rp: arafat

Le nuove storie sono in alto.

Storia appartenente alla serie Jung Und Nicht Mehr Jugendfrei, prequel di Eine Kugel Reicht.
Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Nessuno.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Language.
- "Quando torno a spostare la mia attenzione su di lui, Anis sta ancora sorridendo. Io non riesco nemmeno a trovare un’espressione, perché sono troppo felice."
Note: Sono circa due ore che cerco di postare questa storia X’D Prendetevela con Tab, ella mi ha fatto leggere cose ed io mi sono enormemente distratta. Comunque! Ecco a voi il secondo episodio di Mini!Fler e Mini!Bu alle prese con le difficoltà dell’adolescenza, i primi batticuori, le prime consegne, le prime pistole *annuisce compitamente* Son ragazzini, d’altronde. E Fler è palesemente troppo piccino per ciò a cui lo sottopongo ;_; Ponfolo. Ma questo non fa che renderlo ai miei occhi più puccino e meritevole d’amore. Sono una madre asservita. E Bushido è bellissimo. E la Smith & Wesson (che è quella che Fler porta con orgoglio in Staatsfeind #1, oltretutto XD), potete vederla cliccando qui, io la amo, è meravigliosa, ne voglio una uguale e soprattutto me la sto coccolando da millemila milioni di mesi. 
A parte ciò, unica precisazione riguardo al titolo, rubato (e riadattato) da un verso della splendida Weapon di Matthew Good. Posso già sentire Meg urlare come una fangirl impazzita in sottofondo. \o/
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How He Made Me A Weapon


Anis entra in camera mia dalla finestra e sta già sorridendo. Io – che sono qua seduto sul letto e sfoglio un volume di Spider Man che dovrà avere trent’anni, e comunque lo so a memoria – faccio finta di non notarlo, perché vedo che sta già sorridendo in quel modo lì. Anis quando sorride in quel modo lì sta pensando cose. Quando Anis pensa cose bisogna cominciare a preoccuparsi, anche perché non è che lo capisci, cosa sta pensando, finché non te lo dice lui; sai solo che qualcosa c’è, ma non sai cosa, ecco.
- La grondaia sta cedendo. – mi fa, e si butta sul letto accanto a me, facendo saltare tutto il materasso.
- Continui ad appendertici… - gli faccio notare, scrollando le spalle e girando la pagina, - È solo una grondaia, lasciala in pace. Puoi entrare dalla porta.
- È più comodo così. – ride lui, - Evito tua madre che mi chiede se voglio mangiare perché “oh, Anis, sei così magro”!
- Patrick! – mi chiama mia madre dal piano di sotto, appunto, - È già salito Anis?
Io sbuffo e mi metto in piedi, abbandonando il fumetto aperto sul letto ed affacciandomi alla porta per parlarle attraverso la tromba delle scale, mentre Anis, giustamente, ride, prendendo il fumetto in mano e cominciando a sfogliarlo con aria perfettamente tranquilla.
- Sì! – urlo, - Ma la vecchia scala di papà c’è ancora da qualche parte? – chiedo.
- Sì, tesoro, c’è, - risponde lei, mentre la sento aprire il frigo, - ma non ti permetterò di mettere una scala davanti alla tua finestra.
Io sbuffo ancora, roteo gli occhi e mi chiudo la porta alle spalle, tornando a letto.
- Devasterai la grondaia perché mamma non mi fa mettere su la scala.
Anis ride ancora, e continua a sfogliare l’albo.
- Tua madre ha ragione. Chissà quanti omaccioni brutti e cattivi salirebbero.
Io ghigno.
- Te compreso?
- Io – continua a ridere lui, dandomi un colpo di fumetto sulla testa, - non sono un omaccione, non sono brutto e non sono cattivo.
Inarco le sopracciglia e potrei rispondere a tono a tutte e tre le cose. Faccio anche per dirlo, in realtà, apro la bocca e tutto, cercando di riprendermi il fumetto, ma mia madre apre la porta e, per evitare che mi trovi tutto spalmato addosso a lui, mi tiro indietro, schiacciando le spalle contro la parete e guardandola con aria un po’ irritata quando avanza all’interno della stanza reggendo fra le braccia un vassoio con due bicchieri di latte e un piattino con qualche biscotto al cioccolato. Mi sa che stavano pure finendo e quella era la mia colazione di domani, che palle. Mi toccherà tirare fuori da sotto il materasso qualche soldo e andare a comprare qualcosa per i fatti miei. Poi il resto glielo metto nel portafogli, tanto mamma i soldi non li conta mai, non li contava prima e non si accorgeva che sparivano e non li conta adesso, e non si accorge che appaiono.
- Anis, sei sempre più magro! – chioccia mia madre, posando il vassoio sul mio comodino e intrecciando le mani sul cuore in una posa apprensiva, - Bevi un po’ di latte e mangia un po’ di biscotti, per favore. Tua madre comincerà a chiedersi se non ti affamiamo, quando vieni qui da noi!
Io roteo gli occhi ed evito di dire che la madre di Anis, chiunque sia, probabilmente non sa nemmeno della mia esistenza, figuriamoci della sua e figuriamoci poi se sa che è qui che Anis viene a passare i pomeriggi quando non lavora. Chissà se sa che lavora, oltretutto. Magari è ancora convinta che frequenti il ginnasio, ‘cazzo ne so. Anis è capace di farti credere quello che vuole.
- Signora, - la saluta lui con un cenno del capo, e fa quel sorriso lì, quello delle femmine, che quando lo fa alle ragazze per strada va anche bene, ma se lo fa a mia madre io un po’ mi schifo, se devo dire la verità, perciò storco il naso e faccio una smorfia, distogliendo lo sguardo, e lui ride. – Grazie mille dell’ospitalità. – continua, e mentre mia madre si prende benissimo e comincia a chiedergli come sta e tutto a me viene voglia di mandarlo a fanculo.
Comunque, a un certo punto ci sono loro che continuano a parlare e io non so se mi dà più fastidio che Anis stia parlando con mia madre o che mia madre stia parlando con Anis, però non è neanche così importante, alla fine, e tutto ciò che riesco a fare è mettermi a sbuffare. Mia madre si lamenta che cerco di tenerla all’oscuro della mia vita – e non sa che è vero, e non sa che le sto facendo un favore – e Anis si mette a ridere. Lo odio quando ride così.
- In realtà oggi sono venuto perché volevo chiedere a Patrick quand’è che fa il compleanno. Giusto per sapere. – fa. Ed io mi sento gelare il sangue nelle vene.
- Oh! – s’illumina mia madre, e io per poco non mi spiaccico una manata sulla faccia, - All’inizio del mese prossimo, il tre aprile.
- Mamma, ma chi ti ha detto di-
- Oh… - ghigna Anis, e basta questo a zittirmi, - Fra poco. – mi fa notare con un altro di quelli sorrisi lì, tipo quelli delle femmine, però quando li fa a me non sono quelli delle femmine. Non so perché mi sorride in questo modo, a volte, però so che sa che mi mette un sacco in imbarazzo. Forse è per questo che lo fa, visto che è uno stronzo. – E sono quindici, giusto? – e io voglio sparire.
Mia madre spalanca gli occhi e mette su una faccia un po’ stupita e un po’ confusa, tipo che secondo me si sta chiedendo se Anis non abbia fatto male i conti, e quindi fa tipo “uhm” e io abbasso lo sguardo ed arrossisco, e lei tipo “no, Anis, ti sbagli, deve farne quattordici”.
Anis si ferma immobilissimo accanto a me. Si prende il tuo tempo, non so a cosa pensi, comunque quando sollevo gli occhi mi sta guardando fisso e sta ghignando in una maniera insopportabile, che io per forza devo aggrottare le sopracciglia e guardarlo come se volessi ucciderlo qui ed ora, anche se a lui la cosa non fa il minimo effetto, perché continua a ghignare in quel modo.
- Ti fai grande! – dice alla fine, e io un po’ apprezzo che non mi abbia sputtanato con mia madre, ma tanto dall’altro lato so che me la farà scontare tutta quando saremo da soli, quindi non lo apprezzo più di tanto, so già che non se lo merita.
Mia madre scende al piano di sotto qualche secondo dopo, e io nemmeno lo guardo, Anis: lo sento che sta ancora ghignando, qui accanto a me, ed è troppo vicino per poterlo guardare che ghigna in questo modo e restare tranquillo. Nel senso, so già che se mi volto e lo vedo che ghigna così e così vicino, faccio qualcosa. E sono quasi sicuro che sarebbe qualcosa di cui mi pentirei, anche se non so esattamente cosa farei, quindi preferisco non fare niente e basta. Lui mi spintona un po’.
- Quattordici ne avevi, mh? – mi prende in giro, - Ragazzino, sei stupidissimo.
- Non sono stupido! – sbotto, tornando a guardarlo, - Non ho mentito, ne ho quasi quattordici!
- Sì, ma tu mi hai detto che li avevi già compiuti… - fa un rapido calcolo, - tre mesi fa. – e ride. Poi sospira e mi guarda, inarcando un po’ le sopracciglia. – Sei bravo a raccontare balle. – mi fa, avvicinandosi appena, - Ci ero cascato, anche se a guardarti, adesso che lo so, è ovvio che sei un bambino. È un bel talento, ti sarà utile in futuro. – e poi si avvicina ancora e io respiro a fatica. È troppo vicino, non si va così vicini alle persone, invadi il loro spazio, rubi la loro aria, non si fa e basta. – Solo, non provarci mai più con me, ragazzino. Potrei arrabbiarmi.
E io boccheggio un po’, perché quando me lo dice è veramente troppo troppo vicino, e quindi mi tiro indietro, e nel tirarmi indietro mi dimentico che il mio, per quanto grande, giustamente è un letto singolo, e quindi casco. Si può essere più idioti? Casco. Col culo per terra. E mi faccio pure un cazzo di male, oltretutto. E Anis, manco a dirlo, ride come se non avesse mai visto niente di più divertente in vita propria. Che poi mi sa che è anche vero. Sto facendo una figura ridicola dietro l’altra.
- Insomma, il tre aprile. – lo vedo che prende nota, lui c’ha tipo questa cosa che si scrive le cose in testa, no? Fa così anche quando Arafat gli dice cosa fare e dove andare, lui segna tutto mentalmente e quando lo fa glielo vedi passare negli occhi, tipo. Che poi è strano, perché ha gli occhi scuri e torbidi, quindi non ti aspetti che possano parlare tanto. Però quando lui vuole lo fanno. Quando vuole che tu lo capisca senza sprecarsi a parlare, per esempio. Con me l’ha fatto ancora pochissime volte, però io l’ho afferrato, quelle volte, cos’è che mi stava dicendo. Quindi penso che lo farà più spesso, in futuro, e siccome Anis è uno cazzuto questo vuol dire che sono cazzuto anch’io. E ne sono orgoglioso, ecco.
In tutto questo però sono ancora seduto in terra come un cretino, perciò – siccome mi sento ancora più stupido a pensare in grande quando sembro un idiota – mi metto in piedi e lo fisso. Ormai sono alto quasi quanto lui. In tre mesi sono cresciuto un casino, e anche se lui dice che è merito suo, che mi tiene in forma, io penso sia solo merito del fatto che sto crescendo e basta, quindi in pratica non è merito di nessuno, al limite mio. E insomma, non può mica prendersi tutti i meriti lui.
- Sì, il tre aprile. – confermo, - Cosa, vuoi portarmi il regalo?
- La mia presenza sarebbe un regalo sufficiente. – ride lui, scendendo giù dal letto apposta per ricordarmi che mi supera ancora di almeno cinque centimetri, - Ma in realtà ho dei progetti migliori. Solo che, visto che sei ancora così piccino, li rimanderò all’anno prossimo.
Aggrotto le sopracciglia e sbuffo.
- Che progetti?
- Fidati.
- Riguardano me, ho il diritto di-
- Fidati. – ripete lui, voltandosi verso la finestra. – Andiamo? Siamo in ritardo di dieci minuti, Arafat ha parlato col cubano, stamattina, e dobbiamo andare al porto a recuperare un carico.
Io sbuffo, mentre lo osservo scavalcare il davanzale e cominciare a scendere lungo la grondaia. Lo imito, reggendomi al tubo come mi ha insegnato a fare lui una delle prime volte che è venuto, e solo quando siamo di nuovo a terra, sul prato tutto rovinato del cortile dietro casa mia, gli parlo ancora.
- Quanti chili dobbiamo portarci in giro, stavolta? Otto? Dieci?
Lui ghigna e annuisce.
- Dieci. Ma tanto ormai hai le spalle forti. Cosa vuoi che siano cinque chili di polvere? Mi sa che lo zaino della scuola pesava di più.
- Sì, ma – gli faccio notare, - i libri della scuola non mi attiravano addosso gli spiantati che volevano rubarseli.
- A proposito, - mi chiede lui, andando verso la macchina, - ci vai ancora, sì?
- Uh? – chiedo io, mentre lui apre lo sportello, facendo il giro della macchina, - Dove?
- A scuola, ragazzino. – borbotta sedendosi al proprio posto, - A scuola.
Io mi seggo lì di fianco e scrollo le spalle.
- Tu non ci vai più.
- Ti ho chiesto se ci vai tu, non se ci vado io. – mi fa notare lui, e io distolgo lo sguardo.
- Non avevano nient’altro da dirmi, al ginnasio. – rispondo a bassa voce.
Lui sospira e mette in moto.
- Sei stupidissimo, ragazzino. – commenta. Però poi ride. – Mi sa che hai ragione, comunque.
Il discorso lo chiudiamo così e io a scuola non ci metto più piede, e non me ne pento nemmeno, perché comunque andare in giro con Anis è un sacco più istruttivo, e poi guadagno bene, Arafat mi ha preso in simpatia perché dice che sono sfacciato e ho le palle – e se Arafat ti dice che hai le palle allora le hai davvero – e mi sa che presto mi farà fare qualcosa tutto da solo, che io ci spero, perché per quanto mi piaccia andare in giro con Anis lui è convinto che io non saprei fare niente, senza di lui, e questo non è vero, saprei cavarmela alla grande. Solo che ad Anis non basta dirgliele, le cose, per fargliele capire: devi fargliele vedere. Quindi lui non si rassegnerà ad ammettere che anche io sono capace di farcela, almeno fino a quando non mi avrà visto tornare vivo da un lavoro che ho portato a termine tutto da solo.
Comunque niente, le cose vanno bene, quel pomeriggio – e in realtà vanno bene anche i pomeriggi successivi, e settimana dopo settimana io entro sempre più nel giro, e i soldi diventano di più, e le sbronze più frequenti, e Anis diventa praticamente una costante della mia vita. E io che prima mi annoiavo un sacco comincio a fare un sacco di cose, comincio a uscire di notte – quando Arafat decide che sono pronto ed Anis è d’accordo con lui, non prima – e anche se il lavoro da solo continua a farsi attendere in realtà non posso lamentarmi, perché faccio un sacco di cose tutto il giorno, non mi riposo quasi mai e porto a casa un sacco di soldi e altrettanti posso tenerne per me. Finché mamma non capisce da dove vengono, va bene, e quando lo capirà sarà okay lo stesso, perché le farò capire che è tutto a posto, non sono in pericolo, sto diventando forte e comunque Anis mi aiuta. Si fida di lui, anche se non penso dovrebbe. Cioè, lei si fida di lui a livello generale. È questo che non dovrebbe fare. Però potrebbe fidarsi di lui per quello che riguarda me, perché con me Anis è onesto, e fa le cose per bene. Di questo si può fidare. Di questo posso fidarmi anch’io.
In sostanza, in questo periodo che c’ho un sacco da fare, mi passano di mente i grandi progetti che Anis ha per me e per il mio compleanno. Me li ricordo solo il tre aprile, che non c’ho nemmeno voglia di svegliarmi perché ieri sera sono rimasto ad aspettare Anis nel punto in cui dovevamo vederci per qualcosa come millemila ore, dalle undici alle due del mattino circa, e solo alle due, appunto, lo stronzo s’è degnato di farmi sapere che potevo tornarmene a casa perché lui aveva trovato da fare e non poteva farsi vedere. E al telefono sentivo ridacchiare una troia, ovviamente. Il suo da fare, quando dice che non ha tempo per me, in genere quello è. Quindi me ne sono tornato a casa pure coi coglioni girati, e sono riuscito ad addormentarmi che erano tipo le quattro del mattino. Perciò ora mi da fastidio che mi tiri i sassolini sulla finestra, che rischia anche di rompermi il vetro. E – apro un occhio e guardo la sveglia – sono le undici. Ho sonno. Stronzo due volte.
Mi alzo controvoglia, mi affaccio e lui mi tira una sassata sulla faccia. Cioè, fanculo. Non è che lo fa apposta, me ne rendo conto, ma fanculo lo stesso.
- Ahi! – ruggisco, tirandogli indietro il sasso, - Ma dico, che stronzo!
- Scusa! – ride lui, prendendo il sasso al volo e facendoselo saltare sul palmo, - Certo che quando dormi non ti smuove nessuno!
- Veramente mi hai svegliato mezz’ora fa. Non mi sono affacciato subito perché non volevo farlo. Sei uno stronzo, comunque, ieri potevi almeno-
- Oh, andiamo, Pat, ho avuto da fare, te l’ho detto e ti ho chiamato, cosa volevi di più, che venissi a salutarti e darti il bacio della buona notte mentre cercavo di infilarmi fra le gambe di Marina, ieri?
Aggrotto le sopracciglia e incrocio le braccia sul petto.
- È il mio compleanno. – dico. Non so perché lo dico.
Lui sorride.
- Lo so. È per questo che sono qui. – non mi fa tanti auguri. Dico, che stronzo. – Scendi?
Io sospiro e neanche gli chiedo perché vuole che scenda, tanto è palese che se non vado giù io con le mie gambe sale a prendermi e a portarmi giù lui, perciò richiudo la finestra, mi infilo un paio di pantaloni ed una maglietta a caso, recupero le scarpe, metto la giacca e saluto mamma, che fa la gnorri e fa finta di niente anche se ho visto un pacco regalo enorme nascosto dietro la poltrona, in salotto.
Quando esco in strada, Anis è già in macchina che suona il clacson.
- Sì, sono qui! – borbotto, scavalcando il cofano con un salto per fare prima. Sono cresciuto ancora, nell’ultimo mese. Le mie gambe sono diventate chilometriche, posso farci un sacco di cose. Comunque entro in macchina. – Tutta ‘sta fretta perché?
- Perché siamo in ritardo, ovviamente. – annuisce lui, mettendo in moto, - Arafat ti farà il culo, ragazzino, perché io gli dirò che è stata colpa tua.
- Ma lavoriamo anche oggi? – mi lagno, sollevando una gamba per incastrarmi fra il cruscotto e il sedile, anche se ormai non mi riesce più bene come mi riusciva quattro mesi fa, - Non ce l’ho il diritto a una vacanza, almeno oggi?
- Li vuoi i tuoi regali, ragazzino? Allora te li devi guadagnare. – risponde lui, pratico, sfilando svelto fra le strade di Berlino nonostante il catorcio.
- Ma i regali non dovrebbero arrivare gratis? Che regali sono, se me li devo guadagnare? – borbotto.
- La vita gratis non ti dà niente, ragazzino. – annuisce lui, - Quindi ora basta lamentarti, Arafat ha in serbo qualcosa di importante per te.
- Sì, però – scrollo le spalle io, - noi non stiamo andando da Arafat.
Lui si irrigidisce appena e poi ghigna.
- Ma bravo. Sappiamo già le strade a memoria?
- Tu sei convinto che io sia scemo, ma non è mica vero. – gli faccio notare, sollevando anche l’altra gamba e cercando una posizione più comoda.
- Ti sbagli, ragazzino. – mi corregge con un mezzo ghigno, - Io non sono convinto che tu sia scemo. Sono solo convinto di essere più intelligente di te.
- Oh, sì, immagino che ci sia una differenza. – protesto astioso, sferzandolo con un’occhiataccia, o almeno provandoci. Non che ci si riesca mai particolarmente bene, con lui. Il punto è che, se decide di ignorarti, tu puoi pure ricoprirlo di ingiurie, ma non lo scalfisci per niente. Quindi chiaramente ora lui guarda dritto sulla strada e se ne frega dei miei occhi, anche se sto facendo di tutto per cercare di perforargli il cranio col solo sguardo. Stronzo.
- Ragazzino, - ride lui, svoltando all’improvviso in una strada che non conosco, - vuoi piantarla di fissarmi così? Non te lo do il tuo regalo, sai?
- Non mi servono i tuoi regali. – sbotto, rimettendomi dritto, - Senti, ma dove mi porti? – chiedo poi, e non riesco a trattenere la curiosità nella voce, dannazione. Lui, comunque, la ignora del tutto, e si ferma alla prima parte di ciò che ho detto. Ne esce sempre facilmente, così, ascolta solo quello che vuole. O meglio, ascolta tutto, registra tutto e risponde solo a ciò che vuole.
- Potrei anche offendermi. Non sai cosa voglio regalarti, oltretutto. Potrebbe piacerti.
- Ma ti ho detto che non mi interessa! – insisto, - Dove andiamo?
- Se non ti interessa faccio il giro e ti riporto a casa, eh?
- Ma la vuoi piantare di non ascoltarmi?! – sbotto, saltellando praticamente sul sedile, - Ti sto chiedendo da mezz’ora dove andiamo e tu mi ignori!
- Non è esatto. – ghigna lui, parcheggiando di fronte ad una casetta bianca e grigia dall’aria non ricchissima ma nemmeno tanto ammaccata come le altre che costeggiano la via, - Mi hai chiesto dove stavamo andando ed io ti ho risposto che se l’articolo non t’interessava ti avrei riportato a casa. È una risposta.
- Del cazzo. – borbotto io, imitandolo quando, dopo aver spento il motore, apre lo sportello e scende dalla macchina, - Quale sarebbe l’articolo che dovrebbe interessarmi?
- Be’, - risponde con un sorrisino, imboccando un vialetto ghiaioso, - io, suppongo.
- Non erano i tuoi regali? – rispondo con un ghigno furbo.
- Io non sono un bel regalo? – continua lui, ridendo come il cretino che è.
- Tu sei uno stronzo. – gli faccio notare, e lui ride ancora.
- Una cosa non esclude l’altra. – risponde serafico, - E ora modera il linguaggio, ragazzino. Stai per conoscere la Mama.
Io non ho il tempo materiale di chiedermi cosa intenda lui con quest’epico “la Mama” che peraltro gli è scivolato fra le labbra avvolto in un’aura di sacralità che mi fa pure paura. Non ho neanche il tempo materiale di mandarlo a fanculo perché a me, di moderare il linguaggio, non me lo dici, tunisino del cazzo o quel che sei o qualunque sia il dannato luogo dal quale provieni. In realtà non ho il tempo materiale di fare niente, perché appena Anis apre la porta io finisco stretto fra due braccia e schiacciato contro un paio di seni, tipo, giganteschi, che profumano distintamente di cioccolata. E comincio ad agitarmi.
- Buon compleanno, Pat! – dicono le tette giganti, ed io sento Anis ridere da qualche parte intorno a me, anche se non riesco a identificare quale, visto che tutti i suoni mi arrivano ovattati. Il mio naso è perso da qualche parte assieme alla mia faccia, io inalo solo odore di dolci ma ciò non significa che io riesca a respirare. Infatti non ci riesco, e cerco di farlo notare alle tette giganti appendendomi un po’ ovunque e cercando di spingerle via, ma non ci riesco perché hanno una presa di ferro. Dico, delle tette con una presa. Non potevo aspettarmi niente di diverso dalla donna che ha partorito Anis, suppongo.
- Mama, Mama… - lo sento dire, e poi le due tette giganti, finalmente, mi lasciano libero. Quando torno a respirare, vedo che appartengono ad una signora bassa e rotondissima, pallida e incredibilmente tedesca. C’ha pure gli occhioni azzurri e i capelli rossi e lunghi e lisci e mi sa che quelle sono tipo lentiggini. Cioè, wow. Com’è che da questa signora bianchissima è venuto fuori il tunisino? – Non me lo soffocare, - continua Anis, ed io mi rendo conto che sono libero perché lui l’ha presa per un braccio per sbaciucchiarsela con un gusto che manco fosse fatta di zucchero, - mi serve ancora.
La signora mi guarda come se non avesse mai visto niente di più bello di me al mondo, tipo.
- Oh, Anis, - sospira stringendo le mani al petto mentre io guardo prima lei e poi il figlio con aria fra lo sconvolto e l’impaurito, - ma è carinissimo!
Io spalanco gli occhi e mi concentro su di lui. Però punto l’indice contro di lei.
- Mi conosce? – chiedo confusamente. Anis ride.
- Mi ha parlato moltissimo di te! – risponde la signora al suo posto. Io continuo a guardare Anis come se lo stessi vedendo per la prima volta, e la signora continua a parlarmi come se io non la stessi indicando in un modo che, peraltro, se ci fosse qui mia madre mi darebbe mestolate sulle mani, - Mi ha anche detto che oggi è il tuo compleanno, quindi tanti auguri, tesoro! Dentro c’è la torta e qualche amico coi regali, e- oh, a proposito, io sono Luise.
Io cerco di prendere tutte le informazioni che la signora mi sta passando e organizzarmele nel cervello, ma non mi viene tanto bene. Un po’ perché, boh, Anis che parla di me a sua madre mi stupisce e mi imbarazza pure. Voglio dire, boh. Cioè, boh. È strano. Eppoi di che gente parla? Non ho capito, chi c’è qua dentro? Ma è una festa a sorpresa o che?
E comunque non ho il tempo di lamentarmi – di nuovo – perché la signora mi tira ancora verso di sé, mi stringe e, mentre Anis ride di cuore e sale al piano di sopra – ‘cazzo mi lasci qui da solo con tua madre, stronzo?! – mi trascina verso la sala da pranzo, dove ovviamente trovo gli altri. E gli altri sono Arafat, Hussein, Mirko, Abdallah e tutti gli altri della banda, che io comincio a chiedermi se a questo punto anche la signora non sia una spacciatrice o chissà che. E nel frattempo Anis è ancora sparito al piano di sopra e io sono qui con tutti che mi fanno gli auguri e mi danno manate sulle spalle e mi passano pacchetti con le caramelle – perché sfottono, gli stronzi, e visto che sono quattordici anni mi regalano le caramelle, che cazzo – e la signora Luise mi propina una fetta di torta grande quanto la mia testa ed è tutta al cioccolato e con la panna sopra, quindi a un certo punto basta, me ne frego, mi siedo e comincio a mangiare, che tanto stanno ridendo tutti, quindi non vedo perché non dovrei farlo anch’io.
Il momento di grazia è interrotto da Anis, ovviamente, figurarsi se quell’uomo mi lascia in pace una volta che sono tranquillo per i fatti miei. Che poi non sono tranquillo per i fatti miei, al più sono tranquillo per i fatti suoi, perché questa gente con me fino a qualche mese fa non c’entrava niente, e invece ora sono diventato tipo parte della famiglia. Che non è come rinnegare mia madre, è più come… allargarsi verso qualcosa di più completo. Non lo so, Anis ogni tanto mi dice che ci sono cose che capisci solo col tempo, quando vai crescendo. Questa cosa io sto cominciando a capirla ma non è che so proprio spiegarla.
Comunque è una cosa piacevole. Allargarsi verso qualcosa di più completo, dico, non Anis che mi interrompe proprio mentre sto mandando giù la rosellina di biscotto che la signora Luise mi ha appena detto di avere intagliato per me durante la mattinata.
- Ragazzino. – dice, tutto serio, - Vieni di fuori, dai.
Io sollevo lo sguardo col biscotto mezzo in bocca e mi lamento.
- Ma sto mangiando! – protesto, e tutti ridono attorno a me. Anis aggrotta le sopracciglia ed Arafat, qui accanto a me, mi tira una mezza gomitata contro la spalla e mi dice di alzarmi.
- Vai con lui, - mi fa, - che ha anche preteso di pagartelo tutto da solo, il tuo regalo.
Io piego un po’ il capo e Anis neanche mi aspetta, prende e imbocca la porta. Che devo fare io? Lo seguo, ovvio.
Finisce che mi porta nel cortile dietro casa sua, che è un posto anche un po’ schifoso, nel senso che da davanti la villetta sembra pure carina, però qui dietro non solo si vedono tutte le case popolari vecchissime e piene di crepe, ma pure il cortile in sé non è che sia tutta ‘sta meraviglia. È pieno di erbacce e un sacco disordinato, e le lastre di pietra sono macchiate di umido e muschio a chiazze.
Resta un sacco in silenzio, comunque, ed io comincio pure ad innervosirmi. Primo perché c’è ancora la torta col biscotto che mi aspetta, dentro. Secondo perché voglio il mio regalo. E terzo perché vedo che è teso, cioè, è molto serio, come se stesse per dirmi qualcosa di importantissimo, quindi chiaramente sono teso e serio anch’io, però non è che sappia reggerle così bene, ancora, queste atmosfere, quindi finisco per innervosirmi un sacco. Se non sbotto “allora?!” è solo perché so che si arrabbierebbe.
Ed è lì che lui ovviamente sorride. La questione dei sorrisi, con Anis, è complicata, perché lui ride e sorride sempre, ma tu in genere lo capisci che non fa sul serio. Che al limite ti sta prendendo in giro. Però in questo momento lui mi sorride e io vedo senza fatica che è un sorriso sincero. Ed è una cosa un po’ strana, però mi piace la sensazione che mi dà, proprio a pelle. Ho un po’ di brividi. Spero di non essere arrossito, sarebbe ridicolo.
- Buon compleanno. – fa, e mi passa questa scatola nera legata da un laccio rosso sangue, scurissimo, di raso. Un sacco elegante, poi. Mi fa strano pure a prenderlo in mano, ma lo faccio lo stesso perché non posso mica lasciarlo in mano a lui.
- Cos’è? – chiedo mentre slaccio il nastro. È una cosa da bambini, ma sono curioso. Vorrei che me lo dicesse subito, cos’è, però allo stesso tempo vorrei anche che me lo lasciasse scoprire da solo. Mi sento un po’ emozionato, non ho mai ricevuto un pacchetto così bello.
- Aprilo. – risponde lui, e sorride ancora, appoggiandosi di schiena contro il muro della casa, al mio fianco. Io lo imito, dondolandomi un po’ sui piedi mentre scoperchio la scatola e frugo nella carta velina, cercando il mio regalo fra gli strati sottilissimi.
E lei viene fuori.
Anis ride quando mi osserva tirare su la Smith & Wesson guardandola come fosse… non lo so, penso che così si dovrebbero guardare tipo le donne. Quelle bellissime per le quali sai che faresti di tutto, tipo morire, tipo uccidere, ed io così ci sto guardando una pistola. Cazzo, è stupenda. Mi pesa contro la mano quando la impugno per guardarla da ogni lato, e nel tentativo di sentirla meglio sotto i polpastrelli lascio cadere in terra la scatola, che è sempre bellissima ma non bella quanto lei. È tutta intagliata. Tipo nei minimi particolari. È argentata e brilla nella luce del sole ed è tutto intagliato perfino il tamburo. E io una pistola non l’ho mai presa in mano prima d’ora, a parte la Heckler che Anis mi ha chiesto di reggergli un attimo una settimana fa, e ora che ci penso ho guardato la Heckler più o meno come ora sto guardando la Smith & Wesson, ma lei la guardo con più amore, perché è più bella, perché è il mio regalo, perché è mia.
Quando torno a spostare la mia attenzione su di lui, Anis sta ancora sorridendo. Io non riesco nemmeno a trovare un’espressione, perché sono troppo felice. Non lo so che espressione dovrei fare in questo momento, non sono mai stato così felice e mi riesce difficile trovare un sorriso adatto. Poi sembro sempre un cretino, quando sorrido, me lo diceva anche Martina della terza classe, che poi non mi ha mai voluto limonare per questo, stronza che era. Comunque al momento non importa, io però non so che espressione fare, quindi non ne faccio nessuna, lo guardo e basta.
- Ti piace? – chiede quindi lui, inarcando un sopracciglio.
Io annuisco lentamente.
- È stupenda. – aggiungo, - Non immagino neanche quanto ti è costata.
- Non importa. – scuote il capo lui, - Piuttosto, sai usarla?
Rido anch’io, stavolta per imbarazzo.
- Per niente. – ammetto, - Dovrai insegnarmi tu.
Lui fa una specie di sospiro teatrale, alzando gli occhi al cielo.
- Ti si devono insegnare un sacco di cose. – commenta in un mezzo borbottio.
Io annuisco. Voglio dire, ho quattordici anni. Cosa pensa, che nasci ed assieme a te viene fuori il manuale d’istruzioni per la vita?
- Mi fa piacere se me le insegni tu. – dico io, sinceramente. Perché è vero. Cioè, lui è un po’ il tipo che vorrei essere io da grande. Perché è cazzuto ed è uno stronzo ma è un sacco bravo in tutto quello che fa. È una persona alla quale non puoi dire niente. È uno stronzo, ok, sì, e ottiene tutto quello che vuole. E protegge i suoi cari. E non deve niente a nessuno. E ce l’ha fatta da solo. E io voglio essere uguale. Voglio essere come lui.
E lui, quando mi sente parlare, mi guarda a lungo, per un secondo infinito che io non capisco, mi guarda con quegli occhi che sembra mi vogliano scavare nel cervello o sotto la pelle, e poi si inumidisce le labbra e sbuffa qualcosa, dandomi un colpetto contro la fronte col palmo della mano.
- Vedrò di accontentarti, ragazzino. – mi fa, - E ora torniamo dentro, la torta della Mama aspetta.
La torta della Mama, naturalmente. Io rido, ripenso al biscotto a forma di rosa e penso che è un po’ stupido desiderare ancora quel biscotto con la stessa voglia con cui lo desideravo prima, perché adesso ho una pistola e dovrei essere più grande e meno scemo. Invece niente, sono uguale a prima e in fondo questa cosa mi piace. Seguo Anis in casa, nascondendo la pistola nella tasca dei jeans, dietro, coprendola con la maglietta. Ho paura che la vedranno tutti, ma insomma. Ne hanno una ciascuno. E poi è bellissima, la mia Smith & Wesson. Non vedo l’ora di metterla nel cassetto del comodino, stasera. Magari domani mi faccio accompagnare da Anis da qualche parte per comprare la fondina. Non vedo l’ora di cominciare ad usarla.
Storia appartenente alla serie Jung Und Nicht Mehr Jugendfrei, prequel di Eine Kugel Reicht.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Violence, Language.
- "È un tagger, lui. E lo mettono a lavorare con me.
Il sistema giudiziario tedesco ha fatto un altro buco nell’acqua, mi sa."
Note: *brilla* Okay, io palesemente mi farò prendere per sempre da questa storia e non riuscirò più ad uscirne, perché me ne sono innamorata. Dunque, saranno almeno cinque o sei mesi che plotto questo breve prequel di EKR. Che poi, breve: si tratterà comunque di dodici shot che ripercorreranno il rapporto fra Anis e Patrick prima dell’inizio della Saga, dalla loro adolescenza (di cui avete potuto osservare l’inizio proprio in questa shot XD È a questo che ho riferito il tema “green”, intendendolo nel suo significato metaforico di giovane, immaturo) fino a quell’ultimo incontro di cui si accenna in I Will, e nel quale i due decidono una breve tregua prima di scontrarsi a coltellate *annuisce*
Non ho moltissimo da dire, a parte che ho adorato scrivere questa storia e che no, non è ripresa dalla biografia di Bushido, anche perché non conosco il tedesco e lui si ostina a non volersi espandere oltralpe, quindi non l’ho letta XD Questo è quello che immagino io di loro due, mi piacciono e tanto mi basta. Non siete d’accordo, me ne frego abbondantemente *annuisce di nuovo* 
Ah, il titolo XD viene da un film bellissimo con Denzel Washington ed Ethan Hawke. Se non l’avete visto, dovete tutti. Io lo amo oltremodo. E con questo saluto XD
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Training Day
#3 Green


Lo stronzo mi ha detto “aspetta qui”, e si è volatilizzato. Questo, tipo, mezz’ora fa. Ora, non so se tutti questi pezzi di merda hanno una vita, non so se le loro cazzo di giornate le passino tutto il tempo qui, ma io una vita decisamente ce l’ho e non ho neanche un cazzo di tempo da perdere. Ho da fare, ho degli appuntamenti, devo consegnare della roba entro le cinque e sono già le fottute quattro e venti. Porca troia, ma avere un po’ di rispetto per il lavoro degli altri no, eh?
Comunque, già che sono qui e non ho un cazzo da fare, tanto vale che mi metta seduto e passi un po’ il tempo in maniera proficua. Dunque, Ari mi ha pagato la percentuale delle consegne del mese scorso, ma mi sa che ha fatto qualche cazzata stronza delle sue, come al solito, perché non mi tornano i conti. Ari è uno a posto ma non ha ancora capito che il fatto che ho diciotto anni non mi impedirebbe di piantargli un coltello nella pancia. Meglio metterle in chiaro, certe cose. Dovrò parlargli. E comunque non esiste che io rischi le palle andando a litigare con gente armata solo perché lui ha deciso di cambiare la tariffa, ha “dimenticato” di dirlo ai clienti e quelli ora si rifiutano di pagare tutto per bene. Cioè, ok,  se vuoi ci vado, a litigare, se vuoi te li lascio pure in terra con pochissima volta di continuare a fare i coglioni che cavillano sui prezzi, ma dammi un po’ di supporto, amico, cioè, dammi della gente, i soldi sufficienti, una pistola, cazzo.
Nel mentre il tizio dei servizi sociali è ancora sparito e io mi ridisegno in testa Berlino raggiungendo l’unica conclusione possibile, cioè che non riuscirò mai, neanche volando, ad essere dove devo in tempo per la consegna. Arafat mi farà un culo così, stasera, c’avrà pure ragione, io non potrò pretendere niente e non potrò nemmeno fargli il famoso discorsetto sul pagarmi di più e meglio perché è pure stata colpa mia, che sono stato un cazzone, se mi hanno beccato. Questa cosa mi dà sui nervi. Da oggi in poi, basta cazzate.
Tiro su un piede sulla sedia ed ecco che lo vedo, finalmente, lo stronzo. Non è solo, comunque, sta lì che mi indica e accanto a lui c’è questo ragazzino che dovrà avere tipo quattordici anni, che ne so, si sente la puzza di latte da qui. Dio, spero proprio che non sia lui quello di cui mi parlava mentre io fingevo di ascoltarlo prima, perché non esiste che mi incollino al culo questo moccioso. Non c’ho il tempo di fare la balia, io, soprattutto non a un ragazzino così bianco e così biondo e con occhi così azzurri. Cos’è, c’ho scritto in faccia “sono un uomo buono pronto a prendermi cura della vostra disastrata prole tedesca”? Io me ne sbatto il cazzo della disastrata prole tedesca. Al più gli vendo della coca.
Comunque, quel figlio di puttana del tizio dei servizi sociali la pianta di indicarmi, alla buon’ora, e mi saluta con un cenno della mano, dileguandosi dopo un ghigno stronzo che mi fa pensare che non vedo l’ora di tornare qua dentro solo per fargliela pagare, e il ragazzino resta lì immobile a qualche metro ancora per un po’. Poi, finalmente, visto che io non intendo muovermi, capisce che deve tirare fuori le palle e mi si avvicina. E a me viene subito da ridere perché fa il gradasso e mi porge pure la mano. Dio mio, quanti anni avrà, cazzo, a vederlo da vicino sembra ancora più piccolo. Hai dodici anni? Perché non vai ad aiutare la nonna a finire la torta della domenica?
- Ehi. – mi fa, - Sembra che dovremo farla insieme, questa cosa.
Io lo guardo dall’alto in basso e sfilo lo stuzzicadenti dalla bocca, inumidendomi un po’ le labbra.
- Tu che hai fatto? – chiedo. Anche perché, se crede veramente che noi si andrà in giro per Berlino ridipingendo i muri, è veramente fuori strada.
- Eh? – ribatte lui, spalancando quegli occhi che sono azzurri in maniera veramente ridicola, e poi ha delle ciglia troppo lunghe, non fosse ben piantato com’è e indiscutibilmente piatto sembrerebbe una ragazzina. Comunque non ha davvero capito un cazzo, e lo osservo mentre lascia ricadere la mano lungo il fianco con aria un po’ sperduta. “Dio mio”, mi dico. E poi mi alzo in piedi.
È pure basso. Dico io.
- Come mai sei finito qui? – traduco. E lo vedo che gonfia il petto, orgoglioso.
- Sono un tagger. – fa. È un tagger, lui. E lo mettono a lavorare con me.
Il sistema giudiziario tedesco ha fatto un altro buco nell’acqua, mi sa. Trattengo un ghigno e non mi scompongo più di tanto.
- E basta? – chiedo. E lo vedo che rabbrividisce tutto. Devo assolutamente cercare di non ridere, ma la cosa in sé è troppo divertente. Mi sa che me lo trascino dietro per la consegna.
- Cioè… - balbetta lui, spostando a disagio il peso da un piede all’altro, - Oh, questo faccio io. ‘Sticazzi.
E basta, a questo punto rido perché, voglio dire, guardatelo. Secondo me a dodici anni neanche ci arriva.
- Senti un po’, ragazzino-
- Mi chiamo Patrick! – precisa lui, stringendo le mani attorno al manico del barattolo di vernice bianca che gli hanno già consegnato, - Cerca di ricordartelo.
Io ghigno.
- D’accordo, ragazzino. – insisto, - Hai da fare, questo pomeriggio?
Lui mi rifila un’occhiata stranita e solleva a mezz’aria il barattolo. Io rido ancora e lui aggrotta le sopracciglia.
- Ma sai ridere e basta? – borbotta, ed è talmente pallido che gli posso vedere addosso l’imbarazzo, sulle guance lievemente arrossate. Sorrido: ci sono abituato, la mia risata ha un effetti simile su tutti. Be’, su tutte le ragazzine, almeno. Il fatto che lui sia un ragazzino non mi stupisce come dovrebbe forse, ma alla fine mi dico, oh, è talmente biondo e ha gli occhioni talmente grandi ed è ancora talmente piccino che penso possa permettersi di passare per ragazzina, almeno per i prossimi minuti. Quando comincerò a portarmelo in giro, vedremo.
- Andiamo. – gli dico, afferrandolo senza delicatezza per un braccio e cominciando a tirarlo verso l’uscita senza neanche preoccuparmi di passare a recuperare i rulli prima di rimettermi per strada, - Così te lo faccio vedere, cos’altro so fare.
- Ma non dovremmo- - prova a fermarmi lui, ed io mi fermo – lì in mezzo al marciapiedi dove sono – e lo guardo negli occhi, sempre stringendogli il braccio. Ha su una maglietta nera senza maniche e lo sto stringendo talmente forte che, sotto la pressione, la sua pelle si è arrossata subito. E comunque anche le sue braccia sono troppo bianche. Il contrasto con i miei colori è quasi divertente. Ma che ci hanno messo a combinare insieme? Chissà dove vive, poi, questo ragazzino. Dovrò riportarcelo, a casa, stasera.
- Ascoltami bene, Patrick. – lui sembra stupito dal fatto che mi ricordi il suo nome. Vorrei dargli una bottarella sulla fronte, tipo. Ragazzino, non è che se insisto a ignorarti vuol dire che non ti ho nemmeno ascoltato. Vuol dire che ti ho ascoltato e me ne frego. – Ti spiego come funziona. – e lui resta lì con gli occhi spalancati, le labbra dischiuse e quel barattolo ancora in mano. E mi ascolta. – Io sono un uomo molto impegnato. Ci sei?
Lui annuisce lentamente, lo sguardo un po’ perso.
- Bene. – annuisco anch’io, - Ora, lo so che dovremmo andare ridipingendo e tutto, ma seriamente, io ho di meglio da fare e sono già in ritardo, e tu dubito che provi tutto questo piacere all’idea di andare cancellando le tue opere d’arte in giro per Berlino, perciò-
- Veramente – mi interrompe lui, grattandosi una guancia, - io tipo pensavo che fosse un buon modo per ricominciare, nel senso, non è che taggo da molto ed ho fatto più che altro merdate, e il tizio con cui taggavo prima, va be’, lasciamo perdere, e comunque-
- Ragazzino! – lo fermo.
- Patrick! – mi ricorda lui.
- Sì, naturalmente. – annuisco io, - Ti avevo detto di seguirmi. Stai zitto e mi segui fino a quando non ti dico che puoi parlare?
- Ehi- - comincia lui, sul piede di guerra, ed io, annoiato, gli pianto una mano sulla bocca e roteo gli occhi.
- Cosa esattamente ti è incomprensibile del concetto “non ho tempo da perdere”, ragazzino? – lui mugugna qualcosa contro il mio palmo e io stringo più forte. – Ascoltami e basta, adesso. Io devo essere dall’altra parte di Berlino entro… - sollevo un polso e guardo l’orologio, - dieci minuti. Quindi ora prendiamo la macchina e tu la pianti di fare storie, okay?
Lo lascio andare così che possa rispondere, e lui, naturalmente, protesta.
- Ma io- - comincia, ed io lascio andare un mugolio sofferente e torno a tappargli la bocca.
- Ragazzino. Tu ti lagni troppo. – gli faccio notare. Lui aggrotta le sopracciglia, ma non si agita più. – Allora? Ce la diamo una mossa?
Quando lo lascio andare di nuovo, lui non protesta. Quando mi muovo verso lo scassone che Ari mi ha dato in affidamento per le consegne, mi segue. Continua a trascinarsi dietro il barattolo, però, neanche fosse convinto di poterlo riutilizzare più tardi. Bah, contento lui.
Sono già in ritardo di dieci minuti. Arafat mi farà il culo.

*

Il ragazzino non ha detto una singola parola, da quando ci siamo infilati in macchina. È rimasto lì seduto, fermo come un pezzo di legno e ugualmente socievole, tra l’altro. Dico io, non ti voglio mica pestare. Sto anche cercando di fare il gentile. Se faccio una battuta e fischio al finestrino una puttanella con la gonna troppo corta, magari fischia anche tu. O ridi, o chessò io, non stare lì immobile ad abbracciare il barattolo della vernice neanche fosse un fottuto peluche.
Comunque, quando arriviamo gli dico di non muoversi e aspettarmi lì, scendo di volata e recupero il carico – tre chili, cazzo, stasera ci si diverte, la percentuale sarà bella altina per il rischio e tutto – cercando di ignorare le urla isteriche di Arafat che mi ricorda che sono un buono a niente e che comunque le venti ore di servizio civile dovrò farle, o mi rompe il culo prima lui e poi tutti gli altri amici suoi, e quando torno in macchina il ragazzino è effettivamente ancora lì, anche se s’è messo più a suo agio, ha steso la schiena contro il sedile ed ha sollevato un piede, incastrandolo sul cruscotto per stare – suppongo – più comodo. Presto, o almeno mi auguro sia così per lui, crescerà, e così non potrà più starci, perciò lo lascio fare, e mi rimetto accanto a lui, al volante.
- Non ti sei ancora liberato di quel barattolo? – chiedo, rimettendo in moto il catorcio e tirandogli in grembo lo zaino pieno di roba. Lui se lo sistema addosso senza neanche chiedere cosa ci sia dentro, e scrolla le spalle.
- Senti… - chiede invece, vagamente intimorito. Ed io lo so che è intimorito, anche se lui guarda fuori dal finestrino e fa il muso duro per cercare di non farmelo capire. - …dov’è che stiamo andando?
- Consegna. – rispondo io, - L’indirizzo è meglio che tu non lo sappia, e cerca di dimenticare le strade, anche. Tanto, appena finiamo le venti ore, non mi vedrai più nemmeno da lontano e tornerai alla tua bella casetta in… dov’è che stai? In centro?
Lui mi lancia un’occhiata incerta, inarcando un sopracciglio.
- Guarda che sto a Tempelhof pure io. – risponde candido, - Che pensavi?
Io lo guardo e, ovviamente, non gli do un centesimo.
- Tu? – chiedo, - E sei ancora vivo?
Lui incrocia le braccia sul petto, sopra il barattolo ed anche sopra lo zaino che non so se ha capito essere pieno di droga.
- Guarda che me la cavo benone, io. – mi fa, tutto preso, - Sono sempre stato abituato a fare le cose per i fatti miei.
- Sempre? – rido io, svoltando a destra, - Quanti anni puoi avere, dodici? Da quanto stai per strada, due mesi? E sei già finito dentro.
- Io ho quattordici anni! – quasi urla lui, mettendo giù il piede, - Che cazzo, non starò qui a farmi prendere per il culo da uno che non so nemmeno come cazzo si chiami!
- Ehi, ehi, frena! – rido io, - Rispetto per i quattordici anni, alla tua età io già spacciavo. Dovrai darti una mossa, mi sa che sei in ritardo sul programma. – lui mi guarda senza capire un accidenti di quello che sto dicendo, ed io gli indico lo zaino con un cenno del mento. – Aprilo.
Lui inarca un sopracciglio e sfibbia la cinghietta, sbirciando all’interno. Quando risolleva il viso, ha gli occhi ancora più enormi di quanto non fossero già prima.
- Ma è-
- Cocaina purissima. – annuisco io, - La migliore qui a Berlino e probabilmente anche in tutto il resto della Germania. – illustro con un certo orgoglio, - Tre chili. Con questi, io e te stasera ci si sbronza.
- …ci sbronzeremo con la cocaina?
Rido e gli tiro uno scappellotto dietro la nuca. Lui risponde con un “ahi” appena mugolato, massaggiandosi piano il punto arrossato e dolorante.
- Coi soldi del ricavo, ragazzino. Sveglia!
- …ah. – annuisce lui, e pare che si prenda un po’ di tempo per assimilare il concetto, tipo. Cioè, non lo so, Fissa per bene lo zaino e il suo contenuto ed annuisce piano, inumidendosi appena le labbra ed aggrottando un po’ le sopracciglia. – E lo fai spesso? – chiede poi.
- È il mio lavoro. – rispondo io con naturalezza, - Non è il miglior lavoro del mondo, ma passo il tempo, mi faccio un nome e guadagno bene. Le tre cose fondamentali nella vita di un uomo.
Lui ride a bassa voce, richiudendo lo zaino.
- Mangiare, dormire, scopare?
- Mangiare è per i deboli, dormire per gli sfigati. Sullo scopare te lo concedo, ma non è una priorità, ragazzino. Le scopate sono i premi per il tuo duro lavoro, non roba che ti piove dal cielo. Se le puttane ti piovono dal cielo e tu non te le sei guadagnate, allora sono puttane di scarso valore.
Lui annuisce ancora e resta buono, tranquillo e in silenzio per tutto il resto del tragitto in macchina. Mi muovo a mio agio fra le strade di Berlino e smetto di dare importanza alla sua presenza al mio fianco. Mi ci abituo, per così dire. Il ragazzino è discreto e silenzioso, e mentre posteggio sotto casa del cliente penso che sarebbe una  buona spalla, anche se è strano forte – guarda come si stringe ancora a quel barattolo, Dio mio. Ragazzino, non ci andiamo a ridipingere Berlino. Gettalo via, quell’inutile coso.
- Resta qui, okay? – faccio, uscendo dalla macchina e poi piegandomi per affacciarmi all’interno e guardarlo negli occhi, recuperando lo zaino direttamente dal suo grembo, - Questione di due minuti. Poi ci andiamo a divertire. – lui non annuisce né muove un qualsiasi altro muscolo, in realtà nemmeno sorride; si limita a continuare a fissarmi come se mi stesse studiando. Non hai niente da studiare, ragazzino, non mi capisci mica se non mi lascio capire io. – E non fare quella faccia. – lo prendo in giro, - Dai che oggi anche tu hai lavorato. Vediamo se possiamo farti piovere da cielo una puttana meritata. – e rido, e fingo di ignorare il rossore indecente che gli ha colorato le guance e l’ha obbligato e distogliere lo sguardo e borbottare un assenso a caso, mentre sistemo lo zaino in spalla e mi muovo verso il citofono.
Mentre avanzo, specchiandomi nella porta a vetri del palazzo, sulla quale mi ritrovo a cercare il riflesso azzurro e un po’ confuso degli occhioni del ragazzino, annuso l’aria e cerco di sentire le vibrazioni del posto. Il quartiere è bello. Il cliente è nuovo. Potrebbe essere un figlio di papà che non sa come spendere i soldi del compleanno, o potrebbe anche essere una vecchia checca che la coca la userà sui figli di papà di cui sopra, per rintontirli prima di poter mettere le mani su qualche bel culetto pallido e vergine. Scrollo le spalle – l’aria è tranquilla – controllo il nome sul citofono e schiaccio il pulsante.
- Sì? – è un ragazzino.
- La pizza. – rispondo tranquillamente.
- Primo piano. – mi dice quello, e apre il portone. Io mi volto appena a far cenno al ragazzino di non muoversi. Lui nemmeno risponde – sembra quasi che voglia dirmi “certo che non mi muovo, non so nemmeno dove sono, ‘cazzo precisi a fare?”, e devo dire che mi piace, quest’atteggiamento. È uno cui servono poche parole per afferrare i concetti. E bravo il ragazzino.
Comunque, salgo al primo piano e mi compiaccio, perché Ari i clienti li sceglie un po’ alla cazzo di cane – nel senso che è uno che non fa distinzione fra stronzi e gente onesta, è per questo che, in un modo o nell’altro, mi ritrovo sempre in mezzo ai casini – però stavolta pare essergli andata bene. Il palazzo è bello, un sacco pulito, e c’ha i pavimenti in marmo misto, con tutti gli zerbini con sopra scritto “welcome” fuori dalle porte, e sono belle cose da vedere, quando vivi in una topaia per tutto il resto del tempo. Cioè, io non sono invidioso di questa gente, tanto lo so che prima o poi sguazzerò nell’oro, perciò mi fa piacere venire a lavorare in un posto tranquillo, tanto per cambiare.
Il tizio che mi aspetta sulla porta avrà diciassette anni, più o meno, e sta lì tutto impettito con le sopracciglia corrucciate e i lineamenti tesi. Rido.
- Tranquillo, amico, io do a te quello che vuoi, tu dai a me quello che voglio e non succederà niente di spiacevole. – lo prendo in giro. Lui mi lancia un’occhiata infuriata ed infila le mani nella tasca posteriore dei jeans, tirandone fuori il portafogli.
- Fai meno lo spiritoso, arabo. – mi risponde, e io stringo un po’ i pugni attorno allo zainetto ma non scatto e non gli do il cazzotto che merita, perché Arafat lo dice sempre: “la buttano sul colore della tua pelle per farti sentire fuori posto, ragazzo, ma tu sei nato a Bonn!”, e quando lo dice lui, ridendo in quel modo, non posso fare a meno di riderci su anch’io. Arafat è uno stronzo ma è uno stronzo cazzuto, se capite cosa intendo. Cioè, è uno stronzo che vale la pena di seguire.
Comunque, niente, non gli salto al collo e recupero i pacchetti con la droga dentro, lui mi passa i soldi, io li conto e ovviamente tutto quello che ho appena detto di Arafat fino ad ora va a farsi fottere perché i soldi sono meno di quanto dovrebbero essere e coincidono più o meno col prezzo che avrebbe avuto la stessa quantità di droga prima del rincaro. Ora, magari a ‘sto stronzetto Arafat l’ha pure detto, che il prezzo era aumentato, e ora questo sta cercando di fregarmi, ma quello che dico io è che è sbagliato il metodo, non è organico. Se lo dici ad alcuni sì e ad altri no, come faccio io a capire se è vero che non ne sanno niente o stanno solo cercando di prendermi per il culo? E che cazzo. Non c’ho neanche il serramanico appresso, puttana miseria.
- Senti, amico… - comincio, grattandomi distrattamente la fronte e ricontando i soldi, per evitare casini, - Non facciamone un dramma, ma qui c’è meno di quanto dovrebbe esserci. Quindi, o mi dai il resto, o mi riprendo un po’ di roba. E allora mi fai entrare in casa, perché non posso certo mettermi a pesare cocaina qui in corridoio. E comunque mi servirà una bilancia e-
- ‘Cazzo dici? – mi interrompe quello, sempre più incazzato, - Il tizio mi ha detto questa cifra. Questo ti do.
- No, guarda, – scuoto il capo io, cercando di essere ragionevole, - non posso proprio darti ragione. Ti avranno detto male, fatto sta che io devo tornare con i soldi giusti, okay? Quindi, adesso, senza creare problemi… - e lì capisco che i problemi li ho solo io, perché alle spalle del tipo spuntano altri due tipi che potranno avere più o meno la sua età o forse anche un po’ più grandi ma che comunque non rientrano nella cerchia di gente con la quale mi metterei a litigare, essendo due armadi. Sospiro pesantemente. – Amico, che razza di atteggiamento. – borbotto annoiato, - Ti ho forse alzato addosso un dito? Non mi pare il caso di metterla così sul piano fisico, siamo uomini di mondo.
- Tu adesso ti levi dai coglioni. – mi dice lui, ed io rido, facendo scricchiolare le ossa delle mani. A me non me lo dici, di andare fuori dai coglioni.
- Non posso proprio. – gli faccio notare. E poi mi chiedo se non sto per caso cercando di suicidarmi, perché i due tizi dietro non sembrano granché intenzionati a parlare, ed anzi, uno infila una mano in una tasca e quello che succede dopo lo vedo scorrere davanti agli occhi come al rallentatore. Sarebbe un’esperienza divertente, non fosse anche completamente assurda: il tizio tira fuori la mano, io scorgo la lama che luccica appena nella luce al neon che avvolge il corridoio, e poi un enorme barattolo di vernice bianca mi passa a due centimetri dalla testa, va a schiantarsi contro la fronte del tipo e il coltellino vola a due metri da noi. E poi è il silenzio per una quantità di secondi enorme.
Mi volto, il ragazzino è lì che fissa me – ha appena spaccato la testa di un cristiano con un barattolo di vernice e fissa me – con quegli occhioni spalancati e il fiato un po’ corto.
- Ragazzino?! – chiedo, vagamente isterico. Dico io, la stavo gestendo più che bene. I ragazzini ti complicano sempre l’esistenza.
- Ci stavi mettendo troppo! – si giustifica lui, rigidissimo.
È tutto quello che riusciamo a dirci, perché l’altro armadio – quello che non ha la testa spaccata in due e non sta rantolando per terra cercando di tamponare l’enorme ferita che ha sulla fronte per non morire dissanguato – si risveglia dal momento di confusione ed esala un “figlio di puttana” che non so bene se sia riferito a me o al ragazzino, ma in ogni caso al momento non è importante. Faccio l’unica cosa saggia da fare in queste situazioni: strappo i pacchetti di roba dalle mani dello stronzetto, li rimetto a posto nello zaino, lo infilo in spalla, afferro il ragazzino per un braccio e mi metto a correre.
Lui biascica un “cosa…?” incerto, mentre cerca di adeguare il passo al mio, ed io lo zittisco stringendo la presa sul braccio.
- Dopo. – taglio corto, - Ora vola. – e lui si limita ad annuire ed obbedire. Meno di mezz’ora dopo siamo già da Arafat, il quale mi accoglie gelido e pure un po’ incazzato.
- Hai uno zainetto troppo pesante e il portafogli, immagino, troppo leggero, Sonny. – mi fa notare. Io mollo il ragazzino lì sulla soglia e lo raggiungo al tavolo della kebaberia che gli fa praticamente da ufficio, scosto il piatto di kebab e gli lascio lo zaino davanti agli occhi. Poi ficco le mani in tasca e tiro fuori anche i soldi.
- Mi hai mandato da una testa di cazzo con due coglioni a fare da supporto, Ari. – mi lamento, posando anche le banconote accanto allo zaino.
Lui le guarda con sufficienza e nemmeno le tocca.
- Un cazzo e due coglioni, direi che quanto ad anatomia ci siamo. – annuisce, - Che è successo, Anis?
- È successo che mi sono rotto le palle di avere a che fare con i tuoi clienti del cazzo, Arafat! – urlo, battendo un pugno sulla superficie di legno, - Se mi ascoltassi-
- Se tu non puzzassi ancora di latte, - mi interrompe lui, - ti ascolterei. Visto che sei un poppante, ti ignoro, com’è giusto.
- Piantala. – ringhio io, - Il ragazzino lì ha dovuto spaccare la testa ad uno dei due coglioni con un fottuto barattolo di vernice, o mi avrebbero pestato a sangue! – che poi è vero. In una situazione normale non l’avrei mai detto, ma mi girano le palle a livelli disumani quando Ari mi tratta da ragazzino, perciò urlo e sbraito e gesticolo indicando il ragazzino in fondo alla stanza e vedo che tutti improvvisamente perdono interesse nella mia persona e si voltano a guardare lui.
Mi volto anch’io, e vedo che lui si fa minuscolo in un angolo. Bianco e biondo e coi boccoli e tutto il resto e Dio mio, siamo in una kebaberia piena di tunisini.
- Chi è? – chiede Arafat, inarcando un sopracciglio. Io scrollo le spalle e cerco di fare il disinvolto.
- È il tipo con cui devo lavorare per i servizi sociali. – spiego, - Patrick.
- Patrick. – Arafat ripete il suo nome lasciandolo scivolare lentamente fuori dalle labbra, come per immagazzinare meglio l’informazione. Poi sorride e si alza in piedi, andandogli incontro, - Ciao, Patrick. – dice, porgendogli una mano. Il ragazzino la guarda e poi la stringe con aria intimorita, ma siccome ha le sopracciglia aggrottate nel tentativo di risultare minaccioso il risultato finale è molto ridicolo. E infatti ridacchiano quasi tutti. – Cos’è che hai fatto con questo barattolo di vernice?
Il ragazzino si stringe nelle spalle e guarda altrove.
- L’ho usato nel modo migliore. – risponde. Arafat ride di gusto, gli altri a seguito, e io inarco le sopracciglia, divertito. Il ragazzino ha del talento.
Arafat si volta a guardarmi e gli tira una pacca sulla spalla tale che il ragazzino, poveretto, è costretto a fare un passo in avanti per non ruzzolare a terra.
- Tienitelo caro, Sonny. – mi consiglia, tornando al tavolo e decidendosi finalmente a contare i soldi, - Sarà pallidino, ma di sicuro non gli mancano le palle.
Io sorrido e lancio un’occhiata al ragazzino che, ora che tutti lo lasciano in pace perché Ari ha smesso di cagarlo, si sta massaggiando la spalla dolorante, borbottando fra sé.
- Sì, me ne sono accorto. – annuisco, - Quanto a quello che è successo oggi-
- Quanto a quello che è successo oggi, - mi interrompe lui, sbattendomi in mano trecento euro, - mi fai il favore di stare zitto e andarti a divertire. Manderò i miei ragazzi a chiarire la situazione con tutti i clienti, contento?
Io sbuffo e borbotto un “sì, chissenefrega” al quale Arafat risponde con un ghigno stronzo talmente insopportabile che penso che è meglio se me ne vado, così evito di farmi saltare in testa di spaccargli la faccia. Anche perché avrei la peggio.
Mi piazzo davanti al ragazzino e gli sventolo una banconota da cento sotto il naso.
- Questa è tua. – dico, e lui si allunga subito a prenderla e se la rigira fra le mani guardandola attentamente come non ne avesse mai vista una, cosa peraltro probabile ancora più che possibile, e io sorrido ancora. – Andiamo a farci un giro, ragazzino. – lo invito poi, battendogli una pacca sulla spalla, - Offro io.
Mentre ci infiliamo di nuovo in macchina, lui mi lancia delle occhiatine strane che sono quelle tipiche che lanci quando vuoi chiedere qualcosa e non sai se puoi.
- Sì? – chiedo ridendo e mettendo in modo la macchina, mentre lui si sistema col piede sul cruscotto – molto più comodo di prima, visto che non ha più l’ingombro del barattolo.
Il ragazzino non si fa pregare, per sputare il rospo.
- Ma tu come cazzo ti chiami? – chiede, sinceramente incuriosito, e io rido ancora. – Fra Sonny e A… A… quello che era, non c’ho capito niente.
- Anis. – sghignazzo, - Con la esse sibilata. Ricordatelo.
Lui annuisce, ripete “Anis” con la esse sibilata ed io so che se lo ricorderà.
È così che prende a chiamarmi, mentre continua a fare domande. Chi era quello grosso che quasi gli scardinava una spalla, chi erano gli altri, ‘cazzo c’era in quel piatto, e così via. Una specie di macchinetta, non lo ferma più nessuno e in realtà non ho veramente voglia di fermarlo. È incuriosito da tutto e non fatica a capire niente, mi viene dietro che è una meraviglia e come discussione non è niente male, nel senso, ne vengo fuori come una specie di mentore, mica cazzi.
Comunque parla per tutto il tempo veramente, perciò a un certo punto ci infilo entrambi in un locale, ci svacco entrambi su un divano pieno di cuscini e ci faccio – sempre ad entrambi – portare birra a litri. Non ho idea se il ragazzino si sia mai ubriacato prima di adesso, ma direi che se l’ha già fatto è meglio per lui e se invece non l’ha ancora fatto è meglio che si dia una mossa, che è già in ritardo col programma.
Quando ne usciamo non ho idea  di quante ore siano passate, ma mi viene da ridere un po’ perché sono brillo e un po’ perché il ragazzino è stravolto. Ha smesso da un pezzo di dire cose sensate, ma ha continuato comunque a mormorare roba incomprensibile, e ora sta biascicando qualcosa a proposito di suo padre che è uno stronzo, e ciondola per strada, le braccia pesanti lungo i fianchi e la banconota che esce un po’ dalla tasca posteriore dei jeans. Sospiro e la ficco bene dentro, che se continua così la perde, e poi cerco di tenerlo dritto passandomi un suo braccio sopra le spalle.
- Non funziona… - mormora barcollando, - Non posso camminare sulle punte, cazzo, Anis! – si lamenta, e in effetti mi sa che sono un po’ troppo alto per portarmelo in giro così.
Comunque sia la cosa smette di avere un’importanza quando lo osservo piegarsi letteralmente in due in un angolo, appoggiandosi con una mano ben piantata contro il muro di un palazzo, per vomitare. Sospiro. Ragazzini.
- Coraggio… - lo rassicuro, passandogli lentamente una mano lungo la schiena, - Meglio fuori che dentro.
- St-Stronzo… - biascica lui fra un conato e l’altro, lamentandosi un po’.
Io rido e continuo ad accarezzarlo piano, finché non smette. Lo aiuto a tirarsi su, gli passo un fazzolettino di carta, lo osservo ripulirsi e poi mi metto di nuovo a ridere quando lui, ormai tornato in sé, mi lancia un’occhiataccia furiosa.
- Avanti. – dico, tirandogli una spintarella giocosa contro la spalla, - Era il tuo battesimo del fuoco. – lui continua a guardarmi con aria disapprovante, gli occhi che brillano per le lacrime causate dai conati, ed io me lo tiro contro, scompigliandogli i capelli, - Dai, che ti riporto a casa. È stata una giornata stancante, mh?
- Per niente. – borbotta lui, - Comunque non siamo passati al tribunale per firmare il rientro, e-
Lo interrompo ridendo ancora.
- Ragazzino, tu vivi in un mondo tutto tuo. – lo prendo in giro, - Meglio se taci un po’, adesso.
E lui in silenzio ci resta, tant’è che pure le indicazioni per arrivare a casa sua me le dà solo a gesti. Ma non lo fa perché gli ho detto di stare zitto, lo fa perché è stanco e, dal modo in cui tiene un avambraccio premuto contro la fronte e dal modo in cui le labbra gli si piegano in una smorfia addolorata ogni volta che la macchina prende un fosso per strada, suppongo non stia poi tanto bene.
Quando mi dice di fermarmi, io spengo il motore e mi stendo un po’ contro il sedile, osservandolo scendere lentamente dalla macchina e fare il giro. Prima di attraversare la strada, si ferma e mi lancia un’occhiata incerta.
- Cosa? – chiedo curioso.
Lui scrolla le spalle.
- Niente. – biascica, - Allora ci si vede. – e mi volta le spalle.
Io sorrido.
- Sì… domani alle dieci al porto, sul canale.
Lui si immobilizza e si volta a guardarmi, confuso. Io sorrido ancora.
- Non vorrai mica farmi tornare fino a qui. – spiego, sporgendo un gomito fuori dal finestrino, - Ci sono un sacco di cose da fare, domani.
Lui ci mette un po’, a capire. Poi realizza. E non sorride, non si scompone, non fa una piega. Annuisce ed incassa. Il ragazzino ha davvero bisogno di sentirsi dire pochissimo.
Annuisco anch’io, compiaciuto, rimettendo in moto la macchina e muovendomi nella notte, direzione casa. Ho come l’impressione che, se voglio dividere i guadagni e continuare comunque a mettere da parte i soldi, dovrò lavorare un casino di più, da oggi in poi.