, Losensky. Te lo porto via solo per qualche ora,” esclama la voce divertita di Jost, costringendoli a separarsi. “Cos'è, non vi parlate per settimane e ora fate la tragedia greca?”
“La nostalgia è una brutta bestia,” Bushido ride, dissolvendo l'aria cupa nella cella e Fler gli regge il gioco, scoppiando in una risata piena e cristallina che lascia basito soprattutto Bill, che è rientrato approfittando della presenza di Jost e si è rintanato di nuovo nel suo letto.
“Ragazzino, fai il bravo,” lo apostrofa Bushido. Bill vorrebbe replicare qualcosa di acido ma quello che legge negli occhi di Bushido lo fa rabbrividire. Si scolla dal letto per seguirlo fino all'entrata della cella, dove Jost gli sta facendo mettere le manette per portarlo via e lo fissa sperando che dica qualcosa di più, che lo rassicuri su ciò che gli è sembrato di scorgere in quell'occhiata, ma Bushido sta zitto.
Quando Jost gli chiede se è pronto, annuisce e basta.
Poi si incammina senza voltarsi più.

*

L'aula per le udienze si trova all'interno della prigione e, nonostante il nome, è appena poco più grande di uno stanzino. Quasi accostato alla parete più lontana dalla porta c'è un lungo tavolo di metallo che ospita le persone incaricate di sfogliare la sua documentazione e giudicare se sia pronto o meno ad uscire da quel carcere. David ha una sedia proprio accanto alla sua e a quella del suo avvocato. Nella stanza c'è un tale silenzio che anche il minimo spostamento produce un suono violento che rimbomba fino al soffitto e sbatte contro le tre piccole finestre rettangolari, di quelle che si aprono grazie ad un lungo bastone che arriva fino a terra. L'aria è fredda e pesante e gli occhi del giudice sono disinteressati, lontani, vedono già il campo da golf sul quale si recherà dopo aver deciso dei prossimi vent'anni della sua vita.
O almeno questo è quello che Bushido si immagina sarebbe successo se l'udienza avesse effettivamente avuto luogo, ma lui nell'aula nemmeno ci entra.
David lo accompagna fino alla porta e poi lo lascia seduto su una panca, appena fuori dall'aula, gli dice di aspettare e lo affida ad una guardia con le mani incrociate dietro la schiena, che non avrà più di vent'anni e da lì ad un paio d'ore sarà distesa per terra col naso rotto.
Il tempo scorre lento, soprattutto perché Bushido non stacca gli occhi dal quadrante dell'orologio; le lancette fanno fatica a muoversi, ogni scatto è faticoso. I secondi passano come minuti, i minuti come ore e, se qualche ora è passata, Bushido potrebbe giurare che sia stata una vita intera.
Quando Fler si presenta all'improvviso è sconvolto e ha il fiatone. Bushido si alza in piedi, risvegliando la guardia dal proprio torpore ma ne ignora i richiami mentre cerca sul viso di Fler una spiegazione alla sua presenza e all'agitazione che gli fa tremare le mani, nel caso non faccia in tempo a dargliela a voce.
Fler però sa come vanno queste cose, così gli frana addosso e gli artiglia la bella camicia elegante per rimanergli attaccato e darsi il tempo di sussurrargli all'orecchio che li hanno trovati e che la morte che aspetta il ragazzino non è né pietosa né veloce.
La guardia riesce ad agganciare Fler sotto le braccia e a strapparlo via da Bushido che per un istante resta immobile a fissare il vuoto, mentre le parole dell'amico si ripetono all'infinito nella sua testa.
Fler lo guarda mentre la guardia lo tiene fermo e inchiodato al muro, urlando ai suoi compagni di venire a dargli una mano.
L'aula per le udienze è a pochi passi da lì e Jost è lì dentro ormai da così tanto tempo che non può mancare molto al momento in cui lo chiamerà. Potrebbe davvero uscire di lì e – se è abbastanza furbo – non tornarci mai più, prendere sua madre e sparire per sempre.
Invece solleva i polsi ammanettati, chiude le mani a pugno e colpisce la guardia sulla nuca. Quella barcolla un attimo, si gira farfugliando impaurito nella radio e cercando a tentoni il manganello che gli pende dalla cintura. Bushido lo colpisce ancora e ancora, finché non cade a terra.
Fa un cenno a Fler che si dilegua prima che possano fermarlo e va ad avvertire la prigione che Bushido non se ne va. Quando Jost accorre al trambusto, Bushido è chino sul ragazzo a cui ha spaccato il naso, ma non resta fermo. Si avventa anche sulle guardie che sono appena arrivate in soccorso della prima, comincia a tirare pugni alla cieca finché in tre non lo bloccano e una manganellata sui denti non riduce al silenzio il suo ringhio furioso.
“Portatelo in buca,” ordina Jost alla fine, perché non può fare proprio nient'altro.
Quando i loro sguardi s'incontrano, sono in due a chiedersi se ne sia valsa la pena.

*

La notte passa lenta, esasperante. Seduto in un angolo, la schiena nuda contro la parete e l’umidità pesante dei sotterranei ad appesantirgli il respiro, Bushido guarda il soffitto, lo guarda ossessivamente, per ore, e cerca nelle variopinte chiazze di muffa che lo ricoprono un senso a quello che ha fatto, all’opportunità che ha mandato a puttane. Non sa se gli ricapiterà ancora di poter fronteggiare la reale occasione di uscire da quel buco di merda, ma il punto non è nemmeno più tanto quello. È diverso, ed è molto più spaventoso, e somiglia in maniera inquietante ad una domanda che Bushido non ha quasi nemmeno il coraggio di porsi. Ma è lì, riecheggia nel retro della sua mente, minacciosa e sospesa, come un fantasma, e per questo molto più difficile da ignorare di un qualsiasi altro fugace pensiero.
Se anche dovesse ripresentarsi l’occasione di uscire, fra sei mesi o un anno o due, uscirei? Oppure basterebbe sapere Bill in pericolo per rinunciare alla possibilità volta dopo volta dopo volta?
Jost arriva presto, l’indomani mattina. Bushido non sa se sia perché aveva fretta di chiudere la questione – forse l’agente s’è fatto più male di quanto Bushido non avesse previsto, forse ci sono state delle complicazioni, forse forse forse, non è che gli interessi più di tanto, in ogni caso, ed è agghiacciante pensarlo perché, quando ancora sperava di poter rivedere la luce del sole da uomo libero o quasi tale, di questi dettagli gli interessava sempre moltissimo, mentre adesso non sono che nebbia, confusi sullo sfondo, particolari insignificanti – o semplicemente perché vuole vederci più chiaro in prima persona, ma non perde tempo ad entrare e fare cenno all’agente di restare fuori dalla porta blindata.
- Che cazzo hai fatto e perché. – dice, restando in piedi accanto a lui. Non è nemmeno una domanda.
Bushido non ha motivo di nascondere niente.
- Sido ha minacciato l’incolumità di Bill. – risponde guardando fisso davanti a sé, - Se fossi uscito, avrei perso il controllo di tutto, qua dentro, e lui sarebbe finito male. – trattiene per un attimo il fiato, realizzando che tutte le risposte alle domande che si è posto sono racchiuse nella manciata di parole che sta per pronunciare. – Non potevo permetterlo.
Jost ci mette un po’ a capire cosa ciò che Bushido ha appena detto significhi, ma poi annuisce.
- Doveva essere il tuo lasciapassare per uscire, - commenta con un mezzo ghigno disilluso, - non il motivo per cui non avresti più voluto farlo.
Bushido scrolla le spalle, alzandosi in piedi. Si volta a guardarlo, e il direttore gli porge i suoi abiti.
- Cosa vuoi che ti dica, Jost? – scrolla le spalle, cominciando a rivestirsi, - Quel che è fatto è fatto. Ora voglio solo tornarmene in cella e smettere di pensare a quello che… - sospira, distogliendo lo sguardo. È la prima volta che David glielo vede fare. – A tutto. – conclude con un’altra scrollata di spalle, indossando anche la maglietta e poi tornando a guardarlo. – Posso andare?
Jost sospira, ma annuisce e si volta verso la porta, facendo segno alla guardia di aprire tramite il vetro che rende possibile spiare all’interno della cella.
Due agenti di custodia lo scortano fino al cancello d’ingresso del braccio A, e lì lo lasciano senza una parola. Lo guardano con odio per tutto il tempo – Bushido le conosce, le guardie carcerarie, sa che gli porteranno rancore per sempre per avere osato spaccare il naso ad un loro compagno, ma sa anche di essere abbastanza fortunato da non essere un bersaglio semplice per nessuna delle loro vendette; Bill, a suo tempo, non è stato altrettanto fortunato, e forse anche questo ha inciso sulla sua ultima decisione – ma si limitano a questo, allontanandosi in una sinfonia di borbottii sussurrati a mezza voce e niente più.
Bushido si avvicina alla propria cella, naturalmente già aperta, visto l’orario, e non ha bisogno di guardarsi troppo a lungo intorno per accorgersi di Bill, anche perché lui, quando lo vede arrivare, da seduto sul letto com’era scatta in piedi, le braccia rigide lungo i fianchi, le gambe dritte come fusi, la schiena quasi bloccata dalla tensione, così come i lineamenti del volto pietrificati in un’espressione ansiosa e perfino un po’ impaurita.
- Chakuza mi ha detto… - comincia incerto, - mi ha spiegato. Tutta la situazione. Quello che… - esita appena, mordendosi il labbro inferiore, gli occhi che vagano svelti intorno alla figura di Bushido come non riuscisse a inquadrarla correttamente, o come se si sentisse troppo in imbarazzo per farlo, - Quello che sarebbe potuto succedere. E il fatto che hai deciso di rimanere.
Bushido annuisce, distogliendo a propria volta lo sguardo. Si sente stupido, ma si sente perfino più stupido quando capisce che in realtà si sente così solo perché anche lui è in imbarazzo, proprio come il ragazzino che ha di fronte. Solo che il ragazzino è un ragazzino. È giustificato. Per lui non si può dire lo stesso.
- Stai bene? – gli domanda, - Non è successo niente?
- Niente. – risponde subito Bill, scuotendo il capo, per rassicurarlo. I capelli scuri, morbidi e setosi, ancora freschi di shampoo, gli scivolano lungo le spalle, e Bushido sente il bisogno di concedersi un atto tenero, ed accarezzarli. È il primo atto tenero che si concede da anni. È come sentirsi sciogliere sul cuore un grumo di lava. Brucia da impazzire.
- Bene. – commenta con un mezzo sorriso, - Sarebbe stato deludente se avessi mandato tutto a puttane e fossi tornato fin qui solo per trovarti ridotto ad un mucchietto d’ossa in frantumi in un angolo. No?
Bill si irrigidisce ancora una volta, le labbra strette in una linea sottilissima.
- Mi dispiace. – mugola piano, - Ma grazie.
Bushido si concede un altro mezzo sorriso, e vorrebbe replicare qualcosa di sarcastico, qualcosa che possa sollevare almeno in parte il velo di sacralità che è piombato loro addosso da quando lui è tornato in cella, ma Bill non gli dà il tempo di farlo. Si sporge in avanti ed approfitta delle sue labbra dischiuse per baciarlo piano, lentamente ma profondamente, stringendo le dita sottili attorno al tessuto della sua maglietta e tirando appena per stringerselo al petto.
Bushido posa le proprie mani sulle sue. Sono grandi il doppio, le coprono interamente. Ricambia il bacio con un abbandono al quale non si lascia andare da più tempo di quanto non riesca a ricordare, e si separa da lui con uno schiocco soffice e discreto solo quando sente il bacio concludersi naturalmente, di sua iniziativa.
Bill, così vicino da potergli leggere negli occhi qualsiasi cosa, lo guarda intensamente. Si sta già fidando di lui al punto da rimettere la propria vita nelle sue mani.
Bushido accetta la responsabilità. E stavolta è una sua scelta.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Genere: Comico.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Lime, Crack.
- "Tu non puoi deliberatamente fingere di essere una persona normale quando poi sei pazzo, specie se sei pazzo come Chakuza, che è pazzo di una pazzia che può essere pericolosa per lui stesso e per chi gli sta intorno, anche."
Note: Scritta nel corso della Notte Bianca #4, nell'ambito dell'iniziativa speciale Trick or Treat?, su prompt una mantide religiosa & nella vecchia cameretta, ed è l'idiozia. I mean, really.
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LA MANTIDE

Chakuza è austriaco. Questo non sarebbe oggettivamente un problema – quanta gente nel mondo è austriaca? Tutta quella che viene dall’Austria. È un sacco di gente – se non fosse che Chakuza è anche pazzo. Completamente pazzo.
Io non lo sapevo, che lui era pazzo, quando sono entrato in casa di Bushido per la prima volta dopo anni di litigate da bambini di dodici anni, e ad attendermi c’era un comitato di benvenuto che neanche fossi tornato dalla guerra dopo essere stato dato per disperso. Non lo sapevo, lui sembrava normale, abbiamo parlato del più e del meno, voglio dire, è stata pubblicità ingannevole. Tu non puoi deliberatamente fingere di essere una persona normale quando poi sei pazzo, specie se sei pazzo come Chakuza, che è pazzo di una pazzia che può essere pericolosa per lui stesso e per chi gli sta intorno, anche.
E invece niente, lui ha finto e io ci sono cascato con tutte le scarpe, come il cretino che sono. Finisce sempre così, peraltro, fra me e tutti gli uomini della mia vita. Cosa pensate che abbia dovuto fare Bushido per riprendermi a sé e mettermi a sedere alla sua destra? Niente, appunto. Gli è bastato sorridere tranquillo e sereno e dirmi “ricominciamo insieme, Pat”, e io il minuto dopo avevo detto ciao a Sido e già mi muovevo verso la macchina con le valigie in mano.
Chakuza pure, non ha dovuto fare niente di che. Ha insistito per riaccompagnarmi a casa (mostrando peraltro segni di insanità che avrei dovuto cogliere, e invece niente: se sono venuto con la mia macchina, che senso ha accompagnarmi a casa, peraltro sempre con la mia? È palese che poi dovrai fermarti per la notte! È ovvio, non è che… aspetta. Ma l’ha fatto apposta! Sono scioccato) e poi mi ha chiesto “senti, non è che posso salire un secondo? Ho sete”, e dieci minuti dopo eccoci lì che limoniamo felici contro lo sportello del frigorifero, peraltro col bicchiere d’acqua ancora in mano.
Cosa c’entra questo con l’Austria? Naturalmente niente. Questo era per spiegare la pazzia di Chakuza. Poi il fatto che sia austriaco è l’aggravante. Seguitemi: se sei pazzo e ti viene in mente di portare il tuo ragazzo a casa tua perché vuoi scopare nel lettino posto nella vecchia cameretta che usavi da bambino, nella casa dei tuoi avi, va anche bene, se sei tedesco e vivi in Germania e hai sempre vissuto in Germania. O anche se sei austriaco, penso adesso, e vivi in Austria e hai sempre vissuto in Austria. Ma Chakuza no. Chakuza è austriaco, ma ora vive in Germania. E vive in Germania da anni, oltretutto. Ma è pazzo. Per cui, gli è venuta voglia di scopare me, il suo ragazzo, appunto, nel lettino posto nella vecchia cameretta che usava da bambino nella casa dei suoi avi, e ciò ha comportato un viaggio in macchina di ore, il doversi inerpicare fra le montagne di Heidi, calciando via le moleste caprette di Heidi lungo il sentiero, peraltro, fino a giungere sulla cima di un monte non innevato ma comunque fottutamente gelido, di fronte a una catapecchia palesemente abbandonata da trent’anni, che Chakuza si è premurato di presentarmi come “casa sua”.
“Casa tua anche il cazzo,” ho detto io, ma lui ha riso, ignorando la mia protesta e trascinandomi all’interno della casupola pericolante. “Chakuza,” ho proseguito io, “questa casa è abbandonata,” ho detto, sperando che l’ovvietà fosse talmente palese da mandargli in corto circuito il cervello e costringerlo a riavviarsi, e tornare magari una persona normale.
“Certo che è abbandonata,” mi ha liquidato lui. E non ha aggiunto nient’altro, capite? Cioè, per lui guardarmi negli occhi e dirmi “ma certo che è abbandonata, Fler, ma cosa diamine ti aspettavi, buon Dio?” è sufficiente, non so se rendo. Il livello di follia al quale siamo giunti.
Insomma, mi ha trascinato dentro e mi ha condotto per un breve tour all’interno delle quattro stanze in croce che compongono l’abitazione, tutte messe una peggio dell’altra, e poi mi ha portato in camera sua, che manco a dirlo era la peggiore del gruppo.
“Vedo che il tempo non ha avuto pietà,” ho commentato io. E lui, pacifico, “Ma no, non è cambiata granché.” Cioè.
Insomma, com’è, come non è, ci ritroviamo tutti stretti nel suo lettino d’infanzia, che già è una cosa difficile, perché lui è l’ottavo nano e suppongo che da piccolo fosse veramente una roba ridicola, per cui questo letto è di dimensioni surreali, nel senso che già non ci entra lui, figuriamoci se posso mai entrarci io che una mia gamba praticamente da sola corrisponde all’altezza di Chakuza dal suo piede al suo collo. Eppure, nonostante tutte le difficoltà, mi faccio prendere bene, perché ve l’ho detto, sono piuttosto facile in quel senso, e quindi sono qui che mi faccio limonare con estremo piacere anche se il lettino scricchiola e trema pericolosamente sotto di noi, quando a un certo punto apro gli occhi e sulla pelata del Chaku, proprio lì dove la rotondità liscia e lucida e riflettente della sua testa diventa quella un po’ più grinzosa della fronte, c’è una fottuta mantide religiosa. Che mi guarda.
Afferro il Chaku e lo scaravento dall’altro lato della stanza.
“Fler!” strilla lui, sconcertato, cercando di riprendere conoscenza dopo il volo e il trauma cranico che sicuramente si sarebbe procurato se la sua testa, nuda da quando aveva suppongo vent’anni, non sia stata temprata dal tempo fino a diventare praticamente indistruttibile, “Ma che cazzo ti è preso?!”
“Un mostro!” strillo io, indicando la mantide che peraltro è ancora placidissima lì dov’era quando l’ho vista, perché lei del volo non ha risentito affatto, “Ecco cosa mi è preso! C’è un cazzo di mostro sulla tua testa!”
Chakuza sbatte le palpebre un paio di volte e poi si alza in piedi. Con passo flemmatico raggiunge lo specchio rotto che pende storto dalla parete di fronte al letto, e si guarda riflesso dieci volte in ogni singolo frammento. Poi, semplicemente, solleva una mano e recupera la mantide, togliendosela dalla testa ed osservandola attentamente mentre quella si sistema tranquillissima sul palmo della sua mano.
“Ma dai,” dice con tono perfino canzonatorio, “è solo una mantide. È innocua.”
“Le mantidi sono pericolose!” strillo io, anche se non so se le mantidi siano davvero pericolose. Forse sono velenose. Perché non dovrebbero esserlo, d’altronde? Hanno la faccia di insetti velenosi.
“Solo se sei una mantide maschio,” scrolla le spalle lui, avvicinandosi alla finestra priva di telaio e, ovviamente, anche di vetri, ma il cui foro è coperto da una graziosa tendina a stampa floreale, tutta sbrindellata. La scosta e lancia l’insetto di fuori, ma con delicatezza, sia mai essere crudele con qualche innocente ed indifeso esserino figlio di Madre Natura. Ma non sono forse innocente ed indifeso ed anche figlio di Madre Natura pure io? E allora perché io posso essere maltrattato? “Possiamo riprendere dove ci eravamo interrotti?” mi sento chiedere, e quando apro gli occhi vedo che il Chaku ha avuto il tempo di richiudere la tendina ed avvicinarmisi, mentre io mi lamentavo delle mie sfortune fra me e me.
Io sospiro – che altro posso fare? – ed annuisco. Poi lui mi distende sul lettino e comincia a togliermi i vestiti di dosso, e io diciamo che, anche se fossimo circondati da stercorari che danzano in tondo portandosi dietro palle di cacca di svariate dimensioni, non me ne accorgerei neanche se cominciassero a lanciarmele contro. Per cui figurarsi se posso accorgermi della fottuta mantide religiosa che a un certo punto mi ritrovo davanti agli occhi quando, dopo aver consumato, mentre mi concedo un paio di minuti di riposo sullo scomodo lettino di Chakuza, faccio tanto di sollevare lo sguardo.
Lancio uno strillo la cui eco si perde fra le montagne circostanti, e quando Chakuza si mette a ridere e recupera la mantide, probabilmente per accompagnarla verso la stessa uscita attraverso la quale è andata già via la sua amichetta di poco fa, io decido che in realtà una soluzione a tutti i miei problemi esiste, ero solo troppo cieco per vederla.
Quando Chakuza si avvicina alla finestra con la mantide in mano, e scosta le tende, io prendo in braccio lui. E fuori dalla finestra ci finiscono entrambi. Problema risolto.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Drammatico, Romantico.
Pairing: Bill/Chakuza, Bill/Bushido, Fler/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- "Bill mi guarda fisso, i suoi occhi brillano. Cova una rabbia che lo scuote tutto, il suo corpo è così sottile che trema sotto le ondate di livore che gli arrossano le guance. So che in questo momento potrebbe uccidermi, se solo avesse l’arma con cui farlo."
Note: Ed eccoci qui col nuovo episodio di SE \o/ Teoricamente doveva andare su tipo una settimana fa, solo che poi m'è passato di mente, la Tab è partita con le altre per andare a vedere il concerto del Bu a Berlino (ç_ç) e fra una cosa e l'altra ho preferito postare adesso. Attenzione al cuore, mentre leggete.
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I CAN’T HURT YOU ANYMORE

Bill mi guarda fisso, i suoi occhi brillano. Cova una rabbia che lo scuote tutto, il suo corpo è così sottile che trema sotto le ondate di livore che gli arrossano le guance. So che in questo momento potrebbe uccidermi, se solo avesse l’arma con cui farlo. I capelli scompigliati gli ricadono lungo il collo, il suo respiro è pesante e mi sfiora il viso in carezze quasi violente mentre lo schiaccio contro il muro, un avambraccio pressato sopra il collo e una mano a stringerlo con forza alla spalla. Mi guarda come se lo stessi torturando, come se il mio comportamento fino ad ora fosse stato quello di un despota, e lui stesse affrontando il martirio con orgoglio, coraggio e fierezza, e mentre presso il mio avambraccio con più forza contro la sua gola, mozzandogli il respiro e osservandogli inghiottire la preghiera di lasciarlo andare che è tanto forte da non lasciarsi sfuggire neanche per una sillaba, cerco di ricordargli che qui non ci sono vittime né carnefici, che ciò che ha fatto è sbagliato e che dovrebbe tornarsene a casa.
E poi lo bacio.
*
Il mio risveglio, stamattina, non sembrava preannunciare niente di speciale, figurarsi qualcosa di disastroso come Bill che irrompe nel mio ufficio rovesciando il mondo come ormai ha imparato a fare – e se sa farlo bene, pochi cazzi, è colpa mia, che nel ribaltamento dei mondi altrui sono un campione – costringendomi prima a schienarlo contro un muro, poi a tentare di soffocarlo, quindi a baciarlo sa Dio perché.
Stamattina mi sono svegliato col russare debole e regolare di Pat piantato nelle orecchie, e all’improvviso mi sono sentito addosso dieci anni di meno, ed ho borbottato “Frank, siamo in ritardo”. Al che lui ha aperto un occhio e mi ha guardato come se non capisse un accidenti di ciò che stavo dicendo, giustamente, e a quel punto ho riso perché non so cosa avessi pensato di preciso ma era evidente che mi stavo riferendo a qualcosa successo uno sproposito di anni prima, probabilmente una delle mille volte che mi sono fermato a casa sua perché il giorno dopo dovevamo andare presto da qualche fornitore prima dell’apertura dei negozi – prima che Tempelhof, o almeno la parte onesta di Tempelhof, quella che non viveva di notte, cominciasse a risvegliarsi. Era una scusa che usavo spesso, “resto da te così domani facciamo prima e non devo passarti a prendere”, ma la verità era che intanto adoravo i bignè che sua madre faceva in casa, e poi adoravo anche passare la notte con lui davanti alla tv parlando di cose assurde e fumando uno spinello fino a stordirci al punto di dire e vedere cose veramente allucinanti, crollare addormentati esausti alle cinque del mattino e poi, naturalmente, svegliarci in ritardo. Il che mi riporta alla prima frase che ho detto stamattina, e che comunque, non so, non è una cosa che parla solo di ritardi a un appuntamento o cose simili che poi scompaiono nel giro di pochi giorni, quanto più una cosa generale. Io e Patrick siamo in ritardo, è vero. È verissimo.
- Anis, vaffanculo. – mi fa lui, e si rigira a pancia sotto mentre io non riesco a smettere di ridere, - Ma perché cazzo mi dovevi svegliare… e piantala di ridere! – sbotta, e mi tira un cuscino sulla faccia mentre contemporaneamente cerca di scalciarmi via dal letto e anche di nascondersi sotto due chilometri di lenzuola per cercare di tornare a dormire. Io però a quel punto ormai sono sveglio, quindi niente, mi avvicino e me lo stringo contro, un po’ anche per la questione del ritardo, appoggiandogli il mento su una spalla e sorridendogli contro una guancia. – ‘Cazzo fai? – mi chiede lui, che sta ancora palesemente dormendo, e io rido e lascio scivolare una mano lungo la sua schiena, sotto le lenzuola.
- Suono la sveglia. – dico con una risatina, accarezzandolo distrattamente fra le natiche, al che lui solleva la testa dal cuscino come se solo ora avesse cominciato a capire cosa stia esattamente succedendo, mi guarda con gli occhi enormi e poi mi scoppia a ridere in faccia.
- Ma vaccagare. – ride come un demente, e poi salta in piedi e, nudo com’è, che io mi preoccupo pure che Karima possa vederlo e non sarebbe il caso – non perché Karima non sappia, quanto più perché poi partirebbe con la millecentesima tirata sui costumi discinti di questa casa, cosa che decisamente mi rovinerebbe il risveglio – insomma, nudo com’è mi informa che va a preparare il caffè e mi lascia tutto il tempo di suonarmela da me, la sveglia. Voglio dire. Ma chi me l’ha fatto fare di tirarmi in casa quest’individuo – ripetute volte negli ultimi dieci anni, peraltro – io non lo so.
Comunque, mi sono messo in piedi, anche perché era evidente che, a meno che non volessi accoppiarmi coi cuscini o col materasso mentre coperte e pareti ci spiavano libidinosi, lì nel letto non c’era trippa per gatti, dal momento che tutta la trippa e anche tutti i gatti s’erano spostati in cucina per preparare la colazione. Sono rotolato giù dal materasso, mi sono infilato la prima cosa che ho trovato così da poter urlare “ma è Fler che va in giro nudo, io no!” se Karima si fosse improvvisamente palesata in cucina prima delle nove ed ho infilato il corridoio. Fler fischiettava maneggiando la moka con mani esperte, ed io ho sorriso.
- Perché tutta questa fretta? – ho chiesto, guardandomi intorno per assicurarmi che Karima non ci fosse ancora e poi appendendomi alle sue spalle e sfiorandogli il collo con la punta del naso.
- Io non ho nessuna fretta. – ha risposto lui, serafico, continuando a maneggiare la moka, - D’altronde, mia madre non mi aspetta prima di mezzogiorno. Sei tu che devi essere all’Ersguterjunge fra tipo dieci minuti.
- Che? – ho sbottato con una smorfia infastidita, subito mitigata dall’odore penetrante del caffè in polvere che si è diffuso nell’aria in cucina non appena Fler ne ha aperto il barattolo, - Non vieni con me?
- No, te l’ho detto ieri che sono a pranzo da mia madre. – ha sbuffato lui, roteando gli occhi ed accendendo il fornello sotto la caffettiera, - È una settimana che mi chiama ogni giorno chiedendomi quando vado a trovarla. Scommetto che mentre ne parlavo non mi hai sentito.
- Dipende. – ho mormorato abbattuto, tornando a nascondere il naso contro il suo collo, - Stavamo facendo qualcosa, mentre me ne parlavi?
- Guardavamo la tv, Anis. – ha ridacchiato lui, asciugandosi le mani umide contro un panno.
- E allora è ovvio che non ti stessi ascoltando, non ero abbastanza concentrato su di te! – ho ribattuto, spingendomi verso di lui, - Provi a ripetermi i concetti base adesso? – ho proposto speranzoso, ma lui ha riso e si è divincolato senza fatica dalla mia stretta, dirigendosi tranquillo verso il bagno.
- Vatti a fare una doccia. – mi ha suggerito, - E per punizione, vai in bagno al piano di sopra.
In quel momento, naturalmente, Karima è uscita dalla sua stanza, vestita di tutto punto e perfettamente in ordine, pronta a cominciare le grandi pulizie che ogni mattina organizza e che si protraggono puntualmente fino a sera, ed ha osservato – non senza un certo turbamento – il sedere di Fler mentre, ondeggiando tranquillo, spariva dietro la porta del bagno, proprio nel momento in cui lui, sereno come un bambino appena sveglio di domenica mattina, tirava su una mano e la salutava col più serafico dei “buona giornata, Karima”. Al che lei, naturalmente, sopraffatta dalla perfezione di Fler – che è l’unico essere umano che riesce a gestire pure le situazioni più improbabili senza mai andare in imbarazzo, che mi viene da ridere se solo provo a ricordarmi com’era quando aveva quattordici anni e si scioglieva andando nel panico ogni volta che lo guardavo – non poteva guardarlo con disapprovazione, anche perché si sarebbe trovata a guardare con disapprovazione una porta chiusa, e pertanto si è voltata a guardare me con l’occhio torvo presagio di sventura.
- Che c’è? – ho sbottato, mentre lei scendeva dal piano di sopra carica di disapprovazione e severità, - Sono vestito!
Naturalmente non ha attaccato.
- Il signor Losensky non lo era. – ha risposto lei, tetra, passandomi davanti senza guardarmi, come se non mi meritassi ulteriore attenzione da parte sua.
- Potresti anche cominciare a chiamarlo Patrick, immagino. – ho borbottato, mentre lei passava davanti ai fornelli, sbirciava il caffè già uscito nella moka e spegneva il fuoco.
- Il nostro grado d’intimità – ha detto, sollevando un singolo sopracciglio da madre puritana di svariati secoli fa, - non è ancora tale da giustificare simili prese di confidenza. Inoltre, vorrei ricordarle che non mi ha ancora comunicato quando il signor Losensky ha deciso di tornare a stabilirsi definitivamente nel proprio appartamento, signor Ferchichi.
Forse perché di buttarlo fuori non ho la minima intenzione, ho pensato io guardandola con l’occhio pallato.
- Be’, per ora è qui, comunque. – ho concluso, scrollando le spalle, - Quindi sii gentile con lui, ha avuto un’infanzia difficile.
- E non fatico a immaginare di chi possa essere la colpa. – ha commentato lei, versando il caffè in due tazzine e cominciando ad armeggiare in giro con l’obbiettivo di raccoglie latte e biscotti in quantità industriale nel minor tempo possibile e poi, probabilmente, iscriversi al Guinness dei primati.
- Che cosa vorresti dire, con questo? – ho sbottato io, incrociando le braccia sul petto e mettendo il broncio come quando avevo tredici anni, che peraltro è una cosa che Karima non può sapere perché quando avevo tredici anni ancora non la conoscevo. Ogni tanto ho l’impressione che, siccome mi ha conosciuto già adulto, abbia dimenticato che un tempo sono stato un bambino anch’io, e che posso ricadere in quello stato infantile quando voglio, peraltro. Altre volte, invece, mi sembra che, anche se mi ha conosciuto che ero già grande, in realtà non abbia poi fatto mai molto affidamento sulla mia maturità.
In ogni caso, non mi ha risposto – probabilmente perché non ero degno della sua voce come non lo ero stato dei suoi occhi poco prima – e quando Patrick è uscito dal bagno lavato e vestito di tutto punto e lui e Karima si sono messi a confabulare strigliandomi perché ero ancora in pigiama e ovviamente in ritardo ho sbuffato “d’accordo, d’accordo, datemi tregua tutti e due!” e sono fuggito al piano di sopra, grandemente deluso dai miei sudditi indisciplinati e colmo di disappunto per la mia regale autorità violata.
Solo che, quando mezz’ora dopo sono uscito di casa, nonostante il pensiero delle ore infinite di noia che mi attendevano all’Ersguterjunge, sorridevo come un cretino. E questo non posso proprio negarlo.
*
Per dire, ero così felice che neanche la vista dell’Ersguterjunge è riuscita a deprimermi. E dire che in genere mi basta entrare in questo posto per sentirmi crollare addosso tutto. Voglio dire, io non dico che queste pareti le ho tirate su col sudore della mia fronte – perché così non è. Forse i soldi per comprarle li ho tirati su col sudore della mia fronte, ma le pareti decisamente no – però erano comunque una cosa mia, e in quanto cosa mia erano stati inglobati dalla mia persona e rimessi al mondo marchiati. Come tutto ciò che tocco, perché odio che ciò che tocco, ciò che amo, mi venga portato via, e l’unico modo che si ha per assicurarsi la paternità a vita di qualcosa è lasciargli addosso un segno. Nessuno vuole una macchina graffiata, nessuno vuole un motorino pieno di adesivi, nessuno – nessuno mentalmente sano, almeno – dovrebbe volere un corpo che ha addosso il sapore e l’odore di un altro. Poi non sempre va a finirti bene, però intanto tu il tuo marchio lo lasci. Almeno così hai più possibilità di tenerti stretto ciò che vorresti portarti dietro fin nella tomba.
Ora io mi guardo intorno e queste pareti non le riconosco. Il mio ufficio era pieno di poster. Miei poster, ovviamente. Quando hanno ritinteggiato, me li sono fatti mettere da parte perché volevo riappenderli subito dopo, solo che poi lo scatolone in cui avrebbero dovuto conservarli non s’è più ritrovato. E quindi io avevo una stanza che ero io, rappresentava me, una stanza in cui mi sentivo a mio agio, e ora invece mi sento un impiegato delle poste in uno stanzino bianco e anonimo che odio e che mi dà la nausea dal momento in cui ci metto piede al momento in cui ne esco. È una cosa devastante.
Eppure, ero così di buon umore che, entrando qua dentro e fissando le pareti bianchissime, non ho pensato “che schifo, dov’è finita la mia vita?” come faccio sempre, bensì “più tardi a casa devo ricordarmi di chiedere a Pat se gli è rimasto qualche poster vecchio, magari qualcosa dell’Aggro”, visto che dubito fortemente che si sia messo a collezionare poster delle mie uscite discografiche comprando Bravo travestito da quindicenne infoiata mentre passavamo le nostre giornate a insultarci da una parte all’altra di Berlino.
Questa sensazione di beatitudine interiore è durata naturalmente fino a quando la segretaria piccola e carina che si occupa di accogliere gli ospiti all’ingresso e smistarli nelle varie aree del palazzo in cui devono andare non è spuntata sulla soglia della mia porta e, con aria un po’ colpevole e un po’ impacciata, mi ha detto che il signor Kaulitz era all’Ersguterjunge e desiderava vedermi.
In un primo momento ho pensato “ma non esiste”. Ho anche rimandato a memoria la tabella degli orari e dei giorni lavorativi di Bill per essere proprio certo che no, oggi non avrebbe dovuto trovarsi qui, non a quest’orario né in nessun altro orario, ed avrei voluto guardare la segretaria negli occhi e dirle “dev’essersi sbagliata”, solo che poi mi sono reso conto di quanto sarebbe stato assurdo ed ho deglutito forzatamente, cercando di ricompormi.
- Sono molto impegnato. – le ho detto. Lei ha guardato la mia scrivania sgombra, il computer ancora spento e la generale aria di nullafacenza che si respirava nella stanza, e poi è tornata a guardare me, con occhi sempre più tristi e colpevoli, probabilmente chiedendosi quanto ci avrei messo a licenziarla, al punto che avrei voluto darle una pacca sulla spalla e rassicurarla, che tanto ormai non ho più potere neanche sui dipendenti in questa cazzo di etichetta.
- Ecco… - ha proseguito lei, incerta, - Il signor Kaulitz ha molto insistito. – ha detto, e io cosa potevo ribattere, a quel punto? “Digli di andarsene a fanculo e, se continua a insistere, insisti anche tu e defenestralo”? Ho sospirato tanto profondamente che mi ha fatto male il petto, ed ho annuito.
- Fallo passare.
Lei ha annuito come a volersi scusare ed è sparita in un secondo. Il secondo successivo, al suo posto c’era Bill, e io avevo smesso di respirare. Ho pensato distrattamente “è tremendo che il mio ultimo respiro sia stato così doloroso”, e poi non ho avuto spazio neanche per i pensieri. Bill stava già occupando tutto.
- Scusa se ti disturbo. – ha mormorato, gli occhi nascosti dietro un paio di giganteschi occhiali da sole a mascherina e i capelli tirati indietro e stretti in una coda alta a imprigionare le ciocche bionde, come a cercare di tenere a bada lui domando i suoi capelli. Come fosse possibile, l’una cosa o l’altra.
- Fa niente. – ho sputato con una difficoltà estrema, sperando che lui non la notasse. Lui ha abbassato appena gli occhiali sul naso, lanciandomi una lunga occhiata scrutatrice prima di sfilarli del tutto e riporli nella borsa a braccio in un gesto fluido e abitudinario. – Ti serviva qualcosa?
Lui si è guardato intorno con aria un po’ confusa, penso non fosse mai entrato qua dentro e deve aver fatto una certa fatica a riconoscere l’ambiente come familiare.
- Posso sedermi? – ha chiesto, al termine del giro di studio. Io ho piantato le mani sulla scrivania e mi sono alzato in piedi.
- A dire la verità preferirei di no. – ho detto in un fiato, osservando i suoi occhi macchiarsi della consapevolezza di non essere una presenza gradita, una cosa che aveva spesso osservato negli occhi di molti, ma mai nei miei. – Cosa ci fai qui, Bill?
- Volevo solo parlarti. – ha sbottato offeso, incrociando le braccia sul petto.
- Potevi prendere un appuntamento, come fanno tutti gli altri. – gli ho fatto notare.
- Tutti gli altri…? – ha spalancato gli occhi lui, incredulo, - Anis, capisco tutto, ma—
- Sono molto impegnato, Bill. – ho detto, battendo con una certa forza le mani sul tavolo e sperando che questo bastasse ad intimorirlo, o a farmi mandare a quel paese, raggiungendo comunque l’effetto desiderato, ovvero buttarlo fuori da questa stanza il prima possibile, per evitare di perdere il controllo di me stesso.
- Impegnato a fare cosa? – mi ha chiesto lui, senza cedere di un passo, fissandomi con gli occhi brillanti di rabbia, offesa, tradimento e tutte quelle altre piccole cose che è in grado di mettere in un solo sguardo quando vuole farti sentire una merda fatta e finita, - Impegnato a— a fare cosa, Anis? Cos’è che ti tiene tanto impegnato da non lasciarti neanche un minuto libero per stare a sentire me?
- Quali diritti speciali dovresti avere tu? – ho sbottato io, alzando la voce e sollevando le braccia come ad invitarlo ad andare oltre ed affondare il coltello, se ne era capace, - Sentiamo, Bill! Quali diritti che non ti sia già fottuto da solo nonostante io te li avessi ridati tutti in mano appena ti ho posato gli occhi addosso? Eh?
Lui ha spalancato gli occhi, le labbra gli tremavano.
- Non so, Anis. Quelli che si riservano a un normale essere umano quando ti chiede due minuti per parlare?
- Tu non chiedi, Bill! – ho tuonato io, esasperato, - Tu non chiedi, è questo che ti sfugge! Tu ti presenti e pretendi!
- Io non ho preteso niente! – s’è difeso lui, quasi stringendosi nelle spalle, - Io ti ho chiesto—
- Tu ti sei presentato qui come se riceverti da parte mia fosse una cosa ovvia! – gli ho fatto notare, allargando le braccia ai lati del corpo, - L’idea che a me non andasse di vederti non ti è mai passata neanche per l’anticamera del cervello! Tu agisci come se tutto ti fosse dovuto e te ne sbatti il cazzo di quello che il resto dell’universo possa pensare, perché tanto i sentimenti degli altri non sono importanti come i tuoi! Nessuno soffre come te, vero Bill? Nessuno è in una situazione peggiore della tua, giusto?
I suoi occhi si sono fatti liquidi all’improvviso, le guance arrossate e il respiro accelerato. Ho avuto paura che si sentisse male, ma non ho smesso di guardarlo duramente neanche per un secondo.
- Sei ingiusto. – ha esalato con un filo di voce, - Credi che per me sia facile, Anis? – mi ha strillato contro, - Pensi che per me vederti ritornare dopo un anno e tutto il resto sia stato semplice? Pensi che mi diverta, cazzo, che sia felice della situazione in cui siamo? Se pensi questo di me, allora non mi conosci, perché—
Gli sono saltato addosso prima che potesse concludere la frase. L’ho spinto contro il muro, mi sono schiacciato contro di lui, ho piantato un braccio contro il suo collo e l’ho guardato.
- Smettila di parlarmi come se fossi il primo stronzo cui puoi rifilare tutte le tue cazzate preimpostate da diva del cinema muto, Bill. – gli ho ringhiato addosso, - Vuoi sapere cosa penso? No, non penso che per te sia facile. Però penso che ti piaccia complicarla. Non penso che tu sia felice, però penso che il dolore ti faccia sentire al sicuro, perché non sei felice da tanto di quel tempo che provare della felicità vera ti spaventa. Non penso che tu ti diverta, ma penso che tu ti senta meglio quando mi trascini nel tuo cazzo di baratro di tristezza, Bill, questo penso. E non dirmi che non ti conosco. Perché sai che non è vero, come sai che invece è vero tutto quello che ho detto adesso.
E ora Bill mi guarda fisso, i suoi occhi brillano. Cova una rabbia che lo scuote tutto, il suo corpo è così sottile che trema sotto le ondate di livore che gli arrossano le guance. So che in questo momento potrebbe uccidermi, se solo avesse l’arma con cui farlo. I capelli scompigliati gli ricadono lungo il collo, il suo respiro è pesante e mi sfiora il viso in carezze quasi violente mentre lo schiaccio contro il muro, un avambraccio pressato sopra il collo e una mano a stringerlo con forza alla spalla. Mi guarda come se lo stessi torturando, come se il mio comportamento fino ad ora fosse stato quello di un despota, e lui stesse affrontando il martirio con orgoglio, coraggio e fierezza, e mentre presso il mio avambraccio con più forza contro la sua gola, mozzandogli il respiro e osservandogli inghiottire la preghiera di lasciarlo andare che è tanto forte da non lasciarsi sfuggire neanche per una sillaba, cerco di ricordargli che qui non ci sono vittime né carnefici, che ciò che ha fatto è sbagliato e che dovrebbe tornarsene a casa.
E poi lo bacio. Lo bacio perché è troppo vicino, lo bacio perché mi manca, lo bacio perché – cazzo – io questo ragazzino lo amo tanto che mi scoppia la testa se solo ci penso, che il mio corpo non mi sembra robusto a sufficienza per sostenerlo, lo bacio perché l’ho perso, perché voglio lasciarlo andare ma non ci riesco, lo bacio perché voglio il suo sapore sulla lingua e quando lui solleva le mani e mi stringe alla nuca, graffiandomi la pelle del collo fino a che sento il sangue scorrere in un rivolo lento e sottilissimo giù fino al colletto della maglietta, sento che lo vuole anche lui, sento che tutto il casino che c’è dentro la mia testa c’è uguale anche nella sua.
Lo allontano dalla parete schiacciandomelo contro, lo stringo fra le braccia e lui aderisce perfettamente al mio corpo come non si fosse mai allontanato nemmeno di un millimetro dal mio fianco. Siamo due universi paralleli e perfettamente distinti io e lui, adesso, eppure alle volte basta così poco e Bill è ancora lì, è ancora mio, e non capisco come tutto questo non possa essere vero e reale – so che non lo è, lo so, ma adesso che siamo così vicini mi sembra l’unica verità possibile. E quindi, ciò che invece è vero, lui con Chakuza, io con Patrick, deve essere una bugia.
Torniamo a dirci la verità, piccolo, vuoi?
È nel momento in cui lo penso – che poi è lo stesso momento in cui lo appoggio sulla scrivania sgombra e mi allontano appena dalle sue labbra per riprendere fiato – che mi rendo conto di quanto tutto questo sia assurdo, di quanto il mio cervello prenda a sragionare per vie incomprensibili quando ho Bill intorno. Cos’è che voglio dare a bere a questo ragazzino? Che non importa niente di quello che siamo diventati, che possiamo tornare com’eravamo prima che tutto questo accadesse dimenticando gli ultimi mesi e andando avanti per una strada che nemmeno esiste se non nelle nostre fantasie quando escludiamo dai pensieri tutto il resto del mondo che non siamo noi due? Che storia voglio raccontare a Bill, a me stesso? Che cosa cazzo sto facendo?
Lui schiude le palpebre quando non mi sente tornare a baciarlo. Sotto le sue ciglia, che tremano in un battito sottile come quello delle ali di una farfalla, passa la consapevolezza che è cambiato qualcosa rispetto a un secondo fa. Poso le mani sulle sue, allontanandole dal mio collo e posandogliele in grembo. Lui, seduto sulla scrivania, le spalle un po’ curve e l’espressione corrucciata, le labbra arricciate in una smorfia delusa e triste, mi guarda e mi implora di non farlo, non fermarmi, dargli mezz’ora di tregua dalla realtà.
Non posso farlo, piccolo, io ti amo troppo per mentirti così spudoratamente.
- Vai via. – gli sussurro sulle labbra. Stringo le mani attorno alle sue e ne accarezzo il dorso coi pollici.
Lui sospira stremato. La sua testa si piega in avanti in cerca di appoggio e la sua fronte trova il mio petto con una naturalezza che mi smuove qualcosa dentro. È sempre la stessa storia, queste piccole cose riaccendono la scintilla, ma è dura tenerla accesa quando il fuoco non prende.
- Non è come se mi stessi dicendo “vai, non ci vedremo più”… - mugola, strusciando la fronte contro la mia maglietta, - Fra poco comincia il tour… mi dici come faremo? Perché io non lo so.
- In qualche modo faremo. – sorrido appena, lasciando una delle sue mani per sciogliergli la coda ed accarezzargli lentamente i capelli, ravviandoglieli sulle tempie, dietro le orecchie, sul collo. – Tu però devi starmi lontano, piccolo. Io prometto che starò lontano da te.
Bill deglutisce a fatica, prendendosi un secondo prima di parlare.
- E se io non volessi starti lontano? – pigola a voce bassissima, e scommetto che gli è servita più forza per dirmi questa singola frase di quanta non gliene sia servita per presentarsi qui e mettersi a strillarmi contro. E già per fare quello gliene è servita parecchia.
Mi allontano da lui, lasciandolo andare. Sto ancora sorridendo, quando lui si rimette in piedi.
- Non vuoi nemmeno starmi vicino, però. – gli faccio notare. È straniante essere così tranquillo adesso. Mi sembra di stare facendo la prima cosa giusta in assoluto da quando sono tornato in Germania.
Lui non mi risponde. Si morde un labbro e nemmeno annuisce, abbassa lo sguardo e si ricompone in fretta prima di sgattaiolarmi alle spalle, oltre la porta, fuori dall’Ersguterjunge, fuori dalla mia vita spero almeno per la prossima settimana. Il tempo di prepararmi alla tortura che mi aspetta. Te lo prometto, piccolo, sarà tutto più facile, da ora in poi. Farò in modo che lo sia.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Commedia, Erotico, Romantico.
Pairing: Fler/Chakuza, Bushido/Fler, Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: R/NC-17.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash, Angst.
- "La mia settimana è cominciata molto male."
Note: Cioè, rendiamoci conto: stiamo ricominciando ad avere un ritmo di postaggio quasi umano *piange commossa* Dunque, precisazione prima di lasciarvi alla lettura: nonostante il titolo e l'adorabile "vol. 2" pucciato lì accanto, questa storia non è il diretto seguito di quella postata da Tabata qualche tempo fa. Però vi è legata inscindibilmente *huhuhu*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
GREEN EYED MONSTER, vol. 2

La mia settimana è cominciata molto male. Che non è come per dire che lunedì mi sono svegliato dopo un incubo e come prima cosa, per esempio, ho infilato le pantofole e dentro c’ho trovato uno scorpione ed ho sentito umido e mi sono accorto di avere la casa allagata scoprendo poi che s’erano rotte contemporaneamente tutte le tubature dell’appartamento a causa di un ingorgo del cesso del tipo del piano di sopra che tra l’altro ha fatto marcire tanto le travi del soffitto da costringerle a crollare e riversare liquami nel centro del mio salotto. No, quello sarebbe stato un brutto inizio di settimana, ma tutto sommato imputabile alle sfighe e ai casi della vita, le classiche cose di cui in genere ti fai una ragione rimboccandoti le maniche e scrollando le spalle prima di metterti al lavoro per rimettere tutto a posto.
No, il mio inizio di settimana è stato di gran lunga peggiore, ed è coinciso con un risveglio orribile, sì, ma per motivi molto più gravi di quelli che ho indicato sopra. D’altronde, Eko Fresh che si attacca al campanello di casa tua per mezz’ora alle sette del mattino è peggio di un incubo, uno scorpione, un allagamento e un chilo di liquami di dubbia origine, tutti assieme e centrifugati in un’unica, enorme Apocalisse. Eko Fresh è Eko Fresh, se non lo conosci non puoi capire, e se lo conosci lo eviti.
Comunque sia, immaginatemi. O se non volete immaginare me immaginate qualcun altro, non importa, in ogni caso: mi alzo, grugnisco come un orso ingiustamente svegliato dal proprio legittimo letargo, vado alla porta e spero almeno sia Bill, che pressa il campanello a ripetizione perché non mi vede da ben quattro ore e vuole assolutamente recuperare il tempo perduto chiudendosi a doppia mandata con me in camera da letto fino a domenica, e invece niente, è appunto Eko che mi guarda come gli avessero appena ucciso la madre, stringendo al petto un giornale con una mano e tenendo un pacchettino un po’ unto di olio nell’altra.
- Eko. – constato, e mi chiedo se magari posso trovare una scusa per mandarlo via, solo che lui non mi dà il tempo neanche di mettere in moto i meccanismi del cervello, perché mi scosta di lato, entra in casa e si chiude la porta alle spalle. Rigirando la chiave nella serratura. – Eko?! – chiedo, vagamente inquietato dal fatto che sia arrivato qui di corsa portando del cibo e segregandosi con me all’interno di un appartamento neanche tanto grande le cui pareti hanno visto troppo per potersi turbare ancora.
- È successa una cosa terribile. – esordisce lui, tetro, e io penso che sì, eccome se è successa una cosa terribile, siamo chiusi nel mio appartamento! Non vedo cosa potrebbe esistere di più terribile di questo. – Forse è meglio che ti siedi. – continua, annuendo pensieroso.
- Sto bene in piedi. – dico, vagamente preoccupato. Già sono in posizione svantaggiosa così, figurarsi se mi siedo. Cerco anche di dirmi che è del tutto irrazionale, da parte mia, pensare che Eko sia venuto qua e si sia chiuso con me qui dentro perché voleva approfittare del mio corpo, ma i meccanismi cerebrali di cui sopra sono ancora spenti e l’omino del cervello sta ancora passando ad oliarli tutti per bene prima di attivarli, perciò continuo a pensare che, appena mi sarò seduto, Eko mi ribalterà sull’isola della cucina e si prenderà la mia verginità, e per evitare tutto ciò resto in piedi.
- Credimi. – insiste lui, spingendomi verso l’isola della cucina – lo sapevo, io! – e forzandomi a sedere su uno sgabello, - E già che ci sei, prendi il krapfen.
- Che krapfen? – chiedo io, tirando su i pantaloni del pigiama fino ad altezze ascellari e pentendomi di non aver provveduto a comprare una cintura di castità per premunirmi rispetto ad eventualità simili.
- Quello che ti ho portato. – continua lui, perfettamente tranquillo, indicando il pacchetto unto che ha poggiato sul ripiano, - Mangia. Ne avrai bisogno.
- Senti, Eko! – mi ribello a quel punto io, saltando in piedi, - Non ho fame e non mi voglio sedere! Ora, mi spieghi qual è il tuo problema, prima che mi venga voglia di afferrarti per la collottola e buttarti fuori di casa dalla finestra?!
Eko mi guarda male e sbuffa, evidentemente indispettito dal mio comportamento, e con tutta la calma del mondo prende e mi srotola davanti agli occhi il giornale. È una rivista scandalistica di quelle che costano uno sputo ogni dieci, roba che gli edicolanti te le tirano dietro per quante gliene avanzano arrivati a domenica, e in prima pagina, proprio al centro, c’è una gigantografia di Fler e Bushido beccati da un paparazzo dentro un ristorante. Fronte contro fronte.
- …ah. – sillabo io, a corto d’aria, sedendomi istintivamente sul primo sgabello che trovo tastando con la mano dietro di me e mandando la mano non impegnata nelle ricerche ad afferrare il krapfen dentro il sacchetto. – Ah.
- “Ah” mi pare una reazione eufemistica. – commenta lui, e mentre io sono qua che stacco un morso di krapfen e spero che cioccolato e zucchero mi invadano le vene ed intontiscano il cervello, e mi chiedo quando abbia imparato il significato della parola “eufemistico”, lui si lancia in una dissertazione dissennata delle sue. – No, ma dico, ti rendi conto? Cioè, da Bushido non mi sconvolge, visti i precedenti, anche se forse dovrebbe sconvolgermi pure questo perché, voglio dire, Bill almeno sembrava femmina, potevamo dire che era confuso, - ma dire a chi, Eko? – ma il senzatetto? Voglio dire, Fler, gay? Ma te lo saresti mai aspettato?
- Io… - comincio, deglutendo a fatica. Il pezzo di krapfen è duro come marmo e non scivola giù per la gola manco morto. Rifletto brevemente sulla mia salivazione del tutto azzerata e mi rassegno a morire soffocato dal krapfen di Eko. - …non lo so.
- Ma poi! – continua lui, evidentemente scioccato da questa rivelazione, - Tu c’hai vissuto praticamente insieme per un millennio, ew! Non è che ti ha allungato mani addosso nel sonno? Tipo che ti ha ubriacato e mentre eri lì in coma etilico ti ha ribaltato sul materasso e ti si è fatto di nascosto? Hai controllato?
- No, Eko! – quasi sbotto io, fissandolo allucinato, - Non ho controllato e non— Fler non ha fatto niente del genere, andiamo, non è che siccome uno è gay… o quello che è… - inspiro ed espiro a fatica, - sente il bisogno di metterti le mani addosso e violentarti o cose simili! – spiego. E poi mi viene voglia di appendere una corda alle travi del soffitto e impiccarmi, perché… Dio mio. No, Eko, Fler non ha approfittato di me nel sonno, è più probabile che sia avvenuto l’esatto contrario, ma non è il caso che tu lo sappia.
- Bah! – conclude lui, allargando le braccia lungo i fianchi e sedendosi sullo sgabello di fronte a me, allargando la rivista sul ripiano per guardarla ancora, come volesse cogliere sfumature che non era riuscito a notare prima. – Che schifo, comunque.
- Ma che schifo cosa?! – esplodo io, irrazionalmente irritato da questa cosa, - Devo ricordarti che io sto con Bill?! Se vuoi venire a fare moralismo, vai a farlo in una casa in cui non si scopa abitualmente fra uomini!
Lui solleva gli occhi scuri e vacui e mi fissa a lungo, come non capisse dove voglio andare a parare.
- Ma che c’entra? – chiede infatti, - Bill è una cosa diversa. Lui è praticamente una donna.
E io vorrei rispondergli che no, semmai Bill è teoricamente una donna, ma praticamente è decisamente maschio, solo che poi ricordo l’indiscutibile verità nella testa di Eko – indiscutibile non perché sia esatta, ma perché è quella che vede lui e che non è disposto a cambiare neanche per tutto l’oro del mondo, visto che è l’unico universo in cui riesce a vivere senza traumi – e questa indiscutibile verità nella sua testa dice che Bill sì, potrà pure avere l’uccello, ma è comunque una femmina. Per cui per lui è ormai perfettamente normale che vada a letto coi maschi, o che un maschio abbia voglia di andare a letto con lui. Lei. Quel che è.
La cosa che mi turba davvero è che io lo so che Eko vede Bill in questi termini. E quindi, forse, se m’incazzo per quel “che schifo”, non è per Bill.
Il discorso muore lì, anche perché Eko quello che doveva fare – rovinarmi la giornata – l’ha fatto, e io due minuti dopo resto solo a darmi del coglione e pensare che tanto, peggio di così non potrà andare. Naturalmente mi sbaglio, perché due ore dopo incontro Bill e lui è taciturno ed evidentemente scazzato, e c’è un enorme problema quando Bill è sia taciturno che scazzato, perché Bill si scazza spesso ma ci tiene sempre a far sapere al mondo perché, visto che adora farlo sentire in colpa. Quando Bill si scazza e non sa dirti perché, il motivo è che non vuole farlo.
Da quando sta con me, è capitato una volta sola. Poi è venuto fuori che era per una litigata a caso con suo fratello, ma naturalmente io mi sono sempre preoccupato perché, prima che stessimo insieme, questi momenti di scazzo cronico gli venivano solo quando qualcosa gli ricordava Bushido. E allora lui era morto, quindi, insomma, non era il caso di immischiarmi. Ancora oggi, ci sono momenti come questo, in cui Bill è arrabbiato e, per continuare ad arrabbiarsi in pace, vola fino ad un altro pianeta – un pianeta sul quale io non posso raggiungerlo, dal quale mi sento distante.
Bill è rimasto su quel pianeta per tutta la settimana fino ad ora, e questo, sommato al fatto che Bushido sta con Fler e, Dio solo sa perché, questa cosa mi manda in bestia, ha reso la mia vita impossibile nell’ultima settimana.
Stamattina, comunque, dopo che ieri sera mi ha chiamato dicendomi che non sarebbe passato da casa perché era stanco e preferiva andarsene a letto a dormire – dichiarazione che in genere mi fa capire a che punto sia arrivata la sua malinconia – mi ha richiamato, per chiedermi se potevo passare a prenderlo dagli studi dell’Ersguterjunge, visto che aveva da fare qui per qualcosa. Dopo una settimana passata a vederci poco e male, e dopo l’ultima notte trascorsa senza di lui, mollarlo all’EGJ senza un passaggio per andare ovunque volesse, per quanto potessi essere irritato dalla sua distanza e dall’EGJ in generale, non era davvero un’opzione, perciò mi sono schiaffeggiato un paio di volte davanti allo specchio, mi sono dato un contegno, mi sono vestito e sono saltato in macchina.
Gli studi dell’EGJ, da quando Bushido è tornato, non sono più gli stessi che erano prima che morisse. Io ho dei ricordi stupendi, di questo posto. Serate passate ad ubriacarsi mangiando schifezze e parlando di cazzate finendo per dormire sui divani, giornate passate ad inseguire un’idea di Bushido e un beat particolarmente figo, voce su voce, in un’improvvisazione continua. Le feste, il cazzeggio, i giorni fantastici in cui il lavoro andava alla grande, tutto funzionava alla perfezione e sembravamo tutti ingranaggi minuscoli di un più grande meccanismo che una volta avviato andava avanti da sé senza dover più spingere niente.
Poi lui è morto, e gli studi sono diventati una grande camera ardente perenne. Anche senza la sua salma esposta in bella mostra in una bara col coperchio di vetro, era qui che ci riunivamo tutti per struggerci un po’, quando ne sentivamo il bisogno. Dopo il funerale, Saad ce l’aveva messa tutta per far riprendere i lavori, ma un po’ perché alcuni di noi – io per primo – non eravamo d’accordo, un po’ perché la Germania era ancora troppo scossa per pensare al rap, niente era mai ripartito per bene, perciò entrare qua dentro più che altro era riappropriarsi di quel pezzo di Bushido che avevamo perso tutti e che tutti potevamo ritrovare fra queste stanze, come se parte del suo spirito fosse rimasto intrappolato fra le molecole dell’aria, dell’intonaco grattato via dai muri, delle poltrone malandate.
Quando lui è tornato, poi, è stato anche peggio: la Universal ha preteso di colonizzare tutto, mandare emissari cui sono stati affidati uffici, e che hanno avanzato pretese, che hanno chiamato ditte di operai che hanno ristrutturato, ridipinto, rimodernato, riarredato, rinfrescato. Hanno preso tutto quello che c’era e l’hanno spazzato via, e adesso passare in mezzo a questi corridoi non mi dà più nessuna bella sensazione. Non c’è nessun ricordo legato alla moquette nuova o al divano impeccabile in pelle bianca. Non c’è nessun ricordo sulle porte girevoli o su quelle a vetri, automatiche e sempre lucide. Ora tutto ciò che mi resta camminando qua dentro è la rabbia per tutto quello che c’era e che nessuno di noi riuscirà mai più a ritrovare, perché è stato gettato via da troppe persone.
Comunque, nel momento in cui io sto qui che guardo il divano e mi chiedo se sedermi o meno, che tanto sta vicino all’ingresso e quindi, uscendo, Bill deve passare per forza di qui, in un modo o nell’altro, la voce di Fler mi impedisce di muovermi oltre.
- Che ci fai tu qui? – mi chiede, e non c’è cattiveria, nella sua voce, solo stupore e incredulità, come se si fosse immaginato tante volte la possibilità di trovarmi qui davanti a questo divano ed ogni singola volta si fosse detto “ma no, che cazzata, non accadrà mai”. È accaduto.
Mi volto lentamente, abbozzando un mezzo sorriso.
- Ciao. – comincio imbarazzato, - Scusa.
Lui sgrana gli occhi, fissandomi sempre più sconvolto.
- Di che ti scusi? – chiede giustamente. Di che mi scuso? Me lo chiedo anch’io. Mica è casa sua, questa, non sono entrato dalla finestra per svaligiargli l’appartamento. Perché non posso semplicemente dirgli “Bill mi ha chiesto di passarlo a prendere, lo sto aspettando”? Perché non posso avere una conversazione – o un rapporto – normale, con quest’uomo?
- Non lo so. – ammetto, ed è una risposta sia alla sua domanda che alle numerose che mi sono posto io negli ultimi trenta secondi. – Come stai?
Lui continua a fissarmi come fossi un alieno o sa Dio cos’altro.
- Bene, immagino. – risponde restando sulla difensiva, a qualche metro di distanza.
- Immagini? – chiedo io, inarcando un sopracciglio, - Stai bene o no?
- Sì! – sbotta lui, e poi si massaggia le tempie, sospirando profondamente. Quando torna a guardarmi negli occhi, è visibilmente più tranquillo. Invidio Fler per la capacità che ha di mettere ordine all’istante nella propria testa. Immagino sia una delle numerose eredità del ghetto, motivo per il quale non averla non è che mi deprima più di tanto, ma ammetto che è una capacità che sarebbe comodo possedere, di tanto in tanto. – Sì, sto bene, Chaku.
- Quella cosa che hai fatto… - sorrido un po’, accennando il movimento di lui che solleva le braccia ai lati della testa, - sembri un’altra persona, adesso. Funziona sempre?
Inspiegabilmente, lui capisce subito a cosa mi sto riferendo.
- Sì. – ride a bassa voce, - Stavi pensando che servirebbe anche a te?
- Esatto. – rido anch’io, e nel tempo che impiego a concedermi questa risata liberatoria, chiudendo anche gli occhi, lui si avvicina e mi posa due dita sulle tempie, massaggiando piano. Quando riapro gli occhi, la pressione delle sue dita e i suoi occhi assurdamente vicini sono le uniche cose vere in tutto l’universo. Perciò mi sembra il caso di dire qualcosa di altrettanto vero, e anche in fretta. – Mi sei mancato.
Lui smette subito di toccarmi, naturalmente, e si allontana di un paio di passi.
- Io dovrei- - comincia, ma naturalmente io gli impedisco di finire.
- È che non ci siamo più visti né sentiti! – comincio a blaterare, gesticolando come faccio solo quando non ho idea di cosa sto dicendo e spero che i miei movimenti possano distrarre dal contenuto delle mie parole, - Ero un po’ preoccupato, sai, per come ci eravamo lasciati. – realizzo solo mentre parlo che in realtà quello che è uscito da casa sua coperto di sangue ed ematomi, alcuni dei quali sono qui ancora oggi nonostante le lunghe settimane di mancata frequentazione, ero io, quindi forse dovrebbe essere lui quello che s’è preoccupato per me. Che ne sapeva, lui, di cosa mi succedeva nel mentre? Potevo uscire da casa sua e accasciarmi al primo angolo morendo per un’emorragia interna, per dire. Certo, poi i giornali in qualche modo gliel’avrebbero fatto sapere, e quindi – visto che sulle prime pagine di tutte le riviste scandalistiche non ci sono foto del mio cadavere all’obitorio bensì foto di me che passeggio con Bill, vado a cena con Bill, vado al parco con Bill e faccio un altro mucchio di cose con Bill – lui probabilmente non ha avuto motivo per preoccuparsi né nient’altro, però boh, è abbastanza assurdo che io adesso gli stia dicendo che ero preoccupato per lui. E peraltro ho continuato a parlare anche adesso che nel mentre mi stavo parlando nella testa, quindi non ho idea di cos’ho detto negli ultimi dieci minuti. Ma dev’essere qualcosa di assurdo, se mi sta guardando con quella faccia lì, come se stessi imprecando in latino mentre la testa mi ruota sul collo di trecentosessanta gradi e fiotti di vomito verde escono a fontana da ogni orifizio del mio corpo.
- Chaku… - mi chiama lui, un sorriso divertito appena accennato sulle labbra, - Chaku! – e io mi interrompo a metà di una parola che non ho pensato e non saprò mai di aver detto. – Mi sei mancato anche tu. – sorride più serenamente, appoggiandosi di spalle alla parete, - Sono contento che le ferite vadano meglio. Almeno non sei più inguardabile. – ridacchia.
E io non lo so cosa mi prende. Probabilmente la stessa cosa che mi è presa mentre Eko blaterava di lui e Bushido lunedì mattina in casa mia, ingozzandomi di krapfen e sperando bastassero per non sconvolgermi troppo. Probabilmente la stessa cosa che mi è presa tutte le volte in cui ero consapevole di doverlo lasciare andare, o doverlo quantomeno aiutare a staccarsi, o di dover rispettare la sua scelta di non volermi più rivedere. Probabilmente la stessa cosa che mi prende sempre, insomma, quando c’è di mezzo lui. Una cosa che non so e non posso fermare, una cosa a riguardo della quale mi fa paura ammettere che non voglio cercare di fermare.
Neanche me ne accorgo, quando mi avvicino, perché è un movimento talmente collaudato che ce l’ho tipo inciso nelle ossa. La forma del suo petto contro il mio, le sue spalle sotto le mie mani, le sue labbra pressate sulle mie. Il suo sapore che è sempre lo stesso.
Io non me ne accorgo, lui sì. Mi pianta addosso le mani e mi spinge indietro con forza, schiacciandosi contro la parete come se servisse a difendersi, e mi dà l’impressione che, se potesse, sfonderebbe il muro e indietreggerebbe ancora. Non può, ed è l’unico motivo per cui sto continuando a guardarlo negli occhi. Posso quasi vedermici riflesso dentro. La mia espressione confusa, come se io per primo non avessi capito cosa stavo facendo.
Lo capivo, Fler. Stavo sbagliando lo stesso, ma lo capivo.
*
Ho bisogno di appoggiarmi da qualche parte, e scelgo la parete perché sembra abbastanza rigida, dopotutto, anche se a volte ho come l’impressione che i muri all’EGJ siano fatti di cartone, tanto sono sottili, che se uno parla un po’ più ad alta voce dall’altro lato senti tutto.
Guardo Chakuza e vorrei potergli leggere nella sua testa con la disinvoltura con la quale in genere lo faccio quando non sono così confuso e turbato e minacciato – da cosa, neanche lo so – ma non ci riesco. Respiro profondamente, mi rendo conto che non mi basta, respiro ancora.
- Non- - comincio, incerto, - Non intendevo questo.
Lui mi guarda e non risponde. Ha le labbra dischiuse, gli occhi persi, e io non so che dirgli di più. Non so neanche se avergli detto quello che gli ho appena detto sia stato corretto, perché non è vero. Non lo è del tutto, almeno. Mi piacerebbe che lo fosse, ma non può esserlo se mi basta così poco per non capire più niente.
- Scu- - comincia lui, ma io mi agito subito, mi stacco dal muro e comincio a muovere le braccia per fermarlo.
- Non scusarti. – lo blocco, scuotendo il capo, - Mi sono fatto fraintendere io. Insomma, mi manchi, sì, ma non in quel senso. E poi sto con-
- Lo so con chi stai. – mi interrompe lui. Ho perso il conto delle volte in cui ci siamo parlati addosso, interrompendoci a vicenda, solo oggi. È un gioco che abbiamo condotto dalla prima volta che ci siamo visti, la verità è che io e Chakuza siamo due teste troppo dure perché dai nostri scontri possa davvero uscire qualcosa di buono. Motivo in più per cui è necessario chiuderla adesso. Sarebbe stato meglio chiuderla prima, ma se adesso è tutto ciò che resta, è adesso che dobbiamo chiuderla.
- Sto con Anis. – dico comunque. E lo dico scandendo bene ogni lettera, parlando chiaro e ad alta voce. Così che lui possa sentirlo, sentirlo davvero, e non possa ignorarlo.
Chakuza non mi guarda. Annuisce sbrigativamente, poi borbotta qualcosa sull’aspettare in macchina, che è meglio, e poi si dilegua in un batter d’occhio. Mentre lo osservo attraversare la porta per uscire dagli studi, colgo l’occhiata di sfuggita che mi lancia attraverso lo specchio accanto all’appendipanni, e nei suoi occhi – ora che sono lievemente più calmo – leggo chiaramente che sta già per dimenticare quello che gli ho appena detto, perché non c’è niente che Chakuza possa impedirsi di scordare, se gli fa comodo.
Sospiro pesantemente, riprendendo il corridoio e ricominciando a muovermi verso l’ufficio di Anis come stavo facendo prima di incontrare Chakuza di fronte al divano. Mentre busso alla porta, più per abitudine che perché Anis abbia mai richiesto da me un simile riguardo, penso che è altamente presuntuoso, e anche altamente stupido, da parte nostra, pensare di poter chiudere qualcosa che non abbiamo ancora nemmeno aperto. È il problema della nostra esistenza tentare di chiudere cose non aperte e tentare di convivere con cose mai chiuse come se lo fossero. E io ne so qualcosa.
Quando entro nell’ufficio, Anis si sta palesemente annoiando, e a me viene da ridere. Me lo ricordo ai tempi dell’Aggro, lui era uno capace di darsi alla macchia per giorni e comparire agli studi in tempo per la registrazione, fare la sua cosa e poi sparire ancora fino a chissà quando. Ora è diverso, ora c’è la Universal di mezzo, e la Universal ha tabelle con orari prefissati, appuntamenti programmati giorni prima, giornate di lavoro scandite nel minimo dettaglio. Il classico lavoro da impiegato statale dal quale Anis è sempre fuggito da che è nato, insomma, eppure ora è costretto a sottoporsi a cose simili, cose delle quali nemmeno comprende l’utilità, perché giustamente lui cosa ci sta a fare dietro a una scrivania se non ha canzoni da scrivere, demo da ascoltare o rapporti di vendita da visionare compiaciuto?
- Come va? – chiedo divertito, chiudendomi la porta alle spalle ed avvicinandomi. Lui smette di fingere di scorrere con gli occhi incartamenti inutili e si stende tutto sullo schienale della sedia, che è di quelli a molla e quindi segue la sua spinta, piegandosi all’indietro e permettendogli di stiracchiarsi come può con un grugnito di soddisfazione un po’ frustrata.
- Secondo te? – ribatte lui, tornando dritto e grattandosi distrattamente la fronte, - Voglio tornarmene a casa e non posso.
- Perché? – rido, appoggiandomi alla scrivania, - Aspetti che suoni la campanella?
- Devo incontrare un tipo… - borbotta lui, lanciandomi un’occhiata indispettita, - Un manager, cazzo ne so. Fra mezz’ora. Cristo, ma chi me l’ha fatto fare? Potevo stare sdraiato in una spiaggia a bere latte di cocco mentre le turiste mi guardavano come una specialità locale, adesso. E invece, guardami.
- E invece sei tornato nell’ostile Germania, il cui trono era stato usurpato dal tuo vigliacco fratellastro pelato, e hai combattuto per riconquistare regno e principessa.
- Per poi perderli entrambi. – sorride lievemente. Nei suoi occhi c’è una traccia di tristezza che è solo un’ombra. La scaccia via battendo le palpebre, e poi torna a guardarmi. – Cos’hai? – mi chiede, scrutandomi incuriosito.
Io distolgo lo sguardo, perché non voglio che veda. Alle volte, però, mi sembra quasi che non ne abbia bisogno. Mi sembra che i miei turbamenti li percepisca nell’aria, come quando dal niente ha capito che ero tornato a casa dopo aver scopato con Nicole. È una libertà di lettura che gli ho lasciato io e della quale pagherò per sempre le conseguenze.
- Niente. – biascico, - È tutto ok.
Lui non mi risponde, si vede lontano un miglio che non mi crede manco per niente. Resta un po’ seduto sulla propria poltrona, rigirandosi i pollici e guardandomi. Lo so perché, anche se sto fissando la parete come se stesse affiorando Gesù Cristo in persona da sotto l’intonaco, mi sento addosso i suoi occhi, e mi fanno sentire a disagio.
Poi lo sento alzarsi e fare il giro della scrivania, raggiungendomi, e solo allora torno a guardarlo e lo vedo che mi sorride. Faccio per dirgli qualcosa, ma lui si sporge in avanti e mi bacia leggerissimo sulle labbra. Sta ancora sorridendo.
Non devo dirgli niente. Chiudo gli occhi e sporgo appena le labbra. Lui ride, mi ride proprio addosso, e poi mi si stringe contro, facendosi spazio fra le mie gambe mentre io mi sollevo e mi seggo sulla scrivania, lasciandogli tutto il posto che gli serve. Piego il capo e lui approfondisce il bacio, attirandomi a sé con una mano sulla nuca. E non gli importa che la porta non sia chiusa a chiave, perché se per caso qualcuno la aprisse e ci vedesse, lui non avrebbe alcun problema a dirgli di andarsi a fare un giro mentre lui finisce di scoparmi. E questo può succedere perché lui mi porta a cena fuori, perché usciamo insieme, perché se gli chiedono se stiamo insieme, pure come una battuta, lui risponde di sì con tutta la serietà del mondo. Non perché stia legandosi a me per sempre come fossimo sposati, semplicemente perché sa che non c’è motivo di mentire a riguardo.
Non c’è niente di nascosto, di quello che siamo. È la prima volta che mi sento così in tutta la mia vita. Anis è stato l’unico a farmi sentire in questo modo. E io gli sono grato mentre lo aiuto a scostarmi i vestiti di dosso e piegarmi sul tavolo, prendendolo dentro con un gemito che gli spengo sulla spalla, prima di tempestarla di baci e morsi.
Quando vengo fra le sue dita, mi lascio sfuggire un gemito più forte degli altri, e lui sorride soddisfatto sul mio collo.
- Visto? – mi dice. Il suo respiro è pesante e sorrido anch’io. – Qualsiasi cosa fosse, ora è passata.
Lo abbraccio stretto, solo per qualche secondo. Non l’ho mai fatto con lui, non così, ma oggi mi sento piccolo, e l’ufficio all’improvviso mi sembra la cameretta in cui dormivo da ragazzino, nella casa con mamma, a Tempelhof. Adesso mia madre non ci vive più, là. La prima cosa che ho fatto, quando ho cominciato a vedere soldi veri, è stata comprarle una bella villetta in un bel quartiere pieno di verde dove passano i ragazzi a portare il giornale e il latte al mattino.
- È passata. – confermo, anche se forse non è del tutto vero. – Grazie.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Drammatico, Triste, Erotico, Romantico.
Pairing: Fler/Chakuza, Bushido/Fler, Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash, Angst, Violence.
- "Io sono una persona molto paziente."
Note: Intanto mi scuso in ginocchio per il ritardo /o\ *si prostra* Me lo vedrete fare spesso, in futuro, perché continuo ad aggiungere fandom alle mie preferenze e non ho il tempo oggettivo di scrivere tutto quello che vorrei. Ma non preoccupatevi, tutto ciò vedrà una fine. Cioè, non il mio fangirling, quello dubito ce l'abbia, una fine, figurarsi vederla da qualche parte alla fine del tunnel. No, dico, questa storia avrà una fine, lo giuro sul sorriso idiota del Bu, che è un giuramento importante. E... non posso spoilerarvi niente, ma fin d'ora: cercate di non volermi male, io non c'entro, fanno tutto loro.
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A WOUND UNHEALING

Io sono una persona molto paziente. Lo sono perché da piccolino non ero paziente per niente, e questo mi ha insegnato molte cose. L’episodio più emblematico della mia esistenza, in questo senso, risale ai miei… dovevano essere quindici, da poco passati, o una cosa del genere. Anis – che allora era solo Sonny e andava in giro rattoppato e malconcio come l’immigrato che non è mai stato anche se avrebbe dovuto – aveva deciso di mostrarmi la sua fantastica moto, una roba di cui si parlava da mesi e della quale lui favoleggiava cose assurde tipo che potesse scalare i palazzi e cazzate simili ovviamente false ma alle quali io credevo ciecamente perché ero un ragazzino e la mia testa era tutto un concentrato di ammirazione per questo tipo assolutamente folle che poi in un modo o nell’altro mi avrebbe cambiato irrimediabilmente la vita.
Comunque sia, io ero molto emozionato per questo grande evento che mi coinvolgeva e che palesemente doveva aprirmi le porte di un futuro più luminoso e splendente che mai, ed ero così emozionato che, nel momento in cui vidi la saracinesca del garage dietro casa sua cominciare a sollevarsi, mi ci fiondai contro neanche fosse stata un materasso e io un uomo provato da dodici ore di lavoro continuativo in fabbrica.
In sunto, andai a sfracellarmi contro la saracinesca sollevata a metà e caddi a terra all’indietro, tagliuzzandomi peraltro i palmi delle mani sulle pietruzze che ricoprivano il vialetto là davanti e piagnucolando come un deficiente mentre Anis mi passava accanto a mi guardava allibito, tirando su quel che restava da tirare su sia della saracinesca che di me, ed aiutandomi a scrollarmi di dosso un po’ di terriccio bianco e polveroso.
- Guarda che tu devi calmarti. – mi disse allora, una mano sul fianco e il capo lievemente inclinato, - Facendo le cose di corsa, non arriverai da nessuna parte. Devi riflettere, con calma, segui il ritmo del tuo cervello. Non sei tanto lento da diventare un pericolo, se ti ascolti un po’. Hai un buon ritmo. – il che era palesemente il più bel complimento mi fosse mai stato fatto dopo “aaaw, Patty, che begli occhioni che hai, bello della mamma!”, detto da mia madre quando dovevo avere qualcosa come cinque anni.
Comunque sia, da quel momento – anche per non ripetere figuracce tipo la saracinesca presa di naso – ho cercato di fare tesoro di quell’insegnamento, e riflettere sempre. Che è una cosa che quando stai per strada ti aiuta molto, se non sei stupido. Cioè, se sei stupido è meglio che tu non rifletta, rischi di prenderti troppo tempo e non è il caso. Ma se il cervello si muove bene, se hai un buon ritmo, come mi ha detto Anis, allora è ok. E io ho cominciato a seguire il mio ritmo, e in effetti da quel momento le cose in generale per me hanno cominciato a girare in un verso lievemente migliore rispetto a quello che avevano imboccato prima.
Comunque, per spiegare quanto infinita e profonda sia la mia pazienza, basta osservare l’evoluzione del mio rapporto con Chaku nei secoli. Dico “nei secoli” un po’ perché fa ridere, e qua se non la si prende con simpatia è un dramma, e un po’ perché a volte davvero mi pare che siano passati centinaia d’anni da quando l’ho visto da vicino – più o meno, visto che ero nascosto dietro un mausoleo – durante il funerale di Anis.
Comunque sia, di strada ne abbiamo fatta un casino. Non è stato sempre semplice – in realtà non lo è stato mai – e non è stato sempre divertente – anche se spesso in realtà sì – eppure mi gloriavo, fino a qualcosa come due minuti fa, di essere riuscito comunque sempre a mantenerlo una costante della mia vita nell’ultimo anno, un qualcosa cui potessi affidarmi. Non a lui in quanto Chaku, per carità, non gli affiderei manco una pianta grassa, ma alla sua presenza in quanto tale, quello sì.
In questo momento, però, guardo il Chaku – lo vedo qui seduto sul mio divano che si torce le mani in grembo e fissa il vuoto con aria pallata cercando di trovare le parole per dirmi ciò che mi deve dire – e mi rendo conto che le costanti, in realtà, sono una stronzata enorme con cui gli esseri umani si divertono a illudersi di poter avere qualcosa di incrollabile nella propria esistenza, quando invece non esiste proprio un bel niente che sia incrollabile. Questa è l’ultima cosa che mi ha insegnato Anis, povero stronzo, che credeva di poter giocare con la vita e la morte ed uscirne vittorioso comunque, e invece ha perso, eccome se ha perso.
- Io… - comincia Chakuza, e a me viene voglia di dargli un buffetto su una guancia e mandarlo a mangiare gelati, che ne so. Davvero, Chaku non ha quasi mai problemi a dirti le cose che deve dirti, anche perché sono quasi sempre cose che riguardano problemi di ordine pratico. “S’è intasato il cesso” o “non funziona più il frigorifero”. Insomma, lui ti presenta un problema per il quale è sicuro che in due riuscirete a trovare una soluzione, questo è quanto. È così evidente che, adesso, sta cercando di trovare le parole per farmi un discorso completamente diverso, che davvero mi viene voglia di fargli due coccole e dirgli che non importa, suvvia, qualsiasi cosa sia andrà a posto da sola, non preoccuparti, Chaku.
Tra l’altro in tutto questo mi viene in mente – così dal nulla – che da quando è entrato non mi è ancora saltato addosso, e questo dovrebbe preoccuparmi. Mi viene in mente all’improvviso perché ormai quando ho il Chaku intorno ho imparato ad autosettarmi in una modalità di ricezione dati che sia Chaku-friendly, e siccome quest’uomo ha tempistiche tutte proprie devo anche adattarmici, o rischio di combinare casini. Mi viene anche da pensare che lui non si preoccupa di generare disastri quando si muove, lui si muove e basta devastando l’ambiente circostante, un po’ come Anis, ma questo non è davvero un problema, al momento. Io sono uno che a queste cose ci sta attento.
Comunque, è strano che non abbia già trovato una scusa random per espletare quella che è la sua funzione primaria nel mondo, ovvero disperdere il seme, per cui mi viene da pensare “cazzo, sarà davvero preoccupato per qualcosa di serio, il Chaku, o non sarebbe qui a rigirarsi i pollici invece di usarli in modo decisamente più proficuo”, e mi siedo al suo fianco sul divano, cercando di guardarlo negli occhi per provare a intuire cosa confonda ulteriormente il suo cervello già confuso a livello base.
Insomma, lui si gira e mi guarda. Solo per una frazione di secondo, e io lì, in quella frazione di secondo, leggo tutto quello che mi serve sapere: il senso di colpa. Parliamone. Quest’uomo non s’è mai – mai mai mai – sentito in colpa nei miei confronti anche quando ha fatto cose per le quali una persona normale sarebbe andata di gran carriera a costituirsi alla prima centrale di polizia disponibile. E, Dio mio, non oso immaginare cosa possa aver combinato questa volta per avere stampata in faccia un’espressione così colpevole da essere tanto palese, nella sua colpevolezza, da lasciarmi turbato.
- Chaku? – lo chiamo, un po’ incerto, - Togliti quella roba dalla faccia, se non è indispensabile che tu ce la tenga.
- …uh? – chiede lui, confuso, passandosi un dito su una guancia come ci fosse rimasto sopra uno sbuffo di panna o che so io, - Di che-
- Che cos’hai? – taglio corto io, anche perché non mi va di spiegargli che ormai lo leggo come un libro aperto e non è il caso che faccia tanto il misterioso, - Avanti, parla, o la testa ti diventerà così calda che ti prenderà fuoco il berretto.
Il Chaku inspira ed espira profondamente. Si gonfia tutto come un palloncino e poi si risgonfia, mi sembra improvvisamente molto piccolo, a guardarlo adesso, anche perché è tutto curvo e abbacchiato e non mi guarda e invece io sto qua con la schiena bella dritta e lo fisso perché mi piacerebbe anche avere una risposta entro il prossimo trentennio, Chaku, non è che posso restare qui in attesa del momento in cui ti sentirai pronto a svelare i misteriosi e oscuri segreti della tua psiche.
- Senti, io e te dovremmo parlare. – mi dice, e già il fatto che sia lì a usare condizionali a sproposito mi urta. Voglio dire, sei venuto fin qui, hai preso possesso del mio divano e sei qui a inspirare ed espirare teatralmente da mezz’ora, mi pare chiaro che dobbiamo parlare e non dovremmo parlare, quindi parla. – A proposito di una cosa molto importante.
Comincio a subodorare qualcosa, perché Chaku non ha molte cose veramente importanti, nella sua vita. Il suo lavoro, la sua famiglia. Bill. E siccome per lavorare lavora e lutti in famiglia non ce ne sono ancora stati, almeno che io sappia, mi sa che il problema qui è anche più grave di quanto non avessi immaginato. Ed ecco che si spiega il senso di colpa nei suoi occhi.
Mi alzo in piedi e mi dirigo verso la cucina, perché non voglio stare qui seduto mentre lui mi dice ciò che mi deve dire. Voglio avere le mani e la testa occupate. Prendo a montare la moka con una precisione quasi malata, stando bene attento a non versare caffè ed asciugare con un panno ogni singola gocciolina d’acqua sulla superficie metallica.
- Fler… - mi chiama lui, dalla soglia della porta, avvicinandosi a disagio. – Mi dispiace. – dice solo, abbassando lo sguardo. E io vorrei – anzi, voglio, stavolta voglio – fargli notare che non può dare sempre per scontato che io lo capisca a prescindere. Non può pretendere che lo scusi, non può pretendere che lo perdoni, se non trova neanche le palle di dirmi come stanno le cose. Io non posso farlo, se lui non si prende almeno la responsabilità di impedirmi di capirle da solo.
- Per cosa ti dispiaci? – chiedo, continuando a preparare il caffè e ripulendo il ripiano con una pezza umida. Il mobile in legno laccato bianco torna subito immacolato. Ho una bella casa, cazzo, la vivo così poco. Sono un cretino.
- …lo sai. – biascica lui, incapace di sollevarmi gli occhi addosso.
- No, non lo so. – continuo io, e mi rendo conto di essere odioso, e anzi, in un’altra situazione sicuramente a guardarmi agire con un atteggiamento simile mi prenderei a cazzotti da solo, ma qui ed oggi Chaku non può veramente pretendere della bontà da me, ed io in ogni caso non sono disposto a concedergliela.
Chakuza sospira, si avvicina e io faccio uno scatto indietro, perché non voglio che mi tocchi. Non voglio neanche che mi sfiori o che le sue mani possano arrivare ad una distanza tale da poterglielo permettere anche se poi non lo farà. Lui mi guarda come se l’avessi appena accoltellato alla schiena, e recupera la caffettiera, poggiandola sul fornello e accendendo il fuoco.
- Bill è venuto da me, qualche giorno fa. – comincia. Io comincio a contare i giorni in cui non l’ho visto, recentemente, e mi do dell’idiota. – Lui e Bushido hanno rotto. – comincio a contare anche i giorni in cui Anis ha chiamato, sempre più spesso, intrattenendosi in conversazioni sempre più lunghe, e mi do della testa di cazzo. – Bill dice di volerci provare. Dice di essere serio, stavolta.
E io mi mando a fanculo da solo e basta, davvero, perché certe cose puoi non vederle solo se non vuoi farlo.
Mi volto verso di lui con una lentezza che stupisce per primo me stesso. È come se il mio corpo stesse cercando di fermarmi per impedirmi di fare qualche pazzia. Ma io la voglio fare, questa pazzia. Cazzo, se la voglio fare, Dio, ora che lo guardo con quell’espressione colpevole ancora addosso ho come l’impressione di non aver mai voluto qualcosa così tanto, nella mia vita. È perché volevo te, Chaku. Ti ho voluto con una forza che tu non t’immagini nemmeno, ti ho voluto con una forza che nemmeno Bill può immaginare, perché io il ragazzino lo adoro, ma quello che ha voluto l’ha sempre ottenuto senza sforzare niente più dei suoi occhioni e delle sue labbra a sbattere un po’ più lentamente e piegarsi in un sorriso appena più triste. Cazzo, Chaku. Cazzo.
Il primo pugno non lo realizzo in maniera cosciente. Mi fanno male le nocche della mano e anche il dorso, quindi non posso fare a meno di realizzarlo a livello fisico, ma nella mia testa? io non sto picchiando nessuno. Se la mano mi fa male è perché la congiunzione astrale che proietta i suoi influssi su di noi ha evidentemente degli effetti negativi sul mio karma, effetti che poi si ripercuotono sotto forma di dolori ossei sparsi qua e là e concentrati sulla mia mano destra.
Il secondo pugno lo realizzo per forza, perché il Chaku comincia a sanguinare. Mi macchia di rosso il pavimento cadendoci a terra, e la cosa più assurda di tutte, la cosa più triste, è che non si difende. Non lo so, probabilmente starà pensando qualcosa del tipo “ora lo lascio sfogare, magari mi spezza qualche osso ma alla fine lascia perdere”. Chaku, guarda che ti stai sbagliando, e anche parecchio. Io sono fuori di me, non ci vedo più e tutto quello a cui riesco a pensare in questo momento è come inchiodarti meglio a terra per prenderti a cazzotti fino a quando a sporcare il mio pavimento non sarà solo il tuo sangue ma anche il tuo cervello spappolato. Per ciò, Chaku, alzati e reagisci, almeno prova a malmenarmi, se ti riesce, perché sennò da qui vivo non esci.
Lo afferro per i polsi e li tengo stretti tra le dita con più forza di quanta non vorrei utilizzarne – molta più di quanta ne serva, peraltro, perché Chakuza, d’accordo, non è esattamente esile come un preadolescente anoressico, ma la sua forza non è neanche paragonabile alla mia quando sono infuriato. Lui devasta le case? D’accordo, ma io pestavo gli spacciatori marocchini trentenni a sedici anni nei vicoli di Tempelhof. Misurati con questo, austriaco.
Stringo tanto forte che sento le ossa scricchiolare sotto i polpastrelli. Penso che potrei spaccargli i polsi e sarebbe divertente osservare la sua faccia stravolta mentre si rende conto che non ho intenzione di lasciarlo andare, ma poi capisco che sarebbe troppo netto, come avviso, che se davvero voglio fargli capire quali sono le mie intenzioni prima di portarle a termine e ucciderlo senza pietà come merita, devo andarci con mano più leggera. Perciò i polsi non li spacco, li tengo stretti e li imprigiono sotto le ginocchia, schiacciandolo contro il pavimento. Lui si dibatte per un po’, ma cazzo, non sono certo un peso piuma, e lui non riesce a muoversi. Voglio sentirti implorare, Chakuza, voglio che tu mi chieda sanguinando di lasciarti andare, perché ho come l’impressione che questo sarà l’unico modo in cui riuscirò a dirti addio davvero.
Certe relazioni che si aprono nel sangue, non possono fare altro che chiudersi nello stesso modo. È per questo motivo che avrei dovuto capire immediatamente che la mia relazione con Anis non avrebbe mai potuto chiudersi nel modo in cui pensavo si fosse chiusa, col nostro sangue mescolato su un marciapiede sporco e solitario in una strada secondaria persa nel nulla in mezzo a Berlino: la mia relazione con Anis non è cominciata nel sangue, quindi non poteva chiudersi lì. La nostra sì, Chakuza, quindi vediamo di chiuderla adesso.
All’inizio non sento che mi sta chiamando. Preso come sono a sbattergli addosso i pugni fra il viso e il petto, non riesco a trovare abbastanza concentrazione in più per mettere in funzione le orecchie e percepire la sua voce. Poi la sua voce – ridotta a un rantolo sottile e vischioso come i rivoletti di sangue che gli colano giù dalle labbra e dal sopracciglio – riesce a farsi strada fra i thud compatti delle mie nocche contro le sue ossa, e io lo sento. Per un secondo, più o meno, riesco a ignorare i complimenti interiori che gli rivolgo per essere sopravvissuto più a lungo di quanto altri esseri umani al suo posto non sarebbero stati capaci di fare, perché sentirlo gemere di dolore sotto i miei colpi è troppo soddisfacente, è una cosa che ho represso senza darle sfogo per troppo tempo per non apprezzarla in maniera assoluta e totale. Continuo a pestarlo, un cazzotto dopo l’altro, e ascolto la sua voce generalmente così profonda diventare sempre più sottile e mi compiaccio, davvero, perché quest’uomo nell’ultimo anno per me è stato una montagna concettualmente insormontabile, nonostante le sue dimensioni tutto sommato ridotte, e adesso sono io che l’ho messo giù, sono io che gli sto facendo del male, sono io che comando, sono io che decido, Chakuza, la tua vita è nelle mie mani e credimi, non sta facendo male un terzo di quanto non abbia fatto male a me lasciare il mio cuore nelle tue.
Mi fermo – del tutto all’improvviso e senza neanche volerlo – quando mi rendo conto che non sta più protestando. Non è facile, in realtà, perché sono molto più attratto da particolari scemi tipo la macchia di sangue che si allarga sulle piastrelle sotto di lui, o il modo in cui strizza le palpebre nel tentativo di proteggere almeno gli occhi. Quindi in un primo momento niente, il pensiero di poter essere andato un po’ oltre neanche mi sfiora, e per un po’ continuo a pestarlo come fosse ancora tutto a posto – in un certo senso – e questa fosse ancora una colluttazione normale in cui io attacco e lui si difende.
Poi, finalmente, capisco che non è così. Che lui è immobile, non parla, non si agita, e pure il respiro in realtà s’è fatto un tantino faticoso, che potrebbe essere perché gli sto seduto sullo stomaco, ma anche perché gli ho sfondato la testa a cazzotti, non essendo io medico non lo posso capire subito. Perciò, la prima cosa che faccio – dopo, naturalmente, aver frenato le mani, prima di devastarlo del tutto – è cercare di sincerarmi che sia ancora vivo.
- …Chaku? – chiamo piano, e voglio dire, mi viene anche un po’ da ridere perché io non posso pestare un uomo fino a fargli diventare il cranio ovale e poi chiamarlo Chaku, c’è qualcosa che non va. – Chaku, stai bene?
Dico, deficiente che non sei altro, non sta bene no. Ti pare – mi dico, sempre da solo, che tanto il Chaku non può parlare e sono quasi sicuro che, anche se potesse, non sarebbe un compagno di conversazione adatto – che uno può passare un’intera mezz’ora della propria vita sdraiato su un pavimento a farsi cambiare i connotati da un pazzo isterico cui non va giù di essere stato appena mollato?, che poi è questo che è successo, eh?, niente di meno e niente di più, io sono stato mollato e quindi gli sono saltato addosso con la chiara intenzione di ammazzarlo. Voglio dire, avevo i miei motivi, ma non si fanno, queste cose. Quindi no, chiaro che non sta bene, che cazzo gli chiedo?, che se potesse rispondermi mi tirerebbe uno dei suoi soprammobili oblunghi sul naso. Certo, sempre se fossimo a casa sua.
Comincio ad essere un po’ confuso.
- Chaku. – lo chiamo ancora, più seriamente, scendendogli di dosso così magari evito di ucciderlo definitivamente, e sollevandogli piano la testa per rendermi conto del fatto che no, non gliel’ho spaccata contro il pavimento, è ancora lì, perfettamente sferica, giusto un po’ bozzuta dove ha battuto, e la chiazza di sangue che c’è sotto tanto per cominciare non è così ampia come l’esaltazione di prima mi faceva pensare, e tanto per concludere, cosa ancora migliore, è giusto il sangue che è uscito dalle ferite sul viso, non è che gli ho bucato il cranio ed è scivolato fuori dalle orecchie quel po’ di cervello che gli era rimasto. È ancora integro, intendo, più o meno.
- Ok… - cerco di scandirmi il tempo da solo, nel silenzio surreale in cui è immersa la mia casa da quando ho smesso di picchiare Chakuza, - Vediamo di capire… - biascico, ma parlo senza neanche sapere cos’è che sto dicendo, perché in realtà voglio solo sentire qualcosa, dato che il vuoto un po’ mi spaventa. Non mi sento in grado di controllarlo, specialmente in questo momento. – Ora ti metti in piedi. – suggerisco, ma naturalmente il Chaku da solo non lo fa mica, anche se sento che ora respira meglio, quindi magari si sta riprendendo. Lo sollevo cercando di fare piano, me lo carico in spalla e lui si lascia dietro una scia di sangue neanche stessi trascinando un cadavere, sporcandomi tutta la maglietta.
Mi mugola qualcosa addosso mentre lo trascino verso il divano e poi lo sistemo fra i cuscini cercando di usare la maggior delicatezza possibile. Quando torno a guardarlo, lui ha gli occhi aperti. Cioè, non proprio aperti, diciamo meno chiusi di prima. E guarda il mondo con aria del tutto disinteressata. Probabilmente il cervello tutto a posto proprio non è, dev’essersi staccato dalle pareti della scatola cranica e ora galleggia lì in mezzo a liquidi non ben definiti con tutte le sinapsi scollegate, e già mi figuro il resto della vita di quest’uomo costretto a rimanere sul divano mentre Bill lo nutre con minestrine varie cercando di impedirgli di sbrodolarsi sul bavaglio. Oddio, conoscendo il ragazzino non reggerà neanche due mesi, ma d’altronde anche io probabilmente lascerei perdere dopo un periodo non tanto più lungo, perciò è meglio che lo rimetta in sesto o qua è un disastro.
- Cosa… - mormora lui, incerto, e io evito di restare lì in attesa mentre lui riprende coscienza di ciò che è e di cosa gli sta succedendo, e vado in bagno, nella speranza di avere lì una cassetta del pronto soccorso. È ridicolo, so dov’è la cassetta del pronto soccorso in casa del Chaku, so dov’è in casa di Bill, so dov’è in casa di Anis e so dov’era in casa di Nicole, ma non ho idea di dove sia qui in casa mia. Non so neanche se ci sia.
Fortunatamente c’è, quindi quando torno indietro non lo faccio a mani vuote come un cretino, ma con il disinfettante e un vario campionario di cerotti di diverse dimensioni fra le mani. Chakuza mi guarda senza capire cosa ci faccia io lì, probabilmente.
- Mi dispiace. – butto lì giusto per dire qualcosa, - Spero non faccia troppo male.
- Uh? – chiede lui, senza dimostrare particolare presenza a se stesso, - Male? Non direi, ma non lo so, sono un po’ intorpidito…
Fortuna che sei intorpidito, penso io, se eri vigile e attento probabilmente stavi giù urlando in preda al dolore desiderando la morte piuttosto che subire ancora questa tortura infinita. Mi seggo accanto a lui sul divano, imbevo un po’ di cotone idrofilo nel disinfettante – l’alcool che non brucia, quello dei bimbi piccoli, non ricordo nemmeno quando l’ho comprato ma ero sicuro che, se dovevo avere del disinfettante, sarebbe stato questo, perché odio il bruciore dell’alcool normale. Ne odio anche il colore, per la verità.
- Stai buono, - dico, passando il batuffolo sulle ferite, cercando di fare piano, - Ti do una sistemata.
Lui annuisce ed io mi metto lì buono a fare qualcosa che non so fare, perché quando andavo in giro pestando gente per strada e ricevendo da loro lo stesso quantitativo di botte che somministravo, era mia madre a rimettermi a posto. Poi, le varie fidanzate di Anis, donne che avevano imparato l’arte standogli accanto. E anche l’ultima volta, è stato Chakuza a prendersi cura di me.
Io non sono per niente capace, ma visto che sono stato io a ridurlo in questo stato pietoso, è giusto che mi prenda le mie responsabilità e lo rimetta in sesto. D’altronde, qualcuno dovrà pur farlo. Uno qualsiasi di tutti noi.
Restiamo in silenzio così a lungo che riesco, per un po’, a crogiolarmi nella piacevole sensazione che Chakuza si lascerà ripulire e poi andrà via sempre restando zitto. Sarebbe una bella cosa, da parte sua, almeno dimostrerebbe di aver capito quanto cazzo ci sto male, e di non voler rigirare ulteriormente il dito nella piaga.
Purtroppo, però, è di Chakuza, che stiamo parlando. Lui il dito nella piaga te lo rigira non perché non voglia, ma perché non arriva a capire che non è il caso.
- Fler, - comincia, - io non vorrei che tu pensassi—
- Io vorrei che tu non dicessi niente, adesso. – lo interrompo, riponendo tutto al proprio posto nella cassetta del pronto soccorso ed ammucchiando il cotone idrofilo sporco di sangue di lato, per gettarlo via, - Ho capito l’antifona. E, credimi, vorrei poterti dire che sono felice per te e che possiamo rimanere amici, ma non posso farlo. – vedo qualcosa spezzarsi nei suoi occhi. Schiude le labbra e so che vorrebbe provare a fermarmi, ed è proprio il caso che io non glielo permetta, perché stavolta non ce la posso fare, Chaku. Stavolta proprio no. – Non guardarmi così. – cerco di sorridere, - Sarai felice, anche senza avermi intorno. Probabilmente andrà anche meglio. – e poi torno serio, e il sorriso scompare. – Non cercarmi. Non mi lascerei trovare comunque.
Il nostro addio è molto più impersonale, impacciato e meno sentito di quanto non abbia mai pensato immaginandomelo. Lo accompagno alla porta con tranquillità, cercando di non dargli a vedere che mi reggo appena sulle gambe anche se so che lui se ne accorge. Lui mi saluta con un ciao dimesso, cercando di non darmi a vedere che gli tremano le mani anche se sa che io me ne sono accorto. Quando la porta si chiude alle sue spalle, il suo profumo resta nell’aria di casa mia appena il tempo di essere mangiato dall’odore dei mobili ancora troppo nuovi, e poi io scrollo le spalle, vado in cucina e comincio a ripulire per terra.
*
Da quando Chakuza è uscito da quella porta, nient’altro c’è passato. Nemmeno io, che sono chiuso in casa da cinque giorni. Non è che abbia chissà che paranoie in mente, paura di incontrarlo o chissà che – Berlino è grande e “frequentare lo stesso giro” ha perso senso da quando Bill e Bushido sono due giri diversi a sé stanti – è solo che non mi è venuta voglia. In casa avevo tutto ciò che poteva servirmi, ho dovuto raschiare un po’ il fondo del barile, ma tra scatolette e cibi precotti vari sono sopravvissuto dignitosamente a questa quasi-settimana di solitudine senza rimpiangere il mondo di fuori neanche per il calore del sole sulla pelle. Ti scalda altrettanto anche attraverso i vetri delle finestre.
Quando Bushido arriva, ovviamente senza prima preannunciarsi, mi trova con una pezza umida fra le mani e le maniche del maglione tirate su fino ai gomiti. Stavo lavando i piatti dopo un lauto pasto a base di fagioli in scatola riscaldati a bagnomaria. Ora sono le undici e mezza di sera, lui è sulla soglia della mia porta, è il primo essere umano che la attraversa da giorni ed è ubriaco.
- Anis…? – lo chiamo, ma lui non risponde. Mi fa un sorriso idiota e mi si scaraventa fra le braccia, si vede proprio che si lascia andare, che non ne può più di stare in piedi. Siccome è leggero come un materassino di gommapiuma, lo tengo dritto e lo accompagno verso il divano, chiudendomi la porta alle spalle e cercando di sistemarlo fra i cuscini cercando di impedire che rotoli a terra. – Anis, ma che cazzo—
- Sono ubriaco. – dice lui, come a volermene informare nel caso non l’avessi capito.
- Sì, l’avevo afferrato. – gli faccio presente con una smorfia, - Puzzi tanto che ti sentirei pure a due isolati di distanza, cazzo, ma quanto hai bevuto?
- A sufficienza. – risponde lui, annuendo come se servisse un tono professionale per parlare di una roba simile. Sospiro e roteo gli occhi, sedendomi accanto a lui sul divano e tirandogli un’ancata per costringerlo a spostarsi un po’ e farmi spazio.
- Sì, a sufficienza per farti esplodere il fegato. – ribatto, e lui subito scoppia a ridere come avessi fatto la battuta del secolo, e mi tira uno scappellotto sulla nuca. Solo che poi la mano resta là, e siccome di tenerla immobile non gli va, perché mai nulla nel suo corpo è immobile, prende a farmi delle carezzine minuscole, quasi impercettibili, neanche fossi un cane o un qualche altro animale domestico. – Che è successo? – chiedo con un sospiro, e sospiro perché già lo so cosa è successo, e so anche che sentirmelo ripetere non mi farà bene, perché ciò che Anis mi dirà ha delle implicazioni che lui non conosce e delle quali vorrei parlargli, ma non posso farlo. Tutto ciò che posso fare è restare in silenzio ed ascoltarlo mentre, fissando la parete di fronte a sé, in un punto vuoto defilato rispetto al televisore e ai quadri astratti che erano già qui quando ho preso l’appartamento, mi racconta quanto fa schifo la sua vita al momento, e perché.
La cosa sorprendente è che mi parla di tutto. Principalmente di Bill, com’è ovvio, ma in realtà non tralascia niente. Mi parla dell’etichetta a puttane, di tutta la rete di amicizie che aveva intessuto e che ora è scomparsa quasi del tutto, ma anche di sua madre e di quanto faticosamente abbia accettato tutto ciò e provi comunque a stargli accanto, seppur con difficoltà. Mi parla di suo padre che mentre lui era a Miami è morto e del fatto che non mi sa dire se gli dispiaccia non essere andato al suo funerale e non aver saputo a lungo neanche che un funerale ci fosse stato. Mi parla del vuoto nel petto che sente quando ci pensa e mi parla del freddo che c’è in casa, che è enorme, e mi parla del profumo di Bill che ogni tanto sente ancora quando apre l’armadio o schiaccia il naso contro un cuscino. E mi parla dello spazzolino della sua principessa che è ancora lì nel bicchierino in bagno, dei suoi asciugamani, di tutte le cose che non ha portato via perché erano oggettivamente troppe e in gran parte inutili, decorazioni stupide con cui rinforzavano entrambi la sensazione dello stare insieme. E che ora restano lì solo a testimoniare che insieme non esiste più.
Anis tutte queste cose può dirmele solo perché ora sta così. Perché non ce la fa più a tenersele dentro e l’alcool lo sta usando come scusa per tirarle fuori. Perché prima Bushido era la parte più grande di lui ed ora invece è solo il nome che usa per lavorare. E sarebbe bello vederlo ritornare Bushido davvero, non perché non mi piaccia Anis, ma perché Bushido è tutto ciò per cui Anis ha combattuto. È tutto ciò che si è guadagnato. Ed è orribile vederlo gettare via una parte così enorme e significativa di lui, indipendentemente dal fatto che sia colpa sua o meno se quella parte è morta.
Sollevo una mano, un po’ incerto, e gliela batto sulla spalla in un paio di pacche che spero siano consolatorie. Mi fa schifo dirgli cose banali quando lui invece fino a questo momento mi ha detto cose tremende e bellissime aprendosi il cuore in due e lasciandone venire fuori tutto il sangue, per capirci, ma non è che possa fare poi molto altro.
- Cerca di stare tranquillo. – gli dico, forzando un sorriso bugiardo anche più delle parole che pronuncio, - È probabile che sia solo un momento di confusione. Bill è piccolino, lo sai, è solo un ragazzino. Vedrai che… - deglutisco, prima di andare avanti. Mi chiedo “ma ci credi davvero?”, e rispondermi “no” non basta a fermarmi. – Vedrai che alla fine tornerà da te, e andrà tutto a posto.
Anis, che fino ad ora non mi ha guardato per niente, si volta nella mia direzione. Ha gli occhi lucidi e i capelli scompigliati che gli cadono sulla fronte e sulle tempie. La barba è un po’ più lunga del solito, ma il disegno è rimasto intatto. I suoi lineamenti dritti e fieri sono gli stessi che mi perdevo ad ammirare da ragazzino, quando cercavo di trattenere in corpo più alcool di quanto non potessi fisiologicamente lasciarmi scorrere nelle vene, solo per cercare di dimostrargli quanto fossi grande, quanto potesse ritenermi un suo pari, quanto potesse fidarsi di me.
- Per quanto mi riguarda, - risponde, il tono molto più lucido di quanto entrambi non vorremmo, - può restare dov’è per sempre. Se Chakuza lo rende felice, ci resti. Io… - sospira, cercando di rilassare i muscoli e gettando indietro il capo, poggiandolo sullo schienale e fissando il soffitto, - non ti dico che ho sbagliato. Ho fatto ciò che ho ritenuto opportuno in quel momento, ma purtroppo le cose non sono andate come avevo pensato. In questo momento non saprei neanche dirti se è vero che sono tornato solo per l’etichetta, o se forse non ero semplicemente arrabbiato perché non riuscivo più a tollerare di non avere più niente quando prima avevo tutto. Il punto è che mi sono stancato. – torna a guardarmi, la sua mano pressa ancora contro la mia nuca ed io non so se dovrei averne paura, - Ci ho provato, a rimettere le cose a posto. Ma non ci sono riuscito. Ed ora sono stanco. E non mi va più di tentare. Per cui, che vada come deve andare. Abbasso le armi, il re ha perso. Qualcuno ne sarà felice.
Mi verrebbe voglia di abbracciarlo, ma allo stesso tempo ho paura di cosa potrei fare se mi lasciassi andare a questo punto. Stringo un po’ la presa sulla sua spalla, come a cercare di rassicurarlo con maggiore convinzione. Lui mi guarda con un pizzico di delusione negli occhi e io distolgo lo sguardo.
- Vado a preparare un po’ di caffè. – dico dopo essermi schiarito la voce, alzandomi in piedi e liberandomi della sua mano ancora ferma e pesante sulla nuca, - Vediamo se posso rimetterti in sesto abbastanza da rimandarti a casa tua… altrimenti, c’è il divano. – dico, con una mezza risatina imbarazzata.
Scappo in cucina con la coda fra le gambe, mi sento una merda e non ci sto con la testa. L’agitazione che mi ha preso guardandolo negli occhi per quella frazione di secondo non è spiegabile se non con tutta l’interezza del nostro vissuto. Che è una cosa in cui pesano tanto le parole che ci siamo detti, ma ancora di più quelle che nessuno di noi ha mai avuto il coraggio di pronunciare ad alta voce.
Non so quanti secoli ci metto a preparare la dannata moka. Lo faccio con metodo perché voglio tempo e non voglio pensare, e questo mi ricorda Chakuza, ed al fatto che questa moka la stavo preparando così anche mentre lui cercava di mollarmi fallendo per principio, e questa cosa mi mette addosso ancora più agitazione. Ho paura per quello che potrebbe succedere questa notte in questa casa – ci sono cose che non dovrebbero mai accadere. Ci sono cose che è meglio se restano ipotesi. Io ci credo fermamente, in questa cosa. E so che Anis riuscirebbe a gettare in terra tutto quello che ho costruito con fatica in tutti questi anni senza la minima difficoltà. Io non ho quasi mai paura fino al punto da tremare, ma sto tremando come una foglia. E me ne accorgo solo quando le mani di Anis si posano sulle mie spalle, stringendo e mollando impercettibilmente la presa mentre sento il suo respiro caldissimo sulla nuca.
- Forse avevi ragione tu fin dall’inizio. – parla pianissimo, sulla mia pelle. Non riesco a ricordare molte occasioni in cui ho sentito il suo respiro così vicino da confonderlo col mio. – Sarei dovuto rimanere con te.
Mi cade la caffettiera dalle mani. Fa un baccano infernale andandosi a schiantare sul fondo del lavandino. Si apre in due, ne viene fuori tutto il caffè. Avevo appena pulito. Non riesco a voltarmi e nemmeno a parlare, mi sento di ghiaccio. Non so nemmeno se respiro ancora e sono ancora vivo, o se a tenermi in piedi è solo la tensione.
Lui si china appena in avanti, sento le sue labbra calde e un po’ umide sul mio collo e lascio andare un gemito involontario che è di pura sorpresa.
- Pat. – mi chiama lui, pianissimo, - Guardami.
Io non lo voglio guardare, ma quando entra in gioco Bushido volere e non volere sono cose indipendenti dalla tua volontà, per quanto tutto ciò possa sembrare assurdo. Quindi il punto non è se io voglio o meno, perché vuole lui, e tanto basta per costringermi a girarmi e obbedire.
Nei suoi occhi non lo capisco cosa c’è. Sono tristi, però. Sollevo una mano e gli accarezzo una guancia, lui si appoggia contro il mio palmo con un gesto esausto. Siamo vicinissimi, sento tutti gli spigoli e le curve del suo corpo addosso. Sento cose che preferirei non sentire. Mi viene da ridere se penso che lui di me e Chakuza non sa niente, in teoria dovrebbe ancora credermi etero – se mai gli è sorto il dubbio sul punto. Odio pensare a Chakuza anche in questo momento, vorrei poterlo buttare fuori dalla mia testa a calci, ma non ci sono mai riuscito in tutto quest’anno e mi spaventa, sinceramente, che non ci stia riuscendo neanche Anis adesso.
Poi si sporge in avanti e poggia le labbra sulle mie. È una cosa così stupida, siamo grandi, abbiamo superato l’adolescenza da abbastanza tempo per evitare i baci a stampo, soprattutto quando non è il caso di perdersi in cazzate simili, eppure all’inizio sono solo le sue labbra. Sanno di lui mischiato a tutto l’alcool che ha mandato giù prima di venire qui. Hanno esattamente lo stesso sapore che potevano avere dieci anni fa. Mi sembra di stare chiudendo un cerchio e mi fa paura anche questo perché i cerchi, per loro natura, sono ciclici. Chiuderne uno non vuol dire interromperlo.
La sua lingua mi accarezza piano dopo un po’, ed io esito solo un attimo, prima di lasciarla passare. E quando ci sfioriamo davvero, quando il bacio comincia a diventare una cosa seria, bagnata e calda, lo sento sporgersi in avanti con più decisione. Pianta le mani sul lavello, ai lati del mio corpo, e mi si schiaccia addosso. Io allaccio le braccia dietro la sua nuca e lo stringo con tanta forza che mi fanno male le spalle, le dita e i polsi. E tutto comincia a diventare più confuso, se non altro perché io mi rompo le palle di pensare, di farmi domande, di riflettere su quanto ci faremo schifo domani e quanto tutto ciò sarà stato inutile perché nella merda siamo e sempre lì resteremo indipendentemente da quanto a lungo e con quanta forza anche inconsciamente abbiamo atteso questo momento. C’è Anis che mi accarezza ovunque spingendosi contro di me, ho un suo ginocchio fra le gambe e le sue labbra che mollano le mie solo per permettermi di respirare, ma siccome non riescono ad abbandonarmi del tutto scendono lungo il mio collo, mentre le sue dita afferrano l’orlo del maglioncino e lo tirano violentemente verso l’alto per liberarsene.
Potrei cercare di fermarlo, ma non voglio. Il pensiero che sia ubriaco dovrebbe obbligarmi a cercare di interrompere tutto questo, ma me ne frego. C’è questo momento bellissimo in cui mi slaccia i pantaloni e me li lascia scivolare lungo le gambe, e prende ad accarezzarmi guardandomi negli occhi. Mi vanno a fuoco le guance e sono imbarazzato come mai in vita mia, ma non riesco a smettere di guardarlo a mia volta. Ansimo sulle sue labbra, quasi silenziosamente, e lui mi bacia solo ogni tanto, è come se aspettasse di sentirsi scivolare il mio sapore via dalla lingua e poi tornasse subito a cercare di catturarlo ancora, per vedere quanto a lungo riesce a trattenerlo. E poi gli afferro un polso per fermarlo e, quando riesco a farmi lasciare, faccio per voltarmi e dargli le spalle, ma lui mi ferma.
- No. – dice semplicemente, e quando io torno a guardarlo mi aiuta a issarmi sul ripiano della cucina. Quando lo sento duro fra le gambe, due secondi dopo, capisco cosa vuole, e lo bacio con foga, stringendo il suo viso fra le mani. Mi ci perdo del tutto, lui mi stringe per i fianchi e subito dopo sta già spingendosi con forza dentro di me. Non credo che si stia chiedendo qualcosa a riguardo, e mi sta bene così. Voglio che questo momento sia solo nostro, che non ci sia spazio per nient’altro.
Tremo quando ricomincia ad accarezzarmi fra le cosce, e chiudo gli occhi con tanta forza che vedo bianco. Lo sento ridere appena vicino al mio orecchio, con la mano libera torna a stringermi possessivamente il fianco.
Non mi dice nulla, anche se potrebbe dirmi qualsiasi cosa. Avrebbe davvero il potere di devastarmi la vita, in questo momento, se solo dicesse quelle tre parole che non so se gli siano mai girate per la testa in relazione a me, ma che per quanto mi riguarda sono state un pensiero fisso molto a lungo, tra un momento in cui cercavo di nascondermelo e l’altro. Però lui non lo dice. Forse ce l’ha lì, sulla punta della lingua, ma capisco chiaramente che preferirebbe staccarsela a morsi pur di non farmi del male adesso, e quindi non lo dice. Ed io vengo fra le sue dita con un gemito liberatorio, e me lo stringo forte contro mentre lui continua a spingere dentro di me finché non lo sento venire a sua volta, stringendomi forte i fianchi e mordendomi la spalla abbastanza forte da lasciarmi il segno ma non altrettanto da farmi male.
Restiamo immobili giusto il tempo di riprendere fiato, e quando ci allontaniamo, nell’attimo che passa fra il momento in cui fa un passo indietro e quello in cui torniamo a guardarci negli occhi, mi faccio assalire dalla paura irrazionale che guardandoci non ci riconosceremo, ci vedremo come due estranei e ci chiederemo che cazzo abbiamo fatto.
E invece, quando ci guardiamo, scoppiamo a ridere. Come due imbecilli. Io mi piego in due così tanto che cado dal ripiano e rotolo sul pavimento. Mi faccio un male cane ma non riesco a smettere di ridere, e Anis che mi guarda in queste condizioni non può fare altro che ridere più forte. Ed è un dramma quando succede così, perché le risate si alimentano di altre risate, perciò finisce che rimaniamo lì a rotolare sul pavimento della mia cucina dove cinque giorni fa ho pestato Chakuza fino a fargli uscire il cervello dalle orecchie, e ridiamo come deficienti per mezz’ore intere, non so nemmeno io quanto, tant’è che alla fine siamo del tutto senza fiato ed ansimiamo come se, invece di scopare e ridere, avessimo corso la maratona di New York. Una roba surreale.
- Ho fame. – dice lui, rimettendosi in piedi e risistemandosi sommariamente i vestiti, prima di porgermi la mano per aiutarmi ad alzarmi, - Che hai in casa?
- Ma io ho già cenato! – gli faccio notare, indicando le stoviglie pulite messe a scolare, - Dai, che palle, mi devi far rimettere a cucinare?
Lui scrolla le spalle ed apre il frigorifero. Osserva con attenzione tutto ciò che ha davanti, poi lo richiude, torna a guardarmi e risponde.
- Sì, perché non c’è niente di già pronto.
Ciò detto, apre tutti gli stipetti, tira fuori una serie di cose a caso che io a stento riconosco e probabilmente non ho neanche comprato, ed erano già qui quando ho comprato l’appartamento, assieme ai quadri astratti, e poi mi sorride trionfante.
- E che dovrei farci io con… - sollevo un barattolino a caso, - del brodo granulare di pesce?
Lui sorride ancora, più apertamente.
- Comincia a mettere l’acqua a bollire. – risponde, - Non so cucinare, ma ricordo a memoria il ricettario di Karima.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Fler/Chakuza, Sido/Bushido/Bill/Fler/Chakuza (wut?).
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Crack, Slash, Fivesome.
- Tom Kaulitz ha cinque certezze. Sono poche, ma sono buone. O almeno così crede.
Note: Vorrei potermi liberare di un po’ di responsabilità concernenti questa storia, per cui: l’ha plottata Tab, Meg s’è rifiutata di scriverla passandomi la palla e Def me l’ha betata e mi ha istigata a postarla, mentre Gra, con la sua meravigliosa challenge per DispariSome, mi ha fornito il pretesto perfetto per farlo davvero. Oltre ciò, non ho poi molto da dire, a parte il fatto che dovreste avere molta pietà di me e di Tom. Ma molta davvero. *piange*
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PRINCIPLE OF UNCERTAINTY

Nel corso del mio ultimo anno di vita, gran parte delle mie certezze sono state prese, gettate in terra come pezze vecchie e poi calpestate senza ritegno né dignità come non avessero il benché minimo valore. Io capisco che la vita è sempre un divenire, non c’è mai nulla che sia uguale un minuto dopo averla vista, sono grato a David per il corso di filosofia accelerata cui mi ha sottoposto prima dell’Abitur e tutto il resto, ma comprendetemi, non è bello quando credi in qualcosa fino a un determinato secondo della tua esistenza e poi in quel determinato secondo succede qualcosa che devasta tutto come una specie di uragano, lasciandoti in mutande e con nient’altro in mano oltre alla tua disperazione.
E sì, mi rendo conto di stare esprimendomi in termini catastrofistici, emodepressivi e generalmente iperdrammatici, ma ci sarà un motivo per il quale condivido il cento percento del mio corredo genetico con mio fratello Bill; in qualcosa dovevamo pure assomigliarci, ed evidentemente questo qualcosa è la propensione al drammatismo spicciolo da tragedia catastrofenaturalistica americana. Oltre al talento nell’usare le parole, naturalmente, voglio dire, visto quanti termini nuovi di zecca sono stato in grado di coniare in meno di cinque minuti di monologo? Sono meraviglioso.
Comunque, mia meraviglia personale a parte, parlavo delle mie certezze. Ne avevo poche, ma tutte erano ben salde e costituivano le fondamenta del mio intero essere, per svariati motivi.
La prima e più importante di tutte era: Bill non è gay.
…non osate ridere né guardarmi in quel modo! Io sono la persona che conosce Bill meglio in assoluto in tutto l’intero universo, lo conosco da prima che venissimo al mondo, da prima che venissimo generati, da prima che la grande volontà dell’universo decidesse che era giusto che due Kaulitz uguali calpestassero il suolo del pianeta Terra contemporaneamente, io e Bill siamo una cosa sola da che il Big Bang è esploso generando l’universo e via discorrendo, se vi dico che mio fratello non aveva mai dato segno della sua inclinazione omosessuale dovete credermi. No, trucco, unghie e capelli non sono segno di inclinazione omosessuale, furbastri supponenti che non siete altro – e nemmeno i vestiti! Bill non era gay, posso giurarlo, so che scopava con delle donne e non fate queste facce sconvolte e nauseate, era un ragazzo assolutamente normale. Oh.
Poi, Bushido è piombato nelle nostre vite. Prego inserire musica drammatica in questo punto.
Ora, io non ho mai nascosto la mia preferenza per il lato cattivo del rap tedesco. Voglio dire, di fronte a una scelta, ho sempre scelto l’Aggro Berlin e Sido. Senza nemmeno rifletterci su, in realtà. Però, ecco, Bushido mi piaceva, per il semplice fatto che – voglio dire: è sfrontato, è cazzuto, è stato arrestato, è un rapper. Come poteva non piacermi?
Quindi, insomma, quando David mi ha detto che probabilmente ci sarebbe stata una collaborazione con uno dei suoi uomini, per il nuovo album, io naturalmente mi sono esaltato, e non dico di essermi messo a squittire come una fangirl – a questo proposito, non chiedete mai a Georg di raccontarvi la mia reazione, poi dovrei uccidere lui e voi e temo che questo causerebbe dei problemi non indifferenti alla mia carriera – dicevo, non mi sono certo stracciato le vesti di dosso crollando a piangere di commozione, anche perché le vesti che avevo addosso dovevano valere sul migliaio di euro tutto compreso, ma sono comunque stato molto felice. Certo, Kay One non era assolutamente il mio preferito nel mucchio degli artisti sotto contratto all’Ersguterjunge & Co., ma era meglio di niente. Ero ancora vagamente dubbioso riguardo quando fosse opportuno inserire del rap nelle nostre canzoni, ma mi fidavo di David.
Naturalmente non avrei dovuto. Alla fine non siamo riusciti a infilare il rap in nemmeno una delle nostre canzoni. In compenso, Bushido è riuscito a infilare le mani nelle mutande di mio fratello.
Voglio dire.
La seconda certezza fondante la mia esistenza, dato che apprezzavo l’uomo e tutto il resto, era Bushido non è gay. Poi l’uomo arriva, sparge sorrisi smaglianti e acqua di colonia da non so quante centinaia di euro per tutto lo studio e il minuto dopo lo trovo lì che flirta spudoratamente con mio fratello, costringendolo a stringersi imbarazzato nelle spalle esili e spostare altrove lo sguardo brillante di emozione. Io lo conosco mio fratello, lo so quando si sente compiaciuto, e il primo passo per scalare la montagna di gambe chilometriche che conduce al suo cuore è lusingarlo. Bushido ci stava riuscendo.
Insomma, per me è stato un disastro umano! Due certezze spazzate via in un colpo solo da un tunisino con un opinabile taglio di capelli ed un’ancora più opinabile propensione verso l’inchiostrazione indiscriminata del proprio corpo! Non si fa così, non è corretto.
Come potrete abbondantemente immaginare da voi, venire a patti con tutto ciò non è stato semplice. Vi risparmierò la cronaca dei lunghi mesi che ho passato, nell’ordine, a: ostracizzare mio fratello da qualsiasi mia decisione, fosse essa mettere o meno i cetrioli in un panino o cambiare radicalmente taglio di capelli; combattere una guerra di grugniti e ringhi di varia natura nei confronti di Bushido per aver privato mio fratello della sua innocenza o almeno di un’emanazione della stessa; combattere una guerra di pari violenza e pari intensità dotata però anche di scazzottate ai limiti del legale con David, che ritenevo primo e principale colpevole del disastro in atto, visto che avrebbe dovuto dire a mio fratello di piantarla una buona volta e stare lontano dal tunisino o, in alternativa, avrebbe dovuto prendere il suddetto tunisino e trascinarlo di fronte a un tribunale per circonvenzione e abuso di incapace e costringere i giudici a rinchiuderlo in uno sgabuzzino in compagnia di turchi che non vedono da anni la luce del sole, per tutto il resto della sua vita, tipo, e invece non stava facendo niente del genere e si limitava anche lui a spargere sorrisi e acqua di colonia come non ci fosse un domani, così, al solo scopo di mandarmi ai pazzi.
Alla fine, dopo numerose tribolazioni, ho accettato la realtà – nel senso che mi sono rassegnato, ecco. Accettare è un termine un po’ forte, ti fa pensare ad un uomo che si sveglia al mattino e, con tutto l’orgoglio dei suoi vent’anni, spalanca la finestra, alza gli occhi al cielo, inspira a pieni polmoni ed esclama “io posso farcela e ce la farò!” richiamando a sé le forze della natura perché lo pervadano e lo aiutino ad uscire dalla brutta situazione in cui s’è cacciato. Ecco, io non direi di essermi comportato proprio così, per questo “rassegnare” è un termine più preciso, perché ti fa pensare a un uomo che si sveglia al mattino e, con tutto l’orgoglio dei suoi vent’anni, incurva le spalle, sospira e sbotta “va be’, poteva andare peggio, poteva mettersi con Chakuza”. Per dire.
Comunque, da lì in poi le cose hanno cominciato a migliorare. Io ho ripreso a parlare con Bill, ho smesso di picchiare David e ho anche scoperto che in fin dei conti il Billshido diventato realtà non era nemmeno così male. Voglio dire, mio fratello era parecchio frustrato, ultimamente, e da quando andava a letto con Bushido invece le cose sembravano andare sensibilmente meglio, perciò evidentemente Madre Natura sapeva cosa fare quando li aveva chiusi entrambi in uno sgabuzzino per indagare sulle nuove frontiere della loro sessualità. Bisognerebbe sempre fidarsi di Madre Natura, lei sa cosa fa e non sbaglia mai. Ha fatto me etero perché non poteva privare le donne della mia bellezza, ha fatto Georg e Gustav etero perché non poteva dare agli omosessuali anche questa sfiga e ha fatto Bushido e Bill omosessuali perché potessero trovarsi e ristabilire gli equilibri dell’universo, evidentemente. Chi sono io per oppormi? Nessuno. E quindi non mi oppongo.
I problemi hanno ricominciato a bussare alla mia porta quando la storia fra Bill e Bushido ha cominciato a farsi seria. Intendiamoci, io non avrei avuto nulla in contrario se quei due avessero continuato a scopare come ricci fino ad esaurire la forza che li spingeva l’uno verso l’altro, ma loro no, volevano fare i romantici, gli innamorati, e si sa come finiscono queste cose, che poi ci si appiccica come crauti ai wurstel e non ci si stacca più nemmeno coi lacrimogeni. E quindi è cominciata la lunga trafila di cose che odio e che succedono sempre in questi casi: presentazione dei genitori – che poi in realtà è stata la cosa meno devastante, perché Bushido per qualche motivo adora la frittata con le cipolle di mia madre ed io per motivi ancora meno comprensibili adoro lo spezzatino con le patate della signora Luise Maria – pellegrinaggi continui negli appartamenti altrui, spostamento dei primi vestiti e, dulcis in fundo, presentazione degli amici.
E lì crolla la mia terza certezza. Nello specifico: se anche Bushido fosse gay, i rapper in generale non potrebbero esserlo.
Immagino lo sappiate già, comunque: Bushido vive in un’enorme villa gialla che io suppongo possa essere vista dallo spazio al pari della grande muraglia cinese, se non altro perché il suo colore è tale da dover essere per forza catarifrangente, quindi immagino che catturi la luce del sole e poi la proietti nell’universo per centinaia di migliaia di anni luce. Scommetto che esiste un qualche pianeta perso nel nulla dal quale vedono i suoi bagliori giallastri, e scommetto anche che la credono una stella. E l’avranno nominata in qualche modo tipo B-Ush1d0. O chessò io. Comunque! Il nostro tunisino preferito vive in questa villa, e naturalmente non ci vive da solo. Fino a qualche tempo fa ci viveva con Kay One e D-Bo, poi Kay One ha deciso giustamente di fuggire per rincorrere il miraggio dell’eterosessualità e D-Bo ha deciso di imitarlo per rincorrere quello dell’indipendenza, e quindi Bushido s’è visto costretto a cambiare coinquilino.
E qui entra in gioco Fler.
Dunque, Fler è un uomo che mi sono ritrovato ad apprezzare parecchio, in passato, se non altro perché Sido diceva un gran bene di lui, se lo portava ovunque e tutto il resto. E poi, ammettiamolo, l’uomo col rap ci sa fare, e ci dà dentro che è una meraviglia. L’ultimo album, poi, è una delle cose più grandiose siano state prodotte all’AB nei suoi quasi dieci anni di meravigliosa esistenza, perciò io, ecco, gli volevo del bene.
Quando ha deciso di riappacificarsi col vecchio amico e poi arcinemico, non è che ci abbia trovato qualcosa da ridire. Trovo però decisamente qualcosa da ridire nell’entrare in casa di Bushido in compagnia del sovrano della baracca e della sua regina – mio fratello – e ritrovarmi appunto Fler sul divano che limona selvaggiamente con Chakuza. Ecco, questo mi turba parecchio, ed ho da ridire eccome, per due motivi fondamentali: il primo è che una cosa del genere ovviamente distrugge la mia certezza sui rapper che non sono mai gay, il secondo è che non si limita a distruggere solo questo ma distrugge anche la quarta delle mie certezze – che, ve lo anticipo fin d’ora, sono cinque, quindi sopportate stoicamente, che il martirio sta per concludersi. Tale certezza era: se anche Bushido fosse gay e tutti i rapper in parata avessero deciso di seguire il suo illuminato esempio, per nessun motivo al mondo Chakuza sarebbe un essere umano sessualmente attivo. E invece, tutto insieme, scopro che non solo il rap tedesco in parata ha deciso di seguire le orme del suo principale esponente, ma ha deciso di farlo anche Chakuza e, cosa peggiore di tutte, ha deciso di farlo con Fler. Di fronte ai miei occhi!
Poi, per dire, mi sarei aspettato una reazione alla “cielo! Mio marito!” pur senza mariti implicati. Capite cosa intendo? Qualcosa tipo Fler e Chakuza che si tirano un inesistente lenzuolo fin sotto il mento ed urlano cose random tipo “oddio! Non ci aspettavamo una vostra visita! Ci dispiace! Ci spostiamo immediatamente al piano di sopra, e non certo per continuare ma per fare harakiri a seguito della nostra intimità violata” e via così. E invece niente, io mi vedo questi due uomini adulti che restano nell’esatta posizione in cui erano quando li abbiamo beccati – per la precisione e nel caso vi interessi, anche se ne dubito: Chakuza seduto sul divano con Fler a cavalcioni nell’atto di sollevarsi per liberarsi più facilmente dei jeans – e si voltano a sorriderci e salutarci come niente fosse, e insomma, mi prendo male! Chiunque si prenderebbe male, in una situazione del genere! E quindi raccolgo ciò che di mio è caduto fin sul pavimento di Bushido – la mascella, per lo stupore, non le palle, quelle le tengo sempre in gran conto e al loro posto – e fuggo via il più lontano possibile. Letteralmente.
È un peccato che mio fratello abbia gambe così lunghe, sia così leggero e, soprattutto, sappia esattamente dove trovarmi quando entro in depressione e mi chiudo in posizione fetale rinnegando l’esistenza del mondo esterno.
Insomma, sono stato riportato indietro al grido di “ma dai, Tomi, sono così carini!” e non ho potuto fare a meno di rassegnarmi ancora e prendere atto del fatto che la mia vita aveva deciso di tradirmi ribaltandosi al contrario mentre io dormivo o ero comunque momentaneamente assente, e senza nemmeno lasciare un messaggio dopo il segnale acustico. Ci sono tragedie alle quali uno dovrebbe essere preparato prima, e invece niente, un attimo prima sei un uomo felice e l’attimo dopo ti ritrovi su un divano giallo dentro una casa gialla che mangi pasticcini gialli bevendo tè al limone mentre un rapper tunisino divora di baci tuo fratello da un lato e altri due rapper dall’altro lato si fanno prendere da una sorta di delirio pro-gay e ti raccontano tutta la loro vita e, soprattutto, come e quanto in meglio sia cambiata la loro vita da quando hanno scoperto di amarsi. Che sono cose che uno non vorrebbe mai sentirsi dire, intendo, ascoltare Chakuza che ti racconta dei suoi piani di vita matrimoniale con Fler aggiungendo che prima o poi gli piacerebbe anche adottare dei bambini o, in assenza, almeno qualche cane? No, grazie, vivo felice anche senza.
Comunque niente – e aiutatemi a ripetere niente – di tutto questo poteva prepararmi al dramma cosmologico che da lì a poco si sarebbe verificato. Perché uno vede tante cose, nel corso della propria vita, e io ne ho viste un mucchio, credetemi, e dopo un po’ si convince che niente potrà più stupirlo o piombarlo in un baratro di disperazione, perché ci si riprende da tutto, no? Io mi sono ripreso da mio fratello, tanto per cominciare, poi mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo, mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo che è Bushido, mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo che è Bushido e ha due amici che sono Chakuza e Fler e che stanno insieme!, e dopo tutto questo pensavo che nulla più avrebbe potuto scalfirmi. E invece no. Non avevo tenuto conto del fatto che al peggio non c’è mai fine.
E tutto ciò mi riporta ad oggi. A una cena con tutta la crew di Bushido che è finita da almeno mezz’ora e a me che, svaccato su questa poltrona e con un bicchiere di vino rosso ancora quasi del tutto pieno in mano, osservo la scena che si presenta di fronte ai miei occhi e che coinvolge mio fratello, Bushido, Chakuza, Fler e Sido, che s’è fermato a chiacchierare un po’ dopo la fine del pasto.
Ricordate della quinta certezza cui accennavo prima? Ecco, recita pressappoco così: se anche Bushido fosse gay e tutti i rapper in parata avessero deciso di seguire il suo illuminato esempio, e se pure Chakuza dovesse rivelarsi un essere umano sessualmente attivo, una cosa non potrà mai cambiare, e questa cosa è che Sido non è gay né mai lo diventerà.
Capite bene che è un po’ difficile ripeterlo adesso che lo stesso Sido che mai e poi mai dovrebbe essere gay si spinge e sgomita per cercarsi uno spazio fra le braccia di mio fratello mentre Bushido lo tiene stretto da dietro strusciandosi contro di lui e Fler e Chakuza si danno alla pazza gioia baciandosi e spogliando contemporaneamente tutti gli altri, aiutati da una maestria che dimostra esperienza di un tipo che non sono certo di voler conoscere. E tutto questo qui, di fronte ai miei occhi.
- Ragazzi… - azzardo incerto, osservando il mio bicchiere di vino e allontanandolo con aria dubbiosa, sia mai il problema non sia negli appetiti sessuali ma nelle bevande, - non credete di stare un po’ esagerando? Siete tutti ubriachi e… - mi rispondono solo mugolii incomprensibili, che si protraggono a lungo come in una nenia.
- Shai qual è il tuo problema, Tooomi? – borbotta Bill, cadendo un po’ da un lato e un po’ dall’altro, sorretto dalle braccia malferme di Bushido che lo sistema esattamente nel mezzo fra il suo corpo e quello di Sido, mentre Fler e Chakuza si avvicinano, circondandolo ai lati con una serie di spaventose risatine compiaciute, - Che tu… non ti shai divertirrrre. – sentenzia mio fratello ridacchiando a propria volta e lasciandosi maneggiare come una bambola.
Io mi passo una mano sugli occhi, disperato. Dovrei fare qualcosa, tipo alzarmi, piantarmi in mezzo a tutti questi uomini concupiscenti e fuori di testa, prelevare mio fratello e portarlo il più lontano possibile da qui prima che abusino della sua persona…
- Oh, sì, A-Anis, così! – mugola Bill, allungando braccia e gambe a caso come se, oltre ad Anis, volesse inglobare dentro di sé pure tutti gli altri che lo stanno accarezzando baciando sfiorando ovunque in questo stesso momento. E lì io sospiro ancora, poso il vino e mi alzo in piedi diretto al piano di sopra, senza prelevare nessuno. Anche perché mi rendo conto che il piano originario, quello di salvare Bill prima che abusassero della sua persona, non posso più portarlo a termine: non sono più tanto sicuro di chi stia abusando di chi altri, in questo momento.
Le mie certezze ormai sono tutte sparite nel nulla. Non sono più sicuro di niente. Una cosa, comunque, la so: la prossima volta che Bill e Bushido mi invitano a cena, li mando tutti a fanculo senza nemmeno passare dal via.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, Fler/Chakuza, Fler/Nicole.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Lemon.
- "Mi piacerebbe poter dire che la mia vita fino a questo momento, nelle ultime settimane, abbia fatto schifo."
Note: Ma buongiorno *_*v Non ve l’aspettavate quasi più, uh? XD Mi rendo conto che vi ho costrette ad aspettare tantissimo e ciò è orrendo, ma spero che vi siate godute questa shot enorme – per quanto sia godibile, visto ciò che accade al suo interno… *riflette* …okay, credo che almeno una di voi se la sia goduta sufficientemente XD Comunque u.u Perdonate il mio Bimbo mentre sfiora nuove vette di perfezione dove non si credeva nemmeno che sarebbe stato possibile (ormai è oltre anche il concetto stesso di Gary Stu. Esiste un Gary Stu alla seconda o anche alla terza? Ecco). E insomma, per il resto, aspettatevi novità nel prossimo futuro: haters to the left, SE continua imperterrita u.u
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YOUR LOVE ALONE IS NOT ENOUGH

Mi piacerebbe poter dire che la mia vita fino a questo momento, nelle ultime settimane, abbia fatto schifo. Se fosse vero, non aspetterei con tanta ansia l’arrivo di Chakuza, stasera. Anzi, lo aspetterei come una specie di benedizione. Una cosa di cui ho bisogno. Se il mio rapporto con Nicole facesse schifo, non vedrei l’ora di rivedere Chakuza, perché so quello che Chakuza mi fa, e sentirmelo addosso – o anche sentirlo vicino – sarebbe l’unica cosa che vorrei, e la vorrei senza rimpianti, anche perché sarebbe un’ottima scusa per mettere fine al mio rapporto con lei.
La verità, purtroppo, è che a Nicole voglio bene, e con Nicole sto bene. Questo rende tutto molto più difficile, e sfortunatamente non cancella il problema: io continuo ad aspettare Chakuza con la stessa ansia, come fosse una benedizione, anche se so perfettamente che è quanto di più lontano esista da una cosa simile, soprattutto per me e soprattutto in questo momento.
A peggiorare una situazione già catastrofica, si aggiunge il fatto che io conosco Chakuza e so prevederlo. Il che non significa che sappia anche prevenirlo, perché purtroppo quella è una malattia che non riesco a farmi passare, ed anche quando mi sembra di essere guarito il contagio torna sempre a farsi sentire, ed è ogni volta un po’ più forte. Però, insomma, prevederlo sì. Quindi, quando apro la porta e me lo ritrovo di fronte che mi guarda con aria colpevole e un po’ abbattuta, tutto ciò che riesco a pensare è “me lo aspettavo”. Mi viene un po’ voglia di prenderlo a calci per il pianerottolo e buttarlo giù dalle scale, a dire la verità, ma a voler essere ancora più sinceri in realtà sono stato qui dentro da solo ad aspettarlo per qualcosa come sei ore e non ne posso più di sentire i miei stessi pensieri che rimbombano fra le pareti, perciò lascio perdere i propositi violenti e mi limito a guardarlo.
Era semplicemente ovvio che, dopo la questione fra Bill e Bushido, sfumata la rabbia, il Chaku mi si sarebbe rattristato in questo modo. Ed anche volendo, io non sarei per niente riuscito a mollarlo da solo nel casino del suo cervello, ed è questo il motivo per cui cinque o sei ore fa ho salutato Nicole, l’ho portata a casa sua e me ne sono tornato nel mio appartamento – nel quale non mettevo piede da settimane, avendo vissuto da Anis quando ancora Bill stava con Chakuza, e da Nicole quando poi il ragazzino s’è trasferito.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi. L’altroieri, però, mi ha mandato un messaggio sul cellulare. E oggi mi ha chiamato. Nel messaggio s’è limitato a salutarmi e chiedermi come stavo. Quando mi ha chiamato, abbiamo parlato della pioggia che ultimamente martella incessante Berlino, a ricordarci che ormai siamo in pieno autunno e fra poco saremo in inverno, sarà finito un altro anno e noi siamo ancora nello stesso identico punto in cui eravamo un anno fa, persi e senza voglia di fare niente.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi, ma gli ho sentito la voglia nella voce – l’ho sentita in come vibrava bassa contro la cornetta, scivolandomi lungo il collo in brividi – ed è stato più chiaro in quel modo, salutandomi appena dopo avermi ricordato di portare l’ombrello, se uscivo, di quanto non sarebbe stato chiaro se mi avesse comunicato l’orario in cui sarebbe passato di qua.
- Sei in ritardo di dieci minuti sulla tabella di marcia. – lo prendo in giro, lasciandogli libero l’ingresso ed addentrandomi all’interno dell’appartamento, verso la cucina. Cristo, quest’appartamento a volte mi sembra enorme. I chilometri, ci sono, fra l’ingresso e tutto il resto. – Dovresti già stare piagnucolando perché non ti senti abbastanza amato.
- Stronzo. – borbotta lui, entrando con un po’ d’imbarazzo e richiudendosi la porta alle spalle, - Cazzo, fra te e Bushido non so chi sia peggio.
- Lui, è ovvio. – scrollo le spalle, riemergendo dalla cucina con due bottiglie di birra, - Io sono un santo martire.
Chakuza lascia andare una mezza risata amara e si gratta lentamente la nuca, accettando la birra e seguendomi mentre mi lascio andare sul divano con un tonfo scazzato.
- Scusa se- - comincia, ma non ho intenzione di ascoltarlo mentre si dispiace di qualcosa di cui non è dispiaciuto, perciò lo fermo con un cenno della mano libera, scuotendo il capo prima di prendere una sorsata di birra.
- È ok. Immaginavo che non avresti voluto startene per conto tuo. Basta che sia chiaro che possiamo distrarci come vuoi tranne che facendo a botte, perché proprio non ho voglia di violenze oggi. D’accordo?
Lui annuisce ed abbassa lo sguardo, a disagio.
Io sospiro. Okay, mi sto comportando come una merda fatta e finita. Chaku è stato mollato, c’è qualcosa di ingiusto in tutto questo – per quanto non riesca a sentirmi triste neanche sforzandomi, se ci penso – e dovrei essere comprensivo e di supporto. In fondo, qualsiasi cosa sia successa fra me e lui, fra lui e Bill, fra Bill e Bushido e fra Bushido e me, io e Chakuza siamo comunque amici. Voglio dire, prima di tutto lo eravamo. Quello che sento adesso – qualsiasi cosa sia, Nicole o meno – oltre a non avere ragione di esistere, non dovrebbe impicciarmi mentre cerco di consolarlo. Perciò conto fino a dieci e mi modero un po’.
- Dunque… - riprendo più conciliante, grattandomi distrattamente la fronte, - è tremendo vederti così, Chakuza. Vuoi smadonnare un po’? Prometto che non ti prenderò a testate, se cominci a dare della troia alla signora Luise Maria.
- Sinceramente, - borbotta lui, poggiandosi stancamente contro lo schienale del divano, - l’unica persona cui vorrei dare della troia adesso non è nemmeno una donna. – e questo, assieme ai suoi occhi improvvisamente cupi ed alla linea tesa e nervosa delle sue labbra, mi basta a capire che non è di Bushido che sta parlando, ma del ragazzino.
Un po’ vorrei fargli una carezzina sulla testa – come a un bambino di dodici anni, sì – e dirgli che è troppo facile prendersela con Bill, in una situazione simile, solo perché non riesce a gestirsi. Chakuza non capisce che, per quanto Bill possa sembrare adulto e maturo, resta comunque un ragazzino. Con tutta la sua immaturità, Chakuza ha sempre quasi dieci anni più di lui. C’è qualcosa che non torna, in quest’equazione, nessuno dovrebbe aspettarsi da un bambino che agisca come un adulto. Io non me lo sono mai aspettato, da Bill. Bill lo prendi con le caramelle e gli abbracci teneri, e se ti sta bene questo deve starti bene anche che poi, di fronte ad Anis, non sappia controllarsi. Non sono due cose diverse, è solo che è piccolo. Non può piacerti quando ti fa comodo e darti fastidio quando improvvisamente ti pesta i piedi.
Però mi rendo conto che cose simili a Chakuza non posso mica dirle. Sarebbe come se, chessò, Nyze fosse venuto da me dopo che lui ed Anis erano andati via dall’Aggro, e mi avesse detto “sì, be’, però è facile prendersela con Bushido adesso”. Cazzo, era facile sì e non desideravo altro. So che Chaku non desidera altro, adesso, perciò lo lascio fare.
- Ti va di parlarne? – chiedo a bassa voce, mettendomi comodo sul divano e voltandomi verso di lui.
- Sai cosa? – sbotta lui, mandando giù un’altra sorsata di birra, - Mi andrebbe sì di parlarne, se solo riuscissi a capire cosa dire al riguardo!
Mi lascio andare ad un mezzo sorriso divertito, perché la sua espressione – gli occhi spalancati, le labbra arricciate in una smorfia stupita e le sopracciglia inarcate verso l’alto – è molto buffa.
- Intendi?
- Intendo che non ho ancora neanche capito cosa cazzo è successo, Fler. – sospira, tornando ad abbattersi fra i cuscini, - Voglio dire, stavamo… okay, non bene, d’accordo? Non bene. Con Bushido fra i piedi, come vuoi stare bene?, è impossibile. Però stavamo insieme. Capisci? Insieme e basta.
Capisco sì. Mi inumidisco le labbra e cerco di focalizzarmi sull’immagine appagante di lui che ruzzola giù dalle scale rotolando per strada attraverso la porta a vetri spaccata del mio palazzo. Che è una cosa alla quale nemmeno dovrei pensare, perché io sto con Nicole e adesso non dovrei essere geloso, ma tant’è.
- E all’improvviso, boh, tutto ciò che so è che vanno a vivere insieme. Motivo? Perché lui è Bushido. Ti pare un motivo, questo?
Rido un po’, sistemandomi più comodamente.
- Io l’ho quasi fatto fuori, perché lui era Bushido, ricordi? – ghigno indicandomi, - Mi pare un motivo eccome.
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, prima di mollarmi una spinta parecchio risentita contro la spalla.
- Non mi piace quando ne parli così. – sbuffa poi, ingollando in un sorso mezza bottiglia di birra.
- Così come? – lo prendo in giro io, giocando con la mia.
- Come una cosa importante. – spiega lui, tornando a guardarmi con quella strana aria cupa che, quando gliela vedo addosso, mi dà sempre i brividi.
- Chakuza, ma lui è importante. – gli faccio presente, e continuerei tranquillamente su questa china, come ho sempre fatto quando chiunque, amici o giornalisti che fossero, mi ha dato il la per cominciare a parlare di Anis, se solo non notassi le sue sopracciglia corrugarsi ulteriormente e il suo broncio farsi più marcato. - …e tu non ci tieni affatto a sentirtelo ripetere adesso, mh? – chiedo con un mezzo sorriso, chinandomi appena per cercare i suoi occhi.
- No, per niente. – annuisce lui, senza fuggire il mio sguardo, - Anzi, ti sarei grato se riuscissi per una volta a non essere così dannatamente palese, quando parli di lui, visto che in questo momento la sua esistenza sulla terra già basta a farmi uscire di testa.
Rido un po’, anche perché quando mi rendo conto quanto sia in effetti palese, come dice Chaku, il modo in cui mi rivolgo a Bushido, mi sento sempre in imbarazzo. È una questione di immaturità, credo; intendo, a lui è legato un pezzo di me che probabilmente non è mai cresciuto. Quindi, quando c’è lui di mezzo, penso ed agisco come un ragazzino. È ovvio che, quando Bill mi dice che non sa più dove sbattere la testa, io lo capisco senza nemmeno sforzarmi. È semplicemente ovvio.
- Scusami. – biascico, adocchiando la sua bottiglia ormai vuota, - Senti, vado a prendertene un’altra e poi ricominciamo. Accendiamo la tv e mentre guardiamo qualche cagata mi dici tutto per bene, d’accordo?
Mi alzo in piedi, ma Chakuza mi imita, ed io mi fermo a guardarlo con aria un po’ contrariata.
- Be’? – chiedo, - Non mi serve aiuto per-
- No, - mi interrompe lui, scuotendo il capo, - venire qui è stata una pessima idea. – borbotta, muovendosi un po’ incerto intorno al divano, come faticasse a trovare l’uscita. Eppure è lì a due metri. Forse non fatica a trovare l’uscita, forse fatica a trovare la voglia di uscire. – È meglio se vado e-
- Ehi, ehi, Chaku… - lo fermo, recuperandolo per le spalle e tenendolo fermo, mentre torno a cercare i suoi occhi, - Sta’ un po’ calmo, eh? Ti ho detto che mi dispiace, ero sovrappensiero e l’ho presa a ridere. Lo so che è una cosa seria. Se stai un po’ tranquillo ne parliamo, mh? Sul serio.
- No, davvero. – insiste lui, cercando di sottrarsi alla mia stretta, - Lo sto realizzando adesso. Non è il caso, non voglio nemmeno dirtele, queste cose. Tu sei… l’ultima persona dalla quale dovessi andare, e non dovresti nemmeno essere solo, perciò...
Non so perché m’impunto. Probabilmente perché, in fin dei conti, a lasciarlo andare proprio non ci riesco.
- Però lo sono. E mi fa piacere che tu sia venuto qui. – tiro fuori in un fiato, quasi a fatica, stringendolo più forte, - Io e te, ultimamente… abbiamo proprio fatto un sacco di casini, me ne rendo conto, però tu, Chaku, voglio dire, non sei così male, come persona. E dai, mi sembra assurdo perdersi così in un bicchiere d’acqua. – sospiro. – Resta un po’, ti va?
Lui sospira e mi alza addosso uno sguardo vagamente confuso.
- Senza fare altri casini? – mi chiede, sorridendo appena.
- Senza fare altri casini. – confermo annuendo, - Facciamo i bravi, per una volta. Tu mi parli delle tue pene di cuore e io ti somministro dell’alcool per dimenticare. È così che funziona fra la gente normale, giusto?
Lui annuisce a sua volta, distogliendo lo sguardo e massaggiandosi la fronte con una mano.
- Noi due non siamo normali per niente. – mi fa notare in un soffio, - Questo potrebbe essere un problema.
- Basterà tenere a bada l’uccello. – annuisco compostamente, tirandogli una pacca sulla spalla, - Credi di esserne capace?
- Che domanda del cazzo. – grugnisce lui, - In tutti i sensi, poi. Sei uno stronzo.
Sospiro un po’, allontanandomi da lui e dirigendomi lentamente verso il divano.
- Questo l’hai già detto entrando. Almeno rinnova il campionario d’insulti, se proprio devi.
- Be’, non sono io l’esperto di diss, qui dentro. – protesta, tirandomi uno scappellotto dietro la nuca.
Io lancio un lamento palesemente fasullo e mi massaggio il collo che non duole affatto.
- Tieni a posto le mani! – borbotto contrariato, lanciandogli un’occhiataccia colma di un risentimento non più vero di tutto il resto.
Chakuza sospira e mi lascia scivolare addosso uno sguardo che non promette nulla di buono. Anche se dipende dalla prospettiva in cui lo si guarda. Se la prospettiva da cui dovessi guardarlo adesso fosse semplicemente quella di me e lui in una casa vuota mentre fuori si fa buio, prometterebbe cose stupende. Il problema è che devo per forza guardarla dalla prospettiva in cui oltre a noi due in questa casa ci sono altre due persone là fuori. C’è un ragazzino che sta giocando col fuoco e c’è un uomo che si sta perdendo in un danno. E c’è anche una donna, la mia, a casa da sola, che aspetta domani solo per rivedermi. Quindi no, l’occhiata di Chaku non promette niente di buono, a livello generale. Anche se mi piacerebbe potermi fermare alla prospettiva semplice delle cose, per una volta.
- Non puoi chiedermi di tenere a posto troppe cose. – rincara, inumidendosi le labbra, - Faccio già abbastanza fatica.
“E ci risiamo”, mi viene da pensare mentre arrossisco come una liceale. Cristo santo, ci sono volte in cui, prima ancora che infilarlo in una cintura di castità e legargli le mani così che non possa più muoverle, avrei voglia di prendere dello scotch – quello spesso e largo, tipo da imballaggio – e tappargli la dannata bocca. I danni maggiori che fa quest’uomo, non li fa quando ti tocca. Quando arriva a toccarti è perché il danno l’ha già fatto parlando. Perché dice cose senza capire cosa sta dicendo, o se lo capisce è abbastanza stronzo o stupido o sincero – e non so quale sia la cosa peggiore – da dirlo lo stesso, e tu ci perdi la testa.
- Piantala di dire cazzate. – sbuffo, distogliendo lo sguardo, - Piantala prima ancora di cominciare, per favore. Avevamo detto di non fare altri casini.
- Non sto facendo niente. – mi rassicura lui, alzando entrambe le mani e mantenendo perfino la distanza di sicurezza, - Non siamo nemmeno vicini.
- E cerchiamo di mantenere la situazione il più a lungo possibile, ok? – chiedo con tono un po’ allarmato. Anche troppo. – Davvero, Chakuza, farlo è proprio l’ultimo degli errori possibili, okay? Non ce lo possiamo permettere.
Chakuza sbuffa contrariato, tornando a rilasciare le mani lungo i fianchi.
- Non voglio mica prenderti a calci. – si giustifica in un mugugno, - E d’altronde non capisco quale potrebbe essere il problema, se anche lo facessimo. Io non sto più con Bill, giusto?
- Giusto. – ringhio io, per tutta risposta, - Ma io sto con Nicole, nel caso tu non te ne sia accorto, e non sono la parete contro cui puoi rimbalzare quando ti pare, okay? Se non vuoi farti definitivamente mandare a fanculo come avresti meritato già da qualche mese, tieni a freno la lingua, il cazzo e anche tutto il resto. È un consiglio da amico.
Lui sospira e, ovviamente, fa l’ultima cosa che dovrebbe venirgli in mente di fare. Scommetto che invece è stato tipo il suo primo pensiero. Mi si avvicina lentamente, io sospiro a mia volta e mi appoggio già esausto contro lo schienale del divano, piegando un po’ le gambe e cercando di recuperare uno stato d’animo meno isterico ripescandolo da quando ero ancora tranquillo e sereno e Chakuza non voleva ancora scopare. Se mai c’è stato un momento in questa serata in cui non ha voluto farlo.
Quando arriva ad un passo da me, solleva le braccia e mi accarezza il collo, risalendolo tutto e poggiandomi le mani sulle guance, obbligandomi a sollevare lo sguardo per trovare i suoi occhi.
- Stiamo sbagliando di nuovo tutto. – mi avverte con un mezzo sorriso.
- No, tu stai sbagliando di nuovo tutto. – lo correggo contrariato, ma lui sorride ancora ed io mi mordo un labbro.
- E tu mi stai di nuovo lasciando fare. Perché continui a lasciarmi fare?
- Perché sei uno stronzo. – ed è l’unica risposta che si merita.
Lui ride e si piega un po’ a sfiorarmi le labbra.
- È vero. – mi sussurra addosso, - Però non è per questo che mi lasci fare.
- Se speri – ringhio di frustrazione, cercando con poca convinzione – e quindi poco successo – di farmi mollare, - se speri che ti dica qualcosa in questa situazione del cazzo, dico, se speri che te lo dica adesso, tu sei proprio fuori strada, pezzo di merda.
- Fler, ssh. – mi zittisce, baciandomi appena, - Non voglio che tu mi dica niente. Sul serio. Cristo, non sono tanto stronzo da venire a cercare una cosa simile da te se Bill non riesce a darmela perché c’è Bushido di mezzo.
Socchiudo gli occhi. Sta dicendo cose tremende. Non lo posso ascoltare.
- Chakuza, mi lasci andare?
Lui sospira.
- Quante volte me l’hai chiesto, da quando ci conosciamo?
- Tante… - sussurro stremato, - Troppe.
- Ed io l’ho mai fatto?
Rido amaramente, scuotendo il capo per quanto lui mi permette.
- Non è mai troppo tardi per cominciare, non credi?
Chakuza segue il profilo del mio viso con le labbra e poi esita solo qualche secondo, prima di baciarmi. E nei secondi in cui la sua bocca non è pressata sulla mia e le nostre lingue non si stanno cercando a vicenda, lui parla. E come al solito fa danni.
- Credo di sì, invece. – confessa piano, - Fler, noi due non ci perdiamo in un bicchiere d’acqua. Se questo fosse un bicchiere d’acqua, non ci perderemmo affatto. Il problema è che non lo è.
Dopodiché, mi bacia. Ed io, quando lui mi bacia, non capisco più niente. Giuro, nessuno mi ha mai baciato come mi bacia Chakuza, e la cosa allucinante è che all’inizio non era per niente così. Voglio dire, baciava bene ma non esattamente come piaceva a me, questa è una cosa che è venuta dopo, col tempo. E gliel’ho insegnata io. Gliel’ho insegnato io come e dove toccarmi, e questa cosa mi fa impazzire. Non saprei nemmeno dire come, mi fa impazzire e basta.
- Questo è… - ansimo quando mi lascia andare per tirarmi in piedi e cominciare a trascinarmi verso la camera da letto. Incredibile come ricordi ancora dov’è, qui c’è stato solo una volta. Evidentemente ha un talento per sviluppare planimetrie istantanee delle case, per ogni evenienza, - Questo è stato molto scorretto. Non le dovresti dire, queste cose.
- Non lo direi, se non fosse vero. – risponde lui, spingendomi sul materasso e salendomi a cavalcioni addosso, - Te ne dico poche cazzate, ormai…
- Già che tu ammetta di dirmene qualcuna… - gli faccio notare con un broncio che lui non si risparmia di mordere nemmeno per un attimo, - E comunque certe volte è anche peggio, quando sei sincero.
Si ferma solo un secondo. Che poi non è neanche vero, perché non si ferma per niente. È solo un po’ meno frenetico. Continua ad accarezzarmi un fianco con una mano ed a slacciarmi i pantaloni con l’altra, ma si solleva a guardarmi negli occhi e si prende un secondo, prima di parlare ancora.
- Se ti offrissi qualcosa di meno… - comincia serio, - intendo, se cominciassi a mentirti e basta, tu ci staresti? – sospira, - Sarebbe bello e sarebbe facile, ma tu non sei facile neanche per un cazzo. Probabilmente, già alla quarta stronzata prenderesti la tua roba e cambieresti città.
Annuisco, sollevando una mano ad accarezzargli la nuca.
- E infatti ci sono andato vicinissimo.
Annuisce anche lui, sollevandosi appena per sfilare la felpa.
- Sono contento che ci sia tu qui, adesso. – mi dice, continuando a guardarmi negli occhi, - Non so dove sarei, altrimenti.
- In qualche bordello, Chaku. – rido io, ma lui mi toglie il respiro spingendosi lentamente contro di me.
- Sono contento di essere con te, invece. – ribadisce, tornando a baciarmi, - Cristo, dimmi che non mi fermerai, stavolta. Mi sto scordando di cosa sai.
- Stronzate… - ansimo, piegando il capo per lasciargli campo libero sul mio collo, - mi hai baciato anche troppo spesso.
- Ti baciavo ogni giorno, fino a nove mesi fa. – intrufola un ginocchio fra le mie gambe e lo strofina contro la mia erezione da sopra il tessuto pesante dei jeans, - Ti scopavo ogni giorno. Non ti manca?
- Fanculo. – sibilo, seguendo i suoi movimenti col bacino, - Chaku, stai proprio parlando troppo stasera.
Mi bacia lentamente, lasciando scivolare la lingua sulla mia per dei secondi infiniti, e quando si separa dalle mie labbra si appoggia su di me, fronte contro fronte.
- Lo sai che oggi è diverso, vero? – cerca di convincermi, gli occhi scuri di voglia che cercano i miei nel buio della camera da letto, - Non è come quando ho portato Bill da Bushido. Oggi non sono fuori di testa come quel giorno. Sono lucido.
Scuoto il capo e finisco per sfiorare le sue labbra con le mie nel movimento.
- Non lo sei affatto. – gli faccio notare con un mezzo sorriso, - Lo vedi perché dico che parli troppo? Se stessi zitto, avresti un mucchio di problemi in meno.
- Fler… - mi chiama lui, riprendendo a strusciarsi contro di me, - Dico sul serio. – e mi bacia ancora, - Mi piace il tuo sapore.
Mi ci perdo dentro un secondo. Nella sua voce, nei suoi movimenti, nella frizione deliziosa della fibbia dei suoi pantaloni che striscia contro la mia erezione attraverso il cotone sottile dei boxer.
Mi ci perdo dentro un secondo. Un secondo solo.
- È per Bill che lo stai facendo. – gli sussurro all’orecchio mentre scioglie la cintura, - È per lui. Vero? È perché non hai lui che sei qui.
E lui si ferma. Trattiene anche il respiro, per un po’. Poi mi si spinge contro con una certa violenza, tant’è che io ho il tempo di sentirlo tutto – eccitato, frustrato, arrabbiato – e vedere le stelle, e poi mi ringhia sulle labbra.
- È per lui. – conferma, - Sì. Contento, adesso?
Subito dopo, smetto di sentire il calore e la pressione del suo corpo, e quando riprendo a guardarmi lucidamente intorno lo vedo seduto sul bordo del letto, le spalle curve e l’espressione corrucciata che non riesco a cogliere nei dettagli. Ma non ne ho bisogno, li ricordo comunque a memoria.
Tutto quello che riesco a pensare, in questo momento, è che Chakuza ora come ora non ci sta con la testa. Che, per questa situazione, la testa potrebbe perderla del tutto e definitivamente. Che non voglio che succeda. E che voglio essere io quello che gl’impedirà di perdersi dentro se stesso. Voglio essere io e non m’interessa di nient’altro. Non so nemmeno perché, forse da Anis ho ereditato anche questa stupida spinta pseudo eroica per la quale non riesco a stare bene se non so che è tutto a posto e che lo è perché io ho voluto così, non lo so. Fatto sta che mi sollevo a sedere, puntellandomi sul materasso con le mani, e sospiro profondamente. Mi avvicino a lui e sento il suo respiro, vedo la sua sagoma scuotersi appena nell’ombra e mi chino sulla sua spalla, lasciando un bacio sulla sua pelle calda.
Chakuza si volta a cercare i miei occhi. E li trova perché io non scosto lo sguardo.
- Fler- - mi sporgo in avanti e gli tappo la bocca, baciandolo piano.
- Piantala di parlare così tanto. – ordino mordendogli un labbro, - Cristo, piantala, per favore. Lo so, okay? So tutto, Chaku. E non me ne frega un accidenti, in questo momento.
- No, non lo sai! – insiste lui, agitandosi tutto e voltandosi verso di me, cercando di tenermi fermo per le spalle, - Tu sei convinto che io per te-
Lo fermo ancora, baciandolo più profondamente e più a lungo. Più lentamente, anche, così che possa perdercisi dentro e dimenticare che prima stava parlando.
- Lo so. – dico in un sussurro, quando mi allontano da lui, - Lo so che abbiamo una cosa, Chaku. Lo so.
Lui ride appena, è una risata amara.
- “Una cosa”… - ripete, e le virgolette che ci mette sono così evidenti che scappa da ridere anche a me.
- Esiste un altro modo di chiamarla? – lo prendo in giro, cercando le sue labbra. Lui mi accontenta, sporgendosi in avanti e stendendomi nuovamente sul materasso.
- Sì, penso che esista. – confessa, respirandomi addosso e sfilandomi i boxer, - Ma ho paura che se lo facessi poi mi si rivolterebbe il mondo sotto ai piedi.
Ed io annuisco e non parlo più. E lo lascio fare, mentre si inumidisce le dita e mi accarezza fra le natiche, mentre torna a baciarmi e mentre scende a mordermi sul collo, mentre mi masturba senza che debba chiederglielo, mentre si spinge contro di me e dentro di me, lento e preciso, fino a farmi perdere il controllo di ciò che penso dico e faccio, lo lascio fare e non dico una parola perché so che è vero, so che certe cose vanno tenute sotto silenzio, non le espliciti certe situazioni, restano non dette. Ed è meglio così, perché ci sono cose che a dirle scompaiono. Se, quando avevo sedici o diciassette anni, io avessi detto ad Anis quello che mi passava per la testa, oggi un noi – un me e lui, un Patrick ed Anis – non esisterebbe. Certe cose le conservi fino al momento giusto, per certe altre il momento giusto non arriva mai.
Chakuza non è mio. Noi il nostro momento giusto non l’avremo mai.
A questo punto, si tratta soltanto di farci l’abitudine.
*
Farci l’abitudine, comunque, richiede tempo. Per abituarsi a qualcosa, quella cosa deve ripetersi due, tre, quattro, cinque, infinite volte, così tu puoi scrivertela dentro, addosso e attorno, e non dimenticarla più. Invece, svegliarmi accanto a Chakuza – svegliarmi così vicino a lui, il naso affondato nell’incavo del suo collo e le sue gambe intrecciate con le mie – è una cosa completamente nuova, perciò non ci sono per nulla abituato. Quando apro gli occhi, fatico a riconoscere le mie lenzuola, il mio letto e la mia stanza, perché c’è Chakuza che rende tutto diverso. L’armadio a muro sulla parete di fronte a me non è più uguale a prima perché c’è la curva della sua spalla a tagliarlo in due, e le coperte non hanno più la stessa forma perché qui sotto ci siamo io e lui insieme, e io tutto questo non l’ho mai visto così, perciò in un primo istante non capisco dove sono né cosa sto facendo, e mi irrigidisco tutto fra le sue braccia, così repentinamente che, nonostante stia dormendo – e so bene che quando dorme svegliarlo è praticamente impossibile – lui mi sente, e si sveglia a propria volta.
- Pat…? – mugola confuso, sciogliendo il nodo delle sue dita dietro la mia schiena, - Che?
Mi imbarazzo subito ed abbasso lo sguardo, scuotendo il capo.
- Niente. – biascico, - Fa caldo.
- Ma non è vero per niente. – si lamenta lui, stringendomisi contro ed affondando il viso per metà contro il cuscino e per metà contro il mio collo, - È l’alba, torna a dormire.
- Mi sporgo un po’ oltre la sua testa per controllare la radiosveglia sul comodino, e realizzo che non è per niente l’alba. Anzi, l’abbiamo saltata da un pezzo.
- Sono quasi le undici e mezza. – lo informo, - Possiamo anche pensare direttamente al pranzo, altroché.
Si scosta da me con uno sbuffo risentito, guardandomi con attenzione, come volesse rendersi proprio conto del fatto che io sia qui in questo momento, così vicino a lui da dividere il suo stesso calore e il suo stesso odore ed anche il suo stesso respiro.
- Avevi programmi, per oggi? – mi chiede, senza particolari inflessioni nella voce.
Io sospiro, prima di rispondere, perché mi sento a disagio.
- Nicole. – ammetto in un soffio, - Dovevo vederla, ovviamente.
Lui annuisce, un po’ indispettito.
- Ovviamente. – commenta acido. Io lo guardo, inarcando un po’ le sopracciglia. – E non fissarmi in questo modo. – borbotta lui, e poi sospira a sua volta, ugualmente a disagio. - …io non posso chiederti niente.
Rido contro la sua spalla, scuotendo lievemente il capo.
- Scelta mia, insomma. – esplicito, cercando i suoi occhi. Lui ricambia il mio sguardo e mi bacia lievemente, prima di annuire.
- Scelta tua.
La mia scelta è molto semplice e non può che essere una sola. Io magari non lo realizzo chiaramente mentre mi lavo, mi vesto ed esco di casa, ma è l’unica cosa cui riesco a pensare quando arrivo all’appartamento di Nicole e suono al citofono per farmi aprire. Voglio sbrigarmi qui, voglio che sia una cosa breve perché voglio tornare da Chakuza che mi sta aspettando nel mio appartamento, dato che mi ha detto che si sarebbe preso l’intera giornata di riposo per dormire, visto quanto si sentiva stanco. Non puoi stare con una donna quando il tuo primo pensiero è che vorresti stare altrove con un’altra persona, sia essa maschio o femmina, perciò la mia scelta quella è, e quella resta. Devo lasciare Nicole.
Mi aspetta sulla soglia di casa, asciugandosi le mani sul grembiule bianco e un po’ vecchio che indossa sopra la tuta da casa. Ha i capelli raccolti dietro la nuca. È carina. Per un momento mi chiedo “ma perché lo sto facendo?”, e resto in attesa di una risposta che non arriva. Non so più nemmeno se è davvero Chaku il motivo per cui la lascio, forse alla fine l’avrei lasciata lo stesso, per una scusa o per l’altra. Forse l’unico merito di Chakuza è che questo momento sia adesso, adesso che per lei non è ancora così doloroso. Forse. Non lo so, se sarà doloroso. Per me non lo è, in questo momento, e per questo forse dovrei sentirmi in colpa. Ma non ci riesco.
- Oggi ho fatto un sogno assurdo. – ridacchia, sollevandosi sulle punte per baciarmi lievemente sulle labbra, - C’era questo cane enorme che stava a guardarmi da dentro la mia valigia, ed era pelosissimo e morbidissimo, e a un certo punto il cane si metteva a parlare e lo faceva con la tua voce. Non mi ricordo cosa diceva, ma mi veniva da ridere, forse perché era strano sentire parlare un cane con la tua voce!
Rido a mia volta, seguendola all’interno dell’appartamento. Il tavolo è ancora sgombro, forse ha appena cominciato a cucinare. Magari riesco perfino a non farle sprecare cibo.
- Non sei mica tanto carina a sognarmi come se fossi un cane, eh. – le faccio notare invece, e mi do dell’idiota da solo, subito dopo, perché sto perdendo tempo. Non dovrei voler perdere tempo. Forse un po’ in colpa mi ci sento, dopotutto, perché è vero che questa situazione è colpa mia.
- Non è che ti abbia dato del cane, Pat… - mi prende in giro lei, tornando a smanettare con le pentole di fronte ai fornelli. Io la seguo fino in cucina e la guardo muoversi tranquilla per un po’. Poi capisco che devo fermarla, e visto che non so come fare mi allungo a chiudere il gas girando una delle manopole.
- Scemo. – mi rimprovera lei, ridacchiando, e poggia la mano sulla manopola, pressando un po’ per riaccendere il fornello, solo che non ci riesce, perché io la fermo prima, posando una mano sulla sua e risalendo fino al polso, tirandola un po’ per costringerla a girarsi.
- Pat? – mi chiama, incerta, inarcando le sopracciglia verso il basso.
- Devo parlarti. – sputo fuori d’un fiato, guardandola dritta negli occhi.
Lei non dice niente e nemmeno si muove, in realtà. Non so se vi è mai capitato di dover dire qualcosa a qualcuno e arrivare a quel momento preciso, guardare quella persona negli occhi e sapere che già sa che cosa dovete dire. A rigor di logica dovrebbe rendere tutto più facile, perché è un po’ come se non ci fosse davvero niente da dire davvero, si tratta solo di sbrigare la formalità del dirlo ad alta voce, ma il concetto è già noto e magari l’altra persona dovrebbe pure aver fatto in tempo a prepararsi, visto che già lo sa. Però in realtà non è così. In realtà quando tu sai una cosa non hai ancora risolto un cazzo. Tu la sai, sì, è dentro di te, ma questo non ti solleva di niente dal dolore che provi quando poi quella stessa cosa la senti. È come sapere che un tuo parente o un tuo carissimo amico è malato terminale e sta in ospedale collegato a una macchina. Lo sai che morirà, cazzo, ovvio che lo sai, passano i mesi e tu ti prepari, ma quando poi lui muore lo stesso tu scopri che non eri pronto davvero perché nessuno te l’ha detto davvero. È una cosa complicata. È più facile dire la verità quando nessuno sa niente, è più gestibile. Quando ti dicono una cosa che già sai stai male il doppio, perché sei stupido e perché ti senti tale.
- Forse sarebbe il caso che noi due non ci vedessimo più, per un po’.
Lo dico perché è la prima cosa che mi viene in mente, e solo dopo che l’ho detto mi rendo conto che ho saltato tutta la parte in mezzo. Quella che fa più o meno non ti amo, credo di essere innamorato di un altro, credo che dovremmo lasciarci perché non è giusto per nessuno dei due restare in questa situazione, e solo dopo avrei dovuto dire anche il resto, sarebbe il caso di non vedersi più per un po’. Ma, forse perché volevo sbrigarmi in fretta, forse perché le palle per dire “ti lascio” non ce le ho, non l’ho detto.
Nicole sgrana gli occhi e mi guarda, annichilita.
- Pat- - prova a chiamarmi, ma io le lascio andare il polso e la interrompo.
- Scusa. – scollo a fatica, - Non volevo dirtelo così, è… ho fatto casino. – ammetto in un sospiro, - Il problema è che… - la guardo e non so se voglio davvero dirglielo. Non so se voglio davvero. Non… - sono innamorato. Di un’altra persona. – mi interrompo, prendo fiato, - Che è maschio. Ed è Chakuza.
Nicole schiude le labbra. Non come nel gesto di chi si prepara a dire qualcosa, eh. È solo stupita. Le sue labbra formano una o praticamente perfetta, mentre continua a guardarmi.
- Pat? – chiede. Magari si aspettava di essere lasciata, ma non per un uomo, ok.
- È complicato. – mi gratto la nuca, imbarazzato, - Va avanti da un po’.
- Mentre noi…
- No! – mi affretto a negare, - No, assolutamente, intendo, c’era prima di te. Poi non c’è stato per molto tempo, ed io ho pensato che… insomma, che potesse andare, fra noi due. Non ti ho mai tradita con lui. – preciso, guardandola dritta negli occhi. Non so cosa possa farsene, di questa precisazione, ma tant’è. – Né con nessun altro, ovviamente. – aggiungo in un mezzo sospiro esausto, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi.
Lei annuisce lentamente, respirando così piano che non riesco nemmeno a vedere il suo petto alzarsi ed abbassarsi. Tortura con le mani l’orlo del grembiule già stropicciato, mentre un paio di ciocche bionde sfuggono al mollettone dietro la testa, ricadendole ai lati del viso quando lo china per spostare lo sguardo sulla punta delle pantofole che indossa.
- Mi dispiace. – aggiungo. Non so cosa possa farsene anche delle mie scuse, in realtà mi sembra di starle riempiendo la testa per evitare che mi stia davvero a sentire. Io le ho detto che sono innamorato di un uomo, di Chakuza!, e poi ho continuato ad aggiungere particolari idioti e inutili, soltanto per deviare l’attenzione verso qualcosa che fosse meno scomodo rispetto alle immagini che sicuramente si staranno formando nella sua testa mentre io sono qui a dire e pensare e anche fare assurdità.
- Potresti… - dice con difficoltà poco dopo, inumidendosi confusamente le labbra, - …intendo, andare? Non… non me la sento di parlare adesso. – conclude in un mezzo singhiozzo. Io annuisco lentamente, allontanandomi a ritroso, senza voltarle le spalle.
- Non subito, ok? – mi raccomando, - Ma quando ti senti… più tranquilla, ecco, chiamami. Ne parliamo. Sono quasi sicuro che non serva a niente, ma-
- Non servirebbe a niente, infatti. – taglia corto lei, voltando lo sguardo altrove, - …ma ti chiamerò. Fra… qualche tempo.
E finisce così, con me che me la lascio alle spalle, chiudo la porta e scendo al piano terra, per poi mettermi a camminare tranquillo per le strade di Berlino, verso casa. Mentre svuoto la testa da tutto – tutto quanto – quasi non mi accorgo che i piedi, da soli, stanno andando verso casa di Chakuza. Quando lo capisco mi scappa una risata, perché sarebbe allucinante andare lì adesso, contando che Chaku è già dove dovrei andare, e cioè nel mio appartamento. Ricomincio a guardare le strade, cerco la via più breve per tornare a casa e quando torno – apro con le chiavi, non voglio disturbare, e poi è casa mia, che diamine – lo trovo che dorme sul divano. Ha perfino fatto la fatica di alzarsi dal letto, commovente.
- Chaku. – sbotto risentito, - Oh, guarda che quel divano costa quanto tutta casa tua intera, sai?
- Mmhn…? – apre gli occhi lui, stiracchiandosi per quant’è lungo – cioè poco – e puntando i piedi sul bracciolo, a rischio di scardinarlo, - Già tornato? – sbadiglia, - Fatto presto.
- Avevo poco da fare. – sospiro crollando sul divano accanto a lui, che tira indietro le gambe per farmi posto e poi si mette seduto, grattandosi distrattamente la pancia.
- È andata bene?
- Quando mai vanno bene queste cose?! – sbotto irritato, e lui ride, ma è una risata triste.
- Hai ragione. – annuisce distratto, cercando a tentoni coi piedi le pantofole che mi ha ovviamente rubato per affrontare l’impervio e lungo tragitto che lo separava dal letto al divano – tipo, cinque metri, comprensivi di corridoio ricoperto di moquette.
- Comunque, - sospiro, rilassando la schiena e il collo, - insomma, quello che dovevo fare l’ho fatto.
- Anche io. – dice improvvisamente lui saltando in piedi, sistemandosi le pantofole e muovendosi spedito verso la cucina neanche conoscesse già tutto l’appartamento a menadito, - Insalata di riso. Ne ho fatta un po’ tanta, ma si può sempre conservare. Ci ho messo l’olio così tiene di più, volendo ci si potrebbe mettere anche la maionese ma non ne avevi in casa. Comunque hai gli stipetti pieni di roba, me le sogno io ‘ste cose a casa mia, facciamo cambio di appartamento?
Sollevo la testa per guardarlo di sbieco mentre torna dalla cucina con una ciotola enorme piena di riso fino a scoppiare e due cucchiai in mano.
- Hai preparato da mangiare? – chiedo, - Ma funziona la mia cucina? Non la uso da secoli…
- No, non l’avevi mai usata. – ride lui, - Almeno, ho dovuto togliere io lo scotch dal fornello grande, quindi quello di sicuro non l’hai mai toccato.
Rido anch’io, vagamente imbarazzato.
- Ti sei subito messo a tuo agio. – commento, mentre lui si siede accanto a me e posa la ciotola sul divano, fra di noi, incurante di quanto enormemente potrebbe macchiarsi la fodera.
- Odio perdere tempo. – mi risponde, cercando a tentoni il telecomando mentre mi passa il mio cucchiaio. Accende la televisione, fa un po’ di zapping, si ferma su un programma scemo e poi mi fa un mezzo sorriso idiota.
- Buon appetito. – dice.
- Buon appetito. – rispondo.
E poi comincio a mangiare.
*
Se questa fosse una situazione normale – voglio dire, se io e Chakuza vivessimo una vita da persone normali, non ci sarebbero problemi di sorta. So come funzionano le relazioni, in genere quando t’innamori di una persona nuova – o ti innamori di nuovo della stessa persona per la centesima volta – attraversi un periodo in cui vedi esclusivamente solo quella persona e tutto ciò che fai, pensi e dici lo rivolgi idealmente a quella persona lì, come se nell’universo intero non esistesse nessun altro. A prescindere da quanto profondo sia l’affetto che stai provando, eh, perché può essere il vero amore così come una semplice cotta, funziona sempre allo stesso modo. Perciò io e Chakuza ci ritroviamo da un lato a non voler fare altro che starci intorno – non è nemmeno una cosa sessuale, il che mi sconvolge più di quanto dovrebbe – e dall’altro lato a renderci conto che comunque non è così che possiamo fare.
Almeno, non è così che può fare lui, dato che, al di là di tutto, c’è ancora un album da ultimare e definire, in uscita fra pochissimo e con un tour da preparare.
Quando mi sveglio, lo trovo già vigile, il che mi preoccupa. Chakuza raramente riemerge dal mondo dei sogni prima che lo faccia io, e quando lo fa è quasi sempre perché ha qualcosa di ingombrante e complicato che gli ingolfa la testa. Oltretutto, in genere quando si sveglia prima di me si alza anche prima di me. Si alza, prepara la colazione, si lava e comincia a vestirsi, semplicemente perché, come tutte le cose piccole, è uno che deve scaricare l’energia in fretta, perché poi non ci mette molto a ricaricarsi. Voglio dire, è come quando riempi d’acqua un vaso e un bicchiere contemporaneamente: il bicchiere si riempie subito, il vaso ci mette più tempo. Chakuza è un bicchiere, quindi è svelto nell’autoricarica.
Oggi invece niente, è sveglio e fissa il soffitto con aria contrita e seria, le sopracciglia aggrottate e le labbra così strette da sembrare disegnate. Mi sollevo sugli avambracci, piantando i gomiti sul materasso, e lo guardo.
- Posso sempre contare su di te quando si tratta di cominciare la giornata nel modo giusto, mh? – scherzo, e sento la tensione sciogliersi su di lui tutta in un colpo: rilassa i lineamenti e la sua mano, che prima mi stringeva un braccio con forza, allenta la presa e mi accarezza lentamente, come a scusarsi in caso mi avesse fatto male. Naturalmente non me ne aveva fatto, figurarsi, ma è carino che mi accarezzi, perciò lo lascio fare e sorrido anch’io, mentre lui sospira e si stiracchia un po’ a fatica. – Qual è il problema? – chiedo, e quando lo vedo partire in quarta per dirmi che non c’è proprio alcun problema lo fermo nel modo più efficace che conosco, baciandolo a fondo. – E non mi dire cazzate, ci metto due secondi a mandarti ko, austriaco.
Lui ride ancora, scuotendo il capo.
- Mi tocca andare in studio, oggi. – dice in un sospiro stanco, - Ti lascio immaginare quanto ne abbia voglia.
Sollevo gli occhi al cielo, esasperato.
- Abbiamo presentato la regressione infantile odierna di Peter Pangerl. – sbuffo, - Andiamo, Chaku. È il tuo lavoro, non fare il ragazzino.
- Ma ci sarà Bill… - mi fa notare in una mezza lamentela, e io vorrei tirargli un pugno sul naso e dargli del cretino, perché il fatto che io conosca a memoria il suo cervello non dovrebbe dargli l’impressione di avere il diritto di prendermi a coltellate come e quando gli pare, ma lascio perdere, preferendo un altro sbuffo e accasciandomi stancamente sul cuscino.
- Sensibile come al solito, vedo. Mi stupisci ogni giorno di più.
Lui mi si arrotola contro, nascondendo il viso nell’incavo del mio collo e respirando direttamente sulla mia pelle per qualche secondo, prima di parlare ancora.
- Scusa. – dice. Dovrei trasalire – Chakuza s’è appena scusato. Voglio dire, non so se ci si può rendere conto di quanto questa cosa sia assurda. Me lo sarò mica sognato? – ma lui non me ne dà il tempo. – Vieni con me? – chiede. Quando mi allontano un po’ per cercare i suoi occhi, lo trovo già lì pronto a ricambiarmi lo sguardo con una serietà ed una tranquillità che mi stupiscono profondamente.
- Perché? – chiedo un po’ incerto. Lui non distoglie lo sguardo.
- Perché ne ho bisogno. – risponde sinceramente. E poi lo ripete, ma stavolta non è una domanda. – Vieni con me.
E visto che non è una domanda, io non ho nemmeno bisogno di rispondere.
*
Non ho idea di come Chakuza potesse pensare che la mia presenza in questa stanza potesse risolvere le cose o renderle meno pesanti. Allo stato attuale dei fatti, probabilmente non fa che peggiorarle, perché io in questo gruppo di persone non c’entro neanche per sbaglio, perché Jost mi sta guardando come se fossi un folle – nei suoi occhi c’è qualcosa di molto simile a un “ma sei fuori a infilarti di tua iniziativa in questa guerra fredda?” – perché Anis non riesce a capire in che veste io sia qui al momento, perché Bill vorrebbe piangere e sento le sue lacrime come se mi stessero scorrendo sulla pelle anche se non ne ha ancora versata nemmeno una e soprattutto perché Chakuza si sta comportando in maniera talmente pessima che io per primo avrei voglia di prenderlo per la nuca e spaccargli la faccia contro una parete. La mia presenza qui non è semplicemente inutile, no, è deleteria.
Da quando siamo arrivati, Chakuza non ha rivolto a Bill nemmeno un saluto. Il che è idiota ed è irritante ed è ridicolo, perché io so che vorrebbe sollevare lo sguardo e cercare quantomeno di sorridergli, lo sa Bushido, lo sa Bill, lo sa Jost, tutti qui dentro sappiamo che dentro la testa di Chakuza c’è di tutto ma di sicuro non lo stimolo di ignorarlo. Ed è frustrante e imbarazzante osservarlo mentre fissa ostinatamente lo sguardo sul programma che Jost sta proiettando sulla parete di fronte – una sequela di date di cui prendo nota solo distrattamente, dato che so già che non avrò una parte nemmeno marginale in tutto questo – quando tutti sappiamo che di quel programma non gli frega un accidenti, quando tutti sappiamo che l’unica cosa che vorrebbe guardare è appena lì alla sua destra e sta smaniando per avere quegli occhi addosso almeno un’altra volta, anche solo per un attimo.
L’atmosfera non ci impiega niente a tendersi come un elastico, in queste condizioni. E, dopo qualche minuto, come un elastico scatta anche, e Chakuza deve solo ringraziare che Bushido ami Bill al punto da desiderare di non deluderlo mai, perché altrimenti l’ultimo saluto di Anis, prima di uscire, non sarebbe stato “a domani”, ma un pugno sul naso.
Quando la sala s’è svuotata quasi totalmente, i Tokio Hotel sono sfilati come una corte al seguito della Principessa che accompagnava il Sovrano e gran parte dello staff ha seguito l’illuminato esempio, Jost ci guarda a lungo, a me e a Chakuza, e poi solleva entrambe le braccia in un gesto di resa.
- Io non ne voglio sapere niente. – borbotta, e il secondo dopo è fuori anche lui. Lo osservo uscire ed anche se non vedo Chakuza e non lo sento muoversi, so che sta tremando di rabbia sotto la superficie della sua calma apparente, e vorrebbe devastare questa stanza facendone a pezzi ogni singolo mobile e buttando giù le pareti a testate. L’unica cosa che lo frena è che non è a casa sua e non è un vandalo, perché vivaddio i suoi genitori almeno l’hanno educato per bene, altrimenti in pochi minuti la Universal si ritroverebbe rasa al suolo per la furia di un solo uomo.
Mi volto a guardarlo sospirando anticipatamente. Lo faccio adesso, tanto so che dovrò ripetermi in futuro.
- Non dire una parola. – dice Chakuza, alzandosi in piedi di scatto e cominciando a vagare per la sala riunioni come una tigre in gabbia, - Nemmeno una parola.
- Non sto fiatando. – gli faccio notare, inarcando un sopracciglio e restando seduto dove sono, - E comunque sei tu quello che dovrebbe parlare.
- E per dire cosa, di grazia?! – sbotta lui, voltandosi repentinamente a guardarmi. Io scrollo le spalle.
- Per motivare il tuo comportarti come un ragazzino di due anni, magari? – ipotizzo, fingendo di rifletterci su, - O per ammettere di essere stato un coglione.
- Fler, vaffanculo. – taglia corto lui. Io sospiro ancora, come volevasi dimostrare, e mi alzo in piedi.
- Naturalmente. – annuisco, - Questo è il momento in cui io comincio con l’elenco puntato delle cose che ho sbagliato fino ad adesso, giusto? A partire da quando ti ho lasciato mettermi le mani addosso un secolo fa fino a quando te l’ho permesso per l’ennesima volta ieri, mh? – lo prendo in giro con un sorriso stronzo, - Oggi non mi va. – concludo con una scrollata di spalle, - Perciò a fanculo ti ci mando io, e visto che non sei abbastanza uomo da trovare le palle per muovere il culo e andare dal ragazzino per scusarti di esserti comportato come un idiota, lo faccio io. – lo osservo spalancare gli occhi e la bocca nel tentativo di dirmi qualcosa che probabilmente suona come un altro vaffanculo, anche se ben più risentito, ma non gli do il tempo di tradurre questa espressione scioccata in lingua tedesca, perché gli volto le spalle e mi dirigo tranquillamente verso la porta. – Comunque stasera porto la pizza, se ti trovo a imbrattare la cucina con qualche schifezza delle tue giuro che ti lascio a pulire da solo fino a domattina. – concludo. Mi volto solo sulla soglia, e guardandolo gli sorrido. – A più tardi.
Lui solleva una mano, punta un dito come a chiedere la parola e poi le sue spalle si rilassano in un sospiro stremato.
- …a più tardi. – si rassegna. Io sorrido ancora, uscendo dalla sala riunioni. Prendere nota: con Chakuza, litigare non serve. Potrebbe tornarmi utile in futuro.
*
Anis mi accoglie sulla porta con le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a due fessure. Conosco quell’espressione, è quella che, se noi si vivesse in un’altra epoca e ci si vestisse di raso e velluto con le armature al posto dei panciotti che comunque non usiamo ed enormi pantaloni a sbuffo che si fermano appena sotto il ginocchio, farebbe da preavviso al suo puntarmi contro il viso un indice e strillare “traditore!”. Visto che invece viviamo nel ventunesimo secolo e ci vestiamo in jeans e maglietta, lui comunque mi punta un indice contro il viso e comunque apre la bocca per darmi del traditore, ma l’effetto non è lo stesso, non c’è lo stesso pathos, perciò mi basta sbuffare platealmente, afferrare il suddetto dito e allontanarlo spiccio dalla mia persona, per intrufolarmi in casa sua e guardarmi intorno, riprendendo confidenza con l’ambiente circostante.
- Potrei denunciarti per violazione di proprietà privata. – mugugna Anis, massaggiandosi il dito come gliel’avessi lussato. Io sbuffo ancora, agitando una mano con aria disinteressata.
- Non cominciamo col giochino dell’elenco delle malefatte, perché sai che perderesti, okay? – taglio corto, tornando a guardarlo con le mani sui fianchi. – Bill?
Lui incrocia le braccia sul petto.
- È di sopra. – risponde burbero, - E non hai il permesso di andare a trovarlo.
- È una vera fortuna che non te l’abbia chiesto, allora! – esclamo con entusiasmo, dandogli le spalle e dirigendomi verso le scale, - E tu non hai il permesso di salire a interromperci, comunque.
- È una vera fortuna- - comincia lui, ma lo interrompo con una risata, saltando gli scalini a due a due per far prima, motivo per cui lui lascia perdere e si dirige in cucina con un “bah!” esasperato.
Bill – in camera del quale entro senza bussare – sta ascoltando musica con gli auricolari ben piantati nelle orecchie. È steso sul letto, i capelli sparsi sul cuscino e le gambe intrecciate. Ultimamente è così magro che sotto i pantaloni – che si allargano in sbuffi sul materasso sotto di lui – sembra non abbia niente a parte due stampelle per tenersi dritto.
Bill è un’ulteriore prova di quello che dicevo prima riguardo i contenitori piccoli che si riempiono più in fretta, mentre i contenitori grandi hanno bisogno di più tempo. Lui sarà sottile, ma è così incredibilmente lungo che per forza, quando succede qualcosa che lo drena e lo svuota del tutto, ha bisogno di lunghi periodi di nullafacenza, per potersi ricaricare per bene.
Solleva appena le palpebre ancora pesanti di trucco, e mi saluta con due dita.
- Stanco? – chiedo, lasciandomi andare di peso al suo fianco con tanta forza che il suo corpo, leggerissimo, saltella sul materasso e poi torna giù in uno sbuffo sommesso.
- Mmh-mh. – annuisce lui, è un gesto impercettibile. Lo noto solo perché ormai lo conosco abbastanza bene da non aver bisogno di gesti plateali, per comprenderlo. È anche questo, che lo stanca così tanto: non è facile capire Bill, per questo è costretto a esprimersi sempre in maniera chiassosa, o nessuno gli dà retta. Bill non è mai pacato, non è mai silenzioso, è sempre in qualche modo violento in ogni sua manifestazione. Però quando si scarica è in questi termini che si riduce. Esprimersi diventa una questione di millimetri, e tu devi imparare a misurarli correttamente, se vuoi continuare a stargli dietro.
- Lo immaginavo. – dico, accomodandomi meglio accanto a lui, - Chakuza è stato un coglione, puoi anche dirlo, sai?
Lui scuote il capo, due millimetri a destra, altri due a sinistra. Pressa appena il pollice contro il pulsante di spegnimento del lettore mp3, e poi mi guarda con l’aria di un cucciolo bastonato, gli occhi enormi su quel visino sfilato tanto umidi da stringermi il cuore. Spalanco le braccia, e lui si fionda su di me esaurendo probabilmente in un unico colpo tutta l’energia che era stato in grado di recuperare con l’immobilità che aveva tenuto fino a quel momento. Singhiozza contro il mio petto, macchiandomi la maglietta, e non me ne frega niente. Fosse qualsiasi altra persona in una qualsiasi altra situazione, ricorderei quanto questa maglietta di merda costi in realtà e sarei pronto a staccare più di una testa a morsi, come punizione. Ma è Bill e sta male, e quindi tutto il resto – maglietta di merda compresa – non vale un cazzo. Ed io lo lascio piangermi addosso.
Non dice niente per un sacco di tempo, un po’ perché sa che non c’è molto da dire, un po’ perché sa perfettamente anche di non aver bisogno di dire niente proprio a me, e così tutto quello che risuona per la stanza, per molti minuti, è il suo pianto sommesso. Non fa rumore perché non vuole che Anis lo senta, io lo trovo tenero ma mi annoda lo stomaco, perciò cerco di tranquillizzarlo abbastanza da farlo smettere, almeno un pochino. Gli accarezzo le spalle, lentamente, e lui mi si stringe contro, nascondendo il musetto contro di me, risalendo su fino alla spalla e al collo. Si lascia dietro una traccia scura che faticherò a giustificare a Chakuza – fa niente.
- Ehi… - lo chiamo dopo un po’, quando sento i suoi singhiozzi affievolirsi almeno un po’, - Meglio?
Scuote il capo, le sue spalle si scuotono con lui.
- È tutto… - singhiozza, la voce gli muore in gola, - Non ci capisco più niente, Patrick.
- Ma non c’è niente da capire. – cerco di sorridere, abbracciandolo stretto, - È solo un momento un po’ confuso, vedrai che lasciando al tempo fare il suo mestiere tutto andrà al suo posto.
Lui solleva gli occhi. Mi guarda con aria persa, le guance rigate di lacrime e le labbra che ancora tremano un po’.
- Ci credi davvero a questa cosa? – chiede debolmente.
Io scrollo le spalle.
- Il tempo ti ha guarito, quando credevi che Anis fosse morto. Ti guarirà anche adesso, in special modo perché non è morto nessuno.
Lo osservo abbassare lo sguardo per un attimo, e poi tornare a rifugiarsi nell’incavo del mio collo.
- Io non sono mai guarito da quel dolore. – sussurra sulla mia pelle, - È per questo che quando l’ho visto sono impazzito di gioia, nonostante tutto. Perché non mi ero mai veramente rassegnato. E se non l’ho fatto per lui, anche se ero convinto fosse morto… come pensi che potrei rassegnarmi adesso, sapendo che Peter invece è vivo?
Questo è il punto in cui dovrei stringermelo contro e rassicurarlo. Dirgli che presto questo dolore sordo che sente continuamente nel fondo del petto si affievolirà e passerà del tutto, dirgli che dimenticherà – anche se non è vero, perché nella vita non si dimentica mai, ed io ne sono la prova vivente, è che ti abitui, tutto qua, alla fine il dolore diventa una parte di te, mette radici o qualcosa del genere, come le radici degli alberi penetrano la terra fino a sconquassarla del tutto, e ne diventano parte, il dolore fa la stessa cosa col tuo corpo, e alla fine smetti anche di notarlo. Vorrei dirgli che è normale, è così per tutti, è perfino giusto sentirsi in questo modo, per certi versi, ma non posso. Non posso perché, uscito da questa casa, con la traccia del suo mascara ancora sulla maglietta, io prenderò la mia macchina e passerò in pizzeria, recupererò due pizze e due bottiglie di birra e nel giro di un’altra mezz’ora sarò a casa di Chakuza, e lì mangeremo metà pizza ciascuno, butteremo giù la birra in due minuti netti e il minuto successivo saremo già schiacciati contro una qualsiasi superficie a morderci ovunque come se dovessimo divorarci a vicenda. E quindi non ce la faccio, adesso, a guardare questo ragazzino disperato e dirgli che è giusto che soffra. Non ce la faccio.
- Si sistemerà tutto. – gli sussurro fra i capelli, e lui mi stringe al collo con tanta forza da togliermi il respiro, - Ti prometto che si sistemerà tutto. – ripeto, cingendolo alla vita.
Lui annuisce. Lo fa con forza, con l’ostinazione dei bambini, e so che non ci crede ma vuole provarci. Ce lo faremo bastare, ragazzino. Tu provaci. Proviamoci entrambi.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, Fler/Nicole, Fler/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- "Com’è che sto. Sto. In attesa, più che altro."
Note: Mi dispiace non essere molto loquace nelle note finali, ultimamente, ma la mia vita ha deciso che, dopo qualche mese di gioia, ora merito di essere massacrata, perciò non passa una sera senza che io sia stanca morta e di tutto abbia voglia meno che di mettermi a disquisire di ciò che ho buttato giù scrivendo XD Questa shot mi piace perché mi piace perdermi dentro Chakuza, alle volte. È liberatorio. Spero sia servita a voi per capire un po’ meglio le dinamiche del Flerole e cosa passa per la testa al mio bimbo. E spero che vi siate godute il Bikuza, perché questi due sono di una dolcezza infinita, anche se la Tab li rende sempre molto meglio di quanto non riesca a fare io, cosa per la quale la odio con furia. A presto :*
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THE WAY HE LOVES HIM

Stamattina ho visto Fler.
Fler, in questo momento preciso della mia esistenza, è un problema che mi sto sforzando di ignorare. Nel senso, non lo so se vi è mai capitato: vi svegliate una mattina e scoprite che la vita che stavate vivendo in maniera non perfetta ma tutto sommato passabile fino al giorno prima è scomparsa. Non è che una cosa prende e va male, no, tutto comincia a muoversi nel verso sbagliato contemporaneamente, e uno in una situazione del genere comincia ad avere difficoltà a capire da che lato dovrebbe girarsi, no? Cioè, dovunque guarda vede solo casino, è un problema. Che mi si potrebbe pure dire: “be’, ma tu vivi una condizione di casino perenne dentro la tua testa, quindi qual è il problema?”, e il problema è proprio questo, che quando non sei un cazzo ordinato nel cervello il mondo esterno deve stare al proprio posto. Quando non riesci ad avere un punto di riferimento dentro di te, devi cercartelo fuori. Se fuori dalla tua testa tutti fanno il cazzo che vogliono – che è pure giusto, alla fine, ma mi crea problemi non indifferenti – tu i punti di riferimento non puoi più cercarli da nessuna parte. Ed è questo il problema.
Quindi, insomma, io mi sono svegliato una mattina e Bushido era vivo, Bill non era più così assolutamente innamorato di me e Fler s’era messo con una donna. Fra tutte queste cose, ovviamente, la priorità è Bill. Bill è sempre la priorità. Bushido arriva al secondo posto, perché a Bill è legato a doppio filo. E poi c’è Fler.
Di ciò che fa Fler, di dove va Fler ed anche di chi si scopa Fler, non dovrebbe fregarmi un accidenti. Beninteso, io lo so. Lo so che non dovrei assolutamente incazzarmi perché me lo vedo spuntare allegro e sorridente mano nella mano con una ragazza, lo so che dovrei accettarlo, congratularmi con lui ed anche esserne felice, ed esserlo sul serio, perché a me non piace che Fler stia male, e fino a prima di mettersi con Nicole lui indubbiamente soffriva, ed invece da quando ci si è messo insieme sta visibilmente meglio.
Però.
Il solo vederli vicini mi manda fuori di testa.
È una cosa assolutamente priva di senso, io me ne rendo conto perfettamente. Non vorrei che di me passasse un’idea ancora più fuori di testa di quanto già non sia nella realtà. Io lo so che non sono tanto normale, ma non sono ancora tanto pazzo da pensare che Fler mi debba fedeltà assoluta dopo tutto quello che gli ho combinato nel corso dell’ultimo anno. Per questo non gli dico niente e cerco di stare tranquillo, anche quando lo vedo con Nicole in giro, ma ciò non cambia la realtà dei fatti che appena io faccio tanto di mettergli gli occhi addosso e lo vedo che la stringe, le sfiora un braccio, le sorride o quel che è, la prima cosa che penso è che ho voglia di pestare lui e defenestrare lei. Che poi è la stessa cosa che ho provato quando l’ho visto interagire con Bushido la prima volta che si sono rivisti, in casa di Eko, solo che stavolta è anche peggio, perché, voglio dire, chi cazzo è Nicole? Siamo seri.
Comunque, stamattina è successo che sono andato a registrare le mie parti per Prinzessin. Io, di questa canzone, non voglio parlare. Perché è anche troppo evidente cosa Bushido ci abbia messo dentro. Ora, io lo so come lavora Bushido. È uno molto presente a se stesso, quando si sta vendendo ad un pubblico pagante; tiene sotto controllo tutto, programma tutto, niente succede se non è stato lui a deciderlo. Quando scrive no, però, quando scrive è molto più libero. Si ascolta molto, anche se credo sia solo uno strascico del suo egocentrismo del cazzo. La sua voce sovrasta quelle degli altri anche dentro di lui, quindi, quando scrive, lo fa ascoltando la parte più profonda di se stesso, quella con cui magari lui direttamente non parla, ma che lascia scivolare sul foglio, perché così è più semplice tenerla a bada. La canzone che ha scritto per Fler, in Heavy Metal Payback, l’ha scritta così. Ed io credo che Prinzessin sia nata nello stesso modo, perciò non è che posso avercela in maniera distruttiva con Bushido per il solo fatto di averla buttata giù.
Però ce l’ho con lui per il modo in cui la sta usando. Quindi no, non voglio parlare di questa canzone e di come a leggerne il testo io venga fuori come un pezzo di merda quando, in tutta franchezza, non ho fatto proprio un cazzo di male. Mi urta dovermi prestare a questo giochino per niente divertente, mi urta star qui a cantare cose che non penso quando io sui testi che avevo da cantare sono sempre riuscito a mettere mani e bocca per renderli il più possibile vicini al mio modo di sentire, e mi urta non esserci riuscito adesso solo perché, come mi ha detto Jost quando mi ha fatto sapere che la mia presenza era richiesta e no, non potevo rifiutarmi, “alla Universal sono già abbastanza incazzati per lo scherzetto che gli ha combinato Bushido. Pretendono la massima collaborazione e tu non vuoi davvero averli contro, Chakuza”. E no che non li voglio contro. Mi mancano davvero solo i pezzi grossi dell’industria musicale tedesco che mi vogliono fuori dal giro, e poi sono completo, cazzo.
Comunque, ovviamente prima di dire “d’accordo” mi sono informato, con Jost. Pazzo sì, cretino no. Gliel’ho chiesto, “sono registrazioni di gruppo?”, e lui naturalmente mi ha guardato e m’è scoppiato a ridere in faccia. Poi è tornato subito serio e fa “ma ovviamente no, Chakuza”, come a dire “ma per chi mi hai preso?”, ed in effetti io lo sospettavo che Jost non l’avrebbe mai permessa una cosa del genere, perché è uno che sul lavoro è molto preciso e gli danno fastidio i tempi, quando si allungano, perciò supponevo avesse già preso tutte le precauzioni del caso, ma sempre meglio chiedere, dico io, per scrupolo.
Comunque nella mia domanda era compreso anche Fler. Nel cervello di Jost no, invece, perché giustamente lui si dice “Fler non c’entra un cazzo”, ma per me Fler c’entra sempre, quindi se ti chiedo se c’è la possibilità per me di incontrare qualcuno, nei vari “qualcuno” possibili è incluso anche Fler. Nella mia testa questo è chiaro, in quella di Jost no, e questo è giusto, ma io tendo a dimenticarlo. Perciò oggi mi sono presentato agli studi con le palle girate, d’accordo, ma fiducioso che non mi sarei trovato a dover fronteggiare nessuna situazione difficile. E invece appena esco dalla sala d’incisione, dopo tre ore sfiancanti, chi mi vedo passare davanti? Ma la coppietta felice, naturalmente.
Non ho il tempo materiale di fuggire dietro il primo angolo disponibile dopo aver adocchiato Fler che cammina – un braccio attorno alle spalle di Nicole, lei ha intrecciato le dita con le sue – che lui si volta e mi guarda e, come fosse tutto perfettamente a posto, mi sorride. Così, tranquillissimo. Solleva anche una mano nella mia direzione, rilassatissimo, e mi saluta. Al che io non posso fare molto più che rispondere abbozzando un sorriso a mia volta, restando lì fermo impalato mentre lui mi si avvicina, trascinandosi dietro Nicole che è minuscola e scialbissima e non c’entra niente col tipo di donna che avrei affibbiato a Fler se mai avessi voluto affibbiargliene una. Per dire, visto che lui comunque è robusto ed ha la pelle e gli occhi chiari, accanto gli starebbe bene una ragazza alta con un sacco di curve, la pelle scura e gli occhi grandi e castani. Invece lui mi si presenta con questa cosina minuscola, pallidina, biondiccia, con questi occhietti marroncini anonimi, boh, Fler poteva pretendere di più, credo. Anzi no, lo so, Fler poteva pretendere di più eccome. Comunque mi sforzo di guardarla con calore, perché lei mi sorride timidissima e non me la sento di lanciarle occhiate intimidatorie. Non ne avrei nemmeno un motivo, peraltro.
- Ehi. – mi fa, perfettamente a suo agio, - Finito per oggi? – chiede, indicando con un cenno la porta chiusa della sala incisioni. Nicole stringe la presa delle proprie dita attorno alle sue ed io fisso l’intreccio delle loro mani per un po’ di secondi, prima di riscuotermi e decidermi a rispondere.
- Sì, - ammetto, - è stata dura ma ce l’ho fatta. – commento con una scrollatina di spalle. Lui annuisce e lo vedo chinarsi appena su Nicole, sfiorarle la guancia con un bacio lento e poi sussurrarle qualcosa che non riesco a percepire. Lei sorride ed annuisce, e mi saluta a bassa voce prima di sciogliersi dal suo abbraccio ed andare verso l’uscita degli studi. Inarco un sopracciglio e fisso Fler con aria curiosa. – Be’? – chiedo, indicando la porta dalla quale Nicole è appena uscita. Lui ride.
- Le ho chiesto di precedermi a casa sua. Ho voglia di spezzatino con le patate.
Mi lascio andare ad un mezzo ghigno, spostando il peso da un piede all’altro.
- La fai filare? – chiedo, e lui mi tira una mezza spinta, ridendo come un ragazzino.
- È solo gentile. – risponde, - Mi piace che lo sia. È dolce ed è semplice. Niente di neanche lontanamente paragonabile al resto della gente con cui sono stato.
- Ah, grazie mille. – rispondo, un po’ offeso, e lui ride ancora.
- Non sono mica stato solo con te. – mi fa notare, e penso pure che c’ha ragione e che questo dialogo è surreale.
- E… - gesticolo, perché non so se posso chiedere questa cosa e non so nemmeno se voglio chiederla, o meglio, voglio chiederla ma non so se voglio sapere la risposta; o meglio ancora, voglio sapere la risposta, ma non so se sono veramente pronto a sentirmelo dire. Quindi, in sostanza, gesticolo per tergiversare. - …da quant’è che state insieme?
Fler è a disagio e lo vedo subito nel momento in cui volta lo sguardo e scrolla le spalle.
- Lasciamo perdere. – taglia corto, - Ti va un caffè?
Annuisco, un po’ confuso, e gli vado dietro mentre ci avviciniamo ai distributori automatici. Fler mi chiede cosa voglio, io rispondo “un caffè ristretto” e, quando lo vedo recuperare il portafogli in tasca, gli chiedo cosa vuole lui, come fosse una curiosità come un’altra. Lui apre la taschina portamonete, rovista tintinnando e mi risponde sovrappensiero che lui ne prende uno doppio zuccherato. Perciò io infilo la mano in tasca, recupero due euro spersi nei pantaloni da chissà quanto tempo e pago per entrambi. Lui, che non aveva ancora racimolato la quantità sufficiente di monetine, se ne rende conto solo quando sente la macchinetta ronzare e cominciare a riempire il bicchierino di plastica col suo caffè, e mi lancia un’occhiata a metà fra lo sconvolto e il nient’affatto compiaciuto.
- Chakuza! – mi rimprovera, - Ma chi te l’ha chiesto?!
- …nessuno. – ammetto io, recuperando il bicchierino e porgendoglielo, - Mi faceva solo piacere farlo.
Lui accetta il bicchierino sospirando teatralmente in un roteare di occhioni azzurri che mi fa anche un po’ ridere, e poi resta in silenzio mentre io prendo il mio caffè e rimaniamo lì a sorseggiare lentamente, perché il coso è pure caldo, e nessuno qui vuole scottarsi la lingua. Restiamo in silenzio finché possiamo permettercelo – ossia finché non diventa troppo pesante – e poi gli chiedo come sta. Che è una cosa che faccio sempre quando non so cos’altro fare con lui. Fler non è semplice, da maneggiare, anzi. È uno che, tra l’altro, appena sbagli di un millimetro ti si volta contro in maniera devastante. Quindi, prima di fare o dire qualsiasi altra cosa, io devo chiedergli come sta. Così posso elaborare un piano d’azione, o pensare ad una strategia, o qualunque sia un modo meno idiota per definire il momento in cui cerchi di capire come muoverti per non passare come un fottuto carro armato addosso ad una persona alla quale tieni.
Lui scrolla le spalle, butta giù ciò che resta del suo caffè e si appoggia contro la macchinetta.
- Bene, credo. – risponde, - È un periodo un po’ incasinato, con Nicole e tutto il resto, ma sto tranquillo. Cioè, tutto il mondo è un casino, ma io sono tranquillo. Non so se capisci cosa intendo.
Annuisco vagamente, e non lo faccio per finta. Lo capisco cosa intende. Anche se è una cosa che non mi piace, perché vuol dire che è felice davvero. Mi piace vederlo felice, cazzo, ma… oh, insomma.
- Stai da lei? – chiedo, fingendo disinteresse. Lui mi sgama subito e sorride.
- Cosa vuoi sentirti rispondere?
- …la verità, suppongo. – borbotto senza guardarlo. Lui ride un po’.
- Penso che la prenderesti anche peggio. – mi informa con una risata da ragazzino che sembra prendermi in giro.
Simulo tranquillità, lanciandogli una mezza occhiata che mi auguro sia indecifrabile, e invece non lo è, perché lui si mette subito a ridere come un cretino, e io sbuffo.
- Be’, dimmelo se stai da Bushido. – sospiro alla fine, abbattendomi di spalle contro la parete. Lui ride ancora.
- Praticamente sì. – ammette, gettando il bicchierino ormai vuoto nella spazzatura, - Lo sai come funziono. Ragiono meglio se ho gente attorno.
- Che bisogno avrai di ragionare, adesso… - mi lamento io, e lo faccio solo perché non mi piace saperlo giorno e notte piantato in casa di Bushido.
- Be’, qualcuno dovrà pur farlo. – mi risponde lui, ed in effetti non posso dargli torto, perciò annuisco. – Comunque in genere sto bene. Come ti dicevo, Nicole è molto carina e dolce.
- E la ami?
…non so come funzioni con questo tipo di domande. Probabilmente ognuno, nel proprio cervello, ha una scatola con dentro tutte le domande scomodissime che non vorrebbe mai fare e delle quali però vorrebbe conoscere la risposta. E le domande vanno accumulandosi in questa scatola finché non diventano troppe, e quando diventano veramente tantissime ecco che salta via il coperchio e quelle cominciano ad uscire. E il problema è che, mentre stavano lì strette nella scatola, si sono aggrovigliate fra loro come i gomitoli di lana quando non li avvolgi bene e li lasci lì nella cesta per giorni, perciò quando ne esce una se ne porta dietro un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora, finché non escono tutte. Forse è così che funziona per tutti, o forse è così che funziona solo per me, fatto sta che di questa domanda io so che voglio conoscere la risposta, ma so anche che non avrei voluto porla. E perciò, dopo averla detta, non mi sento bene neanche per un cazzo. E guardare Fler esitare, prima di rispondere, non mi aiuta per niente.
Lo osservo rifletterci sul serio – nei suoi occhi chiarissimi i pensieri passano come in trasparenza, che se solo sei un po’ abituato a guardarci dentro, a quegli occhi, lo capisci cos’è che sta succedendo dentro la testa di Fler. Puoi perfino anticiparlo. Perciò, quando schiude le labbra, io so già cosa sta per dire, e mi tendo tutto, stringendo i pugni per cercare di fermare qualsiasi sia il gesto che vorrei compiere in reazione alle sue parole. Perché non posso permettermelo, perché non posso farglielo e perché in generale è più giusto se sto fermo.
- No. – risponde, comunque. È la cosa più bella che sento da giorni. – No, non credo proprio. – mi guarda, ed è tranquillissimo. – Ma lo sai già.
Annuisco lentamente, gettando via il mio bicchierino.
- Perché ci stai insieme? – chiedo, guardandolo dritto negli occhi. Lui sospira e mi ricambia lo sguardo.
- Perché è meglio che stare soli. Perché boh… non è così male. – sospira ancora, più pesantemente. – Perché anche se mi manchi non me ne faccio niente di questo sentimento. Mi sento anche uno scemo a dirtelo.
Mi mordo un labbro, schiacciandomi con forza contro la macchinetta per non avvicinarmi neanche di un passo.
- Non sei uno scemo. – rispondo a bassa voce, - Mi dispiace che tu stia così, Pat.
Lui tira fuori un mezzo sorriso e scrolla le spalle. Ogni tanto, quando lo fa, quando scrolla le spalle, dico, mi sembra voglia scrollarsi di dosso i problemi. Lo fa con una convinzione tutta particolare. Come servisse davvero.
- Non sto male. – ribadisce, - Ed ora basta parlare di me. – sorride più decisamente, tornando ad appoggiarsi qui accanto a me solo quando vede i miei muscoli rilassarsi e la voglia che ho di baciarlo scivolarmi lentamente via dagli occhi. – Tu com’è che stai, Chaku?
*
Com’è che sto mi ha chiesto Fler stamattina. Com’è che sto. Immagino che la risposta a questa domanda sia “non lo so”, ma “non lo so” non è veramente una risposta. È la scusa che usi quando non ti va di risolvere una questione, penso, e posso dire di parlarne con una certa competenza, visto che la uso molto spesso. Non è nemmeno una bugia: io davvero non so come sto. Non è la risposta completa, perché la risposta completa è “non lo so perché non voglio saperlo, perché non posso mettermi lì a risolvere la questione, perché mi fa male pensare di stare male”, ma non è una menzogna. È una parte di ciò che è. Ed è anche quello che ho detto a Patrick, che d’altronde da parte sua non ha nemmeno mai avuto bisogno delle mie risposte complete. Quelle incomplete sono sempre state sufficienti a dargli una base di partenza per trovare il resto di ciò che voleva sapere nei miei occhi, nella mia voce, nel mio odore, sul mio corpo.
Com’è che sto. Sto. In attesa, più che altro. A volte, ripensando a tutta la mia vita nell’ultimo anno, mi sembra di averla vissuta solo così. In attesa. Di Bill, naturalmente, perché niente è stato più importante di lui in questi ultimi dodici mesi. Niente è stato più importante di lui in generale, in tutta la mia vita, temo. E penso succeda così, in fondo, quando ti innamori di una persona, indipendentemente da chi sia. Fa come un balzo fra le tue priorità. Era lì, nel mucchio, e all’improvviso te la ritrovi su un piedistallo, in evidenza, e da lì non riesci a toglierla nemmeno con la forza. E poi neanche vuoi, in fondo.
Con Bill è stato così. Io ho vissuto in attesa di capire cosa stavo cominciando a provare per lui, all’inizio. Poi ho vissuto in attesa di un suo cenno d’assenso. Poi ho vissuto in attesa di risentire il suono della sua voce e guardarlo nuovamente negli occhi. Ed alla fine ho iniziato a vivere nell’attesa del momento successivo in cui avrei potuto tenerlo stretto a me, che poi è quello che ho fatto negli ultimi nove mesi ogni volta che per forza di cose siamo dovuti stare lontani, ed è quello che sto facendo anche ora che è tutto complicato e intricato e doloroso. Vivo in attesa di Bill. Ed è una cosa bellissima.
Quando il mio cellulare squilla, so già che si tratta di Bill. Perché questo è l’orario in cui mi chiama di solito, quando tutti gli altri si decidono a lasciarlo in pace e lui si ritrova finalmente tranquillo in casa propria. È l’orario in cui può smettere di tenere a freno il bisogno che ha di vedermi, e quindi quel bisogno sfonda gli argini e lui mi chiama, e quando mi parla lo fa con tenerezza ma anche con urgenza. Perciò, quando sento la sua voce, sorrido. Perché è stanca, è provata, è angosciata, è triste ed è un altro milione e mezzo di cose, ma soprattutto è piena del bisogno che ha di me. E siccome per me è lo stesso, io non posso fare a meno di esserne felice, e sorridere.
- Secondo te, - mi dice, senza nemmeno salutarmi, - anche se lo yogurt è scaduto da un paio di giorni, posso mangiarlo?
Rido a bassa voce, perché come si fa a restare seri di fronte ad una cosa del genere?
- Ho esperienza sul campo. – gli faccio notare, dal momento che entrambi conosciamo le condizioni del mio frigorifero, - Sono quasi sicuro di no, Bill. Forse è il caso se mangi qualcos’altro.
Lui sbuffa, e lo ascolto lasciarsi andare sul divano e raggomitolarsi in una pallina contro il bracciolo.
- Non c’è nulla di buono. – borbotta, - C’è qualcosa che mi ha comprato David, ma non saprei come metterla insieme e tirarne fuori qualcosa di commestibile.
Rido ancora, e quello che gli chiedo glielo chiedo solo perché lui me lo sta già chiedendo da quando questa telefonata è cominciata.
- Vuoi che venga a prepararti qualcosa? – suggerisco, - Sono quasi sicuro che David abbia comprato sufficienti ingredienti almeno per un piatto di pasta.
Lui sorride e mi dice che mi aspetta. Ed io rido un po’ perché fino a due minuti fa stavo pensando che l’intera mia esistenza – be’, ok, l’ultimo anno, ma in fondo se ci penso un po’ stavo aspettando qualcosa come Bill da sempre, qualcosa che mi sconvolgesse dentro, che mi trascinasse completamente in sé, qualcosa che mi prendesse come mi ha preso lui, quindi forse è davvero tutta la vita che lo aspetto – insomma, pensavo che l’intera mia esistenza fosse stata vissuta in sua attesa, e lui ora mi dice che mi sta aspettando. Che sembra una cazzata, ma è bello pensare che in qualche modo, in un certo senso, forse anche Bill stava aspettando me. Indipendentemente da tutto il resto, anche lui mi stava aspettando, ecco.
Quando arrivo a casa sua, lo trovo lì sulla soglia che mi guarda, una mano stretta nervosamente attorno allo stipite della porta e tutto il corpo proteso in avanti a cercare il mio. Quando Bill vuole un abbraccio, lo vedi da lontano, perché tutta la sua persona si prodiga per trovarlo. Ha dei bisogni molto fisici, Bill, perciò basta osservarlo e vedere come si sporge, come si espone, come tiene le braccia, come pianta un piede in avanti rispetto al corpo, per capire che ti vuole vicino e vuole sentirti addosso il prima possibile. Si fa rassicurare con così poco, alle volte, che sembra molto più fragile di ciò che è in realtà. Perché poi quasi te lo dimentichi che ha fatto fuori un uomo, per dire. Ma Bill è bellissimo soprattutto per questo, perché è un mistero continuo, che lo guardi a non capisci proprio come possa essere possibile che sia proprio così. E invece lo è. Se me ne fregasse qualcosa della religione, direi che è un miracolo. Della religione non mi frega un accidenti, e Bill è il mio miracolo comunque.
Lo tiro a me e lo stringo forte, richiudendomi la porta alle spalle, e Bill nasconde il viso contro il mio collo e mugola un po’, strusciando il naso lungo il mio zigomo e cercando subito le mie labbra per un bacio veloce.
- Mi sei mancato… - mi sussurra sulle labbra, mentre io lascio scivolare le mani sui suoi fianchi, accarezzandolo piano, - Puoi… puoi prepararmela dopo, la cena?
Io lancio un’occhiata all’orologio appeso al muro, sulla parete di fronte, e vedo che sono già quasi le dieci. Non c’è verso che, se gli faccio mangiare qualcosa adesso, lui riesca a digerirlo prima di mezzogiorno di domani. Oltretutto, fra meno di un’ora, qualsiasi cosa decidiamo di fare adesso, Bill sarà già crollato addormentato sulla prima superficie disponibile. Vorrei essere io, quella superficie. Perciò lo bacio piano sulle labbra e gli assicuro che sì, gli cucinerò qualcosa dopo, anche se so per certo che la prima cosa che preparerò per lui saranno le frittelle domattina, e mi lascio condurre dalle sue mani che si aggrappano ai miei vestiti, cercando di tirarli via, trascinandomi fino in camera da letto.
Lo stendo sul letto cercando di essere delicato, perché è stanco e lo sento dal modo arreso in cui si lascia maneggiare e accarezzare e mi si appoggia addosso, come avesse bisogno di aiuto per tenersi in piedi. È per questo che lo aiuto a distendersi, così non dovrà faticare per tenersi dritto. Schiude le gambe lasciandomi lo spazio per sistemarmi contro di lui, ed attraverso la stoffa sottilissima del pigiama sento il calore della sua pelle e quello della sua eccitazione, ed entrambi mi colpiscono in scariche elettriche che partono dalla base della mia schiena e si diffondono per tutto il mio corpo, rendendo più affamati i miei baci e i miei tocchi, finché lo sento ansimare pesantemente e gettare indietro il capo alla ricerca d’aria, quando scendo ad accarezzarlo sotto i pantaloni e lo sollevo con la mano libera da sotto la schiena, così che possa inarcarsi, schiacciandosi contro il mio corpo e stringendo le ginocchia sui miei fianchi, le cosce che si serrano come tenaglie attorno al mio polso ed alle mie dita.
- Peter… - mi chiama piano, ed il mio nome scivola sulle sua labbra in maniera tanto dolce che mi viene voglia di assaggiarlo, perciò mi sporgo a baciarlo, affondando dentro di lui che mi accoglie morbido come sempre, e questi sono i momenti in cui mi viene da pensare che forse, se mi sforzo, posso ancora fare in modo che sia come non fosse cambiato niente, come se Bushido non fosse mai tornato, come se Bill non fosse così indeciso come invece è. E quindi ce la metto tutta, cazzo, ce la metto tutta davvero, e lo stringo piano per i fianchi mentre accontento le sue richieste e mi faccio avanti dentro il suo corpo solo dopo averlo preparato per bene, dopo averlo sfiorato e baciato e toccato ovunque, e quando lo sento stringersi attorno a me, seguendo l’impronta che le mie spinte lasciano dentro di lui, chiudo gli occhi e lo bacio sul collo, sullo zigomo, sulla guancia, sugli occhi chiusi e stanchi, sulla tempia, e glielo dico piano, che lo amo, e non mi arrabbio se non mi risponde subito, non mi arrabbio nemmeno se non mi risponde affatto, perché so che è così, lo so che mi ama anche lui, se non me lo sta dicendo in questo momento è solo perché non è il momento opportuno, ed io questo lo rispetto. E Bill lo sa, che lo rispetto. Ed è tutto quello che mi interessa, in questo momento.
Quando si scioglie fra le mie dita ed io mi sciolgo dentro di lui, ascolto i suoi respiri inseguirsi affannosamente sul mio petto, dove ha poggiato le labbra, per molti minuti, prima che lui riesca a domarli abbastanza da costringerli a tornare ad un ritmo più regolare. Ed anche allora continuano ad accarezzarmi piano, così come io accarezzo lui, le dita che si incastrano fra le ciocche intrecciate dei suoi capelli e seguono il disegno sottilissimo e un po’ spigoloso delle sue scapole e della sua spina dorsale.
Come previsto, mi si arriccia addosso e comincia subito a scivolare nel dormiveglia, ed io sorrido mentre lo aiuto a sistemarsi comodamente sul mio corpo e tiro su le lenzuola perché ci coprano entrambi.
- La cena… - borbotta sul mio collo, - …domani, okay?
Rido ancora, sulla pelle un po’ accaldata della sua fronte, ed annuisco stringendolo a me. Domani, Bill, okay. Quando vuoi.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, Fler/Nicole.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Het, Language, Lime, Slash.
- "Quando Fler e Nicole tornano, ridendo come due deficienti, io tengo in braccio entrambi i miei cani minuscoli e sono perfettamente soddisfatto di me. Patrick mi chiede perché di colori diversi. Io rispondo che bianco e nero, insieme, sono una combinazione bellissima."
Note: Questo, signore care, è il Billshido di Schmetterlingseffekt. Vorrei poter stare qui le ore a parlarne, perché il rapporto che si instaura fra loro in questa shot mi manda fuori di testa per ragioni incomprensibili <3 Ma sono tornata tardi da lavoro – checché se ne dica, ho una vita, come tutti XD – ed ho una figlia che attende questo capitolo con trepidazione. Cercate solo di comprenderli, non sono stronzi, solo pazzi XD
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MEIN REVIER

La notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda è che, alla fine, ho di nuovo casa mia. A quanto ho capito, è stata la prima cosa alla quale David ha pensato - dopo, naturalmente, avermi riportato in Germania con la stessa navigata disinvoltura con la quale mi aveva aiutato ad uscirne. Pare che qui, la mia bella villa gialla - sui cui mobili sto lasciando scorrere le dita proprio adesso - fosse diventata una specie di museo alla mia memoria. O qualche altra simile stronzata.
Quello che ho imparato dalla mia morte fasulla è che, quando morirò sul serio, voglio che niente sia come è stato stavolta. Non voglio un funerale, non voglio un museo, non voglio una ricorrenza, non voglio un cazzo. Non voglio essere ricordato. Preferisco andarmene nella tomba con la certezza che nessuno saprà chi sono già due ore dopo la mia scomparsa, piuttosto che crepare con la speranza di contare ancora qualcosa per qualcuno negli anni. Tanto nessuno ricorda mai davvero. Non sei mai davvero niente per nessuno. Quando muori vieni spazzato via. La vita va avanti. È giusto così. Per questo, non farò altri drammi.
Fanculo.
Ricominciamo da capo.
La notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda è che, alla fine, ho di nuovo casa mia. Non potete veramente capire quanto sia importante avere una casa fino a quando non vi costringono a chiamare in questo modo un posto che non lo è. Nel caso di specie io mi sono costretto da solo, ma in genere questo non conta poi molto, quando stai male. È il classico motivo per cui, quando sei triste e qualcuno ti dice “sì, ma te la sei andata a cercare”, tutto ciò che hai voglia di fare tu è prendere il dannato qualcuno per il collo e spaccargli la testa contro il muro. Cercato o no, è dolore, quello che sto sentendo. Abbine almeno rispetto.
Prima di rientrare qua dentro - non ho nemmeno chiesto a David come sia riuscito a rimetterci sopra le mani, immagino siano fatti suoi come ottiene le cose. Per me è okay - credevo che avrei odiato ogni singolo centimetro di questo appartamento, perché ogni singolo centimetro mi parla di Bill. Odora di lui, sa di lui, ho fotografie del suo corpo, del suo viso, dei suoi sorrisi, dei suoi occhi, su ogni fottutissimo centimetro di questi mobili, di questo pavimento, di queste pareti. È ovunque. E lo sapevo prima di rimetterci piede. Quindi pensavo avrei sofferto come un cane - rivedere Bill ovunque senza possibilità di dimenticarmi perfino che esistiamo ancora nello stesso mondo, impensabile.
E invece no. Cioè, naturalmente se dicessi adesso che non sto male al pensiero di Bill in questa città ed al pensiero di me che non posso più vederlo – perché sono stato io a buttarlo fuori dalla mia vita – ed al pensiero di quello che avevamo ormai completamente devastato dalla distanza e dal tempo, sto male. Ovvio che non posso guardare una fottuta parete senza rivederci contro Bill con una nettezza tale da poterlo quasi disegnare a memoria.
Allo stesso tempo, però, questo posto mi consola. Nonostante tutto quello che è successo, tutta la gente che c’è passata, tutte le cose che sono state portate via, toccate da sconosciuti, spostate da dove le tenevo sempre e via dicendo, questo posto è rimasto mio. Ha ancora intatti tutti i suoi colori, perfino gli odori – se cammino lentamente da una stanza all’altra – sono sempre gli stessi. Mancano pezzi interi di ciò che questa villa è stato, ma è ancora lei. Ed io sono uguale. Mancano pezzi interi di me, ma sono ancora qui. Quando mi seggo sul divano, guardo il vuoto e penso che senza Bill non posso sopravvivere – perché Bill era il motivo per cui sopravvivevo, cazzo, e ora non ce l’ho più – osservare la casa mi consola. Lei ha resistito. Se possono farlo dei fottuti mattoni, potrò farlo anch’io.
- Anis?
Sollevo lo sguardo e davanti a me c’è Pat, in piedi, con una mano sulla fibbia enorme della cintura che indossa e l’altra sollevata per aria, il mazzo di chiavi – che è il doppione delle chiavi di questo appartamento. Praticamente è stato la prima persona dalla quale mi sono catapultato con la copia, appena ho avuto le chiavi in mano – appeso all’indice che dondola lentamente avanti e indietro, mentre lui muove quasi impercettibilmente la mano per impedirgli di fermarsi.
Pat sarebbe palesemente la notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda, se non avessi riavuto casa mia. Siccome ho riavuto la casa, non è la notizia migliore ma resta comunque una notizia bellissima.
Tra le varie cose che ho trovato irrimediabilmente cambiate, quando sono tornato, Patrick è stato quello che mi ha spaventato di più. Da quando lui e quello stronzo di Chakuza hanno scoperto che ero vivo in poi, io e lui ci siamo presi un po’ di tempo per noi. Perché ne avevamo bisogno. Io e Pat ci siamo allontanati bruscamente troppe volte, nella nostra vita. La quasi totalità delle quali a causa mia, peraltro, ma non intendo certo pentirmi di ciò che ho fatto nella speranza di migliorare le cose. Così come non intendo pentirmi di essermi finto morto per cercare di tirare fuori Bill da un ghetto cui non appartiene e nel quale peraltro non ha mai veramente vissuto, non intendo pentirmi delle innumerevoli volte in cui ho lasciato indietro Patrick nel tentativo di risparmiare sia a me che a lui qualcosa che c’era e che tuttavia non poteva essere vissuto come sarebbe stato giusto viverlo, per una quantità di fattori talmente elevata che non mi va nemmeno di elencarli adesso.
Comunque sia, nel tempo che ci siamo presi per noi prima che io e Bill ci rivedessimo e poi tutto precipitasse, io ho trovato un Patrick molto diverso da quello che avevo lasciato prima di partire. Di lui possono essere dette molte cose, ma non di certo sia una persona spenta. C’ha sempre avuto il fuoco negli occhi, Patrick, fin da quando era piccolissimo. Ha continuato a tenere viva quella fiamma crescendo, e bruciava ancora quando mi ha infilato un coltello in un braccio in quel dannato vicolo, la notte in cui Saad mi ha quasi mandato all’altro mondo con due fottuti proiettili. E invece, tornando da Miami, io questo ho trovato. Un ragazzino spento.
Ci ho messo un po’ a ritrovarlo, ma adesso che è qui e gioca con le chiavi davanti a me non posso fare a meno di sorridere nel rendermi conto che mi è bastato grattare un po’ quella superficie opaca che gli copriva gli occhi, per riportarli alla loro lucentezza originaria. Ancora non ho la più pallida idea di cosa li avesse resi così cupi – posso pensare di essere stato io, morendo; ma non lo so. Patrick non s’è mai spento perché l’avevo lasciato, semmai il contrario, più io mi allontanavo, più lui brillava di rabbia – ma al momento non conta tantissimo. L’importante è che sia di nuovo qui e che mi sia rimasto accanto. Che viva praticamente a casa mia, ad esempio, sembra una cazzata – e in fondo lo è, lui sta comunque in giro per la maggior parte del tempo e quando stiamo insieme non facciamo che cazzeggiare – ma è importante. È necessario, io ne ho bisogno e lui lo sa, perciò resta anche se avrebbe decisamente di meglio da fare che non rimanere qui a distrarmi il più possibile per evitare di permettermi di pensare a Bill.
Per dire, s’è messo con Nicole, questa ragazza che gli va dietro da anni senza che lui sia mai riuscito ad afferrare anche solo lontanamente il concetto. Patrick, con le donne, è sempre stato un po’ così. Svampito. Nel senso che non è granché bravo ad averci a che fare. È più tipo da maschi, nel senso innocente del termine. Cioè, gli piace la compagnia maschile, è uno bravo a cazzeggiare, ride, gioca a basket, si attacca alla playstation dimenticandosi per ore del mondo che lo circonda e via così. È rimasto un sacco un ragazzino, perciò le donne le maneggia con una certa difficoltà. Al contempo, però, quando si mette con una tipa prende sempre quest’impegno molto sul serio, perché è uno responsabile, lui, quindi non capita mai che, se sta con una, si dimentichi della sua esistenza. Ecco perché Nicole è sempre fra i piedi, ad esempio. Fler non la molla mai, quando è in giro è sempre con lei e quando viene qui per cena la porta. Ora, per dire, sono sicuro che lei ci stia aspettando in macchina di fuori, visto che Patrick è passato per venirmi a prendere.
Insomma, quello che intendo dire, riassumendo, è che avrebbe sicuramente di meglio da fare che non passare con me le sue ore. Però, quando si fa tardi e siamo qui a giocare a carte da ore e Nicole comincia a sbadigliare, quello che Patrick fa non è augurarmi la buonanotte ed andarsene. No, lui riaccompagna Nicole a casa ed è a lei che augura la buonanotte, prima di tornare qui da me. È sempre qui che ritorna e in realtà è sempre qui che sta, e c’è stato perfino quando tutta l’intera crew è stata riunita in questa casa, due giorni dopo che era rientrata in mio possesso, perché io potessi parlare loro di quello che presumibilmente sarebbe stato il nostro futuro. C’è stato lui e c’è stata Nicole. Sono carini, insieme. Fler sembra felice, a guardarlo. Sorride. Insomma. È più di quanto non si potesse dire di lui sei anni fa.
La riunione è stata una cosa che David ha voluto fortemente quando mi ha spiegato – ridendo peraltro di me che avevo effettivamente sperato il contrario – che non ci sarebbe stata neanche la più piccola possibilità di riuscire ad uscire vivo dalle mani della Universal se, dopo essere risorto, non mi fossi lasciato usare per tirare su un po’ di quattrini. “Se volevi essere lasciato in pace,” mi ha detto, “potevi restartene a Miami. Sei voluto tornare, hai voluto la scena madre? Ebbene, ogni attrice di film muto che si rispetti, nella scena madre o muore o dona le proprie virtù ad un uomo. Tu morire non puoi…” quindi ho da donare le mie virtù alla Universal.
Lì, io ho arbitrariamente deciso che, a quel punto, se di ritorno si doveva trattare, non sarebbe stato solo quello di Bushido, ma dell’Ersguterjunge tutta. Come ha intelligentemente sintetizzato Fler – che, ovviamente, mentre io discutevo con David della faccenda, era lì a farsi fare le carezzine sul collo da Nicole, praticamente sdraiata addosso a lui – “allora non ti limiti a donare le tue, di virtù, doni anche quelle di tutti gli altri. Furbo”. Furbo, sì, e necessario. Sono un sovrano solo se ho dei sudditi, d’altronde. In caso contrario, non sono niente.
Quindi la riunione si è svolta in questi termini, più o meno: ho accolto in casa mia Eko, Nyze, Kay e Bizzy, mi sono seduto sulla mia poltrona preferita, Fler s’è seduto a sinistra sul bracciolo a pochi centimetri dalla mia mano, Nicole s’è ordinatamente messa in piedi dietro di lui e David si è posizionato dritto e fiero alla mia destra, le mani incrociate sul petto e lo sguardo sicuro e tranquillo del manager di successo.
Eko è stato il primo a sollevare un dito, puntarlo contro Fler e schiudere le labbra per chiedere, con la maggiore innocenza e col minor tatto possibile, perché il Senzatetto fosse seduto lì e dove fosse finita la Principessa. La domanda ha posto in luce tutta una serie infinita e molto controversa di questioni che io ho preso in blocco e, con l’autorità da me stesso autoconferitami, ho messo da parte, rispondendo solo in parte e, comunque, solo con le informazioni che mi conveniva lasciare trapelare. D’altronde ad Eko non serve sapere che Fler il posto su quel bracciolo se l’è guadagnato in anni e anni di duro lavoro senza peraltro beccare mai niente in cambio. Anzi, sono quasi certo che Eko abbia decisamente bisogno di non sapere niente del genere.
Patrick,“ ho specificato, “è qui perché quello il suo posto. Quanto alla Principessa,” ho continuato, “è scappata col fottuto usciere,” e tutti si sono voltati a guardarsi intorno. Hanno notato l’assenza di quello stronzo di Chakuza. Ed hanno capito. “Perciò, vi sarei grato se, da questo momento in poi, sia quella troia che quel pezzo di merda uscissero dai vostri pensieri e non se ne facesse parola più in mia presenza,” li ho informati sorridendo. “Ciò detto, per quanto riguarda la mia resurrezione…” e lì David mi ha fermato sbuffando, fortunatamente, ed è passato ad aprire il proprio lucentissimo portatile nel mezzo del tavolino da caffè per poi illustrare alla mia squadra quale sarebbe stato il programma della loro esistenza per i successivi anni a venire fino alla morte.
Ho approfittato del momento di confusione in cui la mia crew cercava di prendere atto dell’agenda più fitta su cui posassero gli occhi da mesi, per sollevarmi dalla poltrona e spostarmi in un angolo della casa in cui mi sentissi più a mio agio e libero di prendermi a testate da solo per ciò che avevo appena detto, ed il luogo deputato è stato la cucina. È stato lì che – dopo aver rinunciato al proposito delle testate ed aver ripiegato su una più salutare birra sulle bollicine della quale perdermi un po’ in attesa di sentirmi meglio e tornare di là – mi sono visto spuntare Patrick, le mani intrecciate sul petto, le sopracciglia inarcate ed un sorrisino stronzo a piegare le labbra sottili, mentre si appoggiava disinvoltamente con una spalla allo stipite della porta, incrociando le gambe.
“Piantala di fare la troia,” ho sputato fuori acido, “Entra, se devi entrare, e chiudi la porta. Oppure torna di là.”
Lui s’è messo a ridere, ma è entrato ed ha chiuso la porta.
“Hai il troia facile, oggi,” mi ha fatto notare, rubandomi la birra dalle mani e bevendone a propria volta, “Quello che mi chiedo è: perché dirlo quando non lo pensi?”
“Chi ti dice che non lo penso?” ho ringhiato, riappropriandomi della mia dannata bottiglia. Patrick ha riso.
“Nessuno me lo dice,” ha risposto candidamente, “Io lo so.”
E il problema è quello. Non che lui lo sappia. Ma che ha ragione, dannazione.
Il problema enorme che ho con Patrick è che con lui, anche senza volerlo, mi sono aperto troppo. Gli ho detto un sacco di balle, ma gli ho detto anche un sacco di cose vere, nel corso dei lunghi anni in cui ci siamo conosciuti. Gli ho dato modo di imparare a distinguere le mie bugie dalle mie verità, e il risultato di tutto questo è che io, adesso, con lui non posso mentire. Patrick non è mai palese, quando mi sputtana. Non mi dice mai che ho torto, non mi manda mai a fanculo come il cazzaro che sono meriterebbe. Però se io lo guardo negli occhi lo capisco, se lo sa o meno che ho detto una cazzata. E questo basta, il più delle volte, a farmi desistere dal dirgliela.
E questo è valso quella sera in quella cucina così come vale adesso, perciò non lo faccio attendere, mi alzo in piedi e mi sistemo i vestiti addosso, chiedendogli se Nicole sia fuori che ci aspetta, e rido divertito quando lo sento rispondere che ovviamente sì, è nell’Escalade ed è emozionatissima perché non è mai stata ad un allevamento di cani in vita sua. Rido perché in realtà neanche io sono mai stato ad un allevamento di cani e non ho idea di cosa aspettarmi da questa cosa, oggi. Per dire, non so se arriverò lì e sarò circondato da un’orda di cuccioli minuscoli e morbidissimi e sarò quindi costretto a dar via tutta la mia dignità in un colpo solo accasciandomi fra di loro e guardandoli tutti con occhi innamorati mentre non riesco a decidere quale prendere in braccio accarezzare grattare sprimacciare per primo.
I cani, voglio che sia comunque reso noto, sono stati un’idea di Patrick. Il giorno dopo aver ricevuto le chiavi della villa, Pat ha cominciato a piagnucolare perché era enorme e vuota. Non so che problema abbia con le case vuote, è una cosa che si trascina dietro da sempre, tant’è che faceva come un pazzo anche quando dividevamo l’appartamento e lo lasciavo lì solo troppo a lungo. Comunque, più è grande la casa più lui si lamenta. Casa mia, ovviamente, è enorme. Perciò lui s’è lamentato tantissimo. E la cosa più allucinante è che non ha posto il problema in termini “starai solo, qui dentro, i cani potrebbero farti bene”. No, l’ha posto in termini “questa casa è vuota da far spavento, ci voglio dentro dei cani”. Tranquillissimo, come dovesse fermarsi a vivere qui per sempre. Non è che la cosa mi dispiaccia in sé e per sé, ma anche datti una calmata, ragazzino.
Quindi, è stato Patrick a decidere che dovevo avere due cani – uno, a suo dire, per quanto grande, sarebbe stato comunque troppo poco per riempire la casa. Così come ha deciso che dovevo avere due cani, ha deciso anche di che razza dovevano essere – “Ovviamente labrador, Anis. Non c’è niente di meglio di una bella coppia di labrador per rendere una casa vivibile e rumorosa”. Ora, sul rumoroso posso anche essere d’accordo, ma quale casa extralusso quale la mia è diventa più vivibile con due cani a colonizzarne ogni singola stanza? – ed in conseguenza di ciò ha deciso anche dove dovevo andarli a prendere. Motivo per cui adesso siamo qui all’ingresso di questo allevamento in aperta campagna e ci guardiamo intorno con aria un po’ smarrita chiedendoci dove siamo finiti e soprattutto dove sia finita Berlino, che anche a sforzarsi non si scorge più nemmeno all’orizzonte.
Ovviamente l’aria smarrita è quella mia e di Nicole, perché Patrick è così incredibilmente a suo agio che un po’ mi viene da chiedergli se qui ci sia già stato. E infatti lo faccio. E lui mi guarda spalancando gli occhioni azzurri ed inarcando le sopracciglia, e risponde.
- No, è la prima volta. – candido come un giglio, - Ma ho cercato su qualche forum un consiglio per un buon allevamento specializzato, perché sai, no?, ogni allevamento, se è serio, si specializza su una sola razza, così da avere esemplari migliori, e poi niente, ho cercato su Google e già che vedevo le indicazioni stradali ho usato le mappe per farmi un’idea del posto. Indicativa, mica lo so a memoria. Giusto per capire dove dovevo andare, più o meno.
Annuisco e Nicole lascia andare una risatina tenera, dopodiché oltrepassiamo il cancello e ci introduciamo all’interno dell’allevamento. Io scorgo in lontananza un tizio che sembra un indigeno, cioè, insomma, uno del luogo, e lo indico col dito.
- Magari lui può aiutarci. – faccio, armato delle migliore intenzioni. Fler borbotta “nah” e mi liquida con un cenno disinteressato, puntando dritto verso un enorme casolare in fondo al vialetto di ghiaia sul quale stiamo camminando.
- È lì, - illustra, - quello là è il reparto maternità.
Ah, be’, ovvio. Il reparto maternità. Questo perché aveva solo un’idea indicativa del posto.
Io e Nicole continuiamo a seguire Fler come fosse il padrone di casa – probabilmente sulle mappe di Google deve averci passato la notte, altroché. Non gli crederò mai più quando mi chiede il computer per controllare la posta. Questo non è controllare la posta – e lo facciamo fino a che non raggiungiamo il casolare in fondo al vialetto.
- Dobbiamo entrare? – chiede Nicole.
Patrick sorride, scuote il capo e la prende per mano. Non prende per mano anche me solo per decenza, suppongo, però mi cattura con un’occhiata molto orgogliosa della sua persona e mi invita a seguirlo mentre svolta dietro l’edificio e ci mostra un enorme spiazzo occupato per più di metà da un recinto grandissimo. Ripieno di cuccioli. Sono così tanti e così piccoli che continuano a salire l’uno sull’altro, aggrovigliandosi come i gomitoli di lana nella cesta, pestandosi le orecchie a vicenda ed emettendo guaiti acuti e lamentosi ogni volta che si salgono addosso e si fanno male alle zampette e ai musetti.
Non c’è verso che noi tre qui si possa sopportare questa vista.
Nicole parte a squittire immediatamente, le mani giunte sul petto e gli occhi che brillano. Io resisto il tempo di un mugolio random e poi mi sciolgo in un’aw veramente poco regale, inclinando il capo e sorridendo mentre lascio scorrere lo sguardo sul nutrito branco di cagnetti, e Fler comincia a ridere felice, affiancandosi a Nicole ed abbracciandola da dietro, alle spalle, dondolando un po’ e sussurrandole all’orecchio qualcosa che non sento.
Ci si avvicina un tizio ma io non lo vedo, sono troppo concentrato a guardare questi batuffoli di pelo che si accavallano come le onde rotolando l’uno sull’altro. Sorrido appena, il tizio ride e si rivolge a Fler, che tiene ancora strettissima Nicole fra le braccia. Le ha poggiato il mento su una spalla e lei ha stretto le mani piccole dalle dita sottilissime attorno al suo avambraccio. Berlino spunta fra un dito bianchissimo e l’altro. La B, il ditino, la R, un altro ditino, pezzi di fiamme, un pezzo di I, un altro ditino. Mi concentro sul disegno e non sento una parola del dialogo fra Fler e l’uomo. tutto quello che so è che meno di un minuto dopo le porte del recinto ci sono state aperte e siamo tutti e tre seduti in terra e circondati da cagnetti troppo piccoli per potersi fidare di noi ma troppo curiosi per poterci stare alla larga. Nicole ne insegue uno gattonando, Fler le tira un pizzicotto sul fianco e poi prende in giro un cagnetto tirandolo per la coda e ridendo dei suoi guaiti irritati, ed io… io mi lascio scegliere.
Skyline è il primo ad avvicinarsi. Non so perché ma lo chiamo immediatamente così; quando vedo il batuffolo bianco panna che mi rotola incontro quasi accidentalmente, andando a sbattere contro il mio ginocchio, decido che sarà mio e che sarà Skyline. Il cane mi guarda curiosamente per qualche secondo, io guardo lui, allungo una mano e lui mi morde. Non ha neanche un dentino, dev’essere piccolissimo. Rido perché le sue gengive, nonostante tutta la forza che ci mette a stringere la mascella, mi fanno solo il solletico. Lo sollevo per la collottola fino al mio viso, lui mi guarda risentito, abbaia un paio di volte e poi si affloscia tutto come una specie di peluche svuotato del suo riempimento di lanugine, e io rido ancora.
Sherlee arriva dopo, ed arriva accompagnata da un altro maschietto bianco panna che le sta facendo la posta. Ho perso di vista Fler e Nicole da tanto di quel tempo che potrebbero essere scomparsi – sollevo il naso dal livello-cuccioli cui l’ho tenuto fino ad ora e mi rendo conto che sì, sono scomparsi. Nota per me, mandare a fanculo Patrick la prossima volta che si propone per accompagnarmi fuori città, è palese che ha solo voglia di un po’ di sesso outdoor ed io non ho davvero bisogno di concedergli cose simili per vivere un’esistenza felice – e insomma, resto qui seduto nell’erba e osservo questa macchiolina pelosa nera che sculetta altezzosa cercando di allontanarsi dall’altro maschietto. Skyline si è già abituato alle mie carezze e mi sta ronfando in grembo, ma quando si risveglia dal suo sonnecchiare e osserva la scena con quegli occhioni enormi color cioccolato si prende subito bene, salta in piedi, si lancia giù dalle mie gambe ed ovviamente capitombola in terra arrotolandosi su se stesso in una coreografia di cagnetti che si scostano per non finire travolti dal suo rollio.
A questo punto, nell’osservare Skyline rimettersi dritto sulle zampe e pararsi fra il maschietto e Sherlee, prima decido che non posso privare Skyline della cagnetta che vuole proteggere, e poi decido anche che si chiama Sherlee. Sherlee perché inizia per S come Skyline. Sherlee perché suona bene, accanto a Skyline. È musicale. Come Bonnie e Clyde. Come Bill e Bushido.
Quando Fler e Nicole tornano, ridendo come due deficienti, io tengo in braccio entrambi i miei cani minuscoli e sono perfettamente soddisfatto di me. Patrick mi chiede perché di colori diversi. Io rispondo che bianco e nero, insieme, sono una combinazione bellissima.
*
È la stessa cosa che penso delle ciocche bianchissime che scendono sulle spalle di Bill, intrecciandosi ai suoi capelli nero pece e risaltando sulla maglietta nerissima che indossa quando me lo vedo spuntare davanti agli studi della Universal, dove sono stato convocato oggi per discutere gli ultimi dettagli del mio piano di lavoro. Penso al bianco e al nero che si rincorrono fra i capelli di Bill in una pettinatura nuova, che non gli ho mai nemmeno immaginato addosso e che gli dà un’aria selvaggia che non riesce in alcun modo a scalfire l’innocenza ostinata dei suoi tratti da ragazzino, penso al bianco della sua pelle e penso ai toni scuri della mia, Skyline e Sherlee, bianco e nero è tutto ciò che penso. Non riesco a realizzare che Bill è effettivamente un dettaglio del mio piano di lavoro, finché non è David a farmelo notare.
David, per inciso, mi sta parlando da dieci minuti, e credo di non aver registrato in memoria neanche una delle cose che ha detto. Il che non è bene, perché fra poco David se ne accorgerà e farà come fa sempre quando mi disapprova moltissimo: pianterà le mani sui fianchi, sporgerà un’anca nello stesso preciso identico modo che ha passato a Bill come eredità ideologica e mi guarderà come fossi un essere umano indegno di solcare il suo stesso suolo perché non capisce la fortuna enorme che ha avuto nel trovare un uomo come lui perché si occupasse dei suoi affari. È vero, Jost, non merito per niente. Ma Bill è lì seduto su quella seggiolina di plastica dall’aria scomodissima, i capelli gli ricadono come una cascata sulle spalle e davanti al viso ed osservarlo guardare altrove con quell’aria persa, seria e tristissima, mi toglie tempo e voglia per fare qualsiasi altra cosa, compreso ascoltarti. È a lui che penso. È lui che vedo. È lui che ascolto, anche se non sto sentendo niente. Dov’è che vorresti essere, piccolo? Dove sei, amore mio?
Lo schioccare di dita che mi risveglia è sicuramente la cosa più omosessuale di cui abbia mai fatto esperienza in assoluto – e io, di esperienze omosessuali, posso parlare con una certa competenza – subito dopo lo sguardo da gay in carriera oltraggiato che David mi sta rivolgendo in questo momento. Ogni tanto mi ritrovo a pensare che io per quest’uomo provo del rispetto e non capisco perché invece lui non ne provi per se stesso.
- Bushido, mi stai ascoltando? – chiede con aria tendente all’isterico, mettendo le mani sui fianchi e sporgendo l’anca come da me ampiamente previsto, - È da mezz’ora che-
- Sì. – annuisco sbrigativamente, - Lo so. E no, non ti stavo ascoltando. – lui mi lancia un’occhiata semplicemente basita – e anche disgustata e offesa e ferita e un altro migliaio di cose circa – ed io mi affretto a rettificare. – Mi dispiace. – aggiungo, - Dicevi?
- Dicevo, - riprende, incrociando le braccia sul petto e battendo un piede per terra, - che ti sarei grato se restassi concentrato. E tranquillo. Oggi siamo qui perché tu e… - sospira e lancia un’occhiata a Bill ancora seduto sulla sedia. Finge di non essersi ancora accorta di me, la mia principessa, ma io so che sa perfettamente che sono qui. So che mi sente. - …insomma. – sospira ancora Jost,- Dovete tirare fuori qualcosa. Vogliono una collaborazione e la vogliono fra voi due. Non è in discussione, questo punto. Lo capisci questo, Bushido?
Annuisco compitamente. Lo capisco, sì. Non mi sta bene ma lo capisco.
- Troverò un modo di uscirne. – gli dico.
- No. – scuote il capo lui, - Tu non devi trovare un modo di uscirne. Devi trovare un modo di obbedire e basta, per una volta. Stare alle regole, ricordi cosa significa? – vorrei rispondere di no. Non ci sono mai stato, d’altronde. Ma risparmierò a David almeno questo peso, limitandomi ad annuire. – Regole. – ripete, - Ti concentri sul lavoro. Non perdi tempo. E… - il mio sguardo indugia ancora sulla figura magra di Bill, - e non lo tocchi. Gli parli il minimo indispensabile. Lo guardi anche meno. Chiaro?
Ringhio, riportando i miei occhi nei suoi.
- Stai parlando per dare aria alla bocca, Jost? – chiedo sprezzante. Come fosse possibile per me coesistere nello stesso universo di Bill staccandogli gli occhi di dosso o permettendogli di dimenticarsi della mia esistenza. Coglione io ad averlo pensato. Coglione io ad averci sperato. – Lo sai che-
- Quello che so, - mi interrompe lui, glaciale, - è che non mi interessa un fico secco di quale sia la relazione privata che al momento c’è fra te e Bill. Il tuo primo pensiero al mattino e l’ultimo alla sera sono saltargli addosso? Benissimo. Non mi riguarda. Me ne sbatto, Bushido. Ciò che pretendo da te, - e si sporge a battermi due dita petulanti contro il petto, - è un minimo di professionalità. Non mi fido di come agisci quando stai intorno a Bill, non mi fido di come reagisci alla sua presenza, ma la mia professionalità adesso mi impone di farlo. Spero che la tua ti imponga di rispettare tutto questo.
Agito disinteressato una mano. Jost pretende di ragionare con un pazzo. Io non sono una persona irrazionale. Sono, anzi, una persona molto metodica e dotata di un forte senso logico. Ciò non toglie io sia pazzo. Ciò non toglie io sia pazzo di Bill.
Nel momento in cui Jost si allontana ed esce dalla stanza, sospirando e scuotendo il capo e lasciando me e Bill qui da soli – io da un lato, lui dall’altro – immersi in una specie di ambiente sottovuoto fatto solo di silenzio compresso, io so che il discorso che mi ha appena fatto non è servito a niente. la mia professionalità, al momento, non mi impone un bel niente. Tutto ciò che mi impongo – assolutamente da solo, non ho bisogno di chiamare in causa nessuna responsabilità altrui – è continuare a guardare Bill fino a quando non avrà dato segno di aver accettato il fatto che sono qui e che gli tocca considerarmi.
Bill si rassegna quasi cinque minuti dopo, e sono cinque minuti talmente densi che sembrano cinque ore. Quando lo osservo sollevare un braccio e rigirarsi una ciocca bianca fra le dita, la tensione che si è accumulata in questi cinque minuti – cinque ore – di silenzio, si scioglie e scivola lungo le mie spalle, lasciando posto ad un nervosismo nuovo, più ansioso.
Bill si alza in piedi, afferra la sua seggiolina per lo schienale e la trascina fino al tavolo. Poi la rimette in terra, si siede e la sistema vicina al tavolo, in modo da poter poggiare i gomiti sul ripiano in formica.
- …ciao. – biascica quindi, - …non so che altro dire. – aggiunge poi sinceramente, abbassando lo sguardo.
Io lascio andare una mezza risata ironica, massaggiandomi distrattamente la nuca.
- È un ottimo inizio, principessa. – lo prendo in giro, - È quasi un mese che non ci vediamo e tu non sai cosa dire. La tua loquacità si è di molto ridotta, da quando frequenti Chakuza.
Lo vedo aggrottare le sopracciglia e stringere i denti. La sua mascella scatta silenziosamente – è appena un tremito sulla sua guancia – ed i pugni si serrano sul tavolo. Vorrei sorridere soddisfatto, perché mi piace scuoterlo in questo modo, ma mi trattengo.
- Non cominciare, Anis. – dice secco. Vorrebbe suonare come un ordine ma è più che altro un’implorazione strozzata. – Non è il caso di tirare in mezzo Peter.
- Sai cosa? No. – rido ancora io, - Non sarebbe per nulla stato il caso di tirare in mezzo Peter. – gli faccio il verso, sottolineando il nome con disgusto, - Ma non sono stato io il primo a farlo, mi pare. Sei tu che l’hai tirato in mezzo, facendoti fottere per nove cazzo di mesi, subito dopo la mia morte.
Bill mi guarda e boccheggia, sulle mie ultime parole. Stringe le dita e schiude le labbra, spalancando gli occhi e tendendosi tutto sulla sedia.
- Non ti permettere- - comincia, ma non mi è mai piaciuto sentirmi dire cose che limitassero la mia libertà di agire. Perciò limito io la sua, zittendolo come so fare meglio. Urlando.
- Mi permetto quello che cazzo voglio, Bill. – ringhio, - Tu non sei nella posizione di impedirmi niente. Conto i giorni, Bill, e tre mesi non sono un cazzo. L’hai superato in fretta, il lutto.
- Non ricominciare! – strilla lui, le lacrime agli occhi, - Mi hai già detto quello che pensi di me, non hai motivo di ripetermelo!
Mi alzo in piedi, battendo i pugni sul tavolo e sovrastandolo.
- Il motivo ce l’ho, ed è che non ti è ancora entrato in testa! – gli faccio notare, - Perciò te lo ripeterò finché non l’avrai capito, Bill.
Lui si alza lentamente. Pianta le mani sul tavolo e si solleva, guardandomi dritto negli occhi. Vuole piangere, è palese, ha già un paio di lacrimoni pronti per rotolargli lungo le guance, ma tiene duro. La mia principessa tiene duro.
- Ripetimelo, allora. – dice fiero, - Dillo ancora, Anis, avanti. Magari te ne convinci.
E lo ripeto.
- Troia.
A piena voce e senza esitazioni. Senza nemmeno abbassare lo sguardo. Non lo abbassa nemmeno lui, ed anzi ghigna quando mi sente scivolare l’offesa fra le labbra.
- Bravo. – e il suo sorriso mi sfida, - Suona bene? Ti piace? Dillo ancora.
- A te piace sentirtelo ripetere? – ringhio, sporgendomi verso di lui. Lui non indietreggia. – Troia. – ribadisco, - È quello che sei.
- È quello che sono. – annuisce lui, - Sono stato a letto con Peter. Mi sono innamorato di lui. Sono felice con lui, Anis. Questo fa di me una troia? – ride appena, una risata leggera, ed allarga le braccia, avvicinandosi a me, - Allora lo sono.
Ed io non ci vedo più. Passi essere stato a letto con quello stronzo di Chakuza, passi credere di amarlo – non è amore, Bill, non è come quello che hai con me, cazzo, non le senti le scintille? – passi anche la fottuta cazzo di felicità, ma a me non lo dici. Non così, non con quegli occhi. Non con quel sorriso. Io non sono disposto a sentirtelo dire, Bill, non sono disposto ad accettarlo. Perciò lo afferro per un polso e lo strattono violentemente verso di me, costringendolo a fare il giro del tavolo per poi spingerlo a schiantarsi di spalle contro la parete, con un tonfo sordo ed un mugolio di dolore appena accennato.
Lui solleva subito lo sguardo, scrollando il capo per liberarsi dalle pesanti ciocche intrecciate che gli ingombrano la vista. È fiera e altezzosa, la mia principessa, e mi guarda con occhi privi della minima pietà. È così arrabbiato che, potesse – non lo tenessi così schiacciato contro la parete – mi salterebbe al collo per sbranarmi.
- Non osare. – sibila, e dice proprio non osare, usa quel verbo lì, una cosa che ha del maestoso, del sacrale. Se mi avesse detto che non dovevo permettermi, gli avrei riso in faccia. Ma lui dice non osare ed io percepisco distintamente la sua furia e la sua offesa. Lo sento di nuovo mio come non lo sento mio da un anno intero, cazzo. E se ne rende conto anche lui, non appena pronuncia quelle poche parole. Il suo sguardo esita appena sul mio e poi torna a farsi affilato come un coltello. – No, Anis.
- No? – chiedo io, chinandomi su di lui, - No cosa?
- No. – ringhia, piantandomi entrambe le mani sul petto e pressando, - Non ci provare, non ci pensare nemmeno. Non voglio.
- Non sto pensando a niente, principessa. – gli soffio sul collo, e non lo sfioro nemmeno, se non col respiro. Sono solo parole, è solo aria. Io non ti sto toccando, principessa, quindi cos’è che dovrei smettere di fare?
- Non dire stronzate. – protesta lui, pressando con più forza le mani sul mio petto. La spinta si fa troppo insistente e fastidiosa, motivo per cui lo stringo per i polsi e poi lo blocco al muro, le braccia alte sopra la testa. – Anis!
- Bill. – lo chiamo a mia volta, e ghigno, - Sei felice col tuo principe azzurro, principessa? – chiedo, - Dillo ancora.
- Sono felice. – ripete, sostenendo il mio sguardo. Mi spingo contro di lui, i nostri bacini collidono e lui non riesce a trattenere un mugolio.
- Dillo ancora. – gli sussurro addosso, schiacciandomi addosso a lui con tanta forza che non può più neanche fingere di non aver sentito quanto sono duro oltre il tessuto spesso dei jeans. – Dimmi ancora che sei felice.
- Sono felice, Anis. – ripete lui in un sussurro che si confonde con un gemito, - Cazzo… sono felice, perché non ti rassegni?
- Perché… - gli scivolo addosso con la punta del naso, inspirando a fondo il suo profumo, - perché sei mio, piccolo. Lo sai.
Rabbrividisce sotto le mie mani, trema così forte che si scuote tutto, e le gambe quasi gli cedono.
Potrebbe dirmi che non è vero. Potrebbe dirmi che non è più mio da un pezzo. Ma non è questo quello che esce dalle sue labbra. Non è questo quello che dice.
- …mi hai mandato via tu. – respira a fatica, cercando di divincolarsi un paio di volte, prima di arrendersi alla mia stretta.
Io ghigno, ancora nascosto contro il suo collo, e mi spingo nuovamente fra le sue gambe. Lui le schiude con una naturalezza disarmante. È quello il mio posto, cazzo. È mio, mi spetta. Lo voglio, fanculo.
- È vero, ti ho mandato via io. – torno a guardarlo negli occhi, sussurrandogli sulle labbra, - Perché te lo sei meritato.
- Io non ho fatto niente. – ansima Bill, muovendo lentamente il bacino contro di me, - Spostati.
- Me lo chiedi spalancando le gambe, Bill? – rido a bassa voce, schiudendo le labbra sulla pelle sottile e morbida della sua gola, - E poi non sei una troia?
- Non sono la tua troia. – precisa lui, e le mie labbra gli si richiudono addosso. E lui ricomincia a tremare appena io inizio a succhiare. – Anis… cazzo.
Sorrido sulla sua pelle, mentre lui riprende a muoversi. Finge di stare provando a divincolarsi, ma in realtà non fa che strusciarsi più velocemente contro di me.
- Guarda come ti agiti. – rido, e mi allontano da lui. La macchia arrossata umida di saliva spicca sulla pelle bianca del suo collo come il sangue sulle lenzuola bianchissime del suo letto, la notte in cui sono morto. La nostra è una storia di contrasti. Il bianco e il nero, Bill. Non puoi dimenticartelo.
- Smettila. – ringhia, - Lasciami. – sono richieste vuote. Non sta chiedendo niente. Sta chiedendo me, dal modo in cui si struscia, dal modo in cui le sue labbra mi cercano schiudendosi appena mentre ansima a corto d’aria, io lo capisco che sta chiedendo me. – Anis… Anis, ti prego.
- Mi preghi di fare cosa, piccolo? – gli chiedo addosso.
- Lasciami. – prova lui, ma la sua voce è incerta.
- Sbagliato. – scuoto il capo io, baciandolo piano sul mento.
- Lasciami, cazzo. – prova ancora.
- Sbagliato. – ripeto, risalendo a baciarlo appena sotto il labbro inferiore.
Lui trema. Mi si scioglie contro, tiepido e arreso.
- Scopami. – ansima alla fine, - Anis, ti prego… ti prego, scopami.
Io ghigno. E lo lascio andare. Ed è una cosa così improvvisa che Bill, privato da un momento all’altro delle mie mani e del mio corpo che lo sostengono schiacciandolo al muro, quasi non riesce più a reggersi sulle gambe, e deve aggrapparsi con le unghie alla parete per non rovinare a terra. Mi guarda con quegli occhi da cerbiatto, enormi, il trucco nero ed elegante appena un po’ sbavato dalle lacrime che non si è ancora lasciato libero di versare.
Mi guarda e non mi chiede cosa sto facendo. Non mi chiede perché non lo sto più toccando o perché non ho già una mano fra le sue cosce. Legge tutto quello che gli serve nel mio sorriso, la principessa. Perché è brava a farlo, perché gliel’ho insegnato io a capirmi anche quando sto zitto, anche quando faccio di tutto per non essere capito. E quindi Bill mi capisce, si rimette dritto sulle gambe, si avvicina e mi schiaffeggia.
- Io non ti amo più. – mi dice seccamente, mentre torno a guardarlo, - Vaffanculo, Anis.
La mia mano si alza prima che possa fermarla e non sono tanto sicuro che, se ne avessi avuto il tempo, l’avrei fermata comunque. Si abbatte contro la sua guancia con violenza, lascia lo stampo rossissimo di quattro dita sulla sua pelle bianca ed osservo il viso di Bill scattare lateralmente, i suoi capelli ovunque, le lacrime che finalmente scendono non tanto per il dolore quanto perché lo schiaffo ha finalmente spazzato via la fissità dal suo volto, devastando quella stupida maschera di orgoglio e onore dietro al quale il mio piccolino si nascondeva. Non puoi giocare ad essere un altro con me, Bill. Così come non posso farlo neanch’io.
- Non sprecare fiato per mentire a me. – ringhio, - Comincia a pensare a come giustificherai i miei marchi con Chakuza, principessa. – consiglio, e non mi spreco nemmeno a ghignare, indicando con un cenno del capo il succhiotto che spicca ancora sul suo collo. E l’impronta del mio schiaffo.
La guancia mi fa incredibilmente male e credo che Bill mi abbia graffiato con le unghie. Sono marchiato anch’io. Ma aspetto di lasciare la stanza per portare una mano al volto e ringhiare.
*
In questi giorni ho scritto una canzone. Che non sia niente di eccezionale non è nemmeno da mettere in discussione, ma è tutto quello che sono riuscito a tirare fuori fra una cosa e l’altra. Dove il concetto “una cosa e l’altra” può essere tranquillamente riassunto in me e Fler sul divano che giochiamo alla playstation mentre Skyline e Sherlee devastano il mio salotto rovesciando i divani e mandando a terra i soprammobili, e Nicole prepara da mangiare. È la prima cosa che mi ha detto Patrick di lei, peraltro, “sai che è bravissima ai fornelli?”, fa, compiaciutissimo, “Devo farti provare il suo polpettone”. E da lì è diventato “devo farti provare il filetto al pepe”, “devo farti provare i maccheroni al sugo”, “devo farti provare il maiale alle mele” ed il risultato di tutti questi tentativi è che ormai davvero Nicole va via solo per andare a dormire. La mia casa è diventata un disastro. Ed io ho scritto una canzone. Che lo so che fa schifo, quindi non mi stupisce adesso, mentre la passo a Fler – sulla cui spalla Sherlee ha fatto il nido, divertendosi da mezz’ora a mordergli un orecchio – osservare le sue sopracciglia inarcarsi mentre lascia scorrere dubbioso gli occhi sul foglio, piegando le labbra in una smorfia poco convinta.
- E con questa – chiede, recuperando Sherlee per la collottola e sistemandosela in grembo, dove lei prende subito a mordergli la maglietta, - cos’è che intenderesti fare?
- Intendo, non intenderei, - preciso in un mezzo grugnito, - farne il singolo per il quale la Universal mi rompe i coglioni da una settimana.
Lui, naturalmente, scoppia a ridere. Dalla cucina arriva un buon profumo di funghi saltati in padella, e Skyline sgambetta felice verso quella direzione, il naso per aria e la coda che si dimena da un lato all’altro con tanta forza che penso potrebbe prendere il volo come una specie di elicottero peloso e con le orecchie.
- Okay. – borbotto, - Lo so che ho scritto di meglio.
- Oh, - ride ancora Patrick, - questo non è veramente in discussione. Più che altro mi chiedo se tu ti sia reso effettivamente conto di cosa stavi scrivendo, mentre lo facevi, o se ti è stato suggerito mentre eri tipo in trance artistica e non te ne sei accorto fino alla fine.
Solleva il foglietto spiegazzato che mi sono portato dietro in tutti questi giorni per scrivere quando avevo voglia, e me lo sventola davanti al naso.
- Prinzessin? – chiede quindi, con un ghigno stronzo, - L’amore del ghetto, il capo in guerra, le bande rivali e la principessa infedele, Anis?
Io distolgo lo sguardo con un lamento seccato.
- È solo una canzone. – borbotto, - Non c’entra niente con tutto il resto. È un’altra storia. Lei va a letto col capo della banda avversaria. – mi giustifico, gesticolando distrattamente verso il foglietto.
- Certo, assolutamente. – ride ancora lui, annuendo mentre cerca di liberare la maglietta dai dentini da latte di Sherlee, - D’altronde, non si può parlare di metafora, in questo caso. Non ritroveremo in questo… - torna a guardare il foglio, rileggendo velocemente un passaggio, - …uomo senza onore che ha tradito la sua stessa gente… - e ride di nuovo, - non ci ritroveremo certo Chakuza. E… - legge più in basso, - Lei, cane di razza, che ha morso la mano che la accarezzava, di certo non c’entra niente con Bill. Sono due persone assolutamente casuali.
- Senti. – ringhio io, strappandogli il foglio di mano, piegandomelo e sollevando il bacino dal divano per infilarlo nuovamente in tasca, - L’alternativa era: scrivo io o lascio che qualcuno alla Universal, magari Jost, scriva qualcosa per me. La seconda scelta, se permetti, non era una scelta, perché io-
- Tu di sicuro non ti fai scrivere un testo da un ex boybander che gestisce un gruppo di marmocchi che giocano alle rockstar, indubbiamente.
- Esatto. – annuisco animatamente io, - Questo è venuto fuori, d’accordo? Questo è.
- E questo farai cantare a Bill. – scrolla le spalle lui, - Com’è che fa il ritornello? Mi dispiace, non ero in me, riprendimi con te, grandioso re? Non ho letto bene.
Mi sollevo dal divano e lo mando a fanculo. Nicole viene fuori dalla cucina avvolta in un vecchio grembiule di Karima – Karima mi manca. Queste cose vado realizzandole ancora pezzo dopo pezzo – con una pirofila strabordante di pennette con panna e funghi, ed annuncia che il pranzo è pronto. Io però non mangio.
*
Chakuza, naturalmente, non è stata una mia idea. Come non è stata una mia idea niente di tutto questo, dal momento che avrei preferito di gran lunga scrivere un’autobiografia con i dettagli completi della mia morte e della mia resurrezione piuttosto che trovarmi in una situazione del genere. Ma se anche fosse stato possibile che questa canzone, questo video, questo momento di merda in cui io guardo Bill e Bill guarda altrove, fossero una mia idea, di sicuro Chakuza non avrebbe avuto un posto in tutto questo. Ed invece è qui perché i grandi capi della Universal, qui, non appena hanno messo gli occhi sul testo hanno cominciato a fregarsi le mani e sogghignare furbamente.
“Lo trovano perfetto,” ha ghignato Jost, dandomi la notizia, “Naturalmente. Sai ancora perfettamente come venderti. Dovresti smetterla di pagarmi per ciò che faccio.”
Vaglielo a spiegare che non ne avevo la benché minima intenzione.
Chakuza, comunque, non è stata una mia idea, ed in ogni caso non sono proprio sicuro che, dopo aver letto il testo, sia granché felice di essere qui a fare questa parte fingendocisi perfino a proprio agio – sorridente e cordiale con tutti meno che con Fler, di fronte al quale, per motivi che non comprendo, è letteralmente sbiancato nel momento in cui l’ha visto comparire sul set mano nella mano con Nicole. Suppongo non se lo aspettasse e basta, anche Bill, quando ha posato gli occhi addosso alla coppietta felice – l’unica nel raggio di chilometri – ha fatto una smorfia incredula che mi ha quasi fatto venire voglia di ridere.
Questa è la prima volta che ci vediamo tutti e tre insieme. Le registrazioni si sono svolte in momenti separati e distinti – “Ovviamente mi organizzerò perché non dobbiate mai incontrarvi neanche per caso all’uscita degli studi”, è stato il commento di Jost all’intera situazione, mentre prendeva appunti sulla propria agenda – ed è un bene che in questo momento noi si sia circondati da così tante persone. Perché Bill e Chakuza sono troppo vicini, per i miei gusti. Ed io comincio a sentire la rabbia crepitarmi come fuoco sulla pelle, tendendo tutti i miei sensi.
Al momento io sto seduto su un divanetto e Bill e Chakuza sono persi da qualche parte alle mie spalle, mentre il regista spiega per l’ennesima volta il concetto del video che ci siamo già sentiti ripetere abbondantemente uno per uno – almeno, a me avrà ricordato la questione del tu-sei-furioso-ma-non-vuoi-lasciarlo-andare quelle trecento volte, quindi mi auguro che, per giustizia divina, l’abbia ripetuta anche a loro. Sono qui su questo divano e tengo le braccia incrociate sul petto e mi chiedo perché abbia lasciato a Jost la possibilità di scegliere il regista per questo dannato video, visto che quest’uomo appartiene decisamente alla sua stessa razza – che poi temo sia quella cui appartengo anch’io, ma io sono molto meno palese – e continua a gesticolare brillando di luce propria ed autocompiacendosi per la genialità intrinseca del concept del suo meraviglioso storyboard per il video. Mi viene da dirgli che la storia che lui sta mettendo per immagini sul fottuto schermo l’ho scritta prima io nella mia fottuta canzone. E che comunque fa cagare. E in ogni caso è un inno all’omosessualità che sia io che il german rap ci saremmo volentieri risparmiati, perciò la smetta di volteggiare in giro per il set sventolando quella sua tremenda sciarpina in raso rosa e torni qui a fare il suo mestiere, così da poterci rimandare tutti a casa il più in fretta possibile, che ho Sherlee e Skyline soli a casa e nessuno che giochi con loro e dia loro da mangiare.
La tiritera, a Dio piacendo, dieci minuti dopo finisce. Herr Vorderberg – così si chiama la piaga sociale che ci dirige – si piazza sulla sua seggiolina di pezza stile regista hollywoodiano, accavalla le lunghe gambe avvolte in microscopici pantaloni a quadrucci bianchi e neri e batte le mani, lanciando a tutti noi un’occhiata fra l’annoiato e il disapprovante da dietro le lenti tonde dei suoi occhiali da sole. Continuo a chiedermi Jost dove l’abbia conosciuto, questo tipo, e poi mi alzo in piedi, perché il tizio comincia a mostrare segni d’impazienza e non voglio dargli l’opportunità di esibirsi nella scena madre che gli vedo brillare negli occhi, seguendo il copione della quale lui dovrebbe alzarsi in piedi, gettare indietro la sua sciarpina rosa ed uscire dal set pestando i piedi e strillando che siamo tutti degli incompetenti e non meritiamo la sua professionalità.
Quando mi giro, quello stronzo di Chakuza s’è già tolto dalle palle. Bill si aggira con aria abbattuta attorno al letto sfatto che ci fa da scenografia per la prima scena del video, ed io ghigno discretamente.
- Allora! – squittisce Vorderberg, - Via le magliette! I pantaloni potete anche tenerli su. – mi viene da ridere ma la mia espressione non lo dimostra, quando mi avvicino anch’io al letto e ne sfioro le lenzuola bianchissime con una mano, fingendo di risistemarle meglio. – Normalmente, il mio amore per il realismo mi imporrebbe di farvi spogliare integralmente, ma… - lo osservo lanciare un’occhiata a Jost, Jost la ricambia con una tale quantità di minacce che Vorderberg quasi indietreggia, - …ma per evitare problemi cercheremo di inquadrarvi solo a mezza figura. Ora, se volete cortesemente prendere posto…
La scena che dobbiamo girare è praticamente un porno softcore. Sapete, di quelli in cui la gente si muove e geme ed ansima e si capisce che sta scopando, ma in realtà non si vede niente di niente perché gli attori non stanno davvero scopando, stanno solo strusciandosi l’uno contro l’altro. Hans Vorderberg, il nostro talentuoso regista gay, ha deciso, leggendo il testo della canzone, che in ogni caso non potevamo comunque sputtanarci più di così, perciò tanto valeva darsi alla pazza gioia e girare questa lunga scena d’amore in cui io e Bill facciamo di tutto su questo letto, in modo da poterla intramezzare con altre parti del video durante il montaggio. Per tutto il resto delle riprese, questo sembrerà un video normale – scene di vita quotidiana, gente che canta su sfondo nero illuminata da luci azzurre e via così – ma oggi bisogna girare questa scena, quindi il set sembra quello di un porno, Bill è a disagio, Chakuza sta spalmato contro la parete a dieci metri di distanza – le braccia incrociate sul petto e una gamba sollevata, il piede piantato contro il muro – ed io ghigno.
Sfilo le scarpe e mi sistemo sul letto, lanciando un’occhiata a Bill che si stringe nelle spalle e guarda altrove. Sospiro, togliendo la maglietta in un gesto veloce e lasciandola poi ricadere per terra, osservando poi uno degli svariati assistenti biondi di Hans – tutti biondi, questi assistenti, una cosa surreale ed anche un po’ inquietante – chinarsi a recuperarla ed appoggiarla su una sedia, fuori dall’inquadratura.
- Signor Kaulitz, - lo richiama Vorderberg, agitando una mano con aria annoiata, - la mia insalata di alghe arame e rucola non aspetterà i suoi comodi e sono già le undici. Vogliamo darci una mossa? Deve solo sfilare la maglietta e stendersi, non mi sembra una richiesta esageratamente onerosa, da parte mia.
Bill gli lancia un’occhiata irritata e la stessa cosa fa Chakuza, ancora fermo in posa plastica contro il muro, mentre Fler nasconde una mezza risata ed io combatto contro me stesso una lotta impari per fermare il ghigno che tenta di risalire alle labbra. Lo lascio fare, alla fine, e quando Bill guarda me, togliendo la maglietta e stendendosi al mio fianco, se ne accorge.
- Ti diverti? – mi chiede acido, puntando i gomiti sul materasso per calciare via le scarpe da tennis e recuperando il lenzuolo dai piedi del letto, rimboccandoselo fino alle spalle.
- In realtà sì. – rispondo candidamente, continuando a ghignare, - Tu no?
- Affatto. – ringhia lui, - Speravo che, dopo quello che è successo, non ci saremmo più rivisti.
- Illuso. – rido io, mentre Hans ci strilla di metterci in posizione, motivo per il quale mi avvicino a lui e lo osservo girarsi su un fianco e togliersi il lenzuolo di dosso per darmi modo di girargli un braccio attorno alla vita.
- Già. – risponde lui, gelido, - D’altronde, l’erba cattiva non muore mai e tu ne sei un esempio perfetto.
- Bella battuta, principessa. – rido, tirandomelo contro. Lui trattiene il respiro per un attimo e poi lo rilascia tutto in una volta. Il suo fiato caldo mi sfiora il petto e la mia mano scende a stringergli un fianco con maggiore decisione. – Mi sei mancato, piccolo. – aggiungo, muovendomi impercettibilmente contro di lui.
Bill trema, stringendo una mano attorno al lenzuolo.
- Anis, ti prego. – mormora, - Non qui, almeno.
- Stiamo recitando. – gli ricordo, accennando alle telecamere tutte intorno a noi, - Rilassati.
- Tu non sei per niente rilassato. – mi prende in giro lui, allusivo.
- Mi fai quest’effetto. – rido ancora, accarezzandogli il fianco morbido col pollice, - Che posso farci?
- Avete preso confidenza per bene? – ci sfotte Vorderberg, picchiettando nervosamente con un tacco sul pavimento, - Allora. Tendenzialmente – comincia a spiegare, gesticolando fluido, - non servirebbe la musica di sottofondo, per girare questa scena. Ma voglio che siate il più sincronici possibile, perciò ve la metto. Seguite il flusso, lasciate fluire la musica in voi! E non siate esageratamente espliciti, già così subiremo tanti di quei tagli che il mio capolavoro ne verrà fuori irrimediabilmente danneggiato! – conclude con tono tragico. Dopodiché lo vediamo accennare col capo ad un altro assistente, le luci si spengono, si accendono i riflettori e tutto si fa silenzio, mentre le prime note del pianoforte si diffondono nell’aria.
La mia mano risale il fianco di Bill, sfioro col pollice la sua pancia e il suo petto e lui socchiude gli occhi, stringendo le labbra.
- Anis… - mi chiama piano, - Questa è stata una pessima idea.
- Rilassati, piccolo. – gli ripeto, accarezzandogli il collo e sistemandomi fra le sue gambe quando lui ne solleva una e la allaccia ai miei fianchi, - È solo un video.
- Non l’ho mai fatta una cosa del genere. – bisbiglia, piegando un po’ il capo per esporre il collo quando le mie labbra scendono a sfiorarlo, - È strano farla con te.
- Avresti preferito farla con Chakuza? – chiedo a bassa voce, mordicchiandogli il mento.
- Ti prego, non- - e geme un po’ quando mi spingo contro di lui, - …non metterlo in mezzo adesso. Anis, cosa stiamo facendo…?
- Devo spiegartelo coi disegnini? – rido un po’, mordendo la pelle tenerissima sotto l’orecchio, - Hai un buon profumo.
- Ti stupisce? – chiede lui, accarezzandomi la nuca, - L’ho sempre avuto.
- Mi stupisce. – annuisco io, sfiorandogli le labbra con le mie, - Tu non sei più lo stesso di un anno fa.
- Io sono lo stesso. – mugola mentre lo bacio piano in punta di labbra, - Sei tu che non mi riconosci più.
- Non è così, principessa. – gli sussurro sulla bocca, respirando appena contro di lui, - Tu sei cambiato.
Mi preme le mani contro il petto, spingendomi disteso sul materasso e seguendomi nel movimento, ritrovandosi seduto sul mio grembo, le mie mani sui suoi fianchi, le sue che viaggiano dai pettorali alle mie spalle.
- Io sono lo stesso. – ripete, scendendo su di me e schiacciandosi contro il mio corpo, - Sei tu che non mi riconosci più.
Mentre io lo guardo – e non esiste altro oltre a lui nel mondo, e so che per lui è lo stesso perché glielo leggo negli occhi – qualcuno impreca in fondo alla stanza. Hans manda un assistente a zittire colui che sta cercando di rovinare il suo meraviglioso lavoro e, dopo qualche secondo di bisbigli irritati e concitati la porta di uscita del set si spalanca e, tra il buio che regna sovrano nella stanza e la luce fortissima che viene da fuori, per un attimo la figura di Chakuza si staglia nettissima sulla soglia. Poi la porta si richiude, la figura scompare, Bill torna in sé e cerca di rotolare su un fianco, scendendomi di dosso. Io lo trattengo per i fianchi, però, e lui non riesce a muoversi.
- Lasciami. – sibila attonito, - Lasciami subito.
- Vorderberg non ha detto stop. – gli faccio notare, serrando la presa sui suoi fianchi. Bill si irrigidisce sotto le mie dita e mi graffia il petto con le unghie.
- Stronzo. – sputa fuori fra i denti, - Ti odio. Odio questa situazione del cazzo. Ti odio da morire.
La porta si apre ancora, la figura di Patrick la oltrepassa – seguita a breve da quella minuscola e sottile di Nicole – ed io continuo a tenere Bill fra le dita come non volessi più lasciarlo andare.
- Anche io ti odio. – ringhio, spingendomi dal basso verso l’alto contro di lui, - Sei una troia traditrice. Questa canzone è tua. Ci sei tu, qui dentro. Ti odio.
- Sei un bastardo. – risponde lui in un ringhio similissimo, continuando a stringermi le unghia addosso con tanta forza da farmi male, - Stai mentendo.
- Io non mento mai. – stringo più forte, - Ti odio. Cazzo, ti odio.
- Vaffanculo. – si dibatte lui sopra di me, - Lasciami andare. – ha gli occhi lucidi e non capisco se sia rabbia o tristezza o tutte e due le cose insieme, - Lasciami andare, stronzo, ti odio. Ti odio!
Lo afferro per la nuca, tirandomelo vicino e fermandomi solo quando siamo così vicini da poter respirare le stesse molecole d’aria, scambiandocele sulle labbra.
- Ti amo. – sussurro, guardandolo negli occhi.
- Vaffanculo. – ripete lui. – Ti amo. – e mi bacia, ma dura solo un attimo. Ci baciamo facendoci del male, questi non sono baci, sono morsi, e però sono baci lo stesso, e ci agitiamo sul letto così tanto che il lenzuolo scivola via, mentre ci aggrappiamo con forza l’uno all’altro. Ma è davvero solo un attimo, Bill cerca di separarsi da me quasi subito e, quando io non lo lascio andare, prima si dibatte violentemente e poi mugola forte, puntando le ginocchia sul materasso e staccandosi da me con tutta la forza che ha, ricadendo sul materasso al mio fianco, senza fiato. Gli occhi gli brillano di rabbia. È furioso.
- Luci! – strilla Hans, scattando in piedi e gesticolando animatamente. Quando le luci si accendono, lo osservo avvicinarsi furioso al letto, le mani fra i capelli ed i lineamenti deformati dalla rabbia, - Cos’è questo? Cosa?! Stavate andando benissimo e improvvisamente… impazzite! – ulula, appendendosi alla propria sciarpina con tanta forza da darmi l’impressione che finirà per strozzarsi, - Oh, Dio, ho bisogno di un tè e ne ho bisogno adesso. – mugola abbattuto, - Klaus! – urla poi, ed uno degli assistenti biondi, quello con camicia bianca e sciarpina di seta a scacchi – che le sciarpine siano una caratteristica distintiva di questa troupe? – si solleva dalla propria seggiolina e va immediatamente a recuperare il thermos, riempiendo una tazza di tè fumante e portandola velocemente ad Hans, che lo aspetta già con la mano tesa.
Bill abbassa lo sguardo e torna a coprirsi col lenzuolo. È in imbarazzo, si sente in colpa e gli sento addosso la voglia di correre e inseguire Chakuza, dovunque sia andato. Stringo i denti e mi rimetto in piedi, infilando le scarpe e recuperando la maglietta dalla sedia poco distante, mentre Hans continua ad inveire contro la nostra palese mancanza di professionalità e ci manda tutti a riposo nei camerini mentre lui mangia la sua dannata insalata di alghe arami e rucola.
Esco di fuori, perché restare lì con Bill non è un’opzione, e vado alla ricerca dei distributori automatici perché sento il bisogno di un caffè, e quando esco il mio sguardo incontra quello di Patrick, che sta borbottando qualcosa mentre Nicola gli sta ferma accanto, le mani strette in grembo.
- Tu! – mi urla lui, alzandosi in piedi e venendomi incontro, - Dico, sei uscito fuori di testa?! Come cazzo hai pensato che-
- Ehi! – lo fermo io, afferrandolo per i polsi per impedirgli di gesticolare in maniera così convulsa. Mi confonde. – Di che cazzo stai parlando? Stavamo girando!
- Girando il cazzo, Anis! – insiste lui, liberandosi con uno strattone dalla mia stretta, - Quello era-
- Stavamo seguendo il copione! – insisto, allargando le braccia ai lati del corpo. Veramente non capisco cosa Patrick si aspettasse da me, in una situazione come quella. Cazzo, io non capisco cosa si aspettino tutti da me nella situazione di merda in cui sono.
- Il copione! – strilla ancora lui, e poi si passa una mano sulla fronte e prende un respiro profondissimo, prima di parlare ancora. – Chakuza è furioso.
- Me ne sbatto i coglioni.
- Sei uno stronzo!
- Coraggio. – rido, - Dimmelo anche tu. Nicole, vuoi favorire? Oggi è la giornata dello stronzo libero.
Lei si stringe nelle spalle, immediatamente imbarazzata dal mio tono, ed abbassa lo sguardo, facendosi da parte. Si sente a disagio e io sono uno stronzo, è vero.
- Non tirarla in mezzo, Cristo santo! – mi rimprovera Patrick, frapponendosi fisicamente fra me e lei, più che per proteggere lei, per recuperare i miei occhi. – Anis, un minimo di controllo. Cazzo, controllo! Ne avevi anche troppo da ragazzino, e oggi che sei un uomo adulto… vai fuori di testa! Che cazzo!
- Senti, non ce l’ho il controllo di questa cosa, okay?! – sbraito gesticolando, - Non so cosa dirti! Non ho che farci! E non me ne frega un cazzo di Chakuza, cosa vuoi che ti dica? Che mi dispiace se sta male?! Non è vero!
- Oh, vaffanculo. – taglia corto lui, agitando un braccio nella mia direzione per sottolineare l’invito a fottermi e voltandomi le spalle, - Fai un po’ il cazzo che vuoi, tanto è quello che fai sempre. – e va via. Nicole lo segue docile, senza dirmi una parola, e io rimango lì come un coglione, anche più nervoso di quanto non fossi prima e ancora privo di caffè. Perfetto.
Quando anche David viene a cercarmi – ed ho appena raggiunto la dannata macchinetta del caffè, quindi il mondo sta appena cominciando a fare lievemente meno schifo – alzo gli occhi al cielo e mi chiedo se Dio non stia un po’ esagerando con le punizioni. So di essere colpevole di molte cose, ma preferirei scontarle all’inferno come previsto dal contratto, non ci tengo ad espiare in terra per poi magari ritrovarmi seminudo su una nuvola con la sola compagnia di un’arpa quando sarò morto.
- Tu! – mi punta, sprizzando rabbia dagli occhi.
- Io! – ammetto, sollevando le braccia, - Oggi non berrò neanche un caffè.
- Dico, - mi ignora lui, piazzandosi fra me e la macchinetta, le mani sui fianchi e l’anca in avanti, - cos’era esattamente quello, Bushido?!
- Un unicorno rosa. – borbotto allontanandomi, - Ora puoi per favore lasciarmi in pace?
- No! – mi viene dietro lui, cercando di tenere il mio passo, - Bushido, nessuno ti aveva chiesto di baciarlo sul serio!
- E invece è successo. – ringhio io, spalancando la porta e tornando sul set, dove Hans, appollaiato sulla sua seggiolina, sta ancora ruminando alghe, - Fammi causa.
David si ferma, spalancando la bocca e gli occhi. Poi torna ad aggrottare le sopracciglia.
- Ti stai comportando come un ragazzino. – mi rimprovera.
- Fammi causa anche per questo. – annuisco. Dopodiché lo ascolto mandarmi a fanculo – oggi, davvero, ne sto collezionando di ogni tipo – e comincio a vagare per i corridoi degli studi. Mancano ancora almeno dieci minuti alla ripresa dei lavori – dieci minuti o, comunque, il tempo necessario per mangiare delle alghe, che non so quanto sia, in realtà, anche perché nutro dei seri dubbi già sul fatto che delle alghe si possano effettivamente mandare già senza vomitarle assieme a svariati pranzi di svariati Natali precedenti. Io non ho un cazzo da fare e non posso tornare indietro perché non voglio rivedere David. Perciò vago e basta, senza una meta, senza nemmeno guardarmi intorno. A un certo punto, comincio perfino a pensare di essermi perso e che, tutto sommato, mi sta pure bene così.
E invece no, non mi sono perso e lo capisco fin troppo bene quando, vagando alla cieca, finisco di fronte alla porta del mio camerino. Sono ancora qui, non posso perdermi in uno spazio chiuso – così come non posso uscire dalla situazione in cui sono, che uscita non ne ha – e continuo a non sapere cosa fare.
È per questo, probabilmente, che faccio quei due metri che mi separano dal camerino di Bill. Non so se lui sia ancora là dentro – per la verità non so nemmeno se ci sia mai entrato – ma direi che posso fare un tentativo. Bill non è mai stato qualcuno da cui andare quando la situazione si faceva troppo complicata – Bill è stato tante cose, ma mai un salvagente; non gli ho dato modo di esserlo – ma non vedo perché non provare adesso. Magari mi darà la risposta che cerco. Come ne esco, piccolo? Come ne esco?
Non so neanche che risposta voglio, comunque. E quando entro – senza bussare – mi rendo pure conto di quanto io sia stato stupido a pensare, anche per un solo secondo, che Bill potesse darmene una. Una qualsiasi, figurarsi una sensata. Lo trovo che mi dà le spalle, le mani strette con forza contro lo schienale della poltroncina girevole davanti allo specchio, gli occhi chiusi e il viso basso, i capelli che scivolano sul suo viso e sul suo petto attorcigliandosi in quelle ciocche lunghissime e le labbra semidischiuse un po’ umide. Ha le sopracciglia aggrottate e si vede così bene, che sta malissimo, che per un attimo non posso proprio fare a meno di sentirmi sbagliato e fuori luogo. Non solo qui ed ora, in senso più generale. È la prima volta, in assoluto, che penso che forse avrei dovuto restare a Miami.
Dura solo un attimo, comunque. Lui non si accorge di me, almeno fino a quando le mie mani non si posano sulle sue spalle sottili e le stringono, massaggiandole lentamente. Rilascia un sospiro profondissimo, sciogliendo in un secondo tutti i muscoli tesi, e socchiude gli occhi.
- Perché… - mormora arreso, appoggiandosi stancamente contro di me, - Perché non mi lasci in pace?
- Perché non posso, piccolo. – rispondo sinceramente, strofinando appena le labbra contro la sua guancia, - E perché tu non vuoi.
- Io vorrei… - sospira, sollevando una mano a cercare la mia, - Vorrei riuscire a mandarti via.
Le mie labbra scendono lungo il suo collo, e lo sento rabbrividire.
- Perché non lo fai, allora? – chiedo in un sussurro contro la sua pelle.
Lui non risponde fino a che non mi si rigira fra le braccia. Mi lascia scorrere le mani sul petto, accarezzandomi attraverso il cotone sottile della maglietta, e mi guarda negli occhi.
- Perché non posso. – risponde. Ed è sincero anche lui.
Io sorrido appena e lui mi fa da specchio, ed è contro lo specchio che finiamo, quando lo spingo appena in avanti, pressando le labbra contro le sue e stringendolo possessivo alla vita mentre lui si aggrappa con forza alle mie spalle e mi si arrampica addosso, allacciandosi ai miei fianchi e piegando il capo per approfondire il bacio, lasciandosi accarezzare fra un ansito e un mugolio che mi riempiono le orecchie al punto che dimentico tutto il resto del mondo. Come sempre, quando si tratta di Bill c’è solo lui. Non ci sono più nemmeno io.
- Anis… - mi sussurra addosso lui, strusciandosi lentamente contro di me, - Anis, per favore…
- No. – rispondo io, lasciandogli un bacio lievissimo sulle labbra piene e arrossate, - Assolutamente no.
- Non sai nemmeno cosa voglio… - mi mugola sul collo, accarezzandomi la nuca e ridisegnando il mio tatuaggio – di cui ricorda ogni fottuta linea – con le labbra.
- Lo so, invece. – e per dimostrarglielo mi spingo contro di lui, accogliendo sulla lingua il suo mugolio affannato, - Ma non ti voglio così.
- Non mi… - ride appena, stringendomi forte a sé, - Anis, non-
- No. – mi separo deciso da lui, costringendolo a rimettere i piedi a terra, - Non sei mio. Non ti voglio.
Bill mi guarda per qualche secondo, gli occhi annebbiati di voglia, e resta in silenzio. Poi lascia andare un mezzo risolino incerto e mi si avvicina, sfiorandomi un braccio.
- Anis… - mi chiama piano, ma io mi scosto. Ed è allora che lui realizza che davvero non ho intenzione di scoparlo, i suoi occhi si schiariscono e le sue sopracciglia si aggrottano, il labbro inferiore che trema di rabbia mentre cerca le parole adatte con cui insultarmi. – Tu… non puoi dire sul serio. – mormora, - Anis, dopo quello che mi hai fatto oggi-
- Non ho fatto niente, piccolo. – ghigno io, sistemandomi la maglietta stropicciata addosso, - Sei tu che implori. Io nego e basta.
- Non giocare a fare lo stronzo con me! – strilla lui, piantandomi un dito nel centro del petto, ed io mi metto a ridere.
- Non gioco, piccolo. Non lo faccio più da tempo.
Gli volto le spalle ed ho perfino il tempo di allontanarmi da lui di un paio di metri, prima di sentirlo mormorare pianissimo un lamento incerto.
- Tu… non mi ami affatto. – sussurra, - Sei uno stronzo e basta. Uno così non può amare nessuno.
- Uno così – mi volto a guardarlo, - magari non ama più, ma di certo ha amato tantissimo. Questa è l’unica certezza che ho, principessa.
Bill nemmeno mi guarda. Si concede un sorriso minuscolo e socchiude gli occhi.
- Almeno ne hai una. – esala appena.
Almeno ne ho una. E preferirei non averla.
*
Bill mi passa sotto gli occhi – e sotto le mani – come un fantasma, nei giorni successivi. È un’illusione e lo vedo sfocato e sfuggente. Sul set del video lo tocco spesso – rifacciamo la scena, ne giriamo di altre, cantiamo e tutto il resto – ma lo sento evanescente e impalpabile sotto le dita. Mi prendo le rivincite dei bambini, parlo con Hans, faccio il fascinoso e faccio togliere qualche scena a Chakuza – “che poi lo vedi com’è, no? È meglio se mentre canta lui ci sono scene fra me e Bill, o scene di Bill da solo, è più elegante così” – Chakuza s’indigna e scalpita e strepita e scalcia come un puledro imbizzarrito, io non sono professionale – lo so, Chaky – io sono uno stronzo – lo so, Chaky – io sono un fottuto pezzo di merda – lo so, Chaky, e tu non hai palle perché tutte queste cose me le dici alle spalle, le sussurri e Bill, te ne lamenti con Jost, le ringhi addosso a Patrick quando casualmente lo becchi senza Nicole. Lo so, Chakuza, lo so cosa sono. Lo so bene, è per questo che riesco a non provare mai vergogna, qualsiasi cosa faccia.
Riesco a rivedere Bill come una cosa viva solo quando ormai le riprese stanno per concludersi, trascinandosi fiaccamente fra le ultime riprese di scene che abbiamo già ripetuto fino allo sfinimento al punto che – lo sento – il corpo di Bill è nauseato dal continuo sentirmi addosso, come il mio lo è dal suo continuo ritrarsi.
Andiamo in pausa – oggi il menu di Hans comprende riso in bianco con pisellini biologici e cubetti di prosciutto cotto magro senza conservanti – ed io fuggo dal set prima che Jost mi avvicini per la paternale quotidiana – come se sentirmi ripetere “comportati bene” fosse mai servito a spronarmi in questo senso – e quando mi avvicino ai distributori automatici per recuperare un caffè ed anche uno snack da propinare al mio stomaco che, a causa dell’eccesso di caffeina a digiuno degli ultimi giorni, sta già preparandosi all’arrivo dell’imminente gastrite, e lo vedo.
È stanco, il mio piccolo. È stanco almeno quanto lo sono io, ma le sue spalle sono così sottili che non riescono a reggerlo altrettanto bene. Non riesce nemmeno ad essere arrabbiato, sta lì, appoggiato con una mano alla macchinetta, mentre nell’altra mano regge un bicchiere ricolmo di un’imitazione di caffellatte che fa venire la nausea anche senza bisogno di sentirne l’odore.
Mi avvicino piano, discretamente, e sorrido appena quando mi fermo al suo fianco.
- È un po’ tardi per il caffellatte, non credi, principessa?
Bill mugola a bassissima voce, stringendo le dita attorno al bicchiere e socchiudendo gli occhi.
- Per favore, Anis… no.
Sospiro, smanettando coi pulsanti sul pannello della macchinetta ed infilando un euro nella fessura, restando poi in attesa del mio caffè.
- No. – rispondo a bassa voce, - Tu non sai neanche cosa mi chiedi di non fare.
- Ti sto chiedendo – ringhia Bill fra i denti stringendo tanto la presa sul bicchiere che ho quasi paura possa spaccarlo, - di non farlo, Anis. Non continuare a mettermi in questa situazione. Mi stai… - sospira pesantemente, trattenendo un attimo il fiato nei polmoni prima di rassegnarsi a lasciarlo andare, - mi stai torturando.
Recupero il mio bicchierino e lancio a Bill un’occhiata infastidita, appoggiandomi di spalle alla parete.
- Mi stai chiedendo di lasciarti in pace. – gli spiego pacatamente, - Di non vederti più. Di non guardarti, non toccarti e non pensarti nemmeno. È questo quello che mi stai chiedendo.
Lui apre gli occhi di scatto, dardeggiandomi con un’occhiata furiosa.
- Magari è quello che voglio.
Mi sollevo dalla parete e mi avvicino a lui, chinandomi per parlargli guardandolo negli occhi, così vicino che sento addosso il suo respiro.
- Se fosse ciò che vuoi, piccolo, non mi vedresti più. Te lo assicuro. Non metto le mani sulla roba degli altri.
Bill lascia andare un ghigno poco convinto, fronteggiandomi con una fierezza tale che sento il bisogno fisico di stringerlo alla macchinetta, costringendolo ad indietreggiare. Non sei più forte di me, piccolo. Non puoi esserlo, perché è per te che io sono così forte.
- Non sono tuo, non mi vuoi. – mi prende in giro, lasciando scivolare fra le labbra le stesse parole con cui l’ho apostrofato qualche giorno fa, - È vero, sai? – mi soffia addosso, - E allora perché continui?
Lo schiaccio contro la macchinetta, piantando le mani sopra la copertura di plastica e imprigionandolo fra le mie braccia.
- Non sei ancora suo. – sfioro il suo profilo con le labbra e con la punta del naso, lievissimo, - Lo sento che mi vuoi, piccolo.
Bill cerca di non gemere, quando mi spingo con forza contro il suo bacino, ma quel singhiozzo minuscolo che gli sfugge dalle labbra finisce sulle mie, che lo sfiorano soltanto e sono già abbastanza per mandarlo fuori di testa. E so che questo lo senti, piccolo. So che sei con me, adesso. Il punto è quello. Dovresti esserlo sempre. E invece lo sei solo quando ti sto così addosso. Come si può chiedermi di accettarlo?
- Anis, no. – mi implora, la voce rotta dall’ansia, - Qui no, davvero. In mezzo al corridoio… no.
- È questo il tuo problema, piccolo? – mi avvicino ancora, leccandogli appena il labbro inferiore, - Che potrebbero vederci?
- Sì! – risponde lui d’impeto, - E che… non dovresti. Quindi lasciami, per favore, ti prego… - si agita e punta le mani contro il mio petto, cercando di allontanarmi.
Io lo ignoro. Non è così che Bill mi allontanerebbe, se mi volesse davvero lontano. Non è così che mi manderebbe via, non è così che mi farebbe capire di non amarmi più. Non ci stai riuscendo, piccolo, non ci stai riuscendo affatto a mentirmi. Perciò avanzo ancora, lo stringo ai fianchi e lo schiaccio contro la macchinetta. E lui dice “no”, ed io non lo sento. Forzo le sue labbra e lui urla “no” ed io non lo sento. La mia lingua sfiora la sua, lui la morde, urla ancora, “no!”. Ed io non lo sento.
Però sento Chakuza. Sento la sua voce tuonare alle mie spalle e poi mi sento strattonare via con una forza insospettabile, e quando vado a sbattere contro la parete di fronte sollevo lo sguardo e lo vedo frapporsi fra me e Bill, il respiro pesante, i lineamenti del stravolti dalla rabbia e i pugni chiusi, le braccia rigide lungo i fianchi. Bill, ancora steso contro il distributore automatico, ansima e ci guarda, gli occhi enormi ed umidi di lacrime.
- Sei un pezzo di merda! – mi apostrofa in un ringhio. Ed è un ringhio dei suoi, fatti con quella voce lì, l’unica cosa di lui che possa veramente spaventare. Con me non attacca, comunque. Io non ho paura di niente. Ho visto la morte in faccia e meno di un mese dopo ero vivo e vegeto a Miami. Ho cercato di farmi fuori anche lì, ed ora sono qui. La sua voce non mi fa niente.
Mi rimetto dritto, guardandolo fiero dall’alto in basso.
- Non male. Puoi fare di meglio.
Chakuza mi è addosso il secondo dopo. Mi afferra per il colletto della maglia e mi spinge contro il muro, sollevandomi verso l’alto in un ringhio che si perde nell’urlo con cui Bill si stacca di prepotenza dalla macchinetta del caffè e gli si attacca alle spalle, cercando di tirarlo via.
- No! – grida, e Chakuza non se lo scrolla di dosso ma resta fermo a guardarmi con occhi di fuoco, digrignando i denti mentre io mi lascio andare ad un sorriso soddisfatto. – Peter, per favore… - lo implora, le mani che scendono lungo le sue braccia, - Lascialo andare. – ed io rido divertito, stavolta non mi trattengo. Principessa, principessa. Quest’arte te l’ho insegnata io. Piegare la volontà delle persone facendosi sentire loro addosso… stiamo giocando esattamente lo stesso gioco, piccolo. Lo stesso identico.
Chakuza mi lascia andare, ma lo fa con violenza, strattonandomi e sbattendomi ancora una volta contro la parete, prima di togliermi le mani di dosso.
- Bushido, - mi apostrofa poi, in un ringhio bassissimo, - Levati dalle palle. È l’ultimo consiglio che ti do.
Bill rabbrividisce, stringendo le dita sulle sue braccia e cercando di convincerlo ad allontanarsi.
- Che ti piaccia o no, - rispondo io a muso duro, - è qui che sto adesso, Chakuza. E non intendo andarmene da nessuna parte. Perciò, - ghigno, - è corretto che ti dica che non intendo farmi da parte.
- Cosa cazzo sta succedendo qui? – chiede David, apparendo in corridoio, probabilmente attirato dalle urla di Bill. Dietro di lui appaiono in fila Fler e Nicole, Tom e metà della mia crew. Abbiamo giocato sporco, io e Bill, ultimamente. Me ne rendo conto solo adesso che vedo tutti qui riuniti come ad una fottuta ultima cena. Abbiamo tutti i nostri rinforzi. Bill è sempre venuto qui con Tom, io mi sono sempre portato dietro la crew o quello che ne resta da quando i miei due uomini principali hanno deciso di essere entrambi due stronzi – ed uno è morto ammazzato, l’altro mi ha rubato tutto – e Chakuza invece niente. Chakuza nessuno. Chakuza era solo contro di me e contro Bill. Questo è giocare sporco, ma al momento non posso evitarlo.
La domanda di David resta senza risposta, ma ciò che sta succedendo sono tutti capacissimi di comprenderlo da soli, nel momento in cui Chakuza, guardandomi dritto negli occhi, parla ancora.
- Non ti aspettare che questo cambi qualcosa. – dice, e gli si tendono addosso tutti i muscoli. Sta facendo uno sforzo sovrumano per non prendermi a cazzotti, lo vedo nel modo in cui gli si irrigidiscono i muscoli delle spalle e del collo.
- Non me lo aspetto. – rispondo io, scuotendo il capo, - Voglio solo che tu sappia a cosa vai incontro.
Chakuza solleva il mento, sfacciato.
- Illuminami. – mi invita.
E io faccio un passo avanti. E quando rispondo, lo faccio guardando Bill.
- Io non gliele tolgo le mani di dosso.
- Bushido. – mi richiama David, facendosi avanti, ma finisce ignorato per la seconda volta quando a farsi avanti è Chakuza.
- Hai intenzione di importi su di lui?
- Ti risulta che io faccia sempre qualcosa di meno che impormi? – chiedo con un sorriso, - Nessuno decide se non ha dei motivi per farlo. Quindi devo darglieli.
Stiamo parlando di Bill come non fosse neanche presente. Ed in effetti è un po’ così – la mia principessa s’è allontanata di un paio di passi, non tiene più le mani sulle spalle di Chakuza e guarda il vuoto con occhi spenti, torturandosi il labbro inferiore fra i denti.
- Bel modo di dargli dei motivi. – commenta Chakuza, - Lo costringi a fare quello che vuoi.
- Imporre non è costringere. – gli faccio notare, fronteggiandolo serenamente, - Bill può sempre dire di no. Ma se mente, io lo capisco. Tu puoi dire lo stesso?
- Con me – risponde lui, - non deve mentire a prescindere. Non ha mai dovuto farlo.
- No? – rido io, - Allora probabilmente non gli hai mai chiesto cosa voglia dire il tatuaggio sul suo fianco. O magari mi sbaglio e te l’ha detto, che quel tatuaggio sono io. Magari non ti ha mentito ma questo non cambia il concetto di base.
Chakuza ringhia, stringendo i pugni.
- È passato un sacco di tempo. – ribatte, - Se Bill non fosse innamorato di me, non staremmo neanche discutendo. Sarebbe tornato con te senza battere ciglio e saremmo tutti a casa nostra.
- Per favore… - singhiozza Bill, passandosi una mano sugli occhi, - volete smetterla?
I miei occhi lo accarezzano tutto, anche se lui non può vedermi, e nessuno osa muoversi, dal fondo del corridoio. Fler scalpita, Tom è basito, David non sa cosa fare, c’è perfino Hans, lì in mezzo, e nessuno muove un dito per salvare la mia principessa che piange. Io non dovrei essere quello che pone fine a questa questione. Non voglio nemmeno. Io sono incazzato e sono cocciuto e lo rivoglio. Io guardo Chakuza e tutto ciò che penso è che vorrei provocarlo fino a costringerlo a saltarmi addosso, per poi sentirmi pienamente giustificato mentre gli spacco la faccia spegnendo il cervello. Ma Bill sta piangendo e, se nessuno si muove, è proprio perché, anche se non voglio, sono io che devo farlo.
- D’accordo. – annuisco, - Volevo solo mettere in chiaro le cose.
- E scommetto – ritorce Chakuza, - che con lui non ne hai mai parlato, prima. No, perché tu fai sempre così. Tu- tu non chiedi mai, tu decidi, gli altri si adattano! Scommetto che non gli hai mai chiesto se ti volesse addosso, tu te lo sei preso e basta.
Io aggrotto le sopracciglia.
- Gli ho chiesto se mi voleva. – ringhio, - Ha detto di no. Mentiva. – lancio un’occhiata a Bill, - Visto che a lui non rifili stronzate, diglielo.
Bill trasale e mi guarda per un secondo. Poi Chakuza si gira a guardarlo a propria volta, come in attesa della sua risposta, ed è il suo sguardo che Bill ricambia a lungo, mentre le lacrime gli offuscano gli occhi. E poi lo vedo serrare le palpebre – le lacrime rotolano lungo le guance e gli bagnano la maglietta – e portare le mani alle tempie, prima di scoppiare ad urlare.
- Basta! – grida, - Basta, basta, basta! Che cosa credi che sia, una bambola che parla a comando?! Bill digli questo, Bill digli quest’altro! – torna a fissare Chakuza, scosso dai singhiozzi, - E tu non mi guardare in quel modo, come fossi perfettamente innocente, cazzo! Smettetela! Tutti e due!
Lo guardo duramente, infilandomi le mani in tasca.
- Volevo solo chiarire, Bill. – ripeto, - Se continuiamo a non parlare, non riusciremo mai a chiarirci. Io potrei spaccargli il muso qui ed ora e lui potrebbe fare lo stesso con me, e non avremmo risolto niente comunque.
E io faccio per dire altro ma mi interrompo, perché Tom si fa strada sgomitando in mezzo al pubblico non pagante del fondo del corridoio e raggiunge suo fratello, stringendolo per le spalle sottili e tirandoselo contro.
- Adesso basta. – lo sento mormorare, - Bill, vieni via. Lascia che gli scimmioni si litighino il territorio come preferiscono. – ma Bill non lo ascolta. Si dibatte violentemente fra le sue braccia, scalcia e strepita, e poi mi urla contro.
- E per te questo è chiarire?! – strilla, - Per te chiarire è umiliare me dandomi ordini ed umiliare lui facendogli vedere quanto sei più bravo?!
- Bill… - cerca di intromettersi Chakuza, conciliante, ma Bill non ascolta nemmeno lui.
- No! – continua a urlare, - A me sembra che a nessuno di voi due freghi qualcosa di quello che provo io! L’unica cosa che volete è che io scelga in quale letto stare!
Tom digrigna i denti, stringendolo con maggiore decisione. E io m’incazzo. Non dovrei ma lo faccio.
- Umiliarti, cazzo! – ringhio, - Io sono sempre stato sincero con te, Bill! E invece io torno e tu mi menti! Non mi dici che stai con lui ma ci stai quando ti bacio, e Chakuza in tutto questo è sempre in mezzo ai coglioni, ed io come devo scoprirlo, cazzo, origliando! Non sono io che ti umilio, Bill, sei tu che umili te stesso.
- Tu te ne sei andato! – mi ricorda Bill, grazie principessa, come ci fosse ancora una minima, minuscola possibilità che io possa dimenticarlo, - Tu mi hai mentito molto prima che lo facessi io! Hai fatto finta di morire per poi tornare e non ti sei chiesto che cosa cazzo fosse successo nel mentre! Mi hai solo schienato contro quel cazzo di muro ed eri a posto, giusto? Certo che sì! Tu non chiedi mai, d’altronde! Ed hai tanti diritti quanti ne ha Peter, sappilo, non uno di più.
- Cazzo. – soffio io, serrando le labbra prima di lasciarmi andare ad un ghigno gratuito quanto liberatorio. Come tutto il resto di ciò che dico. – Neanche ti ci avessi costretto, a scopare. – faccio un passo verso di lui, Chakuza si mette di mezzo ed io lo spintono lontano anche se fa resistenza. Spero, me lo auguro davvero, che Tom non alzi un dito. O è la volta che succede qualcosa di veramente brutto. Non voglio niente fra me e Bill, adesso. – Te lo ricordi – ringhio chinandomi su di lui, - te lo ricordi quando ti infilavi nel mio letto e mi imploravi di lasciarti restare? Te lo ricordi quando mi hai detto di amarmi? E quando te l’ho detto io, te lo ricordi? Per me non è cambiato un cazzo, Bill. Proprio un cazzo.
- Per me sì. – risponde lui, ricambiandomi l’occhiata, - Perché ho dovuto ficcarmi in testa che non c’eri più, ho dovuto imparare a fare a meno di te, ed ora che sei tornato non puoi pretendere che cancelli un anno di sofferenza come niente. Sono stato male, cazzo, non puoi rinfacciarmelo, se ho cercato di superarlo!
Io lascio andare una risata amara, scuotendo il capo.
- No, non posso, è evidente. Era quello che volevo, in fondo. – ammetto, lanciando una mezza occhiata a David. Ma non trovo comprensione nel suo sguardo. Forse nemmeno la cercavo, comunque. So esattamente cosa aspettarmi da quello che ho qui, adesso. Ora lo so. È niente. È tutto ciò che posso aspettarmi. Un cazzo. – Farei meglio a tornarmene oltreoceano, mh? – chiedo, tornando a guardare Bill, - È questo che devi dirmi, piccolo? Se devi, trova le palle. Trovale adesso.
E Bill piange. Un pianto diverso da quello di prima, non è furioso, non è frustrato, la mia principessa è solo triste. Perché vorrebbe dirmi di andarmene ed allo stesso tempo non mi vuole lontano. Perché vorrebbe potermi mandare a fanculo e non riesce a permetterselo. Perché è felice con Chakuza, ed io lo so, ma so anche che lo amo e lui ama me. E forse sono anche io, quindi, che gli sto impedendo di lasciarmi andare. Ma lui mi sta aiutando. Io lo so che è così. Io ti conosco, principessa, io ti ho tirato su in tanti di quei modi che tu nemmeno ti rendi conto di quanti sono. Se sei così è perché è così che ti ho cresciuto, piccolo. E mi fa un cazzo di male vederti così adesso, ma lo capisci anche tu – me lo dice il tuo silenzio – che la situazione è davvero troppo complicata, per sbrogliarla e basta. Qui qualcuno dovrà stare male per forza. Qui dovremo stare male io e te. È così. Perciò basta nascondersi dietro ai vetri, Bill. Troppo trasparenti. E si rompono troppo facilmente.
Cerco di sorridere, mentre gli accarezzo una guancia, asciugando col pollice tutte le lacrime che incontro al mio passaggio.
- Non piangere. – chiedo piano, - Non c’è niente da piangere. Guardami negli occhi.
Bill fa un passo indietro, e suo fratello lo segue.
- Non farlo. – mi implora, la voce rotta.
- No. – nego io, avanzando ancora, - No, tu non farlo. Non mentire più. Dimmelo qui ed ora. Degli altri non mi frega niente, Bill. Tu dammi un motivo per restare ed io resto.
Lui solleva lo sguardo e mi fissa attentamente. Attraverso il velo di lacrime che gli intorbidisce lo sguardo, riesco a vedere i suoi occhi ridipingere noi due e solo noi due in questa stanza. Tom, che pure lo sta ancora stringendo protettivo per le spalle, non esiste più. Non c’è più la platea, non c’è nessuno, non c’è nemmeno Chakuza. Ci siamo solo noi, perché gli ho chiesto di decidere di noi. E Bill è uno che quando deve decidere lo fa per bene. Perciò si concentra, la mia principessa, e si concentra solo sul problema più pressante.
Odio essere un problema pressante. C’è stato un tempo in cui ero solo l’uomo che amavi, Bill. Vorrei lo ricordassi ancora. O vorrei smettere di ricordarlo io.
- Resta. – risponde alla fine, tirando su col naso, - Perché ho bisogno che tu resti, per favore. Ma non so più in che ruolo. – e lo dice in un mugolio così piccolo, così arreso, così da lui, che sorrido teneramente e, poco dopo, non riesco a trattenere la risata naturale che mi affiora alle guarda. Lui arrossisce e non si offende, perché i miei toni li ricorda ancora tutti benissimo e sa che in questo momento non lo sto prendendo in giro.
- Come amica del cuore, magari? – propongo con una scrollatina di spalle.
La risata non la trattiene neanche lui. Se lo permette solo perché nei suoi occhi siamo ancora soli.
- Piantala di fare il cretino. – borbotta, e poi inspira ed espira, e quando schiude le palpebre nei suoi occhi c’è di nuovo anche tutto il resto. Perciò mi adatto, ed anche per me è lo stesso. Faccio un passo indietro, ne faccio anche più di uno, e torno quasi vicino alla parete di fronte. – Forse è meglio se entrambi… provate un po’ a stare al vostro posto. Senza forzare le cose. – chiede Bill, guardando alternativamente me e Chakuza. Lo stronzo ringhia al mio fianco, e ne ha anche tutte le ragioni. Ma non si scosta e non mi manda a fanculo quando mi giro a fronteggiarlo, tendendogli la mano.
- Quello che la principessa dice, si fa. – dico pacatamente, - Questo mi auguro non sia cambiato. – Chakuza è un po’ incerto, non sa se stringermi la mano o meno, perciò aggiungo – Non è una tregua, è un patto di coesistenza.
E lui annuisce e la dannata mano, finalmente, la stringe pure.
- La parola della principessa è legge. – mi rassicura. E questo è tutto quello che mi serve sapere.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste.
Pairing: Bill/Chakuza, Fler/Chakuza, Fler/Nicole.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Het, Lemon, Slash.
- "La notte non si rassegna a finire ed io comincio ad essere davvero stanco di lei."
Note: Vorrei dire cose, riguardo questa shot – ci sarebbero cose da dire, riguardo questa shot – ma non ho tempo :D Sappiate solo che vi voglio del bene perché la risposta di pubblico alla scorsa storia è stata veramente meravigliosa, e mi auguro di non avervi fatto troppo male con questa. Sì, lo so, Fler è Fler ed è una piaga sociale. Fedy, mi dispiace di non averti dato ciò che ti aspettavi XDDD Non odiare troppo Nicole e studia, che hai compito =P A tutte le altre, grazie per aver letto nonostante l’enorme mole di pagine (ma è la prima volta che il Bimbo parla nella LTP. E lo fa per mandare Chakuza da Bill. Siate fieri di lui! XD), ed a presto <3
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EWIGE NACHT

Quando Bill mi ha chiamato al cellulare, oggi, io ho ringraziato una buona quantità di dei, perché non ne potevo già più di stare sul divano a fissare ed odiare ogni singolo centimetro del dannato pavimento di casa mia. Per quanto negli ultimi mesi abbia avuto modo di stare spesso a casa – sono stato più spesso da Sido, sì, ma non potevo pretendere di stabilirmi lì per sempre, non c’erano i motivi e sarebbe stato allucinante – non sono mai davvero riuscito ad appropriarmi di questo appartamento. Sarà che non lo voglio davvero, sarà che non me ne frega niente, sarà che gli unici due posti in cui sento di aver davvero vissuto sono la topaia che ho condiviso con Anis ai tempi dell’Aggro e la topaia che ho condiviso con Chakuza in tempi più recenti, insomma, non lo so cosa sarà, so solo che io questo posto lo odio e non lo ripeterò mai abbastanza.
Comunque, ho risposto pure con gioia – anche perché, ‘cazzo ne sapevo io che, mentre stavo a rigirarmi i pollici sul divano, in casa di Anis aveva luogo l’Apocalisse? – ma ho fatto in fretta a tornare coi piedi per terra. Bill ha un modo tutto suo di dirti che sta male anche senza dirtelo effettivamente. È qualcosa nel ritmo del suo respiro, nel modo in cui senti che sta cercando di trattenere perfino i battiti del proprio cuore, perché fanno male pure quelli e lui non sa come uscire da questo groviglio di dolore enorme che gli si è abbattuto contro. Bill è una persona che dovrebbe essere sempre felice, perché è evidente che il suo corpo non ha la costituzione adatta per resistere alla sofferenza. Ci vogliono spalle, per restare in piedi quando ti prende in pieno una valanga. Ci vogliono spalle e muscoli e la pelle di cuoio, non ti bastano i coglioni. Lui quelli ce li ha, ma gli manca tutto il resto.
Insomma, non ho avuto bisogno che mi dicesse niente. Peraltro, anche quando sono passato a prenderlo per portarlo a prendere una cioccolata da qualche parte, non ho esattamente avuto l’impressione che gli andasse di parlare. A volte è così, c’hai solo bisogno, tipo, di fare qualcosa. Hai quasi l’impressione che provando a spiegarti faresti solo danni maggiori, perciò niente, hai bisogno di distrarti, fare roba, andare in posti, vedere cose. Poi torni in te, poi puoi anche parlare, sul momento però no, e Bill era scosso e le sue guance erano ancora rosse e i suoi occhi ancora rossi, ma io non ho chiesto. E lui in genere risponde anche quando non chiedo, quindi il fatto che non rispondesse a prescindere mi ha dato l’idea che volesse, appunto, solo fare robe, andare in posti, vedere cose. E perciò gli ho fatto fare robe, l’ho portato in posti e gli ho dato da vedere cose.
E lui è stato anche un po’ meglio, mi ha sorriso e tutto, e poi niente, non mi ricordo com’è che abbiamo deciso di passare da Chakuza – probabilmente avevamo solo entrambi voglia di vederlo, solo questo, anche se non ce lo siamo detti, primo perché non ho bisogno che Bill mi dica quando ha voglia di vedere il Chaku, glielo sento addosso, e secondo perché non ho bisogno di dire a Bill quando ho voglia di vederlo io, perché non esiste – e lì è ovviamente precipitato tutto, perché fra le mille cose che potevamo aspettarci – o almeno, che poteva aspettarsi Bill, visto che effettivamente io non sapevo niente di quello che era successo fra lui e Bushido solo poche ore prima – l’immagine di Chakuza seduto su uno sgabello accanto all’isola con una borsa del ghiaccio spiaccicata sulla faccia era proprio l’ultima che potesse venirci in mente, ecco.
Il resto io l’ho visto accadere. Ci sono dei momenti – è una cosa che ho imparato a fare da ragazzino – ci sono dei momenti in cui smetto di viverlo, quello che mi sta succedendo, e mi limito a guardarlo. Non serve che sia una cosa necessariamente dolorosa o sconvolgente, basta che mi accorga che in un altro modo non potrei tollerarla. Perciò ho osservato Bill avvicinarsi a Chakuza, sussurrargli “è stato lui, vero?”, ho osservato Chakuza annuire, confermare, vuotare il sacco su tutto anche lì di fronte a me, e poi ho osservato Bill andare in bagno a prendere la cassetta del pronto soccorso, e lì – quando gli occhi verdi e pesti di Chakuza si sono spostati sui miei – lì mi sono tolto dalle palle, come suppongo avrei già dovuto fare da mesi e in maniera ben più radicale di quanto non abbia fatto.
E me ne sono tornato a casa.
Sono passate due ore da quando ho lasciato Chakuza appollaiato lì sullo sgabello, con Bill che si prendeva cura delle varie ferite e abrasioni che c’erano ovunque sul suo viso, sul suo collo, sulle nocche delle sue mani, dopo la scazzottata che ha avuto luogo a casa sua. Quello che dev’essere successo prima che io e Bill arrivassimo posso solo immaginarlo. Posso solo immaginarla, l’espressione di Anis, mentre si presenta a casa di Chakuza intenzionato a rivoltarlo come un fottuto calzino per l’imperdonabile colpa di aver messo le mani sul suo ragazzino quando non doveva. Posso solo immaginarla e mi viene anche un po’ da ridere, perché cazzo, Anis, tu sei morto. I morti non hanno diritti, ed i diritti non sono retroattivi: se resusciti, non puoi riavere indietro quelli che hai perso.
Ecco, se resusciti non puoi riavere indietro ciò che hai perso. Qualcuno dovrebbe dirglielo chiaro, ad Anis. Anche se io non penso che avrei il coraggio di farlo.
Comunque, sono passate due ore ed io, da quando sono tonato qui nel mio appartamento vuoto, ho cercato di non pensare. Ho riesumato il vecchio Game Boy che Sido mi ha passato quando sua figlia ha smesso di usarlo in favore della Playstation, ed ho tirato fuori qualche cartuccia recuperata secoli prima nelle cuccette dei tour-bus, quando ancora i ragazzi ci giocavano, con queste robe, e gli studi dell’Aggro, quando non si lavorava, erano tutto un risuonare delle musichette elettroniche del Tetris.
Insomma, mi sono seduto lì sul mio enorme divano bianco panna che è un divano palesemente da single, così come questa è una casa palesemente da single. Sarebbe anche bello usarla nel modo giusto – per rimorchiare, cioè – ma sto cominciando a rassegnarmi alla mia vita così per com’è ora. Triste da dire, ma non c’ho nemmeno voglia di andare per locali. È che, boh – e nel mentre Super Mario si infila in un tubo verde e ne riesce grande il doppio rispetto a quando c’è entrato – mi sembra di aver fatto una serie incredibile di buchi nell’acqua. Non parlo solo di Chakuza, anche Anis, pensandoci col senno di poi, Dio mio, è stato un disastro. Io non posso continuare ad avere solo relazioni che non sono relazioni. E con le donne non mi è mai andata bene, una dopo l’altra mi hanno sempre lasciato tutte. Insomma, uno deve pure rassegnarsi, quando si rende conto che non c’è speranza, no? Se non funziono con gli uni e non funziono con le altre, magari funziono da solo e basta.
Quello che è successo lo so. Lo so perché me l’ha detto il Chaku e lo so perché era esattamente ciò che volevo. Una cena per festeggiare il ritorno di Anis? Oh, andiamo. Mi meraviglio di come Anis stesso possa essere stato tanto stupido da cascarci, anche se probabilmente ha accettato solo perché di Bill e Chakuza non sapeva niente, quindi non poteva immaginare quanto potesse essere pericoloso infilarli in una casa in cui era presente anche lui.
Comunque io volevo che Anis venisse a saperlo perché né Bill né Chakuza avrebbero mai fatto il primo passo ed io non volevo essere il solito Patrick costretto a farlo al loro posto. Stavolta no. Stavano per distruggere la vita dell’uomo che li aveva fatti incontrare? Benissimo. Che lo facessero da sé, però. Io non volevo essere l’amico incaricato di dire le cose come stanno allo sfigato di turno. Mi sono già rotto le palle di questo ruolo. Non mi si addice nemmeno.
Però è tutto sommato vero che uno dovrebbe stare attento a ciò che desidera, perché potrebbe avverarsi davvero. Quante volte tutti noi abbiamo sperato che Anis tornasse vivo dalla morte? Io, un’infinità. Bill, quasi sicuramente, la mia infinità al quadrato. Perfino Chakuza deve averlo pensato, prima di innamorarsi di Bill. E quello è tornato davvero, causando il finimondo. Si fottano le stelle cadenti e il desiderio espresso dopo aver spento le candeline sulla torta di compleanno, non c’è bisogno di queste cazzate per far diventare qualcosa realtà. Basta essere in molti a volerlo, o almeno così pare. O forse così non è ed Anis è tornato in vita perché è un supereroe. Me lo ricordo a diciott’anni correre come una furia per le strade di Tempelhof e arrampicarsi sulle grondaie scalando le villette fino ai tetti, e penso che come possibilità quella dei superpoteri non è nemmeno tanto remota. E intanto Super Mario viene mandato a gambe all’aria da un funghetto con un’espressione cattivissima.
Comunque io adesso ho ottenuto ciò che volevo e dovrei essere perfettamente in pace con me stesso. So come funziona Anis, so che in genere la rabbia è la prima delle sue reazioni, ma che fa in fretta a tornare in sé, perché non sopporta di lasciarsi sfuggire il controllo delle situazioni problematiche dalle mani. Quindi ha mandato a fanculo Bill, ha mandato a fanculo Chakuza – pestandolo, già che c’era – ed ora starà riacquistando coscienza di sé e realizzando cos’ha combinato.
So perfettamente dove andrà quando questo processo sarà terminato. Ed era il mio obiettivo, sul serio, non essere io a dirglielo ma essere io a consolarlo, almeno un po’. So che accadrà e non riesco a sentirmi contento e soddisfatto come dovrei.
Purtroppo, so anche perché non riesco a sentirmi così. Non ci riesco perché mi dispiace per il ragazzino, tanto per cominciare. Perché il ragazzino ci credeva tanto, in se stesso e in Chakuza, proprio come coppia. Ed anche se non so se riusciranno a sopravvivere a questa tempesta uniti, so per certo che, pure se ci riuscissero, non sarebbe più come prima, non sarebbe più la stessa cosa. Anis c’è sempre stato, fra loro. Solo che prima era un fantasma. Non puoi più dare del fantasma a una persona che puoi vedere e sentire e toccare.
Mi dispiace anche per Anis, ovviamente. Mi dispiace perché forse se gliel’avessi detto io sarebbe stato diverso. Forse sarei riuscito a metterla in un modo che non sembrasse irrimediabilmente pessimo, forse sarei riuscito a convincerlo a pensare un po’, prima di gettarsi a peso morto in quel casino di rabbia e senso di colpa che gli ingolfava la testa. Forse, insomma, avrebbe anche sofferto di meno, se fossi stato io a dirglielo, nel giusto modo. Forse.
Soprattutto, comunque, mi dispiace per Peter. Peter era un sacco felice, davvero, prima che tornasse Anis. Anche se girargli intorno non era proprio la mia prima aspirazione della giornata, quando capitava perché esigeva di vedermi per un motivo o per l’altro tipo riappendere le tende in camera dopo averle lavate o risistemare lo scaldabagno defunto, stare con lui era piacevole. Perché, ecco, sorrideva e insomma, era simpatico. Chakuza non è il tipo che quando si innamora si dimentica della tua esistenza e di tutto il resto che non sia la persona che ama. Magari si distrae, magari si perde in se stesso, ma poi si ritrova, e quando si ritrova è bello stargli accanto.
Insomma, mi dispiace che si sia ritrovato con un occhio nero ed il ghiaccio sullo zigomo, alla fine di tutto questo, solo perché io non ho avuto le palle e la voglia di prendere Anis, stringerlo in un angolo e raccontargli l’unica cosa sulla quale valesse la pena tenerlo aggiornato, e che nessuno gli diceva.
Però è quello che ho voluto, me lo sono scelto e adesso ho poco da sfogarmi sui tastini mezzi scassati del Game Boy. Io sono uno che le sue responsabilità se le prende. L’ho sempre fatto. Quindi non faccio una piega quando qualcuno suona al citofono. Non guardo nemmeno l’orario, perché Anis non ha orari per cercarmi, non ne ha mai avuti. Quando eravamo ragazzini, me lo vedevo spuntare sotto la finestra anche all’alba. Se si svegliava presto e sentiva il bisogno di venire a cercarmi, chi ero io per dirgli no?
Al citofono è lui, anche se lui, quando glielo chiedo, non mi risponde.
Apro il portone con un sospiro e poi apro anche la porta e mi fermo lì sulla soglia ad aspettarlo. Il mio indirizzo è stata la prima cosa che Anis mi ha chiesto quando ci siamo incontrati da soli. Quello, e il mio numero di telefono. Non ha avuto bisogno di spiegarmi perché li volesse, era semplicemente evidente che, dal momento che ero andato a cercarlo nel suo appartamento dopo aver fatto anche la fatica di convincere Eko a svelarmi l’indirizzo, avremmo ricominciato a frequentarci, punto e basta. Perciò gliel’ho dato, l’indirizzo. Ed anche il numero di telefono. “Per ogni eventualità”. Ecco l’eventualità.
Anis fa le scale con una certa fatica. È ubriaco fradicio e io sto al quarto piano. E questo palazzo è di quelli vecchio stile, dove un piano vale tipo per due.
Inarco un sopracciglio.
- Potevi prendere l’ascensore. – gli faccio notare incrociando le braccia sul petto e cercando di comportarmi come non sapessi niente, - Quanto hai bevuto, Anis?
- Pochissimo. – grugnisce lui, che puzza di alcool lontano un metro, abbattendomisi letteralmente addosso ed aspettando quindi che sia io a trascinarlo all’interno dell’appartamento e chiudergli la porta alle spalle.
- Pochissimo, certo. – lo prendo in giro, - Hai già vomitato, almeno?
- No e non lo farò perché ho bevuto poco. Fanculo, Frank, non è serata, okay?
Mi stupisco solo un po’, quando mi sento chiamare in quel modo. Provo a tenerlo in piedi mentre lo aiuto a raggiungere il divano, e cerco i suoi occhi. Li trovo e sono cupi e confusi. Non c’è niente da leggere, lì dentro, stanotte. O forse c’è troppo ed io ho bisogno di un po’ di tempo per fare ordine e capire.
Comunque, che mi abbia chiamato Frank è ridicolo ma anche ovvio, contando il fatto che quando avevamo circa vent’anni – cioè lui ne aveva venti ed io desideravo averli già ma stavo ancora abbondantemente fermo sotto i diciotto – andavo sempre a raccoglierlo in giro per locali, quando si ubriacava così. Ed ero Frank, allora, Fler non era che un bel nome coreografico da dipingere sui muri di tutta Berlino. Quindi era ovvio che mi chiamasse così, com’è ovvio che mi chiami così anche adesso.
- D’accordo, d’accordo… - concedo, aiutandolo a distendersi sul mio divano bianco ed osservandolo mentre tira su i piedi con tutte le scarpe, mettendosi comodo. Mi rovinerà la fodera ma sta qui disteso con un avambraccio a coprirgli gli occhi e i capelli sparsi ovunque sui cuscini, quindi in fondo chissenefrega della fodera. – Che ti è preso? – continuo poi, sedendomi lì accanto, su quel po’ di spazio libero che lascia il suo corpo. Lui solleva le gambe, - I morti non dovrebbero bere, lo sai? – ed aspetta che io mi sia sistemato per bene sul cuscino, appoggiandomi allo schienale, per stendermi le gambe in grembo e tornare a stiracchiarsi.
- Bevo quanto cazzo mi pare e piace, Frank. – mi informa, tirandomi pure un calcio sul ginocchio, - Anche perché non sono morto. – e si prende una pausa, prima di dire quello che sta per dire. Se la prende lo stesso anche se io so cosa sta per dire, lui sa che io lo so ed io so che lui lo sa. – Purtroppo. – conclude infatti, alla fine, ed io lo mando giustamente a fanculo.
- Non dire stronzate, adesso, – lo rimprovero aspramente, scazzottandolo senza pietà contro una spalla, - o giuro che stavolta all’inferno ti ci mando davvero con le mie mani, così mi assicuro che arrivi a destinazione senza fermarti a Miami durante il viaggio.
Lui sorride appena – è un sorriso che gli sento sbuffare, più che altro – e scuote il capo.
- Non saresti capace. Nessuno è mai stato capace di farmi davvero fuori. Mi chiedo se non dovrei fare da me. Se vuoi un lavoro fatto per bene, fattelo da solo, si dice. No?
- Piantala. – ringhio a bassa voce, - ‘Cazzo ti prende? Se ti sei fatto non so nemmeno quante cazzo di ore di volo transoceanico per venirmi a dire che eri vivo e poi cominciare a parlare di suicidio, sappi che ti do una mano.
Lui ride ancora e si toglie il braccio dalla faccia. Lo lascia andare contro il divano e fissa il mio soffitto. C’è accesa solo l’abat-jour sul tavolino, che oltretutto sta dal mio lato, quindi il suo viso è quasi tutto in ombra e anche il resto della stanza non è che sia meglio illuminato. Anis inspira profondamente, prima di riprendere a parlare.
- Avresti dovuto dirmelo. – dice quindi, tutto d’un fiato.
Mi tendo come una corda di violino.
- Dirti cosa? – chiedo, guardando altrove.
Lui ride di nuovo.
- Lo sai cosa. David mi ha detto che sei stato molto vicino a tutti, mentre io ero via. È impossibile che tu non te ne sia accorto. Devi saperlo per forza.
- Non so niente. – borbotto infastidito. Anis struscia una gamba contro la mia, come non avesse la forza di sollevarsi a darmi una manata contro la spalla.
- Pat. – dice semplicemente. Ed io sospiro.
- Mi dispiace, Atze. – esalo in un fiato, abbassando lo sguardo, - Non sapevo come fare.
Anis si strofina gli occhi con entrambe le mani, inspirando ed espirando a pieni polmoni.
- Sono troppo ubriaco per pensare. – confessa alla fine, tornando a stendersi prendendo il maggiore spazio possibile, - Come cazzo è potuto succedere, Patrick?
- Conosci Bill, conosci Chakuza. – rispondo scrollando le spalle, - Ecco com’è successo.
Anis scuote il capo.
- No. – insiste, - No, Pat. Non posso… non ci riesco.
Io deglutisco. Mi scosto le sue gambe di dosso e mi metto in piedi, andando dritto verso la camera da letto. Lui non mi chiede cosa sto facendo, tanto è ovvio che sto andando a recuperargli una coperta, e non fa una piega quando torno con un vecchio plaid di lana grigia e glielo stendo addosso, rimboccandoglielo sotto il mento.
- Quando me ne sono andato, - mi dice, mentre faccio il giro del divano per tornarmene in camera, - Chakuza era ancora etero. Cioè, che Bill si sia innamorato di nuovo mi… - ride piano, - mi sembra meno assurdo dell’idea del Chaky che diventa gay. Sul serio.
Mi fermo e mi appoggio allo schienale, tirando su una gamba per sedermi in bilico sul bordo e aiutandomi a tenermi in equilibrio con una mano, mentre lo guardo dall’alto.
- Quante cose vuoi sapere, Anis? – gli chiedo sottovoce, fissandolo dritto negli occhi. Lui mi ricambia l’occhiata senza cambiare espressione.
- Per oggi sono a posto. – risponde annuendo. E chiude gli occhi.
Io gli riavvio i capelli sulla fronte in un gesto distratto, prima di muovermi verso la camera e, a metà del corridoio, decidere che non è lì che voglio stare. Prendo le chiavi ed indosso una giacca, e due minuti dopo sono fuori dal mio appartamento.
Fuori c’è un bel venticello fresco e secco, non troppo tagliente, molto piacevole. Mi rendo conto che sta finendo settembre, e poi, nell’ordine, ricordo che dopodomani è il ventotto ed Anis fa trentun anni. Mi metto a ridere così, in mezzo alla strada, anche se non c’è proprio niente da ridere perché quest’uomo è tornato da Miami solo per avere un compleanno di merda, in pratica. Però rido lo stesso, che posso farci, è assurdo. E nel mentre vado a zonzo per le strade di Berlino e come sempre, ogni volta che lo faccio, i miei piedi mi portano da Chakuza. Non so se sia colpa del fatto che ormai questo tragitto lo conosco a memoria, quindi se non penso a dove sto andando e inserisco il pilota automatico è lì che mi porta il mio corpo, senza che io abbia neanche bisogno di chiederglielo, comunque è così.
Quando arrivo sotto casa sua, guardo a lungo il palazzo prima di decidermi sul da farsi. È molto probabile che Bill sia ancora qui, visto che ce l’ho lasciato, e rifletto bene sulla possibilità di attaccarmi al campanello per svegliare lui e il Chaku con un infarto e poi fuggire silenziosamente nella notte, oppure suonare come una persona normale, svegliarli comunque e poi salire su e restare lì fino all’alba, così, giusto per il gusto di non lasciarli in pace. Potrebbe essere il mio regalo di compleanno per Anis, sono quasi sicuro che apprezzerebbe molto.
Alla fine, decido per la seconda opzione. Suono e, quando la voce assonnata di Chakuza mi risponde al citofono – quest’uomo dorme che è una meraviglia: può succedergli qualunque cosa, nel corso della giornata, ma appena gli si scaricano le pile lui prende e si spegne. Poco da fare – rispondo allegramente che sono io. Lui non ha bisogno di chiedere chi sia io, e mi apre il portone. Me lo ritrovo in pantaloncini e canotta che si stropiccia l’occhio sano, quando arrivo sul suo pianerottolo.
- Nostalgia di casa? – mi chiede, scostandosi dalla soglia per lasciarmi passare.
- Coglione. – rispondo in un grugnito infastidito, guardandomi intorno, - Il ragazzino dorme?
Chakuza chiude la porta e sospira sconsolato.
- Dobbiamo per forza parlarne? – mugola affranto, avvicinandosi a me e prendendo a gironzolarmi intorno come a voler capire cosa ho intenzione di fare prendendo le misure dei miei movimenti. – Comunque, - risponde alla fine, - se dorme, lo sta facendo a casa sua. Di certo non qui.
Io mi volto a guardarlo con una certa curiosità, appoggiandomi allo schienale della poltrona.
- L’hai mandato via?
- Lui è andato via. – precisa, aggrottando le sopracciglia, - Io l’ho lasciato andare.
Mi prendo una pausa di mezzo secondo, per dare enfasi al mio pensiero al riguardo.
- Coglione. – dico poi. Chakuza mi manda a fanculo e si infila nel cucinino, cominciando ad armeggiare con la caffettiera.
- Se non eri di umore nostalgico, - borbotta in mezzo allo scrosciare dell’acqua nel lavabo, - si può capire perché sei venuto da queste parti?
Scrollo le spalle, facendo il giro della poltrona e sedendomi compostamente per un secondo, prima di svaccarmi lanciando braccia e gambe in giro come fossi a casa mia.
- Passavo da queste parti. – rispondo in un mezzo ghigno. Poi prendo fiato. E rispondo sul serio. – Anis è venuto a trovarmi.
Chakuza diventa un pezzo di ghiaccio e, quando si riscuote, lo fa solo per chiudere il rubinetto e posare la caffettiera ancora aperta sul ripiano del lavello. Si asciuga le mani, poi si appoggia contro il mobile della cucina e si volta a guardarmi. Mi guarda tipo per dei secoli, là immobile, ed io inarco un sopracciglio.
- Be’? – chiedo infastidito. Chakuza sospira, gira attorno all’isola e viene a sedersi sul divano, qui di fianco, sporgendosi verso di me.
- L’idea della cena a casa di Bushido è stata tua. – mi spiega pacatamente. Non sorride ma non ha nemmeno un’espressione risentita. Non lo capisco e mi dà anche un po’ sui nervi, sinceramente. – Il fatto che io abbia accettato di prestarmi a quella ridicola mascherata non deve farti pensare che io non avessi capito dove voleva andare a parare. Ti conosco, Fler, non puoi prendermi per il culo. Quante volte devo ripetertelo? – faccio per mandarlo a fanculo come merita, ma lui mi ferma sorridendo appena. – Non vieni fino a qua per dirmi che Bushido è venuto a trovarti, Fler. Avanti. Sputa il rospo.
Resto lì con le labbra dischiuse a guardarlo per un po’. Poi mi ricompongo, mi metto dritto e gli tiro uno scappellotto tremendo sulla nuca, tant’è che la sua testa rimbalza in avanti e, quando solleva lo sguardo per mandarmi a cagare fissandomi negli occhi, lo fa con un’espressione a metà fra l’addolorato e l’oltraggiato.
- Piantala di fare lo splendido. – gli tarpo immediatamente le ali, tornando a svaccarmi sulla poltrona. E poi sospiro. – Che cosa vuoi che ti dica, Chakuza? Sei innamorato di quel ragazzino da tanto di quel tempo che mi sembra di averti sempre conosciuto solo così. È strano immaginare un mondo in cui tu non stai con Bill e non sei completamente perso per lui.
Chakuza arrossisce e guarda altrove, ed io mi rendo conto che è la prima volta che parliamo in questi termini di Bill. Suppongo che se lui avesse avuto l’accortezza di dirmi fin da subito che stavano insieme, come ha fatto Bill, le cose sarebbero andate molto diversamente. O forse no, perché Anis sarebbe comunque tornato e noi saremmo comunque dovuti passare attraverso la fine del mondo, che lo volessimo o meno.
- Allo stesso tempo, però… - continuo sospirando, - è strano immaginare un mondo in cui Anis possa rassegnarsi. Su una qualsiasi cosa, figurarsi il suo ragazzino adorato. – Chakuza ringhia, - E non fare il cane rabbioso. – lo rimprovero aspramente, incrociando le braccia sul petto, - Lo sai che è il suo ragazzino. Comunque lo è. Anche se adesso è tuo, resta suo.
- È assurdo. – borbotta Chakuza, - …credo che Bill stia cercano di spiegarmi la stessa cosa. Da quando Bushido è tornato.
Io mi stringo nelle spalle.
- Sarà assurdo, ma è così. Devo venirtelo a spiegare io, come funziona il tuo fidanzato?
Chakuza socchiude gli occhi e scuote il capo, espirando rassegnato.
- Quando le dici tu, le cose sembrano più vere. – dice alla fine, stendendosi contro lo schienale del divano. Io mi mordo un labbro e non rispondo, e restiamo entrambi fermi svaccati contro gli schienali dei nostri rispettivi e sdrucitissimi troni per un tempo indefinibile. Almeno fino a quando Chakuza non si decide a parlare ancora. – Cosa dovrei fare, secondo te?
Mi volto a guardarlo e faccio fatica a non dargli del coglione per la terza volta in mezz’ora.
- Come, scusa? – domando incredulo, - Tu stai chiedendo a me cosa penso che dovresti fare?
Annuisce senza fare una piega. Io lo guardo attentamente e, quando mi sono assicurato per l’ennesima volta da che lo conosco sul fatto che sì, è proprio vero ed è proprio così, nonostante la cosa mi causi ancora meraviglia quando ci penso, rispondo.
- Dovresti-
- Andare a fanculo non rientra fra le opzioni possibili. – si affretta a mettere le mani avanti, senza lasciarmi concludere. Io gli tiro addosso un cuscino.
- …lasciare parlare la gente, tanto per cominciare. E poi… - sospiro, mentre lui si toglie il cuscino dalla faccia e lo stringe sullo stomaco, - …e poi dovresti andare da Bill, Peter.
Chakuza mi guarda come avessi appena detto la cazzata del secolo. Questo sguardo, se posso permettermi – e posso – è una cosa alla quale lui non dovrebbe avere diritto, per ovvi motivi. Aggrotto le sopracciglia e lo minaccio fisicamente di strappargli il cuore a mani nude passando per la gola, se non se lo toglie immediatamente di dosso. Lui non riesce, ma almeno guarda altrove finché non riesce a trovare un’espressione facciale meno odiosa.
- Ma se n’è andato lui, Fler. – mi fa notare a mezza voce, - Non posso andargli dietro così.
Io roteo gli occhi.
- Mi meraviglio che tu non gli sia andato dietro immediatamente appena l’hai visto uscire dalla tua porta, Dio mio! – sbotto esasperato, - Io certe volte non lo capisco cosa c’hai nel cervello, Chaku.
Lui sospira, abbattendosi di nuovo contro lo schienale.
- Nemmeno io. – ammette, - Sarà che per la maggior parte del tempo non c’è niente. Quando improvvisamente appaiono cose, ho difficoltà a gestirle.
Rido di gusto e lui ride con me, fra un coglione che gli lancio e l’altro. Restiamo a ridere per un po’, ed è una cosa piacevole. È piacevole anche che, qualche secondo dopo, lui tiri fuori dal fondo del petto una voce dolcissima – così ruvida e profonda com’è la sua sempre, ma più tenera – e mi chieda come sto.
Io scollo le spalle.
- Sopravvivo. – rispondo sinceramente.
- Sicuro? – si assicura lui, lanciandomi un’occhiata incerta.
Io sospiro.
- Frena quello che sta apparendo adesso, Chaku. Qualsiasi cosa sia. – gli ricambio l’occhiata, - Non mi pare il caso, proprio ora che ti sto mandando da Bill.
Lui abbassa gli occhi con un’espressione da cane bastonato.
- Già. – annuisce. Poi si passa le mani sul viso e inspira ed espira profondamente, prima di alzarsi in piedi. - Chiudi tu casa? – chiede distrattamente, muovendosi già verso la camera da letto per vestirsi, - Ce le hai ancora le chiavi, giusto?
Io annuisco silenziosamente. Lo mando a fanculo, quando lo vedo ripassarmi davanti vestito di tutto punto, diretto alla porta. Lo mando a fanculo ma lui non lo sente. Anche perché non l’ho detto ad alta voce, l’ho solo pensato. Ed io e Chakuza ci capiamo bene, ma probabilmente non così tanto.
In casa di Chakuza io ci resto, e resto anche del tutto immobile per una mezz’oretta, circa. Poi mi alzo dalla poltrona e mi guardo intorno senza sapere bene cosa fare di me stesso. Per certo so che non voglio tornare a casa, ma so anche che se non mi do un motivo per restare qui non ci resterò, perché per quanto il Chaku possa ironizzare sul fatto che trascorro qui una buona metà della mia esistenza – o forse anche di più – questa non è casa mia. Perciò mi guardo intorno e, siccome qui è il solito bordello, mi metto a sistemare. Poso i soprammobili ai loro posti, spiego bene la fodera del divano e poi mi infilo nello sgabuzzino alla ricerca del piumino, per spolverare i mobili. Mentre cerco mi accorgo di sfuggita del vecchio tappeto peloso del Chaku, quello che prima stava in salotto, e che adesso è qui in un angolo arrotolato e stretto con lo scotch. Gli lascio scorrere sopra gli occhi ma non lo tocco. Recupero il piumino e spolvero tutto per bene, e quando ho finito tiro su le maniche della felpa, indosso il grembiule e comincio a lavare i piatti.
Alla fine mi faccio prendere bene ed entro in una specie di trance mistica. Quando riprendo coscienza di me stesso sono le tre del mattino, non ho idea di dove sia Chakuza, non so se Anis sia ancora a casa mia e questo appartamento splende come uno specchio, pulito come non è mai stato da quando Chakuza lo abita – e probabilmente neanche da prima. Soprattutto, però, non ho ancora neanche un filo di sonno. Voglio che questa notte finisca adesso perché non ne posso già più, perciò cerco la mia coperta coi cavallucci marini e, anche se non fa davvero freddo e non ne avrei bisogno, mi ci avvolgo dentro e mi butto sulla poltrona, tirando su le gambe e cercando di addormentarmi.
Ovviamente non riesco. Mi rigiro per un po’ e poi, prima di diventare isterico, mi metto in piedi, indosso nuovamente la giacca ed esco da qui, che l’odore del detersivo alla lavanda mi è entrato nel cervello e mi sta facendo lentamente impazzire. Chiudo bene la porta, con le chiavi – sì, Chaku, ce le ho ancora, stronzo, certo che ce le ho ancora – e comincio a camminare. Senza meta. Di nuovo dal Chaku non posso tornarci, perciò non metto il pilota automatico, cerco soltanto di spingermi il più lontano possibile sia da casa mia che da casa sua, andando verso il centro.
Non è che ci sia molta vita in giro, comunque. Siamo in mezzo alla settimana, domani la gente normale lavora ed è già molto tardi. I pub chiuderanno tutti fra poco ed io vado in giro col cappuccio calato fino al naso anche se è poco probabile che qualcuno mi riconosca. Tengo su il cappuccio anche quando mi decido ad entrare in un locale e sedermi su uno sgabello di fronte al bancone. Scorgo con la coda dell’occhio il barista che mi fissa con aria un po’ impaurita e faccio apposta la voce cattiva mentre gli ordino una birra. Quello mormora un “sì, subito” che mi fa quasi scoppiare a ridere e io resto in attesa giocando con le arachidi nella ciotolina di vetro – ne prendo qualcuna, la poso sul ripiano, le metto in ordine dalla più grande alla più piccola – però siccome non ho fame non ne mangio nemmeno una.
La mia birra nel mentre arriva, io comincio a sorseggiarla e mi sto già annoiando, quando mi sento picchiettare sulla spalla con due dita. Chiunque mi abbia riconosciuto nonostante il novanta percento del mio corpo sia nascosto, tatuaggi compresi, merita un premio, perché deve amarmi tantissimo. Perciò mi volto e sorrido, per nulla infastidito, e quando capisco chi è – ci metto un po’ a riconoscerla, perché non la vedo da una vita – capisco che non deve stupirmi il fatto che mi abbia riconosciuto.
- Nicole! – la saluto, scendendo dallo sgabello ed abbracciandola stretta, - Cazzo, saranno secoli!
Lei risponde con un sorriso allegro, lasciandosi stringere e facendomi un sacco di versetti festosi, motivo per cui rido. Quando si allontana, riavvia i capelli biondi dietro le orecchie e mi accorgo che li ha tagliati, dall’ultima volta, perciò le faccio i complimenti per la nuova pettinatura e lei arrossisce.
Nicole è molto più di una groupie e molto più di una fan, tant’è che non ci sono nemmeno mai andato a letto. Da quando nel… oddio, non ricordo, un sacco di anni fa, comunque, s’è infilata nel backstage di non mi ricordo che festival – cantavo ancora con Anis, allora – per sommergermi di complimenti riguardo quanto fossi bravo e quanto fosse evidente l’anima che ci mettevo nel cantare, ignorando completamente Anis che ringhiava offeso dietro le mie spalle, c’è sempre stato un bel rapporto fra di noi. Non siamo amici perché non ci frequentiamo, non abbiamo nemmeno i numeri di telefono, per dire, ma lei ha sempre creduto molto in tutto ciò che ho fatto e come cantante le piaccio davvero, quindi quando viene ai concerti stiamo sempre un po’ insieme e chiacchieriamo per delle mezz’ore. È un bel rapporto, per nulla impegnativo. L’unico della mia vita, palesemente.
Restiamo lì a chiacchierare per un po’ del più e del meno, lei mi parla degli uomini che le sono passati per le mani nell’ultimo anno – tutti cretini – ed io evito di parlarle dell’uomo che è passato per le mie – cretino uguale, ma non posso dirlo – quindi la consolo un po’, le offro da bere e, quando il proprietario del locale ci butta fuori per chiudere, ci mettiamo a girovagare per le strade. O meglio, lei girovaga ed io sto bene attento a seguirla, sennò finisce che torno a casa del Chaku, anche perché abbiamo bevuto un po’ e ora sono vagamente brillo, quindi le possibilità di trovarmi all’improvviso di fronte al suo palazzotto diroccato sono più alte di quanto non lo fossero un’ora fa.
Alla fine, fra una risata e l’altra, lei si ferma di fronte ad una bella porta a vetri e si stringe nelle spalle. È magra e bassa e quando lo fa sembra minuscola, ha anche due occhioni castani enormi sul suo viso un po’ segnato dal tempo – lo penso solo distrattamente che è più grande di me, più di Anis, peraltro, non mi interessa davvero.
- Se vuoi… se ti va, - balbetta incerta, - possiamo salire un po’ da me. È tardi.
Realizzo cosa mi sta chiedendo e realizzo anche che dovrei dirle di no. Dovrei fare il cavaliere, sorriderle e dirle che sono stanco ma sarà sicuramente per un’altra volta, anche se un’altra volta sicuramente non ci sarà.
Però, penso, perché cazzo dovrei farlo? Non faccio male a nessuno, salendo da lei. A nessuno importa se io vado a letto con questa donna, è una cosa che riguarda solo noi due. Io le voglio bene, un po’. E a lei interesso. Voglio dire, mi piace anche. Perché dovrei dirle di no? Perché dovrei rifiutarmi?
Penso che Chakuza non rifiuterebbe. Penso che nemmeno Anis rifiuterebbe. Penso a Bill e so che lui sì, direbbe proprio di no, perché lui è uno che se non ti ama non ci viene a letto con te, ma sul momento decido che non mi interessa. Non ho mai detto di essere una persona migliore di Bill e non l’ho nemmeno mai pensato. Quindi fanculo al resto. Fanculo tutto.
L’appartamento di Nicole è buio e non le lascio il tempo di illuminarlo, perché appena passiamo oltre la porta e ce la richiudiamo alle spalle la spingo delicatamente contro il muro e mi chino a baciarla, chiudendo gli occhi. Sa di birra, è esattamente lo stesso sapore che ho io. Un po’ amaro ma piacevole. La sua lingua scivola sulla mia e le mie mani le scivolano addosso, sulle spalle e lungo le braccia. La afferro per la vita e me la tiro contro, lei sussulta e lascia andare un gemito colmo di ansia ed aspettativa quando sente la mia erezione premerle contro il bacino. Io le sorrido sulle labbra e lei solleva le mani sfiorandomi le braccia a partire dai polsi, risalendo su verso il gomito, accarezzandomi i bicipiti e poi appendendosi alle mie spalle, saggiando la consistenza dei muscoli contratti sotto le dita, attraverso la maglia di acrilico.
Io mi scosto appena e sfilo la maglietta, lei mi guarda a lungo mordendosi un labbro e poi si china sul mio petto mordicchiando e leccando come una gattina un po’ a caso e lasciando andare anche dei miagolii da gattina che, assieme ai baci e alla sua lingua e ai suoi denti che scorrono sulla mia pelle, mi fanno sibilare il suo nome, mentre torno a stenderla contro la parete e scendo a morderle e succhiarle il collo, inspirando il profumo lieve e dolce che viene dai suoi capelli.
Le sbottono i jeans e l’aiuto a liberarsene, lei si solleva sulle punte e mi allaccia al collo, respirandomi addosso mentre io le accarezzo i fianchi e poi, lentamente, insinuo una mano fra le sue cosce. Il mugolio che mi scivola sulla pelle quando comincio a strofinare piano un dito contro di lei mi dà la conferma che no, non ho dimenticato come si tocca una donna per farla gemere, e mentre il suo bacino segue i movimenti della mia mano – che scivola più in profondità, dando modo alle mie dita di cercare e trovare il calore umido del suo corpo – io la afferro da dietro un ginocchio con la mano libera e la aiuto a divaricare le gambe. Lei non oppone resistenza e si appoggia senza fiato contro la parete, chiudendo gli occhi e respirando attraverso le labbra dischiuse e un po’ umide.
Torno a baciarla slacciandomi i jeans e lasciandoli scivolare verso il basso il minimo indispensabile, e lei mi morde un labbro, quando io la afferro per la vita e la tiro su. Mi stringe le gambe attorno ai fianchi, muovendosi contro di me; la sento bagnatissima contro la pelle accaldata e ringhio. Lei rabbrividisce, la sento tremare e scuotersi tutta sotto i polpastrelli, e visto che questa casa non la conosco e non so dove andare torno a spingerla verso la parete. Lei non riesce a parlare, a stento respira, ed io la stringo alla vita con un braccio, tenendola sollevata da terra mentre cerco il portafogli nella tasca posteriore dei jeans. Infilo le dita in una taschina, riemergo col preservativo, lo scarto e lo indosso. È tutto molto meccanico e non riesce a smettere di esserlo neanche quando mi spingo dentro di lei, neanche quando lei esala il mio nome fra gli ansiti – mi sembra una vita che non sento pronunciare il mio nome così da una voce di donna – e si inarca sotto le mie mani che le accarezzano la schiena. Il suo bacino si muove ritmicamente seguendo le mie spinte lente e misurate, lei si regge con forza su di me, piantandomi le unghie nelle spalle, e io ringhio, un po’ perché fa male, un po’ perché mi piace, ma quando mi svuoto contro il preservativo – solo qualche attimo dopo averla sentita lanciare un urletto e stringersi convulsamente attorno al mio cazzo – lo capisco anche senza rifletterci su, che sono venuto per sfregamento meccanico. Questo non è fare l’amore, non è neanche sesso.
Non so cos’è e a questo punto non mi interessa nemmeno scoprirlo, comunque. Aspetto che Nicole riprenda fiato, la aiuto a rimettersi coi piedi per terra e poi la sostengo delicatamente, mentre recupera la forza nelle gambe – è così piccola e magra che ho paura di spezzarla, se la stringo troppo forte. Lei mi si stringe contro e si appoggia al mio petto, intrecciando le dita delle mani con le mie. Non so perché la lascio fare, non dovrei essere tenero, adesso. Però sono stanco, non ho voglia di scostarla. Il suo corpo è caldo e sa del mio odore mischiato al suo. Il suo corpo al momento è l’unico posto al mondo in cui non sono solo, perciò me lo tengo stretto contro e mi lascio accompagnare verso la sua camera da letto.
Il letto di Nicole non sa di niente, però. Cioè, sa di pulito, sa di cotone, sa di detersivo, sa un po’ anche del suo profumo, ma se mi cerco non mi trovo e presto smetterò di trovarmi anche addosso a lei. La stringo il più possibile finché ci sono ancora, chiudo gli occhi e la accarezzo, cullandola un po’ mentre si addormenta stesa contro di me, e mi immagino altrove, in un altro letto, stretto fra altre braccia, con un corpo dalla consistenza completamente diversa schiacciato contro il mio, e penso che il mio odore in casa di Chakuza c’è. È sulla mia poltrona ed è nel suo letto, nonostante tutto, ed è nell’aria e soprattutto ce l’ha addosso lui, e non scompare. È la traccia che ci annusiamo addosso ogni volta che siamo vicini, è il motivo per cui dovrei smettere di vederlo, è il motivo per cui non riesco a smettere di vederlo, ed ora che il profumo di Nicole sta abbandonando anche la mia pelle ecco che l’odore di Chakuza riaffiora ed a me viene voglia di ficcarmi sotto una doccia e strofinare così forte da farmi male, per cercare di cacciarlo via, anche se so che non ci riuscirei.
Mi manca. Mi manca come non mi è mai mancato niente in tutta la mia vita, mi manca anche più di quanto non mi sia mancato Anis e non so dire se sia perché per un periodo di tempo ho creduto in noi – in me e in Chakuza, intendo – o se sia perché semplicemente mi sono preso una sbandata come non ne ho mai viste. Di quelle che ti fanno riconsiderare tutte le sbandate passate, perché quando lo senti così forte, il cuore che batte nel petto, e non hai nemmeno bisogno di vederla quella determinata persona, perché il tuo corpo reagisca, allora capisci che sei perso e che prima avevi solo giocato, o frainteso, e che comunque di amore fino a quel momento non ci avevi capito un cazzo.
Mi sono completamente fottuto il cervello. Chakuza, mi hai fottuto il cervello e non te ne frega niente.
Scivolo fuori dal letto di Nicole e lei spalanca subito quegli occhioni castani nel buio e mi guarda dispiaciuta, mordendosi un labbro.
- Ho sbagliato qualcosa? – chiede a mezza voce, ed io sorrido teneramente, tornando a sedermi accanto a lei sul materasso e riavviandole i capelli dietro un orecchio.
- Assolutamente no. È stato bellissimo. Ma devo tornare a casa, domani ho da lavorare e aspetto gente. – mai dette così tante bugie tutte assieme. Fosse qui, Anis mi prenderebbe a cazzotti fino a farmela passare del tutto, la voglia di mentire.
Lei annuisce ma insiste per darmi il suo numero. Lo scrive su un pezzetto di carta con una biro che funziona male e me lo consegna imbarazzata, abbassando lo sguardo. Io sospiro, sorrido ancora e la bacio sulla fronte, rimettendomi in piedi e risistemandomi i vestiti addosso prima di conservare il bigliettino. Non so cosa me ne farò, sinceramente.
Saranno più o meno le quattro e mezza, massimo le cinque del mattino, quando esco di nuovo in strada. Il sole non è ancora sorto, naturalmente, io non ho la minima intenzione di tornare a casa mia perché non intendo vedere Anis adesso, e quindi ripercorro a ritroso la strada che mi ha portato fino a qui. E me ne torno a casa di Chakuza.
Quando apro con le chiavi, per un secondo mi guardo intorno e resto basito. Non tanto perché l’appartamento è ancora deserto e non sono abituato ad entrare qui in situazioni simili, quanto piuttosto perché l’appartamento è pulitissimo e non ricordo di averlo pulito io. Vedere l’appartamento di Chakuza pulito è un miracolo paragonabile ad un’apparizione della Madonna, tipo, quindi resto un po’ sconvolto sulla soglia prima di ricordare cos’è successo e mettermi il cuore in pace.
La notte non si rassegna a finire ed io comincio ad essere davvero stanco di lei. La poltrona è scomodissima. Mi ci raggomitolo sopra con tutta la coperta, ma non riesco a prendere sonno e continuo a rigirarmi alla ricerca di una posizione comoda. Non la trovo, e quando mi decido ad alzarmi mi fanno male tutte le giunture.
- Catorcio… - mi dico, e la mia voce risuona all’interno dell’appartamento. Non c’è eco, fortunatamente, e per questo devo ringraziare le dimensioni ridicole di questo posto.
Mi sgranchisco un po’, mi guardo intorno e alla fine mando a fanculo il buonsenso e mi infilo in camera di Chakuza. Non l’ho sistemata io, ma la camera da letto del Chaku è sempre sistemata per principio, perciò non devo fare altro che scalciare via le scarpe e infilarmi sotto le coperte.
- Ciao… - mormoro inspirando a fondo l’odore di Peter dalle lenzuola. Non sono davvero tanto ubriaco da giustificare un comportamento simile. Non sono neanche tanto ubriaco da giustificare il fatto che sto un po’ piangendo, in questo momento, anche se non è niente di teatrale. Però faccio finta di esserlo per concedermi una scusante e perché, cazzo, ne ho bisogno.
Aspetto di essermi calmato, prima di recuperare il cellulare e il bigliettino, sedermi sul letto e, con le lenzuola tirate su fino al naso, chiamare Nicole. Lo faccio perché mi dispiace che sia sola adesso. Lo faccio perché non mi sono comportato bene. Lo faccio perché ho bisogno di sentire una cazzo di voce umana cui in questo momento importi della mia presenza, perché mi sembra di girare a vuoto, porca puttana, e non so come fermarmi, non so dove fermarmi, non so nemmeno se voglio davvero. Vorrei che Chakuza fosse qui, adesso. Chaku, non ti manderei via, se provassi a baciarmi ora. Però tu non ci sei, c’è solo il tuo odore e devo accontentarmi.
Nicole mi risponde anche se l’ho palesemente svegliata. La sua voce è un mugolio stanco e assonnato. È gentile e non mi manda a fanculo, anzi, ride e mi dice che non si aspettava che l’avrei chiamata sul serio. Io sbuffo una mezza risata ed ammetto sinceramente che non me l’aspettavo neanche io. Lei mi dà dello stronzo ed io la trovo una cosa carina, perciò le chiedo di vederci domani per un caffè, dopo pranzo. Decidiamo di vederci fuori dagli studi dell’Aggro e, quando chiudo la telefonata, non ho idea di dove andrò a finire continuando su questa strada. Nicole, comunque, è carina. E almeno lei c’è.
Il sole comincia appena a spuntare dietro i palazzi, quando finalmente mi addormento. Chakuza non è rientrato. Comincio a chiedermi se lo farà mai.
*
Non ho idea di quante ore siano passate, quando mi sveglio. Sento qualcuno trafficare da qualche parte nella stanza e, per quanto ne so, potrei anche essere regredito ai dodici anni, perché questi sono i rumori che faceva mia madre quando entrava in camera mia di mattina presto per raccogliere i vestiti sporchi da ficcare in lavatrice. Sento il fruscio del cotone e mugolo un “mamma…?” un po’ confuso, ma sono ancora talmente assonnato che non riesco ad aprire gli occhi.
Però Chakuza ride, ed allora li spalanco.
- Ben svegliato. – mi prende in giro. È fresco di doccia e sta rovistando in un cassetto alla ricerca di una maglietta da indossare. Il fatto che sia seminudo non mi aiuta in niente, mi sento in imbarazzo, vorrei sparire e mi rendo conto di aver dormito a casa sua. Cioè, lo so che ho dormito a casa sua, ma mi rendo conto solo adesso di quanto sia assurdo il fatto in sé.
- Sei tornato adesso…? – chiedo, la voce ancora impastata dal sonno, e lui ride ancora.
- Veramente da un paio d’ore. – risponde, individuando finalmente la maglietta che cercava e indossandola, - Ma dormivi così bene che non mi è sembrato il caso di svegliarti. Ti hanno sfrattato da casa tua? – io rispondo con un mugolio frustrato, rigirandomi fra le coperte e stiracchiandomi piano, mentre lui ride ancora. – Piuttosto, - riprende poi, sistemandosi per bene davanti allo specchio, - si può sapere perché cazzo mi hai ripulito casa? – chiede con aria divertita, - Mi è preso un colpo, quando sono entrato!
Scrollo le spalle, mettendomi seduto. Non mi va di scendere dal letto.
- Non lo so. – borbotto, - Era il solito bordello, ho sistemato qualcosa e mi sono fatto prendere la mano.
- L’ho visto! – ride ancora, - Aspetta un secondo. – aggiunge poi, quindi scompare oltre la porta e lo sento armeggiare di là. Quando torna, porta fra le mani un vassoio pieno di roba, ed io spalanco gli occhi.
- Che cazzo è, Chakuza? – chiedo, sconvolto. Lui ride ancora, posa il vassoio sulle mie ginocchia e poi si siede accanto a me.
- La colazione. – risponde, - Non sapevo che avevi dormito qui, altrimenti mi sarei fermato a comprare qualcosa fuori… comunque ti ho fatto il caffellatte ed ho riesumato delle merendine… - indica della roba ammaccaticcia chiusa in degli involucri di plastica, con un gesto distratto, - Erano nella credenza da un po’ ma dovrebbero essere ancora commestibili.
- …Chakuza, - lo fermo, pinzandomi la radice del naso, - perché mi hai portato la colazione a letto?
- Be’, - comincia lui, - ho fatto la doccia, tu continuavi a dormire, non avevo niente da fare e-
- Chakuza! – lo richiamo, alzando lievemente la voce. Lui deglutisce, prende una merendina, la scarta e ne manda giù un pezzetto, prima di sospirare e rispondermi.
- È andata… bene, con Bill. – dice senza guardarmi negli occhi, - Perciò credo di doverti ringraziare.
Prendo una tazza piena di caffellatte dolcissimo fra le mani, e ne bevo un po’.
- Non ringraziare. – dico tetro.
- …ma è merito tuo se-
- Lo so. – taglio corto, - Non ringraziare.
Chakuza sospira e mangia un altro pezzo di merendina. Poi lo sento spostarsi più vicino e mi passa un braccio attorno alle spalle. Così, dal nulla. Io vado nel panico più totale. Vado così nel panico che non riesco nemmeno a muovermi, divento una statua di sale e fisso il vuoto mentre lui mi stringe a sé, rischiando peraltro di ribaltare il vassoio.
- Ti va di parlarne? – mi chiede a bassa voce, sussurrandomelo contro una tempia.
- No, cazzo. – mi lamento sconvolto, - Lasciami.
- Piantala. Ti va di mandarmi a fanculo?
Sospiro.
- …sì.
Lui annuisce lentamente.
- E allora fallo.
- Fanculo, Chaku.
Restiamo in silenzio per un po’.
- Ti senti meglio? – mi chiede poi.
Io scuoto il capo.
- Per nulla. – rispondo.
Chakuza ride piano contro la mia pelle e mi stringe ancora un po’.
- Dovevi dirlo con più convinzione.
- Non mi andava e oh- insomma, Chakuza, mi lasci andare? – mi lamento, ma non mi scosto davvero, perciò Chakuza ride ancora e in effetti non mi lascia andare neanche un po’. Resta lì e il suo profumo lo respiro direttamente addosso a lui, che dopo una notte passata a cercarmelo addosso e fra le coperte è una bella cosa, intendo, avere finalmente l’originale a portata di mano.
- Va meglio adesso? – chiede alla fine, quando mi sente sospirare profondamente. Io mi rimetto dritto e solo allora lui mi lascia andare.
- Un po’. – ammetto controvoglia. Che ci posso fare, è vero. – Io non lo capirò mai cosa vuoi da me, Chakuza. – brontolo incrociando le gambe sul materasso ed incurvando un po’ le spalle. Mi sento quasi stanco.
Chakuza sospira a propria volta e mi sfiora appena un braccio col suo.
- Da te voglio te. – risponde in un soffio, - Non saprei metterla in un altro modo. Cerca di capirmi e basta.
- …insomma. – borbotto, mangiando pure io una merendina, - Non è che sia proprio facile starti dietro, Chakuza.
Lui ride piano.
- Lo so. – risponde.
Io sospiro e mi tolgo il vassoio di dosso. Lui non mi ferma quando mi rimetto in piedi, sistemo alla buona i vestiti stropicciati ed indosso le scarpe. Si limita a guardarmi con un’espressione a metà fra la tenerezza e la beatitudine e la sua felicità è così evidente che mi viene voglia di prenderlo a cazzotti, ma lascio perdere.
- Ci si sente, eh? – lo saluto con un cenno del capo. Lui risponde con un cenno uguale e mi fa un po’ strano, quando esco dal suo appartamento, non sentire i rumori tipici di lui che devasta casa perché me ne sono andato. Dovrò farci l’abitudine.
Quando arrivo a casa mia è quasi mezzogiorno. Apro e spero quasi di non trovarcelo Anis, qua dentro, perché sono veramente molto stanco e voglio farmi una doccia, sistemarmi, vestirmi, andare un’oretta agli studi e poi prendere il mio dannato caffè con Nicole.
Invece niente, ovviamente lui è ancora sul divano e ancora dorme. Durante la notte si è rigirato in ogni modo, i pantaloni della tuta gli sono risaliti su fino alle ginocchia ed ha una gamba ancorata allo schienale del divano. Un braccio pende giù verso il pavimento e l’altro è abbandonato dietro la testa, sul bracciolo. Respira con la bocca semidischiusa, la maglietta gli lascia scoperta la pancia ed i capelli gli sono finiti tutti sulla faccia, mentre la coperta si è arrotolata come un serpente tutta attorno al suo corpo. È talmente ridicolo che non posso proprio fare a meno di ridere, e quando lo faccio, anche se cerco di fare piano, lui si riscuote ed apre gli occhi.
Mentre si tira su a sedere con l’aria di uno che non capisce molto bene dove si trovi e perché, penso distrattamente che lui e Bill devono essere uno spettacolo, quando dormono insieme. Uno sbava e scalcia, l’altro si agita neanche fosse posseduto…
Realizzo in un secondo, mentre lo saluto con un cenno della mano e vado verso la cucina per preparare un caffè, che io ho dormito palesemente con troppi uomini, nel corso della mia esistenza. È impensabile che adesso io sia in questa situazione e conosca a memoria il modo in cui dormono tutti, Anis, Bill, Chakuza. È una cosa veramente assurda. Io sono un essere umano veramente assurdo.
Anis appare sulla soglia della cucina mentre io infilo la cialda nella macchinetta del caffè e decido di cambiare anche l’acqua nel recipiente, anche perché chissà da quanto è qui a ristagnare. Mi meraviglio di non trovarci dentro le rane.
- Che fai? – mi chiede grattandosi la pancia. Una gamba dei pantaloni è tornata al suo posto, l’altra è ancora tutta arricciata attorno al suo ginocchio. E poi, senza soluzione di continuità, aggiunge – Ma hai scopato?
Io lo guardo, e sono anche vagamente oltraggiato, lo ammetto.
- Ma che cazzo…? – chiedo, pigiando il bottone. La cucina si riempie dei rumori forti e vibranti della macchinetta, e Bushido scrolla le spalle.
- Ce l’hai tipo scritto in faccia. – mi fa notare, indicandomi il viso, - E comunque sei vestito come ieri. Che stronzo, io qui a deprimermi e tu in giro a scopare. Non ho parole.
- Tu non ti sei depresso, - gli faccio notare, piazzando due tazzine al loro posto sotto gli erogatori, - tu hai dormito. Sul mio divano. Non hai il diritto di contestare se scopo.
- E chi contesta! – ride lui, divertitissimo, - Chi è? La conosco?
Io scrollo le spalle, mugugnando risentito mentre spengo la macchinetta e gli porgo la sua tazzina piena. Con Bushido, il caffè si beve amaro.
- Nicole. – rispondo in un borbottio appena comprensibile. Anis spalanca gli occhi e schiude pure le labbra.
- …quella! – dice, tornando a puntarmi col dito, - Finalmente! Cristo, Pat, sono anni che ti viene dietro!
Io agito una mano e mando giù il caffè.
- Piantala di farti i cazzi miei. – lo minaccio con un’occhiata glaciale, - E tu non sembri per niente un uomo che abbia appena perso il grande amore della sua vita, comunque.
Anis si appoggia contro lo stipite e guarda un punto oltre la mia spalla, un punto che non significa niente e dove non c’è niente. Sorride ancora, ma è un sorriso così spento che mi mando a fanculo da solo e mi viene voglia di mangiarmi la lingua.
- No, eh? – chiede a mezza voce, sorseggiando il proprio caffè.
- …Anis- - provo a chiamarlo, ma lui mi ferma.
- Posso farmi una doccia? – chiede, posando la tazzina sul ripiano della cucina e stiracchiandosi un po’, - E mi presti qualcosa di tuo?
Io deglutisco, penso a Chakuza per un istante e poi lo sbatto fuori a calci dalla mia memoria. Mi concentro su Anis.
- Ti prendo un asciugamani.
Lui annuisce e sorride ancora. Quando scompare lungo il corridoio, aprendo porte a caso alla ricerca del bagno e chiedendomi se le uso tutte, queste fottute stanze, rido un po’. Magari stasera lo invito a cena.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Commedia, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Chakuza, Fler/Chakuza.
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Le Canarie sono un bel posto, sono piene di gente ma sono a misura d’uomo."
Note: Prima che me lo scordi: c’è un collegamento bellissimo (sì, me lo dico da sola) e difficilissimo da trovare fra questa shot ed una delle shot conclusive di EKR XD Un applauso a chi lo becca e magari anche un regalino di più =P Provateci *_* Sia mai vi do l’opportunità di scrivervi qualcosa su richiesta XD
Comunque, a parte le cavolate ç_ç” Sì, lo so. Vi comprenderò, se comincerete ad odiare furiosamente Fler, da qui in avanti, perché è palese che quest’uomo è un danno e si tira addosso dolore con le proprie stesse mani ç_ç Se non lo amassi follemente, io stessa a questo punto lo odierei, credo. Quindi non sentitevi in colpa se volete dargli del coglione, nei commenti XD
Però quello che fa per Bill è un sacco carino, ecco. *spuccia i due amiconi in vacanza*
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GIRLS JUST WANNA HAVE FUN

Io e Bill siamo alle Canarie. Non è la prima volta, perché la prima vacanza che ci siamo concessi insieme – solo io e lui, gliel’avevo promesso mentre inseguivamo Saad nel gelo di una notte che al momento non mi va di ricordare, e io le mantengo sempre, le mie promesse – l’abbiamo organizzata qui di proposito. Le Canarie sono un bel posto, sono piene di gente ma sono a misura d’uomo. Nel senso che è tutto molto carino e compatto, non ti ci perdi. Il che è fondamentale, quando devi andare dietro ad uno come Bill, che in pratica non fa che inseguire farfalle – sotto forma di borse Prada e pantaloni D&G.
Comunque sia, la prima volta che siamo venuti qui è stata proprio la prima volta in assoluto che ci siamo mossi da soli – e per quanto riguarda me era pure la prima volta che mettevo piede su un dannato aereo, la qual cosa mi ha fatto del male fisico che ho superato solo in virtù del fatto che non potevo lasciare Bill lì al check-in e tornarmene a casa correndo, urlando ed agitando le braccia sulla testa. Non sarebbe stato per niente qualcosa di cui andare orgoglioso e Chakuza mi avrebbe preso per il culo a parole – mentre cercava di prendermi per il culo anche in altri sensi – finché fossi rimasto in vita. La cosa non era proponibile.
Insomma, le Canarie – non so se ce le avete presenti – comunque sono questo arcipelago di isole paradisiache, ed è meraviglioso, perché uno non se la aspetta una roba simile in Europa. Cioè, quando uno immagina isole di questo tipo pensa automaticamente di dovere andare per forza oltreoceano. E invece niente, a due passi – più o meno – da casa, tu arrivi e c’hai tutto. Il mare e le spiagge e le lunghe vie affollate piene di palme e turisti in shorts che fanno tanto L.A. E sei sempre in Spagna, eh, non sei nemmeno uscito dall’Unione Europea. Secondo me è una cosa stupenda.
Comunque sia, la prima volta che siamo partiti eravamo entrambi un po’ scossi. Cioè, Bill lo era. O meglio, non lo era, la qual cosa era anche più preoccupante. E io ero circondato da gente che non riusciva a venirne a capo, nel senso che Jost non riusciva a capire come farlo tornare un essere umano normale che si preoccupasse di avere ucciso un uomo, e Tom era del tutto fuori di testa. A me, sinceramente, ha fatto paura, Tom, quando sono passato a prendere Bill per portarlo al Cafè Zapata ed offrirgli un gelato. Cioè, mi ha ringhiato contro e mi ha strillato “no che non te lo lascio portare fuori!”. A me. Tom mi venera, tipo.
E poi c’era il Chaku, naturalmente.
Gesù, un uomo incapace di comprendere cos’ha nella testa. Sempre, questo, ma in quel momento in maniera particolare. Perciò niente, nessuno poteva aspettarsi delle soluzioni da loro, perciò io ho arbitrariamente deciso che avrei risolto la situazione, ho preso Bill e l’ho portato in vacanza.
Il primo viaggio, quindi, l’ho pianificato io. Bill non ha fatto resistenza, quando l’ho invitato a partire, però non ha nemmeno mostrato chissà che entusiasmo, ecco, quindi mi sono dato da fare per portarlo in un posto carino e sono andato da un amico giù nel ghetto a chiedergli “ma tu un bambino dove lo porteresti, tipo, per farlo riprendere da un trauma di quelli belli grossi?”. E quello prende e mi trascina a casa sua, dove tira fuori chili di depliant pieni di roba su queste isole fantasmagoriche a due passi da casa, che sono cose che ti turbano, anche, non te l’immagini che uno spacciatore possa prendere a brillare come un bambino mentre ti illustra le meraviglie di un delfinario, perdio.
Così l’ho portato a Tenerife, che praticamente è un’isola per famiglie. Nel senso, c’è il parco acquatico e c’è, appunto, il delfinario e ci sono un sacco di posticini carini in cui portare i ragazzini, perciò niente, non ho fatto per nulla fatica, perché poi a Bill piace stare in mezzo alla gente, non è mica felice quando lo rinchiudi in una casa, quale che sia il motivo. Siccome vive con un bisogno costante di adorazione, ha sempre questa necessità spasmodica di trovarsi in mezzo a gente che possa venerarlo come si deve. Quindi, in sostanza, o è in famiglia e tutti lo venerano per partito preso – perché come fai a non volergli bene, al ragazzino? Andiamo, non puoi – oppure va per negozi a farsi venerare per un qualche motivo valido da commessi e commesse.
Insomma, la nostra prima vacanza, proprio perché l’ho progettata io, è andata alla grande. Ho portato Bill in un sacco di posti carini, l’ho portato anche al delfinario e l’ho osservato riacquistare poco a poco tutte le sue espressioni. Una cosa un sacco carina, peraltro, perché poi i sorrisi di Bill quando si aprono sono come quelli dei bimbi, grandi e improvvisi, e tu resti lì a fissarlo e ti chiedi come sia possibile che un ragazzo sia così tremendamente bellino. Suppongo che Bill ignori un sacco di regole, compresa quella per cui un ragazzo non può essere carino.
Quindi, la prima volta è andato tutto a meraviglia. Poi Bill s’è preso bene – anche troppo – ed ha deciso in primo luogo che le nostre vacanze andavano ripetute; in secondo luogo, che della progettazione delle altre si sarebbe occupato lui. Io avevo, in effetti, una mezza idea di dirgli “no, guarda, grazie mille ma ho altro da fare, nella mia vita”, ma insomma, il ragazzino, mente stavamo lì a guardare i delfini, mi si è sciolto in lacrime per la prima volta da quando eravamo partiti, e... e poi, insomma, non è che avessi molto da rimpiangere, io, lì a Berlino. Non è che abbia molto da rimpiangere anche adesso, d’altronde.
Per dire, al momento la situazione a Berlino è: ho un Chaku che, per ovvi motivi, s’è completamente dimenticato della mia esistenza – non ce l’ho con lui, lo capisco, l’ho mandato da Bill un paio di mesi fa e sono in pieno delirio romantico, al momento, non c’è spazio per me… il Chaku nemmeno lo cerca, lo spazio per me, d’accordo, ma lui è così, non ci si può fare niente, gli si vuole bene per il disastro che è o non gli si vuole bene affatto. Quindi, il risultato di tutto questo è che io un Chaku non ce l’ho per niente. E Sido non s’è ancora deciso a partire con il tour, per inciso, perciò se stessi a Berlino dovrei praticamente stare tutto il giorno in casa – solo – sperando di non vedermi spuntare all’improvviso Tom in aria di fanatismo. Non esattamente un paradiso.
Comunque, anche stare lì solo in casa tutto il giorno sarebbe rilassante e piacevole, al confronto con ciò che sto vivendo in questo preciso momento della mia esistenza. E se sapete almeno un po’ di quanto odi stare in casa da solo, immaginerete facilmente cosa voglia dire questa frase pronunciata da me medesimo.
Sto vivendo una tortura.
- Ommioddio!!! Pat!!! Guarda lì!!! Oddio, le voglio… oddio, le voglio tutte!
Bill sta gemendo in maniera surreale, qui accanto a me. Ed il fatto che stia gemendo così per delle caramelle già basterebbe ad inquietarmi. Il problema è che ho qualcosa di anche peggiore, intorno a me, al momento. Ed è questo quello che mi preoccupa di più.
Siamo sulla Gran Canaria, terza isola dell’arcipelago in ordine di grandezza. Per la precisione, in questo momento siamo sulla Playa dal Inglés.
Non ho idea del punto fino al quale si spinga la vostra conoscenza delle Canarie: io, comunque, le conosco abbastanza per sapere che ci troviamo in uno dei più importanti centri turistici omosessuali dell’intera comunità europea.
Sapevo che non avrei dovuto lasciare a Bill la possibilità di organizzare il viaggio senza consultarmi prima.
Lo vedo che si fionda letteralmente all’interno del negozio di dolciumi e lo afferro per l’orlo della maglietta, trascinandomelo dietro mentre avanzo per la strada, portando entrambe le nostre valigie – il suo trolley per il manico, il mio borsone a tracolla – e guardandomi intorno alla ricerca del nostro albergo, mentre cerco di tenere il depliant con l’immagine dell’hotel in equilibrio sulla testa, così da potere lanciare qualche occhiata all’immagine ed alla strada, alla ricerca del posto giusto.
- Non se ne parla, ragazzino. – lo rimprovero, mentre lui miagola e mugola e cerca in tutti i modi di farmi sentire in colpa per averlo trascinato lontano dall’amore della sua vita, - Prima ci sistemiamo in camera, poi se ne parla.
- Ma io-
- Ma tu niente. – insisto trascinandolo verso l’entrata dell’albergo. – E ora comportati bene, su. Non facciamoci rimproverare subito.
Lui si lascia andare ad una mezza risatina maliziosa e divertita e poi mette su la maschera della signorina di buona famiglia, le braccia strette lungo i fianchi e le mani intrecciate in grembo. Roteo gli occhi e lo lascio fare, pensando che il ragazzino certo si diverte in modi stranissimi.
Il consierge ci accoglie con estrema sollecitudine. Bill, oltre gli occhiali enormi e scurissimi, le labbra che brillano del riflesso dei raggi del sole contro il lipgloss, sembra una ragazzina, più che un ragazzino.
- I signori hanno prenotato?
Bill fa un sorriso piccolissimo e si stringe appena nelle spalle, in un’imitazione di timidezza che da sola mi fa venire voglia di sbottare “oh, andiamo!”. E invece niente, mi limito a tirare l’ennesimo sospiro stremato della mia giornata e poggio per terra tutta la roba che mi trascino dietro da ore, allungandomi sul banco della reception in cerca di un po’ di refrigerio dalla calura assurda che attanaglia questa città. Il legno, almeno, è fresco.
- Una matrimoniale a nome Losensky.
Bill lascia andare la risatina di rito, coprendosi le labbra con una mano. Il consierge inarca entrambe le sopracciglia ed io gli lancio uno sguardo tra l’esausto ed il pietoso, come a dirgli “vede con cosa devo avere a che fare ogni giorno?”. Però niente, lui non sembra interessato al modo in cui devo espiare ciò che secondo lui è così palese – cioè che io questa ragazzina me la porti a letto. Nella sua testa c’è sicuramente qualcosa di molto simile ad uno scocciato “sì, ma che cazzo vuoi? Te le cerchi adolescenti? Problemi tuoi”. Solo che io non me le cerco per niente adolescenti, Bill non è veramente una ragazzina e io, comunque, vivaddio non me lo scopo. Quindi un po’ di comprensione me la merito e quest’uomo è ingiusto nel non darmela.
Un facchino che sarà anche più piccolo di Bill recupera il nostro bagaglio e ci precede verso l’ascensore. Noi lo seguiamo qualche passo più indietro.
- Dico, era necessario? – ringhio, afferrando Bill per un gomito e tirandomelo vicino.
Lui ride ancora e non risponde, ma quel trillo argentino mi basta a capire che sì, era proprio necessario, perciò sospiro e lo lascio andare, dandogli modo di prendermi sottobraccio spalmandomisi addosso neanche fossimo fidanzati da anni.
Non so perché Dio – se esiste davvero – mi abbia circondato solo di piaghe sociali, al posto di darmi degli uomini normali. Devo aver fatto qualcosa di orribile in un’altra vita, ma proprio pesante. Magari ero tipo Giuda, perciò reincarnandomi… ma mi sa che sto facendo confusione fra le religioni.
Il motivo per cui Bill si sta comportando in questo modo disdicevole e disturbante, è che questo ragazzino, fondamentalmente, è un animale da palcoscenico. Soffre, quando non può esibirsi. E non sto parlando di esibizione di tipo canonico, quella in cui sali sul palco e fai ciò che sai fare meglio. No, Bill si esibisce nel senso che esibisce se stesso. Per questo soffre tanto, a Berlino: non può mostrarsi. Qui, invece, può godere dell’anonimato del mio nome – non sono esattamente uno che attiri la presenza dei paparazzi, io, ed anche a prenotare come Losensky tendenzialmente non ho nulla di cui preoccuparmi – e del fatto che nessuno si aspetti di vederlo qui in giro con uno sconosciuto. Così, mentre sui giornali lo accoppiano con Jimi Blue, lui passa una settimana a fingere di essere la fidanzata di questo sconosciuto me stesso in terra straniera, per poi tornare a Berlino più tranquillo. E tornare anche ad essere la fidanzata del suo legittimo proprietario.
Dopo esserci sistemati, lavati e cambiati, scendiamo giù e Bill decide che lo shopping può aspettare: vuole un cocktail e lo vuole a bordo vasca, nell’immenso giardino che ospita la piscina dell’albergo. Io lo squadro dal basso verso l’alto. In effetti, tra le infradito, la quantità oscena di ciarpame metallico che s’è gettato addosso apparentemente alla rinfusa e l’enorme cappello di paglia bianco che gli copre la testa e metà del viso, penso che gli manchi solo un ampio vestito scollato, morbido e con una stampa floreale, per essere indicato come una perfetta signora dell’alta borghesia che si concede un breve aperitivo in piscina.
- Ti sei almeno reso conto di essere ridicolo? – chiedo con una certa curiosità, spostandogli la sedia perché possa sedersi e prendendo poi posto di fronte a lui.
Lui fa un mezzo broncino deluso.
- Ma come… - biascica, - E io che mi sono messo tutto in ghingheri per te…
- Bill!
Lui ride ancora, gettando un po’ indietro il capo, ed io sospiro pesantemente.
- Avanti… - pigola, piegandosi tutto in avanti fino a guardarmi dal basso come una lolitina innocente, - fammi divertire un po’. Sei sempre così serio…
- Io non sono serio. – borbotto, - Mi limito ad avere un cervello.
Il cameriere ci si avvicina, sorridendo amabilmente. Bill fa per afferrare il menu e sbizzarrirsi con le richieste, ma lo fermo piantando una mano fra lui e il libriccino, schiacciandolo sul tavolo.
- Un succo alla pesca. – dico, rivolgendomi direttamente al cameriere per evitare l’occhiata da cucciolo oltraggiato che Bill mi rivolge, - E per me un caffè.
Il cameriere annuisce compitamente e scompare verso il piano bar – un bel bancone bianco sormontato da un sacco di ombrelloni colorati, dietro al quale svariate ragazze si dividono i gravosi compiti dell’agitare gli shaker per preparare i cocktail e dell’agitare i sederi per attirare i clienti. Cerco di salvare in memoria i tratti dei loro visi senza lasciarmi – troppo – distrarre dai suddetti sederi, per poi tornare a fare un giro da queste parti quando verso le dieci di sera Bill, stremato, sarà crollato fra i cuscini in camera, e poi torno a guardare la principessina oltraggiata. La quale mi sta a propria volta fissando come fossi una specie di barbaro che l’ha rapita e la sta trattando con ingiustificabile rozzezza.
- Be’? – chiedo con un sorrisetto divertito, - Che ti prende adesso? Non ti diverti più?
Bill aggrotta le sopracciglia ed incrocia le braccia sul petto, accavallando teatralmente le gambe.
- Tutti uguali, voi rapper. – borbotta a bassa voce, sciogliendo l’intreccio delle braccia solo per sistemare il cappello di paglia di modo che possa schermare la sua pelle – che deve restare bianchissima; Bill, quando prende il sole, diventa dello stesso colore di Anis. Dal momento che fuggiamo dalla Germania di nascosto come ladri, non posso riportarlo a casa troppo colorato, pena morte istantanea per mano di Jost, che sarà pure piccolo e carino ma sa farsi temere. – Anche Chakuza, quando vede Eleonor, non vede più niente.
Mi fermo e faccio mente locale, perché qui c’è qualcosa che non mi torna.
- Eleonor? – chiedo quindi, inarcando un sopracciglio, - Ma non si chiamava Ingrid?
Ingrid è la groupie inesistente che Bill ha affibbiato al Chaku. Quando il Chaku ha da fare perché, tipo, vivaddio Stickle l’ha incatenato al mixer e lo sta costringendo a tirare fuori qualcosa che non sia un delirio erotico-romantico dalla sua testaccia bacata, Bill, per farlo sentire in colpa per finta, comincia a tirare fuori la storia di questa Ingrid che dovrebbe essere – a quanto ho capito quell’unica volta che il Chaku, mentre gli pulivo casa, mi ha fatto una testa così lamentandosene – questa signorina bellissima e perdutamente innamorata del Chaku col quale il Chaku, appunto, va a letto, tradendo ripetutamente Bill. Ovviamente nulla di tutto ciò è mai avvenuto – suppongo che me ne sarei accorto – ma Bill la tira fuori di tanto in tanto, e ne parla proprio come fosse una persona vera, la descrive, le ha dato un carattere e tutto, quindi ormai la conosciamo come se fosse reale sul serio. L’ho detto, io, che il ragazzino si diverte in modi stranissimi.
- Dettagli. – sbuffa Bill, tirandosi un po’ indietro quando il cameriere arriva a portare la roba che abbiamo ordinato, e cominciando a sorseggiare il succo.
- Be’, - annuisco io, zuccherando il caffè – che è una cosa che ho preso per abitudine dormendo a casa del Chaku… lo prendevo amaro, prima, ma lui ha questo vizio di zuccherarlo a chili di default, quindi quando mi portava la tazzina o mandavo giù o gliela tiravo in testa. Quando ho capito, alla terza volta, che anche tirandogliela in testa all’infinito avrebbe continuato a zuccherarla, mi sono rassegnato. Questo, immagino, dice molto del Chaku e anche di me. Comunque, mando giù un sorso di caffè e continuo. – d’altronde, essendo una donna inesistente, può cambiare nome quando vuole, immagino.
Bill mugugna qualcosa di assolutamente incomprensibile e poi si stende contro lo schienale della sedia, occhi socchiusi e capelli che si agitano appena nel venticello del pomeriggio. Il sole è ancora altissimo nel cielo e non sembra che siano le cinque passate. Questo posto è meraviglioso, anche se siamo palesemente in una specie di riserva naturale gay, realizzo mentre lascio scorrere lo sguardo tutto intorno a noi e vedo solo uomini dai fisici perfetti ed anche perfettamente oliati. Per un secondo mi infastidisco e mi viene anche da chiedermi, allora, ‘cazzo sculettassero le signorine dietro il bancone. Poi realizzo tutto d’improvviso che probabilmente stanotte sarò l’unico essere umano vagamente eterosessuale nel raggio di chilometri, e la vita mi sembra improvvisamente stupenda.
- Lo sai che me l’ha detto? – sento improvvisamente arrivare la voce di Bill come provenisse da un altro pianeta, sottilissima e trasognata. Quando mi volto a guardarlo, lo trovo che fissa un punto imprecisato nel nulla, giocando con le dita sulla cannuccia. Ha le labbra piegate in un sorriso tanto piccolo e tanto tenero che mi viene voglia di dargli un bacio. Una cosa stupida, niente di malizioso, solo un bacetto a fior di labbra, sarà che io sono molto fisico, però glielo darei un bacio, in questo momento. Anche se mi ha appena confessato che Chakuza gli ha detto di amarlo.
Cerco di fingere che questa cosa non sia esattamente l’ultima che avessi voglia di sentire, in questo momento – ma anche in qualsiasi altro – e che non sia anche il motivo per cui sto cercando disperatamente di farmi trascinare da Sido in qualsiasi posto che sia lontano da questi due, e sorrido appena.
- In un momento di particolare entusiasmo? – chiedo, trasformando il sorriso in un ghigno stronzo.
Bill sbuffa, voltandosi a guardarmi con occhi colmi di disapprovazione.
- Ma no! – sbotta, - Che idea hai di Peter, Pat?! – ho quella che mi ha dato lui di se stesso, ragazzino. – Mica passiamo tutto il nostro tempo insieme a letto!
Che è, in effetti, molto più di quanto non possa essere detto di me e lui. Ed anche questo, suppongo, dice tanto sia di Chakuza che di me.
- E quando è successo, allora? – chiedo comunque, perché è evidente che il ragazzino vuole parlarne ed è evidente anche che l’unica persona con cui può farlo sono io.
Bill si entusiasma subito. Posa il bicchiere col succo sul tavolino e si tende tutto, voltandosi verso di me e cominciando a saltellare sul posto.
- Sapessi, Pat! – e comincia a raccontarmi questa storia incredibilmente romantica che è molto probabile abbia esagerato nei toni, per la quale Chakuza si è presentato a casa sua il giorno di non mi ricordo quale mesiversario – il sesto? Il settimo? Sto cercando di non tenere il conto – facendo apparentemente finta di aver dimenticato l’importanza fondamentale della data, per poi mostrarsi incredibilmente stupito nel momento in cui un facchino ha bussato alla porta di Bill portando con sé un enorme mazzo di rose rosse che poi, ovviamente, aveva ordinato lui perché arrivassero precisamente nel momento di maggiore sconforto di Bill – cioè una mezz’ora prima che il Chaku dovesse tornarsene a casa. E poi niente, gliel’ha detto.
- Assurdo. – commento con una mezza risata.
Bill sorride dolcissimo.
- Grandioso.
Il che, invece, dice molto di Bill e di Chakuza insieme.
*
Restiamo qui in piscina finché non si svuota. Piano piano, tutti gli uomini – e anche tutte le poche donne che ci sono in giro – cominciano a tornare all’interno dell’albergo. È quasi ora di cena. Bill sonnecchia sulla propria sedia e temo proprio che stasera non mangerà. Il che vuol dire che domani mattina dovrò avere l’accortezza di passare da qualche parte a prendergli qualcosa di buono, prima di tornare in camera e stendermi al suo fianco per abbracciarlo e rassicurarlo sul fatto che sì, ho dormito con lui, anche se in realtà non l’avrò fatto. Sì, lo so, non dovrei mentirgli. Però non mi sento per niente in colpa a farlo, il ragazzino non ha bisogno di sapermi a scopare in giro. Ci sono delle bugie che puoi dire. Ci sono delle cose che puoi tralasciare. Il ghetto – Anis – mi ha insegnato anche questo. La verità prima di tutto il resto – ma oh, quante facce possono avere il vero e il falso?
Ghigno un po’ mentre il sole tramonta sulla spiaggia che da qui si vede benissimo, e ripenso all’espressione concentrata e presuntuosa con la quale Anis mi spiegava questa sua illuminata teoria, e prima di cominciare a pensare cose di cui mi pentirei – tipo che mi manca; tipo che dovrei cominciare ad andare avanti come stanno facendo tutti intorno a me; tipo che a volte ho come l’impressione di voler continuare a frequentare Bill proprio per impedirmi di dimenticare quello che tutti gli altri sembrano aver già rimosso abbondantemente – mi tiro in piedi, sospirando pesantemente.
- Ragazzino? Dai, andiamo in camera.
- Ma non ho sonno… - si lamenta, la testa che penzola avanti e indietro.
- No, naturalmente. – rido io, tirandolo su di peso e stringendolo forte perché non cada, mentre lo trascino per il cortile e poi all’interno dell’albergo e nell’ascensore, fino in camera.
Quando lo adagio sul letto, lui mi trascina con sé, ed io faccio i salti mortali – quasi letteralmente – per non cadergli addosso e planare invece sul materasso al suo fianco.
- Resti? – mi chiede con un filo di voce, e io mi sollevo su un gomito e resto steso sul fianco mentre lui mi si accoccola contro.
- Mh-hm. – annuisco, riavviandogli i capelli dietro un orecchio in una carezza distratta che lo fa sorridere.
- Io ti voglio sempre bene, sai…? – continua a blaterare. Sta già praticamente dormendo. Fra dieci minuti russerà e domani mattina neanche ricorderà di avermi detto queste cose. – Anche se il Chaku mi ha detto che mi ama e gliel’ho detto anch’io, io ti voglio bene tantissimo…
Annuisco ancora, ridendo appena più forte. Non so più nemmeno se sta parlando con me o con la persona che i miei abbracci gli ricordano.
- Lo so, ragazzino. Ti voglio bene anch’io.
Bill sorride e poi, sfinito, crolla con la testa sul cuscino, profondamente addormentato. Gli rimbocco le coperte cercando di muovermi il più silenziosamente possibile, e poi medito sulle numerose possibilità che mi offre la mia serata.
Ovviamente, come a ricordarmi che nella mia testa non posso fare troppo spazio, visto che lui è assolutamente intenzionato a riempirla tutta, Chakuza mi chiama sul cellulare. Rispondo prima che la suoneria possa svegliare Bill, e sospiro pesantemente.
- Ma non hai mai niente da fare, tu?
Chakuza si lamenta borbottando a bassa voce, rigirandosi il telefono fra le mani.
- Ero solo preoccupato. – si giustifica, - Mica mi fido, a mandarvi in giro da soli.
- Siamo grandi e forti. Possiamo sopravvivere ad una vacanza.
- Bill non è grande e forte.
- Io lo sono.
Chakuza non risponde, non subito, almeno. Si prende il proprio tempo per inspirare ed espirare, e solo dopo parla.
- È tutto a posto, sì?
Vorrei rispondergli che può anche fare a meno di essere così discreto. Che lo so che lui e Bill stanno insieme. Che non è nemmeno tanto giusto non si senta in diritto di dirlo chiaramente. Che l’ho sempre saputo, e se non ho ancora cominciato a lamentarmi sul punto è ragionevole immaginare non comincerò mai. Perciò puoi stare tranquillo, Chaku. Puoi anche dirmelo, se ti manca e vuoi sentirlo.
- Sì, è tutto a posto. Bill già dorme. Dovresti anche tu.
- Alle otto di sera? – ride lui, una risata piccolissima e veramente divertita.
- Be’, almeno così non corri il rischio di fare cazzate perché ti senti solo. – rispondo io con una risata uguale.
- Avanti, - borbotta lui, - lo sai che non c’è verso di prendere sonno prima dell’una del mattino.
Io rido ancora.
- Sì, sei una piaga sociale. Comunque ti mollo, ho di meglio da fare che stare al telefono con te. Lo sai che sono tipo l’unico essere umano eterosessuale sull’isola?
- Che?! – strilla lui all’improvviso, - …okay, ci sono tante di quelle cose che non funzionano, in questa frase, che fatico a processarle tutte.
- Tranquillo, nessuno attenterà alla nostra virtù. – lo rassicuro, continuando a ridere, - In compenso non ti assicuro che non attenterò io alla virtù di qualche bella fanciulla, perché ho solo l’imbarazzo della scelta.
Lui mugugna qualcosa di assolutamente incomprensibile.
- Ovvio. – aggiunge poi, - Appena ti si toglie un attimo le mani di dosso… - e lì, per un secondo, mi si ferma il tempo nella testa. E si ferma anche nella testa del Chaku. - …scusa. – si affretta a correggersi subito dopo, - Non so da dove mi sia uscita.
Io sospiro.
- Fa niente. – rispondo con una scrollatina di spalle che lui non può vedere. – Ora mi fai riattaccare?
- Sì, - annuisce subito, - sì, naturalmente. Comunque richiamo domani.
Roteo gli occhi.
- Peggio di una vecchia madre. – biascico acido, - Buonanotte.
Lui ride. Il suo buonanotte mi arriva forse un po’ troppo dolce di quanto non sarebbe giusto suonasse, ma non sono in vena per lamentele di questo tipo, al momento.
Bill mugola nel sonno e mi si schiaccia addosso, sgomitandomi in mezzo alle costole e stringendomi come un peluche.
Sospiro.
Stasera non si scopa.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Commedia.
Pairing: Bill/Chakuza, Bill/Bushido, Tom/Cassandra.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Het, Angst.
- "A volte mi sembra quasi di essere io, quello che è morto perdendosi pezzi della vita degli altri."
Note: Salve O/ Qui parla l’autrice che palesemente non avrebbe mai dovuto scrivere questa storia, perché nel farlo s’è strappata il cuore dal petto più e più volte nel tentativo di sopravvivere a Tom. Cosa peraltro impossibile, perché Liz lo ama e vederlo soffrire la distrugge. Oltretutto, fare sia a Tomi che al Billshido ciò che è stato loro fatto in questa shot era palesemente mestiere di Tabata. Liz gliel’ha rubato perché le piaceva Epic!Tomi sul finale. E poi Tomi ha deciso di fare ciò che voleva di queste otto pagine, ficcandoci dentro dosi esagerate di Fler – l’autrice se ne scusa – e follie varie ed eventuali, girando attorno al punto per una quantità indecente di tempo prima di arrivarci. Speriamo solo che riusciate a sopravvivere a tutto questo, ecco. Fedy, sappi che ti amiamo per il tuo contegnoso stoicismo. E… insomma ;_; So che è dura, ma non abbandonateci *sparge amore e Fler in dosi uguali per tenersi vicine le fangirl*
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I’M AN OUTSIDER OUTSIDE OF EVERYTHING

Per sapere che Bushido era ancora vivo, io ho dovuto fisicamente estorcere l’informazione a mio fratello, costringendolo in un angolo e schiacciandolo fra me stesso e la parete intrappolandolo fra le mie braccia finché non si fosse deciso a parlare e raccontarmi tutto. È stato in questo modo che ho appreso che io e lui eravamo venuti a conoscenza della cosa nello stesso modo, cioè attraverso la dannata rivista.
Quando mi sono ritrovato quella copertina davanti, la prima cosa che ho pensato è stata “Che cazzo, Bushido non andrebbe mai in giro con una fottuta coda”. E quindi, a quello che stavo guardando, non ho dato un centesimo.
Ho chiamato Bill, però, perché supponevo potesse avere voglia di smadonnare un po’. Cioè, trovi una roba così su una rivista del cazzo, ti viene un po’ voglia di tirare giù i santi uno per uno e dire loro cosa esattamente pensi delle loro sacre persone.
E invece niente. Chiamo, squilla, lui non risponde. E io mi preoccupo, ovviamente. Perché penso “Dio mio, se Bill è in quel periodo del mese in cui finge di avere il ciclo per ricordarsi che il suo obiettivo primario è diventare il più possibile donna senza farsi tagliare via l’uccello, allora ci sta anche che l’abbia presa un po’ tanto male. E quindi magari, più che avere voglia di tirare giù i santi, ha avuto voglia di piangere”.
Insomma, alzo il culo e mi muovo. Se Bill sta piangendo fino a sputare i polmoni, mi dico, è giusto che non stia da solo a farlo. Penso: magari se mi sbrigo arrivo pure prima di quella piaga sociale di Chakuza, che al momento, peraltro, sta così fottutamente appiccicato al culo di mio fratello da darmi da pensare voglia farci tutt’altro che starci solo appiccicato, a quel culo. Prima o poi dovrò prenderlo di petto e dirgli che è inutile che ci speri, a mio fratello piacciono alti, scuri e pericolosi, e lui non è niente di queste tre cose. Fler – che pure è tanto bianco che, appena fa un po’ di fatica, tira fuori un paio di guanciotte rosse neanche fosse Heidi che sono una cosa spassosa – al suo confronto è una minaccia molto più consistente. Anche se a Fler potrei anche darlo, mio fratello. Anche perché, tanto per cominciare, sa maneggiarlo, che con Bill non è una cosa così scontata. Anche Bushido, a volte, faticava a domarlo. Fler invece ci va in scioltezza. Senza problemi. E poi, andiamo, è Fler. Palesemente non potrei mai rifiutargli nulla.
Comunque, niente. Arrivo a casa sua e mi faccio tutto un filmino per il quale, quando mi aprirà e vedrà che sono io, mi si getterà fra le braccia chiamandomi piano fra i singhiozzi – “Tomi, Tomi!” – ed io potrò fare la parte del fratello maggiore adulto, maturo e comprensivo – che poi mi si adatta un casino, perché mi fa sempre bellissimo – e consolarlo stringendolo forte ed accarezzandogli i capelli, per poi piazzarlo con una pizza in grembo davanti a The Notebook fino a rincoglionimento totale e successiva nottata passata a dormire avvinghiati sul divano. Come da copione, insomma.
E invece niente, di nuovo. Mi accoglie il vuoto, Bill non c’è, ‘sticazzi. Medito se tornarmene a casa, ma poi mi dico “che diamine, magari era fuori e non lo sa ancora. Allora, a questo punto, è meglio che mi trovi qui, così potrò essere io a dirglielo”. E giù altri filmini con me – fratello perfetto – che mostro quella roba a Bill – piccolissimo e sconvolto – e dopo lo rassicuro dicendogli “vedrai, ora ne parliamo con David. Li lasciamo in mutande, quei bastardi”.
Comunque, resto lì armato di buone intenzioni e di infinita pazienza, ad aspettare che mio fratello torni da… dovunque si trovi. E resto lì le ore. Tant’è che a un certo punto mi rompo pure le palle ed uso il doppione delle chiavi per salire e infilarmi nel suo appartamento, dove mi svacco su uno dei divani e poi continuo a restare in attesa finché non sento il rombo del motore dell’Audi di David, che ormai conosco a memoria. E mi chiedo, in effetti, cosa ci faccia Bill con David. Però sono troppo cretino, forse, o forse troppo ingenuo, e comunque quella cosa sulla rivista non l’ho mica presa così sul serio, perciò tutto ciò che faccio è saltare in piedi e muovermi anche con aria piuttosto rabbiosa verso la porta, spalancandola nello stesso identico momento in cui mio fratello viene fuori dall’ascensore.
Disfatto.
Non si aspetta di vedermi, e quando mi inquadra spalanca gli occhi arrossati e stanchi.
- Tomi… - sussurra appena, immobilizzandosi sulla porta. – Come… perché-
- Dove cazzo sei stato?! – lo attacco io, preoccupato dai suoi lineamenti tesi e dalle tracce evidenti di pianto che ancora gli rigano le guance, - Cristo, non hai neanche portato con te il telefono! Mi sono preoccupato!
Bill si passa una mano sugli occhi, sospirando profondamente, e poi mi supera, infilandosi nel niente di spazio che c’è fra il mio corpo e lo stipite della porta.
- Tomi, per favore… - mugola, dirigendosi verso il frigorifero ed aprendolo alla ricerca di qualcosa da bere, - Oggi non è proprio giornata.
- Cazzo, no che non è giornata. – borbotto, e fanculo a tutti i buoni propositi del dirglielo con tatto. – Hai visto il Bravo di oggi?
Bill riemerge dal frigorifero con un bottiglia d’acqua in mano, e appena sente la parola “Bravo” si congela sul posto.
- …l’ho visto. – risponde in un soffio, senza guardarmi.
- Che stronzi, mh? Ora viene fuori che Bushido è risorto. – butto lì. E lo faccio con cattiveria, visto che quando qualcuno in qualche parte del mondo pronuncia il suo nome, Bill sta fisicamente male. – Il prossimo passo qual è, la santificazione?
Bill si volta a guardarmi con una calma raggelante. Non dice una parola, ma solo a cercare di leggere cosa c’è nel fondo dei suoi occhi mi salgono i brividi per tutta la schiena. Manda giù un altro sorso d’acqua, poi posa la bottiglia sul ripiano accanto al frigorifero e si asciuga le labbra col dorso della mano, come un bambino. È l’unica cosa che incrina appena la dignità glaciale e del tutto fuori luogo con la quale continua a parlare.
- Non è risorto. È lui.
E potrei ridere, dargli del cretino, mandarlo a fanculo o anche urlargli di piantarla di prendermi in giro. Ma non lo faccio. Perché quest’espressione qui io l’ho già vista, secoli fa. Anche se ormai stavo cominciando a dimenticarla.
Capisco che Bushido non può essere altro che vivo, perché questo è il suo Bill. Quello che s’era portato nella tomba. Ecco, adesso l’ha riportato fuori.
Bill guarda altrove e fa per evitarmi – lo vedo che si allontana verso la camera da letto, perfettamente intenzionato a non dire una parola di più sull’argomento – ma io decido che mi sono rotto i coglioni di non sapere cosa gira per la testa di mio fratello. Da quando mi sono mosso di casa non ho fatto che cercare di immaginare ciò che Bill avrebbe potuto fare o stesse facendo, e non ne ho presa una. Tutto sbagliato. E dire che un tempo riuscivo a capire quali sarebbero state le sue mosse ancora prima che lui le facesse. Ora non mi riesce nemmeno di immaginare cosa stia combinando nel momento in cui lo combina.
Mi alzo in piedi e mi muovo svelto verso di lui, piantando una mano sulla parete così improvvisamente che lui quasi va a sbattere contro il mio braccio. Si ferma appena in tempo e si volta a guardarmi con aria oltraggiata, le sopracciglia inarcate e le labbra piegate in una smorfia infastidita.
- Sono stanco. – mi informa atono, - Voglio andare a dormire.
- Non mi interessa. – rispondo io, sollevando anche l’altro braccio e intrappolandolo perché non possa sfuggirmi. – Cosa è successo?
- Niente. – ringhia a muso duro. Io aggrotto le sopracciglia e mi chino sul suo collo, annusandolo piano. Lui si scosta di pochissimo, trattenendo il respiro. Non è spaventato da ciò che sto facendo. È spaventato da ciò che potrei leggergli addosso.
- Hai scopato. – dico, tornando a guardarlo negli occhi, - Da quanto lo sai? Da quanto vi vedete?
- Non sono cazzi tuoi. – sbotta acido, e mi pressa le mani contro il petto nel tentativo di allontanarmi. Io batto i pugni contro il muro talmente forte che l’eco rimbomba per tutto l’appartamento silenzioso, e Bill mi guarda con aria sinceramente spaventata.
- Lo sono. – rispondo a voce bassa, gli sto così vicino che posso leggergli negli occhi qualunque cosa. Bill, ogni tanto, ha bisogno di essere costretto. – Come cazzo ha fatto? Perché l’hai visto? Perché ci hai scopato, Cristo santo? Da quanto è tornato?
Bill mugola e distoglie lo sguardo, mordicchiandosi un labbro con aria incerta.
- Non… non lo so, Tomi. – biascica, stringendosi nelle spalle, - Non so niente, so solo che è qui. Non volevo-
- Non dire balle. – lo interrompo con un grugnito contrariato, - Forse davvero non sai niente, ma non venirmi a raccontare che non volevi andarci a letto. Non ci saresti andato. – sospiro e mi scosto appena. – Non ti ha spiegato proprio nulla?
Lui non risponde subito.
- Non gliene ho dato veramente il tempo. – ammette alla fine, sospirando pesantemente, - Dice di averlo fatto per me. Dice… che era preoccupato. Che l’ha fatto perché ero in pericolo. Ma era lui quello a cui avevano sparato! Non io! – riprende con più veemenza. Io penso distrattamente che Bushido era in casa di mio fratello, quando è morto, anche se poi non è morto davvero. Penso che, se di fronte a quella finestra non ci fosse stato Bushido, fra mio fratello e tutto il resto, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Penso che Bill, come al solito, non stia riuscendo a vedere la situazione nel modo corretto – ricordandosi cioè che esistono altri cervelli ed altri modi di affrontare le situazioni oltre al suo. Così come non ha mai capito perché io abbia distrutto l’intera discografia di Bushido, quando mi ha detto che stavano insieme, non riesce a capire perché Bushido abbia deciso di distruggere la propria vita, quando ha scoperto che stare insieme a lui era troppo pericoloso. È evidente.
- …come ha fatto? – chiedo quindi, allontanandomi da lui e lasciandolo nuovamente libero di muoversi, - Come c’è riuscito?
- A sopravvivere? – chiede lui di rimando, sorridendo amaramente mentre ricomincia a respirare, - O a starsene nascosto fino ad ora?
Io rido appena.
- Entrambe le cose.
La voce di Bill mi fa eco con una risata uguale.
- Non so neanche questo. – risponde con un sospiro, - Però c’entra David.
- Gli ha offerto i propri organi in regalo? – scherzo, - L’ho sempre detto io che il modo in cui lo guardava non mi tornava…
- Ma no! – ride più apertamente Bill, coprendosi le labbra con una mano, - Non c’entra col fatto che sia sopravvissuto, credo. Però con tutto il resto sì.
Io annuisco e per la testa mi passano pensieri di ogni tipo – dall’andare a pestare David finché non mi abbia spiegato per bene in che cazzo di casino si sia andato a ficcare lui trascinandosi dietro noi tutti quanti insieme, all’andare a fare la stessa precisa identica cosa anche con Bushido, per gli stessi precisi identici motivi e con gli stessi precisi identici intenti – e mio fratello nel mentre smette di ridere – la sua risata si spegne sfumandosi nel silenzio come un vecchio disco di musica anni Sessanta o chessò io – e si lascia andare seduto sul divano. Non sembra più tanto intenzionato a restarsene solo a piangersi addosso, e questo mi sta bene, perciò mi siedo al suo fianco e gli passo un braccio contro le spalle, stringendomelo addosso e coccolandolo un po’.
- Tomi… - si lamenta a bassa voce, nascondendo il viso sul mio collo, - Ho fatto una cazzata enorme.
Io annuisco perché sì, me ne rendo conto che andare a letto con Bushido sia stata una mossa un tantino avventata. Però io, in quel momento lì, non so un cazzo. Io mi sto davvero solo illudendo – come al solito – di avere vinto. Di sapere cosa ci sia nella testa di mio fratello.
Probabilmente io ho smesso di sapere con esattezza cosa ci sia in quella testa a diciassette anni. E non ho più ripreso.
Che sia stata una mossa un tantino avventata, perciò, è tutto ciò che penso. E lo stringo un po’ di più, e quando gli dico “si sistemerà tutto” lo faccio credendoci. Proprio perché non so un cazzo. Non si sistemerà niente, invece. Adesso che osservo mio fratello sbiancare mentre Bushido gli dice che sa tutto, invece, è molto più chiaro che non si risolverà proprio un bel niente. Ed io, in tutto questo, riesco solo a pensare che Bushido sa molto più di quanto non sappia io.
A volte mi sembra quasi di essere io, quello che è morto perdendosi pezzi della vita degli altri.
*
Cassandra è stata inizialmente solo una scopata, nonché l’unica cosa buona sia venuta fuori dalla frequentazione forzata di rapper cui mi ha costretto per lungo tempo il fatto che mio fratello andasse a letto col capobranco. Seriamente, io avrei fatto volentieri a meno di essere controvoglia risucchiato in un mondo che credevo il massimo del figo e tutto il resto, per scoprire che tutta la gente su cui avrei scommesso qualsiasi cosa era in realtà un manipolo di deficienti. Voglio dire, Chakuza è un cuoco. Eko un cretino. Io ero felice quando credevo che questa gente fosse gente pericolosa. Ero felice di odiare mio fratello perché stava infilandosi in un mondo oscuro e potenzialmente mortale. Ma questo ho potuto pensarlo per qualche mese, prima che – per forza di cose, perché ci mancava l’aria, altrimenti – io e Bill ricominciassimo a frequentarci e parlare. Quindi, tolti quei pochi mesi all’inizio, ho dovuto comunque fronteggiare più di due anni di frequentazione. Sarebbe stato veramente drammatico se, oltre alla distruzione dei miei miti infantili, io non avessi ricavato nient’altro.
Ok, ho conosciuto Fler, d’accordo, questo teoricamente sarebbe dovuto bastarmi anche senza Cassandra. Intendo, Fler è l’unica cosa che sia rimasta pressoché intatta di tutti i miei miti, perché è un figo davvero. Cioè, al di là di qualsiasi cosa si potesse dire di Bushido – compreso il fatto fosse palesemente un pedofilo; magari non violentatore, ma pedofilo di sicuro – era ovvio che lui fosse l’unico vero gangster del mucchio, in mezzo a gente che c’era entrata per caso. E Fler è uguale, però meglio perché non è uno stronzo intollerabile come invece Bushido è sempre stato, è ancora e sempre sarà se la Morte non si accorge di esserselo lasciato sfuggire e non viene a riprenderselo. Al di là di Fler, comunque, sono tutti veramente da prendere e buttare nel cesso, dal lato dell’Ersguterjunge. Ed infatti Fler non è dell’Ersguterjunge. Quelli dell’Aggro mi sono rifiutato di incontrarli, comunque; non vorrei ritrovarmi a scoprire controvoglia che Sido fa la maglia guardando Verbotene Liebe in pausa pranzo.
Comunque. Cassandra, dicevo. È un po’ inquietante che io volessi parlare di Cassandra e sia finito a raccontare quanto profondamente apprezzi Fler. È che lui è tipo una roccia, avreste dovuto vederlo quel giorno in cui è venuto a prendere Bill a casa per portarlo fuori – c’è stato un periodo, dopo quella notte tremenda, in cui solo lui portava Bill fuori, perché Bill voleva in giro solo lui – ed io ero ancora preso malissimo per tutta la faccenda di Saad – “la faccenda di Saad”, sentitemi, sono costretto a parlare per eufemismi, sennò non riesco – e quindi ho ringhiato e pure parecchio, sono arrivato quasi a buttarlo fuori di casa, e lui niente, mi si avvicina con quei fanali azzurri piantati nei miei occhi e fa “non ti ho chiesto il permesso di portare fuori tuo fratello, ragazzino”, che io quando mi sono sentito chiamare in quel modo mi sono pure sentito un sacco a disagio, perché boh, il suo “ragazzino” è Bill e va bene essere gemelli, ma non confondiamo, e comunque niente, mi sono zittito all’istante perché comunque ha un modo di parlarti che è pacato tranquillo pure quando vedi che se ti rifiuti di obbedire ti fa di tutto. Fa un sacco paura Fler, quando ti guarda e ti parla così.
Ma io volevo parlare di Cassandra.
Cassandra era una donna di Bushido. Problema numero uno degli uomini con carisma: quando ti mettono le mani addosso è la fine, una volta è per sempre. Quindi, niente, quando io ho conosciuto Cassandra lei ovviamente già non ci stava più con Bushido, però era ancora una delle sue donne, e per questo motivo metterle le mani addosso è stato assolutamente impossibile fino a quanto Bushido non s’è tolto dalle palle. Contando il fatto che era una dei pochissimi membri della famiglia allargata di Bushido con cui Bill andasse perfettamente d’accordo, e contando il fatto che per questo gravitava tantissimo intorno a casa nostra, potete bene immaginare la tortura di vedere questa bellezza color caramello svolazzarmi sotto il naso a intervalli regolari di una volta ogni due giorni, senza poterla toccare neanche per sbaglio pena morte istantanea preceduta da tortura pubblica nel cortile della Villa Gialla.
Insomma, per tutto il periodo in cui Bill è stato con Bushido, io ho approfittato del fatto che tutti – Bushido compreso – fossero distratti dall’omosessualità emergente del loro capo, ed ho cominciato ad accerchiare Cassie. Non ho fatto nient’altro ed in realtà anche quel poco che ho fatto non è stato niente di eclatante. C’è questo momento meraviglioso, nel corteggiamento, che sta proprio all’inizio; è un momento in cui tu non fai praticamente nulla, ti limiti a dare dei segnali e restare in attesa per vedere se quei segnali sono stati colti e accettati. Perciò c’è stato questo periodo stupendo in cui io e Cassandra non abbiamo fatto che sorriderci.
Non è che le morissi dietro, eh. Anche perché, con l’ombra scura di Bushido a pendere sopra le nostre povere teste innocenti, non è che mi aspettassi davvero qualcosa. Però era un’opportunità, era bella e tanto valeva tenerla da conto. Al più mi perdevo in qualche epica fantasia nella quale, in seguito ad un’esplosione particolarmente forte di tensione sessuale irrisolta, finivo per schienarla contro una parete senza pensare alle conseguenze di quel gesto; a quel punto, Bushido ci beccava ed il resto della fantasia ero io che restavo a fronteggiarlo a testa alta, riempiendolo di botte sotto lo sguardo estasiato sia di Cassandra – che, appena concluso il pestaggio, mi saltava al collo ringraziandomi per averla liberata dal giogo del crudele dittatore – che di Bill – il quale poi diceva a Bushido ancora in terra e sanguinante qualcosa di meraviglioso tipo “Anis… ti credevo un uomo forte”, per poi chinare il capo ed allontanarsi con me e Cassandra nella luce del tramonto, verso un futuro migliore.
Volete far felice un uomo? Dategli un pomeriggio da solo sul divano e la libertà di immaginare sesso, botte e dichiarazioni epiche nelle quantità che preferisce. Avrete salvato una vita. Io me la sono salvata così, per dire – ok, magari non la vita, ma la razionalità di sicuro; c’erano questi momenti in cui la presenza di Bushido, per quanto potessi sforzarmi di ignorarla, era così ingombrante che non mi sentivo libero di fare niente. Sono cose che possono mandarti al manicomio. Soprattutto se non te le sei scelte.
Comunque poi Bushido è morto, ed io non è che abbia avuto granché modo di pensare a Cassandra, tra mio fratello che si deprimeva, mio fratello che cominciava ad impiantarsi notte e giorno a casa del dannato Chakuza e mio fratello che finiva per uccidere libanesi in mezzo a una strada a due giorni da Natale. Insomma, fra mio fratello e mio fratello, non è che avessi granché tempo libero. Come sempre. Mio fratello riempie la totalità del tempo di chiunque gli graviti attorno. Tutti, poi. Anche contemporaneamente. Palesemente non può essere una persona sola. Io ho in realtà tre o quattro gemelli, me ne accoro da queste piccole cose ed anche dal fatto che non è possibile cambiare umore repentinamente tanto quanto fa mio fratello di continuo. Quindi per forza devono essere tre o quattro. Magari Bushido s’era rotto le palle per questo, quando ha deciso di disertare e darsi alla macchia. Comprendo la sua obiezione di coscienza.
Al di là delle cazzate, comunque, anche dopo la roba di Saad sono stato molto preso. Pure troppo preso, nel senso che sono entrato in loop iperprotettivo nei confronti di Bill. Peraltro è un cosa che lui detesta ma che a me serve perché, essendo sempre stati appiccicati come le gomme da masticare alla suola delle scarpe, quando me lo perdo di vista comincio a dare di matto. Sono perfettamente consapevole dell’assurdità di tutto questo e so anche che per Bill non è la stessa cosa – d’altronde, per quanto gemelli, siamo comunque due persone diverse e viviamo le relazioni in modi diversi – ma non posso farci niente. Quindi, in pratica, ho passato tutto un periodo orrendo in cui ho costretto Bill a vivere con me – anche se lui aveva decisamente bisogno di coccole, quindi non si è esattamente lamentato – e non ho permesso a nessuno di avvicinarsi a noi, con l’eccezione di Fler, di fronte al quale ero palesemente impotente e del quale comunque Bill aveva un intenso bisogno.
Da quella situazione, se Cassandra non avesse deciso autonomamente di smettere di sorridere e baciarmi, io probabilmente non ne sarei mai uscito. E in realtà dopo non è che sia veramente successo qualcosa. Solo, niente, ha ripreso a sorridere ma ha anche continuato a baciarmi. E tutto il resto.
Fra me e Cassandra c’è una cosa un sacco tranquilla. Che mi piace tantissimo. E credo di averne il bisogno, adesso – intendo, di tenere fra le mani qualcosa che sia dolce e buono e basta, senza dovermi preoccupare di vederlo crollare fra le mie mani da un momento all’altro. Il ritorno di Bushido, in questo momento, non mi interessa, e soprattutto non mi intralcia in nessun modo, perché Cassandra è forte davvero, e per quanto lui possa insistere con gli sguardi confusi e disapprovanti che mi lancia da ieri, e per quanto possa insistere a chiamarla “stella” anche quando siamo insieme, so che Cassandra è più forte di lui. Ne ho parlato con Fler, dopo quel disastro di cena che ha avuto luogo a casa di Bushido, e lui ha riso. “Donne del ghetto”, ha commentato. Io ho annuito perché mi sa che ha ragione. Sono le femmine, quelle veramente cazzute. Per quanto tutto ciò possa sembrare assurdo.
Tutta questa premessa – su me, su Cassandra, su Fler che non c’entrava ma c’è entrato lo stesso chissà come, e su Bill, naturalmente – io l’ho fatta per spiegare che, a parte le sparizioni settimanali alle quali ultimamente mio fratello si lascia andare e per le quali dovrò decidermi a torchiare per bene David – perché lui non può propinarmi scuse come “Bill è in beauty farm” ed aspettarsi pure che io ci creda – insomma, a parte questo, prima del ritorno di Bushido io stavo conducendo un’esistenza piuttosto felice e tranquilla. C’erano delle cose oggettivamente incomprensibili – il rifiorire immotivato di mio fratello, e non che non mi facesse piacere, ma restava incomprensibile; o l’ombra scura perennemente presente negli occhi di Fler; o la ruga che, sempre con maggiore insistenza, andava formandosi sulla fronte di David, proprio in mezzo alle sue sopracciglia – ma non erano cose che mi infastidissero particolarmente.
Ma ora è tutto diverso. E adesso, in questo salotto, di fronte a questa scenata indecente, di fronte alle lacrime di mio fratello, di fronte all’espressione dura e risentita e soprattutto ferita di Bushido, io devo prenderne atto.
*
Potrei raccontare nel dettaglio la giornata di oggi fin da quando mi sono svegliato, ma sono quasi sicuro che perdermi nella mia testa al momento sarebbe deleterio. Non devo perdermi, devo solo cercare di riassumere le ultime ore della mia esistenza per avere un punto fisso da cui ripartire quando finalmente riuscirò a prendere pienamente coscienza del disastro in atto.
Quindi niente resoconto dettagliato, non mi soffermerò su quanto fosse buono stamattina il profumo di Cassie attaccato alle mie lenzuola, alla mia pelle e ad ogni molecola d’aria che riempiva la stanza; non mi soffermerò su quanto abbia trovato odioso lo squillo del cellulare e non mi soffermerò su quanto mi sia sentito stupido nel rassegnarmi comunque a rispondere alla chiamata appena individuato il nome di Bill sul display. Non parlerò diffusamente di quanto mi sia sembrato strano sentirgli dire “vado da Anis… mi accompagni?” – Dio, come faccio a non parlarne diffusamente? Bill ha sempre visto i momenti di intimità con Bushido come, tipo, cose sacre e inviolabili, per quale cazzo di motivo avrebbe dovuto volermi fra le palle in una situazione come quella? – e non dirò nemmeno quanto io l’abbia trovato teso quando sono passato a prenderlo da casa sua per portarlo all’appartamento in cui Bushido sta per ora; non lo descriverò, anche se potrei dipingerle, le linee corrucciate delle sue sopracciglia, e disegnare il broncio teso e chiuso delle sue labbra.
Però posso raccontare quello che è successo da quando ho messo piede in questa casa, perché questo è importante. Posso raccontare di Bushido tanto scuro da fare paura, colore della pelle a parte. Posso raccontare della paura di Bill, perché me la sono sentita fisicamente addosso per tutto il tempo. Posso parlare del suo imbarazzo quando Bushido gli ha chiesto di andare a prendere da bere in cucina mettendoci meno tempo di quanto non ne avesse perso il giorno prima durante la cena. Posso parlare a lungo della luce tremolante negli occhi di mio fratello e di quella netta e brillante negli occhi di Bushido. Posso parlare di quel momento di immobilità in cui io mi ero già impossessato di un divano su cui svaccarmi e mi stavo ancora chiedendo cosa cazzo ci facessi proprio io e proprio in quel momento in quel dannato salotto, mentre alle mie spalle, fra gli occhi di Bill e quelli di Bushido, scoppiava una guerra tale che avrei dovuto sentirne il clangore anche se fossi stato su un altro pianeta. E invece niente. Invece il silenzio. Posso descrivere ogni sfumatura di quel silenzio – quella tesa, quella angosciata, quella già prematuramente disperata – posso farlo, devo farlo, perché quel silenzio è stato l’ultimo di questa giornata che abbia avuto un significato e sia valso qualcosa.
Poi Bushido ha parlato.
- So tutto.
La sua voce risuona in questo silenzio in maniera così fisica che mi sembra di poterla toccare. È scura e decisa. È molto da lui, così com’è molto da lui dare per scontato la gente capisca a prescindere di cosa stia parlando. Per me non è così ed evidentemente neanche per Bill, che si ferma a metà del salotto e si volta a guardarlo, inarcando appena le sopracciglia.
- Sai cosa? – chiede, forzando un sorriso talmente tirato che io lo guardo e penso “Cristo, Bill. Ma se lo sai già, perché chiedi?”. Ed io, in questo momento, continuo a non sapere un cazzo. Ed è un attimo di confusione che dura veramente pochissimo, solo pochi secondi. Il tempo che serve a Bushido per mettersi in piedi, sollevandosi in tutto il suo fottuto metro e novanta di altezza, e ricominciare a parlare.
- So di te e Chakuza, Bill.
E lì mi esplode il cervello. Perché, non so se vi è mai capitato, ma a volte succede che tu passi in mezzo ad una situazione, no?, diciamo pure che la vivi, ne sei partecipe e tutto, però non la comprendi pienamente. Ci sono un sacco di sfumature che ti sfuggono e il tuo cervello le registra però gli mancano tasselli, e visto che gli mancano tasselli non riesce a ricomporre gli indizi in un quadro che abbia un senso. Perciò quei particolari apparentemente stupidi – il nome di Chakuza che diventa Peter sempre più spesso sulle sue labbra, le fughe continue, i momenti di imbarazzo quando si parlava di lui e così via – tu poco a poco te li dimentichi, li archivi come cose prive di importanza.
E poi arriva qualcuno che invece la soluzione del puzzle già ce l’ha. E gli basta mezza parola, cazzo. Solo mezza. E a te basta sentirla che rimetti tutto al suo posto. E lì o razionalizzi o ti esplode il cervello.
A me esplode il cervello.
In mezzo a tutto quello che potrei pensare – Bill s’è messo con Chakuza; Bill è stato a letto con Bushido; Bill e Chakuza stanno ancora insieme? – io penso solo che è la seconda volta che mio fratello mi butta fuori a calci dalla sua vita. Penso che di tutto questo – di mio fratello che boccheggia a corto d’aria e di Bushido che continua a guardarlo con un misto di delusione e dolore – non mi importa niente. Penso che c’è stato un tempo in cui io e Bill eravamo attaccatissimi. E penso che mio fratello adesso non mi dice più nemmeno quando si innamora di qualcuno. Non mi dice quando è felice, non mi spiega perché lo è e non mi dà modo di gioirne con lui – Bill non ci ha nemmeno provato, a vedere se la mia reazione al sapere di lui e Chakuza sarebbe stata diversa rispetto a quella che ho avuto quando ho saputo di lui e Bushido.
E penso anche che tutto questo è ingiusto. Perché non posso sentirlo quand’è felice, ma in compenso quando il cuore gli batte tanto forte da fargli male lo sento ancora.
- Non hai niente da dire? – chiede Bushido a bassa voce, restando fermo dov’è. Bill deglutisce pesantemente.
- Anis- - comincia piano, ma Bushido lo ferma con un ringhio imperioso.
- Non so se voglio davvero sentirti parlare. – dice d’un fiato, guardandolo dritto negli occhi.
Bill china il capo e le lacrime cominciano a rotolargli lungo le guance in grossi goccioloni brillanti.
- Mi hai chiesto se non avevo niente da dire. Vorrei rispondere almeno a quello.
- Non so se la voglio, la tua risposta! – precisa Bushido alzando la voce e tendendosi tutto verso Bill, che incassa la testa nelle spalle come se l’urto della sua voce lo sentisse addosso né più e né meno di un ceffone.
- …Anis, ti prego. – cerca di calmarlo Bill, parlando dolcemente, anche se non riesce nemmeno a guardarlo e quindi, penso, l’effetto del suono della sua voce è di molto ridimensionato. – Lascia che ti spieghi.
- Cosa vuoi spiegarmi, Bill? – insiste lui, tagliente come una lama, - Vuoi spiegarmi perché mi sei caduto fra le braccia e ti sei fatto scopare nonostante stessi con lui da quasi un fottuto anno? – e si lascia andare ad una mezza risata ironica, incrociando le braccia sul petto mentre Bill serra le palpebre e stringe le labbra. – Quasi un anno! – ripete Bushido, il tono a metà fra il risentito e il crudelmente divertito, - Che bel lutto! Alla prima occasione favorevole-
- Non è stato così, Anis! – esplode mio fratello, stringendo i pugni, ma la sua esplosione non è niente paragonata al rombo della voce di Bushido, pochi secondi dopo.
- Te lo dico io com’è stato, cazzo! – urla, e parla proprio come se fosse stato qui sempre, in ogni momento. Perciò a me un po’ viene voglia di crederci, alla sua versione. – Quanto hai aspettato? Tre mesi? Quanto, prima di buttarti fra le sue braccia? E siete stati felici, fino ad ora? Sei tornato dritto a scopare con lui dopo avermi mandato a fanculo nonostante ti fossi fatto mettere le mani addosso- no, nonostante mi avessi chiesto tu stesso di metterti le mani addosso?!
Bill si copre il volto con le mani.
- Anis, ti prego… - mormora, e la sua voce attutita riempie la stanza in un lamento sofferente. Bushido inspira ed espira.
- Ho capito che voglio che parli, Bill. – dice freddamente, senza staccargli gli occhi di dosso, - Sono curioso di vedere se troveresti un modo di metterla che non ti faccia passare per una qualsiasi di tutte le altre troie che mi sono passate nel letto per tutta la mia vita.
Bill non solleva lo sguardo. Le sue mani stringono appena la presa sulle sue guance e poi scivolano lentamente nel vuoto, lungo i suoi fianchi. E lì restano, ai lati del suo corpo, a dondolare inermi. Seguo il tintinnio dei suoi bracciali e mi concentro su quello, perché preferisco quel suono alla voce di mio fratello che ammette “Non credo che esista, Anis”. Perché dice troppe cose tutte insieme.
Bill, che cazzo.
Che cazzo, Bill.
Bushido non se l’aspetta, comunque. Probabilmente – come me – credeva che si sarebbe difeso. Che avrebbe combattuto, in qualche modo. Che avrebbe cercato di metterla in un qualche modo che non lo facesse sembrare poi così colpevole. E invece mio fratello non esita un attimo per dargli ragione e chiudere il discorso.
Né io né Bushido ci aspettavamo niente di simile. Probabilmente perché né io né Bushido abbiamo la più pallida idea di come sia stato l’ultimo anno della vita di mio fratello. Ed in questo momento di chi sia la colpa di questa mancanza non importa poi neanche tanto.
- Fuori da questa casa. – la voce di Bushido è così bassa e lontana che sembra provenire da un altro luogo. Fa quasi paura. – Non ti ci voglio più vedere, qua dentro. Né altrove. Fanculo, Bill, noi abbiamo chiuso.
Bill solleva lo sguardo e gli punta addosso un paio di occhi enormi di terrore e lacrime.
- No… - mormora senza fiato, - Anis, no.
- Decido io, principessa. – dice lui, guardando altrove. Immagino lo faccia perché non è facile mandare a fanculo la persona per la quale ti saresti letteralmente fatto ammazzare guardandola negli occhi. – Come sempre. Sparisci.
Bill non si muove subito. Resta immobile per qualche secondo e lo guarda. Bushido non fa una piega. Il mondo intero sembra essersi del tutto dimenticato di me, ed io ne sono contento.
Riprendo a respirare solo quando Bushido si sposta e Bill prende quel movimento per ciò che è – un invito estremamente fisico a togliersi dalle palle. Obbedisce, si muove oltre la porta e scompare in corridoio, e lì ricordo che devo per forza andargli dietro – per quanto non sappia cosa dirgli e nemmeno se voglio dirgli qualcosa. O anche solo vederlo, stargli accanto, pensare a lui – primo perché è venuto in macchina con me e secondo perché io non voglio restarci in questa casa con quest’uomo che guarda il vuoto e si morde un labbro a sangue mentre negli occhi gli brucia di tutto. Perciò seguo Bill e lo faccio in silenzio, fino a quando non mi trovo sulla porta. Mentre io sono lì, Bushido lascia andare un sospiro ed io lo sento. Lo sento e non so perché mi sconvolge tanto, però lo fa.
Mi volto a guardarlo, cercando le parole. Non è facile. Non lo è per niente.
- L’ho capito perché l’hai fatto. – dico alla fine. Lui mi solleva addosso uno sguardo estenuato e non risponde. – Perché sei andato via, dico… non ho capito come, ma ho capito perché. – mi fermo un attimo e sospiro anch’io. – Mi dispiace. – aggiungo poi, - Se me ne avessi parlato, l’avrei portato via io.
Bushido serra le labbra e continua a restare in silenzio. Smette anche di guardarmi, però, e quindi decido di andare via davvero. Questo silenzio, stavolta, non sono proprio in grado di sostenerlo. Né di parlarne.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Chakuza, Fler/Chakuza.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Lime, Slash.
- "Alla fine della giornata, qualsiasi sia la cazzo di macchina coinvolta, qualsiasi cosa sia successa durante il giorno, se è stata una giornata di merda c’è sempre Fler al mio fianco sul sedile."
Note: Provo dell’amore profondo, per questa shot *-* Per due motivi molto semplici. Primo fra tutti, il fatto che io voglio molto bene a Chakuza in questo periodo di questa serie. È un uomo che s’è comportato bene, s’è comportato alla perfezione per tutti gli ultimi nove mesi della sua esistenza. E conoscendolo, sapendo che Chakuza in sé è un uomo portato a fare danni, so che deve essergli costato tantissimo stare tranquillo e non combinare casini per non fare soffrire Bill. E invece niente, torna Bushido – che è una cosa sulla quale Chakuza non ha il minimo controllo e per la quale non ha la minima colpa – e Bill gli si getta fra le braccia. E per quanto io possa adorare il legame assurdo e inesplicabile che c’è fra Bill e Bushido, e per quanto comprenda che è quel legame a motivare (non giustificare: ciò che fa Bill in Crash Into Me non è assolutamente giustificabile) ciò che succede in quella shot, mi dispiace un casino per il Chaku che s’è visto crollare il mondo addosso senza poter fare niente per cercare di fermare la frana. È una cosa tremenda ._. Poi, ok, mi si potrebbe obiettare “eh, sì, ma intanto da un paio di settimane il Chaku stava facendo allegramente il cretino con Fler”. E io potrei dire “sì, vero”. Ma poi dovrei anche partire con uno sproloquio immenso su ciò che penso del Flerkuza, e non ne usciremmo prima di una quantità esagerata di pagine XD Perciò ve lo risparmio. E dico solamente che sì, Chakuza probabilmente ha delle colpe non irrilevanti, ripensando alle ultime settimane della sua vita. Ma di Bill è innamorato davvero, e ciò che Bill gli combina il Chaku non lo merita per niente. Poi, insomma, libere di pensare come volete XD Così la penso io.
Il secondo motivo per cui amo questa shot è che il bimbo è bellissimo <3<3<3 L’amore folle che nutro per Fler è ormai cosa nota, e sebbene io lo trovi delizioso ed adorabile soprattutto quando si arrende al Chaku, devo dire che ho provato dell’orgoglio per lui mentre lo osservavo dirgli no e costringerlo con le buone a mettere da parte i cattivi propositi. Forza bimbo, siamo tutti dalla tua parte, sappiamo che puoi farcela a staccarti dal nano malefico e riprendere la tua esistenza ç_ç! XD
Spero abbiate gradito anche voi <3 A lunedì col prossimo aggiornamento *_*v
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HASS

La prima cosa che ha fatto Fler quando Jost ci ha detto che forse era meglio lasciare Bill e Bushido da soli per un po’, è stata poggiarmi una mano sulla spalla. Il primo pensiero che è saltato fuori dalla nebbia confusa che avevo al posto del cervello in quel momento, è stato “fottiti, non mi serve la tua cazzo di mano sulla spalla, il mio ragazzo sta baciando il suo ex qui di fronte a me, come se io neanche esistessi più. Cazzo vuoi che mi serva la tua mano?”.
Ho capito poi che, in quel momento, lui la mano lì sopra l’ha messa non per consolarmi, ma per trattenermi. Questo perché Fler lo conosce bene, il mio corpo. Lo legge alla perfezione, ed anche in un tempo brevissimo. Perciò si è accorto della tensione nei miei muscoli e dello scatto in avanti che ho fatto, e l’ha fermato prima ancora che potessi realizzare coscientemente di aver desiderato quel movimento. In sostanza, non mi sono mosso di un millimetro. Ho realizzato che avrei voluto farlo solo dopo. E adesso ho in corpo una furia repressa che non riesco ad incanalare in nessun modo.
La mano di Fler, comunque, è ancora lì.
Mi volto appena e c’è Jost ancora nei paraggi della porta che s’è chiuso alle spalle. Sembra incerto fra la possibilità di andarsene e quella di restare.
- Quindi tu lo sapevi. – sibilo guardandolo, gli occhi ridotti a due fessure, - Ci hai presi tutti per il culo. Per tutto questo tempo.
I suoi occhi sfidano i miei. Sono azzurri ma non tanto azzurri. Fler mi ha abituato a sguardi ben più pesanti. Jost non ha possibilità di competere, perciò reggo tranquillamente la tensione dello scontro. La mano è lì e non si sposta.
- Ho fatto il mio lavoro.
- Il tuo lavoro – urlo, stringendo i pugni, - dovrebbe essere prenderti cura di Bill!
- Il mio lavoro – risponde lui, gelido, - è stato prendermi cura della situazione perché non degenerasse.
Ghigno ironico.
- Bel lavoro hai fatto. Questa ti sembra una situazione non degenerata?!
Esita per un attimo, probabilmente perché lo sa, cazzo, se ne rende conto che è vero, ho ragione io, questa situazione è degenerata sì. Eccome se è degenerata. Siamo in un fottuto casino. E se Bill ha spento il cervello e magari al momento non l’ha ancora realizzato, la stessa cosa non si può dire di noi tre. Che stiamo qui a dare aria alla bocca – David davanti alla porta, neanche stesse facendo la guardia, io immediatamente di fronte a lui e Fler poco dietro di me, la mano sempre lì – e siamo in assoluto le persone che l’entità di questo casino indescrivibile la capiscono meglio.
- Non sono affari tuoi. – risponde infine, rilassando disinvoltamente le spalle. – Io non rispondo a te.
- Risponderai a Bill. – gli faccio notare, ringhiando sottovoce. Lui annuisce.
- Sì. Appena porrà le domande, risponderò a lui. Fino ad allora, io rispondo solo a Bushido.
E io, cazzo, li odio. Odio lui, odio Bushido, odio Bill ed odio anche la fottuta mano di Fler. Odio chiunque non si senta come mi sento io in questo momento. Ed odio anche quelli che ci si sentono. Perché la rabbia mi sta divorando e mi sembra di essere l’unico che abbia il diritto di perdercisi.
Grugnisco frustrato, voltandomi di scatto. La mano di Fler e la mia spalla perdono contatto per un secondo netto. Il tempo di girarmi. Poi è di nuovo lì.
- E mollami, Cristo. – chiedo burbero, lanciandogli un’occhiataccia irritata.
Lui scuote il capo.
- Ti dà fastidio? – chiede, indicando la mano con un cenno del capo.
Io sbuffo.
- Non particolarmente.
- E allora resta lì dov’è. – conclude serio, - Almeno finché non la pianti di voler sfondare la porta a calci.
- Non voglio niente del genere. – nego, distogliendo lo sguardo.
Fler sorride. Non lo vedo ma lo sento nell’aria.
- Come preferisci. – risponde. E la mano non si sposta.
Resta lì mentre mi chiede se voglio andarmene. La risposta è “no”, ma annuisco. Perché è meglio che Fler mi porti via. Resta lì anche mentre scendiamo le scale verso il piano di sotto, oltrepassiamo la porta, il vialetto e il cancello, e ci infiliamo in macchina. Eravamo in tre, in questa macchina, quando siamo arrivati. Tutto mi aspettavo meno di trovarci Fler, qui da Bushido. O meglio, un po’ me l’aspettavo, ma evitavo di pensarci. Comunque era qui. In macchina c’eravamo io, Bill e Jost. Adesso ci siamo io e Fler. Alla fine della giornata, qualsiasi sia la cazzo di macchina coinvolta, qualsiasi cosa sia successa durante il giorno, se è stata una giornata di merda c’è sempre Fler al mio fianco sul sedile. Sempre lui. E la mano non si sposta. È scomparsa solo mentre ci mettevamo seduti. È di nuovo lì, adesso.
Rilasso la schiena contro il sedile e sospiro profondamente, gettando indietro il capo e chiudendo gli occhi. Sono furioso. Non serve a niente che faccia la sceneggiata dell’uomo triste ma tranquillo, Fler me lo sente addosso che non sono niente del genere. Non sono triste, sono furioso. Per niente tranquillo. Potessi, prenderei a mazzate un muro. Per il solo piacere di sentirmi dire “guarda che non puoi abbatterlo” ed abbatterlo comunque, fottuto mattone dopo fottuto mattone.
Un po’ mi dispiace che ci sia Fler in giro mentre sto così. Fler non ha molta fortuna. Almeno non con me. Finisce sempre che mi gira intorno quando ho voglia di devastare qualcosa. Non voglio finire di nuovo a devastare lui.
La mano di Patrick si stringe attorno alla mia spalla, massaggia un po’ i muscoli contratti – le dita bene aperte, il palmo aderente al tessuto della mia maglietta – e poi si ferma.
- Chaku, andiamo un po’ a casa tua, ti va? – e lo dice con un tono dolce che gli ho già sentito usare, qualche volta. Quelle volte in cui io e lui continuavamo a stare bene l’uno con l’altro anche quando non stavamo scopando, per esempio. Fler non ha una voce cattiva, ha una voce che può diventare tremenda se è gelida e furente, ma a livello base, quando è di buon umore, quando la ammorbidisce coi toni dolci, quando sorride, non è cattiva affatto. È piacevole.
Lo guardo, gli occhi socchiusi, e lui per qualche motivo arrossisce.
- Vuoi venire da me? – glielo chiedo non perché sono uno stronzo, ma perché voglio essere sicuro di aver capito bene. “Venire da me” non è mai stato privo di conseguenze, fra me e Fler. Ha sempre significato una cosa ben precisa. Stranamente, non mi sento in colpa nei confronti di Bill, a pensarlo adesso. Sarà perché so perfettamente cosa sta succedendo dietro la porta cui Jost sta facendo la guardia.
Fler spalanca gli occhi e, invece di ritrarsi come sarebbe ovvio, buono e giusto, stringe di più la presa.
- Peter… - mi dà i brividi che mi chiami per nome. Ultimamente, questo nome l’ha usato quasi solo Bill. Mi piace sentirlo su labbra non sue, da una voce non sua. Per una volta, cazzo, voglio che le prossime ore siano differenti dagli ultimi mesi della mia vita. C’è stato solo Bill nella mia vita, per nove fottuti mesi. Ciò che ho in cambio adesso è la sua bocca su quella di Bushido, le sue braccia attorno al suo collo e lui stretto al suo corpo come nel mondo intero non esistesse nient’altro. E allora no. Allora no, vaffanculo. Fa male. Non ci sto.
- Patrick. – lo chiamo a mia volta. Non distolgo lo sguardo e non mi muovo. La sua mano è ancora lì. Mi piace che sia ancora lì. Sono contento di non averlo scacciato.
È ridicolo, ci siamo appena chiamati per nome senza un perché.
- Forse è meglio se andiamo da qualche altra parte, invece di andare a casa tua.
- Forse è meglio se la smettiamo di nasconderci dietro un dito.
Fler arretra un po’. Solo qualche centimetro, poi si rende conto che è comunque seduto in macchina e non può certo attraversare lo sportello come fosse un fantasma. Si rende conto che per allontanarsi ancora dovrebbe per forza lasciarmi andare, voltarsi, tirare la maniglia, spingere ed uscire. Per qualche motivo che non comprendo – come al solito: non l’ho mai capito, io, perché Fler si ostinasse a restare – non si muove oltre. Resta lì. La mano trema appena, incerta.
- Peter, - continua a chiamarmi per nome, - io non ti sto mentendo. Mi manchi. Mi andrebbe. Ma non possiamo.
Mi muovo, accendendo la macchina ed ingranando la marcia, dirigendomi verso casa.
- Loro stanno potendo. Eccome. – ringhio, aggrottando le sopracciglia.
- Non sai se sta succedendo davvero. – dice lui, lasciando scivolare la mano lungo il mio fianco. Non può più tenerla lì dov’era ma non vuole interrompere il contatto. Comunque questo discorso potrebbe anche concludersi qui, perché io non gli ho neanche detto cosa penso e lui l’ha già capito. L’ha già capito perché anche lui l’ha pensato. E se lui l’ha pensato – e lui lo conosce bene, Bushido. E conosce bene anche Bill – allora sta succedendo. Cristo, io me lo sento nelle ossa, che sta succedendo. È una cosa così evidente e palese che mi sembra perfino ridicolo starne a discutere. – Non ti fidi?
- No. – sbotto senza neanche pensarci, - Non c’è scritto da nessuna parte che amare qualcuno significhi fidarsi di lui. Oltretutto, non mi pare che Bill mi abbia dato modo di fidarmi, negli ultimi dieci minuti. – mi fermo al semaforo, schiacciando la frizione con furia. – Magari, ok, glielo concedo, magari non scoperanno. Mi viene da ridere a pensarci, perché è una cosa ridicola, tu lo sai ed io lo so che scoperanno, ma ammettiamo per un istante che non lo facciano. In ogni caso, appena l’ha visto gli è saltato fra le braccia. Classica scena epica, ci aveva abituati tutti così, giusto?, Bushido gli si è inginocchiato di fronte, gli ha fatto il baciamano, “ciao, principessa”, e il secondo dopo eccolo che gli si scioglie addosso. A questo punto, scusa la franchezza, me ne sbatto il cazzo se scoperanno o meno. Mi sembra di avere già motivi a sufficienza per essere incazzato.
Non ribatte – ovviamente non ne ha il coraggio: ‘cazzo puoi ribattere se uno ha ragione? – perciò è così che restiamo – in silenzio, io mani sul volante, lui mano sul mio fianco – finché non arriviamo a casa mia. Non gli chiedo se vuole salire, a questo punto o sale con le sue gambe o lo trascino su io per il cappuccio della felpa.
Fortunatamente sceglie le proprie gambe. Io non so dove trovo la forza, la decenza e la presenza di spirito per non saltargli addosso appena ci chiudiamo la porta alle spalle. Fatto sta che, malgrado io non mi senta né forte né armato di decenza né tantomeno presente – allo spirito, a me stesso o a chicchessia – decido di prendermela comoda. Fler è qui, non penso intenda scappare ed al momento, se gli metto le mani addosso, mi sfogo. Non voglio sfogarmi. Non mi piace sfogarmi su di lui. Se dev’esserci qualcosa, oggi, non sarò io che gli faccio male. Non è questo che voglio. Lui è gentile a restare. Non se lo merita.
Comunque è nervoso. Lo vedo dal modo in cui cammina e si muove per l’appartamento, tirando su da terra le cose che incontra al proprio passaggio e continuando a lanciare occhiate incerte al frigorifero.
- Magari ci prendiamo qualcosa da bere? – biascica, indicandolo da qualche metro di distanza.
Scrollo le spalle.
- Non funziona. Non aprirlo. Ne viene fuori un odore nauseante. Non ti ci avvicinare nemmeno, fidati, è meglio. – e così dicendo, visto che non ho niente di meglio da fare, sfilo il cappellino e la felpa, restando in maglietta e pantaloni. Fler deglutisce.
- Potremmo provare ad aggiustarlo. – suggerisce a bassa voce, distogliendo lo sguardo.
Tolgo anche la maglia. Non intendo dirglielo ad alta voce. Non intendo dire ad alta voce che scoperò con qualcun altro che non sia Bill. Però voglio farlo. Voglio farlo ma non voglio dirlo, perché me ne vergogno. Mi torna in mente Fler che mi dice “mai vergognarsi delle proprie azioni, è da sfigati e noi non lo siamo”. Mi sa che sbagliavi, Pat. Sbagliavi alla grande.
- Sei un elettricista, per caso?
- No, ma so-
- Non mi interessa. – sfibbio il primo bottone dei jeans, - Non ti ho chiesto aiuto per sistemare il fottuto frigo.
Fler si inumidisce le labbra e resta in silenzio per qualche secondo. E poi indietreggia. Cristo, mi viene quasi da ridere. Indietreggia! Neanche lo stessi minacciando di pestarlo o chissà che. Cazzo. Si tratta di una scopata, cazzo. Ne abbiamo a decine in memoria, è una cosa quasi logica. A toccarsi solo un po’, andiamo avanti senza nemmeno rendercene conto. Lo so. Lo so che sarebbe così. Dovrebbe solo lasciarsi toccare, Cristo santo, e dopo sarebbe tutto normalissimo e naturalissimo. Dovrebbe concedermi solo questo.
- Patrick. – lo chiamo. Non so perché mi ostino ad usare il suo nome di battesimo. Sarà che oggi è strano. Se uso un nome che non uso spesso, posso fingere che non sia lui, posso fingere di non stare distruggendo qualcosa di bello che c’è nella mia vita per la frustrazione di una sera.
Fler mi ha detto no più volte di quante io riesca a contare. Mi ha detto una quantità sconcertante di no prima che mi mettessi con Bill ed ha ripreso a dirmi no quando io ho ripreso a mettergli le mani addosso. Posso tranquillamente dire che, da quando è morto Saad, le mie uniche costanti immancabili sono state Fler e i suoi no. Adesso, solo perché sono incazzato con Bill, le sto calpestando entrambe. E non mi va di farlo a Fler, perciò lo faccio a Patrick.
Lui mi guarda. È fantastico che non riesca a staccarmi gli occhi di dosso. Non posso dire che avessi dimenticato che era questo, l’effetto che facevo a Fler, perché in realtà non ho mai smesso di leggergliela negli occhi, la voglia. Così come lui non ha dimenticato come si fa a leggerla nei miei, suppongo. Ecco perché se n’è uscito con la questione dell’andare via. Perché ha visto la voglia tornare ed ha avuto paura di combinare qualche danno.
A me, in questo preciso momento, non frega più un cazzo. A non combinare danni per nove mesi, non ho guadagnato niente. La principessa mi perdonerà se, per qualche ora, la mando a fanculo, visto che lei lo sta facendo in favore di un re che dovrebbe – cazzo – essere morto.
Perciò niente, mi avvicino ancora e sfibbio un altro bottone. Fler indietreggia di un altro passo e trova il muro. Mi fissa con sgomento, quando solleva gli occhi su di me e mi trova a ghignare.
- Sei un tantino arrivato alla parete. – gli faccio notare con un mezzo sorriso.
Lui stringe le labbra, prima di parlare.
- Mi dai i brividi. – dice. E lo so. Do i brividi anche a me stesso. – Non voglio, Chaku.
- Peter.
- Chaku.
Scrollo le spalle e sfibbio l’ultimo bottone.
- Come vuoi. – faccio un altro passo verso di lui e siamo distanti appena un paio di centimetri. Sta schiacciato contro il muro, tanto è il bisogno che ha di non toccarmi. – Fler. Visto che ci tieni.
- Per favore. – chiede, ed a me viene ancora voglia di ridere. Potrebbe stendermi a cazzotti, se solo volesse. Potrebbe mandarmi a sbattere contro la parete opposta con uno spintone. Potrebbe rimettermi a posto in due minuti, non gli costerebbe nemmeno della vera fatica. Ma non lo fa. È debole, contro di me, ha una soglia di resa bassissima. Non so se questa consapevolezza, in questo momento, mi esalta o mi diverte di più. – Smettila.
- No. – dico seccamente, - Mi sono rotto i coglioni di smetterla. – lo afferro per i fianchi, tirandomelo contro. Impatto, scariche elettriche. Come sempre. Questo non cambia mai, Fler, come fai a non sentirlo?
- Chakuza! – mi chiama, più deciso, e fa il grave, gravissimo errore di posarmi le mani sul petto per cercare di spingermi via. Lo fa con una convinzione tutta particolare. Quella che sembra vera solo a guardarla dall’esterno. Perché io che mi sento le sue mani addosso non l’avverto per niente. E mentre mi tocca se ne accorge anche lui, che non mi sta allontanando davvero. Glielo leggo negli occhi, che lo capisce. E che si chiede che cazzo stia succedendo. Che cazzo stia facendo io e che cazzo stia permettendomi di fare lui.
- Andiamo, Fler. – lo schiaccio contro il muro, le mani sotto la maglietta a divorare centimetri di pelle, - Non mi prendere in giro.
- Non voglio. – dice a fatica. La sua voce mi vibra sulle labbra mentre gli mordo il collo.
- Vuoi. – lo correggo, sporgendomi un po’ verso la sua bocca, - Non mentire.
- Tu sei uno stronzo. – ansima mentre armeggio con la cintura dei suoi pantaloni, - Sei uno stronzo e sei un bugiardo. Non dire a me di non mentire.
- In questo momento, non ti sto mentendo. – ringhio, infilando una mano oltre l’orlo dei jeans ed accarezzandolo lentamente attraverso il tessuto sottile dei boxer, - Quello che voglio lo sai. Manca solo che te lo chieda ad alta voce. Devo farlo?
- No! – ringhia, piegando un po’ il capo e socchiudendo gli occhi, lasciandomi scivolare le mani dal petto fino alle spalle e stringendo forte, - Cristo, no. Smettila. Non voglio.
E non l’ho ancora baciato. Non riesce nemmeno a lasciarmi andare. Non ho ancora neanche fatto finta di baciarlo.
Lo faccio, perché a Fler piace baciare. Ci si perde. Mi spingo in avanti e gli catturo le labbra con le mie. Le sto forzando con la lingua il secondo successivo, anche se forzare non è il termine più adatto, perché le trovo già schiuse in attesa di me appena le sfioro. Come dicevo, a Fler piace baciare, oh sì, gli piace un monte. Ci si perde del tutto e non capisce più niente. È l’effetto che su di me ha il sesso. A lui bastano i baci. Ciò dimostra che è un ragazzino, lo è sempre rimasto malgrado tutto ed io sono davvero lo stronzo che dice lui. Molto semplice. Non ho voglia di sentirmi in colpa anche per questo, al momento. Basta già il pensiero di star tradendo Bill. Che, cazzo, se lo merita. Ma mi fa sentire in colpa lo stesso.
- Chaku… - ansima esausto quando mi allontano da lui e faccio per tirargli via la maglietta di dosso, - Cristo, sei una merda. Smettila, per favore.
- Stai piagnucolando come un ragazzino. – gli faccio notare, mordendogli una spalla da sopra il tessuto, - Se mi vuoi fuori dai coglioni, prendimi a calci. Altrimenti lasciami fare senza lamentarti.
- …sto cercando… - deglutisce, piegando il capo mentre risalgo con le labbra la linea del suo collo, - …di non farti del male. Stai già male.
- Sto alla grande. – ritorco, spogliandolo di prepotenza, - Mai stato meglio.
Lui non mi guarda. Quando non mi guarda è perché sa che mi basterebbe guardarlo negli occhi per leggerci dentro che pensa io abbia torto. Non vuole darmi torto. Cristo. Perché dev’essere così? Sarebbe molto più facile – sarebbe molto, molto più facile – se fra me e Fler non ci fosse niente. Almeno non lo conoscerei così a memoria. E non potrei elencare così alla perfezione tutte le centinaia di modi in cui gli sto facendo del male adesso.
Lo so, Fler. Lo so che ti sto passando addosso come un fottuto carro armato. Lo so che ci stai di merda. Lo so. So anche perché non riesci a dirmi no, cazzo, da qualche parte dentro di me l’ho sempre saputo. Ma non ce la faccio a fermarmi. Non voglio. Non riesco a trovare un motivo per farlo, non ci riesco neanche provandoci. Bill non è un motivo, in questo momento. E Bill è stato un motivo per quasi tutto l’ultimo anno della mia esistenza. Perciò mi fa male che non lo sia più. E non ce la faccio a fermarmi, a queste condizioni. Non ce la faccio e basta.
- Spegnimi il cervello. – glielo soffio addosso come un’implorazione. Suona affranto e sconfortato allo stesso modo, almeno alle mie orecchie. Gli sfioro una guancia con le labbra, non è un vero bacio, è solo uno sfregamento, però è una cosa intensa. Lui si irrigidisce e si tende tutto sotto le mie mani. Lo guardo negli occhi, prima di continuare. – Spegnimi il cervello. – ripeto, - Sei sempre stato bravo a farlo. Non dirmi di no. Per favore.
E lui in effetti non me lo dice. Le sue mani – che sono ancora sulle mie spalle. Lo sono come lo erano quando siamo usciti da quella dannata stanza. Il modo in cui Fler mi tocca non è mai davvero cambiato – scivolano verso l’alto, lungo il mio collo. Mi aggancia alla nuca e mi accarezza con una tenerezza che con il sesso non c’entra niente.
Ecco, questo mi calma.
…questo mi calma.
La sua fronte sfiora la mia e restiamo a guardarci negli occhi da una distanza minuscola.
- Devo farlo. – mi sussurra sulle labbra, con un mezzo sorriso, - Bill non resterà per sempre chiuso in quella stanza, Peter. Quando ne uscirà, dovrete parlare. Ed allora desidererai di non aver scopato con me. – si prende una pausa, continua ad accarezzarmi la nuca ed io mi sento esplodere il cuore. – Non voglio essere un rimpianto. Tu me lo devi, questo. Non puoi fare di me un rimpianto.
Saranno le carezze, non lo so. Sarà la sua voce, che è di nuovo dolcissima.
Sarà che ha ragione. Non posso. Nemmeno voglio. Fare questo, che sia a Fler o che sia a Patrick… no, non voglio.
Comunque mi allontano. Lo faccio senza piacere, perché staccarmi da lui è difficile. Dio, lo è sempre stato, anche quando passavamo il tempo a cazzeggiare, figurarsi se non lo è adesso che è tutto diverso, tutto complicato e tutto doloroso.
Mi allontano e gli lascio spazio. Lui mi ringrazia con un sorriso e si china a recuperare la maglietta. La indossa, riabbottona i jeans e si dà una sistemata generale senza guardarmi. Io non gli stacco gli occhi di dosso. Non sono pentito di aver lasciato perdere. Mi manca il suo calore, la forma del suo corpo e il suo odore, sì, ma in un certo senso mi mancano sempre. Quando non c’è Bill, quando sto facendo qualcosa di insopportabilmente noioso, quando guardo una cosa a caso che mi ricorda lui, queste cose mi mancano sempre. Quindi non c’è niente di diverso. Sono calmo. È riuscito a calmarmi e vorrei poterlo odiare per questo, ma non ci riesco.
- Mi dispiace. – ammetto a mezza voce mentre lui recupera la giacca e si muove verso la porta.
Lo sento ridacchiare piano.
- Lo so. – annuisce indossandola, - Tu sei un disastro. Ormai ci ho fatto il callo.
- …mi dispiace anche per questo. – sospiro. Lui annuisce ancora e mi saluta. È già sparito, chiudendosi la porta alle spalle, prima ancora che possa realizzare che lo sta facendo.
A questo punto mi guardo intorno. I soprammobili sono a posto. Non c’è quasi niente per terra. È tutto molto ordinato.
Conto le opzioni che ho per passare il resto della nottata. Non sono molte, penso, mentre afferro soprammobili a caso e comincio sistematicamente a lanciarli in giro per la stanza.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash.
- "Chiunque ci sia dietro a tutto questo, ha un pessimo senso dell'umorismo e se solo riuscissi a staccare gli occhi da quello che vedo, allora starei già chiamando la redazione, David e chiunque in questo momento meriti le mie urla."
Note: …ebbene è successo XD Non so se ve lo aspettaste e, in caso ve lo aspettaste, se ve lo aspettaste così. Io e Tab – che questa shot l’abbiamo scritta insieme per il semplicissimo motivo che ci saremmo entrambe strappate i capelli dalla testa se avessimo dovuto scriverla da sole, per motivi diversi ma complementari XD – sappiamo con certezza che almeno una di voi (senza fare nomi e cognomi ma solo nickname: FedyKaulitz XD) ci era arrivata molto – ma molto – vicina. Per il resto, speriamo che nulla di ciò che è stato scritto qui sopra vi abbia deluso. Liz ci tiene a specificare che ama moltissimo Bushido e l’ha amato in questa shot in pratica come mai prima XD Tab ci tiene a rimarcare il suo odio, BTW. Quanto al resto, ci si vede venerdì per lo spin-off :)
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CRASH INTO ME

Io sono un tipo piuttosto abitudinario, nonostante il lavoro che faccio. O forse proprio per il lavoro che faccio. Quando passi periodi lunghissimi a dormire in una città diversa ogni notte, ti attacchi alle piccole cose pur di ricreare un minimo di atmosfera di casa. Per questo quando sono in tour faccio colazione con una certa marca di cereali, e solo con quella, che poi è la stessa che uso quando sono a casa. Voglio oggetti per il bagno precisi, voglio camerini che contengano più o meno tutti le stesse cose e il mio tour bus, per quanto è umanamente possibile, contiene tutto ciò che possa farmi dimenticare che mi trovo su un mezzo semovente. Nella mia cuccetta ho una specie di versione da viaggio della mia camera vera: stesse foto, stesse creme, stessi oggetti sul comodino.
Tom dice che sono quasi maniacale, io dico solo che questo è il mio modo di non alienarmi. Ci si perde facilmente senza punti fissi. Dopo due settimane di tour, per dire, già ti senti un po' fuori fase. Tre mesi lontano da casa, dormendo su un camion, possono avere delle conseguenze non indifferenti sul cervello umano. Mio fratello ovviamente non condivide i miei metodi. Lui per combattere l'alienazione ci entra dentro con tutte le scarpe. Dice che ha due vite diverse, una quando è a casa e una quando invece a casa non c'è. La differenza sostanziale tra le due vite è che in tour si permette di cambiare ragazza ogni notte e di scopare come se non ci fosse un domani, cosa che non fa quando è a Berlino perché quando è a Berlino non ha bisogno di scaricare nessuna tensione, né tantomeno di farsi bello raccogliendo donne come la rete per la pesca a strascico perché non abbiamo i giornalisti attaccati al sedere così spesso come invece uno pensa. Perché la verità su mio fratello, alla fine, è che fa sesso perché gli piace, certo, ma lo fa anche perché non fa nessuno sport e quello è il modo che gli rimane per scaricare lo stress. Beh, quello e la Wii, ma diciamo che preferisce la prima opzione per ovvie ragioni. Questo, tra le altre cose, mi fa venire in mente che Chakuza è uguale. Lui farà anche sport, credo, a dire il vero non lo so, ma quelle due spalle lì deve averle per qualche motivo, comunque il fatto è che Chakuza fa sesso per lo stesso motivo. E al momento la cosa mi riguarda da vicino perché, insomma, lo fa con me e questo significa che non c'è momento che passiamo insieme senza che lui mi spalmi su qualche superficie, così, senza nemmeno grandi discorsi a volte. Alché c'è da chiedersi se non sia molto, molto stressato ma credo di no. Credo che nel suo caso oltre allo stress, ci sia anche il fatto che gli piace proprio. E a me piace che a lui piaccia perché piace anche a me. E comunque mi sono perso.
Dicevo che io sono un tipo piuttosto abitudinario quando sono in tour, e anche a casa non scherzo. Se sono nel mio appartamento, e quindi non ho niente da fare, e quindi posso fare più o meno tutto quello che voglio, di solito non faccio assolutamente niente; che per uno che di solito lavora dalle sei del mattino alle tre di notte con l'obbligo di sorridere a chiunque, è la vacanza migliore del mondo.
Mi sveglio, faccio colazione e telefono a Peter per parlargli essenzialmente di nulla e distogliere la sua attenzione da qualunque cosa stia facendo per farlo concentrare su di me, che mi sono appena svegliato e ho assoluto bisogno di sentirmi amato. Lui di solito la mattina è un amore - Peter è sempre un amore, in realtà, tranne quando s'incazza per qualcosa, che di solito non sono io, però, quindi, in sostanza, per me è sempre un amore - e sta a sentire tutto quello che gli dico e ride. Ed è un bel suono il Chaku che ride al mattino. Quindi, di solito, dopo averlo tenuto un tempo indecente al telefono, telefono a mio fratello, che si ingelosisce se non faccio perdere almeno quaranta minuti anche a lui. A quel punto mi faccio la doccia, scelgo i vestiti e raggiungo Peter a casa sua, o lui viene qui. A volte vado alla Beatlefield se sono sicuro che Stickle non c'è. Ma di solito c'è, perché lui lavora.
In queste ultime settimane, però, la mia routine è stata ampiamente devastata dalle paranoie di David. Mentre ero a Disneyland con Peter mi ha fatto promettere che per un po' ci saremmo visti di meno, io e lui, e con più attenzione perché i giornalisti stanno cercando lo scoop. Averglielo promesso, in realtà, un po' mi scoccia perché quando prometto, poi mantengo anche e questo significa che per vedere Peter devo fare delle acrobazie che nemmeno il Cirque du Soleil, tipo che devo uscire di casa struccatissimo e con il viso tutto coperto e devo prima andare da qualche parte che con la casa di Peter non c'entra niente, qualcosa di poco interessante per i giornalisti nel caso fossero appostati, tipo, non lo so, il supermercato o un negozio qualunque - anche se poi non è vero che non gli interessa perché si inventano storie su qualunque cosa. Tipo vado al mercato, compro due mele, e all'improvviso sto seguendo una nuova dieta di qualche guru indonesiano che prevede solo due frutti al giorno. Vado in farmacia, e sono sicuramente sotto anti-depressivi. Entro in un negozio di animali e voglio comprare un chihuaua come Paris Hilton. In sostanza ovunque vada, se loro mi stanno dietro, uscirà un articolo. Però questo serve, li depista. Dopo un po' che compro mele, anti-depressivi e chihuaua torno a casa, loro si stufano e quindi io esco e vado da Peter.
Peter di questi problemi non ne ha, a lui non lo segue nessuno. A lui basta arrivare in macchina e lasciarla nel parcheggio interno del complesso residenziale. Lì dentro i paparazzi non possono entrare, per cui lui può anche scendere dall'auto con una freccia sulla testa e la scritta al neon - CHAKUZA - che lampeggia, tanto non lo vede nessuno. Comunque, dicevo, per via della paranoia di David, ho promesso di non andare di continuo da Peter. Quindi stamattina, dopo la mia colazione, dopo aver chiamato il mio amore e aver saputo che è a casa, si annoia, gli manco - e se fossi lì faremmo l'amore tipo ovunque, tipo in ogni modo, tipo che è meglio se non ci penso perché sono tre giorni che non lo vedo e non ho nemmeno la testa impegnata a preparare concerti e quindi lo voglio. Uffa. - dopo tutto questo, anche dopo Tom, la doccia, i vestiti e David che mi telefona per farmi promettere di fare il bravo - d'altronde lo fa solo quelle quattro o cinque volte al giorno - non ho niente da fare. Quindi mi accoccolo sul divano e decido che posso anche dare un'occhiata a quel mezzo quintale di riviste che mi arrivano per posta e che di solito ammucchio tutte insieme per leggerle quando proprio non riesco a cazzeggiare in altro modo. Ci sono un sacco di cataloghi di moda, qualche rivista del settore e tutta la stampa che per un motivo o per un altro possa contenere articoli che mi riguardano. Mi piace sapere cosa dicono su di me e tenere il conto delle volte che sono diventato anoressico, ho tentato il suicidio, oppure ho litigato con il mio manager per qualche motivo da diva. E poi, visto che sono chiuso in casa perché qualcuno cerca di capire con chi me la faccio, allora voglio sapere quanto ci sono andati vicino. L'ultima volta che abbiamo avuto un allarme del genere avevano puntato su Jimi Blue. Andiamo! Ma vi pare? Quando l'ho detto a Chakuza ha riso così forte che non riuscivo nemmeno a farlo smettere. Quando poi lo ha incontrato ad una serata, una settimana dopo, poca ci mancava che riprendesse a ridergli in faccia.
Se hanno pensato a Jimi Blue allora stanno seriamente pescando a caso, non sono davvero preoccupato. Tolgo di mezzo le riviste di moda, recupero le altre e ci do un'occhiata per vedere da quale partire. Di solito le metto in ordine di interesse, prima le notizie o gli articoli più noiosi, poi quelle che davvero vorrei leggere, così mi godo di più l'attesa. Solo che questa volta non funziona, perché mentre sto impilando le riviste, l'occhio mi cade sulla copertina di Bravo e mi congelo.
Chiunque ci sia dietro a tutto questo, ha un pessimo senso dell'umorismo e se solo riuscissi a staccare gli occhi da quello che vedo, allora starei già chiamando la redazione, David e chiunque in questo momento meriti le mie urla.
La foto in copertina mostra l'entrata della Unversal Music Deutschland, e un uomo che sta uscendo dal portone. E' alto e indossa un cappotto elegante, nero a tre quarti ma questo non importa, per certi versi non lo guardo nemmeno. E' il titolo che mi fa incazzare, perché Bravo ne ha dette tante, ma adesso ha passato ogni limite.
Sono tornato, dice il titolo. Chi sono? E poi i suoi due nomi. Sono le parole di Wer Ich bin e io voglio ammazzare qualcuno.
All'interno l'articolo è semplicemente disgustoso. Ci sono solo due foto, prese da angolazioni diverse, ma le tre pagine che compongono l'articolo le riportano all'infinito: ingrandite, speculari, sgranatissime, nel dettaglio. E ogni didascalia è peggio di quella che la precede, e sono così arrabbiato che mi viene da piangere. E piango, cazzo, perché non ne avevano il diritto. Dicono che Bushido è tornato, come se fosse andato - che cazzo ne so, in America! - e ora fosse di nuovo qui. Anis è morto, stronzi, non può tornare. L'articolo non lo leggo tutto, perché non ne ho bisogno. Già alla prima pagina sono nauseato e non m'importa neanche delle loro congetture. Vaffanculo.
Dicono che lo hanno visto, che era lui, giocano con un uomo che è morto un anno fa e con i sentimenti miei e di tutti gli altri. E non riesco nemmeno ad immaginare come si possa essere così stronzi da sfruttare un dolore simile pur di vendere.
Tornato un cazzo, se fosse tornato - come poi? COME? E' morto, lo sanno bene - se fosse tornato, in qualunque modo, è da me che sarebbe venuto. E invece lo abbiamo seppellito e sono stato a guardare ogni singolo grammo di terra che gli abbiamo versato sulla bara fin a ricoprire tutto per bene. E' morto e questi non riescono a lasciarlo in pace nemmeno dopo il suo funerale. Vaffanculo.
Sono in piedi e recupero il cappotto un attimo dopo. Al diavolo le paranoie di David, ho bisogno di vedere Peter. E ne ho bisogno adesso.
Se mi seguono, almeno scriveranno qualcosa di vero.
*
A casa di Peter ci sono arrivato con la mia auto, ignorando la guardia del corpo che ho sempre fra i piedi. Non ho nemmeno sentito cosa diceva, l'ho evitata e basta. Mi hanno anche fotografato, mentre uscivo, ho visto i flash e me ne sono fregato anche di quelli. Venitemi dietro, nessun problema. Se non capite con chi scopo, siete liberi di inventarvelo, venirmelo a chiedere, pedinarmi. Ma giocare con i morti, no.
Parcheggio di traverso, male e di fretta, in mezzo alla strada perché Peter si ostina ad abitare in un palazzo popolare, tipo, non lo so. C'è un sacco di gente nel suo condominio, alla faccia dell'anonimato. E non c'è portiere, il portone fa schifo. Mi attacco al campanello perché le chiavi di casa sua le ho nella borsa. E la borsa è a casa, col mio cellulare, per cui non ho nemmeno avuto modo di chiamare David ed urlargli contro mentre venivo qua.
"Chi è?"
"Bill. Apri."
Sono dentro praticamente mentre il portone scatta e mi faccio le scale a piedi, che tanto l'ascensore non funziona mai. Arrivo su che sto già imprecando e non so nemmeno che cosa dico, in realtà. "Ehi, che sorpresa, non ti... aspettavo." Lui mi guarda perché sono un disastro, sono tipo in tuta e sto urlando da solo. E piango. "Che succede?"
Chakuza si allarma subito se io sono sconvolto. O meglio, i primi tempi si agitava tutto perché - in effetti - non era abituato al fatto che io faccio un dramma di qualunque cosa, per cui era sempre in agitazione. Poi un po' ha imparato. Solo che ora sto piangendo e sono visibilmente fuori di me, quindi è preoccupato.
"Io non posso crederci!" Sbraito e lui mi fa entrare e chiude la porta. Mi guarda con gli occhioni rotondi sgranati. "I redattori di Bravo sono esseri ignobili sono la... la feccia dell'umanità. Io non capisco come si possano fare cose del genere e poi tornare a casa a dormire, cazzo! Ci sono cose su cui non si può scherzare, non si deve! Ma che cazzo di gente è, questa? Eh? Me lo spieghi?"
"... non lo so?" Poi mi ferma per le spalle. "Bill, non capisco niente se fai così. Mi dici che cos'è successo, per favore?"
E io tiro su col naso e poi annuisco. Quindi gli passo il giornale. "Sono dei bastardi," dico soltanto. E aspetto che anche lui legga il titolo e veda la foto. E s'incazzi. E lo voglio proprio il Chaku incazzato.
Aspetto. Lui legge. E io aspetto e non esplode.
"Quando è uscito questo numero?" E' la prima cosa che chiede quando finalmente alza gli occhi dalla rivista. Si è letto tutto l'articolo.
Mi stringo nelle spalle. "Non lo so, ieri credo. Non lo so! Chi se ne frega!" Replico. "Hanno preso le foto di uno che ci assomiglia e hanno messo su questa... questa cosa! Non è giusto! Non dovrebbero avere il permesso di fare cose del genere, loro-"
"Bill."
Io lo guardo per due motivi: il primo perché mi ha chiamato con un tono preciso, che mi mette una gran paura anche se non so perché. Il secondo è che mi rendo conto che non è affatto inorridito da tutta la faccenda. E dovrebbe. Chakuza riesce ad inorridirsi per molto meno. Quindi mi chiedo perché sia sbiancato, perché mi guardi e dentro i suoi occhi io ci veda un senso di colpa che non ha senso di trovarsi lì.
"E' meglio se ti siedi, vuoi?"
"Sedermi? No, non voglio sedermi, Peter," sbraito. "Voglio che andiamo da David, lo carichiamo in macchina e quindi andiamo a spaccare la faccia al direttore di Bravo. Ecco cosa voglio." Non mi risponde. Guarda me, guarda il giornale e non capisco cos'abbia da stare tranquillo. "Chakuza, questi bastardi usano Anis per aumentare le ven-"
"E' lui."
Per un istante io non registro esattamente le parole che dice, il concetto, di per sé, è già troppo da sopportare. La prima cosa che penso è che non ho capito, o che è impazzito, insomma che è assurdo. "Che cosa stai dicendo?" Chiedo. "Anis è morto." E non mi trema nemmeno la voce mentre lo dico perché è una cosa che non dovrei dirgli, dovrebbe già saperla. E' come dirgli che la Terra gira.
Chaku, vienimi incontro, Cristo.
"Bill, ti prego, siediti."
"No," insisto. "Si può sapere che ti prende?"
Lui si gratta la nuca, a disagio. Si siede lui al posto mio, sul bracciolo di una poltrona, posa la rivista sul tavolo e quella si arriccia tutta perché non abbiamo fatto che stropicciarla e tenerla arrotolata. "Bushido non è morto," mormora.
"Che cazzo stai dicendo?"
"Bill, ascolta."
"No! Che.Cazzo.Stai.Dicendo!" E urlo, perché sembra un incubo. Da una parte mi dicono che è tornato, dall'altro vengo qui e lui non trova niente di meglio da fare che prendermi per il culo. "Lo trovi divertente? Credi che sia divertente startene lì con la faccia seria e dirmi che è vivo? Non sei spiritoso!"
"Non sto scherzando!" E grida anche lui per sovrastare la mia voce, e forse anche i suoi pensieri. E la situazione, lo capisco dopo.
Sto zitto e lo guardo. Gli occhi di Peter sono bellissimi, di un verde non troppo chiaro e sono screziati. Bisogna stargli vicino per vederli bene e io li ho guardati così tanto in questo ultimo anno che li so leggere. Hanno paura, adesso, e sono occhi un po' tristi. E quel senso di colpa è sempre lì. C'è tutto questo, là dentro, ma non c'è nessuna bugia.
"Non è possibile," dico. Faccio un passo indietro, inconsciamente diretto alla porta e lui si alza di corsa e mi viene vicino, mi prende per i polsi.
"Bill, calmati, ti prego!"
"No!" Sbraito. "Ero al suo funerale, c'eri anche tu, cazzo, la bara! L'hai vista! E i proiettili e tutto quel sangue, Peter. Che cosa stai dicendo?" Scuoto la testa e piango senza rendermi conto di farlo. Lo so quando sento il sale sulle labbra mentre lui mi stringe le mani intorno ai polsi ancora più forte.
"Non abbiamo mai visto il corpo, Bill."
"Era là dentro," singhiozzo.
"No, non c'era," insiste lui. "Ricordi che volevi vederlo e non te lo hanno permesso?"
Ho urlato quel giorno e urlo adesso. "Non è possibile! Dov'era se non è morto? Dov'è stato? Perché? Peter, non dire cazzate!"
Lui non dice niente, mi guarda e basta. E io semplicemente so che è vero perché in realtà Chaku scherzi di merda come questi non me ne farebbe mai e perché ora sono sull'orlo della crisi isterica e lui piuttosto che ridurmi così si fa investire, quindi no. E' tutto vero. "Tu come lo sai?" Realizzo all'improvviso. "Tu lo sapevi da quanto?"
"Da poco," mi risponde subito lui. "Molto, molto poco."
"Perchè non me l'hai detto?"
"Bill, come facevo?"
"Come hai fatto adesso!" Replico. "Voglio vederlo. Dov'è?"
Scuote la testa. "Non lo so."
"Cazzate, Peter. Dimmelo."
"Io-"
"Dimmelo!" Stavolta urlo e lo spingo indietro, colpendolo al petto.
"Bill, è la verità!"
"Dimmi dov'è!" Urlo ancora, alzo le braccia, lo colpisco forte, e lui un po' si difende, un po' cerca di bloccarmi. "Tu lo sai dov'è e non vuoi dirmelo!"
"NON LO SO!" La voce di Chakuza rimbomba per tutta la stanza e mi zittisce, come sempre. Lui non lo sa. Bushido è vivo. E se è vivo la Terra può anche smettere di girare. Non so neanche cosa significhi davvero tutto questo. Singhiozzo mentre lui mi stringe a sé, forte, come volesse avvolgermi tutto, e la mia voce si sostituisce alla sua, nell'eco della stanza. "L'ho visto una sola volta. Non so dove sia adesso. Non pensavo nemmeno che fosse... ancora qui, Bill."
"Voglio vederlo," gli nascondo il viso addosso. "Peter, ti prego, dimmi chi lo sa."
Alla fine cede. "Fler," mormora e io non penso al perché Fler lo sappia, penso solo che lo sa e che sono già due persone che lo sapevano mentre io ero all'oscuro di tutto. Chakuza recupera il cellulare e mi trascina sul divano.
Io non voglio stendermi, voglio urlare, ma non ho la forza, così ascolto gli squilli mentre mi accoccolo contro di lui e penso che da qualche parte, in questo momento, Bushido è vivo. E respira. E penso che non sia possibile.
La voce di Fler è un borbottio, non sento cosa dice. Lo sento fare una pausa quando Chakuza gli dice che io so. E io trattengo il fiato, Fler conosce il posto. Penso solo questo. Peter gli dice che va bene, annuisce.
"Dov'è?" Chiedo subito.
Lui mi guarda, sempre a disagio. "E' meglio chiamare David," risponde.
"David? Il mio David?" Mi sollevo e mi scosto, sedendomi sul divano.
"Bill..."
"Non chiamarmi per nome!" Esclamò e lo sguardo oltraggiato che gli lancio lo costringe a guardare altrove. "Tu, Fler, David, qualcun altro a parte me? Il mondo intero, forse, visto che Bravo gli fa pure le foto come se fosse normale?" Mi ripeto che questa cosa non è possibile ma anche che se esiste una possibilità surreale che tutto ciò sia vero, allora sono così incazzato, oltre che sconvolto, che farò del male a qualcuno.
Lui espira, piano. "Solo noi tre," dice. "Ed Eko."
"Perfetto!" Ho già il telefono in mano. "Anche lo scemo del villaggio lo sapeva. Questa cosa è... è... vaffanculo!"
"Gli telefono," si offre lui.
"Non ti azzardare nemmeno," lo congelo sul posto. "David è roba mia."
Il cellulare di David è sempre occupato. A volte con gli altri ragazzi lo prendiamo in giro dicendo che, evidentemente, tutte le linee telefoniche dell'universo devono passare da lui perché a qualunque ora lo chiami, alla prima non ti risponde mai. E nemmeno alla seconda o alla terza. Finisce che devi riattaccare e riprovare in un secondo momento e ancora finché non hai il culo di beccarlo tra una telefonata e l'altra.
Io sono furioso, però, quindi non mi fermo. Compongo il numero, attendo e quando sento il segnale di occupato, riattacco, ricompongo il numero e ricomincio.
"Bill, calmati, per favore." Peter si è alzato e mi gira intorno come un condor. Sa che non deve neanche provare a toccarmi adesso, non può fare niente. Può solo sperare che mi tranquillizzi ma non ho intenzione di farlo perché Bushido è vivo. Penso con rabbia che mi deve delle spiegazioni. E poi, proprio mentre riattacco per richiamare David ancora una volta, mi rendo conto che se è vivo anche io ne dovrò una a lui.
"Pronto?"
"Dov'è?"
Mi sembra quasi di vederlo, David che aggrotta le sopracciglia. "Bill?"
"Lo so come mi chiamo," dico spiccio. "Dov'è?"
"Dov'è chi?" Fa lui. "Cosa stai dicendo? Hai per caso bevuto?"
Mi alzo perché non riesco a stare fermo, quasi mi scontro contro Chakuza che non sta fermo nemmeno lui. "Anis. Bravo lo ha fotografato."
"Bill," risponde piano e io so che sta per dirmi che è morto. "Bushido è morto."
"Già, questo è quello che credevo anche io ma quello nella foto è lui e Chakuza lo conferma. Quindi adesso tu mi dici dov'è."
Dall'altra parte della cornetta il silenzio è pesantissimo. Non lo sento nemmeno respirare. So che è ancora lì perché non è caduta la linea. "Sei a casa di Peter?"
"Sì."
"Fatti accompagnare da me. Ci andiamo insieme," la sua voce è professionale, quasi gelida. Ha una paura fottuta. E fa bene perché sono incazzato.
"Bushido è vivo e tu lo sapevi," dico. "Ti conviene avere un buon motivo per tutto questo David, perché giuro su Dio che me la paghi."
Quello che dice non lo sento, ho già riattaccato.
Io e Peter siamo fuori di casa l'attimo dopo ma in quel momento neanche mi rendo conto di quanto immenso sia il disastro che ho per le mani.
Io voglio solo vedere Anis.
*
Per tutto il tragitto in macchina di Peter, io non faccio che stringere un labbro tra i denti così forte che sento il sapore del sangue sulla lingua. Mi accorgo a malapena di quello che succede intorno a me. Colgo i lineamenti tesi e lo sguardo ansioso di Peter, colgo la calma surreale di David – che poi mi irrita oltremodo, perché è la calma con la quale in genere affronta le grane sul lavoro. Il fotografo è in ritardo? È con questa faccia che cerca di rintracciarlo al telefono. Le camere in albergo non sono ancora pronte? È con questa faccia che invita il consierge a darsi una mossa. Un giornalista fa una domanda eccessivamente personale? È con questa faccia che lo minaccia di trascinarlo in giudizio alla prima occasione favorevole. Qui, però, non si parla di lavoro. Si parla della mia vita. Della vita di Anis. David non dovrebbe avere quest’espressione addosso, e io riesco a tollerarla solo perché, appunto, in realtà tutto mi sta passando vicino senza sfiorarmi, come fossi fatto d’aria.
Sto guardando fisso davanti a me, vedo quello che mi passa davanti agli occhi – per dire, riconosco i quartieri, le strade, so che nei paraggi abita Eko – ma ne prendo nota come di particolari marginali. In realtà sto ripercorrendo a memoria gli ultimi nove mesi della mia esistenza e sto cercando il punto dal quale cominciare per parlare con Anis. Sto cercando di capire se dovrei cominciare picchiandolo perché mi ha spezzato il cuore fingendo di essere morto, o se forse sarebbe meglio cominciare spezzando il suo, confessandogli che sto con Chakuza.
E la cosa più assurda, la cosa più incredibile, è che sto dando per scontate così tante cose che, se solo penso di fermarmi a rifletterci e contarle tutte, mi viene quasi da ridere. Do per scontato che voglia rivedermi, do per scontato che provi ancora qualcosa per me, do per scontato anche di provare ancora io qualcosa per lui. Io amo Peter. Lo amo, no? Dio, sì che lo amo. L’ho aspettato per tanto di quel tempo, e sono così felice, Cristo, certo che lo amo. Ma la sola idea di rivedere adesso Anis mi confonde al punto che non so se le farfalle ce le ho nello stomaco o nella testa. O se quello che mi agita sia una folata di vento o un dannato uragano.
La macchina si ferma davanti al portone di un palazzo che non conosco. Mi sembra perfino di non averlo mai visto, il che è surreale, perché questa è Berlino, la Berlino di Anis, ed io con lui questa città l’ho vista tutta. Mi ha portato ovunque, me l’ha insegnata metro dopo metro, “la mia città sono io, principessa,” mi diceva, “se non conosci lei, non conosci me” ed io lo seguivo senza fare storie e mi perdevo nella sua voce mentre mi parlava delle cose più stupide, di come contava i metri per ricordare dove fossero posizionati i vicoli sicuri quando scappava dalla polizia in servizio la notte, di come avrebbe potuto girare senza sbagliare strada perfino ad occhi chiusi, dei locali che frequentava, dei posti in cui si nascondeva, delle case in cui dormiva quando si riduceva stremato al mattino dopo una notte di lavoro e cazzeggio. Dovrei ricordarmelo, questo posto, devo necessariamente esserci passato davanti, almeno una volta. Dovrei ricordare tutto, di quello che mi ha detto Anis. Ogni cosa che mi ha mostrato ed ogni parola con cui l’ha accompagnata. Ma ho il vuoto nel cervello, adesso, e questo posto non lo riconosco per niente.
- È qui.
Sento la voce di David come un’eco lontana. Peter non parla, e gliene sono grato, in questo momento. Vorrei voltarmi e dire a David che ha poco da fare l’epico, lui, ora come ora. Che è qui lo so, perché è qui che mi ha portato e lui sa perfettamente che, se solo avesse osato prendermi in giro e portarmi da qualche altra parte, gli avrei cavato gli occhi con le mie stesse mani. Che è qui lo so, anche perché me lo sento sotto la pelle. Guardo in alto, scorro tutto il palazzo – non ho idea di quale sia il piano in cui sta – e so che è lì dentro. So che è a qualche metro da me. So che fra meno di un minuto lo rivedrò. E mi copro di brividi, al punto che comincio a tremare.
Peter mi si avvicina. È discreto, lo è quasi sempre quando sa che a toccarmi male potrei esplodere. E invece non esplodo perché, come al solito, lui mi tocca benissimo. Allunga una mano e stringe la mia. La accarezza un po’, solo lievemente, sa che, se in questo momento si comportasse in maniera eccessivamente tenera, lo allontanerei. E invece non è eccessivo, è solo giusto, mi sfiora, mi stringe ed io mi calmo un po’. Abbastanza da voltarmi verso David e seguirlo con gli occhi senza ucciderlo mentre tira fuori dalla tasca dei jeans un mazzo di chiavi ed apre il portone, tenendolo dischiuso mentre mi fa cenno di entrare alla svelta. Obbedisco non perché me lo sta ordinando, ma perché la voglia di vedere Anis mi sta facendo bruciare da dentro.
Il tempo sta scorrendo a rilento. Vorrei poter essere più veloce, vorrei potermi muovere prima, vorrei essere già dov’è lui e vorrei averlo già sotto gli occhi. Ho paura che potrebbe andarsene di nuovo – ne ho paura e non l’ho ancora nemmeno rivisto – ho paura che, ad aprire quella porta in ritardo, Anis potrebbe non esserci. Non posso continuare a sopravvivere in questo stato ancora a lungo, perciò devo sbrigarmi e non mi riesce. Non mi riesce di essere più svelto e non mi riesce di essere già lì, cerco di divorare le scale di corsa e invece mi sento paralizzato.
David non so dove sia. È rimasto indietro, suppongo. Peter è sempre qui accanto a me. Continua a stringermi ed è d’aiuto davvero. Se mi lasciasse andare, probabilmente mi metterei a correre. E non posso correre, perché le mie gambe sono troppo rigide. Se solo mi muovessi nel modo sbagliato, penso che mi spezzerei. Sono un fascio di nervi e sento dolore ovunque, sudo freddo e sto male. Sto malissimo, cazzo. Forse mi sto già spezzando. Forse Peter non può aiutarmi anche stavolta.
Mi fermo quando Peter mi tira. Peter mi tira perché David gli ha indicato la porta giusta. Io seguo il cenno di David e fisso il legno fino ad impararne a memoria le venature. Poi David suona al campanello e sento i passi.
Non sono di Anis.
E infatti, quando la porta si apre, di fronte a me c’è Patrick. Che mi guarda come se fosse perfettamente normale. Tutto, poi. Che lui sia lì, che io sia lì, che Anis sia lì, da qualche parte. Neanche avessimo tutti avvisato per tempo e questa fosse una cordiale cena di famiglia. Non lo è, cazzo. Mi sta esplodendo il cuore. Non riesco nemmeno a respirare.
Patrick non parla. Però mi sorride. È intenerito, o forse no, i sorrisi di Fler sono sempre molto morbidi e questo è perfettamente uguale a tutti gli altri. Non so se sia sempre intenerito quando mi sorride, o se sia proprio il suo sorriso così. Dovrei chiedere a qualcuno che lo conosca meglio di me. Non mi viene in mente neanche un nome a parte Anis, e di decifrare i sorrisi di Patrick col suo aiuto, al momento, non mi interessa per nulla.
Mi faccio avanti di un solo passo, Fler tiene entrambe le mani sugli stipiti della porta ed ingombra l’entrata per intero. Potrei spostarlo solo a testate, e non sono sicuro che ci riuscirei davvero, anche provandoci. Comunque, nel movimento mi tiro dietro Peter, gli occhi di Patrick scendono sulle nostre mani ancora strette insieme e gli passa un lampo scuro negli occhi. I suoi lineamenti si tendono tutti e so che sta pensando che non dovrei stringere questa mano con Anis così vicino a noi. Lo so che lo sta pensando. Lo sto pensando anch’io. Ma se lascio Peter adesso vado in pezzi, perciò la mano resta dov’è.
La mano resta dov’è, sì, ma si irrigidisce anche lei, come i lineamenti di Fler. Sento le scintille nel punto in cui dovrebbe esserci Peter. Questa cosa la capisco meno, ma in realtà sto capendo pochissimo di quello che sta succedendo. Continuo a prendere nota dei particolari come dovessi riutilizzarli più tardi per ricostruire la scena di un crimine. Quello che vedo ora non sono che tasselli sparsi di qualcosa che non riesco a realizzare nella sua completezza. Vedo solo pezzi di cose. La mano di Peter, gli occhi di Fler, quel poco che si intravede oltre le sue spalle dell’appartamento illuminato poco e male. Nient’altro.
Mi inumidisco le labbra, prima di parlare.
- Voglio vederlo.
Fler inspira profondamente e poi trattiene il fiato per un secondo, prima di rispondermi.
- Lui vuole vedere te. – dice a bassa voce. E poi si scosta.
Forse perché sono un bambino, forse perché sono uno stupido, mi aspetto di trovarmi subito Anis davanti agli occhi come dovesse apparire per una qualche ragione. Non lo so, ci resto male quando non lo vedo. Resto fermo per un sacco di tempo. Lui lì all’ingresso non c’è.
- Dov’è? – chiedo, voltandomi a guardare Fler. Ho gli occhi pieni di lacrime, Patrick è una macchia sfocata che sbuffa una risata e mi precede. Seguo l’oscillare incerto delle mie lacrime che si colorano delle tinte della sua felpa, è una felpa ridicola che gli ho regalato io, bianca con le stelline verdi. Non posso credere che la indossi sul serio, è assurdo.
Gli vado dietro e Peter mi segue, continua a stringermi la mano ma è da quando ho messo piede nell’appartamento che ho perso sensibilità su tutto il corpo. So che le lacrime stanno scendendo – perché erano troppo pesanti perché le ciglia potessero tenerle intrappolate ancora a lungo – ma non me le sento scorrere addosso. So che mi sto muovendo, ma non sento i piedi toccare terra. So che Peter mi stringe, ma non sento il calore della sua pelle. Non sentirò più niente per tutto il resto della mia vita, lo so. Non ci riuscirò più. Però almeno ho smesso di sentire male. Anche se non posso dire di stare meglio così.
Patrick apre una porta senza bussare prima. Il mio cuore esplode. Di nuovo. E ancora.
Resta sulla soglia e si scosta per farmi passare. La mano è ancora lì. La stringo fortissimo, so che lo sto facendo. La stringo talmente forte che non posso evitare di accorgermene, quando la sento scivolare via.
Me ne accorgo e non vedo più niente, in un solo attimo.
Anis è lì. Sta in piedi davanti ad una poltrona, come si fosse appena alzato. Mi guarda dritto negli occhi ed ha quell’espressione buffissima che non si capisce mai se diventerà uno sorriso o uno sbuffo ironico. Ha i capelli lunghi – Dio mio, sono lunghissimi – ma li tiene stretti in un codino che spunta da dietro e gli solletica la nuca.
Sto piangendo, lo so. Devo essere un disastro. Ci stiamo vedendo adesso dopo un anno e sono tremendo.
Non riesco a spiccicare una parola, ho paura perfino ad aprire le labbra perché non so che mugolio in frantumi potrebbe venirne fuori. Parla Anis per me. Mi si avvicina piano, un passo dopo l’altro, e quando arriva tanto vicino che devo per forza sollevare lo sguardo per continuare a tenerlo piantato nei suoi occhi, si inginocchia. Così che lo sguardo posso fare a meno di alzarlo, e lo abbasso. Le lacrime scendono in goccioloni enormi. Le vedo e non le sento.
Ma ricomincio a bruciare nel momento esatto in cui la mano che prima stringeva quella di Peter finisce stretta fra le dita lunghe e forti di Anis. La tiene con una delicatezza che è solo sua, neanche fossi fatto di porcellana. La stringe appena. La bacia piano.
- È bello rivederti, principessa.
Ed io mi sento sciogliere. Non mi reggo più, gli frano addosso, non so come faccio a reggermi al suo collo mentre piango e mi lamento e lo stringo e non capisco più niente, ed è un bene che avesse un ginocchio piegato e sollevato da terra, o sarei caduto sbattendo contro pavimento così forte che avrei avuto un motivo molto più stupido per piangere. E invece sto piangendo per lui. Perché lo sto sentendo sotto le dita. Perché è vivo, perché è qui, perché sento il suo sorriso tenero contro il collo, perché sento il suo profumo, perché posso seguire con le labbra il profilo del suo viso e posso perdermici, posso farlo perché è vivo ed è tornato da me, ed al momento non mi interessano i motivi, non mi interesserebbe neanche se fosse morto davvero e poi risorto, anche se so che non è possibile: sarebbe comunque tornato da me, ed è tutto ciò che conta ora.
Sento solo distrattamente la porta che si chiude alle nostre spalle, ho gli occhi semichiusi e quel po’ che riesco a vedere resta filtrato dalle lacrime. Anis è una macchia scura con un buon profumo e un buonissimo sapore. Lo assaggio piano sulle labbra e in punta di lingua quando lui prova a baciarmi. E ci prova davvero, per la prima volta nella sua intera esistenza – comunque per la prima volta da quando mi tocca – non sta pretendendo niente. Mi sta solo dicendo che è qui e se lo voglio è ancora mio. Ed io lo voglio. Voglio che sia mio perché io non ho mai smesso di essere suo.
La sua fronte sfiora la mia e non si allontana dalla mia bocca, quando parla.
- Dovrei dirti un milione di cose, piccolo. – mi sussurra addosso, una mano che scivola contro il mio fianco, sotto la maglia.
Lo bacio lentamente.
- Dovresti. – annuisco senza schiudere gli occhi. Il suo naso sfiora il mio e mi solletica appena. Mi viene un po’ da ridere e lo faccio. È una risatina così piccola che mi stupisco che lui riesca a sentirla. Comunque la sente e ne fa una un sacco simile. Mi scoppia il cuore di gioia, cazzo.
Si tira in piedi, mi tiene saldamente per la vita e finisco per rimettermi dritto anch’io. Cerco di stringerlo forte al collo, o cadrò di nuovo.
- Ce la fai? – chiede a bassa voce, scivolandomi addosso lungo una guancia, il mento, il collo, - Ti tengo, se non ce la fai.
- Non ce la faccio. – ammetto spossato. Lui sorride e mi tira su di peso, allacciandomi sotto le gambe. Stringo le cosce così forte attorno alle sue anche, che quasi mi faccio male da solo.
Anis mi spinge contro una parete ed io piego il capo mentre bacia e morde ovunque riesca ad arrivare, sussurrandomi addosso cose stupende, o magari sono cazzate, però è la sua voce, e se la sento dire che gli sono mancato, se la sento dire che so ancora di buono, se la sento dire che sono esattamente come mi ricordava, anche se non è vero, anche se fa male, è bellissimo. È talmente bello che continuo a piangere, continuo a piangere anche se ormai sto ansimando e non faccio che agitarmi contro di lui perché non ce la faccio più, voglio sentirmelo contro e voglio sentirmelo dentro, e se non lo avrò immediatamente comincerò a piangere così forte che mi faranno male i polmoni.
Anis spoglia me e se stesso in un arco di tempo che non riesco a quantificare. Il suo calore e la sua forma pressati sulla pelle già da soli bastano a farmi mugolare di piacere. Non ricordo quando, sono riuscito a infilare due dita fra le maglie dello stupido elastico che gli teneva stretti i capelli, perciò ho sciolto la coda. Ora le mie dita passano attraverso le sue ciocche scure e mosse, le sento morbidissime sotto i polpastrelli e sorrido. Non li avevo mai potuti accarezzare così, i suoi capelli. Mi piacciono così tanto, spero che non li tagli più.
Lo chiamo pianissimo e stringo le dita sulle sue spalle, affondando quasi le unghie nella sua pelle. Lui ringhia e mi bacia con maggiore convinzione. Fa bene, ha ragione, gli ho detto che può farlo, voglio che lo faccia.
- Ti prego… - mugolo stremato, e lui non perde neanche un altro minuto prima di spingersi lentissimo contro di me. Si fa sentire appena, si tira subito indietro, - Ti prego! – ripeto, mordendogli le labbra, e l’attimo dopo è lì dentro di me. Esattamente al suo posto.
Si muove piano, così piano che a stento lo riconosco. Non è il suo ritmo questo, non è il suo modo di toccarmi. Questo continuo esitare e chiedersi se può – glielo leggo negli occhi, lo vedo oltre le ciglia lunghissime ed oltre la nebbia del piacere che prova – questo continuare a stringermi appena, questo non è lui. Io lo ricordo, com’era. Ricordo come mi sentivo a sbattere di schiena sulla testata del letto perché mentre mi scopava mi aveva tirato su di peso e mi ci aveva appoggiato contro per spingersi con più forza dentro di me. Ricordo com’era sentirlo affondare fino al limite, finché quasi faceva male, e ricordo com’era forte e salda la stretta delle sue mani contro i miei fianchi. Ricordo la sua lingua insinuarsi fra le mie labbra e giocare a rincorrere la mia senza chiedere per favore. È questo che voglio. Rivoglio il mio Anis. Lo rivoglio com’era. So che c’è ancora, lo rivoglio con me.
Lo chiamo pianissimo, gli mordo le labbra, gli chiedo di andare più veloce. Glielo chiedo, lo imploro, la voce spezzata dagli ansiti, le sue mani mi scorrono lungo i fianchi e così fanno anche i suoi occhi. Non mi ha ancora nemmeno accarezzato ed il solo modo in cui si muove dentro di me, colpendo tutti i punti giusti come se non avesse fatto altro fino al giorno prima, mi sembra già abbastanza per urlare e gemere ed ho paura di poter venire anche solo così, senza l’aiuto delle sue mani. Ne ho paura perché sarebbe stupendo – c’è riuscito solo lui – e ne ho paura perché sarebbe assurdo.
Lo sento sorridere contro il mio collo, sbuffando appena.
- Un tatuaggio nuovo… - commenta scivolando con le dita sulla scritta che si arrotola su se stessa fino alla mia anca, - È recente?
- È fra le cose di cui possiamo parlare dopo. – mi lamento cercando le sue labbra.
Lui si tira indietro apposta per non concedermele.
- È una B. – ride appena, e mi prende in giro sporgendosi un po’ solo per poi ritirarsi.
Lo tengo fermo chiudendo le mani a coppa sui suoi zigomi, e tirandomelo contro.
- Sei tu scritto addosso. – confesso, ed allora lui mi bacia. E ricomincia a spingere. Ed è duro, è forte, è veloce e impetuoso. È lui.
Smetto di trattenere la voce anche se fra noi e tutto il resto del mondo c’è solo una porta. Qui dentro siamo solo noi due, quindi – per quanto mi riguarda – anche in tutto il resto del mondo ci siamo solo noi due. Ci sono solo le dita di Anis, c’è solo il suo cazzo che si fa strada di prepotenza dentro di me, c’è solo lui che ricorda il mio corpo centimetro per centimetro, ci sono io che cerco il suo sapore ovunque, c’è solo il momento in cui mi stringe e trattiene il fiato, c’è solo il momento in cui una spinta più forte e mirata delle altre colpisce proprio il punto che mi fa urlare di piacere, c’è il momento in cui vengo, c’è il momento in cui viene lui, c’è un momento perfetto in cui esiste solo questo ed io non ho bisogno di nient’altro.
Ed è solo un momento. Purtroppo, dannazione, è solo un momento. Esito – le dita perse fra i suoi capelli – solo qualche secondo, il tempo di riprendere fiato, prima di cominciare a realizzare cosa è successo. Cosa ho lasciato succedesse, meglio. Ricomincio a fare la conta delle persone che popolano il mio mondo. Ricordo David – e che voglio pestarlo. Ricordo Patrick – e che voglio parlargli, anche se non so nemmeno di cosa.
Ricordo Peter.
Cristo.
Ricordo Peter. E non ho idea di come farò a guardarlo negli occhi quando sarò uscito da qui e lo troverò ad aspettarmi.
Anis mi poggia a terra ed ho di nuovo paura che mi cedano le gambe. Mi aggrappo con forza alle sue spalle, uso le unghie e lui si lamenta un po’.
- Fai piano, principessa… mi hai devastato abbastanza, ti pare?
Schiudo gli occhi – bruciano da impazzire per quanto ho pianto e per quanto forte li ho strizzati – e tutto quello che vedo, per un lungo periodo di tempo, è la pelle di Anis. Mi ci perdo come fosse un paesaggio di un nuovo mondo, annego nei suoi colori caldi e nel suo profumo aspro e forte, lo sfioro piano con la punta del naso e poi gli pianto le mani sul petto. E lo allontano.
Il mio movimento è molto più violento e repentino di quanto non volessi. Questo perché sento fisicamente che se non me lo allontano di dosso il prima possibile potrebbe succedere qualcosa di irreparabile.
Poi ci rifletto. E capisco che qualcosa di irreparabile è già successo.
Sollevo lo sguardo e trovo gli occhi di Anis. Mi fissano con un misto di confusione ed incredulità, e lui è tenerissimo, in questo momento: le labbra semidischiuse sono ancora umide dei baci che ci siamo scambiati e i capelli sono arruffati perché ci ho perso le mani dentro così a lungo che hanno perso il senso che la coda aveva loro imposto prima che la sciogliessi. Ha gli occhi grandi, il mio Anis, e li sta usando per chiedermi cosa mi prende. Perché non lo capisce. E mi viene di nuovo da piangere e mi dispiace che non capisca, e so che non potrebbe neanche volendo, perché io non ho la forza di dirgli cosa mi passa per la testa. Non ho la forza neanche di dirgli cosa è passato per la mia vita nell’ultimo anno. Non ho la forza di fare niente perché non ce la faccio a pensare che a solo pronunciare il nome di Peter affiancato al mio, come sarebbe giusto, potrei perdere Anis. Perderlo adesso dopo averlo ritrovato… io non posso farcela. Io non ho abbastanza sangue in corpo, non sono abbastanza forte e non ho altre lacrime da versare. Perciò faccio l’unica cosa che posso fare senza rischiare troppo.
- Stronzo. – sibilo astioso, e lo faccio perché ho ragione, perché voglio litigare e perché i litigi sono una cosa che io e Anis conosciamo bene. Sono una cosa dalla quale sappiamo come uscire. Ogni volta che litigavamo, prima che morisse, era come subire gli scossoni di un terremoto. Crollava la casa e dopo, con una serie interminabile di scosse di assestamento durante le quali lui concedeva qualcosa a me ed io concedevo qualcosa a lui, ricominciavamo ad andare d’accordo. Era tutto davvero così semplice. Voglio che torni ad essere tutto semplice com’era allora. – Stronzo. Tu… come hai potuto, Anis?
Lui inspira profondamente e le sue labbra diventano sottili come linee, mentre tutti i suoi lineamenti si tendono. Gli vedo passare negli occhi qualcosa che suona più o meno come un “ecco, ci siamo”, e stringo forte i pugni.
- Era necessario, piccolo. – risponde seccamente, - Eri in pericolo.
- Ero… - annaspo, stringendomi nelle spalle e cominciando a cercare in giro i miei vestiti, - Ti avevano sparato! Eri tu quello in pericolo! Cos’è, appena hai visto che eri riuscito a salvare la pelle, piuttosto che tornare da me dove saresti stato di nuovo in pericolo, hai preferito andartene?!
Gli passa sul volto un’ombra di offesa, la vedo nel modo caratteristico in cui aggrotta le sopracciglia, ma non ho il tempo materiale di soffermarmi su quello che gli ho detto – non ho modo di realizzare quanto sto essendo cattivo in questo momento – perché lui prova a fermarmi con un “Bill” stentato ed io non voglio lasciarglielo fare. Perché potrebbe consolarmi, e non voglio che sia lui a farlo. Perché voglio urlargli di tutto e non voglio lasciare che lui me lo impedisca.
- Tu… tu sei vivo, Cristo santo! Da quanto? Dove cazzo sei stato, Anis, nascosto qui dentro per tutto l’ultimo anno? Ti sei divertito, qui da solo? Come le hai passate le giornate, spiandomi? Mandando… mandando David a… il mio manager, cazzo, Anis, tu… non avevi il diritto di farlo!
- Piccolo, - cerca di avvicinarmisi, mettendo le mani avanti come avesse paura che potessi scattare improvvisamente a morderlo al collo, - non sai cos’è successo. Noi non dovremmo litigare, dovremmo parlare.
- No, sei tu che non sai cos’è successo! – urlo spintonandolo lontano, - Io sono quasi morto di dolore, stronzo! Ho pensato che non ce l’avrei fatta, mi sono sentito finito! Io ho ucciso un uomo per te! Lo sai questo? Te l’ha detto David? Ho ucciso un uomo perché quell’uomo aveva ucciso te, e tu non eri morto! – mi fermo a riprendere fiato ed Anis è lì fermo che mi guarda. Non c’è più traccia di offesa nella sua espressione, adesso è solo triste. Non riesco a capire se avergli detto queste cose fa di me una persona ingiusta o se semplicemente dovessi farlo e basta. Io non ho torto. Io non ho torto, cazzo. Io non posso pensare di avere torto, perché se ammettessi di aver sbagliato tutto fino ad ora, con questo litigio, con quello che abbiamo fatto prima, col modo in cui ho vissuto l’ultimo anno… se ammettessi di aver sbagliato tutto, io non saprei più da dove ricominciare. Anis non potrebbe aiutarmi. Non potrebbe aiutarmi Peter. Non potrebbe aiutarmi Tomi, non potrebbe aiutarmi Patrick, non potrebbe aiutarmi nemmeno David. E io non potrei farcela comunque. Sarei una persona finita. Non voglio. Io non ho torto. Io ho ragione. – Noi possiamo solo litigare, Anis. – dico infine, distogliendo lo sguardo e finendo di rivestirmi, - Perché non ho nient’altro di cui parlare con te.
E non aggiungo nient’altro. Non lo fa neanche lui. Restiamo a guardarci a lungo e io vorrei fare una cosa che, quando stavamo insieme prima, facevo spesso, dopo le litigate. Anis non è mai stato davvero morbido, con me, se mi meritavo di essere mandato a fanculo ci andavo anche. Nel senso che mi ci mandava senza problemi. Ed io ero sempre troppo cocciuto e arrabbiato e isterico e tutto per capire che quel “vaffanculo” era un “riprenditi, Bill, perché io non posso avere a che fare con un sedicenne, ne ho le palle piene”. E quindi sì, urlavo “d’accordo, come preferisci!”, ma prima di uscire sbattendo la porta dicevo sempre “a più tardi!”. Ed era una cosa carina perché succedeva sempre che dopo un paio d’ora, quando sentiva che la mia rabbia era sbollita ed ero di nuovo pronto al dialogo, Anis mi raggiungeva dovunque fossi – dovesse anche essere casa di mia madre a Loitsche – e veniva a riprendermi. Era il suo modo silenzioso di chiedermi scusa. Tornare a casa con lui era il mio modo silenzioso di chiedere scusa a lui.
Ora non posso farlo. Non posso dirgli “a più tardi!”, non posso dirgli proprio un bel niente. Non posso neanche permettermi di sperare che lui venga a riprendermi comunque, fra un paio d’ore. Posso solo tacere, finire di rimettermi a posto ed uscire dalla stanza. Perciò lo faccio. Anis non cerca nemmeno di fermarmi.
Il mondo, di fuori, mi sembra ghiacciato. Volto in giro lo sguardo alla ricerca di Peter e Patrick e non trovo nessuno dei due. Non fatico ad immaginare cosa possa essere successo: Peter avrà cominciato a devastare un appartamento non suo e Patrick, per evitare che lui si ritrovasse nei confronti di Bushido con più debiti di quanti non ne abbia già, l’avrà trascinato via. Ora starà probabilmente cercando di calmarlo a suo modo. Non ho mai capito in che modo Patrick calmasse Peter, ma è straordinariamente efficace. D’altronde non mi stupisce, Patrick è straordinariamente efficace nel calmare chiunque. Vorrei che fosse qui, adesso, così potrebbe calmare me. E poi potrei mandarlo a calmare anche Anis.
Mi accorgo di David solo quando lui si accorge di me. E non succede subito, visto che si era palesemente perso nella propria testa mentre osservava il vuoto, appollaiato sul bracciolo di una poltrona. Solleva lo sguardo chiarissimo su di me e non me la sento di urlare anche contro di lui. Però se lo meriterebbe.
- …sono esausto. – dico in un mezzo singhiozzo, e il secondo successivo David è accanto a me e mi stringe fra le braccia. E so che dovrei avercela a morte con lui e odiarlo furiosamente e tutto, ma mi concedo di rimandare. Non ce la faccio, voglio rimandare. Mi appoggio contro di lui e nascondo il viso nell’incavo del suo collo. Piango solo un altro po’. – Voglio andare a casa.
David annuisce piano, la sua guancia ruvida struscia lentamente contro la mia, infastidendo la pelle già irritata dalle lacrime, ma non lo allontanerei per niente al mondo.
- Ti ci riporto. Vuoi andare da Tom?
- No. – mi lamento, - Voglio andarmene a casa mia. Voglio… voglio andare a dormire. Mi porti al mio appartamento, per favore?
Lui annuisce ancora, e mi resta vicino mentre mi allontano ed asciugo le lacrime. Non diciamo una parola. Restiamo in silenzio fino a casa, ed anche lì l’unica cosa che sento è un saluto a bassa voce ed una richiesta, “fatti sentire quanto prima, Bill. Quando vuoi, ma quanto prima”. Annuisco e basta. Ho detto delle cose tremende, oggi. Voglio dimenticarmi che rumore fa la mia voce. Non lo tollero più.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Chakuza, Fler/Chakuza, Fler/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- "Fler si guarda intorno con aria allarmata e posa la bottiglia. Gli rimane sul labbro inferiore una goccia di birra e la cancella velocemente con la lingua. Ci resto un tantino. Sulla lingua e sulle labbra. Il sapore di Fler lo conosco così bene che mi sembra quasi di sentirmelo addosso mentre lo guardo."
Note: Ehm. Ci dispiace. Sorpresa ^O^
Dunque, ieri sera il fratello della Tab - dalla quale mi trovo in vacanza - ha spento il modem mentre noi cercavamo di mantenere i nostri impegni di madri devote - che hanno in pugno la storia, ve lo assicuriamo; per quanto possa sembrare stia andando a ramengo, non è così. Da ciò si deduce che dopo aver postato la prima parte non abbiamo potuto postare anche la seconda. Quindi, insomma, ci dispiace per chi dovesse aver già letto la prima parte senza poter sapere che fosse appunto la prima, e speriamo che abbiate gradito la seconda. Che peraltro è la parte più bella perché il Flerkuza finalmente limona. A parte questo: il Bu è bellerrimo - anche se non fa molto più che ridere; il Chaku merita disapprovazione - e Tab mi sta odiando molto per questo, ma lei sa che non disapprovo il Chaku a prescindere ma solo quando mette mano sul bimbo quando non dovrebbe. Adesso sta protestando che Fler gli appartiene, ma io mi dissocio; Fler... so che può sembrare un po', come dire, una mezza zoccola, però... la presenza del Bu mi sconfinfera un po' tutti, quindi giustificatelo se si fa un po' annusare qui e là tipo stendendosi sul tavolino in una chiara offerta che, peraltro, nella testa del Chaku, il Bu non solo nota ma accetta di buon grado anche se in realtà il povero tunisino si è limitato a posare la propria tazzina lì accanto al culetto in offerta. Per quanto riguarda Eko (del quale probabilmente non vi frega una sega, ma io lo amo, perciò ne parlo) egli è il bene, ha palesemente capito tutto di cosa succede nei letti degli altri - anche perché nel suo non succede niente, quindi ha del tempo libero - ed è lol. E la questione del fantasma noi ce la portiamo dietro da circa un milioni di anni.
Ci scusiamo ancora per il disguido e divertitevi ^O^
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
TYPISCH ICH

Fler si attacca alla bottiglia con un’urgenza stranissima, e siccome non gliela vedo addosso da un sacco di mesi, questa necessità spasmodica di bere, un po’ mi preoccupo. Anche se mi rendo conto che forse avrei dovuto preoccuparmi già da prima, quando mi ha chiesto di uscire insieme perché doveva assolutamente parlarmi, ma io no, non mi preoccupo mai al momento giusto. Mi sono sentito dire “Usciamo? Ho bisogno di parlarti” ed ho pensato solo “Ah”. Ed era un “ah” ironico, del tipo “ma allora esisto ancora nel tuo mondo, pure se non ti fai più vedere e quando ti cerco sei evasivo e scostante”. Come se non sapesse che a me ‘ste cose danno fastidio.
A tutti gli effetti, l’ultima volta che ci siamo guardati negli occhi è stato circa due settimane fa, quando l’ho… quando gli ho di nuovo messo le mani addosso dopo una pausa che durava da… da Bill, praticamente. Analisi non ne ho fatte, conclusioni non ne ho tirate. Ho smesso di cercare di trovare un senso razionale al mio rapporto con Fler. Non c’è un senso razionale, siamo partiti col piede sbagliato e con quello continuiamo a camminare.
- Be’? Che mi dici? – provo a chiedere sorridendo, mentre rubo dal suo piatto gli stuzzichini che ci hanno portato con la birra. I miei sono già finiti perché sono così nervoso che li ho buttati giù senza nemmeno accorgermene.
Fler si guarda intorno con aria allarmata e posa la bottiglia. Gli rimane sul labbro inferiore una goccia di birra e la cancella velocemente con la lingua. Ci resto un tantino. Sulla lingua e sulle labbra. Il sapore di Fler lo conosco così bene che mi sembra quasi di sentirmelo addosso mentre lo guardo.
Devo calmarmi un po’.
Mando giù un altro stuzzichino.
- Non sono stato molto chiaro, quando ci siamo visti l’ultima volta. – comincia lui con una lucidità sorprendente. Fler è un tipo schietto ma s’imbarazza per un niente, che è una cosa che posso capire benissimo, visto che per me è uguale. Cioè, io sono meno schietto. Però m’imbarazzo lo stesso. Comunque adesso mi sta guardando negli occhi e non è imbarazzato neanche un po’. È perfettamente lucido e tranquillo, come se questo discorso se lo fosse ripetuto in testa per mesi.
Mi fa un po’ paura, come cosa. I discorsi si preparano solo quando sono importanti.
Annuisco vagamente ed allungo di nuovo la mano verso il suo piattino. Lui la schiaffeggia a mezz’aria.
- La pianti di mangiarti la mia cena? – ride, rilassandosi un po’ contro lo schienale, - Oggi sono da solo, non mi va di tornare a casa e cucinare. Fammi mangiare.
- Be’, potresti venire da me, passiamo dalla signora Lotte e… - mi fermo quando mi rendo conto che io per primo non capisco se lo sto invitando a mangiare o a fare altro. Nella mia testa c’è la stessa incertezza che leggo nei suoi occhi. La cosa è veramente spaventosa.
Fler sospira e mordicchia un crostino pieno di mozzarella filante, ma lo riposa subito. I suoi lineamenti si tendono all’improvviso, perché c’è crollato addosso il silenzio e non è facile riprendere un discorso in una situazione simile. Non è facile anche perché io lo sto guardando come se avessi paura di farlo sparire muovendomi, me ne rendo conto. Ma è tutto troppo strano, troppo serio forse, le nostre interazioni non sono quasi mai così. Spariamo cazzate o ci insultiamo, ma non siamo mai seri.
- Di cos’è che volevi parlarmi? – cerco di aiutarlo, chinandomi un po’ nella sua direzione.
Fler sospira, si morde l’interno di una guancia e manda giù un altro po’ di birra.
- Chaku, io adesso te lo dico, ma tu non dai di matto, okay? – e me lo chiede col tono incerto di chi sa perfettamente che ciò che dirà provocherà esattamente la reazione che sta cercando di scongiurare.
- Fler…? – lo chiamo incerto, aggrottando un po’ le sopracciglia.
- No, sul serio. – si sistema sulla sedia lui, mettendo le mani avanti, - Prima di tutto non è una cosa a lungo termine, e poi potrebbe essere la soluzione migliore, credo, e-
- Fler, tu stai giustificando qualcosa che non so. – gli faccio notare, vagamente allarmato, - Ti rendi comprensibile?
Sospira ancora, più forte, con aria quasi rassegnata. Poi cambia di nuovo posizione sulla sedia, e proprio mentre sto pensando che il suo non riuscire a stare comodo mi ricorda cose che non vorrei mai più richiamare alla memoria – e che però ogni tanto mi tocca ricordare comunque, se non altro perché me lo merito – lui parla.
- Ho pensato… - comincia piano, - che potrei andare un po’ fuori città. Non mi sembra che la mia presenza qui sia di aiuto a nessuno, dico, non a te né a me sicuramente, e Sido sta per andare in tour e pensavo che potrei andare con lui, anche perché è da tanto che non vado un po’ in giro a cantare e mi manca. Così sarebbe tutto molto più semplice, non credi?
Finisce di parlare ed io resto in silenzio. Lo fisso. E leggo nei suoi occhi lo stesso naturalissimo ragionamento che passa per il cervello a me: fosse un amico, sorriderei e direi “perfetto, Atze, mi sembra una cosa meravigliosa!”, gli allungherei una manata sulla spalla, gli offrirei il secondo giro di birra e poi lo saluterei augurandogli buona fortuna.
- Perché? – chiedo invece. Quindi mi sa che nel ragionamento perfettamente naturale di cui sopra c’è una falla. O che la falla sta nelle nostre teste. Per lo meno nella mia.
- Come, perché? – chiede Fler, spiazzato, inclinando il capo.
- Dico… - continuo, - l’altra sera… quando ti ho chiesto se non volevi più vedermi, hai detto che non era così, e ora-
- Ma non è che non voglia più vederti! – si affretta a correggermi lui, ma non mi guarda negli occhi. Cerco di resistere al bisogno di afferrarlo per il mento e costringerlo a farlo. – È solo per questo periodo, tu sei un po’ confuso ed è meglio che non ti stia intorno.
Aggrotto le sopracciglia e mi lascio andare ad un mezzo ringhio.
- Piantala di parlare come se capissi tutto. – borbotto contrariato.
Fler mi lancia un’occhiata supponente.
- E tu piantala di parlare come se io non capissi niente. – ribatte asciutto. – Hai questo brutto vizio, Chakuza, di considerarmi un cretino. È un errore madornale che continui a ripetere.
Incrocio le braccia sul petto.
- Io non penso che tu sia un cretino. – cerco di convincerlo, ma lui mi zittisce con un cenno della mano.
- Non ti stavo chiedendo il permesso. – dice duramente, - Parto dopodomani.
Spalanco gli occhi.
- …senti. – protesto a bassa voce, - Tu non puoi prendermi così per il culo, Fler. Tipo, non puoi dirmi… - abbasso la voce e mi avvicino, cercando di non attirare l’attenzione, - non puoi dirmi che non ti andava, l’altra sera, e pensare che io ci creda. Ti stavo toccando. Lo so che ti andava. Tu non capisci che non puoi dirmi no quando io so che dentro la tua testa c’è un sì. – lui fa una smorfia contrariata, ma io non mi fermo e non gli lascio il tempo di negare, - E non puoi dirmi che devi parlarmi di qualcosa e poi, vedendo che la mia risposta non ti piace, sperare di darmi a bere che non stavi chiedendo il permesso. Tu non sei mai sincero con me. Questa cosa deve finire.
Fler stringe le dita attorno alla bottiglia e mi fissa, sconvolto. Io trattengo il respiro.
- Chakuza… - comincia, ma si ferma subito. Ha gli occhi spalancati e ci posso vedere dentro tanto di quello schifo che mi sento male. Esita un po’ e per un secondo ho quasi paura che lo dica. Che finalmente lo ammetta a chiare lettere. Che lo sa, Cristo, che sa tutto, e che quindi sono io che dovrei smetterla di prenderlo per il culo. Piantarla e basta. Ma non lo dirà, io lo so. Infatti lo vedo abbassare lo sguardo e mordersi un labbro, posando un pugno chiuso sul tavolo, - …smettila. – conclude semplicemente. – È meglio per tutti.
Tiro un sospiro di sollievo e mi avvicino ancora un po’.
- Intanto, io non credo che sparire sarebbe meglio né per te né per me. – spiego, - Basta solo cercare di calmarsi un po’ tutti e due… - sono io che devo calmarmi, ma va be’, - Possiamo tranquillamente stare nello stesso posto senza che-
- Pensavo la stessa cosa mentre spostavamo l’armadio. – mi interrompe lui, occhi bassi, - E mi sbagliavo.
- Be’, quello magari è stato un errore. – non so dove voglio andare a parare, visto che ha ragione lui. Se resta, ricapiterà. È matematico. Lo so come funziona. Lo so come funziono. Funzioniamo così. – Possiamo evitarlo, in futuro.
- No che non possiamo. – protesta.
- Oh, avanti. – sbotto io, agitando una mano, - Non è che abbia voglia di saltarti addosso ogni volta che ti vedo. – Fler trasale e si irrigidisce sulla sedia. È offeso e io mi stupisco di quanto sia facile portarlo dove voglio. Poi mi ricordo che dovrei smetterla di stupirmi. In realtà io e Fler non facciamo che metterci agli angoli da quando ci siamo conosciuti. Il nostro non è un rapporto, è un incontro di boxe perenne. Lui mi spinge alle corde ed ottiene quello che vuole, e la stessa cosa faccio io nel momento successivo. È un meccanismo talmente rodato che pensare di interromperlo non è veramente possibile. – Non sempre, Fler, ma ogni tanto succede. – ammetto semplicemente. – Che dovrei fare? Ignorarlo?
La risposta è sì, ovviamente. La risposta che passa sul viso di Fler è “sì, stronzo, sì che dovresti”. Ma resta un riflesso sul suo viso, non si traduce in parole ed io sono ancora in vantaggio. Sono in vantaggio solo perché lui non mi sputtana, d’accordo, ma è un vantaggio comunque.
Paghiamo e usciamo in strada qualche secondo dopo; il vento secco e freddo del primo autunno mi sferza in pieno viso e tiro su il cappuccio della felpa, rimpiangendo immediatamente il tepore dell’interno del locale. Fler è teso e nervoso come mai, sento a pelle che, potesse, mi schiaccerebbe contro un muro e mi pesterebbe a sangue fino a farmi dimenticare come mi chiamo. È una sensazione che per certi versi posso capire: fino a due settimane fa ero perfettamente felice e sereno, non mi mancava niente. Da due settimane a questa parte, però, non faccio che darmi motivi per spaccarmi la testa contro un muro.
Forse dovrei farlo: risolverei un mucchio di problemi.
Passeggiamo in silenzio per un po’, mi pare di non avere una direzione, però a un certo punto ci fermiamo e Fler mi guarda.
- La tua macchina… è da queste parti? – mi chiede.
A me viene un po’ da sorridere. Certe volte si comporta in maniera assurda.
- No, dobbiamo andare da tutt’altro lato, verso-
- No. – riprende, scuotendo il capo, - La mia macchina è qui. – si ferma ed indica una mastodontica Escalade nera all’interno della quale la mia utilitaria entra due volte. Anche se me l’ha fatta sistemare per il compleanno – con il bagagliaio nuovo, la vernice nuova, la tappezzeria nuova, così bella come non mi sembrava fosse nemmeno quando l’ho comprata – resta comunque una cosa ridicola in confronto a questo gigante su ruote. Io rimango a boccheggiare qualche secondo e lui ne approfitta per continuare, - Io ora salgo e me ne torno a casa mia. Se vuoi, ti do un passaggio fino alla tua macchina. Poi tu ci sali e te ne torni a casa tua. – si ferma ancora, esita. – E poi sarebbe meglio non sentirci né vederci più, Chaku.
Odio che mi abbia detto una cosa simile col tono in cui l’ha fatto. Dolce, rassegnato, tranquillo. I toni della voce di Fler sono sempre molto chiari, perché quasi sempre lui sa esattamente cosa ti sta dicendo. Non parla a caso, Fler. Non apre la bocca per darle aria. È un uomo pratico, dice lo stretto indispensabile e te lo dice esattamente come deve dirtelo.
Odio che mi abbia detto una cosa simile con questo tono, perché adesso so che non stava mentendo quando mi diceva che no, non voleva. Non voleva davvero.
Odio che mi abbia detto una cosa simile. Lo odio e basta.
- Fler-
- No. – mi sorride appena, - Mi dispiace. Io ci tengo a te. È il massimo che sono disposto a dirti, Chakuza, ma tu sai esattamente cosa significano queste parole. Io ci tengo a te. Però non esiste, Chaku. Pensavo di… pensavo di star via per un po’ e credevo che, lasciando andare le cose com’era giusto andassero, quando fossi tornato avrei trovato una situazione migliore. Ma tu ci ricaschi, Chaku.
- Aspetta, Fler-
- No, guardati. – vorrei che la smettesse di cominciare tutte le sue frasi con un no. – Lo sai da quanto non mi guardavi così? – io deglutisco, ma mando giù solo aria. – Odio quando mi costringi a dirti cose simili. – riprende lui, un po’ infastidito, - Comunque questi occhi li ho aspettati per mesi e non sono mai arrivati. Tornano adesso quando decido di andarmene… ci ricaschi troppo facilmente, ed io sto cominciando a pensare che fra noi due non ci sia proprio niente, Chakuza.
Lo afferro per una spalla e lo sbatto contro lo sportello dell’Escalade. Lui non fa una piega, continua a guardarmi.
- Questo non puoi dirlo. – ringhio a bassa voce, - Non puoi dirlo, Fler.
- E invece lo dico. – non accenna nemmeno a scostarsi da me. Anzi, mi prende per il bavero della felpa e mi tira più vicino, così vicino che sento il suo respiro caldo addosso. Non capisco se mi sta torturando o se è solo dannatamente indeciso. Le sue parole non denunciano indecisione, comunque. – Lo dico perché mi stai mandando fuori di testa. Quando ho deciso di restarti intorno, Chaku, l’ho fatto dicendoti chiaramente di fare in modo che ne valesse la pena. Ti sembra di averlo fatto?
Lo afferro per i fianchi, di prepotenza, e mi schiaccio contro il suo corpo. Non mi interessa se siamo per strada. Non mi interessa se possono vederci. Non mi interessa neanche se vuole andarsene, io non lo lascio.
- Non in quel senso. – scuote il capo lui. Fra noi c’è la solita tensione di sempre. Fra me e Fler sono sempre scariche elettriche, non è mai una cosa tranquilla. Com’è che non le ho sentite, in questi mesi? Dov’ero con la testa?
E penso a Bill.
Lo penso a casa sua.
Lo penso che mi aspetta.
E penso a me e mi sento una merda.
Mi allontano.
- …no, credo di non averlo fatto, Patrick. – ammetto a bassa voce, - Mi dispiace.
Lui annuisce e si sistema i jeans, tirandoli su per i passanti della cintura. L’ho scombinato un sacco. Ha anche il giubbotto sollevato e un lembo di felpa incastrato nell’orlo dei pantaloni.
- Non ce l’ho con te. – dice, ma non è sincero. Vorrebbe non avercela con me. Però mi sta detestando. Probabilmente perché non riesco a trovare il modo giusto di trattenerlo.
So che un modo c’è.
So anche che dire addio a Bill per Fler, però, non è una possibilità contemplabile.
- Vorrei solo chiuderla nella maniera più semplice e tranquilla possibile. – continua lui, finendo di sistemarsi. Poi sbuffa un mezzo sorriso. – È patetico che io e te ci si decida a parlare chiaro solo alla fine, vero?
Mi inumidisco le labbra.
- Non volevo neanche che arrivasse, la fine. – dico sinceramente.
Lui ride un po’, è una risata per nulla risentita.
- Preferivi continuare a prenderci in giro tutti? – alzo lo sguardo e mi arrabbio, e lui ride ancora. – Te stesso compreso, ovviamente. – io sospiro e torno a guardarmi la punta delle scarpe. Sento ancora la sua risata, sottile e breve, e poi lo vedo chinarsi un po’ per recuperarmi: appoggia le labbra sulle mie e poi si rimette dritto, così che io sono costretto a risollevare il viso a mia volta, se non voglio perderlo. È un bacio così, asciutto e semplice. Non è per nulla una cosa nostra, noi non ci baciamo mai così. È sempre una cosa molto più fisica e bagnata, ed anche più violenta. Questa è una cosa che con noi non c’entra, ed è quello che mi fa pensare che un noi non c’è già più.
Però c’era. Io lo so. Che Fler ci creda o no, noi c’eravamo.
Le nostra labbra schioccano appena quando lui si allontana, ed io non ho il coraggio di chiedere di più, anche se lo vorrei. Anche se, mentre tenevo gli occhi chiusi e mi lasciavo baciare, non esisteva davvero nient’altro. Probabilmente dipende dal fatto che io e Fler abbiamo sempre usato il sesso principalmente come scacciapensieri. Più di ogni altra cosa, quelli erano i momenti in cui smettevamo di ragionare. Ed io decisamente avrei bisogno di smettere di ragionare, in questo momento. O di ricominciare a farlo, forse.
- Quello nel canale doveva essere l’ultimo. – mi dice piano, - Però potrebbe essere l’ultimo anche questo, suppongo.
Io sbuffo un po’.
- Ci pensi da tanto, eh?
Fler annuisce.
- Da molto più di tanto.
Restiamo in silenzio per qualche secondo, e nel tempo che passa Fler infila le chiavi nella serratura ed apre lo sportello, arrampicandosi disinvoltamente sul sedile e restando lì con una gamba penzoloni verso la strada e l’altra ben piantata sul bordo della portiera.
- Allora non ci vediamo più. – chiedo conferma, mentre sulle sue labbra affiora un sorriso tranquillo.
- Penso proprio di no. – annuisce.
- E non ci sentiamo più.
- No, Chaku. Non ci sentiamo più.
Annuisco anche io. Ho improvvisamente voglia di tornarmene a casa e prendere a cazzotti qualcuno dei soprammobili di gomma che mamma mi compra ogni tanto. Se ne esce con certe cose assurde. C’è un vaso – un vaso enorme, ha dentro fiori di plastica impolveratissimi – che servirebbe proprio bene allo scopo.
- Addio. – gli sussurro, mentre lui tira su l’altra gamba.
Fler ride.
- Come sei epico. – e sono le ultime parole che mi dice prima di chiudere lo sportello e farmi cenno con la testa di togliermi di mezzo, se non voglio finire investito dall’Escalade mentre la tira fuori dal posteggio.
Non lo seguo con gli occhi perché non voglio vederlo scomparire dietro un angolo. Cristo, non ricordo un giorno della mia vita nell’ultimo anno in cui Fler non ci sia stato, fra alti e bassi. Non può andarsene così, cazzo. Anche se l’ho lasciato andare, non avrei dovuto. Non è stato giusto.
Risalgo sul marciapiedi e comincio a dirigermi verso la macchina, le mani nelle tasche e lo scazzo che vortica a mille nella testa, quando squilla il telefono. Tiro fuori l’apparecchio con stizza e fisso lo schermo. È tardi per Bill, a quest’ora già dorme. E infatti non è lui.
- Eko…? – spalanco gli occhi e lo dico pure ad alta voce. Eko non mi chiama quasi mai, lo fa solo in momenti di reale bisogno. Quando è morto Bushido, per esempio.
Accetto la chiamata e rispondo.
- Pro-
- Chakuza, Cristo santo, ho un fantasma in casa!
Mi perdo.
Letteralmente.
Stringo il telefono fra le mani e deglutisco.
- Tu hai cosa dove, Eko?
- Cristo santo! – ripete lui, senza il minimo senso, - Il cazzo di fantasma! È tornato perché abbiamo fatto qualcosa di sbagliato! Cristo santo, Cristo santo! Chakuza, quando hai fatto fuori Saad tu eri sicuro che fosse lui l’assassino, vero? Perché se non era lui e quell’altro è tornato per vendicare il cugino morto, Cristo, giuro che ti appendo per le palle in Alexanderplatz, Chakuza!
Seriamente, non ho la più pallida idea di cosa stia parlando. So solo che quando ha nominato Saad m’è salito il cuore in gola e che spero vivamente non sia per strada a parlare di tutte queste cazzate, altrimenti lo appendo io per le palle in Alexanderplatz.
- Eko… - sospiro pesantemente, - È una serata di merda. Seriamente. Ma proprio di quelle che vorresti non fossero mai iniziate.
- Dillo a me! Apro la porta mentre aspetto il ragazzo delle pizze e mi ritrovo davanti il cazzo di fantasma che-
- Una serata di merda, dicevo, perciò… - controllo l’orario, - Eko, ‘cazzo chiedi la pizza a mezzanotte passata, scusa?!
- Ma non è la pizza il punto fondamentale, Chakuza! Tu hai dei problemi seri! – mi sbraita all’orecchio. E poi chiarisce una volta per tutte: - Il punto è che io ho aperto la porta e davanti mi sono ritrovato Bushido. Bushido, capisci?
No. Non capisco.
- Eko…?
- Un cazzo di fantasma, capito? Un fantasma. Cristo. – fa una pausa. – Io non ci rientro in casa, quindi tu ora mi passi a prendere e mi porti da te. E domani torno con un estintore bello pesante o qualcosa di più adatto. Come si uccidono i fantasmi, Chakuza?
- …dubito che la schiuma chimica funzioni. – sospiro. È evidentemente ubriaco. – Eko, senti. – non ci tengo a portarmelo a casa, stanotte, - Ora vengo da te e poi saliamo insieme. Così ti faccio vedere che non c’è nessun fantasma, in casa tua. Soprattutto non quello di Bushido.
- Fa’ un po’ quel che cazzo credi. – dice lui, improvvisamente compunto, - Comunque sono sicuro quasi al cento per cento che il fantasma sul pianerottolo sia colpa tua, in qualche modo contorto. Sei la fonte di tutti i mali. Magari dall’alto dei cieli ha saputo che vuoi chiudergli l’Ersguterjunge ed ora ci perseguiterà a vita.
- Eko, ti prego!
- Comunque il succo è: vieni perché sennò scappo da Kay. E tu non vuoi che io scappi da Kay, perché Kay vive in un porcile peggio di casa tua, e se sarò costretto a stare da lui poi vorrò le tue palle su un piatto d’argento.
- Per mangiarle? – sbotto irritato, - La tua fissazione per le mie palle è inquietante.
Mi manda a fanculo e chiude la conversazione senza neanche abbassarsi ad aggiungere altro.
Raggiungo la macchina in tempi ragionevoli ma non supersonici, ecco, se Eko è ubriaco può anche stare per strada a rinfrescarsi la testa per un po’. Intendo, non è il tipo cui salterebbero tutti addosso come Bill, e non è neanche il tipo da sfondarsi al punto da rotolare per i marciapiedi come Fler, perciò posso stare abbastanza tranquillo.
Quando arrivo sotto casa sua lo trovo a camminare avanti e indietro con aria furiosa, proprio di fronte al portone del palazzo. Accosto senza posteggiare, sperando di cavarmela in una decina di minuti, e scendo dall’auto.
- Cristo, Chaku, ci hai messo un’era! – mi assale lui, - Il senza-tetto? – chiede poi, guardandosi intorno. Si riferisce a Fler. Ogni volta che me lo vede piantato accanto parte col solito teatrino per il quale Fler in realtà non ha una casa e vive da me perché non ha i mezzi per pagarsene una propria, visto che è un rapper sfigato. Sarà meglio non parlare dell’Escalade con Eko.
Digrigno i denti e ringhio un po’.
- Non siamo mica sposati. – sbotto acido, - Non so nemmeno dove cazzo sia.
Lui annuisce.
- Questo spiega la tua ira, Atze. – dice con aria comprensiva, - Non dovresti rinnegare i tuoi sentimenti. Prendi esempio da Bushido, buon’anima: il suo fantasma sarà irrequieto, ma almeno nella vita s’è goduto tutto quello che ha voluto.
Per un attimo accarezzo con amore la possibilità di afferrare il cric dal portabagagli e prendere Eko a mazzate fino a lasciarlo svenuto per terra.
- A proposito di fantasma… - sbotto esasperato, - Non sono venuto qui per questo?
Lui annuisce come lo stesse ricordando in questo preciso momento.
- Eccome. – mi afferra per un braccio e comincia a trascinarmi, - Mi dirai tu se è vero o meno. Io, comunque, là dentro non ci torno.
- Va bene, va bene! Cristo! Ma non mi spingere così, so camminare da solo! – protesto quando prende a spintonarmi su per le scale, fino al secondo piano.
Facciamo tutto di corsa, che è una cosa che detesto – fare le cose di corsa, dico – e quando arriviamo di fronte alla porta dell’appartamento – ovviamente spalancata, Eko ha le pecore turche a pascolargli in testa, lo so – lui mi molla lì e si rifugia verso l’ascensore.
- Vai avanti. – dice con aria sconvolta, - Io aspetterò qui fuori il tuo urlo di terrore.
Sospiro pesantemente ed agito una mano, mandandolo a quel paese senza troppe cerimonie. Mi introduco nell’appartamento buio e silenzioso, convinto che tutto ciò che troverò sarà al limite qualche ladro che si è intrufolato qua dentro mentre Eko era fuori a sclerare e rompermi le palle, perciò mi sento addirittura fortunato quando vedo che l’ingresso è vuoto e così anche il salotto. Mi dirigo spedito verso la camera da letto, so che è là che Eko tiene gli orologi e le chiavi della Mercedes, perciò se c’è qualche malintenzionato sarà lì. L’idea del fantasma l’ho abbandonata da un pezzo. Era delirante, in fondo.
Per questo, quando mi si spalanca la porta del bagno di fronte al viso, quasi ci resto secco. Ma sul serio.
Perché questo non è un cazzo di fantasma. Qui non c’è proprio niente di simile. Qui c’è qualcosa di molto peggiore.
Qui c’è Bushido. Vivo.
Cristo.
Stringe una salvietta fra le mani e si asciuga lentamente i palmi, perfettamente a proprio agio. Io resto lì a guardarlo, troneggia su di me come una specie di statua di qualche dio antico. Ma ha un’espressione del cazzo che poi immagino sia la stessa che ho io. Voglio dire, mi fissa come se mi stesse vedendo per la prima volta. La luce giallastra del bagno lo colpisce in pieno da dietro, così che dal corridoio buio io non posso vederlo perfettamente in ogni dettaglio, ma scorgo la sagoma di una coda corta a svettare dietro la nuca e mi rendo conto del tempo passato.
Nove mesi.
Un anno fa sembra un altro universo.
Bushido è vivo.
- Chaky. – mi chiama lui, ed il tono è morbido e divertito. È esattamente la voce che ricordo. È lui. – Ho saputo che stai cercando di mandarmi in bancarotta. – e ride appena, uno sbuffo ironico e per nulla cattivo.
Continuo a guardarlo e non riesco a spiccicare una parola. Non riesco neanche a capire cos’è che dovrei dirgli.
Eko non mi sente urlare e si affaccia alla porta, fissandoci con aria allibita.
- Chaku… - mi chiama con voce tremante, - Perché non stai scappando?
Io deglutisco.
Non stacco gli occhi da Bushido.
Cerco a tentoni la tasca sui jeans ed il cellulare nella tasca. Quando lo trovo e lo sollevo all’altezza del viso, mi schiarisco la voce.
- Credo che chiamerò Fler. – esalo. E sono le prime ed ultime parole che dico, mentre Bushido ride e scuote il capo, per nulla stupito.
Cristo.
Non è stupito.
Se non è stupito da Fler… quante altre cose sa?
*
Riesco a sentire solo tre cose, in questo momento. Una è la voce di Eko, isterica e nasale e concitata, che si confonde nella raffica di domande con cui sta tartassando Bushido, che, per proprio conto, sta mangiucchiando pistacchi perfettamente a proprio agio, sul divano. Un’altra è la risata di Bushido stesso, che si intervalla alle domande di Eko quando si fanno troppo assurde. Tipo quando lui chiede se all’Inferno fa caldo e gli dà dello stronzo per non essere tornato prima.
Sopra tutto, comunque, sento il suono della linea libera sul cellulare di Fler. Che non mi risponde. Ovviamente.
Un po’ lo capisco. Me lo vedo, seduto al volante di quella cazzo di macchina enorme, che fissa il display del telefonino e impreca ad alta voce. “Che cazzo vuole ancora questo?”. Ti voglio qui perché c’è qualcosa che hai perso e abbiamo ritrovato. Ti voglio qui perché, anche se non lo sai, ho trovato qualcosa che hai perso e non volevo ritrovassi.
Ti voglio qui perché qui c’è l’unica cosa Bill abbia mai perso davvero.
E un po’ spero ancora che, se tu passassi attraverso quella porta, non vedresti niente, solo me ed Eko in paranoia di fronte al vuoto. Diresti “Be’? ‘Cazzo mi hai chiamato a fare, Chaku?”. Ed io mi guarderei intorno, Bushido sarebbe sparito e allora potrei ridere e dirti “Niente, non mi andava che te ne andassi, tutto qua”. E potrei avere ancora una possibilità di decidere per i giorni a seguire.
- Non ti ha voluto manco il diavolo in persona, Atze! – sento Eko che si affloscia sul divano accanto a Bushido con un tonfo pesante. Mi volto e lo vedo che sta lì, vicinissimo al bracciolo, come avesse paura di toccarlo, - Stai sul cazzo anche a lui!
E Bushido ride ancora.
Io interrompo la chiamata – che tanto squilla a vuoto – ed allo stronzo in fuga mando un messaggio. “Devo parlarti di Bushido”. Speriamo che almeno così la smetta di fare l’adolescente ribelle.
Bushido sta ancora ridendo e sgranocchiando pistacchi, nel mentre. È perfettamente tranquillo, neanche non fosse andato mai via. E invece di mezzo c’è una morte – la sua – un coltello in una pancia – la mia – un bacio – sbagliato – una relazione – la nostra, mia e di Fler – un’altra morte – di Saad – e un’altra relazione – la nostra, mia e di Bill.
Una resurrezione, francamente, mi pare eccessiva.
Lo stronzo in fuga non richiama. Ringhio e lo richiamo io. Non mi aspetto che risponda, voglio solo rompergli i coglioni, e invece eccolo che risponde al primo squillo, furioso.
- Chakuza, sei patetico, tirare fuori Bushido per-
- È vivo. – lo interrompo, senza aspettare che abbia concluso il cazziatone.
Lui rimane zitto e non respira nemmeno.
- Sei pessimo. – riprende a fatica dopo un po’, - Se era un tentativo di zittirmi per-
- Era un tentativo di zittirti. – ammetto, - Per poi spiegarti che è vivo davvero.
Fler esita. Io guardo ancora Bushido ed Eko – Eko gli sta rubando il pacchetto di pistacchi dandogli del fantasma egoista del cazzo – e Bushido solleva lo sguardo verso di me e mi sorride. Lo fa con calma e naturalezza, come ha sempre fatto. Sorrideva di continuo. È una cosa di cui ho parlato anche con Fler, in un tempo che mi sembra lontano secoli, ed anche lui ha ammesso che era vero, Bushido da quando era all’Ersguterjunge sorrideva sempre. Fler ha aggiunto acido anche “perché i problemi li aveva lasciati a noi poveri stronzi e di tutto il resto si era dimenticato”, ma il punto della questione era un altro: Bushido sorrideva sempre perché non aveva motivo di essere triste. La sua vita era perfetta.
È assurdo che sia morto e poi tornato in vita per ritrovarsi in mano un qualcosa che non esiste più. Non so nemmeno come farò a dirglielo.
- Chakuza. – mi richiama Fler dall’altro lato della cornetta, - Cosa cazzo stai dicendo?
Sempre che in qualche modo non lo sappia già, ovviamente.
- Vieni a casa di Eko. – ordino, comunicandogli l’indirizzo. Lui fa una smorfia infastidita di cui sento l’eco in un lamento. Lo zittisco. – È una cosa seria, Fler. Vieni. – vienitelo a riprendere.
Lui interrompe la chiamata imprecando ad alta voce, io ripongo il cellulare in tasca e torno in salotto, aggirandomi con aria inquieta attorno al tavolino basso davanti al divano.
- Lo stronzo sta a due isolati da qua. Ci puoi pensare? – mi dice Eko, che continua a fissarmi con gli occhi a palla come fosse ancora sicuro che l’ipotesi fantasma sia più razionale rispetto all’ipotesi “sono ancora vivo”. – Da due settimane. E indovina dov’è stato prima, per tutto questo tempo.
Bushido ride.
- …non ne ho idea. Sotto terra? – provo, fissando Bushido con lo stesso sguardo allucinato col quale Eko fissa me.
Bushido ride ancora ed io, sinceramente, vorrei la piantasse.
- A Miami! – sbotta Eko, allargando le braccia in segno di profondo sgomento.
In un primo momento non capisco. Penso solo: è a Miami che si va, dopo morti?
Poi realizzo.
E un po’ mi viene anche voglia di mandarlo a fanculo. A Miami va, il bastardo. A Miami.
Prendo fiato.
- Bushido, tu eri morto. – metto bene in chiaro, così che nessuno di noi possa scordarlo, visto che qui mi pare si stia passando sopra la cosa con un po’ troppa leggerezza. Lui annuisce e mi fa segno di sedermi in poltrona. Io obbedisco senza fiatare.
- È complicato da spiegare, Chaky. – dice, con una certa tenerezza, - Ma vi dirò tutto, piano piano. Prima, però, ho delle questioni da risolvere.
Ed io sono lì che tremo e prego in un centinaio di lingue che fra le varie questioni da risolvere non ci sia anche Bill, che suonano al campanello.
Io guardo Eko ed Eko guarda me.
- Mbe’? – sbotta, sollevando supponente il mento, - È il tuo uomo, tu l’hai chiamato, vai ad aprirgli.
Lo mando a fanculo e mi alzo in piedi mentre Bushido ride ancora – anche se c’è una sorta di tensione, nella sua risata, una nota un po’ stridente che nelle risate di prima non c’era. Non fatico a ricollegarla alla presenza di Fler oltre quella porta. A meno che non sia il ragazzo delle pizze che Eko minaccia di denunciare da ore.
Apro la porta e di fronte a me c’è un Fler che non ho mai visto in vita mia. Ha quattordici anni negli occhi, non uno di più. Poi non è cambiato per niente, ma gli occhi bastano: sono enormi, liquidi e persissimi. E dovrebbero essere gelidi, perché quando Fler è scazzato i suoi occhi diventano pezzi di ghiaccio, ma non c’è traccia di freddo in fondo alle sue pupille. Non ce n’è davvero per niente. Sono caldi, anzi. E non stanno guardando me.
- Sei venuto davvero… - esalo, un po’ sconvolto. A saperlo, avrei usato la scusa di Bushido per quando ha continuato a darmi picche nell’ultimo periodo.
Stupido Peter. Piantiamola un po’. Me lo dico da solo, va’.
Lui annuisce, comunque.
- Se scopro che è una cazzata, Chakuza, ti prendo a calci nelle palle fino a fartele uscire dalla gola.
Sospiro e mi lamento anche un po’.
- Ma che avete tutti stasera con le mie povere palle? – mugolo, scostandomi lievemente dall’uscio per farlo entrare.
- Le tue palle sono un pericolo pubblico. – precisa lui con una mezza risata, sfilandosi la giacca ed appendendola all’attaccapanni. Poi torna a guardarmi. È ancora un ragazzino e questa cosa mi distrugge in un modo che non capisco. Mi fa venire un groppo in gola che non so decifrare. – Mi spieghi un po’? – chiede appena, - E… a proposito… quello stronzo del padrone di casa?
- Eko è di là… - spiego, indicando il corridoio con un dito. Esito un po’, prima di aggiungere il resto. - …con lui.
Fler deglutisce e stringe le labbra.
- È tornato dalla morte?
Io scuoto il capo. No, è tornato da Miami.
Mi mordo la lingua.
- Pare non sia morto affatto, in realtà. E… sappia un mucchio di cose.
Fler annuisce anche troppo tranquillamente. Guarda un punto a caso nel vuoto e socchiude appena le palpebre, come si stesse perdendo nei propri pensieri ed avesse bisogno del giusto tempo per farlo. Poi sbuffa una mezza risata.
- Mi scazza e mi sembra anche un po’ assurdo da dire, - confessa alla fine, - ma è così schifosamente da lui che non fatico neanche a crederci. – poi scuote il capo e torna a guardarmi. – Mi ci porti? – e lo dice con lo stesso identico tono di un bambino un po’ impaurito che chiede al padre burbero di accompagnarlo sull’ottovolante.
Annuisco senza volerlo fare davvero e lancio un’occhiata alla porta come a chiedermi se esista la possibilità di afferrare Fler per il cappuccio della felpa, uscire da quest’appartamento e riprendere il corso della nostra vita esattamente per com’era prima di stasera. Non ho il tempo di concludere il pensiero che sto già portando Fler al cospetto di Bushido – ed è una cosa molto epica, a pensarci; questi due si sono lasciati accoltellandosi. Voglio dire. È assurdo.
Entro prima di Fler e non so bene come annunciarlo. Ci vado giù in maniera tranquilla.
- Atze? – e mi sento vagamente in colpa ad usare ancora questo soprannome, - Senti, c’è Fler.
Bushido ride e la voce di Patrick mi arriva dritta alle spalle come una pugnalata. È vicinissimo.
- Non ho mica bisogno del permesso, per ricevere udienza, io. – mi supera e si para davanti a Bushido con una calma impressionante, - Ho il lasciapassare automatico.
Bushido non si alza. Nemmeno si muove. Resta seduto sul divano e lo guarda con un sorriso strafottente sul volto. Sembra incredibilmente più giovane anche lui, il che è strano. Immagino sia l’effetto della presenza di Fler.
Ci sono un sacco di cose che mi vanno di traverso, stasera. Non mi piace proprio come si sta mettendo la situazione in generale.
Fler sorride appena e si siede sul tavolino basso, proprio di fronte a Bushido. Le loro ginocchia quasi si sfiorano e Fler si piega un po’ in avanti per guardarlo dritto negli occhi.
- Ero lì, quella notte, perché volevo dirti che eravamo a posto, Atze. – lascia scivolare le parole fuori dalle labbra con naturalezza disarmante, - Ero lì sotto per questo. Non sono stato io. Volevo dirtelo. Non sono stato io. E siamo a posto.
Bushido inspira ed espira, senza perdere il sorriso.
- Lo so. – dice a bassa voce. Non aggiunge nient’altro.
Vorrei poter dire qualcosa anch’io. Vorrei poterli mandare a fanculo entrambi, tanto per cominciare. Bushido perché è tornato, Fler per altre duemila ragioni. Cazzo, a guardarlo mi viene un nervoso che non so nemmeno descrivere. Mi prudono le mani. Ha ancora sulla faccia quel sorrisino di prima e lui e Bushido che si guardano negli occhi senza dire altro sembrano una cosa unica nata insieme. E mi viene da ridere perché Fler me l’aveva pure detto: non esplicitamente, ma tutte le volte che partiva in quarta a parlare di Anis, dietro ciò che diceva c’era sempre un concetto di base che lo vedeva coinvolto con lui in un modo diverso rispetto al modo in cui era stato coinvolto con chiunque altro nella sua vita. Ed io lì a ridere e prenderlo in giro. Io lì a pensare che fra noi ci fosse… io lì come un cretino.
Aveva ragione Fler. Se mai c’è stato qualcosa, non c’è più nulla già da un pezzo. E se pure un qualche frammento era rimasto, nell’ultimo minuto è stato spazzato via.
O almeno così mi sembra.
Non facesse così fottutamente male, forse lo capirei meglio.
Bushido si piega in avanti a propria volta. Lo fa con un sorriso strafottente sul volto. Si piega in avanti e sfiora quasi la fronte di Fler con la sua.
- …non so come chiamarti. – ride alla fine, e Fler lo segue, socchiudendo gli occhi e scuotendo il capo, - Mi viene in mente di tutto. – c’è Eko che li fissa sconvolto e poi guarda me quasi in imbarazzo, ma loro lo ignorano. Ci ignorano. – Ragazzino, Frank, Fler…
- Patrick andrà bene, Anis. – lo interrompe Fler, sorridendo più apertamente.
Patrick non va bene neanche per un cazzo. Io lo chiamo Patrick solo quando lo rimprovero. Neanche quando scopiamo. Fanculo. Patrick non va bene neanche per un cazzo.
- Io comunque non sono tornato dall’altro mondo per una rimpatriata. – dice ad un tratto Bushido, alzandosi in piedi e venendo verso di me, mentre Fler prende e si mette comodo sul tavolino, piantando i palmi sul vetro e stirandosi un po’ indietro con un mezzo sorriso soddisfatto sul volto. Non mi vede più da almeno mezz’ora e quella posizione lì mi fa incazzare oltre ogni dire. – Potrà sembrarti assurdo, Chaky, ma sono venuto per parlare con te.
Sollevo lo sguardo e lo fisso, sconvolto.
- Con me?
Ma vaffanculo, anche.
Lui annuisce.
- Volevo dirti personalmente, - dice con tono scherzoso, - di piantarla di mandare in malora la mia attività, prima che io ti prenda per le palle e te le stacchi di peso per usarle come bolas. – Fler scoppia a ridere. Anche Eko. Vorrei che lasciassero tutti in pace le mie palle ma mi rendo conto da solo che hanno ragione loro a volerle su un piatto. – Poi naturalmente lo ripeterò anche agli stronzi della Universal, ma con te ci tenevo a discutere la cosa in maniera più rilassata. – continua tranquillamente. – Quindi, magari, ora che sai che sono vivo, me la lasci aperta l’Ersguterjunge?
Avrei solo una domanda, da fargli, ed è: se dico sì, poi scompari?
Naturalmente, però, non chiedo. Mi limito ad annuire. E lui mi stringe al collo in un mezzo abbraccio grato che fa sorridere Fler.
Ironico. È la prima volta che mi vede da minuti interi. L’ha fatto solo quando Bushido mi ha toccato.
*
Eko non riesce fisicamente a stare zitto. Probabilmente è una reazione allo spavento e allo stupore ed anche alla felicità di ritrovarsi Bushido vivo e vegeto in carne ed ossa, proprio di fronte agli occhi. Continua a porgli domande allucinanti stile “e con cosa andavi in giro a Miami? Camicie hawaiane?”. Chiede e gesticola e chiede ancora e Bushido non fa che ridere e rispondere, “sì, Eko”, “no, Eko”, “nella maniera più assoluta e totale no, Eko, mai”, e tutto quello che io riesco a registrare, di tutto questo, è che Fler non gli ha ancora staccato gli occhi di dosso.
È una cosa incredibile, non l’ho mai visto comportarsi così: è come se ci fossero delle calamite, addosso a Bushido. Ovunque vada, comunque si muova, gli occhi di Fler non lo abbandonano mai, neanche per un secondo. È stato così anche durante quella dannata puntata di TRL, ma allora Bushido era un’immagine su uno schermo piatto a cristalli liquidi, non era una minaccia.
…ed allora io ero ancora una persona migliore. Una persona che non pensava a Bushido come ad una minaccia, appunto.
Comunque sia, sono ancora infastidito. Da qualche parte nel corso di questa serata, mentre Eko parlava e Bushido rideva e rispondeva senza guardarlo, ricambiando solo gli occhi azzurri di Fler con un compiacimento addirittura irritante, m’è venuta voglia di mettere una mano fra di loro. Una cosa proprio da bambini, mettere la mano ed agitarla, come a dire “allora? Vi ricordate che ci sono anch’io, qua di lato?”. Ma la verità è che non mi hanno messo loro in un angolo, mi ci sono rifugiato da solo, perché non ho la più pallida idea di cosa fare. Quest’uomo, prima di morire, mi ha affidato delle cose. Ed io dovrei, tipo, fare rapporto, no? Aggiornarlo sullo stato dei suoi beni.
Solo che il bene che mi ha lasciato io me lo sono preso.
E questo è un problema enorme.
Mi alzo in piedi.
- Mentre Eko continua a chiederti… cos’è che gli hai appena chiesto, Eko?
- Se ha visto qualche donna che s’infilava una noce di cocco su per il-
- Mentre Eko continua a chiederti delle discutibili abitudini sessuali delle flori… comunque si chiamino le donne che vivono in Florida, - Fler e Bushido ridono contemporaneamente, e Fler scuote pure un po’ il capo con rassegnazione. Mi sento vagamente in imbarazzo, - …io vado a preparare un caffè. Sarà una nottata lunga.
Bushido annuisce semplicemente ed io mi rifugio fra le quattro mura piastrellate della cucina di Eko. Una cucina palesemente vuota, peraltro, perché pare che tutti i rapper abbiano la brutta abitudine di non passare mai del tempo in casa propria. Tant’è che Eko è sempre buttato da Kay. Il quale però è sempre buttato dalla madre, perciò alla fine passano entrambi tutto il tempo a casa della povera donna. Col risultato che casa di Eko è quasi sempre vuotissima.
Armeggio qua e là spalancando tutti gli stipetti, perché non può davvero esistere un uomo che non tenga in casa del caffè ed una moka, ed infatti alla fine trovo tutto e, sospirando di sollievo, mi metto a preparare, sperando di perdere abbastanza tempo per… non so nemmeno io per che cosa. Per far riposare il cervello e tornare di là con una scorta di lucidità sufficiente ad affrontare quello che mi aspetta, suppongo. Anche se non ho idea di cosa mi aspetti, perché mi fa paura immaginarlo.
Mentre metto la caffettiera sul fuoco, sento Fler ridacchiare alle mie spalle ed aggrotto istantaneamente le sopracciglia, voltandomi a guardarlo. Lo trovo con le braccia incrociate sul petto, appoggiato con una spalla allo stipite della porta. Mi fissa, palesemente divertito, con un sopracciglio inarcato. Dio, odio quando è così… così.
- Be’? – chiedo sgarbatamente, ricominciando ad aprire ante e sportelli alla ricerca di qualche tazzina o, al limite, dei bicchierini di plastica. Il punto è che non posso pensare eroicamente cose tipo “mi aspetta la morte ma non cederò di un passo”, e pensarlo a riguardo di Bill, e poi vedermi apparire Fler sulla soglia e provare il desiderio praticamente irresistibile di tirarlo in cucina, chiudere la porta e stenderlo sul ripiano accanto al lavello. Non è… non posso continuare a fare così. Non posso.
Lui mi viene accanto ridacchiando serenamente, e mi aiuta nella ricerca.
- Sei troppo nervoso. – mi dice, - È un comportamento sospetto.
Be’, grazie, lo so anch’io.
- Non dovresti essere di là a ricordare a Bushido che non hai mai avuto occhi per altri che per lui? – ringhio infastidito, e lui si ferma e mi guarda per un secondo. Poi scoppia a ridere.
- Tu sei assurdo! – commenta ironico, - Come puoi essere geloso in questo momento?!
- Non sono geloso! – cerco di difendermi, anche se dovrei cominciare a ricordarmi più spesso che mentire a Fler serve a poco. Un po’ perché fiuta le menzogne – come quell’altro, accidenti a lui – ed un po’ perché comunque si convince di quello che vuole e poi ci marcia indipendentemente da come stiano le cose in effetti. Insomma, proprio come quell’altro. Stramerda.
- Chakuza, Dio mio, ma il fatto che io sia andato via, poco fa, non ti è servito a niente?
Spengo il fuoco sotto la caffettiera.
- Sei stato via praticamente mezz’ora. – borbotto a bassa voce, - Cosa vuoi che sia cambiato, in mezz’ora?
Vorrei che Fler si offendesse – in genere, quando lo prendo per il culo, lo fa – ma non fa che ridacchiare ancora e scuotere il capo.
- È che il discorso sulle noci di cocco aveva cominciato ad inquietare anche me. – dice, ignorando la frecciata e riprendendo il dialogo dall’inizio, - E poi volevo vedere come stavi.
- Oh, ma guarda. – sbotto, con la maturità di un bambino di dieci anni, - T’interessa?
Lui mi fissa per un secondo, ed in quel secondo i suoi occhi azzurrissimi brillano in maniera spaventosa.
- Certo che mi interessa, Chaku. – sospira, - Proprio perché m’interessa-
- Ora non partirtene col discorso di rito stile “è per te che lo faccio”. Non l’hai fatto per me, quando te ne sei andato.
Si appoggia al mobile ed allunga una mano ad aprire lo stipetto più in alto. Le tazzine sono là. Lui nemmeno le guarda, continua a fissare me.
- In ogni caso, sono stato via solo mezz’ora. E sono tornato quando mi hai chiamato.
- Perché ti ho parlato di Bushido.
Scrolla le spalle.
- Il motivo non è importante.
“Col cazzo”, vorrei rispondere, ma lo trattengo in punta di lingua perché questa discussione è già abbastanza assurda così.
- Dimmi la verità, Fler. – lo sfido, versando il caffè, - Perché sei tornato?
Lui sospira pesantemente e infila le mani nelle tasche. Sotto la spinta, i pantaloni si abbassano appena, scivolando lungo la sua vita e lasciandomi intravedere un lembo di pelle appena sopra i fianchi. Deglutisco.
- Cosa vuoi sentirmi rispondere, Chaku? – chiede lui, quasi dolcemente. – A questo punto, posso dirti tutto quello che vuoi. Non è importante.
- Sei tornato per vedere lui? – ringhio, voltandomi improvvisamente a guardarlo. Lo trovo che già ride.
- Sì. – dice tranquillamente, - O, in alternativa, per sventrarti in caso mi avessi detto una balla solo per farmi tornare. Soddisfatto così?
Soddisfatto un cazzo.
Sospiro pesantemente, mentre Fler recupera due delle quattro tazzine colme di caffè, allontanandosi verso la porta.
- Ah, dimenticavo. – dice con aria falsamente casuale. E lì capisco che mi sta prendendo in giro, o torturando, o comunque non si sta comportando in maniera corretta nei miei confronti. Odio avergli dato abbastanza ragioni per farlo senza sentirsi in colpa. – Anis vuole il riassunto delle puntate precedenti. Ed io quello che dovevo dirgli gliel’ho già detto.
- No, manca ancora la dichiarazione d’amore. – sbotto acido.
Fler non si abbassa al mio livello, inarca un sopracciglio e ghigna.
- Dici? – domanda allusivo, e poi scompare oltre la soglia.
Quando torno di là con la tazzina mia e quella di Eko, Fler è di nuovo seduto sul tavolino e sta di nuovo guardando Bushido come non vedesse altro. Mi rassegno: non è come, è così.
Resto in piedi, passo la tazzina ad Eko ed osservo Bushido che beve il proprio caffè e poi posa la tazza sul tavolino, proprio accanto al punto in cui è seduto Fler. Lo sfiora col braccio, proprio lì sul fianco, e per un attimo io guardo i loro corpi che vengono a contatto, colgo il leggero brivido che scuote le spalle di Fler e colgo anche quel breve lampo di compiacimento che increspa le labbra di Bushido, e mi chiedo cosa stia esattamente succedendo in questa stanza. Se si stiano comportando così solo perché sanno perfettamente che Eko certe cose non le vede – o fa finta di non vederle – e che io piuttosto che parlarne con anima viva mi farei volentieri sparare.
Non lo so.
Mi viene voglia di menare le mani, comunque.
Mi riscuoto quando Bushido si schiarisce la voce e mi chiama.
- Allora, Chaky… - dice, mettendosi comodo sul divano ed incrociando le braccia sul petto, - Cosa mi racconti?
Ed io per un attimo mi sento confuso. Cosa gli racconto? Cioè, davvero, cosa tiro fuori dal cappello? Cosa gli dico? Cosa, che non abbia a che fare con Bill – perché non voglio nemmeno che ci pensi – o con me e Bill – perché il solo pensiero che lo scopra in questo momento mi terrorizza – o con me e Fler – perché ho la vaga impressione che sarebbe perfino capace di uccidermi, se sapesse i dettagli di quest’ultimo anno.
Cosa mi invento?
Lancio un’occhiata a Fler e lui non è d’aiuto. I suoi occhi sono freddi e vuoti, mi guarda quasi con la stessa curiosità con cui mi guarda Bushido. Come se si stesse chiedendo anche lui “vediamo come se ne tira fuori”.
Io mi seggo su una poltrona e richiamo alla memoria i brevi stralci di racconto che sono riuscito a cogliere dalla conversazione fitta di domande e risposte assurde fra Bushido ed Eko, prima che Fler arrivasse. Bushido è qui da due settimane. Due settimane fa – come quasi sempre, quando abbiamo potuto, negli ultimi mesi – Bill era con me. Probabilmente era con me anche mentre lui era in volo. E mentre quest'uomo atterrava, il suo ragazzino urlava il mio nome, nel mio letto. E, cazzo, stavamo da Dio. Ora Bushido mi chiama Chaky, e la cosa mi devasta. Non so più nemmeno se odiarlo perché è tornato o chiedergli di essere comprensivo prima ancora di avergli detto perché.
Mando giù a fatica un respiro che sembra di cemento, tanta è la resistenza che fa mentre mi scende per la gola, e poi guardo il pavimento e comincio a parlare.
- I primi mesi dopo che sei morto – parlo come stessi parlando ad un fantasma. Forse perché quasi preferirei che fosse così. – sono stati un casino. Non sapevamo davvero dove voltarci o cosa fare. Era tutto un chiedere, interviste di continuo. Ci siamo gestiti abbastanza bene, ma è stato pesante.
Bushido sorride appena.
- Mi dispiace. – lascia scivolare fra le mie parole, senza interrompermi davvero. Io annuisco e riprendo.
- TRL ci ha un po’ scombussolati. Ma d’altronde già allora avevo parlato con Fler, e quindi sapevo che lui non c’entrava niente. È stato… molto d’aiuto, in quel periodo. – e mi stupisco di essere riuscito a non nominare Bill nemmeno una volta. Bushido inarca le sopracciglia. Se ne accorge, forse. Capisce che c’è qualcosa che non va. Non lo so. Io continuo. – Poi Fler mi ha convinto a fare qualche indagine. E così abbiamo scoperto chi era stato a farti fuori. – mi prendo un attimo di pausa per capire come dirglielo, perché credo che queste non siano notizie facili da dare. Queste non sono nemmeno notizie che si danno, in genere. Non dici a un morto chi l’ha ucciso. Non quando ti può ascoltare, almeno.
Lui, comunque, mi anticipa.
- Saad. – dice, ed io sollevo gli occhi nei suoi e lo fisso come se lo stessi vedendo adesso per la prima volta. – L’ho immaginato quando ho saputo che era morto. – mi spiega lui con un mezzo sorriso. – Sono stato… mi sono tenuto informato, ecco.
Io annuisco e deglutisco ancora, con maggiore difficoltà. Mi sembra che più cose io tiri fuori più ciò che resta dentro si allarghi e prenda tutto lo spazio. E mi rendo conto che in realtà non è così. In realtà è solo Bill che si espande. Prima stava compresso nel mio petto assieme a tutto il resto, ma adesso tutto il resto sta uscendo. E lui si sta riprendendo il suo spazio. Ed io non voglio buttare fuori anche lui. Non voglio.
- Quindi siete stati voi a- - comincia Bushido, ma non finisce, perché Fler lo ferma.
E, visto che Fler mi conosce, lo fa.
Sa che io non lo tirerò mai fuori. Sa di doverlo fare lui al mio posto.
- Ti ha vendicato Bill, Anis.
Bushido si irrigidisce sul divano. Lo faccio anch’io, sulla mia poltrona.
Fler respira per tutti e due. È l’unico che lo faccia, d’altronde.
Eko si schiarisce la voce e si alza in piedi.
- Me ne vado al cesso. – borbotta con tono serio, - Voi raccontategli pure dei mesi in cui piangeva di continuo, io non voglio più sentirne nemmeno accennare. – commenta, sparendo in corridoio. Eko ha tutta una serie di problemi, quando si parla della sofferenza di Bill. Un po’ perché l’ha sempre considerato una lagna, un po’ però anche perché ricordo che i primi tempi, quando passava a trovarmi e lo trovava piangente sul mio divano, non sapeva mai che pesci prendere. La principessa in lacrime lo confonde, non sa come consolarla. E c’erano serate in cui i suoi soliti movimenti goffi e sgraziati non bastavano a far sorridere Bill. Di quelle serate, Eko non vuole più sentir parlare.
Quando sento la porta chiudersi, Bushido sta già preparando quella faccia lì. Quella delle domande gravi e importanti. L’ultima volta gliel’ho vista addosso quando mi ha spiegato cosa avrei dovuto fare con Bill in caso lui fosse morto. Rivederla adesso, quando ho mancato in quasi tutti i compiti che mi erano stati assegnati – tranne in quello di tenerlo vivo – è tremendo.
- Come sta Bill?
Lo chiede a voce bassissima. È il tono delle grandi occasioni. Delle grandi domande. Di quelle che non ammettono rispose elusive.
Ed io non so che dirgli.
Sta bene, perché sta con me.
Sta bene, e non so come starebbe se sapesse di te.
Sta bene, e non voglio che scopra di te.
Sta bene, ed ho paura di immaginare che starebbe meglio se gli dicessi che sei vivo.
- Sta bene. – ma è la voce di Fler a parlare. – Sta bene, Anis. Non preoccuparti.
Lui annuisce e vedo chiaro nei suoi occhi il desiderio di chiedere di più. Però non sa cosa, e di questo ringrazio, perché giuro che io non so più neanche cosa pensare. Figurarsi se riuscirei anche a dirgli qualcosa. Comunque solleva lo sguardo e lo fissa nuovamente su di me, riprendendo a sorridere.
- Grazie, Chaky. Sei stato un ottimo braccio destro.
Io lo guardo ed è la prima volta in mesi che mi viene da piangere.
Fler si alza in piedi.
- Credo che dovremmo andarcene tutti a casa a dormire, Anis. – dice a mezza voce, sorridendo sereno, - Te compreso.
Lui ride.
- Io da qui non mi muovo, Eko ha una camera degli ospiti che è un paradiso. – scherza, alzandosi a propria volta. – E poi credo che abbia ancora qualche altra curiosità su noci di cocco e signorine di facili costumi, da soddisfare. Visto che comunque… - si prende una pausa e deglutisce, - …sono stato via a lungo, mi sembra giusto restare finché non sarà completamente a posto.
Andiamo via con Eko che ci strilla alle spalle di non lasciarlo solo con il fantasma. Bushido lo afferra per il collo e se lo tira dietro, strofinandogli forte le nocche contro la testa, fra i suoi addolorati lamenti di protesta, e Fler ride ad alta voce e dice ad Eko che ognuno ha quello che si merita, e mentre lui lo dice io non posso che pensare che è una delle cazzate più enormi che gli siano mai uscite di bocca. Mi chiedo se ci creda e, mentre lo osservo smorzare il sorriso fino a lasciarlo scomparire del tutto appena la porta si chiude, realizzo che no, non ci crede affatto, e ritrovo un pezzo del mio Fler – intendo, quello che ho conosciuto io, quello con cui ho praticamente diviso tutto per gran parte dell’anno scorso e quello a cui ho continuato a pensare mentre andavo avanti con la mia vita intrecciandola alla vita di Bill.
Sospiro.
- Sei stato insopportabile. – commento mentre ci avviamo verso l’uscita.
- Sì, me ne sono reso conto. – annuisce lui, tranquillissimo, - Mi dispiace. Non è una cosa che controllo. Dovresti averne una mezza idea.
Sospiro ancora, mentre apro lo sportello della macchina posteggiata qua davanti.
- Stai continuando ad essere insopportabile. – gli faccio notare, infilandomi nell’automobile. Aspetto che faccia il giro della macchina e prenda posto al mio fianco, lo aspetto con una naturalezza perfino disturbante, ma mi accorgo che è disturbante solo nel momento in cui lui è effettivamente seduto e ci guardiamo come non avessimo idea di cosa fare adesso.
- Ti accompagno a casa? – chiedo a mezza voce, continuando a guardarlo incerto.
- Ovviamente sì. – risponde lui, quasi inorridendo. – Che pensavi?
- Non pensavo. – mi mordo un labbro. – Ci credi, se ti dico che non pensavo, vero?
- Ovviamente no.
Ingrano la marcia e metto in moto la macchina.
- L’Escalade la lasci qui?
- Sì. – annuisce lui, - Ma se deve essere tutto questo dramma, riportarmi al mio fottuto appartamento, la recupero e vado da solo.
- Fler, ti prego, è stata una serata abbastanza difficile-
- Ed io dovrei già essere a letto con i bagagli pronti per dopodomani. – ringhia ancora lui, guardando la notte fuori dal finestrino. – Cazzo. Ora come lo dirò a Sido?
Lo guardo, fermandomi al semaforo.
- Dirgli cosa?
Lui sospira pesantemente, scuotendo il capo.
- Che non parto più.
Scatta il verde ma io non mi muovo. Nessuno suona perché sono le due del mattino e questa zona a quest’ora non è affatto frequentata, perciò resto lì a due passi dall’incrocio e l’unica cosa che riesco a pensare è…
- Non parti?
Fler sospira ancora e si volta finalmente a guardarmi. Lo vedo che fa fatica. Mi dispiace che debba fare tutta questa fatica. So che era più facile per lui, quando poteva concentrarsi solo su Bushido. So che non è facile restare da solo con me. Lo vedo dal modo in cui trema appena la luce nei suoi occhi.
- No. – risponde alla fine, - Qualcuno dovrà pure essere nei dintorni a raccogliere i pezzi, quando dirai a Bushido che il suo ragazzino ora è il tuo ragazzino.
Mi si ferma il cuore in gola e ripenso all’inizio di questa serata. A me che, sicurissimo, riflettevo e mi dicevo che era impossibile Fler lo ammettesse ad alta voce. Assolutamente impossibile. E parlavo, sicuro del mio vantaggio. Adesso mi sento vulnerabile come un bambino.
- …già. – annuisco, rimettendo in moto. – Mi dispiace. – aggiungo poi. Mi ci sento quasi costretto.
Lui ride.
- Pensi davvero che ce l’abbia con te per questo? – chiede a mezza voce. Io non lo so. So solo che dovrebbe avercela con me e basta, per un motivo qualsiasi. Scelga lui. – Noi siamo a posto, Chaku-
- Non è vero. – mi guarda, io lo evito. – Non è vero che siamo a posto. Non dirlo.
Lo sento sospirare ancora.
- Okay. – annuisce alla fine.
Non diciamo più nemmeno una parola, fino a che non arriviamo sotto casa sua. È lì che, quando lo vedo scivolare fuori dalla macchina, mi viene voglia di fermarlo. Ci sono delle serate che ho trascorso con Fler che ricordo come infinite. Una è quella in cui l’ho violentato. Una è quella in cui abbiamo ammazzato Saad. Questa è un’altra. Sono sempre sere che è difficile lasciare andare via. Lasciare che si concludano sembra assurdo. Lo fermo afferrandolo saldamente per un polso e lui ricasca sul sedile. Ha fatto la stessa cosa quella notte lì, la prima delle nostre notti infinite, solo che allora cadere l’ha costretto a mugolare di dolore. Ora sospira soltanto, rassegnato, come se lo aspettasse.
- Dimmi, Chaku.
Sospiro anch’io.
- Allora ci vediamo domani?
Lui si volta a guardarmi.
- Potresti… non lo so, fregartene? Fare finta che io non esista? Dimenticarti di me, cancellarmi completamente da quella testaccia di cazzo che ti ritrovi? È un’ipotesi contemplabile, Chakuza?
La risposta viene fuori naturale.
- No.
Restiamo immobili solo per un secondo. Lui ha già le gambe fuori dalla macchina ed una mano piantata nel sedile a sostenere il peso del corpo. Quando la solleva per afferrarmi per il bavero del giubbotto, si avvicina quasi automaticamente, e prima di poterlo realizzare davvero ci stiamo già baciando – frenetici e sconvolti, pure con una certa rabbia, come se nessuno dei due lo volesse davvero, o odiasse dover ammettere di volerlo, invece.
Si stacca da me con violenza, ansimando, ed io lo trattengo per la maglia. Non lo vedo, perché lascio gli occhi chiusi.
- Cristo. – me lo sussurra sulle labbra, - Vaffanculo. A te, ai tuoi no del cazzo e a questa situazione di merda. Vaffanculo.
Non rispondo, continuo a cercare di recuperare un ritmo più decente per il mio respiro. E continuo anche a trattenerlo.
- Lasciami andare, Chakuza, Cristo santo. – mi implora lui, quasi con dolore, ma non mi toglie le mani di dosso. Continua a stringermi per il giubbotto.
- Ti lascio appena mi lasci tu.
- Vaffanculo.
- Piantala.
- Vaffanculo, Chakuza.
Restiamo a respirarci addosso ancora per qualche secondo, in perfetto silenzio. Poi mi lascia andare e, quando lo fa, anche io lascio andare lui. Mi ritrovo i suoi occhi addosso appena apro i miei. Sono furiosi e gelidi. Deglutisco.
- Ora sono io che dovrei chiederti perché l’hai fatto. Dopo avermi detto che non volevi più vedermi, poi. – dico duramente, reggendo lo sguardo, - Ma non te lo chiedo, Fler. Perché lo so già. Tu che dici?
Dice che mi tira un cazzotto, evidentemente.
Batto con la testa contro il finestrino, dietro, e mi faccio un male cane. Non so se mi fa più male la testa o lo zigomo su cui è arrivato il cazzotto.
- Cazzo! – mi lamento, cercando di massaggiarmi ovunque contemporaneamente, - Fler?
Lui è già uscito dalla macchina.
- Sei un pezzo di merda. – mi dice, furioso, - Ci vediamo domani. – e poi chiude con violenza lo sportello ed entra nel palazzo, scomparendo alla mia vista.
Rientro in casa mezz’ora dopo con un mal di testa allucinante e lo zigomo gonfio e bollente. Vorrei ficcare la testa nel freezer, almeno… non so se servirebbe a qualcosa, in realtà, ma è quello che voglio fare adesso – anche solo per andare alla ricerca di un qualche cosa di freddo da mettermi in faccia – quindi apro lo sportello, e prendo a smadonnare quando chiaramente il cazzo di aggeggio è del tutto allagato, dal momento che ha deciso di rompersi. Fanculo anche a lui. L’acqua è colata fin nello scompartimento di sotto, e ne viene fuori un odore disgustoso. Dio che schifo.
Dovrei pulirlo, probabilmente, ma non mi va per niente. Sfilo il maglione che odora di Fler e mi viene la nausea. Sarà il senso di colpa: visto che sono troppo incasinato per percepirlo davvero, si presenta come voglia di vomitare. Sono già a due passi dal bagno, quando squilla il cellulare.
Il nome sullo schermo mi gela il sangue nelle vene. Lo fisso per un tempo che mi pare lungo minuti interi e non riesco a decidermi su cosa fare. Sono quasi le tre. Dovrebbe stare dormendo.
- Bill? – chiamo piano appena riesco a convincermi ad accettare la chiamata, - È successo qualcosa?
- Aaaah, Peter! – mi strilla nell’orecchio, ma non è un urlo spaventato, è solo concitato e un po’ ansioso e c’è anche una traccia di quell’eccitazione irrazionale che prende Bill quando è preoccupato per qualcosa di stupido che sa perfettamente andrà nel migliore dei modi ma sul quale si diverte a ricamare drammi senza motivo. – Ci hai messo una vita a rispondere, mi stavo preoccupando!
- Bill… - sospiro, - ma hai visto che ore sono?
- Sì, naturalmente, ma dovevo chiederti se sei riuscito a fermare Fler, non pretenderai mica che aspettassi domattina! Se non ci sei riuscito dovrò andarlo a recuperare io personalmente. – borbotta con aria cospiratoria, - Scommetto che hai fatto fiasco. Devo mettermi il cappotto? Metto il cappotto. Mi passi a prendere? Andiamo insieme.
Mi passo una mano sulla testa, cercando il bernoccolo. Lo trovo e lo pesto un po’. Cristo che male.
- Bill… - lo richiamo, mugugnando, - …sono quasi sicuro che tu mi abbia nascosto qualcosa.
Lui si lascia andare ad una mezza risatina imbarazzata.
- Fler mi aveva chiesto di non dirti che voleva andarsene. Perché voleva parlartene lui per primo, capisci?, non potevo tradirlo.
Mi si conficca uno spillo nel petto solo a sentire la parola. Solo a sentire lui parlare di tradimento. Lui che per me ha sfilato l’anello e il bracciale di Bushido. Li ha tolti di mezzo – e li aveva tenuti addosso per mesi, prima – solo per far spazio a me. Ed io… Cristo.
- Non devi preoccuparti per lui. – lo rassicuro, deglutendo a fatica, - Ha deciso di restare, alla fine.
Bill strilla contento.
- Davvero?! Ma è fantastico! E come ci sei riuscito?!
Ha provato ad andarsene e me lo sono stretto contro, Bill. Tutto qui.
- Gli ho fatto capire che avevamo ancora tutti bisogno di lui.
Bill ride ancora.
- Bravo! – si complimenta, - È vero.
- Già.
Mi lascio andare sul divano e poi affondo il naso fra i cuscini. C’è l’odore di Bill, qui. È un odore piacevole, un odore tranquillo. È sempre lui, sempre uguale, sempre lo stesso da mesi. Non è un intruso, non è sbagliato, è l’odore che dovrei avere addosso sempre. Poi ripenso a Bushido vivo in casa di Eko. Non so più quale sia l’odore giusto. Non lo capisco più.
- Peter? – mi chiama lui, - Sei stanco, vero? Lo sento dal modo in cui respiri.
Sbuffo una mezza risata.
- Capisci se sono stanco dai miei respiri?
Ridacchia anche lui.
- Ovviamente sì. – dice con una punta di orgoglio. – Ci sentiamo domani verso mezzogiorno? Così dormiamo e poi ci organizziamo per la giornata, okay? Ho voglia di vederti…
Inspiro ed espiro e penso solo al profumo.
- Sì, anch’io ho voglia di vederti.
Bill ride.
- Allora ci sentiamo domani. Buonanotte. – dice a bassa voce, prima di interrompere la conversazione.
Tutte le luci di casa sono spente ad eccezione di quella del bagno. Sento il bisogno fisico di una doccia, ma sento molto più il bisogno di dormire qui, perciò lascio perdere l’odore di Fler. Lo butto fuori dalla testa a calci. Affondo ancora più profondamente fra i cuscini e mi addormento.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Chakuza, Fler/Chakuza.
Rating: PG-15.
AVVERTIMENTI: Angst, Lime, Slash.
- "Sono a casa di Chakuza perché s’è messo in testa di spostare i mobili della camera da letto."
Note: Ho avuto una settimana disgustosamente piena e mi sono ridotta alle tre del mattino di venerdì per sistemare questa shot. Che poi in realtà erano due, ma erano quattro pagine una e tre pagine l’altra ed erano così dannatamente consequenziali che mi sono detta “ma sì, va’, le ragazze hanno avuto così poco di Fler… diamoglielo in doppia razione” ^O^ Non sono incredibilmente buona/magnanima/gentile?
…no, eh?
Oh, insomma *occhioni* avevamo detto che avremmo postato qualcosa venerdì, non che la shot che avremmo postato avrebbe risolto tutti i vostri dubbi e risposto a tutte le vostre domande *ri-occhioni* Per quello, mi sa che dovrete aspettare lunedì, come precedentemente programmato *ri-ri-occhioni*
Sì, siamo cattive. Abbiamo cominciato ad essere cattive con la prima shot, abbiamo continuato con la seconda e non intendiamo certo fermarci adesso <3 Anzi, visto quanto deve accadere nella serie, mi sa che continueremo a maltrattarvi a lungo XD Ma sappiamo che ci volete bene e continuerete a seguirci. Continuerete, vero? é.è Fler ve lo sta chiedendo per favore *espone Fler che guarda le lettrici con gli occhioni blu cucciolosi*
Quindi! Vi chiedevate che fine avesse fatto Fler? Come stesse? Perché David ne avesse parlato come di un uomo sull’orlo del crollo? Ebbene, il motivo è Chakuza, come sempre questo. Su, su, visto? A qualche domanda, in fondo, abbiamo risposto *-* *le autrici e Fler guardano tutti e tre le lettrici con ENORMI occhi coccolosi, sperando che loro abbiano pietà delle loro anime* ^O^
PS. Ah. Il titolo °_° Idea di Tab. L’armadio è l’armadio, la strega è Bill (…). Il leone non l’abbiamo ancora capito. Fler, probabilmente, comunque XD Ah, il mio bimbo coraggioso e tanto tanto stupido… <3
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IL LEONE, LA STREGA E L’ARMADIO

Sono a casa di Chakuza perché s’è messo in testa di spostare i mobili della camera da letto.
…sono a casa di Chakuza perché io gli ho messo in testa che spostare i mobili della camera da letto sarebbe stato utilissimo, vista la pendenza con cui entra il sole nella sua stanza. E no, non avevo idea di cosa stessi dicendo. Ed è successo mesi fa, oltretutto, lui non avrebbe dovuto ricordarlo. E nemmeno io.
Sono a casa di Chakuza, fondamentalmente, perché credo di avere voglia di stare con lui. Non in qualche senso strano, solo perché avevamo un bel rapporto, al di là di tutto, e vederlo sfumare così nel niente è, non so, fastidioso? Irritante?
Sa dolorosamente di già visto, immagino. Tutto qui. Siccome ne ho già visto morire uno – prima ancora che Anis morisse davvero, oltretutto – non ci tengo a lasciarne morire anche un altro. E visto che non sono ancora riuscito a trovare le palle per andare via, tanto vale che, finché sono qui, continui a vederlo. Non facciamo niente di strano. So che non possiamo.
Quando sono arrivato qui, lui stava guardando la televisione con aria assente, e m’ha accolto con un sorriso da salvatore della giornata. Per la serie: meno male che sei arrivato tu, perché a stare qui da solo altri dieci minuti avrei potuto uscire pazzo. “Fler!”, mi ha detto, “Sei venuto per l’armadio?”. Io ho annuito ed ho tirato su un sacchetto pieno di bottiglie di birra, che è un po’ il prezzo che pago ogni volta che metto piede qui dentro. Non che Chakuza me l’abbia mai chiesto, naturalmente, è che io ho sempre bisogno di una scusa per presentarmi a questa porta. Ne ho bisogno per me ed ho bisogno di darla a lui.
Insomma, ho posato le birre in frigo e siamo andati in camera da letto perché – anche se non avevo la più pallida idea di come far pendere meglio il sole in camera sua – sarebbe stato allucinante arrivare fino a lì e poi dire “no, va be’, lasciamo perdere e guardiamo un film”. Abbiamo svuotato l’armadio trovandoci dentro roba che non ero sicuro di volere vedere, abbiamo guardato la finestra, ho finto di sapere cosa stessimo facendo ed ho cercato di ricordare dov’è che avevo detto di spostarlo quando gliene ho parlato la prima volta. Ho indicato un punto a caso sulla parete opposta. “Dovrebbe stare lì”, ho detto, “ingombrerebbe meno”. Chakuza ha riso ed ha annuito per inerzia, immagino.
Dopodiché abbiamo provato a spostare l’armadio prima sollevandolo e poi facendolo strisciare per terra, ma il peso non indifferente e la palese mancanza di rotelline sotto hanno reso entrambe le manovre impossibili. Perciò il risultato di più di un’ora di “aspetta, reggi lì” e “no, no, tienilo così” è stato che siamo riusciti a muovere la struttura di tre-centimetri-tre e solo dopo abbiamo capito che andava smontata e rimontata altrove, se non volevamo morire giovani.
Dal momento che il sole pendeva anche fin troppo bene, e batteva su di noi attraverso la finestra spalancata al punto che mi sono chiesto per quale motivo dovessimo davvero spostare l’armadio, ci siamo ritrovati in dieci minuti sudati come avessimo corso la maratona di New York. La conseguenza è stata che abbiamo sfilato le magliette, recuperato le istruzioni di montaggio e cercato di concentrarci su quelle perché stare seminudi e vicini non è più facile come lo sarebbe stato un anno fa. Nonostante tutto.
Quindi abbiamo smontato la struttura pezzo per pezzo – le ante, la base, la copertura, gli scaffali, la cassettiera – ed abbiamo spostato il tutto sull’altra parete. Abbiamo ottenuto solo che adesso armadio e letto distano tipo un metro, cioè niente, e la prossima settimana ci toccherà quasi sicuramente rismontare tutto da capo, perché così la camera da letto non è vivibile. Sul momento, però, eravamo stanchi morti, il sole aveva rotto le palle e quindi Chakuza ha detto “fanculo la pendenza, basta così” ed io ho annuito entusiasticamente. Ricordando peraltro di dover andare a pranzo con Sido entro le successive due ore, se non volevo farmi silurare anzitempo e perdere così la mia ultima occasione di fuga.
“Senti, mi faccio una doccia”, ho detto a Chakuza, grattandomi distrattamente la nuca, “Non ce l’ho il tempo di tornare a casa per farla”.
Lui ha annuito tranquillamente, biascicando un “Lo sai dove sono gli asciugamani e l’accappatoio” prima di recuperare la propria maglietta e ricominciare a riempire l’armadio con tutte le cose che avevamo buttato un po’ a casaccio fra letto e pavimento.
Mi sono diretto in bagno pieno di una certa soddisfazione. Stare nella stessa stanza e non saltarsi addosso era ancora un obiettivo possibile e la cosa non era di poco conto. Il sesso tende a rovinare tutti i rapporti, ed ero felice di sapere che invece qualcosa di salvabile fra me e Chakuza c’era ancora.
La doccia e l’acqua ghiacciata con cui ho sedato i pezzi di corpo ribelli che non erano d’accordo sulla parte del non saltarsi addosso mi sono sembrati rigeneranti. Sono uscito dal box con un sorriso di una soddisfazione tale da rasentare l’ebetismo.
E mentre recuperavo l’asciugamano e mi asciugavo, ho sentito le voci. Prima delle voci, anzi, la porta. E prima della porta i passi. Passi, porta, voci. “Chaku…”. Bill.
All’inizio è terrore panico. Non dovrei essere qui. Non dovrei essere nudo in questo bagno e non dovrei essermi fatto una doccia e in realtà non avrei neanche dovuto smontare e rimontare l’armadio di Chakuza. Non abbiamo fatto niente oggi, ma non è questo il punto. Bill non è stupido. Bill è tante cose ma purtroppo non è stupido.
Trattengo il fiato e sento la porta richiudersi e Bill muoversi all’interno dell’appartamento – l’inconfondibile ticchettio dei tacchi dei suoi stivali, l’unico segno di movimento perché Chakuza non fa alcun suono, quando si muove. O almeno da qui non riesco a sentirlo.
- Come mai qui? – chiede Chakuza premuroso, - Successo qualcosa?
Bill ridacchia.
- Ho una riunione fra un’ora, ho pensato di passare a trovarti… - il che mi riporta a Sido. Non arriverò mai in tempo. Non se dovrò stare nascosto qui per tutta la prossima ora. Devo trovare un modo di scappare e in realtà non voglio.
- Oh. – la prima esclamazione di Chakuza è atona. – Oh! – la seconda è più entusiasta ed è talmente ridicolo che vorrei ridere ma chissà perché non lo faccio. Non mi sento a mio agio. – Allora… ti va una birra? – c’è la mia birra nel frigo. È la mia tassa d’ingresso, non può darla al ragazzino.
In realtà può. Mi stringo nell’accappatoio perché sto cominciando a sentirmi davvero un idiota e lo sguardo che mi rimanda lo specchio non aiuta affatto.
Chakuza passa svelto di fronte al bagno – adesso i suoi passi li sento perché sono pesanti e frettolosi. Sento il frigo che si spalanca – il tintinnio delle bottiglie l’una contro l’altra – e poi si richiude, e Chakuza ripassa a due centimetri da me e ho come l’impressione che si sia dimenticato della mia esistenza. Scuoto il capo: non è mica possibile. Abbiamo spostato un armadio fino a mezz’ora fa.
Comunque non posso uscire e resto qua a guardarmi negli occhi da solo – il che è ridicolo, a pensarci – mentre sento Bill lamentarsi in lontananza dei ritmi assurdi che David impone loro, e di quanto sia stupido continuare a presenziare ovunque “se poi tanto non scrivo una parola, Chaku, e ci sto impazzendo, dietro questa cosa”.
Chakuza lo rassicura – anche se non sento di preciso cosa dice; colpa della sua voce, quella di Bill è chiara e squillante e la sentiresti a chilometri di distanza, quella di Chakuza invece è cupa come un tuono lontano e non capisci quello che dice a meno di non sentirtelo dire praticamente addosso – e sento solo le bottiglie fare avanti e indietro dal tavolo alle loro bocche, tintinnando contro gli anelli sulle mani di Bill e riempiendo il silenzio della loro conversazione quando, inevitabilmente, sfocia nel vuoto.
“Perfetto”, mi dico, anche se non ci credo neanche un po’. Perché anche io sono tante cose, ma non sono stupido. “Argomento esaurito. Ora si alza e se ne va”. È più una speranza che altro, ma in effetti sento dei suoni che possono darmi ad intendere qualcosa del genere – rumori ovattati, stoffa che striscia contro altra stoffa, gli anelli di Bill che continuano inesorabilmente a tintinnare – e mi sporgo per affacciarmi alla porta, giusto per capire esattamente quanto tempo passerò ancora qua dentro.
D’altronde Chaku non può veramente decidere di scopare col proprio ragazzo. Non mentre ci sono io qui. No?
Schiudo l’uscio.
Ed è come quando senti rumori strani in camera da letto dei tuoi genitori e, quando vai a curiosare, vedi qualcosa che non capisci ma che, per qualche strano motivo, ti fa schifo e ti disturba nel profondo.
Io, quello che vedo, non lo capisco perfettamente. So cosa sta succedendo – Bill e Chakuza in piedi, schiacciati contro lo schienale del divano, che si divorano l’un l’altro con gli occhi talmente serrati da sembrare in trance – ma mi rifiuto di capirne il perché. E questo nonostante io sappia esattamente cosa è successo. Nonostante sia stato proprio io a dargli il via, anzi. In questo preciso istante, con loro negli occhi e il silenzio della casa a riempirmi le orecchie, non riesco a fare altro che chiedermi quando sia successo. Dove fossi io mentre succedeva tutto questo. Penso “in questo bagno sto chiuso da mezz’ora o da… quanti mesi?”, e vorrei prendermi a schiaffi da solo. Per essere stato tanto cretino da pensare che il fatto che loro stessero insieme potesse sfiorarmi senza toccarmi. O farmi del male.
Il loro non è un bacio ansioso e non è un bacio frettoloso. È un bacio umido e aperto, sensuale e lento, di quelli ai quali tieni, di quelli dei quali vuoi conservare il sapore. È una cosa rodata. È una cosa che fra me e Chakuza, nonostante i mesi – mesi interi, Dio – che abbiamo passato a scopare, non c’è mai stata. Bill gli tiene le mani sul petto e lo esplora con competenza, ne traccia gli angoli e le curve, si sofferma a torturarlo con le unghie. Chakuza lo stringe alla vita e se lo tira contro, lo fa con una prepotenza che mi fa salire il sangue alla testa, e Bill gli mugola fra le labbra ed il suo mugolio mi s’infila nelle orecchie e si ripete come un’eco.
Vedo Chakuza che si allontana un po’, prende aria e la lascia prendere a Bill. Il ragazzino è perso, non riapre gli occhi e respira lentamente, pesantemente, appoggiandosi un po’ a Chakuza e un po’ al divano. Solleva le braccia e si aggrappa al suo collo, le punte delle dita sfiorano la sommità del tatuaggio di Chakuza che esce in parte dalla canotta scollata.
- Non pensavo… - gli mormora sulle labbra, e Chakuza s’irrigidisce.
- Non vuoi? – chiede con una certa premura, stringendolo teneramente attorno ai fianchi.
Bill esita qualche secondo, mordicchiandosi l’interno di una guancia, e poi lo bacia ancora. È lì che Chakuza comincia a tirarlo verso la camera da letto. Ma non sembra affatto che lo tiri, in realtà, perché i piedi di Bill si muovono senza particolari problemi.
Io so che dovrei avere almeno la decenza di chiudermi qua dentro e non uscirne più – possibilmente affogarmi da qualche parte, perché non è proprio possibile che io sia qui in questo momento ed abbia visto tutto questo – ma non riesco. Apro la porta e la richiudo silenziosamente alle mie spalle, cammino a piedi nudi sul pavimento come un criminale – e un po’ mi ci sento – e mi accosto alla soglia della camera da letto.
Io non sto bene. Non ci sto con la testa.
Quello che resta del mio cervello esplode quando vedo Bill sedersi sul letto cercando il materasso a tentoni con una mano dietro di sé, incapace di staccarsi dalle labbra di Chakuza, che lo guida come può – poco e male, visto che tiene gli occhi chiusi, ma a loro sembra bastare.
Bill afferra la canottiera di Chakuza per l’orlo e la tira su – adesso è affamato, lo vedo anche io, adesso c’è la fretta di sentirselo addosso pelle contro pelle – e Chakuza ringhia qualcosa di indistinto, qualcosa che fa mugolare Bill. I mugolii di Bill mi spaventano a morte. Il ragazzino è proprio perso.
Chakuza gli si stringe contro con una passionalità che mi sconvolge. Come volesse inglobarlo e tenerselo dentro. E lì penso che sono innamorati. Che sto guardando due innamorati che fanno l’amore. Sono un innamorato e sto guardando due innamorati che fanno l’amore. E non so quale delle tre cose sia la più sbagliata. Fanno male tutte, in un modo o nell’altro.
Il resto non ho veramente voglia di guardarlo. Mi nascondo dietro lo stipite e fisso gli occhi sulla parete vuota di fronte a me. Vorrei diventare un pezzo di arredamento. Ma non lo sono, posso sentire tutto e forse è meglio così, perché sento e immagino. L’immaginazione non è fisica quanto la realtà. E quindi io immagino Bill che gli si struscia addosso, immagino Chakuza che s’insinua fra le sue cosce, sento Bill trattenere il respiro e rilasciarne poi uno spezzato e sofferente. I fruscii delle lenzuola. E i respiri mozzati di Bill che diventano ansiti incerti, via via sempre più convinti. E so che Chakuza è dentro di lui e so che Bill lo voleva e so che stanno godendo insieme. Lo sento nelle loro voci, negli ansiti che rilasciano, nello schiocco dei baci che mi rimbomba nelle orecchie – e non riuscirò più a liberarmene, lo so.
I loro corpi battono l’uno contro l’altro e fanno un rumore che ricorda quello degli schiaffi.
Bill viene sospirando. Chakuza quasi in silenzio, soffocandosi contro la sua pelle. Lo schiocco dei baci è sempre lì e non va via, ma non so se si stanno baciando ancora o lo sento solo io.
Comunque si disincastrano – scivolano contro le lenzuola e se le tirano un po’ dietro, sudati come sono – solo per incastrarsi nuovamente due secondi dopo, mentre cercano di ridare un ritmo al loro respiro. Gli anelli di Bill tintinnano ancora mentre le sue mani scivolano addosso a Chakuza.
Non so quanto tempo è passato, quando sento Bill mugolare che non vuole andare via. E questo mi ferisce più di tutto il resto, ed ho quasi voglia di prendere e andarmene senza pensarci un secondo di più.
Chakuza ride e nella sua risata c’è soddisfazione. Ed io mi chiedo se ho la pistola nei pantaloni. Ma devo stare calmo. Devo stare assolutamente calmo.
- Devi andare. – gli ricorda pacato, - Ti aspettano.
Bill annuisce stancamente – mi sporgo di nuovo a spiarli sperando di non essere visto – e fa per alzarsi.
- Poi torno. – annuncia timidamente, e Chakuza sorride ancora. È il sorriso del salvatore della giornata. Era mio, fino a un’ora fa.
Si aggira per la stanza recuperando i vestiti. Solleva lo sguardo sull’armadio.
- E questo che ci fa qui?
Ed io vedo Chakuza trasfigurare. Non so se avere paura o sentirmi irrazionalmente e crudelmente felice. Il suo sguardo saetta per la camera e incontra la mia maglietta che è ancora lì sul letto a due centimetri dal suo corpo. Ci hanno praticamente scopato sopra. Dovrò andare via con addosso il loro odore, perché non posso farmi prestare qualcosa di Chakuza, non posso andare via con addosso un odore che è il suo e solo il suo.
- L’ho… spostato. – spiega brevemente.
Bill ridacchia.
- E perché?
Chakuza abbassa lo sguardo.
- …il sole illumina meglio la stanza, così.
Il ragazzino si guarda un po’ intorno, dubbioso.
- Ma ne sei sicuro? – chiede soprappensiero. Poi scrolla le spalle, - È un po’ ingombrante qui, comunque. – butta lì come un commento casuale. Si riveste e si china a baciarlo lievemente sulle labbra, prima di allontanarsi da lui.
Riprendo facoltà di muovermi. Mi costringo a farlo. Mi nascondo in bagno appena un attimo prima che Bill esca in corridoio. Stringo con forza il lavandino fra le mani – la ceramica fredda oppone una strenua resistenza contro i miei polpastrelli, e io stringo fino a farmi male e sentirla scricchiolare sotto i palmi.
Chakuza sta battendo alla porta del bagno un attimo dopo che la porta s’è richiusa dietro alle spalle magre di Bill.
- Sei ancora lì, vero? – chiede attraverso il legno.
Io respiro – ci provo, almeno – prima di rispondere.
- Sì, sto uscendo! – lo rassicuro, - Ho perso un po’ di tempo, scusa. Tanto l’appuntamento con Sido è fra mezz’ora!
Mi rivesto ed abbandono l’accappatoio sul mobile. Quando esco dal bagno, Chakuza è appoggiato al muro e posso leggergli in viso così chiaramente che si sente una merda che, anche se non avessi visto nulla, comincerei a sospettare.
- Ho dimenticato la maglietta da te.
Lui la solleva, stringendola in una mano.
- Grazie. – annuisco stringendola con la mia. Per un secondo lui non la lascia andare. Ridacchio. – Guarda che devo mettermela. – solo allora molla la presa.
- Senti, ci vediamo più tardi? – chiede con una certa urgenza, mentre io infilo la maglietta e mi dirigo verso la porta.
Vorrei urlargli che più tardi torna Bill. Che io in questa casa non dovrei mai più metterci nemmeno un piede.
- Magari, sì. – dico distrattamente. La maglietta sa davvero di loro. Mi toccherà chiamare Sido e dirgli che ritarderò una mezz’ora, perché devo per forza tornare a casa e indossarne un’altra. – Poi ci sentiamo.
Poi non so cosa succede, perché non ho il tempo di accorgermene. Non ho il tempo di osservare l’espressione di Chakuza cambiare, o di notare la luce nei suoi occhi farsi più intensa. So solo che mi blocca sulla porta e mi bacia di prepotenza. Non riesco a realizzare subito, sento solo la pressione. Non chiudo gli occhi, i suoi sono serrati.
- Ehi, ehi… - mi allontano con una mezza risata, scivolandogli via fra le braccia, - Cos’era? – mi viene da vomitare.
Chakuza distoglie lo sguardo.
- Ci vediamo più tardi, per favore? – dice semplicemente, ed io annuisco perché non trovo nulla di meglio da fare.
Esco da quell’appartamento e mi sembra di ricominciare finalmente a respirare. Appena arrivo alle scale, sento il primo soprammobile cadere. Chakuza sta distruggendo casa. Di nuovo. Mi toccherà accompagnare lui e Bill all’IKEA domani o dopodomani. Seguiranno scene deliranti delle quali non potrò fare a meno di ridere, perché ogni volta che Chaku distrugge casa Bill si mette in testa di riarredargliela, ma alla fine Chaku è cocciuto e compra sempre le stesse cose, dice che ci si è abituato.
Tornare indietro e fermarlo non è un’opzione contemplabile. Ma mi sa che passo il giro di compere, stavolta.
*
Sbatto di schiena contro la parete e per un secondo tutto ciò che riesco a sentire è un dolore lancinante un po’ ovunque su tutto il corpo. Parte dalla testa e si diffonde sulla nuca e lungo la spina dorsale, e da lì viaggia attraverso i nervi fino a quando ogni singola parte del mio fottuto corpo non sta soffrendo. Per un attimo penso che mi sta bene, perché cazzo, la situazione è quella che è ed io decisamente non dovrei essere qui adesso. Poi Chakuza mi si spinge contro ed io sento il suo cazzo battere contro il mio attraverso i vestiti e mi esplode il cervello. Così, boom, tutto bianco.
Lo afferro per le spalle e lo tiro lontano da me. M’è esploso il cervello e non dovrei poter pensare, ma in realtà è un attimo e dura niente, il momento dopo non c’è più bianco, ci siamo solo io e lui pressati contro un muro in una camera da letto buia con un armadio fuori posto e la serranda abbassata.
Otto, nove ore fa al massimo, stavo oltre quella porta e lo spiavo mentre scopava con Bill. Bill Kaulitz. Il ragazzino di Bushido.
Da allora, ho passato la giornata a cercare di capire come sia stato possibile ridursi a questo modo, partendo dai presupposti dai quali siamo partiti noi. Non è facile venire a capo di cose simili, soprattutto quando all’improvviso ti rendi conto che ti sei rovinato la vita quasi da solo. Avrei potuto evitare di spingerli l’uno fra le braccia dell’altro, e d’accordo, avrei avuto un ragazzino triste ed un Chakuza infelice, ma magari avrei ancora potuto dire di possedere qualcosa di mio. Sarebbe stata un’illusione stupida – Chakuza non è mio, non lo è mai stato, probabilmente non lo sarà mai – ma almeno sarebbe stato qualcosa, Dio.
È buffo che mi venga in mente solo adesso che una situazione simile è stata la prima dannata cosa che ho pensato quando sono entrato per la prima volta in questa casa. Chakuza mi aveva appena pestato a sangue, io avevo appena finito di raccontare la mia versione dei fatti e mi spunta il ragazzino tutto arruffato in palese rintontimento da sonno, ed io penso “cazzo, c’ha messo poco a dimenticarsi del morto. Come si chiama, passaggio del testimone?”. Ma è stato un pensiero fugace, poi l’ho capito – me l’ha fatto capire il ceffone di Bill – che non era niente del genere.
E però, ora che Chakuza forza la mia spinta e mi bacia con violenza, non riesco a fare a meno di pensare che forse in realtà la cosa era esattamente come l’avevo capita io. Solo che questi due ancora non lo sapevano.
- Chakuza. – faccio per chiamarlo, ma lui grugnisce e ritorna a schiacciarmisi contro. Si sente fottutamente in colpa, ed io ne sono felice; non intende parlare – di questo sono meno felice; quanto alla sua intenzione di scoparmi stanotte, non so che pensare. Lancio un’occhiata all’orologio a muro: sono le otto. Bill non aveva detto che sarebbe tornato? – Chakuza! – lo chiamo con più insistenza, e lui si separa da me e poggia la fronte contro la mia, tenendo gli occhi chiusi e sospirando pesantemente. È una cosa che fa sempre, o almeno, la fa quando cerco di fermarlo. È capitato spessissimo nove mesi fa ed aveva smesso di capitare negli ultimi mesi solo perché lui aveva smesso di provarci, per ovvi motivi. Non so se gli dispiaccia sentirsi dire no in generale o sentirselo dire da me.
- Cosa…? – chiede senza aprire gli occhi. È così vicino che sporgendomi un po’ potrei sfiorarlo senza problemi. Forse sarebbe meglio, almeno sarebbe una procedura brevettata, io che lo bacio, lui che mi afferra e mi rovescia sul letto e così via.
- Che stiamo facendo? – chiedo invece, senza muovermi di un millimetro, tenendo lo sguardo fisso sui suoi lineamenti tesi.
Lui si lascia andare ad un sorrisino frustrato. È a disagio.
- Devo spiegartelo con le diapositive? – scherza scendendo ad afferrarmi per i fianchi e trascinandomi verso di sé. I nostri bacini collidono ed io vedo di nuovo bianco. E poi torno di nuovo in me.
Realizzo d’improvviso che sono almeno… oddio, non lo so. Sei mesi circa, che non scopiamo. Sei mesi, forse di più. Dannatamente di più.
- Credevo fosse… passata. – butto lì in un sussurro, perché non saprei come altro metterla. Non c’era niente, in realtà. Sei mesi fa – di più, decisamente di più. Fanno nove mesi, mi sa. Nove mesi sono un’eternità – lui mi ha preso e mi ha scopato su un fottuto tappeto sul quale ora c’è il mio sangue. Almeno credo, il tappeto è sparito. Dopodiché abbiamo continuato a – non lo so. Cos’era? Affogavamo frustrazione? – insomma, per un mesetto circa. Poi la storia s’è conclusa, Bill ha fatto fuori Saad, la Vendetta di Bushido è stata compiuta ed io questo letto non l’ho più visto se non passandoci davanti per sbaglio.
Credevo fossimo tornati solo amici. Per quanto assurdo possa essere questo modo di mettere la questione – amici non lo siamo mai stati. Alleati, compagni, colleghi?, non so, decisamente non amici – credevo che Bill avesse risolto la nostra questione.
Chakuza mi scivola addosso con la punta del naso, disegna tutto il profilo della mia mascella e poi sale a sfiorarmi le labbra con le proprie. Sono delicatezze che nove mesi fa non esistevano neanche per ipotesi. Sono cose nuove, fanno parte di un modo completamente diverso di vedere la situazione. Sono cose che con me non ha mai fatto e so esattamente da chi le ha imparate. Ho la pistola nella tasca posteriore dei jeans e sono così eccitato che questi fottuti pantaloni sembrano stretti da morire. Schiacciato come sono contro il muro, il revolver mi pressa contro la schiena come volesse ricordarmi che esiste e posso usarlo.
È già la seconda volta oggi che vorrei ammazzare Chakuza per gelosia.
C’è qualcosa che non va in me.
- Mi sei mancato. – confessa in un sospiro.
Bianco. Bianco bianchissimo. Se continua così non capirò più niente, e però non è normale che non debba neanche più pressarmisi contro, per farmi andare fuori di testa. Non è normale che gli bastino un respiro e tre parole.
Sollevo le braccia e lo sfioro attraverso la maglietta. Lui mugola e si ripiega sul mio collo, lo sfiora con le labbra ma non fa altro. Per un attimo, oggi, mentre spostavamo l’armadio, sono stato felice. Io, cazzo, sono completamente uscito pazzo per quest’uomo. Lui no, ma poter passare del tempo insieme anche senza scopare era bello.
Ma lui si scopa il ragazzino. E ora vuole scoparsi anche me. Ed io continuo a ripetermi che è uno stronzo ma so che non è vero, Chakuza non è uno stronzo, non lo è mai stato, però cazzo. Cazzo, Chakuza.
E ciò che è peggio – io lo voglio. Io lo voglio, fanculo, lo voglio. È mancato anche a me, Dio, mi è mancata la forma dei suoi pettorali pressata contro la mia schiena, mi è mancato aggrapparmi alla sua vita mentre cercavamo una superficie sulla quale lasciarci andare, mi è mancata la sua bocca e mi è mancata la sua lingua, mi sono mancati i suoi denti e queste spalle assurdamente imponenti, che chiamano per dirti “appoggiati, tanto finché ci sono io non cadi”.
Le mie mani arrivano fino al suo collo e lì si abbandonano, rimanendo immobili.
Lo sto abbracciando. Dovrei sentirmi fuori posto. Chakuza solleva le braccia e mi stringe a propria volta. Sono a postissimo.
- Fler… - mi chiama, e si ferma. Non vuoi dirmelo, Chaku. Non dirmelo. - …mi dispiace. – non è vero. – Ci siamo un po’ allontanati, noi, ma… non volevo che accadesse. – sono bugie. Al ragazzino non le dici, ci scommetto. L’unica cosa che gli tieni nascosta siamo noi. Ma noi non siamo niente, quindi va bene. – Sono contento di-
Gli tappo la bocca nell’unico modo che so essere risolutivo, perché mi fa male sentirlo parlare così. Lo fa sembrare sincero. Io voglio credere che sia sincero. E allo stesso tempo non voglio. Ma se continuo ad ascoltarlo impazzirò del tutto, e non posso permettermi di impazzire. Forse avrei potuto permettermelo mesi fa, quando tutto quello che Chakuza voleva era proteggere il ragazzino e scopare con me. Ora Chakuza vuole scopare col ragazzino e proteggere me.
Ma io non ho bisogno di protezione. Anis mi ha insegnato a difendermi da solo. Me l’ha insegnato prima di diventare Bushido, prima di andarsene, prima di morire e lasciarci tutti nella merda. Ci sono cose che non dimenticherò mai – la prima tag, la prima volta in galera, la prima consegna da spacciatore, la prima scopata – e fra queste cose c’è Anis che, nel mezzo di un assalto così pieno di coltelli da farmi venire le lacrime agli occhi dalla paura, trova il tempo di lanciarmi un’occhiata sarcastica e ringhiare “Difenditi, Frank, o New York non ce l’avrà mai, il suo King”.
Ricordo le imprecazioni dei nostri avversari, la risata brillante di Anis, perfino la mia – divertita e sincera, nonostante la situazione. E ricordo il coltello che affonda nel fianco del fottuto stronzo che mi voleva morto perché pretendevo ci pagasse la merda che gli avevamo venduto.
Io so difendermi.
Io sono forte.
Mi separo da lui e lui grugnisce scontento, perché immagino abbia pensato che il mio bacio sarebbe stato solo il preludio al resto del nostro brevettatissimo rituale di riavvicinamento. Ma niente, Chakuza, non adesso, non per ora, non col ragazzino di mezzo, assolutamente no.
- Dormo a casa mia, stanotte. – dico con decisione, spingendolo via senza fretta, delicatamente. Non voglio che si senta rifiutato su tutta la linea. Voglio solo che sia chiaro che non mi scoperà.
Mi guarda come se l’avessi appena pugnalato alle spalle.
- Non resti…? – chiede, ha l’aria persa, gli occhi liquidi, brillano nel buio perché sono troppo luminosi per non farlo.
Scuoto il capo.
- È meglio così. – lo rassicuro con una pacca sulla spalla.
L’orologio segna quasi le nove. Non capisco se Chakuza abbia dimenticato la promessa di Bill, o se l’abbia sentito nel pomeriggio ed abbiano deciso di non vedersi, alla fine. Comincio un po’ a pentirmi della mia decisione di andarmene, perché lui continua a fissarmi come se lo stessi tradendo e mi sono sentito dare ingiustamente del traditore per tanti di quegli anni che ormai penso di essere condannato a sentirmi male ogni volta che anche solo penso la parola.
- Ci vediamo domani? – chiede lui, arrendendosi e lasciandomi passare. Quando nella mia testa si forma un ringhio rabbioso che dice esattamente “perché non mi fermi?”, scuoto il capo per scacciare i pensieri. Lui lo prende per un no. – Non vuoi più vedermi? Cazzo, Fler-
- No, no! – mi affretto a rassicurarlo, cercando di sorridere, - Sì, ci vediamo domani. Ho da fare all’Aggro ma quando finisco passo per l’Ersguterjunge, così se sei libero mangiamo un panino insieme.
Annuisce. Non è convinto. Si sente ancora in colpa, non gli ho dato modo di fare ammenda come avrebbe voluto.
Realizzo che nella sua testa la situazione è molto più semplice di quanto non sia nella mia. Si sente in colpa solo perché ha scopato con Bill mentre io ero qui, non perché sa che ho visto. Io, invece, sto male proprio perché ho visto. Per questo motivo penso che potrebbe scusarsi in tutti i modi del mondo e la cosa non avrebbe il minimo effetto, su di me: non si starebbe scusando per la ragione giusta, in ogni caso.
- Buonanotte. – dico a bassa voce, dandogli un’altra pacca sulla spalla.
Lui mi afferra per un polso. Non mi lascia andare.
- Sicuro che non vuoi restare a dormire? Anche sulla poltrona. È tardi.
Non è affatto tardi, ovviamente. Le nove non sono “tardi” neanche se hai dodici anni, figurarsi. Mi guardo intorno e vedo che gli effetti della devastazione di stamattina sono ancora visibili sul pavimento e sui mobili ingombri di roba rovesciata. Sembra abbia dato una sistemata, ma è ancora tutto un casino, il che vuol dire che prima di rassettare qui doveva davvero somigliare tantissimo al caos primordiale.
Non so. Se vado via, domattina questo palazzo sarà ancora in piedi?
Decido che non mi importa. È una bugia, ma per stanotte va bene così.
- Ci vediamo domani, Chakuza. – concludo. Sono fuori dalla porta appena in tempo per risparmiarmi la vista di un lume del comodino che si schianta contro il pavimento.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash.
- "È che abbiamo lo stesso odore."
Note: Non c’era messo che pubblicassi questa shot oggi e a quest’ora, ma Lost aveva bisogno di leggere e noi abbiamo ceduto alla richiesta XD Il risultato è che voi vi beccate un po’ di Happy!Flerkuza random, Liz è felice di spargere il verbo dei suoi puccini e nessuno si dimentica dell’esistenza di EKR neanche per sbaglio (che è un po’ la nostra missione principale :D). Speriamo abbiate gradito <3
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WASHING DISHES

- Toh, asciuga qui. – Fler mi passa un piatto bagnato ed io mugugno a bassa voce, avvolgendolo nella pezzuola di cotone e cominciando a strofinarlo per poi metterlo a posto.
- Ma dovevamo per forza? – mi lagno, tirando su le maniche della maglia larga che stanno decidendo arbitrariamente di scivolare lungo gli avambracci fino ai polsi.
- No, Chaku. – risponde lui, concentrato sul piatto che sta lavando adesso, - Potevamo lasciarli qui in eterno a fare la muffa e venire a guardarli solo fra due o tre anni, quando avrebbero sviluppato un ecosistema proprio, così ci saremmo spacciati per i loro dei e ci avrebbero venerato per sempre come forme di vita superiore.
Lo fisso.
- Ma tu non avevi mollato la scuola prima di finirla?
Mi fissa anche lui e solleva un sopracciglio.
- Ho guardato i Simpson come tutti i ventenni del mondo.
Scrollo le spalle e lui sospira pesantemente, alzando gli occhi al cielo e passandomi un altro piatto. Io lo prendo senza lamentarmi, lo asciugo e lo rimetto a posto nello scaffale sopra la mia testa. Lancio un’occhiata distratta a Fler, nel mentre, e vedo che anche la sua maglia larga sta dicendo di ribellarsi al suo volere: una delle maniche sta scendendo lungo il braccio, e lui non può rimetterla a posto perché ha le mani piene di schiuma. Fa una smorfia infastidita, io me ne accorgo ed allungo una mano a tirarla su, tornando un po’ controvoglia a mettere in bella mostra i due tatuaggi che gli ricoprono la parte interna degli avambracci.
A guardarli adesso, tra l’altro, mi torna in mente un discorso che, in fase di produzione di Heavy Metal Payback, continuava a girare all’Ersguterjunge. Il fatto è che c’era quella canzone lì, Ich Hoffe Es Geht Dir Gut, che aveva questo testo incredibilmente romantico, ma davvero, che a non conoscere Bushido – cioè, a immaginarlo per lo stronzo senza cuore che non era – sembrava una cosa stranissima, e invece è tipo la canzone più sua che quell’uomo abbia mai scritto, probabilmente. Comunque niente, quella canzone era palesemente dedicata a Fler e, in sostanza, gli augurava di andarsene per la propria strada e stare bene comunque, nonostante tutto. Una cosa che, veramente, ti scioglieva il cuore. Io non li avevo mai visti dieci maschi adulti circa sciogliersi in quel modo, sul serio. Ma nemmeno quando era nata la bambina di Saad ci si era commossi in quella maniera indecente.
È che glielo vedevi proprio negli occhi che, insomma, c’era qualcosa di importante, dietro. Che voleva davvero farle sapere quelle robe, a Fler, che le pensava, che ci teneva, ecco. Heavy Metal Payback, peraltro, è uscito postumo. Io non voglio nemmeno immaginarlo che cosa abbia fatto Fler appena l’ha sentita, quella canzone.
Comunque, il punto è che quella canzone lì era veramente romantica, perciò dopo il primo momento di smarrimento e “avanti, siamo uomini!, non ci commuoveremo certo per così poco!, dov’è che sono i kleenex?”, è partito lo sfottò. Bushido un po’ se l’aspettava ed un po’ proprio lo voleva – per stemperare un po’ la tensione – perciò, miracolosamente, non ha sventrato nessuno di noi mentre lo prendevamo per il culo circa la possibilità che Fler potesse tornare strisciando e chiedere di essere ammesso alla corte dell’Ersguterjunge.
Ci ripenso adesso perché guardo i tatuaggi di Fler – che sono tutto un fioccare di simbolismo dell’Aggro Berlin – e mi viene spontaneo dirmi che in realtà l’ipotesi che Fler potesse arrivare all’EGJ era solo un po’ meno insolita dell’idea che, chessò, potesse cascare la luna, per dire. Era una cosa che non stava né in cielo né in terra, ecco.
Però secondo me un po’ Bushido ci sperava. Magari sbaglio.
Fler, mentre io mi perdo come al solito, si gira a guardarmi con aria un po’ scettica. Tiene le mani ferme sotto il getto d’acqua, la schiuma sul piatto scivola via dentro lo scarico e lui mi guarda, gli occhi grandi, le sopracciglia sollevate, le labbra dischiuse. Poi le richiude, le labbra, e le piega in un sorriso un po’ malizioso. Sono convinto di essere arrossito, ma cercherò di ignorarlo.
- Grazie. – dice con tono falsamente casuale, - Ci stai molto attento, eh?
- Uh? – rispondo io, dando prova di non avere un cervello molto più sviluppato di quello di un merluzzo, al momento.
Fler lascia andare una risatina leggera e divertita.
- A come mi cadono i vestiti addosso. – precisa poi a mezza voce.
Manca poco che lasci cadere per terra il piatto che mi passa.
- Mi è solo caduto l’occhio!
Lui ride di gusto, prendendo a lavare un’insalatiera incrostata di schifezze che non intendo neanche provare ad identificare.
- Ma sì, lo so. – annuisce sfregando bene con la spugnetta di metallo la superficie unta della scodella, - Ti prendevo in giro.
Ed io mi mordo un labbro perché lui magari mi prende in giro, però è vero che ci sto attento. Cioè, ci faccio caso. È una cosa strana ma è così, intendo, quando entra in casa e sfila via il giubbotto, per dire, ci faccio caso a come gli cade addosso ciò che ha indossato. Tipo… la linea del maglione attaccata ai fianchi. O la cintura larga attorno alla vita. O le magliette strette sulle spalle che tirano un po’ sui muscoli tesi del torace. Cioè, me ne accorgo. Magari, ecco, non è che ci passo proprio le ore a fissarlo, però un po’ sì, mi ci perdo.
Mi avvicino e gli tiro una mezza gomitata fra le costole, ricevendo in cambio una risata sbuffata e l’insalatiera che mi plana fra le braccia, sullo strofinaccio già umido, mentre lui si scosta per evitare il mio colpo. Quando si muove, dai suoi vestiti si solleva un buon odore di pulito, ed io sorrido serenamente un attimo perché è un odore familiare che mi ricorda casa. Poi però il sorriso si smorza e diventa più simile ad una smorfia stupita, quando mi rendo conto che non è semplicemente l’odore che mi ricorda casa: l’odore è quello di casa. È l’odore del detersivo che usa mia madre per i carichi della lavatrice, è sempre lo stesso da vent’anni e dubito cambierebbe anche dandogli altri vent’anni di tempo.
È lo stesso odore dei miei vestiti. Io e Fler adesso abbiamo lo stesso odore e questo non è dovuto all’essersi rotolati per ore fra le lenzuola, sul materasso. È una cosa a prescindere dal sesso. Mia madre ha lavato insieme i nostri vestiti. È una cosa comica, ma non mi riesce di ridere, mi limito a continuare a fissare Fler con quella smorfia lì, mentre lui continua placidamente a lavare stoviglie, e lo fisso fino a che non se ne accorge.
- Be’? – mi chiede quindi, tirandosi un po’ indietro come se guardarmi da un’altra prospettiva lo aiutasse a comprendere meglio quello che mi gira per la testa. – Che hai ora?
Non è che sappia bene cosa dirgli. Intendo, inventare una balla ed uscirmene con uno “stavo pensando che c’è proprio un bel sole, oggi!”, sarebbe allucinante, contando poi il fatto che oggi non abbiamo ancora neanche messo il naso fuori di casa. Perciò scrollo le spalle e mi arrendo alla palese incompetenza della mia mente, che di fronte alle domande non è mai in grado di inventare bugie convincenti in tempi brevi. Devo pensarmele, certe robe. E pure a lungo.
- È che abbiamo lo stesso odore. – rispondo quindi, continuando a fissarlo candidamente.
Lui mi guarda per un attimo con lo stesso identico candore. Palesemente non capisce di cosa sto parlando, ed è anche giustificato, voglio dire, uno non può andare in giro a dire agli altri “abbiamo lo stesso odore”, così a caso, ed aspettarsi anche di essere compreso. Non mi aspettavo di essere compreso, io, volevo solo rispondergli e gli ho risposto con quello che m’è passato per la testa. E ora mi sto riempiendo il cervello di pensieri inutili, e lo faccio per il semplice motivo che osservare la consapevolezza farsi strada negli occhi di Fler ed il suo sorriso aprirsi in una smorfietta divertita sarebbe troppo da sopportare, se non fossi un po’ stordito. Quindi mi stordisco di pensieri, perché quando li sento riecheggiare fra le pareti della scatola cranica le cose in genere mi sembrano meno strane. Voglio dire, cosa c’è di più strano dei pensieri che rimbombano? Niente, perciò non può esistere niente di più strano della mia testa, e siccome è mia e la conosco non può esistere niente di più strano che io non possa comprendere. Tutto qui.
- Lo stesso odore? – chiede un po’ perplesso, riponendo nel lavabo il bicchiere che stava pulendo.
- Sì, hai… - gesticolo, indicando i suoi vestiti in generale, finendo per indicare lui nella sua totalità, - voglio dire, quello che indossi, l’ha lavato mia madre, mi sa.
Lui solleva appena una spalla e ci struscia il naso contro, inspirando un po’. Poi si piega verso di me, e quello che succede dopo ha dell’incredibile, perché è una cosa che in genere fa solo quando limoniamo o stiamo già scopando. Cioè mi annusa. Voglio dire, durante il sesso è una cosa ok, anche io lo annuso quando scopiamo – lungo il collo e le spalle e ovunque riesco ad arrivare, insomma – ma che lo faccia adesso è… è diverso.
Inspira a lungo, gli occhi semichiusi, le mani ancora sotto il getto dell’acqua. Per un po’ è l’unico suono che sento – quello dell’acqua, dico – sento solo quello perché Fler è discreto, mentre mi scivola appena addosso con la punta del naso. Non frusciano nemmeno i vestiti, non si muove niente. Solo lui, e lui è silenzioso come un gatto.
Risale col viso lungo il mio braccio, si ferma appena contro la spalla e poi segue la linea del collo, della mascella e del mento, e si ferma a un centimetro dalle mie labbra.
- È vero. – mi soffia addosso, annuendo piano, - Abbiamo lo stesso odore. È un buon odore.
Lo sto già spingendo contro il lavandino il secondo successivo. Fra me e Fler, tutto sommato, è sempre così. Non siamo mai preparati al momento in cui ci mettiamo le mani addosso, perché il momento in cui lo facciamo non è mai premeditato. Non viene come il risultato di una cosa tranquilla, è una roba improvvisa che ci prende allo stomaco senza preavviso. Quando ci guardiamo negli occhi. Quando ci voltiamo e ci sfioriamo per caso. Quando abbiamo voglia e lo sentiamo nell’aria – non so come succeda, non so se abbia un odore, un sapore, una consistenza, so solo che lo sento, certe volte non devo nemmeno essere nella stessa stanza con lui per saperlo. Succede e basta.
Non siamo mai preparati, quindi, e restiamo sempre a corto di fiato per questo. Mi piace quando Fler resta senza fiato, il suo respiro pesante ha un suono profondo che è solo suo e non ho mai sentito a nessun altro. È una cosa che fa solo quando sta con me. Quindi è anche una cosa solo mia. Non so perché abbia tanta importanza che lo sia, so solo che ce l’ha, è importante sapere che c’è un pezzo di lui che mi appartiene e che non c’entra con Bushido o con l’accordo che abbiamo fatto per proteggere Bill e redimere lui. È una cosa che forse è il risultato di tutti questi fattori, ma ne è anche indipendente. E mi piace che lo sia, mi piace pensarci mentre stringo il bordo del lavandino con le mani, usandolo come perno per spingermi in avanti contro di lui e contrastare la sua spinta verso di me, altrettanto forte e testarda.
Il movimento continua lento per un po’, almeno fino a quando lui non si decide a mollare il bordo del lavandino al quale anche lui s’era aggrappato, probabilmente per evitare di cadere. Vorrei quasi dirgli “guarda che di cadere proprio non se ne parla, non se continuo a spingerti in questo modo”. Alle volte sono davvero troppo… irruento, penso, e credo che, visti i precedenti, sarebbe di buon gusto da parte mia evitarlo. Però non ci faccio troppo caso. E finché sento nei respiri di Fler che il modo in cui mi muovo gli sta bene, allora non mi fermo. Dio… non mi fermerei mai.
Comunque stacca le mani dal lavandino e le appoggia sulle mie spalle. Sono così bagnate che, non appena mi tocca, la maglietta si inumidisce all’istante, e riesco a sentirmelo addosso con una facilità che mi sorprende, per quanto è improvvisa e chiara. La pressione dei suoi polpastrelli è così precisa che mi sembra quasi mi stia toccando pelle contro pelle, mi sembra che non ci sia tessuto di mezzo. Mi separo da lui allontanandomi apposta di un passo. Lui fa per trattenermi, aggrappandosi alle mie spalle, ma scivolo via dalla presa e lui ha appena il tempo di guardarmi perplesso e rabbioso per un secondo, che io afferro la maglietta per l’orlo e la tiro su, sfilandola dalla testa e lasciandola ricadere distrattamente per terra. Gli sono addosso l’attimo dopo, non prima di aver colto il lungo sguardo con cui mi ha misurato la linea degli addominali, e fingo di ignorare il mugolio soddisfatto che mi lascia andare fra le labbra quando mi schiaccio contro di lui – e adesso sì, adesso posso sentirlo alla perfezione – e comincio ad armeggiare con la cintura dei suoi pantaloni.
Lui ringhia forte quando riesco a tirarla via – è il ringhio frustrato col quale in genere vuole dirmi “piantala di cazzeggiare, Chakuza”. Lo so perché una volta me l’ha detto chiaro e non ho riso per mezz’ora solo perché la situazione in sé era… intendo, non si prestava granché alle risate. Mi ha rimproverato perché stavo un po’ perdendo tempo; questo perché Fler ha dei talenti nascosti niente male, e fra questi talenti ce n’è uno per il quale, quando è preso ad un certo livello, scollega la mente e fa cose incredibili. Un po’ sono anch’io così – intendo, ci sono cose che ho fatto con lui che mai e poi mai nella vita avrei pensato di fare, e non sto parlando solo di quella cazzo di prima volta di merda – ma lui lo è in maniera molto più… non lo so, sincera, forse, intendo, davvero non si fa problemi e se ha voglia di chinarsi e prenderlo in bocca lo fa, per dire. Non è – ed è fantastica, questa cosa – non è una roba che fa perché vuole compiacere me, perché sospetto che, in quei momenti in cui è scollegato, a me in quanto me neanche ci pensi davvero, è una cosa che fa perché la vuole, e questo è semplicemente incredibile e assurdo e strepitoso e se ci fossero altri aggettivi userei quelli, ma al momento lo vedo che mi allontana e si strappa la maglietta di dosso con un’urgenza che mi fa paura, e quindi gli aggettivi si annullano, e anche buona parte di tutto il resto del mio vocabolario.
Il suono dell’acqua che scorre dovrei continuare a sentirlo – so che il rubinetto è aperto, so che l’acqua continua a scendere, lo so perché mi basta sollevare appena lo sguardo dalle labbra di Fler, che continuo a mordere, per vederlo – però non mi riesce. L’aria è piena dei nostri sospiri, è piena dei ringhi coi quali continuo a chiedere a Fler di darmi di più, togliersi di dosso più roba, sollevarsi ancora un po’, ed è pieno dei lamenti coi quali lui mi risponde, dei mugolii che lascia andare quando ci scontriamo bacino contro bacino, degli ansiti spezzati che gli mozzano il fiato quando lo accarezzo e dei sospiri estenuati coi quali mi chiama per nome – un misto confuso, Chakuza, Peter, Dio, ancora. Non riesco a sentire altro, non c’è altro, l’acqua, per quel che mi interessa, può pure inondare tutta la cucina ed annegarci.
Quando poggia le labbra contro il mio collo e sospira, quando mi sussurra addosso “scopami”, io per un secondo mi guardo intorno con terrore. Siamo fra il lavandino e l’isola, il solo pensiero di prendere e incamminarci verso la camera da letto, in questo momento, mi scazza oltremodo. Non penso che mi smonterebbe – saranno circa una decina di passi in tutto. A voler esagerare, eh – e non penso che smonterebbe neanche Fler, ma Cristo, siamo qui e ci siamo incastrati in una maniera così deliziosa che mi girano le palle al pensiero di dovermi separare da lui e farli, quei cazzo di dieci passi. Non li voglio fare. Voglio prenderlo qui ed ora, ed anche lui lo vuole, perciò alla fine mando a fanculo tutto – compreso il fatto che probabilmente dopo Fler avrà un mal di schiena per il quale mi maledirà finché sarà in vita – e lo trascino verso l’isola, spingendocelo contro finché non ci resta seduto sopra.
Lui mi guarda dall’alto, perplesso, per una considerevole quantità di secondi. Ecco, questo potrebbe smontarmi, se continua.
- Sdraiati. – grugnisco quindi, spingendolo per una spalla.
- Eh? – domanda giustamente lui, opponendo resistenza e piantando un gomito sul ripiano.
Sospiro e mi sollevo sugli avambracci, raggiungendolo sul tavolo.
- Sdraiati. – ripeto, fissandolo seriamente negli occhi, - Vuoi che ti scopi? Era il posto più vicino.
- Ma potevamo- - prova a farmi notare lui, sollevando una mano e puntando l’indice verso la porta della camera da letto, ma lo fermo baciandolo di prepotenza, avanzando finché non si stende.
- Ti voglio adesso. – gli confesso sulle labbra, mordendolo appena, - Allarga le gambe.
Il brivido che gli scorre addosso lo sento sotto i palmi delle mani. Lo scuote tutto e lui mi trema contro per un solo attimo. Deglutisce guardandomi negli occhi. E poi sorride.
- Sei una cosa incredibile. – borbotta ubbidendo, mentre io mi sistemo fra le sue cosce e mi inumidisco le dita. Lui mi afferra per un polso e se le porta alle labbra, infilandole immediatamente in bocca. Le accarezza divertito con la lingua, continuando a guardarmi con quegli occhi assurdi che mi smuovono cose nello stomaco. Esattamente come dicevo, quando è preso fa cose da sballo. C’è da perderci la testa.
Scendo ad accarezzarlo fra le natiche appena mi lascia andare, prima un dito, piano, ha ancora un casino di difficoltà ad abituarsi alla presenza esterna e provare a distrarlo serve a poco perché è sempre teso come una corda di violino, quando iniziamo. Poi si rilassa, ma gli inizi sono sempre un dramma. Sorrido appena, perché è stato così anche per noi in generale, e spingo dentro di lui un altro dito. Lui lo accoglie con un mugolio infastidito, ed io resto fermo mentre lui si adatta alla forma, stringendosi a me.
Lo bacio, non è che possa fare molto altro, e resto immobile a farmi torturare – perché di tortura si tratta, né più né meno – finche Fler non riprende a respirare ad un ritmo accettabile. Mi piace sentirlo ansimare ma odio che siano ansiti di dolore. Li riconosco, peraltro, perché non potrei dimenticarli neanche volendo. Mi fermo sempre, quando fa così. È più forte di me. È più forte anche della voglia.
Lui chiude gli occhi e si muove un po’.
- Ci sei? – sussurro prima di baciarlo ancora, - Dimmi che ci sei.
Lui ride a bassa voce, annuendo distrattamente.
- Ci sono. – risponde, - Sto andando fuori di testa. Ma fai piano.
Annuisco anch’io, tirando fuori le dita e sistemandomi meglio contro di lui. Lo tengo fermo per i fianchi, spingendo appena. Solo la punta e già stringe i denti. Avanzo piano, lo sento aprirsi al mio passaggio e mi rendo conto che probabilmente avrei dovuto fare più spazio, con le dita. Avrei dovuto prepararlo meglio con quelle, adesso sta opponendo una resistenza che da un lato, Cristo, mi lascia senza fiato, ma dall’altro è tremenda per tutto quello che significa.
Cerco di contenermi, cerco di non esagerare. Ci provo, anche se non vedo l’ora che mi dica che va meglio, per potermi muovere più facilmente. Per poterlo sentire meglio, per potermi fare sentire meglio. Queste sono cose così rare. Mi sono organizzato, un po’, tengo tutta la roba giusta nei cassetti, non ricordo nemmeno l’ultima volta che l’abbiamo fatto senza preservativo, e probabilmente è stata una sveltina del cazzo prima di uscire una sera, non so. Vorrei che fosse un bel ricordo, quando lo sento nudo contro la pelle, ma c’è sempre qualcosa che non va. Fler stringe i denti e chiude gli occhi, mi lascia fare respirando pesantemente ed io gli vado incontro in spinte lente e lunghe, baciandolo ovunque riesca, per fargli capire che lo apprezzo. Che mi dispiace essere uno stronzo, certe volte. Mi dispiace anche quando non glielo dico. Mi dispiace che debba darmi del coglione così spesso, che debba rimproverarmi e dirmi chiaramente quando sto esagerando, vorrei riuscire a capirlo da solo, ma gliel’ho detto, sono una testa di cazzo, e quando mi perdo dentro di lui è dannatamente difficile riuscire a mantenere il controllo.
Però ci provo. Lui lo sa, che ci provo.
Lo accarezzo lentamente, per tutta la lunghezza. Lui lascia andare un mezzo singhiozzo stupito e trattiene il fiato, aprendo gli occhi – che sono annebbiati e confusi, un po’ ci si è perso anche lui – e guardandomi. Gli sorrido e lui mi risponde con un altro sorriso, ed è un momento strano perché siamo molto più tranquilli del solito. Il dolore che sente posso percepirlo chiaramente in mezzo al calore umido che mi circonda, però è tranquillo. È ok. È una cosa che sta volendo ed è una cosa che gli sta bene. Mi… me la sta dando con piacere, questa cosa. È bello, credo.
Riprendo a baciarlo e riprendo anche a muovermi, e lui non si lamenta. I sospiri che gli sfuggono dalle labbra non sono più così insopportabilmente sofferenti, e le braccia che mi stringono al collo non mi si aggrappano addosso per sfogare il dolore, stanno lì morbide e abbandonate, perché è lì che vogliono stare. Le nostre lingue si accarezzano piano, inclino il capo per approfondire il bacio e lui mi segue, mi si spinge contro, mi morde le labbra, ed è il mio lasciapassare, questo: lo stringo saldamente ai fianchi ed entro dentro di lui con più decisione. Non sbaglio il colpo, e lui getta indietro il capo.
- Chaku… - mi chiama, ed io lo accontento prima che possa chiedermelo, spingendo ancora, e ancora. Serro le dita attorno alla sua erezione e continuo ad accarezzarlo, lui si stringe tutto attorno a me ed io non vedo niente per dei secondi interi, mi sembra perfino di non respirare tanto è stretto e caldo, non c’è spazio per i respiri, non c’è aria, non c’è nulla, stringo i denti e vengo dentro di lui accarezzandolo ancora, finché non viene a propria volta. Non lo lascio nemmeno per un secondo, finché ancora i brividi dell’orgasmo lo scuotono. Voglio sentirlo tremare.
Quando riesco a riprendere davvero coscienza di ciò che sto facendo, lo sto baciando. È un bacio lento e stanco, una sorta di “scusami” ma anche di “però è stato grandioso”. Cose palesemente fuori dal mondo, me ne rendo conto, ma in realtà ho un po’ la tendenza a perdermi nella mia testa, e finché le cose nella mia testa suonano bene, allora funzionano. In questo momento, baciare Fler in questo modo suona dannatamente bene, perciò chi se ne frega.
Lui ridacchia piano, quando mi decido a lasciarlo in pace.
- Siamo distesi sull’isola della cucina, Chaku. – mi fa notare ironico, - È, tipo, la cosa più ridicola che abbiamo mai fatto.
- …ridicolo non era esattamente quello che stavo pensando. – borbotto, abbattendomi esasperato contro la sua spalla.
Lui ride e mi lascia un bacio sulla nuca.
- E cosa pensavi? – chiede.
Mi sollevo a baciarlo ancora.
- Fai tu. – rispondo, - Sei stato bravo.
Mi aspetterei, non so!, della riconoscenza. O anche dell’imbarazzo. Lui, invece, mi scoppia a ridere in faccia. Non capisco perché Fler rida sempre, quando cerco di fargli un complimento. È una cosa frustrante, dovrebbe smetterla. Anche perché così non so mai se il complimento l’ha recepito o l’ha preso per una buffonata a caso.
- Bravo?! – rincara la dose, asciugandosi una lacrima di divertimento dall’angolo di un occhio, - Sono stato bravo? Oh, cielo…
- Be’, magari se la pianti… - biascico contrariato, sollevandomi sui gomiti per guardarlo dall’alto con maggiore disapprovazione.
- Scusa, scusa… - continua a ridacchiare lui, - È che boh… non ti suona allucinante?
Lo sfioro con un dito lungo il profilo dello zigomo e del mento. Lo guardo per bene, lo guardo negli occhi.
- Dovrebbe? – chiedo. E sono abbastanza serio da costringerlo a smettere di ridere.
Lui si solleva a baciarmi profondamente, attirandomi a sé per la nuca. Be’, può anche ridere, se dopo chiede scusa così, eh.
- Il guaio è che dovrebbe. – risponde poi, stiracchiandosi pigramente sotto di me e sistemandosi per non dovermi per forza chiedere di spostarmi, - Però non suona davvero allucinante neanche a me. Dici che è un problema?
Dico, pensando al casino in cui siamo immersi, che sì, è un problema enorme.
Dico anche che al momento non mi frega, però.
Il mio bacio vuol dire questo. Negli occhi troppo chiari di Fler, quando ci separiamo, leggo che l’ha capito. Il sospiro un po’ scocciato che rilascia ne è la conferma. Il fatto che non vada via, però, è un incoraggiamento niente male.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Commedia, Introspettivo.
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Chakuza (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Per un momento penso che adoro le donne del ghetto, perché hanno sguardi che ti sanno dire tutto in un niente."
Note: Perché scrivere questa shot, vi chiederete? D’altronde, la vicenda di EKR si è già abbondantemente conclusa, al limite potremmo sommergervi di spin-off pre-mortem (ma anche post-mortem) ed invece siamo ancora qui a raccontarci le favole X’D I motivi per cui abbiamo scritto questo spin-off, comunque, sono principalmente tre. Punto primo: Tab si stava arrovellando il cervello blaterando “SI’, MA IL REALISMO DELLA SITUAZIONE BLA BLA NON È POSSIBILE CHE NON CI SIA UN’INCHIESTA BLA BLA COME LO MOTIVIAMO BLA BLA”. Queste sono in genere domande cui Liz risponde biascicando “sì, ma anche chissene…”, ma qui sono entrati in gioco il punto secondo (Fler in completo) e il punto terzo (GRETA *ç*), ed alla fine la shot è venuta fuori aggiungendo da sé cose che non erano nemmeno previste (il Bu e la donna di Saad o.o Bill e Fler o.o Aiuto). Si spera abbiate gradito <3
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GORGEOUS WAVES OF SORROW

Allora, la cosa è andata così: stavo cercando di scrollarmi di dosso Chakuza, quando prende e mi squilla il cellulare. Il mio cellulare non squilla quasi mai perché tutti sanno che odio usarlo per parlare. Preferisco che mi si mandi un messaggio in cui mi si dice “fatti trovare lì alla tale ora”, ed io eseguo. Ma stare lì a discutere mi scazza a livelli profondi, perciò non mi chiama mai nessuno, con l’eccezione di mia madre per ovvi motivi e di Chakuza, che però, al più, mi dice “mbe’?” quando non sono già a casa sua per le nove massimo.
Comunque mi squilla il cellulare ed io sono schiacciato fra Chakuza e il suo armadio, perché la cosa è cominciata con lui che mi dice “okay, devo fare il cambio stagione, dammi una mano”. Ora, era palesemente una scusa, perché Chakuza ha un solo armadio e ci tiene dentro tutto, dalle maglie alle felpe ai jeans ai numeri di playboy, quindi cambio stagione il cazzo. Però io sul momento non ci ho pensato, il cambio stagione è una cosa normale, in fondo. Gli ho detto solo “ma a Natale?”, e lui ha risposto “non è ancora Natale”, ed era vero, in effetti, perciò amen.
Quindi, in sostanza, io qui ho lo spigolo dell’anta che mi pressa proprio nel centro della schiena e Chakuza tutto pressato addosso davanti, e palesemente sento squillare il cellulare per miracolo, perché fra il dolore e tutto il resto non è mica semplice. Comunque lo sento, e infilo una mano in tasca a dispetto delle dita di Chakuza che mi si stringono immediatamente attorno al polso, nel vano tentativo di fermarmi.
Peraltro, la scena è ridicola perché io sono qui che mi rifiuto di baciarlo da almeno mezz’ora, eh. Cioè, io l’ho baciato lì, nel canale, a Tempelhof, e dopo non l’ho più fatto e non intendo riprendere adesso. Contando poi il fatto che Sido mi ha chiesto se mi va di accompagnarlo in tour quando partirà, l’anno prossimo, e che quindi ho una possibilità effettiva di andarmene in modo che sembri normale, non intendo ricadere in qualche brutta abitudine.
Quindi niente, lui ha provato un po’ a baciarmi, ma visto che io continuavo a girarmi e dire “no”, “piantala” e via discorrendo, a un certo punto s’è arreso ed è passato al piano B, che generalmente è prendermi per sfinimento. Prendermi per sfinimento vuol dire infilarmi una mano nei pantaloni e posare le labbra… ovunque, tipo. Come ci riesca è un mistero, fatto sta che ci riesce, lo sento ovunque quando fa così, ed è un dramma, sul serio, continuare a dire no in queste condizioni. Lui lo sa, peraltro, certe volte lo vedo uscirsene con certi ghigni che mi viene voglia di dargli uno scappellotto e fargli volare il cappellino borbottando “abbassa un po’ la cresta”. Non lo faccio perché in genere ha ragione a ghignare, io cedo.
Stavolta, però, squilla il benedetto cellulare, e malgrado i suoi sforzi io riesco a recuperarlo e tirarlo su all’altezza del viso, per vedere almeno chi è.
Il display recita “numero privato”. Io non rispondo mai ai numeri privati. Se già non ho voglia di parlare con amici e parenti, figurati se ho voglia di stare a sentire un Cristo qualsiasi che chissà da chi ha avuto il mio numero e si sente in vena di dirmi roba, chiedermi favori o sa Dio solo cos’altro. Non esiste. Quindi no, in genere non rispondo. Stavolta, però, ho decisamente bisogno di una scusa per scrollarmi di dosso Chakuza, anche perché quella mano là sotto mi sta facendo impazzire e lui si sta strusciando da abbastanza tempo per essere già abbondantemente perso, quindi se qui non prendo in mano la situazione – possibilmente senza che questo mi porti a prendere in mano lui – finisce male.
Insomma, poggio il pollice sul tasto verde e Chakuza mi solleva addosso un’occhiata stile “ma fai sul serio?” cui rispondo spintonandolo malamente lontano da me. Solo che ha la mano incastrata nei miei jeans, quindi si allontana tipo trenta centimetri e poi il braccio lo tira e me lo ritrovo di nuovo schiacciato contro, mi dà pure un colpetto involontario sulla pancia, al che io faccio un verso tipo “ahuff” e lui ride. Gli do un pugno nel mezzo del petto e lui continua a ridere, massaggiandosi il punto dolorante, ed io approfitto dell’ilarità momentanea per rispondere.
Quello che sento dopo aver detto “pronto?” mi turba un po’. Non per altro: a parte mia madre, non mi chiama una donna da… be’, mesi, tipo. Perciò boh, mi fa un effetto strano sentire questa voce calma e gentile dall’altro lato della cornetta. Tant’è che faccio una smorfia allucinata e Chakuza mi guarda, inarcando interrogativo le sopracciglia. Io sollevo due dita per dirgli di far silenzio, mentre quella, dal telefono, mi fa “parlo col signor Losensky?”. Una donna che mi chiama Losensky è, tipo, una cosa mai sentita prima dai tempi della scuola. Ma sul serio. Ci resto un po’.
- Sì, sono io. – rispondo quando riesco a raccogliere abbastanza lucidità, - Scusi, con chi parlo?
- Sono Greta… - risponde lei. Faccio l’elenco delle groupie del mio periodo di gloria, tristemente defunto quattro o cinque mesi fa. Non mi pare di ricordare nessuna Greta. Non mi pare neanche di aver chiesto nomi, in realtà. Mah. – El-Haddad. – aggiunge lei. Vuoto. “Pure araba”, mi dico, e dico anche “ma che cazzo, quand’è che smetterà di rompere le palle la fottuta Africa?”, e mentre lo penso borbotto questo dannato cognome a mezza voce, giusto per vedere se facendolo mi torna in mente qualcosa, ed ho la malaugurata idea di sollevare gli occhi su Chakuza. E lo trovo che mi fissa congelato, pallido come un cencio.
El-Haddad. Ok. Saad.
Non so bene cosa dirle. Lei resta in silenzio.
- Buonasera. – butto lì, un po’ confuso. Mai vissuta una situazione simile. E di situazioni particolari posso vantarne un casino, io. – Posso fare qualcosa per lei?
- Sì, può… - comincia lei, vagamente incerta, - può darmi del tu e chiamarmi Greta, per cominciare, e poi… - si ferma ancora, e resta di nuovo in silenzio.
Io deglutisco.
- Sì? – la incito. Non posso davvero stare avendo questa conversazione con questa donna. E in tutto questo Chakuza continua a fissarmi come se fossi un unicorno sputafuoco apparso improvvisamente nel centro della sua stanza al posto dell’uomo che stava limonando o provando a limonare fino a pochi secondi prima. Giuro che se non la pianta lo prendo a cazzotti.
Lei si schiarisce un po’ la voce.
- Avrei bisogno di parlarti, Patrick.
Patrick. Cioè, parliamone. Io sono Patrick per mia madre, per Bill quando è in vena di tenerezze, per Chakuza quando è in vena di scazzi o quando faccio qualcosa di particolarmente fantasioso in un momento in cui non se la aspetta e per Sido quando è in vena di paternali – e neanche sempre. Patrick mi chiama, lei. C’è da andarci fuori di testa, davvero. Io ero lì mentre il suo uomo veniva ammazzato, Cristo santo.
- Sì. – rispondo a mezza voce, - Naturalmente. – anche se sto pensando “naturalmente il cazzo”. – Dove?
Lei sembra stupita. Resta in silenzio ancora un po’.
- Verrai? – chiede, incredula.
- Eh. – annuisco io, grattandomi la nuca, - Sì, se mi dici dove.
Lei mi fa il nome di un locale che solo a sentirlo mi vengono i brividi. So dov’è, è un posto sciccosissimo appena fuori città, una specie di enorme sala da tè riadattata a locale di lusso. Classico posto da tavolini tondi e piccoli con ampie tovaglie rosse drappeggiate che strisciano sulla moquette nera immacolata che copre il pavimento.
- Ci metterò un po’, non è esattamene dietro l’angolo. – le faccio presente, e lei mi rassicura: non ha fretta, non c’è problema.
- E potresti… hai qualche possibilità di portare con te anche Peter?
Guardo fisso davanti a me, Chakuza mi sta ancora lanciando occhiate terrorizzate.
- Sì, lo chiamo. – annuisco. – A fra poco.
Interrompe la chiamata prima che possa dire o anche solo pensare qualsiasi altra cosa.
Chakuza deglutisce.
- Era… - comincia, ed io lo fermo.
- Sì. – rispondo sbrigativamente, - Coraggio, datti una mossa, abbiamo un mucchio di strada da fare. – lui mi fissa allucinato ancora per un po’, gli occhi verdi enormi nella penombra della stanza, ed io lo squadro supponente dall’alto in basso. – Sì, ma devi cambiarti, non puoi mica-
- Fler! – mi ferma lui, esasperato, sistemandosi il cappellino sulla testa dopo aver finalmente rimosso le mani da dove ha continuato a tenerle per tutto il tempo della telefonata, - Ma di che cazzo stai parlando?!
- Prima di tutto, Cristo santo, vai a lavarti le mani prima di toccarti in giro! – sbotto io, tirandogli via la mano dal cappellino e trascinandolo in bagno, - E che cazzo, mi stavi facendo una sega fino a due secondi fa!
- A proposito-
- Concentrazione, Chaku, dobbiamo uscire. – borbotto aprendo il rubinetto e lavandogli le mani. Col sapone e tutto. Dio mio, che cosa sto facendo? Io dovrei essere a casa mia a dormire.
- Quando tu mi chiedi di uscire è sempre l’inizio di un guaio enorme. – risponde lui, occhi bassi e voce cupa, mentre si lascia maneggiare neanche avessi due anni. Questo è il modo in cui Chakuza mi dice che non ha proprio alcuna voglia di fare qualsiasi cosa sia quella che vorrei chiedergli. Diventa svogliato e insopportabile. Sono momenti tremendi, sono i momenti in cui la mia voglia di massacrarlo di legnate raggiunge i suoi picchi storici.
- Chaku, ti prego, non cominciare. Greta mi ha chiesto di vederci, ha bisogno di parlare con noi. Ci sei, fino a qui?
Lui annuisce controvoglia.
- Vieni, sì?
Annuisce ancora.
- Chaku?
- Mhn?
- Non mi costringere a fare qualcosa di cui poi dovrei pentirmi, d’accordo?
Lui grugnisce e si allontana da me, asciugandosi le mani con un panno.
- Prendermi a cazzotti, strillare che non vuoi più vedermi, buttarmi una secchiata d’acqua in testa…?
- Baciarti perché so che dopo mi ascolti. – rispondo, afferrandolo per una spalla e rivoltandolo, inchiodandolo contro la parete e guardandolo fisso negli occhi. – Devo proprio?
Lui mi guarda con tanto d’occhi e a me viene un po’ da ridere. Credo che Chaku abbia di me un’idea incredibilmente distorta. Come faccio ora a spiegargli che inseguivo con la spranga i debitori insolventi, in quel di Tempelhof, nel fiore dei miei sedici anni?
- …ti sto ascoltando. – mi rassicura lui, annuendo lentamente.
- Bene. – annuisco io a mia volta, - Dicevo che era la cazzo di moglie di Saad. Che ci ha chiesto un cazzo di appuntamento. A me e te. Non potevo dirle di no.
- Certo, le abbiamo solo ucciso il marito, in fondo. – risponde lui a muso duro. Io roteo gli occhi e lo lascio andare, rubandogli il panno dalle mani per asciugarmi.
- Appunto, Chakuza. – ritorco, rimettendo l’asciugamano al proprio posto. – Quindi muovi il culo. Ce l’hai un completo elegante?
Lui riprende a guardarmi con aria sconvolta e io sospiro di nuovo. Visto che io e Chakuza abbiamo un buon feeling, ogni tanto dimentico che lui non è nella mia testa e non segue perfettamente la linea dei miei pensieri. Che non è com’era con Anis, ecco, perché con lui davvero bastava mezza parola, a volte, e si capiva esattamente dov’è che si voleva andare a parare. Senza sprechi inutili, anche solo con gli sguardi. Con Chaku non posso fare così, lo dimentico spesso, ma non dovrei.
- Greta mi ha chiesto di raggiungerla in un locale molto elegante. Se ci presentiamo conciati così, - e gesticolo, indicando i nostri abiti scomposti da svacco casalingo, - neanche ci fanno entrare, figurarsi metterci a sedere con una signora.
Lui annuisce.
- Capisco. – biascica, - Però non credo di avere niente di adatto.
Faccio mente locale, cercando di riportare alla memoria i vestiti di Chakuza, ma oltre alle felpe, alle magliette e ai jeans di cui sopra ci sono davvero solo le riviste sconce, in quell’armadio, perciò poco da fare.
- Okay, senti. – sospiro, - Andiamo da me.
Lui mi solleva addosso uno sguardo incuriosito.
- A casa tua?
- Sì. – annuisco, - Vediamo se posso darti qualcosa io.
- Tu hai dei completi?
Dio mio, quanto lo odio quando fa così.
- Sì, Chaku. Non è che siccome Eko Fresh ha deciso che sono un pezzente, allora lo sono davvero.
Riusciamo ad uscire da quell’appartamento dieci minuti dopo, e quando arriviamo a casa mia ne sono passati altri dieci ed io comincio a darmi mentalmente dell’idiota per aver accettato e non aver chiesto a Greta di andare da qualche altra parte. È una situazione complicata: so che ora vuole parlarci, ma non so se sarà di questo stesso avviso fra una o due ore, e più tempo le diamo per riflettere maggiori sono le possibilità che cambi idea. Questa, vista la situazione contingente, è un’eventualità che non posso ammettere.
Soprattutto perché la scomparsa di Saad non è ancora stata denunciata. C’è questo “forse” enorme che pende su tutte le nostre teste, su quella di Chakuza, su quella di Bill, sulla mia, ed è veramente pesante. Se posso risolverla andando a parlare con la vedova, allora devo farlo, e devo farlo subito.
Casa mi accoglie come al solito – che poi è il motivo principale per cui evito di tornarci, la maggior parte delle volte. Non è che sia disordinata o sporca, non ha veramente modo di disordinarsi o sporcarsi. È solo desolatamente vuota. Non sono abituato a vivere da solo. Io e Bushido abbiamo diviso una topaia fino a che lui non ha cominciato a fare i soldi. E da quel momento in poi, cioè, da quando lui si è allontanato in poi, praticamente, ricordo di aver dormito più spesso da Sido che non in qualsiasi altro luogo, alberghi compresi quando si andava in tour.
L’appartamento è vuoto, freddo e buio. C’è ancora il letto sfatto dell’ultima volta che ho dormito qui – non ricordo nemmeno a quando risalga – lo intravedo dalla porta della camera semiaperta. C’è polvere ovunque. Non tantissima, ma è uno strato ben visibile. Chakuza si guarda intorno e deglutisce.
- È spettrale, questo posto. – commenta lanciando occhiate incerte al piccolo divano ed al tavolino che compongono, in sostanza, l’arredamento totale del soggiorno.
Scrollo le spalle.
- Vieni. – biascico, guidandolo verso la camera da letto, - Comincia a spogliarti. Qualcosa per te dovrò pure averla. – ed entrando in camera sfilo velocemente la felpa e la maglietta, dirigendomi deciso verso l’armadio e prendendo a rovistare fra gli abiti. Certe cose non le ho nemmeno mai messe. Doreen, la moglie di Sido, è una donna molto buona e gentile, ed ogni volta che esce a far shopping per la bambina – cosa che accade con cadenza regolare di una volta a settimana – prende sempre qualcosa anche per me. A volte, dal modo in cui mi hanno palesemente adottato in quella famiglia, non sembra nemmeno che Sido sia più grande di me di soli due anni.
Nel mentre, Chakuza mi fissa come se non avesse ancora capito un cazzo di ciò che sta succedendo. So che non è così perché so che non è stupido, perciò suppongo si tratti del fatto che adesso sono seminudo e mi sto sbracciando e tendendo per cercare qualcosa che gli stia.
Sospiro.
- Chaku, piantala di guardarmi a quel modo.
Stranamente, non comincia a lamentarsi come fa quasi sempre in questi casi. Questa è la conferma che ha capito perfettamente il casino in cui ci troviamo, e la cosa mi rassicura parecchio. Lo vedo annuire e cominciare a spogliarsi, mentre riesco a recuperare nel fondo dell’armadio un abito che non indosso da secoli e le cui maniche spero riesca a compensare con quelle spalle enormi che si ritrova. Quanto ai pantaloni, al limite gli faccio un paio di svolte verso l’interno.
Gli tiro il tutto e lo prendo in faccia mentre sbottona i jeans.
- Fanculo. – sbotta, ma ha praticamente il valore di un “okay”, quindi non perdo neanche tempo a rispondergli a tono e sfilo i pantaloni, recuperando il completo nero lucido che è stato l’ultimo regalo di Doreen in ordine di tempo, ed una camicia scura.
Posiamo entrambi la roba sul letto e già un secondo dopo i vestiti son tutti mischiati. Nel tirare su i pantaloni, Chakuza ha spedito la camicia che dovrebbe mettere fra le mie cose, ed io nel tirare su i miei ho mandato all’aria la giacca, che ora copre quasi per intero la sua roba. Perciò finiamo per vestirci a pezzi passandoci vicendevolmente la roba. Che è pure una cosa divertente, infatti ridiamo. Ed almeno ho la scusa del divertimento che si trascina, quando vedo che il mio abito gli cade addosso in maniera ridicola, e posso ridere senza offenderlo troppo, anche se immagino che lui capisca il motivo della mia ilarità.
Lo sento sospirare e lo osservo scuotere un po’ il capo, rassegnato.
- Quanto sono ridicolo, da uno a dieci? – borbotta.
- Be’, dai… - cerco di rassicurarlo, ridendo ancora, - Non sei poi così assurdo. Ti si potrebbe anche dare una botta, volendo.
Mi tira un calcio sul ginocchio che mi costringe a saltellare su un piede per un minuto buono, mentre continuo a ridere tranquillamente.
- Certo che sei stronzo forte, tu. – sbotta, riallacciando le scarpe da tennis. Quelle erano e quelle restano, peraltro, anche a me pesa il culo a cambiare le scarpe.
Quando ci rimettiamo in piedi, lui mi guarda un po’ con aria compiaciuta.
- …stai bene. – annuisce alla fine, come fosse una gran concessione. In realtà la concessione non è il complimento, è l’occhiata che mi lancia, che già da sola basterebbe a farmi capire a cosa sta pensando, anche se non fosse ulteriormente precisato dalla sua lingua che si muove lentamente a inumidirgli le labbra.
- Sono uno schianto. – preciso inarcando un sopracciglio. – Sto sempre bene, vestito elegante.
- E te la tiri come una fottuta primadonna, anche. – grugnisce per tutta risposta, scazzottandomi contro una spalla.
Ridiamo ancora un po’ e sono abbastanza contento della piega che ha preso la situazione. Intendiamoci: so perfettamente che, quando saremo a due passi da Greta, Chakuza comincerà a sclerare. Com’era prevedibile, non ha mai preso bene quello che è successo quella notte, ed ha continuato a vivere in uno stato di angoscia perenne per tutto questo tempo fino ad ora, mentre aspettavamo un segno. Non posso dire di capire davvero questo suo atteggiamento, perché io sono disabituato all’ansia. Non so più com’è essere agitati per qualcosa. Però suppongo sia una cosa abbastanza normale, che poi è il motivo per cui non me la prendo davvero con lui quando mi fissa con occhi confusi come ha fatto per quasi tutta questa sera.
Quindi, insomma, so che non sarà facile gestirlo quando saremo lì. Però se riesce a mantenersi almeno un po’ calmo è già un enorme passo avanti, e non può che semplificarmi le cose.
Quando arriviamo al locale, Chakuza fissa l’ingresso con la solita aria da poveraccio sperduto. Ma io dico, perché Eko Fresh ha deciso arbitrariamente che il pezzente fra i due sono io, se poi è ovvio che è Chakuza quello che certe cose non le ha viste mai in tutta la propria esistenza?
Io qui ci sono stato con Sido e famiglia un’abbondanza di volte, perciò sono abbastanza a mio agio mentre entro ed osservo il cameriere travestito da pinguino – che si muove così elegantemente da volteggiare quasi a qualche centimetro dal pavimento – avvicinarsi a noi e chiederci se abbiamo prenotato.
Dico che siamo attesi dalla signora El-Haddad e lui annuisce compitamente, facendoci strada verso l’interno. Il posto è elegante e riservato, i tavoli – piccoli e tondi, coperti da drappi rossi pesanti e lucidi che scendono in sbuffi fino a sfiorare la moquette nera che tappezza il pavimento – sono tutti piuttosto distanti l’uno dall’altro. Abbastanza da concedere a tutti il riserbo di cui hanno bisogno.
Dio sa se ne abbiamo bisogno anche noi.
Greta è semplicemente stupenda. La notte in cui abbiamo fatto fuori Saad non me ne sono accorto, un po’ perché avevo altro a cui pensare ed un po’ anche perché lei era sfatta, agitata e in vestaglia. Però a vederla adesso è palese, tant’è che io resto pure un po’ senza fiato. Chakuza fa una mezza risatina e mi dà una gomitata nel fianco.
- È sempre stata così. – mi sussurra, - Saad aveva un ottimo gusto.
Annuisco senza neanche rendermene conto, sono ancora un po’ imbambolato quando ci sediamo al tavolino di fronte a lei. Ha dei capelli biondi che sembrano grano, di quello delle pubblicità delle merendine ai cinque cereali, però, non di quello vero. Quello vero ha sempre un colorito un po’ smorto, soprattutto nelle campagne intorno alla città, mentre quello delle pubblicità è sempre, tipo, il biondo più bello che possa esistere – sarà che non esiste davvero; forse è per quello. Comunque il biondo di Greta è ancora più biondo di quel biondo lì, ed io mi perdo un po’ sulla frangia ondulata che le scende lungo la fronte e si ferma sulla tempia, guidata da un fermaglio nero molto elegante, con delle decorazioni floreali.
I capelli li ha raccolti in uno chignon alto e piccolo dietro la testa, sono sistematissimi, tanto da sembrare finti. Non ce n’è uno fuori posto. Però fanno un buon profumo di shampoo alle more, quindi finti decisamente non sono. E stanno bene un sacco con i suoi occhi, che sono azzurrissimi e tristi e un po’ stanchi, ma fieri.
Per un momento penso che adoro le donne del ghetto, perché hanno sguardi che ti sanno dire tutto in un niente. Mia madre è così, Luise Maria è così. Bill è così ed anche Greta è così.
Sistema per qualche secondo le numerose pieghe dell’abito bianco lungo che indossa, e che si perde in un morbido strascico che brilla quasi contro la moquette scura. Le mani sono pallide e curate, e si muovono con grazia appianando gli sbuffi di tessuto. Sia io che Chakuza restiamo interdetti e silenziosi per tutto il tempo; non c’è proprio niente da dire a riguardo: è bellissima, punto.
Quando solleva lo sguardo, io e Chaku facciamo quasi un salto sulle sedie. Ci guarda a lungo, dritti negli occhi, prima lui, poi me, e non sembra nemmeno respirare. Non sembra una creatura di questo mondo. Poi, lentamente, inspira. E quando apre la bocca Chakuza va immediatamente in tensione.
- Io ed Anis, - dice, e giuro che il suo nome era proprio l’ultimo, l’ultimo davvero, che potessi aspettarmi di sentire stasera, - eravamo molto amici.
Per un secondo, ci resto un po’. Voglio dire: mia madre ha sempre adorato Anis. Anche Luise Maria ha sempre adorato suo figlio. La Steen se l’è portato a letto per un considerevole quantitativo di tempo e ciò che faceva con Bill è abbastanza noto a livello mondiale, ormai, ed ora veniamo a scoprire che aveva le mani in pasta anche con la moglie di Saad. Quell’uomo non aveva limiti, cazzo. È assurdo a pensarci, non so se ricordarlo con un sorriso o con un “fanculo”.
Anche Chakuza sembra non fosse preparato alla cosa, tant’è che resta pure lui a guardarla come stesse recitando l’alfabeto al contrario o che so io.
- Mio fratello Thomas, - continua lei, intrecciando le dita sul tavolo, - ha avuto dei problemi piuttosto seri. Io e Saad eravamo sposati da poco ed eravamo… molto giovani e molto stupidi. Io, soprattutto, non sono stata in grado di accorgermi di niente, e quando ho scoperto dei debiti enormi che aveva accumulato a causa della droga non ho saputo cosa fare. Mi sono sentita persa, e le cose sono peggiorate ancora quando l’hanno arrestato. S’era messo a spacciare anche lui, per cercare di rimborsare i debitori. – fa una pausa, un po’ per riprendere fiato, perché si vede che fa fatica, nonostante sia piuttosto calma, ed un po’ per lasciare anche a noi il tempo di metabolizzare. Ci mette più tempo Chakuza, che pare si stia rendendo conto solo adesso di aver vissuto in mezzo ai criminali fino ad ora. Per me è vagamente più normale. Vagamente. – Ne ho parlato con Saad. Ci abbiamo riflettuto a lungo e l’unica cosa che siamo riusciti a capire era che da soli non potevamo tirarcene fuori. Saad ancora, sapete, non era sotto contratto all’Ersguterjunge. Lui ed Anis però si conoscevano, si conoscevano da un sacco di tempo, perciò l’idea iniziale era chiedere a lui. Solo un prestito, ovviamente, volevamo solo pagare gli avvocati. Thomas era costretto a stare in galera, in attesa del processo. E lui era… - si passa una mano sul collo, come a voler sciogliere i muscoli tesi, - Diciassette anni sono troppo pochi, per certe cose.
Vorrei dirle che io a diciassette anni ci avevo già abbondantemente fatto il callo, a questioni simili, ma non le dici certe cose a una sorella che parla del fratello in galera, così come non le dici ad una madre che dice lo stesso del figlio. Ci sono cose che uno non può dire.
Quando mi schiarisco la voce e parlo, è per dire tutt’altro.
- Cos’è che ha fatto Anis? – chiedo. Perché è questo il punto della questione. È attorno a questo che ruota tutto, altrimenti lei non l’avrebbe tirato in ballo.
Greta mi guarda a lungo, lo fa con una certa curiosità. E poi sorride appena.
- Ha risolto la questione. – dice, la voce modulata su un tono più dolce e caldo rispetto a prima, - Tutta l’intera questione, senza che noi neanche glielo chiedessimo. Gliela esponemmo e basta, gli chiedemmo dei soldi e lui rispose con uno strano sorriso buffo, dicendoci “vi sembro tipo da fare l’elemosina, io?”. E Thomas era fuori la settimana successiva. Fuori e senza più un debito.
Mi limito ad annuire. Così tipico di lui, mi dico con un mezzo sorriso. Anis era uno che le situazioni se le prendeva a cuore, in genere. Non tanto per altruismo o per ricavarne un utile, direi piuttosto per una specie di strano orgoglio. Abituato com’era a considerare propria qualsiasi cosa toccasse, era per lui un’offesa intollerabile che qualcuno si azzardasse a metterci sopra le mani. Perciò il fratello di un amico non può restare in galera, soprattutto se ha diciassette anni ed è palesemente carne da macello.
Greta sorride ancora.
- Lo conoscevi molto bene? – mi chiede, ed io sento Chakuza agitarsi al mio fianco. È la classica situazione che preferirei non vivesse, questa, ma ormai l’ho portato fino a qui, non ho più molto da fare a riguardo.
- Quanto bastava. – rispondo, - Quindi?
Lei inspira ed espira ancora, sistemandosi un po’ sulla sedia ed accavallando elegantemente le gambe.
- Quindi io amavo mio marito. Ma quello che c’era con Anis non era solo un debito. E non era solo affetto. – si interrompe ancora, sorseggiando il drink ancora intoccato che ha di fronte, - Mio marito l’ha ucciso. Voi avete ucciso lui. Io lo so. E ci metterei poco a scoprire quello che mi serve per incastrarvi. – Chakuza suda freddo, io cerco di tranquillizzarlo sfiorandogli una mano con due dita, da sotto il tavolo, ma serve a poco. E poi lei lo dice. – Ma non intendo farlo. Le regole valgono per tutti e… non siete stati voi ad infrangerle. È stato Saad.
Questo, molto semplicemente, chiude la questione. Le chiude tutte, anzi. Non voglio soffermarmi a riflettere sul legame che stringeva questa donna ed Anis, ho imparato tempo fa e a mie spese che con quell’uomo definire è molto pericoloso. Definire, ma anche non farlo, in fondo. Non ricordo di aver mai definito niente di ciò che c’era fra noi, con lui, e forse è per questo che mi pesa ancora addosso.
In tutto questo, da quando siamo arrivati, Chakuza non ha ancora spiccicato parola. D’accordo, non che io abbia fatto chissà che grandi discorsi – diciamo che Greta ha parlato abbastanza per tutti – ma fa strano davvero non sentirgli dire niente. Sospiro e stringo un po’ la presa sulla sua mano, lasciandolo andare subito dopo. Lui si riscuote e mi guarda, decidendosi finalmente a chiudere le labbra – fino ad ora semiaperte in un’espressione di sgomento mal dissimulato – e schiarirsi la voce, annuendo. Si sistema sulla sedia, a disagio, e io sorrido un po’.
Chakuza, ti regalerei un ristorante tutto tuo, certe volte. O anche un agriturismo in campagna, chissà. Bill sarebbe bravo ad accogliere i clienti ed accompagnarli nelle loro stanze mentre elenca i benefici della campagna senza crederci neanche un po’, visto che lui la odia. Però probabilmente con te ci verrebbe.
Greta freme e intreccia più strettamente le dita, prima di deglutire faticosamente e tornare a guardarci con una luce vagamente intimorita negli occhi.
- Potrei sapere dov’è? – chiede quindi, inumidendosi nervosamente le labbra. Al momento non saprei stabilire se sia più giusto che sappia o no. È passato un bel po’ di tempo da quando abbiamo buttato Saad nel canale. Io non credo che lo vorrei vedere un cadavere in quelle condizioni. Per quanto l’abbia amato quand’era in vita. Non so se vorrei vedere neanche quello di Anis, per dire.
Mentre mi perdo sul punto, Chakuza raddrizza la schiena e guarda Greta con una certa intensità.
- Non credo che sia il caso, Greta. – le dice dolcemente. Lei annuisce subito, e sorride un po’ timidamente.
- Sì. – esita un secondo, - Sì, Peter, credo che tu abbia ragione. Ma sai… - e gesticola un po’ con una mano, un movimento elegante e fluido, che dice tutto quello che abbiamo bisogno di sapere. Abbassiamo lo sguardo, ed è la prima volta da quando Saad è morto che mi sento veramente in colpa. – In ogni caso, - riprende dopo qualche secondo, - non denuncerò la sua scomparsa. Mi ha lasciato una lettera, prima di andare via, in cui mi diceva di dimenticarlo e perdonarlo. – Chakuza ci mette un po’ a realizzare che Greta non sta raccontando dei fatti ma inventando una nuova verità. Io sorrido un po’, perché anche questo è un lascito di Anis. La verità non è niente più che la descrizione di qualcosa su cui tante persone sono d’accordo. “Il fuoco brucia” non è verità perché sì, è verità perché tutti siamo d’accordo sul fatto che, se ci ficchiamo dentro la mano, la ritiriamo carbonizzata. Quindi la verità basta inventarla e poi fare in modo che nessuno possa o voglia contestarla. Bushido lo faceva continuamente. – Nyzaad è ancora arrabbiata, ma le passerà. Le dirò la verità, prima o poi.
Io annuisco. Nyzaad dev’essere la bimba bionda. Chakuza mi guarda. Realizza. Annuisce anche lui.
Greta sorride un’ultima volta, prima di alzarsi dignitosamente in piedi.
- Questa conversazione non ha mai avuto luogo. – dice, il sorriso ancora sulle labbra. – Restate pure quanto volete.
Non la osserviamo allontanarsi. Posso immaginarla passare davanti al guardaroba e farsi portare una pelliccia dall’addetto, prima di uscire sorridendo ancora, come non avesse appena discusso di morti e denunce con gli assassini di suo marito.
Chakuza inspira ed espira e l’attimo dopo lo vedo piegarsi in avanti e piantare i gomiti sul tavolo, mentre poggia la fronte contro i palmi aperti e si massaggia un po’, come avesse un gran mal di testa.
- Chaku…? – lo chiamo a bassa voce, chinandomi nella sua direzione. Lui, inizialmente, mi risponde solo con un mugolio esasperato. Poi parla.
- Non potrei dimenticarmi l’ultima mezz’ora neanche se volessi. – ammette insolitamente quieto, senza guardarmi, - Tutto quello che è successo… non potrò dimenticarlo mai.
Mi appoggio contro la sua spalla, discretamente, e mi sporgo verso il suo orecchio.
- Non devi. – sussurro, - È un pezzo di te. Ti renderà una persona migliore.
- Di queste cose, quante ne hai viste tu? – chiede a bruciapelo, restando immobile.
- …tante. – ammetto io, scrollando le spalle, - Troppe.
- E questo ha fatto di te una persona migliore?
La risposta è “no”. La risposta, anzi, è molto simile a “no, Chaku, io sono quasi una delle persone peggiori possa capitare di incontrare nella vita”. Ma dirlo ad alta voce non servirebbe a niente, perciò mi allontano da lui e mi alzo in piedi.
- Torniamo a casa, Chaku. Non abbiamo più niente da fare, qui.
*
Chakuza ha provato come al solito a farmi restare da lui per la notte. Io, come al solito, gli ho dato picche, e l’ho fatto anche con un certo fastidio, dicendomi “ma quanto gli ci vuole, a capire?”. La verità è che non è che Chaku abbia proprio torto, in questo senso. Voglio dire, io continuo a tornare. E se ripenso a prima, quando ha provato a scoparmi contro l’armadio… intendo, quella non è una scena così distante dalla nostra routine. Perché non so come sia successo o per quale motivo, o magari lo so e mi girano solo le palle ad ammetterlo, ma so che c’è comunque una cosa che, insomma, quando ci vediamo scatta. Magari la teniamo a bada per un po’, ma poi esplode. Prima della notte in cui abbiamo chiuso la questione con Saad, capitavano cose allucinanti del tipo: io stavo svaccato sul divano a guardare la tv, lui stava in bagno a farsi la barba, e lo vedevo spuntare ancora umido di risciacquo per dirmi “oh, ma non è che ti va, per caso?”. Frase cui ho risposto più di una volta con una risata e un vaffanculo, prima di alzarmi in piedi e schiacciarlo contro la prima parete disponibile. Perché sì, mi andava.
Quindi sì, insomma, non mi stupisce tanto che Chakuza non capisca cosa mi passa per la testa. Per la verità anche io ho dei momenti in cui mi chiedo che cazzo sto facendo. Suppongo sia normale.
Riassunto: sono riuscito a sganciarmi solo due minuti fa e, per riuscirci, ho dovuto tirare fuori Bill. Quando conosci tanto bene una persona è molto facile rigirartela fra le dita. Io so che per far cambiare umore al Chaku basta nominare il ragazzino, e lui si spegne subito. Non è affatto facile spegnere Chakuza, eh. Onore al merito del ragazzino che è riuscito a devastare il cervello di due degli uomini più cocciuti ed eterosessuali mi sia mai capitato di incontrare. Per quanto mi renda conto che dare ad Anis e Chakuza degli eterosessuali adesso suoni quantomeno ridicolo. Ma comunque.
Appena gli ho detto “Chaku, io devo andare a parlare con Bill”, lui ha immediatamente smesso di cercare il bottone dei miei jeans sotto il giubbotto, nell’androne del palazzo, e mi ha guardato con aria persa e supplichevole. Suppongo volesse guardarmi solo con aria persa, ma era anche supplichevole, io lo so. Lui non se ne rende conto, quando ti sta implorando di dargli una scusa per rivederlo. Però è così.
Insomma, gli ho sorriso e gli ho dato una specie di pugno sulla spalla, dicendogli “lo sai che non puoi venire. Devo dirgli cose importanti, e tu me lo distrai”, al che lui è sclerato ed ha cominciato a strillare che dovrei smetterla di dire cazzate sul punto. Avrebbe anche ragione – perché in teoria non sarebbero fatti miei – se non sapessi perfettamente di avere ragione, sulla questione. Però lui ha difficoltà enormi a parlarne con me, e inoltre sospetto che il giorno in cui gli dirò a chiare lettere “guarda che lo so, che ti piace”, gli verrà un infarto, perciò almeno per oggi me lo sono risparmiato e l’ho osservato salire le scale a passo di carica augurandomi di andarmi a schiantare contro un muro appena uscito di là. Ho riso perché non avevo nemmeno la macchina, visto che mi sono mosso con lui, quindi anche a schiantarmi contro un muro, camminando, al più mi schiacciavo il naso.
Bill lo chiamo solo quando sono già sotto casa sua. Guardo dritto alla finestra del suo appartamento e porto il cellulare all’orecchio, dopo aver composto il suo numero a memoria. Lui mi risponde con una vocina sonnacchiosa e pigolante.
- Fleeeer… - borbotta, - Ma che c’è?
- C’è freddo ed ho voglia di un caffè. – rispondo ridacchiando, - Mi fai salire?
Lui biascica qualcosa di incomprensibile ma sento un fruscio di lenzuola tutto intorno e poi il suo ciabattare annoiato per il corridoio. Pochi secondi dopo, la serratura del portone scatta ed io mi ritrovo nell’ingresso sobrio ed elegante. Le suole delle mie scarpe da tennis sono umide perché fuori c’è un po’ di ghiaccio sui marciapiedi, e nello strisciare contro il pavimento in marmo misto producono un rumore fastidiosissimo che riecheggia per tutto l’ambiente. Sospiro e questi due piani me li faccio a piedi, se non altro perché ho bisogno di riscaldarmi un po’.
Quando arrivo, Bill sta dormendo in piedi sulla porta. Senza esagerazioni, Bill è così, si addormenta ovunque. Lo trovo appoggiato con una spalla allo stipite, gli occhi chiusi e il capo dondolante avanti e indietro, e mi metto a ridere. Lui solleva appena le palpebre e si strofina gli occhi coi pugni chiusi, mugolando scontento.
- Fler, è tipo l’alba…
È appena mezzanotte e mezza, eh.
- Bill, - lo prendo in giro, spingendolo dolcemente all’interno dell’appartamento e chiudendomi la porta alle spalle, - quando ero un ragazzino come te, io arrivavo senza chiudere occhio dalle sei del mattino alle sei del mattino del giorno dopo!
Lui si lascia spingere ciabattando rumorosamente, e mi si accuccia contro la spalla appena ci sediamo sul divano.
- Io non sono un ragazzino… - biascica, la voce impastata di sonno, - sono una principessa, le principesse a quest’ora dormono…
Rido ancora, annuendo.
- Naturalmente. Ehi, ti svegli un po’? Il caffè devo farmelo da solo?
Lui mugola e mi tira per il giubbotto, che non ho ancora sfilato.
- Vieni a dormire? – borbotta, riuscendo finalmente a togliermi la giacca sbavandomi un po’ sulla spalla, - Cioè… - si riprende un po’, sforzandosi pure di aprire gli occhi, almeno uno spiraglio, - Se mi porti a letto poi giuro che ti ascolto… però c’è freddo qui, e voglio andare a letto…
Rido ancora.
- E come fai a sapere che devo parlarti? – ghigno, sgomitando un po’ per metterlo dritto.
Lui mi si riappoggia addosso e socchiude gli occhi.
- Hai addosso l’odore di Peter, quindi siete stati insieme… e quando state insieme succede sempre qualcosa… quindi cos’è successo?
Chiaramente, il cuore prima mi sale in gola e poi sprofonda fino al centro dello stomaco, quando glielo sento dire. All’odore di Chakuza, poi, non avevo nemmeno fatto caso. Non ci faccio più caso, in realtà, da un mucchio di tempo.
- D’accordo, ragazzino, - sospiro, e mi sento schifosamente in colpa, anche se non ne ho il dovere, - per stasera e solo per stasera, sei principessa sul serio. – dopodiché, mi alzo dal divano. Lui sonnecchia ancora, quindi rotola un po’ sui cuscini e poi apre gli occhi e mi fissa con aria persissima, asciugandosi le labbra col dorso della mano.
- Fler…? – mi chiama, ed io mi chino a prenderlo fra le braccia.
Non pesa niente, il ragazzino. Mi si accoccola contro e mi allaccia al collo, posando il capo sulla spalla e mugolando soddisfatto.
- La tua ragazza sarà fortunata un sacco, sai? – sussurra sulla mia pelle, sistemandomisi addosso.
Io rido, perché mi viene in testa che non sono mai stato innamorato di una donna. Scopare, d’accordo, ma a parte mia madre tutto ciò che posso dire di amare o aver amato con le femmine non c’entra niente. Eppure, con Bill fra le braccia che mi parla di un’ipotetica fidanzata, un po’ me ne viene voglia. Una bella ragazza gentile e fedele, una casa sul mare, dei bambini, un cane pigro. È una cosa che non c’entra niente con me, me ne rendo conto. È una cosa che probabilmente non mi piacerebbe nemmeno. Però un po’ ci si pensa, quando ti dicono che una donna potresti renderla felice. Che per lei potresti essere più che abbastanza. Soprattutto quando sai perfettamente che invece non potrai mai essere abbastanza per qualcun altro, insomma, ti viene un po’ voglia di provare a vedere come sarebbe avere la certezza assoluta della totalità dell’affetto di un’altra persona. Probabilmente con una donna sarebbe più facile. Non lo so.
Bill mi indica la strada per camera sua e, quando ci entro, smetto istantaneamente di pensare. È la prima volta che metto piede qua dentro. Questa è la stanza in cui è morto Bushido, quello è il letto su cui si è disteso e su cui è rimasto mentre moriva. Per un attimo immagino le lenzuola zuppe di sangue ed esito, nell’adagiare il corpo sottilissimo di Bill sul materasso. Mi sembra di vederci delle tracce rosse che non ci sono davvero, e non voglio lasciarlo andare. Lui però allarga entrambe le braccia e si riappropria di quello spazio come di un pezzo stesso del proprio corpo. Infila le mani sotto il cuscino e lo stringe fortissimo, ed io adocchio la federa e noto che c’è scritto Ferchichi sull’orlo. E mi viene un sacco da ridere. Perciò rido e basta.
Lui apre gli occhi e ridacchia di riflesso.
- Che c’è…? – chiede, tirandomi una mezza ginocchiata mentre mi siedo al suo fianco.
Io indico il cuscino.
- Il nome... – e Bill ride a voce più alta.
- Lo ha ricamato Karima. – dice, e poi, di fronte al mio sguardo smarrito, aggiunge – La domestica. – con aria un po’ più cupa.
- Si divertiva proprio a mettere il suo nome ovunque, mh? – chiedo teneramente, stendendomi un po’ sul fianco accanto a Bill e tenendomi sollevato dal materasso col gomito. Bill annuisce e sorride, e quando lo vedo posare per bene la testa sul cuscino e socchiudere nuovamente gli occhi, mi schiarisco la voce e riprendo a parlare, - Oggi mi ha chiamato Greta.
Lui torna a guardarmi, vagamente confuso. Poi capisce di chi sto parlando.
- Perché? – chiede. Non si muove, resta lì steso a guardarmi fisso dal basso, ma il punto è proprio questo: mi guarda fisso, non c’è più sonno nei suoi occhi, tiene le palpebre ben sollevate e i suoi occhi castani sono perfettamente lucidi e attenti.
Mi metto più comodo, sistemandomi con una mano un cuscino sotto la testa. Bill mi si sposta più vicino e mi copre col lenzuolo – ovviamente non serve a niente ed è una cosa assurda, anche perché ho ancora su le scarpe, quindi sto per metà fuori dal letto e il lenzuolo finisce per coprirmi solo con un triangolino sullo stomaco, ma è una cosa tenera lo stesso. Tutto quello che so dopo è che comincio a sentirmi un po’ più caldo, ed è perché Bill mi sta abbracciando. Mi viene naturale fargli passare un braccio dietro le spalle e stringerlo. Non sembra strano.
Io e Bill ci tocchiamo spesso. Intendo, quando ci vediamo lo cerchiamo spesso, questo tipo di contatto. Sappiamo entrambi perfettamente che è perché io ho preso da Anis l’abitudine di toccare tutto. E lui, invece, a quell’abitudine lì ci si era abituato.
Suppongo che la cosa dovrebbe stupirmi di più.
Sono un po’ stupito dal non stupirmi affatto.
Bill, in ogni caso, sa abbracciare. L’unico modo per godersi un abbraccio è che chi te lo dà sappia farlo. Sappia, per dire, che sono le tue forme che devono adattarsi a quelle dell’altro corpo, non quelle degli altri che devono modificarsi per farti spazio. Uno che sappia dosare la forza, che sappia modulare la stretta, uno che sappia come alterare il ritmo del respiro perché non dia fastidio all’altro sfiorandogli la pelle. Non è una cosa da tutti. Chakuza, per dire, ha un sacco di pregi ma abbracciare non è proprio la sua cosa. È anche tenero, quando lo fa, ma proprio perché si vede che non lo sa fare. È troppo impetuoso e, quando ti stringe, lo fa perché ti sta dicendo chiaramente che ti vuole vicino. Non è una cosa che fa con altruismo, è una cosa che fa con desiderio. È bello anche quello, a suo modo, ma non è la stessa cosa.
Bill sa abbracciare, non mi stupisce, e siccome so abbracciare anch’io ci incastriamo un sacco bene. Perciò, quando riprendo a parlare, lo faccio con molta meno ansia.
- Anis ti ha mai spiegato perché lui e Saad erano così amici?
Bill stringe la presa attorno alla mia maglia ed aggrotta le sopracciglia. Sento proprio i suoi lineamenti cambiare fisionomia perché, nella ricerca di una posizione comoda, ha finito per nascondere il viso nell’incavo del mio collo. Ora potrebbe dirmi qualsiasi cosa, del tipo “amici il cazzo”, che è un po’ quello che viene da pensare anche a me, in effetti, però non lo fa.
- No. – risponde, - Anis era sincero, non stupido. E io non ho mai preteso di ficcare il naso in faccende che non mi riguardassero.
Rido un po’.
- Bravo ragazzino. – commento, stringendo la presa sulla sua spalla, - Avevi un talento, come donna del capo.
Bill annuisce lentamente.
- Era la mia strada. – dice, e sta scherzando, è evidente, però la nota seria nella sua voce non mi sfuggirebbe neanche se fossi sordo. – Insomma, quindi…?
- Be’, - comincio a raccontare, - pare che sia cominciato tutto perché il fratello di Greta… Greta ha un fratello, lo sapevi?
Lui ride appena contro la mia pelle, e scuote il capo.
- Tu di mestiere non dovresti fare il rapper, sai? – mi prende in giro.
- Sì, infatti mi sto un tantino rompendo le palle di fare il detective da strada. – sbotto, agitandomi pure un po’, fra le sue risate. Approfitto del momento rilassato perché mi sa che se non vuoto il sacco col ragazzino adesso, non lo faccio più, - A proposito di questo, sai che pensavo di andare in tour con Sido, con l’anno nuovo? – Bill si irrigidisce e si allontana un po’, lanciandomi un’occhiata allarmata, - No, ehi, niente lagne. – lo avverto, guardandolo come stessi rimproverando un bambino di tre anni, - Fai il ragazzino grande.
- Ma Patrick! – comincia, sottolineando il mio nome in tono di rimprovero.
- Niente nemmeno “Patrick”, ragazzino. – borbotto ancora, tornando a stringermelo contro di prepotenza, così che lui smette di agitarsi come un’anguilla e sceglie la via del tentativo di commozione stritolandomi in un abbraccio pieno di bisogno.
- Non puoi andartene così… - biascica confusamente.
- Non vado mica via per sempre… - lo rassicuro, accarezzandogli piano la nuca, - Solo qualche mese.
- Ed io e Chaku faremo in tempo a impazzire, nel mentre. – lo dice a bassa voce, in tono quasi spettrale. Perfettamente consapevole di ciò che questa frase significa. O meglio, perfettamente consapevole di cosa significhi per lui. Di cosa significhi per me suppongo che non ne avrà mai idea. Anche perché io non gliela posso fare questa, al ragazzino. Non posso proprio. Sono destinato a perderli tutti in favore suo, penso, e mi viene un po’ da ridere mentre lo faccio. Anis era molto epico, nelle sue manifestazioni; immagino questi siano gli strascichi che si fanno sentire su di me.
La verità è che spero impazziscano sul serio. Impazziscano, una buona volta, e facciano questo dannato passo avanti. Io – cazzo – non voglio essere quello che andrà da Chakuza, fra uno o due mesi, per dirgli “be’? Guarda che ti sta aspettando”. Non voglio assolutamente, e il pensiero che invece potrebbe essere quello che mi toccherà fare, se resto troppo a lungo, mi tortura. Quindi voglio togliermi di mezzo e voglio farlo in fretta e voglio che, quando sarò tornato, tutto si sia già mosso nel modo giusto, e sia ormai irreversibile. Come quando Anis mi ha detto che sarebbe andato via solo a giochi fatti. Quando non potevo più nemmeno seguirlo, anche volendo. Perché così è più facile, Anis l’ha sempre saputo: è più facile quando sei di fronte a un fatto che non puoi cambiare. Ti metti il cuore in pace.
Comunque non ce la faccio ad affrontare un discorso alla “non ti lascerò andare via”, in questo momento. Soprattutto perché se Bill me lo chiedesse nel modo giusto, non potrei davvero farlo. Se davvero, guardandolo negli occhi, sospettassi che ciò che vuole davvero è avere me qui, perché senza non può stare, resterei. Sarebbe lo stesso con Chakuza. Se lui mi dicesse che il motivo per cui non può togliermi le mani di dosso è che sono io che faccio motivo da me, resterei. Ma sia il ragazzino che Chakuza mi vogliono tra i piedi solo perché così è più facile, inciampando in me non corrono il rischio di inciampare l’uno nell’altro.
Io non voglio dare adesso a Bill la possibilità di farmi pensare che mi voglia qui. Perciò lo tengo buono e ricomincio a parlare.
- Vedrai che non sarà così drammatico. – scrollo le spalle, riducendo la faccenda a una cosa di minima importanza, - Comunque sia questo benedetto fratello di Greta ha avuto dei brutti problemi con certi brutti tipi con i quali uno non dovrebbe mai avere a che fare. E in men che non si dica s’è ritrovato con la merda al collo. E indovina chi è arrivato sul suo fottuto cavallo bianco in una riedizione ghetto-style del principe azzurro?
Bill dimentica istantaneamente il resto della nostra conversazione e mi si abbatte addosso, ricominciando a ridere.
- Anis? – chiede, cercando di riprendere fiato fra una risata e l’altra.
- Cazzo, sì. – rido anch’io, scuotendo il capo, - Tra l’altro pare che abbia risolto sia i problemi coi brutti tizi che i problemi legali che ne erano derivati. Cioè, te lo vedi? Infilato in un completo nero che va a disquisire con gli avvocati fino a mezzogiorno, e poi avvolto in una tutaccia da svacco che va a minacciare di morte gli spacciatori per i vicoli di Tempelhof. Assurdo.
- Grandioso. – corregge lui con un sorrisino dolce.
Io rido ancora un po’.
- Già. – concedo alla fine. – Comunque, - riprendo con un sospiro, - questo è quanto. Anis salva il culo al ragazzino, gratitudine eterna da parte della donna del ghetto. Ovvio.
Bill ride ancora, scuotendo rassegnato il capo.
- Questo però non spiega tu cosa sia venuto a fare qui… - mormora confusamente. Poi sembra realizzare, e solleva lo sguardo a cercare il mio, - …a meno che tu non stia cercando di dirmi che è grazie a questo che…
Annuisco prima ancora che possa finire.
- Pare di sì. – aggiungo per rafforzare il concetto, - Insomma, siamo a posto. È andata. Finita. Ora puoi dormire tranquillo. – dico sbrigativamente, rimboccandogli il lenzuolo sotto il mento.
Bill si lascia maneggiare come stesse già dormendo, ma ha un’espressione assorta e lo vedo giocare con la fede che porta al dito, quella che mi ha detto di aver rubato da uno dei portagioie di Anis, perciò non lo lascio solo. È evidente che ha ancora qualcosa da dire.
- Quindi… - biascica infatti dopo un po’, mettendosi bene disteso sul materasso, - parentesi chiusa. È questo che intendi.
Scrollo le spalle.
- Be’, sì. – ammetto, - Dubito che sentiremo ancora parlare del fatto. Credo che, a domanda, Greta risponderà che è stato Saad a lasciarla senza farsi più vedere.
Bill annuisce. Prende atto. E poi sospira.
- Tu non ti muovi di qui, stanotte. – borbotta, appendendosi alla mia maglia – sono contento di essere passato a cambiarmi, prima di venire qui – e tirandomi scompostamente verso di sé.
- D’accordo, d’accordo! – concedo, sfilando le scarpe ed infilandomi sotto le coperte, - Sei viziato da morire. E Sido domani mattina mi farà il culo, arriverò con un ritardo stratosferico.
- Non ti ci faccio andare, da Sido! – continua a lagnarsi lui, ma già lo vedo che sta riprendendo sonno, - Tu poi non torni…
Sospiro profondamente.
- Torno, ragazzino, torno. Ti devo ancora una vacanza.
Mezzo addormentato per com’è, lo vedo sorridere mentre mi si adagia sul petto e crolla, esausto. Sistemo per bene le coperte, sistemo per bene i cuscini, sistemo per bene lui. E poi metto il punto alla giornata.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Commedia, Erotico.
Pairing: Chakuza/Fler.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash.
- "Prima o poi, se continuo a darti del coglione ogni volta che sbagli, ti sistemerai. No?"
Note: Chiedo perdono a Fler XD Anche al Chaku, in misura minore, ma principalmente a Fler X’D Ed è l’unica cosa che voglio dire davvero u.u
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
EXP +10%

La signora Lotte mi sta stordendo da mezz’ora con la ricetta del budino al cioccolato, perché io ho fatto il grave errore di essere per una volta fedele a me stesso e fare davvero qualcosa che avevo pianificato di fare. Nel caso specifico, andarle a chiedere la ricetta di quel benedetto budino al quale io e Fler pensiamo costantemente da giorni senza riuscire a togliercelo dalla testa per quanto era buono. Siccome la signora Lotte è molto buona e gentile, e soprattutto non ha nulla da fare tutto il giorno, sarebbe entusiasta di non fare altro che cucinare budino per noi, ma io sono già abbastanza imbarazzato del fatto che Fler si sia autoeletto suo figlio e certi pomeriggi passi da lei le ore a tenerle il gomitolo mentre lavora a maglia, per accettare che questa routine continui. Perciò io volevo soltanto la dannata ricetta.
- E poi imburri la terrina, caro, ma ci va la giusta quantità di burro! – insiste lei, per la tredicesima volta negli ultimi dieci minuti, - Devi prendere solo lo stretto indispensabile! Durante la guerra una noce di burro era già considerata una ricchezza incredibile… - e su quello mi perdo perché squilla il cellulare.
Ringrazio un paio di santi e mi scuso a mezza voce con la signora Lotte – lei ovviamente mi ignora e continua a parlare al vuoto di guerra e burro e terrine – mentre rispondo.
Non ho nemmeno il tempo di finire la parola “pronto”, che la voce di Fler impatta contro la mia e la annulla. E non è facile annullare la mia voce.
- Sto venendo da te. – dice seccamente. Oltre lui sento i rumori del traffico, le macchine, le persone che parlano, un clacson.
Io ho ancora la signora Lotte che mi parla del budino, nell’altro orecchio.
- Cosa? – chiedo, cercando di estraniarmi dalla descrizione della densità esatta della crema, - Non ho capito.
Dall’altro lato della cornetta, Fler sospira pesantemente. Sento il suono di uno sportello che batte e capisco che è entrato in macchina, anche perché subito dopo si accende il motore.
- Sto. Venendo. Da. Te. – scandisce bene, con lo stesso tono fra lo scazzato e l’ansioso che ha usato prima, - Vedi di farti trovare in casa.
Spalanco gli occhi e la voce della signora Lotte letteralmente svanisce dai miei processi mentali.
- Stai venendo perché? – chiedo curiosamente, - Avevamo da fare?
Fler si limita ad un altro sospiro pesantissimo, di quelli che ricordo aver sentito solo da mia madre quando mi sbucciavo un ginocchio, tipo, e mi chiude il telefono in faccia senza una parola di più. Quando torno a dare attenzione alla signora Lotte, lei è già arrivata al punto in cui si infila il budino in frigo per lasciarlo riposare.
- Facciamo così. – dico, mettendole una mano sulla spalla e fissandola intensamente, - Lei me la scriva. Io poi passo a prenderla dopo.
Lei sorride angelica, stringendosi nella sua vecchissima vestaglia verde.
- Aspetti Patrick, caro?
Io annuisco distrattamente.
- Sì, pare che voglia parlarmi, sembrava importante… - mugugno mentre torno verso la porta di casa, - A più tardi, signora Lotte.
- A più tardi, caro. – mi saluta lei con la manina, prima di ritornare in casa.
Una volta dentro mi guardo appena intorno: casa è un bordello, quindi è tutto nella norma. Ci sono vestiti sparsi ovunque perché mamma questa settimana ha avuto la febbre e non è potuta passare a prenderli, e sinceramente a me non andava di prendere un borsone e presentarmi a casa sua come a dire “embè, anche se stai male questi calzini sporchi non si laveranno certo da soli!”, perciò ho tenuto tutto qui ammucchiato in un angolo. Il problema è che, non so perché, i mucchi in casa mia non resistono. Si spargono. È come fossero animati di vita loro.
Comunque, insomma, c’è un disastro e ci sono pure i piatti da lavare da ieri sera, mi sa, ma Fler è abituato a questo tipo di casino, perciò neanche faccio finta di riordinare. Mi svacco sul divano e resto ad attendere, rimuginando ossessivamente sul tono secco della telefonata. Fler non chiama quasi mai, in genere sono io che, quando lui non si presenta automaticamente qui, afferro il cellulare e gli rompo i coglioni finché non rientra nei ranghi. L’ultima volta che mi ha chiamato è stato perché aveva bisogno di una mano a scalare la grondaia del suo palazzo, visto che aveva dimenticato le chiavi in casa. Quindi sono ragionevolmente preoccupato dall’aver ricevuto una sua telefonata, oggi.
Resto a rigirarmi i pollici sul divano per un tempo lunghissimo – sarà che quando non fai niente i minuti si dilatano, ma a un certo punto mi viene perfino voglia di prendere a mazzate qualcosa, tanta è la noia – e, quando alla fine bussano, scatto in piedi e corro verso l’uscio, afferrando la maniglia ed aprendo la porta con furia assassina, bene intenzionato a spiegare a Fler che “sto venendo” vuol dire, in poche parole, “sono già qua sotto, comincia a metter su il caffè”, per dire, e che non può tirarmi scemo per intere mezz’ore per poi presentarsi col suo comodo quando gli va, ma lui mi ferma. Io sono lì con tutte le mie buone intenzioni ed appena apro la porta non riesco a parlare perché me lo ritrovo schiacciato contro, le sue mani mi arpionano per il maglione e mi spingono all’indietro. Quando le nostre bocche si scontrano mi tira via il respiro, e faccio un suono tipo “unf” mentre cerco di respirare col naso. Lui ha gli occhi chiusi e tira un calcio tale alla porta che ho paura che, invece di chiuderla, la scardini.
Quando ci separiamo mi ritrovo schienato contro i fornelli della cucina e non ho nemmeno ben capito come abbiamo fatto ad arrivare fino a qui. Ho una delle manopole piantata nel fianco, mi fa un male cane ma Fler mi sta praticamente ansimando addosso e lo sento durissimo oltre il tessuto pesante e ruvido dei jeans, perciò in realtà non mi restano tanti neuroni liberi per pensare a quanti metri separino la porta d’ingresso dal cucinino. Prendo la nostra presenza qui come un dato inconfutabile e mi rassegno.
Lui si allontana da me solo per lanciare un’occhiata inferocita alla mia povera cintura – le sta dicendo qualcosa tipo “tu, stronza!, cosa ci fai ancora lì?!” – e lo vedo chinare il capo per stare attento alla chiusura, mentre armeggia per scioglierla.
- Ah, era questo, che volevi! – preciso con sincero stupore, quando realizzo che palesemente non aveva nulla di importante di cui parlare. – Scusami, Fler, se volevi pomiciare un po’ bastava che-
- Vuoi tacere, pezzo di coglione che non sei altro? – mi interrompe lui, mordendomi le labbra quasi a sangue, - Non è di pomiciare che ho voglia.
Spalanco gli occhi. Magari mi è saltato addosso solo per introdurre la conversazione? Ora prende e se ne esce con un “mi si è rotto lo scaldabagno, aiutami a ripararlo”, oppure, “Sido mi ha chiesto di ritinteggiare casa, ti voglio armato di rullo domani mattina alle sette di fronte al suo palazzo”, me lo sento. Se mi dice qualcosa del genere lo sbrano. Sono scemo io che l’ho abituato ad una routine per cui se mi limona dopo lo ascolto con più attenzione, vaffanculo.
- Ah, no? – chiedo, lo scazzo che già si fa strada fra i nervi, - E allora cos’è che vuoi? E se devi parlare, piantala di armeggiare con la mia cintura, mi stai facendo uscire di testa! – strillo, cercando di divincolarmi mentre lui continua a strusciare quelle dannate mani contro il cavallo dei miei pantaloni con falsa noncuranza.
Fler si ferma e mi guarda con occhi enormi, sconvolto. Poi schiude le labbra e inclina appena il capo, prima di lasciarsi andare ad un mezzo ghigno astioso.
- Tu non vedi l’ora di sentirmelo dire, vero? – e mentre io sono qui come un coglione che mi chiedo di cosa stia parlando e medito sulla possibilità di afferrare il soprammobile oblungo di gomma arancione che adorna l’isola e scaraventarglielo sulla testa, lui lo dice. – Voglio scopare. Voglio sentirti dentro.
Ci resto.
Cioè, io sono uno che si abitua in fretta alle cose, nel senso, non faccio drammi quando mi sento dire le cose perché quelle sono e in quanto tali le accetto. In genere.
Però ci resto comunque.
Insomma, lo fisso con aria sconcertata per un tempo variabile fra i cinque e i millemila minuti, e lui per tutto il tempo resta lì a fissarmi a propria volta come chiedendosi “ma dov’è che ho sbagliato?”. Nella scelta dell’uomo hai sbagliato, Fler, ma questa è un’evidenza, non posso mica ripetertelo. Anche perché se non l’hai capito da solo al primo giorno, posso pure fartelo uscire dalle orecchie, mica ti scolli. Vivaddio.
Dopo questo tremendo momento di silenzio, io deglutisco e lui lo prende per un assenso. Non è che io abbia annuito, ma tanto se mi prende e mi schiena io di certo non gli dico “no, grazie, ripassa domani”, perciò lascio fare e mi ritrovo coi pantaloni alle caviglie due secondi dopo. Lui mi fissa per un po’, con l’aria di un critico soddisfatto.
- Certo che ti basta poco. – commenta, grattandosi il mento con aria pensierosa.
- Poco?! – mi lamento io, - Mi hai ficcato la lingua in gola senza ritegno appena entrato in casa! E poi mi hai detto che vuoi essere scopato!
- Che voglio scopare. Sono due cose diverse!
- Non quando mi dici che vuoi sentirmi dentro. – concludo incrociando le braccia sul petto. Solo che la metà inferiore del mio corpo è nuda, perciò questa posizione è ridicola. Torno a stendere le braccia lungo i fianchi.
Lui arrossisce istantaneamente, che è una cosa ridicola visto quanto mi ha detto prima.
- Per come lo dici tu passo per una groupie del cazzo. – mi fa notare imbronciato.
Mi spingo in avanti e lo bacio.
- In un certo senso lo sei.
Lui ringhia – e questa storia del ringhiare ogni volta mi fa impazzire, perché i mugolii sono piacevoli e sono piacevoli i sospiri e sono piacevoli gli ansiti e i respiri pesanti, ma nulla, nulla è come i ringhi, perché i ringhi sono cose tipo “Cristo, ti voglio ora e subito” – e comincia a trascinarmi per il colletto fino alla camera da letto.
Io rido.
- Mi spezzerò l’osso del collo! – gli faccio notare, mentre continuo ad inciampare comicamente nei jeans.
Quando mi spinge sul materasso e si accovaccia al mio fianco lo vedo sorridere apertamente.
- Sano e salvo. – mi fa notare chinandosi a zittirmi prima che io possa dire, fare o anche solo pensare una qualsiasi cosa, - E ora lascia fare.
Vado nel panico.
- Fler?
- Non preoccuparti, non ho ancora intenzione di ribaltarti. – mi rassicura ridacchiando lui, intuendo i miei pensieri, - Se dico che ti voglio dentro, ti voglio dentro. E sto cominciando ad abituarmi a dirlo.
E io sto anche cominciando ad abituarmi a sentirlo, ma per qualche strano motivo questa cosa i brividi me li dà comunque. Sarà che Fler non è esattamente tipo da fregola. O meglio, quando si prende bene può dare soddisfazioni insperate, ma in genere sono sempre io quello che gli mette le mani addosso, e diciamo che lui si adatta, non pretende. Stavolta è diverso e lo trovo inquietante, ma per certi versi è anche molto piacevole. Se non altro perché fa tutto lui.
Insomma, sono qui mezzo nudo sul materasso e pure lui è qui sul materasso, però completamente vestito – il che mi mette vagamente a disagio – e lo vedo che mi osserva con interesse scientifico chiedendosi cosa dovrebbe farsene di me o da che parte dovrebbe prendermi. Al che io faccio per indicargli che la parte è coperta e dovrebbe farmi il favore di mettersi in posizione, quando lui si china ed io muoio.
Manco tutta una serie di battiti e respirare diventa difficilissimo, e la sensazione calda e umida che mi circonda è sconvolgente. La morte somiglia un casino ai pompini, Cristo santo.
Apro gli occhi. Guardo in basso.
Mi copro con un braccio.
- Cristo… Fler…? – chiamo incerto, ansimando pericolosamente.
- Mhpf. – risponde lui, un grugnito senza inflessioni, come a dire “non rompere”. Il dramma è che il grugnito mi trema intorno ed io mi sento morire di nuovo. Saranno secoli che non mi fanno un pompino, CRISTO-SANTO.
Rilascio la testa contro il materasso ed evito di pensare, perché le cose a cui sto pensando sono tremende. Del tipo che lo prenderei e lo rivolterei di peso sul letto adesso, perché sto impazzendo, e però è troppo bello quello che sta facendo con la lingua, Cristo, indugia sulla punta che è un piacere, non mi pare neanche lui, ha una cazzo di bocca morbidissima. Io qui ci resto, lo so. Non mi rialzo più. Cristo, erano secoli, mi sento commosso.
Mi sollevo sui gomiti e mi lascio pure andare a un mezzo sorriso mentre lo guardo dall’alto, lui è così preso che nemmeno se ne accorge. Oh, Cristo, deve assolutamente portarmi da chiunque gli abbia insegnato a mordicchiare in questa maniera. È tipo la nuova frontiera del sesso. E, oh, cazzo, adesso mi accarezza pure.
Inclino il capo, socchiudo gli occhi e gemo, lui mi sbuffa soddisfatto attorno ed io gemo ancora e giochiamo così per un po’, io che aumento il volume della voce e lui che continua a sbuffa e ringhiare di gola e io lo sento tutto attorno troppo bene per non pensare che Cristo, sono così dentro di lui che mi fa quasi impressione, e tutta la tiritera del volermi dentro adesso ha assunto un significato completamente diverso.
È quando comincia effettivamente a muoversi avanti e indietro che comincio a temere, perché questa sensazione è tutta diversa da prima e non è più solo la lingua, c’è proprio tutto, sento tutto, Dio mio, con un’intensità spaventosa, e quando capisco che sto ansimando in maniera indegna lo afferro per la nuca e resto un attimo indeciso – lo tiro su? Lo tiro giù? Lo tiro su? No, più giù… su, su, su! – e però quando riesco ad afferrarlo e staccarmelo di dosso è drammaticamente tardi. La parola “tremendo” non ha davvero un significato finché non vieni in faccia a un altro uomo. È così.
Fler lascia andare un mugolio strano – una cosa tipo “mmhn!”, con tanto di punto esclamativo – e strizza un occhio mentre mi rovescio su di lui. Praticamente ovunque. Sulla guancia, sulla punta del naso, sulle dannate labbra. È una cosa tremenda. Voglio morire e voglio smetterla di guardarlo ma c’è un po’ del mio orgasmo proprio lì, dannazione, sull’angolo della sua bocca, e potrebbe tirarla via in un attimo se solo volesse, e cosa diavolo sto pensando?!, Dio mio, qualcuno mi sopprima.
Insomma, lui mi solleva gli occhi addosso e ci guardiamo per un tempo indefinito. Io guardo lui e lui guarda me e mi fissa con un candore disarmante. C’ha un paio d’occhi che sembrano due fanali, Cristo. Sono enormi e troppo chiari. Deglutisco.
- Fler…? – lo chiamo appena, giusto per capire se si è imbambolato a vita o riprenderà a funzionare.
Lui deglutisce a propria volta e poi la sua lingua saetta appena fra le labbra mentre va a catturare quella diavolo di goccia di sperma nell’angolo. L’attimo prima c’è, l’attimo dopo non c’è più, e il suo pomo d’adamo si fa un breve viaggio su e giù per la gola, mentre lui deglutisce.
Panico.
- Fler!!!
- Cosa?! – strilla lui, attirato dal mio terrore. Però mica si ferma, eh. No. sale con una mano ed usa l’indice per ripulirsi la guancia, e l’indice finisce dritto in bocca, Cristo santo. Sto bestemmiando un sacco, mia madre mi ucciderebbe. Oddio. Perché penso a mia madre adesso? Perché mi ucciderebbe! Oddio.
- Cosa stai facendo?!
Lui arrossisce e succhia un po’ il dito, prima di tirarlo fuori e ripulirsi la punta del naso – allo stesso modo, poi. L’ho detto che io qui ci resto.
- Non voglio sporcarti le lenzuola. – dice candidamente, ma sta sorridendo. Stronzo. È una tortura, questa. – E poi, in tutta sincerità, credevo peggio.
Ed io spalanco la bocca e faccio per urlargli in testa di tutto, giuro, di tutto!, ma lui mi zittisce baciandomi, e quello che gli sento sulla lingua non è il solito sapore di Fler, c’è qualcosa di diverso. E mentre me ne rendo conto capisco anche che è palesemente quel po’ di me che ha mandato giù, e che il sapore che sto sentendo adesso è il mio mescolato col suo, ed è un buon sapore. Perciò mi lascio andare e me lo tiro contro, e lui sbuffa una mezza risata e si lascia trascinare, e non mi ferma quando lo metto giù sul materasso e lo spoglio, cercando di toccarlo ovunque contemporaneamente senza riuscirci granché bene.
È bello perché Fler non mi ferma davvero mai ma quando vedo che vuole anche lui è tutto diverso. C’incastriamo in una maniera tutta nuova. È che ci stiamo abituando bene alla forma dei nostri corpi pressati l’uno contro l’altro. È che lui mi dà quasi tutto quello che voglio anche senza che io abbia bisogno di chiederglielo. È che sento che gli piace tantissimo, alle volte, e questa cosa mi manda fuori di testa, perché quando lo sento tremare tremo anch’io e quando lo sento ansimare è come una specie di trionfo. È che quando tocco il punto giusto lui mi si stringe attorno e sento che c’è qualcosa di speciale cui non so dare un nome, che è proprio qui, sospesa fra le nostre scopate e i pomeriggi passati a guardare la tv, so che c’è e la sento tantissimo nei momenti in cui Fler geme sotto di me. Quando sono io a farlo gemere, Cristo.
Crollo sul letto esausto e stringo il pugno, ed un po’ rabbrividisco per la sensazione di umido appiccicaticcio che ho fra le dita. Mi ribalto di schiena, Fler è ancora immobile accanto a me che riprende fiato e tiene gli occhi chiusi. Il petto si gonfia e si sgonfia al ritmo irregolare dei suoi respiri pesanti, e mi viene voglia di baciarlo.
Mi sollevo su un gomito e lo guardo dall’alto.
- Ehi… - lo chiamo, e lui apre gli occhi. Quando sono certo che mi stia guardando per bene, gli sorrido e mi ripulisco il palmo esattamente come ha fatto prima lui. Okay, non con la stessa accuratezza, diciamo che do una leccatina veloce, però il suo sapore lo sento comunque. E poi lo bacio, così può sentirlo anche lui.
Quando mi allontano, lui mi sta già sorridendo.
- Indecente. – mi sussurra, passandosi una mano sulla fronte e stiracchiandosi un po’.
- Tu, invece, sei stato pudicissimo. – lo prendo in giro, mentre lui mette su un broncio offeso.
- Stronzo. – mi rimbrotta, spintonandomi un po’, - Era un sacco che volevo farlo. E se sapevo che ti prendeva così bene lo facevo prima. È stato… intenso.
Sento l’alleluja nella testa. Wow.
- Tu sei sicuro di non essere una proiezione fisica dei desideri di qualche pervertito?
- Qualche pervertito tipo te?
- Io non sono un pervertito! – sbotto, - Dicevo, di qualcun altro. E poi per sbaglio sei finito nel mio letto.
Fler sospira, rigirandosi su un fianco.
- L’unico altro pervertito di cui posso essere il sogno è morto da un pezzo. – mi dice, fissandomi dritto negli occhi, - E comunque, quando stava dalla parte giusta della barricata era tutto meno che interessato all’articolo.
Spalanco gli occhi.
- Intendi…? – chiedo curiosamente, perché quello che mi è sembrato di intravedere non mi piace e voglio che lui invece mi dica che sto prendendo fischi per fiaschi. Lo pretendo.
- Che a Bushido non piacevano i maschi, prima di Bill. – dice lui tranquillamente.
- Ed a te…?
- Ed a me non piaceva l’idea di un cazzo su per il culo, Chakuza. – sbotta irritato, sistemandosi il cuscino sotto la testa.
La sua voce ha il tono secco e autoritario col quale in genere chiude i discorsi, perciò lascio perdere e mi accomodo al suo fianco, ripulendo ciò che mi resta di lui sul palmo contro il lenzuolo spiegazzato ed arrotolato accanto a noi.
- Sai che… - comincio, giusto per cambiare discorso, perché da quando è venuto fuori Bushido non si respira, quasi, in questa stanza, - sei stato bravo? Non sembrava nemmeno la prima volta che lo facevi…
Lui si volta a guardarmi come gli avessi dato della troia.
Cristo.
- Mi stai dando della troia?
Stracristo.
Deglutisco pesantemente.
- Voleva… essere un complimento. A suo modo. – mi scuso, - È… uscito male.
- No. – si mette seduto lui, guardandomi malissimo dall’alto, - Tu che mi vieni in faccia sei uscito male. Tu che mi dai della troia, Chakuza, sei uscito malissimo. Ma proprio da schifo. – si guarda intorno e so che, quando lo fa, è sempre perché è alla ricerca dei vestiti. Si alza in piedi e li trova un po’ tutti, sparpagliati fra il pavimento e il letto.
- Ehi… ehi. – lo richiamo, camminando ginocchioni fino ai piedi del materasso ed afferrandolo per la manica della felpa che sta faticosamente cercando di infilare fra i movimenti resi ansiosi e concitati dalla rabbia, - Mi dispiace, okay?
Lui fa sbucare la testa dalla scollatura e mi fissa offesissimo.
- Sì, certo. – borbotta, sedendosi sul materasso. Io mi metto accanto a lui. Odio quando è vestito ed io invece sono nudo, che cazzo.
- Fler…?
- Non pensavo – mi interrompe lui, senza guardarmi, - che una cosa simile da me potesse interessarti. Insomma… è una cosa intima. È della mia bocca che si parla. Quindi, visto che io ho fatto uno sforzo, potresti farlo anche tu e cercare di essere meno testa di cazzo del solito, magari.
Resto lì seduto per un po’ e poi torno a guardarlo. Lui non mi ha mai tolto gli occhi di dosso.
- Io sono una testa di cazzo, Fler. – confesso semplicemente visto che so che è vero, - Te ne sarai pure accorto, fra una cazzata e l’altra. Faccio sempre casino e rovino anche le cose perfette. Cerca di ricordartelo, la prossima volta che ti farò del male.
Lui abbassa lo sguardo, imbarazzato.
- Non ti montare la testa. – borbotta, - Non mi fai del male.
Io scuoto il capo.
- Okay, allora la prossima volta che ti do fastidio. – concedo, accarezzandogli vagamente la nuca.
Lui torna a guardarmi e si piega appena a baciarmi sulle labbra.
- Prima o poi, se continuo a darti del coglione ogni volta che sbagli, ti sistemerai. No?
Annuisco. Anche se ci credo poco.
- Possiamo provare.
E posso provarci anch’io. Magari.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo.
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Chakuza, Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Death, Slash.
- "Sono le sei del pomeriggio circa."
Note: Poche e brevi, perché mi pare di essermi già dilungata abbastanza con quanto scritto XD Scrivere questa shot è stato praticamente un parto. Lunga com’è, poi. Ma c’erano così tante cose da dire, e così poco tempo… e così tante paranoie di mezzo °_° Insomma, non riesco neanche a parlarne in maniera completa, perché io con EKR – da sempre – ho un rapporto di cuore più che di cervello. Queste cose non si spiegano. E dire che è una delle storie più minuziosamente plottate sulle quali abbia mai messo le mani XD Io voglio solo ringraziare chiunque abbia letto questa storia dall’inizio alla fine, ma anche chi ci ha provato e non ci è riuscito, chi s’è ricreduto, chi l’ha amata, chi l’ha odiata, chi s’è preso male per i cambiamenti, chi invece li ha apprezzati, chi non ha ancora smesso di piangere e chi s’è fatto risate sonore per certi pairing entrati in gioco in corso d’opera. Davvero, chiunque abbia posato gli occhi addosso a questa piccolina almeno una volta nel corso di tutti questi mesi, ha il mio amore imperituro. Ed il mio ringraziamento più totale e sincero. E grazie anche a Tab, che mi ha lasciata entrare e che c’è stata sempre, fra alti e bassi vari ed eventuali. Insomma. Sono commossa ç_ç Ma non vi libererete di noi tanto presto u.u
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STAATSFEIND NR. 1

Sono le sei del pomeriggio circa. In realtà non so, potrei anche stare cannando completamente orario – il che sarebbe molto male, visto che ho un appuntamento in Alexanderplatz fra mezz’ora e come ci arriverò in tempo è un mistero. Comunque sia sono entrato in questa casa verso ora di pranzo portando con me un tipo di pasta che non avevo mai visto in vita mia ma che la signora Lotte mi aveva assicurato essere meravigliosa. In realtà né io né Chakuza sapremo mai di cosa sapesse quella pasta quando era calda e buona da mangiare. Abbiamo fatto altro appena sono arrivato – praticamente sulla soglia della porta. Ci sono momenti in cui ci penso e mi viene da ridere – poi abbiamo provato a mangiare ciò che era diventato un impasto gelido e colloso dal colore verdastro per nulla invitante, ma ci abbiamo rinunciato subito. Ci siamo svaccati sul letto ed è lì che siamo rimasti a parlare del nulla assoluto – non saprei richiamare alle mente nemmeno un argomento di conversazione spuntato fuori nelle ultime due ore – fino a quando non ho commesso il grave errore di sporgermi verso di lui per recuperare l’orologio da polso abbandonato sul comodino e controllare l’orario e, prima di riuscirci, mi sono sentito tirare verso il basso con una forza ed un’urgenza addirittura preoccupanti. E lì poi il senso del tempo l’ho perso del tutto.
Mi infilo la maglietta ed ho appena il tempo di sistemarmi i capelli quando la testa viene fuori dal colletto, che mi sento tirato all’indietro per un lembo e quasi cado di nuovo sul materasso. Mi volto e c’è Chakuza che mi fissa con l’aria di un ragazzino furbo e molto divertito. Mi strattona a intervalli regolari di due secondi e poi d’improvviso cambia il ritmo nell’evidente tentativo di sbilanciarmi.
- Be’? – chiedo, tirando l’orlo della maglia sul davanti, visto che il fatto che lui la tiri da dietro mi riduce continuamente seminudo, - La piantiamo?
- Eddai, resta! – continua a ridere, prendendomi palesemente in giro e continuando a tirarmi, - Tanto non hai niente da fare!
- E invece se proprio vuoi saperlo ho un appuntamento! – borbotto offeso, sottraendomi a questo ridicolo tira e molla ed abbottonando i jeans un attimo prima che la gravità riesca a farli cadere sul pavimento.
Chakuza inarca un sopracciglio, incerto.
- Donna?
Io sospiro e vorrei quasi rispondere “una specie”, ma mi trattengo.
- Sido. – rispondo. E sto mentendo. – Ti risulta femmina?
Lui annuisce, prendendo atto.
- Ma tu cosa c’entri con l’Aggro Berlin, Fler? – butta lì curiosamente, sistemandosi meglio sotto il lenzuolo, - Sono palesemente i cattivi di Berlino. Tu sei una specie di bambino sperduto.
- Tu che sei suor’Anna di carità cosa c’entri col rap? – rispondo acido, recuperando la felpa dall’angolo di letto in cui è finita. La apro per infilarla. – Chakuza, l’hai sporcata, cazzo! – mi lamento, tirandogliela addosso, - Quante volte ti devo dire che se mi togli i cazzo di vestiti devi buttarli in un posto in cui non possono sporcarsi?!
Lui impallidisce e si passa una mano sugli occhi.
- Fler, tu sei troppo schietto. – commenta fra il disperato e il rassegnato, - E comunque non posso averla sporcata io. Io non posso aver sporcato niente, sei tu quello che si sparge costantemente sul materasso.
Arrossisco e spalanco gli occhi, sento il calore ovunque sul viso.
- Chi è schietto, poi? – sospiro stremato. – Non posso andare in giro in maglietta, Chaku. Si gela. – gli faccio notare poi, stringendomi nelle spalle.
Lui indica casualmente l’armadio di fronte al letto.
- Prendi una delle mie felpe. – suggerisce.
- Potresti anche fare qualcosa, di tanto in tanto. – borbotto io, raggiungendo comunque l’armadio e rovistando all’interno alla ricerca di qualcosa che non sia irrimediabilmente corto di maniche.
- Non intendo rivestirmi. – si lamenta lui, stiracchiandosi sul materasso, - E non intendo neanche andare in giro nudo.
- Tanto, a meno che non sia spuntato qualcosa di nuovo negli ultimi dieci minuti, ho già visto tutto. – lo prendo in giro, infilandomi una felpa rossa che giudico abbastanza anonima perché il mio appuntamento non possa riconoscerla.
Ci credo poco. Ci spero, comunque.
- Torni a cena? – chiede vago in un mezzo sbadiglio.
- Punto primo: - mi volto io, sul piede di guerra, piantando un pugno sul fianco, - non ne hai ancora abbastanza, della mia presenza? – Chakuza ride. – Punto secondo: se vuoi mangiare la roba della signora Lotte, schioda il culo e valla a prendere! – Chakuza mi tira un cuscino ed io lo evito. – Punto terzo: - ed ora comincio a blaterare, lo so, perché non avevo un punto terzo ma faceva figo dirlo, dopo il cuscino evitato. - …dovremmo cambiare posto all’armadio. – butto lì. Mi do del cretino due secondi dopo, ma almeno ho detto qualcosa.
Chakuza mi guarda con aria allucinata.
- E perché? – chiede. Giustamente.
- …non cade bene la luce nella stanza. – motivo, del tutto a caso. – Cadrebbe meglio – ma che cazzo sto dicendo? La luce non cade! Che cazzo ho in testa? – se fosse tipo lì. – indico un punto random vicino al letto, - Capito?
Lui annuisce lentamente, come si fa coi pazzi. Mi prendo il mio assenso condiscendente e sospiro.
*
Sono per strada due minuti dopo e congelo. Congelo tipo all’istante, appena metto piede fuori dal palazzo di Chakuza. Odio dovermi muovere a piedi ma è questo il dramma di quando mi fermo a dormire qui. Cioè, non è come passare per caso mentre vado a lavorare, io vengo qui e non mi muovo fino al giorno dopo, perciò visto che non abito tanto lontano vengo a piedi ed evito…
…va be’.
Comunque sto andando da Bill e di sicuro non potevo dirlo a Chakuza. Tanto non credo abbia ancora preso l’abitudine di chiamare Sido per chiedergli se sono davvero con lui o se per caso non sono scappato da qualche altra parte. E lui e Bill… di sicuro in quest’ultimo periodo non si sentono granché. Perciò posso ragionevolmente pensare che questa piccola bugia non verrà mai alla luce.
So che è da cretini dirlo adesso, e infatti non lo dico, non l’ho mai detto neanche a Bill, che comunque è un ragazzino intelligente e quindi non ha bisogno delle conferme verbali, il più delle volte, comunque io non ho mai avuto un problema con Bill Kaulitz. In un periodo in cui tutto il mondo aveva un problema con chi Bill era e con come si conciava, il mio unico problema era che lui fosse il tipo con cui Anis andava a letto. Per quanto assurdo e malato possa sembrare, non era un problema di gelosia, era un problema di appartenenza ad un certo gruppo. Un problema di ideali, in un certo qual modo. Non sto dicendo che uno non possa andare a letto coi maschi - … - sto dicendo che tu non puoi dare del frocio a destra e a manca a chi t’ha aiutato ad emergere dalla merda in cui stavi sepolto da adolescente, e poi diventare frocio davvero. C’è qualcosa di sbagliato in questo. Era questa, la cosa che non concepivo.
…e poi avevo bisogno di un pretesto per insultarlo. Un pretesto che suonasse diverso dal “mi hai mollato senza un fottuto perché”. Perché dopo cinque anni cominciava a perdere in forza, come argomentazione per le diss.
Insomma, in definitiva io Bill non l’ho mai odiato. Non gli ho mai voluto male neanche per un cazzo. In buona sostanza lo trovo pure vagamente tenero, è un cosino piccolo che non c’entra niente con tutto questo e che s’è visto morire l’amore della vita fra le braccia, e insomma, anche se non ero lì anche io più o meno lo so come ci si sente in questi casi. Quindi mi dispiace pure.
Mi dispiace anche di più perché comunque non sono mai stato un cretino e, fra le tante cose che Anis m’ha insegnato, c’è anche la capacità di capire al volo le situazioni. Perché è più facile sbrogliare i casini quando capisci subito il problema.
Stavolta non ha aiutato – io il problema l’ho capito subito ma non sono stato in grado di arginarlo. Io l’ho capito subito che fra Bill e Chakuza c’era qualcosa. L’ho capito probabilmente prima che lo capissero loro.
Non è giusto quello che io e Chakuza stiamo facendo a Bill.
Non è giusto neanche quello che stanno facendo Bill e Chakuza a loro stessi, comunque.
Bill mi chiama sul cellulare e mi strilla entusiasta che s’è ricordato di un posto meraviglioso in Oranienburgerstraße.
- Si chiama Cafè Zapata, ci sono stato solo una volta con Anis ed è bellissimo! Mi raggiungi lì? Sono già seduto! – che suona più o meno come “non vorrai mica farmi alzare per andare altrove?!”.
- Bill, - sospiro, - Bushido aveva i soldi che gli crescevano pure nelle mutande. Quanto intendi farmi spendere per una cioccolata calda?!
- Ma possibile che tu sia sempre squattrinato? – borbotta lui. Lo immagino già con un broncio enorme e le braccia incrociate sul petto, - Che razza di rapper sei?
- Quello che non ha mollato l’etichetta per diventare multimilionario. – gli ricordo, e Bill ride. Mi piace che rida alle battute che faccio su Anis. In realtà mi piace che, per noi due, parlare di Anis sia ancora normale. Non lo facciamo con nessun altro.
- Avanti, offro io. – mi rassicura lui, ed io biascico qualcosa ma poi mi ricordo che sono uscito tipo con venti euro nel portafogli stamattina, perciò tanto vale lasciarlo fare, il ragazzino è meglio della zecca dello stato quanto a produzione di banconote.
- D’accordo, arrivo. – e quando arrivo lo trovo tutto stretto in un piumino enorme, gli occhiali da sole calcati sul naso ed un berretto di lana a cuffia che gli schiaccia tutti i capelli attorno al viso. Un paio di ciocche nere svolazzano a causa del vento debole ma penetrante che spazza la via, e Bill se le scosta infastidito dalle guance e dal naso quando sente il solletico.
Sollevo una mano per farmi notare e lui sorride appena mi individua, rispondendo con un ampio gesto del braccio.
- Ma perché ti sei seduto fuori, perdio? – mugolo disperato, stringendomi nella giacca e facendomi minuscolo sulla sedia gelata del cortile esterno del bar, - Ci sarà un cazzo di grado centigrado ed in questo cazzo di cafè c’è anche la galleria d’arte! Perché siamo qui?!
Bill sorride appena, stringendosi nelle spalle.
- Era estate, quando sono venuto qui con Anis.
E questo dà senso alla sua scelta e toglie forza alle mie polemiche, perciò sto zitto.
Io e Bill abbiamo preso quest’abitudine di vederci, da quando lui e Chakuza hanno smesso di farlo. Per quanto possa sembrare assurdo, non è stato lui a cercare me nella speranza di estorcermi qualche informazione su come stesse Peter o chissà che altro – anche solo per sentirsi di nuovo un po’ vicino a lui tramite me, chissà. Sono stato io a chiamarlo. Perché quando Chakuza mi ha chiesto di proteggere il ragazzino non intendeva soltanto “metterlo in salvo in caso di pericolo”. Ed anche se lui lo intendeva, non è questo che si intende con “proteggere”, per me. Proteggere vuol dire che mi preoccupo. Proteggere vuol dire che ci sono se ti servo ma anche se non ti servo, giusto per vedere se hai bisogno o meno. È una cosa complessa ed è una cosa che possono fare solo le persone oneste.
Io sono finito nei guai con la legge un bel po’ di volte, ma sono una persona onesta. Anis, prima di diventare uno stronzo, mi ha insegnato ad esserlo. È la parte di lui che non ho perso, e me la tengo stretta.
È stato in un’occasione simile – ma eravamo in un pub, era sera e c’era decisamente più caldo – che ho chiesto a Bill di raccontarmi come fosse morto. Ho visto i suoi occhi brillare all’improvviso e l’ho visto tendersi e irrigidirsi tutto come avessi provato a pungerlo con cattiveria, ma poi l’ho visto sciogliersi e sorseggiare piano la sua cola al limone, le dita a disegnare figure astratte sul legno ruvido del tavolo, mentre a mezza voce mi diceva del suo arrivo, del sangue, dei baci, della cassetta del pronto soccorso, del letto. Dei proiettili. Del suo sorriso. Del suo respiro sottilissimo.
Gli ultimi istanti della vita della persona più importante di tutta la mia intera esistenza. Una persona che avevo perso, da qualche parte, ma che era sempre rimasta dentro di me, in qualche modo. Quelli erano i suoi ultimi battiti. Le sue ultime parole. I suoi ultimi istanti. Bill me li ha regalati senza un tremito nella voce e con una lacrima incerta sulle ciglia, una lacrima che non è mai scesa e s’è sciolta in un sorriso quando, alla fine del racconto, m’ha visto chinare rassegnato il capo e scusarmi.
“Figurati,” mi ha detto, “sai quanto ho aspettato di poterlo raccontare così a qualcuno? Certe volte, finché non lo dici tutto per bene…” e s’è interrotto, ma io ho annuito lo stesso perché avevo capito dove voleva andare a parare: perché certe volte, finché non lo ascolti tutto per bene non ti sembra vero. Il meccanismo è lo stesso.
Bill mi lascia scorrere addosso lo sguardo ed abbassa appena gli occhiali sul naso, fissandomi curiosamente.
- Ma quella… - inizia, indicando i pezzi di felpa rossa che escono dal giubbotto semiaperto, - è di Chakuza?
Mi chiedo sinceramente come diavolo abbia fatto. Non ha senso dirmi “non dovresti stupirti, lo sai cosa c’è dietro”, è assurdo che riconosca una felpa rossa che ho scelto appositamente perché fosse il più anonima possibile, perché potesse essere di chiunque, perfino mia. Mi passa per la testa in un pensiero distratto che questo ragazzino ama troppo intensamente. Si farà un male cane, così. Vorrei dirglielo. Ci sono passato, ragazzino. Tiratene fuori finché puoi. Ma non ho alcun diritto di farlo.
- Sì, mi sono sporcato con della roba… - mugugno gesticolando a caso e implorando perché non chieda di che tipo di roba io stia parlando, - mi ha prestato una felpa per venire qui.
Solleva repentinamente gli occhi nei miei, rimettendo a posto gli occhiali.
- Eri con lui?
Sì e non posso dirtelo, ragazzino. Non posso dirtelo perché non dovrei nemmeno farlo, ma di farlo in qualche modo ho un bisogno fottuto, perciò mi dispiace ma non mi fermerò. Prima o poi ti passerà. Forse. Ed allora andrà meglio. O passerà a me – Dio, lo spero – e sarà perfetto.
- No, mi sono sporcato e lui mi veniva di strada. Mi sono fermato, gli ho rubato una felpa e sono corso qui perché ero già in ritardo. – racconto con un mezzo sorriso.
- Lo tratti proprio male, povero Chaku. – ridacchia lui.
Io annuisco e rido a mia volta.
Il cameriere ci chiede se siamo pronti per ordinare. Bill resta mezz’ora a domandarsi se sarebbe il caso di prendere una birra alla fragola – “la fanno solo qui, Fler!”, il che dovrebbe dargli un’idea di quanto faccia schifo, visto che nessun altro ha seguito il geniale esempio – oppure non sarebbe più saggio ripiegare su una più normale cioccolata. Lo costringo moralmente a prendere la cioccolata ricordandogli che non ho una macchina per portarlo in ospedale se sviene. Lui prova a dirmi che potrei chiamare un’ambulanza, in caso, ma quando lo guardo ed inarco un sopracciglio lui borbotta “okay, okay!” ed ordina un pastrocchio con panna, granella di cioccolato, granella di noci, una spruzzatina di caramello, una spruzzatina di caffè e litri di latte, al che io mi chiedo dove sia finita la cioccolata e suppongo sia meglio che almeno quella manchi, altrimenti questa roba invece di dieci euro ne costerebbe quindici.
Bill affonda il naso nella tazza appena se la ritrova fra le mani. Squittisce di gioia stringendola fra le dita e non sfalda la complicata coreografia di panna e decorazioni che esce da sopra come una montagnola innevata; sorseggia direttamente da lì, poggiando appena le labbra sul bordo, e quando risolleva il viso ha due baffi irregolari di panna sotto il naso. Rido e glieli indico, lui li cancella con una leccatina da gatto e si gratta la nuca, imbarazzato.
- Stai ancora da tuo fratello? – chiedo, sgranocchiando le arachidi che mi hanno portato con la Beck’s.
Bill annuisce.
- Tomi è molto preso. – racconta divertito, - Era da un po’ che non gli lasciavo fare il fratello maggiore con tutti i crismi. È tutto una coccola, è così servizievole! – ride e manda giù altra cioccolata, - E poi non mi si stacca mai di dosso. Mi mancava, devo ammetterlo. – aggiunge, arrossendo lievemente.
- Che fai, ragazzino? – lo prendo in giro, bevendo un sorso di birra, - Invece di progredire, regredisci? Dovresti crescere, diventare grande… e invece torni a vivere dal fratellone.
Bill aggrotta le sopracciglia e si morde un labbro.
- È una cosa temporanea, non sono tornato a vivere da lui. – borbotta offeso, - E poi io sono grande. Non sono un ragazzino. – sospira, - Però tu ormai hai deciso che ti piace chiamarmi così.
- Mi piace chiamarti così perché mi piace chiamare le cose col loro nome. – ridacchio, e lui annuisce, ridacchiando a propria volta. – Senti… - aggiungo poi casualmente, quasi a mezza voce. Un po’ spero che neanche mi senta. – Perché non ti fai vedere, di tanto in tanto, a casa del Chaku? – lui mi solleva addosso due occhioni terrorizzati, ed io mi affretto a sollevare entrambe le mani, come per rassicurarlo. – Magari quando siamo tutti insieme, ecco! O, se ti dà fastidio sentire quel coglione di Eko blaterare, magari andiamo da qualche parte noi tre. Potrebbe essere divertente. Che dici?
Bill sospira, abbassa un po’ lo sguardo sul fondo di panna che è rimasto nella tazza e poi torna a guardarmi. Dritto negli occhi. Vedo anche i suoi, nonostante la barriera ostile delle lenti scure.
- Dico che non posso. – risponde deciso, quasi freddo, - Lo sai.
Annuisco piano e ricomincio a sorseggiare la birra. Resto in silenzio mentre lui sfila gli occhiali e li posa sul tavolino in un gesto stanco accompagnato da un sospiro ancora più stanco. Lo osservo passarsi due dita sugli occhi – neanche un velo di trucco addosso – e massaggiarsi esausto la radice del naso. Non riapre gli occhi e non rimette gli occhiali. Però riprende a parlare.
- Fler… - chiede in un sussurro, - …tu pensi che questa situazione sia colpa mia?
Deglutisco appena, posando la birra.
- Quale situazione? – chiedo. Non perché voglio infastidirlo o forzarlo a parlare, ma perché davvero non so, fra tutte le situazioni, a quale si stia riferendo.
- Tutta questa situazione. – chiarifica lui, scuotendo il capo, - …Anis. Quello che gli è successo. E Chaku… - quello che ci è successo, ma lui non lo aggiunge.
Prendo un respiro profondo e metto in circolo un po’ dell’aria congelata di Berlino, sperando che possa aiutarmi a chiarire le idee. Sì che è colpa tua, ragazzino. Sì che, chiunque ha fatto fuori Bushido, l’ha fatto perché c’eri tu di mezzo. Sì che hai fatto impazzire Chakuza e sì che quello che è successo a me è una tua responsabilità indiretta.
- No. – rispondo deciso. E lo rispondo perché lo penso. Amare ed essere amati… non è veramente una colpa. E nemmeno una responsabilità.
*
- Stasera si esce.
Sono le mie prime parole quando Chakuza apre la porta. Mi guarda con aria incuriosita e poi si sporge appena per controllare se per caso non sto nascondendo del cibo dietro la schiena. Sospiro e roteo gli occhi, piantandogli una mano sul petto e spingendolo all’interno dell’appartamento, lontano dalla soglia, così da poter entrare.
- Non mangiamo? – mi chiede con l’aria di un cucciolo molto affranto, e mi viene un po’ voglia di pestarlo, quando fa così.
- Prenderemo un panino al volo, fuori. – spiego autoritario mentre recupero la sua giacca e gliela lancio.
- Fler, ma fuori c’è un freddo polare! – si lamenta, - Se ti va di bere qualcosa possiamo farlo anche qui!
Roteo di nuovo gli occhi, recupero il cappellino dall’appendiabiti e mi avvicino a lui, calcandoglielo sulla testa.
- Copriti che prendi freddo. – lo avverto. Perché è vero che fuori si congela e che, in una situazione normale, non avrei proprio nessuna voglia di uscire. Dio solo sa se non preferirei mettermi sotto le coperte e lasciare perdere.
Però Bill mi ha fatto pensare. In realtà Bill mi fa sempre pensare, per un motivo molto semplice che io capisco perché ho sempre addosso la solita maledizione-premio di Bushido che m’ha insegnato a sopravvivere, mentre a Bill e Chakuza sembra sfuggire completamente.
Qui ci stiamo tutti abbondantemente usando per non pensare.
E questo non va bene, perché c’è una persona che proprio non si merita di essere dimenticata prima di scoprire almeno chi l’ha gettata sotto terra dopo avergli sparato senza nemmeno avere il coraggio di guardarlo in faccia prima.
Io e Bill siamo gli unici che non si usano per distrarsi a vicenda; io e Bill, quando siamo insieme, siamo ancora perfettamente concentrati sull’obiettivo. E quindi uscire con Bill è come tornare a focalizzare la realtà per quella che è, ogni volta.
- Senti, ma almeno mangiamo qualcosa, prima. – borbotta Chakuza, richiudendo il giubbotto con la zip.
Lo gelo con un’occhiata infastidita.
- Mi sembra che abbiamo perso già abbastanza tempo. – commento serio.
Anche l’espressione di Chakuza cambia. Realizza.
- Dove stiamo andando, Fler?
Mi lascio andare ad un mezzo ghigno soddisfatto.
- A casa.
*
Sto vivendo un assurdo perché Chakuza è un maschio. Al di là di tutto il resto, se Chakuza fosse una femmina tanto per cominciare non sarebbe qui, e tanto per continuare non avrebbe una fissa tanto stupida quanto purtroppo comprensibile che suona più o meno come “la macchina è mia e la guido io”. “Anche se palesemente non so dove sto andando”, aggiungo io.
Insomma, gli sono girate le palle quando gli ho fatto capire che stavo manovrando la serata per cominciare ad andare un po’ in giro e provarci, almeno, a trovare ‘sto fottuto assassino. Perciò ha deciso di fare ostruzionismo e l’ostruzionismo si traduce nel restare alla guida in un posto che non conosce mettendoci peraltro in condizione di pericolo, perché Tempelhof non ti aiuta e non conoscerla è un peccato mortale.
Non credo lo stia facendo perché l’assassino di Bushido non vuole trovarlo affatto. Credo lo stia facendo perché sta provando ad andare avanti con la sua vita ed invece si ritrova da ogni lato gente che lo tira indietro. Sia Bill che io. Lo capisco, perciò non è questo quello che gli rinfaccio.
- Chakuza, se sbagli un’altra volta e non giri dove ti dico io al prossimo incrocio, giuro che ti butto nel canale. – è questa assurda cocciutaggine che contesto. È irritante.
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile ed addenta il panino strabordante di kebab che ha preteso di comprare una mezz’ora fa, quando stavamo ancora seguendo la via che avevo in mente e non c’eravamo irrimediabilmente invischiati in questo dannato reticolo che ci porterà a ritrovarci all’improvviso con la macchina semi-immersa nell’acqua, se ci va bene, o circondata da ragazzini in aria di fermo se ci va male. Faccio mente locale. Ce l’ho la pistola? Ce l’ho. Chakuza ce l’ha? Gli lancio un’occhiata poco convinta, lui sbrodola cipolle. Sospiro e alzo gli occhi al cielo.
- Basta, basta. – imploro, - Ferma la macchina. Posa quella merda. – mai capito come Anis potesse anche vivere solo di questa roba, sul serio. – E scendiamo.
- Continuiamo a piedi?! – dice lui, fermando la macchina ed aggrappandosi al panino come ad uno scoglio in mezzo al mare, - Fler, si congela!
- Sì. – annuisco sospirando ancora, - Non hai fatto che ripeterlo da che siamo usciti. Posteggia qui.
- Questo è un vicolo. Me la rubano.
- Tanto è un catorcio. – scrollo le spalle, - Vai mica in giro in BMW, tu. Avanti! – gli do un colpo sulla spalla, - Piantala di fare il coglione, è già quasi l’una!
Mugugna scontento ma posteggia dove gli ho detto e scende subito dalla macchina, seguendomi mentre io faccio gli onori di casa, accompagnandolo verso il canale. La strada che fiancheggia il corso d’acqua è sgombra e solitaria come sempre, non vedo nessuno in giro, tutta la vita del luogo è concentrata nei dintorni del porticciolo ed oltre gli alberi, sulla via puntellata di bar e kebaberie, e sembra distante chilometri da questo spiazzo silenzioso illuminato in pieno dalla luce della luna. L’acqua brilla di riflessi azzurri e bianchi e mi perdo un po’ a fissarli, questi bagliori che non vedevo da anni, mentre l’unico suono che sento oltre allo scorrere del fiume ed a quello dei miei pensieri, è lo scalpiccio delle suole delle scarpe di Chakuza, qualche metro indietro rispetto a me.
- Cosa stiamo facendo esattamente qui, Fler? – chiede, affiancandomisi mentre prendo posto sull’argine, le gambe che penzolano in basso verso il corso d’acqua e le mani ben piantate sul cemento, lo sguardo fisso alla luna senza nemmeno vederla. Mi manca questo posto. È assurdo perché non è poi così lontano rispetto al luogo in cui vivo adesso, ma sembra comunque tutta un’altra realtà. Può darsi che io non sia cambiato granché, ma sembra cambiato tutto il resto. Eppure anche tutto il resto è sempre uguale.
- Devo riprendere confidenza. – gli spiego, sentendo la grana un po’ irregolare della colata di cemento sotto i polpastrelli, - Ci sei già tu che non hai idea di dove andare a sbattere la testa. È bene che almeno uno di noi sappia dove stiamo andando.
- Perché diavolo dovremmo cercare qui? – chiede ancora lui, vagamente irritato, - Non è detto che l’assassinio di Bushido abbia a che fare con Tempelhof. Potrebbe venire da tutt’altro posto. Cristo, potrebbe essersi trattato anche solo di un cazzo di mitomane…
- …che l’ha seguito proprio la notte in cui io e lui ci accoltellavamo in un vicolo, per poi pensare bene di concludere il lavoro al mio posto? – scuoto il capo. Evito di dirgli che io i miei sospetti li ho, come tutti. Che essere stato a mia volta un sospetto non mi ha impedito di pensare. Però non posso parlare con Chakuza di questo, al momento, perché è troppo presto e non saprei nemmeno cosa dire, in realtà, perciò scrollo le spalle. – Qualsiasi problema di Bushido è sempre venuto da qui, comunque.
Chakuza inarca un sopracciglio e mi guarda, curioso.
- Storia della tua vita? – chiede con un mezzo sorriso sarcastico.
Io aggrotto le sopracciglia e lo fisso, offeso.
- Non sono così ciarliero. – mi lamento.
- Oh sì che lo sei. – ride lui, annuendo, - Ogni volta che cominci a raccontare qualcosa con una frase enigmatica, l’unica cosa che resta da chiedersi è per quante ore andrai avanti. Quanto all’argomento di conversazione, - aggiunge, tirandomi una gomitata affatto discreta, - è sempre lo stesso.
- Stronzo. – borbotto a bassa voce, allontanandomi un po’, - Volevo solo dire che quando vivi in questo posto e non riesci a scappare da piccolo, ti resta dentro. E te lo porti dietro. Dovunque vai, la tua origine è sempre questa. Tu ti porti ancora qualcosa dell’Austria?
Lui mi fissa incerto, scrollando le spalle.
- Non saprei dirti. – ammette a bassa voce, - È Berlino casa mia.
- Appunto. – annuisco, - Chi viene da Tempelhof invece non ha altra casa rispetto a Tempelhof. Chi viene da Tempelhof, ci ritorna, prima o poi, in qualche modo.
- Quindi l’assassino è di queste parti?
Mi mordo un labbro.
- L’assassino è uno che sapeva dove andare a cercare qualcuno che potesse aiutarlo a concludere il lavoro. – cerco di suggerire. Mi aspetto che colga un po’ il riferimento, ma Chakuza scuote il capo e sospira.
- Sei peggio di Bushido, quando parli per enigmi. – esala piegandosi in avanti, i gomiti sulle ginocchia, e prendendo a fissare lo scorrere lento del fiume.
Lascio perdere e sbuffo un mezzo sorriso, piegandomi come lui per poterlo guardare negli occhi.
- Tu vorresti essere da tutt’altra parte. – gli dico serenamente. Lui fa per aprire bocca e protestare, ma lo fermo scuotendo il capo. – Quando avremo finito qui… avrai tutto il tempo per andare dove vorrai. Non starò più tra i piedi.
Chakuza spalanca gli occhi e per un attimo dà segno di non capire, ma quando io annuisco tranquillo vedo la consapevolezza farsi strada dentro di lui e costringerlo a tendere nervosamente i tratti del viso.
- Tu non- - ritorce, ma non lo lascio concludere.
- È giusto. – annuisco ancora, raddrizzando la schiena, - Voi… - ed è chiaro chi sia l’altro di chi sto parlando, - non siete di qui. Non avete nessun conto in sospeso con Tempelhof, a parte Anis. Risolto quello… - sospiro e scrollo le spalle.
Chakuza non aggiunge niente. Si alza, però, puntando le braccia per terra e rannicchiandosi tutto per un attimo prima di scattare in piedi. Io rimango seduto e per qualche secondo lo guardo dal basso, mi rivedo appena quindicenne e vedo Anis che va per i venti e sta in piedi accanto a me, esattamente come Chakuza in questo momento, e mi dice “tanti auguri, ragazzino”, e improvvisamente ricordo anche perché mi piace chiamare Bill in questo modo. Non c’entra chiamare le cose col loro nome. È a causa di Anis.
Bill non ha davvero colpa, in questa storia.
Però sarebbe troppo facile, adesso, dare la colpa al morto.
- Avanti. – dice Chakuza, la voce incredibilmente cupa, tendendomi una mano per aiutarmi ad alzarmi, - Qui non troveremo un bel niente.
Annuisco ed afferro la mano che mi porge. Mi tiro in piedi e capisco quello che sta succedendo solo quando è già successo: ho messo male un piede e sono scivolato. Chakuza non mi ha lasciato anche se avrebbe tranquillamente potuto farlo ed il risultato è che ci siamo sbilanciati in due e siamo caduti, rotolando per tutta la parete obliqua del canale e rovinando in acqua alla fine della corsa, con un sonoro splash che spezza la quiete della notte ed anche il riflesso della luna sul fiume, le cui acque si allargano in cerchi attorno a noi ed attorno ad ogni singola gocciolina generata dal nostro tuffo. Riemergo tossicchiando e lanciando imprecazioni in giro, mentre osservo Chakuza trascinarsi stancamente verso la parete di cemento tentando di asciugarsi un po’ il viso.
- Fler, Cristo santo… - si lamenta, rabbrividendo dentro il giaccone zuppo, - Ma stare un po’ più attento, no?
Io tiro su col naso e mi appoggio sul cemento al suo fianco.
- Scusa. – biascico, scrollandomi un po’ d’acqua di dosso, - Bagneremo tutta la macchina.
- Sì, è il problema minore. – ringhia lui, - Il problema maggiore al momento è come usciamo da questo pantano, visto che gli argini qui sono inclinati a sessanta fottuti gradi. – constata passando una mano sulla parete e guardando in alto alla sponda che sembra irraggiungibile.
- C’è un ammasso di pietre, più giù, verso il ponte… - borbotto indicando un punto nella notte con un cenno del capo, - C’era già quando ero piccolo io, lo si usava per scendere a recuperare la palla quando cadeva.
Chakuza annuisce lentamente, aguzzando la vista per cercare di individuarlo e rinunciando pochi secondi dopo.
- Mi fido. – concede alla fine, scuotendo stremato il capo, - Ora possiamo per favore tornarcene a casa prima di morire di freddo?
Annuisco con aria assente e non so se è perché oggi ho parlato con Bill o perché siamo venuti per cercare l’assassino di Bushido ed invece non abbiamo trovato niente, oppure perché il fatto che abbia detto “andiamo a casa” mi ha fatto scorrere brividi strani lungo la schiena, ma realizzo all’improvviso che quello che penso quando in genere rifletto su me e Chakuza è sbagliato. Non passerà, se non lo faccio passare. Ed io devo farlo passare.
- Chaku… - lo chiamo, lui si volta e quando si volta mi presso contro di lui, labbra contro labbra. È un contatto che conosciamo a memoria ed al quale ormai sappiamo reagire bene, perciò non mi stupisco quando lui solleva una mano a stringermi per la vita, combattendo contro la giacca bagnata che si gonfia e si sgonfia ovunque, e lui non si stupisce quando infilo le mani sotto il suo giubbotto, raggiungendo la felpa e strizzandola fino a spremerla, bagnandomi più di quanto già non sia fradicio.
Quando ci separiamo, lui sorride appena.
- E questo? – chiede in uno sbuffo divertito e un po’ incredulo, - Così, in mezzo alla strada…
- Non c’era nessuno. – mi giustifico con una scrollatina di spalle, - E poi stanotte dormo a casa mia.
Lui aggrotta le sopracciglia.
- Pe-
- Passa a prendermi Sido domani. – mento sfacciatamente, zittendolo prima che possa anche solo pensare di cominciare ad imbastire una protesta.
Ho idea che sarà una lunga serie di menzogne, questa.
E devo anche sbrigarmi a vedere se ho ragione e se l’assassino di Bushido è chi io penso sia. Prima lo trovo, prima mi stacco. E poi sì che sarà davvero tutto perfetto.
*
Gli ultimi quattro giorni sono stati pesanti. Hanno cominciato ad essere pesanti quando, la sera del giorno dopo il nostro primo incontro con Tempelhof – il primo di Chakuza, almeno, per me più che altro s’è trattato di rivedere un’ex-ragazza che non so se avevo davvero tutta questa voglia di rincontrare – mi sono ritrovato appeso al citofono di Chakuza a litigare per farlo uscire di casa. In un dialogo delirante cominciato con un “ti sto aspettando” e concluso – fra un “sali, prima!” ed un “Chakuza, stai rompendo i coglioni” – con me che strillo “d’accordo, resta dentro, vado da solo” che sapeva di suicidio, dato che ero a piedi.
Grazie al cielo mi sono sentito afferrare da una mano fortissima circa due minuti dopo, mentre mi facevo strada nella neve per tornare verso casa e recuperare un mezzo di trasporto, e c’era Chakuza che mi fissava con estrema disapprovazione, dandomi silenziosamente della merda ed annunciandomi ad alta voce che non dovevo prendere iniziative, visto che avevamo un accordo.
Avrei voluto chiedergli se nell’accordo fosse compreso il diritto da parte sua di incazzarsi e rompere le balle qualora avessi smesso di darglielo. Mi sono trattenuto solo per educazione – e dire che in genere non passo per uno educato.
Al momento siamo in macchina e Chakuza sta cercando posteggio nel vicolo che ormai è diventato il nostro riparo durante queste ronde notturne. Stasera la zona è frequentata e non c’è un buco neanche a pagarlo oro, perciò Chakuza sta ringhiando ed io sto cercando di ignorarlo, ma non è così semplice quando, fra un ringhio e l’altro, colgo allusioni su come io sarei palesemente l’inizio e la fine di tutti i suoi problemi.
Sei tu stesso l’inizio e la fine di tutti i tuoi problemi, Chakuza. Mi ripeto che non posso dirtelo, ma in realtà sto smettendo di crederci e, quando mi convincerò, probabilmente ti prenderò a cazzotti come meriti, e magari ti dai una svegliata.
- C’è posto qui. – dico indicando un gigantesco parcheggio vuoto accanto al cancello di una ditta di trasporti.
- Non rompere i coglioni. – risponde lui con l’ennesimo ringhio, - Non ci entro.
- Non ci entri perché sei un’enorme testa di cazzo. – rispondo a tono, incrociando le braccia sul petto.
- Aha, hai anche tastato con mano. – ritorce Chakuza, velenoso, ed io sussulto.
- Potremmo tenere fuori questa roba dalle nostre uscite? – chiedo pacatamente, cercando di non far scoppiare una guerra che, nella testa di Chakuza, sta già infuriando da giorni.
- Certo. – sibila lui, infilandosi miracolosamente in un altro parcheggio e spegnendo il motore, - Teniamo fuori la roba dalle uscite. E tu ti tieni fuori dalla roba, invece. Senza un cazzo di motivo.
Spalanco lo sportello e lo schianto senza tanti complimenti contro la fiancata della macchina accanto a quella di Chakuza.
- Cazzo, non siamo mica sposati, Peter, datti una calmata!
- Vaffanculo. – risponde semplicemente lui, - E stai attento alla macchina, è l’unica che ho.
Agito stizzito una mano, il danno è stato veramente minimo. Volevo giusto scheggiargliela un po’. Visto il catorcio che è, nemmeno se ne accorgerà, se non glielo faccio notare.
- Comunque al momento abbiamo altre priorità che non siano scopare, Chakuza. Mi era sembrato di essere stato chiaro a riguardo.
- No, Fler, non sei stato chiaro, perché non ne abbiamo mai parlato, Cristo santo. – si interrompe e sospira, richiudendo la zip del giubbotto e sollevando il cappuccio per schermarsi dai fiocchi di neve che ricominciano a cadere appena ci immettiamo nel marasma di persone che entrano ed escono dai locali sulla via principale, - E comunque, non si tratta solo del sesso.
Lo dice come non avesse la minima importanza e come fosse perfettamente ovvio.
Io ci resto come uno stronzo, ovviamente.
- Che-
- Non avevamo altre priorità? – sbotta sarcastico, voltandosi prima che possa vederlo arrossire come un liceale.
Sarà difficile staccarmi da questa cosa. Sarà fottutamente difficile.
- Senti… - sospiro, tirando su il cappuccio della felpa, visto che la giacca non ce l’ha, e mettendomi al suo fianco per esplorare la via, - guarda che comunque non potevamo continuare in quel modo.
Chakuza solleva il capo e si guarda in giro, sta imparando a conoscere il quartiere e mi piacciono gli occhi con cui lo guarda. L’ha presa sul serio, alla fine, questa cosa, e sono contento che ce la stia mettendo tutta, scazzo a parte, ma in realtà mi piace solo come guarda Tempelhof. Mi piace che voglia impararlo a memoria e mi piace che lo stia facendo per non farmi ripetere continuamente sempre le stesse indicazioni.
- Perché, in che modo stavamo andando avanti? – chiede distrattamente, infilando le mani in tasca.
- Scopavamo, Chakuza. – gli ricordo con aria rassegnata, sperando di dirlo abbastanza schiettamente da fargli cogliere l’assurdo.
Non lo coglie.
- Non ha senso farmi un discorso simile. – mi dice infatti, scrollando le spalle, - A me piaceva.
- E questo era un nuovo episodio della fortunatissima serie televisiva ghetto-gay di ProSieben. – sospiro scuotendo il capo, - Chaku, ripigliati.
- E tu cerca di essere meno stronzo, piaceva anche a te. – odio che Chakuza riesca a mantenere l’attenzione su un argomento anche quando faccio di tutto per deviarla. Se non funzionano nemmeno le prese in giro, non so più a cosa attaccarmi. Potrei prenderlo a mazzate ma non so quanto servirebbe.
Sospiro.
- Sì, Chakuza, mi piaceva. Contento?
- No. – si ferma e mi guarda, io mi fermo a mia volta e mi cade un fiocco di neve sul naso. Incrocio gli occhi per guardarlo sciogliersi e Chakuza rimane interdetto un paio di secondi, prima di scuotere il capo e scoppiare a ridere. Questo suono non lo sentivo da un bel po’. Sorrido anch’io. – Sei un cretino. – mi riprende dandomi una spintarella, - Facciamo che stanotte resti da me anche perché nevica che sembra Natale, e poi domani ne parliamo con calma.
- Facciamo che prima il dovere e poi… tutto il resto, Chakuza. – cerco di mantenermi serio, spingendolo a mia volta. – Dai, entriamo là. – concludo indicando una kebaberia ad angolo di un vicolo poco invitante.
Lui annuisce ma adesso sorride, il che è molto male perché non gli piacerà come si concluderà questa serata – con me che gli do picche di nuovo, cioè – ma comunque entriamo nel locale e prendiamo posto e non abbiamo neanche il tempo di sederci che già Chakuza sta chiamando il cameriere per ordinare qualche quintale di questa schifezza di cui s’è innamorato ed alla quale io sinceramente non riesco a trovare un senso. Trovo difficile dare un senso alle cose di cui s’innamora Chakuza, in effetti, ma penso di poterlo accettare per com’è.
- Invece di mangiare a sbafo, guardati un po’ intorno. – ordino infastidito, attaccandomi come di consueto alla bottiglia di Beck’s, - Non siamo qui per cenare, siamo qui per individuare qualcuno a cui chiedere qualcosa.
- Sì, ma si dà il caso che non abbiamo cenato, in tutto questo, quindi prendiamo due piccioni con una fava e… Fler, metti giù quella bottiglia, non è acqua, prendi un respiro fra una sorsata e l’altra.
- Chaku, facciamo così, tu t’ingozzi ed io faccio il resto, d’accordo? – lui borbotta e ricomincia a mangiare, mentre io sollevo lo sguardo e vado alla ricerca di un tipo ben preciso di persone. Non mi aspetto certo di trovare l’assassino alla prima botta, cerco solo qualcuno a cui chiedere se magari sa qualcosa.
Sono circondato da bianchi che mangiano e bevono allegramente e mi chiedo se non ho sbagliato completamente posto. Non è questa la gente a cui dovrei rivolgermi. Non sono loro quelli che possono sapere qualcosa. Questi sono lavoratori che si concedono un’uscita con le loro donne di sabato sera. O ragazzini che non hanno nulla da fare e scendono nei quartieri bassi per vedere di cosa sa l’aria.
I miei obiettivi li individuo in un tavolo distante dal nostro, addirittura dall’altro lato del locale. Sono già abbondantemente ubriachi – li riconosco gli ubriachi, non stanno in piedi e ridono senza un perché – e chiacchierano del più e del meno gesticolando ed urtando le bottiglie vuote che tappezzano il tavolo.
Sono tunisini, soprattutto. Lo sanno tutti che è a loro che si chiede, quando si vuole sapere cosa gira e cosa non gira in questo quartiere. Lo sanno tutti e soprattutto lo so io. Sempre perché me l’ha insegnato Anis. Come tutto, dannazione. Sarà orgoglioso di me, il King. Gli sto facendo giustizia, piano piano.
Mi alzo in piedi e Chakuza mi guarda curiosamente per un attimo, ma quando gli faccio cenno di seguirmi molla immediatamente il panino e mi si mette alle calcagna. Se è nervoso o agitato, di certo non lo dà a vedere. Mi complimento interiormente con lui e mi avvicino al tavolo.
- Buonasera. – mi introduco con un sorriso. I due tunisini sollevano lo sguardo e non capiscono un accidenti di quello che sto dicendo, naturalmente. – Mi hanno mandato da voi perché pare che siate due che ne capiscono, di questo quartiere del cazzo. – cerco di farmeli amici, mentre Chakuza prova con tutte le proprie forze a non fare una piega, fermo al mio fianco come una bodyguard.
- Sei di fuori, ragazzino? – dice uno dei due, ridendo selvaggiamente, - Che ci fa uno come te qui? Quanti anni hai, dodici? Occhioni!
- Uno come te è carne da macello in questo posto! – gli dà man forte l’altro, - Quanto costa quella felpa? Duecento euro?
- Duecentocinquanta. – preciso, mentre Chakuza mi fissa sgomento. Ora, non è che se uno esce con venti euro nel portafogli non deve avere nient’altro in banca, dico. – E ne ho altrettanti da spendere, stasera.
I due ridono ancora, uno si abbatte sul tavolo e fa cadere tutta una serie di bottiglie per terra. Una va in pezzi, qualcuno si lamenta, torna tutto tranquillo dieci secondi dopo.
- Cos’è, ragazzino, vuoi la roba?
- Noi non ne vendiamo merda. Lo facciamo fare ai quattordicenni bianchi di pelle, finiscono in galera molto più raramente. Quando li beccano i poliziotti si accontentano di fare un giretto nelle loro mutande, non ce li mandano in galera, che poi si rovinano!
Cerco di trattenermi dal recuperare la bottiglia in frantumi e fare una cosa che non faccio da fin troppo tempo, e li ignoro, sedendomi accanto a loro su una sedia che rubo al tavolo di una coppietta poco distante. Chakuza resta in piedi dietro di me.
- Non cerco droga. – rispondo sorridendo, - Cerco informazioni.
I due ridono ancora e Chakuza sospira dietro di me.
- Questi non sanno un cazzo. – borbotta.
- Ehi, pupetto, dì al tuo amico di tenere a freno la lingua! – si agita uno dei due, il più vecchio, avrà una cinquantina d’anni. Lo osservo alzarsi in piedi e stendere un pugno in direzione di Chakuza, il quale afferra la mano chiusa fra le dita e torce il braccio del tunisino fino a farlo mugolare di dolore, - E Cristo, tieni a bada il nano forzuto, bimbo! Ce la siamo dimenticata l’educazione?
Scrollo le spalle.
- Non è che tu sia molto educato con me o con lui. – mi piace giocare con questi ruoli, mi sto divertendo. Anche Chakuza dietro di me, scommetto che non vedeva l’ora di sfogare un po’ di frustrazione contro qualcosa che non rimbalzasse quando cade per terra.
- D’accordo, d’accordo… - dice l’altro tunisino, sulla quarantina, sistemandosi meglio sulla sedia, - Parliamone un po’ da persone adulte, vi va? Il tuo amico si siede, bimbo?
- Tu chiamalo bimbo un’altra volta, - risponde Chakuza, - e mi siederò con le scarpe sulla tua testa, stronzo.
Il tunisino ride ed io mi passo una mano sugli occhi.
- Chaku, lascia parlare me. – lo imploro, mentre i due tunisini insieme cominciano a prenderci allegramente in giro parlando di fidanzamenti e accoppiamenti vari ed eventuali coi quali battezzare casa nuova appena papino e mammina ce la regaleranno, dopo il matrimonio. – Allora, io ho duecentocinquanta euro che scalpitano per uscirmi dalle tasche. – affermo, cercando di riportare la conversazione su un terreno che posso controllare, - Però se non intendete collaborare…
- Ma sì che collaboriamo, sì! – dice il cinquantenne, battendo una mano sul tavolo.
- Senza perdere tempo, su. – aggiunge l’altro, intrecciando le dita sotto il mento, - Cos’è che vi serve sapere?
Sorrido furbo, chinandomi verso di loro.
- So che sono venuti a reclutare gente in questa zona, per rompere i coglioni al ragazzino di Bushido, un mese fa. – insinuo, e vedo il cinquantenne ridacchiare.
- Chiamalo rompere i coglioni! – dice ilare, - Volevano che gli succedesse ben altro!
Il quarantenne gli tira una gomitata fra le costole. È più lucido dell’altro. Questo potrebbe essere un problema.
- Chi cazzo siete? – chiede.
No, così non va bene per niente.
- Amici. – rispondo con sicurezza.
Il tizio annuisce e si alza in piedi.
- Bene, allora da amici chiuderemo questa conversazione e da amici ci perderemo di vista.
L’altro si alza assieme a lui e Chakuza va in agitazione.
- Ehi, dove cazzo- - inizia, ma lo fermo con un cenno del capo.
- Sentite, non ce l’abbiamo con voi. – preciso conciliante, - Voglio solo sapere se potete dirmi chi è stato assoldato per portare a termine il lavoro. Tutto qua. Li troveremo noi.
- Li troverete anche senza il nostro aiuto. – dice il quarantenne con un vago gesto della mano, - Qui a Tempelhof le voci corrono in fretta.
Chakuza si fa avanti, bene intenzionato a menare le mani, ma lo fermo puntandogli una mano sul petto e scuotendo il capo.
- Agli ordini del bimbo, mi raccomando, eh! – ride il cinquantenne, - Sbaglio o è per questo che Bushido c’ha lasciato le penne? – continua sguaiato, mentre il quarantenne gli tira un’altra gomitata e lo spinge verso l’uscita del locale.
Chakuza ringhia – lo sento tremare sotto le dita nonostante il giubbotto imbottito e mi scosto per motivi che non capisco in pieno nemmeno io – e mi si piazza davanti con aria scazzata.
- Perché li abbiamo lasciati andare via?! – chiede infastidito, - Sapevano qualcosa!
- Sì, ma oggi è sabato sera e ci siamo già fatti notare abbastanza senza metterci dentro anche una rissa, Chaku. – cerco di spiegargli pazientemente, - Stai tranquillo, queste non sono cose che si risolvono in fretta…
- Sì, ma noi stiamo andando alla cieca da giorni! – protesta ancora lui mentre io mi avvio verso l’uscita, - E quando finalmente troviamo qualcosa-
- Quando finalmente troviamo qualcosa, quel qualcosa ci resta in mano, no? – sospiro, - Ora abbiamo la conferma che sì, è qui che l’assassino di Bushido è venuto a cercare una mano d’aiuto.
Chakuza sospira ed annuisce, rimettendosi a posto il cappuccio mentre ci immettiamo nuovamente nella strada principale, diretti alla macchina.
- Pensi che potrebbero essere stati quei due a…
- E cosa vuoi che ne sappia io? – scrollo le spalle, - Forse sì, forse no. Più probabilmente, sanno qualcosa ma non vogliono finirci di mezzo. – ghigno, - Non che non li capisca.
Chakuza annuisce ancora e resta in silenzio mentre ci facciamo strada nella folla stando attenti a non scivolare sulla neve mezza sciolta che ricopre quasi tutto il marciapiedi. Lo sento irrigidirsi qualche secondo dopo, ma non cambia l’andatura del passo e non si volta indietro. È solo più teso, lo sento a pelle. Mi volto a guardarlo.
- Be’? – chiedo curiosamente.
Lui si inumidisce le labbra.
- Credo che ci stiano seguendo.
Inarco un sopracciglio e sono già sul punto di dirgli “Chaku, ricordati che tu sei quello che sbatte negli armadi”, quando mi accorgo che in effetti ha ragione, c’è una figurina incappucciata e vestita di bianco che ci pedina e cerca di dissimulare tenendo un passo diverso. Mi accorgo che segue noi perché non è capace e quando perde il ritmo deve correrci dietro.
Sospiro, lanciando un’occhiata indietro ed individuandolo. È un nanetto. Sarà un ragazzino.
Annuisco a Chakuza e gli indico un vicolo che naturalmente non è quello in cui abbiamo infilato la macchina. Il nostro misterioso inseguitore, comunque, non dovrebbe saperlo. Faccio affidamento su quello quando io e Chakuza svoltiamo nella stradina laterale un po’ buia, e faccio affidamento sul giusto, perché quando ci voltiamo indietro la figurina bianca si ritrova spiazzata a fronteggiare due uomini con un’espressione vagamente incazzata sulla faccia e poca voglia di chiacchierare. Si tira un po’ indietro ed allarga le braccia, sulla difensiva, la tuta in acrilico bianco che brilla appena dei riflessi dei lampioni che costeggiano la strada principale, che da questa penombra umida e fredda sembra lontana chilometri e invece non disterà più di tre o quattro metri.
- Tranquillo. – dico con un mezzo sorriso, mentre lo osservo indietreggiare spaventato, - Scopriti il viso.
Chakuza resta zitto e buono al mio fianco ed il ragazzino si ferma e ficca le mani in tasca.
- Nevica. – risponde scaltro, - Ed anche voi avete i cappucci.
Mi viene da ridere ma non lo faccio. Sfilo il cappuccio, invece, e faccio cenno a Chakuza perché faccia lo stesso. Lui ghigna divertito e poi insieme osserviamo il ragazzino esitare, confuso, e scoprirsi, restando fiero e dritto nella neve che cade, il volto pallido arrossato dal freddo sulle guance e sulla punta del naso ed i capelli corti e biondi disordinati sulla fronte, scossi appena dal vento. Ci fissa con un paio d’occhi azzurrissimi resi scuri dall’ansia e dalla paura, sotto le sopracciglia aggrottate in una posa da duro che conosco benissimo.
Chakuza ride apertamente e io gli do una spinta.
- La pianti di prendere per il culo?! – lo rimprovero, ma sto ridendo anch’io, e colgo l’espressione del ragazzino distendersi e poi arricciarsi nuovamente in un broncio offeso e deluso. – Avanti, è stato bravo fino ad ora!
Chakuza annuisce e pianta le mani sui fianchi, guardandolo bonario.
- Quanti anni hai? – gli chiede, il vocione rude modulato da una nota di tenerezza che è davvero impossibile da ignorare.
Il ragazzino incrocia le braccia sul petto.
- Sedici! – protesta stizzito, battendo un piede per terra.
Io annuisco e cerco di frenare Chakuza prima che ricominci a ridere. Mi avvicino con le mani bene in vista, trattandolo da pari, è così che si gioca con questi ragazzini qui. Mi dispiace un po’ sapere che a continuare a vivere in questo postaccio diventerà davvero ciò che adesso sta solo imitando.
- Okay, e ti chiami? – mi informo fissandolo dritto negli occhi.
Lui è un po’ incerto, guarda altrove, non sa se è giusto dirlo o meno. È molto piccolo, dovrebbe stare a casa.
- Daniel. – risponde alla fine, mascherando con un cipiglio sicuro l’esitazione nella voce.
- E ci hai seguito perché…? – chiede Chakuza affiancandosi a noi. Daniel esita ancora, si tira un po’ indietro, poi si rimette dritto e ci fronteggia con sicurezza.
- Io lo so cosa state cercando. – dice annuendo, - Ma qui non ve ne parlerà nessuno, dovete per forza risalire alla fonte.
Mi verrebbe da ridere per come parla, se non sapessi perfettamente che da ridere, in questa situazione, non c’è niente.
- E come mai nessuno dovrebbe parlarcene? – indago, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
- Perché c’è gente importante invischiata. – risponde lui, - Gente importante del quartiere, intendo. Posso farvi i nomi, se volete.
Chakuza inarca un sopracciglio ed incrocia le braccia.
- E questo slancio di generosità è dovuto a…? – chiede curiosamente, ed io ridacchio.
Gli occhi di Daniel saettano prima su di lui, fulminandolo – o almeno provandoci – e poi tornano su di me e si fanno più imbarazzati e liquidi, prima di chinarsi ad osservare la punta delle scarpe da tennis macchiate di fango.
- …sono un fan dell’Aggro, io. – biascica a mezza voce, ed io spalanco gli occhi e rido compiaciuto, battendogli una pacca sulla spalla.
- Grazie! – rispondo con entusiasmo, mentre Chakuza borbotta al mio fianco, - È bello vedere che i giovani hanno ancora degli ideali.
Chakuza coglie la frecciatina e fa per tirarmi un cazzotto sulla spalla, ma io lo evito e smetto di ridere, riportando l’atmosfera su un piano meno divertito e più serio.
- Dunque, Daniel. – inizio piano, - Questi nomi?
- Devi cercare Samir Azad. – risponde pacato lui, tirando su la zip della felpa fino a coprirsi il mento. Comincia a fare più freddo, e già prima non si stava bene. Mi passa per la mente in un pensiero confuso che dovrò fare i salti mortali per fuggire da casa di Chakuza, stanotte, se mai ci rimetteremo piede. – Spaccia per suo fratello Jad, che si rifornisce da certa gente di Cuba… non li conosco molto bene, non sono ancora arrivato a quel livello là. Io per ora lavoro per un tizio che ho incontrato in riformatorio e che li conosce.
Annuisco lentamente, Chakuza è già confuso e scalpita al mio fianco ma la mia calma lo tranquillizza.
- E io questo Samir Azad dove lo trovo?
Daniel scrolla le spalle con aria navigata.
- È sempre in giro. – risponde con un cenno del capo.
- In giro dove? – chiede Chakuza, - Sii più preciso.
- Verso Alter Park… - dice, indicando con un gesto distratto oltre il canale, che s’intravede appena oltre la gente, le luci, la strada e gli alberi, - Lo riconosci subito perché è mezzo zoppo, ha perso un pezzo di piede quando lavorava in fabbrica.
Chakuza annuisce.
- Lo conosco Alter Park. – commenta, - È un posto carino.
Io ghigno.
- Non dopo mezzanotte. – e Daniel ride con me. Infilo le mani in tasca e tiro fuori il portafogli, guardando questo ragazzino che ridacchia come se fosse molto figo essere uno spacciatore e dare una mano a due spiantati per trovare due cazzo di quasi-assassini. Forse perché non sa come si finisce, a camminare su questa strada. O forse perché lo sa e crede di non avere alternativa.
Spero che questi duecentocinquanta euro lo tengano lontano dalle strade, per un po’.
Lui mi guarda mettere mano ai soldi e mi ferma, scuotendo il capo.
- Non l’ho fatto per farmi pagare. – dice col cipiglio serio del ragazzino che crede di sapere cosa sta facendo, - L’ho fatto perché sei tu. – aggiunge più candidamente.
Ripongo il portafogli nella tasca, annuendo lento. Poi sorrido.
- Adesso hai un amico che conta, Daniel. – aggiungo dandogli una pacca sulla spalla. Sospiro. – Sei mai stato arrestato? – chiedo a bruciapelo, e Daniel aggrotta le sopracciglia.
- No. – risponde con orgoglio, - Sono stato bravo.
- Fortunato. – correggo, stringendo la presa sulla sua spalla, - Cerca di mantenerla, questa fortuna.
Lui esita per un attimo e poi risponde con un sorriso più sincero prima di salutarci, scomparendo oltre il vicolo. Quando ne veniamo fuori io e Chakuza, ritornando in strada e guardandoci intorno per capire il da farsi, sembra svanito nel nulla.
- Non so se ridere di più per l’amico che conta o perché hai fatto colpo su un sedicenne. – mi prende in giro Chakuza dandomi una gomitata in pieno petto e ridendo sonoramente, - Guarda che è illegale, eh?
- Sì, be’, - arrossisco in maniera indecente io, - Non è che ora improvvisamente solo perché tu sei frocio lo sono anche tutti gli altri, Chaku.
Lui ride ancora, calandomi il cappuccio sulla testa.
- Tu te ne tiri fuori? – chiede, e nella sua voce c’è una nota un po’ più profonda di quella che usa in genere quando prende in giro e basta.
Non ti va giù che possa andarmene, vero, Chaku? Capissi perché, forse non me ne andrei.
Riprendiamo a camminare e mi accorgo solo dopo qualche passo che stiamo andando in due direzioni completamente diverse. Mi volto a guardarlo e lui si volta nello stesso momento, ed immagino che sulla mia faccia ci sia la stessa espressione ebete che c’è sulla sua.
- Dove stai andando? – chiedo curiosamente, senza muovermi dalla posizione plastica in cui mi sono praticamente congelato, interrompendo il passo a metà.
Lui solleva un dito ed indica una direzione ideale che è quella del vicolo in cui abbiamo posteggiato. Mi chiedo se saprebbe arrivarci da solo.
- A casa. – risponde quindi, - Non l’hai detto tu che queste cose non si risolvono mai in fretta e che ci siamo già fatti notare abbastanza?
- Sì, ma abbiamo ricevuto una soffiata! – dico io, voltandomi per intero, finalmente, e guardandolo sconvolto, - Non possiamo perdere l’occasione, rischiamo che li avvertano e non si facciano più trovare!
Chakuza sembra incerto ma annuisce e mi si affianca. Sono consapevole di stargli chiedendo uno sforzo. In realtà lo sto chiedendo anche a me stesso. È un po’ spaventoso essere così vicini alla soluzione. Fa paura anche perché la soluzione in realtà porterà un mucchio di problemi con sé. Con quest’assassino, cosa ci facciamo, una volta che l’abbiamo trovato? E se è chi io penso sia, come la mettiamo?
- Ehi… - Chakuza mi dà una mezza gomitata sul fianco, - che hai?
Scrollo le spalle.
- Tu non sei nervoso? – chiedo, guardando altrove mentre ci avviamo lenti verso Alter Park.
Chakuza sbuffa una mezza risata.
- Tu, il padrone delle strade!, chiedi a me se sono nervoso? – mi prende in giro, inarcando le sopracciglia, - La birra ti ha dato alla testa in ritardo?
- Ma perché devi essere sempre così stronzo? – ritorco, tirandogli un cazzotto sulla spalla, - Era solo una domanda.
Chakuza guarda dritto davanti a sé e si gratta la nuca, sotto il cappuccio.
- Non tantissimo. – ammette, - Mi preoccupa di più che tu sia nervoso, che non la situazione in generale.
Lo fisso, stupito.
- Come, scusa?
Lui scrolla le spalle.
- Eri a tuo agio, fino a poco fa. Se cominci a preoccuparti vuol dire che hai paura di qualcosa. Se ne hai paura tu, praticamente io posso già cominciare a scappare, in sostanza.
Ridacchio.
- Allora ammetti che è vero? Sei l’uomo che sbatte negli armadi?
Lui cerca di farmi lo sgambetto ma io lo evito.
- Non intendevo dire quello. – ride, - È che io la mia vita te la affiderei, Atze. – e mi si ferma l’aria in gola, - Quindi hai una responsabilità.
Arriviamo ad Alter Park e sinceramente credo che i miei piedi abbiano ricordato da soli la strada, perché Chakuza ha questa cosa che dice parole di cui secondo me non si rende conto. O meglio, lui se ne rende conto, lui lo sa perfettamente quanto vale quell’Atze o quando vale sentirmi dire che la sua vita è nelle mie mani, però non capisce che ci sono cose che quando le senti ti annullano i pensieri. Lui le dice e basta, lo fa con una certa innocenza, non è che voglia mandarti in black out. Però lo fa.
Ci sono momenti in cui mi è veramente semplice capire perché Bill sia perso fino al punto in cui è.
Chaku si guarda intorno con aria tranquilla, scruta il buio della notte attraverso i viali alberati e le fontane spente. Il cielo è coperto e continua a nevicare ma l’acqua bassa nelle fontane è ancora liquida, così com’è liquido il fiumiciattolo che scorre sotto il ponticello arcuato verso il quale ci avviciniamo.
- Dove stiamo andando, Fler? – mi chiede quando comincia a sospettare il nostro girovagare non abbia veramente un senso.
- Non lo so. – ammetto scrollando le spalle, - In giro. Se vedi uno storpio, dimmelo.
Chakuza fa una smorfia.
- Che vorrebbe dire, “se vedo uno storpio”? – borbotta, - A parte che, se vedo qualcosa, lo vedrai anche tu, visto che stiamo andando nella stessa direzione. E comunque qui non c’è nessuno. Con questo tempo da cani, non capisco nemmeno perché ci siamo noi…
Sospiro e roteo gli occhi, indicando un’ombra scura appoggiata sotto un albero.
- Lì c’è qualcuno. – gli faccio notare con aria tranquilla come fosse ovvio e scontato trovare lì quella figura incappucciata.
Chakuza annuisce e deglutisce.
- Lui? – chiede.
- Non mi pare storpio. – dico, osservando il tipo dondolarsi da un piede all’altro e cominciare a giocare con un sasso per terra. – Però è probabile sia un palo. Stammi vicino e non aprire bocca.
- Ehi-
- Non mi avevi affidato la vita? – ghigno furbo, e lui si zittisce mentre ci avviciniamo al tipo. Mi schiarisco la voce e pianto una mano sul fianco, fissando il tipo con aria non propriamente ostile ma neanche propriamente ben disposta. – Ci hanno detto che da queste parti c’è roba buona.
Quello solleva lo sguardo e mi scruta da sotto il cappuccio, masticando rumorosamente una gomma.
- Mai visti da queste parti. – risponde secco, - Sbirri.
Aggrotto le sopracciglia, le mani bene in vista.
- Io ci sono nato qui.
Lui sbuffa e tira su col naso.
- Io non ti ho mai visto.
Chakuza resta in silenzio al mio fianco ma percepisco il nervosismo nel suo respiro appena trattenuto.
Io roteo gli occhi.
- Quindi nessuno ti ha mai raccontato niente di Frank White? – ghigno sicuro di me. Potrebbe essere la cazzata più grande della mia vita. Se questo tizio c’entra con tutto il casino che è successo, o se anche solo il suo capo gliene ha detto qualcosa, siamo fregati. Se non sa niente, però, questo nome potrebbe essere il nostro lasciapassare definitivo.
Il tipo solleva lo sguardo e mi fissa, incerto.
- Tu saresti… - mi libero del cappuccio e lascio che mi guardi bene in faccia. - …oh. – prego vivamente che Chakuza non si faccia riconoscere. Il tipo, comunque, annuisce brevemente. – Al gazebo. – indica oltre il ponte, - Samir è là.
Annuisco e mi allontano, tirandomi dietro Chakuza. Il gazebo, se è ancora come lo ricordo io, è una struttura in legno bianco con una cupola di tegole nere, tutta circondata da una ringhiera ad assi incrociate che fa molto recinto di campagna da ricca famigliola americana, e da schiere di aiuole piene di cespugli che in primavera sono colorate e profumatissime. Il classico luogo che in genere viene adottato dalle coppie di fidanzatini per pomiciare, ed infatti succedeva eccome, almeno ai miei tempi, solo che, calato il sole, questo posto cambia faccia.
Quando arriviamo, lo scenario è molto più adatto allo spaccio che non ai flirt, comunque. Un po’ perché è inverno, e quindi delle aiuole colorate non è rimasto poi molto. Un po’ anche perché sono passati più di dieci anni. Quindi, anche del resto, non è che sia rimasto tanto.
Samir Azad, avvolto in un giubbotto in piuma d’oca, il viso nascosto da un ampio cappuccio col pelo sull’orlo, sta contrattando con un tizio dal volto semicoperto da berretto e sciarpa, e si muove avanti e indietro lungo le pareti del gazebo per non stare fermo, anche perché a star fermi si gela. Chakuza mi guarda, un’occhiata ferma e sicura, ha visto che zoppica: è lui, sì Chaku, è lui.
Mi appoggio contro una parete, incrociando le braccia e sollevando un piede contro il legno, che tanto è così pieno d’impronte da non farmi nemmeno più sentire in colpa per il fatto che sto calpestando la mia gioventù ed usando il mio nome – cose di cui vado abbastanza orgoglioso, insomma – per vendicare un uomo che mi ha mandato a fanculo e dal quale non mi sono mai sentito dire grazie. O scusa. Lui e tutte quelle canzoni del cazzo come quella in cui mi diceva che sperava stessi bene. Come se per me fosse possibile stare bene senza che mi desse una fottuta occasione per perdonarlo. Ma Bushido il mio perdono non lo voleva. Lui non ha mai sbagliato.
Il tipo col volto coperto si allontana e lascia il gazebo mentre Samir conta i soldi e li infila nella tasca posteriore dei jeans, prima di voltarsi verso di noi e farci cenno col capo. Mi avvicino e mentre lo faccio metto bene a fuoco la situazione. Samir probabilmente è armato. Così come saranno probabilmente armati anche i numerosi pali che ha sparso per il parco. Noi siamo in due, io ho una pistola ma dubito che Chakuza abbia la mia stessa fortuna, il che vuol dire che devo prendere immediatamente in mano la situazione, farmi dire ciò che mi serve di modo che poi lui non abbia più nulla da difendere e scappare via da qui il più in fretta possibile. Prima che lui allerti qualcuno, almeno.
Mi chiedo per un attimo chi mi abbia convinto a ficcarmi in una situazione che puzza di suicidio lontana chilometri. Poi ricordo che mi ci sono ficcato da solo. E ricordo anche che mi piacerebbe poter tornare da Bill e dirgli “visto? Te l’abbiamo preso, il figlio di puttana”. Ricordo, soprattutto, che sulla fottuta tomba di Bushido voglio tornarci presto. Magari lanciare un’occhiataccia a quella foto sorridente incastonata sulla lapide e poi dirglielo. Mi devi un favore enorme, stronzo, perciò… perciò non lo so. Mi piacerebbe credere in Dio e poter pregare, in una situazione del genere. Almeno non starei rischiando la vita per qualcosa di così inutile ma che sento come assolutamente inevitabile.
Chakuza non lo capisce, quello che sto facendo. Mi osserva con la coda dell'occhio ficcare una mano in tasca e quando fa per aprire bocca e chiamarmi se lo risparmia, perché capisce che è già tardi: c'è la mia pistola pressata con forza contro lo stomaco di Samir, e la mia mano libera è salita a chiudergli prepotentemente la bocca. Samir mi fissa con gli occhi spalancati, respira forte contro la mia mano e il suo fiato caldo scioglie il gelo dei miei polpastrelli. Stringo la presa attorno al suo viso fino a fargli male, lui si lamenta sotto di me e continua a fissarmi con quegli occhi enormi – è più giovane di me, avrà vent'anni, cazzo, forse nemmeno – ed io lo spingo indietro violentemente, cercando la ringhiera contro cui schiacciarlo. Lui incespica, il piede monco non lo aiuta, non cade a terra solo perché gli sto stringendo la mascella fra le dita come una tenaglia.
- Cristo... Fler! – strilla Chakuza venendomi vicino per nascondere la scena col corpo, - 'Cazzo stai facendo?
Io sorrido.
- Pubbliche relazioni. – rispondo, ripescando dalla mia adolescenza una faccia di culo che mi sembrava di avere perduto – anche perché non credevo ne avrei più avuto bisogno – e che invece viene fuori con una semplicità disarmante, come fosse sempre stata lì in agguato in attesa del momento giusto per rifarsi viva. Probabilmente è stato così per davvero. Ed io avevo proprio ragione a dire a Chaku che chi viene da questo quartiere di merda prima o poi, in qualche modo, ci ritorna e basta. – Ciao, Samir. – ghigno cattivo, affondandogli la canna della pistola nella pancia, - Serata fredda, mh? – lui mugola e cerca di liberarsi, ma Chakuza scatta a tenerlo fermo per le braccia ed ora siamo in due a schiacciarlo contro la ringhiera. Non ha cosa fare. – Ho qualche domanda da farti, quindi ora devo liberarti la bocca. Però tu non urli, altrimenti io ti ammazzo. Sono stato chiaro?
Samir annuisce freneticamente ed io sollevo la mano, lasciandolo libero di parlare. Lo stringo per la spalla, però, così che non gli venga in mente di fare qualche stronzata che, teso come sono, mi porterebbe a sparargli per davvero, anche se non ho la minima voglia di concludere la serata in un bagno di sangue.
- Che cazzo volete? – chiede lui, una nota di terrore profondissima nella voce tremante.
Io sospiro e mi avvicino a lui.
- Guardami bene in faccia. – gli dico, - Mi riconosci, Samir? Lo sai chi sono?
Chakuza mi lancia un'occhiata allarmata ed io spero che non si faccia saltare in testa qualche idea geniale delle sue tipo scoprirsi il viso. Ne basta già uno nella merda fino al collo, ed è più giusto che quell'uno sia io, perché se stasera andasse tutto a puttane e per uno di noi qualcosa dovesse andare storto, non me la sentirei proprio di restare io con Bill ed i fantasmi di due uomini che hanno contato tanto. Meritatamente o meno.
Samir, comunque, annuisce e chiude la bocca, mandando giù a vuoto.
- Lo volevi morto anche tu, Bushido. – dice con rabbia, cercando di scattare in avanti, ma lo riporto indietro a sbattere contro la ringhiera.
- Errore. – sibilo, stringendolo al collo, - Non mi pare di aver autorizzato nessun omicidio, negli ultimi tempi, tantomeno quello di Bushido. – gli faccio presente, - Ma non fare l'avvocato del diavolo, stronzo, so che non sei stato tu a farlo fuori. – ghigno, - Tu hai fatto il gradasso col suo ragazzino, vero? – ipotizzo, e so che non sto toppando perché ad ammazzare Bushido non può davvero essere stato lui. Io c'ero, quella notte, io lo so che qualche stronzo ha fischiato. Ma non può essere stato questo stronzo qui. Lui non ne sa niente, di fischi e simili. – Coraggio. – lo incito, - Sì o no? Posso farti un sacco di male, Samir.
- Fler, cazzo! – mi chiama Chakuza, ma io lo ignoro.
- Cristo! – geme Samir quando sente la pistola schiacciarsi più profondamente contro il ventre, - È vero, Cristo, è vero! Lo sapevo che era una cazzo di storia pericolosa, quello stronzo di un libanese non mi ha lasciato scelta, cazzo!
E lì il tempo, per un bel po', si ferma. Non contano i secondi e la neve che cade, Chakuza diventa un pezzo di ghiaccio al mio fianco e la sua stretta attorno alle spalle di Samir si fa fortissima per un istante, prima di disperdersi lentamente e diventare nulla.
Io riesco solo a pensare che, cazzo, avevo ragione. C'era un solo stronzo cui Bushido potesse aver parlato del nostro fottuto fischio. Quello stronzo non poteva che essere il suo braccio destro. Quello che doveva accompagnarlo quella notte. Quello che doveva essere il testimone della sua morte. Baba Saad. Il libanese. Alla fine, è stato testimone della sua morte per davvero. Lo stronzo figlio di puttana.
Mollo Samir e mi tiro indietro, tenendogli sempre la pistola puntata contro. Lui solleva le mani in segno di resa ma Chakuza non si muove. Non lo sta stringendo, però è ancora lì, lo fissa e gli tiene le mani addosso.
- Peter. – lo chiamo, ed uso apposta il nome di battesimo, perché Peter può essere chiunque e Chakuza non dovrebbe essere qui. Lo guardo dove dovrebbe esserci la sua faccia, ma non vedo niente. C’è buio ed il cappuccio è tirato così in basso che quasi gli sfiora il naso. – Peter! – lo chiamo ancora, e lui si volta appena, - Vieni via.
Lo vedo che solleva un po’ il viso e mi lancia una mezza occhiata incerta. Samir ha ancora le mani bene in alto e respira con fatica, probabilmente pensa abbia una pistola anche lui e trova la sua vicinanza un tantino troppo spaventosa.
Chakuza si schiarisce la voce un paio di volte, inspira ed espira e poi inspira ancora e trattiene il fiato, tant’è che davanti a lui non si forma più condensa e dopo un po’ comincio perfino a preoccuparmi. Ma poi apre la bocca e parla, e quando lo fa mi si attorciglia qualcosa dentro perché il tono che usa è tremendo. Non è debole, non trema, non è allarmato. Non è neanche freddo e distaccato come dovrebbe, però. È qualcosa che si avvicina molto ad un’incredulità allucinata che fa un po’ male. Mi viene da pentirmi di un mucchio di cose. Tipo di averlo portato qui. Tipo di averlo costretto a sentire una cosa simile. Insomma. Non è stato giusto.
- Stai parlando di Baba Saad? – chiede, e Samir annuisce senza aspettare un attimo.
- Cazzo, chi altri? – rincara la dose, - Ehi, amico, dì a questo tizio di mollarmi, non so nient’altro, cazzo, e non gliel’ho infilato io il coltello nello stomaco, al tuo uomo!
Ringhio e lo mando a fanculo, per un attimo ho perfino paura che Chakuza reagisca in maniera troppo infastidita, cosa che darebbe modo a Samir di capire o almeno intuire chi ha davanti – ma a Chakuza non interessa del suo stomaco, adesso. Credo di poterlo capire.
Lo lascia andare e si allontana, venendo verso di me.
- Tutto a posto? – gli chiedo quando è abbastanza vicino, lui non risponde.
- Cristo, dovreste chiederlo a me se è tutto a posto! – sbotta Samir, massaggiandosi lo stomaco.
Tendo il braccio, puntandolo alla testa.
- Tu mi fai il favore di strozzarti con la tua stessa lingua, grazie. – dico, per chiarire nuovamente le posizioni, - Prima che io ti faccia qualcosa di peggio.
Samir solleva di nuovo le mani ed annuisce.
- Okay, okay, amico, ti ho detto tutto quello che sapevo! Mi lasci andare?
Annuisco e faccio cenno di muoversi con la pistola, Samir si china a raccogliere la sua roba e poi lo vedo allontanarsi zoppicante ed agitato verso il ponte. Mi avvicino a Chakuza, e comincio a preoccuparmi davvero perché la situazione non è bella, dobbiamo decidere cosa fare e lui continua a fissare il vuoto. La cosa non mi piace.
- Chaku, ehi. – gli do una pacca sulla spalla, non ho la più pallida idea di come cazzo consolarlo perché tutto ciò cui riesco a pensare è che la voglia di concludere la serata in un bagno di sangue è tornata all’improvviso quando Samir ha parlato. Solo che ora so con precisione di chi voglio che sia, il fottuto sangue. – Ehi, ci sei?
- Sì. – risponde seccamente lui, guardandomi. – Cazzo. Saad. – e lo dice come se si aspettasse da me un “assurdo, vero?”. Boh, non so, forse dovrei accontentarlo, ma la verità è che non lo penso. E però non posso stare qui a dirgli “guarda che io l’ho sempre sospettato, eh”. Cioè, con che faccia gliela dico una cosa simile? Perciò mi limito a stringere ancora di più la presa sulla sua spalla, e cercare di guardarlo comprensivo.
- Lo so, Atze, lo so. Senti, dobbiamo muoverci da qui. – gli faccio presente, - Non è sicuro e dobbiamo vedere cosa fare.
Lui si scosta con un ringhio frustrato.
- Ma cosa cazzo vuoi fare, Fler?! – strilla, ficcandosi le mani in tasca e muovendosi nervosamente in tondo nel gazebo, - Cristo, proprio lui! Cazzo! Fler, che cazzo facciamo?!
Mi passo una mano sugli occhi e sospiro pesantemente.
- Ci pensiamo dopo, Chaku. – gli vado dietro, riprendendolo per le spalle per cercare di tenerlo fermo, - Ehi, senti, mi servi calmo e concentrato, ok? – lui fa per divincolarsi. Lo stringo con più forza e lo costringo a girarsi e guardarmi negli occhi, e poi lo fisso nel modo in cui fisso sempre la gente quando voglio farmi ascoltare e obbedire. Come se non vedessi altro, cioè. – Chakuza, ho davvero bisogno di te. Non mi mollare adesso, stai calmo.
Lui respira con forza.
- Stiamo parlando di Bushido, qui. – mi fa notare, come non ne fossi perfettamente consapevole, - Cristo, è Saad che ha ammazzato Bushido! Ti rendi conto?!
- Sì che me ne rendo conto. – rispondo annuendo, - E credimi, non c’è nessuno che vorrebbe saltargli addosso e strangolarlo più di me, al momento, ma… - mi interrompo, perché realizzo all’improvviso che invece c’è qualcuno che vorrebbe saltargli addosso e strangolarlo più di me. E quel qualcuno è un ragazzino pallido e magro che gela nell’inverno di Berlino per andare a bere una cioccolata disgustosa nel posto in cui è andato con Bushido magari anche solo una volta, ma che continua a ricordare come se le volte invece fossero state mille. Deglutisco. – Chaku… - lo chiamo, mentre lui continua a fissarmi smarrito, - Dobbiamo andare da Bill.
Chakuza non dice niente. Neanche una parola. Chiude la bocca e spalanca gli occhi e non fiata, ma tutto quello che deve dirmi lo sta dicendo in silenzio, guardandomi in questo dannato modo che mi manda fuori di testa ed al quale vorrei tanto rispondere “okay, dai, Chaku, torniamo a casa e vediamo se c’è ancora un po’ di pollo con le patate avanzato dall’ultimo rifornimento dalla signora Lotte e poi guardiamo un po’ di tv fino a che non ci viene sonno e poi si vede”, ma non posso, cazzo, non posso assolutamente farlo, perciò lo stringo ancora per le spalle e cerco di sorridere un po’.
- Chakuza, io glielo devo, al ragazzino. Ho bisogno di dirglielo. Non lo metterà in pericolo, questa cosa la risolviamo stasera. – mi fermo ed esito un po’, - …o la risolvo. Se preferisci… restare con lui, dico.
- Fler… - si passa una mano sulla fronte come stesse realizzando solo adesso tutta l’intera situazione per com’è. Sembra che voglia dire qualcosa, si ferma e poi riprende lo stesso. - …non lo vedo né sento da settimane. – dice a bassa voce. Il suo tono è talmente cupo e profondo che mi dà i brividi. Mi viene voglia di dargli un cazzotto e non capisco neanche bene perché.
- Sì, lo so. – cerco di fermarlo, ma lui scuote il capo e si ostina.
- No, non lo sai, Fler, la situazione fra me e Bill è… complicata.
Mi manca il fiato. Vorrei che questa serata fosse già finita. Non avrei mai voluto parlare di questa cosa, non con Chakuza, almeno. Con Bill è diverso, con Bill è tutto sempre molto più etereo e meno realistico. Cristo, se anche Bill mi dicesse in faccia e a chiare lettere che è innamorato di lui, non farebbe male nemmeno un quarto di quanto potrebbe fare male se invece…
- Lo so. – deglutisco a fatica. E quando lui prova a riprendere a parlare gli poso una mano sulle labbra e lo zittisco definitivamente. – Ti dico che lo so. Okay? Lo so. Ma, Chakuza, forse è vero che io ho la responsabilità della tua vita, d’accordo, però è molto più vero che invece tu hai la responsabilità della sua. Quindi ora basta con le cazzate, d’accordo? – sospiro e scuoto il capo. – Andrà tutto… esattamente per il verso migliore. Chiaro? Perciò ora piantala e torna in te. Non esiste farti vedere dal ragazzino in queste condizioni. Okay?
Quando lo lascio libero di parlare, Chakuza mi manda a fanculo. Proprio così, senza pensarci nemmeno un secondo, mi dice “vaffanculo, Fler”, e non aggiunge altro. Rimane lì con una mano sugli occhi a massaggiarsi le tempie col pollice e l’indice ed io continuo a tenergli le mani sulle spalle e stringere un po’ per fargli coraggio, e lui resta zitto per un sacco di tempo, mentre io non faccio altro che guardarlo. Quel vaffanculo era pieno di roba, Chakuza ce l’ha con me per un sacco di motivi, adesso, ma non si scosta, quindi va bene. Cioè, è incazzato ma non vuole davvero mandarmi a fanculo, e questa è una cosa buona, almeno per il momento.
Solleva lo sguardo solo qualche secondo dopo.
- D’accordo. – annuisce, - Andiamo.
Il tragitto in macchina non è silenzioso come mi aspettavo. Non so, credevo che avrebbe guidato in silenzio assoluto fino a casa di Bill e che avrebbe sclerato solo una volta lì, magari prima di entrare. E che poi si sarebbe calmato automaticamente, giocoforza, quando avremmo detto tutto a Bill e sarebbe stato il turno suo, del ragazzino, dico, di sclerare come si deve.
E invece no, sclera da subito, già in macchina, e per nascondere il fatto che sta sclerando si mette lì a farmi domande assurde delle quali non capisco il senso, perché se si aspetta da me che abbia una risposta a cose tipo “e quando lo prendiamo, che facciamo?” è veramente fuori strada. Come cazzo fa uno ad avere risposte simili?
- Cristo, Fler, ma non hai pensato a niente, prima di venire fino a qui?! – ringhia, costeggiando il canale per uscire da Tempelhof.
- Non contavo di dover fare niente di simile, stasera. – cerco di farlo ragionare, - E comunque calmati, Chaku.
- Non dirmi di stare calmo! Cosa facciamo? Lo portiamo alla polizia? Ma non ci crederà nessuno, Cristo, non possiamo portare uno spacciatore zoppo come testimone di un omicidio che non ha visto e per il quale non ha prove, cazzo!
- Ci inventeremo qualcosa, dai. Calmati.
- Non dirmi di stare calmo, Cristo santo, Fler! Non senti come suona male la frase? Stai calmo non puoi dirmelo mentre andiamo a casa di Bill per parlargli dell’assassino di Bushido!
Batto un pugno contro lo sportello.
- E allora vaffanculo, diventa isterico! – concedo urlando, - Cristo, sei una piaga!
Lui non risponde, si lascia andare ad un grugnito frustrato e stringe le dita attorno al volante. Riprende a parlare solo dopo molti minuti, quando siamo già nei paraggi di casa di Tom. Gli ho detto io di venire qui. Chakuza non sapeva che Bill si fosse trasferito da suo fratello, nell’ultimo periodo.
- Fler. – mi chiama, nella voce una strana tranquillità rassegnata che mi preoccupa un po’. – Voglio che, quando questa faccenda si sarà risolta, torni tutto come prima.
Esito per qualche secondo, mordendomi l’interno di una guancia.
- Prima quando? Quando non ci conoscevamo e Bushido era vivo?
Chakuza scuote il capo.
- Prima di venire a Tempelhof. – risponde senza guardarmi, – Quel prima lì.
Abbasso lo sguardo.
Non ce la farò mai a dirgli che voglio andare via.
- D’accordo. – annuisco, – Ora però sta’ tranquillo.
Ed annuisce anche lui.
Arriviamo a casa di Tom e per un po’ ci guardiamo intorno spaesati come non riconoscessimo l’ambiente. Chakuza ride nervosamente e rido anche io. È incredibile, sono questi i paesaggi urbani cui siamo abituati, ma per qualche ragione questo condominio che non c’entra niente con Tempelhof in questo momento ci disorienta.
Suoniamo educatamente al citofono e per un attimo dimentichiamo pure che abbiamo fretta e un assassino da recuperare: come fai ad attaccarti al campanello e suonare come ne andasse della tua vita, in un posto simile? Svegli i condomini. Ti insegue il custode coi dobermann, tipo, soprattutto a quest’orario indecente della notte. Mentre suono, guardo Chakuza e lui guarda me e ci passano per la mente gli stessi pensieri idioti: magari dormono, per dire. Non dovrebbe interessarci che i gemelli dormano o no, questa cosa è decisamente più importante, ma ci pensiamo lo stesso. È assurdo e mi viene di nuovo da ridere. Chakuza in effetti una mezza risata la sbuffa, ma poi scuote il capo e si ferma, così evito anche io.
- Sì? – la voce che mi risponde dall’altro lato è impastata e profonda, sa di sonno nonostante il citofono ne deformi i toni verso una nota fastidiosamente metallica. È una cosa tipica dei citofoni moderni iperfunzionali, ti scombussolano la voce. Quando parlo con Chaku al suo citofono scassato mi sembra quasi di avercelo davanti ed invece qui mi pare che la voce di Tom provenga da un altro pianeta.
- Tom? – chiedo un po’ incerto. Guardo Chakuza e, mentre realizzo che questo ragazzo fino a un anno fa andava in giro dicendo che adorava l’Aggro Berlin, lui mi fa cenno di spostarmi e prende la parola.
- Sono Chakuza. – dice con sicurezza, - Mi apri?
Lui resta un attimo in silenzio.
- Ma quello era Fler? – chiede, senza rispondere alla domanda.
Io inarco le sopracciglia e guardo Chakuza. Lui solleva gli occhi al cielo e sospira.
- Sì, Tom. Mi apri?
- Ma che ci fa qui Fler? – continua a chiedere Tom, come neanche lo sentisse, - Ma sono le tre del mattino! Cosa ci fa qui Fler? – un secondo di pausa, - E cosa ci fai qui tu?
- Grazie per aver ricordato la mia esistenza. – grugnisce Chakuza, appoggiandosi al muro, - Mi apri o no?
- Ma cosa vuoi?! – chiede ancora lui, ed io sospiro pesantemente. Un attimo prima che Chakuza si metta a lanciargli improperi di ogni tipo, gli tappo la bocca e lo scanso dall’altoparlante del citofono, schiarendomi la voce.
- Tom? – lo chiamo senza presentarmi, visto che ormai sono ragionevolmente sicuro che, nonostante le distorsioni del citofono, mi riconoscerà comunque, - Abbiamo bisogno di parlare con tuo fratello.
- Bill sta- - fa per lamentarsi lui, ma lo fermo.
- Lo so che è molto tardi e probabilmente Bill starà dormendo, ma abbiamo davvero bisogno di parlargli. – chiarisco calmo. – Ci fai salire, per favore?
Tom esita solo un attimo.
- Okay. – dice infine, facendo scattare la serratura del portone.
- Potevi aprire anche a me, Tom! – sbraita al citofono Chakuza, alle mie spalle.
- Lui ha chiesto per favore! – risponde piccato Tom, spaccando per l’ultima volta il silenzio della notte, prima di riagganciare.
Quando le porte scorrevoli dell’ascensore gigantesco con cui saliamo al settimo piano si spalancano, annunciando il nostro arrivo con un avviso sonoro da chiamata aeroportuale, mi ritrovo di fronte Bill che mi fissa con gli occhi spalancati dalla soglia di casa. Indossa una vecchia tuta azzurra ed una felpa nera con un logo talmente sbiadito da essere ormai irriconoscibile, ha i capelli tirati in una coda bassa dietro la nuca e, nel complesso, non sembra avere molto più di quindici anni. Sospiro pesantemente e mi faccio avanti.
Il guaio è che, appresso a me, viene pure Chaku. L’aria cambia consistenza appena mette piede sul pianerottolo, la sento tendersi tutta. Bill stringe le mani attorno agli stipiti della porta affondando quasi le unghie nel legno. Mi viene paura per la forza che ci mette, potrebbe farsi male. Le nocche sono diventate bianchissime per lo sforzo.
Chakuza rimane immobile e lo guarda, non s’è mosso molto dall’ascensore, è rimasto lì a due passi. La porta non si richiude perché lui continua a stare nel raggio d’azione della cellula fotoelettrica, e questo particolare insignificante mi irrita così tanto che mi viene voglia alternativamente sia di spingerlo di nuovo in cabina che di tirarlo via di lì per un orecchio.
Il primo a parlare è Bill. Deglutisce di prepotenza – sul suo collo magro il pomo d’adamo fa un viaggio difficilissimo, prima di tornare al proprio posto – e poi forza un mezzo sorriso.
- Ciao… - dice a bassa voce. E sta parlando solo con lui. Aggrotto le sopracciglia e tossicchio, e lui si volta a guardarmi, - Ciao, Fler. – aggiunge con calore, dimostrando ampiamente, neanche a farlo apposta, che in effetti fino ad un secondo fa non aveva nemmeno registrato la mia presenza in questo dannato corridoio.
Rispondo con un cenno del capo mentre Chakuza finalmente mi si affianca e solleva una mano per salutarlo. Il momento d’imbarazzo che segue il suo avvicinarsi a Bill è talmente deprimente che mi ritrovo ad incrociare le braccia e sospirare come una vecchia madre esasperata, e batto nervosamente un piede per terra. La moquette che ricopre tutto il corridoio impedisce alle mie scarpe di fare rumore, perciò fortunatamente non se ne accorge nessuno.
- Io direi – sbotto irritato, - che la questione fra voi due potete tranquillamente risolverla dopo. – e fatto entrambi una specie di mezzo salto, sollevano gli sguardi su di me e mi fissano allarmati come avessi appena pronunciato una qualche parola proibita. Me ne frego altamente e continuo, - Bill, io e Chakuza siamo stati un po’ in giro, ultimamente.
Lui annuisce senza capire. Non mi stupisce, è che mi blocco un po’ perché avrei preferito fosse più ricettivo. Sì, ok, sono le tre del mattino. Ma non è per niente facile quello che sto per dirgli e vorrei un po’ d’aiuto, solo che naturalmente non posso aspettarmelo da Chakuza, che ha palesemente smesso di pensare quando siamo entrati in ascensore, e non posso aspettarmelo neanche da Bill, che non è messo tanto meglio di lui e continua a fissarmi con questi occhi da cerbiatto sperduto.
Sospiro e gliela butto lì tutta. Nella maniera più semplice che posso. Gli parlo delle nottate a Tempelhof, dei tunisini, del ragazzino, di Samir e quando arrivo a Saad cerco di non esitare perché so che se esito è la fine, perciò mi faccio forza e lo dico. Avevi il nemico nascosto fra gli alleati, ragazzino, e non sei riuscito ad accorgertene. Non è posto per te, questo. Ma, chissà perché, piuttosto che allontanartene preferisco proteggerti e tenertici.
Bill non dice niente per un sacco di tempo, quando finisco di parlare. Continua a guardarmi in maniera quasi fastidiosa, come se si aspettasse altro. Ma non ho altro da dargli. Posso offrirgli la testa dello stronzo su un piatto d’argento, se vuole, ma dovrà concedermi un po’ di tempo in più se è questo il suo desiderio.
Deglutisce ed allenta un po’ la presa sugli stipiti prima di tornare a stringerli.
- Cosa avete intenzione di fare, adesso? – chiede pacatamente, e per qualche strana ragione a lui riesco a rispondere. Quando me l’ha chiesto Chakuza non ho avuto idea di cosa dirgli, ma di fronte agli occhi di Bill – che adesso brillano di rabbia in un modo del tutto nuovo rispetto alle altre volte in cui li ho visti brillare – so esattamente qual è il mio dovere.
- Gli andiamo dietro. Cerchiamo di beccarlo prima che lo avvertano ed abbia il tempo di scappare. – rispondo deciso.
Chakuza mi solleva addosso uno sguardo allucinato, ma io lo ignoro. Tutto ciò che mi importa è che invece Bill annuisce con approvazione.
E poi dice una cosa assurda.
- Vengo con voi.
- No! – sbottiamo contemporaneamente io, Chakuza e Tom. Allungo il collo per osservare dietro le spalle di Bill, ed in effetti suo fratello sta lì e lo guarda con aria inorridita, le mani piantate sui fianchi e una cascata di dread sciolti sulle spalle.
- Bill, sarà molto pericoloso. – gli fa presente Chakuza.
- E faticoso. – aggiungo io, inarcando le sopracciglia.
- E sono le tre del mattino! – conclude Tom, cercando di staccare il fratello dalla porta, senza peraltro riuscirci.
Bill ci guarda tutti e tre con tanta di quella supponenza da mettermi addosso i brividi, e per un attimo mi chiedo da dove venga quello sguardo. È solo un attimo, comunque, perché poi lo ricordo subito e sospiro: so già cosa dirà.
- Non sono affari vostri. – ci ricorda freddo, - E non mi sembra di aver chiesto nessun permesso. – si volta e guarda suo fratello. – Tomi? Fammi passare. – lui deglutisce e si fa da parte. Bill fa un passo e poi torna a guardarci, - Aspettatemi qui. – dice annuendo, - Metto le scarpe da tennis e torno. Faccio in un attimo. – ed è l’ultima cosa che sentiamo prima di vederlo scomparire in corridoio.
Io e Tom restiamo a guardarci per un po’ e non è affatto piacevole. Non lo so, mi fissa come se nemmeno mi vedesse, eppure per certi versi mi pare anche che mi guardi come se in tutto il resto del mondo non riuscisse a vedere altro. Dio quant’è fastidioso. Mi volto verso Chakuza e gli dico di aspettare lui Bill, mentre io comincio a scendere, ma lui mi arpiona per un polso e mi sibila un “non ci provare nemmeno” che mi fa spalancare gli occhi, perciò ammutolisco e resto lì, ma mi appoggio contro il muro, così da interrompere il contatto visivo. Tant’è che la cosa successiva che vedo, a parte l’ascensore che resta immobile in attesa che qualcuno lo chiami, è Bill stesso, che mi si presenta davanti avvolto in un piumino che lo ingloba praticamente tutto ed un cappello a cuffietta sulla testa. E le scarpe da tennis, ovviamente.
Mi guarda e sorride appena. Io mi rimetto dritto e faccio strada verso l’ascensore – quello che mi succede alle spalle, oltre il brusio insoddisfatto di Tom e la voce di Bill che lo rassicura sul fatto che tornerà presto, non più tardi dell’alba, mentendo palesemente, perché io non so nemmeno se torneremo, figurarsi avere un orario preciso, insomma, quello che sta succedendo dietro di me, non voglio saperlo. Vale a dire che se Bill e Chakuza si stanno lanciando occhiate particolari o che so io, se si stanno bisbigliando qualcosa, qualsiasi cosa stiano facendo, io non voglio saperla. Sto bene così.
Quando c’infiliamo in macchina e ci dirigiamo verso casa di Saad – e Chaku si trova finalmente qualcosa da fare, concentrandosi solo sulla guida e sulla strada da percorrere – Bill, che sta seduto dietro, sui sedili posteriori, si mette al centro e si sporge in avanti, incastrandosi fra i nostri sedili e sporgendo la testa a guardarmi. L’immagine in sé è molto tenera, sembra un bambino a spasso coi genitori. Però, appena questo pensiero mi attraversa la mente, mi sale una pelle d’oca assurda ovunque, perciò lo accantono e gli do retta, visto che nel mentre ha anche cominciato a parlare.
- Fler. – mi chiama pacatamente, - Quando lo prenderemo, cosa pensi che succederà?
La sua calma un po’ mi rassicura, perciò scrollo le spalle e sbuffo con naturalezza.
- Non lo so ancora, ragazzino. – ammetto. Poi sorrido, - La principessa ha qualche suggerimento?
Lui non abbassa lo sguardo neanche un secondo, e nei suoi occhi non passa neanche un’ombra d’incertezza.
- Io voglio farlo fuori. – dice, con un candore inquietante. E capisco che forse della sua serenità dovrei preoccuparmi. E un po’ m’incazzo con Anis, perché se Bill oggi è così, se è qui con noi che mette a rischio la propria vita e parla di uccidere Saad, se non è in giro con un gruppo di diciannovenni scemi a sfondarsi di rum e cola e scopare in giro, è colpa sua. Che non è stato capace di tenerlo lontano da questa mentalità del cazzo fino a che non è stato troppo tardi.
Mi lascio andare ad una risatina nervosa, mentre Chakuza stacca gli occhi dalla strada per la prima volta da quando è salito in macchina e lancia un’occhiata allarmata prima a lui e poi a me. Scrollo le spalle e gli indico il semaforo, deve fermarsi. Cerco di ignorare le ultime parole di Bill, perché l’eventualità che Saad possa rimetterci la pelle stasera c’è. E non so se sarebbe un bene o un male, se succedesse.
Quando arriviamo sotto al palazzo, mi guardo istintivamente intorno per cercare la macchina di Saad – e la voce di Anis mi risuona in testa: “quando prepari un agguato, ricordati sempre di controllare che lo stronzo che vuoi fare fuori non possa fuggire” – ma poi ricordo che non ho la minima idea di che macchina sia la macchina di Saad, e quando faccio per chiederlo a Chakuza lo vedo già muoversi tranquillamente verso il citofono, con estrema calma. Quando si accorge che lo sto guardando, si ferma un attimo – Bill è ancora impegnato a non affondare nel proprio giubbotto mentre si tira fuori dal catorcio di Chaku – e mi lancia un’occhiata incerta, come a chiedermi se sta facendo le cose per bene. Annuisco ed indico con un cenno del capo il citofono, per dirgli che va bene, l’intuizione era giusta, può andare.
Quando suona il campanello noi restiamo tutti tesi e in silenzio, e dopo un po’ sentiamo una voce di donna che risponde un po’ incerta. Faccio cenno a Bill di restare in silenzio e guardo fisso Chakuza mentre dice alla donna che si scusa per l’orario, ma ha urgentemente bisogno di parlare con Saad. La donna si lamenta, gli chiede se può passare domattina e lo fa con una certa confidenza, perciò immagino si tratti della moglie. Chakuza insiste, la signora esita e tergiversa, Saad dorme, la bambina pure – c’è una bambina? – insomma, Peter, ti sembra modo di presentarti così a casa dalla gente per bene?, e Chakuza insiste, si scusa e chiede di entrare, per favore Greta, è una cosa urgente, altrimenti non sarei mai venuto, e così alla fine lei cede, “d’accordo,” dice, “ma Saad non ne sarà contento”, ed io e Bill ci scocchiamo un’occhiata supponente inarcando lo stesso sopracciglio ironico. Non ne sarà contento eccome.
Quando scatta l’apertura del portone, Bill fa per passarmi davanti e prendere per primo le scale, ma io e Chakuza scattiamo ad afferrarlo uno per braccio e lui si ritrova tirato indietro in una mossa un po’ comica. Chaku lo lascia andare subito, come scottasse, io invece lo tengo ben stretto.
- Dietro, ragazzino. – borbotto contrariato, - Niente colpi di testa.
- Non volevo fare niente di male. – dice lui con un mezzo broncio. Non ci credo nemmeno se lo giura.
- Dietro. – ripeto, e faccio cenno a Chaku di darsi una mossa ad entrare.
Lui obbedisce e ci ritroviamo a salire le scale in fila indiana, lui davanti, io nel mezzo e Bill dietro che saltella e si sporge oltre le mie spalle per cercare, non lo so, di essere il primo a vedere Saad quando saremo di fronte alla porta. Lo fa con un’ansia tutta particolare, neanche fosse possibile uccidere con gli occhi e lui volesse assicurarsi di essere proprio il primo a farlo. Penso che no, non è possibile uccidere con gli occhi. Penso che però un po’ Bushido ci riusciva a farti male in quel modo. E Bill ha imparato tanto da lui.
Capisco che c’è qualcosa che non va nel momento in cui arriviamo sulla porta e ad attenderci troviamo la signora. Le abbiamo detto che volevamo parlare con Saad. Ma non c’è Saad assieme a lei. È sola. E non capisco perché.
Lancio un’occhiata allarmata a Chakuza, che però mi dà le spalle e quindi non mi vede, e fa un gran sorriso alla tipa, chiamandola pure per nome e sporgendosi a salutarla – lei risponde quasi senza toccarlo, tesa come una corda di violino.
- Allora, dov’è Saad? – chiede Chakuza, e lo sguardo di lei vaga un po’ oltre le sue spalle ed incontra noi, me e Bill, dico, che non facciamo una piega.
- Loro che ci fanno qui? – domanda con un filo di voce. Chakuza fa fatica a non balbettare una scusa a caso.
- Mi hanno accompagnato. Ma non entrano, tranquilla. – cerca di rassicurarla, continuando a sorridere, - Non entra nessuno, non vogliamo disturbare la bambina. Fai solo uscire Saad, per favore?
Lei esita ancora, e mentre io sono lì che sbuffo contro queste madri iperprotettive moderne – mia madre volendo mi lasciava fuori casa anche fino all’una del mattino, non che fosse una cattiva donna, solo che aveva capito di che pasta ero fatto, ecco tutto – vedo un’ombra che si muove alle sue spalle e capisco che no, non sta iperproteggendo nessuno, la bambina non c’entra, questa qui non ha intenzione né di farci entrare né di fare uscire nessuno.
- Chaku, togliti di mezzo. – sibilo burbero, e quando arrivo di fronte alla donna la guardo e dico “mi scusi” prima di prenderla di peso e spostarla letteralmente dall’altro lato della stanza, così improvvisamente che lei perde l’equilibrio e si accascia sulla moquette, e la prima cosa che fa è puntellarsi al pavimento e strillare “scappa!”, ed è lì che solleviamo tutti e tre gli occhi e quella che era solo un’ombra scura diventa Saad che afferra un paio di chiavi e prende un corridoio del quale da qui non riusciamo a vedere la direzione. – Cristo! – impreco furioso, ignoro la donna che cerca di fermarmi e mi lancio al suo inseguimento. Mi guardo indietro solo una volta, giusto per vedere se Bill e Chaku mi stanno seguendo, e quando mi accerto che lo stiano facendo e che Chaku stia dietro a Bill – che va un po’ troppo lento, per i miei gusti – mi concentro solamente sulla corsa.
La voce di Anis si fa sentire ancora. Me che continuo a girarmi indietro mentre scappiamo da non mi ricordo chi e lui che ride e dice “Guarda che devi scappare guardando in avanti, Frank. È la fine della strada, quella che ti interessa, non l’inizio”. Ed io che comincio a correre guardando solo lui. Perché tanto sta davanti a me. Lui e la fine della strada sono la stessa cosa.
Mentre imbocco il corridoio passo davanti ad una camera con la porta aperta e c’è una ragazzina seduta sul letto. Avrà dodici anni, tipo, è bionda e sottilissima, non riesco a vedere molto, un po’ perché la stanza è buia ed un po’ perché vado di fretta. È bionda e sottilissima, però, e indossa un pigiama bianco. Il padre di questa bambina è un assassino e probabilmente morirà prima di stasera.
Mi ripeto che è la vita che mi sono scelto e tiro dritto.
Saad è un corpo che si allontana. Imbocca una porticina laterale alla fine del corridoio e quando lo raggiungo lo trovo che cerca di mettere in moto la macchina. I passi di Chakuza e Bill mi inseguono, sono lenti, cazzo, così non va, se poi quello prende la macchina siamo fottuti, ma la macchina non parte ed io lo vedo attraversarla tutta fino ad uscire dallo sportello del passeggero e lanciarsi in una corsa furiosa oltre la saracinesca del garage, che si apre così lentamente che lui è costretto a piegarsi in due per uscirne.
Quando riesco ad uscire anche io, lo vedo arrampicarsi sulla scala antincendio che risale esternamente tutto il palazzo fino alla terrazza e, dopo essermi chiesto cosa cazzo voglia fare, mi metto a sperare che non chiuda la questione in qualche modo da bastardo tipo gettandosi di sotto.
- Stronzo! – gli urlo dietro, faccio per salire a mia volta ma mi guardo alle spalle e Chakuza e Bill non ci sono, perciò mi fermo e continuo a urlare, - Stronzo! Non ci pensare neanche! – e vorrei aggiungere che non ce l’ha il diritto di togliersi di mezzo, e poi penso per un attimo che quel diritto è di Bill, ma è un pensiero fugace: in realtà c’è qualcosa dentro di me che sta urlando di rabbia perché io a quest’uomo voglio strappare il cuore, cazzo. Ha ammazzato Bushido. Ha fatto passare me per un assassino. Cristo… ha ammazzato Anis.
Scalpito per cominciare la scalata e quando Chakuza e Bill escono finalmente dal garage mi metto a urlare anche contro di loro.
- Chakuza, Cristo santo, muovetevi!
Lui ringhia e posa una mano sulla schiena di Bill, spingendolo in avanti. Il ragazzino ansima neanche avesse corso in tondo per tutta la città.
- Te l’avevo detto. – grugnisco impaziente, - È salito di sopra. Dobbiamo andargli dietro. – e cerco di spiegare in fretta, perché lo vedo allontanarsi verso l’alto e non ho la minima idea di dove potrebbe andare una volta in terrazza.
Bill lancia una lunga occhiata terrorizzata alla scala antincendio e poi guarda me.
- Sì, fin lassù, Bill. – confermo senza attendere la sua domanda. Dopodiché, ho appena il tempo di scorgere con la coda dell’occhio Chakuza che gli posa una mano sulla spalla e gli chiede se ce la fa, che comincio a salire sbraitando che se non vogliono essere lasciati indietro faranno meglio a darsi una fottuta mossa.
La situazione è incasinata perché, se da un lato vorrei concentrarmi solo su Saad – che nel mentre sarà circa tre piani sopra di noi, il che vuol dire che fra meno di due minuti raggiungerà la terrazza, lo stronzo – dall’altro non riesco proprio a disinteressarmi di quello che mi succede alle spalle, ed il respiro forte di Chakuza si mischia a quello stremato di Bill, così ogni tanto mi volto e mi fermo. Un po’ li aspetto, un po’ li aiuto – al quinto piano Bill è talmente stanco che continua a incespicare negli scalini, perciò mentre Chakuza lo regge per la vita io lo tiro per le braccia e stiamo lì in due a sussurrare “coraggio Bill, ci siamo quasi”, e lui lì a fare l’ometto, “sto bene, tranquilli”, ma è stravolto al punto che mi viene un po’ voglia di tirarlo su di peso e trascinarmelo in braccio fino al tetto. Chakuza, d’altronde, non è che stia poi tanto meglio. Ed anche io, cazzo, non corro con ritmi simili da quando avevo sedici anni. La situazione è davvero incasinata.
E noi siamo davvero troppo lenti, me ne accorgo quando riusciamo ad arrivare in terrazza e, mentre lascio qualche secondo a Bill per riprendersi – e commentare che i tetti almeno sono tutti pianeggianti, perciò può risparmiarsi l’arrampicata – vedo Saad che è già passato sul tetto del palazzo accanto e sta correndo spedito verso il successivo.
Mi passo una mano sulla fronte, si gela e sono sudatissimo. Bill, imbacuccato nel giubbotto, s’è rimesso dritto.
- Stai bene? – gli chiedo, - Sei un danno. – aggiungo mentre lui annuisce e sorride un po’, intimidito. – Lo capisci che dobbiamo inseguirlo ancora, vero?
- Fler, lo sa. – mi interrompe Chakuza, aggrottando un po’ le sopracciglia. Io gli lancio un’occhiataccia inviperita.
- Tu bada a stargli dietro. – lo rimprovero, ed il fatto che lui si rifiuti di abbassare lo sguardo e continui a fissarmi con rabbia mi dà un po’ la misura di quanto io stia passando il segno, stasera. – Scusa. – mi correggo sospirando, - Non volevo essere-
- D’accordo. – mi dà una pacca sulla spalla ed indica Saad che si allontana. – Fai strada.
Io annuisco, guardo Bill e vedo che annuisce anche lui, perciò mi volto e riprendo a correre. Passare da un tetto all’altro è perfino facile, in questo condominio di blocchi di cemento tutti uguali, alti e monotoni. C’è solo da seguire la traccia, quell’ombra che si allontana senza variare di un millimetro il proprio percorso in linea retta.
Dobbiamo solo essere un po’ più veloci.
In effetti, l’assenza di scale aiuta: sul terreno pianeggiante Bill se la cava decisamente meglio e, dovendo badare meno a lui, anche Chakuza è molto più svelto. Saad è agitato e corre come una dannata antilope, fanculo a lui, mentre al quarto tetto io comincio a sentirmi un po’ appesantito. Prego non mi prenda un crampo. Non manderei Bill e Chakuza avanti neanche se ne andasse della mia vita. I motivi sono troppi per realizzarli tutti, adesso.
Ho un po’ perso il conto delle terrazze, quando Saad si decide ad imboccare una scala antincendio che lo riporterà in strada. Non so quante terrazze abbiamo passato, ma so che adesso siamo abbastanza vicini. Lo so perché assieme agli ansiti sconnessi e affaticati di Bill e Chakuza – ho un attimo di panico nel pensare che dovrò far scendere le scale a Bill, ho paura che ceda e cada, Cristo – riesco a sentire anche gli ansiti del bastardo. È talmente vicino che sento quasi l’odore del suo sudore. E sento che è terrorizzato.
- Ci siamo. – ansimo appoggiandomi al corrimano ghiacciato della scala che ha imboccato Saad, - Dobbiamo riprenderlo adesso. Per forza. – guardo in basso, non è tanti piani sotto di noi. Dobbiamo darci una mossa. – Bill. – lui solleva lo sguardo ed è talmente stanco che ha gli occhi annebbiati. Non sono neanche sicuro che mi veda bene. – Bill, ascoltami. Ci siamo quasi. Ci sei?
Lui annuisce debolmente.
- Sto bene… - esala in un fiato.
- No che non stai bene. – lo correggo io, mentre Chakuza lo sostiene tenendolo per un braccio, - Ma pensa che dopo potrai farti una bella vacanza. A costo di portarti io personalmente da qualche parte. D’accordo? Solo stanotte. Poi basta correre. Okay?
Bill annuisce ancora e raddrizza la schiena.
- Ce la faccio. – dice con più sicurezza, - Davvero.
Lancio un’occhiata a Chakuza, lui annuisce ed è tutto quello che mi serve sapere. Non lo lascerebbe mai cadere di sotto, questo lo so. E tanto mi basta. Mi lancio giù per la rampa senza assicurarmi che Bill e Chakuza mi seguano: devo riacciuffare Saad. Devo farlo e devo farlo per primo. Ci sono momenti in cui lo vedo così vicino che penso che se allungassi una mano lo toccherei, ma quando faccio per stendere il braccio ed afferrarlo davvero non ci riesco mai. Continuo a corrergli dietro per tutti i fottuti piani di questo fottuto palazzo che mi sembra alto quanto un grattacielo.
Quando riesco a prenderlo, succede all’improvviso. Come succede sempre tutto nella vita. Quello che ti aspetti non succede mai. Quello che non pensi si verifica sempre. Perdi di vista l’amico di una vita. Quell’amico muore. Finisci a letto con la persona sbagliata.
Io allungo il braccio e prendo Saad. Mi butto addosso a lui con violenza, col preciso intento di gettarlo a terra, e così perdiamo l’equilibrio e rotoliamo lungo tutta l’ultima rampa di scale, al punto che la prima cosa ferma che sento sotto la schiena è la consistenza granulosa e umida dell’asfalto bagnato. La neve sciolta impregna il giubbotto e i vestiti di sotto. C’è un freddo fottuto. Stringo Saad fra le braccia e non so com’è che non l’ho ancora fatto fuori personalmente.
Lui si dibatte, prova a tirarmi un calcio, io sento dolore a una tempia e non capisco se le gocce che mi bagnano lo zigomo al momento sono di sudore o di sangue. Sulla scia bagnata soffia un vento gelido che mi fa rabbrividire, ma non mollo la presa e lo tengo immobilizzato a terra.
- Cristo santo, stai fermo o giuro su Dio che ti ammazzo a sangue freddo e poi torno indietro ed ammazzo anche tua moglie e tua figlia, stronzo! Dico sul serio, cazzo! – gli urlo nell’orecchio, e per fargli capire che faccio sul serio lo stringo alla gola con un braccio. Stringo tanto e stringo forte, al punto che lo sento tossire affaticato ed il suo fiato si disperde in un incerto sbuffo di condensa tutto intorno a lui.
- Fler! – urla Chakuza, esausto, quando lui e Bill riescono a completare la discesa delle scale.
- Alla buon’ora, cazzo! – urlo io. Ed urlo come un pazzo. Non ho il minimo controllo sulla mia voce e neanche su quello che sto dicendo, - Toglietemelo dalle mani, toglietemelo dalle mani perché altrimenti gli spezzo il collo! Toglietemelo dalle mani! – e continuo a stringerlo. Ed ho anche un po’ l’impressione che se solo Bill o Chakuza si avvicinassero per cercare di liberarlo, mangerei loro il cuore.
E invece non mangio il cuore di nessuno, quando Chakuza mi si avvicina e si china su di me nemmeno mi muovo. Lo vedo che tiene Saad fermo per le braccia e poi annuisce, come a dirmi “ok, ora puoi lasciarlo”. Ed io lo lascio. Lo lascio, Cristo. Potrei ammazzarlo e lo lascio, invece. E rimango lì accovacciato in terra come un coglione, fissando in cagnesco lo stronzo che ha ammazzato Bushido mentre Chakuza lo tira lontano – e non fa neanche molta fatica, visto che la caduta dalle scale ha rincoglionito molto più lui che me.
Bill mi è accanto in un attimo.
- Fler! – mi chiama, inginocchiandosi al mio fianco, - Sei ferito! – mi passa una mano sulla tempia ed è gelida, nonostante abbia corso fino ad adesso. Quando mi volto a guardarlo vedo che ha le dita ricoperte di sangue.
- Non è nulla di grave. – borbotto, rimettendomi in piedi. Passo il dorso della mano sulla ferita per ripulirmi, ma quando lo faccio brucia da morire e sento la pelle tirare. Dev’essere un brutto taglio, ma ci penserò dopo.
Nel mentre Saad si riscuote, si rende conto di non riuscire a muoversi e comincia ad agitarsi, tant’è che Chakuza mi grida di avvicinarmi e cerca di tenerlo stretto come può. Saad scoppia a ridere ed è una risata che ho sentito qualche volta, quand’ero ragazzino. Bushido, quand’era ancora Sonny Black, le riduceva così le persone. Lui ghignava e quelli davano di matto e ridevano. Ridevano e ridevano, eccome. E lui continuava a ghignare e in genere quello che seguiva non era mai una bella cosa. Quando lo seguivo, di notte, ogni tanto mi chiedevo come fosse possibile che uno che faceva ciò che faceva lui fosse ancora a piede libero. Questo mi ha insegnato che la libertà non te la guadagni, te la prendi e basta, che tu la meriti o meno. È una lezione importante, perché è molto più realistica di qualsiasi cazzata sulla giustizia possano infilarti in testa mentre cercano di farti crescere come un essere umano normale.
Mi avvicino per dare una mano al Chaku e Saad mi guarda dritto in faccia con quegli occhi verdi e scuri che brillano di rabbia nella notte, e parla.
- Alla fine sei venuto allo scoperto. – mi dice, sorridendo strafottente, - Lo sapevo che quello veramente pericoloso saresti stato tu. Bushido è per sempre, eh? Una volta che ti mette le mani addosso…
- Sta’ zitto, stronzo! – urlo, restando a qualche passo da lui per il semplice fatto che, se dovessi davvero avvicinarmi di più, in questo momento, lui non sopravvivrebbe. Ed invece leggo negli occhi di Chakuza il desiderio chiaro e preciso di evitare altro sangue, per oggi, perciò mi fermo.
Saad ride ancora.
- Non lo sai? – continua a prendermi per il culo, - All’EGJ lo dicevamo sempre, anche quando Bushido era ancora vivo. Che in realtà ti aveva scopato ed era questo, il tuo problema, eri geloso della principessa. Ci ridevamo un casino, diglielo anche tu, Chaku. Ci rideva anche Anis.
Gli salto addosso che, sospetto, Bill e Chakuza non hanno ancora avuto nemmeno il tempo di registrare quello che ha detto. Mi abbatto su di lui con la furia di un animale, Chakuza insieme non ci regge e ci lascia andare, col risultato che rotoliamo sull’asfalto ed io ho la prontezza di spirito di mollargli un cazzotto sul naso prima che lui possa reagire in alcun modo. Il sangue comincia a scorrere a fiotti, Saad urla ed io continuo a prenderlo a pugni ovunque, sul viso, sulla testa, perfino sul collo e sul petto, ovunque, pur di fargli sputare sangue.
- Chiudi – cazzotto sui denti, mi faccio male anch’io, - questa fogna – un occhio che diventerà presto nero, sempre che io non l’ammazzi prima, - di merda! – e il respiro che gli manca, perché non gli do tregua neanche il tempo minimo per aprire la bocca ed inspirare da lì, dato che il naso è fuori uso.
Sento appena Chakuza chiamarmi per nome – “Patrick, Cristo santo!” – e Bill esalare un “oddio” sconvolto, ma li ignoro. Non sono io che mi fermo. È Chakuza che mi tira su di peso, ed anche quando lo fa io continuo ad agitarmi e sporgermi in avanti per colpirlo. Anche se so che non serve. Anche se mi accorgo che lo stronzo è praticamente svenuto e non riuscirebbe a muoversi neanche volendo. Lo voglio lasciare morto a terra. Lo voglio lasciare morto nel suo cazzo di sangue come immagino sia morto Bushido su quel fottuto materasso, e voglio esserci, alla morte di Saad, perché quella di Bushido non ho potuto vederla, ma quella di questo stronzo voglio godermela tutta, fino in fondo.
Chakuza mi tiene stretto, mi ha fatto passare le braccia sotto le ascelle e mi ha arpionato per le spalle. Sento la sua voce vicinissima all’orecchio – “Pat, Pat… calmati. Calmati. È tutto ok. Ha detto un mucchio di stronzate, non è vero niente. Ti calmi, sì?” – e sì, Chaku, mi calmo. È solo per questo che mi calmo. E me lo scrollo subito di dosso, il Chaku, non appena mi sono calmato, perché là dietro c’è Bill e non voglio che pensi cose. Non voglio che pensi niente. Non dovrebbe neanche essere qui o aver assistito a questo spettacolo. Ci sto male davvero, per lui. Se sopravvivo a me stesso, se non faccio qualche cazzata stanotte, qualcosa di pericoloso davvero – non so nemmeno se Saad è armato – giuro che me lo porto in vacanza davvero. In qualche bel posto che non ho mai visto, o in qualche posto che non ha visto nemmeno lui, anche se immagino abbia girato più o meno tutto il mondo. Non importa, a costo di dover arrivare fino in Groenlandia.
Mi avvicino al corpo quasi immobile di Saad e lo tiro su per un braccio.
- Una mano, Chaku. – ordino perentorio, e lui annuisce e si avvicina, aiutandomi a rimetterlo in piedi e tenendolo fermo per l’altro braccio. Sembriamo due cazzo di guardie giurate che piantonano un condannato.
Bill si avvicina e guarda Saad come lo stesse vedendo per la prima volta.
E lì ho la netta sensazione che Saad lo sia davvero, un condannato. E decido: non ho intenzione di fermare niente che possa portare alla sua morte, stasera.
- L’hai ucciso davvero tu? – chiede, con una vocina incerta ma molto meno malferma di quanto non mi sarei mai aspettato. Sembra tremi solo per il freddo. Sembra non c’entri niente la paura. I suoi occhi sono puri e cristallini. Mi ricordano Anis. Lui non aveva paura quasi mai.
Saad solleva appena il capo. Sanguina un po’ ovunque, è tutto sporco di fango e bagnato fino alle ossa, ma ghigna ancora. L’espressione di chi non ha niente da perdere ormai ce l’ha attaccata addosso. Se la porterà nella tomba.
- Sì. – annuisce, respirando a fatica.
- Perché? – chiede Bill, senza aspettare un secondo di più.
Saad ride, un suono roco e spaventoso.
- Per colpa tua, ovviamente. Ma questo lo sai già.
Bill annuisce.
Saad sorride più apertamente.
- Te la porterai dietro per sempre, questa colpa, eh, puttana? – gli parla proprio come se si stesse rivolgendo ad una femmina. E Bill non fa una piega. – Io spero di sì. Se non ci fossi stato tu, non ci sarebbe stato nessun motivo di ammazzarlo. Stava svendendo l’immagine dell’Ersguterjunge per il tuo bel culo. Ho sperato lo ammazzasse Fler, quella notte, così avremmo chiuso il conto ed io non mi sarei neanche dovuto sporcare le mani. Ma lui no, non ha avuto le palle nemmeno per fare questo… - sogghigna ed io faccio per ficcare la mano in tasca a recuperare il serramanico, ma Bill mi ferma con un’occhiata di ghiaccio.
- Continua. – dice, perfettamente a proprio agio. E non so proprio da dove gli arrivi, tutto questo autocontrollo.
Saad ghigna ancora.
- Nient’altro, principessa. Soddisfatto?
E Bill annuisce.
- Sì. – dice. Lo dice proprio. Non me lo sogno, lo sente anche Chakuza, tant’è che ci guardiamo negli occhi come due scemi e non capiamo. Non capiamo nemmeno quando lo vediamo pararsi davanti a Saad e mettersi ben dritto, neanche stesse cercando la posizione più adatta per tirargli un calcio nelle palle, per dire, e non capiamo nulla neanche quando abbassa la zip del giubbotto ed infila una mano all’interno.
Capiamo, però, quando tira fuori la pistola. Che è la Heckler.
- La riconosci questa, Saad? – dice freddissimo, avvicinandogliela al viso mentre io e Chakuza scattiamo a stringerlo con più forza attorno alle braccia, perché non possa fare niente di pericoloso.
- Bill… - lo chiama debolmente Chakuza, ma il ragazzino usa con lui lo stesso identico sguardo che ha usato con me poco fa, e Chakuza si congela ubbidiente sul posto.
- La pistola di Bushido… - esala Saad, ridendo appena, - Vorresti farmi paura, maneggiando quell’arma?
E lì Bill sorride. Per la prima volta oggi. Ed è un sorriso che spaventa. Mi dà i brividi per tutta la schiena. È Bushido, in questo momento. No, non è nemmeno Bushido. E non è Anis. È quello che ho conosciuto io. È Sonny, lo spiantato che governava Tempelhof a diciott’anni. Mi chiedo dove l’abbia visto Bill. Mi rendo conto che gliel’ha fatto vedere Anis.
- Dovrei. – risponde tranquillo il ragazzino, ed arretra di un passo. – So usarla.
Saad ride, io fisso attonito Chakuza e lui mi risponde col mio stesso sguardo sconvolto riflesso negli occhi. Al che guardo Bill. E lui invece mi sorride. Ed è un sorriso dolcissimo.
- Mi ha insegnato Anis. – spiega pacato.
Saad ride ancora e scuote il capo in un gesto di rassegnazione. Solleva il viso e lo guarda dritto negli occhi. Bill lo sta fissando e sorride ancora come ha sorriso a me. È tutto tremendamente fuori posto, in questo momento. Non so se Bushido avrebbe apprezzato una cosa simile.
Forse sì. Probabilmente, se esiste un cazzo di paradiso o di inferno e lui c’è finito dentro, e se da lì sta guardando, si sta sentendo perfino orgoglioso del suo ragazzino.
- Non puoi farlo. – ringhia Saad, sollevando supponente il mento.
- È un mio diritto farti fuori, - risponde Bill, - e tu lo sai.
Saad scuote il capo.
- La legge del ghetto non vale con te, principessa. Tu non sei dei nostri. Non te lo puoi permettere.
Bill sorride ancora.
- Io sono dei vostri, Saad. – solleva l’arma. – Sono la donna del capo. – punta l’obiettivo. – Se c’è una cosa che posso permettermi, è proprio questa. – e spara.
E Saad sta qui immobile, il suo corpo è pesante e c’è un buco precisissimo proprio nel mezzo della sua fronte. Dietro non voglio guardarlo perché lo so com’è quando ti sparano in testa.
Per un secondo vorrei fermare il tempo e ritornare indietro. Togliere la pistola dalle dita di Bill e premerlo io, il fottuto grilletto. Per sentire in qualche modo la vita scivolare via dal corpo di questo pezzo di merda con ogni goccia di sangue. Sentirla colorare il marciapiedi di rosso, sentirlo perdere forza e respiro, sentirlo morire e prendermi la mia soddisfazione, riappropriarmi di ciò che è mio – che avrei voluto fosse mio, che avrei voluto prendermi, che non ho mai avuto il coraggio di prendermi – ma poi lascio perdere.
È giusto che a fare questo sia stato Bill.
È giusto.
Non è ancora sorto il sole e tutto intorno c’è solo silenzio, quando io e Chakuza lasciamo cadere il corpo di Saad per terra. Si accascia ai nostri piedi con un tonfo pesantissimo che la neve sciolta ovatta un po’. Lo guardo di sfuggita e mi viene da vomitare, perciò distolgo subito gli occhi. Bill invece lo guarda a lungo, come volesse sincerarsi che sia proprio tutto come doveva essere, e poi annuisce ancora.
- Bill… - Chakuza lo chiama e gli si avvicina, gli mette una mano sulla spalla come a volerlo consolare, ma Bill non sembra aver bisogno di consolazione. I suoi lineamenti sono tesi e rigidi e di sicuro non sembra felice, però tutto sommato sembra stia bene. Lo vedo abbozzare un sorriso.
- È tutto ok. – ci rassicura, e poi si volta a guardarmi. – Perdi ancora sangue.
Io annuisco.
- Sto bene anch’io. – dico comunque, e Bill mi sorride.
- Se vieni da me, ho la cassetta del pronto soccorso e-
- No, credo… - sorrido appena, interrompendolo, - credo che un cerotto non basterà, Bill. Mi serviranno un paio di punti.
Bill lascia andare una risata soffice e cristallina.
- E stai qui a fare il grand’uomo?
Sospiro e guardo ancora il cadavere.
- C’è un mucchio di lavoro da fare. – metto da parte la nausea. Non è il caso di perdersi adesso, devo risolvere il problema. – Chaku, riportalo a casa. – dico, indicando Bill, e quando vedo una luce strana e vagamente terrorizzata farsi strada nei loro occhi, preciso: - Da Tom. Gliel’abbiamo promesso un po’ tutti, che gliel’avremmo riportato presto.
Chakuza annuisce e Bill abbassa lo sguardo. Li vedo allontanarsi per la strada – Chakuza si guarda intorno cercando di riprendere familiarità con l’ambiente e, quando ci riesce, punta un dito verso il palazzo di Saad che si vede ancora in lontananza, ed è in quella direzione che scompaiono entrambi, proprio mentre io mi chino a recuperare il corpo e cerco di fare il conto per vedere quanti chilometri mi separano da casa mia, dalla mia macchina e, poi, da Tempelhof. Ci tornano tutti, prima o poi. La cosa importante, però, è che in genere nessuno ci vada a cercare niente.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash.
- "Non si mandano i bambini da soli per strada di notte."
Note: Questo spin-off è nato del tutto a caso da una chiacchierata su MSN che peraltro al momento nemmeno ricordo XD Comunque era qualcosa sul Chaku che imparava piano piano come muoversi, e peraltro mi ha fatto ricorda che mesi fa quando parlavo con Tab dell’evoluzione del loro rapporto mi partiva in automatico il flash mentale col Chaku che si compiace perché anche a Fler comincia a piacere XD (Sono conquiste nella vita di un uomo!) Perciò alla fine l’ho scritta e basta è.é Peraltro è palese che avrei bisogno di una co-autrice che mi picchi, visto che Tab invece mi fa fare tutto quello che voglio senza dirmi una parola. Ciò non è bene, anche perché l’ho fatta ammattire per certe questioni di trama che vedrete in futuro.
Approposito di futuro: questo è l’ultimo aggiornamento prima del finale. Ebbene sì, la prossima volta che vedrete Eine Kugel Reicht scritto là in alto… sarà anche l’ultima. *ta-ta-ta-taaaaan* *posso sentire delle voci cantare l’alleluja, da qualche parte <.<*
PS: Il titolo XD È una canzone dei Linkin Park (che io amo, come quasi tutte le canzoni dei Linkin Park, peraltro). È lì per una serie di motivi scemi: siamo un passo più vicini alla fine, Chaku è un passo più vicino alla gayezza e pure Fler *sospira*
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ONE STEP CLOSER

Il budino al cioccolato che la signora Lotte ci ha mandato oggi era così tanto che non so com’è che non siamo morti nel tentativo di divorarlo tutto. Il problema è che era anche troppo buono per non cercare di mandarne giù il più possibile – che poi immagino sia un problema piuttosto grave; voglio dire, per quanto buona sia una cosa, non puoi mandarla giù se fa male. Dovrei cominciare ad imparare dal mio stomaco. Che per ora, giustamente, si sta lamentando dolorante, mentre io cerco di riprendere coscienza sul divano accanto a Fler, che sta svaccato nel mio stesso identico modo ed anche lui si tiene una mano sulla pancia e cerca di recuperarsi dal fondo di indigestione nel quale è caduto.
Sul tavolino, il contenitore di plastica non mantiene che qualche traccia di ciò che è stato il budino più buono della mia vita. Io non sono male in cucina, è che mi pesa il culo a cucinare, e comunque il budino così buono non so farlo. Dovrò chiedere lumi alla signora Lotte. Magari in un momento in cui Fler non mi vede, così mi risparmio almeno la presa in giro.
- Cristo… - mugugna lui in una mezza risatina, provando senza risultati a rimettersi in piedi, - …non ce la faccio a tornare a casa. – ammette, tornando ad abbattersi sul divano.
Io ghigno, battendogli una pacca rumorosa su un ginocchio.
- Siccome in genere ti servono scuse, per restare…
Fler mi allunga un calcio contro uno stinco – lo fa spesso e, anche se gioca, non si trattiene mai dal fare male, stronzo che è – e mi lancia un’occhiataccia offesa.
- Se preferisci mi trascino fino in macchina e dormo lì, bestia.
Rido ed affondo fra i cuscini, chiedendomi per un attimo se non potrei spedire Fler sulla poltrona e dormire qua sopra. Voglio dire, non sarebbe male. Fler che respira tranquillo qui accanto e il profumo di Bill ovunque, appiccicato sui cuscini, sulla stoffa, alla mia pelle. Non sarebbe affatto male.
- No, dai. Non si mandano i bambini da soli per strada di notte. – lo prendo in giro. Lui mi guarda malissimo ed io non gli tiro un cuscino in piena faccia solo perché sto raccogliendo le ultime forze per rimettermi in piedi lo stretto necessario per trascinarmi a letto. Ho deciso che no, non è il caso di dormire su questo divano. Dovrò togliermelo dalla testa, Bill, in qualche modo.
Faccio presa con entrambe le mani sul bordo del divano e mi tiro su con un grugnito di fatica. Fler mi aiuta a suo modo, sollevando una gamba e piantandomi un piede nel centro della schiena, spingendo per mettermi in piedi neanche fosse un dannato argano.
- ‘Fanculo. – borbotto massaggiando il punto dolente e voltandomi a guardarlo con irritazione scherzosa, - Guarda che ti metto a dormire sullo zerbino all’ingresso.
- Non hai uno zerbino all’ingresso, Chaku. – ride lui, accomodandosi meglio e prendendosi più spazio sul divano.
- Be’, allora ti metto a dormire sul nudo pavimento. Ti piace di più, come ipotesi?
Fler sospira e scrolla le spalle.
- Vado dalla signora Lotte. O da Sido. Vuoi che non trovi qualcuno che mi ospita? La gente fa a calci per avermi intorno, sono un ottimo inquilino.
- Io ti ho visto solo scroccare, da che ti conosco. – rido, anche se so che quello che ho detto non è esattamente vero.
- Io non scrocco! – s’infuria prevedibilmente lui, scattando repentino a sedere. L’effetto ovvio è che lo vedo accasciarsi come stesse svenendo sui cuscini, mugolando un dolore di cui non capisco le parole precise. – Morirò. – afferma quando riesce a riprendersi almeno un po’, rotolando sul divano, - Peggio: vivrò per sempre e non riuscirò mai a digerire.
- Coraggio, piantala di lamentarti e vieni di là. – lo rimprovero tendendogli una mano per aiutarlo a rimettersi in piedi, - Così ti do la coperta e ti puoi mettere tranquillo.
Fler mugola e si agita come un bambino, ma poi si rassegna e prende la mia mano, giocando un po’ a cercare di farmi cadere prima di lasciarsi tirare su.
- Ma perché non la vai a prendere e me la porti tu…? – implora stremato mentre allunga una mano piena d’amore verso la poltrona che è ormai diventata né più né meno che la sua cuccia, in pratica.
- Col cazzo che io arrivo fino in camera da letto e poi torno qui, Fler. – annuncio sgomento, cominciando a trascinarmelo deciso dall’altro lato della casa.
Lo mollo appena arriviamo in camera, mi dirigo verso l’armadio e lo vedo lasciarsi ricadere sul letto con aria esausta, piantando entrambe le mani sul materasso e sospirando pesantemente.
- Vomiterò, me lo sento. – mugugna disperato.
- Non sarebbe la prima volta. – commento io recuperando la coperta da un cassetto e voltandomi a guardarlo. Quando lo faccio vedo che nel mentre lui s’è steso sul materasso. Le gambe sporgono fuori dal letto e sfiorano il pavimento, ha una mano ferma sul ventre e l’altra aperta sul piumone. Ha anche gli occhi chiusi e l’espressione più rilassata che gli vedo addosso da… troppi giorni.
Mi muovo piano e mi seggo accanto a lui, guardandolo dall’alto. Quando mi sente pesare sul materasso, Fler apre gli occhi e mi guarda. Non dice niente e nemmeno io, ed in quei due secondi ho la netta impressione che mi stia chiedendo qualcosa e che io gli stia rispondendo di sì. Però non ho la minima idea di cosa significhi questa risposta.
- Vuoi mica dormire di nuovo qui? – faccio ironia, inarcando le sopracciglia.
Fler scuote il capo.
- Ora mi alzo. – mi rassicura.
Si tira su con un colpo di reni ed il suo viso passa vicinissimo al mio. Combatto contro la prima idea – che è quella di puntargli una mano sul petto, rimetterlo disteso e poi andare con la corrente – ma non riesco a vincere contro la seconda idea – sporgermi e baciarlo, dannazione – perciò depongo le armi ed i premi sono un calore ed una morbidezza cui sto cominciando controvoglia – ma davvero? – ad abituarmi. Fler mi si avvicina strisciando sul materasso ed io osservo un po’ i suoi occhi chiusi prima di chiudere a mia volta i miei – non so perché, mi piace vederlo rilassato com’è quando ci baciamo. O meglio, lo so perché. Non è quasi mai rilassato come quando ci baciamo. E smette subito di esserlo quando passiamo avanti, cazzo. Io questa cosa non la tollero. Dovrebbe essere… un momento piacevole, Cristo. Per me lo è.
Quando infilo le mani sotto la sua maglia lo faccio per un’intuizione improvvisa che non ha davvero un senso. Non ne sono nemmeno pienamente cosciente. Fler trema d’agitazione e stupore sotto le mie dita, lo sento scostarsi con un certo fastidio e lo tengo stretto per un fianco, tirandomelo contro.
- Stai tranquillo. – gli sussurro sulle labbra, prima di riprendere a baciarlo.
Lui si scosta con un mugolio.
- Chakuza… - comincia incerto. Sospetto non sappia nemmeno cosa vuole dirmi, perciò mi scosto e gli lascio il tempo di dimostrarmelo. Lui mi guarda e si morde un labbro, ed ovviamente non dice niente. Mi risparmio un sorriso furbo, lo bacio e basta. Come al solito, non ho la più pallida idea di cosa sto facendo, però evito anche di chiedermelo quando afferro la maglia per gli orli e tiro verso l’alto per togliermela di torno.
Non so, credo sia cambiato qualcosa la volta in cui è effettivamente rimasto a dormirci, in questo letto. Non mi dà veramente fastidio che lo faccia, ecco. Non sono abbastanza rilassato da pensarci con calma e cercare di capire cosa questo significhi, però è così. Non mi dà fastidio, la presenza di Fler. Non mi dà fastidio sentirmelo vicino o sentire la sua pelle sotto i polpastrelli. Non mi dà fastidio toccarlo – mi piace farlo.
È caldissimo e me lo stringo addosso. Riesco a sentire il calore anche attraverso la felpa. Percepisco subito che c’è qualcosa di diverso nel modo in cui si muove e respira, lo percepisco ma non capisco cos’è almeno fino a quando non lo vedo sistemarsi a disagio sul materasso. La consapevolezza della sua eccitazione mi colpisce, mi stordisce e per certi versi mi esalta anche. Non ho fatto niente – l’ho solo baciato ed accarezzato un po’ – e lui è qui, occhi chiusi e respiro pesante – che mi si abbandona addosso con aria persa e chiede di più senza neanche un fiato.
Lo lascio un po’ andare e lui afferra la mia felpa con entrambe le mani, strattonandola rudemente. Ridacchio e lui mi lancia un’occhiataccia offesa.
- Che fai, sfotti? – ha il coraggio di chiedermi, ed io rispondo annuendo lievemente.
- Non sei nella posizione di impedirmelo, comunque. – aggiungo facendomi avanti e tappandogli la bocca mentre avanzo sul materasso, costringendolo fisicamente a distendersi.
Lui obbedisce e non oppone resistenza, ma striscia indietro sul materasso fino ai cuscini, di modo che io devo andare inseguendolo ed alle fine sono costretto a tirarlo giù di peso e schiacciarmi addosso a lui.
- Allora, stai un po’ fermo? – borbotto sfiorandogli il collo con le labbra. Lui rabbrividisce e forza un sorriso incerto.
- Non scappo mica. – butta lì con aria navigata, ma suona più come la promessa di un bambino coraggioso che come altro, ed infatti io rido e ricomincio a baciarlo perché così almeno gli evito altre figure ridicole di questo tipo.
Fler protesta per il tempo di un mezzo borbottio che si smorza subito sulla mia lingua e sulla sua che si incontrano sempre meno incerte e sempre più consapevoli di cosa vanno ad accarezzare e di come lo fanno. Perdo il controllo del mio corpo, so solo che voglio sentire più calore e che Fler mi si sta strusciando contro una gamba da almeno un minuto, perciò è lì che vado, lascio scivolare la mano lungo il suo petto stupendomi di non trovare fastidiose le forme piatte e dure del suo profilo maschile e vado a spingermi oltre l’orlo del jeans.
È un po’ davvero come toccare me stesso, queste forme qui le conosco alla perfezione, sono quelle tipiche di tutti i maschi. Non fosse per il respiro forte di Fler nel mio orecchio, il suo calore sul mio corpo e le sue mani strette con forza sulle spalle, potrei perfino dimenticare di stare toccando qualcun altro.
Però il respiro il calore e le mani sono lì, quindi non dimentico.
- Non ci posso credere che lo stai facendo… - ansima Fler ad un centimetro dalle mie labbra. Io sono un po’ imbarazzato e non so bene che rispondere, perciò butto lì un “sono un uomo pieno di sorprese” prima di tornare a baciarlo e troncare la conversazione – almeno fino al prossimo commento.
Commento che arriva qualche secondo dopo quando – dal momento che io palesemente non so calcolare i tempi e sono troppo confuso per stare attento alle variazioni dei respiri di Fler – lui mi afferra il polso e mi stringe con una certa violenza.
- Chaku… - ansima disperatamente, - Ho capito, sei bravo. Basta così o… - non conclude la frase ma intuisco lo stesso dove vuole andare a parare e non so se dovrei sentirmi più imbarazzato o più orgoglioso. Decido che non mi frega e lo bacio, tirando via la mano mentre lui sbottona i jeans e li tira via con impazienza.
È la prima volta che lo fa.
La prima volta che si spoglia di sua iniziativa, intendo.
Resto a guardarlo finché non ha finito – il broncio concentrato con cui si libera dei vestiti inutili è di una tenerezza addirittura allarmante – e quando torna a guardarmi lo fa con un’espressione traducibile con un “fammi immediatamente dimenticare ciò che ho appena fatto o mi butto all’istante dalla finestra”, ed a me pare giusto concedergli almeno questo, perciò torno a baciarlo e mi sistemo fra le sue gambe, strusciandomi contro di lui.
Per certi versi non posso nemmeno crederci. Stiamo per scopare e lui lo vuole davvero – lo vuole perché sa che potrebbe piacergli, intendo, è una cosa stranissima, non è mai successo. Anche le altre volte lo voleva – lo sentivo distintamente nei morsi affamati che mi lasciava sulle labbra e nel modo imperioso con cui mi piantava le dita nelle spalle – ma sapeva già che ne avrebbe ricavato solo dolore. Stavolta è tutto diverso. È una cosa incredibile.
Mentre lascio che Fler mi sbottoni i jeans – ringrazio Dio che sia lui a farlo, io mi impiccherei da solo con la cintura, immagino – vago alla cieca sul comodino, trovo la maniglia del cassetto, lo spalanco e ci ficco dentro una mano. Fler nemmeno se ne accorge, preso com’è dalle sue attività, comincia a capire qualcosa solo quando la mia mano piena di roba si posa proprio accanto alla sua spalla, sul cuscino, rilasciando il proprio carico. Cioè tre o quattro preservativi in più di quanti ne serviranno ed un tubetto di lubrificante.
Pagherei non so quanto perché i prossimi minuti di questa sera fossero evitabili, ma ovviamente non lo sono. Fler si interrompe, guarda la roba e poi guarda me, spalancando gli occhi che mi scrutano come due fanali nell’oscurità.
- Ti sei attrezzato? – mi chiede a mezza voce, ed io mi abbatto accanto a lui con un sospiro stremato, sgonfiandomi di botto.
- Fleeeer… - lo chiamo, strascicando il suo nome, e lui mi dà uno schiaffo sulla nuca.
- Piantala di chiamarmi così, è imbarazzante. – mi rimprovera, spingendo in alto il bacino per costringermi a riprendermi. Ci riesce più che bene, stupida meccanica del corpo umano.
- Potresti… non chiedermi spiegazioni? – imploro disperatamente, lasciandogli un bacio leggero sulle labbra come a chiedergli di stare zitto. Lui risponde sporgendosi appena, ma non coglie la preghiera.
- Ma non chiedevo spiegazioni… - motiva incerto, - ti prendevo in giro…
- Sì, il che è anche peggio. – borbotto con grande disapprovazione, facendo saltare il tappo del tubetto di lubrificante e spargendomene un po’ sulle dita, - Non solo uno cerca di essere gentile…
- …Chaku, che stai facendo? – chiede Fler allarmato, del tutto sordo alle mie lamentele.
Speravo di distrarlo. Speravo di distrarre anche me stesso, ma evidentemente non è possibile, dovrò prendere atto di ogni secondo di questa nottata, lo so. Non voglio, ma succederà. È una fottuta trappola.
- Fler, ti prego. – grugnisco impaziente, - Ti sollevi un po’?
Lui obbedisce senza chiedermi perché ed io non ho la prontezza di spirito di scostarmi prima che lui mi tocchi. Il risultato è che vado nel pallone per un tempo indefinibile ed alla fine è lui che deve risvegliarmi borbottando che gli fa male la schiena e quindi, se intendo fare qualcosa, sarebbe il caso la facessi subito. Annuisco distrattamente e lo reggo per la vita di modo che non debba fare tutto da solo mentre con la mano ricoperta – mi sa eccessivamente, ma insomma, abbondare è meglio che difettare – di lubrificante scendo fra le sue natiche e cerco di prepararlo in modi che posso solo immaginare, perché non te le spiega nessuno queste cose, cazzo.
Fler sussulta, sbalordito, e cerca di allontanarsi.
- Chaku, - ripete ansimando, - cosa stai facendo?
- …devi proprio chiedermelo? – sbotto fra il rassegnato e il disperato, continuando ad accarezzarlo mentre lui continua a rabbrividire ed io non capisco se sia perché gli piace o perché lo trova strano. O perché gli piace e lo trova strano, che è anche un’opzione. – Sto cercando di semplificare le cose. – rispondo comunque, messo alle corde dalla sua occhiata confusa.
Lui annuisce e nasconde un po’ il viso, prendendo a respirare forte e tornando a rilassarsi sul materasso. Io lo accarezzo ancora per qualche secondo, prima di decidere che è il momento giusto per suicidarmi e spingere la punta di un dito dentro di lui.
Mi manca poco per esplodere, me lo sento. Sono eccitato e terrorizzato e imbarazzato oltre ogni dire, Fler continua a sussultare ed io continuo a non capire perché lo faccia e sto facendo una cosa incredibilmente opinabile, per quanto io stesso mi renda conto dell’assurdo di un commento simile, visto che la mia vita nelle ultime settimane è stata costellata di episodi opinabili e questo non è neanche il peggiore.
Mi spingo un po’ contro di lui sperando che la cosa lo aiuti – in realtà aiuta anche me, devo dire, smetto di pensare appena collidiamo – e lui apprezza al punto che schiude le labbra e se le inumidisce con la punta della lingua. Mi trattengo a stento dal baciarlo ancora, alla fine decido che non c’è niente che mi impedisca di farlo, perciò lo faccio ed approfitto del momento di distrazione per intrufolare anche il secondo dito. Devo fare spazio, Cristo…
- …sei stretto. – mi sfugge che ho ancora le labbra pressate sulle sue, neanche mi rendo conto di dirlo. Fler fa come sempre quando si imbarazza, si agita e cerca di scostarsi per voltarsi dall’altro lato e fingere che nulla di tutto ciò che lo manda in confusione stia avvenendo, ma col cavolo che glielo lascio fare nella situazione contingente, perciò lo tengo fermo e lo bacio ancora. – Calmati. Ti prego. È un casino se ti agiti.
- E tu smettila di dire… cose. – sbotta lui, a metà fra l’arrabbiato e il confuso, stringendo fortissimo le dita sulla mia nuca e spingendosi in avanti mentre le mie dita continuano a scavarsi un posto dentro il suo corpo.
- Scusa. – cerco di metterci una pezza, imbarazzato quanto lui ma probabilmente un po’ meno isterico. Solo un po’, - Mi sembrava una cosa… cioè, è vero.
- Sì, d’accordo. – taglia corto lui, stringendomisi addosso, - D’accordo. – si prende un secondo per respirare, ed io sono ancora lì che mi muovo e lui è ancora lì che ansima quando lo sento esalare un “è… piacevole” che mi fa suonare i campanelli in testa.
È così che dev’essere. È così che voglio che sia. Me ne frego se è assurdo.
Le mie dita scivolano fuori dal suo corpo e lui sbuffa qualcosa che non capisco. Cerco di ignorare quel pezzetto di “no” che mi è sembrato di cogliere fra i sospiri e lo aiuto a rotolare sullo stomaco – lui non oppone la minima resistenza ed io non so se sentirmi felice o preoccupato a riguardo, visto che Fler non oppone mai la minima resistenza – spingendomi subito contro di lui perché ho davvero bisogno di sentirmi… come mi sento quando gli sto dentro. Che è una cosa difficile da spiegare perché non è mai completamente piacevole, perché tutto questo è sempre troppo strano per essere completamente piacevole.
Però è caldo. È umido. Mi si sfrega addosso così bene che perdo il senso del limite e mi riprendo all’improvviso nei brevi momenti in cui Fler mi costringe a spingere più lentamente stringendosi attorno a me come una tenaglia per impormi un ritmo più quieto, mi riprendo e mi ritrovo ad ansimare senza controllo, mi accorgo per caso che lo sto mordendo o baciando costringendolo a torcere il collo in modi assurdi, ed ecco che mi si stringe addosso, ecco che torno in me, spingo più lentamente ed ecco anche che mi accorgo che lo sto ancora accarezzando per tutta la sua lunghezza, seguendo il ritmo delle mie spinte. E lui si tiene coi gomiti sul materasso, un po’ sollevato, per venirmi incontro più comodamente.
C’è una naturalezza, in quello che stiamo facendo, che mi coglie del tutto impreparato. Come fosse completamente ovvio. Ed invece non lo è. So che non è ovvio che noi due ci si ritrovi in situazioni simili ogni sera. So che non è normale.
Cristo, so che non è nemmeno giusto.
E non moralmente. Non perché siamo uomini e non perché siamo rapper.
…solo perché Fler nella mia testa non c’è.
Non in questo modo. Non… non abbastanza.
I suoi muscoli si rilassano ed io cerco di ritrovare il ritmo che mi toglieva il fiato qualche minuto fa, ci metto un po’ di fatica perché ci sono dei pensieri che non mi piacciono e che continuano ad affollarmi il cervello – o forse il problema è proprio che quei pensieri mi piacciono, Cristo, il problema è quello, dannazione, che a me Bill piace – cerco di distrarmi, poi cerco di concentrarmi, non ci riesco e la cosa mi frustra, ma Fler si solleva ancora un po’ ed inarca la schiena e mormora “più forte” ed io non ci vedo più. Giuro. Non ci vedo più.
Lo stringo per i fianchi e mi muovo veloce dietro di lui, ritrovo il ritmo e quando lo sento ansimare a voce più alta capisco di aver toccato un punto importante, e noto che lui non si sta toccando nemmeno per sbaglio, e per certi versi mi sento in colpa, per altri mi dico “Cristo, Fler, perché resti immobile?” e il perché non lo capisco, però allungo di nuovo la mano e ricomincio ad accarezzarlo, con una semplicità disarmante. Fler sussulta e mi si spinge contro con più sollecitudine. Ho una mano che lo stringe alla vita così forte che sono sicuro rimarrà il segno. Ne sono sicuro.
- Cha- - mi sento chiamare in un’implorazione mozzata, una mano di Fler corre a stringermi il polso nel tentativo di fermarmi, ma io sono più forte ed anche più lucido, in questo momento – fra due secondi non lo sarò più, cazzo, fra due secondi esplodo, cazzo – perciò lo scosto facilmente e lo accarezzo ancora, una volta, due volte, con più convinzione, e Fler viene sul materasso e, anche se non è la prima volta che succede, è come lo fosse. Perché non riesce a trattenere i gemiti. Ed il “Cristo” affannato che gli sfugge dalle labbra è abbastanza per mandarmi in tilt e costringermi a svuotarmi contro il preservativo, dentro di lui.
Mi lascio ricadere su un fianco e poi di schiena sul materasso, Fler resta sollevato e incerto perché il lenzuolo sotto di lui è sporco. Giustamente. Dovrei cambiarlo ma lo farò solo quando sarò sicuro di potermi alzare da questo letto senza farmi venire un infarto.
Si raggomitola in un angolo un po’ distante e, mentre mi copro con il lenzuolo ed il piumone, non posso che essergliene grato. C’è sempre questo momento stranissimo, quando finiamo di scopare, in cui non importa per quanto a lungo e quanto intensamente possiamo essere stati vicini, abbiamo bisogno di un po’ di tempo per tornare tranquilli e quindi ci serve la distanza. La distanza è una buona cosa, quando gli esseri umani non la usano per farsi del male. O per dimenticarsi a vicenda.
Fler mi guarda e poi si allunga a recuperare i jeans ai piedi del letto.
- Avrebbe dovuto essere così anche la prima volta. – dice seccamente, infilandoseli distratto, - Sarebbe andato tutto meglio.
- Cioè mi saresti caduto fra le braccia il giorno stesso invece di farmi ammattire per settimane? – faccio ironia io. Fuori luogo, magari, okay. Comunque quest’occhiataccia tremenda non me la merito, e deglutisco a fatica mentre cerco di reggerla.
- Non fare lo stronzo, Chakuza, stai giocando col fuoco. – mi avverte glaciale, rimettendosi in piedi, - Se io fossi solo un po’ meno coglione di quanto sono, la mia faccia non l’avresti più rivista. Figurarsi il mio culo.
Stringo le dita attorno alla coperta, ansioso.
- Perché cazzo ti sei voltato così male, adesso? – protesto lamentandomi un po’, - Siamo stati bene fino ad ora…
Ghigna ed afferra la coperta che ho posato sul letto prima che la situazione degenerasse. La prima volta. Ora sta degenerando per la seconda volta, e comunque la prima degenerazione m’era piaciuta di più.
- Tu non ascolti mai niente di quello che ti si dice, vero? – ride, sistemandosi la coperta sulla spalla e trattenendone un lembo fra le dita come fosse una giacca, - Tu, quando ti perdi in quel casino che hai al posto del cervello, smetti di ascoltare. L’ho capito.
- Questo discorso ha un senso o ti diverti solo a tirarmi scemo, Fler? – sbotto alla fine, sistemandomi per dormire come se fossi già stufo di sentirlo blaterare. In effetti lo sono.
Lui prende un respiro enorme e mi guarda dritto negli occhi, prima di continuare.
- Non sei stato il fottuto primo, a prendermi in quel modo. – ed io sento qualcosa dentro di me che scompare. Non esplode e non muore ma io lo perdo lo stesso. – Se sono tanto coglione da tornare, Chakuza, fai almeno in modo che ne valga la pena. Perché io non sono ripassato di nuovo attraverso lo stesso calvario per trovarmi davanti uno stronzo, chiaro?
Mi metto seduto in un movimento repentino, un attimo prima di osservarlo voltarsi e muoversi verso la porta.
- Fler? – lo chiamo. Lui si volta appena. – Cristo, Fler… - non so cos’altro dire.
- Guarda che non devi scusarti. – scuote il capo, - Vado a dormire. Dormi anche tu.
Vorrei dirgli che la sua è una richiesta inesaudibile. Non dico una parola e lascio che si chiuda la porta alle spalle. Come sempre.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash.
- "L’aria è tesa, in casa di Chakuza."
Note: Questa storia è stata scritta tipo in una notte il 6 ottobre scorso @___@ Questo dimostra che:
a) c’è qualcosa che non va in me;
b) il Flerkuza mi owna da moltissimo tempo; <- capite il dramma che dovevo vivere in silenzio?
c) c’è davvero qualcosa di grosso che non va in me u_u
E questo è il proverbiale quanto. Nel senso che non ci sono delle motivazioni reali dietro questa storia, a parte il fatto che ne fangirlo indecentemente i protagonisti e che volevo una scusa per parlare della schiena del Chaku, che è un’attrazione turistica al pari del pancino del Bu e degli occhi di Fler.
Il titolo! è rubato ad una canzone (bellissima, io la amo) dell’ultimo album del Bu. Anche se in realtà non sta nell’ultimo album vero e proprio, sta nella limited edition. Ma insomma, tant’è. È meraviglia.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
ES GIBT KEIN WIR

L’aria è tesa, in casa di Chakuza. È così più o meno sempre. Il problema – enorme – di quest’uomo è che Bill non si fa più vivo – lo so perché ci sono andato io, da lui. Ormai è anche una mia responsabilità, non può pensare di sparire e che a me la cosa non importi – ma dentro questa casa il suo profumo è ancora fortissimo, perfino attaccato ai cuscini del divano, perciò non me ne stupisco. Non stupirmene, però, non mi impedisce di percepire la tensione allargarsi attorno a lui come una macchia d’olio. E finisce per sporcare anche me, è naturale.
D’altronde, con la vita che ho fatto sia prima che dopo la fama, ho imparato in fretta l’importanza delle sensazioni. Come della paura, per esempio. Riconoscere la paura nell’avversario che ti fronteggia è fondamentale, perché spesso è la paura che ti fa estrarre l’arma e ti convince ad usarla.
Al momento, Chakuza non ha paura. È frustrato, però. E forse sarebbe meglio se fosse solo spaventato. Anche con una pistola in mano. Saprei gestirmelo, saprei calmarlo – è un talento che impari per strada, minaccia dopo minaccia; impari a renderle tutte inoffensive. Anis me l’ha insegnato puntandomi contro il coltello per ogni cosa, durante i primi tempi della nostra conoscenza. Io dicevo una qualche cazzata o facevo qualche casino con un fornitore o con un cliente, lui puntava il coltello e diceva “Dammi un motivo per non farlo”. La lama contro la mia pelle era ghiacciata ed io tremavo, ma lui mi guardava con quegli occhi così seri da non lasciare dubbio che l’avrebbe fatto davvero, se non mi fossi inventato immediatamente qualcosa, perciò lo facevo. Inventavo. Toglievo i freni alla lingua e parlavo parlavo parlavo. Alla fine, la cosa giusta la dicevo. Lui metteva via il coltello con un mezzo sorriso compiaciuto e mi diceva che ne avevo di strada da fare prima di diventare davvero Frank White. Ed io riprendevo puntualmente a respirare.
Togliere i freni. È una cosa che Bushido ha insegnato a tutti noi.
I limiti non esistono davvero, a meno di volerli vedere per forza.
È per questo che Bill Kaulitz ha continuato a frequentare questa casa – almeno prima di decidere, per motivi di cui non mi parla ma che io so lo stesso, che non fosse più il caso – è per questo che Chakuza si sta mettendo contro la propria stessa etichetta per permettere a Bill di farlo – con scarsi risultati, visto che appunto Bill non vuole più – ed è anche per questo che io sono qui adesso, che meno di due settimane fa mi sono fatto scopare su un fottuto tappeto che adesso per qualche motivo – che immagino benissimo – non c’è più ed è anche per questo che Chakuza trema d’ansia su questo divano, al mio fianco, ed io non mi muovo e non faccio niente che non sia fissare un punto a caso davanti a me e mordermi una guancia.
Abbiamo perso il senso del limite.
Anis ce l’ha tolto quando ha deciso di spingere il limite stesso oltre il possibile, ficcando Bill Kaulitz in una crew, ed è morto portandoselo via, quel fottuto limite del cazzo.
Siamo rimasti senza. È palese che non sappiamo dove andare a sbattere la testa. È palese che stiamo in mezzo ad un casino e non riusciamo a tirarcene fuori. Anche se, cazzo, vogliamo.
- Ti va un’altra birra?
Chakuza non vuole che vada via. Probabilmente perché non vuole ritrovarsi domattina con i mobili divelti e l’appartamento che sembra un campo di battaglia. Ognuno ha il suo modo di esorcizzare la rabbia, io la butto nelle canzoni e smerdo la gente, Chakuza distrugge casa.
Scrollo le spalle. Non è né un sì né un no, lascio che Chakuza interpreti come gli pare e, come immaginavo, interpreta per un cenno positivo. Ecco qua, tutto chiaro, non vuole che vada via perché ci tiene ad avere ancora un tetto sopra la testa, punkt.
Lo vedo che s’infila in cucina e ne viene fuori con altre due birre. Le birre sono la salvezza di Chakuza. Saranno anche il motivo per cui io palesemente non riuscirò mai a smettere di bere, ma fondamentalmente sono la salvezza di Chakuza. Quando è in crisi e non sa cosa dirti e neanche cosa fare con te, ma l’importante è che tu resti lì dove sei e non ti muova, così lui non deve fronteggiare situazioni inaspettate, eccolo che tira fuori la birra.
Prendo la Beck’s fra le mani e mi lascio congelare un po’ i polpastrelli.
Sono nervoso come di fronte a un giudice. Ho voglia di menare le mani per il puro gusto di lasciare scivolare via l’ansia coi cazzotti e pure con un po’ di sangue, se è il caso. Non so se Chakuza stia pensando la stessa cosa. Ho un po’ paura del nostro modo di lasciare scivolare via l’ansia.
- Stanotte resti qui? – chiede poco più tardi, casualmente, mandando giù l’ultimo sorso di birra.
Io ci metto effettivamente un po’ a capire che intende “come le altre volte, prima”. Cioè vuole che mi alzi dal divano, mi trasferisca sulla poltrona e mi avvolga come uno straccio vecchio, così lui può tirarmi addosso una coperta ed illudersi di stare facendo qualcosa di buono tenendomi qui invece che mandandomi allo sbaraglio a sbronzarmi nel primo pub disponibile oltre l’angolo.
Il primo pensiero, quando mi ha chiesto se sarei rimasto, non è stato un bel pensiero.
Non è stato un pensiero corretto.
Non avrei dovuto pensarlo.
Faccio per scuotere il capo. Chakuza mi guarda strano.
- Vado a casa? – non so perché esca come una domanda.
Ma che cazzo sto facendo?
- Non resti?
Ma chi gli ha insegnato a rispondere alle domande con altre domande?
…Anis.
Ma che cazzo di disastro è questo? Cazzo.
- Resto, ok. – sbotto, cercando di sembrare tranquillo e rilassato. Era più facile quando arrivavo qui sbronzo, intendo, non dovevamo discutere. Io arrivavo, mi buttavo sulla prima superficie disponibile, mi lagnavo un po’, poi crollavo addormentato. Al resto pensava Chakuza, io poi mi risvegliavo l’indomani mattina e a quel punto il mio compito era combattere contro il mal di testa e rendermi utile in qualche modo tipo preparando la colazione o qualche altra cazzata simile. Così eravamo pari, buttavamo lì un paio di battute del cazzo, decidevamo cosa mangiare per cena e poi ognuno per i fatti propri.
Era semplice, lineare, preciso.
Certe volte la lucidità mentale ti porta solo complicazioni, è assurdo.
Lo leggo negli occhi di Chakuza, in questo momento. Lo vedo che se lo sta chiedendo anche lui. Come ci siamo arrivati, a questo punto? Com’è che adesso non è più normale dormire sulla poltrona? Com’è che c’è da chiedere se devo restare, se voglio andarmene, se questo, se quest’altro, cosa voglio fare di me stesso e di lui e di questo noi assurdo che non ha nessun motivo di esistere ma esiste lo stesso ed io posso pure smettere di guardarlo per tutto il giorno, ma quando torno qui, di sera, torna fuori, e di prepotenza.
Tutto negli occhi verdissimi di Chakuza che sono freddi come pezzi di vetro e trasparenti allo stesso modo.
Mi avvicino senza un perché e mi aspetto che sia lui a fare qualcosa. Deve essere lui, a fare questo benedetto maledetto qualcosa, perché io non saprei da che parte cominciare. Stasera è diverso. Non è come l’altra volta. Non è come le altre volte in mezzo. Stasera ci stiamo guardando negli occhi e ci stiamo dicendo la verità, in qualche modo. È una verità un po’ storta e un po’ sporca, ma io non mi tiro indietro.
Io sono qui, Chakuza.
E ci sei anche tu.
Ci baciamo. Ci baciamo sempre, quando lo facciamo, e le bocche il suo cazzo e il mio culo sono le uniche fottute cose che si toccano. È una cosa straniante, perché mi sarò fatto centinaia di scopate nella mia vita ed in tutte, tutte, perfino con la figa più di legno, perfino con la più cozza, i corpi erano avvinghiati così stretti che sembravano uno. Quando scopi non cerchi solo l’orgasmo, tu vuoi tenere qualcosa fra le mani. Vuoi tenerlo stretto e sentire che c’è e che per quella mezz’ora, se sei bravo, sarà tuo.
Fra me e Chakuza non è così. Ci baciamo perché la sensazione del bacio – umido e caldo e lento oppure ruvido e veloce, quasi prepotente, dipende dalla serata e dalla quantità d’alcool – è piacevole, ma non ci tocchiamo quasi mai, se non il minimo indispensabile.
Che poi è il motivo che mi porta a chiedermi perché scopiamo, se il punto non è tenere qualcosa.
Non so se sono io a muovermi indietro perché Chakuza avanza, o se è lui ad avanzare perché io mi sto allontanando verso la camera da letto. Entrambe le possibilità mi terrorizzano, perché c’è una fame nelle nostre bocche che non si sazia mai. È una cosa senza fine. Che certe volte mi sento i suoi denti addosso e mi chiedo se dieci cento o mille volte gli basterebbero. O se basterebbero a me. Se mi basterebbe sentirlo in quel modo altre dieci cento o mille volte, per saziarmene e non desiderarlo più. Dentro di me. In quel punto preciso che mi fotte il cervello.
Quando sbatto con le gambe contro lo scheletro in legno, le ginocchia si piegano un po’ per stanchezza e un po’ per confusione e un po’ anche perché voglio lasciarmi cadere da qualche parte, perché questo so farlo bene. Tanto poi ci pensa Chaku. Mi tira su, e la poltrona, e la coperta, e la colazione domani.
Che casino. Vaffanculo, che casino.
Cado indietro, non sbatto da nessuna parte. Il letto è disfatto e mi accolgono le coperte ancora arruffate da ieri. C’è qualcosa di sbagliato in tutto questo, ma non m’interessa più.
Mi disturba che Chakuza mi cada fra le gambe, però. Mi disturba perché non è quello che succede di solito. Io mi volto, di solito. Io non guardo – almeno questo, Dio, non guardo, di solito.
Voglio dire “no”. Mi rendo conto di quanto sia assurdo, perché non sto pensando “no”. Però voglio dirlo lo stesso, anche solo per… non lo so, salvare le apparenze? Con Chakuza? Non lo so. Non dovrei essere qui adesso. Non dovrei essere così. Chakuza mi bacia ancora ed io sto zitto. Cristo, mi piace baciare. Mi piace un casino baciare.
Quando i pantaloni e i boxer scompaiono, le nostre gambe si scontrano e Chakuza si irrigidisce. Lo sente anche lui che c’è qualcosa che non va, di solito il contatto è molto minore. Non ci sono gambe che intralciano. Non c’è niente di troppo duro da dover guardare per forza – perché è lì davanti, ed è colpa tua che non mi hai fatto girare. Come se a me facesse piacere prendere atto del fatto che mi piace, vaffanculo, mi piace proprio così.
Allargo le gambe e mi sento una troia. Ma non lo faccio perché voglio lasciargli via libera – almeno, non del tutto – lo faccio perché le gambe che si incastrano mi fanno impressione e pure un po’ schifo, se devo dire la verità. Non ci sono abituato.
Chakuza non parla. Mi guarda. Si tiene sul materasso coi gomiti.
Io lo guardo di rimando perché non posso dargli anche la mia vergogna.
Lo sento che fa per premersi contro di me – sempre occhi negli occhi, vorrei che abbassasse il fottuto sguardo ma non glielo chiederò mai – ma poi esita, penso che la prima esperienza senza preservativo gli sia abbondantemente bastata, tant’è che da allora abbiamo seguito i consigli del dottorino e siamo sempre stati ligi al dovere – che schifo, merda, che schifo – ed infatti lo vedo che si allunga, raggiunge il cassetto del comodino, neanche mi sfiora – è bravissimo – recupera il preservativo – lo voglio dentro – lo indossa – subito, cazzo – sta lì ad un centimetro e non si sbriga – muoviti muoviti muoviti – e poi si decide, tutto dentro in un solo colpo, vorrei urlare e non lo faccio perché l’unico limite che mi impongo è quello di non mostrare dolore, mai. Se devo, sanguinerò, parlerà il sangue per me; ma io non urlo.
Spinge forte e veloce, vuole concluderla in fretta, vuole sempre concluderla in fretta perché i momenti che precedono quello in cui entra dentro di me sono colmi di aspettativa e di desiderio. Me lo immagino che si chiede “stavolta sarà diverso? Magari mi farà meno schifo, mi sentirò meno in colpa, in fondo a questo corpo qualcosa la trovo?”. Ed invece è sempre uguale. È sempre lo stesso schifo. Perciò entra e ce ne rendiamo conto entrambi. La consapevolezza arriva a me col dolore ed a lui col fastidio e il disgusto. Ci muoviamo per inerzia. Ci muoviamo perché almeno a cercare e trovare l’orgasmo hai l’impressione di averci guadagnato qualcosa.
Ed il succo della questione è solo questo. Il succo della questione è che lui spinge con una violenza tale che io mi allontano. Non perché lo voglio, ma perché proprio mi getta indietro. E non ho abbastanza forze – Cristo, fa male – per tenermi incollato a lui.
Perciò solleva una mano e mi afferra per un fianco. Mi tocca ancora. Il fianco brucia dove lo tocca lui. Stringe e fa male. Fa più male di tutto il resto. Fa male perché dietro ai suoi occhi non c’è niente e nemmeno dietro a miei. E dieci cento mille volte non cambierebbero questa realtà.
Abbiamo fame di cose che non possiamo avere.
Abbiamo fame di cose che non siamo noi.
Tutto questo non serve a niente.
Quando lui mi viene dentro, quando io vengo fra di noi, non succede niente. Perché tutto questo non è stato niente.
Le lenzuola, comunque, sono calde. Ed io sono mezzo nudo. Mezzo nudo, Cristo. Mi sono fatto scopare come una donna. Come una fottuta femmina. E Chakuza mi ha guardato dritto negli occhi per tutto il tempo. Cosa volesse trovarci in fondo, non lo so. So che quello che ho visto io non m’è piaciuto. So che mi sento una merda. So che in genere mi alzo, mi abbottono i pantaloni e vado ad accucciarmi su quella poltrona, e lì resto fino all’indomani mattina, ma adesso non ho pantaloni da abbottonare, perché Chakuza me li ha tolti e li ha lanciati chissà dove assieme ai boxer, ed io non posso andare in giro mezzo nudo per la stanza a cercarli tentoni nel buio.
Resto immobile sul letto. Chakuza riprende fiato accanto a me.
- Allora, resti? – chiede alla fine, passandosi una mano sugli occhi e sistemando la coperta con pochi gesti essenziali, di modo che ci copra entrambi – e ne abbiamo bisogno davvero.
Cerco di respirare ad un ritmo umano. Cerco di rispondere. Un “sì” secco e sicuro, così che non veda che sono turbato. Viene fuori un “mh” poco convinto, ma Chakuza lo prende comunque per un assenso ed annuisce, senza aggiungere niente. Sfila la canottiera e la getta di lato. Si volta e so che non dormirà. Non dormirò neanche io. È la prima volta che non dormo.
Mi rigiro su un fianco. La schiena di Chakuza si muove lentamente verso l’alto, poi verso il basso, e da capo. Il tatuaggio che la ricopre praticamente per intero è maestoso. Non ho la minima idea di cosa voglia dire, ma dev’essere stato doloroso farlo. Il cerchio e lo strano simbolo all’interno si allargano e si rimpiccioliscono mentre lui respira. Il movimento ed il suono sono quasi ipnotici.
Fisserò questa schiena per tutta la notte.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash.
- "Resto lì a tenergli la mano per tutto il tempo che passa a piangere in silenzio."
Note: Aaaah. Sì. Insomma. XD. In realtà il titolo di questo spin-off è quello che è solo perché all’inizio era stata strutturata in modo completamente diverso. Ruotava tutta attorno al tappeto, era molto più breve, non comprendeva neanche metà degli sviluppi che alla fine mi sono ritrovata per le mani (guidata da indubbio amore per il pairing, suppongo) ed era stata pensata solo per mostrare al mondo il signor dottore che è evidentemente un’emanazione del bene in EKR. Poi però s’è evoluta, non so esattamente per quale motivo, avevo voglia di scrivere e son venute fuori sedici pagine in tre giorni, tipo. Tant’è che è pronta da due ma non potevo certo pubblicarla immediatamente XD
L’intermezzo Bikuza ci è stato gentilmente offerto da Tab che continuava a chiedersi, in tutto questo, che fine avesse fatto il Bill. Ovviamente io non l’avevo plottato (ehm) perciò ho immaginato un possibile scambio tra i due e poi ho detto a Tab “okay, adesso scrivilo”, e lei l’ha scritto in tipo due ore, confermando l’ipotesi secondo la quale a lei il Bikuza tira tantissimo.
Per quanto mi riguarda e per concludere, spero solo questa shot vi sia piaciuta <3 E che possiate perdonare il Chaku per quel suo madornale errore. Fler ci sta provando *annuisce*
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WEIRD CARPET THOUGHTS ON A WEIRDER NIGHT

Resto lì a tenergli la mano per tutto il tempo che passa a piangere in silenzio. Sono quindici, venti minuti, una cosa del genere. Non è mai facile quantificare il tempo che passa quando è scandito dalle lacrime. Ricordo che quando morì mio nonno fu più o meno la stessa cosa, con mia madre. Non capii che erano passate quattro ore, da quando eravamo entrati nella camera ardente, fino a quando non uscimmo fuori e vidi che era già sera. Avevo dodici anni e la cosa mi turbò parecchio.
Insomma, potrebbero essere passate ore. Tutto ciò che so è che la mano di Fler è congelata anche se la sto stringendo da tutto questo tempo. E che i suoi singhiozzi invece sono caldissimi, anche se non dovrei sentirmeli addosso.
Lo chiamo a bassa voce, non credo neanche che mi senta. Stringo un po’ la presa attorno alle sue dita ed è lì che lui mi risponde.
- Sì. – dice, - Ora provo ad alzarmi. – ci riflette qualche secondo ed io lo guardo per tutto il tempo, ha gli occhi umidissimi, - Me la dai una mano? – chiede dopo un po’, - Non ce la faccio a mettermi seduto. Devo tirarmi subito in piedi.
Le cose che questo discorso implica sono troppe perché io possa pensarci con razionalità, perciò lascio perdere ad annuisco senza esitazione, mettendomi in ginocchio e passandomi un suo braccio sopra le spalle. L’ultima volta che siamo stati in questa posizione, lo stavo trascinando su per le scale ed era ubriaco perso. Lo stavo rimproverando ed avevo un motivo per farlo. Sembrano secoli fa. Ora dovrebbe rimproverarmi lui, ne avrebbe tutti i motivi, ma non mi dice niente.
Ci muoviamo lentamente e lui trattiene un gemito di dolore ad ogni passo. È palese che si lascerebbe volentieri ricadere sul pavimento senza protestare, se lo lasciassi. Non intendo lasciarlo e questo non riesce a lenire nemmeno in parte i miei sensi di colpa.
- Ti senti un po’ meglio? – chiedo titubante mentre raggiungiamo a stento la mia macchina, appena sotto casa.
- No. – sibila lui nel gelo della notte. – Piantala di chiedermelo.
Ed io la pianto.
Il viaggio in macchina verso l’ospedale – luogo ormai più che familiare per entrambi – e silenzioso e teso. Non riesco a fare a meno di sbirciare il suo profilo dritto e serio per tutto il tragitto. So che dovrei stare più attento alla strada che non ai mutamenti della sua espressione, ma non mi riesce. S’è seduto come un bambino capriccioso, una gamba sotto il sedere e l’altra penzolante in avanti. La gamba sotto il sedere lo tiene decisamente sollevato dalla superficie del sedile. Cerco di non pensare al perché abbia scelto proprio questa posizione qui.
Arriviamo in ospedale che è già praticamente notte fonda. Saranno le tre e mezza, probabilmente quasi le quattro del mattino. C’è giusto qualche infermiere scazzato in giro, nessuno che mi sembri di conoscere se non di sfuggita, il che è bene.
Naturalmente, all’accettazione troviamo Katrina.
Lancio un’occhiata allarmata a Fler – che zoppica ancora al mio fianco, anche se ora non sembra più avere bisogno di aiuto per camminare – e lo vedo irrigidirsi come congelato all’istante. Mi viene voglia di stringergli di nuovo la mano. Grazie a Dio mi fermo in tempo.
Katrina si mette letteralmente a saltellare non appena gli posa gli occhi addosso. Sarebbe comico, se la situazione non fosse quella che è. Fler sospira e rotea gli occhi. Ci avviciniamo lentamente al bancone e lei guarda subito me.
- Qualcosa che non va coi punti? – chiede con un sorriso affascinante, tornando subito a guardare Fler.
- No. – risponde lui al mio posto, - Qualcosa che non va col mio culo.
Cala un velo di ghiaccio su tutta la sala d’attesa, lo sento. È una sensazione veramente fisica. Katrina lo fissa, sconvolta.
- Col tuo…?
- Il Chaku, qui, mi ha scopato con un tantino di violenza in più rispetto al necessario. – sibila velenoso, ed io vorrei morire qui ed ora. Qui ed ora, giuro. – Lo dici al medico di turno che mi sa che ho qualcosa da ricucire?
Katrina abbassa lo sguardo, le guance rossissime, e sparisce subito in corsia. Io guardo Fler, allucinato.
- Fler…? – lo chiamo a bassa voce, e lui mi lancia un’occhiataccia furiosa.
- L’ho detto nel modo migliore possibile, credimi. – sbotta acido. – Senza indugiare sui particolari schifosi.
Non protesto perché so che è vero, c’è un particolare schifoso che avrebbe potuto menzionare. E non l’ha fatto.
Dal modo in cui il dottore ci accoglie in sala visite, capisco che Katrina è stata un’infermiera diligente e gli ha riferito per esteso la versione dei fatti fornita da Fler. Ci guarda bonario e, prima ancora di chiedere a Fler come sta, stringe ad entrambi la mano e ci fa accomodare.
- Non lei. – dice con un mezzo sorriso a Fler, - Lei si distenda pure sul lettino. A pancia sotto.
- …io devo restare? – chiedo indicandomi, e sono convinto di avere sulla faccia un’espressione da perfetto idiota, al momento.
- Oh, sì, tanto non c’è niente che verrà esposto stasera che lei non abbia già visto, a quanto pare, signor Pangerl.
Vorrei rispondere che invece sì, c’è qualcosa che non ho mai visto, e cioè la dignità di Fler che si perde come niente. Mi ricordo poi che ho visto la dignità di Fler perdersi ogni sera in troppe bottiglie di birra, ma non è la stessa cosa. Ora Fler è lucido.
- Oltretutto, se lei sta qui ci sbrigheremo molto più in fretta. Potrò medicarlo e parlarvi contemporaneamente ed avremo risolto molto prima. – il tono è pratico e professionale e mi rendo conto che probabilmente non mi sta obbligando a restare per cattiveria, ma la situazione nel complesso è veramente troppo grave per rassegnarmi al pensiero. Ciononostante, mi seggo su una poltroncina. Abbasso lo sguardo, però, appena gli occhi celesti di Fler me lo chiedono.
- Si spogli. – sento dire al dottore con tono asciutto.
- Tutto? – chiede Fler curiosamente.
- Solo i pantaloni andranno bene. – ride l’altro. È chiaro che il dottore l’abbia presa come una barzelletta. Se io veramente… se io veramente avessi solo esagerato durante una scopata normale, probabilmente la prenderemmo a ridere anche io e Fler. Probabilmente.
I bottoni vengono sganciati uno dopo l’altro ed i jeans di Fler cadono a terra assieme ai boxer. Entrambi gli indumenti sono macchiati di sangue. Mi volto.
- Prego, si distenda. – invita il dottore. Sento il fruscio del lenzuolo di carta sul lettino e non passano nemmeno trenta secondi prima che l’aria della stanza diventi satura dei sospiri e dei lamenti di Fler. Cerca di trattenerli invano. Non ho voglia di guardare cosa il dottore gli stia facendo, per la verità i movimenti del dottore non li sento neanche. Però sento ogni singola sfumatura dei gemiti di Fler e sento il rumore che fa la carta del lenzuolo quando lui la stropiccia sotto il pugno, chiudendolo, e sento anche i sospiri di sollievo che lancia quando il dottore smette per qualche secondo di toccarlo. E poi ricomincia da capo a rantolare.
- Con coppie formate da ragazzi giovani come voi, - comincia il dottore dopo un po’, coprendo la voce di Fler, - è normale ogni tanto fare errori come questo. Scommetto che era la prima volta, vero? – si interrompe appena e poi continua, - La prima volta dopo un bel po’, almeno. – precisa poi, ed io non ho nemmeno il tempo di chiedermi cosa intenda nello specifico, perché devo prima realizzare coscientemente che ci sta facendo una paternale. La cosa è assurda.
- Dottore, senta, - comincio, senza sollevare lo sguardo, ma lui mi ferma con un sospiro.
- Dicevo, - riprende serafico, - siete molto giovani e suppongo sia trascurabile se per una volta vi siete lasciati un po’ prendere la mano. Ma dovete assolutamente capire che il sesso anale presenta dei problemi non indifferenti. La lubrificazione non è automatica ed il preservativo non è solo una protezione contro le malattie veneree, ma soprattutto una protezione contro l’attrito inevitabile che lo sfregamento produce.
Sollevo lo sguardo. La visuale di Fler disteso ed esposto che colgo è abbastanza per costringermi a riabbassarlo.
- Dottore, guardi che-
- Non ho finito. – borbotta lui, - Mi lasci dire. Non la sto rimproverando, solo informando.
Fler ricomincia a gemere ed io mi concentro sul suono della sua voce. Non mi sono mai fermato a riflettere su quanto i gemiti di dolore siano simili ai gemiti di piacere durante il sesso. In effetti la cosa non mi stupisce quanto dovrebbe.
- Dovrò visitare anche lei, signor Pangerl. – dice il dottore subito dopo. Dovrei stupirmi del fatto conosca il mio nome? No, mi rispondo, gliel’avrà detto Katrina.
- Io sto benissimo. – rispondo cupamente, - Si concentri su Patrick.
Fler lancia un grugnito random del quale non capisco il significato. Suppongo sia una protesta ma ne ignoro il destinatario. La tengo per me, comunque: è giusto che sia arrabbiato.
- Ecco fatto! – continua il dottore dopo qualche minuto di silenzio, - Era meno grave del previsto.
- Ha perso molto sangue! – torno a sollevare il capo io. Fler è su un fianco, ha le lacrime agli occhi, è ancora seminudo e sta cercando di ricomporsi. Mi alzo e gli sono vicino in tre passi. Il modo in cui mi chino su di lui è equivoco pure nella mia testa, non oso immaginare quanto possa esserlo in quella del dottore che ci guarda con aria paterna e sorride. – È sicuro che non abbia bisogno di niente?
- Ha bisogno di stare a riposo e di qualche coccola fuori dalle lenzuola. – risponde in tono compiacente. Io e Fler ci guardiamo mentre lui rimette a posto boxer e pantaloni, e ci scorre un brivido identico lungo la schiena. Però non saprei dire cosa significa. – Oh, be’… - riflette poi, - magari anche dentro le lenzuola, se proprio dev’essere, ma starei lontano dal punto critico, se fossi in voi, almeno per i prossimi due, tre giorni.
Fler abbassa gli occhi e lo sento distintamente ridacchiare. Non è come la risata amara di quando piangeva. È un bel suono. Tiro il primo respiro a pieni polmoni della serata.
- Per quanto riguarda le precauzioni… - riprende il dottore poco dopo, mentre noi ci avviamo stancamente verso la porta, - vorrei darvi quest’opuscolo che potrebbe esservi utile. – si china sulla scrivania, apre un cassetto e ne tira fuori un libriccino colorato di una ventina di pagine, che sfoglia vagamente mentre si muove verso di noi.
Adesso ho voglia di tirargli un cazzotto, così, giusto per togliermi lo sfizio, ma Fler ride ancora, un po’ più convinto di prima, e lo ferma con un cenno della mano.
- Staremo più attenti, la prossima volta. – dice ironico, - Lo sappiamo, come si scopa. È che Peter era un po’ arrabbiato, stasera, tutto qua. – spiega. Io deglutisco. Non so. Cosa si fa in queste situazioni? La si abbraccia, una persona così?
Usciamo nel freddo di Berlino che devono essere le cinque passate e già albeggia. La temperatura è così bassa che perfino Fler ha difficoltà a reggerla. Anche se forse la sua difficoltà ha radici molto più profonde dell’inverno teutonico.
Raggiungiamo la macchina e m’infilo all’interno in due secondi netti. Fler perde un po’ più di tempo, resta a fissare il sedile con aria critica, prova quasi a sedersi come una persona normale ma poi ci rinuncia e si rimette nella stessa posizione da bambino scazzato che ha usato all’andata, ed io abbasso subito lo sguardo.
- Dove… - comincio a bassa voce, ma mi sento molto in imbarazzo e non riesco a concludere.
- A casa mia. – risponde lui, indovinando i miei pensieri, - Non è molto distante da qui. Saranno un quattro, cinque chilometri. Vai dritto di là. – ed indica la strada da prendere con la mano tesa, che trema un po’.
Potrebbe essere solo per il freddo. Potrebbe.
Distolgo lo sguardo – di nuovo – e seguo le indicazioni fino al suo appartamento, che è una bettola – il palazzo cade letteralmente a pezzi – e sta in una stradina laterale in cui penso non mi muoverei mai di mia spontanea iniziativa ma solo se costretto… e comunque molto armato.
- …è qui che tengono il cantante di punta dell’Aggro Berlin? – dico, fra lo stupito e l’ironico.
Fler grugnisce qualcosa di decisamente poco carino. Io penso che avrei fatto meglio a stare zitto.
Scivola fuori dalla macchina in un movimento troppo fluido per non sembrare sollevato. Mi fa male che sia così, soprattutto contando che durante il corso dell’ultimo mese era difficilissimo schiodarlo dalla poltrona, figurarsi mandarlo via dal mio appartamento. Non so, me ne rendo conto adesso che si allontana, che potrei non vederlo più e che mi mancherebbe. Cerco di evitare di pensare che queste sensazioni potrebbero essere solo un effetto collaterale dell’assenza di Bill. Facciamo che mi mancherebbe Fler. Facciamo così.
Allungo una mano quasi senza accorgermene, lo tiro per un polso e lui ne è preso così alla sprovvista che cade indietro sul sedile. Lo vedo irrigidirsi e tendersi e rabbrividire e soffocare un lamento, ma gli riesce malissimo.
- Oddio… - mi agito, sporgendomi verso di lui per controllare sia tutto a posto, - Scusami!
- Cristo, Chakuza! – si lamenta lui, spostandosi sul sedile in modo da trovare una posizione meno dolorosa, - ‘Cazzo t’è preso?
Resto in silenzio perché non ho idea di cosa dirgli.
- Mi lasci andare? – chiede Fler dopo qualche secondo, guardandomi con un misto di ansia e curiosità. Noto solo ora che lo sto ancora tenendo stretto per il polso.
- Sì… - annuisco lasciandolo libero, - Solo… buonanotte, okay?
Fler scrolla le spalle, rimettendosi in piedi.
- Quello che ne resta, almeno. – mugugna, indicando il sole ormai quasi alto nel cielo con un cenno del capo. – Fatti una dormita, Chakuza. Ne hai bisogno. – suggerisce poi. Mi muovo solo quando lo vedo sparire su per la tromba delle scale attraverso il vetro spaccato in più punti del suo portone.
*
Me lo vedo apparire di fronte la sera dopo alle nove precise e non ci voglio credere. Lo fisso per un tempo lunghissimo, mesi, anni, intere epoche, eppure la realtà non cambia. È qui davanti a me, mani ficcate a fondo nelle tasche dei jeans ed un sopracciglio inarcato con aria spavalda, come a voler rimarcare il fatto che io non me l’aspettassi ma lui, eh!, lui è proprio qui, altroché.
- Patrick…? – chiamo a bassa voce, del tutto sconvolto, continuando a fissarlo con l’aria, lo so, di un pesce lesso.
Lui fa una smorfia.
- Non devi mica fingere che siamo fidanzati, Chakuza, - sbotta acido, calcando con forza sul mio pseudonimo ed incrociando le braccia sul petto, - siamo soli, il dottore non c’è e non intendo averne bisogno in tempi brevi. Perciò chiamami col mio nome. Fler, dico.
Annuisco lentamente, come un automa.
- Be’? – continua Fler, sbuffando sonoramente, - Non mi fai entrare?
Mi scosto dall’uscio senza dire una parola. Fler mi sta guardando come fossi un cretino epocale e non mi sento di dargli torto. Sposta gli occhi da me – ringrazio parecchi santi, quando accade – soltanto per lanciare occhiate disapprovanti in giro. Stanotte – o meglio: nella fascia oraria fra le cinque e mezza e le sette del mattino – ho devastato un po’ casa. Solo un po’, ero incazzato. Voglio dire, avevo le mie ragioni. Poi ho rimesso tutto a posto, più o meno, però già che c’ero ho tolto il tappeto. Voglio dire, chi terrebbe una cosa simile in casa dopo… insomma, dopo aver combinato ciò che quella cosa testimonia?
Fler la nota subito, quell’assenza. Me la fa notare con un ghigno cattivo.
- Elimini le prove a tuo carico? – chiede furbo, sporgendosi un po’ verso di me. Io indietreggio, terrorizzato.
- Non era… - biascico incerto, - Voglio dire, non l’ho buttato, è ancora di là nello stanzino!
Fler mi spalanca gli occhi addosso e scoppia a ridere il secondo successivo.
- Chaku… calmati. – mi incita poi, muovendo qualche passo verso il divano, - Non intendo denunciarti né niente di simile. È già stato abbastanza faticoso parlarne ieri in ospedale. – rimane un attimo fermo sospeso fra il dire e il non dire, guarda il divano, la poltrona, poi me. – Me la offri una birra?
Io cerco di riacquistare le mie capacità di ragionamento basilari. Non che mi riesca del tutto, ma almeno recupero le funzioni motorie. Voglio dire, mi fa piacere vederlo. Non credevo che sarebbe successo. Non così presto. Non come fosse tutto… normale. Perché mi sembra assurdo pensarla in questi termini? È giusto che io mi senta in colpa dopo quello che ho fatto, ma negli occhi di Fler non vedo una richiesta simile. Non mi sta dicendo “pentiti!”, mi sta dicendo… non lo so. Sinceramente non lo capisco bene, cos’è che sta cercando di dirmi. Sempre che stia cercando di dirmi qualcosa, s’intende.
Annuisco e mi muovo lentamente verso la cucina. Scorgo con la coda dell’occhio Fler accucciarsi sul divano nello stesso modo in cui s’è seduto ieri in macchina. La suola delle scarpe da tennis striscia contro la fodera ma non sarò certo io a chiedergli di tirare giù i piedi.
Quando torno con la birra – una sola bottiglia, solo per lui – mi seggo direttamente al suo fianco e gliela porgo incerto. Lui la prende e la soppesa fra le mani per lunghi istanti. La guarda da ogni lato con falsa indifferenza, in realtà ci si perde un po’, fra le bollicine. Come stesse aspettando di trovare le parole giuste, o il momento più adatto per tirarle fuori.
Alla fine, torna a guardarmi e si china appena a posare la bottiglia sul tavolo.
- Ti stai comportando in maniera condiscendente. – afferma serio e quieto, accomodandosi meglio contro il bracciolo in modo da – me ne accorgo subito – mantenersi un po’ sollevato rispetto al cuscino del divano ed anche alla gamba che lo sostiene.
Chino il capo, torcendomi le mani in grembo. Un po’ vorrei tiragli uno scappellotto e cazziarlo, eh, voglio dire, dirgli qualcosa tipo “guarda che sei tu quello che si comporta in modo strano! Arrabbiati!”, ma mi rendo conto di non essere nella posizione più adatta per fare un discorso simile, perciò cerco delle parole migliori. Qualcosa che possa servire come una scusa. Non mi sembra di essermi scusato abbastanza.
- In realtà… - confesso a mezza voce, gli occhi bassi, - non ho la minima idea di cosa sto facendo, Fler. Non so cosa dirti o cosa fare con te, mi sento… insomma, capisci, è strano. Cosa dovrei fare?
Lui scrolla le spalle e mi guarda dritto negli occhi. È un’occhiata assassina, è troppo sincera. Non… non c’è neanche un cazzo di risentimento, in fondo a tutto quel celeste. Questa cosa è sconvolgente.
- Comportati come sempre. – suggerisce pacato, e sarebbe un suggerimento molto sensato e corretto se non fosse palesemente una cazzata. Non capisco, si aspetta che dica “oh, sì, certo!” e ricominci a… non lo so, gli faccia posto sulla poltrona e gli prenda la coperta e lo metta a nanna per poi rimproverarlo domattina? Per quale motivo dovrei rimproverarlo? Non si ubriaca più da secoli e l’unica cosa che gli si potrebbe additare come colpa è il non aver capito in tempo che cazzone tremendo io sia ed aver continuato a frequentare quest’appartamento.
Ma non è colpa sua, è colpa mia. Ce l’ho tenuto io, qui.
In questa situazione ci sono solo un carnefice ed una vittima. I ruoli non sono confusi. È solo colpa mia.
- Fler… - comincio, sporgendomi verso di lui e massaggiandomi una tempia. Cerco qualcosa da dire, qualcosa che suoni diversamente da “non dire puttanate!”, anche se è quello che penso. Cerco di andarci piano. Forse è un po’ confuso, dev’essere un po’ confuso. - …tu ti rendi conto di quello che ti ho fatto?
È allucinante che a fare questo discorso sia io. Allucinante.
Fler si tira indietro ed aggrotta le sopracciglia, infastidito probabilmente dall’ovvietà indegna delle mie parole.
- Sì, mi sembra di rendermene perfettamente conto, Chakuza. – butta lì freddo e spietato, sistemandosi sul cuscino nell’evidente tentativo di farmi impazzire dal rimorso.
È palese che non usciremo mai da questo discorso. È un labirinto. Lui vuole – se ho capito bene – che io sia lo stesso di sempre. Che lo tratti come se lui fosse lo stesso di sempre. Il problema è che io non sono più quella persona e non lo è nemmeno lui. Non possiamo andare avanti – qualsiasi cosa sia questa che si muove, intendo – senza prenderne atto e… accettarlo, credo. Ma Fler non vede niente, è convinto che si possa risolvere tutto con un cerotto. Con una bottiglia di birra. Tornando a comportarsi come prima.
- Senti… - borbotto, massaggiandomi la radice del naso e sospirando, - mi dispiace davvero, Fler. Non ho la minima idea di cosa mi sia preso ieri, ti giuro che non mi è mai passato neanche per l’anticamera del cervello di farti male a quel modo. E se pure avessi pensato che fra noi due potesse esserci qualcosa di simile, - sto palesemente blaterando. Vorrei che Fler mi fermasse ma lui non lo fa. – insomma, non avrei mai voluto che cominciasse in quella maniera. È stato tutto sbagliato e me ne scuso, ma tu non puoi-
Non faccio in tempo a finire la frase perché lui si sporge in avanti e me lo ritrovo pressato contro il secondo successivo. In realtà niente del suo corpo mi tocca, solo le labbra. Ma sono ferme sulle mie. Ferme e calde e sicure sulle mie. È già abbastanza per mandarmi in crisi.
Non mi muovo, comunque, resto con gli occhi aperti come un gufo e fisso il volto teso di Fler che invece gli occhi li tiene chiusi, ma non serrati. Le sopracciglia sono distese, le ciglia tremano appena. Continuo a non muovermi e questo ha un effetto collaterale piuttosto evidente: dopo qualche secondo, Fler si scosta. Si tira indietro con l’incertezza di un bambino che si è reso conto di aver fatto qualcosa di molto stupido, tipo dare fuoco alla coda del gatto coi petardi.
Riapre gli occhi sulla mia faccia basita e sconvolta e mi fissa con imbarazzo palese, stringendo le mani in grembo. La domanda muta nei suoi occhi mi sconvolge, perché non so bene cosa rispondere. “Cosa si fa?”, mi sta chiedendo. Ed io cosa devo dire? Cosa devo fare?
Mi allungo verso di lui. Rimango un po’ fermo, lo guardo. Lui mi guarda e non dice una parola. Nemmeno un fiato. Neanche un lamento, neppure quando lo afferro per le spalle e me lo tiro contro. E giuro che non so perché lo sto facendo. O meglio, lo so, ma non posso pensare a Bill anche in questo momento. Non posso farlo a Fler, non di nuovo. Non posso perché ci pensavo già mentre me lo scopavo, non posso perché ci pensavo mentre lo vedevo andare via, non posso perché è evidente che la sua mancanza mi manda fuori di testa, ma è Fler che tengo fra le braccia adesso, è Fler che sto baciando ed è Fler che ansima fra le mie labbra. Bill è il motivo, cazzo. Ma io non posso pensarci.
Chiudo gli occhi e mi lascio andare e non è per niente difficile. Fler è caldissimo, mi si stringe contro in un modo tremendamente impacciato che è similissimo al mio. Non so dove mettere le mani e non lo sa nemmeno lui, perciò andiamo completamente a casaccio e mi ritrovo una sua mano pressata forte sulla nuca e l’altra a tirarmi per la maglietta, mentre una delle mie cerca un posto sotto il suo braccio per stringerlo alla vita e l’altra si fa strada da qualche parte dietro la schiena alla ricerca di qualcosa di più caldo di un maglioncino di lana da toccare. Dio, la sensazione è quasi identica a quella che ho provato con Bill. La confusione e l’ansia e la smania di arrivare in fondo… è quasi identico. Quasi, cazzo. È il quasi che mi fotte ma è sempre il quasi che mi salva, allo stesso tempo, perciò stringo forte le palpebre ed affondo con la lingua fra le labbra di Fler, che mugola qualcosa che non comprendo e smette immediatamente di tirarmi la maglietta.
Non lo prendo come un segnale di cambiamento. Ho modo di pentirmene subito dopo, quando Fler si scosta imbarazzato e resta lì, ad un centimetro da me, il respiro pesante e gli occhi socchiusi, entrambe le mani pressate forte contro il mio petto per tenermi distante, anche se, cazzo, io continuo ad avvicinarmi neanche fosse una calamita.
- Aspetta… - mormora confusamente, cercando di scostarsi ancora, - Non… - esita appena, poi sospira, - Non voglio.
Avrebbe potuto dire qualsiasi cosa. Non me la sento, non è il momento, stiamo facendo una cazzata. Qualsiasi cosa. Ma “non voglio” è peggio di una coltellata nello stomaco. E so esattamente di cosa sto parlando.
- Patrick…? – chiamo con ansia, cercando di sporgermi ancora nella sua direzione.
- Fler. – mi ricorda lui, allontanandosi ancora, - Non voglio. – ripete poi, scuotendo il capo. – Mi lasci andare? Per favore.
Lo ammetto, esito un po’ prima di lasciarlo. Stringo la presa sui suoi fianchi – quand’è che le mie mani sono finite là sotto? – e lui viene scosso da un tremito appena percettibile di cui riconosco immediatamente le motivazioni. Solo allora lo lascio andare. E lui ha la delicatezza di non alzarsi all’istante come so vorrebbe fare. Si prende il suo tempo, invece, e mi lascia il mio. Quello di percepire il calore del suo corpo che si allontana, quello di sentirmi raffreddare contro la mia volontà, quello di prendere atto di un problema piuttosto fastidioso all’altezza del cavallo dei jeans ed anche quello di chiedermi se non sono davvero del tutto ammattito.
Mi saluta a bassa voce. Io non rispondo. Non sono arrabbiato – Cristo, in realtà sono furioso, ma non con lui – è che non so cosa dirgli. Questa situazione non mi è familiare. In nessuno dei suoi aspetti. Non sono in grado di gestirla.
Non lo guardo, mentre esce dalla porta. E penso per l’ennesima volta che probabilmente stavolta non tornerà davvero.
*
Non so che cosa sia veramente successo con Fler l'altra sera però continuo ad avere il forte sospetto che il problema sia Bill. E anche se le due cose non fossero collegate – io che mi limono Fler e Bill, dico – è comunque vero che Bill mi manca.
È una roba strana da dire, e da qualche parte credo che non dovrei dirla affatto. Non dovrebbe mancarmi Bill. Non dovrei aver limonato Fler. Non dovrei aver fatto niente di quello che ho fatto nelle ultime settimane – questo me lo dico soprattutto ogni volta che apro lo sgabuzzino e ci trovo dentro quel tappeto. Devo levarlo di lì, prima che lo trovi mia madre per sbaglio – e quando mi rendo conto di questo mi rendo anche conto che sto vivendo a casaccio e che è l'ora di finirla, in qualche modo. Chiamo Bill. Sì, lo chiamo.
Bill non si fa sentire da una settimana. Non è passato da casa, all'Ersguterjunge, non ha chiamato. Nemmeno un messaggio. Capisco che abbia tutto il diritto di comportarsi così ma sto facendo così tanti casini in così poco tempo che vorrei per lo meno parlarci. Se mi deve mandare a fanculo per quello che è successo, voglio che lo faccia. Vederlo sparire così nel nulla non mi va giù. In realtà non mi va giù neanche che mi mandi a fanculo, perché a me quello che è successo tutto sommato, non lo so... stamattina mi sono svegliato chiedendomi che cosa implica il fatto che mi sia piaciuto. Bill. Ma anche Fler. E non so nemmeno se il problema devo farmelo perché sono due, o perchè sono due uomini.
Non mi rispondo. Telefono; che non è una soluzione, ed è pure un danno perché se questa volta risponde non so cosa dirgli.
"... pronto?"
Ecco, appunto.
Mi passo il telefono da un orecchio all'altro. Sono in casa, in piedi in mezzo al salotto e, fra tutte le cose che potrebbero passarmi per il cervello, mi viene da chiedermi dove mettermi per avere quella conversazione. Non sul divano, è l'unica conclusione che raggiungo. Quindi sto in piedi, che è meglio. "Bill, sono... Peter."
Il mio nome suona sempre strano se non è lui a dirlo. Mi sento scemo a pronunciare quelle cinque lettere, perché ormai sono abituato all'altro. A Chakuza. Il mio vero nome non mi sembra più nemmeno tanto vero.
"Chaku..." lo sento inspirare e non so se è un sospiro rassegnato o se non se lo aspettasse. Se è emozionato, io ci provo a sperarlo. Mi fa male che non mi chiami Peter, però. Mi aspettavo che lo facesse. È una situazione da Peter. No?
"Ti disturbo?"
"No," risponde. Dovrei essere contento, in realtà è così incerto quando lo dice che forse dovrei prenderlo per quello che è: un modo carino di dirmi che invece lo disturbo. Solo che non lo faccio, ovvio. Un po' perché io non li ho mai capiti i velati suggerimenti e un po' perché ora che ho sentito la sua voce mi manca ancora di più. Sembra passato un secolo dall'ultima volta che eravamo seduti vicini a ridere.
"... volevo," metto il muto sul televisore. "... volevo sapere come stai."
"Bene," non lo dice con la convinzione con cui vorrei che lo dicesse e per qualche motivo me lo immagino che guarda in basso e giocherella con qualcosa a caso, tipo il laccio di una scarpa o l'orlo della maglietta. Quando è nervoso – lo so – stropiccia sempre qualcosa. Quand'era qui a cena e parlava di Bushido, finiva sempre con il piegare il bordo della tovaglia su se stesso finché non aveva più stoffa. Allora si fermava, rendendosi conto di aver ridotto la tovaglia ad un grosso serpente e rideva. La risata di quando si rende ridicolo, una specie di sbuffo, e gli diventano tutte le guance rosse.
"Dove sei?" Chiedo, cercando di far suonare la domanda casuale. Fino a quando non è successo il casino, sapevo sempre dov'era. Non si muoveva senza avvertirmi che sarebbe arrivato tardi, o a che ora sarebbe arrivato. Se andava da qualche parte, e da che parte andava. Ora che ci penso, ha passato i mesi prima della trasmissione a casa mia, e le settimane dopo in ospedale. E quando non c'era, raccontava dov'era stato. In ogni caso è stato sempre con me, in un modo o nell'altro. E' chiaro che mi manchi. Non è chiaro perché fosse così prima che gli mettessi le mani addosso. Non è chiaro perché gliele ho messe, le mani addosso.
"Sono da Tomi," mi dice.
Da Tomi non è una buona risposta. Da Tomi significa che sta male. Significa che ha pianto più di quanto sia normale che faccia, perché l'unica persona che si può sciroppare tutte le sue lacrime e che – soprattutto – sappia come fermarle, quello è Tom. All'improvviso mi chiedo che cos'abbia raccontato a suo fratello.
"Io sono a casa," gli dico, che è una cosa stupida dal momento che lui non me l'ha chiesto. E mi rendo anche conto che potrebbe suonare male, tipo che dal momento che sono qui, potrebbe venirci anche lui. Insomma, non è che l'avevo intesa così. "Cioè, così.. per dire," aggiungo. E riesco a peggiorare la situazione in molti modi diversi contemporaneamente. Tipo che faccio la figura dell'imbecille. Tipo che è chiaro a cos'ho pensato e perché ho dovuto specificare.
"Come vanno i tuoi punti?" Mi chiede lui. E lo stomaco mi fa un verso strano, mi si annoda, ecco. Poi ride, ed è ancora più bello. "Non li avrai fatti aprire di nuovo!"
Rido anche io. "No, è tutto a posto," già che ci sono uso la vetrinetta della credenza per darci un'occhiata, alzando la maglia. "Sta guarendo, devo andarli a togliere in settimana."
"Ti rimarrà la cicatrice?"
"Assolutamente sì," rispondo fiero senza nemmeno rendermene conto. Faccio una smorfia e mi do del cretino.
Lui però ride di nuovo. "Non dovresti essere tanto entusiasta," commenta, "ma immagino che per voi gangster sia motivo di vanto."
"Le cicatrici hanno il loro fascino."
"Già," la sua risata rimane, ma è un po' più spenta di prima. Capisco che stiamo di nuovo camminando su un terreno minato. "Gli altri come stanno?"
Intende Kay One ed Eko, ovviamente. E La domanda non mi sorprende, Bill si è sempre trovato bene anche con loro. Anche se Eko finge che di lui gli interessi meno della mia aragosta di peluche.
"Stanno bene," annuisco. "Sono stati a cena qui un paio di giorni fa."
"E sei riuscito ad offrire loro qualcosa di commestibile che non si muovesse già sulle sue gambe?"
"Hey, guarda che io so cucinare!" Protesto.
"Sì, ma non hai mai cibo in casa," ride lui. "Hai il metodo ma non la materia prima."
"Avevo fatto la spesa," specifico, "E hanno mangiato come maiali, per inciso."
"Beh Eko pesa poco più di me," commenta lui. "Non può aver fatto grossi danni."
Sollevo un sopracciglio. Non bene quanto lui, però. "Bill, tu mangi molto più di quanto sarebbe logicamente possibile."
"Mi stai dicendo che mangio troppo?"
"No!" E sbraito. Mi chiedo perché sbraito sempre quando sono agitato. Mi chiedo perché Bill abbia il potere di agitarmi tanto. "Sto solo dicendo che tutto quello che mangi poi non si sa dove lo metti. Ecco."
Lo sento ridere un po'. "Stavo scherzando, tranquillo."
A quel punto penso che potrei farlo, dirglielo ecco. Ci sto rimuginando da stamattina, da quando mi sono svegliato e ho pensato che fosse ora di telefonargli. Ho voglia di vederlo, e mi sembra che anche lui... non lo so, ecco. Non sembra infastidito. "Senti," comincio. E lo sento che si irrigidisce. Trattiene il respiro. Insomma, lo sento che siamo di nuovo tra le mine ma non mi fermo perché se lo faccio poi non avrò più il coraggio. "...magari potremmo prenderci una pizza una di queste sere..."
"Peter..."
Questo non è un discorso da Peter, cazzo.
"Possiamo andare al cinema, se non vuoi venire qui," mi correggo. "O andiamo a bere qualcosa. Sicuramente lo troviamo un posto in cui non ci siano fotogra-"
"Forse è meglio se non ci vediamo, per un po'," mormora. E ha la vocina sottile e dispiaciuta. Lo so che è dispiaciuto, ma io ho voglia di spaccare qualcosa lo stesso. Non gli dico niente, perché sicuramente di bocca mi uscirebbe la cosa sbagliata.
"Solo per un po'," insiste lui. La sua voce si è addolcita, sta cercando di convincermi di una cosa a cui non crede nemmeno lui. Quel poco di cui parla si trasformerebbe in molto. Forse in sempre. E tutto perché ho messo le mani dove non dovevo, quel pensiero continua a tormentarmi.
"Non succederà niente," esclamo alla fine. Non voglio rassegnarmi all'idea di una pausa. Lo so che è infantile e che me la sta chiedendo per favore, però non voglio dargliela. Ho paura che se lo lascio andare adesso e gli dico di sì, poi non lo recupererò più. "Te lo prometto, Bill."
Lui rimane in silenzio per qualche secondo. "Non puoi prometterlo," dice alla fine. "E nemmeno io."
Non posso dargli torto su questo. Non lo so cosa succederà davvero se me lo ritrovo davanti, perché nemmeno la prima volta so cos'è successo. Era lì, avevo voglia di toccarlo e l'ho fatto. Se non lo avessi fatto, questa telefonata non sarebbe mai esistita. E lui sarebbe qui adesso, sarebbe stato qui anche l'altra sera. La mia vita non sarebbe il disastro che è se io quella sera non lo avessi toccato. Eppure ho una gran voglia di rifarlo. Quindi forse ha ragione lui. Cazzo.
"Va bene," concedo alla fine, ma lo faccio controvoglia e solo perché è chiaro che se insistessi potrei ottenere quello che voglio e dovrei mantenere la mia promessa. La promessa non la manterrei. Ora lo so. La voce di Bill da sola basta a ricordarmi le sensazioni. E no, non la manterrei.
"Solo per un po'," ripete lui, ma tanto non serve a niente. "Ti chiamo io, va bene?"
Che vuol dire Non mi cercare. E nello specifico Questa è l'ultima volta che mi senti.
Non glielo dico che va bene, perché non va bene. "Io sono sempre qui, quando vuoi."
"Lo so," sussurra. Lo sento appena. E poi: "Mi ha fatto piacere sentirti."
"Anche a me."
Quando ci salutiamo gli trema la voce, e mi maledico perché non voglio che pianga. L'ho fatto piangere anche troppo nei giorni precedenti. Non gli dico niente però, perché sono nervoso e non saprei controllarmi. "Allora, ciao," mormora.
"Ciao principessa," chiudo il telefono prima di sentire qualunque cosa.
Né lacrime, né singhiozzi.
*
Non riesco più a stupirmi della presenza di Fler. Il che è allucinante, se si pensa che è effettivamente assurdo lui sia qui. D’accordo, dovrei fermarmi a pensare più approfonditamente al fatto che è stato lui a… farsi avanti andrà bene, come verbo? Comunque, a fare quello che ha fatto ieri sera. Io ci sono solo stato.
Dio.
Lancio un’occhiata all’orologio a muro, ovviamente sono le nove. Torno a guardare Fler che solleva una recipiente in plastica, quadrato e con un tappo rosa.
- Lasagne. – annuncia seriamente, - La signora Lotte mi aspettava sul pianerottolo.
Spalanco gli occhi.
- La signora Lotte ti ha dato delle lasagne per me?
- Be’, se vuoi mangiartele da solo, d’accordo, ma io non ho ancora cenato. Sempre che t’interessi. – borbotta facendosi strada all’interno del mio appartamento sgomitandomi in piena pancia.
- Attento! – blatero infastidito, - I punti!
- Tanto li togli giovedì. – scrolla le spalle posando il contenitore sul cucinino ed allungandosi verso uno stipetto per recuperare dei piatti che naturalmente non trova perché io non ho un servizio di stoviglie. Lo raggiungo e mi chino, ripescando un paio di piatti di plastica da un cassetto e posandoli accanto a lui. – Grazie. – annuisce aprendo il contenitore ed afferrando un coltello per dividere le porzioni, - Era giovedì, giusto?
Annuisco con aria assente e la mia porzione di lasagne si spiaccica sul mio piattino di plastica. La guardo: cola olio e mozzarella fusa e besciamella e tritato da ogni parte e tutto ciò è meraviglioso. Mi sale una fame boia, così all’improvviso, mangerei qualsiasi cosa. Fler mi allunga una forchetta ed io la affondo nella pasta il secondo successivo.
- Come mai così silenzioso? – mi chiede lui, osservando con aria critica lo sgabello. Ma pure seriamente, nel senso che lo squadra da ogni lato come se dovesse riprodurlo.
- Niente di particolare… - rispondo io, un po’ distratto perché mi perdo un attimo a cercare di capire cos’abbia di tanto sbagliato il mio sgabello perché Fler lo fissi in questa maniera intensa, - Fler, ma che c’è?! – chiedo alla fine, quando l’ansia si fa intollerabile.
Lui torna a guardarmi ed inarca un sopracciglio.
- Me lo dai un cuscino? – chiede quindi, indicando la superficie in legno sulla quale si suppone debba sedersi.
Potrebbe prendermi a ceffoni, di tanto in tanto. Sono sicuro che mi servirebbe.
- Subito! – mi agito, scattando in piedi e correndo letteralmente verso la camera da letto, dalla quale esco col cuscino che fa pendant con la sua coperta coi cavallucci marini. Lo agito tipo bandiera, come a rassicurarlo, sì, ce l’ho il tuo cuscino, Fler, ora puoi sederti.
Lui ride e me lo toglie di mano, arrampicandosi sullo sgabello – adesso morbido – con qualche problema di troppo, nonostante tutto.
- …come va? – mi forzo a chiedere mentre torturo le lasagne, chiedendomi se sia educato mangiare mentre si chiede una cosa simile.
Fler scrolla le spalle e manda giù una porzione di lasagne che probabilmente sarebbe stato meglio mangiare in due morsi differenti. Ma non posso fargli la paternale su questo.
- Oggi non è uscito sangue. – rivela alla fine. Non mi guarda ed io mi sento crollare qualcosa addosso e mi viene voglia di urlare.
- …ah. – annuisco imbarazzato.
- Credo sia una cosa buona. – continua lui, mandando giù un altro morso di lasagne, meno convinto del primo. Poi si volta a guardarmi e deve vedere lo sgomento nei miei occhi, perché riprende subito a parlare. – Non dovevo dirlo, mh?
- No, io-
- È che non ne parlo con nessuno. – aggiunge poco dopo, e su di noi cala il silenzio.
Annaspo.
- Sì! – cerco di dire con sicurezza, - Voglio dire, certo! Guarda che con me puoi parlarne! – annuisco deciso, - Sono contento che si stia… risistemando tutta la… situazione, mi fa piacere, ecco. Magari vieni in ospedale con me giovedì e… non so, ti fai controllare anche tu?
Fler scuote il capo.
- Io sto bene. – aggiunge, e manda giù altre lasagne. – Sul serio. Guarisco da solo.
- Fler-
- Mi hanno dato… delle cose. – è incerto, si mordicchia un labbro e i suoi occhi saettano confusi da una parte all’altra della stanza, - Intendo, lo so come devo curarmi. Non ti preoccupare.
Annuisco e lui finisce le lasagne mentre le mie sono ancora tutte qui. E dire che avevo fame sul serio.
Scende giù dallo sgabello e butta via il piattino, per poi dirigersi tranquillo verso il lavandino e cominciare a lavare la forchetta. Quando ha concluso mette le mani pure sul contenitore ormai vuoto ed unto, e mi sale un qualcosa dentro che mi fa scattare in piedi e muovermi verso di lui.
- Aspetta, aspetta… - sussurro, sfilandogli il contenitore di mano e chiudendo il rubinetto, - Non metterti a lavare i piatti, dai… - suggerisco con un sorriso.
Fler scrolla ancora le spalle e continua ad evitare i miei occhi.
- Era giusto per fare qualcosa. – dice, e nel suo tono c’è una certa ansia che non saprei identificare.
- Be’, lascia perdere. – dico, tirandolo un po’ verso il divano, - Faremo altro.
Fler si agita ancora, sento chiaramente che mi sta sfuggendo dalle mani e non ci sto.
- Okay, forse è meglio che me ne torni a casa. – borbotta, ma no, non voglio che se ne vada a casa. Dobbiamo risolverla, questa cosa, dobbiamo risolverla adesso o non ne usciremo davvero più.
Mi fermo e lo fronteggio, lo guardo dritto negli occhi e non intendo lasciarlo andare via prima di aver… concluso qualcosa. Qualsiasi cosa.
- Senti, non c’è bisogno di fare così. – dico con sicurezza, - Non voglio… farti male. – e stringo la presa sulle sue spalle. Solo che dopo scendo un po’. All’altezza dei gomiti. È troppo tardi quando mi accorgo di starlo stringendo per i polsi, lo sto già facendo. Non posso scendere più in giù di così, alle mani non posso arrivare, perciò mi accontento.
Fler deglutisce.
- Lo… lo so. – ma è incerto.
- No, non lo sai.
- No, no, credimi, - borbotta, cercando di liberarsi i polsi, - lo so che non era tua intenzione e che non ci pensi nemmeno a farmi niente, l’ho capito, stai tranquillo, sono solo-
Il calore umido della sua lingua lo incontro subito perché stava parlando senza guardarmi. Quindi non mi ha visto avvicinarmi. Non se n’è accorto. Ed è stato facile scivolare dentro di lui, perché era esattamente quello che volevo ed è facile zittire qualcuno che blatera così. Stringo e me lo tiro un po’ contro, Fler lancia un mugolio incerto ma quando schiudo gli occhi per controllare se sia con me vedo che lo è. Lo è eccome. Le palpebre sono distese e chiuse e le sue labbra si muovono morbide seguendo le mie.
Cristo, perché me lo lasci fare, Fler?
Lascio i polsi e lo stringo alla vita, è sottile per essere quella di un uomo, e lo attiro contro di me. Ci scontriamo l’uno contro l’altro e dal mio bacino parte una scarica elettrica che si diffonde nello stomaco e poi lungo le braccia, che scattano e lo stringono con più forza. Fler solleva le mani e le posa sulle mie spalle. Non stringe e non mi spinge, si posa lì e basta.
Mi muovo un po’ in avanti perché voglio trovare una superficie – una qualsiasi – contro la quale posarlo, perché voglio… non lo so nemmeno io cosa voglio ma voglio più libertà e stando così in mezzo alla stanza non ce l’ho, perciò avanzo ed alla fine trovo una parete, che non sarà il massimo della comodità ma almeno è solida e liscia. Fler ci si adagia contro ed io mi spingo contro di lui e rivoglio quella scarica lì, quella che ho sentito quando mi si è spinto addosso, arrivo a sentirla e mi ci perdo.
E lui allunga le mani e mi allontana. Un gesto secco ed affatto fraintendibile. Un attimo gli sono addosso, l’attimo dopo mi sta guardando come se non sapesse come darmi due di picche.
Vorrei dirgli che sto cominciando a farci il callo e di non preoccuparsi. Lascio perdere – mi chiedo quanto suonerebbe ridicolo e decido che sarebbe tanto.
- Pa- - comincio, ma mi fermo subito. – Fler?
- È tutto okay. – mi rassicura immediatamente lui, annuendo un po’ incerto, - Solo… basta così, per oggi, d’accordo?
Annuisco anche se vorrei mettermi ad urlare, nell’ordine, sull’okay che non esiste – perché niente è okay – sul basta così che non mi va giù – perché sono palesemente fuori di testa – e sul per oggi che mi fa ammattire su così tanti livelli che non posso nemmeno stare a contarli tutti.
- Senti, posso dormire qui stanotte? – mi chiede titubante.
Continuo ad annuire come uno stupido piccione e gli faccio strada verso la camera da letto – sono fuori di testa, è palese – se non che lui mi tira per la maglia e mi ferma ed io per poco non cado per terra ma mi volto a guardarlo come nulla fosse.
- Sì…? – cerco di informarmi sperando di non suonare come un completo deficiente, ma non mi viene bene.
- Dormo in poltrona. – annuisce tranquillo lui, - Mi dai solo la coperta?
Lo fisso.
- Ma non stai scomodissimo? – chiedo.
- No, va bene. – insiste lui, - Sul serio. Mi dai la coperta?
Penso che dovrei chiedergli perché non vuole tornare a casa sua. Ma ho un po’ paura di sentirmi rispondere che il problema non è che non vuole tornare a casa propria, ma che vuole restare qui nella mia. Il che è… decisamente troppo perché io possa decidere di affrontarlo adesso e con coscienza.
Sparisco in camera da letto e quando torno con la coperta lui s’è già rannicchiato in poltrona in una posizione incomprensibile. Lo copro e resto seduto sul divano finché non sono sicuro che dorma.
*
È giovedì. Gli ultimi tre giorni della mia vita sono riassumibili in pochi semplicissimi concetti e la mia mente è così stremata che ringrazio di essere ancora in grado di formularli.
Niente Bill. Che è in assoluto la cosa peggiore. Perché vuol dire che avevo ragione a pensare che “un po’” sarebbe diventato “sempre”. E non riesce ancora ad andarmi giù.
In compenso, Fler è venuto qui ogni giorno ed ogni notte s’è fermato a dormire. Sempre in poltrona. Ogni sera ha portato qualcosa da mangiare, tranne martedì, che s’è presentato senza niente ed io sono andato nel panico perché non c’era niente di veramente commestibile in tutto l’appartamento – forse la piantina di bambù che mi ha portato mia madre domenica, ma non sono sicuro che non sia già marcita anche quella. Alla fine gli ho fatto un uovo. Ce n’era uno solo, l’ho fatto a lui. Ha insistito per darmene a mangiare metà ed abbiamo passato il resto della notte piegati sul cesso a vomitare. Mercoledì, naturalmente, s’è presentato lui con del cibo chiesto palesemente in elemosina alla signora Lotte, che comunque l’ha preso in simpatia e lo fa con piacere.
Io sono tornato due ore fa dall’ospedale. I punti non ci sono più, è rimasta una striscia di pelle di un colore completamente differente rispetto al mio. È così diverso che sembra non mi appartenga neanche. Ma è un po’ una ferita di guerra e… me la sono procurata per Bill. Perciò resta dov’è, poco da fare.
Fler e ciò che sembra un’intera coscia di capretto attraversano puntualmente la soglia di casa alle nove. Fler sorride. Il capretto profuma di rosmarino.
Il terzo concetto base che sarebbe il caso io smettessi di farmi casualmente sfuggire di quando in quando, è che io e lui – Fler, non il capretto – continuiamo a saltarci addosso da quando ha stabilito che può dormire sulla mia poltrona. Prima o dopo succede comunque, e la cosa si muove sempre nello stesso modo. Io mi avvicino – o lui si avvicina – io lo sfioro – o lui mi sfiora – io lo bacio – insomma, ci baciamo – e poi lui mi allontana. E non è facile, non è facile neanche per un cazzo separarti da un corpo caldo che ti si stringe contro confondendoti al punto che non sai più neanche su che superficie lo stai schiacciando, non è facile fermarti anche se l’altra persona ti fa capire chiaramente che non vuole più andare avanti.
Mi sembra assurdo metterla in questi termini ma sono così frustrato che penso potrei esplodere. Così la scena che ha luogo fra me e Fler è del tutto surreale.
- Ho portato il capretto! – dice lui con entusiasmo, - Ti hanno tolto i punti?
- Sì, sì. – dico distrattamente io, avvicinandomi, - Ma quanti chili di capretto sono?
- Non così tanti… - borbotta lui soppesando l’enorme cosciotto con gli occhi. Questo non è un capretto, peraltro, come minimo è un vitello. – Comunque ora ci mettiamo qui tranquilli e lo mangiamo, se resta… no, non lo conservo nel tuo frigorifero. Finiamolo tutto. – annuisce alla fine.
- Ma non finirà mai! – mi sporgo e cerco di metterlo via, - E poi non ho fame!
Non so perché sto facendo così. Non è che voglia saltargli addosso, sono solo incredibilmente nervoso, voglio darmi qualcosa da fare e se questo qualcosa sarà tagliare fettine dalla coscia del capretto gigante geneticamente modificato fino a domattina per poi avvolgerle nel cellophane e metterle in freezer, d’accordo.
Ho voglia di urlare.
- Come mai non hai fame? – chiede Fler curiosamente. Ed io ho ancora più voglia di urlare. – Non ti senti bene?
- Sto benissimo! – ansimo agitato, mettendo le mani sul capretto e tirandolo via, - Parliamo d’altro! Tipo, fa un freddo cane, ti pare? Accendo i termosifoni.
- Non funzionano. – mi informa lui, cercando nuovamente di raggiungere il capretto. Io riprendo a tirarlo via. Mi sembra di stare giocando.
- Come non funzionano? – chiedo allibito. È casa mia, saprò cosa funziona e cosa no.
- Sentivo freddo ieri ed ho provato ad accenderli, ma niente. Dovrai sistemarli.
Per un attimo accarezzo l’idea di strillare “be’! visto che palesemente conviviamo e l’unica cosa che ci manca per dichiararci coppia di fatto è che, Cristo santo, non si scopa neanche a morire, direi che mi aiuti tu a sistemarli, i fottuti termosifoni, no?!”, ma poi lascio perdere. È evidente che non posso dire una cosa del genere. Piuttosto mi butto dalla finestra.
- …insomma! – biascico, e vado ad abbattermi sulla poltrona.
Fler mi viene vicino lasciando perdere finalmente il dannato capretto, e mi fissa con aria preoccupata.
- Chakuza, tu non stai bene. – annuncia seriamente, chinandosi un po’ verso di me, - Vai a letto, guarda, domani mattina ti sembrerà tutto più semplice. – annuisce convinto. Non so di cosa cazzo stia parlando. Probabilmente s’è convinto io sia ubriaco.
Non sono lucido, è vero, ma l’alcool non c’entra. Rilasso le spalle e mi passo una mano sugli occhi, sospirando pesantemente. Fler sospira a propria volta e resta dritto davanti a me, le mani sui fianchi, chiedendosi probabilmente cosa dovrebbe farsene di questa versione isterica di me stesso. Mi chiedo cosa dovrei farmene anche io. Mi servirebbe una doccia congelata.
Ed invece sollevo le mani e gliele stringo attorno alla vita, accarezzandogli vagamente i fianchi con i pollici.
- …ah. – prende atto lui, e resta immobile.
- …“ah” non è una risposta, Fler. – mi sgonfio io, stremato.
Lui trasale.
- Ma vuoi pure una risposta?! – chiede allucinato.
- Senti, ha senso non parlarne?! – chiedo io, ugualmente allucinato, tornando all’improvviso a guardarlo negli occhi.
Lui non se l’aspetta, tant’è che lo trovo che mi guarda con l’aria di una quattordicenne che non abbia proprio capito per quale motivo l’insegnante di ginnastica continui a fissarla con quegli occhi strani.
- Fler, mi dici qualcosa? – chiedo esasperato, stringendo la presa sui suoi fianchi, - Una qualunque cosa! Mandami a fanculo, se preferisci, però così non può continuare.
Lui esita. Mi guarda ancora un po’, poi si china su di me e cerca le mie labbra.
D’accordo, non è una risposta. Ma chi se ne frega.
Lo attiro per la nuca, lui si stupisce giusto per un attimo – è un attimo di rappresentanza, sapeva che l’avrei fatto – e poi, visto che la posizione così è scomoda, incastra le ginocchia ai lati del cuscino, vicino ai braccioli, così che sta a cavalcioni sopra di me ma non mi sta seduto addosso, che è una cosa intollerabile perché sta un casino lontano ed io invece me lo voglio sentire addosso sennò do di matto.
Faccio per tirarlo verso il basso e mi preparo a costringerlo se si rifiuta, ma non si rifiuta. Battiamo l’uno contro l’altro ed è la solita scarica, solo che poi continua, perché lui si muove ed ottiene uno strusciamento che Dio, mi manda in blackout, perciò lo tengo stretto per i fianchi e comincio ad odiare i vestiti, tutti, in blocco.
Decido che qui non possiamo più stare e scatto in piedi. Me lo trascino dietro, chiaramente rischiamo entrambi di morire perché non si può pretendere di alzarsi insieme da una poltrona e sopravvivere, comunque sopravviviamo per un qualche miracolo che non comprendo ed io comincio a spingerlo verso la camera da letto. Non mi sono ancora staccato dalla sua bocca neanche per un secondo. Non ci stiamo toccando moltissimo, per la verità, suona tutto un po’ troppo strano per prenderlo normalmente, però capita di sfiorarsi a caso, di tanto in tanto, ed i brividi sono fortissimi.
Non ci arriviamo, in camera da letto, Fler si abbatte contro la parete di fronte incespicando sulla moquette rovinata del corridoio ed io gli vado dietro, mi schiaccio contro di lui e lo sento che si ancora con un braccio al mio collo per non cadere. Non ci capisco molto, ho gli occhi chiusi, lui lancia un piccolo lamento ed io mi stacco dalle sue labbra – che sono gonfissime, Dio mio – e scendo a caso a morderlo sul collo, pure con una certa violenza, ma lui non sembra lamentarsi ed io penso Cristo, Cristo, Cristo, ci siamo, e dura tipo tre secondi.
Tre secondi sono il tempo che impiega Fler a schiudere gli occhi e visualizzare la camera da letto. Questi tre secondi li usa anche per irrigidirsi tutto, piantarmi le mani sul petto e spingermi via, come al solito.
- Fler… - mugugno affranto, perfettamente consapevole di stare riducendo in ginocchio la mia dignità, anche se alla fine mi pare di aver poco da perdere, nella situazione contingente, - cazzo, lo vuoi anche tu… - e non ho nemmeno il tempo di realizzare quanto stronza e cretina e fuori luogo suoni questa frase, che sono lontano già più di venti centimetri ed il calore del suo corpo non lo sento neanche per sbaglio.
- Forse è meglio che torni a dormire a casa mia. – borbotta confusamente, cercando di allontanarsi dalla parete senza per questo doversi avvicinare a me. Capisco che vuole veramente andarsene e cazzo, mi allontano. Cosa devo fare? Mi allontano e basta, cazzo.
Fler si muove lungo il corridoio ed io lo fisso e non so se vorrei uccidere lui o ammazzarmi da solo. Comunque non lo fermo. Quando sento il clack della porta che mi annuncia che è andato via, in compenso, mi dirigo serenamente verso il salotto e comincio metodicamente a distruggere casa. Prima i soprammobili – ormai mia madre porta solo roba di gomma. Qualsiasi cosa rimbalza sul pavimento e si perde sotto i mobili, ma non si rompe niente – poi i mobili – rovescio tutti gli sgabelli, uno dopo l’altro, ci finisce di mezzo pure il cosciotto del capretto geneticamente modificato che cade per terra e no, non si rompe ma di sicuro non sarà più mangiabile. Non so quanto tempo passi, so che me la prendo pure con i fornelli e con le cassettiere e so che per tutto il tempo non faccio che darmi del cazzone e non so neanche perché. Continuo ad avere difficoltà ad identificare il motivo del mio scazzo. Non so più neanche se è solo colpa di Fler. C’è ancora Bill, Cristo, è ovunque. È come se tutto partisse da lui. Non ce la faccio più.
Non so quanto tempo è passato quando arrivo di fronte alla poltrona. Mi viene voglia di farla a pezzi e bruciarla, almeno mi scalderei, ma poi la prendo per le gambe e la ribalto, sto accarezzando l’idea di saltarci sopra, sono sudato ed ansimo e non so come, sopra i miei respiri e sopra la rabbia, riesco comunque a sentire il campanello.
Fisso la porta con aria allucinata per un tempo lunghissimo, ci metto un po’ a rendermi conto che mi tocca comunque andare ad aprire. Prego in svariate lingue che non sia la signora Lotte – potrei averla svegliata. O qualche altro inquilino del palazzo, chissà fino a dove s’è sentito l’eco della devastazione.
E invece è Fler. Lo guardo e non riesco a realizzarlo, ma è lui. Mi fissa come non sapesse che dirmi, poi lancia uno sguardo all’appartamento, spalanca gli occhi e schiude le labbra.
Vorrei mandarlo a fanculo ma, quando apro la bocca, esce una cosa completamente diversa.
- Sei tornato…
Lui torna a serrare le labbra ed annuisce, semplicemente.
- E questo significa? – cerco di capire io, stringendo una mano attorno alla porta.
Palesemente non sa cosa dirmi. Abbassa lo sguardo, si tortura il bordo della felpa con le dita, poi torna a guardarmi e si fa avanti. Pressa le labbra contro le mie e sinceramente non mi serve sapere altro. Se mi manda in bianco di nuovo, però, giuro che l’ammazzo.
Mentre lo strattono con poca delicatezza verso la camera da letto – almeno quello posso offrirglielo – Fler cerca di ricavarsi lo spazio per qualche domanda fra le mie labbra.
- Chakuza… - ansima incontrollatamente, - ma come facciamo?
- In qualche modo. – rispondo deciso io, cercando di zittirlo, - Poi ci pensiamo.
- Poi è adesso. – insiste lui, cercando di allontanarsi, - Senti, è pericoloso, forse-
- Cristo. – lo interrompo, posandogli una mano sulla nuca e fermandomi un attimo prima di baciarlo ancora, - Sei tornato. Un modo lo troviamo. Non sarò… faccio attenzione, ok?
Lui esita un secondo e poi annuisce, io non ho la minima idea di cosa sto facendo né di cosa farò a breve ma lui mi lascia fare e finché lui mi lascia fare io sono a posto. Si stende sul letto ed io mi stendo sopra di lui, mi reggo sulle braccia e mi chino solo per baciarlo, non lo tocco quasi. Questa cosa non ha senso e non mi interessa. Lo prendo per un fianco e lo spingo di lato, spero che capisca che voglio che si giri perché non posso dirglielo ad alta voce.
Grazie a Dio lo capisce, lo vedo voltarsi ed affondare il viso contro il cuscino. Da qui in poi so come si fa, non bene ma posso intuirlo. Lo spoglio appena, solo quello che serve, la situazione è già abbastanza assurda così com’è e possiamo prenderla solo come una soddisfazione momentanea, se non ci spogliamo del tutto. Voglio dire, cazzo, sono giorni che mi tira scemo. È una soddisfazione e basta. Non è niente di che.
Cerco di fare piano. Il preservativo lo trovo in fondo al cassetto. Non ricordavo ci fosse, lo speravo e basta. Cerco di lubrificarmi con un po’ di saliva – abbondante, okay, lo ammetto, sono terrorizzato, cazzo – non so esattamente quanta ne serva, direi che vado ad intuito. Spero di non combinare disastri.
Mi fermo al primo gemito. Fler lo soffoca contro il cuscino ma io lo sento lo stesso. Non gli chiedo se devo smettere perché non voglio smettere. Prego che mi lasci andare avanti. Ma è un po’ difficile rispondere “no” ad una domanda che nessuno ti pone, perciò io non chiedo e lui non risponde. Lo prendo per un assenso e mi muovo ancora.
- Piano. – mormora lui, ma non solleva il viso dal cuscino. Non so cosa fare. Avanzo piano, è l’unica cosa cui riesco a pensare; questa, e quanto sia simile la sensazione rispetto a quella che ho provato la prima volta. Sentirlo aprirsi al mio passaggio è ancora inebriante. Sentirlo tendersi sotto di me è eccitante.
Faccio sinceramente fatica a tenermi fermo.
E quando lo vedo scendere ad accarezzarsi fra le gambe tiro un sospiro di sollievo e comincio a muovermi più velocemente. Mi piego su di lui e scorgo un pezzetto della sua faccia – l’espressione è tesa ed addolorata – non sta bene proprio per niente ed ho il timore che accarezzarsi non sia altro che una distrazione neanche tanto efficace. Vorrei poter fare di più, vorrei provarci almeno, ma non lo faccio. Continuo a spingere ed a me, cazzo, piace tantissimo. Lui ansima e geme ma non sta bene. Non sta bene ed io dovrei smetterla di essere la causa di questo suo non stare bene.
Cazzo.
È così stretto che mi muovo a stento.
Al momento spero solo che non sanguini.
Vengo e lui probabilmente nemmeno se ne accorge. Lui non viene affatto. Smette di accarezzarsi nel momento esatto in cui io smetto di spingere, confermando che sì, si trattava solo di una distrazione.
Tutto ciò è deprimente.
Non posso neanche dire non sia stato bello. Ma cosa cazzo è stato?
Mi seggo sul materasso al suo fianco e lui rimane immobile a lungo, si prende un sacco di tempo solo per riprendere fiato. Almeno non sanguina. Non sembra nemmeno felice, comunque. Rimango in silenzio ed aspetto che sia lui a dire qualcosa. Il problema è che non dice niente. Passato qualche minuto, tira su i jeans e si rimette in piedi.
Lo fisso, sconvolto.
- Fler? – chiedo, - Dove… come va?
Se mi sta guardando, non lo so. È buio, non lo vedo.
- Tutto a posto. – dice a bassa voce.
- Sì, okay. – insisto io, - Dove stai andando?
Solleva un braccio, indica la porta della stanza.
- Sulla poltrona. – risponde piano, - La coperta… - si china a recuperarla dal comodino dove l’ha posata lui stesso stamattina, prima di andare via.
- Aspetta… - mi agito e mi rivesto, allungandomi sul materasso verso di lui, - Non puoi andare sulla poltrona, Fler-
- Sto bene. – mi interrompe lui. È durissimo. Mi fermo come paralizzato, lui se ne accorge e sospira, moderando il tono di voce. – Sto bene. – ripete, più conciliante, - Preferisco dormire lì. Dormo meglio. – sorride, sento lo sbuffo nel buio. – Buonanotte.
Vedo solo la sua sagoma che si allontana. Fler non dimentica di chiudersi la porta dietro alle spalle, quando se ne va.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash, Violence, Rape.
- "Ho preso la fottuta Zipfer e mi ha rovinato il sapore in bocca per tutta la serata, che poi è il motivo per cui mi sono alzato e sono andato via e adesso sono qui in questa strada e mi sto dirigendo verso quel portone scassato là sotto."
Note: ._.
E tendenzialmente quella faccina basterebbe ad esplicitare il mio stato d’animo, ma come voi tutti sapete la mia è una logorrea inesauribile perciò parliamone. Anche perché parlare aiuta a superare i traumi e qui tutti abbiamo bisogno di superare un trauma ;_; Mi pare evidente. Il mio trauma, nello specifico, è che questi due veramente li amo. Mi piacciono un sacco come coppia (non necessariamente in senso romantico… cioè, sì, anche, ma mi piacciono le loro interazioni perché hanno un rapporto molto virile e goliardico, insomma, son belli ç_ç) e, credetemi, non esagero se dico che sogno di scrivere questa shot da mesi. Seriamente. Da quando abbiamo cominciato a plottare EKR con Tab. È un sacchissimo di tempo fa. Ed io li ho amati all’istante, quando abbiamo cominciato a scegliere i loro ruoli e i loro destini.
Per la verità questa… cosa… non doveva avvenire esattamente in questi termini. Il mio difetto (forse anche un pregio, dipende dai punti di vista) è che lascio molto parlare ed agire i personaggi. Io scrivo in un roleplay continuo, se così si può dire, in cui sono contemporaneamente tutti. Non decido, lascio decidere. E loro due hanno deciso così. Perciò una scena che nelle intenzioni mie di fangirl era sì rabbiosa e “ruvida”, per così dire, ma niente di più, è diventata qualcosa di decisamente più pesante che spero non vi abbia fatto troppo del male ^^”
Il titolo – unica parte palesemente meravigliosa della shot – è rubato ad un’altrettanto meravigliosa canzone dei Linkin Park, e significa “una cura per il prurito”. Lo amo perché riassume veramente in pochissime parole entrambi i concetti che la shot porta avanti: se, nella prima parte, l’alcool è il “prurito” di Fler e Chakuza è la sua “cura”, nella seconda parte il “prurito” di Chaku è Bill e la sua “cura” è Fler. E questo è un concetto meraviglioso per il quale penso mi amerò a lungo in futuro u.u
In ogni caso, il Fler della prima parte è palesemente un tatolino sperduto. Dio mio. Cosa ho fatto. Sono come il Chaku, non me lo perdonerò mai XD
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CURE FOR THE ITCH

Una Klosterbräu, una Becks e una Charly Brau. Poi una tequila. Poi dello scotch. Un’altra Klosterbräu e poi ho meditato se ricominciare il giro con un’altra Becks ed un’altra Charly Brau. Alla fine ho preso una Zipfer e sono sicuro all’ottanta per cento che sia a causa della fottuta birra austriaca se adesso sono qui. Avrei dovuto ricominciare il ciclo con la Becks, magari sarei svenuto nel locale. Il proprietario mi trova simpatico, dato che probabilmente gli sto pagando l’università per la figlia, visto quanto spendo lì ogni giorno. È meglio che non sappia che la ragazzina me la sono scopata un paio di volte la settimana scorsa, o finisce che invece di chiamarmi un taxi come ha fatto fino ad ora mi getta lungo disteso sul marciapiedi e lì mi lascia.
Comunque non l’ho presa, la Becks. Ho preso la fottuta Zipfer e mi ha rovinato il sapore in bocca per tutta la serata, che poi è il motivo per cui mi sono alzato e sono andato via e adesso sono qui in questa strada e mi sto dirigendo verso quel portone scassato là sotto.
Sbatto contro un tizio un attimo prima di attraversare la strada, e me ne accorgo solo perché lui mi mette le mani addosso e mi rimette dritto prima che io possa cadere sull’asfalto.
- Vattene a casa, ubriacone! – si lamenta quello, non vedo neanche che faccia abbia, lo ignoro. – Stai barcollando!
- Non sono nemmeno brillo… - rispondo a mezza voce, ma quello naturalmente non può sentirmi perché è già lì che se ne va avvolto in quel suo bel cappotto scamosciato beige e giusto che ci penso sto morendo di freddo, si vede che siamo a novembre, non ci posso più andare in giro in felpa, è meglio che me lo ricordi per il futuro, Dio, mi viene da vomitare.
Attraverso la strada e sbando un po’ di qua e un po’ di là, non tanto, insomma, non tantissimo, ecco, so che crollo sul muro e pesto un po’ di pulsanti a caso sulla placca del citofono. Speriamo di beccare quello giusto, nel mucchio. In questo momento non mi ricordo neanche come fa di cognome Chakuza. Un qualche stupidissimo cognome austriaco come la stupidissima birra austriaca che è quella che mi ha portato qui questa notte.
Mi risponde una voce di donna che decisamente non è Chakuza.
- Chi è? – chiede, per un attimo mi domando se non sia qualcuna che lui s’è portato a casa, ma il tono è quello della signora anziana e non sono ancora tanto ubriaco da pensare credibile un’ipotesi del genere… o magari a Chakuza piacciono vecchie, chissà, è pure possibile.
Okay, forse sono davvero ubriaco.
Non rispondo e premo un altro pulsante a caso, la tipa continua, “chi è? Chi è? Guardi che chiamo la polizia!” e vorrei rispondere che non è la prima volta, ma da un lato ho una nausea che già la metà basterebbe a stendermi se non ci fosse tutto questo fottuto freddo, e dall’altro sento una voce ruvida e profonda che si intreccia con quella acuta e spaventata della vecchina e penso “bingo! L’ho beccato!”, ed in effetti dall’altro lato del citofono c’è Chakuza che mi chiede chi sono.
- Sono Fler… - rispondo, e mi viene da ridere perché il mio nome è comico quando sono ubriaco, si allunga. Fleeeer.
Chakuza non dice nulla, per qualche secondo si prolunga un silenzio stranito e poi la serratura del portone scatta ed io posso rotolare dentro l’ingresso, che è congelato e odora di muffa. Sarei dovuto andare a casa di Sido, casa di Sido è stupenda e c’è il tappeto rosso all’ingresso e lungo tutte le scale, però non posso presentarmi da Sido in queste condizioni. Avrei dovuto andarmene a casa mia, che è congelata e odora di muffa esattamente come qui, ma almeno lì non mi sputtanerei con nessuno.
Arranco sulle scale maledicendo l’assenza di un ascensore, mi aggrappo al corrimano cercando di non scivolare ma ho le dita congelate e non fanno granché presa – peraltro è freddo anche lo stupido metallo, qui. Odio questo posto.
Chakuza mi aspetta sul pianerottolo, ha una mano sulla porta e la tiene aperta mentre si sporge per osservarmi emergere dalla rampa di scale, io lo individuo ed individuo anche una signora avvolta in una vestaglia felpata di un verde smeraldo così brillante che secondo me luccica sul serio, non per colpa della tequila.
- E questo chi sarebbe? – chiede la donna, è quella del citofono.
Chakuza è imbarazzato.
- Non si preoccupi, signora Lotte, è un amico.
- Sono un amico! – confermo annuendo. E tutto all’improvviso vedo il pavimento che si avvicina verso la mia faccia. Così, senza preavviso. Dico, ma dove vive Chakuza? In una casa che si muove per i fatti suoi? Non è una bella cosa.
Mi sento afferrato per le spalle un attimo prima che il pavimento mi dia uno schiaffo e quando sollevo lo sguardo vedo Chakuza che mi fissa allucinato, mentre mi rimette in piedi e cerca la mia vita per stringermi e aiutarmi a camminare.
- Diosanto, ma quanto hai bevuto?! – mi chiede, sconvolto, mentre la signora con la vestaglia fosforescente si rintana preoccupata in casa propria.
- Una birra! – rispondo con un mezzo broncio, nessuno crede che non sono ubriaco, dico, che sta succedendo in questa città?!
Chakuza si chiude la porta alle spalle mentre incespichiamo entrambi su qualcosa che c’è buttato sul suo pavimento, anche se non capisco cos’è… in realtà ci sono tante cose buttate sul suo pavimento, solo che è scuro e non è che riesca ad identificarle proprio tutte… forse quella era una maglietta, comunque. Rido.
- Non sono io che cado, è la tua casa che è piena di trappole, Chakuza! – ha un nome lunghissimo anche lui! Però è spigoloso, il mio è più divertente. – Chakuza, Chakuza… - lo richiamo, a forza di dirlo è carino, - te ne sei mai accorto che ho un nome lunghissimo? – lui mi guarda strano ed io gliene do la prova, - Fleeeer… - cantileno dondolandomi un po’.
- Ma se sono solo quattro lettere… - protesta lui. Evidentemente non sa contare le e! Sono molto deluso, - Cristo, Fler, ma lo sai che ore sono?!
Scrollo le spalle, non ne ho idea.
- Sono le tre del mattino! – mi informa, irritato.
- E tu già facevi la nanna? – lo prendo in giro, mi accorgo solo adesso che ha addosso solo una maglietta e un paio di pantaloncini, non so perché lo trovo divertente. Comunque rido.
Lui arruffa le penne e mi fissa come se mi dovesse rimproverare.
- “Già” è un concetto molto meno relativo di quanto non pensi tu! È oggettivamente tardi!
Mi lascia andare ed io cado su una poltrona. Cioè, prima sbatto col sedere su un bracciolo e poi scivolo con un tonfo sul cuscinone che fa puff e mi scappa un’altra risata perché questa casa sembra viva.
- Parli difficile, Chaku… - borbotto e sbadiglio perché ho sonno. Mi alzo in piedi. – Dov’è il letto?
Lui mi guarda stralunato, tira fuori un paio di occhi enormissimi.
- Il letto?
Mi avvicino e lo fisso male.
- Voglio dormire! – spiego. Perché non mi capisce?! Mi sembra di parlare facile!
- Oh. – prende atto, forse mi ha capito, - Oh, no! – aggiunge, e mi riprende per le spalle, riportandomi indietro neanche fossi un bambino piccolo. E va bene, se vuole che faccia il bambino piccolo farò il bambino piccolo!
Mi metto a piagnucolare.
- Chakuzaaaa… - lui ha un sacco di a. Ma le mie e sono più belle. – Fammi dormire!
- Quello che vuoi, Fler, ma non nel mio letto! – precisa, e mi sa che ha ragione, non si dorme nel letto coi maschi, me lo diceva sempre pure Anis, cioè, me l’ha detto una volta che è rimasto da me per la notte e gli ho detto che se voleva poteva dormire con me, tanto avevo il letto a una piazza e mezzo, ci stavamo, e lui ha riso e ha detto “non ci dormo mica nel letto con un maschio”, ed oggi se fosse vivo mi verrebbe un po’ da tirargli un cazzotto, ad Anis, eh, ma giusto perché è uno stronzo, cioè, era uno stronzo, mica per altro.
Ricado indietro sulla poltrona – sempre prima sul bracciolo, non c’è verso di centrare il cuscino, la bastarda si sposta – e mugolo. Chakuza mi guarda come se avessi le antenne.
- Che vuoi?! – gli tiro dietro un cuscino a caso, lui lo prende in faccia senza muoversi.
- Ma sei la stessa persona con cui ho parlato le altre volte…? – mi chiede sconvolto. Io mi accuccio sulla poltrona.
- No, il gemello cattivo. – rispondo tirando su le gambe, - O buono. Non lo so. A te piacciono i gemelli, eh Chakuuuu? – ha anche un sacco di u.
Scuote la testa e mi sento molto preso in giro, perciò chiudo gli occhi e mi volto dall’altro lato facendomi male ovunque perché la poltrona è dura, accidenti a lei, e proprio mentre sto per addormentarmi mi sento piovere addosso una cosa calda e morbida e apro gli occhi e ci sono cavallucci marini ovunque.
- L’oceano! – rido e batto le mani. Chakuza si è seduto sul divano, volto la testa e lo guardo dal basso verso l’alto, continuando a ridere, - Sono caduto in acqua!
Ride anche Chakuza, e mi dà una pacca sulla fronte.
- Cerca di dormire, sei completamente fuori…
Io annuisco perché, anche se mi tratta come un bambino, è stato tipo un bravo papà. Cioè, io non ce l’ho mai avuto un papà, e quando ho fatto tanto di trovarmene uno ho combinato un disastro, però Chakuza potrebbe essere un bravo papà, forse, ha delle belle coperte morbide con dei disegni carini. Gli dico buonanotte e lo sento ridere ancora prima di tornarsene in camera, e la sua risata un po’ roca è l’ultima cosa che sento e penso che uno a queste cose può anche abituarcisi in fretta.
*
Cristo che mal di testa del cazzo. Io non posso aprire gli occhi, stamattina. Cioè, mi fa male la testa al solo pensiero di aprire gli occhi e fare passare della luce attraverso le palpebre. Già quella che filtra è abbastanza da mandarmi in confusione. Dio mio come mi pulsa il cervello. Cazzo, non ricordo cosa ho bevuto ieri ma deve essere stato qualcosa di davvero disgustoso. Ma davvero tanto.
Faccio per muovere un braccio – non ho ancora aperto gli occhi né intendo farlo a breve – ma lo trovo incastrato. Non capisco cos’è che lo tenga incastrato perché ha perso totalmente sensibilità. Non sono neanche tanto sicuro di avercelo ancora, un fottuto braccio.
Dovrei aprire gli occhi e guardare ma sono terrorizzato dal dolore.
E però a un certo punto sento una risatina provenire da qualche parte alla mia destra e mi spavento al punto che gli occhi li spalanco di scatto.
E morire trafitto da un centinaio di lance sarebbe stato meno doloroso.
- Cristo! – sbotto, e tutto il mio intero corpo scatta e si richiude a riccio. Così scopro che, tanto per cominciare, il mio braccio era incastrato sotto la mia gamba, e non l’ho capito prima perché non è solo il mio braccio ad essere privo di sensibilità, è anche la mia gamba. E probabilmente pure tutto il resto del mio corpo.
Cerco di schermarmi contro la luce del sole che non ne vuole sapere di lasciarmi in pace e riesco perfino a dimenticare la risata che mi ha tanto spaventato. Solo che poi la risata ritorna.
Ed io mi volto lentamente verso la sua fonte.
E scopro altre due cose: primo, sto su una poltrona. Lo scopro perché, come mi giro, casco sul pavimento. Mi accoglie un tappeto peloso mica tanto pulito, ma almeno morbido.
La seconda cosa che scopro è, appunto, di aver comprato un tappeto peloso e sporco.
In alternativa, questa non è casa mia.
Sollevo lo sguardo e c’è Chakuza – no, dico, Chakuza! – che mi fissa.
Ok.
- Dove sono?
Chakuza ride ancora, ma stavolta non è una risatina, è proprio una risata, allegra, tonante, divertita, mi rimbomba nel cervello con una violenza inaudita ed io mi accoccolo sul tappeto, la testa fra le braccia, piagnucolando disperatamente.
- Cristo, pietà… parla piano… - imploro stremato, tornando a fingermi una palla incosciente mentre Chakuza si piega sulle gambe e molleggia un po’, battendomi un paio di pacche sulle spalle.
- Fleeeeer, - mi chiama divertito, - dovevi svegliarti, prima o poi.
Dolore. Perché strascica così il mio nome? Dio mio.
- Che hai da chiamarmi così? – protesto schiudendo un occhio e cercando di metterlo a fuoco con scarsissimi risultati.
- Fleeeeeer! – ripete lui, e ride ancora, sempre più divertito. Rinuncio a capirci qualcosa.
- Ma dove sono? – chiedo, aggrappandomi alla poltrona e rimettendomi in ginocchio mentre medito sulla possibilità di alzarmi perfino in piedi. Mentre io seguo questo logicissimo processo mentale, Chakuza salta in piedi con l’entusiasmo di un bambino di sei anni che va verso l’albero la mattina di Natale, e si dirige verso la cucina.
- A casa mia, naturalmente. – risponde serafico maneggiando la caffettiera.
- Questo è impossibile. – affermo issandomi sulla poltrona e asciando mici ricadere sopra, esausto, - Io non so dove abiti.
Chakuza ride.
- Sì che lo sai.
- Lo sapevo ma l’ho dimenticato! – cerco di spiegare. Non è facile fargli capire che in questo momento, se lui non avesse ripetuto il mio nome cantilenandolo come un deficiente, non ricorderei nemmeno quello. Che poi, Fler non è il mio nome. Non voglio chiedermi come mi chiamo, ho paura di non avere una risposta da darmi.
Chakuza annuisce e mette la caffettiera sul fuoco, appoggiandosi al cucinino con aria navigata mentre torna a guardarmi.
- Dì un po’, quanto hai bevuto ieri?
Imbarazzato, abbasso lo sguardo.
- …non me lo ricordo. – ammetto in un soffio.
- Hai dimenticato anche questo? – mi prende in giro lui, avvicinandosi e sedendosi sul divano qui accanto. Io non torno a guardarlo. – Seriamente, Fler, questa cosa si ripete spesso? Eri mezzo ubriaco pure la prima volta che sei venuto qui, ti ho dovuto riportare in te a cazzotti-
- Tu non mi hai preso a cazzotti per riportarmi in me, la prima volta che sono venuto a casa tua. – preciso con una smorfia colma di disappunto, tornando finalmente a guardarlo. Lo trovo che mi sorride tranquillo. - …succede ogni tanto, comunque. – mi ritrovo controvoglia a rispondere, con un sospiro.
Chakuza annuisce con competenza e mi guarda con compassione.
- Non ti sei ancora ripreso da- - fa per chiedermi, ma non intendo sostenere questa discussione, visto che so già dove va a parare, perciò mi alzo in piedi e combatto contro la mia debolezza, contro il dopo sbornia ed anche contro la forza di gravità per restarci, dritto come sono, e lo guardo dall’alto in basso.
- Non ti preoccupare per me. – ringhio infastidito, - Sono perfettamente in grado di badare a me stesso.
Chakuza inarca le sopracciglia e si solleva a fronteggiarmi da una posizione di svantaggio minore.
- Fler, tu non puoi presentarti a casa mia alle tre del mattino svegliando tutto il palazzo, crollare sulla mia poltrona, svenire, dormire dodici ore e poi dirmi che sei perfettamente in grado di badare a te stesso! È palese che non lo sei!
- L’alcool non mi ha ucciso in ventisei anni, dubito fortemente che comincerà a farlo adesso! – ribatto con veemenza, ed al momento non mi interessa se il discorso in sé non ha senso. Voglio solo ingannare il tempo mentre aspetto che il caffè sia pronto, poi scroccargli una doccia, magari, e tornarmene a casa, riprendere possesso dei miei spazi e fare finta che tutto questo non sia mai avvenuto.
E, già da stasera, ricominciare a sbronzarmi perché non so cosa farmene di me stesso ora che la mia ossessione è morta.
- Fler, potrebbe succederti di tutto! Potresti svenire per strada o sentirti male, che cazzo, vuoi proprio rimetterci la pelle?! – si infuria lui, dirigendosi a grandi passi verso la cucina e spegnendo il fornello per versare il caffè in due tazzine, - Cerca di volerti un po’ bene, Cristo, piantala di bere.
- Ma tu sei un rapper o una suora di carità? – mi lamento avvicinandomi a mia volta ed allungando una mano. Lui mi porge la tazzina senza che neanche io abbia bisogno di chiedergliela. – Grazie.
- Smetterai di bere? – mi chiede lui, invece di rispondere un più che adeguato “prego”.
- Non sei mica il mio frate confessore, eh. – protesto, - Anzi, per la verità non ti ho confessato proprio nulla, stai facendo tutto da solo.
Lui incrocia le braccia sul petto e non beve il suo caffè. Cerco di capire a cosa gli serva l’altra tazzina, ma avviene tutto molto naturalmente quando poso sul ripiano la mia ormai vuota, allungo di nuovo la mano e lui me la porge. Ecco a cosa serviva l’altra, penso, buttandone giù il contenuto amarognolo.
Torno a guardarlo. Adesso almeno sono sveglio.
- Posso farmi una doccia? – chiedo titubante. La domanda successiva è “mi presti qualcosa di pulito da indossare?” e non so perché la cosa mi manda nel panico.
- Intanto puoi dirmi che smetterai di bere. – insiste lui, fissandomi deciso.
- Sì, ma io non voglio dirtelo. – cerco di fargli capire, e quasi mi viene voglia di ticchettargli con le nocche sulla testa per vedere se si sente l’eco del vuoto. – Perché io non voglio smettere di bere.
- Stai facendo il bambino. – mi fa notare lui mentre io roteo gli occhi disapprovando ogni attimo di questa conversazione.
- Veramente, sto solo facendo quello che mi pare e piace. – correggo in uno sbuffo.
- Appunto. – annuisce lui con aria critica, - Fler, hai promesso che mi avresti aiutato a proteggere Bill.
Sibilo fra i denti, infastidito. Era proprio necessario andare a battere sui sensi di colpa? Come fossi un uomo sereno e rilassato, io. Come se mi servisse, tanto per cominciare, mettermi al servizio di un ragazzino che palesemente sta in un posto in cui non dovrebbe stare.
Poi ricordo che sì, mi serve, perché devo chiedere scusa a Bushido, in qualche modo. E questo è l’unico modo.
- Posso farmi una doccia? – ripeto, passandomi una mano sugli occhi.
- Smetti di bere o no?! – ritorce lui, un po’ indispettito, piantandosi mani sui fianchi fra me e il bagno.
- D’accordo, d’accordo! – concedo senza neanche rendermene conto davvero. Voglio solo farmi scorrere addosso un po’ d’acqua calda e tornarmene a casa, penso che direi di sì pure se mi chiedesse di vendergli mia madre per tenersela in salotto come scultura vivente. – Ora posso farmi una doccia?!
Chakuza sorride trionfante.
- Domani sera alle nove. – risponde.
Io lo fisso.
- Devo aspettare domani sera alle nove per farmi una doccia? – chiedo stupito, - E intendi tenermi qui per tutto il tempo?
Chakuza ride e mi tira una pacca sulla spalla. Io potrei anche morire, sento l’eco di quel ciaff in tutto il corpo.
- Domani sera alle nove ti voglio qui a rapporto per farmi vedere che non hai bevuto, Fler. – precisa bonario, - La doccia puoi anche farla ora.
Continuo a fissarlo.
- Come, scusa?
Chakuza annuisce come a rassicurarmi sulla perfetta normalità di ciò che ha detto. Potrei essere d’accordo, se non avesse appena deciso di essere il mio babysitter o qualcosa del genere.
- Hai detto che smetterai di bere, ma non pretenderai mica che ti creda sulla parola. – mi spiega.
- Cioè, cazzo, - sbotto io, allucinato, - mi stai chiedendo più garanzie ora per questa cazzata che non quando ti ho detto di credermi sulla mia innocenza per l’omicidio di Bushido! Hai qualcosa che non va nella testa, tu!
Scrolla le spalle.
- Be’, allora si trattava di una persona già morta. – illustra tranquillo, facendomi strada verso il bagno, - Potevo fidarmi o non fidarmi ma non sarebbe cambiato poi molto. Adesso invece si tratta di te che sei vivo. – sorride, - Quindi, fidarmi o non fidarmi può cambiare un sacco di cose.
Rimango un attimino a fissarlo imbambolato, lo ammetto.
Poi scoppio a ridere e neanche il mal di testa può fermarmi.
- Verrà fuori che sei vegano ed iscritto al movimento per la difesa dei diritti delle donne, io lo so. – lo prendo in giro, piegandomi un po’ sulle ginocchia perché questa risata è soddisfacente ma mi sta sfiancando. – Senti, ce l’hai qualcosa da prestarmi? – chiedo, decisamente più rilassato, mentre lo osservo distogliere lo sguardo imbarazzato. Scommetto che pensava di fare il gran figo, dicendo quella cosa prima. È quasi tenero. – Questi vestiti puzzano ed ho bisogno di un cambio, dopo la doccia. Prometto che poi ti riporto tutto lavato.
Chakuza borbotta qualcosa di indefinito mentre scompare in camera da letto e ne riesce qualche secondo dopo con un paio di asciugamani, una maglietta, un paio di pantaloni, dei calzini e dei boxer.
- Mai prestato roba mia ad un altro essere umano. – ci tiene a precisare porgendomi il tutto, - Ritieniti onorato. E appena domani ti presenti qui sbronzo, ti prendo a cazzotti. Di nuovo.
Rido e m’infilo in bagno senza una parola di più.
*
Aaah, non ricordo cosa ho bevuto. Mi irrita, questa cosa, a me piace fare la conta delle cose che ho bevuto, quando faccio la conta delle cose che ho bevuto vuol dire che riesco ancora a ricordarmele e quindi forse alla fine non ne ho bevute poi così tante, solo un pochino. E invece non riesco a fare la conta quindi mi sa che ho bevuto un tantino troppo.
Però sono in orario! Controllo di nuovo l’orologio al polso, le lancette sono un po’ sfocate però le vedo! La lunga fa “meno cinque”, la corta fa “nove” ed io ho ben cinque minuti per attraversare la strada, raggiungere l’altro marciapiedi e ricordare a che altezza sta il pulsante del citofono di Chakuza! Che si chiama Pangerl. Oggi me lo ricordo! Forse non sono poi così tanto ubriaco!
…o forse sì, l’asfalto è troppo vicino alla mia faccia e mi sa che non è la città che si muove, sono io che cado. Mi sa che non era nemmeno la casa di Chakuza che si muoveva ieri. Ero sempre io che cadevo.
Pianto le mani per terra e mi tiro in piedi mugugnando, c’è la gente intorno che mi dice cose ma io non le capisco. Faccio per guardare una signorina e chiederle cosa c’è, mica sto male!, però la tipa scappa via. Mi offendo, non sono abituato ad avere questo effetto sulle donne.
Attraverso la strada con le macchine che mi sfiorano, fanno woosh passandomi accanto, ed arrivo fino al citofono, suono a caso e mi risponde la vecchina di ieri.
- Chi è? – chiede ed io sospiro, il citofono di Chakuza non lo beccherò mai al primo colpo, è una maledizione.
- Sono Fler… - rispondo direttamente a lei, e mi aspetto un sacco di parolacce, perciò mi appoggio al portone in attesa della sfuriata e mi stupisco non poco quando invece sento solo un sospiro ed il clack della serratura. Comunque non ho tempo di stupirmi troppo, perché la porta si spalanca sotto il mio peso ed io rotolo indietro e faccio una mezza capriola sul pavimento.
Faccio per alzarmi ma ricado seduto. Mi sa che ho bevuto veramente troppo. Sto peggio di ieri. Chakuza si arrabbierà.
Nel frattempo, sopra la mia testa, sento il suono di una porta che si apre e di ciabatte che battono sulle mattonelle ed immagino la signora Lotte che bussa all’appartamento di Chakuza per dirgli che ha visite, ed in effetti poi sento l’eco di un campanello ed un’altra porta che si apre e c’è la voce cupa di Chakuza che probabilmente si aspettava la mia faccia, visto che sono le nove, ed invece vede quella della sua vicina di casa.
- Sono qua sotto… - lo informo, lui mi sente, io sollevo lo sguardo e lo vedo che si affaccia sulla tromba delle scale e mi guarda, sconvolto.
- Fler?
- Non ce la faccio ad alzarmi in piedi… - e sto un po’ piagnucolando perché mi dispiace dare spettacolo così.
Lo sento sospirare – l’eco amplifica pure il sospiro, è molto fastidioso – e poi scende giù per le scale e lo sento che mi afferra da dietro, sotto le ascelle, e mi tira in piedi di peso.
- Ma si può sapere come cazzo hai fatto, Fler? Sono le nove!
Mugolo mentre lui si fa passare un mio braccio sopra le spalle e mi regge con una mano per il polso e con l’altra per la vita, stringendo forte così che non possa cadere ancora.
- Mi sono portato avanti col lavoro… - biascico sperando di suonare divertente.
- Il che vuol dire che già alle sei eri in giro a bere, stronzo? – sbotta lui aiutandomi a salire le scale.
- Alle cinque. – preciso ridendo, - Se cominciavo alle sei non ce la facevo.
- Sei proprio uno stronzo. – la sua voce è cupissima e mi fa un po’ paura. Mi sa che si è arrabbiato davvero. – Avevi promesso.
- Io volevo solo farmi una doccia… - protesto, e manco il gradino successivo. Già mi vedo sbattere la faccia contro lo spigolo e svenire, però Chakuza è forte, stringe il braccio e mi tiene strettissimo, perciò invece di cadere in avanti mi sento tirato su e gli sbatto contro. Solo che non sono esattamente un fuscello, perciò lui finisce pressato contro la ringhiera ed io mi schiaccio contro di lui e decido che è comodo, perciò mi lascio andare e mi appoggio.
- Fler, Cristo santo! – si lamenta lui, cercando di rimettermi dritto, - Avanti, spostati!
- Ho sonno… - vorrei dirgli che è comodo, è per questo che mi addormenterei bene qui, però non trovo le parole, e poi mi sa che qualsiasi cosa, detta in questa situazione, suonerebbe tremendamente gay, che è una cosa che vorrei evitare, perciò non dico altro e mi appoggio meglio.
Lui tira fuori un tono paziente che mi intenerisce.
- Siamo quasi arrivati e poi dormi, ok? Un ultimo sforzo.
Mugolo un assenso e provo a rimettermi dritto. In realtà non ci riesco perché sto veramente crollando di sonno, perciò mi rimette dritto Chakuza e non so, per quanto mi riguarda potrebbe anche muovermi le gambe come un burattinaio per farmi arrivare fino al suo appartamento. Non ho la forza. Dio mio, non berrò mai più così, lo giuro.
Riprendo un po’ conoscenza solo quando sento aleggiarmi sotto il naso l’aroma familiare del caffè. Apro gli occhi e mi accorgo che sto sulla poltrona di Chakuza e lui sta in piedi davanti a me e mi porge una tazzina piena di caffè fino all’orlo. Ho la sensazione che, se non avesse pensato che una dose del genere potesse uccidermi, me ne avrebbe rifilato un bricco intero.
- Non lo voglio… - mi lamento voltandomi di scatto, ho la nausea.
- Tu lo prendi e cerchi di darti una sistemata. – ordina lui, afferrandomi per il mento e riportando i miei occhi su di sé. – Non ricominciare a fare il bambino. Hai quasi trent’anni.
- Anche tu! – protesto offeso. Io non sono vecchio.
- Sì, e infatti mi comporto come tale! Avanti, Fler! – e spinge la tazzina in avanti.
- Okay, okay… - borbotto io, la prendo fra le mani, cosa pure piacevole, perché è calda ed io ho le dita freddissime, e butto giù tutto in un sorso.
Il secondo successivo sono piegato in avanti e sto vomitando come non mi capitava da anni. Come avessi bevuto litri d’alcool, cazzo. Addosso a Chakuza.
- Fler! – è sconvolto e schifato, io comincio ad andare nel panico perché so già che quando l’alcool sarà tutto uscito dal mio corpo vedrò questa situazione con occhi completamente diversi e non mi verrà più tanto da ridere. Odio tornare sobrio. – Fler, cazzo!
Non riesco a fermarmi, mi piego ancora e sto per cadere a terra, sollevo un braccio e mi aggrappo alla sua spalla col terrore che mi prenderà per la mano, mi staccherà da sé e mi lascerà cadere a terra nel mio vomito, ma non lo fa. Posa una mano sulla mia e mi tiene ancorato alla sua spalla in quel modo, mentre con l’altra mano mi regge per il collo.
E se ne frega bellamente se gli sto vomitando addosso, se gli sto sporcando casa, se sto sporcando lui.
Tossisco un po’ e sputo per terra – tanto, peggio di così… - e penso che potrebbe anche lasciarmi andare, a questo punto, non rischio più niente. Ed invece continua a tenermi.
- Stai meglio? – chiede, e non è sarcastico. Cioè, non è come stesse cercando di dirmi “ora che ti sei svuotato sul mio tappeto va meglio, eh?”. È più come si fosse preoccupato davvero.
Annuisco impercettibilmente, con gli occhi chiusi. Mi fa male la testa.
Chakuza si alza in piedi e mi tira con sé, io apro gli occhi e vedo che gli ho veramente sporcato tutta la maglietta ed anche buona parte dei pantaloni. Cristo. Non facevo così neanche a sedici anni. Ma cosa cazzo mi sta succedendo?
- Vieni, ti aiuto a pulirti un po’… - sussurra, accarezzandomi lentamente il collo, che peraltro mi fa un male cane. Ci sa fare con gli ubriachi. O con le persone in generale, forse, non lo so.
Arriviamo in bagno e lui mi fa sedere sul coperchio del water.
- Togliti quella maglietta, avanti. – mi incita mentre apre il rubinetto del lavandino e miscela l’acqua. Vede che io non mi muovo e continuo a fissare il vuoto perciò sospira e mi viene vicino, togliendosi la maglietta lurida e ripetendo lo stesso gesto anche con me. – Coraggio, alzati in piedi, ti aiuto a lavarti. – sbotta, - Cristo, sei in condizioni pietose.
Mi sollevo appoggiandomi al lavandino e cado sopra Chakuza. Sbattiamo l’uno contro l’altro ed io sono congelato e lui è caldissimo, vorrei stargli un po’ più vicino ma non sono più nemmeno tanto ubriaco da concedermi una cosa simile. Mi rimetto dritto con un lamento, Chakuza mi fa passare un braccio attorno alla vita e mi tira vicino.
- Se stai a tre metri non posso lavarti. – spiega ficcando una mano sotto il getto d’acqua.
Poi fa esattamente come faceva mia madre quando mi sporcavo col cioccolato, da piccolo. Mi lava con una certa ruvida tenerezza bonaria, sospirando esattamente come un genitore. Il sapone profuma di lavanda e la sua mano un po’ ruvida mi passa sulla faccia, sul collo, sul petto. Mi riscalda e lava via lo schifo che mi sono gettato addosso.
Quando finisce, mi accompagna direttamente in camera da letto. Io non ho il coraggio di dire niente, non riesco nemmeno a sollevargli gli occhi addosso, mi sento davvero in difetto come un bambino piccolo. È irritante che mi faccia quest’effetto, non è davvero così tanto più grande di me. Questo rapporto dovrebbe essere più equilibrato.
Poi realizzo che questo non è un rapporto. Lo realizzo nel momento esatto in cui Chakuza mi sistema sul letto e mi dice di dormire un po’ e che domattina mi farà una paternale tale da farmi dimenticare perfino come mi chiamo. Socchiudo gli occhi sulla sua figura che si allontana e lo vedo ripassare davanti alla porta con un secchio ed un mocio in mano solo qualche minuto dopo. Mi addormento col suono consolante dello straccio che strofina con forza il pavimento. Mi sembra di avere di nuovo tredici anni. La sensazione non è completamente spiacevole.
*
Alla fine, quella mattina non mi ha rimproverato. Mi sono svegliato in un casino di lenzuola e l’ho trovato che dormiva accucciato sul divano, con il viso completamente affondato in un cuscino rovinatissimo. Mi è venuto da sorridere ed ho fatto un po’ come fossi a casa mia, nel senso che ero completamente sobrio e pure tanto in imbarazzo, visto che gli avevo praticamente rubato il letto da sotto il culo, perciò sono andato in cucina ed ho preparato il caffè. Quando lui ha aperto gli occhi mi ha trovato appollaiato su uno degli sgabelli attorno all’isola con una tazzina in una mano e l’altra mano sollevata a metà in un saluto. Per prima cosa, ho chiesto scusa. Quindi lui ha scosso il capo e si è alzato, ha chiesto un po’ di caffè ed ha detto “okay. Però stasera alle nove sei di nuovo qui”.
Un po’ mi scazza esserci sì, di nuovo qui, ma anche di nuovo ubriaco. Mi scazza perché non sono ubriaco come le altre volte – al secondo scotch qualcosa dentro di me ha detto “no” e non voglio pensare a quanto somigliasse alla voce di Chakuza – e se fossi almeno seriamente ubriaco tutto questo, adesso, sarebbe più facile. E invece sto qui, meno incosciente del solito, arrotolato sulla poltrona mentre Chakuza mi fissa con aria di disapprovazione dietro le braccia incrociate sul petto.
- Non sono ubriaco. – borbotto confusamente, abbassando lo sguardo.
- Ti puzza l’alito a chilometri, Fler. – mi fa notare serio.
- Sono solo un po’ brillo. – nego, tirando su le gambe sulla poltrona.
Lui si china su di me e mi inchioda con le mani alla spalliera, così che sono costretto a sollevare gli occhi e guardarlo.
- Tu l’alcool non lo devi toccare più neanche con un dito, Fler, hai capito? E non perché ti fa male e nemmeno perché in queste condizioni sei inutile, ma perché te l’ho chiesto io e tu hai promesso. Ti fai sempre grande con le questioni di onore ed onestà, quando canti, e poi con me ti comporti così.
Mentre mi rimprovera, penso distratto che Chakuza sa perfettamente che sono meno ubriaco del solito, altrimenti non mi starebbe facendo questo discorso. Non mi parla, se non è certo che io capisca alla perfezione ciò che mi sta dicendo.
Potrebbe almeno apprezzare la buona volontà, mi dico. E poi però ricordo che non c’è nessuna buona volontà dietro al mio essere meno sbronzo: solo la sua voce che mi minaccia e l’immagine tremenda di me stesso che vomita su di lui, sul suo tappeto e sul suo pavimento e che poi, per questo, finisce a dormire nel suo letto.
- Insomma, che cazzo. Mi sembrava di parlare con un adulto, ma sei un ragazzino. – continua lui, ed io torno ad abbassare lo sguardo, ma solo per un secondo: poi mi afferra per il mento e mi tira di nuovo su. – E guardami, quando ti parlo. Guarda che io ho davvero bisogno del tuo aiuto, ma non me ne faccio niente di uno in queste condizioni, d’accordo? Sei inutile.
Mi lascia andare, io torno a guardare in basso con un mugolio di dolore e lui si allontana di qualche passo.
- Se domani devi presentarti di nuovo così, Fler, risparmiati di venire. – annuncia, tirandomi addosso la coperta coi cavallucci marini che è andato a prendere in camera prima di cominciare la paternale. Mi lascia solo il secondo dopo ed io resto lì con la coperta piegata fra le mani. E non ho proprio nessuna voglia di dormire.
*
Lo fisso. Lui mi fissa.
Lo facciamo per un sacco di tempo ed alle mie spalle c’è la signora Lotte che fissa entrambi come fossimo due creature molto strane.
È uscita fuori perché, appena sono arrivato – in ritardo di dieci minuti – ho citofonato a Chakuza e lui mi ha strillato in testa che ero in fottuto ritardo e che per quanto gli interessava potevo pure andarmi a sfondare di tequila per tutto il resto della notte, com’era sicuro avessi fatto fino a quel momento, altrimenti sarei stato in orario. Poi mi ha chiuso il citofono in faccia.
A quel punto, ho citofonato alla signora Lotte ed il dialogo seguente s’è svolto più o meno in questi termini: “Signora Lotte? Sono Fler. Le dispiacerebbe cortesemente aprirmi? Ho litigato con Peter e vorrei risolvere la questione, ma lui non mi lascia entrare.” Silenzio allucinato. “…d’accordo, caro. Entra pure.” Tutto qui.
Quando sono arrivato davanti alla porta lui ha aperto già sul piede di guerra – probabilmente aveva immaginato avessi corrotto qualcuno pur di salire – e si è ritrovato me a fissarlo come sto facendo adesso. Cioè serio e perfettamente lucido. È per questo che anche lui, in questo momento, mi sta fissando.
- …non sei ubriaco. – commenta sinceramente stupito, una mano sullo stipite della porta, l’altra a ciondolare inerme lungo il fianco.
Sorrido trionfante.
- Oggi neanche un goccio. – rispondo tranquillo, - Me la offri tu una birra?
Scoppia a ridere all’improvviso, ed io lo imito poco dopo. Mi trascina dentro continuando a ridere e, fra una pacca sulla spalla e l’altra, mi dico che forse un rapporto c’è. Di quest’uomo posso fidarmi.

*

Non vedo Bill da tre giorni. Da quando ha stretto le chiavi nel pugno ed è andato via dopo avermi fermato, dopo averci fermati, non l’ho più visto né sentito. Sono state settantadue ore di assenza e non mi è mai successo di sentire così tanto la mancanza di qualcuno in vita mia. L’assenza di Bill sa di qualcosa di incompleto. C’era qualcosa, c’era qualcosa che si stava muovendo e che si stava creando e mi è veramente difficile accettare questo pensiero. Ma è molto più difficile accettare che invece possa all’improvviso non esistere più nulla solo perché…
…ho messo le mani dove non dovevo. Ho dannatamente messo le mani dove non dovevo. Cristo.
Questo pensiero non mi dà pace.
- Insomma, non ne posso più, non so perché le ho dato il numero di telefono ma mi sa che adesso mi toccherà cambiarlo perché chiama cinquemila volte al giorno. Mi sono rotto.
Fler sta parlando a macchinetta da circa un quarto d’ora ed io non faccio che pensare che a questa casa manca il chiacchiericcio infinito di Bill. Che manca a me. Che la voce di Fler non è la stessa, non ha gli stessi toni né gli stessi colori, non ha lo stesso entusiasmo e non raggiunge gli stessi picchi di dolcezza quando invece è triste. Per la verità non riesco a riconoscere proprio un cazzo, nella voce di Fler. E invece mi infastidisce da morire che sia quella che ho sentito più spesso, negli ultimi tre giorni, perché davvero, Fler non ne ha saltato uno: è venuto ogni santa sera da quando sono tornato a casa.
- Mhmh. – grugnisco in risposta, perché comunque sentirlo parlare è sempre meglio che sentire silenzio.
- Davvero, se avessi saputo che finiva così avrei dormito in un angolo per strada. – continua a borbottare lui, irritatissimo dal fatto che l’infermiera che ha rimorchiato mentre stavo in ospedale continui a non lasciarlo in pace. Non capisco cos’abbia Fler per la testa: la tipa è chiaramente interessata, lui non se la sarebbe scopata se non lo fosse stato a propria volta… perché non si rilassa e fa come farebbe un qualsiasi altro uomo normale al suo posto?
- Così invece di prenderti il raffreddore avresti preso una polmonite coi controfiocchi, Fler. – gli faccio notare distrattamente, - Ed ora non saresti qui a lamentarti.
- E sarebbe stato meglio! – sbotta lui, fissandomi malissimo. Mi viene un po’ da ridere perché Fler quando vuole sa tirare fuori degli occhi cattivissimi, ma in questo momento sta solo facendo il buffone. È facile vedere quando si arrabbia, gli si oscurano gli occhi. Adesso invece sono di un celeste purissimo e brillano, quindi non è arrabbiato. Non so, quando fa discorsi come questo – quando borbotta contro le stupidaggini – mi sembra sempre che voglia sentirsi solo dire “sì, piccolo, hai ragione”. Come non gliel’avessero detto abbastanza quando piccolo lo era davvero.
In realtà comunque non ho una cazzo di voglia di ridere. In genere le cavolate di Fler mi aiutano un sacco – se non altro perché ne ha sempre una riserva infinita da tirare fuori all’occorrenza – ma stasera sono irritato e di ridere proprio non mi va.
- Ti va una birra? – gli chiedo alzandomi in piedi e dirigendomi verso la cucina senza neanche aspettare la sua risposta.
- Oh, sì, grazie. – risponde comunque lui, annuendo, - In ogni caso se chiama di nuovo giuro che la mando a fanculo. Mi sei testimone tu!
- Sì, Fler, naturalmente. – sospiro annoiato, recuperando le due birre dal frigo e tornando di là per consegnargli la sua.
Fler la prende fra le mani e mi fissa con un broncio amareggiato, stendendosi un po’ contro lo schienale del divano.
- Certo che sei proprio una merda, quando ti ci metti, tu. – commenta con rabbia, attaccandosi alla bottiglia, scazzato.
Io spalanco gli occhi e mi lascio ricadere al suo fianco, fissandolo sgomento.
- Come, scusa?
Scrolla le spalle e posa la birra sul tavolino.
- È da quando sono arrivato che rispondi a monosillabi e grugniti. E quando le tue risposte superano le due sillabe, allora sono acide o comunque si capisce che non te ne frega un cazzo di quello che sto dicendo. – apro la bocca per negare e lui mi ferma con un’occhiataccia, di quelle vere, però, - E non provare a dire di no perché ti prendo a cazzotti!
Poso anche io la bottiglia ed incrocio le braccia sul petto.
- Non è vero! – e un po’ lo sto sfidando. Perché lo so che è vero.
Fler mi guarda per un secondo come volesse staccarmi la testa. Poi guarda altrove e dice una cosa che mi terrorizza. E che mi fa incazzare. Ed un altro milione di cose.
- Non hai visto Bill, oggi, eh?
Lo dice così. Come se sapesse perfettamente l’importanza che ha. Lo dice esattamente con l’importanza che merita. Perdo un respiro e poi due e poi tre ed alla fine mi rendo conto che mi sto impedendo di respirare perché ho paura di cosa mi potrebbe uscire dalla bocca se lo facessi. Sicuramente urlerei. Sicuramente ci andrebbe di mezzo Fler. Insomma, tutte cose che non ho il diritto di far accadere.
- Che cazzo intendi dire? – ritorco con ansia. E so che è la cosa peggiore potessi dire in assoluto, so che suona come una dannata ammissione quando non dovrei sentirmi in diritto neanche di ventilare l’ipotesi, ma al momento non mi interessa.
Fler scrolla le spalle e continua a non guardarmi.
- Niente. – risponde in un soffio, - Ipotizzavo.
- Ipotizzavi cosa, esattamente? – insisto.
Lui torna a guardarmi e lo fa con la stessa rabbia di prima.
- Secondo te sono un deficiente, Chakuza? O un cieco? Che cazzo. Non trattarmi come un bambino.
- Abbiamo già discusso di questo tempo fa. – rispondo con un ghigno incattivito, - Ed abbiamo stabilito che sei un bambino, perché ti comporti come tale. Anche adesso, - spiego con presunzione, - lanci il sasso e nascondi la mano. Butti lì l’insinuazione ma non mi spieghi cosa cazzo ti gira in testa. Dovrei trattarti come un adulto?
Lui volta di nuovo lo sguardo e non c’è verso di tirargli qualcosa fuori dalla bocca.
- Fler? – lo chiamo, già irritato, - Fler!
Stringe le labbra e continua a non guardarmi.
- D’accordo! – sbotto, tirandomi in piedi, - Fai il cazzo che vuoi, continua pure a pensare tutte le cazzate che preferisci-
- Cazzate, eh? – mi interrompe lui con un sorrisino strafottente, - Dio, odio quando mi si prende per il culo!
- Stai rompendo i coglioni, Fler! – gli urlo contro, combattendo l’impulso di buttarlo fuori di qui a calci, - E piantala di rispondere solo quando ti conviene! Sei un cazzo di ragazzino impossibile!
- Non sono un ragazzino! – si alza in piedi da solo, fronteggiandomi direttamente, - E tu sei un vigliacco, Chakuza!
Lo afferro per una spalla e lo sbatto contro la parete, che è molto più vicina di quanto non pensassi. Fler non se l’aspetta, perciò spalanca gli occhi e batte con forza, aggrotta le sopracciglia e si morde un labbro per il dolore e poi fatica un po’ a rimettersi in piedi da solo. Si appoggia con falsa casualità al muro, come non avesse bisogno di alcun supporto per stare dritto e invece ne ha bisogno eccome.
Mi fissa stordito, apre la bocca, so che – cazzo – sta per dire qualcosa e non ho alcuna intenzione di starlo a sentire. È solo per questo che lo afferro di nuovo per la stessa spalla di prima e lo trascino un po’ indietro, prima di spingere con forza ed obbligarlo a rovinare a terra, in ginocchio.
Batte sul pavimento, posso vedere il brivido di dolore correre lungo tutto il suo corpo, lo sento sotto il palmo della mano mentre stringo le dita attorno al suo braccio per torcerglielo dietro la schiena.
- Fanculo. – ringhia lui, fissandomi di sbieco mentre si piega in avanti per assecondare quanto più può il movimento innaturale del braccio, - Se devi pestarmi non fare tante cerimonie.
Non so se voglio pestarlo. So che voglio farlo stare zitto. So che mi dà fastidio che abbia parlato di Bill perché continuo a pensare che Bill dovrebbe essere una cosa mia e so che invece non lo è. E non lo sarebbe neanche se stessimo insieme. E non lo saremmo stati neanche se l’altro giorno mi avesse lasciato continuare, cazzo.
So che, merda, io lo volevo davvero. So che lo voglio davvero. So che mi sta montando una rabbia incredibile e che si sta traducendo in un desiderio indecente perché Fler è qui, arreso sotto le mie dita, e se stringo ancora un po’ posso fargli abbastanza male da farlo urlare.
Voglio sentirlo urlare.
Stringo e ruoto il polso. La spalla di Fler scricchiola un po’ e, come previsto, lui urla. Urla e si piega in avanti, sfiorando con la fronte il pavimento ghiacciato e digrignando i denti.
- Cristo, Chakuza! – ringhia furioso, - Cazzo, lasciami!
Ma non lo lascio. Mi schiaccio contro di lui perché mi piace questa posizione di vantaggio. Mi piace sentirlo debole e mi piace sapere che un minuscolo movimento del mio corpo basta a mandarlo fuori di sé dal dolore. Mi piace perché a Bill basta sbattere le ciglia per mandarmi fuori di me dal dolore. Gli basta respirare. Gli basta esistere, cazzo. Voglio anche io questo potere. Mi piace questo potere. Mi piace anche troppo, lo percepisco io e lo percepisce Fler che, quando sente la mia erezione premere contro la sua gamba, spalanca gli occhi e si irrigidisce, ma non dice una parola.
È una realizzazione improvvisa e un po’ assurda, ma so anche che è assolutamente vero: Fler non dice niente. Fler non dirà niente in ogni caso. Non so se sia sconvolto da ciò che sta succedendo o se dietro questo silenzioso assenso ci sia dell’altro, francamente in questo momento non mi interessa. Fingo di non prendere atto della sua eccitazione mentre lo lascio andare – il suo braccio batte sul pavimento e lui lo usa per tenersi dritto quando riesce a recuperare sensibilità, ma non combatte, non si oppone, non fa nulla – e gli sfibbio la cintura, sfilandola dai passanti dei jeans e lanciandola lontano. Fa un rumore assordante mentre striscia sul pavimento e va a incagliarsi contro la parete qualche metro più in là.
Sbottono i jeans e mi fermo un secondo. Mi sembra impossibile che non cominci a protestare. Ma non comincia, cazzo. È assurdo. D’un tratto mi viene da ridere se penso che fino a mezz’ora fa mi stavo chiedendo cosa ci fosse di strano nella sua testa, per portarlo a rifiutare così l’infermiera che gli muore dietro. Ora mi sa che lo capisco cosa c’è.
Lo vedo che stringe i pugni sul tappeto e socchiude gli occhi. Trattiene il respiro, in attesa. Mi sembra assurdo continuare a stare qui a tergiversare. Cazzo, non posso credere di stare facendo una cosa simile. Tiro giù jeans e boxer tutti assieme, incontro la resistenza della sua erezione e la ignoro ancora, gli faccio male, è palese nel suo ringhio frustrato, ma lui continua a non protestare e questo è assurdo ed eccitante allo stesso tempo. Lo lascio un attimo, non mi chiedo neanche se scapperà, so che non lo farà. Sbottono i miei jeans, mi libero di qualsiasi impedimento ancora esista fra me e lui e poi mi prendo un secondo – solo un fottuto secondo – per darmi ripetutamente del coglione.
È solo un fottuto secondo – e subito dopo spingo e mi dibatto per entrare dentro di lui.
È stretto e chiuso e non dovrei davvero poter entrare qua dentro. Mi chiedo se con Bill sarebbe lo stesso. Se sarebbe la stessa sensazione. Se urlerebbe come sta urlando adesso Fler.
Se sarei così violento, così impaziente, così sconsiderato anche con lui.
Se non baderei alle protezioni, con lui, se me ne fregherei di fargli male.
Mi chiedo se sia un problema del sesso, che faccia così schifo e sia così dannatamente appagante – mentre scavo a fondo nel corpo di Fler, mi ci ricavo un posto e comincio a spingere e lo sento stridere e fremere sotto le mie mani mentre lancia lamenti di cui non capisco il senso e che mi fanno rabbrividire fin dentro allo stomaco. Lo afferro per i fianchi per tenerlo fermo, perché voglio arrivare fino in fondo, perché Dio, la sensazione di calore umido attorno al mio cazzo è veramente irresistibile, e mi rendo conto che sto ansimando e che mi sta piacendo, e vorrei prendermi a cazzotti da solo, vorrei che me li desse anche Fler, i cazzotti, vorrei che si alzasse e se ne andasse ma non lo fa, non dà neanche cenno di volerlo fare. Tutto ciò che fa è chiudere gli occhi e stringere con più forza il tappeto. Non si tocca. Non fa niente. Rimane qui e, cazzo, si fa violentare. Si fa violentare, cazzo.
Mi spingo forte dentro di lui devastandolo fino all’ultimo centimetro e lo sento che si apre sotto di me. È una sensazione di potenza incredibile. È una sensazione meravigliosa, potrei non saziarmene mai. Mi piego sulla sua schiena con un grugnito e lo tengo stretto per la vita mentre vengo dentro di lui e lo sento che sibila di dolore e fastidio, perciò presso con più forza, fino a zittire perfino i lamenti, perché adesso non voglio sentire più niente.
Lo lascio andare solo quando sono certo di essermi del tutto svuotato. Scivolo fuori da lui e resto in ginocchio sui talloni, mentre lui crolla a terra, sfatto ed esausto, distrutto. Si trascina sul tappeto perché il suo corpo è per metà sul pavimento ed immagino senta freddo. Lo vedo strisciare e poi girarsi a pancia in su, una mano sugli occhi, la traccia delle lacrime evidente sulle guance. Distolgo lo sguardo perché non la reggo, questa vista. Il pensiero di essere stato io a ridurlo così è straziante. Non ne avevo alcun diritto.
Cerco di respirare.
- Fler… - lo chiamo debolmente.
- Sta’ zitto. – risponde lui in un rantolo arreso. Non ha neanche la forza di ricoprirsi. Cristo. Cosa ho fatto?
Mi rivesto velocemente mentre lui si asciuga stremato il viso. Quando toglie la mano vedo che ha gli occhi rossissimi. Mi fissa senza parlare. Non riesco a capire cos’è che vorrebbe dirmi e questo mi spaventa.
- Come ti-
- Una merda. – risponde senza neanche farmi finire la domanda, - Tu come cazzo ti sentiresti, Chakuza?
Mi mordo un labbro e mi muovo sulle ginocchia verso di lui.
- Non ti avvicinare. – allungo una mano, - Non mi toccare, Cristo, non ti avvicinare!
- Fler… - poso comunque la mano sul suo braccio, - Fler, ti prego-
- Cristo… - si copre di nuovo gli occhi con una mano ed io so che dovrei stare zitto ma non ci riesco.
- …non piangere… - lui ride amaramente e scuote il capo.
Mi avvicino ancora e mi piego su di lui. Cerco di essere delicato – mi rendo conto di essere in ritardo – mentre gli rassetto i vestiti, provando a coprirlo senza fargli troppo male. Lui si lascia maneggiare come fosse senza vita, non scosta la mano dagli occhi ed io vorrei lasciare stare tutto e scappare. Però allo stesso tempo non voglio. Non voglio affatto lasciarlo qui così.
- Ce la fai a rimetterti in piedi? – chiedo a bassa voce, sfiorandogli il collo con due dita.
Lui si scosta infastidito.
- No. – risponde sinceramente, ma fa comunque forza sulle braccia e si mette a sedere. Rinuncia immediatamente. Torna a distendersi, una ventina di centimetri più in là.
Sul tappeto c’è una macchia larghissima di sangue e sperma mescolati insieme.
Mi viene da vomitare.
- Cristo. – mormora Fler, - Sparisci. – chiede, la voce rotta.
Mi alzo in piedi e faccio per obbedire e nascondermi da qualche parte, magari in bagno, ma faccio solo un paio di passi e poi torno indietro. Mi siedo al suo fianco ed allungo una mano verso la sua. La stringo appena e mi stupisco di non sentirlo ritirarsi di nuovo.
- Mi dispiace. – dico a bassa voce, - Appena riesci a muoverti ti porto in ospedale. D’accordo?
Non mi aspetto che risponda e lui infatti non lo fa. Resto lì a tenergli la mano per tutto il tempo che passa a piangere in silenzio.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Triste, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- "Mi chiamo Anis Mohamed Youssef Ferchichi e l’ultima volta che ho parlato avevo un buco nel petto, uno nella gamba ed uno squarcio sul braccio, ero ricoperto di sangue e stavo morendo. L’ultima volta che ho parlato è stata proprio l’ultima volta che il mondo ha sentito la mia voce, perché io su quel letto ci sono morto davvero."
Note: Mi chiamo liz e non pubblico una shot di EKR dalla fine di ottobre o.o Sono turbata quanto voi, ma se avete continuato a seguire la saga sapete perfettamente che non sono rimasta con le mani in mano, bensì mi sono dedicata a salvare Tab dal baratro. Riguardo questa shot in realtà ci sarebbero tante cose da dire. Tanto per cominciare che speriamo che il POV scelto non vi abbia mandate ai pazzi XD Sappiamo che non è la scelta più razionale possibile (dovevate vederci in fase di scrittura:
liz: ricordami perché abbiamo scelto questo POV.
Tab: non… non lo so.). Comunque speriamo vi sia piaciuto e che abbiate sofferto tanto *_* Per noi è stato un parto. Be’, per la liz almeno. Tab scriveva stile treno.
Comunque questo capitolo è schizofrenico. Il Bu si tirava fuori roba lol dal cappello – o, com’è anche più probabile, in quanto puro spirito è circondato da gente lol che fa e dice cavolate. *liz si prostra davanti ad Eko e lo idolatra come una statuina sacra del Buddha*
Fler palesemente è un mito e le sue avventure sono già leggenda. L’infermiera è nata per caso. Ci stiamo ancora chiedendo come sia stato possibile.
Comunque, da qualche parte dentro di noi il Bu è ancora vivo *riot*
PS: Il titolo è rubato ai Coldplay. E comunque di questa shot abbiamo una diapositiva. =P
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THE HARDEST PART

Mi chiamo Anis Mohamed Youssef Ferchichi e l’ultima volta che ho parlato avevo un buco nel petto, uno nella gamba ed uno squarcio sul braccio, ero ricoperto di sangue e stavo morendo. L’ultima volta che ho parlato è stata proprio l’ultima volta che il mondo ha sentito la mia voce, perché io su quel letto ci sono morto davvero. D’accordo, non lì, su quel letto ci ho solo lasciato il cuore e sono morto dopo, in ambulanza, proprio un attimo prima di arrivare in ospedale. Non sono mai stato davvero un uomo fortunato.
Comunque la sostanza non cambia. La sostanza è il mio corpo che si decompone metri e metri sotto terra. Io con la sostanza non c’entro più niente. Un corpo non ce l’ho più. Il mucchio d’ossa che si polverizza nella bara non mi appartiene. Di me è rimasto solo questo. Voce che nessuno sente. Presenza che nessuno percepisce. La capacità di guardare il mondo – una capacità che non ho chiesto e che, sinceramente, al momento preferirei non avere.
Bill si stira contro il materasso, getta indietro il capo ed ansima forte, gli occhi chiusi, l’espressione rilassata, è completamente assente. Il mio bracciale brilla prepotente attorno al suo polso nonostante l’oscurità della camera ed io vorrei evitare di guardare, ma quando non hai occhi, quando sei tutto e non sei niente – cose che capisci solo da morto, davvero – non puoi davvero evitare scene simili. Sono la realtà e tu ne fai semplicemente parte.
*
L’ospedale è buio e silenzioso, nonostante non sia affatto notte. Jost – sempre bravo a risolvere i problemi – ha dato disposizioni perché il caos generato dalla rissa dopo TRL sia tenuto fuori dalla bolla di vuoto assoluto in cui ha infilato Bill per evitare di sconvolgerlo più di quanto già non sia. Allo stesso modo, dottori ed infermieri passano per il corridoio antistante la sala operatoria come fossero fantasmi, scivolando sul pavimento lucido in perfetto silenzio.
Occhi bassi e lacrime cristallizzate sulle ciglia, Bill resta immobile sulla sedia. Tom, seduto accanto a lui, gli stringe una mano e gioca con la fede attorno al suo anulare sinistro. È enorme, per le dita sottilissime di Bill – e d’altronde era mia, perciò la cosa non mi stupisce – fa tutto il giro e Tom ogni tanto la tira verso la nocca come volesse sfilarla. La rimette al suo posto ogni volta che Bill stringe appena le dita, quando la sente sgusciare via.
Oltre la porta che Bill sta fingendo di non fissare, c’è Chakuza sotto i ferri. L’intervento sta andando bene, fortunatamente il coltello era maneggiato da un incompetente. Avrebbe sicuramente ucciso Bill, se fosse arrivato a mettergli le mani addosso, ma Chakuza è un uomo forte ed è riuscito a salvare la pelle. La lama non è arrivata nemmeno a ferire lo stomaco – quello sarebbe stato un problema – c’è solo una lacerazione piuttosto ampia da ricucire. Fler è stato bravo a dare le giuste direttive.
Fler.
Fler sta vagando nervosamente per il corridoio, le sue scarpe da ginnastica sono l’unica cosa che fa rumore, mentre la suola scricchiola nervosamente sulle piastrelle grigie. Non si sente nient’altro fino a quando il cellulare di Jost non squilla. Suona La Bamba, negli anni ottanta era un pezzo che andava forte. Probabilmente sarebbe il caso di ridere, di fronte ad una cosa del genere, ma non ride nessuno ed ognuno ha i propri motivi per farlo.
L’uomo si affretta a rispondere non appena scorge il numero sul display. È nervoso ed agitato.
- Sì? – attende che dall’altro lato della cornetta dicano qualcosa, mentre Tom gli scocca un’occhiata infastidita e Fler si appoggia contro una parete incrociando le braccia e sollevando un piede ad ancorarsi al muro. Lascerà una macchia, ma non può più camminare perché faceva rumore, e però deve darsi qualcosa da fare, perciò picchietta la parete con la punta del piede ed ogni volta che solleva la scarpa si intravede al di sotto l’alone scuro della traccia che lascia la suola.
Bill non dice una parola.
- No. – continua Jost, ignorando volutamente qualsiasi cosa lo circondi per concentrarsi solo sul suo interlocutore, - No, non preoccuparti. È tutto a posto. Non sappiamo ancora i dettagli, ma è tutto sotto controllo.
- Ma con chi cazzo parli, David?! – sbotta Tom, stringendo un braccio attorno alle spalle di Bill, che si riscuote appena ma non solleva lo sguardo.
David si allontana un po’ dalla cornetta, incerto.
- …Briegmann. – risponde evasivo, guardando altrove.
- Be’, - continua Tom, insoddisfatto, - non mi pare il cazzo di momento in cui stare a parlare del cazzo di lavoro, David.
Bill singhiozza e solleva il viso verso il fratello. Sono tanto vicini che gli sfiora una guancia con le labbra, mentre gli parla.
- Tomi, ti prego…
Fler deve intercettare il tremito nella sua voce. Non so quando abbia imparato a capire così bene Bill. So che da Fler non potevo aspettarmi niente di meno, perché gliel’ho insegnato io come si sta al mondo e come si controllano le situazioni, gliel’ho insegnato io che i problemi non vanno risolti ma prevenuti, quando è possibile. Ed infatti Fler previene. Le lacrime di Bill potrebbero essere un problema ed io già le vedo – posso immaginarle – scorrere lungo le sue guance.
- Adesso ci calmiamo, Kaulitz. – utilizza apposta il cognome, non vuole essere invasivo, solo razionale. – Non c’è affatto bisogno di-
- Te lo dico io di cosa non c'è bisogno! – lo interrompe Tom, ben deciso a non cedere di un passo. La conosco l’ostinazione dei Kaulitz. – Non c'è bisogno che mio fratello sia qui, che pianga un amico con un buco in pancia, che tu venga a farmi la predica e che David parli con la fottuta Universal in questo cazzo di preciso momento! Ecco di cosa non c’è bisogno!
Nel silenzio che cala dopo quest’attacco, si sente distintamente il click che annuncia l’interruzione della chiamata da parte dell’interlocutore di David. Se quello era davvero il presidente della Universal Music Deutschland, Tom avrà dei problemi seri da risolvere, già a partire da domani. Ma posso immaginare che al momento la cosa non gli interessi granché.
Si volta invece a guardare Bill, sollevando anche l’altra mano a stringerlo attorno una spalla e cercando i suoi occhi.
- Ti riporto a casa. – dice, secco ma dolce. Conosco anche quel tono. È il tono con cui in genere convince Bill a fare qualsiasi cosa, perché a Bill piace moltissimo sentirsi amato e quel tono gronda amore da ogni lato, dannazione.
Bill si tende tutto sotto le sue mani.
- No. – risponde, e suo fratello aggrotta le sopracciglia, - Voglio restare qui.
- Non esiste. – protesta Tom con veemenza, - Tu vieni a casa con me. Non ci resti qui, stanotte.
Fler solleva un braccio come a chiedere il permesso di parlare.
- Posso restare anche io e-
- Non ci resta qui, stanotte. – precisa lui, senza staccare gli occhi dal fratello.
Bill lo guarda ancora ed in fondo alle sue pupille c’è un pizzico di rabbia che me lo fa ricordare esattamente com’era nei suoi momenti migliori. Quando era lui, non il fantasma piangente di se stesso. Quando s’imponeva e pretendeva conto e ragione di tutto, quando richiedeva attenzione e quando dichiarava candidamente che in ogni caso avrebbe fatto solo ciò che gli interessava o che sarebbe stato meglio per lui. Quando era ancora una cosa mia.
- Non sei tu a dover decidere. – dice duramente. Poi il suo sguardo si fa più dolce, e forza perfino un sorriso stremato mentre sfiora con due dita la guancia del fratello, - Fammi restare, per favore.
Tom sospira e sposta le mani dalle sue spalle al suo volto. Lo tiene come una cosa preziosa, delicatamente.
- Sei sfatto, cucciolo. Devi riposare. – suggerisce pacatamente, - Ti porto qui come prima cosa domani mattina, promesso. Ti prego, torna a casa.
Bill scuote il capo e si morde un labbro, sollevando entrambe le mani a stringersi attorno alla maglietta di Tom.
- Lo hanno portato dentro, Tomi, ed io voglio vederlo uscire. – dice a bassa voce, perfettamente lucido, - Deve uscire. Almeno lui.
Se avessi ancora un cuore che batte si fermerebbe adesso. Ma io non sono più sostanza da tempo. Non sono più corpo da tempo. Non sono più niente da tempo. Bill aveva torto. Il problema non è solo di chi resta. È anche di chi va via.
- E va bene, va bene. – ringhia Tom, scuotendo rassegnato il capo, - Però io resto. Voialtri – avverte infastidito con una breve occhiata a Fler e David, - potete andare via.
Negli occhi di Fler si fa strada una preoccupazione nuova. Mette giù il piede e scioglie le braccia lungo i fianchi, schiude le labbra per dire qualcosa ma Jost lo precede.
- Tom… - chiama piano, con lo stesso tono sommesso di un padre ormai da lungo tempo rassegnato.
- Non hai altro da fare, cazzo? – sibila il ragazzo, interrompendolo e squadrandolo cupamente.
David si tira indietro e non aggiunge altro. Fler non ha nessuna voglia di litigare ma qualcosa deve dirla comunque.
- Io non posso andare via con Chakuza là dentro. – dice pianamente, perfettamente a proprio agio, - Starò di fuori, per qualsiasi evenienza sapete dove trovarmi.
Seguo Fler finché non esce dal corridoio, svoltando nella sala accettazione dell’ospedale e dirigendosi verso la porta scorrevole che porta al parcheggio tutto intorno alla struttura, scomparendo nella notte com’è sempre stato bravo a fare all’occorrenza, e poi torno a guardare Bill, che s’è slacciato dal fratello ed ha ancora due lacrime immobili appena sotto le palpebre. Non so cosa aspettino, per scendere. I suoi lineamenti sono tesi e contratti, se non avessi impresso la sua forma – tutte le sue forme – così profondamente nella mia memoria – e la memoria è davvero l’unica cosa che resta – probabilmente faticherei a riconoscerlo.
Capisco cosa aspettavano quelle due lacrime per cadere quando la porta della sala operatoria si apre discretamente e ne esce fuori un esserino delizioso, biondo e pallido, con un paio di enormi occhi azzurri ed un sorriso incoraggiante sulle belle labbra rosse. L’infermiera perfetta, davvero. Tom la squadra compiaciuto dall’alto in basso, in fondo non è un suo amico quello che ha rischiato di morire. Ovviamente, Bill non ha occhi che per lei, anche se non è lei che sta guardando ma la sua divisa.
- Com’è andata? – chiede, la voce rotta, scattando in piedi mentre le lacrime caracollano giù lungo le sue guance ripercorrendo la scia ormai asciutta di un pianto già vecchio.
La signorina sorride più apertamente, inclinando il capo e lasciando la lunga coda bionda ondeggiare sulla schiena.
- Il signor Pangerl sta bene. – dice, ed il sospiro di sollievo che sfugge alle labbra di Bill non potrebbe ignorarlo nemmeno un sordo. La bionda sorride teneramente, prima di continuare. – Al momento è ancora sotto anestesia e non potrà ricevere visite almeno fino a domattina, ma l’intervento è andato bene, resterà solo una cicatrice. Purtroppo – sospira, - il coltello era seghettato, - e Bill sorride un po’, - perciò la lacerazione è stata complessa da ricucire, ma un buon chirurgo plastico dovrebbe poter risolvere il problema.
Viene un po’ da ridere anche a me – ed è tremendo voler ridere quando non puoi. Non so nemmeno se la mia risata riecheggerebbe sinistramente lungo questo corridoio semivuoto. La mia condizione non è molto simpatica. Comunque mi viene da ridere perché l’unica cicatrice che ha – quella sul sopracciglio – Chakuza se l’è fatta sbattendo contro un armadio. Non gli sembrerà vero di avere una vera e propria cicatrice da eroe. Secondo me la tiene.
- Non potrei… - Bill si interrompe mentre suo fratello, dietro di lui, comincia a raccogliere giubbotti e borse, dato che, se lo conosco bene, non intende restare nei paraggi se non si può entrare e visitare il povero ferito, - …vederlo? Solo per un attimo?
L’infermiera finge di esitare perché sa che non dovrebbe ma in realtà il linguaggio del suo corpo parla chiarissimo: il sorriso è dolce, le sopracciglia inarcate verso il basso, le lunghe ciglia battono su un paio di occhi incredibilmente lucidi. Bill se l’è già conquistata.
Parla chiaro anche la lunghissima occhiata che lancia a Tom, e che Tom le ricambia senza problemi di sorta, condendola pure con un sorriso malizioso. Il ragazzo lascia cadere i giubbotti sulle sedie di plastica e resta in piedi, mentre David sospira ed interrompe minuti interi di imbarazzato silenzio per salutare i ragazzi e dire che ripasserà domattina, mentre già armeggia alla ricerca del cellulare – probabilmente per riprendere la telefonata bruscamente interrotta qualche tempo prima.
- Solo qualche minuto. – dice l’infermiera agitando un dito ungulato perfettamente laccato di rosso sotto al naso di Bill. Apre la porta e Bill scivola di soppiatto oltre l’uscio; non nota affatto Tom avvicinarsi alla donna con aria predatoria. In una situazione normale gli tirerebbe dietro improperi fino a farlo diventare sordo.
Quando la porta gli si chiude alle spalle, Bill si ritrova in un ambiente stretto e poco confortevole. Ci sono un paio di sedie di plastica in un angolo, un tavolino spoglio con sopra una cartella medica che non capirebbe neanche se provasse a leggerla con attenzione e nient’altro. È pulito, ma vuoto in maniera desolante. A riempire più di metà della parete a destra, comunque, c’è un’enorme vetro spesso e lindo. Al di là del vetro c’è tutto ciò che gli interessa al momento.
Alcuni infermieri spostano Chakuza dal lettino operatorio alla barella sulla quale lo porteranno nella stanza che Saad ha esplicitamente richiesto per lui, pretendendo di sistemare tutto da solo nonostante David si sia impuntato fino all’ultimo per occuparsi dell’intera faccenda.
Bill fissa il corpo dell’uomo che viene spostato con delicatezza. Osserva gli occhi chiusi ed il tessuto leggero del ridicolo camice che gli hanno messo addosso sollevarsi appena al ritmo del suo respiro, che è debole e lento ma c’è.
Poggia una mano sul vetro. La fronte, subito dopo. Socchiude gli occhi e sorride.
Mi sento come se stessi spiando uno sconosciuto. Fa male anche se non ho più un corpo per sentire dolore.
*
L’indomani mattina Bill arriva all’ospedale ad un orario assolutamente indecente. Suo fratello è riuscito a trascinarlo controvoglia a casa nel momento in cui l’infermiera è tornata a riprenderlo nella saletta antistante la sala operatoria – visibilmente più scarmigliata e meno perfettamente truccata di prima – e Bill s’è sentito dire che tutto ciò che avrebbe potuto fare per il resto della notte sarebbe stato mettersi a fissare insistentemente il muro. Quando Bill ha chiesto a suo fratello se poteva comunque restare, Tom gli ha dato del pazzo da ricovero. Bill s’è sentito in dovere di dargli ragione e s’è lasciato scortare a casa.
Durante la notte non è cambiato molto. Fler è rientrato in ospedale verso le due del mattino, congelato e con un principio di raffreddore già in atto, stretto in una felpa bianca e nera che non sarebbe riuscita a proteggerlo dal ghiaccio della notte tedesca neanche se fosse stata in lana pura – ed era solo cotone pesante. S’è guardato in giro, ha individuato l’infermierina bionda vagolante di fronte alla camera di Chaky e le ha chiesto se il signor Pangerl stesse là dentro.
Lei ha risposto di sì ma che le visite non erano ammesse.
Fler ha flirtato in maniera veramente spudorata. Alla signorina non dev’essere sembrato vero beccarne due in una sera, comunque per tutto c’è un prezzo e Fler lo sa bene: il quarto d’ora passato a soddisfare l’infermiera nello sgabuzzino delle scope gli è valso la possibilità di starsene al caldo in camera di Chakuza, affondato in una poltrona in pelle marrone, per tutto il resto della notte.
Quando s’è seduto, tirando una gamba su un bracciolo e lasciandola penzolare nel vuoto mentre poggiava il viso contro le nocche del pugno chiuso e piantava il gomito nel bracciolo opposto, ha sospirato e borbottato “Atze, non hai idea del freddo che fa. Comunque lo sapevo che te ne saresti tirato fuori. E, oh, non hai idea di cosa ho dovuto fare per riuscire ad entrare qua dentro!”.
Avrei voluto ridere di nuovo, in tutta sincerità. Vedere Fler così dopo averlo visto per tutti gli ultimi cinque anni in una luce completamente diversa mi fa bene, credo. Le sensazioni di benessere non sono chiare come quelle di malessere. Ma non lo sono mai, non lo erano neanche quand’ero vivo.
Bill arriva, comunque, accompagnato da un fratello così gloriosamente scazzato da non lasciare adito a dubbio alcuno sulla sua voglia di trovarsi da tutt’altra parte. Oltretutto, come sono arrivati la biondina ha ripreso a ronzargli intorno, e Tom la guarda con lo stesso interesse col quale guarderebbe una merda di cane per strada, perciò la situazione in sé non è che sia esattamente idilliaca.
A me viene ancora da ridere, per inciso.
Bill entra di soppiatto nella stanza di Chakuza e vede Fler sonnecchiare sulla poltrona, il capo penzolante avanti e indietro. Gli si avvicina con un sorriso tenerissimo in viso, è un bel po’ che non lo vedo splendere in questo modo. I capelli sono sciolti e morbidi sulle spalle e non ha addosso un filo di trucco, solo qualche catenina, il mio bracciale e il mio anello.
Gli si piega addosso e lo scuote per una spalla.
- Fler, - lo chiama piano, per non disturbare Chaky, - ehi, ci siamo qui noi adesso… vuoi andare a casa?
Fler gli spalanca un paio d’occhi acquosi e assonnati addosso e si riscuote.
- No… - mormora confusamente, - sto bene, vado solo… - non si capisce cosa borbotti mentre torna a chiudere gli occhi. Bill ridacchia e lo scuote ancora, mentre Tom si appollaia letteralmente su un tavolino nell’angolo opposto della stanza. – Sì, sì! – si sveglia lui a quel punto, - Okay, ho capito… vado a darmi una sciacquata al viso e… volete del caffè? – i gemelli annuiscono in contemporanea, Fler si alza dalla poltrona e si sgranchisce le gambe e le braccia, prima di passarsi una mano sugli occhi e sbadigliare sonoramente. – Allora resti tu qui mentre sono via? – chiede un’ultima volta, come rassicurazione, muovendosi già verso la porta.
Bill annuisce tranquillo e si siede sulla poltrona.
- Oh, ma è caldissima! – ride.
Fler ride a propria volta, la mano già sulla maniglia.
- Sì, te l’ho tenuta così apposta. – scherza uscendo.
Abbiamo appena il tempo di sentire il mezzo strillo concitato dell’infermiera che se lo ritrova davanti agli occhi, prima che lui chiuda la porta gridando “no, ancora?!” e fuggendo verso i bagni degli uomini – di fronte alla cui porta non sono nemmeno sicuro che lei si fermerebbe – che la stanza ripiomba nel silenzio e tutto ciò che riusciamo a sentire è il bip continuo del macchinario che ci informa che Chakuza sta bene, così come i suoi respiri profondi e regolari.
- Senti, ma se continua a fare il bell’addormentato possiamo andare? – si lagna Tom, piantando le mani sul tavolo ed accavallando le gambe, facendo dondolare una seggiolina di plastica con un piede.
Bill si volta a guardarlo con aria estremamente disapprovante.
- Dobbiamo restare finché non si sveglia! Pensa tu se apre gli occhi e si ritrova da solo!
- Oh, sì. – ridacchia Chakuza. Bill sente la sua voce e si volta a guardarlo con la lentezza impaziente e desiderosa di conservare la meraviglia dell’attimo con la quale in genere si guarda alle sorprese più belle, - Avrei potuto spaventarmi moltissimo.
Bill gli getta le braccia al collo all’istante.
- Chaku! – urla, saltandogli letteralmente addosso, - Oddio, sei sveglio! Come stai?
- Ouch… - borbotta un po’ lui, cercando di scostarsi da Bill che preme contro la ferita ancora fresca di sutura, - Sono stato meglio, ma devo dire che pensavo che le coltellate facessero più male.
- Che uomo. – lo prende in giro Tom, inarcando un sopracciglio, - Quasi te ne facciamo avere un’altra, va’.
Bill gli lancia un’altra occhiataccia, rinunciando alla poltrona per accucciarsi sul letto accanto a Chakuza, una gamba piegata sul materassino, l’altra a reggere saldamente il peso sul pavimento.
Vorrei un corpo solo per poter uscire da questa stanza, adesso.
Fler rientra affannato, stringendo tra le braccia tre bicchierini colmi di caffè annacquato.
- Dio mio, ma è una strega… - biascica confusamente, tirando giù col gomito un lembo della felpa incastrata nella cintura dei pantaloni, - Ragazzi, ma anche a voi…? – solleva lo sguardo e lo punta su Chakuza, che nel mentre s’è sollevato a sedere ed ora lo sta guardando a propria volta, sorridendo come un bambino ed agitando una mano in segno di saluto nella sua direzione. - …lo sapevo. – ride, avvicinandosi e scuotendo il capo, - Bushido non poteva averti preso in crew senza che valessi veramente qualcosa.
È strano sentir parlare di se stessi da morti. Non è una cosa che dovrebbe naturalmente accadere. Forse invece accade sempre, ma io ne avrei comunque fatto volentieri a meno.
Bill si irrigidisce così all’improvviso e così repentinamente che il suo disagio si estende anche a tutti gli altri. Tom si fa teso sul tavolino, Chakuza rabbrividisce leggermente ed osserva il ragazzo – il mio ragazzo – scivolare sul materasso fino a lasciarsi ricadere sulla poltrona.
Fler capisce qualcosa che capisco anche io. Pure se preferirei non capirlo affatto. E si scusa.
Il silenzio che si prolunga dopo è tanto imbarazzante quanto confortante. Sorseggiano tutti i loro caffè avvolti in una bolla di disagio che si risolve scoppiando all’improvviso nel momento in cui Tom salta in piedi ed annuncia a gran voce che sono già in ritardo per l’appuntamento alla Universal e che David li starà sicuramente aspettando di fuori. Bill si morde un labbro e posa il proprio bicchierino ancora mezzo pieno sul comodino accanto al letto, alzandosi in piedi.
- Torno questo pomeriggio, d’accordo? – dice a Chakuza, ed io so che vorrebbe dirgli altro perché conosco i suoi occhi e so quando stanno nascondendo ciò che la sua voce non può ancora dire. Giuro che se potessi distoglierei lo sguardo.
Fler e Chakuza restano soli il secondo successivo. Fler riprende posto sulla poltrona e gli allunga una pacca amichevole sulla spalla. Chakuza si lamenta sonoramente.
- Un po’ di delicatezza, cavolo, sono stato ferito! – borbotta sistemandosi contro il cuscino.
Fler ride, incrociando le gambe sulla poltrona.
- Molto eroico, da parte tua. – commenta con un sorriso furbo.
Chakuza scrolla le spalle.
- Bill era in pericolo.
Fler sbuffa un’altra mezza risata e scuote il capo, sistemandosi meglio sul cuscino.
Chakuza si inumidisce le labbra e poi sorride lievemente.
- Sai che stanotte ti ho sentito?
Fler spalanca gli occhi su di lui, schiudendo appena le labbra ed arrossendo.
- Come, prego…? – chiede ansioso.
Chakuza ride con più convinzione.
- Non ero mica in coma, dormivo e basta! – spiega, - Mi hanno svegliato i rumori e poi ti sei messo a parlare…
- Ma farmi sapere che mi stavo sputtanando, no…?
Chakuza scuote il capo e ride ancora, piegandosi lievemente in avanti.
- Hai bevuto? – s’informa interessato, lanciandogli un’occhiata dubbiosa.
- Nemmeno un goccio. – risponde fieramente Fler. Poi ci riflette. – Be’, una birra. Ma sono stato in giro tutta la notte, rischiavo la morte per congelamento, avevo bisogno di un po’ d’alcool.
Chakuza lo guarda, disapprovandolo gravemente.
- Patrick… - comincia severo.
- Niente Patrick, non me la merito la strigliata! – borbotta Fler in risposta, incrociando le braccia sul petto.
Tutto quello che mi interesserebbe, al momento, sarebbe uscire da questa stanza e raggiungere Bill. Dovunque si trovi. Fargli sentire che ci sono, dannazione, che da qualche parte ci sono ancora, anche se lui non può vedermi né sentirmi. Anche se sono morto, cazzo, io esisto ancora. Resto bloccato – imprigionato – qui. Non sono più parte di questo mondo.
È incredibilmente crudele essere costretto a sapere comunque tutte queste cose.
*
Eko Fresh entra nella stanza – Dio, mi fa piacere rivederlo, non credevo l’avrei mai detto, pensato o qualsiasi cosa sia quella che sto facendo adesso – e lo dice. Così. Senza preavviso e senza nemmeno spiegarsi.
- Atze, l’hanno chiamato Flerkuza.
Su quella sua faccia allungata da topo lo stupore è comico da morire. Quand’è stupita, la faccia di Eko si allunga a dismisura.
- Hanno chiamato cosa in che modo? – sbotta Fler, riconoscendo immediatamente il proprio nome e non altrettanto immediatamente quello di Chakuza. È meraviglioso che non sappia di cosa Eko stia parlando. Io ci sono già passato, quindi sono un passo avanti.
- Ma sei ancora qui tu? – chiede Eko, notando solo in quel momento la sua presenza rannicchiata sulla poltrona, - Ma non ce l’hai una vita? – poi scrolla le spalle, voltandosi verso Bill che staziona ai piedi del letto di Chakuza ed avvolge un gomitolo di lana dal lungo filo che Chakuza tiene appallottolato in grembo e sbroglia con attenzione. – Ohi, principessa. – lo saluta con un cenno del capo, - Che combinate?
- Volevo fare un maglione! – borbotta Bill, imbronciandosi e gonfiando le guance, - Ma non sono stato capace.
Eko ridacchia.
- Ma per chi? Per Chaku?
Bill scuote il capo.
- Per Fler! – spiega, mentre Fler solleva un braccio come a dire “presente” e si stringe nelle spalle, tirando su col naso. – S’è preso un raffreddore assurdo, ma è perché va sempre in giro in felpa. Visto che si ostina a passare le notti all’addiaccio, volevo almeno che avesse qualcosa di caldo…
- Ruberò una borsa dell’acqua calda da casa di Sido. – biascica Fler, allungandosi a recuperare un fazzolettino dal comodino per soffiarsi il naso.
- Potresti dormire sulla poltrona e basta. – suggerisce Chakuza con un sorriso furbo, - Giuro che non origlio più. – aggiunge quando Fler gli lancia un’occhiataccia offesa e imbarazzata.
- Oppure potresti tornartene a casa tua, tanto per cambiare, e dimostrarci di averne una. – rincara Eko, recuperando la seggiolina di plastica e trascinandola fino al letto per poi sedersi a gambe divaricate e chinarsi in avanti con aria cospiratoria.
Bill si china immediatamente verso di lui. Ha sempre adorato dargli corda, parlare con Eko lo diverte oltremodo.
- Allora, cos’è che dicevi quando sei entrato? – lo stuzzica, tirando un po’ il filo per dire a Chakuza di darsi una mossa.
Eko annuisce con aria seria al punto che Fler si sente turbato e si china a propria volta, e tutti e tre fanno capannello attorno ad Eko che solleva un dito e si mette a raccontare.
- Stavo vagando su fanfiktion.de con Kay, e ci siamo imbattuti nel primo esemplare di Flerkuza della storia.
- Ma si può sapere che cazzo è ‘sto Flercoso? – sbotta Fler irritatissimo, tirando su il colletto della felpa e tirando su pure col naso, già che c’è.
Eko lo guarda con fastidio palese.
- Ma sei sempre così lento di comprendonio o che? – commenta impietosito, - Fler e Chakuza insieme fanno il Flerkuza.
- No… non ci credo! – ride Bill, battendo entusiasta una mano su un ginocchio e rischiando di disfare nuovamente il gomitolo che, rotolando sul materasso, raggiunge le mani di Chakuza, che possono così salvarlo prima di distruggere ore di lavoro per l’esaltazione di un momento, - Hanno già cominciato a scriverci su?
Chakuza si passa una mano sugli occhi, disperato.
- Non è possibile… - sospira affranto.
Fler continua a non capire, ma è giusto così, lui con le fanfiction non ha mai avuto a che fare.
- Ma scrivere su cosa? – chiede quindi, ed Eko rotea gli occhi battendosi una mano sulla fronte.
- Quando c’è stato il casino a TRL, non è che sia stata ripresa perfettamente proprio tutta la scena. – spiega pazientemente, - Diciamo che le riprese si sono focalizzate più che altro su te che prendi in mano la situazione ed aiuti a caricare Chaku sull’ambulanza improvvisandoti George Clooney dei poveri in un episodio di Ghetto-ER.
A Fler continua a sfuggire il passaggio fondamentale.
Chakuza lo esplicita per lui. O almeno ci prova.
- Credo che scrivano su noi due, Pat.
- Scrivano chi? E cosa?
Bill ha pietà delle nostre anime – soprattutto della mia che, a quanto pare, esiste davvero – risolvendo il problema con una lezioncina semplice ed accurata delle sue.
- Le fangirl, Fler. – spiega annuendo, - Mi sa che vi hanno preso in simpatia ed ora scrivono fanfiction su di voi. Ciò che Eko sta tentando di dire-
- Eko può dirlo da solo. – annuisce lui, interrompendolo e rivolgendosi a Chakuza, - Quindi insomma, c’era questa storia incredibile in cui tu stai all’ospedale in punto di morte e Fler è lì al tuo capezzale che piange e quindi tu ti risvegli e gli dici che in realtà l’hai sempre amato, e-
- Ma che roba è?! – scatta in piedi Fler, giustamente terrorizzato, - Cristo, ma è da malati mentali!
Eko agita una mano come a dirgli di aspettare.
- No, ma poi migliora! – commenta con competenza, ma a Fler non sembra interessare molto.
- Ma può pure essere il nuovo capolavoro della narrativa tedesca, fanculo! – si tira indietro, soffiandosi ancora il naso, - Vado a farmi un giro, cazzo. E dopo magari me ne vado davvero a casa.
- Volesse Iddio. – implora Eko, per poi tornare a guardare Chakuza, - Dicevo, tu l’hai sempre amato, e…
Bill salta giù dal materasso, rischiando di mandare all’aria Chakuza con tutto il letto.
- Fler! Aspetta! – lo richiama mentre lui esce dalla porta, - Ti accompagno.
Fler scrolla le spalle come se la cosa non gli importasse minimamente, ma aspetta comunque che Bill sia uscito dopo di lui per richiudere la porta. Dall’interno della stanza giungono le risate soffocate di Eko e di Chakuza, e Fler rotea gli occhi, infastidito.
- Non prendertela troppo… - cerca di consolarlo con un sorriso tenero dei suoi, - Ti va una cioccolata calda? – suggerisce indicando la macchinetta a qualche metro di distanza da loro.
Fler ghigna stanco.
- Se me la correggi con una dose abbondante di vodka, possiamo cominciare a parlarne.
Bill gli lancia un’occhiata curiosa, inclinando lievemente il capo, e Fler ride e scuote il capo.
- Prendiamo questa cioccolata, - concede, - e dopo andiamo a farci un giro fuori. Ti va, ragazzino?
Bill annuisce freneticamente e trotterella verso la macchinetta automatica, recuperando due cioccolate che insiste per pagare e seguendo Fler all’esterno dell’ospedale. Il suo sguardo si fa enorme e brillante quando si posa sul manto bianco che copre le strade.
- Ha nevicato…! – esala estasiato, stringendosi nel cappottino.
Fler rotea gli occhi.
- Perfetto, ci mancava solo questo. Morirò.
Bill ride e muove qualche passo sul marciapiedi, attento a non scivolare.
- Se ti rassegnassi a stare al chiuso, di notte, come tutte le persone normali… - suggerisce, giocando con la punta di una scarpa in un cumulo di neve attorno al lampione.
- Ci sono abituato, non è un problema. – borbotta Fler, agitando una mano, - Tu non ficcare i piedi là dentro, ti prenderai una polmonite.
- Guarda che sei tu quello che starnutisce da giorni! – ride Bill, socchiudendo gli occhi su una folata di vento particolarmente freddo.
Fler lo liquida con un cenno della mano e sbuffa, il suo fiato si condensa e lui e Bill lo osservano disperdersi nell'aria. Tirano giù un sorso di cioccolata bollente quasi contemporaneo e li sento sospirare di sollievo nello stesso modo, a distanza di pochissimi secondi.
- Dovresti veramente riguardarti, un po'... – borbotta Bill affiancandoglisi e cominciando a camminare lungo il marciapiedi, - Peter era preoccupato l'altra sera, quando non ti ha visto arrivare...
- Ah, davvero? – Fler arrossisce vagamente, è comico vederlo arrossire così, e poi si perde in un ghigno un po' più furbo, lanciando un'occhiatina allusiva a Bill, - E tu che ci facevi l'altra sera da Peter?
Bill sorseggia la cioccolata, incerto.
- Ogni tanto... – biascica fissando il vapore acqueo che risale dal bicchierino plastificato, - ...mi piace passare un po' di tempo con lui. Mi sento più a casa nel suo appartamento che non nel mio. È strano... – aggiunge con un sorriso triste, - perché casa mia è piena di ricordi di Anis, quindi dovrei trovarmi meglio lì, e invece...
Fler sbuffa una mezza risata, finendo la cioccolata e gettando il bicchierino in un cassonetto dell'immondizia.
- Guarda che non devi nasconderlo con me, se state insieme. – butta lì semplicemente, infilando le mani in tasca per proteggerle dal gelo, - Non ve la scrivo una diss contro.
Bill si volta a guardarlo come se avesse detto contemporaneamente la cosa più offensiva e la cosa più ridicola del mondo.
- Ma... non... – si agita arrossendo e stringendo il bicchierino fra le mani, - Non stiamo insieme!
Fler inarca un sopracciglio e lo fissa. La sua espressione non è incredula come dovrebbe essere, se davvero pensava stessero insieme. Ci sono un sacco di cose che mi sfuggono, in tutto questo. O forse la cosa spaventosa è che in realtà non mi sfugge niente e capisco tutto, e questo mi infastidisce perché non dovrei – sono morto, non dovrei davvero – e neanche vorrei.
- No? – insiste, mentre Bill butta via il bicchierino ancora mezzo pieno e tira fuori dalla borsa un paio di guanti, - Strano.
- Strano perché? – chiede lui, infilando i guanti con fin troppa cura per non dare chiaramente ad intendere di star cercando un pretesto per non guardare Fler, il quale scrolla indifferentemente le spalle.
- È stata la prima cosa che ho pensato quando ti ho visto a casa di Chakuza. – rivela in un mezzo sospiro, - Ho pensato che steste insieme.
Bill annuisce compitamente torcendosi le mani in grembo.
- Potresti… - biascica imbarazzato, - …non dirglielo? – Fler inarca un sopracciglio, incerto, e Bill si affretta a spiegarsi, - Ecco, - borbotta, - non vorrei che… cioè, io mi trovo bene con lui, non vorrei che decidesse di allontanarsi per un pettegolezzo. – sospira, - Io lo so, come sono fatto. Lo so che è difficile stami accanto senza che la gente pensi di tutto e di più. – sorride stancamente, - Sapessi quello che si pensa in genere di quella povera anima di mio fratello. – Fler ridacchia perché evidentemente lo sa, cosa si pensa di Bill e Tom, ed anche Bill si concede una risata. – Insomma, ci tengo che Chaku resti dov’è. Quindi non dirgli niente, ok? – conclude un po’ ansioso.
- Okay, okay, ragazzino, calmati! – sbotta Fler, divertito, sollevando entrambe le braccia in segno di resa, - Non avevo comunque alcuna intenzione di andare da Chakuza a chiedergli conferma né niente di simile. Tranquillo. – Bill annuisce ed abbassa lo sguardo, in imbarazzo. Fler sospira e cambia discorso, vedo un brillio di gratitudine negli occhi di Bill ed un po’ mi infastidisce davvero che qui si viva perfettamente anche senza di me. – Comunque, davvero, non preoccuparti per il sottoscritto. – lo rassicura stringendosi nelle spalle, - Ci sono abituato al freddo. Bushido mi teneva fuori anche fino alle quattro del mattino.
Bill annuisce e sulle sue labbra si forma un mezzo sorriso intenerito mentre si muove lentamente sul marciapiede. È un sorriso che anticipa una domanda che non sa se può fare. Potessi, tratterrei il respiro. Poi mi rendo conto che, in un certo senso, lo sto già facendo.
- Com’era? – chiede a bassa voce, stringendo le mani in grembo, - Da ragazzo, dico. Io ne so molto poco.
Fler inarca un po’ un sopracciglio, ma non sembra molto stupito di sentirsi chiedere una cosa simile.
- Be’, non era esattamente il tipo che a uno facesse piacere frequentare. – riflette, scavando fra i ricordi, - Voglio dire, era uno stronzo. Ed era pericoloso, ma non nel senso del romanzetto per ragazzine, cioè, non era il classico tipo cupo che al limite poi però ti tiene fuori fino all’una e mezzo e torna a casa. Quello rideva sempre ma ci metteva niente a infilarti un coltello nel fianco, all’occorrenza.
Bill ridacchia e si stringe nelle spalle.
- Sì, lo so che rideva spesso. – annuisce, guardando i mucchietti di neve ammassati lungo il marciapiedi.
- Nah, non lo sai. – Fler lo butta lì con indifferenza, Bill aggrotta le sopracciglia e fa per rispondergli male, ma si ferma appena si volta a guardarlo e lo vede sorridere nostalgico. – A diciott’anni Anis non rideva come ha cominciato a ridere dopo aver fatto i soldi.
- Certo che tu… - borbotta con un mezzo broncio, - quando te la leghi al dito è proprio per sempre, eh?
Fler scrolla le spalle.
- Non proprio per sempre. – risponde noncurante, - Per quanto merita.
Bill si morde un labbro e palesemente non sa se porre la domanda che gli trema sulle labbra. Alla fine lo fa. Mi fa tenerezza e sono anche un po’ contento – Bill non era davvero tipo si tenesse qualcosa dentro. Vorrei che tornasse a sorridere come faceva con me, anche se pare io non sorridessi con lui come facevo con Fler. C’è decisamente qualcosa che non va in quest’equazione.
- …Bushido meritava di essere odiato fino a quando non fosse morto?
Fler riflette. Fissa dritto di fronte a sé. Ho paura di ciò che potrebbe dire. Anche se sono morto e per me non cambierà niente, qualsiasi sia la sua risposta.
- …avrebbe meritato che continuassi ad odiarlo anche dopo.
*
A Chakuza, i medici hanno prescritto venti giorni di ricovero che lui ha passato tutti - uno per uno - a borbottare che stava bene e che non c'era bisogno lo tenessero lì. Ha insistito per alzarsi due giorni dopo l'operazione, fingendo che la sutura non gli facesse un male d'inferno e finendo per farsi saltare i punti. Due volte, nel giro di una settimana.
Fler, ad un certo punto, si è così spazientito di vederlo grondare sangue a casaccio che lo ha rimesso di peso sul letto urlando che era un coglione, e poi ha chiamato l'infermierina deliziosa che lo perseguitava da giorni e lo ha fatto sedare.
Il tutto tra le risate di Eko e gli occhioni sgranati di Bill che davanti al sangue ha ancora delle brutte reazioni. Fortuntamente, aggiungerei. Non voglio assistere al giorno in cui il sangue non gli farà più effetto.
In questi venti giorni, Chakuza non è mai rimasto solo. A parte sua madre - le cui visite meriterebbero un resoconto tutto loro, perché quella donna gli è ossessivamente attaccata e questo genera e ha generato scene di panico miste a scenate furiose ben poco austriache -, qualcuno della crew era sempre presente nella sua stanza. E questo mi ha reso molto orgoglioso di loro. E di me, che li ho tenuti insieme fino all'ultimo.
Da quando lo hanno portato in sala operatoria a quando hanno deciso di dimetterlo, ogni singolo membro dell'Ersguterjunge ha attraversato i corridoi dell'ospedale almeno una volta, per portargli i suoi saluti o per offrirsi di dare una mano a Bill e Fler che, invece, quella stanza non l'hanno praticamente mai lasciata.
Fler è uno che se si prende a cuore qualcosa, la fa fino in fondo. Fino a che la questione non è risolta e lui non ha più niente da fare al riguardo. Ha fatto così con l'Aggro Berlin - ci credeva, e ha continuato a crederci anche quando me ne sono andato. Sapeva di poterci lavorare sopra, e non l'ha mollata - e sta facendo così con Chakuza.
Nel momento in cui lo ha raccolto di terra con le budella di fuori e ha dato istruzioni ai medici, si è preso la responsabilità di vederlo arrivare vivo alla fine della faccenda. E la fine è fuori dall'ospedale, quindi Patrick è andato a trovarlo ogni giorno, dalla mattina fino alla sera.
I primi tre giorni, le infermiere - tutte, non solo quella che ha continuato a scoparsi nello sgabuzzino delle scope come prima cosa quando arrivava in ospedale, così poi lo lasciava in pace - hanno tentato di cacciarlo via perché si ostinava ad arrivare prima dell'orario di visita e ad andarsene solo a notte inoltrata. Poi hanno smesso, un po' perché Katrina - l'infermierina deliziosa - ha cominciato a parlare in giro del suo sguardo penetrante e poi perché lui il suo sguardo penetrante, quello vero, ha cominciato ad usarlo con le infermiere, così che gli sono cadute tutte ai piedi come sacchi di patate e perfino Karla, l'infermiera sessantenne di pediatria, si faceva quattro piani d'ascensore avanti e indietro per portargli un paio di cuscini in più per il Chaku. Una volta comprata la metà femminile della clinica, Fler non ha più avuto problemi, e si è perfino organizzato per andare a prendere Bill a casa e riportarcelo ogni giorno, con grande disappunto di Tom che pensava di essersi liberato di ogni rivale quando sono morto io e invece ora se ne ritrova due.
Bill, d'altronde, è un'altra storia. Quello che l'ha spinto a stazionare in quella stanza d'ospedale a chiacchierare per ore e giocare a carte - a guardare telenovelas anche. Ho visto Peter con il suicidio negli occhi - supera il senso dell'onore di Fler e di certo non ha niente a che vedere con l'amicizia di Eko o l'appartenenza della Crew.
Chakuza per Bill non è mai stato crew, ed ha smesso di essere un semplice amico il giorno in cui gliel'ho mandato all'aeroporto, ormai quasi un anno e mezzo fa. Chakuza è stato il primo ad accettarlo, e Bill gli vuole così bene che adesso che io non sono lì con lui, vederli insieme mi strappa il cuore.
Il medico è stato lì ieri sera e ha dato a Chakuza il permesso di tornare a casa.
Adesso Bill gli sta facendo la sacca, mentre Patrick gli passa le sue cose una ad una, semi-appoggiato al letto perché è ancora debole. Scherzano e fanno cose assolutamente innocenti; un anno fa pregavo che questo avvenisse in fretta - perché volevo Bill felice con la mia gente - e adesso anche solo il fatto che Chakuza rida alle battute di Bill mi infastidisce.
All'improvviso mi sembra che Chakuza stia oltrepassando una linea, che Bill glielo stia lasciando fare. O viceversa, non lo so. Eppure sono anche consapevole che non è vero, che quello che sto guardando è solo ciò che io capisco e che forse loro non sanno ancora.
E' come vedere il futuro scritto nei loro occhi. E non è lontano che dieci chilometri.
L'auto di Bill li aspetta nel parcheggio dell'ospedale.
Fler non è venuto, e se potessi lo costringerei ad esserci. Si è presentato qui per venti giorni consecutivi, uno dietro l'altro, ad orari improponibili e oggi che mi serve - oggi che Katrina è in ferie, per altro - Bill si offre di riportare Chakuza a casa e Fler non fa una piega. Dice sì, va bene. E io lo so perché lo ha fatto, e solo per questo vorrei pestarlo.
Bill è un pessimo guidatore, per questo Tom continua a portarlo in giro in auto nonostante abbia la patente: è terrorizzato all'idea che suo fratello finisca per schiantarsi contro un palo una delle tante volte in cui usa lo specchietto retrovisore per sistemarsi la frangia. Bill è vanesio, e questo contrasta in maniera pericolosa con la sua sicurezza in auto. Chakuza però non se ne accorge nemmeno, è troppo impegnato a godersi il viaggio e le parole di Bill che si srotolano nell'abitacolo senza soluzione di continuità, come al solito. Non so nemmeno che cos'abbia di nuovo da raccontargli, dal momento che non si sono persi di vista un secondo, ma Bill trova sempre qualcosa da dirti quando gli piace la tua compagnia. Ed è così bello mentre parla e si entusiasma che spesso non senti nemmeno quello che dice, ti perdi nel movimento delle sue labbra o nella luce che gli si accende negli occhi.
Bill parcheggia di fronte al palazzo dove abita Chakuza ma lui non gli permette di tirare fuori la sacca dal bagagliaio. "Ce la faccio, tranquillo," lo rassicura sorridendo.
Mi ritrovo a sperare che lo ringrazi e che poi si salutino, ma so perfettamente che è una speranza davvero stupida: Bill sale sempre, da tre mesi.
E adesso sembra anche più sensato che lo faccia: ci sono i punti ancora un po' aperti di Chaku. C'è la sua sacca pesante. Deve salire.
L'appartamento per una volta è in ordine. La madre di Peter ha approfittato dell'assenza del figlio e ha dato una pulita e una sistemata a tutte le cianfrusaglie che quell'uomo tiene in giro. Bill ridacchia e glielo fà notare. "Sembra tutta un'altra casa," dice scherzando.
"Non preoccuparti, non ci vorranno più di tre giorni a farla tornare come prima," risponde lui, che si è già avviato in camera.
Bill lo segue. Ha lasciato la borsa e il cappotto in salotto, come fa sempre. Ormai si muove a suo agio, sa quasi tutto di quella casa. Gli manca solo di capire dove riporre gli abiti, perché i cassetti della stanza da letto sono l'unica cosa che non ha mai avuto modo di aprire.
Eppure non sembra a disagio, tira fuori le maglie e i pantaloni, chiede dove vanno e poi le ripone. Lascia di proposito la biancheria, così a quella ci pensa Peter: cerca di non creare motivi di imbarazzo perché nell'aria ce n'è anche troppo. Anche se non è imbarazzo, e vorrei dirglielo. Quando la sacca rimane vuota, Bill si dà da fare a ripiegarla e Chakuza si dà da fare a prendergliela dalle mani e ad infilarla nell'armadio. Non si fermano e non si sfiorano, perchè lo sentono a pelle che a guardarsi e a toccarsi poi sarà difficile dare la colpa a quella sacca se Bill è ancora in piedi di fronte a Chakuza, entrambi protetti dall'anta dell'armadio aperta.
Prendono fiato insieme, ma è Chakuza a parlare. "Grazie," dice.
"Di niente," Bill scuote la testa con troppa forza. Si è fatto triste, all'improvviso. "Allora io... vado." Indica alle sue spalle, senza voltarsi e sforza un sorriso che però muore subito, perchè non è sincero. Non è felice, non vuole andare. Sorride solo perché è l'unico modo che ha per evitare che Chakuza gli chieda cosa c'è che non va.
Ringrazierei di non avere un cuore, se le mie sensazioni non fossero ancora tutte al loro posto e i miei battiti, sempre più forti, non li sentissi lo stesso, come un boato nelle orecchie. Succede quando Chakuza allunga una mano ad accarezzargli appena una guancia con il pollice. E' un gesto automatico, non ha pensato davvero di farlo ma quando la mano si è mossa lui non ha trovato un motivo per fermarla. Il motivo sono io, cazzo, ma sono morto quindi non valgo più.
Bill socchiude gli occhi e si appoggia contro il palmo della sua mano. Il suo sospiro di sollievo fa più male dei colpi di pistola che mi hanno ucciso. Significano: finalmente. Ed è un finalmente che non mi contiene più. L'attimo dopo Bill gli si spinge addosso, preme le labbra contro le sue e Peter lo considera un permesso sufficiente a proseguire. Sto male perchè non c'è un luogo preciso da cui sto guardando, sono ovunque. E non ho ostacoli. Fra me e loro non c'è niente che blocchi la visuale. Niente dietro cui possa nascondermi. La cosa avviene davanti ai miei occhi, senza che io possa veramente chiuderli.
Così vedo Bill schiudere le labbra e lasciarlo entrare. Lo vedo gettargli le braccia al collo e vedo il suo corpo che si accomoda in quell'abbraccio, si lascia stringere; le curve morbide della sua pancia si appoggiano contro gli addominali di Chakuza e io mi sorprendo che si incastrino bene, ancora convinto che questo possa accadere solo con me.
E allora realizzo che adesso è suo, o lo sarà presto. Che manca poco. In ogni caso il bacio di Bill è sincero ed è innamorato, è la concessione di un permesso che Chakuza desiderava da mesi senza saperlo e che Bill aveva tanta voglia e tanta paura di dargli.
Il bacio è dolce, ma breve. Per me i secondi si dilatano in eternità, ma non è passato che qualche istante quando riaprono gli occhi e si allontanano impercettibilmente senza un suono. Si guardano attraverso palpebre rese pesanti dalla voglia di conoscersi in altro modo, dal bisogno di toccarsi in maniera completamente differente. La distanza che hanno posto tra loro la coprono insieme, nello stesso istante. Il suono delle loro labbra che si incontrano di nuovo affonda nei sospiri di Bill e nei mugolii di Chakuza che lo stringe alla vita e lo spinge indietro, verso il letto.
Chakuza è impacciato, non ha mai avuto un ragazzo tra le braccia. Non ne ha mai toccato uno, a parte se stesso, e non sa dove mettere le mani; ma è una cosa che s'impara in fretta. Le sue dita trovano la strada sotto la camicia di Bill fin troppo velocemente. Bill esala il suo nome mentre Chakuza gli scivola addosso e prende il mio posto tra le sue gambe. Non ha idea di cosa sta facendo, ma lo fa comunque. Le mani di Bill sono abbastanza esperte da condurlo esattamente dove deve andare.
Bill gli toglie la maglia e la getta a caso oltre il bordo del letto, si aggrappa alle sue spalle e si spinge contro di lui per sentirlo ringhiare. L'assoluta padronanza di se stesso e dei suoi movimenti mi manda in bestia ora che la sta usando su qualcun altro. Vorrei gridare e non posso. Vorrei fermarli e non posso, perchè non sono lì. Perchè non sarebbe giusto. Perchè Bill è felice e io devo accettarlo. Si stira su quel materasso mentre getta indietro la testa e mugola. Chakuza ha il viso affondato nel suo collo e le mani sulla cintura dei suoi pantaloni. Lo sta spogliando a fatica, perchè vorrebbe anche accarezzarlo e strusciarglisi addosso, e ringhia di frustrazione per non poter fare tutte le cose insieme.
Bill è lì disteso per lui, senza più la camicia, che s'inarca sotto le sue dita. C'è da perderci il fiato e la testa. L'ho persa anche io così, allo stesso modo. Bill sembra sciogliersi tra un morso e l'altro che Chakuza gli lascia sul collo ma poi apre gli occhi e la magia s'infrange, in qualche modo. Ha il mio braccialetto ancora al polso, luccica nel buio e mentre io mi chiedo come possa farsi toccare da Chakuza avendolo ancora addosso, lui pensa la stessa cosa.
"Peter..." pigola incerto. E non so se lo faccia perchè è sull'orlo delle lacrime o se ha paura della reazione di Chakuza.
L'uomo solleva lo sguardo e si riprende quando vede quello negli occhi di Bill. Quando vede le lacrime che scivolano lente ai lati del suo viso. "Bill!" mormora nel panico. "Che succede?"
Lo so che nella sua testa si sta chiedendo se per caso non gli ha fatto male. Lo so perché c'è da chiederselo con Bill, non pesa niente. Sembra fatto di niente.
"Io non posso," sussurra Bill. "Non... non ci riesco. E' ancora troppo presto."
Mi prendo la soddisfazione di gustarmi la consapevolezza che si fa strada negli occhi di Chakuza. Capisce che lui c'entra poco in quelle lacrime; Bill sta piangendo per me.
Bill esita. "Mi dispiace."
"Non preoccuparti," Chakuza cerca di essere comprensivo. Ha capito, perché è un uomo sensibile, ma è anche incredibilmente frustrato perchè è un uomo, appunto. Si scosta da lui e gli dà modo di arrotolarsi su se stesso, perchè ne ha bisogno. Così come ha bisogno di piangere. "Ti lascio la stanza per... risistemarti," sceglie la parola con cura. Deve dirgli di rimettersi addosso i vestiti ma deve fargli capire che non può restare. Risistemarti è una buona scelta. Non troppo fredda e abbastanza chiara.
Bill annuisce, ma non dice niente. Lo lascia uscire prima di iniziare a singhiozzare.
Osservo quel suo corpo lunghissimo farsi minuscolo, mentre si abbraccia.
Le prime settimane dopo la mia morte le ha passate così, avvolto in se stesso a cercare un po' del calore residuo del mio corpo. E ora mi sento in colpa perché era tornato a sorridere e io in qualche modo, stanotte, quel sorriso gliel'ho strappato via di nuovo.
Aspetto con lui che il dolore si attenui; il mio o il suo, non ha importanza. Alla fine è passata un'ora quando si alza dal letto di Chakuza e si riveste. Aggancia la camicia nera di fronte allo specchio. Lo guardo e per un attimo il suo riflesso sembra fissare un punto indefinito alle sue spalle, dove mi piace immaginarmi. Fingo che ci stiamo guardando, ma non gli chiedo scusa per averlo turbato perché so che lui non la sta chiedendo a me.
Qualche minuto dopo si presenta da Chakuza che è seduto sul divano - il loro divano - e si tiene la testa fra le mani. Alza lo sguardo quando lo sente arrivare.
Bill gli mostra le chiavi dell'auto solo per un istante e poi torna a stringerle con violenza nel pugno chiuso. Sono i nervi a tenerlo insieme e ha paura che, parlando, andrà di nuovo in pezzi.
Ha paura anche Chakuza, per cui non si scambiano una parola.
Si annuiscono e basta.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "'Quattro secondi... tre... due...' il numero uno, il tecnico lo conta muto e poi parte la sigla di TRL.".
Note: Sullo storyboard questo capitolo era uno dei miei preferiti. Mi piaceva l'idea di ricreare da zero una puntata di TRL, provando ad immaginare cosa si sarebbero dette le due crew e Bill una volta in studio. Quando poi ho cominciato a scrivere, però, la cosa non si è rivelata facile come sembrava. Ho urlato, strepitato, cestinato, finché Liz - impietosita - non ha deciso di occuparsi della cosa. Quindi anche questo capitolo è una Tabata feat. Liz.
Un po' di cosine che magari vi interessano. Non mi capita mai di fare riferimenti con il reale, fatemi divertire un po'. Dunque:
1 - La foto di Backspin di cui parla Bill, è questa.
2 - Il simpaticissimo (come un virus intestinale) Patrice, è questo ometto qui (è quello che parla).
3 - Il primo video citato lo trovate qui.
4 - Il secondo, dagli oscuri meandri del passato del Bu, qua.
Cos'altro? Ah sì, se vi venisse lo sghiribizzo di vedere la timeline aggiornata, la trovate sul sito. E basta, credo.
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SET ADRIFT ON MEMORY BLISS

Questi ultimi giorni sono stati piuttosto stancanti.
Un po' perché sono i giorni peggiori, quelli dove manca poco. Un po' perché per questo motivo, chiunque mi conosca ha cercato di fare qualcosa per distrarmi intanto che aspettavo quel poco che rimaneva. Il problema è che nessuno mi ha chiesto cosa volessi fare io, e io volevo starmene in casa da solo, magari a rilassarmi. Ovviamente nel via vai di gente che andava e veniva, di stendersi due minuti in vasca o anche solo di svaccarsi davanti alla televisione di tempo non ce ne stato per niente.
Gustav prima, David poi; e quindi Andi, Georg e Chakuza che ha fatto la spola tra casa sua, l'Ersguterjunge e il mio appartamento, incrociandosi con Tom. Sembrava si fossero messi d'accordo: lui arrivava, mio fratello partiva. Uno dietro l'altro sono venuti tutti, da ogni angolo del mio personalissimo universo. Non mancava nessuno.
Qualche giorno fa, seduto sul mio letto, ho visto anche lui che mi guardava e sorrideva, con quel modo che aveva di guardarti che non sapevi mai se ti stava prendendo in giro oppure no. Mi stavo asciugando i capelli, è stato solo un istante ma nella mia memoria è ancora così nitido che mi è bastato per vederlo tutto.
Mi ha fatto notare che non dovevo lamentarmi di tutta quella gente che andava e veniva, che sono ancora la principessa ed è per questo che mi viziano tutti.
Nella mia testa, la sua voce è chiara quanto il suo viso.
Non è come ricordare vagamente il suono di come diceva le parole, è sentirlo parlare, come se in realtà fosse ancora qui.
Così mi ha detto che sono sempre la principessa e ho stretto forte la spazzola per aggrapparmi a qualcosa. Tom dice che se non smetto di piangere mi scioglierò e non rimarrà più niente di me; e io mi chiedo se voglio che resti qualcosa di me ora che non c'è più niente di lui. Poi ricordo che mio fratello morirebbe se morissi anche io, e all'idea di una morte effetto domino mi viene da ridere. Lo so che non è bello, ma so che lui riderebbe.
Anis rideva sempre quando qualcosa lo spaventava. Così fa meno paura, diceva.

Comunque sia, sono le due del pomeriggio e mio fratello ha passato qui la notte.
A dire la verità credo che sia solo il fortunato vincitore di una complicatissima partita a morra cinese in cui se la sono giocata un po' tutti questa nottata della vigilia; mi piace vedermeli riuniti ad un tavolo che tirano giù veloci sequenze di sasso forbice carta per vedere a chi tocca stare con la vedova la notte prima dello speciale di TRL. Ha vinto mio fratello, a quanto sembra. Ieri sera non avevo ancora finito di chiudere la porta dietro le spalle di mia madre, venuta fin da Loitsche per quattro splendidi giorni con suo figlio, che Tom si è presentato a casa mia, la sua sacca da viaggio e la chitarra, pronto per una serata fra gemelli: la salsa, The NoteBook, tutto il necessario da manuale, insomma.
Per un istante l'ho odiato, dico davvero. Volevo solo togliermi i vestiti, mettere quattro candele agli angoli della vasca e stare in ammollo finché non mi fossi rattrappito come una prugna; trovarmelo lì sulla soglia, che sorrideva amabile come me stesso quando non sono così sbattuto, mi ha fatto anche un po' girare i coglioni.
Poi mi sono reso conto che non ho mai veramente voluto stare da solo, che se mio fratello non si fosse presentato lì, probabilmente avrei finito per passare la serata avvolto nel plaid a guardare il mio album di fotografie. In realtà non ne avevo uno finché Anis non è morto; avevo un sacco di foto, quello sì, ma erano mucchi sparsi in giro per casa. La sera del funerale le ho riunite tutte sul pavimento del salotto, e ho cominciato a dividerle prima per mese, poi per occasione, poi in base al fatto che fosse da solo o ci fossi anche io, poi per i vestiti, e per un altro centinaio di caratteristiche stupide; tanto che sono rimasto alzato fino a tardi e non avevo ancora deciso quali inserire nell'album e quali scartare.
Alla fine le ho messe a caso. Ho cominciato a tirarle su dal mucchio con gli occhi chiusi, le guardavo e mi sorprendevo dell'espressione che avevo pescato. Era un po' come averlo lì, che non potevi controllare le sue reazioni.
Allora gli ho raccontato com'era andata la giornata: - C'era un sacco di gente, sai, amore?
E ho tirato su la foto e l'ho visto che sorrideva; gliel'ho fatta io quella, sul tourbus, una mattina che aveva detto qualcosa di stupido e ci stava ridendo su. Era ancora tutto scombinato, era Anis; non Bushido.
Quindi ho continuato a parlare. Gli ho spiegato che nessuno voleva farmi passare ma l'ho rassicurato: - Chakuza mi ha aiutato a farmi largo tra la folla.
Nella foto che ho tirato su c'era lui impegnato a cantare: gliel'ho fatta durante un concerto. Ero dietro le quinte, quindi il taglio è strano e lui è concentratissimo. Mi è sembrata un'espressione solenne. Anche quella è andata nell'album.
Sono andato avanti per un po', gli ho raccontato che Eko quasi piangeva e che lui mancava disperatamente a tutti. Foto dopo foto mi ha regalato di nuovo tutti i suoi sorrisi e tutte le sue facce buffe. Era anche arrabbiato a volte, con la mascella tesa e gli occhi scuri scuri, che a volte ti ci perdevi dentro e altre volte erano un muro, proprio.
Erano le quattro del mattino quando sono rimasto senza pagine nell'album, e avevo ancora un mucchio di fotografie da sistemare. - Ti ho messo una calla; ho detto all'improvviso. Non lo so perchè, ma in quel momento ho realizzato che la bara era chiusa e che forse non può vedere un bel niente. Ho detto: - Ti ho messo una calla. Sopra al legno però, perchè non ti hanno esposto. Eri già chiuso. David dice che lo hanno fatto per tua madre, che era meglio così. Comunque la calla te l'ho messa lì. Ecco.
E la foto che ho tirato su era bellissima. Era lui, con me; e tranne noi non si vede niente, ma io lo so che è stata scattata tra le coperte del mio letto, che ad inquadrare più in basso ci sono i nostri vestiti, io sono nudo e lui mi stringe attorno alla vita con le braccia forti, color nocciola. Nella foto però si vedono solo i nostri visi, fianco a fianco e io che rido come non ho più fatto da quando non c'è lui.
Sto guardando una foto anche adesso, comunque, quella che ho sullo specchio. E' una foto molto speciale, è quasi uno scherzo ecco, però a me piace. C'è tutta la crew, proprio tutta, non solo i ragazzi che mi odiano meno; Kay e Chaku sono di fianco ad Anis, come i cavalieri del re. Era una foto ufficiale, cioè, ne esiste una ufficiale proprio uguale, per un articolo di Backspin se non ricordo male. Quella che ho io, però, è lo scatto precedente; quello dove ci sono anche io che passavo di là e Anis mi ha portato di peso sul set e ha detto al fotografo di scattarne una. Così io sono lì, che sembra ritagliato da un’altra fotografia e incollato tra le braccia di Anis.
"Bill, sei pronto?" La voce di mio fratello arriva da dietro la porta della mia stanza chiusa.
"Un attimo! Arrivo!"
Tom ha dormito sul divano, stanotte. Il letto è solo mio, non può più toccarlo nessuno. Mi da fastidio anche solo che ci si siedano sopra. Ieri ho urlato a mia madre che si stava azzardando a rifarlo. Io cambio le lenzuola, io lo rifaccio, io sistemo i cuscini. E, ovviamente, io ci dormo dentro. Da solo. Anis ha dormito qui e ci abbiamo fatto l'amore. C'è morto sopra. Non posso dormirci che io, adesso. Qualsiasi altra persona sarebbe come profanarlo, non lo so.
Le prime due settimane non ho avuto nemmeno il coraggio di entrare in camera. Poi mi è presa la nostalgia e allora tornare in questo letto mi è sembrata la cosa più logica da fare. Per un po' ho dormito solo dalla mia parte, ma la metà di Anis rimaneva troppo fredda, così adesso sto esattamente in mezzo e allargo le braccia e le gambe, scaldo tutto così quando mi giro la notte, posso rannicchiarmi dalla sua parte al calduccio e fingere che si sia alzato per andare in bagno. Nel dormiveglia è consolante, e la mattina dopo non ho mai il tempo di pensarci davvero perchè passa sempre qualcuno a prendermi, parlare, distrarmi.
"Bill!" Di nuovo la voce di mio fratello. "Stiamo facendo tardi, posso entrare?"
Gli dico di sì e mi trova di fronte allo specchio mentre finisco di mettermi il mascara. Gli sorrido attraverso lo specchio: il mio riflesso è splendido. Sono in piedi da ore, mi ci sono impegnato, voglio apparire meglio del solito. Anis lo avrebbe voluto, credo.
Nella mia testa risuona il:- Fatti bello, stasera usciamo; che mi diceva al telefono. E io gli rispondevo sempre che ero già perfetto.
"Sicuro di volerti truccare?" Mi chiede. Lo guardo e capisce di aver detto un'idiozia. Come potrei non volermi truccare? Devono ricordarsi che sono io. Io per come sono, non per come sarebbe stato meglio che fossi. Che poi dovrei essere donna, per quello. "D'accordo, lascia perdere. Ho detto una stronzata. Comunque, tra due minuti usciamo."
Annuisco e lo vedo che scappa via di nuovo. Tom è nervoso e non capisco seriamente perchè. La situazione sarà difficile, ma lui non c'entra. Lui serve a me, probabilmente lo faranno parlare solo un paio di volte. Non dovrebbe essere nervoso, davvero.
Schiocco le labbra, quindi mi schiodo dallo specchio. Non faccio in tempo ad uscire dalla camera che mio fratello mi recupera e m'infila, letteralmente, nel mio cappotto. Mi chiude perfino i bottoni. "David è qui fuori. Tobi ci aspetta giù," mi dice sbrigativo mentre cerco di capire perchè mi sta trattando come avessi otto anni. Quindi mi tiene per la vita e mi guarda negli occhi. "Bill..."
"Che c'è?"
"Quando arriviamo, stammi vicino." Dice.
"Tomi, cosa?"
"Non ti allontanare da me," ripete. "Solo questo."
Mi ritrovo ad annuire senza averci capito granché, e poi mi abbraccia e preme le labbra contro la mia guancia per qualche secondo, per un attimo credo che non voglia lasciarmi più andare. Quando torna a guardarmi, sorride un po' di più. "Sei bellissimo," mi dice, accarezzandomi le braccia. "Li stenderai tutti."

Agli studi di TRL ci sono già stato quel milione di volte, eppure sono nervoso lo stesso.
Dal momento che di fronte agli studi c'è moltissima gente, David ha dato ordine che passassimo dal retro ma la situazione non cambia molto. La nostra auto viene bloccata dalla folla qualche metro prima di arrivare alla porta. Vedo David espirare dalle narici, segno che è così nervoso che potrebbe esplodere qui e ora. Dentro la macchina.
Guardo fuori e vedo quello che non mi aspettavo di trovare. Ci sono delle fan dei Tokio Hotel abbarbicate sulle transenne; le riconosco subito e non tanto dai cartelli, quanto dal fatto che urlano con tutto il fiato che hanno e sono seminude. Continuano a cantilenare il mio nome - Bill! Bill! Bill! - e sorrido perchè nonostante tutto mi fa piacere.
Quando è saltata fuori la mia storia con Anis, per davvero intendo, non le stupide dichiarazioni che fece per farmi arrabbiare, fra le mie fan ci fu una scossa di terremoto. Qualcuna dichiarò di amarmi comunque - perchè io ero io, indipendentemente dal fatto che fossi gay - e molte altre si dichiararono molto deluse. Mi dispiacque, ma mi sono sempre chiesto in che cosa le avessi deluse di preciso.
Ad ogni modo, David fu bravissimo a gestire la cosa ed organizzò la conferenza stampa del mio coming out, tra le urla di mio fratello e quelle della Universal. In barba a tutto la risposta del pubblico fu meravigliosa. E comunque io non avrei accettato qualcosa di diverso, non avevo nessuna intenzione di giustificarmi oltre.
Sono felice di ritrovarle qui, che mi urlano che sono dalla mia parte in una situazione così dove ho veramente bisogno di supporto. E, se mi fanno piacere loro, mi fanno ancora più piacere le ragazze con la maglietta bianca con la B rossa che spuntano qua e là tra le mie emo-vampire vestite di nero. Sono le fan di Anis, quelle. E quando finalmente con l'auto riusciamo a passare, sono lì che gridano il mio nome insieme alle mie fan.
E mi sento bene, dannatamente bene.
Fermiamo l'auto proprio davanti alla porta; quando Tobi scende, le urla si fanno più forti e Tom mi stringe la mano. Parla prima ancora che lo faccia David, e David sta zitto e guarda fuori.
"Tu scendi per ultimo," mi informa mio fratello. "Prima David, poi io. Aspetta che ti aprano la portiera, intesi?"
"Tom, calmati, ti prego," lo guardo negli occhi e cerco di capirci qualcosa. "Non è la prima volta che devo scendere da una macchina circondato dalle fan, ricordi?"
Lui non mi ascolta. "Fà come ti ho detto."
Ci mancava mio fratello a dirmi cosa devo fare. Prima mia madre, poi la Universal, poi David, Anis... e in fine lui. Che razza di Principessa sono se non posso mai fare di testa mia?
Sento gli scatti delle portiere, David esce col volto tirato. Nemmeno un sorriso per le ragazze che - se non lo vogliono morto credendolo un negriero - lo amano quanto amano me. Tom lo segue a ruota e non esce dalla macchina, rotola fuori. Sento il boato: non so se sapevano che ci sarebbe stato anche lui ma credo di sì, lo sanno sempre.
Due secondi e Tobi apre la mia portiera. Tom è lì accanto a lui e mi chiedo perchè non stia spargendo se stesso un po' ovunque, come al solito. Poi penso che forse non è il caso che lo faccia, siamo qua per un altro motivo.
Come metto piede fuori, mi trascinano via. Cerco di sorridere alle ragazze, anche solo per ringraziarle ma Tomi è molto sbrigativo, se non mi tira dentro gli studi di corsa poco ci manca.
Una volta dentro, è il solito turbinare di tecnici e assistenti che ci circondano parlando tutti insieme. Ho imparato che non ho nessuna necessità di ascoltarli perchè paghiamo David apposta per quello. Sarà poi lui a farmi un riassunto di tutto ciò che devo sapere. Tom mi indica i camerini e ci muoviamo in quella direzione. Mentre passiamo dò un'occhiata allo studio, il pubblico è già dentro ma nessuno, grazie a Dio, fa caso a noi.
"Nervoso?" Mi chiede Tom, stringendomi il braccio all'altezza del gomito.
"No," scuoto la testa. "Solo terrorizzato." Sorrido.
Svoltiamo l'angolo subito dopo Tobi, e vedo Chakuza parlare con Fler da una parte. Fler tiene le braccia incrociate al petto e lo ascolta attento anche se sembra un po' annoiato. Chakuza è tutto agitato e muove le braccia come a ribadire qualcosa. Sapere che è qui, che sarà in quello studio con me, un po' mi tranquillizza, e non me l'aspettavo. Insomma, mi sembrava che fosse un me contro loro. E mi rendo conto che è un noi contro l'Aggro Berlin. O forse no. Forse è semplicemente un noi, e altri, e mio fratello e i fan. Contro nessuno, perchè tanto il motivo di combattere lo abbiamo perso tre mesi fa.
Chakuza alza lo sguardo e mi vede, ha il viso tirato sotto quel cappellino. "Hey!" Saluta mio fratello con un cenno del capo e poi mi si avvicina e mi guarda. "Tutto bene? Mi hanno detto che non vi lasciavano passare."
"Al solito," mi stringo nelle spalle. "Le fan erano ovunque."
E lui fa quella cosa lì, quella che fa ogni volta che mi chiede come sto e io gli rispondo che sto bene. Non ci crede mai; e mi scruta tutto, da capo a piedi, neanche ce lo avessi scritto in fronte se mi sento male. E finché non è convinto non mi molla. Alla fine sembra capire che non sto per collassare perchè annuisce.
Forse sta anche per dirmi qualcosa, ma uno dei tecnici si avvicina e ci avverte che la trasmissione inizierà tra cinque minuti, di prendere posto. "Dobbiamo microfonarvi," spiega poi. Ci muoviamo tutti verso lo studio, intanto che Chaku si sente in dovere di spiegarmi la situazione. "Voi due siete con noi," dice. "Hanno diviso lo spazio in due zone nette."
"E dall'altra parte, l'Aggro?"
Chaku annuisce. "Ma non ci sono tutti, soltanto Sido e Fler."
Fler, tra l'altro, ci ha seguiti ma non ci parla. Quando oltrepassiamo l'entrata dello studio, raggiunge Sido e si siede, col microfono già al suo posto. La stanza non è piccola, ma lo spazio è ridotto dalla quantità enorme di pubblico, che in effetti non mi aspettavo. Sono tutti zitti e fermi, però, e questo è un bene. I nostri divani sono di un giallo fulminante, e mi viene in mente che assomiglia al giallo delle pareti di casa di Anis; Saad, Eko e Kay-one sono già seduti e l'ultimo poso vuoto fra loro è quello di Chakuza. Io e mio fratello abbiamo un divanetto più piccolo alla loro destra, il resto dell'Ersguterjunge è ammassato nello spazio che resta. Lascio malvolentieri che Chakuza si sieda lontano mentre mio fratello mi aiuta a sistemare il microfono dietro ai pantaloni. Uno dei tecnici ci scandisce di nuovo il tempo.
David mi ha fatto avere una copia della scaletta qualche ora fa, l'ho letta ma non ne ricordo nemmeno un pezzo. David non voleva che venissi, mi ha fatto una paternale più lunga di mia madre e poi, quando si è reso conto che non avrei mai cambiato idea, ha parlato con la redazione e ha preteso e ottenuto che non mi facessero domande troppo private.
Uno studio televisivo, dall'interno, non è come lo si vede in televisione. Innanzi tutto ci sono molte più persone di quelle che ti fanno vedere, e ci sono più tempi morti. Quando passeranno i filmati, a casa li vedranno a tutto schermo, noi avremo un solo piccolo televisore lì a terra per controllare quando il video finisce, e un sacco di minuti da sprecare a guardarci tra di noi. Solo che questa volta, invece di avere accanto la mia band, ho quella di Anis - che non mi può vedere - e quella di Fler - che mi ha sempre preso per il culo. Mi stringo involontariamente a Tom che se mi stesse anche solo un po' più vicino probabilmente mi ingloberebbe. "Va tutto bene?" Mi sussurra.
Annuisco.
"Due minuti!" Annuncia il tecnico, sollevando le dita. Lo studio si mette in fermento, lo vedi proprio il cambiamento. Un attimo prima sono tutti lì che parlano, l'attimo dopo si muovono tutti: ordinano, sistemano cose, si preparano. Scorgo David in fondo alla stanza, dove non inquadreranno, appoggiato con una spalla al muro. Mi fa cenno con le dita che è tutto okay.
Inspiro ed espiro, la mano di Tom apparentemente appoggiata a caso dietro di me sullo schienale. Non può accarezzarmi la schiena, così cerca metodi sostitutivi per confortarmi.
"Quattro secondi... tre... due... " il numero uno, il tecnico lo conta muto e poi parte la sigla di TRL.
Subito dopo la sigla ci siamo noi in studio.
L'inquadratura è concentrata su Patrice che saluta il pubblico e dà il benvenuto a questa puntata speciale di TRL, che s'intitola King of Kingz - Ghetto Tribute. Un notevole sforzo di fantasia; mi chiedo che cosa sarebbe venuto fuori se avessero lasciato l'incombenza di trovare un nome a questa trasmissione ad un branco di scimmie lobotomizzate. "Anis Moahamed Youssef Ferchichi, in arte Bushido, era uno dei rapper più amati della Germania," Patrice scandisce il suo nome con voce partecipe ma introduce l'argomento come se fosse una cosa da niente. Come se stesse presentando l'ultimo singolo di Anis piuttosto che una trasmissione in suo onore dopo la sua scomparsa. Non gliene frega niente, ma finge il contrario.
Blatera per ore sulla grave perdita del mondo della musica con aria contrita, come se avesse perso un caro amico oltre che un grande artista di fama nazionale. Dio, e dire che ero davanti alla televisione, l'ho visto quando ha detto in diretta nazionale "Se avete qualcosa da risolvere, tu e Fler, risolvetevelo fra voi". Io so che quest'uomo non provava per Anis il minimo rispetto, ma dalle sue parole adesso non lo direbbe nessuno.
Devo fingere di non odiarlo, o di non odiare quello che la trasmissione rappresenta in realtà: un enorme occasione per fare su quintali di ascolti. Devo ricordarmi perchè mi trovo qui, su questo divano, così mi inumidisco le labbra e faccio finta di ascoltarlo con interesse. "E adesso il live di Zeiten Ändern Sich tratto dal 7 Live DVD, poi di nuovo in studio con la sua crew e con gli altri numerosi ospiti di oggi," la regia fa una carrellata dello studio e poi sfuma sulle prime note della canzone.
Il tecnico ci fa cenno che il video è partito. Patrice perde tutta la sua aria solenne e si mette a parlare con la truccatrice che lo ha raggiunto immediatamente; io, invece non riesco a staccare gli occhi dal monitor.
E' un colpo. Uno di quelli forti al cuore, che non ti aspetti e per il quale non sei preparato. Io vedo Anis sempre: nei miei ricordi, nei miei pensieri, nelle foto e in ciò che di lui vive ancora dentro la mia testa, però non ho più guardato un solo filmato da quando gli hanno sparato. Se l'ho fatto vivere è stato solo dentro di me. Quando lo vedo su quello schermo, quando compare sotto il cappuccio di quella felpa grigia e lo vedo muoversi - Dio, muoversi - il cuore mi si stringe così tanto che non lo sento più neanche battere. Per i primi minuti del video c'è solo il palco, e il fumo, e lui è tutto coperto ma non mi serve niente per riconoscerlo: le spalle, le braccia, la linea dritta dei fianchi.
Inspiro, perchè il mio cervello è impazzito. Una parte di me grida che è vivo, che è lì, e se è lì dev'essere vivo per forza. Il resto di me si ricorda che ha chiuso gli occhi dicendomi di non volersene andare. Il video è un montaggio del live e di alcuni momenti del backstage, quindi c'è Anis che canta - ed è bellissimo, e preso, e la folla si agita al suo comando - ma c'è anche Anis che scherza, e gioca con gli altri ragazzi. Ridono. E mi rendo conto che forse ho sbagliato anche solo a pensare di poter stare qui. Vorrei alzarmi e correre perchè proprio mi sembra di non farcela. Vederlo là dentro, voler allungare una mano e toccarlo e non poterlo fare è devastante. Tom mi accarezza un braccio e mi tira un po', vuole che smetta di guardare.
"Bill, girati," mi dice. E io lo faccio, perché la voce di Tom ha un potere particolare. Quando lo faccio, ed incontro i suoi occhi, Tomi sorride. "Va tutto bene. Io sono qui."

Patrice accoglie il rientro in studio, spiegando di nuovo brevemente la situazione perchè - mi pare di capire - siamo anche andati in pubblicità. E' difficile stare dietro a tutto quello che succede quando non sei inquadrato. David ci ha raggiunti sul divanetto durante la pausa, mi ha detto di calmarmi anche lui, devo avercelo scritto in faccia che non sto proprio benissimo. Secondo la scaletta, adesso dovremmo commentarlo questo video e per un attimo sono felice di non fare parte della crew. La parola tocca a Saad che era già pronto lì a parlare.
"Abbiamo appena visto nel video uno dei vostri show," sta chiedendo Patrice, con lo sguardo intenso puntato su Saad. "Che tipo era Bushido sul palco?"
"Atze era una forza della natura," risponde Saad, e un po' sorride. Io so che lui mi odia, ma so anche che voleva bene ad Anis. In quel momento capisco che se fa male a me stare qui, probabilmente fa male anche a lui. "Non stava fermo un momento, a volte era devastante. E fuori dal palco era anche peggio."
"Ti ha inseguito con un carrello," commenta Patrice.
Saad ride, ridiamo un po' tutti. "In realtà lì non si è visto," spiega, indicando il monitor,"ma poi ha cominciato a ridere e non ha smesso per dieci minuti. Era un bambino."
Patrice annuisce, condividendo l'ilarità generale. Guarda la sua cartelletta con le sue belle domande infilate una dietro l'altra. "Bushido fonda l'Ersguterjunge," la regia inquadra Fler che ha sul viso un'espressione indecifrabile, "nel 2004, giusto?"
Segue un coro di assenso generale, si parlano addosso e io li trovo carini. Seguo la discussione con interesse stavolta, non mi capita spesso di sentirli parlare di lui tutti quanti insieme. "E io leggo qui che avete fatto uscire moltissimi lavori fra album, sampler e singoli vari."
"Cinquantasette, dall'apertura a oggi," annuisce Chakuza, spostandosi sul divanetto. Appoggia la gamba destra in orizzontale sull'altra e ci gioca sopra col microfono.
Patrice annuisce a propria volta, accarezzandosi il mento con una mano. Non fa una piega.
Ed io mi preoccupo, perché dai conduttori imperscrutabili non sai mai cosa aspettarti.
Trattengo il respiro quando apre bocca, ed appena lo sento parlare capisco di avere avuto ragione a farlo.
“Ed in tutti questi anni di collaborazione non avete mai dubitato del suo operato o delle sue scelte? Mai nemmeno un contrasto?”
Ci sono cose che senza l’ausilio visivo non si capiscono. Il senso della sua frase… non sarebbe lo stesso, se il monitor di fronte a noi – quello oltre le telecamere, quello che ci mostra la messa in onda – non rimandasse il riflesso del mio volto.
Sono io la scelta della quale avrebbero dovuto dubitare.
Mi mordo un labbro e provo a non fissare la telecamera perché ho dannatamente paura di cominciare a piangere e non voglio farlo di fronte a tutti. Cerco la mano di Tom, di nascosto, strisciando sul divanetto, e la trovo immediatamente, come se mio fratello non avesse fatto altro che aspettare quella stretta da che ci siamo seduti.
Chakuza si agita subito, si inumidisce le labbra e riporta il microfono alla bocca.
“Noi non-”, comincia incerto, ma Saad lo ferma con un colpo di tosse, e Chakuza torna subito al proprio posto, in silenzio.
“Naturalmente,” dice con estrema tranquillità, “di fronte a certe cose ci ritrovavamo spesso un po’ spiazzati,” annuisce, “ma Bushido da noi non è mai stato in discussione. E perciò,” conclude deciso, guardandomi dritto negli occhi, “nessuna delle sue decisioni lo era.”
Io ricambio la sua occhiata e trattengo a stento le lacrime quando lo vedo annuire nella mia direzione. Vorrei piangere per un milione di motivi diversi che non c’entrano niente l’uno con l’altro. Ed ho voglia di alzarmi in piedi e ringraziare Saad, ma anche di prenderlo a pugni fino a fargli dimenticare da che parte è il cielo e da che parte la terra, perché una concessione come questa sarebbe stata molto più utile quando Anis era ancora vivo e respirava e dell’approvazione poteva farsene qualcosa. Adesso è sepolto a chissà quanti metri sotto terra, e che mi venga concesso un posto quando lui non c’è è del tutto inutile.
Ma immagino che siano anche queste leggi del Ghetto. Probabilmente, se Anis non fosse morto, io questo posto non l’avrei avuto mai.
“Naturalmente,” ripete Patrice, annuendo per l’ennesima volta come sapesse esattamente di cosa Saad stia parlando. In realtà non ne ha la più pallida idea, perché su una cosa quest’uomo aveva ragione, quando invitava Bushido e Fler a vedersela fra loro: la televisione non è il posto adatto per risolvere queste questioni. La televisione non c’entra niente, con queste questioni. E quindi Patrice non ne sa niente e non ne capisce niente. “E non vi ha stupito nemmeno la sua uscita a TRL?” chiede senza il minimo filtro – la telecamera mi inquadra di nuovo ed io lancio un sospiro stremato mentre colgo con la coda dell’occhio David agitarsi nel backstage – “Insomma, non è una cosa tanto comune, vedere un uomo di quasi trent’anni che espone in questo modo la presunta omosessualità di qualcuno.”
Sento Fler sopprimere a stento una risatina. È senza microfono, ma non può proprio risparmiarsi di sputare un “Ma se non facciamo altro dalla mattina alla sera?” che Sido blocca con un’occhiataccia e per il quale io invece mi ritrovo a ridacchiare a bassa voce. Ridacchia anche Chakuza, ma lui al contrario di me cerca di mantenersi serio perché forse non ha ancora realizzato quanto tutto ciò sia una farsa. La sua espressione tesa nel tentativo di non lasciarsi andare all’ilarità è tenerissima.
Patrice si comporta come non l’avesse nemmeno sentito. Il suo sorriso di circostanza è una delle cose più odiose su cui mi sia mai capitato di posare gli occhi. Ed il fatto che, in questo preciso istante, sia rivolto proprio contro di me, è ancora più irritante.
“E tu come l’hai preso, quell’episodio?” chiede, dando finalmente voce a ciò che tutti stanno pensando.
Questo ragazzino, com’è che si ritrova qua in mezzo a parlare di un rapper morto ammazzato?
Questo ragazzino è qua perché quel rapper lo amava. E se l’è visto morire fra le braccia, cazzo.
Scorgo appena David che mi fa cenni da dietro una telecamera, ma se lo guardassi probabilmente coglierei della disapprovazione, nei suoi occhi. O il tentativo di impormi dei limiti. In questo momento, non ne sento affatto il bisogno. Stringo la mano di Tom e parlo.
“In realtà quando disse quelle cose a TRL stavamo già insieme,” rivelo candidamente.
Osservo con un certo divertimento la consapevolezza farsi strada negli occhi di chi non c’era ancora arrivato. Patrice, per primo, e poi il regista, l’aiuto-regista, i cameraman, truccatori, parrucchiere e via dicendo.
Il conto è semplice. Ci arriva anche chi non è tanto bravo in matematica.
“Quindi…” esplicita per la folla il nostro conduttore, a disagio, “tu eri ancora minorenne, quando la vostra storia è cominciata.”
…mi rendo improvvisamente conto di ciò che ho detto, nel momento in cui realizzo che, se da un lato ho ottenuto ciò che volevo – zittirli tutti dicendo qualcosa che decisamente non si aspettavano – dall’altro è probabile che io possa aver detto anche qualcosa che probabilmente avrebbe fatto meglio a stare nascosto.
La pacca che David si dà sulla fronte la sento fin da qui, nonostante il brusio del pubblico di fortunati che è stato ammesso in studio. Tom stringe ancora la presa sulla mia mano.
“Bushido non ha fatto niente di sconveniente, finché mio fratello non ha compiuto diciott’anni,” dice, e sta mentendo, naturalmente, ma in questo momento non è un problema.
“E non trovi sia piuttosto sconveniente parlare di ciò di cui ha parlato Bushido a TRL, dato che allora Bill aveva solo diciassette anni?” chiede Patrice, spostando la propria attenzione su di lui.
L’Ersguterjunge tutta, dal divanetto, si mette in agitazione. Ho come l’impressione che metà del gruppo – in particolare Kay, sta scalciando come un puledro imbizzarrito – vorrebbe alzarsi e pestare quest’uomo dimenticandosi completamente della televisione.
Saad li tiene tutti fermi usando semplicemente la propria stessa calma. Li vedo tutti, si voltano a guardarlo uno per uno, e quando vedono che sta zitto e buono cominciano a tranquillizzarsi anche loro.
Vorrei essere altrettanto bravo a gestirmi.
Mi faccio forza, comunque. Tom non risponde, all’ultima domanda di Patrice, ed ha ragione a non farlo.
“Anis…” riprendo quindi io, lo sguardo basso, “era una persona a cui piaceva stupire gli altri. Era tremendamente egocentrico, perciò era naturale che, dovendo scegliere un modo per farlo capire al mondo, avrebbe scelto il più fragoroso.” Perché Anis era davvero così, lo penso ma non lo dico ad alta voce, era rumore. Non ci s’infila nella vita degli altri col silenzio, non si diventa la vita degli altri rimanendo in disparte. “Io non ne ho saputo niente, finché non ho visto la trasmissione in tv.”
Patrice annuisce e mi si avvicina.
“E quando l’hai visto, come hai reagito?”
Scrollo le spalle.
“Ho riso,” e ride l’intero studio, “No, davvero,” rincaro la dose, sorridendo a mia volta, “mi sono perfino chiesto per quale motivo fare la richiesta pubblica, visto che già in privato ne avevamo a sufficienza,” aggiungo con un sorriso serafico, così che tutti la prendano per la battuta che, in parte, non è per niente, “Però alla fine ci sono arrivato. Era il modo che aveva scelto di dirlo al mondo.”
Patrice sorride bonario, tornando a spostare l’attenzione su mio fratello.
“E tu, invece? Come l’hai presa?” gli chiede, inarcando curiosamente le sopracciglia.
Tom le sue sopracciglia le aggrotta e si dà quell’aria seria e sicura con la quale in genere affronta tutti i drammi nella propria vita – ed anche nella mia.
“Quale delle due cose?” chiede di rimando, “Bushido che richiede un pompino pubblico o il suo stare con mio fratello?”
Patrice ride.
“Il suo stare con tuo fratello,” risponde.
Tom annuisce piano e dosa le parole, stringendomi più forte la mano.
“È stata una scelta di mio fratello, e in quanto tale meritava rispetto.”
Ricambio la sua stretta e sorrido fra me. Tomi sta dicendo un sacco di bugie, ma le sue scuse sono sincere.
“E su questo andiamo in pubblicità,” avverte Patrice, rivolgendosi gioviale alla camera, “A fra poco col resto della storia di Bushido e dell’Ersguterjunge. Restate con noi!” e le telecamere vanno in stand-by.
Sembra che lo stacco pubblicitario sarà piuttosto lungo, perché quando Eko chiede se può andare in bagno gli dicono di sì e non aggiungono di far presto. Lo vedo scivolare via dal divanetto mentre Chakuza si alza per sgranchirsi le gambe e Saad, invece, si rilassa contro i cuscini, lasciando andare un respiro di pura tensione. Chaku fa per venire da questa parte, ma guarda oltre la mia spalla e si ferma, perciò guardo anche io e vedo che c’è David che si sta avvicinando minaccioso. Mi faccio minuscolo ed attendo la strigliata.
“Io non ho parole!” lo sento sibilare tra i denti, “Volete darvi un contegno? Tom, tu sei sempre il solito porco, e tu, Bill…” sospira e scuote il capo, “…cerca di non esporti troppo, d’accordo?”
Si allontana scuotendo il capo ed io faccio per voltarmi a guardare Chakuza per fargli cenno che sì, ora può avvicinarsi, ma non lo trovo dove l’avevo lasciato e vedo che sta girellando come un avvoltoio attorno al divano su cui sono seduti Sido e Fler. Sido sta dicendo qualcosa sul non parlare a sproposito, sembra un padre severo, e Fler si disinteressa di ciò che dice con la stessa espressione annoiata di un bambino disubbidiente. Lo vedo alzarsi in piedi e raggiungere Chakuza dopo aver lasciato Sido a parlare da solo, e vedo che, appena lo raggiunge, Chaku si volta immediatamente e si ferma a guardarlo.
“Ma allora eri davvero ubriaco!” gli dice prendendolo in giro, io ripenso all’uscita di Fler di prima e mi viene di nuovo da ridere, ma mi trattengo.
“Non sono ubriaco!” risponde Fler, tirandogli un calcio contro uno stinco, “Era una battuta, e almeno tu potevi ridere! Ho fatto la figura del cretino!”
“Ah, che strano…”
Il loro dialogo sfuma nel brusio dello studio e s’interrompe del tutto quando l’aiuto-regista ci fa segno di riprendere posto.
Quando finisce lo stacco pubblicitario mi accorgo che mi batte forte il cuore. Realizzo che ho paura delle altre domande che potrebbe pormi Patrice e cerco di ripassare mentalmente tutte le altre occasioni in cui Anis ha parlato di me o io ho parlato di lui. Ce ne sono tante e sono tutte potenzialmente imbarazzanti, o almeno, sono state tutte precedute o seguite da cose che potrebbero potenzialmente essere imbarazzanti se le raccontassi.
La scelta della camicia che ho indossato ai Comet nel 2007, per esempio. Quando tutti si sono chiesti per quale motivo gli ultimi due bottoni fossero sganciati e mi si vedesse tutta la pancia. Anis mi aveva letteralmente imprigionato nel camerino ed ero riuscito ad uscirne solo un minuto prima del red carpet. A riabbottonare il tutto con discernimento non avevo nemmeno provato – il mio discernimento aveva smesso di esistere nel momento stesso in cui Anis mi aveva posato le mani addosso.
Oppure la volta in cui gli chiesero se fosse serio nei miei confronti e lui rispose che sì, le sue intenzioni erano molto serie, mi avrebbe portato ad Amsterdam e mi avrebbe sposato e poi saremmo partiti per una lunga luna di miele. La sera prima avevamo litigato per chissà che motivo idiota – non è vero, li ricordo tutti, i motivi dei nostri litigi, volevo invitare Tom a mangiare da noi e lui aveva protestato dicendomi che era già abbastanza stanco dopo una giornata di lavoro per non sentirsi in vena di tollerare anche mio fratello, ed io l’avevo presa malissimo – e insomma, Anis non era davvero tipo da scuse, però sapeva lo stesso come farsi perdonare, e quello era stato il suo modo.
Ed a cercare, a grattare appena un po’ la superficie dei miei ricordi, ne trovo a migliaia, di aneddoti simili. E d’improvviso mi rendo conto che mi hanno chiamato in questo posto per affondare le mani nella mia testa e buttare la mia vita su un palco, davanti ad una telecamera, molto più di quanto non sia già stato fatto con me fino ad adesso.
E mi fa piacere ricordare Anis per i suoi fan. Però non so se voglio davvero dividerlo col resto del mondo, in questo momento.
Mi salva un miracolo, è evidente, perché so che, se fossimo tornati in studio ed avessimo ricominciato a parlare di me, non avrei potuto frenarle ancora, le dannate lacrime. Ed invece, dopo la pubblicità, non si torna subito in studio, parte un filmato. Guardiamo tutti nel monitor e vedo una cosa che decisamente non mi aspettavo. Davanti a me c’è un Anis che ho visto solo su YouTube e in qualche foto a casa di sua madre, una delle volte in cui mi sono ritrovato da quelle parti con lui. È magro e incasinato, più magro e incasinato di quanto fosse quando stava con me. Non è fisicamente piccolo, però lo sembra.
È un Anis talmente lontano dal mio tempo che quasi mi stordisce.
È l’Anis che conosceva Fler.
Nel filmato stanno tutti e due su un palco. O meglio, si danno il cambio: uno dei due sta sul palco, l’altro scende e passeggia lungo l’intercapedine che separa il palco dal pubblico. Tutti tendono le mani, tutti vogliono toccarli, sia Fler che Anis cantano con una rabbia ed una passione che Anis non ha mai mostrato all’Ersguterjunge. In effetti, ora che ci penso, anche nelle sue canzoni più cattive, Anis non sembrava mai arrabbiato. Solo amareggiato, deluso, il più delle volte semplicemente tronfio e fiero del proprio successo. La rabbia era una cosa distante, perché anche quando se la prendeva con l’Aggro Berlin era più derisorio che infuriato.
Su quel palco, invece, all’Aggro Berlin c’era ancora. Ed Anis cantava con rabbia. Lui e Fler cantavano insieme gridando al vento che la Germania non se li meritava, che la Germania non li capiva, che la Germania poteva anche andare a farsi fottere, loro i soldi li avrebbero fatti comunque, ed alla fine sarebbero diventati re e l’avrebbero governata tutta.
Li guardo nel video e mi sembrano così simili che quasi mi confondo. Cantano le stesse cose. Con la stessa voce. Con la stessa furia. È un Anis che non mi appartiene affatto, questo; lo trovo bellissimo, ma non ne avrò mai alcun ricordo. Mi volto impercettibilmente a guardare Fler e lo trovo con lo sguardo azzurrissimo fisso sul monitor. Si morde un labbro, non sembra agitato né a disagio, è solo… concentrato. Come non volesse perdersi un attimo di ciò che sta guardando.
Chi, invece, sembra davvero parecchio a disagio, è Sido. Ho come l’impressione che quest’uomo tutto vorrebbe tranne che trovarsi qui. Che è un po’ una sensazione che ci accomuna tutti, d’accordo, ma noialtri – io, Fler, Saad, Chakuza – lo sappiamo perché ci troviamo qui davvero. Per nessuno di noi questa è solo una trasmissione. Ci stiamo facendo gratuitamente del male perché è così che funzionano i lutti, qualsiasi cosa sia ciò che hai perso: ti ci immergi, lasci che ti ricopra tutto come un velo. Ne risorgi solo dopo. È un processo lento. Noi ci siamo nel mezzo.
Sido, con questo, c’entra poco. Eppure è qui e mi sento un po’ orgoglioso, per Anis.
Il filmato si conclude e noi torniamo in studio, Patrice non perde tempo a recuperare la propria cartellina e leggere ad alta voce. “Settembre duemilatre,” racconta con aria partecipe, “il successo di Bushido è appena all’inizio ed ancora nessuno immagina che, a solo un anno da questa data, lascerà l’Aggro Berlin per fondare la propria etichetta.”
Si prende una pausa ad effetto, la sfrutta per muoversi verso il divano su cui stanno seduti Sido e Fler. La telecamera stringe sugli occhi di Fler, il pubblico da casa non può vederlo ma io sì: sono ancora fissi sul monitor, che non è spento, è solo in pausa, precisamente sull’ultimo fotogramma di Anis prima della fine del video. Sembra uno sguardo perso, a guardarlo in televisione, ma io lo vedo che non è perso: Fler cerca gli occhi di Anis con i suoi. Mi sento disturbato.
Il fatto è che Fler è qualcosa di cui Anis parlava spesso, ma mai davvero. A toccare l’argomento con lui si ricevevano occhiatacce infastidite, tanto per cominciare, oppure una risata sprezzante, e sempre la solita solfa: un traditore, un codardo, uno stupido, ecco cos’è Fler.
Io non so.
Anis lo conosco- lo conoscevo: l’unico motivo per il quale provava della rabbia era per le cose che non era riuscito a trattenere abbastanza a lungo. Per suo padre, ad esempio. Per la storia fra Eko e Valezka, quand’era finita.
Credo che, quando Anis ha lasciato l’Aggro Berlin, l’abbia fatto sperando che Fler l’avrebbe seguito. Forse è questo, il tradimento di cui parla.
Ma io posso solo immaginarlo, perché Anis con me di questo non ha mai parlato davvero.
“È, questo, qualcosa che non si è mai veramente capito, nel passato di Bushido. Un po’ la parte oscura-”
“L’Aggro Berlin non è la parte oscura del passato di Bushido.”
Quando Fler parla, interrompendo Patrice, non se l’aspetta nessuno. Nemmeno il conduttore, che si volta a guardarlo come se, invece di averlo contraddetto, l’avesse preso a insulti senza un motivo. Ma è bravo, Patrice, a gestirsi gli ospiti, si muove con sicurezza: si riprende subito e si volta verso di lui, appoggiandosi al bracciolo del divano con aria complice, come un confidente navigato.
“Prego, prego,” incita con un cenno del capo. Sido lancia a Fler un’occhiataccia, ma Fler non la vede – o la ignora volutamente, non saprei. I suoi occhi sono cupi. Anche Anis aveva momenti del genere. E non lo si capiva più.
“L’Aggro Berlin non è stato un periodo oscuro,” ribadisce, e parla come non si trovasse davvero qui. Non guarda Patrice, non guarda la telecamera, continua a fissare l’immagine di Anis nel monitor. Non posso fare a meno di pensare che forse è proprio con lui che sta parlando. “Semmai, è stato il suo periodo d’oro. Eravamo giovani, ma la fama non ci aveva ancora istupiditi. E non cantavamo per spalarci merda addosso, cantavamo perché avevamo qualcosa da dire,” sospira pesantemente, torcendosi le mani in grembo. Lo guardiamo tutti, è un momento molto particolare. Mi sembra che Fler stia mettendo di fronte alle telecamere qualcosa di perfino più privato rispetto a quello che ho messo io. “I soldi danno alla testa solo ai deboli, comunque,” conclude scuotendo il capo, “è questo che non gli ho mai perdonato.”
Il nostro conduttore annuisce comprensivo. Mi chiedo perché non poggi una mano sulla sua spalla, s’intonerebbe perfettamente con quest’immagine melensa che vuole dare di sé, dell’uomo che sa tutto e che comprende tutto. Se io fossi davvero la principessa di qualcosa, l’avrei già messo a morte. Siccome mi sa che non lo sono, mi mordo un labbro e resto zitto.
“Sembra ci fosse proprio un bel rapporto, fra voi.”
Fler è preso in contropiede, non sa che dire, torna a guardarlo per la prima volta da quando siamo tornati in studio. “…ci conoscevamo da molto tempo…” butta lì, come servisse a spiegare.
“E come hai preso le accuse che ti sono state rivolte? Di averlo ucciso tu, intendo.”
Spalanchiamo gli occhi. Tutti, ma proprio tutti. Perfino Tom, che questa vicenda l’ha seguita solo marginalmente, si sente in dovere di dimostrare il proprio sgomento dischiudendo le labbra. Dopo quello che ha detto Fler, Dio, dopo quello che ha detto adesso, non puoi fare una domanda simile. È una scorrettezza tale che, stupidamente, penso che quest’uomo nel ghetto non resisterebbe un giorno. Lo farebbero fuori tempo niente. Devi capirlo subito, quando sei in quell’ambiente, cosa puoi dire e cosa non puoi dire.
“Puttanate,” boccheggia lui, e vedo Chaku agitarsi sul posto. Lo capisco, anche a me sta salendo un nervosismo assurdo. Vorrei prendere e alzarmi. “Se qualcuno ci crede ancora, quel qualcuno è un idiota,” rincara la dose, evidentemente ferito.
“Eppure,” continua Patrice, perfettamente conscio di aver trovato terreno fertile, “chi ti accusa parla di un movente piuttosto chiaro, e ce l’hai quasi confermato adesso. Ed eri lì, la notte in cui è successo, no?”
Vorrei davvero prendere e alzarmi. Le mani so menarle anche io. Ho le unghie lunghe. Di sicuro gli lascerei addosso qualche sfregio che ricorderebbe per un bel po’.
Invece si alza Fler, e nel suo sguardo c’è tanta fierezza e indignazione che arrivo a sentirmi inadeguato e sporco e meschino pure io che ormai alla sua colpevolezza non ci credo più da tempo.
“Sono puttanate,” ripete deciso, “come questo cazzo di programma,” e, senza una parola di più, si allontana verso il backstage.
Patrice non cerca neanche di fermarlo, un po’ di dramma era esattamente ciò che voleva, e visto che non mi ha ancora visto piangere – e non gliela darò questa soddisfazione, a questo figlio di puttana – provare con Fler era la cosa più veloce e più sicura. In sala cade il silenzio e Patrice sorride prima di voltarsi verso la telecamera e scusarsi col gentile pubblico per questa scena assolutamente imprevista ed alla quale cercheranno tutti di porre rimedio durante lo stacco pubblicitario.
Prima di andare in pausa, però, Sido chiede la parola. Prende il microfono che Fler ha lasciato sul divano, ed è calmo ed educato, addirittura cortese. Lo guardo bene in viso e mi chiedo se sia veramente questo l’uomo contro il quale Anis urlava tanto, nelle sue diss. Ha un aspetto incredibilmente innocuo.
“Fra le etichette discografiche,” comincia pacatamente, “è esattamente come fra gli esseri umani. Arriva un momento in cui smetti di capirti e non puoi più coesistere con l’altro,” scrolla le spalle. Anche lui parla con aria assente, però è una distanza diversa da quella di Fler. Continuo a pensare che quest’uomo non c’entri niente, con tutto questo, però è una presenza rassicurante, in un certo qual modo. “Ma Fler non ha ucciso nessuno,” dice deciso, guardando dritto in camera, “Fler c’è solo finito in mezzo. Ed è stato così un po’ per tutti noi, perciò io eviterei domande di questo tipo, da qui fino alla fine del programma.”
La pubblicità parte prima che Patrice possa rispondere.

Mi rendo conto di essere andato in stand-by solo quando vedo tornare Chakuza e Fler insieme. Fler ha addosso un’aria talmente scazzata che penso potrebbe esplodere da un momento all’altro. È palese che non ha nessun motivo di stare ancora in questo posto, e neanche nessun desiderio. Non ho idea di come abbia fatto Chaku a convincerlo a tornare dentro. Non ho idea neanche di dove sia andato a ripescarlo. Non mi interessa più niente, in tutta sincerità anche io sono decisamente stufo. Posso crogiolarmi nel mio lutto anche a casa, ho lasciato in mezzo le fotografie, posso ricominciare da lì. E invece mi tocca star fermo.
Mi consola solo il fatto che mancano meno di venti minuti alla fine della trasmissione, il che significa che probabilmente faranno un paio di domande a caso a qualcuno che decisamente non sono io ed alla fine mi permetteranno di andare a casa, dove dormirò fino a dopodomani, lo giuro.
Sono spossato.
Patrice riaccoglie il pubblico, che applaude, e non può proprio risparmiarsi un commento sul ritorno di Fler. “Le acque si sono calmate,” dice con un sorrisetto stronzo. Fler sbuffa, infastidito al massimo, ma non aggiunge niente.
Io sto quasi per rilassarmi contro lo schienale del divano, quando Patrice ricomincia a parlare.
“Fino ad ora abbiamo esaminato la parte più professionale e pubblica della vita di Bushido,” racconta serio, “ma Bushido era soprattutto un uomo. Con degli affetti, degli interessi ed una vita privata. È anche di questo che parleremo adesso con Bill Kaulitz, sicuramente la persona che, in quel senso, lo conosceva meglio.”
Ed io mi sento morire.
Lancio un’occhiata a David, che s’è pietrificato accanto ad una telecamera. Le domande private non erano proibite? Finché le cose le racconto io, d’accordo, ma che quest’uomo s’intrufoli nella mia vita, nel mio rapporto con Anis, nella mia cazzo di storia, questo no, non lo posso accettare. Non lo posso tollerare.
Non lo reggo.
David scuote lentamente il capo, non sa che pesci prendere. Aveva fatto firmare ai produttori un contratto, io lo so, David è sempre attentissimo a queste cose. Vedo già nei suoi occhi i meccanismi del cervello che si mettono in moto, lui che pensa a come risolvere, a chi fare causa, a chi togliere in tribunale perfino le mutande, ed io continuo a pensare che Patrice nel ghetto non sarebbe sopravvissuto un giorno. Penso questo, lo guardo e basta.
“Bill,” chiede comprensivo, “te la senti di parlarne?”
Non so che dire. No che non me la sento, mi pare ovvio. Non so perché non ho pensato a quest’eventualità, quando ho deciso che volevo venire ed aprirmi il petto in due. Non so perché non ho pensato che al mondo non bastasse vedere il mio cuore, che preferisse di gran lunga afferrarlo fra le dita e strapparlo via. Io lo sapevo che sarebbe finita così. Solo che la prospettiva di affondare un po’ fra i ricordi con una giustificazione valida per poterlo fare mi ha annebbiato la vista.
Tom mi guarda preoccupato. Cerco di nuovo David nel backstage, ma è scomparso. Mi prendo un secondo per avercela con lui, deve essere colpa sua, in qualche modo.
Sospiro.
“Suppongo di sì…” concedo distrattamente, con un mezzo sorriso. Sul divanetto dell’Ersguterjunge vanno tutti in tensione, come stessi per sputtanare chissà che.
In effetti è vero.
“Tu ed Anis…” mi salta il cuore in gola e spalanco gli occhi, “Posso chiamarlo così, sì?” non rispondo perché mi manca il fiato, ma no, testa di cazzo, non puoi chiamarlo così, non puoi chiamarlo così perché lo fai per pietismo in virtù di una libertà che non ti è mai stata concessa. Non commuovi nessuno, Patrice, ficchi le mani dove non devi, solo questo. “Com’è che vi siete conosciuti?”
Il mio sguardo si perde nel vuoto per qualche secondo. Poi stringo le mani in grembo – ho lasciato andare Tom molto tempo fa e non intendo tornare a chiedergli aiuto proprio adesso – e deglutisco, sperando di rimandare il mio cuore al proprio posto.
“Una festa,” racconto a bassa voce, “lui era ancora sotto contratto alla Universal. Chiacchierammo un po’, e…”
“Fu lui a provarci con te?”
Sollevo lo sguardo e lo omaggio di una smorfia infastidita.
“Assolutamente no,” dico, velenoso, “Non capisco cosa impedisca di pensare che sia stato io a provarci. È esattamente così che è andata.”
“E lui ti ha subito fatto sapere che anche da parte sua c’era dell’interesse…”
Comincio seriamente a chiedermi che razza di storia sia girata alle nostre spalle nello show business, perché ciò di cui sta parlando Patrice non c’entra niente con la nostra verità.
“Sono stato io ad insistere,” spiego asciutto. Non so perché non sto piangendo. Forse perché sono più arrabbiato che triste, in questo momento. “Anis s’è innamorato di me solo perché io, il suo amore, me lo sono guadagnato. E questo è quanto.”
Patrice annuisce tranquillamente e si siede sul bracciolo del mio divano. Io faccio fatica a non scostarmi disgustato.
“E dimmi, nella vostra vita privata-”
“La nostra vita privata” lo interrompo con un’occhiata glaciale, “è appunto la nostra vita privata.” Sorrido un po’. “Vuoi chiedermi com’era quando si svegliava alla mattina? Se era dolce con me? Se mi tradiva? Com’era a letto?” sbuffo e scuoto il capo, mi vanno un po’ di capelli davanti agli occhi ma li tiro dietro un orecchio con decisione. Non sto piangendo e voglio che lo vedano tutti. Voglio che lo capiscano tutti: Anis mi manca, ma non lo rimpiango. Non ho nessun motivo di rimpiangere niente. “Lui era perfetto,” dico fieramente, fissando dritto negli occhi Patrice, “è tutto quello che dovete sapere.”
Lui si tira impercettibilmente indietro. Vedo Tomi che ghigna soddisfatto, al mio fianco, mentre il pubblico si scioglie in un applauso scrosciante che non era previsto, dato che, teoricamente, non lo era neanche questa mia uscita.
Mi rilasso contro lo schienale e guardo Chakuza. Mi fa un cenno d’approvazione, una cosa piccolissima, china appena il capo e sorride. Gli sorrido di rimando, mentre ascolto distrattamente Patrice riassumere ciò che è stato fatto e detto durante la serata e salutare il pubblico ricordando l’orario di TRL del giorno dopo.

Non aspetto neanche un secondo. Appena ci danno il segnale di libero, mi alzo in piedi e tolgo il microfono. Non guardo nessuno e non vedo nessuno: voglio solo uscire da qui il più presto possibile, infilare in macchina e poi chiudermi in casa con le mie foto, i miei ricordi e il mio Anis che con le stupide insinuazioni di Patrice non ha niente a che spartire.
Imbocco il corridoio, incurante del fatto che, alle mie spalle, Chaku e Tom mi stiano chiamando. Trovo David che sta già litigando com'era prevedibile. Urla e strepita, minaccia ripercussioni legali su ogni fronte. "Il ragazzo è provato," sta dicendo e punta vagamente il dito nella direzione dalla quale provengo, finendo per indicarmi davvero senza volerlo. "Avevamo concordato per delle domande molto più generiche."
"Signor Jost, il signor Kaulitz si è dichiarato in grado di rispondere," gli risponde una donna ben vestita e pettinatissima. Ha la coda così tirata dietro la testa che dà l'impressione di smontarsi se solo le si togliesse l'elastico. Purtroppo quello che dice è vero. Il contratto sarebbe passato in secondo piano se Patrice fosse riuscito ad ottenere la liberatoria direttamente dalle mie labbra. E lo ha fatto, prendendomi in contropiede in diretta.
Nonostante questo, mi viene da sorridere stupidamente di fronte a David che mi chiama affettuosamente il ragazzo. Non posso essere il Signor Kaulitz per lui, neanche quando si parla di affari legali, non quando la prima volta che ci siamo incontrati avevo undici anni e lui mi superava ancora in altezza. Quello è durato poco, comunque.
Ad ogni modo sono stanco, l'ho già detto, e di ridere davvero non ho molta voglia.
"David, lascia stare," dico e lui si volta. E' così furioso che ci mette due secondi a capire che lo sto chiamando e gli ho chiesto di smettere. "Voglio andare a casa."
David si riprende e non discute. Qualunque disaccordo tra band e manager si discute in privato, è la prima regola.
E' così che ci ha insegnato a non fare capricci davanti a nessuno, ad obbedire ai suoi ordini per poi - in caso - protestare anche violentemente sul tourbus. E' per questo che la stampa non ha ancora avuto modo di sapere quanto io sia capace di battere i piedi e quanto si lamentino anche le due G, che passano per due tipi tranquilli.
David, difatto, non discute. "Va bene. Tra cinque minuti usciamo, allerto la security."
Mi sforzo di sorridere. "Grazie."
Il mio manager annuisce e si allontana, senza dimenticarsi di indicare la donna ben vestita e annunciarle decisissimo: "Avrà notizie dai miei avvocati."
Io mi stringo a Tom e sospiro. Se dio vuole è finita: niente più tributi, niente più inquadrature strettissime sui miei occhi. Non sono pentito - non ho la forza per esserlo - ma sono contento di essermi ripreso il mio Bushido e di potermelo riportare a casa. Ve l'ho fatto vedere, ma ora basta.
"Bill..." la voce tesa di Chakuza mi risveglia dai miei pensieri. Apro gli occhi e gli faccio cenno di continuare. Sta per parlare, ma David ci raggiunge di nuovo e quindi non ne ha il tempo materiale.
"E' tutto a posto, andiamo." E poi aggiunge: "Niente autografi, niente foto. Non vi fermate. Vi voglio fuori da questo posto il più in fretta possibile."
Sono perfettamente d'accordo, quindi annuisco. Tom e Chakuza scivolano al mio fianco immediatamente, imitano perfino i miei passi. Sorriderei se fossimo altrove.
Vedo Fler con la coda dell'occhio e mi pare che ci segua.
David ci fa uscire da dove siamo entrati ma la situazione è totalmente diversa. Quando ci affacciamo sulla porta si scatena il delirio: c'è un mucchio di gente in più. Hanno transennato ulteriormente e le ragazze scalpitano, chiamano il mio nome e quello di mio fratello. Qualcuno batte le mani e mi si solleva il sopracciglio in automatico.
David apre la fila e cammina spedito, dettando il passo a noi che gli stiamo dietro. Prima di uscire, abbiamo assunto la solita formazione: una delle guardie del corpo mi sta incollata addosso, l'altra è con Tom che scalpita - anche lui - e, per qualche strana ragione vorrebbe camminare più avanti con me.
Appena metto piede fuori, localizzo con un'occhiata le altre guardie della security; anche questo me l'ha insegnato David: devo sempre sapere chi mi può aiutare e dove trovarlo. Ironico che da lì a due minuti saperlo non mi servirà assolutamente a niente.
Facciamo soltanto cinque metri. Non c'è modo di arrivare alla macchina senza passare attraverso il corridoio umano transennato. Mi sforzo di tenere la testa alta e un'andatura non troppo sostenuta. Mi secca apparire scostante.
Le cose vanno fuori controllo un attimo prima che io - chiunque di noi, credo - me ne accorga.
Quando il pubblico grida, tu senti solo un vociare indistinto; alle volte ti arriva chiaramente il tuo nome e qualche frase imbarazzante, sì, ma per il resto sono solo grida.
Le urla di qualcuno che viene buttato a terra e spintonato, i suoni di una rissa insomma, non li puoi distinguere.
Ecco perché quando la transenna va giù è già tutto iniziato e tu non lo sapevi. Quando il ferro tocca terra con quel rimbombo di campana è già perfino tutto finito.
Da qualche parte alla mia sinistra volano offese. Io mi guardo intorno spaesato e l'unica cosa che mi preoccupa è che Tom si trova proprio da quella parte.
Guardo in quella direzione e la mia guardia del corpo fa lo stesso. Sull'errore umano ci puoi sempre contare, alla fine.
La rissa, in realtà, è solo davvero una rissa ma lo capiamo quel secondo troppo tardi. Quello è il secondo che ci mette la transenna vicino a me a cadere.
Mi volto di nuovo e lo vedo, l'uomo col passamontagna armato di coltello. Lo vedo così bene che penso: è una lama di dieci centimetri, sono morto.
Poi non capisco più niente. Sento correre, sento il mio nome e poi mi buttano a terra. Il grido di dolore che ne segue non è mio, però. Ho solo battuto una spalla, e neanche tanto, non ho fiatato.
Quando riapro gli occhi sono disteso a terra e Tom sta gridando: "Lasciatemi andare, cazzo!"
Il mondo ci mette più di qualche secondo a ritrovare un senso. La prima cosa che noto è che si sono zittiti tutti. Non è che stanno in silenzio, ma non gridano più; c'è come un mormorio.
La seconda cosa che noto è che ho le ginocchia immerse in una pozza di sangue. E che a seguirne la traccia collosa trovo Peter che non si muove e ha gli occhi chiusi. Peter che sembra morto.
"Chaku..." lo dico piano, perchè so che se mi esce di bocca poi è vero. Alla fine però urlo, perchè il sangue è sempre lì. "CHAKU!"
Gattono fino a lui e non me ne frega niente di niente. Del sangue. Della gente. Del brusio e delle mille voci che mi sembra di riconoscere. Non me ne frega.
Lo guardo e sta fermo, disteso sulla schiena. Lo guardo e ogni secondo c'è più sangue di prima. Mi ritrovo a pensare: non anche lui! Non anche lui!
E sento il panico che mi prende alla gola. Non ho materialmente la forza per prendere in considerazione l'idea che qualcuno gli abbia infilato un coltello nello stomaco, che stia morendo. Che perderò anche lui.
E' tutto come tre mesi fa. Tutto, tutto uguale. Il rumore di fondo, la gente che urla, il sangue. Il rosso, sulla maglietta bianca che si tinge ad una velocità spaventosa. Lo afferro e me lo tiro addosso, in ginocchio lì dove sono. "Chaku..." le lacrime che ho trattenuto di fronte a quel figlio di puttana di Patice escono fuori adesso. Mi ci soffoco mentre lo chiamo ininterrottamente. "Peter, Dio mio rispondi!"
Mi dondolo e dondolo lui. Una parte di me mi dice che è già morto, l'altra mi dice che non può esserlo e io non ascolto nessuna delle due e mi convinco che se rimaniamo tutti fermi non cambierà niente. Non morirà. Si fermerà tutto, anche il sangue.
Mio fratello continua a gridare e poi arriva Fler. "Bill spostati adesso," mi dice. La sua voce è tesa e netta e autoritaria. Non l'ho mai sentita una voce così, con quel tono particolare. Invece sì, penso vago. E' la voce di Anis, lui parlava allo stesso modo.
Io però continuo a stringere Peter perchè se mi muovo, se cambio qualcosa, il sangue riprenderà ad uscire. E lui a morire. "SPOSTATI!" Lo urla stavolta, e me lo strappa dalle mani, mi spinge via. Io cado all'indietro e c'è mio fratello pronto a recuperarmi al volo.
Sto piangendo così forte che non sento nemmeno le mie parole. So di pronunciarle, ma non le sento. "E' vivo? Fler?" Chiamo, lui non si gira. "FLER! Non si muove... Tomi, non si muove.. non si muove."
Tomi mi stringe, ho le sue mani sullo stomaco e mi appoggio contro il suo petto. Non è un abbraccio tenero, mi stringe forte perché sa che mi getterei di nuovo in avanti. Tom non dice niente, non lo dice e io penso che se non parla è perché non può consolarmi. E se non può consolarmi allora vuol dire che è morto. Peter è morto.
Fler solleva la testa, si guarda intorno con rabbia. Quei suoi occhi azzurrissimi quasi lampeggiano. Quando dice: "Qualcuno chiami una fottuta ambulanza," non guarda nessuno eppure tutti si sentono tirati in causa.
L'ambulanza arriva dopo pochissimo. Qualcuno doveva averla già chiamata, oppure sono stati molto veloci. Non so. I paramedici scendono dall'automezzo uno dietro l'altro come le squadre speciali della SWAT nei film americani. E anche Fler è un film americano perchè è lui a dire tutto, a fare tutto. "Ferita da arma da taglio sull'addome, il coltello probabilmente era seghettato, avrà bisogno di... non lo so, almeno quattro punti, ed assistenza immediata," dice ad uno dei medici mentre issano Chakuza su una barella. E la sua voce è di nuovo in quel modo, netta e secca. Il medico annuisce e Fler ha il viso tirato. Si china sulla barella, su Peter e sussurra: "Stai tranquillo, Atze, ne vieni fuori. Non preoccuparti."
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Death, Slash (accennato).
- "La sinfonia distorta di un omicidio."
Note: EmotivamenteDistrutta!Liz. Buonasera, signore care T_T Prima di tutto: io spero tanto che questa Saga non vi stia venendo a noia, per due motivi, uno stupido ed uno intelligente; quello stupido è che per ora mi va di scrivere solo questo, quindi, se non vi interessa, non leggerete più niente di mio per un sacco di tempo XD *minaccia gratuita* Il motivo intelligente, invece, è che questa trama è bellissima. Io e Tab abbiamo scelto il modo più difficile per portarla avanti – in un puzzle di POV che si completano e si sovrappongono lasciando sempre il dubbio sulla verità, visto che sono comunque le opinioni e i modi di vedere le cose dei personaggi – ma speriamo tanto che vi stiate affezionando. Noi siamo oltre il limite legalmente consentito di auto-amore, comunque XD Fra poco ci arresteranno.
Ho aspettato tanto a scrivere questa shot, volevo farmi di Fler un’idea più chiara possibile. L’ho plottata quasi tutta in una notte di agonia da febbre e mal di stomaco. Non so se si veda, ma l’ho anche scritta tutta il giorno seguente, con un mal di testa ed un mal di stomaco perforanti XD Sono sopravvissuta, comunque – io, almeno.
Un grazie enorme a Tab perché c’è stata dall’inizio alla fine e mi ha rassicurata tantissimo.
Io, comunque, amo Fler.
E adesso come la mettiamo, col mistero della morte di Anis? :3
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VERRÄTER

A quattordici anni, quando non hai un padre, la prima cosa che fai è cercartelo. Sei piccolo e stupido, perciò non pensi; l’unica cosa che vuoi è avere un figo davanti agli occhi e dirti “Cazzo, sì, è così che voglio essere quando sarò cresciuto. Esattamente così”.
Il primo padre che mi sono scelto era un coglione di dimensioni notevoli. Era sempre completamente fatto, l’unica cosa buona che si potesse dire di lui era che aveva un talento mica male per la… scrittura artistica, se così si può dire. È stato lui a mettermi la prima bomboletta spray in mano ed a mostrarmi come, dove e quando usarla.
E così sono finito di fronte al tribunale minorile.
Di quel giorno ricordo solo mia madre piangere sul più grande errore della sua vita ed il sollievo che provai quando il giudice mi condannò a sei mesi di servizio sociale.
Per la verità era anche ironico trovarsi a coprire il proprio stesso nome con la vernice bianca per le strade. Avevo scritto un enorme “Patrick” sul muro che delimitava il campo giochi di un asilo, ed era una scritta coi controcoglioni, azzurra e gialla, stupenda. Il pensiero di trovarmi di nuovo di fronte a quella scritta con l’obbligo di cancellarla mi dava i brividi, ma non erano brividi del tutto spiacevoli.
Annulli il passato e ti muovi verso il futuro. O qualcosa di simile.
Comunque sia, quando mi ripresentai ai servizi sociali per ricevere l’attrezzatura, i permessi e sapere chi avrebbe condiviso lo strazio con me per quel periodo di tempo, avevo rinunciato all’idea di cercarmi un nuovo padre. In qualche modo, pensavo, se non ce l’hai non ti serve.
E poi lo vidi.
Anis, tanto per cominciare, sembrava più grande di tutti gli altri. Forse perché era già così alto, così scuro, e l’atteggiamento era di quelli tipici di chi ti fa sapere senza dirtelo che è una persona pericolosa, e che perciò ti conviene stare alla larga se non vuoi trovarti coinvolto in qualcosa di brutto.
L’assistente sociale me lo indicò con un cenno del capo. Stava seduto su una sedia di plastica gialla, un piede sollevato sul sedile, la posizione svaccata di chi ha già vissuto troppo per badare alla buona educazione ed uno stecchino immobile fra le labbra.
La stanza era piena di ragazzetti ricoperti di piercing e bianchi come il latte, che si facevano fighi fra loro parlando delle loro ultime meravigliose imprese – tipo entrare nella casa del vicino per mettergli paura e rubare qualche centinaio di marchi – e che a causa di ciò avrebbero passato i prossimi mesi a portare il pranzo e la cena ai vecchi del quartiere.
Anis restava immobile. Nessuno gli rivolgeva la parola e la cosa non sembrava turbarlo.
- Ehi. – lo avvicinai, cercando di mostrarmi tosto quanto lui, - Sembra che dovremo farla insieme, questa cosa.
Lui mi lanciò un’occhiata assolutamente incomprensibile, sfilando lo stecchino di bocca senza neanche cambiare posizione.
- Tu che hai fatto? – chiese con una certa curiosità.
- Eh? – chiesi di rimando io, lasciando ricadere la mano che gli avevo porto e che lui, ne sono sicuro, non aveva pensato di stringere nemmeno per un secondo.
Anis rise.
- Come mai sei finito qui? – precisò, alzandosi lentamente in piedi.
Mi superava in altezza almeno di una ventina di centimetri. Era disturbante.
- Sono un tagger. – risposi con un certo orgoglio.
Lui non si scompose.
- E basta?
E a me diede i brividi.
Quella fu la nostra prima conversazione. Da quel momento in poi, Anis passò la sua intera esistenza a sfottermi.
So che può sembrare allucinante da dire così, ma io mi adattai subito. Voglio dire, mi adattai quando mi disse che lui era finito in galera perché spacciava. Io, che mi sentivo tanto figo ad andare in giro scrivendo il mio stupido nome sui muri di Tempelhof, mi sentii improvvisamente, oltre che scemo, anche puro come un neonato. Quello spacciava, cazzo. E gli spacciatori lo sapevamo tutti, com’erano. Non erano come noi, che giravamo col serramanico in tasca solo perché faceva figo. Loro lo usavano, il fottuto serramanico.
Mi sfotteva per il mio nome, mi sfotteva per il mio stile, perché ero troppo bianco, perché non avevo ancora mai accoltellato nessuno, mi sfotteva di continuo. Io gli davo del coglione ed ogni tanto un pugno sulla spalla o sul petto, ma Anis sembrava di ferro, cazzo. Incassava senza muoversi. E rideva. Di continuo. Di me e di qualsiasi altra cosa.
Non decidemmo noi di chiamarci Frank White e Sonny Black. Lui l’avevano già soprannominato così da tempo, come il capomafia, perché aveva tutto un suo giro di gente che già gli pendeva dalle labbra – ed aveva solo diciassette anni, cazzo, quando si dice il potenziale – perciò quando cominciai a farmi vedere sempre al suo fianco ai ragazzi venne naturale darmi del Frank White.
Anis mi sfotteva anche per quello.
- Lo sai chi è Frank White?
- No.
- Ma l’hai mai visto King of New York?
- No.
E giù risate.
- C’è questo qui, - mi spiegò, - che è Cristopher Walken, l’attore, dico, ma nel film è il signore della droga di New York. Uno cazzuto. Tu non ti sai neanche preparare gli spinelli.
Altre risate.
- E come finisce questo? – chiesi io, sbuffando, - Conquista l’America e diventa presidente?
- Ci prova. – rise lui, - Ma finisce morto ammazzato. Ovviamente. – un sospiro, - Perché, come pensi che finiremo noialtri?
Non mi spaventò, perché da quando andavo in giro con lui il pensiero della morte era molto meno spaventoso di prima. Voglio dire, puoi avere paura le prime due, tre volte che ti puntano un coltello alla gola. Ma quando la scampi – quando cominci a scamparla puntualmente – il brivido lo perdi. Ti riempi un po’ di stupido orgoglio e un po’ di presunzione, e ti ficchi in testa che morirai solo quando lo deciderai tu, perché fino a quando hai voglia di lottare puoi sempre tirare fuori un coltello più grosso o un calcio meglio assestato.
Però la sua rassegnazione aveva un che di deprimente.
Lui era in assoluto il più forte del quartiere, non avrebbe dovuto avere paura di nessuno. Eppure conosceva perfettamente la propria situazione e sapeva esattamente cosa aspettarsi dalla vita.
Era triste, in qualche modo.
- Comunque, sta’ tranquillo. – mi disse quel giorno, lanciandomi una pacca tale sulla spalla che io quasi caddi dal muretto sul quale c’eravamo arrampicati, - Prima di morire, altro che Re di New York. Io diventerò il Re dei Re.
Sul muretto, sotto di noi, avevamo appena finito di scrivere “King of Kingz”. Avevo eseguito gli ordini senza capire. Era un bel lavoro.
Scoppiai a ridere. Lui con me.
Decisi ciò che volevo essere. Uno di quei kingz ai quali lui avrebbe dato ordini. Era tutto ciò che volessi dalla vita.
*
Io lo so, cosa credono tutti. Io so tutto perfettamente. Perché Bushido mi ha chiamato traditore per anni, ma lui è così, ha un modo proprio di vedere la vita che, anche quando cozza contro la realtà, non cambia di un millimetro. Io non ho tradito proprio nessuno. Se qui qualcuno ha tradito qualcosa, quel qualcuno è Bushido e quel qualcosa siamo noi. Sono io. È ciò che c’era, ciò che sognavamo insieme.
Per la verità ogni tanto sospetto lui non abbia mai sognato in coppia con nessuno. Quando lui parlava di Re dei Re, non lo faceva come per dire “io sto sopra ma anche voi non siete malaccio, vi porto con me con piacere”. No, l’intento era un altro.
Stare sopra. Sopra tutti. Sopra tutto.
Io non ho tradito proprio nessuno. Quando siamo entrati all’Aggro Berlin, l’abbiamo fatto insieme. Quando abbiamo cambiato nome, l’abbiamo fatto insieme. Quando è uscito King Of Kingz, io ero lì. Ero in tutte le tracce. Ero nei sampler ed ero con Bushido quando Sido non gli avrebbe dato un centesimo.
Poi Bushido ha cominciato a fare i soldi. Quelli veri. Quelli che perfino Sido gli invidiava.
Chi è il traditore se, quando le cose cominciano a girarti bene, prendi e te ne vai?
Il traditore sei tu che sei andato via, o quelli che restano e che cominciano ad odiarti?
Bushido ha le idee chiare in merito. Tradisce chi resta ed odia. Chi non riesce proprio a dimenticarsi un vecchio sogno, e ci resta aggrappato con tutte le proprie forze.
Anche io ho le idee chiare in merito. Tradisce chi va via. Chi, quel sogno, lo prende e lo calpesta senza pensarci su neanche mezza volta.
In questi mesi, sia io che lui non abbiamo fatto altro che ribadire costantemente le nostre idee. Spalandoci merda addosso a vicenda. Per quanto inutile possa sembrare come modo di condurre un litigio, in realtà non abbiamo fatto altro che preparare questo giorno.
Tu non puoi adorare qualcuno e poi ficcargli un coltello nello stomaco da un giorno all’altro.
Hai bisogno di una scusa. E come scusa non basta che quella persona ti molli nella merda. Noi abbiamo avuto bisogno di lunghi mesi di diffamazione. Di dircelo in pubblico, cosa pensavamo l’uno dell’altro. Di far sapere al mondo che ora ad unirci c’era solo l’odio.
E così, giorno dopo giorno, abbiamo costruito le basi per stanotte. Offesa dopo offesa, insulto dopo insulto.
Sido pianta il freno e si lascia andare contro il sedile.
- Era qui? – chiede disinteressato. È chiaro che vorrebbe trovarsi da tutt’altra parte.
Sido ha una moglie ed una figlia. Sido è un rapper, non un criminale. Sido, con tutto questo, non c’entra niente.
- Sì. – rispondo, aprendo lo sportello, - Puoi andartene. Non c’è bisogno che resti.
Lui sospira.
- Fler, io lo voglio morto almeno quanto te. – borbotta, fissandomi con l’espressione tipica di quando vuole farmi una paternale, - Però non mi pare il caso… avanti, che ne sai che non ti si presenta con tutta la crew e ti lascia bucato come groviera sull’asfalto?
Scuoto il capo. Non può proprio capire.
- È una cosa fra me e lui. Bushido sarà di parola.
- Sì. – sospira esasperato, - Di solito lo è, eh?
Ghigno. Punto per lui.
Bushido è scorretto con chi non ritiene degno della sua onestà.
E sono in pochi.
Io, forse, avanzo delle pretese che non merito, ma voglio fidarmi. Stavolta voglio farlo.
- Non ti preoccupare, stanotte non crepo di certo. – butto lì, più per rassicurare me stesso che non per rassicurare lui. In realtà, ciò che rende questo buio così scuro, questa luna così brillante e queste strade così silenziose è proprio il brivido dell’incertezza.
Io non ho nessuna garanzia di sopravvivenza, perché la persona che un tempo mi difendeva oggi mi affronterà con una pistola in mano.
Io non ho nessuna garanzia di sopravvivenza anche perché tutto ciò cui ho potuto pensare in questi ultimi anni si condensa in stanotte. Tutti i miei obiettivi sono qui. Tutte le mie ossessioni, oggi finiranno.
La mia più grande ossessione. Me la troverò faccia a faccia in un vicolo vuoto. E toccherà a me ucciderla. O esserne ucciso.
Quando la mia ossessione arriva, mi trova seduto su un lastrone di cemento. Svaccato e perfettamente a mio agio. Per qualche secondo spero che questo possa servire a ricordargli due ragazzini in un tribunale minorile che aspettano i rulli, le tute e la vernice bianca.
M’illudo, lo so.
- Fler. – mi saluta con un cenno del capo. Io sollevo solo il mento.
- La puttanella l’hai lasciata a casa? – ghigno cattivo, mettendomi in piedi.
Lui non fa una piega. Non si muove. Neanche si offende, lo stronzo.
- Questa è una cosa tra me e te, Atze. – mi dice.
Il moto di stizza mi porta a serrare i pugni. Gli darei un cazzotto qui ed ora, senza pensarci. Ma non è il momento.
- Non chiamarmi Atze. Per me tu non sei più niente. – e sputo in terra. Sputo in terra perché lui è qui e può vederlo. Che ciò che eravamo era perfetto. E ciò che siamo adesso fa schifo.
Sputo su ciò che siamo. Sputo perché odio ciò che siamo. E perché stanotte lo ucciderò.
Lui sospira ed abbassa lievemente lo sguardo. Posso leggere perfettamente, al di là dei suoi occhi scuri come il petrolio, che sta cercando una via. Un modo per farmi ragionare, per convincermi a rivedere la mia posizione.
Questo atteggiamento un po’ mi indispone ed un po’ mi fa ridere. Bushido non è abituato a convincere gli altri con le parole. Bushido le impone, le cose. Come ha imposto la sua fidanzata nel mondo del rap tedesco, come ha imposto i propri soldi sulla giustizia austriaca quando ne ha avuto bisogno, come ha imposto se stesso su un mercato che non credeva di avere bisogno di un tunisino incazzato col mondo e pronto a sputare in faccia alla Germania per farle vedere tutte le sue brutture.
Bushido convince così, imponendosi. Ed il rap tedesco ha dovuto accettare Bill Kaulitz. E l’Austria ha dovuto chinare il capo. E la Germania ha capito che non aspettava altri che quel tunisino.
Però, con me vuole parlare.
- Fler, ascoltami. – dice a bassa voce, mettendo quasi le mani avanti, - Non abbiamo bisogno di questo.
- Quando mi interesserà sapere cosa pensi riguardo ciò di cui ho bisogno, te lo chiederò. Fino ad allora, tappa quella fottuta bocca e comportati da uomo, non da frocio accomodante.
Anche perché non lo sai, di cosa ho bisogno. Non più.
Infilo una mano in tasca. Il coltello arriva subito, neanche l’avessi chiamato. Forse lo stavo facendo. Comincio a girargli intorno come un predatore, fissandolo negli occhi.
- Cazzo. – dice lui. È frustrato. È deluso. È arrabbiato.
Ha paura.
Gli salto addosso. Non gli lascio neanche il tempo di guardarsi intorno, lo getto a terra e lo spingo sul marciapiedi con tutto il peso del mio corpo. Mi sfugge, il bastardo – ci tiene alla pelle, si vede. È cambiato anche in questo. Rotola su un fianco, io mi sollevo sulle ginocchia e lo attacco ancora, puntandolo col coltello. Ghigno, perché non è riuscito a recuperare il suo. Cerca di tenermi lontano a mani nude, ma io ho la lama. Io taglio.
Sono il traditore e faccio più male di te.
Sono il tradito, ed odio molto di più.
- Fler, piantala! – ringhia, mentre cerca di tenermi stretto per i polsi.
Forzo la sua stretta. È sempre dannatamente potente. Mi fa un male cane. Vorrei ficcargli questo coltello nella gola e risolvere il problema, ma non so se ne sarei veramente capace. Probabilmente, se mi lasciasse andare, mi fermerei.
- Vaffanculo, Anis. – digrigno i denti e gli sono così vicino che mi sento addosso il suo fiato. Ed è orribile, è tremendo, mi fa pensare cose che non dovrei, mi fa ricordare cose che non dovrei, cose che toglierebbero a chiunque la voglia di ammazzare chicchessia, pomeriggi noiosi passati a tirare le pietre nel canale, notti adrenaliniche e silenziose per fare la posta a questo o a quel debitore insolvente, fargli il palo mentre sgattaiola silenzioso fuori dal letto di una donna non sua ma che s’è preso lo stesso, ed io c’ero, io ero lì, ero davanti al suo sorriso e al suo “grazie, Atze, ti devo un favore”. E quanti favori mi devi, adesso? Te li inciderei tutti sulla pelle, Anis, uno dopo l’altro. Ma non so se ne ho davvero la forza.
Grido, rotoliamo sul marciapiedi, la felpa gli si strappa, io mi distraggo e ricevo in cambio una gomitata fra le costole che mi mozza il fiato. Cerca di riprendersi, lo stronzo, di recuperare il solito coltellino sul fondo della tasca dei jeans, ma non posso lasciarglielo fare.
Lo afferro per la gola. Stringo forte e premo fino a farmi sentire sottopelle. Fino a lasciargli addosso l’impronta delle mie dita, che poi è l’unica impronta che possa lasciargli, oltre allo strappo di una coltellata o al foro di una pallottola.
Lo sento che cede. Lo sento che smette di crederci. Lo sento e gli leggo negli occhi – annebbiati, confusi, tristi? – gli stessi sentimenti che agitavano me quando ha mollato l’Aggro Berlin. Quando mi è passato davanti come se, dentro di lui, di me fosse rimasto solo un ricordo sbiadito. Mi ha guardato sorridendo, mi ha detto “Non arrenderti”, ed io ho pensato “Allora è così che finisce, coi sogni? Ti esplodono dentro e ti lasciano devastato come neanche dopo una guerra, ma da fuori non si vede? È questo tutto quello che resta, una traccia invisibile?”.
E perciò gli faccio il verso.
Gli faccio il verso perché anche di lui resterà solo una traccia invisibile.
- Non ti arrendere. – sibilo, - Non ti arrendere… Bushido.
Ed io non so se è stata una distrazione o se in qualche modo volevo che recuperasse quel fottuto coltello e lo usasse contro di me, ma tutto quello che sento è un dolore acuto e forte sulla coscia, una quindicina di centimetri sopra il ginocchio.
Mentre grido e mi sposto di lato, tocco la ferita e sento il sangue. E penso che è giusto così. Che ce ne ha messo, di tempo, per farmi sanguinare. Ma alla fine è la cosa più giusta, perché io in realtà sanguino da anni, il problema è che il sangue non riusciva a venire fuori. Ed ora è ovunque – sulle mie mani, sui miei vestiti, sul marciapiedi. Ed è giusto così.
Ma manca ancora qualcosa.
- Chiudiamola qui. – ansima lui, tirandosi indietro.
No, non la chiudiamo qui. Manca qualcosa. Ora la sua traccia io ce l’ho addosso. Manca la mia su di lui.
- Col cazzo! – mi slancio in avanti e lo sbatto contro un muro.
Prima un calcio nelle palle, stronzo, così impari ad andare col primo fighetto di turno fottendotene perfino di ciò che sei.
E poi la coltellata. Il mio marchio. Avrei voluto piantartelo nel cuore, lo sai? Però è vero, non ci riesco.
Forse volevo solo il tuo sangue addosso. E non come le mille volte in cui sono andato recuperandoti per le strade dopo una rissa o un regolamento di conti, no. Volevo essere io a ferirti.
Sulle mie mani, il nostro sangue si mescola.
Ora siamo davvero fratelli. Ironia della sorte.
E mentre io sento il tepore del suo sangue sui polpastrelli, lo sente anche lui, scendere silenzioso lungo il braccio. E ne ha davvero paura. Sangue significa che puoi morire. Paura significa che hai qualcuno che ti aspetta.
Bushido non vorrebbe davvero essere qui.
Bushido ha qualcuno che lo aspetta.
Bushido non è più un criminale e nemmeno un rapper.
Bushido non ha più niente a che vedere con me.
Cerco ancora di schiacciarlo contro il muro, ma c’è qualcosa che non va. Si riprende. Mi tira nello stomaco un calcio tale che mi viene da vomitare. Mi allontano e ricevo come ringraziamento due cazzotti che mi fanno vedere doppio. Cado a terra. Mi fa male la gamba ed anche tutto il resto del corpo. Il coltellino è volato via. Lo vedo ad un metro circa da me, mi basterebbe allungare un braccio e recuperarlo, ma nonostante la ferita Bushido è più veloce. Lo scalcia lontano, ed io non lo vedo più.
La sua voce mi raggiunge alle spalle.
- La chiudiamo qui.
È netta e cupa.
È dolorosa.
È stupido, ma non ho più voglia di lottare. Lo ascolto allontanarsi e non mi muovo più.
*
Terremoto.
No. Mani. Mi scuotono.
- ‘ca puttana, Fler, riprenditi.
La voce. È Sido.
Apro gli occhi.
- Cazzo. – continua lui, - Cazzo. Sei ferito.
- Sì… lo so da me, grazie. – ansimo, cercando di rimettermi quantomeno seduto.
- È profonda?
Lancio un’occhiata alla mia gamba. Ovviamente non posso guardare attraverso i jeans, ma quello che sento lo so benissimo.
- Ho visto di peggio. – mormoro, mentre lui mi aiuta ad alzarmi, - Tranquillo. Te l’ho detto che non crepo, stanotte.
- Sì, certo. – borbotta Sido, tirandomi in piedi, - Ce la fai a reggerti?
Mi allontano da lui e ci provo. Annuisco.
- Perfetto. Allora vieni in macchina, ti porto all’ospedale.
Rifletto.
- Ho da fare.
- ‘Cazzo hai da fare, Fler, hai un buco in una gamba! – mi rimprovera lui, evidentemente esasperato dalla situazione. Per un attimo mi dispiace. Se sono rimasto lì arrotolato per terra non era per il dolore alla gamba. Era per il dolore a tutto il resto. Mi dispiace che si sia preoccupato per qualcosa di così stupido, Sido non merita niente del genere. Lui è un uomo d’affari ed un cantante. Non merita questo.
- Ho un conto da regolare. – spiego, il più pacatamente possibile, - E se non lo risolvo stanotte, non lo risolvo più.
C’è assolutamente qualcosa che devo dire ad Anis.
A me basta così. Io sono stato abbastanza male. Anche lui. Possiamo… siamo pari. Lo siamo davvero.
- Mi sono rotto i coglioni. – risponde Sido in un ringhio di frustrazione. Poi sospira. – Dov’è che devo portarti?
Gli sollevo addosso un’occhiata incredula.
- Come, scusa?
- Sei ferito ad una gamba. Prima risolviamo qui, prima ti porto all’ospedale. – ragiona nervosamente, - Devo ricordarti che sei la punta di diamante dell’Aggro Berlin? – chiede poi con un cipiglio dittatoriale che è ciò che ha permesso a questa sua faccia da nerd di sopravvivere nonostante tutto in questo mondo assurdo. – E certi legami contano sempre, Atze. – aggiunge poi, - Perciò, dimmi dove devo portarti.
Mi viene un po’ da ridere e lo seguo fino alla BMW. So esattamente dov’è andato Anis. So anche come raggiungerlo, il posto, perché una cosa non è riuscito a farla, ed è stato tenere nascosto l’indirizzo di casa sua. Cose che capitano, quando la tua fidanzata campeggia sulla copertina di Bravo una volta ogni due settimane. Qualcuno fa una foto e tu casualmente riconosci il quartiere e magari anche il palazzo.
Indico a Sido dove andare e, quando ci arriviamo, mi faccio lasciare a qualche metro dalla traversa giusta.
- Aspetta qui. – dico piano.
Lui non risponde, spegne il motore, le luci ed accende la radio.
Io mi muovo piano. La gamba mi fa un cazzo di male, ma non è il momento di pensarci. Il palazzo lo riconosco subito. Sto qui che cerco di capire se posso suonare il campanello o qualcosa del genere, ed oltretutto mi chiedo se conosco davvero Bushido al punto da indovinare le sue mosse – non è mica detto sia qui, in fondo – quando sento qualcosa che mi confonde.
Mi confonde perché è il nostro fischio. Ma non è Bushido a farlo, perché lo riconoscerei. E non sono nemmeno io. Posso esserne ragionevolmente certo.
Non so chi è che abbia fischiato, ma non avrebbe dovuto farlo.
Sollevo lo sguardo sul palazzo e vedo una figura scura affacciarsi ad una delle finestre. È lui. Lo vedo. Lo saprei anche se non lo vedessi. Mi guarda, lo guardo, non capisco cosa sta succedendo. Vorrei avvertirlo, c’è qualcosa che non mi torna. Vorrei dirgli che siamo a posto, più di ogni altra cosa.
Siamo a posto, Atze.

.....Denn eine Kugel reicht

- Cazzo è successo?! – è la prima voce che sento. Ed è Sido che, evidentemente, m’ha seguito. – Fler!
- Non sono stato io! – urlo a mia volta, agitato. Al primo sparo si sovrappone il secondo. L’eco dal primo non s’è ancora spenta nel vicolo vuoto. Si aggiunge un urlo. È la voce di Kaulitz. Passi. Non so di chi. Luci che si accendono, qualche cane che abbaia.
La sinfonia distorta di un omicidio.
Sollevo lo sguardo sulla finestra, che è ancora buia, ma non c’è più nessuna sagoma. Siamo solo io e Sido in un fottuto vicolo deserto, e questo è molto male.
Sido mi tira via.
- Vieni, porca troia! Merda… - mormora furioso, - Merda, siamo nella merda…
Ed io penso che è vero.
Fisso la finestra. Non urla più nessuno.
Cominciano a sentirsi le voci delle altre persone, però. Fra poco qui sarà un disastro, ed io so esattamente con chi se la prenderà l’universo intero quando Bushido sarà morto.
…la mia ossessione è morta.
Ed io non posso prendermela neanche con me stesso.
*
L’ultima settimana della mia vita è stata in assoluto la peggiore. Non mi hanno neanche lasciato il tempo di soffrire in pace. E questo, per uno come me – che s’è crogiolato nel dolore e nel risentimento per anni, prima di decidersi a farne qualcosa – è stato tremendo. Ho risposto a non so quante domande. Sido ha continuato a rimproverarmi per ore, ed io mi sono sentito molto un bambino. Molto stupido.
Stavo molto male.
Ecco tutto.
Ma sono qui. Sono qui perché c’è anche lui, qui. È dentro una bara e non può sentirmi, ma cazzo, mi ha visto, prima di morire. E quindi io dovevo esserci. Anche se forse non sono abbastanza uomo da farmi vedere – perché non hanno potuto incriminarmi, visto che la mia pistola non ha sparato, ma l’ersguterjunge non ha bisogno di documenti ufficiali per sapere su chi gettare il biasimo di questa morte.
Solo che no, non sono stato io.
Io non volevo neanche.
La signora Luise piange rumorosamente. Abbraccia Saad, che la sostiene come un cavaliere, fissando gelido di fronte a sé. La signora Luise mi fa una pena infinita.
La signora Luise probabilmente adesso mi odia, anche se è l’unica donna oltre mia madre che ricordi la mia data di nascita, e questo perché le feste di compleanno le ho organizzate a casa sua per anni, prima di entrare all’Aggro Berlin con Anis.
Prima di diventare grande.
Troppo grande.
Mi mancano, quei pomeriggi.
Sto molto male, vaffanculo.
Sido è quasi in prima fila, in rappresentanza dell’Aggro Berlin. So che non vorrebbe essere qui, ma lui è uno responsabile, ed è uno con le palle, perciò s’è presentato. Davanti a tutti e senza chinare il capo, anche se, lo so, tutta l’ersguterjunge lo tratta come fosse un mandante o chissà che.
Tutte balle. Non so come faremo ad uscire da questa rete di stronzate.
Quando arriva la macchina nera che accompagna Kaulitz, ce ne accorgiamo tutti. Si irrigidiscono tutti. È una sensazione che rende elettrica l’aria, ed arriva fino a me, che sono nascosto dietro una stupida enorme tomba di famiglia a metri e metri di distanza.
Lo osservo scendere dalla macchina. È in nero, sembra minuscolo e stravolto. Mi fa pena anche lui. C’è il fratello, al suo fianco, ma resta in disparte. Lo vedo che gli stringe appena una spalla, come per consolarlo, e poi Kaulitz si muove da solo. La fidanzata che si cerca un posto.
Fosse stato davvero una donna, la donna di Anis, l’avrebbero lasciato passare con tutti gli onori. Ed invece guardalo, non lo lasciano nemmeno avvicinarsi. Deve andare a prenderlo Chakuza. Chakuza, Cristo santo. Non ha diritti, il ragazzino.
Saad s’irrigidisce e lascia la signora Luise alle cure della propria madre. Si allontana e poi lo perdo di vista. Non ci bado molto, osservo il prete che si lancia in un discorso privo del benché minimo senso, che Anis odierebbe. Cazzo, la saltavamo insieme, la messa della domenica. Ed in ogni caso lui era sempre troppo scuro per piacere alle brave famiglie che trovavamo fra le panche in chiesa.
Io mi appoggio contro la parete del mausoleo e mi viene un po’ da ridere.
Sarebbe una bella cosa, farsi una risata. Peccato io stia piangendo come non mi capitava da anni.
- Bella faccia tosta a presentarti qui.
Mi volto, accanto a me c’è Saad.
Non rispondo.
- Sappiamo tutti che sei stato tu.
- Allora sapete molto più di quanto non sappia io. – rispondo seccamente.
Faccio per voltarmi ed andarmene, perché questo confronto è proprio l’ultima cosa che voglio.
- Ti incastreremo. – dice lui, freddo e pratico.
Scrollo le spalle.
Saad non piange.
È tutto ciò che riesco a pensare.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Genere: Introspettivo, Commedia, Romantico, Malinconico.
Pairing: Fler/Chakuza, Fler/OMC.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash, OC, Angst, Song-fic.
- "Allora dimmi, l’hai trovato che era già così oppure gli hai fatto rasare i capelli e gli hai spezzato le gambe asportandogliene un pezzo e cambiandogli anche lo stato di nascita solo perché mi assomigliasse di più? O forse sei andato fino in Austria a chiedere a mia madre lo stampo in gesso per fartene scolpire uno il più somigliante possibile?"
Note: La follia di questa storia. *cough* Niente, in realtà in questo periodo sono presa bene con le storie che finiscono. Proprio con la gente che si lascia. Non so cosa ciò dica del mio io attuale, né mi interessa saperlo, ma sta di fatto che solo ieri ho scritto di due break-up, peraltro entrambi con gli stessi personaggi protagonisti X'DDD Solo che questo posso postarlo, l'altro è avvenuto in una roba che sto scrivendo per il BBI, quindi me lo tengo nel cassetto.
Comunque! Sta di fatto. Non pensavo che questa storia avrebbe parlato di questo argomento, in realtà, tant'è che all'inizio sembrava più propensa ad essere una vaccata con happy ending, ma poi non so bene come essa ha deciso che doveva sterzare bruscamente (con un'inversione a U) (in una strada a senso unico) (schiantandosi contro un camion di surgelati Brancagel) verso la tristezza/malinconia, e chi ero io per impedirglielo? Come dite? L'autrice? Ah! Non avete idea di quanto poco ciò possa contare. *sigh*
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YOU OUGHTA KNOW

You seem very well, things look peaceful
I'm not quite as well, I thought you should know
It was a slap in the face how quickly I was replaced
Are you thinking of me when you fuck

Questa cosa è così platealmente stupida che Chakuza quasi non riesce a credere di esserci finite in mezzo per davvero. Guarda Fler, che gli ricambia la stessa occhiata bovina e francamente ebete, e poi entrambi si voltano a guardare l’austriaco pelato seminudo alto un metro e cinquanta che, issato sulla scala, sta smontando le tende del salotto, e tutto ciò che Chakuza riesce a dire – perché sa di dover dire qualcosa, non perché gli vada effettivamente di farlo – è uno sconcertato “ma fai sul serio?” che Fler liquida con uno sbuffo infastidito e una scrollata di spalle.
- Avrei preferito che tornassi a casa dopo. – risponde, guardando altrove, mentre il suo nuovo fidanzato uguale e identico a Chakuza continua a smontare tende come non ci fosse un domani, - Avevo anche chiesto a Bushido i tuoi orari, per essere sicuro di non trovarti qui. Hai fatto in fretta, niente a che vedere con quando stavamo insieme e tornavi a casa alle tre del mattino, impegnato a scopare come un coniglio con qualsiasi cosa avesse un paio di tette e fosse vagamente viva nel raggio di chilometri.
- Oh Dio santo. – esala Chakuza, passandosi una mano sulla fronte, - Hai appena aperto bocca e stai già vomitando tante di quelle stronzate che non sono sicuro neanche di ricordarmele tutte! Tanto per cominciare, cosa vuoi che ne sappia Bushido dei miei orari? A stento ci sentiamo più, ormai! E secondo poi, si può sapere cosa ci fai qui?
- Dovevo recuperare le mie cose. – risponde Fler con naturalezza. Chakuza indica le tende alle quali il nano austriaco si appende e dondola dopo aver rischiato di scivolare giù dalla scala.
- Quelle contano come cose tue? – domanda, - Le tende del mio salotto?
- Il salotto potrà anche appartenerti, - ribatte Fler, infastidito, - ma le tende non solo le ho scelte io personalmente, ma le ho anche comprate coi miei soldi. Ciò significa che sono mie ed ho tutto il diritto di portarle via con me.
- E dovevi per forza portarti il tuo nuovo ragazzo, per smontarle?! – insiste Chakuza, mentre il suddetto nuovo ragazzo riesce con fatica a completare la rimozione della prima tenda e poi si ferma in contemplazione della seconda, cercando di studiare una strategia adatta per poter prelevare anche lei senza dover scendere fino a terra per spostare la scala in una posizione più comoda. – Peraltro! – coglie la palla al balzo l’uomo, - Devo dire che sei stato veloce a trovare un rimpiazzo, neanche una settimana e già te lo sei preso in casa. Quasi mi viene da pensare che magari ce l’avevi già prima di lasciarci e lo tenevi nascosto da qualche parte per ogni evenienza.
Fler spalanca gli occhi, oltraggiato.
- Non provarci nemmeno! – strilla, - Non provarci nemmeno, Chakuza! Sei tu lo stronzo che non è stato in grado di tenere a posto l’uccello, che non ti venga neanche in mente di pensare alla possibilità di insinuare che anche io ti tradissi, perché sai esattamente che non è così!
- Va bene, va bene! – strilla a sua volta lui, agitando le braccia in aria, - Allora dimmi, l’hai trovato che era già così oppure gli hai fatto rasare i capelli e gli hai spezzato le gambe asportandogliene un pezzo e cambiandogli anche lo stato di nascita solo perché mi assomigliasse di più? O forse sei andato fino in Austria a chiedere a mia madre lo stampo in gesso per fartene scolpire uno il più somigliante possibile?
- Non ho idea di cosa tu stia parlando! – borbotta Fler, arrossendo vistosamente. Il solo vederlo così ostinato nel negare un qualcosa di tanto palese fa andare Chakuza su tutte le furie.
- Oh, andiamo! – sbotta, allargando le braccia in segno di insofferenza mentre il fidanzato di Fler decide di afferrare la tenda ed utilizzarla come una liana per saltare dall’altra parte della scala e potere quindi maneggiarla con più facilità, - È identico a me, senza possibilità di scampo! Sarebbe quasi inquietante se… no, guarda, togli il quasi: è inquietante.
- Chakuza, vuoi magari per un attimo provare ad immaginare possibilità alternative rispetto a quelle che il tuo cervello sembra unicamente capace di considerare? – sbuffa Fler, incrociando le braccia sul petto, - Sai, non sempre il mondo intero delle persone deve girare attorno alla tua persona, come tu sembri assurdamente convinto!
- Fler, ma piantala! – lo rimbrotta lui, esasperato, - Se non fosse fatto apposta, mi spieghi per quale motivo dovresti venire qui in casa mia a sfoggiarlo con tanta sfacciataggine?
- Sfoggiarlo?! – esclama Fler, sconvolto, - Sfoggiarlo, Chakuza?! Ma chi sta sfoggiando cosa! Ma chi se ne frega di te! Mi serviva solo un aiuto per smontare le tende!
- Fler, è alto un metro e venti! – insiste Chakuza, gesticolando così furiosamente da colpire inavvertitamente il berretto che porta sulla testa, lanciandolo lontano, - Cosa te ne fai di un nano per smontare una tenda?! Ma ti rendi conto delle assurde follie che dici?!
- Non sto dicendo nessuna follia! – insiste Fler, aggrottando le sopracciglia, - Le scale servono a questo, no? A consentire alla gente diversamente alta come Klaus di—
- Klaus?! – strilla Chakuza, guardandolo con tanto d’occhi, mentre appunto Klaus, sentendosi chiamato in causa, si volta a guardarli e, nel movimento, riesce ad annodarsi la tenda attorno al collo, rischiando di impiccarsi, - Si chiama Klaus?! Ma io non ho parole, ma un nome più idiota poteva averlo?!
- Tu ti chiami Peter, non hai alcun diritto di sindacare sull’intelligenza o sull’idiozia dei nomi altrui. – taglia corto Fler con uno sbuffo inacidito, - In ogni caso, rassegnati alla realtà dei fatti: non avevo alcuna intenzione di farmi vedere da te col mio nuovo ragazzo, non pensavo neanche che saresti stato qui, e sai perché? Perché di te non me ne frega niente, ed anche se me ne fregasse qualcosa sarebbe solo nell’ottica di provare a fare tutto il possibile per evitarti accuratamente, perché la tua sola vista mi dà la nausea! Ecco.
Chakuza rimane immobile e silenzioso per un paio di secondi, fissando Fler come se non riuscisse a credere a quanto ha appena sentito, cosa che in effetti rispecchia esattamente la realtà. Nel frattempo, Klaus riesce a disincagliarsi dalla trappola mortale delle tende rampicanti assassine che Fler ha palesemente comprato e installato in casa di Chakuza proprio in previsione del fatto che prima o poi si sarebbero lasciati, appositamente per fargli dispetto, ed esala uno “sto bene! sto bene!” del quale nessuno prende nota.
- Tu sei ridicolo. – si rassegna finalmente ad esalare Chakuza, puntando un dito accusatorio a due centimetri dal naso di Fler, - Tu sei ridicolo e io non posso credere che tu mi stia davvero trattando come se non fosse evidente il motivo per cui ti sei messo con un tizio simile e poi me l’hai portato in casa.
- Chakuza, tu stai delirando. – cerca di zittirlo Fler, scrollando le spalle e guardando altrove, - Peraltro non vi somigliate affatto. – sbuffa, puntando il naso per aria.
- Sì, certo. – Chakuza soffia dal naso, indispettito, - Scommetto che mentre scopate inventi RPG in cui gli chiedi di fingersi un rapper.
- Dio— vaffanculo! – sbotta Fler, voltandosi a guardarlo di scatto, i pugni stretti e le braccia rigide lungo i fianchi, - Sai cosa, Chakuza? Indipendentemente da quanto possiate somigliarvi fisicamente, non l’ho scelto perché mi ricordava te, perché non lo fa. E sai perché non lo fa? Perché a differenza tua, lui non è uno stronzo, Chakuza, capito?! È un bravo ragazzo, una brava persona e soprattutto non è uno stronzo! Soddisfatto?
- Col cazzo. – ringhia Chakuza, fissandolo astioso. – Sai cosa? Sarebbe stato molto meglio se avessi mandato qui solo il tuo ragazzo. Tu potevi restartene a casa ed evitare di venire, sarebbe stato molto meglio, sarei riuscito a gestire molto meglio la presenza di un completo sconosciuto identico a me in casa mia e con in mano le mie chiavi, rispetto a come posso gestire la tua, brutto… brutta checca isterica con un palo infilato su per il culo!
- Ah, davvero?! – strilla Fler, spintonandolo a casaccio e costringendolo ad un passo indietro, - Davvero?! Allora preferiresti che me ne andassi via e vi lasciassi qui da soli, così magari puoi saltargli addosso e potrete litigare tirandovi i capelli a vicenda e tu potrai dare sfogo ai tuoi stupidi deliri da maschio alfa castrato e inutilmente geloso?! Oh! Ma che stupido sono! Non potrete tirarvi i capelli perché siete entrambi fottutamente calvi! Sì, Chakuza! Il mio nuovo ragazzo è calvo! Ma non ti passa neanche per l’anticamera del cervello che sia perché magari mi piacciono le teste rotonde e luccicanti, no, dev’essere per forza perché sono ancora inconsciamente innamorato di te!
- Adesso sei tu che stai proprio delirando, Fler. – taglia corto Chakuza, aggrottando le sopracciglia, - E levami le mani di dosso.
- Te le levo sì, le mani di dosso, sta’ tranquillo. – ringhia Fler, spintonandolo ancora una volta e poi frugandosi all’interno delle tasche dei jeans per tirarne fuori le chiavi dell’appartamento. Le lancia addosso a Chakuza con rabbia, e quelle gli sbattono contro il petto e poi scivolano sul pavimento prima che lui riesca ad afferrarle, atterrando con un tintinnio che stride alle orecchie di entrambi come se qualcuno avesse passato le unghie su una lavagna. – Klaus, ti aspetto di sotto. – borbotta quindi, abbassando lo sguardo e passando accanto a Chakuza senza degnarlo più nemmeno di un’occhiata, uscendo dall’appartamento e chiudendosi la porta alle spalle con un tonfo fragoroso. Klaus risponde con un sì allegro e chiocciante, palesemente sordo a qualunque cosa gli accada intorno e disinteressato ad ogni dettaglio che non sia una tenda.
Chakuza sospira, chinandosi a raccoglierle, e quando si risolleva in piedi per poco non gli tocca fare un paio di passi indietro quando nota che Klaus è finalmente sceso dalla scala portando con sé le tende, ed ora è lì a pochi centimetri da lui e le regge fra le braccia, avvolte così approssimativamente che quelle sfuggono strisciando fino a terra.
Ritrovarselo così vicino è raggelante. La somiglianza fa spavento.
- Ehm… - abbozza, - Ti serve qualcosa?
- In verità sì, - annuisce Klaus, posando le tende sul divano accanto a lui e tornando quindi a guardarlo, - puoi dirmi dov’è la camera da letto? Patrick mi ha detto che devo prendere le tende anche lì.
- Oh, ma vaffanculo, quelle le abbiamo comprate insieme! – protesta Chakuza, - Erano un regalo! – borbotta, guardando in basso. Metà delle cose presenti in quella casa sono state comprate nel corso dell’ultimo anno e mezzo, ovvero del periodo in cui ha condiviso l’appartamento con Fler. Le tende in camera da letto sono state la prima cosa che abbiano comprato insieme per celebrare il trasferimento, visto che fino a prima dell’arrivo di Fler la camera da letto di Chakuza era priva di qualsivoglia tendaggio, cosa che non aveva mancato di turbare Fler in maniere addirittura eccessive. Non riusciva proprio a capire come si potesse vivere in una casa priva di tende, o che per la maggior parte del tempo somigliava ad un magazzino polveroso più che ad un appartamento. Se Chakuza guarda la propria casa adesso, non può che notare quanto sia cambiata, e sa che tutti i cambiamenti, perfino quelli che ha deciso lui, in qualche modo sono stati comunque opera di Fler, perché non ci sarebbero mai stati se lui non fosse rimasto abbastanza a lungo da renderli necessari.
- Senti, non voglio rovinarti la giornata, - sospira Klaus, grattandosi nervosamente la nuca, il sorriso che si incrina appena, mentre Chakuza pensa che, che lui volesse o meno, ormai la giornata è rovinata comunque, - non volevo neanche venire, ma sono giorni che Patrick insiste per venire a prendere le sue cose e queste benedette tende, perciò ho pensato che il problema non fossero le cose e le tende in sé, potrebbe anche ricomprarsele, quelle, il problema era che aveva bisogno di tornare qui a prendersi la sua roba, e mi voleva con sé. Non so se mi sto spiegando.
Chakuza gli solleva lo sguardo addosso, studiandolo con attenzione.
- …credo di sì. – ammette in un mezzo sospiro, - Ma mi sembra una stronzata comunque.
Klaus ridacchia a bassa voce, stringendosi nelle spalle.
- La maggior parte delle cose che fai quando finisce una storia importante lo sono, no? – domanda retorico.
Chakuza sbuffa, stringendosi nelle spalle.
- Sarà. – concede, indicandogli il corridoio che si intravede dalla porta sulla sinistra, - La camera da letto è la porta in fondo al corridoio. Prendi tutto quello che devi prendere, io non ne voglio sapere più niente.
Klaus annuisce e lo ringrazia, incamminandosi nella direzione indicata, non prima di aver recuperato la scala, averla richiusa, essersela caricata in spalla ed avere pertanto rischiato di morire schiacciato dal suo peso.
Chakuza lo osserva inarcando un sopracciglio, e poi scuote il capo, sospira e si dirige verso la porta d’ingresso. Non si aspetta di trovare Fler ancora sul pianerottolo, ma è esattamente lì che lo trova, seduto sulle scale, che si rigira fra le mani un altro mazzetto di chiavi.
- Non avevo pensato che avevo ancora il doppione. – dice a mezza voce. Chakuza si inumidisce le labbra e si muove con circospezione, avvicinandoglisi e poi sedendosi al suo fianco, uno scalino più in alto, in modo da essere quantomeno alla sua stessa altezza. – Tieni. – dice, porgendogliele. Chakuza le accetta con un cenno e se le infila in tasca.
- Il tuo ragazzo, là dentro, mi sta derubando di tutte le mie tende. – gli fa notare scorbutico. Fler sorride appena.
- Tanto non le usavi, prima che io mi trasferissi qui. – scrolla le spalle.
Chakuza sa che non dovrebbe porgli la domanda che gli sta frullando in testa adesso, ma d’altronde non è mai stato granché bravo a trattenersi dal porre domande scomode, o dal dire cose fuori luogo, e onestamente non vede motivo per cui dovrebbe cominciare a farlo adesso, per cui si lascia libero di tentare.
- Perché così in fretta? – chiede a bassa voce, - Perché te ne sei trovato subito un altro?
Fler si volta a guardarlo, gli occhi spalancati. Chakuza ci si rivede dentro, e fa un po’ male pensare che, probabilmente, dopo questa conversazione non ci riuscirà mai più.
- Mi stai davvero ponendo questa domanda? – ritorce, - Potrei chiederti perché tu sia andato in giro a dar via l’uccello come fosse in saldo, e tu cosa mi risponderesti?
- Intanto ti risponderei che è stata una volta sola, Fler. – sospira Chakuza, passandosi una mano sul volto, - È stata una volta sola. È stato un errore.
- Una sola è quella con cui ti ho visto, Chakuza. – risponde Fler, scuotendo il capo, - Ma chi mi assicura che sia vero? Dovrei credere che c’è stata solo lei, come avevo creduto che invece non ce ne fosse nessuna? Ma poi, che differenza fa che sia stata una invece di duecento? Il fatto non cambia.
- Ho chiesto scusa. – insiste Chakuza, - Ti ho chiesto di perdonarmi, e tu—
- E io non l’ho potuto fare. – lo interrompe lui, guardando altrove. Scrolla le spalle come se non fosse niente di importante, ma Chakuza sa che non è così. Lo sanno entrambi. – Probabilmente questo mi rende un uomo peggiore, ma non riesco a perdonarti, Chakuza. Non riesco a pensare di poterti concedere un’altra occasione. Non voglio. – sospira, - Mi chiedi perché me ne sono trovato un altro così in fretta? Perché ne avevo bisogno, Chaku. Perché stavo male, mi sentivo solo e il fatto che tu mi avessi tradito non faceva che farmi pensare che non ero stato abbastanza, per te, che dovesse esserci qualcosa di sbagliato in me, perché non ero stato sufficiente. Quindi d’accordo, forse sto con Klaus perché mi ricorda una versione meno stronza di te, forse non lo amo e forse non dividerò con lui il resto della mia vita, ma ne ho bisogno. Lui lo sa. Non lo sto prendendo in giro. È molto più di quanto non facciano altri. Perciò non mi sentirò in colpa per questo, Chakuza, anche se ti ferisce. Forse… - aggiunge con un mezzo sorriso, - Forse è vero, volevo che lo vedessi, volevo che lo sapessi. Non me ne vergogno più di tanto.
- Quindi ammetti che ho ragione. – borbotta Chakuza, e Fler rotea gli occhi, concedendosi una risata dolceamara, - Sei venuto qui a sfoggiarlo. Non ho parole. In casa mia.
- Già. – annuisce Fler, lanciandogli un’occhiata vagamente divertita. Il suo sorriso, adesso, è diverso. Più maturo, quasi. Chakuza si chiede se anche lui possa vedere una differenza simile sul suo volto, in questo momento. Spera di sì, perché così almeno tutto questo avrà avuto un senso, e quando ci ripenseranno, fra cinque, dieci o vent’anni, a nessuno di loro sembrerà di aver buttato via del tempo inutilmente. – Puoi tenerle, le tende. – dice quindi.
- Oh, andiamo. – grugnisce Chakuza, - Il tuo uomo ci si è quasi impiccato, questo sempre ammesso che le tende in camera da letto non abbiano finito il lavoro cominciato da quelle in salotto. Portale con te.
- Davvero? – domanda Fler.
- Ma sì, ne comprerò di nuove. – scrolla le spalle lui.
- O forse non ne comprerai affatto. – domanda l’altro, colpendogli lievemente una spalla con la propria, prima di alzarsi in piedi. – Allora io vado giù. Davvero, questa volta. Klaus avrà quasi finito, tanto vale che cominci a mettere in moto.
Chakuza si morde un labbro ed allunga una mano a stringergli un polso. Fler lo lascia fare.
- Io ti amo ancora. – dice in un sussurro. Il sorriso di Fler si allarga appena, ed è incredibile come questo non faccia altro che rendere la sua espressione ancora più triste.
- Io non ho mai smesso. – risponde.
Quando prova ad allontanarsi, un secondo più tardi, Chakuza lo lascia andare senza trattenerlo.
Genere: Comico.
Pairing: Chakuza/Fler.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Slash, Crack.
- Alle prese col gatto più brutto del mondo. Or is it?
Note: (Yes, it is.)
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THE ASTRONAUT CAT

- È brutto da fare schifo.
Fler inclina la testa di trenta gradi, e Chakuza lo imita, cercando di seguire il movimento per guardare il gatto dalla sua stessa prospettiva. A lui non sembra tanto male, quindi magari la prospettiva di Fler è differente. Chakuza è un bravo fidanzato, gli interessano le prospettive differenti dalle quali il suo uomo può osservare gatti randagi piombati all’improvviso nel mezzo degli uffici della Beatlefield. Magari è un problema di statura? Forse Fler lo vede in maniera differente perché è più alto? Chakuza si solleva sulle ginocchia, tendendosi tutto in modo da cercare di raggiungere più o meno la stessa altezza di Fler seduto per terra con le gambe incrociate al suo fianco.
Niente, il gatto continua a non sembrargli niente di così orrendo.
- Non è malvagio. – commenta quindi, scrollando le spalle.
Fler si volta a guardarlo con lentezza innaturale, una smorfia sconvolta a deformare la linea generalmente così regolare e piacevole delle labbra.
- Chaku, è privo di peli. – comincia ad enumerare, - Ha solo un set di baffi ed è pieno di bitorzoli. E poi è tutto storto, e ha la faccia cattiva! Guarda qua come ci fissa. – conclude, indicando con un cenno del capo il micio, che in effetti li sta guardando entrambi come se l’idea di dover condividere dello spazio con loro lo disgustasse profondamente. Chakuza non capisce perché anche il gatto sia così preso male. Gli ha messo per terra una tovaglietta allegra e colorata, ha riempito una ciotola d’acqua ed è corso a comprare i croccantini per nutrirlo, e quello li ha appena degnati di un mezzo sguardo disinteressato. Dovrebbe essere affamato da morire, e invece eccolo lì che li guarda in cagnesco, come se poi fosse possibile per un gatto guardare in cagnesco chicchessia.
- Forse lo disturba il fatto che continui a fissarlo. – ipotizza.
- Smetterei, se non fosse così tremendamente brutto. Ma non riesco, è ipnotico. La sua bruttezza mi sconcerta. – risponde Fler, annuendo compitamente. Chakuza aggrotta le sopracciglia, perché adesso si sta proprio esagerando.
- Non è così brutto. – insiste, incrociando le braccia sul petto e sciogliendole quando la loro lunghezza insufficiente comincia a rendere la posa ridicola, - Ha un suo perché.
- E quale sarebbe? – domanda Fler, - No, aspetta, - lo interrompe appena lo vede aprire la bocca, - non voglio saperlo. Ma rimettilo in strada! – dice quindi, puntando un dito contro la finestra dalla quale il gatto è entrato un’oretta fa, e che è ancora aperta, in attesa di chissà cosa.
- Che? Ma perché? – sbotta Chakuza, avvicinandosi al gatto con tutte le intenzioni di stringerlo fra le braccia con fare paterno e protettivo. Il gatto, comunque, glielo impedisce, soffiandogli contro e rintanandosi in un angolo.
- Perché è evidente che neanche lui vuole essere qui. – spiega Fler, - Probabilmente si è perso. Veniva giù dal suo pianeta abitato solo da gatti orrendi come lui, ed è scivolato attraverso la tua finestra, schiantandosi al suolo. E tu, invece di lasciarlo pietosamente morire e poi buttare il suo cadavere nell’immondizia, hai dovuto per forza prendertene cura, anche se lui palesemente ti odia e vorrebbe trovarsi il più possibile lontano da te.
- Ok, prima di tutto, il gatto non mi odia. – sbotta Chakuza, offeso, aggrottando le sopracciglia, - Secondo poi, non era né morto né moribondo, quando è entrato dalla finestra, e non si è schiantato, è saltato come fanno tutti i gatti, atterrando sulle zampe. E terzo, non esiste nessun pianeta abitato solo da gatti orrendi, da nessuna parte nel cosmo.
- Il fatto che ti abbia sentito il bisogno di precisare prima tutto il resto e solo alla fine questo la dice lunga sul tuo conto, Chaku. – sospira Fler, scuotendo il capo e pinzandosi la radice del naso. – Comunque, non importa. Oltre ad essere brutto come la morte, è sicuramente anche ammalato, quindi buttalo fuori.
- Lo porterò dal veterinario. – scrolla le spalle lui, e mentre Fler esala un sospiro sconfitto torna a voltarsi verso la bestiola, ancora rintanata nell’angolo. – Coraggio, gatto, mangia. – lo invita, indicando la ciotola ancora piena di croccantini.
- Magari non ha fame. – ipotizza Fler. Chakuza si volta a guardarlo facendo tanto d’occhi.
- Ma è un randagio! – esclama, - Tutti i randagi hanno fame.
- Allora forse non è un randagio. – scrolla le spalle Fler, - Magari c’è una vecchia pazza che vive da sola nella sua casa-gattile, circondata da gatti orrendi come questo, tutti naturalmente provenienti dallo stesso pianeta abitato solo da gatti orrendi, che adesso va in giro per le strade di Berlino, roteando la propria borsetta consunta, piangendo e sputando per terra, stringendosi nel suo cappotto tarmato e unto, cercando il suo favorito perduto.
- Fler, ti stai lasciando trascinare un po’. – lo avvisa Chakuza, e Fler sbuffa, disinteressato.
- Sto solo cercando di dare un po’ di fascino alla sua figura. Almeno, con una storia interessante la sua esistenza avrebbe un perché. Così è solo un gatto alieno orribile e puzzolente.
- Ma la vuoi piantare con questa storia del pianeta alieno abitato solo da gatti orrendi?! – sbotta Chakuza, sul punto di perdere la pazienza, - E poi ti ho già detto che non è così orribile! Abbi un po’ di rispetto per le sue sfortune, non tutti nasciamo biondi, alti due metri e con gli occhi azzurri.
- È vero, alcuni di noi nascono pelati, alti un metro e venti e con le braccia corte. – ammette Fler, annuendo compitamente, - Ora capisco per quale motivo vuoi tenerlo con te: ti ci rivedi.
- D’accordo, hai passato il limite. – borbotta Chakuza, e sta quasi per saltargli addosso e prenderlo a legnate come un bravo fidanzato sempre dovrebbe fare nei confronti della propria fidanzata quando finisce per parlare a vanvera troppo a lungo, quando all’improvviso la porta si apre e Bushido fa irruzione all’interno degli uffici della Beatlefield come se ne possedesse le chiavi, cosa peraltro non del tutto impossibile, dal momento che i soldi per la caparra dell’acquisto dell’edificio li ha avanzati lui, e Chakuza ancora paga interessi al suo commercialista, al riguardo.
- Ah, siete qui entrambi, bene. – commenta l’uomo, annuendo, - Dite un po’, avete mica visto un… Gatto! – strilla quindi, gli occhi che si riempiono di gioia e affetto nell’individuare la figura dell’orribile randagio rannicchiato in un angolo, - Eccoti qui. – dice con bonaria pazienza, allargando le braccia in un gesto di ecumenico amore talmente grande e pio da far quasi venire voglia a Chakuza e Fler di lanciarsi contro di lui per un abbraccio. Fortunatamente, riescono a mantenere abbastanza compostezza da non cedere al malsano impulso. Cosa che invece il randagio si lascia liberissimo di fare, srotolandosi e scattando come una molla per saltare fra le braccia dell’uomo, appollaiandosi poi sulla di lui testa. – Grazie per averlo trovato, l’ho perso poco fa e non riuscivo a capire dove fosse andato a cacciarsi.
- Cioè, questo gatto è tuo? – borbotta Fler, gli occhi spalancati, indicando l’animale acciambellato e ronfante sulla testa del suo migliore amico.
- Sì. Be’, temporaneamente. L’ho trovato per strada. – annuisce lui, - Sapete bene quanto mi stia a cuore la sorte degli sfortunati che posso salvare dai loro miseri destini. È quello che è successo anche con voi, d’altronde.
Chakuza aggrotta le sopracciglia, offeso da ciò che le parole di Bushido implicano.
- Potresti cortesemente non venire qui in casa mia a fingere di avermi salvato da una vita di stenti solo perché dieci anni fa ho avuto la malaugurata idea di inseguirti e farti ascoltare un sample dopo un concerto? – domanda. Bushido ridacchia, totalmente disinteressato alla protesta.
- Aspetta, aspetta… - riprende Fler, grattandosi la nuca, - Cosa vorrebbe dire che è tuo “temporaneamente”? – chiede, - Lo hai preso con te per nutrirlo e insegnargli a dormire sulla tua testa, e poi lo rimetti per strada? Voglio dire, non sarebbe la prima volta che lasci a piedi qualcuno dopo avergli insegnato a venerarti come un Dio… - aggiunge tagliente, - Ma speravo almeno che con gli animali innocenti, per quanto spaventosamente brutti, tu potessi mostrare un po’ di cuore.
Bushido sorride misterioso, stringendosi nelle spalle.
- Questo è un segreto. – cinguetta, prima di voltare loro le spalle. – A presto!
I due lo osservano abbandonare la stanza, allontanandosi per i corridoi degli studi fischiettando piacevolmente. Stanno ancora guardandosi negli occhi con fare stupito quando un boato assordante li costringe quasi a rotolare per terra.
- Ma cosa cazzo…? – biascica Chakuza, guardandosi intorno spaesato. Fler scuote il capo e lancia un’occhiata alla finestra ancora aperta. Il suo volto si cristallizza in un’espressione colma di sconcerto.
- …Chaku… - annuncia, indicando fuori con una mano tremula. Chakuza si alza in piedi e gli si sistema accanto, osservando un palese disco voltante che si allontana a velocità sostenuta attraverso i cieli di Berlino, lasciandosi dietro una simpatica scia di nuvolette bianche. - …questo è troppo demenziale perfino per noi. Non può stare accadendo davvero.
La porta dell’ufficio si riapre pochi istanti dopo, e Bushido appare sulla soglia. Il gatto non c’è più. Naturalmente.
- Oh, eccovi qui. – dice l’uomo, sorridendo cordiale, - Vi va una birra?
Chakuza e Fler si guardano e poi lanciano a Bushido un’occhiata incerta.
- Bu… - prova timidamente Fler, - Che fine ha fatto il gatto?
L’uomo sbatte le palpebre un paio di volte, incerto.
- Quale gatto? – domanda. Chakuza e Fler deglutiscono.
- Lascia perdere. – conclude Chakuza, scuotendo il capo, e poi sospira. – Direi che una birra ci sta tutta.
Fler non commenta, ma non può fare altro che essere d’accordo.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash, Fluff.
- "La convivenza, per me e Chakuza, è stata una conquista."
Note: Prima di tutto: questa fic, nata assolutamente dal nulla lasciando parlare a ruota libera Fler come non facevo da un po' (amoti, Bimbo mio bellissimo, l'affinità che ho con te come pg non l'ho più trovata con nessuno <333 *dichiarazioni randomiche e totalmente inutili*), è un regalino per Tab, che oggi compie gli anni <333 Ti vu bi, principessa <3 Secondariamente, sto scrivendo fluff all'impazzata a causa della Fluff!Week @ fiumidiparole, e questa è la seconda entry su prompt Domestic!Fluff, perché il Flerkuza domestico ci piace tantissimo <3 E poi, mmh, nient'altro da segnalare, mi pare. Buona lettura \o/
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Living With Your Boyfriend


La convivenza, per me e Chakuza, è stata una conquista. E questa è la prima cosa che bisogna sapere quando ci si impiccia delle nostre faccende, perché nulla di quello che facciamo o di ciò che ci concediamo può essere veramente compreso se prima non si capisce che la situazione attuale – una situazione in cui io e lui non è che ci si faccia i cazzi nostri per tutto il giorno, poi si torni a casa, si scopi e quindi si ricominci a fare ognuno i cazzi propri, no, una situazione in cui si esce insieme dopo aver fatto colazione ed essersi alternati al lavandino e al cesso in bagno, si trovano venti minuti per incontrarsi ad ora di pranzo e poi si torna a casa insieme così si può passare a far la spesa e cucinare e guardare la tv e poi sì, scopare, ma dormire insieme fino all’indomani mattina, anche – questa situazione, insomma, è il risultato di una serie di guerre che io e Peter abbiamo combattuto contro noi stessi prima, l’uno contro l’altro poi, e assieme contro il resto del mondo alla fine. Che se suona come una cosa complicata, è solo perché lo è.
Quando ho capito che mi piaceva il nano pelato amico di Bushido, prima di venire a patti col fatto che mi piaceva un uomo, sono dovuto venire a patti col fatto che mi piaceva un nano pelato. Un conto è scoprirsi gay, un altro scoprirsi privi di buongusto, se permettete. O, quantomeno, scoprire che, se pure un po’ di buongusto è rimasto dentro di te, non ti è minimamente utile nello scegliere la cosa più importante di tutte, ovvero con chi intendi passare il resto della tua vita. Perciò io, mentre mi angosciavo disperatamente sul fatto di essermi riscoperto gay, ero impegnato anche ad angosciarmi perché l’uomo di cui mi ero invaghito era un rospo dalla voce rauca, dei modi da buzzurro di montagna che la metà bastano e gli occhi più belli che avessi mai visto in vita mia. Che son cose che ti possono turbare nel profondo.
Chakuza, peraltro, non è che stesse poi tanto meglio di me, suppongo. Anche lui, oltre al fatto di dover venire a patti con il proprio orientamento sessuale nuovo di zecca, doveva pure ragionare sui pro e sui contro dell’essersi invaghito di un armadio a due ante largo quanto lui ma alto almeno il doppio. Pro: può recuperarti i barattoli sugli scaffali più alti della dispensa; contro: tutto il resto.
Insomma, quello che intendo dire è che sia per me che per Chakuza non è mica stato facile, né si è trattato di una passeggiata. I primi tempi, quando abbiamo cominciato a capire che qualche ingranaggio si stava invertendo avvicinando cose che avrebbero dovuto stare lontane e confondendo pensieri che avrebbero dovuto rimanere estremamente lucidi, ci siamo terrorizzati a morte. Del tipo che, non essendo per niente pronti ad affrontare ciò che ci attendeva sull’altra sponda, siamo spariti l’uno dall’orbita dell’altro e per circa tre mesi non ci siamo avvistati manco col cannocchiale.
Solo che poi, boh, queste cose succedono, alle volte, no? Tu puoi anche opporti a quella cosa che ti spinge inesorabilmente verso l’altra persona, però arriva un certo momento in cui ti stanchi, ti senti proprio spossato e non ce la fai più, e guardi quella persona dalla distanza che ti sei faticosamente conquistato e ti chiedi “ma perché lo sto facendo?”, e il secondo dopo sei già lì al suo fianco. Per dire, a me e a Chakuza è successo così. Ci siamo allontanati, ce l’abbiamo messa tutta, poi semplicemente ci siamo ritrovati l’uno di fronte all’altro ed abbiamo capito che tutta la forza d’animo che stavamo impiegando e tutta la soddisfazione che forse un giorno avremmo provato – quando, sposati e con figli, avremmo riguardato indietro e ci saremmo ricordati di quella stupida cotta per quel tipo che girava con Bushido vent’anni prima – non sarebbe riuscita a coprire neanche in parte l’emozione trascinante che provavamo quando ci avvicinavamo l’uno all’altro o riuscivamo fortunosamente a sfiorarci. Per cui niente, ci siamo sfiorati. E non fortunosamente, bensì perché lo volevamo. Più e più volte, finché non è diventata la norma.
E non è stato facile neanche che diventasse la norma, beninteso. Io ero di quelli che credevano che, al di là dell’attrazione fisica che, volendo, ci può pure stare, per due uomini non fosse veramente possibile stare insieme. Per tutta una serie di motivi per lo più caratteriali, ma anche di semplice incastro fisionomico  o chimica emotiva. “Ci sono cose che semplicemente non potrebbero funzionare mai”, mi dicevo, e ci credevo. Tipo i weekend di campionato, no? Quando stai con una donna, sai già che in quei giorni là lei s’imbroncerà perché tu non le starai abbastanza dietro, e poi nella peggiore delle ipotesi uscirà con le proprie amiche lasciandoti lì a morire di fame in attesa del suo ritorno, mentre tu del fatto che stai morendo di fame nemmeno te ne accorgi perché sei troppo impegnato a seguire le partite.
Con un maschio, specie se tifa per una squadra diversa dalla tua, sai già che sarà guerra. Lo sarà già in caso di partite normali, per questioni di classifica, qualificazioni e tutto, ma sarà anche peggio in occasione degli scontri diretti – e lì, apriti cielo, spalancati terra, rovesciati mare e tutto il resto.
Ma mica solo quello, poi. Per dire, se la casa è un bordello, piovono calzini e cibi avariati già da mesi camminano liberi sulla moquette del salotto salutandoti mentre si spostano gioviali da una stanza all’altra, puoi stare sicuro che l’altro non alzerà un dito per rassettare così come non l’hai sollevato tu. È matematico. E se c’è qualche riparazione da fare in casa, sai già che sarai disposto perfino a stordirlo con un colpo di chiave inglese in testa pur di zittirlo mentre tu cerchi di far funzionare tutto e lui continua a blaterare che “dovresti proprio lasciar fare a lui, che sa dove mettere le mani e il problema lo risolverebbe in dieci secondi netti”.
Queste cose, tu le sai perché conosci te stesso e sai che è così che ti comporteresti anche tu. Le donne esistono perché, non conoscendole, tu possa cadere nella trappola del “forse siamo diversi, forse magari funziona!”, e poi ti convinci che abbia funzionato proprio per quello, ma la verità è che hai solo imparato a contenerle, come le frane. Mettersi con un uomo è da masochisti, perché già sai a cosa vai incontro, e per di più non puoi contenere il tuo compagno perché sarebbe da ipocrita. In pratica ti autocondanni a una vita di tortura. Deve essere una qualche disagio psicologico medicalmente riconosciuto – ripeto, non volere andare a letto con un maschio, per carità, mavolerci vivere assieme, Diosanto.
Questo per dire che, se fra me e il Chaku ha funzionato, alla fine di tutto, è stato perché noi ci siamo ostinati. Perché abbiamo discusso della faccenda – no, seriamente! – e ci siamo detti vicendevolmente che poteva valere la pena di provarci, anche se i primi tempi sarebbe stato uno schifo, perché oh, quando ti innamori puoi anche star lì per dei secoli a ripeterti che ma va’, non è mica amore, è solo che ci stai bene con quella persona, tutto qui, però poi alla fine succede che tu magari stai cristonando in tre lingue diverse perché hai sbattuto il ginocchio contro uno spigolo e la persona con cui stai ti sorride e ti dice “dai, ci penso io”, e a te nasce spontaneo un sorriso idiota e totalmente ebete sulle labbra e allora lo capisci che non ci stai solo bene e basta, c’è qualcosa di molto diverso e più profondo, in ballo. Poi magari non lo dici ad alta voce, però lo capisci.
Io e il Chaku, fortunatamente, siamo anche due senza peli sulla lingua, in generale, quindi non l’abbiamo solo capito o pensato, no, ce lo siamo pure detto. Un sacco di volte. Il che è stato pure un bene, perché ci sono stati dei momenti in cui niente funzionava, non riuscivamo a vederci, il mondo era in delirio e noi non riuscivamo ad affrontarlo nel modo migliore perché lui magari era a Berlino e io perso in giro per la Germania in tour con Bushido, e in quei momenti, al di là dell’imbarazzo, sentirsi dire “ti amo” al telefono, o svegliarmi dopo una nottata di merda a trovarlo scritto in un sms, mi ha aiutato a ricordarmi per cos’è che stavo combattendo. Questo per dire che la maggior parte delle volte una persona che ti ama non ti serve per sopravvivere, ma di sicuro ti rende la vita più semplice. E poi è bello.
In generale, far funzionare tutto non è stato facile anche perché il resto dell’universo ci ha reso le cose complicate. Non è che possono essere tutti come Bushido, d’altronde, che quando sono andato a dirgli “sono gay” e subito dopo “sto con Chakuza” prima è scoppiato a ridere e poi, tornando serio, ha risposto “e dove sarebbe la novità?”. Purtroppo— cioè, non purtroppo, è così e basta: il mondo dei rapper è un mondo in cui l’unico modo di farti capire dagli altri è insultarli. Ciò implica che se io voglio dire di Tizio che non mi piace il suo modo di intendere il rap, per dire, se io voglio far sapere alla gente che non condivido certi suoi ideali, anche di una certa serietà o importanza, prima di tutto devo dargli del frocio. Così mi assicuro l’attenzione di tutte le orecchie disponibili, e solo dopo posso partire a ruota libera ad esporre le mie idee. Per farla breve, è un po’ la replica ripulita del ghetto, dove per far capire alla gente che anche tu hai diritto di parola tendenzialmente devi tirare fuori il serramanico. Quando cominci ad andare in televisione anche in fascia protetta, naturalmente, il serramanico devi buttarlo nel primo sacchetto dell’immondizia e sperare che nessuno lo trovi mai o possa ricondurlo a te, ma puoi usare le offese e le parolacce, e quindi è così che si fa.
Quello che intendo dire è che, in un mondo in cui “frocio” è l’insulto per eccellenza, esserlo davvero è un po’ come essere quell’insulto stesso. I mesi che hanno seguito il nostro coming out – non che abbiamo organizzato una conferenza stampa o che, naturalmente, che diamine, ma è venuto fuori, dopo un po’, che lo volessimo o meno, prima come sospetto e poi come qualcosa di molto più concreto, foto, articoli e via così – insomma, quel periodo lì è stato tremendo. Non solo siamo stati ricoperti di diss, ma ci siamo ritrovati per caso pure in diss rivolti ad altri in cui rapper che prima di quel momento non contavano un cazzo non vedevano l’ora di poter mettere i nostri nomi in una canzone random per avere più visibilità. Ed abbiamo dovuto ingoiare tanta di quella merda che mi meraviglio di come sia stato possibile non morirci sepolti sotto, o venirne fuori insieme nonostante tutto. Specialmente quando l’aiuto più concreto che avevamo era quello di Bushido che, più che dirci “eh, ma dico io, cosa vi aspettavate?” e farci circondare per ventiquattro ore al giorno dalle sue guardie del corpo, oggettivamente, non è che potesse fare.
Quello che voglio dire, con tutto questo, è che io sono molto grato. Intendo, di avere Chakuza. Di potermi svegliare ogni giorno e trovarlo al mio fianco, di avere la certezza che sarà lì anche alla sera, di sapere al di là di ogni ragionevole dubbio che starà lì sia che io abbia bisogno di lui sia che invece non mi serva, solo perché è  che vuole stare. È una fortuna che molti hanno e di cui non si rendono conto perché il più delle volte non hanno davvero dovuto combattere per conquistarsela. Io sì, però, quindi so cosa significa. So quanto abbiamo dovuto sacrificare per ottenere i pranzi domenicali insieme, per guardare la Formula 1 in tv senza sentire il bisogno fisico di ammazzarci a vicenda coi coltelli per la carne. So cosa vuol dire per noi avere entrambi le chiavi di casa, so cosa vuol dire considerare quest’appartamento nostro, so cosa significa rifiutare gli inviti ad uscire il sabato sera perché vogliamo stare soli. So cosa vuol dire litigare per una cosa che non va e so quant’è bello trovare l’accordo per riuscire a farla andare di nuovo. So come e perché adesso abbiamo tutto questo, e so che non potrei rinunciare ad averlo per niente al mondo.
Ogni tanto, Chakuza non lo capisce per quale motivo, tornando a casa dopo una lunga giornata di lavoro, lo bacio e lo ringrazio. Io, però, lo so. E sono certo che, anche se magari sul momento non lo afferra, in realtà lo sa anche lui. E per dire la verità sono molto grato anche di questo.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Genere: Comico.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Gen, Slash (lievissimo), Idiozia (è un avviso anche lei), Metafic (nel senso che il Chaku vi parla. Sì, proprio a voi).
- "Il risultato del mio menefreghismo è che tre giorni dopo mi trovo di fronte a un letto, mi volto a guardare Fler e gli chiedo perché."
Commento dell'autrice: Ogni tanto, è palese, sento il bisogno di prendere in mano della gente e fargli dire follie X'D Il Chaku si presta troppo bene allo scopo, e siccome mi serviva poter parlare - e farlo in un determinato numero di parole che non fosse due, magari - mantenendo il tutto al di sotto del rating PG, la mia scelta è ricaduta su di lui. Ora so che vi state chiedendo come abbia fatto ad obbligarlo a mantenere l'uccello nelle mutande per tutte le quasi duemilacinquecento parole della storia, lo so. Chaku è stato molto responsabile e mi ha aiutato, quindi fategli i complimenti. Ad ogni modo, questa shot è stata principalmente ispirata dai vaneggiamenti con Fedy e Tab su Twitter in seguito alla visione del making-of del video di Monster, primo singolo del nuovo album del Chaku di prossima uscita, e partecipa alla prima settimana del WWF @ Fiumidiparole, su prompt letto.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Monster


Innanzitutto, prima di passare a quello che è il vero motivo per cui vi sto parlando, vi dico subito schiettamente che io e Fler – sì, Patrick Losensky, quello là, quanti Fler volete che esistano al mondo? È uno pseudonimo già abbastanza ridicolo perché un uomo solo se lo accolli, figurarsi più d’uno – stiamo insieme, e i percome e i perché non vi interessano minimamente, anche perché per raccontarli dovrei rivelarvi tutta una serie di particolari scabrosi che obbligherebbero il rating di questa storia a crescere esponenzialmente, che è un qualcosa che io e l’autrice non possiamo permetterci, se vogliamo il nostro panda verde su FDP, per cui aria. E poi comunque ‘cazzo ve ne frega di come io e Fler ci siamo messi insieme? Saranno anche fatti nostri, Dio mio, già mi basta Bushido che interferisce nella mia vita privata come se ne fosse il padrone, non lascerò che v’impicciate anche voi, che peraltro siete un mucchio di sconosciuti che chi v’ha mai visto.
E allora voi giustamente mi chiederete “e perché stai parlando, adesso?”, e la risposta è molto semplice: Fler – col quale sto, ma questa pratica l’abbiamo già esaurita – è convinto che io soffra di un qualche complesso la cui entità e natura vi spiegherò a breve, e s’è messo in testa di farmi fare cose per provare se questa sua ipotesi fosse vera o no. Questa storia altro non è che il risultato delle nostre ricerche, ed esiste solo per testimoniare che no, non soffro di alcun complesso di nessun tipo, quindi il punto non è che voi la leggiate, bensì che esista. Potete anche andare, ora, se volete.
Per quelli di voi che sono rimasti: dunque, Fler s’è convinto che fra me e il mio berretto sussista un rapporto morboso, che non vuol dire che io e il berretto facciamo le cosacce di nascosto – e anche se fosse non potrei dirvelo, sempre per la questione del rating, che posso solo immaginare quanto alto debba diventare quando copre feticismi simili, ma comunque così non è – vuol dire semplicemente che lui s’è convinto che io, senza, non saprei stare. E se n’è convinto solo perché ci vado sempre in giro, non me lo tolgo mai in casa ed è l’ultima cosa che sfilo prima di andare a dormire. Sì, esco dal bagno con l’accappatoio e il berretto in testa, infilo il pigiama col berretto e lo tolgo solo una volta spenta la luce, poggiandolo sul comodino a portata di mano, pronto per essere indossato se durante la notte arrivano ospiti a sorpresa, o comunque quando l’indomani mattina devo alzarmi per sbrigare tutte le faccende prima di andare a lavoro.
Ecco, solo in base a questi piccoli dettagli, Fler s’è convinto di chissà cosa, quando non è vero niente, naturalmente. Io non ho un problema con la mia testa, è solo che è normale che uno non è che ha voglia di andare mostrando in giro le proprie nudità così randomicamente! Cioè, dirti che sei dipendente dal tuo berretto è come dirti che sei dipendente, chessò, dalle tue mutande! Non è che muori se non ce le hai, però ti servono! Anche perché, se non le hai addosso e per caso ti cadono i pantaloni mentre sei in mezzo alla strada, la buoncostume ti arresta, peraltro. Non è dipendenza, è che vanno messe. Così per dire, se io esco senza berretto, posso pure mettermi il cappuccio della felpa, ma se per caso arriva una folata di vento e me lo soffia via? Arriva la buoncostume e mi arresta. Che magari non proprio, ma era per seguire l’esempio.
Ho cercato di spiegare a Fler questo semplice concetto, ma lui mi ha guardato con l’occhio pallato di quello che non ha sentito una parola del tuo intelligentissimo e complesso discorso, e poi mi ha detto “sì, va be’, ma comunque tu ne sei dipendente, punto e basta”. Al che io mi sono pure incazzato, perché voglio dire, un conto è se un tipo a caso, tipo te che leggi lì in prima fila o tu che stai più indietro e saltelli per arrivare a vedere lo schermo del pc visto che tutti quelli più alti di te si sono messi davanti – ti comprendo, tieni duro, ti sono vicino, fratello – prende e ti dice “ma tu sei dipendente dal tuo cappello”, che puoi mandarlo a fanculo e fregartene; cosa completamente diversa è se te lo dice il tuo ragazzo, cioè, diventa una questione di principio: tu con questo tipo ci devi convivere, devi tenere a lui, devi volergli bene ed essere tenero, e sono cose che non puoi fare quando, guardandolo negli occhi, hai la consapevolezza che lui in quel momento sta pensando che tu sei dipendente dal tuo cappello.
Insomma, lo guardo e gli faccio “no”. E lui “provalo”. Così, come se fosse normale chiedere al tuo ragazzo di provarti che sai vivere senza il tuo fedele cappello. Io, però, che sono buono e innamorato, non gli faccio storie, e rispondo “va bene”, annuendo tranquillamente, “ora esco e mi faccio un giro attorno al palazzo”. E lui prende e scoppia a ridere. “E pensi che mi basti?”, mi fa, e nei suoi occhi brilla la fiamma della tortura, “Magari esci e qui intorno non c’è nessuno, cosa anche probabile, visto che è mezzanotte passata e fa un freddo boia. No, no,” insiste, e se ne esce con un ragionamento anche sensato, “la prova deve essere più schiacciante, e deve rimanere nel tempo così che tu possa dimostrare tanto per cominciare che stare senza non ti fa paura, e tanto per continuare che non ti fa paura pensare che l’immagine di te senza berretto possa essere tramandata ai posteri”. Dico io, rispetto. C’è qualcosa che lavora, dentro la sua testa.
Evidentemente sconfitto sul piano logico, annuisco. “D’accordo,” gli dico, e visto che palesemente regge lui le redini di tutto ciò, aggiungo “decidi tu come”. La luce nei suoi occhi si fa più brillante, e lui sorridendo fa “penserò a qualcosa”, ma io già so, perché glielo vedo negli occhietti azzurri e vispi, che lui già sa, e questo è solo un modo per tenermi sulle spine mentre la sua testa lavora e lavora e lavora allo scopo di rendere ciò che ha pensato ancora più demoniaco e terribile di quanto fosse quando l’ha concepito in primo luogo. Perciò deglutisco, e aspetto l’indomani mattina col sacro terrore dei condannati a morte.
L’indomani mattina, Fler aspetta che io sia ben sveglio – perché sia mai darmi la possibilità di potergli poi dire “ma ero ancora in dormiveglia, le mie decisioni prese in orari critici dalle sette alle otto del mattino e dalle dieci alle undici di sera non sono considerabili intenzionali e coscienti” – e poi mi fa “Seeeenti”, che io già mi preoccupo, perché lui quando comincia ad allungare le vocali in quel modo o è ubriaco o vuole proporti cose potenzialmente pericolose per la tua salute psicofisica, tipo quando m’ha proposto di andare a cena da sua madre, “Seeeenti, pensavo, fra poco esce il tuo album, no? E dovrà pure uscire un singolo, no?”, e me lo dice con candore, come se io una settimana fa non l’avessi stordito di chiacchiere per ore e ore intere, felice com’ero perché riprendevo a lavorare. “Sì,” ammetto, perché so che tanto non ne usciamo se non gliela do vinta, “Sì, è così. Abbiamo scelto Monster, alla fine, te l’ho pure detto,” gli ricordo. Lui annuisce come se lo stesse scoprendo adesso, prendendosi il tempo di digerire la notizia assieme alle frittelle.
“Allora pensavo che magari potresti provare che sai vivere senza berretto mentre girate il video, no?” fa, e io per un secondo lo guardo interdetto, e c’avrei anche voglia di rispondergli “Fler, io ti amo, e va bene tutto, ma non puoi rompermi i cosi che non posso nominare pena rating che si alza almeno al PG-13 mentre lavoro, perché ti rendi conto che non è giusto”, solo che poi comprendo. Lui sa che le riprese del video saranno lunghe e ripetitive e che potenzialmente le scene saranno calcate da decine di persone. Sa nondimeno che tutto quello che passerà l’esame della sala di montaggio finirà in un video che rimarrà ad imperitura memoria di quel giorno, e che sarà mandato in onda decine di volte al giorno. E sa anche che tutto ciò che invece non passerà il giudizio finirà nel making of che poco ma sicuro sarà distribuito al popolo di internet anche prima che il video effettivo veda la luce.
Insomma, sono fregato.
Sconfitto di nuovo, allungo le braccia verso il basso, rassegnato. “D’accordo,” biascico, “ma facciamo in fretta. Hai già qualche idea?”, e lui sorride come a dirmi “ma è ovvio che ho già qualche idea, per chi mi hai preso”, che io vorrei dirgli “per un rapper, ti ho preso, tu non dovresti avere idee, solo concetti volgari e ripetitivi da cantare in una nenia amelodica per i palchi di tutta la Germania”, ma non ne ho il tempo, perché lui mi tira fuori dal niente un taccuino stropicciatissimo che mi sventola sotto il naso e poi apre, tenendolo ben sollevato di fronte alla mia faccia, di modo che io possa leggere i suoi appunti.
Davanti ai miei occhi si dispiega una fanfiction ambientata in un ospedale-manicomio in cui un medico pazzo fa esperimenti su esseri umani vivi trattandoli come fossero carne da macello, assistito da infermierine che indossano occhiali che presupporrebbero la presenza di rating ben più alti di quelli che posso concedermi, e altrettanto indecenti quanto vertiginose minigonne. Per un secondo, ammirato, accarezzo l’idea di passare il taccuino di Fler all’autrice e dirle di tirar fuori qualcosa da lì, se proprio vuole. Poi ricordo che le serve massimo il PG, e mi fermo.
Frattanto, Fler parte a stordirmi con particolari oggettivamente inutili della narrazione tipo che da qualche parte debbono esserci ritagli di giornale in italiano perché “se le notizie non arrivano in Italia sono poco credibili, e un mattatoio umano ci arriverebbe di sicuro, in Italia, figurarsi”, che poi chi gliel’ha detta ‘sta cosa?, e comunque se fossi solo un po’ meno stordito potrei anche urlargli “chissenefrega!”, ma non posso, perciò a un certo punto mi abbatto sul tavolo e dico “Va bene! Va bene! Basta. Chiama Bushido”, perché poi io non ne ho la forza.
Fler, tutto felice come se gli avessi appena chiesto di sposarmi o chessò io – ma i matrimoni gay o presunti tali ci rientrano nel PG? – chiama Bushido e comincia a confabulare con lui. Io neanche li ascolto perché so che, se anche sentissi qualcosa che non mi va, poi le mie proteste sarebbero inutili. Quindi preferisco non sapere, direttamente.
Il risultato del mio menefreghismo è che tre giorni dopo mi trovo di fronte a un letto, mi volto a guardare Fler e gli chiedo perché.
“Tanto per cominciare, definirlo letto non è esatto,” comincia lui, quasi personalmente offeso dalla mia ignoranza, “È un letto ospedaliero. Bisogna essere precisi.”
“Un letto ospedaliero,” annuisco io, giusto per dargli il contentino, “E cosa ci dovrei fare?”
“Be’,” motiva lui, tutto orgoglioso, “se volevo che ti togliessi il cappello, non poteva essere una cosa immotivata, visto che tu di tuo non lo fai mai. I tuoi fan si sarebbero risentiti. Perciò dovevo darti un pretesto, e il pretesto è che tu devi impersonare uno dei pazienti di Dottor Morte, qua,” dice, indicandomi il tizio che interpreta il macellaio e che mi saluta da dietro la sua mascherina di Hannibal Lecter, brandendo la sua motosega giocattolo coi guantini gialli macchiati di sangue in pendant col camice. “Solo che questo vorrà dire che non potrai toglierti solo il berretto, ma anche tutti gli altri vestiti. Uno non è che si fa macellare se non è nudo.”
“Eh no, certo,” borbotto io, come fosse normale che uno possa volersi far macellare, nudo o vestito che sia, “Immagino che questo sia il motivo per cui tu sei qui oggi. Non potevi perdertelo.”
“Prima di tutto, il mio dovere è testimoniare il momento in cui ti toglierai il berretto,” dice compitamente lui, e poi si lascia sfuggire una risatina: “Ma sì, non potevo perdermelo.”
Io sospiro e già non ne posso più e me ne voglio tornare a casa. Lui mi sfila il berretto e l’accappatoio, e io rimango lì in mutande a guardarlo con aria colpevole, come se questo potesse aiutarmi in qualche modo a risolvere la situazione.
“Come sto?” chiedo. Lui ride, il bastardo.
“La tua testa sembra un ginocchio,” mi informa. Io sospiro ancora, mi giro e mi allontano verso la scena. Da dietro lo sento che mi urla “Vai, testa-a-ginocchio! Mostrati al mondo!” mandandomi bacini via aerea, che io ho quasi voglia di chiedere al Dottor Morte se non abbia anche una motosega vera, da qualche parte, per usarla nel modo più appropriato.
Così, passo le successive due ore della mia vita ad agitarmi come fossi posseduto su un letto – un letto ospedaliero, che sennò Fler si offende, lui e la sua mania per le fanfiction dettagliate, che ti potrebbe stare ore a descriverti la poltrona della sala d’aspetto del medico da cui il protagonista va solo una volta nel primo capitolo per poi dimenticarsi della sua esistenza fino alla fine – ringhiando e sbavando ma soprattutto mostrando al mondo il mio glabro e pallido corpo, perché dove madre natura non ha già provveduto a far scomparire dalla mia pelle ogni traccia di pelo con cui in teoria dovrei essere nato, ho provveduto io, depilandomi autonomamente, tipo sul petto. Un rapper non può essere peloso. Nessuno di noi lo è. È fra le regole che Bushido ti impone quando entri all’Ersguterjunge. Non sono ammessi peli al di fuori della testa, delle gambe, delle braccia, dell’inguine e dell’interno delle narici. Io ero avvantaggiato, quando ci siamo incontrati.
Insomma, quando mi risollevo, eternità dopo, Fler sta ridendo come un mentecatto e nel mentre ha chiamato pure qualche amico che s’è goduto lo spettacolo e poi s’è allontanato prima che io potessi raggiungerlo e divorarlo. Mi avvicino e lo guardo malissimo e lui si asciuga una lacrima dall’angolo dell’occhio, e poi si china e darmi un bacio a caso di quelli a stampo, infantilissimi e cretini, sulle labbra, che io dico va be’ e in pratica l’ho già perdonato, perché sono glabro, pallido, nano e pure col cuore di panna. Tutte le sfighe, oh. E sono pure dipendente dal berretto, alla fine, perché quando mi abbraccia e ondeggiando mi dice che il peggio è passato, io piagnucolo “sì, però il resto del video lo giro col cappello. E il cappuccio”, e lui ride ancora e mi fa “va bene, tanto ormai il meglio e stato filmato”. E rido pure io, a quel punto, però già che ci sono lo mando a quel paese. Solo a quel paese, però, che se lo mando dove voglio davvero si alza il rating, e queste duemilacinquecento parole circa poi finiscono nella spazzatura. E non è il caso.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Storia appartenente alla serie Jung Und Nicht Mehr Jugendfrei, prequel di Eine Kugel Reicht.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bushido/Fler (accennato).
Personaggi: Bushido, Fler.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Violence, Language.
- "Questo è lo scambio. Il tuo silenzio per i tuoi occhi."
Note: Devo precisarlo, ad uso e consumo di mia figlia Fedy, che non hanno combinato nient’altro che stringersi, su quel letto? =P *lolla* Scherzi a parte (no, ma non sto scherzando, non hanno combinato niente *scuote capino*), io amo questa shottina, come in realtà amo ogni singola shottina di JUNMJ – e come in realtà amo anche tutto il resto della Saga XD Scriverla, nonostante l’argomento (chissà se si capisce cos’è successo al mio Bimbo… *fischietta*), è stato piacevolissimo, e il rapporto fra questi due, oltre a ricoprirmi di frustrazione perché devo per forza cercare di mantenerli entro un certo limite, mi dà soddisfazioni incredibili. Il Flershido ruleggia <3
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Blackened Blue Eyes
#4 Chamomile


Entro nella kebaberia che paio una furia, me ne rendo conto, ma non ci sto con la testa, quindi me ne fotto. Me ne fotto degli sguardi di tutti questi cazzo di arabi che mi circondano, me ne fotto dell’aria sconvolta con cui mi scrutano quei – pochi – clienti che col giro non c’entrano un cazzo ed erano qui solo per mangiare il loro dannato panino e me ne fotto anche del grido irritato col quale mi apostrofa il padrone del locale – che poi dovrebbe essere un cugino di Arafat, e per quello che vale la parola cugino da queste parti potrebbe non entrarci niente con tutta la sua famiglia, peraltro. Non me ne sbatte una sega. Non trovo il ragazzino. Qualcuno mi deve delle risposte.
- Arafat. – sbraito, abbattendomi con una mano contro il tavolo al quale lo trovo seduto placidamente a giocare a carte con uno sconosciuto. Non dico altro, dallo sguardo che gli lancio dovrebbe capire cosa voglio da lui e dovrebbe anche capire che lo voglio subito, senza cazzate, ma evidentemente sto pretendendo troppo da questo stronzo – e con “troppo” non intendo la capacità di capire, ma quella di mettere da parte il proprio essere un pezzo di merda per rispondere subito, così che io possa capire dov’è e volare a recuperarlo, porca troia, visto che anche sua madre non lo sente da stamattina. E Patrick chiama sempre sua madre a metà mattinata, per dirle di non preoccuparsi.
- Sonny. – mi chiama a sua volta lui, tranquillissimo, - Come mai tutto sconvolto?
- Come mai, secondo te?! – batto di nuovo la mano, e stavolta mi faccio perfino male, - Dov’è. – e non è una domanda, non lo è neanche per un cazzo. È un fottuto ordine. Voglio la mia risposta. Adesso.
Lui torna a guardare le carte.
- Non so di cosa stai parlando.
- Non mi prendere per il culo, Arafat! – urlo, ed afferro le carte che ha in mano, schiacciandole poi contro il ripiano di legno, spiegazzandole e spargendole per tutto il tavolo, - Il ragazzino! Dove cazzo l’hai mandato da solo? Perché cazzo non me l’hai detto prima?!
Tutto intorno a noi si fa il silenzio più totale. Non si muove nessuno, guardano tutti questa scena ridicola nel mezzo del locale, ed in tutto questo a me non sbatte una sega nemmeno se sto facendo la figura del coglione. Il ragazzino ha fatto quattordici anni un mese fa e va in giro con una pistola che, per quanto bella, sa usare correttamente da meno di una settimana. Non ci può andare in giro da solo, Arafat non deve permettersi di mandarlo in giro da solo, non quando sa benissimo che per me sarebbe perfettamente okay accompagnarlo pure dall’altro lato della strafottutissima Germania del cazzo.
E quindi resto lì in piedi accanto a lui seduto e lo guardo come volessi ammazzarlo – che poi è assolutamente vero – o almeno lo faccio fino a che lui non decide che ha sopportato abbastanza, e si alza in piedi, squadrandomi dall’alto in basso con la stessa intensità omicida che c’è nei miei occhi. Il problema è che nei suoi viene fuori in maniera molto più convincente, mi sa.
- Punto primo, Anis, modera il linguaggio. – mi rimprovera, schiaffeggiandomi con una certa violenza sulla nuca. Io ringhio ma non ho il tempo di rispondere. – Punto secondo, sei ancora la mezza sega che eri l’anno scorso, mi pare, quindi per quale cazzo di motivo dovrei interpellarti prima di prendere una decisione? – e mi schiaffeggia ancora, stavolta sulla guancia.
Io rispondo con un mezzo ghigno da stronzetto.
- Punto terzo? – chiedo sfacciatamente, e con questo mi guadagno il terzo schiaffo nel giro degli ultimi sessanta secondi.
- Non mi serve un punto terzo. – risponde lui, tornando a sedere, - Ed ora levati dai coglioni.
- Non mi levo dai coglioni neanche per un cazzo. – rispondo immediatamente, e lui mi solleva addosso di nuovo quegli occhi furiosi. Non so com’è che reggo questo sguardo. Probabilmente perché non me ne frega più un cazzo nemmeno di lui. Fino a qualche mese fa sì, fino a qualche mese fa sopra Arafat c’era praticamente solo mia madre, e questo perché Arafat è tutto ciò di cui ho bisogno per diventare quello che voglio diventare, ossia qualcuno. Adesso non è più così. Adesso, cazzo, con Patrick di mezzo, Arafat non è più niente. Se dovrò passare sul cadavere di questo stronzo, per sapere dov’è il ragazzino, lo farò, e lo farò senza pentirmene. – Dimmi dov’è.
Arafat mi guarda a lungo, neanche stesse cercando di capire solo guardandomi se faccio sul serio o meno. E mentre lui mi guarda io ripenso al ragazzino con in mano la pistola, il giorno del suo compleanno, e poi ripenso al ragazzino che tira un barattolo di vernice in testa ad uno sconosciuto mettendo a rischio le palle per un altro sconosciuto – con la differenza che il secondo sconosciuto ero io – e poi vado ancora più indietro e ripenso al ragazzino nell’atrio del tribunale minorile che mi guarda con aria strafottente e mi dice “sembra che dovremmo farla insieme, questa cosa”, e fra tutte queste cose penso al ragazzino che mi segue ovunque, penso al ragazzino che mi fa il palo, penso al ragazzino che mi tiene i conti della roba venduta, penso al ragazzino che usa lo zainetto della scuola per le consegne – ed a lui non si avvicinano quasi mai, quando va in giro con quello zainetto lì, perché è così chiaro che è un ragazzino scemo che i poliziotti non lo prendono nemmeno in considerazione – e mentre penso a tutte queste cose penso anche che sì, faccio un sacco sul serio, ed è bene che Arafat lo capisca e lo capisca adesso. Non si gioca con le mie cose. Non me li fai questi scherzi, a me.
Arafat tutte queste cose sembra leggermele negli occhi, alla fine, ed io questo – il fatto che l’ha capito – lo leggo nei suoi a mia volta, perciò quando apre la bocca so già che lo sta facendo per dirmi dov’è Patrick, e tutti i miei sensi si tendono – voglio sentirlo subito, quello che sta per dirmi; voglio registrarlo subito e voglio scattare il prima possibile per raggiungerlo dovunque sia. Poi alla fine magari non è successo un cazzo, ma io ho bisogno di vederlo e di sapere che sta bene adesso, quindi in questo momento l’eventualità che sia tutto a posto nemmeno mi sfiora.
Solo che la porta del locale si apre ed il rumore interrompe Arafat. Io mi volto per mandare a fanculo lo stronzo con pessimo tempismo che mi sta rovinando la giornata, e invece non mando a fanculo nessuno, perché resto inchiodato al pavimento, paralizzato e pure muto.
- Che avete tutti da guardare?
Non so cosa cazzo abbiano gli altri, Pat, ma io ho da guardare che sei pesto come se ti fossero passati addosso con un carro armato, porca puttana.
- Pat- - faccio per chiamarlo, ma lui mi lancia un’occhiata gelida, o almeno, quella che sarebbe un’occhiata gelida se lui non avesse gli occhi rossi e gonfi di pianto e un rivolo di sangue rappreso che corre giù lungo la tempia e fino alla guancia.
- Sto bene. – dice ad alta voce, così da farlo sentire a tutti, - Ve li fate un po’ di cazzi vostri?! – aggiunge poi, arrabbiato, e tutti i fottuti arabi qua intorno tornano ai loro affari, perché nel momento in cui il ragazzino ha ringhiato gli hanno visto addosso la voglia di sbranarli tutti. E qui si vive secondo la legge fondamentale che, per evitare problemi più grossi, va bene ignorare i problemi piccoli. Quando avrò una crew tutta mia, questa sarà la prima legge del ghetto che manderò a puttane.
Patrick si avvicina zoppicando un po’, ma io non mi sporgo ad aiutarlo perché so che se solo mi azzardassi a toccarlo, in questo momento, mi staccherebbe le mani a morsi. Perciò lo osservo mentre arranca fino al tavolo di Arafat e posa il suo zainetto per terra. Quello non fa neanche rumore, quando lo appoggia, il che vuol dire che è vuoto. E questo vuol dire che, qualsiasi cosa gli sia capitata, Patrick ha portato a termine il suo compito.
La cosa diventa evidente quando tira fuori dalla tasca il portafogli e posa i suoi bei cinquecento euro proprio lì sotto al naso di Arafat, in mezzo alle carte da gioco tutte scombinate.
Lo stronzo prende le banconote, le fa frusciare svelto fra le dita per controllare non siano false, poi le conta una ad una, ne vaglia con gli occhi ogni imperfezione, le spiega, le mette in ordine sul tavolo, poi ne prende la metà e la consegna a Patrick, che incassa senza una parola.
- È andato tutto bene? – chiede Arafat.
- Tutto bene. – risponde Patrick, - Solo una rissa del cazzo.
Arafat annuisce compiaciuto.
- Te la cavi bene. – commenta, - Facciamo che oggi ti sei guadagnato un extra. – e gli allunga altri cinquanta euro. Non credo che Arafat abbia mai fatto niente di simile con nessuno. Con me non l’ha mai fatto di sicuro, perciò resto lì un po’ inebetito mentre osservo Patrick, che invece continua a non fare una piega, prendere anche quella banconota e conservarla nel portafogli assieme alle altre. – Signori, abbiamo un piccolo signore della droga, fra noi, pare. Sicuramente cento volte meglio di certi suoi amichetti che non fanno altro che lamentarsi. – e mi sferza con un ghigno divertito.
Qualcuno nella folla che mangia kebab qua intorno commenta distrattamente che se il ragazzino continua così diventerà il re dello spaccio, in città. Qualcun altro gli fa il verso e ride “sì, Frank White”. Lo ripete qualche altro.
- Frank White. – ride anche Arafat. – Ti piace, Patrick?
Il ragazzino scrolla le spalle. Probabilmente non sa neanche chi rappresenti la figura di Frank White per questi quattro stronzi. Accetta il suo battesimo e fine, perché è bravo, sa quando tacere, sa come incassare i complimenti ed ha già capito che in certe situazioni è meglio lasciar fare gli altri.
Tutto quello che riesco a pensare io, in questo momento, è che per la prima volta mi pento di averlo portato in mezzo a tutta questa merda. Ed ancora non so nemmeno cosa gli è successo, ma se si aspetta che mi beva la cazzata della rissa è fuori strada, il ragazzino. Decisamente fuori strada.
La transazione si conclude, Arafat torna alle sue carte, il ragazzino recupera lo zaino e si muove lentamente verso l’uscita. Io lancio un’occhiataccia ad Arafat, ma lui mi ignora, perciò ringhio e borbotto un “fanculo” risentito, prima di seguire Patrick. Quando Arafat ride, alle mie spalle, so che sta ridendo di me, ma non mi volto, non mi fermo e trattengo l’impulso di saltargli alla gola e strozzarlo, perché Patrick è uscito fuori dal locale ed anche se è più lento del solito ha comunque due gambe chilometriche, quindi se non mi sbrigo lo perderò. Tra l’altro penso proprio voglia seminarmi, perché per quanto ammaccato si sta sforzando un sacco di muoversi in fretta.
- Ragazzino. – lo chiamo, quando riusciamo a lasciarci la kebaberia alle spalle. Lui non si ferma. – Patrick! – insisto, e allora lui la pianta di cercare di sfuggirmi. Ma non si volta a guardarmi. Fa nulla: vuole fare il ragazzino? È piccolo, può permetterselo. È già stato abbastanza adulto là dentro quella specie di girone infernale. Perciò giro io, tutto attorno a lui, fino a pararmi di fronte ai suoi occhi. Che non trovo, perché stanno puntati verso il basso. – Be’? Avevi le palle per guardare Arafat dritto negli occhi, lì dentro, ma non le hai adesso per guardare me che sono un tuo amico?
Lui stringe il pugno attorno alla bretella dello zaino che tiene su una spalla sola, ma si ostina a non guardarmi. Perfetto, d’accordo, ho capito. Si sente in imbarazzo e si vergogna perché le ha prese. Ma Dio mio, ragazzino, può capitare.
- Ehi… - cerco di suonare conciliante, piantandomi le mani sui fianchi, - Guarda che è successo a tutti più di una volta, eh? È tutto a posto, poi passa. E comunque prendere le botte serve a insegnarti come tirarle, quindi… - commento con una risatina.
Lui continua a non sollevare lo sguardo. E io mi rompo i coglioni.
- Ragazzino, piantala di fare la testa di cazzo e guardami. – lo rimprovero, e mentre lo faccio allungo una mano e lo afferro per il mento, costringendolo a fissarmi. Lui il mio sguardo lo regge mezzo secondo contato, poi si agita tutto per liberarsi dalla mia stretta e, quando sta per riuscirci, io lo afferro con entrambe le mani ai lati della testa e lo obbligo a stare fermo.
E lui chiude gli occhi. Chiude i fottuti occhi, cazzo.
- …ma si può sapere cosa cazzo hai? – chiedo, e visto che non posso cercare la risposta dentro ai suoi occhi la cerco sulla sua pelle arrossata e sulle ferite appena disinfettate, - Sei già stato a casa? Ti ha risistemato tua madre?
Lui scuote il capo, non parla e continua a non aprire gli occhi.
- Sei andato all’ospedale, allora? – provo ad indovinare. Non lo so, che cazzo mi sta a significare questa conversazione ad uno? Sto facendo un monologo? – Perché non sei venuto subito da me?
Lui ricomincia a dimenarsi ed io continuo a tenerlo fermo.
- Patrick… - lo chiamo piano, e siccome siamo in mezzo alla strada e la cosa sta cominciando a farsi equivoca e lui è comunque ancora minorenne, oltre che maschio, oltre che un altro miliardo di altre cose che al momento non ha senso elencare, lo trascino in un vicolo lì di fianco, e poi ricomincio a parlare. – Pat. – lo chiamo ancora, più dolcemente, - Li apri gli occhi, per favore? Non ti voglio fare niente di male, Cristo santo!
Lui lascia andare un respiro tesissimo e schiude gli occhi, che sono umidi e arrossati. Continua a non parlare, naturalmente, ma adesso non mi aspetto niente di diverso.
- È tutto ok, chiaro? – comincio, - Ora ti lascio andare, ma tu non chiudi gli occhi. D’accordo?
Lui annuisce, io lo lascio andare ed in effetti continua a tenere gli occhi aperti. Il problema è che riprende a guardare altrove.
- No. – lo riprendo, riportandolo con lo sguardo su di me afferrandolo per il mento, - Non mi vuoi parlare? D’accordo, continuerò a blaterare da solo per tutta la giornata, se hai deciso così, ma almeno mi guardi. Guardi solo me. – lui aggrotta le sopracciglia e piega le labbra in una smorfia contrariata, ma io lo fermo dicendo “a-ha!” ed agitandogli un dito davanti al naso. – Questo è lo scambio. Il tuo silenzio per i tuoi occhi.
Penso distrattamente che nello scambio non è compreso niente di mio, ma tanto so che non me lo farà notare. Infatti Patrick continua a tacere. Ma fortunatamente continua anche a guardarmi.
- …okay. – annuisco. Le cose cominciano ad andare come dico io, e questo è rassicurante. – Hai mangiato? Ti porto a mangiare un panino e vediamo se quello ti scioglie la lingua.
Patrick scrolla le spalle e si muove per uscire dal vicolo. Io mi metto subito accanto a lui perché altrimenti perdo il controllo visivo coi suoi occhi e, per com’è la situazione adesso, sarebbe come essere sordo e non poter nemmeno osservare il labiale di una persona che non conosce il linguaggio dei segni. Cioè se perdo i suoi occhi non riesco più a discutere con lui. Questo non è possibile, al momento, quindi mi affretto a inseguirlo.
Non che sia difficile, comunque, riprendere terreno. Dato che zoppica, si muove davvero un sacco lento. Soprattutto per i suoi standard – io questo ragazzino sono abituato a vederlo volare per le strade, mi sembra assurdo guardarlo adesso e trovarlo così ammaccato.
- Ma com’è che zoppichi? – chiedo, e lui distoglie lo sguardo. Lo recupero per il mento, ancora. – La regola. – gli ricordo, - Fai il bravo. Com’è che zoppichi? Ti hanno preso a calci nelle gambe?
Lui annuisce sbrigativamente, così io so per certo che no, non l’hanno preso a calci nelle gambe. Dev’essere successo qualcos’altro. Avrò tempo per scoprirlo, al momento il ragazzino sicuramente non vuole sentirsi sotto assedio, perciò questa la lascio correre.
- Certo che sei andato a incrociare proprio degli stronzi come si deve. – commento mentre mi fermo sulla sponda del canale, al baracchino di un tizio che vende hot dog dal sapore orrendo e che è vecchio almeno quant’è vecchio il quartiere.
Patrick mi lancia un’occhiata incerta, quando ordino due panini, ma io gli faccio capire – pagando e consegnandogli il suo pranzo – che non me ne frega un accidenti di quanti dubbi possa avere sulla qualità di questi panini: non deve avere dubbi, faranno schifo. Ma gli toccano, è così che funziona. Quando le cose vanno male si va sulla riva del canale e si mangiano gli hot dog disgustosi del vecchio Olaf, e si lanciano le pietre nell’acqua e si parla, poi si recupera una birra e possibilmente ci si ubriaca. Una cosa per volta, però.
Quando mi siedo sul muro in cemento armato, Patrick esita più di qualche secondo, e resta fermo a saggiare con gli occhi la consistenza dei lastroni, prima di accucciarsi in una posizione stranissima, con una gamba sotto il sedere e l’altra che penzola giù verso il corso d’acqua. Io inarco le sopracciglia.
- Ti si bloccherà la circolazione e quando ti rimetterai in piedi avrai tutta la gamba addormentata, e dovrò trascinarti a casa in preda al fastidio perché non riuscirai nemmeno a poggiare il piede per terra. – gli faccio notare, inarcando un sopracciglio. Lui se ne frega abbondantemente e me lo fa capire scrollando le spalle. – Va bene, va bene. – rido, - Ora puoi anche guardare altrove. – annuisco, spostando gli occhi sull’acqua che ristagna quasi del tutto immobile ai nostri piedi, - Goditi il tuo panino.
Il suo panino, Patrick non se lo gode. Ed io rido quando, dopo il primo morso, gli esce dalle labbra un versetto disgustato. È fantastico, non è proprio riuscito a trattenerlo, l’ho sentito che ci ha provato, ha cercato di contrarre i muscoli del collo per tenerlo intrappolato nel fondo della gola, ma il disgusto era troppo e quindi ha dovuto lasciarlo andare. Meraviglioso.
Torno a guardarlo che sto ancora ridendo. E lui sta già guardando me di rimando.
- Buono? – chiedo ironico.
- Fa schifo! – risponde lui, di getto.
- Bentornata, voce. – saluto con un cenno della mano, e lui arrossisce e distoglie lo sguardo. Adesso è okay, può farlo perché ha ripreso a parlare, - Ora me lo dici cosa è successo? – chiedo dolcemente, mandando giù un altro pezzo di questo panino disgustoso che però contiene palesemente delle sostanze stupefacenti che creano dipendenza, e me lo conferma pure Patrick che, nonostante abbia appena detto che il panino fa schifo, ne morde un altro pezzo anche lui.
- No. – risponde con un mezzo grugnito, ingoiando con una certa difficoltà, - Non mi va.
- D’accordo. – annuisco subito io, sollevando in segno di resa la mano non impegnata a reggere il panino, - Allora, caro, raccontami com’è andata la tua giornata lavorativa, ed io poi ti parlerò dei piatti che ho lavato e dei pannolini che ho cambiato mentre aspettavo il tuo ritorno.
- Coglione. – borbotta lui, tirandomi una spinta contro la spalla, - …è andato tutto bene. Tranne quando ha cominciato ad andare male.
Io rido un po’.
- È più o meno sempre così, ragazzino. – gli faccio notare, - Va tutto bene, finché comincia ad andare male. È quello il punto. Cos’è che è andato male?
- Le solite cose. – risponde lui vago, - Quante volte ti sarà capitato, diecimila? Gli stronzi non volevano pagare e siccome io ero uno e loro erano più di uno hanno pensato bene di convincermi a starmene buono pestandomi a sangue. Tutto qua. Però tu non ti sei mai ridotto così. – aggiunge, indicandosi il viso.
Io, tanto per cominciare, lo mando mentalmente a fanculo. Se davvero i tizi non avessero voluto pagare, chiunque fossero, una volta pestato e lasciato in fin di vita sul marciapiede sarebbero effettivamente andati via senza pagare. E invece il ragazzino ad Arafat li ha portati, i suoi fottuti cinquecento euro. Quindi è palese che qua mi si sta prendendo per il culo, ma è altrettanto palese che ad insistere non guadagnerei altro che un vaffanculo e, probabilmente, anche uno spintone nel canale, perciò mi limito ad annuire comprensivo.
- Come ti dicevo prima, - gli spiego, - è successo a tutti di essere pestati. – e glielo dico perché so che, anche se non so come né perché, che sia stato pestato è una realtà difficilmente contestabile. – È così che ci si fa la corazza. Tu non mi hai mai visto ridotto così, ma ciò non vuol dire che io non mi ci sia effettivamente ridotto prima di conoscerti. Quindi non farti le pare da ragazzina oltraggiata, sono solo un paio di lividi, non è successo niente di irreparabile. Non ti sei nemmeno rotto niente, visto? È tutto a posto.
Lui non risponde. Guarda il canale, guarda il sole che si sta lentamente abbassando sul profilo della città, e poi finisce il suo panino. Resto lì in silenzio dieci minuti contati. Dopodiché lo recupero per le spalle, lo rimetto in piedi e comincio a trascinarmelo per tutta Berlino.
Da che sono nato non c’è mai stato niente di più consolatorio che andare in giro per la città. Quando perfino casa era troppo uno schifo per continuare a starci, io cominciavo a camminare e non mi fermavo finché non sentivo di non farcela più. È così che sono finito a lavorarci, per la strada. Perché la strada, quando ti prende, ti prende tutto. E tu non puoi più lasciarla, dopo.
A camminare e basta Patrick non si diverte granché, però, anche perché non sta bene per niente, quindi ad un certo punto mi fermo da un amico e, visto che mi ricordo delle sue velleità artistiche, recupero un po’ di bombolette spray di vari colori. Le metto in uno zainetto e lo raggiungo di fuori, dove gli avevo detto di aspettarmi, dopodiché riprendo a trascinarmelo per le strade e, quando ci fermiamo di fronte ad un muro di media altezza, bianco, sporco e inutilizzato, nel retro del cortile di un asilo, gli consegno lo zaino e sorrido soddisfatto.
Lui inarca un sopracciglio e mi fissa, dubbioso.
- Che roba è? – chiede. Io roteo gli occhi e sospiro.
- Ma ce l’hai nel DNA questa mania di chiedere prima di aprire il regalo? È lì, ce l’hai in mano, aprilo e vedilo da solo che roba è!
Non riesco a trattenere i suoi gridolini di gioia neanche se gli metto una mano sulla bocca, quando si rende conto di cos’ha per le mani. Credo non abbia mai visto tutti questi colori insieme, e quando indica il muro e mi chiede se sia per lui io rido e gli rispondo che sì, è per lui, anche se in realtà questo muro lo sto rubando a Berlino per regalarglielo. Berlino mi perdonerà, comunque. Mi deve della roba, questa città. Posso ben pretendere un muro in cambio.
Lo osservo maneggiare le bombolette con una certa destrezza, e quando vedo il disegno che prende forma – un enorme “king of kingz” che io stesso, modestamente, gli ho suggerito di realizzare, visto che continuava a saltellare zoppicando di fronte al muro senza riuscire a cavarsi un’idea che fosse una dalla testa – comincio a sospettare che questo ragazzino, se fosse nato in un altro posto e in altre condizioni, probabilmente avrebbe avuto del successo. Ci sa fare, con le mani. Cioè, ci sa fare coi colori. Anche se non è tanto normale che io mi rettifichi i pensieri da solo.
Alla fine, non so quante ore ci abbia messo, ma il disegno è lì, completo e perfetto, senza nemmeno una sbavatura, colorato e brillante. Puzza di vernice in maniera nauseante, ma ne vale la pena. Ci arrampichiamo sul muro – lui ha bisogno di una mano, ma gliela do volentieri – e restiamo seduti lì in contemplazione del vuoto mentre il sole tramonta dietro ai palazzi, in lontananza, e il cielo si fa scuro. Stasera è anche pieno di stelle, ma c’è un buio pesto tutto intorno, perché nel cortile qui non ci sono lampioni, quindi riesco a malapena a vedere ad un palmo dal mio naso.
- Frank? – lo chiamo. Lui non si volta. – Ehi, Pat, ti ci dovrai abituare, eh. Guarda che cominceranno a chiamarti tutti così, da oggi in poi.
Lui mi guarda un po’ curioso, come si fosse svegliato adesso.
- Eh? – chiede, ed io roteo gli occhi.
- Arafat ha deciso che sei Frank White. Quindi dovrai abituartici. È una cosa importante. – lui continua a guardarmi con quella faccia lì, come non capisse un accidenti di ciò che sta accadendo intorno a lui, perciò io rido e chiedo: - Lo sai chi è Frank White?
- No. – risponde lui, scuotendo piano il capo. Io rido.
- Ma l’hai mai visto King of New York?
- No. – risponde ancora lui, tranquillissimo. Ed io rido ancora, perché dai, ragazzino, ma come sei cresciuto?
- C’è questo qui, - spiego, - che è Cristopher Walken, l’attore, dico, ma nel film è il signore della droga di New York. Uno cazzuto. Tu non ti sai neanche preparare gli spinelli. – lo prendo in giro, e lui sbuffa e mi tira una spinta contro la spalla.
- E come finisce questo? – chiede, ancora offeso, - Conquista l’America e diventa presidente?
- Ci prova. – rido di nuovo io, - Ma finisce morto ammazzato. Ovviamente. – e sospiro. Cosa devo dirti, ragazzino? Sei stato pestato, lo so, ma qualcuno dovrà pur dirtele, queste cose. – Perché, - aggiungo, - come pensi che finiremo noialtri?
Lo vedo irrigidirsi e deglutire, mentre i miei occhi si abituano al buio della notte e trovano i suoi con una facilità disarmante.
- Comunque, sta’ tranquillo. – lo rassicuro, e nel farlo gli tiro una pacca sulla spalla tale che lui quasi casca di sotto, - Prima di morire, altro che Re di New York. Io diventerò il Re dei Re. – e tu vieni con me, ragazzino. Anche se questo non lo aggiungo, ad alta voce. Però col cazzo che ti lascio andare.
Quando lo riporto a casa è già notte fonda. Sua madre dorme, ma è tanto abituata ad averci entrambi a casa a quest’orario che ci ha lasciato latte e biscotti con un bigliettino sul tavolo della cucina. Nel biglietto – che peraltro è indirizzato a me, cosa per la quale comincio a ridere per interrompermi solo dopo mezz’ora – c’è scritto “sono sicura che sei riuscito a ritrovarlo, Anis. Vuoi gentilmente dirgli che domani mattina lo ricoprirò di botte?”. Patrick aggrotta le sopracciglia, quando legge il messaggio. Io tiro fuori una penna dalla tasca posteriore dei jeans e, sotto alla nota della signora Losensky, ne aggiungo una mia. “È stato un bravo ragazzo e non ha chiamato solo perché costretto dalle circostanze. Niente botte. Grazie per il latte”.
Patrick manda giù il suo latte e biscotti perché – a suo dire – deve cancellare l’orrendo sapore di quell’hot dog disgustoso. Io mangio per imitazione. Non è che abbia veramente fame, e per la verità comincio ad avere sonno. Sono stato teso tutto il giorno, poi sono stato euforico perché ho palesemente recuperato il ragazzino dal baratro in cui stava cadendo, ed adesso che mi si stanno sciogliendo i muscoli perché lo vedo qui tranquillo che trangugia biscotti affogandoli nel latte, la tensione scivola via e comincio a sentirmi stanco.
Quando finisce il suo latte lo accompagno in camera sua, perché a salire le scale ha evidenti difficoltà. Mentre mi faccio passare il suo braccio sopra alle spalle e lo tengo fermo, reggendolo saldamente per il polso con una mano e per la vita con il braccio, penso distrattamente che ormai è alto quanto me e che meno di un anno fa questa posizione non era nemmeno pensabile. Mi viene da ridere ma non lo faccio.
Patrick sfila via la maglietta e calcia lontano i pantaloni, con me là davanti, senza problemi. Io, non so cosa mi prende, distolgo lo sguardo. Comunque sono stanco, ragazzino, e tu mi stai torturando. Si infila sotto le coperte e poi mi guarda, e quando io faccio per salutarlo ed imboccare la finestra per scendere e sparire nella notte lui inclina un po’ il capo e mi chiede “ma non resti?”. Non ho idea del perché lo dica con questo tono qui, come fosse scontato che io dovessi restare e quindi fosse buono e giusto da parte sua guardarmi come se, andandomene, io stessi facendo una cosa assolutamente priva di senso logico.
- …se vuoi resto. – annuisco, richiudendo la finestra. – Ce l’hai un sacco a pelo?
- Uh? – chiede lui stendendosi sul materasso, già più addormentato che sveglio, - Puoi metterti qui accanto, il letto è grande. Ci entriamo in due.
- Ragazzino, io non ci dormo con un maschio. – dico nervosamente, e penso che se non ha un sacco a pelo mi costringo pure a dormire sul pavimento, pur di non mettermi nel letto con lui. Non va per niente bene quello che sta succedendo nella mia testa per ora, comunque. Devo recuperare il controllo. Un uomo senza controllo non è niente.
- C’è un vecchio materasso qui sotto… - scrolla le spalle lui, chinandosi a tirarlo fuori da sotto al letto e lasciandolo strisciare sul pavimento fino a piazzarlo proprio lì accanto, - È un po’ impolverato, ma-
- Fa niente. – borbotto, lasciandomici andare sopra e cominciando immediatamente a tossire per la polvere che si solleva tutta intorno a me. Lui mi guarda come fossi completamente cretino. – Be’? – chiedo io, - Non avevi sonno?
- …tu mi sa che non stai tanto bene. – mi prende pure in giro. E io lo mando a fanculo fra i denti, ma lui non mi sente perché si sta muovendo come un indemoniato per trovarsi una posizione comoda fra le coperte.
Io mi passo una mano sulla fronte. E chi dorme, stanotte?
La risposta è “nessuno”. Ma non mi arriva nel modo che pensavo. Perché è okay finché sono io che non dormo perché mi passano per la testa cose che decisamente non dovrebbero neanche apparire fugacemente per poi scomparire in una nuvola di fumo. Non è altrettanto okay se, nel silenzio assoluto della stanza – perché Patrick ha smesso di muoversi ed io non ho mai cominciato a farlo – comincio a sentire il respiro del ragazzino farsi sempre più profondo, breve e concitato. È una cosa tremendamente graduale, comincia nel momento in cui lui smette di muoversi e va aumentando. È talmente graduale che posso sentire ogni sfumatura. Mi terrorizza.
Mi metto seduto di scatto e lancio un’occhiata al letto. Patrick è immobile, steso supino, le mani piantate sul materasso che tirano il lenzuolo e il petto scosso freneticamente da respiri talmente corti e affannosi che sembra non riesca nemmeno a tirarne fuori la quantità di ossigeno minima per non soffocare.
- Ragazzino. – lo chiamo a mezza voce, mettendomi in ginocchio e guardandolo dall’alto, - Ragazzino, che hai?
- A- - prova a chiamarmi lui, ma non riesce, non subito, almeno, - Anis. – riesce a buttare fuori in un rantolo soffocato. Io non so che fare. Non ho mai visto niente del genere, cazzo. Che gli è preso?
Mi piego su di lui, gli sfioro un braccio e poi una mano e lui scatta come una fottuta molla. Da che è steso sul letto me lo ritrovo tutto rannicchiato in un angolo, seduto contro il muro, tanto piccolo che sembra un gomitolo di nervi.
- Ragazzino, che cosa c’è? – chiedo, e mi sposto di nuovo verso di lui, che si fa ancora più minuscolo, - Patrick. Non fare così, Cristo.
- Non ci… - ansima lui, ma non riesce a concludere la frase. Quindi, forse, quello che sta cercando di dirmi è proprio che non ci riesce, a livello generale. – Anis. – mi chiama ancora, e io decido che basta così. Non me ne frega un cazzo se i maschi non dormono coi maschi e se io in particolare dovrei evitare assolutamente di dormire con quest’altro maschio in particolare, e non me ne frega un cazzo anche se ha intenzione di scattare come se l’avessi punto ogni volta che provo a toccarlo: mi isso sulle braccia, mi seggo sul letto accanto a lui, lo afferro per le spalle e me lo tiro contro.
Lui, ovviamente, parte a dimenarsi come un’anguilla. Ma io continuo a tenerlo stretto.
- È tutto okay, Pat. – gli sussurro piano all’orecchio, - Lasciami fare. – e lo accarezzo lungo le braccia, la schiena, la nuca, il collo, - È tutto a posto. Non è successo niente. Che cazzo ti hanno combinato oggi, ragazzino…?
Lui trema tutto e scuote veloce il capo, serrando le labbra ed anche gli occhi.
- Ehi, ehi… - lo tiro su per il mento, - È ok. Non devi dirmelo. Non parlare. – sorrido, - Però voglio i tuoi occhi. Quelli me li dai.
Lui si morde un labbro e per un secondo resta completamente immobile, le mani sul mio petto, le dita strette convulsamente attorno alla mia maglia, e non dice una parola. Non parla più, il ragazzino. Però annuisce. Gli occhi me li dà. E allora è okay.
Non so in quanto tempo passa questa notte – non ne ho idea, le ore sembrano secoli eppure non mi pesano per niente addosso – però so come passa. Con gli occhi di Patrick nei miei e i miei nei suoi. Le sue mani sul mio petto. E le mie mani ovunque.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Storia appartenente alla serie Jung Und Nicht Mehr Jugendfrei, prequel di Eine Kugel Reicht.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bushido/Fler (accennato).
Rating: R
AVVERTIMENTI: Language.
- "Sollevo gli occhi nei suoi. Non lo so, se è tutto chiaro. Potrei rivederlo?"
Commento dell'autrice: In realtà inizialmente questa shot non doveva neanche esistere XD L’ispirazione per scrivere è arrivata quando mi è capitato sotto gli occhi il commento in cui Fedy diceva che le sarebbe piaciuto vedere il momento in cui Anis aveva insegnato a Patrick come sparare. [AVVISO PUBBLICO] Questo, a riprova del fatto che, anche se a rispondere mi pesa il culo, i vostri commenti li leggo ancora con piacere ed amore XD Perciò cercate di perdonarmi e, se volete, fatevi sentire ancora <3 [/AVVISO PUBBLICO] Comunque! XD Fedy ha chiesto ed io ho praticamente eseguito, tutto qua. Poi i due deficienti mi sono sfuggiti di mano, hanno fatto cose, detto robe ed alla fine ciò che emerge con più prepotenza da questa shot è che il german rap, nell’universo della Saga, è minato alla base dal suo signore e padrone e dal di lui collega. Essendo entrambi gai fino al midollo, la situazione attuale di SE non sembra più tanto incomprensibile, suppongo. XD
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Shot Through The Heart
#11 Cinnamon Apple Spice


- Allora, - mi fa, con la sicurezza di un generale o chissà che altro è convinto di essere in quella testa di tunisino del ghetto, - qui si mangia non più tardi dell’una, perché la Mama deve prendere la pillola per il cuore, chiaro, ragazzino? – io annuisco lentamente, guardandolo fisso, e penso che quest’uomo ha una Heckler in mano, che io reggo fra le dita la mia Smith & Wesson e concludo che è surreale che, di fronte al plotone di bottiglie vuote che mi ha sistemato davanti al muro del cortile sul retro di casa sua, quest’uomo mi parli della pillola per il cuore di sua madre, presentandomela pure come il motivo per il quale dobbiamo darci una mossa. – Ottimo. – riprende quindi, scostandosi per lasciarmi osservare bene la fila di bottiglie, - Quelli sono i tuoi bersagli. Ora-
- Aspetta, aspetta… - mi passo una mano sulla fronte, confuso, - Senti, chiariamo che io non l’ho mai tenuta una pistola in mano, okay?
Lui inarca un sopracciglio ed indica la Smith & Wesson con un cenno del capo.
- Sì, va be’, a parte il tenerla in mano e basta. – preciso scrollando le spalle e sollevando la mano che regge l’arma, come a fargli vedere quanto male la sto tenendo, - Non c’ho mai sparato. Cioè, non so nemmeno da dove cominciare. E poi è scarica.
Anis rotea gli occhi e me la tira via di mano, dopo aver infilato con disinvoltura la Heckler in tasca. La tocca un po’ qui e un po’ lì – non riesco nemmeno a seguire con sicurezza i suoi movimenti – se la rigira fra le mani ed il tamburo rotola fuori dal corpo centrale, pieno di proiettili. Lui mi guarda ancora, ed inarca un altro sopracciglio.
- …io non l’ho caricata. – mi giustifico, guardando altrove.
- Sì, infatti l’ho caricata io. – precisa lui, - Prima di regalartela. Ma non l’hai nemmeno guardata bene?
Fisso gli occhi su un angolo del giardino. Proprio a ridosso del muro, s’è accumulato un mucchietto di foglie ingiallite ormai secche. C’è qualche formica che fa la spola da un lato all’altro del giardino, un piccolo plotone che si muove alla ricerca di una preda, magari sotto le foglie hanno messo su un formicaio.
Come faccio a dire ad Anis che il giorno del mio compleanno sono tornato a casa, ho posato la pistola nel cassetto e non l’ho più toccata? Anche nei giorni successivi, quando l’ho guardata, non ho osato allungare le mani e non l’ho nemmeno sfiorata. Una pistola, per quanto bella, resta una pistola. È una cosa che può uccidere degli esseri umani. Quando l’ho riposta nel comodino, quella sera, ho sentito un brivido scorrermi lungo la schiena ed ho capito che era paura. È per paura che non l’ho toccata. Quindi non lo sapevo che Anis ci aveva messo i proiettili dentro. E forse, se l’avessi saputo, non solo non l’avrei più toccata, ma non l’avrei nemmeno più guardata.
Anis non mi dice niente, ma lo vedo che si è offeso. Guarda la pistola, richiude il tamburo, la sistema con tutta la calma e l’attenzione del mondo e, ovviamente, tiene il muso. Io sospiro. Voglio dire, non è che volevo offenderlo. Lo so che me l’ha regalata lui e gli è costata un sacco e si aspettava, non lo so, che strillassi di gioia e pretendessi di usarla immediatamente, perché lui un po’ è così con le cose che lo esaltano. Tipo, io l’ho visto anche con me. Da quando mi ha conosciuto, ha sempre preteso la mia attenzione completa e totale, ed anche quando cerca di controllarmi – e quindi sta sempre buttato a casa mia, mi segue ovunque eccetera – io lo so che non è solo una questione di controllo, è soprattutto l’essere preso dal momento che lo spinge a comportarsi così. Si aspettava che fosse lo stesso per me e la Smith & Wesson, ma non ha messo in conto la possibilità che io potessi funzionare diversamente. Io sono già innamorato di questa signorina, però faccio fatica a dirlo ad alta voce. Deve darmi un po’ di tempo.
- Quindi… - biascico, un po’ a disagio, - cos’è che devo fare esattamente?
- Per quello che ti frega, - sbotta lui, puntando la pistola contro una bottiglia a caso, il braccio teso e gli occhi bene aperti, - potevo anche darti un libretto d’istruzioni e lasciarti imparare da solo, invece di prepararti tutto qui dietro casa mia invitandoti pure a pranzo. Magari avresti preferito.
Roteo gli occhi, andandogli vicino e guardando la direzione verso la quale punta la pistola, per cercare di capire che bottiglia sia nel mirino.
- Non è vero. – commento, - Solo che non mi aspettavo… è stata una cosa improvvisa. È quella azzurra?
- Sì. – risponde sbrigativamente lui, - E non parlarne così, non ti ho chiesto di sposarmi. È una pistola, è bella, è un regalo importante ed è importante che a fartelo sia stato io, ma al di là di quello che vuol dire fra noi è una cosa che ti servirà. Quindi prendila sul serio.
- La sto prendendo sul serio. – gli faccio notare, aggrottando le sopracciglia, - Anche troppo.
- Non esiste troppo. – scrolla le spalle lui. Ed è un attimo. Poi succede qualcosa – che io nemmeno capisco – e l’attimo dopo la bottiglia azzurra è in frantumi. Mi accorgo dello sparo solo quando ne sento risuonare l’eco nel cortile e giù in strada, e resto lì accanto a lui, le labbra dischiuse e gli occhi spalancati, a fissarlo come se non l’avessi mai visto prima. E in effetti un po’ è così. Non l’avevo mica mai visto sparare. L’indice che preme il grilletto, la sua pelle che diventa più chiara a causa della pressione e poi torna subito del suo colore quando molla la presa, i tendini delle sue dita che si contraggono e poi rilasciano la tensione, la spalla che scatta appena per attutire il rinculo dello sparo. Sono tutti particolari che noto e ricostruisco dopo, quando l’eco si assopisce e l’unica traccia di ciò che è successo sono i cocci di vetro e il proiettile conficcato fra un mattone e l’altro nel muro.
- Dunque. – dice a bassa voce, abbassando l’arma, - Questo è in sostanza tutto quello che c’è da fare. Sollevi il braccio, - mi mostra, tornando a puntare un’altra bottiglia, - carichi, - e pressa il pollice contro il cane, tirandolo verso il basso con un click, - miri, - i suoi occhi concentratissimi sull’obiettivo brillano quasi, - bang. – e parte un altro colpo. Stavolta, ad andare in frantumi è una bottiglia di un verde anonimo, e il proiettile si pianta per terra, nel cemento armato. Dalla pistola cade una cartuccia vuota, al primo sparo non l’avevo notata cadere. La maglietta strettissima che Anis indossa tira sui suoi addominali tesi ed io distolgo lo sguardo. – È tutto chiaro?
Sollevo gli occhi nei suoi. Non lo so, se è tutto chiaro. Potrei rivederlo?
- Sì… penso di sì. – annuisco confusamente, tendendo la mano. – Posso provare, se vuoi.
- Sì, - ride appena lui, - siamo qui per questo. – e mi consegna la pistola. La lascio lì, sul palmo, e la guardo un po’ da ogni lato prima di stringerla fra le dita cercando di imitare la presa salda di Anis, puntandola contro una bottiglia a caso, lì di fronte al muro.
- Tienila stretta. – dice Anis, scivolando dietro di me ed allungando un braccio a coprire il mio, teso, per tutta la sua lunghezza, poggiando la mano sulla mia e guidando le mie dita perché aderiscano bene all’impugnatura, - E non ti distrarre. Quando spari… - mi parla direttamente all’orecchio, sfiorandomi il lobo con le labbra ogni volta che le muove, - stai facendo qualcosa di molto grande, ragazzino. È una cosa che devi assaporare, perché stringi fra le dita la vita intera di un uomo. Tutto quello che ha, tutto quello che sa, tutto quello che ama, per un secondo è tuo, perché sei tu a deciderne il futuro.
Io annuisco piano, deglutendo, e quando mi muovo a disagio, spostando il peso da un piede all’altro, sento Anis che mi si pressa contro con più forza e trattengo il fiato perché non riesco ad ammettere neanche con me stesso cosa sto sentendo. Da parte sua nei miei confronti o da parte mia nei suoi.
- Sono… solo bottiglie. – ironizzo, cercando di alleggerire la tensione. Anis ride – mi ride addosso – e io tremo.
- Adesso sì. Ma oggi o domani potrebbe essere una persona. Quindi non pensarle come fossero bottiglie. Pensale come se fossero già esseri umani. – sospira e mi indica una bottiglia trasparente con un cenno del capo. – Quello è un figlio di puttana. Fa entrare di nascosto senegalesi e namibiane in Germania, ma poi le costringe a prostituirsi per strada. E coi soldi ricavati compra cocaina che poi rivende alle feste dei ragazzini ricchi. Lui è pulito, ma chissà quanti ne sono morti a causa della sua merda. Forse più di quanti ne siano morti a causa della nostra.
La mia mano si stringe attorno al manico con più forza, ed io aggrotto le sopracciglia. Anis sorride.
- Però ha una moglie che ama, - continua, - e un figlio per cui farebbe di tutto. Riesci a vederlo mentre lo porta al parco, la domenica? Riesci a vederlo spingere il passeggino sul ponte, fra i viali, mentre sua moglie gli cammina al fianco, stringendolo al braccio?
Mollo la presa e le dita di Anis si serrano sulle mie, rinsaldandola.
- Sai tutte queste cose – sussurra – e devi sparare comunque.
Deglutisco ancora, lasciandomi un po’ andare contro di lui. Cazzo, Anis, non mi stai rendendo le cose facili per nulla.
- Dritto. – mi rimprovera lui, e per costringermi a rimettermi composto mi tira una spinta col bacino che è proprio l’ultima cosa che dovrebbe fare in questo momento. Trattengo il fiato nella gola ed obbedisco, comunque, tornando a stringere per bene la pistola. – Allora. Quel bastardo lì, - e indica ancora la bottiglia trasparente, - tu devi farlo fuori. E devi farlo fuori perché te lo sto chiedendo io. Nessun altro motivo, non lo odi, non ti ha fatto niente, magari potrebbe anche esserti amico in futuro. Ma io ti sto chiedendo di ammazzarlo. Quindi tu ora devi ammazzarlo.
- …solo perché me lo chiedi tu? – biascico, e mi rendo conto di essere del tutto senza voce. Ma non è che non ci sia, è che non riesce a uscire.
- Solo perché te lo chiedo io. – annuisce lui. – Occhi aperti, devi vederlo bene l’uomo che uccidi. Guardalo negli occhi e lascia che ti guardi lui. Sei in assoluto la persona più importante della sua vita. Sua moglie, i suoi figli, sua madre, non sono niente. Tu sei il suo Dio, perciò lascia che ti guardi bene e guardalo bene anche tu. E poi – la sua voce è solo un sussurro sulla mia pelle. Io sto guardando la bottiglia e sto vedendo un uomo senza volto. L’uomo che devo uccidere. Perché me l’ha chiesto lui. Lui che non vedo ma sento addosso. Ovunque. Ovunque, Dio, è ovunque. – E poi spara, ragazzino.
Le sue dita si chiudono sulle mie, io presso il grilletto, il proiettile parte e va a conficcarsi sulla parete. La bottiglia non la prende nemmeno di striscio, ovviamente. In compenso, i miei polmoni sono esplosi il mio cuore è in due. Non mi è mai successo di sentirmi così. Non saprei nemmeno dire esattamente cosa sia successo, ma so per certo che quando la sua mano s’è stretta attorno alla mia, quando me lo sono sentito tutto addosso, qualcosa s’è conficcato nel mio cuore, proprio nel centro, e sono state le sue dita a spingerlo in fondo, e quello ora è lì, come una specie di enorme spilla da balia, e non si muove. Mi fa male anche respirare. Perciò immagino che i miei polmoni siano esplosi. E che il mio cuore sia in due.
- Mancata. – sorride Anis, così vicino che quasi sento la pressione del suo sorriso sulla mia stessa faccia. – Dovremo riprovare.
- Troppo… - annaspo, perché questa situazione è insostenibile e mi fa male il petto, - Sei troppo vicino.
Lui si scosta appena, ma non si allontana veramente, e mi guarda incuriosito.
- Troppo vicino? – chiede a bassa voce. Sembra non capisca davvero. Io so di essere arrossito e so anche che quello che sto per dirgli è anche più palese di quello che di solito mi azzardo a dire a me stesso, ma non posso proprio evitarlo, perché se gli permetto di restare lì dov’è ancora per un solo secondo esploderò.
- Sei troppo vicino. – ripeto quindi, la sua mano è ancora stretta sulla mia ed i miei occhi sono ancora fissi sulla bottiglia intatta, - Mi dai i brividi. Mi confondi. Allontanati, per favore.
Sono stato talmente chiaro che non posso pensare, davvero, non posso credere che non abbia capito cosa sto cercando di dirgli. Quindi, quando stringe la presa sulla mia mano, quando solleva un braccio e mi allaccia alla vita, quando la sua mano scivola casualmente contro il mio fianco e quando mi tira contro di sé, e cazzo, quando sento che oltre il tessuto ruvido e spesso dei jeans è duro come pensavo non l’avrei mai sentito, so che anche lui sta cercando di dirmi qualcosa. Solo che lui non riesce ad essere esplicito come lo sono io, non riesce o non vuole, e probabilmente è meglio così, perché io già non capisco più niente e se solo lui si azzarda a darmi un cazzo di via libera, anche se non so nemmeno per cosa, io la follia la faccio. Lo so che la faccio. Perciò, Anis, spostati. Per favore.
E lui si allontana, come mi sentisse parlare. Scioglie la stretta attorno ai miei fianchi e si allontana, lasciandomi andare anche la mano.
- Non farci caso. – mi dice. Penso che una persona normale, al posto suo, si sarebbe come minimo scusata. Lui non lo fa, però. E questo vuol dire che non è dispiaciuto affatto. E che io uscirò pazzo molto presto.
Annuisco confusamente e deglutisco, stringendo la pistola con entrambe le mani e puntando nuovamente la bottiglia.
- Okay. – riprende lui, e si volta a guardarmi, ma stavolta non mi tocca. – Capito tutto, quindi? Miri, premi, attento al rinculo, la spalla non tenerla troppo rigida, o ti farai male.
Io annuisco, ma sono teso per i cazzi miei e non è facile rilassarmi, in queste condizioni.
- Più morbido il braccio, Pat. – si allunga appena a toccarmi la spalla e, quando mi sente rabbrividire sotto i polpastrelli, aggrotta le sopracciglia e piega le labbra in una smorfia irritata. – Piantala. – mi rimprovera. – Sii uomo. Riprenditi. – e sappiamo entrambi da cosa devo riprendermi, però solo io so che non è semplice come lui cerca di darmi a intendere. Stronzo.
Mi arrabbio, perché a volte ho come l’impressione che lo faccia apposta ad ignorare quello che mi passa per la testa. Che non lo capisca non è nemmeno un’opzione, quello è ovunque, è soprattutto nel mio cervello, e lo sa perfettamente. Mi sono rassegnato da tempo all’idea. Perciò niente, lui lo sa che cosa sta succedendo, lo sa perché non riesco a rilassarmi, e se ne sta deliberatamente sbattendo i coglioni. Perché poi s’incazza quando le cose non girano nel verso che lui aveva stabilito, ed evidentemente che il mio verso casualmente giri verso il suo è proprio una cosa inaccettabile, quindi eccolo che dà di matto e mi guarda come se gli stessi facendo chissà che torto, ma sai cosa, Anis, sai cosa?, sei tu che mi fai torto, e fai torto a te stesso. E vaffanculo.
Sparo, la bottiglia va in frantumi, il proiettile si conficca nel muro assieme a tutti gli altri ed io, vaffanculo pure a me, finisco seduto per terra.
Siccome non me lo aspettavo – nel senso che, cazzo, il rinculo è forte davvero – rimango lì, con le gambe stese sul cemento sporco di questo fottuto cortile e gli occhi fissi sulla bottiglia in frantumi, e devo avere un’espressione veramente del cazzo. Ma veramente. Sposto lentissimo lo sguardo dalla bottiglia ad Anis e lo trovo che mi guarda con aria allucinata, le labbra dischiuse, tipo come se fossi diventato, non lo so, fucsia fosforescente sotto i suoi occhi, da un momento all’altro. Boh.
E l’attimo dopo eccolo che si piega in due e ride come un cretino, pressandosi una mano sulla pancia, e la sua risata è così forte che riecheggia più degli spari, nel cortile, fra le case, giù in strada e nella mia testa.
- Ma vaffanculo… - borbotto cambiando di nuovo colore e rimettendomi in piedi, - Oh, stronzo, piantala di ridere! – mi lamento, spintonandolo malamente contro una spalla. Lui, ovviamente, se ne frega e continua a ridere, anche quando io la pianto di spintonarlo, che tanto non serve, e mi spolvero i jeans, recuperando la Smith & Wesson da terra ed infilandomela in tasca.
- Hai deciso che per oggi basta? – mi prende in giro asciugandosi una lacrima di divertimento dall’angolo di un occhio, mentre cerca di porre un freno alle dannate risate. Io incrocio le braccia sul petto e guardo altrove.
- Sì. – ringhio, - Mi sono rotto le palle. Domani se ne parla.
Lui si calma ed annuisce, e quando si rimette dritto solleva un braccio e sbircia l’orario sull’orologio da polso che indossa, e che è enorme e pesantissimo, e gli scivola lungo il polso magro fino ad impigliarsi nel punto in cui l’avambraccio si ingrossa appena.
- Perfettamente in tempo per il pranzo. – si compiace, - Corri in casa, la Mama ti ha preparato qualcosa con delle mele e del pepe, io non ho idea di cosa sia ma lei dice che è buono, perciò lo sarà. – mi annuncia, indicandomi con un cenno del capo la porta di casa che dà sul cortile. Io lo guardo interrogativo, inclinando appena il capo.
- Tu non vieni? – chiedo, scrutandolo curiosamente.
Lui si inumidisce le labbra.
- Ho una cosa da fare in un posto, prima. – butta lì, misterioso. E va via prima di me.
La Mama mi ha preparato l’arista di maiale alle mele. È dolce ed è piccante, ed è un sapore che mi piace un sacco. Anis però non so dov’è, in questo momento. E questo mi piace un sacco di meno.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Genere: Comico, Parodia.
Pairing: Fler/Bushido, accennato Fler/Chakuza.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Crack, OC.
- La fangirl arrivò alla Villa Gialla una mattina di primavera tendente all'estate come tante altre.
Note: Questa storia è una follia nata solo ed esclusivamente a causa di Critti. Io non intendo spiegare nulla del processo mentale che ci sta dietro, ma intendo lamentarmi pubblicamente del fatto che su quel dannato tema di Temporal-mente io ho cominciato quattro dannate storie e questa è l’unica io sia riuscita a finire XD Il che mi offende come fanwriter, come donna e come-… chissenefrega *annuisce* Spero vi siate divertite XD
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Fangirl In Da House
"Se giochi a lungo e non cambi mai la posta il banco ti frega a meno che, quando si presenta la mano giusta, non scommetti il massimo e te lo porti via tu il banco!" (Ocean's Eleven – Fate il vostro gioco)


La fangirl giunse alla Villa Gialla in una bella mezza mattina di primavera tendente all’estate. Le cinciallegre cinguettavano felici nel giardino del Re e tutto era pace e quiete, nessuno fiatava, perfino il bianco Skyline e la nera Sherlee – miracolosamente – tacevano, e l’unico suono potesse essere ascoltato, nel silenzio del quartiere bene all’interno del quale la meravigliosa villa spiccava come la proverbiale ciliegina sulla torta, era quello dell’acqua che scorreva dal rubinetto giù nello scarico del lavandino e il lento ed assonnato sfregare dello spazzolino sopra i denti del sovrano indiscusso del luogo.
All’improvviso, mentre sua maestà rifletteva sulla possibilità di rigirare lo spazzolino e provare la nuova funzionalità pulisci-lingua che in realtà lo inquietava non poco – d’altronde, chi si lascerebbe accarezzare la lingua da una doppia serie di sei spatoline in gomma viola aromatizzata alla menta, col rischio di scoppiare a ridere per il solletico e morire in modo ben poco regale, soffocati dal proprio stesso dentifricio alle erbe? – qualcuno si attaccò al campanello e cominciò a suonare una serie di trilli dal ritmo stranamente familiare, ed il Re impiegò non pochi dei neuroni già svegli per riconoscere che quello era il beat di base di Kennst Du Die Stars e che, soprattutto, il misterioso visitatore minacciava di continuare con quell’irritante scampanellio all’infinito, se non avesse avuto al più presto la sua assoluta attenzione.
Fu per questo motivo che sua altezza decise di scollarsi dal proprio lucidissimo lavandino in marmo misto nero striato bianco e muoversi ciabattando verso la porta, spazzolino ancora mollemente pendente dalle labbra, mentre Sherlee e Skyline gli saltellavano intorno, finalmente memori del loro ruolo di cani da guardia, abbaiando come ossessi verso la porta ed inciampando sulle proprie stesse zampe nella foga di saltare il più in alto possibile per cercare di rubare lo spazzolino dalla bocca del loro signore e padrone.
Quando sua altezza schiuse l’uscio della porta di casa, non poté fare a meno di schiudere lievemente le labbra e restare lì, vagamente interdetto, di fronte alla signorina minuta che gli si parava davanti, le braccia incrociate dietro la schiena e due code sbarazzine a spuntare dai lati della testa, mosse appena dal leggero venticello che rinfrescava l’aria.
- Uh? – disse molto intelligentemente sua maestà. Sherlee saltò più in alto di Skyline e gli rubò lo spazzolino di bocca. La ragazza lo guardò per qualche attimo con aria curiosa. Dopodiché, sorrise.
- Mi aspettavo meglio. – commentò serafica, sorridendo beatamente, chiudendo gli enormi occhi azzurri e piegando un po’ la testolina tonda, - Ma sei bello lo stesso. Posso entrare? Grazie. – e il secondo dopo stava già facendosi strada all’interno della Villa Gialla, guardandosi intorno evidentemente emozionata e toccando tutti gli oggetti il più possibile, come volesse imprimersene la forma sui polpastrelli per non dimenticarla più. E fu allora che lo chiese. Sua maestà non aveva ancora nemmeno richiuso la porta. – E il mio bimbo dov’è?
Bushido, sovrano unico e solo di quell’appartamento da quando D-Bo aveva preferito vendersi al suo usciere di corte e cambiare etichetta, mentre Kay One aveva improvvisamente stabilito di essere eterosessuale – “no, Bu, davvero. Cioè, sono innamorato di lei, non prenderla male, eh” – trasferendosi in Berlino-centro con la sua adorata e biondissima Mandy, richiuse la porta e si grattò la testa. Viveva solo, fino a prova contraria. E non ricordava assolutamente di essere mai stato a letto con quella tizia – per quanto fosse in effetti difficile richiamarle tutte alla memoria senza confondersi – perciò era ragionevolmente certo di non doverle alcun figlio. Alla luce di tutto ciò, la presenza di un bimbo in quella casa gli sembrava da escludersi nella maniera più assoluta.
Si fece avanti con un sorriso fascinoso, reso in parte ridicolo dagli sbuffi di dentifricio che ancora gli adornavano le labbra, e cercò di essere conciliante.
- Ragazzina. – disse affabile, - Non c’è nessun bimbo qui.
Lei cambiò letteralmente espressione. Da che il suo visino poteva essere senza dubbio alcuno indicato come l’espressione stessa della gioia mista a beatitudine tanto tipica delle fanatiche che finalmente incontrano l’idolo della loro vita, i suoi lineamenti si trasformarono nella personificazione stessa dello sgomento: spalancò gli occhioni e piegò verso il basso gli angoli della bocca, tirandosi indietro all’improvviso, oltraggiata.
- L’hai buttato fuori di casa! – lo accusò, puntandogli contro un ditino tondo, - Di già!
Sua maestà la guardò, incerto. Skyline fece lo stesso. Sherlee mordicchiava ancora lo spazzolino, persa nel suo sapore mentolato e divertita dal solletico che le spatoline di gomma provocavano al suo palato.
- No, guarda… - rispose, cercando di essere razionale, - Tutti coloro che sono andati via di qua l’hanno fatto di loro spontanea iniziativa. – le spiegò, - Io non ho mai costretto nessuno ad andarsene, capisci cosa intendo? – disse, gesticolando come a volerle spiegare meglio e nel modo più chiaro possibile ciò che intendeva, - Kay s’è fidanzato con una tipa, D-Bo-
- Sì, ma chi se ne frega! – continuò la ragazza, agitando disinteressata una mano, - Io sto parlando del mio bimbo, mica di questa gentaglia!
Sua altezza reale si degnò finalmente di chiudere le labbra e riflettere, ripulendosi la bocca dal dentifricio col dorso della mano, e poi ripulendo il suddetto dorso contro i pantaloni del pigiama. Quella ragazzina – che a questo punto probabilmente tanto ragazzina non era – continuava a parlare di questo fantomatico bambino che lui era ragionevolmente sicuro di non dover ascrivere al suo libro paga degli alimenti. Ma ciò non escludeva a priori la possibilità che in effetti un bambino fosse passato da quelle parti, infilandosi a tradimento nella Villa Gialla passando sotto l’intercapedine della porta, tipo, come i gatti, ad esempio. Probabilmente era solo una mamma un po’ ansiosa ed esaurita, c’era da comprenderla, compatirla ed aiutarla.
- Ehm… - azzardò, grattandosi il collo, - Sì, mi rendo conto. Senti, se hai perso il tuo bambino mi dispiace. Sarò felice di aiutarti. – la rassicurò, gonfiando eroicamente il petto. – Ho molte guardie del corpo sparse qui intorno, se mi fai una breve descrizione fisica e mi dici quanti anni ha e come si chiama magari-
- Oh, andiamo! – borbottò lei, saltando sul divano e prendendone possesso, tirando le scarpe dall’altro lato della stanza, - Lo sai benissimo com’è fatto, lo conosci da vent’anni! – poi si guardò curiosamente intorno. – Hai mica da mangiare?
Qualcosa fece crack nel cervello di sua maestà. La ragazza lo osservò con gli occhioni spalancati circumnavigare il divano e sedersi compostamente lì accanto a lei. Appena lo ebbe visto accomodarsi, allungò le gambe sulle sue ginocchia, mettendosi comoda.
- Grazie. – disse, - Ne avevo proprio bisogno.
Bushido non capì esattamente cosa stesse succedendo, ma – sovrappensiero per com’era – prese a massaggiare le caviglie della signorina, sempre guardandola come fosse appena atterrata sul suo divano in sella ad una barca alata con vele di zucchero filato.
- Sì, esattamente. – mugolò compiaciuta lei, stendendosi meglio contro i cuscini, - Ho fatto un lungo viaggio e sono esausta. E visto che il bimbo non è in casa dovremo camminare ancora, quindi un massaggio ci sta come una ciliegina sulla torta.
- Ma si può sapere chi è questo bimbo del quale parli?! – strillò il sovrano, dando prova di saper essere maestoso anche nelle sue incazzature, trattenendosi regalmente dal mandarla in aria con una manata, - E poi come faccio a conoscerlo da vent’anni se è un bambino?!
- Ma che bambino?! – strillò ugualmente lei, allungandosi a tirargli uno scappellotto dietro la nuca, - Ha quasi trent’anni!
Il cervello di sua maestà fece nuovamente crack, in un punto distinto rispetto al precedente, così che improvvisamente Bushido si ritrovò con un cervello tripartito pensante contemporaneamente a tre cose diverse. Se un cervello sembrava propenso a buttare immediatamente la ragazza fuori di casa, il secondo cercava di prodigarne per comprenderne il mistero ed il terzo pensava che nessuno, qui, aveva ancora terminato di lavare i denti, e ciò era disdicevole per un sovrano.
- Scusami, eh… - mormorò sua maestà, già stanco nonostante fossero appena le dieci del mattino, - …io non capisco. Ho delle difficoltà. Chi sei tu esattamente?
- Io sono una fangirl. – rispose candidamente lei, mettendosi seduta sul divano a gambe incrociate, - Il mio nome non ha importanza.
- Ne avrà quando dovrò denunciarti per violazione di proprietà privata. – le fece notare sua maestà, annuendo compito. Lei annuì allo stesso modo, sorridendo felice.
- Questo è un motivo per cui è meglio che io non ti dica il mio nome per esteso. – decise sbrigativa, - Dunque, qui dobbiamo discutere una faccenda di fondamentale importanza, e cioè-
- Cioè chi tu sia e cosa tu voglia da me, per l’appunto. – annuì ancora bushido, ed incrociò le braccia sul petto, così che la fangirl capì che non si sarebbe arrivati da nessuna parte senza che uno dei due cedesse. Peccato lei non fosse affatto interessata a farlo.
- Dunque. – disse, mettendosi in ginocchio e gattonando fino a lui, poggiandogli una mano sulla spalla, - È importante che io ti premetta due cose, Bubbolo. – Bubbolo?, si chiese il sovrano, un po’ disorientato, ma non ebbe tempo di esporre ad alta voce i propri dubbi e le proprie perplessità sul lasciarsi appellare con un soprannome tanto ridicolo, perché la fangirl riprese immediatamente a parlare, - Io ti amo. – disse infatti la ragazza, battendo due pacche amichevoli contro la sua spalla.
- Prendo atto. – rispose lui, tirandosi vagamente indietro. Mai fidarsi delle fangirl. – La seconda cosa?
La ragazza sorrise.
- Ti amo troppo per rispettarti anche. – aggiunse quindi lei, beata come su una nuvola, immersa nella pace degli angeli. – Perciò, premesso che non mi interessa ciò che pensi, cosa sei davvero e se ciò che succederà oggi sia compreso o meno nella tua biografia, mi trovo qui per costringerti a fare della roba.
Sua altezza annuì con grande eleganza, incassando regalmente l’informazione e riflettendo con la tipica saggezza e bontà che il suo status di sovrano universale gli imponeva.
- Che io possa non voler fare queste robe cui tu vuoi costringermi, è un’eventualità che posso permettermi di prendere in considerazione? – chiese, riconoscendo immediatamente negli occhi della fangirl la volontà assoluta di costringerlo comunque, qualsiasi cosa pensasse lui al riguardo.
- Ovviamente no. – scosse il capino lei, - Farai esattamente ciò che ti dirò, senza fiatare. Ed io poi scomparirò come non fossi mai esistita, promesso.
Sua maestà rifletté accuratamente sulle varie possibilità che gli si paravano davanti. Certo, poteva mettersi a litigare con la ragazzina e correre il rischio di non schiodarsela mai più di dosso – così come il rischio altrettanto grave di perdere la pazienza e prenderla a ceffoni, dandole la scusa perfetta per fargli causa e diventare parte della sua vita per sempre nei secoli dei secoli amen. Oppure poteva – e fu ciò che accarezzò con maggiore compiacimento, fin da subito – cedere alle sue richieste e togliersela definitivamente dalle balle. D’altronde, cosa mai avrebbe potuto chiedere? Un bacio? Un autografo? Il manoscritto originale dell’autobiografia? Poteva dar via tutte e tre le cose – la bocca, il proprio nome ed anche la storia romanzata della sua vita – senza particolari turbe psichiche. Fu per questo che sorrise amabilmente, piegandosi un po’ verso di lei ed annuendo affettuoso.
- D’accordo, ragazzina. – disse, - Spara. Quello che vuoi.
Lei giunse le mani sotto il mento, ed i suoi occhi si espansero verso l’infinito ed oltre, riempiendosi di lucciconi di dubbia natura che Bushido pensò dovessero essere le luci provocate dalle proiezioni NC-17 che stavano avendo luogo all’interno del giovane cervellino invasato. Si ritrovò perfino a sorridere con una certa sincera tenerezza quando lei si sporse verso di lui, le gote arrossate dall’emozione ed il labbro inferiore un po’ tremulo. Sollevò una mano per accarezzarle una gota paffuta, ravviandole poi dietro l’orecchio una ciocca di capelli sfuggita ad una delle due codine e sporgendosi a propria volta in avanti per darle ciò che tanto bramava. E poi lei lo disse.
- Allora in piedi, siamo già in ritardo.
Sua maestà spalancò gli occhioni castani già in parte semichiusi e la guardò con evidente confusione riflessa nelle pupille. Aveva appena fatto la bocca al pensiero di darle un bacetto – erano secoli, all’incirca, che con tutto quello che era successo non aveva trovato modo di schienare una donna sul divano – e lei cosa faceva? Prendeva e si alzava?
- Scusa, signorinella. – borbottò, mettendosi in piedi al suo fianco, - Stavo cercando di darti ciò che volevi.
Lei lo guardò con quei suoi enormi occhioni azzurri pieni di stupore ed inclinò lievemente il capino.
- Anche io sto cercando di prendermi ciò che voglio. – lo informò candida, scrollando le spalle.
- Allontanandoti da me?
Lei lo scrutò ancora, incerta, e poi rimise ai piedi le scarpe che aveva calciato via pochi minuti prima.
- Be’, dovremo pure andare a cercare Fler. Altrimenti come farai a baciarlo?
Una quarta parte si staccò dal cervello di Bushido, rotolando all’interno della sua scatola cranica fino a sbattere contro l’osso occipitale.
- Baciare… Patrick? – chiese, boccheggiando affannosamente come un pesce tenuto forzosamente fuori dalla propria boccia, fra le grinfie di un gatto ed osservato con puro sadismo da un tredicenne pazzo in vena di crudeltà accudito da una madre trascurante e da un padre sempre al lavoro. Solo, sperduto e senza scampo, il povero pesce-Bushido annaspò e si dibatté fra le grinfie del gatto-fangirl, cercando di tornare in sé e recuperare della lucidità da qualche parte in mezzo a ciò che rimaneva della propria razionalità.
- Sì. – rispose lei, sbattendosene altamente, per dirla nel modo più appropriato e rispondente alla realtà, del trauma interiore che il povero sovrano stava vivendo. – Solo questo, un bacetto, con lingua e tutto ovviamente, non sono mica cretina, e poi sparirò per sempre dalla tua vita. – sorrise adorabile, sollevando due dita in segno di vittoria. – Promesso!
Bushido la guardò a lungo, incerto. Altre possibilità si aprivano davanti a lui come strade mai solcate da piede umano, e in quanto sovrano era suo compito riflettere bene su ciò che gli aspettava su ogni possibile cammino, così da… oh, fanculo.
- Ragazzina. – disse, abbattuto, - Facciamolo e facciamolo in fretta.
La fangirl sorrise demoniaca. E il sovrano, prima di uscire di casa, si permise – solo un po’ – di sudare freddo.

*

Patrick Losensky, prima di essere un rapper, prima di essere un ex-criminale di Tempelhof, prima di essere una personalità eminente nel mondo del german rap, prima di essere l’amichetto preferito di Bushido, prima di essere l’ex stellina di punta dell’Aggro Berlin, prima di essere tedesco e anche, probabilmente, prima di essere maschio, era un onesto lavoratore. Uno cui piaceva che le cose fossero fatte per bene, oltretutto, con ordine, senza schiamazzi, senza affrettarsi, seguendo un iter ben preciso. Per dire, al mattino gli piaceva svegliarsi, fare colazione – prima caffè zuccherato, poi un biscottino al miele, poi una fetta biscottata con un puntolino di burro, poi mandare a fanculo la dieta e bere mezzo litro di latte pucciandoci dentro una quindicina di biscotti al cioccolato e cinque o sei fette biscottate con sopra burro e marmellata – poi lavarsi – prima la doccia, poi i denti, infine le orecchie – farsi la barba – rifinendone bene il disegno – e poi vestirsi – mutande, calze, pantaloni, maglietta e solo dopo scarpe e giacca. Insomma, era uno metodico.
Per questo, vedersi apparire sulla soglia della porta Bushido accompagnato da una ragazzina sconosciuta e sentirsi poi schienare sulla parete opposta neanche due secondi dopo, con le labbra dell’amico pressate contro le sue e la sua lingua a cercare di farsi spazio dentro di lui, lo mandò letteralmente nel panico. Quello non era il giusto iter da seguire. Se proprio Bushido voleva limonarlo doveva prima presentarsi con tranquillità, poi sorridergli amabilmente, avanzare verso di lui lento, guardandolo in maniera inequivocabile, infine stringerlo al muro, accarezzargli lievemente un braccio e solo dopo, eventualmente, pressare le labbra contro le sue ed infilargli la lingua in gola. C’era un metodo da seguire! Andava rispettato!
Mentre Bushido continuava a baciarlo, mettendoci – lì sì – un sacco di metodo pure invidiabile, tanto che Fler cominciò a chiedersi se per caso non avrebbe dovuto lasciar perdere ciò che era successo fino a quel momento per concentrarsi su quanto sarebbe accaduto da quel momento in poi, Patrick sentì distintamente la vocetta istericamente compiaciuta della ragazzina sillabare follie del tipo “lo sapevo che scriverlo nelle fanfic non bastava, dovevo venire a pretenderlo di persona… d’altronde, si dice che per portarsi a casa il banco uno deve scommettere il massimo, ed io il banco qui me lo porto a casa eccome”, scattando fotografie a velocità straordinarie, roba da fare invidia al miglior paparazzo sulla piazza.
Fu ancora la voce della signorina ad interromperli definitivamente, una decina e due paia di centinaia di scatti dopo.
- Eh sì, okay, - disse con tono lamentoso, spostando graziosamente il peso da un piedino all’altro, - però, per quanto possa farmi piacere osservarvi mentre vi mangiate la faccia a vicenda, io ho altro da fare e pochissimo tempo per farlo, perciò… - e così dicendo afferrò Fler per una spalla e lo trascinò lontano da Bushido, - Bubbolo, tu puoi andare. Ora muoviamoci, bimbo mio adorato, la Beatlefield non sta esattamente dietro l’angolo.
- Eh? – chiese giustamente il rapper, guardandola con enormi occhioni azzurrissimi, - Cosa? Chi? …perché?
- Eh? – gli fece eco il suo degno sovrano, degnandosi però di esplicare meglio i pensieri che, confusamente, si accavallavano all’interno del suo privatissimo cervello quadripartito, - Perché alla Beatlefield? – e poi un  brivido lo scosse lungo tutta la spina dorsale, costringendolo ad un tremito. – Non avrai intenzione di…
- Esattamente. – sorrise amabile la fangirl, - Coraggio, bimbo, - continuò, strattonando Fler verso l’uscita, - Sai, io ti amo ma non ti rispetto e bla bla, mi sono un tantino rotta le palle di questi disclaimer, tanto tu un’autobiografia ufficiale nemmeno ce l’hai, ti spiace se passiamo un attimo dal Chaky e te lo limoni una decina di minuti, tanto per gradire? Ho delle fangirl che aspettano un picspam in community e non vorrei deluderle, grazie.
Silente, Bushido osservò la fangirl uscire tirandosi dietro Fler come un sacco di patate, del tutto indisturbata nonostante gli oltre ottanta chili di peso dell’uomo e i suoi ragguardevoli due metri circa d’altezza, mentre lui provava a dibattersi utilizzando la tecnica del pesce fuor d’acqua che egli stesso aveva avuto la sfortuna di provare sulla propria stessa pelle, e sospirò. Aveva ancora dei denti da lavare, d’altronde. E fu concentrandosi su questo che, dopo una sbrigativa scrollatina di spalle, prese la strada di casa.
Storia appartenente alla serie Jung Und Nicht Mehr Jugendfrei, prequel di Eine Kugel Reicht.
Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Nessuno.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Language.
- "Quando torno a spostare la mia attenzione su di lui, Anis sta ancora sorridendo. Io non riesco nemmeno a trovare un’espressione, perché sono troppo felice."
Note: Sono circa due ore che cerco di postare questa storia X’D Prendetevela con Tab, ella mi ha fatto leggere cose ed io mi sono enormemente distratta. Comunque! Ecco a voi il secondo episodio di Mini!Fler e Mini!Bu alle prese con le difficoltà dell’adolescenza, i primi batticuori, le prime consegne, le prime pistole *annuisce compitamente* Son ragazzini, d’altronde. E Fler è palesemente troppo piccino per ciò a cui lo sottopongo ;_; Ponfolo. Ma questo non fa che renderlo ai miei occhi più puccino e meritevole d’amore. Sono una madre asservita. E Bushido è bellissimo. E la Smith & Wesson (che è quella che Fler porta con orgoglio in Staatsfeind #1, oltretutto XD), potete vederla cliccando qui, io la amo, è meravigliosa, ne voglio una uguale e soprattutto me la sto coccolando da millemila milioni di mesi. 
A parte ciò, unica precisazione riguardo al titolo, rubato (e riadattato) da un verso della splendida Weapon di Matthew Good. Posso già sentire Meg urlare come una fangirl impazzita in sottofondo. \o/
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How He Made Me A Weapon


Anis entra in camera mia dalla finestra e sta già sorridendo. Io – che sono qua seduto sul letto e sfoglio un volume di Spider Man che dovrà avere trent’anni, e comunque lo so a memoria – faccio finta di non notarlo, perché vedo che sta già sorridendo in quel modo lì. Anis quando sorride in quel modo lì sta pensando cose. Quando Anis pensa cose bisogna cominciare a preoccuparsi, anche perché non è che lo capisci, cosa sta pensando, finché non te lo dice lui; sai solo che qualcosa c’è, ma non sai cosa, ecco.
- La grondaia sta cedendo. – mi fa, e si butta sul letto accanto a me, facendo saltare tutto il materasso.
- Continui ad appendertici… - gli faccio notare, scrollando le spalle e girando la pagina, - È solo una grondaia, lasciala in pace. Puoi entrare dalla porta.
- È più comodo così. – ride lui, - Evito tua madre che mi chiede se voglio mangiare perché “oh, Anis, sei così magro”!
- Patrick! – mi chiama mia madre dal piano di sotto, appunto, - È già salito Anis?
Io sbuffo e mi metto in piedi, abbandonando il fumetto aperto sul letto ed affacciandomi alla porta per parlarle attraverso la tromba delle scale, mentre Anis, giustamente, ride, prendendo il fumetto in mano e cominciando a sfogliarlo con aria perfettamente tranquilla.
- Sì! – urlo, - Ma la vecchia scala di papà c’è ancora da qualche parte? – chiedo.
- Sì, tesoro, c’è, - risponde lei, mentre la sento aprire il frigo, - ma non ti permetterò di mettere una scala davanti alla tua finestra.
Io sbuffo ancora, roteo gli occhi e mi chiudo la porta alle spalle, tornando a letto.
- Devasterai la grondaia perché mamma non mi fa mettere su la scala.
Anis ride ancora, e continua a sfogliare l’albo.
- Tua madre ha ragione. Chissà quanti omaccioni brutti e cattivi salirebbero.
Io ghigno.
- Te compreso?
- Io – continua a ridere lui, dandomi un colpo di fumetto sulla testa, - non sono un omaccione, non sono brutto e non sono cattivo.
Inarco le sopracciglia e potrei rispondere a tono a tutte e tre le cose. Faccio anche per dirlo, in realtà, apro la bocca e tutto, cercando di riprendermi il fumetto, ma mia madre apre la porta e, per evitare che mi trovi tutto spalmato addosso a lui, mi tiro indietro, schiacciando le spalle contro la parete e guardandola con aria un po’ irritata quando avanza all’interno della stanza reggendo fra le braccia un vassoio con due bicchieri di latte e un piattino con qualche biscotto al cioccolato. Mi sa che stavano pure finendo e quella era la mia colazione di domani, che palle. Mi toccherà tirare fuori da sotto il materasso qualche soldo e andare a comprare qualcosa per i fatti miei. Poi il resto glielo metto nel portafogli, tanto mamma i soldi non li conta mai, non li contava prima e non si accorgeva che sparivano e non li conta adesso, e non si accorge che appaiono.
- Anis, sei sempre più magro! – chioccia mia madre, posando il vassoio sul mio comodino e intrecciando le mani sul cuore in una posa apprensiva, - Bevi un po’ di latte e mangia un po’ di biscotti, per favore. Tua madre comincerà a chiedersi se non ti affamiamo, quando vieni qui da noi!
Io roteo gli occhi ed evito di dire che la madre di Anis, chiunque sia, probabilmente non sa nemmeno della mia esistenza, figuriamoci della sua e figuriamoci poi se sa che è qui che Anis viene a passare i pomeriggi quando non lavora. Chissà se sa che lavora, oltretutto. Magari è ancora convinta che frequenti il ginnasio, ‘cazzo ne so. Anis è capace di farti credere quello che vuole.
- Signora, - la saluta lui con un cenno del capo, e fa quel sorriso lì, quello delle femmine, che quando lo fa alle ragazze per strada va anche bene, ma se lo fa a mia madre io un po’ mi schifo, se devo dire la verità, perciò storco il naso e faccio una smorfia, distogliendo lo sguardo, e lui ride. – Grazie mille dell’ospitalità. – continua, e mentre mia madre si prende benissimo e comincia a chiedergli come sta e tutto a me viene voglia di mandarlo a fanculo.
Comunque, a un certo punto ci sono loro che continuano a parlare e io non so se mi dà più fastidio che Anis stia parlando con mia madre o che mia madre stia parlando con Anis, però non è neanche così importante, alla fine, e tutto ciò che riesco a fare è mettermi a sbuffare. Mia madre si lamenta che cerco di tenerla all’oscuro della mia vita – e non sa che è vero, e non sa che le sto facendo un favore – e Anis si mette a ridere. Lo odio quando ride così.
- In realtà oggi sono venuto perché volevo chiedere a Patrick quand’è che fa il compleanno. Giusto per sapere. – fa. Ed io mi sento gelare il sangue nelle vene.
- Oh! – s’illumina mia madre, e io per poco non mi spiaccico una manata sulla faccia, - All’inizio del mese prossimo, il tre aprile.
- Mamma, ma chi ti ha detto di-
- Oh… - ghigna Anis, e basta questo a zittirmi, - Fra poco. – mi fa notare con un altro di quelli sorrisi lì, tipo quelli delle femmine, però quando li fa a me non sono quelli delle femmine. Non so perché mi sorride in questo modo, a volte, però so che sa che mi mette un sacco in imbarazzo. Forse è per questo che lo fa, visto che è uno stronzo. – E sono quindici, giusto? – e io voglio sparire.
Mia madre spalanca gli occhi e mette su una faccia un po’ stupita e un po’ confusa, tipo che secondo me si sta chiedendo se Anis non abbia fatto male i conti, e quindi fa tipo “uhm” e io abbasso lo sguardo ed arrossisco, e lei tipo “no, Anis, ti sbagli, deve farne quattordici”.
Anis si ferma immobilissimo accanto a me. Si prende il tuo tempo, non so a cosa pensi, comunque quando sollevo gli occhi mi sta guardando fisso e sta ghignando in una maniera insopportabile, che io per forza devo aggrottare le sopracciglia e guardarlo come se volessi ucciderlo qui ed ora, anche se a lui la cosa non fa il minimo effetto, perché continua a ghignare in quel modo.
- Ti fai grande! – dice alla fine, e io un po’ apprezzo che non mi abbia sputtanato con mia madre, ma tanto dall’altro lato so che me la farà scontare tutta quando saremo da soli, quindi non lo apprezzo più di tanto, so già che non se lo merita.
Mia madre scende al piano di sotto qualche secondo dopo, e io nemmeno lo guardo, Anis: lo sento che sta ancora ghignando, qui accanto a me, ed è troppo vicino per poterlo guardare che ghigna in questo modo e restare tranquillo. Nel senso, so già che se mi volto e lo vedo che ghigna così e così vicino, faccio qualcosa. E sono quasi sicuro che sarebbe qualcosa di cui mi pentirei, anche se non so esattamente cosa farei, quindi preferisco non fare niente e basta. Lui mi spintona un po’.
- Quattordici ne avevi, mh? – mi prende in giro, - Ragazzino, sei stupidissimo.
- Non sono stupido! – sbotto, tornando a guardarlo, - Non ho mentito, ne ho quasi quattordici!
- Sì, ma tu mi hai detto che li avevi già compiuti… - fa un rapido calcolo, - tre mesi fa. – e ride. Poi sospira e mi guarda, inarcando un po’ le sopracciglia. – Sei bravo a raccontare balle. – mi fa, avvicinandosi appena, - Ci ero cascato, anche se a guardarti, adesso che lo so, è ovvio che sei un bambino. È un bel talento, ti sarà utile in futuro. – e poi si avvicina ancora e io respiro a fatica. È troppo vicino, non si va così vicini alle persone, invadi il loro spazio, rubi la loro aria, non si fa e basta. – Solo, non provarci mai più con me, ragazzino. Potrei arrabbiarmi.
E io boccheggio un po’, perché quando me lo dice è veramente troppo troppo vicino, e quindi mi tiro indietro, e nel tirarmi indietro mi dimentico che il mio, per quanto grande, giustamente è un letto singolo, e quindi casco. Si può essere più idioti? Casco. Col culo per terra. E mi faccio pure un cazzo di male, oltretutto. E Anis, manco a dirlo, ride come se non avesse mai visto niente di più divertente in vita propria. Che poi mi sa che è anche vero. Sto facendo una figura ridicola dietro l’altra.
- Insomma, il tre aprile. – lo vedo che prende nota, lui c’ha tipo questa cosa che si scrive le cose in testa, no? Fa così anche quando Arafat gli dice cosa fare e dove andare, lui segna tutto mentalmente e quando lo fa glielo vedi passare negli occhi, tipo. Che poi è strano, perché ha gli occhi scuri e torbidi, quindi non ti aspetti che possano parlare tanto. Però quando lui vuole lo fanno. Quando vuole che tu lo capisca senza sprecarsi a parlare, per esempio. Con me l’ha fatto ancora pochissime volte, però io l’ho afferrato, quelle volte, cos’è che mi stava dicendo. Quindi penso che lo farà più spesso, in futuro, e siccome Anis è uno cazzuto questo vuol dire che sono cazzuto anch’io. E ne sono orgoglioso, ecco.
In tutto questo però sono ancora seduto in terra come un cretino, perciò – siccome mi sento ancora più stupido a pensare in grande quando sembro un idiota – mi metto in piedi e lo fisso. Ormai sono alto quasi quanto lui. In tre mesi sono cresciuto un casino, e anche se lui dice che è merito suo, che mi tiene in forma, io penso sia solo merito del fatto che sto crescendo e basta, quindi in pratica non è merito di nessuno, al limite mio. E insomma, non può mica prendersi tutti i meriti lui.
- Sì, il tre aprile. – confermo, - Cosa, vuoi portarmi il regalo?
- La mia presenza sarebbe un regalo sufficiente. – ride lui, scendendo giù dal letto apposta per ricordarmi che mi supera ancora di almeno cinque centimetri, - Ma in realtà ho dei progetti migliori. Solo che, visto che sei ancora così piccino, li rimanderò all’anno prossimo.
Aggrotto le sopracciglia e sbuffo.
- Che progetti?
- Fidati.
- Riguardano me, ho il diritto di-
- Fidati. – ripete lui, voltandosi verso la finestra. – Andiamo? Siamo in ritardo di dieci minuti, Arafat ha parlato col cubano, stamattina, e dobbiamo andare al porto a recuperare un carico.
Io sbuffo, mentre lo osservo scavalcare il davanzale e cominciare a scendere lungo la grondaia. Lo imito, reggendomi al tubo come mi ha insegnato a fare lui una delle prime volte che è venuto, e solo quando siamo di nuovo a terra, sul prato tutto rovinato del cortile dietro casa mia, gli parlo ancora.
- Quanti chili dobbiamo portarci in giro, stavolta? Otto? Dieci?
Lui ghigna e annuisce.
- Dieci. Ma tanto ormai hai le spalle forti. Cosa vuoi che siano cinque chili di polvere? Mi sa che lo zaino della scuola pesava di più.
- Sì, ma – gli faccio notare, - i libri della scuola non mi attiravano addosso gli spiantati che volevano rubarseli.
- A proposito, - mi chiede lui, andando verso la macchina, - ci vai ancora, sì?
- Uh? – chiedo io, mentre lui apre lo sportello, facendo il giro della macchina, - Dove?
- A scuola, ragazzino. – borbotta sedendosi al proprio posto, - A scuola.
Io mi seggo lì di fianco e scrollo le spalle.
- Tu non ci vai più.
- Ti ho chiesto se ci vai tu, non se ci vado io. – mi fa notare lui, e io distolgo lo sguardo.
- Non avevano nient’altro da dirmi, al ginnasio. – rispondo a bassa voce.
Lui sospira e mette in moto.
- Sei stupidissimo, ragazzino. – commenta. Però poi ride. – Mi sa che hai ragione, comunque.
Il discorso lo chiudiamo così e io a scuola non ci metto più piede, e non me ne pento nemmeno, perché comunque andare in giro con Anis è un sacco più istruttivo, e poi guadagno bene, Arafat mi ha preso in simpatia perché dice che sono sfacciato e ho le palle – e se Arafat ti dice che hai le palle allora le hai davvero – e mi sa che presto mi farà fare qualcosa tutto da solo, che io ci spero, perché per quanto mi piaccia andare in giro con Anis lui è convinto che io non saprei fare niente, senza di lui, e questo non è vero, saprei cavarmela alla grande. Solo che ad Anis non basta dirgliele, le cose, per fargliele capire: devi fargliele vedere. Quindi lui non si rassegnerà ad ammettere che anche io sono capace di farcela, almeno fino a quando non mi avrà visto tornare vivo da un lavoro che ho portato a termine tutto da solo.
Comunque niente, le cose vanno bene, quel pomeriggio – e in realtà vanno bene anche i pomeriggi successivi, e settimana dopo settimana io entro sempre più nel giro, e i soldi diventano di più, e le sbronze più frequenti, e Anis diventa praticamente una costante della mia vita. E io che prima mi annoiavo un sacco comincio a fare un sacco di cose, comincio a uscire di notte – quando Arafat decide che sono pronto ed Anis è d’accordo con lui, non prima – e anche se il lavoro da solo continua a farsi attendere in realtà non posso lamentarmi, perché faccio un sacco di cose tutto il giorno, non mi riposo quasi mai e porto a casa un sacco di soldi e altrettanti posso tenerne per me. Finché mamma non capisce da dove vengono, va bene, e quando lo capirà sarà okay lo stesso, perché le farò capire che è tutto a posto, non sono in pericolo, sto diventando forte e comunque Anis mi aiuta. Si fida di lui, anche se non penso dovrebbe. Cioè, lei si fida di lui a livello generale. È questo che non dovrebbe fare. Però potrebbe fidarsi di lui per quello che riguarda me, perché con me Anis è onesto, e fa le cose per bene. Di questo si può fidare. Di questo posso fidarmi anch’io.
In sostanza, in questo periodo che c’ho un sacco da fare, mi passano di mente i grandi progetti che Anis ha per me e per il mio compleanno. Me li ricordo solo il tre aprile, che non c’ho nemmeno voglia di svegliarmi perché ieri sera sono rimasto ad aspettare Anis nel punto in cui dovevamo vederci per qualcosa come millemila ore, dalle undici alle due del mattino circa, e solo alle due, appunto, lo stronzo s’è degnato di farmi sapere che potevo tornarmene a casa perché lui aveva trovato da fare e non poteva farsi vedere. E al telefono sentivo ridacchiare una troia, ovviamente. Il suo da fare, quando dice che non ha tempo per me, in genere quello è. Quindi me ne sono tornato a casa pure coi coglioni girati, e sono riuscito ad addormentarmi che erano tipo le quattro del mattino. Perciò ora mi da fastidio che mi tiri i sassolini sulla finestra, che rischia anche di rompermi il vetro. E – apro un occhio e guardo la sveglia – sono le undici. Ho sonno. Stronzo due volte.
Mi alzo controvoglia, mi affaccio e lui mi tira una sassata sulla faccia. Cioè, fanculo. Non è che lo fa apposta, me ne rendo conto, ma fanculo lo stesso.
- Ahi! – ruggisco, tirandogli indietro il sasso, - Ma dico, che stronzo!
- Scusa! – ride lui, prendendo il sasso al volo e facendoselo saltare sul palmo, - Certo che quando dormi non ti smuove nessuno!
- Veramente mi hai svegliato mezz’ora fa. Non mi sono affacciato subito perché non volevo farlo. Sei uno stronzo, comunque, ieri potevi almeno-
- Oh, andiamo, Pat, ho avuto da fare, te l’ho detto e ti ho chiamato, cosa volevi di più, che venissi a salutarti e darti il bacio della buona notte mentre cercavo di infilarmi fra le gambe di Marina, ieri?
Aggrotto le sopracciglia e incrocio le braccia sul petto.
- È il mio compleanno. – dico. Non so perché lo dico.
Lui sorride.
- Lo so. È per questo che sono qui. – non mi fa tanti auguri. Dico, che stronzo. – Scendi?
Io sospiro e neanche gli chiedo perché vuole che scenda, tanto è palese che se non vado giù io con le mie gambe sale a prendermi e a portarmi giù lui, perciò richiudo la finestra, mi infilo un paio di pantaloni ed una maglietta a caso, recupero le scarpe, metto la giacca e saluto mamma, che fa la gnorri e fa finta di niente anche se ho visto un pacco regalo enorme nascosto dietro la poltrona, in salotto.
Quando esco in strada, Anis è già in macchina che suona il clacson.
- Sì, sono qui! – borbotto, scavalcando il cofano con un salto per fare prima. Sono cresciuto ancora, nell’ultimo mese. Le mie gambe sono diventate chilometriche, posso farci un sacco di cose. Comunque entro in macchina. – Tutta ‘sta fretta perché?
- Perché siamo in ritardo, ovviamente. – annuisce lui, mettendo in moto, - Arafat ti farà il culo, ragazzino, perché io gli dirò che è stata colpa tua.
- Ma lavoriamo anche oggi? – mi lagno, sollevando una gamba per incastrarmi fra il cruscotto e il sedile, anche se ormai non mi riesce più bene come mi riusciva quattro mesi fa, - Non ce l’ho il diritto a una vacanza, almeno oggi?
- Li vuoi i tuoi regali, ragazzino? Allora te li devi guadagnare. – risponde lui, pratico, sfilando svelto fra le strade di Berlino nonostante il catorcio.
- Ma i regali non dovrebbero arrivare gratis? Che regali sono, se me li devo guadagnare? – borbotto.
- La vita gratis non ti dà niente, ragazzino. – annuisce lui, - Quindi ora basta lamentarti, Arafat ha in serbo qualcosa di importante per te.
- Sì, però – scrollo le spalle io, - noi non stiamo andando da Arafat.
Lui si irrigidisce appena e poi ghigna.
- Ma bravo. Sappiamo già le strade a memoria?
- Tu sei convinto che io sia scemo, ma non è mica vero. – gli faccio notare, sollevando anche l’altra gamba e cercando una posizione più comoda.
- Ti sbagli, ragazzino. – mi corregge con un mezzo ghigno, - Io non sono convinto che tu sia scemo. Sono solo convinto di essere più intelligente di te.
- Oh, sì, immagino che ci sia una differenza. – protesto astioso, sferzandolo con un’occhiataccia, o almeno provandoci. Non che ci si riesca mai particolarmente bene, con lui. Il punto è che, se decide di ignorarti, tu puoi pure ricoprirlo di ingiurie, ma non lo scalfisci per niente. Quindi chiaramente ora lui guarda dritto sulla strada e se ne frega dei miei occhi, anche se sto facendo di tutto per cercare di perforargli il cranio col solo sguardo. Stronzo.
- Ragazzino, - ride lui, svoltando all’improvviso in una strada che non conosco, - vuoi piantarla di fissarmi così? Non te lo do il tuo regalo, sai?
- Non mi servono i tuoi regali. – sbotto, rimettendomi dritto, - Senti, ma dove mi porti? – chiedo poi, e non riesco a trattenere la curiosità nella voce, dannazione. Lui, comunque, la ignora del tutto, e si ferma alla prima parte di ciò che ho detto. Ne esce sempre facilmente, così, ascolta solo quello che vuole. O meglio, ascolta tutto, registra tutto e risponde solo a ciò che vuole.
- Potrei anche offendermi. Non sai cosa voglio regalarti, oltretutto. Potrebbe piacerti.
- Ma ti ho detto che non mi interessa! – insisto, - Dove andiamo?
- Se non ti interessa faccio il giro e ti riporto a casa, eh?
- Ma la vuoi piantare di non ascoltarmi?! – sbotto, saltellando praticamente sul sedile, - Ti sto chiedendo da mezz’ora dove andiamo e tu mi ignori!
- Non è esatto. – ghigna lui, parcheggiando di fronte ad una casetta bianca e grigia dall’aria non ricchissima ma nemmeno tanto ammaccata come le altre che costeggiano la via, - Mi hai chiesto dove stavamo andando ed io ti ho risposto che se l’articolo non t’interessava ti avrei riportato a casa. È una risposta.
- Del cazzo. – borbotto io, imitandolo quando, dopo aver spento il motore, apre lo sportello e scende dalla macchina, - Quale sarebbe l’articolo che dovrebbe interessarmi?
- Be’, - risponde con un sorrisino, imboccando un vialetto ghiaioso, - io, suppongo.
- Non erano i tuoi regali? – rispondo con un ghigno furbo.
- Io non sono un bel regalo? – continua lui, ridendo come il cretino che è.
- Tu sei uno stronzo. – gli faccio notare, e lui ride ancora.
- Una cosa non esclude l’altra. – risponde serafico, - E ora modera il linguaggio, ragazzino. Stai per conoscere la Mama.
Io non ho il tempo materiale di chiedermi cosa intenda lui con quest’epico “la Mama” che peraltro gli è scivolato fra le labbra avvolto in un’aura di sacralità che mi fa pure paura. Non ho neanche il tempo materiale di mandarlo a fanculo perché a me, di moderare il linguaggio, non me lo dici, tunisino del cazzo o quel che sei o qualunque sia il dannato luogo dal quale provieni. In realtà non ho il tempo materiale di fare niente, perché appena Anis apre la porta io finisco stretto fra due braccia e schiacciato contro un paio di seni, tipo, giganteschi, che profumano distintamente di cioccolata. E comincio ad agitarmi.
- Buon compleanno, Pat! – dicono le tette giganti, ed io sento Anis ridere da qualche parte intorno a me, anche se non riesco a identificare quale, visto che tutti i suoni mi arrivano ovattati. Il mio naso è perso da qualche parte assieme alla mia faccia, io inalo solo odore di dolci ma ciò non significa che io riesca a respirare. Infatti non ci riesco, e cerco di farlo notare alle tette giganti appendendomi un po’ ovunque e cercando di spingerle via, ma non ci riesco perché hanno una presa di ferro. Dico, delle tette con una presa. Non potevo aspettarmi niente di diverso dalla donna che ha partorito Anis, suppongo.
- Mama, Mama… - lo sento dire, e poi le due tette giganti, finalmente, mi lasciano libero. Quando torno a respirare, vedo che appartengono ad una signora bassa e rotondissima, pallida e incredibilmente tedesca. C’ha pure gli occhioni azzurri e i capelli rossi e lunghi e lisci e mi sa che quelle sono tipo lentiggini. Cioè, wow. Com’è che da questa signora bianchissima è venuto fuori il tunisino? – Non me lo soffocare, - continua Anis, ed io mi rendo conto che sono libero perché lui l’ha presa per un braccio per sbaciucchiarsela con un gusto che manco fosse fatta di zucchero, - mi serve ancora.
La signora mi guarda come se non avesse mai visto niente di più bello di me al mondo, tipo.
- Oh, Anis, - sospira stringendo le mani al petto mentre io guardo prima lei e poi il figlio con aria fra lo sconvolto e l’impaurito, - ma è carinissimo!
Io spalanco gli occhi e mi concentro su di lui. Però punto l’indice contro di lei.
- Mi conosce? – chiedo confusamente. Anis ride.
- Mi ha parlato moltissimo di te! – risponde la signora al suo posto. Io continuo a guardare Anis come se lo stessi vedendo per la prima volta, e la signora continua a parlarmi come se io non la stessi indicando in un modo che, peraltro, se ci fosse qui mia madre mi darebbe mestolate sulle mani, - Mi ha anche detto che oggi è il tuo compleanno, quindi tanti auguri, tesoro! Dentro c’è la torta e qualche amico coi regali, e- oh, a proposito, io sono Luise.
Io cerco di prendere tutte le informazioni che la signora mi sta passando e organizzarmele nel cervello, ma non mi viene tanto bene. Un po’ perché, boh, Anis che parla di me a sua madre mi stupisce e mi imbarazza pure. Voglio dire, boh. Cioè, boh. È strano. Eppoi di che gente parla? Non ho capito, chi c’è qua dentro? Ma è una festa a sorpresa o che?
E comunque non ho il tempo di lamentarmi – di nuovo – perché la signora mi tira ancora verso di sé, mi stringe e, mentre Anis ride di cuore e sale al piano di sopra – ‘cazzo mi lasci qui da solo con tua madre, stronzo?! – mi trascina verso la sala da pranzo, dove ovviamente trovo gli altri. E gli altri sono Arafat, Hussein, Mirko, Abdallah e tutti gli altri della banda, che io comincio a chiedermi se a questo punto anche la signora non sia una spacciatrice o chissà che. E nel frattempo Anis è ancora sparito al piano di sopra e io sono qui con tutti che mi fanno gli auguri e mi danno manate sulle spalle e mi passano pacchetti con le caramelle – perché sfottono, gli stronzi, e visto che sono quattordici anni mi regalano le caramelle, che cazzo – e la signora Luise mi propina una fetta di torta grande quanto la mia testa ed è tutta al cioccolato e con la panna sopra, quindi a un certo punto basta, me ne frego, mi siedo e comincio a mangiare, che tanto stanno ridendo tutti, quindi non vedo perché non dovrei farlo anch’io.
Il momento di grazia è interrotto da Anis, ovviamente, figurarsi se quell’uomo mi lascia in pace una volta che sono tranquillo per i fatti miei. Che poi non sono tranquillo per i fatti miei, al più sono tranquillo per i fatti suoi, perché questa gente con me fino a qualche mese fa non c’entrava niente, e invece ora sono diventato tipo parte della famiglia. Che non è come rinnegare mia madre, è più come… allargarsi verso qualcosa di più completo. Non lo so, Anis ogni tanto mi dice che ci sono cose che capisci solo col tempo, quando vai crescendo. Questa cosa io sto cominciando a capirla ma non è che so proprio spiegarla.
Comunque è una cosa piacevole. Allargarsi verso qualcosa di più completo, dico, non Anis che mi interrompe proprio mentre sto mandando giù la rosellina di biscotto che la signora Luise mi ha appena detto di avere intagliato per me durante la mattinata.
- Ragazzino. – dice, tutto serio, - Vieni di fuori, dai.
Io sollevo lo sguardo col biscotto mezzo in bocca e mi lamento.
- Ma sto mangiando! – protesto, e tutti ridono attorno a me. Anis aggrotta le sopracciglia ed Arafat, qui accanto a me, mi tira una mezza gomitata contro la spalla e mi dice di alzarmi.
- Vai con lui, - mi fa, - che ha anche preteso di pagartelo tutto da solo, il tuo regalo.
Io piego un po’ il capo e Anis neanche mi aspetta, prende e imbocca la porta. Che devo fare io? Lo seguo, ovvio.
Finisce che mi porta nel cortile dietro casa sua, che è un posto anche un po’ schifoso, nel senso che da davanti la villetta sembra pure carina, però qui dietro non solo si vedono tutte le case popolari vecchissime e piene di crepe, ma pure il cortile in sé non è che sia tutta ‘sta meraviglia. È pieno di erbacce e un sacco disordinato, e le lastre di pietra sono macchiate di umido e muschio a chiazze.
Resta un sacco in silenzio, comunque, ed io comincio pure ad innervosirmi. Primo perché c’è ancora la torta col biscotto che mi aspetta, dentro. Secondo perché voglio il mio regalo. E terzo perché vedo che è teso, cioè, è molto serio, come se stesse per dirmi qualcosa di importantissimo, quindi chiaramente sono teso e serio anch’io, però non è che sappia reggerle così bene, ancora, queste atmosfere, quindi finisco per innervosirmi un sacco. Se non sbotto “allora?!” è solo perché so che si arrabbierebbe.
Ed è lì che lui ovviamente sorride. La questione dei sorrisi, con Anis, è complicata, perché lui ride e sorride sempre, ma tu in genere lo capisci che non fa sul serio. Che al limite ti sta prendendo in giro. Però in questo momento lui mi sorride e io vedo senza fatica che è un sorriso sincero. Ed è una cosa un po’ strana, però mi piace la sensazione che mi dà, proprio a pelle. Ho un po’ di brividi. Spero di non essere arrossito, sarebbe ridicolo.
- Buon compleanno. – fa, e mi passa questa scatola nera legata da un laccio rosso sangue, scurissimo, di raso. Un sacco elegante, poi. Mi fa strano pure a prenderlo in mano, ma lo faccio lo stesso perché non posso mica lasciarlo in mano a lui.
- Cos’è? – chiedo mentre slaccio il nastro. È una cosa da bambini, ma sono curioso. Vorrei che me lo dicesse subito, cos’è, però allo stesso tempo vorrei anche che me lo lasciasse scoprire da solo. Mi sento un po’ emozionato, non ho mai ricevuto un pacchetto così bello.
- Aprilo. – risponde lui, e sorride ancora, appoggiandosi di schiena contro il muro della casa, al mio fianco. Io lo imito, dondolandomi un po’ sui piedi mentre scoperchio la scatola e frugo nella carta velina, cercando il mio regalo fra gli strati sottilissimi.
E lei viene fuori.
Anis ride quando mi osserva tirare su la Smith & Wesson guardandola come fosse… non lo so, penso che così si dovrebbero guardare tipo le donne. Quelle bellissime per le quali sai che faresti di tutto, tipo morire, tipo uccidere, ed io così ci sto guardando una pistola. Cazzo, è stupenda. Mi pesa contro la mano quando la impugno per guardarla da ogni lato, e nel tentativo di sentirla meglio sotto i polpastrelli lascio cadere in terra la scatola, che è sempre bellissima ma non bella quanto lei. È tutta intagliata. Tipo nei minimi particolari. È argentata e brilla nella luce del sole ed è tutto intagliato perfino il tamburo. E io una pistola non l’ho mai presa in mano prima d’ora, a parte la Heckler che Anis mi ha chiesto di reggergli un attimo una settimana fa, e ora che ci penso ho guardato la Heckler più o meno come ora sto guardando la Smith & Wesson, ma lei la guardo con più amore, perché è più bella, perché è il mio regalo, perché è mia.
Quando torno a spostare la mia attenzione su di lui, Anis sta ancora sorridendo. Io non riesco nemmeno a trovare un’espressione, perché sono troppo felice. Non lo so che espressione dovrei fare in questo momento, non sono mai stato così felice e mi riesce difficile trovare un sorriso adatto. Poi sembro sempre un cretino, quando sorrido, me lo diceva anche Martina della terza classe, che poi non mi ha mai voluto limonare per questo, stronza che era. Comunque al momento non importa, io però non so che espressione fare, quindi non ne faccio nessuna, lo guardo e basta.
- Ti piace? – chiede quindi lui, inarcando un sopracciglio.
Io annuisco lentamente.
- È stupenda. – aggiungo, - Non immagino neanche quanto ti è costata.
- Non importa. – scuote il capo lui, - Piuttosto, sai usarla?
Rido anch’io, stavolta per imbarazzo.
- Per niente. – ammetto, - Dovrai insegnarmi tu.
Lui fa una specie di sospiro teatrale, alzando gli occhi al cielo.
- Ti si devono insegnare un sacco di cose. – commenta in un mezzo borbottio.
Io annuisco. Voglio dire, ho quattordici anni. Cosa pensa, che nasci ed assieme a te viene fuori il manuale d’istruzioni per la vita?
- Mi fa piacere se me le insegni tu. – dico io, sinceramente. Perché è vero. Cioè, lui è un po’ il tipo che vorrei essere io da grande. Perché è cazzuto ed è uno stronzo ma è un sacco bravo in tutto quello che fa. È una persona alla quale non puoi dire niente. È uno stronzo, ok, sì, e ottiene tutto quello che vuole. E protegge i suoi cari. E non deve niente a nessuno. E ce l’ha fatta da solo. E io voglio essere uguale. Voglio essere come lui.
E lui, quando mi sente parlare, mi guarda a lungo, per un secondo infinito che io non capisco, mi guarda con quegli occhi che sembra mi vogliano scavare nel cervello o sotto la pelle, e poi si inumidisce le labbra e sbuffa qualcosa, dandomi un colpetto contro la fronte col palmo della mano.
- Vedrò di accontentarti, ragazzino. – mi fa, - E ora torniamo dentro, la torta della Mama aspetta.
La torta della Mama, naturalmente. Io rido, ripenso al biscotto a forma di rosa e penso che è un po’ stupido desiderare ancora quel biscotto con la stessa voglia con cui lo desideravo prima, perché adesso ho una pistola e dovrei essere più grande e meno scemo. Invece niente, sono uguale a prima e in fondo questa cosa mi piace. Seguo Anis in casa, nascondendo la pistola nella tasca dei jeans, dietro, coprendola con la maglietta. Ho paura che la vedranno tutti, ma insomma. Ne hanno una ciascuno. E poi è bellissima, la mia Smith & Wesson. Non vedo l’ora di metterla nel cassetto del comodino, stasera. Magari domani mi faccio accompagnare da Anis da qualche parte per comprare la fondina. Non vedo l’ora di cominciare ad usarla.
Storia appartenente alla serie Jung Und Nicht Mehr Jugendfrei, prequel di Eine Kugel Reicht.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Violence, Language.
- "È un tagger, lui. E lo mettono a lavorare con me.
Il sistema giudiziario tedesco ha fatto un altro buco nell’acqua, mi sa."
Note: *brilla* Okay, io palesemente mi farò prendere per sempre da questa storia e non riuscirò più ad uscirne, perché me ne sono innamorata. Dunque, saranno almeno cinque o sei mesi che plotto questo breve prequel di EKR. Che poi, breve: si tratterà comunque di dodici shot che ripercorreranno il rapporto fra Anis e Patrick prima dell’inizio della Saga, dalla loro adolescenza (di cui avete potuto osservare l’inizio proprio in questa shot XD È a questo che ho riferito il tema “green”, intendendolo nel suo significato metaforico di giovane, immaturo) fino a quell’ultimo incontro di cui si accenna in I Will, e nel quale i due decidono una breve tregua prima di scontrarsi a coltellate *annuisce*
Non ho moltissimo da dire, a parte che ho adorato scrivere questa storia e che no, non è ripresa dalla biografia di Bushido, anche perché non conosco il tedesco e lui si ostina a non volersi espandere oltralpe, quindi non l’ho letta XD Questo è quello che immagino io di loro due, mi piacciono e tanto mi basta. Non siete d’accordo, me ne frego abbondantemente *annuisce di nuovo* 
Ah, il titolo XD viene da un film bellissimo con Denzel Washington ed Ethan Hawke. Se non l’avete visto, dovete tutti. Io lo amo oltremodo. E con questo saluto XD
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Training Day
#3 Green


Lo stronzo mi ha detto “aspetta qui”, e si è volatilizzato. Questo, tipo, mezz’ora fa. Ora, non so se tutti questi pezzi di merda hanno una vita, non so se le loro cazzo di giornate le passino tutto il tempo qui, ma io una vita decisamente ce l’ho e non ho neanche un cazzo di tempo da perdere. Ho da fare, ho degli appuntamenti, devo consegnare della roba entro le cinque e sono già le fottute quattro e venti. Porca troia, ma avere un po’ di rispetto per il lavoro degli altri no, eh?
Comunque, già che sono qui e non ho un cazzo da fare, tanto vale che mi metta seduto e passi un po’ il tempo in maniera proficua. Dunque, Ari mi ha pagato la percentuale delle consegne del mese scorso, ma mi sa che ha fatto qualche cazzata stronza delle sue, come al solito, perché non mi tornano i conti. Ari è uno a posto ma non ha ancora capito che il fatto che ho diciotto anni non mi impedirebbe di piantargli un coltello nella pancia. Meglio metterle in chiaro, certe cose. Dovrò parlargli. E comunque non esiste che io rischi le palle andando a litigare con gente armata solo perché lui ha deciso di cambiare la tariffa, ha “dimenticato” di dirlo ai clienti e quelli ora si rifiutano di pagare tutto per bene. Cioè, ok,  se vuoi ci vado, a litigare, se vuoi te li lascio pure in terra con pochissima volta di continuare a fare i coglioni che cavillano sui prezzi, ma dammi un po’ di supporto, amico, cioè, dammi della gente, i soldi sufficienti, una pistola, cazzo.
Nel mentre il tizio dei servizi sociali è ancora sparito e io mi ridisegno in testa Berlino raggiungendo l’unica conclusione possibile, cioè che non riuscirò mai, neanche volando, ad essere dove devo in tempo per la consegna. Arafat mi farà un culo così, stasera, c’avrà pure ragione, io non potrò pretendere niente e non potrò nemmeno fargli il famoso discorsetto sul pagarmi di più e meglio perché è pure stata colpa mia, che sono stato un cazzone, se mi hanno beccato. Questa cosa mi dà sui nervi. Da oggi in poi, basta cazzate.
Tiro su un piede sulla sedia ed ecco che lo vedo, finalmente, lo stronzo. Non è solo, comunque, sta lì che mi indica e accanto a lui c’è questo ragazzino che dovrà avere tipo quattordici anni, che ne so, si sente la puzza di latte da qui. Dio, spero proprio che non sia lui quello di cui mi parlava mentre io fingevo di ascoltarlo prima, perché non esiste che mi incollino al culo questo moccioso. Non c’ho il tempo di fare la balia, io, soprattutto non a un ragazzino così bianco e così biondo e con occhi così azzurri. Cos’è, c’ho scritto in faccia “sono un uomo buono pronto a prendermi cura della vostra disastrata prole tedesca”? Io me ne sbatto il cazzo della disastrata prole tedesca. Al più gli vendo della coca.
Comunque, quel figlio di puttana del tizio dei servizi sociali la pianta di indicarmi, alla buon’ora, e mi saluta con un cenno della mano, dileguandosi dopo un ghigno stronzo che mi fa pensare che non vedo l’ora di tornare qua dentro solo per fargliela pagare, e il ragazzino resta lì immobile a qualche metro ancora per un po’. Poi, finalmente, visto che io non intendo muovermi, capisce che deve tirare fuori le palle e mi si avvicina. E a me viene subito da ridere perché fa il gradasso e mi porge pure la mano. Dio mio, quanti anni avrà, cazzo, a vederlo da vicino sembra ancora più piccolo. Hai dodici anni? Perché non vai ad aiutare la nonna a finire la torta della domenica?
- Ehi. – mi fa, - Sembra che dovremo farla insieme, questa cosa.
Io lo guardo dall’alto in basso e sfilo lo stuzzicadenti dalla bocca, inumidendomi un po’ le labbra.
- Tu che hai fatto? – chiedo. Anche perché, se crede veramente che noi si andrà in giro per Berlino ridipingendo i muri, è veramente fuori strada.
- Eh? – ribatte lui, spalancando quegli occhi che sono azzurri in maniera veramente ridicola, e poi ha delle ciglia troppo lunghe, non fosse ben piantato com’è e indiscutibilmente piatto sembrerebbe una ragazzina. Comunque non ha davvero capito un cazzo, e lo osservo mentre lascia ricadere la mano lungo il fianco con aria un po’ sperduta. “Dio mio”, mi dico. E poi mi alzo in piedi.
È pure basso. Dico io.
- Come mai sei finito qui? – traduco. E lo vedo che gonfia il petto, orgoglioso.
- Sono un tagger. – fa. È un tagger, lui. E lo mettono a lavorare con me.
Il sistema giudiziario tedesco ha fatto un altro buco nell’acqua, mi sa. Trattengo un ghigno e non mi scompongo più di tanto.
- E basta? – chiedo. E lo vedo che rabbrividisce tutto. Devo assolutamente cercare di non ridere, ma la cosa in sé è troppo divertente. Mi sa che me lo trascino dietro per la consegna.
- Cioè… - balbetta lui, spostando a disagio il peso da un piede all’altro, - Oh, questo faccio io. ‘Sticazzi.
E basta, a questo punto rido perché, voglio dire, guardatelo. Secondo me a dodici anni neanche ci arriva.
- Senti un po’, ragazzino-
- Mi chiamo Patrick! – precisa lui, stringendo le mani attorno al manico del barattolo di vernice bianca che gli hanno già consegnato, - Cerca di ricordartelo.
Io ghigno.
- D’accordo, ragazzino. – insisto, - Hai da fare, questo pomeriggio?
Lui mi rifila un’occhiata stranita e solleva a mezz’aria il barattolo. Io rido ancora e lui aggrotta le sopracciglia.
- Ma sai ridere e basta? – borbotta, ed è talmente pallido che gli posso vedere addosso l’imbarazzo, sulle guance lievemente arrossate. Sorrido: ci sono abituato, la mia risata ha un effetti simile su tutti. Be’, su tutte le ragazzine, almeno. Il fatto che lui sia un ragazzino non mi stupisce come dovrebbe forse, ma alla fine mi dico, oh, è talmente biondo e ha gli occhioni talmente grandi ed è ancora talmente piccino che penso possa permettersi di passare per ragazzina, almeno per i prossimi minuti. Quando comincerò a portarmelo in giro, vedremo.
- Andiamo. – gli dico, afferrandolo senza delicatezza per un braccio e cominciando a tirarlo verso l’uscita senza neanche preoccuparmi di passare a recuperare i rulli prima di rimettermi per strada, - Così te lo faccio vedere, cos’altro so fare.
- Ma non dovremmo- - prova a fermarmi lui, ed io mi fermo – lì in mezzo al marciapiedi dove sono – e lo guardo negli occhi, sempre stringendogli il braccio. Ha su una maglietta nera senza maniche e lo sto stringendo talmente forte che, sotto la pressione, la sua pelle si è arrossata subito. E comunque anche le sue braccia sono troppo bianche. Il contrasto con i miei colori è quasi divertente. Ma che ci hanno messo a combinare insieme? Chissà dove vive, poi, questo ragazzino. Dovrò riportarcelo, a casa, stasera.
- Ascoltami bene, Patrick. – lui sembra stupito dal fatto che mi ricordi il suo nome. Vorrei dargli una bottarella sulla fronte, tipo. Ragazzino, non è che se insisto a ignorarti vuol dire che non ti ho nemmeno ascoltato. Vuol dire che ti ho ascoltato e me ne frego. – Ti spiego come funziona. – e lui resta lì con gli occhi spalancati, le labbra dischiuse e quel barattolo ancora in mano. E mi ascolta. – Io sono un uomo molto impegnato. Ci sei?
Lui annuisce lentamente, lo sguardo un po’ perso.
- Bene. – annuisco anch’io, - Ora, lo so che dovremmo andare ridipingendo e tutto, ma seriamente, io ho di meglio da fare e sono già in ritardo, e tu dubito che provi tutto questo piacere all’idea di andare cancellando le tue opere d’arte in giro per Berlino, perciò-
- Veramente – mi interrompe lui, grattandosi una guancia, - io tipo pensavo che fosse un buon modo per ricominciare, nel senso, non è che taggo da molto ed ho fatto più che altro merdate, e il tizio con cui taggavo prima, va be’, lasciamo perdere, e comunque-
- Ragazzino! – lo fermo.
- Patrick! – mi ricorda lui.
- Sì, naturalmente. – annuisco io, - Ti avevo detto di seguirmi. Stai zitto e mi segui fino a quando non ti dico che puoi parlare?
- Ehi- - comincia lui, sul piede di guerra, ed io, annoiato, gli pianto una mano sulla bocca e roteo gli occhi.
- Cosa esattamente ti è incomprensibile del concetto “non ho tempo da perdere”, ragazzino? – lui mugugna qualcosa contro il mio palmo e io stringo più forte. – Ascoltami e basta, adesso. Io devo essere dall’altra parte di Berlino entro… - sollevo un polso e guardo l’orologio, - dieci minuti. Quindi ora prendiamo la macchina e tu la pianti di fare storie, okay?
Lo lascio andare così che possa rispondere, e lui, naturalmente, protesta.
- Ma io- - comincia, ed io lascio andare un mugolio sofferente e torno a tappargli la bocca.
- Ragazzino. Tu ti lagni troppo. – gli faccio notare. Lui aggrotta le sopracciglia, ma non si agita più. – Allora? Ce la diamo una mossa?
Quando lo lascio andare di nuovo, lui non protesta. Quando mi muovo verso lo scassone che Ari mi ha dato in affidamento per le consegne, mi segue. Continua a trascinarsi dietro il barattolo, però, neanche fosse convinto di poterlo riutilizzare più tardi. Bah, contento lui.
Sono già in ritardo di dieci minuti. Arafat mi farà il culo.

*

Il ragazzino non ha detto una singola parola, da quando ci siamo infilati in macchina. È rimasto lì seduto, fermo come un pezzo di legno e ugualmente socievole, tra l’altro. Dico io, non ti voglio mica pestare. Sto anche cercando di fare il gentile. Se faccio una battuta e fischio al finestrino una puttanella con la gonna troppo corta, magari fischia anche tu. O ridi, o chessò io, non stare lì immobile ad abbracciare il barattolo della vernice neanche fosse un fottuto peluche.
Comunque, quando arriviamo gli dico di non muoversi e aspettarmi lì, scendo di volata e recupero il carico – tre chili, cazzo, stasera ci si diverte, la percentuale sarà bella altina per il rischio e tutto – cercando di ignorare le urla isteriche di Arafat che mi ricorda che sono un buono a niente e che comunque le venti ore di servizio civile dovrò farle, o mi rompe il culo prima lui e poi tutti gli altri amici suoi, e quando torno in macchina il ragazzino è effettivamente ancora lì, anche se s’è messo più a suo agio, ha steso la schiena contro il sedile ed ha sollevato un piede, incastrandolo sul cruscotto per stare – suppongo – più comodo. Presto, o almeno mi auguro sia così per lui, crescerà, e così non potrà più starci, perciò lo lascio fare, e mi rimetto accanto a lui, al volante.
- Non ti sei ancora liberato di quel barattolo? – chiedo, rimettendo in moto il catorcio e tirandogli in grembo lo zaino pieno di roba. Lui se lo sistema addosso senza neanche chiedere cosa ci sia dentro, e scrolla le spalle.
- Senti… - chiede invece, vagamente intimorito. Ed io lo so che è intimorito, anche se lui guarda fuori dal finestrino e fa il muso duro per cercare di non farmelo capire. - …dov’è che stiamo andando?
- Consegna. – rispondo io, - L’indirizzo è meglio che tu non lo sappia, e cerca di dimenticare le strade, anche. Tanto, appena finiamo le venti ore, non mi vedrai più nemmeno da lontano e tornerai alla tua bella casetta in… dov’è che stai? In centro?
Lui mi lancia un’occhiata incerta, inarcando un sopracciglio.
- Guarda che sto a Tempelhof pure io. – risponde candido, - Che pensavi?
Io lo guardo e, ovviamente, non gli do un centesimo.
- Tu? – chiedo, - E sei ancora vivo?
Lui incrocia le braccia sul petto, sopra il barattolo ed anche sopra lo zaino che non so se ha capito essere pieno di droga.
- Guarda che me la cavo benone, io. – mi fa, tutto preso, - Sono sempre stato abituato a fare le cose per i fatti miei.
- Sempre? – rido io, svoltando a destra, - Quanti anni puoi avere, dodici? Da quanto stai per strada, due mesi? E sei già finito dentro.
- Io ho quattordici anni! – quasi urla lui, mettendo giù il piede, - Che cazzo, non starò qui a farmi prendere per il culo da uno che non so nemmeno come cazzo si chiami!
- Ehi, ehi, frena! – rido io, - Rispetto per i quattordici anni, alla tua età io già spacciavo. Dovrai darti una mossa, mi sa che sei in ritardo sul programma. – lui mi guarda senza capire un accidenti di quello che sto dicendo, ed io gli indico lo zaino con un cenno del mento. – Aprilo.
Lui inarca un sopracciglio e sfibbia la cinghietta, sbirciando all’interno. Quando risolleva il viso, ha gli occhi ancora più enormi di quanto non fossero già prima.
- Ma è-
- Cocaina purissima. – annuisco io, - La migliore qui a Berlino e probabilmente anche in tutto il resto della Germania. – illustro con un certo orgoglio, - Tre chili. Con questi, io e te stasera ci si sbronza.
- …ci sbronzeremo con la cocaina?
Rido e gli tiro uno scappellotto dietro la nuca. Lui risponde con un “ahi” appena mugolato, massaggiandosi piano il punto arrossato e dolorante.
- Coi soldi del ricavo, ragazzino. Sveglia!
- …ah. – annuisce lui, e pare che si prenda un po’ di tempo per assimilare il concetto, tipo. Cioè, non lo so, Fissa per bene lo zaino e il suo contenuto ed annuisce piano, inumidendosi appena le labbra ed aggrottando un po’ le sopracciglia. – E lo fai spesso? – chiede poi.
- È il mio lavoro. – rispondo io con naturalezza, - Non è il miglior lavoro del mondo, ma passo il tempo, mi faccio un nome e guadagno bene. Le tre cose fondamentali nella vita di un uomo.
Lui ride a bassa voce, richiudendo lo zaino.
- Mangiare, dormire, scopare?
- Mangiare è per i deboli, dormire per gli sfigati. Sullo scopare te lo concedo, ma non è una priorità, ragazzino. Le scopate sono i premi per il tuo duro lavoro, non roba che ti piove dal cielo. Se le puttane ti piovono dal cielo e tu non te le sei guadagnate, allora sono puttane di scarso valore.
Lui annuisce ancora e resta buono, tranquillo e in silenzio per tutto il resto del tragitto in macchina. Mi muovo a mio agio fra le strade di Berlino e smetto di dare importanza alla sua presenza al mio fianco. Mi ci abituo, per così dire. Il ragazzino è discreto e silenzioso, e mentre posteggio sotto casa del cliente penso che sarebbe una  buona spalla, anche se è strano forte – guarda come si stringe ancora a quel barattolo, Dio mio. Ragazzino, non ci andiamo a ridipingere Berlino. Gettalo via, quell’inutile coso.
- Resta qui, okay? – faccio, uscendo dalla macchina e poi piegandomi per affacciarmi all’interno e guardarlo negli occhi, recuperando lo zaino direttamente dal suo grembo, - Questione di due minuti. Poi ci andiamo a divertire. – lui non annuisce né muove un qualsiasi altro muscolo, in realtà nemmeno sorride; si limita a continuare a fissarmi come se mi stesse studiando. Non hai niente da studiare, ragazzino, non mi capisci mica se non mi lascio capire io. – E non fare quella faccia. – lo prendo in giro, - Dai che oggi anche tu hai lavorato. Vediamo se possiamo farti piovere da cielo una puttana meritata. – e rido, e fingo di ignorare il rossore indecente che gli ha colorato le guance e l’ha obbligato e distogliere lo sguardo e borbottare un assenso a caso, mentre sistemo lo zaino in spalla e mi muovo verso il citofono.
Mentre avanzo, specchiandomi nella porta a vetri del palazzo, sulla quale mi ritrovo a cercare il riflesso azzurro e un po’ confuso degli occhioni del ragazzino, annuso l’aria e cerco di sentire le vibrazioni del posto. Il quartiere è bello. Il cliente è nuovo. Potrebbe essere un figlio di papà che non sa come spendere i soldi del compleanno, o potrebbe anche essere una vecchia checca che la coca la userà sui figli di papà di cui sopra, per rintontirli prima di poter mettere le mani su qualche bel culetto pallido e vergine. Scrollo le spalle – l’aria è tranquilla – controllo il nome sul citofono e schiaccio il pulsante.
- Sì? – è un ragazzino.
- La pizza. – rispondo tranquillamente.
- Primo piano. – mi dice quello, e apre il portone. Io mi volto appena a far cenno al ragazzino di non muoversi. Lui nemmeno risponde – sembra quasi che voglia dirmi “certo che non mi muovo, non so nemmeno dove sono, ‘cazzo precisi a fare?”, e devo dire che mi piace, quest’atteggiamento. È uno cui servono poche parole per afferrare i concetti. E bravo il ragazzino.
Comunque, salgo al primo piano e mi compiaccio, perché Ari i clienti li sceglie un po’ alla cazzo di cane – nel senso che è uno che non fa distinzione fra stronzi e gente onesta, è per questo che, in un modo o nell’altro, mi ritrovo sempre in mezzo ai casini – però stavolta pare essergli andata bene. Il palazzo è bello, un sacco pulito, e c’ha i pavimenti in marmo misto, con tutti gli zerbini con sopra scritto “welcome” fuori dalle porte, e sono belle cose da vedere, quando vivi in una topaia per tutto il resto del tempo. Cioè, io non sono invidioso di questa gente, tanto lo so che prima o poi sguazzerò nell’oro, perciò mi fa piacere venire a lavorare in un posto tranquillo, tanto per cambiare.
Il tizio che mi aspetta sulla porta avrà diciassette anni, più o meno, e sta lì tutto impettito con le sopracciglia corrucciate e i lineamenti tesi. Rido.
- Tranquillo, amico, io do a te quello che vuoi, tu dai a me quello che voglio e non succederà niente di spiacevole. – lo prendo in giro. Lui mi lancia un’occhiata infuriata ed infila le mani nella tasca posteriore dei jeans, tirandone fuori il portafogli.
- Fai meno lo spiritoso, arabo. – mi risponde, e io stringo un po’ i pugni attorno allo zainetto ma non scatto e non gli do il cazzotto che merita, perché Arafat lo dice sempre: “la buttano sul colore della tua pelle per farti sentire fuori posto, ragazzo, ma tu sei nato a Bonn!”, e quando lo dice lui, ridendo in quel modo, non posso fare a meno di riderci su anch’io. Arafat è uno stronzo ma è uno stronzo cazzuto, se capite cosa intendo. Cioè, è uno stronzo che vale la pena di seguire.
Comunque, niente, non gli salto al collo e recupero i pacchetti con la droga dentro, lui mi passa i soldi, io li conto e ovviamente tutto quello che ho appena detto di Arafat fino ad ora va a farsi fottere perché i soldi sono meno di quanto dovrebbero essere e coincidono più o meno col prezzo che avrebbe avuto la stessa quantità di droga prima del rincaro. Ora, magari a ‘sto stronzetto Arafat l’ha pure detto, che il prezzo era aumentato, e ora questo sta cercando di fregarmi, ma quello che dico io è che è sbagliato il metodo, non è organico. Se lo dici ad alcuni sì e ad altri no, come faccio io a capire se è vero che non ne sanno niente o stanno solo cercando di prendermi per il culo? E che cazzo. Non c’ho neanche il serramanico appresso, puttana miseria.
- Senti, amico… - comincio, grattandomi distrattamente la fronte e ricontando i soldi, per evitare casini, - Non facciamone un dramma, ma qui c’è meno di quanto dovrebbe esserci. Quindi, o mi dai il resto, o mi riprendo un po’ di roba. E allora mi fai entrare in casa, perché non posso certo mettermi a pesare cocaina qui in corridoio. E comunque mi servirà una bilancia e-
- ‘Cazzo dici? – mi interrompe quello, sempre più incazzato, - Il tizio mi ha detto questa cifra. Questo ti do.
- No, guarda, – scuoto il capo io, cercando di essere ragionevole, - non posso proprio darti ragione. Ti avranno detto male, fatto sta che io devo tornare con i soldi giusti, okay? Quindi, adesso, senza creare problemi… - e lì capisco che i problemi li ho solo io, perché alle spalle del tipo spuntano altri due tipi che potranno avere più o meno la sua età o forse anche un po’ più grandi ma che comunque non rientrano nella cerchia di gente con la quale mi metterei a litigare, essendo due armadi. Sospiro pesantemente. – Amico, che razza di atteggiamento. – borbotto annoiato, - Ti ho forse alzato addosso un dito? Non mi pare il caso di metterla così sul piano fisico, siamo uomini di mondo.
- Tu adesso ti levi dai coglioni. – mi dice lui, ed io rido, facendo scricchiolare le ossa delle mani. A me non me lo dici, di andare fuori dai coglioni.
- Non posso proprio. – gli faccio notare. E poi mi chiedo se non sto per caso cercando di suicidarmi, perché i due tizi dietro non sembrano granché intenzionati a parlare, ed anzi, uno infila una mano in una tasca e quello che succede dopo lo vedo scorrere davanti agli occhi come al rallentatore. Sarebbe un’esperienza divertente, non fosse anche completamente assurda: il tizio tira fuori la mano, io scorgo la lama che luccica appena nella luce al neon che avvolge il corridoio, e poi un enorme barattolo di vernice bianca mi passa a due centimetri dalla testa, va a schiantarsi contro la fronte del tipo e il coltellino vola a due metri da noi. E poi è il silenzio per una quantità di secondi enorme.
Mi volto, il ragazzino è lì che fissa me – ha appena spaccato la testa di un cristiano con un barattolo di vernice e fissa me – con quegli occhioni spalancati e il fiato un po’ corto.
- Ragazzino?! – chiedo, vagamente isterico. Dico io, la stavo gestendo più che bene. I ragazzini ti complicano sempre l’esistenza.
- Ci stavi mettendo troppo! – si giustifica lui, rigidissimo.
È tutto quello che riusciamo a dirci, perché l’altro armadio – quello che non ha la testa spaccata in due e non sta rantolando per terra cercando di tamponare l’enorme ferita che ha sulla fronte per non morire dissanguato – si risveglia dal momento di confusione ed esala un “figlio di puttana” che non so bene se sia riferito a me o al ragazzino, ma in ogni caso al momento non è importante. Faccio l’unica cosa saggia da fare in queste situazioni: strappo i pacchetti di roba dalle mani dello stronzetto, li rimetto a posto nello zaino, lo infilo in spalla, afferro il ragazzino per un braccio e mi metto a correre.
Lui biascica un “cosa…?” incerto, mentre cerca di adeguare il passo al mio, ed io lo zittisco stringendo la presa sul braccio.
- Dopo. – taglio corto, - Ora vola. – e lui si limita ad annuire ed obbedire. Meno di mezz’ora dopo siamo già da Arafat, il quale mi accoglie gelido e pure un po’ incazzato.
- Hai uno zainetto troppo pesante e il portafogli, immagino, troppo leggero, Sonny. – mi fa notare. Io mollo il ragazzino lì sulla soglia e lo raggiungo al tavolo della kebaberia che gli fa praticamente da ufficio, scosto il piatto di kebab e gli lascio lo zaino davanti agli occhi. Poi ficco le mani in tasca e tiro fuori anche i soldi.
- Mi hai mandato da una testa di cazzo con due coglioni a fare da supporto, Ari. – mi lamento, posando anche le banconote accanto allo zaino.
Lui le guarda con sufficienza e nemmeno le tocca.
- Un cazzo e due coglioni, direi che quanto ad anatomia ci siamo. – annuisce, - Che è successo, Anis?
- È successo che mi sono rotto le palle di avere a che fare con i tuoi clienti del cazzo, Arafat! – urlo, battendo un pugno sulla superficie di legno, - Se mi ascoltassi-
- Se tu non puzzassi ancora di latte, - mi interrompe lui, - ti ascolterei. Visto che sei un poppante, ti ignoro, com’è giusto.
- Piantala. – ringhio io, - Il ragazzino lì ha dovuto spaccare la testa ad uno dei due coglioni con un fottuto barattolo di vernice, o mi avrebbero pestato a sangue! – che poi è vero. In una situazione normale non l’avrei mai detto, ma mi girano le palle a livelli disumani quando Ari mi tratta da ragazzino, perciò urlo e sbraito e gesticolo indicando il ragazzino in fondo alla stanza e vedo che tutti improvvisamente perdono interesse nella mia persona e si voltano a guardare lui.
Mi volto anch’io, e vedo che lui si fa minuscolo in un angolo. Bianco e biondo e coi boccoli e tutto il resto e Dio mio, siamo in una kebaberia piena di tunisini.
- Chi è? – chiede Arafat, inarcando un sopracciglio. Io scrollo le spalle e cerco di fare il disinvolto.
- È il tipo con cui devo lavorare per i servizi sociali. – spiego, - Patrick.
- Patrick. – Arafat ripete il suo nome lasciandolo scivolare lentamente fuori dalle labbra, come per immagazzinare meglio l’informazione. Poi sorride e si alza in piedi, andandogli incontro, - Ciao, Patrick. – dice, porgendogli una mano. Il ragazzino la guarda e poi la stringe con aria intimorita, ma siccome ha le sopracciglia aggrottate nel tentativo di risultare minaccioso il risultato finale è molto ridicolo. E infatti ridacchiano quasi tutti. – Cos’è che hai fatto con questo barattolo di vernice?
Il ragazzino si stringe nelle spalle e guarda altrove.
- L’ho usato nel modo migliore. – risponde. Arafat ride di gusto, gli altri a seguito, e io inarco le sopracciglia, divertito. Il ragazzino ha del talento.
Arafat si volta a guardarmi e gli tira una pacca sulla spalla tale che il ragazzino, poveretto, è costretto a fare un passo in avanti per non ruzzolare a terra.
- Tienitelo caro, Sonny. – mi consiglia, tornando al tavolo e decidendosi finalmente a contare i soldi, - Sarà pallidino, ma di sicuro non gli mancano le palle.
Io sorrido e lancio un’occhiata al ragazzino che, ora che tutti lo lasciano in pace perché Ari ha smesso di cagarlo, si sta massaggiando la spalla dolorante, borbottando fra sé.
- Sì, me ne sono accorto. – annuisco, - Quanto a quello che è successo oggi-
- Quanto a quello che è successo oggi, - mi interrompe lui, sbattendomi in mano trecento euro, - mi fai il favore di stare zitto e andarti a divertire. Manderò i miei ragazzi a chiarire la situazione con tutti i clienti, contento?
Io sbuffo e borbotto un “sì, chissenefrega” al quale Arafat risponde con un ghigno stronzo talmente insopportabile che penso che è meglio se me ne vado, così evito di farmi saltare in testa di spaccargli la faccia. Anche perché avrei la peggio.
Mi piazzo davanti al ragazzino e gli sventolo una banconota da cento sotto il naso.
- Questa è tua. – dico, e lui si allunga subito a prenderla e se la rigira fra le mani guardandola attentamente come non ne avesse mai vista una, cosa peraltro probabile ancora più che possibile, e io sorrido ancora. – Andiamo a farci un giro, ragazzino. – lo invito poi, battendogli una pacca sulla spalla, - Offro io.
Mentre ci infiliamo di nuovo in macchina, lui mi lancia delle occhiatine strane che sono quelle tipiche che lanci quando vuoi chiedere qualcosa e non sai se puoi.
- Sì? – chiedo ridendo e mettendo in modo la macchina, mentre lui si sistema col piede sul cruscotto – molto più comodo di prima, visto che non ha più l’ingombro del barattolo.
Il ragazzino non si fa pregare, per sputare il rospo.
- Ma tu come cazzo ti chiami? – chiede, sinceramente incuriosito, e io rido ancora. – Fra Sonny e A… A… quello che era, non c’ho capito niente.
- Anis. – sghignazzo, - Con la esse sibilata. Ricordatelo.
Lui annuisce, ripete “Anis” con la esse sibilata ed io so che se lo ricorderà.
È così che prende a chiamarmi, mentre continua a fare domande. Chi era quello grosso che quasi gli scardinava una spalla, chi erano gli altri, ‘cazzo c’era in quel piatto, e così via. Una specie di macchinetta, non lo ferma più nessuno e in realtà non ho veramente voglia di fermarlo. È incuriosito da tutto e non fatica a capire niente, mi viene dietro che è una meraviglia e come discussione non è niente male, nel senso, ne vengo fuori come una specie di mentore, mica cazzi.
Comunque parla per tutto il tempo veramente, perciò a un certo punto ci infilo entrambi in un locale, ci svacco entrambi su un divano pieno di cuscini e ci faccio – sempre ad entrambi – portare birra a litri. Non ho idea se il ragazzino si sia mai ubriacato prima di adesso, ma direi che se l’ha già fatto è meglio per lui e se invece non l’ha ancora fatto è meglio che si dia una mossa, che è già in ritardo col programma.
Quando ne usciamo non ho idea  di quante ore siano passate, ma mi viene da ridere un po’ perché sono brillo e un po’ perché il ragazzino è stravolto. Ha smesso da un pezzo di dire cose sensate, ma ha continuato comunque a mormorare roba incomprensibile, e ora sta biascicando qualcosa a proposito di suo padre che è uno stronzo, e ciondola per strada, le braccia pesanti lungo i fianchi e la banconota che esce un po’ dalla tasca posteriore dei jeans. Sospiro e la ficco bene dentro, che se continua così la perde, e poi cerco di tenerlo dritto passandomi un suo braccio sopra le spalle.
- Non funziona… - mormora barcollando, - Non posso camminare sulle punte, cazzo, Anis! – si lamenta, e in effetti mi sa che sono un po’ troppo alto per portarmelo in giro così.
Comunque sia la cosa smette di avere un’importanza quando lo osservo piegarsi letteralmente in due in un angolo, appoggiandosi con una mano ben piantata contro il muro di un palazzo, per vomitare. Sospiro. Ragazzini.
- Coraggio… - lo rassicuro, passandogli lentamente una mano lungo la schiena, - Meglio fuori che dentro.
- St-Stronzo… - biascica lui fra un conato e l’altro, lamentandosi un po’.
Io rido e continuo ad accarezzarlo piano, finché non smette. Lo aiuto a tirarsi su, gli passo un fazzolettino di carta, lo osservo ripulirsi e poi mi metto di nuovo a ridere quando lui, ormai tornato in sé, mi lancia un’occhiataccia furiosa.
- Avanti. – dico, tirandogli una spintarella giocosa contro la spalla, - Era il tuo battesimo del fuoco. – lui continua a guardarmi con aria disapprovante, gli occhi che brillano per le lacrime causate dai conati, ed io me lo tiro contro, scompigliandogli i capelli, - Dai, che ti riporto a casa. È stata una giornata stancante, mh?
- Per niente. – borbotta lui, - Comunque non siamo passati al tribunale per firmare il rientro, e-
Lo interrompo ridendo ancora.
- Ragazzino, tu vivi in un mondo tutto tuo. – lo prendo in giro, - Meglio se taci un po’, adesso.
E lui in silenzio ci resta, tant’è che pure le indicazioni per arrivare a casa sua me le dà solo a gesti. Ma non lo fa perché gli ho detto di stare zitto, lo fa perché è stanco e, dal modo in cui tiene un avambraccio premuto contro la fronte e dal modo in cui le labbra gli si piegano in una smorfia addolorata ogni volta che la macchina prende un fosso per strada, suppongo non stia poi tanto bene.
Quando mi dice di fermarmi, io spengo il motore e mi stendo un po’ contro il sedile, osservandolo scendere lentamente dalla macchina e fare il giro. Prima di attraversare la strada, si ferma e mi lancia un’occhiata incerta.
- Cosa? – chiedo curioso.
Lui scrolla le spalle.
- Niente. – biascica, - Allora ci si vede. – e mi volta le spalle.
Io sorrido.
- Sì… domani alle dieci al porto, sul canale.
Lui si immobilizza e si volta a guardarmi, confuso. Io sorrido ancora.
- Non vorrai mica farmi tornare fino a qui. – spiego, sporgendo un gomito fuori dal finestrino, - Ci sono un sacco di cose da fare, domani.
Lui ci mette un po’, a capire. Poi realizza. E non sorride, non si scompone, non fa una piega. Annuisce ed incassa. Il ragazzino ha davvero bisogno di sentirsi dire pochissimo.
Annuisco anch’io, compiaciuto, rimettendo in moto la macchina e muovendomi nella notte, direzione casa. Ho come l’impressione che, se voglio dividere i guadagni e continuare comunque a mettere da parte i soldi, dovrò lavorare un casino di più, da oggi in poi.
Genere: Romantico, Commedia, Erotico.
Pairing: Chakuza/Fler/Bushido.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash, Threesome.
- "Ed è allora che guardo Fler – imbarazzato oltre il legale – e poi guardo Bushido e mi dico che ho voglia di farmi stringere un po’."
Note: No, non era per niente previsto un seguito a Potremmo Provare In Tre XD Non era previsto e non l’avevo plottato, ma egli è nato \o/ E io non sono esattamente nota per il lasciare morire i plotcriceti. Al limite, ci metto due secoli a partorirli, tergiversando e procrastinando eccetera eccetera, ma alla fine nascono. Per questo, in particolare, dovete ringraziare la Meg, che possiede l’account di FaceBook del Chaku (io mi sono ancora rifiutata. Anche perché il Chaku non gioca a Restaurant City, quindi averlo fra gli amici non mi sarebbe del benché minimo aiuto u.u), grazie al quale abbiamo scoperto che il povero tatino è stato male, in questi giorni. Costretto a letto e tutto, povero puccio. Da qui (e dal beauty case delle medicine dei miei nonni, ad essere totalmente sinceri XD) è nata questa cazzata che Tab s’è sorbita passo passo su MSN come al solito, e che poi Def ha avuto il buon cuore di betare successivamente. Grazie ad entrambi e spero vi abbia divertiti (uccidendovi con quantità illegali di fluff) quanto ha divertito me.
Se state chiedendovi se dovreste aspettarvi anche il Bu, giusto per completare il trittico delle delizie (d’altronde, dopo Grazia e Graziella, manca ancora Grazie al Cazzo), temo – per voi, per me, per loro – che la risposta sia sì. Eeeeh.
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Magari Ci Entriamo In Tre
"Every night, every day, just to be there in your arms." (Can't Get You Out Of My Head - Kylie Minogue)


A quanto ho capito, Fler da piccolo stava spesso male. Fa un po' specie, osservandolo com'è ora, immaginarlo piccolino, magari a tredici, quattordici anni, coi boccoli biondi schiacciati sulla fronte e sulle guance, umidi di sudore, che sta tutto infagottato in un quintale di coperte, con le guance rosse e un termometro fra le labbra e quegli occhioni enormi, azzurrissimi, resi umidi dalla febbre, che si guardano intorno con aria annoiata mentre sfoglia tipo un fumetto o chissà che altro per passare il tempo, il pigiama che gli si appiccica addosso e il petto che si muove lentamente e il respiro pesante e... ed è meglio che mi fermo altrimenti finisce male, Dio mio.
Comunque, stava spesso male. Bushido dice che era perché usciva poco di casa, infatti - dice sempre lui - quando ha preso a frequentarlo e stare fuori ogni notte, la situazione è migliorata e lui ha smesso di raffreddarsi sempre, scambiando i raffreddori coi lividi da pestaggio. Non so che guadagno possa essere, ma Bushido va molto orgoglioso di aver reso forte il sistema immunitario di Fler, anche se in cambio ha dovuto portarlo in giro con sé mentre spacciava e robe simili.
In ogni caso, il succo del discorso è che, stando sempre male, ha avuto modo di imparare un sacco di roba sui raffreddori, sulle febbri e sulle medicine con le quali contrastare queste piaghe sociali. Allo stesso modo, però, ha sviluppato un odio profondo per tutto ciò che sia malaticcio, deboluccio e moccioloso. E se la sua conoscenza del tutto è il motivo per cui sto steso in questo letto con un beauty case pieno di medicine fra le mani, il suo odio atavico per la febbre è il motivo per cui, in questo letto, ci sto tutto da solo. E mi annoio a morte.
Tutto è cominciato la notte in cui io e Bushido abbiamo deciso che ci eravamo rotti le palle di stare senza Fler e che, per questo motivo, saremmo andati dalla Svizzera direttamente fino a Lahr per passare un po' di tempo con lui. Sapevamo bene - conoscendo Fler per il pezzo di legno che è - che la piazzata ci avrebbe come minimo fatto guadagnare uno sfanculamento immediato senza possibilità d'appello, ma sapevamo altrettanto bene - conoscendo Fler per la zoccola che è - che sarebbe bastato poco per farsi perdonare, perciò abbiamo deciso di andare comunque. E infatti, come volevasi dimostrare, per prima cosa Fler ci ha mandati a fanculo, ma appena abbiamo fatto tanto di mettergli le mani addosso l'abbiamo visto sciogliersi fra le nostre dita come burro, ed è sempre uno spettacolo quando lo fa, perché anche quando si prende bene e lo vedi che fa cose veramente allucinanti in posizioni altrettanto allucinanti, riesce comunque a mantenere quella sorta di... non saprei spiegarlo, è una specie di imbarazzo di base che si mischia alla sua scontrosità naturale, che sembra sempre di vedergli scritto in faccia “ma che cazzo sto facendo? E perché? Ma anche chissenefrega, Dio, è bellissimo”.
Insomma, sia io che Bushido abbiamo avuto modo di essere orgogliosi del nostro genio, ma fare tutto di corsa quando sei appena uscito da una doccia veloce e sei ancora dannatamente accaldato da due ore di concerto, non è esattamente qualcosa di cui andare altrettanto orgogliosi. In un primo momento non me ne sono mica accorto, nel senso, non è che mi sia sentito subito male. Però, quando l'indomani mattina mi sono svegliato strettissimo a Fler, con le labbra contro la sua spalla e, per prima cosa, ho starnutito, ho cominciato a pentirmi di tutta una serie di cose, compreso il non essermi asciugato per bene prima di rivestirmi per mettermi in macchina e partire alla volta della mia seconda madre patria abbandonando il mondo della mucche e del cioccolato al fianco di Bushido, nella sua Mercedes.
Comunque anche lì, sul momento, avevo solo starnutito. Non mi sembrava ci fosse niente di così enormemente grave. Stavo lì in una camera d'albergo non mia, erano le sei del mattino circa, Bushido dormiva ancora come un ghiro con una gamba incastrata fra le mie ed ho starnutito. Tutto qui.
Fler, però, ha aperto gli occhi - subito sveglissimi, ed aveva dormito solo, tipo, tre ore. Neanche piene. E dopo del sesso stancantissimo. Sa solo lui come fa - e mi ha guardato come se fossi un mostro disgustoso appena apparso di fronte ai suoi occhi.
- ...hai per caso preso freddo? - mi ha chiesto, gelido, scostandosi appena. Io mi sono affrettato a negare.
- Mi prudeva il naso. - ho risposto, cercando di suonare convincente, - Ti sono stato schiacciato addosso tutta la notte. Forse per quello.
Lui si è piegato ad annusarsi un po' la spalla ed ha borbottato un “sa di te” a metà fra il tenero e il risentito, motivo per cui io mi sono sentito in diritto di sporgermi e baciarlo, poco prima che lui decidesse che non era il caso e saltasse in piedi, diretto al bagno.
- Che fai? - gli ho chiesto, disincastrandomi dalla stretta di Bushido - che ha approfittato del mio spostamento per colonizzare tutto il letto - ed andandogli dietro. Lui ha scrollato le spalle, tirando su i pantaloni della tuta che stavano scivolandogli sotto il sedere.
- Doccia. - ha risposto, - Fai il caffè?
- Aspetta... - mi sono affrettato a fermarlo, stringendolo da dietro e tirandomelo appresso mentre raggiungevo il cucinino in un angolo, - Mi dai una mano? - ho chiesto, sorridendogli sulla schiena.
- Sai perfettamente come si prepara il caffè anche senza che ti aiuti io, Chaky... - mi ha fatto notare lui, cercando di divincolarsi. Per tutta risposta, io l'ho schiacciato contro il cucinino.
- Non ho detto che la mano mi serviva per il caffè. - ho ghignato, strusciandomi un po' su di lui.
L'ho sentito irrigidirsi immediatamente nella mia stretta ed ho sorriso, baciandogli una spalla.
- Ma voglio farmi una doccia... - si è lagnato, piantando le mani sul tavolo e smettendo di cercare di liberarsi.
- Non sei ancora così sporco. - ho riso io.
- Sei un maiale. - mi ha risposto lui, senza ritrarsi quando mi ha sentito avanzare un po' verso di lui. - Chaky... no.
- Eddai... - ho insistito io, infilandogli una mano nei pantaloni ed accarezzandolo piano, - Solo io e tu? - ho chiesto. Sia mai. Uno ci prova sempre.
- No! - ha ovviamente risposto lui, oltraggiato. Però poi l'ho sentito sospirare ed ho capito che magari non saremmo stati soli ma ne sarebbe venuto fuori comunque qualcosa di buono. - ...svegli Anis? - ha chiesto a bassa voce, piegandosi lievemente sul mobile.
Per svegliarlo, gli ho tirato una scarpa. Ma quando si è resto conto della situazione non s'è neanche sognato di lamentarsi, lui.
Insomma, le cose, almeno per quella mattina - ed almeno fino a quando Godsilla e Reason non sono entrati in camera di Fler per svegliarlo, convinti di trovarlo da solo nel letto e trovandolo invece in compagnia di altre due persone schiacciato fra un tavolo ed il cucinino - sono andate bene. Fler è tornato a Berlino in macchina con noi ed io e Bushido abbiamo perciò avuto l'occasione di osservarlo raggomitolarsi tutto e addormentarsi sul sedile posteriore. Scene patetiche con due uomini adulti che guardano un uomo altrettanto adulto dormire placido come un bambino a pochi centimetri da loro e si lasciano andare a sospironi innamorati e occhiate languide. E via così.
Ovviamente, appena arrivati a Berlino Fler era riposatissimo, ha preteso di riappropriarsi di casa ripulendola tutta da cima a fondo - d'altronde era via da più di un mese, era normale avesse voglia di toccare tutto - e poi, naturalmente, ha preteso di riappropriarsi anche del letto. A nostro modo. Una giornata decisamente piacevole, d'accordo, ma anche stancante. Ed io covavo l'influenza.
Insomma, il giorno dopo, ovviamente, quando ho aperto gli occhi - mi sveglio sempre per primo, un po' perché ho fame presto, un po' perché Fler si agita sempre prima di svegliarsi, e siccome è mattiniero ed io ho il sonno leggero, insomma, ci svegliamo a vicenda. Bushido invece è un ghiro e potrebbe dormire per secoli - comunque, appena ho aperto gli occhi mi sono accorto subito che c'era qualcosa che non andava. Purtroppo, se n'è accorto anche Fler.
- Tu hai la febbre. - mi ha detto. Più che una constatazione, sembrava tipo una condanna a morte. Tu non puoi dire “hai la febbre” come diresti “sei condannato alla sedia elettrica, Peter Pangerl”. È una cosa ingiusta.
- No... - mi sono lamentato io. La mia voce era più che altro un rantolo roco, ma io ho sempre la voce un po' così, ringhiante, ed ho sperato che Fler non cogliesse la differenza. Figurarsi.
- Hai la febbre. - ha ripetuto lui, - Hai gli occhi lucidi. La voce rauca. - e si è chinato a sfiorarmi la fronte con la propria. - E sei caldo. Hai la febbre.
- Non è vero. - ho borbottato, e l'ho afferrato per la nuca nel tentativo di spingermelo contro e zittirlo in via definitiva, ma lui ha opposto resistenza e s'è messo seduto.
- Tu hai la febbre e non me la passerai. - ha decretato con decisione. - Perciò io vado a stare sul divano.
E così dicendo, anche se non aveva fatto altro che dormire fino a quel momento, ha preso il cuscino ed il lenzuolo - rubandolo a me e Bushido, il quale s'è finalmente deciso a svegliarsi imprecando per il freddo e la nudità improvvisa - e s'è trasferito in salotto.
L'ho visto uscire dalla stanza e mi sono voltato verso Bushido, che nel frattempo aveva cambiato posizione e s'era tutto raggomitolato cercando di dormire ancora.
- Ohi, Bu? - l'ho chiamato, - Fler se n'è andato.
- Tornerà quando avrà fame. - ha biascicato lui, riprendendo a ronfare. Io gli ho tirato uno scappellotto sulla fronte.
- Non è un cane! - gli ho strillato, mentre lui spalancava gli occhi e si metteva seduto borbottando un “ahi” risentito e massaggiandosi il punto dolente, - Dice che ho la febbre.
Bushido mi ha schiaffato una mano sulla fronte – facendomi peraltro un male fottuto – tenendo l’altra sulla propria, e fissando il vuoto per dei lunghi secondi.
- Be’, ha ragione. – ha concluso, saltando in piedi, - Sei caldo. Avrai preso fresco, povero.
L’ho osservato, nudo per com’era, dirigersi verso l’armadio ed estrarne una coperta di lana che doveva essere costata quanto una pecora viva, per poi tornare verso il letto ed avvoltolarmi tutto come una specie di involtino primavera.
- Bushido, che cazzo stai facendo? – ho chiesto con aria curiosa.
- Mi prendo cura di te. – ha risposto lui, annuendo compitamente.
- Non voglio restare a letto! – ho sbraitato, ed avrei continuato a lagnarmi se lui non si fosse chinato a zittirmi baciandomi pure con una certa prepotenza e rischiando oltretutto di soffocarmi.
- Stai buono. – mi ha detto poi, rimettendosi dritto ed infilandosi un paio di pantaloni a caso – di Fler. – Io vado di là.
Io sono rimasto lì avvolto nelle mie coperte per due minuti circa. Mi sono detto, vedi tu che carino. Mi ricopre di lana, magari è anche andato a prendermi un bicchiere d’acqua, che ho voglia di bere, e forse è andato pure a recuperare Fler, che ho voglia di lui. Insomma, mi sono un po’ lasciato andare su pensieri simili circa Bushido, dicendomi anche che non era male come compagno, in fondo, e comunque bacia da Dio, quando improvvisamente sento Fler gemere. Io, i gemiti di Patrick, li sento a chilometri di distanza. Non è possibile che un suono così lagnoso e intollerabile e fottutamente sexy possa sfuggirmi. E quello era un gemito. Senza dubbio.
Mi sono alzato di corsa e, così avvolto nella coperta per com’ero, sono uscito fuori dalla stanza per ritrovarmi davanti allo spettacolo di Bushido che schiena Fler contro la parete del corridoio e si fa avanti per baciarlo mentre lui mugola “no, Chaky non sta bene, non voglio”.
- Traditore fedifrago! – ho urlato.
- Tu volevi scopartelo in camera, ieri. – mi ha fatto notare lui, - Ti ho sentito.
- Be’, non l’ho fatto!
- Perché lui ti ha fermato. Nemmeno io l’ho fatto.
- Perché lui ti ha fermato ed io sono arrivato e ti ho visto!
Ci ha interrotti la risata di Fler. Che è una delle cose più carine del mondo e non si capisce come possa venire da un torello alto due metri.
- Siete gelosi. – ci ha rivelato, come una specie di saggio buddista, - Che coglioni. – e poi è sparito in bagno. E io e Bushido siamo rimasti lì a guardarci, effettivamente come due coglioni. Poi io ho scrollato le spalle e me ne sono tornato a letto.
La giornata è continuata in maniera tutto sommato tranquilla fino a quando, giunta sera, nonostante fossimo tutti e tre deliziosamente incastrati sul letto a guardare la televisione, Fler si è alzato e ha recuperato il pigiama, annunciando candidamente che “allora lui andava sul divano”. Okay, forse avrei dovuto sospettare qualcosa perché non eravamo proprio così incastrati: Fler stava sul lato sinistro del letto, Bushido stava accanto a lui e lo stringeva ed io stavo svaccato su Bushido e sfioravo Fler giusto con un braccio. Loro erano incastrati, io stavo lì posato. E starnutivo.
Perciò, quando ho ricollegato le cose, ho alzato lo sguardo ed ho chiesto a Fler se stesse andando di là perché non voleva dormire con me.
- Sì. – ha risposto candidamente lui. Giuro, ci sono rimasto di merda.
- Pat, non fare il cazzone. – ha risposto duramente Bushido, - Torna a letto.
Fler, che non è esattamente uno cui piaccia farsi mettere i piedi in testa, gli ha ricambiato l’occhiata truce ed ha piantato una mano sul fianco.
- Vado dove cazzo voglio. – ha ribadito, - Ovvero, sul divano. – dopodiché, è uscito.
Bushido ha ringhiato qualcosa ma è rimasto steso a letto. Nel silenzio della camera, io ho tirato su col naso ed ho continuato a fissare la porta attraverso la quale Fler era uscito per quelle che mi sono sembrate svariate eternità. Poi, senza che nemmeno me ne accorgessi, Bushido è scivolato sotto le coperte al mio fianco, ha spento la luce sul comodino e mi ha lasciato scivolare un braccio attorno alle spalle, stringendomi a sé.
Non è stato fastidioso dormire insieme – abbiamo dormito insieme per tutto il periodo in cui Fler è stato via, in tour – ma un conto è farlo sapendo che Fler è lontano chilometri e non c’è nessuna possibilità di averlo nel letto in tempi brevi, un altro è farlo sapendo che invece Fler è lì a qualche metro e che se non sta con noi è solo perché è uno stronzetto che si diverte a tenerci sulla corda e ogni tanto si perde in follie tipo questa. L’indomani mattina, quando ci siamo svegliati, io e Bushido eravamo ancora nella stessa identica posizione rispetto a quando ci eravamo addormentati.
- Bu… - l’ho chiamato piano, la voce ridotta a un rantolo, - Mi sa che sto peggiorando.
Lui, inaspettatamente, non mi ha costretto a chiamarlo altre duemila volte e s’è svegliato subito, schiarendosi la gola con un paio di colpi di tosse ed accarezzandomi la fronte con una mano.
- Sì, Chaky. – ha risposto un po’ cupo, - Sei più caldo.
Siamo rimasti lì a deprimerci – io a guardare il vuoto, Bushido ad accarezzarmi una spalla con fare consolatorio – fino a quando la porta non si è spalancata. Fler, fresco di doccia ed anche riposato come un bambino dopo dodici ore di sonno, non ci ha nemmeno salutati, tutto preso com’era ad avanzare con la testa ficcata per metà in questo enorme beauty case tristissimo e nero all’interno del quale sembrava fosse contenuta la soluzione di tutti i mali del mondo, tanta era l’attenzione con la quale lui lo controllava e ricontrollava.
Io e Bushido ci siamo guardati ed abbiamo scrollato contemporaneamente le spalle mentre Fler si lasciava ricadere sul letto in mezzo a noi – sgomitando da un lato e dall’altro per riprendersi il posto che era suo di diritto e del quale il nostro avvicinamento notturno lo aveva, a suo parere, ingiustamente privato – e poi si voltava verso di me con l’aria di un ragazzino che ha appena fatto qualcosa di molto gentile e per il quale si aspetta perciò riconoscenza vita natural durante.
- Poi non dire che non ci tengo, a te. – ha dichiarato, mostrandomi il beauty case. Io ho sbirciato all’interno e nel mentre l’ho ascoltato spiegare. – Qua dentro ci sono tutte le medicine che possono servirti. C’è lo spray nasale, ci sono le vitamine, c’è la tachipirina se la febbre si alza ancora, ci sono le pillole per il mal di testa, c’è lo sciroppo e c’è anche la pomata da passare sul petto se la tosse peggiora. – ha elencato con aria competente, indicando ogni medicina con un dito. – Visto? È dalle sette che sono in giro fra casa e farmacia per preparare tutto.
L’ho guardato con un’aria a metà fra il grato ed il totalmente rincoglionito, e Bushido ha riso tenero dietro di lui. Questo è Fler, in sostanza. Al di là del sesso, questo è il motivo per cui né io né Bushido ci sogneremmo mai di fare qualcosa per distruggere l’equilibrio perfetto che regna in questa casa.
Quando ho fatto per sporgermi verso di lui e baciarlo, comunque, lui s’è ritratto, piantandomi una mano sulla faccia.
- Quando guarisci. – ha detto deciso. Io ho lanciato un’occhiata a Bushido, come a dirgli “be’, ok, bacialo tu per me”, ma quando lui ha fatto tanto di avvicinarglisi e spingerlo a voltarsi per esaudire la mia muta richiesta, Fler ha piantato una mano sulla faccia anche a lui ed ha risposto – Quando guarisce Chaky. – e questo ha chiuso la questione.
Meno di un minuto dopo s’è rimesso in piedi ed è uscito dalla stanza. Io sono tornato ad abbattermi contro Bushido perché i brividi di freddo mi stavano uccidendo e lui, quantomeno, è una stufetta naturale non da poco, e poi ho sospirato.
- Forse è meglio se mi trasferisco in camera degli ospiti. – ho annunciato tetro, borbottando un po’.
- Stai benissimo qui dove stai. – ha risposto lui, decisissimo, ed io ho riso.
- Grazie, ma quel coglione continuerà a dormire sul divano, se io non mi schiodo. Quindi ora prendo il cocktail di medicinali che con tanto amore lo stronzo ha preparato per me, e vado in camera degli ospiti. – Bushido ha fatto per protestare, ma io mi sono sollevato e l’ho zittito con un’occhiata prima che lui potesse anche solo cominciare. – Mi dai una mano? – ho chiesto, avvolgendomi nella coperta di lana che supponevo sarebbe stato il mio bozzolo per molti giorni a venire. Bushido ha annuito, e lì è cominciato il mio breve trasloco.
Questa è, in sostanza, la storia di come sono finito in questa stanza noiosissima, con questo letto minuscolo, senza neanche il televisore. Da quando sono qui la febbre si è alzata – ed ho preso la tachipirina – ho avuto mal di testa – ed ho preso le pillole – la tosse è peggiorata – ed ho preso lo sciroppo e spalmato la crema – e mi sono sentito un sacco debole – ed ho mandato giù quintali di disgustosi bicchieri d’acqua all’interno dei quali avevo fatto sciogliere quelle enormi pillole frizzanti all’arancia che Fler chiama “vitamine”. E adesso sto effettivamente meglio. La tosse sta scomparendo, la febbre è quasi del tutto estinta e non sono più costretto a vivere attaccato alla boccetta dello spray nasale per non morire soffocato dal mio stesso muco. Sto riappropriandomi di una vita sana e priva di malesseri e sono perciò molto orgoglioso di me stesso.
Bushido, nonostante abbia ripreso a lavorare, visto che fra poco esce l’audiolibro della biografia, ha passato un po’ di tempo con me ogni giorno. È entrato qui dentro, mi ha dato un bacio, s’è seduto sulla seggiolina e poi si è messo a parlare. Quell’uomo ha una voce che sembra fatta apposta per calmarti, quando non urla. Cioè, si mette lì e parla di cazzate e tu dopo un po’ smetti anche di capire effettivamente cos’è che ti sta dicendo. Lo senti e basta, è sufficiente.
Perciò è questo ciò che ho fatto in questo giorni: ho cominciato a guarire preoccupandomi di non farcela per il concerto del sedici, ho ascoltato Bushido parlare, ho dormito e non ho mai visto Fler. In compenso so che ha accolto la notizia del mio trasferimento qua dentro con un incomprensibile “oh” – riprendendo immediatamente il suo posto al fianco di Bushido nel letto – e che da una settimana lui e Bushido non fanno che litigare. Cominciano al mattino appena svegli e finiscono alla sera quando chiudono gli occhi. Non so cosa si dicano, ma sono sette giorni che, ogni volta che sono in casa insieme, li sento abbaiare come cani, anche se, ogni volta che gli chiedo se c’è qualcosa che non va, Bushido sorride e risponde che è tutto a posto.
Il risultato delle urla e dei litigi io lo comprendo solo oggi, nel momento in cui, dopo essermi rifornito con la mia dose giornaliera di acqua all’arancia, sollevo gli occhi e mi ritrovo davanti Fler che appare sulla soglia – la porta non l’ha aperta lui, ma una mano che si è infilata fra il suo braccio e il suo fianco e l’ha aperta al suo posto – ed entra nella stanza palesemente controvoglia, spintonato da dietro, guardandosi intorno con un broncio stupidissimo e carinissimo, gli occhi che si soffermano su ogni particolare della stanzetta evitando accuratamente il particolare più importante, che sono io e sento tanto la mancanza di quegli occhi addosso che ho voglia di mettermi ad agitare le braccia sventolando bandiere segnaletiche per farmi notare.
- Pat! – lo chiamo, e sono talmente felice di vederlo che non mi importa se mi ha ignorato fino ad oggi, - Sto meglio! – e ci tengo a precisare che io glielo dico, ma lui nemmeno si è informato.
- Hai ancora un po’ di raffreddore. – mi fa notare lui, impietoso, mentre Bushido rotea gli occhi, lo supera e si fa avanti, posando un cestino pieno di frutta sul comodino ed arrampicandosi disinvoltamente sul letto al mio fianco. È un singolo, ma Bushido è sottile e qui ci si sta comodi, in due.
- La frutta – mi dice Bushido, baciandomi piano sulle labbra, - l’ha comprata lui. Dovevi vederlo, al mercato, fra le bancarelle, che sceglieva personalmente le mele.
Io rido e guardo Fler, che sta ancora immobile nel centro della stanza, guarda altrove e tiene le braccia incrociate sul petto.
- Te ne intendi? – chiedo, recuperando una mela lucidissima dal cestino ed addentandola con soddisfazione. Fler scrolla le spalle e non risponde.
Bushido ride e prende a raccontarmi di come quella mattina si sia messo in testa di convincerlo a venirmi finalmente a trovare, io borbotto ma Bushido non lascia spazio per le mie lamentele e continua col racconto, e dipingendomi davanti agli occhi un Fler che gli ricambia un’occhiata incerta e gli dice “sì, però Chaky ce l’avrà sicuramente con me… non posso presentarmi a mani vuote”, e decide perciò di andarmi a comprare della frutta fresca. Mi viene da ridere perché è ovvio che Fler avrebbe potuto anche entrare qui dentro nudo come mamma l’aveva fatto e sarebbe stato bellissimo lo stesso. Anzi, probabilmente sarebbe stato anche meglio. Ed è allora che guardo Fler – imbarazzato oltre il legale – e poi guardo Bushido e mi dico che ho voglia di farmi stringere un po’. Che sono giorni che non faccio che pensare a guarire, più che per il concerto, più che per la gola che gratta, più che per i brividi e tutto il resto, perché voglio tornare a stare con loro, nel letto, giorno e notte e in tutte le altre ore che ci passano di mezzo.
È per questo che mi scosto un po’, sul materasso, e parlo.
- Magari… - ipotizzo, prendendo con gli occhi le misure del letto, - Magari ci entriamo in tre.
Fler inarca un sopracciglio.
- Impossibile. – nega seccamente.
Bushido sospira.
- È un tuo problema. – risponde. E, nel momento in cui io mi volto a guardarlo intenzionato a chiedergli se non abbia voglia di farsi sfanculare definitivamente, sento una sua mano scivolare verso l’alto sulla mia coscia, e mi dico “oh”.
Fler si accorge del movimento, ma in un primo istante non fa nulla. Resta lì, ci guarda con aria estremamente disapprovante – le braccia serrate sul petto, gli occhi che brillano di gelosia – e mi osserva stendermi indietro sul cuscino mentre Bushido si gira su un fianco e lascia scivolare la mano sopra i miei boxer, accarezzandomi lentamente. Chiudo gli occhi e mi lascio andare ed è allora che sento Fler mugolare “ma così non è giusto!”, e poi tutto il letto trema e si agita ed io apro gli occhi e rido perché Patrick è lì che cerca il suo spazio, Bushido e lì che glielo concede ed io sono qui che mi rimetto seduto, allargo braccia e gambe e lo stringo a me, mentre lui si rigira fra le mie braccia per darmi le spalle ed aderire perfettamente con la schiena al mio petto.
Bushido ghigna, mettendosi in ginocchio e stringendo Fler da davanti.
- Sì che ci entriamo in tre.
- Lo sapevo che volevi andare a parare qui… - borbotta Fler, stendendosi contro di me e muovendosi appena contro la mia erezione, mentre gira il capo alla ricerca delle mie labbra, - Chaky, se mi passi il raffreddore non ti perdonerò mai.
- Sei forte e pieno di salute. – lo prendo in giro io, e poi sulle sue labbra mi ci perdo, perché sono calde e sanno di lui e non le sento da giorni e mi sono mancate un casino. – Cazzo, oggi tocca prima a me, sì, Bu?
Bushido annuisce e sorride, e si tira un po’ indietro, afferrando Patrick per la vita e portandolo con sé nel movimento per sbottonargli i pantaloni e spogliarlo. Forse non toccava proprio a me per primo, oggi, ma Anis è tranquillo, bacia Fler lungo il collo fin sotto l’orecchio e lo aiuta a risistemarsi fra le mie gambe, accarezzandolo piano fra le cosce mentre io scendo a prepararlo con le dita umide e poi entro lentamente dentro di lui, osservandolo reggersi alle sue spalle con le mani ben salde per potersi muovere come preferisce, dettando lui il ritmo delle mie spinte e lamentandosi rumorosamente, mordendo le labbra di Bushido, quando mi muovo diversamente da come lui vorrebbe. Morde Bushido, Bushido guarda me, io mi fermo e lascio che sia Fler ad imporsi come vuole, tra un ansito e un mugolio appena trattenuto, e quando veniamo – in che ordine non saprei nemmeno dirlo – io mi sporgo in avanti per baciare la nuca di Fler, Bushido si sporge in avanti per baciare lui e Fler, invece, si scosta. Perciò tutto ciò che io ottengo solo le labbra di Bushido e tutto ciò che Bushido ottiene sono le mie.
Per quanto inizialmente la cosa sia inattesa – sia io che lui ci aspettavamo un sapore diverso – facciamo in fretta a dimenticarcelo. Fler solleva una mano ad accarezzarmi la nuca e con l’altra scivola dalla spalla al collo di Bushido, massaggiando piano, e ride a mezza voce.
- Siete bellissimi. – commenta poco dopo, quando io e Bushido ci separiamo con un lieve schiocco e ci guardiamo negli occhi, un po’ confusi. – Mi siete mancati.
Io e Bushido imitiamo la sua risata e cerchiamo le sue labbra, prima lui – perché mi sa che toccava a lui, ecco – e poi io, e Fler ci bacia entrambi lentamente, perfettamente soddisfatto.
Dopodiché, lo osservo disincastrarsi dalla nostra stretta e stendersi al mio fianco, mugolando piano.
- Stanco? – gli chiedo, chinandomi a baciargli una tempia mentre Bushido prende posto accanto a lui, schiacciandosi il più possibile contro il muro per non costringermi a rotolare rovinosamente per terra.
Fler annuisce, gli occhi già chiusi.
- Dormo solo un po’. – mugugna, e poi il suo respiro si regolarizza ed io e Bushido restiamo ad osservarlo ipnotizzati, come sempre.
Quando si risveglia, un paio d’ore più tardi, ha gli occhi lucidi e un po’ arrossati.
- Lo sapevo io… - borbotta confusamente, - Chakuza, ti odio… fuori da questa casa…
Un po’ incerto, io lo guardo, senza capire.
- Ma che c’è? – chiedo confusamente, - Ti senti male?
Bushido spalanca gli occhi, si mette seduto e gli sfiora lievemente la fronte, prima di sporgersi oltre il suo corpo ed anche oltre il mio, allungandosi fino al comodino e recuperando il termometro dal primo cassetto, per scuoterlo un po’ e infilarglielo gentilmente sotto l’ascella, mentre Fler si lascia maneggiare neanche fosse fatto di pongo.
Quando il termometro riemerge, Fler si nasconde sotto le coperte. E Bushido mi guarda.
- Trentotto. – decreta cupo, - E mi sa che siamo solo all’inizio.
- Fanculo. – biascica Fler, lamentoso, - Vi odio entrambi. – ed un brivido di freddo lo scuote tutto. - …restate?
E noi lo sappiamo che si meriterebbe di essere mandato a fanculo e lasciato solo in quarantena. Però, visto che, anche se il letto è piccolo, in tre ci si entra tranquillamente, preferiamo infilarci sotto le coperte al suo fianco ed aspettare che sia lui a dirci di non volerci più fra le palle. Sempre che questo avvenga, ovviamente.
Genere: Romantico, Commedia.
Pairing: Chakuza/Fler/Bushido.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash, Threesome.
- "Forse è ingiusto che a me servano due persone per sentirmi nel modo in cui si sente la gente in genere quando ne ha anche una sola, ma non è un mio problema. Così sono io. Così siamo noi. Provate a darci torto."
Commento dell'autrice: XD Questa storia è nata perché il mio cervello è palesemente incapace di stare fermo due-minuti-due, e quando ho visto Fler parlare al telefono in foto, nel backstage dello show di Lahr, sono partita ad immaginarlo al telefono col suo uomo. Poi però non riuscivo a scegliere quale dargli. E quindi glieli ho dati entrambi XD Sì, è il mio bimbo e lo vizio, con ciò? STFU.
Comunque è.é Storia per il 98% veritiera (ho dovuto incastrarci dentro pure il concerto del Chaky nella patria delle mucche, delle banche e della puntualità!), dove il 2% di falsità è rappresentato dall’esistenza specifica di fiori e cioccolatini, perché tutto il resto, io lo so, sesso compreso, sta accadendo veramente o è già accaduto o comunque accadrà, date loro solo il giusto tempo. E comunque me ne frego :D
Spero abbiate gradito. E grazie a Def – un santo – per il betaggio.
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Potremmo Provare In Tre
"Al risveglio mi ritrovo solo, come nella vita di sempre." (Angel Sanctuary)


Silla e Reason mi hanno salutato dieci minuti fa con grandi pacche sulle spalle, ridendo. Erano già palesemente ubriachi per la birra che abbiamo visto scorrere a fiumi nel backstage, dopo il concerto, ma hanno avuto comunque il coraggio di chiedermi se mi andasse di uscire con loro a bere qualcos’altro, visto che era l’ultima data del tour e tutto. Io in realtà non è che avessi tutta questa voglia, sto praticamente lavorando senza fermarmi mai da quasi un mese e sono sfiancato, perciò ho sorriso e li ho invitati ad andare gioiosamente a fanculo o in qualsiasi altro posto desiderassero. Loro, ubriachi com’erano, l’hanno presa per una bellissima battuta e si sono allontanati sghignazzando e cantando vecchie canzoni di 50 Cent con un accento improponibile.
E quindi io sono rimasto qui e mi sono ritrovato solo, come nella vita di sempre, o meglio: com’era la mia vita di sempre prima che la mia vita di sempre diventasse un immenso, frenetico ed affannoso casino. Vietato ai minori di diciott’anni, poi.
Sospirando, penso che non dovrei lamentarmi e che quei due coglioni al momento mi mancano pure, e mi infilo in bagno, sfilando la maglietta e cominciando ad armeggiare coi rubinetti della doccia per miscelare acqua calda e fredda. Se tutto va bene e Silla e Reason non si fanno investire durante la notte, vagando per le strade di Lahr in stato semicomatoso con più alcool che sangue nelle vene, domani mattina sarò in viaggio per Berlino. Mi manca casa e mi mancano i due coglioni, soprattutto. Tra l’altro suona benissimo, “i due coglioni”. È anche anatomicamente corretto.
Mentre sono qui che guardo il getto d’acqua e pregusto quella che palesemente sarà la doccia migliore della mia vita dopo quella volta in cui i due coglioni hanno deciso che sì, in fondo si poteva provare a farla in tre, suonano alla porta. Mi trattengo a stento dal lanciare un urlo frustrato e chiudo tutto, rassegnandomi a dover ricominciare tutto da capo dopo aver liquidato lo scocciatore chiunque egli sia; dopodiché mi muovo verso la porta strascicando i piedi e grugnendo un “arrivo” infastidito, sperando che il mio odio attraversi il tempo e lo spazio e raggiunga lo sconosciuto visitatore, obbligandolo a scappare a gambe levate ancora prima che io sia arrivato ad aprire.
Invece niente, apro e lo scocciatore è ancora lì, solo che non è uno solo. Sono due. E sono, appunto, i due coglioni.
So che ho detto fino a due minuti fa che mi mancavano e tutto, ma se si aspettavano che una piazzata del genere mi sciogliesse come una ragazzina costringendomi a saltare loro al collo e sottopormi a chissà che oscura pratica sessuale abbiano progettato insieme nelle lunghe notti di solitudine dell’ultimo mese, hanno fatto i conti senza l’oste. Fiori e cioccolatini – gli uni stretti in un mazzo coloratissimo fra le braccia del tunisino, gli altri avvolti in un elegante pacco nero e dorato fra le braccia dell’austriaco – non mi fanno il minimo effetto, perciò mi limito a sollevare un sopracciglio ed incrociare le braccia sul petto. Sono stanco, sono le due passate del mattino e voglio dormire.
- Ma voi due non avete mai proprio un cazzo da fare, eh? – borbotto, picchiettando un piede per terra. Bushido scoppia a ridere facendosi strada all’interno della camera e buttando i fiori sul primo mobile che incontra nel proprio cammino, visto che, adesso che ha fatto il suo ingresso trionfale, non gli servono più. Chakuza, invece, resta sulla porta e mi guarda con sgomento.
- Ma vedi tu che stronzo! – sbotta, spiaccicandomi il pacco di cioccolatini sul petto e poi lasciandolo andare, così che io sono per forza costretto a stringerlo fra le braccia prima che cada a terra e si distrugga definitivamente, - Non solo uno è già stanco di suo e si fa i chilometri solo per venire a trovarti, ma deve pure vedersi accolto così…
Io sbuffo e chiudo la porta.
- Non vi ha invitati nessuno. – faccio notare ad entrambi, posando i cioccolatini sullo stesso mobile dove stanno i fiori. Bushido s’è già svaccato sul mio letto e Chakuza si sta guardando intorno con aria critica, cercando di intuire a quante stelle possa essere l’albergo giudicando dalla tappezzeria, suppongo. – Cos’è questa piazzata? – chiedo poi, sedendomi sul letto accanto a Bushido e rinunciando alla bellissima doccia di cui sopra, - Vi ho sentiti al telefono, tipo, dieci minuti fa. E mi avete detto che il concerto a Sagogn era appena finito e stavate mettendovi in marcia per tornare in albergo!
- Mentivamo. – risponde candidamente Bushido, sorridendo e chinandosi a baciarmi su una guancia, - Puzzi in maniera indecente, Pat.
- Perché io lavoro sul serio. – faccio notare, - Ero sul palco fino a due ore fa e non sono ancora riuscito a lavarmi.
- Possiamo farlo tutti insieme. – ghigna Chakuza, giocherellando con la fodera sfilacciata di una poltrona. Bushido gli risponde con una risatina divertita che io sento contro il collo perché, puzza o non puzza, lui è ancora lì, vicinissimo. Io, invece, grugnisco con disappunto.
- Ma anche no. Io posso fare la mia doccia mentre voi vi rimettete in auto e ve ne tornate a casa, e domani, quando sarò a Berlino, ne riparleremo.
Chakuza e Bushido ridono insieme, ed io, imbarazzato, distolgo lo sguardo. Ok, lo so che ho detto una cosa ridicola. Ciononostante, non è giusto che mi si prenda così sfacciatamente in giro. Sono stanco, io. Ho un sacco di cose da fare. Mica come loro.
- Io ho un’idea migliore. – annuisce Chakuza, arrampicandosi sul letto accanto a noi. Fortunatamente lo spazio è sufficiente per tutti e tre. – Adesso finiamo di sporcarti, poi tu vai a lavarti.
Bushido ride ancora ed io mi ritiro in un angolo.
- Col cazzo! – mi lamento.
- Anche con quello, sì. – annuisce Chakuza, prendendomi in giro, e Bushido ride così forte che sento l’aria tremare.
- Fai schifo. – borbotto inorridito, - E tu sei uno stronzo. – continuo, indicando il dannato tunisino, - Anzi, siete stronzi entrambi. Dio, ma chi me l’ha fatto fare…
Nessuno mi risponde, e in realtà una risposta non serve nemmeno, nel momento in cui Chakuza comincia ad armeggiare con la cintura dei miei pantaloni e Bushido mi lascia scorrere le mani lungo la schiena, scivolando con le labbra sul mio collo e sulle mie spalle. Lascio andare un gemito e chiudo gli occhi appena Chakuza comincia ad accarezzarmi fra le gambe. Per la doccia avrò tempo dopo.

*

La mia storia con Bushido non ha bisogno di essere raccontata dal principio, perché quella lo conoscono tutti anche troppo bene. Un ragazzino perso nella grande città, un tunisino che in Tunisia non c’è mai stato e che a diciott’anni aveva già visto anche troppo, un incontro fortuito, i muri di Berlino da ridipingere e così via, l’amicizia, il rap, l’Aggro Berlin, la fama, i soldi, troppi soldi e poi l’Ersguterjunge, le diss, gli anni di sfanculamenti gratuiti e poi una confessione a cuore aperto fra biografie e testi di canzoni, la morte di un mito e una riappacificazione che ha messo a soqquadro l’intero showbiz tedesco.
Ciò che forse va raccontato è quello che ci sta dietro, perché per quanto in molti malignino e in moltissimi suppongano, la cosa non è mai stata detta pubblicamente.
Dunque, io e Bushido abbiamo cominciato a scopare da subito. Dite pure ciò che volete – che i rapper certe robe non le fanno, che io ero praticamente un bambino, non m’interessa. Avevo quattordici anni ed avrei potuto mettere le mani su qualsiasi sciacquetta mi gravitasse intorno nel ghetto, ma non me ne interessava nemmeno una. Nel momento in cui l’ho visto in quell’ufficio spoglissimo e deprimente, ai servizi sociali, ed ho pensato “cazzo, ma sei bellissimo” come prima cosa, posandogli gli occhi addosso, avevo poco da stare a riflettere sul punto: ho capito dove stava andando a parare la mia sessualità e mi sono dato da fare perché ottenesse soddisfazione.
Fortunatamente per me, anche Bushido non è mai stato tipo da domande, quindi quando praticamente gli sono piombato addosso strappandogli la maglietta e infilandogli la lingua in gola, piuttosto che perdere tempo a chiedersi perché, s’è dato da fare per fare in modo che, qualsiasi fosse il motivo di quello che stava accadendo, ne valesse la pena comunque.
Da quel momento in poi – e io avevo sempre quattordici anni, eh – io e Bushido, per così dire, siamo sempre stati insieme. O non ci siamo stati mai, perché in fondo continuavamo comunque a fare il cazzo che volevamo con chiunque volessimo, però, insomma, scopavamo tantissimo e comunque avevamo un rapporto molto intimo, andavamo sempre in giro insieme, ogni notte insieme, lo spaccio insieme, le ubriacature insieme, le risse insieme e così via. Poi il coglione prende e dice che vuole uscire dall’Aggro perché si rompe le balle a dividere i guadagni coi grandi capi e non gli piace essere trattato come un pischello quando lui è il re dei re e simili puttanate, e ha pure il coraggio non solo di dirmelo in faccia, ma anche di chiedermi di seguirlo nella sua nuova etichetta. Al che era ovvio che non si poteva continuare a scopare, quando invece mi andava di sfancularlo e, anche se non mi fosse andata, mi sarebbe toccato farlo per contratto e orgoglio.
Da lì è veramente storia nota, compresa la riappacificazione che alla fine è stata anche più patetica di quello che si è sentito in giro, nel senso che, un mese prima che l’Aggro chiudesse, io già sapevo che avrebbe chiuso, e la cosa mi ha fatto girare i coglioni. Non so se vi è mai capitato di credere in qualcosa quanto io ho creduto nell’Aggro, e non so se vi è mai capitato di dovere a qualcosa tanto quanto io devo all’Aggro, fatto sta che quell’etichetta era la mia vita e, quando ho saputo che avrebbe chiuso, ho sentito il bisogno di tornare ad aggrapparmi all’unica altra cosa che fosse stata la mia vita prima di quel momento. Quella cosa era Bushido e ritrovarmi sulle sue labbra mentre casa mia chiudeva per sempre era esattamente ciò di cui avevo bisogno. Punto.
Tutto è precipitato nel momento in cui ho conosciuto Chakuza.
So che può sembrare assurdo, da dire, perché tu non puoi conoscere un nano pelato austriaco che si veste da metalmeccanico ed ha un diploma di cuoco, e lasciare che quest’essere ti sconvolga l’esistenza. Soprattutto non puoi lasciare che quest’essere ti si porti a letto. Non quando stai con Bushido, andiamo, Bushido è oggettivamente un uomo bellissimo, Chakuza non è oggettivamente nemmeno piacevole.
Fatto sta: ho conosciuto Chakuza e l’attimo dopo ero perso. Non saprei nemmeno dire perché – deve avere a che fare con la sua voce, comunque, mi muove cose dentro – ma è stato così. Bushido ci presenta – “Peter, questo è Patrick, Patrick, questo è Peter” – e l’attimo dopo io sono lì seduto sul divano accanto a Bushido che guardo il Chaky seduto in poltrona che mi parla del gatto della sua vicina gesticolando come un tredicenne, e penso ai millemila modi in cui vorrei sentirmi addosso quelle mani. La follia.
Sul momento sono rimasto zitto, naturalmente. Bushido stava là compiaciutissimo a dire a tutti che ero il suo ragazzo ed era la prima volta che lo faceva – nel senso, era ovvio che il rapporto che avevamo in quel momento era profondamente diverso rispetto a quello che avevamo quando eravamo ragazzini, era una cosa più seria e peraltro l’idea mi piaceva pure – non potevo rovinare tutto a così pochi giorni dal momento in cui ci eravamo ritrovati. Però Chakuza continuava a girarci intorno e soprattutto continuava a girarmi per la testa, non c’era verso di tenerlo fuori, così a un certo punto basta, preso da palese follia, sono andato fino alla Beatlefield – potete crederci? Ho preso e sono andato fino alla Beatlefield! – urlandogli cose assurde tipo che non doveva permettersi di incontrarmi, parlarmi o anche solo pensarmi – e, voglio dire, tu non puoi dire queste cose a un uomo, soprattutto se sei andato tu a cercarlo praticamente in casa propria – e che, insomma, mi piaceva e fanculo al resto. Trenta secondi dopo la sfuriata lui mi stava ancora guardando con gli occhi sgranati, chiedendosi cosa farsene di me. Due minuti dopo, l’aveva capito e mi aveva schienato sulla scrivania.
È quindi cominciato per me uno sfiancante periodo di tempo in cui nella mia vita non ho combinato niente perché ero troppo impegnato a saltare con estrema disinvoltura dal letto del mio uomo al letto del mio amante. Praticamente per giorni interi ho vissuto in un universo parallelo in cui non facevo in tempo ad uscire dal post-orgasmo di una scopata che subito mi ritrovavo immerso nella scopata successiva. Una specie di paradiso in terra, ok, ma presentava controindicazioni non trascurabili. Tipo il senso di colpa, per dire.
La realtà dei fatti è che in fondo io nonostante tutto sono un bravo ragazzo, mi seccava un po’ questo balletto da un letto all’altro. Non si fanno queste robe. Peraltro io voglio bene ad Anis, e con Chakuza… boh, Chakuza in realtà è un mistero, suppongo che ci sia qualcosa di piuttosto animalesco fra di noi, nel senso che impazzisco dietro al suo odore ed al suono della sua voce, quindi per forza dev’essere un istinto più che un sentimento, però voglio del bene anche a lui. Lui ne vuole a me, oltretutto, ed Anis mi ha sempre tenuto caro con pazienza per più di dieci anni, quindi ad un certo punto ho cominciato a sentirmi come se li stessi tradendo entrambi, e la cosa non era per niente piacevole.
Così ho preso in mano la situazione.
Per prima cosa, sono andato da Bushido. Dovevo innanzitutto informarlo della mia relazione con Chakuza. Poi gli avrei anche detto che non intendevo rinunciare a lui in nessun modo e avremmo trovato un modo per convivere col mio essere intimamente troia – cosa insospettabile, ma resa ormai evidente dalla gioia con la quale saltellavo da un uomo all’atro – senza che nessuno sentisse il bisogno di staccare la testa a qualcun altro in un impeto di gelosia.
Devo dire due cose: primo, probabilmente sopravvalutavo l’amore cieco di Anis nei miei confronti, perché non credo abbia mai avuto voglia di staccare la testa al Chaky perché mi si era portato a letto; secondo, è palese che il motivo per cui io e Bushido si va tanto d’accordo è che né io né lui, quando si parla di ciò che ci tiriamo nel letto, pensiamo veramente né a ciò che stiamo facendo né alle possibili conseguenze.
Insomma, gliel’ho detto mentre mangiavamo un panino. Per quel giorno lui aveva già abbondantemente buttato fuori di casa D-Bo e Kay One per tirarci dentro me, così da potermi scopare su ogni superficie liscia disponibile ed anche su una buona quantità di superfici ruvide, perciò eravamo solissimi di fronte alla televisione spenta e la mia voce è risuonata nella stanza come, tipo, la voce divina che detta a Mosè i Dieci Comandamenti. “Sono stato a letto con Chakuza”, così, seccamente. D’altronde, anche ad indorare la pillola, suppongo il concetto in sé non fosse granché migliorabile.
Lui s’è voltato a guardarmi, gli occhi fissi nei miei e spenti come la capocchia di uno spillo. “Quando? Dove? Come?” mi ha chiesto a bassa voce. Ho riflettuto sulle varie possibili risposte che avrei potuto dargli e poi ho sospirato. “Non vuoi saperlo”, ho risposto, “Comunque non voglio lasciarti. Cioè, ovviamente se tu non vuoi lasciare me. Però Chakuza… non lo so, non voglio lasciare neanche lui”. Bushido ha annuito lentamente e su di noi, per molti minuti, è sceso il silenzio.
Ho parlato ancora solo quando ho capito che lui non l’avrebbe mai fatto.
“Senti, Anis…” ho mormorato con imbarazzo palese, giocando con le mie stesse dita e mordicchiandomi un labbro, “Non è che… secondo te si potrebbe provare in tre?”
Dicevo prima che io e Bushido non è che si pensi davvero, quando si tratta di scopare. Perciò non deve veramente stupirvi che abbia annuito anche in quel caso, senza scomporsi più di tanto. “Ci metterò un po’ di tempo ad abituarmi” mi ha risposto candidamente, “ma sì, penso che si possa provare. Il Chaky è un bravo ragazzo”. Non cercate di capire come sia possibile che lui abbia continuato a pensare di quello che si sbatteva il suo uomo che fosse “un bravo ragazzo”. Si parla della testa di Anis – uno che la normalità nemmeno la conosce.
Da lì in poi, il nostro problema principale è stato cercare un modo per dirlo, appunto, al Chaky. Non sapevamo se anche lui fosse un uomo che non pensava, in campo sessuale. Voglio dire, ci aveva messo due minuti a ribaltarmi sulla scrivania del proprio ufficio, ma poteva essere stato un momento di pazzia istantanea poi ripetuto perché si era preso una sbandata per me o che so io. Non puoi andare a proporre giochini erotici a tre alla gente così a cuor leggero, così io e Bushido abbiamo cercato di progettarla per bene, nel dettaglio. Ed abbiamo organizzato una cena.
Bushido ha ovviamente mandato me a chiederlo al Chaky, per cui la scena si è svolta più o meno in questi termini: mi sono presentato a casa di Chakuza sorridendo felice, mi sono fatto schienare e mentre lui si perdeva fra una spinta e l’altra l’ho invitato a cena da noi. Lui ha ovviamente detto “sì” ma non sono proprio sicuro si riferisse alla cena, tant’è che, quando ha ripreso conoscenza e consapevolezza di se stesso e del mondo circostante, mi ha chiesto “che cazzo intendevi con venire a cena da te e Bushido?”. Gli ho spiegato brevemente che avevamo bisogno di discutere con lui un certo progetto, e quando ho visto le sue sopracciglia inarcarsi tanto che pensavo sarebbero fuggite dalla sua faccia proiettandosi nell’infinito, mi sono fatto schienare di nuovo, risolvendo il problema alla radice.
Il giorno dopo, a cena, l’imbarazzo di Chakuza era palese. Non provava nessun risentimento o vergogna a scoparmi in ogni posizione umanamente immaginabile ed in ogni luogo si prestasse allo scopo, però sedere di fronte ad una triglia al forno allo stesso tavolo con l’uomo che si scopava e il di lui compagno ufficiale, per qualche motivo, lo turbava parecchio. Quindi continuava a fare disastri tipo strozzarsi con le lische e sbattere la mano contro il bicchiere mentre si allungava a prendere il vino, la qual cosa stava cominciando a farsi urtante. Voglio dire, quando cerchi di convincere il tuo uomo della possibilità di trascinarsi un terzo elemento nel letto, gradiresti che il suddetto terzo elemento non approfittasse di ogni occasione favorevole per rendersi ridicolo. Ma Chakuza non stava facendo altro ed io cominciavo ad avere paura che a un certo punto Anis si sarebbe voltato a guardarmi e mi avrebbe detto “ma non esiste”.
È stato per questo motivo che ho deciso – di nuovo – di prendere in mano la situazione e darmi da fare. D’altronde, prendevo già in mano loro stessi abbastanza spesso da non aver paura di quali potessero essere le conseguenze delle mie parole. E insomma, l’ho detto e basta. “Così, Chaky, siccome sei un bel tipo e comunque mi piace molto venire a letto con te e però fare le cose di nascosto mi fa sentire poco pulito, ho parlato con Anis della nostra situazione ed abbiamo deciso che sì, in fondo potremmo provarci in tre, volendo.”
La risposta di Chakuza non è stata esattamente positiva. Intendo, uno che si alza lasciando a metà la propria triglia nel piatto e comincia letteralmente a correre verso la porta, in genere, non ti sta dando una risposta positiva. Io e Bushido l’abbiamo osservato spalancare il portone della Villa Gialla e catapultarsi sul selciato per poi sparire nella notte, e siamo rimasti lì a guardarci chiedendoci dove avessimo sbagliato, almeno fino a quando Chakuza, una mezz’ora dopo, è tornato.
“Ok”, ha detto, tornando a sedersi di fronte alla propria triglia ormai fredda, “dov’è la fregatura?”
“Fregatura?” ho chiesto io, con aria sinceramente curiosa. Chakuza ha annuito compitamente.
“Bushido che mi permette di metterti le mani addosso in un letto sul quale è disteso anche lui? Deve esserci una fregatura. Per forza”, ha spiegato con competenza. Io ho guardato Anis e lui ha scosso il capo, scrollando le spalle come a dirmi “no, guarda, non ho la più pallida idea di cosa gli giri per la testa, mi dispiace”.
Sono tornato a guardare Chaky.
“Non c’è nessuna fregatura, Peter”, gli ho risposto, cercando di fargli capire quanto fossi serio sul punto, “E poi piaci anche a lui.”
“Oh, andiamo…!” ha borbottato lui, incredulo.
“Ehi, guarda che è vero!” si è lamentato Bushido, sentendosi evidentemente preso poco sul serio.
Chakuza l’ha guardato ed ha preso atto della situazione, valutandone i pro e i contro. Ho osservato gli ingranaggi muoversi nel fondo dei suoi occhi verdissimi, e poi lui ha parlato ancora.
“Non dovrò fare niente che non vorrò?” ha chiesto con una certa preoccupazione.
Io e Bushido abbiamo scosso contemporaneamente il capo. Nessuno voleva obbligarlo a dare il culo – non sul momento, almeno – a me bastava potermeli tenere entrambi nel letto di modo da non dover fare la fatica di cambiare casa quando ne volevo uno piuttosto che un altro. Intimamente troia, d’altronde, l’ho detto.
“E non dovrò, tipo… darvi la mia anima o firmare un contratto col sangue o che so io, giusto?”
“Ma ovvio che no!” ho quasi urlato io, sconvolto da tanta idiozia.
“Piantala di fare il coglione, Chakuza” ha rincarato la dose Bushido.
E Chakuza ha smesso, appunto. Il resto di quella sera, se lo ricordo bene – e lo ricordo bene – mi è passato addosso sotto forma delle mani di Chakuza e delle labbra di Bushido. Non ricordo serate più piacevoli di quella, né prima né dopo, a tutt’oggi.
Chakuza s’è trasferito alla Villa Gialla pochissimi giorni dopo, sotto domanda insistente di Bushido, perché io mi ostinavo a piantargli le mani sul petto e mandarlo a sbattere contro la parete di fronte ogni santa volta che provava a mettermi le mani addosso in assenza dell’austriaco. Il concetto, per me, è semplicissimo: se ho deciso di parlare, l’ho fatto perché li voglio entrambi e voglio essere sincero con entrambi. Non posso scopare con uno quando l’altro non c’è, è ingiusto e poco onesto. Perciò, in questa casa, senza Chakuza non si scopa.
Quindi Chakuza s’è trasferito e da quel momento conviviamo. Tutti e tre. Nella Villa Gialla. Ed io pensavo sarebbe stato un disastro completo, perché tre maschi in una casa sono decisamente troppi per poter vivere felicemente, per quanto uno dei tre – nella fattispecie, io – possa prodigarsi per rendere tutti felici, contenti e sessualmente soddisfatti.
La verità è che sì, per la maggior parte del tempo questa convivenza è un disastro, perché tre maschi sono davvero troppi. Ma ci sono dei momenti meravigliosi in cui tutto questo non mi pesa e io mi rendo conto di essere un fottuto genio, perché palesemente ho reso la mia vita bellissima e l’ho fatto senza nemmeno impegnarmi. Sono cose.
Per dire, Chakuza cucina, no? Lo fa spessissimo perché è bravo e sa di esserlo e gli piace sentirsi ammirato ed apprezzato per qualcosa che sa fare bene. È molto vanitoso e avido di complimenti, e siccome non ha molti motivi per sentirsi dire “bello, bravo, ancora!”, cerca di prenderne il più possibile nei rari momenti in cui può – quando scopa, quando canta e quando, appunto, cucina.
Niente, io e Bushido, quando Chakuza cucina, impazziamo letteralmente. Sarà che è davvero bravo, sarà che mette su quell’aria a metà fra il paterno e il competente ed io e Anis un padre non l’abbiamo mai avuto, quindi ci piace, ogni tanto, fingere che Chakuza lo sia. Comunque sia, diamo di matto e ci trasformiamo in due dodicenni, ugualmente insopportabili e ugualmente idioti. Ci mettiamo a girare per la cucina toccando tutto, gli rubiamo i pezzi di cibo dalle terrine e gli gironzoliamo attorno come avvoltoi con l’espressione facciale di due cuccioli coccolosi, e non ci rassegniamo fino a quando lui non sospira e dice “d’accordo”, imboccandoci con qualche assaggio preso direttamente dalle pentole col cucchiaio di legno, mentre ancora il cibo si cucina.
Oppure ci sono queste notti meravigliose in cui ci prende benissimo – ma veramente benissimo – e tutto funziona nel verso giusto e ci incastriamo che è una meraviglia e, quando crolliamo esausti sul materasso, lo facciamo annodati come siamo stati fino a quel momento perché stavamo scopando, solo che non scopiamo più, quindi ci limitiamo a tenerci strettissimi l’un l’altro e io posso misurare il ritmo del mio respiro paragonandolo ai loro, e un attimo prima di addormentarci – ancora stretti come prima – mi rendo conto che stiamo respirando con la stessa identica velocità. E quando mi sveglio l’indomani mattina mi accorgo che durante la notte ci siamo spostati e Chakuza è finito tipo tutto rovesciato addosso a Bushido, che se l’è stretto contro, e non lo so, li guardo e mi si riempie il cuore, perché c’abbiamo una cosa stupenda e io non potrei mai rinunciare neanche ad un istante di tutto questo.

*

E poi naturalmente c’è il sesso. Cristo, il sesso. È evidente che il buon Dio ci ha creati per incastrarci a tre a tre. La perfezione della coppia è un falso storico, una menzogna della Chiesa, ‘cazzo ne so, non tornerei ad un rapporto a due neanche per tutto l’oro del mondo. Lo penso con convinzione adesso, in questa camera d’albergo, anche se sono stanco e sono quasi le tre del mattino e ce l’ho coi due coglioni perché sono due coglioni e non c’era bisogno che si mettessero in macchina e macinassero tre ore e mezza di autostrada per venire fino a qui dalla fottuta Svizzera, però, cazzo, sono felice che ci siano.
Bushido scivola in mezzo alle mie gambe, baciandomi lentamente, ed io guardo altrove, teso come una corda di violino perché sono ancora scazzato per le loro prese in giro di prima. Chakuza si sistema alle mie spalle e mi aiuta a distendermi sul suo petto, accarezzandomi il collo e la schiena.
- Dai, Pat… - ride Anis, - Dio, perché devi essere sempre un blocco di ghiaccio?
- Perché così poi è più bello quando si scioglie. – mi sussurra Chakuza all’orecchio, trattenendo il lobo fra le labbra e mordicchiandolo appena. Io lascio andare un mugolio involontario.
- Stronzo… - borbotto socchiudendo gli occhi, - Stronzi tutti e due.
- Questo l’hai già detto. – mi fa notare Bushido, stringendo la mia erezione fra le dita ed accarezzandomi piano. – Chaky, scioglilo un po’, altrimenti qua mi sa che crolliamo addormentati prima che il miracolo abbia luogo.
Poi si lamentano perché, ogni volta che mi mettono le mani addosso o provano a farmi delle coccole varie ed eventuali, divento un pezzo di legno. Dico, vedete come mi trattano? Molestato e preso in giro. Questa non è la vita che sognavo.
Chakuza, nel mentre, infila un dito in mezzo al bacio che io e Anis ci stiamo scambiando, ed io sento il suo sapore sulla lingua e lo inseguo subito. Anis ridacchia, tirandosi indietro senza neanche una traccia di delusione o risentimento nei gesti né nella voce, e rimane ad osservarmi quasi compiaciuto mentre lascio scivolare in bocca un secondo dito e mi perdo a giocare con le falangi, mordicchiandole appena.
Mi sento addosso entrambi i loro sguardi e per un attimo penso che non ho spento la luce. Ma chissenefrega, a un certo punto, le dita di Chakuza scivolano fuori dalle mie labbra e scorrono per tutta la lunghezza della mia schiena fino ad insinuarsi fra le mie natiche, stuzzicandomi lievemente e forzando con pazienza il mio corpo, prima un dito, poi l’altro, e nel mentre Bushido sta scendendo in una scia di baci lungo il mio petto e il mio stomaco, si ferma a giocare col mio ombelico e poi scende ancora, prendendomi in bocca quasi per intero e costringendomi a gettare indietro il capo gemendo ad alta voce sulla risatina divertita di Chakuza, che si china a mordermi sul collo, baciando dolcemente la traccia lasciata dai suoi denti quando si scosta.
- Bu… - chiamo piano, mentre le dita di Chakuza guadagnano spazio, allargandosi dentro di me, - Cha… cazzo. – mi agito contro di loro, strusciandomi ovunque sia possibile e cercando di spingermi più a fondo nella bocca di Anis, ma lui si tira indietro e sorride, lanciando un’occhiata allusiva a Chakuza.
- Pronto? – chiede a lui, anche se dovrebbe chiederlo a me, ma va bene lo stesso, anche perché io non potrei rispondere e comunque Chakuza mi conosce abbastanza da farlo al mio posto.
- Pronto. – annuisce infatti, sfilando le dita, - Quando vuoi.
Socchiudo gli occhi e lancio a Bushido un’occhiata che lo immobilizza sul posto, inumidendomi lentamente le labbra. Li nota anche Chakuza, i miei occhi, e si tende tutto contro la mia schiena, mormorando un “cazzo, Fler” che la dice lunga su quello che vorrebbe farmi. Dio, se non è meraviglioso tenerli sulla corda con così poco.
- Quando voglio io. – preciso a bassa voce. E, come al solito, prendo in mano la situazione, lasciandomi scivolare più comodamente sul cuscino e sfiorando con le labbra l’erezione di Chakuza – adesso inginocchiato al mio fianco – mentre Bushido si sistema meglio fra le mie cosce. – Adesso.
Anis non se lo fa ripetere due volte ed il momento in cui il suo cazzo entra nel mio corpo coincide esattamente col momento in cui il cazzo di Chakuza entra nella mia bocca. Ed io posso averli entrambi nello stesso momento, posso sentirli spingere contemporaneamente dentro di me e posso sentire le loro voci – i loro ansiti, i loro gemiti – intrecciarsi e fondersi con la mia – i miei – e non ho bisogno d’altro. Sono perfettamente completo così. Forse è ingiusto che a me servano due persone per sentirmi nel modo in cui si sente la gente in genere quando ne ha anche una sola, ma non è un mio problema. Così sono io. Così siamo noi. Provate a darci torto.
Quando una mano scende ad accarezzarmi fra le gambe, aiutandomi a venire appena prima di Anis, appena dopo di Peter, non so neanche a chi appartenga. Potrebbe essere perfino mia. È la parte davvero meravigliosa di questo rapporto: essere in tre non è davvero fastidioso, perché nei momenti che contano – e no, non sto parlando solo del sesso, stavolta – sappiamo essere esattamente come una persona sola.
Mi lascio andare stremato contro il materasso, raggomitolandomi su un fianco mentre Bushido si sistema al mio fianco e Chakuza si stende in orizzontale sui cuscini, le gambe dalla parte di Anis, la testa dalla mia. Lo osservo prendere Anis a calci su una spalla per guadagnarsi un po’ di spazio e sorrido, anche se sto crollando di sonno e so che domattina Silla e Reason verranno a svegliarmi e sembreranno molto più riposati di me, nonostante il dopo sbornia. Questo, sempre ammesso non fuggano inorriditi quando ci vedranno qui tutti annodati nel letto.
- Sì, però – mugola Chakuza, allungando un braccio a circondarmi le spalle, - adesso ti riposi mezz’ora e poi tocca a me, giusto?
Mi volto a guardarlo e spalanco gli occhi, mentre Bushido, al mio fianco, ride di gusto.
- Ma non esiste proprio! – quasi urlo, - Chakuza, sono stanco!
- Ma anch’io! – mi fa notare, - Sono venuto fin qui dalla Svizzera!
- È vero. – conferma Anis, chinandosi a recuperare dal comodino un depliant promozionale dell’albergo e sfogliandolo distrattamente, - Mi ha costretto ad andare con lui prima del concerto, così ci saremmo potuti muovere più in fretta.
- Ho capito, - boccheggio io, - ma non mi interessa! Sei venuto, sii in pace col mondo!
- Ma io voglio scoparti! – esplicita lui, oltraggiato, - Ho fatto i chilometri! Mi spetta!
Questi sono i momenti in cui mi piacerebbe tantissimo tornare a risvegliarmi e ritrovarmi solo, come nella vita di sempre. Poi Anis si alza in piedi, raggiunge il mobile, recupera i cioccolatini, torna a letto e ne dà uno a me ed uno a Chakuza.
- Tacete un po’. – ci rimprovera, tornando a sfogliare il depliant, - La gente normale a quest’ora dorme.
Mando giù il cioccolatino e penso distrattamente che della gente normale non mi frega un accidenti. E poi ricomincio a litigare col Chaky.
Genere: Romantico, Commedia.
Pairing: Fler/Chakuza, Fler/Bushido (accennato), Fler/Doreen (accennato).
Personaggi: Chakuza, Fler, Bushido, Eko Fresh, DJ Stickle.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, What If?.
- Poco tempo dopo l'uscita del quarto album di studio, Fler viene allontanato dall'Aggro Berlin. Ed ecco che si ritrova seduto di fronte alla scrivania biposto di Chakuza e DJ Stickle, alla Beatlefield. Partendo da questi presupposti, palesemente non potrà accadere niente di meno che disastroso. Ed infatti il disastro accade.
Note: Io amo il Flerkuza per motivi che con questa storia non c’entrano niente XD Nel senso che questa coppia – almeno per quanto mi riguarda – è nata all’interno di EKR e per il preciso motivo che lì questi due personaggi si trovavano ad interagire in un determinato modo con un qualche perché. Ho sempre pensato, lavorando alla saga, che in qualsiasi altro contesto il Flerkuza non avrebbe mai potuto avere senso. Con Fler per le mani, si poteva lavorare col Flershido, che praticamente è canon. Con Chaku per le mani, volendo poteva venire fuori del buon Chakushido. Ma il Flerkuza come lo giustifichi? Non puoi, questi due sanno l’uno dell’esistenza dell’altro solo per le beghe di quartiere dei loro superiori, suppongo X’D
Caso ha voluto che però io finissi col posare lo sguardo sulla bio di Fler sul suo sito, e riuscissi a carpire, fra le varie cose, che ultimamente c’erano stati dei rumor in merito ad un suo probabile abbandono dell’Aggro Berlin. I motivi non c’entrano niente con quelli da me esposti in questa storia XD ma è stato questo – assieme alla notizia del fatto che uno dei brani di Fler, il nuovo album in uscita a marzo, è stato cantato con Doreen, fidanzata da lungo tempo con Sido – a far scattare nella mia testolina una molla. La molla in questione, ballonzolando, diceva: “e se questa collaborazione con Doreen avesse avuto l’effetto di avvicinare i due? E se, in seguito a questo, Fler fosse stato allontanato dall’Aggro Berlin? E se, in cerca di una nuova etichetta, fosse approdato alla Beatlefield?”.
Questa è, in sostanza, la risposta che mi sono data XD Lunga, sì. Dimenticabile, anche. Ma c’è un Bushido che amo XD E la scenetta finale se la vale tutta u.u *decisa*
Partecipante all’adorabile Criticoni!Challenge Temporal-mente <3
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Egal Was War
I'm not gonna blast you on the radio, I'm not gonna lie on you or your family. (Survivor – Destiny's Child)


Dalla propria poltrona dietro la scrivania biposto che lui e Stickle usavano per ricevere i visitatori e i giornalisti nell’ufficio principale della Beatlefield, Chakuza si guardò intorno con aria smarrita e per un solo, singolo secondo si chiese se per caso non fosse precipitato in una realtà alternativa in cui fosse normale vedere Patrick Losensky – alias Frank White alias Fler – seduto su una poltrona a rimirarsi le unghie in attesa di una risposta affermativa alla domanda “allora, mi mettete sotto contratto o no?”. Se lo chiese per il semplice fatto che Stickle non sembrava granché turbato di fronte al fatto, ma lui era sicuro – ma sicuro davvero – che invece dovesse esserci almeno un motivo per provare dell’inquietudine, e quel motivo cominciasse per B e finisse per O.
- Scusatemi un secondo… - s’intromise quindi, massaggiandosi le tempie in previsione del mal di testa che sarebbe sicuramente arrivato quando avrebbe raccontato il tutto a quello che, comunque, restava il suo capo, indipendenza dell’etichetta a parte, - Fler, posso capire cosa ci fai tu qui?
Stickle si voltò a guardarlo neanche avesse visto un alieno planare con un disco volante nel mezzo dell’ufficio.
- Chakuza, ma tu non li leggi i giornali? – borbottò, inarcando un sopracciglio, - Non lo sai che Sido l’ha buttato fuori dall’Aggro?
Chakuza, in effetti, no, giornali non ne leggeva. O meglio, come tutte le persone normali e mediamente impegnate, scorreva le prime pagine di cronaca e dava giusto un’occhiata ai necrologi, fermandosi ampiamente prima dell’inserto sul mondo dello spettacolo. E, nei rari casi in cui tornava a casa abbastanza riposato da sopravvivere alla cena e alla doccia e concedersi un po’ di televisione, tutto desiderava meno che guardare a ripetizione i telegiornali di informazione musicale di MTv: tutto quello che poteva importargli sapere – vicissitudini dell’Aggro Berlin comprese – arrivava all’Ersguterjunge tramite Bushido, e visto che quella notizia non era arrivata Chakuza non ne aveva saputo niente. Fino a quel momento, almeno.
- …buttato fuori dall’Aggro. – prese atto, annuendo compitamente, - E perché?
Stickle sembrò in effetti sorpreso dalla domanda. Stickle era un uomo semplice, Chakuza adorava questo suo essere semplice perché ne faceva un collega perfetto. Per dire, collaborare con Bushido era straziante. Con Eko Fresh, neanche a parlarne. Ma Stickle, lui era per le cose palesi. Non andava mai troppo a fondo, anche perché si sa che a scavare si trova solo fango.
- Questo non lo so. – rispose quindi sinceramente il DJ, - Fler?
Losensky, svaccato sulla poltrona in pelle neanche fosse già convinto di essere a casa e potesse perciò prendere possesso di qualsiasi cosa lo circondasse, inarcò un sopracciglio e li fissò entrambi come a dire “che domanda del cazzo”.
- Mi sono scopato la donna di Sido. – rispose comunque, scrollando le spalle.
Chakuza sentì l’improvviso e insopprimibile bisogno di scoppiare a ridere istericamente e uscire dall’ufficio senza dire una parola. Probabilmente l’avrebbero preso per pazzo, ma almeno si sarebbe cavato d’impiccio e, quando il danno si fosse compiuto – perché si sarebbe compiuto: gli occhi di Stickle brillavano, e quegli occhi tondi e scuri brillavano solo quando intuiva enormi possibilità di guadagno dietro un semplice gesto – avrebbe potuto giustificarsi con Bushido dicendo “io non c’entro niente, quando mi è stata posta la possibilità sono fuggito ridendo. Amen”.
- Oh… - borbottò invece, sistemando dei documenti assolutamente vuoti e privi di utilità sulla scrivania, - Capisco. – in realtà non capiva. Perché cavolo uno silurato dall’Aggro Berlin per essersi scopato la donna del capo doveva venire a rompere i coglioni all’Ersguterjunge?
Realizzò proprio mentre formulava mentalmente il lunghissimo nome della dannata etichetta di Bushido.
La Beatlefield non era l’Ersguterjunge. Ecco perché Fler era lì.
- Stickle? – chiamò quindi il collega, voltandosi appena nella sua direzione, - Non pensi che potrebbe essere, tipo, la scelta peggiore che potessimo mai fare?
Stickle non sembrò capire.
- No. – rispose candidamente, - Fler vende dischi con una media di cinquantamila a botta. No, Chakuza, non penso proprio che potrebbe essere la scelta peggiore che potessimo mai fare.
- Ma… Bushido… - cercò di insistere lui, senza lasciarsi sfuggire l’occhiata infastidita di Fler, dalla poltrona, - Intendo, lui non sarà-
- Oh, ma con Bushido ci parli tu. – disse bonariamente Stickle, battendogli una pacca sulla spalla, - Ti ascolta, sei uno dei pochi.
Il panico s’impossessò di lui con la stessa facilità con cui se ne impossessava il sonno quando poggiava la testa sul cuscino dopo dodici ore di duro lavoro.
- Io non glielo dico a Bushido che l’uomo che lo sfancula da anni è sotto contratto alla Beatlefield! – strillò, alzandosi in piedi, - E tu, - aggiunse, indicando Fler, - non sei ancora sotto contratto da nessuna parte, per inciso, quindi non metterti troppo comodo!
Fler non fece una piega. Piuttosto, si svaccò ulteriormente, stendendo un paio di gambe semplicemente chilometriche – doveva essere più alto perfino di Bushido – dritte davanti a sé, fino a sfiorare la scrivania.
- Vorrei precisare che è stato Bushido il primo a prendersela con me. Io ce l’avevo solo con Eko Fresh. – disse con tono neutro, scrollando appena le spalle.
- Questa dovrebbe essere una giustificazione? – chiese Chakuza, fissandolo allucinato, - Ma sai stare seduto composto?
- Sì. – disse Fler, rispondendo palesemente alla prima domanda, - E no, non me l’ha insegnato nessuno. – concluse, rispondendo anche alla seconda. – Stare seduti composti è una referenza per entrare a far parte della Beatlefield? No, perché in questo caso-
- Di cos’è che stiamo parlando?! – strillò ancora Chakuza, tornando a guardare Stickle, - Intendo, cosa ce ne facciamo di lui? Lo mettiamo sotto contratto e gli produciamo un album ignorandone i contenuti ed ignorando anche che Bushido staccherà le nostre teste a morsi, quando lo verrà a sapere?
Stickle sembrò pensarci su per un momento.
- Be’, è un’idea. – rispose infine, - Ho un po’ di beat da parte, si potrebbe-
- Ma Cristo santo! – esalò, abbattendosi esausto contro la scrivania e scivolando nuovamente sulla propria poltrona, - Sento che finirà male.
- Allora sono dentro? – chiese Fler, rimettendosi dritto per poi sporgersi un pochino in avanti come volendosi alzare senza sentirsi ancora pronto a farlo, - Giusto per capire, eh.
Stickle gli sorrise bonariamente, mentre Chakuza sfilava il cappellino per riprendere a massaggiarsi le tempie con più efficacia.
- Ma sì, guarda, già domani mattina se vuoi puoi portare del materiale. Se ne hai s’intende.
- Sono pieno di materiale. – rispose Fler, alzandosi finalmente, - Il contratto?
- Certo che ne hai di fretta. – borbottò acido Chakuza, inarcando un sopracciglio mentre gli lanciava un’occhiataccia disapprovante.
I lineamenti di Fler si tesero repentinamente, e Chakuza lo osservò con occhio pallato avvicinarsi e fare il giro della scrivania, fino a che non lo vide planare tranquillamente seduto sul tavolo, sollevando appena una gamba e guardandolo dall’alto con una certa aria di supponenza che non gli piacque per niente.
- Senti, io contro di te non ho niente, okay? – lo rassicurò, - Non posso dire che tu mi piaccia a chissà quali livelli, ma sei ascoltabile, sicuramente più di certa altra merda che viene fuori dalla premiata ditta EGJ e affini, almeno hai una voce e qualcosa da dire. Però se intendi cominciare a rompermi i coglioni fin dal primo minuto-
- Ehi, allora! – si alzò in piedi, anche perché fronteggiarlo in quel modo era decisamente più facile, visto che Fler, da seduto, non rappresentava più quella specie di monolite che invece era quando stava dritto sulle gambe, - Tanto per cominciare, questa è la mia etichetta, quindi se io decido di romperti i coglioni e tu vuoi restare, resti a queste condizioni, chiaro?
Fler incassò la testa nelle spalle, ma non lo fece con l’aria di uno che si sente colpevole ed accetta un meritato rimprovero. Sembrava più una specie di enorme gatto pronto a saltargli addosso e sfregiarlo, tipo.
- Secondo poi, sarebbe il caso che da queste parti non si parlasse male di Bushido, visto che siamo affiliati all’Ersguterjunge, ti piaccia o no. E, per inciso, se l’EGJ è tanto piena di merda, cosa ci sei venuto a fare qui, eh? Perché non ti sei aperto una dannata etichetta per conto tuo?
Fler lo guardò a lungo, e poi si limitò a scrollare le spalle e rimettersi in piedi, privandolo in un colpo del vantaggio che aveva accumulato fino a quel momento.
- Io non ho la più pallida idea di come si gestisca un’etichetta. – spiegò alla fine, con candore disarmante, - Io canto e basta. E voglio continuare a farlo anche se ho ficcato l’uccello dove non dovevo. Ho sbagliato, ma non è un motivo valido per stare zitto. E siccome non ci torno strisciando da Bushido, e di sicuro non potevo andare a bussare alla porta di Eko Fresh, sono venuto qui. Mi sono detto “sia mai il cuoco austriaco è meno testa di cazzo degli altri”. Ma magari mi sbagliavo.
Chakuza trasalì, chiedendosi per un secondo se avrebbe potuto spacciare per legittima difesa afferrare il tagliacarte sul tavolo e infilarglielo nello stomaco. Quel tizio stava palesemente cercando di farsi pestare, e per quanto lui fosse in genere un uomo equilibrato e socievole e privo di rabbia trattenuta o frustrazioni varie ed eventuali, ecco, atteggiamenti simili erano proprio ciò che lo faceva esplodere. A prenderlo in etichetta loro gli stavano facendo un dannato favore, lo capiva o no il citrullo?, o pensava che gli occhioni azzurri e il sorrisetto spavaldo da soli bastassero a guadagnarsi un posto di lavoro? Avesse avuto magari un paio di tette in più, forse sì, ma a queste condizioni si trattava solo di prenderlo e sbatterlo fuori a calci nel sedere.
Stickle rise con un tono paterno che lo infastidì oltremodo e si frappose fra loro, piantando le mani sui loro petti.
- Vedo che andate già d’accordo. – annuì, e Chakuza si chiese se per caso fosse pazzo, - Lo produrrai proprio bene quest’album, Chaky. – e lì non si chiese più niente. Stickle era pazzo. E basta.
- Io non voglio produrlo. – gli fece notare Chakuza, indicandogli Fler, così che poi Stickle non potesse dire “eh, ma lui ha detto solo ‘non voglio produrlo’ senza specificare di chi stesse parlando, ho pensato si riferisse alle begonie nel vaso sul davanzale”.
- Naturalmente, Chaky. – lo ignorò bellamente il DJ, - Per te va bene, Fler?
Losensky scrollò le spalle, nel tutto disinteressato.
- Come ho già detto, a me il suo stile piace abbastanza, perciò-
- Ma a che gioco stai giocando?! – strillò ancora Chakuza, e solo la mano di Stickle ancora piantata sul petto gli impedì di sporgersi in avanti ed assestargli un cazzotto di quelli seri dritto sul muso.
- Tu sei proprio fuori. – commentò la faccia da schiaffi, allontanandosi e prendendo la via della porta, - Allora ci si vede domani per firmare il contratto, eh? – salutò senza nemmeno guardarli, uscendo.
Solo quando la sua aura palesemente indisponente ebbe abbandonato la stanza, Chakuza poté dire di aver cominciato a respirare normalmente e senza provare inconsulte pulsioni omicide.
- Dico, ma che ti salta in mente di prendere Fler alla Beatlefield?! – esplose, liberandosi dell’ingombro della mano di Stickle e prendendo ad aggirarsi nervosamente per l’ufficio.
- Che ti salta in mente a te di comportarti come un bambino delle elementari, semmai. – borbottò per tutta risposta Stickle, avvicinandosi al proprio portatile e digitando velocemente un indirizzo sulla tastiera, - Dico, le hai viste che percentuali di vendite? Fattura più di Sido. Non ti ricorda niente, questo?
Chakuza si mise a borbottare, incrociando le braccia sul petto.
- Bushido. – rispose di malavoglia, guardando altrove.
- Esatto. – annuì Stickle, sorridendo comprensivo, - E chi è Bushido oggi?
Chakuza roteò gli occhi e ricominciò a camminare nervosamente in giro, avvicinandosi contrariato all’appendiabiti per recuperare la propria giacca.
- Ho capito l’antifona, Stickle. – annuì alla fine, - Vado a suicidarmi, così dopo tu potrai avere la tua gallina dalle uova d’oro ed essere felice. Pensami, ogni tanto, quando sarò morto.
L’uomo lo salutò ridendo.
- Sarà fatto. – aggiunse, osservandolo andare via. Il fatto che non cercasse di rassicurarlo, in effetti, non era per niente rassicurante.

*

Andare a parlare con Bushido di Fler in casa sua rientrava probabilmente nella lunga lista di peccati mortali non detti per i quali Bushido poi si sarebbe sentito in diritto di condannarti a morte ed eseguire la condanna seduta stante. Chakuza ne era perfettamente cosciente, mentre varcava il cancelletto dell’enorme villa gialla e si immetteva sul selciato, diretto alla porta dopo che, dal citofono esterno, la voce allegra di Bushido l’aveva salutato con un gioviale “Ohi, Chaky, che bella sorpresa! Dai, vieni dentro!”.
Con aria terrorizzata, Chakuza spinse la porta d’ingresso e si ritrovò nel caldo, confortevole e rassicurante ingresso di casa Ferchichi. Tutto era esattamente come al solito: perfetto, pulito ed ordinato. Bushido giocava a World of Warcraft alla propria postazione pc e Kay e D-Bo si stavano drogando di Spongebob svaccati sul divano appena intuibile nell’area del salotto più lontana da dove si trovava lui.
- Chaky, finisco di sterminare questa merda e sono subito da te! – strillò Bushido, pestando con entusiasmo sulla tastiera senza fili che teneva comodamente adagiata sulle ginocchia, - Devo dirti una cosa stupenda!
- Eh… - mugolò Chakuza, già emotivamente distrutto, - Anche io dovrei parlarti.
Al sentirlo tanto afflitto, Bushido – che si faceva un gran vanto dell’essere sempre a disposizione dei suoi sottoposti, qualsiasi problema potessero avere – lasciò gli orchetti al loro triste destino e si alzò dalla postazione, raggiungendolo all’ingresso.
- Chaky! – gli disse con aria preoccupata, - Che succede? Sei uno straccio.
Chakuza agitò una mano.
- Non preoccuparti. Dimmi, piuttosto, questa bella notizia…?
Bushido cominciò a risplendere di luce propria, trascinandolo verso la cucina e piantandolo su uno sgabello mentre come niente tirava fuori due bottiglie di birra ed un’enorme ciotola piena di patatine e salatini vari.
- Indovina chi ha perso il proprio posto di punta di diamante dell’etichetta, proprio oggi? – disse poi con aria cospiratoria, mandando giù patatine a manciate, evidentemente preso dall’euforia del momento.
Tale stato d’animo non poteva essere certo usato per descrivere Chakuza, il quale, per conto proprio, con le patatine ci si sarebbe volentieri strozzato per essere dispensato dall’obbligo di rovinare la giornata a quello che, in fondo, era un uomo buono e incolpevole.
- …no, dimmelo tu. – disse, forzando un sorriso e ritrovandosi poi a sorridere più sinceramente mentre Bushido si appollaiava su uno sgabello di fronte a lui, tirando su i pantaloni larghissimi e cascanti della tuta, perché la smettessero di impicciarlo nei movimenti.
- Fler! – rivelò quindi, battendo divertito una mano sul tavolo, - Pare che abbia messo le mani sulla donna di Sido. Voglio dire, onore al merito, stavano insieme da, tipo, secoli e non c’era mai riuscito nessuno, almeno che io sappia, e io so sempre tutto, però che goduria sapere che ora è a spasso senza sapere dove battere la testa! – esultò raggiante, ricominciando a mandare giù patatine e birra in quantità uguali.
- Eh… - biascicò Chakuza, deglutendo faticosamente, - pensa un po’…
Seguì un imbarazzante momento di silenzio. O meglio, Bushido continuò a parlare – Dio solo sapeva per dire cosa: probabilmente per continuare a prendere in giro questa nuova e allettante versione di Fler vagabondo privo di lavoro che tanto lo entusiasmava – ma Chakuza non colse una parola del suo monologo, preso com’era a cercare di farsi coraggio da sé.
In fondo era un uomo. Un capo, a suo modo. Stickle contava su di lui per una pensione più che decorosa, ed in effetti Fler vendeva davvero tanto, e se lui voleva aprire la catena di ristoranti che era sempre stata il suo sogno fin da quando aveva capito cosa significava sognare, be’, un aiuto economico in più oltre agli introiti dei duetti col King avrebbe certamente fatto comodo.
Sospirò pesantemente, passandosi una mano sulla fronte.
- Ehm… Bushido? – lo chiamò, fermandosi perché l’uomo potesse concludere la risata che s’era provocato da solo con qualche battuta incredibilmente arguta che si sarebbe persa nelle sabbie del tempo, - Indovina un po’ chi è che è passato oggi alla Beatlefield? – buttò poi fuori tutto d’un fiato, onde evitare ripensamenti dell’ultimo minuto.
Se si fosse trovato di fronte a un uomo mediamente stupido, il dialogo sarebbe proseguito come da copione in una sequela di “uh? No, dimmi tutto”, che l’avrebbero probabilmente ucciso molto prima che lui potesse decidersi a confessare il fattaccio, ma fortunatamente – o sfortunatamente – per lui, Bushido non era mai stato un uomo mediamente stupido e nemmeno mediamente intelligente: era, piuttosto, il classico esempio di genio male applicato. Volendo, avrebbe potuto essere un nobel in qualsiasi cosa, ma dal momento che aveva preferito sprecare giovinezza e adolescenza spacciando e imbrattando i muri di Tempelhof, ecco che si ritrovava milionario, proprietario di una quantità indecente di roba e famoso praticamente in tutta l’Europa, oltre che per lo meno noto in tutto il mondo conosciuto. Il che dava davvero un’idea di cosa avrebbe potuto diventare se solo si fosse applicato.
Ed infatti Bushido non lo deluse. La sua espressione divenne immediatamente, da allegra e giovale, cupa e irritata. Chakuza tremò sul proprio sgabello, mentre l’uomo lo fissava intensamente e poi lasciava scorrere sulla lingua poche lettere – abbastanza per mandarlo nel panico, comunque.
- No.
- …Atze, non-
- No.
L’austriaco sospirò profondamente, pinzandosi la radice del naso ed andando alla ricerca delle parole più adatte per spiegare a Bushido che Stickle ci teneva proprio a comprare una villa alle Maldive. Aveva una mezza idea che la risposta di Bushido sarebbe stata quanto di più simile a “si fotta Stickle” potesse essere pronunciato senza utilizzare le parole “si fotta Stickle”, appunto, ma provare non costava niente, in fondo. Magari una o due braccia staccate via nell’impeto momentaneo della rabbia, ecco.
- Atze, Stickle pensa che-
- Si fotta Stickle! – disse Bushido, dando prova di ammirevole schiettezza, saltando in piedi e aggirandosi nervosamente per la cucina esattamente come Chakuza ricordava di aver fatto neanche un’ora prima in ufficio, - Ma soprattutto si fotta Fler! Voi non lo prenderete alla Beatlefield.
“Sono assolutamente d’accordo”, avrebbe voluto rispondere Chakuza, ma la questione si faceva complicata, arrivati a quel punto. Primo: Bushido, ogni tanto, aveva bisogno di essere arginato; aveva questa tendenza a prendere il controllo pure di cose su cui sommariamente non avrebbe dovuto osare mettere bocca, quindi ogni tanto, quando partiva coi suoi deliri da patriarca onnipotente, c’era bisogno di qualcuno che gli dicesse “sì, certo caro, ma anche a cuccia, vuoi?”. La Beatlefield era solo un’affiliata dell’Ersguterjunge, non ne era parte. E lui e Stickle erano liberi di prendere qualsiasi decisione volessero senza che per questo Bushido si sentisse in diritto di porre veti ogni piè sospinto. Secondo poi: loro erano comunque degli uomini d’affari ai quali, in poche parole, delle beghe passate di due ragazzini che non erano stati in grado di dimenticarsi, poteva fregare limitatamente. Nel senso, se c’era da battere una pacca sulla spalla a Bushido perché ora Fler usciva con la sua ex, lo si faceva. Ma niente di più. Terzo ed ultimo: alla questione della catena di ristoranti lui aveva pure cominciato a farci la bocca, alla fine.
Partendo da queste considerazioni, Chakuza si preparò a vedere sfumare la prospettiva di una serata tranquilla – e anche di evitare un litigio con Bushido – e si rassegnò ad una morte lenta e dolorosa.
- Atze, senti, lo sai che io in genere sono con te qualsiasi cosa tu dica. Lo sai, vero? – Bushido ringhiò e spalancò il frigorifero, infilandoci dentro la testa alla ricerca di qualcosa con cui trastullarsi, - Quando ti sei trasferito nella villa e Saad ti ha riso in faccia dicendoti che avresti fatto la figura del deficiente andando a vivere in una casa gialla, chi ti è rimasto al fianco fino all’ultimo ed ha convinto Kay e D-Bo a dividere le spese con te?
- …tu. – mugolò Bushido riemergendo dal frigorifero con due fette di pane fresco ed un chilo di salumi di ogni tipo.
- Esatto. E quando hai deciso di duettare con il signor Gott ed Eko ti ha tenuto il muso per un mese e mezzo dandoti del coglione col cervello in salamoia? Chi è che ti è rimasto accanto?
- Be’, per la questione Gott ho dovuto rinunciare al contratto con MTv, in fondo, e-
- Chi è che ti è rimasto accanto, comunque? – lo interruppe Chakuza, sudando freddo.
Bushido sospirò profondamente, cominciando ad imbottire il panino.
- Sempre tu. – ammise alla fine, tornando ad abbattersi sul proprio sgabello.
- Ecco. – annuì soddisfatto Chakuza, - Quindi, ti dispiacerebbe, adesso, essere tu, per una volta, quello che resta accanto a me, visto che ne ho bisogno?
Bushido trangugiò un morso di panino e sbuffò.
- Be’, detta così è terribilmente gay, Chaky, ma ho capito dove vuoi andare a parare.
Chakuza si fermò un attimo a riflettere sul fatto che uno che scrive una canzone in cui, praticamente, fa una dichiarazione del tipo “ci siamo tanto amati ma ora andiamo ognuno per la propria strada” ad un altro uomo, palesemente non ha il diritto di dire a qualcuno cosa suoni o non suoni gay, ma ritenne poco saggio mettersi lì a dibattere il punto con Bushido. Soprattutto perché il “ci siamo tanto amati” era riferito proprio al Losensky che era da sempre il centro di tutti i pensieri di vendetta di Bushido, e siccome “chi disprezza compra” è un detto, ma anche una grande verità, l’austriaco decise che, per quella volta, sarebbe stato il caso di lasciar correre, ed annuì.
- Quindi? – insisté invece, piegandosi un po’ verso di lui per guardarlo negli occhi anche se lui aveva già abbassato lo sguardo sul panino imbottito.
Bushido sospirò per l’ennesima volta e scrollò le spalle.
- Quindi niente. – concesse infine, - Basta che gli mettiate una museruola se per caso gli salta in testa di fare il mio nome. Per il resto, avete carta bianca.
Un’altra cosa veramente poco opportuna di Bushido era come fosse in grado di rigirare le frittate come nemmeno lui – che pure aveva un diploma di cuoco – sapeva fare. Lui non gli aveva chiesto un fottuto permesso, gli aveva chiesto sostegno! Ma per come l’aveva messa il tunisino sembrava chissà che dannata concessione regale.
Chakuza sospirò a propria volta: visto quanto aveva rischiato, tutto sommato, poteva dirsi contento così.

*

Quando arrivò alla Beatlefield, l’indomani mattina, sembrava quasi che si fossero tutti organizzati per non essere presenti al momento fatidico che avrebbe rovinato tutte le loro vite. Di Stickle aveva avuto notizia quella mattina tramite un sms che peraltro l’aveva svegliato senza alcun motivo alle sei, per informarlo che Saad era perso in chissà che delirio perché non riusciva a venire a capo di una traccia campionata che lo stava mandando ai pazzi, e che lui, da bravo DJ competente e responsabile, stava andando all’EGJ a dargli una mano. “Perciò non aspettarti di avermi fra i piedi, Chaky!”, era stata la gioviale conclusione del messaggio. Conclusione in seguito alla quale lui, fra le altre cose, aveva avuto voglia di prendere e schiantare il cellulare contro il muro, per poi tornarsene a dormire e mandare a fanculo un po’ tutto e tutti per il resto della giornata.
Il suo senso di responsabilità l’aveva comunque portato a muovere il culo verso le dieci e mezza, ed era perciò arrivato agli studi convintissimo di trovarli immersi nel solito fermento. Non che ci fosse mai un cazzo da fare, da quelle parti, soprattutto considerando che non c’erano album in uscita per i prossimi mesi, ma c’era sempre un sacco di gente a bivaccare attorno ai distributori automatici, per dire, e invece quel giorno niente, neanche un’ombra, solo lui, i – pochi – dischi d’oro, le pareti e l’eco.
Si aggirò per un po’ fra i locali vuoti e pulitissimi – almeno aveva la certezza che, nella prima mattinata, gli addetti al servizio di pulizia avessero fatto il loro dovere – e poi tornò a rifugiarsi  nell’ufficio che condivideva col fantasma di Stickle. Fu lì, mentre si perdeva in un’avvincente partita di Mahjong sul portatile, che lo raggiunse lo squillo gracchiante del citofono.
- Qualcuno… - cominciò a strillare con tono lamentoso, ma dalle profondità dei corridoi della Beatlefield non giunse che il riverbero della sua stessa voce, perciò alla fine si rassegnò e si mise in piedi, raggiungendo il citofono e schiacciando il pulsante dell’accettazione di chiamata, restando in attesa dell’immagine sullo schermo. La testa di Fler apparve – esageratamente tonda – pochi secondi dopo. - …ah, tu. – lo salutò con poco entusiasmo.
Fler sollevò lo sguardo sulla telecamera, e i suoi occhi – enormi, quella stupida telecamera era ridicola – invasero tutto il campo visivo di Chakuza.
- Alla buon’ora… - cominciò a lamentarsi Losensky, - Sono passato alle otto, alle otto e mezza, alle nove, alle nove e mezza-
- Sì, sì, capito l’antifona. – borbottò sbrigativo Chakuza, aprendo il portone esterno, - Mi sono svegliato tardi, okay?
- Quanta dedizione… - ghignò sardonico quello, spingendo il portone e sparendo alla sua vista. Fortunatamente, anche, perché fosse rimasto lì a sogghignare ancora un solo secondo Chakuza avrebbe cominciato a considerare seriamente la possibilità di affacciarsi al balcone e tirargli giù un mattone sulla testa, per dire.
Mentre attendeva che l’essere insopportabile che Bushido aveva tutti i diritti di odiare salisse le scale, Chakuza si chiese quale potesse essere il modo di accoglierlo per farlo sentire il più possibile sottoposto e asservito alle regole dell’etichetta – fra le quali andava assolutamente ricordata la clausola “non si parla male di Bushido neanche a fronte di possibilità di guadagno multimilionarie”. Alla fine, scorso il contratto che Stickle gli aveva lasciato in ordinata doppia copia sulla scrivania, decise che la tattica migliore era attenderlo seduto sul tavolo. Informale ma indice di una certa sicurezza di sé.
Si posizionò con un saltello sulla superficie in legno e si girò prima da un lato, poi dall’altro e infine, insoddisfatto, torno a mettersi dritto, così da poter scorgere la figura di Fler elegantemente svaccata contro lo stipite della porta, mentre il tipo lo guardava come fosse stato una cacchina di plastica con gli occhi o qualcos’altro di ugualmente stupido e ridicolo.
Ebbe appena il tempo di chiedersi da quanto Losensky lo stesse osservando, che la risposta giunse da sola sotto forma di risata derisoria: abbastanza da prenderlo in giro a vita per le ultime manovre, evidentemente.
- Ehm… - cercò di riportare il tutto su un piano più serio, indicando i contratti sulla scrivania, - Allora, le vuoi mettere queste firme o sei tornato solo a rompere le palle?
- Le metto, le metto… - rise ancora Fler, avvicinandosi alla scrivania e sedendosi dalla parte opposta del tavolo, - Dove?
- Abbiamo veramente molta fretta, eh? – ringhiò lui, scorrendo i fogli alla ricerca dei punti precisi e segnandoli con una x prima di passarli all’altro uomo.
- Certo che tu hai dei problemi molto molto seri, Pangerl. – lo guardò storto lui, prendendo i fogli e cominciando a stampare il proprio nome ovunque con la grazia del tagger che non aveva mai cessato di essere. A guardare la firma – proprio la firma per esteso, non l’autografo – di Bushido, si aveva sempre l’impressione che si trattasse di un medico o chissà chi; Fler invece riusciva ad essere grezzo pure firmandosi Patrick Losensky. Ce ne voleva, di malagrazia. – Prima mi dici di darmi una mossa, poi mi rimproveri perché faccio in fretta…
- Prima di tutto, chiamami Chakuza e manteniamo questo rapporto un rapporto lavorativo, grazie. – borbottò, passandogli anche la seconda copia del contratto, - Secondo poi-
- Ma già dissento sul primo punto. – ghignò Fler, riconsegnandogli il secondo contratto firmato e controfirmato, - Non intendo andare oltre il rapporto lavorativo, tranquillo. Anche perché, senza offesa, non sei proprio il mio tipo. Troppo basso, poco culo, pochissime tette. Decisamente passo il turno.
- Cristo benedetto… - esalò Chakuza, scendendo dalla scrivania per conservare una copia del contratto nel primo cassetto, - Toh, una ti tocca. E ora tornatene da dove sei venuto, - qualche antro infernale, c’era da supporre! – e fatti rivedere solo in compagnia di Stickle, visto che lui almeno ti sopporta.
Fler non obbedì, e Chakuza era sul punto di cominciare una convincente paternale su quanto fosse indispensabile eseguire all’istante gli ordini per coesistere con lui, quando si accorse che il tipo stava cercando di dirgli qualcosa. Non parlando, ovviamente, no: alla maniera di Bushido; guardandoti negli occhi con un cipiglio insofferente come a dire “dovresti aver già capito, sei scemo o cosa?”.
- Qualcosa non ti è chiara? – si informò, guardandolo con una certa curiosità.
Fler sembrò, per la prima volta in assoluto da quando aveva cominciato ad avere a che fare con lui, sinceramente confuso. O comunque privo di qualcosa da dire. Chakuza si sentì insospettabilmente orgoglioso si essere stato in grado di zittirlo senza tappargli fisicamente la bocca, e restò lì a gongolare in solitaria finché Losensky non si risolse a degnarlo di una risposta.
- Stickle… - cominciò, un po’ incerto, - mi aveva detto di cominciare a portare qualcosa, se volevo. E insomma, io qui ho un testo.
Chakuza lo guardò. A lungo.
Chissà perché, s’era aspettato che le parole del giorno prima fossero solo una sbruffonata. Perché uno che è appena uscito con un album dovrebbe avere ancora altro materiale? Uno, per avere una riserva di testi, deve… be’, lavorare. E farlo costantemente. Non solo in previsione di un album.
- Ah. – rispose stralunato, - Ah. Be’… d’accordo. – biascicò, grattandosi confusamente la nuca, - Vuoi… intendo, possiamo andare in sala prove. Se vuoi mi puoi fare sentire di cosa si tratta.
Losensky annuì senza esitazioni, e Chakuza diede la colpa per il senso di smarrimento che stava provando al fatto che all’Ersguterjunge non si lavorava quasi mai in maniera normale. Lì la questione “lavoro” era quasi sempre traducibile in “svacco estremo per mesi e mesi finché il King non fosse risorto dalle ceneri della propria tuta con una ventina di testi da distribuire in parti uguali e dai quali partire per creare qualcosa di per lo meno accettabile”. A quanto pareva, però, le abitudini all’Aggro Berlin erano completamente diverse.
Entrando in sala prove, Chakuza si vide accolto da una breve nota in cui Stickle gli faceva sapere che il suo sacrificio umano era stato molto apprezzato perché Bushido l’aveva cazziato solo mezz’ora – a fronte delle dodici ore di tortura che si sarebbe meritato, un gran guadagno, questo era indubbio – e che aveva già caricato i beat nel portatile in sala mixaggio, se aveva voglia di provare qualcosa con Fler. Chakuza appallottolò il foglio con una mano, stritolandolo con una certa immeritata furia, e lo gettò stizzito nel cestino dell’immondizia.
- Be’, se vuoi… - si voltò a cercarlo per indicargli dove e come mettersi, ma Fler aveva già infilato le cuffie e stazionava con aria assente davanti al microfono, probabilmente ripassando a memoria il famoso testo che doveva cantargli. – Ah. Certo che fai veramente come a casa tua, eh?
Fler gli rivolse un sorrisino sghembo, spostando il peso da una gamba all’altra.
- Funziona ovunque più o meno allo stesso modo, penso. – rispose con una scrollata di spalle. Chakuza annuì anche se non stava pensando niente del genere e si rifugiò in cabina di regia, oltre il vetro. Accese il microfono e restò in attesa.
- La prima la facciamo senza musica. – avvertì l’uomo dall’altro lato della stanza, il quale, per tutta risposta, annuì assorto, - Così magari capisco un po’ il ritmo e la cadenza e vediamo cosa metterle di sottofondo. Parti quando vuoi.
Dopodiché, si rassegnò a venire sommerso da una scarica di insulti più o meno pesanti e più o meno velati nei confronti di Sido, Bushido, Eko Fresh, possibilmente pure la donna che s’era scopato, le donne che s’erano scopate gli altri ed una buona quantità di madri – per non parlare di qualche eventuale padre – ed incassò la testa nelle spalle, cercando di farsi minuscolo sulla poltrona.
Ma il suo karma aveva evidentemente deciso di tirarlo scemo. E, neanche a voler evidenziare più efficacemente il punto, la canzone di Fler cominciò con un “ti ho amata” e si concluse con un “ti amo ancora”. E non – come era capitato spesso di dire prendendo in giro la sua relazione controversa con Bushido – un “ti amo” fraintendibile, una cosa che può essere anche amicizia, una cosa senza inflessioni e senza sesso, no: un “ti amo” vero. Un “ti amo” per una donna. Doreen. La donna di Sido.
Quando Fler smise di cantare – senza incespicare mai nelle parole, roba da non credersi, visto che Bushido farneticava di continuo, per dire, e lo stesso Fler nelle poche interviste che aveva visto e che lo vedevano protagonista, faceva del balbettio confuso una specie di cavallo di battaglia, soprattutto quando si infervorava – Chakuza per qualche secondo rimase lì a guardarlo attraverso il vetro mentre tornava ad aprire gli occhi – scurissimi nella penombra della sala insonorizzata – e riprendeva fiato.
- Be’? – lo sentì chiedere dopo qualche secondo, - Non ne scrivo quasi mai, roba così. – aggiunse con un certo imbarazzo, - L’ultima dev’essere stata tipo una dichiarazione d’amore per una compagna di banco alle elementari. Quindi magari se mi dici qualcosa…
Un po’ dubbioso, Chakuza si sporse in avanti e pressò un indice contro il pulsante che apriva la comunicazione dalla sala mixer alla sala prove, e poi però si rese conto di non avere niente di preciso da dire, perciò rimase lì a bocca aperta, vagamente confuso, incerto sul da farsi e, in generale, sostanzialmente stupito. Fler continuò a guardarlo con aria curiosa, dall’altro lato del vetro, e Chakuza si alzò in piedi, rimise la poltrona al proprio posto e lo raggiunse nella sala insonorizzata. Solo per prendere tempo. Per trovare qualcosa da dire – e non una cosa qualsiasi, perché il momento non era da cosa qualsiasi, era un momento che pretendeva di più.
- È… - cominciò, appoggiandosi contro una parete e incrociando le braccia sul petto, giusto per darsi un tono, - È un testo molto romantico. E lei, voglio dire, la citi proprio, la chiami per nome. È una cosa… messa così sembra che ti abbia preso parecchio, ecco.
Fler scrollò le spalle, distogliendo lo sguardo.
- Io ero innamorato di Doreen. – confessò quindi, con una semplicità disarmante, - La nostra è stata una storia molto classica, Chakuza, sembra bella solo perché quando la canto lo faccio con un certo sentimento. Ma a conti fatti io sono stato un idiota e lei una troia, tutto qua. Lei mi ha tirato scemo per mesi, mi ha detto che avrebbe lasciato Sido e sarebbe rimasta con me e tutto il corredo di stronzate che si usano in genere per far cadere un maschio in una trappola. Ha detto di amarmi e invece voleva solo cambiare cazzo per un po’. Poi è tornata da lui strisciando come la vipera che è e lui, fra lei e me, ha scelto lei. – scrollò ancora le spalle, appoggiandosi a propria volta contro la parete, proprio accanto a Chakuza, - Io ci stavo bene all’Aggro. Il casino che ho montato negli scorsi mesi… - gli lanciò un’occhiata divertita, piegando appena un angolo della bocca in un sorriso sghembo, - …anche se sono sicuro tu non ne sappia niente… insomma, non l’ho montato perché stavo male nella crew. L’ho montato perché lei continuava a dirmi di non preoccuparmi, che alla fine sarebbe rimasta con me. E siccome mi stava sul cazzo che continuasse comunque a tornare nel letto di Sido, alla sera, mentre con me erano solo sveltine contro le pareti degli studi, non ci ho visto più, ed ho cominciato a prendermela con Sido. – sospirò pesantemente, scuotendo il capo con aria vagamente abbattuta, - L’ho fatta io, la cazzata. Mica Sido. Ha fatto bene a buttarmi fuori. Magari è la volta buona che comincio a imparare dai miei errori.
Chakuza annuì lentamente, metabolizzando con un po’ di fatica le parole dell’uomo. Era abituato ad essere circondato da uomini che, come niente, ti buttavano sul tavolo la storia intera della loro esistenza – Bushido era così, per dire – ma si trattava di personaggi carismatici e accentratori, gente che, se non aveva la tua completa e totale attenzione, non riusciva a stare tranquilla. Quello di Fler però non era stato un tentativo di mettersi al centro del mondo, era stato solo… uno sfogo. Una cosa anche piuttosto intima, volendo. Era strano, Losensky, avere a che fare con lui era un po’ come camminare su una lastra di vetro. C’era da chiedersi quando si sarebbe spaccata ferendoti i piedi.
- Sai, - disse infine, stringendosi nelle spalle, - quando hai detto a me e Stickle di esserti scopato la donna di Sido… cioè, non sembrava che dietro ci fosse tutto questo. Non sembrava che la amassi, intendo.
Fler sbuffò, appoggiandosi più comodamente al muro.
- La vita mi ha insegnato a disamorarmi in fretta. – borbottò, e sembrò sincero nel dirlo, anche se c’era una strana luce nostalgica nei suoi occhi, qualcosa che li rendeva insolitamente brillanti eppure allo stesso tempo insolitamente cupi, qualcosa che impedì a Chakuza di prenderlo completamente in parola.
Annuì, comunque, perché non era certo compito suo mettersi lì a disquisire degli affetti di Fler. Non si conoscevano da nemmeno due giorni ed aveva comunque dei seri dubbi che Fler gli avrebbe dato il permesso di farlo anche se i giorni fossero stati un migliaio o un milione. Peraltro, non credeva di averne nemmeno alcuna voglia.
Sistemandosi più comodamente contro la parete e sollevando un piede contro il muro, Chakuza tirò su la manica destra della maglietta e mostrò a Fler l’avambraccio. L’altro inarcò un sopracciglio e lo fissò dubbioso per molti istanti.
- Sì, bei ghirigori. – rispose alla fine, con un vago cenno d’assenso, - L’effetto quale doveva essere? Tirarmi improvvisamente su di morale mostrandomi la meraviglia dei tuoi flessori e dei tuoi estensori? Perché guarda che, tanto per cominciare, non sono niente di che, e comunque io non sono giù di morale.
Chakuza sbuffò e gli tirò una gomitata neanche troppo discreta nelle costole.
- Sotto questi ghirigori c’è scritto Silvia. – rivelò quindi, tornando a mettere a posto la manica, - È stata la mia donna per un sacco di tempo. Era una cosa seria, insomma. Almeno fino a quando non ha deciso che non era più il caso che continuasse.
Fler sospirò e scrollò le spalle.
- Non si scrivono addosso i nomi delle donne. Si sa che quelli non durano per sempre.
- Be’, tu hai addosso ovunque il simbolo dell’Aggro Berlin, no? Non mi pare sia durato tanto più a lungo di Silvia.
Fler guardò altrove, allontanandosi un po’ da lui. Aveva un modo molto fisico di dimostrare l’offesa e l’imbarazzo, si ritrovò a pensare Chakuza. Era in tutto e per tutto simile a quei bambini spacconi che però, quando la maestra o un genitore li rimprovera, finiscono sempre per mettersi in un angolino a giocare coi cubi di gomma cercando a stento di trattenere le lacrime, tenendo su il broncio per tutta la giornata e rifiutandosi di farsi prendere in braccio o anche solo accarezzare.
Chakuza sospirò profondamente.
- Mi dispiace. – borbottò, - Non volevo rigirare il coltello nella piaga. Solo che mi pare che a volte tu non ti renda conto di quanto sei irritante.
- Ti sbagli. – sospirò a propria volta Fler, - Lo faccio apposta. Mi dispiace che la tua donna ti abbia mollato.
Chakuza annuì semplicemente, scrollando le spalle.
- Era solo per dirti che so come ti senti. Voglio dire, non c’è bisogno che tu mi dica che non stai male o cose simili. Non c’è neanche bisogno che tu mi dica come stai, in realtà.
Fler rise a bassa voce ed annuì, sollevando anche lui un piede contro la parete. Chakuza immaginò dovessero sembrare abbastanza ridicoli, a guardarli così. Nella penombra della sala prove a chiacchierare delle loro pene d’amore.
- Quindi… - riprese alla fine, spezzando il silenzio degli ultimi istanti, - quella canzone lì vuol dire che non ci saranno diss, nell’album che uscirà con noi?
Lui lo fissò come fosse appena sceso dalla luna.
- Scherzi? – lo prese in giro, rimettendosi dritto e ficcando le mani nelle tasche dei jeans, - Ho già pronte a casa almeno cinque o sei tracce in cui spalo merda su di lei, su Sido e anche su una buona metà delle loro famiglie.
Chakuza rise, e rise anche Fler. All’interno degli studi deserti, il suono non riverberò nemmeno in maniera troppo fastidiosa.

*

- Insomma, capisci, - blaterò Chakuza, gesticolando con aria agitata, - si può lavorare con lui!
Eko – che, quando quella mattina s’era installato sul divano della villa di Bushido mettendo mano alla Wii, aveva progettato tutto meno che dedicare tre o quattro ore all’ascolto degli sproloqui lavorativi di Chakuza – sospirò teatralmente e si abbatté di schiena contro il bracciolo del divano, guardandolo con l’aria di un martire.
- Chakuza… - borbottò, mostrandogli il controller della consolle come a cercare di fargli notare senza dirglielo che aveva di meglio da fare, - È un essere umano, non ha dodici anni, è un rapper famoso. Perché ti stupisce tanto che lavori?
- Perché… - balbetto lui, grattandosi confusamente la nuca, - lavora! Cioè, arriva, si mette lì dietro al microfono, ripassa il testo un paio di volte e canta! Non cazzeggia, non rompe i coglioni perché vuole portato il caffè ogni tre minuti, non fa i capricci se per caso il geranio sulla finestra è piegato a sinistra piuttosto che a destra e questo lo distrae e lo obbliga a impappinarsi-
- Sì, Chaku! – lo interruppe malamente Eko, alzando il tono della voce, - Il fatto che Bushido in sala di registrazione sia una piaga, non ti autorizza a stupirti come se fossi di fronte a un lecca lecca di dieci metri, se per caso becchi un rapper che sa rappare!!!
Lui incassò la testa fra le spalle ed aggrottò le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto.
- Non sono stupito come davanti a un lecca lecca! – precisò offeso, - È solo che è strano, non c’ho mai lavorato, con uno così. Stickle è ordinato, nelle sue cose, per dire, ma Fler… voglio dire, è tipo meccanico. È come se fosse programmato!
Eko continuò a fissarlo con aria allucinata, prima di grattarsi la fronte e rimettersi dritto, per guardarlo più comodamente negli occhi.
- Chaku, fa il suo lavoro. Cioè, non capisco cos’è che ti turbi in questa maniera. Sul serio.
Bushido scelse proprio quel momento per planare addosso a Chakuza con la delicatezza di un elefante in una pozza di fango, abbattendosi senza discriminazioni sul divano, su di lui ed anche su Eko, mandando all’aria il joystick e lasciando che le uova che il personaggio del videogame stava cercando di ribaltare nel tegamino finissero rovinosamente sul tappetino virtuale che adornava il pavimento dell’altrettanto virtuale cucina.
- Cos’è che turba Chaky? – chiese, gli occhi castani spalancati mentre si sistemava tranquillamente in mezzo a loro, costringendoli a farsi minuscoli sui lati opposti del divano.
- Cristo Iddio, Bushido! – lo rimproverò Eko, tirandogli uno scappellotto dietro la nuca, - Mi hai fatto perdere!
Sullo schermo al plasma, la ragazzina tonda, bionda e dagli enormi occhioni azzurri che stava maneggiando la padella, scoppiò in lacrime, crollando in ginocchio sul pavimento.
Bushido scrollò le spalle.
- Puoi ricominciare. – disse altezzoso, ruotando di novanta gradi per ignorare fisicamente Eko e concedere tutta la propria attenzione al suo Chaky turbato. – Dicevi?
- Fler! – borbottò Chakuza, stringendosi nelle spalle.
Bushido lo guardo con tanto d’occhi e poi sospirò.
- Chaky… saranno passate già due settimane… lo so che ha due occhi che disorientano e un bel culo, ma per favore, riprenditi!
- Ma non c’entra niente!!! – strillò Chakuza, mentre Eko scoppiava a ridere alle spalle di Bushido, - Io parlavo di tutt’altro!
- Oh, senti, Chaku… - rincarò il turco, ricominciando a far rimestare impasti alla bimba sullo schermo, - l’abbiamo pensato tutti, sai? Ho chiesto anche a Saad, Danny, Kay, Nyze… e tutti quelli con cui hai parlato ultimamente sono d’accordo nel dire che non se ne può più di sentirti parlare di Fler!
Bushido annuì, incrociando seriamente le braccia sul petto.
- Davvero, Chaky. – aggiunse, - Io ti avverto, lo conosco, Fler è pericoloso. Non è tanto che si appiccichi, il problema… anche se lo fa… comunque non è tanto quello il problema, tanto più il fatto che quando si appiccica poi a te non viene tanto voglia di scollartelo di dosso, sai?
- Mi pare… - biascicò Chakuza, sull’orlo di una crisi isterica, - che qua stiate dando per scontata una cosa che non è affatto scontata.
Eko e Bushido si guardarono a lungo e poi tornarono a fissare lui.
- Be’, che ti piace ormai è chiaro, no? – disse il primo.
- Appunto. – annuì il secondo.
- Ma neanche per un cazzo! – abbaiò Chakuza, saltando in piedi, - Ma che roba! Ohi, io sono eterosessuale, eh?!
- Chaky, la sessualità è un flusso. – annuì Bushido, con aria enormemente competente, - Metti che io ora mi volto e vedo che Eko ha un’espressione carina-
- Oh! – protestò quello, agitando un pugno. Bushido lo rabbonì con una carezzina sulla testa.
- No, Eko, dico per ipotesi. Dicevo, - riprese, tornando a rivolgersi a Chakuza, - metti che mi volto, Eko ha un’espressione carina e in virtù di ciò a me viene voglia di farmelo. Che mi frega di collocarmi da una parte o dall’altra della barricata? Intanto voglio farmelo!
- L’immagine mentale – confessò Chakuza, scosso da un brivido, - è raccapricciante. In sostanza, cos’è che stai cercando di dirmi?
Bushido sospirò, si accomodò contro lo schienale del divano e poi si espresse in uno di quei sorrisi ampi e furbi che ti davano sempre l’idea di essere un coglione, perché l’avevi magari trattato da cretino fino a quel momento ma in realtà era lui che si stava prendendo gioco di te.
- In linea generale, Chaky, pensa di meno e scopa di più. Nel particolare… - scrollò le spalle e sorrise ancora, - gestisciti Fler. Perché se continui così non te lo togli più dalla testa, sai?
Eko annuì partecipe, facendo saltare le uova nel tegamino della bimba.
- Pensa a lui! – aggiunse, senza nemmeno guardarli, - Ci ha messo anni!
Bushido lo ribaltò sul divano con uno spintone.
- Non è vero neanche per un cazzo!
Eko, costretto a far cadere di nuovo le uova per terra, gli saltò addosso, ringhiando frustrato.
- Ora lo vediamo, cos’è vero e cosa no!
Chakuza lasciò l’appartamento che quei due ancora si menavano.

*

La voce di Fler gli stava scivolando in brividi dalle orecchie alle spalle passando per il collo. Questo, Chakuza doveva ammetterlo e basta. Avevano registrato almeno una decina di tracce, nelle ultime settimane – erano diventate ormai più di tre, i giorni si rincorrevano veloci perché Fler aveva ritmi frenetici, sul lavoro, ed era stato Chakuza a doversi adattare, se non altro per non fare una figura del cazzo di fronte ad uno che, a conti fatti, era pure più piccolo di lui – ma per quanti giorni potessero passare, per quante canzoni potesse aggiungere all’elenco e per quante volte potesse riascoltarle tutte, Doreen restava una delle cose migliori che avesse sentito nell’ultimo anno.
Era un po’ comico come, in un mondo quasi privo di donne – donne, non puttane – qual era quello del rap, le canzoni migliori fossero sempre quelle dedicate a loro. Bushido aveva dato il meglio con Jenny e con Janine. Fler aveva Doreen.
Lui aveva avuto Silvia, per un po’. Era pur vero però che su Silvia lui non aveva mai scritto una parola.
Si alzò in piedi, sospirando pesantemente e sfilando le cuffie, poggiandole delicatamente sul mixer, stando attento a non combinare danni. La Beatlefield era vuota e silenziosa già da almeno un paio d’ore. Stickle era passato a salutarlo prima di tornarsene a casa e godersi un meritato riposo e l’impresa di pulizie non sarebbe arrivata prima dell’indomani alle cinque.
Lanciò un’occhiata distratta al quadrante dell’orologio a muro: segnava mezzanotte passata da una decina di minuti abbondanti; magari avrebbe dovuto tornare a casa anche lui. Il meritato riposo di cui sopra gli spettava in quanto diligente lavoratore. In quelle ultime settimane s’era letteralmente sfiancato, dannazione pure a Fler ed a quella sua assurda iperattività.
Spense le luci dall’interruttore principale ed imprecò nel buio. Aveva dimenticato di prendere la fottuta giacca, prima. Tirò fuori il cellulare dalla tasca e lo utilizzò a mo’ di lampadina, vagando a tentoni lungo il corridoio e verso l’ingresso, alla ricerca dell’attaccapanni. E continuò a camminare così fino a quando qualcosa non lo frenò a metà di un passo. Qualcosa di grosso e compatto come un enorme gomitolo di lana lasciato lì in mezzo al niente. Qualcosa che, quando lui vi inciampò addosso, rischiando pure di coinvolgerlo in una rovinosa caduta e riuscendo a salvarsi solo per forza di volontà, mugolò un lamento sofferente e poi lo mandò a fanculo.
Qualcosa che parlava con la voce di Fler. E che quindi non era qualcosa. Era Fler.
- Fler? – chiamò stupito, tastandolo un po’ ovunque con aria incredula, come a volersi sincerare fosse davvero lui e non, tipo, una sagoma di cartone. Parlante, magari. In qualche modo doveva spiegarli, il mugolio ed il vaffanculo.
- E togliti di mezzo… - continuò a lamentarsi l’altro, spingendolo lontano con poca convinzione e tirandogli una gomitata nelle palle quando, con frustrazione, si accorse di non riuscire a mandarlo via.
- Ma che cazzo ci fai qui?! – chiese Chakuza, cercando con poco successo di tirarlo in piedi, - Perché stai seduto? E come hai fatto a entrare?!
- Mi stai… facendo troppe domande. – concluse Fler in un lamento frustrato, muovendosi appena nell’ombra. Chakuza ascoltò il fruscio della sua felpa di acrilico, che sfregava contro la parete ogni volta che Fler si spostava per mettersi comodo.
- No, non direi… - borbottò rinunciando al proposito di metterlo dritto e sedendosi quindi accanto a lui, - Ti sto facendo le domande giuste. Che è successo?
- Un cazzo. – biascicò lui, spintonandolo con una spallata, - Lasciami in pace.
- Sei praticamente a casa mia! – gli fece presente Chakuza, aggrottando le sopracciglia, - Devi ancora spiegarmi come sei entrato e… ma sei ubriaco?
- No! – sbottò Fler, massaggiandosi le tempie, - …ero ubriaco prima di addormentarmi qui, tipo.
- Ah, certo. – ridacchiò lui, inarcando le sopracciglia e restituendogli una spallata meno ostile, - Questo cambia tutto. Stickle ti ha dato le chiavi? – ipotizzò quindi, immaginando che, altrimenti, Fler non gli avrebbe mai dato una spiegazione.
- Mhn. – annuì semplicemente l’altro, sistemandosi un po’ contro il muro ed un po’ contro la sua spalla. Un po’ come capitava, in realtà, spargendo quelle chilometriche gambe ovunque lungo il corridoio stretto. – Tipo una settimana fa. Dice che ormai sono di casa.
- Be’, è vero. – ammise lui, cercando di sistemarsi in modo che Fler non gli pesasse troppo addosso, - Quindi?
- Quindi cosa? – borbottò, tirandogli un calcio nello stinco per costringerlo a stare fermo, una buona volta.
- Quindi cos’è successo? Com’è che sei in queste condizioni?
Fler sospirò profondamente, e rimase zitto per qualche secondo, come chiedendosi se fosse il caso di sbottonarsi sull’accaduto o meno.
- Avanti, Fler. – lo incitò Chakuza, sgomitandolo fra le costole, - Mi hai praticamente raccontato tutto della tua ultima storia d’amore, cos’altro vuoi nascondermi?
Fler ridacchiò a bassa voce, massaggiandosi lentamente il fianco dolorante.
- …non lo so, in effetti. – biascicò, poggiando il capo contro la parete, - Forse non voglio dirti che sono tornato da lei strisciando. Non è una cosa di cui andare granché orgogliosi, ti pare?
Chakuza sospirò, lasciandogli una pacca consolatoria su una spalla.
- Sei un uomo e sei innamorato… - lo giustificò conciliante.
- Mah… - rispose Fler, scrollando le spalle, - Sono andato da lei completamente ubriaco. Non lo so, non… non ho fatto un tentativo di tornare insieme. Volevo mandarla a fanculo, credo. Volevo vederla, cazzo.
- …cosa ti ha detto?
Fler rise amaramente, scuotendo il capo.
- Che, per la scopata che sono stato, sto facendo fin troppo casino. – si fermò un attimo, immobile. Mentre la sua vista si abituava al buio, Chakuza intuì i suoi occhi nell’oscurità e li fissò con attenzione, in cerca di un qualche tremito o incertezza. Che non arrivò. – Non penso che potrò mai dimenticarlo.
Chakuza si inumidì le labbra, annuendo lentamente.
- Silvia mi ha lasciato dicendomi che non riusciva neanche a pensare di potersi svegliare un altro giorno dopo aver dormito al mio fianco. – disse d’un fiato, guardando fisso davanti a sé mentre Fler – lo sentiva sulla pelle – gli spostava gli occhi addosso. – No, non sono cose che si dimenticano, mi dispiace. Però ricordarle ogni giorno ti permette di mandarle a fanculo con tutta la convinzione che meritano, non ti pare?
Fler si sistemò appena contro la sua spalla, raddrizzando la schiena e voltando un po’ il viso. Attraverso il cotone della felpa Chakuza poté sentire il calore dello sbuffo di fiato nel quale venne fuori la sua risatina un po’ rassegnata e un po’ sinceramente divertita.
- Che sfigati siamo. – lo sentì commentare ironicamente, senza intenzioni offensive, - Cos’è che avevi fatto alla tua donna, Chakuza?
Lui scrollò le spalle.
- Credo di averla voluta sposare. – rispose un po’ incerto, - Mi sa che mi sono fatto prendere la mano. Sai quando ti esalti…
- Sì, lo so bene. – rise ancora Fler, e stavolta il fiato Chakuza lo sentì direttamente sulla pelle del collo, - Sei un tipo romantico, mh?
- Quando m’innamoro, m’innamoro. Tutto qua. – borbottò lui, imbarazzato. – È così anche per te, no? Hai fatto la rivoluzione…
- Mi sa che dovremmo imparare a sceglierci meglio gli innamorati, Chakuza. – annuì Fler, piegando una gamba e sfiorandolo involontariamente col ginocchio, - Io toppo tipo di continuo. Non me ne va bene una.
Chakuza rise apertamente, ricambiando la ginocchiata involontaria con una volontaria e dando a Fler il la per partire con un gioco di spintarelle simili.
- Parli come un ragazzino. – gli fece notare, - Si sente che sei più giovane di me.
- Guarda che è solo un anno di differenza! – rise ad alta voce Fler, - Senti che roba…
- Be’, un anno ha il suo peso, in queste situazioni! – si lamentò Chakuza, sentendosi improvvisamente molto stupido, - Io non ho frignato, quando Silvia mi ha lasciato, per dire.
- Nemmeno io sto frignando! – ritorse Fler in un borbottio infastidito, - Alla fine ce l’ho mandata a fanculo, eh?
- Oh, sì, me lo immagino. – annuì Chakuza, - “Ti prego, Doreen, non faccio che pensarti, torna con me!”… è così che mandi a fanculo la gente, tu?
- Fanculo. – lo spintonò Fler, per tutta risposta, - È così che mando a fanculo la gente. Tu, comunque, sei uno stronzo. Non si consolano mica così, le persone. Che roba, veramente. Uno viene qui, ti si addormenta nei corridoi degli studi e tu prendi e gli dai del moccioso. Sei acido. Ora prendo e-
Non riuscì nemmeno a concludere la frase, Chakuza non lo lasciò finire. Senza nemmeno chiedersi perché avesse voglia di farlo – o se farlo fosse opportuno, tanto per cominciare – si voltò nella sua direzione e lo baciò.
Quando si separò da lui, gli sarebbe piaciuto poter dire che quello che si erano scambiati era stato un bacio equivocabile. Come quelle cose imbarazzantissime che capitano ogni tanto, in cui vuoi salutare qualcuno baciandolo su una guancia però in qualche modo non vi capite bene e la cosa finisce in uno sfregamento fugace di labbra ed in un sorriso ed una scusa impacciati biascicati confusamente mentre ci si allontana. O come quando continui a scontrarti col tizio che ti sta di fronte sul marciapiedi, perché lui va a destra quando ci vai tu e tu vai a sinistra quando ci va lui e non riuscite ad uscire dal momento di sincronia monocellulare dei vostri cervelli.
Non s’era trattato mica di uno sfregamento involontario. E non era andato a sbattergli contro per caso. Aveva voluto baciarlo. D’accordo, non c’era stato niente di più spinto di due labbra che si toccano, ma sempre di bacio s’era trattato. C’era, boh, da prenderne atto, probabilmente.
- …tu le consoli sempre così, le persone? – chiese Fler, con una voce talmente sottile che Chakuza si chiese se fosse bastato così poco per tirargli via tutto il fiato.
- Be’, no… - si affrettò a rispondere, agitato, - Credo dipenda dalla persona.
- E perché… - chiese giustamente Fler, esitando appena, - Voglio dire, perché hai consolato così me?
- Non… - biascicò lui, intenzionato a partire con un comizio in cui affermare tutto e il contrario di tutto e rendendosi conto solo dopo aver iniziato di non avere in realtà nulla da dire, - …non ne ho idea. Cioè, volevo farlo. Insomma, è solo un bacio.
Fler rimase immobile e silenzioso per un secondo.
- Io sono un uomo. – gli fece notare alla fine. La mente di Chakuza registrò con un silenzioso “eh”.
- Credo di essermene accorto. – ribatté, vagamente piccato, - Prima di baciarti, Fler. Non è che vado in giro a baciare chiunque per sport. Prima di baciare qualcuno, mi accerto almeno che sia proprio la persona che volevo baciare.
Fler rimase ancora in silenzio.
- …certo. – annuì alla fine, - …dovrei ringraziarti?
- Fler-
- No, sul serio! – lo interruppe lui, ansioso, - Cioè, non lo so. Sto meglio, adesso. Quindi forse dovrei ringraziarti.
- …se ci tieni. – si rassegnò lui, inspirando profondamente.
Fler annuì.
- Grazie. – aggiunse poi, con convinzione. – Mi baceresti di nuovo?
Chakuza lo guardò. Si augurò che Fler, nel buio, non riuscisse a distinguere la sua espressione da triglia surgelata. Ma dal momento che lui vedeva fin troppo bene la sua – un po’ incerta ma sincera e presente a se stessa, quella di un ragazzino che non è mai cresciuto e chiede perché non sa che certe cose si ottengono anche col semplice silenzio – non ci sperò più di tanto.
- Eh? – chiese, un po’ confusamente.
- Mica subito. – si affrettò a mettere le mani avanti Fler, - Dico, per il futuro, per ipotesi-
- Cosa?!
- Cioè, non è che voglio che adesso prendi e all’improvviso mi schieni contro il primo muro, eh, è solo che-
- Aspetta, aspetta! – lo fermò Chakuza, prendendogli il viso fra le mani e tenendolo fisicamente immobile, - Ho… capito cosa intendi. Cioè, fermati un momento. Non dico che non… - si interruppe, cercando le parole più adatte, - …non dico che mi dispiacerebbe o che, ma non partire come un treno in corsa, eh, è una cosa strana.
- Sì, lo so che è una cosa strana, che cazzo. – ritorse lui, sbuffando un po’. Il suo respiro lo solleticò sulle labbra e Chakuza lo guardò a lungo negli occhi.
- Posso baciarti anche adesso, credo. – disse a mezza voce, - Se vuoi ancora.
Fler rise nervosamente, muovendosi appena contro di lui. Erano così vicini che bastava un niente a toccarsi.
- Alla faccia del non partire come un treno in corsa… - lo prese in giro, probabilmente cercando di stemperare l’atmosfera tesa.
- Me l’hai chiesto tu. – borbottò Chakuza, offeso, - Lo vuoi ancora o no?
Fler non rispose. Si mordicchiò il labbro inferiore e poi si limitò ad annuire. Chakuza si sporse in avanti e sfiorò nuovamente le sue labbra con le proprie, pressandosi contro di lui in un movimento del tutto naturale, semplicissimo – anche troppo.
Si sentì stupido dopo qualche secondo in quel modo. Stavano fermi, non stavano praticamente facendo niente, perciò fu anche per attenuare quella strana sensazione di inadeguatezza che schiuse le labbra e sfiorò con la lingua quelle di Fler, come a chiedergli il permesso. Le dita dell’altro si strinsero con forza attorno alla sua felpa, all’altezza dei fianchi, mentre il permesso veniva concesso e Chakuza piegava appena il capo, lasciando la propria lingua incontrarsi e giocare con quella di Fler con una lentezza ed una calma che fino a due minuti prima avrebbero avuto del surreale. E che suonavano benissimo, invece, in quel preciso istante.
Fler rise appena smisero di baciarsi. Non sciolse la presa attorno alla sua felpa e non aprì nemmeno gli occhi, si limitò a ridere a bassa voce e restare lì, fermo, un po’ inebetito, mentre Chakuza tornava a guardarlo con una certa divertita curiosità.
- Potrei anche farci l’abitudine. – gli disse a mezza voce, quando recuperò abbastanza fiato. Chakuza rise di rimando.
- Stai di nuovo correndo come un treno. – lo rimproverò bonario, - Facciamo che adesso ce ne andiamo a casa e ci facciamo una dormita? In letti separati, s’intende.
Fler rise ancora e poggiò appena la fronte contro la sua. Aveva ancora gli occhi chiusi.
- Domani mattina ripenserai a questa battuta e ti sentirai un cretino. – lo avvertì.
- Mi conosci già tanto bene? – sbuffò Chakuza, sorridendo, - Sono un libro aperto.
Fler scosse il capo.
- Ci si sente sempre dei cretini, in questi casi.
Quali casi?, avrebbe voluto chiedere lui. Ma Fler lo lasciò andare e riaprì gli occhi. Era in piedi il secondo dopo. E Chakuza, di fermarlo, non ebbe proprio il coraggio.

*

Svegliandosi l’indomani mattina, le prime due cose che Chakuza aveva pensato erano state “sono un cretino” e “devo dirlo a Bushido”. La prima considerazione non l’aveva stupito più di tanto – in fondo l’aveva un po’ aspettata tutta la notte, se non altro perché, al solo pensarci, la voce di Fler, con quel tono dolce e un po’ perso, gli risuonava ancora nelle orecchie – e neanche la seconda, per dirla tutta, era davvero riuscita a turbarlo come forse avrebbe dovuto. D’altronde, che cavolo avrebbe dovuto dire a Bushido? “Fra una cosa e l’altra ieri poi ci siamo baciati due volte”? Che razza di discorso sarebbe stato? E poi, anche ammettendo che tutto questo avesse un senso, cosa avrebbe dovuto impedire a Bushido di ridergli in faccia e dirgli “sì, ma chi se ne frega”?
Eppure, per qualche motivo, voleva parlarne con Bushido. Probabilmente perché era evidente che, se da qualche parte l’argomento Fler doveva essere preso – lasciando da parte tutti gli imbarazzanti doppi sensi di un’espressione simile – quella parte doveva essere Bushido. Per forza di cose. Perché lo conosceva, perché ci aveva già avuto a che fare e soprattutto perché aveva avuto ragione a dirgli di risolverla prima di farsi prendere. Il problema era che lui non era stato abbastanza sveglio da dargli retta.
È che Fler non sembrava pericoloso. Non in quel senso, almeno. Si fosse trattato di farci a pugni o scontrarsi con un coltellino in un vicolo buio, be’, ok, allora da quel punto di vista avrebbe potuto tranquillamente dargli del tipo pericoloso. Ma l’eventualità di trovarsi a limonare con lui in un corridoio? Chi avrebbe mai potuto pensarci?
In realtà non c’era neanche un modo corretto di dirla, una cosa del genere. Quando una cosa non dovrebbe verificarsi e poi però si verifica comunque, insomma, puoi anche indorare la pillola ed immergerla nel cioccolato liquido, sempre amara resta.
Perciò, quel pomeriggio, quando arrivò a casa di Bushido, decise saggiamente di non infiocchettare per niente il pacco regalo, e presentare il disastro nudo e crudo, così per com’era. Sperando magari di ridimensionarlo un tantino. Perché a guardarlo per come lo vedeva lui, al momento, era spaventoso.
- Io e Fler ci siamo baciati. – esclamò, restando in piedi di fronte al divano mentre Bushido, seduto fra i cuscini e col portatile sulle ginocchia, lo guardava con aria allucinata.
Si sentiva tanto un bambino di ritorno da scuola con la pagella piena di insufficienze. Bushido continuò a guardarlo mentre, senza badare allo schermo, trucidava gli orchetti di World of Warcraft con gesti automatici dettati ormai da un’abitudine quasi quinquennale.
Il silenzio si protrasse molto a lungo.
- Chaky… - rantolò poi l’uomo, lasciando in pace la tastiera per passarsi una mano sulla fronte, - Chaky, no…
Chakuza aggrottò le sopracciglia con disappunto.
- Be’, non ti ho mica detto di aver investito una bambina che tornava a casa da scuola, che cazzo. – borbottò, lasciandosi ricadere seduto al suo fianco, - E chiudi un po’ questa merda, che ho dei problemi seri, io.
- Eccome se li hai. – annuì Bushido, chiudendo di botto lo schermo del portatile e voltandosi per guardarlo con attenzione, - Quanto avanti siete andati?
- Che cosa ti ho detto? Che ci siamo baciati! Quindi mi pare ovvio che ci siamo solo baciati! Se avessi risposto “l’ho spalmato sul mixer e me lo sono scopato per dritto e per rovescio”, allora avrebbe voluto dire che l’avrei scopato per dritto e per rovescio! – rispose istericamente, - Ti ho detto questo, per caso? Non te l’ho detto! Quindi sai già quanto avanti siamo andati.
Bushido ci rifletté qualche secondo.
- Parecchio. – suppose poi, annuendo.
Chakuza annuì di rimando.
- Per una decina abbondante di minuti. – precisò quindi, - Due volte.
Bushido rise a bassa voce, scuotendo il capo con una rassegnazione divertita molto paterna.
- Ma come ti è saltato in mente? – chiese poi.
Chakuza si lasciò andare con un sospiro contro lo schienale, le braccia inerti in grembo.
- Non ne ho idea. – rispose sinceramente, - Era lì, era triste, l’ho baciato.
- Non fa una piega. – rise ancora Bushido, - Cos’era successo?
- Be’, ha avuto questo casino con la donna di Sido, no? – biascicò Chakuza, senza nemmeno chiedersi se fosse il caso di raccontare una cosa simile all’uomo che, in teoria, Fler lo odiava, e quindi di quelle informazioni avrebbe potuto fare un uso molto scorretto, volendo. Tra l’altro, non è che Bushido passasse poi per un individuo di chissà che alta moralità. Ma c’era anche da dire che in genere era vero: Bushido sapeva sempre tutto. Perciò, perché trattenersi, a un certo punto? – Insomma, ieri è andato da lei, hanno avuto questa discussione, lei gli ha mollato un due di picche tremendo e io me lo sono ritrovato mezzo ubriaco seduto per terra in un corridoio degli studi. Che avrei dovuto fare?
- Non saprei, - ipotizzò Bushido con un’altra risata, - preparargli un caffè e rimandarlo a casa propria?
Chakuza mugolò afflitto, sistemandosi il cappellino sulla testa.
- Non ci ho pensato. – borbottò con un sospiro, - E adesso mi sa che è tardi per dirgli “senti, lasciamo perdere e facciamo che ti offro un caffè per riparare”.
Bushido rise un’altra volta, cercando di incoraggiarlo con qualche pacca sulla spalla.
- Chaky, guarda, io non so che intenzioni abbia tu con quell’uomo, ma lasciatelo dire da uno che lo conosce bene: Fler è una trappola.
Chakuza gli sollevò gli occhi addosso, inarcando un sopracciglio.
- Stai per darmi una lezione di Flerologia?
Bushido rise possibilmente ancora più forte.
- Vedila così: - spiegò quindi, - Fler nemmeno se ne accorge, di quello che ti fa. E tu, senza capire né come né perché, improvvisamente ti ritrovi che lo stai baciando. È un classico.
- Un classico? – chiese Chakuza, giustamente turbato, - No, perché, scusa, quanti ne conosci a cui è successo?
- Be’, uno. – rispose Bushido con una scrollatina di spalle. E poi si indicò. – Il sottoscritto.
Chakuza rimase immobile, ponderando attentamente la possibilità di alzarsi in piedi, uscire da quella casa e fingere che quella conversazione non avesse mai avuto luogo.
- Tu… cosa? – chiese invece, incredulo, - E quando?
- Giusto quei due secoli fa. – rispose Bushido con un mezzo sorriso intenerito, - Tranquillo.
- No, - lo fermò Chakuza, sollevando perentorio una mano, - non mi dire di stare tranquillo perché tu che rassicuri me dicendomi di stare tranquillo perché tra te e Fler è una cosa chiusa… no. Ok? No.
Bushido rise per la millesima volta in quella mezz’ora, annuendo conciliante.
- In sostanza, - spiegò quindi, - è successo quando sono andato via dall’Aggro Berlin. Fler, sai, è sempre stato un tipo fedele. Nel senso, aveva degli ideali, i suoi ideali l’Aggro li incarnava bene. Io volevo fare soldi, ero un figo e mi rompeva il cazzo dividere i guadagni con Sido, in tutta sincerità. – scrollò le spalle, - Faccio a Fler: “vieni via con me?”, lui risponde: “col cazzo”. Io mi infurio e lo sfanculo. Nel senso che gli dico “per quanto mi riguarda, fottiti e tanti saluti”. E quindi, insomma, lui prende e fa la tragedia greca. Sai, no? “Non puoi farmi questo”, “cazzo, siamo fratelli”, “Atze, non puoi andartene” e via così. E parlava, parlava. E mi guardava con quegli occhi lì. Intendo, quegli occhi lì. – precisò con un altro sospiro, - Che avrei dovuto fare?
Chakuza fece una mezza smorfia, abbozzando un sorriso.
- Immagino che il consiglio del caffè non valesse, nel caso specifico, mh?
Bushido rise ancora.
- No, direi di no. Perciò lo bacio e quando mi stacco lui fa “volevi zittirmi?”. E no, non è che volessi zittirlo. Volevo baciarlo. Però, capisci, lui non ci arriva. Non è che lo capisce, che è un individuo baciabile e che quando fa determinate cose a te ti scatta la molla dentro. Siccome fondamentalmente è eterosessuale, - si interruppe e ci rifletté, poi corresse: - siccome principalmente va con le donne, ecco, non ci pensa. Quindi, in sostanza, se ti piace devi dirglielo, però preparati perché… - sospirò, - voglio dire, non passa.
Chakuza lo guardò attentamente, cercando di trovare alle sue parole un senso meno malinconico e meno pesante.
- Non ti è passata? – chiese poi, quasi timoroso.
- Be’, non è che trascorra la mia intera esistenza a pensare a lui, - chiarì Bushido, - però insomma. Ogni tanto capita, e quando succede ci ripenso nello stesso modo in cui ci pensavo il giorno in cui l’ho baciato.
Chakuza deglutì a fatica.
- Preferisci che io… - iniziò incerto, ma Bushido lo fermò con un’altra risata tonante delle sue.
- No, Chaky. Tu che mi chiedi se devi farti da parte per favorire qualcosa fra me e Fler è anche peggio di me che ti rassicuro sul contrario. – ci rifletté un po’, - E comunque ti rassicuro lo stesso, perché fra me e Fler non c’è più una possibilità che sia una, e soprattutto io non voglio. – lo guardò un po’ dubbioso, nascondendo l’ennesimo sorriso, - Era questo il problema?
Chakuza esitò qualche attimo.
- In realtà non lo so. – ammise poi, - Forse. Comunque sono contento di avertelo sentito dire.

*

- Ho parlato con Bushido.
Fler si separò da lui ancora vagamente confuso, le labbra gonfie, gli occhi semichiusi e le dita strette con forza attorno al colletto della sua polo.
- Tu cosa? – chiese, senza capire, mentre Chakuza, dopo la breve parentesi informativa, tornava a fare ciò che stava facendo fino a pochi secondi prima, cioè spalmarlo contro lo schienale della sedia sulla quale era seduto, baciandolo voracemente. – Cha… - cercò di fermarlo Fler, puntando i piedi per terra e indietreggiando sulle rotelle della poltrona, - Chakuza, che cazzo stai dicendo?! – si decise a urlare poi, alzandosi anche in piedi per sottolineare meglio la propria intenzione bellicosa, dopo aver visto che l’unico effetto del suo arretrare era stato l’avanzare di Chakuza in direzione ostinata e contraria.
- Che c’è? – rispose lui, in un mormorio in parte annoiato e in parte deluso dalla prospettiva di vedere sfumare un interessante pomeriggio di baci, - Mi hai capito, no?
- Sì, appunto perché ti ho capito… - precisò Fler, tornando a sedersi ed osservando con sgomento Chakuza tentare di riavvicinarsi, - Fermati un po’! – lo rimproverò, piantandogli una mano nel mezzo del petto, - Cos’hai detto a Bushido?
- Be’, gli ho detto di noi. – rispose Chakuza con un vago gesto della mano, - Insomma, di quello che è successo. Quando ci siamo baciati e… nelle settimane successive, dico.
Gli occhi di Fler, già abbastanza inquietanti anche nella normalità, si spalancarono a dismisura, diventando quasi terrificanti.
- Fler…? – lo chiamò a mezza voce Chakuza, senza azzardarsi a toccarlo per paura che potesse, tipo, morderlo.
- Ma come cazzo… - cominciò lui, con aria assente, - No, dico, ma sei un cretino o che?! A Bushido!
Chakuza aggrottò le sopracciglia, appoggiandosi al mixer e fissandolo con aria ostile.
- Be’, scusami se non sapevo con chi parlarne. La prossima volta mi attacco alla prima gay line disponibile e vedo che mi consigliano loro, preferisci?
Fler cercò di calmarsi e lo raggiunse al mixer, appoggiandosi accanto a lui e sospirando pesantemente.
- Scusami… - cedette, guardandolo con aria un po’ triste, - Non è che sia arrabbiato perché l’hai detto in generale. Voglio dire, non è un problema se lo dici. In ogni caso, se viene qualcuno a prendere per il culo, farò in modo che se ne penta amaramente. È che… Bushido! Fra tutti, lui!
Chakuza incrociò le braccia sul petto.
- Se è per quello che è successo fra voi, guarda che-
- No! – lo fermò Fler, con troppa ansia perché non sembrasse sospetto. Chakuza lasciò perdere solo perché in realtà non gli andava davvero di affrontare l’argomento. – Non è per quello, è che-
- Bushido non è stronzo come pensi, - lo interruppe lui, accigliato, - non penso intenda andare a vendere la notizia al migliore offerente, d’accordo? Rilassati.
Fler sospirò ancora, scuotendo il capo.
- Bushido è una cosa complicata. – cercò quindi di spiegargli. Chakuza scrollò le spalle.
- Sì, lui dice lo stesso di te. – d’altronde, se Fler ci teneva tanto a tirarglielo fuori di bocca, chi era lui per fermarlo?
Il “davvero?” che ricevette in risposta, comunque, lo mandò fuori dalla grazia di Dio. Letteralmente.
- Sì. – rispose in un ringhio di gola, - Sì. Una tirata di mezz’ora mi ha fatto, su te, su voi, su quello che siete stati, non siete, non sarete più e tutto il dannato resto. E poi ci ha tenuto a rassicurarmi sul fatto che no, non devo preoccuparmi di niente, perché figurati se lui si mette in mezzo, a questo punto. Ora cosa? – concluse con un altro ringhio, - Prendi e corri fino a casa sua per spiegargli che ha fatto i conti senza l’oste e che per quanto ti riguarda potete riprendere da dove vi eravate interrotti? Bene! Fai pure! Però ricordati chi è stato a gettare fango su te e tutto il tuo albero genealogico, negli ultimi anni, e ricordati che non ero io a darti del traditore nelle mie canzoni! – si fermò e prese fiato, - Ora puoi andartene, se vuoi.
Fler lo guardò per qualche secondo, restando in rigoroso silenzio per tutto il tempo. Non lo si sentiva neanche respirare. Chakuza cominciò a pensare si fosse trasformato in una statua di sale o chissà che altra assurdità simile, e lui approfittò di quel momento d’incertezza per ricominciare a parlare.
- Se dovessi uscire di qui ed andare a casa di Bushido adesso… - spiegò con un mezzo sorriso, - sarebbe per dirgli che ha fatto i conti senza l’oste. Perché – rise divertito, - è tremendo che ti abbia ridotto in questo stato senza motivo, Chaku.
Chakuza borbottò qualcosa di incomprensibile, abbassando lo sguardo. Fler si sporse in avanti e gli lasciò un bacio sotto l’orecchio, cosa che lo fece rabbrividire abbondantemente e lo costrinse a tornare a guardarlo.
- Senti, sai che avevi ragione? – continuò Fler, guardandolo e sorridendo come volesse prenderlo in giro, ma senza cattiveria, - Anche io quando m’innamoro, m’innamoro.
- …Fler-
- No, aspetta, dai. – rise, - È già abbastanza imbarazzante così, ti pare? Almeno lo dico una volta sola e risolviamo il problema. Ok?
- …se proprio ci tieni. – annuì Chakuza, ancora vagamente stordito, - Dì pure.
Fler gli mollò uno scappellotto dietro la nuca tale che gli volò via il cappellino.
- Di certo non intendo dirti che mi sono innamorato di te, stronzo insensibile che non sei altro. – lo rimproverò con un mezzo sbuffo, - Però se vogliamo fare le cose per bene, intendo, ci sto.
Chakuza rise a bassa voce, sollevando un braccio e tirandoselo contro – fregandosene, per una volta, se nel movimento spostavano tutti gli equalizzatori di quella dannata macchina infernale del mixer.
- Fare le cose per bene… - ripeté divertito, - Che cosa diamine vorrebbe dire “fare le cose per bene”? Devo far stipulare agli avvocati un altro contratto?
- Devi andare a fanculo, principalmente. – lo rimbrottò Fler, tirandogli una gomitata neanche troppo discreta nello stomaco, - Non so neanche perché te le dico, certe cose. Mica te le meriti.
Chakuza rise ancora e si sporse a baciarlo, spegnendo sul nascere il distributore automatico di lamentele che Fler stava apprestandosi a diventare.
- Questo era per zittirmi? – chiese Fler con un mezzo sorriso, quando si separarono.
- Che fai, ti autociti? – lo prese in giro Chakuza, spintonandolo con una spalla.
- Una specie. – rise l’altro, massaggiandosi la spalla, - Facciamo che cancello il passato così che tu non debba più sentirti geloso.
- Ehi… - borbottò Chakuza. E fece anche per aggiungere “io non sono geloso”, ma da un lato sarebbe stato piuttosto ridicolo se avesse detto una cosa simile dopo la scenata di qualche minuto prima, e dall’altro lato non vedeva per quale motivo risparmiarsi di rimarcare il punto “se tu e Bushido vi riavvicinate, nessuno sopravvivrà per esserne testimone”. D’altronde, a quanto pareva rientrava nei suoi diritti. Perciò lasciò perdere. – Fa nulla. – ridacchiò sollevato. E poi si dedicò ad un’attività che, ne era sicuro, nei mesi futuri avrebbe trovato parecchio divertente: rovinare ore e ore di registrazioni di Stickle spalmando Fler in ogni posizione per tutta la lunghezza della consolle.

*

- Quindi adesso stanno insieme, tipo? – chiese Eko, farcendo un panino virtuale con del tonno virtuale ad andando alla ricerca di un pomodoro virtuale all’interno di una cucina virtuale.
- Sì, così pare. – rispose Bushido, sventrando un orchetto e procedendo alla volta di un suo degno compare.
- Ma è una cosa seria? – chiese ancora Eko, tagliando il pomodoro virtuale in sottili fettine virtuali usando un coltello virtuale su un tagliere virtuale.
- Be’, non credo che abbiano intenzione di sposarsi, però probabilmente andranno a vivere insieme. – scrollò le spalle Bushido, trucidando anche il secondo orchetto ed appiccando il fuoco ad un innocente tetto di paglia, - D’altronde, non vedo perché no. In ogni caso passano il tempo a limonare, che stiano appiccicati per ore o meno.
- Eh, la gioventù. – annuì Eko, finendo di riempire il suo panino virtuale ed infilzandolo con uno stecchino virtuale, adornato a sua volta da una deliziosa oliva denocciolata anche lei virtuale. – Sono contento per loro.
Bushido demolì ciò che restava dello scheletro bruciacchiato della casa ed annuì.
- Sì, anch’io.
Silenzio.
- Bu? – lo chiamò quindi Eko, - Li spegniamo, ‘sti cazzo di affari? Usciamo e ci troviamo una donna, dai. Sul serio.
Bushido lo guardò solo per un secondo.
- Ma devo arrivare al check point. – motivò, indicando lo schermo oltre il quale un’orda di elfi neri stava depredando una carovana di mercanti.
Eko tornò a sprofondare nel divano e cominciò a farcire un altro panino virtuale.
- Okay, - rispose con un sospiro, - solo fino al check point.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG
AVVISI: Gen, AU, Flashfic.
- "'E tu come ci sei arrivato là sopra?' 'Mi sono arrampicato.'"
Note: Un'AU che è anche una flashfic. *piange amore* Non so se riuscite a cogliere la vaga meraviglia di fare una cosa simile. Poi vabbe', è una storia scritta un po' a cazzo di cane, questo sicuramente, però comunque scrivere un'AU in così poche parole è un'impresa, questo me lo concederete XD E se non me lo concedete, chissene e_e *si prende onorificenze da sé*
A parte questo, l'idea di scriverla è nata questo pomeriggio posando gli occhi sul nuovo avatar di Fler su Twitter, che come vedete è la copertina del nuovo Air Max Musik, e lo ritrae con un paio d'ali nere di plastica stropicciata spiegate dietro la schiena. *piange splendore* A lui il premio di cosa più bella vista oggi assieme a The Fighter.
Scritta per il prompt Attesa @ terza settimana del COW-T. E con questo mi ritiro. *va in pensione*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
DESPERATE ANGEL
got no wings to fly

Non sa più neanche da quanto tempo stia aspettando. Le ali cominciano a pesare, ormai. È ridicolo, perché le ali in sé sono terribilmente leggere, ma è la loro presenza che ormai si sta facendo insopportabile. Il modo in cui tirano sulle scapole, desiderose di spalancarsi. Il modo in cui fremono ogni volta che lui apre e chiude le mani. È doloroso averle e non poter volare. Poterle aprire solo per impedire che si atrofizzino. Stare, come adesso, seduto sulla sommità di questo muro così alto, ed esserci arrivato scalandolo, come un comune mortale. Non poterne scendere lanciandosi nel vuoto in picchiata, planando a pochi centimetri dall’asfalto per poi riprendere quota e tornare su, su, dribblando i palazzi e tuffandosi in mezzo alle nuvole, provando a raggiungere il cielo per grattarne la scorza azzurra e bussare alla porta di casa.
Ma Dio è stato chiaro, quando l’ha mandato sulla terra. Quando gli ha tolto le sue belle ali candide e morbide, sostituendole con quelle nere e stropicciate che ancora porta appese alla schiena, Dio gli ha detto di non provare nemmeno a fare ritorno in Paradiso finché non fosse stato il momento giusto. Non ha specificato di che momento stesse parlando, ma Fler è abbastanza sicuro che questo momento non sia ancora giunto, perché l’avrebbe sentito. E perché le sue ali sono ancora nere e incapaci di volare, naturalmente.
- E tu come ci sei arrivato, là sopra? – chiede una voce vagamente lamentosa, parecchi metri sotto di lui. Semisdraiato per terra, appoggiato di spalle al muro sul quale lui stesso è seduto, c’è un ragazzo. Sembra più grande di lui. È pieno di lividi, porta un braccio stretto al petto come se la sola idea di muoverlo gli causasse un tormento insostenibile e la sua voce è una sinfonia di gemiti e lamenti di dolore, ma sorride, e sembra perfettamente a suo agio pur nelle condizioni in cui è, come se fossero quelle in cui usualmente è abituato a sopravvivere.
- Mi sono arrampicato. – risponde lui, saltando giù e piombando dritto in piedi a pochi centimetri da lui. Si piega sulle gambe per cercare di attutire il colpo e già che c’è resta piegato, si accuccia sulle ginocchia e gli si avvicina, scrutandolo con interesse. – Che ti è successo?
- Una sciocchezza. – dice il ragazzo, agitando la mano sana davanti al viso, - Un incidente sul lavoro.
- Che tipo di lavoro causa incidenti del genere? – domanda Fler, inarcando un sopracciglio.
Il ragazzo ride, e la sua risata si perde quasi subito in un colpo di tosse che si trasforma a sua volta in un altro gemito carico di dolore, mentre cambia posizione per cercare di non pesare troppo sulla spalla malconcia.
- Il tipo di lavoro dal quale un ragazzino con una faccia e un paio d’occhi come i tuoi dovrebbe stare sempre lontano. – dice, recuperando la calma ed anche quel tono strafottente che già da un paio di minuti sembra voler invitare Fler a prenderlo a calci nelle costole.
- Fai sempre così? – gli chiede con evidente fastidio, rimettendosi dritto e spolverandosi i jeans all’altezza delle ginocchia.
- Così come? – chiede il ragazzo, seguendolo con gli occhi ed inarcando un sopracciglio con aria divertita.
- Così. – risponde Fler, indicandolo con un cenno del capo.
- Così tipo “finire sdraiato in un angolo di strada senza riuscire quasi nemmeno a respirare per il dolore”?
- No. Così tipo da far pensare a chi ti ascolta che chiunque ti abbia ridotto in queste condizioni deve avere avuto i suoi buoni motivi per farlo.
Il tipo sbuffa una mezza risata incredula, mettendosi a sedere più compostamente mentre comincia a riprendersi.
- Ma quanti anni hai? – gli chiede curiosamente. Fler appende le mani ai fianchi magri da ragazzino.
- Tu quanti me ne dai? – domanda spavaldo. Il tipo ride, e stavolta riesce perfino a rantolare di meno.
- Quattordici. – risponde. Fler guarda altrove.
- In un certo senso, ne ho quattordici davvero. – annuisce. Il tipo inarca un sopracciglio.
- In un certo senso…? – ripete divertito, e poi scuote il capo, tendendogli una mano. – Aiutami a mettermi in piedi. – dice. Fler guarda quella mano e le dita incrostate di sangue per qualche secondo, prima di afferrarla per tirarlo in piedi. – Anis. – si presenta il ragazzo, stringendogli la mano con decisione invece di lasciarla andare, mentre fa qualche tentativo di restare in piedi senza dovere per forza appoggiarsi al muro dietro di sé. – Tu?
Fler fa per schiudere le labbra e rispondere col proprio nome, ma esita. Aspetta un paio di secondi. Poi se ne inventa uno nuovo.
- Patrick. – risponde. Anis annuisce, lasciandogli finalmente andare la mano solo per appoggiarsi a lui.
- Bene, Patrick. Ti andrebbe di accompagnarmi in ospedale?
Fler lo guarda con sospetto. Il corpo del ragazzo è caldo e ogni tanto si scuote ancora in brividi scomposti quando viene attraversato da scariche di dolore più forti delle altre.
Lancia un’occhiata alla volta celeste, scura e puntellata di stelle. Non è sicuro che il Paradiso possa attendere ancora molto tempo, ma questi venti minuti per accompagnare Anis al pronto soccorso può anche prenderseli.
- D’accordo. – annuisce, incamminandosi verso l’ospedale e trascinandoselo dietro.
Non viste, le sue ali cominciano a farsi più morbide, e il nero che le avvolge si stempera in una sfumatura più tenue che continua a schiarirsi passo dopo passo.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Fler/Chakuza, OMC/Fler.
Rating: PG-15
AVVISI: Slash, OC.
- "Io sono Daniel, Daniel Kobler. Danny per gli amici."
Note: Con questa si chiude la prima (lunga) serie di spin-off. Vi avviso già da ora che ce ne sarà un'altra più avanti. Qua dentro troverete le parole di Daniel, che finora non aveva mai parlato ma che di cose da dire ne aveva. Capirete perché continuiamo a ripetervi che le cose sono tornate ad essere come prima se non meglio e che per quanto odio si sia generato nella serie precedente, i legami di tutti sono troppo forti per essere davvero spezzati, tanto che una volta recuperati... generano decisioni inaspettate :)
Con questa shot Daniel diventa ufficialmente parte integrante... della famiglia.
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FAMILY ISSUES

Io sono Daniel, Daniel Kobler. Danny per gli amici.
Forse vi ricorderete di me perché, non per vantarmi, ma nell'ultimo periodo sono stato piuttosto importante da queste parti. Tanto per rinfrescarvi la memoria, sono io che ho detto a Fler e Chakuza dove trovare l'assassino di Bushido, due anni fa. Quei due brancolavano nel buio. Giravano per bar, ma ci pensate? Come se qualcuno che sa qualcosa sull'omicidio di un pezzo grosso come Bushido potesse mai starsene al bar pronto a rispondere alle tue domande sull'argomento. Io Fler lo rispetto, perché lui è uno che ci sa fare, un tipo a posto, uno che quando aveva la mia età cazzo se ne ha fatti di casini, da queste parti lui è una leggenda, ma si vede quando stai fuori dal giro perché quando ci torni poi è un casino sapere dove mettere le mani. E' perché lo spazio che lasci lo occupa qualcun altro, appena ti fai da parte, sei subito fuori.
Così questi due per giorni non fanno che girare per il ghetto in cerca di informazioni. Lo sanno tutti, naturalmente, ma si guardano bene dal parlare perché di mezzo ci sono i libanesi e nessuno ha voglia di mettersi contro di loro, specialmente quando Saad ha dato ordine di ammazzare suo cugino.
Io in quel momento lavoro per uno che fa affari con quella gente, sono da lui per prendere quello che devo consegnare e lo sento parlare con un tizio, e capisco subito che stanno parlando dell'omicidio di Bushido.
Non è che Bushido mi piacesse, ben inteso, ma girava voce che Saad l'avesse voluto morto per la storia di Bill, che posso pure capire rovinasse l'immagine, ma alla fine erano cazzi suoi. Ho pensato che non mi stava bene, in più volevo aiutare Fler e le due cose erano compatibili; e poi se qualcuno un giorno mi sparerà perché sono frocio, mi piacerebbe che pareggiassero i conti con lo stronzo che mi ha sparato, tenendo bene a mente il motivo per cui l'ha fatto. Per cui sono andato per bar anch'io, finché non ho trovato lui e quel cretino di Chakuza, che non è adatto al ghetto come non è adatto al mondo in generale, se me lo chiedete.
Insomma, io gli do quest'informazione e lui mi prende sul serio. Capite? Mi prende sul serio, cazzo, e va a parlare col tramite dei Libanesi. Io non so che cazzo fa per convincerlo a parlare, ma quello parla e qualche giorno dopo Saad è sparito. Ufficialmente non è morto, la moglie dice che se n'è andato lasciando un biglietto. Sì, certo. A dragare il canale chissà in quanti pezzi lo trovano.
Tutto quello che è successo dopo io non lo avevo previsto, naturalmente, anche perché un casino del genere non si poteva pensare. Mentre Bushido tornava dal regno dei morti e l'Ersguterjunge esplodeva letteralmente in mille pezzi, rivelando al mondo che metà dei suoi cantanti erano omosessuali, io facevo coming out – in parte anche per colpa loro – e venivo ripetutamente pestato dai ragazzi della mia banda o da mio padre se tornava ancora abbastanza lucido per non fare gli ultimi tre gradini della rampa di scale strisciando e poi vomitare sulla soglia di casa.
La mia vita faceva schifo e non poteva farlo più di così, per questo ho deciso che tanto valeva presentarsi alla porta di Fler e chiedergli di venire a letto con me. Io sapevo che lui non poteva essere felice quando era rimasto a casa mentre il suo uomo andava in tour con il suo ex; quella cosa era così incredibilmente sbagliata che, se non mi fosse convenuto trovarlo nel suo appartamento a lamentarsi anche lui che la sua vita faceva schifo, gli avrei chiesto che cazzo ci faceva ancora in pigiama sul divano, invece di prendere e andare da loro prima che Bushido finisse di nuovo a letto con Bill.
All'inizio, io con Fler non volevo nessuna relazione. Lui mi piaceva un casino, tipo che se anche avevo dei dubbi sui ragazzi, con lui era tutto chiaro, però non sono scemo e non sono nemmeno cresciuto parcheggiato davanti alla televisione come i ragazzini dei quartieri alti. Mia madre è morta che avevo dieci anni e la più grande cortesia che mio padre mi abbia mai fatto è stata picchiarmi a mani nude o con i cocci delle bottiglie, invece di tentare la sorte con un'arma da fuoco, che in diciassette anni mi avrebbe sicuramente preso per bene, prima o poi e invece con le bottiglie ci vuole molta più precisione.
Quando passi tutta la tua vita ad occuparti di te stesso da solo anche se non dovresti, e invece di tornare a casa preferisci vivere per strada dove ci sono solo delinquenti, tossici e delinquenti che sono anche tossici, non ci credi nella favola a lieto fine. Non credi che il tuo mito sia disposto ad ascoltarti, non credi che si riscopra gay quando anche tu lo sei, non ci credi che bussi alla sua porta, gli chiedi di scoparti e quello diventa l'uomo della tua vita. O anche solo il tuo uomo. Insomma non credi che possa venire qualcosa di buono da una scopata casuale, anche se l'hai voluta con tutte le tue forze.
E invece è successo. Io e Fler siamo stati insieme per un numero di mesi che non abbiamo mai contato e per motivi che non ci siamo mai detti, per il semplice fatto che di contare e dire non c'era bisogno.
Lui è stata la prima persona della mia vita a cui io non dovevo assolutamente nulla e che non doveva nulla a me. Prima di conoscere lui ero abituato che nessuno fa niente per niente, ma soprattutto che la mia persona su questo mondo non serviva a granché e che, bene o male, se volevo restarci, era meglio che non facessi incazzare chi mi stava intorno. Per mio padre sono sempre stato la causa di tutti i suoi mali, forse perché non ero il figlio che aveva sempre sognato o forse semplicemente perché era uno stronzo – ma, sapete, queste cose quando hai dieci anni non le capisci e pensi che quello che tuo padre ti dice sia vero, quindi prima di capire che non avevo fatto niente per meritarmi quello che mi faceva, ne avevo già prese così tante che non importava più – e tutti questi mali di cui ero causa inconsapevole dovevo espiarli trovando chissà dove i soldi che lui non guadagnava lavorando per poi vedergli spendere in birra, e fuori non è che andasse tanto meglio. Ho fatto davvero di tutto per cercare di non crepare prima dei diciotto e magari sperare di andarmene. Perfino mia madre, cazzo, prima che morisse mi ha sempre fatto pesare che suo marito era un bastardo. Mia madre era buona, io me la ricordo buona, ma c'erano certi giorni che mi teneva lì con lei per paura di lui e io per forza dovevo proteggerla, e per forza mi prendevo le botte, che se mi avesse lasciato uscire, o chiamare aiuto forse, non lo so... ma non è questo il punto.
Il punto è che quando Fler è venuto a letto con me, non l'ha fatto con in testa l'idea che mi stesse facendo un favore, o che io ne stessi facendo uno a lui a titolo gratuito; possibilità, questa, che avevo preso in considerazione perché quando un ragazzino ti si offre sulla soglia di casa, nel mio mondo, ci sono buone probabilità che l'azione venga interpretata come un regalo inaspettato senza conseguenze.
Fler mi ha ascoltato quando ho chiesto e ha passato buona parte della serata a convincermi che non lo volevo veramente, un particolare che mi ha convinto solamente del contrario. Se mi avesse accettato così com'ero, se m'avesse preso come chiedevo, probabilmente me la serai fatta addosso perché lo volevo, ero pronto, ma ero anche molte altre cose e lui le ha capite tutte semplicemente guardandomi in faccia.
Io dell'amore non mi fido – perché è un'arma troppo potente e troppo instabile, è come cercare di trasportare nitroglicerina su una strada piena di buche – ma credo nel rispetto, che è altrettanto potente ed è disposto a piegarsi prima di spezzarsi, qualità che lo rende meno fragile e più onesto. Quindi preferisco dire che Fler mi ha rispettato, più che amato, che è molto più di quanto posso dire di un sacco di gente che era tenuta a farlo più di lui.
Siamo stati benissimo insieme, e non lo sto dicendo in quel modo lagnoso in cui le coppiette lo dicono spesso. Non vi sto guardando con l'occhio sognante e lucido e le mani giunte sul cuore, ripensando agli infiniti pomeriggio in cui correvamo insieme nel parco o ci fermavano di fronte alle vetrine dei negozi di animali per indicare squittendo i cuccioli di cane; oppure, se preferite una versione meno etero in cui io non sono in realtà una donna, non passavamo tutto il nostro tempo in palestra, come invece Fler sembra fare quando è da solo. Stavamo bene nel senso che non c'era motivo di discutere mai, nemmeno quando io facevo apposta a tirarlo scemo e lui provava ad alzare la voce. Io e Fler ragioniamo allo stesso modo perché veniamo dallo stesso posto e siamo cresciuti allo stesso modo; certi meccanismi mentali non abbiamo bisogno di impararli col tempo, li abbiamo già radicati in testa e li capiamo benissimo.
Ad esempio non ho bisogno di chiedermi perché Fler faccia di tutto, perfino aiutare le vecchiette del suo palazzo a pulire sopra gli armadi, pur di non restare in casa quando non c'è nessuno. Lo so che le case vuote sono spaventose perché sono la dimostrazione di quanto tu sia solo una volta che tutte le persone di cui ti circondi fuori dalla porta sono tornate da chi le aspetta, loro, mentre tu eri fuori di casa giusto perché dentro stavi male. Le case vuote rimbombano, senti solo le tue urla quando stai male e i singhiozzi quando piangi, di risate non ne fai quindi non ne senti nemmeno. La casa vuota è deprimente, semplice.
Quindi io scappavao dalla mia per andare nella sua, così almeno eravamo in due con due pizze e ci divertivamo, e si rideva anche.
Il periodo perfetto è iniziato dopo che lui e Bushido si sono lasciati, naturalmente. A Fler non è mai andata completamente giù di tradirlo, ma lo ha sempre fatto comunque, forse perché non ci credeva nessuno – credetemi, nessuno – che a Bushido non interessasse più Bill. Cioè, io di questa storia me ne sono sempre fregato, come ho già detto, ma ci sono certe cose che vieni a sapere anche se non vuoi e quei due, cazzo, quei due erano sempre su tutti i giornali. Non passava un giorno senza che un qualche canale non riportasse anche quante volte il re dei re – tsk, che poi di questo bisognerebbe parlarne – e la sua principessa erano andati in bagno. Tutti sapevano che Bushido per Bill Kaulitz ci aveva perso la testa e nessuno si credeva che tornando non se lo sarebbe ripreso. E su questo posso pure capirlo, è così che funziona. Bill era roba sua, quindi è tornato e se l'è ripreso. Se poi Bushido voleva dire che con quello aveva chiuso, sta bene, uno può dire il cazzo che vuole, solo che quando dai aria alla bocca si vede, no? Quindi aveva senso che Fler non ci stesse proprio benissimo a tradirlo ma che non fosse neanche troppo contento di sapere che era una specie di ruota di scorta. Comunque poi Bill ha perso la brocca, si sono tutti persi di vista e io e Fler abbiamo avuto il nostro momento di gloria. Non è che ci siamo seduti e abbiamo deciso di avere una relazione, è successo che ce l'avevamo e basta, che poi è così che dovrebbe sempre andare. Quando le cose le decidi a tavolino, in pratica sono contratti ed è una cosa sfigata.
Allo stesso modo, mi sono praticamente trasferito da lui, ma non con l'intento di farlo; è stata una cosa un po' strana. Casa di Fler era il mio posto felice, mi seguite? Quello dove scappare quando casa mia era uno schifo – e casa mia lo è molto spesso – ma, come succede sempre quando ti trovi un posto del genere, uno in cui stai solo temporaneamente, dove non metti realmente radici, casa di Fler era anche un luogo che sembrava quasi impossibile, in cui avevo molte cose belle e nessuna responsabilità, forse anche perché lui non voleva darmele. Ed è assurdo pensare questo proprio adesso che sto da tutt'altra parte e forse è ancora più surreale, ma voglio andare con ordine perché ora che tocca a me parlare, voglio dire tutto quello che mi passa per la testa.
Questo stato di grazia è durato circa sei mesi, durante i quali io passavo i giorni feriali a casa mia, poi riempivo il mio vecchio zaino di qualche vestito e me ne andavo giusto un attimo prima che mio padre rientrasse e, siccome era già così ubriaco da non sapere nemmeno come si chiamasse, non si accorgeva che non c'ero, o anche se se ne accorgeva non c'era molto che potesse fare visto che non sapeva dov'ero e, quando tornavo, lui se n'era già andato. E' stato il periodo più felice della mia vita anche da un punto di vista fisico, ho passato mesi senza un livido, un record che non toccavo dalle elementari.
Ma niente dura in eterno, giusto? E soprattutto gli stronzi non si allontanano mai troppo, dunque un bel giorno è arrivata la disgrazia della mia esistenza, che non è mio padre ma Chakuza, il quale ha pensato bene di riprendersi ciò che credeva fosse suo (e non lo è!), e Fler invece di darmi il ben servito completo, ha pensto bene di diventare mia madre.
Ora che sono in questa situazione da qualche mese e che conosco Chakuza un po' meglio, improvvisamente capisco perché i ragazzini normali – quelli che hanno una famiglia, una madre che prepara per loro la colazione e un padre che gli dice di fare i compiti – passano metà della loro vita a sognare di vivere da soli per strada, è chiaro che le loro madri e i loro padri sono come questo nano qui. E allora sì che capisco perché pur avendo vestiti all'ultima moda, la playstation e tutti i cazzo di soldi che vogliono, questi sognano di scappare di casa e vivere sotto un ponte.
Come sono finito a vivere da Chakuza è una storia che a raccontarla non ci si crede, ma tendiamo a raccontarla poco perché, visto quello che implica, preferiamo non rischiare di finire nei guai. Tutto è cominciato dopo quello che è successo a mio padre. E, prima che continui, vorrei chiarire che io non vi dirò che mi dispiace, che non se lo meritava e che non avevo mai voluto che accadesse. Ho pianto perché era l'unica persona della mia famiglia che mi restava, ma visto quello che era, forse una famiglia così non l'ho mai voluta. Quindi al riguardo non dirò niente, così se poi cambiassi idea, se col tempo – come ti dicono in chiesa la domenica – s'impara a perdonare, allora forse non avrò parole di cui pentirmi, ma solo una persona da ricordare.
La notte in cui Fler è tornato a casa di Chakuza sporco di sangue, il tempo andava lentissimo. Ricordo che dopo averlo visto piangere ed essere tornato in salotto, le lancette dell'orologio non si muovevano più. Mi sono detto che ero libero, ma che siccome lo ero diventato in quel modo, la mattina non sarebbe mai arrivata e che sarebbe stata quella notte in eterno. Un pensiero un sacco idiota, però ne ero convinto. Fler ha rotto qualcosa, insieme alla testa di mio padre. Mi ci gioco la testa, mi dicevo, non può essere tutto così facile.
Il mattino è arrivato, però, e ad un certo punto è sembrato che il tempo volesse recuperare tutta quella parte di sé che s'era perso durante la notte. All'improvviso tutto ha ripreso a muoversi più veloce di prima.
Fler ha chiamato Bushido che si è messo in contatto con Ari, e quello nel giro della notte successiva ha ripulito casa mia. Non ho idea di cos'abbiano fatto con il corpo di mio padre, né dove lo abbiano portato. Ho solo chiesto che fosse seppellito in un posto vero, perché sapevo che mia madre non avrebbe mai voluto che finisse nel canale e, visto che visito la sua tomba ogni volta che posso, vorrei non dover mentire almeno a lei. Non c'era pericolo che qualcuno si accorgesse dell'assenza di mio padre visto che il palazzo in cui vivo è quasi disabitato e lui era quasi sempre sbronzo da qualche parte, ma era meglio che io non mi facessi vedere; avrei potuto stare da Fler ma lui ormai vive da Chakuza e non voleva lasciarmi da solo. Risultato? Mi ha portato a casa del nano.
Tra me e Chakuza c'è un odio profondo, generato principalmente dal fatto che lui è un cretino. Io lo odio come è giusto che faccia, dal momento che è inopportuno, noioso e portato a credere che Fler – una persona a cui lui non è degno nemmeno di legare le scarpe – sia di sua proprietà solo perché qualche anno fa, a causa di un qualche virus modificato, chiaramente derivante dal ceppo della meningite, Fler si è innamorato di lui. Chakuza, per questo motivo, dovrebbe dimostrare gratitudine al buon Dio, accendere candele nei tabernacoli della Madonna ed adorare tutti i Santi in colonna, invece di piombargli in casa una mattina a colazione, dopo sei mesi che non si vedevano, e chiedergli di uscire, come se ne avesse il potere, come se io non esistessi, come se il mondo girasse seguendo il potere nelle sue minuscole manine da gnomo della Terra di Mezzo. E invece lui in questo potere è così cretino da crederci, e per questo si permette di odiarmi, perché esisto, perché quando lui è arrivato non mi sono fatto da parte, stendendogli un tappeto rosso e dicendogli che il suo ritorno segnava certamente il mio abbandono per inadeguatezza.
Ho combattuto, ma era evidentemente una causa persa, e non perché lui sia meglio di me, ma solo perché Fler da questa meningite austriaca non si è mai ripreso. Così, quando Frodo è tornato da Monte Fato, lui non ci ha pensato due volte a scaricare me per tornare da lui.
Se devo essere onesto, Fler non ha fatto l'infame. Ha chiarito fin da subito con me come stavano le cose – d'altronde era impossibile non capirlo anche da solo, visto che il modo in cui l'intelligenza gli sparisce dagli occhi quando guarda Chakuza è inequivocabile, nonché indicativo dell'influenza negativa che quell'uomo ha su di lui – e riconosco che abbia cercato in tutti i modi di indorare la pillola, ma ad un certo punto anche vaffanculo. Mi capite? Per un certo periodo ho pensato che potevo anche chiuderla, in fondo non ci avevo mai sperato – forse sì, cominciavo a sperarci, ma solo poco – e potevo tornare da dove ero venuto. Avrei continuato per la mia strada e tanti saluti. L'ho fatto, naturalmente, non sono uno che si piange addosso io, ma poi mio padre ha perso la testa e ha cominciato a menarmi come e più di prima, forse per recuperare il tempo perso – e sono dovuto scappare, perché sono poche le cose che puoi fare quando tuo padre ti ha ammazzato di botte. Così sono tornato da Fler, lui si è incazzato, ha fatto quello di cui sopra ed ora eccomi qua a convivere con l'ottavo nano di Biancaneve.
Come vi dicevo, Chakuza è una piaga, una di quelle che ti fa venire voglia di essere solo al mondo, ma è anche subdolo perché non te ne accorgi finché non lo conosci abbastanza bene, e quando lo fai ormai è tardi sei finito. E' così che Fler dev'essere caduto, non c'è altra spiegazione.
Chakuza non sa parlare, è una di quelle persone capaci di dire la cosa sbagliata al momento sbagliato anche se, per dire, si sta parlando del tempo. Tifa le squadre sbagliate quando guardiamo le partite, non sa i nomi delle attrici più fighe, ride alle battute sfigate, è una tragedia su tutta la linea. Per questo motivo, quando deve interagire con qualcuno, prepara da mangiare. Quando Fler me lo raccontava, io non ci credevo, pensavo che fosse uno dei suoi trip mentali secondo i quali in realtà Chakuza è una bella persona e, aldilà dei suoi molteplici e non trascurabili difetti, è anche simpatico, poi però ho scoperto che è vero. Qualunque cosa succeda, di qualunque problema stiamo parlando, da due lividi su un fianco a mio padre con la testa spaccata, lui ti propone di mangiare. E quando tu accetti, sconvolto, si innesca un meccanismo per cui tu vuoi che continui a farlo, perché il tuo cervello percepisce questa sua azione come positiva. Chakuza + Cibo = bene. Io credo che cucini servendosi di un qualche tipo di droga sintetica inodore, incolore e insapore che provoca dipendenza e uno stato di assuefazione.
Ad ogni modo, quando lui vede che un certo corso di azioni funziona, continua a ripetere quelle stesse azioni all'infinito perché gli capita così di rado di fare la cosa giusta che non può permettersi di ignorare i risultati positivi quando ne ha. E' programmato secondo una serie di situazioni che lui sa di poter gestire, qualunque cosa non rientri all'interno di schemi che ha già provato, finirà per scatenare l'inferno.
E questo, già a raccontarlo, è assolutamente delirante ma viverci in mezzo è perfino peggio.
Ad esempio, quando Fler mi ha portato a vivere qui, ha anche preteso che andassi a scuola, che non saltassi un giorno e possibilmente che prendessi pure dei bei voti perché, parole sue, l'ultima cosa che vogliamo è che un qualche assistente sociale chiami mio padre e gli dica che a scuola sono un disastro, o che proprio nemmeno ci vado. Ho dovuto accettare, anche perché non avevo molte alternative, così adesso dormo sul divano di Chakuza. Ogni mattina mi sveglio incazzato perché non si può davvero dormire su un divano, in una casa senza il riscaldamento e dover pure andare a scuola; e quando l'unica cosa che vorrei è poter imprecare e dire che la mia vita fa schifo, lui è già in piedi. In cucina. Che prepara la colazione.
Posso svegliarmi a qualsiasi ora, lui è già lì, ha già apparecchiato la penisola, ha già fatto il caffè e dal forno arriva un profumo di brioche fatte a mano che fa commuovere. E io nemmeno sapevo che odore avessero le brioche fatte a mano prima che le facesse lui!
La prima volta che è successo mi sono fermato sulla porta della cucina in pigiama, senza sapere nemmeno come mi chiamavo e, vedendo tutto quel ben di Dio, mi sono chiesto se non stesse preparando qualcosa per Fler, un gesto davvero di cattivo gusto da fare proprio davanti ai miei occhi. Insomma, se vuoi portargli la colazione a letto e fare i fidanzatini, aspetta almeno che sia uscito di casa, cazzo. Altrimenti tanto vale che mi scopi davanti, cioè, non so se mi spiego. E invece quello si gira e mi fa un mezzo sorriso storto e mi dice “Siediti e mangia, la colazione è quasi pronta.” Io vi giuro che ero convinto volesse avvelenarmi.
Invece no. Giorno dopo giorno mi ha preparato la colazione e, come se questo non fosse contemporaneamente la cosa più assurda, più inquietante, ma anche più carina che qualcuno abbia mai fatto per me, adesso so che accanto alla porta, insieme allo zaino, posso stare sicuro di trovare anche una busta di carta con dentro un panino per pranzo. Un panino sempre diverso. E siccome non tenta di avvelenarmi, non mi costringe a mangiare, non mi rinfaccia che si sveglia alle sei per preparare tutto e che, per giunta, il cibo è anche delizioso, non posso odiarlo. Voglio dire, posso stare qui a dire che è un cretino, che non si merita Fler e che, invece di tornare, poteva rimanere in Austria tra le mucche – sono tutte cose vere – ma che si sia ripreso o meno Fler, io non sono mai stato un suo problema, quindi avrebbe potuto benissimo non accettare di tenermi qui, o magari farlo come favore a Fler, ma senza necessariamente dovermi spedire a scuola ogni mattina con lo stomaco pieno e la certezza che mangerò sia a pranzo che a cena. Nessuno gli ha chiesto niente, naturalmente, ma come ho già detto lui non se ne lamenta mai, e questo fa sì che io mi trovi nell'assurda posizione di non poterlo davvero odiare e di essere incazzato con lui per questo. Cazzo, è perfino simpatico a volte, sarà che la mattina la parte spostata del suo cervello ancora non è sveglia, non lo so, ma mentre facciamo colazione ci capita di parlare e non è poi così male. Tutto ciò dev'essere profondamente sbagliato per qualche motivo, anche se adesso mi sfugge quale.
E questo è solo un esempio, potrei citarne altri, come ad esempio il fatto che tende a farmi sempre le solite tre domande quando rietro da scuola: Com'è andata? Hai fame? Hai sentito Fler? Che in realtà significano: Scopriranno l'omicidio di tuo padre? Hai fame? Tu e Fler avete ricominciato a scopare?, dove la seconda domanda rimane uguale perché in effetti è proprio quello che gli interessa sapere.
Chakuza sa che questo modo di porre le domande è legittimo, perciò le ripete così come sono, ogni giorno. E lo fa con un tempismo talmente preciso che, rientrando proprio in questo istante, io posso fare questo.
Apro la porta – Fler mi ha fatto avere le chiavi – e ho tutto il tempo di posare lo zaino, togliermi il giubbotto e le scarpe, prima di richiudermela alle spalle e farmi sentire. Chakuza come al solito è in cucina e sta parlando da solo o con il cibo che prepara, non so bene. “Daniel, sei tu?” Chiama.
“No, sono il fantasma dei Natali passati,” rispondo, entrando in cucina per raziare il tavolo che lui avrà sicuramente già apparecchiato con gli antipasti. Allungo subito le mani sul prosciutto, sul pane e anche sui cubetti di un formaggio stranissimo che non avevo mai visto prima. E' buono però.
Chakuza gira il sugo, con il grembiule legato in vita e uno strofinaccio sulla spalla. Se ci penso è assurdo che la maggior parte delle immagini mentali che ho di quest'uomo lo ritraggano esattamente così; se invece penso a quando canta... io credo di non averlo mai visto.
Si volta e, constatato con soddisfazione che sto facendo onore alla sua tavola, sgrana un po' gli occhi e le sue sopracciglia formano due archi perfetti, segno inequivocabile che il programma si sta avviando e sta per essere attivato. Aspetto solo che apra bocca, prima di fermarlo. “La preside mi ha chiamato nel suo ufficio,” dico seriamente, guardandolo mentre m'infilo in bocca un pezzetto di formaggio. “Dice che non vede mio padre da un imbarazzante colloquio del primo anno e che è assolutamente necessario che si incontrino, per discutere dei miei straordinari miglioramenti degli ultimi giorni.”
Lo vedo sbiancare e deglutire in quella maniera così evidente che se non fosse il figlio dell'allevatore di mucche che è, ma il delinquente che dovrebbe essere visto come si atteggia, lo avrebbero ammazzato già da un sacco di tempo, perché quello che gli passa per la testa – quando è un pensiero intelligente – glielo si legge chiaramente anche in faccia.
“Io comunque ho una fame da lupi, perché non ho pranzato. Dopo scuola ho fatto un salto da Fler per... aiutarlo con alcune cosette e ho perso il senso del tempo,” continuo, distogliendo lo sguardo solo un istante per inzuppare le carote tagliate a striscioline nella ciotolina della salsa. Quando torno a guardarlo alzo le mani e lo guardo con aria innocente. “Tranquillo, non ho disturbato gli altri all'Ersguterjunge. Eravamo solo io e lui.”
Chakuza si pulisce le mani così lentamente su quello strofinaccio che credo il tempo prenderà a scorrere al contrario. “Sei stato agli studi?” Chiede, cercando di fare il vago.
Io rimango con la carota a mezza strada tra la ciotola e la bocca. Mi pulisco uno sbuffo di salsa con la lingua, guardandolo con aria tranquilla, come se non avessi detto niente di strano. “E indovina un po' cos'abbiamo fatto? D'altronde per quale motivo avrei fame, altrimenti? E in tutto questo, mi toccherà mangiare velocemente perché, ironia della sorte, scopriranno dell'omicidio di mio padre perché vado troppo bene a scuola.”
Lui si siede, sempre con la solita lentezza, e non so quale delle notizie lo stia sconvolgendo di più, perché è vero che è geloso di Fler, ma in questa casa è quello che convive peggio con l'idea dell'omicidio. “Stai dicendo sul serio?” Mi chiede cauto.
Io perdo un po' di tempo a spilluzzicare ancora qualcosa e a deglutirlo, prima di sorridere. “No, naturalmente,” lo liquido con una risatina. “A scuola tutto normale, non ho la più pallida di dove sia Fler e ho fame perché ho diciotto anni e punto al metro e novanta. Ora possiamo cenare?”
“Tu sei un piccolo stronzo,” replica lui, tirandomi lo strofinaccio in faccia mentre mi piego in due dal ridere e quasi mi strozzo con la verdura cruda. “Mi hai fatto venire un infarto.”
Riesce a borbottare per tutto il tragitto dalla tavola al frigorifero e dal frigorifero alla pentola dove riprende a rimestare come la brutta imitazione della strega pelata di Biancaneve. “Comunque no, non possiamo ancora cenare,” risponde, quando finalmente smette di lamentarsi di me. “Fler sta arrivando. Aspettiamo lui.”
La frase sembra innocua soltanto per un attimo, il tempo che ci mettiamo a renderci conto che io sono tornato da scuola, lui ha cucinato per noi e – mi vengono i brividi solo a pensarci – Fler oggi ha lavorato e stiamo aspettando soltanto che torni per mangiare.
Le parole rimangono sospese nell'aria sopra le nostre teste, esattamente come le implicazioni che hanno generato, rendendo l'aria quasi irrespirabile. Chakuza dà la colpa al vapore dell'acqua che ha messo sul fuoco e va di corsa ad aprire la finestra. Ci guardiamo in imbarazzo, poi lui scoppia a ridere e io pure.
E' la cosa più cretina che potessimo pensare.

*

In questi ultimi giorni, io e Fler abbiamo parlato. Un po’. Suppongo sia normale, nel senso che per tre-quattro giorni, dopo il fatto, io a lui non mi ci sono nemmeno avvicinato. Non so perché, non è che non gli fossi grato, non ero arrabbiato, avevo solo paura. Di cosa, non saprei dirlo. Forse delle cose che cambiavano. Sapete, quando odi qualcuno, quando lo odi da tanto, tanto tempo, quando quel qualcuno s’è imposto nella tua vita tanto a lungo da diventarne una costante, anche se ti fa schifo averlo intorno, il pensiero di non averlo più è terrificante. Non avere più mio padre significava per me un sacco di cose, un sacco di cambiamenti, e la prospettiva di doverli affrontare mi faceva paura. Così, quando Fler è tornato e io ho capito, è stato difficile riuscire a guardarlo in faccia. Gli dovevo molto, ma aveva anche appena gettato la mia vita nel caos. Non sapevo come affrontarlo, perciò è stato lui ad affrontare me, quando s’è stufato dei silenzi e dei saluti di circostanza, immagino.
Quella sera Chakuza non c’era, quindi suppongo che Fler gli abbia chiesto di levarsi dalle palle per un po’, perché quello, se non è obbligato, questa casa non la molla mica, manco fosse una reggia, e men che mai la mollerebbe sapendo di lasciarci soli con la possibilità di fare potenzialmente di tutto e scopare selvaggiamente su ogni superficie disponibile.
Comunque, quella sera lì era uscito, di sua iniziativa o su gentile richiesta non lo so e nemmeno mi interessa. Fatto sta che io stavo mangiucchiando un tramezzino al tonno davanti alla tv e a un certo punto sento il divano che sbuffa, mi volto e c’è Fler seduto accanto a me con l’espressione dei Momenti Seri sulla faccia. Sta tutto reclinato in avanti, i gomiti sulle ginocchia e le sopracciglia inarcate verso il basso in una posa apprensiva. Io mando giù quel che resta del tramezzino in un morso e sbuffo.
- Piantala di guardarmi in quel modo. – faccio, - Che ti prende?
Fler sospira, grattandosi nervosamente la nuca.
- Mi sono ricordato che fra poco fai diciott’anni. – mi dice. In quel momento me lo ricordo anch’io, ed è straniante. Uno pensa che il proprio compleanno non possa mai passarti inosservato, voglio dire, è del tuo compleanno che si parla, ovvio che ti ricordi quand’è, ma a me era proprio sfuggito di mente. L’ho guardato con due occhi enormi e il primo istinto è stato di rispondergli “no, ti sbagli, guarda che c’è ancora tempo”, ma la realtà era che non si sbagliava per niente, anzi, aveva proprio ragione, il mio compleanno sarebbe stato da lì a pochi giorni. Perciò, visto che non voglio rispondere perché mi sentirei ridicolo a farlo, resto in silenzio e lo ascolto. – Me lo sono ricordato quando sono entrato in casa tua. – mi fa, e io tremo. Non voglio che mi parli di questa cosa, ma da un lato so che non posso proprio risparmiarmelo, perciò cerco quantomeno di fare in modo che sia una cosa breve, ed annuisco, invitandolo a proseguire. – Voglio che tu sappia perché l’ho fatto. – mi dice, dopo un’esitazione minima. Io continuo a non rispondere e stavolta non mi muovo nemmeno. – Quando compi diciott’anni, - continua lui, serissimo, - diventi un uomo. E gli uomini sono liberi. Gli uomini sono liberi e nessuno… - esita ancora, abbassando lo sguardo, - nessuno ha il diritto di picchiarli.
- Neanche i bambini. – dico a quel punto, trattenendo il respiro. Sento tutto il sangue defluire dalla faccia e vedo nei suoi occhi che questo mio impallidire improvviso lo preoccupa. Il punto è che è una cosa che volevo dire da un sacco di tempo. Mi sarebbe piaciuto dirlo a mio padre. Che cazzo di diritto avevi di farlo?, che cazzo di diritto avevi? Ma non l’ho mai fatto.
Fler comunque annuisce, allungando una mano. Io la afferro con violenza, quasi volessi aggrapparmici.
- Neanche i bambini, ma quello non ho fatto in tempo ad evitarlo. – dice, - Ma per i diciott’anni dovevo. Non potevo permettere che andasse diversamente. Lo capisci questo? – mi chiede. E io lo capisco sì, solo che non riesco a parlare. Perciò mi limito ad annuire.
Da lì in poi le cose sono andate meglio. Ogni tanto succede che tu hai bisogno di sentirti dire qualcosa e non sai cosa, perciò non sai nemmeno dove andarla a cercare. Il più delle volte finisce che nessuno riesce a dirtela e tu dopo un po’ te la butti alle spalle – ma lo spazio vuoto, quello resta sempre – ma io sono stato fortunato. Il che è anche logico, perché voglio dire, con una vita come la mia uno dopo un po’ comincia anche a chiederselo quando comincerà a girare la fottuta ruota del karma. Che è una cosa che peraltro ho detto a Chakuza una sera che stavamo sbocconcellando pop corn guardando Orgoglio e Pregiudizio – lo sceneggiato della BBC, ovviamente, non quella cagata con la Knightley che, per inciso, non si può nemmeno guardare in faccia – e Fler ronfava tutto raggomitolato sulla sua poltrona. Quella sera Chakuza s’è messo a ridere e mi ha detto che per lui il karma è una cazzata che la gente si inventa per rassicurarsi sul fatto che anche se le cose vanno male prima o poi miglioreranno. Lui non è di quest’avviso. Lui crede solo nella sfiga. Però ha aggiunto che avrei dovuto discuterne con Jost, lui avrebbe saputo essermi di conforto in quel senso. Io l’ho mandato a cagare e Fler pure, così, nel dormiveglia.
Insomma, mi sono sentito bene. Sollevato. Una bella sensazione. Di quelle che puoi portarti dietro per giorni. E i giorni, fino al mio compleanno, sembrano volare veloci mentre mi rendo conto che probabilmente si tratterà del mio compleanno migliore da tanto, tanto tempo. Non avrò una vera e propria festa perché naturalmente non posso invitare qui i miei vecchi amici del ghetto, un po’ perché mi odiano ma un po’ anche perché io odio loro, e soprattutto perché li odia Fler che li conosce e anche Chakuza che invece non ha bisogno di conoscerli per odiarli lo stesso, e d’altronde un party a casa di Bushido circondato da rapper che per lo più mi stanno sul cazzo non era neanche proponibile, tanto più che pare che la principessa di casa mi odi perché ho osato mettere le mani sulla sua migliore amica allontanandola da quello che lei ritiene sia il partito più giusto per lei, cioè Chakuza, e minacciando così la serenità della sua corte, ma rispetto ai miei ultimi compleanni sarà comunque una gran cosa, anche se a festeggiare saremo solo io, Fler e Chakuza.
Quest’ultimo, peraltro, s’è svegliato stamattina stabilendo che mai e poi mai avrebbe permesso che in casa sua entrasse una torta di pasticceria, perciò mentre Fler è uscito per andare a fare non so bene cosa lui mi ha afferrato per la collottola e mi ha portato in giro per supermercati in cerca degli ingredienti adatti per la cena e il dolce. E quando dico supermercati non sto usando plurali a casaccio. Perché se lui entra in un supermercato e vede che non c’è la marmellata biologica senza zucchero di prugne Regina Claudia che cerca, non è che ripiega sul tipo di marmellata che gli assomiglia di più o su una seconda scelta qualsiasi, no!, lui quella vuole e quella avrà, quindi è capace di girarsi anche tre o quattro supermercati nel quartiere per trovarla, e se non la trova lì è perfettamente in grado di cambiare anche zona della città o spingersi verso qualche mega-centro commerciale in periferia, quando la situazione si fa proprio disperata.
In genere tutte queste cose le fa fortunatamente in mia assenza, ma visto che oggi è il mio compleanno gli è sembrato giusto farmi espiare il peccato di essere venuto al mondo torturandomi, perciò mi ha portato con sé, il che vuol dire che siamo usciti al mattino verso mezzogiorno e siamo rientrati alle sei del pomeriggio, che già di fuori faceva buio. Una roba insopportabile.
Al momento, lui è di là in cucina che cinguetta come un passero, incarnazione su due zampe tozze della felicità, mentre io sto seduto sul divano piegato in due sul tavolino basso che squadro con astio i compiti per domani chiedendomi a cosa serva compiere gli anni nel mezzo della settimana se questo non ti permette di risparmiarti i compiti. Non è una giustificazione sufficiente il fatto di diventare adulto? “Ieri non ho potuto finire gli esercizi di matematica, professore. Stavo diventando grande.” Suona bene, come giustificazione, ha perfino senso perché “diventare grande” sembra una cosa molto più complessa e impegnativa di “dovevo portare il cane a fare una passeggiata” o “l’attuale uomo del mio ex ha portato me a fare una passeggiata”. Però devo dire che anche quest’ultima suona bene. Mi sa che i libri li metto via e domani a Herr Ochsenknecht gli rifilo questo, come scusa. Se anche non dovesse crederci, non solo potrei giurare che è vero, ma potrei anche chiamare Chakuza ed obbligarlo a confermare la mia versione. Sì, è perfetto.
Mentre sono qui che ridacchio malignamente ignorando Chakuza che, dalla cucina, mi chiede quale sia la mia posizione politica e umana nei confronti degli sbuffi di panna decorativi e se possa ideologicamente accettare di vedere questi sbuffi decorati da Smarties quando invece sarebbe più ontologicamente corretto che fossero accompagnati da ciliegie, Fler rientra in casa, annunciandosi a gran voce.
- Buon compleanno! – mi saluta, tirandomi su di peso e stritolandomi mentre io mi dimeno come un’anguilla implorandolo di mollarmi prima di sferrargli un calcio involontario nelle palle. Lui mi mette giù ridendo, ed è la prima volta che lo vedo così di buonumore da giorni. – Chaku? – domanda con un gran sorriso. Io indico la cucina con il pollice.
- Tiene in ostaggio tre piani di pan di spagna e mezzo chilo di glassa al cioccolato. – rispondo, - Prigionieri politici, pare. Credo che abbiano già inviato un telegramma all’ambasciata di Dolcilandia per ricevere i primi aiuti e trovare un negoziatore disposto ad assumersi la responsabilità della trattativa.
Fler si mette a ridere ad alta voce, chinandosi a poggiare un tavolo una cartella beige, un colore tristissimo e spentissimo, senza niente scritto sopra. Io le lancio un’occhiata preoccupata, Fler se ne accorge e le lascia scivolare sopra un paio di riviste di cui una, mi accorgo, pornografica, ma risalente ad un’era geologica precedente in cui per fare la pornostar non era fondamentale essere completamente glabre.
Mi imbroncio. Non per la rivista, naturalmente, e non perché mi faccia fatica spostarla ed appropriarmi della cartella per sbirciare il suo contenuto, ma perché con questo gesto Fler mi ha chiaramente lasciato intendere che non vuole che metta le mani su ciò che c’è dentro. Il che vuol dire che o non sono affari miei, o sono affari miei ma vuole essere lui a parlarmene prima di lasciarmi vedere coi miei occhi. Ed è questa l’ipotesi che mi spaventa.
- Chaku, è pronta quella torta? – gli sento chiedere mentre si avvia verso la cucina. Io mi lascio ricadere sul divano e fisso la rivista porno, ma in realtà non sto fissando lei, sto fissando il punto sotto di lei che non posso vedere perché c’è lei posata sopra.
- Buonasera anche a te, eh. – sbuffa Chakuza, - Comunque sì. Portala di là mentre io recupero le candeline.
Fler ride e sento lo schiocco di un bacio seguito da quello più ovattato di un ceffone contro una spalla o qualcosa di simile, e poi ancora le risate di Fler, e i suoi passi, poco prima che la torta si posi come scendendo in volo sulla parte di tavolino che io non sono occupato a fissare.
- Danny, guarda che bella. – dice Fler. Io mugugno qualcosa ma non sposto gli occhi da lì, e lui sospira, rassegnato, mettendosi a sedere sulla poltrona.
- Prego, Daniel, - sbotta Chakuza, acido, apparendo accanto a me e cominciando a piantare candeline sulla sommità della torta con precisione quasi marziale, - è stata una fatica farla così bella in così poco tempo, ma non sentirti in dovere di— che razza di roba stai guardando?! – strilla oltraggiato, mandando all’aria la mezza dozzina di candeline che ancora tiene in mano ed allungandosi precipitosamente a sottrarre la rivista da sotto il mio sguardo. Io mi volto verso di lui, lo squadro, è paonazzo. Non ho idea del perché, ma mi sembra che il tempo, attorno a me, abbia preso a muoversi più lentamente.
Torno a guardare la cartellina, Chakuza non si è accorto che è quella che mi interessava, e non certo l’enorme paio di tette che campeggiava sulla copertina di quel suo giornalaccio da due soldi. Allungo un braccio, e mi sembra quasi di esserci, di poterla toccare, quando la mano di Fler si posa sulla copertina, impedendomi di afferrarla. Sollevo gli occhi su di lui, aggrottando le sopracciglia. Lui sorride pacifico, un po’ incerto, forse, ma allegro.
- …ok, che succede? – domanda Chakuza, sedendosi al mio fianco con uno sbuffo preoccupato.
Fler prende la cartellina fra le mani e se la appoggia in grembo, continuando a guardarmi per tutto il tempo. La apre e poi sfoglia i documenti che contiene, cercandone apparentemente uno in particolare.
- Dopo quello che è successo… - comincia vago, - è impensabile lasciarti andare in giro da solo. Tuo padre, pare, aveva un’assicurazione sulla vita, e—
- Non li voglio i suoi soldi di merda. – sillabo io, quasi offeso dal fatto che lui abbia potuto anche solo pensarlo. Preferirei andare a vivere per strada, in un cassonetto dell’immondizia, piuttosto che sopravvivere anche dignitosamente sapendo di stare usando i soldi di mio padre.
- Lo immaginavo, - sorride, - ma è comunque possibile che la compagnia assicurativa faccia qualche indagine. Che ti cerchino, ti trovino e ti facciano qualche domanda, e noi non vogliamo che questo accada. Ci stiamo muovendo perché questa cosa possa essere evitata, ma—
- Ci stiamo muovendo? – si intromette Chakuza, ora pallido come un cencio, - Chi si sta muovendo?
- Non lo conosci, Chaku. – taglia corto Fler, scacciando la sua curiosità con un cenno della mano, - Ed è meglio così. Oltretutto, questa cosa non ti riguarda.
- Mi riguarda eccome! – strilla lui, - Se non te ne sei accorto, è in questa casa che vive Daniel! Non in casa tua, non in casa di Bushido, né in casa di nessuno degli altri che, immagino, si stiano muovendo in questo momento, perciò—
- Non ho detto che Danny non è affar tuo. – lo interrompe Fler, duro, serissimo, la voce senza ferma e solida come un blocco di cemento, e ugualmente pesante. – Solo che non è affar tuo il modo in cui ci muoveremo per evitare che ci siano problemi. Non farmi altre domande al riguardo, Chaku, - aggiunge con un sospiro e un’espressione più morbida e conciliante, - sai che potrei risponderti solo con cose che ti farebbero arrabbiare. – conclude, provando a sorridere. Chakuza si rifugia in un angolo del divano, le braccia conserte sul petto, le sopracciglia aggrottate. Guarda altrove e chissà su quante cose sta rimuginando in quella sua testa senza un pelo. Io, invece, ne voglio sapere una soltanto.
- Cos’è che stai cercando di dirmi, Fler? – chiedo, guardandolo dritto negli occhi, e poi trattengo il respiro.
Lui si azzarda a sorridere appena, tornando a guardare me. Vedo i suoi occhi allontanarsi da Chakuza con riluttanza, e per la prima volta mi trovo a sperare che possano chiarire questa faccenda fra di loro, più tardi. Questi due litigano piuttosto spesso, e devo dire che per me è molto divertente starli a guardare mentre succede. Non so perché stavolta invece la rabbia di Chakuza e l’evidente tristezza di Fler mi turbino così profondamente, è la prima volta che accade.
- Ho pensato di fare le cose per bene. – dice quindi, tirando fuori un plico di fogli tenuto insieme da una graffetta e porgendomeli. È un tipo di documento che non ho mai visto prima in vita mia. Non che mi sia capitato spesso di avere roba burocratica per le mani, ma si vede lontano un miglio che questa è una di quelle cose che non si vedono spesso. E che, in questa circostanza, non si dovrebbe vedere affatto.
- Documenti per l’adozione… - annaspo, scorrendoli velocemente. Le lettere sembrano sciogliersi e mescolarsi, tanto che dopo un po’ sul foglio vedo solo indistinte macchie grigie. – Ma cosa…
- Naturalmente, - riprende Fler, stringendosi nelle spalle, - visto che sei maggiorenne, se sei d’accordo serviranno un po’ di firme. E… Chaku. – dice a bassa voce, voltandosi verso di lui. Lo trova che lui già lo guarda, occhi sbarrati, labbra dischiuse, cinereo, terrorizzato. – Tu non devi per forza essere coinvolto in questa cosa. – lo rassicura con un mezzo sorriso, - Non te ne ho parlato prima perché non sapevo se fosse possibile e non volevo illudere nessuno… o mandarti in paranoia senza un perché. Non sei obbligato, ma mi piacerebbe che tu… cioè, non avresti alcuna responsabilità legale, ovviamente, ma—
- Ho capito. – sillaba lui, a corto di fiato. Lo vedo che deglutisce due, tre, quattro volte, a vuoto, e poi annuisce. – Ho capito cosa intendi. – e poi si volta a guardarmi, solo per un attimo, come per rassicurarsi sulla bontà della propria decisione, prima di tornare a guardare Fler. – Va bene.
Io guardo prima l’uno e poi l’altro e non riesco a respirare. Continuo a vedere tutto sbiadito ma non mi sfiora neanche la possibilità di stare piangendo. Ho l’impressione che sia solo confusione mentale, e resto ancorato a quell’impressione finché non sento le lacrime scivolare sulle mie guance che scottano. Chakuza resta immobile, evidentemente ancora troppo pietrificato per provare a muoversi, e Fler si limita a chinarsi appena verso di me, appoggiandomi una mano sulla schiena curva ed accarezzandomi lentamente lungo la linea della colonna vertebrale. Sento la sua mano sobbalzare a tratti e capisco solo dopo che è perché sto singhiozzando così forte da scuotermi tutto.
- Perché? – chiedo dopo un po’, quando riesco a sciogliere la lingua abbastanza da mettere in fila le lettere. Fler sembra quasi sorpreso, dalla mia domanda. A me sembra così legittima, invece. Mi sembra tutto così assurdo, mi sembra così impensabile che qualcuno possa volersi far carico di un soggetto come me, soprattutto quando rappresento qualcosa di molto più problematico di un semplice ragazzino solitario. Nel momento in cui io sono un ex amante, sono un ex criminale, sono il figlio dell’uomo che hai ucciso, sono la ragione per la quale quell’uomo è stato ucciso, perché? È l’unica domanda che mi rimbomba nella testa, e la ripeto in un sussurro quando Fler pare così preso alla sprovvista da non sapere nemmeno cosa rispondermi.
Lui e Chakuza si lanciano un’occhiata breve ma intensa, e quando lo vedo tornare a posarmi gli occhi addosso sento che per l’ansia e la paura di sentirmi dire qualcosa di spiacevole potrebbe esplodermi il cuore.
- Ma come perché? – dice invece lui, stringendosi nelle spalle con aria quasi remissiva, - Perché ti vogliamo bene.
E io non so perché mi metto a piangere ancora più forte. Dovrei smettere, e invece ho solo voglia di piangere ancora e ancora e ancora. Perché? Perché ti vogliamo bene.
È la risposta più ovvia del mondo, ma io non ero nemmeno riuscito a concepirla. Spero che Fler e Chakuza possano insegnarmi a darla per scontata, da oggi in poi.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Fler/Chakuza, OMC/Fler.
Rating: NC-17
AVVISI: Angst, Violence, Death, Slash, OC.
- "Ma ho qui davanti un ragazzino di una fragilità impossibile, che poi è la cosa che ho capito e che accomuna lui e Fler. Possono essere incredibilmente forti, hanno entrambi corazze infrangibili che sanno usare bene, ma scavalcando quelle, il loro nucleo è rimasto morbido e vulnerabile. Solo a scorgerlo ti metti paura per quello che potresti fare toccandolo male."
Note: Prosegue con questa shot la serie di spin-off dedicata al Flerkuza e ai suoi derivati XD Preparatevi a capire cosa avesse in mente Fler quando parlava di prendersi cura di Danny. Portate con voi i sacchetti antipanico degli aerei. Anche per vomitarci dentro, nel caso.
A parte questo, un breve avviso: con questa storia, la nutrita cantina che avevamo riempito di storie già scritte mesi o settimane fa si esaurisce, motivo per il quale è probabile che dalla settimana prossima in poi gli aggiornamenti subiscano qualche ritardo :) Sappiamo che saprete perdonarci.
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THERE WON’T BE A DRY EYE IN THE HOUSE TONIGHT

Io ho la testa nascosta dentro il frigorifero, quando accade. Non ho neanche tempo di capirne un accidenti, in realtà, perché sto raschiando il fondo dei cassetti e dei ripiani per cercare qualcosa di commestibile da preparare per cena. Qualcosa che non sia riuscito ad evolversi fino allo stadio anfibio, almeno. Ci sono delle olive, in un barattolo. Cerco di ricordarmi se ho anche del sugo in bottiglia per fare po’ di pasta, ma poi guardo meglio le olive e sono quasi certo di vedere degli occhi, da qualche parte, perciò lascio perdere. Accanto a me, c’è la presenza costante di Daniel, che si aggira nei pressi della mia persona infastidendomi e giudicandomi. Ha le braccia incrociate sul petto, una delle quali ancora bendata e appesa al collo, in quanto slogata, e mi guarda con evidente pietà.
- Non c’è proprio niente, qua dentro, eh? – chiede disgustato, - Non so se hai presente che vita facevo io a casa mia, ma almeno il cibo non mancava mai.
- Adesso trovo qualcosa. – borbotto io, alzandomi in piedi e chiudendo lo sportello del frigorifero, che tanto è evidente che non ci troverò nulla. – Sto solo cercando nel posto sbagliato.
- Quale posto più sbagliato del frigorifero per cercare del cibo commestibile, d’altronde. – rotea gli occhi lui, seguendomi mentre mi sposto verso gli stipetti sopra il piano cottura e comincio ad aprirli tutti insieme, per poterne avere un quadro generale completo.
- Non tutta la roba da mangiare deve stare per forza conservata a quattro gradi centigradi. – gli faccio notare, aggrottando le sopracciglia. Scatolette di tonno! Ecco come vincerò questa battaglia. Mi sollevo sulle punte dei piedi per raggiungere le tre confezioni di tonno sott’olio stipate sull’ultimo ripiano in alto, pensando trionfante che, se il sugo al quale pensavo prima c’è davvero, nascosto da qualche parte in questa cucina, farò una pasta col tonno talmente buona che questo ragazzino impertinente piangerà di gioia, scusandosi per essere stato una piaga ed asservendosi al mio volere finché vivrà, acconsentendo a farsi buttare fuori da casa mia per non farsi mai più rivedere.
Stringo le scatolette fra le mani e rigiro la confezione per pura formalità. Non dovrebbe essere scaduto.
…e invece lo è.
Sento fisicamente il sopracciglio di Daniel inarcarsi sulla sua fronte, produce quasi un suono percettibile, come di unghie su una lavagna.
- Vedo che anche quelli conservati a temperatura ambiente non fanno una gran vita, da queste parti. – commenta, sporgendosi appena per prendere nota della scadenza che indica una data oggettivamente troppo lontana nel tempo per poter essere mascherata con un blando “va be’, tanto è ancora buono”.
- Senti, se tutto quello che intendi fare è girarmi intorno come un avvoltoio senza darmi neanche una mano d’aiuto, tornatene a poltrire sul divano! – sbotto offeso, lanciandogli un’occhiata infastidita. Dove diavolo è Fler quando mi serve? Perché non torna a casa e trascina questa piaga sociale a prendere un gelato o a sparare ai piccioni con una fionda o qualsiasi cosa facciano per divertirsi quando stanno insieme senza dover necessariamente spogliarsi nudi?
- Ti aiuterei anche, - sospira Daniel, inarcando le sopracciglia in quella che pare davvero un’espressione contrita e amareggiata, al punto che io spalanco gli occhi e lo fisso e mi sento perfino in colpa. Io. In colpa. Parliamone. – Ma purtroppo con questo braccio qui… - sospira ancora, indicando il braccino infermo con un breve gesto del capo.
Mi gratto nervosamente la nuca, distogliendo lo sguardo. Dannato ragazzino.
- Io—
- No, a ben pensarci – m’interrompe lui, arricciando le labbra in una smorfia riflessiva, - non ti aiuterei neanche se avessi il braccio sano, è vero. Preferisco romperti le palle girandoti intorno come un avvoltoio, sì.
- …Daniel! – tuono, mentre lui mi fissa inespressivo e tira fuori la lingua con aria saputa. Non ho il tempo di dirgli niente, o anche solo di organizzare ciò che vorrei dirgli, perché sento la chiave girare nella toppa e questo mi riporta improvvisamente alla realtà. Fler è tornato. – Alla buon’ora! – sbraito, le mani sui fianchi, - Ma si può sapere dov’eri finito?
Per un secondo gli occhi di Fler sono persi e confusi. È come se, fino ad un momento prima di arrivare, fosse preso da ben altri pensieri, molto più gravi e seri, e trovarsi di fronte me che legittimamente mi lagno delle pene che sto patendo fosse una possibilità che lui non aveva nemmeno preso in considerazione, perché troppo impegnato a pianificare chissà cos’altro. È una luce diversa che gli illumina gli occhi e getta ombre scure e misteriose sul resto del suo viso e sulla sua espressione, ma dura solo un attimo. Lo osservo sorridere ironicamente, mentre posa le chiavi sulla consolle e si chiude la porta alle spalle.
- Forse non te lo ricordi, ma io non vivo qui. – mi fa presente, - Per cui queste tue proteste mi sembrano decisamente fuori luogo.
- Fuori luogo, sì. – concordo aggrottando le sopracciglia, - Esattamente come la presenza del tuo amante in casa mia. Mi spieghi perché deve vivere qui?
- Guarda che sono a due centimetri da te e non sono il suo amante. – mi ricorda Daniel, incrociando nuovamente le braccia sul petto da qualche parte alla mia sinistra. – Anche se posso diventarlo, se proprio ci tieni.
- Preferiresti che vivesse nel mio appartamento e potessi sgattaiolare lì ogni volta che voglio per incontrarlo di nascosto mentre tu non guardi? – mi chiede Fler, lanciandomi un’occhiata divertita.
- Io preferirei! – ammette Daniel, sollevando il braccio sano con enfasi.
- Tu resti qui. – ringhio io, allungandomi a recuperare il cucchiaio di legno sul tavolo e tirandogli una cucchiaiata sulla testa.
- Ahi! – si lagna lui, massaggiando il punto dolente e perdendo una mano in quella enorme matassa di capelli biondi che continua a crescere inesorabilmente in sfregio palese alla mia persona, - Potrei denunciarti per maltrattamenti, sai? – mi minaccia, facendomi un’altra linguaccia. Io roteo gli occhi, lasciandolo perdere, e torno a cercare Fler con lo sguardo, ma lui è sparito.
- Fler? – lo chiamo, aggirando l’isola ed incamminandomi per il corridoio, raggiungendolo in camera da letto ed osservandolo infilarsi velocemente una maglietta pulita e la giacca subito sopra, - Che diamine stai facendo?
Lui sistema il colletto della giacca, distogliendo lo sguardo.
- Siete a posto qui, no? – chiede, ignorando platealmente la mia domanda, - Non vi serve niente?
- …no, non ci— Fler, che succede? – gli chiedo con insistenza, avvicinandomi di un passo. Lui forza un sorriso, tornando finalmente a guardarmi negli occhi.
- Ho un affare da sbrigare. – dice, prima di aggirarmi ed imboccare il corridoio.
- Fler! – lo inseguo io, fermandomi subito quando vado quasi a sbattergli contro, - Ma che diamine…? – borbotto, sporgendomi a guardare oltre il suo corpo. C’è Daniel, immobile davanti a lui, che lo guarda con curiosità evidente.
- Dove vai? – gli chiede. Fler non risponde subito.
- Ho un affare da sbrigare. – ripete poi, reggendo il suo sguardo. L’espressione tranquilla di Daniel resta tale ancora per qualche secondo, prima di incrinarsi all’improvviso.
- No. – dice a fatica, muovendo un passo verso di lui, - Fler—
Ma lui non lo ascolta, evitando il suo corpo e dirigendosi speditamente verso la porta. Io li guardo e non capisco niente. Guardo gli occhi di Fler, due macchie azzurre perfettamente serene, tranquille, concentrate, perse nel mare scomposto dei suoi lineamenti contratti e preoccupati. E non ci capisco niente.
- Farò tardi, stanotte. – dice, la sua voce è lontanissima. – Non aspettatemi svegli.
Scompare oltre la porta il minuto successivo, e io non ho ancora idea di cosa sia successo.
- Che…? – azzardo, lanciando un’occhiata incerta a Daniel. Lui si volta a guardarmi, smettendo finalmente di fissare la porta chiusa con l’espressione di uno che sta aspettando di scoppiare a piangere da un momento all’altro. Stringe le labbra e trattiene il respiro, e quando sembra che stia per dirmi qualcosa, invece non mi dice niente.
- No. – balbetta incerto, prima di andare a rinchiudersi nella prima stanza disponibile. Che poi è anche l’unica. Camera mia.
Si fa vivo solo verso ora di cena. Io esco a far la spesa nel primo pomeriggio e poi passo non so quanto tempo dietro ai fornelli, mi distraggo come posso, cucino per un esercito, e quando lui esce dalla stanza, tutto stropicciato e teso e con gli occhi talmente rossi che, se non sapessi che ha pianto, gli ordinerei un test antidroga immediatamente, entra in cucina strascicando i piedi e grattandosi la testa e si ferma sulla soglia, osservando lo spettacolo dell’isola apparecchiata e piena di cibo mentre io mi ci agito intorno, sistemando ogni cosa con maniacalità quasi patologica.
- Ehi. – gli sorrido nervosamente, - Ti sei svegliato. Ho preparato qualcosina da mangiare.
- …noto. – commenta lui, la voce impastata e un po’ rauca. – Non si è fatto sentire, vero? – domanda timorosamente, rifiutandosi di incontrare il mio sguardo.
- No. – rispondo io, scostando uno sgabello e battendo un paio di volte il palmo della mano contro la seduta, per invitarlo ad accomodarsi. Vorrei chiedergli se sa davvero dove Fler sia andato, o cosa sia andato a fare, ma è evidente che Daniel non vuole parlarne, e forse, se è una cosa di cui Daniel non vuole parlare, ci sono alte probabilità che sia anche una cosa che io non voglio sentire. Per questo motivo, cerco di sorridergli e mi seggo sullo sgabello al suo fianco. – Non pensarci, ora. – scuoto il capo, sollevando l’insalatiera e servendogli una consistente porzione di broccoletti lessi, - mangia la tua cena. Quelli per Fler li ho già messi da parte, mangerà quando sarà tornato.
Lui osserva la verdura con aria allucinata, punzecchiandola con la forchetta per qualche secondo prima di decidersi a lasciarla stare e tornare a guardare me.
- Chakuza, tu mi odi molto? – chiede quindi, ed a me va un broccoletto di traverso. Strabuzzo gli occhi, tossisco con forza, mando giù un’abbondante sorsata d’acqua e mi pulisco col tovagliolo, prima di schiarirmi la voce e ricambiare la sua occhiata serena con una colma di sconcerto.
- Come, scusa? – chiedo a mia volta, inarcando le sopracciglia, - Guarda che i broccoli ti fanno bene. Tu sei troppo magro per quanto sei alto, non è che sto cercando di avvelenarti. – borbotto risentito. Lui ride, e la sua risata è completamente diversa da quelle che gli ho sempre sentito addosso quando si trattava di ridere di me. È una risata dimessa, un po’ triste. Mi stringe il cuore, credo, se questo senso di colpa assolutamente immotivato che mi prende quando lo vedo meno che contento può essere paragonato a un’espressione simile. Il mio rapporto con Daniel, in questo senso, è un po’ confuso. Mi arrabbio quando è felice, perché il più delle volte lo è solo quando può stare appiccicato a Fler. Ma sono triste quando non lo è, perché il più delle volte non lo è solo quando deve stargli lontano.
- Non sto parlando dei broccoli. – si stringe nelle spalle, seguendo con la punta di un dito i disegni quadrettati della tovaglia, - Stavo solo pensando che… non lo so. – ride ancora, cambiando lievemente posizione come se stesse scomodo, - Posso riuscire a capire perché Fler mi tiene ancora con sé. Ma tu? Tu dovresti odiarmi. Credo.
Mando giù ancora un po’ d’acqua, inspirando profondamente.
- L’odio è un sentimento enorme, Daniel. – gli spiego, - Troppo enorme, e troppo sporco, ingestibile. Odiare qualcuno ti porta via pezzi di te stesso, pezzi che cedi alla rabbia, al risentimento, all’invidia, al desiderio di vendetta e chissà cos’altro. – sospiro, scrollando le spalle, - Io non ragiono in questi termini. Tutto sommato, io ho una bella vita. Sono un uomo felice. Sono stato triste, in passato, ed ho provato del risentimento verso qualcuno, ma non ho mai lasciato che questi cattivi sentimenti prendessero il controllo su di me e si trasformassero in odio. L’odio non ti porta da nessuna parte, se non ad altro odio. Non è un modo saggio di vivere la propria vita. Chiunque possa dire di essere felice, difficilmente può odiare. O almeno così penso io. – concludo distogliendo lo sguardo.
Daniel annuisce lentamente, gli occhi azzurri persi su qualcosa che non riesco a identificare. Sono così simili a quelli di Fler… non solo per il colore. È qualcosa di più intimo, di più profondo. E forse capisco cos’è quando Daniel schiude le labbra e parla, poco dopo.
- Io non devo essere granché felice, allora. – dice piano, - Perché odio mio padre. Lo odio così tanto che ho sognato non so quante volte di trovarmi da solo con lui immobilizzato da qualche parte, per poterlo prendere a pugni e calci fino a lasciargli addosso gli stessi segni che lui ha lasciato a me. E allo stesso tempo… - lascia andare un sospiro che è quasi un gemito, mentre appoggia entrambi i gomiti al tavolo, come non riuscisse più a reggersi dritto sullo sgabello con le sue sole forze, - Allo stesso tempo penso che anche mio padre non dev’essere granché felice, se odia se stesso al punto da farsi ciò che si fa, ed odia me al punto da picchiarmi da prima di quanto riesca a ricordare.
Intreccio le dita sul tavolo, inumidendomi le labbra mentre cerco le parole migliori per continuare. Che è una cosa che io non faccio mai, voglio dire, io che cerco di filtrare i pensieri e non mi butto subito sul primo che mi passa per la mente per esprimerlo esattamente com’è stato formulato negli anfratti oscuri del mio cervello? Sono così fuori dal personaggio che quasi mi denuncerei da solo. Ma ho qui davanti un ragazzino di una fragilità impossibile, che poi è la cosa che ho capito e che accomuna lui e Fler. Possono essere incredibilmente forti, hanno entrambi corazze infrangibili che sanno usare bene, ma scavalcando quelle, il loro nucleo è rimasto morbido e vulnerabile. Solo a scorgerlo ti metti paura per quello che potresti fare toccandolo male.
- Io credo che sia Tempelhof. – dico a bassa voce, annuendo con convinzione, - Avvelena le persone. Pensa a me, ci ho messo piede due ore e quasi ne uscivo con più buchi di una forma di groviera! – sdrammatizzo scrollando le spalle e gesticolando, e pregando Dio che me la mandi buona, e lui fortunatamente lo fa, perché Daniel lascia andare una mezza risata un attimino più sentita di tutte quelle che ha fatto da quando ci siamo seduti qua a discutere di vita, morte e botte nel ghetto, tutte cose di cui assolutamente non mi va di parlare nemmeno quando sono tranquillo e sereno, figurarsi quando ho un uomo disperso nella notte di Berlino e non so neppure se tornerà a casa tutto intero, e io posso tirare un sospiro di sollievo.
- Può darsi. – conclude, alzandosi in piedi, - In ogni caso, dubito che avrà importanza, da ora in poi. – aggiunge in un mezzo sussurro, e poi torna a sorridermi, sollevando lo sguardo su di me. – Senti, non ho molta fame, - confessa stentatamente, - però questi broccoletti vorrei mangiarli, domani. Me li conservi?
Annuisco, alzandomi a mia volta e svuotando entrambi i nostri piatti ancora praticamente pieni nell’insalatiera. I broccoletti che avevo distribuito tornano a fare compagnia ai loro fratelli mentre Daniel esce dalla cucina e scompare dalla mia vista. Io ripongo tutto in frigo e penso che, quando Fler sarà tornato a casa, lo ingozzerò al punto da impedirgli di avere fame per tutto il resto della settimana. Così, solo perché posso.
Quando finisco di rassettare, vado verso il divano convinto di trovarci sopra Daniel che guarda la tv, e sono così ben disposto nei suoi confronti che faccio per chiedergli se non lo vuole lui, il letto, magari solo per stanotte. Ma non faccio in tempo, perché lo trovo che già dorme profondamente, steso per lungo sul divano e coi piedi che penzolano oltre il bracciolo, sfiorando quello della poltrona lì accanto. Sorrido appena, tornando in cucina e stabilendo di far passare un po’ il tempo lavando i piatti e sistemando roba che non avrei mai pensato di mettermi a sistemare in una situazione normale, tipo le confezioni di cibo in scatola negli stipetti, o la collezione di spezie sulla mensola sopra il piano cottura.
Finisco che la mezzanotte è già passata da un pezzo, ma di Fler ancora non c’è traccia. Sospiro e recupero il cellulare, provo a chiamarlo e sento squillare la suoneria da qualche parte in camera da letto. È così raro che Fler non porti con sé il telefono che inizialmente faccio fatica a credere a ciò che sentono le mie orecchie. Vado fino in camera e vedo il cellulare che squilla e vibra leggermente sul comodino, e solo allora, di fronte alla prova visiva, mi rassegno, e chiudo la chiamata. Mi lascio andare seduto sul letto, chiedendomi cosa dovrei fare. Quando sono sparito io, Fler ha quasi rivoltato la città per ritrovarmi. Ma io non sarei capace di farlo, perciò mi limito ad aspettarlo. Mi stendo sul letto, dal suo lato, che è una cosa che non faccio quasi mai, ma oggi sì. Oggi anche un po’ chi se ne frega delle cose che non faccio quasi mai.
Mi accorgo di essermi addormentato solo quando mi sveglio, non so quante ore dopo. La notte è ancora buia fuori dalla finestra, ma vedo il profilo di Fler seduto sul bordo del letto. Mi dà le spalle ed è curvo e silenzioso come non l’ho mai visto. Sembra abbattuto, ed è una cosa che mi stringe il cuore.
- Fler…? – lo chiamo, la voce impastata dal sonno, mentre mi sollevo sui gomiti. Lui non si muove, e in realtà non dà neanche l’impressione di avermi sentito. Resta lì, immobile come una statua di sale. Lo sento respirare, ma è un soffio lievissimo, che non ha la minima ripercussione sul suo corpo. Non gli gonfia il petto, non gli scuote le spalle, mi chiedo se sia sufficiente da tenerlo in vita.
Mi raddrizzo meglio e striscio sul materasso fino a lui, sporgendomi oltre la linea curva delle sue spalle per lanciargli un’occhiata allarmata. C’è qualcosa di strano nella sua figura, forse nei suoi abiti, ma è buio e non riesco a vederlo bene.
- Fler? – lo chiamo ancora, più decisamente. Lui continua a non muoversi, guarda fisso di fronte a sé. Il suo profilo, nel buio, cambia forma solo per un secondo, quando si inumidisce le labbra. Le accarezza con la lingua in un gesto sbrigativo, che si esaurisce subito dopo quando la ritrae, con tanta velocità da dare l’impressione di essersi lasciato impressionare dal suo stesso sapore, per quanto questa cosa possa suonare assurda. – Non ti va di parlare? – domando. Lui naturalmente non risponde. Io sospiro. Sono arrabbiato, mi dà fastidio che continui a restare in silenzio anche se è evidente che sono preoccupato e mi basterebbe una sua mezza parola per tranquillizzarmi e tornare a dormire sereno, ma decido di non lasciarmi sopraffare dalla rabbia, e scrollo le spalle. – D’accordo, - annuisco, - va bene se non ti va di parlare. Almeno vieni a letto e riposati. Non so che ore sono ma dev’essere tardi. – suggerisco, e nello stesso momento torno a strisciare verso l’altra metà del letto, che poi è sempre la sua ma per stanotte ho deciso che è mia, che lui dorma al mio fianco o no.
È in quel momento che lui si muove. Il suo braccio si allunga lentamente nell’oscurità della stanza, ombra nera profondissima sullo sfondo dell’ombra appena più chiara della parete di fronte, illuminata fiocamente dalla luce azzurrognola della notte, e le sue dita si chiudono attorno all’interruttore dell’abat-jour, accendendolo. La stanza viene investita dalla luce gialla e calda della lampadina, e così il suo corpo. Un corpo a chiazze, come quello di un dalmata. Solo che le macchie che lo ricoprono sono rosse e scure e dense come sangue. Sono sangue.
- Fler! – lo chiamo, tornandogli vicino e mettendogli subito le mani addosso. Getto le gambe giù dal letto e, seduto sulla sponda accanto a lui, lo giro e lo rigiro per controllare da dove venga tutto quel sangue. La sua espressione, però, non sembra addolorata. O meglio, lo sembra, ma non come se fosse ferito. Il dolore nei suoi occhi è di quelli sfuggenti che non lasciano cicatrici visibili sulla pelle. Su di lui, ormai sono abituato a riconoscerlo. – Fler, cos’è successo?
- Non è mio. – dice lui. Sono le prime parole che gli sfuggono alle labbra da quando ho riaperto gli occhi. Escono fuori ruvide, incerte, mi sembra di vederle muoversi a tentoni, infastidite dalla luce, per correre a rifugiarsi nei coni d’ombra degli angoli della stanza. – Il sangue. – precisa dopo aver brevemente tirato su col naso, - Non è mio.
- Hai fatto a botte? – domando aggrottando le sopracciglia. Lui abbassa lo sguardo sulle sue mani. Sono abbandonate in grembo, sporche di sangue incrostato.
- Sono entrato in casa sua. – mi dice, e io mi paralizzo. Mi si ghiaccia l’aria nei polmoni, il sangue nelle vene, la saliva sulla lingua. Lo fisso con orrore e vorrei trovare abbastanza voce per dirgli che non voglio saperne niente, ma resto in silenzio. – Lui dormiva. – prosegue, - Era talmente ubriaco che non si era accorto di avere vomitato, nel sonno, o se se n’era accorto se n’era fregato, ed era rimasto lì immerso nel suo vomito a dormire e russare. Non puoi immaginarti lo schifo di doverlo toccare, Chaku.
- Fler—
- Sono sceso di sotto e sono andato in cucina, - continua lui, come se non mi avesse sentito, - e ho cercato un bicchiere pulito. L’ho cercato a lungo, - ride amaramente, - ma alla fine l’ho trovato, e l’ho riempito d’acqua. Allora sono tornato di sopra, in camera da letto. L’ho afferrato e l’ho ribaltato sul materasso, supino. E poi gli ho gettato l’acqua in faccia perché volevo che fosse cosciente, Chaku. Capito? Volevo che fosse sveglio e che sapesse quello che gli stava succedendo.
- …Fler, - deglutisco a fatica io, togliendogli le mani di dosso e lasciandomele ricadere inerti in grembo, - di chi stai parlando?
Lui mi guarda a lungo, e alla fine decide di non rispondermi. Non so se lo faccia perché vuole proteggermi o perché ritiene la domanda così stupida, e la risposta così ovvia, da non doverla nemmeno prendere in considerazione. Fatto sta che non dice niente, ma in qualche modo, in quel momento, nella luce grave dei suoi occhi io ritrovo il silenzio triste e spaurito di Daniel, e tutto prende senso.
- Si è svegliato con un grugnito animalesco. – riprende, tornando ad abbassare lo sguardo, - E io mi sono detto “questo non è un uomo, questo è una bestia”. Non so perché l’ho pensato, forse perché così era più facile. – scrolla le spalle, - Gli ho stretto le mani intorno al collo, ma volevo solo tramortirlo e fargli paura. Non volevo ammazzarlo in quel modo, sarebbe stato gentile. Lo sai cosa ti succede quando soffochi? – si volta a guardarmi, i suoi occhi traboccano di qualcosa di tenero e infantile che mi dà i brividi. – È dolce, - spiega a bassa voce, - l’aria si esaurisce poco a poco ed è come addormentarsi, in un certo senso. Certo, naturalmente è più violento, - dice, lasciandosi sfuggire una mezza risata nervosa che stride fastidiosamente nel silenzio della stanza, spezzato solo dalla sua voce, - però è tranquillo. Otello, ce l’hai presente Otello? Io non ho studiato granché, a scuola, ma mia madre adorava Shakespeare, da piccolo me ne riempiva le orecchie. Ecco, Otello, quando fa fuori Desdemona, la soffoca. Perché la ama, e sa che così soffrirà meno che con un coltello in pancia. – sorride appena, in uno sbuffo di fiato esausto. – Io non volevo che fosse dolce. Volevo che facesse male.
Deglutisco ancora, e poi un’altra volta quando mi rendo conto che il blocco che sento all’altezza della gola semplicemente non viene giù. Mi rassegno, passandomi una mano sugli occhi, e quando parlo ancora è solo per dire quello che avrei dovuto dire fin dall’inizio, la domanda che Fler sta aspettando da quando mi sono svegliato, quella alla quale continua a rispondere senza che io l’abbia ancora posta, ma che lui vuole comunque sentirsi dire.
- Fler, che hai fatto? – chiedo a bassa voce, un sussurro appena udibile. Fler mi riversa addosso una cascata di parole senza freno, e suppongo che non gli importasse nemmeno di sentire la mia voce pronunciare quelle parole, voleva semplicemente sapere che avevo capito bene cosa mi stava raccontando, perché finché fingevo di non averne idea lui semplicemente non poteva dirmi tutto.
- L’ho tenuto in piedi, era pesante ma sembrava leggerissimo. Mi guardava ed era spaventato, così spaventato. L’ho picchiato per ore, non lo so… per giorni. – faccio per dirgli che è stato via molto meno di una giornata, ma lui riprende subito a parlare. – Era irriconoscibile appena ho finito, una maschera di sangue. L’ho lasciato cadere a terra quando ha perso i sensi, ma ho continuato a pestarlo anche se non reagiva più, non solo non cercava di difendersi, ma non riusciva nemmeno a gemere di dolore, che ne so, darmi un segno di vita. Me ne sono fregato. Mi sono messo dritto e l’ho guardato, gli ho sputato in faccia e poi gli ho schiacciato la testa sotto il piede. – si interrompe e spalanca gli occhi, fissando la parete mentre io, rigido come un blocco di marmo, fatico a tenere a freno i conati. Ha usato un’espressione che con gli esseri umani non ha niente a che fare. Tu schiacci gli scarafaggi, i ragni, le formiche, i topi al massimo. Non le persone. – Gli ho schiacciato la testa. – ripete, sottolineando l’espressione. Ho pestato e pestato e pestato finché non ho sentito che si rompeva e la scarpa affondava nel— Cristo. – si piega su se stesso, nascondendo il volto fra le mani, e io sono così paralizzato che ho paura di muovermi, perché sono teso e potrei anche andare in pezzi, ma quando lo vedo incurvarsi in quel modo mi sporgo verso di lui, perdo l’equilibrio, gli cado addosso ma in qualche modo riesco a tenermi su, lo stringo e lo sento sciogliersi in una marea di singhiozzi fra le mie braccia, mentre piange e si lamenta come un bambino e trema come una foglia e io non so, non ho minimamente idea di come dovrei risolvere questa situazione.
- Che cosa pensi di fare? – chiedo dondolandolo un po’, e lui, fra le lacrime, si lascia sfuggire una risatina isterica.
- Non ne ho idea. – risponde, stringendosi nelle spalle, - Non è che il bastardo mancherà a qualcuno, perciò non credo di correre rischi… - spiega, mentre io mi sento ghiacciare di nuovo il sangue nelle vene, - però dovrò fare pulizia. – sospira, - Non lo so, domani chiamerò Sonny e vedremo cosa— - si interrompe all’improvviso, scuotendo il capo, - Chiamerò Bushido, - si corregge, - e vedremo cosa fare. – si ferma ancora per qualche istante, inspirando ed espirando un po’ a fatica. – Scusa. – dice quindi, - Sto parlando nella lingua di un altro mondo.
Mi scosto appena, tornando a sedermi al suo fianco ma lasciandogli una mano sulla spalla. Le sue guance sono ancora rigate di lacrime, ma i suoi occhi, per quanto arrossati, sono asciutti.
- È il tuo mondo. – accenno, rafforzando la presa sulla sua spalla. Lui scuote il capo.
- No, è questo il guaio. – sussurra, - Non è il mio mondo, non più, almeno, e io non posso fingere che uccidere una persona adesso sia uguale ad ucciderla sei o sette anni fa.
Mi inumidisco le labbra, deglutendo a fatica.
- L’avevi già fatto? – chiedo senza fiato. Lui si volta a guardarmi e schiude le labbra, ma le serra subito dopo, scuotendo il capo.
- Ho bisogno di dormire un po’, Chaku. – dice piano, forzando un sorriso stanco che sembra più una ferita, - Ti dispiace se mi metto giù qualche ora?
- No… - rispondo io, - Certo che no. – mi alzo in piedi, lasciandogli spazio e rimboccandogli le coperte appena si distende, appoggiando il capo al cuscino con un sospiro stremato e chiudendo immediatamente gli occhi. Lo osservo un po’ restando in piedi accanto al letto mentre ascolto il suo sospiro tranquillizzarsi piano piano, e poi spengo la luce. Non ho più sonno, se mai l’ho avuto. Esco dalla stanza e mi basta fare un passo in corridoio per sentire il pianto soffocato di Daniel.
Mi affaccio dalla porta e lancio un’occhiata al divano. Sotto il mucchio di coperte che vedo c’è Daniel che affonda il viso nel cuscino. Lui e Fler hanno perfino lo stesso modo di piangere, è inquietante. Suppongo che, quando cresci in un posto che non ti permette di farlo quando ne hai bisogno, ad un certo punto piangere diventa un po’ come esplodere. Ti trattieni finché puoi, ma arrivi ad un punto in cui devi lasciarti andare per forza, e non può essere una cosa silenziosa.
- Danny. – mormoro avvicinandomi.
- Sto bene. – mi ferma immediatamente lui, nascondendosi sotto la coperta così che non possa vedere il suo viso, - Resta lì. Sto bene, è solo un momento. Ora passa.
Inspiro ed espiro, scuotendo il capo. Mi avvicino lo stesso, posando una mano sullo schienale del divano e sporgendomi appena verso di lui.
- Senti, - dico, - io non ho sonno. Pensavo di prendere un po’ di gelato e guardare un film, se non hai sonno nemmeno tu. Ma se vuoi dormire me ne torno in camera.
Lui singhiozza ancora per qualche secondo e poi si arrischia a tirare il naso fuori dal groviglio di coperte in cui s’è annodato. È paonazzo e gonfio e un po’ screpolato. Chissà da quanto piange. Probabilmente da quando Fler è rientrato.
- Che film? – mi chiede incerto, - E il gelato a che gusto?
Io cerco di sorridere.
- Puoi scegliere tu entrambe le cose. – rispondo stringendomi nelle spalle.
Daniel esita ancora un paio di secondi, ma alla fine viene fuori, si mette in piedi e mi segue in cucina. Anche i suoi occhi si asciugano subito, ed anche le sue guance, invece, restano bagnate. E mentre lo osservo riempirsi una coppa di gelato alla nocciola e poi trascinarsi nuovamente di là per mettere mano alla colonna di dvd accanto al televisore, capisco che questo ragazzino ha smesso di essere un problema solo di Fler, ed è diventato un problema anche mio.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Commedia, Romantico, (vagamente) Drammatico (?).
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Bushido, OMC/Fler, (vago) Bill/Chakuza.
Rating: R
AVVISI: Slash, OC.
- "Non sono un cazzo di sbirro. [...] Se proprio vuoi saperlo, l’unica cosa certa della mia vita è che in mezzo alla manica di matti coi quali vivo io sono solo il fottuto chef. Ma non se lo ricorda mai nessuno!"
Note: Vi chiedo perdono per questa shot perché è folle, parte da un presupposto folle ed è follemente lunga X'D Però io mi sono divertita troppo a scriverla, è una cosa completamente diversa da quello che abbiamo visto recentemente nella Saga, una sorta di "ritorno alle origini", ma più lol. Ormai abbiamo capito che, almeno per questo spicchio di storie, la parola d'ordine del ghettodrama più amato dagli italiani (?) è: ridi e fai ridere. Speriamo di riuscirci. Also: alta concentrazione di Danny fra queste pagine XD (E' un avviso? Avrei dovuto metterlo fra i warning? Mah.)
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DER CHEF

Io purtroppo non ho avuto il tempo fisiologico di abituarmi a Daniel.
Se Fler me l’avesse presentato nella giusta maniera – poco a poco, intendo, dandomi modo di capire esattamente di cosa si trattava e tutto il resto – probabilmente non proverei per lui tutto questo fastidio insopportabile. Magari sì, ok, mi farebbe rabbia l’idea di averlo ancora fra i piedi – e chi ci pensava, due anni fa, in quel vicolo, a Tempelhof? – però potrei tollerarlo, ecco.
E invece no.
Daniel per me era una cosa dispersa nella memoria di una notte da incubo, e poi è diventato d’improvviso “quello che era stato con Fler mentre io ero via”. E lo è diventato di botto, senza preavviso. E non è bastato neanche che Fler lo lasciasse, come mi ha poi confessato di aver fatto dopo la famosa cena in casa di Sido alla quale tutt’oggi non sono certo di essere sopravvissuto, no: Daniel è rimasto fuori dai piedi per qualche giorno, probabilmente rintanato a casa sua ad ascoltare i Cure o qualche altra variante sul tema e leccarsi le ferite, da bravo adolescente deluso e incazzato col mondo, e dopodiché, come nulla fosse successo, è tornato. Ha ricominciato a ronzare attorno a Fler, peraltro senza nascondere minimamente né l’astio che prova nei miei confronti – perché per lui è evidente che se Fler l’ha lasciato è stato per colpa mia, non perché era stufo di cambiargli i pannolini e nutrirlo col biberon otto volte al giorno – né tantomeno il suo essere ancora interessato all’uomo che al momento tra le altre cose oltre a non volerlo più sta con me. E non c’è stato verso di convincerlo a piantarla.
Da quel momento in poi, non ricordo un giorno in cui Daniel non ci sia stato tra i piedi o non sia stato fonte di inenarrabili guai. L’ultima volta, Fler ha fatto irruzione in casa mia tipo alle quattro del mattino, spingendo in avanti questa specie di cencio semovente che si è poi rivelato essere, appunto, Daniel avvolto in una felpa grande il doppio di lui e allegramente imbrattata di sangue. Al mio sguardo allucinato, sconvolto, stordito e pure un po’ assonnato, la risposta è stata “l’hanno inseguito con le spranghe, Chaku, non potevo lasciarlo lì nell’angolo dove l’ho trovato”. Al che, giustamente, io mi sono pure chiesto punto primo: che diavolo ci faceva Fler in giro per Tempelhof a quell’ora?, e punto secondo: spranghe?!, ma chiaramente non potevo mettermi lì a lamentarmi mentre il dannato moccioso perdeva sangue sullo zerbino.
E con Daniel è sempre così, peraltro. È sempre un ripetersi di “andiamo, Chakuza, non vorrai mica fregartene e lasciarlo sulla porta?”. Quando Fler pronuncia il mio nome a quel modo so sempre che, in caso di risposta affermativa – e Dio sa se ogni tanto non vorrei sbottare “sì, Fler, proprio lì sulla porta” – partirà una rappresaglia dalla quale difficilmente verrò fuori illeso. Perciò sono cose che cerco di evitare. Fler sa essere dannatamente convincente, quando vuole. Inoltre, effettivamente, il moccioso si presenta solo quando è davvero malconcio, ecco.
Il dramma è che gli capita anche troppo spesso.
Fino a due minuti fa io e Fler stavamo discutendo le possibilità della giornata. Visto che non è ancora nemmeno mezzogiorno, stavo cominciando a pianificare di andare a fare la spesa, cucinare qualcosa da mangiare e poi, non so, chiuderci in camera da letto fino a domattina anche se fuori c’è un bel sole e tira un bel venticello fresco – chissenefrega, insomma – e Fler stava giusto protestando in quel modo tipico di lui in cui continua a ripetere “no” intendendo “sì”, e quindi io ero pieno di buone speranze. E poi lo stupido campanello s’è messo a trillare.
Ovviamente io stavo illustrando a Fler il programma nel modo più pratico possibile – che poi è il motivo per cui continuava a dire “no”… ha dei problemi quando gli metto le mani addosso al mattino, dice sempre cose assurde tipo “dammi il tempo di svegliarmi”… non è necessario che sia proprio sveglio, mi piace quando è ancora semi-incosciente, fa dei bei suoni – comunque, in sostanza stavo cercando la via per la felicità e Fler invece non stava cercando che un pretesto per fermarmi, e lo stupido campanello è arrivato come una cazzo di ciliegina sulla cazzo di torta. Proprio a fagiolo, veramente.
Fler è corso ad aprire la porta scivolandomi dalle mani ed ora eccoci qua, inorriditi, che fissiamo questo mucchietto d’ossa pesto e livido che ci guarda oltre la soglia della porta. Sento Fler teso come una corda di violino, al mio fianco.
- Ciao. – borbotta Daniel, sollevando lentamente una mano per salutarci. Il braccio si ferma a metà. - …deve avermi slogato una spalla, stavolta.
Faccio per sbottare in un “Daniel!” che non so nemmeno cosa voglia dire – perché a un ragazzino così conciato, cosa gli dici? Davvero… - ma Fler mi anticipa, e la sua voce risuona secca e agitata per tutto l’appartamento.
- Daniel, Cristo! – lo richiama, avvicinandoglisi e sporgendosi a controllarlo da tutti i lati, - Ma che cazzo è successo? Sono stati di nuovo quei-
- No. – lo ferma lui, abbassando lo sguardo. Gli occhi azzurri si annebbiano appena, mentre si inumidisce incerto le labbra, - …mio padre. – confessa alla fine, sospirando pesantemente.
Fler si fa di ghiaccio per un secondo. Poi si allontana, tira un’imprecazione irripetibile e molla un calcio sconvolgente alla poltrona. Io lo fisso, allucinato, e Daniel continua a tenere gli occhi bassi, come si vergognasse.
- Fler…?
- Porca puttana! – urla ancora, afferrando un soprammobile a caso e gettandolo per terra. Quello rimbalza e s’infila sotto il divano con un suono sordo. – Fanculo a questa merda! – grida. Poi si ferma ancora, ed io riprendo a respirare.
- Pat. – lo chiamo a bassa voce. Lui solleva una mano.
- Un secondo, Chaku. – mi ferma, forzando un tono tranquillo nella voce. Io annuisco e lo aspetto. Vedo la tensione accumularsi nei muscoli delle sue spalle, sotto la maglietta leggera, ed i tendini tirarsi e scattare a chiudere e riaprire il pugno, come a cercare di scaricare la rabbia. – Daniel, entra.
Il ragazzino annuisce, fa un passo e casca. Allungo le braccia appena in tempo per recuperarlo, prima che si schianti contro il pavimento.
- Cristo… - borbotto, cercando di tenerlo dritto. Fler è ancora lì immobile e sospetto che, se si muovesse, tremerebbe il pavimento.
- Ce la fai? – mi chiede, la voce che trema. Io annuisco e lo porto verso il divano, dove cerco di stenderlo senza fargli male.
Ci inginocchiamo lì accanto e restiamo in attesa che si muova. Che è sveglio lo capiamo subito, perché apre le palpebre e ci guarda come volesse trovarsi da tutt’altra parte. Come volesse scusarsi. C’ha le scuse piantate negli occhi, questo ragazzino. Chiede perdono sempre, anche quando non fa niente. È una cosa che si vede solo quando lo si frequenta da un po’, perché la nasconde bene. Ora, io non è che lo frequenti da una vita, ma qualche settimana da quando gli ho posato gli occhi addosso è passata, ormai, perciò posso parlare con una certa cognizione di causa.
Comunque non si muove per un sacco di tempo. Solo dopo un bel po’ di minuti solleva un braccio lievemente meno malconcio per strofinarsi gli occhi.
- Mi ha pestato per bene, - dice poco dopo, un sorriso sghembo a deformare i tratti ancora infantili del viso, - ha scoperto la roba e ha dato di matto.
- Non c’entra un cazzo la droga. – trema Fler al mio fianco, - Quello dà di matto un po’ troppo, per i miei gusti. – si china su di lui e gli ravvia i capelli sulla fronte. C’è un taglio enorme proprio nel centro, sembra che gli abbiano tirato una cazzo di bottigliata. Mi dà i brividi. – Danny, io ne ho prese a pacchi, di legnate. Ma tu ne prendi il doppio, cazzo. Sei… guardati. – e sfiora appena il profilo dello zigomo violaceo e tumefatto. Deglutisco.
- …vado a prendere la cassetta del pronto soccorso. – mugugno alzandomi in piedi.
Fler asserisce senza nemmeno guardarmi, continuando a misurare i lividi sul suo viso, sul collo, sulle braccia.
- Ce la fai a sfilarti la maglia? – lo sento chiedere mentre, in bagno, recupero la valigetta.
Daniel dice che sì, certo che ce la fa, ma appena Fler prova a fargliela passare su per la testa comincia a lamentarsi in una maniera straziante.
- Fler… - lo chiamo avvicinandomi, la cassetta stretta in pugno, - Gliela tagliamo via, la maglietta? Così non-
- Ce la faccio. – ansima Daniel, liberandosi lentamente dell’ingombro di abiti, - Ce la… Cristo che male.
Il petto, il ventre e i fianchi sono una mappa di escoriazioni e lividi. Macchie rosse, giallastre e viola ovunque. Fler le fissa inorridito, le labbra dischiuse e gli occhi spalancati, ed io, credo, per la prima volta realizzo pienamente quanto schifo faccia la vita di questo ragazzino. Fler ha provato almeno una cinquantina di volte a dirgli per lo meno di piantarla di spacciare, che può dargli una mano lui, ma ogni volta Daniel gli ha risposto bruscamente di farsi i fatti suoi. È in questi piccoli dettagli che si vede quanto piccolo sia ancora, quanto disperatamente voglia che Fler si prenda cura di lui e al contempo quanto senta il bisogno di dimostrargli che ce la fa benissimo da solo.
- Cristo santo. – dice Fler, ed è appena un sussurro la voce non sembra neanche sua, tant’è debole e sconvolta.
Daniel deglutisce.
- …non guardarmi così. – chiede in una preghiera senza inflessioni. Lui e Fler si guardano a lungo, probabilmente si stanno anche dicendo qualcosa. Discretamente, senza parlare. Poi Fler si alza in piedi, facendo leva sul divano con entrambe le mani, come non avesse la forza di sollevarsi senza aiuto.
- Chaku. – mi chiama, tirandomi appena per la manica, - Posso parlarti di là un secondo?
Annuisco e mi sollevo, molleggiando un po’ sulle gambe. Guardo Daniel e lui mi fa cenno di andare senza neanche aspettare che gli chieda se possiamo lasciarlo qui da solo.
Fler mi anticipa in camera da letto muovendosi velocemente. Non ce la fa a restare in quella stanza, l’ho capito. Appena ci chiudiamo la porta alle spalle capisco subito che, se avesse qualcosa in mano, la stritolerebbe fino a distruggerla. Mi allungo a sfiorargli la spalla e lo sento tesissimo, un fascio di nervi sotto le dita.
- Pat, dai…
- Sono fuori di me, Chaku. – dice tutto d’un fiato, afferrando la mano e stringendola fra le sue, - Lo ammazzo, quel figlio di puttana. Lo ammazzo, Cristo.
So che ne sarebbe capace.
Mi avvicino, cerco di essere paziente anche se odio questa situazione ed odio le attenzioni di Fler nei confronti di Daniel.
Non so che dire, quindi mi limito a lasciar scorrere la mano libera lungo il suo braccio e poi stringerlo per una spalla, tirandomelo contro. Fler mi sfiora il collo col naso, una volta, due volte. Aspetto in silenzio e poi lo sento inspirare, ed allora mi rilasso: lo percepisco fare avanti e indietro lentamente, da sotto l’orecchio alla spalla, respirando piano, profondamente. Ogni tanto gli basta questo, il mio odore lo calma. Continuo a tenerlo stretto.
- Possiamo tenerlo un po’ qui? – mi chiede, proprio contro la pelle. Ed è un po’ buffo che me lo chieda, perché teoricamente lui sta ancora a casa sua. Ha un appartamento, a qualche isolato da qui, e ogni tanto ci dorme ancora. Però, invece di dirmi “lo porto a casa con me”, mi chiede se possiamo tenerlo qua.
- Non lo so, Pat. – lui mi lascia andare la mano e stringe appena le dita contro i miei fianchi. Resta lì per un po’, indeciso. Poi si rassegna e mi abbraccia. Io gli respiro addosso e lo stringo per le spalle. Siamo così vicini che non riesco a capire dove finisco io e dove comincia lui. Siamo intrecciati. – Ti sembra il caso?
- Non ce lo rimando, da quello. Lo ammazza, se continua così. – ripenso al torace stretto e magro di Daniel, tutti quei lividi, le ferite. È vero che finirà male, se non facciamo qualcosa. Ed è vero che, nonostante tutto, non voglio che finisca male. Perdio, è solo un ragazzino.
- Possiamo vedere di chiedere a Bushido se-
- Non c’entra un cazzo Bushido con questa storia! – mi ringhia addosso lui, stringendo la presa attorno alla mia vita, - Daniel è una cosa che non gli compete. Non è affare di nessuno.
Aggrotto le sopracciglia e provo l’irrefrenabile e improvviso desiderio di devastare qualcosa. Solo che l’unica cosa che posso toccare adesso è Fler e non ho alcuna intenzione di devastare lui – è già successo, so che non mi piace. So che non posso e non voglio farglielo – perciò mi trattengo, mi limito a stringerlo più forte.
- …va bene. – annuisco, - Okay, lo teniamo.
Lui si allontana un po’ e mi guarda. Ha gli occhi incredibilmente liquidi. Non credo riuscirò mai a capire davvero cosa leghi tanto Fler a questo ragazzino. Forse dipende dal fatto che ci sono ancora miriadi di cose che non so, sul suo conto. Su Fler, dico. Mi mancano dei tasselli enormi. Interi pezzi della sua vita. Forse, se li conoscessi, capirei. Ma ho sempre paura di capire troppo di lui. Non saprei quando fermarmi, me ne accorgerei in ritardo. Questa cosa che abbiamo ha rischiato di distruggersi troppo spesso perché io possa concedermi errori di questo tipo.
Si sporge a baciarmi ed io me lo tiro contro, baciandolo ed affondando dentro di lui perché adesso voglio sentire il suo sapore e voglio che sia quello a ricordarmi che è mio e non andrà da nessuna parte, Daniel o non Daniel. Fler mi lascia fare e risponde carezza su carezza; ora è lui che deve tranquillizzarmi. E lo fa.
- Grazie. – sussurra appena ci separiamo, - Lo sai che non succederà niente, vero? – e mi sfiora appena con la punta del naso.
- No? Davvero? – chiedo sarcastico, inarcando un sopracciglio.
- Davvero. – annuisce sicuro lui, - Io ti—
-Ok. – lo fermo, baciandolo prima che possa dirlo. Lo fermo perché odio che lo dica adesso, visto che lo fa come fosse un ringraziamento. E lo fermo perché io non gliel’ho ancora detto, mentre lui l’ha già fatto in svariati modi non so quante volte, non solo a parole, come ogni tanto gli è capitato in quest’ultimo periodo, ma anche con i fatti. Rispondere ad una cosa del genere è un problema, quando associato a quelle parole, per abitudine o per altro, c’è un altro volto, un altro sapore, un altro odore. – Ti credo. Non succederà niente.
Fler mi guarda e sembra un po’ deluso dal fatto che non gliel’abbia lasciato dire. Mi innervosisco perché così sembra volesse usarlo per ripulirsi la coscienza. So che non è veramente così, intendo, cazzo, so che quando lo dice lo pensa. Lo so che è vero. Sono ormai più di due anni che me lo dimostra, ogni giorno in cui torna, ogni volta che si fa toccare ed ogni volta che non mi manda a fanculo anche quando me lo merito ampiamente. Il problema non è quello.
Sono nervoso. C’è Daniel ricoperto di lividi di là ed ho appena accettato di tenerlo in casa per non so nemmeno quanto, e Fler sembra intenzionato a non togliergli le mani di dosso finché campa. In senso platonico o meno, mi scazza comunque.
È che Fler è una bella persona. Finisce per avere rapporti speciali con tutti. Non lo so. Non mi piace che… vorrei che non fosse così, ecco. Non so neanche se quello che penso ha un senso.
Quando torniamo di là, Fler mi sta ancora stringendo la mano – è successo quando abbiamo sciolto l’abbraccio, io ho lasciato scivolare la mano lungo il fianco e lui ha intrecciato naturalmente le dita con le mie, e là sono rimaste, senza un perché. Daniel lo troviamo impegnatissimo a sistemarsi da sé. S’è già bendato la testa ed ha spiaccicato cerotti e pomate un po’ ovunque. Nel momento in cui entriamo nella stanza, lo troviamo intento a coprire con un cerotto enorme un taglio sul mento. Si volta a guardarci, individua le mani strette e per un secondo io rafforzo la presa attorno alle dita di Fler. Poi non posso fare a meno di sentirmi in colpa – ed anche stupido: faccio il gradasso con un ragazzino, Dio mio – e lo lascio andare. Patrick non s’è accorto di niente perché sta guardando fisso il corpicino martoriato, facendo la conta dei danni.
- Lascia fare, ragazzino. – borbotta sedendosi al suo fianco e controllando la fasciatura attorno alle tempie. È troppo lenta. – Chaku… - mi chiama, ed io sospiro e mi avvicino, sciogliendo le garze per sistemargliele meglio ed andando alla ricerca di una retina da mettergli come cuffia, per tenerle ferme. Nel mentre, Patrick controlla i cerotti e asciuga gli sbuffi di pomata in eccesso con una pezzuola un po’ umida. La scena è surreale. Daniel resta immobile, arreso nelle nostre mani, per tutto il tempo.
Quando finiamo, sono ancora quasi convinto che il moccioso dovrebbe andare all’ospedale, ma sono anche ragionevolmente certo che, pur non andandoci, sopravvivrà; perciò sono soddisfatto così e non mi metto a fare storie. Anche perché so che ora arriverà la parte peggiore della giornata e voglio riservarmi di ringhiare per dopo.
- Danny, io e Chakuza abbiamo parlato e siamo d’accordo sul fatto che puoi restare qui, per un po’. – lo avverte lui, sfiorandogli un braccio, - Almeno fino a quando non ti troviamo un altro posto in cui andare. Comunque tu in quel posto di merda non ci torni.
- …ho una consegna a—
- No. – scuote il capo Fler, - Non hai capito. Te ne tiri fuori. Molli.
Il ragazzino digrigna i denti e si muove sul divano, agitato.
- Devo almeno andare ad avvertire i—
- No, cazzo, Daniel! – urla lui, battendo una mano contro il bracciolo del divano, - Cosa pensi, che queste cose si mollino salutando cordialmente quelli che ti hanno pestato e sfruttato negli anni? Credi che io sia andato casa per casa a porgere scuse e omaggi, quando Sido mi ha tirato fuori da quel merdaio? Cazzo! Te ne vai senza guardarti indietro, o non te ne andrai mai davvero.
Daniel incassa la testa nelle spalle e guarda per terra. Io resto qui in piedi e Fler resta lì seduto a guardarlo severamente, per una lunghissima serie di minuti che si conclude solo quando lo sento sospirare e passargli una carezza affettuosa sulla retina che ha sulla testa. Un gesto lento e tranquillo, per evitare di scombinarla.
- Riposati. – gli dice, adesso più dolcemente, - Io vado a casa tua a prendere la tua roba. Tornerò in un paio d’ore.
Ho appena il tempo di farmi passare per la mente la possibilità di restare da solo con Daniel, che lui subito la manda a puttane. Solleva una mano e la stringe attorno alla maglietta di Fler, tirando il tessuto leggero fino a deformare la scollatura.
- Resta qui. – dice a bassa voce, senza dimostrare di accorgersi della mia presenza, - Per favore.
Fler serra la mascella e lo guarda. Io stringo i pugni e guardo lui. Così intercetto l’occhiata che mi lancia ed ho tutto il tempo di cominciare ad incazzarmi furiosamente prima che esprima ad alta voce quello che già so mi dirà.
- Chaku, puoi—
- E va bene, Cristo! Va bene! – sbraito, agitando un braccio e dirigendomi a passi svelti verso l’ingresso, passando a strappare letteralmente la giacca dall’appendiabiti, - Fanculo.
Fler mi viene dietro due secondi dopo. Mi ferma sulla porta afferrandomi per le spalle e riportandomi indietro prima che imbocchi le scale.
- Aspetta, Chaku, non sai neanche dove andare… - mi ricorda, guardandomi con aria platealmente colpevole. Se spera che questo smorzi l’incazzatura, è del tutto fuori strada. Comunque ha ragione, non saprei dove andare a sbattere la testa, perciò resto lì zitto e buono a immagazzinare le indicazioni che sforna con una dovizia di particolari che mi fa venire voglia di demolire l’intero quartiere, vaffanculo a lui, perché sa così bene come arrivare da qui a casa di Daniel? C’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo. – Hai capito bene? – mi chiede alla fine, guardandomi dritto negli occhi come a cercare di leggerci dentro.
- Sì, certo. – borbotto io, - Quello che è.
Lui aggrotta le sopracciglia, irritato.
- Chakuza, ti ho solo chiesto un favore.
Rispondo afferrandolo per una spalla e schiacciandolo tra me e il muro. Gli sono addosso in meno di un secondo e lui neanche prova a fare resistenza. Non che la cosa mi stupisca, d’altronde. Non ricordo volte in cui sia successo.
- Il favore, se non te ne sei accorto, implica che io ti lasci qui da solo col tuo fottuto amante. – gli faccio notare, ringhiandogli a due centimetri dalle labbra. – Quindi non è solo un favore, Fler.
- Fanculo. – respira forte lui, cercando di liberarsi e riuscendo soltanto a strusciarmisi addosso, - Daniel non è il mio amante.
- Però te lo sei scopato. – sibilo sulla sua pelle, e se scendo ad annusare lungo il profilo della sua mascella posso quasi sentire l’odore di pomata e disinfettante, l’odore di Daniel. – Più di una volta. E ti è piaciuto.
Rabbrividisce sotto le mie dita e mi guarda. Non fa altro. Le labbra dischiuse e gli occhi spalancati su di me. Non li evito, mi avvicino ancora di più, fino a sentire la forma del suo corpo pressata contro la mia in maniera quasi dolorosa.
- Se tu lo tocchi, - lo avverto, sfiorandogli le labbra con le mie ad ogni parola, - io ti ammazzo. Se lui ti tocca, io ti ammazzo. Se succede qualcosa… - respiro forte e mi spingo un po’ contro di lui, - se succede una cosa qualsiasi, Fler, io ti… ti ammazzo. – e lui geme ad alta voce, senza nemmeno cercare di controllarsi.
Continuo a guardarlo e lo faccio finché Fler non mi dà quello che voglio. Quello che voglio arriva quasi subito, quando lo vedo annuire confusamente.
- Okay… - ansima, muovendosi a ridosso della parete e strofinandosi contro di me, - va bene, Chaku… va bene… - e mi guarda solo per un attimo, prima di socchiudere gli occhi ed abbassare lo sguardo mentre solleva le braccia a stringermi alle spalle, per muoversi più facilmente. Lo lascio fare per un po’, reggendogli il gioco finché non lo sento affondare le dita e trattenere il respiro, e poi mi allontano, guardandolo freddamente.
Resta talmente sbilanciato che deve aggrapparsi al muro, per non cadere. Ed a guardarlo così mi viene voglia di ribaltarlo contro la parete e scoparmelo adesso, un attimo prima di uscire, col ragazzino ancora di là sul divano. Gli occhi pesanti, le labbra umide, i pantaloni che tirano sull’inguine, la maglietta scomposta e il respiro affannoso. Cristo, Fler. Ma scuoto il capo e mi faccio indietro, infilando la giacca ed aprendo la porta.
- Non me ne fare pentire. – dico gelido.
Quando mi chiudo la porta alle spalle, sul pianerottolo, impreco contro un po’ di santi. Chi cazzo me l’ha fatto fare di avvicinarmi in quel modo? Ora palesemente non riuscirò nemmeno a camminare.
*
Quando Daniel si affaccia dal corridoio, mi trova ancora lì contro il muro che cerco di riprendere a respirare senza fare fatica. Mi guarda con aria un po’ incerta, come non sapesse minimamente cosa fare. Siamo in due, vorrei dirgli, io ho difficoltà anche a muovermi, al momento.
Cerco comunque di rimettermi dritto e mi schiarisco la voce con un paio di colpi di tosse, camminando lentamente verso di lui e riemergendo dalla penombra dell’ingresso di malavoglia. Ho addosso l’odore di Chakuza, ovunque, e questa cosa al momento mi sfianca.
- Non dovevi alzarti dal divano. – lo rimprovero, rimettendolo seduto con una spintarella.
Lui scrolla una sola spalla perché l’altra è ancora fuori uso. Non ha rimesso la maglietta ed è uno spettacolo angosciante.
- Le gambe stanno bene. – mi informa con una mezza risatina, - Le ho tenute nascoste sotto il corpo come mi hai—
- D’accordo. – lo fermo. Non riesco a liberarmi degli occhi di Peter e quando chiudo le palpebre mi sento addosso il suo corpo. Devo… cazzo. L’ha fatto apposta. Devo cercare di… devo assolutamente cercare di riprendermi. – Hai mangiato? Hai fame? – chiedo distrattamente, concentrandomi più sul tentativo di respirare con un ritmo meno affannoso, che non su quello che sto dicendo.
Lui risponde qualcosa che io non sento perché mi risuona ancora nelle orecchie la voce di Chakuza. Così non funziona, non ne esco. Forse avrei fatto meglio a non venire, oggi. Aspetta. Non ricordo da quant’è che sono qui. Di sicuro ieri ho dormito con lui e… forse anche l’altroieri e… è tutto troppo confuso da quando ho ricominciato a lasciare qui qualche vestito, non devo quasi più tornare periodicamente a casa mia e perdo il senso del tempo. Così non va per niente.
Vado verso il frigorifero e comincio a rovistare all’interno, magari trovo della roba con cui imbottire un panino. D’altronde Daniel i diciotto anni deve ancora compierli – e mi sa che, se non risolviamo la questione al più presto, festeggerà la maggiore età con una scarica di legnate non dissimile da quella di oggi, cazzo – perciò deve avere fame. A quell’età hanno sempre fame.
- Ma mi ascolti? – mi chiede piano, e la sua voce è troppo vicina per provenire dal divano, - Ti ho detto che non mi va di mangiare. – s’è alzato ancora.
Mi volto e sospiro. Parto con l’intenzione di rimproverarlo e me lo trovo a due centimetri dal viso che mi guarda incuriosito. Ormai è alto quasi più di me, nell’ultimo anno è cresciuto un sacco. Non so come ce l’abbia fatta. Insomma, intendo, ogni tanto lo guardo e mi chiedo come possa essere ancora vivo, addirittura. Poi ricordo che in fondo sono vivo anch’io e torna tutto.
Io però avevo Anis accanto, quando rischiavo di prendere botte ad ogni angolo di strada.
Daniel non ha mai avuto nessuno, prima di me.
- Dovresti andare a stenderti. – sospiro ancora, guardandolo dall’alto in basso, - …e rivestirti, anche.
Tira fuori un ghignetto che nelle intenzioni dovrebbe essere un concentrato di malizia ma, visto quanto è pesto e malconcio, in realtà fa solo ridere. E neanche poi così tanto.
- Cos’è, problemi? – chiede con aria strafottente. Io lo spintono verso il divano.
- Io no, Danny, ma se tu alle botte aggiungi la polmonite non sono sicuro di cosa potrebbe farti Chakuza quando tornerà a casa.
Lui cade sui cuscini con un tonfo e un mezzo lamento, e mi fissa con aria offesa.
- Lo lasceresti fare? – chiede in un sussurro, - Se mi mettesse le mani addosso, dico… lo lasceresti fare?
Sospiro, sedendomi sulla poltrona al suo fianco.
- Devo proprio rispondere a questa domanda?
Lui annuisce.
Io sospiro ancora.
- Sono il suo uomo, Danny.
Lui aggrotta le sopracciglia e fa per incrociare le braccia sul petto. Rinuncia appena si accorge che fa male.
- Tu non sei suo! – sbotta astioso, puntando le mani sui cuscini.
Io sorrido sarcastico.
- No? – chiedo, scrollando le spalle.
- Assolutamente no! – insiste lui.
- E sarei tuo, invece?
Lui abbassa lo sguardo e sulle sue guance il rossore si nota nonostante i lividi.
- Tu… potresti… - deglutisce e guarda altrove, - Io lo sono. Non sono di nessun altro. Solo tuo.
Sospiro ancora e scuoto il capo. Non so cosa dirgli, anche se so esattamente cosa si prova in situazioni come queste. Quando sai di appartenere a qualcuno ma non è quel qualcuno ad appartenere a te. Mi è successo abbastanza spesso da potermi dichiarare un veterano nel campo. So che fa schifo. So che si fanno assurdità. So che non ci si dà pace. Ma a questo ragazzino senza speranza io, davvero, non so cosa dire.
- Mi dispiace, Danny. – cerco di consolarlo, accarezzandogli una guancia, - Prima o poi ti passerà.
- Oppure insisterò fino a quando non cederai. – sbotta, appoggiandosi sulla mia spalla e strusciando il viso contro la maglietta, - Tu con Chakuza hai fatto così, in fondo…
Rido a bassa voce.
- No, Danny, non esattamente.
- Però più o meno.
Roteo gli occhi ed annuisco.
- Più o meno, sì. Ma non funziona sempre.
Solleva una mano – quella del braccio ancora a posto – e mi stringe alla vita.
- E come fai a sapere che non funzionerà fra noi?
Me lo stringo contro, coccolandolo un po’. Lui mugola subito e si attacca come un cucciolo di koala. Lo fa sempre. È una delle pochissime cose che gli concedo, da quando io e Chakuza abbiamo ripreso a frequentarci. È divertente, perché quando stavamo insieme non aveva bisogno di coccole, praticamente mai. Era molto estroverso ed espansivo, ma queste cose da femmine non gli interessavano per nulla. Ora che è l’unica parvenza di intimità che possiamo permetterci, le cerca come aria per respirare meglio.
So che la sto gestendo male, questa cosa. So che dovrei smettere di vederlo e basta, perché è l’unico modo per dimenticare davvero. Però non voglio. Non voglio prenderlo e cancellarlo dalla mia memoria. Non voglio prenderlo e cancellarlo nemmeno dal mio presente.
- Non funzionerà perché c’è Chakuza di mezzo, piccolo. – dico, facendogli scorrere una mano lungo il braccio e massaggiando piano, - Ci sono persone che ti colonizzano la testa. Quando ci entrano, non ne escono più. Chakuza l’ha fatto con me, io non riesco a immaginare di svegliarmi un domani e non averlo. Capisci cosa vuol dire questo?
Le sue ciglia si muovono appena contro la pelle del mio collo e mi fanno un po’ di solletico.
- Sì, lo capisco. – esala in un soffio.
Sorrido.
- Se lo capisci, dovresti anche rassegnarti.
Sorride anche lui, e mi sbuffa addosso.
- Non è la stessa cosa. E poi, scusa, se a te avessero detto “lascia perdere e rassegnati”, tu l’avresti fatto?
Ridacchio, scuotendo il capo.
- Daniel, Chakuza mi spingeva contro il muro ogni volta che ne aveva l’occasione. Rassegnarsi a quelle condizioni era molto molto difficile. Però ci ho provato.
Lui respira forte.
- E tu non… - comincia, cercando di insinuare la mano sotto la mia maglietta.
Lo fermo.
- No. – rispondo. – Io non voglio. D’accordo? Quindi no.
Daniel sbuffa, infastidito, e si separa da me con uno scatto secco.
- D’accordo. – borbotta in un mugolio di dolore, - Tanto mi fa tutto troppo male per scopare. – ammette, guardando altrove.
Io sorrido e torno a stringerlo piano, ondeggiando avanti e indietro.
Daniel è fondamentalmente un cretino ostinato e masochista.
Se Chakuza non capisce cosa c’è fra noi, vuol dire che ricorda poco dei miei primi mesi con lui.
Mi chino a baciarlo su una guancia e poi lo lascio andare.
- Ti prendo una coperta. – annuncio muovendomi verso la camera da letto, - Ma non dire a Chaku che ci siamo toccati, o finiamo entrambi sullo zerbino stasera, sai?
- Aaah, ma non posso dormire nel letto con voi? – borbotta agitandosi e mugolando come un bambino di tre anni.
Io rido.
- Assolutamente no! – e quando mi chiudo la porta alle spalle mi ritrovo nel buio della camera da letto e sospiro pesantemente. Sarà una giornata difficile. Sollevo un braccio ed annuso piano. L’odore di Chakuza è ancora lì. È più forte dell’odore del disinfettante. Sorrido ed apro l’armadio alla ricerca della coperta.
*
Poso i piedi sulla moquette che riveste il pavimento del corridoio e mi guardo intorno. Dunque, la casa è questa, c’era scritto Kobler sul cancelletto di fronte e la via non l’ho sbagliata. E questo nonostante questa sia una parte di Tempelhof in cui non sono mai stato, sono molto fiero di me.
Certo, sono un po’ meno fiero se penso che sto entrando in casa di sconosciuti per andare a mettere le mani nei cassetti della biancheria di un ragazzino che è stato col mio uomo e che, probabilmente, tra le mura di questo edificio ha visto solo legnate da quando è venuto al mondo. Ma comunque ormai ci sono, quindi basta lagnarsi e passiamo all’azione.
Tiro su le maniche fino a metà avambraccio e mi guardo intorno. Il posto non è tanto grande, è più corridoio che stanze, in realtà. Da qui si vede il bagno, la porta è socchiusa e il rubinetto perde. Faccio qualche passo girando gli occhi qui e là. In casa non c’è nessuno, a parte le gocce che si infrangono sulla ceramica non sento niente. Vago in giro e trovo una cucina sporca e piccola con un chilo di piatti ancora da lavare ammonticchiati nel lavabo, ed una specie di salottino con un divano e una tv. Sopra la tv c’è un’antenna tenuta insieme con lo scotch da imballaggio, quello marrone che lascia tracce ovunque quando lo tiri via. Ci sono tracce di scotch pure nei pezzi di antenna non incollati fra loro.
Ed io che pensavo di vivere in un porcile.
I gradini di legno scricchiolano mentre salgo al piano di sopra. Non me ne curo e, quando mi si apre davanti il corridoio del primo piano, mi salta il cuore in gola: dalla porta spalancata in fondo si intravede lo scorcio di una camera da letto ingombra di vestiti ammucchiati per terra e bottiglie rovesciate accanto al comodino. Sul letto – appena uno spicchio di materasso, è tutto quel che posso vedere da qui – c’è un uomo che dorme e russa. Una mano sulla pancia, l’altra pende verso il pavimento e sfiora la moquette.
Deglutisco forzatamente, muovendomi lento, in punta di piedi. Il respiro dell’uomo è pesante e rumoroso, ricorda quello di Fler quando collassava sulla poltrona, completamente ubriaco. Sospiro: è completamente ubriaco anche lui, e dev’essere il padre di Daniel. Non mi stupisce che la casa sia il casino che è.
Apro una porta a caso cercando di non fare rumore e mi meraviglio della mia fortuna. La camera non può che essere questa, le pareti sono tappezzate di poster e credo di non aver mai visto così tante immagini di Fler tutte insieme in vita mia. Questo ragazzino è palesemente una groupie.
Mi guardo intorno. Qui dentro, a parte un letto sgangherato, una scrivania in disordine ed un po’ di vestiti ammucchiati su una sedia, non c’è niente. Si può tranquillamente dire ci siano più poster attaccati alle pareti che non mobili nella stanza. Mi colpisce un manifesto pubblicitario enorme, sulla testiera del letto. È una vecchia pubblicità di un sampler dell’Aggro Berlin. Vecchia davvero, poi: c’è perfino Bushido. O almeno, dovrebbe esserci. La sua faccia è coperta quasi per intero da un’enorme x fatta col pennarello nero.
Mi lascio sfuggire una risata, senza pensare all’uomo addormentato nell’altra stanza, e quando mi ricordo della sua esistenza presso forte le dita contro le labbra, cercando di calmarmi, ma è molto difficile. La sola idea di Daniel che appende il poster al muro, lo squadra insoddisfatto e poi decide di eliminare la faccia di Bushido dalla superficie spennellandoci sopra è semplicemente troppo divertente perché io possa liberarmene.
Continuo a pensarci mentre vado in giro per la stanza raccogliendo i vestiti, che sinceramente non danno granché l’idea di essere puliti o altro. Cerco anche di pensare ad un modo per rifilarli a mia madre senza che si accorga che sono decisamente troppo piccoli per essere miei o di Fler. Peraltro, il fatto che mia madre ormai non trovi più nulla di strano nel lavare la mia roba assieme alla sua dovrebbe turbarmi, immagino. Certe volte ho l’impressione che il mondo intero abbia accettato l’idea di me e Fler come coppia prima di quanto non l’abbia accettata io. Mettiamoci di mezzo il fatto che ogni tanto faccio fatica ad accettarlo anche adesso, ecco.
Cerco in giro uno zainetto e ne prendo uno a caso in un angolo. È pieno di bustine di cui voglio ignorare il contenuto. Neanche faccio un tentativo con un altro zaino, mi limito a svuotare questo e riempirlo dei vestiti e della biancheria che sono riuscito a raccogliere.
Dopodiché tiro un enorme sospiro e comincio a staccare i poster dalle pareti. Immagino che, dovunque andrà a vivere Daniel dopo che l’avrò finalmente buttato fuori da casa mia, ne sentirà la mancanza, se non li avrà.
Comunque faccio un mezzo pensierino sul tenere io il poster della copertina di Deutscha Bad Boy. Mi frenano solo due cose: primo, non posso mica rubare un poster a un ragazzino così sfacciatamente innamorato; secondo… se anche lo tengo, dove cavolo lo metto? E non è un “dove cavolo lo metto” e basta, è un “dove cavolo lo metto per nasconderlo a Fler, dato che quando deve cercare cose rovista ovunque e, se mai dovesse avere la fortuna sfacciata di trovarlo, poi la mia vita sarebbe palesemente finita”.
Infilo tutto nello zainetto cercando di eliminare i pensieri molesti – tutti, in blocco, compresi i ricordi di Fler schiacciato contro il muro all’ingresso che mi hanno assalito appena mi sono distratto un attimo dall’obiettivo – e vengo fuori dalla stanza. Il signor Kobler ancora dorme ed io un po’ me ne dispiaccio: visto che quest’uomo è l’origine di tutti i miei mali, mi piacerebbe fargli capire cosa penso esattamente di lui e di tutti quelli come lui – ma soprattutto di lui, che cresce i figli in modo che poi quelli debbano sentirsi autorizzati ad infilare le mani nelle mutande degli uomini altrui. Comunque dorme ed immagino che Fler, quando mi ha mandato qui a recuperare le cose, non intendesse anche “ed uccidi quel bastardo”. Cioè, non sono proprio sicuro che Fler lo preferisca vivo. Comunque non è un mio diritto toglierlo di mezzo e francamente non ci tengo più di tanto, in realtà se anche ci tenessi non saprei da che parte cominciare, e comunque non voglio!, perciò scivolo al piano di sotto e poi oltre la finestra nel modo più veloce e furtivo possibile, e prendo a respirare serenamente solo quando mi ritrovo nuovamente immerso nell’aria fresca sul finire dell’estate di Tempelhof.
Mi guardo intorno.
Okay, un attimo di smarrimento.
Questa zona è, diciamo, la zona più “residenziale” del quartiere. Il che significa, in poche parole, che sto immerso in un quadrato di casette tutte uguali, con cancelli tutti uguali, giardinetti incolti tutti uguali, porte sgangherate tutte uguali e cassette delle lettere mezze abbattute tutte uguali. Non cambiano nemmeno i colori. Grigio e verde, grigio e verde, tutto grigio e verde. Così per chilometri, il quartiere è enorme.
Arrivare è stato un conto.
Andare via sarà più difficile.
Zaino sulle spalle e cappuccio calato sul volto, mi avvio in una direzione casuale di fronte a me. Prima o poi ne uscirò, immagino. O finirò per passare il confine, chissà. In ogni caso tutto voglio meno che restare qui. Sono quasi certo che la mia macchina non sia da quella parte, ma se mi toccherà uscire da questa merda di posto a piedi, allora lo farò. Verrò a recuperarla successivamente. Questo posto mi mette ancora i brividi.
Giro a vuoto per un po’. Un bel po’. Quando sono solo il tempo tende a passare sempre troppo lentamente perché io possa quantificarlo, quindi non saprei dire per quanto abbia girato, comunque sia quando mi infilo in una via e mi ritrovo di fronte alla casa del vicino del signor Kobler ho due scelte: o vado nel panico e mi siedo qui, afferro il cellulare e imploro Fler di venirmi a ripescare, o chiedo a un passante.
Visto che non ho la benché minima intenzione di implorare nessuno, e visto che sono uscito di casa mantenendo un certo tono e non ci tengo a fare la parte del cagnetto uggiolante proprio adesso, la scelta può essere una sola.
Mi avvicino al primo tizio che incontro. Avrà una ventina d’anni – per com’è vestito, con quei pantaloni aderentissimi di pelle nera e il vuoto sotto il chiodo borchiato, non più di venticinque – ma ha una faccia talmente sfatta che ne dimostra quasi il doppio. Occhiaie e rughe comprese. Al confronto io e Fler – ma anche Bushido, volendo – sembriamo ragazzini. Cammina ciondolando e nella tasca dei jeans si intravede chiarissima la forma di un serramanico ripiegato. Mi rendo conto che non si tratta della persona più affidabile cui chiedere delle indicazioni, ma non c’è nessun altro in giro e non mi pare di avere molta scelta. A parte quella scartata a priori del panico e di Fler che mi viene a riprendere neanche avessi dodici anni.
-Ehm… scusa? – chiedo, picchiettandogli con due dita sulla spalla perché si accorga di me.
Lui mi alza addosso un paio d’occhi celesti trasparenti come pezzi di vetro ma arrossati in maniera quasi allarmante. Non ho idea di cosa abbia mandato giù ma di sicuro non dev’essere stata roba buona.
- ‘Cazzo vuoi? – mi sbotta in faccia, e l’alito puzza di birra. Perfetto. Sono fottuto.
- Senti, ho bisogno di un’informazione… - comincio, nel modo più pacato possibile.
Lui mi guarda come fossi una merda pesticchiata sul marciapiedi.
- Li conosco gli sbirri come te. – mi accusa, tirando su col naso, - Stronzi figli di puttana, sbirri in borghese. Non so un cazzo.
- Ma io voglio solo—
- Non so un cazzo, ti dico, sbirro di merda.
Ringhio e cerco di mantenere la calma.
- Non sono un cazzo di sbirro. – grugnisco, le mani sui fianchi, - Se proprio vuoi saperlo, l’unica cosa certa della mia vita è che in mezzo alla manica di matti coi quali vivo io sono solo il fottuto chef. Ma non se lo ricorda mai nessuno!
Quello mi guarda per tutta una serie di secondi che non riesco a quantificare. La strada è immersa in un silenzio surreale, ci siamo solo io e lui e non riesco a sentire neanche i rumori delle macchine che sono quasi sicuro circolino ancora dalle parti del canale.
Mi schiarisco la voce.
- Ora… posso chiedere—
- Lo chef, dice lui… - mi interrompe il tipo, i lineamenti del volto deformati da un ghigno sghembo semplicemente terrificante, - Conosco una persona che non sarebbe per niente d’accordo. – ed ho appena il tempo di realizzare di aver detto una solenne cazzata, che lui ha già estratto il serramanico e me lo sta puntando alla gola. Faccio per indietreggiare e dire qualcosa, ma lui sfiora la pelle del collo con la lama appuntita e tagliente ed io deglutisco e rimango in silenzio. – Puoi chiedere dove ti porterò adesso? – mi fa il verso, continuando a ghignare, - No. Però puoi seguirmi senza fare storie.
- …non fare pazzie, amico, non—
- A-ha! – mi ferma, incidendo appena sotto la mascella, ed io trattengo perfino il respiro, - Senza fare storie, ho detto. Ci siamo capiti?
Annuisco. E lo seguo, che altro posso fare?
La prossima volta, giuro, vado nel panico e mi faccio venire a riprendere.
*
Sono passate sei ore quando comincio a preoccuparmi. La parte più razionale di me mi dice che non dovrei, che d’accordo, magari il Chaku è a Tempelhof, ma è pieno giorno. Cosa mai può succedergli in quel posto, per quanto pericoloso, alle due del pomeriggio? E poi in che guai può essersi cacciato dovendo semplicemente andare ad un indirizzo ben preciso per prelevare qualcosa prima di fuggire per sempre?
Devo stare calmo, mi dico. Calmo e rilassato. Fra qualche minuto mi chiamerà, si scuserà per non essersi fatto sentire per sei fottute ore e poi confesserà mugugnando che s’è perso, e mi implorerà di andarlo a recuperare in qualche angolo dimenticato da Dio che non saprà nemmeno descrivermi correttamente.
- Ho faaame. – miagola Danny, sbuffando platealmente, tutto arricciato sul divano, - Non si mangia?
- Aspettiamo Chakuza. – rispondo io, lanciando un’altra occhiata all’orologio. Sei ore e dieci minuti. Chakuza, Cristo, dove sei finito?
- Perché non lo chiami? – mi chiede lui, sporgendosi dal divano ed allungando un braccio verso il tavolino, per cercare di recuperare il telecomando poggiato sul ripiano, - Magari sta perdendo tempo da qualche parte e s’è dimenticato che lo stai aspettando. – suppone, la lingua fra le labbra e l’espressione concentrata mentre con un breve scatto si allunga abbastanza da afferrare il telecomando, per poi tornare ad abbattersi contro i cuscini sistemati con cura dietro la sua schiena, uggiolando di dolore.
- Non posso chiamarlo, Danny. – espiro in uno sbuffo contrariato, andando a sedermi sulla mia poltrona giusto per staccarmi dalla finestra prima che rimanga impressa sul vetro l’impronta indelebile del mio naso. – Magari ci sono stati problemi a casa tua. – gli spiego, lanciandogli un’occhiata risentita. Io ti adoro, Danny, ma tu non puoi mettere il mio uomo a rischio. Egli non è adatto. In generale. – Magari tuo padre s’è svegliato e lui ha dovuto nascondersi da qualche parte. Che faccio, lo chiamo rischiando che il cellulare riveli dov’è?
Daniel inarca un sopracciglio, guardandomi con aria scettica.
- Tutti sanno che quando si fanno cose simili il cellulare va tenuto silenzioso. – dice con naturalezza. E sì, certo, Daniel. Tutti lo sanno. Io lo so, tu lo sai. Se avessi mandato Anis a recuperare la tua roba potrei avere la certezza che lo sa anche lui. Ma Chakuza?
- Lascia che io ti dica che non hai capito niente del Chaku. – annuisco con aria professionale, - Come minimo non solo ha il cellulare con la suoneria attivata, ma pure al massimo volume. E personalizzata di modo che lo chiami per nome. – sospiro profondamente.
Daniel ride, incredibilmente divertito, ed accende la tv.
- Ma che ci fai con uno così? – mi chiede, con aria apparentemente distratta, concedendosi un po’ di zapping prima di fermarsi su un cartone animato a caso. La domanda è cosa ci faccio qui con te, semmai, Danny. – Cosa c’entri?
- Non ricominciamo. – borbotto, e in quel momento il cellulare vibra nella tasca posteriore dei miei pantaloni. Mi alzo in piedi all’istante, lo estraggo e lo guardo. Chakuza mi ha mandato un messaggio. – Era anche ora… - borbotto risentito, mentre mi affretto a premere il pulsante per leggerlo.
Ciò che i miei occhi vedono, comunque, è non affatto soddisfacente. Nel messaggio c’è scritto solo aiuto.
- Che ti prende? – chiede Danny, spegnendo istintivamente la televisione e lanciandomi un’occhiata preoccupata, - Sei sbiancato.
- Chakuza è in pericolo. – dico d’un fiato, girando sui tacchi e dirigendomi speditamente verso la porta d’ingresso, - Devo andare a cercarlo.
- Ehi— aspetta! – cerca di fermarmi lui, saltando giù dal divano e piegandosi immediatamente su se stesso per il dolore. Capisce che non ho tempo da perdere, comunque, e si rimette in piedi piuttosto alla svelta, tenendosi la pancia fra le mani e seguendomi. – Come sarebbe a dire che è in pericolo? Cos’è successo?
- Cosa vuoi che ne sappia! – urlo, voltandomi a guardarlo con rabbia. Lui arretra di un passo, serrando le labbra finché non diventano sottilissime e pallide. – Scusa. – cerco di calmarmi. Cazzo, non è colpa sua se Chakuza è in pericolo. Sapevo che avrei dovuto andarci io. Cazzo. – Mi ha mandato un messaggio, guarda. – dico, sollevando il cellulare per mostrarglielo. Daniel lo legge velocemente e i suoi occhi si fanno più cupi per qualche secondo, mentre annuisce sommessamente.
- Vengo con te. – dice quindi, tornando al divano per infilare le scarpe.
- Neanche per idea. – ribatto io, ignorandolo platealmente.
Lui mi passa davanti ed apre la porta, uscendo di casa prima di me.
- Non era una domanda. – conclude, cominciando a scendere le scale. Roteo gli occhi, correndogli dietro.
- Piccolo, torna in casa, dai. – dico dolcemente, accarezzandogli una spalla. Stavolta è lui a ignorare me.
- Potrei esservi utile. – dice. Ma esserci a chi? Io intendo andare da solo.
- Daniel, - sospiro, - sei ferito e dolorante, sei un rottame, dovresti essere in ospedale, che cazzo me ne faccio di te, me lo spieghi?
Lui mi lancia un’occhiata risentita, aggrottando le sopracciglia.
- Qualsiasi cosa. – risponde di getto, - È anche colpa mia se è nei guai.
- Danny, non—
- Sta’ zitto. – mi interrompe. Siamo già a piano terra. – Sai già a chi chiedere?
Lo guardo per qualche secondo, confuso.
- Che intendi? – gli chiedo, inarcando un sopracciglio. Lui sbuffa platealmente, roteando gli occhi.
- Dubito che sia stato mio padre a causargli guai. – spiega, - Se anche si fosse svegliato, nelle condizioni in cui era quando l’ho lasciato poteva sicuramente pestare me, ma non uno come Chakuza. Cioè, uno che possa rispondergli come merita. – sospira un po’, abbassando lo sguardo, e a me si stringe il cuore. – Deve aver fatto casino mentre era per strada. Magari ha preso uno dei miei zainetti speciali, quelli con la roba dentro. Hanno tutti una toppa particolare, così la gente del ghetto li riconosce e sanno che possono chiedermi. Se qualcuno l’ha vista, forse ha pensato che fosse del giro.
Non fatico a immaginare che, a partire da uno scenario simile, Chakuza possa essere finito in guai molto più catastrofici di quelli che riesco a immaginare in questo momento senza avere una crisi isterica. Inspiro ed espiro profondamente, cercando di razionalizzare. Potrei sbrigarmela da solo, andare a Tempelhof e perdere le ore partendo da zero, senza il minimo aggancio, per cercare di tirare fuori qualche informazione a qualche sconosciuto.
Oppure posso andare da Bushido, e chiedergli di contattare Arafat.
Vista la situazione, e visto soprattutto che una cosa so per certo, ed è che non voglio lasciare Chakuza da solo a Tempelhof troppo a lungo, faccio in fretta a decidere per il meglio. Daniel sorride soddisfatto, salendo in macchina e mettendosi comodo.
- Togliti quell’espressione dalla faccia. – mugugno io, talmente infastidito che per un attimo non faccio caso a quello che dico, - Sarai tu responsabile, se gli succede qualcosa.
Gli occhi di Daniel s’incupiscono un’altra volta, mentre lui si torce le dita in grembo, nervoso. È evidente che riesce a ragionare in maniera perfettamente lucida quando si parla di pianificare il salvataggio di qualcuno di cui tutto sommato gli importa pure poco, ma impazzisce d’ansia quando pensa anche solo per sbaglio che io potrei cominciare ad odiarlo per qualche motivo.
- Andrà tutto bene. – dice, più per rassicurare se stesso che per rassicurare me, anche perché io al momento non posso essere rassicurato.
Sospiro, allungando una mano ad accarezzargli piano la nuca.
- Sì, andrà bene. – confermo mettendo in moto.
Da Bushido ci arriviamo in tempo record, bruciando anche un paio di rossi. Per tutto il tempo, Daniel resta tranquillo al mio fianco, senza neanche muoversi in avanti quando freno o schiacciarsi indietro contro lo schienale quando accelero. Non ha nemmeno messo la cintura di sicurezza, cosa che suppongo dovrei trovare sconveniente al punto da fermarmi e cercare di convincerlo a metterla, ma non c’è nemmeno il tempo di razionalizzare il pensiero che la mia macchina si ferma perfettamente parallela al marciapiedi appena fuori dal cancello di casa di Bushido, ed a quel punto fargli indossare la cintura non avrebbe più molto senso.
Esco di gran fretta, e Daniel, per quanto le sue ossa peste glielo permettano, fa lo stesso, per cercare di non intralciarmi troppo. Karima ci mette troppo a rispondere al citofono, e quando sento la sua voce domandarmi chi sono e cosa voglio – è una donna d’altri tempi che non ha mai imparato ad usare il video nella parola videocitofono – rispondo sgarbatamente di farmi entrare e non perdere altro tempo. Lei rimane in silenzio per un altro paio di secondi, e io batto con forza una mano contro le grate del cancello, così improvvisamente che Daniel, al mio fianco, sobbalza lanciandomi una lunga occhiata colma di preoccupazione.
- Karima! – la chiamo, - Datti una mossa!
La serratura scatta il secondo successivo. Il cancello si apre sotto le mie mani e Skyline e Sherlee mi vengono incontro, saltellando ed abbaiando festosi. Io non ho tempo di star loro dietro, perciò passo in mezzo ai loro musi senza fermarmi neanche ad accarezzarli, e se non mi vengono dietro continuando ad abbaiarmi alle spalle è solo perché Danny, visibilmente più lento di me, non riesce a tenere il mio passo e non può sfuggire alla loro rumorosa richiesta di attenzioni, cedendo perciò a metà del vialetto e grattando entrambi dietro le orecchie in una sorta di pedaggio in seguito al pagamento del quale i due cuccioli lo lasciano libero di seguirmi.
Sulla soglia della porta non c’è Karima, probabilmente tanto oltraggiata dal mio comportamento da essersi già rintanata a pelare cipolle in cucina come fa sempre quando qualcosa non rientra nel ristretto campo delle sue approvazioni, perché, come ama dire, un po’ di cipolla tritata serve sempre ed è meglio averne un po’ di scorta per ogni evenienza. Quali evenienze improvvise potrebbero giustificare la presenza di terrine piene di cipolla già tritata nascoste in frigorifero io non lo so, ma tant’è, lei non è sulla porta ad attendere il nostro arrivo come dovrebbe essere. Ci sono sia Bushido che Bill, invece, e faccio appena in tempo a notare l’occhiata infastidita di Bill quando vede Danny alle mie spalle – a Bill non va granché giù che Danny sia tornato a ronzarmi intorno da quando io, invece, sono tornato a ronzare intorno a Chakuza – che quell’occhiata subito scompare, tramutandosi in qualcosa di diverso. I suoi occhi si spalancano, mentre porta una mano a coprirsi la bocca dischiusa in una smorfia inorridita.
- Ma che gli è successo? – chiede sconvolto, mentre Bushido prende atto delle condizioni del ragazzino con molta più praticità, osservandolo in lungo e in largo con aria concentrata, - Sta bene?
- Non è lui quello in pericolo, al momento. – rispondo seccamente io, spingendomi abbastanza in avanti per far sì che Bill e Bushido si scostino dall’uscio, lasciandomi entrare. – Chakuza è finito nei guai. – dico quindi, mentre Bushido aspetta che anche Danny sia entrato all’interno della villa, prima di chiudersi la porta alle spalle, - A Tempelhof. Da solo.
Bushido aggrotta le sopracciglia, i lineamenti del suo volto che si tendono repentinamente mentre irrigidisce le braccia lungo i fianchi.
- Cosa?! – strilla Bill, sconvolto, - Che c’è andato a fare lì da solo?
Bella domanda, ragazzino.
- Ne parliamo dopo. – taglio corto, - Anis, dobbiamo fare qualcosa. – tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e mostro alla coppia reale il messaggio che ho ricevuto ormai quasi venti minuti fa. Dio, venti minuti. Sono milleduecento secondi. Per uccidere un uomo ne basta uno.
Bill si lascia scivolare fra le labbra un gemito addolorato che gronda preoccupazione. Bushido non ha ancora aperto bocca, continua a studiare la situazione in silenzio, incrociando le braccia sul petto.
- Che ci fa lui con te? – chiede quindi Bill per riempire il vuoto che sente pesargli sul petto. Ci metto un po’ a capire che parla di Daniel, in parte perché non sono concentrato e in parte perché Bill non si prende nemmeno il disturbo di indicarlo. – Perché deve stare qui? Guarda quant’è pesto, mi rovina l’arredamento. – sbuffa infastidito.
- Bill. – scatto io, aggrottando le sopracciglia, - Non è il momento.
- Ah, non lo è? – ribatte lui, le mani sui fianchi e un’espressione di insopportabile superiorità sul volto, - Intanto lui è qui e il tuo uomo è nel ghetto da solo. – ribadisce, come se non ne fossi già insopportabilmente cosciente.
- Bill, sai che ti voglio bene, - dico, mordendomi con forza l’interno una guancia per forzarmi a ripetere queste parole, perché so che è una cosa vera ma in questo momento non mi sembra affatto, - ma fatti i cazzi tuoi. – concludo con un’occhiataccia.
Bill spalanca gli occhi, oltraggiato. Apre le labbra e fa per dire qualcosa, ma non riesce. Bushido è più svelto.
- Taci. – dice guardandolo, - E anche tu. – aggiunge guardando me. Io mando giù un blocco d’aria che pesa come il granito, mentre lui si volta a guardare Danny. – In che zona è andato? – chiede a lui, e per un secondo penso che l’abbia fatto perché ha già capito tutto, e trattandosi di Bushido la cosa non mi stupirebbe affatto. Poi razionalizzo, e capisco che ha chiesto a lui solo perché Danny a Tempelhof ancora ci vive, contrariamente a tutti noi. Afferro solo vagamente quanto deve essere costato a Bushido ammettere una cosa del genere, pur se implicitamente, e forzarsi a chiedere a un ragazzino un’informazione simile per salvare Chakuza. Mi riservo di ringraziarlo dopo per questo, visto che so per certo che nessuno a parte me può comprenderlo, e nessun altro lo ringrazierà.
Daniel si mordicchia il labbro inferiore, pensoso.
- È nella zona residenziale, - dice, - quella coi prefabbricati. Ma lì intorno ci sono i vecchi magazzini del mercato ortofrutticolo, e non sono più usati per frutta e verdura da tempo.
- Che rischi ci sono che l’abbia preso qualcuno di pericoloso? – chiede ancora, avvicinandosi al tavolino basso e recuperando il cellulare posato sul ripiano di vetro.
Daniel sospira profondamente.
- Per tutta una serie di ragioni, potrebbe essere finito nei guai con qualche corriere, credo.
- Con qualche corriere?! – strilla Bill, incapace di trattenersi oltre, - Cosa diavolo l’avete mandato a fare?!
- Bill, sta’ zitto. – ribadisce Bushido, digitando velocemente un numero a memoria e portando il cellulare all’orecchio.
- Lo stai chiamando? – chiedo io, a corto di fiato, fissandolo speranzoso.
- Sta’ zitto anche tu, ho detto. – dice lui, lanciandomi un’occhiata indecifrabile. Poi sospira, inumidendosi le labbra. – Sì. – dice quindi. Mi si annoda lo stomaco finché resta in silenzio, e poi sento un click sommesso ed una voce dal passato che risponde chiedendo festosamente a Bushido come sta, perché è da un sacco di tempo che non lo sente. – Ari. – dice Anis, il tono grave e lo sguardo concentrato mentre fa segno a Bill di recuperare un pezzo di carta ed una penna, - Mi servono un paio di indirizzi.
*
Naturalmente non riesco a parlare, ma visto che sono state le mie parole a generare tutto questo gran casino da una parte è meglio così. Sì, mi sta bene tacere, quello che non mi sta bene è che per farmi stare zitto mi abbiano legato questa robaccia attorno alla testa, e mi abbiano infilato due chili e mezzo di polistirolo in bocca. A parte che il sapore fa schifo, e a parte che mi sto cagando sotto perché, voglio dire, chi cazzo è questa gente?, a parte tutto questo, lo scotch sulle guance tira e fa un male fottuto, e non riesco a muovermi perché ho le braccia legate dietro la sedia in una posizione innaturale che mi fa dolere le spalle, e le gambe legate strettissime con delle vecchie corde sporche ai piedi della sedia.
In generale, sono finito proprio in una bella situazione di merda. E mi piacerebbe poter dare la colpa a Daniel, perché almeno così non dovrei stare seduto qui a soffrire, ascoltare stronzate e dovere avere a che fare in aggiunta con la consapevolezza che a trascinarmi in questo magazzino abbandonato con le finestre inchiodate non è stato il ragazzino, non è stata la richiesta di Fler, no, sono state la mia ostinazione a non voler chiedere aiuto e la mia boccaccia del cazzo.
- Allora. – riprende l’uomo che mi ha ricoperto di cazzate da quando sono stato portato al suo cospetto un paio d’ore fa. È vestito con una tuta integrale in pelle bianca, aperta fino allo stomaco rotondo e prominente. Indossa un paio di occhiali da sole dei quali in questa penombra non dovrebbe avere il minimo bisogno ed i suoi capelli sono acconciati in un ciuffo che si protende contemporaneamente in avanti e verso l’alto. I tacchi dei suoi stivali bianchi a punta producono un suono che mi snerva, ticchettando sul pavimento pieno di crepe mentre lui gira intorno alla sedia, guardandomi circospetto. – Mi dicono che ti piace andare per strada facendoti grande agli occhi dei passanti. – dice, - Lo chef, mi dicono, è così che ti fai chiamare. Ma oh, hai fatto i conti senza l’oste, mio caro amico pelato.
Io mugugno qualcosa, ma non riesco a farmi uscire dalle labbra niente che abbia un senso. In realtà tutto quello che vorrei strillare è “ma sei cretino?! Ti sei completamente bevuto il cervello?! Da quale epoca sei venuto fuori, scherzo della natura?! Santo Dio!”, quindi forse è meglio che io sia obbligato a tacere. Cristo, è passata quasi un’ora da quando sono riuscito a mandare quello scampolo di messaggio a Fler, e tutto ciò che ho ottenuto in cambio è stato che mi portassero via il cellulare e lo spaccassero in due sotto i miei occhi sofferenti. Quando e se tornerò a casa, comprare un cellulare nuovo sarà drammatico. Non mi abituerò mai al tastierino nuovo, non riuscirò mai a memorizzare il nuovo menu e dovrò fare i salti mortali per trovare qualcosa che non possieda la parola touch nel nome o nella descrizione delle caratteristiche principali. Che odio. Fler, dove cazzo sei finito?!
- Cos’è che hai detto? – chiede il tipo, chinandosi su di me e tendendo un orecchio, - Non ti ho sentito! Forse perché sei imbavagliato. – si rimette dritto, grattandosi pensosamente il mento. – Dovremmo forse lasciarti libero? – chiede retorico, lanciando un’occhiata ai due che stanno alla sua sinistra e alla sua destra. Uno è quello che mi ha portato qui, e l’altro un suo degno compare. Anche lui indossa un giubbotto di pelle senza niente sotto, ed un paio di jeans chiari con più buchi che brandelli di stoffa. – No che non dovremmo. – si risponde da sé Elvis, tornando a guardarmi severamente. – Hai capito perché sei qui, nano? – mi chiede quindi, e io mi dimeno perché con questi nomignoli del cazzo mi ha veramente frantumato le palle.
- Attento a come ti muovi, sbirro di merda. – dice il tizio che mi ha portato qui, puntandomi il serramanico alla gola, - Rispondi alle domande e fa’ il bravo, e se te lo meriterai potrai uscire di qui sulle tue gambe, quando ti lasceremo libero.
Io smetto di muovermi ed inspiro profondamente, cercando di ritrovare una calma che ho in realtà perso troppo tempo fa per poterle chiedere di venire in mio soccorso adesso. Provo a mugugnare qualcos’altro, qualcosa a caso, tanto è evidente che non riuscirei a farmi capire anche se dicessi qualcosa di sensato, ma Elvis mi ascolta con attenzione, annuendo partecipe. Dio santo, ma dove sono finito?
- Certo, certo, hai ragione. – dice annuendo ancora, - Quindi forse dovremmo proprio lasciarti libero, ma sai, c’è una cosa a cui tengo molto, una lezione che penso tu debba imparare prima di andare via, e penso che le condizioni in cui sarai quando uscirai da questo magazzino dipenderanno molto da quanto bravo sarai ad apprendere. Ci siamo capiti?
Io abbasso lo sguardo. Odio cedere, ma odierei anche morire in questo posto lugubre senza aver cucinato un’ultima volta, senza aver salutato i miei genitori e mia sorella, senza aver rivisto Bill, senza aver rivisto Fler. Senza aver toccato Fler, senza avergli detto che—
- Ci siamo capiti? – ripete Elvis, strattonandomi per una spalla. Io annuisco freneticamente. Ci siamo capiti, Elvis, ci siamo capiti. – Bene. – sorride compiaciuto. – Ora voglio che tu te lo ficchi bene in testa, mio buon amico: - dice a bassa voce, - c’è un solo chef, in questo quartiere, soprattutto da quando io e i miei compari abbiamo cominciato a studiare un piano per ammazzare tutti gli altri. – inarco un sopracciglio. Un piano? Che cazzo sta dicendo? – Be’, sì, non ci siamo ancora riusciti! – strilla istericamente, come leggendomi nel pensiero, o forse semplicemente leggendo l’incredulità nell’espressione del mio viso, - Ma prima o poi li faremo fuori tutti, ed allora resterò solo io! Per cui, impara bene la lezione fin d’ora, nano: chi è l’unico chef di Tempelhof…?
È a quel punto che succede. Inizialmente non ci capisco molto, perché non vedo niente. Sento, quello sì, un botto terrificante e il fischio di qualcosa di incredibilmente veloce che passa da qualche parte alla mia sinistra prima di andarsi a schiantare contro il pavimento a pochi centimetri dall’anfibio dell’altro compare di Elvis, quello che non ha ancora aperto bocca, e che la apre adesso per la prima volta per strillare “merda!” con quanto fiato ha in gola, saltando repentinamente all’indietro.
- Cosa cazzo succede?! – strilla a propria volta il tipo che mi ha portato qui, occhieggiando spaventato il buco sul pavimento e la pallottola che vi si è conficcata dentro. – Cazzo!
- Chi c’è?! – grida Elvis, parandosi in mezzo alla stanza con le braccia spalancate e le gambe piegate in una posa ridicola, - Chi osa?!
Un altro sparo parte da un punto totalmente opposto del magazzino, piantandosi sulla parete alla mia destra. Sobbalzo sulla sedia perché non ho una cazzo di idea di cosa stia succedendo. E se fossi finito in mezzo a una guerra fra bande? E se quelli che Elvis minaccia di volere uccidere avessero scelto proprio questo momento per impedirglielo ponendo fine alla sua triste e misera esistenza da sfigato nato con vent’anni di ritardo?
Non ho modo di capirlo, perché per qualche secondo, dopo l’urlo che Elvis ha lanciato in seguito al secondo sparo, il magazzino ripiomba nel silenzio. Magari è stato solo un avvertimento, mi dico. Non so bene come funzionino queste cose, Fler saprebbe spiegarmelo ma lui non c’è, probabilmente è impegnato a spargere pomata sulle ferite del suo ex e di me se ne strafrega, per cui aggrotto le sopracciglia e decido che me ne strafregherò anch’io, ma i miei propositi reggono pochissimo perché il secondo successivo dieci cento o forse anche mille pistole si mettono a sparare tutte contemporaneamente, l’aria diventa incandescente, fischia attorno a me, ne sento il rombo fin dentro le orecchie, e ci sono proiettili che volano impazziti dappertutto e io me la sto facendo sotto, cazzo, e prego soltanto che nessuno di questi fottuti proiettili mi prenda perché voglio tornare a casa, stasera, voglio riportare a Danny la sua roba, voglio vedere Fler, voglio abbracciarlo e dirgli che lo so che non ci andrà a letto col ragazzino, lo so che non mi tradirà, lo so che mi ama, voglio dirgli tutte queste cose e non è vero per un cazzo che me ne strafrego di lui. Non è vero per un cazzo.
Chiudo gli occhi con forza, cercando di incassare il più possibile la testa nelle spalle, e prendo nota solo confusamente dei tre uomini che mi tengono prigioniero mentre danno di matto, confusi dai rumori degli spari e dalle pallottole che soffiano minacciose ovunque attorno a loro. Mi pare di sentire un “no!” strozzato provenire da dietro un mucchio di vecchie casse in fondo al locale, ma non ho modo di badarci troppo perché oltre ai rumori degli spari l’aria è piena delle urla dei miei aguzzini. Li sento urlare, muoversi in cerchio, urlare ancora e poi trovare un’uscita. Le loro voci si fanno sempre più deboli e distanti, e così gli spari, che diminuiscono d’intensità e poi si spengono del tutto. Io sono ancora vivo e non ho male da nessuna parte, e sono profondamente convinto che questo sia un miracolo.
Apro prima un occhio e poi un altro, guardandomi confusamente intorno. Il pavimento e tutte le pareti sono pieni di segni dove i proiettili sono andati a schiantarsi. Sudo freddo a pensare che se uno a caso di queste decine di proiettili avesse deciso di non andare a conficcarsi per terra o sui muri ed avesse preferito conficcarsi nella mia testa, sarei morto. Ci penso insistentemente per un paio di secondi e poi Bill – no, ripetiamolo perché non riesco nemmeno a crederci: Bill! – spunta fuori da dietro le casse dalle quali mi era sembrato di sentir provenire quel “no!” e mi si avvicina, affrettandosi a chinarsi davanti a me e sciogliere tutte le corde che mi tengono legato.
Non appena sono libero, scivolo giù dalla sedia , esausto, e Bill mi accoglie fra le proprie braccia reggendo il mio peso abbandonato e floscio con una forza che non gli riconosco. Mi chiedo quando sia arrivata, tutta questa forza, perché proprio non c’era quando i nostri corpi stavano vicini spesso e molto più a lungo di adesso, ed è allora che Bushido esce da un angolo in ombra alla mia sinistra e Fler fa lo stesso dall’angolo opposto, accompagnato da Danny che zoppica ed ha la faccia contratta in un’espressione di dolore continua.
Il tempo riprende a girare e io e Bill ci allontaniamo contemporaneamente. La forza di adesso, quella che guida le sue braccia e le sue gambe e rende i suoi occhi brillanti e presenti nonostante siano pieni di lacrime, è una forza che non gli ho dato io.
- Dimmi solo che stai bene. – mi sorride mentre mi libera dallo scotch. Mi giro appena per sputare la palla di polistirolo ormai tutta masticata, e mi asciugo la bocca col dorso della mano prima di offrirgli un sorriso stanco ed annuire lentamente.
Bushido butta lì un paio di colpi di tosse e Bill si alza in piedi. Vedo nell’espressione rilassata del suo viso che non lo fa perché deve o perché si sente in colpa, ma soltanto perché vuole e sa che è giusto così. Io mi alzo in piedi, guardo Fler ma lui non mi ricambia l’occhiata. Fissa la propria pistola accarezzandola con lo sguardo e, sbrigativamente, anche con due dita, prima di riporla in una tasca interna della giacca. Non gli dico niente, né d’altronde lui dice niente a me mentre usciamo o mentre, con la sua macchina, riportiamo Bill e Bushido a casa loro, prima di tornare da me. Io resto seduto sul lato del passeggero a guardarlo guidare in silenzio, gli occhi fissi sulla strada, mentre Daniel prova a fare un po’ di conversazione e rinuncia al terzo tentativo andato a vuoto. Si sistema con la schiena contro il sedile di dietro, anche perché suppongo sia tutto un dolore e non ce la faccia proprio più a reggersi dritto con le sue sole forze, e nel farlo gli cade l’occhio sul suo zainetto gettato in un angolo. Lo solleva e lo guarda da ogni lato, spalancando la bocca in segno di stupore prima di riuscire veramente a parlare.
- Ma non è uno di quelli speciali! – sbotta, - Non c’è la toppa! È uno di quelli che tengo a casa per nascondere la roba! – si sporge in avanti, agitandomi lo zainetto davanti al naso, - Chakuza, mi dici come hai fatto a metterti nei casini se non è stato il mio zaino ad attirare quel malato mentale in tuta di pelle?
Io prendo atto dell’espressione assolutamente allucinata che mi lancia Fler ed incasso la testa nelle spalle, aggrottando le sopracciglia e fissando la strada che scorre lenta sotto la macchina al di là del parabrezza. Spiego quello che mi è capitato, partendo dal principio e ammettendo che, fondamentalmente, non c’ho capito un cazzo. Ma cos’è? Ora non si può più andare in giro dicendo di essere un cuoco che finisci catturato da un trio di decerebrati che si sono messi in testa per chissà che motivo che vuoi essere tu il new kid on the block? Ma anche no, è profondamente ingiusto. Mi premuro di dire anche questo a Daniel e Fler, che nel mentre mi guardano con aria sempre più sconcertata, spalancando occhi e bocche lentamente ma progressivamente, finché non scorgo nel fondo delle loro pupille azzurre inquietantemente simili che forse non lo faranno a voce alta, ma nella loro testa mi stanno deridendo. Ampiamente.
Naturalmente, l’unico a risparmiarsi di prendermi per il culo a voce alta è Fler, e solo perché suppongo fosse realmente preoccupato: stringe le mani attorno al volante e torna ad osservare cautamente la strada, mordicchiandosi l’interno di una guancia; Daniel, invece, si dà alla pazza gioia, rovesciando il capo sullo schienale del sedile e tenendosi la pancia mentre rotola qua e là in preda alla crisi di riso più devastante di tutti i tempi, talmente devastante, in effetti, che a un certo punto le sue risate cominciano a diventare rantoli seriamente addolorati.
- Oddio, - piagnucola, incapace di trattenersi, - ma non lo sai che chef sta per capo, nel ghetto? Oddio, sto soffocando! – uggiola, le lacrime agli occhi, - Mi fa male tutto e non riesco a smettere, Chakuza! – protesta, come se fosse colpa mia o potessi farci qualcosa, poi.
- Sì, be’, potresti sempre provare cominciando a tapparti la bocca. – suggerisco con un’occhiataccia, alla quale Daniel risponde intensificando volume e frequenza delle risate. Roteo gli occhi, inspirando profondamente e tornando a guardare la strada.
- Sei stato uno stupido. – dice Fler a bassa voce. Non mi guarda neanche e il suo tono è gelido, quasi preoccupante.
- Mi dispiace. – ammetto abbassando lo sguardo, - Non credevo che—
- Avresti dovuto essere più prudente. – insiste lui. Noto solo adesso che ha le nocche bianchissime, tanto sta serrando le dita attorno al volante. – Mi sono molto preoccupato, Peter.
Annuisco piano. L’eco delle risate di Daniel si fa sempre più distante. Lui sta ancora ridendo, ma Fler è molto arrabbiato, più di quanto non mi stia lasciando intendere mentre mi parla, e questo rende tutto automaticamente molto meno importante, o degno d’attenzione.
- Scusami. – dico mesto, - Non lo farò più.
Se mi comporto come un bambino che si sente rimproverato dallo sguardo severo di suo papà, è solo perché mi ci sento.
*
Daniel crolla addormentato sul divano nel momento esatto in cui io e Chakuza glielo copriamo con un lenzuolo ed un paio di coperte. È esausto, devastato, e chiaramente non ce la fa più a reggersi in piedi.
- Dio, mi fa male tutto. – ripete in un mormorio straziante, mentre appoggia la testa contro il cuscino. Non è tipo da lamentele continue, ma questa frase l’avrà ripetuta almeno dieci volte negli ultimi venti minuti, è come se non riuscisse a dire altro, o non riuscisse nemmeno a formulare nella mente parole differenti. Forse è in questi istanti, mentre gli sistemo addosso la coperta e lui si lascia sfuggire un mugolio sofferente prima di chiudere gli occhi ed espirare a fatica, che decido quello che farò. Lo decido tutto, seguo un filo che mi porta fino all’uscita del labirinto e vedo dov’è che andrà a finire, quali conseguenze comporterà questa mia decisione, e forse, in qualche modo, inconsciamente le sto già accettando tutte. Ma solo inconsciamente, e questo non è il momento di parlarne: mi limito a rimboccargli le coperte trattenendo a stento un’imprecazione e una smorfia addolorata quando sento il suo corpo magro tremare sotto le mie dita, e poi mi rimetto dritto e vado in cucina.
Chakuza sta armeggiando con la caffettiera, anche se l’orario non è proprio adatto per un caffè, soprattutto considerato il fatto che siamo entrambi a stomaco vuoto da stamattina.
- Dorme? – mi chiede nervosamente, - Pensavo di mettermi a cucinare qualcosa.
- Dorme, sì, e credo che continuerà a farlo fino a domani mattina. – rispondo io, inarcando un sopracciglio, - Che è la stessa cosa che dovresti fare tu.
- Non sono stanco. – ribatte lui, posizionando la caffettiera sul fornello ed accendendo il fuoco.
- Chaku, - sospiro, - hai appena detto di volerti mettere a cucinare qualcosa. Sei uscito da un magazzino all’interno del quale per cinque minuti siamo stati tutti trasportati in un episodio speciale di Walker Texas Ranger, non più di un’ora fa. Se il tuo desiderio di metterti ai fornelli adesso non è un chiaro segno di squilibrio mentale, non so davvero cos’altro potrebbe essere.
Chakuza sospira a propria volta, spegnendo il fuoco ed appoggiandosi al ripiano, lo sguardo basso, tutti i muscoli ancora tesi. Lo osservo a lungo, aspettando che decida cosa fare. Alla fine, lo sento sospirare un’altra volta, e lo vedo annuire lentamente.
- Hai ragione, sono un po’ scosso. – ammette, - Magari mi riposo una mezz’ora.
- Magari vai a letto e ti svegli quando sarai in grado di andare in giro senza sentire ancora il fischio dei proiettili dentro le orecchie, che ne dici? – chiedo piano. Lui mi solleva addosso un’occhiata sconvolta, sembra stia chiedendosi quando sono entrato nella sua testa e come ho fatto a riuscirci senza che lui se ne accorgesse. – Mi è capitato, qualche volta, di trovarmi in mezzo ad una sparatoria. – rispondo, scrollando le spalle e distogliendo lo sguardo, - Quando ero più piccolo.
Chakuza resta per qualche secondo in silenzio, come a digerire l’informazione.
- Eri molto simile a lui? – chiede dopo un po’, tornando a guardarmi negli occhi. Io scrollo le spalle ancora una volta.
- Avevo la stessa convinzione di poter riuscire a risolvere tutto con le mie sole forze. – rispondo, - Che è il motivo per il quale molto spesso ci riuscivo davvero. Io sono stato più fortunato, però. Non ultimo perché almeno mio padre non mi picchiava, anche se suppongo fosse solo perché non c’era.
Chakuza annuisce, restando appoggiato al ripiano.
- Intendi prenderti cura di lui, vero? – chiede quindi. Io annuisco. – D’accordo. – dice, e io non faccio in tempo a dirgli che non mi serve la sua approvazione, perché lui mi sorride, un sorriso dolce, vagamente colpevole, ma più di ogni altra cosa complice. – Voglio starti accanto.
Io sbatto le palpebre un paio di volte, incredulo.
- In che senso? – chiedo confuso.
- Quanti sensi esistono per una frase simile? – ride lui, - Io ti amo. – spiega quindi, e quando mi guarda riesco a leggergli dentro che è vero, che lo pensa e che lo pensa sempre, anche quando fa o dice una cazzata, anche quando sa di stare per farmi incazzare eppure non riesce ad impedirselo, so che è il pensiero fisso che lo accompagna senza ossessionarlo da quando si sveglia a quando va a dormire, indipendentemente da quanti altri pensieri gli ruotino intorno, e so che è giusto così.
Gli sorrido, sentendo tutti i muscoli del mio viso sciogliersi in un solo istante.
- Ti amo anch’io. – rispondo piano. Lo accompagno a letto e lo osservo addormentarsi standogli semplicemente sdraiato accanto. Lui mi si spalma addosso istantaneamente e per una volta è palese che lo fa solo per sentire il mio corpo contro il suo, perciò gli circondo il collo con le braccia e lo lascio fare, ascoltando il ritmo del suo respiro mentre rallenta e poi si stabilizza. Dalla stanza accanto proviene il russare sommesso di Danny, che ha il naso troppo pesto per respirare bene e quindi fa un sacco di piccoli rumori che usualmente non farebbe. Sorrido. Penso che mi piace quello che sento, e ripenso a Chakuza che mi chiede se intendo prendermi cura di lui.
Intendo farlo, Chaku. Intendo davvero farlo.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Commedia, Romantico, Erotico.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: NC-17
AVVISI: Slash, Lemon, OC.
- "Il succo della mia storia con Chakuza è questo, dopotutto: era una follia ma ci siamo ostinati al punto che ormai è normale. Lui si è ostinato a tirarmi verso di sé, io mi sono ostinato a ronzargli intorno, e ripetizione dopo ripetizione, saltando un ostacolo dopo l’altro, questo è il risultato che abbiamo ottenuto. Buono o cattivo che sia, non saprei giudicare. A me piace quando Chakuza mi mette le mani addosso. Altrimenti non glielo lascerei fare. È tutto davvero così semplice."
Note: Dunque, da questa shot in poi si apre un mini-ciclo di spin-off tutto dedicato al Flerkuza, visto da angolazioni e in modi sempre differenti. Quando abbiamo pensato di scrivere queste shot (si parla di ormai un paio d'anni fa... questa in particolare, per dire, oltre a essere stata pensata due anni fa, è anche stata scritta due anni fa, e poi rimaneggiata nel tempo per riallinearla ai vari avvenimenti che si sono susseguiti nel tempo, alcuni dei quali non erano stati da noi previsti ai tempi in cui l'ho scritta *cough*), non le avevamo pensate come un ciclo vero e proprio, ma a guardare il tutto nel modo più obbiettivo possibile appare evidente come, in SE e all'inizio di USW, il tempo dedicato al Billshido, per molte ragioni, sia stato di gran lunga maggiore rispetto a quello dedicato al Flerkuza. E invece anche loro hanno un mucchio di cose da dirci, perché si stanno ritrovando e stanno imparando a conoscersi di nuovo da capo esattamente come quegli altri due. Stanno ritrovando i loro automatismi e ponendo le basi per automatismi nuovi che potrebbero cementare la loro relazione ancora di più. E poi hanno un potenziale comico non indifferente. *ride*
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MARTYR

Mi viene da ridere perché appena entriamo in casa non passano neanche due minuti e Chakuza mi ha già messo le mani addosso. Non so da quando la cosa fra noi si sia fatta così naturale, so solo che lo è diventata. Sarà una questione di abitudine, suppongo. Intendo, puoi passare mesi a ripeterti continuamente “quello che sto facendo non è normale”, però se alla fine è sempre quello, ciò che fai, lamentarti perde senso.
A me succedeva sempre con Anis, per dire. Quando mi ha mandato a spacciare le prime volte ero tutto un casino e continuavo a ripetermi “ma io sono un tagger, io la cosa più cattiva che ho fatto è stata scavalcare la recinzione del deposito dei treni per andare a scrivere il mio nome sui vagoni in disuso, che ci sto a fare qui, in mezzo a gente che sembra più vecchia di me di vent’anni e contratta il prezzo dell’eroina al grammo?”. Provavo a fare il gran figo, quello che non aveva mai bisogno di niente e di nessuno, ma quando non avevo gente intorno ed aspettavo un fornitore o un cliente all’angolo di una strada, con lo zainetto pieno di roba e il vento che mi tagliava la faccia nei pomeriggi invernali nei pressi del canale, lo pensavo di continuo.
Sono rimasto in quelle condizioni lì per un paio di settimane. Forse meno. Alla fine, anche quello ha cominciato a diventare semplicemente normale, come tutto il resto. Io credo molto nel potere della ripetizione delle cose, peraltro. È per questo che, da quando Danny ha cominciato a rifarsi vivo, senza insistenza ma con costanza, non ho mai mancato di riferirlo a Chakuza, o perfino di coinvolgerlo in qualche uscita a tre. Non è che sia preoccupato, non è che voglia dimostrargli qualcosa, è semplicemente che so che sarà dura togliersi davvero Daniel di torno – sarà dura perché sostanzialmente non mi va di togliermelo di torno, la cosa avrebbe conseguenze cui non mi piace pensare e delle quali non mi andrebbe di essere la causa scatenante – perciò tanto vale che il Chaku ci si abitui, ad avere il ragazzino intorno.
E quindi glielo somministro giorno dopo giorno, perché è anche una questione di scambio, no? Chakuza mi somministra se stesso giorno dopo giorno, e io devo abituarmici, per forza di cose. Mi sta bene, ma che si abitui a qual cosina anche lui.
Il succo della mia storia con Chakuza è questo, dopotutto: era una follia ma ci siamo ostinati al punto che ormai è normale. Lui si è ostinato a tirarmi verso di sé, io mi sono ostinato a ronzargli intorno, e ripetizione dopo ripetizione, saltando un ostacolo dopo l’altro, questo è il risultato che abbiamo ottenuto. Buono o cattivo che sia, non saprei giudicare. A me piace quando Chakuza mi mette le mani addosso. Altrimenti non glielo lascerei fare. È tutto davvero così semplice.
Perciò, insomma, entriamo in casa, lui mi mette le mani addosso – da dietro, le fa passare fin davanti ed abbassa la zip del giubbotto – e perde giusto due secondi a mordermi sul collo, dove la mia pelle è fresca e rabbrividisce al contatto col suo fiato caldo, prima di infilarmi le mani sotto la maglia.
- Cha— - faccio per contestare l’esuberanza, ma lui mi spinge verso una parete e mi ignora, - Asp— - continuo, e mi passa la voglia di protestare quando la sua mano risale lungo il mio petto e mi sfiora un po’ ovunque, mentre le mie braccia restano incastrate nelle maniche della giacca. Mi passa la voglia ma protesto lo stesso. Prendo fiato e lo fermo: - Chakuza, siamo appena entrati in casa! – gli faccio notare, ma non posso fare a meno di ridere.
Lui mi morde di nuovo, e stavolta manda avanti anche la lingua. Lo odio quando fa così.
- Fler, tu parli troppo. – mi soffia in un orecchio, - Che hai da lamentarti, ancora?!
Cerco – a fatica – qualcosa di cui lamentarmi. La cerco fra la mano che ancora mi vaga addosso sotto la maglia e quella che slaccia le fibbie dei miei jeans; la cerco fra le sue labbra sul collo e la sua lingua che risale lenta verso il mio orecchio; la cerco fra quanto mi fa rabbia questa routine consolidata e quanto allo stesso modo mi piace.
Non trovo nulla e mi appoggio contro il muro con le mani.
- Fai quello che vuoi. – esalo arrendendomi, la fronte che sfiora la parete. Chakuza sorride in uno sbuffo e si sporge a sfiorarmi la nuca con la punta del naso. Io ci lascerò la testa, un giorno di questi. Lo so.
Mi si spinge contro ed io mi inarco un po’ perché indossa un paio di jeans troppo larghi e non è facile sentirlo bene addosso, ed è lì che sento la fitta.
Proprio alla base della schiena.
Spalanco gli occhi.
- Ahi! – mi lamento, voltandomi verso di lui con aria allucinata.
Lui mi risponde con lo stesso sguardo da triglia.
- Non ti ho fatto nulla! – si giustifica, sollevando le mani.
- Mi fa male la schiena! – motivo agitandomi. Cerco di capire perché e all’improvviso ricordo ieri notte. L’uscita serale, le birre, lui che mi spinge in macchina, io che tremo perché – non mi ricordo, cos’è che aveva addosso ieri sera?, comunque sia avevo una voglia assurda di scopare, non so nemmeno per quale motivo – e mentre siamo fermi al semaforo mi volto e lo guardo, lui mi lancia un’occhiata distratta, io abbozzo un sorriso senza significato, lui chissà che ci vede e svolta nel primo vicolo disponibile appena scatta il verde. Il ricordo successivo è il cambio piantato in un fianco mentre lui cerca di stendermi e incastrarmi fra i sedili anteriori ed io che mugolo scontento e gli dico “no” – un no che non vale un accidenti – e lui che mi sorride addosso e mi prende in giro, sussurrando “invece sì”.
Quando provo a protestare con un “non così”, tutto ciò che fa lui è aprire lo sportello, trascinarmi fuori per il cappuccio della felpa e stendermi sul sedile posteriore. Prima di strusciarmisi addosso. E a quel punto me ne frego se siamo in macchina, sinceramente.
La conseguenza di quegli atti osceni in luogo pubblico è che adesso mi fa male la schiena. Chakuza vuole scoparmi e Dio sa se, a questo punto – con lui pressato addosso e le sue mani ovunque – non vorrei accontentarlo, ma mi dibatto lo stesso perché fa male.
E Chakuza mi abbraccia.
Mi stringe da dietro e non mi molla.
- Se riesco a distrarti?
Io ringhio. Mi sta già distraendo.
- Mi fa male la schiena, non puoi distrarmi dal male alla schiena. – protesto con un cipiglio che cerco di far sembrare minaccioso.
- E se ci riesco? – continua lui, allargandomi un po’ le gambe, - Tu poi… - e mi sussurra all’orecchio qualcosa di assolutamente indecente.
- No! – strillo, cercando di sfuggirgli, - Queste cose vanno bene se sono fatte spontaneamente!
- Dai! – mi incita, strusciandosi ancora, - L’altra volta non è stato male!
- Potremmo evitare, per favore?!
Chakuza decide che no, non possiamo evitare, ed io provo a protestare per un lasso di tempo che dura due secondi netti. Al terzo secondo lascio perdere perché è tutto al suo posto: le sue mani sui miei fianchi, la sua bocca sulle mie spalle, lui dentro di me.
- C’è da fare la spesa… - mi dice a bassa voce, spingendo lentamente.
- …potremmo anche parlarne dopo… - borbotto offeso mentre scivolo con le mani sulla parete e mi inumidisco le labbra.
Chaku ride.
- Ma devo distrarti… - continua piano, - E poi, se domani vuoi le frittelle per colazione, servirà il burro.
- Io non voglio andare a fare la spesa… - mi lamento, e cerco di dare a quello che stiamo facendo un ritmo meno lento, perché così non reggo, - Vai da solo.
- Sei capriccioso come un bambino. – mi rimprovera lui, tirandomi indietro per baciarmi.
- Non ti conviene darmi del bambino adesso, ti pare? – rido, un po’ a corto di fiato.
Lui comincia a spingere un po’ più forte e, quando parla per darmi del cretino, usa quel tono roco e cupo che anticipa sempre il momento in cui si perde del tutto e smette di ragionare. So che fra qualche minuto in questa casa non si sentirà nient’altro che i nostri sospiri, e mi adatto, posando le mani sulle sue per fare in modo che mi stringa più forte alla vita. Quando lo fa prende sempre il punto giusto. Quello che fa smettere di pensare anche me.
Qualche minuto dopo siamo ancora lì contro quel muro. Chakuza sta respirando forte sulla mia spalla e cerca di recuperare il fiato, mentre io mi godo gli istanti di immobilità che me lo fanno sentire più di ogni altra cosa. È una cosa stranissima – ed incredibilmente imbarazzante – da dire, ma quando tieni qualcuno dentro in questo modo, così a lungo e con tanta ostinazione, è un po’ come non esistesse davvero nient’altro. C’è solo Chakuza, il suo calore, il suo odore e il suo respiro.
- Ma non dovevamo andare a fare la spesa…? – rido appena, staccandomi dal muro.
- Era solo una tecnica di distrazione… - protesta lui cercando di riportarmi nella posizione iniziale. – E poi mi devi ancora quello che mi hai promesso!
- Non mi hai distratto, - mento, - e poi non ti avevo promesso niente!
Lui grugnisce e si separa da me, deluso.
- Ne riparliamo quando torniamo a casa. – borbotta, - Ora, se vogliamo comprare davvero qualcosa che non siano gli scarti, dobbiamo muoverci.
Scoppio a ridere.
- La tua anima di cuoco pretende i ravanelli di qualità. – lo prendo in giro.
- Be’, magari non proprio i ravanelli… - riflette lui, mentre tira su i pantaloni, - Ti vanno i ravanelli?
Io rido ancora e mi rivesto, scuotendo il capo.
- Quello che vuoi, Chaku. – e lo vedo allontanarsi frettolosamente verso il bagno, mentre penso che magari dovrei farci una capatina anch’io.
Facciamo in fretta, perché Chaku è scemo ma alla cucina ci tiene davvero, e ritrovarsi con in mano i pomodori secchi per l’insalata gli dà fastidio. Il che mi porta a ridere, perché è un uomo che nel frigorifero arriva a tenere anche certi prosciutti che chissà chi gli porta – la madre, immagino – e rimangono lì a fare la muffa finché non sviluppano capacità di pensiero e di muoversi autonomamente. Però quando deve preparare la cena dev’essere tutto perfetto e fresco, o sclera. Vallo a capire. Potevamo chiedere alla signore Lotte, con la quale peraltro tornare a parlare, dopo che lui l’ha scelta come padre confessore qualche settimana fa, è stato imbarazzante come chiamare mia madre dopo che le foto di me ed Anis che ci imboccavamo a vicenda con le bacchette al Sushi Bar Ky sono uscite su tutti i giornali, ma lui no, lui s’è messo in testa di dover rifornire il frigorifero, e chi lo ferma più?
Insomma, finisce che come al solito gli do corda e ci ritroviamo fra i banconi del supermercato a cercare tutti i prodotti migliori, e mentre Chakuza litiga con l’addetto al banco frutta – colpevole di avergli rifilato delle pesche a suo dire quasi marce – a un certo punto sentiamo una risata cristallina di donna che ci colpisce entrambi per quanto è vicina e divertita.
Mi volto già sul piede di guerra, perché se è qualche ragazzina intenzionata a prenderci per il culo perché stiamo facendo la spesa insieme, le finisce male, così come le finisce male se è una qualche fangirl che ci ha riconosciuti e appena ci vedrà girarsi verso di lei si metterà a strillare attirandoci addosso l’attenzione di tutti i clienti del supermercato, ma quando i nostri occhi si posano sulla figura della ragazza Chakuza si irrigidisce immediatamente al mio fianco e perciò io lo guardo stupito e resto in attesa di qualcosa. Un segnale, magari, qualcosa che mi aiuti a capire perché. E invece non arriva niente.
Almeno da parte sua, perché invece da parte della stessa donna arriva un’altra risata, ed io mi volto nuovamente a guardarla. Si tratta una bella mora piccola e snella, con un culo meraviglioso fasciato in un paio di jeans che mi ritrovo a fissare con una certa soddisfazione per un paio di secondi, prima di ricordarmi che Chaku, accanto a me, ha ancora un’espressione sconvolta da annuncio di morte, e perciò dev’essere qualcuno che conosce, non vede da un sacco e magari non si aspettava di rivedere neanche adesso. Magari una sorella perduta, o un’ex. Non posso fissare il culo della sorella di Chakuza, figurarsi di un’ex, perciò la pianto.
- Ciao, Peter. – dice la donna, - Non mi presenti al tuo amico? – ed il modo in cui sottolinea la parola, caricandola di allusioni, in modo garbato ma pesante, mi imbarazza un po’.
- Klaudia… - la chiama lui, senza rispondere alla domanda e deglutendo a vuoto, - Che ci fai qui…?
Lei solleva il cestello rosso carico di cipolle e salumi, e si piega un po’ su un fianco in una mossetta carina e un po’ infantile.
- Ovviamente faccio la spesa. È quello che si fa nei supermercati, Peter! – lo prende in giro con un’altra risata.
- Sì, ovviamente… - biascica lui, ed io sollevo il nostro cestello rosso, per far capire alla signorina che noi non è che invece siamo venuti qui a girovagare e basta, eh. Dio, mi sento un cretino.
- Piacere, io mi chiamo Patrick. – dico alla fine, quando capisco che Chakuza non recupererà mai abbastanza grammi di materia grigia in tempo per presentarci prima della chiusura del supermercato.
- Klaudia. – ripete lei, stringendomi decisa la mano, - Allora è vero quello che si dice sui giornali di recente… - aggiunge con un tono vagamente malizioso, - Mi sembrava assurdo, pensavo fosse solo gossip, anche perché non c’erano foto né altro e non si facevano nomi precisi, ma… - ride un po’, - evidentemente invece è così.
Io e Chakuza non è che passiamo proprio tantissimo tempo a guardare la televisione o leggere giornali, diciamo che di questo si occupa Eko che in primo luogo non ha mai un cazzo da fare ed in secondo luogo vive pure da solo, quindi non deve preoccuparsi di aprire la porta di casa e vedersi assalito da un uomo che pare non tocchi un corpo umano da secoli, perciò alla fine è sempre lui che ci riporta queste notizie idiote. Ma ultimamente io e il Chaku ci siamo dati un po’ alla macchia, lo ammetto, a parte per le cene di famiglia che la coppia reale organizza di tanto in tanto e durante le quali evitiamo di parlare del nostro rapporto o di quello che facciamo, e così fanno anche gli altri, per evitare che Bushido trasecoli e diventi di un giallo più intenso della tinta della sua villa, perciò non ho la minima idea di che cosa stia discutendo Klaudia, e mi limito ad annuire al vuoto con aria idiota.
- Sì? – continua lei, guardandomi con interesse divertito, - Allora state—
- No! – la interrompe impetuoso Chakuza, risvegliandosi come da una trance, - Che razza di storie, ovvio che no. È che ai giornali non pare vero poter inventare cose simili, visto i rapporti che ci legano a Bushido e Bill… - motiva, ed io inarco le sopracciglia ma mi rassegno ad annuire, visto che decisamente non è il caso di mettersi a definire pubblicamente la relazione che portiamo avanti nel mezzo di un supermercato e davanti ad una donna il cui ruolo nella vita del Chaku mi è ancora ignoto.
Klaudia si mette a ridere ed annuisce comprensiva.
- Naturalmente. – conferma, - Comunque io sono l’ex-fidanzata di Peter. – annuisce, rivolgendosi nuovamente a me, che sull’ultima dichiarazione ci perdo anche un paio di battiti. Niente sorella perduta, peccato. – È un piacere conoscere l’eroe che gli ha salvato la vita.
Cerco di fare mente locale.
- Cos’è che avrei fatto? – chiedo ad alta voce, visto che non ho la più pallida idea di cosa stia dicendo.
Chakuza si spiaccica una mano sulla fronte.
- TRL, Fler, TRL… - mi ricorda. Io ho sempre difficoltà ad inquadrare quel momento. A parte il fatto che stiamo parlando di due anni fa, e sono due anni fa che sembrano due secoli fa, ma il punto reale è che fatico sempre a ricordarmi che ci sono solo due cose per cui l’opinione pubblica ricorda la mia persona in tempi recenti. Una è la sceneggiata di fronte agli studi di TRL, quando il Chaku è stato accoltellato – ero lucido, ricordo a grandi linee cos’è successo, ma i dettagli continuano a sfuggirmi. Se ci ripenso, vedo solo Bill accasciato a terra con suo fratello che lo tiene a stento, e Chakuza in una pozza di sangue – e l’altra è la mia relazione con Anis. Tutto sommato, sono contento che questa donna abbia deciso di tirare fuori una cosa all’interno della quale quantomeno ricopro il ruolo dell’eroe senza macchia e senza paura.
- Sì, be’, - dico a mo’ di battuta, - ho avuto modo di pentirmene, successivamente.
Klaudia ride. Chakuza per niente. A me la situazione generale sta sul cazzo e mi piacerebbe essere a casa di Sido a rubare la playstation a sua figlia. Considerato il fatto che sono uscito da quell’appartamento meno di un mese fa, direi che sto facendo dei considerevoli passi indietro nella mia scala evolutiva, e ciò non è bene.
- Uh, com’è tardi! – dice all’improvviso Klaudia senza nemmeno guardare l’orologio, - Devo andare, o non riuscirò a preparare la cena in tempo per il ritorno di Klaus.
Chakuza spalanca gli occhi.
- …stai con qualcuno? – chiede allucinato, e per un secondo a me viene da pensare “ma sì, già che ci sei buttati in ginocchio e piangi”, ma mi mordo la lingua e mi calmo.
Lei si ravvia una ciocca di capelli dietro l’orecchio e sorride timidamente.
- Sì, ci siamo sposati un paio di mesi fa. – confessa con imbarazzo.
- E… voglio dire, da quanto…?
- Oh, è stato… una specie di colpo di fulmine, sai? Non molto dopo che noi…
Ed è tutto un balbettare e un dire-non-dire. Mi viene da vomitare. Ma è mai possibile che, a parte me, quest’uomo sia in grado di intrattenere solo ed esclusivamente relazioni palesemente basate su stereotipi da Harmony di serie zeta?
- Non dovevi finire di litigare col fruttivendolo? – scollo apatico qualche secondo dopo. E Klaudia deve solo ringraziare la mia educazione miracolosamente a posto, se non le sorrido beatamente ricordandole che ha un Klaus da nutrire appena torna da lavoro e invece è ancora qui a rompere le palle a un uomo che non le compete più.
Chakuza si volta a guardarmi con aria severa, come quando intende dirmi “Fler, ti dispiacerebbe smetterla di comportarti così?”, che è un tono che di solito usa in quei rari casi in cui ancora mi capita di bere un po’ troppo – e quindi ho torto. Qui non ho torto. Almeno, mi pare. E comunque, di sicuro non sono ubriaco.
Pochi secondi dopo, Klaudia sparisce in una nuvola di profumo cinguettando arrivederci e a presto, ed io mi dirigo con passo marziale verso le casse, decidendo che delle pesche non mi frega, nemmeno dei ravanelli o del burro per le frittelle di domattina. Odio essere così umorale, ma non volevo nemmeno uscire e questa situazione mi ha scazzato parecchio. Perché Chakuza è geneticamente incapace di concentrarsi su una sola persona per volta? Cristo.
- Fler? – mi chiama lui, affiancandomisi, - Non abbiamo preso—
- Sai che m’importa. – taglio corto, mettendomi in fila. Lui mi fissa con disapprovazione.
- Sei stato molto maleducato. – mi riprende, neanche avessi due anni.
- No, tu sei stato uno stronzo, io ho solo agito di conseguenza. – gli ricordo.
Lui inarca le sopracciglia, supponente.
- E cos’avrei fatto di così stronzo? – chiede, mentre riusciamo finalmente ad arrivare al nastro trasportatore e cominciamo a svuotare il cestello.
Faccio per descrivergli esattamente quanto mi abbia infastidito il suo atteggiamento stile “amore-della-mia-vita-non-ti-ho-mai-dimenticata”, ma mi rendo conto che suonerei ridicolo, perciò mi freno. È il dramma di questa storia: siamo due fottuti maschi, e questo è un problema sotto svariati punti di vista. Ci sono cose che semplicemente non possiamo permetterci di fare, o almeno così sono convinto, ma solo perché non l’ho ancora visto scuotere il capo e pestare con forza una scatoletta di tonno sul nastro trasportatore, prima di voltarsi a guardarmi, furioso.
- Sei ridicolo! – mi sbotta in faccia, - E non provare nemmeno a fare finta di non sapere perché te lo sto dicendo, perché se solo ci provi ti giuro che ti lascio a piedi. Con la spesa.
Aggrotto le sopracciglia.
- Non sono assolutamente ciò che tu pensi io sia! – mi lamento, caricando sul nastro la lattuga fresca, - Sei tu che dai spettacolo sbavando per la tua ex nel mezzo di un supermercato!
- Oh, sì che lo sei! – continua lui, furioso, gettando sul nastro i pacchi di pasta, - Li conosco i tuoi sguardi, e quello è proprio uno sguardo—
- Non dirlo nemmeno per scherzo!
- —geloso, Fler, uno sguardo geloso, e piantala!
Qualcuno tossicchia di fronte a noi e noi solleviamo lo sguardo. Il cassiere ci scruta con aria allibita.
- C’è… c’è qualche problema, signori?
Di problemi, vorrei rispondere, ce n’è una lunghissima lista, ma non è il caso di sciorinarli tutti a questo pover’uomo che vuole soltanto farci pagare e costringerci a sparire da qui – immagino che dopo quest’episodio saremo banditi dalla maggior parte dei supermercati di Germania – perciò trattengo le lamentele e lascio perdere, tirando fuori il portafogli mentre Chakuza borbotta delle scuse assolutamente incomprensibili e va a mettere tutta la roba nei sacchetti di plastica. È talmente furioso che, per una volta, si dimentica perfino di provare a pagare lui per primo come in genere fa sempre.
In macchina, mi sta ancora tenendo il broncio. Neanche avessi fatto chissà che.
- La vuoi piantare di ignorarmi? – gli tiro una mezza gomitata, e lui si scazza subito e mi urla che se voglio farlo morire in un incidente d’auto, tanto vale che gli manometta direttamente i freni, senza provare a farlo sbandare così a caso. Io gli strillo che è un coglione e che se magari la pianta di esagerare è meglio, ma lui non si rassegna, e continua a ringhiare.
- Abbiamo dato spettacolo! – mi fa notare, come non me ne fossi già accorto da solo.
- Sì, be’, hai insistito tu per parlarne di fronte al cassiere. – borbotto, abbassando lo sguardo sul sacchetto pieno di ortaggi che ho in grembo.
- Non è che volessi parlarne di fronte al cassiere, Fler! – sospira lui, esasperato, - Mi sono incazzato!
- Tu t’incazzi sempre quando non hai il minimo diritto di farlo. – scollo freddamente, scrollando le spalle, - E infatti puntualmente fai stronzate, quando succede.
Lo so che è una bastardata colossale, tirare fuori sempre quest’argomento quando non mi piace dove sta andando a parare la discussione. Non è neanche qualcosa che dico, quanto più il suono della mia voce, così diverso da quello che uso solitamente con lui, e Chakuza sa che, quando parlo in questo modo, sto parlando di quella notte, perché quello che è successo quella notte è l’unico vero torto grave che Chakuza mi abbia mai fatto. Se non uso quello, non ho nient’altro con cui combatterlo.
Lui, comunque, incassa silenziosamente, e zitto rimane – le mani strette attorno al volante e lo sguardo fisso sulla strada – per una quantità infinita di minuti. Almeno fino a quando non sono io a rompere nuovamente il ghiaccio. Usando l’argomento peggiore di tutti, suppongo.
- Com’è che sono andate le cose con quella Klaudia?
Mi lancia un’occhiata sconvolta, fermandosi al semaforo.
- Non voglio parlarne con te. – borbotta offeso, - Non voglio neanche parlare con te in generale.
Sollevo il medio e lo mando a fanculo. Lo sento sospirare qualche secondo dopo.
- Fleeer… - mi chiama, come fa sempre quando vuole mettermi in imbarazzo, perché io quando sono imbarazzato non sono più in grado di restare arrabbiato. Odio che mi conosca così bene. Mi fa sentire più indifeso di un bambino. – Senti, scusa. Oggi non avevamo ancora litigato, è palesemente per questo che—
- Abbiamo mica il cartellino da timbrare ogni giorno. – protesto sgarbatamente, sempre senza guardarlo.
Lui sbuffa una mezza risata.
- Ognuno ha le sue abitudini. – dice pacato, - Noi abbiamo le nostre. Comunque sia, - cambia argomento, - non ho un problema a parlare di Klaudia. Non ho un problema neanche con Klaudia.
- Oh, no, figurati… - lo prendo in giro, e lui ride subito.
- Okay, senti, siamo stati insieme un po’. Un bel po’. – ammette, - Mia madre era già partita con tutta una serie di film mentali con matrimonio e centinaia di bambini. E non è che l’idea mi dispiacesse, in realtà, però insomma, è sempre un casino portare avanti queste relazioni, col lavoro che facciamo noi. Lo saprai, no?
- Io ho scopato un sacco ma non mi sono mai fatto problemi di nessun tipo, Chaku. – gli faccio notare, - Questa mania dell’accasarsi è una cosa che non condivido.
Lui grugnisce ed a me viene voglia di correggermi e dire che non la condividevo fino a qualche tempo fa. Qualcuno dovrebbe ricollegare la spina che Chakuza ha staccato dal mio cervello quando ci siamo conosciuti.
- Insomma… - riprende, guardandomi malissimo, - Tant’è, non funzionava. Litigavamo di continuo e lei proprio non riusciva a reggere i miei ritmi, e—
- I tuoi ritmi, Chaku? – spalanco gli occhi, - Ma se lavorava palesemente solo Bushido, all’Ersguterjunge! Era lui quello da un album all’anno! Voi ne avevate uno ogni due-tre ed una canzone solista nei Sampler, se vi andava bene! I tuoi ritmi lavorativi sono i miei ritmi festivi! – Chakuza deglutisce e non mi guarda. Io piego il capo. - …e tu non stavi parlando di ritmi lavorativi. – deduco qualche secondo dopo, inarcando le sopracciglia. – Chaku, non starai mica dicendomi che—
- Non è necessario specificarlo. – dice gelido, aggrottando le sopracciglia.
- Oh, no. – scuoto il capo io, - Mi hai dato del geloso di fronte a decine di persone. Il cazzo non c’è bisogno di specificarlo. Allora la tua infinita voglia di scopare non è un problema mio, è proprio una cosa tua! Una qualche malattia seria!
- Be’? – sbuffa lui, contrariato, - Eri convinto di avere qualche merito particolare?
- Se non freni la lingua avrò il merito di tagliarti i coglioni e gettarli nelle fogne. – minaccio a bassa voce, - Cioè, la sfinivi e lei ti ha mollato?
- Non è andata affatto così! – strilla isterico.
- È andata esattamente così! – ribatto io, girandomi sul sedile per guardarlo meglio, - Dio mio, Chakuza! Ma quanto insistente devi essere stato per esasperarla al punto da—
- Ehi, sono un uomo sano con un fisico sano ed ho dei sani bisogni!
- Tu non hai dei sani bisogni, tu hai un unico pensiero fisso nella testa e da lì non ti muovi neanche morto!
- Ma ti ho portato a fare la spesa!
- E prima abbiamo scopato!
- Be’, una volta!
- E se ti avessi detto che stanotte volevo andare a dormire a casa mia?
- Naturalmente ti avrei legato al letto.
- Chakuza!
- Che c’è?! Sto cercando di essere sincero!
Rimango lì a fissarlo a bocca aperta e lui guarda me per un secondo infinito. Deglutisco ed indico un posto macchina libero sotto casa sua.
- Parcheggia. – biascico, - Sei tremendo ed io non ho parole.
- Sarebbe la prima volta. – commenta infilandosi nel posto vuoto ed alzando gli occhi al cielo.
- Non giocare al maritino esasperato con me, Chaku, - lo minaccio io, agitandogli un dito davanti al naso, - non ti chiami Klaus ed io non sono Klaudia e, per tua informazione, punto primo: stanotte dormo a casa mia, punto secondo: starò quanto più possibile lontano dal tuo letto per i prossimi dieci anni e punto terzo… che stai facendo?
Lui nemmeno mi guarda.
- Abbasso il sedile.
- Sì, questo lo vedo. – annuisco compito, - Ci sono io sopra.
- Appunto. – risponde, e mi è addosso il secondo dopo.
- No! – strillo, cercando di tenerlo lontano piantandogli le mani sul petto, - Di nuovo in macchina no!
- Eddai, Fler! – sbotta, ficcandomi scorrettamente un ginocchio fra le gambe.
- Ma cos’hai, quindici anni?! Dio mio! – mi lamento, cercando una posizione più comoda mentre già lui mi costringe ad allargare le gambe e sento la pressione tristemente familiare del cambio contro uno stinco. – Non stento a credere che quella povera donna sia scappata urlando.
Lui ride divertito – mi piace quando ride così, sembra davvero un ragazzino – e si china a mordermi il collo.
- Tu non scapperesti. – mi sussurra all’orecchio, ed io rabbrividisco e mi arrendo, stringendogli le gambe attorno alla vita. Chakuza ride ancora e mi bacia velocemente. – Sai cosa penso, Fler? – mi chiede, ed io scuoto il capo, - Probabilmente a me serviva un uomo.
Io sospiro e mi passo una mano sugli occhi.
- No, probabilmente a te serviva un martire.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia.
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Bushido, David/OMC.
Rating: PG-15
AVVISI: Slash, Lime, OC.
- "Due giorni fa, al KaDeWe, ho visto un paio di pantaloni meravigliosi, di pelle, attillati in maniera indecente, praticamente due guanti."
Note: Sì, lo sappiamo, questa shot è inutilmente enorme ma è divisa in cinque comode rate (una per ogni POV) in cui vi sarà più facile leggerla, magari mentre siete al gabinetto e avete finito il venerdì di Repubblica. Come sia nata questa faccenda dei pantaloni io non me lo ricordo, ma quasi sicuramente risale a due anni fa perché questa serie, che ci crediate o no, era in programmazione da che Bushido e morto, ed è stata plottata nei dettagli all'inizio di SE, quindi figuratevi xD
Con questo le scosse di assestamento sentimentale si considerano concluse. Possiamo dare il via... a tutto il resto.
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L’INCRESCIOSO CASO DEI PANTALONI DI PELLE (A MEZZANOTTE)

Il telefono squilla, ed io ho tutto il tempo per rimpiangere i bei tempi andati in cui tutta la gente che frequentavo abitualmente si odiava o non poteva vedersi per motivi vari ed eventuali, prima di rotolare sulla pancia – e su J.J. steso accanto a me, naturalmente – ed artigliare il cellulare abbandonato sul comodino accanto alla sveglia. Sveglia che, peraltro, indica le ore sette del mattino. Nessun cantante ha mai da fare alle sette del mattino. I cantanti dormono ancora profondamente, alle sette del mattino, e così fanno i loro manager, naturalmente. Prego che non sia Bill, prego che sia mia madre che mi chiama per annunciarmi qualcosa di incredibilmente grave, prego sia Tom che mi cerca nel panico perché dal suo losco passato di sedicenne imbizzarrito è venuta fuori una groupie con un figlio di tre anni in cerca di un assegno di mantenimento, prego che sia qualcosa, insomma, che dia un senso a questo mio svegliarmi all’alba mentre sotto di me un uomo con addominali perfettamente scolpiti anche nella placidità del sonno inspira ed espira profondamente, sistemandosi appena per permettermi di restargli appoggiato addosso mentre prendo il cellulare fra le mani e ne scruto il display illuminato con aria perplessa.
Prego intensamente per tutto ciò, e invece, ovviamente, è solo Bill.
Mi abbatto già esausto su quella paradisiaca superficie che è la meravigliosa pancia di J.J., e lui comincia immediatamente ad accarezzarmi la nuca. Non capisco se dorma ancora o meno, ma comunque non m’importa, quest’uomo è palesemente il modo in cui il karma cerca di riequilibrarsi ridandomi gioia dopo avermi riempito di dolore fino ad ora, e quindi egli, se vuole, può continuare a dormire mentre mi accarezza come fossi un gatto. Dio lo benedica.
- Pronto? – biascico con aria palesemente poco compiaciuta, sperando che Bill capisca l’antifona e strilli “ho sbagliato momento, penso fuggirò in Papuasia per i prossimi tre mesi!”. Naturalmente, però, è di Bill che stiamo parlando, perciò lui strilla comunque, ma naturalmente per dirmi tutt’altro.
- Dada! – cinguetta felice, - Come ti senti oggi?
- Assonnato, Bill. – rispondo, - Come ogni giorno a quest’ora. Si può sapere cosa ci fai già in piedi? Il tuo tappeto rosso non si srotolerà prima di un altro paio d’ore almeno, all’incirca.
- Anis non ne voleva proprio sapere di lasciarmi in pace, stamattina. – borbotta lui, falsamente corrucciato, mentre io realizzo che ha usato l’espressione stamattina e che ciò implica una mattina più mattiniera di questa, che a me pare già mattiniera a sufficienza. Bushido, io e te dovremo parlare a lungo, quando mi sarò rimesso completamente in forze. – Ha cominciato subito a tocchicciarmi appena gli ho portato la colazione, e allora—
- Non voglio sapere i particolari, Bill. – sospiro stancamente, - Sono cose che ho avuto modo di apprendere con dovizia di particolari negli anni, il ripasso conservalo per quando avrai dei figli gay a cui somministrarlo.
Lui borbotta confusamente qualcosa che assomiglia molto ad una protesta perché non lo lascio esprimere nel modo che lui trova più consono, ma fa presto a riacquistare il buonumore quando insisto a chiedergli cosa voglia da me in questo preciso istante. Lo sento trillare come un campanellino scosso dal vento e battere entusiasticamente le mani come il mentecatto treenne che diventa quando crede di avere avuto un’idea meravigliosa, ed alzo gli occhi al cielo perché so già che invece non sarà proprio niente di eccezionale.
- Senti, senti, - mi dice infatti, con aria vagamente cospiratoria, - ho avuto un’idea meravigliosa.
- Sento, sento. – gli faccio eco io, abbattendomi sul fianco di J.J. Al momento, le sue dita fra i miei capelli sono l’unica cosa che mi tenga lontano dalla pazzia.
- Ho pensato, sono passati già un paio di giorni da quando sei stato dimesso, no? – chiede con gioia. Io inarco un sopracciglio.
- No, Bill. – rispondo, - Sono stato dimesso ieri. Meno di dodici ore fa, in realtà.
- Dettagli. – mi liquida lui, del tutto disinteressato alla precisazione che io invece ritengo essere di una certa importanza, - È passato comunque abbastanza tempo da non dover temere che, per esempio, mangiando un piatto di sciorba tu possa aprirti e spargere budella nel mio salotto, no?
- Bill. – mugolo con dolore reale, passandomi una mano sugli occhi, - Un piatto di sciorba mi ucciderebbe anche se fossi perfettamente in salute. E poi c’è la carne, io non la mangio la carne, ma che te lo ripeto a fare? Mi conosci da un millennio e se non ti è ancora entrato in testo dubito che lo farà mai.
- Sì, infatti sarebbe senza carne, mi pare ovvio. – ribatte lui, quasi oltraggiato dalla mia palese mancanza di fiducia nei suoi confronti. – Senza carne va bene?
- La carne è il minore dei problemi della sciorba, Bill. – gli faccio presente, - In quella roba, fra fagioli, ceci, triplo concentrato di pomodoro e peperoncino, c’è tanto di quel potenziale omicida che non riesco a credere che cucinare e servire una pietanza simile, pur nel privato, possa essere una pratica legale in un paese civile quale la Germania è.
Lui resta in silenzio per qualche secondo, ponderando la questione, e poi sbuffa.
- Non importa, ne mangerai di meno. – conclude quindi.
- Bill! – lo rimprovero io, sconvolto, e lui sbuffa ancora.
- Non voglio andare da Karima per dirle di cambiare menu! Ha già preparato tutto! Non c’è abbastanza tempo per chiederle di cucinare altra roba! – butta lì, come se queste fossero cose che nella mia testa dovessero avere un senso. Non ce l’hanno, però, è evidente. Non c’è abbastanza tempo perché? Che appuntamento è stato preso al posto mio mentre io mi rilassavo fra le possenti braccia di J.J.? Ho quasi paura a chiederlo. Ma devo.
- Bill. – dico piano, inspirando ed espirando profondamente, - Di cosa diamine stai parlando?
Bill si interrompe ancora, riflessivo.
- Ho invitato tutti! – dice quindi, ostinandosi a non dirmi quale sia invece il fulcro della questione, limitandosi a lasciarlo scivolare fra le parole.
- Bill. – lo chiamo con disappunto. Lui mi ignora.
- Ho pensato fosse una cosa carina! – insiste.
- Bill! – insisto anch’io.
- Non arrabbiarti! – piagnucola lui, - Ho organizzato una cenetta qui a casa di Anis, in tuo onore, s’intende, e ormai è tutto organizzato, vi aspettiamo tutti per le sette e mezza, quindi più o meno fra altre dodici ore esatte, quando sarai stato dimesso da ventiquattro ore piene, e volevo avvertirti! Mi sembra che la scelta di tempo sia stata sufficientemente buona, tu che dici? – chiede quindi. Faccio per protestare che no, ma mi rendo conto che non sta parlando con me, perché Bushido gli risponde con una risata incredibilmente divertita, e allora io capisco.
- Bill. – lo chiamo per l’ennesima volta, atono, - Passami tuo marito.
- Ma Dadaaa. – sbuffa lui, mugolando risentito. Io non dico una parola e spero che lo sguardo disapprovante che sto lanciando alla parete bianca di fronte a me travalichi i limiti spaziotemporali che lo separano da Bill e gli appaia come in sogno. Forse questo non succede davvero, ma un paio di secondi dopo sento una risata familiare alla cornetta e so che sono stato telefonicamente introdotto di fronte al signore e padrone di tutti i popoli e specialmente di questo sparuto gruppo di persone che siamo e che non hanno ancora deciso di prendere tutti il primo aereo per i quattro angoli più distanti del globo al solo scopo di liberarci dal suo giogo oppressore.
- Bushido. – dico severamente, - È stata una tua idea?
- La cena no. – risponde lui, con tutta la sincerità di questo mondo, - Chiamarti alle sette del mattino sì.
- Ma sei un cretino o cosa?! – strillo io, agitandomi e piantando un gomito nella parete addominale di J.J., che sarà perfetto ma in fin dei conti è fatto di carne e sangue anche lui, e nel momento in cui il mio gomito si piazza fra le sue povere viscere strabuzza gli occhi, sputa un considerevole sbuffo di fiato e si piega in due, obbligandomi a rotolare fino ai piedi del materasso mentre ancora mi dimeno come un esagitato. – Ma ce l’hai un minimo di rispetto per l’altrui persona?! E, cosa ancora più importante, ma non hai proprio un cazzo da fare nella vita, tu?! Hai un ragazzo, adesso, vivaddio ti è stato restituito pressoché intatto perché palesemente anche il karma ti è asservito senza un motivo ben preciso, e tu cosa fai? Perdi il tuo tempo chiamando me, o facendomi chiamare dal suddetto ragazzo, invece di approfittare del suo giovane corpo fremente di desiderio al tuo fianco! Sei una vergogna per la tua razza, ritirerò il tuo patentino di omosessualità immediatamente, appena verrò a casa tua.
Bushido, naturalmente, ride per tutto il tempo, dalla prima all’ultima parola. J.J. striscia sul materasso rantolando e poi si alza in piedi, annunciandomi che si farà una doccia e poi andrà a lavorare, lui che un lavoro serio ce l’ha. Io mugolo “nooo, non te ne andare”, e J.J. ride, e Bushido ride pure lui, e riesco perfino a sentire la risata di Bill, un po’ più distante, perché lui è come i neonati, che quando ti vedono ridere ridono pure loro per imitazione. Siccome immagino cosa dev’essere vedere Bushido ridere mentre il suo viso è incorniciato dai suoi lunghi e morbidi capelli corvini e tutto il mondo ritrova la pace sul suono della sua voce, non fatico a credere che Bill stia ridendo come un mentecatto perfino in questo momento, ma il risultato finale è solo che tutti ridono, e ridono di me, e io li odio. Mi rannicchio ai piedi del letto e sbuffo platealmente, sono molto arrabbiato e Dio, mi sento così bene che alla fine scoppio a ridere a mia volta, nella soddisfazione di tutti, mentre dal bagno cominciano a venire i suoni tintinnanti dell’acqua lungo le pareti della doccia e Bushido schiocca un discreto bacio di trionfo sulla guancia di Bill. Sospiro profondamente. Sono felice davvero.
- Jost. – mi chiama Bushido, la sua voce è allegra ma è venata da quel pizzico di serietà che utilizza sempre quando sta per dirti qualcosa di veramente importante, perciò mi metto sull’attenti e drizzo le orecchie, per ascoltarlo al meglio. – È una cosa di cui abbiamo tutti molto bisogno. – mi dice con franchezza. Io penso a loro due, penso a quegli altri due e alla loro inaspettata quanto inopportuna entrata a pieno titolo nel mondo delle coppie omosessuali dello showbiz tedesco ed annuisco.
- D’accordo. – confermo a voce, visto che nessuno qui può vedermi, - A stasera.

Tutti noi qui abbiamo bisogno di una cena in famiglia, e ciò è molto vero. È vero soprattutto perché fino a un mese fa, non volendo considerare il ritorno di fiamma fra i gemelli, l’unica coppia che avesse ancora senso definire tale era quella composta da Tom e Cassandra, mentre tutti noialtri andavamo in giro ramenghi, privi di un amore e di uno scopo per cui valesse la pena vivere.
Ebbene tutto questo è cambiato nel giro di tre giorni quando, dopo un mese di convivenza a casa di Bushido – a mio parere inutile e paragonabile solo ad un lungo e melenso preliminare platonico – la coppia reale s’è ritrovata rifulgendo splendore e spargendo nell’aria tedesca un miliardo di minuscole particelle subatomiche cariche di energia omosessuale positiva. Tale energia ha permesso a me e J.J. di continuare a vederci anche se lui non doveva più passarmi creme cicatrizzanti sulla pancia, e non solo, ha portato alla luce anche delle tragiche vibrazioni nella forza, e queste vibrazioni nella forza hanno prodotto una relazione fra Fler e Chakuza. Per molto tempo, tutti noi abbiamo aspettato che anche Eko Fresh ci presentasse il proprio ragazzo, cosa che almeno ci avrebbe rassicurato sulla follia generale, ma ciò non è mai accaduto, per cui ci siamo dovuti arrendere al fatto che fra Fler e Chakuza non c’era proprio niente di folle, e che quindi questa gente ci doveva quantomeno delle spiegazioni.
Insomma, viene fuori che in realtà ad accostare le parole Fler, Chakuza e gay si ottengono un mucchio di ricerche correlate stile Google, di alcuni risultati delle quali Bill era perfino a conoscenza!, che portano alla luce numerosi dettagli come il fatto che in realtà Fler e Chakuza avevano già una storia un millennio di anni fa, poi s’erano lasciati, poi s’erano ripresi, e via così lasciandosi e riprendendosi a fasi alterne a seconda che Bushido fosse vivo o morto, che Bill fosse o meno disponibile e che gli astri fossero o meno allineati. Nella storia, a un certo punto, s’è inserito un ragazzino minorenne biondo di cui so poco e intendo continuare a sapere poco. Le uniche informazioni in mio possesso sono il suo nome – Daniel – la sua età e il dettaglio per cui mentre Bushido era in tour a farsi uccellare da Bill e Chakuza, lui invece era a Berlino e si occupava di Fler, rimasto solo a leccarsi le ferite, facendosi in un certo senso uccellare anche lui, ma in modo diverso.
Ora, vi lascio immaginare quale possa essere stata la reazione di Bushido a tutto questo: io e lui eravamo in pratica gli unici in qualche modo coinvolti a non sapere un beneamato piffero di tutti questi intrecci sentimentali, ma mentre per me si trattava in fondo solo di una serie di informazioni di cui prendere atto, per lui è stata una tragedia; era un uomo felice, stava vivendo una nuova primavera, e in un colpo solo scopre non solo che Chakuza gli ha manomesso entrambi i fidanzati, ma che uno dei due, mentre lui era lontano, l’ha tradito con un imberbe del ghetto. Onta e disonore. È rimasto immusonito per settimane.
In pratica, nel giro di un periodo di tempo troppo breve e palesemente insufficiente a metabolizzare il tutto come sarebbe stato giusto, ci siamo ritrovati a passare dall’essere un gruppo di persone eterogeneo con variabili di omosessualità sparsa, a diventare una cooperativa gay a tutti gli effetti, di quelle che hanno tesserini, liste elettorali e tasse d’iscrizione. Non so se rendo l’idea. Non è che ci serva una cena, ce ne servono trecento per entrare nell’ordine di idee, ed altre trecento almeno per abituarci al tutto.
Perciò, è non dico con piacere, ma con coraggioso spirito di sacrificio che mi presento a casa di Bushido all’orario convenuto, portando J.J. con me. Tra l’altro, lui è stato meraviglioso: avrebbe tranquillamente potuto dirmi che lui con questa mandria di scoppiati non ha niente a che fare, che non è nemmeno il mio medico, cosa peraltro vera, e che solo una combinazione di eventi e l’anzianità del dottor Neuer l’hanno portato a doversi prendere cura di me e poi a diventare il mio ragazzo, e che per tale motivo potevo venire qui da solo e ci saremmo visti al limite in nottata o al massimo l’indomani mattina, e invece s’è dimostrato molto disponibile, e brillando di luce propria s’è offerto di staccare prima da lavoro per passare da casa mia e venire qui insieme, invece di presentarci separatamente. Dopo questo, gli ho chiesto di sposarmi, ma lui ha riso e mi ha scompigliato i capelli come se fossi un tredicenne. Qui nessuno capisce che il mio desiderio di metter su famiglia con un Adone buono come un santo è tremendamente reale e forte.
Comunque, a cena ci sono tutti. Ci sono Tom e Cassandra, Fler e Chakuza, Eko e Kay One – non nel senso di coppia, fortunatamente, solo nel senso degli unici due uomini spaiati presenti a tavola, anche se in realtà Kay One la ragazza ce l’ha e tutti sappiamo che esiste perché è Mandy delle Monrose, ma non ce l’ha mai presentata e suppongo sia perché lei davvero con questa follia non vuole avere niente a che fare – io e J.J. e naturalmente i padroni di casa. Del minorenne del ghetto non c’è traccia, probabilmente perché Fler l’ha lasciato e lui non deve averla presa molto bene, come qualunque minorenne del ghetto o meno, e anche Karima non c’è, ha la serata libera, e questo dà a Bill l’occasione di fingersi una massaia e portare a tavola pietanze come fossero frutto del suo duro lavoro, cosa che tutti quanti sappiamo non essere vera, anche se nessuno, vedendolo così felice e soddisfatto di sé, ha cuore di farglielo notare.
La conversazione inizialmente è stagnante. Non ci ritroviamo così tutti assieme da… forse non è mai successo di ritrovarsi così tutti assieme, per dire la verità, per cui i primi minuti siamo tutti molto freddi e ingessati. Facciamo i complimenti (immeritati) a Bill per la sciorba, che nonostante non abbia neanche un pezzettino di carne in sé è pesante come un macigno, parliamo del lavoro, di quanto sia dura ultimamente per le case discografiche investire alla cieca visto il clima di recessione generale, parliamo perfino del tempo e del fatto che quest’anno abbia cominciato a fare freddo prima del solito, e poi, quando siamo qui sull’orlo della tragedia che pensiamo già con disperazione di parlare della morte del polpo Paul giusto per darci qualcos’altro da dire, Eko comincia a delirare qualcosa di sostanzialmente incomprensibile su quanto sia buffo stare a tavola tutti insieme e quanto tutto questo lo faccia sentire in una puntata di Verbotene Liebe “ma più gay, cioè, ancora più gay”, e questo fa la magia.
Non è che succeda qualcosa di particolare, semplicemente ci mettiamo tutti a ridere e sentiamo che queste risate non sono false, non suonano strane, anzi, c’è una certa chimica che le avvolge, le fa risuonare nel modo giusto in questa stanza ed alle nostre orecchie, e quando smettiamo di ridere ci guardiamo e c’è una nuova consapevolezza che ci pervade tutti. È una vocina sottile e ancora un po’ timorosa che ci spiega che adesso è troppo presto per fare passi da giganti, per dire “è già tutto a posto”, ma al contempo ci rassicura sul fatto che ci stiamo muovendo nella direzione giusta, e non sarà stasera, e probabilmente neanche durante la prossima cena che faremo, ma se continueremo di questo passo prima o poi ritornerà tutto a posto davvero, e questi fili monchi che pendono potremo riallacciarli correttamente, e i nodi saranno stretti abbastanza da non sciogliersi più.
È con questa voce carezzevole che ancora mi riecheggia nelle orecchie che, un paio d’ore più tardi, mi appresto a salutare tutti ed andare via. Una decina di minuti fa, Bill ha fatto una marea di scene, s’è stiracchiato, ha sbadigliato ampiamente almeno trenta volte e poi, con voce fintamente impastata dal sonno, ha annunciato di essere molto stanco e di volere andare a dormire. Un modo molto tenero per dirci che la rimpatriata gli era piaciuta ma ora voleva restare solo con Bushido, per cui se avessimo potuto levarci di torno senza fare grandi storie lui l’avrebbe apprezzato moltissimo.
Unanime, un coro di “sì, effettivamente s’è fatto un po’ tardi” s’è sollevato da tutti gli astanti, e questo nonostante fossero appena le dieci e mezza. Il potere della persuasione, dei cui mistici segreti Bill è sempre stato gran custode e conoscitore. Quindi Bill s’è alzato da tavola, ha salutato tutti come quei bambini che vanno a letto presto e lasciano i grandi a discutere delle loro faccende e s’è defilato al piano di sopra. Noi ci siamo lanciati tutti una serie di occhiate vagamente confuse e vagamente divertite, e poi abbiamo cominciato a defluire verso l’uscita.
Io e J.J. ci allontaniamo per primi, anche perché la sciorba comincia a fare effetto e io sento di essere pronto alla morte. Lo faccio presente a J.J. che si offre di restare con me stanotte, cosa che io apprezzo enormemente. Di ciò che segue la mia dipartita verso casa non posso parlare, perché non c’ero, ma alla luce di ciò che se ne racconterà favoleggiando nei giorni successivi, penso che passerò il resto della mia vita a rimpiangerlo. E se si tiene presente che questa cena e questa serata sono stati i punti fermi su cui abbiamo poggiato il primo mattone per la ricostruzione di ciò che eravamo… be’, è abbastanza evidente che il futuro non poteva che presentarsi come parecchio complicato già in partenza.

*

Due giorni fa, al KaDeWe, ho visto un paio di pantaloni meravigliosi, di pelle, attillati in maniera indecente, praticamente due guanti. Non è che fossi uscito di casa con l'idea di fare spese – anche perché non sono proprio in condizione di spendere più di quanto guadagno, che poi è niente visto che non abbiamo ancora un'etichetta – ma loro erano lì in vetrina che mi imploravano di comprarli e io non ho avuto cuore di passare oltre e lasciarli al loro destino. Sono costati un occhio della testa ma, visto che li ho comprati soprattutto per usarli con Anis, li considero una specie di piccolo investimento. Serviranno per riaccendere il fuoco della passione; anche se in realtà non è che si sia mai spento, anzi, tra tutte le cose possibili, forse si è addirittura propagato, dal momento che Anis non mi lascia in pace un minuto e ho sempre le sue mani addosso, molto più di quanto le avessi prima. Il fatto è che Anis si annoia in fretta, quindi se voglio che questa situazione si perpetui nei mesi a venire, devo lavorare di fantasia.
Adesso io mi infilerò questi pantaloni di pelle e magari quella maglietta che Anis finge non sia da donna solo perché lo fa impazzire il modo in cui mi esce una spalla dallo scollo a barca, e poi scenderò al piano di sotto dove lui potrà possedermi selvaggiamente sulla prima superficie disponibile, dopo avermi strappato i vestiti di dosso a morsi. Metaforicamente parlando, s'intende.
Quest'idea di vestirmi in un certo modo solo per farmi spogliare il più velocemente possibile e battere così ogni nostro precedente record di preliminari, la covo già da un po', da molto prima di comprare i pantaloni in realtà. E' che durante il giorno Karima è sempre in casa e quando arriviamo alla sera e lei finalmente si ritira nella sua cuccia in cantina – o dovunque dorma, non lo so, in una catapecchia in giardino forse – alla fine mi passa di mente e con Anis finiamo a fare sesso a letto, che è sempre una cosa meravigliosa, ma non quella che volevo fare io.
Questa è la serata perfetta per portare a termine il mio piano geniale perché è il giorno libero di Karima, il che significa che una volta salutati i nostri amici e chiusa a doppia mandata la porta d'entrata, questa casa gigantesca sarà solo mia e di Anis, con tutti i benefici del caso. Se penso che stamattina quella strega malefica voleva mandare tutto all'aria rinunciando alla sua partita settimanale di canasta con le amiche e restare qui a cucinare e servire per un reggimento quell'unica volta che nessuno le aveva chiesto di farlo, mi sale di nuovo la rabbia.
Mi sono svegliato presto, forse qualche minuto dopo le sette, e non potete capire il disappunto di scendere le scale, attraversare il corridoio, infilarsi in cucina con l'idea di mettere insieme una colazione decente per poi organizzare l'intera giornata e trovarci lei, con la sua divisa color grigio topo che rimesta dentro un paiolo gigante. Soprattutto quando mi ero addormentato la sera prima con la convinzione che non l'avrei più rivista per almeno ventiquattro ore.
Nessuno dovrebbe mai svegliarsi in questo modo, la sola presenza di quella donna disturbava l'intera estetica della villa illuminata dal sole, di Anis che ancora dormiva nudo tra le lenzuola di seta del nostro letto imperiale, ma soprattutto la mia, visto che io odio fare colazione circondato dall'olezzo di mille cipolle. Interrogata, per altro, lei ha avuto il coraggio di dirmi che qualcuno doveva pur preparare la sciorba per la cena di stasera visto che né io né tantomeno il signor Ferchichi sappiamo farlo. Ora, questo è tragicamente vero, ma ciò non significa che lei non potesse preparare questa cosa raccapricciante ieri e lasciarla in una pentola dentro al frigorifero perché noi potessimo usarla come ci pareva, e perfino buttarla se poi a guardarla ci avesse fatto ribrezzo e avessimo voluto farci una pizza.
E invece no. Lei ha risposto che la sciorba non si può preparare il giorno prima, che non può mica stare in frigo che sennò si sciupa e un sacco di altre cose che però non ho ascoltato perché mentre lei le diceva io ho prendevo la colazione mia e di Anis e tornavo in camera, dove mi sono ampiamente lamentato dell'intera faccenda.
Anis, però, queste cose non le prende mai sul serio perché trova Karima adorabile, il che non mi sorprende poi molto perché quella fa la strega soltanto con me e quando poi io lo chiamo per dimostrarglielo, lei diventa uno zucchero e fa tutto quello che le dico senza protestare. Così alla fine Anis non crede mai a quello che gli riferisco e dice che sono esagerato e che non è vero niente.
Lo ha detto anche stamattina mentre si mangiava da solo tutte le brioche che avevo portato senza lasciarmene neanche una. Ovviamente mi sono lamentato anche di quello e gli ho fatto notare che in questa casa non mi si tratta da principessa nemmeno un pochino, ma da lì in poi non ricordo bene come sia andata; so solo che Anis si è messo a ridere e mi ha spogliato di nuovo, così abbiamo finito per fare l'amore e io mi sono dimenticato tutto quello che volevo da lui, almeno fino a quando non abbiamo finito e lui ha ceduto dicendo che le avrebbe parlato.
Alla fine si sono messi d'accordo perché Karima si prendesse solo mezza giornata libera e facesse l'altra mezza domani mattina, il che mi torna ancora più comodo perché adesso lei non c'è e non ci sarà nemmeno quando domani ci sveglieremo, così se vogliamo possiamo pure addormentarci sul tappeto del salotto e lei non potrà svegliarci tirando le tende e dicendo che è tardi e dobbiamo alzarci o, ancora peggio, con la solita storia che siamo due uomini e non sta bene e il cielo ci fulminerà riducendoci in cenere.
Comunque infilarsi questi pantaloni non è facilissimo. Nel camerino del negozio ho fatto delle scene molto ridicole, saltellando per riuscire a tirarli su senza dover necessariamente chiamare qualcuno a darmi una mano e anche adesso non è che mi riesca meglio, nemmeno se mi distendo sul letto e allungo le gambe. Spero che ad Anis non venga l'idea di salire a cercarmi perché potrei dire addio all'atmosfera, e poi comunque sono ancora mezzo nudo, cosa che rovinerebbe un po' tutta l'idea dello scendere e farlo come animali su uno a caso tra i mobili del soggiorno, magari anche senza spogliarsi – anzi, di sicuro senza spogliarsi visto che una volta che sarò riuscito ad infilarmi questi pantaloni né io né Anis saremo mai in grado di togliermeli del tutto in un tempo ragionevole a mantenere una certa libido.
Ci metto quasi dieci minuti, ma alla fine i pantaloni cedono un po', e le mie gambe ci finiscono dentro alla perfezione, la pelle non fa nemmeno una piega. Quando mi guardo allo specchio, penso che mi salterei addosso da solo se non mi piacessero gli uomini più virili di me; il che mi ricorda che Bushido è al piano di sotto e mi viene da ridere all'impazienza che mi fa saltellare e mi arriccia le dita dei piedi.
Non mi sentivo così bene da non so nemmeno quando. Non ho solo voglia di stare con lui, ho proprio voglia di giocare e mi sembra giusto ricominciare a farlo stasera, dopo questa cena che ha fatto tornare le cose più o meno com'erano prima.
Altri cinque minuti per sistemare lo scollo della maglia in maniera strategica e sono pronto. Tendo l'orecchio al piano di sotto ma non sento più il chiacchiericcio degli ospiti che hanno evidentemente colto il mio velato invito a levarsi di torno e se ne sono tornati a casa loro mentre io mi cambiavo; così scendo le scale con un mezzo sorriso stampato sulle labbra e non aspetto di arrivare in fondo alla rampa, mi basta scorgere il profilo di Anis vicino alla porta per annunciargli la mia presenza. “Amore, dammi un parere, come mi stanno questi pantaloni?” La butto lì così, come se fosse una questione di poco conto e naturalmente mi aspetto una reazione entusiasta che possa dare il via ad un dialogo più o meno azzardato da concludersi nella maniera più classica, il che a ben guardare sembra l'inizio di uno di quei terribili porno di serie zeta che ogni tanto guardano tutti insieme nemmeno fossero tredicenni con una casa libera a disposizione e quindi la possibilità di masturbarsi mentre mamma non c'è.
Comunque quello che sembra non importa affatto, perché qualunque cosa fosse viene eclissato da ciò che poi effettivamente succede, ossia che la risposta entusiasta mi arriva da due voci diverse e per un attimo il tempo si ferma, la Terra smette di girare e rimane sospesa nel buio gelido dell'universo, in attesa che la forza di inerzia si esaurisca e la lasci andare alla deriva chissà dove.
Bushido mi guarda e risponde “Sei bellissimo” ma sono le note più basse della voce di Chakuza che dice la stessa identica cosa nello stesso identico istante a far calare il gelo nella stanza.
All'improvviso mi sento a disagio e penso che questa sia stata una pessima idea, o almeno lo è stata non guardare se c'era effettivamente qualcuno nella stanza insieme ad Anis.
Il silenzio pesantissimo che ci avvolge ha appena distrutto qualunque tipo di serenità avessimo raggiunto nelle ultime due ore.
Mi sento a disagio e vorrei correre di sopra a cambiarmi, o farmi inghiottire qui dove sono dalla rampa di scale, ma Peter è mortificato e Anis lo guarda così male che ho paura stia per saltargli alla gola. Così resto e provo a sistemare le cose, anche se non ho mai prevenuto un omicidio violento prima d'ora e sono quasi sicuro che mormorare “Ragazzi...” con voce incerta non sia la maniera giusta di farlo.
Nessuno si volta nella mia direzione, come se io e i miei pantaloni di pelle fossimo scomparsi subito dopo il disastro che abbiamo generato.
E' Fler che fa ripartire il tempo e la porta che sbatte, uscendo furioso da questa casa, fa girare di nuovo la Terra, che forse non andrà più alla deriva ma di certo ha un grosso problema.

*

Io stamattina non mi ero affatto svegliato con l'intenzione di essere la farfalla che sbattendo le ali in Europa provoca uragani in Cina. Innanzitutto perché mai nella mia vita ho desiderato essere una farfalla, e poi perché mi ero appena ripreso dalla fatica di riparare i danni del mio ultimo uragano e tutto volevo tranne che scatenarne altri, che fossero dall'altra parte del mondo oppure nel salotto di casa dell'uomo che meno li avrebbe apprezzati.
Quella di oggi, in realtà, si era rivelata una giornata molto piacevole e niente aveva lasciato presagire che sarebbe finita in tragedia. Fler ha dormito da me ieri sera, come la sera prima e tutte quelle precedenti – in realtà ha quasi tutta la sua roba da me quindi forse già viviamo insieme da settimane, solo che non ne abbiamo mai seriamente parlato, quindi è come se fosse ancora un ospite – così stamattina abbiamo fatto colazione insieme e poi siamo passati alla EGJ a provare qualcosa, giusto per vedere se ci riusciva ancora.
Gli uffici non sono ancora del tutto attivi ma il grande capo vuole riaprili a breve e, da quanto ho capito di quello che Fler non mi dice con le sue risposte vaghe e imbarazzate, credo che Bushido abbia in mente di far entrare anche lui a far parte della nostra grande famiglia, il che immagino porterà ad una guerra fratricida con l'Aggro Berlin durante la quale Sido e il tunisino si sfideranno a colpi di pistola per decidere chi dei due debba tenere Fler e chi invece dovrà pagare gli alimenti e potrà vederlo soltanto un fine settimana ogni quindici giorni.
Ad ogni modo, stamattina in studio non ci abbiamo trovato nessuno, perché questa crew è in realtà composta da lavativi che per più di un anno e mezzo non hanno fatto assolutamente niente e continueranno a farlo finché l'intera produzione non ricomincerà a pieno regime, ossia quando il grande capo non andrà a prenderli a casa uno per uno e li trascinerà in ufficio dove, in realtà, nessuno farà nulla lo stesso, ma l'importante è che il gruppo sia di nuovo compatto. Io e Fler ci siamo appropriati di una cabina di registrazione e mentre io gli mandavo le basi e missavo, lui ha fatto un po' di freestyle così come veniva, e non è andata affatto male.
E' strano lavorare sulla voce di Fler, perché sono abituato a sentirla e ne conosco ogni singola sfumatura ma non mi era mai capitato di metterci sopra le mani, prima d'ora. Ha una bella voce, molto simile a quella di Bushido ma più alta, e un rappato molto più pulito e lineare del suo. Me ne accorgo soltanto ora che posso lavorarci sopra perché lo avevo ascoltato solo nelle canzoni che ha fatto con l'Aggro Berlin, che sono un vero e proprio scempio; non sono stati in grado di valorizzarlo per niente, sporcando le tracce invece di semplificare le basi per dare più spazio al suo modo di cantare.
Quello su cui abbiamo lavorato stamattina è un accenno di canzone che Fler attacca ormai da una settimana quand'è sotto la doccia. All'inizio nemmeno se n'era accorto, io ero lì che mi lavavo i denti e lui cominciava a prendersela col sistema, il governo e la Berlino borghese che lascia i ragazzi liberi di ammazzarsi in strada per un etto di eroina purché che lo facciano lontano dalle case per bene.
L'ho ascoltato in silenzio per giorni, cercando la base giusta da mettergli sotto, e poi quando mi è sembrato di avere qualcosa, gliel'ho proposto e lui l'ha trovata una buona idea. Il ritornello è già piuttosto chiaro, quindi dobbiamo solo limare tutto il resto e cambiare un paio di rime perché funzionano solo con lo scroscio diseguale della mia doccia dell'anteguerra a coprirne la metà, un suono che mi rifiuto di inserire, nonostante l'insistenza di Fler, visto che rovinerebbe l'idea ben precisa che ho per questa canzone. Tra le altre cose io credo che ci vorrebbe una doppia voce, ma non una come la mia, qualcosa di molto più alto e caldo; una donna, probabilmente.
Stamattina sono uscito dallo studio molto soddisfatto del risultato, anche se in realtà per il momento abbiamo solo pasticciato; potrebbe essere un'ottima idea per ridare vita a quest'etichetta, ma per metterla davvero in cantiere devo parlarne con Bushido, più che altro perché la base è mia ma la canzone è di Fler e dobbiamo capire dove realizzarla. Naturalmente potrei chiedere a Patrick di produrla con la Beatlefield, ma questo scatenerebbe le ire di Bushido.
Io avrei avanzato volentieri l'ipotesi alla cena di stasera, ma Patrick mi ha chiesto per favore di non litigarci di proposito, quindi se non l'ho fatto è stato solo per lui.
Alla fine, durante questa bella rimpatriata – che è stata una palese idea di Bushido al quale, più di ogni altra cosa, piace stare seduto a capo tavola e guardare con aria soddisfatta un numeroso gruppo di persone fingendo di avere il comando assoluto – non c'è stato modo di tirare fuori l'argomento, anche perché le spirali di follia generatesi qualche settimana fa negli occhi di Bushido alla notizia che io sto con Fler non si sono ancora spente e quindi Patrick ha fatto di tutto per non farmi aprire bocca in quel senso.
Per quanto l'illuminato sovrano mi guardasse male, comunque, aveva ben poco da protestare e difatti è stato zitto. Non credo che lo farà adesso, però, e se devo essere sincero non me la sento nemmeno di dargli torto.
Siamo io, lui, Fler e Bill congelati nell'ultimo istante trascorso da quando Bill ci ha chiesto come stava con quei pantaloni praticamente disegnati addosso e io gli ho risposto che era bellissimo.
Cazzo! E' la prima cosa che penso non appena mi rendo conto di quello che ho detto. Avete presente quando dite qualcosa e nell'attimo stesso in cui la dite già sapete che è una stronzata ma ormai non potete più fare niente per evitarlo? Io questa sensazione non la provo così spesso, perché in genere non mi accorgo che quello che sto dicendo è una stronzata, sono anzi piuttosto sicuro di non stare facendo niente di male. Stavolta, però, ci arrivo anch'io e ci arrivo subito, nel momento stesso in cui quel “Sei bellissimo” mi esce di bocca, solo che esce così naturale e sovrappensiero che quando sarebbe l'ora di rimangiarselo lui è già lì che svolazza nell'aria dove tutti possono vederlo e sentirlo.
A mia discolpa posso dire che ero appunto impegnato ad informare Bushido che io e Fler, stamattina, stavamo lavorando ad un canzone e che se voleva poteva darci un'occhiata. Il mio cervello era talmente concentrato su questo che si è dimenticato di aggiornare la data e con essa il fatto che Bill non poteva stare parlando con me, visto che a quanto pare abbiamo rotto mentre ero in Austria.
Ad ogni modo la reazione di Bushido mi è completamente indifferente, sento il suo sguardo infuocato che mi perfora il cranio ma in sostanza lo ignoro perché in questo momento l'unica cosa che davvero mi preme è arginare la rabbia di Fler, che in piedi alle mie spalle si è acceso come una torcia umana e probabilmente esploderà nel giro di qualche secondo. Non faccio in tempo a girarmi per cercare di arginare il disastro che mi sono lasciato scappare di bocca che di lui non c'è già più traccia e la porta della villa ancora vibra per la forza con cui la sbattuta.
Gli corro dietro e intanto cerco di mettere insieme le parole giuste per scusarmi e spiegargli la situazione, anche se forse dovrei semplicemente scusarmi e basta perché non credo voglia sentirmi giustificare un bel niente. Si è trattato di una risposta automatica e non stavo pensando a Bill fino al momento in cui effettivamente non ho alzato lo sguardo e l'ho visto sulle scale, ma Patrick non sarà affatto disposto a sopportare anche questa dopo l'incidente al ristorante polacco.
Mi aspetto di dover chiamare un taxi perché avrà preso la macchina e se ne sarà andato, e invece lo trovo ancora in giardino che prende a calci la cancellata ricoperta di siepi. Ci mette tanta di quella violenza che ogni tanto il cespuglio di gelsomino sbuffa una nuvola di petali.
Quando si accorge che sono lì, mi guarda così male che perdo ogni speranza.
Se c'è mai stata una volta in cui avevo già perso in partenza, con lui, allora è sicuramente questa.

*

Chakuza ha due problemi fondamentali.
Il primo è che è una persona inopportuna, il secondo è che non si rende conto di esserlo; e anche se lo fa il suo ritardo è così oltraggioso che non lo si può giustificare in ogni caso. E' una di quelle persone capaci di farti gli auguri ad un funerale e le condoglianze ad un matrimonio, e in entrambi i casi accorgersene quando ormai è tornato a casa e si è messo il pigiama.
Così adesso si presenta qui davanti a me e la prima cosa che riesce a dirmi è che se continuo di questo passo probabilmente finirà per non rimanere più niente di questa dannata siepe di gelsomino.
Chi se ne frega del gelsomino, cazzo. E allora si rende conto e si scusa, in ritardo naturalmente.
“Non me ne faccio niente delle tue scuse,” gli dico.
Mi chiedo se sia consapevole del motivo per cui dovrebbe essere qui in questo momento, o se ha agito secondo il buon senso di qualcun altro.
“So che sei incazzato...”
“Io non sono incazzato Chakuza, io sono furioso,” preciso.
Lui si schiarisce la gola e guarda per terra, credo forse alla ricerca degli altri sei nani nascosti nell'erba per suggerirgli quello che deve dire. “D'accordo, so che sei furioso e hai tutti i motivi per esserlo, ma posso giurarti che non mi sono reso conto di quello che stavo dicendo.”
“Questa non è una novità, Chaku. Tu non hai mai la minima idea di quello che ti esce di bocca. Se questo fosse il mio problema, fra di noi sarebbe finita molti secoli fa e io, starei sicuramente molto meglio.”
Mi viene in mente che starei con Nicole, o starei con Daniel. Sarei con qualcuno che non si sarebbe mai sognato di volgere lo sguardo adorante verso il suo ex fidanzato e dirgli che è bellissimo quando è inguainato in un paio di pantaloni che sono così attillati che tanto varrebbe fosse nudo.
“Se non è quello che ho detto, allora...”
“Allora cosa?”
“Allora qual è il problema?” mormora incerto.
Io smetto di devastare il giardino di Bushido a calci e mi fermo ad osservarlo, ma nemmeno mi stupisco che sia qui di fronte a me e non abbia la minima idea di quello che ha fatto perché io lo sapevo che era così, quindi sarei stupido anche a sorprendermi. “Non sono le cazzate che dici il problema, perché quelle sono un flusso continuo ventiquattr'ore al giorno per tutti i giorni della settimana e non c'è modo di arginarle perché sono fatte della stessa merda di cui è foderato il tuo cervello! Il problema è tutto quello che c'è dietro.”
“Ma non c'è niente dietro!” Protesta lui che non ha mai capito che nelle discussioni in cui ha palesemente torto – cioè la quasi totalità di quelle in cui finisce – lui non ha nessun diritto di protestare. Mai.
“Certo come no.”
“Pat, dico sul serio.”
Sono felice che il suo catorcio sia di nuovo dal meccanico – d'altronde l'ho ridipinta e le ho messo un nuovo portellone, ma non è che potessi trasformarla in una macchina vera – così siamo venuti con la mia auto e posso decidere che ce ne andiamo ora. Anzi, posso anche decidere di lasciarlo a piedi, così può rimanere qui a fare la corte alla sua stupida principessa. Magari se aspetta un po' riesce a prenderla al volo quando Bushido la butterà fuori dalla finestra.
Lui invece mi segue allungando il passo e alla fine lo lascio salire, perché tanto alla fine devo andare a casa sua, quindi finirei per ritrovarmelo comunque tra i piedi. “Non stavo affatto pensando a Bill,” mi dice, chiudendo la portiera e regolando la cintura del sedile del passeggero perché non gli seghi la gola. Ogni volta che chiudo la macchina, quella li riporta automaticamente all'altezza iniziale, così le poche volte che si fa scarrozzare in giro, deve sempre rimetterci mano per non venirne strangolato.
“No, tu pensavi agli unicorni rosa che attraversano correndo gli arcobaleni del tuo cervello” commento lanciandogli un'occhiata impietosita mentre metto in moto. “Ed è ad uno di essi che hai detto che era bellissimo, casualmente nello stesso istante in cui Bill scendeva le scale.”
“Stavo parlando con Bushido, è stata una risposta automatica.”
“Vuoi peggiorare la situazione?”
“No, sto solo cercando di spiegarti come sono andate le cose,” insiste. “Ero distratto, lui ha detto quella cosa e ho risposto.”
“Quello che lui ha detto è: come mi stanno questi pantaloni, amore,” gli ricordo. “E mi pare chiaro che ti senti ancora compreso nella definizione.”
“Non mi sento affatto compreso nella definizione.”
Rido. “Oh ma ti piacerebbe tanto, vero?”
Chakuza tace perché sappiano entrambi che ho ragione, quindi è meglio se non replica dicendo che ormai Bill è acqua passata perché non è vero. Se quel ragazzino si svegliasse un giorno con la voglia di prenderlo a calci nelle gengive, Chakuza lo lascerebbe fare e gli chiederebbe pure di usare la punta rinforzata. Fa tanto l'uomo furioso, e poi si scioglie non appena la principessa lo guarda un po' più del necessario. E anche Bill avrebbe bisogno di una bella strigliata, ogni tanto, perché è vero che ora non vede che Bushido, ma se si risparmiasse di abbassare lo sguardo con le guance rosse quando Chakuza è in giro, risparmierebbe a tutti un sacco di acidità di stomaco.
Tutto il resto del viaggio lo facciamo in silenzio. O meglio, lui prova a dire qualcos'altro ma tanto sono solo cazzate per cui gli dico di stare zitto e almeno stavolta mi fa la cortesia di starmi a sentire.
Come se questa serata non fosse già stata abbastanza, torniamo a casa per scoprire che il tecnico che abbiamo chiamato nemmeno una settimana fa, in realtà non ha riparato un cazzo perché la caldaia è di nuovo rotta e nell'appartamento ci saranno due gradi e mezzo. In realtà non dovrebbe fare così freddo, perché non è ancora stagione, ma visto che viviamo in un perenne stato di sfiga nera, era anche piuttosto ovvio che la caldaia andasse a rompersi nell'unico anno in cui a settembre fa freddo come se fossimo in pieno inverno. Senza contare che questa casa ha i muri così sottili che basta un soffio di vento e c'è bisogno della sciarpa anche solo per passare un paio d'ore davanti alla TV in salotto.
Proviamo ad aprire al massimo i termosifoni ma non succede niente perché il problema è in cantina, come al solito. “Vado a dare un'occhiata,” dico prendendo la torcia. “Tu intanto cerca delle coperte pesanti, perché non credo che ci sia molto da fare. E guarda nel ripostiglio, dovrebbe esserci ancora quella ridicola stufa elettrica che abbiamo usato a Capodanno.”
Vado nel locale caldaie più per non averlo sotto gli occhi che per risolvere la situazione, anche perché sono quasi sicuro che non ci sia assolutamente niente da fare. Il tecnico ha detto che si trattava di un qualche pezzo – naturalmente costosissimo – da riparare e, dopo aver emesso una fattura che al confronto le estorsioni di Arafat sono plausibili richieste di pagamento per un servizio offerto, se n'è andato fischiettando e lasciando la caldaia esattamente com'era prima. La luce in questa specie di cantina non funziona mai e non c'è da sorprendersi visto che l'unica fonte di illuminazione è una lampadina da 25W appesa ad un filo che uno dei vecchi condomini deve aver tirato trent'anni fa, alla faccia dei sistemi di sicurezza dell'impianto elettrico. E' fulminata, naturalmente. E Meno male che il quadro elettrico è saltato di recente e Chakuza ha chiamato anche l'elettricista, sennò chissà che buio.
Quando apro la porta, che ovviamente cigola, la lampadina si mette ad oscillare macabra e io vedo l'ombra muoversi sul pavimento, nel cono di luce che ho creato entrando. Sembra la scena di un film dell'orrore. Adesso scendo per queste scalette anguste e chissà che cazzo ci trovo là sotto.
Accendo la torcia ed illumino un po' intorno, come se questo potesse salvarmi nel caso qualche esperimento genetico fosse davvero sfuggito da un laboratorio qui vicino e si fosse introdotto in questo palazzo fatiscente passando attraverso le fogne.
La caldaia che corrisponde all'appartamento di Chakuza è naturalmente quella più lontana dall'entrata e incastrata in un rientro nel muro che per raggiungerla devo fare i chilometri e lasciarmene alle spalle altrettanti di buio. Questa stanza non mi era sembrata così inquietante l'ultima volta che sono stato qui, forse perché ero troppo impegnato a tenere a bada Chakuza e le sue mani.
Quando alla fine arrivo alla caldaia, scopro che era esattamente come pensavo, ossia quella se ne sta lì e mi dice che non c'è pressione e io non so cosa farci. Provo a tirargli un paio di colpi con la torcia, ma quella rimane della sua idea e non funziona. Giusto per essere sicuri controllo anche un paio delle altre e sono tutte morte come quella del Chaku, quindi direi che è un problema dell'intero palazzo.
Torno all'appartamento recando pessime notizie, e trovo Chakuza che cerca di rimettere nel ripostiglio tutto il ciarpame che dev'essere esploso fuori quando ha aperto la porta. Là dentro c'è stipata talmente tanta roba sotto pressione che è sempre un pericolo passarci davanti, perché potrebbe esplodere. Almeno ha trovato la stufa e una pila di coperte.
“Non c'è pressione,” annuncio rientrando in casa, e vedo la sua testa che si affaccia subito dal corridoio. “Ma non è la tua caldaia. Tutto l'impianto è andato.”
“Fantastico,” commenta. Lotta con il mostro di cianfrusaglie che vive nel suo ripostiglio, ma alla fine vince lui e riesce a chiudere la porta. “Almeno la stufa funziona.”
“Bene. Vuoi quella o le coperte?”
“In che senso?” Chiede puntualmente lui.
“Non ho alcuna intenzione di dormire con te,” rispondo. “Quindi prendo il divano. Stufa o coperte?”
Lui trasfigura, come ogni volta che per qualche motivo succede qualcosa del genere. Se io sono qui in questa casa, la possibilità che non passi la notte nel suo letto non è nemmeno contemplata; quando ciò avviene, occupa istantaneamente il secondo posto nella sua scala delle tragedie. Visto che rimane con la bocca aperta un tempo sufficiente a farmi credere che sia morto in piedi, decido io. “Okay, tu prendi la stufa, io tengo le coperte,” dico, recuperandone un paio e sistemandole sul divano.
Solo allora lui si libera dall'incantesimo che lo aveva trasformato in pietra e mi segue, disfacendo il letto dove io lo faccio. “No, tu non dormi sul divano.”
“Invece è esattamente quello che farò,” ribadisco.
Sistemo il cuscino e lui lo toglie. “Tu non puoi dormire sul divano,” si corregge.
“Posso eccome, Chakuza.”
“Questa è casa mia e io non voglio che tu dorma sul divano,” sbotta lui, strappandomi dalle mani una coperta e gettandola via con stizza. Mi ricorda un po' quei ragazzini che prestano il loro pallone per giocare a calcio e poi se lo riprendono non appena iniziano a perdere.
“Ho capito,” annuisco e mi giro per rimettermi il cappotto.
Lui sospira, maledicendosi a voce abbastanza alta perché lo senta perfettamente anch'io. “No, Fler! Fler, aspetta! Non era questo che volevo dire. Mi è uscita male,” mormora, mentre mi segue verso l'ingresso.
“La cosa non mi sorprende affatto.”
“Non voglio che tu dorma in salotto perché sono io che ho fatto casino, quindi al massimo è il sottoscritto che deve dormire sul divano,” dice tutto d'un fiato, prima che io riesca ad aprire la porta. “Anche se preferirei che dormissimo entrambi nel letto.”
Io rimango fermo con la mano sulla maniglia qualche minuto e poi mi giro molto lentamente. “Peter...” mormoro frustrato. Giuro che a volte mi drena.
“Ho aperto bocca a sproposito, d'accordo. Allora fammi scusare. Se dormi sul divano è l'inizio della fine. Il passo successivo sarà riprenderti lo spazzolino da denti e la tazza per la colazione. Alla fine della settimana avrai già fatto le valige e sarai tornato da tua madre.”
“Peter, stai delirando!” Esclamo sconvolto.
“E allora fammi smettere di delirare e dormi nel letto!” Protesta lui, sgranando gli occhi.
Io scoppio a ridere, perché davvero non so che cos'altro fare.
Sono qui sulla porta e sto per andarmene senza sapere nemmeno se tornerò e lui si fa quasi prendere da una crisi isterica, cominciando a parlare di spazzolini da denti. E' una situazione surreale, eppure direi che dovrei esserci abituato.
“Per favore?” Tenta lui, in ritardo, come al solito.
Sospiro e mi tolgo il cappotto per la terza volta stasera. “D'accordo, Peter, ma sia ben chiaro che il fatto che io accetti di dormire nel letto con te non significa assolutamente che ti toccherà qualcosa stasera, anche perché sono ancora incazzato.”
“Naturalmente,” annuisce lui, tutto convinto.
Dieci minuti dopo siamo distesi a fissare il soffitto e io so che lui sta cercando nella sua testa le parole da dirmi, lo so perché non parla da un sacco di tempo e non tenta nemmeno di allungare le mani, il che può significare soltanto due cose, che dorme – ma dal respiro direi di no – o è molto concentrato.
“Ti esploderà il cervello con tutto questo pensare,” dico alla fine, perché voglio sapere se posso dormire oppure se devo aspettare che mi dica qualcosa.
“Non voglio sbagliare a parlare, stavolta,” si giustifica.
Sospiro, piegando una mano dietro la testa. “Sono quasi sicuro che lo farai lo stesso ma, andiamo, provaci. Ti sto ascoltando.”
Lui prende bene fiato, prima di rispondere. “Lo so che sentirmi rispondere in quel modo non è stato piacevole, ma ti giuro che non l'ho fatto apposta e che, se potessi, tornerei indietro e me lo rimangerei. Non posso farlo, però.”
“Va' avanti.”
Fa un sospiro di quelli fatti bene, che preannunciano cose che voglio sentire anche se non mi piacciono affatto. “Ho ancora difficoltà a dimenticare Bill,” ammette infatti “questo è vero e già lo sai, ma quella risposta non aveva nessuno significato. Mi è uscita di bocca come poteva uscirmi di bocca 'ancora cinque minuti' quando mia madre mi svegliava la mattina. Non è niente.”
Io rimango in silenzio e continuo a fissare il soffitto solo ed esclusivamente per farlo preoccupare ancora un po'. In realtà la rabbia mi è passata da un pezzo, più o meno quando ha cominciato ad agitarsi come se avessi minacciato di cambiare continente, ma voglio godermi un po' questo momento in cui, miracolosamente, sono una priorità.
“Fler?”
“Hmn.”
“Mi dispiace.”
Sorrido e mentre lo faccio, lui già mi scivola addosso, segno che mi stava osservando in attesa di una reazione. Dovrei dirgli di smettere perché non se lo merita, ma me lo merito io.
Quindi lo lascio fare.

Mattine come questa sono quelle che preferisco. Quelle in cui posso prendermi il mio tempo per aprire gli occhi, stiracchiarmi, stendere le gambe nel tepore immobile delle coperte e sgranchirmi tutto, piano piano, senza fretta. Mattine piacevolmente vuote, rilassate, tranquille. Di quelle che pensi di poter sentire sotto le mani, morbide. Mattine pigre come sbadigli, in cui il pensiero di non avere niente da fare ti culla un po’, e tu lo lasci fare perché sul serio, quante volte capita di potersi svegliare dicendosi che oggi potresti stare anche tutto il giorno a letto e non sarebbe un dramma perché tanto non sei atteso da nessuna parte, non devi incontrare nessuno e non c’è nessun beat ancora da limare che ti aspetta in sala incisioni per essere perfezionato e diventare una base.
Spesso, per non dire ogni volta, proprio perché una condizione simile è molto rara, in realtà non è vera. È una bugia che la tua mente ti sta raccontando. Tu sei lì al calduccio che ti fai i fatti tuoi e progetti vite intere sotto le coperte, chiedendoti se potrà esistere un modo per collegare con un filo e un paio di tubi, o magari una catena di montaggio elementare, il tuo letto, la cucina e il cesso, per avere tutto ciò che ti serve senza doverti praticamente muovere, e la tua testa avalla questi tuoi pensieri bisbigliando “ma sì, credici pure, progetta quanto vuoi, tanto oggi non c’è niente da fare!”, quando in realtà non potrebbe esistere niente di più lontano dalla verità. Però tu in quel momento non te ne accorgi.
La cosa vale anche per me, ma naturalmente in quel momento lì, come ho detto, non ci penso. E sono molto felice.
Quando apro gli occhi, c’è luce in tutta la stanza. Chakuza non chiude quasi mai le tapparelle, ma è raro che io riesca a vedere la luce del sole invadere completamente l’ambiente, perché quando mi sveglio in genere è troppo presto per assistere ad uno spettacolo simile. Le cose da fare, appunto, ci sono sempre. Quando ti svegli ogni mattina alle sette, sia perché devi andare agli studi o sia perché non è il caso di prendertela troppo comoda, visto che non sei a casa tua, al più puoi vedere le prime luci pallidissime che rischiarano l’ambiente, quando non è inverno e quindi di tiri su ancora col buio, ma stavolta invece c’è luce ovunque, si stende in lunghe strisce oblique per tutte le pareti, prendendone la forma, seguendone le linee.
Sollevo un braccio e il sole batte contro la mia pelle. Sulla parete si forma una macchia d’ombra, la guardo, sorrido e tiro giù il braccio, lasciandolo ricadere sul materasso per ridare alle strisce di luce la loro ordinata continuità.
Chakuza, qui accanto a me, all’improvviso si mette a ridere. Non mi ero accorto che fosse sveglio.
- Che stai facendo? – mi chiede. Io scrollo le spalle ed affondo fra i cuscini, ma non rispondo. Mi limito a sorridergli. Anche stanotte mi sono fermato a dormire qui come se fosse una cosa normale. Dopo aver scopato, esausti com’eravamo ci siamo lasciati ricadere sul materasso con un grugnito di approvazione. Chakuza s’è liberato del mio braccio che, in qualche modo, gli era planato sulla faccia nel movimento, e poi s’è voltato per dormire. Stessa cosa ho fatto io. E lui non mi ha chiesto conferme – niente domande del tipo “resti?”, che fino a qualche tempo fa un sacco frequenti, fra noi, anche se naturalmente parlo di un “qualche tempo fa” lontanissimo nel tempo – ha preso la mia presenza per un dato di fatto e io in realtà gliene sono stato grato, perché talvolta ricordarsi di mantenere un certo distacco e pensare di doversi alzare in piedi e fare almeno finta di cercare i vestiti per rimetterseli addosso a ritornare a casa prima che lui mi fermi chiedendomi di rimanere è talmente fastidioso – e ridicolo – da sfiorare l’assurdo.
Ieri sera, dunque, sono rimasto, e ora mi sento vagamente in difetto. Voglio dire, so che è assurdo, so che non dovrei, e tra l’altro è davvero ridicolo che due anni fa fossi già riuscito a superarlo, questo problema che adesso sembra tornato a farsi avanti, però davvero. Non è neanche il dormire con una persona che mi scombussola, con Danny l’ho fatto continuamente per mesi – Danny, santo cielo, devo proprio smettere di pensare a Danny, anche se negli ultimi giorni ha ricominciato a farsi sentire e io non sono granché sicuro di riuscire a gestirlo come dovrei, cioè allontanandolo di nuovo – è proprio lo stare con Chakuza, stare con lui come si sta in coppia che ogni tanto mi… non lo so. Mi turba troppo. È semplicemente strano, come sono strane quelle cose buffe che sembrano non avere spiegazione, come ad esempio quei trucchi di scena con cui i maghi ti fanno credere di aver segato in due il corpo della loro procace assistenza. Tu sai che dietro c’è una spiegazione perfettamente razionale, ma per quanto ci pensi non riesci a trovarla, quindi finisci per rimanere a fissare il tutto con aria ebete, come un bambino che non ha ancora visto nulla del mondo, e per quanto stupido ti sembri accetti quella cosa impossibile come possibile pure senza spiegartela, perché tanto, ti dici, non ci arrivi, è così e basta. E per me ora è uguale, io mi sento strano, sono convinto che ci sia una spiegazione razionale dietro, ma non la capisco. Che posso farci?
Talvolta, seriamente, credo di aver solo bisogno di sentirmi dire che sono normale, che sono ancora io, lo stesso che ero a quattordici, a diciotto, a venti, a venticinque anni. La cosa non è più tanto scontata com’era un tempo.
Nel mentre continuiamo a restare in silenzio, che non è una cosa brutta, in realtà, perché non è un silenzio di quelli imbarazzati. Non è che ci guardiamo negli occhi con aria confusa chiedendoci che cosa diamine stiamo facendo in questo letto così vicini, anche perché peraltro lo sappiamo benissimo cos’è che stiamo facendo in questo letto così vicini. Io guardo un po’ fuori, e c’è un bel sole. Dagli alberi che costeggiano la strada giunge il canto degli uccellini di città – questi esserini piccoli, fragili e spenti, che cantano solo alla mattina perché per tutto il resto del tempo la loro voce sarebbe inutile, sommersa dal traffico e dai rumori dei passanti – e io penso due cose contemporaneamente. Una è che sono ancora convinto di non avere niente da fare oggi, e vorrei che questa convinzione potesse durare ancora un po’, ma non è facile che sia così se penso alle ore che passano, al traffico che ci sarà e a quello che scorre fuori da quella finestra, motivo per il quale smetto di guardarla e torno a fissare la luce sulla parete. L’altra è che, malgrado io non abbia ancora ben chiaro quasi niente della giornata di oggi, quello che invece riguarda la giornata di ieri riesco a richiamarlo alla memoria senza la minima fatica.
Decido che è il momento di parlare, e dato che sto pensando a ieri tanto vale battere il ferro finché è caldo.
- Certo che non ho mai capito cosa ci trovi tu in Bill. – butto fuori d’un fiato, ma abbastanza tranquillamente da sperare di non preoccupare Chakuza. Non è che voglia farlo sentire attaccato o che, è solo che sono profondamente convinto che uno dei motivi per cui da questa cosa non ci si muove risiede nel fatto che Chakuza non ne parla. Mai. È il suo più grande tabù, non c’è modo di scucirgli informazioni al riguardo, e io se devo dire la verità non ci ho nemmeno provato granché, voglio dire, sono masochista ma non così tanto, ma è evidente che devo risolvere questo problema, se non voglio che scene come quella di ieri continuino a ripetersi all’infinito, anche quando noi quattro cavalieri dell’Apocalisse saremo vecchi decrepiti e Chakuza, Bushido ed io staremo seduti sulle nostre sedie a dondolo nel porticato della casa al mare che palesemente divideremo, e Bill uscirà chiedendoci se sta bene con la nuova dentiera. Ecco, vorrei evitare che allora Chakuza si permettesse ancora di rispondergli che sta benissimo all’unisono con Anis, perciò rimbocchiamoci le maniche e risolviamola adesso, finché siamo ancora in tempo.
Ovviamente, Chakuza si preoccupa lo stesso, perché nominare Bill di fronte a lui è un po’ come prendere una pistola e darla in mano al primo passante capiti a tiro: magari è un tipo freddo e tranquillo e la posa senza fare danni; magari invece è uno nervoso e isterico e fa partire un colpo, però. Quando nomini Bill non sai mai se Chakuza stia abbastanza bene da tenere ferma la mano, o se comincerà a tremare e sparerà a qualcuno.
- Niente. – risponde infatti, sulla difensiva, aggrottando le sopracciglia nell’unica espressione al mondo che fa sembrare cattivi i suoi lineamenti rotondi, l’espressione brevettata dei video musicali.
Io inarco un sopracciglio.
- Ci sei andato a letto per simpatia? – gli chiedo, con una mezza risata, e non posso davvero credere che stia cercando di rifilarmi la storia del non-è-stato-davvero-così-importante. Nel senso, ok, Chaku, capisco dove vuoi arrivare, sei molto carino a preoccuparti per me e a non volermi dire cose che potenzialmente credi che sarebbero in grado di farmi male, ma… no. Cioè, c’ero anch’io mentre accadeva, ricordi? Via.
- È carino. – insiste lui, socchiudendo gli occhi e grattandosi la fronte, naturalmente sordo alle mie mute protesta, - Fine.
Sospiro. È mai possibile che con quest’uomo non ci sia mai modo di avere una conversazione normale?
- È… strambo. – dico io, - E dolce. Secondo me è tutto qui. È come avere una sorellina. Almeno per me. – preciso, perché mi pare evidente che per lui non era così, anche se ora sta cercando di fare di tutto per darmi a bere il contrario.
La mano che grattava la fronte di Chakuza si abbatte contro il suo viso e poi scende a coprirgli gli occhi, mentre lui si lascia andare ad un sospiro affranto. A Chakuza non piace granché parlare, lo so, non è bravo a spiegarsi – non sempre, almeno. Anche lui ha i suoi momenti, comunque – io, invece, mi ci diverto da morire. Mettere in difficoltà il prossimo, irritarlo anche fino a fargli perdere il lume della ragione, è sempre stato un gioco divertente. Quando sei piccolo e cresci in un ambiente come il mio, la prima cosa che capisci è che ti devi fare grosso e muscoloso, perché devi costantemente avere a che fare con tipi che saranno sempre più grossi e più muscolosi di te, motivo per il quale devi cercare quantomeno di avvicinarti al loro standard per poter pensare di uscire vivo da una rissa. In attesa di quello, però, quando sei ancora un ragazzetto pelle e ossa senza un pelo e con gli occhi troppo grandi su una faccia troppo magra, devi sopperire ciarlando, e sperando che chi ti incontra sia stupido abbastanza da permetterti di rincoglionirlo quel tanto che basta da sfuggirgli dalle mani. Se hai la velocità delle gambe dalla tua, quella della lingua può completare il quadro che può riuscire a salvarti il culo anche in situazioni disperate. Il più delle volte è stato così che mi sono salvato io, nel periodo in cui cercavo di fare di tutto per portare a termine i miei compiti da solo, senza Anis in giro, per impressionare Arafat.
Chakuza, e lo dico con tutto l’affetto del mondo, credetemi, è abbastanza scemo da concedermi svaghi di questo tipo. Dico, non vuoi parlare seriamente di Bill per esorcizzarlo? D’accordo, va bene per me, ma allora lasciati torturare.
- Ma ti senti quando parli? - si lamenta, la voce un po’ attutita dalla mano ancora pressata con forza sul volto, - Come una sorellina? Mi sento male.
E certo che ti senti male, Chaku. Questo dimostra che tu non l’hai mai visto come una sorellina, tanto per cominciare, e anche che tutti quei bei discorsi di prima sul fatto che è solo carino ed è per questo che ci sei andato a letto per una vita e mezzo non erano altro che fesserie. Ma va be’.
Resto in silenzio per un intervallo di tempo che non sembra solo enorme, lo è. Chakuza ha bisogno di riprendersi, palesemente, e io gliene dà modo, perché non mi va di troncare la conversazione. Scherziamo? Mi sono divertito e vendicato ancora troppo poco, non esiste indisporlo al punto da costringerlo ad alzarsi in piedi e fuggire lontano. Voglio rosolarlo a fuoco lento.
- E a letto com’è? – chiedo quindi dopo un po’, senza muovermi di un millimetro.
- Fler! – sbotta lui, sconvolto, girandosi impercettibilmente a guardarmi.
- Be’, che c’è? – insisto io, scrollando le spalle e mantenendo una calma apparente tale che non capisco com’è che i membri dell’Academy non fanno irruzione dalla finestra appesi a delle funi per consegnarmi un Oscar estemporaneo per meriti acquisiti sul campo, - Sono curioso! Avrà delle qualità non da tutti, se è riuscito a rincoglionirvi senza speranza tutti e due.
Chakuza non risponde. Allunga una mano ad afferrare il cuscino in più che sta in mezzo fra i nostri guanciali e se lo schiaccia sul viso con un lamento disperato. In realtà in questi momenti così io mi diverto sempre tantissimo. Era una cosa che capitava spesso quando abbiamo cominciato a vederci più spesso, intendo, dopo l’incidente del tappeto e tutto. Ho usato una quantità spaventosa di armi, contro Chakuza, non solo la lingua. E non solo nel senso di usarla per parlare. E so che questi sono i momenti in cui Chakuza è sempre un po’ sul punto di mandarmi via, perché lo spalla che, in mezzo a tutti i poteri che lui ha su di me, ce ne sia uno che solo io posso vantare su di lui, ed è quello di riuscire a metterlo in imbarazzo. Lui, un uomo che non s’imbarazza praticamente mai. Quindi sì, lo so che in questo momento, come in tanti altri, si copre il volto e sta zitto solo perché vorrebbe potermi mandare via. In realtà mi esalta che non lo faccia mai.
Rido e mi giro sullo stomaco, sistemandomi a pancia in giù sul materasso ed allungando un braccio per togliere il cuscino di mezzo.
- Allora? – insisto curioso, - Dimmi!
- Non lo so! – si lamenta lui, cercando di coprirsi di nuovo con le mani.
- Sì che lo sai! – ride ancora io, - Anzi, dal fatto che non lo dici, immagino che debba essere parecchio bravo. Questo almeno spiega la follia di ieri sera.
- Possiamo smettere di avere questa conversazione? – implora debolmente Chakuza, sull’orlo di una crisi isterica. Io rido ancora, e naturalmente non gli do retta.
- Quante volte al giorno lo facevate? – chiedo, avvicinandomi un po’ per guardarlo in viso.
- Fler… - mugola lui, arreso.
- Una? – insisto io.
- Ma non hai niente da fare, stamattina? – piagnucola Chakuza. Qualche campanello dovrebbe suonare nella testa di entrambi, in questo momento, ma non suona. Io sono ancora perfettamente immerso nell’aura di beatitudine che mi accompagna dal risveglio, peraltro, convintissimo che il mondo non avrà mai più bisogno di me e che perciò posso anche mettere radici su questo materasso per tutto il tempo che mi resta da vivere, e nessuno avrà mai di che lamentarsene.
- No. – rispondo infatti, e sto mentendo, ma ancora non lo so. Che non se ne accorga neanche Chakuza, però, è abbastanza grave. – Due? – ritorno a insistere, - Tre, magari?
Chakuza non dice nulla, si limita a sospirare.
- Tre volte al giorno?! – sbotto sconvolto, e sento aprirmisi sulle labbra un sorriso incredulo ma anche parzialmente divertito. – Wow! Devi dirmi tutto. Cioè, seriamente, mai visto Bill in quelle vesti lì. Adesso sono curioso sul serio.
- Sei una piaga, Fler! – sbotta lui, scuotendo con decisione il capo, - Che devo fare per farti stare zitto?!
Io ridacchio, sistemandomi fra le lenzuola e piantando i gomiti sul materasso.
- Non so, che ne dici di rispondere? – suggerisco, - Quando sono soddisfatto, smetto.
Lui si volta a lanciarmi un’occhiata truce.
- Giuralo. – intima freddamente.
- Ma sì, sì, giuro. – concedo io, con un breve cenno del capo. – Allora?
Chakuza si prende il proprio tempo per sospirare ancora e sistemarsi meglio contro il cuscino. Solleva la schiena ed il lenzuolo che lo copre scivola giù lungo il suo corpo, arrotolandoglisi pigramente in grembo. Seguo il movimento del tessuto forse con un po’ troppa insistenza, ma mi riprendo subito, anche perché se si accorge che lo sto fissando troverà sicuramente modo di usare il dettaglio contro di me, e allora addio tortura.
- Cos’è che vuoi sapere? – si rassegna a chiedere, già palesemente esasperato prima ancora di cominciare a parlare.
- Be’, la prima volta, tanto per cominciare. – annuisco io, incrociando le braccia sul materasso, - Com’è stato?
Chakuza mi getta addosso un’occhiata dubbiosa.
- Non ti prenderà una delle tue solite paranoie, quando ti risponderò, giusto?
Rido ancora. Chakuza, ti prego, ma sei convinto di che? Guarda che lo sto portando avanti io il gioco in questo momento. Certo che ti sfuggono certi passaggi fondamentali che io veramente, boh, non so, alle volte, guardandoti, come sia possibile che tu esista. O sia sopravvissuto a te stesso.
- Ma va’. – rispondo rassicurante, - Avanti, sono solo curioso.
Chakuza sospira ancora ed aspetta qualche altro secondo. E in quei secondi riesco a vedere una sorta di soddisfazione mal dissimulata farsi strada nei suoi occhi e poi nella piega delle sue labbra, che si fa meno tirata e severa. La naturalezza con cui quest’espressione viene fuori è tale che, anche se dovrei arrabbiarmi un po’ – un bel po’ – nonostante l’abbia rassicurato sul contrario, non riesco. Sembra tutto così innocente che davvero non mi pare il caso.
Quando Chakuza parla, subito dopo, lo fa come si stesse tirando fuori dal petto un peso insostenibile.
- È stato grandioso. – annuncia seriamente, annuendo pure, come per dare forza alla cosa.
Mi viene da ridere in modi che nessuno che non sia me può comprendere. Cioè, guardatelo, tutto serio e compito, come se stesse dando un giudizio di merito di quelli che si danno durante le gare sollevando il cartellino col numero. No, ma io seriamente con quest’uomo non ce la posso fare, la sua pazzia è tale che pure nei momenti di normalità mi surclassa. E io tanto sano non sono di certo.
Comunque, riesco a trattenere le risate ed imito la sua espressione seriosa, annuendo a mia volta.
- Grandioso in che senso? – chiedo, - È stato come con una femmina o la faccia è tutta un bluff? – ridacchio. Mi fa bene prenderlo un po’ in giro, di tanto in tanto, il ragazzino. Davanti a lui non si può, che poi gli si riempiono gli occhi di lacrimoni perché non capisce mai se stai scherzando o sei serio, ma con Chakuza che non ci capisce niente, neanche che fra le altre cose sto prendendo per il culo anche lui, è molto più semplice.
- Ma non c’entra niente con le femmine, è tutta un’altra roba. – precisa infatti, agitando la mano come a voler dissolvere quell’ipotesi assurda, totalmente dimentico del fatto che pure io lo so perfettamente bene che con le femmine non c’entra niente. Dio, quant’è facile. – Cioè, di base è lo stesso, - mi illustra. Chaku, grazie, senza di te non l’avrei mai saputo, - ma ci ho perso la testa perché non me lo aspettavo, capisci, che la pressione fosse così forte. Insomma, Bushido nudo per voglia o per forza l’abbiamo visto un po’ tutti, - aggiunge, lanciandomi un’occhiata che nella sua testa è carica di allusioni. Ah, Chaku. Ti prego. – e conoscendo le dimensioni e sapendo quanto tempo erano stati insieme non me l’aspettavo per niente.
Annuisco ancora. Io non so se seriamente si rende conto del discorso totalmente allucinante che sta facendo, ma comunque starlo a sentire è uno spasso. Peraltro mi sovviene che la sua prima volta con un maschio è stata con me, che di sicuro non avevo il traforo del Monte Bianco nel culo, perciò mi viene da pensare che, se Chakuza quella notte fosse stato lucido abbastanza da accorgersi delle cose, probabilmente da quel momento in poi avrebbe decantato il mio sedere come la cosa più meravigliosa mai concepita da qualsiasi essere umano o divino che abbia mai calcato l’orbe terracqueo. Poi naturalmente c’è da dire che, se Chakuza quella notte fosse stato lucido abbastanza da accorgersi delle cose, difficilmente mi avrebbe piegato a novanta sul tappeto del suo salotto, per cui niente. Ho avuto la prima volta, ma non mi prenderò mai i complimenti dello chef. La vita a volte è ingiusta.
- È davvero così stretto? – chiedo con entusiasmo, - Dovrò provarci, qualche volta.
Chakuza si irrigidisce tutto come un pezzo di legno, e si allontana impercettibilmente. Oh, Dio. Lui doveva essere al bagno quando la mamma distribuiva i cervelli.
- C’è altro che volevi sapere? – butta lì frettoloso, spasimando per cambiare discorso.
- Non andare in paranoia, - lo prendo in giro, - non mi avvicinerei mai alla nostra illustre principessa. – aggiungo in un ghigno, al quale lui risponde con un’occhiataccia offesa. Fra le tante regole che vigono in questa casa, oltre alla prima che è quella di non nominare il nome di Bushido invano, c’è anche quella per cui è vietato perfino accennare alla sua esistenza e alle conseguenze che ha sul mondo circostante, almeno fino a quando non è impossibile fare altrimenti. Il fatto che io possa chiamare Bill “principessa” è palesemente una di queste conseguenze e, in ogni caso, adoro non rispettare nessuna delle regole che Chakuza crede di potermi imporre. Ha. – Comunque, - riprendo, - voglio sapere quante volte l’avete fatto quella notte. E se è venuto. E come l’hai fatto venire. E se è venuto tutte le volte. – mi fermo, faccio mentalmente il conto, poi torno a guardarlo, - E quante volte sei venuto tu, anche!
Chakuza lascia andare un mugolio irritato e confuso.
- E cosa vuoi, un resoconto dattiloscritto…? – biascica, - Comunque due. – risponde alla fine, cercando di ricordare tutte le domande, - E sì. Con la mano. Ancora sì. E… due. No, - precisa poi, - tre. – ammette con un certo imbarazzo.
A questo punto, il buon dio che protegge gli sfigati mi perdonerà, non ce la faccio più: rido e mi abbatto di faccia contro il materasso, affondando il viso sul cuscino per evitare di svegliare tutto il vicinato.
- Sei venuto tre volte?! – strillo incredulo, battendo un pugno fra le coperte, - Dev’essere stato bello davvero! E bravo Chaku!
Lui risponde con un borbottio indefinito, incrociando le braccia sul petto ed affondando col collo fra le spalle, fissando dritto la parete di fronte, come esistesse solo quella. Io cerco di riprendermi, per quanto non sia semplice, e torno a mettermi dritto. Ci metto un po’, a formulare la domanda successiva, perché è un tipo di domanda che conosco molto bene: quella che in genere ci porta lungo la china scivolosa di una mezza litigata che finisce per affogare invariabilmente nello stesso identico posto – fra le lenzuola. Oppure andandocene alternativamente di casa, ma più spesso fra le lenzuola, sì.
- E… - chiedo alla fine, - è stato così bello solo con lui?
Chakuza lascia andare un sospiro la cui traduzione letterale è “lo sapevo”. E io mi rimetto a ridere. Però più piano.
- Qui ti volevo… - commenta, scuotendo lentamente il capo, - No, non lo è stato solo con lui. – ammette infine, voltandosi a guardarmi, - Tu sei tutta un’altra cosa, però. Non ci sono paragoni da fare.
Rido ancora, e so che gli ho detto di non preoccuparsi, che l’avrei presa bene e tutto, ma un po’ mi piace sentirmi rassicurare così, anche su cose così idiote. E comunque gli riesce molto meglio quando dice la verità.
- Non fare il figo, adesso… - sbuffo divertito, - E comunque non volevo sapere se sono meglio di lui o no… solo se sono bravo anche io. – mi fermo per intercettare lo sguardo incredulo e vagamente ilare di Chakuza, ma blocco sul nascere qualsiasi battuta aggrottando le sopracciglia e tornando ad incrociare le braccia. Sia mai che ora mi faccia perculare da lui dopo essermelo rigirato sul palmo della mano per l’ultima mezz’ora. – E non guardarmi così. – borbotto, - Uno poi se le chiede, certe cose, se non è un cagasotto. Puoi rispondere, voglio saperlo. Ne va del mio onore di uomo.
Chakuza ride lievemente e mi guarda, ed a me per un secondo sembra di poter vedere solo i suoi occhi, sottili e verdi da far paura. Come riesca a sconfiggermi con un’occhiata nonostante tutto quello che gli ho fatto passare stamattina, proprio non lo so. È uno dei misteri che mi tengono attaccato a lui, suppongo.
- Hai detto che non hai niente da fare stamattina, giusto? – mi chiede, apparentemente senza nessun motivo. Qui non dovrebbe squillare un campanello, ma l’intero campanile di una chiesa. Solo che non ce n’è, nelle vicinanze, per cui continuiamo a illuderci rotolandoci idealmente nella deliziosa sensazione di ozio prolungato in cui ci siamo immersi senza pensare.
- No. – ribadisco, e visto che ormai sono quasi le nove la mia menzogna è talmente enorme che potrebbe quasi fare il giro e diventare una verità, - Ma che c’entra?
Chakuza si solleva e l’attimo dopo mi è addosso, ogni centimetro di pelle perfettamente aderente alla mia, il petto forte contro la schiena, il bacino già duro di desiderio contro il sedere, le gambe a cercare spazio fra le mie.
- Ottimo. – commenta solamente, chinandosi a baciarmi la schiena, seguendo il disegno della colonna vertebrale.
Io rido – ho i brividi fin nello stomaco – e faccio per scappargli da sotto le mani.
- Sei scorretto… - biascico, cercando di afferrare il cuscino per tirarlo via e scavarmi di prepotenza una via di fuga.
Chakuza allunga le braccia a coprire le mie e mi si spinge un po’ contro, in una domanda silenziosa.
- Mh-mh. – annuisce, - Anche tu, a fare certe domande. – e mi sospira sul collo, mentre io mi mordo un labbro.
- Mmmh… - mugolo, socchiudendo controvoglia gli occhi, - È vero, lo ammetto. Però… - m’interrompo un attimo, lanciando a Chakuza un’occhiata incerta oltre la spalla, e qui non ho davvero idea di cosa volessi aggiungere, perché appunto nel momento in cui mi volto a guardarlo del tutto accidentalmente i miei occhi finiscono sulla radiosveglia poggiata sul comodino e, tutto insieme, mi rendo conto di che ore sono, di che giorno e oggi e anche del fatto che la mia mente mi ha preso per il culo fino ad ora esattamente come fino a due secondi fa stavo facendo io con Chakuza, ed anche esattamente come lui avrebbe cominciato a fare in senso meno metaforico da qui in avanti se non l’avessi fermato. – Cazzo! – sbotto, agitandomi sotto di lui, - Cazzo, cazzo, cazzo, Chakuza!
- …sì, ne ho uno che si sente molto tirato in causa, al momento. – risponde lui, inarcando un sopracciglio ma scostandomisi di dosso quando vede che non accenno a placarmi. – Ma che ti prende? – domanda incerto, steso su un fianco, mentre io scatto in piedi e comincio a cercare i miei vestiti.
- L’Ersguterjunge! – sbotto io, infilando le mutande e i calzini al volo, saltellando prima su un piede e poi sull’altro, - La presentazione! Cazzo, devo andare a firmare il contratto! Siamo già in ritardo! Cazzo, cazzo, cazzo!
La luce della consapevolezza si fa strada negli occhi ancora un po’ annebbiati di Chakuza, e il secondo dopo lo vedo alzarsi dal letto come una furia, afferrando al volo il primo paio di mutande che incontra e correndo in bagno.
- Bushido mi ammazzerà. – annuncia lapidario, pallido come un cencio.
A me scappa di nuovo da ridere, e continuo a farlo anche se penso che è vero, ma che mi sa che se perdiamo altro tempo ammazzerà con gioia entrambi.

*

Ieri notte, io e Bill siamo andati a letto presto. Dopo che Chakuza è corso dietro a Fler nel tentativo di recuperare l’irrecuperabile, lasciandomi lì sullo zerbino a chiedermi nelle mani di chi stavo lasciando uno dei pochissimi esseri umani per la cui felicità darei volentieri la vita, non è che ci rimanesse molto altro da fare. Ci siamo guardati negli occhi per un lungo, infinito istante e poi Bill è arrossito tutto all’improvviso, come se solo in quel momento si stesse rendendo conto del casino che, palesemente senza volerlo, peraltro, aveva combinato. Si è voltato repentinamente e, visto che era ancora a metà delle scale, ha cominciato a correre per tornarsene in camera, senza lasciarsi sfuggire neanche un suono. Io ho sospirato pietosamente, lanciando uno sguardo supplice al cielo stellato fuori dalla villa prima di rassegnarmi a chiudere la porta e seguirlo in camera.
- Bill? – l’ho chiamato piano, schiudendo la porta e sbirciando all’interno. L’ho trovato già senza maglietta, tutto preso ad armeggiare coi pantaloni, - Bill, è tutto ok?
Lui s’è voltato a guardarmi con un paio d’occhi che sembrava l’avessi insultato invece di chiedergli come stesse.
- Come, scusa? – mi ha chiesto, basito, strattonando i pantaloni qua e là nel palese tentativo di strapparseli di dosso.
- Ti ho chiesto se è tutto ok. – ho sospirato ancora io, entrando nella stanza e chiudendomi la porta alle spalle. Ancora una volta, lui m’ha guardato con incredulità evidente.
- Ma che domanda è?! – ha sbottato quindi, tirando i pantaloni ancora un po’ e non ottenendo neanche una piccola vittoria all’interno della grande guerra che stava conducendo contro di loro, - Dovrei chiederlo io a te!
- E invece, guarda un po’, te lo sto chiedendo io. – gli ho sorriso, sedendomi ai piedi del letto. – Vieni qui, dai. – l’ho chiamato, schiudendo appena le gambe per fargli posto, - Ti do una mano con quelli, o finirai per distruggerli.
Lui ha abbassato lo sguardo, ma s’è avvicinato comunque, restando in piedi di fronte a me.
- Non me ne frega niente. – ha borbottato con aria colpevole, mentre sfilavo il bottone dalla sua asola e lasciavo scivolare la zip verso il basso, - Meglio se si rompono. Non li voglio più mettere.
- Bill, saranno costati un patrimonio. – ho riso, tirandoli delicatamente lungo le sue cosce bianche e magre, - E oltretutto sembra che te li abbiano disegnati addosso. Ti stanno molto bene.
- Ma cosa vuoi che me ne freghi dei soldi e di come mi stanno! – ha sbottato ancora lui, appoggiandosi alle mie spalle mentre lo invitavo a sollevare una gamba e poi l’altra per sfilarglieli del tutto. – Combino solo casini anche quando voglio fare cose belle. – ha mugolato quindi, stringendo la presa attorno alla mia maglietta, - Giuro che non volevo che andasse a finire così.
Ho sollevato lo sguardo, incontrando i suoi occhi scuri e brillanti pur nella luce fioca dell’abat-jour.
- Lo so. – ho risposto annuendo, - Non sentirti in colpa.
Lui ha sollevato una mano, accarezzandomi lentamente una guancia.
- È piuttosto difficile non sentirmi in colpa con te. – ha detto quindi, mordicchiandosi l’interno di una guancia. Io ho aggrottato le sopracciglia.
- Non voglio che sia così. – ho detto severamente, e lui ha sorriso un po’, piegando appena un angolo della bocca.
- Lo sai che non puoi farci niente? – ha ribattuto con dolcezza, - Fra le tante cose che puoi fare… - ha sussurrato sfiorandomi le labbra con due dita, - e sistemare… - le sue dita si sono fermate appena sotto il mio labbro inferiore, - e riaggiustare, - ha sospirato profondamente, - la possibilità di togliermi il senso di colpa dal petto quando ti ferisco non rientra nella lista.
Ho sospirato e scosso il capo, stringendogli la vita con le mani. Lui ha poggiato le braccia sulle mie, sfiorandomi appena il collo con la punta delle dita.
- Non mi hai ferito. – l’ho rassicurato.
- Non l’ho fatto intenzionalmente, forse, - ha protestato lui, - ma—
- No. – ho scosso il capo io, - Non mi hai ferito. Bill, - ho sospirato profondamente, - durante tutto l’anno scorso, sono successe molte cose. – lui ha trattenuto il fiato, serrando le labbra, - E tante di queste cose sono state spiacevoli, per usare un eufemismo. E come lo sono state per me, lo sono state per te. Non credere – sono tornato a sollevare lo sguardo, piantando gli occhi nei suoi, - non credere neanche per un minuto che io possa mai perdere di vista questo dettaglio fondamentale. È stata dura per tutti e due. Io non sono una vittima. Non lo sei neanche tu. Abbiamo fatto un casino infernale e ne abbiamo entrambi pagato le conseguenze, ma siamo qui, adesso. E tu – ho riso un po’, inarcando un sopracciglio con presunzione, - credi davvero che, dopo l’anno scorso, un paio di pantaloni che combinano un mezzo disastro possano ferirmi? Io sono d’acciaio, piccolo. – ho detto, accogliendo sulla pelle la sua risata un po’ triste ma soprattutto sollevata quando mi si è seduto in grembo, circondandomi le spalle con le braccia, - Niente mi scalfisce.
Bill ha pianto un po’, accucciato fra le mie braccia. L’ho sentito piangere molte volte, da quando lo conosco, ma questo è stato un pianto tutto diverso rispetto agli altri pianti che s’è fatto da quando sono entrato nella sua vita, e credetemi quando vi dico che stiamo parlando di numerosi pianti. S’è trattato di un pianto dolce, sommesso, sollevato. Venato da un pizzico di felicità che mi ha stretto il cuore. Giuro che non mi sono mai sentito bene come in questo periodo, in cui io e Bill ci stiamo affrontando con onestà, sciogliendoci poco a poco, ritrovandoci poco a poco, imparando a conoscerci di nuovo, con tutte le cose che sono cambiate in noi e che inevitabilmente non potremo più riavere, ma anche con tutte quelle altre cose che invece sono rimaste uguali, o comunque molto simili, rispetto a quelle che avevamo un tempo. È come riscoprirlo da capo. Ma è sempre lui. Credevo fosse impossibile tenere fra le mani qualcosa di così antico e così nuovo allo stesso tempo, eppure Bill per me lo è.
Per cui, sì, abbracciati com’eravamo poi siamo andati a dormire, perché seriamente, fare altro per quella sera non era proprio plausibile. E poi c’era anche da pensare a stamattina, naturalmente.
Stamattina ci siamo svegliati non prestissimo, ma di buon’ora, entrambi molto emozionati. Ho una idea abbastanza precisa di quello che è successo qui fra Bill e Fler mentre io non c’ero. Ne ho un’idea abbastanza precisa non soltanto perché Bill e Fler mi hanno più o meno raccontato tutti i fatti, ma anche perché conosco entrambi a memoria ed avrei potuto dirvi con largo anticipo come avrebbero reagito e come si sarebbero comportati l’uno con l’altro nel caso si fossero conosciuti, anche senza dover sapere niente delle situazioni che li avevano spinti a incontrarsi. Non fatico per niente a capire che Bill è felice per quello che sta per avvenire esattamente quanto me. Ed infatti il suo viso sembra splendere di luce propria ora che siamo qui nel mio ufficio all’Ersguterjunge, e attendiamo.
Eko, seduto sul divanetto in fondo alla stanza, si guarda intorno con aria incerta, come se lui in quel momento c’entrasse poco. Kay riempie il mondo di entusiasmo blaterando a caso su quanto sia una figata questa decisione, e su quanto è evidente che ci stiamo vendicando proprio bene su quegli stronzi dell’Aggro Berlin, quantomeno a livello commerciale.
- Vuoi mettere – mi dice, - la quantità di dischi venduti che si porta dietro Fler, rispetto a quelli che si porta dietro Nyze? Cioè, dai, palesemente ci stiamo guadagnando noi.
Io borbotto un assenso indefinito, lanciando un’occhiata nervosa all’orologio. Fler e Chakuza, naturalmente, sono in ritardo. Potrei approfittare di questo tempo concessomi per spiegare a Kay che prendere Fler sotto contratto all’Ersguterjunge ha ben poco a che fare con la guerra fra noi e l’Aggro, e ha ben poco a che fare anche con la quantità di dischi venduti in più che porteremo a casa a fine anno. È solo che lo rivoglio con me, li rivoglio tutti con me, e non intendo lasciarmene sfuggire uno che sia uno. Fler è solo il primo passo. Sto pensando a qualcos’altro. Ma prima devo parlarne con Jost, ed è ovvio che non posso farlo finché lui sarà ancora troppo impegnato a fingersi invalido per poter trascorrere le sue giornate a letto con Schüster. Ma non ha senso parlarne ora. Verrà il tempo.
E quello a mia disposizione adesso finisce nel momento in cui Fler e Chakuza fanno il loro ingresso nel mio ufficio, scompigliati e trafelati, scusandosi con tutti a destra e a manca. È abbastanza ovvio cosa abbiano avuto di così urgente da fare per non riuscire a presentarsi qui in orario. È ovvio non soltanto nel modo in cui si comportano o nel modo in cui sono conciati, ma nel modo in cui si sfiorano casualmente, si guardano, si sorridono, si parlano.
È inevitabile, per me, essere un po’ geloso. Stranamente, nei confronti di entrambi. Ma non m’importa più quando Fler si fa avanti e sorride, brandendo una penna.
- Dove devo firmare? – chiede.
- Sì, diamoci una mossa. – borbotta Chakuza, - Abbiamo tutti di meglio da fare.
Bill si lascia sfuggire una risatina divertita. Ed io faccio lo stesso, porgendo a Fler il suo contratto ed indicandogli il punto esatto in cui deve mettere la firma.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: NC-17
AVVISI: Slash, Lemon.
- "'Sei innamorato, povero caro?'"
Note: In realtà il titolo di questa fic è un grossolano errore XD Stavo cercandone uno quando Nature 1 dei Muse mi ha colpita col suo you are a natural disaster, perciò ho brillato e ho detto "è lui *_*". Siccome io e la Tab non facciamo un cervello in due, lei mi ha subito seguita, per poi ricordare dieci minuti dopo che in realtà io l'avevo già intitolata così una shot della saga. *cade* Motivo per cui abbiamo stabilito che questa sarebbe stata Natural Disaster II, anche perché ci piaceva l'idea che pure il Flerkuza avesse il suo disastro naturale ♥
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NATURAL DISASTER II

A scanso di equivoci e prima di cominciare, vorrei mettere le mani avanti e dire che io non sono un idiota. So che a volte posso sembrarlo, ma non è la stupidità che regola le mie azioni. Sono tante cose, io, sono avventato e sono insensibile e sono alle volte un po’ tonto riguardo certe cose, me ne rendo conto perfettamente, ma non sono stupido, sono in grado di ragionare alla perfezione su ciò che dico e che faccio e so capire quando faccio una cazzata e quando invece ho ragione.
Ecco, forse il problema è che non sono tempestivo. Nel senso, so capire quando faccio una cazzata, ma lo capisco sempre con quel po’ di ritardo che in genere è quello che mi mette nei guai. Probabilmente ormai anche io, avendo avuto le esperienze che ho avuto, dovrei avere assimilato il senso del ghetto, che è un po’ l’equivalente del senso del ragno, solo che invece di percepire donne che urlano in lontananza cadendo da palazzi sotto ai quali devo passare saltando di ragnatela in ragnatela per afferrarle al volo, ti permette di percepire quando stai per fare qualcosa di potenzialmente pericoloso per la tua incolumità. Per qualche motivo, però, il senso del ghetto fatica a radicarsi in me, forse perché sono nato in montagna circondato dalle vacche, che non è proprio l’ambiente ideale per favorire l’attecchimento di una sensibilità simile.
Quale che sia la ragione, comunque, non sono mai riuscito a sviluppare questa capacità. Forse avrei dovuto farmi mordere da un bambino radioattivo del ghetto durante una visita scolastica, forse avrei dovuto chiedere a Daniel mentre lui era ancora un bambino ed io ero in visita scolastica a Tempelhof, ma non l’ho fatto, e quindi non ho mai imparato. Fler invece ha sempre saputo come si fa, per ovvi motivi, ed è per questa combinazione di fattori – il suo saperlo fare e il mio non essere capace – che lui ha provato, più volte, a fermarmi mentre io mi scavavo la fossa con le mie mani, ma io non me ne sono accorto, per cui ho proseguito imperterrito fino a quando non ho sollevato gli occhi e all’improvviso mi sono accorto di avere scavato tanto in profondità da riuscire a stento a intravedere ancora il cielo sopra la mia testa in un cerchiolino minuscolo e altissimo. Eccomi qua, adesso, sul fondo di una buca e senza scala per tornare su. Metaforicamente parlando ma anche no, visto che sono nella sala caldaie del palazzo e se n’è appena andata la luce, motivo per cui non vedo più un cazzo e non riesco a trovare l’uscita.
Immagino vogliate sapere perché mi trovo nella sala caldaie del mio palazzo, perché sia andata via la luce e perché io stia pensando a Fler proprio in questo momento. È presto detto: sono sceso nella sala delle caldaie perché le caldaie sono rotte e io sono l’unico nel palazzo con un minimo di manualità in questo senso – non si può certo pretendere che la signora Lotte si metta a prendere le caldaie a martellate quando queste smettono di funzionare – e pur non essendo un carpentiere posso vantare una certa competenza, se non altro perché disastri simili in casa mia accadono spesso e uno deve saperli fronteggiare, soprattutto se vive da solo. Poi, naturalmente, scendere qui sotto mi ha fatto ripensare all’ultima volta che una cosa simile è capitata, e quella volta ero con Fler. Era passato Capodanno solo da un paio di giorni, Bill se ne stava ancora molto sulle sue e io e Fler passavamo ancora un sacco di tempo insieme, anche se il nostro rapporto era un po’ più freddo di quanto non fosse prima, se non altro perché lui si rifiutava categoricamente di baciarmi, una roba che non ho mai capito, né allora né in seguito. Comunque, fatto sta che lui era a casa mia, stavamo guardando un film stupido in tv quando all’improvviso il gelo è calato su di noi. Viene fuori che le caldaie ci hanno abbandonati, perciò scendiamo entrambi e passiamo un paio d’ore piuttosto divertenti al termine delle quali vinciamo uno a zero contro la Caldaie FC, e giustizia è fatta. Quindi è chiaro che da quel giorno ogni volta che ho avuto a che fare con delle caldaie ho pensato a lui, con risultati alterni sulla mia concentrazione.
Il che ci riporta giustappunto alla questione delle luce che salta, perché poco concentrato com’ero mi sono avvicinato forse troppo avventatamente al quadro elettrico giusto per controllare che non ci fossero problemi con l’alimentazione delle caldaie, e mentre tocchicciavo qua e là per vedere se c’era una qualche ragione per cui la Caldaie FC sembrava chiusa nella propria area e non si muoveva, ecco che loro mi fregano. Contropiede assassino, trappola del fuorigioco che non scatta, rete, uno a zero, palla al centro. Cala il sipario, e pure l’oscurità.
- Merda. – borbotto vagando a tentoni per il seminterrato, agitando le braccia nel buio attorno a me alla ricerca di un qualcosa che possa fungere da punto di riferimento. Le caldaie stesse, o magari una parete, non lo so, qualche superficie che io possa seguire per provare a raggiungere l’uscita. Invece niente, sembra che all’improvviso con lo spegnersi della luce sia sparito anche tutto ciò che c’era in questa stanza prima. Sono perso nel vuoto cosmico, probabilmente non sto neanche camminando sul pavimento, fluttuo a mezz’aria e ho solo l’illusione di essere ancorato ben saldo al terreno perché non riesco a pensare che potrebbe andare diversamente. Forse sto sognando. O forse questo è solo il piano malvagio delle caldaie senzienti, forse non sono nemmeno più nella stanza delle caldaie ma è solo quello che le macchine vogliono farmi credere. Forse non dovevo guardare tutta la trilogia di Matrix da solo, ieri sera.
Comunque, mentre sono qui nel buio che cerco di uscire dal labirinto in cui la stanza delle caldaie s’è trasformata, continuo a pensare a Fler. Il che non è usuale per me, non per il fatto che è Fler, ma perché tendenzialmente io non sono tipo da pensare e ripensare alle cose, soprattutto se mi frustrano. Il pensiero di Fler al momento mi frustra perché non è qui con me e perché penso che, se ci fosse stato lui, a parte spingerlo contro le caldaie, immagino mi avrebbe anche dato una mano e io probabilmente non avrei finito col tagliare la luce a tutto il palazzo mettendomi nella prospettiva di dover pagare l’elettricista di tasca mia e i danni a tutti gli altri inquilini che hanno riposto le loro speranze in me per tornare ad avere il riscaldamento in casa, per dire, che in un palazzo vecchio e pieno di spifferi come questo serve un po’, alle porte di settembre, coi primi venticelli che cominciano a farsi sentire insidiando la salute delle povere ossa di tutti i vecchietti che abitano qui.
E quindi niente, ci penso e mi dico che non sono scemo, l’ho capito dove ho sbagliato. Però non è che l’abbia fatto apposta, non è che abbia pensato “aspetta che vomito addosso a Fler un po’ di rancore per il fatto che io e Bill non ci siamo mai lasciati ma lui si sente comunque in diritto di rifarsi una vita con Bushido”, perché non è così, e poi pure io non è che sia stato un santo, specialmente nell’ultimo periodo. Il fatto è che sul momento non ci ho pensato che poteva essere una cosa che avrebbe potuto offenderlo. L’ho letto e mi è stato sul cazzo il concetto, non so se mi spiego, che quei due molto carinamente potessero sentirsi in diritto di fare il cazzo che volevano anche se la situazione precedente non s’era ancora chiarita. Non ci ho pensato che io stavo facendo la stessa cosa, non sul momento. L’ho realizzato dopo. Non l’ho mica fatto con cattiveria.
In ogni caso, a un certo punto vedo la luce in fondo al tunnel. Sia in senso metaforico che in senso realistico, perché si accende una torcia da qualche parte ed io finalmente riesco ad inquadrare la cornice rettangolare della porta, oltre la quale sta in piedi una figurina minuta, ossuta e un po’ curva, con una gran massa di capelli sottili e cotonati sospesi come una nuvoletta attorno alla testa tonda. Si vede la sagoma degli occhiali enormi che sporge dai lati del viso, ed io sorrido riconoscendo la signora Lotte che mi punta la luce negli occhi. Non sento quasi nemmeno fastidio.
- Peter, - mi chiama con quella vocina da nonna, - stai bene?
- Io sì, signora. – sospiro, seguendo la luce e raggiungendola all’ingresso, - Ma non posso dire lo stesso del quadro elettrico. Credo di aver fatto un mezzo casino. Chiamerò qualcuno per sistemarlo e mi occuperò io di tutte le spese. – dico con rassegnazione.
- Oh, povero caro. – mugola lei, visibilmente preoccupata più per me che per il fatto che la luce sia andata via dall’intero palazzo, - Ma non potevi chiamare quel tuo amico, quel marcantonio, com’è che si chiamava? Patrick? Non lo vedo più da tanto, era così bravo con me.
Sorrido appena, appoggiando una mano sulla spalla esile della signora Lotte e stringendola un po’, delicatamente. Era bravo anche con me, lo sa, signora? Era un sacco bravo anche con me. Ho pasticciato con gli ingranaggi, proprio come stavo facendo poco fa nella stanza delle caldaie, e ho mandato tutto all’aria. Però per sistemare le cose con Fler non posso chiamare un elettricista. A parte che posso permettere a un elettricista di mettere le mani nel quadro elettrico di questo palazzo, ma non posso certo permettergli di fare la stessa cosa col quadro elettrico di Fler, che chissà dov’è, peraltro. Se poi viene fuori che ce l’ha nelle mutande? No, assolutamente. E poi comunque non c’entra, Fler non ha un quadro elettrico. Non è una cosa. È una persona. E io dovrei ricordarmelo più spesso.
- Abbiamo avuto qualche problema. – rispondo sinceramente, abbassando lo sguardo e stringendomi nelle spalle. La signora Lotte mi punta ancora la torcia negli occhi, prima di spegnerla. Stavolta dà un po’ fastidio.
- Povero caro. – ripete, - Vieni da me, ti offro una tazza di tè. Così potrai raccontarmi tutto.
E io mi lascio accompagnare nell’appartamento della signora Lotte, mi seggo su una di quelle sue belle seggiole antiche imbottite e foderate di stoffa pesante, come non ne fanno più al giorno d’oggi, e lascio che lei mi offra il tè col servizio buono, che è in porcellana bianca finissima, tutto ricoperto di decorazioni floreali colorate. Sembra una cosa d’altri tempi, ma mi riscalda il cuore, e non solo perché è calda la bevanda.
Comincio a parlare senza pormi freni, come faccio sempre. Per una volta, mi lascio libero di pensare che potrebbe non essere un errore, nel caso specifico. Fortunatamente, stavolta ho ragione.
- Io e Fler, per un certo periodo, siamo stati insieme. – confesso a capo chino, - Non è che stessimo proprio insieme nel senso canonico del termine, e non sono sicuro di poterglielo spiegare—
- Oh. – ride lei, - Via, via, Peter. Pensi che prima del mio Carmine io non abbia avuto scappatelle, o avventure con qualcuno? – sorbisce silenziosamente un po’ del suo tè, - E poi anche io ho avuto le mie esperienze trasgressive. – dice compitamente, e il modo in cui dice “trasgressive” è lo stesso in cui tutti quelli della sua età pronunciano questa parola, dandole un’accezione quasi tenera, che tu ti aspetti di sentir dire “ebbene sì, anche io mangiavo qualche stuzzichino fuori pasto!”, oppure “ebbene sì, anche io una volta non ho lavato i piatti per tre giorni di fila!”, e invece eccola lì, lei, bella pulita linda e profumata, con la sua faccia da vecchina per bene e la sua voce da vecchina per bene, che mi sgancia la bomba: - Io e la cugina Bertha ne abbiamo fatte, di cose, nella nostra adolescenza, e non erano cose che comprendevano la presenza di maschietti, se capisci cosa intendo, mio caro ragazzo. – dice con una risatina pettegola.
Io spalanco gli occhi e la bocca. Sento quasi la mascella toccare il pavimento, ma lei continua a guardarmi con quel sorriso assolutamente sereno e dolcissimo e allora cerco di ricompormi. D’altronde, le sto comunicando che sono gay. È anche giusto che lei si senta in diritto di ricordarmi che non sono l’unico al mondo.
- …sssì. – annuisco, grattandomi nervosamente la nuca, - Il fatto è che io e Fler— intendo, signora Lotte, noi non è che giocassimo. Nel senso, sì, giocavamo anche, alle volte, ma non era soltanto una… - cerco le parole, fatico a trovarle e mi rendo conto che forse non esistono, per cui invento, - una… esplorazione delle varie possibilità del nostro modo di vedere il sesso, intendo, noi eravamo— avevamo un certo rapporto, una storia.
La signora Lotte sfila gli occhiali, che mentre beveva il tè le si sono appannati tutti, e li pulisce col retro della tovaglia rotonda di raso che copre il tavolino al quale siamo seduti. Rimane lì in silenzio a strofinare le lenti con attenzione a lungo, le scruta quasi con aria decisa, come volesse imporre loro la propria volontà – “non vi graffiate, povere care”, la immagino dire con quel tono fra il severo e il compassionevole così tipico di lei – e poi li inforca nuovamente, sistemandoseli sul naso con un dito e tornando a guardarmi.
- Sei innamorato, povero caro? – mi chiede, con lo stesso tono che le ho immaginato usare prima con le lenti dei suoi occhiali. Sono innamorato, povero me?, mi chiedo, e mentre me lo chiedo cerco di seguire il ragionamento, ma mi s’inceppa. Non so, non è che ci veda come una cosa che abbia a che fare con l’amore, quando penso a me e Fler. Certo, ci ho pensato, alle volte mi è anche sembrato che forse magari in un certo senso in qualche modo da un certo punto di vista avrebbe potuto possibilmente esserlo, ma siamo incasinati un sacco, litighiamo continuamente e quando non litighiamo tendenzialmente ci guardiamo inarcando sopracciglia perché non ci capiamo su quasi nessun livello che non sia quello orizzontale – o anche verticale, se è coinvolta una parete, non poniamo limiti al cielo – quindi, non lo so, amore? Può essere amore anche questo? Signora Lotte, io non lo so.
- Forse. – rispondo, che è la cosa più sincera che posso dire senza dovere usare tutte le parole che ho usato prima pensandolo, e senza dover spiegare alla signora Lotte la questione del piano orizzontale, questione che ormai avrà capito da sé, suppongo, ma un conto è se lo capisce da sola, un conto è se ci mettiamo qui buoni a sorseggiare tè e io le spiego come giocavamo al dottore io e Fler quando fra noi era ancora la pace. Non esiste.
Lei annuisce compitamente, finisce il suo tè e giunge le mani in grembo. Per un attimo, così seduta sulla seggiola con le spalle dritte e il volto serio, mi sembra una di quelle vecchie educatrici severe tipo la signorina Rottenmaier. Mi scende un brivido lungo la schiena, ma poi lei si scioglie in un sorriso caldo e tenero, e allora un po’ mi sciolgo anch’io.
- Cos’è successo? – chiede premurosa, - Avete litigato?
Sospiro, le spalle che mi s’incurvano.
- No. – rispondo, - Non esattamente. Non ce n’era nemmeno bisogno, sono stato un cretino, mi sono comportato male e lui mi ha dato il benservito.
- Oh. – uggiola lei, sporgendosi a battermi una debole pacca su una spalla, - Povero caro. Scusami se te lo dico, ma sei proprio stupido.
L’effetto delle sue parole è paragonabile a quello di un pianoforte o di un quintale di mattoni che mi cadono dritti sulla testa, stile cartone animato. È assurdo, cose simili non succedono, ma sono talmente sorpreso dal sentirmi dire una cosa simile che nell’agitarmi quasi cado davvero dalla sedia.
- Come, scusi? – guaisco, alzandole addosso uno sguardo implorante. Ritiri tutto, signora Lotte. Mi voglia un po’ bene, almeno lei.
- Sei proprio stupido! – ripete lei, sempre sorridendo, ma a voce più alta, come se pensasse che ho problemi di udito o che so io. Non sono sordo, signora Lotte, solo incredulo. – Quanti giorni fa è successa questa cosa?
- U-Un paio di giorni fa, - balbetto io, incerto, - tre al massimo. Più o meno.
Lei scuote il capo, schioccando la lingua, insoddisfatta.
- Quanti giorni vuoi lasciare passare, caro? – mi rimprovera severa, incrociando le braccia sul petto, - Il tuo Patrick avrà tutto il tempo di rifarsi una vita che non ti comprenda, se continui così.
- …signora Lotte, io non credo che—
- Io credo – mi interrompe lei, sorridendo serafica, - che qualsiasi sia stato il motivo della vostra incomprensione, tu abbia capito di avere sbagliato. E mi sembri molto pentito e sofferente a riguardo. Sono sicura che lui non sta aspettando altro che vederti spuntare sulla soglia della sua porta con un mazzo di fiori in mano, pronto a scusarti. – dice con aria sognante. Io mi schiarisco la voce, vagamente a disagio.
- Signora Lotte, - azzardo, - Fler è maschio.
Lei aggrotta le sopracciglia, piccata.
- L’amore è un sentimento universale, - dice, - non conosce differenze di sesso, di razza o di credo religioso. – la fisso con tanto d’occhi perché non riesco a credere che stia facendo questo discorso proprio a me. – E inoltre, - continua con un mezzo sospiro, - non credere che solo alle donne piaccia sentirsi ricordare dal proprio innamorato cosa voglia dire sentirsi amati davvero.
E io lì mi blocco un po’, perché oggettivamente qui stiamo entrando in un terreno che io non conosco, quindi mi conviene muovermi in punta di piedi. Di essere pienamente e consapevolmente innamorato di qualcuno, a me è capitato una volta sola, e quella volta in cui è successo le cose sono filate lisce finché il nostro rapporto è rimasto una cosa nostra, circoscritta a noi due. Così avrebbe continuato probabilmente ad essere, se non si fossero messi di mezzo fattori esterni, ma il punto della questione non è tanto questo quanto più il fatto che, allora, né io né Bill avevamo bisogno di ricordarci l’un l’altro che eravamo innamorati. Era una cosa che sentivamo senza difficoltà in ogni bacio, in ogni parola, in ogni gesto, ogni volta che facevamo l’amore. Forse perché il rapporto che avevo con lui era molto più tranquillo, ripetersi continuamente che ci amavamo sarebbe stato ridondante, eccessivo, e quindi capitava di rado che ce lo dicessimo esplicitamente, o che facessimo in modo di ricordarcelo facendo l’uno per l’altro cose fuori dal normale. Ogni tanto capitava, sì, ma non era fondamentale, non dipendeva da quello la nostra tranquillità.
Mi rendo conto solo adesso che la signora Lotte me lo fa notare che non è così per tutti. Che io non posso pretendere che Fler si fidi di me in questo senso, che abbia delle certezze riguardo alla nostra relazione, che si fidi del rapporto che abbiamo, se non gli ho mai dato modo di crearsele, questa fiducia, queste certezze e questa tranquillità. Quando mai siamo stati tranquilli, noi due? Quando mai abbiamo chiarito qualcosa? Quando mai abbiamo posto delle basi serie per una relazione, basi che non affondassero nell’argilla, intendo. Eppure eccomi qui, a pretendere inconsciamente che Fler possa reagire bene al più sbagliato degli spunti di discussione, perché dentro di me pensavo che comunque ormai ci fossimo riavvicinati. Sì, ci eravamo riavvicinati davvero, ma cazzo, stavamo in bilico come sempre. E io non ci ho pensato. Perché ha proprio ragione la signora Lotte, sono proprio uno stupido.
Mi alzo e le sorrido dolcemente, chinandomi a lasciarle un bacio su una guancia.
- Grazie per il tè, signora Lotte, era veramente buonissimo. – le dico. Lei si stringe nelle spalle, imbarazzata.
- Non ho fatto poi niente di speciale. – si schermisce.
La verità è che invece sì.
*
Uscito da casa della signora Lotte, passo appena dal mio appartamento a darmi una ripulita sommaria e afferrare una giacca a caso e poi sono subito per strada, diretto a casa di Fler. Non sta lontanissimo da qua, ma la mia buona mezz’ora di cammino in genere per raggiungerlo me la faccio. Oggi corro. Cioè, non corro proprio, però cammino tanto velocemente che sicuramente marcio, e arrivo in poco più di dieci minuti, e col fiatone, tant’è che poi ne perdo cinque sotto casa sua a cercare di riportare il mio respiro ad un ritmo più normale, piegato in due e con le mani sulle ginocchia. Appena mi ritrovo un po’, mi rimetto dritto e mi attacco al citofono. Suono almeno sei volte, poi mi rassegno all’evidenza: non è in casa. Non che la cosa mi stupisca, visto che Fler odia quest’appartamento, soprattutto quando deve starci da solo.
Mi fermo a riflettere. Può essere solo in due posti. Il primo che mi viene in mente è casa di Bushido, ma siccome, come abbiamo avuto modo di appurare via giornaletto scandalistico ieri, c’è Bill da lui – ed io non immagino che, fra una manciata di mesi, quando tutto sarà preoccupantemente diverso rispetto ad adesso, fuggire a casa di Bushido non sarà più così improbabile, presenza di Bill fra le regali quattro mura o meno – penso che Fler si sarà risparmiato di andare a stabilirsi proprio là, col rischio di dover finire nella dependance con Karima, poi.
La seconda opzione è vagamente più rassicurante, da un certo punto di vista – più precisamente, il punto di vista nel quale non mi tocca andare a casa di Bushido per andarmi a riprendere Fler, che sarebbe una mossa sconveniente in molti più sensi di quanti non riesca a pensarne con un solo cervello – ma dall’altro è un disastro. Perché mi tocca andare a riprendermi Fler a casa di Sido, e io non lo so mica com’è che potrebbe andare a finire una cosa del genere.
Nonostante queste giustificatissime perplessità di base, prendo il coraggio a quattro mani, inspiro profondamente e poi faccio un giro di telefonate, al termine del quale sono un uomo pronto e dotato di un indirizzo verso il quale dirigermi. Arrivo a casa di Sido che sono quasi le sette di sera, il che già mi pone in una posizione di disagio, perché non solo io perfetto sconosciuto appartenente a un’etichetta rivale arrivo in casa del gran capo dell’Aggro Berlin per tirargli via da sotto le grinfie uno dei suoi ex-pupilli, ma ci arrivo anche in prossimità dell’ora di cena. Non riesco ad immaginare uno scenario più preoccupante neanche mettendomici di buzzo buono, e sì che in questo senso la mia fantasia è piuttosto fervida.
Suono al citofono di casa Würdig-Steinert con un po’ di preoccupazione addosso, ma la controllo pensando che non è che abbia davvero alternative rispetto al trovarmi qui in questo momento. Spero solo che Fler capisca il sacrificio che sono costretto a fare per riaverlo, lo apprezzi e mi ricompensi adeguatamente. Tipo calandosi giù dal balcone entro i prossimi cinque minuti.
- Chi è? – risponde la voce un po’ nasale di Sido. La riconosco subito. Quando uno ti dà pubblicamente della merda in una diss anche se tu di tuo non gli hai mai mai mai ma proprio mai fatto nulla di male, tendi a non dimenticarti più il suono della sua voce.
- Sono Chakuza. – rispondo con candore.
Dall’altro lato cala il silenzio per una infinita quantità di secondi.
- Chakuza…? – chiede, ed è come se col mio nome ci si stesse strozzando. – Che cazzo ci fai qui?
- Ecco, io… - borbotto grattandomi una guancia, - sarei venuto per parlare con Fler.
- Ma chi ti dice che sia qui?! – sbotta lui, agitandosi tutto, - Ma santo Dio, ma sei normale?! È casa mia, questa, mica casa di Fler! Sparisci.
- Sì, il fatto è che ci sono già stato a casa sua. – dico precipitosamente, con l’intenzione di fermarlo prima che possa riappendere, - E siccome non c’è ho pensato che potesse essere qui.
- Hai pensato male! – ribatte lui con naturalezza, - Ma vedi tu se posso avere a che fare con uno stalker mitomane. Ma poi fosse John Lennon, santo Dio. Ma io non lo so, veramente. Senti! – riprende, tornando palesemente a parlare con me come non ha fatto negli ultimi trenta secondi, - Quando e se rivedrò Fler, gli riferirò che sei passato a cercarlo. Ora evapora. Sciò. Tornatene da— - e si interrompe all’improvviso, troppo all’improvviso per non costringermi ad inarcare un sopracciglio, incerto. Sento suoni di colluttazione provenire dall’interno dell’appartamento. Sido urla un “no!” molto accorato, che quasi mi commuove. Sto cullandomi col pensiero che forse Fler era nascosto da qualche parte e ora sta picchiando il suo ex-datore di lavoro per il modo becero in cui mi ha trattato, quando una voce femminile, molto più dolce e giovane di quella di Sido, prende il suo posto, salutandomi cordialmente.
- Ehm, scusi il disturbo. – dico con evidente imbarazzo, stringendomi nelle spalle, - Io non voglio mandarvi a monte la serata, vorrei solo parlare con Fler, se fosse possibile.
- Ma certo che è possibile. – risponde la signora Sido. Anche lei ha la voce identica a come l’ho sentita registrata su cd, più precisamente in una canzone che ha cantato con Fler. – Prego, sali pure, non badare a mio marito. – cinguetta felice, aprendomi il portone, - Settimo piano.
Io lancio un’occhiata veloce al palazzo e noto che è l’ultimo. Deglutisco con paura: se qualcuno vorrà defenestrarmi dal settimo piano, sia quel qualcuno Sido o Fler, non avrò scampo. Dico io, pure voi, non potevate abitare al primo?
Quando esco dall’ascensore, sulla soglia della porta ad attendermi non c’è Sido, naturalmente, ma lei. E io mi c’incanto un po’, perché la signora qui è di una bellezza sconcertante. A parte che avrà massimo venticinque anni, in pratica è una ragazzina, che uno si chiede per quale motivo non solo stia con uno come Sido, che volendo ci può anche stare, ma gli abbia dato perfino una figlia. Ma comunque. Indossa un vestitino rosso corto che le lascia scoperte le spalle, ed attorno alla vita ha un grembiulino di quelli che si fermano a metà coscia, tutti svolazzanti. È truccata, indossa bracciali e orecchini, ha i capelli sciolti sulle spalle e un paio di deliziose décolleté nere ai piedi. Sembra un po’ uscita da una soap-opera, ma in generale non fatico a capire perché Sido dovesse essere così furioso solo perché avevo interrotto il rituale di preparazione della cena.
- Peter Pangerl, vero? – chiede lei, salutandomi con un sorriso ed una stretta di mano piuttosto femminile. Io ricambio con aria un po’ persa, ed immagino che il mio sguardo stupito parli per me, perché lei si affretta subito ad aggiungere: - Fler ci ha detto tutto, di te.
Ah, penso io. E non è un “ah” felice e soddisfatto, tutt’altro. Ho una brutta sensazione, che aumenta d’intensità man mano che avanzo e m’introduco in casa Würdig-Steinert, che per inciso è un appartamento enorme arredato in maniera molto calda, con la carta da parati alle pareti e le tende lunghissime e sbuffanti su tutte le finestre e tutti i balconi e un sacco di divani imbottiti ovunque. E quadri, foto e dischi d’oro e di platino appesi alle pareti.
- Guardi, davvero, non voglio disturbare, per cui—
- Dammi pure del tu. – sorride lei, - Mi chiamo Doreen. Che ne diresti di restare a cena? Ormai è quasi ora, sto preparando il pollo con le patate.
La prima cosa che mi viene da dire è: ma ce l’hai messo il rosmarino nel pollo, Doreen? Perché non viene altrettanto saporito senza. Trattengo il commento sulla lingua, fortunatamente, e la seguo mentre mi fa strada lungo il corridoio. L’odore che viene dalla cucina, dovunque essa sia, comunque è buono.
- Non sono sicuro di poter accettare adesso. – dico con un mezzo sorriso, - Se non dovessi risolvere le cose con Fler, poi restare a cena potrebbe essere imbarazzante.
- Oh, - ride lei, divertita, - Fler è il minore dei tuoi problemi, adesso. – e così dicendo, mi introduce in salotto, dove Sido sta seduto sul divano, le braccia incrociate sul petto e la testa incassata nelle spalle, e fissa il televisore senza nemmeno vederlo, le labbra piegate in un broncio talmente lungo che con un po’ di fantasia lo vedo sfiorare il pavimento.
- Buonasera. – saluto, agitando una mano con aria un po’ impacciata. Sido mi lancia un’occhiata imbufalita.
- A te pare una buona sera? – borbotta, tornando immediatamente a fissare la tv, - Perché a me no.
Aggrotto le sopracciglia e faccio per rispondergli che ho capito che la mia presenza qui lo infastidisce, ma non mi pare il caso di agire come un bambino di cinque anni, visto che siamo tutti uomini adulti e capaci di ragionare, mi sembra, quando un dolore lancinante a uno stinco mi costringe a retrocedere dai miei propositi e a piegarmi in due mugolando pietosamente e stringendomi la gamba.
- Che cosa…? – borbotto, chiedendomi se per caso non sia stata Doreen a rifilarmi un pestone con quelle sue deliziose scarpette alla moda dai tacchi a spillo, ma guardando in basso realizzo che non è stata affatto Doreen a farmi del male, ma piuttosto una copia di Sido in miniatura, con capelli scuri appena più lunghi acconciati in un caschetto corto alla base del collo e i lineamenti appena un po’ più dolci rispetto a quelli di suo padre, ma palesemente riconoscibili. La bambina brandisce una spada di legno, e suppongo sia questo l’attrezzo che ha usato per gambizzarmi. – E tu chi sei? – chiedo con un po’ di terrore. La bambina solleva la spada e me la cala sulla testa come una mannaia. – Ahi! – strillo, e, mentre Doreen si copre la bocca con entrambe le mani e poi si allunga a sfilare la spada dalle mani di quella che sospetto fortemente essere la figlia, Sido, dal divano, ride di gusto.
- Brava bella di papà. – dice compiaciuto, - Vieni qui, Maja. – prosegue, chiamandola a sé e battendo una mano sul cuscino al proprio fianco con aria orgogliosamente paterna.
- Paul. – borbotta Doreen, incrociando le braccia sul petto, - Ma quanto la vizi?
- Ma perché mi ha picchiato? – piagnucolo io, gettando dal settimo piano non me stesso ma la mia decenza, e pensando che forse sarebbe stato meglio il contrario.
Doreen si stringe pudicamente nelle spalle.
- Le abbiamo grossomodo spiegato perché Fler è qui. Sai, lei gli vuole molto bene.
Osservo lo scricciolo in salopette e camiciola bianca che si arrampica sul divano accanto a suo padre e mi dico che sono messo proprio bene. Ma proprio bene. Sospiro.
- Posso vedere Fler, adesso? – chiedo, col tono di uno che pensa che ciò che ha subito fino ad adesso rappresentasse il giusto tribolato percorso per giungere a destinazione, un po’ come quei principi azzurri che sanno di dover affrontare il bosco di rovi e il drago sputafuoco prima di giungere alla stanza della principessa nella torre più alta del castello. Con tutte le dovute distinzioni fra Fler e una qualsivoglia principessa, in fondo è un po’ così per davvero.
Doreen sorride, riaccompagnandomi in corridoio. Indica una scala a chiocciola in ferro battuto proprio in fondo al corridoio stesso, e mi dice che la stanza di Fler è nel sottotetto, al piano di sopra. Parto già ad immaginarmi Fler recluso in una stanza larga due metri ed alta uno e mezzo, tutto curvo su se stesso come il Gobbo di Notre-Dame, ma quando salgo effettivamente le scale vedo che il cosiddetto sottotetto di Doreen in pratica è semplicemente il piano di sopra. Sì, c’è il tetto spiovente, ma vorrei ridiscendere per spiegare a Doreen che il sottotetto al più è un’intercapedine polverosa alta venti centimetri, mica questa reggia inondata dal sole che filtra dall’enorme finestra tonda che c’è sul prospetto.
Mi avvicino all’unica porta chiusa sul piano – le altre, e sono due, sono aperte, e danno una su un piccolo bagno e l’altra su un ripostiglio dentro il quale fa bella mostra di sé una scaffalatura metallica piena di ogni ben di Dio, neanche in questa casa ci si fosse preparati accatastando provviste in caso di una guerra atomica – e sento provenire dall’interno i suoni campionati di un videogioco. Un uomo palesemente non italiano ma che fa di tutto per sembrarlo strilla “Mamma mia!” con aria addolorata, e Fler impreca. Ho il terrore di aprire questa porta e trovarmi davanti agli occhi una versione regredita ai quattordici anni del Fler che conosco. Me lo figuro incazzato col mondo e soprattutto con me e mi chiedo se la finestra tonda sia sigillata e se per caso nel ripostiglio ci siano delle lenzuola vecchie che potrei annodare per calarmi discretamente fino in strada senza dover disturbare nessuno uscendo dalla porta principale.
Scrollo via dalla testa queste immagini moleste e busso.
- Adesso scendo! – risponde Fler, senza neanche chiedermi chi sono. Avrà visto l’orario ed avrà immaginato che Doreen fosse venuta a chiamarlo. Sento i suoni provenienti dal videogioco interrompersi all’improvviso, e poi le molle del letto sul quale è sdraiato scricchiolano nel momento in cui si alza. I suoi passi un po’ strascicati attraversano la stanza per un paio di secondi e poi la porta si apre. E invece di Doreen ci sono io. Sorpresa. - …Chakuza. – esala, e che non è contento di vedermi sarebbe ovvio anche per un cieco sordo e muto.
- Ciao. – lo saluto un po’ incerto, - So che non ti aspettavi di rivedermi—
- No che non me lo aspettavo. – mi interrompe lui, glaciale, - Se non sbaglio, ti avevo avvertito di non farti più vedere.
- Lo so. – annuisco consapevole, - Ma ne ho parlato con la signora Lotte, e lei pensa che—
- Ne hai parlato con la signora Lotte?! – sbotta lui, interrompendomi ancora. Fler, lasciami finire un discorso, già che io ho problemi pure se mi si lascia parlare senza interrompermi dall’inizio alla fine, ti ci metti pure tu che mi blocchi ogni tre secondi, poi non ti lamentare se mi s’inceppano gli ingranaggi e dico stronzate.
- Il punto non è questo. – dico, cercando di riportarlo verso la questione principale, che sennò qui facciamo notte.
- Invece il punto è proprio questo! – insiste lui, alteratissimo, così tanto che è tutto rosso a chiazze per quanto si agita. La pressione, Fler. – Il punto è che per nostra grande sfortuna Dio o chi per lui ti ha dotato di una bocca ma non del manuale di istruzioni, e di conseguenza tu la utilizzi senza sapere come, motivo per il quale nove volte su dieci lo fai a sproposito! Il punto è che come ti muovi fai un casino, ed alle volte basta pure che stai fermo e semplicemente dai aria al cervello per via orale per combinare disastri inenarrabili! Ti si dovrebbe aprire una finestra sulla nuca, così quando senti che devi schiarirti le idee la apri e non devi necessariamente parlare per dare all’ossigeno una via per raggiungere i tuoi neuroni! Avrei dovuto pensarci quando te l’ho quasi spaccata in due, quella testa di cazzo che ti ritrovi, dovevo farlo allora! Alla signora Lotte lo va a dire lui, certo! Ma andare dal tuo padre confessore, se ne hai uno, che almeno è obbligato a mantenere il segreto?!
Si ferma all’improvviso, proprio quando cominciavo a pensare che non ci sarebbe più riuscito, e resta immobile davanti a me, ansimando un po’. Ha gli occhi lucidi, ma capisco subito che non è che stia per piangere, è soltanto la rabbia e l’agitazione. Inspiro profondamente.
- Posso entrare? – chiedo, e mi preparo a sentirmi rispondere di tutto.
- Sì. – dice invece semplicemente lui, scostandosi dall’uscio per farmi passare. Io muovo qualche passo all’interno della stanza, che è letteralmente un casino, con vestiti buttati ovunque, giocattoli – che spero non siano suoi – sparsi sul pavimento e il letto disfatto ai piedi del quale c’è un cestino per la carta straccia pieno di confezioni di dolciumi vuote. – Scusa il disordine.
Gli lancio un’occhiata perplessa, e noto che ha chiuso la porta.
- Dico, te la ricordi o no casa mia? – chiedo, inarcando un sopracciglio. Lui ride appena, superandomi e sedendosi sul letto. Io lo seguo e faccio lo stesso, sedendomi abbastanza lontano da non rappresentare un fastidio, mentre lui mi guarda e io lo guardo e sostanzialmente, per cinque minuti buoni e non sto esagerando, non facciamo altro che scrutarci a vicenda come fossimo un rompicapo e dovessimo cercare di risolverci. Cosa non del tutto distante dalla realtà, peraltro.
- Che cosa ci sei venuto a fare qui, Chaku? – mi chiede alla fine, sospirando affranto. È frustrato e nervoso, glielo sento addosso. Se abbassa lo sguardo, adesso, non è perché sia triste, o almeno, non è solo per questo. È solo che non sa più cosa fare con me, perché le ha provate tutte e nessuna funziona. Forse siamo solo incompatibili e dovremmo proprio smetterla di continuare a rincorrerci sapendo perfettamente qual è la fine che faremo ogni volta. Forse dovremmo. Forse.
- Volevo solo parlare un po’. – rispondo io. Lui mi lancia un’occhiata pesante come un macigno.
- Siccome spesso parlando tu risolvi i problemi… - borbotta, e io mi stringo nelle spalle.
- Magari non si risolverà niente, ma non mi andava di lasciare che si chiudesse senza che tu sapessi. – dico, facendo sfoggio di grande coraggio.
Fler inarca un sopracciglio, per nulla impressionato.
- Sapessi cosa? – chiede giustamente. Eh. Sapesse cosa? Che cos’è che voglio dirgli, se quando la signora Lotte mi ha chiesto se lo amo non sono riuscito a tirare fuori niente più che un forse? Se dico “ti amo, forse” a Fler adesso, mi sa che mi defenestra sul serio. Stavolta le parole mi tocca sceglierle con cura, e mi tocca farlo adesso. Non posso sbagliare e poi pentirmene fra tre giorni. Non ora.
- Che non ti voglio fuori dalla mia vita. – dico a bassa voce, sforzandomi di guardarlo negli occhi anche se mi imbarazza farlo, perché i suoi sono chiari e limpidi e molto spesso ho avuto l’impressione che riuscisse a leggermi nella testa meglio di quanto non potessi fare io con me stesso, e la cosa mi ha sempre fatto paura, perché in un certo senso questo gli dava delle possibilità di controllo su di me, possibilità che non potevo avere nemmeno io, e fino ad oggi forse inconsciamente io ho sempre pensato che questo fosse un male, un pericolo, o comunque qualcosa cui non volevo sottostare, e invece mi ritrovo adesso a guardarlo e chiedermi perché mai l’abbia pensato. Io a quest’uomo una notte di dicembre di due anni fa ho affidato la vita. Qual è la differenza, adesso, perché non potrei farlo ancora e ancora e ancora? Deglutisco. – Se mi chiedessero se posso fare a meno di chiunque altro… - mi mordo un labbro, ci rifletto davvero, e capisco che sto dicendo la verità, - Se mi chiedessero se posso fare a meno di Bill, direi di sì. Sì, potrei. Ma non voglio te fuori dalla mia vita. Non adesso, e probabilmente mai.
Mi ritrovo all’improvviso senza fiato. Credo di aver detto tutto quello che dovevo dirgli senza fare cazzate nel mentre, ed è possibile che la cosa mi abbia prostrato più di quanto non credessi, il che ci sta, perché è faticoso muoversi in una cristalleria essendo un elefante, ma comunque mi sento in un certo senso come se avessi compiuto la mia missione, come se adesso non ci fosse nient’altro che posso fare, a parte sedermi nella mia bella navicella spaziale e osservare dall’oblò se le cinquanta testate atomiche che ho seppellito nella pancia dell’asteroide in rotta di collisione verso la Terra saranno sufficienti a fermarne l’avanzata. Insomma, se potrò tornare a casa da eroe o se osserverò dallo spazio il mio pianeta – tutto quello che mi interessa proteggere adesso – mentre si disintegra in particelle minuscole, togliendomi una casa e perfino senso di esistere.
Fler resta in silenzio per un’eternità. È sempre così quando aspetti un verdetto da cui dipende tanto, ti pare ogni volta che chi deve dartelo si prenda tutto il tempo dell’universo solo per torturarti. Mi innervosisce, anche se razionalmente so che non lo sta davvero facendo apposta, e a un certo punto sono così nervoso che schiudo le labbra per dire una cosa qualsiasi, la prima che mi passi per la testa, e sono ben consapevole che potrebbe essere la cazzata che rovinerebbe tutto, per cui sono grato, immensamente grato, quando Fler allunga una mano e mi appoggia un dito sulle labbra, zittendomi.
- No. – dice, con aria piuttosto allarmata, ed è alquanto offensivo notarlo, visto che ci penso, in realtà, - Sta’ zitto.
Arriccio le labbra in un broncio poco compiaciuto, ma in realtà il movimento serve solo a lasciargli un bacio involontario e un po’ goffo sul polpastrello. E spero che il brivido che ho sentito io nel darglielo sia lo stesso che ha sentito lui nel riceverlo, e sia questo il motivo per cui ritira la mano e mi guarda con gli occhi spalancati, perché se non è così, se in realtà tutto quello che sta pensando è che sono un deficiente e non vuole più vedermi, giuro che dalla finestra mi ci butto da solo. Ma non per cosa, perché quegli occhi così incerti non li reggo, non li posso reggere, non ci bastano già i miei ad essere confusi per entrambi?, e mentre sono qui che mi faccio problemi enormi e controllo davvero quanti passi mi separano dalla finestra – o magari dalla porta, via, non vogliamo fare troppo i melodrammatici, o spaccare questo bel vetro pulito oltre le tendine rosa di una stanzetta in cui spero Fler non vorrà passare altro tempo oltre al necessario – all’improvviso qualcosa nei suoi occhi si schiarisce, si scioglie, e quando lo vedo avvicinarsi boccheggio a vuoto per un paio di secondi come un pesce fuori dalla boccia, un attimo prima di sentire le sue labbra che si premono contro le mie, e allora ciao, arrivederci, campane a festa, perché io smetto di capire qualsiasi cosa e non mi importa più di niente.
Mi sporgo in avanti, spingendolo sul letto, e sul momento non è che mi rendo conto del fatto che sto davvero per provare a fare sesso con lui qui e ora, penso solo che ce l’ho premuto addosso e mi piace e ne voglio di più. Lui, peraltro, non è che opponga resistenza più di tanto: tira su una gamba, puntando il piede contro il materasso e strisciando all’indietro, afferrandomi per il colletto della maglietta e trascinandomi con sé mentre io mi sistemo fra le sue cosce e nel momento stesso in cui i nostri bacini si toccano devo allontanarmi un secondo perché mi manca seriamente il fiato. Sto per scopare! Sto per scopare con Fler! Nessuno di voi che non sia me può capire quanto questo avvenimento sia glorioso e vada celebrato. Semplicemente non potete, è la cosa più bella del mondo, e siccome pensavo che non sarebbe più avvenuto al momento sono così felice che mi scoppia il cuore nel petto.
Fler sorride contro le mie labbra, appoggiando la fronte alla mia.
- Piantala. – borbotta divertito, gli occhi chiusi, le ciglia che tremano appena. Mi struscio contro di lui perché so che non è questo che mi sta chiedendo di smettere di fare.
- Ma non sto dicendo niente. – protesto, ritardando la sua risposta di qualche secondo coinvolgendolo in un altro bacio.
- Non ad alta voce, forse. – risponde lui, la voce sottilissima e persa. Non apre gli occhi, e mi tiene stretto a sé con possessività mentre faccio di tutto per spogliarci entrambi senza causare disastri, e penso che sia bellissimo che lui possa dirmi che non ho parlato ad alta voce ma qualcosa l’ho detta comunque, anche se era una cosa stupida. C’è qualcosa, nel modo in cui Fler mi capisce, che non ho mai provato con nessun altro. L’idea delle anime gemelle mi è sempre stata un po’ sullo stomaco, se devo dire la verità, ma se ci credessi, sono sicuro che crederei anche che Fler sia la mia. Perché è così evidente, così lampante, che anche uno stupido come me non può non accorgersene.
Il letto cigola rumorosamente sotto di noi – cigola quando mi avvicino, quando lui schiude, piega e solleva le gambe per farmi posto, quando entro piano dentro di lui e ritrovo nel suo corpo il posto che credevo di avere perduto per sempre e invece, a sorpresa, è ancora lì – ma io non ci bado, e non ci bada neanche Fler. Pensiamo entrambi solo distrattamente alla porta – lo so perché ci voltiamo a guardarla tutti e due nello stesso momento, prima di scoppiare in una risata senza fiato che ci scuote ma non c’impedisce di continuare a venirci incontro spinta dopo spinta – ma tutto comincia a farsi annebbiato e confuso nel momento in cui lui sussurra il mio nome sul mio collo, e io mordo il suo e mi muovo un po’ più svelto, con un po’ più di forza, e Dio, non mi capacito di quanto mi sia mancato il modo tutto suo in cui Fler mi prende dentro, il modo in cui è capace di farmi mancare il fiato piegando il collo o inarcando la schiena anche se niente di tutto questo dovrebbe turbarmi come invece fa. Eppure succede, e penso che questo in sé racchiuda un po’ tutto, i motivi per cui ci siamo trovati, e persi, e ritrovati, e ripersi, e ritrovati ancora, e i motivi per cui penso che continuerà ad essere così sempre, fra noi, perché non dovrebbe accadere, eppure succede. Eppure succede.
Lo stringo con forza fra le dita, accarezzandolo al ritmo delle mie spinte, e vengo molto prima di lui perché lui – lo so che lo fa apposta, lo vedo dal modo in cui sorride – rotea i fianchi e stringe i muscoli attorno a me apposta per tirarmi questo bello scherzetto, solo che non me ne frega niente di essere venuto per primo, in realtà non me ne frega proprio un accidenti di niente, continuo a muovermi dentro di lui, più piano, con calma, finché ancora sono duro e posso arrivare a sfiorarlo in quel punto che gli fa inarcare la schiena ed arricciare le dita dei piedi, ed è allora che lui getta indietro il capo, schiude le labbra, respira affannosamente e si abbandona completamente fra le mie braccia, soddisfatto, mentre viene fra le mie dita.
Per un po’, restiamo in silenzio, ad ascoltare il suono dei nostri respiri mentre, da concitati e spezzati, si fanno sempre più calmi. Resto completamente spalmato addosso a lui, e lui mi tiene sopra di sé senza spostarsi di un millimetro, come se non sentisse il minimo fastidio per il mio peso. O ci siamo incastrati benissimo, o semplicemente non gli va di allontanarsi. Mi stanno bene entrambe le opzioni.
- Sai? – dico dopo un po’, sollevando gli occhi. Lui abbassa lo sguardo a incontrare il mio e piega un po’ il capo in un gesto curioso. – Doreen mi ha invitato a cena. – rivelo con candore.
Lui inarca un sopracciglio.
- Qui? – chiede.
- No, a casa dei genitori di Sido. – mi acciglio io, - Per farmeli conoscere, sai com’è, visto che ormai sono di famiglia.
Lui ride, tirandomi uno scappellotto contro la nuca e muovendosi appena sotto di me. Vorrei dirgli di non farlo, che è una cosa molto pericolosa soprattutto adesso che sono ancora troppo sensibile e lui è ancora troppo nudo, ma ho appena il tempo di schiudere le labbra che sentiamo provenire un paio di tonfi dal pavimento. Bum bum, e basta.
Nella mia testa si affollano le ipotesi più disparate, compresa la possibilità che questa camera sia posseduta o che lo sia l’intera casa di Sido, o chissà, Sido stesso!, questo spiegherebbe perché sua figlia è in realtà Rosemary’s baby, ma poi Fler ride, si stringe nelle spalle e si stiracchia come un ragazzino.
- Mi sa che è pronta la cena. – ipotizza con tono divertito.
A me sa che ho proprio bisogno di qualcuno che mi spieghi come sono le cose quando nella mia testa si sono già trasformate in un delirio senza un perché, invece.
- Vieni a stare da me. – gli dico in un fiato, guardandolo dritto negli occhi. Lui mi ricambia l’occhiata con stupore sincero, e poi mi sorride.
- Parliamone dopo. – propone, - A pancia piena. E da vestiti. Okay?
Annuisco, perché come ho già detto mi serve che qualcuno mi guidi. E penso di averlo trovato.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Fler/OMC.
Rating: NC-17
AVVISI: Slash, Lime, OC, Angst, What If?.
- "Avrei dovuto cambiare aria, magari perfino nazione, provare nuove collaborazioni – in Francia, per dire, fanno un ottimo rap" - Run Around In Circles ('Til I Run Out Of Breath)
Note: Allora, seguitemi e non confondiamoci XD Questa shot è una What If? rispetto alla saga. Ciò che avviene in questa storia non è che un'ipotesi, un qualcosa che avrebbe potuto verificarsi ma non s'è mai verificato, il ricamino di una fangirl (me stessa XD) su un'ipotesi solo paventata nella scorsa shot della LTP - che poi è la citazione che ho riportato nel riassunto.
Ambientato nel periodo in cui i ragazzi non si sono ancora ritrovati, e perciò a David non è ancora capitato niente. Mi raccomando, ripeto, non confondiamoci e teniamo ben separati ciò che succede in questa shot da tutto il resto XD Sono entrambe fantasie, ma questa è più fantasia dell'altra.
Partecipante altresì alla Maritombola @ maridichallenge su prompt "Ogni inizio infatti è solo un seguito, e il libro degli eventi è sempre aperto a metà." (Wislawa Szymborska)
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A BEAUTIFUL LIE
"Ogni inizio infatti è solo un seguito, e il libro degli eventi è sempre aperto a metà." (Wislawa Szymborska) @ Maritombola

Quando mi sveglio, come prima cosa allungo il braccio alla mia destra, e cerco il corpo di Danny sul materasso al mio fianco. Non dormiamo mai particolarmente vicini, il che per me è un dettaglio abbastanza nuovo, visto che tutti e due gli altri maschi coi quali ho dormito nel corso della mia esistenza avevano questa tendenza piuttosto spiccata ad arrotolarmisi addosso il più possibile.
Danny non è così. Ha, probabilmente, una visione molto meno romantica, per così dire, del dormire insieme. È capace di starmi vicinissimo durante il giorno, appiccicarmisi addosso in momenti decisamente poco opportuni, saltarmi sulle spalle mentre sto facendo tutt’altro e Dio solo sa quanto gli piace starmi il più vicino possibile quando scopiamo, ma mentre dormiamo? Mentre dormiamo sostanzialmente se ne frega di dove cade il suo corpo appena chiude gli occhi. È incosciente, in ogni caso, per cui perché crucciarsi domandandosi se mi stia abbracciando o si stia facendo abbracciare nel modo giusto, o preoccupandosi della possibilità di rimanere per tutta la notte immobile nella stessa posizione e svegliarsi l’indomani mattina con un braccio o una gamba anchilosati?
Il suo è un ragionamento molto pratico, molto terra terra, incredibilmente concreto e adolescente. Non c’è nessun motivo di dimostrarci niente neanche in generale, ma pretendere di dimostrarci qualcosa stringendoci l’uno all’altro mentre dormiamo è davvero troppo ridicolo, per il suo modo di vedere le cose.
È terribilmente divertente osservarlo mentre mette in pratica questi ragionamenti: quando sarà più grande, quando avrà corso innumerevoli volte il rischio di vedere le persone che avrà amato scivolargli via di mano, stringersele contro durante la notte per evitare di lasciarle volare via sarà l’unico pensiero che lo porterà a chiudere gli occhi serenamente quando dovrà dormire. Ma ora ha diciassette anni, non ha mai amato nessuno né tantomeno ha rischiato di perderlo. È naturale che pretenda i suoi spazi per dormire comodo.
Naturalmente, per me la situazione è un po’ diversa. Io ho amato molte persone e le ho perse praticamente tutte, si sia trattato di amicizia o amori veri, perciò non riesco ad essere spensierato come riesce lui. È più facile non pensarci quando non resta a dormire con me – spesso, probabilmente, lo rimando a casa sua proprio per questo – ma quando rimane qui mi capita spesso durante la notte di svegliarmi di soprassalto solo per verificare che lui ci sia ancora. O svegliarmi presto al mattino, come adesso, ed allungare subito un braccio alla ricerca del suo corpo.
La nota positiva è che non mi è mai capitato di non trovarlo, le volte in cui una cosa del genere è successa. E anche adesso funziona allo stesso modo: il suo corpo è proprio qui, solo apparentemente immobile fra le lenzuola. In realtà Danny tende ad essere molto irrequieto anche quando dorme, perfino quando il suo è un sonno tranquillo, perciò non è che si possa dire, perfino adesso, che lui stia fermo.
Mi rigiro su un fianco e lo osservo attentamente nella luce fioca che passa in rivoli minuscoli attraverso le imposte serrate, e nei pochi secondi in cui lo guardo lui riesce a cambiare posizione, scalciare un paio di volte, tirarsi via metà coperta di dosso perché sente caldo e fare una smorfia e sbuffare per liberarsi da una ciocca di capelli che, mentre si muoveva, è sfuggita al codino e gli è scivolata sul naso. E lo ripeto, oggi, rispetto ad altri giorni, è tranquillo.
Sollevo una mano e scivolo con la punta delle dita lungo il profilo del suo viso, sulla sporgenza ossuta della clavicola giù lungo il petto tonico e magro e sulla pancia piatta, fino all’incavo dell’ombelico proprio sopra la curva un po’ più rotonda e morbida del suo bassoventre. Lui si sposta impercettibilmente, tremando appena sotto il mio tocco, ma non si sveglia. La mia mano risale su seguendo lo stesso percorso all’inverso, e poi si ferma all’altezza del suo naso. Sorrido, stringendo le sue narici fra il pollice e l’indice.
Lui resta tranquillo per un paio di secondi, mentre il sorriso sulle mie labbra si allarga. Poi aggrotta le sopracciglia, le guance cominciano ad arrossarglisi e infine spalanca gli occhi e le labbra all’improvviso, gettando in giro braccia e gambe alla rinfusa nel tentativo di liberarsi del suo assassino misterioso mentre io, avendo ottenuto ciò che volevo, lo lascio finalmente libero di respirare, ritraendo la mano.
- Ma sei pazzo? – sbotta arrabbiato, tirandomi uno schiaffo in piena fronte, - Potevo restarci secco.
- Sì, ti avrei ucciso nel sonno e poi ti avrei fatto a pezzi. – annuisco io, afferrandolo per il polso e torcendogli un po’ il braccio mentre me lo tiro contro, finché non lo sento lamentarsi con una serie di “ahi, ahi, ahi!” di protesta, - Poi parte di te sarebbe finita in fondo al canale. E qualcosa l’avrei tenuta per ricordo, non si sa mai.
- Sei uno stronzo maniaco e sadico. – sentenzia lui, dandomi una testata, - E mi lasci? Mi stai facendo un male cane!
Rido un po’ e lo ribalto sul materasso, sovrastandolo col mio corpo ed impedendogli di muoversi ancora mentre con una mano scivolo lungo il suo fianco, sfiorando una delle numerose cicatrici che segnano la sua pelle.
- Credevo che queste dimostrassero che sei abituato a sopportare ben altri dolori. – dico, guardandolo dritto negli occhi. Lui ha un sussulto e trema non appena le mie dita un po’ ruvide ripercorrono il tratto di pelle ipersensibile sopra l’anca. Lo stesso che ho sfiorato la prima volta che è venuto a casa mia, intenzionato a convincermi a scoparlo. Lo sento sciogliersi sotto la mia carezza e diventare immediatamente duro sotto di me, ed è allora che mi scosto, rotolando sulla schiena e poi giù dal letto. – Ti conviene muoverti, - dico quindi, stiracchiandomi un po’ sotto il suo sguardo confuso e lucido di voglia, - o farai tardi a scuola.
- Non devo andare a scuola! – protesta con veemenza, - Siamo in vacanza dall’altro ieri, e soprattutto non posso credere che mi avresti davvero fatto venire voglia di scopare per poi buttarmi fuori così senza un pensiero!
- Dannazione. – borbotto io, fingendomi estremamente preoccupato, - Era esattamente il mio piano. L’assoluta impreparazione del sistema scolastico tedesco manda a monte tutto, però. Dovrò trovare qualche altro motivo per buttarti fuori di casa.
- Sei. Uno. Stronzo. Maniaco. E. Sadico. – ripete lui, scandendo bene le parole e poi gettando scompostamente le gambe giù dal letto per mettersi in piedi, - Ed io palesemente non voglio più avere a che fare con te per le prossime dieci ore almeno, per cui mi troverò di meglio da fare. – annuisce deciso. – Vado a farmi la doccia, tanto per cominciare. – annuncia dirigendosi speditamente verso il bagno.
Io sorrido, sedendomi sul bordo del letto per fare mente locale e decidendo che quest’operazione può aspettare, dopotutto: lascio passare cinque minuti, giusto per essere certo che Danny sarà già sotto la doccia quando mi sarò mosso, e poi mi alzo in piedi e lo raggiungo, cercando di fare il minor rumore possibile. Serve a poco, comunque: Danny sente spessissimo anche un sacco di suoni minuscoli, una cosa che immagino abbia imparato a fare per preservare per quanto possibile la propria sopravvivenza, motivo per il quale appena scosto la parete scorrevole trasparente ed entro nella doccia al suo fianco lo trovo già sorridente che mi dà le spalle solo per dimostrarmi quanto se lo aspettasse e quanto la cosa non lo colga nient’affatto impreparato.
- In realtà sono io che non potrei stare lontano da te per dieci ore. – gli sussurro sulla pelle, abbracciandolo da dietro mentre lui rilascia il capo contro la mia spalla e chiude gli occhi.
- Infatti era inteso come una vendetta nei tuoi confronti. – mi spiega a bassa voce, mentre le mie mani scivolano giù lungo il suo ventre e prendono a giocare distrattamente con la sua erezione, - Per aver cercato di soffocarmi nel sonno.
- Penso di poter chiedere una riduzione della pena, se prometto di occuparmi di un po’ di servizi sociali adesso. – ipotizzo, stringendolo piano fra le dita e muovendomi lentamente avanti e indietro, finché lui non prende a seguire il mio movimento con spinte regolari del bacino. – Facciamo che stai via cinque ore e poi ci si vede di nuovo?
Lui mi si rigira fra le braccia, schiacciandosi contro di me. Si avvicina abbastanza da fare in modo che le nostre erezioni si tocchino, e poi le avvolge entrambe con una mano, strofinandole contemporaneamente fra le dita e l’una contro l’altra.
- Hai da fare? – mi chiede sulle labbra, mentre io lo spingo contro la parete piantando entrambe le mani sulle piastrelle bagnate ed un po’ scivolose per muovermi con più forza contro di lui, - Perché se sei libero posso anche restare. Annulliamo la pena. Facciamo che invece di stare via cinque o dieci ore la sconti scopandomi cinque o dieci volte.
- Mi vedo costretto a declinare l’offerta. – rido appena, senza fiato, mentre lui passa il pollice sulla punta del mio cazzo facendomi rabbrividire di piacere, - Ho da fare, sì.
- Potrei aspettarti qui. – dice lui, sollevandosi abbastanza per sfiorarmi l’orecchio con le labbra, - Nudo, ad esempio.
- Oppure, - rido ancora, scivolando con le mani lungo la sua schiena ed afferrandogli le natiche con decisione, stringendole fra le dita, - potresti uscire da questa casa e provare ad avere una vita, ogni tanto.
- Ora mi si ammoscia. – mi avverte lui, roteando gli occhi, - Cristo, quanto sei palloso.
- Davvero. – sorrido sul suo collo, mentre le mie dita si avventurano lungo il solco fra le sue natiche, sfiorando decise la sua apertura, - Ho un po’ di cose da sistemare. Preferirei non averti tra i piedi mentre lo faccio.
- Stai peggiorando la situazione. – si lagna, continuando a strusciarsi contro di me, - Voglia di scopare in questo momento uguale a zero, più o meno.
Mi allontano un po’, una cosa praticamente impercettibile, ma è abbastanza perché le sue braccia scattino a stringermi attorno alle spalle per impedirmi di allontanarmi ancora.
Sorrido, poggiando la fronte contro la sua, le punte dei nostri nasi che quasi si sfiorano.
- Stai mentendo. – sussurro prima di baciarlo.
Ovviamente ho ragione, perché nel momento stesso in cui la mia lingua prende ad accarezzare la sua Daniel smette di lagnarsi, e non solo perché adesso ha la bocca occupata. Chiude gli occhi e si abbandona completamente a me, con una fiducia cieca che non manca mai di stupirmi. Con Daniel è tutto molto più incerto e flessibile di quanto non sia mai stato con altre persone, perciò ogni singola cosa che faccio con lui è molto più preziosa, perché non è mai routine. È sempre un qualcosa che è accaduto all’improvviso dopo chissà quanto tempo che non accadeva, e tu non puoi fare a meno di cercare il più possibile di assaporare il momento, perché chissà quando ricapiterà.
E davvero non capita spesso che lui si metta nelle mie mani in maniera così totale. Ci sono volte in cui è tremendamente dispotico, sia che stia sotto sia che stia sopra, ce ne sono molte altre in cui è semplicemente partecipe, gioca con me nello stesso modo in cui io gioco con lui, e poi ci sono volte come questa in cui si lascia andare, stabilisce che può mollare la presa sul suo senso del controllo per un po’ e può lasciar fare a me.
Lo sollevo appena, appoggiandolo contro la parete ed aspettando che abbia stretto le gambe attorno ai miei fianchi prima di cercare in un colpo secco la via per il suo corpo, nel quale affondo senza timore, godendo del sospiro arreso che esala gettando indietro il capo ed allacciandomi al collo. Gli ricopro il petto ed il collo di baci, spingendomi con forza dentro di lui mentre il suo bacino viene incontro al mio in gesti rapidi e fluidi. Mentre lui geme il mio nome e mi accarezza la nuca, io penso al borsone che sto tenendo pieno per metà nello stanzino in fondo al corridoio da ormai una settimana. Penso allo zainetto nuovo che ho comprato l’altro ieri tornando a casa una sera e penso a quel paio di magliette palesemente troppo piccole per me che ho avvolto in un sacchetto di plastica e ho lasciato là dentro. Mi chiedo come farò questo pomeriggio quando sarà tornato a dirgli ciò che devo dirgli, come farò a trovare il coraggio di chiedergli ciò che devo chiedergli, e poi Danny geme ancora, con più forza, ed ogni muscolo del suo corpo si tende sotto le mie dita, ed io smetto di pensare a cosa dovrò fare fra cinque ore per concentrarmi su ciò che devo fare adesso. Voglio che esca sorridendo, da questa casa. Perciò mi impegno a farlo bene.
*
Danny è già uscito da un’oretta abbondante quando mi decido a tirarmi su dal divano e darmi una mossa. La verità è che se ho aspettato così tanto è che non ho la minima idea di cosa dovrei fare. Altre volte, in passato, m’è capitato di desiderare di partire, di andare via. Un anno fa l’ho desiderato così tanto che il pensiero si era radicato in me molto profondamente, al punto che credevo di essermi davvero organizzato per farlo, ma non era così. Il borsone era pronto, è vero, ma è facile infilare qualche vestito e della biancheria in uno zaino e metterlo in un angolo, dove puoi vederlo, di modo che passandoci di fronte tu possa ripeterti che sì, è vero, sei ancora lì, ma ciò non vuol dire che tu non abbia palle per partire, perché visto? I bagagli sono lì, pronti!
Non è così, naturalmente. I bagagli sono lì pronti solo per finta, tu non sei organizzato, non stai davvero pensando a niente e se passasse qualcuno e ti mettesse in mano cinquecento euro dicendoti espressamente che puoi usarli, ma solo per partire, non avresti idea di dove andare. Perché non ci hai pensato, l’unico posto in cui vuoi andare è quello in cui sei, che guardacaso è anche il posto da cui vuoi scappare, il che è veramente un casino.
Perciò sì, un anno fa io stavo spesso a ripetermi che sì, entro un paio di giorni, una settimana al massimo, sarei partito. E avevo il mio borsone pronto proprio accanto al letto, c’inciampavo quasi ogni mattina quando mi svegliavo, perché avevo bisogno di averlo in mezzo ai piedi per ricordarmi che esisteva, non mi bastava tenerlo nell’angolo, dovevo rischiare di spaccarmi l’osso del collo travolgendolo, o lo dimenticavo nel giro di tre minuti. Però non avevo niente di più concreto oltre questo, non avevo un piano, non avevo una destinazione, non avevo delle tempistiche, non avevo un’organizzazione. Tant’è vero che ho atteso che fosse Sido a fornirmela, peccato che poi sia arrivata un po’ in ritardo, ed Anis, per allora, fosse già tornato in vita.
Si sarebbe comunque trattato solo di un tour, un qualcosa di molto breve e con un termine ben preciso, per non parlare del fatto che in realtà poi si sarebbe svolto tutto in Germania, quindi sarebbe un po’ stato come girare attorno al problema senza saper decidere se affrontarlo o allontanarsene definitivamente, quindi, alla fine, suppongo sia stato meglio in quel modo. Allontanarmi dal problema abbastanza per credere che potesse andare meglio e poi ripiombare nel baratro non appena avessi rimesso piede a Berlino non sarebbe stato tanto piacevole, quindi sono quasi certo, anzi, sono proprio certo che sia stato meglio rimanere, osservare la situazione finché non è stata portata alle sue estreme conseguenze e, be’, a quel punto, decidere.
Che poi è quello che ho fatto io adesso.
Abbasso lo sguardo, lanciando un’occhiata ai biglietti aerei per Parigi che tengo in una busta sul palmo della mano. Su un foglietto di carta, che tengo in quella stessa busta, ho l’indirizzo e il numero di telefono dell’albergo nel quale ho prenotato una stanza per un paio di settimane, e salvato sul cellulare ho un altro numero che invece appartiene a un tizio che lavora per la Fédération Nationale de l’Immobilier al centoventinove di rue du Faubourg St. Honoré. Pierre, così si chiama il tizio, è stato molto gentile e carino quando abbiamo parlato al telefono. Ha parlato in inglese e molto lentamente, così che io potessi andargli dietro senza difficoltà eccessive. Jost me l’aveva detto che avrebbe fatto al caso mio. Io ho detto a Jost che lo ringraziavo ma gli sarei stato anche più grato se avesse mantenuto un certo riserbo su tutta la questione. Lui ha inarcato un sopracciglio e mi ha guardato come avessi detto una cosa molto, molto stupida, e la discussione s’è chiusa lì.
In ogni caso, Jost e le sue innumerevoli conoscenze nelle comunità gay di tutta Europa a parte, il succo della questione è che stavolta sono organizzato. Lo sono davvero. Non solo so dove andare, ma ho appuntamenti precisi, date fisse, luoghi in cui devo presentarmi, persone con le quali devo parlare, questioni che dovrò risolvere, prospettive di contratti da firmare. Roba eccezionalmente seria. Roba che se penso alla prima persona che vorrei con me quando sarò lì a dover fare tutte queste cose, il primo nome che mi viene in mente è il nome sbagliato.
Il secondo, però, è il nome di Danny. E non è detto che una domanda non possa avere due risposte giuste, dopotutto.
*
Giugno è già cominciato da un paio di giorni, e in giro per le strade ogni tanto si vedono fare capolino segnali dell’estate imminente. Sono soltanto avvertimenti, perlopiù molto blandi. Ogni tanto il sole ti batte sulla pelle con un po’ di forza in più rispetto a quella con cui s’è fatto sentire fino ad adesso, gli strati di vestiti che la gente si porta addosso si riducono gradualmente, c’è perfino qualche coraggioso che già va in giro in maglietta, con le maniche tirate su fino ai gomiti. Lo vedi rabbrividire appena e poi farsi forza e continuare a camminare con un sorriso smagliante stampato sulle labbra, perché alle volte non è importante che non ci sia freddo, alle volte conta molto di più la consapevolezza di riuscire a gestirlo, di potere andare in giro con le maniche arrotolate e magari non morire di caldo, ma non morire nemmeno congelato. Alle persone, ho scoperto, tenere sotto controllo le cose piccole e insignificanti come queste fa bene. È sistematicamente quando cerchi di controllare le cose più grandi e importanti che ti sfugge tutto di mano. Questa è la lezione che ho imparato negli ultimi due anni, una lezione di cui intendo fare tesoro ora che sto per fuggire dal posto che me l’ha insegnata.
Per prima cosa, vado da Bill. Arrivo fino al suo appartamento, busso più volte e nessuno risponde, per cui chiamo Tom ed è lui a dirmi, abbassando la voce fin quasi a non farsi sentire più, che suo fratello s’è trasferito a casa sua per un po’. Stanno organizzando un viaggio, mi dice, non una cosa breve, e comunque Bill per ora non può stare da solo. Io annuisco e lui mi ringrazia per essermi preoccupato, e sento distintamente che sta per chiudere la conversazione. È allora che gli dico che sto passando per un saluto, e per molti secondi lui nemmeno riesce a rispondermi. Immagino sappia, voglio dire, suo fratello deve avergli spiegato, in qualche modo, che nel lungo elenco di persone dalle quali Bill deve stare lontano al momento figuro anche io, seppure per motivi che col rapporto che io e Bill avevamo prima di tutto questo non c’entrano niente. È per questo motivo che ora Tom vorrebbe dirmi “ma sei matto?” e rispedirmi a casa mia con un paio di metaforici calci in culo, ma non lo fa. Perché è Tom, perché è un ragazzo intimamente molto buono, molto soffice, e perché quando si parla di me la parola soffice non basta nemmeno più a descriverlo. Perciò, si limita ad annuire mestamente e dirmi “ok, ci vediamo fra poco”. Lo dice così frettolosamente che quasi riesco a vedere le rotelle del suo cervello muoversi forsennatamente mentre lui cerca di trovare un modo adatto per comunicare il tutto a suo fratello senza generare un’Apocalisse. Sorrido un po’, anche se non dovrei.
Sono lì in un quarto d’ora circa. Visto che non sono nemmeno le undici e mezza, passo da una pasticceria e compro qualcosa di buono da mangiare. Un intero vassoio di paste assortite. Bill molto probabilmente non avrà alcuna voglia di mangiarle, ma mi sembra poco carino presentarmi per dire che partirò, molto probabilmente per sempre, senza neanche portare un regalo. Quando ci rifletto mi sembra poco carino anche portare un regalo, per la verità, ma ormai il danno è fatto, Tom apre la porta e per un attimo guarda solo me, dopodiché i suoi occhi cascano sul vassoio che tengo in equilibrio sul palmo della mano e il suo viso si illumina di un sorriso festoso.
- Hai portato dei dolci! – constata con entusiasmo, prendendo il vassoio fra le mani e facendomi strada in casa. – Bill è un po’ così. – mi dice subito, come mettendo le mani avanti, poggiando il vassoio sul tavolo e scartandolo. – Oddio, quanta roba buona… - miagola sognante, e prende una pasta alla panna e fragoline prima di tornare a guardarmi, - Non sono sicuro che voglia vederti, ma di sicuro non vuole non vederti. – dice con aria un po’ confusa, staccando un morso dal pasticcino e masticandolo con lenta soddisfazione. – Per cui niente, ora te lo chiamo, però vuole che resti mentre parlate. Per te va bene?
Sorrido ed annuisco, Tom manda giù il pasticcino in un altro morso e ne prende un altro prima di girare sui tacchi e scomparire in corridoio. Quando torna, il pasticcino non è più fra le sue dita, bensì fra quelle di Bill, che lo stringe con disinteresse, stando attento solo a non sporcarsi. Ha le labbra piegate in un sorriso sottile, ma distoglie lo sguardo con ostinazione mentre si siede sul divano. Io mi seggo accanto a lui e Tom si stabilisce dietro al tavolo, su una sedia, avvicinandosi il vassoio e ricominciando a mangiare dolci lanciandoci di tanto in tanto occhiate attente da supervisore.
- Come mai sei qui? – chiede Bill. I suoi occhi sono ancora distanti dai miei, e penso proprio che non riuscirò ad incontrarli per oggi.
Devo dirglielo.
- Sono solo passato a salutare.
Non glielo dico.
- …oh. – sussurra lui, guardando il pasticcino e poi allungandosi a posarlo sul tavolino basso di fronte al divano, facendo attenzione a non rovesciarlo. – È… tutto a posto, sì? In generale, dico.
- Non posso parlare per gli altri, perché non li sento da un po’. – rido appena, grattandomi nervosamente la nuca, - Ma io sto bene, sì.
Bill sorride con più sicurezza, anche se tutto, in lui, in questo momento, ha un che di nostalgico e lontano, quasi antico. Da quale quadro sei sbucato fuori, ragazzino? Da quale passato che io non conosco?
- Anche io sto bene. – mi dice. So che lo fa solo per rassicurarmi, me ne rendo conto subito perché Tom, trangugiando un bignè alla crema, inarca un sopracciglio con aria scettica, pure se fa di tutto per darci a intendere di non stare origliando. – Penso che la scelta che abbiamo fatto sia stata quella giusta. – continua, annuendo a se stesso. Io sorrido e mi alzo in piedi.
- Bene. – dico, spiegando i pantaloni lungo le gambe, - Allora direi che vado. Ho ancora un mucchio di cose da fare, non vorrei non riuscirci.
Bill solleva lo sguardo repentinamente, cambiando espressione all’improvviso. I nostri occhi si incontrano ed io nei suoi leggo la paura riflessa dai miei, quella che dice che guardandomi, adesso, lui possa capire quello che gli ho nascosto nonostante fossi venuto qui proprio per salutarlo un’ultima volta.
- …ma sei appena arrivato. – dice invece soltanto lui, mordendosi appena un labbro subito dopo aver finito di parlare. Io sorrido con indulgenza, mentre Tom tira un inaspettato quanto rumoroso sospiro di sollievo. Gli scompiglio i capelli.
- Volevo solo passare per un saluto, comunque. – dico dolcemente, e poi lancio un’occhiata al pasticcino ancora sul tavolino. – Mangialo qualche dolcetto. – consiglio, - Sono buoni.
- Confermo. – annuisce Tom, ingollando il quindicesimo nel giro di dieci minuti. Io rido per qualche secondo, ed osservo Bill chinarsi verso il pasticcino e poi infilarselo in bocca in un sol gesto, come avesse paura di poter cambiare idea se avesse tentennato troppo. Fa fatica perfino a deglutire, il suo pomo d’Adamo fa su e giù per la sua gola con una lentezza esasperante, a un certo punto mi preoccupo pure, ma alla fine lui apre gli occhi e sorride, e lo fa guardando suo fratello, non me.
- È buono davvero. – dice, e Tom gli ricambia il sorriso. Credo che qui sia appena successo qualcosa che con la mia presenza non c’entra niente, credo di aver aiutato una questione di cui ero completamente all’oscuro a risolversi. – Io torno di là. – riprende Bill, e quando si volta a guardarmi, stavolta, è sereno. – A presto, Patrick. – mi saluta. Passa a prendere un altro pasticcino, prima di allontanarsi nuovamente verso camera propria.
Tom si alza dal tavolo, prende un altro bignè e, visto che ne sono rimasti giusto un paio, conserva il resto. Mangia quello che tiene in mano in un morso solo e mi accompagna alla porta. Sorride, restandovi appoggiato mentre mi osserva chiamare l’ascensore.
- Grazie, eh. – dice, salutandomi con un cenno del capo. Io ricambio con un gesto della mano, so che sta ringraziando per un sacco di cose, molte delle quali non saprò mai, e mi sta bene.
*
Mentre salgo in macchina e m’incammino verso casa di Bushido, mi dico che a lui devo proprio dirlo. Me lo dico con una certa convinzione, del tipo che lo so che non posso abbandonare la Germania per sempre senza quantomeno fargli sapere che sto per farlo. Lo so come si sanno quelle cose certe dell’esistenza, quelle che sono conseguenze immediate delle azioni che compi. Metti il dito sul fuoco, ti bruci. Esci senza ombrello mentre di fuori infuria la tempesta, ti bagni. Vai da Chakuza una sera che è solo e non ti vede da tre o quattro ore, si scopa. Allo stesso modo, se decidi di partire per Parigi lasciandoti dietro tutta la tua vita, lo dici a Bushido. Certo, forse quest’ultima questione è un po’ meno ovvia delle altre, per quanto riguarda tutto il resto del mondo. Un perfetto sconosciuto, se decide di trasferirsi da Berlino a Parigi, non è che deve andare da Bushido a notificarglielo. Io sì, però, perché io sono Fler, non sono un perfetto conosciuto, ed anche quando eravamo in guerra stavamo bene attenti a dire sempre ad alta voce dov’è che stavamo andando, se andavamo da qualche parte, così che l’altro potesse saperlo, potesse tenerci d’occhio.
Per cui adesso che mi fermo davanti al cancello di casa sua, parcheggio la macchina all’esterno e mi avvicino al citofono per suonare, lo faccio pensando che non ci sono cazzi, a Bushido lo devo dire, devo e basta.
Aspetto un po’, e sono talmente preparato a rispondere “Fler” quando lui chiederà “chi è?” che non mi accorgo nemmeno che lui invece non me lo chiede. Probabilmente perché vede che sono io nello schermo del videocitofono, si risparmia la domanda ed apre direttamente il cancello, ed è mormorando un “Fler” perfettamente inutile che io lo spingo e mi avvio per il sentierino ghiaioso che conduce verso la porta di casa, sulla quale lui mi aspetta, una mano sullo stipite e l’altra stretta convulsamente attorno alla maniglia, quasi tutto il corpo proiettato all’esterno, in allarme. Sorrido appena, per cercare di tranquillizzarlo. Gli ho parlato, prima di perdersi di vista, gli ho spiegato perché sarebbe stato meglio tagliare un po’ i fili, quindi è naturale che ora, lui, vedendomi tornare qui così presto, non possa che pensare al peggio.
Nota il mio sorriso sereno, comunque, e si rasserena a propria volta. La presa sullo stipite ed attorno alla maniglia si fa più morbida, e tutti i suoi lineamenti si fanno meno tesi, mentre la sua espressione, da stupita e preoccupata, si fa semplicemente sorpresa, forse anche un po’ curiosa.
- Volevo chiederti se era successo qualcosa, - comincia lui, inarcando un sopracciglio, mentre si scosta dalla soglia per farmi passare, - ma a guardarti non si direbbe.
Io ridacchio un po’, entrando in casa e guardandomi intorno prima di rispondere. L’ultima volta che sono stato qui, c’era Bill che piangeva sul divano ed è stato il momento in cui ho deciso che tutto quello che avevo vissuto negli ultimi due anni non era una motivazione sufficiente per continuare a torturarmi. Ho deciso che dovevo darci un taglio, ed ho costretto tutti a farlo. Alle volte mi chiedo se sarebbe andata allo stesso modo se, invece di parlarne solo con Bill, che in quel momento era evidentemente troppo fragile e perso per contestare ciò che avevo da dire, ne avessi parlato allo stesso tempo anche con Bushido e Chakuza, prima di prendere una decisione definitiva. Probabilmente no, non sarebbe andata allo stesso modo. È una fortuna che invece sia andata così.
- No, non è successo niente, infatti. – dico, aggirandomi per la stanza con aria curiosa. Ricordo bene tutti i particolari di quel giorno, ed ogni cosa è ancora esattamente com’era allora. Sono passati tre mesi, quasi, ed è come se in questa stanza non fosse successo niente da quel giorno fino ad oggi.
- E quindi… - azzarda lui, avvicinandosi con fare circospetto, - …come mai sei qui?
Mi inumidisco le labbra, voltandomi a guardarlo. Devo dirglielo. Coraggio. Adesso glielo dico.
- Sono passato solo per un saluto. – rispondo invece. E non lo dico neanche a lui.
Bushido inarca nuovamente il sopracciglio, stavolta palesemente perplesso. È ovvio che non crede a una parola, mi conosce troppo bene per farlo. Per qualche motivo, però, non si sente abbastanza sicuro del proprio intuito da azzardare un terzo grado. Oh, riuscirebbe a tirarmi fuori di bocca qualsiasi cosa, se solo volesse, ma probabilmente non vuole. O forse non sente più di averne il diritto. Qualche anno fa si sarebbe concesso di spremermi fino al midollo anche solo per divertirsi a vedermi arrabbiato o in difficoltà, ma ora no, ora si trattiene. Abbassa lo sguardo, che è una cosa che non ha mai fatto di fronte a nessuno, tantomeno a me, e sospira.
- Ti va un caffè? – mi chiede distrattamente. Io annuisco. Potrebbe chiederlo a Karima e restare qui mentre prendo posto sul divano e continuo a guardarmi intorno come un ospite casuale, ma il fatto è che lui non vuole restare qui, per cui a preparare il caffè ci va da solo, e questo comporterà il dover bere un caffè orribile solo perché lui si sente a disagio. Quest’uomo non ha smesso di condizionare il buonumore del prossimo suo basandosi sui propri sentimenti, è evidente. La giornata era partita così bene, e invece ora mi tocca bere del caffè disgustoso.
Torna più di cinque minuti dopo, col caffè già nelle tazzine posate su un vassoio circolare in legno chiaro. Lo appoggia sul tavolino e si siede sul divano accanto a me, recuperando la propria tazzina e sorseggiando il caffè in silenzio senza guardarmi, prima di abbandonarsi a un mezzo sorriso.
- Cosa? – chiedo io, sorridendo a mia volta. Lui finalmente mi guarda.
- Mi stai prendendo per il culo. – dice con estrema tranquillità, - Questa cosa non è normale, e se dici che non è successo niente allora lo stai facendo per prendermi per il culo. Cos’è, un test? Volevi verificare che fossi davvero solo e non con Bill o chiuso in uno sgabuzzino a infierire sulle spoglie mortali di Chakuza?
Aggrotto le sopracciglia, allungandomi a recuperare la tazzina e bevendo il caffè tutto d’un fiato prima di tornare a guardarlo.
- Ti giuro che non volevo controllarti. – ribatto pacatamente, - Non mi è mai neanche passato per l’anticamera del cervello. Volevo solo salutarti.
- E perché? – insiste lui, continuando a guardarmi con calma quasi eccessiva.
Perché sto partendo, Anis. Sto partendo, ho un aereo domani mattina alle dieci e non ho prenotato il volo di ritorno, perché un volo di ritorno non ci sarà. Sto partendo e non ci vedremo più e visto che cambierò numero probabilmente non ci sentiremo nemmeno più, e volevo andare via ricordandomi bene come sei e qual è il suono della tua voce, perché non capiterà più che possa passare da casa tua a salutarti semplicemente quando mi va, e pensavo fosse giusto farlo adesso che posso ancora, anche se questo tu non puoi saperlo, e se non tiro fuori le palle al più presto non lo saprai mai.
- Perché mi mancavi. – mento. Non è vero, Anis. Sono stato bene senza averti intorno. Sono stato bene senza avere nessuno di voi intorno. Mi sono concentrato su un mucchio di cose piacevoli e la mia vita è tornata tranquilla, per lo più. Mi dispiace che l’ultima cosa che tu debba sentire da me sia una bugia, proprio tu le bugie le odi. Ma in questo momento sento di dovermi proteggere, e questo è l’unico modo che riesco a pensare.
Lui sorride intenerito, allungando una mano ad accarezzarmi una spalla. Mi ci batte sopra anche un paio di pacche.
- Anche tu mi sei mancato, Frank. – dice con naturalezza, - Magari il peggio è passato. Noi due, dico, potremmo anche ricominciare a vederci. Saltuariamente. – aggiunge giusto per mettere le mani avanti quando, probabilmente, nota il mio sguardo che si incupisce.
Mi sforzo di sorridere, battendo un paio di volte la mia mano contro il dorso della sua e poi alzandomi in piedi.
- Sì, certo. – butto lì, - mi faccio sentire io. – dico, sperando che questo basti a tenerlo ben lontano dal mio numero per almeno un paio di settimane, giusto il tempo di stabilirmi a Parigi e cambiarlo. Lui annuisce subito, precipitosamente, come volesse dare ad intendermi di non aver mai voluto imporre la propria volontà sulla mia.
- Certo. – dice, alzandosi in piedi e seguendomi mentre mi avvicino alla porta, - Certo, naturalmente. Quando vuoi, io sono qui.
Annuisco ancora, aprendo la porta.
- Stammi bene. – dico, salutandolo con un mezzo abbraccio un po’ impacciato. Lui lo ricambia altrettanto goffamente, e poi mi osserva allontanarmi lungo il vialetto, verso il cancello.
- Non sparire! – mi urla, e poi ci ripensa. – Troppo a lungo. – aggiunge. Io rido un po’.
- Non sparisco. – lo rassicuro, ed è una menzogna anche questa. E visto che è proprio l’ultima cosa che gli dico, me ne vado in fretta, per non cedere alla tentazione di tornare indietro, dirgli tutto e poi implorarlo di darmi anche solo un motivo per restare.
*
Chakuza non risponde al citofono, ma contrariamente a Bill non possiede un fratello con una cotta per il sottoscritto che io possa chiamare per informarmi sul suo stato di salute e sulla sua presenza fra gli esseri umani, perciò dopo dieci minuti attaccato al campanello mi rassegno, recupero il cellulare e lo chiamo. L’idea di parlare con lui senza un filtro in mezzo mi spaventa un po’. Voglio dire, quando mi sono presentato da Bill lui sapeva già che sarei arrivato perché avevo parlato prima con Tom, e quando ho visto Bushido lui sapeva già che ero io perché mi aveva visto sul videocitofono, ma il telefono? È una cosa completamente diversa. Quando ti chiamano tu vedi il numero sul display, ma la chiamata è già in atto, hai pochissimi secondi per decidere se vuoi rispondere o meno, e quando a chiamare non è qualcuno che ti aspetti può diventare una paranoia non indifferente.
Immagino che sia per questo che a rispondere Chakuza ci mette le ore. Squilla almeno dieci volte prima che lui si decida a schiacciare il pulsante e sputacchiare un “pronto…?” totalmente confuso e anche un po’ spaventato.
- Ehi. – dico io sorridendo, cercando di suonare il più a mio agio possibile. Chakuza boccheggia per qualche istante.
- Fler? – chiede con sorpresa palese. Ha visto il mio nome, dovrebbe sapere che sono io, dovrebbe saperlo anche senza bisogno che glielo confermi, visto che ormai ha anche sentito la mia voce, ma l’eventualità che potessi chiamarlo doveva essere così remota, nella sua testa, da obbligarlo a domandare ancora, per esserne proprio certo.
- Già. – annuisco, - Ero passato da casa tua, ma non risponde nessuno, perciò immagino tu non ci sia. Dove sei finito?
Lui esita per una buona quantità di secondi, prima di rispondere.
- In Austria. – confessa quindi, - Alla fattoria dei miei.
Esito anch’io, mentre me lo vedo chiarissimo a tenere il cellulare fra l’orecchio e la spalla perché ha le mani impegnate a mungere una vacca.
- …in Austria? – domando sconvolto, - Ma sul serio?
Lui ride un po’, passando il cellulare da un orecchio all’altro e dimostrando perciò di non stare mungendo alcuna vacca.
- Sì. – risponde, sensibilmente più tranquillo rispetto a poco fa, - Ho pensato di prendermela qui, la mia pausa. Si sta bene, c’è un bel tempo, tanto sole e il giusto freschetto. Tu che mi dici?
Per un po’ non dico proprio un bel niente, perché scoppio a ridere. Oggi non l’ho ancora fatto, ed è una sensazione bellissima. Mi prende a tutto il corpo, mi piego in due e rido così tanto che comincia a farmi male lo stomaco, ma non è un dolore fastidioso. Un bel tempo, tanto sole e il giusto freschetto, Chakuza? Oh, Dio.
- Niente di che. – rispondo quindi, mentre lo sento borbottare rumorosamente dall’altro lato della cornetta, - Stavo solo… in Austria, Chaku, ma tu non sei mica a posto con tutte le rotelle! – dico, impossibilitato a trattenermi oltre, e riprendo a ridere come se non avessi mai smesso.
- Di’ un po’, ma lo sai che per prendermi per il culo stai spendendo un sacco di soldi? – mi fa notare lui, sempre con quel borbottio offeso che me lo fa immaginare già vecchio e con un’enorme barba bianca e la pipa in bocca. E la testa lucida, sempre.
- Sì, lo so. – dico, mentre l’accesso di risate comincia piano piano a placarsi. Mi rimetto dritto, asciugo una lacrima dall’angolo dell’occhio e penso che glielo voglio proprio dire, a Chakuza, che sto partendo. Non so perché, ma voglio farlo. – Volevo salutarti, - dico quindi, e per un attimo non riesco a credere che lo sto facendo davvero, - domani parto.
Chakuza si congela all’istante. L’atmosfera era rilassata fino a meno di un secondo fa, ma è bastato dire che sto partendo perché lui cambiasse subito atteggiamento e, immagino, anche disposizione nei confronti della vita in generale. Il fatto è che Chakuza è uno cui non devi mai togliere le sue certezze. Ne ha già poche, e quando gli togli pure quelle è il panico. Perciò lui è fuggito in Austria per non dovere avere a che fare ogni giorno col pensiero di essere a Berlino e non poter posare gli occhi su me o su Bill, ma non gli è mai passata per la mente la possibilità di tornare a Berlino e sapere che io o Bill – o perfino Bushido – non eravamo più lì. È come dirgli “guarda, finché sei là sui monti con Annette dove il cielo è sempre blu il sole continuerà a sorgere pacifico ogni mattina, ma quando sarai tornato a Berlino non aspettarti che continui a farlo, perché qui il sole non sorge più”. È una cosa completamente priva di senso che lui non riesce ad accettare, e probabilmente immagina che non l’avrei chiamato se fosse stato un breve viaggio, e cioè se avessi immaginato che per il suo ritorno sarei già abbondantemente tornato anch’io.
- Come sarebbe a dire che parti? – chiede allarmato, - Dov’è che vai?
All’improvviso, non ho più tanta voglia di parlargliene. Il suo tono apprensivo è di quelli che da soli sarebbero capaci di farmi promettere tutto e il contrario di tutto, pur di non sentirglielo più addosso. Non vado da nessuna parte, Chaku. Da nessuna parte.
- In realtà è una cosa temporanea. – abbozzo distrattamente, - Sono giusto un paio di settimane.
- Dove? – chiede subito lui, insoddisfatto.
- In un posto non lontano da qui, - invento di sana pianta, - un agriturismo. Ho avuto un po’ di problemi con Sido, ultimamente, e quindi abbiamo pensato di andare qualche giorno in vacanza, lui si porta dietro tutta la famiglia e andiamo in questo posto dove mangeremo bene e faremo lunghe passeggiate e la vita ci sembrerà più semplice e potremo risolvere tutti i problemi che abbiamo.
Lui mugugna un assenso indefinito, mentre io penso che non è neanche una cattiva idea, questa dell’agriturismo. Se avessi più tempo, probabilmente correrei all’Aggro adesso per proporglielo. Abbiamo avuto un po’ di scontri per questa questione di Nyze, ultimamente, ma resta uno che mi è sempre rimasto accanto, perfino in momenti in cui nemmeno Bushido ha voluto farlo. Mi dispiace non avere il tempo di salutarlo, mi dispiace che sia già tardi e mi dispiace pensare che in realtà anche questa telefonata è durata fin troppo. Devo darmi una mossa, fra poco Danny sarà a casa. Non ho più tempo davvero per niente, lo sto risparmiando tutto per averne il più possibile da domani in poi, quando il futuro mi si aprirà tutto davanti agli occhi in un posto nuovo e potrò ricominciare da zero. Alle volte sembra una cosa così faticosa da fare, mentre altre volte ancora è l’unica cosa che vuoi davvero. È l’unica cosa che voglio io adesso, almeno, e tanto mi basta.
Faccio per dirgli che, appunto, non ho più tempo, e quindi arrivederci e grazie, ma lui me lo impedisce, mettendosi a parlare all’improvviso.
- Volevi vedermi? – chiede serio, - Se sei passato da casa mia, immagino volessi vedermi. Posso essere a Berlino per domani alle nove, se vuoi.
Mi mordo un labbro. Se gli dicessi di sì adesso, avrei tutto il tempo, domani mattina, per vedere lui e poi partire comunque. Sempre che, dopo averlo visto, voglia ancora farlo. Ci rifletto, ci rifletto a lungo e per tutto il tempo mi dico da solo che non è una cosa veramente fattibile, che non dovrei neanche starci a pensare. Devo lasciare perdere, devo proprio, decisamente lasciare perdere. Alla fine, è solo amore. Quanta gente s’innamora, ogni giorno? Milioni di persone incontrano una persona e si innamorano, continuamente, è una cosa che si ripete all’infinito perché milioni di persone, continuamente, si lasciano anche. Non è niente di che. Me lo ripeto con convinzione. Non è niente di che.
- No, davvero. – sorrido, - Ero solo passato per un saluto. Goditi il tuo bel tempo, il tuo sole e il tuo freschetto, Chaku. Noi ci si becca appena torni.
Lui mugugna qualcosa che non capisco.
- Sarai lì, quando tornerò, giusto? – chiede per esserne certo.
Mento anche a lui. Mi pesa meno di quanto dovrebbe.
*
Danny torna a casa portando con sé due tranci di pizza di dimensioni enormi. Ogni pezzo di wurstel ha un diametro più ampio di quello del mio pollice. Posa il vassoio sul tavolo con un certo orgoglio, guardandomi con evidente soddisfazione mentre si siede e comincia sistematicamente a rubare tutti i wurstel da entrambi i pezzi di pizza.
- E questi? – chiedo, indicando il tutto con perplessità palese. Lui scrolla le spalle.
- Avevo voglia di un pranzo veloce. – risponde.
- E avevi anche soldi da buttare, immagino. – borbotto, mettendo automaticamente mano al portafogli per restituirgli tutto, - Quanto hai pagato?
- Neanche un centesimo. – dice lui, sorridendo candidamente, - Ho fatto addebitare tutto sul tuo conto, non ho neanche chiesto quant’era. Ho preso anche un paio di lattine di Coca, ma quelle le ho bevute entrambe in metro mentre venivo qui. – conclude annuendo, - Avevo sete.
- Ti si sarà bucato lo stomaco. – considero inarcando un sopracciglio, - Bene, quindi domani mattina fra le altre cose dovrò svegliarmi all’alba per passare dal fornaio a saldare il conto, prima di partire.
Daniel si ferma immediatamente, un wurstel ancora fra le dita e lo sguardo un po’ perso.
- Parti? – chiede quindi, simulando indifferenza. Riesco a sentire la tensione sottile nella sua voce, e ne sorrido.
- Aspettami qui. – gli dico, girando attorno al tavolo ed uscendo in corridoio. Vado fino all’ingresso e tiro fuori la busta coi biglietti dalla tasca del giubbotto appeso all’attaccapanni, e quando mi volto per imboccare il corridoio a ritroso lo trovo lì affacciato dalla porta della cucina che mi fissa con curiosità. – Ti avevo detto di aspettarmi lì. – ridacchio avvicinandomi e spingendolo nuovamente all’interno della stanza semplicemente avanzando verso di lui.
- Infatti ti ho aspettato qui. – annuisce lui, sedendosi mentre mi osserva fare lo stesso. – Che c’è in quella busta?
Prendo un gran respiro, aprendola e tirandone fuori i due biglietti per Parigi. Lui me li ruba dalle mani, guardandoli incerto. Nota subito che su uno dei due c’è stampato il suo nome.
- Non ti sto chiedendo niente. – mi affretto a rassicurarlo, - L’ho fatto solo nel caso tu volessi.
Lui resta zitto per qualche secondo, ma è un’esitazioni che sembra durare secoli. Mi sento sfuggire il tempo da sotto le dita mentre aspetto che dica qualcosa, e so che è così solo perché ciò che aspetto di sentirmi dire è la cosa più importante che abbia atteso negli ultimi mesi. È così fondamentale che da questo dipende tutta la mia vita, tutto il mio futuro. Io andrò via comunque, ma sarà diverso farlo da solo o farlo con Danny.
- …non c’è scritta la data di ritorno. – dice quindi, deglutendo forzatamente. Mi guarda dritto negli occhi, solo che non capisco cos’è che vorrebbe sentirsi dire in questo momento, per cui opto per l’unica cosa certa che so, cioè la verità.
- Sì, non c’è una data di ritorno. – dico tutto d’un fiato, - Mi sto trasferendo, Danny. È la prima volta in vita mia che non mi sento a posto con questa città, e non ci voglio più stare. Mi rendo conto di quanto sia infantile, cioè, a volte mi sembra infantile, a volte no, in questo momento sì, ma stamattina no, e nemmeno quando facevo il biglietto, ma non cambia la sostanza dei fatti che io qui non ci voglio stare più, e mi trasferisco. E sarei felice se tu volessi venire con me, ma ti capirò se non vorrai.
Lui fa un’altra pausa, torna a scrutare i biglietti, se li rigira fra le mani.
- Sono per domani alle dieci e mezza… - sussurra incerto.
- Lo so. – annuisco io, - È una cosa improvvisa, ti sto chiedendo di prendere una decisione molto in fretta. Ma ehi, guarda che non c’è niente di definitivo, nella vita, voglio dire, magari arrivo là e i francesi mi stanno tutti sul cazzo a pelle. O magari no, ma se non ti va di venire subito puoi restare e fra una settimana o due o tre o quando vuoi non ci metto niente a farti avere un biglietto per raggiungermi, intendo, non sto mica andando in Patagonia, la Francia non è così lontana da qui, e—
- Non avrò il tempo di tornare a casa a prendere la mia roba. – dice lui, interrompendo il mio fiume di parole confuso ed anche vagamente privo di senso. Lo guardo.
- Cosa? – chiedo.
- Non avrò il tempo di tornare a casa a prendere la mia roba. – ripete Daniel, - È sabato, mio padre starà lì tutto oggi e tutto domani e se mi vede arrivare è capace di rinchiudermi fino a lunedì. Se vado, rischio di non tornare in tempo.
Continuo a guardarlo, perché non sono sicuro di aver capito bene.
- Stai dicendo che vuoi venire? – chiedo per sicurezza. Devo suonare come un perfetto imbecille, in questo momento.
- Sto dicendo che non potrò passare a casa mia a prendere la mia roba. – ripete lui, per la terza volta in meno di cinque minuti, aggrottando le sopracciglia mentre le guance gli si colorano appena. - …immagino che questo implichi che sì, voglio venire. Ma non avrò niente da mettere.
Trattengo il respiro per qualche secondo, alzandomi in piedi. Non gli dico di aspettarmi qui, tanto so che non lo farebbe in ogni caso, ed esco nuovamente in corridoio, dirigendomi stavolta verso lo sgabuzzino. Ne apro la porta e mi chino a recuperare lo zainetto nuovo ancora abbandonato in un angolo. Lo apro, ne tiro fuori le due magliette ancora avvolte nella plastica. Mi volto e Danny è esattamente davanti a me. Mi guarda e i suoi occhi sono macchiati d’incertezza e di un pizzico di paura.
Sventolo le magliette davanti al suo viso.
- Non è molto, ma per un paio di giorni ti dovrebbero bastare. – dico. Non so neanche che espressione dovrei avere in questo momento, è tutto così surreale. – Poi andremo a comprare qualcos’altro.
Daniel mi guarda ancora, a lungo. È palese che nemmeno lui sa che espressione dovrebbe avere. Poi mi afferra il viso fra le mani, così improvvisamente che io quasi indietreggio spaventato, e mi si avvicina, schiacciando le proprie labbra contro le mie. Mentre mi bacia con forza, sorride. E allora sorrido anch’io.
*
Pierre viene a prenderci all’aeroporto, qualcosa che non mi aspettavo ma che dopotutto mi fa piacere. Lo riconosco perché tiene dritto sulla testa un cartello col mio nome sopra, e lo agita elegantemente a destra e a sinistra per farsi notare. Le sue labbra si aprono su due file di denti bianchissimi e perfetti, i capelli ricci che incorniciano il volto dai lineamenti fini ed eleganti e gli occhi scuri ma brillanti danno l’impressione di avere davanti un ragazzo che ci sa fare, tutto sommato. Per qualche ragione, lo immaginavo più o meno così. Forse, avendo ben presente David Jost e gli esseri umani coi quali normalmente si accompagna, non avrebbe potuto essere niente di diverso.
- Ma è un tuo ex? – butta lì Daniel, indicandolo distrattamente. Gli schiaffeggio la mano.
- È maleducato indicare le persone. – lo rimprovero arrossendo, mentre lui borbotta un “ahi” risentito e si massaggia la mano dolente, - Comunque no, non l’ho mai visto prima di questo momento. E sforzati di parlare in inglese, non è carino parlare in una lingua che lui non conosce.
- Se sapevo che ti trasformavi in mio padre appena valicato il confine, me ne restavo a Berlino. – sbotta Daniel, facendomi una linguaccia. Io sospiro e sollevo gli occhi al cielo, e decido saggiamente di ignorarlo.
- Ohilà! – ci saluta Pierre, mettendo via il cartello e sorridendo amabilmente, - È un piacere incontrarvi, finalmente. Davìd mi ha parlato a lungo di voi. A proposito, come sta? Sta ancora con Antonio, quel pizzaiolo che aveva conosciuto a Ibiza? O aspetta, quello era stato prima o dopo Jean-Jacques? – si interrompe un attimo, grattandosi il mento. Parla un inglese simpatico, ha un accento fortissimo ma ogni tanto sembra che lo forzi apposta, è divertente. – Forse però venivano entrambi prima di Samuel, mi sbaglio?
Io ridacchio, stringendomi nelle spalle.
- Non ficco il naso nella vita privata di Jost, usualmente. – rispondo. Danny, accanto a me, studia Pierre con attenzione e a un certo punto indica il cappotto scamosciato beige che indossa e sbotta “ma che razza di colore sarebbe quello?!”. Io sollevo nuovamente gli occhi al cielo.
Pierre inarca un sopracciglio, guardandolo, ma sorride con aria indulgente quando i suoi occhi tornano a posarsi su di me.
- Se sei fuggito dalla Germania per evitare che ti accusassero di molestie su minori palesemente incapaci di intendere e di volere, devo avvertirti che non è che qui in Francia ci si vada giù meno pesantemente, su questo tipo di crimini.
Danny scoppia a ridere, dimostrando di comprendere perfettamente l’inglese e, perciò, di stare continuando a parlare in tedesco solo per sfregio.
- Exactement. – risponde al posto mio. Mi volto a guardarlo con aria palesemente offesa. – Cosa? – chiede lui, candido, - Studiamo francese a scuola.
Pierre ride divertito, battendomi una pacca sulla schiena.
- Spero per te che sia il tuo fratellino minore o un cuginetto che hai portato in vacanza, e non il tuo ragazzo davvero, perché altrimenti… come dire. – ride un’altra volta, stringendosi nelle spalle, - Buona fortuna.
Sospiro, abbattendomi un po’.
- Sì, mi sa che ne avrò bisogno. – brontolo mentre Danny, improvvisamente al settimo cielo, si sporge a lasciarmi un bacio un po’ umido e vagamente appiccicoso su una guancia. Che il cielo mi aiuti.
*
L’albergo è bellissimo, e mi viene un po’ da ridere quando, una volta rimasti soli in camera, Danny mi spinge sul letto. Sento il materasso cedere dolcemente sotto il nostro peso, accoglie i nostri corpi in un abbraccio morbido e tiepido ed al tatto sembra completamente diverso dal mio a casa, che è durissimo e, anche se l’abbiamo usato più spesso, ultimamente, non s’è mai abituato davvero a noi. O a me.
- Senti che buon profumo… - mugola Danny, scivolando oltre il mio collo ed affondando il naso fra i cuscini. Rido avvolgendolo fra le mie braccia e ribaltandolo sul materasso mentre lui ride a sua volta, schiudendo le gambe per farmi posto.
- Concentrati. – lo rimprovero sorridendo, - Siamo nella città dell’amore e tu ti perdi dietro al profumo delle lenzuola?
- Be’, è buono. – scrolla le spalle lui, fingendo indifferenza, ma il sorriso che piega le sue labbra è il riflesso identico di quello che piega le mie. Sollevo un braccio, ridendo come un bambino, come se io e lui avessimo la stessa età e fossimo amici e stessimo giocando, o come se fossimo due stupidi liceali che si piacciono e non sono ancora riusciti a dirselo, e sfilo un cuscino da sotto la sua testa, schiacciandoglielo con forza sul viso.
- È buono? – lo prendo in giro, facendogli il solletico e sentendolo dimenarsi sotto di me in preda agli spasmi e alle risate, - Allora? È buono?
- Lasciami! Lasciami! – dice lui a corto d’aria, sgambettando a casaccio ed agitando le mani alla cieca nel tentativo di allontanarmi. Lo torturo ancora per qualche secondo, prima di togliere di mezzo il cuscino e chinarmi sulle sue labbra. Non aspetto che abbia ripreso fiato, prima di baciarlo, e il risultato è che comincia prestissimo ad ansimare fra le mie labbra, ed i respiri che gli escono dal naso sono affrettati, irregolari, caldi e un po’ affannosi. Mi scorre un brivido lungo tutta la schiena mentre le sue mani trovano spazio fra i nostri corpi e mi afferrano saldamente per la felpa, aggrappandovisi prima e strattonandola con forza subito dopo.
Mi allontano, poggiando la mia fronte contro la sua e guardandolo mentre riprende fiato, le ciglia bionde che tremano appena, la luce gialla e calda dell’abat-jour sul comodino che ne proietta le ombre sulle sue guance un po’ scavate e arrossate dalla fatica e dai movimenti concitati di poco fa. Il cuore gli batte così forte che me lo sento rimbombare nel petto. Ha un suono molto simile al mio. È così felice che le labbra gli si piegano in un sorriso appena accennato, spensierato, irreale. Gli scorre felicità addosso in scariche elettriche che mi fanno bruciare la pelle. Penso che voglio restare qui con lui per sempre.
Lo bacio ancora, stavolta con più calma, e lui mi allaccia al collo, schiacciandosi con forza contro di me e strusciando il bacino contro il mio in movimenti lenti e regolari che mi fanno impazzire. Alle volte, gli capita di riuscire a controllarsi molto meglio di quanto mi controlli io. Sono quei momenti in cui mi rendo conto che in degli istanti precisi io e lui come coppia sfioriamo davvero la perfezione a livello di intesa, e per me sono momenti miracolosi, alle volte quando ci penso mi viene da piangere perché non mi sono mai sentito così con nessuno. Ho avuto delle relazioni meravigliose con quasi tutte le persone con cui sono stato, ma questa è la prima volta che mi capita di pensare all’eternità di una vita insieme come a qualcosa di possibile, qualcosa che sia plausibile da costruire, e non sulla quale si possa a malapena sognare ad occhi aperti, e solo correndo il rischio di sentirsi molto ridicoli una volta tornati alla realtà.
Per Daniel non è niente di speciale: io sono il primo di cui s’innamora, ed è stato fortunato a trovare subito questo tipo di connessione. Se davvero fra noi due non dovesse finire mai, fra quaranta, cinquanta, sessant’anni, morirebbe pensando all’amore come a ciò che l’ha reso completo sempre. Mi riempie di orgoglio, in qualche modo, avere la possibilità di essere l’unica persona che amerà per tutta la sua vita. Mi fa quasi venire voglia di dimenticare tutte le persone che invece ho avuto io, per potermi illudere di avere amato e voluto solo lui allo stesso modo.
Forse è per questo – per compensare, o per cancellare, o perché ci sta con la testa più di me, o magari semplicemente perché sento che ne ha voglia e voglio accontentarlo – che quando si allontana da me e mi sussurra sulle labbra di girarmi obbedisco. Mi stendo sullo stomaco, appoggiando il viso al cuscino e respirando profondamente mentre mi rilasso e lascio che mi spogli, mi accarezzi e mi afferri con urgenza per i fianchi, avvicinandosi a me così tanto che sento tutto il suo corpo aderire perfettamente alla curva della mia schiena. Perde le gambe fra le mie, mi morde con forza una spalla, io chiudo gli occhi e mi permetto di smettere di pensare. Mi fido abbastanza di Danny da lasciargli la responsabilità di farlo per entrambi, almeno per la prossima mezz’ora.
*
Parigi è bellissima, o forse mi sembra bellissima solo perché avevo una gran voglia di scappare da Berlino. Probabilmente, se io e Danny ci fossimo trasferiti in un qualche paesucolo sperduto sull’Appennino italiano, o un qualche borgo marittimo abitato da cento anime sulla costa portoghese, l’avrei trovato meraviglioso lo stesso. In ogni caso non importa, sono minuzie cui posso permettermi di non pensare. È un lusso che sto riscoprendo da quando non vivo più in Germania, e mi piace tantissimo.
Le prime due settimane le passiamo da turisti. Compriamo una cartina e tre guide che ci sembrano diverse ma alla fine scopriamo essere uguali ma edite in tre anni differenti (anche se forse i titoli – Come muoversi a Parigi 2008, Come muoversi a Parigi 2009 e Come muoversi a Parigi 2010 – avrebbero dovuto darci qualche indizio a riguardo), ed andiamo in giro come cani sciolti, un po’ a caso. Finiamo in un sacco di casini perché io non conosco la lingua e anche Danny, nonostante tutto il suo bullarsi, oltre ad exactement sa dire giusto bon jour, bonsoir e bonne nuit, per cui ci perdiamo regolarmente almeno una volta al giorno ed è Pierre a venirci a recuperare in macchina, sempre sorridente e sempre disponibile, indipendentemente dal luogo in cui siamo finiti e da quanto ci siamo allontanati dalle zone in cui lui ci ha consigliato di rimanere.
A mostrarci gli appartamenti è Bertrand, il ragazzo di Pierre. Inizialmente mi stupisce che abbia un ragazzo, un po’ perché l’ho vagamente identificato come un David Jost con la r moscia e David Jost difficilmente ha un ragazzo che possa permettersi di chiamare ragazzo, appunto, o almeno, io non l’ho mai visto andare in giro con nessuno in questo senso, però poi mi rendo conto che mi sto facendo problemi idioti su un qualcosa di idiota, che alla fine sono lì col mio ragazzo anch’io e non dovrebbe stupirmi di sapere che hanno un ragazzo anche il panettiere, il giornalaio e il salumiere all’angolo della strada.
Appartamenti ne vediamo un bel po’, ma nessuno ci convince. Vogliamo un posto bello grande in cui stare, io voglio rimettermi in carreggiata quanto prima, voglio lavorare, voglio uno studio di incisione e lo voglio in casa, ma per un motivo o per l’altro nessuno degli appartamenti che controlliamo sembra quello adatto, almeno fino ad oggi.
Bertrand si sistema gli occhiali dalla montatura spessa e nera sul naso ed appende una mano al fianco, sporgendolo appena mentre, con un ampio cenno della mano libera, ci mostra l’enorme sala rettangolare che sta esattamente al centro dell’appartamento che stiamo visitando. È del tutto indipendente dal corridoio che porta alla cucina ed alla camera da letto, ed ha un’enorme vetrata scorrevole su una parete. Dà sulla strada che si agita trafficata dodici piani sotto di noi, ma è perfettamente insonorizzata, non arriva neanche una minima parte del trambusto di fuori.
- La proprietaria precedente la usava come palestra. – dice, indicando il parquet un po’ ammaccato in qualche punto che ricopre il pavimento, - Era abituata a mettere la musica a volume altissimo durante le lezioni di step che faceva con qualche amica. Nessuno degli altri inquilini della scala s’è mai lamentato della confusione. Mi sembra—
- Perfetta. – conclude Daniel per tutti, lanciando attorno a sé un’occhiata sognante. – Bertie, ci porti a vedere la terrazza? – dice quindi, quasi saltellando sul posto.
Mentre Bertrand – che ormai Danny chiama Bertie perché sono settimane che, poverino, lo costringiamo a girare la città in cerca di appartamenti sempre più belli da mostrarci, e ormai siamo di famiglia, per così dire – ci accompagna lungo il corridoio e fino alla terrazza, Daniel allunga una mano all’indietro ed intreccia le dita con le mie. Sorrido mentre ripenso a quando, un paio di giorni fa, gli ho chiesto se si rendesse conto del fatto che stavamo andando a vivere insieme. Lui mi ha guardato con stupore non simulato, sbattendo un paio di volte le palpebre e inumidendosi le labbra. “Fler,” mi ha detto, “guarda che in pratica noi viviamo insieme ormai già da un paio di mesi.” Ed è vero, ha ragione, e io adoro questa sua praticità così tremendamente infantile, ma c’è una sostanziale differenza fra il fatto che noi vivessimo insieme prima e il fatto che stiamo andando a vivere insieme adesso. Quello è capitato. Questo lo stiamo volendo.
Mentre usciamo in terrazza e Parigi si apre splendente sotto di noi nel sole accecante di fine luglio, penso che mi basta essere custode di questa differenza da solo. Non c’è bisogno che la noti anche Danny. Fra qualche tempo, tutto ciò sarà così naturale che smetterò di pensarci anch’io.
*
Quando, quasi un mese dopo, il mio vecchio cellulare squilla, in un primo momento non lo riconosco nemmeno. Da quando sono partito, nessuno ha mai chiamato a quel numero. Alla fine ho comprato un cellulare nuovo per la scheda francese, e quella vecchia l’ho lasciata in questo, che però è stato quasi del tutto dimenticato. L’ho sempre tenuto acceso, e carico, ma più che altro pensando alla possibilità che mia madre potesse ritrovarsi ad aver bisogno di chiamarmi all’improvviso e non avesse a portata di mano il nuovo numero, che fatica ad imparare. Non ne ha mai avuto bisogno, però, ci siamo sentiti regolarmente e non mi sono mai arrivate chiamate improvvise o inaspettate. E la verità è che ho dimenticato la suoneria, tant’è che quando squilla ipotizzo sia il cellulare di Danny e mi chiedo perché invece l’abbia cambiata lui, visto che va matto per Love The Way You Lie e ha giurato e spergiurato per una settimana intera che l’avrebbe tenuta per sempre. In realtà io sospetto che gli piaccia Rihanna e basta, perché Love The Way You Lie fa schifo e io mi rifiuto di accettare che qualcuno possa apprezzarla e allo stesso tempo apprezzare anche la mia musica o il resto della produzione dell’Aggro. Poi in effetti dovrebbe darmi anche da pensare il fatto che uno che viene a letto con me poi possa farsi piacere anche Rihanna, ma per quanto la questione sia degna di attenzione io non riesco a fornirgliela, perché Daniel, semiaddormentato contro la mia spalla sul divano nella luce azzurrognola che viene dalla televisione, mugugna “che fai, non rispondi?”, e io mi volto a guardarlo con aria sinceramente curiosa.
- Ma non è il tuo? – gli chiedo, e lui si volta e struscia il muso contro il mio braccio, brontolando piano.
- No che non è il mio, coglione. – sbotta quindi, sbilanciandosi dall’altro lato ed accovacciandosi contro il bracciolo, - È il tuo vecchio cellulare. Vai a rispondere, o spegnilo, non riesco a seguire il film.
- Non riesci a seguire il film perché stai dormendo in piedi… - gli faccio notare, mettendomi comunque dritto ed avviandomi verso il corridoio, - Perché non vai a letto?
- Non rompere. – biascica lui, ed è l’ultima cosa che sento prima di avvicinarmi alla suoneria abbastanza da non sentire più nient’altro. La riconosco adesso, è proprio la mia. Il cellulare s’illumina a tratti e vibra, appoggiato sul cassettone d’ebano in camera da letto, davanti a una foto stupida che io e Danny ci siamo fatti scattare da un turista giapponese di fronte a Versailles. È stato più facile comunicare con lui che non con un parigino a caso.
Il display mi dice che è Bushido a chiamarmi, ma deve essere una bugia. Perché dovrebbe farlo? Io sono a Parigi.
E lui però non lo sa.
Rispondo in fretta, allarmato. È la prima volta in due mesi che penso a quello che mi sono lasciato indietro senza aver trovato le palle di dire a nessuno che lo stavo facendo.
- Fler! – mi chiama immediatamente lui, quando mi sente rispondere, - Cristo, ci hai messo i secoli… stai bene?
- Che? – sbotto stupito, - Certo che sto bene. È successo qualcosa?
- Diosanto— ma dove cazzo sei? – continua risentito, - Cazzo, la prossima volta fammi aspettare due ore, d’accordo? Cristo, non hai idea di quello che mi è passato per la testa. Si può sapere dove cazzo sei?!
- Si può sapere cosa cazzo è successo?! – insisto polemico, aggrottando le sopracciglia. Lo specchio rettangolare appeso di fronte a me mi rimanda l’immagine di un uomo teso e sulla difensiva. Mi sento minacciato. Lo riconosco senza difficoltà.
- Ho ricevuto una chiamata anonima. – mi spiega lui, - Qualcuno dei miei è in pericolo, ma non ho ancora capito chi. Almeno adesso so che non sei tu. Muovi il culo e raggiungimi, sto andando nella zona dei vecchi magazzini in periferia. Ci troviamo lì.
Sento che sta per interrompere la conversazione senza che io sia riuscito e dirgli niente di quello che dovrei dirgli, e lo fermo.
- Anis! – lo chiamo all’improvviso, e lui s’interrompe. Scommetto che aveva già il pollice sul pulsante. – Anis, di cosa cazzo stai parlando? – chiedo. Sono via da Berlino e non ho letto né sentito niente a riguardo, nelle ultime settimane. Potrebbe essere scoppiata la guerra e non lo saprei.
Lui inspira profondamente.
- Te lo dico appena ci vediamo. – cerca di tagliare corto.
- No, Anis. – lo interrompo, inspirando profondamente a mia volta. - …io sono a Parigi. – butto fuori in un fiato, stringendo convulsamente il telefono fra le mani. Lui rimane immobile e silenzioso per quasi un minuto. Non sembra neanche respirare. Penso ai soldi che sta spendendo per chiamarmi, non per i soldi in sé ma perché mi irriterebbe se gli restasse il cellulare a secco e la chiamata s’interrompesse proprio adesso. – Anis? – lo chiamo, cercando di riscuoterlo. Vorrei obbligarmi a smettere di chiamarlo per nome, ma non ci riesco.
- Che cazzo vuol dire? – sputa fuori a fatica, - Che ci fai a Parigi?
- …mi ci sono trasferito. – rispondo. Il mio tono di voce è basso e cupo. Colpevole. Mi vergogno molto perché non mi ci sento ma sto controllando la voce in modo da sembrarlo. – Da un paio di mesi. Scusa se non te l’ho detto—
- Scusa se non te l’ho detto?! – ripete lui, sconcertato, - Fler, ma scherzi? – chiede speranzoso. Io deglutisco a fatica. Non riesco a rispondere. – Non scherzi. – si risponde quindi da solo, - Fler, ma come ti è saltato in mente…? – comincia, e poi forse si rende conto anche lui del tempo che passa e dei soldi che vanno via, perché riprende a parlare a macchinetta, per fare più in fretta possibile. – Lascia perdere, - dice, - mi spiegherai quando sarai tornato. Ti voglio sul primo aereo domani mattina, capito, Frank? La situazione è complicata e mi servi qui. D’accordo? A domani.
Sento che prova a interrompere la conversazione una seconda volta, ed una seconda volta io lo chiamo, perché non posso lasciarglielo fare. Non posso dirgli d’accordo, perché non prenderò nessun aereo. Non potrò spiegargli niente quando ci vedremo, perché non accadrà. Io non tornerò in Germania. Sicuramente non adesso e probabilmente mai più.
- Anis… - lo chiamo ancora, e lui ha un fremito. – No. – concludo quindi, - Mi sono trasferito qui per restarci. – accarezzo per un attimo la possibilità di parlargli anche di Danny, ma stabilisco che non è il caso prima di affezionarmi troppo all’idea. Ci sarebbe troppo da dire, troppo da spiegare, e tutto considerato forse è meglio che lui non sappia. – Mi dispiace, - continuo, - ma non torno. Non— hai sicuramente qualcun altro su cui contare, in questo momento. D’altronde, - sorrido appena, - hai fatto a meno di me a lungo. Puoi ricominciare.
- Fler… - comincia lui, con tono polemico, ma si sgonfia quasi subito. Forse è qualcosa nel mio tono di voce, ad abbatterlo. Forse, semplicemente, si rende conto di non poter rispuntare nella mia vita dopo due mesi di silenzio ed aspettarsi che io sia pronto a corrergli dietro come avessi ancora quattordici anni. – Vaffanculo. – conclude quindi. Non sono sicuro se l’insulto sia rivolto a me o alla situazione generale. Per la verità ci rimango un po’ male, e guardo il telefono con aria torva quando lo allontano dall’orecchio.
Il display si oscura dopo qualche secondo, e spegnere il cellulare per me diventa una conseguenza ovvia. Lo spengo, lo apro, ne tiro fuori la scheda, lo richiudo e poi lo conservo nel primo cassetto, sotto i calzini. Non so esattamente perché lo sto facendo. O forse sì ma non voglio dirmelo perché mi sentirei malissimo.
Ritorno in salotto pensando che domattina dovrò chiamare mia madre per avvertirla che ho bloccato la scheda col vecchio numero, perciò si affretti a imparare il nuovo e non faccia troppe storie. Danny è ancora accucciato sul divano, sonnecchiante esattamente com’era quando l’ho lasciato. Si arrotola immediatamente al mio fianco appena mi sente sedermi accanto a lui.
- Chi era? – mormora, la voce impastata di sonno e gli occhi chiusi. Lo stringo a me, mentre sul televisore scorrono i titoli di coda del film che stavamo fingendo di guardare.
- Hanno sbagliato. – rispondo sovrappensiero. So che, se fosse solo un po’ più lucido, mi chiederebbe com’è possibile restare al telefono per più di dieci minuti con qualcuno che ha sbagliato numero. Fortunatamente, lui già dorme. Il dvd s’interrompe e si oscura anche lo schermo della tv. La stanza piomba nel silenzio. Daniel respira quieto al mio fianco, io sto bene ma non ho il coraggio di muovermi.
Mi sa che stanotte dormiamo sul divano.
Genere: Commedia, Romantico, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Tom, Tom/David.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Incest, What If?, Slash.
- La maggior parte degli abitanti della Terra non lo sa, ma ciò che molti credono governato da un dio superiore - le leggi della fisica, l'equilibrio del pianeta, vita e morte di ogni organismo che calchi la superficie terrestre - è regolato in realtà da due dei, incarnazioni divine dei principi di Yin e Yang. Grazie a loro il pianeta può continuare a vivere, guidato dall'unico principio di compensazione che riesce a tenere in equilibrio tutto, togliendo da qualche parte per aggiungere altrove e preoccupandosi di rimettere tutto in pari quando gli equilibri vengono sconvolti.
Si tratta, comunque, di divinità un po' particolari: caricate dai sentimenti degli esseri umani, sopravvivono per un periodo di tempo ben preciso alla fine del quale la loro energia si esaurisce, ed esse decadono, costringendo i pochi esseri umani custodi di questo mistero a prendere provvedimenti, trovando qualcun altro che possa sostituirli.
Bill e Tom Kaulitz hanno una parte, in questo gioco del quale non conoscono le regole. Il loro destino sembra scritto dal momento stesso in cui hanno aperto gli occhi sul mondo, ma qualcosa, nel corso delle loro vite, è accaduto, qualcosa che ha cambiato le carte in tavola e che ora rischia seriamente di condannare al fallimento ciò per cui i protettori delle divinità stanno lavorando da ormai quasi vent'anni. Assieme al futuro del pianeta.
Note: Questa storia esiste ormai da anni. Avrei voluto scriverla per la scorsa edizione del Big Bang, ma in realtà già allora si trattava di un'idea vecchia, una cosa che avevo plottato almeno l'anno precedente e che mi tormentava, perché la amavo profondamente XD e morivo dalla voglia di buttarla giù, ma la consapevolezza della sua enormità mi rendeva impossibile il mettermi lì e farlo. Sapevo che mi avrebbe rubato le vite (poi invece è bastato mettermici tranquilla e credo di averla finita in un paio di settimane, ma ciò non è assolutamente il punto della questione u.u;;;), perciò me ne tenevo lontana. Alla fine, il Big Bang mi ha dato la spinta definitiva per scriverla per bene, e di questo sono molto felice <3 Anche perché così sono stata tanto fortunata da ricevere in dono l'art della Claudia, e voglio dire. *piange splendore* ♥
(Citazione iniziale rubata dalla splendida Hass, di Bushido e Chakuza. ♥)
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STARCHILDREN

Die Engel kamen wieder zu spät
ja der Teufel hat den Hass in meine Wiege gelegt
und er zwang mich seit dem es in mir zu tragen
deswegen hab ich mich als Kind oft geschlagen

Il sole era già alto nel cielo mattutino eppure vagamente fosco di quell’assaggio d’autunno a Lipsia, quando Jörgen Larsen, in un elegante completo nero liscio il cui unico tocco di colore era la camicia, di un bell’arancione acceso, che faceva capolino dal bavero della giacca chiusa, fece il proprio ingresso all’interno della clinica. Alle sue spalle, due ragazzi incastrati in completi simili ma decisamente fuori luogo sulle loro figure esili e giovanili, avanzavano silenziosi, cercando di tenere il passo. Li si sarebbe detti sui diciassette, massimo diciotto anni.
- Ora fate i bravi. – disse l’uomo, ufficialmente CEO della Universal Music International ma giunto di gran corsa a Lipsia sotto ben altre vesti, - E siate silenziosi. Parlate solo se interpellati, ma nessuno vi interpellerà, perciò limitatevi a tacere e basta. – ordinò senza voltarsi a guardarli.
David Jost, il più piccolo dei due, non visto, si lascio andare ad una mezza pernacchia silenziosa, ma fu l’occhiata truce del suo compagno, Frank Briegmann, proprio lì al suo fianco, a zittire sul nascere qualsiasi altro desiderio di rivolta simile, e David tornò a camminare silenziosamente dietro Larsen, lasciandosi condurre con decisione attraverso i bianchi e splendenti corridoi dell’ospedale, finché non fu invitato a fermarsi di fronte ad una porta chiusa, dall’interno della quale veniva il suono cristallino della risata di una donna.
Raccomandandosi un’ultima volta perché il silenzio fosse mantenuto dai suoi sottoposti, Larsen sorrise apertamente e spalancò la porta, osservando una donna piuttosto bella e giovane, per quanto forse un po’ troppo magra, giocare con un neonato paffuto coi capelli neri e la pelle arrossata, mentre un altro neonato, in tutto e per tutto uguale, restava silenzioso e dormiente fra le braccia dell’uomo che ai piedi del letto sedeva, e che i due ragazzi guardarono con curiosità, inquadrandolo subito come un uomo molto nervoso e tremendamente a disagio, nel suo completo pantaloni e camicia di lino bianco.
- Simone! – salutò Larsen, facendo il proprio ingresso nella stanza, - Carissima! Come stai?
- Jörgen. – lo salutò a propria volta lei, sorridendo estasiata e ravviando una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio, - Sto bene, è un piacere vederti. Non credevo saresti arrivato così presto.
- Sarei venuto anche prima, mia cara, – rise lui, chinandosi a stringerla in un abbraccio fraterno e baciandola lievemente su una guancia, - se non avessi creduto che sarebbe stato poco opportuno, da parte mia, presentarmi nel mezzo del tuo travaglio. Ho pensato – aggiunse con una risatina, - di lasciarti tempo per riprenderti. Ecco perché sono qui oggi e non c’ero già ieri.
Simone si allungò a stringergli cordialmente una mano, sorridendo ancora.
- Grazie. – annuì, gli occhi lucidi, - È importante per me sapere che mi siete vicini.
- Non potrebbe essere altrimenti, cara. – la rassicurò lui, spostando la propria mano libera su quella di Simone, e stringendo a propria volta. – Dunque! – disse poi, sedendosi sul materasso sottile, proprio al fianco della donna, - Guardiamoli, questi due prodigi!
Simone ridacchiò imbarazzata, mostrandogli il neonato che teneva stretto fra le braccia.
- Questo è Tom. – disse, indicando il bambino con un cenno del capo, - E il dormiglione lì con Jörg è Bill.
- Due nomi deliziosi. – annuì deciso Jörgen, mentre sia David che Frank non potevano fare a meno di pensare a quanto, più che deliziosi, quei nomi sembrassero adatti a due personaggi dei fumetti. – E due bambini deliziosi, in realtà. Ma non potevamo aspettarci niente di diverso da te, mia cara, sei sempre stata brillante e importantissima per tutti noi. Che gioia è stata quando in Sede abbiamo saputo che i Divini avevano scelto proprio te per continuare la loro eterna opera!
- Già… - annuì la donna, lanciando un’occhiata allarmata al marito, sempre più nervoso, ed osservandolo alzarsi in piedi e deporre il bambino nella propria culla, prima di uscire dalla stanza senza neanche salutare. – Perdonatelo. Non riesce proprio… - e scosse il capo, come a cacciare via i pensieri molesti. – Piuttosto, Jörgen, siete davvero sicuri che siano…
- I segni, mia cara! – la interruppe l’uomo, entusiasta, - I segni lo confermano! Presto il muro verrà smantellato, l’equilibrio si spezzerà ed i prodromi della Fine saranno chiari a tutti. Ma ci stiamo preparando, cara, e questi bambini sono la chiave. I nostri indovini – aggiunse con un sorriso, stringendole rassicurante una spalla, - concordano tutti, cara. Il tempo è giunto. Da qui a una ventina d’anni il mondo sarà sull’orlo del collasso, ma noi saremo pronti. Tu lo sarai. E questi meravigliosi bambini lo saranno.
Simone sorrise a propria volta, allungandosi a deporre Tom al fianco del fratello per poi lasciarsi stringere da Jörgen, commossa.
- Grazie. Davvero, grazie mille.
- E qui entriamo in gioco noi. – continuò subito l’uomo, sciogliendo l’abbraccio per indicare alla donna i due ragazzi, i quali – sentendosi improvvisamente investiti di un’attenzione che, fino ad un momento prima, non li aveva nemmeno sfiorati – si irrigidirono ai loro posti, stringendo i pugni lungo i fianchi. – Oltre che per congratularmi, naturalmente, sono venuto per presentarti David e Frank, mia cara. Saranno i tuoi referenti per il futuro, quando ci sarà bisogno.
- Ma sono poco più che ragazzini… - commentò lei, fissandoli entrambi con un certo stupore e costringendoli a distogliere lo sguardo, imbarazzati.
- Be’, lo sono adesso! – la corresse Larsen con una risata tonante, - Ma abbiamo già cominciato ad istruirli nel modo più completo possibile, e vedrai: saranno pronti, quando avrai bisogno di loro. Ora, mia cara… - aggiunse quindi, nella voce una nota grave del tutto straniante rispetto a quella cordiale di poco prima, - per quanto mi secchi ribadire l’ovvio, temo vada fatto. I bambini non dovranno mai sapere niente di tutto questo e, almeno fino ai quindici anni, farò in modo che non vi siano contatti fra voi e la Santa Sede.
- Quindici anni… - annuì mestamente Simone, - Così tanto?
- Sì, cara. – la consolò lui, accarezzandole bonariamente la schiena, - È necessario, perché nessuno sospetti niente. La prossima volta che sentirai parlare di noi, - aggiunse con un sospiro, - i tuoi bimbi saranno grandi, ed anche David e Frank lo saranno. Ed io… io spero solo di esserci ancora.
- Non dire così, ti prego. – disse la donna, un’espressione più triste a turbare i lineamenti dritti e fieri del viso, - Andrà sicuramente tutto bene.
- Oh, Simone, - sorrise ancora lui, - su questo non c’è il minimo dubbio. Credimi.
Simone rispose al suo sorriso e poi lo girò anche ai due ragazzi, salutandoli e ringraziandoli con un cenno del capo, prima di invitarli ad avvicinarsi alla culla, per sbirciare i bambini assopiti fra le lenzuola. David sorrise, allungando una mano verso il bambino ancora sveglio.
- Tom, mh? – chiese sottovoce. Il bambino gli strinse l’indice fra le dita paffute, e continuò a farlo finché, piangendo, suo fratello Bill si svegliò.
*
- Tomi… - lo chiamò Bill, mettendo su il tipico broncio sulle linee del quale acconciava le labbra ogni volta che voleva farlo sentire in colpa perché non gli concedeva qualche favore di importanza a suo dire fondamentale, - Ti prego, ho bisogno del tuo aiuto!
- Ed io ho bisogno che tu mi tenga fuori dalla tua storia con Bushido. – sputò fuori lui con disgusto, senza staccare gli occhi dallo schermo della tv, né le mani dal joystick.
- Tomi! – insistette lui, piagnucolando un po’, e Tom rispose con una mezza occhiata indispettita.
- Ne abbiamo già parlato. – disse seccamente, - Non posso impedirti di uscire con chi vuoi, ma non posso neanche favorirti mentre lo fai. Odio quell’uomo, è spregevole. Se proprio vuoi consegnarti nelle sue mani, fallo, ma non aspettarti aiuto da parte mia.
- Dici che non puoi impedirmi di uscire con chi voglio, - gonfiò le guance Bill, offeso, ignorando tutto il resto del suo discorso, - ma a conti fatti, rifiutandoti di coprirmi, è quello che stai facendo.
- Cristo santo— Bill. – sbottò, poggiando in terra il joystick e voltandosi verso di lui mentre lasciava che il proprio personaggio andasse a schiantarsi contro il primo muro con tutta la macchina e qualche pezzo di arredamento urbano raccattato nel mentre. – Non sei più un ragazzino, ok? Hai diciannove anni, e questa tortura fra alti e bassi va avanti da tre, ormai. Direi che non ti serve più la mia approvazione, ti pare? La mia, o quella di chiunque altro, visto che comunque fai sempre di testa tua.
- Infatti non cerco l’approvazione di nessuno. – ringhiò Bill, - Non la tua né quella di nessun altro, per tua informazione. Ho solo bisogno d’aiuto, perché approvazione o meno David non mi lascerà uscire.
Tom abbassò impercettibilmente lo sguardo al solo sentire il nome di David, ma tornò a fissarlo negli occhi abbastanza in fretta da impedire a Bill di registrare quel movimento come qualcosa di importante.
- Mi sono rotto di sentirti lagnarti ogni minuto. – sbuffò Tom, saltando in piedi ed afferrandolo per un polso, costringendolo a fare lo stesso. – Vuoi aiuto? D’accordo, l’avrai. – lo tirò dietro di sé fino a raggiungere la porta della camera. Da lì lungo il corridoio, ignorando le sue proteste ed ogni “Tomi” pigolato dapprima con tono incerto, poi con tono sempre più infastidito, e lo ficcò dentro il primo ascensore disponibile. – Ora vado da David, in camera sua. – gli disse, guardandolo a muso duro. Non era come gli stesse facendo un favore, sembrava più che volesse liberarsi di lui, - Così te lo tengo occupato. Tu va’, e fai il cazzo che vuoi, ma vedi di tornare ad un orario umano, e fammi sapere quando dovrò coprirti per la seconda volta, perché già mi basti tu, come rottura di palle, non voglio che ci si aggiunga anche lui, con le sue paternali del cazzo.
- Tomi… - mugolò Bill, guardandolo con aria colpevole e massaggiandosi il polso dolorante, - Io vorrei parlarti. Vorrei—
- Non c’è altro da dire. – mormorò Tom, rifiutandosi di guardarlo negli occhi, - Tu hai fatto la tua scelta. Non sono cose che si discutano.
Le porte si chiusero di fronte alla sua espressione ancora corrucciata, e Bill restò pensieroso per tutto il tragitto dell’ascensore fino al piano terra, stringendosi alla borsa e dentro la giacca e ricordandosi solo all’ultimo minuto di recuperare cappellino ed occhiali da sole, per schermarsi almeno in parte di fronte agli occhi del mondo. Sperò che Anis non fosse in ritardo – controllò l’orologio, lui era in orario – e si chiese ancora una volta di che razza di scelta stesse parlando il suo gemello. Lui non aveva mai avuto scelte, da quando aveva conosciuto Anis non c’era stata la possibilità di scegliere fra una cosa e l’altra, era sempre stato innamorato di lui. Odiava quando suo fratello si metteva su quello stesso piano di pensiero: scambiare l’affetto che provava per lui con quello che provava per Anis, metterli a paragone, pretendere di equipararli e poi tirargli addosso quella sciocca questione della scelta era assolutamente scorretto, nonché impensabile.
Di fuori, il tempo era pessimo. Bill osservò con un misto di paura e sconcerto gli enormi nuvoloni neri addensatisi nel cielo durante tutto il giorno, e si mordicchiò un labbro, perplesso.
- Aprile dovrebbe essere molto meno nuvoloso. – borbottò soprappensiero, appoggiandosi al muro e poi cambiando idea, prendendo a muoversi intorno per evitare di star sempre fermo in un punto e dare nell’occhio.
Passeggiò solo per pochi minuti, poi il cellulare, al riparo nella tasca posteriore dei jeans, prese a vibrare insistentemente. Lo tirò fuori col sorriso sulle labbra, rispondendo alla chiamata senza neanche sprecarsi a guardare il numero sul display.
- Sei in ritardo. – commentò con tono petulante, fermandosi in mezzo al marciapiedi e piantando una mano sul fianco, prendendo a battere ritmicamente un piede per terra, del tutto dimentico dei propri propositi riguardo al non dare nell’occhio.
- Davvero? – ridacchiò Anis, dall’altro lato della cornetta, - Non mi pare. Piuttosto, credo sia tu quello in ritardo, perché io sono dal lato della strada opposto rispetto a quello in cui stai andando.
- Sei già qui? – chiese immediatamente lui, illuminandosi all’improvviso e stringendo il telefono con entrambe le mani, come per paura che l’emozione potesse portarlo a lasciarlo cadere, - Perché non mi hai chiamato subito?
- Perché volevo guardarti, per un po’. – rispose lui, la voce soffice, eppure un po’ roca, quasi allusiva, - Volevo guardarti per bene.
- Anis! – lo richiamò Bill, a bassa voce, fingendo di essere arrossito per l’imbarazzo quando tutto ciò che rendeva più calda la sua pelle era pensare che di lì a poco sarebbe stata sfiorata da lui, - Sei terribile.
- E ti piaccio per questo. – rise lui. Bill si lasciò andare ad uno sbuffo intenerito, voltandosi intorno e fermandosi solo una volta che ebbe individuato la BMW nera parcheggiata di fianco al marciapiedi di fronte.
- E per un sacco di altri motivi. – aggiunse in un soffio, interrompendo la chiamata e riponendo il telefono nella borsa, prima di avviarsi nella sua direzione.
*
- Il presidente – attaccò Frank, mentre David approfittava dell’assenza di una webcam in camera propria per roteare gli occhi, annoiato, - non è affatto contento, David.
- Mi rendo conto. – disse, cercando di fare in modo che il suo tono sembrasse quanto più contrito possibile, - Mi dispiace enormemente, ma Bill—
- Il ragazzo va tenuto sotto controllo. – insistette Frank, aggrottando le sopracciglia, immobile dietro la propria scrivania, tanto fermo da sembrare finto, - Questa sua… relazione con Bushido è sulla bocca di tutti. Non possiamo permettercelo. Non è per questo che siamo stati nominati responsabili di questa questione, e tu dovresti saperlo bene.
- Lo so, infatti. – ribatté David, incrociando le braccia sul petto, irritato, - Sono pienamente consapevole delle mie responsabilità, così come dei miei compiti. E sto facendo tutto il possibile.
- Ebbene, non è abbastanza! – berciò l’uomo, battendo un pugno contro il tavolo nel primo movimento in cui si produceva da quando la sua conversazione con David aveva avuto inizio. – Insisti. Sii più convincente. Per gli dei, rinchiudilo a doppia mandata in camera con suo fratello, se devi! Ti rendi conto di cosa stiamo rischiando? E non parlo di te e me, parlo dell’intero cosmo, David!
- Lo so! – si permise di alzare la voce a propria volta, nonostante Frank gli fosse superiore sia in quanto ad età che in quanto a grado all’interno dell’Organizzazione, - Credi che non sappia a cosa stiamo andando incontro, o che non riesca nemmeno a guardarmi attorno? I maremoti, le trombe d’aria, la terra si sta sgretolando sotto i nostri piedi e ne sono perfettamente consapevole, Briegmann!
- E allora – gli rispose lui, gelido, - non dirmi che stai facendo il possibile. Di’ che ti spiace di non aver ancora fatto abbastanza. – concluse, prima di interrompere la videochiamata.
David rimase a fissare lo schermo del portatile con aria sconvolta, per parecchio tempo. Alle volte ignorava cosa s’aspettassero da lui— le scritture parlavano chiaramente: doveva essere amore perché i Prescelti potessero assurgere al divino. La loro unione doveva essere spontanea, intensa e passionale, nessuno poteva forzarla ad avere luogo, o ne avrebbe contaminato la purezza. L’Organizzazione esisteva per preservare i gemelli, per prendersene cura, per rivelare loro la verità al momento più opportuno e per istruirli sul da farsi quando il loro destino avrebbe dovuto compiersi, ma non poteva avere ragione dei loro desideri, erano quei desideri che avrebbero dovuto avere ragione di tutto il resto.
Quando sentì bussare alla porta, si prese solo pochi secondi per spegnere il portatile ed inspirare profondamente, prima di chiedere chi fosse. Il solo sentire la voce di Tom rese più pesante che mai il macigno che portava sulle spalle. Contrito ed amareggiato, lo accolse all’interno dell’ufficio con un sorriso mesto.
- Scusa, Dada. – sospirò Tom, visibilmente abbattuto, - Ti disturbo?
- Lo sai che tu non mi disturbi mai. – gli sorrise conciliante, chiudendosi la porta alle spalle mentre lo osservava girare un po’ per la stanza, prima di andarsi ad abbattere esausto sul divanetto poggiato alla parete, gettando gambe e braccia ovunque nel tentativo di accomodarsi più possibile. – È successo qualcosa?
Tom gli lanciò un’occhiata brevissima e incerta, prima di tornare a fissare la punta delle proprie scarpe come l’inizio e la fine dell’universo fossero posizionati esattamente lì – e non sapendo quanto un pensiero simile potesse essere vicino alla verità.
- È andato di nuovo con Bushido. – confessò alla fine, sospirando ancora, - Non sono riuscito a fermarlo. Né a dirglielo.
David sospirò a propria volta, andando a sedersi al suo fianco e poggiandogli una mano sulla spalla in una carezza consolatoria. Tom era, per certi versi, il loro splendido capolavoro. Era cresciuto esattamente come loro l’avevano voluto, forte e maschio e coraggioso e soprattutto perdutamente innamorato del proprio fratello, fin da tempi immemori, al punto che, quando aveva preso il coraggio a quattro mani ed aveva confessato i propri sentimenti a David, lui aveva faticato a non sorridere e trattenersi dal dargli un buffetto sulla guancia, rispondendo qualcosa di estremamente sciocco come “e dove sarebbe la novità?”.
Non c’era nessuna novità, in effetti: il presidente Larsen, che aveva sempre osservato i gemelli da lontano, ma anche da più vicino di quanto non si potesse sospettare, aveva capito fin dall’inizio che Tom sarebbe stato il primo a rendersi conto del proprio sentimento. “C’è qualcosa nei suoi occhi,” aveva detto a David, dopo una delle sue numerose visite ad Amburgo, ufficialmente per controllare il lavoro dei Tokio Hotel ed ufficiosamente per verificare che tutto stesse muovendosi come previsto, “C’è qualcosa nel modo in cui brillano quando parla del fratello. È qualcosa che Bill non ha ancora,” aveva aggiunto con preoccupazione.
In quel tempo, David era ancora giovane, pieno di fiducia nella propria missione, e soprattutto Bushido non si era ancora fatto abbastanza vicino da rappresentare una minaccia per tutti i loro piani, motivo per il quale nell’occasione specifica aveva sorriso e si era premurato perfino di rassicurare il presidente con parole cariche di fiducia. “Non si preoccupi, Herr Larsen,” aveva detto orgoglioso, “È solo questione di tempo. Presto ogni tassello troverà il suo giusto incastro.”
“Di questo non dubito, David,” aveva risposto Larsen con un sorriso sottile, “Non ho mai dubitato.”
David aveva capito solo molto tempo dopo che la fede di Larsen era qualcosa di molto più concreto rispetto alla propria. Larsen non poteva avere dubbi perché, qualora anche qualcuno si fosse presentato, l’avrebbe spazzato via in favore del bene superiore che era stato incaricato di proteggere – un bene superiore del quale non puoi rifiutare la responsabilità.
La sua fede, invece, aveva perso forza quando quel bagliore che Larsen tanto apprezzava negli occhi di Tom era germogliato precipitosamente anche in quelli di Bill, ma rivolto ad un uomo che non era suo fratello, e che anzi era quanto di più distante da lui potesse esistere al mondo.
“La fede,” gli aveva detto Frank durante una delle sue paternali, leggendo direttamente da una missiva a lui indirizzata ed inviata dal presidente Larsen in persona, “è una cosa degli uomini, non degli dei. Gli dei non possono che esistere, ma sono gli uomini a dover costruire ciò in cui credono, con le loro mani. Noi siamo i creatori dei nostri dei, David. Vedi di non dimenticarlo. Noi siamo i nostri dei.”
Questo era un insegnamento che in lui non aveva mai attecchito davvero. La sola idea di poter plagiare un corpo celeste intriso di divinità come era quello di Bill per piegarlo al volere degli uomini lo disgustava, il solo pensare che l’organizzazione di cui faceva parte potesse pensare a forzarlo come metodo per ottenere ciò che s’era prefissa gli dava i brividi dall’orrore. La conclusione alla quale era giunto, riflettendo molto a lungo, era stata che se i Prescelti non erano in grado di trovarsi, forse era perché i Divini non volevano. O perché i ragazzi non erano ancora pronti. O per chissà quale altro motivo, non era comunque importante abbastanza quanto la devastante consapevolezza che una cosa che era sempre andata a posto autonomamente nei secoli, per la prima volta da che l’uomo era al mondo rischiava di non potersi concretizzare se non con una decisa spinta da parte dell’uomo stesso.
Era una consapevolezza agghiacciante: David non poteva fare a meno di pensare che era triste che l’uomo fosse abbandonato a se stesso al punto da dover pensare da sé perfino per chi invece avrebbe dovuto pensare per lui.
- Non è colpa tua, Tom. – gli disse, cercando di sorridere conciliante, - Conosci tuo fratello, sai che non è facile fermarlo.
Tom mugolò un assenso indefinito, prima di sottrarsi alla sua carezza come la sua mano fosse stata incandescente e prendere ad aggirarsi per la stanza come un’anima in pena, lo sguardo perso e le sopracciglia corrugate, le labbra strette e sottilissime, acconciate in una smorfia colma d’ansia.
- Ci sto male. – disse, passandosi una mano sugli occhi ed appoggiandosi stancamente alla parete, - Tutta questa cosa, David, suona troppo male. È troppo sbagliata. Voglio dire, dev’esserci un motivo per cui la legge t’impedisce di innamorarti di un consanguineo tanto stretto, no? Probabilmente è solo sbagliato e basta.
- Ne abbiamo già parlato, Tom. Non è sbagliato solo perché sei innamorato di qualcuno che è anche tuo fratello. – disse David, alzandosi in piedi e facendo appello a tutte le proprie forze per non aggiungere “però sembra sbagliato perché ti fa tanto male”.
- Ma che discorso è?! – scattò subito Tom, lasciandosi scivolare lungo la parete fino a ritrovarsi praticamente seduto per terra, le braccia molli appoggiate alle ginocchia, - Forse dovrei semplicemente dimenticarmene. D’altronde, è stato mio per un sacco di anni. Ho potuto stargli vicino come nessun altro, ed il nostro tempo… forse è semplicemente finito.
David chiuse gli occhi, passandosi una mano fra i capelli. Se il loro tempo era finito, allora lo era anche quello del mondo intero.
Si accucciò al suo fianco, accarezzandogli la testa, quasi divertito dal solletico che il profilo delle treccine causava al palmo della sua mano.
- Sei un ragazzo forte, Tom. – gli sorrise, - Solo tu puoi scegliere cosa vuoi per te stesso. È un diritto che ti sei meritato.
Tom lo guardò e si sforzò di sorridergli a propria volta, ma aveva gli occhi lucidi.
- È un modo non troppo invadente per dirmi che non è il caso di arrendermi? – chiese, e poi si lasciò andare ad una risata vagamente amara, - Ti rendi conto che è mio fratello, David? Cosa posso fare se viene e mi dice di essersi innamorato di un’altra persona? Al di là del fatto che questa persona sia Bushido, poi… io non ho diritti, su di lui.
- Ed è appunto quello che stavo dicendoti. – insistette lui, lasciando scivolare la mano sulla sua spalla e stringendo la presa in una carezza colma di rassicurazione, - Non ne hai su di lui, ma ne hai su te. Tom, nessuno – cominciò, e si prese una pausa perché ciò che stava dicendo avrebbe potuto metterlo presto in guai ben più grossi di quelli in cui già non si ritrovava, - nessuno può obbligarti ad amare qualcun altro. Se non—
- Io sono innamorato di Bill! – ribatté Tom, scattando in piedi come una bestia ferita cui fosse appena stato rigirato un dito nel taglio aperto, - Io non… non posso improvvisamente smettere, non funziona così, David! È dentro di me da così tanto tempo che… - si morse un labbro, pensieroso, - Sono un essere umano, Dada, non posso… non ho diritti neanche su me stesso.
Ancora accucciato ai suoi piedi, David sollevò gli occhi nei suoi e pensò alla propria condizione ma anche alla sua. Era inspiegabile, inaccettabile, che un essere come Tom, uno dal quale dipendeva il futuro del globo, ma che sarebbe stato altrettanto importante e sarebbe valso allo stesso modo anche se fosse stato un uomo comune, potesse pensare cose simili. Potesse sentirsi così triste, abbandonato ed impotente.
Si alzò in piedi, poggiandogli una mano sulla spalla e massaggiando piano.
- Tom, ascoltami. – cominciò, fermamente intenzionato a rivelargli tutto, ma Tom lo scostò con un movimento brusco, allontanandosi di qualche passo, dapprima confusamente e poi con maggiore decisione, verso la porta.
- No, non mi va di ascoltare altro. – disse cupo, scuotendo il capo. – E… non… non toccarmi sempre così tanto. – aggiunse incerto, cercando i suoi occhi come volesse essere sicuro di non avergli fatto troppo male dicendolo, - È strano. Mi… - si morse un labbro e distolse lo sguardo. – Lasciamo perdere, non farlo e basta. – concluse, prima di uscire dalla stanza senza una parola di più.
David non provò a fermarlo, ed accolse quasi con gioia la sua decisione di andarsene, perché se fosse rimasto, se l’avesse fatto parlare, probabilmente nient’altro sarebbe riuscito a impedirgli di combinare un disastro che avrebbe avuto incalcolabili ed imprevedibili quanto drammatiche conseguenze. Abbassò lo sguardo sulla propria mano, studiò la punta delle proprie dita e cercò d’ignorare il calore che ne divampava. Non ricordava di aver letto da nessuna parte di un Guardiano la cui pelle bruciasse al solo sfiorare la pelle di un Predestinato. Il suo guaio, ammise con una certa preoccupazione, era perfino più ampio di quanto immaginasse.
*
All’inizio, era stata solo frizione. Non qualcosa di esclusivamente sessuale, non era solo uno sfregamento, non era così definito né così circoscritto, ma era questo, in definitiva: frizione. Li aveva accompagnati ogni volta che si erano incontrati, e non era stata nemmeno una conseguenza dovuta al frequentarsi o all’uscire insieme: c’era stata già da prima. Era stata lì da sempre, per tutto il tempo, come un istinto – con la stessa indisponente e ineludibile forza rabbiosa e magnetica.
Era frizione. Era così ancora prima che si conoscessero.
La prima cosa Bill aveva sentito quando, in quel video su YouTube, lo aveva sentito parlare di lui in termini che non avrebbe permesso nemmeno ad un amico di vecchia data, erano state le scintille. Non erano state piacevoli – era stato un misto di fastidio e rabbia e orgoglio in frantumi: lui, che dell’essere orgoglioso di ciò che era aveva fatto una religione – ma erano state scintille. Le aveva sentite sfrigolare nel centro del petto e poi farsi strada con le unghie lungo la gola, fino a bruciare sulla lingua e dietro agli occhi. Scintille, né più né meno. Ed era in fondo questo ciò che comporta la frizione: scintille. Se l’era sentite scoppiettare addosso, come le bollicine di una bevanda frizzante.
Era una sensazione che non l’aveva abbandonato per un sacco di tempo. Bushido aveva continuato a parlare pubblicamente di lui come non potesse impedirselo, e lui allo stesso modo aveva continuato a sentire le scintille. Era stata frustrazione, principalmente. Bushido, d’altronde, stava senza ombra di dubbio giocando, e Bill non era riuscito a trovare il modo di ribattere o di farsi valere. Era rimasto lì a subire. E bruciare.
Tom non era stato in grado di aiutarlo, né in quel momento specifico né successivamente. Nel momento specifico, era rimasto a guardare la TV al suo fianco e poi l’aveva osservato impotente alzarsi in piedi e cominciare a urlare minacce vuote contro uno schermo spento. E successivamente non aveva saputo cosa dirgli, dal momento che non sembrava capace di fare altro che ripetere ciò che lui stesso era già stato bravissimo a definire. Cose come “lo odio, è un individuo disgustoso, mi irrita”. Era facile dargli ragione, più difficile trovare un modo di aiutarlo a dare sfogo a tutta quella rabbia repressa.
Aveva dovuto pensarci Bushido, in buona sostanza: s’erano incontrati ai Comet qualche tempo dopo, ed erano riusciti a mantenere una parvenza di decenza solo fino all’afterparty; durante la premiazione avevano fatto i simpatici, giocato secondo le regole, ma era stato quando finalmente si erano ritrovati faccia a faccia, liberi di discutere la questione come meglio preferivano, che quella bolla di energia elettrica che li circondava era come esplosa. Non erano riusciti nemmeno a scambiarsi qualche parola, la prima cosa che Bushido aveva fatto dopo averlo avvicinato era stata spingerlo contro il primo angolo d’ombra trovato in fondo alla stanza e baciarlo. E Bill non aveva mai, neanche per un secondo, pensato di rifiutargli quel bacio. La sua lingua era rovente, così come le sue mani sui suoi fianchi, sotto la camicia nera troppo corta a leggera per poter rappresentare davvero una copertura, soprattutto se sommata ai jeans portati tanto bassi da rasentare la volgarità.
Mentre Bushido lo baciava, strappandogli l’aria dai polmoni e il cuore dal petto, tanto faceva fatica a respirare e tanto forte e concitato era diventato il suo battito cardiaco, Bill s’era chiesto distrattamente se per caso non fosse esattamente questo il tipo di sfogo di cui aveva bisogno, se non fosse questo quello che aveva sempre voluto da quell’uomo, fin dal primo momento in cui aveva sentito il suono della sua voce.
Poi, il bacino di Bushido s’era scontrato contro il suo, e lui aveva smesso di pensare.
“In bagno,” gli aveva detto, “adesso,” e non aveva aspettato più di un altro secondo per trascinarlo per un polso lungo i corridoi scuri del locale, sperando che il bagno fosse comodo, pulito e soprattutto sgombro di fastidiosi ostacoli pronti a frapporsi fra lui e ciò che voleva. E non aveva nemmeno idea di cosa fosse, perché era un ragazzino, perché era eccitato, perché era stupido, perché non riusciva nemmeno a pensare a cosa fare, a dove fermarsi, o comunque da dove partire; perché la risata di Bushido, dietro le sue spalle, lo stordiva e lo confondeva, e tutto ciò che riusciva a realizzare con chiarezza era che voleva sentire nuovamente addosso il sapore delle sue labbra, il calore delle sue mani, lo sfrigolare dell’energia elettrica che scaturiva da ogni singolo sfregamento della sua pelle contro la propria.
Bushido l’aveva guardato sorridendo strafottente, quando s’era chiuso la porta alle spalle.
“Non sai cosa stai facendo,” gli aveva detto, prima di avvicinarglisi e schiacciarlo contro un lavandino. “Fortunatamente, nemmeno io.”
Bill non avrebbe mai potuto spiegare quello che successe quella notte con qualcosa di diverso rispetto a “ho sentito tutto scivolare naturalmente al proprio posto”, che poi erano state le parole con cui, successivamente, aveva raccontato l’accaduto a Tom, Georg e Gustav, guadagnandosi una serie di risatine divertite da parte degli ultimi due ed uno sguardo parzialmente confuso e parzialmente preoccupato da parte del primo.
Eppure, per quanto Georg e Gustav potessero faticare a capire, e per quanto Tom si rifiutasse con tutte le proprie forze di ammettere che quanto stava accadendo era reale, ed era bellissimo, era proprio così che era andata. Bill non avrebbe saputo neanche ricordare se avesse fatto male – sicuramente era stato così, ma il dolore doveva essersi perso da qualche parte sulle labbra di Anis, intente a lenirlo in baci brevi, soffici e umidi, mentre le sue mani tracciavano disegni invisibili sulla sua schiena e sul suo ventre sudati, prima di scendere ad accarezzarlo fra le cosce e fra le natiche, dandogli alla testa come una droga.
E le scintille non avevano mai smesso di sfrigolare. Era una sensazione straniante, quel calore diffuso, bruciante e quasi fastidioso che lo ricopriva intensamente come si trovasse sotto una pioggia di fuoco, ogni volta che Anis lo toccava. E per quanto potesse suonare sconveniente, soprattutto sulle labbra di uno che, come lui, aveva sempre parlato di aspettare il vero amore e conservarsi vergine finché non fosse stato il momento giusto e via così, c’era da ammettere che lui ed Anis stavano insieme principalmente per quello, per il calore, per il fuoco, per la sensazione totalizzante, bellissima e spaventosa di volersi strappare la pelle di dosso a morsi ogni volta che scopavano, per cercare al di sotto e vedere se anche così bruciava ancora.
Poi, sì: stavano bene insieme, Bill si sentiva felice ogni volta che riusciva a farlo ridere o a convincerlo ad interessarsi di qualcosa che, non fosse dipeso da lui, non avrebbe considerato neanche per sbaglio, e si sentiva orgoglioso di se stesso e di quanto aveva ottenuto ogni volta che Anis gli sussurrava un “ti amo” improvviso e non richiesto, ma principalmente, alla base, era il fuoco a tenerli vivi. Il loro amore si consumava in una fiamma enorme ed eterna, e Bill, dopo tre anni, stava cominciando a credere che, contro tutti i principi della fisica, non si sarebbe mai esaurito.
Drenato come ogni volta, si lasciò ricadere al fianco di Anis, tanto vicino da poterlo comunque continuare a sfiorare ad ogni respiro, e rise un po’, completamente a corto di fiato.
- Non riuscirò mai a tornare in tempo. – commentò divertito, - David mi farà una paternale delle sue.
- E allora resta. – disse Anis, e sorrideva anche lui, girandosi sulla pancia ed imprigionandolo fra le sue braccia. La sua pelle era caldissima e Bill si sentì avvampare all’improvviso sentendolo strofinarsi inavvertitamente contro di lui. – Oggi, domani, quanto vuoi. Resta, una buona volta, sono stufo di questo andirivieni, e anche di doverci comportare come fossimo due criminali.
- Be’, tecnicamente tu mi hai scopato quand’ero ancora minorenne, per cui… - rise Bill, direttamente sulle sue labbra, un attimo prima che Anis lo zittisse con un altro bacio.
- Tecnicamente, – gli fece il verso lui, - se non ti avessi spogliato io, mi avresti strappato tu i vestiti di dosso, per cui
Bill rise ancora, allungando le braccia fino a stringerlo al collo e godendo della sensazione di protezione mista a tenerezza di cui tutti i suoi abbracci lo riempivano.
- Non posso restare, lo sai. – gli disse all’orecchio, strofinando il naso contro il suo collo, - Ma ci rivedremo presto.
- Promesse, promesse. – rise Anis, allungando una mano a stringere una delle sue e baciandone lievemente il dorso e poi il palmo, prima di guardarlo negli occhi, - Non ti posso domare in alcun modo, vero?
Bill sorrise furbo, strizzando gli occhi fino a renderli sottili come quelli di un gatto.
- Il fuoco non lo domi, lo spegni e basta.
Anis lo baciò col preciso intento di ricordargli per l’ennesima volta che si sarebbe guardato bene dal farlo.
*
Quando rientrò in camera propria ed accese la luce, Bill portò una mano al petto ed indietreggiò spaventato nello scorgere una figura seduta sul letto intenta ad aspettarlo. Ci mise effettivamente un po’ – il tempo di lasciare che i suoi occhi potessero abituarsi alla luce, dopo aver fatto al buio tutto il tragitto dalla porta di casa a quella della sua stanza – a riconoscere in quella figura suo fratello.
- Cos’è, adesso la mia sola vista ti terrorizza? – chiese Tom con un sorriso mesto, sistemandosi un po’ a disagio sul bordo del letto.
- Che sciocchezze. – borbottò Bill, scalciando lontano le scarpe e gettandosi sul letto al suo fianco, non prima di averlo salutato con un bacio sulla guancia, - Solo che non mi aspettavo di trovarti qui. Non riesci a dormire?
- Già. – rispose Tom, sistemandosi con la schiena contro la testiera mentre Bill tirava via pantaloni e maglietta e li lanciava alla rinfusa in giro per la stanza, sperando di prendere al volo qualche poltrona o, al massimo, la scrivania, - Hai sentito del vulcano?
- Mmhn? – chiese lui, passandosi le mani fra i capelli per scioglierli un po’, - No, non so niente. Che è successo?
- Un vulcano islandese, - scrollò le spalle Tom, - Eyaqulcosa, ha eruttato dopo tipo uno sproposito di anni. Un disastro, ci sono i cieli di mezza Europa completamente intasati dalla cenere. Non si muove un aereo neanche se lo comanda Dio in persona.
- Scherzi? – spalancò gli occhi Bill, mettendosi a sedere e recuperando le lenzuola da sotto il proprio corpo, per potersi coprire, - Ma che diavolo sta succedendo al mondo? Ogni giorno ce n’è una.
- Sì, vero? – rise Tom, sollevandosi appena perché suo fratello potesse coprirsi per bene, - Magari i Maya avevano sbagliato qualche conto. O forse hanno trascritto male ed hanno trasformato uno zero in un due, e moriremo tutti nel giro di due giorni.
- Altre sciocchezze. – ridacchiò Bill, - Io non intendo morire prima di essermi magicamente trasformato in Brian Molko, mi spiace. – osservò Tom ridere ed alzarsi in piedi, palesemente intenzionato a lasciarlo solo, e non poté fare a meno di allungare un braccio e trattenerlo, tirandolo per la manica dell’ampia camicia a scacchi che indossava. – Resti? – chiese, inarcando le sopracciglia verso il basso. Tom lo guardò per qualche secondo come non l’avesse mai visto prima, ma alla fine si decise a sfilare le scarpe e sistemarsi sul letto al suo fianco, permettendogli di prendere posto sul suo petto come erano abituati a fare anni prima, quando ancora Bushido non era entrato nelle loro vite e tutto poteva dirsi considerevolmente più facile. – Dici che a noi sta succedendo la stessa cosa che sta succedendo al mondo, Tomi? – chiese con un filo di voce, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore.
- …in che senso? – chiese lui, guardando il soffitto ed accarezzandogli lentamente i capelli corti sulla nuca.
- Ci stiamo disintegrando come si sta disintegrando la Terra? – insistette lui, gli occhi ormai semichiusi ed il corpo pesante, già quasi per metà scivolato nel sonno.
- Questo mai, Billi. – lo rassicurò Tom, stringendo involontariamente i denti e, più volontariamente, la sua presa attorno al suo corpo, in un abbraccio affettuoso. – Te lo giuro. Noi non ci disintegreremo mai.
*
L’unica certezza inoppugnabile della sua esistenza era sempre stata Bill. Questa era la spaventosa realtà di Tom, una realtà dalla quale trovava impossibile fuggire. C’erano state delle ragazze – c’erano state numerose ragazze – ma nemmeno una di loro era riuscita a durare abbastanza da offuscare anche solo in minima parte la spinta quasi animalesca e irrazionale che Tom aveva sempre sentito nei confronti del proprio fratello.
Era riuscito per parecchi anni ad ignorare il risvolto puramente fisico di quella spinta, il desiderio che provava quasi continuamente di mettergli le mani addosso, sentire il suo corpo cambiare forma, temperatura e colore sotto le sue dita. Per parecchio tempo era davvero stato convinto di essere solo un fratello un po’ troppo possessivo, un po’ troppo appiccicoso, un po’ troppo affezionato, forse, e niente di più. E fino a quando suo fratello non era stato suo ma nemmeno di nessun altro, aveva potuto continuare a crogiolarsi in quell’illusione, cullato dalle menzogne che raccontava a se stesso e sempre vicino al suo profumo rassicurante, al calore del suo corpo e al bagliore dei suoi sorrisi.
Quando Bill aveva deciso di donarsi a Bushido, però, qualcosa era esploso nel centro del suo petto. Era stato come se qualcuno lo avesse squarciato in due per prendergli il cuore, spremerne il sangue e poi rimetterlo a posto drenato, asciutto ed ormai del tutto inutile. A pensarci, alle volte, si sentiva mancare il respiro: nulla l’aveva debilitato quasi fisicamente quanto non avesse fatto il sentirsi per la prima volta derubato di qualcosa, come quando suo fratello gli aveva detto di essersi innamorato di un altro.
Sarebbe stato impossibile sopportare da solo una cosa del genere, il dolore devastante che lo scuoteva tutto ogni volta che la chiara consapevolezza del corpo di suo fratello fra le mani grandi ed abili di Bushido arrivava a schiaffeggiarlo, che fosse sveglio o in sogno. Era stato per questo motivo che era semplicemente crollato ed aveva vuotato il sacco con David, solo per questo. Fosse stato abbastanza forte, avrebbe nascosto la verità al mondo intero e si sarebbe portato il segreto nella tomba, ma evidentemente non lo era abbastanza.
David era l’unico che lo sapesse, l’unico al quale avrebbe mai potuto pensare di poter confessare una cosa simile. Era davvero stato quasi come un terzo padre, per loro, posto che il primo lo ricordava a malapena – non perché fosse stato esattamente assente, quanto più perché non aveva davvero rappresentato una parte attiva della loro vita – ed il secondo era stato molte cose – un compagno per mamma, un insegnante di chitarra, un cretino col quale scherzare fino a notte fonda quando non aveva voglia di dormire – ma decisamente non un papà. David era una figura rassicurante, uno dal quale si sarebbe volentieri fatto abbracciare per darsi un po’ di tregua e smetterla, almeno per qualche secondo, di sentirsi così dannatamente solo contro l’intero fottuto universo in rivolta.
Era anche per questo che quello che stava succedendo ultimamente fra loro era così disturbante. Non che qualcosa fosse cambiato, nei fatti – anzi: per dirla proprio tutta, era cambiato molto più il rapporto che lo legava a suo fratello rispetto a quello che continuava a legarlo a David – era una questione di sensazioni. Non puoi stare davvero accanto a qualcuno in grado di metterti a disagio con un solo sguardo. Non puoi lasciare che ti abbracci quando ogni volta che ti tocca hai l’impressione che le sue dita ti lascino un marchio a fuoco sulla pelle. Era una sensazione straniante, troppo fisica per loro due, che non avevano mai diviso più che qualche amichevole pacca sulle spalle e qualche altrettanto amichevole sguardo d’intesa. Tom aveva paura di dove quelle nuove sensazioni potessero portarlo, soprattutto dal momento che, senza più Bill costantemente al proprio fianco, si sentiva come una barca a riva ma senza ancora. Salvo, ma chissà ancora per quanto.
*
Le visite di Larsen ai loro studi di produzione non erano certo frequenti, ed ancora più rare in effetti erano le volte in cui, avvisando o meno, s’era presentato al loro appartamento.
I ragazzi stavano registrando qualche demo, quando una delle segretarie di David bussò discretamente alla porta, chiedendo di essere ricevuta. David l’ascoltò silenziosamente informarlo che Herr Larsen era appena arrivato in tutta fretta e chiedeva insistentemente di parlare con lui.
Bill, oltre il doppio vetro della sala d’incisione, non si accorse di niente, continuando a cantare senza fermarsi mentre invece Tom, Georg e Gustav, svaccati senza ordine sull’ampio divano di fronte all’impianto di missaggio, spostarono immediatamente l’attenzione su di lui, mostrando subito evidenti segni di preoccupazione.
- C’è qualcosa che non va? – chiese Georg, raccogliendo i capelli ed allontanandoseli dal collo e dalle spalle per ovviare almeno in parte al caldo che attanagliava la saletta. – È strano che non abbia chiamato, prima.
- È tutto a posto. – lo rassicurò David con un sorriso che rivolse prima a lui e poi anche a tutti gli altri, - Vuole solo assicurarsi che tutto stia procedendo come da programma. Vado, confermo e torno. Voi… - aggiunse, lanciando un’occhiata a Bill e sorridendo teneramente accorgendosi che non aveva ancora smesso di cantare, - siate un buon pubblico. – concluse con una risatina, prima di abbandonare la stanza.
Il suo volto subì un repentino cambio d’espressione quando si chiuse la porta alle spalle, ed anche l’incedere del suo passo si fece immediatamente più spedito. Era strano davvero che non avesse avvertito prima di presentarsi, e se la sua visita così improvvisa avesse avuto qualcosa a che fare con quanto era successo con quel vulcano in Islanda il giorno prima, allora David immaginava che quella di quel giorno sarebbe stata solo la prima di innumerevoli – e sempre più complesse – visite a sorpresa.
Quando entrò nel proprio ufficio, Larsen lo stava attendendo già seduto in poltrona, le gambe accavallate e le mani dalle dita intrecciate poggiate su un ginocchio. La sua espressione era dura e severa, i tratti del volto tesi e gli occhi macchiati di preoccupazione. David lo osservò inumidirsi le labbra ed alzarsi in piedi per porgergli la mano e poi trarlo a sé in un abbraccio cordiale ed affettuoso, prima di tornare a sedersi e sciogliere almeno in parte i muscoli tesi delle spalle e delle braccia, assumendo una posizione meno formale mentre quasi sembrava sgonfiarsi nel lasciare andare un sospiro contrito. Prese posto sulla propria poltrona al di là della scrivania, versando dell’acqua da una caraffa in uno dei due bicchieri approntati immediatamente al suo arrivo, e Larsen ne bevve un lungo sorso, prima di cominciare a parlare.
- David, la velocità con cui tutto sta accadendo lascia me per primo di stucco. – disse piano, la voce roca. Non doveva aver dormito granché bene, quella notte. O non doveva aver dormito affatto. – L’Eyjafjallajökull ha eruttato e il caos ha già cominciato a… - si fermò, inspirando ed espirando profondamente mentre appoggiava i gomiti alla scrivania e si prendeva la testa fra le mani, sconfortato.
- Herr Larsen, si sente bene? – chiese premurosamente David, riempiendogli nuovamente il bicchiere. Larsen sorrise mesto, sbuffando appena.
- Ho aspettato tanti di quegli anni, David. E sono diventato così vecchio. Stavo quasi cominciando a temere che nulla si sarebbe verificato sotto il mio mandato, lasciando tutto nelle mani di qualcuno più giovane e inesperto di me, ed invece, proprio alla fine… - sorrise ancora, prostrato. – Spero solo di riuscire a portare a termine il compito che i Divini hanno affidato a me e ad i miei pari prima di me. Ma per riuscirci, io ho bisogno della collaborazione di voi tutti.
- Sa che io sono sempre stato disposto ad aiutare, Herr Larsen. – annuì David, poggiandogli una mano sulla spalla, - Ho sempre fatto la mia parte in previsione dell’Avvento.
- E tutti siamo molto fieri di te, David. La nostra gratitudine è immensa. I saggi non hanno nessun dubbio riguardo la tua capacità di portare a termine il tuo compito di Guardiano. Ed io sono d’accordo con loro. – disse Larsen, sorridendogli orgoglioso. – È per questo che non ho alcun timore di dirti adesso che il momento è giunto, siamo anzi già in ritardo sui tempi. La profezia si sta già avverando, i gemelli devono unirsi e compiere il loro destino. Per quello che sappiamo, i Divini potrebbero essere sul punto di cadere, o essere già caduti.
- Herr Larsen… - David si passò una mano sul viso, inspirando profondamente, - Non possiamo.
L’uomo inarcò un sopracciglio, incerto.
- Come sarebbe a dire che non possiamo, David? – chiese, col tono di chi non vuole davvero una risposta, ma solo una marcia indietro. – Non potere non rientra fra le possibilità che ci è concesso avere. Se i ragazzi non sono ancora riusciti a trovarsi da soli, allora vanno spinti nella giusta direzione.
- È proprio quello di cui sto parlando. – obiettò David, le sopracciglia aggrottate. – Io ho studiato attentamente le scritture, Herr Larsen, e nulla di quanto è stato scritto dai grandi saggi passati parla di forzature, tutto si è sempre svolto con naturalezza. Il nostro compito dovrebbe essere solo di vegliare, non quello di indirizzare. – inspirò profondamente, incerto. – Sono creature divine, Herr Larsen, noi non possiamo—
- Credi di conoscere le scritture meglio di me, David? – lo interruppe Larsen, severo, - Io ho dedicato la mia vita a questa missione, e come me tutti gli altri prima di me. I tempi sono cambiati, duecento anni sono passati dall’ultima volta che i Divini sono caduti, allora la questione era del tutto differente. La nostra religione, così come il bilanciamento del karma universale da cui essa dipende, è mutevole, come il mondo. Non è preimpostata, non ci sono particolari che non possano cambiare. – i suoi occhi si fecero più cupi, scrutando quelli di David con gravità. – A parte uno. I gemelli devono unirsi ed assurgere al divino. O il mondo crollerà in una spirale di caos che lo devasterà.
David annuì pensoso, gli occhi bassi e le mani dalle dita intrecciate poggiate mollemente sul piano della scrivania. La loro presa si fece più forte, come volesse darsi coraggio da solo, un attimo prima di dare voce ai suoi dubbi.
- E se i loro sentimenti non andassero in questa direzione? – chiese a bassa voce, rifiutandosi di sollevare lo sguardo.
- Li obbligheremo a prenderla! – sbottò Larsen, battendo con furia un pugno sulla scrivania, - David, non lascerò certo che il mondo venga distrutto per i capricci dissennati di due sciocchi ragazzini che non sanno niente del perché sono venuti al mondo! E non permetterò nemmeno che sia tu a rovinare tutto. – si alzò in piedi, scrutandolo dall’alto. – David, un solo mio ordine e sarai rimosso dal tuo incarico di Guardiano. È questo che vuoi? Vuoi che i tuoi protetti, i ragazzi per cui hai vissuto fino ad ora, i ragazzi per cui sei stato istruito e di cui sei stato responsabile fino ad ora, vengano affidati a qualcun altro proprio nel momento più importante della loro vita?
- No, Herr Larsen. – rispose David fra i denti.
- Ottimo. – annuì lui, spiegando i pantaloni lungo le gambe e preparandosi ad andare, - Allora attieniti agli ordini che ti vengono impartiti.
David si morse l’interno di una guancia tanto forte da sentirsi pungere gli occhi.
- Quali sono gli ordini, Herr Larsen? – chiese ubbidiente, alzandosi in piedi a propria volta. Larsen sorrise, soddisfatto.
- I nostri indovini percepiscono degli squilibri profondi nel karma. – annuì pensieroso, - La storia fra Bill e quel Bushido sta rimescolando tutte le carte in tavola, e il karma stesso sta cercando di riportare tutto al proprio posto annullandosi. Questo, naturalmente, - sospirò stancamente, - implica l’entrata in scena di nuove figure che possano fungere da elementi di disturbo all’interno della relazione fra quei due.
- …nuove figure? – chiese David, arrischiandosi finalmente a sollevare lo sguardo ed inarcando un sopracciglio curioso.
- Gli indovini non sono ancora riusciti ad avere visioni chiare, sulla faccenda. – sbuffò Larsen, scrollando le spalle, - Parlano di dragoni, vedono maremoti e poi fuoco e fiamme, ma non sappiamo se le cose possano essere correlate o se non si tratti magari di ulteriori segnali ad annunciare la caduta dei Divini. – sospirò, tornando a sorridere più calorosamente. – Gli ordini sono di tenere i ragazzi lontano da qualsiasi cosa possa turbarne l’unione o metterne a rischio l’incolumità, al momento. Vedi? – ridacchiò appena, - Non è necessario che tu li forzi ad unirsi subito. Basterà tenerli in casa per qualche giorno, almeno finché le visioni degli indovini non si saranno fatte più chiare. D’accordo?
David sospirò, annuendo lentamente.
- D’accordo.
*
Cercando di fare il più silenziosamente possibile, Bill finì di ingioiellarsi e diede un ultimo tocco al trucco che gli adornava gli occhi. Spazzolò i capelli, appiattendoli ai lati della testa, ed infilò cappuccio ed occhiali da sole, prima di gettare uno sguardo fuori dalla finestra ed osservare i cupi nuvoloni che si stavano addensando velocemente sopra quella parte della città, spinti dal vento feroce che scuoteva gli alberi e s’infilava fischiando sinistro attraverso gli spiragli degli infissi.
- Se stessi per uscire, ti consiglierei di mettere una sciarpa. – disse Tom all’improvviso. Spaventato, Bill si voltò a guardarlo con uno scatto repentino, portando una mano al cuore.
- Tomi! – borbottò, - Non provare mai più a spuntarmi alle spalle così senza preavviso. – lo rimproverò, allungando una mano a recuperare la sciarpa poggiata sullo schienale della sedia. – E come sarebbe a dire “se stessi per uscire”? Sto per uscire.
- Sì, - rise piano Tom, ma la sua non era una risata di scherno. Sembrava solamente stanca e un po’ delusa. – magari uscire è quello che vuoi, ma dubito che tu ci riesca. Ci sono guardie del corpo appostate ovunque. Armate.
- Arm— - Bill spalancò gli occhi, affrettandosi a raggiungere suo fratello sulla soglia della porta e sbirciando i corridoi all’esterno per verificare che non lo stesse prendendo in giro. E non lo stava facendo. – Ma che diamine— perché? – chiese quindi, tornando a chiudere la porta e guardando Tom dritto negli occhi.
Lui scrollò le spalle, guardando immediatamente altrove.
- Non lo so, di preciso. – rispose vago, - David ha parlato di minacce di qualche fan invasata. Ha detto che per stasera è meglio restare in casa, uscire sarebbe pericoloso.
- …fan invasata? – chiese Bill, inarcando un sopracciglio, - Io non ho ricevuto minacce di nessun tipo. Tu?
- Nemmeno io. – disse Tom, scuotendo il capo, - Ma magari hanno intercettato la corrispondenza. Leggono sempre prima tutto.
- Ma mi sembra— voglio dire, che razza di storia è? – continuò a borbottare Bill, recuperando il cellulare e componendo celermente un numero, - Non ci sono stati avvertimenti, e nemmeno una riunione per comunicare il pericolo… cos’è, siamo chiusi dentro a tempo indeterminato e basta? Che stronzata!
- Si tratta solo di stanotte, Bill. – sospirò Tom, paziente, - In via precauzionale. Che stai facendo?
- Chiamo Anis. – rispose lui con una smorfia, interrompendo la chiamata dopo svariati squilli senza risposta e riprovando, - Dovevamo vederci.
- Oddio, Bill, potrete pure restare una serata lontani l’uno dall’altro senza impazzire. – sbuffò Tom, roteando teatralmente gli occhi e lasciandosi ricadere sul letto del fratello.
- Sta’ un po’ zitto, Tomi. – sbottò Bill, mordicchiandosi il labbro inferiore e provando a richiamare per la terza volta, - Qui c’è qualcosa che non va.
- Mh? – biascicò Tom, sollevando lo sguardo e fissandolo con curiosità, - Che succede?
Bill sospirò pesantemente, riponendo il cellulare sul comodino e guardando ansioso fuori dalla finestra, mentre la pioggia, pesante, cominciava a cadere.
- Non risponde.
*
Anis osservò il cellulare squillare per la terza volta a lungo, gli occhi fissi sullo schermo, e solo quando smise, sperando che non ricominciasse presto, lo ripose nella tasca posteriore dei jeans, tornando a prestare tutta la propria attenzione all’uomo che aveva di fronte. Era strano – e straniante – pensare a Fler in quei termini, visto che l’aveva conosciuto da ragazzino ed anche quando aveva piantato l’Aggro Berlin, be’, non è che fosse cresciuto più di tanto – non è che lui gli avesse lasciato il tempo di farlo, d’altronde – perciò fissare gli occhi su quell’uomo adulto, alto e robusto e innegabilmente arrabbiato non era piacevole come invece avrebbe potuto essere ritrovarselo davanti identico a com’era l’ultima volta che l’aveva visto.
- Fler, non ho tempo da perdere. – disse stancamente, cercando di ignorare i suoi occhi infiammati di rabbia, - Non mi pare che tra noi sia cambiato qualcosa, rispetto a una o due settimane fa. Perché hai voluto vedermi?
Patrick si morse un labbro e poi digrignò i denti in una smorfia infastidita. Sembrò non avere nulla da dire, Anis poté quasi vedere questa consapevolezza scivolare dietro i suoi occhi chiarissimi e ne fu turbato.
- Ci sto pensando da un po’. – rispose quindi, avvicinandoglisi minaccioso, - Settimane. Mesi. Non saprei dirti.
- Aha. – annuì Anis, cercando di fingersi totalmente disinteressato a quanto stava accadendo lì e, soprattutto, a quanto doveva stare accadendo a Bill, che stava chiamandolo per l’ennesima volta in dieci minuti. – Quindi?
Patrick quasi ringhiò, le braccia rigide lungo i fianchi e i pugni stretti tanto da imbiancargli le nocche.
- Odio questo tuo atteggiamento. – commentò astioso, - Parli con tutti come se non dovessi rispondere di niente con nessuno.
- E non è così? – chiese Anis, inarcando un sopracciglio e reggendo il suo sguardo nonostante quanto si sentisse turbato dalla sua sola presenza lì. C’era qualcosa che non tornava negli occhi di Fler – che ricordava ancora limpidi come quando l’aveva trovato la prima volta solo e sperduto e minuscolo in un centro di assistenza sociale – qualcosa che non tornava nel suo desiderio così improvviso e immotivato di vederlo, qualcosa che non tornava nel fuoco che sentiva inspiegabilmente agitarglisi nel fondo dello stomaco, qualcosa che non tornava nei nuvoloni che si addensavano minacciosi sopra le loro teste e nella pioggerella fine che si abbatteva su di loro diventando man mano sempre più fitta e pesante. – Dovremmo rientrare. – disse a mezza voce, ed era difficoltoso sentirsi parlare sotto lo scroscio rumoroso della pioggia. Patrick dovette gridare, perché lui lo sentisse. E quando lo sentì, Anis preferì di non averlo mai fatto.
- No. – disse con una decisione talmente improvvisa e fuori luogo da farlo sembrare sotto ipnosi, o posseduto, - No, dev’essere qui. Bushido! – lo sentì strillare all’improvviso, un attimo prima di ritrovarselo addosso.
Riuscì a malapena a sollevare le braccia per frapporle fra se stesso e il suo corpo, frenando la sua avanzata, ma il colpo fu tale che si ritrovò in terra, fradicio e con le sue mani strette attorno al collo non più tardi di pochi secondi dopo.
- Ah… - annaspò a corto d’aria, piantandogli entrambe le mani sulle spalle ed agganciando una delle sue gambe con una delle proprie, per ribaltare le loro posizioni e liberarsi della sua presa, - Ma cosa cazzo ti prende?! – gridò, afferrandogli entrambi i polsi e bloccandoglieli contro il marciapiede ormai ridotto ad una pozza d’acqua.
- Deve finire oggi. – rispose Patrick, mentre un sorriso inquietante si allargava sul suo volto, - Deve finire oggi! – ripeté urlando e dimenandosi sotto il suo corpo fino a sbalzarlo lontano con uno strattone più forte degli altri. Incredibilmente più forte degli altri.
Anis si ritrovò a sbattere di schiena contro un palo. Gemette dal dolore, ripiegandosi su se stesso e passandosi una mano lungo la spina dorsale per cercare di capire se fosse tutto a posto. Sembrava solo un colpo, per quanto incredibilmente forte, perciò tornò subito a tenere d’occhio Patrick, che nel mentre si era alzato da terra e, a distanza di qualche metro, lo fissava. I suoi occhi, incredibilmente azzurri, brillavano nella notte in maniera innaturale e spaventosa. Qualcosa non funzionava, qualcosa non stava andando come avrebbe dovuto andare, e quello non era un comune scontro. E Patrick non era un comune ragazzo in cerca di vendetta.
- Fler. – provò a chiamarlo, - Fler, cazzo, dimmi cosa sta succedendo.
Lui, però, non rispose. Si limitò a sorridere ancora, distante e terribile, e fu l’ultima cosa che Anis vide prima di venire improvvisamente investito da una massa d’acqua di proporzioni inimmaginabili. Quella non era pioggia. E quello non era Patrick.
Tossì parecchie volte, ed anche quando ebbe espulso l’acqua che l’aveva quasi soffocato gli restò addosso la sensazione di stare per annegare. Continuava a piovere così incessantemente da dargli l’impressione che il cielo volesse sciogliersi sulle loro teste.
- Fler! – chiamò ancora, cercandolo oltre la tenda spessissima di gocce di pioggia che sembrava isolarlo dal resto del mondo, - Cazzo. – imprecò, e fu costretto ad imprecare ancora quando l’acqua si aprì attorno a lui proprio come la tenda di un baldacchino, lasciandogli la possibilità di vedere. – Fler… - mormorò confuso, faticando a riconoscerlo. Di fronte a lui, Patrick s’era trasformato in qualcosa di diverso. La sua pelle, celeste e traslucida, sembrava ricoperta da piccole scaglie, come quelle di un pesce. Gli occhi brillavano violentemente, liquidi e ciechi, e sotto di lui si agitava una lunga coda da tritone mentre attorno alle sue braccia, larghe ai lati del corpo, si addensavano due sfere d’acqua talmente in agitazione da dare l’impressione di ribollire.
Anis spalancò gli occhi e dischiuse le labbra, incredulo, e fu tutto quello che riuscì a fare prima che le due sfere si schiantassero contro il suo corpo, violente come pugni ed altrettanto ben mirate. Urlò quando sentì una costola incrinarsi e sputò sangue quando una sfera lo colpì dritto al volto con tale forza da costringerlo a piegare dolorosamente il collo.
Annaspò, provò a difendersi portando entrambe le braccia davanti al corpo e, cercando di schermarsi dal getto d’acqua continuo e pressante che minacciava di aprirgli un buco nel centro dello stomaco, riuscì a sgusciarne al di sotto e correre via. Non si mosse velocemente, però, o almeno non abbastanza per evitare una seconda scarica d’acqua mirata proprio al centro della schiena. Il punto, già intorpidito per il colpo preso poco prima, riprese a dolere così forte che Anis non poté che accasciarsi lì dov’era, all’angolo del marciapiede, le mani del tutto affondate nell’enorme pozza d’acqua che tutta la strada era diventata e il respiro mozzo.
Dietro di lui, Patrick si avvicinava senza toccare per terra, fluttuando a mezz’aria in quello che sarebbe stato un perfetto silenzio se, assieme a lui, non si fosse mossa anche gran parte della pioggia. Anis lo sentì avvicinarsi in uno scrosciare d’acqua sempre più forte e chiuse gli occhi, pensando distintamente che quella sarebbe stata la sua fine, e sarebbe morto senza capire niente di quanto era successo negli ultimi venti minuti della sua vita.
Poi, una macchina si fermò di fronte a lui. L’autista spalancò lo sportello a dieci centimetri dal suo volto, ed Anis sollevò lo sguardo.
- Chakuza… - esalò stremato, piantando gli occhi sulla sua espressione e sul suo sguardo che saettava sconvolto da lui alla figura di Patrick dietro le sue spalle.
- …Sali! – gridò l’austriaco, decidendo di rimandare a dopo le spiegazioni. Anis sentì le sue mani afferrarlo per il bavero della maglietta resa ormai insopportabilmente pesante dall’acqua, e senza protestare si lasciò trascinare all’interno dell’automobile.
*
- Non posso credere a quello che ho visto. – ripeté Anis per la millesima volta in dieci minuti, talmente sconvolto da ostinarsi a cercare di asciugarsi il viso usando la propria maglietta grondante d’acqua, senza ovviamente riuscirci. – Non posso credere a quello che ho visto.
- Ma cosa cazzo era quella… quella roba?! – si azzardò a chiedere Peter, pestando sull’acceleratore e cercando per pronto accomodo di allontanarsi il più possibile dal quartiere, dal momento che era palese che, al momento, Anis non sarebbe riuscito a prendere una decisione riguardo dove dirigersi nemmeno se ne fosse andato della sua vita, cosa peraltro parecchio probabile.
- Era Fler! – rispose Anis, voltandosi a guardarlo con gli occhi spalancati, - Era Fler, cazzo, o almeno, era lui prima di diventare quella cosa!
- Ma— ma di cosa cazzo stai parlando?! – sbottò l’austriaco, frenando all’improvviso ed accostandosi al marciapiede. Non pioveva più, cosa che sembrò in qualche modo rassicurare Anis abbastanza da permettergli di riordinare le idee.
- Non lo so, con precisione. – rispose l’uomo, inumidendosi le labbra, - Anzi, in realtà non lo so affatto. So che stavo parlando con Fler— non guardarmi così, non so perché volesse parlarmi, credo volesse risolvere certe questioni passate, ma ad un certo punto tutto è cambiato. E non intendo solo lui.
Peter annuisce lentamente, incerto.
- Quindi quella cosa che ho visto era…
- Fler. – annuì Anis, ancora incredulo, - Dopo essere cambiato. Ad un certo punto è cominciato a piovere talmente forte che sembrava dovesse venire giù il cielo, e lui è diventato un altro. E… Dio, non so come dirlo senza sembrare completamente pazzo.
Peter inarcò un sopracciglio, guardandolo come avesse appena detto la cosa più stupida mai pensata.
- Io ho appena visto una specie di sirenetto che fluttuava a mezz’aria e sembrava avere la chiara intenzione di ucciderti, Bu. – gli ricordò, costringendolo perfino ad un mezzo sorriso divertito nonostante il dolore e la stanchezza, - Penso che ti crederei anche se mi dicessi di essere un dio sceso sulla terra per distruggere il mondo impuro o chessò io.
- No, indubbiamente io non sono niente del genere. – ridacchiò Anis, accomodandosi contro lo schienale del sedile, - Fler, però… o almeno, la cosa che è diventato, lui riusciva a governare l’acqua. La— non lo so, la raccoglieva attorno alle sue mani come un campo di forza e poi me la sparava addosso, cazzo, manco fossimo stati in un fottuto videogioco. Merda.
- Se fosse stato un videogioco, - sorrise Peter, rassicurandolo con una pacca sulla spalla, - te la saresti cavata sicuramente meglio.
- Questo è poco ma sicuro. – rise piano Anis, stendendo il capo all’indietro e sospirando pesantemente, lo sguardo fisso sul cielo scuro della sera oltre il parabrezza. – Solo che adesso… voglio dire, se Fler vuole uccidermi, prima o poi mi troverà. E devo pensare a Bill, intendo— non posso mica fuggire per sempre o espatriare e mollarlo qui senza una parola… e poi come? Dovrei fingermi morto per costringerlo a non seguirmi pure in capo al mondo. – sospirò ancora, piegandosi in avanti e poggiando i gomiti sulle ginocchia. – Chaku, onestamente: non so che fare.
Peter annuì, mordicchiandosi un labbro con aria incerta e nervosa per qualche secondo, prima di decidersi finalmente a parlare.
- Senti… liberissimo di prendermi per pazzo, - disse alla fine, - ma mia madre, sai, quando ero più piccolo, mi raccontava spesso di uomini che mettevano su le squame e governavano gli elementi. – si interruppe quando vide lo sguardo di Anis alzarsi su di lui, vuoto e vagamente terrorizzato, - Sì, lo so. – sospirò quindi riprendendo, - Mia madre è abbastanza fuori di zucca, dove per “fuori di zucca” intendo completamente matta, ma almeno è una che sa come ascoltarti senza far sembrare pazzo te, quindi… - sospirò ancora, scrollando le spalle, - se vuoi si passa da casa sua e le si fa una visitina. – propose, - Tanto è insonne. – Anis continuò a guardarlo fisso come un pesce appena caduto fuori dalla boccia, e Peter si strinse nelle spalle. – Era solo un’idea, comunque.
- Ma perché tua madre dovrebbe saperne qualcosa, di tutto questo?! – sbottò Anis, allargando le braccia in un gesto incredulo, per quanto lo spazio ristretto dell’abitacolo dell’automobile potesse permettergli.
- Non lo so! – rispose lui, - Potrebbero essere solo storie per bambini, ma se fosse qualcos’altro? Insomma, quello che abbiamo visto lo sappiamo entrambi, non mi sembra il caso di ostinarsi a ripetersi “è troppo assurdo, non può stare accadendo sul serio”. Non abbiamo alternative, ti pare?
Anis rifletté qualche secondo, lo sguardo basso e le sopracciglia corrugate.
- Non abbiamo alternative. – annuì quindi, tornando a sedersi compostamente sul sedile. – Parti.
*
- Stavo pensando… - disse Anis, scrutando curiosamente la palazzina di fronte alla quale si trovavano mentre Peter armeggiava con le proprie chiavi per aprire il portone, - io non ho mai conosciuto tua madre.
- E non ti sei nemmeno mai visto apparire davanti un mostro degli abissi pronto ad annegarti. – commentò lui, aprendo il portone e facendogli strada all’interno dell’atrio, - E se è per questo a me non era mai capitato di uscire per comprare un paio di birre, finire improvvisamente in una tempesta spuntata fuori da chissà dove e poi salvare la vita di un collega. Perciò direi che è una giornata di grandi prime esperienze per entrambi.
Anis rise ancora, stavolta più apertamente, appoggiandosi a lui mentre salivano le scale per raggiungere il primo piano, dove la signora Silvia abitava col marito, nonché padre di Peter.
- Ehi, Atze. – disse Anis a bassa voce, quando furono di fronte alla porta dell’appartamento, - Grazie. Non so cosa avrei fatto, se non mi avessi tirato via da quell’inferno.
Peter scrollò le spalle, aprendo anche quella porta ed invitandolo all’interno.
- Ringraziami quando saremo riusciti a dare un senso a questa follia. – rispose, prima di voltarsi verso il corridoio e chiamare sua madre a gran voce.
Invece della donna, comunque, fu suo padre a presentarsi.
- Peter, - lo salutò con un cenno del capo, - e… uomo sconosciuto. Buonasera.
- Perdoni l’intrusione. – sorrise Anis, - Non era mia intenzione gocciolare inaspettatamente sul vostro zerbino.
- Non è la prima né l’ultima cosa assurda che capita in questa casa. – rispose l’uomo, volgendo teatralmente gli occhi al cielo. – Peter, - ripeté quindi, tornando a rivolgersi al figlio, - tua madre è estremamente preoccupata per qualcosa di cui si ostina a non volermi parlare. Sta chiusa nel suo studiolo da ore e non mi riesce di tirarla fuori. Stavo per chiamarti. Vedi di fare qualcosa perché io ho esaurito le idee. – sospirò.
- È una delle solite lagne? – chiese Peter con una mezza smorfia. Suo padre sospirò ancora.
- Sì, forse. Non lo so. Non abbiamo esattamente avuto occasione di parlare. – confessò, prima di voltarsi a guardare Anis. – Mi spiace che debba assistere a questa scena, ma mia moglie ogni tanto tende a perdere il controllo. Non è pericolosa, comunque. – concluse con un sorriso, - È solo un po’ strana.
Anis sorrise rassicurante, cercando di reggersi in piedi da solo e appoggiandosi alla parete con fatica.
- Non si preoccupi, signor Pangerl. Quanto a stranezze, penso che nulla potrà più stupirmi.
Il signor Pangerl sorrise a propria volta e fece per ribattere, ma Peter lo fermò.
- Di mamma mi occupo io, papà. – disse, riprendendo a sostenere Anis e conducendolo lungo il corridoio verso lo studio privato di sua madre, - Tu torna pure di là.
- Niente male, come primo incontro con i tuoi. – ironizzò Anis, trascinando i piedi sulla moquette un po’ impolverata, - Ho una costola probabilmente incrinata e mi sento così stanco che potrei svenire, e tua madre è nel bel mezzo di una crisi di nervi.
- Ne sta avendo parecchie, ultimamente. – borbottò Peter, sollevando una mano per bussare alla porta, - Stanno succedendo tante di quelle cose, nel mondo… - considerò pensieroso, - Dio, solo adesso che ho visto quello che ho visto riesco a pensare che il tutto potrebbe non essere casuale.
La porta della stanza si spalancò davanti a lui prima che le sue nocche potessero toccarne il legno laccato bianco, e Peter fece un passo indietro, trascinandosi dietro Anis in un mugolio di dolore e di sforzo, per evitare di essere preso in piena faccia. Sua madre, ferma oltre la soglia, aveva gli occhi spalancati, una vestaglia coloratissima allacciata mollemente in vita sopra una sottoveste di raso color panna e i capelli tutti scarmigliati sulla testa, tenuti su da un fermaglio e spioventi in riccioli rossicci, striati qua e là di bianco e grigio, lungo le sue guance e il suo collo pallido, ricoperti di lentiggini.
- Peter! – gridò, afferrandolo stretto per un braccio e trascinando all’interno sia lui che Anis, prima di chiudere la porta, - Oh, per i Divini, dimmi che le mie preghiere hanno sortito l’effetto desiderato, dimmi che ti sei trovato al posto giusto e nel momento giusto e hai impedito la catastrofe!
- Mamma! – strillò a propria volta Peter, aiutando Anis ad abbandonarsi sulla prima poltrona libera disponibile, a fronte delle altre due ricoperte di pergamene e libri vari così come la scrivania e il tavolino basso poco distanti, - Che diamine ti prende?!
- Ho visto… - balbettò lei, perdendo una mano fra i capelli e dirigendosi spedita verso la scrivania, - Ho visto l’acqua e ho visto la morte e ho visto te, Peter, tu dovevi essere lì per impedirlo. Era importante che tu lo facessi. Ti prego, - aggiunse in un mugolio stremato, consultando incartamenti che Peter non aveva mai visto prima, - ti prego, dimmi che l’hai fatto.
Peter ed Anis si lanciarono un breve sguardo d’intesa, in seguito al quale l’austriaco raggiunse la propria madre e la strinse affettuosamente per le spalle, massaggiando piano i suoi muscoli tesi ed invitandola a sedersi prima di farlo a propria volta.
- Mamma, questo è Bushido, è uno con cui lavoro. Devo avertene parlato, qualche volta. E sì, - aggiunse annuendo, - gli è successo qualcosa di terribile, ma io ero lì e sono riuscito a tirarlo fuori prima che si facesse ammazzare.
- Ehi. – borbottò Anis, ma Peter lo fermò inarcando un sopracciglio.
- Non mi pare il momento di stare a difendere il tuo onore di guerriero, Bu. – gli ricordò, costringendolo a guardare altrove mugugnando offeso ma senza insistere nella sua protesta. – Mamma, cosa sta succedendo qui?
La signora Silvia si mordicchiò nervosamente il labbro inferiore, prima di inspirare profondamente e poi alzarsi in piedi, raggiungendo la libreria a muro e tirando fuori un libro dal caos che regnava sugli scaffali.
Si sedette ancora e poggiò il libro sulla scrivania, rivolto verso Anis e Peter, ma tenne entrambe le mani sulla copertina di modo che nessuno dei due potesse aprirlo o sbirciarne il titolo.
- Tutto ciò che sapete, o credete di sapere, - disse quindi con tono grave, - è una menzogna. Io posso raccontarvi cosa è successo, costa sta succedendo e cosa succederà, ma le vostre menti devono essere sgombre e pronte ad accettare ciò che vi dirò. In caso contrario, - sospirò, stringendosi nelle spalle, - non faremmo che perdere inutilmente tempo. E non possiamo permettercelo.
- Signora Pangerl, - disse Anis in un lamento sofferente, - mi creda, la mia mente non è mai stata più aperta di così.
La signora sorrise, scrutandolo serenamente con gli occhi verdissimi e brillanti.
- Lo so. – annuì, - Riesco a vederlo. – sospirò pesantemente, prima di allontanare le mani dalla copertina del libro ed aprirlo. – L’ecosistema di questo pianeta, - cominciò a raccontare, mentre sotto gli occhi di Peter ed Anis sfilavano immagini molto simili a quelle di un libro per bambini, - vive in perfetto equilibrio. Se anche a volte può sembrare che qualche parte di esso viva in condizioni di particolare disagio, questo è possibile solo perché queste situazioni sono bilanciate da altre situazioni vissute in condizioni di gran lunga migliori. Questo è il karma, è la legge che regola tutto, su questo mondo. Il karma è e deve essere sempre bilanciato, dei reali squilibri porterebbero al collasso del sistema come lo conosciamo. E potete chiamarla come volete, - scrollò le spalle, - fine del mondo, apocalisse, armageddon… non importa il nome che le date, non cambia la sostanza di ciò che è.
- Questo libro… - chiese Peter con un filo di voce, lasciando scorrere le dita su una pagina ingiallita e rovinata dal tempo, - che cos’è?
- Avrebbe dovuto essere il tuo primo regalo. – rispose sua madre, sorridendo tristemente. – È il libro che ogni famiglia appartenente all’Ordine utilizza per istruire i propri bambini. Tutti gli adepti ne hanno uno, e lo tramandano di generazione in generazione. Io non ho potuto tramandarti il mio. – aggiunse, la voce appena incrinata, - Ma avrei tanto voluto, tesoro. Davvero.
- Un attimo, un attimo. – s’intromise Anis, avvicinandosi a propria volta al libro per guardarlo più attentamente, - Di cosa diamine stiamo parlando? Ordine, adepti, karma? Che cosa è successo a Dio, alla Bibbia ed alla Santa Chiesa?
- Fumo negli occhi. – rispose lei, quasi offesa personalmente nel sentirsi accostata a cose simili, - Distoglie l’attenzione da ciò che è davvero importante. Il karma provvede da sé anche a dissimulare la propria presenza a chi non è preposto a comprenderla e vegliarne la serenità. Non è necessario che sette miliardi di persone sappiano. È sufficiente che sappia chi di dovere. – concluse seria, prima di voltare pagina e mostrare loro un simbolo che conoscevano entrambi.
- Yin e Yang. – mormorò Peter, - È di questo che stiamo parlando? Buddhismo o che so io?
- Peter! Ma quanta ignoranza! – sbottò sua madre, tirandogli uno scappellotto sulla nuca, - Quello dello Yin e dello Yang non è un concetto appartenente alla filosofia indiana, bensì a quella cinese. E spiega solo il cosa, ma non il come. O il perché.
- E invece è esattamente quello che noi vogliamo sapere. – disse Anis, picchiettando due dita contro il simbolo, - Il come e il perché. E se si può fermare, ovviamente.
- Fermare! – la signora Silvia rise di gusto, spalancando gli occhi, - Tu non sai di cosa parli, ragazzo. Si tratta di cose ben più grandi di te o di me, qui stiamo parlando di divinità.
- Divinità…? – disse Peter, - Quindi è questo quello in cui si è trasformato Fler prima? Una divinità? Con le scaglie, la coda e tutto?
- Le scaglie? – chiese la signora Silvia, stupita, - No, i Prescelti non— ragazzi, piano, la cosa è abbastanza complessa già senza scavalcare le spiegazioni di base. – borbottò massaggiandosi le tempie, - È più probabile che abbiate visto un dragone, ma ve ne parlerò a tempo debito. – inspirò ancora, prima di voltare pagina e mostrare loro l’immagine di due uomini praticamente stilizzati, uno abbigliato in nero ed uno abbigliato in bianco, stretti in un abbraccio e circondati di luce. – L’equilibrio del karma su questo pianeta è garantito dalla presenza di due esseri, detti “i Divini”, capaci di catalizzare in vita un carico di sentimenti nella gente abbastanza grande da permettere al karma di alimentarsi traendone la propria energia. È un’energia che giocoforza va esaurendosi, con gli anni, ed è per questo che ogni due secoli due bambini perfettamente uguali e perfettamente differenti, complementari in tutto, nascono e vengono protetti fino al giorno in cui sono pronti ad unirsi e prendere il posto dei vecchi Divini ormai caduti e privi di energia. È anche per questo che i Prescelti sono spesso esposti all’amore, all’odio, all’invidia, alla tenerezza, all’affetto, alla curiosità ed alla rabbia di tutti gli esseri umani. Quanti più sentimenti riusciranno a catalizzare, tanto più il loro regno sarà sereno.
- E questo cosa diamine c’entra con Bushido?! – sbottò Peter, grattandosi confusamente la testa, - Non mi pare che lui—
- Bill. – lo interruppe Anis, lo sguardo perso sulla figura abbigliata in nero, - Bill e Tom. È questo, quello che sta cercando di dirmi. Bill e Tom— sono loro. I Prescelti.
La donna sorrise tristemente, annuendo piano.
- Tu hai introdotto un elemento di disturbo non comune, innamorandoti di Bill e lasciando che lui s’innamorasse di te, ragazzo. I vostri sentimenti hanno approfittato di una falla nell’equilibrio karmico, probabilmente dovuta alla perdita di energia dei vecchi Divini ormai quasi senza forze, e sono germogliati. Ed ora è come quelle piccole piantine che s’insinuano nelle crepe del muro e poi crescono, crescono, crescono, fino a sgretolare interi edifici.
- Bill e Tom sono destinati ad unirsi. – mormorò Anis, ancora incredulo, - E io lo sto impedendo. Sto distruggendo il mondo…?
- Mamma, ma dico io, - sbottò Peter, allargando le braccia ai lati del corpo, - tu sapevi tutto questo e non ne hai fatto parola con nessuno? Hai semplicemente aspettato che accadesse?!
- Io ho pregato, Peter. – ribatté sua madre, piccata, - Ho pregato incessantemente e questo è stato tutto ciò che ho potuto fare. Non potevo aprire bocca sulla questione, io… ormai da molto tempo, non faccio più parte dell’Ordine. Da ben prima che nascessi tu. – aggiunse, gli occhi bassi sul libro ma persi oltre, nel vuoto.
- Perché? – chiese Anis, le sopracciglia aggrottate e lo sguardo serio, - Cos’è successo?
- L’Ordine è composto da adepti di vario rango e con varie funzioni specifiche. – spiegò la donna, - Io ero e sono un’indovina. Ben prima che i gemelli nascessero, ebbi la visione di un essere di natura divina, generato dal karma stesso, che avrebbe finito per frapporsi fra i gemelli, distruggendo le loro possibilità di unirsi, e cominciai a pensare che ci fosse qualcosa che non andava. Il karma stava cercando di… non saprei dire. – sospirò, - Si tratta di visioni antiche e confuse, ma sembrava proprio che il karma fosse intenzionato a porre fine alla questione dei Divini per come la conoscevamo. Cosa che avrebbe portato inevitabilmente alla fine del mondo.
- …un essere di natura divina. – mormorò Peter, voltandosi repentinamente a guardare Anis, - Bu…!
- Fler. – concluse l’uomo per lui.
- Un dragone. – precisò la signora Silvia, annuendo. – Sì, è… è probabile che la mia visione fosse riferita a lui. C’è qualcosa che questo individuo potrebbe fare per impedire l’unione dei gemelli? Qualcosa che potrebbe allontanarli?
- Fler mi odia. – spiegò celermente Anis, cercando di alzarsi in piedi il più velocemente possibile, - Vuole vendetta nei miei confronti, anche se il suo odio si è inspiegabilmente amplificato, in questo periodo.
- È la caduta dei precedenti Divini. – annuì la signora Silvia, scattando in piedi ed aiutando il proprio figlio a sorreggere l’altro uomo, - Sconvolge il mondo ed amplifica i sentimenti per favorire i Prescelti nella loro opera di catalizzazione. Quest’uomo potrebbe…?
- Potrebbe voler uccidere Bill per vendetta. – ipotizzò Peter, mordendosi nervosamente l’interno di una guancia, - E niente più Bill, niente più unione dei Prescelti, niente più Divini.
- E niente più mondo. – considerò Anis a bassa voce. Rimase in silenzio per qualche secondo, prima di parlare ancora. – Dobbiamo andare.
Peter annuì, lasciando per un attimo Anis alle braccia di sua madre per correre ad aprire la porta. La donna li accompagnò fino all’ingresso, e li abbracciò entrambi con affetto sincero, prima di lasciarli andare.
- Ragazzo, - disse la signora Silvia, poggiandogli una mano su un braccio quando lui era già per metà fuori dalla porta, - tu potresti essere la chiave. – mormorò, guardandolo negli occhi con aria distratta e persa ma, inspiegabilmente, perfino troppo attenta, - Anche se non riesco ancora a comprendere per quale serratura.
L’uomo aggrottò le sopracciglia, senza capire.
- Bu, dobbiamo muoverci. – disse Peter, scrutando la notte fuori dalla finestra in corridoio, - Sta ricominciando a piovere.
Anis annuì, salutando la signora Silvia un’ultima volta, prima di affidarsi nuovamente alla presa ferrea di Peter e lasciarsi condurre in macchina.
*
Patrick riprese conoscenza dopo un tempo che non riuscì a definire da sé. Non pioveva, ma sentiva la propria pelle bagnarsi continuamente come se invece stesse piovendo ancora, e quando aprì gli occhi e si ritrovò disteso sul marciapiede quella fu la cosa che lo colpì di più.
Si alzò in piedi, guardandosi intorno con aria confusa. La strada era irriconoscibile, sommersa in alcuni punti da pozzanghere profonde anche venti centimetri, ed immersa nel più perfetto silenzio. Si domandò se fosse il caso di chiamare qualcuno, ma capì da sé che nessuno avrebbe creduto a ciò che aveva da dire, e soprattutto ricordava tutto ancora troppo chiaramente per non sentirsene turbato, perfino spaventato, anche se sapeva di essere stato lui a farlo: mentre fronteggiava Bushido, del tutto all’improvviso, la rabbia che provava era cresciuta esponenzialmente fino ad invaderlo tutto, come acqua, e come acqua poi era tracimata, e lui aveva perso il controllo.
Non aveva mai smesso di sentire né di vedere, però. E quella era la cosa più allucinante. Quella, e le scaglie che gli coprivano le braccia e, a giudicare dalla sensazione ruvida che provava accarezzandosi viso e collo, anche tutto il resto del corpo, presumibilmente.
Almeno, si disse, in un tentativo di fare dell’ironia su una situazione che probabilmente avrebbe dovuto essere presa molto più seriamente, la coda era scomparsa. Ed aveva smesso di fluttuare a mezz’aria. Le due cose rappresentavano un indubbio passo avanti nella sua situazione, anche se tutti i passi avanti sembravano quasi annullarsi se pensava a quanto gli faceva male la testa, ed anche a quanto gli faceva male il fianco nel punto che aveva sbattuto svenendo. Si era accorto anche di quello, era stato come se la sua coscienza si fosse scissa dal suo corpo abbastanza a lungo da vederlo andare in berserk, attaccare Bushido spostando l’acqua con – non poteva quasi pensarci senza sentire il bisogno irrefrenabile di scoppiare a ridere – con la forza del pensiero e poi perdere immediatamente tutte le forze nel momento esatto in cui Bushido era scomparso dalla sua vista. Aveva sentito tutte le sue membra afflosciarsi e sgonfiarsi. Volteggiava a mezzo metro dal suolo ed era caduto scoprendo che la coda non era un punto d’appoggio abbastanza stabile da impedirgli di afflosciarsi a terra, e perciò era scivolato su un fianco, urtandolo contro il marciapiedi e perdendo i sensi subito dopo.
Era ancora inquietato da quanto tutto gli fosse sembrato semplicemente giusto, mentre stava avendo luogo. Attaccare Bushido con quella foga, nel chiaro intento di ucciderlo, volendolo fare… ne aveva fatte tante, nella sua vita, ma non era mai arrivato neanche lontanamente vicino al pensiero di voler uccidere un uomo. La sensazione di potenza che aveva percepito quando, in qualche modo, lo scricchiolio delle ossa di Bushido s’era dipanato attraverso le masse d’acqua che stava governando, giungendo a scuoterlo in un brivido sottopelle, l’aveva stordito, tanto quanto adesso lo stordiva il senso di colpa e quello, più ampio, di generale confusione.
Vagò per le strade senza una meta precisa per almeno mezz’ora, sentendosi completamente svuotato e privo di scopo. Estraneo all’interno della propria stessa pelle, non riusciva a percepire da nessuna parte la presenza di Bushido, e questo per qualche strano motivo lo portava a non sentire nient’altro. Le strade, il cielo, le rare persone che ogni tanto incontrava e che, nel vederlo, scappavano via terrorizzate, era tutto come se lo stesse guardando attraverso un velo d’acqua, una piccola cascata nascente da qualche parte al di sopra della sua testa e che gli oscurava la visuale. Vedeva quasi solo ombre acquerellate, e non riusciva a trovare un senso in niente di ciò che gli era capitato e gli stava ancora capitando.
La situazione non si fece più chiara quando, svoltando in una stradina secondaria nel tentativo di sfuggire alla folla ed evitare almeno di scatenare il panico nella popolazione, trovò un gruppo di militari quasi ad attenderlo.
- Cazzo, - disse uno di loro, - gli indovini avevano ragione! È qui, è qui! Chiamate la squadra di rinforzo!
Un fronte compatto di cinque o sei soldati si fece avanti immediatamente, mentre un altro recuperava la propria ricetrasmittente e comunicava col commando dislocato in un’altra zona della città. Patrick seguì il proprio istinto e si mosse all’indietro di qualche passo, sulla difensiva, gli occhi ben piantati su ognuno dei militari. Improvvisamente, i suoi sensi parvero acuirsi tutti assieme, guidati forse dalla paura, forse dall’istinto di conservazione. Riusciva a sentire tutto, a vedere tutto. Da qualche parte, in lontananza, riusciva perfino a sentire la presenza di Bushido. Di nuovo.
- Cosa volete da me? – chiese ai militari in un ringhio discreto ma abbastanza forte da poter essere sentito da ognuno di loro.
- Ma ti sei visto? – rispose lo stesso che aveva preso il comando delle operazioni quando l’avevano trovato, - Non opporre resistenza, dragone. Sei in arresto.
- Voi non potete arrestarmi! – protestò, stringendo i pugni lungo i fianchi. Cominciava a sentire la sensazione umida dell’acqua che si addensava attorno ai suoi pugni chiusi, prima come semplici goccioline, simili a brina, poi come gocce sempre più compatte. Era la stessa sensazione che aveva provato poco prima di perdere il controllo combattendo contro Bushido. Vedeva già chiaramente come sarebbe andata a finire, e si sentiva stranamente pieno di fiducia sull’esito di quella battaglia.
Era esausto, provato, il mal di testa era tale da dargli la nausea, ma nondimeno era certo che non sarebbe morto. Non lì, non in quel momento.
- Possiamo e dobbiamo. – disse il tizio, prima di sollevare una mano. – Prendetelo! – ordinò in un gesto perentorio.
Il commando si mosse verso di lui a mitra spianati, e Patrick si librò in aria il secondo successivo.
- Voi non potete arrestarmi. – ripeté con maggior calma. L’acqua era lì, lo proteggeva. E si preparava all’attacco, compatta. – Voi non potete nemmeno fermarmi. – concluse con un ghigno.
- Pronti! – disse il tizio, mentre gli uomini del commando si fermavano all’improvviso, - Mirare… - ordinò, e quelli presero posizione, - Fuoco!
Tutti i loro proiettili si infransero uno dopo l’altro contro il muro d’acqua che Patrick innalzò davanti a sé. E non riuscirono nemmeno a capire cosa accadde quando, senza che il muro dovesse dissolversi né aprirsi, due colonne d’acqua ne fuoriuscirono, dirette verso di loro a velocità disumana.
Quando Patrick toccò per terra e, stavolta, la sua coda tornò ad essere semplicemente un paio di gambe ben prima che lui potesse cadere ancora, capì due cose. Primo, stava imparando a controllare meglio i suoi poteri. Secondo, c’era chi, per quegli stessi poteri, lo voleva morto.
Mentre i membri del commando cercavano di riprendere coscienza di se stessi e tossicchiavano nel rigirarsi abbastanza da riprendere fiato – e alcuni di loro restavano immobili per terra: dovevano essere morti – Patrick, incredibilmente freddo e del tutto disinteressato alla loro vicenda, sollevò appena il capo e chiuse gli occhi. Riusciva a sentire la presenza di Bushido con una chiarezza che quasi lo stordiva. Era come vederlo muoversi su una mappa invisibile, una mappa di cui lui conosceva ogni dettaglio e che riusciva perciò a seguire perfettamente.
Riaprì gli occhi e l’istinto gli disse che doveva raggiungerlo, dovunque fosse. Non riusciva a capire per quale motivo, ma era evidente che Bushido doveva avere a che fare con la sua condizione, o comunque saperne qualcosa. Doveva trovarlo, non aveva alternative.
Si librò in volo senza pensarci due volte.
*
Il posto non gli era familiare. La strada era bene illuminata, ampia e pulita. Il palazzo era grande, di molti piani, anche se non abbastanza da far pensare alla sede di qualcosa di losco, o ad una casa di produzione. Sembrava un normale condominio, di quelli abitati solo da famiglie semplici, babbo mamma figli forse qualche nonno, eppure era circondato da militari. Patrick aggrottò le sopracciglia contandoli celermente – dodici solo davanti, divisi fra appostati intorno alla cancellata ed impegnati in vaghi andirivieni lungo il vialone asfaltato centrale, ma poteva percepirne almeno un’altra ventina sul retro e sui fianchi del palazzo. In pratica, un piccolo esercito.
Si chiese cosa potesse esserci di tanto importante all’interno di quel palazzo da giustificare un tale dispiegamento di forze – da parte di chi, poi? – ma pochi secondi dopo la consapevolezza dell’estrema vicinanza di Bushido gli tolse ogni possibilità di ragionare lucidamente in termini che non fossero quelli di raggiungerlo e discutere con lui, dove poi sul significato di discutere il suo cervello non sembrava avere le idee molto chiare.
Sentì distintamente una macchina frenare e spegnersi da qualche parte nei dintorni, ma nessuno dei militari sembrò mettersi in allerta. L’autovettura doveva essere parecchio lontana, perché Bushido, accompagnato da Chakuza e con una mano sul fianco evidentemente ferito, apparve solo diversi minuti dopo.
Al solo vederlo, qualcosa si mosse nel suo petto. L’ondata di rabbia liquida potente come la piena di un fiume, che qualche ora prima l’aveva costretto a perdere il controllo di sé ed attaccare Bushido, stava montando dentro il suo corpo, crescendo come un’onda. Si sarebbe infranta di lì a poco, travolgendo tutto. Patrick chiuse gli occhi e strinse con forza i pugni lungo i fianchi, inspirando ed espirando ritmicamente, aspettando pazientemente di calmarsi. Doveva imparare a gestire quell’insopprimibile istinto, doveva tenerlo a bada, almeno fino a quando gli sarebbe servito tenere Bushido in vita, per capire per quale motivo il suo corpo si ostinasse ad indicarglielo come la persona alla quale avrebbe dovuto chiedere per spiegare quell’incredibile cambiamento. Poi, sarebbe successo ciò che sarebbe successo. A lui, al momento, non importava.
Lasciò che Bushido e Chakuza avanzassero di qualche metro, ma prima che i militari potessero accorgersi della loro presenza si frappose fra loro, sfidando Bushido ad avanzare con lo sguardo. Lui gli si fermò proprio di fronte, e lo guardò per qualche secondo con gli occhi spalancati, quasi boccheggiando, come non potesse davvero credere di trovarselo davanti, o come se vederlo proprio lì e proprio in quel momento gli facesse incredibilmente male. Patrick inarcò un sopracciglio, incuriosito da quell’espressione della quale non riusciva a comprendere la ragione, ma quando fece per schiudere le labbra e parlare, Bushido lo anticipò.
- Speravo di sbagliarmi, ma a quanto pare avevo ragione. – disse in un ringhio basso e profondo, quasi disumano. Patrick lo guardò come se la voce stesse traspirando dalla sua stessa pelle, come fosse ovunque. Riusciva a sentirla scuoterlo fin nelle viscere, come il suono dei bassi a palla durante un concerto. – Tu non lo toccherai, Fler. – lo minacciò, e quando sollevò lo sguardo Patrick vide che i suoi occhi brillavano.
Indietreggiò di qualche passo.
- Io non—
- Tu non toccherai Bill neanche con un dito. – ribadì Bushido, la voce ormai più simile al rombo di un tuono che al suono di una voce umana. Chakuza, accanto a lui, si allontanò di qualche centimetro.
- Bu…? – lo chiamò piano, e Patrick capì. O meglio, seppe, pur senza capire, che a Bushido stava per succedere la stessa cosa che era capitata a lui. E questo, quantomeno, spiegava per quale motivo lui riuscisse a percepirlo così distintamente, e per quale motivo continuasse a gravitargli intorno.
- Chakuza. – lo chiamò, cercando di suonare rassicurante sia per lui che per se stesso, dal momento che la furia di Bushido gli si stava riversando dentro come una cascata, - Allontanati più in fretta che puoi.
- Cosa? – disse quello, lanciandogli un’occhiata per metà incredula e per metà astiosa, - Col cazzo, no!
- Sta perdendo il controllo! – gridò, indicando Bushido, - Non lo vedi?!
Chakuza si voltò a guardarlo molto lentamente, e quando gli ebbe posato gli occhi addosso impallidì: la sua pelle era diventata notevolmente più scura, assumendo una sfumatura rossastra che era la stessa del nuovo colore dei suoi occhi completamente vuoti. Tutta la superficie del suo corpo sembrava essersi fatta più dura, coriacea, e quando all’improvviso si piegò in avanti e cominciò quasi a gemere di dolore e rabbia Fler spalancò gli occhi e indietreggiò.
- Scappa! – gridò, rivolgendosi a Chakuza, - Scappa adesso, idiota!
L’austriaco riuscì ad allontanarsi appena in tempo, giusto un attimo prima che Bushido esplodesse in un grido devastante, mentre due ali gli perforavano la pelle sulle scapole e svettavano dietro la sua schiena, enormi, spalancate e bellissime. Tutto il suo corpo sembrava ardere.
- Tu non lo toccherai, Fler, tu non riuscirai nemmeno ad avvicinarti a lui! – gridò Bushido, sbattendo le ali ed alzandosi in volo mentre i militari, ormai accortisi di ciò che stava accadendo, li circondavano, armi spianate e pronte a far fuoco in attesa degli ordini.
- Non sono venuto qui per il tuo fidanzato del cazzo, Bushido! – rispose lui, affrettandosi a librarsi a propria volta in volo mentre sentiva le proprie gambe fondersi e scomparire per lasciar spazio alla coda.
Bushido non lo ascoltò – non poteva più: sollevò le braccia verso il cielo e Fler riuscì a malapena a tirar su uno scudo d’acqua abbastanza spesso, prima che due enormi sfere di fuoco si scagliassero contro di lui, partendo dalle sue mani.
- Bushido! – lo chiamò ancora, rendendosi conto di quanto più facile stesse diventando mantenere il controllo sulla propria rabbia, man mano che si abituava a trasformarsi, - Bushido, cazzo, torna in te!
Intorno a loro, i militari si agitavano: una delle due sfere di fuoco era stata inglobata dal suo scudo e si era dissolta, ma l’altra ne era stata solo deviata, ed era andata a schiantarsi contro il marciapiede a pochi passi da loro. I ranghi si erano quasi sciolti, e con la furia di Bushido che cresceva di minuto in minuto, come l’enorme sfera di fuoco crepitante che stava prendendo forma sopra la sua testa, nessuno sapeva più cosa provare a fare.
- Bushido, non sono venuto qui per Bill! – gli spiegò Patrick, creando a propria volta una sfera d’acqua, per avere qualcosa con cui contrastarlo nell’eventualità che Bushido avesse dovuto decidere di scagliare la propria, - Sono venuto qui per te! È stato il mio istinto a indicarmi dov’eri, o— dove saresti andato, insomma, sono arrivato prima solo perché ero più vicino! Devi credermi, io— io e te dobbiamo parlare, solo questo!
Bushido ruggì – molto probabilmente non aveva sentito una sola parola, del suo discorso – e sembrò sul punto di tirargli addosso la sfera quando, improvvisamente, si fermò, sollevando lo sguardo verso il cielo.
- …Anis. – disse la voce flebilissima di Bill, affacciato alla finestra svariati piani più in alto, - Anis!
Gli occhi di Bushido tornarono immediatamente a vedere, mentre la sua espressione tornava finalmente umana e la palla di fuoco svaniva in un enorme sbuffo di fumo.
- Bill! – gridò l’uomo, lanciandosi in volo alla volta della sua finestra.
- Anis! Anis! – continuò a strillare il ragazzo, spalancando e tendendo le braccia e sporgendosi dalla finestra il più possibile mentre qualcuno cercava blandamente di tenerlo ancorato all’interno dell’appartamento, più per impedirgli di cadere che per trattenerlo davvero.
Bushido passò davanti alla finestra così velocemente che, per un secondo, sembrò che Bill fosse stato sbalzato all’interno dell’appartamento per lo spostamento d’aria, ma quando l’uomo terminò il proprio volo e ridiscese lentamente, voltandosi verso Patrick e rimanendo a fluttuare a mezz’aria – le ali sbattevano lente dietro di lui, le ferite ancora fresche sanguinavano lungo la sua schiena, imbrattando la maglietta strappata in più punti – poté vedere che il ragazzino era stretto ben saldo fra le sue braccia, e lo guardava con aria allucinata.
- È tutto a posto, adesso. – sussurrò Bushido, mentre Patrick li osservava chiedendosi cosa diamine potesse aver spinto Bushido ad infuriarsi tanto al pensiero che lui volesse raggiungerlo, - Ci sono qua io, nessuno potrà farti del male.
- Non mi facevano uscire, Anis! – cominciò il ragazzo, apparentemente dimentico di stare fluttuando a mezz’aria fra le braccia di un uomo alato e rosso come il fuoco, - Ho provato a chiamarti, ma tu non rispondevi, e soprattutto hai le ali! Hai le ali e non me l’hai mai detto! – si fermò qualche secondo, guardandolo come se stesse comprendendo la gravità di ciò che aveva davanti agli occhi solo dopo averlo descritto a parole, - Ma cosa cazzo sei?
Bushido rise a bassa voce, strofinando il naso contro quello di Bill, che per tutta risposta arricciò il proprio come gliel’avessero solleticato con una piuma, e poi sporse le labbra per un bacio piccolo e asciutto, più una rassicurazione, un mero bisogno di contatto, che un gesto sensuale. Fler sorrise a propria volta: il calore che si divampava da Bushido aveva assunto sfumature di tepore completamente diverse da prima, e lui si stava sentendo sciogliere come un chicco di grandine in mano a un bambino.
- Fler! – lo chiamò quindi, voltandosi a guardarlo, - Anche se prima poteva non sembrare… ti ho sentito. Solo che non ti stavo ascoltando. – Patrick annuì, perché capiva esattamente cosa Bushido stesse cercando di esprimere. La sensazione di sentirsi ancora a contatto col mondo, in qualche modo, ma di non esserne più parte integrante. – Mi sembra di capire che stai cercando delle risposte. E io so chi può dartele. – abbassò lentamente lo sguardo, piantandolo sulla piccola pozza di sangue che si stava addensando sulla strada, proprio sotto di lui. – Chi può darle a noi tutti. – tornò a guardarlo con decisione. – Prendi Chaku e seguimi. Oppure resta qui e fatti ammazzare da quest’esercito di Big Jim incompetenti. – concluse con stizza, prendendo il volo in una direzione che Patrick non riusciva a ricondurre a nulla di conosciuto.
Si voltò lentamente, posando lo sguardo sui militari che, impauriti, cercavano di mantenere salda la linea e puntargli addosso i mitra. Individuò Chakuza su un marciapiede poco distante, troppo turbato perfino per nascondersi, e sospirando pesantemente distrasse i militari con una scarica d’acqua repentina e violenta, per quanto non mortale, approfittando della loro confusione per recuperarlo e, tenendolo stretto per la vita fra le sue proteste improvvisamente animatissime, sollevarsi in volo al seguito di Bushido.
*
La prima cosa che la signora Silvia fece, quando si vide spuntare davanti agli occhi l’intera comitiva, fu cadere in ginocchio di fronte a Bill ed abbracciarne le gambe, piangendo sommessamente.
- Non posso credere che questo stia succedendo davvero. – mormorò in un fiume di singhiozzi mentre Bill, imbarazzatissimo, si agitava come un’anguilla strillando che non c’era proprio alcun bisogno di prostrarsi di fronte a nessuno, - Ho pregato così tanto perché le cose potessero andare per il verso giusto, e forse…
- Mamma. – la interruppe Peter, sorridendo come a scusarsi ed aiutandola a staccarsi dalle gambe di Bill e rimettersi insieme, - Lascia perdere questi convenevoli. Sono successe delle cose.
- Lo so. – sorrise lei, abbracciandolo teneramente e poi invitando tutti ad entrare in casa, prima di chiudere la porta. – Le ho viste. La fenice s’è destata, lei e il dragone si sono riequilibrati. – sorrise ancora, sempre più serena. – Vi devo ancora qualche spiegazione, ragazzi. A voi, e… - accarezzò lievissima il volto di Bill, che cercò di non ritrarsi, per quanto ancora incredibilmente imbarazzato, - a questo bellissimo fiore. Ma saprete tutto, e speriamo che questo possa esservi utile per riportare l’equilibrio nel karma e nel mondo.
La signora Silvia condusse nuovamente tutti nel proprio studiolo, ora molto più ordinato di quanto non fosse quando Peter ed Anis ne erano usciti qualche ora prima, ed invitò Bill ad accomodarsi su una sedia di fronte alla scrivania, una sedia che sembrava fosse stata approntata espressamente per lui, in attesa del suo arrivo.
- Avrei preferito incontrarti assieme a tuo fratello, - commentò la signora Silvia, vagamente delusa, - ma vedo che non è stato possibile, perciò è importante che adesso io ti spieghi chi sei nel modo più chiaro possibile. Così che poi tu possa spiegarlo anche a lui, e insieme possiate compiere ciò per cui siete stati destinati.
Anis distolse lo sguardo, le ali ripiegate dietro la schiena e ormai imbrattate di sangue quasi quanto la maglietta. Si chiese distrattamente se potesse andare da qualche parte per cercare di curarsi, ma la signora Silvia sollevò lo sguardo su di lui e gli sorrise, scuotendo lentamente il capo.
- Non smetterà di sanguinare. – gli rivelò, mentre Bill si voltava a guardarlo con evidente preoccupazione e si mordicchiava nervosamente il labbro inferiore, - È lo scotto da pagare per avere quelle ali. C’è del divino, in te, intrappolato in un corpo umano. Un pegno va pagato, e il tuo è un pagamento di sangue.
Anis considerò la questione per qualche secondo, prima di limitarsi semplicemente ad annuire. Aveva bisogno di capire cosa fosse diventato – o fosse sempre stato – ma si rendeva conto di quanto prioritaria fosse la questione di Bill rispetto alla sua, perciò restò in piedi – unica posizione in cui poteva davvero sistemarsi senza soffrire le pene dell’inferno per le ali che sembravano piegarsi e schiacciarsi con una facilità tremendamente irritante – ed incrociò le braccia sul petto, restando in osservazione.
- Bill, - cominciò la donna, parlando con tono carezzevole, quasi materno, - Tu sei, per questo mondo, qualcosa di molto più importante di quanto tu non abbia mai immaginato. Tu e tuo fratello siete speciali, - raccontò sfogliando il libro che aveva precedentemente usato con Anis e Peter e mostrandogli le immagini fino a soffermarsi su quella rappresentante i due Divini stretti in un abbraccio eterno e luminoso, - siete due opposti identici e perfetti, come due metà di una stessa mela. Siete differenti, ma combaciate perfettamente. – lo guardò dritto negli occhi, - E c’è un motivo, per il quale siete nati così.
- Signora… - la interruppe Bill, torcendosi le mani in grembo e sospirando faticosamente, - Stanno succedendo un mucchio di cose strane. – disse, tornando a guardarla negli occhi, - A me, ma anche intorno a me. Ad Anis, alla città, al mondo… - sospirò ancora, quasi spaventato dalla portata di ciò che stava per dire. – Sta per accadere qualcosa di brutto, è così?
La signora sorrise ancora, allungandosi nuovamente ad accarezzargli il viso.
- Sì, Bill, sta per succedere qualcosa. – annuì, - E che sia una cosa bella o che sia una cosa brutta, tu ne sarai direttamente responsabile.
*
Bill ascoltò attentamente tutto il racconto, scrutando le figure dapprima con sincero sconcerto, poi con curiosità, quindi con consapevolezza sempre crescente di ciò che quella donna, quelle persone, tutti gli abitanti della terra, coscientemente o meno, si aspettavano da lui.
- Tomi non sa niente. – balbettò alla fine, sfiorando la copertina del libro con la punta delle dita, - Nemmeno io sapevo niente… perché non ce l’hanno mai raccontato?
- I Prescelti non vengono mai informati della loro missione prima di essere pronti a compierla. – scosse il capo la signora Silvia.
- Io non lo ero! – disse Bill ad alta voce, sollevandosi di scatto dalla sedia e lasciandola rotolare per terra dietro di sé senza degnarla di uno sguardo, - Io non lo sono.
- Lo sei, Bill. – sorrise la signora Silvia, senza scomporsi, - Niente avviene per caso, e se il ciclo del karma ti ha portato qui da me il motivo è che eri pronto per ascoltare questa storia. E farne parte.
- Io non faccio parte di niente! – strillò Bill, le braccia rigide lungo i fianchi, - Io sono un cantante, ho un fratello e un fidanzato e non intendo stare a sentire un’altra parola a riguardo! Dio! – sbottò, quasi in lacrime per il nervosismo, abbandonando la stanza. Anis fece per andargli dietro immediatamente, ma la signora Silvia lo frenò con un gesto, invitando sia lui che Fler ad accomodarsi sulle poltrone.
- Non abbandonerà l’appartamento, potete stare tranquilli. – disse con sicurezza, - Inoltre, ho ancora una questione da discutere con voi due, mi pare.
- Io penso che resterò in piedi. – sbottò Anis, appoggiandosi alla poltrona senza sedersi, - Queste stupide ali mi stanno dando il tormento.
- Queste stupide ali sono ciò che ti ha permesso di sfuggire vivo all’Ordine portando con te i tuoi cari. – gli ricordò la donna con un sorriso, - Il supplizio è il giusto prezzo da pagare per—
- Senta, signora Silvia, io la stimo, davvero, - la interruppe lui, gesticolando, - ma la vita mi ha insegnato solo che la storia del karma, a livello proprio concettuale, non è altro che una stronzata. Lei non ha idea di che cosa abbia passato io quando ero un ragazzino, e sinceramente questa roba delle ali mi sembra di averla già scontata pagando in anticipo in passato.
La signora Silvia si limitò a sorridere serenamente, stringendosi appena nelle spalle.
- Probabilmente, stavi pagando per qualcos’altro. – rispose enigmatica, prima di rivolgersi a Patrick. – Voi due non dovreste esistere. – rivelò quindi in un fiato, - Siete il risultato di una serie di errori per cui i Divini, la cui energia stava già cominciando ad affievolirsi, non hanno impedito ad anomalie che di solito bloccano sul nascere di prosperare ed avere una vita. Anis, ragazzo, tu sei quest’anomalia. – annuì, - Non era previsto che tu nascessi perché, in caso di tua nascita, non avresti potuto che allontanare Bill da suo fratello. L’essere divino delle mie visioni eri tu.
- Ed io? – chiese Patrick, impaziente, spostandosi sulla poltrona fino a sedersi in punta, - Io cosa sono, perché sono così?
La signora sorrise rassicurante anche a lui.
- Tu sei il modo in cui il karma ha cercato di riequilibrarsi. C’era un’anomalia in circolo, ed andava fermata. Ed ecco perché sei nato tu, il dragone marino, l’opposto karmico della fenice di fuoco e per natura più forte di lui. Come l’acqua spegne sempre il fuoco, tu eri e sei destinato a spegnere per sempre la fenice.
Patrick serrò le labbra, abbassando lo sguardo.
- Quindi lui deve uccidermi. – disse Anis, freddo come il ghiaccio e perfettamente padrone delle proprie emozioni, - Se tutto ciò che deve accadere, alla fine, accade… lui mi ucciderà. – constatò. La signora Silvia non rispose.
Al suo posto, lo fece Patrick.
- Non so te, Atze, - disse con un mezzo sorrisetto, - ma io non ci sto a farmi comandare a bacchetta da due divinità del cazzo che non sono buone nemmeno a vivere per sempre. Dovrebbero decidere della mia vita e di ciò che sarà di me? Di ciò che farò a chi ho intorno? Né ora, né mai.
La signora Silvia si lasciò sfuggire una risatina sorpresa, mentre Anis lo fissava come fosse improvvisamente impazzito.
- Fler, non so se hai afferrato, ma ne va della fine del mondo. – gli ricordò severamente.
- No, no! – lo fermò la signora Silvia, battendo entusiasticamente le mani davanti al viso, - Mi piace quest’atteggiamento! Ribelle! Costruttivo! Bisogna incoraggiare i giovani. – concluse annuendo e quasi saltellando sul posto.
- Incoraggiare i giovani? – sbottò Peter, appoggiato alla parete dietro di loro, - Non so te, mamma, ma io non voglio che il mondo venga spazzato via perché il sirenetto qui pensava fosse il caso di ribellarsi all’autorità costituita. Li ho passati da un pezzo i quindici anni.
- Peter! – lo rimbrottò sua madre con aria severa, - Qui stiamo parlando di esseri divini. Sanno esattamente ciò che fanno.
- No, non esattamente. – scosse il capo Patrick, guadagnando in cambio occhiate vagamente perplesse da parte sia di Anis che di Peter, - Ma in compenso so esattamente ciò che non farò, ed io non lascerò che quel ragazzino sia costretto a fare cose che non vuole fare con suo fratello, che cazzo. E non mi sporcherò le mani con il sangue del mio. – concluse, lanciando ad Anis un’occhiata colma di significato.
Anis sbuffò una risata parzialmente divertita e parzialmente preoccupata, ed annuì.
- D’accordo. – disse quindi.
- …d’accordo cosa? – interloquì Peter, staccandosi dal muro e guardandosi intorno con aria poco convinta, - Cosa mi sono perso?
- Signora Silvia, - proseguì Anis, ignorandolo platealmente, - ci serve un posto in cui andare. Un posto sicuro.
- Cosa avete intenzione di fare? – chiese lei.
- Non lo so ancora. – rispose Anis, pensoso, - In qualche modo, risolveremo questa situazione. Non lascerò che il mondo venga distrutto, ma stabiliremo noi come salvarlo. – concluse, sorridendo sereno.
La signora Silvia annuì comprensiva, incrociando le braccia sul petto e picchiettandosi il mento con un dito.
- È importante che lasciate Berlino immediatamente e troviate rifugio da qualcuno che conosca l’Ordine ma non ne faccia più parte. – considerò, - Qualcuno di cui possiate fidarvi e che tenga alla salvezza dei gemelli abbastanza da mettere a repentaglio perfino quella del mondo. – sorrise con maggior sicurezza, mentre disseppelliva un portatile da sotto una valanga di libroni polverosi, - Ed io ho esattamente la persona che fa al caso vostro.
*
Lo trovò arrotolato sulla poltrona in soggiorno, tutto stretto come un nodo di rabbia e paura e incertezza, proprio di fianco al divanetto sul quale il signor Pangerl stava semidisteso, il telecomando in una mano e una bottiglia di birra nell’altra. Anche Bill aveva entrambe le mani occupate – un biscotto in una ed un bicchiere di latte mezzo vuoto nell’altra, la confezione con i biscotti superstiti abbandonata fra le gambe incrociate – ed Anis sorrise appena nel vederlo così piccolo e furibondo, come l’adolescente che in effetti era. Come si poteva chiedere ad una creatura simile di reggere sulle proprie spalle il peso del destino del mondo? Non c’era abbastanza spazio su cui quel peso potesse posarsi. Le sue spalle erano troppo esili.
- Bill. – lo chiamò piano, lanciando un’occhiata distratta al cartone animato che sia lui che il signor Pangerl fingevano di guardare alla tv, - Devo parlarti.
Lui non si voltò, ed anzi dichiarò esplicitamente che non aveva alcuna voglia di ascoltarlo, incurvando le spalle e chiudendosi ancora più a riccio. Anis immaginò che, se avesse avuto degli aculei, li avrebbe puntati tutti verso l’esterno, sperando solo che lui si avvicinasse abbastanza da poterglieli conficcare nella carne. Probabilmente era per questo che, qualche anno prima, portava i capelli irti sopra la testa e tutto intorno: voleva sembrare pericoloso, velenoso, come certi animali dall’aspetto particolare creato apposta per scoraggiare i predatori. Dopo essersi messi insieme, e dopo essersi conosciuti meglio, quel bisogno era un po’ sparito, e così i suoi capelli, ma probabilmente in quel momento Bill stava pentendosi intensamente di non avere più la pettinatura di un tempo.
- Bill. – ripeté, la voce più soffice, - Ti prego.
- Ragazzino, - lo chiamò anche il signor Pangerl, cambiando canale e fermandosi a guardare una partita di calcio di chissà che divisione dilettantistica, peraltro con interesse di gran lunga maggiore rispetto a quello che aveva riservato al cartone animato, - se tu non gli dai retta, Icaro qui non si leva mica. Avanti.
Anis fece per rispondere che lui con Icaro non c’entrava niente, ma poi si rese conto che, come lui, s’era avvicinato troppo ad un sole che non avrebbe mai dovuto toccare. E, sempre come lui, stava rischiando di bruciarsi le ali. Perciò tacque.
Bill sospirò pesantemente ed allungò le gambe, stiracchiandole un po’ prima di piegarsi a poggiare latte e biscotti sul tavolino basso di fronte a lui ed alzarsi in piedi, voltandosi e guardandolo dritto negli occhi. Aveva pianto in silenzio fino a quel momento. I suoi occhi erano rossi e acquosi, le sue guance rigate di lacrime che non avevano avuto il tempo di asciugarsi.
- Mi dispiace, piccolo. – gli disse, consapevole di quanto quelle scuse fossero inutili. Bill annuì, più per prendere atto del suo – inutile – tentativo di farlo stare meglio, che perché sentisse davvero il bisogno di accettare delle scuse da lui.
- Non parliamo qui. – disse poi, e nella sua voce non c’era nemmeno la più piccola traccia delle lacrime così evidenti sul suo volto, - Dove possiamo stare soli?
- La camera da letto è libera. – disse distrattamente il signor Pangerl, e sia Anis che Bill arrossirono repentinamente per l’involontaria battuta celata dietro quelle poche parole. Nonostante questo, Bill dovette pensare che quella fosse la soluzione migliore, perché dopo quell’attimo di imbarazzo annuì deciso, chiedendo al signor Pangerl dove fosse e poi seguendolo quando, ottenute le indicazioni richieste, Anis lo condusse in fondo al corridoio centrale, oltre una porta bianca, sottile e un po’ cigolante che si chiuse subito alle spalle quando furono entrambi all’interno della stanza.
Anis rimase per qualche secondo voltato verso la porta, due dita ancora sulla maniglia e lo sguardo perso nel vuoto, mentre cercava il coraggio di voltarsi a guardarlo.
- Bill, dobbiamo—
- Sanguini ancora. – disse Bill, cogliendolo di sorpresa ed accarezzando lievemente con le punte delle dita la pelle sensibile e accaldata attorno alle ferite sulle sue scapole, - Vorrei provare a curarle, non so… disinfettarle, bendarle. Ma a che scopo, se so già che non si rimargineranno mai?
- Se voglio le ali, devo tenere le ferite. – rispose Anis, pratico, restando immobile.
- E tu le vuoi? – chiese pianissimo Bill, le dita ancora impegnate a ridisegnare i contorni di quegli squarci.
- Mi sono servite per salvare te. – annuì lui.
- Ma resteranno anche quando non avrai più bisogno di salvarmi. – insisté il ragazzo, corrugando le sopracciglia, - E tu continuerai a sanguinare.
Anis sbuffò una risata intenerita e, in parte, anche vagamente divertita.
- Finirà il mondo, quando non avrò più bisogno di salvarti. – rispose distrattamente, e Bill sorrise appena.
- È molto probabile che questo succeda comunque, sai? – commentò, quasi ironico. – Perché non posso avere una scelta? – chiese quindi, la voce venata da una nota di malinconia, - Vivo la mia vita e all’improvviso vengo a sapere che ogni momento, ogni dettaglio è stato curato in funzione di qualcosa che non voglio e che sarò comunque costretto a fare se non voglio avere sulla coscienza la vita di sette miliardi di persone. Sempre che io abbia ancora una coscienza, quando saremo tutti morti, s’intende. – sospirò pesantemente, poggiando la fronte contro la sua spalla. – Perché non posso scegliere? Voglio poter scegliere.
Anis inspirò profondamente, stringendo i pugni lungo i fianchi. Poi si voltò, fronteggiandolo immobile per qualche secondo prima di tirarselo contro. Le sue ali si dischiusero senza che lui potesse controllarle, tornando a richiudersi pochi secondi dopo attorno al corpo di Bill, ancora schiacciato contro il proprio, come volessero fargli da scudo.
- Io non ero previsto. – gli rispose, parlando direttamente sulla pelle calda del suo collo, umida di lacrime, - Non ero previsto e non intendo togliermi di mezzo. – si allontanò appena, guardandolo negli occhi e sorridendo. – Questo dimostra che hai una scelta. Me.
Bill distolse lo sguardo, mordicchiandosi il labbro inferiore.
- Io ho scelto te tre anni fa, e questo ci sta portando alla fine del mondo. – mormorò incerto.
- Fallo ancora. – lo pregò Anis, accarezzandogli una guancia, - Sceglimi ancora. Fidati di me.
- Sarò inutile, Anis. – sospirò lui, - Guardiamo in faccia la realtà e non illudiamoci, ti prego. Io non sono un bambino e non sono stupido. Non posso nemmeno curarti le ferite.
- Le mie ferite non hanno bisogno di cure. – sorrise Anis, - Io sono una fenice. Muoio e risorgo. Nessuno può uccidermi davvero.
- Ma possono farti dannatamente male nel mentre. – protestò lui, chinando appena il capo. – Comunque, sai già che ti sceglierò ancora. – disse però, sorridendo appena, - E ancora, e ancora.
Anis lo strinse con forza, baciandolo piano sulla fronte, su una tempia, sulla guancia, sulle labbra.
- Dobbiamo lasciare la città. – disse quindi, - La signora Silvia sa dove mandarci. Torna da lei, non è arrabbiata. Saprà cosa consigliarci.
Bill sospirò, ma annuì, e senza protestare si lasciò condurre nuovamente nello studiolo della signora Silvia, ben disposto a seguire qualsiasi consiglio, purché questo consiglio non implicasse per lui l’obbligo di scegliere qualcosa fra Anis e la salvezza del mondo intero, perché in quel caso non era sicuro di riuscire ad operare la scelta più saggia.
*
- …mio padre. – ripeté Bill, incredulo, fissando la signora Silvia come non potesse capacitarsi della sua esistenza, - Mio padre se n’è andato via di casa un centinaio di anni fa e da allora io l’ho visto solo raramente, signora Pangerl, non so se—
- Tuo padre non è andato via, Bill, tuo padre è stato allontanato. – disse lei, - Sono due cose ben distinte.
- Allontanato? – chiese Peter, curioso, - Come te?
- Esatto. – annuì la donna, - Chiunque faccia parte dell’Ordine ma non sia d’accordo sul modo in cui il suo operato viene condotto, viene allontanato. Non ucciso, quello in genere accade solo quando i saggi ritengono tu possa essere una minaccia, ma viene messo nelle condizioni di stare il più lontano possibile da ogni centro abitato, e gli vengono in genere tagliate tutte le possibilità di interferire con l’operato dell’Ordine stesso.
- Mio padre era in disaccordo con l’Ordine? – chiese Bill, confuso. Ricordava molto poco del periodo in cui i suoi genitori avevano vissuto insieme. La maggior parte dei ricordi che conservava di lui raccontavano di un uomo sfuggente che poteva passare a trovare lui e suo fratello solo per qualche ora ogni due settimane, e che ogni tanto chiamava a casa, ma col quale era impossibile discutere via telefono a causa della linea quasi costantemente disturbata, come stesse parlando da un punto privo di campo o attraverso un apparecchio rattoppato alla meno peggio che aveva dovuto assemblare da solo, perso chissà dove nel nulla cosmico.
- Diciamo che più che altro non ne è mai stato veramente parte. – rifletté la signora Silvia, picchiettandosi il mento con un dito, - Non potrei spiegartelo con certezza o dovizia di particolari, perché io fui buttata fuori qualche anno dopo che lui ne entrò a far parte sposando Simone, ma so che si piegò ad entrarvi solo per il grande amore che provava per tua madre. Immaginò che il tutto potesse essere un po’ inquietante, ma non dovesse avere chissà che conseguenze sulla sua vita. Poi – sospirò e sorrise appena, - nasceste tu e tuo fratello. E quando Simone gli spiegò cosa Larsen pensava e quale sarebbe stato il vostro destino, semplicemente non riuscì ad accettarlo.
- Non ha mai… - balbettò Bill, abbassando lo sguardo, - non ha mai provato a contattarci per parlarcene. Dannazione, quando ci sentivamo preferiva parlare dei trucchi che avevo comprato durante la settimana… come avrei mai potuto sospettare che—
- Tuo padre sapeva che se avesse cercato di intromettersi fra voi e l’Ordine non lo avrebbero mai lasciato vivere. – considerò la signora Silvia, - Non mi meraviglia che si sia frenato. È un uomo saggio. Venne subito a cercarmi, quando fu allontanato dall’Ordine, ed è sempre rimasto in contatto con me, fino ad oggi. Ha sempre saputo che il suo essere ancora in vita sarebbe tornato utile, un giorno. – la donna sorrise con maggior convinzione, recuperando un foglio dalla scrivania e porgendoglielo. – È il suo indirizzo, - disse, - o almeno, è il posto in cui vive adesso. È costretto a spostarsi spesso, per evitare di essere trovato. Anche l’Ordine preferisce così, un uomo in costante movimento non è in grado di creare nuovi legami. Fortunatamente per noi, però, - ridacchiò piano, - è stato perfettamente in grado di conservare quelli vecchi.
Anis allungò il collo, sbirciando l’indirizzo dal foglietto liscio dai margini irregolari che Bill teneva incerto fra le mani.
- Lo conosco. – disse annuendo, - È appena fuori città, in campagna. Possiamo raggiungerlo in un paio d’ore, in macchina.
- Macchina? – ridacchiò la signora Silvia, coprendosi la bocca con una mano, - Cosa mi tocca sentire… vi troveranno prima che riusciate a procurarvene una.
- Be’, stavo cercando di essere costruttivo, signora Pangerl. Spazio ai giovani, no? – borbottò Anis, offeso, mentre Bill si lasciava andare ad una risatina divertita.
- Sì, ma non quando dicono palesi idiozie, caro. – ribatté lei, serafica, - Dovete seguire vie poco battute, attraversare luoghi in cui nessuno penserebbe mai di andarvi a cercare, non potete mica—
- Le fogne. – propose Peter, pensoso, - Ovviamente si allungherebbero i tempi, - disse, stringendosi nelle spalle quasi a scusarsi, - Ma penso che nessuno verrebbe a cercarvi lì.
La signora Silvia s’illuminò tutta come l’avessero appena accesa dall’interno.
- …un genio! – commentò estatica, raggiungendo Peter dall’altro lato della stanza, nell’angolino in cui stava appoggiato, e gettandogli le braccia al collo, - Mio figlio è un genio!
Peter arrossì fino alla punta delle orecchie.
- Mamma… - si lagnò, cercando di farsi mollare senza peraltro riuscirci.
- Ha un senso. – considerò Patrick, grattandosi il mento, - E se anche dovessero pensare di cercarci là sotto, le fognature sono un labirinto. Potrebbero metterci ore anche solo per trovare la giusta direzione da seguire, e con un po’ di fortuna noi potremmo essere già lontani e in discreto vantaggio.
Bill annuì, ripiegando il foglietto con l’indirizzo ed infilandolo in tasca.
- D’accordo. – disse con sicurezza, - Mi sembra l’idea migliore che abbiamo. Seguiamola. – si voltò verso Peter, sorridendo dolcemente. – Grazie, Chaku.
- Oh, ma non ringraziarlo adesso. – rise la signora Silvia, agitando una mano come a voler scacciare via quella sciocchezza, - Ringrazialo quando tutto sarà finito. Mio figlio verrà con voi.
- Cosa? – sbottò Anis, incredulo, - Ora, non è che siccome ci ha aiutato deve approfittarne per piazzare suo figlio in giro, manco fosse un posto da impiegato bancario con contratto a tempo indeterminato, mi scusi.
La signora Silvia sollevò gli occhi al soffitto con aria supplice, scuotendo mestamente il capo.
- In mano a chi avete affidato il destino del mondo, Divini? – chiese a mezza voce, e poi tornò a guardare Anis. – Mio figlio vi sarà ancora utile. – disse, sorridendo sicura, - Io l’ho visto. Portatelo con voi.
- Lo portiamo sì. – sbottò Patrick, afferrando Peter per la maglietta e tirandoselo praticamente contro, - Io non intendo restare da solo a reggere il moccolo mentre questi due mi fanno la tragedia dei novelli Romeo e Giulietta nelle fognature di Berlino. Pretendo di avere qualcuno con cui parlare. – stabilì. La signora Silvia rise di gusto.
- Sì, anche quello. – annuì, - Ora affrettatevi. – consigliò, tornando immediatamente seria. – Il tempo stringe, e voi dovrete trovarvi nel luogo giusto al momento giusto, quando tutto si compirà. – sorrise rassicurante, abbracciandoli tutti uno per uno. – Siete una combriccola un po’ confusa, ma siete forti. E pieni di sentimenti che si agitano tutto intorno e dentro di voi. Non potrei giurarci… - disse infine, sorridendo ancora, - ma potreste perfino avere una speranza. Se crederete a sufficienza.
Si guardarono tutti negli occhi a vicenda per qualche secondo, prima di annuire e lasciare l’appartamento. Credere o meno sembrava l’unica scelta che fossero davvero in grado di fare, ed erano fermamente intenzionati a farla.
*

- Tom! – urlò David, spalancando la porta per trovare il ragazzo affacciato alla finestra col naso puntato per aria, mentre da fuori giungevano i rumori delle numerose automobili della scorta di Larsen in svelto avvicinamento verso il condominio, - È tutto a posto?
- Tutto a posto…? – mormorò lui, voltandosi a guardarlo, gli occhi spalancati e i lineamenti tesi dallo spavento e dal nervosismo, - Un— non sono neanche sicuro di poter riuscire a raccontarti cosa ho appena visto e tu mi chiedi se è tutto a posto?! – strillò, sfilando la bandana che portava annodata attorno alla testa e gettandola per terra con rabbia, - Cosa cazzo è successo? Cosa?!
- Tom, devi calmarti. – disse lui, avvicinandoglisi e poggiandogli le mani sulle spalle nel tentativo di tenerlo quantomeno fermo. Il ragazzo si allontanò, liberandosi dalle sue mani con uno strattone violento.
- Non voglio e non posso calmarmi! – ringhiò, - E ti avevo detto di non toccarmi più.
David indietreggiò di un paio di passi, ritraendo istantaneamente le mani.
- Scusami. – disse, abbassando lo sguardo. Tom si sentì stringere il petto in una morsa che lo privò del respiro, come avessero preso una cinghia e gliel’avessero legata attorno ai polmoni, e poi si fossero messi a tirare, tirare, tirare, nel tentativo di strapparglieli via dal petto.
- Non— - cominciò a dire, ma non riuscì a terminare la frase perché la porta della camera venne spalancata ancora una volta, e Larsen fece il suo ingresso, i capelli scarmigliati sulla testa e l’espressione stravolta dalla rabbia.
- David! – gridò furioso, - Cosa diamine è successo?!
- Herr Larsen, - cominciò lui, frapponendosi automaticamente fra l’uomo e Tom, - Bill è stato rapito da—
- So cosa è successo, stupido incompetente, gli indovini hanno visto tutto! – lo interruppe Larsen, gesticolando animatamente, - Come hai potuto permetterlo? Ti avevamo dato la nostra fiducia, mezzi a sufficienza per—
- Mezzi a sufficienza?! – sbottò David, esasperato, - I vostri uomini se la sono fatta sotto come ragazzine appena il dragone e la fenice sono apparsi!
- Il… il dragone e la fenice…? – mormorò Tom, gli occhi spalancati, appoggiandosi alla parete come ne avesse bisogno per non cadere a terra privo di forza.
David gli lanciò un’occhiata preoccupata: stava venendo a sapere troppe cose da troppi dettagli buttati lì alla rinfusa, in una situazione che non gli consentiva di assimilarli serenamente. Era un pericolo, Larsen stava combinando un disastro giocando con la vita e con la testa di un ragazzino che non era pronto e lui non era stato in grado di proteggerlo. Non era stato in grado di proteggere nessuno dei due.
- Questo è il colmo. – disse Larsen, ricomponendosi velocemente e fissandolo con aria severa, - Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te, dopo averti praticamente cresciuto, il tuo tradimento è tale da lasciarmi allibito. Di’ che non è quello che hai sempre voluto, - lo sfidò con un sorriso crudele, - hai sempre pensato che stessimo sbagliando, che non potessimo forzare il destino… ebbene ora il destino non è più nelle nostre mani, David, ora il nostro destino dipende… dalla pazzia di un ragazzino e del suo sciocco innamorato! Sarai contento, adesso.
- …questo non era quello che volevo. – disse David a bassa voce, - Io volevo soltanto che li rispettaste di più, che rispettaste i loro desideri.
- Bene! – sbottò Larsen, battendo una mano contro la scrivania accanto a lui, - Adesso i loro desideri saranno rispettati! E questo porterà alla distruzione del mondo!
- Distruzione del… David, di cosa diamine state parlando? – si riscosse Tom, allontanandosi dalla parete per avvicinarsi a loro, - Che cosa sta succedendo?
David si voltò a guardarlo mordendosi l’interno di una guancia, incerto.
- Tom, ci sono cose che tu non sai. – cominciò, cercando celermente le parole per esprimere chiaramente così tanto e in così poco tempo.
- E non è più compito tuo istruirlo. – lo fermò Larsen, cupo. – Ti avevo avvertito, David. Sapevi che te li avremmo tolti, se l’avessimo ritenuto necessario.
- No. – balbettò lui, voltandosi repentinamente a guardarlo, gli occhi spalancati e le labbra tremanti, - No, per favore.
- Non c’è niente che potrà farmi cambiare idea, David. – insisté l’uomo, tetro, - Da questo momento, sei sollevato dal tuo incarico di Guardiano e allontanato dall’Ordine. Oltretutto, vista la tua ostinazione nel contrastare le idee e l’operato dell’Ordine stesso, riconoscendo in te un pericolo per quest’organizzazione e per la salvezza del mondo intero, ti dichiaro in arresto.
- In arresto?! – quasi gridò Tom, incredulo, voltandosi a guardare Larsen, - Non ha fatto niente! Cosa vuol dire tutto questo?!
L’uomo gli sorrise, piegando appena il capo.
- David ha ragione, Tom. Ci sono cose che tu non sai. Provvederemo noi a spiegartele. Comandante! – disse quindi, ed un militare, seguito da molti altri, fece il suo ingresso nella stanza, afferrando David per le braccia e trascinandolo fuori, giù per le scale.
- No, io non… - biascicò Tom, indietreggiando appena, - Io non voglio sapere niente, io non… - i suoi occhi erano enormi, spalancati e pieni di lacrime che, per qualche motivo, si ostinava a rifiutarsi di lasciar scorrere lungo le guance.
Larsen sospirò, scuotendo il capo con amarezza.
- Si è complicato tutto così tanto. – commentò tristemente, - Comandante, prenda anche lui. Ma sia delicato.
L’uomo annuì, e lui ed un altro militare si avvicinarono a Tom, che provò a divincolarsi senza grande convinzione per qualche secondo, prima di abbattersi sul pavimento – le ginocchia molli, gli occhi vacui – e lasciarsi trascinare via come un peso morto. Larsen rimase immobile nel centro della stanza, il labbro inferiore fra i denti e gli occhi persi e colmi di preoccupazione, finché un paio di militari, qualche secondo dopo, non tornarono in camera, urlando agitati.
- Herr Larsen, il detenuto è riuscito a fuggire. – lo informarono.
- Cosa…? – sbiancò lui, sollevando lo sguardo nei loro.
- Ha spinto gli uomini che lo trattenevano giù per le scale, uno di loro è morto in seguito alla caduta. – rispose uno dei due, contrito, - Abbiamo perso le sue tracce. Ci dispiace.
Larsen chiuse gli occhi, trattenendo solo a stento un mugolio infastidito, stanco e frustrato.
- E continua a complicarsi. – considerò fra sé a bassa voce, prima di tornare a guardarli. – Trovatelo. Utilizzate tutte le squadre che vi serviranno, non è un problema. Abbiamo già fin troppi elementi che si intromettono in cose che non dovrebbero riguardarli, non abbiamo bisogno di qualcuno che conosca perfettamente-- - si interruppe, guardando per qualche secondo fisso davanti a sé come avesse appena capito improvvisamente qualcosa di fondamentale. – Lasciate perdere. – disse quindi, sorridendo soddisfatto, - Non sarà necessario trovarlo. Sarà lui stesso a trovare noi. Rientriamo alla Santa Sede.
*
- Fermiamoci. – ordinò Anis, perentorio, indicando un ambiente riparato e relativamente lontano dal canale pieno d’acqua sporca che stavano seguendo, - Riposiamoci un po’.
Bill aggrottò le sopracciglia, ostinandosi a proseguire come non l’avesse sentito.
- Bill? – lo chiamò Peter, incerto, dopo essersi già seduto per terra, - Ehi, dove stai andando?
- Io non sono stanco. – disse lui, voltandosi repentinamente a guardarli tutti, - Piantatela di trattarmi come una ragazzina.
- Oh, ma non ti stiamo trattando come una ragazzina. – negò Patrick, scacciando l’illazione con un gesto della mano, - Stiamo solo—
- Avete sollevato il tombino per me e mi avete invitato ad entrare per primo come fosse stato lo sportello di una dannata carrozza! – sbottò lui, esasperato, - Anis si è offerto di portarmi in braccio dopo dieci minuti di marcia, e Chaku ha perfino steso il suo giubbotto su una pozzanghera! Dico, ma le vedete le mie gambe? Quella pozzanghera non avevo nemmeno bisogno di saltarla!
- Bill. – mormorò Anis, passandosi una mano sulla fronte a scacciare via il velo di sudore provocato dal caldo umido che, assieme all’insopportabile puzzo, rendeva l’aria quasi del tutto irrespirabile, - Stavo solo cercando di—
- Di fare cosa? – sbottò Bill, una mano sul fianco e le gambe semidivaricate, - Di proteggermi? La notizia del giorno è che non puoi. – si fermò a prendere fiato, abbassando lo sguardo e passandosi una mano sugli occhi. – Ragazzi, - riprese quindi, più pacatamente, - io non sono una principessa e voi non siete i miei cavalieri serventi. Se questa è una battaglia, per strana che sia, dobbiamo combatterla l’uno al fianco dell’altro.
Anis sorrise divertito, sbuffando appena ed avvicinandoglisi per baciarlo lievemente sulla fronte.
- D’accordo, allora. – annuì serio, - In marcia.
- Sì, però io ero stanco. – si lagnò Peter, borbottando a bassa voce ma alzandosi comunque in piedi.
- E piantala, Dio mio. – disse Patrick, sollevando gli occhi al soffitto scuro e gocciolante, - Sei la cosa più nana dell’universo eppure sprechi energie con una velocità inaudita. Sarà perché parli troppo?
- Be’, sei tu che mi hai portato qui per parlare, mi pare, no? – sibilò lui, lanciandogli un’occhiataccia offesa, - La prossima volta mi lasci dove sto, immerso nella comodità di casa mia.
- Mentre il mondo esplode. – concluse Patrick per lui, e poi si fermò all’improvviso, immobile, quasi annusando l’aria.
- Che ti prende? – chiese Peter, guardandolo storto, - Sei diventato un cane da tartufo? Un’evoluzione infinita.
- Ssht. – sbottò lui, tappandogli la bocca con una mano, - Sento arrivare qualcuno. Bushido! – lo chiamò agitato, - Passi.
- Li sento. – annuì l’uomo, voltandosi e spingendo con gesto casuale Bill dietro le ali aperte per metà. – Avvicinatevi.
- Non vi allarmate. – disse una voce da un tunnel vicino. I passi si fermarono istantaneamente. – Non voglio farvi del male.
- David. – mormorò Bill, impallidendo, - David! – ripeté a voce più alta, cercando di divincolarsi dalla stretta di Anis.
- Fermo, Bill! – lo rimproverò lui, tenendolo stretto, - Non sappiamo—
- Scusatemi. – mormorò David, apparendo finalmente all’imboccatura di un tunnel poco distante. Si appoggiava alla parete con una mano, c’era un grosso livido che si stava allargando attorno al suo occhio destro e in generale sembrava davvero poco fermo sulle gambe. – Vi giuro che non ho cattive intenzioni. Sono fuggito e ho bisogno di parlarvi.
- David! – continuò ad agitarsi Bill, quasi saltando sul posto, - Dov’è Tomi? Come sta?
- Come ci hai trovato? – chiese invece Anis, guardandolo duramente negli occhi.
David sorrise appena, stringendosi nelle spalle.
- Ho seguito la voce di Bill. – rivelò divertito. Anis non poté impedirsi di ridere, così come Patrick e Peter, mentre Bill arrossiva fino alla punta delle orecchie.
- Ok. – annuì Anis, richiudendo le ali e lasciando a Bill la libertà di muoversi prima e correre incontro a David subito dopo, - Cos’è successo?
David inspirò profondamente, appoggiandosi meglio alla parete e rabbrividendo al pensiero di quanto a lungo avrebbe dovuto rimanere là in piedi a spiegare quali coincidenze astrali e cosmiche l’avessero portato a trovarsi lì in quel momento, partendo praticamente dall’inizio della storia del mondo.
- Ecco, - disse quindi, - so che potrà sembrarvi assurdo, ma dovete credermi se volete uscire vivi da questa storia. Ogni duecento anni—
- Nascono due Prescelti che vengono affidati a un Guardiano e bla bla bla. – roteò gli occhi Peter, gesticolando mollemente, - Siamo già passati al livello successivo, Jost, dicci qualcosa che già non sappiamo.
Patrick si voltò a guardarlo inarcando un sopracciglio.
- Guardalo come si fa bello. – sbuffò infine, tirandogli uno schiaffetto sulla nuca, - Lascia parlare gli esseri divini, nano. – lo prese in giro con un ghigno divertito.
- David. – mormorò Bill, cercando il suo sguardo. Lui rispose immediatamente col proprio e si guardarono negli occhi per qualche secondo, prima di abbracciarsi stretti, dapprima timidamente, poi con convinzione sempre maggiore, finché il corpo esile di Bill non sembrò quasi scomparire contro il suo.
- Dio, Bill. – disse lui fra le lacrime, - Mi dispiace così tanto. Ho provato a— non lo so. Non so nemmeno io cosa ho provato a fare. Ho provato a proteggervi entrambi e non sono riuscito a salvare nemmeno uno di voi due.
- Io sono al sicuro, Dada. – disse Bill, sforzandosi di sorridergli, - Ma ho bisogno di sapere dov’è Tomi, io non sono nemmeno riuscito a salutarlo e non so cosa— devi dirmi dov’è Tomi, Dada, io devo andare da lui.
David sembrò quasi stupito dalla sua affermazione, e gli accarezzò una guancia, notando con la coda dell’occhio lo sguardo di Anis farsi improvvisamente lontano e triste.
- Sai cosa succederà, se tu e tuo fratello doveste unirvi. – gli ricordò a bassa voce.
Bill si morse un labbro, incerto.
- Io ho bisogno di vederlo, Dada. – insisté, - Almeno un’ultima volta.
David si inumidì le labbra, pensoso, prima di allontanarsi deciso.
- D’accordo. – disse quindi, - Bushido, ho bisogno di parlarti. In privato.
Anis aggrottò le sopracciglia, dubbioso.
- Come faccio a sapere che non è una trappola? – chiese.
- Non puoi saperlo. – rispose David con una scrollatina di spalle, - Mi segui e basta. – concluse, allontanandosi lungo lo stesso tunnel dal quale era venuto.
Anis inspirò profondamente, ma affidò Bill a Peter e Patrick, prima di seguirlo senza fare storie.
- Senti, non facciamola troppo lunga. – sbottò, incrociando le braccia sul petto, - Abbiamo ancora molta strada da fare, e—
- Non voglio interferire coi vostri piani, - disse lui, pratico, - ma prima di ogni altra cosa dobbiamo andare a recuperare Tom. – Anis distolse lo sguardo, le labbra piegate in una smorfia addolorata. - …lo senti anche tu, vero? – chiese David con un sorriso mesto, - Ha bisogno di lui. Sono spinti l’uno verso l’altro. È il karma, sono nati a questo scopo, è scritto nei loro corpi, nella parte più profonda di loro. – sbuffò una mezza risata, - È una cosa che nessuno di noi può cambiare. Capisco molto bene quello che provi.
Anis sollevò gli occhi nei suoi, schiudendo le labbra.
- Tu… - cominciò. Il sorriso di David si allargò appena, e lui si fermò immediatamente.
- Quello che pensiamo io e te, comunque, non cambia la sostanza delle cose. – sospirò stancamente, - I gemelli devono ricongiungersi, o sarà una tragedia.
Anis abbassò lo sguardo, annuendo quasi impercettibilmente.
- Lo so. – disse quindi, - D’accordo. – annuì ancora, sollevando nuovamente lo sguardo, - Quello che deve essere, sarà. Ma alle nostre condizioni.
David inarcò un sopracciglio, incerto.
- Cosa intendi? – chiese.
- Lo vedrai. – rispose, prima di tornare dal gruppo fuori dal tunnel, - Ragazzi. – li richiamò, - Bill. – disse, la voce più dolce, - Devo andare. Accompagno David a recuperare Tom. Voi precedeteci a casa del signor Kaulitz, non fermatevi per nessun motivo e se qualcuno vi segue scappate senza voltarvi mai indietro. – si voltò a guardare Patrick, fissandolo deciso negli occhi, - Ve lo affido. – disse.
- Anis. – sbuffò Bill, gonfiando le guance, - Non ho bisogno di—
- Bill. – lo interruppe lui, tirandoselo contro e baciandolo profondamente per zittirlo. – Obbedisci. – concluse, allontanandosi da lui con uno schiocco ed un sorriso debole.
Dopodiché, si voltò verso David, che nel mentre era riuscito, non senza fatica, a raggiungerli.
- Andiamo? – chiese l’uomo, cercando di reggersi sulla gamba sana.
- Appoggiati a me. – offrì Anis, porgendogli il braccio, - Andiamo a vedere che serratura apre questa chiave.
*
- Sarebbe questa la Santa Sede? – chiese Anis, osservando con aria critica il palazzo che aveva di fronte, - Me l’aspettavo più… non so. Colorata?
- Sì, magari con un neon sul tetto con sopra scritto “è qui la salvezza del mondo”. – sbuffò David, avvicinandosi ad un citofono dall’aria piuttosto malandata e guardandolo bene da ogni lato, come lo stesse studiando.
- È così tetra. – considerò Anis, una mano piantata sul fianco e le ali in lento e appena percettibile movimento dietro le sue spalle, come volesse tenerle ancora in movimento dopo il lungo volo che li aveva condotti fin lì. – È un cliché, tutte le sedi di organizzazioni segrete devono essere tetre e cadenti.
- Stai delirando. – annuì David. – Tienimi questo. – disse poi.
- Questo cosa? – chiese Anis. David strappò via il citofono dalla parete.
- Questo. – ripeté, porgendogli il pannello divelto.
- …oh. – annuì Anis, prendendo il pannello fra le mani e guardandolo con interesse. - …ma—
- Era tenuto su solo da una vite. – sospirò David, intuendo il motivo della sua curiosità, - Questa è l’entrata sul retro. Vedi qui? – chiese, indicando il minuscolo pannello di controllo che il citofono nascondeva, - Bisogna far passare il tesserino identificativo attraverso questa fessura, e poi digitare il proprio codice segreto. Ogni adepto ne ha uno esclusivo e personale.
- Adesso improvvisamente riesco a riconoscere i tratti tipici di un’organizzazione paramilitare. – sbuffò ironico Anis, inclinando appena il capo. – Hai il tesserino, sì?
- Naturalmente. – rispose David, estraendolo dalla tasca interna della giacca, - Ma non so se l’hanno già disattivato. La banca dati dell’Ordine è organizzata in modo da avere un sistema di ricerca molto rapido, in modo da poter disattivare quasi all’istante tesserini e codici di chiunque venga allontanato. Per questioni di sicurezza, sai. – concluse, scrollando le spalle.
Anis annuì, incrociando le braccia sul petto.
- Be’, non ci resta che provare. – propose. David annuì a propria volta, facendo scorrere il proprio tesserino all’interno della fessura e poi digitando velocemente il proprio codice d’accesso sulla tastiera poco più sotto.
La porta si aprì con un click piuttosto discreto, senza neanche dischiudersi davvero, tanto che Anis dovette spingerla per assicurarsi che il tesserino avesse funzionato davvero. Non cigolò nemmeno come entrambi si sarebbero aspettati, e lo spiraglio lasciava intravedere un corridoio illuminato e pulito, e fortunatamente deserto.
- Ha funzionato. – constatò David, incolore, chiedendosi se fosse il caso di entrare alla svelta e richiudersi immediatamente la porta alle spalle o temporeggiare ancora un po’.
- È un po’ strano, no? – chiese Anis, dubbioso, - Proprio in questo momento di grande allerta, dimenticano di disattivare il tuo tesserino?
- Hai ragione. – annuì lui con una smorfia frustrata, - Ma forse, proprio perché per adesso sono presi da altro, non hanno pensato a… - Anis inarcò un sopracciglio, e David sbuffò, incurvando le spalle con rassegnazione. – Lo so, è molto, molto probabile che sia una trappola. Ma anche se fosse, non abbiamo scelta, no?
- Be’, io ce l’ho. – ridacchiò Anis, sdrammatizzando, - Potrei prendere il volo e tornarmene da dove sono venuto.
David rise appena, tornando a sbirciare il corridoio.
- Se anche dovessi rimanere solo, proverei comunque ad entrare e salvarlo.
Anis lo guardò per qualche secondo, cercando disperatamente di non scoppiare a ridere, ma dovette cedere quando rischiò seriamente di morire soffocato, e gli batté una pacca complice sulle spalle.
- Quanto sei epico. – commentò, sghignazzando senza freni, - Mi piace. – concluse con un sorriso più sincero. – Diamoci una mossa, adesso.
*
- Questi sono gli alloggi per gli ospiti. – illustrò David, attraversando l’ennesimo corridoio con migliaia di porte da quando erano entrati all’interno dell’edificio, - È qui che vengono portati tutti gli esterni che, per un motivo o per l’altro, sono legati all’Ordine o devono restare all’interno della Santa Sede per qualche tempo. Però la zona sembra deserta. – considerò dubbioso.
- Il che dovrebbe suggerirci che forse Tom non è qui. – ipotizzò Anis, guardandosi intorno con aria scettica.
- Ma non c’è altro luogo in cui potrebbe essere. – rifletté David, abbassando lo sguardo ed accostandosi ad ogni porta per cercare di percepire qualche rumore proveniente da qualcuna delle varie stanze, - Tutto il resto dell’edificio è occupato dagli uffici e dagli alloggi delle scorte, non c’è altro luogo in cui Tom potrebbe—
- Il sangue di Bill. – disse Anis, fermandosi all’improvviso in mezzo al corridoio e tendendosi tutto come volesse allungarsi ad ingombrare l’intero ambiente, - Sento— sento il sangue di Bill.
- …senti il sangue di Tom, non quello di Bill. – lo corresse l’uomo, illuminandosi repentinamente, - È lo stesso, è ovvio che tu lo percepisca! Avrei dovuto pensarci io stesso! Dov’è?
Anis si guardò intorno con aria persa per qualche secondo, estremamente turbato da ciò che stava percependo. Era come se il suo stesso sangue stesse ribollendo, smaniando all’idea di sfuggirgli dalle vene per unirsi a quello di Bill, dovunque fosse. Non era un particolare odore nell’aria, o un suo particolare sapore, non era una sensazione tattile né uditiva, era la sorda consapevolezza di quel sangue vivo presente da qualche parte intorno a loro.
Chiuse gli occhi e mosse qualche passo lungo il corridoio, fino a fermarsi davanti ad una porta apparentemente uguale a tutte le altre. Quando la spalancò, Tom – che fino a quel momento era rimasto immobile seduto sul letto – scattò in piedi, andando a rifugiarsi nell’angolo più distante da loro, in fondo alla stanza.
- …tu! – disse, quando l’ebbe riconosciuto, - Dove hai portato mio fratello?! È solo colpa tua!
- Tom, io non ho nessuna colpa di quello che sta succedendo. – cercò di spiegargli Anis, tendendo le mani in avanti come a volergli dimostrare di essere disarmato, e pertanto inoffensivo. – Io voglio solo che—
- Tom! – lo chiamò a gran voce David, spingendo Anis da parte perché le sue ali non lo intralciassero e correndo verso di lui. Al solo vederlo apparire, tutto il corpo di Tom si contrasse e poi si tese immediatamente, e il ragazzo deglutì con forza, dandosi lo slancio per scattare in avanti, e atterrare direttamente fra le sue braccia.
- Cristo. – singhiozzò, aggrappandosi convulsamente alla sua maglietta, - Cristo, Dada, come hai potuto farmi questo? Io sono sempre stato sincero con te.
- Lo so, Tom. – lo consolò lui, accarezzandogli lentamente i capelli ed il collo, - È stata tutta colpa mia, avrei dovuto dirti che— insomma, avrei dovuto dirti ogni cosa.
Tom lo guardò negli occhi, mordendosi un labbro. Non piangeva, anche se evidentemente ne aveva voglia, e David si ritrovò a dirsi che era così fiero di lui che al solo pensarci si sentiva quasi scoppiare il cuore dall’orgoglio.
- Tutto quello che credevo di sapere era una menzogna. – disse il ragazzo, incredibilmente lucido, - Anche l’amore che provo per Bill… è una menzogna anche quella.
- Non lo è, Tom. – scosse il capo David, poggiandogli una mano sul viso ed accarezzandogli una guancia col pollice, in piccoli cerchi, - Se lo senti, è reale. Solo ciò che senti lo è, tutto il resto— è tutto il resto ad essere falso.
Tom affondò con maggior forza i denti nel proprio labbro inferiore, stringendo le mani attorno al tessuto sgualcito della sua maglietta.
- David, tu non capisci, io—
- Merda. – li interruppe Anis, richiamando la loro attenzione, - Sembra che dovremo rimandare le confessioni a cuore aperto ad un altro momento.
- Sei sempre stato intraprendente, David. – commentò Larsen con un sorriso di scherno, apparendo sulla soglia della porta circondato da militari armati, - Ma mai davvero brillante. Avrei dovuto immaginare fin dall’inizio che avresti combinato un disastro, eppure scioccamente mi sono voluto fidare del mio intuito, nonostante i saggi mi avessero consigliato altrimenti. Certi errori si pagano, ed io probabilmente ho costretto il mondo intero a pagare per la mia presunzione, ma il vostro viaggio finisce qui. Non riuscirete a portare il Prescelto fuori da quest’edificio.
- Larsen. – ringhiò David, stringendosi contro Tom come a volerlo proteggere col proprio stesso corpo, - Ho lasciato che me lo portassi via una volta, ma non ti permetterò di farlo ancora.
- Idioti. – li interruppe Anis, stringendo i pugni lungo i fianchi ed aprendo le ali solo per metà, - La divinità ce l’avete qui, sotto gli occhi, eppure parlate come se foste due eroi. – si voltò appena verso David, richiamando la sua attenzione con un cenno del capo. – Tu e Tom qui mi intralciate. Per combattere questa gente ho bisogno di lasciarmi andare, e non posso farlo se so di dover proteggere voi due. E Bill non è qui, se dovessi perdere il controllo non so se riuscirei a recuperarlo senza sentire la sua voce.
- Sì, be’, grazie, anche io preferirei essere in vacanza su qualche isola tropicale! – protestò David, stringendosi maggiormente contro Tom mentre i militari si avvicinavano lentamente, con cautela, per evitare di spaventarli troppo, - Ma purtroppo sono qui, perciò trova un modo per risolvere la situazione.
- È facile per te parlare! – protestò lui, mentre Larsen sogghignava soddisfatto a qualche metro di distanza, le braccia incrociate sul petto, - Non è sicuro, non posso combattere finché— - si interruppe, guardando il vuoto per qualche secondo prima di lasciarsi andare ad un sorriso furbo. - …finché siete qui. Ma non ci resterete per molto. – concluse, e così dicendo si voltò repentinamente verso di loro, facendosi scudo con le proprie ali. – Reggetevi! – urlò quindi, afferrandoli entrambi per le spalle ed assicurandosi che avessero fatto girare le braccia attorno alla propria vita prima di scaraventarsi contro l’enorme vetrata sulla parete di fronte a lui come un proiettile impazzito, infrangendola e proteggendo David e Tom con le proprie ali dalle schegge di vetro mentre si librava appena nel cielo di Berlino prima di gettarsi in picchiata verso la strada ai piedi dell’edificio.
- Merda! – urlò Larsen, - Di sotto, di sotto!
Anis lo sentì ed accelerò il proprio volo, ritrovandosi in pochi secondi abbastanza vicino alla strada da poter lasciare andare David e Tom, rimanendo a volteggiare a mezz’aria.
- Scappate. – disse, - Troviamoci—
- No. – lo interruppe David, prendendo Tom per mano mentre il ragazzo si irrigidiva al solo tocco delle sue dita, - Quando avrai finito, precedici. Io e Tom arriveremo attraverso le fogne, abbiamo— - si voltò a lanciargli uno sguardo incerto, e Tom fissò il proprio altrove, mordendosi l’interno di una guancia. – Abbiamo bisogno di parlare. – concluse.
Anis annuì, sollevandosi in volo senza aspettare un minuto di più. Una volta rientrato all’interno dell’edificio attraverso la finestra che aveva sfondato, vide che solo Larsen era rimasto all’interno della stanza, e pregò perché David e Tom fossero riusciti a nascondersi in tempo per non farsi trovare dai militari.
- Sapevo che saresti tornato, fenice. – lo salutò Larsen con un cenno del capo ed un sorriso, - Mi sorprende l’ostinazione con la quale continui a batterti contro un destino già scritto. – commentò con stupore non simulato, - Ciò che deve accadere accadrà comunque, e questo tu lo sai, lo senti, non può essere diversamente, vista la tua natura. Non puoi vincere questa battaglia, fenice. Semplicemente non puoi.
Anis sorrise, sollevando una mano e lasciando fluire l’energia fino a vedere rosso e sentir bruciare ogni centimetro del proprio corpo.
- Forse no. – disse quindi, sorridendo divertito, - Ma posso farti dannatamente male nel mentre.
*
- Forse – provò David, voltandosi indietro a guardare e tendendo le orecchie per cercare di captare anche il più minuscolo suono di passi, - Forse possiamo fermarci un po’. – ansimò pesantemente, rallentando la corsa fino a fermarsi e piegandosi su se stesso, poggiando le mani sulle ginocchia e provando ad inspirare ed espirare con calma. – Devono aver smesso di seguirci, li avranno richiamati indietro alla Santa Sede. – ipotizzò incerto, osservando con la coda dell’occhio Tom infilarsi rapidamente in una rientranza del tunnel e poi sedersi sul pavimento, la testa fra le mani. Lo seguì, sedendosi al suo fianco e fissando di fronte a sé, concedendosi solo raramente il lusso di lanciargli un’occhiata, giusto per controllare che fosse ancora lì con lui.
- Questa cosa è così assurda. – mormorò Tom, gli occhi fissi sul pavimento lurido, - Sembra uno di quei documentari di History Channel, uno di quelli in cui qualche pazzo raduna un gruppo di deficienti e poi li porta in una casupola abbandonata nel mezzo della giungla selvaggia e li convince a suicidarsi bevendo pipì di scimmia o chessò io.
- Tom, dubito fortemente che la pipì di scimmia sia mortale. – disse lui, inarcando un sopracciglio dubbioso.
- Non è quello il punto! – sbottò Tom, voltandosi a guardarlo con aria offesa, - Hai capito cosa intendevo.
David sorrise, sollevando un braccio ed avvicinando una mano alla sua testa, ma la ritrasse immediatamente, come si fosse scottato. Tom se ne accorse, ed una delle sue mani scattò ad afferrarlo per il polso, conducendo la sua mano finché non giunse dove voleva arrivare fin da principio.
- Toccami. – disse, e chiuse gli occhi mentre David lo accarezzava piano, - Cioè… - aggiunse con evidente imbarazzo, - puoi farlo. Non mi arrabbierò più.
- …Tom, io—
- Io – lo interruppe Tom, stringendo con più forza le dita attorno al suo polso, quasi guidandolo in una carezza più lenta e morbida lungo il suo collo, - Io sono sempre stato innamorato di Bill. – confessò a mezza voce, - Fin da quando riesco a ricordare, capisci? Per me, nel mondo intero, non c’era altro. Era come se fossi nato solo ed esclusivamente per… riuscire a stare con lui, un giorno. E per quanto fosse assurdo— Dio, in fondo è di mio fratello che stiamo parlando. Ma per quanto fosse assurdo io pensavo davvero che alla fine sarei riuscito a vincerlo. Come un principe o un eroe dei cartoni animati, non lo so.
David se lo tirò contro, facendogli spazio fra le gambe e lasciandolo appoggiare con la schiena al suo petto.
- Be’, non hai ancora perso le speranze, no? – cercò di dargli coraggio, appoggiando il mento sulla sua spalla e trattenendosi a stento dall’inspirare con forza il suo odore. – Magari alla fine nonostante tutto la principessa—
- No, ecco. – rise Tom, scuotendo il capo, - Lo vedi che non capisci? Io non sono un principe e Bill non è una principessa e non è neanche l’unica cosa esistente nel mondo. – spiegò con decisione, - È una delle tante cose che mi piacerebbe salvare, ma non è l’unica. È una delle tante cose che ho, ma non è l’unica. Lui non… - inspirò profondamente, guardando fisso di fronte a sé nel buio del tunnel , - lui non è tutto il mio mondo, non è l’unica cosa che posso sperare di ottenere dalla mia vita. Non è la ragione per cui esisto. Io sono la ragione per cui esisto.
David sorrise, percependo chiaramente il brivido che corse lungo il collo e la schiena di Tom non appena sentì il suo sorriso premere contro la pelle.
- Sei cresciuto così tanto. – disse dolcemente, - Quando è successo?
- Mentre non guardavi. – rispose lui, - O mentre fingevi di ascoltarmi per ripetermi la lezioncina preimpostata che ti aveva insegnato Larsen, forse.
- …Tom, io non—
- Lo so. – lo fermò con un sospiro, chiudendo gli occhi e rilassandosi di nuovo contro il suo petto, - So che posso fidarmi di te, in qualche modo so che potevo farlo anche prima, solo che… se solo tu mi avessi ascoltato meglio, quando venivo a parlarti, avresti capito che…
David si tese immediatamente, e la tensione dei suoi muscoli sembrò quasi passare direttamente in quelli di Tom, che si tesero tutti a propria volta.
- Che…? – lo invitò a proseguire, la voce incerta.
- Che io non ho mai… - deglutì Tom, rifiutandosi di guardarlo, - che io non ho mai visto quante altre possibilità avevo. Ed era per questo che le rifiutavo a priori.
David deglutì a fatica, stringendo impercettibilmente la presa attorno alle sue spalle larghe ma esili – così esili, come quelle di suo fratello, spalle che non dovrebbero mai portare pesi simili, spalle che non avrebbero mai dovuto portare pesi simili se solo lui avesse potuto prendersene cura, in una situazione diversa, in un mondo diverso, in una vita diversa – per poi lasciarlo andare quasi di scatto e rimettersi in piedi.
- Dovremmo riprendere il viaggio. – disse, ricominciando a camminare senza voltarsi a guardarlo. Se l’avesse fatto, avrebbe visto Tom restare seduto qualche secondo in più di lui, la bocca dischiusa e gli occhi persi sulla sua figura familiare, inumidirsi le labbra come volesse provare a dire qualcosa e poi lasciare perdere, abbassando lo sguardo e rimettendosi a propria volta in cammino.
*
L’espressione del viso di Jörg Kaulitz, nell’aprire la porta e trovarsi di fronte Bill accompagnato da Patrick e Peter, non era riuscita a mascherare il suo stupore profondo nonostante la signora Silvia l’avesse avvisato immediatamente via mail del loro imminente arrivo. Era rimasto immobile, una mano sullo stipite e l’altra sulla porta, osservandolo come fosse la prima volta che gli posava gli occhi addosso, cosa che ovviamente non era possibile, essendo Bill rimasto quasi continuamente in tv, in radio e su svariati cartelloni pubblicitari in giro per tutta la Germania prima e tutto il mondo poi, per la gran parte dei suoi ultimi cinque anni di vita.
- …entrate. – aveva detto quindi, ritrovando compostezza e schiudendo l’uscio per lasciarli passare, - Sono stato avvertito della vostra situazione. Qui sarete al sicuro, nessuno sa dove mi trovo.
Bill s’era guardato intorno con aria incerta, mentre Patrick ispezionava prudentemente l’abitazione e Peter si dirigeva spedito in cucina incaricandosi – senza che nessuno gliel’avesse chiesto – di preparare da mangiare per tutti.
- Be’… ciao. – aveva detto quindi, voltandosi a guardarlo e sorridendogli un po’. – Non ci vediamo da tanto.
Jörg sorrise a propria volta, avvicinandosi quasi con cautela.
- Da troppo. – lo aveva corretto, - Posso abbracciarti? L’ultima volta che l’ho fatto eri così piccolo che mi stavi quasi in una mano.
Bill aveva ridacchiato imbarazzato, spostando il peso da un piede all’altro e scostando dal viso una ciocca di capelli.
- Puzzo da morire… - si era giustificato, stringendosi nelle spalle.
- Al momento è l’ultima cosa che m’importi. – aveva insistito Jörg, avvicinandosi di un altro passo.
- Ma non pensi che sarà strano? – aveva continuato Bill, agitandosi appena, - Voglio dire, è— io non ricordavo nemmeno il tuo volto, e—
- Bill. – lo aveva interrotto suo padre, fermandosi a pochi centimetri da lui, - Posso abbracciarti?
Bill gli aveva sollevato addosso uno sguardo perso e colmo di lacrime, e s’era morso un labbro.
- Sì. – aveva risposto, annuendo debolmente, - Sì, ti prego. Fallo.
Suo padre l’aveva stretto a lungo, immobile in mezzo all’ingresso, le sue mani grandi serrate attorno alle sue spalle ed il petto ampio contro cui nascondere il viso. Bill amava pensare di essere riuscito a venire su perfettamente anche se suo padre non era stato che una presenza fugace assente in quasi tutti i momenti veramente importanti della sua vita, ed era vero, ma stretto fra le sue braccia non poteva impedirsi di realizzare quanto intensamente una presenza simile gli fosse mancata, e quanto forse sarebbe stato tutto più facile se lui ci fosse stato più spesso. Se gli fosse stato permesso di esserci più spesso.
Jörg lo aveva presto condotto al piano di sopra, all’interno di una stanza quasi del tutto sgombra ma con una brandina approntata alla bell’e meglio sotto la finestra, le lenzuola pulite e già ripiegate su un angolo, pronte ad accoglierlo.
- Riposati. – gli aveva detto, stringendogli una spalla fra le dita con aria rassicurante, - Le prossime ore non saranno semplici, per te.
- Non posso dormire… - aveva risposto lui, inquieto, - Come faccio se succede qualcosa?
- Non succederà niente. – l’aveva rassicurato Patrick, passando davanti alla porta e sorridendogli deciso, - Veglieremo noi su di te. E quando ti sarai svegliato, il nano di sotto avrà finito di preparare cene per due eserciti, e potrai ingozzarti come devono fare tutti i ragazzini della tua età.
- Fler! – l’aveva chiamato Peter dal piano terra, - Allora, queste patate non si peleranno certo da sole!
- Arrivo… arrivo! – aveva sospirato lui, scendendo velocemente le scale. Bill aveva ridacchiato piano, gli occhi già pesanti, e suo padre l’aveva baciato dolcemente su una tempia prima di chiudere la porta e lasciarlo solo.
*
Si risvegliò molte ore dopo. Fuori dalla finestra, il sole stava per tramontare, e tutta la stanza era immersa in una nuvola di luce aranciata che rendeva i contorni delle cose molto più scuri e irreali di quanto non fossero. Anis stava seduto sul letto accanto a lui, le ali chiuse e ripiegate in modo da non dargli troppo fastidio, e gli accarezzava i capelli. Dalle sue scapole, il sangue scendeva lungo le braccia in rivoli sottili sempre vivi. Aveva macchiato tutte le lenzuola.
- Ho combinato un disastro. – disse sorridendo, - Tuo padre mi massacrerà.
- Anis! – lo chiamò lui, scattando a sedere e gettandogli le braccia al collo, - Dio… sei ferito? Quando sei arrivato?
- Calmati… - rise lui, stringendolo alla vita, - Non sono ferito, e sono arrivato una mezz’oretta fa.
- E perché non mi hai svegliato? – chiese lui, sbuffando platealmente, - Avrei potuto—
- Volevo restare un po’ solo col tuo bel visino senza la compagnia del tuo fastidioso chiacchiericcio. – rispose lui ridendo e guadagnando in risposta uno scappellotto sulla nuca, - Tu stai bene?
- Ma certo che sto bene, non ho due ali che mi spuntano dalle scapole, io. – sbottò Bill, gonfiando le guance ed incrociando le braccia sul petto. Le sciolse immediatamente, però, tornando ad accucciarsi contro di lui il secondo successivo, - Dov’è David? – chiese preoccupato, mentre Anis tornava ad accarezzargli i capelli.
- Tuo fratello era un po’ scosso, - rispose lui, - ha chiesto un po’ di tempo da soli. Dovrebbero essere in arrivo nel giro di un’ora, immagino.
Bill annuì, deglutendo a fatica prima di fare la domanda successiva.
- Larsen? – si rassegnò a chiedere infine, stringendo le mani a pugno attorno alla maglietta sporca e stropicciata di Anis.
- Morto. – rispose lui, gelido. – Mi dispiace.
Bill sospirò, allontanandosi di qualche centimetro.
- Immagino andasse fatto. – rispose, - Ci sono un sacco di cose che vanno fatte, ancora.
Anis gli accarezzò lentamente una guancia, lasciando sulla sua pelle una traccia di rosso già un po’ sbiadita.
- Ti ho—
- Non importa. – lo interruppe Bill con un sorriso.
Anis sospirò, chinandosi a baciarlo lentamente sulle labbra.
- Bill, io non devo dirti proprio niente. – disse quindi, poggiando la fronte contro la sua, - Quello che devi fare lo sai già.
Bill rise amaramente, sporgendosi a catturare le sue labbra in un altro bacio appena accennato.
- In realtà no. – rispose, - So quello che dovrei fare, ma non è esattamente la stessa cosa.
- No, non lo è. – annuì Anis, scivolando sul materasso fino a poterlo stringere più disinvoltamente fra le braccia. – Mi mancherai. – disse, baciandogli la fronte, le guance, la punta del naso, - Mi mancherai da morire.
- Non sai quello che farò. – disse Bill, stringendosi a lui e chiudendo gli occhi, - Non sai se andrò da Tomi.
- Saresti così irresponsabile? – chiese lui, lasciandogli scivolare la maglia sopra la testa.
- Non lo so. – sospirò Bill, agevolando i suoi movimenti sollevando le braccia, - Non mi sono mai ritrovato in una situazione simile, prima d’ora. – aprì gli occhi all’improvviso, piantandoli nei suoi. Erano lucidi, ma incredibilmente brillanti e presenti. – Posso solo giurarti che, qualsiasi decisione prenderò, la prenderò con la certezza che non dovrò pentirmene.
Anis sorrise, stendendolo sul materasso e sfibbiandogli i pantaloni. Bill sollevò il bacino per agevolarlo mentre glieli lasciava scorrere lungo le gambe, e sorrise divertito, sistemandosi meglio contro il cuscino e schiudendo le cosce per accoglierlo meglio quando lui si liberò celermente dei propri abiti, strappandosi letteralmente di dosso la maglietta ormai ridotta quasi a brandelli.
- Cos’è quel sorrisetto? – chiese Anis, chinandosi su di lui e sfiorandogli le labbra con un bacio, - Sei un ragazzino impertinente.
- Anis, cosa stiamo facendo? – rise lui, sollevando le braccia ed allacciandolo al collo per tenerlo più vicino possibile a sé, - Di fuori c’è la fine del mondo e noi scopiamo?
Anis rise a propria volta, sfiorando la sua apertura con la punta della propria erezione e baciandolo profondamente, quasi a distrarlo, nel momento in cui entrò dentro di lui con una spinta secca.
- Non riesco ad immaginare momento migliore. – rispose divertito, mentre Bill rideva ancora fra le sue labbra.
Accarezzò con devozione ogni centimetro del suo corpo, senza smettere di baciarlo neanche per un secondo. La sua mano scese lenta lungo il suo fianco, pressandosi per bene contro la sua pelle, come a voler lasciare l’impronta dei propri polpastrelli. C’era così tanto sangue sulle lenzuola, così tanto sangue sul suo corpo che cadeva come pioggia su quello di Bill. Minuscole gocce di ciò che c’era di più profondo in lui, della sua vita stessa, scivolavano lentamente lungo i suoi fianchi, lungo le sue braccia, e si posavano sui fianchi e sulle braccia di Bill, sul suo viso, sul suo ventre, scendendo giù fino a disegnare sul materasso la sagoma sottile del suo corpo. Anis sperò che quello potesse essere un modo come un altro di dargli forza. La sua forza. Sperò di riuscire a trasmettergliela, anche solo in parte, almeno così.
Quando sentì di essere vicino all’orgasmo, mormorò il suo nome fra le labbra e lo tirò su da sotto le ascelle, come un bambino piccolo, sistemandoselo in grembo e spingendosi con forza dentro di lui. Bill piangeva e rideva e gli sussurrava che lo amava da morire, e si aggrappò con forza alle sue spalle, in preda alle vertigini, quando lo sentì venire dentro di sé spalancando le ali, brillanti e rosse e gialle come lingue di fuoco, e pochi secondi dopo venne a propria volta nella stretta decisa delle sue dita.
- Sei così bello. – singhiozzò Bill contro la sua spalla, le mani imbrattate di sangue e gli occhi chiusi con tanta forza da sembrare due fessure bistrate di nero ormai quasi sbiadito, - Sei bellissimo e io ti amo così tanto. – pianse ancora, incapace di controllare le risate che continuavano a scuoterlo tutto, tanto che Anis non riusciva proprio a capire se fosse disperatamente felice o disperatamente triste, o fosse semplicemente impazzito del tutto. – Sono felice che tu sia mio, Anis, sono così felice che tu sia mio.
Anis gli ravviò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, baciandolo su una tempia e richiudendo le ali attorno al suo corpo.
- Anche io sono felice di essere stato tuo, Bill. – sussurrò piano, cullandolo dolcemente. Bill non rispose, e si limitò a stringerlo con più forza, cercando di imporsi di smettere almeno di piangere.
*
- Sta per arrivare un temporale. – disse Patrick, passando l’insalata di patate a Jörg, - Gradisce?
- Come fai a dirlo? – chiese Peter, mentre il signor Kaulitz riempiva abbondantemente il proprio piatto e poi faceva girare l’insalatiera attorno al tavolo, - Non hai nemmeno guardato di fuori.
- Lo sento, no? – scrollò le spalle lui in risposta, mangiando lentamente, quasi con attenzione.
- L’evoluzione procede, ora mi diventi un cane. Perché non lo sei diventato quando eravamo nelle fogne e quel terremoto ha buttato giù mezzo tunnel rischiando di schiacciarmi mentre cercavo di salvare Bill da morte certa? Avresti potuto percepirlo in anticipo ed avvertirmi.
- Tu sei un deficiente. – lo apostrofò Patrick, tirandogli uno scappellotto sulla nuca mentre Anis ridacchiava sommessamente e Bill restava trincerato nello stesso silenzio quasi autistico che l’aveva accompagnato da quando lui ed Anis erano scesi dal piano di sopra per unirsi alla cena, - Non sto diventando un cane, è solo che riesco a sentire l’acqua che si avvicina. Guarda. – disse quindi, sollevando una manica della felpa. La pelle del suo braccio era ricoperta di minuscole goccioline simili a condensa. – Toccala pure.
- Sarà mica velenosa? – chiese Peter, osservando curiosamente le goccioline mentre alcune di esse si gonfiavano e scivolavano lungo la linea curva del suo avambraccio, inumidendo la tovaglia sotto.
- È acqua, cretino. – sbottò Patrick, sfiorando le goccioline con un dito e ficcandoglielo in bocca per dimostrargli senza ombra di dubbio la verità delle proprie affermazioni. – Visto?
- …ma tu sei tutto scemo! – strillò Peter, tirandogli un mezzo pugno nel centro della fronte, - No, dico, e se fosse stata velenosa? Mi avresti ammazzato senza un ripensamento!
- Ma sapevo che non lo era! – obiettò Patrick, gesticolando animatamente con una mano e massaggiandosi la fronte con l’altra, - Pensi che avrei messo a rischio la tua vita in questo modo?
- Be’, nelle fogne non mi hai avvertito del terremoto in avvicinamento, quindi sì. – considerò lui, incrociando le braccia sul petto.
- Sono un dragone, non una talpa! – precisò Patrick, esasperato, - Sento i movimenti dell’acqua, mica quelli della terra!
Sul sottofondo del loro litigio, Anis si voltò a guardare Bill e, trovandolo incupito, smorzò il sorriso che gli piegava le labbra.
- Ehi. – lo chiamò piano, lasciando scivolare una mano sopra la sua. Era ghiacciata. Tentò di scaldarla. – Ehi, Bill.
Lui non diede segno di averlo sentito, ed Anis si voltò a cercare Jörg con gli occhi. L’uomo ricambiò il suo sguardo e si ripulì velocemente le labbra con un tovagliolino, prima di chinarsi a poggiare la propria mano sulla spalla di Bill, scuotendolo lievemente.
- Bill, è tutto a posto? – chiese. Bill sollevò gli occhi nei suoi, guardandolo con aria persa, come si fosse svegliato solo in quel momento.
- Ho bisogno di sapere dov’è Tomi. – disse, senza rispondere alla domanda, mentre la mano di Anis si allontanava dalla sua, - Sono inquieto, non riesco a capire dov’è.
- In genere ci riesci? – gli chiese Jörg con un sorriso indulgente. Bill si strinse nelle spalle.
- Non è che sappia sempre individuare le coordinate esatte del luogo in cui si trova, - rispose incerto, - ma riesco quasi sempre a sentire che è lì, da qualche parte. È una certezza che mi consola. Adesso però lo sento così lontano e trasparente, come si stesse volatilizzando… - sollevò una mano e la guardò a lungo da ogni lato, quasi si aspettasse di vederla diventare trasparente sotto i suoi stessi occhi. – Sta vacillando, riesco a sentirlo.
- Cosa sta vacillando? – chiese Jörg, inarcando un sopracciglio.
- Non lo so… - sospirò Bill, tornando ad abbassare la mano, - Lui. Io. Quello che siamo. – inspirò profondamente, come stesse provando un dolore troppo forte e temesse di non riuscire più a respirare, - Non mi sono mai sentito così, mi si spezza il cuore.
Il borbottio di Peter e Patrick si fece sempre più basso, fino a scomparire del tutto. Anis, immobile al fianco di Bill, si stava mordendo l’interno una guancia con tanta forza da sentire il sapore del sangue sulla lingua.
- Bill— - provò a chiamarlo suo padre, ma Bill scattò in piedi come se l’avessero sfiorato con un tizzone ardente.
- Lui l’aveva promesso. – mormorò fra sé assente, come si trovasse in un altro luogo e in un altro tempo, - Noi non ci saremmo disintegrati. Ed invece sta succedendo, e io non so dov’è. E non potrò salutarlo. E il mondo finirà senza che io possa toccarlo ancora e— - si piegò su se stesso, ansimando disperatamente e portando una mano alla gola, - Non riesco a respirare.
- Bill. – scattò subito in piedi Anis, e fu al suo fianco in meno di un secondo. – Bill, cosa—
- Stammi lontano, non mi toccare! – strillò lui in un rantolo esausto, - Non respiro, non respiro, devo— devo uscire!
- Bill, fermati. – disse Patrick, frapponendosi fra lui e la porta, - Può essere pericoloso, fuori.
- Devo uscire. – ripeté lui, muovendosi a fatica, appoggiandosi ai mobili, - Ti prego, lasciami uscire. Devo farlo.
Patrick cercò gli occhi di Anis, e quando li trovò vi lesse la consapevolezza di un momento che stava cercando stupidamente di ritardare all’infinito, nonostante sapesse che prima o poi sarebbe arrivato.
- Lascialo andare. – disse piano, - Credo sia ora.
Patrick si scostò dall’uscio, mentre Peter gli si affiancava e si preparava a seguire Bill dovunque fosse andato, come sembrava intenzionato a fare anche Anis stesso, assieme al signor Kaulitz. Bill schiuse la porta ed uscì fuori dall’abitazione, lanciando un’occhiata stanca al cielo scuro e gonfio di nuvole e pioggia. Rimase col naso puntato per aria finché non sentì le prime gocce bagnargli la pelle, e allora chiuse gli occhi e sorrise sereno, come improvvisamente sollevato da un peso.
- Eccoti… - mormorò a bassa voce, restando immobile.
Anis, dietro di lui, aggrottò le sopracciglia e venne presto catturato da un movimento appena percettibile delle spighe nel campo ad un paio di decine di metri da loro. Spalancò gli occhi quando riuscì ad identificare le sagome delle due persone che si stavano avvicinando.
- È Tom. – mormorò Jörg, riconoscendo il figlio, - Con Jost.
David corse velocemente fino a loro, fermandosi solo quando li ebbe raggiunti.
- Sta accadendo. – disse trafelato, - Metà rete fognaria è completamente distrutta, la città sta collassando su se stessa. Ben presto tutto il resto del mondo la seguirà a ruota, se non… - si voltò indietro, cercando Tom con una mano, e non si stupì poi così tanto quando vide che il ragazzo s’era fermato parecchi metri più indietro, perfettamente di fronte a Bill. Una crepa si aprì nel terreno nei pochi centimetri che li separavano, e s’allargò velocemente al punto da creare un piccolo cratere quasi perfettamente circolare, costringendo entrambi ad indietreggiare prudentemente.
- Tomi. – mormorò Bill, incerto. Gli tremavano le labbra.
- Lo so. – rispose lui, irrigidendo le braccia lungo ai fianchi per resistere all’impulso di lasciarle scattare a stringerlo, - Bill, tutto questo non è reale. – disse piano, - È una cosa che ci hanno messo in testa.
- Tomi, nessuno mi ha messo in testa un accidenti di niente! – disse lui, gli occhi che si riempivano di lacrime, - Ho il cuore che scoppia, non mi sono mai sentito così! Mi fa male tutto!
- Billi, ti prego. – cercò di fermarlo Tom, la voce rotta. A qualche metro di distanza, Anis cominciò a respirare con fatica sempre maggiore, mentre Patrick si voltava a guardarlo con aria spaventata.
- Cosa gli prende? – chiese Peter, incerto. Gli occhi di Patrick brillarono di un azzurro più intenso che mai, solo per un secondo.
- Sta cambiando. – rispose a mezza voce.
- Tomi, questo sta succedendo. – disse Bill, allargando le braccia come a comprendere in un solo gesto la rovina dell’intero pianeta, - Non è un’invenzione e non è un’illusione, sta crollando tutto e noi dobbiamo—
- Noi dobbiamo – sorrise Tom, guardandolo dolcemente negli occhi, - fare solo ed esattamente quello che vogliamo.
Bill si morse un labbro. Dietro di lui, a qualche metro, Anis inspirò ed espirò a fatica un’ultima volta e poi schiuse le ali all’improvviso, tanto che tutti coloro che aveva intorno per poco non ne furono colpiti.
- Cosa— - mormorò Jörg, caduto per terra nel cercare di evitare le ali di Anis, rialzandosi in piedi per seguirlo, - Dove sta andando? Bushido! – lo richiamò, ma David lo fermò piantandogli una mano sul petto ed osservando il suo movimento lento e deciso con curiosità e paura.
- Billi, tu per cosa vivi? – chiese. Suo fratello dischiuse le labbra, pronto a rispondere con la prima cosa che gli fosse venuta in mente – il suo nome – ma Tom lo fermò con un gesto deciso. – Hai vissuto tutta la tua vita per salvare il mondo? Per— per venire via con me chissà dove, per sparire per sempre, per diventare un dio? – sospirò, - Io no. Io ho vissuto perché mi piacevano le ragazze, perché volevo diventare famoso, perché volevo suonare in tutto il mondo, perché ti amavo da impazzire, Billi, ma non volevo scomparire, non volevo che amarci fosse un obbligo. Ho vissuto per la mamma, ho vissuto per i miei meravigliosi sandwich, per la pizza, per la Wii, ho vissuto perché volevo essere felice, ho vissuto perché volevo essere.
Lentamente, di fronte a lui, Bill si mise a piangere, in silenzio.
- Tomi… - singhiozzò piano. – Io non—
- Se tu hai vissuto tutta la tua vita per scomparire oggi, Bill, se hai vissuto per scomparire assieme a me, io ti seguirò, perché ti amo, perché sei mio fratello e perché voglio che tu sia felice. Ma se non è per me che hai vissuto fino ad adesso, non è nemmeno per me che devi morire.
Bill deglutì a fatica, le labbra tanto strette da sembrare un’unica linea dritta a tagliargli il volto, come una ferita. Mosse un passo in avanti verso il cratere che lo separava da suo fratello, poi ancora un altro, e poi le sue labbra si schiusero, ed i suoi occhi tornarono asciutti.
- Scusami. – sussurrò pianissimo, prima di voltarsi repentinamente. Anis era lì, a qualche passo da lui, braccia ed ali dischiuse.
- Bill. – lo chiamò, la voce rotta, - Ti prego. – anche se non avrebbe saputo nemmeno lui dire per che cosa lo stesse pregando.
Bill sorrise, muovendosi verso di lui prima lentamente, poi sempre più velocemente, fino a correre. Quando si lanciò fra le sue braccia, lo fece con una forza tale che Anis quasi vacillò.
- Io ti amo. – disse, lasciandosi sollevare in volo mentre si protendeva a baciarlo sulle labbra, - Ti amo da morire e sono tuo ed ero tuo e sarò tuo, qualunque cosa succederà. La mia metà della mela sei tu.
Anis gli sorrise, stringendolo a sé e richiudendo le ali attorno al suo corpo. La terra tremò con violenza appena i piedi di Bill se ne allontanarono, e il cielo di aprì in uno squarcio luminoso di fulmini e tuoni assordanti nel momento esatto in cui dai loro corpi si sprigionò una luce talmente abbagliante da investirli tutti e costringere gli altri a chiudere gli occhi e schermarsi il viso, per non esserne accecati.
Scomparve solo molti secondi dopo, assieme al brontolio sempre più soffuso della terra e del cielo. Quando David riaprì gli occhi – per primo rispetto a tutti gli altri – vide che le crepe e i crateri che avevano martoriato la terra fino a pochi secondi prima erano del tutto scomparsi, così come i nuvoloni che appesantivano il cielo. Stelle e luna rischiaravano appena l’ambiente, Patrick era tornato normale sotto lo sguardo allucinato di Peter e Tom era seduto per terra da solo, con gli occhi spalancati, a pochi metri dal punto in cui Bill ed Anis erano scomparsi.
Sentì l’impulso di ridere, e non riuscì a trattenerlo.
- Lo sapevo, - disse scattando in piedi e correndo verso Tom. – lo sapevo che i divini non potevano essere forzati! Lo sapevo che doveva essere una loro scelta! – si chinò accanto a lui, porgendogli una mano per aiutarlo ad alzarsi mentre Jörg, Peter e Patrick lo raggiungevano celermente.
- Di cosa diavolo stai parlando? – chiese quest’ultimo, ancora incerto sulle gambe a causa del proprio repentino cambiamento.
- Ma non capite?! – disse David, entusiasta, gesticolando animatamente, - Le due metà perfette non sono nate assieme, si sono ritrovate poi! Meglio ancora: si sono scelte! Questa cosa è— è incredibile! – rise, - È vero, noi creiamo i nostri dei, noi siamo i nostri dei. Larsen non l’aveva capito davvero, ma ora io sì. – e così dicendo, si voltò a guardare Tom, che lo fissava allucinato, comprendendo ad occhio e croce solo una parola ogni tre che pronunciava. Allungò le mani a coppa ad accarezzargli il viso rigato di lacrime ormai quasi asciutte, e si sporse in avanti a sfiorargli le labbra in un bacio umido e salato. – La metà della mia mela sei tu. – gli disse piano, sorridendo sereno, - È ancora tuo diritto scegliere se io posso essere la tua.
Tom schiuse la labbra, incerto. Le mosse impercettibilmente per un paio di secondi, come non riuscisse a trovare le parole e stesse cercando di plasmarle con le proprie labbra senza fermarsi a pensarle prima, e quando capì che non ci sarebbe mai riuscito lasciò andare un respiro profondissimo, come non avesse fatto altro che trattenerlo da che era venuto al mondo, e gli gettò le braccia al collo, stringendosi a lui e baciandolo affamato, gli occhi chiusi e le risate intenerite di David che si perdevano a tratti in mezzo ai suoi gemiti tristi e felici e impauriti e dannatamente completi.
Jörg rise, piantando una mano sul fianco e passandosi l’altra sugli occhi. Di Bill ed Anis non era rimasta traccia, e questo era un argomento che prima o poi avrebbero dovuto affrontare, ma il momento non sembrava quello opportuno.
- Sarò in casa, quando loro due avranno finito di… di trovarsi, suppongo. – ridacchiò a bassa voce, avviandosi verso l’abitazione.
- Qui si baciano tutti. – borbottò Peter, incrociando le braccia sul petto, - Se penso che io sono qui solo perché tu avevi bisogno di qualcuno con cui parlare, mi sale un nervoso che non ti dico.
Patrick si voltò a guardarlo, inarcando un sopracciglio con aria dubbiosa.
- Se pensi che anch’io ti bacerò, sei completamente fuori strada. – notificò atono, come stesse parlandogli della data di scadenza di una bolletta.
- Ma chi ti vuole baciare?! – strillò istericamente Peter, dandogli le spalle e muovendosi celermente per raggiungere Jörg, ormai già quasi arrivato a destinazione, - Ma vedi tu se— Ah, mamma, quanto ti farò pagare tutto questo, quanto! Non ne hai nemmeno idea. Pranzi e cene a casa tua per almeno sei mesi!
Patrick sorrise divertito, inumidendosi le labbra e facendo per andargli dietro. Si fermò all’improvviso, voltandosi verso Tom e David ancora presi dal bacio, e si schiarì la voce.
- Noi penso che, uhm… - cominciò incerto, - …ma non credo vi interessi. – concluse con una mezza risata, prima di lasciarli lì ed allontanarsi. Ed aveva ragione. A loro non interessava.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash.
- Chakuza e Fler non si sentono spesso al telefono. Anzi, in realtà non si sentono mai al telefono, perché Chakuza non è abituato a sollevare la cornetta e comunicare col prossimo suo in tal modo. Ma questa abitudine, in un modo o nell'altro, è destinata a cambiare quando l'uomo, in fuga da Berlino, si trasferisce in Austria...
Note: Storia completamente folle nata mentre blateravo con la Tab a proposito della febbre che Chakuza ci ha annunciato di avere su Facebook XD In serata discutevamo il fatto e ci siamo chieste "ma come avrà mai fatto a prenderla?". Tab ha suggerito che Chakuza potesse essersi gettato nudo in un lago alpino per impressionare una bella contadina circa la propria indiscutibile forza. E questo, invece, è quello che, a partire da ciò, ho tirato fuori io XD
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AYO, I’M TIRED OF USING TECHNOLOGY

Quando Chakuza mi ha chiamato, dall’alto del monte alpino sul quale s’è ritirato a vivere in eremitaggio ormai da qualche mese, nonostante il suo lavoro continui ad avere il proprio centro a Berlino, con o senza Ersguterjunge di mezzo, ho capito subito che sarebbe stato l’inizio di un problema.
Chakuza, voi dovete sapere, non mi chiama. Mai. Non chiama mai nessuno, in realtà, perché l’idea di sollevare la cornetta e comunicare col prossimo suo in modo diretto ed immediato non gli passa neanche per l’anticamera del cervello. È della scuola “dobbiamo parlare? Be’, andiamo a prendere una birra insieme!”, che in realtà è solo un modo come un altro per dire che per lui ogni scusa è buona per andare a bere, perché la sua filosofia si applica anche al “dobbiamo festeggiare? Be’, andiamo a prendere una birra insieme!”, al “dobbiamo tirare tardi a lavorare? Be’, andiamo a prendere una birra insieme!” e, non ultimo, al “hai subito un grave lutto in famiglia? Be’, andiamo a prendere una birra insieme!”. Prendere una birra non è un qualcosa che si possa fare per telefono, come si potrà facilmente intuire, motivo per il quale per lui il telefono è inutile. Per fissare gli appuntamenti – per andare a prendere una birra insieme, s’intende – preferisce Facebook. Lui ti molla lì il suo bel messaggino sulla bacheca, e se tu lo vedi e rispondi bene, sennò sarà per un’altra volta.
Capisco che possa essere difficile entrare nell’ordine di idee corretto per comprenderlo, ma lui è così: semplice e allo stesso tempo assolutamente assurdo. Lo si accetta o lo si molla, io sfortunatamente l’ho accettato prima di capire bene a cosa stavo andando incontro e ci sono rimasto intrappolato senza poter fare più niente per liberarmene. Sono cose che capitano, uno non può avere sempre fortuna.
Da quando ci siamo messi insieme – la sequenza degli eventi che a questo hanno portato è anche in questo caso riassumibile prendendo spunto dalla filosofia di vita di Chakuza: “dobbiamo metterci insieme? Be’, andiamo a prendere una birra insieme!”, anche perché, se non ci fosse stata la birra di mezzo, silenziosa promotrice di questa relazione, dubito che sarebbe mai successo qualcosa – da quando ci siamo messi insieme, dicevo, Chakuza mi ha chiamato solo tre volte. Tre volte in tutto. Stiamo parlando di ormai quasi un anno di relazione, eh. Tre volte sono un numero allucinante anche per chi non è abituato a sentirsi molto spesso al telefono. Due di queste tre volte, peraltro, erano per dirmi che sarebbe tornato tardi da lavoro. Entrambe le volte aveva pensato di dirmelo su Facebook, ma nel primo caso non ricordava la password e non poteva perciò accedervi dal portatile di Stickle, e nel secondo caso era saltata la linea telefonica a causa di un temporale e non possedeva perciò l’accesso a internet. Se in queste due occasioni lui avesse potuto sfruttare il suo sistema preferito per interagire col mondo circostante, il conto delle nostre chiamate totali sarebbe tragicamente sceso a uno, e si sarebbe peraltro trattato di quella volta in cui era al supermercato e mi ha chiamato perché non ricordava se avevamo concordato di prendere una pizza – e una birra, naturalmente! – quella sera o avrebbe piuttosto dovuto comprare qualcosa da preparare al volo appena fosse rincasato.
Dunque, essendo io a conoscenza di queste informazioni, peraltro basilari se si vuole avere a che fare pacificamente con un individuo della specie dei Chakuza, questa strana razza che non alza mai la tavoloccia del water, getta calzini sporchi nel lavello invece che nella lavatrice – probabilmente confuso dalla somiglianza delle due parole – e comunica solo per grugniti espressi via mail, ho capito immediatamente che una sua telefonata non poteva annunciare niente di normale e rilassante.
Ho risposto con timore, chiedendomi che cosa diavolo potesse volere da me dall’Austria – sicuramente non andare a prendere una birra insieme – e perché sentisse il bisogno di farsi sentire per telefono adesso dopo due mesi di comunicazioni sporadiche via MSN.
- Fler? – mi ha chiamato incerto, - Fler, ci sei? Ma funziona questo coso? – l’ho sentito blaterare, allontanandosi per qualche istante dalla cornetta.
- Ci sono, Chaku, ci sono. – ho risposto, sollevando gli occhi al soffitto con aria supplice, - Come va la tua permanenza fra i monti? – gli ho chiesto quindi, - Ti diverti?
Durante l’anno in cui siamo stati insieme, io e Chakuza non ci siamo allontanati praticamente mai l’uno dal fianco dell’altro, complice il fatto di esserci trasferiti a vivere insieme praticamente subito. Più che una scelta dettata dalla passione, era stata una scelta dettata dalla praticità: essendo tutti parte di un unico grande gruppo di scimmie capeggiato dal gorilla alfa, Bushido, era più semplice stare raggruppati a grappoli, in modo da essere tutti facilmente recuperabili. Oltretutto, la scarsa abitudine di Chakuza ad avere a che fare più o meno col mondo rendeva praticamente indispensabile il dovergli gravitare attorno molto spesso. Giusto per evitare che si dimenticasse di avere un ragazzo perché non lo sentiva mai.
Questa condizione idilliaca – che funzionava perfettamente perché lui non aveva bisogno di chiamarmi e io non avevo bisogno di iscrivermi con un account personale a Facebook per stargli dietro – è durata fino a quando lui non ha stabilito di punto in bianco che tutto l’odio che aveva accumulato per Bushido e per lo scenario rap che qui fa da padrone era diventato improvvisamente troppo. Una mattina mi sono svegliato e l’ho trovato già perfettamente lucido con una tazza di caffè per mano, una delle quali era per me, seduto sul letto a gambe incrociate. Gli ho chiesto che problema ci fosse e lui mi ha spiegato che non ce la faceva più a restare in città, aveva bisogno di una pausa. Mi ha rassicurato sul fatto che non dipendeva da me come persone né da noi come coppia, semplicemente era giunto al punto di saturazione e, peraltro, non sopportava più l’iperpresenza continua di Bushido, motivo per il quale, se non voleva uccidere un uomo, faceva meglio a tornare in patria per un po’. “Va bene,” gli ho detto io, “vuoi che ci lasciamo per un po’? Vediamo come va?” ho proposto, ma lui mi ha lanciato un’occhiata da triglia e mi ha risposto “neanche per idea”. Ho cercato di fargli capire che, con le sue abitudini telefoniche e stando lui in Austria, ci saremmo persi di vista in ogni caso, ma lui ha ribadito “neanche per idea”, e allora ho sospirato e ho lasciato perdere.
Il che ci riporta alla telefonata, la prima dopo due mesi di quasi assoluto silenzio.
- Per la verità no. – mi ha risposto lui con aria mesta, dopo qualche secondo di assoluto silenzio. – Possiamo vederci?
Ho spalancato gli occhi.
- Chakuza, tu sei in Austria. – gli ho ricordato.
- Lo so. – ha risposto lui, ma non ha aggiunto altro, cosa che ha reso evidente il fatto che la sua domanda esplicita era stata “possiamo vederci?”, ma quella implicita era “puoi venire qui da me?”. Ho sospirato profondamente, raccogliendo tutta la poca pazienza che mi era rimasta.
- Vuoi andare a bere qualcosa con qualcuno e non sai con chi? – gli ho chiesto. Giusto per esserne sicuro. E lì lui mi ha sorpreso.
- Ho solo molto bisogno di vederti. – ha spiegato, la voce bassa e un po’ incerta. – Pensi di poter fare un salto?
Ho accarezzato per qualche secondo la possibilità di perdere un’altra decina di minuti a spiegargli che non si usa l’espressione “fare un salto” quando si chiede a qualcuno di espatriare per raggiungere qualcun altro sui monti, ma ho rinunciato quando ho capito quanto sarebbe stato inutile. In parte perché lui non avrebbe comunque capito, e in parte perché la mia risposta sarebbe stata comunque sì.
Mi sono messo in macchina, pronto a dodici ore ininterrotte di guida, chiedendomi cosa diavolo mi spingesse a fare una cosa simile per un uomo che in due mesi aveva sentito il bisogno di parlare con me qualcosa come quattro volte in totale, nessuna delle quali comprendeva il voler sentire la mia voce, peraltro. Sono cose che uno si chiede. Ho continuato a chiedermelo fino a quando il pensiero non s’è fatto fastidioso, e a quel punto ho acceso la radio e non ne ho voluto sapere più niente.
Quando sono arrivato a casa di Chakuza, inerpicandomi su una montagna infinita e finendo di fronte ad una fattoria enorme sul porticato della quale lui mi attendeva agitando una mano in segno di saluto, con un sorriso che partiva da un orecchio e finiva nei pressi dell’altro, ho smesso di chiedermi qualunque cosa perché tanto avevo capito l’inutilità del tutto.
Gli ho sorriso anch’io, siamo entrati in casa e abbiamo fatto l’amore contro la prima parete disponibile. È stato invero piuttosto soddisfacente, e il fatto che lo fosse stato mi ha permesso di ignorare il problema fino a quando esso non s’è ripresentato da solo, qualche ora dopo, mentre passeggiavamo sulle rive di un lago montano poco distante.
- Wow. – ho detto io, osservandone le acque limpide e cristalline, piene di riflessi aranciati a causa del sole che tramontava dietro le montagne più distanti, - Ci si potrà fare il bagno?
Chakuza ha riso, stringendosi nelle spalle.
- D’estate, magari. – ha risposto, - O se vuoi morire anche adesso. L’acqua sarà non so quanto sotto lo zero. – ha riso ancora, ed io ho fatto lo stesso fingendo di volerlo spingere dentro e finendo poi semplicemente ad intrecciare le dita con le sue mentre continuavamo a passeggiare. Lui s’è preso qualche altro secondo di silenzio, prima di riprendere a parlare, senza guardarmi. – Andrai via presto? – ha sussurrato, palesemente deluso in anticipo dalla risposta che sapeva già di ottenere.
- Sì. – ho annuito infatti, - Domattina, subito dopo pranzo al più tardi. Ho un sacco di roba da fare a Berlino. – gli ho spiegato, sentendomi perfino vagamente in colpa.
- Oh. – ha mugolato lui, abbassando lo sguardo, - Pensavo che saresti rimasto un po’ di più. Mi sei mancato.
Io ho roteato gli occhi, sbuffando platealmente e fermandomi, piantando una mano sul fianco mentre l’altra rimaneva irrimediabilmente stretta alla sua.
- Forse ti sarei mancato di meno se mi avessi semplicemente chiamato. – ho ipotizzato, - Sai, giusto per assicurarti che fossi ancora vivo, o interessato a sapere che lo eri tu.
Lui ha inarcato un sopracciglio, perplesso.
- Non ti interessava più di me? – ha chiesto, prendendo naturalmente fischi per fiaschi. Anche qui, solo perché le parole si assomigliano, suppongo.
- Non ho detto questo, Chaku. – ho chiarito pazientemente, - E comunque non è questo il punto. Il punto è semplicemente che avresti dovuto chiamarmi. Anche solo per sentire la mia voce, se proprio ti mancavo tanto.
Lui ha inarcato anche l’altro sopracciglio, sempre più perplesso.
- E per dirti cosa? – ha domandato con quella che mi è parsa sincera curiosità. Io ho sospirato un’altra volta.
- Anche niente, Chaku. – ho sbuffato, - Dio, ma non ci arrivi proprio, eh? Chiamarmi solo per sentirmi. Anche per non dirsi un bel niente di niente. Ti è chiaro adesso il concetto?
Lui ha distolto lo sguardo, aggrottando le sopracciglia così repentinamente da far quasi cambiare forma al suo viso.
- Io non le faccio, queste cose. – ha borbottato scontento. E lì, giuro, io non ci ho visto più.
- Già, tu non le fai, queste cose. – ho sibilato, sciogliendo l’intreccio delle mie dita con le sue, - Cos’è che fai tu? Tu resti qui da solo per mesi, a goderti la tua pace e a disintossicarti dall’aria sporca di Berlino, e poi quando ti gira, così, a caso, mi chiami come se mi stessi facendo un favore e mi chiedi di farmi mezza giornata al volante per raggiungerti, senza neanche dire per favore! Certo! E quando io ti chiedo di farti sentire ogni tanto, perché manchi anche a me, cazzo, tu cos’è che rispondi? No, naturalmente! Perché? Perché tu queste cose non le fai! Ti pare che io in genere monti in macchina ed oltrepassi il confine per andare a trovare chicchessia? No che non lo faccio! Ma per te sì! Perché stiamo insieme! Quindi tu perché non puoi fare per me una cosa che poi ti prenderebbe anche un centesimo del tempo che è servito a me per venire fin qui?! – mi sono fermato un secondo, cercando di riprendere fiato, e poi mi sono allontanato di un passo, rovistando dentro la tasca dei jeans per riemergere subito dopo col cellulare in mano. – Se proprio non hai voglia di sentirmi, - ho detto quindi, glaciale suppongo quanto le acque del lago a pochi passi da noi, - allora questo non mi serve a un cazzo. – ho concluso. Prima di lanciare il telefono in acqua.
- No! – ha strillato Chakuza, orripilato come se avesse appena capito in un istante il perché del mio momentaneo attacco di isteria, solo vedendo il cellulare affondare velocemente fra i flutti come un sasso. L’ho osservato per mezzo secondo dirigersi speditamente verso la riva e poi allargare le braccia ai lati del corpo per tuffarsi, ed è stato allora che sono tornato precipitosamente in me, ed ho spalancato la bocca, sconvolto.
- Chakuza! – l’ho chiamato, - Aspetta!
Ma era ormai troppo tardi. L’ho osservato impotente sparire di testa sott’acqua come aveva fatto il cellulare poco prima e mi sono precipitato in riva, inginocchiandomi e spiando l’acqua con terrore per cercare di intravederlo al di sotto della superficie, ma il sole era ormai sparito quasi del tutto dietro le montagne, e vedere qualcosa non era più tanto semplice. L’acqua mi sfiorava ogni tanto la punta delle dita, dandomi i brividi. Era gelida davvero.
- Chakuza! – ho chiamato ancora, ad alta voce, - Per carità, torna qui! Diosanto, ma sei completamente pazzo! Chaku! Non dicevo sul serio, per favore, lascia stare! Torna qui! – ho concluso, e giuro che avevo le lacrime agli occhi, stronzo di un nano austriaco del cazzo, e lui è riemerso in quell’istante preciso, a due centimetri massimo tre da me, inspirando in un colpo tutta l’aria che poteva ed aggrappandosi alla riva come una bestia ferita, ansimando pericolosamente. – Cazzo! – ho urlato io, afferrandolo immediatamente per la maglia bagnata e cercando di trascinarlo su, - Cazzo, Chakuza! Sei un coglione! Ma cosa t’è saltato in mente?!
Lui non ha risposto, limitandosi ad ansimare ancora, carponi sull’erba umida, il mio cellulare naturalmente spento chiuso in un pugno.
- Sei un cazzone! – ho ripreso io, tirandogli una spinta alla quale lui ha risposto ondeggiando avanti e indietro, prima di tornare ad appoggiarsi per terra, ancora senza fiato, - Ma cosa ti sei tuffato a fare?! Tanto non funziona più! Sei un cretino, avresti potuto rimanerci secco! Ma ti pare?! Cosa vuoi che me ne freghi di questo fottuto telefonino?! – ho continuato a blaterare, finché lui non s’è sporto verso di me, coprendo le mie labbra con le sue.
- Ti chiamerò più spesso. – ha promesso, porgendomi il cellulare, - Cioè… comincerò a chiamarti. Però non lasciamoci. – ha annaspato ancora un po’, - D’accordo?
Io l’ho guardato negli occhi per qualche secondo, chiedendomi cosa diavolo fosse successo e soprattutto cosa cazzo avesse in testa. Dopodiché mi sono morso un labbro e mi sono spinto in avanti, abbracciandolo stretto e fregandomene di quanto era freddo e bagnato e generalmente un coglione.
- D’accordo. – ho risposto, sentendolo abbandonarsi contro di me alla ricerca di un po’ di calore corporeo.
Il che ci riporta quindi ad adesso, a lui steso nel suo letto di dolore che si lamenta per la febbre – “a trentanove e quattro, Fler! Perché non andiamo a prenderci una birra?” – impedendomi naturalmente di lasciarlo qui solo e abbandonato, perché non posso certo rischiare che muoia dopo aver cercato di salvare il mio cellulare, che invece, naturalmente, è defunto.
- Devo fare una telefonata. – gli dico, pensando che devo avvertire Bushido che non tornerò per qualche giorno, mentre lui si gira su un fianco, tirando su col naso.
- Che? – mi chiede, per un attimo troppo confuso dalla febbre per capire una cosa con la quale non ha la minima familiarità. – Ah, sì. Il mio cellulare è scarico, però, ho usato gli ultimi soldi per chiamare te. – mi fa presente, - E in questa casa non c’è la linea telefonica.
Io spalanco gli occhi, e poi sospiro.
- Una curiosità, Chaku, - domando, - che cosa rappresenta questa casa per te?
Lui scrolla le spalle.
- Ci sono cresciuto. – risponde con naturalezza.
- E la linea telefonica non c’è mai arrivata, giusto? – chiedo ancora io, un primo raggio di consapevolezza che entra a illuminare la stanza confusa del mio cervello attraverso la finestra che, con grande sforzo, sto per spalancare.
- Già. – annuisce lui. E tutto è più chiaro. – Però c’è il wireless! – commenta trionfante, tirando fuori il netbook da sotto il cuscino. Lo fisso allucinato. – Puoi usare Facebook. – spiega lui con ovvietà.
Io schiudo le labbra e faccio per dire qualcosa, ma poi rinuncio, prendo il netbook dalle sue mani, lo apro, lo accendo, e poi lo lascio cadere nella bacinella piena d’acqua fredda che ho riempito e che ho usato fino ad ora solo per rinfrescare le pezze che gli posavo ogni cinque minuti sulla fronte per evitare che prendesse fuoco.
- Fler!!! – strilla lui, sconcertato, - Ma che cazzo hai fatto?!
Io mi alzo in piedi e mi allontano verso un’altra stanza, una a caso che non comprenda la sua presenza, lasciando quel dannato computer a mollo. Nessuno saprà dove siamo e nessuno potrà rintracciarci nel caso volesse, ma non m’importa. Giustizia è fatta.
Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia, Triste.
Pairing: Chakuza/Fler.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, AU.
- Una sera, Fler torna a casa propria e trova un uomo sconosciuto e palesemente ubriaco steso sulle scale all'ingresso del proprio palazzo. L'uomo puzza e non sembra intenzionato a passare la notte restando in vita, se abbandonato a se stesso, e per tale motivo, dopo una discussione vagamente surreale, Fler decide di accoglierlo in casa propria, almeno per la notte. La cosa, però, avrà conseguenze di un certo spessore, conseguenze che cambieranno per sempre la vita di tutti i protagonisti di questa vicenda.
Note: Dunque, che questa storia esista, a partire da una foto in cui Chakuza era vestito come un pezzente, è già una cosa abbastanza allucinante XD Non contenta di aver dato il via ad una cosa simile partendo da un pretesto abbastanza ridicolo, ho scritto a lungo. Molto a lungo. Nel senso che la storia è lunga quasi trentamila parole ed ho perciò saggiamente deciso di dividerla in tre parti per evitare che chiunque voglia leggerla (se mai qualcuno vorrà o_ò) debba smazzarsi una roba infinita. Per cui niente, spero che vi piaccia e spero anche di ricordarmi di aggiornare con frequenza, visto che comunque è tutto già scritto XD (Tra l'altro, senza parole: ho cominciato a scrivere questa storia il giorno stesso in cui è scaduto il BBI... bastarda, potevi plottarti/scriverti tutta prima è.é Almeno avrei portato tre fic come avevo promesso ç.ç)
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EVERYTHING I OWN

You sheltered me from harm
Kept me warm, you kept me warm
You gave my life to me
You set me free, set me free

La prima cosa che lo colpì entrando all’interno del palazzo fu l’odore. Viveva in quel condominio da ormai cinque anni e non aveva mai sentito una puzza simile in quel luogo, tanto più che la signora delle pulizie passava non una ma due volte a settimana a lavare il pavimento e le scale, e lucidava perfino il corrimano, cosa di cui peraltro nessuno si accorgeva mai perché il primo piano era sfitto da secoli a causa della padrona di casa vecchissima e arteriosclerotica che abitava al quarto e non voleva mai darlo a nessuno di quelli che venivano a visitarlo, perciò usavano tutti l’ascensore, anche perché il palazzo era alto una cifra, ma fondamentalmente niente di tutto questo era davvero importante, l’unica cosa che contava davvero era che lì tutto era sempre splendente e profumato, e quella puzza, no, quella puzza non era affatto normale.
Allungò una mano verso la parete dove sapeva di trovare l’interruttore della luce e schiacciò il pulsante, sbattendo un paio di volte le palpebre mentre i suoi occhi si abituavano all’improvviso passaggio dall’oscurità più totale al biancore della lampada al neon, e lanciò uno sguardo dubbioso tutto intorno a sé alla ricerca di un qualche elemento di disturbo rispetto all’usuale, quieta normalità del luogo, soprattutto a quell’ora della notte.
Non ci mise molto a trovarlo.
L’uomo stava buttato in un angolo, apparentemente molto più rassomigliante ad un topo morto che non ad un essere umano. Anche l’olezzo era lo stesso, si ritrovò a pensare Fler, avvicinandosi con estrema circospezione. Per un attimo si chiese cosa avrebbe dovuto fare nel caso il tipo fosse morto per davvero, e naturalmente la prima risposta che si diede, già da solo, fu di non chiamare la polizia ma limitarsi ad avvertire Bushido. Lui avrebbe sicuramente saputo come far sparire un cadavere. D’altronde, era il suo mestiere.
Fortunatamente, comunque, il tipo non era morto. Non ancora, almeno, anche se Fler immaginò che, senza troppe difficoltà, sarebbe sicuramente passato a miglior vita entro l’alba se l’avesse lasciato lì steso per metà sulle scale a pancia in su e con ogni probabilità di soffocarsi col proprio stesso vomito al primo conato.
Puzzava d’alcool in maniera quasi insopportabile, ma nonostante questo Fler riuscì a farsi forza abbastanza da avvicinarsi ancora e scuoterlo un po’, dapprima con un paio di calci sugli stinchi e poi, dopo aver constatato che quelli, da soli, non bastavano a ridestarlo, con due calci decisamente meglio assestati contro un fianco.
L’uomo grugnì qualcosa di indefinibile, talmente anestetizzato dall’alcool da non riuscire nemmeno a sentire il dolore per i calci.
- Che cosa…? – borbottò con voce impastata, e Fler si piantò ritto davanti a lui, le gambe lievemente divaricate ed entrambe le mani sui fianchi, guardandolo dall’alto in basso.
- Come si è introdotto qui dentro? – gli chiese, prima ancora di chiedergli come stesse o se avesse bisogno d’aiuto, - È proprietà privata, questa, lo sa?
- Eh? – disse l’uomo, massaggiandosi stancamente le tempie e strizzando le palpebre sugli occhi lucidi per riacquistare un minimo di controllo sul proprio corpo, - Chi sei tu?
- Sono un inquilino di questo stabile. – annuì Fler, perfettamente a proprio agio, - Lei, invece, no.
- …sì, direi che questo è ovvio. – concluse l’uomo, aggrappandosi a fatica al corrimano per issarsi in piedi. Era piuttosto basso, notò Fler quando ebbe finito.
- Allora? – insistette Fler, sporgendosi verso di lui con l’intenzione di pressarlo fisicamente, in modo da spremere una risposta da quei suoi occhi incredibilmente stanchi, - Come ha fatto ad entrare?
- Sono salito su dalle fogne. – rispose quello, inarcando un sopracciglio. Fler fece tanto d’occhi.
- Davvero? – chiese, - E come ci è passato?
Il tizio lo fissò come se non potesse credere alla sua esistenza in vita.
- Stavo scherzando. – rispose.
- Oh. – mugugnò Fler, vagamente deluso, - Quindi come è entrato?
- Ma chi se lo ricorda, sarà stato aperto il portone o forse mi sono intrufolato seguendo qualcuno che è entrato prima di me… - borbottò quello, massaggiandosi ancora la fronte e poi sfilando il berretto per passarsi una mano sulla testa rasata. O pelata, non era facile capirlo a quell’ora di notte e con quella luce tremula e biancastra. – Perché è così importante saperlo?
- Perché se lei mi spiega come ha fatto ad entrare, io potrò dirlo a Bushido. – rispose tranquillamente lui, annuendo come a dar forza alla propria spiegazione, - E lui potrà risolvere il problema.
Il tipo sollevò un sopracciglio, le labbra strette come due linee.
- Bushido? Quel Bushido?
- Ne conosce altri? – chiese Fler, - Eppure credevo fosse un soprannome abbastanza particolare.
- No, no, non ne conosco altri. – sospirò l’uomo, cominciando forse a capire di fronte a che tipo di persona si trovasse, - E comunque piantala di darmi del lei, non l’ha mai fatto nessuno in tutta la mia vita e non vedo perché dovresti cominciare tu adesso, visto che avrai la mia stessa età e che io, in questo momento, non riesco neanche a distinguere i contorni delle cose.
- È una questione di educazione. – borbottò Fler, quasi offeso, - Con gli sconosciuti—
- Sì, sì. – lo liquidò il tipo, con un gesto sbrigativo, - Quanti anni hai detto che hai?
- Ne ho ventotto. – rispose Fler, piccato, - E lei, comunque, non può stare qui.
Il tipo si sollevò brevemente sulle punte per lanciare un’occhiata fuori oltre il portone in vetro smerigliato oltre al quale, sulla strada vuota e buia, infuriava la tempesta.
- Diluvia. – disse, indicando un punto a caso nel vuoto, - Non posso certo uscire.
- Ma non può nemmeno stare qui! – ripeté Fler, sempre più sconvolto, - Questa non è una casa, è l’ingresso del palazzo, e quello non è un letto ma una rampa di scale. – poi sospirò profondamente, scuotendo il capo e lanciando un’occhiata supplice al soffitto come a sottintendere che, in quell’universo, lui era l’unico a dover risolvere tutti i problemi, cosa di cui l’uomo che aveva di fronte, a giudicare dallo sguardo profondamente scettico, dubitava con decisione. – Mi segua. – disse quindi, facendogli strada verso l’ascensore.
- Dove? – chiese giustamente l’uomo, fissandolo dubbioso. Fler si voltò a guardarlo come se non riuscisse a capacitarsi della sua idiozia.
- Ma su da me, no? – disse premendo il pulsante e restando in attesa dell’apertura degli sportelli, - Ha bisogno di lavarsi e di… vestiti nuovi. – elencò, lanciando un’occhiata abbastanza disgustata ai pantaloni luridi e strappati ed alla camicia tutta sbrindellata che indossava, - E, naturalmente, di un posto dove stare stanotte, visto che fuori proprio non vuole.
- Vorrei ben vedere, ma hai visto come piove?! – insistette lui, indicando nuovamente la notte oltre il portone, - Comunque, - sospirò pesantemente quando gli sportelli dell’ascensore si furono aperti e Fler vi fu entrato, facendogli cenno di seguirlo, - io mi chiamo Chakuza.
- E che nome sarebbe? – chiese Fler, inclinando il capo come un cucciolo incuriosito, - Sua madre era giapponese?
- No che non era giapponese! – borbottò Chakuza, le labbra piegate in una smorfia infastidita, - Ma sei stupido o cosa? È il mio nome d’arte.
- Un nome d’arte per cosa? – chiese Fler, guardandolo con gli occhi azzurri spalancati nella luce giallognola dell’ascensore. La cabina si fermò e gli sportelli si aprirono sul pianerottolo vuoto e buio proprio in quel momento, dando a quella domanda e al silenzio che la seguì una connotazione così forzatamente comica che Chakuza si aspettò di sentir risuonare gli applausi preregistrati nell’eco della tromba delle scale il minuto successivo.
- In che senso “per cosa”? – chiese a propria volta.
- Un nome d’arte per fare cosa? – precisò Fler, - A cosa le serve un nome d’arte?
- A— ma cosa ne so, è—
- Io ce l’ho un nome d’arte. – annuì Fler con ovvietà, uscendo dall’ascensore ed accendendo la luce sul pianerottolo per infilare senza troppe difficoltà le chiavi nella serratura, - Mi serve perché sono un artista, appunto. Firmo tutti i miei murales come Fler, ma mi chiamo Patrick. Anche lei firma murales, o qualcosa di simile?
Chakuza rifletté per qualche secondo e concluse che l’unica cosa vagamente pittorica che gli fosse capitato di fare recentemente era stata quando quel tipo strambissimo gli aveva chiesto di disegnargli addosso un omino stilizzato venendogli sulla pancia. Guardò Fler negli occhi con evidente imbarazzo e, dopo un attimo di incertezza, rispose che no, non firmava murales né nient’altro di simile.
- È solo un nome che si usa per strada. – scrollò le spalle mentre Fler lo invitava ad entrare nell’appartamento e si richiudeva la porta alle spalle, dirigendosi poi con sicurezza verso il telefono poggiato su un mobiletto in un angolo dell’ingresso. – Comunque, mi chiamo Peter. Che fai?
- Chiamo Bushido, ovviamente. – rispose lui con naturalezza, digitando il numero a memoria ed appoggiandosi al tavolino mentre restava in attesa di risposta, - Non mi crederà uno sprovveduto? Gli darò disposizione di passare per di qua domattina, e sappia che, nel caso dovesse trovarmi morto, sto per fargli una descrizione molto precisa del suo aspetto fisico, di modo che possa trovarla e fargliela pagare ovunque lei si trovi.
Chakuza boccheggiò per qualche istante, senza parole.
- …non ne dubito. – concluse infine.
- Bene. – sorrise Fler, - Ora vada pure in bagno, corridoio, seconda porta a destra. Troverà nei cassetti tutto ciò che le servirà, compresa della biancheria nuova che tengo sempre per le emergenze. – Chakuza si chiese brevemente che tipo di emergenza potesse giustificare la presenza di biancheria intima intonsa in un cassetto del bagno, ma evitò di porre la domanda. – Quando avrà finito, torni pure qua. Le darò qualcosa da mettersi e le mostrerò dove dormire.
- S-Sì. – annuì Chakuza, ancora vagamente incerto e perfino un po’ spaventato dall’assurda naturalezza con la quale quello sconosciuto se lo stava tirando in casa senza altro motivo oltre al fatto che giù nell’atrio era d’ingombro. Si voltò con l’intenzione di seguire le indicazioni e rifugiarsi in bagno il prima possibile, spronato peraltro dal pensiero di una doccia calda, vecchia compagna della quale faceva ormai a meno da tempi inenarrabili, sennonché all’ultimo minuto sentì che c’era ancora qualcosa di sbagliato, in tutta quella situazione, e sollevò un dito, voltandosi giusto per intravedere la figura di Fler ancora in attesa di risposta da parte di quello che alla fine era solo il più importante capomafia di Berlino. – Solo una cosa… - accennò con aria vagamente intimidita. Fler allontanò la cornetta dall’orecchio e la coprì con una mano, sorridendogli incoraggiante. – Smettila di darmi del lei. Ci siamo presentati, ormai, no?
Fler diede perfino l’impressione di pensarci con una certa serietà, per una manciata di secondi.
- D’accordo. – disse infine, tornando a sorridere sereno, - Ora vai in bagno. – concluse perentorio. Chakuza obbedì.
*
L’idea di stare per lavarsi non lo colpì come sarebbe stato giusto lo colpisse fino a quando non entrò fisicamente nella doccia e si accorse di non avere più granché confidenza con le manopole che regolavano il getto d’acqua. Sperò di fare tutto per bene e non dover per forza uscire da lì dentro assiderato o bollito e rossissimo come Hummer Kummer, il peluche a forma di aragosta che si trascinava sempre ovunque da bambino, ma non si stupì più di tanto quando, invece, combinò un disastro, aprì tutti i rubinetti sbagliati e prima si ghiacciò fin nelle ossa e poi si scottò al punto da doversi aggrappare alla tendina della doccia per cercare di sfuggire al getto d’acqua bollente, gesto che naturalmente portò metà della suddetta tendina a scardinarsi dal proprio sostegno ed avvolgerglisi addosso, creando una specie di pellicola avvolgente attraverso le pieghe e gli spiragli della quale centinaia di minuscole goccioline incandescenti s’intrufolavano apposta per dargli il tormento.
Fu solo con parecchia fatica che, una decina di minuti dopo, riuscì a venire a capo del problema, prendendo confidenza con l’ambiente e riuscendo a regolare le manopole in modo che il getto d’acqua fosse tiepido e piacevole. E fu allora che chiuse gli occhi e si lasciò un po’ andare all’abbraccio dell’acqua, una stretta la cui piacevolezza aveva quasi del tutto dimenticato. Non che non si fosse lavato per niente, da quando viveva per strada, ma i bagni dei locali non gli permettevano mai di rilassarsi mentre lo faceva, era tutto un doversi sbrigare perché chissà quando sarebbe arrivato il custode o un sorvegliante a beccarlo, e comunque non poteva certo spogliarsi nudo, rimpicciolirsi più di quanto non fosse già piccolo ed infilarsi in un lavandino per farsi la doccia lì. Una doccia era un’esperienza mistica che prevedeva il dedicarsi un po’ a se stessi in solitudine, con calma e tranquillità, e fu per questo che gli saltò il cuore in gola al punto che quasi scivolò di testa all’indietro quando la porta del bagno, senza nessun preavviso, si spalancò sull’espressione fiduciosa e positiva di Fler e sui suoi occhi pieni di domande come quelli di un bambino di cinque anni.
- Scusa, Chaku, pensavo! – esordì entusiasta, e Chakuza tirò la tendina così forte che finì di staccarsi nella sua interezza, cosa che fu meno negativa del previsto da un lato perché a Fler non sembrò importare granché, e dall’altro perché così almeno aveva qualcosa con cui coprirsi.
- Chaku…? – borbottò lui, incerto. Fler si limitò ad annuire felice.
- Sì, pensavo, come ti piace la pizza? – domandò curiosamente. Chakuza lo fissò incredulo.
- Perché? – chiese, pur rendendosi conto di quanto idiota dovesse suonare una domanda simile. Per quale motivo qualcuno dovrebbe chiederti che tipo di pizza preferisci, se non per offrirtene una?
- È un sacco tardi e pensavo ti andasse di mangiare qualcosa. Anche se, ti avverto, dovrai chiamare tu. Io non sono capace. – rispose lui, come se l’idiozia della domanda non lo toccasse minimamente, cosa che effettivamente diede a Chakuza da pensare. E soprattutto cosa voleva dire che non ne era capace? Non era capace di fare cosa, chiamare un servizio di pizza a domicilio? – Per me non è un problema mangiare ancora, anche se ho già cenato, così ti faccio compagnia. Bushido ha detto di dirti di stare attento a cosa fai con le mani, perché potrebbe essere l’ultima volta che le vedi, comunque. Dico io, mangiare una pizza è decisamente l’ultima cosa che vorrei fare con le mie mani se temessi di perderle, per cui…
- No, senti, senti. – lo interruppe Chakuza, massaggiandosi stancamente gli occhi con l’indice e il pollice, finendo per pinzarsi la radice del naso come molto spesso aveva fatto sua madre, buonanima, prima che lui scappasse di casa per dedicarsi completamente alla vita dissoluta per la quale tanto spesso lei l’aveva rimproverato, - Non mi fa impazzire la pizza, preferisco cucinare qualcosa io, se hai l’occorrente in casa.
Fler lo guardò a lungo con gli occhi spalancati.
- Tu cucini? – gli chiese, come se fosse più strano questo rispetto a tutto il resto. C’era decisamente qualcosa che non tornava, nella testa di quel ragazzo. Chakuza non era sicuro di voler scoprire cosa, peraltro.
- Sì. – annuì comunque, tirando su la tendina che, nel mentre, aiutata dall’acqua, aveva preso a scivolare inesorabilmente verso il basso, - E se domani dovessi perdere le mani, ecco, cucinare vorrebbe essere l’ultima cosa che farò.
Fler rise appena, un suono piacevole, infantile, sentendo il quale Chakuza non poté fare a meno di concedersi una risata a propria volta.
- Non ti taglierà davvero le mani, se farai il bravo. – lo rassicurò. Il sorriso che buttò lì come fosse assolutamente normale sorridere in quel modo ad uno sconosciuto prima di uscire dal bagno che lui stesso gli aveva permesso di usare, fu abbastanza per far capire a Chakuza che Bushido, come d’altronde sospettava, doveva saperla decisamente lunga, se l’unica raccomandazione che gli aveva fatto era quella di tenere le mani a posto.
*
Quando uscì dal bagno avvolto nell’accappatoio più morbido che avesse mai indossato nella sua intera esistenza, a Chakuza pianse il cuore nel notare i vestiti che Fler aveva sistemato per lui sul ripiano di un cassettone di media grandezza posto proprio davanti alla porta, sull’altro lato del corridoio. C’era anche un post-it, proprio lì accanto, che gli indicava tramite una serie di disegnini e freccine dove fosse la camera da letto, invitandolo a recarsi lì per cambiarsi e mettersi a suo agio prima di raggiungerlo in soggiorno, dove lui stava giocando alla Wii. Chakuza sollevò lo sguardo e tese le orecchie: da qualche angolo lontano dell’appartamento giungevano suoni di guerriglia urbana intervallati ogni tanto da urla di gioia o momenti in cui Fler decideva di mettersi a cantare ad alta voce le canzoni che stava probabilmente ascoltando in cuffia, visto che non c’era traccia di melodia da nessuna parte.
Scoprì invece che il suo cuore non aveva nessun motivo di piangere, perché i vestiti erano morbidi e comodi esattamente come l’accappatoio, e passare dall’uno agli altri fu come essere un putto e passare da una nuvola a quella immediatamente successiva senza nemmeno dover spostare di troppo l’arpa. Un cambio incredibilmente naturale.
Quando raggiunse Fler in soggiorno, era ormai diventato un tutt’uno con gli abiti che lui gli aveva prestato. Li sentiva così intimamente propri che progettava di chiedergli se poteva bruciare i vecchi e tenere questi anche una volta che fosse andato via, ma capì subito che non era il momento di porre la questione, dal modo in cui Fler si alzò e, brillando di luce propria, mollò il videogioco al suo triste destino per afferrarlo per una mano e trascinarlo di peso in cucina.
Mentre veniva trainato, Chakuza posò lo sguardo sulla mano di Fler, così saldamente stretta attorno alla propria, e si chiese se questo fosse lo stesso ragazzo che, fino a mezz’ora fa, ancora gli dava del lei. Era normale, per lui, essere così entusiasta ed espansivo per ogni cosa? Era normale afferrare per mano uno sconosciuto e condurlo senza riserve nella propria enorme, splendida, lucente cucina ipermoderna da lacrime istantanee, ignorando ostentatamente il rischio che lui potesse magari rovistare in un cassetto, tirarne fuori un coltello da macellaio e sventrarlo con un colpo secco dalla gola alla pancia?
- Guarda, ti ho messo qui sul tavolo tutto quello che ho trovato. – illustrò, indicando il ben di dio di roba che doveva aver tirato fuori dal frigorifero, da tutti gli stipetti ed anche dalla dispensa, se ne aveva una. – Pensi che potresti tirarne fuori qualcosa di buono?
- Penso che potrei tirarne fuori qualcosa di buono per molti giorni di seguito e per molte più persone di quante non ce ne siano adesso in questa stanza. – gli fece notare, inarcando un sopracciglio, - Ma fai sempre tutta questa spesa?
- No, in realtà non ne faccio mai. – rispose Fler con una risatina divertita, - Mi compra tutto Bushido. Dice che devo tenermi in forze.
- E non dubito che tu ci riesca, con tutta questa roba. – commentò Chakuza con una mezza risata. Dopodiché, si avvicinò al tavolo e selezionò un paio di ingredienti, cercando di schiarire le idee per pensare a cosa preparare e realizzando con un po’ di tristezza che erano almeno un paio d’anni che non aveva più occasione di cucinare niente. – Potrei essermi un po’ arrugginito. – confessò imbarazzato, - Non mi esercito da un po’.
- Fa niente. – rispose Fler, scrollando le spalle, - Tanto io mangio tutto.
Chakuza rise ancora, chiedendosi a quando risalisse l’ultima volta in cui l’aveva fatto così spesso. Era un periodo tanto antico da essersi sbiadito quasi del tutto nella sua mente, non ne rimaneva che qualche traccia antica, la distante consapevolezza di averlo vissuto, di essere stato, un tempo, una persona talmente felice da potersi concedere di ridere e ridere e ridere senza avere bisogno di litri d’alcool per farsene venire la voglia. Dopodiché mise da parte questi brutti pensieri e si diresse risolutamente verso i fornelli, per scoprire che in realtà la mano non l’aveva persa affatto.
*
- Ti è piaciuto? – chiese con un sorriso nell’osservare Fler che si rovesciava sazio contro lo schienale della sedia, allungandosi un po’ per trovare il bottone dei jeans sotto la pancetta appena pronunciata, per sfibbiarlo.
- Un sacco, Chaku! – rispose lui entusiasta, sorridendo così sereno da rassomigliare a quei neonati che, nel sonno, si lasciano sfuggire un sorriso dopo una poppata particolarmente soddisfacente. – Io non sono uno che fa caso al gusto delle cose, in genere, ma questo era proprio buonissimo.
- Mi fa piacere. – rise Chakuza, alzandosi e mostrando la chiara intenzione di rassettare piatti e posate. Fler allungò un braccio, afferrandolo per un polso e fermandolo.
- Che combini? – gli chiese con una risatina, - Lasciali lì, non c’è bisogno.
- Ma posso occuparmene io, tu fai già tanto tenendomi in casa, non—
- Ma non lo farò nemmeno io. – rise ancora Fler, se possibile perfino più divertito di prima, - Ci penserà Bushido domani. Ci sta un sacco attento, lui, a queste cose.
Chakuza inarcò le sopracciglia al punto che quasi se le sentì scivolare oltre la fronte. Se ne preoccupò perfino, per qualche secondo.
- Vuoi dire che Bushido, quel Bushido, Anis Mohammed Youssef Ferchichi, anche conosciuto come Sonny Black, ti lava i piatti? – chiese con aria allucinata.
- E mi rifà il letto. – annuì Fler, alzandosi con una certa fatica. – Dio, quanto sono pieno. Ma che sonno ho? Chaku, ma ci hai messo dentro del sonnifero per stendermi e rubarmi tutte le cose? Non avrai più mani, domattina.
- Non ho messo nessun sonnifero da nessuna parte, e— aspetta! – gli corse dietro, mollando i piatti lì dov’erano, - Ma che vuol dire che ti rifà il letto? Ma chi è, la tua badante?
- Ma no, siamo solo amici! – borbottò Fler, voltandosi a guardarlo con aria decisamente offesa, - Non ho bisogno di nessuna badante!
Chakuza non poteva dire di esserne poi così sicuro, dopotutto. E, in ogni caso, tutta quella storia gli stava aprendo gli occhi su un lato della vita di Bushido che, vivendo per le sue strade e dovendo stare alle sue leggi, non aveva mai preso in considerazione.
Si trattava di un essere umano, dopotutto. Con affetti e debolezze. Per più di un attimo, attraverso la sua mente resa mille volte più incline a pensieri similari dalla vita che aveva condotto negli ultimi anni, passarono le possibilità più svariati. Tutte comprendevano la presenza di Fler, comunque. E non tutte erano in realtà granché oneste, soprattutto visto quanto quel ragazzo stava facendo per lui senza palesemente aspettarsi nulla in cambio.
Scrollò il capo con decisione. Se davvero ragionamenti del genere fossero diventati una tappa obbligata, ci avrebbe pensato nei prossimi giorni, quando almeno avrebbe abbandonato il suo appartamento. In quel momento, il solo pensiero di lasciarsi andare a considerazioni simili proprio lì gli dava il voltastomaco.
- Senti… - abbozzò, grattandosi nervosamente la nuca, - Grazie per tutto quello che stai facendo, davvero. Non ho mai incontrato una persona gentile… - o stupida, ma questo non lo aggiunse, - come te, da quando, be’, vivo per strada. Quindi, grazie.
- Oh, andiamo. – rise Fler, tirandogli una pacca su una spalla ed entrando in camera, lasciandolo lì sulla soglia mentre, con estrema disinvoltura, tirava via la felpa e la maglietta e restava con addosso solo i pantaloni, - Non potevo certo lasciarti lì. Chiunque l’avrebbe fatto, al mio posto.
- No, sono abbastanza sicuro del contrario, in realtà. – protestò Chakuza, ma senza troppa veemenza perché non gli andava di contraddirlo. Il senso di colpa per i pensieri molesti di poco prima stava prendendo il sopravvento. – Comunque, non mi hai ancora mostrato dove dormirò stanotte. – buttò lì con tono casuale, per non sembrare uno di troppe pretese. Gli andava bene anche una poltrona, purché Fler gliela indicasse, di modo che lui non dovesse sentirsi troppo invadente anche in quello.
Fler, invece, lo fissò con sincero stupore, prima di tirare giù i pantaloni in un gesto talmente improvviso che Chakuza quasi si ritrovò a fare un passo indietro per la sorpresa.
- Ma qui con me, ovviamente. – disse quindi con naturalezza, - Quante stanze pensi che abbia quest’appartamento?
Improvvisamente, tutto fu più chiaro, nella mente di Chakuza. Si concesse perfino un sorriso soddisfatto, perché ora sì che si cominciava a parlare la sua lingua. Non aveva alcun motivo di sentirsi in colpa, perché naturalmente Fler non lo stava aiutando così per bontà d’animo. E d’altronde era impensabile che uno che, a quanto pareva, aveva un rapporto particolarmente stretto con Bushido, non riconoscesse uno come lui alla prima occhiata. Non c’era dubbio che Fler l’avesse inquadrato per ciò che era fin dal primo minuto, e avesse deciso di tirarselo in casa magari per fare la propria buona azione quotidiana e guadagnarci in più anche una sana scopata priva di conseguenze sentimentali. Ma andava bene così, era ciò con cui Chakuza era abituato ad avere a che fare ogni giorno. Un mondo che potesse capire e che, per assurdo, suonava un sacco più rassicurante rispetto all’idea che s’era fatto fino a quel momento e che dipingeva un ragazzino fondamentalmente mai cresciuto al quale la sua sola presenza avrebbe potuto potenzialmente fare un male assassino semplicemente imponendosi come un corpo estraneo nella sua tranquilla quotidianità.
Si avvicinò guardando Fler dritto negli occhi, inclinando appena il capo e muovendosi lentamente, con fare suadente. Sfilò la maglia che Fler gli aveva prestato, così morbida da scivolargli sulla pelle come una carezza, e la trattenne per qualche secondo fra il pollice e l’indice, prima di lasciarla cadere per terra con uno sbuffo silenzioso. Sorrise per tutto il tempo, senza interrompere il contatto visivo neanche quando Fler si voltò per arrampicarsi sul letto. Lo osservò sistemarsi fra le coperte ed aspettò che si fosse seduto, con la schiena appoggiata contro la testiera in legno lucido e scuro, prima di procedere a sbottonare i pantaloni.
- Ti piace spogliarti così lentamente? – gli chiese Fler, e Chakuza sorrise dell’assoluta innocenza della sua voce. Il ragazzo sapeva come fare per fare impazzire un uomo, questo era evidente, e lui ne sentiva gli effetti fin dentro lo stomaco, che sentì contorcersi in un lieve spasmo di piacevole impazienza che si concesse di provare perché erano anni, Dio, che non scopava con un po’ di sentimento.
- Non lo so. – rispose con fare ammiccante, lasciandosi scivolare i pantaloni lungo le gambe e salendo a gattoni sul letto, avvicinandosi a Fler come un predatore silenzioso, - A te piace che mi spogli così lentamente?
Fler inarcò un sopracciglio, apparentemente poco convinto dalla risposta.
- Ma per me puoi spogliarti un po’ come vuoi. – rispose sinceramente, ed a Chakuza venne voglia di sporgersi a lasciargli un bacio nel mezzo della fronte per sussurrargli che aveva capito a che gioco stava giocando, poteva anche smetterla di fare la finta vergine innocente.
- Davvero? – chiese, mettendosi in ginocchio di fronte a lui ed appendendo entrambe le mani all’orlo elastico degli slip, - Quindi per te va bene se tiro giù lentamente anche questi…? – chiese pianissimo.
Fler dischiuse le labbra, lanciando un’occhiata alla sua biancheria e poi tornando a guardarlo negli occhi.
- Chaku… - comincio inumidendosi le labbra. A Chakuza parve di vedere una luce diversa, nel suo sguardo. Una luce carica di voglia. Sorrise fra sé: era fatta. - …si può sapere cosa diavolo stai facendo? Mettiti a letto e dormi.
Qualcosa, nel fondo del cuore di Chakuza, quella notte si spezzò inesorabilmente. Le sue certezze, probabilmente.
- Cosa…? – balbettò incerto, - Che…? Non vuoi…?
- Ma non voglio cosa?! – sbottò Fler, afferrandolo per le spalle e ribaltandolo nell’altra metà del letto senza troppe difficoltà, - Ma che avevi in mente di fare?
- Scopare! – rispose lui, allibito, mettendosi istantaneamente seduto e fissandolo con terrore e raccapriccio, come fosse una creatura aliena.
- Cosa?! – strillò Fler, tirandosi perfino indietro in una posa schifata, - Ma con chi?! Con me?!
- Vedi qualcun altro in questa stanza?! – ribatté Chakuza, sempre più allibito, - Pensavo che fosse per questo che mi avevi portato qui!
- Che?! Ma quando mai ti ho detto esplicitamente o implicitamente che volevo venire a letto con te, scusa?! – indagò Fler, peraltro vagamente incuriosito dal suo processo mentale a riguardo.
- Ma non lo so, mi hai portato in camera tua…
- …perché non ci sono altre camere da letto!
- E ti sei spogliato davanti a me!
- Ma perché, tu in genere vai a letto vestito?!
Si fermarono entrambi, guardandosi con ansia crescente per qualche secondo. Improvvisamente, niente era più sicuro. Soprattutto per Chakuza, che credeva di aver trovato la soluzione dell’enigma e invece si ritrovava di nuovo con in mano esattamente ciò da cui era partito, un ragazzino mai cresciuto che la sua presenza avrebbe palesemente devastato se avesse deciso di rimanergli intorno anche solo per due minuti in più dello stretto necessario, ammesso che già lo stretto necessario non fosse un periodo troppo lungo.
- …ok, scusami. – cedette per primo, distogliendo istantaneamente lo sguardo, - Non so cosa m’è preso. Cioè, sì, lo so, in realtà. – sospirò profondamente, - Ho pensato di risolvere con te nello stesso modo in cui risolvo generalmente nella vita.
- Che intendi dire? – chiese Fler, stendendosi sul letto e voltandosi su un fianco per guardarlo, perfettamente a proprio agio, come se fra loro non fosse mai successo niente di tremendo o che avrebbe giustificato Bushido a tagliare le mani a Chakuza quando e come avesse preferito.
Chakuza lo imitò, stendendosi al suo fianco ed incrociando le mani dietro la nuca, perdendosi a fissare il soffitto per non dover fissare lui.
- È quello che faccio. – disse quindi, - È il mio lavoro. Vado a letto con gli uomini. È così che mi guadagno da vivere.
- …senza offesa, Chaku, - ridacchiò un po’ Fler, - non che io abbia esperienza, a riguardo, ma non ti viene affatto bene.
Chakuza rise a propria volta, piegandosi un po’ su se stesso prima di tornare a stendersi, visibilmente più rilassato rispetto a prima.
- Questo spiega perché mi hai trovato sporco e ubriaco perso a dormire nell’androne del tuo palazzo. – rispose. Fler rise a propria volta, annuendo brevemente.
- Senti, io non voglio niente, da te. – lo rassicurò quindi, - Sentiti libero di restare quanto vuoi, io non ho problemi. Sei simpatico, comunque. E cucini bene. Potresti diventare la mia cuoca! – buttò lì con aria ilare, prima di concedersi uno sbadiglio enorme e borbottare un “buonanotte” vagamente infantile, per poi poggiare la testa sul cuscino e cadere istantaneamente nel più profondo dei sonni.
Chakuza lo guardò in silenzio per qualche secondo, sorridendo appena. Dopodiché, quando fu certo che si fosse addormentato davvero, decise di prendere alla lettera il suo suggerimento: il più silenziosamente e discretamente possibile, muovendosi così lentamente da arrivare quasi a dilatare il tempo, si alzò dal letto, ed in punta di piedi raggiunse la cucina. Dove cominciò immediatamente a rassettare.
*
- Chaku, ma cosa hai combinato?! – rise ad alta voce Fler, e fu effettivamente la prima cosa che fece quella mattina entrando in cucina e trovandolo ancora intento a lucidare le piastrelle già bianchissime dietro il piano cottura. Prima ancora di sbadigliare o grattarsi la testa o sistemarsi l’attrezzo come tutti gli esseri umani normali, prima ancora di prendersi magari un attimo per ricordarsi come quello sconosciuto fosse arrivato nel suo appartamento e, conseguentemente, nella sua cucina, Fler lo chiamò “Chaku” e cominciò a ridere.
Chakuza alzò lo sguardo e poggiò sul ripiano la pezzuola umida che stava utilizzando, voltandosi a guardarlo. Non aveva dormito neanche un minuto, quella notte, ma stranamente non era stanco. Non si sentiva né pesante né svogliato come spesso gli capitava svegliandosi alle sei del pomeriggio nel suo letto cencioso, nel baraccone di lamiere che lui, Nyze e Kay usavano come abitazione. E sì, il fatto che l’ingresso di un palazzo a caso in una via a caso di Berlino fosse decisamente più confortevole dell’unico luogo che potesse in qualche modo chiamare “casa” la diceva lunga su quali fossero le sue condizioni di vita generali.
- Ho pulito un po’. – rispose con una certa naturalezza, ricevendo in cambio una risata se possibile perfino più convinta.
- Ma era già tutto pulito, a parte i piatti! – gli fece notare Fler, - E quelli li avrebbe comunque puliti Bushido oggi!
- Senza offesa, eh, - rise Chakuza, asciugandosi le mani su un panno asciutto e versando il caffè che aveva già preparato in una tazzina che poi porse a Fler, - ma fino a ieri io vivevo in un mondo in cui Bushido era un uomo duro e potente, che sapeva il fatto suo e teneva in scacco tutta Berlino. Vorrei ritornare a vivere in quel mondo, quando sarò uscito da questa casa, perciò smettila di ricordarmi che in realtà stiamo parlando della tua donna delle pulizie.
- Se Bushido ti sentisse adesso, non si limiterebbe a tagliarti le mani. – osservò Fler con interesse quasi accademico, come stesse davvero ponderando l’ipotesi. Proprio in quel momento, neanche l’avessero invocato, una chiave girò nella serratura della porta d’ingresso e quest’ultima, pochi secondi dopo, si spalancò sulla figura gioviale e, per Chakuza, del tutto inedita in queste vesti, di Bushido.
Indossava un paio di jeans strappati in più punti e una vecchia maglietta scolorita, un paio di occhiali da sole e normalissime scarpe da tennis un tempo bianche ma ormai tendenti più che altro al grigiolino tipico che le colora dopo un po’ d’anni di utilizzo. Portava in mano un sacchettino di carta vagamente macchiato d’olio sul fondo e sembrava, in generale, un uomo che si fosse svegliato una decina di minuti prima della propria fidanzata ed avesse deciso di farle una sorpresa indossando a casaccio le prime cose che gli fossero capitate sotto mano per uscire a comprarle la colazione da portarle a letto.
Entrò all’interno dell’appartamento chiudendosi la porta alle spalle con estrema naturalezza, come fosse un’abitudine, cosa della quale peraltro Chakuza non si sognava nemmeno di dubitare. Ignorò platealmente la sua persona, come se per lui fosse normalissimo anche trovare sconosciuti nella cucina di Fler quando passava a trovarlo alle sette del mattino, preferendo dirigersi immediatamente verso di lui, girargli un braccio attorno alle spalle e tirarlo contro di sé, lasciandogli un bacio su una tempia.
- Ti ho portato la colazione, piccolo. – disse placido, posando il pacchetto sul tavolo ed osservando Fler mentre, con aria golosa, lo apriva e rovistava all’interno, tirandone fuori una ciambellina zuccherata con uno squittio entusiasta, - Il signore qui non ha fatto niente di sconveniente, vero?
Fler gli lanciò un’occhiata illegalmente divertita e Chakuza pensò “ecco, ci siamo, adesso gli racconterà di quello che ho fatto stanotte e quest’uomo mi taglierà le mani, e dovrò essere grato se si fermerà soltanto a questo”. Invece, Fler si limitò a girare un sorriso decisamente meno pestifero verso Bushido per rassicurarlo sbrigativamente.
- È stato bravissimo. – disse con sicurezza, - Un vero gentiluomo.
Chakuza tirò un discreto sospiro di sollievo e rimase un po’ in disparte, sentendosi vagamente e disagio e fuori luogo per la prima volta da quando era entrato in quella casa, mentre Bushido s’informava gentilmente con Fler su quali fossero i suoi programmi per la giornata – nello specifico, fare colazione, lavarsivestirsiuscire, detto tutto di seguito come avesse avuto cinque anni, fare un giro nei paraggi, poi tornare a casa e mettersi a giocare alla Wii.
- Ottimo. – approvò Bushido con un sorriso ed un cenno del capo, - Allora poi passo a prenderti per pranzo. Adesso accompagno il tuo nuovo amico a casa sua, d’accordo? Tu vatti a mettere qualcosa addosso. – suggerì, anche se più di un suggerimento sembrò l’ordine gentile di un padre bonario. Fler, comunque, sembrava abbastanza incline all’obbedienza, con lui, tant’è che salutò Chakuza con un mezzo abbraccio piuttosto caloroso e poi sparì in corridoio, con l’immancabile sorriso sempre sulle labbra.
Chakuza si strinse nelle spalle, abbassando lo sguardo, evidentemente in imbarazzo.
- Non c’è bisogno che mi accompagni, signor… signor Ferchichi. – provò.
- Bushido. – sorrise quello, perfettamente a proprio agio, - E non è un disturbo.
- No, ma davvero. – provò ad insistere lui.
- No, ma davvero. – insistette anche Bushido. La sua insistenza ebbe la meglio.
Rimasero perlopiù in silenzio mentre abbandonavano l’appartamento – dal bagno si sentiva arrivare lo scrosciare allegro dell’acqua e la voce di Fler che cantava a squarciagola il ritornello di Livin’ La Vida Loca, e Chakuza si ritrovò senza un perché a chiedersi se gli sarebbe dispiaciuto uscire da lì e non trovare nessuno ad aspettarlo – ed anche quando furono saliti in macchina – una BMW metallizzata incredibilmente bassa e lunga che doveva essere costata più di tutti i soldi che Chakuza aveva visto nel corso della sua intera esistenza – si limitarono ad una mezza conversazione di circostanza basata più che altro sulle indicazioni che Chakuza si sentiva in dovere di dare e che Bushido, d’altro canto, non sembrava avere alcun bisogno di ricevere.
Il perché Chakuza lo capì solo quando furono arrivati di fronte al suo baraccone e Bushido, dopo aver fermato la macchina, chiuse le sicure a tutti gli sportelli, voltandosi a guardarlo con aria estremamente seria, le sopracciglia aggrottate dietro gli enormi occhiali scuri.
- Io lo so chi sei. – gli disse tetro, e Chakuza si sentì scorrere un brivido di puro terrore lungo tutta la schiena.
- Mi… dispiace. – accennò quindi, anche se era piuttosto incerto sulla valenza da dare a quelle scuse. Di cosa avrebbe dovuto scusarsi, di esistere? Di fare la puttana? Non era granché chiaro nemmeno a lui stesso, per cui naturalmente non risultò chiaro neppure a Bushido, che inarcò un sopracciglio.
- C’è qualcosa di cui tu debba dispiacerti? – chiese dubbioso, e Chakuza si ritrovò a sollevare le braccia e prendere a gesticolare confusamente con una tale furia da spaventarsi da solo.
- No! – proruppe con enfasi, - No, assolutamente! Sono stato bravo! Lo giuro!
Bushido tornò a sorridere, le braccia abbandonate con naturalezza sul volante.
- Bene, allora. Ciò che volevo dirti è che so chi sei e so come si comportano quelli come te con quelli come Fler. Avrai capito, passando con lui la notte, che si tratta di un ragazzo abbastanza ingenuo.
Chakuza annuì, anche se in realtà era una consapevolezza che aveva acquisito ben prima di passarci la notte insieme.
- È un bravo ragazzo, signor Ferchichi. – disse con reverenza.
- Bushido. – lo corresse ancora lui, e Chakuza si morse la lingua. – Non voglio certo vietarti di rivederlo, se vorrai. Fler si affeziona facilmente alle persone e sono quasi certo che sarà lui a voler rivedere te quanto prima, ed è una cosa che io, naturalmente, non posso impedire. – Chakuza annuì ancora, anche se ebbe l’impressione che Bushido parlasse così solo per falsa modestia, come volesse lasciarti intendere che c’erano cose che nemmeno lui poteva controllare, quando invece le controllava eccome, anche solo terrorizzando gli astanti come stava abbondantemente facendo in quel momento. – Tutto quello che ti raccomando è di non farlo soffrire. Potrei diventare cattivo, allora.
Lo stesso brivido che l’aveva costretto a tremare prima risalì lungo la sua schiena, stavolta dal basso verso l’alto, costringendolo a tremare ancora. Annuì sbrigativamente, come se la sola idea di farlo aspettare fosse inconcepibile.
- Certo, signore. – disse obbediente, - Naturalmente. Non mi sognerei mai.
Bushido sorrise ancora, con maggiore convinzione, e tolse la sicura agli sportelli.
- Buona giornata, dunque. – lo salutò affabile.
Chakuza mormorò qualcosa in risposta e si affrettò ad uscire dall’auto, sentendo immediatamente tornare addosso stanchezza e pesantezza quando posò la mano sulla porta semi-scardinata del baraccone. La scostò appena, consapevole del fatto che, se avesse solo provato ad aprirla completamente, gli sarebbe rimasta in mano, e fu altrettanto attento a richiudersela alle spalle dopo essere sgattaiolato all’interno. Lanciò un’occhiata ai due lati opposti della stanza, assicurandosi che entrambi i giacigli di Nyze e Kay fossero occupati, e da Nyze e Kay, non da barboni piombati lì a caso durante la notte, e quando fu certo che, sotto le coperte cenciose, riposavano proprio loro due, si lasciò andare con un sospiro sul proprio letto, o almeno, su ciò che si ostinava a chiamare tale. Il materasso cigolò rumorosamente sotto di lui, e lui non poté fare a meno di pensare a quanto silenzioso fosse stato invece quello di Fler. E quante volte più comodo fosse, naturalmente.
Ciononostante, dopo una decina di minuti il sonno si fece tale che si rassegnò a chiudere gli occhi. Cadde addormentato senza neanche accorgersene, nel giro di dieci secondi.
*
- Sarà morto? – disse la voce di Kay, ancora un po’ impastata dal sonno, accogliendolo verso le nove di quella sera.
- Ma no che non è morto, coglione. – la rimbrottò la voce di Nyze, anche lei vagamente impastata, ma più che altro perché il suo proprietario sembrava impegnato a masticare qualcosa di non meglio definito.
Mugugnando con forza in segno di protesta, Chakuza aprì un occhio e con quell’unica finestra aperta sulle brutture del mondo – rappresentate in quel momento dai suoi due illustri coinquilini – cercò di trasmettere all’universo che tirava proprio una brutta aria e non era davvero il caso di dargli fastidio.
- Ah! Infatti ha aperto un occhio. – notò Kay, evidentemente poco incline a recepire il messaggio, di qualunque tipo esso fosse, - Ben svegliato, Chakuza! – lo salutò con entusiasmo, battendogli una pacca tanto forte quanto inopportuna sulla spalla, - Passato una bella nottata?
Chakuza grugnì qualcosa di vagamente somigliante ad un insulto e si rigirò su un fianco, tirandosi la coperta fin sopra la testa e desistendo meno di trenta secondi dopo, causa puzzo eccessivo. Da quant’è che non cambiavano quelle lenzuola? Mesi, almeno.
- Mi sa che non è stata una bella nottata affatto. – ghignò Nyze, avvicinandoglisi per scrutarlo con divertimento palese negli occhi e sbriciolandogli involontariamente – ma chissà poi quanto – addosso la fetta biscottata che stava trangugiando con la parsimonia di una formichina che raziona le scorte durante il gelido inverno.
- E sta’ lontano! – sbottò Chakuza, tirandogli una manata in piena fronte per allontanarlo dal suo letto, già abbastanza lurido senza dover aggiungere al tutto tracce di cibo, e rassegnandosi poi a tirarsi a sedere e stiracchiarsi un po’ nel tentativo di recuperare almeno un briciolo di lucidità, che tanto palesemente quei due non l’avrebbero lasciato in pace finché non si sarebbe deciso a scucire qualche informazione. Non era da lui uscire per le classiche quattro ore di lavoro notturno e non rincasare sfatto alle cinque del mattino. Non era da lui nemmeno tornare a mattina inoltrata con indossi vestiti nuovi palesemente non suoi, peraltro. – Non è stata una brutta serata. – si decise a confessare, gettando le gambe giù dal letto in un gesto repentino, prima di doversene pentire, - Direi più strana.
- Definisci strana. – ordinò Kay, saltando ai piedi del letto e facendo ondeggiare il materasso tanto da costringerlo a ricaderci sopra rotolando sulla schiena, sbattendo naturalmente la nuca contro la testiera.
- Kay, cazzo, ma datti una calmata… - borbottò lui, massaggiandosi il punto dolente, - Comunque voi come la definireste una serata in cui vi ubriacate fino a non riconoscervi manco quando vi guardate nelle vetrine dei negozi e alla fine di tutto passate la notte col pupillo di Bushido? – buttò lì con aria casuale, e prevedibilmente sul baraccone calò il silenzio.
- …definisci pupillo. – disse quindi Kay. Nyze lo spintonò giù dal letto.
- E piantala con questa storia delle definizioni! – sbottò prendendo il suo posto sul materasso, - Chakuza, che cazzo stai dicendo? – chiese quindi, tornando a rivolgersi a lui, gli occhi spalancati e colmi d’incredulità.
Chakuza scrollò le spalle, quasi a volergli lasciare intendere che alla fine non fosse poi niente di speciale.
- Questo tizio stranissimo, tipo, palesemente inadatto alla vita in genere, e viene fuori che Bushido lo conosce. – cominciò a spiegare, ma Nyze gli agitò entrambe le mani davanti alla faccia, interrompendolo all’istante.
- No, cioè. – disse quindi, - Tu hai conosciuto Fler. Tu hai conosciuto Fler!
Chakuza spalancò gli occhi e schiuse le labbra.
- …tu lo conoscevi? – chiese incredulo. Nyze lo fissò con aria ebete per un paio di secondi e poi si spalmò una mano sulla fronte, mugolando con evidente sofferenza.
- Ma con chi, - si lamentò, - con chi sono costretto a convivere?
Chakuza inarcò un sopracciglio, incrociando le braccia sul petto.
- Se evitassi le sceneggiate e mi dicessi semplicemente cosa ti frulla per la testa…? – propose con aria scettica, lanciandogli un’occhiataccia poco compiaciuta.
- Tu vivi nell’ignoranza! – berciò Nyze, indicandolo con aria accusatoria, - Come fai a sopravvivere per strada senza sapere queste cose basilari! Basilari! – agitò le mani in aria, sconvolto, mentre Kay si accucciava sul pavimento accanto al letto e lo fissava con occhi vacui, come aspettandosi di vederlo cadere a terra rantolante in preda ad una crisi epilettica da lì a pochi secondi. – Bushido protegge Fler da quando era un ragazzino. Il tipo ha sempre vissuto nella bambagia per non so che promessa Bushido abbia fatto alla sua povera madre morente o qualcosa di simile… comunque il succo è che tu sei andato a letto con la cosa più importante che esista in tutto il mondo per quell’uomo! Non so se te ne rendi conto!
- Aspetta, aspetta! – strillò immediatamente Chakuza, prendendo a gesticolare furiosamente, - Hai capito male! Non ci sono andato a letto.
Nyze si interruppe immediatamente, lanciandogli un’occhiata sconcertata.
- Non ci sei andato a letto. – ripeté, come se soltanto dando voce al pensiero potesse pensare di potersi abituare all’idea.
- Non ci sei andato a letto?! – chiese Kay, la bocca spalancata in una perfetta o di meraviglia, - Cos’hai, sei malato? – si informò premuroso, alzandosi in piedi e premendogli una mano sulla fronte nel tentativo di saggiare la sua temperatura corporea.
Chakuza se lo scrollò di dosso in un gesto infastidito, scuotendosi tutto come un cane bagnato.
- No, non ci sono andato a letto. – ripeté in favore di entrambi, aggrottando le sopracciglia. - …non che non ci abbia provato, comunque.
- Che? – ridacchiò Nyze, - Ci hai provato pur non sapendo chi era? Ma non è che ti piace?
- Ti sei preso una cotta? – miagolò Kay, con l’aria di un bambino di cinque anni di fronte allo svago perfetto per le prossime cinque ore almeno.
- Non— niente del genere. – sbuffò lui, distogliendo lo sguardo. – È stato gentile, con me. Ero sfattissimo, pioveva in maniera assurda e lui, senza neanche sapere chi ero, mi ha preso in casa, mi ha offerto la cena, una doccia calda e un tetto sopra la testa.
- Ah! Ecco perché non puzzi. – constatò Kay con aria seria. Chakuza rispose con uno scappellotto sulla nuca.
- Volevo solo ricambiare la gentilezza. – concluse, scrollando le spalle. – E comunque non mi ha voluto, anzi, direi che mi ha proprio rifilato un due di picche colossale, per cui pace.
- Oh. – mugolò Kay, abbassando lo sguardo con aria quasi sinceramente ferita, - Mi dispiace, Chaku. – lo consolò, allungandosi a battergli un’amichevole pacca su una spalla. Chakuza gli tirò addosso il cuscino.
- Non è che mi abbia lasciato la ragazza, Kay. – sbottò infastidito, - Non ho alcun bisogno del tuo dispiacere. O di… qualunque cosa tu stia pensando adesso, Nyze. – lo avvertì, voltandosi a guardarlo per un secondo e trovandolo immerso in una profonda riflessione. Ma di quelle profonde davvero, a giudicare dalla ruga che gli si era disegnata in mezzo alle sopracciglia ed alle dita che accarezzavano insistentemente il mento affilato, come gli servisse un atteggiamento simile per favorire la messa in moto dei pensieri dentro la sua testa.
- No, è che stavo pensando… - cominciò lui con aria assente, e Chakuza scattò in piedi, allontanandosi verso il cesso a grandi passi.
- Non mi interessa. – ribadì per buona misura, entrando in bagno e chiudendosi la porta alle spalle. Nyze si avvicinò, e lui, seduto sulla tazza, sentì la porta scricchiolare pericolosamente sotto il suo peso. Doveva essercisi appoggiato contro, alla faccia dei cardini arrugginiti e vecchi di mille anni. – E stai lontano dalla porta, prima di sfondarla!
Nyze ebbe l’accortezza di spostarsi qualche centimetro più in là, poggiando sulla parete. Non che quest’ultima fosse poi molto più stabile di tutto il resto, ma almeno non correva il rischio di scardinarsi e crollargli sulla testa come invece gli scricchiolii della porta avevano minacciato di fare.
- Facevo solo qualche considerazione sparsa. – continuò, e Chakuza roteò gli occhi, corredando il tutto con un uggiolio sconfitto.
- Non mi interessa, Nyze, davvero. – ripeté pulendosi e alzandosi in piedi, meditando sulla possibilità di tirare l’acqua e non averne più per lavarsi e decidendo infine di rinunciare alla salvaguardia del cesso per continuare a sentire addosso la sensazione di pulito che la nottata in casa di Fler gli aveva regalato. Si posizionò davanti allo specchio, aprendo il rubinetto dell’acqua rigorosamente fredda ed accontentandosi del rivolo che ne venne fuori per darsi una sciacquata veloce, ripensando con nostalgia crescente al bagno piastrellato, lucido, bianchissimo e profumato di casa di Fler.
- Ma sono più che altro curiosità, niente di che. – continuò Nyze, ignorandolo completamente. – Tipo, per dire, come vi siete trovati tu e Fler? In generale, dico.
- Abbastanza bene, grazie. – rispose Chakuza, cercando di concentrarsi sul proprio aspetto e rendendosi conto che rendersi più presentabile per andare in strada, quella sera, sarebbe stato meno difficile del solito: la sua pelle era meno ruvida, i vestiti che aveva addosso erano palesemente costosi e ben tenuti, e profumavano di buono. Sarebbe stata una serata proficua.
- E che tipo è? – chiese ancora Nyze, mentre Chakuza si osservava di profilo, da un lato e poi dall’altro. – A parte quella cosa dell’essere palesemente inadatto alla vita di cui parlavi prima.
- La sua inabilità a vivere è la parte più importante di lui. – disse senza pensarci, sistemandosi sbrigativamente i vestiti addosso, - Sembra un ragazzino di cinque anni, potresti fargli credere tutto e il contrario di tutto solo sorridendogli un po’.
Nyze rimase in silenzio per qualche secondo.
- Ed è un bel ragazzo? – chiese quindi. La sua domanda cadde nel silenzio.
- In che senso? – ritorse Chakuza poco dopo.
Nyze cambiò posizione e la parete scricchiolò in segno di protesta.
- Non è una domanda difficile, Chaku. – disse lui, - È un bel ragazzo?
Chakuza spalancò la porta, affrettandosi ad affacciarsi sulla stanza. Kay era ancora seduto per terra accanto al letto, e lo osservava senza espressione. Si voltò a cercare gli occhi di Nyze, appoggiato alla parete al suo fianco, apparentemente l’immagine stessa della purezza, ma Chakuza conosceva i suoi polli e sapeva che non c’era da fidarsi.
- Non è roba per te. – disse immediatamente, sentendo nella propria voce una nota di rabbia possessiva che non aveva la minima ragione di esistere.
Nyze sorrise come uno che aveva un motivo molto valido per cui sorridere.
- Non pensavo di allungare le mani. – lo rassicurò con voce soffice e suadente, - Non mi permetterei mai.
Chakuza spalancò gli occhi e credette di capire. Si disse che no, non poteva essere vero. Poi guardò Nyze con più attenzione, e capì che invece sì, era verissimo.
- Nyze. – disse piano, cercando di razionalizzare invece di scaraventarlo contro la parete più lontana come sarebbe stato più giusto, - Ho visto dove i tuoi pensieri mi stavano portando e non m’è piaciuto. Facciamo finta che tutto ciò non sia mai accaduto, vuoi?
- Oh, andiamo! – sbottò Nyze, roteando gli occhi e staccandosi dalla parete per andare a svaccarsi sul proprio letto con aria sfatta, - Non sai nemmeno cosa voglio proporti!
- No, ma sono sicuro al cento percento che si tratti di qualcosa che farebbe del male a Fler. – rispose lui, aggrottando le sopracciglia, - Gradirei evitare.
Nyze gli lanciò un’occhiata di traverso, stupito.
- Ma ti senti? – chiese con malcelato schifo, - Che cos’è, hai trovato il grande amore della tua vita?
Chakuza si ritrasse di qualche centimetro, sulla difensiva.
- Non ho detto niente del genere. – borbottò incerto, riascoltando in replay le proprie stesse parole nella propria testa e cercando di ignorare la vocina che, dal fondo del suo petto, gli diceva che invece sì.
- No, perché ti comporti come se fosse così. – rincarò la dose Nyze. – Chi è questo tipo, mh? Chi cazzo è, cosa cazzo ha fatto per te? Ti si è portato in casa, ti ha lavato, ti ha nutrito. Sei stato il suo giocattolino per una notte, Chakuza, niente di più. Non ti si è scopato, ma non è stato diverso da nessuno dei clienti con cui sei stato. Noi siamo i tuoi compagni, i tuoi amici, i tuoi alleati da una vita. E ci butteresti sotto un treno pur di non far soffrire Fler. – lo rimproverò, facendogli il verso.
Chakuza si strinse nelle spalle, fissandolo a muso duro.
- Non vi butterei sotto un treno, siete praticamente la mia famiglia. – rispose irritato, - Come puoi mettere in dubbio una cosa del genere?
Kay strisciò sul sedere, rigirandosi per poterli guardare entrambi più facilmente.
- Non capisco cosa sta succedendo. – disse con una certa franchezza, a bassa voce. Chakuza gli lanciò un’occhiata incerta. Era così sciocco, così giovane. Ovviamente lui e Nyze venivano prima di tutto il resto. Non era neanche una questione da discutere.
- Allora senti cosa faremo. – disse Nyze, la voce nuovamente affabile, - Hai idea di cosa potrebbe significare per noialtri avere Bushido in pugno? Avremmo una casa vera, con acqua sufficiente per lavarci ogni volta che ne avessimo bisogno. Mangeremmo del buon cibo e magari, forse, potremmo anche smettere di dare via il culo e l’uccello per soldi. Intendo, magari riuscirebbe a trovarci un posto dirigenziale, o che so io.
- Nyze… - lo interruppe Chakuza con un lamento stanco, massaggiandosi le tempie e chiudendo gli occhi, - Ma di cosa stai parlando, un posto dirigenziale…? Ma hai idea di quello che mi stai chiedendo?
- Sì, ne ho un’idea molto precisa, Peter. – insistette lui, alzandosi dal letto ed avvicinandoglisi con decisione. Chakuza lo scrutò con un po’ di paura. L’aveva chiamato Peter, e questo non poteva che lasciar supporre che stesse per fargli un discorso molto, molto serio. – Questa vita che facciamo è veramente una vita di merda. Non è una vita che puoi fare per sempre, ti ammazza prima. Abbiamo bisogno di tornare alla normalità, Peter, ma non possiamo andare da Bushido e chiedergli un lavoro diverso da quello che abbiamo, non è così che funziona. Quell’uomo ammazza i dissidenti sparandogli alla nuca nei vicoli delle strade. Se vogliamo che faccia qualcosa per noi, dobbiamo tenerlo per le palle.
- Ragazzi, ma di che cosa stiamo parlando? – chiese Kay, con aria palesemente preoccupata, scattando in piedi e guardando alternativamente prima l’uno e poi l’altro, in attesa di una risposta.
Chakuza trattenne il fiato per qualche secondo, senza mai perdere il contatto visivo con gli occhi di Nyze.
- Già. – disse quindi. Avrebbe voluto suonare caustico e astioso. Suonò soltanto come un soldato in attesa di chiarimenti sugli ordini impartiti dal proprio superiore. – Di cosa stiamo parlando?
Nyze non sorrise trionfante come Chakuza si sarebbe aspettato. L’atmosfera cospiratoria della situazione aveva alterato i suoi sensi ed i suoi processi mentali, per un attimo aveva creduto di trovarsi in un film di mafia e la cosa non gli era piaciuta. Ma Nyze distolse lo sguardo e si sedette a tavola, congiungendo le dita davanti al naso, e per qualche secondo si limitò semplicemente a riflettere, come avesse un gran bisogno di raccogliere le idee, prima di esporre il proprio piano.
- Potresti tornare da lui. – propose, fissando ostinatamente un punto vuoto sulla parete di fronte a sé, - E vedere come gira. Non voglio prenderti in giro, non si tratta di fare qualcosa di onesto, ma d’altronde da quant’è che non fai qualcosa di onesto, Chaku?
Chakuza sospirò pesantemente, ammettendo quantomeno con se stesso che Nyze aveva ragione.
- Avrei preferito non dover fare niente di disonesto che coinvolgesse Fler. – rispose. Nyze gli lanciò un’occhiata dubbiosa, inarcando un sopracciglio. – Non mi sono preso nessuna cotta. – precisò lui, sedendosi di fronte a lui e guardandolo dritto negli occhi, - Solo che gli sono grato, pur per quel poco che ha fatto. Voi, comunque, - concluse con un mezzo sorriso, - venite prima.
Nyze rispose al suo sorriso con uno ugualmente caloroso, e Kay, in piedi dietro di lui, pur continuando palesemente a non capire un accidenti di quanto stesse accadendo, fece lo stesso. C’erano dei momenti in cui Chakuza li odiava entrambi, o meglio, non riusciva a sopportare l’idea di dover dividere il proprio spazio vitale con loro. Ma c’erano altri momenti, ce n’erano stati tanti, in cui la loro presenza gli era sembrata indispensabile, e lo era stata davvero. Momenti in cui faceva troppo freddo per stare fermi, momenti in cui bisognava parlare tutta la notte per non avvertire i morsi della fame, momenti in cui si stracciava un paio di pantaloni e si mettevano insieme i risparmi di tutti per comprarne uno in sostituzione. Non poteva mettere da parte tutto questo per il calore delle mani di un ragazzino a caso. Sospirò profondamente.
- Sarà facile, per te. – disse Nyze, battendogli una pacca su una spalla, - Ci sai fare, con gli uomini. Ti cadrà ai piedi in un istante.
Chakuza sorrise fra sé. Non era proprio sicuro che sarebbe andata così, e qualcosa, nel fondo del suo petto, si stava agitando, rendendolo irrequieto. Si costrinse a cercare di ignorare almeno quello, e poi finì di prepararsi per uscire.

continua...
Shot facente parte della serie Schmetterlingseffekt.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: PG
AVVISI: Angst, Slash, OC.
- "Stamattina mi sono guardato allo specchio e non mi sono riconosciuto."
Note: Non ho l'abitudine di chiedere ai lettori uno sforzo, prima di leggere qualcosa, in nessun senso, ma stavolta mi sento quasi moralmente obbligata, probabilmente dall'amore profondissimo che nutro per il personaggio di Bill non solo in questa shot, ma nell'arco di tutta la Saga. Ciò che vi chiedo è molto semplice: cercate di approcciarvi alla lettura ed a Bill in generale senza pregiudizi e con un minimo di comprensione umana /o\ Bill ce l'ha messa tutta, per spiegarsi un po', ma se non vorrete capirlo ci sarà ben poco da fare :)
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BEAUTIFULLY BROKEN

Stamattina mi sono guardato allo specchio e non mi sono riconosciuto. Non come dice la gente di solito nel senso di “non mi riconosco più”, che è la cosa più stupida che si possa dire al mondo, perché non è altro che una scusa, in fondo, no? Uno fa un sacco di stronzate e poi, quando qualcun altro glielo fa notare, ecco subito la risposta pronta: “lo so, non mi riconosco più”. Non ti riconosci più un cazzo. Vorresti non riconoscerti, vorresti poterti guardare allo specchio e dire che quella faccia coperta di errori e dolore e pezzi di vita buttati via non è la tua, invece ti riconosci eccome, ed è questo quello che ti fa male. Riuscire ancora a riconoscerti, nonostante tutto, nonostante il fango che ti sei buttato addosso. Essere ancora lì, sempre identico a te stesso, facilissimo da ritrovare se solo ti azzardi o qualcun altro si azzarda a grattare via la sottilissima patina di menzogne con cui ti mascheri il viso al mattino, giorno dopo giorno, come il trucco di scena, quello che io ho sempre voluto portare anche nella vita di tutti i giorni, perché per me i confini sono sempre stati troppo labili, troppo sfumati, ed andavo in scena ogni volta che aprivo gli occhi al mattino.
No, io mi sono svegliato, da solo nel mio letto, ed ho ascoltato a lungo il suono un po’ ovattato del respiro di Peter, ancora addormentato da qualche parte in questo tourbus, troppo lontano da me perché potessi sentire il calore del suo corpo e aggrapparmici come se me ne importasse ancora qualcosa, e poi semplicemente mi sono alzato, sono andato in bagno, mi sono fermato davanti allo specchio ed ho guardato il mio riflesso, e quello non ero io. È stata la sensazione più straniante che avessi mai provato prima di quel momento, mi sono sentito come incatenato ad una sedia, costretto ad osservarmi nello specchio mentre mi strappavano di dosso la pelle per mostrarmi il mio vero volto, al di sotto. Solo che la pelle non veniva via – ho sfregato, ho sfregato, non veniva via – ed io ho dovuto continuare a sopportare di guardarmi nello specchio e non riconoscermi, mentre sapevo già di avere una faccia diversa sottopelle.
E questo è stato il dolore più grande che abbia provato in quest’ultimo periodo. Un periodo che di dolori non è stato certo avaro, eppure mentre Anis mi strappava via il cuore e Chakuza si rifiutava di rimettermelo a posto lasciandolo sul pavimento come un soprammobile inutile da scansare con un calcio se intralciava il passaggio, e mentre io mi premuravo di devastarmi la dignità e mio fratello si assicurava di pestarne i resti sotto le scarpe di modo che nessuno mai potesse più ricomporla, e mentre nessuna delle persone che ho imparato a riconoscere come amiche ha mai dato un fottuto istante del proprio tempo per cercare di capire come cazzo fosse possibile che io stessi così male, di una cosa ero sempre stato sicuro, la mia identità. Il mio viso. Chi ero.
E poi mi guardo nello specchio e scopro che invece non lo so più. Mi guardo nello specchio e quello non sono io. E in un solo istante di me non resta più niente, riesco a vedere i miei occhi farsi vuoti e so che non sono i miei, i lineamenti del mio viso si stendono in una maschera priva di espressione ed io so che non mi appartengono. Non so più chi sono, ma so cosa decisamente non sono, ed io non sono quella faccia, quegli occhi, quelle labbra. Non ho più un nome, non sono più nulla, di me, di ciò che sono stato, non rimane neanche un frammento.
Allora mi sono alzato e sono uscito dal bagno. Non sono passato accanto a Peter per non svegliarlo, perché non dovesse vedermi così, qualunque fosse la cosa in cui mi ero trasformato senza che nessuno se ne accorgesse. Sono semplicemente uscito dal tourbus e mi sono guardato intorno. Il sole era ancora freddo e basso sull’orizzonte, tutto ciò che la sua luce poteva fare era gettare ombre lunghe sulla piazzola della stazione di servizio desolatamente vuota, tutta intorno a me. Il mondo sembrava identico a se stesso, ero cambiato io soltanto. Mancava così poco al momento in cui tutti avrebbero aperto gli occhi, e a quel punto nessuno avrebbe potuto evitare di vedermi. Ed io non volevo che accadesse. Perciò sono tornato all’interno del tourbus, cercando di fare il minor rumore possibile, ed ho preso un post-it da uno di quei cassetti pieni di cianfrusaglie vicini all’angolo cottura. Ho preso una penna, mi sono seduto al tavolo ed ho cercato un modo carino per dire a tutti quanti che avevo bisogno di un po’ di tempo solo per me. Non ne ho trovato uno, perciò ho scritto solo quello. Ho bisogno di un po’ di tempo solo per me. L’ho appiccicato sullo sportello del frigorifero, ho preso la borsa, ho spento il telefono e l’ho infilato in tasca. Poi sono uscito, ho scelto una direzione a caso e l’ho seguita.
Ho camminato per un sacco di tempo. Io sono un pigrone, in genere non mi muovo se non sono obbligato a farlo, ed anche quando sono obbligato spero sempre che arrivi qualcuno a prendermi in braccio perché sia lui a trascinarmi da un posto all’altro. Il pensiero di muovermi alle volte mi dà fastidio fisico. Però stavolta camminare non mi è pesato. Almeno un’ora di cammino a piedi, cercando di ignorare i fischi dei camionisti quando per caso qualcuno passava per la strada ancora deserta, e senza nemmeno stancarmi. Ed ecco che all’improvviso i contorni delle cose oltre il guardrail che costeggia l’autostrada cambiano. Fisso il paesaggio mutare sotto i miei occhi, e dove prima non c’era niente cominciano ad apparire delle cose. Enormi campi pieni di spighe tanto alte da fare il solletico al cielo, e case colorate, di mattoni veri, coi tetti rossi e i comignoli e le porte di legno. Non riesco ad impedirmi di sorridere, mentre stringo emozionato la presa attorno al manico della borsa, e per un attimo mi chiedo se ciò che sto guardando esista davvero o non sia uno scherzo che mi sta facendo la mia mente, perché di recenti me ne ha fatti davvero troppi perché io riesca ancora a distinguerli dalla realtà.
Decido che non m’importa se quello che vedo è vero o no: mi piace, e tanto basta. È molto più di quanto abbia potuto dire della mia vita recentemente. Quella era vera, e lo sapevo, ma faceva schifo. Perciò va bene anche se questo posto non esiste davvero, fintanto che io continuo a vederlo ed a sentirne il profumo.
Scavalco il guard-rail ed affondo fra le spighe. Mi fanno il solletico al naso, sento il bisogno di starnutire ma anche se prendo fiato per due volte lo starnuto proprio non viene fuori, perciò mi metto a ridere e comincio ad avanzare in quel mare dorato che si muove in onde discontinue guidate dal vento. Le spighe ogni tanto mi sbattono addosso con forza, dovrebbero darmi fastidio, irritarmi la pelle, ma riesco a trovarle solo stranamente piacevoli, tanto che quando spunto fuori e metto il naso dall’altra parte, di fronte a un paio di casette minuscole una accanto all’altra, quasi mi dispiace.
Le case somigliano un po’ a come ho sempre immaginato la casetta di marzapane della strega di Hansel e Gretel. E poi sono tutte uguali. Mi avvicino sorridendo allegro e solo all’ultimo secondo noto una vecchina che sta semisdraiata su una sedia a dondolo di fronte alla porta di una delle due case, e ondeggia avanti e indietro facendo la maglia.
- Signora Lotte! – la chiamo, anche se so che non è lei. La vecchina sorride, smettendo per un attimo di ricamare e poggiando saldamente i piedi per terra per fermare la sedia.
- Mi chiamo Ena. – mi corregge, e io annuisco. – Nonna Ena. – precisa lei, e io sorrido.
- Di chi sei nonna? – chiedo, guardandomi intorno e sperando di vedermi spuntare intorno nipotini come se piovessero. Non ne spunta nessuno. Quindi forse tutto ciò sta succedendo davvero.
- Di tutti e di nessuno. – risponde nonna Ena, enigmatica. E io penso che forse in realtà non sta succedendo niente. – Anche tua. – insiste lei, - Come ti chiami, bella bambina?
- Bill. – rispondo tranquillo. Lei sorride imperterrita.
- Che strano nome per una bambina. – commenta divertita.
- Mamma pensava che fosse carino. – le spiego io, - Ho anche un fratello che si chiama Tom. Puoi essere nonna anche per lui?
- Certo che posso. – annuisce nonna Ena, e io sorrido più sinceramente. – Siediti qui accanto a me, Bill. – dice, indicandomi con un cenno del capo la sedia a dondolo spuntata dal nulla accanto a lei, mentre io penso che sì, è molto probabile che tutto ciò non stia accadendo davvero, - Aiutami. Reggi il gomitolo.
Io mi allungo a recuperare il gomitolo da terra e lo stringo fra le mani. La lana è morbida, calda e un po’ grezza, mi pizzica i polpastrelli e le unghie rimangono impigliate lì in mezzo ogni volta che me la rigiro fra le dita. Quindi forse sta accadendo davvero.
Nonna Ena è quasi cieca. Oltre gli occhiali dalle lenti spessissime, i suoi occhi talmente chiari da sembrare trasparenti s’intuiscono appena, tanto sono piccoli. Non so come faccia ad intrecciare la lana per disegnare meraviglie come quella che sta facendo adesso, una specie di maglia traforata che sembra decorata da cristalli di neve enormi e morbidissimi, ma evidentemente dev’essere una cosa che ha fatto così spesso, nel corso della sua vita, da non avere bisogno di vederla per replicarla ancora. Una cosa che ormai s’è scritta dentro. Io pensavo che per me i concerti fossero così, pensavo che davvero, qualunque cosa fosse successa nella mia vita avrei comunque potuto continuare a salire sul palco ogni sera ed essere la parte più meravigliosa di me stesso, dimenticando tutti i dolori per cantare e sentirmi amato e basta. E invece no, forse perché sono ancora troppo giovane. Forse, quando avrò l’età di nonna Ena, cantare sarà per me automatico come fare la maglia per lei. Però allora non ci sarà più nessuno che avrà voglia di ascoltarmi, mentre la maglia di nonna Ena è così bella che me la metterei addosso anche subito, incompleta per com’è.
- Come si chiama questo posto? – chiedo guardandomi intorno. Ci sono degli uomini che indossano solo un cappello di paglia ed una salopette di jeans scura, riesco ad intravederli nei campi più lontani. E poi c’è una piazza, a qualche decina di metri da noi, e in mezzo a quella piazza c’è una fontana attorno alla quale si affollano donne che indossano vestiti lunghi e scuri con disegni floreali dai colori più disparati. Alcune di loro hanno il capo coperto da un foulard annodato nulla nuca, e quasi tutti i foulard hanno le stesse decorazioni degli abiti, come fossero accessori obbligatori da usare per accompagnare il vestito.
- È troppo piccolo per avere un nome. – risponde nonna Ena, riprendendo a dondolare, - Però è bello, vero?
- È bellissimo. – annuisco freneticamente io, osservando un gruppo di bambini sporchissimi, scalzi e scarmigliati che ci passa davanti correndo e ridendo. – Quanta gente ci abita?
- T’importa? – chiede nonna Ena con una scrollatina di spalle. E in effetti non è che m’importi davvero. – Joseph! – urla poi, guardando all’indietro verso la casa. Il portone è socchiuso, e da dentro giunge un “eh?” un po’ lontano. – La bambina ha fame, - continua, - portale una fetta di torta!
Io batto entusiasticamente le mani, appoggiandomi il gomitolo sulle ginocchia mentre la porta si schiude e sulla soglia appare un uomo pelato e panciuto, con un paio di occhiali e un paio di occhi identici a quelli di nonna Ena.
- Nonno Joseph! – lo chiamo allegro, - È quella coi mirtilli?
Nonno Joseph annuisce e a me viene voglia di chiedergli se per caso è austriaco, ma poi lascio perdere. Poso il gomitolo per terra e metto il piatto con la torta sulle ginocchia al suo posto. Poi mi ricordo di David, penso che dev’essere già ora di pranzo e tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans per accenderlo e avvertirlo che non posso ancora tornare.
Lui risponde subito, appena lo chiamo, non mi lascia completare nemmeno uno squillo.
- Bill! – grida, e poi lo sento allontanarsi repentinamente verso un posto meno affollato. – Bill. – ripete a voce più bassa, come per lasciarmi intendere che adesso siamo soli e posso parlare liberamente, - Ma dove diavolo sei?
- Ad una stazione di servizio, - mento, evitando lo sguardo di nonna Ena, - sull’autostrada.
- Se mi dici a che altezza, mando subito qualcuno a prenderti. – suggerisce David, professionale come sempre. Io sbuffo un sorriso un po’ abbattuto.
- No, voglio restare qui per un po’. – rispondo, - È un posto simpatico.
- Un posto simpatico, Bill? – chiede lui, sconvolto, - Ma dove diavolo sei?!
- David, per favore, dammi un po’ di respiro! – sbotto io, e lui si zittisce immediatamente. Mi sento subito in colpa, mi si stringe lo stomaco in una morsa talmente stretta da darmi quasi i crampi, perciò mi mordo un labbro per distrarmi da quel dolore e faccio di tutto perché, quando riprendo a parlare, la mia voce sia molto più dolce di quanto sia stata fino ad ora. – Faccio in tempo per il concerto di stasera, promesso. Qui fanno una torta buonissima. La mangio e torno subito a casa, d’accordo?
Lui fa per rispondermi, sicuramente vuole dirmi che non devo tornare a casa ma semplicemente ai tourbus, e farlo anche il più in fretta possibile, ma alla fine lascia perdere, sospira profondamente e mormora un “d’accordo” stentato, prima di chiedermi di non spegnere il cellulare. Io dico ok, ma lo spengo immediatamente, subito dopo avere interrotto la chiamata.
- Bambina, il tuo papà sarà preoccupato. – mi dice nonna Ena, corrucciata, mentre io addento la torta e mugolo di piacere nel sentire quanto è buona.
- Non è il mio papà. – borbotto fra un morso e l’altro, - È solo uno che si prende cura di me.
- E qual è la differenza? – mi chiede nonna Ena. Io non riesco a rispondere.
- Dici che dovrei tornare? – chiedo in un bisbiglio sommesso, posando la torta e guardando per terra, - Ma io voglio restare qui. Potrei aiutarvi, anche se non sono tanto bravo con i lavori domestici o… l’agricoltura e l’allevamento o qualsiasi altra cosa facciate qui per vivere. So solo cantare, a volte sospetto neanche tanto bene. Ma potrei cantare per voi! – propongo illuminandomi, - Ti va, nonna Ena? Posso cantare mentre ti reggo il gomitolo e tu lavori a maglia!
Nonna Ena sorride ed annuisce. Io batto ancora le mani, recupero il gomitolo e poi chiudo gli occhi, mettendomi a canticchiare qualche canzone a caso. Di quelle vecchissime, quelle che scrivevo nella mia cameretta da piccolo, quelle che a far parte del repertorio dei Tokio Hotel non ci hanno nemmeno provato. Roba orribile che solo Tom può vantare di avermi sentito cantare. Eppure le ricordo ancora, e per qualche secondo, mentre resto lì a dondolare con gli occhi chiusi e il gomitolo di nonna Ena mi si svolge fra le dita poco a poco, mi sembra quasi di aver ritrovato quell’automatismo che mi rendeva così facile salire sul palco e cantare senza pensare a nient’altro.
E poi, del tutto inaspettatamente, nonna Ena mi sussurra all’orecchio che sono stonato. Solo che non è nonna Ena, è una signora di mezza età magra, appuntita e spigolosa, con un mascherone di trucco sul volto, seduta al tavolino accanto al mio. La stazione di servizio è affollata perché ormai sono quasi le due, la zona ristorante è piena di automobilisti e famiglie in pausa dal viaggio. Quando eravamo piccoli, mamma e Gordon ci portavano spesso a fare di queste scampagnate. Saltavamo in macchina e ci allontanavamo solo di qualche chilometro, giusto per dire di averlo fatto. Raggiungevamo il lago, magari, ed andavamo in barca. Era divertente.
- Mi scusi. – biascico, imbarazzato fino all’inverosimile.
- Non preoccuparti, tesoro, non tutti siamo nati con una voce da usignolo. – dice lei, scrollando le spalle, del tutto disinteressata alla gravità di quanto ha appena detto. Evidentemente non mi conosce, o se anche ha sentito parlare di Bill Kaulitz non riesce a vedere quel nome in questo me stesso così diverso. Non capisco perché la cosa dovrebbe stupirmi, d’altronde: se stamattina io per primo non sono stato in grado di riconoscermi guardandomi allo specchio, come posso pretendere che ci riesca questa donna adesso?
Guardo in basso, verso il mio piatto. C’è ancora mezza fetta di torta ai mirtilli, ma sapere che non è stato davvero nonno Joseph a prepararla mi toglie improvvisamente tutta la voglia che avevo di finirla. La lascio dov’è, passo sbrigativamente alla cassa per pagare e poi esco, stringendomi un po’ nella giacca perché il sole sta cominciando a tramontare e in aperta campagna a quest’ora fa già freddo. Era così anche quando io e Tom eravamo piccoli. Attorno a Loitsche non c’era niente tranne, appunto, campagne sterminate. Io odiavo uscire anche allora, avevo sempre paura che un’ape potesse pungermi, ma Tomi in qualche modo riusciva sempre a convincermi ad accompagnarlo dovunque volesse, perciò finivamo sempre a passare un sacco di tempo all’aperto, nonostante a me facesse abbastanza schifo. E ricordo che Tomi non sentiva freddo quasi mai – più che altro perché s’era convinto che sentire freddo fosse una roba da femminucce, per cui magari congelava ma non rinunciava mai ad andare in giro in canottiera – ma portava con sé la felpa apposta per potersela sfilare ed appoggiarmela sulle spalle quando io, puntualmente, verso il tramonto, mi accucciavo da qualche parte e mi raggomitolavo come un riccio, tremando per il freddo.
Non mi manca quel periodo della mia vita, però mi mancano quei momenti in cui potevo dire di non avere altro che pensieri sul mio glorioso futuro da star in testa. Momenti in cui chiudevo gli occhi e, mentre Tomi blaterava al mio fianco, seduto su un sasso con gli occhi fissi sul sole che tramontava all’orizzonte oltre i campi arati di fresco, io mi concedevo una rara mezz’ora di silenzio dalla mia usuale logorrea e restavo lì, avvolto nella sua felpa enorme, col cappuccio calato sulla testa, e mi immaginavo cantare su un palco, felice come non ero mai stato e in altro modo non avrei mai potuto essere. E mi mancano quei momenti, perché allora nella mia mente era tutto chiaro. Avevo una strada da percorrere e non poteva essere altro che luminosa e splendida. Ora, dalla piazzola di una stazione di servizio persa nel niente nel bel mezzo della Germania, guardo l’autostrada verso sinistra e verso destra e non saprei nemmeno che direzione imboccare per tornare al tourbus.
Così, faccio quello che ho sempre fatto ultimamente in tutte le altre occasioni in cui mi sembrava di essere troppo confuso per decidere qualcosa da me. Tiro fuori il cellulare dalla tasca, lo accendo, ignoro chiamate perse ed sms cui non risponderò mai e compongo a memoria il numero di Fler.
- Pronto? – dice lui, e nel momento stesso in cui sento la sua voce prendo una direzione a caso e comincio a camminare con passo spedito lungo il ciglio dell’autostrada, radente al guard-rail. – Pronto? – ripete. Io deglutisco, guardando dritto di fronte a me.
- …scusa. – rispondo piano, - Come stai?
- …dovrei chiederlo io a te. – risponde Patrick, il tono talmente preoccupato che riesco quasi a immaginarlo qui con me mentre mi gira intorno e mi guarda da ogni parte per assicurarsi che sia ancora tutto intero. – Ragazzino, è tutto a posto? – insiste, - Ti sento strano.
- Strano? – chiedo io, mentre poco a poco, man mano che il paesaggio torna a farsi familiare ai miei occhi, mi rendo conto di aver fatto all’andata molta meno strada di quanto avessi immaginato, - No, perché dovrei?
- Non lo so, - risponde subito lui, - era un’impressione, sei… non lo so. – si interrompe appena, giusto il tempo di cui ho bisogno per capire che il modo in cui sono cambiato è così radicale ed evidente che se mi si conosce abbastanza bene non c’è nemmeno bisogno di guardarmi in viso per capire che è successo. Patrick lo capisce anche solo sentendomi parlare, e di questa cosa ho talmente tanta paura che chiudo gli occhi e proseguo per molti metri senza guardare niente, a rischio di ammazzarmi, terrorizzato dall’idea di ammettere che in fin dei conti la prospettiva non mi spaventa più di tanto. Fra le numerose cose che Anis ha devastato entrando, uscendo e poi rientrando nella mia vita a proprio piacimento, c’è anche la concezione di morte come qualcosa di irreversibile. In qualche modo, perfino adesso, sto pensando che se mi lasciassi scivolare sotto un camion e morissi, poi qualcuno arriverebbe a risvegliarmi dal mio sonno baciandomi sulle labbra. Il bacio del vero amore. Almeno, forse una cosa simile riuscirebbe ad indicarmi chi sia. – Ma c’è qualche problema? – chiede Fler, e io mi prendo qualche secondo, prima di rispondere.
- Sai che ho tagliato i capelli? – gli chiedo, e nel mentre mi passo una mano fra le ciocche scure e bionde che mi scivolano lungo il collo e sulle spalle, - O forse devo ancora farlo, non ricordo. O forse l’ho già fatto, ma tantissimo tempo fa, e sono già ricresciuti.
- Bill? – mi chiama subito lui, e sento l’ansia nella sua voce, - Bill, ma stai male?
- Male? – chiedo, e mi viene da ridere. Male, no, non sto male. Avrei potuto dire di stare male quando ancora ero in grado di sentire qualcosa, ma quando ogni centimetro del tuo corpo è già stato preso a bastonate più di quanto tu non sia in grado di sopportare, il dolore sfuma e non esiste più. Non lo so nemmeno cos’è che potrebbe farmi male adesso. – Ma no. – rispondo sorridendo, - Sto bene. Non devi preoccuparti. – inspiro profondamente e sollevo lo sguardo. Ad una decina di metri da me ci sono i tourbus, fermi dove li ho lasciati. Nessuno si accorge di me che arrivo, nessuno guarda nella mia direzione. – Ora devo andare. – dico a Fler, - Mi sa che è proprio ora di tagliare i capelli.
Interrompo la conversazione immediatamente, senza dargli il tempo di ribattere, o di fermarmi. Oltrepasso il cavalcavia e faccio qualche metro sulla terra brulla che anticipa il sollevarsi delle colline poco più avanti. Giro attorno ai tourbus, passo dal retro, m’infilo all’interno del mio senza che nessuno mi veda, e scivolo silenzioso in bagno. Il tourbus dev’essere vuoto, perché non si sente volare una mosca. Da fuori, sento l’eco un po’ bassa e distante di alcune persone che parlottano nella piazzola. Non riesco a capire chi sono, né cosa dicono. Me ne disinteresso.
Mi allungo a recuperare il beauty case, frugo un po’ all’interno e trovo il necessario per la manicure. E le forbicine. Non sono adatte per ciò che voglio fare, ma forbici grandi qui non ce n’è, perciò dovrò accontentarmi.
Taglio via una ciocca dopo l’altra. Quelle scure, quelle chiare. Le taglio prima verso là metà della lunghezza, irregolari e storte, e si spelacchiano tutte. Mi guardo allo specchio. Non sono ancora io. Taglio più in alto, un po’ qui e un po’ là. Cerco un me stesso più piccolo e più sorridente, un me stesso che poteva passare ore davanti allo specchio armato solo di una confezione di gel per capelli, per poi uscire dal bagno con un’acconciatura tale da far commentare ai passanti “ma non hai ancora imparato a non mettere le dita nelle prese elettriche, Kaulitz?”. Sorrido ripensando a quel bambino, e mi metto a piangere quando continuo a non trovarlo nonostante tutto. Dovrebbe essere ancora qui, sepolto sotto le macerie, in fin di vita ma col cuore ancora forte che batte nel petto, e invece è sparito. Non l’ho solo sepolto vivo, l’ho nascosto agli occhi del mondo, così profondamente e tanto a lungo da averlo perso per sempre.
Sto ancora sorridendo e piangendo insieme quando sento il click familiare della serratura della porta del bagno. Mi volto verso la porta che si apre e quando incontro gli occhi di David non mi chiedo neanche per un secondo come sia possibile che sia stato proprio lui a trovarmi. La mia vita è cominciata quando sono stato trovato da quest’uomo. Non sarebbe mai potuta andare diversamente adesso.
- Bill… - dice lui, senza fiato, i lineamenti del viso tesi in una maschera di apprensione e sconforto, - Quando… quando sei tornato?
Mi stringo nelle spalle e nello stesso istante in cui lo faccio il pianto silenzioso che mi ha accompagnato fino ad adesso si fa lentamente sempre più rumoroso. Gemo e singhiozzo e comincio a respirare male, perciò David entra in bagno, chiude la porta alle proprie spalle, si allunga a sbarrare la finestrella aperta in alto sopra la mia testa e poi si china su di me e mi stringe fra le braccia. Io sono talmente stanco che sento ogni fibra del mio corpo sciogliersi e perdere consistenza, mentre mi nascondo sul suo petto e stringo la sua maglietta tanto forte da farmi male alle dita. E continuo a piangere.
- Non so cosa sto facendo. – dico piano, a fatica, schiacciandomi con forza contro di lui perché non voglio vedere me stesso e non voglio vedere neanche nient’altro. – Non mi riconosco. Quando mi guardo in faccia, David, dico davvero, non sono io. Quello non sono io.
- Io ti riconosco. – mormora David, cullandomi lentamente, - Io lo so chi sei, Billi. Sei solo un po’ opaco, ma sei sempre tu. Guarda. – aggiunge con un mezzo sorriso, prendendomi per le spalle e facendo girare lo sgabello su cui sono seduto abbastanza da permettermi di guardarmi allo specchio, - Come fai a non vederti? Chi altri potrebbe essere così bello anche dopo essersi tagliato i capelli con gli occhi palesemente bendati ed avere poi pianto per mezz’ora?
- Sono orribile! – dico, distogliendo lo sguardo e coprendomi il viso con entrambe le mani. David le scosta, accompagnandole finché non le abbasso, e poi mi prende il mento fra le dita, obbligandomi a tornare a fissare il mio riflesso nello specchio.
- Sei bellissimo. – dice con sicurezza, - Anche se in effetti sono costretto ad ammettere che il lavoro che hai fatto con questi capelli è davvero raccapricciante, tesoro. – aggiunge con tono frivolo, gesticolando un po’ mentre si china a recuperare le forbicine dal lavandino, - Dico davvero, Bill, che delusione, sei un disonore per la tua intera razza. L’autorità costituita dell’Ordine Mondiale degli Omosessuali nel Mondo dello Spettacolo non sarà per niente contenta di tutto questo. A maggior ragione visto che sei il mio figlio spirituale, voglio dire, non ti ho insegnato niente in tutti questi anni? Si può soffrire, ma con grazia. – annuisce compitamente.
Io mi appoggio di schiena al suo petto e lo osservo mentre mi maneggia con una cura che non riesce a stupirmi nemmeno in parte. Lo ascolto mormorare rassicurazioni prive di senso e continuare a blaterare a caso su questo fantomatico Ordine Mondiale Gay che a suo dire dovrebbe strapparmi di dosso il distintivo di Vero Gay che nemmeno posseggo perché non sono stato in grado di tagliarmi decentemente i capelli mentre non riuscivo a vedere a due centimetri dal mio naso, tante erano le lacrime che mi offuscavano la vista. Lo guardo mentre pareggia il taglio ai lati della mia testa e sistema le ciocche di capelli più lunghi che sono rimasti in cima, osservando il tutto con aria critica fino a quando gli si illuminano gli occhi e lo vedo girare su se stesso con una piroetta entusiasta, spalancando sportelli in dieci centimetri di spazio per recuperare il rasoio elettrico prima di invitarmi a chiudere gli occhi e rilassarmi, che quando li avrò riaperti allora sì che riuscirò a riconoscermi.
Li riapro almeno mezz’ora dopo. Non sono sicuro di non essermi addormentato. Schiudendo le palpebre, i miei occhi incontrano il riflesso della mia immagine, nello specchio. David sta accarezzando i miei capelli con l’attenzione e l’affetto di un padre. Sulle sue labbra s’è aperto un sorriso distratto e lieve, mentre non lo guardavo. Passa le dita fra le ciocche scure, sistemandole sopra la mia testa con cura, e sembra sereno. Così sereno.
Riporto lo sguardo sullo specchio. Quello continuo a non essere io. Non riesco nemmeno a sentire le sue carezze, o il calore del suo petto che si alza e si abbassa sollevandomi ad ogni respiro, proprio dietro di me. Non c’è niente. Non c’è più niente.
Chiudo gli occhi e ricomincio a piangere. Silenziosamente. Non voglio dare fastidio a nessuno.
David finisce di sistemare il taglio e poi mi abbraccia piano, come avesse paura di disturbarmi.
- Ti lascio un po’ tranquillo, ok? – mi sussurra all’orecchio. Io annuisco e lui sorride ancora, stringendomi una spalla con fare rassicurante prima di uscire dal bagno. Pochi secondi dopo lo sento abbandonare anche il tourbus, e la mia testa comincia a girare in un modo nuovo. È una sensazione che non ho mai provato, come stare a guardare mentre le cose che decido e che faccio semplicemente accadono, una dietro l’altra. Non ho davvero una parte, in tutto questo. Sono attore e spettatore, ma quasi nemmeno mi muovo.
Esco dal bagno. Prendo uno zaino. Lo riempio di roba a caso. Dove sto andando, niente di tutto questo mi servirà, eppure per qualche motivo l’idea di muovermi senza niente mi disturba. Prendo il beauty case. Una maglietta. Un paio di calzini ed uno di mutande. Due merendine ed una bottiglietta d’acqua dal frigo. Il portafogli. Infilo la giacca ed esco all’esterno. Ritorno dentro, mi avvicino al tavolo e prendo un post-it dal cassetto del cucinino. Scrivo sopra che avevo sonno e mi sono infilato nella cuccetta. Prego di non svegliarmi fino a domani. Saluto Peter disegnando un cuore nell’angolo in basso. Lascio il post-it dov’è e torno fuori. Mi guardo intorno, non c’è nessuno nelle vicinanze. C’è un bel po’ di gente assiepata di fronte all’entrata dell’autogrill. Alcuni si agitano, guardano verso uno schermo. Probabilmente stanno seguendo qualche partita. Quando stavo con Anis ero sempre al corrente delle partite che si giocavano, ogni settimana. Dovevo, visto che lui il calcio lo adora. Era carino stare sdraiati sul divano la domenica sera. Lui guardava la tv, io guardavo lui e mi ripetevo quanto fossi fortunato.
Sorrido un po’, sperando che Anis sia dentro l’autogrill con gli altri. Sperando che stia guardando la partita e si stia divertendo e non stia pensando a niente. Giro attorno ai tourbus e scavalco il guardrail. Percorro a ritroso la stessa via che ho fatto tornando qui non più di un paio d’ore fa, e raggiungo la stazione di servizio della torta ai mirtilli in meno di venti minuti. Mi rendo conto di quanto abbia dilatato il tempo all’andata e anche al ritorno, e realizzo coscientemente per la prima volta che non c’era nessun villaggio perso in mezzo ai campi di grano, nessuna nonna Ena, nessun nonno Joseph.
Entro nell’autogrill, chiedo una fetta della stessa torta che ho mangiato prima e me la faccio mettere in una confezione da asporto. Dopodiché spiego che ho bisogno di raggiungere Berlino al più presto, ma il tipo oltre il bancone mi guarda come fossi completamente pazzo per qualche secondo, ed allora aggiungo che andrà bene anche una stazione ferroviaria, che poi da lì mi organizzerò da solo. Mi si avvicina una signora con un bimbo in braccio e mi dice che lei e suo marito stanno giusto tornando in città, e per loro non è un problema accompagnarmi fino alla stazione, se per me non è un problema viaggiare con estranei. Sorrido e la ringrazio, assicurandole che non c’è proprio nessun problema. Come potrebbe? Se non volessi viaggiare con un estraneo, non potrei viaggiare nemmeno con me stesso.
In macchina resto più che altro in silenzio. La signora e il signore mi fanno un sacco di domande, ed io rispondo a tutte, per quello che posso, ma senza aprirmi troppo. Il bimbo, ancorato al seggiolino sul sedile posteriore, proprio qui al mio fianco, ad un certo punto si mette a piangere, forse a causa di un po’ di mal d’auto. Afferro uno dei sonaglini sparsi in giro per la macchina e comincio a distrarlo. Il bambino mi segue, dopo un po’ smette di piangere. Continuo a farlo giocare facendo smorfie e agitando il sonaglio, e vedo i suoi genitori sorridere e sorridersi nel riflesso dello specchietto retrovisore. Mi viene un po’ da piangere, ma non cedo.
Arriviamo in stazione che è già buio, ma siccome non è tanto tardi c’è un sacco di gente in giro, e treni che arrivano e ripartono ad ogni binario. La stazione è tutta illuminata, c’è un McDonald’s aperto nel quale ho paura di entrare. Cerco sul tabellone il primo treno per Berlino. È un treno notturno e parte fra mezz’ora. Mi dico che sono stato fortunato anche stavolta, lo sono spesso e senza nessun motivo. Compro un biglietto e poi mi seggo in sala d’aspetto, tenendo sempre d’occhio il tabellone degli arrivi. Ho fame e mi annoio. Tiro fuori la fetta di torta ai mirtilli dalla sua confezione e la mangio con piacere immenso, chiudendo gli occhi ed assaporandola lentamente.
Quando finisco, è già ora di muoversi. Esco dalla sala d’aspetto, salgo sul treno, prendo posto in uno scompartimento quasi vuoto – c’è solo un uomo seduto dal lato opposto, e dorme profondamente – e mi appoggio al finestrino, guardando la notte e la città e la campagna mentre scorre davanti ai miei occhi diventando una macchia scura priva di contorni distinguibili, con qualche luce che appare all’improvviso e altrettanto all’improvviso scompare, lasciando solo una traccia sulla mia retina. Ogni traccia resiste per qualche secondo, sia che io tenga gli occhi aperti sia che io li chiuda, perciò a un certo punto li chiudo e resto lì appoggiato, inspirando ed espirando profondamente l’aria ghiacciata che entra dentro dallo spiraglio del finestrino appena abbassato.
Mi sembra di chiudere gli occhi solo per dieci minuti, o qualcosa del genere, ma quando li riapro è già mattina. Sono stanco esattamente come ieri, ma mi tiro in piedi e cerco di stare ben dritto sulle gambe quando il treno, dopo un millennio da quando ha cominciato a rallentare in prossimità della stazione, si ferma. Recupero il mio zaino e scendo barcollando, reggendomi a qualsiasi cosa incontri per strada e sia ancorata abbastanza saldamente al suolo. Dio, sono così stanco.
Controllo il cellulare che durante la notte, in modalità silenziosa, ha squillato di continuo. Trenta chiamate solo da Peter, non molte di meno da David, cinque o sei da Tom, un paio perfino da Anis. Il mio biglietto non deve averli convinti molto.
Sospiro, cancellando l’elenco delle chiamate e spegnendo il cellulare. Chiamo un taxi e, quando il tassista mi chiede dove voglio andare, per un secondo non ho idea di cosa rispondergli, perché non voglio andare da nessuna parte. Se nessuna parte esistesse, sarebbe lì che andrei. Sarebbe sicuramente un posto come quello che ho visto mentre sognavo, o comunque non ero in me, alla stazione di servizio. Poche case, una piazza, un pozzo, campi di grano ovunque, bambini, donne, persone anziane, lavoratori lontani come miraggi. Ma quel posto non esiste, e io ho bisogno di sentirmi al sicuro, e negli ultimi anni c’è solo un posto in cui sia riuscito a sentirmi così.
Do al tassista l’indirizzo della Villa Gialla, e sorrido man mano che le strade che percorriamo si vanno facendo sempre più familiari e rassicuranti. Riesco a rivedermi imboccare queste stesse strade sulla mia macchina, o su quella di Tomi, quando riuscivo a rubargliela o a convincerlo ad accompagnarmi lui, non perché ne avessi bisogno ma semplicemente perché mi piaceva l’idea. Perché quello era un periodo in cui potevo fare le cose anche solo perché mi andava. E mi manca.
Della Villa Gialla ho ancora le chiavi. Non le ho mai ridate ad Anis. Le tengo assieme a tutte le altre nel mazzo, un mazzo enorme con cinquecento portachiavi e che pesa più di me. Pago il tassista ed aspetto che il taxi sia sparito dietro il primo angolo prima di tirarlo fuori. Apro il cancello e sento i cani abbaiare. Sono aggressivi, all’inizio, tirano le catene tanto forte che mi viene quasi da pensare che riusciranno a muovere perfino le cucce, come nei cartoni animati, ma quando si allungano abbastanza da vedere che sono io il loro abbaiare si fa meno aggressivo e più festoso, smettono di tirare e cominciano a saltellare. Mi avvicino piano e mi chino davanti a loro, che subito si accoccolano davanti a me per un po’ di carezze. Gratto Skyline sulla pancia e Sherlee dietro le orecchie, poi mi rimetto in piedi ed entro in casa. È tutto buio e c’è silenzio ovunque. I cani riprendono ad abbaiare per qualche minuto, ma quando si rendono conto che non li farò entrare smettono, e tornano ad accucciarsi all’interno delle loro pittoresche casette di legno. Io spalanco le imposte di una sola finestra in salotto. La luce investe il divano ed è lì che mi vado a sedere, poggiando lo zaino sul pavimento e fissando un punto imprecisato nel vuoto.
È anche qui che mi trova Patrick quando entra in casa, non so quante ore dopo. Abbastanza perché il sole sia tanto alto nel cielo da colpire la stanza per intero, illuminandola tutta. Ho osservato i raggi farsi più ampi, li ho sentiti farsi più caldi, e smetto di guardarli solo quando sento la chiave girare nella toppa e la porta aprirsi su di lui, che mi individua subito, dall’ingresso, e spalanca gli occhi.
- Bill? – mi chiama. È talmente incredulo che gli trema la voce. – Bill, ma che cazzo ci fai qui?
Mi rannicchio un po’ sul divano, sorridendo debolmente. Sono così stanco, mi si chiudono gli occhi.
- Sono scappato. – ammetto, troppo stanco per inventare balle, - Non ce la facevo più.
- Sei— sei scappato? – sillaba lui, sconvolto, sedendosi sul divano e sporgendosi tutto verso di me, come avesse paura di vedermi crollare all’improvviso e dovesse tenersi pronto ad allungarsi per recuperarmi prima che mi schianti a terra.
- Sì. – biascico io, trovando non so dove la forza per annuire, - Patrick, non capisco più niente di quello che succede. Io credo di essere impazzito. – rido un po’, ma è una risata talmente debole e stanca che fa più paura a me di quanta ne faccia a lui. Ed a lui già ne fa tanta, lo vedo dal brivido che gli scorre per tutta la schiena, costringendolo a tremare impercettibilmente.
- Come sarebbe a dire che credi di essere impazzito? – mi chiede, strisciando sul divano fino ad avvicinarsi abbastanza perché il mio corpo possa reagire come fa sempre quando non ce la fa più a sostenersi da solo. Mi perdo fra le sue braccia, abbandonandomi contro il suo petto e chiedendomi se questo non sia poi il motivo principale per cui sono pieno di guai. Per la vita che mi sono scelto, io dovrei essere molto più forte di così. Però non lo sono, e questo mi porta a causare un sacco di guai a me stesso ed agli altri. Questa cosa è così ingiusta. Però io sono così stanco.
- Non sono più io. – mugolo confusamente, cercando di non piangere nonostante gli occhi siano così carichi di lacrime da bruciare, - Non mi riconosco. Sto un sacco male, Patrick.
Patrick mi stringe e mi accarezza i capelli e il collo, cullandomi col ritmo dei suoi respiri.
- Stai bene, così. – dice a bassa voce, passando le dita fra le punte cortissime dei miei capelli. Io ringrazio così piano che lui nemmeno mi sente. – Bill, - mi chiama, ed io istintivamente so che sta per dirmi qualcosa che non sono sicuro di voler sentire, - tu lo sai perché le cose vanno così male.
Stringo i denti, aggrottando le sopracciglia e stringendo un lembo della sua maglietta fra le dita.
- No che non lo so. – rispondo con tono lamentoso.
Lui mi stringe più forte, cullandomi lentamente.
- Alle volte le cose vanno fatte anche se ci fanno stare male. – dice, e gli trema la voce. E so che sta parlando per me, in questo momento, ma anche per se stesso.
- Non voglio. – piagnucolo. Non riesco più a trattenere le lacrime che nel mentre si sono gonfiate così tanto da cadere a gocce enormi sulla sua maglietta, sui suoi pantaloni e sulle mie mani.
- Bill, tu… - sospira e riprende ad accarezzarmi la nuca, senza smettere un secondo di ondeggiare avanti e indietro, - …tutti noi, in realtà. Ci siamo tutti persi. Abbiamo bisogno di ritrovarci, ma non possiamo farlo finché—
- Non dirlo.
- Finché non riusciamo a concentrarci solo su noi stessi. – conclude lui, stringendomi fortissimo perché sa che se non lo facesse scapperei. Ci provo, a divincolarmi, ma sono così stanco che non riesco. Trattengo il fiato così a lungo che mi sembra di potere esplodere, e poi lo rilascio e scoppio a piangere più forte di quanto non facessi prima, mugolando che non voglio, non voglio lasciarli, sono tutto il mio mondo, sono la ragione per cui sono qui, tutti loro, tutti e tre, in modo diverso ma ugualmente importante, e non ce la faccio proprio a metterli da parte, non ci riesco, non voglio. E mentre piango sempre più forte, e la mia voce si fa sempre più stridula e lagnosa, Fler mi stringe sempre con meno convinzione ed io realizzo che questa persona che piange e si lagna e non ha coraggio né forza di volontà non sono io. Ed è questo il motivo per cui mi guardo allo specchio e non mi riconosco. Questo stupido ragazzino impotente non sono io. Io non avevo ancora diciott’anni quando mi sono innamorato sul serio ed ho deciso che avrei conquistato l’uomo che amavo. Non avevo ancora diciott’anni quando ho ascoltato ciò che quest’uomo aveva da dirmi ed ho deciso di accettare tutto, di lui, perfino il suo passato, perché era ciò che serviva per averlo. Ed ero ancora più piccolo quando ho deciso cosa dovevo fare della mia vita, ero ancora più piccolo quando ho cominciato a lavorare, ad un’età in cui i ragazzini normali ancora si svegliano alle sette e si lamentano o inventano scuse per non andare a scuola.
Ora sono qui che piango e strepito e faccio i capricci come uno di quei ragazzini che non sono mai voluto essere. E questo non sono io. Non è così che mi voglio. E se è vero che mi sono perso, devo assolutamente ritrovarmi.
Mi allontano da lui, raddrizzando le spalle e passandomi una mano sugli occhi per asciugare le lacrime. Patrick mi osserva farlo e non ha bisogno di chiedermi niente per capire che finalmente ci sono arrivato anch’io.
Mi alzo subito in piedi, non perché voglia scappare, ma perché voglio fare qualcosa. Una cosa qualsiasi. Anche soltanto alzarmi in piedi e girare attorno al divano per sgranchirmi le gambe. Improvvisamente, sono molto meno stanco di quanto non fossi prima. Forse ero solo così pieno di tristezza da non riuscire a muovermi come volevo. Forse dovevo soltanto piangerla via.
- Partirò. – dico annuendo. Guardo fuori dalla finestra, le strade piene di persone e il sole altissimo nel cielo azzurro macchiato appena da qualche sbuffo bianco semitrasparente. – Me ne andrò in qualche bel posto con Tomi. Alle Maldive, magari. Io e lui dobbiamo dirci tante cose.
Patrick annuisce, sorridendo debolmente ed affiancandomisi per abbracciarmi ancora.
- Sarebbe meglio non sentirsi. Nemmeno noi. – dice, quasi per assicurarsi che abbia capito bene il concetto.
- Sì. – rido io, - Lo so perfettamente. Parlerò con David. Risolverò questa situazione.
Patrick si allontana, guardandomi con aria un po’ incerta ma profondamente divertita.
- Chi sei tu? – chiede ridacchiando, - Non ti ho mai visto così.
- Tu non mi hai mai conosciuto. – rispondo con un sorriso più dolce, allungandomi ad abbracciarlo a mia volta, - Quando sarò tornato, quando starò meglio, vorrò che tu mi conosca. Partiremo insieme, e stavolta sarà diverso da tutte le altre volte. Credimi.
Mi allontano ancora e frugo nelle tasche dei jeans, tirandone fuori il mazzo di chiavi. Lo guardo per qualche secondo, facendolo tintinnare sul palmo della mano, e poi stacco le chiavi del cancello e di questa villa, e le do a Fler.
- …sono…? – chiede lui con aria incerta. Io annuisco.
- Non le ho mai ridate ad Anis. – confesso, - Puoi fargliele avere tu?
Patrick annuisce, prendendo le chiavi in mano e conservandole subito in tasca. Lo saluto con un bacio sulla guancia, recupero il mio zaino e mi avvio lungo il corridoio.
- Stammi bene, ragazzino. – mi saluta lui, sbuffando un sorriso incerto. Gli faccio un cenno con una mano, prima di sparire oltre la soglia e lasciarlo in salotto. Sono ancora qui, ma non vedo l’ora di essere fuori. Chiamerò Tomi appena arrivato a casa. Gli dirò tutto. Sistemeremo tutto. Posso già sentire il calore del sole sulla pelle, la consistenza dei granelli di sabbia fra le dita, l’acqua ghiacciata che mi scivola fra i capelli e sul viso.
Attraverso tutto il corridoio e, quando arrivo a un passo dalla porta, mi volto verso lo specchio alto e largo sopra la consolle, e mi sorrido. Sento che sto sorridendo proprio a me stesso, e capisco che la direzione, stavolta, è quella giusta.
Shot facente parte della serie Schmetterlingseffekt.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Fler/OMC, Fler/Chakuza, Bill/Chakuza, Bill/Bushido, Fler/Bushido.
Rating: PG-13
AVVISI: Angst, Slash, OC.
- "Io non sto bene, è evidente."
Note: Per chiunque si chiedesse se Danny sarebbe riapparso in futuro, ecco la risposta XD (No, ma ve lo stavate chiedendo davvero? Cioè, Danny's here to stay, ladies.)
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Io non sto bene, è evidente. Cioè, è già un chiaro segno di squilibrio il fatto che io abbia acconsentito a continuare a vedere Daniel, decidendo di ignorare il fatto che è palesemente minorenne solo per quieto vivere e perché non ho nessuna voglia di ritornare a pensare a quanto potrebbe fare schifo la mia vita in prigione se questa faccenda saltasse fuori – sempre ammesso che Anis possa decidere in coscienza di lasciarmi lì a marcire senza ricoprirmi di avvocati come ermellino sul mantello di un re, nel caso succedesse, ma potrebbe, se scoprisse che l’ho tradito col minorenne di cui sopra, o almeno credo, e quello che sto dicendo manca evidentemente di senso compiuto, me ne accorgo da solo, non c’è bisogno di farmelo notare, grazie mille.
Comunque, il succo del discorso è che devo stare proprio male, cioè, proprio fuori di testa se, oltre a tutto questo, io Danny prendo e me lo porto anche in casa del Chaku. Perché l’ho fatto? Il mio letto è più comodo del suo, c’è il materasso ortopedico mentre qui non sono neanche sicuro che il materasso ci sia. E casa mia puzza di meno, i rubinetti non perdono, non devi effettuare un corso preparatorio di introduzione alle lingue morte degli scarafaggi della tribù dello scaldabagno orientale prima di entrare nel cesso, e voglio dire, genericamente le condizioni di abitabilità del mio appartamento sono molto migliori rispetto a quelle di questa topaia disastrata che neanche il tocco magico di Bill – riassumibile in “no, Chaku, devi pulire, perché sennò io non posso poggiare il tacco dei miei stivali Armani da millecinquecento euro sulla tua moquette” – è riuscito a rendere un luogo abitabile da esseri umani veri, esseri umani che non siano Chakuza, intendo.
Mentre ricado sul letto accanto a Daniel e la mia schiena urla pietà, realizzo che è evidente che il materasso sotto di noi è solo un’illusione: vogliamo fortemente credere che un materasso ci sia, perciò ci sembra di stare sul morbido quando così non è. No, scherzavo. In realtà realizzo che se ho portato Daniel qui è perché, nonostante tutto, il paragone fra casa mia e casa del Chaku non regge nemmeno. Non è che l’ho portato qui per una sorta di ripicca, a-ha!, non ci sei e io scopo con un altro nel tuo letto, no, è che da quando le cose con Danny si sono fatte più intime – e non sto parlando solo di una scopata o due, ovviamente – ho davvero sofferto l’impossibilità di renderlo un pezzo della mia vita vera. Presentarlo ai miei amici, portarlo in giro, portarlo in un appartamento che per me potesse significare qualcosa in più della scatola in cui dormo quando non ho nessun altro posto dove andare. E questa casa, per me, rappresenta tutto questo. Scusami, Chaku, non è per te che lo faccio. È per me.
Daniel non aspetta nemmeno di riprendere fiato – o meglio: lui il suo l’ha già recuperato, è il mio che ancora si fa rincorrere, ma questo naturalmente ci riporta al problema dell’età già frettolosamente affrontato prima e sul quale non intendo soffermarmi ancora – e mentre io sono ancora qui che cerco di capire chi sono, cosa faccio al mondo e che nome m’abbia dato quella povera donna di mia madre, lui scatta a sedere e si piega oltre il bordo del letto, riemergendo mezzo secondo dopo col proprio zainetto, che appoggia in grembo ed all’interno del quale comincia immediatamente a rovistare come in cerca della pillola del giorno dopo come rimedio estremo dopo una notte di sesso non protetto che naturalmente non ha avuto luogo, non fatevi strane idee.
- Non puoi rimanere incinto, sai? – lo avverto, seguendo il filo dei miei pensieri e rendendomi conto del fatto che si tratta di pensieri prevedibilmente solo miei nel momento in cui lui mi lancia un’occhiata vagamente allucinata e poi ritorna a ficcare la testa nello zaino, riemergendo qualche secondo dopo con una macchina fotografica in mano.
- Ah, eccoti qua. – dice soddisfatto, stringendola fra le mani per accenderla e verificare le impostazioni.
- Che sarebbe quella roba? – chiedo, inarcando un sopracciglio. È ovvio che so che si tratta di una macchina fotografica, ma mi aspetto una risposta ben più esauriente, nonostante la domanda poco centrata.
- Una macchina fotografica. – risponde invece lui, pacifico come un putto addormentato su una nuvola col suo gonnellino bianco e la sua arpa in miniatura sotto il cuscino.
- Sì, lo so cos’è, Danny. – mi lagno io, inarcando anche l’altro sopracciglio, - Intendevo cos’è che vorresti farci?
- Be’, allora avresti dovuto chiedermi quello, tanto per cominciare. – ride lui. E poi, semplicemente, solleva la macchina fotografica in modo da centrarmi all’interno dell’obbiettivo e poi scatta.
- No, dai! – mi lagno io, ricadendo sul mio cuscino con un tonfo rassegnato, - Per favore, sono uno straccio.
- Ti prego, sei stupendo. – ride lui, scattandomi un’altra foto, - Vuoi sapere quando sembravi uno straccio? Quando ti sei fatto quella foto pseudo-MySpace con la canottiera bianca. Dio mio, che roba squallida.
- Dio mio, quanto sei gay. – sospiro, gettando uno sguardo implorante al soffitto.
- Oh, da che pulpito. – ride ancora Danny, stendendosi accanto a me e scattando una foto a entrambi. Lui sorride come il ragazzino che è, io lo guardo male come il vecchio scarpone brontolone che sono.
- Le foto sono l’ultimo dettaglio prima di mettere in atto il piano per denunciarmi alle autorità? – chiedo schermandomi con un braccio. Lui ride divertito, e stavolta rido anch’io, gli rubo la macchina fotografica dalle mani e gli salgo addosso, sovrastandolo e costringendolo a restare steso sul materasso senza pesargli troppo sopra, anche se so che mi regge più che bene. Non riesco a impedirmele, queste premure, per quanto sia sciocco.
- Che fai? – mi chiede, guardandomi dal basso. Il modo in cui i suoi occhi scorrono lungo tutta la superficie del mio corpo mi dà i brividi. Mi mordo un labbro, puntandogli addosso la macchina fotografica e scattandogli una foto.
- Sei fotogenico. – commento, osservando il risultato sul display, - Anzi, in realtà sei proprio bello. – continuo, guardandolo con sincero interesse. Lui arrossisce subito. – Hai mai pensato di fare il modello? Pagano bene, se arrivi a certi livelli.
- Non è roba per me, quella. – borbotta lui, aggrottando le sopracciglia, vagamente offeso. Io rido un po’.
- E cos’è roba per te? – chiedo curiosamente, restando dove sono e scattandogli un’altra foto. Lui guarda altrove, le labbra appena piegate in una smorfia addolorata. L’obbiettivo cattura i suoi lineamenti affilati, ne sembra inspiegabilmente attratto. È qualcosa che posso capire. – Non oso nemmeno immaginare dove vivi.
- Ehi, casa mia è a posto, ok? – sbuffa, incrociando le braccia sul petto e tirandosi un po’ su, per fronteggiarmi da una posizione meno svantaggiosa, - È mio padre che la rende una merda, ma la casa è ok.
- Avanti, vuoi farmi credere che il tuo sogno è restare a Tempelhof? In quel posto di merda? – sospiro, sdraiandomi al suo fianco e mettendo via la macchina fotografica.
- Non ho detto questo. – risponde lui, duro, - Ho solo detto che fare il modello non è la mia cosa. Io voglio rappare.
Non riesco a trattenere una risata.
- Sì, è una frase che ho già sentito, questa. – commento, scompigliandogli i capelli. Lui si sottrae dal mio tocco con uno scatto da bambino offeso, ma prima che possa cominciare a protestare il mio cellulare, poggiato sul comodino accanto al letto, si mette a squillare, e lui si zittisce immediatamente. È una cosa così automatica che un po’ mi spaventa, non dovrebbe essere così naturale per lui farlo. Non così presto, almeno.
Mi allungo a recuperare il telefono. Sul display, lampeggia il nome di Bill. Sono un po’ stupito – non lo sento da quando è partito in tour coi ragazzi – ma rispondo.
- Pronto? – dico, e per molti secondi nessuno risponde. È come se Bill si fosse addormentato col telefono in mano mentre il telefono squillava. – Pronto? – ripeto, perché non voglio chiamarlo per nome di fronte a Danny. Non che sia possibile pensare che ignori le mie frequentazioni col ragazzino, ma insomma.
- …scusa. – risponde finalmente Bill, il tono trasognato, la voce flebilissima. – Come stai?
- …dovrei chiederlo io a te. – rispondo incerto, - Ragazzino, è tutto a posto? Ti sento strano.
- Strano? – chiede lui, un po’ confuso, - No, perché dovrei?
- Non lo so, era un’impressione, sei… non lo so. – rispondo sinceramente, - Ma c’è qualche problema?
Bill si prende qualche altro secondo, prima di rispondere.
- Sai che ho tagliato i capelli? – mi dice quindi, - O forse devo ancora farlo, non ricordo. O forse l’ho già fatto, ma tantissimo tempo fa, e sono già ricresciuti.
…ok, c’è decisamente qualcosa che non va.
- Bill? – lo chiamo, rinunciando a qualsiasi forma di pudore e discrezione ancora residue nella mia testa e mettendomi immediatamente a sedere, come se il fatto di cambiare posizione potesse rendermi più agile, pronto a scattare nel caso dovesse dirmi che ha bisogno d’aiuto. – Bill, ma stai male?
- Male? – chiede lui, e ride. La sua risata è talmente vuota che se ci urlasse dentro si sentirebbe l’eco. – Ma no. Sto bene. Non devi preoccuparti. – e posso immaginare il sorriso sulle sue labbra, e mi dà i brividi. Deglutisco a fatica. – Ora devo andare. – riprende subito, impedendomi di insistere ancora per farmi dire cosa diavolo ha, - Mi sa che è proprio ora di tagliare i capelli.
Interrompe la telefonata subito dopo. Io resto seduto, osservando il suo nome che ancora lampeggia sul display finché non cade la linea e lo schermo torna ad oscurarsi del tutto.
- Problemi? – chiede Daniel, piantando il gomito sul cuscino ed appoggiando il mento al palmo della mano aperta. Io faccio per rispondergli, ma il telefono squilla di nuovo. Spero sia Bill che mi dice che si è trattato di uno scherzo. Ti permetto di prendermi in giro perché ci sono cascato, ragazzino. Ci sono cascato con tutte le scarpe.
Invece è Anis. Non riesco a nascondere la delusione nello sguardo e nella piega delle labbra. Daniel se ne accorge, sicuro come la morte. È un bene che Anis non sia qui, così almeno potrà evitare di accorgersene lui.
- Ehi. – rispondo, e cerco di forzare un sorriso.
- Con chi eri al telefono? – chiede subito lui, senza nemmeno salutarmi. Mi passa subito la voglia di provare ad essere conciliante.
- …sto bene, Anis, qui le cose vanno alla grande, non preoccuparti. – sbuffo, e mi rendo conto di quanto suoni ridicolo, soprattutto considerato che c’è Danny qui accanto che inarca un sopracciglio e sta pensando tutta una serie di cose poco carine, a ragione, peraltro, ma mi viene spontaneo. Anis inspira ed espira lentamente, dovunque si trovi in questo momento, e quando torna a parlare lo fa con un tono di voce completamente diverso.
- Mi dispiace. – sospira, - Avevo— davvero bisogno di sentirti, ecco, e quando ho provato a chiamarti trovare occupato mi ha infastidito.
- Sì, be’, ho una vita, sai? A parte te e il vostro carrozzone di pazzi scriteriati, intendo. – continuo a borbottare. Daniel mi guarda malissimo, o forse sono solo io che voglio sentirmi rimproverato dai suoi occhi azzurri e un po’ assonnati. Sospiro. – Scusa. Giornata difficile.
- Dillo a me. – ridacchia lui, espirando profondamente. – Successo qualcosa in particolare?
Lancio un’altra occhiata a Danny. S’è sdraiato tranquillo sotto le coperte e s’è messo a scorrere le foto che abbiamo scattato stasera, osservandole tutte con interesse nonostante gli occhi che già si chiudono. Dormirà fra pochi secondi. Sorrido un po’.
- Niente di che. Da voi?
Anis sospira così profondamente che mi chiedo se i suoi polmoni siano abbastanza grandi da contenerla, tutta quell’aria.
- È tutto un gran casino. – risponde a bassa voce, - Se fossi qui sarebbe diverso.
- No, non credo. – rido piano. Danny sta già praticamente russando quando stringe una delle mie mani fra le proprie e la porta ad accarezzarsi i capelli.
- Io ne sono sicuro, invece. – insiste Anis, - Se tu fossi qui, Bill avrebbe almeno un po’ di pudore.
Mi mordo un labbro, sistemandomi meglio sul materasso nonostante possa sentire le doghe della rete premermi contro la spina dorsale.
- Senti, se posso darti un parere spassionato, Anis, - sospiro appena, - la tua principessa non sta un cazzo bene.
Anis sospira a propria volta, e sarà almeno il millesimo sospiro che ci concediamo da quando abbiamo cominciato a parlare.
- La mia principessa non sta un cazzo e basta, Pat. – risponde con un sorriso amaro, - Non sta e basta.
Se fosse qui, lo abbraccerei. Ma non è qui, qui c’è solo Danny, perciò abbraccio lui. Gli passo un braccio attorno alle spalle e me lo tiro contro. Nel dormiveglia, lui mugola appena, così a bassa voce che Anis nemmeno lo sente, e si sistema contro il mio petto.
- Mi dispiace, Anis. – rispondo, sperando che la mia voce sia abbastanza dolce da farlo sentire compreso davvero. – Lo sai che mi dispiace.
- Sì, lo so. – risponde lui. Il suo sorriso, lo sento dal tono, è già meno teso e più sincero. – Vado a riposarmi un po’. – dice quindi, la voce improvvisamente carica di stanchezza, come non potesse più farcela a reggere il proprio stesso peso dopo essersi scaricato tanto. – Buonanotte.
- Buonanotte. – rispondo piano. Ascolto la voce del telefono e della conversazione interrotta per qualche secondo, prima di rassegnarmi a chiudere la telefonata ed impostare la vibrazione. Poso nuovamente il cellulare sul comodino e mi stendo più comodamente. Daniel mi si stringe contro, si appoggia del tutto sopra di me e quella del suo corpo così caldo e così vicino è la sensazione più bella che ho provato negli ultimi mesi della mia vita.
Quando il suono della vibrazione contro il legno del comodino si diffonde fastidiosamente nell’aria, per prima cosa penso di nuovo a Bill. Poi mi rendo conto che è molto più probabile che sia Chakuza. Infine, capisco che dovrei lasciare quel telefono squillare e ignorarlo, ed invece mi allontano lentamente da Daniel e, sperando di fare in tempo, recupero il cellulare e mi trasferisco in salotto.
- Chaku. – lo chiamo piano, e il respiro che rilascia quando sente la mia voce lo sento quasi sulle mie stesse labbra. – Ehi, tutto a posto?
- A posto? – ride un po’ lui, e posso sentire che è in un ambiente piccolo e isolato, forse nella sua cuccetta dentro il tourbus. La sua voce è bassissima, ma c’è così tanto silenzio che la sento comunque con una chiarezza impressionante. – Per dirti se le cose sono a posto, dovrei ricordarmi com’è che erano quando ci stavano. – risponde con un’altra risata un po’ disillusa.
- Ma insomma, me lo spieghi cosa cazzo sta succedendo? – borbotto io, lasciandomi ricadere sul divano e tirando su le gambe per stendermi, - Che cazzo, la chiarezza sicuramente non è un vostro dono.
- Nostro di chi? – chiede subito lui, stupito. Io mi mordo un labbro.
- …degli austriaci. – invento io, - Intendo, sembri preoccupato ma non mi spieghi perché. Parla, no? – dico, sperando di essere stato sufficientemente convincente. Sono quasi sicuro di non esserlo stato e sento ancora gli occhi azzurrissimi di Daniel addosso mentre silenziosamente mi lasciano credere che mi stanno disapprovando, ma dal modo in cui Chakuza risponde è palese che la mia prova come attore di teatro dell’improvvisazione non era importante per farlo sentire libero di parlare: ne ha così tanto bisogno che le parole gli escono dalla bocca come un fiume in piena, travolgendomi.
- Sta andando tutto di merda, Pat. – comincia, talmente ansioso di dirmi tutto che le parole inciampano l’una sull’altra, si confondono, si intralciano a vicenda, - Bill sta dando di matto e io non so come aiutarlo. Perché sto dando di matto anch’io. E Bushido non riesce a fare niente perché non ci può riuscire nessuno, e se anche le cose non stessero andando poi così male questo tour rimarrebbe comunque un errore enorme, e so che quando torneremo a casa questa cosa ci avrà scombinato talmente tanto che rimetterci a posto sarà impossibile, ed ho pensato spesso a te, perché tu sei bravo a rimettere a posto le cose, ma mi sa che davvero, davvero, Pat, avrai vita dura quando saremo tornati.
La franchezza con cui ammette di aspettarsi che, quando saranno tornati a casa, io sarò lì armato di cerotti e pronto a rimetterli insieme, mi turba più di quanto non facciano le sue stesse parole, le cose che mi racconta, il disagio che esprime. Non riesco ad identificare un momento nella mia vita in cui ho permesso a questi uomini di farmi questo. Qualsiasi cosa questo sia. Perché qualsiasi cosa sia è dolorosa, ed io non voglio sentirmi così.
- Direi… - mi sforzo di rispondere, schiarendomi la voce, - Direi che potremo pensarci quando sarete tornati, no? – dico con una mezza risata incerta, alzandomi in piedi e prendendo a girare lentamente attorno al divano giusto per darmi qualcosa da fare. – Che ne dici?
- Dico che non ho granché altro da scegliere, ti pare? – ride anche lui, incerto tanto quanto me. Vorrei chiedergli perché ha sentito il bisogno di chiamarmi, ma so che la risposta a questa domanda è una risposta che in questo momento non voglio sentire. È una risposta che mi farebbe piacere, in qualsiasi altro momento, ma non qui, non ora. Non così.
- Hai ragione. – annuisco. E per la prima volta, stasera, sono io a chiudere la questione. – Buonanotte, Chaku.
Lui non mi risponde perché non vorrebbe chiudere la telefonata, lo sento nel modo in cui respira, come se stesse solo aspettando di trovare le parole giuste per dirmi di non riattaccare. Le parole non arrivano, comunque, e dopo qualche secondo di speranzosa e stupida attesa, io riattacco.
Torno in camera da letto, e Danny sta ancora dormendo, tutto raggomitolato nella stessa posizione in cui l’ho lasciato. Scosto le lenzuola e mi stendo al suo fianco. Il suo corpo trova il mio al primo contatto, e ci riannodiamo come prima così facilmente da darmi l’impressione di non essermi mai mosso da qui. È una sensazione che riconosco subito. Perché non mi muovo da tanto di quel tempo che se solo ci penso mi manca l’aria per respirare.
Nonostante questo, me lo stringo contro, affondo il naso fra i suoi capelli e chiudo gli occhi. Non mi accorgo del momento in cui mi addormento, ma il calore del suo corpo resta lì, legato al mio, per tutto il tempo, e quando mi sveglio, l’indomani mattina, c’è ancora.
Genere: Introspettivo, Drammatico, Romantico.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: R
AVVISI: Slash, What If?, Angst.
- Tre anni fa, Fler e Nadja Benaissa hanno collaborato per Mein Jahr, una traccia dell'album Fremd Im Eigenen Land, e questo lo sanno tutti. Quello che sanno solo loro due, è che durante la collaborazione hanno avuto una storia. E infine c'è qualcos'altro, qualcosa che sa solo Nadja, ma che adesso è arrivato il momento di dire.
Commento dell'autrice: Scrivere questa storia è stato una pena, come facilmente intuibile se si legge il riassunto associato all'articolo che l'ha ispirata. Voglio premettere che non è mia intenzione dare giudizi sul comportamento della Benaissa in questa o in qualsiasi altra sede, per cui nei commenti cercate di tenere le opinioni su ciò che ha fatto per voi, nel caso voleste commentare dopo aver letto XD
Per il resto, non so. La notizia mi ha scossa e la reazione immediata è stata quella di plottarci su. Avrebbe potuto essere una storia più lunga, ma già alla quinta pagina stava cominciando a drenarmi, perciò ho cercato di non perdermi troppo e restare ben attaccata al concetto principale. Spero che possa piacervi :)
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ALLES WIRD GUT


Fler si stupisce della propria capacità di respirare ancora. Immobile in un angolo della stanza, il cellulare ancora stretto fra le mani, resta appoggiato alla parete perché ha la certezza fisica che le sue gambe non sarebbero capaci di reggerlo se solo provasse ad allontanarsi di un passo. E respira. Respira ancora, sente l’aria entrare dal naso e dalla bocca, scivolare lungo la sua gola, riempire i suoi polmoni e poi ripercorrere la stessa strada all’inverso per venire fuori, e questa consapevolezza lo sconvolge più di tutto il resto. Sta respirando. Non si è mai sentito così intimamente consapevole di una cosa simile, il respiro come una qualsiasi delle altre attività del suo corpo.
- Patrick. – lo chiama Nadja dall’altro capo della cornetta, la voce rotta da un singhiozzo che lei cerca in tutti i modi di contenere, - Ti prego, ho bisogno di vederti prima che questa storia finisca su tutti i giornali. Ho bisogno di parlarti.
Fler solleva una mano e la guarda con attenzione. La mano si muove, i suoi occhi la guardano. Lui riesce a percepire con chiarezza il movimento del polso, dei tendini, delle falangi. Percepisce l’immagine che si imprime sulla sua retina e gli impulsi nervosi che la trasferiscono al cervello, rimbalzando di neurone in neurone per mostrargliela così com’è nella realtà, tridimensionale, morbida, un po’ arrossata a causa della forza con cui l’ha tenuta stretta a pugno fino a pochi secondi fa. E sotto tutto questo, costante, il suono lievissimo del proprio respiro. Qualcosa di cui in genere non si accorge, qualcosa che in genere c’è sempre in automatico. Nessuno si ricorda di dover respirare, è il corpo che possiede quell’ordine nella propria memoria fisica, nelle cellule, nelle molecole che le compongono. E lui respira perché il suo corpo respira, lui è vivo perché il suo corpo lo è.
- Patrick, per favore. – insiste Nadja, il singhiozzo che prima ha cercato di trattenere che finalmente esplode nella sua gola, mentre la voce le si spezza definitivamente, - Ho fatto tante cose… - singhiozza ancora, Fler la ascolta piangere ed una lacrima scende per riflesso anche lungo la sua guancia. Ha sempre odiato vedere o sentire piangere le donne. Sua madre, quando lui era piccolo, lo faceva continuamente. Invidiava tanto la vita di Bushido anche perché la signora Luise Maria era forte, indomita, non piangeva mai. Sua madre invece piangeva sempre. Le sue lacrime, quando lo cercava con una mano nella loro cucina minuscola, ogni volta che lui, sentendola piangere, andava a controllare se stesse bene o no, erano bagnate e salate, esattamente come immagina siano quelle di Nadja, esattamente come sono le proprie. – Ho fatto tante cose di cui mi pento, - riprende lei, cercando di riacquistare il controllo della voce, - ma tu sei stato importante. Quindi, per favore, incontriamoci. Ho bisogno di spiegarti.
È solo nell’ascoltare lei che Fler ricorda di avere una voce anche lui. Abbassa la mano, torna a guardare la parete di fronte a sé e d’improvviso gli sembra tutto molto più concreto, tangibile, reale. Schiude le labbra ed annuisce distrattamente, più a se stesso che a lei, visto che lei non può vederlo.
- Sì. – risponde quindi, la voce molto più sicura di quanto non avrebbe immaginato, - Anche subito, però per favore, smettila di piangere.
Lei mugola un assenso incerto, chiedendogli dove gli fa più comodo incontrarsi. Lui le dà l’indirizzo di un locale poco frequentato non tanto vicino da lì, e fissa l’appuntamento fra mezz’ora. Poi riattacca, senza neanche salutarla. Si ricorda che avrebbe dovuto farlo solo dopo aver premuto il pulsante, e con un mugolio dispiaciuto si chiede se non dovrebbe richiamarla per scusarsi e salutarla, solo che ci mette un niente a realizzare quanto sarebbe ridicolo, perciò lascia perdere e rimanda a quando la vedrà.
Entra in camera da letto camminando piano, cercando di non fare rumore. Le serrande sono tutte abbassate, le finestre socchiuse. Chakuza dorme a pancia in sotto, il lenzuolo attorcigliato attorno alle gambe ed un braccio che pende giù dal materasso sfiorando il pavimento, la testa nascosta sotto il cuscino. Fler sorride teneramente nell’avvicinarglisi, e si siede accanto a lui, in punta, per non svegliarlo troppo repentinamente. È stato alla Beatlefield a lavorare con Camora fino alle quattro del mattino, e quando è rientrato Fler l’ha sentito abbattersi al suo fianco borbottando un laconico “non svegliarmi fino a domani pomeriggio”, prima di crollare definitivamente.
- Chaku. – lo chiama piano, accarezzandogli la schiena nuda. Lui borbotta qualcosa di incomprensibile e si volta dall’altro lato, inspirando ed espirando profondamente. Fler ride. – Chaku. – lo chiama ancora, accarezzandolo un’altra volta, e stavolta il mugolio di Chakuza è più presente a se stesso, e Fler lo osserva riemergere da sotto il cuscino e guardarsi un attimo intorno con aria persa prima di voltarsi, individuarlo e tornare ad appoggiarsi subito dopo, stavolta, però, con gli occhi aperti.
- Ehi. – dice, la voce ancora un po’ roca, solo per fargli capire che è lì, è sveglio e ora può parlare.
- Ehi. – sorride Fler. Sente l’impulso di chinarsi a baciarlo sulle labbra, ma qualcosa lo trattiene, perciò evita. Non vuole dargli baci che non siano profondamente voluti, non vuole fare niente, con lui, che non sia profondamente voluto. È l’unica regola che si sono dati quando si sono messi insieme, non fare niente se non lo si vuole a tutti i costi, ed è una regola che Fler non intende tradire. – Devo uscire un’oretta.
- Mh-hm. – annuisce lui, rigirandosi supino e grattandosi mollemente lo stomaco mentre si stiracchia tirandogli inavvertitamente una ginocchiata lieve contro il fianco. – Scusa. Dov’è che vai?
- Incontro un vecchio amico. – risponde lui, alzandosi in piedi e sistemandosi i jeans attorno ai fianchi e poi lungo le gambe, - Tu puoi continuare a dormire, è ancora presto per te.
- Ok. – risponde Chakuza, spiegando il lenzuolo perché torni a coprirlo e rigirandosi su un fianco, col solo risultato di scombinare tutto da capo. Fler ride a bassa voce, uscendo dalla stanza, e quando si ritrova per strada, due minuti più tardi, si pente di non averlo salutato con un bacio. Anche stavolta, pensa che forse dovrebbe tornare indietro, baciarlo e poi uscire, ma esattamente come prima si rende conto di quanto sarebbe sciocco, perciò alla fine lascia perdere, si dice che in fondo starà fuori solo un’ora e potrà baciarlo quando sarà tornato a casa. Non è la fine del mondo.
Nadja è già davanti al locale, quando lui arriva. Visto anche l’orario, non lo stupisce vedere tutti i tavolini all’esterno vuoti. Spera sia così anche all’interno. Lei passeggia nervosamente a qualche passo dall’entrata, indossa un soprabito corto e scuro e gli occhiali da sole. I suoi capelli ricci sono raccolti in uno chignon un po’ disordinato alto dietro la testa, alcune ciocche ricadono a solleticarle la nuca e lei le allontana con una carezza nervosa mentre continua a passeggiare, più per darsi qualcosa da fare che perché ne abbia voglia. È sempre molto bella, non lo stupisce vedere che nell’anno che hanno passato distanti non è cambiata di una virgola.
- Nadja. – la chiama, cercando di non sembrare arrabbiato, anche perché in effetti non lo è. Lei si volta nella sua direzione, le labbra solitamente piene così tese da sembrare una linea sottilissima. – Hai fatto colazione? Io sono ancora a stomaco vuoto. Ti offro qualcosa. – sorride, invitandola ad entrare all’interno del locale ed aprendole la porta.
- Scusa se ti ho chiamato così all’improvviso. – dice lei, prendendo posto ad uno dei tavolini più nascosti in fondo e sfogliando distrattamente il menu, - Non l’avrei mai fatto, ma il mio avvocato ha pensato… - sospira, - Ed ha ragione. Non ho chiamato solo te, ho fatto un giro di telefonate per avvertire quante più persone possibile, ma ci tenevo ad incontrarti, altrimenti non so cosa avrei fatto se poi—
- Nadja. – la interrompe lui, sporgendosi in avanti e poggiandole una mano su una spalla, - Ho capito, ok.
Lei inspira ed espira a fatica, sfilando gli occhiali da sole e riponendoli sul tavolo. Ha gli occhi cerchiati ed arrossati, il pallore del suo viso è quasi spaventoso.
- Patrick, devi fare le analisi. – gli dice seria, le mani strette in grembo, - Devi davvero, perché c’è una… una buona possibilità che io ti abbia infettato.
Il corpo di Fler si tende tutto all’improvviso, e per molti minuti lui nemmeno parla, si limita a fissarla negli occhi, come se questo già da solo bastasse ad ottenere una qualche risposta per domande che non ha nemmeno formulato nella propria testa. Un cameriere si avvicina, Nadja prende solo un bicchiere d’acqua, lui chiede un caffè perché sa che ne avrà bisogno.
- Che possibilità c’è che io sia malato? – chiede a fatica quando il caffè arriva e con esso anche qualche biscotto. Nadja ne prende uno, prima di rispondergli.
- Tu non sei malato, Patrick. – gli dice, guardandolo dritto negli occhi con estrema serietà, - Nemmeno io lo sono e nemmeno la mia bambina lo è. C’è qualcosa, dentro di noi, qualcosa che potrebbe diventare una malattia, col tempo, ma per adesso è solo un virus. Solo questo, solo un virus, uno stupido organismo milioni e milioni di volte più piccolo di noi, dentro il nostro corpo.
Fler assimila l’informazione senza comprenderla veramente. Nadja morde il biscotto, ne morde uno anche lui.
- Che possibilità c’è che questo virus sia anche dentro di me? – le chiede allora lui, buttando giù il caffè tutto in un sorso.
Lei si mordicchia un labbro, distogliendo lo sguardo.
- C’è un’alta possibilità che tu possa essere sieropositivo. – risponde lei, - È per questo che vorrei che facessi subito il test. Prima lo sai, meglio sarà per te e per tutte le persone che ami. Non è una battaglia che puoi combattere da solo.
- È il mio corpo. – ribatte lui, aggrottando le sopracciglia, - Posso—
- Patrick, ascoltami. – sospira lei, chiudendo gli occhi e massaggiandosi stancamente le tempie, - Io so cosa significa tenersi dentro una cosa del genere, fronteggiarla in solitudine giorno dopo giorno per anni. Pesa sul cuore, sui polmoni, sullo stomaco. Puoi stare fisicamente bene e non riuscire comunque a dormire per giorni solo per l’ansia e la tristezza che il fatto in sé ti provoca.
Fler abbassa lo sguardo, mordendosi un labbro.
- Non è che abbia grande scelta, dopotutto. – dice a bassa voce, - Dovrò farlo per forza.
- Esattamente. – risponde lei, annuendo. – E noi sai quanto mi dispiace, davvero.
- Be’, avresti potuto pensarci prima. – le ricorda atono, poggiando la tazzina sul piattino.
- Lo so. – dice immediatamente Nadja, abbassando lo sguardo, - Patrick, credimi, mi dispiace davvero aver combinato questo gran casino. Ma ero confusa e sola, sono sempre stata confusa e sola, e ho sempre avuto paura che se l’avessi detto a qualcuno tutto ciò che avevo conquistato negli anni mi sarebbe stato strappato via. Cosa che, in ogni caso, è destinata ad accadere adesso. – aggiunge con un sorriso triste. – Queste sono le conseguenze del silenzio, Patrick. Tienile da conto, se intendi mantenere il segreto.
Fler annuisce, incerto su cosa dovrebbe fare adesso. Nadja lo toglie d’impaccio bevendo in pochi e lunghi sorsi tutta la propria acqua, e poi alzandosi in piedi, lasciando sul tavolino abbastanza denaro per pagare quello che hanno preso almeno tre volte.
- Posso— - dice lui, mettendo mano al portafogli, ma lei lo ferma con un sorriso.
- Lascia che sia io ad offrire. – dice, girando attorno al tavolino e chinandosi a baciarlo su una guancia, prima di allontanarsi. – Chiamami, quando vuoi. Proverò ad esserti d’aiuto, qualsiasi cosa mi succederà da qui a una settimana. – gli raccomanda poi. È scomparsa il secondo dopo. Fler sente la bocca amara ed è quasi sicuro che non sia solo colpa del caffè. Lascia tutti i soldi di Nadja sul tavolino e, un minuto dopo, esce anche lui, diretto a casa.
L’appartamento è ancora immerso nel buio quando lui sale le scale ed entra. Non s’è mosso niente, rispetto a quando è uscito, ed è quasi sicuro che, se entrasse in camera, troverebbe Chakuza arricciato su se stesso nella stessa posizione in cui l’ha lasciato.
Sta ben lontano da lì, comunque, e non perché non voglia vederlo, ma perché ha paura di trovarlo già sveglio e dovergli spiegare tutto adesso. Non è sicuro di sentirsi pronto, non è sicuro che lo sarà mai. Sa che prima o poi dovrà farlo, ma spera solo che non siano questi minuti, queste ore, questa giornata. Vuole aspettare, anche se non sa cosa significherebbe nell’atto pratico: aspettare quanto, e fino a cosa? Sono domande che razionalmente si pone, ma non è la stessa parte razionale di lui che le ha poste quella che risponde “non lo so, voglio aspettare e basta”.
Si inumidisce le labbra e va in cucina, cercandosi qualcosa da fare. Non lo trova perché in cucina non c’è nulla per lui. I piatti sono puliti – o per meglio dire, non sono mai stati sporcati, visto che lui e Chakuza non condividono un pasto in casa da almeno due settimane – e lui non sa cucinare abbastanza da pensare di mettersi lì dietro ai fornelli per lasciar scorrere via i pensieri come in un fiume come Chakuza fa abitualmente ogni volta che è triste o stanco e non sa cos’altro fare.
Visto che non ha nulla da fare, scosta uno degli sgabelli alti dal tavolino tondeggiante attaccato alla parete per un lato e si siede, restando a fissare le venature del legno sulla superficie liscia. Gli viene quasi da ridere se pensa che quelle venature, pur essendo il tavolo in legno – o almeno, in uno dei suoi derivati – non appartengono all’albero da cui quella tavola è stata ricavata. Perché dopo è stata trattata in mille modi, è stata scartavetrata, lucidata, foderata, lucidata ancora e poi le è stata applicato addosso uno strato di plastica sottilissima con quella stampa lì, che imita i disegni naturali del legno pur non avendoci niente a che fare. È assurdo se si pensa che sarebbe bastato prendere un albero e dividerlo in varie tavole per avere lo stesso effetto, anzi, migliore, ma questo non è stato fatto perché il legno dell’albero è troppo grezzo per finire nelle case delle persone. Le persone vogliono cose finte, cose morte. Fler si appunta mentalmente di comprare un tavolo in legno vero quanto prima, per sostituire questo.
- Si è rigato. – dice Chakuza, apparendogli alle spalle e sbadigliando sonoramente mentre si dirige verso i fornelli, intenzionato a preparare il caffè.
- Mh? – chiede lui, incerto, sollevandogli gli occhi addosso. Lui, perfettamente a suo agio in mutande di fronte al piano cottura, come sarebbe a suo agio anche se indossasse un casco di banane per cappello e una gonnella di noci di cocco allacciata attorno ai fianchi, per il semplice fatto che è l’ambiente della cucina in sé a renderlo così tranquillo e sicuro, gli indica la superficie del tavolo con un gesto distratto.
- Si è rigato quando ci ho posato su una teglia, qualche settimana fa. – spiega, concentrato sulla macchinetta del caffè da preparare, - Stavi guardando questo?
Non l’aveva neanche notato.
- Chaku. – dice, così piano che a stento si sente da sé, - Chaku, - ripete a voce più alta, - devo dirti una cosa.
Forse è a causa del tono della sua voce, ma Chakuza capisce subito che deve dirgli qualcosa di serio. Posa la caffettiera sul fornello ma non accende il fuoco, e si volta a guardarlo con aria preoccupata.
- Che succede? – chiede, faticando a mantenere la voce calma.
Fler distoglie lo sguardo. Non ha provato quel discorso neanche una volta, non sa come dovrebbe dirglielo. Si chiede se esista un modo migliore di un altro, per farlo, e conclude che probabilmente la risposta a questa domanda è no.
- Oggi, quando sono uscito, ho incontrato una mia vecchia amica. Nadja Benaissa. – comincia a raccontare, - Non so se la conosci.
- Ma secondo te come faccio a non conoscere la Benaissa? – ride nervosamente Chakuza, grattandosi la nuca, - Era una delle No Angels, no?
- Già. – annuisce Fler, sorridendo brevemente, - Noi abbiamo avuto una storia, qualche anno fa. L’avevo invitata a cantare con me una canzone per Fremd Im Eigenen Land e abbiamo passato molto tempo insieme, e sai, lei era molto bella, lo è ancora, e molto simpatica, e, voglio dire, una pazza, ti basterebbe conoscerla per saperlo, è una che la vita se l’è goduta tutta. – sospira pesantemente, abbassando lo sguardo. – Oggi mi ha detto di essere sieropositiva.
Chakuza non si muove, resta immobile sul posto, silenzioso. In quel silenzio, Fler ha tutto il tempo di pensare che è ridicolo, davvero ridicolo che durante la sua storia con Nadja – durata quanto? Tre mesi? – non abbiano fatto altro che scopare sempre senza pensare alle precauzioni, mentre con Chakuza, che frequenta ormai da quasi un anno, non ha mai fatto l’amore senza preservativo. È assurdo davvero, ma al momento non può che ringraziare per essere stati entrambi scrupolosi abbastanza quando contava.
- Voi avete… - la voce di Chakuza è ruvida e quasi fastidiosa, quando riesce a trovarne abbastanza da poter parlare, - Avete fatto sesso senza proteggervi?
Fler abbassa lo sguardo, sentendosi solo in quel momento, per la prima volta, incredibilmente stupido.
- Non mi ha mai detto di essere… - prova a giustificarsi, ma lascia perdere nel momento in cui si rende conto di quanto sciocca sarebbe questa come scusa: Nadja ha sbagliato, ma ha sbagliato altrettanto lui a pensare di potersi fidare di una ragazza sostanzialmente appena conosciuta che peraltro già ai tempi era abbastanza nota per essersi ripassata tutta Berlino e dintorni più di una volta e non sempre senza che questo portasse a conseguenze di vario genere. - …sono stato un idiota. – conclude quindi, - E adesso mi toccherà espiare.
Chakuza lo guarda per qualche secondo, il viso privo di espressione.
- Farai il test? – chiede. La sua voce è distante, distante anni luce da lui.
- Certo. – annuisce subito Fler, cercando di dare un’impressione di sicurezza che in realtà non possiede, un po’ perché spera di acquistarne così almeno una parte, ed un po’ perché ha bisogno di vedere Chakuza più sereno. È importante che Chakuza sia più sereno, adesso. Fler vuole provare a renderlo possibile.
- Io non… - mormora Chakuza, incerto, appoggiandosi al tavolo di fronte a sé e piegandosi un po’, come non riuscisse a sostenere il peso di quella confessione prima di tutto a livello fisico, e solo dopo a livello mentale, - …non sono pronto. Non— ho bisogno di tempo, Pat.
- Be’, io non ne ho molto. – risponde lui, stringendosi nelle spalle.
- Ma che cosa ti aspetti da me?! – quasi grida Chakuza, all’improvviso, fissandolo negli occhi con rabbia. C’è un fuoco che gli esplode dentro, ed è così repentino che Fler ne è spaventato. – Che cosa ti aspetti, che ti dica che non è un problema? Che non mi terrorizza a morte? Che ti starò accanto indipendentemente da tutto il resto? Io non— non posso farlo, non voglio mentirti e non me la sento di… - non conclude la frase, ma ciò che vorrebbe dire è evidente. Non se la sente di legarsi a lungo termine con qualcuno che un lungo termine potrebbe non avercelo più nel giro di un paio d’anni.
Fler non può biasimarlo. Ma così com’è certo di non poterlo fare, è anche certo, per qualche secondo, di smettere di sentire il proprio respiro che corre veloce dentro di lui – naso gola polmoni e inverso – e questo blocco dura tanto a lungo che lui per primo si chiede come sia possibile riuscire a sopravvivere tanto a lungo anche senza respirare per niente.
- Mi dispiace. – riesce a tirare fuori a fatica, e solo dopo essersi ricordato che deve essere lui a rimettere in moto il suo apparato respiratorio, perché il suo corpo sembra aver dimenticato del tutto che invece è compito suo. – Non so cosa dire, Chaku. Mi dispiace.
Chakuza appoggia i gomiti al tavolo e si prende la testa fra le mani, strofinandosi gli occhi chiusi coi palmi bene aperti per qualche secondo, prima di tornare a guardarlo.
- Ok, ho esagerato. – dice quindi, sospirando profondamente, - Non… non è ancora nemmeno detto che tu abbia il virus, magari sei stato fortunato. E anche allora, la medicina ha fatto dei passi da gigante, e… tutte quelle altre cose che si dicono per alleggerirsi la coscienza in questi casi. – sospira ancora, e Fler si sente stringere il cuore. – Aspettiamo di sapere qualcosa di certo, e poi ne parleremo tranquillamente. Vedrai che la risolveremo, in qualche modo. – si sforza di sorridergli, e Fler si sforza di rispondergli. Sorridere riesce male ad entrambi, ma tutti e due comprendono che più di così, in quel momento, non possono fare, per cui si accontentano. – Ora scusami, - riprende Chakuza subito dopo, - ma devo andare a farmi un giro. Ti prometto che torno presto, ho solo bisogno di…
- Ok. – annuisce subito lui, - Ok, Chaku, ti capisco. Credimi. Non ho smesso di capire i tuoi bisogni solo perché tre anni fa sono andato a letto con una donna che potrebbe avermi reso sieropositivo. Te lo assicuro.
Chakuza annuisce, ignorando volutamente la frecciata. Fler si alza in piedi, passandosi una mano sugli occhi e sulla fronte.
- Tu che fai, nel mentre? – chiede Chakuza a bassa voce. Fler scrolla le spalle.
- Penso che mi metterò a riposare. – risponde pensieroso.
- Stai male? – chiede subito Chakuza, ansioso, - Non ti senti bene?
- Sto benissimo, Peter. – risponde lui, lanciandogli un’occhiata infastidita e cercando subito dopo di tornare calmo. Non vuole litigare, non adesso. È l’ultima cosa che gli serve. – Ho solo voglia di mettermi a dormire. Sarà sempre meglio che vagare per casa senza niente da fare. Ora chiamo il medico e mi faccio prescrivere le analisi. E poi mi metto a dormire. Ok?
- Okay, okay. – annuisce Chakuza, sollevando le braccia in segno di resa, - Sono solo preoccupato, Pat. Vienimi incontro.
- Veniamoci incontro entrambi, Peter, o non ne usciremo facilmente. – borbotta lui, lasciandolo lì ed infilandosi in camera da letto. Mentre solleva la cornetta e cerca il numero del medico nella rubrica del cellulare, lo sente entrare in bagno. La porta si chiude, poco dopo l’acqua della doccia comincia a scorrere. La segretaria solleva la cornetta, dall’alta parte della città, e Fler si concede di smettere per un attimo di pensare a Chakuza per concentrarsi un po’ su se stesso. Prende appuntamento per l’indomani di buon mattino, non spiega alla segretaria perché, lei non ha alcun bisogno di saperlo. Discuterà la faccenda direttamente col medico.
Augura una buona giornata alla segretaria e chiude la conversazione, restando immobile seduto sul letto per qualche secondo prima di decidersi a scalciare via le scarpe e i vestiti e mettersi sotto le coperte dallo stesso lato ancora caldo del corpo di Chakuza. Quel calore lo rassicura, in qualche modo, e si addormenta subito. Non sente Chakuza entrare in camera per vestirsi ed uscire, pochi minuti dopo.
In compenso, lo sente rientrare. Sono le tre del mattino, quando accade. Ha dormito per tutto il giorno ed è abbastanza sicuro di averlo fatto non tanto per stanchezza o per qualche generico malessere, quanto più perché emotivamente incapace di sopportare lo scorrere lento delle ore fino a domani. Comunque lo sente rientrare molto più tardi di quanto non avesse promesso, eppure non riesce a chiedergli niente, e nemmeno a criticarlo. Da qualche parte, dentro di sé, sa di non avere alcun diritto a biasimarlo neanche questa volta.
Resta comunque sveglio fino all’indomani mattina.
*
Nella settimana che passa da quel giorno al giorno in cui lui e il dottor Falkenberg sono seduti uno di fronte all’altro nel suo ufficio, e Fler si torce le mani mentre il dottore fruga fra gli incartamenti della sua cartella clinica per trovare i risultati del test, Chakuza passa a casa pochissimo tempo. Fler lo sente rientrare a notte fonda più delle volte in cui lo sente uscire, e questo perché in genere Chakuza non aspetta nemmeno che lui sia rientrato dall’Ersguterjunge per uscire a propria volta. Quando s’incontrano a casa, o quando Fler lo chiama al telefono, non lo ignora e non è scostante, ma sono solo scampoli di tempo che gli concede mentre impiega tutto il resto della propria giornata ad occuparsi in tutti i modi possibili pur di non pensare a lui.
Il dottor Falkenberg gli ha già detto che, considerata la grande distanza di tempo intercorsa fra il rapporto sessuale non protetto e il test, ci sono ben poche possibilità che questo possa essere fallibile. Il risultato che ne verrà fuori sarà quello definitivo, e sebbene Fler non sappia che tipo di risultato aspettarsi sa esattamente cosa aspettarsi in generale dal test in sé: stabilirà cosa sarà del resto della sua vita, stabilirà se gli toccherà pagare un errore finché vivrà o se potrà farla franca, in modo da non doverlo ripetere in futuro. In ogni caso, è evidente che la lezione che la vita gli sta impartendo è inflitta con una violenza che non avrebbe mai sospettato.
Ha paura. Avrebbe voluto che Chakuza lo accompagnasse, ma Chakuza non c’è, perciò a lui tocca essere forte per entrambi, per se stesso che è già lì e per Chakuza che ci sarà comunque, anche se non subito. Fra qualche ora, anche domattina, non importa: prima o poi lo rivedrà, ed anche allora dovrà essere forte per tutti e due. Esattamente come adesso.
Il dottor Falkenberg sospira pesantemente, lasciando scivolare il foglio coi risultati delle analisi sulla scrivania, fino a lui.
- Il test mostra che nel suo sangue sono presenti gli anticorpi per il virus dell’HIV. – dice gravemente, - Stando a questo ed a ciò che mi ha raccontato, non c’è alcun dubbio né nessun motivo per ritenere che i risultati del test possano essere errati. – si sporge in avanti, accarezzandogli la spalla in un gesto consolatorio ma freddo, che dà da pensare a Fler su quante persone deve aver provato a consolare nella stessa maniera per tutta la propria vita, - Mi dispiace, signor Losensky.
Fler annuisce, abbassando lo sguardo sulle proprie mani abbandonate in grembo. Resta in silenzio, però, limitandosi a minuscoli cenni col capo mentre il dottor Falkenberg comincia a parlare di quanto sia stato fortunato a mantenere un regime di vita sano fino ad ora e quanto abbia del miracoloso che la diagnosi sia stata effettuata per tempo, e poi continua illustrandogli le terapie che dovrà seguire, e parla di farmaci e diete, no, regimi alimentari – Fler si ascolta respirare e si dice che “regime alimentare” è proprio una brutta parola, dieta è molto più simpatica, una di quelle cose leggere che si vedono nei settimanali femminili, la dieta del sedano, la dieta dei frutti rossi, la dieta solo pasta, regole alle quali puoi fare uno strappo, ma un regime alimentare? Duraturo? Una dittatura che si instaura nella sua vita, la dittatura legalizzata del suo corpo su tutto il resto di sé – e di tutto ciò che il dottore dice lui non coglie che frammenti. Sente il proprio respiro, l’aria che gonfia i polmoni e questi ultimi che poi si spremono per buttarla fuori quando non serve più, e questo copre tutto il resto. Tutto il resto, anche il virus. Lui respira ancora. È ancora lì.
Lui e il dottor Falkenberg si congedano con una ricetta e un appuntamento per la settimana prossima. La prima cosa di cui ha voglia Fler, quando si trova da solo per strada, è mangiare un gelato. Cerca di ricordare se un alimento simile fosse permesso nel regime alimentare del dottor Falkenberg, ma stava ascoltando solo distrattamente e molti dettagli gli sono completamente sfuggiti. Non sa se può permettersi un gelato e non si sente dell’umore di rischiare. Il dottor Falkenberg gli ha detto che è fortunato, perché è giovane e il suo fisico è forte, non crollerà immediatamente alla prima minaccia, dovrà solo stare un po’ più attento. Chissà se il gelato è una delle cose alle quali dovrà stare sempre attento, da ora in poi. Chissà a quante altre cose che prima notava solo per caso dovrà fare attenzione, fino a quando tutto non gli crollerà comunque fra le mani indipendentemente da quanto sia stato cauto prima.
Messo da parte il gelato, comunque, l’unica cosa che vuole fare è vedere Bushido. Ci pensa all’improvviso, senza seguire nessun tipo di filo logico. Non sa neanche se al momento sia a casa, e per la verità nemmeno ci pensa quando sale in macchina e si dirige verso quella sua villa enorme dal colore tremendo. Non importa se c’è o non c’è, lo aspetterà, in ogni caso. La verità è che non ha voglia di tornare a casa e trovarla vuota, e che lo sia è una certezza. Non ha voluto rischiare col gelato, ma rischia volentieri con Bushido. Alle volte, un’incognita è meglio di una certezza, e questo caso è esemplare in questo senso.
Bushido, comunque, c’è. È inverosimilmente teso, quando gli apre la porta. Fler lo guarda a lungo, senza dirgli una parola. Bushido capisce in quel silenzio tutto ciò che c’è da capire, e se lo trascina addosso, stringendolo forte fra le braccia, un braccio attorno alle spalle ed una mano pressata sulla sua nuca, per impedirgli di muoversi.
- Mi dispiace, Atze. – gli sussurra in un orecchio. La voce gli si spezza subito in un singhiozzo che dà a Fler i brividi per quanto è inatteso e strano. Lui non ha ancora pianto. – Mi dispiace un casino, cazzo.
Fra le sue braccia, Fler si rilassa subito. Improvvisamente, tutto torna e sembrargli più vivo e reale di quanto non fosse fino ad un minuto prima. Le lacrime di Bushido, il suo respiro che si mescola col proprio, il calore che sprigionano i loro corpi tesi e nervosi così avvinghiati nel mezzo dell’ingresso, e quando si accorge di stare piangendo a sua volta non riesce ad impedirsi di essere felice perché lo sta facendo, perché da qualche parte sente che ancora vale la pena di piangere per qualcosa, per la sua vita che sta cominciando a disintegrarsi, per Chakuza con cui non passa un’ora intera insieme da una settimana, per quello che ha e che perderà, per quello che ha avuto e perso in passato e non potrà più provare a riprendersi, per quello che aveva sperato di avere in futuro e invece non riuscirà ad avere mai. Vale ancora la pena di piangere, e lui può ancora farlo, e questa è una cosa bellissima.
- Vuoi restare qui, stanotte? – gli chiede Bushido, mezz’ora e un paio di bicchieri d’acqua per smettere di singhiozzare dopo, - Ci sono tutti i letti che vuoi.
- No, torno a casa. – risponde lui con un sorriso mesto, - E poi cosa dovrei farmene di tutti i letti che voglio? Legarli uno all’altro per i fianchi e poi farli scivolare giù dal tetto con le lenzuola legate a mo’ di pallone aerostatico per cercare di prendere il volo?
Bushido ride, tirandogli un cazzotto debolissimo contro una guancia, più un buffetto che altro.
- Sei un cazzone. – lo apostrofa, spingendolo verso la porta, - Fuori dai piedi.
- Me ne vado, me ne vado. – lo rassicura lui, sollevando entrambe le braccia in segno di resa e lasciandosi spingere senza protestare né opporre resistenza, - Ci si sente, comunque.
- Sì, ma che sia vero. – si raccomanda Bushido, guardandolo severamente, - Non mi rifilare balle, Fler. Se dici che chiamerai, fallo davvero.
- Lo farò. – annuisce lui, ridendo appena, - Davvero. – aggiunge più seriamente, prima di imboccare il viale e infilarsi nuovamente in macchina. Sente gli occhi di Bushido piantati sulla schiena per tutto il tragitto e anche per cinque minuti buoni dopo aver messo in moto l’autovettura ed essere partito alla volta di casa. Poi quella sensazione incredibilmente fisica comincia a scemare, lasciando il posto a quella altrettanto pressante che lo prende ogni volta che sente di essere vicino a vedere Chakuza, quella forza che, per prima, l’ha attratto così inesorabilmente verso di lui. È come sentirsi tirare nella sua direzione, e Fler si ritrova quasi senza accorgersene a pigiare ostinatamente il piede sull’acceleratore per fare il più in fretta possibile. È certo che Chakuza sarà a casa. Non ci sono più incognite, nella sua mente.
Quando apre con le proprie chiavi ed entra in casa, infatti, Chakuza è lì. Stava facendo qualcosa, anche se Fler non riesce ad identificare cosa. Tutto ciò che sa è che lo prende di sorpresa mentre è fermo a metà del corridoio, e che quando si volta a guardarlo Chakuza ha gli occhi umidi e arrossati, come avesse appena smesso di piangere. Fler riesce solo a stento a trattenere il sorriso che vorrebbe nascergli spontaneo sulle labbra al pensiero che, in due posti diversi, stavano entrambi piangendo contemporaneamente per lo stesso motivo.
- Ce l’ho. – gli dice all’improvviso, spezzando il silenzio perfetto che avvolgeva la casa, - Sono positivo. Ho l’HIV.
Chakuza molla ciò che sta tenendo in mano e lo lascia cadere a terra. Fler non riesce a vedere cos’è perché il secondo successivo Chakuza gli è addosso e lo sta stringendo come se dalla forza con cui se lo tiene ancorato addosso dipendesse il destino intero della loro relazione. Fler pensa che è così e prega con tutte le proprie forze che Chakuza non lo lascia andare mai più.
Invece succede. Chakuza sta di nuovo piangendo, quando si allontana. Lo sta facendo anche Fler.
Lo segue quando si incammina lungo il corridoio.
- Mi dispiace. – mormora confusamente Chakuza, - Mi dispiace, Pat, io non posso. Non ce la faccio.
- Chaku…? – lo chiama lui, senza capire cosa stia succedendo. Lo segue e non capisce, e continua a non capire almeno fino a quando Chakuza non entra in camera da letto, e lui lo segue anche lì, e nota il borsone aperto e già mezzo pieno sul pavimento.
- Mi dispiace. – ripete Chakuza, affaccendandosi fra la cassettiera e l’armadio. Prende cose alla rinfusa, non le sistema ordinatamente, giusto quello che gli serve per qualche giorno. Fler è combattuto fra il desiderio di pensare che si tratti solo di una cosa temporanea e il pensiero più razionale che stia semplicemente prendendo le prime cose che gli capitano sottomano per tornare poi quando sarà certo che non ci sia nessuno in casa, e recuperare il resto.
Serra le labbra, non parla più. Resta sulla soglia della porta osservandolo tirare su il borsone sul letto, chiuderlo e tirarselo in spalla. Si scansa per lasciarlo uscire dalla camera e lo segue anche in corridoio. Lo osserva chinarsi per recuperare qualsiasi cosa gli fosse caduta prima, e poi lo osserva anche quando posa il borsone a terra, apre uno spiraglio della zip ed infila – cosa sarà? Una maglietta? Un paio di calzini – alla come viene, richiudendola subito dopo con un gesto secco. La zip s’inceppa, Chakuza non le bada. Esce di casa il secondo dopo. Fler continua a non dire una parola. D’altronde, ora che è solo, non vede nemmeno perché dovrebbe farlo.
*

Non ha una chiara percezione di quando tutto, nella sua vita, cominci a muoversi a scatti. A volte si sente come se stesse guardando se stesso in un film la cui pellicola però continua a incepparsi nel proiettore. Ci sono inquadrature che durano infinità, blocchi improvvisi, momenti di nero assoluto di cui non ricorda niente già un’ora dopo. Conserva solo frammenti di quotidianità. Sa quando si sveglia, sa che si fa una doccia, fa colazione e prende le sue pillole. Sa che è dura abituarsi ad una routine che fatica a sentire propria. Sa che la casa resta vuota solo un paio di giorni, dopodiché comincia a riempirsi di gente ad orari alterni perché proprio nessuno vuole lasciarlo solo, proprio nessuno a parte Chakuza.
- Ci ho parlato, sai, - gli dice Bushido in un giorno a caso di una settimana a caso da quando lui è andato via, - con Chaku, dico. Non sta bene.
- Nemmeno io. – risponde lui, stringendosi nelle spalle. Bushido gli sorride, accarezzandogli la testa in un gesto tenero e incredibilmente intimo.
- Sai cosa intendevo. – gli dice. Fler annuisce, perché è vero, ma non gli interessa poi molto. Avrebbe bisogno di lui lì, sofferente o meno, ma Chakuza non c’è, e non c’è perché non vuole esserci. Cosa dovrebbe interessargli, dunque, del suo dolore?
- Mi dispiace. – dice, ma questa è una bugia. Non può dire che gli dispiaccia davvero, non può dire niente perché per lo più si sente come se stesse fluttuando a mezz’aria. Fa le cose, ma non c’è niente che riesca a toccarlo davvero. Le persone scivolano davanti a lui come ombre sulle pareti. Il sole sorge al mattino e tramonta alla sera, veloce come nei fast forward dei documentari su Discovery Channel. Il letto, in camera, ha ancora il profumo di Chakuza attaccato alle fibre stesse del materasso, perché le lenzuola le ha già cambiate parecchie volte, ma il profumo resta ancora lì. E Fler si dice che è assurdo non riuscire a mantenere un ricordo visivo o tattile che sia uno di persone che gli gravitano intorno continuamente e di cui dimentica ogni dettaglio dopo due minuti, ma conservare ancora la perfetta percezione di quella combinazione di odori conosciuti che, sommati assieme, compongono il suo profumo. È assurdo ed è ridicolo. E soprattutto fa male.
Cambia il materasso dopo un mese ed una settimana. Non ricorda di essere andato a comprarlo, ma sa che è nuovo perché, quando va a dormire, alla sera, improvvisamente il profumo di Chakuza è sparito.
Il tempo rallenta con una facilità impressionante, cose prima impensabili diventano la normalità senza la minima difficoltà. Svegliarsi e non sentire più il bisogno di allungare il braccio per cercare il suo corpo sull’altro lato del materasso. Oppure farlo ancora, ma non stupirsi più quando non trova niente. Buttare via il caffè che avanza perché se n’è preparato troppo e poi rassegnarsi a comprare una caffettiera più piccola. Tornare a casa senza chiedersi più se ci sia qualcun altro ad aspettarlo. La sua vita, a parte queste cose, è piuttosto normale. Il fatto che Chakuza sia andato via ha cambiato la sua quotidianità ben più di quanto non l’abbia cambiata il virus, perché il virus ha preteso da lui soltanto che aggiungesse qualche azione in più alle solite da compiere giorno dopo giorno, ma l’assenza di Chakuza lo obbliga a strapparsi di dosso abitudini che amava tanto quanto amasse lui. Rinunciare è molto più difficile che integrare, è la prima cosa che scopre dopo quasi due mesi che non lo vede e non lo sente nemmeno per sbaglio.
E poi, all’improvviso, così come ne è uscito, Chakuza rientra nella sua vita. In silenzio.
*

Squilla il telefono, Fler solleva la cornetta e chiede chi è. Dall’altro lato non risponde nessuno, ma del tutto irrazionalmente, senza sapersi spiegare perché né come, Fler sa che il respiro un po’ affannoso che sente rimbombargli nelle orecchie è quello di Chakuza.
- Chaku. – lo chiama, e l’ansia di pronunciare il suo nome dopo più di un mese in cui è stato lontano dalle sue labbra è tale che quasi gli si attorciglia la lingua, e le lettere si fermano lì a bloccargli la gola, soffocandolo fino a che non trova la forza per sputarle fuori.
Chakuza riattacca immediatamente, e Fler si morde un labbro con tanta forza da tagliarsi. Quando sente il sapore del sangue sul palato e sulla lingua, però, squilla il campanello, e lui si alza in tutta fretta, copre i metri che lo separano dalla porta in pochi, ampi passi e la spalanca. Chakuza è appena oltre l’uscio, lo guarda con gli occhi sgranati e umidi ed ha ancora il cellulare in mano, tenuto mollemente fra le dita che però tremano abbastanza da fargli pensare che scivolerà dalla sua presa, schiantandosi a terra quanto prima.
In effetti, è esattamente quello che succede nemmeno un minuto dopo, quando Chakuza si slancia in avanti e le sue labbra collidono con quelle di Fler, che però si allontana da lui di scatto, piantandogli le mani sul petto e muovendosi di qualche passo all’indietro.
Chakuza lo fissa con aria interrogativa, le sopracciglia inarcate verso il basso, lo sguardo ferito. Fler si succhia un po’ il labbro ferito.
- Mi esce sangue. – dice, la voce gli si spezza in un singhiozzo addolorato mentre pensa alle implicazioni che una semplice ferita riesce già ad avere sul suo comportamento, sulla sua intera vita. Roba alla quale non ha mai pensato. Roba alla quale ha dovuto cominciare a pensare. E Chakuza non era lì mentre lui cominciava a pensarci, ad elencare tutti i posso e i non posso, e Fler pensa che se intende restare dovrà insegnarglieli, e non fa che pregare che lui resti davvero e gli lasci il tempo di farlo.
Chakuza si chiude la porta alle spalle con un gesto brusco, e lo raggiunge in tre passi decisi. Gli appoggia le mani sui fianchi, stringendolo possessivo, e lo guarda serio, come se ciò che sta per dire fosse la cosa più importante che abbia mai pensato in vita sua. Fler riesce a vedersi riflesso nei suoi occhi chiarissimi ed è felice di essere, in questo momento, la cosa più importante cui Chakuza abbia mai pensato da quando è vivo.
- Io non sono ferito. – dice lui. Sono le prime parole che gli dice da quando è entrato. Suonano male, fuori posto, forse perché la sua voce è un po’ arrochita dal pianto e dall’ansia, per cui le ripete. – Io non sono ferito, Fler. – ribadisce, e poi se lo tira contro, e lo bacia profondamente, e stavolta Fler si lascia andare perché a Chakuza va bene così, lo sente sulle sue labbra e sulla sua lingua, lo sente in quel bacio che si muove lento contro la sua bocca. Non c’è pericolo. Può lasciarlo fare. Chakuza non è ferito. Solo lui lo è, ma finché uno solo di loro due è ancora sano c’è speranza per entrambi. – Andrà tutto bene. – gli dice Chakuza, allontanandosi da lui ed accarezzandogli una guancia. Fler non piange perché non vuole, perché non ne ha bisogno e perché è così stupidamente felice che non riesce a fare altro che sorridere. – Te lo prometto, - sorride anche Chakuza, - non me ne andrò più da nessuna parte.
Fler riesce a sentirlo perfettamente, subito dopo aver assorbito quelle parole per ciò che sono e per quello che significano. Il tempo riprende a scorrere, non è una cosa né veloce né lenta, è semplicemente una cosa che succede. Il labbro gli fa male, le mani di Chakuza sono calde, i suoi occhi umidi, il suo sorriso sincero. Tutto riprende a muoversi fluidamente, ed è solo perché entrambi, nonostante tutto, l’hanno voluto. E lui sta ancora respirando.
Fandom: RP: Musica
Personaggi:
Shot facente parte della serie Schmetterlingseffekt.
Genere: Introspettivo, Erotico, Commedia.
Pairing: Fler/OMC, Fler/Chakuza, Bill/Chakuza, Bill/Bushido, Fler/Bushido.
Rating: NC-17
AVVISI: Slash, Lemon.
- "Spengo la televisione quando le Crispy News di Mtv mi fanno capire che intendono mostrarmi altre immagini esclusive del tour dei Tokio Hotel con l’Ersguterjunge per la cinquecentesima volta circa nell’arco delle ultime ventiquattro ore."
Note: Non so bene cosa dirvi riguardo questa storia perché, se le altre volte potevo in qualche modo azzardarmi a provare a indovinare come avreste reagito leggendo, stavolta io e la Tab stiamo proprio facendo un salto nel buio. C'è qualcosa, in questo spin-off, che molto probabilmente non vi aspettate e non vi sareste mai aspettate. Spero solo che possa piacervi :)
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LET YOUR FINGERS DO THE WALKING

Spengo la televisione quando le Crispy News di Mtv mi fanno capire che intendono mostrarmi altre immagini esclusive del tour dei Tokio Hotel con l’Ersguterjunge per la cinquecentesima volta circa nell’arco delle ultime ventiquattro ore. Quello che sta succedendo dall’altro lato della Germania, mi ripeto alzandomi in piedi e gettando il telecomando sul divano mentre mi dirigo speditamente verso il frigorifero nella speranza di trovarci qualcosa dentro, non mi riguarda. Non è che mi senta tagliato fuori, è solo che mi rendo conto che ci sono cose che Anis, Bill e Chakuza condividono, e delle quali io non faccio parte, semplicemente perché la mia presenza qui è il risultato di una combinazione di eventi che non esiterei a dire sfortunata e totalmente casuale. Professionalmente parlando, io non sono legato a nessuno di loro. Io ho l’Aggro – per quanto ormai Sido mi mandi a fanculo ogni volta che mi vede, e non fatico ad immaginare perché, visto che la mia faccia e quella di Anis campeggiano affiancate su ogni fottuta copertina del paese – ed è lì che voglio restare. Quella è famiglia, per me. Ed è del tutto diverso da ciò che invece lega quei tre disperati.
Non posso dire che non mi dispiaccia per loro, naturalmente. Voglio dire, Anis è stato la mia intera esistenza per una quantità di tempo spropositata, Chakuza è un pezzo esageratamente grande della mia vita recente – esageratamente soprattutto calcolate le sue dimensioni – ed il ragazzino, voglio dire, è il ragazzino, come si fa a non dispiacersi per lui per principio?, basta guardarlo in faccia. Per cui sì, mi dispiace, ma non posso negare che nell’ultimo periodo in cui sono stati lontani la mia vita abbia subito radicali cambiamenti in positivo, dannazione. È molto vero quello che dicono alcuni, occhio non vede, cuore non duole. Io ho una vaga idea di quanto stia succedendo da quelle parti, naturalmente, ma non esserci rende tutto incredibilmente meno pesante. Ci rifletto seriamente, mentre bevo la birra ghiacciata direttamente dalla bottiglia, a piccoli sorsi, e mi dico che forse la chiave per risolvere il problema è questa, in fondo. Esserci. Se ci sei stai male, se non ci sei soffri lo stesso, ma il dolore diventa sordo, un sottofondo cui puoi abituarti, non è lancinante come dover rivedere quegli stessi volti ogni giorno, e volerli, e non poterli avere, e doverti accontentare, e sentirti in colpa perché ti stai solo accontentando ed invece vorresti essere semplicemente felice con ciò che hai e basta.
Perso come sono nei miei pensieri, non sento il campanello squillare. O meglio, lo sento, ma è un’eco lontana, come se stesse squillando quello del vicino, o quello dello scapolo del piano di sopra, che in effetti riceve visite ad orari della notte veramente improbabili, orari come questo, in cui la gente per bene dorme ed i cretini come me bevono birra per alleggerirsi la coscienza, quindi non ci faccio nemmeno caso. Peraltro, è incredibile: non avendo mai veramente vissuto in questo palazzo, inconsciamente e stupidamente credevo anche che il palazzo non avesse mai veramente vissuto senza di me. In qualche modo, nella mia testa, questa era una scatola rettangolare e tridimensionale piena di vuoto in cui l’unico piano occupato da un appartamento, vuoto o pieno che fosse, era il mio. Da quando, invece, ci passo più tempo, ho scoperto che è un posto un sacco vivo. C’è questo tizio qui, e c’è la signora del primo piano che ha due gemelline deliziose, avranno quattordici anni e vanno sempre in giro vestite con colori combinati, tipo che se una è in nero con qualche dettaglio bianco, l’altra è in bianco con qualche dettaglio nero. Poi c’è la studentessa universitaria dell’ammezzato che fa la dogsitter ed ha sempre casa piena di cani non suoi che abbaiano continuamente e sporcano ovunque, e c’è una coppia di anziani signori all’ultimo piano che sono tipo la cosa più pimpante mai esistita e non prendono mai l’ascensore anche se è fondamentalmente per loro che il condominio l’ha fatto installare, robe da matti.
Insomma, per questo posto c’è un andirivieni continuo, e siccome io non aspetto visite fatico proprio a ricondurre il suono del campanello con la possibilità che sia il mio. Lo realizzo tipo al terzo squillo. Io li ho sentiti, quegli squilli, ma quando mi accorgo che è proprio il mio campanello che sta squillando la sensazione è di quelle che provi quando stavi sognando che stava accadendo qualcosa e quella cosa in un certo qual modo sta accadendo davvero, tipo che un boa constrictor ti stava staccando la testa a furia di stringerti fra le proprie spire, e invece magari era solo il lenzuolo, ma a staccarti la testa ci stava provando comunque. È un suono flebilissimo, all’inizio, e poi si fa via via più intenso, e alla fine stacco le labbra dalla bottiglia, guardo la porta e mi rendo conto che dovrei andare ad aprire, o quantomeno a vedere chi è.
Spalanco la porta senza neanche guardare attraverso lo spioncino chi ci sia dall’altro lato, e quando mi appare davanti questo tizio biondissimo con gli occhi azzurri e un visino che sarebbe pulitissimo se non avesse un labbro spaccato ed un sopracciglio messo non tanto meglio, naturalmente non lo riconosco.
- Sì? – chiedo, piegando appena il capo e illudendomi che a guardarlo di sbieco possa assumere una forma conosciuta, - Chi sei?
- Sono Daniel. – risponde lui, e lo fa con ovvietà, come se il suo semplice nome dovesse aprire chissà che bauli colmi di ricordi nella mia testa. Ma il tipo qui ha presente quanti Daniel esistano nel mondo, e quanti ne abbia incontrati nella mia vita? Per quanto ne so, potrebbe essere D-Bo accidentalmente finito in una macchina del tempo e tornato alla sua giovinezza, che ora cerca me per chiedermi aiuto solo perché Bushido non c’era in quanto impegnato a dannarsi la vita in tour col proprio ex e l’attuale fidanzato del suo ex che, per un’assurda combinazione di fattori, è anche l’ex del suo attuale fidanzato.
- A-ha. – annuisco poco convinto, - E io sono Patrick, piacere di conoscerti, Daniel. Farai così con tutto il resto del palazzo?
Lui gonfia le guance ed irrigidisce le braccia lungo i fianchi, offesissimo. Arriccia perfino le labbra in un broncio incredibilmente goffo, ma desiste subito, forse per il dolore. Ha un brutto taglio, lì, andrebbe disinfettato.
- Noi ci conosciamo già! – mi fa presente, - Non ti ricordi?
Cerco di riportare alla memoria una qualsiasi occasione in cui possa aver conosciuto un ragazzino della sua età. Mi vengono in mente solo i concerti, ed ultimamente non è che ne abbia fatti tanti. Ma cosa sta pretendendo questo essere assurdo da me?
- No, temo di no. – scuoto il capo, - Dovrei?
- Dovresti, sì. – dice lui, piantandomi una mano nel mezzo del petto e scostandomi letteralmente di lato per entrare in casa, - Ho rischiato la vita per te, un anno fa. – sbuffa, voltandosi a guardarmi.
Io chiudo la porta e gli ricambio un’occhiata incerta. Dev’essere successo qualcosa che non ricordo. Ero ubriaco? Mi sono perso e il moccioso qui mi ha riportato a casa in spalla, per quanto io possa faticare a credere ad una cosa simile? Ma allora perché avrebbe dovuto rischiare la vita?
- Senti. – sospiro, massaggiandomi stancamente le tempie, - È un po’ tardi per perdere tempo con misteri e indovinelli, ti pare? Dimmi chi sei e facciamola finita. Poi, se hai anche qualcos’altro da dirmi a parte il tuo nome, bene, sennò grazie della visita e buonanotte.
Lui si prende qualche secondo, prima di rispondere. Gira un’occhiata curiosa tutto intorno alla stanza e poi pianta una mano sul fianco con fare teatrale.
- E dire che dovresti essere un amico che conta. – sbotta, tornando a guardarmi, - Quanto valgono le tue promesse, Fler?
Improvvisamente, realizzo chi ho davanti. La mia memoria torna a un anno fa, ad una notte ghiacciata, a Tempelhof, alla ricerca di un uomo che credevo colpevole della morte di Anis. Ad un ragazzino che ci ha indicato la strada, a me e a Chakuza, quando credevamo di esserci completamente persi.
- Tu… - balbetto, indicandolo maldestramente, - Tu sei quel ragazzino. Daniel. Sì, certo, ora ricordo.
Sul suo volto si apre un sorriso spontaneo e repentino, come quello dei bambini, mentre il suo intero corpo si tende verso di me.
- Davvero? – chiede, gli brillano gli occhi. Poi torna a cercare di darsi un tono, altrettanto velocemente rispetto a quando l’ha perso. – Cioè, finalmente. – borbotta schiarendosi la voce con un paio di colpi di tosse. – Non c’è niente da bere in questa casa?
- Niente che possa dare a un palese minorenne. – rispondo inarcando le sopracciglia, - A parte l’acqua.
- Oh, andiamo! – sbotta lui, pestando un piede per terra, - E poi sono maggiorenne. Ho compiuto diciott’anni quest’anno.
- Sì, certo. – rido io, - Farò finta di crederci. Mi fa piacere rivederti, comunque. Almeno so che non hai gettato al vento la tua fortuna e non sei finito in galera, mentre non guardavo. – gli lancio un’occhiata incerta, - Non ci sei finito, vero?
- No. – risponde lui con una mezza risata, - Non ne avrei avuto il tempo, comunque. Ho avuto un anno piuttosto pieno.
- Ah, non dirlo a me. – alzo gli occhi al cielo, passandogli accanto per recuperare la birra che ho abbandonato sul tavolino prima di andare ad aprirgli, - E cos’è che ti porta qui stasera, Daniel? Ti annoiavi? Avevi finito i cerotti a casa? – chiedo, indicando distrattamente il labbro gonfio e il sangue che gli scivola lungo una tempia.
Lui si passa velocemente una mano sul viso, come a sincerarsi delle proprie stesse condizioni, e poi esita per un minuto buono, incerto sulle gambe – non fa che spostare il peso del corpo da un piede all’altro – e palesemente sul punto di scoppiare.
- Voglio che sia tu. – dice quindi, tutto d’un fiato, come se anche solo mettere in fila quelle quattro parole gli sia costato una fatica immane.
- …vuoi che sia io. – ripeto, indicandomi mollemente, - A fare cosa? A disinfettarti le ferite?
- Ma no! – sbotta lui, esasperato, e pesta di nuovo il piede per terra. È ridicolo che lo faccia, sembra ancora più ragazzino di quanto non sia. – Voglio che sia tu il primo!
- Ma il primo a fare che?! – insisto, allargando le braccia ai lati del corpo, - Non ti sai mettere un cerotto e sei venuto dal tuo guru del gangsta rap perché sia lui a mostrarti i misteri della cassetta del pronto soccorso?! Sii più chiaro!
- Sei… un idiota! – strilla lui, irrigidendosi tutto come un pezzo di legno, - Voglio che sia tu il primo a… - deglutisce a fatica, e io sento un brivido caldissimo scorrermi lungo tutta la schiena. È paura. – il primo a fare l’amore con me. – conclude, guardando fisso il pavimento. Vorrei poter riavvolgere il nastro e rimandarlo da capo, perché non sono proprio sicuro di aver capito bene.
- Come, scusa? – chiedo istintivamente. Mi rendo conto dell’idiozia della domanda, ma non riesco proprio ad impedirmelo, non riesco a fermarmi. Lui arrossisce fino alla punta delle orecchie, e volta il capo così velocemente che finisce per nascondersi dietro una tenda di capelli scarmigliati e che necessiterebbero decisamente di uno shampoo.
- Cos’è, te lo devo ripetere? – sputa fuori lui, acido.
- No. – rispondo immediatamente io, sollevando le braccia come di fronte a una pistola puntata contro. Mi arrendo, Daniel. Però prima parliamone cinque minuti. – È solo che, capisci, non è che mi capiti tutti i giorni di vedermi spuntare alla porta minorenni che—
- Non sono minorenne! – scatta lui. Si morde il labbro inferiore, quello spaccato. Gli fa così male che ha gli occhi pieni di lacrime.
- No, ok, ok. – annuisco io, cercando di calmarlo, - Quello che intendo dire è che la situazione è un po’ spinosa, non ti pare? Cosa ti aspetti che faccia?
- Ma non lo so! – sbuffa lui, abbattendosi sul mio divano e prendendosi la testa fra le mani, - Dovresti essere tu quello esperto, no? Senti, - sospira, - ho avuto una serata difficile, e ho davvero bisogno di—
- Di farti scopare? – chiedo, gli occhi enormi. Lui mi guarda e arrossisce ancora, perfino più intensamente di prima.
- No! – strilla, - Cioè, sì, ma per come la metti tu sembra una cosa di uno squallore tremendo! Era meglio come l’ho detta io prima.
- D’accordo, ma – insisto io, - …non ti capisco. – rinuncio subito dopo, abbattendomi sul divano al suo fianco. – Ti va di parlarne?
- Se avessi avuto voglia di parlarne, sarei andato dallo psicologo dei servizi sociali, ti pare?! – sbotta lui, immediatamente sulla difensiva. Poi sospira, accomodandosi meglio ed appoggiandosi indietro sullo schienale. – Ho fatto coming out sei mesi fa. – racconta a bassa voce, ed io mi sconvolgo, perché, voglio dire, ce li avrà diciassette anni?, eppure ha già avuto più coraggio di me, che alla sua età avrei dovuto e voluto dire cose che invece mi sono tenuto dentro fino ad ora, praticamente, - E se prima potevo dire di avere una vita di merda, era perché non immaginavo minimamente cosa sarebbe diventata dopo una cosa del genere.
- Immagino che non debba essere facile. – commento con un mezzo sorriso. Lui mi guarda malissimo.
- È un inferno. – mi corregge, usando una parola senza dubbio più adatta, - Non mi aspettavo che mio padre capisse, naturalmente, ma che almeno i ragazzi della banda mi stessero vicini… è gente che conosco da una vita.
- Evidentemente, loro non conoscevano te. – gli faccio notare.
- Nemmeno io conoscevo me stesso. – ribatte lui, - È… è solo capitato, cazzo. E non posso farci niente, non è che l’abbia deciso, “oh, sì, diventiamo gay, scommetto che dopo sarà tutto una figata, andrò a vivere a Beverly Hills ed indosserò solo pantaloni e camicie bianche con cinture e scarpe di pelle nera”… è solo capitato. – insiste, occhi bassi e sguardo cupo.
Ridacchio un po’ per l’immagine mentale che la sua descrizione oggettivamente strampalata della società gay americana mi offre, ed allungo una mano a sfiorargli i capelli. Sono di un bel biondo chiaro, molto tedesco. Scommetto che dopo una bella doccia saranno morbidissimi, al tatto.
- Danny, devi anche capire che vivi in mezzo a ragazzini che hanno sempre avuto un solo modo per guardare alle cose. Non puoi pretendere che capiscano.
- Va bene, ma che bisogno avevano di picchiarmi?! – sbotta lui, indicandosi il viso, - Il labbro è un gentile omaggio di mio padre, ma il resto no. Ci conoscevamo fin da piccolissimi, alcuni di loro sono parte della banda dalle medie, e io li ho visti arrivare quasi tutti. Ma non hanno esitato un secondo a prendermi a bastonate, quando l’ho detto, e anche molte volte dopo. Che cazzo.
Sospiro, passando le dita fra i suoi capelli e sciogliendone i nodi.
- Perché non te ne vai, da lì? – propongo, - Sono sicuro che—
- Che stai facendo? – chiede lui, voltandosi a guardarmi con aria sinceramente stupita.
- Cosa? – ribatto io, distrattamente. La mia mano non si ferma, e lui la indica con un dito. – Ah, questo. – registro come fosse una cosa normalissima, - Non lo so. Pensavo avessi bisogno di una qualche rassicurazione.
Lui sospira pesantemente, torcendosi le mani in grembo.
- Senti… - dice a mezza voce, - Tu mi piaci veramente tantissimo. – e lascia il concetto lì sospeso, come se l’idea di spogliarlo e prenderlo magari su questo stesso divano dovesse essere una diretta conseguenza di questa confessione. Non esiste niente che potrebbe giustificare me e te a scopare su questo divano adesso, ragazzino confuso che non ha ben chiaro praticamente niente riguardo a se stesso, alla vita e al mondo in generale.
- Io sono impegnato, Daniel. – gli faccio presente. Potrei partire con una lunga digressione sul mio impegno al momento, ma me la tengo da parte per momenti in cui leggerò meno voglia chiara e limpida nei suoi occhi azzurri e grandi. Questa situazione va arginata. Mi chiedo se ne sono in grado.
- Non importa! – dice, con la sicurezza avventata di chi immagina io gli stia dicendo una cosa del genere solo per fargli presente che per noi non potrebbero mai esserci e vissero tutti felici e contenti con castelli e principi azzurri in groppa a splendidi cavalli bianchi. Lo guardo dritto negli occhi, nella sua testa ci sono un mucchio di favole.
- Importa a me. – insisto, - I rapporti di coppia si basano sulla fiducia. Anis deve sapere che io non lo tradirò, mentre lui è via.
Ed io lo so, che Anis non mi tradirà mentre sono qui. Lo so. Lo so?
- Dimmi almeno che posso restare qui da te, per la notte. – mormora lui, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore.
- Cosa? – rido io, sbigottito, - No che non puoi.
- Non posso tornare a casa! – insiste Daniel, - Non subito, almeno. Dubito che mio padre abbia smesso di bere, quando me ne sono andato, e non voglio stare da solo con lui in una casa traboccante di bottiglie. Di solito le butto tutte via mentre dorme.
Lo guardo inarcando un sopracciglio, incerto.
- Perché le bottiglie? – chiedo. Daniel mi guarda fisso per qualche secondo, poi si allunga verso il tavolino, afferra repentinamente la bottiglia di birra vuota posata sul ripiano e la spacca contro il bordo. Fa un rumore frastornante, si spargono schegge di vetro per tutto il pavimento, e prima che possa capire cosa sta succedendo davvero lui è sulle ginocchia, così vicino che sento l’odore del suo sangue come se fosse il mio, e mi punta la bottiglia spaccata alla gola, tenendola per il collo.
- Per questo. – dice. Uno dei cocci di vetro mi punge con forza la pelle, fa male quasi come dovesse trapassarla. Daniel, però, mette subito via la bottiglia, appoggiandola sul tavolino e ritraendosi mentre io mi accarezzo la gola per verificare che non ci siano tagli. Nel mentre, lo osservo afferrare la felpa che indossa dagli orli inferiori e tirarsela via da sopra la testa. Non indossa nient’altro, sotto, a parte un tappeto di lividi. Non ci sono tagli recenti, almeno, ma lui non intende mostrarmi i segni superficiali delle violenze più nuove, no, vuole mostrarmi i segni indelebili di quelle più vecchie. Si volta e mi mostra un fianco, torcendosi come solo un ragazzino della sua età che sia così magro può fare. – Guarda qui. – dice, indicando una lunga cicatrice un po’ sformata che gli taglia in due la pelle proprio sopra l’anca, - Questo me l’ha fatto per il mio quindicesimo compleanno. – racconta a bassa voce, - Volevo uscire con i miei amici, ma a lui non stava bene. Alla fine, sono dovuto uscire per forza per andare al pronto soccorso. Mentre lui dormiva, perché prima non ha voluto lasciarmi andare.
Deglutisco a fatica, sollevando una mano e tracciando quella linea incerta e chiara con due dita. È liscissima sotto i miei polpastrelli, e il gemito che sfugge dalle labbra di Daniel, più che sentirlo con le orecchie, lo percepisco sottopelle. È un brivido che mi scuote fino alle punte dei piedi. Ho sentito donne gemere più forte e con più voluttà, e quello che non è altro che il gemito sgomento di un ragazzino impaurito che probabilmente soffre solo un po’ di solletico – perché lo so che non era un gemito programmato, quando ne senti tanti impari a capire cosa è simulato e cosa no – riesce a scuotermi più di quanto non abbia mai fatto nient’altro di simile fino ad ora.
- Mi dispiace. – dico a mezza voce. Sono sincero.
- A me no. – risponde lui con una risatina, avvicinandomisi impercettibilmente, - La pelle è ancora sensibilissima, in quel punto. Ho scoperto che mi faceva quest’effetto quando una delle tipe con cui andavamo per locali il sabato me lo ha succhiato. Le sue mani non facevano che sfiorarmi i fianchi e quello mi piaceva già da solo più della sensazione di sentire l’uccello nella sua bocca.
Deglutisco ancora, o almeno ci provo, ma stavolta non mi riesce. Una delle mani di Daniel scende a posarsi sulla mia, se la schiaccia con forza addosso.
- Daniel— - provo a chiamarlo. Lui mi sorride e io m’interrompo subito.
- Quando sono nel letto da solo e mio padre non mi ha picchiato troppo forte, - dice lui a bassa voce, - cioè, quando posso ancora muovermi senza che mi faccia male tutto, a volte, sollevo la maglietta che uso per dormire e la accarezzo. – porta la mia mano a muoversi su e giù contro il suo fianco, - E basta quello da solo per farmelo venire durissimo.
- Smettila. – dico senza fiato, ma la mia presa si stringe attorno al suo fianco senza che possa nemmeno provare a controllarla. La sua mano resta lì. Calda e un po’ sudata. È così agitato, Dio mio. Glielo vedo negli occhi che ha una paura folle.
- Ti prego. – dice lui, avvicinandosi ancora. Le sue labbra sfiorano le mie, ma non osa farsi più avanti di così. – Solo una volta. Non mi vedrai mai più, dopo, te lo giuro.
Resto immobile e non dico niente, ma il problema è che continuo a restare immobile e a non dire niente anche quando lui alla fine si fa avanti e copre i pochi centimetri di spazio che ancora ci separano, poggiando le labbra sulle mie. Non sa come muoversi e probabilmente anche se lo sapesse gli farebbe troppo male per farlo, sento in bocca il sapore del suo sangue ed è lo stesso sapore che sentivo quando per le strade di Tempelhof picchiavano me. È il sapore del mio sangue, non solo del suo.
Chiudo gli occhi e sollevo un braccio, poggiandoglielo sulla nuca e traendomelo contro. Lui sbuffa un lamento sorpreso che si trasforma in un gemito un po’ perso quando forzo le sue labbra con la mia lingua, accarezzandogli lentamente il fianco e sottolineando i contorni della cicatrice. Si scioglie sotto le mie dita con una semplicità disarmante, ed è tutto così semplice, il suo corpo magro è così duttile, si adatta al mio come una coperta di quelle sottili e fresche che ridisegnano le sagome di ciò che nascondono senza riuscire a nasconderlo davvero agli occhi di nessuno.
- Allora… - mormora, quando mi allontano abbastanza da dargli tempo e modo di riprendere fiato, - Vuoi davvero—
- Shh. – lo interrompo io, sorridendo appena. Sfioro le sue labbra con le mie, accarezzo il taglio su quello inferiore con la lingua e lui rabbrividisce con tanta forza che lo sento scuotersi fra le mie braccia come stesse tremando dal freddo. – Non parlare. Rischi grosso, a farlo.
- Non fa più tanto male. – insiste lui, sistemandomisi in grembo. Lo sento eccitato dentro i jeans larghi e spessi e sorrido perché con i ragazzini di quest’età basta davvero pochissimo. – Il labbro, dico. E tutto il resto, anche.
- Ne sono felice. – annuisco, stringendolo da sotto le cosce ed alzandomi in piedi con un colpo di reni. È così leggero, dannazione. Nel movimento, i nostri bacini collidono e poi strisciano l’uno contro l’altro. Daniel mi si aggrappa con forza alle spalle e mugola sul mio collo, la voce rotta in un singhiozzo di paura.
- Farà male? – chiede pianissimo, tanto che lo sento appena. Non lo chiede come uno che stia verificando che opportunità ha per scegliere la migliore, lo chiede come uno che di opportunità ne ha una sola, e vuole essere preparato per affrontarla al meglio.
- Dipende. – rispondo sinceramente io, entrando in camera da letto. Mi serve un secondo per ricordare dove sono tutte cose, letto compreso, nel buio. Alla fine, ci riesco.
- Da cosa? – chiede lui in un mormorio sommesso, mentre lo adagio sul letto ancora rifatto e mi sistemo fra le sue gambe dischiuse, sbottonandogli i jeans.
- Da un sacco di cose. – sorrido io, anche se lui nel buio non può vedermi, chinandomi a baciarlo lievemente su una guancia, e poi giù lungo il collo, sul petto ossuto e sulla pancia morbida, - Da quanto lo vuoi. Da come si muove la persona con cui lo fai. Da quanto pensi al dolore.
- Io non voglio pensarci. – sussurra lui. Mi puntello sul materasso col gomito e sfioro il profilo del suo viso con le labbra. Ha gli occhi chiusi, sento le sue palpebre battere lievissime, come le ali di una farfalla. – Non voglio pensare al dolore.
Sorrido, accarezzandogli nuovamente il fianco.
- E allora non farà male per niente. – lo rassicuro, baciandolo piano. – Sei proprio sicuro di essere maggiorenne, tu, vero? – chiedo un’altra volta. Lui si mette paura, anche se è evidente che non potrei mai mollarlo, giunti a questo punto. Spalanca gli occhi e mi fissa con terrore palese, sollevando le braccia e stringendo i pugni attorno alle maniche della maglia che indosso.
- Certo che sono maggiorenne. – ribadisce, annuendo con sicurezza, - Te lo giuro, per favore—
- Calmati! – rido divertito, allontanandomi abbastanza da costringerlo a mollare la presa e sfilandomi i vestiti di dosso lentamente, così che i suoi occhi, che ormai dovrebbero essersi abituati al buio, possano intuire i miei movimenti, e capire che ci siamo vicini. – Era solo per scrupolo. Giuri di non essere stato mandato qui da qualche losco figuro che poi userà la tua testimonianza su come ti ho picchiato e violentato per estorcermi chissà che somma di denaro?
- No, non… - fa per rispondermi lui, poi si interrompe e pare rendersi conto di qualcosa di molto importante. Si azzarda perfino a tirarmi uno schiaffo su una spalla, e io rido di gusto. – E smettila di prendermi in giro! Cazzo, sei odioso.
- Cos’è, tu puoi fare il fascinoso parlandomi di come ti diventa duro quando solo ti si sfiora la cicatrice sul fianco, - rido io, appoggiando una mano sopra i suoi boxer e stringendo la sua erezione fra le dita attraverso il tessuto in cotone sottile, - e io non posso prenderti in giro? Questo non è un rapporto paritario.
- Non lo sarebbe comunque. – borbotta lui, voltando il capo. So che lo fa perché vuole sottrarsi al mio sguardo, ma tutto quello che vedo in questo momento è il suo collo, perciò è su quello che mi chino, lo assaggio piano in punta di lingua e sento i suoi respiri tremare sotto la pelle ed uscire a fatica dalle sue labbra, mentre muovo la mano che ancora gli tengo fra le cosce, accarezzandolo lento come se la notte non dovesse mai finire.
- Questo lo fai, dopo esserti accarezzato la cicatrice…? – chiedo a bassa voce, direttamente sulla sua pelle, stringendolo con maggiore decisione fra le dita mentre le sue mani corrono veloci all’orlo dei boxer, per tirarli giù.
- Non avevi detto di smetterla di parlare? – chiede a fatica, ansimando pesantemente. Io gli sorrido addosso.
- Avevo detto che tu dovevi smetterla di parlare. – rispondo, lasciandolo andare così che lui possa togliersi di dosso la biancheria, così svelto che pare gli stia prendendo fuoco addosso. Mi si schiaccia contro subito dopo, lasciandosi sfuggire un respiro genuinamente stupito quando mi sente già duro contro una coscia.
- Non avevo idea che fossi così. – borbotta confusamente.
- Dovrei prenderlo per un complimento? – chiedo divertito, e lui sbotta un lamento esasperato.
- Non parlavo di questo… - si lagna, il petto che si alza e si riabbassa più velocemente quando riprendo ad accarezzarlo pelle contro pelle, - Dicevo come persona. Cioè, non so nemmeno com’è che ti immaginassi, in realtà, cambiavi spesso. Dipendeva dalla serata che avevo avuto, o da cosa mi stuzzicava di più in un determinato momento… ma questa è tutta un’altra storia.
- Sì, perché questo è vero. – annuisco in una mezza risata, strusciandomi lentamente contro di lui perché possa sentirlo, - Finché ti piace, comunque, non è detto che sia un male.
Inspira ed espira profondamente, sollevando le braccia ed allacciandomi al collo mentre schiude le gambe e m’invita a prendervi posto in mezzo, prima di rispondere.
- Mi piace. – dice in un fiato, spingendosi appena contro di me e ritraendosi all’ultimo momento, quando mi sente pressare contro la sua apertura in un incastro che tutto dovrebbe essere meno che naturale, e invece viene ad entrambi così spontaneo da fare quasi paura.
- Allora è tutto a posto. – sorrido, inumidendomi due dita con un po’ di saliva ed accarezzandolo piano fra le natiche. Lui rabbrividisce e si tira indietro quasi all’istante, mosso dalla paura. – Calmati. – gli sussurro sulle labbra, - Ti ho detto che non farà male, no?
- Sì, ma era la verità? – chiede giustamente lui, ed io rido a bassa voce.
- Dipende anche da te, ricordi? – dico baciandolo ancora, - Sei tu il primo che non deve pensarci. Il resto verrà da sé.
Lui annuisce – si rassegna, forse – e lo sento rilassarsi sotto di me mentre le mie dita umide tornano a sfiorarlo, facendosi strada dentro al suo corpo una alla volta. Lo sento trattenere il fiato così a lungo che poi, quando è costretto a tornare a respirare, lo fa tutto in una volta, sbuffando come una teiera ed ansimando pericolosamente. Rido un po’, e piego le dita come ho imparato a fare solo recentemente – uno dei numerosi regali di Anis, suppongo per scusarsi di tutto ciò che mi ha fatto e di tutto ciò che, indubbiamente, continuerà a farmi in futuro, perché io sono uno che, se solo gli dai tanto, ti permette di fare questo ed altro – ottenendo in risposta da lui un gemito acuto e prolungato, un po’ ridicolo, ma che mi agita qualcosa nel petto e nel fondo dello stomaco.
- Ti prego. – mormora stentatamente lui, muovendosi un po’ alla cieca nel tentativo di spingere le mie dita abbastanza in fondo da toccare nuovamente quel punto che, anche se solo per un secondo, gli ha fatto perdere la testa. Io ritraggo la mano, prendendolo da sotto le ginocchia e portando le sue gambe fin sopra le mie spalle, dove le appoggio, piegandolo in una posizione un po’ innaturale che lo costringe a schiudere gli occhi e guardarmi incerto nel buio, in cerca di una risposta per ottenere la quale non ha abbastanza coraggio da farmi una domanda.
Mi sistemo meglio contro di lui, inumidendomi di nuovo le dita e poi accarezzandomi velocemente per tutta la lunghezza, preparandomi ad entrare dentro il suo corpo. E succede tutto in un attimo, così veloce che io a stento me ne accorgo, come quando ha spaccato la bottiglia e poi me l’ha puntata alla gola. C’è lo stesso potenziale di pericolo in quello che ha fatto lui poco fa e in quello che sto facendo io adesso. Solo che lui non ha avuto il coraggio di affondare. Io invece sì.
Quando mi scavo a fatica un posto dentro di lui, che è stretto e caldissimo tanto da costringermi ad annaspare senza fiato, Daniel inarca la schiena e geme. C’è del dolore, forse, da qualche parte, ma lui non ci sta pensando. Ed è molto bravo a farlo, tanto che per un secondo quasi penso a lui con una punta di irrazionale orgoglio, perché ciò che ha reso forte lui è esattamente ciò che ha reso forte me. Siamo incredibilmente simili, anche se lui non se ne accorge, ed è questo che lo spinge a cercare proprio me, a volere proprio me, con tutti quelli che potrebbe cercare e volere nel mondo, anche se in questo momento è convinto di volermi solo perché io sono uno che ce l’ha fatta, uno cui guardare con ammirazione e rispetto. Siccome lui è piccolo, cerca qualcuno che possa ricordargli se stesso, solo un po’ meno sofferente. Quando sarà grande, ricorderà i sentimenti che sta provando adesso con un imbarazzo infinito. E questo lo so perché per me è lo stesso, e ci convivo ogni giorno. Quello che Anis prova per me è così diverso da quello che io provo per lui. Ed il fatto di pensarci e realizzarlo proprio ora è così ridicolo che mi viene da ridere.
Non lo faccio, naturalmente. Mi muovo piano, perché davvero voglio che non faccia male, e dopo un po’ sento Daniel cominciare a muoversi in sincrono con me, le sue spinte che vanno incontro alle mie, i nostri bacini che si scontrano sempre più spesso sul sottofondo quasi musicale del fruscio lievissimo delle lenzuola ancora perfettamente composte sotto i nostri corpi sudati, come se questo letto non fosse mio, come se nemmeno questa casa fosse mia e noi fossimo semplicemente entrati da una finestra per prendere possesso di qualcosa che non ci appartiene, solo per venti minuti di serenità.
Stringo la presa sulla sua erezione e mi muovo più velocemente solo quando la via all’interno del suo corpo è abbastanza aperta da permettergli di ansimare non più solo per il senso di pienezza inevitabile e quasi nauseante che è normale ti prenda quando qualcosa di così estraneo da te sfiora la tua intimità in maniera così invadente, ma anche per la sensazione piacevole delle mie labbra che lo sfiorano ovunque, delle mie mani che gli accarezzano i fianchi, delle mie dita che passano insistentemente lungo la linea irregolare della sua cicatrice, tirandogli via il respiro a tratti ed a tratti restituendoglielo all’improvviso. E rallento le spinte, aumentando solo il ritmo delle carezze, aspettando che lui sia venuto prima di riprendere a pompare più velocemente, abbandonandomi poco dopo ai brividi dell’orgasmo che mi portano inevitabilmente a franargli addosso in pochi secondi. Per un attimo, penso distrattamente che ho paura di schiacciarlo, restandogli così addosso. Lui, però, mi regge bene. Non si lamenta neanche. All’inizio respira a fatica, ma poi si calma ed il suo respiro assume un ritmo meno frenetico. E per riflesso mi rassereno anch’io.
- Ehi. – dico piano, rotolando sulla schiena e rimanendo al suo fianco. Una mia mano è rimasta sulla sua coscia. A me non dà fastidio lasciarla lì, a lui non dà fastidio che ci sia, per cui è lì che la lascio. – Dimmi la verità, non sei maggiorenne, vero?
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, perdendosi in un flusso di parole apparentemente privo di senso fino a quando, finalmente, non sbotta in un “tecnicamente no” che mi fa scoppiare a ridere.
- Ma lo sarò fra poco. – si giustifica con voce lamentosa, rovistando sotto di sé per disfare le coperte e nascondercisi sotto, - E poi ti ho promesso che non ti denuncerò, smettila di insistere sul punto, no?
Io rido ancora, mi volto su un fianco e gli accarezzo la frangia con la mano libera, ravviandogliela sulla fronte.
- Era solo per saperlo. – lo rassicuro, - Non devi giustificarti di niente.
- Ovvio che non devo, sarai tu a doverti giustificare davanti a un giudice, quando spiattellerò tutto al tipo che mi ha assoldato per venire a letto con te. – dice lui con naturalezza. Lo fisso, spalancando gli occhi. – Scherzo. – borbotta tirando fuori la lingua. Rido e mi sporgo a mordergli le labbra in un gesto che è un po’ una punizione e un po’ un complimento sincero. – Quindi… - biascica lui quando mi allontano, - Questa è stata la prima e l’ultima volta, mh? Non ci rivedremo più.
Sorrido, girandogli un braccio attorno alle spalle e tirandomelo contro.
- Invece magari domattina intanto ti porto a fare colazione in qualche bel posto, - propongo, - e poi per il resto vediamo col tempo. Che ne dici? Ti piace come idea?
Non lo vedo sorridere, ma sento le sue labbra tendersi contro la mia pelle, e le sue braccia chiudersi attorno alla mia vita.
- Mi piace. – risponde annuendo.
Io sorrido ancora.
- Allora è tutto a posto.
Shot facente parte della serie Schmetterlingseffekt.
Genere: Introspettivo, Drammatico, Romantico.
Pairing: Fler/Bushido, Chakuza/Fler, Bill/Chakuza, Bill/Bushido.
Rating: PG-13
AVVISI: Angst, Slash.
- "Non ce ne sono mai, di problemi. Non ce ne sono mai."
Note: E' bello tornare a bomba con uno spin-off piccolo e breve. Ci ricorda un po' che all'inizio tutti gli spin-off erano piccoli e brevi X'DDD *muore* Sì, questa sono io che ritrovo la sintesi. Ma sono anche io che spezzo il cuore della Fedy, immagino. Comunque \o/ Ecco a voi lo spin-off precedente noto come "NonPossiamoContinuareAIncontrarciCosì!Fic". Lo dico perché Tab ha insistito per farmelo dire. *motiva stupidamente cose stupide* Buona lettura \O/
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BREAK THE CIRCLE


Sto gironzolando per casa annoiandomi terribilmente da quasi mezz’ora, quando Anis finalmente rientra. Ho passato il tempo giocando con Skyline e Sherlee, principalmente, rotolandomi nell’erba e sporcandomi al punto che, quando sono entrato in casa, a Karima è bastato uno sguardo per farmi capire che non avrei potuto muovere un altro singolo passo all’interno della villa senza prima andare a darmi una ripulita nella doccia. La doccia in giardino, ovviamente.
Non mi è pesato, dopotutto: ho buttato via i vestiti e mi sono infilato sotto il getto d’acqua gelida, magari un po’ esagerato visto che non è ancora precisamente estate, ma mi andava di fare le cose così, un po’ a caso. Mi sono sciacquato per bene, ho salutato i fotografi appostati dietro i cespugli intorno alla villa, ho evitato gli attacchi dei cuccioli che avrebbero visto di buon occhio la possibilità di saltarmi nuovamente addosso e rendere vana la mia doccia per giocare ancora un po’ e sono tornato dentro, dove Karima mi aspettava praticamente sulla soglia di casa con un accappatoio pulito in mano.
L’ho ringraziata indossandolo, e lei invece di rispondermi s’è espressa in una specie di sbuffo supponente che è un po’ il suo marchio di fabbrica ogni volta che le faccio notare che è stata carina a comportarsi gentilmente con me. È un po’ come volesse dirmi che non dovrei aspettarmi niente di diverso, visto che in fin dei conti si tratta del suo lavoro, ma visto che mi diverte continuo a ringraziarla. E lei continua a sbuffare.
Quando Anis si chiude la porta alle spalle, capisco subito che c’è qualcosa che non va, come l’ho capito sempre, fin da quando ero ragazzino. L’abitudine mi ha insegnato a tradurre i suoi gesti, i piccoli sospiri che rilascia gradualmente, per non farsi sentire mentre sospira in maniera troppo profonda o agitata, così come i gesti brevi e decisi, che danno sempre l’impressione che stia molto attento a controllare al massimo il proprio corpo, come lo percepisse come l’unica cosa della quale possa davvero decidere il destino. Suppongo sia normale, per uno come lui, da sempre abituato a tenere le redini di numerose vite, oltre che della sua, sentire con forza la paura di poter perdere il controllo da un momento all’altro. Ecco, quando lui sente questa paura, riparte sempre dalle basi, per ricordarsi che è ancora perfettamente in grado di gestire tutto. E le basi sono le facoltà motorie. La respirazione, i gesti, i movimenti degli occhi. Parecchi, quando sono nervosi e spaventati, perdono il controllo del proprio corpo. Per Anis è esattamente il contrario. È quando smette di sciogliersi che lo riacquista. Solo che quando smette di sciogliersi lo fa perché ha paura.
- Ehi. – lo saluto sorridendo. Un sorriso piccolo, niente di troppo entusiasta. A volte gli dà fastidio che gli si mostri della gioia quando lui non è felice. Ma d’altronde è così un po’ per tutti, suppongo. – Successo qualcosa? – mi informo con aria casuale, passandomi una mano sulla nuca per verificare che i capelli si siano asciugati.
Lui grugnisce qualcosa di poco convinto, appendendo la giacca all’ingresso e poi raggiungendomi in salotto attraversando tutto il corridoio senza fare nemmeno un rumore. Gli vado incontro, non so cos’è che voglio, un bacio forse. È una situazione strana perché da quando stiamo insieme, o qualsiasi cosa sia questa cosa in cui siamo invischiati adesso, insomma, non mi è mai successo di vederlo rincasare così cupo. In genere, tornando a casa mettermi le mani addosso è non dico il primo dei suoi pensieri, ma quasi. Non mi sono mai dovuto avvicinare io per salutarlo, è sempre stato lui a cercarmi, perciò mi sembra strano farmi avanti per primo.
Ed è ancora più strano quando lui mi ignora, passandomi oltre e mormorando un distratto “cosa c’è per cena?”, come non mi avesse nemmeno visto.
La cosa veramente grave, comunque, non è questa. La cosa veramente grave è che quando mi passa accanto io sento l’odore di Bill. Lo sento con forza, perché gli sono stato tanto vicino che ormai un po’ di quel profumo dolciastro così suo s’è aggrappato alle molecole che compongono le mie cellule, e lo riconosco con una facilità quasi dolorosa. Come l’ho sempre riconosciuto addosso a Chakuza, lo riconosco adesso addosso ad Anis, e mi tremano le mani. Mi tremano le mani perché non ne posso più di questo ragazzino che tocca e sporca tutto quello che voglio, tutto quello che amo. Lo odio, non lo sopporto, e poi ricordo che il problema non è suo, il problema è mio. Lui c’era prima. Sono io quello che s’è infilato in mezzo ad un gioco che non gli appartiene, e che non è ancora riuscito ad uscirne.
- Che ti prende? – mi volto a cercare i suoi occhi, seguendolo mentre si muove verso il divano. Vedo solo le sue spalle, non si volta a ricambiarmi lo sguardo.
- Niente. – risponde distrattamente, mettendosi a sedere ed accendendo la televisione. Sta mentendo.
- È successo qualcosa? – chiedo avvicinandomi. Mi siedo sul divano accanto a lui, ma non vicino come tutte le altre volte. Non addosso, nemmeno ci sfioriamo, in realtà. Sa che sta correndo un rischio enorme. Sa che posso fiutargli addosso la paura e l’incertezza e questo dannato odore dolce e infantile. Sa di avere sbagliato tutto, perché se solo avesse agito come se avere quell’odore addosso fosse naturale, io non mi sarei preoccupato. Avrei pensato che si fossero incontrati, salutati, abbracciati, che fossero andati a prendere un caffè insieme. Ma lui sta negando, io so che mente, e so che se lo fa ne ha motivo. – Qualcosa tipo Bill? – chiedo alla fine in un sospiro affranto, perché, seriamente, non ne posso più.
Tutti i lineamenti del suo viso si tendono all’istante. Cambia faccia all’improvviso, sembra una persona diversa. Il movimento con cui si volta a guardarmi è innaturalmente lento, tanto che ne ho quasi paura.
- Ma cosa ti salta in mente? – quasi ringhia, aggrottando le sopracciglia, - Non—
- Non vi siete visti. – dico, e sento tutto il mio corpo bruciare per la rabbia, - Né toccati. – mi avvicino appena, inspiro il suo odore a qualche centimetro dal suo corpo, così profondamente da farmi dolere i polmoni. – Né baciati. – concludo. E poi lo guardo dritto negli occhi. – Pezzo di merda.
- Pat—
- No, pezzo di merda! – ribadisco con maggiore convinzione, alzandomi in piedi e girando attorno al divano come se la sua sola vicinanza fosse sufficiente a mandarmi fuori di testa, cosa che in effetti è vera. – Ma cosa cazzo hai in testa? Ma cosa cazzo avete in testa tutti?! Ma per cosa cazzo mi avete preso?!
- Pat? – mi chiama lui, vagamente accigliato. È evidente dai suoi occhi che non capisce di che diavolo sto parlando, ed è evidente che non può, perché io non gliel’ho mai detto. Perché non l’ho mai detto a nessuno, cazzo, e sarà questa la cosa che mi farà andare fuori di testa, più di tutto il resto. Che io sto così male per una cosa che, agli occhi della quasi totalità delle persone che compongono il mio universo, non esiste nemmeno.
- Lascia perdere. – dico cupo, uscendo dal salotto ed infilando le scarpe da tennis abbandonate accanto alla porta una volta arrivato all’ingresso. Sento i suoi occhi addosso, so che mi ha seguito. Non voglio voltarmi a guardarlo.
- Pat. – mi chiama ancora, - Che problema c’è?
La sua voce è più seria, somiglia a quella che usava quando, da ragazzino, combinavo qualche guaio di cui non mi andava di fargli sapere. In qualche modo, riusciva sempre a sgamarmi e tirarmi fuori le parole di bocca. E tutto partiva sempre da questo tono qui.
Sorrido stancamente, schiudendo la porta e guardando di fuori il cielo che si fa più scuro dopo il tramonto.
- Nessun problema. – rispondo prima di allontanarmi. Non ce n’è mai, d’altronde.
*

Quando arrivo a casa di Chakuza, non realizzo che potrebbe essere in compagnia – in compagnia di Bill, ovviamente – fino a quando non ho già premuto il dito contro il bottone del citofono. È troppo tardi per scappare e non posso certo rimandare indietro il tempo, per cui resto là e riesco in qualche modo a non strillare quando sento la sua voce chiedermi chi sono.
- Fler. – rispondo. Sono evidentemente nervoso, e lui pure. Sento movimenti strani e la sua voce si abbassa di svariati toni quando parla ancora.
- Ma che… - comincia incerto, - È successo qualcosa? – chiede con una punta di preoccupazione.
- No… - rispondo io, grattandomi confusamente la nuca, - Ma c’è Bill? – chiedo quindi, e poi sospiro. – Scusa, mi tolgo dalle palle. Fingiamo che tutto questo non sia mai avvenuto.
- No! – mi ferma, la voce che torna alta e poi, neanche tanto sorprendentemente, si riabbassa, - No, dico… cioè, sì, c’è Bill, ma… - lo sento trafficare con qualcosa di indefinito, e solo dopo capisco che s’è infilato la giacca e, per farlo, ha poggiato la cornetta del citofono sulla consolle. – Scendo subito. – dice deciso, - Non te ne andare.
Non me ne vado. Mi appoggio al muro, proprio lì accanto al portone, e aspetto. Quando Chaku esce non si aspetta di trovarmi da qualche parte che non sia esattamente di fronte a lui, perciò si guarda intorno un paio di secondi buoni prima di voltarsi indietro e notarmi lì appoggiato con le mani nelle tasche. Sorrido appena e ne sfilo una, agitandola per salutarlo in silenzio.
- Ciao. – mi dice lui, avvicinandosi. Ha gli occhi un sacco preoccupati. Mi si scalda lo stomaco tutto insieme. – Che cos’hai? C’hai una faccia strana.
Evito i suoi occhi perché non voglio dirglielo, o almeno non così presto.
- Sto bene. – rispondo scrollando le spalle, - Avevo solo voglia di—
- Non raccontarmi balle. – mi interrompe lui, e mentre parla mi guarda e inarca un sopracciglio come a chiedersi quanto devo essere cretino per averci anche solo provato.
Io mi mordo un labbro, incerto su cosa fare. Facciamo qualche passo in silenzio, Berlino intorno a noi si agita tutta e nessuno sembra notarci. È completamente diverso rispetto a quando cammino accanto a Bushido, la sua presenza da sola basta ad attirarci addosso un mucchio di sguardi indiscreti, ma passeggiare accanto al Chaku è una cosa tranquilla e rilassante. C’è anche una temperatura piacevole, tiepida, un po’ incerta fra estate e primavera e mitigata appena da un venticello fresco e debole, per nulla fastidioso anche se ci viene contro.
Ci sediamo ad un tavolino fuori da un bar semivuoto e anche un po’ sfigato, sempre restando in silenzio. Non so quanto tempo passi – senza che nessuno venga a prenderci l’ordinazione, peraltro – prima che Chakuza parli ancora.
- Dimmi cosa ti è successo. – insiste, le mani appoggiate mollemente sul tavolo e gli occhi fissi su di me.
Mi inumidisco le labbra, guardandomi un po’ intorno.
- Mi mancavi. – dico, scrollando le spalle, - Non mi è consentito? Tutti quanti potete sentire nostalgia di tutto quello che volete e andare a prendervi tutto quello che volete senza pensare alle conseguenze, ma io no? Io non posso? E chi l’ha stabilito?
- …woah. – commenta lui, incerto, inarcando le sopracciglia, - Capisco. Cioè, in realtà no— cosa cazzo ti prende? – chiede, piegandosi un po’ in avanti, - Con chi hai parlato?
- Ma con nessuno! – insisto io, gesticolando animatamente e stabilendo poi che non è seduto a quel tavolino che voglio stare. – Ma quale cazzo è il vostro problema? – protesto ricominciando a camminare per la strada, mentre lui mi segue dubbioso, - Perché cazzo dovrei essere io quello che non sta bene? Ma vi siete guardati?! Siete un branco di disperati ed io sono il più sano di mente in mezzo, il che francamente è tutto dire. Eppure state tutti lì a chiedermi cos’ho. Io non ho niente, chiaro? Siete voi che vi comportate da pazzi, io cerco solo di tirare avanti, e sto benissimo!
- No, Fler, - sbotta lui, scuotendo il capo, - a parte il fatto che non ci sto capendo un cazzo, voglio dire, di chi stai parlando? Ma comunque, - e gesticola, come a voler mettere da parte questa prima considerazione in favore della successiva, di gran lunga più importante, - è palese dal fatto che stai straparlando che tu non stai bene. Ma tipo per niente.
- Be’, scusami se sono venuto a disturbare la tua vita perfetta e felice per farmi solo una chiacchierata. – sbuffo, allontanandomi di qualche passo, - Ma non ti preoccupare, mi tolgo subito dai coglioni. Non c’è problema. – non ce ne sono mai, di problemi. Non ce ne sono mai.
- La mia vita non è perfetta. – dice lui, cupo, ancora dietro di me. S’è fermato, perciò mi fermo anch’io, perché non volevo davvero allontanarmi. Lo guardo in silenzio, e lui sembra veramente stanco e un po’ sbattuto, come l’avessero preso a cazzotti e lui non fosse ancora riuscito a riprendersi. – La mia vita non è perfetta e non è felice, o almeno, sicuramente non è più felice o perfetta della tua, perciò piantala di dire stronzate e non cercare di farmi sentire in colpa per cose di cui non ho la responsabilità.
- Be’, se dobbiamo fare l’elenco delle responsabilità-- - comincio, ma non riesco a finire. Lui mi interrompe.
- Ti prego. – dice soltanto, sospirando profondamente, - Ti prego.
Io mi mordo un labbro e mi avvicino. Ci guardiamo negli occhi ed è così palese che questa cosa non funziona che mi viene voglia di pestarlo a sangue – di nuovo – e non vederlo mai più – sul serio – solo che so che non ci riuscirei, a fare nessuna delle due cose, peraltro, perciò sollevo le braccia e lo afferro per il colletto e lo strattono e non lo so.
- Peter. – lo chiamo. Lui respira e me lo sento addosso. Siamo in mezzo alla strada ed è tutto così strano e stupido e sbagliato e sconnesso. Mi sembra di stare sognando e non sono nemmeno ubriaco. Forse è l’effetto della rabbia, rende tutto ovattato e diverso, come se non lo stessi facendo davvero. Ma lo sto facendo.
- No. – dice, quando si rende conto di cosa gli stanno dicendo i miei occhi, - No, non— non esiste. – si allontana da me con uno strattone deciso e mi guarda come non mi avesse mai visto prima. – Io non sarò la persona da cui vieni quando ti girano.
- Tu l’hai fatto, con me! – urlo, e mi fa male il petto, - Tu— stronzo, tu l’hai fatto con me!
- Lo so! – urla anche lui. Ed io mi congelo sul posto, perché è la prima volta che lo ammette. – Lo so. – ripete a voce più bassa, - Ed è per questo che non posso farlo adesso. Fler, ma non capisci? Cazzo, sono quasi due anni che ci facciamo del male perché non siamo abbastanza forti da pensare prima di fare qualcosa. È un circolo vizioso e qualcuno deve pure venirne fuori per primo.
- Non adesso. – mi sto lamentando come un bambino e lo so. Mi avvicino di nuovo, lo allaccio al collo, me lo tiro contro e lui non si allontana, mi appoggia le mani sui fianchi e le nostre fronti si sfiorano. – Per favore. – dico con un filo di voce. Chakuza chiude gli occhi, inspira ed espira e so che gli sto facendo male.
- No. – insiste lui, deciso. – No, Pat. È il periodo, io ti capisco. È tutto confuso, e stanno cambiando delle cose, e… devi solo avere pazienza, poi andrà tutto a posto. – ed io non capisco cosa cazzo stia dicendo, e lui deve leggermelo negli occhi, perché sorride appena, spiegandosi meglio. – Andrà meglio. Le cose si calmeranno e potremo tornare tutti a pensare lucidamente. È solo che questo momento qui deve passare, perché è evidente che sennò usciremo tutti fuori di testa. Lo capisci cosa intendo?
E sì, lo capisco. Non del tutto, forse, c’è qualcosa che mi sfugge, ma al momento non posso pensare anche a questo, perciò chiudo gli occhi anch’io, cercando di adattare il ritmo del mio respiro al suo nella speranza che questo possa darmi un po’ della sua calma, per lo meno apparente, ma funziona poco. Però lo capisco.
Mi allontano, e lui non mi trattiene.
- Cosa sta succedendo? – chiedo. Lui distoglie lo sguardo. – Cosa è successo?
- Non è il caso di parlarne adesso. – risponde con un sospiro stanco. – Ma ti giuro che—
- Lasciamo perdere. – mi rassegno, abbassando gli occhi. Mi passa per la mente in un lampo la consapevolezza che il problema fondamentale che ci trasciniamo dietro da ormai quasi due anni è quest’assoluta incapacità che abbiamo di immaginarci a vivere una vita gli uni senza gli altri, e che se non superiamo questo scoglio non riusciremo mai a risolvere neanche la metà dei casini che ci rendono difficile l’esistenza.
Lui, comunque, annuisce. Quando mi volto per tornarmene a casa, non mi chiama. Mi lascia andare, e credo lo faccia con la consapevolezza che lasciandomi andare potrebbe anche non rivedermi più, ma da qualche parte dentro di sé la sente come la cosa giusta da fare, e io so che probabilmente è così. Perciò lo lascio andare anch’io, sperando che il Chaku abbia ragione. E cerco di non pensarci troppo.