Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Genere: Comico.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Gen, Slash (lievissimo), Idiozia (è un avviso anche lei), Metafic (nel senso che il Chaku vi parla. Sì, proprio a voi).
- "Il risultato del mio menefreghismo è che tre giorni dopo mi trovo di fronte a un letto, mi volto a guardare Fler e gli chiedo perché."
Commento dell'autrice: Ogni tanto, è palese, sento il bisogno di prendere in mano della gente e fargli dire follie X'D Il Chaku si presta troppo bene allo scopo, e siccome mi serviva poter parlare - e farlo in un determinato numero di parole che non fosse due, magari - mantenendo il tutto al di sotto del rating PG, la mia scelta è ricaduta su di lui. Ora so che vi state chiedendo come abbia fatto ad obbligarlo a mantenere l'uccello nelle mutande per tutte le quasi duemilacinquecento parole della storia, lo so. Chaku è stato molto responsabile e mi ha aiutato, quindi fategli i complimenti. Ad ogni modo, questa shot è stata principalmente ispirata dai vaneggiamenti con Fedy e Tab su Twitter in seguito alla visione del making-of del video di Monster, primo singolo del nuovo album del Chaku di prossima uscita, e partecipa alla prima settimana del WWF @ Fiumidiparole, su prompt letto.
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Monster


Innanzitutto, prima di passare a quello che è il vero motivo per cui vi sto parlando, vi dico subito schiettamente che io e Fler – sì, Patrick Losensky, quello là, quanti Fler volete che esistano al mondo? È uno pseudonimo già abbastanza ridicolo perché un uomo solo se lo accolli, figurarsi più d’uno – stiamo insieme, e i percome e i perché non vi interessano minimamente, anche perché per raccontarli dovrei rivelarvi tutta una serie di particolari scabrosi che obbligherebbero il rating di questa storia a crescere esponenzialmente, che è un qualcosa che io e l’autrice non possiamo permetterci, se vogliamo il nostro panda verde su FDP, per cui aria. E poi comunque ‘cazzo ve ne frega di come io e Fler ci siamo messi insieme? Saranno anche fatti nostri, Dio mio, già mi basta Bushido che interferisce nella mia vita privata come se ne fosse il padrone, non lascerò che v’impicciate anche voi, che peraltro siete un mucchio di sconosciuti che chi v’ha mai visto.
E allora voi giustamente mi chiederete “e perché stai parlando, adesso?”, e la risposta è molto semplice: Fler – col quale sto, ma questa pratica l’abbiamo già esaurita – è convinto che io soffra di un qualche complesso la cui entità e natura vi spiegherò a breve, e s’è messo in testa di farmi fare cose per provare se questa sua ipotesi fosse vera o no. Questa storia altro non è che il risultato delle nostre ricerche, ed esiste solo per testimoniare che no, non soffro di alcun complesso di nessun tipo, quindi il punto non è che voi la leggiate, bensì che esista. Potete anche andare, ora, se volete.
Per quelli di voi che sono rimasti: dunque, Fler s’è convinto che fra me e il mio berretto sussista un rapporto morboso, che non vuol dire che io e il berretto facciamo le cosacce di nascosto – e anche se fosse non potrei dirvelo, sempre per la questione del rating, che posso solo immaginare quanto alto debba diventare quando copre feticismi simili, ma comunque così non è – vuol dire semplicemente che lui s’è convinto che io, senza, non saprei stare. E se n’è convinto solo perché ci vado sempre in giro, non me lo tolgo mai in casa ed è l’ultima cosa che sfilo prima di andare a dormire. Sì, esco dal bagno con l’accappatoio e il berretto in testa, infilo il pigiama col berretto e lo tolgo solo una volta spenta la luce, poggiandolo sul comodino a portata di mano, pronto per essere indossato se durante la notte arrivano ospiti a sorpresa, o comunque quando l’indomani mattina devo alzarmi per sbrigare tutte le faccende prima di andare a lavoro.
Ecco, solo in base a questi piccoli dettagli, Fler s’è convinto di chissà cosa, quando non è vero niente, naturalmente. Io non ho un problema con la mia testa, è solo che è normale che uno non è che ha voglia di andare mostrando in giro le proprie nudità così randomicamente! Cioè, dirti che sei dipendente dal tuo berretto è come dirti che sei dipendente, chessò, dalle tue mutande! Non è che muori se non ce le hai, però ti servono! Anche perché, se non le hai addosso e per caso ti cadono i pantaloni mentre sei in mezzo alla strada, la buoncostume ti arresta, peraltro. Non è dipendenza, è che vanno messe. Così per dire, se io esco senza berretto, posso pure mettermi il cappuccio della felpa, ma se per caso arriva una folata di vento e me lo soffia via? Arriva la buoncostume e mi arresta. Che magari non proprio, ma era per seguire l’esempio.
Ho cercato di spiegare a Fler questo semplice concetto, ma lui mi ha guardato con l’occhio pallato di quello che non ha sentito una parola del tuo intelligentissimo e complesso discorso, e poi mi ha detto “sì, va be’, ma comunque tu ne sei dipendente, punto e basta”. Al che io mi sono pure incazzato, perché voglio dire, un conto è se un tipo a caso, tipo te che leggi lì in prima fila o tu che stai più indietro e saltelli per arrivare a vedere lo schermo del pc visto che tutti quelli più alti di te si sono messi davanti – ti comprendo, tieni duro, ti sono vicino, fratello – prende e ti dice “ma tu sei dipendente dal tuo cappello”, che puoi mandarlo a fanculo e fregartene; cosa completamente diversa è se te lo dice il tuo ragazzo, cioè, diventa una questione di principio: tu con questo tipo ci devi convivere, devi tenere a lui, devi volergli bene ed essere tenero, e sono cose che non puoi fare quando, guardandolo negli occhi, hai la consapevolezza che lui in quel momento sta pensando che tu sei dipendente dal tuo cappello.
Insomma, lo guardo e gli faccio “no”. E lui “provalo”. Così, come se fosse normale chiedere al tuo ragazzo di provarti che sai vivere senza il tuo fedele cappello. Io, però, che sono buono e innamorato, non gli faccio storie, e rispondo “va bene”, annuendo tranquillamente, “ora esco e mi faccio un giro attorno al palazzo”. E lui prende e scoppia a ridere. “E pensi che mi basti?”, mi fa, e nei suoi occhi brilla la fiamma della tortura, “Magari esci e qui intorno non c’è nessuno, cosa anche probabile, visto che è mezzanotte passata e fa un freddo boia. No, no,” insiste, e se ne esce con un ragionamento anche sensato, “la prova deve essere più schiacciante, e deve rimanere nel tempo così che tu possa dimostrare tanto per cominciare che stare senza non ti fa paura, e tanto per continuare che non ti fa paura pensare che l’immagine di te senza berretto possa essere tramandata ai posteri”. Dico io, rispetto. C’è qualcosa che lavora, dentro la sua testa.
Evidentemente sconfitto sul piano logico, annuisco. “D’accordo,” gli dico, e visto che palesemente regge lui le redini di tutto ciò, aggiungo “decidi tu come”. La luce nei suoi occhi si fa più brillante, e lui sorridendo fa “penserò a qualcosa”, ma io già so, perché glielo vedo negli occhietti azzurri e vispi, che lui già sa, e questo è solo un modo per tenermi sulle spine mentre la sua testa lavora e lavora e lavora allo scopo di rendere ciò che ha pensato ancora più demoniaco e terribile di quanto fosse quando l’ha concepito in primo luogo. Perciò deglutisco, e aspetto l’indomani mattina col sacro terrore dei condannati a morte.
L’indomani mattina, Fler aspetta che io sia ben sveglio – perché sia mai darmi la possibilità di potergli poi dire “ma ero ancora in dormiveglia, le mie decisioni prese in orari critici dalle sette alle otto del mattino e dalle dieci alle undici di sera non sono considerabili intenzionali e coscienti” – e poi mi fa “Seeeenti”, che io già mi preoccupo, perché lui quando comincia ad allungare le vocali in quel modo o è ubriaco o vuole proporti cose potenzialmente pericolose per la tua salute psicofisica, tipo quando m’ha proposto di andare a cena da sua madre, “Seeeenti, pensavo, fra poco esce il tuo album, no? E dovrà pure uscire un singolo, no?”, e me lo dice con candore, come se io una settimana fa non l’avessi stordito di chiacchiere per ore e ore intere, felice com’ero perché riprendevo a lavorare. “Sì,” ammetto, perché so che tanto non ne usciamo se non gliela do vinta, “Sì, è così. Abbiamo scelto Monster, alla fine, te l’ho pure detto,” gli ricordo. Lui annuisce come se lo stesse scoprendo adesso, prendendosi il tempo di digerire la notizia assieme alle frittelle.
“Allora pensavo che magari potresti provare che sai vivere senza berretto mentre girate il video, no?” fa, e io per un secondo lo guardo interdetto, e c’avrei anche voglia di rispondergli “Fler, io ti amo, e va bene tutto, ma non puoi rompermi i cosi che non posso nominare pena rating che si alza almeno al PG-13 mentre lavoro, perché ti rendi conto che non è giusto”, solo che poi comprendo. Lui sa che le riprese del video saranno lunghe e ripetitive e che potenzialmente le scene saranno calcate da decine di persone. Sa nondimeno che tutto quello che passerà l’esame della sala di montaggio finirà in un video che rimarrà ad imperitura memoria di quel giorno, e che sarà mandato in onda decine di volte al giorno. E sa anche che tutto ciò che invece non passerà il giudizio finirà nel making of che poco ma sicuro sarà distribuito al popolo di internet anche prima che il video effettivo veda la luce.
Insomma, sono fregato.
Sconfitto di nuovo, allungo le braccia verso il basso, rassegnato. “D’accordo,” biascico, “ma facciamo in fretta. Hai già qualche idea?”, e lui sorride come a dirmi “ma è ovvio che ho già qualche idea, per chi mi hai preso”, che io vorrei dirgli “per un rapper, ti ho preso, tu non dovresti avere idee, solo concetti volgari e ripetitivi da cantare in una nenia amelodica per i palchi di tutta la Germania”, ma non ne ho il tempo, perché lui mi tira fuori dal niente un taccuino stropicciatissimo che mi sventola sotto il naso e poi apre, tenendolo ben sollevato di fronte alla mia faccia, di modo che io possa leggere i suoi appunti.
Davanti ai miei occhi si dispiega una fanfiction ambientata in un ospedale-manicomio in cui un medico pazzo fa esperimenti su esseri umani vivi trattandoli come fossero carne da macello, assistito da infermierine che indossano occhiali che presupporrebbero la presenza di rating ben più alti di quelli che posso concedermi, e altrettanto indecenti quanto vertiginose minigonne. Per un secondo, ammirato, accarezzo l’idea di passare il taccuino di Fler all’autrice e dirle di tirar fuori qualcosa da lì, se proprio vuole. Poi ricordo che le serve massimo il PG, e mi fermo.
Frattanto, Fler parte a stordirmi con particolari oggettivamente inutili della narrazione tipo che da qualche parte debbono esserci ritagli di giornale in italiano perché “se le notizie non arrivano in Italia sono poco credibili, e un mattatoio umano ci arriverebbe di sicuro, in Italia, figurarsi”, che poi chi gliel’ha detta ‘sta cosa?, e comunque se fossi solo un po’ meno stordito potrei anche urlargli “chissenefrega!”, ma non posso, perciò a un certo punto mi abbatto sul tavolo e dico “Va bene! Va bene! Basta. Chiama Bushido”, perché poi io non ne ho la forza.
Fler, tutto felice come se gli avessi appena chiesto di sposarmi o chessò io – ma i matrimoni gay o presunti tali ci rientrano nel PG? – chiama Bushido e comincia a confabulare con lui. Io neanche li ascolto perché so che, se anche sentissi qualcosa che non mi va, poi le mie proteste sarebbero inutili. Quindi preferisco non sapere, direttamente.
Il risultato del mio menefreghismo è che tre giorni dopo mi trovo di fronte a un letto, mi volto a guardare Fler e gli chiedo perché.
“Tanto per cominciare, definirlo letto non è esatto,” comincia lui, quasi personalmente offeso dalla mia ignoranza, “È un letto ospedaliero. Bisogna essere precisi.”
“Un letto ospedaliero,” annuisco io, giusto per dargli il contentino, “E cosa ci dovrei fare?”
“Be’,” motiva lui, tutto orgoglioso, “se volevo che ti togliessi il cappello, non poteva essere una cosa immotivata, visto che tu di tuo non lo fai mai. I tuoi fan si sarebbero risentiti. Perciò dovevo darti un pretesto, e il pretesto è che tu devi impersonare uno dei pazienti di Dottor Morte, qua,” dice, indicandomi il tizio che interpreta il macellaio e che mi saluta da dietro la sua mascherina di Hannibal Lecter, brandendo la sua motosega giocattolo coi guantini gialli macchiati di sangue in pendant col camice. “Solo che questo vorrà dire che non potrai toglierti solo il berretto, ma anche tutti gli altri vestiti. Uno non è che si fa macellare se non è nudo.”
“Eh no, certo,” borbotto io, come fosse normale che uno possa volersi far macellare, nudo o vestito che sia, “Immagino che questo sia il motivo per cui tu sei qui oggi. Non potevi perdertelo.”
“Prima di tutto, il mio dovere è testimoniare il momento in cui ti toglierai il berretto,” dice compitamente lui, e poi si lascia sfuggire una risatina: “Ma sì, non potevo perdermelo.”
Io sospiro e già non ne posso più e me ne voglio tornare a casa. Lui mi sfila il berretto e l’accappatoio, e io rimango lì in mutande a guardarlo con aria colpevole, come se questo potesse aiutarmi in qualche modo a risolvere la situazione.
“Come sto?” chiedo. Lui ride, il bastardo.
“La tua testa sembra un ginocchio,” mi informa. Io sospiro ancora, mi giro e mi allontano verso la scena. Da dietro lo sento che mi urla “Vai, testa-a-ginocchio! Mostrati al mondo!” mandandomi bacini via aerea, che io ho quasi voglia di chiedere al Dottor Morte se non abbia anche una motosega vera, da qualche parte, per usarla nel modo più appropriato.
Così, passo le successive due ore della mia vita ad agitarmi come fossi posseduto su un letto – un letto ospedaliero, che sennò Fler si offende, lui e la sua mania per le fanfiction dettagliate, che ti potrebbe stare ore a descriverti la poltrona della sala d’aspetto del medico da cui il protagonista va solo una volta nel primo capitolo per poi dimenticarsi della sua esistenza fino alla fine – ringhiando e sbavando ma soprattutto mostrando al mondo il mio glabro e pallido corpo, perché dove madre natura non ha già provveduto a far scomparire dalla mia pelle ogni traccia di pelo con cui in teoria dovrei essere nato, ho provveduto io, depilandomi autonomamente, tipo sul petto. Un rapper non può essere peloso. Nessuno di noi lo è. È fra le regole che Bushido ti impone quando entri all’Ersguterjunge. Non sono ammessi peli al di fuori della testa, delle gambe, delle braccia, dell’inguine e dell’interno delle narici. Io ero avvantaggiato, quando ci siamo incontrati.
Insomma, quando mi risollevo, eternità dopo, Fler sta ridendo come un mentecatto e nel mentre ha chiamato pure qualche amico che s’è goduto lo spettacolo e poi s’è allontanato prima che io potessi raggiungerlo e divorarlo. Mi avvicino e lo guardo malissimo e lui si asciuga una lacrima dall’angolo dell’occhio, e poi si china e darmi un bacio a caso di quelli a stampo, infantilissimi e cretini, sulle labbra, che io dico va be’ e in pratica l’ho già perdonato, perché sono glabro, pallido, nano e pure col cuore di panna. Tutte le sfighe, oh. E sono pure dipendente dal berretto, alla fine, perché quando mi abbraccia e ondeggiando mi dice che il peggio è passato, io piagnucolo “sì, però il resto del video lo giro col cappello. E il cappuccio”, e lui ride ancora e mi fa “va bene, tanto ormai il meglio e stato filmato”. E rido pure io, a quel punto, però già che ci sono lo mando a quel paese. Solo a quel paese, però, che se lo mando dove voglio davvero si alza il rating, e queste duemilacinquecento parole circa poi finiscono nella spazzatura. E non è il caso.
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