rp: riccardo i cuor di leone

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Riccardo I (Cuor di Leone)/Filippo II.
Personaggi: Filippo, Riccardo, nominati Eleonora d'Aquitania ed Enrico II d'Inghilterra (genitori di Riccardo), Luigi VII di Francia e Adelaide di Champagne (genitori di Filippo), più alcuni fratelli di Riccardo (Enrico, Goffredo e Giovanni) ed una delle sorelle di Filippo (Alice). E altra gente sparsa meno importante.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Harmony Gay Slash.
- "E’ la primavera del 1190, un lunedì. Sono passate poco più di dieci ore dall’alba, e lui mi si para di fronte, col suo solito sorriso spavaldo e irritante; non fosse per la barba, e i baffi, e i capelli più corti, e gli inevitabili segni di quasi trent’anni di battaglie sul viso e sul corpo, sarebbe del tutto uguale a com’era la prima volta che l’ho incontrato, sprezzante sedicenne in continuo tumulto."
Note: *angoscia* Mai rapporto fra me e una storia fu peggiore di questo. Per scriverla ho cercato di essere più precisa possibile perché semplicemente adoro la precisione storica, anche quando usata a scopi fangirlistici come qui. Noterete per questo che la stragrande maggioranza delle date presenti sono esatte (grazie alla Wikipedia, fedele compagna di vita). Nonostante questo, mi sono presa tutta una serie infinita di libertà XD Spero non storciate troppo il naso, leggendo :\ Se questo dovesse succedere, mi scuso in anticipo ._. In ogni caso, per coloro ai quali interessasse, alla fine del racconto c’è una piccola lista delle libertà più importanti che mi sono presa ^^”
Partecipante alla seconda settimana del F3.U.CK.S. Fest @ Fanfic Italia, ispirata ai temi della community fuoco_dal_cielo e, per la precisione, al prompt manoscritto del set dedicato al Medioevo.
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Dieudonné


E’ la primavera del 1190, un lunedì. Sono passate poco più di dieci ore dall’alba, e lui mi si para di fronte, col suo solito sorriso spavaldo e irritante; non fosse per la barba, e i baffi, e i capelli più corti, e gli inevitabili segni di quasi trent’anni di battaglie sul viso e sul corpo, sarebbe del tutto uguale a com’era la prima volta che l’ho incontrato, sprezzante sedicenne in continuo tumulto.
Avevo nove anni. Ero solo un bambino. Nonostante questo, io e i miei amici avevamo ascoltato con attenzione i maligni pettegolezzi delle dame di corte riguardo alla storia fra la regina Eleonora, sua madre, e suo marito, Enrico II d’Inghilterra.
In Francia, soprattutto nell’ambiente della Parigi più ricca ed elegante, si tendeva a non parlare troppo bene delle vicende coinvolgenti l’ex regina di Francia – ora regina d’Inghilterra. In fondo, era la donna che aveva strappato l’onore dall’effige di mio padre, Luigi VII, tradendolo.
Eleonora era di una sfacciataggine unica. Dopo aver sposato mio padre in fretta e furia – erano cugini, si conoscevano da una vita e si detestavano, ma la cosa non sembrò impensierirli troppo, e la famiglia reale andava rafforzata e riunita, dal momento che, con tutto lo scompiglio in Terra Santa, la Francia si preparava ad affrontare anni di privazioni e sacrifici – dopo averlo sposato, dicevo, chiese e ottenne il permesso di seguire suo marito alla volta di Gerusalemme, in occasione della seconda crociata.
Fu lì che conobbe Enrico II d’Inghilterra.
Fino a poco tempo fa, le cortigiane ne parlavano come di un amore estremamente romantico. Io non saprei dire. In fondo, quando nacque e si concretizzò, neanche esistevo, se non nelle speranze di mio padre. Probabilmente, all’inizio lo era. Altrimenti, per quale altro motivo lei si sarebbe sentita in dovere di gettare alle ortiche i privilegi e la sicurezza di casa propria per gettarsi fra le braccia di un inglese?
Senza neanche tornare in patria, aveva preteso l’annullamento del matrimonio, richiedendolo personalmente al papa. Aveva trent’anni, e ho il vago sospetto che si sentisse onnipotente.
Il papa aveva concesso l’annullamento, facendo leva sull’alto grado di parentela che legava i coniugi sovrani.
Morale della fiaba: Eleonora d’Aquitania s’era trasferita a Londra e lì aveva generato la prole che non aveva avuto il tempo di dare a mio padre, mentre lui, ancora sconvolto dalla velocità con cui s’erano svolti i fatti, non aveva potuto fare altro che ripudiarla e risposarsi, per cercare di risalire almeno di qualche gradino sulla scala della dignità virile. E per dare vita ad un erede al trono di Francia, chiaramente.
C’è da dire che mio padre non è mai stato un uomo particolarmente fortunato. Basti pensare che dovette attendere il terzo matrimonio per avere finalmente un figlio maschio, l’unico – me.
Ciononostante, mio padre non ha mai smesso di ricordare con dolore la sua prima moglie. Credo che a suo modo – nel modo contorto e glaciale che sta uccidendo mia madre da quasi trent’anni – l’amasse, perfino. Credo fosse affascinato da questa sua cugina intrepida e scalpitante, così bella, si diceva, da fare impazzire gli uomini con uno sguardo.
Per quanto mi riguarda, ho sempre considerato Eleonora una donna ammirabile e una preziosissima alleata. Nonostante gli scontri che spesso ci hanno divisi.
Ma sto divagando. Rischio di perdermi. E invece, se sono un buon re, se voglio lasciare ai posteri una traccia di me che non sia completamente fallimentare, e se non voglio sprecare i preziosissimi rotoli di carta egiziana che ho acquistato appositamente per queste mie memorie, devo ritrovare il filo e ripartire da lì.
Dicevo, nove anni. Era la primavera del 1173. A corte era appena giunto il pettegolezzo riguardante il tradimento di Enrico II e la furia di Eleonora, fuggita da Londra per fare ritorno in Aquitania, proprio qui, in territorio francese.
La notizia aveva riempito mio padre di turbamento e mia madre di paura e sconcerto.
Io, più che altro, ero curioso di vedere la donna che aveva scombussolato mio padre al punto da rovinare definitivamente i già incerti rapporti franco-inglesi. E poi ero smanioso di conoscere il mio illustrissimo cugino, Riccardo.
Mentre io ero solo un viziato e irresponsabile moccioso principe ereditario, a sedici anni Riccardo era già duca d’Aquitania e di Poitiers, ed era già noto come “Cuor di Leone” negli ambienti militari. Era un valoroso. Il pericolo delle battaglie non lo spaventava, anzi, più volte aveva messo a repentaglio la propria vita senza motivo, semplicemente seguendo la foga che lo possedeva durante i combattimenti.
Sua madre, che lo idolatrava, amava dire, non senza una punta di apprensione, che se suo figlio era ancora vivo era solo per la buona grazia di Dio, che evidentemente aveva per lui grandi progetti.
Non si stentava a crederle.
In effetti, Riccardo sembrava riunire in sé tutte le caratteristiche positive di cui i suoi fratelli erano stati privati alla nascita. In lui non c’era traccia della titubanza di Enrico, né della vanagloria di Goffredo, né della codardia di Giovanni.
Occhi cerulei e lunghi capelli biondo-rossicci decoravano il volto dai lineamenti duri ed eleganti. Era robusto, ma non flaccido. Vestiva sempre con cura ma non apprezzava lo sfarzo eccessivo. Era un impulsivo e si adirava facilmente, ma non era uno stupido. Aveva esperienza, e nonostante la giovane età era, in un suo particolare, eccentrico modo, molto saggio.
Era un sovrano perfetto.
Credo che sua madre intendesse questo, quando parlava dei grandi progetti del Signore.
Ricordo ancora il nostro primo incontro come fosse ieri. Sono passati quasi vent’anni.
Io avevo solo intravisto Eleonora attraversare il giardino, circondata da dame di corte e guardie, per recarsi nella sala del trono. Nessuno credeva che avrebbe avuto il coraggio di farlo. Presentarsi al cospetto del sovrano che aveva tradito e al quale aveva preferito uno straniero, un inglese? Un atto sconsiderato! Un suicidio! Ma Eleonora voleva assolutamente che Riccardo e gli altri suoi figli crescessero nell’ambiente migliore per loro. L’Aquitania era una provincia piccola e contadina. Non aveva niente da offrire ai suoi figli di sangue blu. La corte parigina, invece, oh, quella sì, li avrebbe istruiti a dovere.
Probabilmente, tentò la sorte perché era disposta a tutto pur di ottenere ciò che voleva per Riccardo e i suoi fratelli.
Molto più probabilmente, sapeva di non aver nulla da temere da suo cugino.
In effetti, in quel lontano 1173 Eleonora non aveva nulla da temere in assoluto. Era una donna potente che aveva vissuto sempre e solo seguendo le sue decisioni, e l’unico suo cruccio era l’aver lasciato il suo figlio maggiore nelle mani di quel traditore bastardo di suo padre, l’Inglese – così lo chiamava, con tono sprezzante e altero; d’altronde, non avrebbe potuto fare altrimenti, dal momento che Enrico II, pur di tenersi ancorato addosso un pezzo di prole, s’era piegato a farlo incoronare re, per quanto sottomesso alla sua autorità.
Questa cosa la mandava su tutte le furie. Era morbosamente attaccata ai suoi figli.
Comunque, dicevo, Eleonora s’era avventurata nella sala del trono per chiedere a mio padre di fare dei suoi figli cavalieri al suo servizio, e io rimanevo in cortile a giocare, sorvegliato a vista da qualche dama e dalle mie guardie personali.
E lui apparve.
Uso questo verbo perché non fu come vederlo arrivare da lontano, come sarebbe stato giusto. Neanche mi spuntò alle spalle. No, io abbassai un attimo lo sguardo e quando lo rialzai lui era lì, sorridente e tranquillo come fosse di casa.
- Sei Filippo, vero? – mi chiese, chinandosi su di me, seduto per terra.
Io annuii, ancora stupito da quell’apparizione. Lui si voltò indietro e fece cenno di avvicinarsi a due ragazzini. Uno avrà avuto più o meno la sua età, per quanto fosse molto più basso, mentre l’altro dava l’idea di essere perfino più piccolo di me. Goffredo e Giovanni. Riccardo non se ne separava mai.
Goffredo avanzò sicuro nel cortile e fu il primo a sedersi al mio fianco, nella terra bianca, spavaldo e spensierato. Giovanni, invece, nascondendosi dietro la schiena del suo fratello maggiore, aspettò che fosse Riccardo a sedersi, e poi seguì il suo esempio, rimanendo al suo fianco.
Le guardie continuavano a sorvegliarci da vicino.
Io non avevo idea di cosa dire o fare.
- Hai un occhio diverso dall’altro. – constatò Riccardo, fissandomi intensamente, come mi stesse studiando.
Mi infastidì. Mi infastidiva sempre, quando si parlava del mio occhio cieco. Se l’occhio buono era di un anonimo castano scuro privo di alcuna profondità, l’occhio malato era quasi vitreo, spaventoso, del colore dell’acqua del mare in riva.
Quell’occhio mi impressionava ancora. Col tempo ci avrei fatto l’abitudine, ma avevo nove anni, e non avevo ancora fatto l’abitudine a niente. E poi, fin troppo spesso avevo sentito i cortigiani malignare su quell’occhio, “l’occhio del demonio”, dicevano sottovoce. E non c’era niente che le lacrime di mia madre e l’ira di mio padre potessero fare, per fermare quel pettegolezzo.
Non c’era nulla che nessuno potesse fare, per fermare un qualsiasi pettegolezzo, a corte. Ero piccolo, ma questo l’avevo già capito. Avrei dovuto farne tesoro, soprattutto per il futuro. Ma sono sempre stato troppo stupido e distratto per cogliere gli insegnamenti della vita.
Non dissi niente, mentre Riccardo continuava a studiarmi da vicino.
- Come stai giocando? – chiese Goffredo all’improvviso, facendomisi più vicino.
Io mostrai titubante il bastoncino col quale tracciavo segni sciocchi sulla terra. Lui mi guardò come fossi stato un pezzente.
- Ma non giochi con le spade? Non ti alleni per diventare cavaliere?
Scrollai le spalle, guardando per terra.
In quel momento dovevo essere davvero poco regale.
- Sono sempre solo, qui. Non avrei con chi allenarmi.
- Io mi alleno sempre con Riccardo ed Enrico! – disse Goffredo, pieno di entusiasmo, - E li batto sempre!
Bastò un’occhiata di Riccardo per ridimensionare la sua vanità.
- Be’, almeno Enrico. Riccardo è troppo forte. – concluse ridacchiando. – Perché non ti alleni un po’ con me? Avrai pure qualche spadino da qualche parte!
Annuii.
Ero pieno di spadini, mio padre seguitava a regalarmene da… da quando ero nato, immagino.
In qualche modo, per quanto la situazione estranea mi facesse sentire poco a mio agio, ero entusiasta di aver trovato dei compagni di gioco. E speravo rimanessero a lungo.
Goffredo chiese con gli occhi il permesso a suo fratello Riccardo. Lui annuì e sorrise, alzandosi in piedi e conducendo Giovanni in disparte, sotto una tettoia. Poi incrociò le braccia sul petto e rimase a guardarci mentre ci sfidavamo in un duello infantile e confusionario al termine del quale finii sconfitto con disonore e gambe all’aria, tra le risa composte delle dame e quelle sguaiate dei cavalieri e di Goffredo, che mi pigiava un piede sullo stomaco, vittorioso.
Riccardo continuava a guardare, sorridendo lontano, freddo e immobile come la pietra, così elegante e regale da sembrare divino.

*

Da quel giorno, i tre figli di Eleonora si stabilirono a palazzo.
Non fu facile, per loro, all’inizio. Giovanni era di un anno più grande di me, ma era piccolo e debole, e non godeva di alcun titolo di valore, e perciò era trattato alla stregua di un ragazzino comune; Goffredo non smetteva un secondo di combinare guai a destra e a manca per tutta la corte, nessuno riusciva a sopportarlo; e Riccardo, Riccardo era il maggiore, Riccardo era un pericolo. Nessuno mai avrebbe potuto guardarlo con favore.
Ciononostante, la sua indole e mio padre, malgrado fosse pericoloso soprattutto per lui, lo protessero da ogni difficoltà, e nel giro di un paio d’anni non c’era più nessuno a corte che non lo osservasse quantomeno con ammirazione. E d’altronde, era impossibile non guardare in quel modo allo splendido uomo che andava diventando man mano che il tempo passava e lui si faceva via via più robusto, più forte, più grande, apprendendo l’arte della guerra e al contempo l’abilità di stare a corte, imparando come distinguere amici (pochi) e nemici (anche troppi) e trattando tutti con la stessa casuale indifferenza di chi, pur non sentendosi superiore a nessuno, ha già capito di essere destinato a ben altro che presenziare alle noiose e vuote feste di palazzo.
L’unico con quale Riccardo si permettesse momenti di tranquillità ed intimità, oltre ai suoi fratelli, ero io. Un giorno gli avevo chiesto per quale motivo con me non si sentisse motivato a tirare fuori tutta la propria diffidenza e freddezza. Sul suo volto dai lineamenti nobili, tanto precisi e perfetti da sembrare incisi nel marmo come solo le mani di uno scultore potevano fare, si era aperto un sorriso sereno.
- Tu sei innocuo, Philou. – mi disse, calcando l’accento sul soprannome che mi aveva dato, leggendo il mio nome alla francese ed ostinandosi a parlarmi in quella lingua sebbene io conoscessi l’inglese più che bene, - So che mi resterai accanto, e fra noi non ci sarà mai da combattere.
Riccardo amava la Francia, la sentiva propria molto più di quanto non potesse dire dell’Inghilterra. I colori, gli odori, i sapori, tutto ciò che poteva volere e toccare sapeva di Francia. Perfino le numerose scappatelle che si concedeva con le cortigiane – e nelle quali alle volte mi coinvolgeva, sebbene la cosa non risvegliasse in me il minimo divertimento, dal momento che quelle donne con cui finivo per accompagnarmi quando andavo in giro con Riccardo erano le stesse che mi deridevano per il mio occhio cieco chiamandomi mostro da dietro le loro pudiche velette – ecco, perfino quelle scappatelle avevano per lui un sapore più piacevole quando la donna con cui si accompagnava era una francese, piuttosto che un’inglese o una spagnola al seguito di qualche importante quanto vecchia nobildonna in vacanza permanente in campagna.
Quando gli veniva chiesto, sia per non mostrare ingratitudine nei confronti dell’ospitalità di mio padre, sia perché rispondere diversamente sarebbe stato visto come un affronto ben più grave di una semplice offesa, Riccardo ripeteva sempre che tutto ciò che voleva era indossare la corona inglese dopo aver sconfitto quel padre traditore che tanto aveva fatto soffrire sua madre, ma conoscendolo, in cuor mio, sapevo che niente avrebbe potuto renderlo più completo della corona di Francia.
Tuttavia, non provò mai a insinuarsi fra mio padre ed il suo trono, e gli otto anni che seguirono il suo arrivo a palazzo trascorsero come i più spensierati della mia vita, sebbene per me convivere con Riccardo fosse quanto di più vicino ad una tortura senza spargimento di sangue potesse esistere in tutto il mondo. Se era vero, infatti, che non mi portavano alcun piacere le notti di divertita e vacua passione con le cortigiane senza nome di cui dimenticavo il volto il giorno dopo, era purtroppo altrettanto vero che tutto ciò che non mi sentivo in grado di percepire con quelle donne tornava a galla mille volte più forte quando anche di poco mi avvicinavo a Riccardo, inalavo il suo profumo, o il rosso acceso dei suoi capelli invadeva anche per sbaglio il mio campo visivo.
Ricordo un episodio particolarmente significativo in tal senso, l’episodio che poi avrebbe cambiato irreversibilmente i termini della nostra convivenza – l’episodio che, alla fine, ci avrebbe gettati in un abisso di incomprensione dal quale mai più saremmo usciti, costringendo le nostre strade a separarsi come avrebbero dovuto fare fin dall’inizio se noi, ostinatamente, non le avessimo obbligate a incrociarsi di nuovo l’una con l’altra volta dopo volta dopo volta, fino a confonderle.
Riccardo amava le lunghe passeggiate in campagna. In effetti, la campagna era ciò di cui maggiormente sentiva la mancanza sia dell’Aquitania, sia dell’Inghilterra, e perciò non di rado entrambi sellavamo i cavalli e partivamo per lunghe passeggiate al galoppo o al trotto immersi fra colline, fiumi e laghetti, costeggiando i campi coltivati e godendo spensieratamente delle meraviglie della natura, dimenticando i nostri ruoli e tutte le formalità cui, troppo spesso, a corte eravamo costretti.
Fu durante una di quelle lunghe passeggiate che accadde. Legammo i cavalli ad un paio di alberi al limitare di un boschetto all’interno del quale si perdeva un corso d’acqua di modeste dimensioni, e ci mettemmo in testa di risalire il fiumiciattolo fino alla fonte, nella speranza di trovare un lago nel quale fare un bagno per rinfrescarci dalla calura estiva.
Il lago c’era davvero. Piuttosto piccolo, quanto a circonferenza – non saranno stati più di una decina di metri di diametro – ma incredibilmente vasto quanto a profondità. L’acqua era chiara e cristallina, eppure anche scrutando con attenzione non si riusciva a scorgere il fondo. Riccardo si spogliò velocemente non appena individuò la piccola cascata che carambolava giù lungo le rocce della bassa montagna che fiancheggiava lo specchio d’acqua, ed io distolsi lo sguardo non appena rimase nudo di fronte a me, apparentemente dimentico della mia presenza e ben più interessato all’imminente nuotata che non al mio imbarazzo.
- Cosa aspetti, Philou? – mi chiamò entusiasta riemergendo dopo il primo tuffo e schizzandomi addosso quanta più acqua possibile.
- …non credevo che sarebbe stato così profondo. – risposi io titubante, lanciando lunghe occhiate insicure alla superficie dell’acqua, le cui increspature si allargavano in cerchi attorno al corpo in perenne movimento di Riccardo.
- Be’, basta galleggiare. – rispose lui con una breve scrollata di spalle, immergendosi fino a risucchiare un po’ d’acqua in bocca e sputandola subito dopo, - Non è mica necessario toccare il fondo, per nuotare.
- Io – ammisi, distogliendo lo sguardo, - Io non so nuotare.
Riccardo mi guardo per qualche secondo come non riuscisse in alcun modo a persuadersi della mia esistenza, e poi scoppiò in una risata fragorosa e divertita, nuotando velocemente verso una delle rocce che circondavano il lago ed aggrappandovisi con forza per continuare a ridere senza per questo dover annegare.
- Davvero non sai nuotare? – mi chiese, ancora incredulo, quando riuscì a riprendersi, - Dai, ti insegno io. – concluse, indicandomi con un cenno del capo di immergermi con lui.
Io provai, con tutte le mie forze, a trovare un pretesto per rifiutarmi, ma l’unico che mi venne in mente era che avevo paura, e non solo non avrei mai saputo spiegargli di cosa, ma per giunta non mi andava che lui mi credesse un codardo – non più di quanto non dovesse già avere sentore, intendo – perciò misi da parte ogni ritrosia e sfilai velocemente ogni indumento, più che per impazienza perché non potevo tollerare di star lì a spogliarmi lentamente mentre lui continuava a lasciarmi scorrere gli occhi addosso come mi stesse studiando.
L’acqua era gelida, e non riuscii a staccarmi dalle rocce per dei minuti interi. Agitavo le gambe sotto la superficie, le tendevo il più possibile, provavo perfino ad immergermi per qualche centimetro, fino al naso, per cercare di capire se alla fine sarei riuscito a trovare il fondo, o un qualsiasi punto d’appoggio, ma niente. L’unico aiuto che avevo a disposizione, una volta lasciate le rocce, erano le braccia forti di Riccardo, tese verso di me in un invito ad avvicinarmi, fidarmi, lasciarmi andare.
Deglutii profondamente, tendendo una mano e poggiandola sulla sua, lasciando che la stringesse ed assicurandomi che la sua presa fosse ben salda prima di abbandonare il mio appiglio e spingermi più verso il centro del lago, dove anche lui si trovava. Il terrore mi mangiava da dentro, per me – che non ero mai stato in battaglia e non avevo nemmeno mai combattuto se non in allenamento col mio maestro di scherma – era insopportabile. Mi sembrava che il cuore stesse per scoppiarmi da quanto forte batteva. Il freddo profondo che sentivo fin dentro le ossa non poteva essere motivato solo dalla temperatura dell’acqua, e così cominciai a tremare, gli occhi fissi sul volto di Riccardo ma in realtà persi nel vuoto, mentre nulla di ciò che guardavo riusciva a superare le barriere della mia confusione perché io potessi vederlo davvero.
- Philou. – mi chiamò piano, la voce soffice, - Non devi avere paura. – Le sue gambe, sotto la superficie, si muovevano con sapienza, guidate dalla capacità e dall’abitudine. – Segui me. – mi disse, e sorrise.
Le mie gambe cominciarono a seguire il movimento delle sue, così come le mie mani si adattavano alla forma delle sue spalle mentre vi si aggrappavano, dapprima tremanti, poi via via sempre più rilassate. Mi scappò una risata tesa e nervosa, dopo qualche tempo, una risolino cui Riccardo rispose con un sorriso sereno.
- Non mi lasciare andare. – gli dissi. La voce mi tremava.
Le sue mani si strinsero istantaneamente attorno alla mia vita, ed io rabbrividii.
Riccardo non mi rispose, ma le sue labbra si fecero immediatamente avanti fino a coprire le mie.

*

Rischiai quasi di affogare, quel giorno, quando per la paura e per lo stupore lo spinsi repentinamente il più lontano possibile da me, ritrovandomi all’improvviso solo e incapace perfino di stare a galla nel mezzo di un laghetto minuscolo il cui fondale, però, sembrava perso nelle profondità della terra. Gli occhi di Riccardo, mentre si affrettava a riavvicinarsi a me e sorreggermi da sotto le ascelle, caricandomisi praticamente in spalla mentre mi riconduceva a riva e mi aiutava a venir fuori dall’acqua, parlavano di una ferita fresca ed invisibile, qualcosa che non avevo mai visto imbrattare la sua espressione normalmente sempre fiera e distaccata da tutto, come le cose terrene non gli appartenessero, se non quando impugnava la sua spada ed imbracciava il suo scudo scintillante.
Ci allontanammo, per la prima volta da quando ci eravamo incontrati. Inutile dire quanto mi mancasse la sua compagnia, e mi piacerebbe ora poter dire che ad intristirmi tanto non fu la sua assenza quanto più il fatto che, oltre a lui, nessuno gradiva la mia vicinanza, per via di quel mio maledettissimo occhio, ma non potrei. Se un uomo può mentire a un altro uomo e sperare di poter uscire dal confronto col volto fiero e pulito, di certo non può farlo con se stesso, e perciò io ora devo, devo ammettere che la lontananza di Riccardo mi tolse il respiro per tutti i lunghi mesi in cui si protrasse.
Poi, mio padre cominciò a stare male.
Quando le sue giornate cominciarono a dividersi fra lunghi periodi passati a letto e solo brevi e fugaci momenti in cui era libero di passeggiare in giardino, prima di doversi ritirare nuovamente nelle proprie stanze, mi associò alla corona, e quello fu il primo momento in cui capii che tutto ciò che mi era stato insegnato nel corso della mia giovinezza stava per cominciare ad avere un suo peso.
Fui io a cercare Riccardo, sconfortato, la notte in cui mio padre morì. Lui non mi si negò – mi accolse nelle sue stanze, mi sorrise come se il lungo gelo che era sceso su di noi negli ultimi anni non fosse mai esistito, e mi strinse a sé quando, stremato, scoppiai a piangere sul suo petto.
- Devi essere forte, Philou. – mi consolò, accarezzandomi le braccia e le spalle, - Philou Dieudonné. – sorrise, riesumando un soprannome che doveva essere l’unico a ricordare ancora. – Ora è chiaro perché Dio ti ha donato alla Francia. – disse, allontanandosi appena da me e sollevandomi il mento fra due dita, - Devo ancora capire, però, - aggiunse in un sussurro, - per quale motivo ti abbia donato a me.
Quando le sue labbra si posarono nuovamente sulle mie, quella notte, non lo scansai.

*

Mi sposai l’anno successivo. Non si può dire che il mio matrimonio fosse un matrimonio d’amore, in parte perché era stato deciso da ben prima che io stesso potessi conoscere Isabella, in parte perché lei era molto più giovane di me – dodici anni erano sufficienti per diventare regina di Francia, non altrettanto per risvegliare in me sentimenti che donne ben più procaci ed esperte non erano mai riuscite a far germogliare – in parte, soprattutto, perché Riccardo occupava insistentemente i miei pensieri ad ogni ora del giorno o della notte, che io fossi con lui o con lei, non riuscivo a vedere altro.
Questo non sembrava sufficiente, per Riccardo: odiava Isabella come non gli avevo mai visto odiare nessuno, neanche coloro i quali a corte gli davano del figlio senza padre per infangare la sua reputazione, aggrappandosi all’odio che da sempre provava per Enrico, sia perché aveva tradito sua madre, sia perché era stato talmente avido da associare suo fratello maggiore alla corona pur di tenere con sé in Inghilterra almeno una piccola parte della propria discendenza, quando Eleonora s’era decisa a tornare in Francia.
A nulla valsero le mie rassicurazioni – parole del tutto vane ed inappropriate, peraltro, ché un regnante dovrebbe aver ben altro a cui pensare che non rassicurare sulla propria assoluta devozione un principe senza patria, quando a stento è riuscito a consumare il proprio matrimonio, pensando ad altro, durante la prima notte di nozze – Riccardo non poteva più stare a corte. Meditò per qualche mese se rifugiarsi in Aquitania, tornando a vivere nel ducato di sua madre (dove la stessa Eleonora era tornata a vivere dopo la morte di mio padre, per la gioia di mia madre Adelaide, cui quella donna risultava odiosa come nient’altro e che, per quanto di carattere mite, di fronte a lei era in grado di perdere le staffe fino a trasformarsi nella più volgare delle lavandaie o peggio), o stabilirsi definitivamente in Guascogna, fin quando, nel 1883, quando ormai la sola vista di Isabella e me insieme gli era talmente odiosa da portarlo a confessarmi di aver pensato, qualche volta, a commettere qualche atto di cui poi si sarebbe certamente pentito, la soluzione giunse da sola, come d’altronde sempre accade.
In quegli anni la Guascogna era sconvolta dalla rivoluzione, motivo per il quale Riccardo era già costretto a lunghi periodi lontano dalla corte, ma il pretesto definitivo per abbandonare la Francia giunse assieme alla morte di suo fratello maggiore, Enrico. Riccardo non conservava di lui altro che un ricordo infantile, ma per quanto i due potessero essere distanti, la sua morte lo colpì, probabilmente anche perché delle molte cose che Riccardo doveva aver pensato per la propria vita, diventare re non doveva propriamente rientrare nell’elenco.
Enrico II aveva già abdicato da tempo, in favore del primogenito, ed avrebbe potuto senza problemi riprendere in mano la corona ed il proprio posto sul trono d’Inghilterra, ma al solo pensiero che qualcosa del genere potesse succedere Riccardo sentiva lo stomaco contorcersi e il cuore scoppiare, e fu in forza di questo che venne a congedarsi con me, pochi giorni prima di prepararsi ad affrontare il viaggio di ritorno verso la terra natia.
Non mi disse perché stava andando, le varie motivazioni erano palesi per entrambi.
Gli chiesi se ci saremmo mai rivisti, e lui mi sorrise teneramente, prima di lasciare scivolare le proprie labbra sulle mie in un saluto anche troppo candido rispetto a quello che, con tutte le mie forze, avrei voluto strappargli.
Non ci rivedemmo più.

*

Questo, naturalmente, fino ad oggi. Sette anni sono passati dall’ultima volta che i miei occhi hanno incrociato i suoi, e non una missiva, mai un saluto, mai un incontro ci hanno permesso di tenere vivo ciò che con tanta forza ci avvinceva in gioventù. Eppure il mio cuore è in tumulto ora come lo era in quegli anni, e leggo nel suo sorriso il residuo di quella traccia di tenerezza con cui mi salutò l’ultima volta che ci vedemmo. È strano guardarlo adesso e pensare a quanto tempo sia passato. Sembra ieri che correvamo lungo il corso di un fiume alla ricerca di un lago misterioso, eppure di mezzo c’è una vita.
- Alice ti manda i suoi saluti. – sorrido, salutandolo con un cenno del capo. Lui distoglie lo sguardo, ed io mi concedo un sorriso soddisfatto: so che la questione del fidanzamento mai risolto con mia sorella lo imbarazza, e so che avrebbe molto più da dire, a riguardo di lei ed anche del figlio che ha avuto e che in fretta e furia abbiamo dovuto nascondere agli occhi del mondo, di quanto non abbia fatto in passato, ma evito di pungolarlo oltre e mi avvicino per stringergli calorosamente la mano.
- Soffro nel rivederti in una situazione simile. – confessa, alludendo a ciò che so già mi chiederà a breve, - Avrei preferito un momento meno frenetico.
- Ma la tua Berengaria ti ruba il tempo perfino di scrivere una lettera, non è così? – lo stuzzico, anche se nella mia voce non c’è della vera gelosia: io ho sposato Isabella che la mia pelle era ancora calda delle sue carezze; a distanza di dieci anni, Riccardo e la donna che ama non si sono ancora sposati, eppure la sua pelle già da un pezzo non è più calda di me.
- Philou. – mi chiama lui, tornando a guardarmi con quel sorriso che pare dirmi di smetterla di tirare la corda con lui, dal momento che so chi uscirebbe sconfitto dal confronto. Ed io non sono più il bambino che ero quando ci incontrammo la prima volta, ma è indiscutibilmente vero che so che, in un modo o nell’altro, se Riccardo decidesse di sfidarmi sarei io a soccombere, come anni fa feci con suo fratello che non ha mai avuto un decimo della sua forza. – Philou, lascia perdere le cose che non conosci. Io sono qui perché ho bisogno di te.
Vorrei dirgli che avrei voluto che ci fosse anche quando io avevo bisogno di lui, ma mi rendo conto che farei torto ad entrambi, dicendo una cosa simile, perciò taccio.
- Il tuo messo ha parlato della spedizione in Terra Santa. – dico invece, passandomi una mano fra i capelli con un mezzo sospiro stanco. – Perché vuoi farlo, Riccardo? Perché con me?
Lui esita, prima di rispondermi. Si perde nei propri pensieri ed io non riesco a leggerli mentre sfilano veloci dietro i suoi occhi chiarissimi, segnati dal tempo.
- Perché questo è il motivo per cui Dio ti ha donato a me. – risponde quindi.
Mentre i miei occhi si riempiono di lacrime per la prima volta dopo troppo tempo, confondo il presente coi ricordi e l’unica cosa immutata è Riccardo. Lo rivedo nel cortile del palazzo reale, seduto davanti a me nella terra bianca, sbirciarmi mentre disegno scarabocchi privi di senso nella polvere.
Quando sollevo lo sguardo su di lui ed annuisco, non so più a quale Riccardo stia sorridendo – se al ragazzino, all’amante, all’amico, a ciò che avrebbe potuto essere ma non è mai stato – ma mi rendo conto che provare a dirimere la questione ha poco senso: è Riccardo, è sempre stato lo stesso, e la persona alla quale sto dicendo sì in questo momento è la stessa alla quale, pur senza parole, l’ho detto fin dal primo istante.

*

Mentre ripongo il manoscritto con le mie memorie nel baule, poco prima di imbarcarmi nell’avventura più pericolosa ed importante della mia vita, non penso che sto andando in Terra Santa a difendere il Cristianesimo contro gli infedeli che ne occupano il santuario in terra. Penso che sto andando a fare tutto questo al fianco di Riccardo, perché questo è il motivo per cui Dio mi ha donato a lui. E, senza bisogno di ulteriori spiegazioni, improvvisamente tutto acquista un proprio senso.



NdA e libertà varie che mi sono presa.
1) Datare 1173 il tradimento di Enrico II, oltre che la rivolta dei suoi figli contro di lui. In realtà non ho idea di quanto sia durata la tresca fra Enrico e la sua amante, o di quanto Eleonora abbia sopportato prima di esplodere e andar via (immagino poco, comunque, conoscendo il carattere XD). Però, per evitare eccessiva dispersività, ho preferito condensare tutto in un anno solo. Anche perché caratterizzare una donna che s’incazza e molla il marito è molto più divertente che caratterizzare una donna che sopporta e si deprime :D
2) Datare 1173 anche il primo incontro fra Riccardo e Filippo. So per certo che il futuro Riccardo Cuor di Leone trascorse gran parte della sua infanzia in Francia – al punto da considerarla la sua vera patria – ma non so quando di preciso vi si sia trasferito. Ad ogni modo, ho immaginato che semplicemente la madre l’abbia portato con sé dopo aver scoperto il tradimento del marito. Ho ambientato tutto in primavera perché boh, mi sembrava carino XD Non ho idea di quando lo scontro si sia verificato esattamente :)
3) Datare 1181 il matrimonio di Filippo. Sono certa che quei due si siano sposati, e che questo sia avvenuto intorno all’ottanta – dopo sì, prima no, lei era troppo piccola perfino per gli standard del medioevo. Ho deciso per l’81 perché lei aveva dodici anni, e a quei tempi era un’età normale per il matrimonio.
4) Rendere Filippo cieco d’un occhio. Non è una verità storica, sebbene ci siano delle dicerie a riguardo. E la stessa cosa vale per quanto riguarda le sue preferenze sessuali – così come quelle di Riccardo: sono dicerie, cose su cui si sono divertiti a fantasticare soprattutto gli scrittori arabi, probabilmente allo scopo di rendere più deboli le figure dei crociati che avanzavano pretese in Terra Santa. Io, invece, sono una fangirl. E questo è l’unico motivo per cui mi diverto a fantasticare su dicerie simili :)
5) Alcune esagerazioni sui caratteri dei vari personaggi. Insomma, in qualche modo questa storia andava pur movimentata XD Per esempio, Eleonora: che fosse una signora cazzuta è indubbio, ma non potrei giurare sulla sfacciataggine della richiesta di annullamento effettuata personalmente al papa XD Va da sé che, per personaggi molto famosi, i cui ritratti psicologici sono arrivati fino a noi grazie agli scrittori e agli storici del tempo, come Riccardo, Filippo, Giovanni o la stessa Eleonora, il problema della caratterizzazione neanche si poneva. Ma per personaggi meno noti, come la seconda moglie di Luigi, Adelaide, ho dovuto immaginare una caratterizzazione ex novo. Quindi mi sono presa delle libertà impressionanti XD Cercando comunque di essere verosimile :\
6) I soprannomi di Filippo. Mentre Dieudonné (donato da Dio) è un soprannome che realmente gli fu affibbiato (suo padre, Luigi, attese un figlio maschio per ben trent’anni, e riuscì ad averlo solo al terzo matrimonio), il Philou con cui a lui si appella Riccardo è totalmente di mia invenzione, anche se è effettivamente vero che un soprannome simile viene usato per i Philippe. (Non dirò io da dove l’ho preso perché sarebbe uno sputtanamento che in questo momento non mi sento in grado di sostenere, comunque u.u)
7) Il nome di Adelaide XDDDDD Allora, sulla Wikipedia francese ho trovato che questa donna è conosciuta con ben quattro nomi <3 Adelaide, Adele, Alice e Alix. Adelaide è il primo che ho trovato – dopo un’estenuante ricerca su Google, quando ancora non avevo capito che per istruirmi sulla storia francese non potevo usare i surrogati googlistici ma dovevo andare alla fonte, la mai-abbastanza-ringraziata Wiki – ed il primo al quale mi sono affezionata. Avevo una mezza idea di usare Alice, ma poi ho deciso di optare per Adelaide, è spocchioso e da principessina, yeah XD E poi Alice era anche il nome di una delle sorelle di Filippo (quella che, peraltro, fu promessa sposa di Riccardo per millenni e invece ebbe una tresca col di lui padre Enrico II, fino a rimanerne incinta senza mai sposare Riccardo e finendo per essere rimandata al mittente nell’anno in cui poi Riccardo sposò il suo vero amore, che naturalmente non era Filippo XD ma Berengarda di Navarra, figlia del re di Navarra e Sancha di Castiglia).