rp: josé mourinho

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Commedia.
Pairing: Davide/Mario, Zlatan/José.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash, What If?.
- Per un disguido tecnico, dopo il triangolare con Juve e Milan per il Trofeo Tim 2009, l'Inter è costretta a passare la notte a Pescara...
Note: Partecipante al Pigiama Party su Fanworld.it.
Se scrivessi con questa velocità e con questa continuità anche per il BBI, a quest’ora le mie sette storie sarebbero tutte pronte. *sospira* Comunque! Storia idiota nata da una serie di idiozie, elencabili più o meno in quest’ordine, dalla meno importante alla più fondamentale: il mio amore per Lorenzo Crisetig, il mio amore per Rene Krhin, il mio amore per Andrea Butti, il mio amore per José Mourinho, il mio amore per Bedy Moratti, il mio amore per l’Everlasting!Jobra e il mio amore per il Santonelli che più canon di così si muore. Yay XD
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LA TRAGICA LEGGENDA DELLO SPIRITO DEL MAL DI PANCIA

- Cosa vorresti dire con “non ci sono voli disponibili fino a domani mattina”, Andrea?
Il team manager esitò appena, stringendosi timorosamente nelle spalle e schiarendosi rumorosamente la gola, prima di spiegare meglio il concetto appena espresso. Era abbastanza ridicolo da osservare un uomo della sua stazza perdersi in tante incertezze a causa di un ometto alto più di venti centimetri in meno e pure decisamente più avanti di lui con gli anni, ma José tendeva ad avere quest’effetto di terrorismo psicologico sul mondo circostante, e se i ragazzi, essendo causa di problemi e rimbrotti continui, potevano dire di essercisi abituati piuttosto in fretta, altrettanto non era possibile affermare del povero Andrea, che per contro il suo lavoro lo faceva sempre e cercava sempre di farlo bene, perciò di fronte a quello sguardo intransigente e severo era costretto a ritrovarcisi decisamente meno spesso.
- Intendo dire che purtroppo il volo che avevamo prenotato è stato cancellato per problemi tecnici, mister, e non sarà possibile trovarne un altro prima di domattina, perciò-
- Chiama il presidente e fatti mandare un dannato aereo privato! – sbottò l’uomo, gesticolando animatamente, - Che razza di storie, chissenefrega se non c’è un aereo di linea disponibile fino a domani! Dopodomani abbiamo l’ultima amichevole prima del campionato, ed io ho bisogno che i ragazzi tornino a casa e si riposino, in modo da poterli obbligare a sputare sangue domani in allenamento! Perciò datti una mossa e risolvi questo problema, ora!
- Mister, se posso permettermi… - s’intromise Bedy, avvicinandosi con un sorriso e con la solita incontrastabile grazia, - Comprendo perfettamente le sue rimostranze, ma è troppo tardi per allertare il nostro pilota personale, soprattutto per circostanze che difficilmente si potrebbero definire di vita o di morte. – spiegò pacatamente, di fronte ad un José incapace di protestare di fronte a lei con la stessa veemenza utilizzata appena pochi istanti prima nei confronti di Andrea, ancora abbacchiato in un angolino a causa della sfuriata, - Perché non seppelliamo tutti l’ascia di guerra e chiediamo ad Andrea di trovare una soluzione ad un problema meno complesso? – concluse con un altro sorriso smagliante, piegando appena il capo e lasciando che la ciocca biondo platino sul davanti ricadesse graziosamente lungo i tratti tondi ma non sgraziati del viso senza età.
- Che donna. – mormorò Dejan, sgomitando Marco fra le costole, - Una botta gliela darei anche, cazzo. Pure due, in caso.
- Sei sposato. – rispose laconicamente il difensore, sollevando gli occhi al cielo, - E comunque daresti una o due botte a chiunque, tu. Ne sa qualcosa il povero Christian.
- Ehi! – borbottò Dejan, quasi offeso dall’insinuazione, - Non ho mai alzato un dito che fosse uno su Christi, lo rispetto troppo per portarmelo a letto.
Marco scosse il capo e sospirò platealmente, mentre Christian, accanto a lui, si tirava una rassegnata manata in piena fronte. Mario smise di ascoltare il discorso e ridacchiò appena – il peso di Davide ancora pressato contro una spalla e la solita interminabile tiritera di lamentele a scivolare fuori dalle sue labbra come una cascata. Seguì con gli occhi il mister mentre si rassegnava a sospirare e chiedere ad Andrea di trovar loro un albergo per la notte, prima di rifugiarsi in un angolo e cominciare a smanettare col cellulare, e poi Davide gli pizzicò un fianco talmente forte che lui, temendo per la propria vita, si rassegnò a concedergli un po’ d’attenzione.
- Sì, Dade. – rispose meccanicamente, - Hai ragione su tutto.
- Non hai la minima idea di cosa ti abbia detto, vero? – protestò il ragazzo, offeso a morte, tirandogli un mezzo calcio contro uno stinco, - Non hai ascoltato una parola!
- Per la verità, hai ragione. – annuì naturalmente Mario, sollevando un braccio e tirandoselo contro in un abbraccio sbrigativo, - Non ti stavo ascoltando. Ma so cosa stai pensando.
- E sarebbe? – lo sfidò lui, inarcando un sopracciglio.
- Che è tutta colpa tua se abbiamo perso, che se solo avessi segnato quel rigore noi ora avremmo un’altra coppa in bacheca e che il mister dovrebbe sgridarti perché è evidente che non hai dato il meglio di te. – tirò a indovinare, sulle labbra il sospiro rassegnato di chi sa già di avere ragione.
- …ecco. – ammise Davide, sistemandosi meglio sul suo petto, - …e pensi davvero che io abbia ragione?
- No, Dade. – sospirò ancora Mario, esasperato, - Penso che tu sia stato bravo, penso che tu abbia fatto il possibile e penso che tu ti sia mosso molto bene. Penso inoltre – specificò, - che entrambe le partite siano andate alla grande, abbiamo giocato bene, compatti, chiusi, organizzati, e che l’unico motivo per il quale abbiamo perso sia che i rigori sono un terno al lotto e la palla è tonda e, in quanto tale, gira, e non sempre nel verso che uno vorrebbe o si aspetterebbe.
- Parli bene, tu. – continuò a lagnarsi Davide, dispiaciuto, - Hai segnato, sei comunque l’idolo delle folle. – Mario inarcò un sopracciglio, come a dire “idolo delle folle? Io? Ma in che universo alternativo vivi?”, e Davide tossicchiò, affrettandosi a correggersi, - Intendo, il mister di sicuro starà comunque pensando un gran bene, di te. Si era tanto raccomandato di non sbagliare quel rigore, Mà, la voleva proprio quella coppa…
- Be’ – scrollò le spalle Mario, decisamente poco impressionato dal piagnisteo, - avrebbe voluto che Zlatan restasse ma non è successo, e s’è rassegnato. Avrebbe voluto Deco, Carvalho, Lampard, Drogba e un altro milione e mezzo di uomini, e nessuno di loro è arrivato, e s’è rassegnato anche a questo. Penso che potrà sopravvivere anche ad un Trofeo Tim in meno, considerando che in bacheca ne abbiamo ancora comunque, più di tutti gli altri, ti pare?
- Tu sei un cocciuto insensibile presuntuoso supponente e rompipalle. – borbottò ancora Davide, tirandogli un pugnetto parzialmente giocoso e parzialmente risentito fra le costole, costringendolo ad usa risatina divertita mentre lo fermava con un gesto tenero, - Ecco cosa mi pare.
- Intanto – continuò Mario, adocchiando nuovamente il mister muoversi in mezzo alla sala d’aspetto come un animale in gabbia, ancora attaccato al cellulare, - mi sa che per stanotte si resta qui. Chissà con chi cavolo sta parlando…
- Ma che ti frega, scusa? – chiese Davide, sollevandosi appena per guardarlo negli occhi, prima di crollargli nuovamente contro la spalla mentre, senza volere, ascoltava il mister biascicare un incerto “ma no… lascia perdere, i bambini” alla cornetta, - Sarà la moglie. Si aspettava che tornasse in serata, l’avrà avvertita.
- Mhmh… - mugolò dubbioso Mario, mentre il mister continuava a biascicare una sequela di “davvero, lascia perdere, ci vediamo domani a Milano”, - Sì, mi sa di sì.
-  Allora, ragazzi! – richiamò la loro attenzione Andrea, battendo sonoramente le mani, - Stanotte si resta a dormire qui, ho appena trovato l’albergo. – l’annuncio venne accolta con un fragoroso noooo di lagnoso disappunto, ed Andrea faticò non poco a ristabilire l’ordine, prima di poter continuare a parlare, - Dovremo stringerci un po’, - proseguì con un sospiro, - purtroppo l’albergo è molto bello, ma piccino. Molti di voi dovranno dividere la stanza, ma abituati come siete in Pinetina di sicuro la cosa non vi turberà più di tanto. Per il resto, avvisate mamme e mogli, così che non si preoccupino. Rientreremo a Milano nella mattinata di domani-
- E badate di riposare bene, stanotte. – lo interruppe burbero José, finalmente libero dalla conversazione con la signora, - Domani vi voglio freschi e pimpanti per l’allenamento, e se stanotte vi trovo svegli a bighellonare in giro giuro sui miei figli che vi sbatto in panchina fino alla finale di Champions, se ci arriviamo, vita natural durante se non ci arriviamo. Sono stato chiaro?
Il coro di sìììì che accolse le sue minacce non presentò sfumature di lagnoso disappunto molto diverse dal coro precedente, e la discussione si chiuse così – con tutti i ragazzi che prendevano posto sul bus, diretti alla volta del Victoria Hotel.

*

- Be’, almeno il posto è bello. – commentò Andrea di fronte all’edificio. José gli passò accanto, ruminando acredine.
- I balconi somigliano alle valve di una conchiglia. – borbottò aspramente, - Se volevo nascere mollusco, mi infilavo in un blocco di gelatina rosa e mi piazzavo una perla gigante in bocca, ti pare?
Bedy cercò di forzare una risata e consolò brevemente Andrea, mentre quest’ultimo si abbatteva in un angolo, disperato, e José prendeva posto nel centro del marciapiede, arringando i giocatori.
- Allora! – cominciò tuonando, - Le camere sono state sistemate in modo che possiate utilizzarle in quattro. – spiegò, spegnendo l’ennesimo coro di lagne con un’unica occhiata omicida, - Cos’è, volevate per caso che la camera della signora Moratti fosse aperta anche a voi, per distribuirvi meglio? Deki, non provarci nemmeno. – lo minacciò, prima ancora che il serbo potesse proferire parola, zittendo la sua battutina sul nascere e sfumandola in una risatina furba, - Allora, i gruppi sono… - cominciò ad elencare, e Davide smise immediatamente di ascoltare. Mario se ne accorse perché se lo sentì crollare rovinosamente sulla spalla con uno sbuffo annoiato, come al solito.
- E dire che prima per poco non mi mandavi in orbita, spintonandomi. – lo prese in giro, dandogli un colpetto tenero con la tempia contro la sua. Davide mugolò contrariato.
- Eravamo in mezzo al campo, c’erano ventimila tifosi e un altro centinaio di gente fra compagni, avversari e staff vario ed eventuale. – si lamentò, strusciando una guancia contro la sua spalla, - E tu prendi e mi salti addosso, chiaro che mi viene voglia di mandarti in orbita.
- Che palo in culo, Dio mio. – rise ancora Mario, osservando Diego guardare con una certa curiosità gli sguardi da belve inferocite che Deki e Marco gli lanciavano, traendo Christian fuori dalla sua portata prima ancora che lui provasse effettivamente a mettergli le mani addosso. Ah, calciatori. – E adesso va bene se ti strusci tu, invece? I compagni intorno ci sono sempre.
- Sì, ma ora sono stanco e ho sonno, – sbottò Davide, arpionando la sua maglietta e sprimacciandogli la spalla neanche fosse stata un cuscino, - per cui me ne frego.
- Sonno? – chiese Mario, cercando la sua fronte con le labbra, - Quindi stasera non si gioca?
- Non si giocherebbe comunque. – pigolò Davide, delusissimo.
- Balotelli, Crisetig, Krhin, Santon! – annunciò ad alta voce il mister, e Davide sospirò ancora, in sincrono con Mario. – E questo è quanto, diamoci una mossa prima che la mia naturale bontà si esaurisca e mi venga voglia di lasciarvi per strada solo per guardarvi arrotolarvi nelle coperte agli angoli della strada dalla comodità del mio letto.
Le camere non erano purtroppo particolarmente grandi. Pittoresche quanto si voleva, con quei dipinti sulle porte e tutto il resto, ma occupate per il cinquanta percento dal letto matrimoniale situato nel bel mezzo dell’ambiente e per il restante cinquanta dai due lettini singoli che vi erano stati trascinati e ficcati a forza, così che, per muoversi all’interno della stanza, si doveva praticamente camminare scalzi sui letti, o azioni di una normalità disarmante per un qualsiasi essere umano – come raggiungere il bagno o allungarsi verso il minibar alla ricerca di una bottiglietta d’acqua – si sarebbero rivelate impossibili.
Davide piantò un piede sul materasso occupato da Lorenzo – che per contro si spostò il più possibile per non intralciarlo nel movimento – lo superò, poggiò l’altro piede sul materasso immediatamente successivo, occupato da Rene, e naturalmente-
- Ah- cazzo, Davide! – si lamentò lo sloveno, scalciando furiosamente da sotto le lenzuola, - Le palle!
- Re- ferm- - poco da fare, non ebbe nemmeno il tempo di concludere la frase che si ritrovò a perdere l’equilibrio, ondeggiare incerto sul posto fra le urla di Rene e le occhiate incerte e divertite di Mario, prima di franare con pachidermica grazia proprio addosso a quest’ultimo, ficcandogli entrambi i gomiti e le ginocchia un po’ ovunque, fra pancia, palle e petto, ma ottenendo nonostante tutto in risposta solo un ahouff sbuffato in una mezza risata e un abbraccio protettivo e un po’ ondeggiante, condito da un sorriso tenero.
- Dio, perché? – continuò a lagnarsi Rene, massaggiandosi lentamente fra le gambe, - Perché mi odi così? Perché il mister non mi ha messo in camera di Tia e Luca, perché?
- Uh? – azzardò Lorenzo, stendendosi su un fianco e ripiegando un braccio sopra il cuscino, per tenere il capo sollevato e poterlo guardare più facilmente, - Perché dici così?
- Perché quei due – ringhiò Rene, infastidito, indicando Mario e Davide intenti a non dare l’impressione di volersi saltare addosso e stare in effetti ponderando la possibilità con o senza pubblico pagante, - sono due piaghe sociali. Al di là di quello che fanno continuamente e di cui hai anche avuto prova oggi sul campo… - raccontò roteando gli occhi, mentre Lorenzo ridacchiava al ricordo di Mario che si gettava a peso morto su Davide coinvolgendolo in un mezzo rotolio a centrocampo, proprio durante il blackout allo stadio, - sono incasinati, fanno rumore e chiunque vada in giro con loro il giorno dopo è talmente rincoglionito da fare per forza qualcosa di talmente idiota da mandare il mister su tutte le furie e giocarsi il posto in squadra. Matematico.
- …oh. – deglutì a fatica Lorenzo, tornando a voltarsi fra le coperte, dando la schiena agli altri tre, come sperasse che prendere le distanze in quel modo fosse abbastanza per continuare a mantenere il proprio posto fra le riserve.
Davide e Rene riuscirono appena a scorgere il sorriso semplicemente demoniaco sul volto di Mario, prima che tutte le luci si spegnessero, sprofondando quello che, a guardare fuori, sembrava l’intero quartiere in un buio talmente pesto da fare paura.
- …che città di merda. – commentò distrattamente Davide in un sospiro esausto. Mario rise, Rene si chiese un’altra volta il perché di tanta sfiga e Lorenzo chiuse gli occhi e cercò di astrarsi da tutto ciò che lo circondava, almeno fino a quando la porta della loro camera si spalancò, mostrando un inedito Andrea in versione notturna, completo di canottiera vecchia di cinque anni e boxer a righine, che li guardava con aria allucinata, illuminato appena dalla luce bianchiccia di una torcia elettrica.
- Tutto a posto, ragazzi? – chiese allarmato, illuminandoli uno per uno mentre Rene gli chiedeva per pietà di spegnere la dannata cosa, che gli infastidiva gli occhi.
- Aha. – annuì tranquillo Mario, Davide ancora steso sul petto neanche fosse stato perfettamente naturale, - Successo qualcosa?
Andrea sollevò gli occhi al cielo, mentre – dal profondo abisso del fondo scuro del corridoio – giungevano le urla belluine di José, impegnato ad imprecare in portoghese contro una lunga sfilza di divinità cristiane e non.
- …è saltata la luce. – biascicò stremato. – Che città di merda. – concluse quindi, richiudendo la porta. Davide rise piano e Mario gli fece il solletico, guadagnando in cambio uno schiaffone sul braccio talmente rumoroso che Lorenzo saltò a sedere e si guardò celermente intorno, allarmato dal fragore.
- Sapete che storia sarebbe perfetta da raccontare adesso? – chiese invece l’attaccante, mettendosi seduto così velocemente da costringere Davide a cadergli in grembo con un urletto sorpreso, - La vecchia storia del fantasma del mal di pancia.
- Mario… - cercò di rimproverarlo Davide, ritrovandosi immediatamente una mano schiacciata delicatamente sulle labbra, per impedirgli di proseguire.
- Oh, ti prego. – protestò Rene, tirandosi le coperte fin sopra la testa, - Risparmiami almeno questo.
- Che… che storia? – chiese invece Lorenzo, incrociando le gambe sul materasso e protendendosi interessato verso il matrimoniale.
- Mmh, non so se posso raccontartela… - rifletté Mario, mentre Davide roteava gli occhi e lo mandava discretamente a fanculo, tornando a stendersi sulla propria metà del letto nel tentativo di dormire, - Sei un po’ piccolo, ti pare?
- Ho sedici anni! – protestò lui, spalancando gli occhi. Mario sembrò considerare molto seriamente la possibilità di tacere e mettersi a propria volta a dormire, ma alla fine, fortunatamente, sospirò ed annuì.
- D’altronde, è giusto che anche tu sappia. Così potrai difenderti. – asserì serio, mentre Rene, dal fondo delle coltri che lo coprivano, lanciava al cielo un pietoso lamento.
- Mario, sei un cretino. – borbottò Davide, tirandogli un mezzo calcio da sotto le lenzuola, - Piantala, è solo un ragazzino.
- Non sono un ragazzino! – ruggì Lorenzo, profondamente offeso, ma Davide lo ignorò in modo così plateale da convincerlo a desistere da quell’inutile opera di persuasione e tornare a concentrare tutta la propria attenzione su Mario. – Che storia è?
- Be’, - scrollò le spalle lui, - naturalmente sai chi è Zlatan, no?
- Ovvio. – annuì Lorenzo, interessato. Lui non aveva avuto il piacere di conoscerlo, solo di osservarlo da lontano quelle poche volte che la Primavera s’era incrociata con la prima squadra durante gli allenamenti, ma la fama di Zlatan Ibrahimović non teneva conto né del tempo né dello spazio. E quindi sì, ovviamente sapeva chi fosse, e una volta fatto il suo nome anche tutto il resto della storia assunse un’importanza del tutto diversa.
- E, altrettanto naturalmente, - proseguì Mario, dosando attentamente i gesti e le pause per mantenere l’aspettativa al livello più alto possibile, - hai sentito parlare dei suoi numerosi mal di pancia.
Lorenzo annuì ancora, mentre Rene tornava a mostrarsi al di sopra delle lenzuola, solo per lanciargli un’occhiata sconvolta e mormorare un incerto “non vorrai mica…” che Mario ignorò apertamente, costringendolo a sospirare frustrato e tornare a nascondersi in un luogo sicuro.
- Insomma, la verità su Zlatan… - disse Mario a bassa voce, in tono cospiratorio, - è che era posseduto dallo spirito del mal di pancia.
- Lo sp-… - sbottò Rene, risorgendo ancora dalle coperte appena in tempo per notare Davide riemergere a propria volta e guardare quello che a buon diritto era possibile definire “il suo ragazzo” con un’occhiata a metà fra l’incredulo e l’ammirato, - …ma tu non puoi aspettarti che ci creda! – sbottò esasperato, - Lori, per carità. Mandalo a fanculo e mettiti a dormire.
Lorenzo si lasciò andare ad una risatina di puro disagio, grattandosi la nuca.
- Già… - biascicò incerto, - è… è sicuramente una cavolata, no? Mi stai prendendo in giro…
Mario scrollò disinvoltamente, come non gl’importasse certo se essere creduto o meno. Davide sospirò teatralmente e si spiaccicò una manata sulla fronte, tornando a stendersi su un fianco.
- Puoi credermi o non credermi. – buttò lì Mario, tranquillissimo, – Ma per quale altro motivo credi che uno dovrebbe voler rinunciare a un compenso da urlo come quello che Ibra aveva qui, per andarsene in un posto in cui lo pagano di meno, è odiato dai tifosi e non è nemmeno la stella della squadra? Semplicemente, - aggiunse con una scrollatina di spalle, - se non fosse andato via, lo spirito del mal di pancia avrebbe continuato a perseguitarlo per sempre. E adesso è ancora qui che si aggira in mezzo alla squadra, sotto forma di uno Zlatan scuro come la notte, impalpabile come una nuvola e con gli occhi rossi come quelli di un ratto bianco, e luminosi come stelle, che aspetta solo di prendere possesso del corpo di qualcun altro, per costringere anche lui a soffrire le pene dell’inferno finché non si rassegnerà ad andare via.
Un lungo silenzio seguì la dichiarazione di Mario. Un silenzio che fu riempito appena dal movimento degli occhi di Davide e Rene, che tornarono a fissarsi prima su Mario e poi su Lorenzo, come a volersi chiedere del primo come potesse essere così assurdamente perfido da perseverare in quell’atto di pura crudeltà verso un animale indifeso, e del secondo come potesse essere così assurdamente sciocco da cascarci.
Poi, Lorenzo ridacchiò imbarazzato, con considerevole difficoltà, e si ravviò la frangetta lungo la fronte.
- …andiamo… - deglutì a vuoto, - sono… voglio dire… non possono… - ma la sua frase, se mai aveva avuto intenzione di concludersi, non riuscì mai a farlo, perché venne presto sovrastata da un rumore nel corridoio, appena fuori dalla stanza, seguito da una serie di indistinguibili imprecazioni in una strana lingua a metà fra l’italiano, lo spagnolo e qualcos’altro che non era davvero possibile decifrare.
Lorenzo, Davide e Rene scattarono a sedere, trattenendo il fiato e portando entrambe le mani al cuore, mentre perfino Mario, che pure sapeva perfettamente di aver detto una marea di cazzate fino a quel momento, non poteva fare a meno di irrigidire tutti i lineamenti, fissando la porta con aria timorosa.
- Cosa… - biascicò Rene, inumidendosi le labbra, - Cosa è stato…?
- …non ne ho la più pallida idea. – ammise Davide, già moderatamente spaventato, - Qualcuno dovrebbe… andare a vedere.
Mario annuì, e per un secondo sembrò che dovesse essere lui l’eroe designato ad uscire, praticamente seminudo, per affrontare lo spirito del mal di pancia o chiunque altro avesse causato quell’improponibile tramestio là fuori. Poi, i ragazzi lo videro incrociare le braccia sul petto ed inspirare profondamente.
- Lori. – disse quindi, serissimo, quasi sacrale, - Vai tu.
- Cosa?! – strillò il ragazzino, portando le coperte a coprirsi fin quasi a metà viso, terrorizzato, - Assolutamente no! Se è lo spirito io non-
- Non esistono gli spiriti! – cercò di rabbonirlo Mario, alzando la voce, - Ti stavo prendendo in giro!
- E allora perché non esci tu? – replicò quello, ostinato, e Mario inarcò un sopracciglio.
- Perché – rispose Mario, ghignando supponente, - posso farti passare dei guai non indifferenti, se non obbedisci.
- Mario! – cercò di rimproverarlo Davide, ottenendo in risposta un mezzo cazzotto sulla spalla che lo stese letteralmente sul letto, mugolante di dolore.
- Va… va bene. – annuì quindi Lorenzo, sempre terrorizzato dallo spirito del mal di pancia ma indubbiamente più terrorizzato da Mario, - Esco.
I tre compagni lo osservarono sgusciare silenziosamente fuori dal letto, cercare a tentoni le proprie pantofole e poi muoversi lento verso la porta, appoggiandosi a qualsiasi superficie incontrasse con la mano tesa in avanti, per evitare di inciampare e cascare rovinosamente a terra. Poi lo osservarono schiudere la porta, trarre un profondo respiro e infine spalancarla e catapultarsi all’esterno della stanza, coinvolgendo lo spirito del mal di pancia in una capriola rotolante fino alla parete di fronte.
- Whoa! – esclamò stupito lo spirito del mal di pancia, battendo di spalle contro il muro. Davide sollevò la testolina arruffata dal cuscino, e Mario poté quasi vederlo tendere le orecchie e arricciare il naso, come subodorasse una presenza molesta o fuori posto.
- Zlatan. – disse quindi il ragazzo, prima di voltarsi verso di lui, - Zlatan! – ripeté, - Era la voce di Zlatan!
- Davide?! – strillò quindi Mario, turbato, - Che cazzo dici?!
- È impossibile! – rincarò Rene, saltando giù dal letto. La stessa cosa fecero anche gli altri due, iniziando poi a correre a perdifiato verso l’uscita della stanza, per poi fiondarsi in corridoio, inciampare nel peso morto del corpo di Lori ancora per metà steso in terra e carambolare anche loro contro lo spirito del mal di pancia, schiacciandolo ulteriormente contro la parete ed ascoltando non senza un certo stupore misto ad inquietante paura dovuta al fatto che effettivamente l’essere aveva la voce di Zlatan, si lagnava come Zlatan ed aveva perfino il suo stesso profumo.
- Cosa cazzo sta succedendo qui?! – strillò José apparendo da qualche parte in corridoio. E in quel momento si accese la luce, mostrando impietosa l’immagine di quattro adolescenti incastrati l’uno con l’altro come mattoncini del Tetris addosso al corpo di un ben noto svedese imprigionato senza scampo fra quegli stessi corpi, il muro e il pavimento. – Zla… Zlatan…? – mormorò l’allenatore, sgomento.
- Er… ciao… - biascicò Zlatan, sollevando una mano per salutarlo ed abbozzando un sorriso incerto.
- …ti avevo detto di aspettare a Milano! – protestò immediatamente José, gesticolando come un ossesso, - Mai che tu mi dia ascolto, Cristo santo! Mai!
- Scusa se avevo voglia di vederti! – sbottò Zlatan, sconvolto e offeso, scrollandosi di dosso i quattro corpi inerti ed alzandosi in piedi, per affrontare José da una posizione più vantaggiosa.
- Oh, non prendermi in giro con le romanticherie, adesso! Helena ricomincerà a rompere le palle. – sbottò l’altro, incamminandosi disinvoltamente verso la propria camera, subito seguito da Zlatan.
- La mia donna non rompe le palle più di quanto non faccia la tua! – corresse in un moto d’orgoglio, - E comunque non ho mica tutto questo tempo, io! Aspettarti! Domani devo tornare a Barcellona, che credi? Sono un uomo importante!
- Oh, certo, vostra maestà, scusatemi se ho dimenticato che ora siete voi la reginetta del ballo delle maturande, in quel di Spagna… - si fermò a due passi dalla porta, voltandosi a squadrare i ragazzi con aria truce, mentre loro cominciavano a riprendere i sensi dopo la collisione, - …parlatene con qualcuno e siete fuori squadra finché questo culo non lo vedrete sul campo. – minacciò, indicando con precisione il culo di cui stava parlando; per tutta risposta Zlatan si voltò indietro ad autoammirarsi con un sorrisino divertito. – Sempre che appunto ci si arrivi, come vi ripeto sempre. E ora, marsch! A fare la nanna! E di corsa! – e, così dicendo, si chiuse in camera con Zlatan.
Lorenzo, finalmente nel pieno di tutte le sue facoltà fisiche e mentali, si sollevò da terra e si spolverò i pantaloncini.
- Ma quindi… - azzardò, e se quello era il pieno di tutte le sue facoltà fisiche e mentali, non c’era da meravigliarsi che il mister non si fosse ancora convinto a fargli fare il salto di qualità per intero, - …mister Mourinho va a letto con lo spirito del mal di pancia, o che?
Davide, Mario e Rene lo guardarono con aria allucinata per molti secondi. Poi si alzarono in piedi ed entrarono in camera, chiudendo la porta. Rene si affacciò pochi secondi dopo, giusto per dirgli “tu dormi fuori”, e poi tornò a chiudersi dentro. A chiave.
Andrea passò per il consueto giro di controllo solo verso le sei dell’indomani mattina, ancora in canotta e boxer, e lo trovò seduto per terra in corridoio, spalle alla porta e testa pesante, ciondolante avanti e indietro.
- Lorenzo…? – lo chiamò appena, - Che ci fai qua fuori?
- Mmhn…? – biascicò lui, guardandolo con sincera gratitudine, - Sto attento che lo spirito del mal di pancia… non torni… per impossessarsi di qualcuno… - spiegò confusamente, fra un balbettio e l’altro. Andrea inarcò un sopracciglio, poi si chinò, lo tirò in piedi sollevandolo per le spalle e cercò di svegliarlo con qualche schiaffetto sulle guance, senza ottenere risultati granché rilevanti.
- Va be’. – annuì compiaciuto, - Dai, ti offro un caffè. – concluse, trascinandolo al piano di sotto. Lorenzo non trovò la forza di opporsi. 

Genere: Introspettivo, Romantico, Drammatico.
Pairing: José/Davide.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Angst, Lime.
- "È come se non fosse mai passata neanche un’ora, ed è vero. Quanto di bello c’era, fra loro, è rimasto uguale. Quanto di brutto anche, però."
Note: Un altro anno è passato, e con esso è arrivata una nuova celebrazione del mio matrimonio ormai quadriennale con il Def, a fronte di sei anni (e mezzo) di conoscenza XD Non passa giorno che io non ripensi al passato e mi dica con sempre più convinzione che, quando si è trattato di fare una scelta, io ho fatto quella giusta. (Io e pochi altri. Posso vantarmene.)
E siccome a quest'uomo voglio bene, ma bene veramente, è per me importantissimo offrirgli in dono i suoi adottini preferiti. CHE SOFFRONO E SI STRUGGONO, because that's how I usually express love. Lui lo sa, ed è indulgente con me u.u
Buon pianto, unico womo della mia vita XD ♥
(Come da tradizione, scritta per il P0rn Fest, su prompt Davide Santon/José Mourinho, Come se non fosse mai passata neppure un'ora, che potrebbe o non potrebbe - ma al 99% è - un prompt dello stesso Def. Così, ipotizzo XD)
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FORMALDEIDE

Rivedersi è, apparentemente, molto meno complesso di quanto entrambi non avessero immaginato. Hanno passato giorni in spasmodica attesa, pensandoci tanto – pensandoci troppo –, e tutto quello che riesco a pensare adesso, di fronte a questo caffè – nero per José, macchiato per Davide, “se continui così comincerai a ingrassare”, “Mister, me lo dice da quando avevo diciassette anni, le sembro ingrassato adesso?” –, è che avrebbero dovuto farlo prima.
Sì, avrebbero dovuto farlo prima, nei lunghi mesi trascorsi in attesa di Newcastle-Chelsea, prima, quando incontrarsi non sarebbe sembrata una questione di stato, prima, quando all’ansia di rivedersi non si era aggiunta l’ansia dell’attesa, e della paura, e del desiderio irresistibile di procrastinare il più possibile, fino alla fine del mondo, magari, per evitare di guardarsi negli occhi e scoprire che qualunque fosse la cosa che li aveva tenuti avvinti per due anni, ai tempi dell’Inter, era scomparsa per sempre.
È ancora lì, negli occhi di entrambi, invece, e nel riconoscerla si sentono entrambi sollevati. Ci sono parti di te che ti si attaccano addosso con gli uncini, mentre cresci, mentre invecchi, parti di te che sono le altre persone a cucirti sulla pelle. Cose che non conoscevi, che non sospettavi, che non potevi neanche immaginare, mondi segreti, attimi rubati al flusso del tempo, che scopri per la prima volta quando guardi qualcuno negli occhi e te ne senti attratto anche se sai che non dovresti. Anche se sai che non puoi. Anche se sai che, pure se ti prendi la libertà di sperarci, di crederci, di rubare alla vita di quella persona istanti preziosi per prenderli per te, per tenerli nascosti da quel momento in poi, alla fine non ti resterà niente di concreto, fra le dita. Niente, a parte un po’ di rimpianto. E il rimpianto ha un suo peso specifico, che impari a riconoscere col tempo.
Davide guarda José, e si sente risuonare nelle orecchie – stranamente – la voce di Mario. Rivede i suoi occhi sgranati, le labbra dischiuse, l’espressione stranita mentre ascoltava la sua confessione isterica – niente lacrime, ma un attacco di panico in piena regola, una roba da singhiozzi, da mani tremanti, da difficoltà respiratoria, da pallore spettrale, che Mario aveva impiegato ore a domare, parlandogli piano, ascoltandolo in silenzio, come solo lui sapeva fare –, e poi sente la sua voce, la sente distintamente, “Dade,” nel silenzio della stanza, “Dade, ma quanto cazzo ti vuoi male?”
Per José è diverso, José guarda Davide e non sente nessuna voce, a parte quella del suo proprio senso di colpa. Una voce identica alla sua, talvolta identica a quella di Davide, ma più cattiva, più aspra, in un rimprovero insistente, martellante, privo di pietà. “Cosa stai facendo?” diceva la sua voce, “Cosa mi stai facendo?” diceva quella di Davide. E non era facile sopportarla. Ma era ancora più difficile resistere agli occhi di Davide, alla sua vicinanza, alla sua voce – i suoi sussurri, i suoi gemiti –, a tutte le altre piccole cose che José notava quando stavano insieme, e che erano sue, sue soltanto, il tubetto di dentifricio spremuto a metà, il letto rifatto appena in piedi, il latte, il latte ovunque. Dividere una stanza e immaginarla come una casa, un piccolo regno. Immaginare le mille possibilità che avrebbero potuto avere, se.
- E insomma, - chiede José, con un sorriso stentato, - Come stai?
Ma non è la domanda che vuole porre, perché di questa domanda conosce già la risposta. La legge negli occhi di Davide, ed è una risposta senza parole, che gli basta perché lo conosce abbastanza bene da tradurla in lingua senza nessun aiuto. Sono altre, le domande che vuole porre. Ti fa felice, la tua vita, com’è adesso? Ti manco, io? Ripensi mai a noi? Spremi ancora il tubetto del dentifricio al centro? Dio quanto lo odiavo. Dio quanto mi manca. Dio quanto mi manchi.
Davide sorride.
- Sto bene. – risponde. Non è la risposta che vorrebbe dare, ma se la fa bastare.
José lo guarda, ed aspetta che accada qualcosa. Una cosa qualsiasi, che possa spezzare l’immobilità fra loro. Una cosa che torni ad unirli, che stringa il laccio, qualcosa che possano ricordare ancora fra vent’anni, come ancora ricordano il primo bacio, la prima volta, gli abbracci e i litigi e la gelosia e tutti quegli stupidi rituali con cui gli amanti non smettono mai di corteggiarsi anche dopo essere stati insieme.
Davide si alza in piedi quasi subito, l’espressione per un secondo dura, quasi severa, che poi si scioglie in un sorriso indulgente.
- Sei solo in camera? – domanda.
Basta quello.
*
Si scivolano addosso come gli anni passati dal loro ultimo incontro, lentamente ma con leggerezza. Le mani di José corrono sotto i vestiti di Davide, sfiorano la pelle calda, cercano punti precisi di cui anni prima conosceva la mappatura a memoria, e che adesso basta solo un minimo di esplorazione per ritrovare. Le sue labbra si arrampicano e ridiscendono su e giù per la curva elegante del collo di Davide, stupendosi della sua pelle ruvida, del retrogusto lievemente amaro che il dopobarba gli ha lasciato appiccicato addosso. Il suo bambino è cresciuto, pensa, e il pensiero non gli dà i brividi come pensava avrebbe fatto. È una nota divertente, un piè di pagina minuscolo sulla storia ridicola del loro rapporto, qualcosa a cui ripensare con allegria nella nostalgia, eri mio prima che fossi di chiunque altro, poi le labbra di Davide si schiudono in un gemito nervoso e impaziente, e il passato non conta più, o meglio, è la parola a perdere di significato, perché gli anni della loro unione non sono più prima, sono adesso, non sono mai finiti. Come fossero rimasti intrappolati nel ghiaccio di un inverno improvviso e fulminante nel mezzo di un’estate che sembrava non dovesse finire mai, riemergono adesso nella primavera più fredda di cui entrambi abbiano mai avuto memoria. E poi ci pensano, e ridono insieme del fatto che si sono lasciati a maggio, e tornano insieme in novembre.
Davide si stende sotto di lui, schiude le gambe ed accoglie il corpo di José sul proprio. Lo sente avvicinarsi, percepisce il suo calore sulla pelle e se lo stringe contro in un abbraccio infantile, che fatica a lasciarlo andare. José si muove goffamente, intrappolato fra le sue braccia, ma non gli importa, finché sente il suo sapore sulla lingua, i suoi respiri affannosi sulle labbra, il suo calore contro di sé. E quello non è un albergo, quella è la Pinetina, e in camera c’è Mario che aspetta Davide, pronto a rimproverarlo quando lo vedrà sciogliersi in lacrime senza vergogna davanti a lui per tutto quello che non potrà mai avere, e José conta i secondi che può passare con Davide perché sono l’unica cosa che lo separa dalla solitudine, e da quella voce che scalpita per farsi ascoltare, che cosa fai, José, che cosa fai. E si stava male, e si piangeva un sacco. Ed era bellissimo.
Il piacere esplode dentro di loro lasciandoli confusi e intontiti, e il desiderio di non lasciarsi andare – non ancora, non così presto – si traduce in una strana stanchezza improvvisa che rende i loro corpi pesanti, che costringe José a restare drappeggiato addosso a Davide come una coperta. Faceva freddo, prima. Ora non più.
*
José riapre gli occhi, svegliato dallo scrosciare dell’acqua nel lavandino, in bagno. Poi arriva il rumore dello spazzolino, e José capisce che Davide dev’essersi svegliato prima di lui. Si chiede distrattamente che ore siano, pensa di volersi voltare per lanciare un’occhiata alla sveglia sul comodino, poi capisce che non vuole davvero saperlo e rinuncia. D’altronde, non importa che ore siano, quello che importa è che ormai è tardi, e che Davide deve andare via.
Il pensiero lo colpisce quasi con violenza, e non è piacevole affatto. È come se non fosse mai passata neanche un’ora, ed è vero. Quanto di bello c’era, fra loro, è rimasto uguale. Quanto di brutto anche, però.
Si alza faticosamente in piedi, tirandosi su i pantaloni e camminando verso il bagno a piedi nudi. Si appoggia allo stipite della porta con una spalla, incrociando le braccia sul petto, e lo osserva lavarsi i denti con attenzione quasi maniacale, come ha sempre fatto. Sorride a metà nel notare il tubetto del dentifricio spremuto nel centro. Questi dettagli sono i frammenti di lui che si porterà dentro per sempre.
Davide si sciacqua la bocca e il viso, ripone lo spazzolino, poi si volta a guardarlo.
- Oh. – dice, lievemente imbarazzato, - Scusa, non ti ho sentito. – si stringe nelle spalle, offrendogli un sorriso.
- Non preoccuparti. – José scuote il capo, - Non volevo che mi sentissi.
Davide ride, avvicinandoglisi.
- Non essere inquietante. – gli dice quindi. Poi guarda altrove, una luce più triste negli occhi. – Devo andare.
- Lo so. – annuisce José, un sorriso paterno come dipinto sul volto.
Davide torna a guardarlo, gli tremano le labbra. Non è facile da dire. Non pensava che l’avrebbe mai fatto.
- Non credo che ci rivedremo più.
Il sorriso di José si allarga, mentre lui si sporge in avanti, stringendolo in un abbraccio affettuoso.
- Sei cresciuto bene. – gli dice, - Sono fiero di te.
Davide approfitta del momento, mentre José non lo guarda, per concedersi un pianto breve e silenzioso.
Genere: Pre-Erotico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Pre-Slash, Pre-BDSM, AU.
- "Dal tono della sua voce, dalla pigrizia dei suoi gesti, dal disinteresse nei suoi occhi e dal suo atteggiamento svogliato si capisce facilmente che le sue non sono scuse sincere. E la triste realtà dei fatti è che, anche se lo fossero, a questo punto non sarebbero più sufficienti."
Note: Scritta per la Notte Bianca #11 di maridichallenge (♥) su prompt RPF Calcio, Coffeeshop!AU: Zlatan è il capocameriere ma ottiene sempre meno mance a causa dei suoi modi bruschi. Il titolare, dopo l'ennesima, prende provvedimenti a fine giornata; non si scontenta lo Special One, una roba di rara meraviglia partorita dalla superba mente del Def, che pur di poterla leggere ha prorogato la Notte Bianca fino alle prime luci dell'alba (cit.) XD
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WE DON'T NEED NO EDUCATION (OR DO WE?)

- Settantacinque. – borbotta Mourinho, appoggiando entrambe le mani sulla scrivania e sollevandosi lentamente in piedi per osservare Zlatan (seduto di fronte a lui e con ancora indosso la divisa, nonostante l’orario di chiusura della caffetteria sia passato da un pezzo e in tutto il locale non sia rimasta un’anima oltre loro) da una posizione di vantaggio, - Sai spiegarmi questo numero, Ibrahimović?
Zlatan finge di pensarci. Ciondola la testa a sinistra, poi a destra. Poi, sulle sue labbra sottili si stira un sorriso sornione, e scrolla le spalle.
- Non saprei, - tenta, - Il numero di candeline sulla sua ultima torta di compleanno?
- No, imbecille. – ribatte lui, trattenendo a stento l’impulso di strillargli in faccia che le candeline sulla torta erano appena una cinquantina, - È il numero di reclami che hai ricevuto nel corso dell’ultima settimana.
- Ah. – commenta laconico Zlatan, allargando con due dita il farfallino nero stretto attorno al collo, - Mi dispiace.
Dal tono della sua voce, dalla pigrizia dei suoi gesti, dal disinteresse nei suoi occhi e dal suo atteggiamento svogliato si capisce facilmente che le sue non sono scuse sincere. E la triste realtà dei fatti è che, anche se lo fossero, a questo punto non sarebbero più sufficienti.
- Non voglio le tue scuse, Zlatan. – risponde José, battendo un paio di volte la punta dell’indice contro il ripiano del tavolo, - Non mi servono a niente le tue scuse.
- E se prometto di fare il bravo, da oggi in poi? – domanda Zlatan con un sorrisetto sghembo.
Irritato, José digrigna i denti e sbatte i palmi aperti contro il tavolo in un gesto nervoso e improvviso, al quale Zlatan risponde cambiando espressione all’istante. I lineamenti del suo volto si inaspriscono, le sopracciglia si congiungono al centro della fronte formando un solco che rende il suo viso un po’ più cattivo, e le sue labbra si serrano in un’unica linea sottile, quasi invisibile sotto la curva piena e ingombrante del suo naso.
- Ti sembra che io stia scherzando, Zlatan? – domanda José, la voce dura, ruvida, quasi minacciosa, più che rimproverante.
- No, signore. – risponde lui in un ringhio basso, guardandolo da sotto in su.
- Zlatan, - riprende José, girando attorno alla scrivania per avvicinarglisi e restando in piedi al suo fianco, fissandolo dall’alto con aria di superiorità, - Ho come l’impressione che, solo perché ti ho promosso capocameriere in così poco tempo, tu ti sia convinto, senza nessuna ragione, di poter fare ciò che credi, qua dentro. – si appoggia al tavolo, incrociando le braccia sul petto e contando sulla punta delle dita, - Di poter essere sgarbato con i clienti, di poter comandare a bacchetta i tuoi colleghi senza dimostrare loro il minimo rispetto, ma soprattutto di poter disobbedire a me. – aggrotta le sopracciglia, irritato, - E di poterla fare franca. È così? – domanda.
Zlatan continua a sfidarlo con lo sguardo – sempre fisso nel suo – e con l’immobilità assoluta – perché non muove un muscolo, anche se José gli si è avvicinato, anche se si è posto in una situazione di superiorità rispetto a lui, anche se, con la propria vicinanza, adesso lo sta minacciando quasi fisicamente. Ogni centimetro del corpo di Zlatan è teso nello sforzo di fare intendere a Mourinho che, delle sue parole e di ciò che pensa, gl’importi poco e niente.
José non ha bisogno di percepire quel lieve tremore che gli scorre sottopelle in scariche elettriche che gli fanno prudere le mani, per sapere che non è vero.
- È così, Zlatan? – insiste, chinandosi verso di lui.
- Sì, signore. – risponde Ibrahimović, stringendo le dita attorno ai braccioli della sedia, - È così.
- E cosa, se posso chiedere, ti ha convinto di questo fatto? – domanda José.
Zlatan continua a sostenere il suo sguardo senza vergogna.
- Non mi aveva mai chiamato nel suo ufficio dopo l’orario di chiusura, signore. – risponde, - Non mi aveva mai rimproverato.
- Aaah. – annuisce José, raddrizzando la schiena, - È stata colpa mia, dunque. Sono stato troppo morbido con te. Come darti torto, d’altronde? Quello che dici è vero. Non ti ho mai convocato qui. Non ti ho mai rimproverato. – gli si apre sulle labbra un sorriso soddisfatto, - Un errore al quale conto di porre rimedio immediatamente.
Le dita di Zlatan si serrano attorno ai braccioli in uno spasmo quasi incontrollabile.
- Signore—
- Vedi, Zlatan. – riprende José, allontanandosi dalla scrivania e girando attorno a lui, fermandosi proprio alle sue spalle, - Se fosse per me, ti lascerei essere sgarbato e presuntuoso coi clienti e coi tuoi colleghi quanto vuoi. Ma non posso in alcun modo permetterti di mancare di rispetto nei miei confronti. E devi capire che ogni cliente insoddisfatto che non torna a causa della tua scortesia, ogni dipendente che mi tiene qui oltre l’orario di chiusura per lamentarsi dei tuoi soprusi, è una mancanza di rispetto nei miei confronti. Quello di cui hai davvero bisogno, - conclude, appoggiando in un gesto improvviso entrambe le mani sulle spalle di Zlatan, - È qualcuno che ti insegni l’educazione, Zlatan. Qualcuno che ti faccia capire che, quando sei alle dipendenze di qualcuno, non puoi fare tutto quello che ti pare. Perché quando sei alle dipendenze di qualcuno, se quel qualcuno ti chiede di saltare, tu chiedi “quanto in alto?”. E se quel qualcuno ti chiede di metterti in ginocchio, tu chiedi “per quanto tempo?”. È chiaro?
José lo sente tremare impercettibilmente sotto le proprie dita. Non saprebbe dire se sia rabbia, la sensazione bruciante della sconfitta o qualcosa di diverso, ma trova la situazione piuttosto stimolante.
- Cristallino, signore. – risponde Zlatan in un ringhio sottile, carico di frustrazione.
- Bene. – annuisce José, allontanando le mani dalle sue spalle, - Ora alzati in piedi.
Senza dire una parola, Zlatan obbedisce, lasciando scivolare la sedia contro il pavimento con un rumore stridente. È più alto di lui, ma José non se ne sente intimorito.
- Voltati. – dice. Zlatan obbedisce anche a quell’ordine, e dopo essersi girato resta immobile a fissarlo, le braccia rigide lungo i fianchi, i pugni serrati con tanta forza da imbiancargli le nocche. José sorride compiaciuto, sollevando entrambe le braccia ed appendendole ai propri fianchi, piegando il capo in un gesto quasi invitante prima di parlare ancora. – E adesso, Zlatan, in ginocchio.
Riesce a scorgere senza alcuna difficoltà il lampo di odio puro, per niente diluito, che gli passa sugli occhi nel sentire quella richiesta. Ma come ogni lampo non è che una luce passeggera, una scarica elettrica che si disperde immediatamente. Quello che resta, del lampo, non è mai la scossa, ma il rombo del tuono che lo segue. E il rombo del tuono, in questo caso, è la sensazione quasi fisica del sorriso che si apre sulle labbra di Zlatan, un sorriso sprezzante, di sfida. Ed il suono della sua voce, quando finalmente risponde.
- Per quanto tempo, signore?
José si passa la lingua sulle labbra, affamato. Tanto per cominciare, una decina di minuti basterà.
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Mario/Davide, Davide/Zlatan, Zlatan/José più varie assortite.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, AU.
- La Fondazione Paramilitare per la Sicurezza, la Protezione e il Contenimento dei Soggetti e dei Fenomeni Scientificamente Inspiegabili, comunemente conosciuta come SCP Foundation, si occupa di identificare, mettere in sicurezza, conservare e procedere alla classificazione e allo studio approfondito di tutti quei fenomeni e soggetti paranormali/sovrannaturali che comunemente interagiscono, più o meno evidentemente, con la realtà di tutti i giorni. Davide Santon è un Agente alle dipendenze di José Mourinho, direttore generale del distaccamento milanese della Fondazione, nonché suo padre adottivo. Sta ancora riprendendosi dall'addio forzato al suo partner precedente, Zlatan Ibrahimovic, trasferitosi recentemente al distaccamento parigino, quando suo padre gli affida un novizio, Mario Balotelli. E i due danno inavvertitamente inizio all'Apocalisse.
Note: Il mondo è un posto bello in cui io posso scrivere anche di queste cose non solo senza sentirmi in colpa, ma anche gloriandomene e divertendomi un casino XD Dunque, breve storia di questa storia: l'idea di base, il fulcro su cui tutto si sviluppa, l'idea di scrivere una storia sovrannaturale "a episodi", divisa in stagioni come una serie tv, nasce un paio d'anni fa, quando incappo per caso nella community LJ paranormal25, che decido di utilizzare come una traccia generica, seguendo i vari prompt proposti dalle varie tabelle. Ho subito capito che sarebbe stata una storia sul Soccerdom, perché la tipologia del racconto richiedeva tipo un fottio di personaggi, che solo il Soccerdom poteva darmi con l'adeguata abbondanza, ma per il resto un enorme velo nero è calato sulla storia e sui modi, finché Julie non ha inventato il Genetics Fest. Sono rimasta a brancolare nel buio chiedendomi cosa avrei potuto scrivere a riguardo, visto che avevo già deciso di prendere piume come prompt, quand'ecco che il progetto di questa storia è tornato a bussare alle porte della mia memoria, e giù a cascata tutto l'headcanon che in due anni non mi era mai passato per la testa XD
Dunque, in sostanza, per i primi quattro episodi dovresti essere abbastanza sicuri di poterli ricevere per tempo, uno a settimana, in coincidenza con le scadenze del Genetics Fest. Per i successivi, chissà! XD Mi conoscete, sapete che scrivo a cazzo di cane, ma prometto che cercherò di essere se non puntuale almeno dignitosa con le consegne e i postaggi ♥
Ciò detto, aspettatevi una storia potenzialmente infinita -- Supernatural ci fa una sega. E buon divertimento XD
L'ispirazione per la SCP Foundation viene da qui.
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THE UNSPEAKABLES
1x01 – Pilot

Avrebbe potuto voler diventare un avvocato, riflette fra sé, le gambe accavallate, le braccia incrociate sul petto, un piede che sbatte nervosamente contro il pavimento in resina lucida e bianca, il culo poggiato controvoglia sulla seggiolina in plastica grigia più scomoda mai concepita da mente umana. Avrebbe potuto diventare un avvocato, o chissà, un medico. Avrebbe potuto voler essere un poliziotto, o un professore. O un pilota automobilistico. Perfino un calciatore.
Ma no. Lui voleva seguire le orme paterne. Paterne, poi. Un blocco di cemento attaccato a una caviglia e in caduta libera giù da un ponte verso il mare sarebbe stato più paterno di quanto José Mourinho era stato nei confronti di Davide per tutta la sua intera esistenza, da che era stato adottato in poi, cosa che, davvero, aveva del crudelmente ironico. Se la natura non ti ha dato dei figli, perché disturbarti ad andartene a cercare uno fino in Italia per poi non stare mai con lui? Sempre lontano, suo padre, sempre immerso nel suo lavoro, sempre chiuso in ufficio, sempre impegnato ad incontrare gente che inevitabilmente finiva per non essere Davide. Un padre assente, per voler usare un eufemismo ancora gentile. Un trascurante figlio di puttana, a volere invece descrivere in termini più propri la realtà dei fatti.
Forse è per questo motivo che, posto di fronte alla scelta della vita, non appena concluso il liceo, Davide ha scelto la pillola rossa. Ha scelto di aprire gli occhi e guardare, uscire dalla realtà per cui “papà è il direttore generale di un’importante organizzazione che lo tiene molto, molto occupato, tesoro” per tuffarsi di testa nella verità che ha continuato a sfuggirgli per tutti gli anni della sua infanzia.
Una verità che ora vive quotidianamente, che gli piace più di quanto non ammetterà mai, e che a fasi alterne gli regala quanto di meglio la vita abbia da offrirgli, e subito dopo quanto di peggio.
I suoi pensieri si soffermano distrattamente sul profilo di Zlatan che si staglia contro il tramonto, in spiaggia, la tenda da campeggio appoggiata sulla sabbia qualche metro più in là, il carbone che scoppietta ed arde allegro nel braciere fra di loro mentre nell’aria si diffonde l’aroma invitante delle puntine di maiale annaffiate nel salmoriglio. “Andrà tutto bene, Dade,” la sua voce sempre così ruvida, dai semitoni così improvvisamente soffici, “Non hai davvero bisogno di me.” Il sapore di sale, chissà se dovuto alle lacrime o all’acqua di mare.
Scaccia via il pensiero con forza, chiudendo gli occhi e aggrottando le sopracciglia. È arrabbiato, con se stesso, principalmente, per essere nonostante tutti gli anni di servizio che ha ormai alle spalle ancora così ridicolmente debole. Ricorda ancora le parole di suo padre il giorno in cui, completato l’addestramento, gli ha consegnato il suo nuovo tesserino di Agente, e la sua arma. “Ti affido a Zlatan,” ha detto, e poi ha sorriso, “Anche se so che sto facendo un errore.” Davide si rivede, infinitamente più piccolo, la faccia ancora brufolosa tipica degli adolescenti ed una massa confusa di capelli castani sulla testa, l’uniforme ancora da riempire che gli cadeva addosso sformata come un sacco di patate, chiedere perché. E rivede di nuovo quel sorriso a piegare le labbra di suo padre, e quel suo “Non crescerai mai, attaccato al culo di Zlatan, ti proteggerà sempre. Ma sei mio figlio, e non posso mandarti lì fuori con nessun altro.” La prima volta che s’è sentito vagamente amato da lui.
Si decide a deviare nettamente dal viale dei ricordi quando sente le lacrime cominciare a pungere sotto le ciglia, ed in quel momento la porta metallica accanto alla quale era seduto in attesa si apre con un clic discreto, mostrando la mano abbronzata e dalle dita lunghe di Pep, che si affaccia dallo spiraglio e gli posa addosso un’occhiata che non presagisce nulla di buono.
- Tuo padre può riceverti, adesso. – dice con un breve cenno del capo, aprendo la porta per lui.
Davide si solleva con un sospiro ed entra nell’anticamera di medie dimensioni che funge da ufficio di Pep Guardiola, fedele segretario tuttofare e primo consigliere di suo padre da ormai più di dieci anni.
In quell’edificio, ed anche al di fuori dei suoi confini, tutti sanno che è il figlio adottivo di José Mourinho. Lui s’è premurato di spargere la voce non appena ha saputo della decisione di Davide di entrare nella Fondazione. Un misto di orgoglio paterno e desiderio di buttare giù qualche paletto per tenergli lontano qualche Agente anziano in vena di scherzi di cattivo gusto. Quelli della Fondazione Paramilitare per la Sicurezza, la Protezione e il Contenimento dei Soggetti e dei Fenomeni Scientificamente Inspiegabili, comunemente conosciuta come SCP Foundation, sono quanto di più simile ai ranghi di un esercito sia possibile trovare all’infuori di un esercito, e che qualcuno potesse voler mettere le mani sul nuovo arrivato senza conoscerne l’origine era un’eventualità che andava necessariamente presa in considerazione.
- Qualsiasi cosa accada lì dentro, - gli dice Pep, accompagnandolo di fronte alla porta chiusa dell’ufficio di suo padre e poi aprendola per lui, - Sappi che ho provato in ogni modo a fargli cambiare idea, ma non ha voluto ascoltarmi.
Davide gli lancia un’occhiata dubbiosa, ma è troppo tardi per indagare oltre. La porta è aperta e suo padre è seduto dietro la sua scrivania, tutto intento ad apporre il proprio timbro e la propria firma su una pila di documenti la cui altezza sfiora i venti centimetri. Un foglio via l’altro, ogni tanto scambia qualche parola con un tizio alto, scuro di pelle e coi capelli rasati secondo un pattern assolutamente ridicolo, seduto scompostamente su una delle due sedie metalliche di fronte al tavolo.
Davide decide di ignorarlo ed entra, richiudendosi la porta alle spalle con un tonfo.
- Papà. – lo saluta quindi, alzando un po’ la voce per costringerlo a guardarlo.
- Ah!, Davide. – annuisce José, invitandolo ad avvicinarsi con un breve cenno della mano, - Vieni, vieni. Sei perfettamente in orario, come al solito.
- Non avevamo un appuntamento. – ribatte lui, aggrottando le sopracciglia.
- Questo è del tutto irrilevante. – sorride José, - Vieni, dai, siediti. Di cosa volevi parlarmi? – Davide lancia un’occhiata al tizio, che gliela ricambia con aria un po’ stupita, e sta per dire che vorrebbe parlargli in privato quando la fragorosa risata di José lo interrompe. – Non preoccuparti, puoi parlare di fronte a lui. Dimmi.
Davide prende posto sull’unica altra sedia libera di fronte alla scrivania, serra le mani sulle ginocchia e prende un respiro profondo.
- Non voglio essere assegnato a nessun altro partner. – dice quindi, - Voglio lavorare da solo.
José inarca le sopracciglia, sollevando gli occhi su di lui ed interrompendo la propria interminabile trafila di apposizione di timbri e firme.
- Impossibile. – dice quindi, tornando ad abbassare lo sguardo.
- Non è vero. – insiste Davide, - Non sarei il primo.
- I casi si contano sulle dita di una mano. – gli fa presente José, riprendendo a siglare documenti.
- Vuol dire che si conteranno sulle dita di due, da oggi in poi. – ribatte Davide, appoggiando una mano sulla scrivania. – Non intendo essere assegnato a nessun altro. Non voglio qualche stronzetto nuovo arrivato attaccato al culo, e non voglio nemmeno fingere di dover portare rispetto a qualche stronzo più navigato che si sente più bravo o più intelligente di me solo perché ha all’attivo qualche anno di servizio in più. Non voglio, lo rifiuto. Posso lavorare da solo, sono pronto.
José lo guarda senza cambiare espressione, appoggia la penna sul tavolo e scambia una rapida occhiata col tizio seduto accanto a Davide. Poi sospira, congiunge le mani a qualche centimetro dal viso ed appoggia i gomiti sul tavolo, tornando a guardare Davide con aria seria.
- Ti sei mai chiesto il motivo per cui gli agenti sono obbligati a lavorare in coppia? – domanda. Davide si irrigidisce sulla sedia, ma scuote il capo con fare orgoglioso, come fosse fiero del fatto che, in realtà, della risposta non gli interessa niente. – Ovviamente. – sorride José, e poi prosegue. – È necessaria una grande quantità di forza spirituale e psicologica, oltre che fisica, per portare a termine gli incarichi che la Fondazione affida ai suoi Agenti. Non tutti gli individui sono in grado di fornire quello che serve da soli. Anzi, si tratta di casi estremamente rari ed estremamente preziosi. – si interrompe per qualche secondo, il suo sguardo è duro, severo, proprio come quello di un padre intento a rimproverare il figlio, a dargli una lezione che non sarà in grado di dimenticare facilmente. – Tu non sei uno di quei casi, Davide.
A giudicare dal bruciore che sente sottopelle, suo padre ha fatto centro.
Davide abbassa gli occhi, ritraendosi come una lumaca nel suo guscio, velocemente. Si ripiega su se stesso, sconfitto, e non dice una parola.
- Mi dispiace, Dade. – aggiunge José, il tono di voce improvvisamente tenero. Tutto quello a cui Davide riesce a pensare al momento è quanto lo irrita non essere solo con lui in questa stanza. Sente lo sguardo dell’altro ragazzo addosso ed è imbarazzante, è degradante, è mortificante. – Sapevo che avevi intenzione di chiedermi una cosa come questa. L’avevo intuito. Ecco perché ho ritenuto opportuno essere molto chiaro, con te, di modo che ti convincessi a lasciar perdere. Ed ecco anche perché ho scelto di farlo di fronte a Mario. – dice, e Davide gli solleva immediatamente lo sguardo addosso. Sentire chiamato l’altro ragazzo per nome suona come una nota stonata, per quale motivo dovrebbe volerlo includere nella conversazione al punto da riferirsi direttamente a lui col suo nome di battesimo?
Davide si volta a guardarlo, e il tipo lo sta ancora fissando di rimando, le iridi nere piantate sul bianco abbagliante dell’occhio e, sullo sfondo, l’uniformità scurissima della sua pelle.
Sta per domandare chi sia, ma José lo precede.
- Lui è Mario, appunto, - spiega con un sorriso, - E da oggi è il tuo nuovo partner.
Sull’ufficio cala un silenzio nervoso e imbarazzato. Mario non spiccica una parola e Davide, gli occhi fissi sulle proprie mani, serrate strette attorno alle ginocchia, non si azzarda nemmeno a sollevare lo sguardo.
Lo odia, lo odia come non l’ha mai odiato prima di quel momento, e di motivi, e ragioni, e occasioni, ne ha avute parecchie, nella sua vita. Ma questo momento, ora come mai prima d’ora, riassume tutta la loro relazione. Non è mai stato un figlio, per lui, quanto più un prodotto. Qualcosa da crescere, instradare, indirizzare. Qualcosa da concimare ed osservare alzarsi robusta verso il cielo. Avrebbe potuto diventare un giardiniere, con una vocazione simile, ed invece è diventato il direttore generale di un’organizzazione segreta per la protezione della stabilità del mondo conosciuto. Due occupazioni solo in apparenza totalmente dissimili, che si riducono in realtà allo stesso nocciolo, perché niente di quello che José gli ha mai detto è mai stato qualcosa in più che banale fertilizzante. Lezioni da imparare per rendere più dura la sua corteccia.
- D’accordo, ho capito. – si alza in piedi senza degnare suo padre di un altro sguardo. Per quello che gl’importa, un SCP potrebbe emergere dalle pareti e staccargli la testa a morsi in questo esatto istante, e lui non muoverebbe un muscolo per salvarlo. Si volta verso il ragazzo e gli fa un cenno col capo. – Muoviti.
Il ragazzo inarca un sopracciglio e non muove un muscolo. José piega le labbra in un sorriso amaro.
- Bene. – dice, - È così che vuoi farlo, dunque. BÈ, è una tua prerogativa. L’Agente anziano sei tu, adesso, lui è una tua responsabilità.
- Che non ho chiesto. – dice Davide, tagliente, - Che non mi sono scelto.
Il sorriso di José si allarga impercettibilmente.
- Come tutte le responsabilità. – risponde serafico. Poi sembra come ricordarsi all’improvviso di qualcosa. – Prima che andiate, - dice, rovistando nella sua bella pila di carte, - Il tesserino di Mario, - dice, porgendogli il suo tesserino plastificato, - La sua arma, - continua, aprendo il primo cassetto della scrivania e recuperando l’arma ancora sigillata, - E, già che siete qui, il vostro primo caso.
Davide osserva i suoi movimenti con aria incolore, fin quando non scorge come in un flash il giallo della cartellina portadocumenti passare dalle mani abbronzate di José a quelle scure di Mario.
- Un attimo. – dice, aggrottando le sopracciglia e intercettandola a mezz’aria, sottraendola alla stretta delle dita di Mario prima che possa rafforzarsi attorno al cartoncino, - Me l’hai appena affibbiato e devo già portarlo fuori?
- Anche tu sei uscito quasi subito, dopo essere stato affidato al tuo partner anziano. – risponde José, facendo spallucce.
- Due giorni dopo l’assegnazione. – precisa Davide, irritato, - Non ho avuto il tempo di testarlo. Non ho ancora neanche sentito la sua voce!
- Guarda che sono stato addestrato anch’io. – dice finalmente Mario. La sua voce è profonda e gutturale, e venata da un marcatissimo accento del bresciano. Davide la trova istintivamente antipatica. Quella cadenza strascicata, quella punta di orgoglio infantile, gli danno subito sui nervi.
Si volta verso di lui, sferzandolo con un’occhiata severa.
- Non ti ho chiesto di parlare. – dice.
Mario non la prende bene. I suoi occhi si velano di un’ombra scura, una punta di rabbia che frena evidentemente solo a fatica. Ma non compie nessun movimento brusco. Conserva il tesserino nel portafogli, lega la cintura con la fondina attorno ai fianchi e poi resta in piedi, le braccia ritte lungo i fianchi.
- Lo testerai sul campo. – chiude la questione José, alzandosi dalla propria sedia girevole ed indicando la porta in un gesto di congedo, - Quale migliore occasione.
*
Nessuno dei due dice una parola mentre attraversano i lunghi e bianchi corridoi degli uffici milanesi della SCP Foundation. Non si sente nessun suono, attorno, eccezion fatta per il ticchettio degli stivaletti di pelle di Davide, e lo scricchiolare insistente delle suole di gomma delle scarpe da tennis di Mario.
Davide cammina guardando dritto davanti a sé, stringendo la cartellina fra le dita. Fa strada attraverso l’ingresso e fuori dall’edificio, verso l’ascensore che conduce al parcheggio sotterraneo. E poi attraverso i grigi corridoi di cemento del parcheggio stesso, illuminati a stento dalle luci al neon, biancastre e tremule, fino al SUV nero e lucido dal disegno squadrato che è stato l’ultimo lascito di Zlatan prima di partire. “Dove vado, non mi servirà,” la sua risata sguaiata mentre gli lanciava le chiavi in aeroporto, “Ho una Citroën GT ad attendermi non appena metto piede a Parigi!”.
Davide respira forte, profondamente, poi fa scattare le sicure. L’automobile lo saluta lampeggiando e uggiolando di gioia un paio di volte. Davide apre lo sportello e si siede alla guida senza neanche invitare Mario ad accomodarsi. Fortunatamente, almeno per quello il ragazzo sembra non aver bisogno di alcuna direttiva, perché lo fa di propria spontanea iniziativa e, una volta sedutosi alla destra di Davide, resta composto ed immobile a fissare la parete grigia oltre il parabrezza. Davide lo imita per qualche secondo, cercando di concentrarsi, cercando di ricordare che è un uomo, ormai, che non deve lasciarsi manipolare così da suo padre, che deve essere professionale e che ha un compito da svolgere.
Solleva la cartellina e la appoggia al volante, aprendola ed esaminandone il contenuto.
- SCP di classe E, livello di pericolo due. – legge a bassa voce, scorrendo il documento di presentazione. Gli si piegano le labbra in un sorriso divertito, - Una succube! Mai vista una dal vivo? – chiede, voltandosi a guardare il ragazzo.
Lui è ancora piccato per la sua risposta sgarbata di prima, e si limita a scuotere il capo, silenzioso. Davide sospira e mette via la cartella.
- Non fare così. – gli dice, - Dobbiamo lavorare insieme.
- Sì, hai già espresso più che chiaramente il fatto che preferiresti leccare un cesso pubblico piuttosto che lavorare con me, ma sembra che non ci sia alternativa, per cui. – ribatte quello, guardando altrove.
Davide lancia un’occhiata esasperata al tettuccio e poi si passa una mano fra i capelli.
- Senti, non è una questione personale. – dice.
- Lo è diventata. – risponde Mario.
- No, non lo è diventata. – insiste lui, - Non lo diventa, se non vogliamo. Non è con te che ce l’ho.
Mario si degna di voltarsi a guardarlo. Con le sopracciglia aggrottate e le labbra piegate in un broncio infantile, sembra più piccolo di quanto non gli sia sembrato ad una prima occhiata. L’imponenza del suo corpo e la freddezza del suo sguardo traggono in inganno, ma Davide si rende conto adesso che devono avere più o meno la stessa età.
- Ce l’hai con tuo padre? – domanda.
Davide sospira, scrollando le spalle ed appoggiandosi allo schienale del sedile.
- Anche, sì. È tutto un insieme di cose, - agita una mano a mezz’aria, - Non preoccupartene. Quello che è importante, adesso, è portare a termine questa missione e chiudere questa giornata nel modo meno disastroso possibile. Per il resto, avremo tempo. – conclude. – Pensi di potercela fare?
Mario scrolla le spalle.
- E proviamoci. – dice, - Abbiamo una foto?
- Un’illustrazione. – risponde Davide, sospirando teatralmente, - Vedi, questi sono i momenti in cui verrebbe voglia di andare negli uffici del reparto Classificazione e Identificazione, e dare fuoco a tutto. – borbotta, sollevando la fotocopia di un’illustrazione in bianco e nero visibilmente antica. Mostra un demone dalle zampe caprine e dal seno prosperoso. Ha lunghi capelli scuri e ricci, intricati come un labirinto, che svolazzano nel vento, una larga bocca piena di denti aguzzi dalla quale fa capolino una lunga lingua biforcuta ed occhi come due tagli orizzontali, privi di pupilla. Da dietro la schiena spuntano due enormi ali dalle piume nere. Ha le unghie adunche come artigli e zoccoli ai piedi.
Mario inarca un sopracciglio.
- Non andrà mica in giro così? – dice.
- Naturalmente no. – sbotta Davide. – Coi tempi che corrono, è più probabile che si sia trasformata in qualche Barbie bionda superdotata, o in una velina. Ma naturalmente non abbiamo foto della sua forma corrente. Sembra che avremo a che fare con del sangue blu, comunque.
- Prego? – domanda Mario, cercando di sbirciare i documenti. Davide ride e gli solleva davanti al viso un’altra fotocopia.
- La tipa in questione dovrebbe essere Mahalath, una delle quattro regine dei demoni.
- Yuhuu, - sbuffa Mario, senza neanche premurarsi di fingere entusiasmo, - La famiglia reale.
- Già. – ride ancora Davide, tornando a sfogliare il contenuto della cartella.
- Niente di utile, là dentro? – domanda curioso Mario.
- Mmh. – Davide scorre il testo con attenzione, - Citazioni dal Malleus, descrizioni di vittime sfuggite al rapporto per tutto il secolo scorso… roba standard. Niente di che.
- In pratica, dobbiamo arrangiarci per conto nostro. – conclude Mario, e poi annuisce. – Okay, - dice quindi, - Si va?
Davide inarca un sopracciglio, le labbra che si piegano in un sorriso furbo.
- Prima passiamo dagli alloggi. – dice. E, di fronte all’espressione poco convinta di Mario, spiega, - Non vorrai mica andare in discoteca conciato così?
*
Mario non ha niente di adatto per l’occasione, solo qualche paio di jeans sdruciti e qualche maglietta sbiadita. Le sue cose sono già state sistemate fra l’armadio e la cassettiera addossata in fondo alla stanza. Qualche cosa è stata poggiata sul letto, perfettamente rifatto come il suo gemello a qualche metro da lui.
Le due metà della stanza non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra, piena di poster e fotografie e libri che strabordano dagli scaffali della piccola libreria angolare quella di Davide, completamente spoglia ed anonima quella di Mario – nonostante le tracce di scotch sulle pareti dimostrino la presenza di qualcuno in quel luogo nel recente passato, qualcuno che ormai è andato via. Davide ha chiesto almeno cinquecento volte che le pareti venissero ridipinte, ma è stato ignorato ripetutamente, e niente riesce a togliergli dalla testa che si tratti in realtà di una delle piccole torture quotidiane che suo padre si diverte ad infliggergli nel tentativo di renderlo forte e duro e corazzato abbastanza da potergli cedere le chiavi dell’ufficio in un non troppo distante futuro.
Dopo un breve esame dei vestiti di Mario, Davide decide di prestargli qualcosa di proprio. Gli lancia addosso un paio di jeans aderenti blu scuro, una maglietta bianca così stretta da avvolgerlo come una seconda pelle ed un gilet nero, lucido e dal taglio moderno, che gli dice di indossare aperto sopra la maglietta. I jeans gli stanno corti ed il suo torace possente esplode nella maglietta, ma dovrà farsi bastare questo finché non riceverà il suo primo stipendio.
Davide prova a dargli un paio delle proprie scarpe, ma non portano la stessa misura, e Mario ritorna alle proprie sneaker consumate con un flebile sorriso di autentica gioia sul volto. Poi si alza in piedi e si sente scricchiolare tutto.
- Che palle. – borbotta, tirandosi giù la maglietta lungo i fianchi, - Perché stiamo facendo questa cosa?
- Perché i succubi frequentano esclusivamente locali notturni, preferibilmente discoteche. Dove si rimorchia meglio. – risponde Davide, sistemandogli il gilet sulle spalle e sollevandogli un’occhiata di rimprovero addosso, - Non hai studiato?
- Girano pochi libri in casa mia. – risponde Mario, guardando altrove, - I miei non credono nella parola scritta.
- Bella questa. – sbotta Davide, inarcando entrambe le sopracciglia e guardandolo adesso con curiosità, - Sai leggere, almeno?
- Sì, ovviamente. – grugnisce lui, offeso, - È solo che i miei preferiscono l’apprendimento sul campo a quello in classe.
Davide lo scruta con occhi attenti per qualche secondo, in perfetto silenzio. Poi scrolla le spalle.
- Che roba da pezzenti. – conclude, voltandosi e dirigendosi verso il proprio armadio per cambiarsi, - È come pretendere di diventare uno chef senza aver mai studiato come si cucina una frittata.
Irritato, Mario aggrotta le sopracciglia e serra i pugni lungo i fianchi.
- I miei genitori non sono dei pezzenti. – ringhia.
Davide si volta appena a lanciargli un’occhiata sufficiente da sopra una spalla.
- Non importa. – dice quindi, tornando ad esaminare i propri abiti, - Ragionano come se lo fossero.
- Ritira immediatamente quello che hai detto! – abbaia Mario. Davide si sente afferrare per un braccio e fa mezzo giro su se stesso. Mario lo schiaccia contro la porta chiusa dell’armadio e ringhia a due centimetri dal suo volto. – Non costringermi a ripetermi.
Davide lo affronta a muso duro, le sopracciglia aggrottate, le labbra serrate in una linea carica di disappunto. Gli pianta entrambe le mani contro il petto e lo spinge lontano da sé. Mario, sorpreso dalla sua forza inaspettata, finisce a sbattere contro la parete di fronte e gli solleva addosso un’occhiata smarrita. Davide si sposta il ciuffo da davanti agli occhi e mette le mani sui fianchi.
- Un’altra insubordinazione di questo tipo e faccio rapporto. Tre rapporti negativi sono un’ammonizione ufficiale. Tre ammonizioni sono una sospensione. Tre sospensioni portano all’espulsione. – elenca atono, - Questo giusto per avvisarti. Sono un Agente anziano, il tuo partner anziano, e devi portarmi rispetto.
- Be’, anche tu dovresti portarmene. – ribatte Mario, rimettendosi dritto e fronteggiandolo senza timore, - Sono un essere umano. O in questo posto del cazzo contano solo i gradi?
Davide non risponde subito. Lo guarda per qualche secondo, vagliando le sue parole, e poi cede.
- Ti chiedo scusa se ho mancato di rispetto ai tuoi genitori. Non li conosco e non ho il diritto di giudicarli. – dice, - Ciò non toglie, però, che ritengo il loro approccio alla materia assolutamente insufficiente. E penso che seguire i loro insegnamenti abbia fatto di te un Agente incompleto. Non so come tu abbia fatto a passare il test selettivo, ma—
- Non ho fatto nessun test per entrare. – risponde Mario, senza neanche lasciarlo finire di parlare.
Lo sguardo di Davide si incupisce, restando sempre fisso su di lui. Si illumina appena di un’intuizione indistinta quando Davide somma i fattori ed ottiene l’unico risultato possibile.
- Di chi sei figlio? – domanda.
Mario solleva il mento e gonfia il petto, prima di parlare. È una reazione ridicola ed esagerata, ma a suo modo tenera.
- Francesco e Silvia Balotelli. – risponde quindi. La voce gli trema d’orgoglio.
Davide è stupito dalla risposta. Non sapeva che i Balotelli avessero un altro bambino, oltre ai tre già da tempo entrati nella Fondazione, men che meno avrebbe mai potuto immaginare che l’avessero adottato. Quindi sì, è stupito dalla risposta, ma non esattamente sconvolto. José non avrebbe potuto accettare senza test d’ingresso nessuno che non fosse un prodotto certificato della famiglia Balotelli. Silvia e Francesco erano stati due Agenti di fama mondiale, negli anni ’80. Se ne studiava ancora le tecniche e le imprese, all’Accademia, durante l’addestramento.
A Davide non è mai piaciuto il loro stile. Sono noti per la loro intraprendenza ed il loro coraggio, ma anche per l’assoluta mancanza di programmazione e pianificazione dei loro assalti, che risultava spesso nella morte violenta dell’SCP che si sarebbe invece voluto acquisire. Lui preferisce altri tipi di tattiche.
- Capisco. – dice quindi, voltandogli nuovamente le spalle e tornando a passare in rassegna i propri vestiti. Sceglie per sé un paio di jeans neri ed una maglietta dello stesso colore, dalla profonda scollatura a v. – Insomma, un raccomandato. – conclude.
La rabbia di Mario è di nuovo chiarissima nella sua voce, quando parla.
- Sei un figlio di papà anche tu. – ringhia, i pugni che tremano lungo i fianchi.
Davide gli lancia una mezza occhiata ed un mezzo sorriso ironico. Poi si sfila la maglietta.
- Io i miei test ho dovuto sostenerli tutti. – ribatte, - Fra i banchi e sul campo.
Ignora la velocità con la quale Mario distoglie lo sguardo di fronte alla sua pelle nuda.
*
Sono di fronte all’Hollywood per le undici in punto, tardi abbastanza per trovare già un po’ di movimento ma presto abbastanza per avere di fronte almeno quattro ore buone di pattuglia. Entrano mostrando al buttafuori il tesserino e, una volta dentro, Davide si dirige dritto verso il bar, senza neanche guardarsi attorno. Almeno fino a quando non capisce di essersi perso Mario da qualche parte lungo la via.
Si volta per cercarlo in mezzo alla folla e lo trova immobile e rigido come un pezzo di legno a pochi passi dall’entrata, che si guarda intorno con aria smarrita. Sospirando e lanciando uno sguardo colmo di rassegnazione e pazienza in esaurimento al soffitto, gli torna accanto e lo strattona bruscamente, riportandolo alla realtà.
- Trovati. – borbotta, - Comportati con naturalezza.
- Con naturalezza? – esala Mario, fissandolo sconcertato, - Non riesco ad immaginare un comportamento più naturale di questo! Ma ce l’hai presente Concesio? Il buco del culo della Val Trompia! Quindicimila anime all’anagrafe! La cosa migliore che ne sia uscita dopo i miei genitori è stata un Papa! Ti pare che io possa mai aver visto cose di questo genere? – domanda, allargando le braccia in un gesto ecumenico che include tutta la discoteca, che si sviluppa di fronte a loro in un incessante rincorrersi di luci e suoni confusi, di corpi che si schiacciano fra loro al ritmo sempre uguale di tutti gli svariati successi dance dell’estate e dell’odore pesante ed avvolgente del sudore misto a quello più forte dei profumi da uomo e da donna ed a quello fruttato ed alcolico dei cocktail.
Per Davide, ambienti come questo sono la norma. È stato costretto a frequentarli più di quanto volesse per lavoro, e Zlatan ne andava matto nel tempo libero. Ma può comprendere come, per un tipo come Mario, siano invece una novità assoluta, da fissare con gli occhi sgranati e l’aria di un cieco miracolato del dono della vista che, come prima cosa dopo anni e anni di buio assoluto, posi gli occhi su un corpo di donna spogliato di ogni abito.
- Trovati lo stesso. – sbuffa Davide, afferrandolo per un polso e trascinandolo più in profondità all’interno del locale. – Concentrati sull’obiettivo, adesso. Qualunque bella ragazza è potenzialmente una succube.
- E come faccio a riconoscere quelle che lo sono da quelle che sono solo belle ragazze? – domanda lui, incerto.
Davide sbuffa, annoiato.
- Che ne so. – sbotta, - Lo percepisci, insomma. Non hai mai provato?
- Be’, abbiamo un piccolo Cerbero, a casa. – risponde lui, - So riconoscerlo rispetto a un cane normale.
- Sarà perché ha tre teste invece di una sola? – ribatte Davide con sufficienza, lanciandogli un’occhiata sarcastica.
- Intendevo ad occhi chiusi. – precisa Mario, offeso, - Dalla sua aura.
- È più complicato per i succubi. – sospira Davide, scuotendo il capo, - Sono demoni, la loro aura non è molto dissimile da quella degli esseri umani. Devi imparare a leggere le sfumature.
- Sì, certo. – sbuffa Mario, incrociando le braccia e raggiungendolo di fronte al bancone del bar, - Sono molto utili, le tue indicazioni, sai? Dimmi qualcosa di pratico, cosa stiamo cercando? Una donna eccezionalmente bella?
- Non saprei. – scrolla le spalle Davide, guardandosi intorno, - Sono tutte diverse.
- D’accordo, - insiste pazientemente Mario, - Ma nella tua esperienza, cos’hai visto? Ne avrai incontrate altre.
- Sì, - annuisce lui, - Un casino di volte.
- Bene. Ed erano belle?
Davide scrolla di nuovo le spalle, tornando a guardare altrove.
- Suppongo di sì. – dice, - Non faccio mai granché caso alla bellezza delle donne. Per me sono tutte abbastanza uguali.
- Ah. – dice Mario, lasciandosi cadere seduto su uno sgabello. – Ah. Okay.
Davide si volta a guardarlo, inarcando le sopracciglia.
- Problemi? – dice.
- No. – si affretta a rispondere Mario, - No, assolutamente.
Davide lo fissa ancora per qualche secondo, pensando che Mario dovrebbe rivedere il suo dizionario personale, visto che, chiaramente, alla definizione della parola “no” c’è quella della parola “sì”, ma taglia corto e torna a fissare la folla che sciama imperturbabile dentro e fuori dal locale quando si rende conto che una semplice occhiata non sarà in grado di scollare quello sguardo ebete dalla faccia di Mario.
- Okay. – dice quindi con una punta di presunzione, piantando lo sguardo su una ragazza dall’aspetto provocante, - Sta’ seduto qui e osserva il maestro all’opera.
Si allontana da lui senza degnarlo di un’occhiata, camminando a passo svelto a sicuro verso la ragazza. È vestita completamente di nero – pantaloni in pelle aderenti e dalla vita bassissima che mettono in evidenza le ossa appuntite del bacino e l’ombelico, top dello stesso materiale dei pantaloni incrociato sul petto, spalle nude, i capelli biondi lunghi e lisci che spiovono sulla schiena abbronzata in una cascata lucida che riflette tutto l’arcobaleno di colori che le luci stroboscopiche vomitano sulla folla. Ha un’aura appena più brillante delle altre ragazze, e sembra sola. Inusuale, per una ragazza di quell’età. A dir poco.
- Ehi. – la saluta con un mezzo sorriso, appoggiandosi al bancone vicino a dove è seduta lei, - Serata fiacca?
Lei gli solleva addosso un paio d’occhi enormi, da cerbiatta, di un colore indefinibile a causa della penombra multicolore della discoteca.
- Cosa te lo fa pensare? – domanda con un sorriso da Monna Lisa, le labbra piene dal disegno elegante appena appena arricciate agli angoli.
- Be’, - sorride Davide, avvicinandosi appena, - Una ragazza bella come te, in un posto come questo, a quest’ora, ancora tutta sola? O il mondo gira alla rovescia, o è una serata fiacca. Dimmi tu.
La ragazza ride, scuotendo il capo.
- Che fai, ci provi? – domanda.
Lui si concede una mezza risata, facendo cenno al barista di portargli la stessa cosa che sta bevendo lei, un cocktail che sa di albicocca dal colore talmente rosato e dall’odore talmente zuccherino da fargli venire la nausea senza averlo neanche assaggiato.
- Dipende. – dice, - Vuoi che ci provi?
Lei ride ancora, una risata cristallina e nitida, tentatrice. E quando ride la sua aura si illumina appena di sfumature rossastre.
- Spiacente. – dice quindi, e poi dà una risposta che Davide non si aspettava. – Non sono più sul mercato.
Deve guardarla in modo piuttosto esplicito, perché lei scoppia di nuovo a ridere, divertita, e sorseggia un po’ del proprio cocktail, chiudendo le belle labbra a cuoricino attorno alla cannuccia colorata.
- Non è possibile. – dice, e lei ride ancora.
- Dovrei offendermi? – chiede, - Mi avevi preso per una facile?
- Non esattamente. – risponde lui, passandosi le dita fra i capelli per scostarsi la frangia dalla fronte.
Lei ride un’altra volta.
- Oh. – dice quindi, - Allora i miei vecchi occhi avevano visto bene. – il suo sorriso si tinge di una sfumatura maliziosa, - Sei un Innominabile.
- Ah, per piacere. – sbuffa lui, - Ci chiamano ancora così, nei gironi infernali? È un vocabolo caduto in disuso da almeno un centennio.
- Be’, è più o meno da un centinaio d’anni che non rimetto piede all’Inferno. – risponde lei, - Quindi non saprei dire se adesso vi chiamino in altro modo. Per me siete rimasti Innominabili.
- Siamo Agenti, adesso. – sospira Davide, - E tu devi essere caduta.
- Da tempo, sì. – ride lei, allungando una mano verso di lui, - Chloé, piacere.
- Piacere mio. – risponde lui, stringendole la mano, e poi arrossisce appena, imbarazzato, - Non posso rivelare il mio nome.
- Ragioni di sicurezza? – chiede lei. La sua voce sembra ridere sempre, trilla come campanelli. – Non preoccuparti, capisco. – lui le sorride ancora e poi si abbatte sul ripiano del bar. Nel frattempo, il suo drink è arrivato, e lui ne assaggia un sorso e poi subito si ritrae con una smorfia. Come aveva previsto, troppo dolce. E lei si avvicina appena, e profuma di mandorle e zucchero filato. Certe caratteristiche non ti abbandonano neanche quando perdi l’anima, il profumo della pelle, la brillantezza dell’aura, la malizia negli occhi. Certe caratteristiche non ti abbandonano neanche quando te ne vai. – Giornata pesante? – chiede.
Davide sbuffa, chiudendo gli occhi.
- Annata pesante. – la corregge, - Ma è del tutto irrilevante, adesso.
- Immagino. – annuisce lei, e poi finge la voce grossa e misteriosa, - Sei in missione segreta?
- Già. – ride lui, voltandosi a guardarla, - Cerco un tuo superiore.
- Ah, sì, ho sentito. – Chloé piega il capo, i capelli le scivolano morbidi sulla spalla come una cascata dorata mentre lei accavalla le gambe, - Sua maestà, o almeno una delle, è scesa in campo.
- Corrono veloci le notizie all’Inferno. – commenta lui, inarcando un sopracciglio.
- Corrono più svelte in superficie. – precisa lei con un’altra risata cristallina. – Quindi sei alla sua ricerca, mh? Be’, mi spiace dirti che l’hai mancata di una manciata di secondi, letteralmente.
Davide spalanca gli occhi, piantandole addosso uno sguardo sconvolto.
- Prego? – domanda incerto.
Lei si stringe nelle spalle, gettando indietro i capelli in un gesto vezzoso.
- È appena andata via con un tipo, - dice, - Un bel ragazzo di colore, dall’aura potente. Il classico tipo che avrei preso di mira anch’io, se fossi stata ancora in servizio.
Davide ha appena il tempo di lanciarle un breve ringraziamento e una scusa impacciata, prima di saltare giù dallo sgabello e lanciarsi a rotta di collo verso l’uscita.
*
Li trova poche centinaia di metri più avanti, nascosti nell’ombra profonda di un vicolo. Segue l’odore dell’eccitazione di Mario nell’aria, prima, il suo profumo selvaggio appeso alle molecole di ossigeno. Poi comincia a sentire gli ansiti e i gemiti e a quel punto, più che seguire una traccia, imbocca una superstrada a duecento all’ora.
Mario sembra cosciente, ma è evidentemente fuori come un balcone. Ha gli occhi rossi e lucidi, le labbra dischiuse ed umide, gonfie di baci e di piccoli morsi, la maglietta strappata sul petto. La sua maglietta, pensa Davide con un certo risentimento.
Mahalath non è riuscita ad aspettare di trovarsi in un posto chiuso, in una camera d’albergo o chissà, magari proprio a casa sua. Gli Agenti hanno sangue forte da generazioni, hanno sangue potente, hanno resistenza e uno spiccato sesto senso, e non mancano in tutti loro una predisposizione verso il soprannaturale ed un’innata capacità di connettersi al paranormale molto più facilmente rispetto ai normali esseri umani. Per i demoni, rappresentano una tentazione più forte della mela per Eva. Se Mario si fosse degnato di aprire un libro e studiare, nella sua vita, lo saprebbe.
La regina dei demoni non ha avuto il tempo neanche di ritornare alla sua forma originaria, prima di iniziare l’accoppiamento. Si agita veloce, seduta sul grembo di Mario, tenendolo per il colletto stropicciato della maglietta come fossero redini e lui un cavallo che lei stesse cavalcando. La lunga e rigonfia massa dei suoi capelli riccissimi si agita lungo la sua schiena abbronzata e flessuosa, piegata in un arco elegante, quasi regale, mentre i suoi fianchi pieni ondeggiano avanti ed indietro. Dalle sue labbra dischiuse sfugge un gemito ed un sibilo da serpente ogni volta che l’erezione di Mario penetra dentro di lei e poi sguscia fuori, veloce, bagnata, pronta ad esplodere.
- Mahalath! – la chiama Davide, sperando di interromperli in tempo. Naturalmente, Mario viene in quell’esatto istante. – Merda. – ringhia lui, portando la mano alla propria arma ed estraendola velocemente dalla fondina. Un attimo dopo, Mahalat ruota la testa di centottanta gradi e gli offre uno sguardo spiritato e serpentino, poi soffia come un gatto e lui le punta la pistola addosso, l’indice già sul grilletto. – Ferma o sparo! – minaccia, il pollice che accarezza l’impugnatura decisamente, spostando verso l’alto il caricatore. Dall’arma comincia ad emanarsi un ronzio a bassa frequenza, e la bocca si illumina di un riflesso azzurrognolo.
Mahalath non reagisce bene. Si allontana dal corpo di Mario – il quale, non più sostenuto dalle sue braccia, si accascia per terra, svenuto – e gli ringhia contro. Quando parla, la sua voce è come divisa in due, una nota più bassa e cupa, l’altra acuta e stridula.
- Non puoi toccarmi, mortale! – gli urla contro, investendolo con l’onda d’urto della propria energia. Davide ha imparato a non contrastare questo tipo di colpi, a lasciarsi accompagnare dolcemente, perciò lascia che l’impatto con l’aria calda lo sollevi dal suolo e lo sposti di una decina di metri indietro. Quando sbatte contro i cassonetti in fondo alla strada e poi finisce di schiena per terra, però, fa un male fottuto lo stesso.
Si solleva da terra a fatica, stringe le dita aspettandosi di trovarci in mezzo la pistola e, quando non la trova, lancia un’occhiata allarmata tutta intorno a sé. La vede a pochi metri di distanza, per terra, spenta, probabilmente danneggiata. Mahalath non sembra interessata ad impadronirsene.
- Perché proprio ora? – le chiede, aggrappandosi ad un cassonetto per tirarsi in piedi. È persa, ormai, le possibilità che ha di catturarla viva o morta sono meno di zero. Tanto vale cercare di scucirle di dosso qualche informazione e sperare che Mario sia ancora vivo.
Mahalath si lascia andare ad un sorriso sghembo, la lingua che saetta fra le labbra.
- Il tempo è propizio. – dice semplicemente. Poi si solleva per aria, il corpo avvolto in una luminescenza rossastra. Lancia un urlo mentre getta il capo all’indietro e le si lacera la pelle all’altezza delle scapole. Due moncherini premono per uscire, sono solo ossa, all’inizio, poi le piume crescono, avvolgono la struttura e nel giro di pochi secondi sue enormi ali nere le si aprono alle spalle. Mahalath le sbatte pigramente a mezz’aria, una cascata di gocce di sangue si sprigiona dalle piume e piove su Davide, sulle pareti degli edifici, sulla strada, sull’immondizia, sul corpo di Mario disteso nell’ombra.
Le ali si chiudono svelte attorno al corpo nudo del demone, e Davide ha appena il tempo di scattare in piedi seguendo un riflesso involontario, afferrare la pistola e puntargliela contro – rendendosi conto che effettivamente non funziona – prima di vederla svanire in una fiammata rossa che divampa a mezz’aria e si consuma prima di toccare il fuoco.
Il vicolo rimpiomba nell’ombra, e Davide ripiomba seduto per terra quando le gambe lo abbandonano senza troppi ripensamenti. Fatica a processare l’enorme quantità di fallimenti che è riuscito ad impilare alla sua prima uscita senza Zlatan. È una situazione terribilmente imbarazzante. Come si possa passare da una percentuale di successo del novantanove virgola nove percento ad una catastrofe di epiche proporzioni come questa, durante la quale in meno di due ore è riuscito a sfasciare un’arma d’ordinanza, farsi rapire e violentare l’Agente di grado inferiore (cosa che potrebbe o non potrebbe avere conseguenze devastati per l’umanità se Mahalath è stata ingravidata), lasciarsi sfuggire un SCP e non riuscire neanche a strappargli dalla bocca un minimo di informazioni utili per farsi perdonare tutto il resto, è una cosa che francamente non riesce a spiegarsi, e che non ha idea di come spiegherà a suo padre.
Lentamente, si rimette in ginocchio, e poi in piedi. Barcolla fino al corpo di Mario, ancora riverso per terra, e gli si inginocchia a fianco. Ha i pantaloni calati fino alle ginocchia ed è passato direttamente dall’incoscienza al sonno profondo, almeno a giudicare dal compiacimento evidente col quale ha preso a russare.
Davide sospira, lo afferra per le spalle e lo scuote bruscamente.
- Oh! – borbotta, - Svegliati!
- Che?! – Mario apre gli occhi e glieli pianta addosso. È ancora così evidentemente confuso che, anche quando riesce a mettersi seduto, non la pianta un secondo di guardarsi intorno e sbattere le palpebre, cercando di mettere a fuoco il posto. – Che… Cos’è successo?
- Il nostro obiettivo ha fatto di te il suo obiettivo. – sbotta, alzandosi in piedi e trascinandolo con sé nel movimento, - I succubi hanno una predilezione per gli individui con una predisposizione per il paranormale. Se ti fossi degnato di studiare su un qualsiasi testo preparatorio per meno di mezz’ora, lo sapresti.
- Ah. – biascica Mario, la bocca impastata, - Ah. – poi si ferma, si china di lato e sputa per terra, - Che schifo di sapore di merda. – sbuffa, - Zolfo.
- Chiamiamolo battesimo del fuoco, - sospira Davide, - E rivestiti, che sei nudo come un verme. Se penso che potresti essere appena diventato padre…
- Che cosa?! – sbraita Mario, voltandosi repentinamente verso di lui. Davide sospira ancora.
- Lascia perdere, - dice, - Te lo spiego dopo.
- D’accordo. – annuisce Mario, placandosi istantaneamente, ancora scosso dall’esperienza, mentre tenta con scarso successo di riabbottonare i pantaloni e continua a mancare spettacolarmente l’asola anche di cinque centimetri buoni a tentativo.
- Lascia, da’ qua, - sbuffa Davide, irritato, prendendo letteralmente in mano la situazione. – Sei un soggetto impossibile.
- Okay. – annuisce Mario, - Ma offrimi una pizza.
- Come, scusa?
- Ho questo sapore orrendo in bocca e ti giuro che se non mi offri una pizza adesso mi metto a vomitare a spruzzo come ne L’Esorcista.
- Ah. – Davide inarca un sopracciglio, - Quello lo conosci, dunque.
- Quello l’ho studiato! – ribatte Mario, annuendo, - Lo so a memoria.
- Non ne dubitavo. – sospira Davide, facendo strada.
Finisce comunque per offrirgli una pizza, ed intimargli di godersela, anche, mentre manda giù un boccone dopo l’altro come non mangiasse da mesi. Visto che, con ogni probabilità, è l’ultima che mangeranno prima dell’Apocalisse.
*
- Insomma, che dire. – sospira José, scorrendo distrattamente il report dettagliato che Davide ha posato sulla sua scrivania non più di cinque minuti fa. Lui e Mario stanno dritti in piedi di fronte a lui, le braccia dietro la schiena, le gambe unite, il mento sollevato. Davide ci ha messo tre quarti d’ora ad insegnare a Mario come posizionarsi correttamente di fronte ad un suo superiore, e adesso è abbastanza convinto che l’Apocalisse incombente non sia più una minaccia così spaventosa. Se è riuscito a far sì che Mario avesse anche solo la vaga parvenza di un Agente per bene, può fermare a mani nude tutte le Apocalissi dell’universo. – Un vero disastro. – conclude l’uomo, mettendo giù la relazione. Un’ombra di sorriso gli piega le labbra e non sembra davvero irritato dall’accaduto.
Davide inarca un sopracciglio, stringendo le mani dietro la schiena.
- Non sarebbe successo niente di tutto questo, se non mi avessi affidato un impiastro simile. – dice, - Me la sarei cavata perfettamente da solo.
- Sì, provandoci con una ex-succube decaduta. Osserva il maestro all’opera. – lo prende in giro Mario, lanciandogli un’occhiataccia.
- Mario! – sbotta Davide, arrossendo violentemente prima di poterselo impedire, - Sta’ zitto!
José scoppia a ridere, voltando le pagine del rapporto fino all’ultima ed apponendo in calce il proprio timbro e la firma.
- Non battibeccate come bambini. – dice quindi, rimproverandoli bonariamente.
- Stronzate a parte. – riprende Davide, tornando a guardare suo padre, - Non puoi ritenermi responsabile. Me l’hai consegnato, tralasciando di informarmi che era completamente sprovvisto di una anche minima istruzione teorica di base, e non mi hai neanche dato il tempo di conoscerlo, ci hai buttati per strada cinque minuti dopo averci consegnato l’incarico! Rifiuto qualsiasi conseguenza disciplinare collegata a questo evento.
José gli solleva gli occhi addosso, inarcando le sopracciglia. Richiude il report nella sua cartella e poi si solleva per inserirla nel grosso archivio metallico alle sue spalle.
- Il blob di via Sforza, aprile 2010. – dice, estraendo lentamente la propria chiave dalla tasca posteriore dei pantaloni dell’abito ed aprendo il cassetto giusto, scorrendo le pratiche fino a trovare il corretto posto per il report, - A causa di una tua distrazione, sei stato contaminato dall’SCP. Ricordi su chi è ricaduta la responsabilità del fatto?
Davide si irrigidisce, serrando le labbra. Mario aggrotta le sopracciglia, lanciandogli un’occhiata indagatrice, ma dal momento che nessuno aggiunge altro, evita di chiedere.
- Bene. – riprende quindi José, richiudendo il cassetto con un tonfo e poi voltandosi verso di loro e tendendo entrambe le mani, - Le vostre armi, prego.
- La mia è stata danneggiata. – confessa Davide in un borbottio, consegnando la propria.
- Lo vedo. – commenta José, esaminando la pistola ed il meccanismo di caricamento inceppato, - Il costo del pezzo di ricambio sarà addebitato sul tuo conto corrente e detratto dai prossimi stipendi in tre rate bimestrali. – lo informa, - Per quanto riguarda il resto, siete sospesi per una settimana, durante la quale dovrete sottoporvi alla consueta profilassi preventiva. Vi prego di presentarvi dal dottor Combi per iniziare la procedura quanto prima.
- Cosa?! – Davide si lascia sfuggire un gemito strozzato. Non c’è niente che odi al mondo più della profilassi post-contatto, niente, nemmeno suo padre.
- Non lasciarti ingannare dalla mia aria tranquilla, Davide. – risponde José, sollevandogli addosso uno sguardo severo, - Il casino che avete combinato mi costerà lunghe e tediose ore di spiegazioni al presidente, una fastidiosa ammissione di responsabilità di fronte al consiglio e, ultimo ma non ultimo, probabilmente un grande numero di vite umane quando la gravidanza di Mahalath sarà giunta al termine. Dal momento che tutte queste cose sono conseguenze che un tuo errore mi costringerà ad affrontare, farai il bravo bambino e la pianterai di lagnarti perché ti obbligo a sottoporti ad una procedura che sarebbe comunque uno standard nel tuo caso.
- Non è uno standard affatto! – insiste Davide, sbattendo il pugno sul tavolo, - Ti ho già spiegato che tutto questo non è una mia responsabilità, e comunque soltanto Mario è entrato in contatto con l’SCP, io non l’ho nemmeno sfiorato, non—
- Agente. – la voce con cui José interrompe il suo sproloquio è fredda, ferma come il ghiaccio. Non lo chiama per nome e questo, per qualche motivo, dà i brividi anche a Mario. – Presentatevi dal dottor Combi istantaneamente per cominciare la procedura. Dopodiché siete sospesi per una settimana. E se non vuoi che le settimane diventino due, ti converrà obbedire agli ordini all’istante.
Davide si irrigidisce istantaneamente, raddrizzando la schiena e serrando i pugni lungo i fianchi.
- Agli ordini. – risponde quindi, con una voce cavernosa che chissà da quale anfratto di quel corpicino da eterno adolescente sta tirando fuori. – Mario, vieni. – lo richiama, prima di voltarsi ed abbandonare l’ufficio.
Mario lo segue docilmente lungo i corridoi, avrebbe mille domande da fargli, ma si rende conto di non poterlo fare adesso. José li osserva andare via, in piedi dietro la propria scrivania, e sospira pesantemente. Lo aspettano un paio di giorni letteralmente infernali, per non parlare di quello che accadrà fra qualche mese. Sospirando ancora, ripone entrambe le pistole nel doppio fondo dell’ultimo cassetto della sua scrivania, premurandosi di chiuderlo a chiave prima di raccogliere le proprie cose nella valigetta portadocumenti, indossare il cappotto ed uscire.
Come al solito, è rimasto l’ultimo negli uffici. L’eco dei suoi passi rimbomba rumorosamente per i corridoi e all’ingresso, e poi ancora all’interno del garage, nel quale la sua Mercedes è rimasta l’ultima macchina parcheggiata. Sta per far scattare la serratura ed entrare quando una voce conosciuta lo raggiunge alle spalle e lo inchioda sul posto.
- Ti trovo bene. – dice Zlatan, appoggiato ad uno degli enormi pilastri di ferro che reggono la struttura.
José si volta a guardarlo, ravviandosi una ciocca di capelli brizzolati sulla fronte.
- Sei stato via appena un mese, stavolta. – commenta con un mezzo sorriso, - Dev’essere un record.
- Che posso dire, - ride Zlatan, scrollando le spalle prima di allontanarsi dal pilastro con una discreta spinta del bacino, - Mi mancava Milano. – conclude, avvicinandosi a lui.
- Lo immagino. – annuisce José. – Sai già dove andrai a dormire stanotte? – domanda.
- Non posso fermarmi. – scuote il capo Zlatan, - Blanc e Leo mi aspettano a Parigi in tarda serata.
- Davvero? – ribatte José, piccato. Non vuole darlo a vedere, ma la risposta lo delude. – Dunque? Che ci fai qui?
Zlatan gli offre un breve sorriso di scuse non richieste ma ugualmente necessarie, e si stringe nelle spalle.
- Torno adesso da una breve visita a Yolee, in quel di Istanbul. – dice, e José subito lo interrompe con una smorfia.
- Per piacere, - borbotta, - Non ci vediamo da un mese e torni per parlarmi dei deliri di una ridicola fattucchiera?
Zlatan ride, divertito.
- Ha avuto una crisi proprio mentre ero lì. – riprende, - Visioni.
- Non mi interessa. – José gli volta risolutamente le spalle, infilando la chiave nella serratura, - Il giorno che vorrò seguire le indicazioni di una veggente pazza, ne comprerò una a dieci centesimi sul mercato nero. Fino ad allora—
- Il diavolo canta, Zay. – lo interrompe Zlatan. La sua voce è seria e, quando José si volta a guardarlo, scopre che lo sono anche i suoi occhi. – Sarà padre, presto, e non sarà piacevole per nessuno che non sia lui. Ne sai qualcosa?
José deglutisce, cercando di mantenere la calma. È impossibile che la notizia della disavventura di Davide sia già giunta alle orecchie di Yolanthe. La visione dev’essere stata reale. Mahalath è incinta.
- Qualcosa, sì. – ammette con un sospiro, - Ma è tardi. Sono stanco. E non mi va di parlarne.
Zlatan annuisce, e sulle sue labbra torna ad aprirsi un mezzo sorriso. I suoi lineamenti spigolosi si illuminano tutti assieme all’improvviso.
- Può aspettare. – dice quindi, avvicinandosi di un altro passo, - Non ci siamo ancora salutati per bene.
José schiude le labbra per ribattere, ma non ha il tempo di farlo. Si ritrova schiacciato contro la portiere della macchina pochi secondi dopo, la bocca di Zlatan premuta contro la sua, il suo sapore familiare e nostalgico sulla lingua, e decide che possono aspettare anche le battute e le proteste.

continua

Genere: Commedia.
Pairing: José/Zlatan
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Slash, Future!Fic, OC.
- "Io non sono affatto molto più geloso di Shakira!"
Note: Scritta per la Notte Bianca #5 @ maridichallenge, su prompt IL FIGLIO DEL PIQUIRA. Tale figlio purtroppo non esiste ancora, ma c'è del gossip secondo il quale Shakira sarebbe già incinta ♥ E come tutti voi sapete io vivo di gossip, per cui dovevo farlo.
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NOMEN OMEN

- Francesc! – urla Zlatan, steso sulla propria sedia a sdraio come una lucertola su un sasso, - Non allontanarti.
- Sai che sei allucinante? – commenta José, sdraiato come lui ma in compenso intento a leggere un libro nascosto sotto l’ombrellone e cosparso di crema solare di quella con la protezione alta in maniera addirittura imbarazzante, quella densa e compatta dal colore azzurrognolo che usualmente si mette ai bambini per evitare che si scottino, quella che, sostanzialmente, ha spalmato su tutto il corpicino già dorato dal sole di luglio del piccolo Cesc prima di mandarlo all’avventura sulla moderatamente affollata spiaggia tropicale sulla quale si trovano, una mezz’ora fa, - Si chiama Cesc. Non puoi chiamarlo col suo nome?
- Il suo nome è Francesc. – gli fa notare Zlatan, senza neanche degnarsi di aprire gli occhi sotto i minuscoli occhiali da sole che coprono appena il perimetro delle sue palpebre, perché sia mai ritrovarsi con la tintarella a metà a causa di un paio d’occhiali dalla montatura troppo spessa scelti in un momento di avventatezza, - Cesc è solo uno stupido soprannome.
- Che tu detesti perché appartenente all’ex ragazzo di Gerard. – annuisce José, precisando dettagli di cui Zlatan farebbe volentieri a meno mentre il piccolo Cesc, sei anni e la voce più acuta del mondo, si lancia all’attacco di un inquietante ammasso di alghe bruciate dal sole e abbandonate sul bagnasciuga da una risacca impietosa. – Sai che non ha senso l’odio che provi per lui? Dico, ci sei anche stato insieme dopo. Seriamente, quando mai si è visto un ex-ragazzo provare tanto astio per un altro ex-ragazzo? Voglio dire, è illogico.
- Tanto per cominciare, - lo corregge Zlatan sollevando gli occhialini solo da un lato e lanciandogli un’occhiata offesa che si fa poi incredibilmente delusa quando si accorge che, nell’infastidirlo, José non ha neanche sollevato gli occhi dallo stupido libro che sta leggendo, - io non provo astio proprio per nessuno.
Le labbra di José si piegano in un sorriso ironico e sbilenco mentre volta pagina con navigato disinteresse.
- Tu non provi astio per nessuno? – domanda, mentre a pochi metri di distanza il piccolo Cesc riemerge dal mucchio di alghe ridendo felice nonostante le malefiche verdure marine l’abbiano privato del proprio costumino da bagno rosso e blu, - Ma se praticamente l’astio è l’unico sentimento che conosci.
- Questo è ingiusto e anche falso! – sbotta Zlatan, scattando a sedere e sfilandosi definitivamente gli occhialini per lanciare a José l’occhiata piena di riprovazione che merita da quando questa discussione è iniziata, - Francesc! Dov’è il tuo costume?!
- Quello che intendo dire, - riprende José, allungandosi a recuperare una matita dalla tracolla abbandonata sulla sabbia accanto alla sua sdraio ed utilizzandola per evidenziare un passo particolarmente interessante del trattato sulla difesa a zona concepita come modello di comportamento e perfezionamento intellettuale dell’uomo, che sta leggendo da quando sono partiti dalla Spagna un paio di settimane fa, - È che tu sei palesemente molto più geloso di Cesc Fàbregas di quanto non lo sia Shakira, la quale, ti ricordo, è la moglie di Gerard ed ha accettato senza il minimo imbarazzo o problema che suo figlio potesse chiamarsi come uno degli ex di suo marito. Dimmi tu se questa cosa è normale. – esplica, dando al piccolo Cesc tutto il tempo necessario per ri-immergersi nell’aggrovigliata foresta di insalata salmastra per poi riemergerne trionfante sventolando il proprio costume da bagno come una bandiera, prima di indossarlo nuovamente saltellando goffo su un piede e poi sull’altro.
- Io non sono affatto molto più geloso di Shakira! – protesta Zlatan, incrociando le braccia sul petto e tenendo il piccolo Cesc d’occhio mentre si lancia di pancia fra i flutti ridendo dello splash improvviso che il suo corpo produce infrangendosi contro le onde tropicali spumeggianti e profumate, - Ed oltretutto non c’entra niente la gelosia, anche perché io e Geri non stiamo più insieme, cosa peraltro logicamente comprovata dal fatto che sto insieme a te ed abbiamo portato suo figlio in vacanza. Il punto è! – insiste con enfasi, testardo, - Che lui è il mio figlioccio, e non posso permettere che venga chiamato con nomi tanto ridicoli, che peraltro riportano alla memoria personaggi insoffribili ed estremamente sopravvalutati.
- A-ha! – esclama José, trionfante, anche se nemmeno in questa occasione i suoi occhi si sollevano dalle pagine del suo prezioso libro, - Allora ammetti di odiare Cesc Fàbregas.
- Io non ammetto proprio un bel niente, perché non c’è niente da ammettere! – abbaia Zlatan, mentre il piccolo Cesc riemerge dall’acqua con una stella marina appiccicata alla fronte, - E tu sei insopportabile e non voglio mai più rivolgerti la parola. Francesc! Levati quella cosa di dosso.
- Ma lo vedi come reagisci, dico, lo vedi? – insiste José, voltando pagina ed illuminandosi su un concetto particolarmente pregnante, che sottolinea due volte ed accanto al quale annota un paio di osservazioni brillanti che non mancherà di esporre il prima possibile a chiunque nel mondo vorrà ascoltarlo, - Ti agiti tutto come un’anguilla anche se alla fine non ho detto niente di così assurdo.
- Tu sei assurdo. – si intestardisce Zlatan, - La tua intera persona lo è. Assurda e odiosa. – borbotta mentre il piccolo Cesc afferra la stella con entrambe le mani e se la stacca di dosso con un sonoro pop, per poi porgerla al proprio padrino con la mano tesa in un gesto di ecumenico affetto. – No, tesoro, buttala via, sarà velenosa. – protesta Zlatan, allungandosi verso di lui per sciacquargli le mani una volta che il bambino, ubbidiente, ha lasciato cadere la stella marina sulla sabbia. – Ora vai, vai a giocare, bello di zio. – conclude con un lieve bacio fra i capelli biondi resi ancora più chiari dalla luce del sole, - Ma non allontanarti.
Il piccolo Cesc annuisce sereno e poi gira su se stesso, lanciandosi con urla belluine verso una duna di sabbia eretta da lui stesso qualche minuto prima e che adesso, per qualche oscuro motivo, merita di essere abbattuta.
Zlatan si volta verso José e lo trova con gli occhi fissi su di lui e un sorriso detestabile spalmato sulla faccia.
- Cosa. – sbotta scorbutico, incapace di impedirsi di arrossire.
José scoppia a ridere.
- Sei un amore. – commenta con una vocina fastidiosa e volutamente dolciastra.
Zlatan arrossisce ancora di più, lo manda sonoramente a quel paese e poi si volta sulla pancia.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, AU, Lemon, Dub-Con.
- "Ho domato bestie più feroci di te, Zlatan."
Note: Scritta per la Notte Bianca #5 @ maridichallenge, su prompt Gladiatori!AU. Ogni riferimento storico reale è da intendersi come puramente casuale e non intenzionale XD Non ho fatto alcun tipo di ricerca per scrivere questa storia, non è temporalmente contestualizzata (se non per un generico "antico impero romano") ed è più che altro uno spudorato tentativo di rip-off della serie Spartacus: Blood And Sand. #sporny
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CATENE

Le assolate terre portoghesi non assomigliano in niente alle ripide e appuntite scogliere nordiche alle quali Zlatan è abituato. Non ha visto molto del Portogallo – non avrebbe potuto essere diversamente, d’altronde, dal momento che è qui da meno di tre giorni, tutti passati fra le sbarre di una cella e quelle di un carro per il trasporto degli schiavi – ma quello che ha visto non gli piace. Non c’è poesia nelle distese di terra coltivata che si estendono a perdita d’occhio, non c’è poesia nel brillio accecante del mare sulla costa, non c’è poesia nemmeno nei promontori dalle curve gentili e dalle discese dolci che si scorgono all’orizzonte e sulle quali gli alberi riescono ad arrampicarsi fin quasi in cima.
Ripensare a casa è controproducente. La grazia delle scogliere a strapiombo sull’oceano, il colore scuro e intenso dell’acqua di mare, la neve sulle cime delle montagne, le ampie distese di terra incolta battuta dagli zoccoli dei grandi pascoli di bovini di montagna, ogni cosa nella sua memoria splende di luce propria, brilla della magia del Nord, del bagliore scintillante della neve e del rosso intenso della terra sotto il ghiaccio che la custodisce.
Il sole abbagliante del Sud non può competere, non potrà mai. Eppure sarà obbligato a chiamarlo casa.
Viene introdotto all’interno della villa coi polsi legati. Lo sono anche le caviglie, anche se il nodo è abbastanza morbido da permettergli di camminare. Non di correre, però, e già da solo questo basterebbe a suggerirgli di non tentare neanche la fuga, concetto che le guardie che lo scortano non fanno che sottolineare in maniera del tutto superflua.
La casa in cui si trova non assomiglia per niente alle case della sua gente. È un edificio alto, su due piani almeno, in pietra liscia, bianca e levigata. Le pareti sono decorate da mosaici ricchissimi, più ricchi di quelli che ha visto nella casa del mercante di schiavi che l’ha comprato dopo la sua cattura. Niente di neanche lontanamente assimilabile alle basse case in legno, paglia e fango del suo popolo.
- Fa’ il bravo, - dice il mercante nell’accompagnarlo verso la stanza privata in cui il padrone della villa li attende, - Se non riesco a venderti a lui, giuro su tutti gli dei che ti faccio a pezzi e ti do in pasto ai maiali.
Zlatan aggrotta le sopracciglia, le mani che tremano dalla voglia di chiudersi attorno al grasso collo del suo carceriere. Ha provato a venderlo già a quattro nuovi padroni diversi, ma tutte e quattro le volte è stato restituito al mittente con l’obbligo di restituire il denaro. Non si fa addomesticare facilmente, è scontroso e violento, un pericolo per i padroni, un sobillatore per gli altri schiavi, non è adatto a vivere in mezzo alla normale servitù, è come una tigre selvaggia in mezzo agli animali domestici.
Non sa davvero come il mercante possa credere che stavolta sarà diverso, ma quando gli viene ordinato di aspettare immobile dove viene lasciato e, dopo aver osservato il mercante scomparire dietro una porta, posa lo sguardo sugli uomini che combattono fra loro in cortile, armati di spade di legno e pesanti scudi dello stesso materiale, comincia ad intuire qualcosa.
Il mercante esce dalle stanze private del padrone della villa dopo pochi istanti, con un sorriso incredibilmente soddisfatto dipinto sul viso dalle gote già rosse di vino annacquato.
- Vuole vederti da solo, prima di acquistarti. – dice, afferrandolo per la catena che lega il collo ai polsi e alle caviglie e trascinandolo bruscamente verso la porta, - Cerca di non dare sfoggio del peggio di te, come al solito.
Zlatan non risponde, ma d’altronde raramente lo fa. Supera la porta nel clangore delle proprie stesse catene, ritrovandosi in un ambiente molto più piccolo di quello che aveva immaginato. Sembra uno studiolo, o qualcosa di simile. C’è una scrivania coperta di pergamene dietro la quale un uomo dai capelli brizzolati, avvolto in una tunica dagli eleganti decori color porpora e oro, sembra intento a leggere un documento.
- Le condizioni alle quali il tuo padrone ti vende sono particolari. – osserva con voce vagamente curiosa. Oltre lo spesso foglio di pergamena, Zlatan non riesce a scorgere il suo viso. – Qual è il tuo nome?
- Zlatan. – risponde lui seccamente, restando in piedi di fronte alla scrivania.
L’uomo abbassa la pergamena, e finalmente Zlatan riesce a vederne il volto, la pelle ambrata un po’ bruciata dal sole, le sopracciglia folte piegate in un cipiglio severo, le labbra sottili, gli occhi dallo sguardo intenso, di un colore indefinibile fra il castano e il verde.
- Zlatan. – ripete l’uomo, lasciandosi scivolare il suo nome sulla lingua e fra le labbra come una parola magica, - Vieni dalle terre del Nord. Sai dirmi il perché di condizioni simili nel tuo contratto di vendita? – domanda, sollevando nuovamente la pergamena, - Perché, se ti acquisto, non posso ridarti indietro?
- Sono già stato restituito parecchie volte. – risponde lui, guardando altrove con aria quasi annoiata.
- E i motivi?
- Non sono stato un buon servitore.
Le labbra dell’uomo si piegano in un sorriso quasi divertito, e Zlatan lo osserva sollevarsi in piedi con esasperante lentezza, girare attorno alla scrivania e poi sedersi sul ripiano proprio di fronte a lui, per niente intimorito dalla loro differenza d’altezza o di possanza fisica.
- Qui non avrai alcun bisogno di esserlo. – dice, - Sai cos’è un ludus?
Zlatan aggrotta le sopracciglia. Cerca un significato da ricondurre a quella parola, ma non ne trova uno, e dopo pochi istanti lascia perdere.
- Il mio latino non è tanto buono. – risponde con una scrollata di spalle. L’uomo sorride ancora, quasi compiaciuto dalla sua ignoranza.
- Gli uomini che hai visto combattere nel cortile sono gladiatori. O meglio, - aggiunge con un sorriso che non ha nulla di modesto, - alcuni lo sono. Altri sognano di diventarlo. Altri non hanno alternative. Tutti, comunque, servono un solo scopo: rendere me più ricco. E sarà quello che farai anche tu. – dice, lasciandogli scorrere addosso uno sguardo fra il suggestivo e il giudicante, - Combattendo per me.
Zlatan aggrotta le sopracciglia, infastidito.
- E se mi rifiuto? – domanda. L’uomo ride, una risata piena, allegra, genuinamente divertita. Si solleva dal ripiano della scrivania, lisciandosi addosso la tunica e girandogli intorno per osservarlo più attentamente.
- Siete tutti uguali, voi guerrieri. – commenta distrattamente mentre sembra prendere le misure di ogni singolo muscolo visibile sottopelle, - Tutti così sicuri di avere una voce in capitolo. Tutti così convinti della vostra forza, del vostro onore. Tutti rigidi come il più prezioso dei metalli, infrangibili, indistruttibili. – l’uomo afferra la catena che lo imprigiona e gliela gira attorno al collo in un movimento improvviso, tirando con forza. Zlatan porta entrambe le mani alla gola, ma è troppo tardi: la catena è già stretta abbastanza da mozzargli il respiro, e mentre lui gorgoglia disperatamente sente le gambe cedere senza possibilità di appello, e le ginocchia gli si piegano senza che lui possa fare niente per impedirglielo.
Si appoggia al ripiano della scrivania, cercando di concentrarsi per inspirare quanta più aria possibile, ma non ne passa e sufficienza, e i polmoni bruciano come un incendio.
- Ho domato bestie più feroci di te, Zlatan. – gli ringhia l’uomo all’orecchio, poggiandogli una mano sulla schiena ed obbligandolo a piegarsi ancora di più, - Pensi di poter avere la meglio su di me perché sei più giovane? Più forte? Perché hai maggiore esperienza in combattimento? – Zlatan si sente addosso il suo ghigno incattivito, e trema, trema davvero per la prima volta nella sua vita quando lo sente premersi ostinatamente contro di sé, libero dalla tunica e pronto a marchiarlo nel peggiore dei modi. – Non puoi, - prosegue l’uomo, lasciandolo finalmente libero di respirare, ma solo per costringerlo a guardare la catena che ora stringe fra le mani, - Perché niente di tutto questo importa, Zlatan. Questa è la tua unica verità, adesso. – spiega con voce quasi paziente mentre le catene diffondono la loro sinfonia di cattività senza speranza nell’aria ormai satura dei loro respiri affaticati, - Questa è l’unica vita che ti resta.
Secondi, minuti o ore dopo, Zlatan, in ginocchio, guarderà il volto impassibile del suo nuovo padrone. Ancora sconvolto dai tremori del dolore e dell’orgasmo più violento che abbia mai provato nella sua intera esistenza, avvicinerà il volto al suo inguine e sentirà sulla lingua il sapore di un uomo, per la prima volta da quando è al mondo. Lo farà tenendo gli occhi chiusi, imprimendo bene la memoria precisa di quel sapore assieme a tutte le altre, e sentirà qualcosa annodarsi dolorosamente e poi altrettanto dolorosamente disfarsi all’altezza del suo stomaco quando lo sentirà venire senza freni dentro di sé.
- Da adesso mi appartieni. – dirà il suo padrone, e Zlatan, abbassando lo sguardo annuirà.
- Sì. – dirà senza neanche provare vergogna, - Sì, dominus.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, What If?, Slash, Incest.
- Gli istanti, José lo sa bene, sono tutti importanti. Ogni singolo momento della nostra vita porta, sommato a tutti gli altri che abbiamo vissuto, a comprendere per quale motivo, ad un certo punto, ci si possa ritrovare in una determinata situazione o meno. José lo sa, perché il suo mestiere è questo: in quanto allenatore, lui prepara momenti. Prepara gli uomini a presentarsi preparati di fronte ad ogni singolo momento che possa cambiare la loro sorte o quella della sua squadra.
Il problema è che, per un momento come questo, nessuno avrebbe mai potuto preparare adeguatamente lui.
Note: Di base, questa storia (così come Hearts Gone Astray, scritta per il Reverse Bang @ bigbangitalia, con la quale non ha niente a che fare a livello di trama ma alla quale secondo me è legata da un filo conduttore emotivo parecchio evidente) nasce dal desiderio di riprendere in mano il Jobra in maniera seria e consistente, come non facevo da un sacco di tempo. L'idea è molto antica, ed anche la prima mezza paginetta circa della storia è stata scritta qualcosa come un annetto fa, ma nel riprenderla in mano mi sono resa conto come il bisogno di demolire tutto quello che avevo fatto col Jobra fino a quel momento era così forte da non poter essere ignorato. E' una storia profondamente addolorata, non voglio dire dolorosa perché questo spetterà ai lettori stabilirlo XD Ma addolorata, questo sì, e spero possa piacervi.
Grazie a Deffy per lo splendido fanmix che potete trovare qui (Frontcover - Backcover), e grazie anche per essersela sciroppata ed averla perfino gradita XD
La storia partecipa anche alla challenge indetta da 500themes_ita, ed è ispirata al prompt #58 (Il potere di un addio).
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BULLET WITH BUTTERFLY WINGS

Vi è mai capitato di ritrovarvi nella situazione di poter pensare o dire una frase come “potresti essere mia figlia”? È la classica battuta da padre di famiglia che, alle prese con una ragazza molto giovane, molto bella e molto disponibile, cerca di porre un ultimo muro fra lei e se stesso utilizzando la sciocca scusa del divario d’età. Come se una cosa del genere potesse fermare una ragazza dall’infilarti le mani nei pantaloni, se vuole, o come se un simile pretesto bastasse ad annullare la voglia che hai tu di sfiorarla fra le gambe, saggiare il suo calore e stupirti del suo sapore.
Naturalmente non serve, nei libri e nei film il momento stesso in cui questa battuta viene pronunciata segna l’inevitabile inizio della fine. Il padre di famiglia, in barba a tutti i buoni propositi, lascia che il muro della propria dignità venga abbattuto mattone dopo mattone, e puoi anticipare già ad un buon numero di pagine o di scene dalla fine come la situazione si evolverà e si concluderà.
È stato per questo motivo che non ho mai detto a Zlatan una cosa simile. Anche se la differenza d’età che ci separava mi avrebbe ampiamente giustificato, ho sempre evitato, con la speranza che questo potesse in qualche modo salvarmi dai suoi occhi, dal suo sorriso, dalla morbidezza dei suoi capelli, dalle linee dritte e definite dei suoi muscoli, dalle curve dei suoi glutei. Ci ho sempre sperato, un po’ ingenuamente, lo ammetto, perché Zlatan mi ha avuto dal primo momento. Ci sono cose che non puoi spiegare e io, davvero, mai e poi mai riuscirò a descrivere la sensazione che ho provato la prima volta che i miei occhi si sono posati su di lui che, fiero e apparentemente dimentico del mondo circostante, palleggiava disinvoltamente a centrocampo durante l’allenamento cominciato prima in attesa che arrivassi, mentre i suoi compagni contavano i palleggi, divertiti, tutti intorno a lui.
È stato qualcosa di simile ad un’esplosione, ma più discreto. Qualcosa di simile a una guerra, ma meno devastante. Qualcosa di simile a un fuoco d’artificio, ma meno rumoroso. Qualcosa di simile all’amore, ma meno netto. Più confuso. Più ambiguo – quasi sporco, dato anche il fatto che a tutto avrei dovuto pensare, in quel momento, tranne alla possibilità di lui e me stesi su un letto da qualche parte a fare non sapevo nemmeno io bene cosa.
Non so quanto possa essere utile redigere la cronistoria della nostra relazione – penso molto poco. E d’altronde, non devo a nessuno la risposta alla domanda “com’è stato possibile che vi siate messi insieme?”. No, la risposta che io e Zlatan dobbiamo al mondo è decisamente diversa, e non riguarda me e lui che diventiamo una cosa sola, ma me e lui che ritorniamo due cose distinte. Ed è una risposta che conosco, solo che non ho ancora trovato il coraggio di darla.
*
Vi è mai capitato di avere la possibilità di pensare o dire una frase come “potresti essere mia figlia”?
Vi è mai capitato di scoprire che era vero?
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Una delle prime cose che abbiamo fatto io e Zlatan, quando ci siamo conosciuti, è stata litigare. Zlatan è una delle persone più egocentriche e insopportabili che abbiano mai calpestato questa terra dalla sua creazione in poi, ed io sono identico, perciò, come disse Branca presentandoci l’uno all’altro, “fra di voi o funzionerà alla grande o saremo costretti a liberarci di uno dei due quanto prima”. Ora, il modo in cui funzionava fra me e Zlatan probabilmente non era “grandioso” nel senso più semplicistico e intuitivo del termine, ma a suo modo era perfetto.
La prima cosa su cui ebbe da ridire furono gli abbracci di gruppo. Guardacaso, la prima cosa che dissi io arrivando ad Appiano fu che su quella pratica non potevo transigere, perché il contatto umano e la vicinanza fisica dei giocatori erano e sono la base fondante degli equilibri dei miei spogliatoi. Risate ovvie a parte, tutti compresero con precisione ciò che intendevo dire con quel discorso. E lo comprese anche Zlatan, motivo per cui si lagnò e litigammo.
Litigammo perché Zlatan è una persona molto furba, che sa quando distribuire smancerie, ma di suo è uno svedese, perciò meno lo tocchi più lui è felice. Il suo temperamento caldo da zingaro indomabile fa a cazzotti con l’assoluta freddezza dei suoi calcoli mentali, è questo ciò che lo rende così incredibilmente incomprensibile e affascinante, la sua personalità è un miscuglio impossibile di ghiaccio e fuoco, è come se qualcuno avesse trovato il modo di impedire all’olio di restare in superficie se versato in un bicchiere pieno d’acqua. È una cosa che quando la osservi ti sembra impossibile – la fiamma fredda, il ghiaccio che prende fuoco – perciò rimani incantato a fissarla.
Zlatan credeva di poter fare così anche con me – la sua sfortuna è stata trovare in me il suo specchio perfetto. La qual cosa, immagino, avrebbe dovuto portarmi a sospettare ben prima di quando ho cominciato effettivamente a farlo. Ma questa è un’altra storia.
In ogni caso, venne da me con la stessa espressione di ironico scazzo che immagino avesse usato con il suo precedente allenatore in tutte le occasioni in cui aveva trovato opportuno lamentarsi di qualcosa. Motivo per cui, quando capii dove stavano andando a parare i suoi discorsi vaghi sulle “distanze da rispettare” e quella che a suo parere era la mia necessità di “abituarmi ad un modo di gestire le squadre molto diverso rispetto a quello della Premier League”, lo interruppi immediatamente col ghigno supponente e divertito che si meritava.
“Se tu credi” dissi con una mezza risata, “che questa sceneggiata ti porterà ad evitare gli abbracci, sei fuori strada. Anzi, ti dirò di più!” aggiunsi annuendo, “Da domani le sedute di abbracci dureranno dieci minuti invece che cinque e saranno ripetute a chiusura dell’allenamento, oltre che all’inizio!”.
Non ricordo con precisione tutti gli epiteti che mi rovesciò addosso – non tutti in una lingua che io potessi comprendere, peraltro. So che c’era di mezzo un qualche insignificante meschino presuntuoso arrogante ed anche un vedi tu ‘sto portoghese di merda, ai quali io non potei risparmiarmi di rispondere per le rime con una serie di stronzo supponente più pieno di sé di quella merda del tuo procuratore accompagnati da uno zingaro del cazzo, ci metto niente a tenerti fuori rosa finché non ti si arrugginiscono i legamenti, quindi tappa quella cazzo di bocca o usala in modi più adeguati ai tuoi talenti che comincio a pensare esulino dall’ambito calcistico.
Quando quel giorno, dopo le mie parole, mi afferrò per entrambe le spalle e mi spinse con forza verso la parete dietro di me, si avvicinò fino a sovrastarmi e mi si schiacciò addosso con un’ansia tale che ebbi appena il tempo di chiedermi quale fosse in effetti il suo problema col toccare i corpi altrui, che subito la risposta si formulò chiarissima nella mia mente: Zlatan aveva un problema molto serio con le misure, unica cosa che non era stato in grado di conciliare nel corso delle complicate operazioni che l’avevano portato a mitigare l’una con l’altra le due differenti parti della sua personalità. Era riuscito ad equilibrarsi quasi perfettamente, ma le misure erano rimaste sballate, perciò la sua spinta era un’irrazionale desiderio di toccare tutto il più possibile, per affrontarlo adeguatamente, mentre il suo riflesso condizionato era allontanarsi con disgusto una volta che un certo limite fosse stato travalicato – e quindi lui si fosse sentito particolarmente infastidito da un tocco eccessivamente prolungato.
Sembra assurdo ma non lo è: con una persona simile puoi discutere soltanto a letto. Scopare soddisfaceva entrambi i suoi bisogni – poteva avvicinarsi quanto voleva, con tutta la violenza che voleva e con tutta l’irruenza che lo contraddistingueva, e allo stesso tempo subito dopo poteva allontanarsi sbrigativamente, colonizzando il lato opposto del letto senza concedersi smancerie post-sesso e infastidendosi pure se per caso sentiva invaso il proprio spazio vitale.
Fu a letto che finimmo a discutere io e Zlatan, quella volta come in una miriade di volte successive. E mi piacerebbe poter dire che in fondo si trattava solo di sesso, che non c’era un certo trasporto dietro, perché allora sarebbe più facile. Purtroppo, la situazione era molto più complicata di così: io e Zlatan avevamo davvero un incredibile bisogno di parlarci; solo che non riuscivamo a farlo senza darci addosso, anche troppo violentemente, motivo per cui, prima di discutere, avevamo bisogno di sfiancarci.
Il sesso ci connetteva alla perfezione. Era il tassello mancante per rendere la nostra relazione vincente.
Io e Zlatan non abbiamo mai perso contro niente e nessuno, finché abbiamo continuato a scopare.
*
I sospetti sono cominciati per caso, per una sfortunata combinazione di eventi. Non capisci mai che enorme benedizione sia l’ignoranza finché la consapevolezza non ti prende a schiaffi in pieno viso, suppongo. Io sono uno dei più grandi sostenitori dell’utilizzare la conoscenza come un’arma, ma la verità pura è semplice è che, come tutte le armi, anche la conoscenza, quando la maneggi, può scivolarti dalle dita, sfuggire al tuo controllo e ferirti. O peggio.
Eravamo insieme, io e Zlatan, quel pomeriggio. Insieme e soli, in casa sua, come aveva preso a capitare sempre più spesso da quando, senza dircelo, avevamo capito di essere diventati dipendenti l’uno dall’altro. Helena aveva l’abitudine di portare spesso i bambini in Svezia, nel weekend, per passare un po’ di tempo coi nonni materni. Quelli paterni, d’altronde, li vedevano già abbastanza spesso, dal momento che i genitori di Zlatan, pur separatamente, a quanto mi aveva detto lui, abitavano anche loro a Milano, seguendolo più o meno ovunque lui andasse. Era una cosa che lo rendeva allegro, diceva, il fatto di poter sempre contare sui propri genitori in qualunque città avesse deciso di vivere. Non si riconosceva in nessuna patria, aveva una forte consapevolezza ed un enorme rispetto del sangue zingaro che gli scorreva nelle vene, ma mamma e papà, loro sì, erano il suo porto sicuro, la sua ancora, casa sua anche dove casa non c’era.
Era un pensiero che, in qualche modo, mi riempiva di tenerezza. Se avessi saputo che sarebbe stato il motivo per cui non avrei più potuto continuare ad ignorare la verità, probabilmente non sarebbe stato così.
Stavamo mangiando una pizza davanti alla televisione – ci divertivamo a fare cose così stupide, illudendoci di poter avere più di quello che potevamo concederci di nascosto dal resto del mondo – quando Jurka è entrata in casa e, ridendo, ha detto “scusa, tesoro, non sapevo che avessi compagnia”.
Non sono sicuro di poter spiegare cosa sia successo in quel momento. So che Zlatan non l’ha notato, ma d’altronde non avrebbe mai potuto, non aveva le informazioni di base necessarie ad accorgersene. Per me, è stato come attraversare la strada, voltarmi all’improvviso per nessun motivo in particolare e ritrovarmi faccia a faccia con un camion diretto verso di me alla massima velocità, senza nessuna possibilità di evitare l’impatto.
Conoscevo quella donna.
Fino a quel momento, il nome di Jurka Gravić non era stato altro che questo, per me. Un nome. Lo conoscevo, perché faceva parte dell’entourage composto da miliardi di nomi senza volti che giravano intorno a Zlatan, che costituivano la sua corazza, la sua protezione, il suo punto di partenza, la sua famiglia, ma non c’era niente, niente più di questo che la legasse a me.
Guardarla negli occhi è stato però tutto quello che mi è servito per capire che, a prescindere da ciò che legava lei a me, lei era tutto quello che legava me e Zlatan.
*
Vi è mai capitato di riflettere sui dettagli? Intendo, riflettere davvero. Comprenderne in pieno le potenzialità, la forza devastante.
Il mio è un mestiere di dettagli. Un mestiere di momenti. Sapete in cosa consiste il mestiere dell’allenatore? Quando vi dicono che prepariamo le partite, non è esatto. La preparazione della partita non è l’obiettivo, è la conseguenza. Volete sapere a cosa serve un allenatore? Un allenatore serve a preparare un momento. Un singolo momento. Quel momento che viene per ogni giocatore nel corso dei novanta e più minuti di una partita, quel momento in cui si pretende da lui che, posto in condizioni di stress e necessità, dia comunque il meglio di sé. Noi prepariamo quel singolo momento, prepariamo il momento in cui un attaccante, solo davanti al portiere, nella foga dell’azione e delle voci e delle luci puntate e del cuore che batte a mille per la fatica e la paura, riesce comunque a trovare all’interno della propria mente abbastanza serenità da calciare comunque la palla con l’angolazione giusta per impedire che il portiere possa catturarla fra le mani. Prepariamo quel momento in cui un difensore, nel vedersi correre incontro un attaccante e il suo compagno di reparto, riuscirà comunque a riflettere abbastanza lucidamente da indovinare la mossa più giusta per fermarli entrambi. Prepariamo quel momento in cui un portiere, a tu per tu col portatore di palla pronto a tirare, riuscirà comunque ad osservare la situazione con freddezza sufficiente ad intuire la traiettoria, a lanciarsi con la velocità giusta, a stringere la presa attorno al pallone con abbastanza decisione da impedirgli di rotolare in rete alle sue spalle.
Prepariamo quello, noi. Non la partita. Gli uomini. I loro personali istanti, i loro momenti, i dettagli.
Sono i dettagli a decidere le esistenze. I singoli momenti. La loro somma, certo, ma questo non fa che renderli tutti importanti, presi singolarmente. Una somma non è che l’unione di differenti singoli, e quando ogni singolo contribuisce al totale va da sé che anche un minimo errore può condurre verso un risultato sbagliato.
Il mio dettaglio risale ad uno degli inverni più gelidi che ricordi, al gennaio plumbeo e ghiacciato che mi accolse a Malmö nel 1981. A mio padre, al suo sorriso bonario mentre mi osserva stare un’ora in fila al telefono dell’albergo la sera successiva all’amichevole con una squadretta locale – secondo lui era fondamentale, fondamentale che si facessero esperienze europee, anche al livello a cui era il Rio Ave quando ci giocavo io – nel tentativo disperato di sentire la voce di Tami almeno per qualche minuto, alla sua voce, quel timbro caldo e paziente, quando mi disse “goditela un po’ la vita, Zay. Goditela finché sei giovane”. Al freddo pungente di quella sera, di un giorno perso nel calendario perché a diciotto anni – diciotto anni, Dio – l’importanza dei dettagli e degli istanti non la conosci ancora, al vento gelido che spazzava le vie semivuote, al bar illuminato che sembrava l’unico luogo ancora vivo e sveglio a quell’ora in tutta la città, alla birra, all’altra birra, a quella ragazza, ai suoi capelli rossi, agli occhi profondi e scuri, alla linea precisa delle sue labbra sottili, a quanto abbia desiderato baciarla, a quanto male mi abbia fatto sentire il pensiero di Tami a chilometri di distanza in Portogallo, a come per un istante, un singolo istante, fra le cosce di quella sconosciuta senza nome mi sia sentito così stupidamente felice da potermi mettere perfino a ridere.
Alla sua voce. “Sei ubriaco perso.” Alla sua voce. “Scusa, tesoro, non sapevo che avessi compagnia.”
Avevo diciott’anni. Ero poco più di un bambino. Com’è potuto succedere, mi chiedo? Come si fa a rovinarsi la vita così senza neanche accorgersene? Come si vive con questa consapevolezza asfissiante, senza scampo, come convivi con l’idea che qualsiasi azione tu possa compiere avrà una conseguenza su te stesso, su chiunque altro, anche a distanza di così tanti anni?
Certe volte è come sparare in aria e poi dimenticarsi che il proiettile, in qualche modo, deve pur tornare a terra. Certe volte ti stai sparando dritto in fronte, e nemmeno te ne accorgi.
*
Ho retto il colpo. Il sangue freddo è la mia dote migliore, probabilmente, deriva da una positività innata che mi porta a pensare automaticamente che, qualsiasi sia il problema in cui mi ritrovo invischiato in qualsiasi momento, riuscirò in qualche modo a tirarmene fuori. L’idea giusta arriverà ed io sarò bravo abbastanza da risolvere la situazione, magari anche rigirandola a mio favore.
Per alcuni è una debolezza. D’altronde, è un sistema di auto conforto basato tutto sulla speranza. La speranza, alcuni pensano, rende gli uomini deboli. Li rende più naturalmente predisposti alla delusione, e quindi all’abbattimento. Io non credo, io credo che la speranza sia una grande forza. Dà agli uomini un obbiettivo verso il quale tendersi, una ragione per alzarsi al mattino, rendersi presentabili ed uscire fuori, nel mondo, a pretendere la propria fetta di fortuna. L’idea che il domani nasconda sempre qualcosa di meglio dell’oggi è consolante, incoraggiante, anche chi dice di essere realista non riesce mai completamente a rinunciare alle lusinghe dell’ignoto, perché l’ignoto per sua natura esiste solo per trascinarti di un passo in avanti nel futuro attratto dai misteri che porta con sé.
Per giorni, io ho trovato comodo vivere in quell’incertezza. Nel pensiero che, andiamo, era incredibile, estremamente improbabile che quell’unica notte avesse provocato una conseguenza simile. Una notte soltanto. Una sola volta. Quante possibilità esistevano, statisticamente, che il risultato potesse essere proprio quello? Oltretutto, pensavo, sicuramente non ero io l’unico col quale Jurka si fosse intrattenuta, in quel periodo. Non potevo saperlo con certezza, ma c’era sempre la possibilità che il padre di Zlatan, l’uomo con cui era cresciuto, fosse davvero anche il suo padre biologico. Sarebbe stato del tutto normale, Jurka stava con lui, in quel periodo.
È durata solo qualche giorno, comunque. Avevo visto qualcosa, negli occhi di Jurka, quel giorno a casa di Zlatan, qualcosa che mi aveva preoccupato ben più di quanto potessi ammettere. Un fantasma che mi inseguiva ogni volta che posavo gli occhi su di lui, ogni volta che sfioravo le sue labbra con le mie, ogni volta che ci stringevamo l’uno all’altro ed io cercavo di non notare quanto risultassero spaventosamente evidenti particolari che, fino a poco tempo prima, non avevano rappresentato per me niente di particolarmente sconvolgente. La forma delle mani, la curva della schiena, il disegno delle spalle, i contorni delle labbra. Assomigliavano davvero ai miei? Non saprei dirlo. A me sembrava di sì, mi sembrava che mi assomigliasse in maniera impressionante, mi sembrava che mi assomigliasse ogni giorno di più, che di minuto in minuto le somiglianze crescessero, si ingigantissero. E gli occhi tristi di Jurka, il modo in cui non aveva osato reggere il mio sguardo per tutto il tempo in cui era rimasta in casa di Zlatan, fino a cedere ed andare via perfino prima di me, che pure fin da subito, vedendola, avevo sentito fortissimo il desiderio di scappare. Chissà, forse perché avevo paura delle conferme che i suoi occhi avrebbero potuto darmi se solo avessi continuato a guardarli più attentamente.
Il test del DNA l’ho chiesto al termine di una settimana di ansie talmente convulse da impedirmi di dormire. Dopo sette giorni trascorsi nell’incapacità di tornare a casa e guardare Tami negli occhi, o di restare in Pinetina col rischio di dover affrontare Zlatan nonostante già da un paio di giorni avessi smesso di cercarlo, nonostante lui continuasse ostinatamente a cercare me, ho capito che c’era un limite oltre il quale l’ostinazione non poteva più spingersi, ed io quel limite l’avevo già spinto ad allargarsi, e poi l’avevo travalicato, calpestandolo sotto le suole delle scarpe, senza neanche accorgermene, come al solito.
Più di così, però, non potevo fare. Più di tanto non potevo muovermi.
Ho retto, finché non sono arrivati i risultati. Combi, l’unico al quale potessi rivolgermi con la certezza che non avrebbe parlato con nessuno di quanto scoperto, ci tenne a incontrarmi nel suo studio. Non il suo ufficio ad Appiano, all’interno del centro sportivo, ma il suo studio privato. Mi accolse ad un orario improbabile del mattino, ricordo che uscii dalla stanza d’albergo in cui avevo trovato rifugio per quella notte di crampi ansiosi, e che il cielo era una massa grigia uniforme, e che l’aria umida sembrava volesse stringermi un nodo attorno alla gola. Ricordo che arrivai lì e lo studio era vuoto, nessuna segretaria, nessun assistente, solo lui. Ricordo i suoi occhi, l’espressione del suo viso, la serietà estrema del suo tono di voce. “È confidenziale, mister,” disse, “voglio che lo sappia. Sarà lei a decidere quando e se dirlo a Zlatan.”
Quando e se dirlo a Zlatan.
Ricordo di essere uscito da quell’ufficio con la testa completamente vuota. Mi sentivo contemporaneamente ingolfato dai pensieri ed incapace di pensare. Ricordo il nodo che mi stringeva lo stomaco, la nausea fortissima mentre, a bordo della mia auto, raggiungevo nuovamente l’albergo, e tornavo in camera.
Ricordo di essermi chiuso la porta alle spalle, e di avere poi fatto la stessa cosa con quella del bagno un attimo prima di chinarmi sulla tazza del cesso e vomitare. Non ricordo quanto a lungo. Sembrava non dovesse finire mai.
Ricordo il sapore acido sulla lingua, il bruciore delle lacrime negli occhi, ed un senso di smarrimento talmente profondo da lasciarmi sbigottito.
Quando e se dirlo a Zlatan.
Non sapevo neanche quando e se avrei avuto il coraggio di confermarlo a me stesso.
*
L’indirizzo di casa di Jurka lo trovo in mezzo alla roba di Zlatan, durante il primo allenamento della nuova stagione. Non l’ho mai cercato, durante la pausa estiva, ho sperato fino all’ultimo momento di poter prendere ciò che sapevo e nasconderlo per bene dentro di me, fino a riuscire a sviluppare la capacità di ignorarlo.
Non è servito. I nostri sguardi si sono incrociati stamattina, quando è arrivato ad Appiano. Io stavo parlando con Branca, niente di serio, eravamo lì ad augurarci un buon lavoro, quando Zlatan è entrato all’interno dell’edificio, attraversando la porta principale, ed io l’ho visto muoversi come al rallentatore, come se i miei sensi stessero cercando di prolungare l’agonia. Ed io l’ho guardato e lui ha guardato me, ed io ho capito di non avere speranza.
La conoscenza è un’arma a doppio taglio, e in quel momento io la stavo usando senza volere per trapassare me stesso e Zlatan in un colpo solo. Non poteva continuare.
Cerco l’indirizzo di Jurka e lo trovo. So che non lavora, e so che vive da sola. Devo andare da lei immediatamente.
Fingo un malore e chiedo a Beppe di continuare l’allenamento in mia vece, se possibile di non spargere troppo la voce della mia assenza, specie di fronte ai giornalisti. Voglio essere lasciato in pace.
Raggiungo il parcheggio e recupero la macchina, e per tutto il tempo della strada verso l’appartamento di Jurka non faccio che pensare che non ho mai sentito Zlatan parlare dei suoi genitori come se li avesse mai visti insieme. Mi ha sempre detto di avere un rapporto abbastanza stretto, con sua madre, sì, ma di essere comunque cresciuto lontano da lei, col padre e la sua compagna. Di non averli mai visti sposati.
Il cuore mi batte così forte da pompare il sangue alla testa troppo velocemente. Sono costretto a fermarmi a più riprese, sia per un capogiro, sia perché voglio tornare indietro, sia perché sono convinto che non ce la farò. Perché non ce la posso in alcun modo fare, non so come gestirla, una cosa simile. Non so con che faccia andare da Jurka a chiederle ciò che devo chiederle, non so con che faccia poi riuscirò, dopo averlo fatto, a tornare indietro e parlare con Zlatan. Perché in ogni caso dovrò farlo. E io non mi sento forte abbastanza. Non sono forte abbastanza.
È un miracolo che arrivi vivo a destinazione. Un miracolo, ma non sono convinto che sia un miracolo positivo. Fermo la macchina in una stradina laterale, sperando che il posto sia discreto abbastanza. Scivolo fino al portone d’ingresso del palazzo, citofono, lei mi risponde, quando capisce che sono io le sento trattenere il fiato per un’enormità di tempo, e non so più se è lei che ha davvero smesso di respirare per secondi interi, o se sono io che dilato gli istanti perché, per la prima volta, il futuro mi fa paura.
- Sali. – dice Jurka, ed io salgo. Sta al primo piano. Mi aspetta sulla soglia, sguardo basso, aria afflitta, l’aria di una che vorrebbe trovarsi altrove, che nonostante sia rassegnata ad affrontare quello che la aspetta sta ancora sperando, da qualche parte dentro di sé, che il suo carnefice cambi idea, e la lasci in pace.
Stringo i pugni e mi avvicino. Lei si scosta per lasciarmi passare, chiude la porta guardando a sinistra e a destra sul pianerottolo per assicurarsi che nessuno mi abbia visto, e poi torna a guardarmi, e ha già gli occhi pieni di lacrime.
- So che— - comincia, ma io non posso lasciarle il tempo di finire.
- È mio? – domando. Le volto ancora le spalle. – È mio figlio?
Jurka trattiene il fiato un’altra volta, come sopraffatta. Se chiudo gli occhi, posso ancora ricordarla mentre fa la stessa cosa, stesa sotto di me, mentre viene stringendomi al petto. È un incubo. Dev’essere un incubo. È tutto sbagliato. E io non posso farcela.
- È tuo. – risponde lei. È solo un fiato, un’imitazione di voce, un rantolo sofferente che si insinua dentro di me e mi squassa le viscere, come un pugno bene assestato. Esalo un singhiozzo sconfortato mentre mi premo le mani contro il viso, e lei continua a parlare e la sua voce è rotta dal pianto. – Io e Šefik ci eravamo appena lasciati, sapevo che non ti avrei più rivisto, che avevi una vita, una fidanzata a casa, eri troppo giovane, so di avere sbagliato, ma avevo l’occasione di dare a mio figlio un padre vero, e—
- Jurka. – la interrompo, scuotendo il capo e voltandomi verso di lei. Il dolore è passato. Anche la confusione. Come quando stai male e, dopo un accesso violento, il dolore sfuma lasciandoti in quella particolare condizione di calma in cui sai già che devi solo aspettarti la prossima scarica, e che sarà forse perfino più violenta di quella che l’ha preceduta, ma in quel momento, in quel preciso istante, stai bene. Di un bene perfetto che non può essere alterato. – Non devi giustificarti con me. – la rassicuro a bassa voce, forzando un sorriso e poggiandole una mano sulla spalla. Lei ha gli occhi pieni di lacrime e mi guarda smarrita, mordendosi con forza un labbro. – Capisco le tue ragioni. – insisto annuendo. Anche lei annuisce, come se seguirmi nei gesti potesse donarle un briciolo della tranquillità che sto dimostrando io. – Devo chiederti una cosa, però. – continuo. Sento la tensione concentrarsi su ogni fibra del suo corpo, la sento nella spalla sulla quale la mia mano è ancora poggiata, la vedo sui lineamenti del suo volto che si induriscono improvvisamente quando resto in silenzio a lungo, fino ad averla vista annuire per chiedermi di andare avanti.
Quando parlo, sento anche entrambi i nostri cuori che si spezzano. Perché tutto ha una conseguenza, e quello che le ho chiesto può averne una sola, per entrambi.
*
Zlatan è nervoso. Glielo leggo addosso con una facilità impressionante, una facilità che già da sola, se ci penso, fa male da morire. Lo conosco bene, condivido con lui più di quanto non abbia mai condiviso con nessun altro, quello che ci lega, per certi versi, è perfino più intenso di quello che mi lega a Tami, in questo momento, eppure tutto questo a cosa mi servirà? A cosa mi serve, nel momento in cui dovrei guardarlo negli occhi e parlargli sinceramente, e so già che invece non lo farò?
Quanto amore sprecato, penso mentre lo osservo prendere posto sulla poltrona di fronte alla mia scrivania. Quanto amore sprecato. Quanto dolore inutile.
- Finalmente. – comincia lui a muso duro, il tono acido che si riserva di utilizzare con chiunque lo deluda, per un motivo o per un altro, - Ci hai messo solo tre mesi. Sono commosso.
Distolgo lo sguardo, perché potrei anche dirgli che non ho idea di cosa stia parlando, ma servirebbe solo a prendere tempo, ed io non voglio. Questo incontro è già durato fin troppo – troppo più di quanto non posso permettere al mio fisico di sopportare senza sentire il bisogno di ripensare a tutte le volte che siamo andati a letto insieme, a quanto mi è piaciuto, e a quanto adesso il solo pensiero mi rivolti lo stomaco fino a darmi la nausea.
Non so perché succeda. So che non è colpa mia, né colpa sua. Non lo sapevamo. Non sono davvero stato suo padre. Non ho idea di cosa costringa il mio fisico a reagire così violentemente al pensiero del nostro rapporto, non sono neanche sicuro che sia un problema morale o etico. È solo troppo sbagliato, troppo ingiusto. Fa male come quando ti prendono a calci fino a farti venire da vomitare. È la stessa cosa.
Lo so di cosa sta parlando Zlatan. Lo so che sta parlando di come, da un giorno all’altro, io abbia smesso di parlargli, di guardarlo, o anche solo di considerarlo una parte pur minima della mia vita. Lo so che parla dell’assoluta mancanza di rispetto con la quale l’ho tagliato fuori da una cosa all’interno della quale, fino a tre mesi fa, era invischiato fino al collo – me stesso. Lo so che, di base, parla di quanto gli sono mancato. Lo so, perché io provo lo stesso tipo di sentimento, solo che nel suo caso è accompagnato solo da tanta rabbia, perché non capisce la mia decisione, mentre nel mio caso la nostalgia è sempre, costantemente, accompagnata dal disgusto.
- Dobbiamo parlare. – dico a bassa voce, occhi fissi sul piano lucido e scuro della scrivania.
- Sì, mi sembra l’eufemismo del secolo. – sbuffa lui, e poi lo osservo – lo percepisco – rilassarsi contro lo schienale della propria poltrona, mentre accavalla le gambe. – Andiamo, Zay. – dice, e la sua voce è dolce, dolce quanto non è mai stata, o forse sembra tale solo a me, perché so che presto smetterò di vederlo in queste situazioni, in cui si rilassa abbastanza da consentirsi di mollare la presa su se stesso. – Che cazzo è successo? Così, da un giorno all’altro… dimmi almeno che cazzo ho combinato, troviamo una soluzione, così non può—
- Non è colpa tua. – dico, forzandomi a parlare perché ho la lingua annodata, e la gola intasata, e il cuore che batte così forte da rimbombarmi dolorosamente nelle orecchie, - Sono… sono io.
L’esposizione è formalmente corretta. Almeno questo.
Zlatan mi guarda a lungo, il peso del suo silenzio è sconvolgente. Ha gli occhi sgranati e, per molti secondi, sembra non riuscire neanche a mettere ordine fra i propri pensieri.
- Stai scherzando. – dice quindi, e non è neanche una domanda, - Stai scherzando, José, cazzo. Guardami! Cosa ti sembro, assomiglio ad una liceale? Tu cosa ti senti, cosa credi di essere? – si alza in piedi, passandosi entrambe le mani sul viso e poi fra i capelli mentre gira attorno alla poltrona, facendo un paio di passi per scaricare il nervosismo e poi tornando a voltarsi verso di me, stringendo il bordo superiore dello schienale fra le mani con tanta forza da affondare le dita nell’imbottitura. – Non puoi dire sul serio.
- Mi dispiace. – scollo io, incapace di guardarlo negli occhi.
- Vaffanculo! – risponde lui, scuotendo la poltrona con forza ed allontanandola da sé con veemenza sufficiente a mandarla a sbattere contro la scrivania, - Vaffanculo! Stai scherzando! Io non ci posso credere— è per questo che mi hai fatto venire qui, José? Per— per scaricarmi come fossi un fottuto moccioso al quale puoi rifilare una qualsiasi stronzata perché pendeva dalle tue labbra fino a ieri e continuerà a farlo anche domani? Ma per chi cazzo mi hai preso, portoghese di merda?! Come cazzo ti permetti?!
- Mi dispiace. – insisto io, stringendo i pugni sul ripiano della scrivania. Ogni parola di Zlatan mi scava una voragine sottopelle. È come osservare una città che viene bombardata, chiamare per nome ognuno degli edifici che finiscono in macerie, contarli uno per uno e non sapere come fare a rimetterli in sesto. Sto guardando le rovine della mia vita con la consapevolezza di aver contribuito in prima persona a ridurla in queste condizioni. – Mi dispiace. – ripeto scuotendo il capo, e non so più nemmeno con chi mi sto scusando – con lui, con me stesso – o per che cosa.
- Me ne sbatto il cazzo delle tue scuse! – grida lui, incredulo, e poi la sua voce cambia nuovamente tono. – Zay, - dice con evidente preoccupazione, girando attorno alla scrivania ed inginocchiandosi davanti alla mia poltrona, nel tentativo disperato di intercettare i miei occhi e tenerli incollati ai suoi. Io rifuggo il suo sguardo senza pietà, ma lui non si lascia scoraggiare. – Zay, per favore. – dice, e così in ginocchio io non riesco nemmeno a concepirlo, - Per favore, non allontanarmi. Non così. Parliamone, ti prego. Così è… così no. – la voce gli si spezza appena, mentre scuote velocemente il capo, - Così no. Parlami.
Sento le sue dita farsi strada fra le mie, intrecciarsi ad esse con delicatezza, e guardo lo spettacolo che sono così strette le une alle altre, quasi annodate.
Poi ritraggo violentemente la mano, allontanandomi da lui al punto da dovermi alzare in piedi, ed avvicinandomi alla finestra per guardare di fuori, dandogli le spalle. Appiano è caldissima, fa il bagno nel sole di agosto mentre ogni cosa brilla del riflesso dei suoi raggi.
L’estate è una stagione di merda per dire addio.
- Non c’è niente di cui parlare. – dico piano, ma con decisione. – È finita.
La vita degli uomini è fatta di istanti. Ogni istante è segnato dalle scelte che in quell’istante possono essere compiute. Io potevo dirgli tutto, ogni cosa, spingere sulle sue spalle un po’ del peso col quale sarò costretto a convivere per tutto il resto della mia esistenza, ma ho scelto di fare diversamente.
Nessun figlio dovrebbe essere costretto a dividere il peso dei peccati di suo padre.
- Zay. – quasi balbetta Zlatan, la voce ridotta ad un sussurro, mentre io ripercorro mentalmente la mia ultima discussione con Jurka, la sua promessa di tacere questo segreto con chiunque, il suo consenso a partire per un po’, per non essere costretta a vedere Zlatan distrutto da qualcosa di cui non comprende il perché, per sfuggire alla tentazione così tipicamente materna di alleggerire il suo carico di disperazione dicendogli ogni cosa. Ho fatto la scelta migliore. L’unica possibile. Andrà tutto bene. – Zay, il Barcellona mi ha fatto un’offerta. Dammi un motivo per restare, o non resterò.
Restando in silenzio, dopo aver ignorato questa sua ultima preghiera, lo ascolto nascondere un singhiozzo ed abbandonare la stanza dopo aver colpito violentemente la scrivania col palmo della mano aperta, e penso che almeno è finita. Adesso posso solo rimettere insieme i pezzi.
So di aver fatto la scelta giusta quando realizzo in un mezzo sorriso che, almeno, questi pezzi saranno solo i miei.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: José/Zlatan, Pep/Zlatan.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, What If?, Slash, Death.
- Una telefonata nel cuore della notte, una vita che cambia per sempre. O forse più di una sola, forse la sua e tutte quelle ad essa connesse, perché ad ogni azione corrisponde una reazione, anche se l'azione non era nemmeno voluta. E questo José lo sa bene.
Note: Mentre compilavo lo schema di questa storia, più precisamente la voce sul pairing, mi sono sentita un attimino in imbarazzo, perché per quanto sia vero che due rapporti romantici si pongono alla base di quello che racconto, in realtà questa non è una storia romantica. E' una storia che in realtà non parla neanche di rapporti, o meglio, non completamente. E' una storia che parla di assenze, principalmente, di come ognuno possa reagire diversamente di fronte allo stesso tipo di perdita, di come, addirittura, la stessa perdita possa essere diversa in sé in relazione a coloro che ne subiscono gli effetti.
Sostanzialmente, lasciando da parte i seriosismi e i filosofeggiamenti, è una storia pesa, pesa e triste, ma io sono contenta di averla scritta, di essermi da lei lasciata trascinare, in un certo senso, fin quasi a provare fastidio all'idea di riprenderla in mano, o di scavare più a fondo.
Grazie al Def ed alla sua splendida coverart per averla portata alla luce. Ironicamente, sono convinta che, da qualche parte, questa storia già esistesse. Andava solo riesumata. *ride*
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HEARTS GONE ASTRAY

La telefonata arriva in piena notte. José ci ripenserà spesso, negli anni a venire, non smetterà mai davvero di pensarci. Perché è un momento quasi filmico, una di quelle situazioni surreali che nella vita vera non si verificano mai – o almeno così credi, naturalmente finché non ti capitano – ma delle quali la cinematografia, specie quella scadente, è costellata. La telefonata che arriva in piena notte. Quella che annuncia “c’è stato un incidente”. E chiunque parla, dall’altro lato della cornetta, lo fa con la voce rotta e sembra non riuscire mai ad arrivare al punto, come stesse rimandando coscientemente il momento in cui ti dirà il vero motivo per cui ha chiamato.
Nel suo caso, è Pep, il che rende la situazione ancora più assurda, perché non lo sente al telefono da sei mesi, almeno. La sua voce suona strana, irreale, tanto che in un primo momento José si chiede se sia sveglio davvero. Magari è un sogno, si dice. Perché mai Pep dovrebbe chiamarmi a quest’ora?
- C’è stato un incidente. – dice, e la sua voce è proprio come dovrebbe essere, incerta, spezzata dai singhiozzi, disperata. José si solleva a sedere. Accende la luce. Tami, accanto a lui, mugola infastidita e poi si volta su un fianco, scrutandolo attraverso il velo di sonno che ancora le annebbia la vista.
- Che succede…? – domanda, mettendosi a sedere a propria volta. José non risponde. Guarda dritto davanti a sé.
- Zay, sei lì? – chiede Pep, incerto, ed a José si ghiaccia il sangue nelle vene, perché quel soprannome riporta alla memoria troppe cose, ed in questo momento sembra troppo fuori luogo. Troppo strano, per non farlo pensare immediatamente a Zlatan, e mentre una parte del suo cervello si chiede per quale motivo dovrebbe pensare a lui proprio in questo momento, l’altra parte conosce già la risposta a questa domanda, e per questo tace.
- Sono qui. – dice, la voce rauca di sonno che gratta lungo le pareti della gola, faticando a venire fuori chiara come José avrebbe preferito. Non vuole mostrarsi debole. Non adesso, non con Pep. Ma è tutto orgoglio che in pochi secondi non gli sarà più di alcun aiuto.
- C’è stato un incidente. – riprende lui. Parla lentamente, nervosamente. José riesce solo a pensare “dillo. Dillo e basta”. – È Zlatan, Zay. È… è stato un incidente grave. Dovresti—
José non lo lascia finire. Interrompe la chiamata, e lo fa muovendosi lentamente, con pazienza. Ha tempo. Posa la cornetta, si piega oltre il comodino, stacca la presa dal muro. Poi si alza in piedi, dice a Tami di non preoccuparsi e tornare a dormire ed esce dalla stanza. Stacca ogni presa di ogni telefono che incontra sul proprio cammino. Con calma. Ha tempo. Si muove lentamente, raggiunge il salotto. Il suo cellulare è lì, poggiato sul tavolino da caffè. Lo spegne. Con calma. Ha tempo.
Si siede sul divano, davanti alla televisione. Recupera il telecomando e la accende. Con calma. Ha tutto il tempo del mondo perché non può succedere nient’altro, ormai. È tutto già finito. Prima ancora che lui potesse vederlo cominciare, è già finito.
Mentre fissa senza vederle realmente le immagini che scorrono sullo schermo del televisore – niente di particolarmente eclatanti: i due giornalisti di turno al notiziario di Sky Sport 24, i loro volti contratti, tesi in un’espressione grave e sinceramente sconvolta, la metà inferiore dello schermo sulla quale scorrono una dopo l’altra le varie notizie della giornata, in piccolo, così che quella più recente possa continuare a dominare lo schermo dal rettangolo rosso vivo che la mette in evidenza, il quadratino in alto a sinistra dal quale un giornalista infreddolito e stanco, avvolto in un cappotto che sembra non tenerlo per niente al caldo, stringendo convulsamente il microfono vicino alle labbra e sistemandosi continuamente gli occhiali sul naso in un gesto nervoso, continua a ripetere come in una cantilena “come potete vedere… l’incidente… l’uomo che l’ha causato è illeso… i rottami… le autorità… i soccorsi… l’ambulanza… non respirava già più” – mentre sta lì seduto sul divano e stringe il telecomando fra le dita come volesse strozzarlo, arriva la prima ondata di rabbia. Lo stronzo è morto sul colpo, il fottuto bastardo. La testa di cazzo che non è— che non era altro, è morto sul colpo, il maledetto figlio di puttana. Senza lasciargli neanche una speranza, senza nemmeno lasciargli la possibilità di accorrere al suo dannatissimo capezzale e piangere fino a sfinirsi stringendogli una mano e implorandolo di svegliarsi perché aveva promesso che sarebbe morto per lui, ma questo no, così no, questo non è morire per qualcosa, neanche per qualcuno, tantomeno per lui. Questa è una morte inutile, una morte del cazzo, una morte assurda, e lui non può accettarla.
- Zay?
La voce di Tami scivola dolce e sottile tra le pieghe della sua confusione mentale, si sovrappone alla immagini sullo schermo, le ricopre di una patina di irrealtà. José si volta a guardarla, e scopre che sembra sbiadita anche lei.
No, è lui che sta piangendo.
- Dio mio…
José si lascia abbracciare senza opporre alcuna resistenza. Lei se lo stringe contro, gli accarezza i capelli, gli sussurra di calmarsi, ma José singhiozza tanto forte da scuotere anche il corpo di sua moglie assieme al proprio. Lei non se ne lamenta, non si lamenta nemmeno della mani che le si chiudono attorno alla vita con violenza, con l’unico scopo di aggrapparsi disperatamente all’unica cosa viva che gli sia rimasta intorno. Lo lascia sfogare per tutto il tempo che gli serve, e José non sa nemmeno perché sta piangendo così.
Forse perché fa un male fottuto. La spiegazione semplice. Fa un male fottuto del cazzo, fa un male insopportabile, il solo pensiero che Zlatan non ci sia più gli lascia dentro un buco, un cratere, una voragine, un universo di vuoto, e José non sa gestirlo, perché fa troppo male. Non è un dolore che si sente in grado di tenere alla larga, è troppo invasivo, troppo totalizzante, troppo permanente.
È terrorizzato dalla consapevolezza senza speranza che questo dolore non andrà più via. Mai più. Dovrà imparare a vivere con la certezza che non imparerà mai a conviverci. Sarà come tenersi dentro per sempre un frammento di dolore fisico, impossibile da espellere, che non farà altro che scivolare assieme al sangue all’interno del suo apparato circolatorio. Un giorno, raggiungerà il cuore, e lo ucciderà, ed allora José potrà dire di essere morto per Zlatan, anche se lui non l’aveva mai promesso.
*
Tami lo convince a provare a dormire, almeno un po’. Lui si rifiuta di tornare a letto, però, perciò si raggomitola sul divano, la testa appoggiata sulle ginocchia di sua moglie, e si lascia accudire come fosse un bambino ammalato. Tami lo avvolge in una coperta di lana e passa tutto il resto della notte seduta ad accarezzargli i capelli, le tempie e il viso, nel tentativo di calmarlo. José ha gli occhi sbarrati, dormire non è un’opzione, sente il nervosismo montare sottopelle ma non vuole dire a Tami di lasciarlo andare, perciò rimane lì, in bilico fra la voglia di scoppiare a piangere e quella di mettersi a urlare istericamente, finché la luce del sole all’alba non comincia a riflettersi fastidiosamente sullo schermo ancora acceso del televisore. I giornalisti dietro al tavolo sono cambiati, ma la notizia scritta a caratteri cubitali in bianco su sfondo rosso è sempre la stessa. Incidente automobilistico. Zlatan è morto sul colpo. I soccorsi non sono serviti a nient’altro che a constatare il decesso.
Si alza in piedi alle sei meno un quarto. Da qualche parte nel corso della notte, Tami si è addormentata di nuovo. José la osserva, la testa elegantemente ripiegata sul petto, i lunghi capelli che le scivolano sulla fronte, lungo le guance, sul collo, incorniciandole il viso. È così bella. Gli piacerebbe riuscire a trovare in questo anche solo un minimo di consolazione. Ma non è abbastanza, non adesso. Non ancora, almeno.
Si passa una mano sul viso, cercando di scuotersi di dosso un po’ di stanchezza. Gli bruciano insopportabilmente gli occhi.
Va in bagno, si lava sommariamente, poi entra in camera e si cambia. Recupera un borsone dall’armadio, lo riempie di vestiti e biancheria pulita alla rinfusa, poi torna in salotto. Tami sta ancora dormendo. Le lascia un biglietto sul tavolino da caffè, le dice di non preoccuparsi, che la chiamerà più tardi, che deve andare a Barcellona, deve essere lì, deve esserci per Zlatan, deve farlo per forza, poi strappa via il foglio e ricomincia. Le ripete di non preoccuparsi. Che la chiamerà più tardi. Che deve andare a Barcellona. Che le spiegherà tutto. Le ultime parole le cancella. Strappa di nuovo il foglio e riscrive solo fino a “devo andare a Barcellona”. Poi aggiunge di salutargli i bambini appena si svegliano, di dire loro che papà tornerà presto. Uscendo di casa, pensa di buttare i fogli strappati nel cestino dell’immondizia, ma poi cambia idea. Li infila in tasca, li porta con sé, li butta nel primo cassonetto disponibile per strada.
Poi prende un taxi. Si fa portare in aeroporto, prende un posto sul primo volo disponibile per Barcellona. Deve attendere un paio d’ore. La ragazza al banco del check-in lo riconosce, gli dice “abbiamo una saletta privata, se preferisce aspettare lì”. José annuisce perché non ha nessuna voglia di essere assalito da chiunque possa vederlo lì.
La ragazza lo accompagna personalmente. La saletta privata è una piccola sala d’aspetto dall’aria elegante e pulita, le pareti bianche, le sedie dall’aspetto curato, praticamente nuovo. Sono nere e lucide, hanno l’aria di essere la cosa più scomoda mai concepita da mente umana.
All’interno della saletta ci sono un altro paio di persone, uomini d’affari, si direbbe, o qualcos’altro di ugualmente noioso. Nascosti dietro agli schermi dei propri tablet ed all’interno del loro involucro di cotone firmato Armani, restano appollaiati sulle loro sedie come se il mondo non fosse appena giunto al proprio capolinea. José si sente come l’unico protettore di questo terribile segreto: il mondo è già finito, ma nessuno se n’è ancora accorto. Si aspetta quasi di cominciare a vedere la realtà ridursi in pezzi sotto i suoi stessi occhi da un minuto all’altro.
È molto deludente quando, calmandosi un po’, capisce che non avverrà.
Le due ore passano in fretta, più in fretta di quanto non avrebbe mai pensato possibile. Non gli è mai capitato di veder scorrere i minuti con una tale furia, in realtà è sempre successo semmai il contrario: ogni volta che, per qualche motivo, ha desiderato che il tempo scorresse più in fretta, quello non faceva che rallentare.
Suppone che stavolta il punto fosse proprio che lui avrebbe preferito non vederlo passare mai.
Si concede di rilassarsi un po’ solo quando l’aereo prende quota. Chiede un tè all’hostess che passa fra le file di sedili, lo sorseggia solo fino a metà. Non sa di niente. È acqua sporca. Prova ad aggiungere un altro po’ di zucchero, ma resta acqua sporca. Un po’ più dolce, forse. Non abbastanza da costringersi a finire di mandarla giù.
Si accomoda meglio contro lo schienale al proprio posto, fissa fuori dall’oblò per un paio di minuti. Nient’altro che cielo e nuvole. Il sole picchia forte, adesso, costringendolo a socchiudere gli occhi. Ha le palpebre pesanti, ora che i nervi gli si distendono comincia a sentirsi stanco, assonnato. Si lascia andare, e nel sogno è in macchina con Zlatan. Forse è un ricordo, forse no. Zlatan sembra corrucciato, forse perfino offeso. “Non dovresti essere qui,” gli dice. José vorrebbe parlare ma non ci riesce. Zlatan guida piano, l’autostrada sulla quale la sua macchina sportiva viaggia sembra sistemata in un punto a caso di un universo immaginario in cui non c’è nulla a parte quella sottile striscia di asfalto che si prolunga oltre l’orizzonte in una linea retta sempre uguale. Non c’è niente a sinistra, né a destra. Solo terra bruciata dal sole.
Se è un posto che José ha visto, da qualche parte nel corso della propria vita, adesso non lo riconosce.
Zlatan continua a guidare, fissando dritto di fronte a sé. José prova ancora a dire qualcosa, ma è come se avesse le labbra incollate l’una all’altra.
“Lascia stare,” sospira Zlatan, “Perché non te ne vai?”
José vorrebbe rispondere “perché voglio stare qui. Perché voglio stare con te”, ma le sue labbra semplicemente non rispondono ai suoi comandi.
Poi, lo schianto.
José apre gli occhi, e sta piangendo silenziosamente. Fortunatamente, nessuno se n’è accorto. Si passa le mani sugli occhi frettolosamente, scacciando via le lacrime dalle guance. Si schiarisce la gola, sistemandosi più compostamente sul sedile.
Non ci sono nuvole, sopra Barcellona.
*
Pep ha un’aria distrutta. È la prima cosa che lo colpisce, anche con una certa violenza, nel momento in cui gli posa gli occhi addosso in mezzo alla folla assiepata dietro le transenne oltre la porta scorrevole agli arrivi. Lo riconosce subito. No, non è questo. Non è riconoscerlo, è naturale che l’abbia riconosciuto. Lo individua subito, questo sì è più strano, come se improvvisamente non ci fosse nient’altro da guardare, no, nemmeno, come se tutto il resto ci fosse, ma si mescolasse in una massa indistinte di forme e colori, e Pep fosse l’unica cosa chiara, quella che i suoi occhi riescono a mettere a fuoco più facilmente.
Ma non è una bella vista, perché Pep è stanco, provato, ha gli occhi di uno che si sia ritrovato controvoglia in una tragica condizione di esistenza quando tutto ciò che avrebbe voluto chiedere alla vita fosse la gentilezza di lasciarlo scomparire in modo discreto, silenzioso, indolore.
Per un attimo, viene investito da un’ondata di rabbia senza confini. È facile, pensa digrignando i denti oltre la barriera impenetrabile di labbra serrate prive di espressione, è facile lasciarsi devastare così dalla morte. Uscire per strada con la camicia scomposta, senza cravatta, gli occhi tanto rossi da costringere gli altri a distogliere lo sguardo come quando ci si ritrova per sbaglio ad essere presenti in un momento privato o imbarazzante, e per qualche motivo non si può andare via.
Ricomponiti, vorrebbe dirgli, ma poi, così com’è arrivata, l’ondata di rabbia scompare, ritirandosi con la marea. Alla fine, quella di Pep è una scelta. Ha scelto di lasciarsi calpestare. Non c’è colpa, in questo, probabilmente non c’è neanche debolezza, solo molto dolore. Al dolore, José lo sa, ognuno reagisce in maniera diversa. Ed è una materia troppo privata per rimproverare qualcuno solo perché il modo con cui lo affronta non è coraggioso, o deciso, o orgoglioso quanto il proprio.
Non sa cosa dirgli, quindi, quando si ritrova di fronte a lui in mezzo a una folla di persone vocianti e rumorose che potrebbero anche averli riconosciuti, dal modo in cui si dispongono a cerchio intorno a loro, come se non fossero sicuri se sia proprio il caso di disturbarli ma al contempo volessero restare in attenta osservazione di ciò che accade per essere pronti a saltar loro addosso nel caso l’occasione propensa dovesse presentarsi.
- Mi dispiace. – scolla a fatica, imbarazzato dalla propria stessa impreparazione.
Pep sembra non sentirlo nemmeno. Lo guarda, solleva le braccia, le avvolge attorno al suo corpo e se lo stringe contro, abbracciandolo disperatamente. José lo sente scoppiare a piangere e solleva solo un braccio, battendoglielo lievemente contro la schiena nel tentativo di consolarlo, in qualche modo. Si sente molto a disagio, inadeguato. Non riesce a percepire il dolore di Pep. Ne percepisce troppo del proprio.
Pep piange a lungo, minuti interi, e José lo ascolta mentre, intorno a loro, la vita dell’aeroporto riprende a scorrere, tornando ad ignorarli. Vorrebbe essere altrove. Per la prima volta da quando è partito da Milano, non è più tanto sicuro di voler davvero fare tutto questo. Di essere pronto, o anche solo di averne voglia. Di stare qui a cercare di consolare Pep per una perdita che non concepisce – Zlatan non è più suo da mesi, ormai, ma se José non è ancora stato in grado di accettare nemmeno questo, come potrebbe mai fare spazio nella propria mente già sufficientemente incasinata per accettare che, ormai da chissà quanto, era Pep a considerarlo proprio? E che è Pep, adesso, ad avere più diritto di piangere, se una cosa del genere esiste? – di stare qui in attesa di vedere il corpo, di stare qui in attesa del funerale, di stare qui in attesa di cosa? Che smetta di fare così male, probabilmente. Come se fosse possibile.
- Ti accompagno in albergo. – dice Pep, dopo essere riuscito a calmarsi almeno un po’. Gli tremano insopportabilmente le mani. Si regge a stento in piedi. José non ha voglia di vederlo così, probabilmente non ha voglia di vederlo affatto.
- Posso prendere un taxi. – offre, - Tu dovresti riposarti. Hai dormito, stanotte?
Pep scuote il capo.
- Ecco. – riprende José, quasi severamente, - Allora vai a casa e dormi.
Pep scuote il capo un’altra volta.
- Mi fa piacere accompagnarti. – insiste, - Lascia che ti accompagni.
José sospira, si guarda intorno, si passa una mano sulla nuca. È stanco, non gli va di litigare.
- D’accordo, - concede, tendendo il palmo della mano aperta, - ma guido io. Tu non sei in condizioni.
Pep sembra offeso, per un secondo, ma gli passa presto. Non ha forza abbastanza neanche per tenere aggrottate le sopracciglia.
Annuisce e gli porge le chiavi. José le stringe fra le dita e si concentra sul metallo gelido e appuntito che preme dolorosamente contro la sua pelle. Un dolore che può gestire. Può allentare la presa quando lo sente farsi troppo acuto, stringerla ancora quando lo sente sbiadire via. Un dolore necessario.
Il viaggio in macchina è silenzioso, almeno fino a quando Pep non decide di rovinarlo. José si era già comodamente sistemato fra le pieghe di quel silenzio duro, ostinato e innaturale, quando Pep schiude le labbra e si schiarisce la voce, e José prega fra sé che quest’idiota sia saggio abbastanza da cambiare idea e tacere, ma naturalmente non è così che va.
- È stata colpa mia. – dice a bassa voce. E José vorrebbe rispondere “sì”. Vorrebbe rispondere “sì, cazzo, lui era tuo e tu eri responsabile per la sua vita”. Ma non parla. – Non ero con lui, quando è successo. Ero a cena con la mia famiglia e lui è uscito per conto suo, e forse se fossi stato con lui sarebbe stato diverso.
“Sì,” pensa José, “sì, lo sarebbe stato. Magari saresti morto tu, al suo posto.”
- Non dire idiozie. – dice invece, severo, - L’unica cosa che sarebbe cambiata è che adesso sareste morti in due. Non è un pensiero consolante.
Pep abbassa lo sguardo, fissando un punto imprecisato di fronte a sé, e poi scuote il capo. Fortunatamente, non parla più.
In albergo, gli chiede se vuole che resti un po’ con lui. La prima cosa che José sente il bisogno di fare è spingerlo fuori dalla porta e dirgli di non farsi più vedere, ma riesce a mantenere su se stesso un controllo sufficiente a lasciare perdere.
- Preferisco restare un po’ da solo. – dice. Pep, stavolta, annuisce senza insistere.
- Verrò a prenderti più tardi. – dice, - Per… be’, è stata organizzata una veglia qui, prima del rimpatrio. I funerali sono in Svezia.
José annuisce. Deve parlare con Helena. Deve prenotare un volo. Deve restare solo.
- D’accordo, - dice, - a più tardi.
Non aspetta neanche che Pep abbia finito di salutarlo, prima di chiudere la porta e girare la chiave nella serratura.
*
Resta in quella camera d’albergo per ore. Pensa di chiamare Helena al cellulare, ma si rende conto da sé di quanto inopportuna sarebbe una cosa del genere. D’altronde, la vedrà alla veglia, per cui può aspettare. Chiama Tami, invece, e rispondendo al telefono lei scoppia a piangere. “Sei un bastardo,” gli dice, “hai idea della paura che mi hai fatto prendere?”. José la lascia sfogare, si scusa, dice “devi capire, Tami”. Non le spiega cosa, però, e lei non capisce, ma lui si scusa ancora e lei può vivere senza sapere.
La rassicura, le dice che tornerà a casa in un paio di giorni al massimo, le dice “salutami i bambini”, lei lo manda a quel paese un’altra volta, prima di interrompere la conversazione. José non sa come farà ad uscire da questo casino con Tami. Non può dirle quello che è successo, non può dirle cosa è stato Zlatan per lui, perché quello che lui è stato è ciò che lei sola avrebbe dovuto essere per sempre, e sapere di non essere stata la sola le spezzerebbe il cuore, e questo lui a Tami non può farlo. Non può farlo nemmeno a se stesso.
Ammettere gli errori non è mai stato il suo forte, preferisce correre dritto per la sua strada, coi paraocchi e i tappi nelle orecchie, passando sopra a qualsiasi ostacolo. È sempre stato convinto che il calcolo degli sbagli si potesse fare solo a partita finita, solo a fronte del risultato finale. Cosa sono un paio di errori se alla fine la vittoria è stata comunque guadagnata?
Solo che qua non c’è niente da vincere. Ma in realtà neanche niente da perdere. Ammettere di aver sbagliato ad innamorarsi di Zlatan – o forse solo ad andare a letto con lui, perché non può esserci niente di sbagliato nell’amare qualcuno di per sé – sarebbe irrilevante, in qualsiasi senso.
Rimane a fissare il telefono, per un po’. Sente il segnale sordo e regolare della linea libera, attutito dalla cornetta e dalla distanza fra l’altoparlante e le sue orecchie, e ripensa a ieri notte, alla voce di Pep, a quanto suonasse nervosa e disperata e spaventosamente distante, come facente parte di un mondo a sé, un mondo diverso dal suo, ripensa a quanto gli sia sembrato finto quel momento, surreale nella sua assurdità, e poi pensa che fra un paio d’ore sarà di fronte al cadavere di Zlatan, e la realtà lo colpisce in pieno viso con una violenza così priva di pietà, o riguardo, o rispetto, che José sente il bisogno di essere altrettanto violento nei suoi confronti, e lancia il telefono per terra, si piega su se stesso e si copre il viso con entrambe le mani, scoppiando a piangere come un bambino.
Dura solo una decina di minuti, è il massimo che può concedersi prima di cominciare a sentirsi ridicolo, fuori luogo. Zlatan ha una compagna e due figli che sono appena rimasti soli. Sono gli unici ad avere un qualche diritto di sentirsi persi e senza speranza. José vuole calmarsi anche per loro, essere d’aiuto, in qualche modo. Non ha idea del perché si senta così, adesso, come se dovesse sentirsi in colpa nei loro confronti e fosse finito a sentirsi in colpa perché non ci si sente per davvero. Ha solo voglia di risolvere le cose, di rimettere tutto a posto, e sapere di non potere lo fa sentire senza fiato.
C’è qualcosa di soffocante nell’irreversibilità della morte. Lo stringe alla gola, lo costringe a guardarsi nello specchio appeso alla parete di fronte a lui, e realizzare che è lì che non c’è niente, niente che lui possa fare per fermare questo dolore, adesso. È già tutto finito, e Zlatan non gli ha lasciato nemmeno il tempo di provare a fermare il disastro prima che si verificasse.
Come d’altronde non ha mai fatto.
*
La prima volta che si sono baciati, José s’è ritrovato schiacciato di prepotenza contro una parete, labbra ruvide e sottili premute contro le proprie, gli occhi aperti e cattivi dello zingaro fissi sui suoi. È stato un bacio senza amore, quasi perfino senza sottotesto sessuale, anche se dalle conseguenze non si sarebbe detto: no, è stato un bacio molto semplice, un bacio che faceva un punto. Io posso averti con le spalle al muro quando voglio. Quasi una dichiarazione d’intenti.
La seconda volta, è stato José a baciarlo. Dopo un allenamento di merda in cui Zlatan era sembrato del tutto incapace di produrre una qualsiasi cosa che avesse un senso, o anche solo di interagire efficacemente col resto della squadra. José l’ha trovato seduto su una panchina vicino al campo, intento a sciogliere la fasciatura attorno alla caviglia e al piede, e gli si è avvicinato. Si è chinato su di lui e l’ha baciato. Dolcemente. Lentamente. Prendendosi il tempo necessario per abituarsi alla sensazione differente che la pressione delle labbra di Zlatan sulle sue provocava in lui. Una dichiarazione d’intenti anche quella, a suo modo.
Zlatan ha risposto al bacio – a quello e a tutti i successivi, per un anno intero. Poi è finita, perché sono stati entrambi due teste di cazzo. Perché hanno, come al solito, frapposto l’orgoglio fra se stessi e tutto quanto il resto. Perché c’era un problema di obbiettivi, c’era un problema riguardo come fare a raggiungerli, c’era nello sport come nella loro vita privata. C’erano due famiglie, due mogli e quattro figli in gioco, c’era troppo da perdere, troppo sul piatto, e troppo poco a controbilanciare su cui scommettere.
E quindi è finita. Amaramente, lasciandosi dietro un senso di incompiutezza, di vuoto, di rimpianto. Di “avremmo potuto provare di più”, “avremmo potuto provare meglio”, “avremmo potuto provare e basta”.
È arrivato il Barcellona, col Barcellona Pep. José ha cancellato i loro visi dalle sue memorie perché pensarli insieme – dopo gli anni di amicizia che l’avevano legato a Pep in gioventù, dopo quello che l’aveva legato a Zlatan più recentemente – era una tortura che non si sentiva disposto a sopportare.
Poi il vuoto.
E poi lo schianto.
E mai una volta, in tutto ciò che è accaduto, Zlatan ha permesso a José si avere l’ultima parola, su qualsiasi cosa riguardasse lui o loro insieme.
Forse è proprio questo quello che tiene José inchiodato a quel letto per ore, incapace di darsi una mossa. Continua a pensare che se avesse preso delle decisioni, se Zlatan gliel’avesse lasciato fare, se avesse accettato qualche consiglio o suggerimento, se lui fosse riuscito a imporsi, in qualche modo, sarebbe andato tutto diversamente. E forse a quest’ora Zlatan sarebbe ancora vivo.
Realizza all’improvviso che si sta comportando esattamente come Pep. Non riesce a sopportarlo. Si alza in piedi mezz’ora prima che Pep passi a prenderlo, e va in bagno a prepararsi.
*
Non scambia una parola con Pep per tutto il tragitto. La veglia funebre è stata organizzata a casa di Zlatan, e José non ha idea di dove si trovi, per questo lascia che sia Pep a guidare. Per questo, e anche perché Pep sembra essersi ricomposto abbastanza da farcela. Si è cambiato, sbarbato, José può sentire l’odore forte del suo bagnoschiuma fin da lì. Per un attimo, sorride. “Così si fa,” vorrebbe dirgli, “bravo, Pep, sono orgoglioso di te,” ma non lo fa. Resta in perfetto silenzio e, quando arrivano, è infastidito quando Pep gli stringe una mano attorno al polso per trattenerlo un po’ più a lungo all’interno della macchina.
- Dovremmo parlarne, credo. – gli dice.
- Io credo di no. – risponde José. Si libera di lui con uno strattone e si dirige speditamente verso l’unica villetta del circondario col cancello aperto e il parcheggio pieno di auto. Cammina a piedi lungo il vialetto che conduce alla porta d’ingresso mentre Pep posteggia da qualche parte e, dietro di lui, arriva un’altra mezza dozzina di auto, a bordo un sacco di persone che sembrano trovarsi lì per caso, senza nemmeno capire bene come ci siano finiti. C’è una sorta di smarrimento, nell’aria, qualcosa che fa sentire José come se fosse tutto fuori posto. Si sente così per molti secondi, di fronte alla porta d’ingresso, finché non si spalanca e la figura minuta di Helena non appare sulla soglia.
- Mister Mourinho. – dice piano, un sorriso appena percettibile a piegarle le labbra, mentre tende una mano verso di lui, - Sono contenta di vederla.
Mentre lo invita ad entrare in casa, José la osserva. Indossa un abito nero, i capelli raccolti in uno chignon alto dietro la nuca, ed è perfettamente truccata. Ha l’aria di una donna stanca che non può permettersi di cedere. José vorrebbe abbracciarla, ma non ha idea di come potrebbe reagire. Non si sono mai davvero frequentati, lui e Zlatan hanno fatto il possibile per mantenere ciò che c’era fra loro ben separato dal resto delle loro vite, e sembra una forzatura fin troppo fastidiosa cercare di ricucire uno strappo tanto netto adesso che lui non c’è più.
- Condoglianze. – le dice, mentre lei attende vicino alla porta che anche Pep, dopo aver abbandonato la macchina, si avvicini, - Come stanno i bambini?
- Vincent non ne ha capito molto. – risponde lei con un mezzo sorriso affranto, - Maxi… - sospira, e poi scuote il capo. – Sono coi nonni, in questo momento. Non volevo…
- Capisco perfettamente. – annuisce José, posando una mano sulla sua e sorridendole appena. Lei risponde con un sorriso identico, tanto sottile e stentato da sembrare una smorfia di dolore. – Lui dov’è? – chiede quindi, abbassando rispettosamente lo sguardo. Helena gli fa un cenno, indica una porta. Tutta la casa è illuminata, ma quella è l’unica porta, oltre quella della cucina, dalla quale giungano voci di persone.
José annuisce e la saluta stringendole la mano un’ultima volta. Poi si allontana lungo il corridoio, e si muove lentamente. Non ha nessuna fretta di arrivare dove deve andare, non ha nessuna fretta di chiudere una volta per tutte questo capitolo della sua vita. Ci sarà il funerale, per dire addio, ma questo è il momento in cui tutto finisce. È il momento in cui c’è un corpo chiuso in una bara che lo aspetta per confermargli che non c’è più niente da fare.
Quando si avvicina, è abbastanza deluso nel notare che non l’hanno messo in una bara di vetro, di quelle col coperchio trasparente. Così, l’effetto che ha su di lui è un po’ meno forte. C’è un coperchio di legno a proteggerlo dall’immagine del suo viso immobile, inespressivo, pallido e gelido. Sa che è lì dentro, ma non vederlo lo aiuta a prenderla meglio, in qualche modo. Forse perché così può aggrapparsi a una menzogna gentile un po’ più a lungo.
- Non era in condizioni. – dice Pep, apparendo al suo fianco. José non lo guarda. Continua a fissare la bara finché le dita lunghe e scure di Pep non entrano nel suo campo visivo. Accarezzano il coperchio con tenerezza quasi imbarazzante, e José aggrotta le sopracciglia. Vorrebbe dirgli di contenersi, ma ancora una volta ha l’impressione di stare cercando di misurare il dolore di Pep con un metro troppo personale, e quindi lascia perdere. – Il suo corpo, intendo. – continua Pep, a bassa voce, - Non sono riusciti a sistemarlo abbastanza da renderlo presentabile.
Una scarica di dolore puro attraversa il cervello di José da parte a parte quando le parole di Pep gli scivolano dentro a sufficienza da essere comprese. Per un attimo riesce a vedere oltre il legno, il viso sfigurato di Zlatan, le sue membra scomposte e martoriate, il suo corpo irriconoscibile. È tutto così reale. Non ci sono più bugie. Un coperchio di legno non è sufficiente a nasconderlo.
Non sa se Pep sappia in quanti modi l’ha aiutato semplicemente con questa frase. Lo guarda, e pensa che in realtà non se ne sia reso conto. Che in realtà l’abbia pronunciata più per se stesso, per darsi qualcosa di reale a cui pensare, per non indugiare troppo col pensiero sul sorriso di Zlatan, sui suoi occhi, sul mondo in cui brillavano quando litigava con qualcuno, o sul modo in cui si muoveva dentro e fuori dal campo, ma non importa. Alle volte anche l’egoismo di qualcuno è utile per qualcun altro, così pensa José, l’ha sempre pensato. Lui ha perso il conto di quante migliaia di tifosi ha reso felici nell’egoistica rincorsa del maggior numero di titoli possibile. È così che funziona. Ad ogni azione di ognuno corrispondono conseguenze per milioni di altri. È giusto così.
- Grazie. – sussurra, guardando Pep con un mezzo sorriso a stendere le labbra. Gli appoggia una mano sulla spalla e stringe appena, nel tentativo di passargli almeno un po’ del calore che sta provando adesso. Gli occhi di Pep si riempiono di lacrime.
- Per cosa? – domanda in un singhiozzo.
- Non importa. – scuote il capo José, sorridendo, - Adesso vado.
- Dove? – insiste Pep, appoggiando la mano aperta su quella di José nel tentativo di trattenerlo.
- Torno in albergo. – risponde lui, - Sono stanco. Tu resta quanto vuoi. Prenderò un taxi.
- Posso—
- Sì, lo so che puoi. – José si sporge verso di lui, abbracciandolo per un istante. Quando si allontana, le lacrime hanno preso a scivolare lungo le guance abbronzate di Pep, scavando lunghe righe scure sulla sua pelle. – Ma io voglio che resti qui. Non preoccuparti per me. – sospira, - Preoccupati per te stesso, Pep. Tieniti molto da conto. Fallo anche per me. Mi raccomando.
Pep si morde un labbro e sembra del tutto intenzionato a continuare ad insistere fino a farlo cedere, ma poi qualcosa cambia, nei suoi occhi, mentre le dita che ancora tiene appoggiate sulla bara si serrano attorno al coperchio con uno scatto quasi spasmodico. Il suo corpo gli sta dicendo che non può ancora andare via, e José sorride perché invece le sue, di dita, sono libere, adesso.
Può andare.
*
Quella notte sogna Tami. “Perché sei qui?” le chiede, e lei sorride. È vestita di bianco, ha i capelli sciolti, è se stessa com’era a sedici anni, bellissima e pura e piena di aspettative nei confronti del futuro. Gli si avvicina, lo abbraccia, se lo stringe al petto e lo culla come un bambino.
“Perché ci sei tu,” risponde Tami, e la sua voce non è più quella di Tami. José alza lo sguardo e ci sono lui e Zlatan per strada, di notte, da qualche parte sull’autostrada. Ci sono delle fiamme che ardono in lontananza, si sollevano verso il cielo come volessero scorticarlo a unghiate. José non riesce a capire cosa le provochi. La giacca che Zlatan indossa è tutta bruciacchiata, ma lui, lui sta bene.
“Perché sei venuto?” domanda Zlatan, l’accento così forte da rendere la sua voce quasi ridicola.
José non riesce a parlare.
“Andiamo, Zay,” insiste Zlatan, l’espressione severa che si stempera in un sorriso più dolce.
José si sente piangere nel sonno. Improvvisamente, è consapevole di stare sognando, e che da qualche parte il suo corpo addormentato sta piangendo. Sente le guance bagnate, ma nel sogno non ci sono lacrime. “Volevo salutarti, zingaro,” dice. La sua voce suona incredibilmente serena mentre il sogno si trasforma in una macchia confusa e poi svanisce.
*
Il cielo sopra Malmö è di un grigiore pesante, uniforme. Sembra che qualcuno gli abbia dato una mano di cemento e poi l’abbia lasciato lì ad asciugare. José immagina che debba essere colpa delle nuvole, nessun cielo può essere di un colore simile se completamente sgombro, ma non può esserne certo perché, se quelle sono nuvole, sono talmente tante, e talmente ammassate le une contro le altre, da non riuscire nemmeno a distinguerne i contorni.
Non piove, almeno. Ma l’aria è pesante di umidità, ed onestamente, a questo punto, José non vede l’ora che tutto ciò sia finito per tornare in albergo, dormire una quantità spropositata di ore e poi tornare a Milano. Ha voglia di vedere i bambini. Ha voglia di vedere Tami. Ha voglia di tornare a lavorare, e se pensa che solo fino a un paio di giorni fa l’idea stessa di riprendere la propria vita come se niente fosse successo lo ripugnava, le labbra quasi gli si arricciano in un’ombra di sorriso amaro.
Dev’essere un meccanismo di difesa, si dice, mentre osserva distrattamente la bara sospesa sulla tomba di famiglia di Zlatan, immobile in attesa che il prete concluda le preghiere di rito. Dev’esserci qualcosa che impedisce alle persone sane di annegare troppo profondamente nel proprio dolore. Qualcosa che le salva, qualcosa che scatta, un meccanismo che entra in azione o qualcosa di simile, che a un certo punto le recupera da qualsiasi abisso nel quale sono sprofondate, e le riporta a galla.
Due giorni fa, José è riemerso da un sogno respirando a pieni polmoni come dopo una lunga apnea. Era da solo in una stanza d’albergo a Barcellona ed aveva appena perso uno degli amori più enormi della sua intera esistenza. Ne aveva salutato il cadavere dentro una bara appena poche ore prima.
Si sentiva rinato.
Ora, la bara comincia a scendere lungo il tunnel scavato nel terreno e pronto ad accoglierla. Helena piange silenziosamente a qualche metro da lui, composta nel suo dolore e bellissima nel suo lutto. Si è indurita, in questi due giorni. I suoi lineamenti sono più fieri, provati, il dolore immobile della linea netta e dritta delle sue labbra commuove José al punto da costringerlo a versare a propria volta un paio di lacrime. Non è nostalgia, è solidarietà. È condivisione di qualcosa di più grande di una semplice conoscenza. Di qualcosa di più profondo.
È amore, pensa José, lo sguardo che si sposta su Maximilian, che stringe forte la mano di sua madre, e su Vincent, disperatamente aggrappato a quella di suo fratello. È amore anche questo, in un certo senso.
- Come stai? – chiede qualcuno apparso al suo fianco. José si volta di scatto, stupito. Credeva di essersi messo abbastanza in disparte da non attirare l’attenzione.
- Deki. – esala confusamente, sbattendo un paio di volte le palpebre per metterlo a fuoco, come non riuscisse a capacitarsi di vederlo proprio lì in quel momento, - Cosa ci fai qui?
Dejan sorride, spostando per un attimo lo sguardo sulla bara ormai quasi completamente scomparsa sotto terra, come per un ultimo saluto.
- Eravamo molto amici. – risponde semplicemente, - E tu ci sei mancato molto, in questi ultimi giorni. – aggiunge con un sorriso appena più imbarazzato, tornando a guardarlo.
José abbassa lo sguardo sulla ghiaia che copre il vialetto secondario sul quale si è sistemato per osservare la funzione, sentendosi per qualche motivo colto in fallo, perfino a disagio.
- Dovevo—
- Non devi spiegarmi niente. – lo interrompe Dejan. José solleva nuovamente lo sguardo, e lui sta ancora sorridendo sereno, - Davvero, lo so. Non c’è bisogno. Volevo solo essere sicuro che adesso fosse tutto a posto. Perché se non lo è, noi siamo qui. Intendo, tutti. Tutti quanti. Ti aspettiamo a casa, e ci saremo.
José schiude le labbra, gli occhi che si riempiono di lacrime, le mani che tremano appena nonostante lui cerchi in ogni modo di controllarle, chiudendole a pugno lungo i fianchi.
- Non so che dire. – ammette, la voce rotta da un singhiozzo impossibile da nascondere. Dejan si concede una risatina incerta, scuotendo il capo.
- Lascia perdere. – gli dice, appoggiandogli una mano sulla spalla e battendovi sopra un paio di pacche consolatorie, - Ora scusami, vado a salutare Helena. – aggiunge, sporgendosi per abbracciarlo sbrigativamente, prima di correre dietro alla donna per evitare di lasciarsela scappare prima di essere riuscito, probabilmente, a migliorare la giornata perfino a lei, o almeno così pensa José nell’osservarlo allontanarsi.
Una volta rimasto solo, sfila il cellulare dalla tasca interna della giacca. Nessuna chiamata. Un messaggio di Pep. Dice “Grazie a te,” e José sorride, contento che finalmente anche lui abbia capito.
Compone a memoria il numero di Tami. Lei non risponde, e lui sorride ancora, perché se lo aspettava. Le lascia un messaggio in cui le dice che sta per andare all’aeroporto, che prenderà il primo aereo, che sarà a Milano in qualche ora. Di aspettarlo, perché fra poco sarà lì con lei, e tutto si risolverà.
Mentre la saluta, Tami solleva la cornetta. “Sono stufa di essere arrabbiata con te,” gli comunica in un mezzo piagnucolio che la fa sembrare per un attimo la stessa ragazzina, poco più che una bambina, che era quando José l’ha conosciuta. “Torna presto.”
José ride piano, rassicurandola. Quando interrompe la telefonata e solleva lo sguardo, accanto alla tomba di Zlatan non c’è già più nessuno. Si avvicina e, dalla lapide, una fotografia dai lineamenti sgraziati gli sorride, con l’aria di uno che è stato il più stronzo figlio di puttana di tutti i tempi e che se l’è goduta un mondo fino all’ultimo istante. José scoppia a ridere come un imbecille, passandosi una mano sugli occhi quando sente il familiare bruciore delle lacrime pungere sotto le palpebre. Non piangerà, però, basta così.
Il sorriso di Zlatan sembra salutarlo con calore, mentre lo osserva andare via.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Davide/José.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Underage.
- "Mister… È per questo che mi ha voluto in prima squadra?"
Note: TANTI AUGURI, DEFFY! *si lancia su di lui, ricoprendolo di baci, amore ed altre amenità varie* Ebbene sì. Questa storia è stata scritta per il compleanno di Def, e se date un'occhiata alla coppia (e mi conoscete almeno un minimo XD) potrete ben capire che solo una tale ricorrenza poteva costringermi ad una cosa simile XD
Per una strana combinazione di fattori, questa storia così incredibilmente atipica, per essere mia, viene anche ad essere la mia settecentesima fic XD Vorrei una celebrazione, per questo. Mi sento molto figa, in questo momento, e sono anche molto felice che, nonostante la coppia non rientri propriamente nel gruppo delle mie favorite, questo "posto d'onore" all'interno della mia produzione sia occupato da una storia che ho scritto con affetto per qualcuno a cui voglio bene :°) #sentimentale
Inoltre! La storia partecipa, per evidenti motivi di FirstTime!Mouton, al round di aprile/maggio della Zodiaco!Challenge.
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I'LL BELIEVE IN ANYTHING

Davide stringe con forza i pugni attorno alle lenzuola, tirando forte abbastanza da strapparle dagli angoli mentre, serrando le palpebre fino a vedere bianco e mordendosi la lingua fino a rendere più pungente quel dolore che non quello che sta provando fra le gambe, cerca di andare incontro alle spinte del bacino di José, convinto che, se prova ad assecondarne il movimento, forse farà meno male.
José gli tempesta di baci il collo e la curva dolce della spalla, stringendogli i fianchi fra le dita abbastanza da lasciare impronte rosate sulla sua pelle umida e accaldata, e si spinge dentro di lui con forza, quasi senza riguardo, come se l’impronta che ha deciso di lasciargli dentro non fosse possibile da ottenere senza forzare un po’ la mano, senza fargli almeno un po’ male.
Davide non lo sa, non è più neanche tanto sicuro di stare provando dolore. C’è qualcosa che brucia, da qualche parte sotto il suo stomaco, ed è qualcosa che esplode quando José allontana una mano dal suo fianco e la chiude delicatamente attorno alla sua erezione, accarezzandola con decisione.
Davide geme, gettando indietro il capo che affonda nel cuscino morbido che José gli aveva sistemato sotto la schiena e che, nel continuo ondeggiare dei loro corpi, è scivolato via fino a lì. La lingua di José scivola senza attrito sulla sua pelle calda e arrossata proprio come le sue dita scivolano senza difficoltà, con agilità quasi esageratamente esperta, per tutta la lunghezza della sua erezione.
Ogni carezza è una scarica elettrica, ogni spinta è un colpo profondo dentro il suo corpo, e quando José viene dentro di lui, e Davide lo sente, e rabbrividisce, e geme di piacere al solo pensiero, l’impressione che lascia all’interno del suo corpo è quella di un seme piantato in profondità dentro di lui, un seme i cui frutti saranno tardi a vedersi, ma che è lì, nascosto, protetto, ed avrà tempo di crescere senza fretta.
È una consapevolezza un po’ spiazzante, perfino spaventosa, perché per un attimo Davide riesce a sentirsi adulto, non come se fosse cambiato, come se fosse davvero cresciuto. Riesce a vedersi grande, e altrove, e quella cosa è ancora dentro di lui, e cresce. E Davide spalanca gli occhi ansimando disperatamente, affidando l’ultima ondata del suo piacere a un gemito liquido e caldo che gli sfugge dalle labbra e che José cattura fra le proprie, tenendolo avvinto in un bacio forse più lungo del necessario, finché non lo sente calmarsi sotto i suoi polpastrelli.
Poi si allontana da lui con uno schiocco umido, e mentre Davide resta steso a fissare il soffitto sul letto disfatto José si alza in piedi, si passa una mano fra i capelli e poi si dirige in bagno, uscendone solo molti minuti dopo con un paio di boxer puliti addosso e i pantaloni della tuta.
Davide è ancora immobile dove l’ha lasciato.
- Stai bene? – gli chiede. Il suo tono è distratto, ma non disinteressato. Più abitudinario, il che porta Davide a chiedersi cosa questo possa significare, e la risposta che si dà è onestamente piuttosto spaventosa, perciò la scaccia via dal proprio cervello come se in primo luogo non si fosse mai nemmeno posto la domanda.
- Sì… - annuisce, ancora un po’ sconvolto. Prova a mettersi quantomeno a sedere, ma quando accenna a piegarsi gli si risveglia un dolore acuto e insopportabile nelle viscere, e capisce che probabilmente non è ancora il momento di muoversi in maniera avventata, per cui si limita ad allungare un braccio alla propria destra e recuperare il lenzuolo, srotolandoselo addosso per coprirsi.
José annuisce, avvicinandosi all’armadio ed aprendolo per recuperare una maglietta pulita dalla cassettiera al suo interno.
- Puoi restare quanto vuoi. – gli dice indossandola, - Nessuno ti disturberà. Quando ti senti tranquillo, vai pure in camera tua. Hai il pomeriggio libero. Cominci ad allenarti con la prima squadra domani.
Davide annuisce, serrando le labbra e abbassando lo sguardo su un punto casuale della parete di fronte a lui. Come prima volta è stata un po’ impersonale, onestamente. Non sa bene come sentirsi. L’unica cosa che riesce a capire molto chiaramente è che ha una voglia matta di parlarne con Mario, perché è sicuro che lui riuscirebbe a trovare le parole giuste – o forse la giusta cazzata da combinare – per costringerlo a smetterla di pensarci, ma non è sicuro che, una volta tornato in camera, riuscirà a trovare il coraggio di farlo.
- Mister… - domanda con aria un po’ svagata, passandosi una mano sullo stomaco e decidendo con una smorfia che, dolore o non dolore, appena José sarà andato via lui andrà a fare una doccia, - È per questo che mi ha voluto in prima squadra?
Il riflesso di José sullo specchio di fronte al quale lui sta in piedi, intento a sistemarsi il colletto della felpa dopo averla indossata, gli lancia un’occhiata severa, quasi delusa, e Davide arrossisce istintivamente, sentendosi incredibilmente a disagio mentre distoglie lo sguardo con uno scatto quasi doloroso.
- No. – risponde seccamente lui, allontanandosi dallo specchio e sollevando le gambe una dopo l’altra con l’aiuto di una sedia sulla spalliera della quale è poggiata la giacca che fra poco indosserà per uscire, per sistemare i nodi ai lacci delle scarpe.
Davide si mordicchia insistentemente l’interno di una guancia, prima di parlare ancora.
- E allora perché? – domanda, trovando chissà dove coraggio a sufficienza per cercare nuovamente lo sguardo del proprio allenatore.
José inarca un sopracciglio, le mani sui fianchi, mentre lo scruta con severità, dando a Davide l’impressione di essere più nudo ed esposto di quanto in realtà non sia.
- Ti voglio in prima squadra perché ho visto come giochi e so che posso aspettarmi molto da te. – risponde quindi con semplicità.
Davide esita un altro paio di secondi, stringendo con forza il lenzuolo fra le dita per ricordarsi che è ancora lì.
- E allora… - insiste con tono incerto, - perché mi ha voluto qui?
José lo osserva per qualche secondo, impassibile, e poi sospira, scuotendo il capo come un padre paziente, le labbra che si piegano in un sorriso intenerito.
- Perché ti ho voluto e basta. – spiega con indulgenza. Davide arrossisce violentemente, gli occhi persi nei suoi finché non perde il contatto visivo nel momento in cui José si volta, indossa la giacca e si avvicina alla porta. – Riposati. – si raccomanda prima di uscire.
Rimasto solo in camera, prima di saltare in piedi e piagnucolare di dolore per il movimento improvviso, per poi dimenticarsene nel sentire sempre più impellente il bisogno di una doccia, Davide si concede un sorriso caldo ed emozionato, e per un secondo è tutto perfetto, e il futuro non può promettergli niente di meglio.
Genere: Introspettivo, Romantico, Erotico.
Pairing: José/Zlatan, Pep/Bojan.
Rating: PG-13/R
AVVERTIMENTI: Slash, Crack.
- ...follia estemporanea a dimostrazione della mia palese malattia mentale.
Note: Tutto ciò che dovete sapere di questa storia lo trovate riassunto qui. La Jan e la Nari saranno la mia fine. Sappiatelo.
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Sweet, Sweet, Sweet, Could You Taste It?


Quando José vede apparire Pep sulla soglia della sua porta, inizialmente non può crederci. È arrivato in Spagna da meno di una settimana ed è teoricamente ancora troppo in vacanza per poter tollerare un’invasione simile della sua privacy, soprattutto da un collega che ben presto diventerà il suo peggior nemico.
- È una fanfiction? – chiede dubbioso, allungando il collo e scrutando il corridoio a destra e a sinistra, come aspettandosi di vedere spuntare da ogni lato fangirl intente a cambiare il corso della storia scrivendo forsennatamente al computer. È quasi deluso quando non ne trova nemmeno una.
- Una che? – biascica Pep, costringendolo a scansarsi per lasciarlo entrare, - No, comunque. Di che diavolo sta parlando?
- Cioè sei reale? – insiste José, allungando perfino una mano per toccarlo, incredulo. – Sei vero?
- Ma— Mister Mourinho, cosa ha bevuto prima che arrivassi?
- Scusami tanto, ma non sono affaracci tuoi! – sbotta sconvolto, - Tu, semmai, cosa hai ingurgitato per poter anche solo pensare di poterti presentare qui nel cuore della notte ed entrare in camera mia come niente fosse?
Pep si guarda intorno, circospetto, come avesse paura di essere stato seguito fin là. Poi chiude con cautela la porta della camera, rigirando la chiave nella serratura un paio di volte, giusto per sicurezza, e solo alla fine di queste operazioni torna a guardare José, con estrema serietà.
- Sono in fuga. – confessa, cupo come un bollettino di guerra.
- …in fuga. – ripete José, come se ripeterlo potesse servire a dargli un senso, - E sei venuto fino a Madrid per fuggire da… qualsiasi cosa tu stia fuggendo?
- Era necessario. – annuisce l’uomo, cominciando a camminare per la stanza in cerchi ampi e nervosi, - Se fossi rimasto a Barcellona, lui mi avrebbe trovato.
- …naturalmente. – gli dà corda José, ipotizzando di avere a che fare con un pazzo e scegliendo la via della condiscendenza, - E perché non sei andato a rifugiarti da qualche amico? O in un albergo, ad esempio. Cioè, un albergo che non ospitasse anche me, intendo.
- Lei non capisce! – scatta Pep, esasperato, - Non potevo andare da nessun amico, lui li conosce tutti! Sarebbero stati i primi dai quali mi avrebbe cercato, e anche gli alberghi— quanto pensa ci metterà prima di stilare un elenco e cominciare a chiamare ogni singolo dannato hotel di Spagna per vedere se alloggio lì?!
- Ma non lo so! – sbraita a propria volta José, allargando le braccia ai lati del corpo con aria sconfitta, - Cosa vuoi che ne sappia, non ho neanche idea di chi sia questo famigerato lui di cui vai cianciando!
Pep si lascia scuotere da un brivido di puro terrore, prima di lasciarsi ricadere su una poltrona e congiungere le mani ai lati del naso, pensoso.
- Bojan. – racconta quindi, la voce ridotta a un rantolo tremante, - Io e lui… stiamo insieme. – confessa. José spalanca gli occhi. Tutto ciò è insano e lui non vuole esserne parte. Vorrebbe fermare Pep e buttarlo fuori dalla finestra a calci, ma per qualche motivo non riesce. – Non so cosa sia successo nelle ultime settimane, lui è sempre stato un ragazzo così dolce… - narra con una certa tenerezza, - eppure, - riprende, più cupamente, - ultimamente, qualcosa è cambiato. E lui ha… Dio.
- Ha cosa? – chiede José, a questo punto un po’ curioso, un po’ preoccupato e un po’ morbosamente attratto da quanto sta accadendo in camera sua.
- Lui ha… - esita ancora Pep, deglutendo a fatica, - ha cominciato a nutrirmi solo con fragole e limone.
José inarca un sopracciglio.
- Ti nutre solo con fragole e limone. – ripete ancora una volta, - E perché?
Pep rabbrividisce ulteriormente, stringendosi nelle spalle.
- Vuole… Dio, non posso dirlo.
- Parla, Pep! – insiste José con tono di comando, e Pep chiude gli occhi, rassegnato.
- Vuole che il sapore delle fragole con limone diventi il mio sapore. – dice, e solleva lo sguardo con fare eloquente, - E non sto parlando del sapore dei miei baci o della mia pelle.
José inarca anche l’altro sopracciglio, incerto. E poi, d’improvviso, comprende. E impallidisce.
- Santo Dio. – esala, muovendo qualche passo all’indietro, spaventato dalla portata di tale rivelazione, - È raccapricciante.
- Lo è. – annuisce Pep, sempre più sconvolto, - Io… non ce la facevo più. Se solo mi avesse dato da mangiare fragole e limone un’altra singola volta
- Oh. – dice una voce proveniente dalla porta un po’ defilata che conduce al bagno. Entrambi alzano lo sguardo per trovare Zlatan immerso nella luce giallastra dell’altra stanza, ancora umido di doccia e con indosso solo un asciugamano avvolto attorno ai fianchi. – Quindi Boji sta mettendo in pratica il mio consiglio.
- Il tuo… - sillaba Pep, sconcertato, mentre José cerca di ricordare cosa ci faccia Zlatan nel suo bagno, si chiede ancora una volta se non si tratti di una fanfiction e poi realizza di averlo invitato a passare la notte con lui solo un paio di ore prima. – Il tuo consiglio?
- Sì. – sorride Zlatan, sereno come gli avessero appena ritoccato l’ingaggio aggiungendo cinque milioni ai dieci già presenti, - È una tecnica che ho imparato a Milano. Ti ricordi, Zay? – chiede innocentemente, voltandosi a guardarlo, mentre lui gli ricambia l’occhiata con l’intensità di una triglia sottovuoto al banco dei surgelati, - Quando ti portai per una settimana tutte le sere da Pino a mangiare le fettuccine al ragù? Ecco.
Pep si solleva dalla poltrona, ergendosi in tutta la sua altezza. Le sue dita si contraggono e si ridistendono come stesse cercando di scaricare la tensione, ma è evidente dai lineamenti tirati del suo volto che non ci sta riuscendo nemmeno in parte.
Due minuti dopo, José lo osserva con occhi vacui saltare alla gola di Zlatan come una bestia inferocita, e non riesce neanche a curarsene. Seduto sulla sponda del proprio letto, riflette amaramente sul proprio sapore – il sapore delle fettuccine al ragù. “E non sto parlando del sapore dei miei baci o della mia pelle”, si ripete.
Tutto ciò è inaccettabile. Mentre Pep gli devasta la stanza, usando Zlatan come il Martello di Thor, lui solleva la cornetta del telefono e chiama il servizio in camera, ordinando una bottiglia del loro migliore champagne. Poi ci ripensa.
- Copiose bottiglie del vostro migliore champagne. – precisa. E quando appoggia la cornetta al proprio posto, è di nuovo in pace con se stesso.
Genere: Introspettivo, Romantico, Erotico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Lemon.
- In vacanza a Miami, Zlatan riceve una visita inaspettata.
Note: Ci sono delle storie che nascono per motivi molto profondi e seri... questa no XD E' nata semplicemente perché ho visto Zlatan seminudo in vacanza a Miami, e si sa che quando io vedo Zlatan combinato in certi modi poi vado in overdose e devo espellere, e in genere per espellere scrivo porno. Per tale motivo, questa storia doveva essere una PWP. .../o\ Però alla fine è venuta una menata introspettiva all'interno della quale ho anche plagiato il Def, anche se lui si ostina a dire di non avere il copyright sull'atto della respirazione. Probabilmente ha anche ragione, ma io ormai ho deciso che è un plagio e nessuno di voi potrà farmi cambiare idea \o/ *delira* Il titolo è rubato all'omonima canzone dei Pearl Jam.
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Just Breathe


Sdraiato sotto il sole a bordo vasca nel silenzio surreale di mezzogiorno, col calore umido che sale su dall’acqua satura di cloro della piscina, Zlatan fa fatica a respirare, ma è talmente rilassato che, in qualche modo, riesce a trovare abbastanza forza da gonfiare e sgonfiare i polmoni abbastanza da non soffocare. Ripensa al clima della Catalogna, più mite di quello di Miami, e ricorda che ne è fuggito proprio perché, nonostante la temperatura tutto sommato sopportabile, lì si sentiva mancare l’aria.
Si chiede se sia semplicemente normale, per lui, cominciare a sentire la pressione tanto forte da strozzarlo, dopo un po’. E questo qualunque sia il posto in cui vive, perché era così anche in Italia, dopotutto, ed è per questo che ne è scappato a gambe levate non appena ne ha avuto l’occasione, aggrappandosi al primo pretesto disponibile. È anche per questo che, quando gli chiedono se sia dispiaciuto di aver abbandonato l’Inter proprio l’anno in cui poi l’Inter ha vinto tutto, lui non riesce a far altro che ridere: fosse rimasto là, sarebbe morto soffocato ben prima di vedere un qualsiasi trofeo arrivare in quella parte di Milano, per cui tanto meglio. È ancora giovane ed ha fiducia, prima o poi la fottuta Champions League la vincerà, è solo una questione di attese. Lui non è mai stato bravo ad attendere, questo è vero, ma imparerà.
Si concede una smorfia infastidita quando qualcosa si frappone fra lui e il sole, gettandogli addosso un’ombra scura che costringe la sua pelle sudata a sentire in un brivido, per la prima volta da che è lì, il venticello lievissimo e fresco che accarezza la piscina privata dell’albergo.
Schiude gli occhi, strizzando un po’ le palpebre, giusto perché l’ombra non è sufficientemente larga per coprire del tutto la luce abbagliante del sole che si riflette sulle piastrelle chiare e sull’acqua immobile della piscina, e lo stupore di vedere José lì di fronte a lui che gli sorride tranquillo, come niente fosse, è tale che per un attimo dimentica che i suoi polmoni hanno ancora bisogno che lui si ricordi di farli funzionare, per respirare. Si chiede distrattamente quando respirare abbia smesso di essere una cosa perfettamente naturale ed automatica, si chiede quando il suo respiro si sia fermato per la prima volta abbastanza a lungo da permettere al suo corpo di dimenticare come farlo in autonomia, e la ricorda. E ricorda anche che dopo quella prima volta ne sono seguite tante, troppe, fino a sradicargli la respirazione automatica dal DNA. E ricorda che è stata colpa di José. Sempre, ogni volta, colpa di José.
- Mi avevano detto che c’era Ancelotti, da queste parti. Si sbagliavano? – dice, cercando in qualche modo di mantenersi composto e distaccato nonostante la voglia di saltare in piedi e scappare – o saltare in piedi e saltargli addosso – prema da dentro e lo costringa a un leggero tremito.
- Non si sbagliavano. – gli sorride José, sedendosi sul bordo della sdraio mentre lui, con una naturalezza che quasi lo spaventa, piega una gamba per fargli posto. – L’ho incontrato prima, è stato molto felice di rivedermi.
- Una delle numerose cose che non abbiamo in comune. – sorride amaramente lui, guardando altrove. José si finge stupito, schiude le labbra ed inarca le sopracciglia in un’espressione così genuinamente e al contempo fintamente sorpresa da fargli venire voglia di prenderlo a pugni.
- Ma come, zingaro? Non sei contento di vedermi? – lo prende in giro. Zlatan sopprime un ringhio di gola, tornando a guardarlo con la migliore delle sue occhiate omicide, e nemmeno gli risponde. José non sembra intimorito dalla minaccia che i suoi occhi già da soli rappresentano, comunque, e si limita a tornare a sorridere sereno. – Io lo sono. Ti trovo bene. – aggiunge.
- Sto benissimo, infatti. – borbotta Zlatan, tornando a guardare un punto imprecisato sulla superficie dell’acqua poco distante.
- Quest’anno è stato duro, vero? – insiste José, come volesse far conversazione a tutti i costi, una cosa che non è mai appartenuta alla loro routine neanche quando potevano con qualche ragione dire di possederne una. – Ti ho visto parecchio fuori forma, ogni tanto. Troppo magro. Capisco che il gioco di potenza non si adatti granché allo stile del Barcellona, ma deperire per una cosa simile mi sembra un po’ eccessivo.
- Non sono affatto deperito. – protesta, stringendo i pugni lungo i fianchi, - Sto benissimo adesso come stavo benissimo due mesi fa, come stavo benissimo quando me ne sono andato e come starò benissimo anche fra un minuto, quando tu sarai sparito dalla mia vista.
José ride appena, sistemandosi meglio sulla sdraio, pur senza prendersi molto più spazio di quanto lui non gli stia già concedendo.
- Come sei aggressivo. – commenta, - Comunque le vacanze ti fanno bene. Sei molto più bello adesso di quanto non fossi qualche settimana fa.
Zlatan si acciglia, lanciandogli un’occhiata infastidita.
- Non provarci. – dice seccamente, - Neanche per idea, José.
Lui solleva le braccia in segno di resa, ridendo a bassa voce.
- Non ti ho nemmeno toccato. – gli fa notare, e Zlatan sbuffa, contrariato.
- Come se ti servisse farlo.
Il sorriso di José si allarga, così come il posto che prende sulla sdraio quando lentamente, quasi distrattamente, comincia a scivolare più vicino a lui.
- Cosa stai cercando di dirmi? – chiede allusivo. Zlatan si allontana impercettibilmente. – Ti faccio ancora lo stesso effetto?
- Sto cercando di dirti che, qualunque sia l’effetto che mi fai, devi starmi alla larga. – spiega chiaramente, il tono duro, quasi severo, neanche stesse avendo a che fare con Maximilian o Vincent in uno dei loro momenti di peggiore capriccio. E invece sta discutendo col suo ex allenatore. Il suo ex amante. Uno dei nodi più dolorosi del suo passato, uno di quelli che non vuole sciogliere perché sa che non averlo più farebbe se possibile ancora più male.
Zlatan è scappato perché anche José era diventato un elemento di pressione costante nella sua vita. Forse più della squadra, più dei tifosi, più dell’Italia giornalistica così piccola e meschina da ricordare di lui sempre e soltanto gli insuccessi. José era invadente, era pericoloso, gli si stava attaccando addosso come una malattia. Un profumo non suo, abitudini che non gli erano mai appartenute, José era stato in grado di rovesciarlo al contrario in meno di un anno, divorarlo, digerirlo e risputarlo fuori completamente diverso da ciò che era prima che s’incontrassero. Il solo pensiero di avere lui in mente al mattino appena sveglio, piuttosto che Helena o i bambini o una dannata partita di calcio, era terrificante. José lo inseguiva ovunque anche quando non c’era. I suoi occhi, il ritmo del suo respiro, la sua presenza sempre così dannatamente ingombrante, la sua voce incisa sulla pelle e in un’eco costante a rimbombare nelle sue orecchie.
La respirazione, soprattutto. I suoi occhi, la sua voce, i polmoni che smettono di funzionare. Il suo tocco, le sue mani, le sue dita, morte certa per asfissia. Al solo ripensarci Zlatan si sente quasi mancare, e deve ancora una volta distogliere lo sguardo.
- Non sei cambiato. – dice José in un soffio. Zlatan lo guarda di sfuggita e si accorge che anche lui sta guardando altrove, un punto distante, lontano nello spazio e nel tempo. Un punto dal quale dovrebbero stare entrambi ben lontani, se vogliono sopravvivere al tempo che invece hanno ancora davanti. – Un po’ ci speravo.
- Che fossi cambiato? – chiede con una smorfia, quasi offeso. José sospira pesantemente.
- Sì. No. – sospira ancora, - Che qualcosa di te fosse cambiato. Fosse più a posto, almeno.
- Io sono a posto.
- Tu sei scappato.
José si volta a guardarlo e Zlatan vorrebbe sciogliersi. Nel calore umido dell’aria, nell’acqua tiepida della piscina, ovunque, pur di sparire.
- Cosa vuoi da me? – gli chiede alla fine. Lo sputa fuori con una fatica mai provata prima, che gli causa un dolore quasi fisico, un intorpidimento generale di tutto il corpo.
José sorride tristemente, solleva una mano, gli accarezza uno zigomo. Zlatan smette di ragionare.
- Te. – risponde, e Zlatan va in apnea.
Non si muove – perché non riesce – quando José si solleva e si fa spazio fra le sue gambe, avanzando fino a poter sfiorare le sue labbra con le proprie. E non si muove – perché non vuole – nemmeno quando José lo bacia, da subito senza il minimo freno, le labbra dischiuse, la lingua pronta a cercare la sua, i denti che si chiudono con forza sul suo labbro inferiore un attimo prima di allontanarsene.
- Respira. – gli sussurra addosso. Zlatan brucia dentro e fuori, cerca di obbedire e non riesce. José gli sorride, lo bacia ancora, gli strappa via dalla gola il nodo che ha tenuto custodito dentro il suo corpo fino a quel momento e Zlatan esplode in un singhiozzo soffocato dalle sue labbra, e si accorge solo in ritardo della mano di José che è scesa ad accarezzarlo fra le cosce, al di sopra del tessuto sottile e un po’ scivoloso del costume.
Si rompe in un ansito sconnesso quando la sua mano scende al di sotto e le sue dita circondano la sua erezione già quasi dolorosa – il costume da bagno è stretto, Zlatan lo odia, vorrebbe che José glielo strappasse via – e mugola qualcosa che lui stesso non capisce, perché forse un senso nemmeno ce l’ha. Ma José lo coglie comunque, gli sorride sulla pelle e lo spoglia, restando per qualche secondo completamente vestito contro il suo corpo completamente nudo, dandogli i brividi, togliendogli il respiro ancora e ancora e ancora.
- Ricordati di respirare. – sussurra José, e Zlatan annuisce distrattamente, come un bambino che sta per addormentarsi annuisce alle raccomandazioni dei genitori per il giorno dopo. Non importa, non importa, l’aria non è niente, l’aria è solo aria, ma lui ha lì José, José è lì per lui, e se dovrà respirare, d’accordo, lo farà sulla sua bocca.
Cerca le sue labbra e José non gliele nega, restano attaccati in un bacio un po’ goffo anche quando José si allontana di qualche centimetro per sfilare almeno i pantaloni e gli slip, o abbassarli a sufficienza per potersi pressare più disinvoltamente contro di lui. Zlatan mugola quando sente la sua erezione premere contro la sua coscia, e si muove sotto il suo corpo fino a quando non ottiene ciò che vuole – i loro bacini allineati, le erezioni che si sfiorano, si sfregano, cominciare a respirare perché non può fare a meno dell’odore della sua pelle. E inspira a grandi boccate, come fosse appena riemerso dopo aver rischiato di annegare, e José lo calma accarezzandolo piano, lentamente, imponendo al suo corpo il ritmo del proprio, il ritmo di qualcuno che vuole assaporare qualcosa contro il ritmo di qualcun altro che invece vuole divorarne l’anima.
Serra le cosce attorno al suo bacino quando lo sente premere contro la propria apertura, dischiude le palpebre e, al di là del velo di voglia che gli offusca la vista, nota la sua espressione a metà fra il concentrato e il perso, e solleva una mano ad accarezzargli il viso, ridisegnandone i lineamenti che ricorda ancora a memoria, perché no, non è cambiato davvero per niente. E anche se poi gli occhi vorrebbe chiuderli di nuovo, per perdersi completamente nel momento in cui José entra dentro di lui e comincia a spingere per scavarsi nuovamente dentro il suo corpo un posto che sente proprio di diritto, resiste, e continua a guardarlo, perché non vuole perdersi un attimo, e per continuare a farlo lucidamente deve per forza continuare anche a respirare. E perciò respira. E respira. E quando trattiene il fiato, venendo fra le sue dita, è solo per un secondo, ma si sente quasi scoppiare. E si dicepossibile? Ho ricordato come si fa?, e poi sorride e si dà dell’idiota, perché no, non è che ha ricordato, è che José gli ha insegnato a farlo ancora una volta.
José non si allontana da lui, anche dopo essere venuto. Zlatan gli chiude addosso le braccia e se lo stringe contro, ma è giusto un’assicurazione in più, e infatti José ride, divertito.
- Non me ne vado. – gli sussurra sul collo, - Ora riposa. È stato stancante, vero?
Zlatan ride a propria volta, ancora senza fiato, e annuisce. Lo è stato. Stancante, sfiancante, distruttivo. Non è sicuro di potersi svegliare sentendosi la stessa persona che era prima e che forse è ancora, ma dopotutto non è proprio certo che sia un male. E poi José sarà lì, in ogni caso, quindi se avrà bisogno di qualcuno a cui chiedere come si respira perché l’ha dimenticato di nuovo, saprà a chi rivolgersi.
Genere: Commedia, Erotico.
Pairing: José/Zlatan, Pep/Bojan.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: AU, Slash, Lemon.
- A causa del bullismo dei suoi colleghi medici, Zlatan, ultimo arrivato all'ospedale, si ritrova costretto ad effettuare un turno alle visite ordinarie. E' qui che, invece, riceverà una visita che di ordinario non ha proprio nulla.
Note: Storia nata principalmente perché io ho dei problemi seri, ma anche perché pure i pubblicitari spagnoli hanno problemi seri. (Il bonus, invece, è perché Jan rompeva le palle.) (♥) Titolo rubato a una canzone di Nancy Sinatra che in realtà faceva "another gay sunshine day", ma insomma.
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Another Gay Hospital Day


- Quello che non capisco – sbuffa Zlatan, incrociando le braccia sul petto, - è perché dovrei farlo io.
- Perché sei un novellino. – risponde serafico Gerard, sorridendogli come se niente nel mondo potesse rovinare lo stato di pace interiore in cui si crogiola la sua candida anima, - Quindi ti tocca.
- Ci sono dei turni da rispettare. – borbotta lui in risposta, tirando giù le maniche del camice evidentemente troppo piccolo per la sua taglia, - E comunque Bojan è più piccolo di me.
- Ma è arrivato diversi anni prima. – gli fa notare Lionel, scorrendo la lista degli impegni giornalieri, - e comunque—
- Krkic. – chiama il primario Guardiola, passando puntualmente a qualche metro di distanza mentre Zlatan rotea gli occhi e Bojan sorride splendente come un bambino a Natale, fra le risatine di tutti gli altri colleghi raggruppati attorno al banco dell’accettazione, - Nel mio ufficio. Adesso.
- Arrivo, dottor Guardiola! – cinguetta Bojan, poggiando la cartella che stava visionando sul banco e trotterellandogli dietro, dimentico di chiunque fosse il paziente di cui si supponeva dovesse prendersi cura.
- Giuro che un giorno qualcuno ci lascerà le penne perché Boji ha preferito correre dietro all’esimio culo del dottor Guardiola piuttosto che prendersi cura di lui. – commenta Andrés, seduto sullo sgabello dietro il banco, controllando meccanicamente che tutte le cartelle siano ai loro rispettivi posti.
- Dagli torto. – ridacchia Xavi, stringendosi appena nelle spalle, mentre tutti si voltano a guardarlo inarcando le sopracciglia in un movimento così sincronico da rasentare il capolavoro artistico. – Cosa? – chiede lui, ridendo con maggiore divertimento, - Era un giudizio di valore come un altro.
- …sì, certo, un giudizio di valore. – sospira Zlatan, roteando gli occhi, - Questo non elimina il problema principale.
- Che sarebbe? – chiede Lionel, quasi annoiato, continuando a scorrere l’elenco e spuntandone delle voci apparentemente a caso di tanto in tanto.
- Sarebbe che io non posso andarmi a smazzare le visite ordinarie come un qualunque pivello! Nell’ospedale in cui stavo prima—
- Lo sappiamo, lo sappiamo. – lo liquida Gerard, gesticolando distrattamente, - Eri il primo fra tutti i medici, come te non c’era nessuno, i pischelli ti guardavano come fossi dio in terra e le infermiere si bagnavano al tuo passaggio.
- Io non ho mai detto questo! – sbotta Zlatan, aggrottando le sopracciglia, - Però sì, è esattamente quello che accadeva. – sbuffa contrariato, il naso puntato verso il soffitto e una smorfia altera ad indurire i tratti del viso.
- Non fare quella faccia che già sei brutto, mi spaventi i bambini. – lo riprende Lionel, e Zlatan gli tira una schicchera in piena fronte.
- Parla quello che quando i pazienti arrivano chiedono “dov’è il dottore”, e devono chinarsi per notarlo. – sbotta, e Lionel si massaggia la fronte, lanciandogli occhiatacce infastidite.
- Be’, almeno io passo attraverso le porte senza sbattere il mio enorme naso contro gli stipiti e anche contro la parete alla fine del corridoio. – gli fa notare supponente, ravviandosi i capelli dietro un orecchio.
- Senti, tu-- - comincia Zlatan, ma il dottor Puyol li ferma entrambi, afferrandoli per i rispettivi colletti e tirandoli indietro.
- Sentite tutti e due, - li rimprovera, - qua si viene per lavorare e per curare la gente, non per battibeccare come bambini delle elementari o peggio. Per cui, - conclude, lasciandoli andare con uno strattone deciso, - al lavoro. E basta schiamazzi.
Zlatan ringhia sommessamente e si massaggia la nuca, neanche Puyol l’avesse afferrato per la collottola, ma si rende conto che ha ben poco da protestare ancora: il nonnismo plateale che regna sovrano in quell’ospedale è troppo potente perfino per lui, perciò – mentre tutti i suoi colleghi, lo sa, gli ridono dietro – china il capo e s’infila nella prima sala visite a portata di mano, sperando non sia già occupata.
Non lo è, o meglio, lo è, ma non da un altro medico. Un paziente, tuttavia, sta seduto sul lettino e si guarda intorno con aria annoiata, come non vedesse l’ora di andarsene. Zlatan può comprendere il suo stato d’animo e, in un impeto di empatia – qualcosa che non si verificherà più per almeno altri dieci anni – gli sorride bonario. L’uomo, però, non risponde con altrettanto calore, e si limita a lanciargli un’occhiata vaga, scendendo dal lettino e mettendosi in piedi davanti a lui.
Sarà sulla cinquantina, è più basso di lui ma questo non lo stupisce – quasi tutti sono più bassi di lui, generalmente, nell’universo. Ha una bella linea ma il viso provato di uno che nella vita ne ha viste abbastanza da non volerne vedere più. I capelli sono brizzolati, ma ancora molto scuri soprattutto alla base. Tutto sommato, con quei jeans e quella polo scura e quell’aria da riccone abbronzato che non deve chiedere mai, sembra in salute.
- Allora? – chiede il tizio, interrompendo la sua scansione oculare della sua persona, - Vogliamo restare lì imbambolati ancora a lungo o cosa? L’ha preso il suo caffè, stamattina?
Zlatan aggrotta le sopracciglia, infastidito dal suo tono supponente e dalle sue parole nient’affatto concilianti il buonumore.
- Che l’abbia preso o meno io non deve preoccuparla, ma è evidente che, se l’ha preso lei, ha dimenticato di aggiungere la giusta dose di zucchero. – commenta ironico, scrollando le spalle ed avvicinandoglisi.
- Io prendo il caffè sempre amaro. – dice il tipo.
Zlatan sogghigna, allungandosi a recuperare la cartella clinica appoggiata alla scrivania.
- Non mi stupisce. – dice, scorrendo la cartella con lo sguardo. – Insomma, signor… Mourinho? Non è di qui?
- Sono portoghese. – spiega lui, - Ma questo non dovrebbe interessarle. E non ho nessun malanno, se è questo che si sta augurando.
Zlatan inarca un sopracciglio, picchiettando con la penna sul lato della cartella.
- Potrà sembrarle strano, ma non auguro a nessun essere umano di stare male, sa? – dice, ma il tipo lo liquida con un gesto della mano.
- Come preferisce. Comunque mi serve solo un certificato di sana e robusta costituzione, perciò diamoci una mossa e cominciamo questa visita, che ho da fare. – stabilisce, accennando a sfilare la polo dopo averne sciolto un bottone del colletto, ma viene fermato dall’occhiata incredula e vagamente ilare che Zlatan gli lascia scorrere addosso.
- Un cert— per lei? – chiede, indicandolo con la penna, - Ma quanti anni ha?
- …c’è scritto sulla mia cartella. – borbotta lui, perplesso, - Quarantasette, comunque. Dottore, c’è qualche problema?
- Sì, evidentemente. – risponde Zlatan, amplificando l’ovvietà della propria risposta con un ampio gesto del braccio, - A cosa le serve un certificato di sana e robusta costituzione?
- Non sono affaracci suoi. – risponde l’uomo, burbero. Zlatan ride.
- No, se permette lo sono. – insiste, - Dal momento che devo essere io a rilasciarglielo, e che su quel pezzo di carta ci sarà la mia firma, ho bisogno che lei mi fornisca tutte le informazioni che io riterrò opportuno richiederle, indipendentemente da quanto lei ritenga opportuno rivelarmele. Non voglio ritrovarmi con una denuncia fra due giorni, né scoprire dal giornale che un cinquantenne è morto d’infarto facendo dio solo sa cosa perché un medico incompetente non è stato abbastanza bravo da impedirglielo.
L’uomo si prende qualche secondo per guardarlo come guarderebbe una ballerina di flamenco uscita all’improvviso dalle fogne facendo saltare il tombino con una sventagliata decisa, e poi schiude le labbra.
- …io non sono un cinquantenne, tanto per cominciare. – precisa piccato, - E lei indubbiamente ha una spiccata fantasia. – aggiunge atono, annuendo impercettibilmente, - Ma non accadrà niente del genere. Devo solo allenare la squadra di calcio di mio figlio per i campionati scolastici, niente di—
- Oh, bene, quindi ci sono di mezzo dei bambini. – prende nota Zlatan, serissimo, - Ancora peggio, dunque. Lo sa quanti genitori avanti con l’età muoiono stroncati da un infarto mentre inseguono la progenie? No? Be’, non glielo dico perché non voglio spaventarla, ma sono tanti.
- Oh, ma per favore! – lo interrompe l’uomo, roteando gli occhi, - Sopravvivrò senza alcun problema, ora se vuole—
- No, lei non ha capito. – insiste Zlatan, - Io in genere non occupo questo posto all’interno della struttura ospedaliera. E—
- E questo l’avevo anche capito da solo, guardi.
- E non posso proprio – riprende Zlatan, ignorando la sua interruzione, - non posso proprio rilasciarle questo certificato se non mi fornirà specifiche esatte su quello che andrà a fare sul campo, sul ruolo che andrà a ricoprire, sul numero delle ore che si suppone lei debba impiegare al seguito di questi bambini e—
Zlatan non si era mai reso conto di quanto i lettini ospedalieri fossero scomodi. Probabilmente perché non ne aveva mai utilizzato uno prima d’ora. E, in effetti, non ricorda di aver permesso esplicitamente o anche implicitamente all’uomo che ha di fronte di prenderlo e ribaltarlo sul suddetto lettino, men che meno di baciarlo, poi, perciò si sente pienamente in diritto di ribellarsi, agitandosi come un’anguilla dentro la sua presa ferrea malgrado l’età e provando a spingerlo all’indietro, tutto sommato con scarsi risultati.
- Ma che sta facendo?! – strepita, piantandogli le mani sul petto, non appena lui gli lascia abbastanza spazio da tirarsi indietro, sottrarsi al bacio e ricominciare a respirare. L’uomo non si muove di un millimetro, resta piantato fra le sue cosce e si spinge contro di lui in un gesto secco e immediato, che gli tira via quel po’ di fiato che ancora conservava nei polmoni.
- Volevo zittirla, e questo m’è sembrato il modo più sbrigativo. – si giustifica lui, scostandogli di dosso il camice e tirandoglielo indietro abbastanza da incastrargli fastidiosamente le braccia dietro la schiena. – Adesso però vedo che l’idea potrebbe avere risvolti perfino più positivi di quanto avessi immaginato. – aggiunge con un ghigno in parte sarcastico e in parte compiaciuto.
Zlatan spalanca gli occhi, il respiro che si fa più svelto mentre cerca invano di liberarsi e, dimenandosi insensatamente, non ottiene altro che continuare a strusciarsi con maggior forza contro il suo bacino.
- Che cosa avrebbe intenzione di fare? – chiede, cercando di allontanarsi il più possibile, ma l’uomo gli si avvicina e lo bacia ancora, quasi con violenza.
- Le dimostro la mia sana e robusta costituzione. – risponde lui, soddisfatto.
Zlatan ha appena il tempo di provare a spostare le gambe per, magari, chiuderle, che si ritrova ribaltato, lo stomaco schiacciato contro il materasso sottile e scomodissimo del lettino e le braccia ancora incastrate dietro la schiena, solo che adesso può esercitare su di esse un controllo addirittura minore rispetto a prima, dato che il tizio lo tiene ben saldo con una mano per le maniche e con l’altra per un fianco, rendendogli impossibile qualsiasi tipo di movimento. A meno che non sia un movimento che lo costringa ad urlare per il dolore, ed urlare vorrebbe dire attirare l’attenzione, e attirare l’attenzione vorrebbe dire portare almeno la metà dei suoi cosiddetti colleghi a fare irruzione nella stanza per trovarlo immobilizzato e sottomesso da un nonnetto, in pratica, e se Zlatan vuole avere qualche speranza di sottrarsi al bullismo imperante che Guardiola, con tutte le sue distrazioni, non riesce ad arginare, be’, questa non è una possibilità ammissibile.
- Mi lasci andare immediatamente! – ordina, col più deciso dei toni che riesce a tirar fuori dal fondo dello stomaco, ma tutto ciò che esce dalle sue labbra è un’implorazione impaurita e un po’ strozzata. Il tipo gli sorride sulla nuca, e la schiena di Zlatan si ricopre di brividi.
- Faremo in modo che questa visita duri il più brevemente possibile. – gli sussurra all’orecchio con tono rassicurante, e Zlatan sente il bisogno quasi fisico di urlare. Gli esplode nel petto, gli fa perfino male, ma non cede. E il tipo ride. – Non hai ancora chiesto aiuto. – gli fa notare, e Zlatan sente stridere fastidiosamente nelle orecchie il tu confidenziale che s’è sentito in diritto di usare con lui senza nemmeno chiedergli il permesso. Come non gli ha chiesto il permesso di ribaltarlo sul lettino, d’altronde, e come non chiede il permesso quando gli sfibbia i jeans e li lascia scorrere lungo i suoi fianchi magri e poi lungo le sue gambe, liberandosene celermente per poi tornare a schiacciarsi contro le sue natiche.
Zlatan sente la sua erezione nonostante il tessuto spesso dei jeans, ed il primo pensiero che formula è anche il più assurdo, nonché il più imbarazzante, e cioè che sì, l’uomo qui sembra davvero di sana e quanto mai robusta costituzione. Vorrebbe avere le mani libere per potersi coprire il volto con vergogna, ma sono ancora bloccate, e lui non può fare altro che abbassare lo sguardo e cercare di reprimere i gemiti quando il portoghese lo accarezza fra le natiche con due dita umide, cercando la sua apertura.
- Cristo! – ansima agitato, ed è felice, nell’infelicità, naturalmente, di essere carponi contro il lettino. Così, almeno, non dovrà giustificare di fronte al dannato sorriso supponente di quell’uomo l’erezione prepotente che sta schiacciando sul materasso.
Il tizio, comunque, lascia andare una risatina lieve, impalpabile, terrificante, e spinge le dita in fondo al suo corpo. Senza fretta, quasi senza attrito, costringendolo col movimento del proprio bacino a strisciare lungo la superficie del letto. Zlatan geme a bassa voce quando il materasso accarezza la sua erezione, e geme ancora più forte quando le dita dell’uomo trovano la sua prostata. Può sentire il suo sorriso estremamente soddisfatto sulla pelle del collo, sente la sua lingua tracciare disegni insensati appena sotto il suo orecchio e rabbrividisce, e poi geme ancora, e a quel punto il portoghese sfila entrambe le dita – costringendolo a un mugolio sofferto e impaziente – e subito dopo le sostituisce con la propria erezione, spingendosi a fondo in un unico colpo deciso che spinge Zlatan di parecchi centimetri in avanti sul materasso.
Zlatan annaspa, spalanca gli occhi e schiude le labbra, cerca di inspirare quanta più aria possibile ma è dura, è durissima quando si sente pieno fino a scoppiare e così genuinamente e profondamente sorpreso da tutto da rendersi conto già da solo che dentro di lui non c’è più spazio per nient’altro che non sia lo stupore e il cazzo dello sconosciuto che se lo sta scopando. È la cosa più disturbante che gli sia mai capitata, la più dolorosa e, al contempo, la più eccitante.
Il portoghese gli lascia libere le braccia, e Zlatan le usa immediatamente per ancorarsi ai lati del lettino, cercando di assicurarsi alla struttura metallica per avere la certezza che non cadrà per terra. Continua a gemere ad ogni spinta, sputando fuori l’aria per la quale dentro di lui non c’è più posto, e ad ogni spinta avanza un po’ di più sul materasso, e la sua erezione struscia contro il tessuto plastificato che riveste il lettino, e la frizione, dentro e fuori e attorno a lui, è talmente forte da bruciare, da fargli quasi male, e se non fosse così devastantemente piacevole Zlatan è certo che a questo punto, a dispetto di tutto, comincerebbe a urlare davvero.
E invece l’uomo lo aiuta a sollevarsi dal lettino, a rimettere i piedi per terra, a trovare una posizione migliore, e quando i loro corpi sembrano essersi incastrati così perfettamente da non poter proprio chiedere di più comincia ad accarezzarlo lentamente, per tutta la sua lunghezza, rifiutandosi ostinatamente di seguire lo stesso ritmo delle proprie spinte per frustrarlo ancora di più, per costringerlo a mordersi le labbra e implorare, e Zlatan lo fa, si morde le labbra e implora, ancora, di più, più forte, e il portoghese lo afferra saldamente per un fianco e spinge, spinge, spinge, mentre l’altra mano lo accarezza più velocemente, e quando Zlatan trattiene il respiro ed inarca la schiena e cerca in tutti i modi, in tutti i dannatissimi modi, di non lasciare andare l’uggiolio stremato che spinge per uscire dal fondo della sua gola quando viene, il dannato bastardo si allunga a mordergli la nuca così forte che, un po’ per lo stupore e un po’ per il dolore, Zlatan perde il controllo sul proprio corpo, e quello stupido gemito viene fuori, e Zlatan è senza forze, e si accascia sul lettino come privo di vita, scosso dal suo stesso respiro spezzato e pesante.
È stata la cosa più orribile della sua vita. È stata anche la più bella. Quando entri a medicina non ti dicono che potresti finire a lasciarti scopare da uno sconosciuto stronzo su un lettino scomodissimo il giorno in cui le palle ti girano a mille perché per i tuoi colleghi eri e resti il pivello da bastonare ad ogni occasione favorevole.
Imprevisti che rendono piacevole il mestiere, si dice con un mezzo ghigno, rimettendosi dritto e sistemandosi addosso i vestiti mentre il portoghese, perfettamente soddisfatto e tanto pieno di sé che se l’ego fosse fatto d’elio prenderebbe sicuramente il volo, tira su i pantaloni e li spiega lungo le gambe in pochi gesti mirati e decisi.
Zlatan si siede alla scrivania – non senza qualche difficoltà, ma cerca di non darlo a vedere – recupera un modulo, lo compila, lo firma, sorride serafico e lo passa al bastardo.
- Congratulazioni, signor Mourinho, lei è in perfetta salute. Spero che si diverta, coi suoi bambini.
Il tipo sbuffa una risata divertita, afferra il foglio con un movimento spiccio e lo saluta sbrigativamente.
- Potrei aver bisogno di controlli periodici. – dice, poco prima di abbandonare la stanza.
Zlatan resta immobile per parecchi secondi, giusto per assicurarsi di non trovarlo lì fuori una volta uscito dalla stanza. Poi si alza in piedi, abbandona la sala visite e torna all’accettazione. Alcuni dei suoi colleghi non ci sono più, altri sono andati e tornati, altri non si sono mai mossi. Bojan è seduto sul banco, mangia un enorme muffin al cioccolato e finge di arrossire pudicamente alle battute dei ragazzi sulla sua misteriosa sparizione di più di un’ora.
Quando lo vedono arrivare, sono tutti stupiti del sorriso che gli increspa le labbra.
- Be’? – chiede Gerard, inarcando un sopracciglio, - Ti sei divertito?
Zlatan scrolla le spalle, vago.
- È stata un’esperienza interessante. – risponde, - A voi non dispiace, vero, se lo rifaccio anche domani, mh?
I suoi colleghi lo guardano spalancando gli occhi, increduli.
- Ma dici sul serio? – chiede Xavi, sporgendosi a guardarlo per capire se stia male o meno. Zlatan si limita a sorridere con maggiore convinzione, stringendosi serenamente nelle spalle. Quella delle visite ordinarie potrebbe davvero essere la sua vocazione, dopotutto.
 
 
Bonus.
Bojan si chiude la porta alle spalle e, per qualche secondo, vi rimane appoggiato, cercando di non sorridere come invece vorrebbe fare. Non è mai stato bravo a trattenere dentro di sé le espressioni di gioia – o di qualsiasi altro tipo – comunque, per cui un angolo della sua bocca si ostina a piegarsi verso l’alto in un sorrisino colmo di ansia, emozione e impazienza che è felice Guardiola non possa notare, preso com’è a fingere di interessarsi agli incartamenti che sta visionando, pur di non interessarsi a lui.
- Hai lasciato da parte qualcosa d’importante, prima di venire qui? – chiede atono, firmando documenti senza sollevare lo sguardo dai fogli.
Bojan ci riflette su. Il signor Ortega probabilmente non vedrà la luce di domani, ma al momento non importa.
- No. – risponde placido, - Tutti i pazienti sono stabili e fuori pericolo. – a parte il signor Ortega che è stabile e in pericolo, ma qualcuno troverà sicuramente il  tempo e il modo di occuparsi di lui, dovesse peggiorare ancora.
- Ottimo. – risponde Guardiola, annuendo soddisfatto. Dopodiché si mette in piedi e fa il giro della scrivania, appoggiandosi al bordo con entrambe le mani e guardandolo dritto negli occhi. Bojan comincia a sentire quel familiare formicolio che lo prende sempre al bassoventre e che poi si diffonde in tutto il suo corpo, anestetizzandolo, ogni volta che lui lo guarda in questo modo. – Avvicinati. – dice soltanto, e per Bojan è una richiesta più che sufficiente: si avvicina, sì, e sfila il camice, che lascia cadere a terra senza un pensiero di più, e si inginocchia di fronte a lui non appena è abbastanza vicino da poter sfiorare il suo profilo col proprio.
Accarezza con la punta del naso la sua erezione, ancora nascosta dentro ai jeans, e lascia andare un mugolio grondante di voglia quando una mano di Guardiola scende ad accarezzargli lo zigomo ed il mento, costringendolo a guardare in alto per poi sfiorargli le labbra col pollice in una carezza a tratti riverente e a tratti perfino profanatrice, tanta è la forza con la quale s’impone sulla morbidezza della sua bocca.
Bojan lascia passare il pollice, lo accarezza con la punta della lingua, lo succhia con forza e lo lascia andare solo quando Guardiola geme, e comunque non prima di averlo mordicchiato giocosamente ed averlo trattenuto fra i denti, sorridendo, per un paio di secondi.
Slaccia la cintura, sbottona i jeans e tira giù la zip, gioca con la sua erezione per qualche secondo, prima di sporgersi in avanti ed accoglierla fra le labbra. Guardiola lo afferra per i capelli, dimentico di ogni premura, e Bojan lo lascia fare, permettendogli di essere lui a stabilire il ritmo con cui lui lo prende disinvoltamente fino in gola, senza neanche un gemito  che non sia di puro apprezzamento.
Guardiola ride, scopandogli la bocca senza gentilezza.
- Sei un portento. – commenta divertito, e poi lo costringe ad allontanarsi dal suo cazzo ancora teso, aiutandolo ad alzarsi in piedi. Le sue labbra sono gonfie, arrossate ed umide, ed i suoi occhi sono lucidi di voglia. Guardiola lo trae a sé in un gesto brusco e lo bacia affamato, mentre le mani di Bojan tornano automaticamente a cercare la sua erezione e la accarezzano lente, provocanti, insopportabili.
Guardiola grugnisce, Bojan sorride e, quando osserva tutti i documenti cadere sul pavimento, spinti dalla furia dell’uomo, impaziente di fargli posto sulla scrivania, si lecca le labbra, colmo d’impazienza.
Guardiola lo afferra per i fianchi, lo solleva e lo mette seduto di peso sul tavolo, infilandosi fra le sue cosce e quasi strappandogli via i pantaloni di dosso. Bojan inarca la schiena quando sente la sua erezione premere contro la propria, ed espone il collo ai suoi baci e ai suoi morsi. Le labbra di Guardiola sono calde, insaziabili, lo confondono fino a fargli perdere il senso del tempo, e tutto ciò che riesce a fare è dimenarsi sotto il suo corpo per far sì che le loro erezioni sfreghino l’una contro l’altra ancora e ancora e ancora, e continuerebbe volentieri così all’infinito se Guardiola non decidesse di riprendere in mano la situazione e tirarsi indietro abbastanza da posizionarsi fra le sue natiche.
Il suo cazzo è ancora umido e scivola dentro di lui in una spinta lenta, aiutato anche dall’abitudine e dalla voglia matta che lo scuote da dentro, portandolo a spalancare le gambe e poi serrarle attorno ai suoi fianchi, incrociando le caviglie dietro la sua schiena al solo scopo di trarlo più decisamente contro di sé, per sentirlo più in fondo.
- Piano… - mormora Guardiola, quando lo sente gemere a voce più alta, ma Bojan scuote il capo, i capelli umidi di sudore che gli si appiccicano alle tempie ed al collo, e continua a muoversi sempre più velocemente, tanto che per qualche minuto Guardiola non deve neanche fare la fatica di spingere. Riprende a muoversi, sorridendo intenerito, solo quando il respiro del ragazzo si fa affannoso e stanco, anche se non per questo Bojan rinuncia a dimenare il bacino: gli occhi serrati e le labbra umide appena dischiuse, continua a muoversi e si accarezza distrattamente fra le cosce, mentre Guardiola pianta entrambe le mani sulla scrivania, ai lati del suo corpo, e detta al loro amplesso un ritmo diverso, più forte, quasi animalesco. E Guardiola ringhia, piegandosi sul corpo di Bojan scosso dai brividi dell’orgasmo che esplode fra le sue dita e i loro corpi, e gli morde le labbra, il lobo, il collo, la spalla, spingendosi con più forza possibile dentro di lui finché non sente l’orgasmo scaldargli il ventre. Solo a quel punto smette di muoversi, esce dal suo corpo e si masturba sbrigativamente, fino a venirgli addosso, qualche schizzo che sfugge al controllo andando ad imbrattargli il viso, e Bojan è semplicemente splendido mentre strizza un occhio, più per posa che per paura di essere colpito davvero, e si passa provocatoriamente un dito sopra la guancia, raccogliendo qualche goccia del suo piacere per portarla alle labbra, in un timido tentativo di assaggio, guardandolo dritto negli occhi.
Guardiola ride, scuote il capo, gli accarezza una guancia e lo bacia celermente sulle labbra, prima di porgergli una salvietta ed aiutarlo a ripulirsi e risistemarsi.
- Sei un portento, davvero. – gli ripete, - Un vero talento nel tuo campo.
- Sta per caso lasciando intendere che il mio campo non sarebbe quello della professione medica, dottor Guardiola? – ridacchia lui, un po’ prendendolo in giro e un po’ semplicemente flirtando. Guardiola ride ancora e lo bacia un’ultima volta.
- Torna al lavoro, Krkic. – lo saluta con un cenno del capo, mettendosi a raccogliere i documenti sparsi per terra. Bojan saluta a propria volta, recuperando il camice e abbandonando la stanza, e per un secondo pensa al signor Ortega e si chiede se non dovrebbe per caso magari passare a trovarlo.
Lo farà più tardi, decide alla fine. Prima ha voglia di un muffin.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bojan Krkic/José Mourinho, nominati/accennati/presenti in qualche modo Bojan Krkic/Pep Guardiola, José Mourinho/Zlatan Ibrahimovic, Pep Guardiola/Zlatan Ibrahimovic. Troiaio, we haz it.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash, Outdoor!Sex.
- "Guarda, io non voglio infrangere i tuoi sogni né ammazzare a sprangate la tua fiducia nel mondo, ma Mourinho sta cercando di rimorchiarti."
Note: Questa storia è nata dalla suggestione visiva della mia icon e di quella della Jan che si susseguivano ossessivamente su Twitter. Pareva che si guardassero, e la cosa mi turbava profondamente. Cioè, dovevo scriverci su. Ed a darmi un pretesto ci ha pensato il mio cervello, spruzzando ovunque Pep, Zlatan e tutta una serie di altre robe di cui non ha senso parlare adesso, perché tanto le troverete all'interno della storia, se avrete voglia di leggerla.
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Easier Than The Truth


– Guarda, io non voglio infrangere i tuoi sogni né ammazzare a sprangate la tua fiducia nel mondo, ma Mourinho sta cercando di rimorchiarti.
Bojan guarda Thierry, poi la vodka alla fragola che gli è appena stata poggiata sul tavolo senza che lui avesse bisogno di ordinarla, poi Mourinho, qualche tavolo più in là, apparentemente intento a guardare altrove e farsi i fattacci propri, e solo alla fine torna a guardare Thierry.
– Ma è solo stato gentile. – prova, stringendosi nelle spalle, mentre tutti i suoi compagni di squadra lo fissano come gli fosse improvvisamente sbocciato un fiore in mezzo alle cosce.
– Boji, – mormora Lionel, massaggiandosi stancamente le tempie, – lascia che ti spieghi una cosa, sugli uomini: non conoscono gentilezza, non saprebbero neanche sotto quale lettera cercarla sul vocabolario. Tutto quello che vogliono è portartisi a letto e andarsene alle prime luci dell’alba senza neanche salutare.
Numerosi sguardi gli si posano addosso, quando smette di parlare, ed in particolare a nessuno sfugge il “ma parla per esperienza personale?” di Pedro, che viene prontamente zittito da Gerard, il quale si premura di ficcargli in bocca la cannuccia del suo succo di pera lievemente corretto prima che, dopo aver sbraitato un “checcosa?!” pressoché animalesco, Lionel decida di abbattere la propria furia sulla sua svampita persona.
Bojan si disinteressa quasi subito della dinamica della faccenda – più o meno nell’esatto momento in cui Lionel si alza in piedi, salta sul tavolino e poi lo usa come rampa di lancio per scaraventarsi addosso a Pedro e cominciare poi a rotolare senza senso per il pavimento di tutto il locale – prima di tutto perché sta con Pep da ormai quasi un anno ed è abbastanza convinto di poter dare lezioni su cosa si possa aspettare un ragazzo da un uomo, e secondo poi perché preferisce voltarsi verso Mourinho, alla ricerca di un qualsiasi segno del suo supposto interesse.
Il problema è che lo trova: Mourinho lo sta guardando con attenzione, e i suoi sono occhi invadenti, quasi maleducati, perché non esitano a dosare l’intensità che possiedono per spogliarlo tutto e farlo sentire completamente nudo in mezzo al locale, al punto che lui sente quasi il bisogno fisico di stringersi in un abbraccio protettivo, come a cercare di schermarsi da quello sguardo così insistentemente indiscreto da dargli perfino fastidio.
Non sa se sia stato il discorso di Lionel ad influenzarlo, ma a questo punto non conta neanche tanto: ciò che conta è che, quando esce dal locale diretto alla macchina ed attraversa il parcheggio ormai semivuoto, non si stupisce nel vedere Mourinho appoggiato contro lo sportello chiuso della propria autovettura, le braccia incrociate sul petto e sul volto la tipica espressione vacua di chi, annoiato, aspetta qualcuno già in ritardo.
– Ce ne hai messo, di tempo. – gli fa notare, il tono quasi irritato. Bojan si volta verso di lui ed abbassa immediatamente gli occhi, in imbarazzo.
– Mi dispiace. – mormora, senza sapere effettivamente per cosa dovrebbe dispiacersi, – La ringrazio per il drink che mi ha offerto prima, anche se non ho ben capito perché—
– Perché voglio portarti a letto. – dice lui, senza attendere un secondo. I suoi occhi sono caldi e decisi, così come il tono della sua voce. Bojan non sa se sia colpa della suggestione, della situazione o solamente della vodka, ma la schiena gli si riempie di brividi ed il cuore gli salta in gola nell’esatto momento in cui Mourinho si allontana dalla propria macchina, dirigendosi verso di lui.
– Mi— Mi dispiace, – biascica, – ma io non—
– Tu non? – sorride Mourinho, avvicinandoglisi abbastanza da sfiorare il suo profilo col proprio. Bojan sente il suo corpo pressato contro, e la sua erezione, prepotente ed evidente anche sotto i pantaloni che indossa, gli sfiora una coscia.
– Io non… – prova a insistere, ma non trova le parole, perciò si morde un labbro e cerca di cambiare argomento. – Perché? – chiede con un filo di voce. José sorride ancora e si allontana da lui, solo qualche centimetro, lo spazio necessario per far passare un braccio fra i loro corpi, afferrarlo per un gomito e spingerlo senza la minima delicatezza contro lo sportello chiuso della macchina.
Il metallo della portiera ed il vetro del finestrino sono freddi, e quel freddo passa attraverso il cotone leggero della polo che indossa, gelandogli lo stomaco.
– Perché – risponde José, pressandosi contro di lui finché Bojan non sente la sua erezione quasi fra le natiche, – sei bellissimo. – le sue labbra umide sfiorano la sua nuca ad ogni parola. Bojan trema e non può impedirsi di gemere. – Non ti sembra una motivazione sufficiente?
– Neanche… – balbetta a corto di fiato, – Neanche mi conosci.
– E dovrei? – chiede lui, quasi divertito, stringendogli un braccio dietro la schiena e vagando con la mano libera nello spazio minuscolo che c’è fra il suo bacino e lo sportello. Bojan ascolta il lieve suono della cintura slacciata, del bottone sfilato dall’asola e della zip tirata giù con calma, quasi con troppa cura, e poi chiude gli occhi e si morde un labbro quando la mano di José scivola oltre l’elastico dei suoi slip, fra cosce che nemmeno si premura di fingere di tenere serrate. – Non mi sembra che il tuo corpo abbia problemi, col trovarmi uno sconosciuto.
Bojan geme ancora, più forte, quando le sue dita si chiudono attorno alla sua erezione. Tira su il braccio che Mourinho non gli tiene serrato contro la schiena e lo appoggia al tetto della macchina, nascondendovi contro il viso. Una parte di lui si vergogna terribilmente: sente il venticello notturno accarezzargli la pelle umida e bollente e si rende conto di essere all’aperto, in un luogo incredibilmente esposto come un parcheggio sul retro di un locale, e poi se si concentra abbastanza riesce a sentire la voce di Pep, che poi è la stessa voce con cui lo accoglierà quando riuscirà a tornare a casa, a chissà che orario, una voce un po’ stanca ma tutto sommato felice che gli chiede “ti sei divertito fuori con i ragazzi?”, e tutte queste cose insieme lo confondono e lo irritano e lo imbarazzano e lo fanno sentire una troia.
D’altra parte, la mano di Mourinho si muove con tanta disinvoltura attorno alla sua erezione che ogni particolare spiacevole si scioglie in una nuvola leggera come il vapore, ed è facile per Bojan dissiparla con un gesto quando Mourinho, consapevole del fatto che non scapperà di certo adesso, lascia andare il braccio – che peraltro cominciava a dolere – per abbassargli i pantaloni e gli slip e cominciare ad accarezzarlo fra le natiche, senza per questo dover smettere di prendersi cura della sua erezione.
Bojan chiude gli occhi e lo lascia fare, ma il suo atteggiamento non è quello tipico di un succube che si sottopone a qualcosa di sgradevole perché lo trova inevitabile: un succube non si dimenerebbe contro l’eccitazione di un altro uomo per averla dentro di sé il più presto possibile, un succube non geme oscenamente per ogni carezza e per ogni cambiamento di ritmo solo perché le scariche di piacere che lo assalgono vanno facendosi sempre più violente, al punto da dargli l’impressione di potere impazzire, un succube non si volta indietro a cercare labbra di cui ancora ignora il sapore, e non viene fra dita praticamente sconosciute non appena quelle stesse dita stringono un po’ la presa e lo accarezzano più velocemente, con maggiore decisione, inseguendo il ritmo erratico delle spinte di un bacino diverso a quello cui è abituato, che ama, che non avrebbe mai desiderato tradire in quel modo.
Quando Mourinho viene dentro di lui, stringendolo per i fianchi con tanta forza che da lasciarlo quasi pietrificato per l’irrazionale paura dei segni che potrebbero rimanergli stampati sulla pelle, Bojan si lascia andare ad un singhiozzo stremato, abbattendosi contro la macchina come privo di forze, e se non piange è solo perché prova troppa vergogna perfino per versare anche una sola lacrima.
– Non darti troppa pena. – lo rassicura Mourinho, ripulendolo con una salvietta umida tirata fuori da chissà dove, con una cura quasi paterna, senza che a lui neanche passi per l’anticamera del cervello la possibilità di fermarlo. D’altronde, riflette distrattamente, sarebbe ridicolo fermarlo adesso quando fino a pochi secondi fa l’ha lasciato disporre del proprio corpo come fosse suo. – Non è stato che sesso. Non significa niente.
Bojan si volta a fatica, scrutandolo con aria un po’ incerta.
– Perché? – chiede di nuovo, e Mourinho gli lascia scorrere addosso un’occhiata lunga e penetrante, come volesse spaventarlo al punto da farlo desistere da quella sciocca intenzione di provare a sondare i suoi pensieri. Bojan, comunque, non cede.
– Perché il tuo uomo ha messo le mani su qualcosa di mio. – concede quindi José, pulendosi le mani con un’altra salvietta, – Ed io non sono uno che si lasci rubare qualcosa di proprio da sotto il naso senza ristabilire istantaneamente le posizioni. Fallo sapere, questo, a Pep.
Bojan non risponde. Sconvolto, gli occhi sgranati, resta immobile senza neanche terminare di rassettarsi i vestiti. La cinghia della sua cintura, quando José gli chiede di spostarsi per lasciarlo libero di rientrare in macchina e poi partire, allontanandosi sgommando nella notte, tintinna come un campanello, e lo riporta alla realtà più del rombo del motore della Mercedes.
Deglutisce a fatica e cerca il proprio cellulare nella tasca posteriore dei jeans. Lo estrae, compone a memoria il numero di Pep e, quando lui non risponde, controlla l’orario. Sono le dieci e mezza, gli aveva detto che non sarebbe tornato a casa prima di mezzanotte. Qualcosa, nel centro del suo petto e, contemporaneamente, all’altezza delle sue tempie, comincia a pulsare. È solo un fastidio, in un primo momento, e quando comincia a diventare dolore Bojan non se ne accorge. Sale in macchina, scaccia via le lacrime e parte.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Pep Guardiola/José Mourinho.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash.
- "Come tutte le cose complicate, la tua relazione con mister Mourinho potrebbe essere decisamente più semplice se solo provaste a parlare."
Note: Anche questa è nata praticamente su richiesta, nel senso che quando hai un Def che ti si mette lì a piangere miseria perché ama il Jo2 e nessuno glielo scrive e bla bla bla per forza ti viene voglia di dargliene un po', anche solo per zittirlo. Poi, insomma, capita anche che ti prendi bene, perché voglio dire, stiamo parlando di Pep e José, e quindi capita che ti esca del porno un po' zozzo e un po' deprimente, come dire. Insomma. Capita. *soccombe*
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A Rush Of Blood To The Head


Come tutte le cose complicate, la tua relazione con mister Mourinho potrebbe essere decisamente più semplice se solo provaste a parlare. Se solo quella mattina, dopo gli allenamenti, invece di saltarvi addosso come fosse una cosa del tutto prevedibile e naturale, aveste discusso ed aveste cercato di spiegarvi cos’è che vi stava succedendo – già da un po’, anzi, da parecchio; tu, almeno, non ricordi un singolo minuto da quando gli hai posato gli occhi addosso in cui guardandolo tu non abbia automaticamente pensato che volevi sentirtelo dentro fino in gola, cazzo – probabilmente ci sareste caduti lo stesso, probabilmente parlarne non sarebbe stato abbastanza per placare la voglia e il bruciore folle che sentivi sulla pelle appena lui si faceva abbastanza vicino da poterne respirare l’odore, però forse cadendoci avreste evitato di farlo inciampando, senza pensare alle conseguenze e ritrovandovi perciò con ben più di un ginocchio sbucciato ed il culo per terra.
Naturalmente, essendo entrambi chi siete, era improbabile che le cose tra voi potessero muoversi secondo ritmi pacati, in crescendo lenti e contenuti. Essendo voi chi siete, era ovvio che ogni vostro incontro sarebbe stato uno scontro, ogni carezza una collisione, ogni bacio una battaglia. Ricordi perfettamente la prima volta in cui ti ha toccato, ricordi i brividi che ti hanno percorso la pelle come una febbre ma soprattutto ricordi la sua carezza lenta lungo il tuo torace umido e il tuo collo teso in uno spasmo nervoso, e ricordi che, prima ancora di baciarti, la prima cosa che ha fatto è stata afferrarti per i capelli e tirarti indietro, esponendo il tuo collo alla carezza del suo respiro rovente. Lo ricordi perfettamente sfiorarti appena con le labbra risalendo impercettibile lungo la linea curva della tua gola, lo ricordi soffermarsi sulle tue labbra dischiuse in un gemito di dolore e aspettativa e scrutarti con quegli occhi gelidi, profondi e impossibili per un tempo lunghissimo, vite intere, prima di decidersi a coprire le tue labbra con le proprie in un bacio da subito aperto e bagnato e caldissimo e furioso, come una punizione o una tortura.
Da quel momento in poi, per ogni volta in cui ti ha toccato tu hai chiuso gli occhi e per un singolo istante, prima di concentrarsi sulla pressione dei suoi polpastrelli sulla tua pelle, hai ripensato alla sua mano fra i tuoi capelli, al suo respiro addosso e ai suoi occhi nei tuoi. Questo da solo, in genere, è sufficiente per riaccendere in te la scintilla che poi lui è tanto bravo a far divampare con niente. Come tutti i grandi incendi, d’altronde, non ha bisogno che di una fiammella per attecchire dove l’erba è già secca e non chiede altro che una fiamma più grossa per andare in fumo.
Alle volte ti sembra di essere un suicida seriale, rincorri la piccola morte che trovi ogni volta fra le sue braccia – quel momento tremendo e divino in cui dopo l’orgasmo cerchi il respiro e lo trovi sulle sue labbra – come un disperato, come fosse l’unica cura ad ogni tuo dolore. Eppure la tua vita è piena e soddisfacente per una svariata quantità di motivi – sei celebre, sei ricco, sei amato – non dovresti avere motivo di sentirti così perso e così vivo solo fra le braccia di quest’uomo, per quanto affascinante, per quanto bello, cazzo, non è nessuno. El Traductor, così lo chiamano. E tu, la sua puttana, così mormora lo spogliatoio.
Sarebbe falso dire che non t’importa dei loro pettegolezzi, in realtà ti vergogni come un ladro. Dai tutto sul campo, ti dreni per non pensare, e quando ne vieni fuori stai sulle tue, eviti la gente, non vuoi sentirti bisbigliare alle spalle cose che sai già ti faranno male, e sai che fanno male perché sono vere, è questo che le rende ancora più odiose. D’altro canto, sarebbe falso anche dire che di quanto dicono t’importa ancora quando senti le mani di José scorrere lente lungo la tua schiena sudata, o quando la sua voce soffice, con quell’accento portoghese che rende ogni sua parola più sensuale, ti dice di piegarti sulle ginocchia e inarcare la schiena. No, non t’importa più niente quando le sue dita scendono fra le tue natiche accarezzandone dapprima il solco e poi scivolando più profondamente alla ricerca della tua apertura, e potrebbe perfino esplodere il mondo quando si spingono dentro di te con la certezza di aver già il loro posto scavato dentro il tuo corpo, sì, potrebbe esplodere l’universo, che tu continueresti a gemere a corto di fiato, muovendoti al ritmo delle sue carezze per venirgli incontro, nel tentativo di fargli capire che così non ti basta, che vuoi di più, che lo vuoi tutto.
José non è mai tenero, non ti tratta mai come se fossi la sua amante o altra robaccia simile. Siete necessari l’uno all’altro, e questo l’avete ormai capito da tempo – da quando tu ti sei accorto che respirare accanto a lui era impossibile eppure quelli in cui lo avevi vicino erano i momenti migliori della tua giornata, da quando lui s’è reso conto che malgrado i pericoli e le difficoltà e i pettegolezzi non riusciva a starti lontano per più di qualche ora, prima di tornare a cercare il tuo calore con le dita e il tuo sapore con la lingua – avete bisogno estremo della presenza fisica dell’altro al vostro fianco, ma non per questo la vostra relazione è ammantata da chissà che sciocchi cliché romantici, come servissero a qualcosa, poi, come un mazzo di fiori o una carezza più dolce delle altre possa bastare a cancellare il fatto che siete due uomini e scopate fra voi solo perché vi piace la sensazione fisica dei vostri cazzi che si sfiorano quando strofinate i bacini l’uno contro l’altro. Come se a te potesse bastare qualche premura per dimenticare che alle volte la sensazione magnifica del suo cazzo che si fa strada dentro di te è tutto ciò cui riesci a pensare lucidamente da quando ti svegli al mattino, e come in crisi d’astinenza non fai che attendere il momento in cui potrai avere la tua dose giornaliera, e quasi ansimi a corto d’aria quando tarda ad arrivare, perché è a questo punto che sei arrivato, è così che ti sei ridotto, ti senti ribollire il sangue nelle vene solo quando José ne ridisegna la traccia sulle tue braccia, sul tuo ventre, sulla tua eccitazione, e ti spegni come una fiamma privata d’ossigeno quando lui si allontana da te.
Non glielo dici, naturalmente, perché José non ha alcun bisogno di saperlo, e d’altronde lo sente nell’urgenza dei tuoi baci e nella fretta con cui ti dimeni sotto di lui per cercare di accoglierlo il più profondamente possibile, ma è comunque una consapevolezza che aleggia sopra di voi, si allarga come una macchia d’olio sopra le vostre teste e rende tutto incredibilmente più duro e ruvido e difficile e doloroso.
Quando esce dal tuo corpo, quando si stende al tuo fianco – stando bene attento a non toccarti, perché sa che non sei una donnicciola, sa che le coccole non ti servono, sa che lo getteresti giù dal letto a calcioni se solo provasse a blandirti con cazzate simili – José recupera un po’ di fiato guardando il soffitto, e sempre guardando il soffitto di dice “lo sai che me ne andrò, eh, Pep?” e lo dice con una tale calma che ti spezza il cuore. “Non posso restare qui,” continua, “non posso restare El Traductor per sempre.”
Tu sorridi appena, tirando solo un angolo della bocca. Sai che Barcellona non dimentica – Barcellona è come il tuo corpo, José proverà a scappare e rimarrà sempre piantato dentro di te così a fondo che potrai ancora sentire la forma del suo sesso ogni volta che proverai a ripensarci chiudendo gli occhi, ed allo stesso modo rimarrà per sempre il traduttore per tutta quella gente, niente di più, niente di meno. Trovi futile che riesca a credere di potersi smarcare da quel soprannome fuggendo altrove, ma non glielo fai notare perché sai che ogni rimostranza suonerà alle sue orecchie come niente di diverso del piagnisteo di una ragazzina innamorata che non vuole farsi lasciare dal fidanzato.
“Lo so,” rispondi quindi, anche se è una bugia. Avrai tempo per capire, o almeno, è questo quello che ti ripeti, cercando di convincerti mentre pian piano il tuo corpo torna ricettivo, tutti i nervi tesi e la pelle ipersensibile e accaldata, e vai rendendoti conto che niente ti toccherà più come t’ha toccato lui, nient’altro in tutto il resto della tua vita.
“Quando ci rivedremo,” ti sussurra sulla pelle, “promettimi che avrai conservato qualcosa, di me. Il mio odore, il mio sapore, la forma delle mie mani,” continua, scivolandogli sul ventre in una carezza appena accennata e fermandosi al primo tocco del ciuffo di peli del pube, “promettimi che sarò ancora da qualche parte sul tuo corpo, indelebile.”
Tu inspiri ed espiri, cerchi di mantenere il controllo sui brividi che corrono su e giù per la tua schiena, ma non riesci granché bene. “Credevo non ti piacessero queste romanticherie,” sussurri agitato, gli occhi socchiusi e le palpebre che tremano, mentre ti mordi incerto il labbro inferiore, sperando che lui si faccia avanti, allungandosi a baciarti.
“Non è una romanticheria,” risponde invece lui, tornando a stendersi più comodamente sul materasso ed allontanandosi abbastanza da impedire alla tua pelle di percepire ancora il suo calore, “è smania di possesso, probabilmente. Non sono uno che si accontenta di avere solo il novanta percento di qualcosa.”
“Ed è per questo che vai via?” non puoi impedirti di chiedergli, “Perché il novanta percento non ti basta?”
“È per questo che ritornerò,” risponde lui senza neanche un’esitazione, tornando a fissare il soffitto, “A tempo debito. Tornerò per prendermi anche tutto il resto.”
Sul momento, non ci fai caso, a quanto sia serio. Ridi, gli tiri una mezza spallata, poi ti rimetti in piedi e ti rivesti.

*

Così tanti anni dopo che non riesci nemmeno a contarli, siete entrambi molto più vecchi e le vostre esperienze di vita sono state diversissime, ma tu rabbrividisci ancora allo stesso modo quando lo vedi arrivare alla sede centrale del club. Quando ti sorride e ti stringe la mano come il vostro rapporto non avesse mai valicato il confine del professionale per tuffarsi in qualcosa di molto più pericoloso, per un secondo hai come l’impressione di esserti sognato tutto, di non essere mai andato a letto con lui, di non averlo mai baciato. Questo ti spaventa, perché i ricordi che il suo odore – sempre lo stesso – scatenano dentro di te sono troppo vividi per essere fasulli, e ti chiedi brevemente se per caso, da qualche parte nel corso della tua vita, tu sia impazzito.
Ascolti le ragioni di Laporta e non fai una piega, lui andrà via, il nuovo presidente non ti vede tanto di buon occhio, vuole un vincente più arrabbiato, vuole Mourinho, in pratica. Non è che non lo sapessi, quindi non ti stupisce. Annuisci senza dire una parola, poi gli stringi la mano con calore, lo ringrazi per tutto ciò che ha fatto per te nel corso degli ultimi due anni, per la fiducia, per l’incoraggiamento, per i soldi ben spesi e anche per quelli spesi un po’ meno bene e poi esci dall’ufficio, imbocchi il corridoio e alla fine non riesci ad andartene davvero. Resti lì, sospeso fra realtà e irrealtà e supponi dovresti chiederti cos’è che farai adesso, dove andrai e come, ma non t’importa davvero.
La voce di José ti raggiunge come in un’eco lontana, qualche minuto dopo.
“Te l’avevo detto” sussurra divertito, “che sarei tornato a prendermi tutto il resto.”
E sorridi anche tu, lasciando scivolare il brivido giù fino alla punta dei piedi ed accogliendolo come un amico ritrovato, mentre la mano di José si fa strada sul tuo fianco e tu, quasi sottovoce, un po’ vergognandoti, ma in realtà, davvero, no, gli chiedi se per caso ha intenzione di mostrarti il suo nuovo ufficio.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Gen, (accenni) Het, (lieve) Angst.
- "Da almeno mezz’ora, José sta seduto per terra accanto a Zuca, e cerca di venire a capo delle istruzioni per montare il modellino di macchina che gli ha comprato prima di rientrare a Villa Ratti per il weekend."
Note: Riflessioni di Tami su suo marito nel privato e nel pubblico. Titolo da Shape Of My Heart di Sting. Prompt: Privato/Pubblico @ It100.
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I’M NOT A MAN OF TOO MANY FACES// (PRIVATO)
Da almeno mezz’ora, José sta seduto per terra accanto a Zuca, e cerca di venire a capo delle istruzioni per montare il modellino di macchina che gli ha comprato prima di rientrare a Villa Ratti per il weekend. Tami ridacchia mentre lo osserva grattarsi incredulo la sommità della testa mentre commenta che è impossibile riuscire a risolvere partite perse portando la squadra alla vittoria e poi non riuscire a capire cosa montare dove in uno stupido modellino per bambini dai dieci anni in su.
- Seriamente, non ha senso. – borbotta, sbuffando come una teiera sul fuoco. Tami gli si accuccia accanto, prende Zuca fra le braccia e lo dondola un po’ per rassicurarlo. Sì che papà gliela sistemerà, la sua macchinina, d’altronde lui sa fare tutto, no?, anche se poi per appendere le mensole in cucina hanno dovuto chiamare il falegname, visto che José, provandoci, per poco non si staccava un pollice col martello.
Sussurra le sue rassicurazioni all’orecchio del suo piccolino, e lui annuisce sicuro, gli occhi che brillano d’ammirazione mentre fissa il papà trafficare con le parti della macchinina riservandole la stessa attenzione che in genere riserva ai suoi ragazzi mentre li allena, e così nessuno dei due – né Zuca, né Tami – si stupisce davvero quando, alla fine, José riesce a montarla sul serio. E funziona.

(PUBBLICO) //THE MASK I WEAR IS ONE
Tami non segue spesso suo marito nel suo lavoro. Non va mai agli allenamenti, ad esempio, ed anche quando José porta Zuca a vedere qualche amichevole lei non li accompagna mai, un po’ perché qualcuno dovrà pur restare a badare a Titi, che odia il calcio neanche fosse una piaga che il buon Dio aveva conservato risparmiandola agli egiziani per riservarla a lei, ed un po’ perché le poche volte in cui ha affiancato José in un’apparizione pubblica, per un festeggiamento o qualche cena di lavoro, nel momento in cui s’è voltata a guardarlo in viso non l’ha riconosciuto. José è il migliore dei padri, il più fedele dei mariti, il più affettuoso degli amanti, ma quando lavora si svuota, non è più un essere umano, di lui resta solo la passione per il calcio, infinita, strabordante, che lo riempie tutto fino all’orlo scalciando fuori dal suo corpo tutto il resto, visto che di spazio, per tutto il resto, non ce n’è più. È per questo che Tami non va quasi mai con lui, perché le volte in cui lui vince e lei è costretta a seguirlo, quando lo guarda negli occhi non vede niente a parte il fuoco che gli brucia dentro, quello che agita l’animo di un uomo che ha ottenuto ciò che voleva ed è già pronto a desiderare altro per continuare a combattere e ottenere anche quello.
Il più delle volte, Tami cerca di ignorare che suo marito, mentre lavora, possa diventare un altro. E spesso – non sempre, ma spesso – funziona.
Genere: Introspettivo, Triste, Romantico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: R/NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Lime.
- Alcuni si sentono più sereni nell'ascoltare musica ad occhi chiusi. Altri preferiscono passeggiare per strada. O leggere un libro. A José piace andare a dormire con Zlatan che gli accarezza i capelli. E cos'è che rende sereni voi?
Note: La fiamma è accesa, omg \o/ Non ricordo più nemmeno da quanto non scrivevo una Jobra come si deve. *piange sangue* Stupidi pairing estemporanei che mi distraggono dall'Unico Vero Dio. *si vota al Jobra promettendo di chiamare tutti i suoi figli maschi José e Zlatan con numeri romani in coda al nome per distinguerli gli uni dagli altri* Ehm.
Dunque, blasfemie randomiche a parte, in realtà questa non è una fic ma un concentrato di vari flash Jobra che mi hanno attraversato la mente nelle ultime settimane grazie ad un po' di gente con cui ho parlato (credit: Martha, Def ed Any). Dal momento che scrivere tutte fic differenti avrebbe portato ad un milione di inutili e inconsistenti doppi drabble, ho preferito dare al tutto una parvenza di coerenza con la realtà e scrivere una fic unitaria XD Che poi comunque è molto spezzettata lo stesso. Però ho passato delle ore fra Inter.it, Fcinternews.it e Fcbarcelona.cat per andare recuperando tutte le informazioni che mi servivano XD E ciò mi ha portato ad odiare il mondo - le RPF sono le fic più stressanti dell'universo, ma è anche per questo che ci piacciono.
Titolo rubato a un verso di Home dei Simply Red.
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Home Is A Place Where I Yearn To Belong


Quando, la notte a cavallo fra il diciannove e il venti febbraio, José sentì qualcuno battere una serie di colpi potenti e decisi contro la porta della sua camera ad Appiano, per un secondo i polmoni gli saltarono in gola, e lì rimasero, quasi soffocandolo, mentre il suo cuore ricollegava automaticamente quel modo di bussare a Zlatan e il suo cervello cercava inutilmente di ricordargli che aspettarsi una sua visita lì in ritiro a quell’ora di notte era quantomeno ridicolo.
Si mise in piedi quasi con circospezione, avvolgendosi nella propria vestaglia e cercando invano di combattere il freddo notturno che entrava nonostante le finestre sbarrate, strofinando le mani l’una contro l’altra e poi lungo le braccia, nude come il petto al di sotto del tessuto in lana leggera.
- Chi è? – chiese a bassa voce, accostando l’orecchio alla porta in attesa di una risposta che giunse pochi secondi dopo, forte e chiara, del tutto dimentica del bisogno di fare silenzio, a quell’ora e in quel posto, per non svegliare nessuno.
- Il postino. Ma non intendo suonare un’altra volta, quindi se non apri prendo e me ne torno a Barcellona col primo aereo di domani.
Era Zlatan.

*

Seduto sul letto, Zlatan rimirava una fotografia plastificata che aveva trovato proprio lì sul suo comodino, qualche secondo prima, dopo aver gettato il borsone accanto alla porta e il giubbotto su una poltrona non tanto distante.
- Ce ne hai messo di tempo, per venire ad aprire. – gli fece notare, senza staccare gli occhi dalle numerose croci che coprivano i visi dei giocatori e dei membri dello staff che non facevano più parte della squadra per la nuova stagione, - E, Dio mio, Zay, che cosa macabra. Ma come ti è saltato in mente? Sembra una qualche stronzata voodoo.
- Non lo è. – borbottò José, avvicinandoglisi e strappandogli la foto dalle mani, - Ma che ci fai qui, Zlatan?
Lo svedese gli sollevò gli occhi addosso per la prima volta da quando era arrivato, e lo studiò attentamente per qualche secondo, prima di sospirare profondamente.
- Il Mister non mi ha convocato per la partita contro il Racing. – confessò, tornando ad abbassare lo sguardo, la voce ancora ferma e serena come stesse parlando della lista della spesa piuttosto che di un palese fallimento professionale, - Quando sono uscito dalla Masia, mi sono guardato intorno ed ho odiato Barcellona così tanto che ho temuto di poter arrivare a fare una pazzia. Perciò ho chiamato Helena, le ho detto di non aspettarmi per un paio di giorni e mi sono fiondato in aeroporto.
José sospirò a propria volta, sedendosi accanto a lui, la fotografia ancora trattenuta mollemente fra le dita.
- Non dovresti essere qui. – lo rimproverò a bassa voce, - Fra tre giorni avete una partita di Champions League. Se anche non giocherai domani contro il Racing, non puoi permetterti di perdere giorni di preparazione per-
- Sono in dubbio anche contro lo Stoccarda. – concluse Zlatan, lapidario, - E se avessi ammazzato Guardiola a mani nude come volevo fare quando ha annunciato le convocazioni, sarei stato in dubbio ancora per un lungo periodo di tempo. – sorrise debolmente, lanciandogli un’occhiata un po’ incerta, - Ho preferito evitare.
José si allungò a posare la foto sul comodino, dove era rimasta fino a prima dell’arrivo di Zlatan, e poi gli accarezzò lentamente una guancia, guardandolo con attenzione.
- Sei capitato in un brutto momento. – disse, quasi giustificandosi, - Non stiamo andando bene come dovremmo.
Zlatan sorrise, un po’ tristemente, seguendo il movimento delle sue dita contro la sua guancia e il suo zigomo.
- L’Inter non lo fa mai. – commentò, - Per i giornalisti, c’è sempre qualcosa in più che poteva essere fatto e invece non è stato fatto.
- No. – scosse il capo José, aggrottando le sopracciglia, - No, non stiamo andando bene come io vorrei. – precisò, mentre lo sguardo di Zlatan si faceva più serio, e perfino vagamente più preoccupato. – Non so quanto intendi rimanere, e non so cosa sei venuto a cercare, ma non è detto che possa dartelo. Ho i nervi a fior di pelle, e-
- Così mi offendi. – lo prese in giro Zlatan, tirandogli una mezza spallata giocosa, - Non mi sono mica fatto mille chilometri solo per venire a scopare con te, special one. Sei speciale, ma non ce l’hai d’oro.
José rise, ricambiando la spinta e poi restandogli vicino, in modo da continuare a sfiorarlo e sentire il tepore della sua pelle nonostante i vestiti.
- Non riesco ad immaginare altre utilità per la mia persona, in questo momento. – si schernì con un sorriso amaro.
- Cristo, siamo già all’autofustigazione. – roteò gli occhi Zlatan, sfilandosi velocemente di dosso maglia e pantaloni ed infilandosi sotto le lenzuola ancora calde del corpo di José, prima di allungarsi ad afferrarlo per le spalle, strattonargli via la vestaglia e trarlo a sé fra le coperte, costringendolo a stendersi al suo fianco, - Meno male che io riesco ad immaginare un’utilità per la mia, di persona, adesso.
José si sistemò accanto a lui, poggiando il capo nell’incavo della sua spalla e chiudendo serenamente gli occhi nel momento in cui Zlatan cominciò a far passare le dita fra i capelli sulla sua fronte e sulle sue tempie.
- Questo mi manca. – sussurrò in un raro accesso di sincerità, - Non hai idea di quanta serenità era in grado di darmi prima delle partite difficili.
Zlatan si morse un labbro, restando in silenzio per molti secondi, prima di chinarsi sulla sua fronte per poggiare un bacio lieve e un po’ umido sulla sua pelle accaldata e corrucciata dalla preoccupazione.
- Dormi. – disse con un sorriso, ascoltandolo respirare più tranquillamente, - Andrà tutto bene.

*

L’indomani mattina, José si svegliò col brusio della televisione in sottofondo. Aprì gli occhi e vide Zlatan  sdraiato al suo fianco, appoggiato sui gomiti, il telecomando in una mano e lo sguardo ancora un po’ imbrattato di sonno fisso sullo schermo. Era vestito.
- Hai già visto i ragazzi? – gli chiese, rigirandosi sul materasso. Zlatan si riscosse dal semi-torpore in cui sembrava essere caduto, e si voltò a guardarlo con un sorriso a increspare le labbra.
- No, non ancora. Stavo per uscire. – rispose, e poi si prese una pausa, mordicchiandosi nervosamente un labbro. – Ho visto te, però. – riprese incerto, - La conferenza stampa. – sospirò e si voltò verso di lui, abbassandosi anche un po’, in modo da poterlo guardare senza dover girare il capo. – Zay, - lo chiamò piano, la voce venata di preoccupazione, - te lo chiederò solo una volta, perciò cerca di essere sincero. Sforzati. – inspirò ed espirò profondamente, prima di chiederglielo. – Stai bene?
- Sì. – rispose immediatamente José, senza neanche darsi la pena di restare a pensarci qualche secondo.
Stava mentendo. Zlatan se ne accorse.

*

- Hai le spalle forti, - gli disse, prima di lasciarlo andare in panchina e rintanarsi in qualche Sky Box dove nessuno avrebbe potuto vederlo, e chi l’avesse visto sarebbe stato adeguatamente pagato per tacere, - ma non sei indistruttibile. Quindi cerca di stare attento.
José distolse lo sguardo e la prima cosa che fece quando si sedette in panchina fu spegnere il cervello.

*

Ore dopo, si sarebbe rivisto incrociare i polsi di fronte al mondo, con lo sguardo fisso nel vuoto, e non si sarebbe riconosciuto.

*

- Dimmi che resterai. – gli sussurrò sul collo, facendosi spazio fra le sue cosce mentre Zlatan lo accoglieva dentro di sé e fra le sue braccia con un gemito di gola, - Ho bisogno di te, contro il Chelsea.
- Io non gioco più per questa squadra, Zay. – gli rispose dolcemente lui, baciandolo lungo il collo, - Non chiedermi di giocare ancora per te.
- Ti sto chiedendo di restare. – insistette José, spingendosi con forza dentro di lui e strappandogli ogni ansito di piacere dalle labbra, un bacio dopo l’altro, - Per me.
Zlatan dischiuse gli occhi, cercando i suoi e sollevando una mano per accarezzargli il viso. Era una sensazione incredibile, si disse José, abbassandosi a baciarlo ancora, la consapevolezza di potergli fare tanto male e tanto bene nello stesso momento.
- Dimmi che resterai. – ripeté stringendo la sua erezione fra le dita ed accarezzandolo al ritmo delle proprie spinte, - Resterai?
Zlatan venne chiudendo gli occhi con tanta forza da lasciarsi sfuggire una lacrima. Minuscola, trasparente, quasi inconsistente.
- Sì. – rispose alla fine, tornando a respirare mentre José veniva dentro di lui, - Sì, resterò.

*

- Avevi detto che saresti rimasto.
Zlatan non riuscì neanche a sollevare il viso per guardarlo.
- Il mister mi ha convocato, Zay. – cercò di giustificarsi, - Non posso e non voglio dire di no. Non fare scenate.
- No. – quasi ringhiò lui, stringendo i pugni lungo i fianchi, - No, io non devo mai fare scenate. Tu puoi promettere al mondo i mari, i monti e la luna, ed il mondo non ha nessun diritto di lamentarsi se poi tu non sei in grado di regalargli neanche un granello di sabbia. Naturalmente.
- Sono rimasto finché ho potuto. – si difese Zlatan, tornando a cercare i suoi occhi. José non glieli aveva mai negati, ma per la prima volta, solo per un secondo, nell’osservare quanta delusione ci fosse, mischiata alla rabbia e ad un’irrazionale paura che Zlatan, a mesi di distanza, non riusciva ancora a spiegarsi, nonostante tutte le rassicurazioni che gli aveva fornito, desiderò ardentemente che invece l’avesse fatto. Solo per quella volta, solo per un secondo.
- Ti avevo chiesto di restare. Avevi detto di sì.
- Sì, be’, - borbottò lui, passandosi una mano fra i capelli e distogliendo lo sguardo per primo, - non ho mai detto che sarebbe stato per sempre.
José rimase in silenzio, le labbra dischiuse, le mani tremanti. Zlatan poteva sentire la sua rabbia crescere esponenzialmente, gonfiarsi come un pallone aerostatico, alimentata da un fuoco perfino più caldo.
- Già. – disse, chinandosi a recuperare il suo borsone ed avvicinandosi per schiacciarglielo contro il petto, - Già, non l’hai mai fatto, d’altronde. E ora vai pure da Guardiola, ammesso che tu sia mai davvero arrivato qui, in primo luogo. – Zlatan fece per ribattere, ma José lo spinse lontano da sé con tutto il borsone, guardandolo con astio. – Te ne sei almeno accorto? Che c’ero io, in quel letto, e non Guardiola? Riusciresti a riconoscere la differenza?
- Questo – boccheggiò Zlatan, stringendo al petto la borsa come uno scudo, - Questo è scorretto, José.
- Scorretto. – sorrise amaramente José, uscendo dalla stanza senza guardarlo ancora, - No, questo è vero. Rivedi il tuo italiano, Zingaro. Troppo spagnolo te l’ha fatto dimenticare.

*

Guardare gli highlight e rendersi effettivamente conto del fatto che Guardiola ci aveva visto giusto, a richiamarlo a casa, visto che era stato solo grazie al gol di Zlatan che il Barça era riuscito a lasciare Stoccarda senza perdere, non lo consolò.

*

- Non ho tempo per te, adesso. – disse gelida la voce di Zlatan, rispondendo alla chiamata al secondo squillo, - Sono in un posto che amo, sono nella squadra in cui voglio giocare. José, finché non capirai questo, fra noi due ci sarà per sempre qualcosa fuori posto.
Tu sei fuori posto, zingaro. – rispose José. Avrebbe voluto poter continuare ad essere arrabbiato. – Non è lì che dovresti stare.
- Ma è qui che voglio stare. – insistette Zlatan, concitato, - Rispettalo, José. Rispettami.

*

- So che sei lì. – disse Zlatan, parlando alla segreteria telefonica, - So che sei lì e so che vorresti rispondere, ora che sai che sono io. Non farlo. Non è possibile parlare con te, perciò ascoltami e basta. Non avrei mai voluto che questa cosa ti piombasse fra capo e collo alla vigilia della fottuta partita col Chelsea, ma Cristo, Zay, prima o poi doveva venire fuori per forza. Era inevitabile, Zay, il modo in cui andava avanti non era giusto per nessuno di noi due. Le croci sulle facce, e le recriminazioni, e le accuse, e le litigate… - José lo sentì sospirare, ma rimase seduto in poltrona, le mani congiunte ai lati del naso, lo sguardo fisso sulla parete di fronte. – Devi venirne fuori, Zay. E quando ne sarai fuori, io sarò lì.

*

Non gli era mai capitato di essere così nervoso per una partita che stava vincendo.
Scese negli spogliatoi dieci minuti prima della fine del primo tempo, e lì rimase a camminare avanti e indietro all’interno della sala ovale chiedendosi cosa dire. Qualcosa avrebbe dovuto dire comunque, in ogni caso, ma per la prima volta nella sua vita non aveva idea di cosa. Caricare la squadra era sempre stato facile, in passato. Quando si era sotto, la partita doveva essere una guerra di conquista. Quando si era in vantaggio, invece, doveva essere come presidiare un forte, ma senza attendere i nemici al varco, piuttosto cercandoli ovunque, per costringerli a venire fuori.
In quel preciso istante, invece, avrebbe voluto avere solo le parole giuste per calmarli tutti. Per dire loro “lo so che in Campionato è dura, che siamo tutti nervosi, che io da solo lo sono anche più di voialtri messi assieme, ma questa è un’altra cosa. Questa è l’Europa, e bisogna portare il risultato a casa così che tutti vedano cos’è l’Inter. Bisogna andare avanti per ascoltarli tutti sciogliersi in elogi sperticati e gratitudini sconfinate – e poi ridere di loro”.
Ripeté quello stesso discorso a se stesso un paio di volte, guardandosi fisso nello specchio, e non suonò bene come avrebbe voluto. Al terzo tentativo, desiderò prendersi a schiaffi – e invece infilò una mano nella tasca del cappotto, e ne tirò fuori il cellulare. Lo schermo spento e lucido gli rimandò indietro il viso di un uomo stanco e solo. Uccise il riflesso nell’unico modo che gli venne in mente.
- Sei nervoso? – chiese Zlatan senza neanche dire “pronto”, accettando la chiamata forse anche prima che il suo cellulare si mettesse a squillare, - Non esserlo. Vi sto guardando, andrà tutto bene.
José sospirò, abbandonandosi su un seggiolino a caso e massaggiandosi stancamente la radice del naso.
- Non mi hai mai detto… - cominciò incerto, - Non mi hai mai detto se c’era qualcosa di me che riusciva a renderti sereno.
Zlatan ridacchiò piano, dall’altro lato della cornetta ed anche dell’Europa.
- Sì. – rispose, la voce dolcissima come José non ricordava più di averla mai sentita, - Quando mi svegliavo, la mattina di una partita, in ritiro, e sentivo l’acqua scorrere in bagno, mi alzavo, ti raggiungevo e vedevo che ti stavi facendo la barba. Mi… - rise ancora, un po’ in imbarazzo, - mi sedevo sullo sgabellino, quello fra il lavandino e la doccia, e tu, senza nemmeno guardarmi, cominciavi il riepilogo tattico della partita. – José rise a propria volta, assieme a lui. La sua risata risuonò per tutto lo spogliatoio vuoto, ma era allegra. – Quello mi rasserenava. Sembravi sempre così tranquillo. Come facevo ad avere paura?
Avrebbe voluto averlo vicino, in quel momento. Poter allungare un braccio e sentire sulle dita il calore della sua pelle. Anche solo per un attimo. Lui, che aveva sempre creduto nei miracoli solo quando meritati, per un secondo si ritrovò a pregare per un miracolo che non aveva fatto niente per guadagnarsi. Ridammelo. Solo per un secondo.
- Grazie. – disse. Zlatan non sarebbe apparso comunque.
- Non c’è di che. – rispose lui. – Zay… - sussurrò, prima che riuscisse a interrompere la chiamata, - Io non ho dimenticato niente. E non ti confondo con nessun altro.
José annuì, accarezzando il cellulare con il pollice, come fosse il suo viso.
- Lo so.

*

Scendendo negli spogliatoi per l’intervallo fra il primo e il secondo tempo, la squadra lo trovò davanti allo specchio, insaponato e con un rasoio in mano, intento a farsi la barba. Stupiti dalla stranezza, i ragazzi, incerti sul da farsi, presero posto sulla lunga panchina davanti alla fila di lavandini ed osservarono le sue mani muoversi attentamente, con estrema calma, come fosse solo nel bagno di casa sua.
- Mister…? – accennò Javier, dopo qualche secondo di imbarazzato silenzio, - È… è tutto a posto?
José sorrise a se stesso ed ai suoi giocatori, attraverso il riflesso dello specchio.
Poi, senza nemmeno guardarli, cominciò il riepilogo tattico.

*

- Non ricordo di aver mai visto una nevicata simile a Barcellona. – rise José, il naso schiacciato contro la finestra e gli occhi fissi sul mare, - A così pochi giorni dalla primavera, poi!
Zlatan ridacchiò ironico, rigirandosi fra le lenzuola.
- Potresti smetterla di essere entusiasta come un ragazzino? – lo prese in giro, - È molto meno bella quando ti devi allenare nella tormenta.
- Be’, adesso non ti stai allenando. – gli fece notare José, - Potresti anche alzare il culo e venire a goderti lo spettacolo.
- Oppure, - propose lui, stendendosi supino e stiracchiandosi per tutta la propria lunghezza, certo che José avrebbe guardato il suo riflesso sul vetro, - potresti tornare a letto.
José si voltò a guardarlo, sorridendo ed inarcando le sopracciglia.
- È un invito? O un ordine? – chiese malizioso, e Zlatan si morse il labbro inferiore.
- Dipende da che gioco vuoi giocare. – rispose ricambiandogli l’occhiata.
José tornò verso il letto, sedendosi sulla sponda ed osservandolo dall’alto, quasi senza osare toccarlo.
- Eccoti. – lo salutò, sorridendo più sincero.
- Bentornato anche a te. – rise Zlatan, prima di sollevarsi a baciarlo.
Fuori dall’albergo, su tutta Barcellona, continuò a nevicare per ore. José avrebbe voluto il tempo per contare i fiocchi, e le ore, e i minuti, e ricordare tutto una volta tornato a Milano, ma si limitò a contare i gemiti di Zlatan, e le volte in cui lo chiamò per nome, dimentico di tutto il resto, finalmente a casa, nell’unico posto possibile – un luogo senza coordinate perso fra le sue spalle, i suoi capelli, i suoi fianchi e le sue mani. L’unico solo per loro.
Genere: Commedia.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Per quanto mi riguarda, in quella città di merda puoi viverci e morirci anche, zingaro, tu da oggi in poi con me hai chiuso."
Note: Dunque, questa fic è stata ispirata principalmente da questo articolo sul sito della Gazza, e poi in parte anche da un dialogo su Twitter fra Def e Any X'D In pratica stavamo tutti cercando un motivo che fosse uno per trovare apprezzabile quanto da Zlatan dichiarato recentemente al Periodico e, non trovando niente, abbiamo dovuto fare da noi, insomma.
Titolo rubato ad un verso di Jealousy dei Queen.
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Jealousy, You Got Me Somehow


- Per quanto mi riguarda, - comincia José senza neanche salutarlo, - in quella città di merda puoi viverci e morirci anche, zingaro, tu da oggi in poi con me hai chiuso.
- …Zay? – cerca di capire lui, fissandosi nello specchio mentre si sistema il colletto della giacca, dato che José l’ha preso un attimo prima che fosse pronto per uscire ed andare all’allenamento, - È tutto a posto?
- No che non è tutto a posto! – ringhia lui dall’altro capo del telefono, a mille chilometri di distanza, - E non zayeggiarmi, zingaro, stavolta non ti salverà chiamarmi col mio soprannome!
- Non mi salverà da cosa, Zay? – insiste lui, vagamente perplesso.
- Da me che non voglio più vedere la tua stupida faccia finché campo! – risponde José, fuori di sé dalla rabbia, - E piantala di chiamarmi Zay, una buona volta!
- Ma perché?! – cerca di capire Zlatan, gesticolando con la mano libera, adesso infastidito dal suo comportamento, - Che cos’ho fatto?! Sei ubriaco? Ti sei svegliato con la luna storta? I tuoi attaccanti maggiori si sono tutti rotti il femore e sarai costretto a giocare solo con Mario, l’austriaco e Ricky da qui alla fine del Campionato? Spiegati!
José lascia andare un ringhio lungo e basso, di gola, che cresce in volume ed intensità col passare dei secondi e si trasforma in un abbaiare scomposto appena si decide a riprendere a parlare.
- C’è che sei una troia! – motiva, e Zlatan lo immagina saltellare sul posto con aria isterica, fissandosi nello specchio con sguardo vacuo, - Ti piace così tanto il tuo Pep? È così tanto migliore di me? Bene! Io non ho problemi! Mi spiace solo che non possiate fare insieme un milione di bambini, perché pensa che meraviglie ne verrebbero fuori! Ma sì, vacci pure a cena, infilati nel suo letto, fatti sposare, fai quello che cazzo vuoi, io non-
- Zay! – lo interrompe all’improvviso, una volta compresa la matrice del problema, - Cristo santo, non ci sono andato a cena, ho solo detto che mi ha invitato, ed è stato molto carino a farlo, visto che qui non mi caga nessuno! Poi io ho detto “no, grazie, preferisco tornare a casa” e allora lui, prima di lasciarmi andare, mi ha chiesto come stessi, se la mia famiglia si fosse ambientata e se avessimo bisogno di qualcosa! Chiaro?
José rimane in silenzio per molti secondi, Zlatan non riesce nemmeno a sentirlo respirare.
- Quindi non…
- No.
- E tu nemmeno vorresti che…
- No, Zay! Andiamo! – sbotta lui, sollevando gli occhi al cielo.
José si prende qualche altro secondo di riflessione, prima di respirare profondamente.
- Senti, c’è un diretto in partenza stasera verso le sette. – dice quindi, - Pensavo di prenderlo per venirti a pestare di persona, ma posso sempre prenderlo lo stesso e variare lo scopo della visita.
Zlatan ride, sebbene il tono di voce di José sia serissimo, quasi professionale.
- Ti aspetto. – risponde, - Magari Pep a cena lo invitiamo noi. – suggerisce con un sorrisino malizioso.
José lo manda a fanculo, prima di interrompere la conversazione, e Zlatan scuote il capo ridendo ancora, posa il telefono al proprio posto e corre all’allenamento.
Genere: Romantico.
Pairing: José/Zlatan, Mario/Davide/Zlatan, accenni di Mario/Davide/José/Zlatan, perché è così che ci piace.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash, (lieve) Angst, Future!Fic (2030).
- Il due gennaio 2030, Zlatan ha un appuntamento al quale non intende mancare.
Note: Storia scritta in seguito agli Oscar del Calcio organizzati da SportItalia, in cui José e Zlatan hanno pensato bene di dichiararsi nuovamente amore e, già che c'erano, darsi appuntamento a Los Angeles nel 2030. Video.
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Meet Me Halfway


Il sole di Los Angeles, le sue palme altissime, le spiagge bianche sempre piene di gente, il mare e il cielo azzurri e limpidi come un paio d’occhi e il caldo perenne e quasi soffocante, sono ormai diventati un’abitudine per José, quando sente nell’aria un profumo ormai quasi sbiadito nella memoria, che torna con prepotenza a solleticare i suoi sensi del tutto all’improvviso, con effetti non trascurabili sul suo sangue freddo.
Si volta lentamente, le sopracciglia inarcate oltre gli occhiali da sole e la visiera del berretto che, sommati, coprono la quasi totalità del suo viso dal naso in su, e non dice una parola mentre mette a fuoco la figura di Zlatan – un’ombra scura in contrasto col chiarore accecante di tutto ciò che lo circonda, dal sole in giù.
Non è cambiato molto, nella sua totalità. È abbastanza certo di poter dire che, se potesse guardarlo nel dettaglio, sicuramente noterebbe qualcosa di diverso – una ruga, qualche capello bianco, in fondo ha pur sempre quarantotto anni – ma a guardarlo così, da lontano, in controluce e tutto il resto, non sembra. È alto come al solito, robusto come al solito, longilineo come al solito. La linea delle sue spalle e delle sue ginocchia è la stessa che era vent’anni fa, e questa cosa è impressionante.
- Puntuale. – ride José, mentre Zlatan si avvicina e prende posto sulla panchina accanto a lui. Le onde si sollevano ricamando spruzzi bianchissimi sullo sfondo uniforme di mare e cielo, in lontananza. L’orizzonte non esiste. Per un secondo, José pensa che Zlatan sia lì per quello: trovare finalmente un posto in cui una meta successiva non ci sia, un posto che si estenda all’infinito, un posto in cui lui possa smettere di sentire il bisogno di scappare altrove. Poi sorride, realizzando che non è così: Zlatan non è certo lì per fermarsi e questo è solo un vecchio appuntamento fra amici. – È il due gennaio. Non ti aspettavo davvero.
- Vuoi dire che stavi qui seduto in contemplazione del vuoto perché ti andava di farlo, e non per mostrarmi quanto sei gelido e distaccato nei miei confronti? – chiede Zlatan, un po’ ironico e un po’ assurdamente ma genuinamente offeso, e José ride ancora.
- Osservare il mare è interessante. – commenta, stringendosi nelle spalle, - Non è mai immobile. Anche quando lo sembra, non tira un filo di vento, non c’è nessuno che fa il bagno e non ci sono gabbiani a pesca, puoi sempre trovare quella minima increspatura che rende tutto sempre differente.
- Se ti piace tanto guardare le cose che si muovono, puoi sempre guardare me. Sto qui fino al cinque, poi torno in patria. E l’anno prossimo, chissà. La Nazionale non mi dà più soddisfazioni e ai ragazzi non piace il freddo. Sentono nostalgia di casa.
- Per un attimo, ho creduto stessi parlando dei tuoi figli. – dice José, voltandosi a guardarlo con aria scettica. – Ti rendi conto che non puoi più chiamarli “i ragazzi”, alla loro età?
Zlatan scrolla le spalle, guardando altrove.
- È rimasto. – si giustifica, - Sai, quelle cose che il tempo non corrompe. – aggiunge con tono allusivo, ma José non fa una piega. – Comunque ti sarei grato se non parlassi dei miei figli, sai com’è andata a finire. Il mondo sa com’è andata a finire.
- E tutt’oggi non me lo spiego! – sbotta José, ironico, allargando le braccia, - Due ragazzi adulti e maturi che decidono di allontanarsi dal padre quando il suddetto padre non solo confessa al mondo la propria – cos’è che hai detto? libertà nell’orientamento sessuale? quel che è – ma già che c’è si prende in casa non uno ma due uomini di undici anni più piccoli? Incomprensibile. Folle.
Zlatan gli rifila un’occhiataccia, incrociando le braccia sul petto. José osserva i suoi polsi – pieni di date come non erano mai stati – e guarda subito altrove.
- Potevi essere della compagnia. – gli ricorda in un sospiro.
- Ah, sì. – José annuisce, le mani ben piantate sulle ginocchia. – Immagino i titoli dei giornali. E forse ti avrebbero disconosciuto anche i tuoi avi, non solo la tua progenie.
- Potresti esserlo ancora. – insiste Zlatan, apparentemente insensibile al suo sarcasmo, - Quando vuoi. I tempi sono cambiati, adesso.
- Ma non sono cambiato io. – risponde seccamente José, i tratti del viso che si irrigidiscono all’improvviso, - Il motivo per cui non ti ho mai neanche sfiorato, pure quando avrei potuto, è lo stesso che mi ha sempre impedito di accettare le tue condizioni di merda. E me lo impedisce ancora oggi. – sospira appena, rilassandosi contro lo schienale della panca. – Io sono un uomo possessivo, Zlatan.
- E io no. – ribatte Zlatan, voltandosi appena a guardarlo, - Però sono un uomo che s’innamora, e quando succede resta per la vita. È l’unica cosa di me che non cambi mai. – aggiunge con un sorriso. – Credimi, se fosse stato possibile non avrei mai voluto perdere neanche Helena.
José lo fissa sospettoso, inclinando il capo.
- Tu non sei un uomo che s’innamora. – gli fa notare, - Tu sei un uomo ingordo. Tu vuoi tutto. Ma, Zlatan, ci sono cose che non puoi avere se non a determinate condizioni. Vivere non ti ha insegnato niente?
- Ho tutto ciò che ho sempre voluto. – quasi ringhia lui di rimando, - E non ho dovuto rinunciare a niente.
- Ma – sorride José, ed è un sorriso piccolo, solo un’ombra di compiacimento, neanche troppo convincente, - non hai avuto me.
Le sopracciglia di Zlatan tremano appena, probabilmente con l’intenzione di aggrottarsi ed esprimere così tutto il suo disappunto, ma incredibilmente, proprio mentre José sta pensando che nel giro di un secondo lo vedrà alzarsi ed allontanarsi mormorando improperi nella sua direzione, i lineamenti del suo viso tornano a distendersi, e tutta la sua tensione si disperde in uno sbuffo rassegnato.
- Parli così perché sai che, nonostante tutto, continuerò a sperarci. – dice con un sorriso stanco, - Sono vent’anni, José. Io forse sono egoista, ma tu sei crudele.
José si morde un labbro ed allunga una mano ad accarezzargli il collo, massaggiando piano i muscoli tesi mentre Zlatan si scioglie sotto i suoi tocchi, inclinando il capo in un gesto morbido.
- Non sei tu l’egoista, Zlatan. – gli sussurra, stringendo forte abbastanza, spera, da lasciargli un’impronta addosso, - L’egoista sono io. Ti voglio tutto e non voglio accontentarmi di una percentuale, per quanto grande. Lo so che sarebbe la più grande, ma non sarebbe abbastanza comunque. E sono pretese che, alla mia età, non dovrei neanche avere. – conclude con una risatina. – Non sei tu l’egoista. Sono io.
Zlatan ride, abbassando lo sguardo e cercando di darsi un contegno mentre prova con tutte le proprie forze a non abbandonarsi troppo a quella carezza.
- Sì, anche Davide lo dice sempre. – annuisce distrattamente, - Non gli va proprio giù, questa cosa. Non capisco se sia perché ti vuole anche lui un po’ per sé o semplicemente si dispiace a vedermi stare male.
- Potrebbero essere entrambe le cose. – ipotizza José, - Mentre Mario immagino che se ne freghi, come sempre.
- Per te abbandonare la stanza imprecando in tre lingue diverse ogni volta che viene fatto il tuo nome è fregarsene? – chiede Zlatan con una punta di curiosità, e José si lascia andare ad una risata aperta e sincera, la prima della giornata. – Insomma… - riprende Zlatan, sospirando platealmente, - Mi stai dicendo che posso tornarmene a casa con la coda fra le gambe? Neanche un secondo appuntamento?
- Dovrei dartelo nel 2050 e sarebbe troppo tardi, mi sa. – commenta José, divertito.
- E quindi cosa mi stai chiedendo di fare? – insiste Zlatan, - Non vederti più, non cercarti più? Dimenticarmi di te?
José sospira e smette di accarezzarlo, alzandosi in piedi e sistemando i pantaloni spiegazzati lungo le gambe mentre lo guarda attentamente, consapevole del fatto che potrebbe essere l’ultima volta.
- Dipende da quanto sei disposto a soffrire ancora. – risponde quindi, - Io ti sto chiedendo da vent’anni di rinunciare a tutto per me. – aggiunge, - Se già non sei disposto a fare questo, non ho diritto di chiederti nient’altro.
Zlatan si morde nervosamente un labbro, prima di annuire, rassegnato. José gli lascia una breve pacca sulla spalla.
- Salutami i ragazzi. – dice allontanandosi.
- I ragazzi? – chiede Zlatan con un mezzo sorriso, - Non dicevi che, alla loro età, non li si dovrebbe più chiamare così?
José ride, scuotendosi tutto come un bambino. Nell’osservarlo, Zlatan si ritrova per un secondo catapultato indietro nel tempo fino a un periodo in cui le cose erano molto più semplici, ma anche molto meno sincere, e non rimpiange un attimo di ciò che ha fatto per arrivare al punto in cui è ora.
- Sai, - dice José, - quelle cose che il tempo non corrompe.
Zlatan non lo osserva andare via. Il mare cambia sotto i suoi occhi, ed è vero che, un po’, è interessante anche lui.
Genere: Introspettivo.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Appiano is drowning in silence."
Note: Storia in inglese.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Drowning In Silence


Appiano is drowning in silence. Everybody’s already sleeping, the lights are off and the only thing on in the place is the television. Some man José doesn’t actually recognize – he has already seen him, somewhere, sometime, somehow, but he doesn’t really remember – is talking about Inter and Champions League, and José would really like to find the strength to push the button and switch off the tv, just to stop that shit from echoing in his ears, giving him a headache.
He’s not sleepy – he’s tired. He’d like to sleep but he’s not strong enough even to close his eyelids, so he stays there, on the couch, and watches the man on the tv. The volume is so low he can almost pretend the man's not speaking Italian, but some strange and forgotten language he doesn’t know anything about. He can pretend he’s not talking about Champions League nor Inter failing at it nor anything else. He’s just talking.
Christ, José is angry. He’s angry, he’s disappointed, he’s tired. So fucking tired.
Zlatan moans on the other couch, turning around to find a more comfortable position.
“Is he still talking…?” Zlatan asks, opening one eye and then closing it again, bothered by the trembling light of the screen, “Why are you still awake?”
“Can’t sleep,” José answers. He doesn’t make a move, but Zlatan lifts up a little, to look at him more easily, in a slightly disapproving way. “He’s talking shit about you too,” José informs him, “He’s saying you’re not even able to give this team a Champions League. He’s saying you’re useless.” He pauses for a moment, looking straight in his eyes. “Are you bothered by it? Do you even care?”
Zlatan stands up and moves slowly, coming closer to him. He takes the remote control from his hand and switches off the tv. The room is now so dark José can’t see anything – but he can feel Zlatan’s breath so close to his skin it sends shivers down his spine and forces him to bite his lips, trying to sit still, not move forward, don’t kiss him, damn, don’t even try to think about it, don’t kiss him, not again, it’s wrong, it’s not what a coach and a player should do, don’t kiss him, dammit, just don’t.
“I don’t give a fuck about it.” Zlatan finally answers. Appiano is still silent and dark, and it almost feels empty, when their lips collide.
Genere: Commedia, Erotico.
Pairing: José/Zlatan
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon.
- Dopo Inter-Barcellona a San Siro.
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF Calcio (FC Barcelona/Inter FC), José/Zlatan, "Togliti quella fottutissima maglietta.". Ispirata altresì a una vecchia fanart di WaferKya che poi contestualizza il tutto. Ambientata subito dopo la partita di andata contro il Barcellona, quel millennio fa, quando ancora faceva caldo e il mondo era un posto migliore. (Uh?).
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Comeback


- Ehilà! – dice Zlatan con entusiasmo, facendo capolino da dietro la porta dello spogliatoio, e non appena il suo naso – e poi tutto il resto della sua faccia – fa capolino dall’uscio, tutta l’intera squadra – una massa compattissima di giocatori alcuni conosciuti, altri conosciutissimi, altri del tutto estranei – si muove verso l’uscita in un mezzo sospiro simultaneo. Zlatan si rifiuta di immaginare che gente come Milito e Motta o, peggio ancora, come Eto’o, possa avere già compreso cosa voglia dire la sua presenza in quello spogliatoio, proprio lì ed in quel momento, ancora sudato e su di giri per la partita appena conclusa in uno zero a zero che, in fondo, non delude nessuno, perciò si limita a dare per scontato che chi milita in quella formazione da più tempo abbia più o meno spiegato agli altri come funzionino le cose fra lui e il mister, consigliando come agire nel momento in cui fosse arrivato – perché sì, che sarebbe arrivato era una certezza: non era davvero pensabile stare insieme nello stesso stadio e non scambiarsi neanche un abbraccio, uno di quelli di cui ha parlato José durante le interviste pre-partita, solo, uh, senza vestiti addosso.
- Ma no, non ve ne andate così presto! – finge di lagnarsi in una mezza risata, mentre muove qualche passo all’interno dello spogliatoio carico dell’umidità delle docce, verso un José che lo fissa con aria allucinata, unico essere nel raggio di chilometri in grado di non aspettarsi una visita simile. – Abbiamo tante cose da raccontarci!
Deki sghignazza, tirandogli addosso un asciugamano bagnato che gli si spiaccica in faccia, avvolgendogli tutta la testa e finendo per schiaffeggiarlo sul naso con uno schiocco.
- Ce le racconti dopo, zingaro! – lo prende in giro, prima di abbandonare la stanza con tutti gli altri. Zlatan ride, liberandosi del panno e lasciandolo ricadere disordinatamente su una panca lì vicino, prima di voltarsi verso José e fissarlo con una quantità indefinibile di stelle negli occhi.
- Zay! – lo chiama, spalancando le braccia come aspettandosi che lui vi si catapulti in mezzo, lasciandosi stringere come un peluche, - Mi sei mancato! – e così dicendo si avvicina, ben deciso a stritolarlo in un abbraccio degno della migliore carrambata mai vista sia in televisione che a telecamere spente, ma José allunga un braccio e glielo pianta proprio nel mezzo del petto, a pochi centimetri dallo stemma del Barcellona cucito proprio lì a sinistra, allontanandolo anche con un certo schifo. – Che c’è? – chiede lo svedese, inarcando le sopracciglia ed inclinando il capo in una perfetta imitazione di labrador più incline a rincorrere la propria stessa coda che non a capire ciò che gli avviene attorno. – Qualcosa non va?
José schiude le labbra e, sempre con quella smorfia di puro disgusto a deformare i tratti del viso, lo indica nel complesso, puntando poi il dito contro la maglia che indossa.
- Togliti quella fottutissima maglietta. – ordina risentito, - Come osi venire qui nel mio stadio con quella fottutissima maglietta addosso?! Non qui, non nel mio spogliatoio! – borbotta, allungando le mani ed afferrando la maglia per l’orlo inferiore, tirandola verso l’alto nel tentativo – in realtà poco osteggiato da parte di Zlatan – di tirargliela via.
- Dovevo giocarci, Zay. – gli fa notare lui, ridacchiando divertito mentre stende le braccia in avanti per agevolare i movimenti concitati di José. – Comunque, non so se prima mi hai sentito, ma mi sei mancato tanto.
Traidor. – continua a borbottare José, ed è divertente sentire quella parola scivolare fra le sue labbra, per una volta, invece di vederla passare con divertimento malcelato sullo schermo a colori del cellulare all’ultimo grido.
- Sì, anche questo. – commenta Zlatan in una risata che nemmeno si prende la pena di provare a reprimere. – E ora che mi hai tolto questa roba di dosso, ti dispiacerebbe calmarti? – ride come un bambino, strappando la maglia dalle mani di José prima che possa darle fuoco, preferendo appallottolarla e gettarla in un angolo, di lato, dove José non potrà più prestarle attenzione, smettendo conseguentemente di provare istinti omicidi da scaricare in qualche modo, magari demolendo le docce a testate e parolacce in portoghese.
José lo fissa con disappunto per almeno una decina di secondi, riesumando dal campionario delle proprie collaudatissime espressioni quella vacua e monocorde che in genere è in grado di far sentire una nullità chiunque abbia la sfortuna di trovarcisi davanti. Incrocia perfino le braccia sul petto, nell’estremo quanto vano tentativo di darsi un tono autoritario di fronte all’incrollabile sorriso di Zlatan, e poi finisce per sgonfiarsi in un sospiro esausto quando comprende che no, questa non è una serata da bronci e capricci, e solleva le braccia a cercare il collo di Zlatan, cui si appende come un koala non appena lo svedese fa tanto di abbassarsi un minimo per consentirglielo.
- Fai il bravo, su. – sussurra, stringendolo alla base della schiena per sorreggerlo mentre solleva le gambe e gliele allaccia attorno alla vita, mentre contemporaneamente infila una mano fra se stesso e il suo corpo per sbottonare la camicia che indossa e scivolare al di sotto del tessuto leggerissimo, alla ricerca di centimetri di pelle abbronzata e calda da accarezzare pigramente. – Non abbiamo tanto tempo, non posso restare stanotte.
- Ci parlo io, con Guardiola. – sorride divertito José, spingendosi contro di lui abbastanza perché Zlatan possa sentire la sua erezione premere con forza contro la propria, nonostante i pantaloni. – Puoi prendere il primo aereo domattina, nessuno avrà da ridire.
- Speravo che me lo dicessi. – ridacchia Zlatan, sporgendosi a baciarlo lievemente sulle labbra mentre lo sistema di schiena contro gli armadietti in fondo alla stanza, armeggiando con la sua cintura nel tentativo di spogliarlo il più in fretta possibile, - Ecco perché ho già prenotato per domani.
- E se fallisco? – ride José, allontanando un po’ il bacino per permettergli di spogliarlo più agevolmente.
- Tu non fallisci mai. – chiude la questione Zlatan, forzando le sue labbra con la lingua un po’ per zittirlo e un po’ semplicemente perché gli manca il suo sapore, mentre si introduce fra le sue cosce. José si allontana quasi di scatto e lo guarda enigmatico per una serie interminabile di secondi, prima di sorridere felino ed inumidirsi un palmo con la lingua. Zlatan osserva la sua mano scivolare fra il suo corpo e il proprio e poi avvolgersi attorno alla sua erezione tesa e bollente, dandogli i brividi, e tutto quello che riesce a capire del secondo successivo è che all’improvviso si sente disciogliere dall’interno come un blocco di lava in liquefazione, e José si sta stringendo attorno a sé con la forza di una tenaglia, ansimando con forza ed agitando il bacino per venirgli incontro, piantando le mani sulle sue spalle per trovare un punto fermo e cercare di dare una regolarità a quelle spinte su cui Zlatan non ha il minimo controllo e che perciò si fanno più intense quando centra quel punto in profondità che lo costringe a gemere soddisfatto, e meno concitate quando quel punto, invece, lo manca, costringendolo ad una smorfia più addolorata che compiaciuta.
Zlatan allunga le braccia e lo afferra per i fianchi, cercando di dare un senso a tutte quelle spinte e controspinte confuse, e José accoglie la decisione con un mugolio di approvazione, distendendosi quasi lungo la superficie degli armadietti, chiudendo gli occhi e lasciando a Zlatan la libertà di indirizzare le proprie spinte dove preferisce. Zlatan sorride e si china a mordicchiare la pelle un po’ ruvida del suo collo, spingendosi dentro di lui dapprima lentamente, poi sempre più velocemente, ed osservando con aria persa la mano ancora umida di José che scivola contro il suo petto e poi si chiude attorno alla sua stessa erezione, accarezzandola allo stesso ritmo delle spinte di Zlatan – un ritmo che conosce bene, perché non è mai cambiato, così come lui può dire di conoscere ogni angolo del suo corpo ed ogni centimetro della sua pelle ambrata, perché niente è mai cambiato neanche in quel senso.
Le spinte si fanno più veloci in sincrono con gli ansiti di José, e si fermano solo quando entrambi, a pochi secondi di distanza l’uno dall’altro, strizzano gli occhi e schiudono le labbra, abbandonandosi all’orgasmo con aria beata, riposando contro gli armadietti il tempo necessario a riprendere fiato – e solo quello, perché se davvero vogliono un’occasione per restare insieme, stanotte, allora José dovrà davvero andare alla ricerca di Guardiola e provare a convincerlo, o nulla impedirà a Zlatan di trovarsi su un aereo diretto a Barcellona molto prima di mezzanotte.
Nonostante ciò, è controvoglia che si separano l’uno dall’altro, e José fa un po’ fatica a ritrovare un equilibrio sulle gambe un po’ intorpidite, appena poggia i piedi sul pavimento chiaro e lucido dello spogliatoio. Zlatan si risistema appena i boxer, prima di lasciargli un bacio veloce sulla fronte e dirigersi tranquillamente verso l’uscita.
- Zingaro! – cerca di fermarlo José, recuperando i pantaloni da terra e saltellando prima su una gamba e poi sull’altra per indossarli, - Dove credi di andare?!
- Da Deki! – risponde tranquillamente lui, - Che tu riesca a convincere Pep o meno, non avrò molto tempo per parlare con lui, no? Abbiamo un sacco di cose da dirci, e-
- E gliele vuoi dire in mutande?! – insiste il portoghese, andando alla ricerca della propria camicia finita chissà dove durante gli spostamenti della serata.
Zlatan lancia un’occhiata alla maglia blaugrana abbandonata in un angolo dall’altra parte dello spogliatoio, e poi scrolla le spalle, sorridendo malizioso.
- Sei tu che hai detto che non posso andare in giro per il tuo stadio con quella addosso, giusto? – conclude, e il secondo dopo è già sparito oltre la soglia.
Genere: Triste, Erotico.
Pairing: José/Zlatan
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Flashfic, Slash, Lemon.
- "When you go, would you have the guts to say "I don't love you like I loved you yesterday.""
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF Calcio (Inter FC), José Mourinho/Zlatan Ibrahimović, "I don't love you like i did yesterday." (My Chemical Romance - I don't love you).
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Have The Guts

When you go, would you have the guts to say
"I don't love you like I loved you yesterday."



Zlatan si inarca sotto di te, ansimando pesantemente. Il suo respiro sa di passato e nostalgia, lasci che ti sfiori le labbra e lo assaggi sentendoti piccolo e sbagliato per la prima volta nella tua intera esistenza. Ti spingi a fondo dentro di lui, che allarga le gambe per accoglierti più profondamente possibile, ed accarezzi la sua pelle calda e sudata seguendo il percorso definito dai muscoli del petto e del ventre, fino al bacino. I suoi occhi si schiudono, liquidi e annebbiati di voglia. Solleva un braccio – ti concentri sui disegni che ne decorano la pelle perché il suo sguardo s’è fatto inspiegabilmente pesante – e ti accarezza piano il viso, dall’orecchio alle labbra, che sfiora con un pollice. Lo trattieni fra i denti, accarezzandolo con la lingua, mentre stringi la sua erezione fra le dita e pompi, osservandolo inarcarsi ancora sotto i tuoi tocchi, gettando indietro il capo ed esponendo il collo, sul quale ti avventi come fossi assetato del suo sangue. Mordi, baci, lecchi, succhi ogni centimetro di pelle disponibile – questi sono i momenti in cui ti sembra di volergli lasciare addosso un marchio perché lui, con te, non ci riesce più.
Non sai se sia la distanza o il fatto che ormai vi vedete sempre più raramente. Non sai se sia perché ormai non condividete più nemmeno un obiettivo, non sai se sia perché prima era diverso, era sempre al tuo fianco e combattevate per lo stesso motivo, dallo stesso lato della barricata. State ancora combattendo, adesso, solo che l’obiettivo non è più lo stesso, e forse è per questo che ormai tutte le vostre carezze sanno solo di qualcosa di perso che vi rifiutate di lasciare andare del tutto. Chissà poi perché.
Ti allontani da lui subito dopo essere venuto, perché lo senti scottare in maniera fastidiosa sopra e sotto la pelle. Ti stendi al suo fianco e fissi il soffitto, ascoltando il suo respiro tornare normale e la sua pelle tornare tiepida, il sudore che comincia ad asciugarglisi addosso.
Non avete parlato nemmeno una volta, da quando sei lì. Il tuo aereo ripartirà fra poco più di due ore e tu ti sollevi lentamente sul materasso, facendo leva su entrambe le braccia, voltandoti a guardarlo. Zlatan non ti ricambia lo sguardo. Immobile sul letto disfatto, fissa la porta chiusa quasi con insistenza, cupo, le labbra tese in una smorfia addolorata, le sopracciglia lievemente aggrottate e le punte ricce dei capelli umidi a solleticargli le guance e le tempie.
Sospiri profondamente, alzandoti in piedi e cominciando a rivestirti.
Senti la sua voce solo una decina di minuti dopo, a due passi dalla porta.
- Trova almeno le palle per dirmelo. – dice atono, e le tue dita si stringono convulsamente attorno alla maniglia. Tu, però, non trovi il coraggio di voltarti. E nemmeno quello di rispondere.
Genere: Erotico.
Pairing: José/Zlatan
Rating: R/NC-17
AVVERTIMENTI: Flashfic, Slash.
- "Il punto non è che ci sia amore dietro, il punto è che ci sia la voglia."
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF Calcio (Inter FC), José Mourinho/Zlatan Ibrahimović, senza riguardi.
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Voglia


Il campionario di espressioni di José comprende svariate migliaia di variazioni, alcune tanto insignificanti da risultare all’occhio umano quasi impercettibili – come il millimetro di sorriso storto che ti fa quando rispondi ad una sua domanda in un modo che lui ritiene scorretto - altre di gran lunga più interessanti perché molto più ampie e plateali – il suo stupore, la sua risata improvvisa, la rabbia furiosa che gli si concentra negli occhi e nella ruga fra le sopracciglia quando le cose non vanno nel verso che lui aveva provato a prestabilire prima di dare il via ad una serie di eventi piuttosto che ad un’altra.
Nulla, comunque, è equiparabile all’espressione magnifica che mette su quando lo sta scopando, e Zlatan è abbastanza sicuro che, anche se il suo profumo e il suo sapore non gli fossero necessari quanto e più dell’ossigeno, passerebbe comunque il suo tempo a scoparlo o desiderare di farlo, per il semplice fatto che quell’espressione lì, quella particolare sfumatura che gli oscura e illumina il viso quando lo spinge contro il materasso o una parete o qualsiasi altra superficie disponibile, è troppo bella per potervi coscientemente rinunciare.
Gli piace scoparlo così, senza riguardi: lo assalta e non è importante che sia un attacco frontale o più vigliacco, e preme le labbra contro le sue, o contro tutti i centimetri di pelle disponibili. Lo fa con cattiveria, quasi con violenza, perché vuole lasciargli addosso una traccia. Lo morde con la stessa forza con cui lo penetra, lo bacia con la stessa passione con cui lo accarezza, geme con la stessa intensità con la quale lui sospira e chiama il suo nome come – no, questo José non lo fa mai, non parla, non dice niente, è già troppo se di tanto in tanto si lascia sfuggire un ansito più sonoro degli altri. 
Ma Zlatan c’è venuto a patti, il punto non è che parli, e in fondo parla già abbastanza quando non scopano per desiderare che possa ancora aver voglia di farlo mentre invece lo stanno facendo, il punto è quell’espressione là, sì, proprio quella là che tende e distende tutti i suoi lineamenti a seconda della stretta della sua mano attorno al suo cazzo, quella che lo porta a leccarsi le labbra quando lo sente sprofondare con furia dentro di sé, quella che lo costringe ad inarcare la schiena quando lui ruba spazio all’interno del suo corpo com’è abituato a rubare tutto quello che gli capita sottomano – aria tempo voglia possibilità futuro vita amore – perché ciò che Zlatan vuole è possedere cose, possederne tante, possedere tutto, e il punto non è che ci sia amore dietro, il punto è che ci sia la voglia.
La voglia c’è, la legge negli occhi ancora appannati di piacere di José, che si dischiudono appena, un po’ umidi, quando sono venuti entrambi e rimangono nel letto disfatto, fra le lenzuola ingarbugliate, con nessun desiderio di separarsi l’uno dall’altro.
José sorride, mettendosi seduto e guardandolo, inclinando un po’ il capo.
- Sai che tutta questa cosa è malata da morire, zingaro? – chiede, sinceramente divertito.
Zlatan ride di gusto, tirandogli una pacca a metà fra l’amichevole e l’intenerito alla base della schiena.
- Dici? – domanda a propria volta, stiracchiandosi un po’ sul materasso. José scuote il capo, si tira a fatica giù dal letto e comincia a rivestirsi. Zlatan lo osserva con attenzione, vagamente compiaciuto. E nemmeno immagina quanto gli mancherà fra meno di un anno.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Angst (lieve), Slash.
- Martedì, Mercoledì, Giovedì, Venerdì, Sabato e Domenica.
Note: Scritta per la Criticombola su prompt 68. “Pensavo non saresti mai tornato.” “Non sei mai stato bravo con le valutazioni di questo tipo.”, e ispirata in gran parte dal telefilm Dollhouse, ma comprensibile anche senza averlo mai visto, per la gioia di noi tutti.
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Doll
68. “Pensavo non saresti mai tornato.” “Non sei mai stato bravo con le valutazioni di questo tipo.”


Martedì, ore 10.30
 
- Sei in ritardo.
I campi di Appiano Gentile sono silenziosi e vuoti. Ed enormi. Zlatan non riuscirà mai ad abituarcisi, ne ricorda uno solo e pure sgangherato. Ormai sono due anni – due anni? Due anni – che è tornato, due anni che cammina su quella sterminata distesa d’erba e non riesce ancora a riconoscerla.
- L’aereo era in ritardo. – sorride imbarazzato, grattandosi la punta del naso. José scrolla le spalle e sbuffa.
- Non è granché come presentazione alla tua nuova squadra. – commenta, consultando i propri appunti. Chissà cosa ci avrà scritto, poi. Zlatan non può impedirsi di sorridere, mentre sistema i calzettoni lungo le gambe.
- Ma tu già mi conosci. – obietta, - E anche gli altri.
José lo ignora.
- Comincia a correre. – ordina, allontanandosi verso la panchina per recuperare una bottiglietta d’acqua.
Bentornato, Zlatan. – si lagna lui, incrociando le braccia sul petto e battendo ritmicamente un piede per terra, - Sono contento di rivederti. Sei emozionato? Fra poco rivedrai i tuoi compagni.
José si volta a guardarlo inarcando, un sopracciglio.
- Quando rivedrai i tuoi compagni, lo decido io. – annuncia, una mano sul fianco e l’aria di chi non vuole sentire ragioni. – Comunque… - concede poi in uno sbuffo che si distende in un sorriso, - Pensavo non saresti mai tornato.
Zlatan ride, tirando su le maniche. Comincia a far caldo.
- Non sei mai stato bravo con le valutazioni di questo tipo. – risponde, e poi comincia a correre.
 
 
Mercoledì, ore 12.00
 
- Fra una settimana da oggi – dice José guardando un punto imprecisato in mezzo al folto degli alberi che circonda la Pinetina, - ci giocheremo l’ingresso in Champions.
Zlatan annuisce, ma dal momento che continua a palleggiare questo suo assenso si perde nel naturale movimento della testa che segue i saltelli ritmici delle gambe e delle spalle.
- Come ti senti a giocare contro il tuo Barça?
- Il Barça non è mai stato mio. – risponde senza perdere la concentrazione, - Come dovrei sentirmi?
José scrolla le spalle, richiudendo il bloc notes ed infilandolo nella tasca interna della giacca.
- Questo non posso dirtelo io. Come ti sentivi quando stavi lì e giocavi contro di noi?
- Questo è un paragone scorretto. – ride lui. La palla rimbalza sul ginocchio e va troppo in alto, lui quasi la perde ma lei torna in bilico sulla sua fronte neanche un secondo dopo. La tiene là in equilibrio per un po’, più per dimostrarsi che può ancora fare il funambolo senza cadere di sotto, che perché ne abbia effettivamente bisogno. – L’Inter è sempre stata speciale.
- Non devi dirlo per forza perché ora sei tornato qui. – gli fa notare José, quasi irritato.
- Non ho mai detto o fatto niente  per forza da che gioco a calcio. – lo rassicura lui, mentre la palla scivola lungo il profilo del suo viso e lui la recupera a mezz’aria con un altro colpo di ginocchio, prima di riprendere a palleggiare coi piedi. – Figurati se mi salta in testa di farlo adesso.
- Guarda che l’allenamento si è concluso da un pezzo. – taglia corto José, richiudendo la giacca e lanciando un’occhiata furtiva all’orologio da polso, - Puoi anche smetterla di palleggiare.
Zlatan sospira, afferra la palla al volo e la stringe tra le mani come volesse farla scoppiare. José non se ne accorge.
- D’accordo. – cede, - A domani.
José non lo saluta.
 
 
Giovedì, ore 16.30
 
- La partita di campionato di sabato sera è comunque più importante di quella di mercoledì col Barça, sono stato chiaro?! – urla José, furioso, e Zlatan si costringe a tenere lo sguardo basso, senza cedere all’impulso dirompente e del tutto idiota di risollevarlo, sfidarlo con un ringhio e poi prenderlo a cazzotti fino a lasciarlo steso incosciente per terra. Sa di non poterselo permettere. – La prossima volta che arrivi in ritardo ad un allenamento, Zlatan, non te lo faccio solo saltare. Ti spedisco in tribuna fino alla fine dei tuoi giorni o fino a quando il presidente, mosso a pietà, ti rispedisce in Spagna. O in qualsiasi altro cazzo di posto tu voglia trovarti piuttosto che stare qui ed ubbidire agli ordini.
- Smettila di tirare fuori la Spagna. – si concede di grugnire, senza però muovere un muscolo per ribellarsi in maniera più vigorosa. – È qui che sono, è qui che voglio stare.
- Bene. – sputa José con un astio che neanche cerca di dissimulare, - Allora dimostralo.
Lo lascia solo nell’atrio vuoto neanche due secondi dopo.
Branca passa di lì solo verso le cinque, e quando lo nota, con addosso la divisa della stagione passata, si irrigidisce tutto, in imbarazzo.
- È… successo di nuovo, vero? – chiede titubante. Zlatan forza un sorriso.
- Come sempre. – conferma stringendosi nelle spalle.
Branca prende un respiro profondissimo e si gratta uno zigomo.
- Penso che non mi ci abituerò mai. – confessa a bassa voce.
Zlatan non risponde, ma vorrebbe poter dire “neanch’io”.
 
 
Venerdì, ore 14.00
 
- Sei nervoso?
Zlatan scrolla le spalle, sistemandosi la fascia sulla fronte e stando attento a non lasciare a nessuna ciocca la libertà di scendere ad infastidirlo.
- Non particolarmente. – risponde, fingendo di guardarsi attentamente nello specchio, quando in realtà sta cercando di cogliere uno spicchio di José, che resta defilato al suo fianco, di spalle, e fissa davanti a sé con un sorriso apparentemente sereno. – Tu?
- Chi non lo sarebbe? – chiede a propria volta José, invece di rispondere. – La Roma è una squadra tosta.
- Che se non sbaglio sta sotto di noi. – puntualizza Zlatan, tirando su i calzettoni, - A quindici punti.
- Questo è del tutto irrilevante. – spiega José, il sorriso che si allarga appena. – Ogni partita è un universo a sé in cui tutto può succedere, indipendentemente dal momento di Campionato in cui arriva. Puoi far parte della squadra più forte del mondo, prima in classifica, più forte perfino dei campioni d’Europa, e perdere tre a zero con l’ultima in classifica, neopromossa e già destinata a tornare in B. Dipende tutto dall’atteggiamento col quale affronti l’evento.
- E qual è il tuo atteggiamento? – chiede Zlatan, voltandosi a guardarlo, - Sei appena uscito da una conferenza stampa in cui hai detto di avere piena fiducia nei mezzi della squadra.
- Infatti è così. – annuisce José, mettendosi dritto e muovendo qualche passo verso l’uscita degli spogliatoi. – Sì, penso che sarà questo, il mio atteggiamento.
Zlatan lascia perdere e lo segue all’esterno. Abbandonata in un angolo c’è una bottiglietta di Gatorade semivuota. È avvolta in un fascio di scotch bianco, di quelli larghi, da imballaggio, e sopra c’è scritto 45 con un pennarello nero a punta larga. Si morde un labbro e si china a raccoglierla. Conosce Mario abbastanza bene da immaginare possa averlo tranquillamente fatto apposta.
- Ragazzini. – sorride José, sedendosi sulla panchina poco distante, - Chissà da quanto è qui quella roba. – “probabilmente da meno di mezz’ora fa”, si dice Zlatan, sospirando pesantemente e proponendosi di strigliare Mario fino a fargli cambiare colore appena finito con José, - Gettala via e comincia a correre, zingaro. – ordina lui.
- Sì, mister. – e Zlatan obbedisce.
 
 
Sabato, ore 22.30
 
- Non sembri nemmeno stanco. – ride José, battendogli una pacca piuttosto allegra sulla spalla ancora umida. – È valsa la pena di venire fino a qua per rifilargliene cinque, mh? – commenta compiaciuto, e Zlatan sorride a propria volta nel pensare con un po’ di tristezza che non si sono mai allontanati da Appiano, ma a José non può dirlo. – I ragazzi sono già andati? – chiede lui, e Zlatan annuisce sbrigativamente.
- Erano tutti molto stanchi. – spiega. Anche José annuisce.
- È stata una grande partita. – aggiunge, - Si meritano un po’ di riposo. Anche tu te lo meriti. Come mai sei ancora qui?
- Volevo aspettarti. – risponde con un sorriso sincero, - E complimentarmi.
José ride, tirandogli un buffetto intenerito contro una guancia.
- Sei sempre il solito cretino. – lo prende in giro, - È merito vostro. L’ho detto ai giornalisti, di sopra. Siete una grande squadra, quest’anno, me lo sento-- già mercoledì sarà tutto diverso. Andrà tutto meglio.
Zlatan annuisce e si solleva in piedi. Lo guarda dall’alto per un po’, prima di chinarsi verso di lui e baciarlo lievemente sulle labbra, tenendo le mani ben strette dietro la schiena per evitare che possano prendere iniziative del tutto inappropriate.
- Sono contento di essere tornato. – gli bisbiglia addosso, guardandolo dritto negli occhi. José non capisce, ma non si scompone più di tanto.
- Che ti prende? – chiede, vagamente in imbarazzo, - Ti pare il caso dì-
- Mister. – sorride il presidente, entrando nello spogliatoio con le braccia spalancate e gli occhi colmi di gioia. – Ottima partita.
- Grazie, presidente Moratti. – annuisce José, cedendogli immediatamente tutta la propria attenzione, - È stato bello poterle fare finalmente vedere di cosa siamo capaci.
- È un po’ che mi fate vedere di cosa siete capaci. – ride Moratti, sembra al colmo della felicità, - Se questa striscia così positiva dovesse continuare, comincerò a prendere in seria considerazione la possibilità di seguirvi in trasferta anche nei turni infrasettimanali.
- Sarebbe un onore, presidente. – ride José, stringendogli la mano.
- Ma ora basta con i complimenti. – lo interrompe Moratti, senza lasciare andare la sua mano, - Dobbiamo già prepararci per mercoledì, ci attende una partita importante. – José annuisce. – È pronto per il trattamento?
José annuisce ancora. Si volta appena verso Zlatan, salutandolo.
- Mi raccomando, lunedì puntuale. – gli ricorda, e poi segue il presidente che gli fa strada fuori dalla porta, lungo il corridoio.
 
 
Domenica, ore 09.00
 
Zlatan apre gli occhi e prima ancora di svegliarsi del tutto ha già posato una mano sul cellulare appoggiato sul comodino, portandolo all’orecchio dopo aver velocemente digitato sul tastierino illuminato un numero di telefono che ormai conosce a memoria.
- Ciao, Zlatan. – risponde il dottor Combi, il quale, a giudicare dalla voce, dev’essere già sveglio da almeno tre ore, - Stai bene?
- Io sì. – annuisce lui, tirandosi a sedere ed osservando con la coda dell’occhio Helena ancora addormentata al suo fianco, - Chiamavo per José.
- Lui sta benone. – lo rassicura il dottore, un accenno di risata a rendere più simpatica la voce, - Per quanto possa star bene un uomo nelle sue condizioni. È a riposo, al momento.
- Non… - fatica un po’ a chiedere ciò che vuole sapere. Deglutisce e prende tempo. – Non sta mostrando strane controindicazioni alla terapia, giusto?
- No. – risponde Combi, del tutto tranquillo, - D’altro canto, non si può esattamente dire che si stiano facendo dei reali passi avanti. – sospira, un po’ sfiduciato, - Quando è a riposo, è come un guscio vuoto. Ogni tanto riprende coscienza, ma è più una coscienza del tutto avulsa dalla sua personalità che un vero e proprio risveglio del Mourinho che conosciamo. O che conoscevamo un tempo.
Zlatan annuisce.
- Capisco. – sussurra, - Quindi dobbiamo solo continuare.
- L’esaurimento nervoso è una brutta bestia, Zlatan. – dice il medico, la voce carezzevole come ce l’avesse davanti e volesse avvolgerlo in un abbraccio paterno, - Avevo una zia che ne soffrì a lungo. È meglio che tu non sappia com’è finita. – si prende una pausa, probabilmente per lasciargli il tempo di assimilare l’informazione non detta ma ugualmente trasferita. – Credimi, ce ne stiamo prendendo cura nel modo ottimale. Lo so che è frustrante e che ti sembra di ripetere sempre le stesse cose senza arrivare in nessun punto, ma fino a quando non sarà José a sbloccarsi noi non possiamo che cercare di ricondurlo verso quel punto in cui ha perso il controllo di tutto, consapevoli del fatto che è lui a doverlo ritrovare.
Zlatan annuisce ancora, è già stufo di questi discorsi. E il dottor Combi ha ragione: per la maggior parte del tempo lui ha davvero come la sensazione di non fare altro che girare in cerchio senza mai neanche allargarne la circonferenza, fosse anche solo per pochi centimetri.
- Già. – taglia corto, - Scusi se l’ho disturbata. A martedì.
- A martedì. – lo saluta il medico, cordiale, prima di interrompere la chiamata.
 
 
Martedì, ore 10.30
 
- Sei in ritardo.
I campi di Appiano Gentile sono silenziosi e vuoti. Ed enormi. Zlatan non riuscirà mai ad abituarcisi.
Si morde l’interno di una guancia con forza per non scoppiare ad urlare.
Comincia un’altra settimana.
- L’aereo era in ritardo. – sorride imbarazzato, grattandosi la punta del naso. José scrolla le spalle e sbuffa.
Genere: Introspettivo, Drammatico, Romantico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Death, Slash, What If?.
- Tutto ciò che José sa di Zlatan, a tre mesi dalla sua partenza per Barcellona, è che la frattura al suo polso non è ancora guarita. Che l'operazione alla quale si è sottoposto è andata male e che a quell'operazione ne sono seguite altre che hanno, se possibile, peggiorato ulteriormente la situazione. Al momento, per il mondo intero, Zlatan - che non ha ancora effettuato il suo debutto in Liga - è a riposo su qualche isola delle Canarie, protetto dai paparazzi mentre cerca di riprendersi.
Questo è ciò che José sa di Zlatan - e allora perché il suo presidente lo manda a Barcellona senza spiegargliene i motivi? Perché al suo arrivo trova una guardia del corpo che lo invita a salire in macchina e seguirlo alla clinica psichiatrica Sant Gervasi? E perché, ad attenderlo nell'atrio della stessa clinica, c'è Mino Raiola, procuratore di Zlatan?
Note: Mi sarebbe piaciuto scrivere queste note immediatamente dopo la conclusione di questa storia XD Allora avrei potuto parlarvi di tutto il tempo e l’affetto e la fatica che ci avevo messo, e di quanta forza ci fosse voluta per concluderla nonostante tutto, e sarei stata incredibilmente prolissa e, probabilmente, anche incredibilmente noiosa XD Fortuna (la vostra) vuole che invece io stia scrivendo queste note a) a mesi di distanza, b) con X Factor in TV, c) con appena tre ore per postare – che, per chi mi conosce e conosce i miei tempi di postaggio, sono un tempo minuscolo in cui, omgz, non riuscirò a fare niente. Perciò vi saluto, e spero che questa robina possa esservi piaciuta, nonostante la sua immensa lunghezza ed il conseguente emostruggimento di palle. Yay. XD
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Love Will Come Through


- Mister Mourinho?
José solleva gli occhi sull’uomo che lo sta chiamando e lo scruta con attenzione, cercando di ricordarne i tratti e scavare nella memoria, fra le milioni di immagini delle milioni di persone che ha conosciuto nel corso della sua vita, per capire se lo conosca o meno. Il responso arriva dopo un minuto abbondante di silenzio, durante il quale l’uomo non fa che scrutarlo a propria volta, senza alcun piglio particolare. Fosse poco avvezzo a questo tipo di persone, José inarcherebbe un sopracciglio e si chiederebbe se il tizio non sia per caso stupido, ma l’atteggiamento è quello tipico di chi è abituato ad obbedire a qualsiasi ordine, e a farlo in silenzio, perciò José non si stupisce ed impiega poco a capire che non è affatto stupido, solo professionale.
Comunque no, non lo conosce.
- Lei è? – chiede, recuperando il proprio borsone da terra.
- Eloy Ramírez. È un piacere fare la sua conoscenza. – si presenta quello, con un breve cenno del capo, - Mi hanno incaricato di condurla alla Sant Gervasi, al suo arrivo.
José si concede di inarcare il sopracciglio che s’è risparmiato prima, e sistema il borsone sulla spalla.
- Non ne ho mai sentito parlare.
- È una clinica privata, mister. – continua l’uomo, e poi adocchia il suo bagaglio. – Ha portato con sé solo quello?
- Sì. – risponde seccamente José, immaginando ciò che dirà adesso la guardia di sicurezza.
- Non sarà sufficiente per provvedere all’intera durata della sua permanenza qui. – gli fa notare l’uomo, indicandolo con un movimento svelto della mano.
José scrolla le spalle, irritato.
- Senta. – comincia, - Sono venuto qui solo perché praticamente obbligato dal mio presidente, chiaro? Non intendo restare un minuto di più rispetto a quanto sarà necessario, questa città – e nel dirlo, pronuncia ogni singola parola quasi con disgusto, cercando di imprimere al proprio spagnolo ritrovato tutta l’appuntita cattiveria di cui è capace, dopo il viaggio lungo e stancante, - questa città non ha niente che mi interessi. Ed i misteri non mi piacciono, perciò sarà il caso che lei cominci a parlare, o come sono arrivato vado via.
Il tipo risponde dapprima solo con un sorriso di scuse, stringendosi nelle spalle.
- Mi spiace, ma non sono autorizzato a fornirle dettagli di una situazione che peraltro non conosco nemmeno nella sua completezza. È una questione che necessita del massimo riserbo, capisce?
- No, non capisco e me ne sbatto le palle. – risponde José in un ringhio frustrato. Poi si passa una mano sugli occhi e cerca di recuperare la calma. – D’accordo. – dice quindi, sospirando, - Cos’è questa Sant Gervasi? Che tipo di clinica?
- Psichiatrica. – risponde Eloy, senza nemmeno un’esitazione. – Ora, se vuole seguirmi… - e gli indica la strada col braccio, precedendolo verso l’uscita dell’aeroporto. No, José non vuole seguirlo, ma lo fa lo stesso.
- Perché mai dovrei avere da fare in una clinica psichiatrica? – chiede, quasi certo che il tipo non si degnerà di rispondere. Comunque Eloy è quantomeno educato, scopre, perché per rispondere, risponde. Solo che non dice niente di nuovo.
- Mi spiace, mister. – ripete, - Non sono autorizzato a fornirle questi dettagli.
- Cos’è, un messaggio preimpostato? – lo prende in giro con una punta di cattiveria in più, e poi si dà del coglione da solo. Se qualcuno ha colpa per il suo trovarsi lì, in quella città di merda, con la possibilità di incontrare anche solo fortunosamente l’unica persona la cui sola idea lo irrita al punto che preferirebbe tirarsi il sale negli occhi a manciate, piuttosto di rivederla, non è certo quell’uomo che, in fin dei conti, sta solo facendo il proprio lavoro. – Senta… - riprende quindi, - Non è un bel periodo. E avevo davvero del lavoro da fare, a Milano, perciò non sono esattamente in un’ottima disposizione d’animo. Non può proprio dirmi niente?
La guardia del corpo lo guarda attentamente, prima di sospirare ed indicargli un’automobile scura ad attenderli proprio nel parcheggio di fronte all’uscita.
- Sì. – risponde quindi, - Che mi dispiace di non trovarla nella disposizione d’animo migliore. – conclude ermetico. José lascia perdere e s’infila in macchina.

*

La clinica, a guardarla da fuori, non è davvero niente di eccezionale. Il portone d’ingresso dà su una strada cittadina pulita e grande ma tutt’altro che bella, ed il palazzo è grigio e invecchiato dal tempo e dallo smog. Non è granché, come prima impressione, e José si ritrova a storcere le labbra in una smorfia di disappunto prima di pensare a quanto possa essere poco opportuna come manifestazione di giudizio. Cerca di mascherare il danno, ma Eloy ha già ridacchiato discretamente al suo fianco, più divertito che offeso, e quindi anche José si concede un sorriso nervoso, mentre si introduce all’interno dell’edificio.
Ad aspettarlo all’ingresso, come una maledizione, c’è l’ultima delle persone che avrebbe mai pensato di incontrare.
- Tu. – sputa con astio, ritrovando in un attimo l’italiano che s’era già rassegnato a mettere da parte, - Cosa cazzo è, uno scherzo?
Mino Raiola lo guarda con evidente imbarazzo, la pancia prominente che trema fastidiosamente quando si alza in piedi per andargli incontro.
- Salve, Mourinho. – dice, mettendo entrambe le mani avanti, come di fronte ad una bestia feroce.
Salve il cazzo. – risponde immediatamente lui, furioso, - Non intendo restare qui un minuto di più.
- Aspetti, la prego. – continua il procuratore, appoggiandogli una mano sulla spalla. José trova ridicolo che si prenda una confidenza simile senza però dargli del tu a propria volta, ma è una cosa che non lo stupisce, e che anzi lo costringe a ghignare di fastidio: è proprio da lui una simile dualità, un comportamento come questo, mai perfettamente comprensibile, sempre incerto fra il sì e il no, che gioca a fare il funambolo sulla linea del forse con una grazia che un uomo simile non dovrebbe possedere. – E si calmi. Sa meglio di me che non l’avrei mai chiamata, se non si fosse trattato di un’urgenza.
- Qualsiasi urgenza sia, io non voglio averci niente a che fare! – sbotta José, allontanandosi da lui ed osservando con disgusto crescente il suo braccio ricadere lungo il fianco, molle come privo di vita. Gli dà la nausea e, mentre cerca di contrastare il bisogno quasi fisico che sente di vomitare, cerca anche di riportare alla  memoria tutto quello che sa di recente riguardo a Raiola. E, giocoforza, anche riguardo a Zlatan.
Zlatan è in riabilitazione, per quanto ne sa lui. E lui non ne sa più di tutto il resto del mondo, visto che tutte le notizie – la frattura curata poco attentamente, complicazioni su complicazioni su complicazioni, una serie di interventi, tutta una storia un po’ confusa, per la verità, ma non si può mai pretendere completa chiarezza quando tutto ciò che sai te lo dicono i giornalisti sportivi, approfittando dei chilometri di distanza per confondere le acque e fare filosofia spicciola sulla fortuna o meno di un trasferimento che sembrava destinato a grandi cose e che invece s’è spento nel nulla con la velocità di una stella cadente.
È tutto quello che sa – è tutto quello che c’è da sapere, si ripete con una certa ansia, mentre Raiola lo guarda con aria a metà fra l’impaurito e l’infastidito e nei suoi occhi scorrono una dopo l’altra le mille difficoltà di trovare le parole giuste per comunicare con un uomo che di comunicare non ha la benché minima voglia.
- Forse è il caso che le presenti il primario. – lo liquida alla fine, voltandogli le spalle e camminando risolutamente lungo il corridoio principale, - Mi segua, la prego.
- Io non vado da nessuna parte! – sbraita José, ma Eloy gli è subito accanto, il sorriso rassicurante sempre presente sul volto e la stazza tutt’altro che simile a incombere su di lui in una minaccia talmente velata da sembrare più un incoraggiamento che altro.
- Si ricordi che è in una clinica, mister. – dice in un soffio, e José aggrotta le sopracciglia.
- Naturalmente. – sbotta. È talmente furioso che, clinica o no, abbatterebbe a testate tutte le pareti sbraitando in ben più di una lingua conosciuta, ma la vicinanza di Eloy si fa pressante abbastanza da convincerlo a lasciar perdere e seguire Raiola attraverso il corridoio ampio e bianchissimo, fino ad una porta socchiusa oltre la quale, probabilmente, si trova l’ufficio del primario di cui sopra.
- Ben arrivato, mister Mourinho. – lo saluta subito il medico, alzandosi in piedi e stringendogli calorosamente la mano, prima di invitarlo a prendere posto su una poltrona proprio di fronte alla sua scrivania. José si mette subito a fissare i ghirigori intarsiati nel legno. Gli ricordano un po’ quelli della sua scrivania, nel suo studio, a Villa Ratti. Gli ricordano Zuca che si mette a seguirli con la punta della matita, a rischio di rovinarli tutti, prima di riportarli sul foglio poggiato in terra, sul tappeto, con una precisione  straordinaria. Gli ricordano il suo essere incapace di dire “no” ai propri figli, contrariamente a quanto tutto il resto del mondo si aspetti, e gli ricordano i “Zuca, non si fa!” concitati di Tami, che gli strappa di mano la matita e borbotta mentre lui si concede una risata divertita, alla quale subito fa eco la risata similissima di Titi. Gli ricordano casa e famiglia. Gli ricordano che non vorrebbe per niente essere dove si trova, e gli ricordano che non ha chiamato Tami, quando è sbarcato a Barcellona. – Il mio nome è Albert Blasi, dirigo questa clinica e ne sono il fondatore.
José annuisce sbrigativamente, discendendo la gamba del tavolo per seguirne la forma a zampa di leone. È così perfetta che sembra arrivata ieri, eppure è abbastanza opaca da non sembrare completamente nuova né finta. È un tocco d’eleganza non indifferente, probabilmente è perfino originale.
- L’abbiamo contattata in merito ad un nostro paziente, ricoverato all’interno della nostra struttura già da un paio di mesi. – continua l’uomo, monocorde, - Immagino che dire “Zlatan Ibrahimović” – continua con un mezzo sorriso, - sarà sufficiente per riportare la sua attenzione su di me, piuttosto che sulla mia moquette.
Gli occhi di José, effettivamente, si sollevano dalla moquette, che non s’erano nemmeno resi conto di fissare con tanta attenzione, e si piantano in quelli scuri e rassicuranti dell’uomo di fronte a lui.
- Mi scusi. – scolla con una certa difficoltà, - Non la stavo ignorando. Pensavo solo ad altro, ma in genere riesco a pensare a più cose contemporaneamente senza che questo renda difficoltoso il mio comunicare col prossimo. Non deve ripetermi niente, ho capito.
- Ne sono contento. – replica serafico il primario, intrecciando le dita sul rivestimento in vetro spesso e verde della scrivania, - Anche perché una qualità simile potrebbe essere molto più che utile, visto ciò che le chiederemo di fare.
- Senta. – comincia José, il tono più implorante di quanto non sarebbe disposto a mostrare a Raiola in una situazione appena meno stressante e confusa, - Io sono appena arrivato da Milano, voi mi prelevate, mi portate qui e mi dite che Zlatan- che Ibrahimović è ricoverato in questa struttura, cosa vi aspettate-
- La famiglia del signor Zlatan Ibrahimović – lo interrompe il dottor Blasi, abbassando lo sguardo sulle proprie mani, - è stata sterminata da un fanatico durante una vacanza, mentre il signor Ibrahimović cercava di riprendersi dalla frattura al polso sinistro. – sputa in un fiato, ma senza fretta, così da dare a José tutto il tempo di percepire ogni singola parola come un ceffone in pieno volto, per poi restare lì a boccheggiare senza sapere cosa dire, né come riprendere a respirare. – Il signor Ibrahimović era uscito dalla villetta che avevano preso in affitto, per recarsi ad un appuntamento in ospedale per alcuni controlli medici, ed il signor Salvatore Martino, immigrato italiano da tempo residente a Barcellona, nonché… - sospirò, in difficoltà, - tifoso dell’Internazionale Football Club, s’è introdotto all’interno della villa, armato di un coltello da macellaio.
José lo guarda come gli avesse appena annunciato la fine del mondo – e, in effetti, non riesce ad immaginare un evento più drammatico cui paragonare ciò che ha appena sentito. Raiola si muove a disagio al suo fianco, non ha neanche osato sedersi, ed Eloy è ancora immobile alle sue spalle, pronto a reagire ad ogni minimo movimento, come temesse che José potesse alzarsi in piedi e correre via con quanta più velocità gli concedono le sue gambe.
Ha ragione, fa bene. Se solo trovasse la forza di muoversi, scapperebbe.
- I dettagli truculenti – riprende Blasi, inumidendosi le labbra, - li lascio alla sua immaginazione, se proprio vuole. Quello di cui m’interessa informarla è che è stato appunto il signor Ibrahimović a trovarli per primo, com’è ovvio, e da quel momento non s’è più ripreso.
José si prende un minuto abbondante, prima di parlare ancora.
- Io credevo che fosse in riabilitazione per il polso. – dice quindi, come se una dichiarazione del genere potesse servire a rendere falso tutto il resto, - Ero convinto che-
- Ci siamo presi cura della situazione su richiesta dei genitori del signor Ibrahimović. – spiega l’uomo, - Hanno preteso che tutto si svolgesse sotto il massimo silenzio. Sono persone molto riservate. Le ultime notizie distribuite parlano del signor Ibrahimović in vacanza su una non meglio specificata isola delle Canarie. Per rimettersi da un ulteriore intervento ricostruttivo. Ed è tutto ciò che anche lei dovrà dire al mondo, nel caso il mondo dovesse chiedere. Ma Eloy – e con questo accenna sbrigativamente all’uomo ancora dietro di lui, - farà in modo che non accada niente di tanto spiacevole. Quanto al resto-
- Quanto al resto, - ringhia José, in una ridicola imitazione di rabbia, - non ho ancora idea di cosa vogliate da me e del perché mi abbiate chiamato. Io e Zlatan – e non gl’importa, stavolta, di concedersi di chiamarlo per nome, - non ci siamo salutati granché bene, quando ci siamo visti l’ultima volta.
- Oh, vada a fanculo! – sbotta a quel punto Raiola, battendo la mano sulla scrivania del primario così forte che José si preoccupa quasi per l’incolumità del legno, - Non aveva torto Zlatan, quando diceva che su di lei non si poteva davvero contare, e che era tutto sorrisi e amicizia solo finché le tornava comodo, e poi chi s’è visto s’è visto!
- Non parlare di cose che non conosci, figlio di puttana! – scatta in piedi José, fronteggiandolo con aria furiosa, - Come se potessi credere ad una qualsiasi stronzata che ti esce di bocca!
- Be’, dovresti! – aggiunge il procuratore, con un ghigno quasi soddisfatto, - Potrei ripeterti parola per parola-
- Signori! – li ferma il primario, alzandosi a propria volta in piedi ed allontanandoli l’uno dall’altro prima che debba intervenire Eloy, - Calmatevi! È una clinica, questa! E la situazione, mister Mourinho, è abbastanza grave da mettere da parte i vecchi rancori, le pare?
José grugnisce sottovoce, tornando a sedersi, i pugni tanto stretti da rendere le nocche innaturalmente bianche.
- Non so se posso… non so se voglio aiutarvi. – sputa fra i denti, ancora amareggiato dalle parole di Raiola, - Chiamatemi pure come volete, ma ho lavoro e famiglia a Milano e-
- D’accordo. – annuisce il primario, tagliando corto, - Solo che credo, signor Mourinho, che lei non possa prendere una decisione senza sapere tutto. E sapere tutto implica conoscere il motivo per il quale abbiamo chiamato proprio lei. E rivedere Zlatan, ovviamente.
Rivederlo. Sembra più una maledizione che una possibilità. Avrebbe desiderato rivederlo così tanto, uno, due, dieci, venti giorni dopo la sua partenza per Barcellona. Per provare a spiegarsi, per provare a ricucire lo strappo. E poi quella voglia è scivolata via nella marea confusa di cose che avrebbe sempre voluto e non si sono mai verificate, è diventata una sconfitta come un’altra, una delusione come un’altra. Non sa se vuole riaprirla adesso, questa pagina della sua esistenza. Non sa se vuole farlo a queste condizioni.
- Signor Raiola, - riprende Blasi, tornando a sedere a propria volta, - spieghi al signor Mourinho perché abbiamo deciso di rivolgerci proprio a lui.
Raiola non pare veramente disposto ad esaudire la richiesta del primario. Lascia vagare lo sguardo per tutta la stanza, soffermandosi su Eloy e poi su José – si sente i suoi occhi addosso e sono spiacevoli come tutto il resto della sua persona, pesanti e fastidiosi e velenosi e poco sinceri.
- Chiamava Zay. – si rassegna a dire infine, in un sospiro stremato. – Per settimane i medici si sono chiesti chi potesse essere, l’hanno chiesto anche a lui e… niente. Continuava a chiamare Zay. E quando ne hanno parlato con me… - scrolla le spalle, sedendosi affranto sulla propria poltrona, - ho risolto il mistero.
José resta immobile sulla propria poltrona per una quantità di tempo che non riesce nemmeno a quantificare. Gli scivolano davanti agli occhi immagini di ogni tipo, Zlatan che sorride, Zlatan che si piega e si inarca sotto di lui, Zlatan che affonda dentro il suo corpo, Zlatan che lo stringe a sé, Zlatan che reprime a stento una smorfia di fastidio, Zlatan che anche solo prende il caffè al mattino o si rigira inquieto fra le coperte alla notte, e fra tutte queste immagini lo stesso nome che batte e ribatte sulle pareti della sua scatola cranica, Zay, Zay, Zay, pronunciato a bassa o ad alta voce, in un sussurro o in un gemito, in una lamentela o in una risata. Zay. Zay è la sostanza stessa della sua relazione con Zlatan. Qualcosa di tanto privato e importante da restare nonostante il tempo, nonostante i dissapori, nonostante tutto.
Si inumidisce le labbra, incerto.
- Dov’è?
Blasi accoglie la sua domanda con un sorriso sereno e incoraggiante, Raiola con un mezzo gemito stupito. José non si volta nemmeno a sorridergli con aria supponente, è bravo a capire quando non è il momento di fare qualcosa. La maggior parte delle volte utilizza questa capacità per individuare proprio il momento più sbagliato in assoluto e dire comunque la cosa peggiore cui possa pensare, ma stavolta, se ne rende conto già da solo, decisamente non è il caso.
Il solito corteo – ed è straniante che abbia già cominciato a considerarlo una routine – composto dal primario, Raiola e l’inseparabile Eloy, lo guida attraverso una serie di corridoi che vanno facendosi sempre più stretti e meno frequentati, fino ad una porta dalla finestrella della quale si vede appena uno scorcio di parete grigia ed un angolo di tavolo in formica.
- È qui dentro. – annuncia Blasi, - Non si aspetti che la riconosca, mister. – lo avverte, - Per quanto potesse chiamarla per nome nel delirio, non è detto che, nella sua testa, il suo nome sia ancora collegato alla sua persona.
José annuisce distrattamente, ma non sta davvero prestando attenzione. La verità è che può sentirlo, può sentire – chissà se è un particolare odore, un particolare sapore dell’aria, un suo particolare peso? – può sentire Zlatan così vicino da costringere le sue viscere ad annodarsi come in preda a un malore. Se tende le orecchie può perfino sentire il soffio tranquillo e regolare del suo respiro, può sentire il fruscio lievissimo dei suoi vestiti mentre si muove, può sentirlo davvero – o forse è solo l’illusione di un ricordo che torna a galla mentre il suo cervello tenta di prepararlo a quel momento.
Schiude la porta e muove un passo all’interno della stanza – e non lo riconosce.
Zlatan, seduto sul proprio letto, le gambe incrociate sul materasso in una posa infantile e un po’ sciocca, sta disegnando. Ha aperto un enorme album proprio sulle ginocchia, ed il foglio che sta imbrattando è così colorato da confonderlo. È troppo carico.
Lui è magro. È troppo magro.
Ha i capelli corti, troppo. Le guance scavate. E, dipinto sulle labbra, un sorriso tanto lieve e sottile da non avere il benché minimo significato.
- …Zlatan. – lo chiama a bassa voce. La porta s’è chiusa alle sue spalle senza che lui se ne accorgesse, ma si ritrova a pensare che in effetti sia meglio così, anche se ha la certezza quasi matematica che i tre rimasti fuori stiano spiando i movimenti di entrambi, dalla finestrella.
Zlatan solleva gli occhi su di lui: nel suo sguardo sembra passare un’ombra di comprensione, ma forse è tutto finto, lo sta inventando lui perché vorrebbe che Zlatan lo riconoscesse. Quell’ombra, invece, se mai è esistita, scompare subito dopo, e Zlatan sorride un po’ più apertamente nel poggiare il pastello a cera sul materasso accanto a sé e sollevare l’album, perché lui possa guardarlo.
- A Zay piace l’acqua. – dice Zlatan, e indica il disegno – un confusionario miscuglio di tutti i colori che esistono, come se l’acqua fosse quella, o quel disegno le somigliasse in qualche modo. – Devo fare tutto il possibile perché Zay torni da me. – spiega poi, annuendo compitamente, - Così potrà esserci, quando avrò bisogno di lui.
- Sono qui. – risponde lui d’impeto, stringendo le braccia lungo i fianchi e i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi, perché la sua prima intenzione sarebbe quella di scattare ad abbracciarlo ma non è sicuro di poterlo fare, perciò cerca di irrigidirsi come un blocco di cemento, per non fare niente di sconveniente. – Sono qui, Zlatan, non devi fare più niente.
Lui aggrotta subito le sopracciglia, mettendo su un broncio da bambino offeso e ritraendo l’album, stringendoselo al petto.
- Non parlare con la voce di Zay. – borbotta, - Lo riconosco, che non sei lui. Non le diceva, queste cose. C’era sempre qualcosa da fare o da dire o che avrei dovuto fare e non ho fatto o che avrei dovuto dire e non ho detto o che… - si ferma un secondo, confuso, guardando con occhi persi un punto imprecisato sul pavimento, e poi torna a fissarlo con rabbia, - Non parlare con la voce di Zay. – ripete, - Lo riconosco, che non sei lui.
- Zlatan. – lo richiama José, la gola bloccata da un misto di aria e parole e lacrime che vorrebbe piangere, sarebbe il caso piangesse e non piangerà mai, - Zlatan, non mi riconosci? Non ti ricordi? – chiede, sollevando una mano – solo una, non può essere così drammatico, sicuramente – e sfiorandogli appena una guancia, solo con due dita, un tocco talmente minuscolo e lieve da passare inosservato perfino ai suoi polpastrelli, o forse non lo sente solo perché non fa davvero in tempo a toccarlo, dato che Zlatan si ritrae velocissimo, proteggendo la guancia con la mano bene aperta e rintanandosi sospettoso nell’angolo di materasso più lontano da lui.
José lo guarda, le labbra dischiuse e gli occhi annebbiati, e non sa che dire.
- Non puoi toccarmi. – dice Zlatan, freddissimo, - Io non sono tuo. Non posso lasciare che mi tocchi, non appartengo nemmeno a me stesso. Solo Zay, – e sospira profondamente, dopo aver pronunciato il suo nome, - solo lui può. Puoi essere mio amico, se non fai finta di essere lui e non mi tocchi. – José lo osserva abbozzare un sorriso piccolissimo, quasi carino, - Mi farebbe piacere, se fossi mio amico. Hai delle belle mani.
José abbassa lo sguardo sulle proprie dita tozze e, quando torna a guardare Zlatan, lo fa con una rabbia che è consapevole di non avere il diritto di provare.
- Non parlare con la voce di Zlatan. – dice duro, - Non sei lui, lo riconosco anch’io. Non l’avrebbe mai detto- - e si interrompe appena, cercando di reprimere un singhiozzo stremato, - delle mie mani, non l’avrebbe mai detto. Non sei Zlatan.
Lui risponde con uno sguardo sgomento, e resta immobile nel suo angolo di letto per molti secondi, prima di saltare in piedi – e saltargli alla gola. José si ritrova schiacciato contro la parete opposta, una mano di Zlatan stretta con forza attorno al collo e l’altra che carica un pugno in pieno viso.
- Non dirmi chi sono, tu non lo sai! – dice colpendolo violentemente allo zigomo, mentre la porta della stanza si apre su Eloy e Mino, che si precipitano all’interno e su di loro, per cercare di separarli, - Tu non sai niente, tu dov’eri?! Tu li hai ammazzati, mi hai ammazzato, è colpa tua, portoghese, è colpa tua, stronzo di merda!
- Zlatan! – lo chiama Raiola, tirandolo indietro mentre José, dolorante, si stupisce della facilità estrema con la quale sono riusciti a levarglielo di dosso. Una furia come la sua, che non conosceva confini, ora una persona qualsiasi può arginarla facilmente, solo afferrandolo per le spalle e tirandolo via. Leggero come una foglia, debole come un soffio di brezza. Zlatan torna ad accasciarsi sul proprio letto, gli occhi vuoti, mentre Eloy cerca di sorreggerlo per le spalle e finisce spintonato brutalmente all’indietro.
- Ce la faccio! – ringhia José, allontanandosi di qualche passo e sfiorandosi la guancia con il palmo bene aperto, - Vaffanculo. – sbotta, contro tutti e contro nessuno, abbandonando celermente la stanza.
Il dottor Blasi lo sta aspettando in corridoio, un sorriso leggero e comprensivo a increspare appena le labbra, come si aspettasse ogni singolo minuto di quella scena.
- Cosa cazzo gli è successo?! – urla José, esasperato, - Quello – prosegue, indicando la porta ancora aperta alle sue spalle, attraverso la quale giunge il sussurrare continuo di Mino che cerca di calmare Zlatan con la supervisione della presenza rassicurante di Eloy, - non è lui! Non… non è lui. – conclude sciogliendosi quasi in un singhiozzo e lasciando finalmente libere di scendere due dieci non sa più quante lacrime, prima di coprirsi il volto con entrambe le mani e restare immobile in attesa di qualcosa – qualsiasi cosa.
- Mi segua, mister Mourinho. – dice Blasi, soffice, lasciandogli passare un braccio attorno alle spalle e conducendolo lungo il corridoio, dato che lui non può vederlo. – Zlatan è ancora lì. È ancora lui, è solo… come posso dire… - si prende un po’ di tempo per cercare la parola più adatta, - nascosto. Il suo corpo ricorda cosa vuol dire essere se stesso, ogni tanto, ma per la maggior parte della sua giornata Zlatan trova difficoltoso avere a che fare con i pensieri che sarebbe giusto avesse nella testa. I pensieri riguardo la sua famiglia, la sua vita… anche riguardo a lei, mister.
José solleva lo sguardo ancora umido, asciugando sbrigativamente le lacrime col dorso di una mano.
- Cosa sa, esattamente?
- Zlatan non mi ha detto molto. – scuote il capo l’uomo, - L’ipnosi non è stata di aiuto granché maggiore. Ma… ho capito che c’era qualcosa fra voi, e che non si è chiusa bene. Quanto al resto, - sospira affranto, - sfido qualunque uomo a poter fronteggiare il pensiero della morte dei propri cari, una morte così orribile, poi, senza desiderare di poter dimenticare tutto e fuggire via.
- …fuggire via. – ripete lui, voltandosi appena a guardare la stanza. La porta, in fondo al corridoio, è ancora aperta, ma dal suo interno non giunge più alcun suono. Blasi annuisce, ricominciando a guidarlo verso il proprio ufficio.
- Zlatan non è potuto scappare via nel senso fisico del termine, - gli spiega con aria professionale, - ed ecco perché è fuggito dentro se stesso. Ha preso la parte più esposta di sé, quella più sofferente, quella più debole e più ferita, e l’ha messa da parte. Ha lasciato che a venir fuori fosse un’altra parte di sé, una nuova. Ed è quella che ha conosciuto oggi.
- Un altro Zlatan.
- Non esattamente. – sospira l’uomo, un po’ in difficoltà, - Uno scudo. Una protezione. Un’altra persona. Non può rivolgersi a questa persona come se fosse Zlatan, anche se di Zlatan ha preso anche il nome. È una cosa un po’ complessa, non so se-
- Me la spieghi. – lo interrompe lui, risoluto, - E poi mi dica cosa devo fare per riaverlo.
- Mister Mourinho, non credo che-
- Non per riaverlo per me. – precisa lui, intuendo il motivo dell’imbarazzo del dottore, - Per riaverlo e basta. Al momento mi interessa solo questo.
Blasi sorride, invitandolo ad accomodarsi sulla poltrona mentre chiude la porta del proprio studio e prende posto sulla propria sedia, dietro la scrivania intarsiata sul cui profilo José cerca di non concentrarsi più.
- La mente di Zlatan, al momento, è abitata da due persone. Non siamo sicuri che non ce ne siano altre, è in cura da troppo poco tempo per stabilirlo con certezza, ma in genere gli schizofrenici non si fermano a due sole personalità, soprattutto se il loro disagio è molto profondo. Le due personalità di cui siamo a conoscenza, comunque, sono Zlatan, che non è lo Zlatan che conosceva lei, ma lo scudo, come le dicevo prima, e il Piccolo.
José gli solleva gli occhi addosso, stupito.
- Il Piccolo. – ripete con aria assente. Blasi annuisce, aprendo un cassetto della scrivania per rovistare all’interno.
- Non è mai venuto fuori in prima persona, ma ogni tanto Zlatan ne parla. Il Piccolo sta sempre zitto, è sempre triste e non vuole mai vedere nessuno. Se proviamo a metterci in contatto con lui, Zlatan si arrabbia. Molto più di quanto non abbia visto lei oggi.
José si consente di deglutire appena, mentre osserva il primario poggiare sul tavolo un lettore mp3 collegato a due auricolari.
- Li indossi, prego. – lo esorta con un mezzo sorriso. José obbedisce e istantaneamente le sue orecchie si riempiono della voce di Zlatan che, un po’ sottile e esitante, chiede allo psichiatra perché vuole tanto parlare col Piccolo. “Perché è importante sapere cosa ne pensa anche lui, ti pare? C’è anche lui, dentro di te, anche lui deve decidere,” dice Blasi. Zlatan risponde ridendo. “Al Piccolo penso io,” dice risoluto, “so di cosa ha bisogno, lei non gli serve”. “Zlatan…” cerca di rabbonirlo ancora Blasi, ed è lì che José lo sente ringhiare. Come un animale. “Stia lontano dal Piccolo,” dice minaccioso, “io non le permetterò di fargli del male. Né a lei, né a nessun altro.”
- Questo è… è un altro. – dice a mezza voce, incerto, porgendo il lettore mp3 al medico, - Non è quello con cui ho parlato prima, è quello che mi ha picchiato.
Blasi inarca un sopracciglio, incuriosito.
- Crede che siano due personalità diverse?
- Io non lo credo, io lo so! – sbotta lui, allargando le braccia, - Conosco gli occhi di Zlatan, conosco la sua voce-
- Non sono né gli occhi né la voce dello Zlatan che conosceva un tempo, mister Mourinho, questo deve capirlo bene.
- No! – insiste José, passandosi una mano sugli occhi, - …mi ascolti. So di cosa sto parlando. Sono io che… devo essere io ad aiutarlo.
Blasi sorride ancora, estremamente compiaciuto.
- E questo – rivela annuendo, - è esattamente il motivo per cui l’ho voluta qui.

*

Quando è solo, in albergo, recupera il cellulare e come prima cosa in assoluto chiama Matilde. Gli manca la sua voce allegra e un po’ arrochita dagli anni e dal fumo, sente di aver bisogno di un supporto che è quasi sicuro lei non possa dargli, ma sarà comunque meglio di niente.
- Zay! – trilla allegra, - Zuca ti odia molto. – gli fa sapere in una risata cristallina, e José ride a propria volta. Zay è sempre stata una cosa solo di Matilde – o almeno, lo era prima di Zlatan; era una parte profonda ed intima di sé che aveva deciso di dare solo a lei, gliel’aveva promessa all’altare e probabilmente era stata sua fin dalla prima volta che l’aveva vista, minuscola e bellissima, infilata in un vestitino nero a pois bianchi nel mezzo di quella vecchia discoteca, ormai chiusa da tempo.
Quando aveva permesso a Zlatan di chiamarlo in quel modo – ricorda ancora la situazione, l’euforia esagerata del post-partita contro il Panathinaikos, quell’abbraccio che s’erano scambiati sul campo e che s’era prolungato anche dopo in una stretta convulsa e carica di voglia, negli spogliatoi, in albergo, a letto – “Chiamami Zay”, gli aveva detto, e Zlatan l’aveva guardato spalancando gli occhi come un bambino piccolissimo di fronte ad un regalo troppo grande. “Ma-“ aveva provato a dire, e José l’aveva zittito con un sorriso, guardandolo dolcemente. “Chiamami Zay”, aveva ripetuto, e da quel giorno in poi non l’aveva più chiamato José né Mourinho, mai più, nemmeno una volta.
- Cosa mi sono perso? – chiede con un sorriso debole, lasciandosi ricadere su una poltrona e massaggiandosi le tempie mentre cerca di tornare al presente.
- La sua recita di fine anno. – racconta Matilde, compiaciuta, - È stato un bravissimo Ettore, dovevi vedere con quanta professionalità da piccolo attore stringeva la sua Andromaca. Che era più alta di lui, per inciso. – aggiunge, ridendo divertita.
- Fanno recitare l’Iliade a bambini così piccoli? – chiede José con una risata molto simile alla sua, - Dovrò far loro causa.
- Oh, piantala. – sbotta lei, senza smettere un secondo di ridere. – Tu cosa mi dici?
José sospira, cercando di mettere ordine nella propria testa. Non è semplice, ma in qualche modo dovrà riuscirci, e per molte ragioni.
- È successo qualcosa a Zlatan. – risponde quindi, - Non posso parlartene, ma è qualcosa di grave.
- Oh, mio Dio. – esala lei, preoccupata, - Sta bene?
- È… - riflette José, esitante, - è fisicamente integro. Forse un po’ troppo magro. Ma sta bene, in quel senso. Purtroppo, parlando più generalmente, non è possibile dire lo stesso.
- Zay, - sospira Matilde, confusa, - non posso capirti, se parli per enigmi.
- Purtroppo la faccenda è molto riservata, Tami. – si scusa lui, contrito, - Non posso parlartene. Credimi, mi piacerebbe, ma-
- D’accordo, d’accordo. – sospira ancora lei, e José può immaginarla scuotere il capo mentre la coda alta che porta dietro la testa quando fa molto caldo ondeggia lentamente a destra e a sinistra, solleticandole la nuca, - Non c’è modo di costringerti ad aprirti del tutto, quando si tratta del tuo zingaro, eh? – commenta con un tono a metà fra l’intenerito e il rassegnato. E José vorrebbe, per un attimo soltanto, risponderle che ha più ragione di quanto immagini. Ma si trattiene. – Quando torni? – chiede poi, mentre José la ascolta liberarsi da bracciali ed orecchini e riporli sul comodino con cura, ordinatamente, come fa sempre prima di andare a dormire.
- Al momento non so dirtelo, Tami. – risponde lui, - Non so quanto tempo potrebbe prendermi, risolvere questo problema. Ad essere totalmente sincero, - aggiunge, un po’ scoraggiato, - Non so nemmeno se ci riuscirò, a risolverlo.
- Queste sono sciocchezze. – sbotta immediatamente sua moglie, - È ovvio che riuscirai a risolvere il problema. – E poi aggiunge, più morbida, - Tu risolvi sempre tutti i problemi. Solo… - riprende, vagamente più allarmata, - intendo, il tuo lavoro coi ragazzi in squadra…?
- Il presidente sa perché sono qui. – risponde subito lui, - Avrà sicuramente pensato a tutto. E comunque Beppe può sostituirmi più che bene, ho dato a lui tutte le direttive, prima di partire. – e rilascia il capo contro lo schienale della poltrona, sospirando esausto.
- Stanco? – chiede Matilde, dolcissima. La sua voce, come la più lieve delle carezze, scivola lenta lungo il suo collo, e José chiude gli occhi per assaporare meglio la pressione tenera di polpastrelli che purtroppo può solo immaginare, e che vengono presto sostituiti dalla presa ferrea di due mani diverse, più grandi, più forti. Il pensiero sgradito di Zlatan intento a strozzarlo, ricordo di non più d’un paio d’ore fa, si mescola e si confonde col ricordo più vecchio delle ultime carezze di Tami, e con quello ancora più antico delle carezze di Zlatan, mesi e mesi prima. José ha di nuovo voglia di piangere, ma stavolta non cede.
- Parecchio. – risponde, cercando di sorridere, - Penso che andrò a dormire.
Tami annuisce – José non la vede, ma immaginarla è sufficiente – e lo saluta con un bacio al volo, prima di interrompere la comunicazione. Tutti i suoi muscoli e tutte le sue ossa gridano vendetta, quando si mette in piedi, si spoglia sbrigativamente e si lascia ricadere esausto sul letto, affondando il viso nel cuscino per isolarsi rispetto al mondo esterno. È troppo vecchio per cose simili, e non lo pensa solo in riferimento al viaggio in aereo, naturalmente.
Voltandosi supino e perdendosi nell’oscurità del soffitto della camera, cerca di ricordare l’ultima volta che ha visto Zlatan prima di oggi, e non è un ricordo piacevole. Fa male riportarlo alla memoria, fa male rivederlo gettato scompostamente sul letto, le coperte arrotolate sul pavimento, e ricordarsi con una precisione impressionante varcare la soglia della sua camera per sistemargli addosso almeno un lenzuolo, senza dimenticare però di chiudersi la porta alle spalle, entrando.
Nei suoi ricordi, Zlatan si sveglia e si rivolta sul materasso, passandosi una mano sugli occhi e regalandogli un sorriso assonnato da bambino non appena mette a fuoco la sua figura.
- Non volevo svegliarti. – dice, e Zlatan sorride ancora, mettendosi seduto.
- Io invece sono contento che tu l’abbia fatto. – commenta con un candore quasi disturbante, - Resti un po’?
José annuisce perché non è mai stato in grado di negargli niente, e si siede sul materasso accanto a lui. Zlatan lo contempla con un’aria ridicola per molti secondi, prima di sporgersi a baciarlo dolcemente sulle labbra.
- Sono giorni confusi. – gli dice, poggiando la fronte contro una sua tempia, mentre José gli fa passare un braccio attorno alle spalle e se lo tira contro. – Lo so che è pesante. Mi dispiace.
José annuisce, accarezzandogli rassicurante una spalla.
- Tanto resterai. – commenta, stringendo la presa attorno al suo braccio. – Resterai, vero?
Zlatan non risponde. Nella sua memoria, José lo guarda a lungo, con aria disgustata, tradita, ferita. E poi lo lascia andare, e si alza in piedi.
- Zay. – lo chiama Zlatan, la voce rotta, - Zay, ti prego.
José non resta un secondo di più, neanche per sentire tutto il resto, neanche per ascoltarlo scusarsi ancora.
Ha modo di pentirsene, e molto, a solo qualche mese di distanza, pochi minuti prima di addormentarsi.

*

Eloy è stato tanto gentile da passare a prenderlo in albergo. O almeno, così gli piacerebbe pensare se non sapesse perfettamente che non c’era nessuna possibilità che Raiola lo lasciasse bighellonare da solo per Barcellona, correndo il rischio di farlo notare da qualcuno e mettendolo nella posizione di dover rispondere a qualche domanda di troppo.
Quantomeno – pensa con un certo sollievo mentre Eloy gli apre la portiera e lo invita sorridendo a scendere dalla macchina – l’uomo non gli dispiace. È gentile, professionale e silenzioso. Non di quei tipi che cercano il dialogo a tutti i costi perché spaventati dal rimbombo del vuoto nelle loro teste, no. José può affermare con certezza che la testa di Eloy è tutt’altro che vuota e, in quanto piena, tutt’altro che a rischio eco. Ecco perché Eloy parla poco e solo quando serve, ed ecco perché passare del tempo con lui è gradevole, in fin dei conti.
Sicuramente molto più gradevole che stare in clinica.
Blasi lo tiene impegnato in una conversazione di circostanza solo per qualche minuto. Gli chiede come sta, se ha cambiato idea, se non si senta un po’ preoccupato dopo quanto successo ieri, se abbia avvisato la propria famiglia del prolungarsi della sua permanenza. José risponde per monosillabi e guarda sempre altrove – non riesce ad impedire al suo stesso sguardo di saettare fulmineo verso la porta mentre stringe le mani in grembo, come se quella stretta potesse essere in grado di impedirgli di compiere gesti inconsulti e fiondarsi lungo il corridoio fino in camera di Zlatan.
Blasi sorride e gli batte una pacca sulla spalla.
- Non  sarei ciò che sono oggi, - dice, - se non sapessi interpretare il linguaggio del corpo. Vada pure.
José non gli dà modo di ripetersi: l’attimo dopo è in piedi, e non è passato neanche un minuto da quando è uscito dallo studio del primario, che si ritrova già di fronte alla porta di Zlatan. Bussa piano, un paio di volte. Dall’interno non giunge un suono, e José si chiede brevemente se Zlatan sia abituato a sentire bussare. Poi sospira e spinge la porta, sbirciando all’interno prima di spalancarla del tutto e fare il proprio ingresso. Zlatan sta disegnando, seduto alla scrivania. Gli dà le spalle e sta curvo sul foglio muovendo velocemente la destra, tracciando macchie di colore di un abbagliante rosso acceso sul cartoncino bianco. La sua espressione somiglia alla concentrazione dei bambini, si morde il labbro inferiore ed ha le sopracciglia aggrottate, gli occhi fissi sul foglio brillano di determinazione.
- Cosa disegni? – chiede a bassa voce, trascinando una sedia accanto alla sua. Zlatan non smette di disegnare, ma sorride.
- Fuochi d’artificio. – risponde dolcemente, - Rumorosi e colorati.
José fissa il foglio e deglutisce piano.
- Sembrano schizzi di sangue. – azzarda incerto. Zlatan sorride più apertamente.
- Sembrano, ma non lo sono. Alle volte, le cose sembrano in un certo modo, e invece non lo sono. – solleva lo sguardo ed incrocia i suoi occhi, si inumidisce le labbra e poggia il pastello a cera sul tavolo, prima di continuare. – Mino… - dice quindi, un po’ dubbioso, - Mino mi ha detto che lui si è comportato un po’ male con te, ieri.
- Lui? – chiede José, inclinando un po’ il capo, - Raiola? Non è mai stato particolarmente gentile, non è che mi sia stupito.
- No. – scuote il capo Zlatan, ridacchiando, - Non lui. Lui. Quello dentro la mia testa.
José spalanca gli occhi, avvicinandosi un po’ e mordendosi un labbro, infastidito dallo stridere dei piedi della sedia contro il pavimento – suono che invece sembra divertire parecchio Zlatan, almeno a giudicare dal suo sorrisino.
- Tu… - chiede con una certa curiosità, - sai che ce n’è un altro?
Zlatan ride a bassa voce, coprendosi le labbra con una mano, e José inarca le sopracciglia perché in nessuno dei numerosi fotogrammi di Zlatan che conserva in memoria l’ha mai visto agire in modo tanto pudico. Zlatan non era tipo da nascondere un sorriso – amava sbatterti in faccia la propria felicità così che tu potessi prenderne atto e fossi costretto ad averci a che fare. Decisamente, quello che ha di fronte in questo momento non è Zlatan. Non il suo, almeno.
- È abbastanza difficile ignorarlo, ti pare? – risponde lui, scrollando le spalle, - Non è cattivo, è solo che si preoccupa.
- Per chi? – chiede, cercando di indagare cautamente. Guarda Zlatan dritto negli occhi e sono talmente scuri che gli sembra di perdercisi. Procede a tentoni, come se qualcuno, per fargli uno scherzo idiota, avesse spento la luce.
- Per me. – risponde Zlatan, e ride ancora un po’, - Per chi altri?
- Non c’è nessun altro? – insiste José, ed il sorriso che increspa le labbra di Zlatan si perde prima in una smorfia sorpresa e poi in un broncio offeso. José lo osserva alzarsi in piedi abbandonando del tutto il disegno, e muoversi nervosamente all’interno della stanza.
- Le cose sono sempre difficili, signore, io non so dov’è cresciuto lei o dove ha vissuto, ma nel mio mondo è sempre tutto difficile. – spiega, un po’ balbettando, un po’ inciampando sulle stesse parole che pronuncia, sbagliando i verbi e lanciando vocali e consonanti a caso come stesse cominciando a dimenticare la lingua. José non ha nemmeno il tempo di realizzare pienamente che Zlatan è passato dal tu al lei senza un apparente motivo, che questa considerazione lo porta a realizzare qualcos’altro, qualcosa che non aveva ancora notato e che però avrebbe dovuto colpirlo molto prima, se non altro per quanto è strana: Zlatan continua a parlare in italiano. – Non c’è nessuno, ma forse c’è, lei che ne sa? Non lo so nemmeno io. Le cose sono sempre diverse, signore, sono sempre difficili e sono sempre diverse, a lei è mai successo? Guarda una cosa e la vede in un modo, e poi invece quella cosa è diversa. – si ferma e osserva il muro di fronte a sé, solo per un attimo, prima di tornare a fissare gli occhi nei suoi. – Ed è bello così, sa, signore? È più sicuro così, perché così anche se una cosa è orrenda tu puoi sempre sperare che esista un’angolazione dalla quale non è più così male. – si morde con forza l’interno di una guancia, prima di proseguire. – Le peggiori sono le cose che sono uguali da ogni angolazione. – biascica incerto, la voce rotta, - Sono rosse da qualsiasi lato le guardi, come il sangue. È per questo che i fuochi d’artificio mi piacciono di più. Sembrano sangue da un lato, e dall’altro fiori.
José resta immobile sulla sedia. Zlatan lo guarda come si aspettasse una risposta a ciò che ha appena detto, ma José non ha risposte per lui. Solo altre domande.
- Quando parli di cose che non cambiano anche guardandole da diverse angolazioni… - comincia, e Zlatan sembra seguirlo con un certo interesse. Quel bagliore lievissimo nei suoi occhi, però, si spegne del tutto quando José conclude la domanda: - ti riferisci ad Helena e ai bambini?
Non fa una piega, si limita a dargli le spalle e schiudere la porta.
- Non conosco nessuno con questo nome. – risponde svelto, - Voglio andare a fare una passeggiata, vieni con me?
José si alza velocemente, affiancandolo appena in tempo per ritrovarsi in corridoio sotto lo sguardo un po’ stupito ma tutto sommato sereno di Eloy.
- Puoi farlo? – chiede, e Zlatan sorride, esattamente come prima.
- Certo che posso. – annuisce, - Eloy mi accompagna. C’è un cortile bellissimo qui, è pieno di belle persone. Solo che nessuno si avvicinerà, se ci sei tu.
José cerca di sorridere a propria volta, ravviandosi i capelli su una tempia con un gesto sbrigativo.
- Faccio paura? – chiede. Zlatan ridacchia.
- Sei diverso da chiunque altro stia qui. Sei normale.
Camminano in silenzio lungo il corridoio per qualche secondo, prima che José si decida a parlare ancora.
- Sembri molto consapevole della tua condizione. – commenta, e Zlatan sospira, scuotendo il capo con aria rassegnata.
- Che considerazione sciocca. – sbuffa, - Un pazzo non è un pazzo se è consapevole della sua pazzia?
- Non ho detto questo, ma-
- Un innamorato ama lo stesso se sa di esserlo o invece non ne ha idea? – chiede Zlatan di getto, interrompendolo senza nemmeno guardarlo, come se a stento si accorgesse della sua presenza, - Ogni tanto me lo chiedo. Io sono stato innamorato di Zay, devo parlartene un giorno, Zay era fantastico, - ed ogni sua parola è una coltellata dritta nel centro del suo petto, - comunque ogni tanto me lo chiedo. Zay era innamorato di me, credo, ma non ha esitato ad abbandonarmi anche se io avevo bisogno di lui. Eppure io lo so che lui mi amava. Non ti pare strano? – lo guarda attentamente, José non risponde ed il cortile si apre intorno a loro in un tripudio di verde e colori sparsi, fiori ovunque, piccole aiuole curate, cespugli ricchi di foglie, qualche paziente che si rilassa sulle panchine distribuite asimmetricamente sul piazzale e il sole e il cielo che giocano coi loro stessi riflessi sulla superficie dell’acqua che giace immobile in una piccola vasca centrale. – Tu le abbandoni, le persone che ami, signore? – chiede ancora Zlatan, muovendosi disinvoltamente ma con una certa emozione verso la fontana, - Le abbandoni le persone che ami?
José lo segue e si siede sul bordo della vasca. Zlatan non si ferma, scavalca il muretto sollevando una gamba ed è all’interno della vasca un attimo prima che l’erogatore si azioni, bagnandolo tutto dalla testa ai piedi. Ride come un bambino. Eloy non sembra turbato – osserva la scena da sotto le fronde di un albero poco distante e lo lascia fare, perciò José non si scompone e si limita a sorridere a propria volta mentre lo osserva sedersi nel mezzo della fontana, abbracciando l’erogatore a forma di pesce e sollevando il viso perché l’acqua in caduta libera possa colpirlo più direttamente.
- No. – risponde, - No, non le abbandono le persone che amo, Zlatan. – risponde finalmente, e Zlatan torna a guardarlo, sorridendo più apertamente.
- Lo sapevo. – commenta allegro, - Come ti chiami? – chiede quindi. José deglutisce.
- Mou. – risponde, tendendogli la destra. Zlatan la stringe e la scuote con entusiasmo.
- Come le caramelle. – ride, - Mi piace. Possiamo vederci ancora? Prometto che lui starà buono. Lo farò stare buono.
José annuisce ancora. Stringe a lungo la mano di Zlatan, prima di lasciarla andare. Lui non si lamenta.

*

- Mister, - gli sorride Eloy aprendo lo sportello e tenendolo fermo mentre attende che José esca dalla macchina con un sospiro stanco, - cerchi di dormire bene, stanotte. Mi sembra che questa cosa la stia provando un po’ troppo.
- Hai esperienza nel campo, Eloy? – chiede José con un sospiro, massaggiandosi le tempie. La strada di fronte al suo albergo è deserta. José si prende tempo. Non ha voglia di tornare subito in camera.
La guardia di sicurezza scrolla le spalle.
- Ne ho visti tanti come lei. – risponde, - La malattia mangia mente e corpo, e non solo di chi ne è affetto.
- È vero. – annuisce lui senza guardarlo.
- Solo che – aggiunge Eloy, frettolosamente, - per aiutare un ammalato serve molta lucidità mentale. – si ferma e José gli solleva addosso un’occhiata vagamente infastidita. L’uomo sorride timidamente, cercando di stemperare la tensione. – Io non ho mai perso una persona cara in circostanze tanto tristi. I miei nonni sono tutti morti di vecchiaia, avanti negli anni, circondati dai loro nipoti. I miei genitori sono ancora vivi. Mia moglie ed io ci amiamo da quando andavamo al liceo, i nostri figli sono ancora piccoli e sono in piena salute. Sono un uomo molto fortunato e non posso neanche immaginare cosa possa voler dire… - esita un attimo, prima di proseguire, - perdere una persona tanto cara e poi ritrovarla solo per scoprire che non la si è solo persa, perché quella persona è morta.
- Zlatan non è morto. – scatta José, stringendo i pugni lungo i fianchi.
- Una parte di lui lo è. – insiste Eloy, - E non la recupererà, Mister, sa? Qualcuno deve dirglielo. So che non dovrei essere io, ma-
- Non dovresti essere tu, esattamente. – ringhia lui, allontanandosi di un passo, come scottato dalla sua vicinanza. Ed a separarli c’è almeno un metro.
Eloy sospira pesantemente, grattandosi la fronte in un gesto nervoso.
- Mi dispiace averla turbata, Mister Mourinho. – ammette, - Cercavo solo di farle capire che perderci il sonno non aiuterà né lei né Zlatan.
- Ma davvero? – ride amaramente José in risposta, - E cos’è che dovrebbe aiutarci?
Eloy schiude la portiera ed esita un attimo, prima di tornare a sedersi al proprio posto all’interno della macchina.
- La pazienza. – risponde, - La sincerità. L’amore, se non si è perso del tutto. O se non è morto anche lui. – è tutto quello che dice, prima di rimettere in modo.
José non riesce a rientrare in albergo per i dieci minuti successivi. Si chiede cosa ci faccia a Barcellona, si chiede perché non abbia già lasciato perdere e non sia già tornato a Milano, dove la sua famiglia e il suo lavoro lo aspettano.
Gli basta ripensare a Zlatan – e non sa più nemmeno a quale dei tanti – per convincersi a darsi una mossa ed andare a dormire.

*

Non sa cosa lo renda così nervoso – vive a Barcellona ormai da quasi due settimane, Tami gli ha mandato ieri qualche altro vestito perché il tempo sta rapidamente cambiando e comincia a far freschetto, la sera, e comunque sta ricordando piano piano ogni particolare di quella città abbandonata anni prima. Non si sente più a disagio per le strade, sa quali imboccare per non essere visto e da una settimana circa rientra a Milano per qualche ora una volta ogni due giorni, per controllare la squadra e cercare comunque di fare il suo mestiere, per quanto difficile possa essere in queste condizioni.
Il presidente ci ha tenuto ad incontrarlo in privato, l’ultima volta.
- Come sta? – gli ha chiesto senza guardarlo, di fronte a una tazza di caffè fumante, - Progredisce?
José ha sospirato pesantemente, passandosi una mano sulla fronte.
- Non saprei dirtelo. – ha ammesso, - Non è con lui che parlo, per la maggior parte del tempo.
- Ti stanno impedendo di gestirlo personalmente? – s’è informato discretamente lui, inarcando un sopracciglio, - Se il problema è Raiola, dimmelo pure senza esitazioni. Come l’ho gestito quando era un problema per la mia squadra, posso gestirlo ora che è un problema per Ibra.
- No. – ha sorriso José, scuotendo lentamente il capo, - No, non si sta mettendo in mezzo. Non è granché felice che debba occuparmene io, ma non sta opponendo resistenza. No, il problema… - e ha sospirato ancora, piegando la schiena ed appoggiandosi con entrambi i gomiti al tavolo, come fosse troppo stanco per reggersi dritto da solo, - è Zlatan. Non è con lui che parlo perché lui non vuole parlare con me.
Ci ha messo un po’ a spiegare a Moratti come effettivamente stessero le cose, e tutto quello che ha fatto alla fine il suo presidente è stato lasciarsi andare ad un sospiro stremato identico ai suoi e rilassarsi contro lo schienale della sedia, congiungendo le mani sotto al mento in una posa riflessiva e preoccupata che ha riempito José di una certa tenerezza, portandolo a realizzare all’improvviso e in un unico momento per quale motivo quest’uomo non fosse in grado di separarsi dai giocatori con astio, così come era evidente anche da parte dei giocatori l’impossibilità di provare rabbia o risentimento nei suoi confronti.
- Se non ti dispiace, - ha detto quindi, sorridendo appena, - vorrei comunque che fossi tu ad occuparti di tutto fino alla fine. Non importa quanto tempo ci vorrà, il tuo lavoro non è solo allenare questa squadra, è anche prenderti cura dei nostri atleti.
- Zlatan non lo è più da almeno tre mesi. – gli ha ricordato José con una mezza risata ironica. Massimo ha risposto con un sorriso perfino più sereno.
- Smetterà di esserlo quando deciderò io. – ha precisato, e poi ha sospirato. – Laporta ha provato a rimandarlo indietro. – ha confessato con un certo imbarazzo, svolgendo e riavvolgendo nervosamente un tovagliolino di carta. – Ha già sciolto il contratto da tempo, a tutti gli effetti Zlatan non ha una squadra, al momento.
- Non è in condizione di giocare. – ha azzardato José, lievemente confuso e ancora incerto sul punto verso il quale il discorso sembrava volesse andare a parare, - E probabilmente non lo sarà mai più.
Massimo ha sorriso ancora, annuendo compitamente.
- Non è una cosa che mi preoccupi. – ha concluso, alzandosi in piedi, - E comunque, una volta Rinaldi mi disse “questo non è il momento di parlare, bisogna solo riflettere a mente fredda per ritrovare prima l’uomo e poi il calciatore”. Sono sempre stato d’accordo con questo modo di vedere i problemi coi giocatori.
José ha sospirato, alzandosi in piedi a propria volta.
- Non che con Adri alla fine si sia riusciti a risolvere qualcosa. – ha sbottato, cercando di non lasciare affiorare troppo in superficie il risentimento che ancora prova per non essere stato in grado di recuperare, unitamente al resto dello staff, un giocatore che a suo modo di vedere aveva ancora tanto da dare all’Inter.
- Ehi, - ha riso Moratti, pagando disinvoltamente il conto senza neanche chiedere, - Adri sta facendo benissimo al Flamengo. Secondo me il recupero è stato eccellente, pare che Dunga lo convocherà perfino in nazionale. Sai qual è il tuo problema, José? – ha chiesto poi, dirigendosi verso l’uscita dopo un cenno di cordiale saluto nei confronti del cameriere ancora turbato dalla consistenza della mancia, - Quando si parla di esseri umani, c’è sempre un momento in cui è giusto stringere la presa, ed uno in cui è necessario allentarla. Con Adri dovevamo allentare, era inevitabile. Ed anche con Ibra, quando l’abbiamo mandato a Barcellona.
- Ed ora? – ha chiesto José, seguendolo all’esterno del locale e perdendosi un po’ nel cielo stranamente azzurro di Milano proprio sopra al Duomo.
- Ora – ha sorriso un’ultima volta Massimo, prima di salutarlo, - stringiamo e tiriamo indietro. Ovviamente.
La conversazione s’è chiusa lì, e José s’è affrettato a dirigersi all’aeroporto, prima di perdere l’aereo che doveva riportarlo a Barcellona. È arrivato troppo tardi per passare a salutare Zlatan, ma la prima cosa che ha fatto svegliandosi il mattino successivo è stata chiamare Eloy per farsi venire a prendere e farsi accompagnare in clinica. E se è nervoso, adesso, è solo perché ora sa cosa esattamente il suo presidente si aspetta da lui, ed è qualcosa che non è sicuro di poter garantire, dal momento che non solo non sa se riuscirà a recuperare il calciatore e non solo non sa se riuscirà a recuperare l’uomo, ma ogni tanto accarezza con sincero desiderio la possibilità di recuperare l’uomo, almeno quello, e poi fuggire lontanissimo, perfino in un altro universo, verso un posto in cui non sarebbe più possibile perderlo.
- Mister Mourinho! – lo saluta con un sorriso smagliante Blasi, accogliendolo a braccia aperte, - Spero che il suo viaggio sia andato bene.
- Ho affrontato viaggi migliori. – scrolla le spalle, salutandolo a propria volta con un mezzo sorriso. – Novità?
Il primario sorride in maniera perfino inquietante, ma la sua incapacità di trattenere l’entusiasmo è così contagiosa che José non può fare a meno di seguirlo un po’, sorridendo con maggiore convinzione.
- Ieri, per la prima volta, Zlatan ha chiesto esplicitamente di lei.
A José si ferma il respiro in gola.
- Di me?
- Esattamente. – conferma il primario, nella voce una nota di orgoglio difficilmente ignorabile, - Non Zay. Mou. Sa, gli altri giorni, durante le sue visite a Milano, ogni tanto chiedeva se non ci fossero visite per lui, ma niente di più, come volesse comunque tenersi alla larga da un rapporto troppo intimo. Ieri, invece, ha chiesto proprio di lei. La sua espressione quando gli ho detto che non avrebbe potuto incontrarla… avrei voluto che la vedesse. – conclude con una mezza risata.
- Io invece sono contento di non averlo fatto. – sospira José, socchiudendo appena gli occhi. – Posso vederlo adesso?
Blasi annuisce svelto, e non lo conduce nemmeno personalmente alla stanza di Zlatan. “Conosce la strada”, butta lì, palesemente al settimo cielo, lasciandolo solo col fedele e silenzioso Eloy alle spalle. José sa che dovrebbe sentirsi fiducioso anche lui – Blasi conosce il proprio mestiere e conosce i propri pazienti, sicuramente se ha mostrato una tale contentezza è perché sa di poterlo fare senza pericolo di disillusione – ma tutto ciò che riesce a fare è mordersi le labbra con forza spaventosa, fin quasi a farsi male davvero, quando entra in camera e trova Zlatan rannicchiato sul letto, le ginocchia al petto e il mento affondato sugli avambracci, lo sguardo perso nel vuoto di fronte a sé e le labbra serrate e tese.
- Zlatan? – lo chiama piano, mentre Eloy chiude la porta alle loro spalle, - Come stai?
- Avevo fatto un disegno per te. – risponde immediatamente Zlatan, senza spostarsi di un millimetro dalla posizione in cui l’ha trovato entrando. – Era un disegno bellissimo.
José deglutisce, avvicinandosi ed accomodandosi sul materasso accanto a lui.
- Grazie. – dice, abbozzando un sorriso, - Me lo fai vedere?
- Non ce l’ho più. – scatta subito lui, in un ringhio sommesso, - L’ho stracciato in mille pezzi e me lo sono mangiato.
José spalanca gli occhi.
- L’hai…-
- L’ho buttato via. – sospira Zlatan, - Se l’avessi mangiato tutto e mi ci fossi soffocato, però, forse ti avrebbero chiamato e tu saresti tornato. È che ci ho pensato solo dopo averlo buttato via, che potevo farlo.
- Zlatan… - lo chiama ancora, stendendo una mano sul materasso per avvicinarsi circospetto, sollevandola e cercando la sua spalla solo all’ultimo momento, - non fare così.
- Non sto facendo in nessun modo! – si lamenta lui, chiudendo gli occhi e ritraendosi di scatto, quasi violentemente, - Io non faccio mai in nessun modo, io sto chiuso qua dentro per tutto il tempo! Sei tu che fai cose, sei tu che te ne vai, mi avevi detto che non te ne saresti andato!
- Non sono andato da nessuna parte! – cerca di spiegarsi José, avvicinandosi ancora. Vorrebbe i suoi occhi, ma Zlatan li tiene chiusi e non glieli concede. José lo scrolla un po’, ma non ottiene niente, per cui, semplicemente, continua a parlare. – Avevo solo qualche questione da risolvere in un altro posto, Zlatan, ma non ho mai pensato di non tornare più. Io non ti abbandonerò.
- Anche Zay andava sempre via. – prosegue Zlatan, come se di quanto José ha detto fino ad ora non avesse sentito nemmeno una parola, - Non ti ho più parlato di lui, ti ho parlato di tante cose ma non di lui. – riflette, come realizzandolo all’improvviso. – Anche Zay se ne andava sempre. Tu sei uguale.
E José vorrebbe rispondere che sì, è vero, sono uguali, perché sono la stessa persona. Ma si ferma un attimo prima di dirlo ad alta voce, perché si rende conto che dirlo significherebbe ammettere che è vera anche la seconda parte del discorso di Zlatan: l’ha sempre abbandonato. Continua a farlo.
- Senti. – sospira quindi, - Guardami, per favore.
Zlatan solleva gli occhi nei suoi e José, scrutandoli nel profondo, trova una tristezza talmente grande da non poter essere sopportata da una sola persona. Non è sicuro nemmeno che sarebbe in grado di sopportarne la metà, se Zlatan gli concedesse di prenderne un po’. Ma non avviene e non avverrà, José ne è consapevole, Zlatan è geloso della sua tristezza come lo è stato di lui, come lo è stato di sua moglie, come lo è stato dei suoi figli, come lo è stato della sua maglia e del suo posto in squadra, come lo è stato di ogni cosa che considerasse propria. È per questo che s’è diviso in tre ed ha relegato tutta quella tristezza alla parte più profonda e indifesa di sé, per nasconderla dove nessuno sarebbe mai riuscito a toccarla, per sottrarla agli sguardi ed alle mani altrui, per conservarla eternamente.
- Non dirlo adesso. – sussurra Zlatan, così vicino alle sue labbra che José deve trattenersi con tutte le proprie forze per non annullare quei pochi centimetri che li separano e sfiorarlo, - Non l’hai mai detto, non dirlo adesso. – e nei suoi occhi c’è una consapevolezza del tutto diversa rispetto a quella che è possibile vedere in genere. Nei suoi occhi c’è Zlatan, quello vero, José lo riconosce e per poco non scoppia in lacrime. Ma obbedisce, e non lo dice.
- …me ne sono andato solo per un giorno. – dice invece, sorridendo un po’, - E puoi stare sicuro che le altre volte in cui me ne andrò saranno di pari lunghezza o anche più brevi, mai più lunghe. Non ti abbandonerò. Il tuo Zay ha sbagliato un mucchio di cose, sai?, ma io sono diverso. Io sono Mou.
E la consapevolezza negli occhi di Zlatan si scioglie e si perde scivolando via tutta insieme, lasciando posto a quel brillio infantile e a quel sorriso allegro che contraddistinguono l’ultimo Zlatan che ha conosciuto, quello che disegna fuochi d’artificio coi pastelli a cera perché guardandoli da un’altra prospettiva possano sembrare fiori.
- Forse parlare ancora di Zay non serve. – ridacchia un po’ Zlatan, allungando una mano per recuperare l’album da disegno, - Non è vero che ho buttato via il foglio. – continua con un sorriso furbo, - L’ho conservato. Vuoi vederlo?
José annuisce e lascia scorrere gli occhi sul disegno di Zlatan. C’è lui – lo riconosce dal naso, ed è divertente, perché Zlatan ci ha sempre scherzato su ed è bello vedere che non ha perso la voglia di farlo anche ora che è così diverso – che tende la mano verso un uomo di spalle, che si allontana. Dall’altro lato della pagina, uno Zlatan più felice stringe la mano di un uomo identico, solo che stavolta l’uomo non va via.
- Sono la stessa persona. – ride un po’ José, le dita che scivolano sul foglio, solleticate dai segni in rilievo lasciati dai pastelli a cera.
- Non lo sono. – dice Zlatan. La sua voce è diversa. José solleva gli occhi nei suoi e trova diversi anche quelli.
- Sei-
- Portoghese. – lo interrompe Zlatan, lui, o chiunque sia la persona che gli sta parlando adesso. E – José se ne accorge all’improvviso, non l’ha notato, l’altra volta – gli parla in spagnolo. – Lo stai facendo di nuovo.
- Non sto facendo niente. – ribatte José, aggrottando le sopracciglia, - Sei tu che lo stai facendo di nuovo, ti stai occupando di cose che non ti riguardano.
- Il Piccolo mi riguarda. – risponde l’altro, alzandosi in piedi e chiudendo l’album, per poi riporlo con cura sulla scrivania. – Ti diverti, vero? – continua con un sorriso cattivo, - Ti piace essere sempre al centro dell’attenzione, ti piace che Zlatan non riesca a dimenticarti. Se ci riuscisse tu poi ti sentiresti inutile, ho ragione? Ti sentiresti vuoto. Vivi solo perché gli altri parlano di te, perché si ricordano di te. Tu non sei niente, tu sei aria, sei aria cattiva. Sei come una malattia, nessuno ti vede, nessuno ti sente, finché non fai male.
- Io non voglio fare del male a Zlatan. – insiste José, ostinato, - Sei tu che lo stai distruggendo.
- Io lo sto proteggendo. – precisa lui, il ghigno che si allarga e si fa perfino più spaventoso, - Sei tu che l’hai distrutto una volta e stai per distruggerlo ancora. Devi lasciarlo andare. Non ti vuole più.
José socchiude gli occhi e ripensa alle parole del suo presidente.
- C’è un tempo per lasciare andare, ce n’è un altro per stringere e tirare indietro. Questo è il tempo di stringere e tirare indietro. – e poi sorride, e il suo sorriso non differisce poi in molto rispetto a quello della persona che gli sta di fronte. – Lo porterò via da qui. Tu non potrai più toccarlo.
Zlatan – o quello che ne resta – lo guarda a lungo, inespressivo. Poi sorride ancora.
- Tempo di stringere. – sibila.
Eloy irrompe nella stanza appena in tempo per evitare che le sue mani grandi si chiudano come tenaglie attorno al collo di José.

*

Si lascia cullare dalla voce di Tami così a lungo che perde il senso del suo discorso, e dopo un po’ le sue parole smettono di essere entità singole e ben suddivise con un significato proprio, per fondersi in un unico brusio che gli ricorda quelle colonne sonore discrete e piacevoli che i registi alle volte mettono in sottofondo durante le scene cardine, quelle in cui la melodia non deve avere un ruolo da protagonista ma da semplice accompagnatrice, quelle di cui non riconosci appieno la bellezza finché non le isoli rispetto alla scena che riempiono, e magari le riascolti due, tre, quattro, cinque volte, e ne scopri le particolarità, i saliscendi di tono, la preponderanza di alcune note rispetto ad altre. Impari a conoscerle, e la prossima volta che le risentirai insinuarsi dentro la tua mente di fronte a quella specifica scena di quello specifico film, sarai in grado di apprezzarle molto più profondamente, perché saranno tue. La voce di Tami è questo, per lui, l’accompagnamento costante senza il quale le scene che compongono la sua vita sarebbero vuote. Quello che ha imparato a conoscere piano, lentamente, quello di cui ricorda alla perfezione ogni nota. Di Zlatan non può dire tanto – e probabilmente è anche per questo che gli sembra di- tenere a lui? volergli bene? amarlo? che espressione si usa, in queste situazioni? – più di quanto il suo fisico non sia in grado di tollerare.
- Ti capita mai… - mormora, praticamente in dormiveglia, mentre Tami ride un po’ dall’altro lato della cornetta, - di trovarti di fronte ad una causa persa e di non avere la benché minima speranza di riuscire?
- Mi è capitato, una volta. – risponde lei, la sua voce tintinna come un campanello. – Ho conosciuto un uomo ostinato.
José sorride, gli occhi chiusi.
- E che hai fatto?
- Sono stata più ostinata di lui. – risponde lei, - Mi manchi, Zay. – aggiunge poi in un sospiro stremato. – Buonanotte.
José sta già dormendo. Il telefono continua a diffondere nell’aria il suono secco e penetrante del segnale di linea libera, e continuerà a farlo per tutta la notte.

*

Eloy non sembra apprezzare il suo trovarsi già lì il giorno dopo, come non fosse successo niente.
- Mister, questa cosa la sta prendendo nel modo sbagliato. – gli fa notare con un sospiro, e José ringhia.
- È un vizio degli spagnoli, quello di ficcare il naso nelle faccende che non li riguardano per niente? – borbotta, proseguendo spedito lungo il corridoio della clinica che ormai conosce a memoria, senza nemmeno passare da Blasi per un saluto.
- È che mi dispiacerebbe per lei e per Zlatan, se finisse tutto male. – motiva la guardia di sicurezza con una scrollata di spalle.
- Sì, grazie per il sostegno. – risponde acido José, - Ce la caveremo.
- No. – lo ferma Eloy, e quando capisce che José non sembra intenzionato a starlo a sentire, allunga una mano e la pianta contro lo stipite della porta della camera di Zlatan, deciso, tanto veloce che per poco José non se lo ritrova a due centimetri dal naso. Si volta a guardarlo come l’avesse appena insultato, ma Eloy regge l’occhiata senza fare una piega, fissandolo gelido di rimando. – Io parlo poco, Mister Mourinho, per questo dovrebbe ascoltarmi, quando lo faccio.
José si lascia andare ad un ghigno irritato, piantando una mano sul fianco.
- Pensavo fossi una persona molto più umile, sai? Mi sbagliavo. – commenta.
- Già. – annuisce Eloy con un sorriso quasi timido, - Alle volte l’apparenza inganna. Il fatto che io sia bravo a fare il mio lavoro non mi impedisce di essere in grado di mandare a fanculo la professionalità e dire le cose come stanno, per una volta.
- E questo ti sembra un comportamento onesto? – ritorce con una mezza risata. Eloy scrolla nuovamente le spalle.
- Non ne ho idea e non m’interessa. Soprattutto, non accetterò una paternale sul punto proprio da lei, Mister Mourinho. E non le chiederò nemmeno se ha intenzione di ascoltarmi, perché la forzerò a farlo, se necessario. Chiaro? – José incrocia le braccia sul petto e fa per concedere un “d’accordo” che riporterebbe il loro confronto su un livello quantomeno paritario, ma Eloy non mentiva quando parlava di forzarlo, e di sicuro non ha bisogno di una sua concessione per riprendere a parlare. – Lei non ha capito un accidenti della situazione in cui si trova. – comincia la guardia, - E non ha idea dei disastri che potrebbe causare a Zlatan se continua a fare così di testa sua. Lavoro qui da anni, so di cosa sto parlando.
- Ed esattamente, - lo interrompe José con aria cupa, spostando il peso del corpo da un piede all’altro, - in cosa starei sbagliando così grossolanamente?
Eloy abbassa lievemente lo sguardo, e José non riesce a capire se sia in difficoltà nel trovare qualcosa da dire o solo nel trovare il modo adatto in cui dirlo.
- È una questione di tempi, Mister Mourinho, lei non li sta rispettando.
- I tempi variano da persona a persona, Eloy, ed io conosco i tempi di Zlatan.
- Lei non conosce Zlatan! – scatta la guardia di sicurezza, risollevando repentinamente lo sguardo, - Io probabilmente non ho idea di chi o cosa fosse Zlatan prima di impazzire, ma ho vissuto a stretto contatto con lui per gli ultimi tre mesi, e lei non ha ancora capito che questa persona è una persona diversa rispetto a quella che conosceva un tempo! Non può comportarsi con lui nello stesso modo in cui si comportava prima! Non può usare gli stessi tempi! – si ferma, inspira ed espira, cercando di calmarsi. – Questo Zlatan ha dei tempi diversi, e lei deve rispettarli, Mister Mourinho, o da questa storia non verrà fuori mai niente di buono. La prego, mi ascolti.
José morde con forza l’interno di una guancia, reggendo l’occhiata adesso quasi triste di Eloy senza cambiare posizione né mostrare segni di cedimento.
- Hai finito? – chiede quindi. Le spalle di Eloy si incurvano all’improvviso, come se qualcosa l’avesse inaspettatamente privato di tutta la sua forza.
- Sì, ho finito, Mister. Ho finito. – biascica, il tono di chi sa di aver finito non perché ha portato a termine la propria missione, ma perché l’ha inesorabilmente fallita.
José aspetta che si sia allontanato lungo il corridoio, prima di aprire la porta ed entrare.

*

Zlatan si sta mangiando le unghie, quando si volta di scatto, dopo averlo sentito entrare. José lo guarda con sincero stupore, a lungo, perché le mani di Zlatan sono sempre state fra le più curate avesse mai visto addosso a un uomo, le unghie sempre pari, mai rovinate, sempre pulite e lucide. Non aveva mani delicate – la pelle, soprattutto sui polpastrelli, era ruvida e opponeva un attrito piacevolissimo alle carezze lente delle sue mani – ma non per questo le aveva mai trovate appena di un punto meno che perfette. Per un attimo, schiude le labbra e fa per commentare “e questo vizio da dove spunta?”. Poi, controvoglia, ricorda le parole di Eloy e realizza che questo Zlatan potrebbe benissimo rispondergli che mangia le unghie da quando è nato, perciò lascia perdere e lo saluta con un cenno del capo, nervoso.
- Sei tornato.
La voce di Zlatan risuona all’interno della stanza piccola e silenziosa, venata da un tale sincero stupore da sembrare quasi infantile. José annuisce, avvicinandosi circospetto.
- So che non è colpa tua, quello che è successo. – si affretta ad anticiparlo. Zlatan guarda altrove, si morde un labbro, lascia ricadere le braccia lungo i fianchi. È in piedi contro la parete, talmente schiacciato addosso al muro da sembrare una bestiolina in trappola. La maglietta bianca sembra appesa alle ossa appuntite delle sue spalle. È ancora troppo magro. – Vieni qui, dai.
- Io so che è stata colpa mia. – risponde Zlatan, scuotendo svelto il capo e schiacciandosi con maggiore forza contro il muro, serrando le braccia dietro la schiena come nel tentativo di tenerle imprigionate, per impedir loro di nuocere in alcun modo, - Avevo promesso che l’avrei tenuto buono. E invece, fra tutti, proprio a te…
- Ascoltami. – lo interrompe José, e avanza di un passo. Per tutta risposta, Zlatan indietreggia, anche se il suo non è un vero indietreggiare, dato che non ne ha lo spazio. José lo osserva, così sottile, la pelle chiarissima sembra quasi trasparente nella penombra della stanza, e i suoi occhi – un tempo piccoli e sottili – paiono enormi sul viso scavato. – Non fare così, per favore. Siamo amici, vero?
- Io ti ho fatto del male. – puntualizza Zlatan, - Sarei capace di farlo ancora.
José lo osserva staccarsi dal muro di scatto e cominciare a vagare per la stanza in cerchi dapprima piccoli e nervosi, poi sempre più ampi e confusi.
- Zlatan-
- Non volevo che tornassi. – biascica lui, le mani fra i capelli che si scompigliano tutti e cadono subito a coprirgli la fronte, - Avevo detto a Eloy di non portarti più qui. Il dottore dice che sto cominciando a stare meglio, a me sembra di impazzire sempre di più. – si ferma all’improvviso, lo guarda come lo vedesse per la prima volta. – Io sono innamorato. – dice a bassa voce, - Io sono pazzo. Tu non dovevi tornare.
José sospira, cercando di andargli incontro. Zlatan non dice una parola, ma ogni passo di José in avanti si traduce in due suoi passi verso la parete alle sue spalle, e dopo qualche secondo José capisce che non caverà niente di buono da quello strano balletto, e decide di fermarsi. Zlatan non fa lo stesso: continua a muoversi fino a toccare nuovamente il muro con tutta la schiena, sembra che in questa posizione – le braccia sempre nascoste, strette come fossero annodate – si senta più tranquillo.
- Non ce l’ho con te. – cerca di rasserenarlo.
- Io sì. – risponde subito lui, deglutendo a fatica, - Io ce l’ho con me. Devo aver fatto qualcosa di simile anche a Zay- sì, ecco, è sicuramente per questo che lui mi ha abbandonato. Io impazzisco e faccio cose, devo aver fatto male anche a Zay.
- Non hai mai fatto niente a Zay. – gli spiega José, piano, sorridendo un po’, - È Zay che ha sbagliato tutto e non ha capito niente. Ma tu devi fidarti di me, Zlatan.
- Io mi fido di te! – singhiozza lui, e si morde un labbro perché non vuole piangere, - È di me che non mi fido! Tu devi andare via, ti prego, vai via… - mormora confusamente, abbassando lo sguardo. I capelli scivolano di nuovo di fronte al suo viso, nascondendo la sua espressione. José non riesce a immaginare quale possa essere, è davvero la prima volta che si sente così perso di fronte a una persona che è sicuro di conoscere tanto bene.
Deglutisce, inumidendosi le labbra.
- Posso avvicinarmi? – chiede timoroso.
- No. – risponde Zlatan, deciso. – Sì… no. No.
- Hai detto sì. – gli fa notare José, avvicinandosi di un passo.
- Ho detto più volte no. – precisa Zlatan, stringendosi nelle spalle, - Fermati, per favore.
- No. – scuote il capo lui, e si ferma solo quando è tanto vicino da poter recuperare gli occhi di Zlatan coi propri, per costringerlo a ricambiare il suo sguardo senza nemmeno sfiorarlo. Ha gli occhi talmente lucidi e gonfi di pianto che José avrebbe voglia di stringerselo contro tanto forte da fargli male, per potergli permettere di liberarsi. – Farei qualsiasi cosa, per te. – dice in un soffio, sollevando un braccio ed accarezzandogli lievissimo una guancia, - Manderei a fanculo tutto- ho una moglie e due figli, ho un lavoro, ho una vita stupenda. Dimmi cosa devo fare. – Zlatan si morde un labbro con una forza tale che José ha paura possa spaccarselo. Per questo sposta le dita sul contorno della sua bocca, sfiorandolo leggermente in modo da costringerlo ad allentare la presa. – Tu dimmi solo cosa devo fare, e io lo faccio. Sono stanco, Zlatan. Non so più che decisione prendere, perciò decidi tu.
Le spalle di Zlatan si sciolgono, le sue mani scivolano lungo i suoi fianchi e José le sente risalire lungo il proprio petto con una lentezza spaventosa. Si stanno scambiando uno sguardo vuoto e stanco che non vuol dire niente, le uniche cose che stanno parlando, adesso, sono le mani di Zlatan. Se saliranno fino al suo collo e lo stringeranno con forza, sarà tutto finito. Ma le mani si fermano da qualche parte all’altezza del colletto della sua camicia, lo stringono in uno spasmo terrorizzato, si chiudono attorno al cotone e tirano un po’. Strattonato in avanti, José schiaccia tutto il proprio corpo contro quello di Zlatan, e sente il suo viso nascondersi svelto nell’incavo del proprio collo – appena in tempo per raccoglierne le lacrime.
- Portami via. – mormora Zlatan sulla sua pelle, le labbra umide e la voce impastata, - Portami via da qui.
José non deve nemmeno rispondere.

*

La mano di Zlatan, stretta dentro la sua come quella di un bambino perso e un po’ impaurito, è identica a quella che era prima che andasse via da Milano. Scivolando silenziosamente lungo il corridoio della clinica – nessuno fa caso a loro, nessuno li nota, ormai è normale vederli andare a zonzo per quelle stanze, come fossero a casa propria, anche senza la costante presenza di Eloy – José lo stringe con forza a sé e Zlatan si lascia coccolare e blandire come non avesse nemmeno cinque anni. Resta in silenzio, e tocca a José riempirgli le orecchie di rassicurazioni prive di senso, gli parla un po’ in spagnolo, un po’ in portoghese, un po’ in italiano. Potesse, gli parlerebbe anche in svedese, ma è abbastanza sicuro che Zlatan non coglierebbe neanche una parola, così come in realtà non ne sta cogliendo una nemmeno adesso, preferendo concentrarsi sul flusso costante e continuo delle sue parole che lo cullano come una ninna nanna, conducendolo fino all’auto come la melodia del pifferaio di Hamelin. Curiosamente, fuori piove, e mentre José pensa ai topi della fiaba, morti affogati fra i flutti del fiume Weser, stringe i denti e cerca di non pensare che un po’ sembra un pifferaio anche lui, pure se l’ultima cosa che vuole è portare Zlatan verso la morte.
Quando mette in moto, schiaccia il piede sull’acceleratore e lascia che sia il suo istinto a condurlo. Ormai conosce bene Barcellona, ma non può dire altrettanto dei dintorni. Spera soltanto che la strada che ha imboccato lo porti il più lontano possibile dalla città.
Zlatan sonnecchia, al suo fianco. I suoi occhi scuri sono seminascosti dalle palpebre quasi chiuse e pesanti, le labbra strette in una smorfia vagamente nervosa, gli arti rilassati lungo i fianchi del sedile. Osserva le gocce di pioggia scivolare leste lungo la superficie liscia del finestrino, ne segue le tracce, sorride appena quando due gocce s’incontrano e le sue sopracciglia si inarcano infantilmente quando il gocciolone risultante si separa in due o più parti.
- Non resta mai intero niente… - mormora deluso, - Non c’è niente che duri per sempre.
- Noi possiamo. – nega deciso José, guardando fisso la strada che si allunga infinita davanti a sé. Zlatan sorride ironico.
- Secondo tentativo. E se falliamo, non c’è due senza tre. – bisbiglia.
- Cosa? – chiede José, ma Zlatan scuote il capo.
- Niente. – risponde, - Grazie per avermi portato via, Mou. Zay. José.
José si volta a guadarlo, spalancando gli occhi con aria stupita.
- Come- - accenna, ma Zlatan ride a bassa voce e gli impedisce di concludere.
- Non so cosa sto dicendo. – dice, - Sono confuso. E poi c’è la pioggia. Quando pioveva, io e Zay ci vedevamo spesso. Non so perché, mi diceva che la pioggia gli ricordava me, e che quindi quando pioveva aveva voglia di baciarmi.
José sorride. Sta cominciando a capire come funzioni la testa di Zlatan – ogni tanto riemergono parti di un se stesso più antico, ogni tanto tutte le parti esistenti si confondono mescolandosi in qualcosa di unico. Non è semplice come gliel’aveva descritto il dottor Blasi, ma d’altronde da Zlatan non avrebbe mai potuto aspettarsi nulla di diverso.
- Sfuggente e spietata. – racconta, - È per questo che gliela ricordavi. La pioggia cade ovunque, non risparmia niente, ma se solo provi a catturarla scivola via. Perché è acqua.
- Puoi sempre raccoglierla in una bacinella. – gli fa notare Zlatan, tornando a guardare di fuori, - Zay non mi ha mai raccolto.
- È stato uno dei suoi numerosi errori. – risponde lui in un ringhio sommesso, - Non devi più pensarci, da oggi in poi sarà tutto diverso.
- Niente è mai davvero diverso. – le parole scivolano impalpabili fra le labbra di Zlatan, che non guarda più nulla: ha gli occhi chiusi e parla in un mormorio distante, - A meno che non ci sia di mezzo il sangue. Quello sì che cambia tutto. Ci hai mai fatto caso? Quando nasce un bambino, lo fa in mezzo al sangue. Quando le ragazze si sviluppano, lo fanno sanguinando. Tutti i più grandi cambiamenti della vita di una persona sono battezzati col sangue- e poi ci sono i cambiamenti che dovrebbero portarti a sanguinare e invece non lo fanno. Tipo quando ti spezzano il cuore in due, e tu sei l’unico che se ne accorge.
- Zlatan-
- Ma tu non devi scusarti. – la sua voce è sempre più distante, le sue labbra si muovono appena, sta già praticamente dormendo, - Non è colpa tua, tu non c’entri. E non è nemmeno colpa di Zay, sono io che non ho mai capito niente. Devo avergli fatto tanto male, devo averlo deluso tantissimo. Lui non abbandonava mai nessuno senza un motivo, sai? Quindi devo avergli dato un motivo veramente valido, per costringerlo a lasciarmi da solo. – si interrompe, aggrottando le sopracciglia, - Ho mal di testa e ho sonno. Questa era l’ora, mi sa. Il dottor Blasi si arrabbierà. Avrei dovuto chiedergli una scorta di flaconi, prima di andare via, lui dice sempre che le medicine sono importanti.
José pianta il piede sul pedale del freno e si volta a guardarlo. Zlatan, assicurato al sedile con la cintura di sicurezza, si muove appena in avanti. Il suo corpo è talmente molle da sembrare privo di vita.
- Zlatan. – lo chiama a bassa voce, slacciando la propria cintura e sporgendosi verso di lui, - Prendevi delle medicine? – e poi si morde un labbro, imprecando sottovoce, - Che testa di cazzo. Che testa di cazzo, Cristo, quando mai s’è vista una persona in queste condizioni che non prenda delle medicine?! – inspira ed espira profondamente. Zlatan schiude appena gli occhi per guardarlo. – Zlatan, come ti senti?
- Stanco. – risponde lui con un sorriso minuscolo, - Però sto bene. Anche se è tutto confuso. Mi ricordi una persona, sai?
- Sì. – risponde subito lui, accarezzandogli il viso gelido, - Sì, lo so. Anche se odio ricordartelo. Non puoi dimenticarlo e basta?
- Tu dimentichi chi hai amato in passato? – chiede Zlatan con un filo di voce, appoggiandosi contro la sua mano, - Io non sono capace.
- Nemmeno io. Cristo- - gli viene da piangere, ma sa di non poterselo permettere, - Ti prego, rimani con me.
- Sono con te. – annuisce Zlatan, - Io non vado da nessuna parte. Però tu non vuoi me, io l’ho capito, sai?
- A me vai benissimo come sei. Cazzo, mi vai benissimo come sei, ti prego, non dire stronzate.
- Tu non sei Zay. – sorride Zlatan, - Io non sono Zlatan. Siamo tutti sbagliati, non potrebbe mai funzionare. Ma non riesco a dirti che dovresti tornartene a casa tua, perché sono egoista come Zlatan. Lui è qui e sta urlando qualcosa, ma io non te lo posso lasciare vedere. Perché tu non sei Zay.
- Ti prego… - continua José, la voce rotta, - Devi farmelo vedere. Io devo parlare con lui. Ho bisogno… devo dirgli qualcosa, devi lasciarmi parlare con lui.
- Non posso lasciarti parlare con lui. – ridacchia un po’ Zlatan, scuotendo il capo, - Zlatan vuole il suo Zay. È quello che lui cercava di dirti, gli spezzi il cuore. Zay, in questo momento, non si comporterebbe come ti stai comportando tu. È una persona diversa. È quella, la persona che Zlatan vuole. Tu non puoi dargli quella persona, quindi io non posso darti Zlatan. Lui non è mio e non è tuo, è solo di Zay.
José abbassa lo sguardo. Si sente sconfitto come non è mai stato in vita sua. Ha perso una quantità incredibile di cose – molte per negligenza, alcune per sfortuna, altre ancora per ostinazione – ma nulla gli sembra grave, a ricordarla adesso, come quello che sta perdendo in questo momento. Zlatan gli sta scivolando via dalle mani, e lui non riesce a trovare un modo di trattenerlo.
- Adesso… - comincia, nascondendo le lacrime sotto l’onda di capelli che gli cade sulla fronte ora che guarda in basso, - Adesso piantala di fare la primadonna. – ringhia. Le lacrime cadono, non ne scendono altre. José lo guarda fisso, adesso, e Zlatan ricambia l’occhiata con stupore. – C’è troppo poco spazio, qui, per contenere il tuo ego. Quindi ridimensionalo.
Il secondo di silenzio che segue le sue parole si allunga in un attimo infinito dilatato nel buio che circonda l’automobile. José non saprebbe più nemmeno dire dove si trova, né sa se, nelle condizioni in cui sono, lui e Zlatan potranno arrivare vivi a domattina, mentre il cielo di Spagna rovescia loro addosso tutta la sua furia.
- …Zay. – lo chiama Zlatan, e per la prima volta da quando è lì la sua voce suona familiare alle sue orecchie. – Zay.
- Avanti. – insiste lui, aggrottando le sopracciglia, - Sono qui, adesso. Dimmi quello che mi devi dire, o avrò fatto un viaggio inutile. E non mi piacciono i viaggi inutili, zingaro, lo sai bene.
- Zay… - boccheggia Zlatan. I suoi occhi saettano confusi sul suo viso, sono vivi e brillanti, umidi, lucidi, José li riconosce. Li riconosce, cazzo, li riconosce. – Zay…
- Cos’è, adesso sai solo ripetere il mio nome? Bella storia. La prossima volta, mandami una lettera.
Zlatan apre la bocca a vuoto ancora un paio di volte, e poi le sue dita si stringono attorno al braccio di José, fin quasi a fargli male.
- Hanno ammazzato Helena e i bambini. – confessa, - Me li hanno ammazzati lì, senza un cazzo di motivo valido, solo perché me n’ero andato da Milano. Mi hanno ammazzato i bambini. I miei figli. Hanno ammazzato Helena.
- E stai facendo la lagna per questo da mesi. – continua José, duro, con una smorfia annoiata, - Davvero, cresci un po’, Cristo santo. Non stiamo tutti qui a fare da spugna per le tue lacrime.
- E tu non ti facevi più sentire. Ti ho cercato, non hai mai risposto. Volevo parlarti.
- Io non volevo parlare con te, mi sembra ovvio. Che cazzo volevi, che mollassi tutta la mia vita per venire a salvarti dal precipizio? Sii serio, sei un giocatore come tutti gli altri, e niente di più. – e si morde un labbro, e Zlatan piange, sta piangendo così tanto, José non ce la fa più.
- Helena era incinta. – confessa ancora in un filo di voce, - Aspettava un altro bambino. Era… un altro bambino, e hanno ammazzato anche lui.
E la voglia di urlare gli squarcia i polmoni e lo stomaco, José non si è mai sentito così, come lo stessero aprendo in due per rivoltarlo al contrario. Brucia tutto, anche se fa freddo, ma stringe i denti e si stringe anche la presa della mano di Zlatan attorno al suo braccio.
- Bene, ora hai finito di lagnarti? – chiede con aria supponente, - Perché la squadra ha bisogno di te in forma, Zlatan, ed io ho bisogno di te in forma. – lo rimprovera come lo stesse rimproverando per le lamentele dopo una partita andata male, e non riesce a capire se questa sia la strada giusta per riportarlo in sé o solo quella più breve per condannarlo a morte. – Quindi datti una mossa e piantala. Ho esaurito la mia pazienza.
La voce di Zlatan si spezza in un singhiozzo che gli rivolta le viscere.
- Abbracciami. – dice piangendo, – Scusa. Abbracciami.
José scoppia a piangere a propria volta e si china su di lui, stringendolo tanto forte da fargli mancare il respiro, da farsi mancare il respiro, da togliere il respiro a tutto il resto del mondo. Sono ancora lì, senz’aria, quando li trovano, due minuti dopo.

*

- Ma i fiori… non saranno eccessivi? – chiede Davide, allargando con un dito il colletto della camicia mentre stringe l’enorme mazzo di rose al petto con l’altro braccio, nel tentativo di non lasciarlo rovinare in terra.
- Be’, se fossero per il mister, lo sarebbero. – ridacchia Mario, tirandogli una spintarella giocosa contro un fianco, - Ma visto che sono per la signora… - e non fa in tempo a finire, visto che la signora appare sulla soglia della porta con un sorriso allegro e li saluta entrambi con entusiasmo.
- Che carini siete stati a passare di qui! – cinguetta Matilde, - E che bei fiori!
- Per lei! – risponde prontamente Davide, tendendole il mazzo e liberandosene anche con un certo sollievo.
- Disturbiamo? – chiede Mario con un sorriso sereno, mentre Matilde si sistema i fiori contro il petto.
- Ma no, assolutamente! – risponde, scostandosi dalla soglia per lasciarli passare, - Prego, prego. José è in giardino. – dice, accennando alla portafinestra che riempie un’intera parete della sala che s’intravede già dall’ingresso, - Andate, conoscete la strada.
La strada la conoscono sì, sono mesi che fanno la spola dalla Pinetina a Villa Ratti, o da casa a Villa Ratti, sperando sempre in buone nuove che arrivano a pezzetti, caute, sotto forma di ipotesi che non si concretizzano mai.
- Se non c’è neanche stavolta, - avverte Davide, la voce che trema, - urlo. Lo giuro.
- Ssh. – lo calma Mario, stringendogli distrattamente una mano. E poi oltrepassano la portafinestra e il giardino si stende attorno a loro, tanto bello da sembrare finto, e José è seduto su una sdraio, e Zlatan è in costume da bagno e dondola i piedi nell’acqua tiepida della piscina, lì seduto a bordo vasca, e qualcosa nei loro petti si scioglie, scivola giù fino allo stomaco e poi risale in gola, tant’è che quando Davide parla lo fa dopo un mezzo uggiolio che non è altro che l’espressione sonora del suo cuore che si alleggerisce.
- …è uscito dalla stanza. – mormora, - È- è uscito davvero.
Mario non riesce a dire nulla; vorrebbe, ma l’intenzione stessa si perde e svanisce quando Zlatan solleva gli occhi su di loro e li accarezza lievissimo con uno sguardo che sa d’impazienza e paura insieme. José osserva la scena tenendosi quasi in disparte, come sempre quando c’è qualche merito da prendersi e tutto va bene. Lascia spazio, e Zlatan tira fuori le gambe dall’acqua, mettendosi in piedi e restando lì fermo, le braccia lungo i fianchi. Almeno fino a quando non si decide a spalancarle.
- Insomma, - borbotta, - non sono mica fatto di cristallo.
L’attimo dopo, lo stanno già investendo di abbracci e parole in un intreccio confuso all’interno del quale non si capisce niente. Matilde, dalla sala, ride e avverte che aggiungerà due posti a tavola, visto che è quasi ora di pranzo, e José annuisce bonario. Quando Mario gli si avvicina, lasciando a Davide un po’ di tempo per coccolare e farsi coccolare come vuole, sorride anche a lui.
- Sembra in forma. – commenta con un sorrisino furbo.
- Io non fallisco mai. – risponde José, supponente, accarezzandogli la testa rasata in un gesto paterno, - Che cavolo ti sei scritto in testa, stavolta, benedetto ragazzo? – chiede con aria esasperata, sollevandosi lievemente sulle punte per sbirciare.
Victory. – risponde orgoglioso Mario, - Guarda che bello. – ridacchia, piegando un po’ il capo per permettergli di osservare più attentamente.
- Bello. – concorda José, ridendo a propria volta, - Propiziatorio.
Celebrativo. – precisa lui con una linguaccia infantile, - Non ho mai dubitato.
- Quand’è che torna in squadra? – ride Davide, senza staccarsi un secondo dal fianco di Zlatan, che scuote il capo, vagamente esasperato.
- Perché non chiederlo direttamente a me, dico io? – si lagna, - Torno il mese prossimo, bambino. – prosegue, ignorando José che si lamenta perché non ha il diritto di rubare soprannomi che lui avrebbe fatto meglio a brevettare quand’era in tempo, - Stiamo diminuendo il dosaggio delle pillole, poco a poco. Ma sto alla grande, José tra le altre cose mi fa anche allenare un sacco.
- Oh, sì, immagino. – commenta Mario, inarcando un sopracciglio.
- Ho una palestra al secondo piano. – sbotta José, tirandogli uno scappellotto neanche troppo affettuoso contro la nuca, - E bada a come parli in casa mia, teppista. Non ci metto niente a tenerti in panchina per tutto il resto della tua esistenza.
Ma poi Matilde appare sulla soglia della portafinestra ed informa tutti che gli antipasti sono già in tavola, e quindi il tempo per protestare si esaurisce in un secondo, che c’è da litigare per chi riuscirà ad accaparrarsi l’ultimo pomodoro ripieno – e questo è decisamente più importante.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: José/Zlatan, if you squint, ma non è neanche evidente.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Drabble, Slash (sempre if you squint).
- Storia di un paio di guanti dai colori poco raccomandabili.
Note: Giusto per dire che i guanti esistono davvero e io li amo con passione trascinante e mi viene sempre da ridere, quando ci penso, perché mi dico che anche se fossero un equipaggiamento standard dei giocatori del Barça (d’altronde, le sedie della panchina del Camp Nou sono nerazzurre *lolla*), ci vuole comunque un bel coraggio ad andare in campo – unico fra tutti i tuoi compagni – con un paio di guanti nerazzurri addosso mentre la tua nerazzurrissima ex squadra si gioca la qualificazione agli ottavi di Champions in quello stesso esatto momento a Milano XD Zlatan, ti vu bi.
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Gloves
5. I get the privilege to enlighten you (The Radio Dept.)


– Stai scherzando?
Josep lo guarda come fosse un criminale o qualcosa di addirittura peggiore, ma Zlatan non si scompone e risponde con un sorriso elusivo, inclinando appena il capo mentre sistema i parastinchi sotto i calzettoni.
– In che senso? – chiede con simulata innocenza, e Josep sbuffa, chinandosi a recuperare una delle sue mani e sollevandola all’altezza del viso, così che possa rendersi conto di possederla, in primo luogo, e di averla abbigliata con colori che non le competono in secondo.
– Questi. – precisa, scrollandogli la mano proprio davanti al naso, - Dimmi che stai scherzando.
Zlatan osserva i guanti nerazzurri con minimo interesse, e poi scuote le spalle.
– Sento freddo. – risponde a mo’ di giustificazione, e Josep sospira esasperato e si allontana, che tanto non c’è niente da fare con questa testa calda di uno zingaro svedese, e lui lo conosce da poco ma almeno questo l’ha capito.

– Allora non stavi scherzando! – ride José, e la sua voce, dall’altro capo del telefono, suona deliziosamente allegra. Zlatan sorride e pensa che è valsa la pena di allontanarsi per sentirle toccare queste note che, negli ultimi mesi, purtroppo s’erano un po’ perdute.
– Ero assolutamente serio. – risponde, – E poi, visto? Vi hanno portato fortuna.
– A te un po’ meno. – sorride più teneramente lui, – Eri praticamente invisibile in campo. Quasi mi dispiace. – ghigna divertito. Zlatan ghigna a propria volta.
– Questo perché in campo non c’ero. – risponde naturalmente.
José resta in silenzio, come non comprendesse ciò che ha appena detto.
– Ma ti ho visto, con gli stessi occhi con cui ho visto l’assist di tacco di Mario. Se è successa una co-- – si interrompe, riflette un paio di secondi e poi scoppia a ridere. – Sei un cretino. – stabilisce alla fine, – Va’ a dormire.
Zlatan sorride ancora, e prima di interrompere la conversazione risponde con una pernacchia.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: José/Zlatan, Bojan/Josep, accennato Davide/Mario.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash.
- Lunedì 31 Agosto 2009, Zlatan Ibrahimović fa il suo debutto nella Liga spagnola, con la sua nuova squadra, il Barcellona. Ad osservarlo dagli spalti, anche uno spettatore d'eccezione: José Mourinho, ex-allenatore e - purtroppo per Zlatan - ex anche in qualche altro scomodo senso. La sua presenza agita Zlatan, ma non gli impedisce di segnare il suo primo gol in maglia blaugrana, e proprio quando è convinto di aver dimostrato qualcosa a José, con quel gol - anche se non sa esattamente cosa - i suoi compagni gli fanno sapere che Mourinho è uscito dallo stadio dieci minuti prima della fine dell'incontro, motivo per cui ha perso il suo gol. Amareggiato, Zlatan non riesce a nascondere la sua delusione. Tanto quanto non riesce a nascondere la sua sorpresa quando, dopo la partita, José gli si avvicina e lo invita a salire in macchina con lui.
Note: Questa fanfic è ridicola per due motivi: prima di tutto, è ridicolmente lunga per quello che racconta; secondo poi, è stata scritta in un tempo ridicolmente breve (tre giorni, more or less) per quanto è lunga e per quelli che sono i miei ritmi di scrittura effettivi XD
Nonostante le sue caratteristiche di ridicolaggine intrinseca – e forse in parte anche per quelle – questa storia vuol dire molto, per me, anche perché è un missing moment *_* E io trovo adorabili i missing moment nell’universo RPF, perché non sapere cosa sia accaduto davvero ti dà modo di fingere che ciò che hai scritto tu sia accaduto davvero *balla felice* XDDD
Scherzi a parte, ho cercato di mantenermi il più possibile aderente alla realtà, sia per quanto riguarda ovviamente José che va a guardare Barcellona-Sporting Gijon, sia per quanto riguarda l’andamento della partita. In particolare, tipo, l’esultanza dopo il gol di Ibra l’ho riportata esattamente come è avvenuta nella realtà XD (La verità è che quell’esultanza mi è piaciuta da morire perché è stata di una tenerezza che a) mi ha conquistata, b) mi ha fatto pensare “ok, a questa gente posso lasciare Zlatan, so che se ne prenderanno cura <3” Pathetic!Fangirl iz pathetic, Y/Y? Y.)
E insomma \o/ Spero che nonostante la ridicolaggine di cui sopra questa fic possa esservi piaciuta.
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QUESTIONE DI ATTESE


Zlatan ha cambiato squadra per una questione di attese. Ricorda un periodo lontanissimo – doveva avere cinque, sei anni – in cui le attese erano ancora una gioia. Attendere il ritorno di papà dal lavoro sperando portasse con sé qualche dolcetto da rubacchiare prima di cena e dividere con Sapko, Sanela e Alexander subito dopo, attendere che la torta in forno fosse pronta, sbirciare attraverso lo sportello trasparente per osservarla gonfiarsi e dorarsi, e naturalmente Natale, aspettare i regali – il nuovo paio di scarpini o la nuova palla per sostituire quella dell’anno prima ormai distrutta.
Da quando gioca a calcio a livello professionale, Zlatan ha dimenticato il valore delle attese. Ha un talento e sa come metterlo a frutto, perciò – da quando gioca ai massimi livelli – naturalmente Zlatan è sempre in campo,naturalmente non manca un gol, naturalmente è la stella della squadra, ne è il regista, ne è il cuore, ne è l’essenza. È stato così all’Ajax come alla Juve come all’Inter, ed è durata – ed è andata bene – finché Zlatan un giorno non s’è svegliato con nelle narici l’odore della torta di sua madre, e sulla lingua il sapore dei dolcetti di suo padre, e sui polpastrelli la sensazione incredibilmente fisica di un paio di scarpini nuovi e lucidi da indossare subito per correre fuori e tirare quattro calci al pallone coi suoi fratelli.
Quando ha capito di cosa aveva bisogno, quando ha capito ciò che il suo corpo stava cercando di comunicargli, come prima cosa ha parlato con Helena. “Mi piace Milano”, ha detto lei, gli occhi lucidi, “I bambini sono felici”, ha aggiunto, e poi ha mormorato “Zlatan…” e la sua espressione non ha fatto una piega. Perciò Helena ha accettato la possibilità di trasferirsi. Quindi, Zlatan è andato dal presidente e gli ha chiesto se esistesse una minima possibilità di essere venduto. “No”, ha riso il presidente, e Zlatan ha riso assieme a lui. Poi hanno sorseggiato un po’ dei loro caffè e il presidente ha sospirato quietamente. “Vuoi andartene, Zlatan?”, ha chiesto con un sorriso indulgente. “Sì”, ha risposto lui, svelto, così da non lasciare che quello sguardo da padre bonario e intimamente un po’ deluso potesse costringerlo a cambiare idea e ritornare sui propri passi. “E dov’è che vuoi andare?” ha chiesto il presidente, e Zlatan ha fatto un paio di calcoli – chi può permettersi di acquistarmi? Dove sarebbe incerta la mia possibilità di entrare in campo? Dove potrei combattere almeno un po’, dove potrei ritrovare le mie attese? – e poi ha risposto. “Al Barça”, ha detto, annuendo deciso. Moratti ha annuito assieme a lui, soppesando la sua figura intera con lo sguardo prima di terminare il proprio caffè. “D’accordo, allora. Se il Barça ti vorrà, al Barça e solo al Barça ti venderò”.
La cosa successiva che ha fatto è stata mandare un messaggio a Mino. “Mettiti al lavoro”, gli ha detto. “È difficile, Ibra”, gli ha risposto lui. La sua replica è stata lapidaria: “rendilo possibile”. E no, da José non è andato. Perché sapeva che la sua, di risposta, sarebbe stata un no, e non era disposto ad ascoltarne uno, in quel momento, specie perché non stava chiedendo alcun permesso. Era una sua decisione e pretendeva che fosse rispettata, ma José era tanto bravo a rispettare a parole quanto poi falliva miseramente nel seguire coi fatti dichiarazioni simili, perciò sapeva che il suo sarebbe stato un no di quelli duri e secchi, senza scampo, conditi da scorrettezze e ripicche d’ogni tipo, e no, non era davvero disposto a tollerarla, una cosa simile. Perciò José è stato l’ultimo a saperlo, solo quando nasconderlo non era proprio più possibile. A ripensarci adesso gli viene da ridere – l’uomo con cui andava a letto da quasi un anno è stato l’ultimo a sapere che presto l’avrebbe abbandonato. L’uomo che amava da quasi un anno – a voler essere per una volta completamente sinceri con se stessi – è stato l’ultimo a sapere che Zlatan sarebbe andato via.
E poi non c’è stato più tempo per pensare a niente, le sfide sono ricominciate. Imparare lo spagnolo – da quanto non cercava di imparare una nuova lingua? Anni – lottare per un posto in prima squadra, lottare per il primo gol in blaugrana. Le attese, le attese infinite per la lingua che non gli entrava in testa, il gioco che non si creava, il gol che non arrivava. La sfida, l’impegno, le delusioni, anche, ma una lotta continua. Esattamente quello che voleva.
Per Zlatan la vita è tornata ad essere una questione di attese, e questo gli piace.
- Indovina chi viene a guardare la partita, stasera? – sghignazza Guardiola passandogli accanto con aria falsamente casuale, durante l’allenamento, mentre le note di Viva la Vida si diffondono tintinnanti per tutto il Camp Nou, fra i fischiettii compiaciuti di Bojan e i grugniti decisamente meno compiaciuti di Daniel.
- Mh? – chiede lui, piegandosi sulle gambe e poi rimettendosi in piedi per guardarlo curiosamente , - Chi?
Josep ride divertito, incrociando le braccia sul petto. Il suo sorriso sghembo, tirato più da un lato che dall’altro, gli ricorda quello di José.
- Mister Mourinho. – rivela infine, e il cuore di Zlatan fa un tuffo in fondo al suo stomaco, e poi torna al proprio posto rivoltato al contrario, - C’è una macchina che sta già dirigendosi all’aeroporto per recuperarlo. È ospite graditissimo del presidente, e starà con lui in tribuna d’onore. – si prende una pausa, osserva Zlatan boccheggiare e lo fa con divertimento davvero malcelato, quasi derisorio, perfino fastidioso. – Emozionato?
Zlatan richiude le labbra e deglutisce a fatica.
- Non me l’aspettavo. – risponde confusamente.
- Be’, - scrolla le spalle Josep, lanciando un’occhiata e poi un’altra a Bojan che caracolla da un lato all’altro del campo inseguito da Carles per chissà che motivo, - il sedici abbiamo un incontro, nel caso te lo fossi dimenticato, - lo prende in giro con un ghigno supponente, - starà proponendosi di fare un po’ di spionaggio. Zero zero sette, così dicono le news in Italia.
- Segui le news italiane? – sbotta Zlatan, tornando a fare stretching come a voler dare a Josep la sensazione di non interessarsi minimamente al fatto. Provandoci, almeno.
- Aha. – annuisce lui, candido come un giglio, - E dovresti anche tu. – rincara poi, - C’è chi giura che stia venendo per vedere te.
Zlatan scrolla le spalle e ringhia un po’, infastidito.
- Non ha molto da vedere. Non sono ancora al cento percento.
Josep ride un’altra volta, e Zlatan sopprime il desiderio di rimettersi dritto e tirargli un cazzotto sul naso.
Ufficialmente – riprende, ancora quel sorriso irritante a increspargli le labbra, - viene qui per dare un’occhiata alla squadra che si troverà di fronte in Champions. Altrettanto ufficialmente, però, - continua con una mezza risatina, - la squadra che giocherà stasera, senza Titi e Leo, non c’entra niente con quella che scenderà in campo a Milano contro l’Inter. – Zlatan deglutisce, Josep attende una reazione, la reazione non arriva. Josep sorride più apertamente e conclude. – Fai due calcoli e vedi se alla ragione ufficiosa ma probabilmente veritiera per cui viene ci arrivi da solo. Ora scusami- Carles! – strilla, correndo dietro al capitano fermamente intenzionato a far soffocare Bojan a colpi di solletico sulla pancia, - Ti spiacerebbe non farlo fuori? Stai cercando di ammazzare il futuro della tua squadra, nel caso non te ne fossi reso conto!
Zlatan si rimette dritto e sospira pesantemente, immobile in mezzo al campo, il sole che picchia forte sulle braccia e sulla testa e sulle gambe. Solleva il viso e socchiude gli occhi. Il cielo è terso, la luce abbagliante.
- Puoi sempre fingerti malato. – ride Max, dandogli una pacca sulle spalle.
Zlatan sospira ancora. E ricomincia ad attendere – solo che stavolta sta aspettando qualcos’altro.

*

Zlatan è stanco. Ha segnato Bojan, ha segnato Seydou, lui sta bombardando la porta avversaria – o almeno ci sta provando – da almeno dieci minuti e la fottuta palla non si decide ad entrare nella fottuta porta. Questa era una cosa che non ricordava, delle attese: quanto potessero essere frustranti. Ora che è lì e tira tira tira tira di continuo e la palla finisce fuori parata altrove, fanculo anche a lei, ricorda che ogni tanto papà i dolcetti non li aveva e lui scoppiava a piangere, che ogni tanto la torta si bruciava e lui e i suoi fratelli restavano senza merenda, che ogni tanto a Natale arrivava uno stupido robottino giocattolo e lui passava la settimana successiva a guardare quella cosachiedendosi se potesse prenderla a calci al posto del pallone che non c’era, e poi scoppiava a piangere ancora, e i suoi genitori non capivano perché.
All’inizio del secondo tempo, dopo essere riemerso dagli spogliatoi – nelle gambe la fatica di un primo tempo tutt’altro che brillante e nelle orecchie i complimenti dell’allenatore a qualcuno che indubbiamente non era lui – rientrando in campo ha preso il coraggio a quattro mani ed ha sollevato lo sguardo, cercando la figura familiare di José fra la folla della tribuna d’onore. L’ha individuato subito, elegante ed ordinato nonostante il caldo, giacca blu e jeans dello stesso colore abbinati a una camicia di un giallino improbabile che è quasi certo possa indossare solo lui senza apparire un cretino cosmico. José gli ha ricambiato lo sguardo, apparentemente tranquillissimo. I suoi occhi scuri e profondi, così come la piega severa delle sue labbra, non gli hanno comunicato alcuna emozione – sembrava davvero solo un allenatore in cerca di informazioni utili per la preparazione di un incontro importante. A Zlatan s’è stretto il cuore. Ha continuato a non segnare.
Ora succede qualcosa – qualcosa cambia, all’improvviso. La palla parte dal piede di Dani, sfiora la testa di uno sconosciuto del Gijon, Zlatan la vede, forse è partito in fuorigioco ma nessuno sta dicendo niente, quindi si fotta il fuorigioco e la paura e pure le attese: si tuffa in avanti senza pensare che potrebbe anche mancare il colpo e cadere di faccia per terra, farsi un male cane, battere il polso sinistro e fottersi l’esistenza per una vaccata random simile, non gli importa. La palla la becca. Quando alza lo sguardo, la palla è in porta. Cazzo, in porta.
Si volta a pancia in su, solleva le mani, punta il dito. Spera di stare puntando a José, da qualche parte – ha perso il senso dello spazio, non sa in che punto preciso del campo si trovi. Spera di beccarlo e basta, sorride e l’attimo dopo ha tutti addosso, Gerard gli si avvicina e gli stringe le mani, Carles gli si spalma sopra e lo stringe, grato e protettivo, qualcuno gli accarezza una guancia, gliela pizzica, poi gli sistema una ciocca di capelli dietro un orecchio, e lui è felice. Quando lo aiutano a rimettersi in piedi, lascia che Dani combini un casino scompigliandogli irrimediabilmente i capelli, e sorride.
Poi cerca José. E non lo trova.

*

- Sei anche troppo palese. – lo rimbrotta Max, sospirando pesantemente mentre Zlatan lo sorregge facendosi passare un suo braccio sopra le spalle, aiutandolo a camminare, - Il mister mi ha detto che è andato via una decina di minuti prima che finisse la partita.
- Non mi interessa affatto. – risponde lui a bassa voce, perché nessuno possa sentirli, guardando dritto davanti a sé.
- E sei anche troppo bugiardo! – ride Max, tirandogli uno schiaffetto impietoso contro la nuca, - Mica male, per uno che dice sempre di essere l’incarnazione stessa della sincerità.
- Io sono sincero. – ringhia Zlatan, e poi si allontana appena. – Ce la fai a reggerti da solo?
- Sì, sì. – ride ancora Max, e Zlatan si chiede perché il mondo intero si senta in diritto di ridere, quando si tratta di lui e José. Non c’è proprio nulla di divertente nel punto, e nessuno dovrebbe permettersi di trovare qualcosa da ridere in una storia che a lui fa solo venire voglia di urlare. – Zlatan, se ci credi davvero… - riprende Max, sospirando ancora, - se credi davvero di essere sincero, quando dici che non t’importa, allora ti conosci molto poco. E io non credo che sia così.
Lo svedese non osa neanche sollevargli gli occhi addosso.
- Ma cos’avete voi due da cospirare sempre? – borbotta Gerard avvicinandosi e tirando una guancia a Zlatan, - È una cosa ingiusta, non condividete mai!
Dietro di lui c’è mezza squadra. Carles sta parlottando animatamente con Dani, sembra che stiano litigando su un locale – Zlatan non afferra molto del loro discorso in spagnolo strettissimo, ma pare che stiano cercando di decidere dove andare a festeggiare la vittoria. Bojan sta letteralmente appeso al collo di Guardiola, saltella su un piede solo e gli si chiudono gli occhi per la stanchezza.
- Mister, non viene con noi? – chiede Max, provando a stare dritto sulla gamba sinistra per vedere se fa male e sorridendo tranquillo quando si accorge che il dolore sembra passato.
- No. – sorride bonario Josep, - Boji non sta bene, potrebbe essere qualcosa di grave. Lo porto a farsi controllare e poi direttamente a dormire. – commenta con un sorriso ancora più dolce, e quando Max fa per lagnarsi Carles scuote il capo, e Max lascia perdere.
Quando il clacson scuote rumorosamente l’aria silenziosa del parcheggio riservato, inizialmente nessuno ci fa caso. Può essere chiunque, può voler dire qualunque cosa – nessuno di loro è abituato ad essere richiamato dal clacson di un’automobile, dannazione – perciò lo ignorano. Ma poi il clacson suona ancora, due, tre volte. Josep alza lo sguardo e borbotta un “ma chi cazzo” risentito che però si interrompe a metà, quando l’allenatore si rende conto di chi è che stia aspettando una risposta da dietro il vetro della BMW un po’ defilata lateralmente, seminascosta dall’ombra del Camp Nou.
- Uh. – dice, inumidendosi le labbra, - Ecco perché è uscito prima.
Zlatan collega il commento a José, segue con lo sguardo l’occhiata di Josep e, al termine delle operazioni, ha voglia di scappare a gambe levate il più possibile lontano da lì. Fosse anche Milano l’unica meta disponibile, pur di non ritrovarsi nello stesso spazio in cui si trova José in questo preciso istante, ci tornerebbe.
- Temo che ti stia aspettando. – gli fa notare Max, e stavolta non ride affatto.
- Certo che in Italia gli allenatori sono ostinati. – commenta distrattamente Gerard, inclinando un po’ il capo in una posa curiosa. Zlatan vorrebbe rispondere che in realtà non è così, gli allenatori in Italia in genere non sono ostinati. Non a questo punto, almeno. È José, il problema. Come sempre, è sempre lui il dannatissimo fottuto problema.
Si avvicina alla BMW, lasciandosi alle spalle sia lo sbuffo esasperato di Max che la risatina di Guardiola, ed anche il commento un po’ stupito di Gerard, quel “ma ci va davvero?” che in effetti esprime ad alta voce quello che anche lui sta pensando con una certa insistenza. Ci sta andando davvero, sì. Perché?
Aspetta che José abbia abbassato per metà il finestrino dal lato del passeggero, e poi lo guarda, inarcando un sopracciglio. José si sporge appena, ricambiandogli l’occhiata poco convinta. Quando Zlatan piega un po’ il capo e sbuffa, come a dire “oh, andiamo”, nello stesso preciso istante José fa esattamente la stessa cosa, e Zlatan scoppia a ridere. José si concede solo una risatina sommessa, e non smette un secondo di guardarlo intensamente, come volesse scavargli dentro.
- Che diavolo ci fai qui, me lo spieghi? – scuote il capo Zlatan, ridacchiando ancora. Il tono della sua voce è molto più indulgente di quanto non avrebbe mai creduto possibile, e non capisce se sia un bene o un segnale di debolezza. José, comunque, tira fuori il taccuino dalla tasca interna della giacca, e lo agita un po’ a mezz’aria.
- Prendevo appunti. – risponde, prima di rimettere il taccuino al suo posto. – Non che mi sia granché divertito, a dirla tutta. Siete un tantino noiosi.
- Non c’era Leo. – risponde immediatamente Zlatan, convinto che sia quello il fulcro del problema, ma José ride amaramente, scuotendo il capo.
- Tu non brilli. – commenta, allungandosi ad aprire lo sportello dalla sua parte e spalancandolo con una spintarella decisa, così che Zlatan è costretto a farsi un po’ indietro per non essere colpito in pieno. – Leo Messi… - continua José, con aria vagamente trasognata, tornando a mettersi seduto composto e poggiando entrambe le mani sul volante, - cosa vuoi che sia Leo Messi? – chiede in uno sbuffo divertito, - È solo un uomo. Tu sei Zlatan.
- Anche io sono un uomo. – gli fa notare, appena risentito. Non ha mai capito esattamente quanto pretendesse da lui José, finché José non gli ha detto che sostituirlo era impossibile, serviva una squadra per sostituire lui da solo. Ma non è così che dovrebbero essere i calciatori, è stato questo il suo primo pensiero sul punto. Poteva sentirsi lusingato da quella frase quanto voleva, ma giocare a calcio è una questione di squadra, e lui non poteva fare squadra a sé. È anche per questo che è andato via, attese a parte, e José adesso non ha il diritto di farsi vivo apposta per ricordargli cosa si prova ad essere il centro assoluto dell’attenzione – non quando Zlatan sta faticando davvero per reinventarsi in maniera completamente diversa.
- Tu sei Zlatan. – ripete José, e Zlatan non ne è sorpreso. – Sali?
Lo svedese si volta indietro. I suoi compagni di squadra lo stanno guardando chiedendogli silenziosamente cosa intende fare. Zlatan sospira e li saluta con un cenno della mano, prendendo posto accanto a José e chiudendo celermente lo sportello, per poi perdersi nello scricchiolio delle gomme quando la macchina parte a tutta velocità verso la statale.

*

- Non voglio farmi i fatti tuoi, - dice sarcastico, mentre la strada scorre sotto i suoi occhi al di là del finestrino, - ma dal momento che sono anche fatti miei, me li faccio lo stesso: dov’è che stiamo andando? – José gli concede una risata divertita, imboccando una stradina sterrata e scarsamente illuminata. – Mi porti nel fitto del bosco, - ironizza Zlatan, aggrottando le sopracciglia in una smorfia infantile, - e poi ti approfitti della mia verginità. – e stavolta la risata di José è molto più bella, tonante, compiaciuta. Zlatan sorride a propria volta e per un secondo lo fa con spensieratezza, perché stava dimenticando quanto bello potesse essere questo suono e quanto appagante potesse essere provocarlo.
- Tanto per cominciare, vedi boschi qua intorno? – chiede José, fermando la macchina a qualche metro da una costruzione di due piani che sembra decisamente provenire dal secolo scorso, con tutti i mattoni in vista e il tetto spiovente. – E poi- verginità? – ride ancora, e Zlatan fa un gesto con la mano, come a dire “dettagli”. – Andiamo in un bel posto. – conclude quindi José, spegnendo il motore ed uscendo dall’auto. Zlatan lo segue pochi secondi dopo, osservando la casa con curiosità. Sembra carina, ha anche i gerani alle finestre.
- È tua? – chiede, sinceramente stupito, il naso per aria e gli occhi fissi sul comignolo che spunta dal tetto come un dito puntato alle stelle.
- È un bed & breakfast. – risponde José con un’altra risata. Dal momento che ride tanto anche lui, Zlatan comincia a pensare che forse non è la sua storia con José che diverte tanto il mondo. Probabilmente è solo lui molto ridicolo. – Conosco la proprietaria da un po’. Quando eravamo giovani e avevamo voglia di starcene un po’ per conto nostro, è qui che venivamo io e Tami.
- …okay, in che misura dovrebbe lusingarmi esattamente il fatto che mi porti nello stesso posto in cui portavi tua moglie?
- Nella misura in cui – risponde secco José, salendo i gradini verso l’entrata della casa, - sto condividendo con te una cosa così profondamente intima e privata che non credo tu abbia nemmeno idea di quanto mi costi. – si ferma di fronte alla porta, voltandosi a guardare Zlatan con aria severa. – Queste persone conoscono me, conoscono la mia famiglia. Io potevo venire qui, oggi, prendere atto del fatto che tutti i dannati alberghi della città sono assediati dai giornalisti per un mio commento sulla partita di oggi e rinunciare al proposito di stare con te. E invece ti sto portando da persone che mi conoscono e potrebbero distruggermi con mezza parola, e tutto questo perché non intendo rinunciare a te. – si prende una pausa, inspirando ed espirando profondamente. Zlatan lo guarda come lo stesse vedendo per la prima volta dopo anni, e invece sono solo un paio di mesi. Ma sono stati lunghi, lunghi davvero, quindi probabilmente il tempo è una misura relativa, e quella manciata di giorni è stata davvero una manciata di anni, per lui. – In questa misura, - conclude José, passandosi una mano fra i capelli, - in questa misura dovrebbe lusingarti, ecco.
Zlatan vorrebbe davvero avere qualcosa di intelligente da dire, ma non trova niente di adatto, perciò tace e si limita a seguire José quando suona il campanello, la porta si apre con uno scatto secco e lui avanza all’interno dell’abitazione, sorridendo sicuro. Dietro il bancone della reception – un tavolo in legno scuro, sul cui ripiano riposa un piccolo registro bianco, davanti ad una libreria dall’aria molto casalinga, con qualche vaso pieno di fiori finti qua e là – c’è un ragazzo che, appena solleva lo sguardo e capisce chi ha di fronte, impallidisce. Guarda Zlatan a lungo, boccheggiando discretamente, e poi posa gli occhi su José, deglutendo a fatica.
- Zay, - lo chiama, la gola un po’ secca che rende roca la voce, - …ciao, immagino.
José ride teneramente, sollevando una mano in segno di saluto.
- Fabio, - lo chiama, chinando un po’ il capo, - come stai? E come stanno tua madre e tua sorella?
Il ragazzo riflette un po’, prima di rispondere.
- Dormono. – decide quindi, con un sorriso un po’ imbarazzato, - Per tua fortuna.
José ride ancora, divertito.
- Già. – annuisce, - Ce l’hai una stanza libera, sì?
- Oh, sì. – risponde subito il ragazzo, prendendo a sfogliare il registro. E poi, più cautamente, aggiunge: - Anche più di una.
José sorride indulgente.
- Una basterà.
Fabio si rassegna e scrive qualche appunto veloce su una pagina bianca.
- Per quanti giorni?
José finge di rifletterci.
- Io sono libero fino a mercoledì. – annuisce, e poi si volta verso Zlatan. – Tu hai da fare?
- …no. – ammette. È la prima parola che dice da quando è entrato, e viene fuori ruvida e impacciata, fastidiosa. – Intendo, - corregge il tiro, schiarendosi la voce e grattandosi nervosamente la nuca, - ci sarebbe la Nazionale, ma non è un problema. Non davvero.
José sogghigna, tornando a voltarsi verso Fabio senza però guardarlo, preferendo concentrarsi su un punto a caso sul ripiano del tavolo: infila una mano nella tasca posteriore dei jeans e ne tira fuori il portafogli, estraendone immediatamente la carta di credito.
-  Stai attento. – lo avverte, e Zlatan capisce immediatamente, dal tono della sua voce, che sta parlando con lui, - Stavolta il tuo allenatore probabilmente non sarà disponibile quanto lo sono stato io, a coprirti per l’assenza in nazionale.
- Tu non mi hai coperto. – aggrotta le sopracciglia lui, - Tu mi hai proibito di andare.
- Tu non volevi andare.
- Questo è completamente un altro discorso.
- Sarete stanchi. – s’intromette Fabio con un sorriso che trabocca disagio, - Ho visto la partita, dev’essere stata estenuante. Se mi metti una firma qui, Zay, vi mando a letto. Magari senza per questo dover svegliare tutti, ecco, continuando a litigare così all’ingresso.
José ride a bassa voce ed allunga un braccio a scompigliargli i vaporosi  riccioli neri.
- Non tirare troppo la corda, - lo rimprovera, - o dico a tua madre che sei stato scortese.
- Non tirarla tu! – lo rimbecca il ragazzo, divertito, - Potrei dire a mia madre ben di peggio, sul tuo conto!
José ride perché sa già che Fabio non dirà una parola, prende le chiavi che il ragazzo gli porge e fa cenno a Zlatan di seguirlo al piano di sopra. Lui obbedisce, e gli parla solo quando hanno terminato di salire le scale, ed è sicuro che nessuno possa sentirlo.
- Fino a mercoledì – riflette, - sono un giorno intero e due notti! Cosa cazzo ci stiamo a fare qui un giorno e due notti?
- Oh, - ghigna José, aprendo la porta di una stanza e tenendola dischiusa perché Zlatan possa entrarvi per primo, - sono sicuro che troveremo come occupare il tempo.
- Non dirlo con quel tono… - si lamenta Zlatan, schioccando la lingua, infastidito, - …allusivo. È rivoltante.
Ti prego. – borbotta José, chiudendosi la porta alle spalle con due giri di chiave, - Risparmiami la lezione di morale, d’accordo? Decisamente non è il momento.
- Fosse per te, non lo sarebbe mai. – sospira lui, lasciandosi ricadere seduto sul letto e saggiando sotto i polpastrelli la fresca morbidezza del copriletto in raso. – Grazie, comunque.
- Uh? Perché sto pagando io? – chiede José, sorridendo compiaciuto, - Guadagno più di te, mi sembra il minimo.
- No, non per quello, stronzo che non sei altro. – ringhia, sferzandolo con un’occhiataccia infastidita, - Per avermi portato qui. Voglio dire, ho capito cosa stavi cercando di dirmi per le scale, di fuori. E… mi lusinga, davvero.
- Ti lusinga. – gli fa eco José, sfilando la giacca e rimanendo in maniche di camicia, - Parli come una liceale che sta per scaricare il cesso sfigato che ha osato trovare le palle di confessarle il suo amore.
- Non è così! – sbotta Zlatan, allargando le braccia in un gesto esasperato, - Cristo, perché devi sempre distorcere tutto in questo modo?! Fanculo! – si mette in piedi, muovendo qualche passo nervoso all’interno della stanza, - È insopportabile. Sei insopportabile. Forse dovrei scaricarti davvero.
José gli si avvicina con cautela. Lo abbraccia da dietro, e respira lentamente sulla pelle del suo collo mentre Zlatan si scioglie nella sua stretta, sospirando arreso.
- L’hai fatto, in realtà. – gli ricorda, lasciando un bacio lievissimo sulla sua nuca, nella poca pelle che riesce ad emergere fra una ciocca e l’altra dei suoi capelli.
- E siamo comunque ancora qui. – commenta lui, amaramente, come se si rendesse conto solo in quel momento di quanto possa essere sfiancante la realtà.
- E ti dispiace? – chiede José, una mano che scivola lungo il suo ventre, sotto la maglietta. Zlatan scatta ad afferrarlo per il polso, bloccandolo e aggrottando le sopracciglia. Si allontana senza una parola, perché non può dire che gli dispiaccia, ma neanche di esserne felice. Vorrebbe essere meno confuso, vorrebbe che José lo confondesse di meno, ma sembrano entrambi desideri irrealizzabili. E José resta immobile nel centro della stanza, guardandolo severamente. – Perché mi hai seguito, Zlatan? – chiede secco, quasi irritato.
Zlatan si appoggia con la fronte contro la finestra. Il vetro fresco abbassa un po’ la temperatura del suo corpo – la sua pelle sembra bruciare, da quando José gli ha messo le mani addosso – e gli permette di respirare meno faticosamente, scrutando con distrazione il paesaggio scuro di fuori. Il buio si spezza appena quando un’altra macchina arriva e si ferma a qualche metro dalla BMW di José, Zlatan cerca di concentrarsi su quello, cerca di concentrarsi sui visi delle persone che occupano la vettura, ma non fa in tempo a metterli a fuoco che i fari si spengono e tutto torna scuro e irriconoscibile.
- Non lo so. – ammette a bassa voce, - Non lo so, non potevo non farlo.
- E questo non dovrebbe suggerirti qualcosa? – ipotizza José, incrociando le braccia sul petto.
- Mi suggerisce che sono molto più debole di quanto pensassi. – risponde Zlatan, voltandosi a guardarlo, - Mi suggerisce che devo crescere ancora. Mi suggerisce-
- Ti manco. – lo interrompe José. Lo dice lui perché sa che a Zlatan sarebbe servita almeno un’altra mezz’ora di sproloquio senza senso per arrivarci, e una volta che ci fosse arrivato sarebbe probabilmente crollato chiedendosi cosa abbia fatto della sua vita e perché si sia messo in un guaio simile. José non vuole vederlo crollare, tutto ciò che vuole è riaverlo per sé, ecco perché lo salva, prendendosi la responsabilità di essere lui a dire le cose come stanno, come sempre.
- …sì. – annuisce Zlatan, abbassando lo sguardo, - Mi manchi. E questo è sbagliato.
José inarca un sopracciglio, offeso.
- Perché?
- Perché me ne sono andato! – replica Zlatan, gesticolando, - Cristo, come fai a non afferrare un concetto tanto semplice?! Sono andato via, mi sono lasciato tutto alle spalle, tutto, vittorie, sconfitte, stress, una villa da svariati milioni, amici, conoscenti e tutto il resto, e non sono stato dannatamente in grado di lasciarmi indietro te, e questo è ridicolo assurdo e doloroso e odio te e me stesso per questo!
José non si scompone minimamente, dopo il suo sfogo. Lo osserva respirare a fatica, il suo riflesso si sfuma sul vetro della finestra alle sue spalle e i suoi occhi sono rossi e un po’ umidi, ma non vuole piangere – sarebbe una cosa da ragazzini, sarebbe una cosa così incredibilmente sciocca!, e José lo conosce bene, sa che Zlatan si strapperebbe gli occhi dalle orbite a mani nude, piuttosto che farsi vedere in condizioni simili. Eppure lo sta facendo, gli sta sputando addosso cose che lui neanche immaginava – perché oh, c’è differenza, ce n’è eccome, fra lo sperare che la persona che ti ha abbandonato possa ancora sentire un certo trasporto nei tuoi confronti, e il renderti conto che quel trasporto c’è ancora, sì, ma gli sta spezzando il cuore – e José sa bene che Zlatan non vorrebbe dirgli niente di tutto questo, ma lo sta facendo comunque, e quale che sia il motivo probabilmente c’è semplicemente da ammettere che qui José non è l’unico che sta sacrificando qualcosa.
- Potevi restare. – gli ricorda, cercando di mantenersi freddo e razionale.
- Non era quello che volevo. – risponde immediatamente Zlatan, ricacciando indietro un singhiozzo e coprendolo con un ringhio di gola, - Io volevo andarmene, e volevo andare avanti con la mia vita. Volevo qualcosa di diverso, Milano non poteva darmelo.
- Io-
Neanche tu potevi darmelo. – si passa una mano sugli occhi, esausto. – José, Cristo. Perché non mi capisci?
José deglutisce a fatica, esitando appena, prima di avvicinarsi. Gli appoggia una mano sulla spalla, massaggia un po’ i muscoli rigidi sotto la maglietta e sospira.
- Zlatan. – lo chiama, e Zlatan scuote il capo. – Guardami.
- No. – risponde, pressando con più forza la mano sugli occhi, - Tu non hai idea di cosa mi fai. Non saresti mai dovuto venire qui.
- Sono venuto per la partita.
- Sei venuto perché sei uno stronzo. – ringhia lui, il volto ancora coperto, - Potevi guardare la partita e tornartene a casa. Sarebbe stato molto meglio.
- Zlatan. – ripete José, stringendo la presa sulla sua spalla, - Ho preso un dannato aereo alla prima sosta di campionato disponibile. Ho fermato per due giorni il lavoro dei ragazzi rimasti a Milano per fiondarmi qui in tempo per vederti, cazzo, prima di dire che non ho idea di cosa ti faccio, prova a guardare un po’ al di là del tuo naso! – si interrompe, arriccia le labbra in un anticipo di risata, e poi aggiunge: - Mi rendo conto che ti sto chiedendo di guardare ad una ragguardevole distanza, ma…
- Stronzo! – lo spintona poco delicatamente Zlatan con la mano che non è impegnata a fargli da scudo nei confronti del resto dell’universo. Il tono della sua voce è cupo e offeso, ma la risata che nasce spontanea nel fondo della sua gola non riesce ad essere fermata e inghiottita prima di raggiungere le labbra e sfuggirne, rassicurando José e convincendolo a lasciarsi andare ad un sorriso meno teso.
Zlatan si appoggia al davanzale della finestra. Il respiro che lascia andare è così profondo da dare l’impressione di lasciarlo senza neanche una molecola d’aria in corpo, completamente sgonfio.
- Puoi guardarmi, adesso? – chiede a bassa voce José, sporgendosi un po’ per sfiorargli la guancia in un bacio leggero.
- Non ne sono ancora sicuro. – risponde Zlatan con un mezzo sorriso, ma abbassa la mano, anche se non solleva gli occhi nei suoi. – Non pensavo che sarebbe andata così. – dice quindi, - Ovviamente immaginavo che ci saremmo rivisti e non sarebbe stato semplice, ma questo… cavolo. È molto più difficile del previsto.
- Potrebbe essere più semplice. – replica José, asciutto, e Zlatan lascia andare una risatina disillusa.
- No, non potrebbe. – risponde sicuro, - Tu continui ad essere convinto di poter risolvere tutto in base a chissà che decreto divino. Tu sei convinto che ti basti parlare di qualcosa per sistemare qualsiasi problema. Non è così, io vivo in un altro mondo, adesso. Quello che c’era non può tornare. – solleva lo sguardo e lo fissa a lungo, José ha l’impressione che Zlatan stia cercando di prendergli le misure per riacquistare familiarità con la sua figura. Si ritrova a chiedersi se sia possibile che, da qualche parte nel corso degli ultimi due mesi, Zlatan sia effettivamente riuscito a dimenticarlo. Si chiede se sia possibile che il suo piombargli all’improvviso fra capo e collo possa averlo destabilizzato al punto da non capire davvero più nulla – si chiede, per la prima volta da che è al mondo, se non abbia sbagliato. Se non abbia scelto troppo avventatamente, quando s’è trattato di decidere se andare a trovarlo o meno. Si chiede se non sia stato più egoista che maturo, si chiede se sia stato giusto. Si chiede cosa ci fa lì in quel momento.
- Non dirlo. – sibila, e Zlatan si rimette dritto, sottraendosi alla sua stretta.
- Ho bisogno di una boccata d’aria. – esala, allontanandosi di qualche passo guardandolo negli occhi, prima di rassegnarsi a dargli le spalle e tirare un paio di volte la porta verso di sé, senza ricordarsi che è chiusa a chiave. Quando lo realizza, deglutisce e pensa che José non sta approfittando di quest’incertezza per avvicinarsi e cercare di trattenerlo. Gira la chiave e si chiude la porta alle spalle.
La luce nel corridoio è fioca e giallastra. È tutto molto quieto e, in un primo momento, Zlatan coglie solo di sfuggita i due corpi avvinghiati contro una porta, tanto stretti da sembrare un’unica ombra. Quando, però, uno dei due sbotta un “merda” terrorizzato, Zlatan si volta e cerca di metterli a fuoco più distintamente. Ed allora risulta incredibilmente semplice riconoscerli.
- Mister. – boccheggia sconvolto, nel lasciar scivolare lo sguardo prima sul proprio allenatore e poi su Bojan, ancora stretto a lui, le labbra rosse e gonfie ed il segno evidente di un succhiotto appena sotto l’orecchio destro. – Boji.
Josep ansima faticosamente, stringendo possessivo le mani attorno ai fianchi di Bojan. Non sembrano intenzionati a separarsi, e se da un lato questo porta Zlatan a chiedersi cosa diavolo abbiano intenzione di fare, dall’altro, riflettendoci, anche lui capisce che non potrebbero fare nient’altro.
La porta alle sue spalle si apre lentamente, seguita da un sospiro stremato. Ha appena il tempo di realizzare che José sta uscendo dalla stanza per venirlo a cercare, che è costretto a fronteggiare un fatto ben più grave – José sta per vedere ciò che sta vedendo anche lui, e questo è molto probabilmente ben più di quanto Guardiola fosse intenzionato a lasciargli intuire della sua squadra, prima della partita del sedici. Zlatan vorrebbe sentirsi in grado di provare una qualche spinta protettiva nei confronti dei due uomini che si stringono a qualche metro da lui, ma non ci riesce.
Poi realizza che c’è qualcosa di ancora più grave perfino di questo: al di là di quanto possa vedere adesso José, c’è quello che invece potrà intuire Guardiola. E se la segretezza di una relazione passata può permettersi di sfociare in una bonaria consapevolezza all’interno di uno spogliatoio unito qual è quello dell’Inter a Milano, lo stesso non si può dire di ciò che potrebbe pensare il suo nuovo allenatore trovandolo in compagnia del suo ex in un bed & breakfast solitario subito dopo una partita di campionato.
- Oh. – dice la voce liscia e sicura di José, la mano ancora sulla maniglia e solo un piede oltre la soglia della porta. – Ho dovuto fare meno strada del previsto.
Josep si allontana da Bojan e il ragazzo si appoggia alla parete, probabilmente per non cadere a terra.
- Che situazione curiosa. – commenta divertito José, avanzando fino a sistemarsi al fianco di Zlatan e girargli un braccio attorno alla vita, traendolo possessivamente verso di sé. – Bella serata, mh?
Josep serra le labbra e Bojan distoglie lo sguardo, imbarazzato oltre il sopportabile. A Zlatan viene voglia di prendere José a pugni fino a fargli dimenticare come si chiama, perché si trova lì e perfino come si organizza un discorso di senso compiuto, ma le sue dita tozze chiuse con forza sulla sua pelle gli tolgono il respiro in modi che non riesce nemmeno a capire. Non sa se sia perché lo sta toccando o perché sa perfettamente che l’atteggiamento sbruffone e indisponente di José è, come sempre, una tattica di protezione nei confronti di ciò che ha di più caro – lo usa con tutti coloro cui tiene, con la sua famiglia, con la sua squadra, con lui – sa solo che al momento lo trova intollerabile, che gli dispiace vedere Josep e Bojan comportarsi così colpevolmente quando lui stesso non si sente meno colpevole, quando sa che anche José dovrebbe sentirsi colpevole allo stesso modo. Ma non dice una parola, resta immobile al fianco di José ed osserva Guardiola borbottare qualcosa di incomprensibile mentre Bojan si copre il viso con entrambe le mani.
- Coraggio, coraggio. – sorride José, allungandosi a sfiorare la spalla del ragazzo in un gesto paterno e rassicurante, - Può capitare. Non deve necessariamente uscire da queste quattro mura. – aggiunge comprensivo, e il sottotesto minaccioso delle sue parole è tanto chiaro da non aver bisogno di sottotitoli: una sola parola su me e Zlatan, e presto il mondo intero saprà chi si porta a letto la stellina appena maggiorenne del Barça.
Bojan non ricambia il suo sguardo ed anzi, sotto il suo tocco, si irrigidisce e si allontana impercettibilmente, come José scottasse. Probabilmente è solo l’imbarazzo a renderlo elettrico. Zlatan vorrebbe – non lo sa nemmeno lui. Abbracciarlo, probabilmente, come ha fatto con Davide quella volta che suo nonno è stato male e loro erano in ritiro e lui non poteva muoversi neanche per questioni di vita o di morte. O come ha fatto con Mario quando la convocazione per la Nazionale – che aspettava con l’eccitazione di un bambino a Natale, la sua stessa attesa, quella che non riusciva più a ritrovare, dipinta nei suoi occhi neri come il carbone – non è arrivata a lui ma al suo migliore amico. Ricorda le lacrime soffocate di Davide, quei suoi terribili “cosa faccio se muore, come faccio se muore?”, e ricorda anche le lacrime di Mario, profondamente diverse, quasi animalesche, ringhianti e furiose mentre si appendeva con entrambe le mani alla sua maglietta, tirandola spasmodicamente, e la sua tristezza priva di possibilità di sfogo, perché per quanto potesse essere deluso non riusciva neanche a prendersela con il suo Dade.
Gli fa male pensare che, se si fosse trattato di Mario o di Davide – se si fosse trattato della sua squadra – nemmeno la stretta di José sarebbe bastata a fermarlo. Se ne sarebbe liberato e sarebbe corso a stringerli,  e l’avrebbe fatto serenamente, perché José avrebbe capito e l’avrebbe perdonato. Adesso è diverso, non sente la stessa spinta nei confronti di Bojan. Vorrebbe poterla sentire, vorrebbe – dannazione – poter dire “sono a casa”, finalmente, ma tutto ciò che riesce ad associare alla parola casa è la sua stanza con Adri – e poi con nessun altro – in Pinetina, l’appartamento a Milano, via Montenapoleone, il Duomo che poteva sempre incrociare solo di sfuggita, tali erano i rischi che poteva correre nel caso qualcuno lo riconoscesse e si mettesse ad urlare in mezzo alla piazza che c’era Zlatan Ibrahimović lì a passeggiare come niente fosse, perfino la villa in ristrutturazione in cui non ha mai nemmeno messo piede sembra più casa di Barcellona. E casa di José, naturalmente, le  decine di stanze di villa Ratti e le decine di volte in cui lui, Helena e i bambini si sono fermati a dormire lì dopo una giornata passata tra piscina e salotto. E le decine di volte in cui è scivolato fuori dal letto, nella stanza degli ospiti, ed uscendo in corridoio ci ha trovato José. E i suoi baci, le sue carezze, il modo spiccio e rude che aveva di tirarlo verso la prima stanza disponibile per scopare.
Questo è tutto quello che riesce a realizzare quando pensa a casa, e quindi la spinta per abbracciare Bojan in questa situazione non arriva. E se anche arrivasse, Zlatan non è sicuro che non la lascerebbe spegnersi per paura di non ottenere da José la stessa comprensione che gli avrebbe riservato se, al posto di Bojan, ci fosse stato Mario o Davide.
- Io… - comincia Josep, ma è stato in silenzio così a lungo che la voce esce fuori roca e spiacevole. La schiarisce con due colpetti di tosse, prima di ricominciare. – Io penso che si possa risolvere questa questione in modo amichevole, mister Mourinho. – azzarda, e lo fa col tono di voce e con lo sguardo di chi sta chiaramente pensando “quello che vuoi. Dimmi ciò che vuoi e sarà tuo, purché tu tenga la bocca chiusa”. E per un secondo Zlatan ha davvero paura che la risposta di José potrebbe essere “ridatemelo”.
- Ma non c’è niente da risolvere. – lo tranquillizza invece José con un sorriso spaventoso, - Io sono a posto così, se anche lei è a posto così. Non sprechiamo ulteriore tempo prezioso in questioni così sciocche, vuole?
Josep annuisce e passa un braccio sopra le spalle di Bojan, attirandolo verso di sé e dandogli modo di nascondere il viso nell’incavo del suo collo, stringendogli forte la maglia all’altezza del petto. Zlatan si aspetterebbe quasi di vederli entrare nella stanza di fronte alla loro, come non fosse successo niente, e invece Josep si volta e conduce Bojan lungo il corridoio, verso le scale, per scendere al piano di sotto ed abbandonare il bed & breakfast.
José schiocca la lingua, sbuffando appena.
- Mi spiace per loro. Che sfortuna, poi, scegliere lo stesso posto che ho scelto io. – e poi tira Zlatan verso la stanza in un gesto spiccio così tipico di lui che a Zlatan viene quasi voglia di sorridere. – Vedi, se non fossi uscito, tutto questo non sarebbe successo.
- Perché non mi sembri stupito? – chiede, seguendolo in camera ed osservandolo chiudere di nuovo la porta a chiave.
- Perché dovrei esserlo? – rimbecca José, sfilando la chiave dalla serratura e infilandosela nella tasca posteriore dei jeans, per ogni evenienza.
Zlatan indica la porta con aria allucinata.
- Il mio allenatore ed uno dei miei compagni di squadra stavano praticamente per scopare in corridoio. Secondo te perché dovresti essere stupito?
José inarca un sopracciglio e lo guarda, dubbioso.
- Devo ricordarti in quanti corridoi abbiamo scopato noi nel corso dell’anno che abbiamo trascorso insieme a Milano? – chiede ironico, e Zlatan lo manda a fanculo, irritato.
- Noi siamo una cosa diversa! – cerca di spiegarsi, - Insomma, non credevo che qualcun altro-
- Credi anche tu alla favoletta di Lippi? Niente omosessualità nel calcio? Andiamo, Zlatan. Cosa credevi di essere, una specie di unico esponente della razza dei calciatori bisessuali? Che guarda caso aveva trovato l’unico esponente della razza degli allenatori bisessuali col quale scopare in santa pace? Ti prego. Oltretutto, – aggiunge divertito, - devo dire che la tua perspicacia è rimasta agli stessi bassissimi livelli cui si trovava mentre stavi all’Inter. Andiamo, che quei due avessero una storia era evidente perfino a me che non li conoscevo.
- Ma che… - annaspa Zlatan, scioccato, - Prima di tutto, evidente un cazzo!
- Ma dai! – rimbecca José, sfilando la giacca e lasciandola ricadere morbidamente ai piedi del letto, - Non hai visto come se lo coccola quando è in panchina? Sono gesti molto teneri.
- Paterni! – specifica Zlatan, e José ride.
- Be’, come hai potuto osservare poco fa, mica poi tanto. E comunque-
E comunque lo dico io! – riprende Zlatan, osservandolo sciogliere un paio di bottoni della camicia con naturalezza quasi disturbante, - Che cosa vorrebbe dire quel discorso sulla perspicacia?
José scrolla le spalle, terminando di sciogliere i bottoni della camicia e sfilandola lentamente, per poi appoggiarla con cura sullo schienale dell’unica sedia presente in camera.
- Che non mi stupisce che tu non ti sia accorto di cosa c’era fra Guardiola e quel ragazzo, considerando che non ti sei mai reso conto della più evidente relazione omosessuale che ti passava sotto gli occhi dentro lo spogliatoio.
- Che…? – biascica Zlatan, spalancando gli occhi, - Ma di chi stai parlando?
- Mi dispiace, - ride José, - ma decisamente non sono più fatti tuoi. – gli dice, sapendo di fargli male, mentre sfibbia la cintura e la lascia sfilare lenta fra i passanti dei jeans, prima di arrotolarla e posarla sulla sedia. – Posso solo dirti che il signor Lippi sarebbe stupito di scoprire quanto bene possa funzionare sul campo e fuori una coppia omosessuale, in barba alle sue opinioni sull’equilibrio dello spogliatoio.
Zlatan boccheggia per qualche secondo come un pesce fuori dalla propria boccia, e poi si passa una mano sugli occhi, in tempo per evitare di guardare José che sfila i jeans e li piega sommariamente, riponendo anche loro sulla sedia e restando in boxer.
- Non sono sicuro di aver capito, ma se ho capito non voglio saperlo. – biascica. Poi sente due dita afferrarlo delicatamente per il mento e sospingerlo verso l’alto. Se ne lascia guidare, mordendosi il labbro inferiore mentre i suoi occhi scorrono su tutta la superficie del corpo di José, prima di terminare la loro corsa sul suo viso. – Perché lo stai facendo? – chiede a bassa voce.
- Cosa? – chiede a propria volta José, inclinando il capo, un po’ stupito.
- Spogliarti. – precisa Zlatan, - Potrei chiederti le chiavi e dirti che non ho la benché minima voglia di venire a letto con te. Non guardarmi così, - si lamenta, aggrottando le sopracciglia quando scopre una sfumatura ironica nel brillio che rende scintillanti gli occhi scuri di José, - la possibilità c’è! E tu invece-
- Zlatan. – lo interrompe José, poggiando entrambe le mani sui suoi zigomi e stringendo la presa abbastanza da zittirlo ma non tanto da fargli male, - Ma tu davvero credi che io sia venuto fino a qui pensando che questa fosse una possibilità concreta?
Zlatan lo fissa con disappunto, cercando di liberarsi dalla presa – con poca convinzione, in realtà.
- Poteva accadere. – insiste, - Può accadere ancora.
- Se fosse stato possibile, non mi sarei mai mosso. Non ho abbastanza pazienza per sopportare altri no, Zlatan.
- Potrei dirtelo, adesso.
- No, non potresti.
- E cosa te lo fa pensare?! – quasi urla, esasperato, scattando in piedi e liberandosi, - Cosa, fra tutto ciò che ho detto da quando sono qui, ti ha fatto pensare che io potessi essere ancora innamorato di te?! Dimmelo! Così avrò cura di non ripeterlo in futuro, e risolverò il problema alla radice!
José lo guarda curioso, in silenzio, per qualche secondo.
- Non ho ascoltato nemmeno una delle tue dichiarazioni, da quando sei qui. – dice alla fine, - Semplicemente, i tempi erano maturi. – e poi sorride con indulgenza, sollevando una mano a sfiorargli una guancia. – Se pensi di aver detto qualcosa di fraintendibile, forse dovresti ripeterla adesso. Magari non era solo fraintendibile. Magari era esattamente quello che volevi dire, tutto qua.
Zlatan però non dice niente. E non dice niente perché, se ripercorre con la memoria tutte le dichiarazioni che ha rilasciato ultimamente, gli sembrano tutte dichiarazioni d’amore, senza eccezione alcuna. E questo lo disturba, e non vuole che José lo sappia, perciò si china e lo bacia lievemente sulle labbra, perché alla fine l’unica cosa che vuole far sapere a José – l’unica cosa che conti davvero – è quella. Che ha ragione, che c’è ancora qualcosa, che no, non può stargli lontano, che gli è grato per essere venuto a trovarlo, che vorrebbe poter restare con lui per sempre, che il solo pensiero di vederlo tornare a Milano fra un paio di giorni lo distrugge, e cerca di mettere tutto nel bacio che gli appoggia sulle labbra. Solo che un bacio tanto infantile e asciutto non è abbastanza per far passare nulla di tutto questo, e quindi è José a pretendere di più. È José che lo afferra per la nuca e se lo tira contro, obbligandolo a schiudere le labbra con la propria lingua ed assaggiandolo lento, con affetto e un pizzico di soddisfazione, mentre lo sospinge dolcemente verso il letto. Zlatan si lascia guidare, si lascia adagiare fra le lenzuola come fosse troppo stanco per combattere ancora, ed è nel momento in cui José scende lungo il suo petto e gli respira addosso attraverso il cotone sottile della maglietta già umida di sudore, che Zlatan capisce che non è “come se” fosse troppo stanco per opporsi, lui lo è e basta. È stanco di dire no, è stanco di dirsi no, è stanco di scappare ed è stanco anche di aspettare.
Solleva il bacino per agevolare i movimenti di José. Le sue mani scorrono abili e leste lungo i suoi fianchi, ne seguono la linea dritta disegnata dai muscoli ed afferrano delicatamente i jeans, lasciandoli scivolare verso il basso in una carezza che somiglia a una tortura. Ansima con forza, chiudendo gli occhi e schiudendo le labbra, mentre solleva una mano ad arpionare José dietro la nuca nello stesso preciso istante in cui le sue labbra si chiudono addosso ad un suo capezzolo, stringendo e accarezzando e succhiando con la solita calma – ed è strano pensare in questi termini, “le solite cose” erano le cose che più credeva di odiare, una routine consolidata, noiosa e immobile e inflessibile, che non si sentiva più in grado di tollerare, e invece ora che José lo bacia e lo sfiora ovunque a Zlatan fa piacere ritrovare lo stesso identico sapore, lo stesso identico ritmo, le stesse identiche sensazioni.
Realizza che non si era mai veramente stancato di José, mentre lui si sistema fra le sue gambe ed accarezza la sua erezione, guardandolo dall’alto come fosse un’opera d’arte. Non riesce più a ricordare di cosa fosse stanco con esattezza, quando José sfiora con due dita il profilo del suo volto. Zlatan schiude gli occhi e cerca quelli di José, e non li trova perché sono persi da qualche parte fra la linea dritta del suo collo e quella curva della sua spalla, e scendono giù lungo il braccio, fanno la conta dei tatuaggi per vedere se c’è qualcosa di nuovo, e si illuminano di un sorriso che sulle sue labbra non affiora quando si rendono conto che non è cambiato niente, è tutto uguale a due mesi prima. È arrivato in tempo, è arrivato in tempo per impedirgli di perdersi, per impedirsi di perderlo.
Gli ricambia lo sguardo solo quando le sue dita, seguendo la curva del mento, si appoggiano lievissime sulle sue labbra, in una richiesta muta. Zlatan obbedisce senza pensarci, lasciando scivolare la propria lingua sulle falangi di José e godendo del suo mugolio un po’ stupito e un po’ compiaciuto, prima di lasciarlo andare e seguire il movimento di quelle stesse dita mentre tracciano una scia umida di saliva lungo il suo petto, il suo ventre e il suo fianco. E quando le perde di vista chiude gli occhi e stringe i denti, solleva ancora il bacino puntando i piedi sul materasso e la sensazione successiva che percepisce somiglia al ricordo di un sogno che non s’è mai sbiadito, nella sua memoria. Quella sensazione di pienezza mista al desiderio di avere di più lo confonde e lo eccita, ed è meglio dei dolcetti di papà, è meglio della torta di mamma ed è meglio anche dei regali di Natale: è l’attesa di José che continua a dargli sempre le stesse sensazioni. Perché potrà essere una stella ed avere assicurato il posto in campo, e potrà avere tutti i gol che vuole, potrà giocare con tutti i fuoriclasse che stima, sono cose che s’è guadagnato col talento, con l’età e con l’esperienza, e a meno di trovare il modo di viaggiare indietro nel tempo e tornare nel Malmö BI nulla potrà ridargli la sensazione di incertezza che provava quando aveva otto anni e non era sicuro che il mister lo chiamasse né tantomeno sapeva cosa gli sarebbe toccato fare nel caso in cui il mister l’avesse chiamato – ma oh, José resta l’unica incognita fissa nella sua vita, il modo che ha di guardarlo senza che Zlatan possa riuscire a decifrare se lo stia studiando o stia cercando di sedurlo, il modo che ha di toccarlo, come fosse una cosa propria ma non volesse trattenerlo per non imprigionarlo, il modo che ha di spingersi con forza contro e dentro di lui per ricordargli che anche se non lo stringe fino a soffocarlo, anche se lo lascia volare via, c’è solo una cosa per la quale varrà la pena di lottare per sempre, e quella cosa è lui.

*

José sta riscrivendo con un dito il nome di Maximilian sul suo braccio. Segue il contorno delle lettere vagamente gotiche che scendono giù lungo il bicipite, fino al gomito, e aggiunge ghirigori di tanto in tanto – quando gli sembra di non aver insistito abbastanza su un determinato centimetro di pelle, ad esempio. Zlatan crede che José non voglia ripartire finché non si sarà impresso sulle mani la forma di ogni singolo angolo ed ogni singola curva del suo corpo. Continuando di questo passo, però, non sarà l’unico a restare con una traccia addosso – sarà lo stesso per Zlatan, che probabilmente si porterà dietro il peso della pressione dei suoi polpastrelli per molti mesi, anche dopo che José sarà tornato a Milano.
- Non ti perdonerò mai per essere uscito dallo stadio prima della fine della partita. – dice guardando il soffitto. S’è sistemato così comodamente nell’incavo del suo collo che ha quasi l’impressione di esserci nato, in questa posizione. – Ti sei perso il mio primo gol al Barça.
- Ma non mi dire, - ride José, spostandosi a giocare in punta di dita sul disegno tribale che copre la spalla, - hai segnato? – Zlatan annuisce, trovando perfino il coraggio di mettere su un mezzo broncio offeso, e José ride ancora. – E com’è stato questo gol? – chiede a bassa voce. Il suo respiro agita appena i capelli sul suo collo, Zlatan ha i brividi ovunque.
- Mmh. – commenta con una scrollatina di spalle, - Diciamo che è stato meglio se non l’hai visto, forse.
- E allora con che faccia tosta ti arrabbi? – rimbrotta lui, dandogli uno schiaffetto lieve sulla fronte, - Dinamica?
- La palla è arrivata, - spiega Zlatan, - diciamo in modo rocambolesco.
Diciamo?
- Sì, be’, - biascica, adesso vagamente imbarazzato, - diciamo che non è stato proprio un passaggio pulito pulito. C’era di mezzo la testa di uno del Gijon, non so, non c’ho fatto molto caso, in realtà. – aspetta che l’ennesima risata divertita di José torni a spegnersi, prima di continuare. – E poi niente, mi sono buttato in avanti e ho sperato di prenderla. E l’ho presa.
- Normale amministrazione, quindi. – lo prende in giro con un ghigno che Zlatan non vede ma intuisce perfettamente nel tono della sua voce. Risponde con una gomitata nelle costole, neanche troppo gentile, e sbuffa teatralmente, fra le risate di José che non sembrano intenzionate a fermarsi neanche a causa del dolore. – Scusa, scusa. – gli dice, quando finalmente la pianta di ridacchiare, - Ascolta. C’è una cosa che non ho avuto il tempo di dirti, quando sei andato via.
- Non hai avuto il tempo? – sbotta Zlatan, piegando indietro la testa e guardandolo da sotto in su, - Ci ho messo tipo due settimane ad andarmene!
 - Già. – annuisce José con un’altra risata, stavolta un po’ amara, - Io ce ne ho messe tre per venirci a patti. – confessa, e Zlatan serra le labbra e smette di guardarlo. José, comunque, non smette di parlare. – Ci ho messo un po’ a capirlo, perciò non potevo dirtelo subito. E dirtelo al telefono sarebbe stato assurdo. Comunque il punto della questione è che non deve per forza cambiare tutto, Zlatan. Ci siamo un po’ persi perché ci siamo… come convinti che vederti cambiare squadra sarebbe stata una specie di fine del mondo. Di quelle piccole, che sconvolgono solo gruppi ristretti di persone, ed alle quali nessuno su grande scala bada. Il nostro piccolo Armageddon personale.
- E invece non lo era? – chiede, e la voce esce fuori con difficoltà, perché un po’ ci spera ancora. Un po’ – è assurdo, ma ci spera davvero – spera che José adesso gli dica “sì, va tutto di merda, è un’apocalisse di proporzioni devastanti, stiamo giocando male, abbiamo bisogno di te. Torna a Milano con me”. E lui partirebbe, cazzo. A costo di mettersi a litigare col presidente in persona e farsi tirare fuori dalla rosa fino a dicembre, dannazione, troverebbe un modo per tornare a Milano. Lo troverebbe lui o convincerebbe Mino a trovarlo, o in qualche altro modo comunque risolverebbe la questione, perché se ripensa alle attese adesso che sta fra le braccia di José non è poi davvero tanto sicuro di sentirne così tanto la mancanza.
Sa che non è possibile, però.
- No, non lo era. – risponde José con naturalezza, - Stiamo giocando bene. Abbiamo faticato un po’ a trovare il ritmo, sai?, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Non so se hai visto il derby, ma-
- L’ho visto. – sospira lui. – Siete stati grandi.
José ride piano.
- Avevi detto di non passare tanto tempo davanti alla tv.
Zlatan torna a guardarlo da sotto in su.
- E tu avevi detto di non aver ascoltato neanche una mia dichiarazione, da quando sto qui.
Ridono entrambi, contemporaneamente, rotolando un po’ sul letto e scombinando tutte le lenzuola.
- Comunque non l’ho vista in tv. – precisa Zlatan, ridendo ancora mentre José torna a scrivergli cose sul braccio, - L’ho vista al pc. E non hai idea di che fatica sia stata trovare un dannato streaming funzionante.

*

Le ultime parole di José, prima di salire sull’aereo per Milano, sono state “Al prossimo giro vieni tu, io sono troppo vecchio per queste sfacchinate mordi e fuggi, anche se quello che mordo mi piace”. Zlatan ha risposto tirandogli una spinta spalla contro spalla e promettendogli che la prossima volta non solo sarà lui ad andare a Milano, ma sarà anche lui a mordere. José ha fatto un sorriso storto e poi se n’è andato, e Zlatan si ritrova ad imitare quello stesso identico sorriso mentre raccoglie gli scarpini e un po’ di roba dalla quale non si separa mai all’interno del borsone. Fra un paio d’ore ha il volo per Stoccolma e naturalmente è in ritardo. Lagerbäck già lo odia perché ha chiesto di potersi presentare un giorno dopo a causa di un fantomatico dolore al ginocchio che, per via dei suoi precedenti, non è stato preso granché sul serio, e quindi appena metterà piede sul suolo svedese comincerà a sentire urla che non si esauriranno fino alla fine di questo turno di qualificazioni.
Sospira pesantemente, passandosi una mano fra i capelli e districando qualche nodo all’altezza delle punte. Sono troppo lunghi e da quando è a Barcellona non li ha lisciati nemmeno una volta, li ha sempre lasciati liberi di andare un po’ dove volevano, ma probabilmente è arrivato il momento di tagliarli. Lo segna sulla lista come prima cosa da fare una volta tornato in patria, Lagerbäck o meno.
Il lieve colpetto di tosse che lo coglie all’improvviso alle spalle lo costringe a girarsi di scatto, tirandosi un po’ i capelli nel movimento.
- Ahi… - si lamenta, liberando la mano dall’intreccio di boccoli all’altezza del collo, - Boji? – chiede quindi, un po’ incerto. Il ragazzo non lo guarda, resta lì a qualche metro da lui e fa fatica perfino a rimanere fermo, tanto è nervoso. Continua a spostare il peso da un piede all’altro, come non riuscisse a trovare pace. Zlatan sospira: Guardiola l’ha ignorato per tutto il giorno e la situazione s’è fatta pesante. È un bene che debba partire per gli impegni in Nazionale: se tutto va come deve, per il momento in cui sarà tornato, tutta questa faccenda se la saranno lasciata entrambi alle spalle. – Bojan, ti prego, non fare così. È già abbastanza imbarazzante anche evitando queste scene, ti pare?
Lui risponde con un sorriso minuscolo, avanzando di qualche passo e poi, finalmente, guardandolo.
- Pep non sa che sono qui… - mormora incerto, - Voglio dire, l’ha presa male, è molto preoccupato e- - Zlatan lo interrompe con una risata tonante, riprendendo a sistemare la propria roba nel borsone come niente fosse stato. Bojan inarca un sopracciglio ed arriccia le labbra in una smorfia infantile ed offesa. Zlatan lo ferma prima ancora che possa parlare.
- È tutto ok, Boji. – sorride, chiudendo il borsone ed avvicinandoglisi. Gli lascia passare un braccio attorno alle spalle, se lo tira contro e gli scompiglia i capelli, teneramente. – José non dirà una parola, garantisco io per lui. Di’ al mister di stare tranquillo.
Bojan ridacchia, un po’ imbarazzato, e poi solleva lo sguardo mentre, ancora abbracciati, si muovono insieme verso l’uscita dello spogliatoio.
- Sai che è la prima volta che lo chiami mister? – gli chiede. Zlatan sorride, guardando il cielo terso di Spagna non appena si ritrovano all’aria aperta.
- Davvero? – gli scompiglia ancora i capelli, inspirando ed espirando profondamente, - Non me n’ero accorto.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Flashfic, Bondage.
- Illusione di possesso.
Note: Io sono molto, molto, molto contraria al concetto che sta alla base di questa storia. L’ho scritta in trance, senza pensarci troppo, seguendo gli strascichi (poco salutari) dell’aver guardato questo video su Zlatan per un paio di volte nel pomeriggio. Che devo dirvi, sono femmina, gli ormoni sono quelli che sono e Zlatan, dannazione a lui, ne è un concentrato. Soprattutto quando è seminudo. José, perdonami ;_;
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Disincanto
81. Questione di scarsa mobilità


I muscoli contratti nello sforzo di liberarsi dalle manette, il corpo che si inarca in preda agli spasmi inevitabili di piacere che la sua mano fra le cosce lo costringe a provare, le labbra strette con forza fra i denti, gli occhi chiusi, le palpebre serrate, le sopracciglia aggrottate e quella piccola ruga proprio sopra la radice del naso, le gambe che tremano, incerte e in bilico fra il desiderio di serrarsi attorno al suo polso e quello di allargarsi per lasciargli più spazio possibile, l’erezione che svetta e appare e scompare fra le sue dita serrate attorno alla pelle bollente e un po’ umida e tesa, i gemiti che non riesce a impedirsi di lasciare scivolare sulla lingua, la stessa lingua che ogni tanto saetta sulle labbra riarse dalla voglia per cercare di placare un bruciore che non si può certo spegnere con così poco, le spalle larghe che tirano e si tendono, il bacino che segue svelto i movimenti della sua mano chiusa a pugno, le natiche sode e la violenza con cui stringe la presa attorno alle sue dita come a dargli l’impressione di volerlo imprigionare dentro di sé con tutti i muscoli che possiede, il collo esposto, il pomo d’Adamo che viaggia lungo la gola, verso l’alto e verso il basso, seguendo il ritmo affannoso dei suoi respiri, le dita di mani e piedi che si aprono e si chiudono incontrollatamente seguendo le onde di piacere che esplodono nel bassoventre per poi ripercuotersi lungo tutta la superficie del suo corpo come l’alta marea, dandogli i brividi e costringendolo a trattenere il respiro – Dio, il corpo di Zlatan è una cosa troppo bella per stare in gabbia, José quasi non riesce a credere di poterlo tenere costretto e immobile solo con due anelli di metallo, eppure è quello che succede, e lui deve deglutire un paio di volte e costringersi a prendere atto della realtà così com’è per non perdere la concentrazione e mandare tutto a puttane.
- Ti diverti? – soffia Zlatan, muovendosi ritmicamente contro di lui e sollevando una gamba per sfiorargli un fianco col ginocchio. – Ti sembra una cosa tanto divertente?
- Al contrario. – risponde José, lasciando in pace la sua erezione e risalendo con due dita umide lungo il suo ventre, riscrivendo il suo nome nella curva dello stomaco proprio sotto l’ombelico, e poi ricominciando la scalata fino ai capezzoli turgidi e sensibili che costringono Zlatan a un brivido incontenibile nel momento in cui vengono appena sfiorati, - La trovo una cosa molto seria.
Zlatan si dipinge sul viso un ghigno che se possibile lo rende ancora più odioso e intrattabile – è bello in maniera del tutto perfida, sorrisi del genere ti danno l’impressione di poterlo catturare nel palmo della mano e invece lui è pronto a spiccare il volo al minimo segno di cedimento, è pronto sempre, vive in attesa del momento in cui stornerai lo sguardo per cogliere quel singolo attimo e fuggire via il più lontano possibile.
- Se non ti diverti, non è divertente. – lo prende in giro, strattonando le manette perché tintinnino contro la testiera in ferro battuto.
- Silenzio. – ordina José, tornando a stringere la sua erezione fra le dita, - L’accordo era per il silenzio.
- Ma ti piace sentirmi sussurrare il tuo nome. – continua Zlatan, impietoso, le labbra ancora piegate in quel sorriso da schiaffi, - Ti piace quando ti sfioro le orecchie con le labbra e- José, José, Zay!
- Smettila. – intima lui, sistemandosi fra le sue gambe con un gesto repentino e premendosi con forza contro di lui, la punta che già si insinua dentro al suo corpo, scavandosi un posto molto meno difficile da trovare e raggiungere di quanto José non vorrebbe. – Sta’ zitto.
- Ti piace l’idea di potermi tenere sotto controllo. – sussurra Zlatan, spingendosi nella sua direzione con un movimento repentino, quasi violento, ed accogliendolo dentro di sé per tutta la sua lunghezza, lasciando andare un soffio a metà fra il compiacimento e il fastidio, - Queste ti aiutano a sentirti potente. – continua, accennando alle manette e alla sottile catena che le unisce, ancorandole ad una sbarra della testiera, - È solo ferro, Zay, è solo un momento. – lo disillude, muovendosi lentamente avanti e indietro, dettando il ritmo di quella scopata a senso unico in entrambi i sensi, - Io non sono tuo. Io non sono di nessuno.
José chiude con forza le mani attorno ai suoi fianchi e Zlatan si lascia sfuggire un mugolio sottilissimo, mentre lo accoglie più in profondità di quanto José abbia l’impressione di averlo mai percepito fare, e riprende a sussurrare il suo nome, ZayZay, presuntuoso e crudele e indomabile e pericoloso, molto più pericoloso di quanto José non avrebbe mai potuto pensare o anche solo intuire prima di posargli gli occhi addosso e rimanerne stregato.
Viene dentro di lui con un gemito gutturale, senza preoccuparsi di rendere a Zlatan il favore, ma quando apre gli occhi scopre che qualsiasi tipo di preoccupazione in tal senso sarebbe del tutto inutile: Zlatan è venuto, sì che è venuto, era quello che voleva, d’altronde, e Zlatan in questo è perfino più vincente di quanto non sia lui stesso, ottiene sempre ciò che vuole.
Lo guarda attentamente, mentre lascia scorrere due delle sue lunghissime dita sul proprio ventre e le sporca appena, sollevandole subito in direzione delle sue labbra. José non aspetta che ci sia una richiesta, da parte sua: le accoglie in bocca, fra i denti, fra la lingua e il palato, e succhia con un bisogno e un desiderio che lo lasciano stordito.
Zlatan sorride, estremamente compiaciuto.
- Non sono tuo. – ripete, - Non sono tuo. Tu sei mio.
José scosta lo sguardo ed osserva tristemente le proprie mani ancora serrate sui fianchi di Zlatan. Attorno ai suoi polsi non ci sono catene, ma è come se ci fossero.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno (ok, ci sono accenni di Jobra, se proprio li volete vedere *sbuffa*).
Rating: G
AVVERTIMENTI: Nessuno.
- Zlatan, in visita a villa Ratti, trova qualcuno che non si aspetta.
Note: Cerchiamo di ignorare tutti assieme quanto palese sia il subtext Jobra in questa storia, e fingiamo che sia davvero una gen \o/
No, va be’, scherzi a parte è una gen, perché in realtà io qui non volevo per niente raccontare dei non detti del rapporto fra Zlatan e José XD Piuttosto volevo concentrarmi sull’irrequietezza intrinseca di Zlatan, su come non riesca a sentirsi felice qualsiasi sia il posto in cui si trova. Se è a Barcellona, quando pensa a casa gli viene in mente Milano. E quando invece arriva a Milano, scappa verso casa, che è ritornata Barcellona. Benedetto ragazzo. *sospira*
Comunque l’idea mi martella in testa da quando José ha detto di essersi fatto male al mignolo giocando a basket con suo figlio XD (Sì, mi basta così poco. Oh, insomma.)
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This Will Tell You I Was There


Zuca non ha ancora imparato a giocare a basket, e questa è l’unica cosa che Zlatan può dire con certezza in questo momento, mentre lo osserva maneggiare la palla con aria tutt’altro che convinta, lasciandola rimbalzare a terra e provando a governarla con una mano sola, arrendendosi pochissimi tentativi dopo e sospirando profondamente mentre la regge alta sopra la testa, osservandola come fosse un qualche strano animale dotato di una propria coscienza e bene intenzionato a rendergli la vita difficilissima.
È abbastanza ridicolo, si dice, restare lì dietro la siepe a spiarlo come un ladro o qualcosa di ancora peggiore. Se qualcuno della sicurezza lo trovasse adesso, soltanto il suo nome potrebbe salvarlo da una ben meritata notte dietro le sbarre. Che è, per inciso, qualcosa che Zlatan di sicuro non può permettersi, dal momento che è praticamente fuggito via come un disperato cogliendo l’occasione della partita già giocata al sabato sera – no, non riuscirà mai ad abituarsi a giocare sempre costantemente il sabato – e del posticipo dell’Inter nella serata di domenica. “Parto”, si è detto, “saluto un po’ di vecchi amici, guardo la partita e per lunedì, massimo ad ora di pranzo, sono di nuovo a Barcellona”.
Per qualche motivo, però, l’indirizzo che ha dato al tassista recuperato subito fuori dall’aeroporto non era quello del centro sportivo ad Appiano, e non era neanche quello della sede in centro a Milano. Non era casa di Deki né casa dei bambini, non era casa di Marco, non era casa del presidente, ma Villa Ratti. Casa di José.
Non ha la minima idea del perché si trovi qui – il suo processo mentale è stato qualcosa di spaventosamente simile a “ok, non ho più una casa a Milano, dov’è che vado per non sentirmi del tutto fuori posto?”. Dovrebbe preoccuparsene, perché in fin dei conti a Villa Ratti lui nemmeno ci ha passato tutto questo tempo, dopotutto. Un po’ di cene, sì, qualche domenica pomeriggio con Helena e i bambini – anche perché Vinny adora Titi e Maxi adora la piscina – ma niente di più. Quanto, in tutto, una settimana, facendo il conto delle ore? Non abbastanza per definire quel luogo “casa”, visto che a stento ci riesce con Malmö.
- Puoi anche venire fuori, eh. – dice piano Zuca, riprendendo a far rimbalzare la palla.
Imbarazzato, Zlatan esce dal proprio nascondiglio, grattandosi nervosamente la punta del naso. Zuca sta venendo su incredibilmente simile a suo padre, ed è facile notarlo soprattutto nel suo atteggiamento: distaccato ma cordiale; è un po’ rigido, forse, ma il suo sorriso è caldo e tenero, sinceramente affettuoso.
- Ciao. – lo saluta timidamente, quasi sentendosi in soggezione nei suoi confronti e nei confronti dell’intimità di quel posto, un’intimità che sta violando. – Dov’è papà?
- È dentro ad aiutare mamma con qualcosa. – risponde Zuca vago, prendendo le misure fra se stesso e il canestro. – Volevi parlare con lui?
Per qualche secondo, Zlatan resta spiazzato da quella domanda posta con innocenza, perfino un po’ stupida: il tono di Zuca sembrava essere quello che avrebbe usato per chiedergli la stessa cosa se, per presentarsi all’improvviso a casa Mourinho, Zlatan avesse semplicemente dovuto attraversare la strada, e non prendere due taxi e un aereo come invece era stato costretto a fare.
- No, io… - comincia balbettando, - Forse. – ammette quindi, scrollando le spalle. – Non lo so con certezza.
Zuca gli solleva addosso gli occhi castani chiarissimi, e lo scruta con un po’ di sospetto.
- Tu stai a Barcellona adesso, vero? – chiede, come a volersene sincerare. Zlatan annuisce in silenzio. – E hai una bella casa? – continua Zuca, palleggiando un paio di volte.
- In realtà sto ancora in albergo. – risponde lui con un mezzo sorriso, grattandosi la nuca, - Non ho ancora trovato un posto adatto.
Zuca annuisce compitamente.
- Papà dice che non lo troverai mai. – commenta con distacco, - Dice che per te fermarti è impossibile, e che quando ti sembrerà di aver trovato un posto adatto, in quel momento vorrai già andartene via. Dice – continua – che è questo che è successo con la villa che avevi trovato qui a Milano, quella che hai dovuto vendere prima di partire per Barcellona. Dice che ti succederà anche lì.
- Tuo padre dice un mucchio di cose, mh? – chiede Zlatan, indispettito, mani sui fianchi e smorfia offesa sul volto.
- Sì. – ride Zuca, - Lui parla tanto. – e poi gli porge la palla da basket. – Giochi?
Zlatan lo guarda, un po’ stupito, prima di prendere la sfera fra le mani e palleggiare con una disinvoltura notevolmente maggiore rispetto a quella che ha sfoggiato Zuca fino a questo momento. Il bambino lo osserva riprendere confidenza con la palla, girare un po’ in cerchio attorno a lui palleggiando con concentrazione e poi correre a canestro, insaccando il pallone con un salto talmente fluido e naturale da non sembrare nemmeno vero.
- Aaah! – gioisce, battendo le mani e saltellandogli accanto con entusiasmo, - Era vero quello che diceva papà!
- Sentiamo, - ride Zlatan, scompigliandogli i capelli chiari, - cos’altro diceva papà?
- Che quando salti sembra che voli! – annuisce Zuca, ridendo a propria volta e grattandosi il naso infastidito dalle punte della frangetta lunghissima che è scesa a solleticarlo sotto la pressione delle lunghe dita di Zlatan.
E Zlatan sorride intenerito, consegnandogli la palla e poi stringendolo ai fianchi, sollevandolo abbastanza da permettergli di fare canestro ridendo entusiasta e sgambettando allegro ed agitato come il bambino che è, prima di adagiarlo nuovamente sul campetto di cemento.
- Vieni dentro, dai! – ride Zuca, prendendolo per mano e cominciando a trascinarlo verso casa, - Papà sarà contento di vederti, devi vederlo come borbotta da quando sei andato via! Sembra diventato nonno Félix!
- Ehi, piano, piano! – punta i piedi Zlatan, frenando così bruscamente che Zuca, già tutto proiettato verso la villa, rimbalza all’indietro come un elastico, finendo per rovinargli addosso. Lo regge per le spalle, rimettendolo dritto ed evitando i suoi occhi quando gli si posano addosso con curiosità, preferendo concentrarsi sullo zaino con poche cose che ha portato con sé da Barcellona ed ha abbandonato accanto al campo quando il bimbo gli ha chiesto di giocare. – Forse non è il caso di disturbare, dai. Devo tornare a casa, e poi è quasi ora di cena.
- Oh… - mugola Zuca, visibilmente deluso, - Papà sarà triste di non averti potuto salutare. – considera a bassa voce.
- Tu non dirgli che sono passato, ok? – chiede con una certa urgenza, recuperando lo zaino e sistemandoselo in spalla, - E… ehi. – richiama la sua attenzione con un sorriso, - Quando passi la palla, guida la traiettoria con la sinistra e dai la spinta con la destra, e che sia bella forte, ma precisa. – Zuca lo guarda come stesse parlando in aramaico. Aggrotta le sopracciglia sottili ed inclina un po’ il capo, prendendo poi a fissare nuovamente la palla come fosse tornato lo stesso oggetto oscuro e misterioso di mezz’ora prima. Zlatan ride di cuore. – Andrà meglio col tempo. – dice, sentendosi improvvisamente pieno di qualcosa che non riesce nemmeno a definire, e tranquillo. – Va sempre meglio, col tempo.
Zuca lo saluta debolmente con la mano, e Zlatan sparisce lungo il viale quasi correndo. Se prende il primo aereo, fa in tempo ad essere a casa prima di sera.

*

- Non capisco perché tua madre si ostini a chiedermi aiuto con le mensole in casa, quando è evidente che io le complico solo la vita. – si lagna José uscendo nuovamente in giardino e passandosi una mano fra i capelli scompigliati. – Giochiamo? – chiede, cercando il figlio con gli occhi e trovandolo a pochi centimetri da sé, sorridente come quando l’ha lasciato.
Zuca annuisce e si allontana saltellando. Palleggia impacciato, ma riesce almeno a governare la palla con una sola mano, nota José compiaciuto. Si vede che si è allenato, mentre lui era dentro.
- Palla! – grida il bambino, fermandosi all’improvviso e voltandosi verso di lui, tirandogli addosso una cannonata di invidiabile potenza e disastrosa precisione. José si allunga per cercare di recuperarla senza che faccia danni; la intercetta con il mignolo, deviandola abbastanza da impedire che vada ad infrangersi contro la finestra della cucina, e subito dopo lancia un grido che, per quanto abbia cercato di trattenerlo fino a mordersi a sangue il labbro inferiore, terrorizza Zuca abbastanza da costringerlo ad inarcare le sopracciglia e spalancare gli occhi, indietreggiando di qualche passo prima di riprendere coraggio e corrergli preoccupato accanto. – Papà! – lo chiama agitato, - Scusa!
- È tutto ok, è tutto ok… - tira fuori José, abbozzando un sorriso affaticato e tastando delicatamente il dito per cercare di capire cosa sia successo. Fa male, e parecchio anche. Sospira, cercando di riacquistare il controllo dei nervi abbastanza da costringersi a placare il dolore o costringere il cervello ad ignorarlo almeno in parte, e poi si rimette dritto. – Ma chi diavolo ti ha insegnato a tirare così? – chiede quindi, inarcando un sopracciglio.
Zuca storna lo sguardo, vago, e scrolla le spalle. José lo fissa con attenzione, incerto, e poi i lineamenti del suo volto si stendono in un attimo, mentre solleva lo sguardo e lo gira celermente intorno, come alla ricerca di qualcuno.
- Papà…? – lo chiama Zuca, guardandolo dal basso con aria colpevole, - È tutto a posto?
- …sì. – annuisce lui dopo un attimo di incertezza, circondandogli le spalle con un braccio e sospingendolo piano verso casa. – Torniamo dentro, dai. – conclude. Ma non riesce ad impedirsi di guardarsi ancora nervosamente intorno alla ricerca di Zlatan, pur rientrando in casa.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash.
- Ennesima rivisitazione dell'addio più famoso del fandom =P
Note: Premesso che il maglioncino esiste davvero e nel momento in cui l’ho visto atterrare a Barcellona vestito in quel modo il mio cervello è esploso senza più possibilità di ricomporsi, ho da dire solo tre cose. Primo: non so come sia possibile che io abbia ancora qualcosa da dire su questo addio, ma così è. Ogni tanto rileggo le storie che ho già scritto sul momento in cui Zlatan è andato via, e mi sembra sempre che manchi qualcosa. Sospetto che non arriverà mai il momento in cui potrò dire serenamente “ecco, adesso ho detto tutto”. Non so se sia un bene o un male XD Secondo: è palese che It100 e i suoi Challenge mi uccideranno, perché senza il Challenge #27: Triade #1 niente di tutto ciò sarebbe mai venuto alla luce. Terzo: i Muse sono divini e Resistance è una canzone meravigliosa adattabilissima ad una quantità spropositata di pairing – tra i quali anche il Jobra. Il titolo è rubato ad uno dei versi della canzone, con tanto affetto <3
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Love Is Our Resistance


.Buio.
La stanza è avvolta nella più totale oscurità, e l’unico suono percettibile in quella calma buia e un po’ ovattata è il respiro sereno di José. Scandisce regolare lo scorrere del tempo – il suo petto si solleva e con lui la mano che Zlatan vi ha poggiato sopra – e Zlatan sa che, se sta sentendo avvicinarsi l’alba, non è perché quella stia arrivando davvero, ma perché ha già contato decine centinaia migliaia di respiri di José, e allora davvero non può mancare così tanto al nuovo giorno.
Non sa perché gli abbia chiesto di dormire insieme un’ultima volta – non ne aveva il diritto – e non sa perché José abbia accettato – non ne aveva il dovere – ma nel momento in cui lo sente rigirarsi sul materasso ed avvolgerlo fra le braccia con un sospiro più profondo degli altri, che gli impedisce di capire se dorma ancora o se alla fine si sia svegliato, non gli importa nemmeno così tanto.
 
.Grigio.
Il maglioncino è lì fra le sue mani. È morbido e piuttosto leggero, è Armani. Stava dentro una scatola rettangolare bassa ed elegante, di un colore molto simile a quello del tessuto – un grigio chiaro, brillante, semplice, il classico capo d’abbigliamento che puoi mettere in ogni occasione e con qualsiasi altro colore senza mai sfigurare. Zlatan lo accarezza con devozione per molti secondi, e sorride nell’immaginare José scivolare di nascosto in camera sua ed infilare quel pacchetto nella sua valigia senza che lui se ne accorga.
Guarda la lettera ancora chiusa sul letto – pensa all’improvviso che in Svezia fa fresco, quindi può già indossarlo quel maglioncino, per partire, ma a Barcellona, quando sarà arrivato, probabilmente morirà di caldo. Dovrà trovare un modo per toglierlo, quando sarà lì, suppone, ma nel momento in cui lo indossa sopra la camicia bianca e si siede sul materasso, prendendo fra le mani il biglietto di José e preparandosi a leggerlo, non gli importa nemmeno così tanto.
 
.Mattino.
Il sole picchia. È tutto quello cui riesce a pensare. Il sole picchia e si rifrange sulla sua nuova maglietta da allenamento, che è una maglietta gialla fosforescente davvero assurda. Quando Mino gliel’ha vista addosso è scoppiato a ridere, gli ha fatto notare che quel colore gli riempiva la pelle di riflessi verdognoli vagamente malsani e poi, con un sorriso appena più mesto che l’ha stupito più di tutto il resto, ha aggiunto che probabilmente stava meglio in azzurro. Zlatan non ha risposto – in compenso ha stretto con forza le dita attorno al bigliettino di José, accartocciandolo tutto. Ha sciolto la presa subito dopo, non voleva spiegazzarlo così. S’è morso un labbro con forza per resistere alla tentazione di tirarlo fuori e rimetterlo a posto anche lì davanti al suo agente.
Poi ha sospirato ed è tornato a sedersi al proprio posto, osservando l’allenamento dei suoi nuovi compagni senza potervi prendere parte. Il polso sinistro fa male e si sente fuori luogo in maniera fastidiosa, probabilmente è anche vero che stava meglio in azzurro, ma il biglietto di José dice “chiamami quando vuoi”, e quindi Zlatan sorride, e di tutto il resto non gli importa davvero un cazzo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Erotico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon.
- Zlatan chiama José, poco prima dell'inizio della Liga in Spagna, chiedendogli un appuntamento a Como.
Note: È passata una vita, da quando ho scritto questa fic (un paio di settimane, nella mia quotidianità di ficwriter, sono un tempo enorme, visto che in quattordici giorni in genere butto giù almeno cinque fic complete e altrettante in corso d’opera T_T), quindi naturalmente non mi ricordo più perché l’ho fatto XD Deve essere stata colpa di Def perché ricordo una conversazione su MSN in cui gli ho fatto leggere un pezzo della storia e lui si aspettava che fosse un’altra storia. Perciò lui mi disse “non è quella o_o” e io risposi “no, non lo è”, e lui replicò con uno sconcertato “non mi dire che hai preso il plot di prima?!”, riferendosi ad un plotcriceto di cui avevamo parlato qualche minuto prima, quindi so per certo che l’idea me l’ha data lui XD Anche se non ricordo più come. In sostanza, tutto ciò lo dico perché se non vi è piaciuta ora sapete con chi prendervela :D
(Titolo rubato all’omonima canzone degli Evanescence.)
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Tourniquet
50 Places / 020 Automobile @ PWP Fest (Kinks&Pervs)


- Quando mi hai chiamato, - dice José, addentando il panino e tamponandosi l’angolo della bocca con un tovagliolo per impedire alla salsa rosa di scivolargli lungo il mento, - ho pensato seriamente di mandarti a quel paese e dirti che potevi tornartene a Barcellona. E ora che “andiamo a cena fuori” è diventato “mangiamo un panino da qualche parte”, mi pento di non averlo fatto.
Zlatan ride, mandando giù un morso del proprio panino con salsiccia e molleggiando lentamente sulla ringhiera addosso alla quale è appoggiato, un po’ sollevato dal suolo, come a ribadire una posizione di superiorità che, se non gli è già stata data dall’altezza, gli è stata comunque confermata dall’essere stato quello a soffrire di meno, a causa di tutto il casino che è stata la loro relazione prima e dopo la sua partenza.
- Almeno è un buon panino. – ribatte, annuendo compiaciuto.
- Il tuo, forse. – insiste José, cocciuto, - Il mio è amaro.
- Amaro? – chiede lui, inarcando un sopracciglio.
- Aha. – risponde l’uomo con una scrollata di spalle, - Avresti anche potuto portarmi nel più raffinato dei ristoranti francesi di Como, e penso che avrei trovato amaro perfino il pâté de foie gras.
Zlatan si concede una mezza risata, prima di fermarsi e lanciare al lago debolmente illuminato una lunga occhiata pensierosa.
- Ma ci sono ristoranti francesi, qui a Como? – chiede quindi in tono quasi infantilmente curioso, costringendo José ad una risata anche troppo simile alla sua.
- Non ne ho la più pallida idea. – risponde con un sospiro, - E comunque non era quello il punto della questione.
- Sai, José? – prosegue Zlatan, il panino dimenticato fra le mani e gli occhi che indugiano nostalgici su tutta la superficie dell’acqua, accarezzandola lentamente fino ai monti che la racchiudono all’orizzonte come in un abbraccio, - Non l’ho mai davvero capito fino in fondo, quale fosse il punto con te.
- Forse perché era estremamente semplice. – risponde lui, seguendo la traccia del suo sguardo per sfiorare il lago con la stessa intensità, - Non sei mai stato molto elastico, in questo senso. Tu sei un uomo che impazzisce per le cose grandi, le cose epiche e distruttive, e-
- E tu no? – scocca, accompagnando la frecciata con occhi che brillano di fastidio appena accennato. José continua a fissare il lago e si degna di rispondergli solo dopo un altro morso al panino, portando gli occhi su di lui e scrutandolo attentamente.
- Anche io, sì. – ammette, - È per questo che su di te mi ci sono totalmente perso. Ma – prosegue, incartando ciò che resta del proprio panino e cercando in giro un cestino in cui gettarlo, - so anche riconoscere il valore delle cose semplici, quando me ne trovo di fronte una.
- E quando mai fra noi le cose sarebbero state semplici? – sogghigna Zlatan, continuando a mandare giù la propria cena in morsi svelti e brevi, come avesse fretta di finire per poter scappare via. Di già.
José abbassa lo sguardo e riflette – Zlatan vede scorrere i ricordi di un anno intero nel brillio cupo delle sue pupille illuminate a tratti dalle luci giallastre dei lampioni tutti intorno.
- Per me hanno cominciato ad esserlo nel momento in cui ho capito che era te che volevo, e che non potevo rinunciare alla tua presenza. – ride un po’, amaramente, - Cioè, immagino, più o meno quando hanno cominciato a farsi difficili per te. È questo, credo, il motivo per cui io e te abbiamo dovuto chiuderla, a un certo punto. – ragiona serio, grattandosi il mento e acconciando le labbra in una smorfia a caso pescata alla cieca dal suo famoso campionario, - Tu ed io siamo molto simili, combattiamo entrambi, di continuo. Solo che tu combatti per la conquista, io combatto per quello che viene dopo. Non abbiamo obiettivi comuni, capisci? Tu ti fermi e perdi interesse, quando conquisti qualcosa, io invece il mio interesse comincio ad accenderlo proprio quando quella cosa ce l’ho fra le mani. Capisci perché non può andare?
Zlatan, naturalmente, scuote il capo, gettando il proprio panino nel primo cestino disponibile.
- Tu hai due difetti enormi. – risponde, apparentemente senza seguire alcun nesso logico con quanto José ha appena detto, - No, ok, hai una quantità spropositata di difetti enormi, ma i due peggiori in assoluto sono che parli troppo e, soprattutto, parli in modo da farti dare sempre ragione.
- Perché ho sempre ragione.
- No, perché vuoi la ragione a tutti i costi, anche quando non ce l’hai. – precisa Zlatan, incamminandosi per il lungolago, le mani ficcate a fondo nelle tasche dei jeans e José al fianco, svariati centimetri più lontano da lui, tanto da non poter nemmeno sentire il tepore e il profumo che si emanano dal suo corpo. – Ho combattuto per te perché ti volevo. E ti ho voluto finché ti ho avuto.
- E poi non mi hai voluto più. – prosegue José con un sorriso sghembo.
- No. – nega risolutamente Zlatan, quasi fermandosi in mezzo alla strada per guardarlo dritto in viso, - È qui che ha cominciato a farsi tutto più complicato. Ma questa è una cosa di me che non hai mai capito e non capirai mai.
- Perché non me l’hai mai spiegata. – motiva lui in un mezzo ringhio.
- Perché non è spiegabile. – insiste Zlatan, convinto, - Perché non sei uno zingaro, perché ti leghi ai posti in cui vivi, perché ti affezioni e resti affezionato anche quando vai via.
- E tu no.
- E io no.
- Ma sei qui, ora.
Zlatan ridacchia, grattandosi imbarazzato la nuca.
- Ed ecco che ricomincia a farsi complicato.
- Sai cosa credo io, invece? – ride José, sospirando un po’, - Che ti dia fastidio ammettere che per più di qualche minuto, in barba al tuo animo zingaro e stronzate varie, tu abbia pensato seriamente alla possibilità di restare. Per me.
Zlatan gli lancia un’occhiata risentita, imbronciandosi appena.
- Tiri la corda. – lo avverte in uno sbuffo insoddisfatto, e José ride ancora.
- Vedi? – lo prende in giro, - Semplicissimo.  – e Zlatan rotea gli occhi.
- Ti riporto a casa. – sbotta, - È evidente che qui abbiamo sbagliato entrambi.
- Hai sbagliato tu, semmai. – replica José, - Io non ho mai pensato che questa serata sarebbe stata qualcosa di diverso da un clamoroso buco nell’acqua.
Zlatan inspira profondamente, cercando di calmarsi, prima di rispondere.
- Hai ragione. – concede infine, - Ho sbagliato io. Perché ci ho sperato.
Non dicono più una parola finché non si trovano rinchiusi nell’ambiente incredibilmente inospitale della Mercedes di Zlatan. Profuma di buono – profuma di lui, e José non riesce ad ignorarlo anche se vorrebbe profondamente – e si muove svelta e discreta lungo strade che entrambi conoscono a memoria, hanno ripercorso decine – centinaia – di volte e sembrano intrecciarsi in un viaggio lungo all’infinito solo perché nessuno dei due vuole davvero porre fine a quella serata, per quanto brutta possa essere stata, con un nulla di fatto. I pareggi non li hanno mai esaltati, e ci sono questioni per le quali trovarsi esattamente a metà fra due posizioni opposte non porta sollievo a nessuno.
Zlatan sospira con forza mentre si ferma all’improvviso, accostando sul niente in una strada semisterrata in un punto imprecisato fra il vuoto e il nulla. José solleva lo sguardo e lancia brevi occhiate tutte intorno a sé, cercando di scorgere un qualsiasi punto di riferimento nel buio che li circonda, ma il paesaggio non gli è familiare, anche se probabilmente dovrebbe, e perciò si volta a guardare l’unica cosa che sia sicuro di poter riconoscere con certezza nel raggio di chilometri.
- Perché? – chiede, osservando attentamente Zlatan, che si ostina a fissare il volante ancora stretto fra le mani.
- Perché – risponde immediatamente lui, mordendosi con forza il labbro inferiore per provare a calmarsi, - perché non voglio lasciarti andare. Perché forse – concede, voltandosi finalmente a guardarlo, - forse hai ragione tu, okay? Forse per un secondo o più di uno ho pensato che per te potevo farlo, intendo, mandare a fanculo tutto, anche se non stavo bene, e restare. Perché eri tu, capisci? No che non capisci, tu queste cose non puoi capirle perché… cazzo, perché tu apprezzi le cose semplici, le cose lineari, giusto? E quindi non lo puoi capire quello che mi gira per la testa, perché – ridacchia nervosamente, - come potrei spiegarti che ti voglio vicino e ti voglio lontanocontemporaneamente? Come faccio a spiegartelo? Non lo capisco nemmeno io!
- Tu non sei complicato, Zlatan. – ribatte lui, irritato, - Tu ti complichi la vita! Vuoi le cose che non hai, quando le hai continui a volerle ma solo alle tue condizioni, cosa credi che siano gli esseri umani, oggetti? Credi di poterne avere un campionario a disposizione e poter scegliere quale utilizzare in relazione a come ti svegli in un determinato giorno? Cristo! – sbotta, scuotendo il capo, - Se mi vuoi, mi vuoi e basta. Se non mi vuoi, va’ pure a fanculo, sono sopravvissuto fino ad adesso, potrò continuare a farlo anche in futuro. E, per inciso, non ho vissuto in attesa del tuo ritorno, Zlatan. Io sono andato avanti, mentre tu-
- Sono andato a letto con Pep.
José lo guarda, le parole bloccate in gola e le labbra ancora dischiuse in attesa della conclusione della frase.
- Tu hai fatto cosa?
- Non riuscivo… - cerca di spiegarsi, ma solo nel momento in cui comincia si rende conto di non sapere come concludere, e per la verità nemmeno come continuare, - Volevo solo-
- Volevi cosa?! – insiste José, la voce che si fa acuta man mano che comincia a gesticolare, - Cazzo, non so nemmeno cosa dirti! È un comportamento da ragazzini, e tu hai smesso di esserlo da un bel pezzo, Zlatan! Dirmelo adesso, poi! – aggiunge con una risata amara, - Cos’è che dovrei fare, secondo te? Mettermi a urlare e farti una scenata di gelosia?
- Be’, è quello che stai facendo! – gli fa notare lui, allargando le braccia e lasciando finalmente andare il volante in un gesto esasperato.
- Assolutamente no! – protesta José, - Sto cercando di spiegarti il punto, che è-
- Il punto, il punto, il punto! – si lamenta Zlatan, poggiando il capo contro la testiera del sedile, - L’unico punto che abbia un qualche valore, per me, è che mentre stavo con lui non riuscivo a non pensare a quanto sembrasse sbagliato, a quanto mi sembrasse di stare perdendo qualcosa. Mancava qualcosa e non sapevo dire cosa. E l’ho capito quando ti ho rivisto, ma sto cominciando a rendermi conto che forse non servirà a niente davvero, dopotutto.
- Sai cosa? – continua immediatamente José, quasi senza neanche lasciargli concludere il discorso, - Potresti perfino avere ragione, per la prima volta in tutta la tua intera esistenza, pensa! Non servirà a niente, è tardi. E non capisco perché sei tornato, non posso pensare che non lo immaginassi, non sei così stupido.
- Lo immaginavo, infatti. – sputa fuori Zlatan, adirato, - Ma ho voluto provare lo stesso.
- Perché sei cocciuto! Perché sei ostinato!
- Forse solo perché sono stupido davvero. – soffia a bassa voce, e la voce è bassa e il soffio è come una carezza perché è lì a pochi millimetri dalle sue labbra, José ne sente il tocco leggerissimo, quasi impalpabile, insapore, inodore, e poi tutti i suoi sensi si risvegliano e lui ricomincia a sentire nell’esatto istante in cui le labbra di Zlatan coprono le sue e la sua lingua si spinge in avanti in una richiesta muta ma fin troppo chiara, aspettando una risposta – sperando e pregando perché sia positiva.
La risposta arriva con le labbra di José che si schiudono – ma non per parlare – e con le sue mani che si spingono in avanti – ma non per fermarlo – e in pochi secondi Zlatan si ritrova sopra di lui, incastrato fra lo sportello e il portapacchi e soprattutto il suo corpo, perciò va benissimo così, anche se il cambio gli pressa contro un polpaccio e il freno a mano contro una coscia e la maniglia contro un fianco, perché le labbra di José sono sulle sue e poi divorano centimetri su centimetri di pelle lievemente sudata, giù lungo il collo e nel poco che riesce a sfiorare attraverso il colletto della camicia, ed è difficile muoversi in questo modo, ma non importa, Zlatan si muove lo stesso, si contorce abbastanza da liberarsi dalla camicia e si solleva torreggiando su José per qualche secondo per sfilare i pantaloni, prima di tornare a calarsi su di lui in uno strofinio che costringe entrambi a mugolare compiaciuti e ringhiare insoddisfatti, perché è bellissimo ma non è perfetto, ed invece vogliono entrambi che lo sia.
- Non cambia niente. – ansima José contro il suo collo, mordendo appena, - Se anche ora ti scopo-
- Scopami e basta. – lo interrompe lui, spingendosi con violenza contro la sua erezione tesa al di sotto dei pantaloni estivi e leggeri, - Cazzo, scopami e basta. E dopo mandami a fanculo e costringimi a non rivederti più.
José morde più forte, e Zlatan si lamenta piano, gettando indietro il capo.
- Mentivo. – gli sussurra addosso, sfiorando il segno del morso con le labbra umide, - Se ora ti scopo, poi tu non scompari più. Tu resti, perché altrimenti – stringe forte le dita attorno ai suoi fianchi, per lasciare un segno di sé anche lì, per marchiarlo tutto, - perché altrimenti io non lo so nemmeno, quello che faccio, Zlatan. – solleva gli occhi su di lui e lo obbliga a ricambiare il suo sguardo, tenendogli stretto il viso fra l’indice e il pollice, - Chiaro?
Zlatan si inumidisce le labbra e socchiude gli occhi. Non risponde ad alta voce ma annuisce, ed a José non sembra il caso di mettersi lì a pretendere l’assenso esplicito o una stupida firma su uno stupido contratto. Per quello che valgono le firme, poi. Sono molto più importanti gli occhi di Zlatan, è molto più importante quello che gli stanno dicendo loro, così come le sue labbra serrate con forza sulle proprie, può credere più facilmente a quello che a tutto il resto. E se lo fa bastare.
Lo aiuta ad alzarsi un po’ – Zlatan solleva un braccio per piantarlo sul tettuccio ed impedirsi di sbattere la testa, José ne segue la linea dritta e asciutta ed ogni singolo rilievo delle vene lungo l’avambraccio, ricorda quelle tracce a memoria ed avrebbe voglia di seguirle tutte con le labbra, se solo Zlatan non tornasse a calarsi con urgenza sulla sua erezione palpitante di desiderio, accogliendolo dentro di sé con un gemito arreso ed esponendo il collo ad una serie di morsi che José non riesce a risparmiarsi, mentre scende ad accarezzarlo con una mano fra le cosce, stringendolo fra le proprie dita e seguendo il più possibile il ritmo delle proprie spinte e dei movimenti svelti del bacino di Zlatan incontro al suo.
- Era così? – ansima a fatica, lasciando baci umidi sul suo petto e sulle sue clavicole, - Con lui era così?
- No. – geme Zlatan, coprendosi gli occhi con un braccio e stendendosi all’indietro per facilitargli la discesa lungo il suo petto, - No, non così, così con nessuno, né prima, né dopo, né- ah, José!
- Ancora. – chiede lui, stringendolo più forte, spingendosi più in profondità, - Il mio nome, ancora.
- José… - ripete Zlatan, docile, - Jo- Zay! – quasi grida, quando le sue spinte si fanno tanto forti da sembrare devastanti, da fare quasi male, - Zay!
- Non te ne andare. – chiede José, baciandolo lentissimo, ovunque, ed è una richiesta davvero, non un ordine, non un imperativo, è una richiesta e basta, non suona implorante solo perché la voce di José non è fatta per intonare suppliche, ma è quanto di più simile a una dichiarazione d’amore Zlatan potrà mai ottenere dalle sue labbra, e perciò si serra forte intorno a lui, contraendo i muscoli come volesse risucchiarlo dentro di sé per non lasciarlo andare mai più, e José urla il suo nome venendo all’istante, stringendo forte la presa della mano attorno al suo cazzo e passando il pollice sopra la punta, mentre Zlatan si tende e si inarca e quasi si allontana, sdraiandosi del tutto fra il parabrezza e il portapacchi, e José gli è subito addosso, chinandosi più di quanto non dovrebbe essergli per natura consentito ed accogliendolo fra le proprie labbra, continuando ad accarezzarlo con una mano dalla base alla punta mentre Zlatan grida e pianta i piedi dove può per tenersi immobile in quella posizione e non muoversi più, perché è tutto troppo bello e ora sì, è anche perfetto, soprattutto nel momento in cui l’orgasmo lo sorprende all’improvviso, lì fra le labbra di José, mentre si costringe a mordersi con forza il labbro inferiore per non scoppiare nell’ennesimo grido di piacere, più forte di tutti gli altri.
Quando torna a guardarlo, José sta cercando di rimettersi dritto con qualche difficoltà, e lui lo agevola come può, scivolando goffo sul sedile del conducente e cercando di rassettarsi mentre prova ad ignorare quel po’ di sé di cui ancora resta traccia sulle labbra di José, e che lui si premura al più presto di leccare via discretamente, perché non sia più motivo d’imbarazzo per nessuno dei due.
- Io non… - deglutisce a fatica, passandosi una mano fra i capelli lunghi e mossi, un po’ umidi di sudore, - non potrò restare davvero, lo sai. Fra pochi giorni-
- Lo so. – lo interrompe José, secco, richiudendo i pantaloni dopo essersi ripulito sommariamente con una salvietta pescata a caso da un pacchetto nel portaoggetti, - Zlatan. – sospira quindi, tornando a guardarlo, - Non è davvero importante dove sei, finché l’obiettivo per cui stai combattendo resto sempre io. Lo capisci, questo? – chiede a bassa voce, un po’ incerto.
Zlatan annuisce.
- Lo sei sempre stato. – puntualizza, allungando una mano a stringere forte la sua, - Lo sei sempre stato.
José sorride appena, sbuffando. Zlatan non riesce a capire se gli abbia creduto o meno, ma d’altronde non gli importa: che non sta mentendo, glielo dimostrerà sul campo. Come ha sempre fatto.
- Ti rivedrò in finale di Champions. – promette, gli occhi che brillano di determinazione, - E allora saprai che il mio obiettivo non è mai cambiato, è cambiato solo il modo in cui sto cercando di raggiungerlo.
José ride ancora, stavolta più divertito.
- Portami a casa, zingaro. – conclude. E il rombo della Mercedes si perde nella notte.
Genere: Romantico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Boy's Love, What If?.
- Alla fine di Barcellona-Manchester City, una gatta nera trova il modo di introdursi al Camp Nou. Zlatan la adotta.
Note: Sul finale di Barcellona-Manchester City, valida per la tradizionale Coppa del Re (almeno credo o_ò) all’inizio di questa stagione calcistica, ad un certo punto un gattino nero ha trovato chissà come il modo di entrare in campo e, terrorizzato, schizzare di fronte alla panchina del Barça XD Per quel momento, Zlatan aveva già abbandonato il campo, perciò me lo sono immaginato a chiamare il gattino e portarselo a casa – e giuro che questo è l’unico motivo per cui ho scritto questa storia. José ci si è infilato autonomamente – come s’infila sempre autonomamente in ogni cosa, ne abbia il permesso o meno XD E a parte questo niente, è tutto storicamente documentato – a parte appunto la presenza di José e del gatto in casa di Ibra – e spero vi sia piaciuta <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Negrita


Quando Zlatan apre la porta, José ha entrambe le mani occupate. In una stringe i manici di un borsone nero ed elegante, di dimensioni medie, abbastanza appena per il cambio e il necessario per due giorni, forse. In un’altra, invece, stringe i manici di un sacchetto di plastica bianca, sottile e stropicciato. Sul davanti, un po’ deformato dal peso di ciò che contiene, lo stemma rosso e arancione del supermercato italiano dal quale proviene.
Quando José entra in casa senza chiedere permesso, anche Zlatan ha entrambe le mani occupate. Una stringe con forza la maniglia della porta, come vi si volesse aggrappare per non cadere, e José la osserva tremare visibilmente, quella mano, contro l’ottone un po’ sbiadito della maniglia, perché è la sinistra, il polso è ancora fasciato e nonostante tutto deve fare ancora male. L’altra mano, comunque, è occupata da qualcosa di ben più curioso.
- Sarebbe? – chiede il portoghese, poggiando il sacchetto di plastica sul primo tavolo che incontra e puntando poi l’indice contro il gatto nero che lo guarda curiosamente dal palmo della destra di Zlatan, gli occhi verdissimi fissi su di lui, a seguire il movimento del dito, e la coda che pende pigramente verso il pavimento.
Zlatan abbassa un po’ lo sguardo sul gatto, come avesse bisogno di osservarlo per ricordarsi della sua esistenza.
- Negrita. – risponde quindi, riportando gli occhi su José, che nel mentre ha tirato fuori dal sacchetto un pacco di spaghetti, una scatoletta di tonno, un vasetto di capperi sotto sale, un barattolo di pomodoro pelato ed un sacchettino più piccolo, tutto arrotolato, dal contenuto dubbio. – È una gatta, come puoi vedere anche da solo. L’ho chiamata così.
- E da quando ce l’hai? – chiede José con naturalezza, prendendo tutto fra le braccia e muovendosi disinvoltamente verso la cucina, come conoscesse a memoria la planimetria di quell’appartamento pur non essendoci mai stato, come fosse normale essere lì in quel momento quando invece dovrebbe trovarsi a più di mille chilometri di distanza, a Milano, nel proprio letto, a piagnucolare per il più fallimentare di tutta la storia dei pareggi da che l’uomo vive sulla Terra – o forse non esattamente, ma è comunque così che preferirebbe vederlo Zlatan, piuttosto che osservarlo affaccendarsi fra i suoi stipetti, cercando tegami e cucinando cose.
- Da oggi. – risponde comunque, appoggiandosi con una spalla allo stipite della porta ed accarezzando la gatta che ronfa serena sulla sua mano, - È entrata nello stadio, nessuno ha ancora capito come. Io ero già in panchina e lei era spaventata. Quando l’ho chiamata, mi si è avvicinata. – racconta piano, lento, e per un attimo riesce a perdersi in una fantasia assurda all’interno della quale José che gli prepara la cena è assolutamente normale, pure se non lo è mai stato e non lo era nemmeno quando passare le serate insieme, quello sì, era normalissimo. – Mi si è seduta sulle ginocchia. – continua a raccontare con un sorriso distante, - Quando è finita la premiazione, l’ho portata a casa con me. E l’ho chiamata Negrita.
- Ti piace lo spagnolo? – chiede l’altro, mettendo un tegamino sul fuoco e svuotando al suo interno la metà degli ingredienti che ha portato con sé.
Zlatan scuote le spalle.
- Non che lo capisca perfettamente.
- Dopo tutte le volte che l’ho usato con te. – soggiunge José con un ghigno, sciacquando i capperi prima di aggiungerli all’intruglio che già ribollisce nel tegamino.
- Tu parlavi in portoghese. – borbotta Zlatan, poggiando Negrita su una spalla per incrociare le braccia sul petto.
- Ho usato anche lo spagnolo, qua e là, chico. Solo che, – aggiunge con un altro sorrisino beffardo, - viste le situazioni in cui l’ho usato, non mi meraviglia che ti sia sfuggito.
Zlatan arrossisce imbarazzato, abbassando lo sguardo mentre Negrita fa le fusa proprio lì all’altezza del suo orecchio, stordendolo un po’.
- Sei venuto fino a qui per prepararmi la cena e fare lo stronzo? – chiede quindi, tutto d’un fiato. E poi, più seriamente, - Che ci fai qui, Zay?
José non risponde, e non sembra neanche granché turbato dall’uso di un soprannome che avevano entrambi deciso di mettere da parte nel momento esatto in cui Zlatan gli aveva detto che stava per partire. Rimesta l’intruglio, ne porta un po’ alle labbra e lo assaggia in punta di lingua con aria dubbiosa, prima di annuire soddisfatto e spegnere il fuoco sotto il tegamino, recuperando la pentola e piazzandola sotto il rubinetto per riempirla d’acqua calda.
- Com’è andata la partita? – chiede quindi, reggendo la pentola per i manici mentre, lentamente, si riempie, - Mi hanno detto che hai segnato.
- Ti hanno detto male. – quasi ringhia Zlatan, e il suo tono è così risentito che Negrita solleva il musetto dalla sua spalla e lo guarda con aria interrogativa, ma lui è troppo impegnato a scrutare José come volesse incenerirlo sul posto, per accorgersene. – Messi ha segnato. Il mio gol è avvenuto a gioco fermo. Quindi non è stato un gol.
Messi. – ripete José, accendendo il fornello sotto la pentola e coprendola subito dopo, - Non dovrebbe essere Lionel? O addirittura Leo?
Zlatan sbuffa e recupera Negrita, accarezzandola lentamente per tranquillizzarla.
- È Messi, per ora. – taglia corto. – Zay. – lo chiama ancora, - Zay, guardami.
José si volta a guardarlo, ma lo fa mentre srotola il sacchettino stropicciato tirandone fuori un rametto d’origano che chissà dove ha trovato prima di prendere l’aereo. Zlatan soffia come un gatto e Negrita soffia come lui.
- Guarda solo me. – precisa lo svedese, e José posa l’origano sul mobile della cucina, proprio accanto al lavandino, e guarda solo lui, le sopracciglia aggrottate e le mani sui fianchi. – Perché sei qui? – chiede Zlatan, e José sospira profondamente.
- Ti ho trovato magro. – risponde quindi, - Ho visto qualche foto, qua e là. Mi pare che non ti nutrano a dovere. Ho pensato “magari non gli piace la cucina spagnola”.
- E quindi sei venuto a prepararmi la cena. – conclude per lui. Negrita miagola, stuzzicata dall’odore del tonno cotto a puntino. – Mi prendi per il culo? – chiede ancora Zlatan, con un ghigno sghembo.
José scrolla le spalle, del tutto disinteressato.
- Non m’importa che tu mi creda. – dice, tornando a spargere origano sul tonno prima di versare l’intero contenuto del pacchetto di pasta all’interno della pentola, - M’importa solo che mangi quello che ti sto preparando. – poi si ferma, versa un po’ di sale e un goccio d’olio nell’acqua e comincia a mescolare perché gli spaghetti non si attacchino l’un l’altro né sul fondo della pentola. – E poi voglio che posi quel gatto. – continua, mentre Negrita gli ronfa sulla mano, - E che mi fai vedere quel polso, non sono sicuro che ti stiano curando per bene. – Zlatan fa per aprire bocca e fargli notare l’idiozia del ragionamento, dato che se c’è una cosa che interessa al Barcellona è che lui sia in splendida forma, ma José lo ferma con un rapido gesto della mano, tornando a coprire la pentola per rendere più svelta la cottura della pasta. – Lo so che è ridicolo. – precisa senza guardarlo, - Lo so che ti stanno curando bene. Ma voglio vedere quel polso. Voglio sentirlo sotto le dita. – torna a sollevare gli occhi su di lui, senza un’esitazione, senza pudore. – Voglio baciarti e scopare, è per questo che sono qui. – sorride appena, divertito, - Per la cena e per questo.
Zlatan schiude le labbra, ma non sa cosa dire. Negrita miagola, scalpita un po’. Zlatan si piega e la poggia a terra – lei non perde tempo, un secondo dopo sta strusciandosi contro le gambe di José, furba, sperando che lui le rifili un po’ di tonno più tardi.
- È un errore. – cerca di spiegargli, ma è incerto e confuso e non ci crede davvero. José lo capisce subito, e sorride più apertamente.
- Se m’importasse, non sarei qui. – risponde schietto. Zlatan si morde un labbro.
- Queste cose non sono mai prive di conseguenze. – protesta gesticolando piano, perché sì, per curarlo bene lo stanno curando bene davvero, ma la frattura sta faticando a guarire, anche se nessuno capisce il perché e Zlatan spesso si dice che forse è così perché il suo corpo non vuole davvero rimettersi a posto, dato che quel dolore è l’unica cosa che gli resta dell’Inter, della sua vecchia vita, di José.
- Ti sembro uno che ha paura delle conseguenze? – chiede José, indicandosi distrattamente prima di assaggiare uno spaghetto per saggiarne il grado di cottura, e spegnere il fuoco. – Scolapasta?
Zlatan si avvicina, Negrita cerca di arrampicarsi lungo i pantaloni di José e lui la scaccia con una mezza risata. Zlatan prende lo scolapasta e lo sistema nel lavandino, José si avvicina con la pentola bollente e lui si fa da parte. Negrita sta provando a scalare il cucinino, Zlatan la prende per la collottola e la solleva all’altezza del proprio viso, per scrutarla severamente.
- Non si fa. – cerca di spiegarle, agitandole un dito davanti al muso. Lei solleva una zampa e la poggia sul suo dito, cercando di attirarlo più vicino alla propria bocca per mordicchiarlo, un po’ per gioco e un po’ per dispetto. Quando Zlatan solleva lo sguardo su José – e lo fa solo perché José sta ridacchiando divertito – la pasta è già condita e nei piatti.
- Ostinata, questa gatta che hai trovato. – gli fa notare José, mentre sposta i piatti sull’isola della cucina e prende posto sul primo sgabello che si ritrova a portata di mano, - Adatta a te. Spero che Helena non faccia storie per tenerla in casa, quando gliela porterai.
- Al limite, - scrolla le spalle Zlatan, posando Negrita per terra e sedendosi sullo sgabello proprio di fronte a José, ficcando la forchetta nel proprio piatto di pasta mentre lo stomaco brontola e gli fa presente che dovrà ringraziare José per ben più di un motivo, dopo stanotte, - la tengo qui nell’appartamento. Non mi va di abbandonarla, dopo averla portata con me.
José fa una smorfia, non sembra granché soddisfatto.
- I gatti sono animali indipendenti. – spiega, e quando solleva gli occhi su Zlatan lui ha la netta impressione che José non stia più parlando di animali domestici, - Ma hanno bisogno della presenza del proprio padrone proprio come tutti gli altri. – Zlatan deglutisce. José manda giù una forchettata di pasta e mugola deliziato. – Assaggiala, - lo invita sorridendo, - è ottima.
Zlatan obbedisce annuendo. La pasta è ottima davvero.
- Quanto resti? – chiede fra una forchettata e l’altra. José scrolla le spalle.
- Gli allenamenti non riprendono prima di martedì. – butta lì, come fosse una cosa di marginale importanza, - Abbastanza per non farti sentire un cucciolo abbandonato. – conclude infine, con un sorriso più dolce. Zlatan risponde con un sorriso identico, e poi ricomincia a mangiare.
Negrita miagola insoddisfatta. José ride, e le allunga di nascosto un tocchetto di tonno.
Genere: Erotico, Romantico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Bondage, Lemon, Slash.
- Zlatan ed il suo preziosissimo autoregalo di compleanno, 3 ottobre 2008. E José che ci va ingiustamente di mezzo, Dio mi perdoni.
Note: Era il tre ottobre duemilaotto, Zlatan festeggiava il suo ultimo compleanno all’Inter e nessuno sapeva che sarebbe stato l’ultimo, perché lui era ancora felice di starci, in nerazzurro, allora, e lui e José si amavano con una passione esaltante, come dimostrano le quote dell’intervista, che sono tutte scrupolosamente vere fino all’ultima virgola, compresa l’ultima domanda in cui nessuno aveva chiesto a Zlatan di parlare del Mou ma lui ha ritenuto giusto farlo comunque XD Il giorno dopo, il quattro ottobre, contro il Bologna, Ibra avrebbe segnato uno dei gol più belli della sua carriera, di tacco, e l’avrebbe festeggiato sorridendo felice come un bambino. E l’Inter avrebbe giocato una delle partite più belle della stagione. *momento di tristezza nostalgica random* T_T
Questo, comunque, è solo un porno orribile e tremendo che Def mi ha chiesto di scrivere per non ricordo più quale allucinante associazione d’immagini su MSN. Ricordo solo che si concludeva col bondage, appunto, e con un dildo. E infatti qui c’è sia il bondage che il dildo, ma soprattutto c’è il porno che io non sono capace di scrivere, motivo per cui tutta questa shottina (che alla fine ha pure superato le duemila parole, senza un perché) fa abbondantemente schifo. Evvabbe’.
Il titolo è rubato a un verso di Time Is Running Out dei Muse, ora e sempre siano lodati. :*
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Bound And Restricted


Non passano neanche due secondi da quando Zlatan si affaccia con un sorriso furbo in camera di José a quando gli si fionda addosso, spingendolo di malagrazia fino al letto ed assicurandosi di chiudersi la porta alle spalle con un calcio bene assestato, di modo che tutti in Pinetina sentano che la stanza del mister è chiusa e, per tale motivo, è assolutamente necessario per motivi di ordine pubblico starne il più lontani possibile. D’altronde, non c’è niente di più bello di quella logica immediata, pratica e così tipicamente maschile che si instaura subito fra compagni di squadra, anche dopo pochi giorni di conoscenza. È una logica di opportunismo che si basa sulla sempre benemerita regola della beata innocenza: se attorno a te sta avendo luogo qualcosa di estremamente disturbante – e sì: la punta di diamante della squadra che, nonostante conviva da anni con la stessa donna ed abbia già un pargolo e ne aspetti un altro in dirittura d’arrivo, scopa regolarmente col nuovo CT portoghese arrivato da appena quattro mesi, decisamente è qualcosa di estremamente disturbante – ignorala. Magari la cosa estremamente disturbante non scomparirà, ma tu non ne sarai toccato, e sarà ancora tutto perfettamente a posto.
- Già finita l’intervista? – chiede José, atono, senza neanche provare a frenare l’irruenza dello svedese, che lo spinge a stendersi sul materasso dopo aver lasciato cadere lo zaino che portava in spalla per terra, per poi letteralmente saltare a stendersi al suo fianco. – Fai piano o farai saltare le doghe!
- Oh, piantala. – lo zittisce Zlatan con un bacio svelto a fior di labbra, - Comunque sì, finita l’intervista. – risponde annuendo e fissandolo con un certo interesse. José non riesce a spiegare la natura di quello sguardo, perciò – un po’ curioso e un po’ silenziosamente spaventato – si allontana di qualche centimetro per indagare.
- Ed è andata bene?
- Benissimo. – e se la voce di Zlatan potesse in qualche modo somigliare ad un cinguettio, questo sarebbe probabilmente il tono che userebbe. José ne è inquietato.
- …che cos’hai detto? – cerca di informarsi, incerto.
- Un po’ di questo, un po’ di quello. – scrolla le spalle Zlatan, ridacchiando compiaciuto, - Ho parlato tanto bene di te.
Che. Cosa. Hai. Detto. – ripete José, curandosi di aggrottare le sopracciglia e metter su l’espressione più minacciosa che possiede in campionario, calcando bene col suo italiano incerto su ogni singola parola che pronuncia. Naturalmente l’effetto non può che essere esilarante per Zlatan, che appunto ride e se lo tira contro stritolandolo neanche fosse un ragazzino di dieci anni, fra i suoi rimbrotti infastiditi in rigoroso portoghese.
- Lo vedrai stasera. – taglia corto, scendendo ancora una volta ad accarezzargli le labbra con le proprie. – Seeenti… - continua poi, con aria allusiva, e José comincia subito a borbottare.
- No! – si lamenta, disincastrandosi risolutamente dalla stretta e provando a rotolare giù dal letto un attimo prima che Zlatan lo afferri per la vita e torni a stringerselo addosso, - Sono le… - cerca l’orologio sul comodino con aria allarmata, - le dieci del mattino! Fra poco-
- Andiamo! – lo interrompe Zlatan, il tono ugualmente lamentoso, mentre struscia il naso contro la sua guancia ruvida, - Oggi passerò praticamente ogni singolo momento libero con Helena e Maxi, sono riuscito per un miracolo a liberarmi dall’intervista mezz’ora prima apposta per stare un po’ con te e-
- E noi non scoperemo! – prova a insistere José, tentando un’altra volta la via della fuga. Zlatan impiega tutta la propria forza per trattenerlo, e José non riesce a scappare davvero, e la smette anche di agitarsi e lamentarsi nel momento in cui Zlatan si piega su di lui e gli sussurra dolcemente “andiamo… è il mio compleanno”, sfiorandogli il lobo con le labbra ad ogni parola e sospirando appena in conclusione di quella mezza preghiera. José trema un po’ e sospira a propria volta, abbandonandosi alla sua stretta. – Che avevi in mente? – chiede, dimenandosi un po’ perché Zlatan gli conceda almeno lo spazio per sbottonare la camicia.
Lo svedese sghignazza, mettendosi seduto ed allungando un braccio a recuperare lo zaino ancora ai piedi del letto, per poi aprirlo ed immergersi al suo interno quasi con tutta la testa per frugare in mezzo al ciarpame che contiene, sotto lo sguardo basito e un po’ incerto del mister. Quando riemerge, lo fa con un sorriso da spaccone che José spaccherebbe volentieri a cazzotti, e con due fasce di seta nera che, invece, gli danno i brividi fino alla base della schiena.
- Non esiste. – scuote lentamente il capo, annichilito.
- Mi lasci fare? – chiede invece Zlatan, il sorriso che si fa più furbo ma anche in qualche modo più sincero. José regge il suo sguardo per sessanta secondi contati – ci arriva appena, dando fondo a tutte le proprie energie, perché davvero si sentirebbe troppo stupido ad arrendersi ancora prima di un minuto – e poi l’uomo sbuffa, stendendosi sul letto e terminando di sbottonare la camicia, per poi lasciarla ricadere distrattamente sul pavimento. E sollevare le braccia.
- Allora, te la dai una mossa? – chiede a propria volta, quasi stizzito, e Zlatan ride, tornando al suo fianco e stendendo bene le fasce, prima di farle passare entrambe attorno ai polsi dell’uomo e dietro le sbarre della testiera del letto, legandolo stretto ma abbastanza da concedergli un minimo di spazio per qualche movimento.
- Potevo togliertela io, la camicia. – sussurra sulle sue labbra, baciandolo a fondo per qualche secondo prima di scivolare lungo il profilo del suo viso e del suo collo.
- Ah, sì, avresti… - mugola un po’ José, chiudendo gli occhi, - avresti sicuramente aspettato di togliermi la camicia, per legarmi. Naturalmente.
Zlatan ride, fermandosi a stringergli un capezzolo fra i denti e mordendo piano, al solo scopo di zittirlo.
- Magari ti avrei legato… - sussurra, sfiorandolo leggermente con la lingua, - e poi ti avrei strappato la camicia di dosso. – conclude, tornando a mordere un po’ più forte.
José ringhia un lamento di gola, fra i denti, stringendo le ginocchia attorno alle spalle di Zlatan quando lui scende a slacciargli la cintura con un mezzo  sorriso.
- E così avrei detto addio a cento euro di camicia Armani. – trova la forza di ribattere, ma è una forza che si perde del tutto quando Zlatan scende a lambire la sua erezione con la punta della lingua, per tutta la sua lunghezza.
- Sta’ un po’ zitto… - lo minaccia quindi, con un ghigno preoccupante, - o dovrò usare l’altro regalino per tapparti la bocca.
José solleva il capo, improvvisamente interessato, anche se la sua non è tanto una curiosità positiva quanto più un sacro terrore che un po’ gli ricorda quello che provava quando sua madre, buon’anima, gli diceva di stare attento agli zingari per strada, quando andava a comprare il pane, che rapivano i bambini, poi li bollivano vivi e se li mangiavano col sale.
- Quale altro regalino? – chiede, cercando di ritrarsi dalle labbra di Zlatan, che nel mentre sono tornate a chiudersi su di lui.
- Quello che ho fatto a me stesso. – precisa lui con un altro sorriso sghembo e spaventoso, allontanandosi e recuperando lo zaino per tornare a rovistare al suo interno. Quando la mano grande di Zlatan riemerge da quella nuova, spaventosa e filopornografica versione del borsone di Mary Poppins, stringe fra le dita un dildo di dimensioni ragguardevoli, di fronte al quale José si sente perfino più intimorito di quanto non si sentisse rispetto al pensiero della buon’anima di sua madre, poco prima.
- Zlatan…! – prova a fermarlo, rimpiangendo ogni singolo minuto di quella appena iniziata e già tremenda giornata, e soprattutto il singolo momento in cui ha deciso di poter concedere a Zlatan più spazio e fiducia di quanto in effetti meritasse, - Non-
- Tranquillo. – sorride ancora lo svedese, avvicinandosi a lui, perfettamente a proprio agio, - È più piccolo di me, l’ho misurato. Se puoi sopravvivere ad uno…
- Zlatan, non intendo- - ma non riesce a concluderla, quell’accorata quanto inutile impennata d’orgoglio, perché Zlatan lo zittisce bruscamente, baciandolo a fondo mentre gli lascia scorrere il dildo addosso in una carezza leggera che gli dà il solletico e la pelle d’oca.
- Buono… - gli sussurra sulle labbra, e José non è in grado di capire se sia un’opinione o un ordine, e in ogni caso non trova che sia il momento giusto di discuterne. Vorrebbe essere in grado di obbedire al proprio cervello – che gli sta urlando di prendere Zlatan a calci lasciandogli appena la forza di scioglierlo, per poi liberarsi da quelle catene di seta, finire di farlo fuori a legnate e sparire per sempre senza mai voltarsi indietro – ma il corpo non vuole saperne, e non dipende solo dall’essere legato. Zlatan è troppo vicino, tutto qua.
E lui non può davvero dire di no a Zlatan, non può farlo se Zlatan lo guarda in quel modo e lo tocca in quel modo e sfiora tutta la lunghezza del dildo con la lingua, una volta, due, tre, per inumidirlo per bene, senza mai staccargli gli occhi di dosso, e allo stesso modo non può dirgli di no quando lui gli chiede di allargare le gambe – “fammi posto, voglio sentirti addosso mentre mi chiedi di scoparti” – e gli soffoca fra le labbra ogni singolo gemito mentre lo penetra lento col dildo, masturbandolo con la mano libera seguendo il ritmo delle spinte, senza prendere niente per sé, senza pretendere niente per sé, e il dildo si muove e così fanno le dita di Zlatan e la bocca di Zlatan, che lo lascia finalmente libero di gemere e ansimare e chiamarlo per nome e chiedere pregare implorare per essere scopato più forte più in fondo di più, e  dice Zlatan, sì, cazzo, sì, e il dildo scompare e si sostituisce il suo cazzo, duro e caldo ed è davvero più grande del dildo, fanculo, José si inarca e si spinge contro di lui seguendo i suoi movimenti svelti e furiosi – Zlatan è selvaggio, è selvaggio sempre, quando gioca, quando parla, quando scopa, cazzo, soprattutto quando scopa – e Zlatan cerca di tenerlo fermo per i fianchi, lo indirizza dove vuole, e José serra i muscoli tutti attorno a lui – e niente, non c’è speranza di trattenerlo, quel ringhio simultaneo e prorompente che germoglia nelle gole di entrambi mentre vengono, Zlatan dentro José, José fra le dita di Zlatan.
Cercano entrambi di ritrovare un ritmo decente per il loro respiro, ed entrambi sorridono quando si rendono conto che quel ritmo l’hanno modellato l’uno sul respiro dell’altro. Zlatan si solleva sulle braccia, un po’ a fatica, e si lascia ricadere sul materasso al fianco di José, con un mugolio di fastidio quando sente sotto la schiena la pressione ancora un po’ umida e tiepida del dildo. Lo recupera e se lo rigira compiaciuto fra le mani per qualche secondo, prima di metterlo via con una risatina divertita, mentre José si volta a guardarlo con la sua solita espressione priva d’inflessioni particolari, ma che ormai Zlatan ha imparato a definire disapprovante.
- Se mi slegassi, magari, invece di giocare col tuo regalino nuovo… cos’è, l’hai provato prima su di me per vedere se lo potrai riutilizzare su te stesso poi? - lo prende in giro, e Zlatan ride ancora mentre si allunga a recuperarlo, lasciandoglielo scorrere quasi distrattamente fra le natiche e costringendolo a rabbrividire ancora.
- Magari invece ho intenzione di riutilizzarlo sì, ma ancora su di te. – lo minaccia con un ghigno supponente. José risponde con un calcio su uno stinco in seguito al quale Zlatan ride e si rassegna a sciogliere i nodi delle fasce, liberando i polsi di José ed osservandolo con attenzione mentre se li massaggia, soffiando un po’ per il dolore sordo dell’intorpidimento dovuto all’immobilità prolungata.
- Si sono stretti mentre scopavamo… e comunque, Cristo, puoi essere un po’ meno devastante, ogni volta? Mi hai fatto male.
Zlatan rotea gli occhi, sbuffando sonoramente.
- Sei una lagna spaziale, Dio mio. Non ti toccherò più neanche con un dito. – sbotta.
- Volesse il cielo. – si lamenta una voce da fuori.
- Fatti i cazzi tuoi, Marco. – rispondono entrambi, in coro, e poi si guardano negli occhi e ridono – e, da fuori, allontanandosi, ride anche Marco.

*

Tami sta preparando la cena – si sente l’odore della sua canja fin lì in salotto, nonostante villa Ratti sia più che grande, enorme – Titi e Zuca stanno giocando ai suoi piedi sul tappeto – o meglio, Titi disegna e Zuca si ostina a inquietarla per ottenere la sua attenzione – e José non riesce a staccare gli occhi dal televisore. Zlatan parla con Scarpini e ride e ride e ride ed è bellissimo.
- Tanti auguri, Zlatan, si vede che sei felice! – dice Scarpini, e José sorride, e sorride anche Zlatan.
- Sono molto felice, provo a stare bene tutti i giorni anche quando sono in un periodo molto difficile. – risponde annuendo, - Quando una persona è contenta, si vede che sta bene.
L’intervista scorre tutta fra una risata e l’altra, finché Scarpini non prende e fa una domanda che José non si sarebbe mai aspettato – non posta in questi termini, non così esplicitamente. E dire che, frequentando spesso la Pinetina, anche Roberto ha avuto modo di capire cos’è che sta succedendo fra lui e Zlatan.
- Quanto è importante per lei José Mourinho?
E infatti è con un sorriso malizioso che Zlatan risponde.
- Mi ha dato tante responsabilità, fiducia, libertà in campo. Tutto quello che mi serve per fare le mie cose, per giocare con le mie qualità e fare tutto quello che posso. – sorride, ravviandosi una ciocca di quei tremendi capelli dietro un orecchio, - Secondo me lui fa tutto con i suoi giocatori, - spiega allegro, - sa quello che deve fare per ottenere il massimo da ognuno di noi. Quando vede un giocatore, - e per un attimo si ferma, guarda dritto in camera, prima di tornare a guardare a Scarpini e continuare, - sa quello che deve fare. Per questo ho detto che lui è il più completo di tutti gli allenatori che ho avuto sinora.
José non riesce davvero a seguire tutto il resto del discorso, perché le parole di Zlatan stanno ancora rimbombando da una parete all’altra della sua testa, e non sembrano intenzionate a lasciarlo presto in pace. Non è una cosa della quale si senta davvero disposto a lamentarsi, comunque.
- Come sta l’Inter in questo momento? – chiede Scarpini, mentre Tami chiama dalla cucina.
- Andiamo, bambini, è pronto. – dice José. Zuca comincia a ciondolare per il corridoio e Titi si lagna un po’, prima di decidersi a mollare il suo benedetto disegno e seguirlo. José sorride ancora e cerca il telecomando.
- Dobbiamo continuare come abbiamo fatto sinora, magari vincendo qualche trofeo. – risponde Zlatan, con una scrollatina di spalle. Chissà come starà festeggiando, adesso. – Però gli obiettivi sono lì e devi fare tanto lavoro per vincerli. Poi – aggiunge con una risatina, - con the special one tutto può succedere. – conclude, occhieggiando disinvoltamente alla camera.
José inarca un sopracciglio e lo guarda, sbuffando una mezza risata ironica. Poi scuote il capo, spegne la tv e si decide a raggiungere la canja di Tami.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Flashfic, Slash.
- Sono le due del mattino. Zlatan è a Los Angeles, in ritiro con l'Inter. Mancano pochi giorni al suo trasferimento al Barça. E arriva un sms.
Note: Riferimento canon necessario: qui. Saltate pure tutte le cagate sulle minacce che il nostro Presidente s’è già amorevolmente premurato di smentire <3 E comunque, riassunto per i culopesi: pare che il Mou si divertisse a mandare messaggini ad Ibra, in cui appunto lo chiamava “traidor”, che vuol dire – come ovvio – traditore, in spagnolo. E pare che Ibra, a questi messaggini, rispondesse perculandolo in spagnolo maccheronico XD Ora, ditemi se ‘sti due non sono amabili. Poi, ok, io ci ho aggiunto dell’angst. Ma questo non c’entra. XD
PS. “Me la pela” = me ne frego. La traduzione esatta dovrebbe essere qualcosa tipo “mi importa una sega”, perché “me la pela” indica appunto, ehm!, l’atto della masturbazione. In Sicilia, qui, abbiamo “me la mino”, che vuol dire esattamente la stessa cosa *sghignazza*
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TRAIDOR


Lo squillo risuona per la stanza buia una, due, tre volte, tre squilli ripetuti e ravvicinati che si fondono con l’eco della vibrazione fortissima contro il legno liscio e scuro del comodino. Zlatan guarda il cellulare, guarda l’orario e si chiede chi diamine possa essere interessato a fargli sapere una qualsivoglia cosa mentre sta a Los Angeles in attesa di capire cosa sarà della sua vita per i prossimi cinque anni.
Poi ricorda che è notte solo lì in America – è notte solo per lui – in Italia sono tutti svegli e al lavoro, in Italia c’è Mino e Mino è sempre sveglio e al lavoro.
Allunga una mano nell’oscurità e recupera il cellulare, sospirando un po’ e strizzando forte gli occhi quando, dopo aver aperto il flick, la luce abbagliante e fastidiosa dello schermo lo investe in pieno viso, costringendolo a una smorfia di dolore. Cerca di abituarsi piano, senza forzature – qualsiasi cosa sia, se ha aspettato fino ad ora potrà bene aspettare altri due minuti.
Quando riesce a recuperare il controllo della vista, si accorge che il messaggio non arriva da Mino, bensì da qualcuno che, per comunicare con lui, se davvero volesse, non avrebbe che da sollevare il regale culo dal materasso e attraversare i due metri di corridoio che separano le loro stanze, bussare alla sua porta e pregare in una sua risposta positiva.
José, naturalmente, non fa nulla del genere. Lui gli manda gli sms alle due del mattino.
Zlatan storce il naso mentre scivola col pollice sulle poche lettere che compongono l’unica parola che fa da corpo al messaggio. Le accarezza come cercasse in loro una forma fisica – la forma fisica che devono avere, perché leggerle fa male quanto e più di un calcio sugli stinchi.
Traidor.”
Non gli serve un corso avanzato di spagnolo per sapere cosa quelle poche lettere vogliano dire. E comunque un po’ di spagnolo sta già cominciando a masticarlo. Non si sa mai. Per ogni evenienza. Per l’evenienza che più che un’evenienza è una possibilità una certezza un’ovvietà, anche se ha quasi paura ad ammetterlo ad alta voce.
Sospira e chiude il flick con un gesto nervoso, riponendo il cellulare sul comodino e cercando di tornare a dormire. L’apparecchio ricomincia a squillare meno di un minuto dopo. Solita storia, apre il flick, si abitua alla luce, scorre il testo del messaggio.
Traidor.”
Posa tutto per la seconda volta e si stende supino ad osservare il soffitto. Inspira ed espira una volta, due, tre, sempre più profondamente, e quando comincia a dolergli il petto capisce che forse dovrebbe cambiare mestiere, non solo squadra.
Il cellulare squilla per la terza volta, ma Zlatan non ha voglia di sentirsi ripetere di nuovo la stessa accusa, perciò si mette seduto, poggia i piedi a terra, si alza e raggiunge la porta.
José è lì che lo guarda come fosse normalissimo trovarsi in quel luogo a quell’orario assurdo del mattino dopo avergli tempestato il cellulare di roba opinabile. Zlatan posa una mano sul fianco e batte un piede a terra, indispettito. Fa per parlare, ma José lo anticipa.
Traidor. – dice, e sulla sua lingua e fra le sue labbra quella parola suona improvvisamente perfino più dolorosa di un cazzotto in pieno stomaco. E allo stesso tempo ha un suono così bello, così sensuale, così strascicato, che Zlatan non può fare a meno di chiudere gli occhi e assaggiarla in punta di labbra come avesse un sapore, come fosse un bacio.
Torna a guardare José con difficoltà ed inspira profondamente, prima di rispondergli.
Me la pela. – si decide alla fine, forzando un ghigno strafottente che gli storce le labbra in un sorriso idiota. Si sente un ragazzino. Come tutti i ragazzini, la prima cosa che ha imparato in spagnolo sono state le parolacce.
José ghigna in maniera molto più convincente di lui, inclinando lievemente il capo.
Español? – chiede, ed ogni lettera è un brivido che si allunga strisciando per tutta la spina dorsale di Zlatan. Che si morde un labbro e vorrebbe scattare in avanti, afferrarlo per il colletto della maglietta bianca che indossa e tirarselo contro, divorarlo di baci, consumarlo di carezze e sfinirlo a furia di scopare. E invece resta immobile. E non sa cosa dire.
José si avvicina di un passo, lo guarda da così vicino che Zlatan si sente confuso.
Traidor. – dice un’ultima volta. E poi lo bacia.
Genere: Triste, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- Uno scambio epistolare per provare a riaprire una storia. O chiuderla definitivamente.
Note: Sia messo a verbale che odio Gra e le sue regole riguardanti i limiti di parole, perché se solo fossero state un po’ meno restrittive questa fic si sarebbe fermata alle 800 parole. E invece niente, Gra ne voleva mille e mille, perciò ve ne beccate duemila. Di delirio Jobra a distanza emoangst. Grr. Prima o poi riuscirò a smettere- credo. Spero. Dio.
Comunque la amo e non poteva essere altrimenti, perché è catartica, perché è triste e perché è particolare. E no, non mi sono dimenticata come si usa l’invio, e nemmeno ho fatto casino con l’HTML, sono monoblocco perché sono sequenze uniche XD Tutte da cinquecento parole contate con Word. E- oh, basta. Ho sonno XD
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The Unsaid


first kind of lie – truth said over time
04. Lettera stropicciata @ Double Drabble Challenge
Sabbia @ Operazione Tutti Al Mare/Scappatella Estiva


È assurdo scriverti una lettera, contando che potrei telefonarti…” José lascia scorrere silenziosamente le dita sulla carta. S’è rigirato quella lettera fra le mani così tante volte che ormai è tutta stropicciata, sembra vecchia di mille anni, s’è pure un po’ ingrigita, e invece è arrivata solo una settimana fa. E lui non ha ancora risposto. “Il fatto è che, per quanto mi piacerebbe parlarti, ho paura che non avrei niente da dirti. Il che è stupido, perché se fosse davvero così non dovrei nemmeno stare scrivendo questa lettera. Quindi forse le cose da dirti ci sono, è solo il coraggio che manca”. Sorride, mentre si lascia cullare dalla sensazione di ruvida morbidezza della carta sotto i polpastrelli, e una ruvidezza decisamente meno morbida – quella della sabbia del lungomare – gli solletica le piante dei piedi. “Lo so che fra noi le cose sono andate male”. E José non fatica a immaginarlo dire una cosa simile. Perché lui era così anche dal vivo, ha perso il conto delle volte in cui s’è fermato a scherzare con lui dopo una partita o dopo un allenamento e all’improvviso il suo sorriso ampio e divertito s’è trasformato in una smorfia seria che accompagnava le parole “devo parlarti”. È così che è cominciata la loro relazione, con un “devo parlarti” dopo il quale José s’è fermato ad ascoltare. È anche così che è finita, con un “devo parlarti” dopo il quale José non ha voluto sentire ragioni. “Lo so che avrei dovuto insistere di più, convincerti- no, costringerti ad ascoltarmi, ad accettare i miei desideri. E forse da lì saremmo potuti ripartire e saremmo rimasti insieme nonostante tutto. Non l’ho fatto e mi dispiace, ma devi capire che l’unico motivo per cui non l’ho fatto è che ho sempre sperato fino all’ultimo che lo capissi da solo. Che non era per te che andavo via, e che tu, anzi, saresti stato l’unica ragione per restare, se restare fosse stata un’opzione. Solo che non lo era, José, io non potevo restare e non potevo permetterti di obbligarmi a farlo. Io non sono fatto per restare nello stesso posto per più di tre anni. Il mio sangue è quello che è. Dicevi di amarlo com’era. Anche se, a pensarci adesso, mi viene da ridere: hai detto di amare tante cose, di me, ma mai me e basta”. José si lascia andare ad una smorfia mentre il mare comincia a rombare annunciando tempesta. E servirebbe, servirebbe davvero, perché fa caldo, l’aria è umida, i bambini sono insofferenti e Tami ha mal di testa. E José vuole la pioggia, perché rispetto al sole sarebbe più simile al suo stato d’animo. “Ho sbagliato io”, continua Zlatan da Barcellona, “non nell’andarmene, ma nello smettere di pretenderti al mio fianco”. E José si ferma. Si volta indietro a guardare il bungalow che dà sulla spiaggia. Tami avrà già finito di preparare la cena. “Chiama tu, quando vuoi”. La lettera finisce ripiegata e se ne torna in tasca, a spiegazzarsi un altro po’.


second kind of lie – truth never said
16. Post Scriptum @ Double Drabble Challenge
Scottatura @ Operazione Tutti Al Mare/Scappatella Estiva


Non ricevevo una lettera scritta a mano da anni. Devi avere davvero poco da fare a Barcellona, di questi tempi”. Zlatan non può fare a meno di ridere, appoggiandosi di spalle allo schienale della sedia a bordocampo, mentre i suoi nuovi compagni si allenano davanti a lui, salvo poi scostarsi immediatamente con una smorfia di dolore, appena il bruciore della scottatura frutto del suo ozio in quel posto torna a farsi sentire. Non è a Barcellona, è tornato a Los Angeles col Barça e gli fa strano stare lì con un’altra maglietta, altri compagni, un altro allenatore ed altri obiettivi, quando fino a pochi giorni prima quegli stessi campi li calpestava ammantato in altri colori. Controvoglia o meno. “Spero che la tua mano stia bene. O il tuo polso. O quel che era a farti male, devo confessarti di non averti seguito granché, da quando sei andato via. Non so perché l’ho fatto, probabilmente non volevo vedere cose che avrebbero distrutto l’idea che ancora conservavo di te. Altri non sono stati così saggi – Mario ha visto tutto ed è mio dovere informarti che ti conviene stare alla larga dal ragazzo, se mai dovesse capitarti di incontrarlo, perché credo abbia voglia di staccarti la testa dal collo a morsi”. Ancora, Zlatan vorrebbe ridere, ma stavolta non ci riesce. Il suo sorriso è una smorfia un po’ storta e ghignante, niente di granché piacevole o rassicurante – Zlatan se ne accorge perché il tizio che è incaricato di passargli le bottigliette d’acqua e di cui ancora non ricorda il nome, ma che sta sempre lì seduto accanto a lui e non si stacca dal suo fianco neanche fosse una fottuta ombra, si allontana da lui con un’espressione turbata. Questo lo fa ridere più sinceramente. Continua a leggere. “Qui le cose procedono senza intoppi”, lo informa José, e Zlatan può immaginarlo scrollare le spalle con una precisione quasi assassina – perché fa male come un coltello piantato nel cuore. E forse lo è, José è quel coltello che Zlatan tiene volontariamente conficcato nel mezzo del petto, perché certe volte la vita non ha senso se non stai male per qualcosa, ché il dolore persiste e resiste più della gioia, se è abbastanza profondo. “A breve partiremo per Pechino” continua, e Zlatan non riesce davvero a capire perché abbia scritto, se tutto ciò che voleva era rimpinzarlo di dettagli inutili a riguardo di una squadra che non è nemmeno più la sua e della quale, a rigor di logica, non dovrebbe importargli un accidenti. “Tami e i bambini ti salutano, un po’ manchi anche a loro. Si erano abituati ad averti sempre fra i piedi”. Zlatan ride ancora, stavolta non fatica a recuperare la sincerità che prima sembrava tanto lontana. “E per la verità non so che altro dirti, se non che manchi anche a me. E ti saluto”. Il sorriso gli si cristallizza sul volto, quando legge il post scriptum in coda alla lettera. “Forse, se fossi rimasto, ti avrei detto anche tutto il resto.


third kind of lie – truth mystified
30. Con tutto il mio affetto *firma* @ Double Drabble Challenge
Grigliata familiare @ Operazione Tutti Al Mare/Scappatella Estiva


Io penso che il tuo più grande problema, José, stia nel non saper dire le cose come stanno”. José inarca un sopracciglio, con disappunto. L’odore forte e gustoso della carne che cuoce sulla griglia riempie l’aria del piccolo cortile sul retro del bungalow, e lo stesso fanno le risate di Zuca e Titi, vistosamente più allegri dopo che il temporale di qualche giorno prima ha spazzato via il caldo asfissiante che attanagliava la riviera. Tami guarda il tutto con aria benevola e ogni tanto lascia scorrere gli occhi anche addosso a lui. José se ne accorge solo perché conosce il peso e la sensazione che danno quegli occhi quando gli accarezzano la pelle, ma non riesce a darle davvero attenzione perché Zlatan ha risposto subito, dopo la breve lettera che gli ha inviato qualche tempo prima. E non sa perché sia tanto impaziente di leggere il suo rimprovero severo tra le righe, ma sa che ne sente il bisogno. Perciò, disappunto o meno, va avanti. “Io sono sempre stato sincero con te, riguardo quello che c’era tra noi. Te l’ho detto quando ti volevo, ti ho mandato via quando non sopportavo di averti intorno, e soprattutto quando ho capito che era amore te l’ho detto. Questo forse non fa di me una persona migliore di te – anzi, sicuramente non è così, perché mi rende più egoista, più egocentrico e più infantile di quanto non lo sia tu – ma, poco ma sicuro, fa di me una persona più sincera”. José ringhia offeso, mentre Tami rigira gli hamburger sulla griglia e gli chiede a bassa voce come se la passi Zlatan in Spagna. Risponde con un grugnito poco convinto e lei gli fa eco con una risata cristallina delle sue, prima di lasciarlo alla conclusione della lettera. “D’altronde,” continua Zlatan, e José può quasi sentire il suo tono stanco e disilluso, nonostante i chilometri che li separano, “se avessi preteso della sincerità, da te, probabilmente non sarei mai partito. Oppure, con te non ci sarei mai nemmeno venuto a letto, figurarsi innamorarmi. Ti ho conosciuto che eri già un manipolatore, quello mi piaceva. Ma suppongo che a questo punto non possa lamentarmi del fatto che tu fossi esattamente come ti amavo. Come ti amo. Come… non lo so”, e qualcosa nel petto di José si spezza e nello spezzarsi cambia forma, così da dargli l’impressione che non sarà più in grado di riportarla alla normalità neanche ad utilizzare tutta la colla e la maestria che possiede. “Non rispondere a questa lettera se non vuoi dirmi quello che voglio sentire, José. Sarà meglio per entrambi. Con tutto il mio affetto, Zlatan”. José sospira e Tami lo informa che gli hamburger sono pronti. Lui le risponde che deve fare una cosa, ma torna subito. S’infila nel bungalow svelto e discreto come un ladro, si guarda intorno e poi si siede all’unica cosa che possa ricordare una scrivania nel raggio di chilometri, un tavolo in legno chiaro e levigato. E tira fuori carta e penna.


fourth kind of lie – truth denied
19. Lettera mai aperta @ Double Drabble Challenge
Fuochi d’artificio @ Operazione Tutti Al Mare/Scappatella Estiva


Helena è entusiasta e la Spagna le piace da impazzire, questa è l’unica cosa che Zlatan può dire di sapere con certezza, ora che sta sdraiato sull’erba di chissà che giardino gremito di persone e Max fissa con devozione il cielo che si illumina a tratti dei giochi di colore dei fuochi artificiali, mentre lei culla Vincent dondolandolo un po’ avanti e indietro, cercando di farlo addormentare nonostante il baccano. È appena tornato a casa dall’ennesima sessione di allenamento immobile – il braccio guarisce, non guarisce, “deve tenerlo fermo, signor Ibrahimović!”, “ho due figli, signor Vattelappesca!” – s’è appena ritrovato fra le mani la lettera di José, che subito Helena l’ha afferrato per il braccio sano, i bambini già nei passeggini, e gli ha cinguettato addosso tutta una serie di “ommioddio una festa di paese così carina mamma mia dobbiamo andarci i fuochi d’artificio!”, così confusa che Zlatan non ha nemmeno provato ad opporsi e l’ha seguita senza una protesta. E sono andati dietro al corteo in onore di chissà che santo patrono, hanno mangiato il marshmallow, Max ha storto il naso di fronte alle mele candite e Vinny ha dormito – come sempre – per l’ottanta percento del tempo, e ora sono lì che guardano i fuochi d’artificio esplodere nel cielo ed è il primo momento di vera quiete della sua giornata. Perciò, steso com’è, sperando che le luci delle bancarelle che costeggiano la strada siano abbastanza forti da illuminare la scrittura minuta e disordinata di José, recupera la lettera e la apre. All’interno della busta ce n’è un’altra più piccola, e c’è anche un foglietto a parte che gli scivola sul petto non appena fa tanto di guardarlo. Lo prende tra le dita e lo apre tenendolo sospeso sulla testa. “Io lo so qual è stato il mio errore più grande, Zlatan”, dice José, “lasciarti sempre decidere tutto. Ma è stata una mia scelta e non intendo smentirmi proprio adesso. Perciò d’accordo, decidi tu anche ora. Ma prenditi le tue responsabilità. Sai già cosa c’è nella busta più piccola che accompagna questo biglietto. Se apri e leggi, fallo solo perché vuoi tornare. Altrimenti, lascia tutto com’è. Questo sarà meglio per entrambi”. Il biglietto non dice altro. “Problemi?” chiede distrattamente Helena, allungandosi a risistemare Vincent nel suo passeggino. Zlatan risponde scuotendo il capo, e non sa cosa dire. Guarda la busta più piccola dentro la busta più grande e sembra così piccola e innocua che si sente stupido ad averne tanta paura. Ma lì dentro c’è ciò che avrebbe sempre voluto sentirsi dire e José non gli ha mai detto, e lui sa che, se solo lo leggesse adesso, poi nulla sarebbe più come prima. Perciò ci riflette accuratamente. Esita. E afferra la busta fra le dita e l’accarezza piano coi polpastrelli, sperando che quella carezza non si fermi sulla carta e in qualche modo arrivi dove vuole. Dove deve. Dov’è giusto. Ma quella busta lui non la apre. A Helena piace la Spagna. E certe cose, dopotutto, è meglio non saperle affatto.
Genere: Triste, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Language, Lemon, Slash.
- Maggio 2010. José Mourinho si trova a Madrid in vista della finale di Champions League che terrà impegnata l'Inter contro il Barcellona. E, già che è lì, fa un po' di conti col passato.
Note: Sia chiaro che quando ho cominciato a scrivere questa fan fiction sapevo esattamente perché lo stavo facendo, solo che ora che l’ho conclusa non me lo ricordo più o_o *facepalma* Comunque! In realtà, nonostante fatichi ancora a razionalizzare il motivo per cui ho sentito il bisogno di scrivere l’ennesima Jobra post-drama buttandomi su questa balenottera da 5000+ parole, devo dire che mi piace. Più che altro proprio a livello strutturale, perché è bello come la fic vada verso la sua conclusione, raccontando il punto fermo che José e Zlatan cercano di mettere alla loro relazione di non-detti, e si muova parallelamente su un livello di ricordi che invece quella stessa relazione la riporta ai suoi albori, alla prima, elettrica stretta di mano. Lungi da me fare filosofia spicciola sulle mie own storie, ma è una cosa carina, ecco XD E poi è anche il solito esorcismo propiziatorio, perché io spero davvero di esserci, lì a Madrid, e spero che ci sia anche Zlatan, ecco. Poi è chiaro chi tornerà a casa con la coppa, ma queste sono facezie u.u
Di mezzo ci sono un sacco di cose canon o presunte tali, comunque. Tutte le parti in corsivo – cioè tutti i ricordi – sono risultato di gossip vario ed eventuale recepito nel corso del campionato e del calciomercato estivo. Lo dico nel caso vi chiedeste de José abbia davvero detto quelle cose orribili ai suoi giocatori, dopo la pietosa sconfitta con l’Atalanta: ecco, pare di sì XD (E comunque Zlatan quel gol l’ha segnato sul serio u.u)
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Payback


L’aria di Madrid è calda e sa di casa e famiglia – José la inspira a pieni polmoni mentre passeggia distrattamente per le strade più nascoste della città, quelle che conosce a menadito e che sa di poter attraversare senza ritrovarsi improvvisamente circondato da gente sconosciuta che urla il suo nome ed allunga una mano per ricevere una stretta, un autografo, un saluto o chissà che altro.
Non sarebbe dovuto uscire – nulla di buono può derivare da una passeggiata solitaria nella città in cui il giorno dopo ti giocherai il nome, l’onore e l’orgoglio – ma per la verità l’aria in albergo aveva cominciato a farsi troppo incandescente per i suoi gusti. Gli piace lavorare in situazioni al limite, perché stimolano lui e stimolano i giocatori, ma c’è un limite a quanto può sopportare le situazioni al limite, se tali situazioni coinvolgono Zlatan. L’ha già provato in passato, non può essere cambiato granché in meno di dodici mesi. Se è vero che ogni uomo possiede un tallone d’Achille, ecco, il suo deve necessariamente essere lo zingaro che, partendo per Barcellona, gli ha spezzato il cuore in modi che non avrebbe mai creduto possibili senza coinvolgere Matilde o i bambini.
Quando il caldo comincia a farsi poco tollerabile, s’infila nella prima birreria disponibile, in cerca di una Corona. La ottiene e si perde nel gusto amaro, freddo e frizzante della birra che gli solletica la gola, guardando fisso di fronte a sé le mensole colme di liquori e chiedendosi quanta di quella roba gli servirebbe per ubriacarsi – e fare probabilmente una pessima figura coi suoi giocatori, il suo presidente e tutti i tifosi. Manda tutta una serie di anatemi nei confronti di un Dio che ama ma ogni tanto dimentica di temere, colpevole di averlo reso resistente all’alcol, e poi stabilisce che, comunque, resistenza o meno, anche cinque o sei Corone non riuscirebbero dove fallirebbe perfino il più potente degli alcolici, perciò paga e torna per le strade, una mano che scivola naturalmente all’interno della tasca posteriore dei jeans, accarezzando il cellulare dalle forme perfettamente regolari e perfettamente immobili.
Lo estrae con un sospiro pesante, lasciando scorrere gli occhi sul display con aria dubbiosa. Basterebbero un paio di click sul touch pad per risalire ad un numero che non usa più da mesi e non è neanche sicuro sia ancora funzionante. Insomma, Zlatan ha ancora amici, in Italia – almeno fra quelli dei suoi compagni che sono riusciti a perdonare cose che invece a lui continuano a non andare giù nonostante tutto il tempo passato – probabilmente per tenersi in contatto con loro il numero del cellulare che usava in Italia è ancora attivo. Uno fra i suoi duecento milioni di cellulari – quello per mamma e papà, quello per l’Italia, quello per i parenti sparsi chissà dove in giro per il mondo – potrebbe perfino rispondere.
José sa che, solo a rifletterci ancora un paio di minuti, capirebbe che chiamarlo sarebbe un errore madornale. Al momento non sta ancora abbastanza bene con la questione di lui al Barça, per poterlo affrontare lucidamente. Non quando l’ha visto così dannatamente sorridente fin dal primo giorno che ha passato in quella città, non quando le ultime parole che ha sentito provenire da lui a migliaia di chilometri di distanza sono state “non mi interessa cosa dice Mourinho”. Quando lui avrebbe fatto qualsiasi cosa, per tenerlo con sé. Quando ogni singola frase uscita dalle sue labbra dalla sua partenza in poi non era stata altro che di lode, di affetto, di rispetto – e perfino qualcosa di più.
José non ricorda con precisione assoluta la miriade di cose che ha detto nel periodo immediatamente successivo al suo trasferimento, probabilmente anche perché, della maggior parte delle dichiarazioni con le quali si è sputtanato a livello internazionale, la sua testa ha preferito fare piazza pulita. Non che siano cose di cui si penta – può dirlo solo perché lui, in genere, non si pente mai di nulla – solo che c’è un limite alla quantità di cose che puoi dire senza poi cominciare a chiederti se non ci sia qualcosa che non va in te e nel modo in cui hai affrontato una situazione passata e ora ti appresti ad affrontarne una in divenire.
Cose come “credevo che sarebbe rimasto”, o le dichiarazioni in cui raccontava senza dirlo di come avesse fatto semplicemente di tutto per convincerlo a restare, potevano intrigare i giornalisti o divertire qualche tifoso, ma avevano su di lui l’effetto peggiore in assoluto. Quanto puoi soffrire per l’addio di un amico – peggio: di un semplice giocatore, in pratica un dipendente, al limite un collega – prima di renderti conto che probabilmente non si trattava affatto né di un amico, né di un collega, né tantomeno di un dipendente?

«Se il Barcellona vincerà la Champions, non sarà merito tuo. Sono abituati a vincere, sono creati apposta per vincere, non possono che vincere. Nessuno ti ringrazierà per questo.»
Un istante di silenzio.
«Non mi interessa. Voglio andare.»
«Vincere qui all’Inter avrebbe tutto un altro sapore.»
Una mezza risata. Josè sospira.
«Niente da fare?» chiede stancamente.
«Niente da fare.» conferma Zlatan con una scrollata di spalle. E poi si allontana.

Di una cosa José era certo al momento dei saluti con Zlatan, esattamente come ne è certo adesso che manda a fanculo il buonsenso e lo chiama: fra loro due non era mai accaduto quello che invece sarebbe dovuto accadere per rendere il loro rapporto meno allucinante e più sincero. Non è una cosa sulla quale gli piaccia riflettere e non è una cosa che ripeterebbe ad alta voce, ma è una cosa che sta cominciando ad accettare. Piano piano.
Il telefono squilla un paio di volte, e poi Zlatan risponde. Anche se il termine non è del tutto corretto, visto che Zlatan a tutti gli effetti non spiccica una singola parola. Tutto ciò che José sente è il silenzio di una stanza vuota spezzato a intervalli regolari dai suoi respiri incerti e pesanti. Zlatan s’è appena svegliato. Lo riconosce dal modo in cui respira. Ricorda di averlo sentito respirare così in due occasioni specifiche – due occasioni stupende. La notte in cui sono usciti a festeggiare lo Scudetto, con tutta la squadra – e Zlatan s’è appisolato sul bus per poi svegliarsi una volta tornati in Pinetina – e la notte che hanno passato in aereo mentre volavano verso Los Angeles – seduti accanto, Zlatan con la faccia schiacciata contro il finestrino fino a quando non è stato lui stesso a svegliarlo pochi minuti prima dell’atterraggio.
Ricorda il suono del suo respiro con la stessa precisione con cui ricorda la voce dei suoi figli, il modo in cui lo chiamano papà, o la voce di Tami, il modo in cui ansima il suo nome quando fanno l’amore o il modo in cui ha detto “sì” quando si sono sposati. Se gli fossero servite altre prove per cercare di capire meglio cos’è che lo leghi a Zlatan con questa forza quasi disperata, non avrebbe faticato a trovarne.
- Ciao. – comincia, visto che Zlatan non sembra intenzionato a farlo, - Disturbo?
Zlatan trattiene il respiro e si schiarisce la voce, prima di rispondere.
- Dormivo. – dice, un po’ confusamente, incerto fra due lingue. Allo spagnolo ha fatto l’abitudine, ma José gli sta parlando in italiano. E José sorride nel rendersene conto: potrebbe cominciare a parlargli in portoghese e ridere di lui nell’ascoltarlo arrabbiarsi perché non riesce a cogliere ogni singola parola del suo discorso. Ma lascia perdere, e visto che non ha ancora la minima idea di cosa stia facendo, quantomeno continua a farlo in italiano. Qualsiasi cosa sia.
- Mi dispiace. – mente, - Come stai?
- Sto… - comincia Zlatan, e poi esita e s’interrompe. – José. – lo chiama per nome, improvvisamente più sicuro, - Cosa vuoi?
- Niente in particolare. – scrolla le spalle lui, e si tratta solo di una mezza bugia, d’altronde, perché in effetti non vuole niente di particolare, da Zlatan, vorrebbe averlo lì per sé tutto intero. – Fare quattro chiacchiere.
- …domani ho una partita importante. – gli ricorda Zlatan, e José ride.
- Ma non mi dire. – lo prende in giro, - Magari vengo a vederti, io invece non ho nulla da fare.
Zlatan ride a propria volta, e José può immaginarlo scuotere il capo, rassegnato.
- Quasi ti manderei un paio di biglietti, se non sapessi che li hai già. Posto d’onore, per giunta. – José si rassegna ad un sorriso ed ascolta Zlatan sospirare mesto. – Non ho più sonno.

«Sono le quattro del mattino.»
Zlatan ride e il cortile silenzioso dell’albergo si riempie di quel suono tranquillo e un po’ ovattato, mentre José scivola al suo fianco, sedendosi sui gradini in pietra del porticato interno, proprio accanto a lui.
«Non sono ancora abituato al cambio di fuso. Se mi sveglio, ho difficoltà ad addormentarmi.»
«E come mai ti sei svegliato?»
Zlatan sospira, guardandolo attentamente per un secondo, prima di spostare lo sguardo altrove.
«Novità.» butta lì infine, vago ma anche inquietantemente – e insopportabilmente – concreto.
José non vuole sapere con precisione a che novità si stia riferendo, perciò tace.
 
- Dove alloggiate? – chiede José in un sospiro. – Mi dispiace averti svegliato, ma non ho sonno neanche io. Ci vediamo?
Zlatan ripete a memoria il nome e l’indirizzo dell’albergo e José prende nota mentalmente, mentre lo ascolta ridere divertito.
- Ma non dire che ti dispiace, sappiamo entrambi che non è vero.
José sospira, lasciando scivolare il pollice sopra il pulsante dell’interruzione di chiamata.
- Non è proprio così. – spiega, - Mi dispiace davvero. – e poi riattacca.
Quando arriva a destinazione, Zlatan lo sta aspettando nella hall, probabilmente per evitare di costringerlo a chiedere al concierge il numero della sua camera. José non sa se si sia trattato di una decisione saggia – se c’è qualche giornalista in giro, giustificare i titoli di domani sarà difficile. In ogni caso non è quello il momento di perdersi nei se e nei ma: è lì, lo è anche Zlatan, qualcosa da tutto questo dovrà venire fuori. Sia brutta o bella.
La camera singola è ordinata come se nessuno ci avesse mai messo piede. Il copriletto è appena spiegazzato, José lo osserva con aria critica, prima di spostare lo sguardo su Zlatan.
- Non hai ancora imparato a dormire per bene?

«Ma come diavolo stai dormendo?»
«Uh?» Zlatan schiude le palpebre e si copre il viso, per ripararsi dai raggi del sole.
«Per terra, sull’erba…» José lo fissa come fosse un alieno viola, «Voglio dire, se hai sonno torna in camera tua e riposati come tutti gli altri!»
«Ma…» la sua voce è un mugolio che si perde nel frinire dei grilli che riempiono il giardino i loro versi acuti, «volevo prendere un po’ di sole. Sono tornato bianchissimo dalle vacanze.»
«Sei tornato presto dalle vacanze» precisa José con un mezzo sorriso, guardandolo dall’alto, le mani sui fianchi, «Potevi star via ancora un po’, non c’era bisogno di tornare qui a Milano. Potevi andare direttamente a Los Angeles.»
Zlatan scrolla le spalle, rivoltandosi a pancia in giù e mostrando la coda del drago che gli si disegna sulla parte più posteriore del fianco.
«Mi mancava… qui» conclude. José non dice altro.
 
- Non è che fossi tornato da tanto. – scrolla le spalle Zlatan, sfilando la maglietta in un gesto naturalissimo e lasciandola ricadere su una poltrona di fianco al letto, - Io e Max eravamo in giro fino a non meno di un’ora fa.
- Sempre in giro, voi due amichetti. – è il commento ironico di José, che si aggira per la stanza come volesse preparare un elenco di tutto ciò che non gli va giù, per poi riversarglielo addosso tutto in una volta, - È stato così anche quando siete andati via entrambi.
Zlatan si volta a guardarlo con una tale quantità di rabbia negli occhi che José sente quasi il bisogno di indietreggiare. Ma tiene duro.
- Non recriminare, adesso, José. – ringhia lo svedese, stringendo e stendendo le dita delle mani, nel tentativo di scaricare il nervosismo, - Non mi pare proprio il caso.
- Non è mai il caso di discutere delle tue brillanti decisioni, per te. – ghigna José, scrollando amaramente il capo, - Fai solo cose buone e giuste.
- Parli tu! – quasi ride Zlatan, anche se la sua risata ha un suono sgradevole, troppo acuto per essere naturale, - Tu, l’uomo che non sbaglia mai- o almeno così crede!
- Ah, e sentiamo! – insiste José, allargando le braccia ai lati del corpo, - Sentiamo, dov’è che avrei sbagliato? Fammi un elenco, Zlatan, perché io avrei un elenco molto lungo di errori riconducibili a te! Vogliamo fare a gara? Coraggio!
Zlatan lascia andare un’altra risata in uno sbuffo esasperato, e gli volta le spalle, dirigendosi svelto verso la porta-finestra che conduce in terrazza.
- Lasciamo perdere, stronzo. – commenta scrollando le spalle, - Non si è mai potuto discutere davvero, con te.
- No, io non lascio perdere! – lo rimbecca lui, afferrandolo sbrigativamente per un polso per impedirgli di andarsene, - Per tua informazione, sei sempre stato tu quello chiuso al dialogo, Zlatan. E a questo proposito- primo errore: non dirmi subito che volevi andare via. Secondo errore, accettare la fottuta maglia numero dieci quando chissà da quanto progettavi di andartene!
- Finiscila! – cerca di liberarsi Zlatan, strattonandolo con una certa forza. José non molla la presa.
- Terzo errore, - prosegue, - baciare la fottuta maglia blaugrana, quando avresti potuto fare quello che volevi, a quella stracazzo di presentazione! Eri- sei Zlatan Ibrahimović, cazzo, avresti potuto dire loro “questa maglia non la bacio, io non bacio nessuna maglia”, e non avrebbero potuto aprire bocca per dirti “ba”, cazzo!
- Oh, fanculo! – si libera infine Zlatan, spintonandolo lontano, - Non venirmi a parlare di amore per la maglia, proprio tu! Hai cambiato anche più squadre di me, se dobbiamo decidere chi è la troia fra noi lo scontro è per lo meno pari!
- Io almeno sono sempre stato fedele a me stesso! – torna ad afferrarlo José, per lo stesso polso, ancora caldo della sua stretta.
- E io non lo sono stato?! – ride ancora Zlatan, smettendo di provare a liberarsi, - Cazzo, se c’è una cosa che non mi si può dire, è proprio aver tradito me stesso! Non l’ho mai fatto!
- Hai tradito te stesso e tutte le tue parole di stima nei miei confronti, quando hai detto che di ciò che pensavo non ti fregava un accidenti. – conclude José tagliente, fissandolo dritto negli occhi.
Zlatan si ferma, e il suo respiro si sospende per qualche attimo, mentre lui cerca di fare mente locale.
- Avevi detto… - lascia andare una mezza risata incredula, - Avevi detto che Eto’o era un giocatore migliore di me. Dopo avermi… dopo avermi fatto credere che fossi in assoluto il migliore, tu neanche due giorni dopo la mia partenza hai detto-
- Non l’ho mai detto! – grida José, la voce resa quasi stridula dalla rabbia furiosa che lo pervade, - Cristo santo, Zlatan! Ma che cazzo hai sentito?!
- Non lo so! – strilla a propria volta Zlatan, liberandosi per la seconda volta, - Che cazzo vuoi, eravamo a… a più di mille chilometri di distanza, io-
- Tu sei uno stronzo! – lo spintona José, obbligandolo a indietreggiare finché le sue spalle nude non toccano il vetro fresco della porta-finestra, - Sei uno stronzo senza palle che non ha avuto il coraggio di chiedere a me cosa pensavo, ed ha preferito affidarsi alle puttanate riferite da chissà che figlio di troia!
- Questo non cambia un cazzo di niente! – cerca di contrastarlo Zlatan, a muso duro, - Io sarei andato via comunque e fra noi le cose-… - si interrompe un secondo, la voce che quasi gli si blocca in gola, e poi manda a fanculo ciò che resta della sua razionalità e lo dice e basta, - fra noi le cose sarebbero comunque andate a puttane, perché io non volevo più vederti, stronzo!
José resta talmente immobile che perfino la stretta delle sue dita attorno al polso di Zlatan sembra pietrificarsi, facendosi tanto forte da far male. Zlatan, comunque, non intende dargli la soddisfazione di chiedergli di lasciarlo, neanche se dovesse perderlo, il fottuto polso. Che tra l’altro è il sinistro. E non ha mai fatto tanto male come adesso – e ne ha viste, di batoste. Anche sotto gli occhi di José.
- Che cosa intendi dire con questo? – chiede il portoghese, gelido, fissandolo ostinatamente negli occhi, - Parla.
- Non servirebbe a un cazzo. – ghigna Zlatan, stringendo la sinistra a pugno per cercare di contrastare il dolore, - Tornerai a casa da sconfitto dopodomani. A cosa vuoi che serva parlare?
- Non mi interessa se serve. – risponde secco lui, stringendolo con più forza, - Parla e basta, è un mio diritto sapere per che cazzo di motivo mi hai mollato nella merda senza nemmeno prepararmi ai chili di fango che ho dovuto ingoiare quando sei andato via.
- Tu- cazzo! – comincia Zlatan, concitato, - Non ne potevo più di te! Mi hai- mi hai fatto impazzire per un anno e-
- Io non ti ho fatto niente! – lo interrompe José, sinceramente sconvolto, - Io non- Io non ti ho mai fatto niente, Zlatan!
- Sai cosa?! – insiste lui, e mentre lo fa sembra perso nei suoi pensieri, - È questo il problema, sai? Esattamente questo! Tu non hai mai fatto un cazzo, io sono impazzito perché tu non hai mai fatto un cazzo, perché tu non hai maivoluto fare un cazzo, e ora non prendermi in giro, José, non guardarmi con quegli occhi e non provarci nemmeno, a dirmi che non te n’eri accorto, perché non ti crederei! Tu non hai mai-
- Piantala! – tuona José, afferrandolo per una spalla e schiacciandolo di prepotenza contro il vetro, - Piantala, Cristo, piantala di dire stronzate, io ti amavo! – si ferma, lo guarda, Zlatan schiude le labbra, - Io ti amo.

«Lo pensi davvero, quello che hai detto?»
Il caffè si fredda nel bicchierino che Zlatan si rigira fra le mani. Vorrebbe portarlo alle labbra e buttarlo giù tutto d’un sorso, ma ha chili di parole che gli occludono la gola e non saprebbe come lasciarvi passare in mezzo nemmeno un filo, figurarsi un liquido.
«Cosa?» ride José, sorseggiando tranquillamente il proprio caffè, «Dico sempre un mucchio di cose.»
«Che…» si inumidisce le labbra lui, incerto, «Quella cosa dell’essere insostituibile. Cioè, pensi davvero che per sostituire me serva un’intera squadra?»
José lo guarda e scrolla le spalle, come fosse la cosa più naturale del mondo.
«Naturalmente sì» risponde, tornando a sorseggiare il caffè ormai tiepido, «Senza di te mi sentirei perso» aggiunge, e poi sembra rendersi conto di ciò che ha appena detto e si schiarisce la voce, agitato. «Intendo» corregge con lieve imbarazzo, «la squadra, non… non avrei idea di come gestirla. Sei il punto cardine di questa formazione, e…» e José continua a parlare, ma Zlatan sorride intenerito, fissa il caffè ormai gelido sul fondo del proprio bicchiere e non lo ascolta più.
 
Se non fossero certi – più che certi – i trentacinque gradi che appesantiscono l’aria calda e umida di Madrid, José potrebbe perfino credere di sentire freddo. Negli occhi di Zlatan c’è qualcosa di enorme che si sta allargando sempre di più secondo dopo secondo, e José non è proprio sicuro del fatto che, quando quella cosa sarà diventata abbastanza grande da uscire ed attaccarlo, lui sarà in grado di contenerla o contrastarla in qualche modo.
- Tu non… - boccheggia Zlatan, a corto di fiato, - Tu stai mentendo.
- Io non mento mai. – risponde, con una freddezza che inquieta per primo se stesso.
- Tacere la verità è mentire. – ribatte Zlatan, e José ringhia nell’avvicinarsi impercettibilmente a lui.
- Non sto tacendo niente, stavolta, mi pare. – risponde, così vicino alle sue labbra da poterle accarezzare col respiro. – Anzi, ho detto anche troppo.
Zlatan lo guarda ancora, confuso.
- Da quando? – chiede poi, deglutendo faticosamente.
José sbuffa, allontanandosi un po’.
- A cosa dovrebbe servirti saperlo? – chiede esasperato, scuotendo lentamente il capo.
- A capire… - risponde Zlatan, esitando fra una parola e l’altra, - …a capire per quanto tempo avrei potuto… a capire se sarei potuto rimanere se solo tu… a…
- Zlatan. – lo ferma José tornandogli vicino e poggiando la fronte contro la sua, - Non parlare.
E, per la prima volta nella sua vita, Zlatan obbedisce.

«Piove.»
José ride, la pioggia si trasforma in nevischio.
«Nevica.» si corregge Zlatan.
«Sei meglio delle previsioni del tempo» lo prende in giro José, e Zlatan sbuffa, mettendo su un broncio molto offeso e tirandosi il cappuccio sulla testa. Non può rischiare un raffreddore. José, invece, evidentemente sì, perché non si muove e resta lì in mezzo al campo che si fa tutto bianco, a guardare la neve. Poi Zlatan lo vede tirare fuori la lingua ed aspettare pazientemente che un cristallo di ghiaccio vi si depositi, per poi assaggiarlo con la curiosità di un bambino che vede la neve per la prima volta. Ride, perché gli sembra assurdo.
«Mi trovi ridicolo?» gli chiede José, lanciandogli un’occhiata divertita.
«No» scuote il capo Zlatan, prendendo a propria volta un fiocco con la lingua, «Solo buffo. Perché lo fai? Non hanno chissà che sapore.»
José scrolla le spalle.
«Non è detto che tutte le cose che si fanno si facciano per piacere» spiega, «Ci sono cose che si fanno e basta. Tienilo a mente per il futuro.»
 
José sa di proibito e di segreti e di passato e di nostalgia. Zlatan non credeva che tutte queste cose potessero avere un sapore, ma è quello che ritrova sulle sue labbra e sulla sua lingua, quando le sfiora con le proprie e si azzarda ad assaggiarle. Le mani di José scivolano lente lungo il suo torace nudo, verso l’altro, posandosi sulle sue spalle e restando lì ferme come avessero paura di muoversi ancora. Zlatan mugola con forza, allontanandosi da quel bacio con molte più difficoltà di quanto non avrebbe creduto – di quanto non abbia effettivamente immaginato in nemmeno una delle milioni di volte in cui ha pensato alla possibilità di José così vicino e così suo.
- Toccami… - gli respira sulle labbra, e si sente un bambino, - Toccami, toccami, toccami…
Una delle mani di José risale il suo collo e lo stringe dolcemente alla nuca, tirandoselo contro. È un po’ buffo non avere idea di cosa fare, è la prima volta che le mani di un uomo lo toccano in questo modo, così come d’altronde è la prima volta che José sente forme simili sotto i polpastrelli. La forza con cui i muscoli di Zlatan, guizzanti e tesi sotto la pelle, si oppongono alla pressione delle sue mani, è una cosa che non è possibile paragonare a nessun corpo di donna – a nessun’altra cosa al mondo abbia mai toccato.
Quando le mani di Zlatan si sollevano e si posano sui bottoni della sua camicia, entrambi si allontanano apposta per guardare il movimento lento delle dita che, fra un’incertezza e l’altra, lo spogliano. La mano di José è ancora ferma sul suo collo e si muove in una carezza appena percettibile cui nessuno dei due bada: è lì ed è bello che ci sia, ma la camicia che si apre sul petto di José è al momento l’unica cosa che li interessa. Interessa Zlatan perché lo sta spogliando, e interessa José perché si sta lasciando spogliare, ed entrambi sono gesti tutt’altro che privi di conseguenze.
Quando la camicia finisce per terra, Zlatan si spinge un po’ in avanti. Non che sappia esattamente cosa voglia dire un gesto simile, spera solo che José sia con lui, in quel momento, che riesca a leggergli nella mente più di quanto non riesca a fare lui con se stesso al momento – perché ha voglia e non sa di cosa, perché vuole qualcosa che non sa come ottenere, perché è triste, perché José era suo, perché non capisce più se lo sia ancora, perché sente di appartenergli da sempre – e José c’è. José c’è e ci sono i suoi occhi che tornano a fissarsi nei suoi, rassicuranti, e ci sono le sue mani che lo stringono lievissime ai polsi, mentre indietreggia accompagnandolo verso il letto, e ci sono le sue labbra che lo sfiorano sulla bocca, sul mento, lungo il collo. José c’è, Zlatan lo sente, Zlatan lo lascia fare.
José c’è ed è ovunque – Zlatan sente la carezza infinita delle sue labbra che seguono il profilo del suo corpo, scendendo senza il minimo pudore lungo il suo petto, lungo il suo ventre, perfino fra le sue gambe, e non riesce a capire se tutta quella disinvoltura sia testimone di relazioni passate, e passate chissà da quanto, magari anche da pochissimo, oppure se sia semplicemente la naturale spensieratezza che ti accompagna quando ti perdi in qualcosa che non credevi avresti mai ottenuto.
- José… - lo chiama debolmente, sollevando il capo dal cuscino e cercando i suoi occhi. Lui gli ricambia l’occhiata un po’ persa, separandosi dal suo corpo col respiro pesante.
- Non ho idea di cosa sto facendo. – risponde, e poi ricomincia a toccarlo come stesse cercando il punto giusto senza aver ben chiara nemmeno la zona approssimativa nella quale dovrebbe trovarsi. Il che, su Zlatan, ha un effetto devastante, perché si traduce all’atto pratico nelle mani di José che ricominciano a vagare ovunque senza meta, dandogli i brividi lungo la spina dorsale e spingendolo ad inarcarsi sotto i suoi tocchi spingendosi verso l’alto in un movimento di cui non capisce l’utilità finché José non la trova per lui, afferrandolo saldamente per i fianchi e sistemandosi fra le sue gambe dischiuse, spingendosi lentamente fra le sue natiche, stuzzicandolo appena.
Zlatan freme di paura e di fastidio, e freme anche perché quella carezza leggerissima lo solletica e lo stimola in modi che non avrebbe mai creduto possibili – e non riesce più a capire se il piacere che sta provando sia qualcosa di puramente fisico o sia dettato anche e soprattutto dal fatto che è José a toccarlo così, è José a farsi sentire in questo modo, e per una volta non lo sta immaginando né sognando.
- Me ne sono andato perché non potevo più starti accanto sapendo che tu non provavi per me quello che provavo io per te. – confessa sulle sue labbra quando José si china a baciarlo nel tentativo di distrarlo, mentre si fa strada dentro di lui con un dito umido e caldo.
- Hai mollato la tua squadra, - elenca piano José, muovendosi dentro di lui con la stessa identica calma che impone alle sue parole mentre gliele lascia scivolare addosso, - la tua vita, i tuoi amici, le tue abitudini, la-
- Tu – lo interrompe Zlatan, posando entrambe le mani ai lati del suo viso e attirandolo più vicino, per baciarlo ancora, - mi stavi devastando l’esistenza. – mugola, quando José interrompe il movimento del suo dito per aggiungerne un altro, cauto, - Tu mi… non puoi nemmeno immaginare cosa fosse diventato per me giocare per te. – e ansima quando il movimento di quelle stesse dita si fa appena più svelto, - Io non ce la facevo più.
- Tu non hai lasciato l’Inter. – commenta distrattamente José, estraendo le dita e guardandolo dritto negli occhi. – Tu hai lasciato me.
Zlatan si morde un labbro, reprimendo a stento il mugolio che gli affiora alle labbra quando a spingersi contro di lui non sono più solo dita.
- Non so se si possa dire così. – risponde, poggiando le mani sulle sue spalle nel tentativo di aiutarlo quando José solleva il suo bacino di qualche centimetro, preparandosi a entrare dentro di lui, - Me ne sono andato perché… perché non potevo lasciarti, credo.
- Zlatan… - mormora José, confuso, la fronte contro la sua spalla, - che vuol dire questo?
- Vuol dire che lasciarsi è una prerogativa degli amanti, noi non lo eravamo, e quindi anche se avessi voluto lasciare te non avrei mai potuto farlo. – sputa fuori tutto d’un fiato Zlatan, perché si sente come se stesse dicendo troppo, più nudo di quanto in effetti già non sia, e non riesce a sentirsi a proprio agio, anche se José si spinge per qualche centimetro dentro di lui e pure se fa male, pure se è strano, pure se è assurdo, pure se sarà ancora più doloroso domattina rispetto ad adesso, in questo preciso istante sembra la cosa più perfetta del mondo. – Lasciare l’Inter era l’unica cosa che potessi… - esita affaticato, stringendo la presa sulle  sue spalle, - l’unica cosa che potessi fare, perché il legame con l’Inter era l’unico che avevo.
José lo guarda. Lo guarda a lungo.

«Cosa cazzo vi prende?!» sbraita, fuori di sé dalla rabbia, «Cosa siete, dei sacchi di merda?! Avete vinto uno Scudetto a tavolino, il successivo per un colpo di fortuna e l’ultimo perché non avevate rivali! E ora siete qui e fate i campioni facendovelo sbattere nel culo da una squadretta del cazzo?!»
Il silenzio regna sovrano nello spogliatoio. I ragazzi vorrebbero rispondere – alcuni di loro, se potessero, prenderebbero armi e bagagli e tornerebbero in Pinetina col primo taxi, probabilmente – ma restano pietrificati sulle loro panchine, congelati sul posto dalle occhiate severe con le quali José li sferza, aggirandosi per lo spogliatoio come una bestia affamata.
«Mi sono rotto i coglioni di voi!» continua l’uomo, spalancando la porta e indicando le scale che portano verso il campo, «Andate fuori di qui e fate gli uomini, se ne siete capaci! Altrimenti fottetevi!»
I giocatori abbandonano lo spogliatoio uno dopo l’altro, chi in perfetto silenzio – come Javi, più urtato dalla sconfitta in sé che non dalle parole del mister – chi borbottando scontento – come Adri, che le offese non le regge neanche se sono più che giustificate. Zlatan si attarda nei pressi del proprio armadietto  e guarda a lungo la schiena di José, mentre l’allenatore osserva la squadra tornare in campo.
Si alza e lo raggiunge solo quando lo osserva sospirare platealmente, sgonfiandosi in maniera perfino infantile.
«Segnerò.»
José si volta a guardarlo con stupore, come non si fosse accorto della sua presenza. Si gratta nervosamente una guancia, scrollando le spalle.
«Per quello che vale» butta lì, esasperato. Zlatan si inumidisce un labbro e riflette brevemente.
«A te importa che io segni almeno un gol?» chiede quindi, tornando a guardarlo negli occhi.
José esita qualche secondo.
«Sì.»
Zlatan annuisce.
«E allora io segnerò.»
José lo guarda ancora e poi lascia andare una mezza risata divertita.
«Sei un idiota.»
 
- Sei sempre stato un idiota. – è la risposta di José, l’ultima che gli dà prima di chiudere nuovamente le labbra sulle sue e cercare la sua lingua mentre lo penetra lentamente.
Zlatan lascia andare uno sbuffo di fiato fra le sue labbra, ed è dolore e piacere insieme, quando José si spinge a fondo dentro di lui e, allo stesso tempo, prende ad accarezzarlo per tutta la lunghezza della sua erezione, cercando di mantenere un ritmo simile a quello delle sue spinte, sperando che possa servire a lenire da una parte ed amplificare dall’altra. E serve, serve davvero, Zlatan se ne accorge quando chiude gli occhi e si lascia andare fra le sue mani con fiducia, gettando indietro il capo, il petto scosso dai sospiri e dalle scariche di piacere che gli annebbiano le idee. José solleva appena le labbra e gli sfiora un orecchio, resta lì a lungo, come volesse dirgli qualcosa, e invece non dice niente, non fa che respirargli contro la pelle. Zlatan non ne capisce il motivo, almeno fino a che non afferra che il motivo è quello: José non ha nient’altro da dire. José vuole farsi sentire e basta.

«E lui» dice Andrea, indicandogli l’altissimo svedese che, guardandolo, sorride come un idiota, «è Zlatan. Avrai sicuramente sentito parlare di lui.»
«Chi non ha mai sentito parlare di lui?» ride José, «Ibra» lo chiama quindi, prendendosi subito abbastanza confidenza da farlo usando un soprannome che, fino ad ora, è stato solo dei compagni di squadra, di Mancini, dello staff e di qualche tifoso innamorato. Così fa fatica a sentire questo José Mourinho come uno sconosciuto, e in effetti non passano che pochi secondi che s’è già abituato al modo buffo in cui sorride sollevando solo un angolo della bocca, mentre sulla guancia gli si disegna una fossetta dalla quale è impossibile staccare lo sguardo. «La tua fama ti precede» commenta, porgendogli la mano.
Zlatan la stringe ed è costretto a lasciarla immediatamente, infastidito da una scarica elettrica improvvisa. José ride, sventolando un po’ la mano davanti al viso.
«Però» commenta, «niente male come primo saluto.»
 
José lo chiama per nome ad alta voce, quando viene dentro di lui, e Zlatan non riesce a fare lo stesso quando viene fra le sue dita solo perché è José stesso a impedirglielo, baciandolo con tanta foga da mozzargli il respiro e annullargli i pensieri e spegnere l’universo intero. Che non esiste più.
Si separano a fatica, senza volerlo davvero. José si regge sul materasso coi gomiti, gli avambracci stesi all’altezza delle spalle di Zlatan, le gambe dello svedese ancora allacciate dietro i fianchi ed i petti che si sfiorano ad ogni respiro, solleticandosi appena.
Si ribalta sul materasso, stendendosi al suo fianco, solo quando il caldo si fa troppo appiccicoso per poterlo fisicamente sopportare ancora. Zlatan gli fa spazio, spostandosi lateralmente, e José gli fa girare un braccio dietro le spalle, aiutandolo a sistemarsi contro di lui.
- Almeno – commenta con una mezza risatina, - abbiamo risolto una questione.
La risatina di José gli fa eco, ma ha un tono profondamente diverso rispetto alla sua. Più disilluso.
- Abbiamo fatto l’amore, Zlatan. – gli spiega senza guardarlo, - Questo raramente risolve qualsivoglia questione.

Zlatan non capisce immediatamente cosa la frase di José voglia dire, e si addormenta fra le sue braccia perché è più comodo, più semplice e più bello così. Non capisce nemmeno quando il giorno dopo si sveglia e non lo trova più al suo fianco, prende la sua assenza come un dato di fatto e d’altronde, mentre si lava e si veste e si prepara per l’allenamento pomeridiano in vista della partita, si chiede anche con una certa ironia cosa potesse aspettarsi di diverso, non soltanto da José, ma dalla situazione in generale.
Continua a non riuscire a darsi una risposta per tutta la giornata. Almeno fino a quando alla sera non entra in campo e José è seduto in panchina. E non lo guarda. E nessuno, dalla panchina, in effetti lo guarda, e il pubblico tace – perfino i tifosi più accaniti – e i suoi compagni non sanno come aiutarlo a fronteggiare l’orda di sguardi rabbiosi che lo fissano dall’altro lato della linea di centrocampo.
E Zlatan si sente solo.
E capisce che la questione non è risolta per niente. E probabilmente non si risolverà mai.

Non c’è vento, non si muove una foglia. I ragazzi si allenano già, a qualche metro di distanza da loro, e José e Zlatan restano immobili sul limitare del campo. Hanno entrambi le mani sui fianchi, Zlatan finge di fare stretching, José finge di guardarsi intorno.
Il silenzio si spezza all’improvviso.
«Mi mancherai.»
Torna silenzio. Si spezza ancora.
«Anche tu.»
E poi più niente.
Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: PG-16
AVVERTIMENTI: (Serie di) Drabble, Lime, Slash.
- Dopo un duro e solitario anno a Barcellona, Zlatan Ibrahimović ci racconta (brevemente) le sue vacanze estive.
Note: DIO SANTISSIMO CHE IMPROBA FATICA. *UNF* Mai più – ricordatemelo, la prossima volta che mi lancio in qualche follia similare – mai più fic con limiti tanto rigidi, neanche se si trattano di limiti più ampi. Gesù santo. Ho già un pessimo rapporto con i diktat tipo “non più di tot parole” o “non meno di tot parole”, era semplicemente ovvio che per scrivere una roba da novanta precise – da contare a mano, poi – sarei sclerata. Gra, ti odio tanto, ma con amore.
Me la prendo con Gra perché l’idea dello Short Service – [spam] challenge estiva che si chiude il 15 agosto e il cui obiettivo è appunto scrivere una drabblina da 69 o 90 parole, e i numeri non sono gettati lì a caso XD [/spam] – è sua. Poi me la prendo anche con Maki e Fae, perché invece i temi cui le drabble sono ispirati vengono dritti dritti dalla community Kinks&Pervs, community cui sognavo di partecipare da secoli, anche perché la kinkaggine e il pervismo rappresentano una parte consistente della mia anima di ficwriter.
Me la prendo inoltre pure con Def e Juccha che, quando ho annunciato che avrei scritto altro Jobra dieci minuti dopo aver concluso la Jobra dell’addio, non mi hanno fermato. E me la prendo col Jobra, infine. Perché è troppo bello per lasciarlo stare ;_; E poi ci serviva un happy ending, dai. Ci serviva che non ci fosse ending at all, probabilmente XD E sono contenta di averlo messo su carta. Bye bye <3
PS. Il soprannome Zay mi ucciderà XD
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See You Next Summer


.Pedalò.
Il sole picchia, rifrangendosi sul mare calmo tutto intorno. Il pedalò è fermo nel niente da mezz’ora, la spiaggia si intravede appena, le boe sono così vicine che Zlatan potrebbe allungare una gamba e toccarle. Lo dice. José ride. “Hai le gambe lunghe, non è indicativo.” Ride anche Zlatan.
Le vacanze sono appena cominciate, l’anno a Barcellona è stato soddisfacente, ma duro e solitario. Si allunga a sfiorarlo da sopra il costume e lui ghigna. “Di già?” chiede con un sorriso. Zlatan non risponde, si china e basta.
 
.Crema.
Zlatan si stende sul telo da bagno a pancia in giù e lascia che José si perda nel seguire il movimento flessuoso dei due chilometri di spina dorsale che Iddio gli ha dato in dotazione quando ha permesso a Jurka e Sefik di metterlo al mondo per il bene dei popoli. Momento di beatitudine seguente: le mani di José che quella curva la percorrono tutta per coprirlo di crema solare. Poi le mani finiscono sul sedere, lì si fermano e Zlatan capisce che non avrà tempo per la tintarella, oggi.
 
.Bagnasciuga.
In riva, la spuma segue il moto delle onde come un’innamorata. Zlatan adora quando gli bagna i piedi e lascia sulle dita quella scia un po’ frizzante – bollicine scoppiettanti che gli fanno il solletico dappertutto. Come le mani di José, seduto dietro di lui, il petto che si muove mentre respira sulla sua schiena, sul suo collo, contro le sue spalle. E le mani ovunque, giù lungo il petto, il ventre, fra le cosce. Zlatan chiude gli occhi. Ed anche lui segue il moto delle onde come un innamorato.
 
.Sabbia.
Si contorce sotto il getto d’acqua nel tentativo di lavarsi di dosso la sabbia che gli si è appiccicata ad ogni dannato centimetro della pelle durante la giornata. I granelli sono entrati in luoghi di se stesso che non conosceva, non pensava nemmeno di avere, e in altri luoghi su cui invece ha avuto il permesso di mettere le mani solo José. Una cosa disdicevole. “Zayyy!” lo chiama lamentoso, piagnucolando un po’, “Non riesco a toglierla!” José sospira, mentre scivola nel box accanto a lui. Pulirà a proprio modo.
 
.Bagnino.
“Niente male, il bagnino” biascica, sistemando le magliette in valigia. È triste, torna a Barcellona domani e poi va in ritiro – ok, è triste un casino, non vedrà José fino all’estate prossima, è devastato. Vuole litigare o forse solo un po’ d’attenzione. José, probabilmente, gli darà entrambe le cose.
“Niente di speciale,” sputa fuori astioso. Zlatan sbuffa. Il secondo dopo è piegato contro il materasso.  Ansima e geme e no, il bagnino non era niente di speciale. Quello che si porta a letto lo Special One è lui.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste, Erotico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash.
- Canto del cigno.
Commento dell'autrice: Non che abbia molto da dire su questa storia. È nata stasera, cominciata poco prima dell’annuncio e terminata qualche oretta dopo, cercando di buttar fuori tutta la tristezza che era dentro, s’era accumulata e stava cominciando sinceramente a fare un po’ troppo male XD Almeno adesso sappiamo da che parte stiamo voltati (culo a José, ragazzi, sempre!). A Zlatan vanno solo baci, gratitudine e tanti auguri di fare il peggio possibile, così tornerà strisciando il miglior campionato possibile col Barça. Ma non ci credere nella Champions, svedese, quella sarà nostra u.u
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MEMENTO


Zlatan ricorda che, quando era piccolo, durante una delle prime partite col Malmö BI, nel tentativo di segnare di testa, saltò scompostamente, poi cadde a terra e si sbucciò un ginocchio. Era la prima volta che si faceva tanto male, perché gli era capitato di sbattere, ma nulla di tanto devastante, e gli era capitato di scivolare, ma non su un campetto così ghiaioso e ciottoloso e polveroso, tanto da fargli bruciare la carne esposta fino a farlo urlare e piangere di dolore. Quel pomeriggio giocava da solo, non c’era papà in tribuna, e nemmeno mamma, solo il mister che cercò di prendersi cura di lui nel migliore dei modi, ma dannazione era piccolo, stava male e voleva i suoi genitori, e loro non c’erano. Ricorda che, nel momento in cui suo padre arrivò al campetto – era già tramontato il sole, quasi del tutto – gli venne una tale voglia di corrergli incontro e piangere stretto fra le sue braccia, che neanche ci provò, a trattenersi, e nonostante il ginocchio gli facesse incredibilmente male saltare in piedi ed andare verso di lui – mentre lui spalancava le braccia per accoglierlo nel migliore dei modi – fu esattamente la prima cosa che fece, prima di tutto il resto, anche prima di spiegare come avesse fatto a conciarsi il ginocchio in quel modo.
Le ginocchia fragili sono una cosa che continua a trascinarsi dietro dall’infanzia, tant’è che l’ultima sbucciatura c’ha messo un mese a sparire del tutto – e il fatto che continuasse a strusciarla cadendo scompostamente come fa imperterrito da vent’anni non ha aiutato, per il grande sconcerto di José, che ogni tanto si ritrovava a guardare la ferita piena di mercuriocromo spalancando gli occhi e chiedendogli ad alta voce “Zlatan, cosa devo fare per rimetterti a posto? Ricucirti a mano?”, causandogli sempre un sorriso fra il tenero e il divertito.
Allo stesso modo, continua a trascinarsi dietro anche quella strana tristezza – una cosa che ha a che fare col sentirsi debole, stupido e inadeguato – che prova ogni volta che si fa male. Tanto che non si muove dal lettino sul quale il dottore l’ha abbandonato dopo avergli applicato la fasciatura al polso sinistro, e resterebbe ancora lì nei secoli dei secoli, probabilmente, se non fosse José a richiamare la sua attenzione, chiamandolo a bassa voce.
- Ibra.
Non Zlatan. È sempre stato Zlatan, fin dal primo giorno del suo arrivo, ed ha continuato ad esserlo fino a quando l’ipotesi del Barcellona non è diventata realtà. Fino a che lui stesso non l’ha fatta diventare realtà. Il suo desiderio di andarsene non è qualcosa che sappia come spiegare a José, dal momento che, in tutta sincerità, non riesce a spiegarlo nemmeno a se stesso. Ciononostante, avrebbe preferito che José non ponesse tutta quella distanza, fra loro. Toccarsi, salutarsi, parlare, baciarsi, fare l’amore, perfino chiamarsi per nome, sono cose che non si verificano più da tanto di quel tempo che, a ricordarle, sembrano finte. E dire che sono state tutte così frequenti, nell’ultimo anno, così presenti. Così loro.
Solleva lo sguardo cercando i suoi occhi, José risponde senza scostare i propri e Zlatan si sente incredibilmente a disagio.
- Mmhn. – risponde in un mugolio deluso, mettendosi in piedi.
- Frattura? – chiede José, inarcando un sopracciglio, - Credevo fingessi e stessi frignando a caso, durante la partita.
- Distorsione. – precisa Zlatan con una smorfia, - E non fingevo. Stronzo. Non fingo mai.
- Ma sei una lagna lo stesso. – sospira José, voltandogli le spalle. – Dai, ti accompagno in camera tua.
Zlatan lo segue, tenendo lo sguardo fisso sul pavimento. Lo solleva una volta sola, piantandolo fra le scapole di José – che si muovono lente, seguendo l’ondeggiare rilassato delle braccia lungo i fianchi – e nel momento stesso in cui lo fa torna a Malmö, il polso smette di fare male e comincia a dolere il ginocchio. È una cosa stranissima che dura un secondo e lo confonde come se invece fosse durata delle ore, tant’è che è costretto a scuotere energicamente il capo per cercare di scacciare via i pensieri che sembra si rifiutino di andarsene di loro iniziativa, sulle loro gambe. I capelli gli pizzicano il naso, starnutisce e José, di fronte a lui, ride senza voltarsi a guardarlo.
- Tienili composti. – getta lì senza pensarci, - Ti fanno sempre quest’effetto. – commenta distrattamente, e Zlatan si morde un labbro, spostando gli occhi sulla sua nuca.
E poi niente, è una cosa che non pensa, non decide e non intende ricordare quando questa giornata tremenda sarà finita: lo fa e basta. Fissa l’obiettivo, muove un passo avanti, prende una breve rincorsa e l’istante dopo si aggrappa alle spalle di José come un koala ad un albero, stringendo le braccia attorno al suo collo – anche a rischio di soffocarlo seriamente – e le gambe attorno ai suoi fianchi – anche a rischio di fargli perdere l’equilibrio fino a trascinare entrambi a terra in una caduta che non gioverebbe a nessuno.
- Cosa caz- - ansima José, colto alla sprovvista, mentre a fatica ritrova il proprio equilibrio e le sue mani scattano con naturalezza a stringerlo sotto le cosce, per impedirgli di scivolare, - Zlatan! – lo rimprovera, voltando il capo il più possibile per cercare di sferzarlo con l’occhiata di rimprovero che Zlatan immagina e si rifiuta per principio di prendere in considerazione.
Preferisce di gran lunga spalmarsi contro di lui come può, sollevando le gambe il più possibile perché non lo intralcino mentre, imperterrito, continua a camminare – perché José non si ferma mai, neanche se gli piomba addosso un pianoforte, figurarsi uno Zlatan Ibrahimović qualunque. Poggia il mento sulla sua spalla, sbuffando rumorosamente.
- Mi hai chiamato per nome. – borbotta, - Finalmente.
- Non mi ero accorto di aver smesso. – mente José, e Zlatan risponde con uno schiaffo lieve contro la sua guancia, dato più per ricordargli che non può prenderlo per il culo – non in questo modo, almeno – che per altro.
- Io sì. – risponde in un mezzo ringhio, - E comunque… - si ferma, perché non sa che dire. Sa che un “comunque” c’è, sa che c’è qualcosa che vorrebbe far sapere a quell’uomo che lo regge con cura appena sotto le ginocchia, ma non riesce. Non sa cosa dire. Non trova le parole o chissà cos’altro. Resta in silenzio.
- È una distorsione al polso. – gli ricorda José, sbuffando a propria volta.
- Lo so. – annuisce Zlatan con un mezzo sorriso, tornando a mettersi dritto ed accomodandosi meglio contro le sue spalle, dopo il primo momento di confusione che l’ha obbligato a stare il più piegato possibile per cercare di ingombrare il meno possibile – per quanto il tutto potesse sembrare assurdo.
- Non c’è motivo per cui tu non possa camminare. – precisa ancora José, come ad accertarsi che Zlatan l’abbia capito. Zlatan l’ha capito, infatti non è per quello che gli si sta attaccando come una patella allo scoglio.
- Lo so. – ripete infatti, annuendo debolmente.
- E sai pure che tutto questo è ridicolo, vero? – chiede il mister, un’espressione contrariata a distorcere, non del tutto spiacevolmente, i tratti del viso. È così raro vedergli un’espressione simile addosso, un’espressione che non sia il solito lancinante disinteresse, che Zlatan quasi si sente orgoglioso ad essere motivo di un tale sfoggio di umanità.
- Sì. – risponde Zlatan, salutando con un cenno della mano il capitano che passa di lì e li guarda entrambi con aria allucinata, senza che José faccia una piega al riguardo. – Fammi cadere e ti uccido. – aggiunge per la cronaca. Non che creda che José sarebbe davvero capace di mollarlo lì in mezzo al corridoio ed andarsene via, ma è sempre meglio dirle, certe cose. Anche se non dovrebbe essere lui a pensare una cosa del genere, dato quanto poco sta parlando ultimamente.
- Apri la porta. – gli dice José, indicando la maniglia quando giungono sulla soglia della sua camera, - Io non posso. – ride appena, stringendo la presa sotto le sue cosce per fargli sentire con forza che il motivo per cui non può girare la dannata maniglia non è che non può mollare la presa, ma che non vuole.
Zlatan annuisce, scioglie una delle braccia che gli ha allacciato attorno al collo e la allunga in avanti, sporgendosi fino a sfiorare con la propria guancia la guancia di José, mentre gira sbrigativamente la maniglia e spinge la porta per aprirla.
José avanza all’interno della stanza, piegandosi un po’ in avanti per tirare un calcetto alla porta e spingerla a richiudersi. Zlatan, nel movimento, ha l’impressione di cadere, e si aggrappa a lui con forza, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. Quando il pericolo finisce, perché José torna a poggiare entrambi i piedi a terra, Zlatan schiude le palpebre e vede solo la grana ambrata della sua pelle, annusa il suo profumo da così vicino che gli dà alla testa e sente la sua risatina divertita tanto dentro da farsi dolere il petto. Non ci pensa nemmeno, ad allontanarsi. Resta lì ancorato a lui come se quello stringere convulsamente attorno alle sue spalle potesse essere sufficiente a trattenerlo lì. Ovunque sia lì: Boston, Milano, l’Inter, non importa. Ovunque sia lì. José è lì.
- Scendi, dai. – gli dice, la voce soffice come quando si sono presentati e José gli ha teso la mano sussurrando “Ho sentito molto parlare di te, ma devo dire che dal vivo colpisci molto di più”, e lui ha risposto con una mezza risata, imbarazzandosi anche e biascicando un “Potrei dire lo stesso” stentato, ridicolo e anche sommariamente falso, dato che di lui avrebbe potuto dire molto di più già fin dal primo giorno, come quanto fosse rimasto affascinato dal modo in cui i capelli brizzolati non lo facessero sembrare per niente vecchio, da come le fossette che gli si disegnavano sulle guance quando rideva fossero piacevoli da stare a guardare, da come la sua voce profonda e sicura fosse ammaliante e da come ogni sguardo attento che riusciva a strappargli sapesse di vittoria, di sconfitta e di scoperta, tutto insieme, come quando il cuore batte fortissimo e non capisci nemmeno perché.
Di scendere, comunque, non ha per niente voglia, perciò stringe le gambe attorno ai suoi fianchi e resta incerto a sfiorargli il collo con le labbra. Potrebbe baciarlo, basterebbe così poco, sporgerle un po’ e schioccarle, nient’altro, ma non sa come potrebbe reagire José e non vuole indisporlo più di quanto già non sia – anche se gli manca, gli manca tantissimo, e il solo pensiero di dover andare via fra una settimana, domani o anche solo fra qualche ora, senza poterlo avere ancora una volta, lo distrugge.
- Zlatan. – lo chiama ancora José, - Scendi. Per favore. – e Zlatan rabbrividisce, una richiesta del genere non può ignorarla. Non se espressa in questo modo, con questa stanchezza, con questo abbandono, con questa rassegnazione.
Sospira e stende le gambe, mettendosi in piedi con una certa fatica – le ginocchia che ancora cercano la forma dei fianchi di José attorno alla quale chiudersi – ed aspettando che lui si volti, lo saluti e lasci la stanza, probabilmente con l’intenzione  di non vederlo mai più.
José si volta ma non lo saluta, invece. Resta a guardarlo, le sopracciglia inarcate verso il basso, le labbra strette in una smorfia addolorata e gli occhi scuri tanto densi che Zlatan non riesce a leggervi niente dentro. Tutto ciò che sa è che la sua espressione gli confonde le cose nella testa, nello stomaco e nel bassoventre, e la cosa non lo stupisce, perché José è capace di fargli questo e altro senza il minimo sforzo, alle volte anche restando perfettamente immobile.
- Io non- - comincia, giusto per dire qualcosa, anche se non ha idea di cosa. José lo interrompe scuotendo il capo e infilando le mani in tasca, anche lui giusto per fare qualcosa. Fa male comportarsi in questo modo quando sempre,sempre, tutto fra loro s’è svolto nel modo più naturale possibile. Zlatan si inumidisce le labbra e attende. José solleva gli occhi nei suoi e lo guarda a lungo.
- Non posso credere che tu lo stia facendo davvero. – dice, nella voce molti più sentimenti di quanti Zlatan sia abituato a sentirne provenire da lui, - Io ci ho creduto, sai? In te, in noi, in questa… cosa. Per quanto assurdo potesse essere. E tu non-
- Ti prego. – lo ferma Zlatan, stringendo i pugni lungo i fianchi, - Non dirlo. Non è vero, lo sai che non è vero. Lo sai che ci ho creduto anch’io.
José si inumidisce le labbra e poi si rassegna ad annuire, avvicinandosi di un passo.
- Quando capirai perché lo stai facendo, - gli chiede in un sussurro, a pochi centimetri dalle sue labbra, - voglio che tu me lo spieghi. Dovunque sarai, qualsiasi ora sarà e per quanto stupido possa sembrarti il motivo, tu mi chiamerai e me lo dirai. Me lo devi.
Zlatan annuisce e non trova il coraggio di annullare quella briciola di spazio che ancora li separa, così come non ha trovato il coraggio di chiedersi davvero per quale motivo volesse tanto andare via, così come non ha trovato il coraggio di dirlo a José quando ha cominciato a desiderarlo, così come, all’inizio, non aveva trovato il coraggio di dirgli quanto lo volesse stringere toccare accarezzare baciare, ed ha dovuto aspettare che fosse José a indovinarlo da solo e farsi avanti. Lascia che sia lui a muoversi anche stavolta, e José fortunatamente lo fa.
Poggia le labbra sulle sue e Zlatan esala un sospiro sollevato, mentre tira su le braccia ad allacciarlo nuovamente al collo, passando distrattamente le dita fra i suoi capelli, che sono cresciuti tantissimo, non sono mai stati tanto lunghi da quando si conoscono, e Zlatan non ha mai davvero avuto l’occasione di accarezzarli così nell’ultimo periodo, perciò lo fa con soddisfazione, il più a lungo possibile, perdendocisi anche un po’. José piega il capo e approfondisce il bacio, traendolo a sé per la vita – la maglietta che si gonfia in sbuffi sopra e sotto il suo braccio, mentre la lingua di Zlatan segue la sua come tutto di Zlatan ha sempre fatto con lui.
José si fa avanti, costringendolo a indietreggiare verso il letto. Zlatan si piega piano, lentamente, quando tocca le lenzuola perfettamente composte con i polpacci lasciati nudi dai pantaloncini. Gli fa uno strano effetto stare lì in quel momento, mentre José lo bacia e poggia un ginocchio sul materasso, proprio accanto al suo fianco, per aiutarlo a sistemarsi sotto di sé. Si separano appena, guardandosi negli occhi, il respiro un po’ affaticato perché non ci stai a respirare quando perfino l’aria nella tua bocca cambia sapore grazie alla lingua di qualcun altro. Quella sensazione speciale la tieni dentro finché puoi, e perciò i respiri sono banditi.
- Una volta sola. – dice José, sulle sue labbra, - L’ultima. – Zlatan stringe la presa attorno al suo collo e lo guarda implorante, perché gli ultimatum non gli piacciono altrettanto quando non è lui a darli ma solo a riceverli, ma José è irremovibile. – Credimi. – gli sorride, e Zlatan distoglie lo sguardo. – Ehi. – lo richiama lui, - Sono qui, io. – continua a sorridergli, poggiandogli due dita sotto il mento per spingerlo a tornare a guardarlo. – Una volta sola. Di più farebbero male a entrambi, sai?
Zlatan non ha la forza di dire sì, ma non ha nemmeno la forza di mettersi lì a combattere per avere di più: è tutto l’anno che combatte per avere di più, sta ancora combattendo per avere di più, e tutto ciò che gli sembra di riuscire ad ottenere è dolore, in quantità che non è sicuro di essere in grado di sostenere. Perciò, se José gli dice che, a pretendere ancora pure stavolta, farebbe perfino più male, allora lui non combatterà. Di José si fida. È okay così.
Perciò lascia fare. Si abbandona fra le sue braccia e José lo tratta come fosse prezioso, per una volta. Di solito non è così, fra loro. Di solito ci sono spalle che battono contro le pareti, di solito ci sono strette fortissime che lasciano il segno attorno ai polsi e denti che cozzano e poi si chiudono attorno alla pelle calda e umida e salata, di solito c’è questo, o almeno questo c’era, ma stavolta no. Stavolta José è lento ed è accorto e si muove piano e lo assaggia tutto, come volesse imprimersi il suo sapore sulla lingua.
- Sei fantastico. – gli sussurra sulla pelle, scendendo lungo il suo ventre e soffermandosi a respirare sul suo ombelico, - Sei stata la cosa più spettacolare in assoluto, lo sarai sempre. – e Zlatan serra le palpebre, e siccome ha paura di spalancarle all’improvviso si nasconde dietro un braccio, mordendosi il labbro inferiore. Non vuole vedere né sentire altro che non sia José, e la sua schiena si inarca mentre le labbra dell’uomo si chiudono attorno alla sua erezione, ormai così tesa da far male.
Gli sfiora il viso con due dita, José apre gli occhi e lo guarda dal basso, prima di allontanarsi da lui e tornare alla sua altezza, spingendosi lento fra le sue gambe, che subito si allargano per accoglierlo. Lo bacia e sente sulla sua lingua il proprio sapore misto al suo, chiude gli occhi e si perde del tutto mentre José si fa strada dentro di lui, prima con le dita e poi con tutto se stesso, spingendo pianissimo e soffocando i suoi gemiti fra le labbra, muovendosi con attenzione, cingendolo ai fianchi per impedirgli di muoversi troppo velocemente. Detta il ritmo di qualcosa che Zlatan non si sente in grado di governare, e Zlatan lo lascia fare, perché se dovesse affidargli il ritmo dei battiti del suo cuore, ecco, in questo momento potrebbe fare perfino questo. Il ritmo della sua vita intera, potrebbe regalarlo a José senza pensarci un secondo. Come ultimo saluto, come il ti amo che non gli ha mai detto e che, d’altronde, non ha mai sentito nemmeno lui. Anche perché in realtà nessuno dei due ne ha mai sentito il bisogno.
Quando José viene dentro di lui, spingendosi con forza e stringendo la mano attorno alla sua erezione in carezze sempre più decise, José getta indietro il capo ed espone il collo ad una scia di baci e morsi che sono l’unica cosa che ricordi loro stessi un mese fa. In un letto diverso, in condizioni diverse, perfino in un diverso continente, ma loro. È il regalo di José, Zlatan lo accetta schiudendo le labbra e lasciandovi scivolare in mezzo un gemito estasiato mentre viene a propria volta fra le sue dita, stringendolo a sé con forza. Si respirano addosso per minuti interi, senza trovare il coraggio di allontanarsi l’uno dall’altro anche se il letto è abbastanza piccolo da consentire loro di stare appiccicati pur restando semplicemente accanto. Non vogliono stare accanto, vogliono stare sopra e sotto e dentro l’uno all’altro, qualsiasi condizione meno assoluta di questa è inaccettabile, almeno per il momento, e perciò restano immobili a respirarsi a vicenda, così profondamente da sentire quasi i polmoni esplodere per lo sforzo.
- Quanto hai detto di dover tenere la fasciatura? – chiede José, ancora senza fiato, spostando il viso nell’incavo del suo collo, in cerca di una posizione più comoda.
- …non mi ricordo. – confessa sinceramente Zlatan, fissando il soffitto con aria beata. In realtà sta bene. Ora sta davvero bene.
- E – continua José, con maggiore difficoltà, - quando hai detto che vai via?
Qualcosa nello stomaco di Zlatan fa un balzo e poi torna al suo posto tutta scombinata. Zlatan non ha voglia di rimetterla in ordine e si mordicchia un labbro, mentre sente gli occhi pizzicare fastidiosamente e si affretta a chiuderli per arginare il danno.
- Non ricordo nemmeno questo. – mente ancora. José, però, stavolta non chiede altro.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash.
- Mano fratturata e bisogno di parlare.
Note: Zlatan è un idiota e il colpo alla mano se l’è preso davvero. Non so se sperare che se la sia fratturata o no u.u *è un’innamorata crudele* Comunque delle donne non avevamo ancora parlato, mi è sembrato giusto porre rimedio XD
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I Can't Even Convince Myself


Zlatan guarda la propria stessa mano come fosse una specie di corpo estraneo, un impianto alieno attaccato al polso di cui non sa bene cosa farsi. La fasciatura che la tiene stretta è così enorme da essere grande quasi quanto la sua testa. Gli dà i brividi, non ha idea di come possa essere successo – una botta, okay, ma quante ne ha prese, e anche di peggiori? – e non sa come giustificherà il tutto a Guardiola, quando lo conoscerà. Sarà costretto a giocare con quella roba addosso per chissà quanto tempo e non sarà nel pieno delle sue condizioni – perché fa male, perché lo ingombra, perché quando gioca lui il suo corpo lo usa tutto, non solo le gambe e i piedi, e quindi una mano in queste condizioni può essere un impaccio anche se non deve usarla per toccare la palla.
José entra in camera sua. Ed è un momento molto più assurdo di quanto entrambi non potessero pensare.
Allo stato attuale dei fatti, non parlano da una settimana. Che non vuol dire “non abbiamo discusso di niente, ma ovviamente ci siamo salutati e scambiati qualche frase di circostanza”, no. Vuol dire che nessuna parola uscita dalle labbra di Zlatan negli ultimi sette giorni è stata rivolta direttamente a José, così come nessuna parola uscita dalle labbra di José nello stesso periodo di tempo è stata rivolta direttamente a Zlatan.
Il cambiamento è stato repentino e innaturale, e d’altronde non poteva essere diversamente per due come loro, abituati a parlare così tanto e così spesso, anche se mai delle cose veramente importanti. José lo fissa con aria allucinata, lo guarda in viso, poi guarda la fasciatura, infine torna a cercare i suoi occhi e schiude le labbra, incerto.
Come spieghi una cosa simile? – sbotta, indicandolo tutto con un ampio cenno del braccio. Sembra quasi che voglia chiedergli di spiegare se stesso, e Zlatan non è sicuro che ci riuscirebbe davvero. La frattura, per quanto assurda, è concettualmente più semplice, perciò è su quella che si concentra.
- Ho preso un colpo. – scolla, sul volto la stessa espressione sconcertata di José, ed è davvero ridicolo che si stiano guardando in questo modo, adesso, come non si aspettassero più di vedersi e quello fosse stato un incontro del tutto fortuito.
- Ti pare il momento di fratturarti una mano, Zlatan? – chiede ancora il mister, restando lì sulla soglia, una mano sulla porta e l’altra sullo stipite, - No, dico, ti pare proprio il caso? In questo momento?
Zlatan sospira. José, quand’è sconvolto, si lancia in recriminazioni che hanno dell’allucinante.
- Non è che l’abbia chiesto, sai. – borbotta infastidito. José entra in camera e si chiude la porta alle spalle, restando comunque a distanza, come avesse paura di avvicinarsi.
- Potevi stare più attento! – insiste, - Ora io che me ne faccio di te? Non puoi allenarti, non so che cosa stai ancora a fare qui e non ho idea di cosa farti fare mentre aspetti la benedizione divina per schiodare il culo! Bella storia, davvero.
Zlatan, offeso, distoglie lo sguardo, aggrottando le sopracciglia.
- Non vedi l’ora. – constata tagliente, a bassa voce, e José incrocia le braccia sul petto.
- Esatto, Zlatan, non vedo l’ora. – conferma in un ringhio, - Non ne posso più di questa situazione ridicola. Nessuno ne può più, di questa situazione ridicola, ma io in particolare.
Zlatan non torna a guardarlo, perché ha la certezza che non riuscirebbe a reggere l’intensità dei suoi occhi.
- Non posso farci niente. – sibila frustrato, - Helena è stata chiara.
- Helena dovevi lasciarla.
- Come tu dovevi lasciare Matilde.
José sobbalza, colto in fallo.
- Ci ho provato. – grugnisce, - Lo sai. Ma c’è stato troppo casino, ho dovuto smentire. Ti avevo anche detto-
- Che ci avresti riprovato presto. – completa per lui Zlatan, tornando finalmente a guardarlo, - Ma siamo già a luglio, José, e se devo andarmene devo farlo adesso. Non potrò più, quando sarà cominciato il campionato, almeno non fino all’inverno, ed Helena non è disposta ad aspettare. E coi bambini di mezzo-
- Anche io ho dei figli.
- Sono grandi. – contesta lui, - Non è la stessa cosa.
José ghigna deluso, muovendo qualche passo all’interno della stanza e passandosi una mano fra i capelli.
- Povero Zlatan. – commenta sarcastico, - Tutte le sfortune.
- E tu sei stata la peggiore. – annuisce lo svedese, tirandosi in piedi e sospirando profondamente, appendendo la mano sana ad un fianco magro e appuntito. Poi sorride appena, sollevando solo un angolo della bocca, - Mi era mancato litigare.
- Ci credo. – scrolla le spalle José, apparentemente disinteressato, - Non facevamo altro.
- Non è esatto. – corregge Zlatan, il sorriso che si allarga appena, - Il resto mi manca di più.
- Il resto non possiamo averlo. – lo ferma José, tornando a guardarlo e facendolo con un’intensità tutta speciale, come a dirgli che però è vero, manca anche a lui. – Quindi meglio non pensarci, ti pare?
Zlatan ci riflette su davvero, per qualche secondo.
- No, non mi pare. Credo che continuerò a pensarci, è più forte di me.
José sorride e scuote il capo in un sospiro stanco.
- È più forte di te. – ripete divertito, - E tu lo sei di me. Pensarci non mi aiuterebbe.
Zlatan annuisce, un po’ deluso.
- Quindi cosa? – chiede, - Mi butti fuori dal ritiro? Mi rimandi in Europa a calci?
- Questo non posso farlo. – sospira ancora José, - E non voglio nemmeno. Il primo aereo che prenderai, lo prenderai da qui, e sarà quello che ti porterà a Barcellona. – il suo sguardo si perde sui disegni della carta da parati che ricopre le pareti, mentre continua a parlare, - Sarà l’unica cosa alla quale ti consegnerò. – aggiunge, apparentemente sovrappensiero, - Non Helena, Barcellona.
- Helena sarà lì. – gli fa notare Zlatan, senza il minimo tatto, - Come Matilde sarà a Milano quando ci tornerai tu.
José solleva lo sguardo e gli sorride, annuendo lentamente.
- E saremo tutti ai nostri posti.
Zlatan si morde un labbro perché è quasi certo del contrario. È quasi certo che, quando lui sarà a Barcellona e José sarà a Milano, si sentiranno proprio nei posti più sbagliati in assoluto, come mai prima di quel momento. Ma questo non può dirglielo, e se José ha ragione – se davvero Zlatan è più forte di lui – allora è suo dovere esserlo abbastanza per entrambi. Perché è il suo numero dieci, perché è la sua punta di diamante, perché è il suo amore, perché è il suo amante, perché lui e José, e questo è sufficiente.
Annuisce, tirando una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Lo osserva andare via salutandolo con un cenno del capo. Di tutto ciò che è per lui, quando José va via, resta solo un ex-giocatore. Ed è stato abbastanza forte da accettarlo senza cominciare a odiarsi. È una grande vittoria, può andarne quasi orgoglioso. Ed è certo che almeno José lo sia.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Flashfic, Slash.
- "Cosa ti mancherebbe di me?"
Note: Mi affretto a postare, sperando di fare in tempo, perché per come stanno girando le cose ai piani alti molto presto avremo bisogno di un po’ di consolazione, e ci terrei a fare la mia parte come l’ho fatta nei giorni scorsi ^^ Ieri notte mio fratello è tornato alle quattro del mattino, io avevo José e Zlatan nella testa e ho deciso di lasciarli parlare. Per l’ultima volta su questo argomento – o almeno spero. Quanto meno, le mie ultime shot dimostrano ampiamente che è possibile raccontare lo stesso fatto in dodicimila modi diversi senza mai ripetersi una volta XD
Grazie, Zlatan. Comunque vada.
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Missing Moment


- Le tue gambe. – risponde José, lasciandogli scivolare una mano in una carezza distratta lungo la coscia.
- Le mie gambe? – ride Zlatan, scacciando via la mano per il solletico, - Come sarebbe a dire?
- Sì. – insiste lui, perfettamente a proprio agio, quel sorriso perfetto che ancora increspa le labbra, - Il modo in cui le muovi, il modo in cui le pieghi, e non sto parlando di sesso, in questo momento, quindi togliti quel sorrisino del cazzo dalla faccia, grazie.
- Scusa, scusa! – sghignazza, tirandogli un mezzo calcio dopo essersi liberato dal lenzuolo che gli si è attorcigliato attorno ai piedi, - Era fraintendibile! Le mie gambe, quindi.
- Sì, anche il modo in cui le sollevi quando fai stretching. O come ti allunghi in maniera assurda quando devi recuperare una palla, sei ipnotico quando lo fai.
- Il che vuol dire che vorresti mettermi le mani addosso anche mentre gioco. – conclude, roteando gli occhi in una palese quanto mal riuscita simulazione di fastidio, - Questo perché non si parlava di sesso.
- Infatti non ne sto parlando, sto cercando di spiegarti come sei quando giochi a calcio. – insiste José, serissimo.
- E come sono quando gioco a calcio? – chiede Zlatan, curioso, e José si prende un secondo, prima di rispondere.
- Bello. – dice infine, e Zlatan ride.
- E allora vedi che c’entrava il sesso?
- Mi alzo e me ne vado, sai?
- Sì, certo, certo. – ride ancora una volta Zlatan, sistemandosi il cuscino dietro la nuca, - E poi?
- I tuoi capelli. – prosegue José, lasciandovi scorrere due dita in mezzo, catturandone una ciocca ancora un po’ umida di sudore.
- I miei capelli. – ripete Zlatan, stavolta anche più stupito di prima, - Non piacciono a nessuno!
- Be’, a me sì. – risponde José con una scrollatina di spalle.
- E perché?
- Perché sono ribelli. Mi piacciono le cose indomabili.
- Perché ti piace essere l’unico a domarle.
- Anche. – ammette con un sorriso sardonico, - Comunque, i tuoi capelli. Sia quando li bagni per tenerli a posto, sia quando la smetti di provarci e li lasci andare dove vogliono.
- E soprattutto quando ti fanno il solletico mentre mi baci.
- Non stavo parlando di sesso neanche stavolta.
- Da come ti lamenti sembra tanto per cominciare che non ne parli mai, e tanto per continuare che non ti piaccia farlo.
- E tanto per concludere che tu sia un tantinello fissato, eh? – lo prende in giro, pizzicandogli un fianco, - E poi la tua voce.
- Ma parlo poco.
- Parli anche troppo.
- Detto da te, scusami, ma mi fa solo ridere.
- Io parlo il giusto.
- Allora il tuo giusto è un giusto enorme.
- Sei lagnoso, te l’ha mai detto nessuno? – sbotta José, stendendosi al suo fianco.
- Praticamente chiunque. – sospira Zlatan, tirando su i capelli dietro la nuca, - È per questo che me ne vado.
Rimangono in silenzio per un po’. Molto a lungo, in realtà, tanto che di quel silenzio hanno modo di sentire ogni singola molecola poggiarsi pesante sui loro corpi, sul materasso, sullo spazio che c’è fra loro e che sentirebbero il bisogno di annullare coprendolo con la loro stessa vicinanza – e potrebbero farlo, potrebbero davvero se solo il silenzio non fosse anche dannatamente ingombrante. Perciò restano fermi, e zitti, anche, fino a quando non è José a riprendere la parola, ignorando tutto quello che è stato detto negli ultimi minuti e tornando alla domanda di Zlatan che ha aperto la discussione: cosa ti mancherebbe di me?
- Il tuo culo vale?
Gli arriva uno scappellotto sulla fronte tanto forte che scatta a sedere, massaggiandosi con forza il punto dolente.
- Ahi! – si lamenta, lanciando a Zlatan un’occhiataccia offesa, - Perché?
- Perché avevi detto che non stavi parlando di sesso!
- Be’, ho cambiato idea! – sbotta, tornando a distendersi, - Vedi che roba. Se spunta un livido come-
- Se avessi voluto che ti spuntasse un livido, ti avrei dato un cazzotto sul naso, ti pare?
- …quanta delicatezza. – sospira, rigirandosi su un fianco e guardandolo attentamente. – Comunque, soddisfatto? Ho detto abbastanza?
Zlatan sospira a propria volta, imitandolo nel movimento per poterlo guardare dritto negli occhi.
- Tu dici sempre un sacco di cose. – borbotta. – E mai l’unica giusta.
José ride a bassa voce, scuotendo il capo. Sa già che non glielo dirà neanche stavolta, non ora che la sua partenza è così probabile, così vicina. Sa che forse a Zlatan basterebbe sentirselo dire, anche solo una volta, per cambiare radicalmente tutto il piano di vita che ha sviluppato nelle ultime settimane, da quando il Barça è tornato a farsi sentire, ma José non può trattenerlo a Milano usando se stesso come ancora, non sarebbe giusto. Se Zlatan resterà all’Inter sarà perché è all’Inter che vuole stare, non perché l’Inter è il posto in cui sta anche lui.
- Dimmi solo se domani col Chelsea vuoi giocare. – chiede, invece di rispondere. E chiede senza domandare, come d’altronde ha fatto Zlatan poco prima. La loro è una relazione di domande mancate. E, visto che Zlatan non sente il bisogno di dire “sì” ad alta voce, anche di risposte non dette.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst (lieve), Flashfic, Slash.
- Nella folla di inutili cose dette non detta da dire e da tacere, l'unica cosa importante.
Note: A questo giro è veramente colpa del Def, eh. Lui ha fatto il banner e ha chiesto (retoricamente, ok) “qualcuno vuole scriverci su?”, ed io non potevo certo lasciarmi mancare l’esorcismo del giorno. *piange* Zlatan, resta ;_; Per piacere ;_;
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The Last Goodbye


- Non ce l’ho con te, sai?
Sono le prime parole di José da quando abbiamo finito di scopare. Lui è uno che parla sempre un sacco, una cosa che potrà essere fastidiosa per molti ma non lo è mai stata per me, perché io sono uno che invece parla poco – ed ecco perché, in genere, quando lo faccio combino danni. Comunque sì, parla tanto, parla tanto anche durante il sesso, sente questo bisogno assurdo di dirti tutto quello che gli passa per la testa. Credo sia perché è innamorato del suono delle sue parole, ed anche perché è convinto che qualsiasi cosa pensi abbia un grande valore. José si piace molto, in questo siamo incredibilmente simili – che poi è il motivo per cui staremo decisamente meglio quando a separarci saranno più di mille chilometri. E insomma, fino a dieci minuti fa mi stava riempiendo le orecchie di roba ma non era roba esattamente ripetibile. Adesso invece, ora che è tranquillo e respira e tutto, mi dice questo.
Mi rigiro sul materasso, piantando i gomiti sul cuscino e guardandolo dall’alto. Lui resta disteso, un braccio dietro la nuca e l’altro sotto il mio corpo.
- No? – chiedo dubbioso, inarcando un sopracciglio. Lui scuote il capo.
- Sei un giocatore, non ho mai pensato che saresti rimasto per sempre. Queste cose un allenatore non può pensarle, sono prerogativa dei tifosi. – sospira, sistemandosi meglio fra le lenzuola, - E poi nemmeno io resterò per sempre. Non posso avercela con te per questo.
Tremo appena, sollevandomi per dargli modo di liberarsi dal mio peso, ma lui mi tira di nuovo giù, avvolgendo il braccio attorno alla mia vita.
- Ce l’hai con me per qualche altro motivo? – domando incerto, ravviandomi una ciocca di capelli dietro un orecchio prima che cominci a pizzicarmi il naso.
- Sì. – ride lui, sollevando una mano e ripetendo il mio stesso gesto con un’altra ciocca e un altro orecchio, - Perché mi stai mollando. Mi sembra un motivo sufficiente.
Scendo a sfiorargli la fronte con la mia, non vorrei che i nostri nasi si sfregassero l’uno contro l’altro perché è una cosa da liceali idioti, ma d’altronde il mio naso è quello che è, non posso chiedergli di accorciarsi per evitare di toccare il suo.
- Sei stato il più grande in assoluto. – gli sussurro sulle labbra, - Posso andarmene, ma non ti dimenticherò.
Mi sorride addosso, baciandomi lievemente, chiudendo gli occhi.
- Lo so. – annuisce attirandomi nuovamente a sé. E poi ricomincia a dire cose irripetibili.
Genere: Introspettivo.
Pairing: José/Zlatan, accenni miiiiinimi di Davide/Mario, se proprio li si vuole vedere.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, (Serie di) Drabble, Slash.
- Los Angeles, ritiro della squadra nerazzurra negli Stati Uniti d'America. Giunge una notizia inaspettata, e questo è ciò che ne consegue.
Note: È palese che io mi diverto a farmi del maleeeee XD *cerca di recuperare una qualche compostezza* Uhm, dunque. Serie di drabble che in realtà tutte assieme formano una oneshot (pure piuttosto corposa) ispirata ognuna ad un proverbio fra quelli forniti dal Challenge Speciale #5 indetto da It100. Il punto di tutto questo è che probabilmente Zlatan se ne andrà, d’accordo?, e io volevo – ancora – scriverci su. Ho della tristezza da buttare fuori a riguardo, quindi volevo farlo. Poi, fra capo e collo, m’è arrivata la notizia del probabile passaggio di Eto’o al Chelsea, e allora ho cominciato a vedere rosa (la vecchia zia sarebbe qualche dirigente di là XD). Motivo per il quale ho deciso che questa è una fan fiction e me ne sbatto se alla fine non andrà davvero così. È così che vorrei andasse, e le fan fiction esistono per questo. E poi conto molto sui miei poteri di P(l)izia. *accadiaccadiaccadi* ç_ç
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After Wisdom Comes Wit


Al povero mancano tante cose, all'avaro tutte.
Zlatan si guarda intorno – l’immenso campetto dell’UCLA, i compagni intorno che saltano, corrono e fanno stretching, José nel mezzo che impartisce ordini, somministra consigli, stila elenchi e compila programmi – e poi pensa a casa – Milano, Milano sa ancora di casa, la villa, Helena, i bambini, una città che si prostra ai suoi piedi, i tifosi che lo amano ed è amore vero, i tifosi che lo odiano ed è amore anche quello – e poi pensa alla Champions, lui la voleva in nerazzurro, e pensa al campionato, vincerne un altro sarebbe epico – e pensa alla faccia che farebbe José se lui gli dicesse “voglio restare, fammi restare”. E ci pensa, e ci pensa. E non è abbastanza. Non è abbastanza.

Il difficile sta nel cominciare.
La mensa ormai s’è quasi svuotata del tutto. Le signore delle pulizie passano pezze umide sui tavoli più distanti dal loro e l’unico suono che si sente è quello tintinnante delle stoviglie che vengono accatastate e portate via poco a poco. E la forchetta di Zlatan che ancora gioca a rincorrere le patate al forno nel suo piatto.
- Non dovremmo mangiare dell’insalata, con questo caldo? – chiede annoiato, lasciando rotolare una patata fino al bordo del piatto, - A me neanche piacciono le patate al forno.
José, seduto al suo fianco, consulta il proprio taccuino, e quando parla lo fa senza sollevare gli occhi su di lui.
- Hai lamentele, Zlatan? – chiede con un pizzico di fastidio, - Se sono serie, dimmi pure.
Zlatan schiude le labbra e quasi lo dice. Quasi lo dice davvero. Ma alla fine non ci riesce, e José, dopo qualche secondo, si alza e se ne va.

Il sonno della ragione genera mostri.
- Non è per farmi i fatti tuoi… - mormora appena Davide, mordicchiandosi distrattamente una pellicina del pollice, gli occhi fissi sul pallone che rotola pigro da un piede all’altro, - È solo che non capisco perché dovresti volerlo fare. Voglio dire, hai tutto. Le persone… - azzarda incerto, - intendo, già il fatto che pagherebbero così tanto per averti dovrebbe lusingarti abbastanza. Perché hai bisogno anche di andartene?
- Non è ancora deciso. – scolla lui, senza guardarlo.
- E allora! – sorride entusiasta Davide, chinandosi a recuperare la palla e stringendola fra le braccia in un gesto infantile, - È tutto a posto, no? Resta e basta!
Zlatan lo guarda. Aggrotta le sopracciglia, tende le labbra in un sorriso sarcastico e i suoi lineamenti diventano in un colpo se possibile ancora più sgradevoli.
- Hai ragione, Dà, sai? – sospira, e gli occhi di Davide brillano. Solo per un attimo. – Non farti i fatti miei.

La miglior vendetta è il perdono.
C’è una sola persona alla quale Zlatan sente il dovere di chiedere scusa, e quella persona è Mario. Non ha tenuto il conto delle numerose cose che gli ha insegnato nel corso dell’anno scorso e di quello in atto, ma è quasi sicuro che da qualche parte, purtroppo, ci sia stato anche un qualche discorso circa l’attaccamento alla maglia e quanto sia importante avere cura non tanto dei rapporti con la tifoseria quanto di quelli nello spogliatoio. È un discorso che sa di aver fatto e sa anche perché l’ha fatto – perché gli piacerebbe vederlo importante, quel ragazzino, un giorno, ed è una cosa che all’Inter possono garantirgli, è per questo che gli conviene restare – ma al momento non può che pentirsene, per certi versi.
Si avvicina a Mario che lui sta palleggiando distrattamente – testa testa ginocchio testa – e lo chiama a bassa voce. Lui risponde con un mezzo grugnito, senza guardarlo, continuando a palleggiare.
- Senti… - mormora Zlatan, grattandosi nervosamente la fronte, - Mi dispiace per tutto il casino che sta succedendo.
Mario si ferma, posa in terra la palla e sospira.
- Fa niente. – sorride appena, - È tutto ok. – e ricomincia a palleggiare.

Chi semina vento raccoglie tempesta.
Le urla di Helena, dall’altro lato dell’oceano e della cornetta, sono tanto forti che sono perfettamente comprensibili anche se Zlatan cerca di schiacciarsi il telefono contro l’orecchio con tutta la forza che possiede, sperando che il contatto con la sua pelle e la tenda di capelli che vi lascia scivolare addosso siano abbastanza per arginare quell’incredibile schiamazzo.
Non è abbastanza, a giudicare dalle risatine dei più giovani, che si allenano saltellando sul posto all’ombra di una pensilina e non hanno la più pallida idea di quanto tutto ciò che sta accadendo sia devastante.
- Io non intendo muovermi ancora, Zlatan! – urla Helena, furibonda, - Io ci sto bene qua! I bambini stanno bene qua! Cristo santo! Zlatan! – e la conversazione si interrompe che Zlatan non ha avuto neanche il tempo di parlare, di dirle qualcosa di Barcellona, del bel tempo che c’è sempre lì e tutto il resto. Nelle sue orecchie risuona il monotono tuu tuu della linea libera, e Zlatan non può che riporre il telefono nella borsa, restando un po’ fermo all’ombra a massaggiarsi le tempie, prima di tornare dagli altri a cercare di fare finta che sia ancora tutto perfettamente a posto.

Di buone intenzioni è lastricato l'inferno.
- Io volevo solo- - e la voce gli si spezza in gola, non sa nemmeno perché. Javier lo guarda con una certa curiosità, Zlatan non ha la minima idea del motivo che l’abbia spinto a parlare proprio con lui di tutto quello che gli sta girando per la testa. Forse perché Javi è sempre stato un punto di riferimento, una presenza rassicurante, una sorta di fratello maggiore cui chiedere consiglio nei momenti più confusi. Per lui non è mai stato niente del genere, Zlatan ce l’ha sempre fatta da solo, ovviamente – tutto da solo, sempre da solo – e non ha mai sentito bisogno di riferimenti né di rassicurazioni né tantomeno di consigli, ma in questo momento, il primo veramente confuso della sua intera esistenza, in questo momento sì, ne sente il bisogno, e forse è per questo che ne sta parlando con lui. – Credimi. – aggiunge in un lamento strozzato, - Non volevo che le cose andassero così.
Javier si allunga a tirargli una pacca contro la spalla.
- Deciderai per il meglio, Ibra. – sorride rassicurante. Zlatan non ne è così certo. Però spera che il capitano abbia ragione.

Buon sangue non mente.
- E poi zio Mino mi ha portato un pallone nuovo! – racconta Max, la mente che va più veloce della lingua, attorcigliandosi su se stesso mentre cerca di dire a papà tutto tutto tutto quello che ha fatto nella giornata di oggi, - E poi Vinny ha pianto perché voleva il pallone e io gliel’ho dato ma lui è caduto subito. Pa’, secondo me è scemo, un poco!
- È solo piccolo! – ride Zlatan, mentre la risata di Helena gli fa eco, un po’ attutita, e lui la sente appena.
- Comunque siamo stati al parco! – continua Max, e Zlatan può quasi vederlo scrollare le spalle con aria disinteressata prima di entusiasmarsi di nuovo pensando agli alberi e alle fontane e alla palla che rotola fra le aiuole, - È un parco bellissimo, è nuovo! Quando torni a casa ti ci porto, te lo faccio vedere! E anche la casa è un sacco bella, devi vederla perché mamma ha ri-… ha ri-…
- Ha ridipinto. – suggerisce Helena, incredibilmente lontana.
- Ha ridipinto! – conclude Maximilian, una risata nella voce.
Zlatan sorride e non sa se le vedrà mai, tutte queste cose di cui Max gli parla con tanta gioia. Il sangue buono, è evidente, dev’essere quello di Helena.

Il mattino ha l'oro in bocca.
Zlatan si tira in piedi, il sole entra attraverso le tende tirate disturbandogli gli occhi e lui li stropiccia, sbadigliando rumorosamente. Il cellulare squilla, rompendo il silenzio che ancora grava, pesantissimo, tutto intorno a lui. Si allunga a recuperarlo, stiracchiandosi pigramente e schiacciando il tasto di accettazione della chiamata senza neanche guardare il nome sul display.
- Sei in ritardo. – dice la voce di José, vagamente roca e resa fastidiosamente metallica dal cellulare, - Datti una mossa, non hai sentito le belle notizie?
La chiamata si interrompe, Zlatan guarda il cellulare con una certa curiosità e poi nota il segnale di un messaggio non letto. Smanetta un po’ sulla tastiera, legge il messaggio, rabbrividisce. Mino dice che l’Inter e il Barça hanno trovato un accordo. Improvvisamente, l’idea di uscire e andare ad allenarsi sembra assurda.
 Il più conosce il meno.
L’asciugamano che gli piomba sulla testa all’improvviso è umido e fresco, e per questo Zlatan ringrazia una buona quantità di dei – tanto la sua religione dovrebbe comprenderne un bel po’, o almeno crede, oltre quel dio che è l’unico che dovrebbe poterlo giudicare, anche se Zlatan, molto spesso, non gli lascia né quest’onore né quest’onere.
- Fa caldo, mh? – chiede José, sedendoglisi accanto e giocando distrattamente con quel suo dannato onnipresente taccuino per gli appunti, - Dovresti bere qualcosa.
- Sono a posto così. – borbotta Zlatan, burbero, bagnandosi il viso con l’asciugamano. – Grazie per questo.
José scrolla le spalle.
- Nulla. – sorride, - Sei stressato?
Zlatan ride amaramente.
- Non che a qualcuno importi. – sbotta sarcastico.
José ride a propria volta, decisamente meno cattivo.
- Be’, è vero. – ammette, - Barcellona non è poi tanto bella, sai?
- Ci sei stato?
- Sono portoghese! – ride ancora José, e Zlatan non può che ridere assieme a lui.
- Non è così bella, dici?
José scuote il capo.
- C’è tutto. Ma non è detto che questo la renda migliore del resto del mondo.

La fame è il miglior condimento.
Se fosse solo una questione di soldi, Zlatan al Barça non ci andrebbe mai. Non possono dargli più di quanto gli dia Moratti – nessuno può farlo, forse lui stesso sa di non valerli nemmeno, tutti i soldi che riceve – e per la verità non possono neanche offrirgli condizioni di gioco ottimali. La tifoseria lì già lo odia, parlano di lui come di un mercenario – e lui probabilmente lo è davvero, perciò non ha che smentire. Se “mercenario” è il nuovo nome di chi cerca il meglio per sé stesso, allora d’accordo, è un mercenario. Credeva di essere solo un bastardo egoista ed egocentrico, ma aggiungere l’ennesimo aggettivo a quelli già esistenti e attaccati al suo nome senza possibilità di scampo non sarà poi così traumatico.
Il punto del Barcellona forse è proprio quello. L’Inter non può dargli altro, oltre quello che già gli dà. Il Barça sì, però. Non può dargli di più, ma altro, oh quello è sicuro. E lui ormai ne è quasi convinto. Ne è quasi convinto davvero. È altro ciò che vuole. È altro ciò che vuole?

Mai tardò chi venne.
- Oh, Cristo.
Il sospiro di Marco è un po’ esasperato e un po’ sollevato, quando Zlatan entra in palestra, stringendo i manici del borsone fra le dita di una mano, mentre il borsone stesso pende dietro la sua schiena, ondeggiando ad ogni passo.
- Che c’è? – chiede Zlatan, poggiando il borsone per terra e prendendo dalle mani di un assistente il suo programma di oggi, - Che hai?
Marco si siede su un tappetino con uno sbuffo spazientito, riprendendo quasi subito coi propri addominali.
- Sei sempre in ritardo, ultimamente. – gli fa notare in un mezzo ringhio affaticato.
- Dormo male la notte. – risponde stancamente Zlatan, cominciando a sollevare pesi con le gambe.
Marco ride appena, fermandosi a guardarlo da seduto, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le braccia pendenti nello spazio vuoto fra le gambe.
- Anche se ci preoccupiamo, è bello vederti arrivare, poi. – commenta con leggerezza, prima di riprendere ad allenarsi.

Nel fiume che grida puoi passare sicuro.
Quando si trova imprigionato fra le braccia di José e il muro, Zlatan non può dire di non esserselo aspettato. Anzi, probabilmente è vero il contrario – che non solo se lo aspettava, ma lo aspettava e basta, come una specie di giudizio universale. Quello di quel dio lì. José dovrebbe venire dopo, qualsiasi sia la divinità di cui si stia parlando, ma forse non è vero. Forse José viene prima. Prima di… prima e basta.
- Se vuoi farlo, - gli sibila freddo sulle labbra, - è questo il momento. Quando se lo aspettano. Non posso permetterti di giocare a pallone con tutto, Zlatan, perciò se vuoi andartene fallo adesso. Non fra due mesi, non fra un anno, non la prossima volta che ti girano le palle. Adesso puoi farlo, hai il modo, hai la scusa, fallo, se devi.
Zlatan deglutisce incerto, gli occhi fissi nei suoi e brividi di paura a rincorrersi confusamente sulla sua pelle.
- …non so ancora se è quello che voglio.
José lo lascia andare senza toccarlo ancora, ravviandosi i capelli su una tempia.
- Be’, scoprilo in fretta, stronzo.

A combatter con il fango, che si vinca o che si perda, sempre ci si infanga.
- È che comunque, se vuoi il mio parere, ormai il danno è fatto.
Zlatan sospira pesantemente, incrociando le braccia sul petto mentre cerca di lasciare che i muscoli si rilassino nel bagno di acqua e ghiaccio dentro la piscinetta ai margini del campo.
- Non te l’ho chiesto, Deki. – borbotta scontento, mentre si massaggia le cosce per impedire che s’intorpidiscano.
- Sì, lo so. – risponde lui, vagamente offeso, - Stavo solo cercando di parlarne, visto che non ne parli con nessuno.
- Ma che differenza vuoi che faccia se ne parlo o meno?! – scatta Zlatan, irritato, - Qualsiasi cosa io possa dire adesso, non conta un cazzo! Nessuno vuole davvero ascoltarmi, e io probabilmente non ho nulla da dire, quello che doveva essere fatto magari è già stato fatto, proprio mentre noi stiamo qui a discutere del niente, ti rendi conto?! Cosa dovrei dirti?! Il danno è fatto! Okay! Hai ragione! E ora vaffanculo!
Abbandona la piscina senza una parola di più, e Deki, vagamente stupito ma neanche poi così tanto, invece resta lì.

Chi si è scottato con l'acqua calda ha paura anche dell'acqua fredda.
- Dà. – lo chiama a bassa voce Zlatan, quando se lo vede passare davanti, fresco di doccia e accompagnato dall’onnipresente Mario, sempre al suo fianco nemmeno fosse una specie di cavalier servente. In realtà, Zlatan lo sa, non sono davvero sempre appiccicati. Lo sono ogni volta che c’è nei paraggi lui, però, e questo non può fare a meno di fargli pensare che i due ragazzini abbiano stretto una sorta di tacito patto per cui cercano di evitarsi incontri ravvicinanti di tipo non meglio identificato, per risparmiare a tutti silenzi imbarazzanti e momenti eccessivamente dolorosi. Zlatan non saprebbe dire se questo sia un atteggiamento adulto o infantile. Di solito giudica gli atteggiamenti degli altri usando i propri come metro, ma sta cominciando a pensare di sbagliarsi, e di tanto anche.
Davide non si volta a guardarlo, lui e Mario stanno parlando, e neanche stavolta Zlatan può chiedergli scusa per come s’è comportato con lui qualche giorno prima. Poco da fare. Forse ha ragione Deki, ormai il danno è fatto davvero.

Con le mani di un altro è facile toccare il fuoco.
La risata di Maxwell, al telefono, suona davvero allegra e felice e soddisfatta.
- E quindi arrivi anche tu! – commenta divertito, - Ma sai che non ci speravo? Con tutta la storia del dieci sembrava una follia…
- Sì, eh? – annuisce Zlatan, appoggiandosi esausto alla parete. Non ne può più di sentire parlare di questa cosa. Non ne può più dell’Inter, non ne può più del Barcellona, non ne può più del calcio e non ne può già più nemmeno del numero dieci. Mai ricevute tante responsabilità in così poco tempo. E dire che l’anno prima si sentiva disposto perfino a diventare capitano.
Si chiede se sia davvero cambiato tanto, o se sia cambiato il mondo intorno a lui. Maxwell ride ancora, da quella che forse presto diventerà la sua nuova casa.
- Ehi, Max. – sussurra piano Zlatan, - Com’è lì, bello?
- Bellissimo. – conferma subito lui, - C’è un clima di aspettativa fantastico. Dovresti venire e vedere di persona.
Zlatan ride a propria volta, dell’eccitazione di cui Maxwell parla non riesce a provare nemmeno una briciola.

Errare è umano, perseverare è diabolico.
- Tu continui a non capire il punto.
- Il punto è che tu mi attacchi senza un cazzo di motivo.
- Il punto è che io ti attacco con un motivo ben preciso e tu, forse perché sei stupido, forse perché sei troppo impegnato a pretendere, ioioio! e tutto il resto, Zlatan, ti rifiuti di capirlo!
Zlatan lo guarda, un ringhio inespresso fra le labbra, le sopracciglia aggrottate in un’espressione di furia che in genere gli si vede addosso solo quando gioca e le cose non vanno come dovrebbero.
José lo fronteggia senza fare una piega. A Zlatan viene voglia di odiarlo, perché sembra a suo agio anche se non lo è, mentre lui non riesce a non sentirsi a disagio, anche se non dovrebbe. Forse è una situazione troppo complicata, perché lui possa gestirla tutto da solo lì in America. Mino saprebbe come aiutarlo. O forse peggiorerebbe solo le cose.
- Ho bisogno di te. – dice José, duro, - Prendi questa cazzo di frase nel senso che preferisci, è comunque quello giusto. Poi, fa’ ciò che credi.

Taci tu per primo ciò che vuoi sia taciuto da altri.
Zlatan ha ancora gli occhi chiusi e sente ancora nelle orecchie il respiro un po’ affaticato di José. È piacevole, è così piacevole che, se si concentra solo su quello, gli sembra di poter vivere solo di quel suono. Pensa a Barcellona, pensa che lì questo suono non c’è, e si chiede come riuscirebbe a sopravvivere senza. Ci sono momenti in cui gli sembra una prospettiva inaccettabile, ce ne sono altri in cui invece la voglia di partire è così forte che gli pizzica la pelle.
Quando torna a guardare il mondo, la vista un po’ appannata perché ha tenuto le palpebre serrate troppo a lungo e con troppa forza, José è lì al suo fianco che lo guarda, privo di espressione. È così normale, da parte sua, non lasciare affiorare al viso nulla di ciò che lo sconvolge dentro, che Zlatan ha quasi voglia di sorridere.
Una delle sue mani sale ad accarezzargli uno zigomo, scendendo poi lungo la mascella e fermandosi sul collo, per attirarlo in un bacio umido e stanco.
- Io- - prova a parlare Zlatan, ma José lo ferma.
- Non dirlo. – sospira, sollevandosi in piedi e cercando i propri vestiti in giro per la stanza, - Rendi tutto più facile a entrambi.

In amore e in guerra tutto è lecito.
- Senti, io ci ho pensato, e- - si interrompe quando lo vede parlare al telefono, dopo aver praticamente sfondato la porta di camera sua per entrare senza permesso.
- Aha, - annuisce José, chiunque sia la persona con la quale sta parlando con tanta serietà, - Yeah, thank you. It’s always a pleasure. Bye.
Zlatan inarca un sopracciglio, incrociando le braccia sul petto.
- Con chi parlavi? – chiede dubbioso, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
- Una vecchia zia. – risponde José con una risatina evasiva.
In inglese? – insiste Zlatan, arricciando le labbra in un mezzo broncio.
- Zia poliglotta. – ride ancora José, - Ti va un caffè?
- No, mi va-
- Un bacio. – e poi José lo zittisce. E sì, un bacio gli va, perciò sta bene così.

La goccia scava la pietra.
Non è che sappia esattamente come tutto ciò sia accaduto. Non è che nemmeno voglia starci granché a pensare, in realtà. Ha sempre pensato che la vita fosse un percorso unitario, una cosa che cominci e poi manovri piano piano, mani sempre sul timone, per indirizzarla dove vuoi. Insomma, una cosa in cui tutto ha una conseguenza, ogni cosa è concatenata, non c’è niente che sbavi.
Si trova a ricredersi, e deve per forza, perché in questo momento della sua esistenza è così palese che la fina è fatta di istanti casuali che non potrebbe contrastare quest’asserto neanche volendo. Ci sono cose che decisamente non puoi prevedere, ci sono cose che non puoi manovrare, ci sono cose che non si lasciano manovrare, punto.
- Dici davvero? – chiede Helena al telefono, una punta di sconcerto nella voce. Forse davvero non se l’aspettava. – Zlatan, ne sei sicuro?
Lui annuisce. Poi ricorda che lei non può vederlo, e quindi parla.
- Sì.

Non puoi vedere il bosco se sei tra gli alberi.
Mino annuisce, Zlatan lo sa perché lo sente mormorare tutta una serie di “mh-hm” che sono tipici suoi, quando ti sta ascoltando ma non ti sta davvero dando attenzione, visto che ha tutto un altro milione di importantissime cose da fare e tu sei esattamente l’ultimo della sua lista, ed anzi si sta chiedendo cosa esattamente sia questo ronzio tremendo che lo infastidisce, interrompendo i suoi prodigiosi calcoli.
- Di’, mi stai ascoltando o no? – borbotta Zlatan, infastidito, picchiettando con la punta del piede sul parquet del campo da basket, - Hai capito quello che ti ho detto?
- Mh? – chiede Mino, un po’ confuso, interrompendo un attimo il frusciare convulso di fogli attorno a sé, - Sì, certo che ti ho sentito, Ibra. Ma sono un tantino impegnato, - sbotta infastidito, - Cristo, che caldo. Si può capire perché mi hai chiamato per dirmi qualcosa che era palese da secoli?
Zlatan fa una mezza smorfia, guardandosi riflesso nello specchio dell’armadio di fronte a sé.
- Volevo dirlo a qualcuno! – biascica lamentoso, adesso che tutto è più chiaro ha voglia di urlarlo, perfino.
- L’hai già detto a Helena?
- Qualcun altro! – insiste. Mino non capisce. Nemmeno lui, s’è per questo. Comunque il suo procuratore sospira esasperato.
- Senti, Ibra. Come immaginerai, ho altro da fare. perciò vai a parlarne con chi devi ancora avvisare, su. Non sono nemmeno pochi.
Zlatan annuisce. Interrompe la conversazione subito dopo.

Quando il diavolo ti accarezza, vuole l'anima.
- Al Chelsea?! – spalanca gli occhi Zlatan. Ha fatto irruzione in palestra perché voleva essere lui a parlare, non certo perché voleva sentirsi dire una cosa simile dai suoi compagni, ed invece è esattamente quello che sta succedendo: Eto’o, principale pedina di scambio fra l’Inter e il Barcellona, è stato appena acquistato dal Chelsea, su pressante richiesta di Ancelotti congiuntamente al suo presidente, per uno sproposito di denaro.
- Insomma, non hai più dove andare, pare. – ridacchia Marco, mentre Mario, qualche attrezzo più in là, sgomita con una certa forza fra le costole di Davide.
- Bella fiducia. – borbotta Zlatan, offeso, - E io che ero venuto fino a qui per dirvi che avevo deciso di restare.
I suoi compagni di squadra si congelano ai loro posti, guardandolo sgomenti.
- Prima di saperlo? – chiede Deki, titubante.
- Me l’avete appena detto voi! – risponde Zlatan, sempre offeso, - Certo che l’ho deciso prima. – sospira e volta loro le spalle, lasciandoli lì a mormorare incerti. José lo sta guardando dalla soglia della palestra, un sorriso sornione a increspare le labbra sottili.
- …tu. – lo indica Zlatan, sconvolto, - La vecchia zia!
E José scoppia a ridere.

Uccello in gabbia non canta per amor, canta per rabbia.
- Insomma, cos’è che devo dirti ancora? – borbotta Zlatan, stretto fra le sue braccia, - Non ti dirò che non lo farò più, sarebbe da ragazzini. Non sono un ragazzino, te lo ricordi ancora questo, giusto? Anche se chiami le mamme degli altri bambini per impedirmi di fare cose.
José ride, stampandogli un bacio stupido su una guancia. Zlatan resiste appena all’istinto di mugolare compiaciuto, limitandosi a rigirarsi contro di lui, aderendo perfettamente al suo corpo.
- Lo sai che è assurdo? – chiede con aria sinceramente stupita, - Io sono rimasto per te.
- Per me nel senso che io ti ho impedito di andartene o-
- Per te e basta. – sbotta, pizzicandogli risentito un fianco, - Fattelo bastare, una volta tanto.
José annuisce.
- E tutta la voglia di andare via?
Zlatan lo pizzica ancora, più forte.
- Ahi! – si lagna José, massaggiandosi il punto dolente, - Ma la pianti?
Zlatan sbuffa e si sistema contro il cuscino. E poi la pianta, sì.

Tocca sempre agli scalzi andare sulle spine.
- Ma cosa, quindi sono stato di merda per niente! – piagnucola Davide, tirandogli addosso un asciugamano nel tentativo di fargli del male, - Che stronzo, Dio mio! Ma almeno hai pensato di andare via, almeno per un secondo da quando tiri avanti questa pagliacciata?
Zlatan gli scompiglia i capelli bagnati, mentre Mario ride e si affretta a risistemarglieli sulla fronte e sulle tempie non appena lui lo lascia andare.
- Per più di un secondo, Dà. Non vi ho mandato al manicomio per niente, non le faccio queste cose.
- Sì, sì, certo. – continua a lagnarsi il ragazzo, infilandosi svogliatamente i calzini, - Come se non fossimo già abbastanza sfigati così.
Zlatan si chiede cosa ci sia di sfigato al momento nell’Inter, ma poi sorge spontanea una domanda ben più interessante, perciò pone quella.
- Dà, ma perché ti fai sistemare i capelli da Mario?
Davide scrolla le spalle, mentre Mario, dietro di lui, si lascia andare ad un sorriso vagamente idiota.
- È bravo a maneggiarli. – risponde tranquillo, allacciando attentamente gli scarpini.
- Ah. – risponde Zlatan. Aaaah, si dice poi, annuendo fra sé.
 La rabbia di oggi serbala a domani.
C’è un bel venticello fresco, a Palo Alto. La partita sarà verso le quattro e mezza del pomeriggio, è quasi ora di pranzo, Zlatan ha fame e, in verità, non vede l’ora di sedersi a tavola per chiacchierare e scherzare con gli altri mentre José cerca per l’ennesima volta di rifilargli patate al forno. Però il venticello è davvero fresco e piacevole e un po’ gli secca rientrare in albergo, perciò resta lì, le mani in tasca e l’ampia maglietta smanicata che si gonfia e si sgonfia ad ogni capriccio del vento, a camminare tranquillo per il cortile, canticchiando fra sé. La voglia d’altro c’è ancora, non è scomparsa, è solo sopita, lì, da qualche parte nel fondo del suo stomaco. Zlatan lo sa che un giorno si risveglierà. Ma quel giorno non è adesso, a quel giorno penserà quando sarà il caso.
- Senti, te la dai una mossa? – lo rimbrotta José, affacciandosi dalla soglia dell’albergo e fissandolo con aria accigliata, - Stiamo aspettando solo te!
- Arrivo, un secondo! – sospira lui, simulando una noia che non gli appartiene neanche parzialmente. José torna dentro mormorando qualcosa sulle primedonne, e Zlatan sopprime la voglia di fargli una linguaccia alle spalle. Poi, ridendo a bassa voce, rientra.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: José/Zlatan, accenni miiiiinimi di Davide/Mario, se proprio li si vuole vedere.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Angst, Flashfic, Slash.
- Nella peggiore delle situazioni possibili. Just in case.
Note: È palese che io non sopravvivrò alla giornata di oggi. Grazie a tutti coloro che mi stanno faticosamente sopportando/intrattenendo/distraendo/lasciando sfogare/whatever, siete meravigliosi e non vi merito neanche per sbaglio.
Comunque sia: al momento in cui scrivo, Mino Raiola, procuratore di Ibra, ha posto un freno alle parole di Suarez, consigliere tecnico dell’Inter. Se il secondo verso le cinque dava per certo il trasferimento di Ibra, il primo ha recentemente risposto con un’aria pallata che tanto gli si addice che lui non si sta affatto occupando del caso, e lo saprà bene, lui, dove vanno gli omini che tiene sotto scacco.
Io, personalmente, per la prima e unica volta nella mia intera esistenza, voglio fidarmi di quell’uomo viscido che cura i contratti di Ibra XD Sono con Raiola. E fine, per ora.
Ps. Titolo rubato a un verso di Best Of You dei Foo Fighters.
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Getting Tired Of Starting Again Somewhere New


Nelle numerose volte in cui ha pensato in passato ad un’eventualità del genere – e sì, ovvio che ci ha pensato, sarebbe stato da idioti non prepararsi almeno un minimo a questa situazione, visto quanto è stata probabile, fra alti e bassi, nel corso degli ultimi mesi – José Mourinho aveva sempre pensato che la sua prima reazione sarebbe stata di rabbia. Per svariati motivi, poi: prima di tutto perché odia perdere le scommesse, e Zlatan era probabilmente la più importante della sua carriera; perché odia dover cambiare i propri piani, anche, e Zlatan era una parte rilevante di tutti quelli che aveva tracciato per l’anno in corso; e per gelosia, ovviamente, perché non vuole osservarlo andare via, non vuole restare senza di lui, detto schiettamente, non vuole farsi lasciare. Chi vorrebbe, d’altronde?
Comunque mai, assolutamente mai, avrebbe potuto pensare che il suo sentimento sarebbe stato un tale miscuglio di tristezza e nostalgia. Sono cose che non dovresti provare per una persona che va via consapevolmente, sono cose che dovresti provare per, boh, le partenze improvvise e indesiderate, quelle rese necessarie da questioni che trascendono il controllo delle parti in causa. Tipo “mia nonna è morta e ha sempre voluto vedermi giocare al Barça, quindi è così che intendo onorare la sua scomparsa”, o altre vaccate simili. Non dovresti sentirti così per una persona che, semplicemente, se ne va perché vuole di più e tu non sei più abbastanza.
Zlatan non va via per i soldi, questo José lo sa. Zlatan va via perché si sente costretto, frustrato e poco stimolato, non perché non si senta trattato bene e neanche perché si senta poco amato. E d’altronde non c’è modo in cui potrebbe sentirsi poco amato. Non con Milano ai suoi piedi, non con i tifosi ai suoi piedi, non con José ai suoi piedi.
Non è una questione d’affetto e non è una questione di denaro, è una questione di prospettive. Purtroppo, José lo sa, e forse è per questo che non riesce ad odiarlo davvero. Anche se dovrebbe e potrebbe e ne avrebbe tutte le scuse, con Mario che ancora piange come un bambino di là – non c’è qualcuno in quella squadra che soffrirà più di lui, per questa partenza, perché non è facile trovare un punto di riferimento che è anche un obiettivo e vederteli sparire entrambi da sotto il naso con la velocità di una folata di vento – e Davide che cerca nel fondo del petto una forza che non dovrebbe ancora appartenergli – una forza da adulto, e lui è solo un ragazzino – per cercare di stargli vicino e consolarlo e fargli capire che può ancora andare avanti, può trovare altri obiettivi, può farcela da solo. Potrebbe odiarlo e sarebbe facile farlo, con tutta la squadra di là che si sente persa, e a ragione, con i tifosi annichiliti davanti agli schermi dei computer e dei televisori dai quali hanno appena appreso la notizia, con tutto il mondo intero che si ribalta perché fino a ieri Zlatan Ibrahimović indossava la maglia numero dieci e adesso – il numero dieci più veloce della storia del mondo – la sta gettando via per andare a trovare chissà cosa a Barcellona.
Potrebbe odiarlo, sarebbe facile, sarebbe giusto.
Ma lo guarda lì, gli occhi bassi e le mani strette attorno alle maniglie della valigia con tanta forza da imbiancargli le nocche, e non gli riesce.
Sospira pesantemente, voltandogli le spalle ed avanzando lento verso la porta.
- Chiama quando arrivi. – scolla a fatica, prima di lasciare la stanza.
Lo stomaco di Zlatan si attorciglia con una violenza terribilmente dolorosa, e la valigia all’improvviso è così pesante che la lascia cadere a terra. Il silenzio accoglie il thud ovattato dell’urto, e poi la porta si chiude.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Maxwell/Zlatan, José/Zlatan.
Rating: PG-14
AVVERTIMENTI: Flashfic, Slash.
- "Questa si chiama "Preghiera di una Fangirl XD" (cit.)
Note: T___T Ti prego, Dio del Fangirling, fammi questo favore. Solo questo T_T
Canon rilevante: Maxwell e Zlatan sono davvero amyketti del cuore da tempo immemore, ed è vero che quando uno va in un’altra squadra in genere l’altro poi lo segue a breve distanza di tempo. Con l’Inter è successo così, per dire. .___. La storia non è dalla nostra parte, ragazze.
Ps. Titolo rubato a un verso di The Take Over, The Breaks Over dei Fall Out Boy.
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We Don't Fight Fair


Maxwell raccoglie le proprie cose sotto lo sguardo attento del mister. È entrato nella sua stanza ormai da una ventina di minuti, e per tutto il tempo non ha detto una parola, limitandosi a restare lì, di fianco alla porta, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo fisso su di lui che sistema magliette pantaloncini calzini e mutande in valigia, con una cura maniacale, avvolgendo ogni cosa attentamente e riponendola di modo che non occupi troppo spazio. Non può che sospirare, quando il mister si irrigidisce e si scosta dalla porta, avanzando di qualche passo all’interno della stanza proprio qualche attimo prima che la porta si spalanchi, rivelando dietro di sé il viso stravolto di Zlatan, che per qualche attimo resta lì sulla soglia, immobile, il respiro che preme a fatica fra il petto e la gola per uscire e gli occhi che saettano svelti da lui alle valigie al mister, adesso un po’ defilato.
- Allora è vero. – ringhia, deglutendo a fatica, - Te ne vai.
Maxwell abbassa gli occhi, terminando di avvolgere e conservare le ultime cose e dedicandosi poi alla complicata operazione della chiusura delle cerniere.
- Così pare. – scrolla le spalle, incerto.
- Perché? – chiede Zlatan, apparentemente dimentico della presenza di Mourinho a pochi metri da sé, - Non c’è motivo, perché-
- Non c’è motivo? – ritorce lui con un sorriso ironico e incattivito, - Andiamo, Zlatan. Il mio posto, ormai, è di Davide. E io non intendo passare il resto della mia vita in panchina a causa di un ragazzino, ok?
- Davide non-
Lo so che non è colpa di Davide. – sbotta interrompendolo, - Lo so. – aggiunge più pacatamente, sospirando appena, - È solo… è così. Ok? È così e basta.
Zlatan esita un po’, mordendosi il labbro inferiore con una violenza spaventosa, prima di sbattere la porta con tanta forza che quella si riapre e sbatte contro la parete, mostrandolo mentre solca il corridoio a grandi passi furiosi, verso l’uscita dell’hotel. Maxwell lo guarda allontanarsi e poi lascia scivolare gli occhi sul mister, che dal canto proprio non smette un secondo di fissare Zlatan, finché non lo vede sparire dalla propria vista.
Maxwell non può fare a meno di ridere ad alta voce, mentre serra la valigia con un lucchetto. Il mister torna finalmente a guardarlo e, prima di parlare, s’inumidisce le labbra.
- Bravo. – gli dice, non senza un che di tagliente nella voce, - Se i posti in campo si dovessero stabilire in base alle capacità recitative, non ci sarebbe nessun Davide in grado di rubarti il posto.
Il brasiliano solleva un angolo della bocca in un ghigno frustrato, tirando entrambe le valigie giù dal letto.
- Se il criterio per la scelta dei posti in campo fosse questo, mister, - risponde con la stessa esatta dose di cattiveria sulla punta della lingua, - giocherebbe solo lei.
José ride a propria volta, compiaciuto.
- Touché. – risponde, scrollando le spalle. Maxwell solleva le valigie e comincia a camminare verso la porta, fermandosi solo qualche centimetro dopo aver superato il portoghese e voltandosi a guardarlo con aria di sfida.
- Io e lui torniamo sempre insieme. – soffia, gli occhi sottili come quelli di un gatto, - È già successo in passato, succederà ancora in futuro. Andiamo altrove, ma troviamo sempre un modo per tornare insieme. Perciò, se è per tenerci lontani che ha organizzato tutto questo, sappia che perderà, Mourinho. Con me e Zlatan, perderà.
Il sorriso di José si allarga in una smorfia cattiva, mentre l’uomo sistema i capelli passando una mano distratta su una tempia.
- Buon viaggio, Max. – risponde semplicemente.
Maxwell rabbrividisce. E nell’osservare il mister allontanarsi lungo il corridoio, alla ricerca di Zlatan, per la prima volta in tutta la sua esistenza, da che conosce lo svedese, ha l’impressione che non lo rivedrà più.
Genere: Introspettivo.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG-15
AVVERTIMENTI: Slash.
- Zlatan vuole il numero dieci. E intende guadagnarselo.
Note: No, non ringrazierò la Zoccola Major per essere rimasta, ha fatto meno del suo dovere XD Però boh, ero in vena di pseudo-angst ed UST (ci speravate nelle cosacce, eh? XD), e soprattutto volevo vederli scontrarsi un po’. Era un sacco di tempo che non mi litigavano, io li trovo bellissimi quando litigano <3 *perdutamente innamorata del Jobra, come il primo giorno (cit.)* E poi volevo festeggiarlo a mio modo, questo numero dieci. Ho umiliato Ibra solo un pochettino, niente di eccessivo, mh? XD Almeno spero. La Zoccola ha bisogno di qualcuno che gli faccia abbassare la cresta e_e José, pensaci tu.
Ps. Titolo rubato a una canzone degli Smashing Pumpkins. Lo amo. La canzone no, però XD
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The End Is The Beginning Is The End


- Sei dimagrito. – dice seccamente José, appoggiato con una spalla allo stipite della porta neanche volesse fisicamente impedirgli di entrare in casa.
- E tu sei in costume da bagno. – annuisce Zlatan, incrociando le braccia sul petto. – Abbiamo altre ovvietà da puntualizzare?
Jose sorride fra i denti, scuotendo appena il capo – i capelli sono cresciuti un sacco dall’ultima volta che Zlatan lo ha visto, e lo svedese non riesce a stabilire se gli stiano bene o male. Da un lato sono strani, sembrano una specie di nuvolone da temporale che aleggia pesantemente sopra la sua testa, e questo lo fa sembrare sempre arrabbiato – cosa che in effetti non si discosta molto dallo stato d’animo in cui José versa per la quasi totalità della sua giornata, è incredibile la quantità di cose e persone con cui è in grado di prendersela quando le cose vanno male, cioè non vanno come lui si aspettava che andassero. Dall’altro, per quanto quell’intrecciarsi di mezzitoni stia lì a ricordargli che non è più un ragazzino e presto, probabilmente, sarà troppo grande anche lui per star dietro ai capricci di una primadonna di dubbia nazionalità, quei colori gli stanno da dio. E c’è poco altro da dire, in effetti, se solo rivederlo dopo un mese o poco più lo manda fuori di testa al punto da lasciarlo lì a rimuginare sul dannato colore dei suoi capelli e a quanto si adatti ai toni ambrati della sua pelle.
- Sei qui. – dice José a bassa voce, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Zlatan vorrebbe ribattere qualcos’altro di molto brillante sulle ovvietà di cui sopra, ma è costretto ad ammettere, almeno con se stesso, che il suo trovarsi lì in quel momento non è mai stato ovvio, nemmeno nella più rosea delle prospettive, perciò si morde la lingua e cerca di tirare fuori una battuta meno compromettente.
- Ehi, - borbotta, ancora fermo sulla soglia, - dov’è finita tutta la tua fiducia? Avevi detto che sapevi che alla fine sarei rimasto.
- Lo pensavo. – annuisce José, una mano che scivola appena lungo il ventre, a sistemare in gesti distratti il doppio nodo che stringe i boxer in vita, - Poi Matilde mi ha detto “è zingaro, José, è zingaro e giovane”, e allora non sono più stato certo di niente.
Il sorriso di Zlatan si allarga in un ghigno indisponente, e José indietreggia di qualche centimetro quando osserva lo svedese affacciarsi all’interno dell’appartamento per sbirciare curiosamente in giro.
- Matilde è in casa? – chiede in una nota beffarda.
- È giù al lago coi bambini. – risponde José, e Zlatan gli lascia a malapena il tempo di finire, prima di ridere a così pochi centimetri da lui da fargli sentire sulla pelle il calore del suo respiro.
- A Matilde piacerebbe se fossi uno zingaro davvero. – commenta, scrollando le spalle e tornando a una distanza ragionevole dalla sua persona, - Se me ne andassi, intendo.
- No che non le piacerebbe. – puntualizza José con un mezzo ringhio indisposto.
- Solo perché non sa che pericolo sono. – ghigna Zlatan, compiaciuto.
- No. – insiste José, risoluto, - Perché non sei per niente pericoloso.
Zlatan aggrotta le sopracciglia, piccato. Non è il benvenuto che si aspettava, non è il ringraziamento che si aspettava e non è il calore che si aspettava. In compenso, è esattamente il José che sa di volere, perciò sospira e rilassa i lineamenti del volto, lasciandosi andare a un’espressione che rifletta più sinceramente il suo sentire del momento. Un po’ di stanchezza, un po’ di paura. Niente di drammatico, lui è Zlatan Ibrahimović e nella sua vita non esiste nulla che sia meno che perfetto, ma sì. Un po’ di stanchezza. Un po’ di paura.
- Senti… - comincia in un sospiro arreso, - sono appena arrivato, okay? Ho litigato con Helena perché la prima cosa che ho fatto, arrivando a Linate, è stata chiamare un taxi per venire qui. Mi lasci entrare?
C’è una domanda, negli occhi di Zlatan, e quella domanda non è “mi lasci entrare?”. C’è qualcos’altro in quegli occhi, José non riesce a capire cosa sia e questo è inaccettabile, perciò si scosta dalla soglia, invitandolo a entrare.
- Vuoi fare una doccia? – gli chiede a bruciapelo, chiudendosi la porta alle spalle mentre Zlatan, neanche fosse a casa propria, avanza all’interno della villa senza neppure sentire il bisogno di accendere la luce. E dire che il corridoio principale è scuro e non ha nemmeno una finestra. – Scegli pure uno qualsiasi dei duemila bagni. Sono tutti liberi.
Zlatan continua a camminare, scrollando le spalle.
- Se volevo una doccia la facevo a casa mia. – borbotta, e dietro di lui José si lascia andare a una mezza risata.
- E allora cos’è che vuoi? – chiede seccamente, fermandosi in mezzo al corridoio. Zlatan si ferma a propria volta, girandosi a guardarlo con aria seria.
- Voglio il numero dieci. – sputa d’un fiato, - Sono rimasto. Voglio il numero dieci.
L’aria resta totalmente immobile solo per qualche secondo, prima che José si decida a spezzarla con una risata tonante di quelle che gli si sentono fra le labbra solo raramente, perché il mister non è tipo da ridere con tutti o per qualunque cosa. Evidentemente, pensa Zlatan con una certa irritazione, ciò che ha appena detto deve essergli sembrata una battuta particolarmente brillante. Peccato lui sia più che serio, serissimo.
- E lo vieni a chiedere a me, il numero dieci? – lo prende in giro José, le labbra piegate in una smorfia derisoria che fa desiderare a Zlatan di trovarsi già fuori da villa Ratti, nel taxi, diretto a casa. – Perché non sei andato dal presidente? Scommetto che sarebbe stato più che felice di accontentarti all’istante.
- Lo voglio da te. – insiste lui, le labbra strette per il nervosismo che sembrano una linea unica a tagliare la parte inferiore del viso. – Da te avrebbe un senso.
- Non hai fatto niente per me che meritasse questo numero. – scrolla le spalle José, e Zlatan digrigna i denti.
- La scorsa stagione-
- È stata una stagione da otto. – lo interrompe deciso lui, - Pensi che i numeri dieci possano permettersi mal di pancia o altre idiozie simili?
- Lo sai che non ho mai avuto intenzione di andarmene davvero.
- Non è questo il punto. – José incrocia le braccia sul petto, - Hai destabilizzato i tifosi, la società, i tuoi compagni di squadra e me. Non è un comportamento da dieci, questo. Ne abbiamo già avuto abbastanza di dieci incasinati, ti pare?
- Dest-… - Zlatan ride al alta voce, una risata cattiva e risentita, - Destabilizzare! Io! Tu dici a me che destabilizzo la squadra! Tu e i tuoi fottuti novantanove virgola nove percento!
- Io non sono te, Zlatan. – sbotta José, - E io non voglio il numero dieci.
- Sei l’allenatore!
- Ognuno è responsabile delle proprie azioni. – conclude lui, scrollando nuovamente le spalle, - Vuoi il numero dieci, Zlatan? Vai da chi può dartelo senza farti storie.
Lo svedese si avvicina, sfruttando i centimetri d’altezza per cercare di imporsi su quell’uomo ridicolo che continua a irritarlo perché evidentemente si diverte a farlo.
- Lo voglio da te. – insiste, - Me lo sono meritato, lo voglio.
- Non te lo sei meritato. – si ostina lui, guardandolo negli occhi senza un’esitazione, - Non per me.
Meno di un secondo dopo, José si ritrova schiacciato contro la parete, Zlatan così addosso da sentire ogni spigolo del suo corpo fare a pugni coi propri, il suo avambraccio a spingersi contro il suo collo, mozzandogli il respiro. Gli occhi scuri di Zlatan ardono come braci e il suo respiro è rovente sulle labbra.
- Vuoi meritarlo pestandomi? – gli chiede, ostentando una sicurezza che forse in fondo non possiede nemmeno – Zlatan è l’unico davanti al quale a volte riesce a sentirsi fragile.
- No. – risponde duro lui, ostentando una rabbia che non gli appartiene davvero – José è l’unico in grado di trasfigurarlo fino a fargli dimenticare chi è.
- Vuoi meritarlo con questi, Zlatan? – ringhia José, ed una mano scende ad afferrarlo con forza tra le gambe, stringendo senza pietà. Zlatan lotta contro se stesso e contro il dolore per non allontanarsi, e ringhia fra i denti, soffiando un respiro sofferente sulle labbra di José. – Non è a me che devi mostrarli. Ai tifosi, ai tuoi compagni. In campo e anche fuori, ma non qui in casa mia. – e poi lo lascia andare, stringendo un’altra volta apposta per fargli male, trattandolo con disprezzo.
Zlatan non sa se quel disprezzo lo merita o meno. Ha sempre fatto e detto ciò che ha ritenuto opportuno fare e dire, la sua vita è la sua, le sue scelte sono le sue, le sue responsabilità sono le sue, lui non ha mai rinnegato niente ed anche solo per questo, a fronte di tutti i mercenari che infestano il suo mondo – e non solo mercenari che vendono i colori di una maglia; ce ne sono di peggiori, che per un pugno di milioni vendono cose ben più preziose di un’effige sul lato sinistro del petto – a fronte di tutto questo sente di meritare almeno il rispetto minimo che riservi ad un essere umano quando parli con lui, un tipo di rispetto che possa impedirti di afferrarlo per le palle e cercare di castrarlo con una stretta bene assestata, almeno. E invece niente. Da qualche parte negli ultimi mesi, ha perso il rispetto di José, e non riesce a capire perché.
- Io – ripete a fiato corto, senza allontanarsi, - voglio il numero dieci. È mio, lo voglio. È già mio, tu lo sai.
- Il numero dieci è ancora Adriano, o quello che resta del suo ricordo, finché non sarai in grado di farmelo dimenticare. – sbotta José, spintonandolo malamente all’indietro, - E ora fatti da parte. Sono sudato, voglio farmi un bagno.
Zlatan indietreggia e gli lascia spazio per passare, e solo quando José si allontana di qualche passo lo svedese si decide a parlare ancora.
- Io non ti inseguirò. – dice orgoglioso, stringendo i pugni, - Non ti implorerò nemmeno.
José ride, voltandosi a guardarlo.
- Tu pretendi di ottenere ciò che vuoi alle tue condizioni, Zlatan, è questo il tuo problema. Come numero dieci saresti un fallimento. Un buon numero dieci, - precisa con un ghigno supponente, - deve ottenere ciò che vuole alle condizioni degli altri.
Zlatan lo osserva per qualche secondo muoversi a passi lenti lungo il corridoio, verso la portafinestra che dà sulla piscina in fondo, e si morde il labbro inferiore, incerto sul da farsi. Ogni tanto ha l’impressione che José sia un enigma e lui quello incaricato – da chissà chi, poi. Da se stesso, probabilmente – di risolverlo. E lui ci si impegna, davvero, ci sbatte la testa contro più e più volte, ma tutto ciò che ottiene quando riesce a svelare una risposta sono altre dieci domande almeno, che si affastellano l’una sull’altra neanche il suo cervello fosse un archivio incasinatissimo nel quale nessuno è mai stato capace di mettere un po’ d’ordine. È ormai quasi convinto di non possederla, Zlatan, la chiave per risolvere tutti i misteri di José, ma se c’è una cosa che proprio non si può dire di lui è che sia uno che si arrende facilmente. Perciò, passati i primi secondi di smarrimento, passata la rabbia e passato il dolore fra le gambe, Zlatan decide il da farsi. E decide anche che il da farsi è comportarsi da dieci. È ciò che vuole, José non intende accontentarlo se prima non dimostra di meritarlo e quindi ciò che deve fare è dimostrarlo. Punto.
- Dimmi quali sono le tue condizioni.
José si ferma sulla soglia della portafinestra; la sua sagoma si staglia contro il giardino illuminato in pieno dai raggi del sole di mezzogiorno, e Zlatan vede la sua ombra voltarsi appena, lanciargli un’occhiata poco convinta e poi riprendere il proprio cammino, ignorandolo.
Lo insegue.
- Dimmi quali sono le tue condizioni.
Lo implora.
- Ti prego.
Il giardino di casa si apre intorno a loro come un fiore, colorato e ricco di profumi – alcuni piacevoli, come quello dei fiori delle aiuole, altri meno, come quello del cloro che disinfetta l’acqua della piscina, altri intensi e basta, come l’odore acre dei tronchi degli alberi che circondano la proprietà – e per svariati secondi Zlatan è costretto a battere le ciglia con una certa forza, nel tentativo di abituarsi alla luce che lo inonda, rendendo tutto lucente in maniera quasi insopportabile. Il riverbero dei raggi sull’acqua appena scossa dal vento si proietta sulla pelle di José. Anche quel colore gli sta da dio. Zlatan si chiede se l’effetto sia lo stesso anche su di lui, che invece è di un pallore cadaverico che sembra non piacere a nessuno. Anche se ricorda la voce di José sussurrargli all’orecchio qualcosa di molto carino sul colore che ha dopo i morsi. Ma non è il momento di pensarci, questo.
- Resti almeno finché resto io. – dice lui, serio, appendendo una mano a un fianco. – Ho dei progetti, su di te, e non intendo lasciarli saltare per un altro mal di pancia, fra quattro o cinque mesi.
Zlatan annuisce.
- D’accordo. E-
- E vieni via con me, - aggiunge José, fissandolo senza neanche un minimo di vergogna, - quando me ne vado. Ho dei progetti anche in questo senso, e non intendo lasciar saltare nemmeno loro. Per nessun motivo.
Zlatan resta a corto di fiato perché il respiro che deve buttare fuori quando glielo sente dire è enorme. È che gli serve fare spazio. Una cosa del genere ne ha bisogno, per espandersi per bene, colonizzare tutte le cellule e imporre al corpo la comprensione che il cervello non sembra in grado di fornire. José gli sta dando molto più di un numero. E Zlatan finalmente ci arriva, a capire cos’è che intende il suo allenatore – il suo compagno, e lo è nonostante tutto. Le condizioni per ottenere qualcosa sono proporzionate al tipo di cosa che vuoi. Se già un numero vale tanto, ciò che José gli sta dando vale molto di più. Meritarlo è ancora più difficile. E i sacrifici dovranno essere adeguati.
- Sì. – risponde. Non d’accordo, perché non si stanno accordando su niente. José gli ha chiesto se lo ama. La risposta è .
- Zay? – trilla la voce di Matilde, mentre entra in casa nel vociare allegro e concitato di bambini esaltati e bambinaie isteriche, - Ci sei?
- Sì! – risponde José ad alta voce, senza muovere un passo né verso di lui né verso la portafinestra, - Abbiamo un ospite.
Matilde si affaccia sul giardino e sorride felice, i suoi occhi scuri si illuminano e Zlatan non può che ricambiare con un sorriso un po’ stanco ma tutto sommato simpatico, quando la donna lo saluta con un abbraccio caloroso.
- Zlatan, che sorpresa! Sei tornato oggi? Come sono andate le vacanze?
Zlatan ride, grattandosi la nuca, un po’ in imbarazzo.
- Movimentate. – risponde divertito, - Ho tempo di farmi una doccia, prima di pranzo?
- Oh, sì, naturalmente! – concede Matilde, allegra, - Mi metto subito al lavoro in cucina, tu prenditi pure tutto il tempo che ti serve!
José ghigna e gli passa accanto, richiamandolo con un cenno del capo.
- Ti mostro il bagno. – spiega, mentre lui lo segue, adattando il passo al suo.
- Uno dei duemila. – risponde Zlatan in una risata compiaciuta.
Non può vederlo, ma sa che il sorriso sulle labbra di José, mentre entrambi salgono lentamente al piano di sopra, è identico al suo.
Genere: Introspettivo.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Lime, Doppio Drabble (più o meno).
- Talvolta dire sì è troppo facile. E' per questo che non lo si dice affatto.
Note: Caro Dio del Fangirling, questa storia non è una richiesta ma un esorcismo. Se solo ti azzardi a farla avverare come hai fatto avverare qualsiasi cosa io abbia scritto nel corso dell’ultimo anno della mia esistenza, sappi che ti troverò, ovunque tu sia, ti strapperò le palle e ne farò bocce con cui giocare a biliardo. E poi non scriverò mai più una parola T_T Dio avvisato, mezzo salvato. *annuisce*
PS. Il titolo è indecentemente rubato al monologo di Molly Bloom dell’Ulisse di James Joyce. Modificato ad hoc.
PPS. Partecipante all’Iniziativa Estemporanea Silenzio-Assenso di Criticoni.
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Yes I Say Yes I Will Yes


È un po’ che se ne parla. È un po’ che se ne parla e Zlatan non saprebbe – per la prima volta, davvero – non saprebbe rispondere alla domanda, se gliela facessero adesso. Un mese fa sarebbe stato molto più semplice – un mese fa, in effetti, è stato più semplice – sentirsi chiedere se sarebbe andato via dall’Inter, rispondere che, detto in confidenza, sì, sarebbe stato possibile. È stato più semplice per il periodo – nero – per il mal di pancia – furioso – per l’insoddisfazione – implacabile – per la frustrazione – che lo rodeva da dentro neanche fosse stato un fottuto male incurabile. E allora sì, in confidenza, sì. Andare via era possibile.
Adesso il mondo li ricopre d’oro, adesso per tutti sono una squadra vincente, adesso nessuno ricorda la Champions persa senza onore né gloria, senza neanche il lustro della finale, per tutti, adesso, l’Inter è la squadra dei sogni, sono tutti vincitori, tutti grandiosi, tutti supremi, e per questo è più difficile dire sì.
Ma quando José lo guarda è tutto diverso. Quando José lo guarda – e lo guarda con quegli occhi lì – quando lo sfiora – con quelle mani lì – quando lo bacia – con quella lingua, quelle labbra, quella bocca lì. Quando gli chiede “se andassi al Real, verresti via con me?”. È troppo facile dire sì così. È troppo facile. E Zlatan, per questo, tace.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: JoséxZlatan.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash.
- 25 gennaio 2009, Inter-Sampdoria 1-0. Zlatan Ibrahimović questa partita è costretto a guardarla dagli spalti. Guarda la partita, guarda Adriano fare a pugni in mezzo al campo, guarda il proprio allenatore venire espulso dopo un accesso d'ira. E questo è il post-partita.
Note: Questa storia è un assurdo. Nel senso che io mai e poi mai avrei pensato, un giorno, di finire a scrivere slash sull’Inter. Tutto ciò, naturalmente, finché José Mourinho non è arrivato ad allenare. A quel punto, i ragazzi hanno cominciato a precedere le sessioni di allenamento con lunghe sessioni di abbracci di gruppo e ciò che prima era solo ipotizzato è diventato palese, cioè che la nostra è una squadra palesemente gaia nel senso più ampio possibile. Io sono molto felice di tifare per una squadra palesemente gaia. XD
Ringraziamento – triplice – a Def: per Temporal-mente (che è un’iniziativa deliziosa), perché se lui non avesse cominciato a shippare Ibra non avrei cominciato neanche io XD e per le virgole <3
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Premessa. Perché non c’è neanche messo che uno debba fangirlare per forza la propria squadra del cuore XD Comunque, in breve e per non annoiare nessuno.
Antefatto. In occasione di Atalanta-Inter, (domenica diciotto gennaio 2009), Zlatan Ibrahimović (attuale attaccante di punta della formazione interista), si fa ammonire per proteste. Già diffidato – in quanto ammonito anche nella partita precedente – è costretto a saltare la successiva giornata di campionato.
Fatto. Domenica venticinque gennaio 2009, Inter-Sampdoria si conclude 1 a 0 per la formazione interista ma José Mourinho, allenatore della squadra, viene espulso dal campo a causa di una reazione verbalmente violenta nei confronti dell’arbitro Celi in occasione dell’ammonizione (immotivata ed ingiusta u.u) del centrocampista Dejan Stankovic. In aggiunta a questo, mentre Ibra guarda la partita dagli spalti, durante una potenziale azione da gol, Adriano (Leite Ribeiro, altro attaccante dell’Inter) scazzotta malamente nello stomaco il difensore doriano Gestaldello (colpevole di averlo tenuto un po’ troppo stretto mentre gli dimostrava il proprio amore abbracciandolo in area <3), gesto che causa grande indignazione in tutto il mondo sportivo (bla bla bla, è stato sexy *_*) e che, nel dopopartita, risulterà in una squalifica di tre giornate.
Sapendo questo, sapete tutto ciò che vi serve per non perdervi (troppo), ma se tifate Inter, conoscete un tantino la squadra e sapete che uomo meravigliosamente assurdo sia José Mourinho, di sicuro vi divertirete molto di più XD

God, And After God, Me
“There's footsteps loud and strong coming down the hall.” (Goodnight Moon – Shivaree)

“If I wanted to have an easy job, I would have stayed at Porto.
 Beautiful blue chair, the Uefa Champions League trophy, God, and after God, me.”
~José Mourinho




José non è ancora venuto fuori dallo spogliatoio e Zlatan non può fare a meno di pensare di essere stato un emerito coglione a farsi ammonire contro l’Atalanta. La situazione non è buona e, tanto per cambiare, avere vinto – come al solito – non conta un cazzo: battere qualcuno giocando bene, in Italia, non è abbastanza per evitare le critiche; per evitare le critiche, l’avversario devi umiliarlo, o te ne dicono alle spalle di tutti i colori. L’Inter, oggi, non ha umiliato nessuno. I ragazzi sono stati bravi, ma un uno a zero si dimentica in fretta. Non è la superiorità sfacciata dei due a zero, non è la presunzione dei tre a zero e non è il marchio a fuoco dei quattro a zero. È solo un numero del cazzo accanto a un altro numero del cazzo, e Zlatan sa bene che, se ci fosse stato lui in campo, i numeri sarebbero stati diversi. Ha già in testa la voce di Mou che ripete “se ci fossi stato tu, al posto di Sulley, quello sarebbe stato gol. Se ci fossi stato tu, al posto di Dejan, quello sarebbe stato gol. A te non ti si sostituisce con un giocatore. Ci vuole la squadra, per sostituire te”.
Si muove svelto fra i corridoi di San Siro, evitando accuratamente i grappoli di giornalisti appostati ad ogni angolo in attesa di un qualsiasi pollo da spennare; Julio non è altrettanto fortunato, Zlatan lo vede chinare il capo e forzare un sorriso di fronte al giornalista di Sky che lo imprigiona contro un tabellone pubblicitario chiedendogli se almeno lui vuole parlare, visto che Mourinho non ha voluto. “Sì, parlerò io al posto suo”, lo sente ridere Zlatan, e ride un po’ a propria volta, girando l’angolo ed immettendosi nel breve corridoio che lo porterà agli spogliatoi.
Quando fa per aprire la porta, si ritrova anticipato da Adriano, che gliela spalanca in faccia e, non contento di averlo quasi fatto fuori, incede col passo marziale dell’uomo fuori dalla grazia di Dio, investendolo in pieno mentre cerca di uscire.
- Adri…? – lo chiama Ibra, cercando di trattenerlo per le spalle. Il brasiliano lo fissa, gli occhi ancora annebbiati dalla furia, e poi si placa, chiudendo la porta dietro di sé e sospirando pesantemente.
- Ti sei goduto lo spettacolo? – gli chiede, incrociando le braccia sul petto, l’ampia felpa della squadra che sbuffa attaccandosi un po’ alla sua pelle ancora umida di doccia. Zlatan sorride appena, sa esattamente a cosa si stia riferendo l’attaccante.
- Ancora un po’ e gli sfondavi la pancia, Adri. – gli fa notare, inarcando divertito le sopracciglia.
- Lo stronzo mi stava abbracciando come non ha mai fatto neanche mia madre. – ribatte lui, borbottando infastidito, - Cosa dovevo fare? Lasciare che mi tenesse fermo? Eravamo nella merda!
Zlatan annuisce, sfilando il cappellino dalla testa. Il calore umido dei sotterranei lo sta avvolgendo, e del freddo secco di Milano non resta più niente.
- Ti daranno almeno tre giornate di squalifica. – ipotizza lo svedese, spostando il peso da un piede all’altro. Adriano risponde scrollando le spalle.
- José mi ha appena finito di dire che, squalifica o non squalifica, non vuole vedermi per le prossime due settimane. – ammette, abbassando appena lo sguardo, - Il che significa che le partite le salterei comunque. Mi ha fatto una paternale che sarebbe ancora in corso, se non fossi uscito. – poi ci riflette qualche secondo, - No, non sarebbe ancora in corso perché gli avrei spaccato una panchina sulla testa, ma insomma…
Zlatan ride a bassa voce, scuotendo il capo.
- È il tuo allenatore, devi rispettarlo. – gli ricorda, e Adriano ghigna.
- Oh, ma io lo rispetto. – annuisce, - Però lui oggi s’è fatto espellere perché non è stato capace di tenere a freno la lingua. Non può rinfacciarmi di non essere capace di tenere a freno le braccia. Io almeno ho la scusante di essere cresciuto in una favela.
Zlatan ride ancora, più sonoramente.
- Lo sai com’è fatto, non è per niente giusto nei rapporti con le persone.
Adriano ghigna ancora, mollandogli una pacca fenomenale contro una spalla.
- Sì che lo so. – ride, - Ma lascio che a dirlo siano quelli che lo conoscono meglio. – e butta lì l’allusione con una mezza strizzatina d’occhio, cominciando ad allontanarsi verso l’uscita.
- Stronzo! – gli urla dietro Zlatan, fingendo un imbarazzo che comunque non gli riesce di provare. Dovrebbe, probabilmente. Con Helena ed i bambini a casa, probabilmente sì, dovrebbe sentirsi in imbarazzo. Ed anche un po’ in colpa. Ma le regole di spogliatoio sono diverse dalle regole in superficie. Perciò, di fronte a quella porta, Helena ed i bambini non contano praticamente niente: di là c’è José che non è ancora uscito ed è stato espulso, ed è tutto ciò che a Zlatan interessi, al momento.
Entra, e lo spogliatoio lo accoglie in perfetto silenzio. Il panorama è simile a quello già visto decine di volte, quando tutti i suoi compagni di squadra sono già usciti e si preparano ad affrontare le orde di giornalisti affamati per raggiungere le macchine ed andare via. È allora che, spesso, José lo tira per un polso e gli chiede di restare, perché ha ancora qualcosa da discutere con lui. Tutti sanno cosa succede e nessuno – quasi nessuno – ne parla, perché è vero che ciò che succede nello spogliatoio non esce dallo spogliatoio, è una delle prime cose che José ha messo in chiaro arrivando all’Inter: “qua dentro, queste quattro pareti, queste panche, queste docce, questi armadietti, sono affar nostro. Là fuori siamo cose pubbliche, dobbiamo giustificare tutto e dobbiamo combattere per tutto. Qui dentro no. Qui dentro tutto è nostro e solo nostro”.
José sta seduto su una panca, piegato in avanti. Fissa il pavimento, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani dalle dita distrattamente intrecciate che pendono nel vuoto. Non dà segno di accorgersi della sua presenza, ma d’altronde non si sa mai davvero cos’è che gli giri per la testa, ed il più delle volte Zlatan è convinto che in realtà José capisca veda e senta tutto, solo che non si premura di fartelo sapere fino a quando non gli risulta utile.
Si annuncia con un colpetto di tosse. José non si muove.
- Mister…? – lo chiama quindi a bassa voce, azzardandosi ad avanzare di un passo. L’uomo sospira profondamente, ma rimane piegato in avanti e non lo guarda.
- È stata una bella partita, Zlatan? – chiede invece, fissando ostinatamente le piastrelle bianchissime della parete di docce di fronte a lui.
Zlatan inspira ed espira l’odore pesante ed umido dello spogliatoio, prima di decidersi ad avanzare ancora e sedersi al fianco del proprio allenatore, imitandone la posa concentrata e un po’ abbattuta.
- …no, mister. – risponde sinceramente, puntando lo sguardo sulle stesse piastrelle bianchissime, - È stata una partita combattuta, però. È caduto un bel po’ di sangue. – ridacchia, riferendosi alla gomitata che ha mandato a terra Sulley spaccandogli un sopracciglio. – Ma i ragazzi sono stati forti. Dei gladiatori. Soprattutto Adri-
- Un leone. – annuisce il mister, compiaciuto, - Stupido tanto quanto, almeno.
Zlatan sospira.
- Mister, ogni tanto lei dà l’impressione di essersi dimenticato com’era giocare sul campo.
José ride piano, scuotendo lentamente il capo.
- Lo ricordo bene, invece. – risponde pacatamente, - Ero un pessimo giocatore. Ci vuole un pessimo giocatore per fare un ottimo allenatore, perché solo i pessimi giocatori capiscono quanto possono arrivare ad essere stupidi gli ottimi giocatori. – solleva finalmente il capo e lo omaggia di una lunga occhiata penetrante. – La boria fa male. – sentenzia quindi, annuendo compitamente.
- E questo, detto da lei, è molto divertente, mister. – gli fa notare l’attaccante, ridendo di gusto. José lo segue nella risata, più intenerito che divertito.
- Parlavo dei giocatori. – rivela poi, tranquillissimo, - Fra quelli che comandano, la modestia è un peccato, Zlatan. – e lo svedese si ritrova a pensare che dev’esserci per forza qualcosa di sbagliato, nel rapporto fra lui e il mister, perché José spesso gli ricorda suo padre. Perché ha lo stesso modo di parlare per asserti imprescindibili, di quelli che ti fanno venir voglia di prendere appunti, sia mai dietro il commento disinteressato di una sera si nasconda invece una fondamentale lezione di vita su chissà che argomento di basilare importanza.
- Adri era piuttosto arrabbiato. – confessa quindi, tornando ad abbassare lo sguardo perché gli occhi scuri di José si stanno facendo troppo difficili da sostenere, - Per il rimprovero, intendo.
- Se Adri è convinto che oggi sia stato sufficiente, Adri sbaglia di grosso. – borbotta l’allenatore, incrociando le braccia sul petto. A Zlatan viene da ridere: non dovrebbe essere lui a fare paragoni fra José e suo padre; José un figlio all’Inter l’ha già scelto, l’ha scelto con attenzione e l’ha scelto il primo giorno in cui è arrivato. E non è lui. – Mercoledì sera, tanto per cominciare, che lo squalifichino o no io lo voglio seduto accanto a me. Anche solo per riempirgli le orecchie di roba che, come al solito, non ascolterà.
Zlatan la lascia andare, la risata.
- Verrà fuori che s’è fatto espellere apposta per poter restare con lui invece di venire con noi sul campo al Massimino. – lo prende in giro, e José risponde sferrandogli una gomitata giocosa in mezzo alle costole. Avvolto com’è nel piumino e in svariati strati di felpe, Zlatan appena lo sente. E non può dire, in tutta onestà, che non avrebbe preferito, invece, sentirlo molto meglio.
- La prossima partita, Zlatan… - riprende José poco dopo, sospirando pesantemente e raddrizzando la schiena, - è di fondamentale importanza. Io non sarò in panchina e sarete senza Adriano in campo. Praticamente, la squadra si reggerà sulle tue spalle. Lo sai questo, no?
Zlatan deglutisce e vorrebbe rispondere tanto per cominciare che questo ruolo non l’ha chiesto lui. E che, se a dieci anni avesse saputo che entrando in campo e segnando otto dannati gol al Villinge avrebbe posto le basi per arrivare lì dove si trovava adesso, probabilmente ci avrebbe pensato su un paio di volte, prima di sfilare la tuta e darsi da fare. Vorrebbe rispondere anche che con Mancini non era così, lui continuava a parlare di squadra sempre e comunque, era la squadra che doveva lavorare unita sacrificando le genialità dei singoli.
Per José il sacrificio non è mai valso la pena. In nessun caso. Zlatan lo sa perché al modo di fare di quell’uomo ha dovuto abituarcisi in fretta. Se prima era tutto un “Tranquillo, Ibra, quello che ti senti di fare farai”, da quando è arrivato José non c’è spazio per l’irresponsabilità. “Tu sei quello che sei”, gli dice José, “E sei un asso. Un capo. Il pilastro di questa squadra. Perciò è tua responsabilità dare il massimo sempre e comunque. L’Inter è responsabilità tua quanto mia.”
E perciò Zlatan annuisce.
- Sì, lo so, mister. Saremo grandiosi a Catania, vedrà. Io lo sarò.
José sorride e Zlatan abbassa lo sguardo. Non è proprio da lui sentirsi imbarazzato, ma è ciò che gli capita sempre quando Mourinho gli sorride. In un primo momento gli verrebbe da giustificarsi dicendo che il motivo è che José non ride mai, ma è falso: José ride spesso, solo che in genere non si fa vedere se non da chi ha il permesso esplicito di considerarlo una persona come tutte le altre. Per il mondo è lo Special One, e tale deve restare, ma ci sono pochissime persone – lui è fra queste – per cui può essere anche solo José Mourinho. Con loro, sorride.
Nell’elenco ci sono anche sua moglie e i suoi figli. Ma Zlatan deve stare attento a quello che pensa, perché dalla moglie e dai figli di Mourinho fino ad Helena e ai bambini il passo è breve, e da bravo giocatore sa che pensieri come quelli non sono ammessi, nello spogliatoio. Nello spogliatoio non c’è spazio per la famiglia, lo spazio è tutto occupato dalle labbra di José che ora premono con forza contro le sue, e dalle sue mani un po’ tozze che si fanno strada sotto il giubbotto, fra i vari strati di felpe, alla ricerca della pelle calda al di sotto del tessuto.
Zlatan si lascia andare, mettendo a tacere i pensieri e lasciandosi trascinare in piedi finché non si trova schiacciato sulla parete del bagno. Le mattonelle in ceramica sono un po’ fredde ed ancora umide di condensa, l’aria è sempre pesante – è quasi impossibile respirare senza ansimare – ma è difficile, adesso, capire se sia una questione di ambiente chiuso e saturo di umidità o se per caso il problema non sia un altro – se per caso non siano le dita di José che s’introducono oltre l’orlo dei jeans, sbottonandoli e lasciandoli scivolare lungo le gambe, o se per caso non sia il suo fiato dritto sulla nuca, o la pressione della sua erezione contro un gluteo, a cercarsi spazio fino ad entrare dentro di lui. Probabilmente sono quelli i motivi per i quali respirare è così dannatamente difficile, ma Zlatan non ci pensa, a Zlatan non interessa, a Zlatan in realtà non interessa quasi niente di niente quando José si spinge con forza contro il suo corpo, e gli interessa ancora meno quando José fa scattare una mano ad accarezzarlo dall’alto verso il basso per tutta la lunghezza della propria erezione svettante e pulsante di desiderio.
Vede solo bianco quando viene contro le piastrelle, trattenendo il respiro e gli ansiti perché sono nello spogliatoio, d’accordo, ma ci sono cose ancora più intime e private di quelle quattro mura. Ci sono loro due. Loro due sono una cosa molto intima e privata, dopotutto.
- Mister… - confessa con una mezza risata, separandosi da lui e rassettando i vestiti mentre aspetta di recuperare il fiato, - sarà una settimana pesante. Ti sei scelto un mestiere molto difficile.
- Se avessi voluto un mestiere facile, - ride apertamente José, rimettendo a posto i pantaloni, - sarei rimasto al Porto. Una bella poltrona blu, il trofeo della Champions League, Dio, e dopo Dio, io.
Zlatan sghignazza e José lo segue e restano lì, il primo di schiena appoggiato al muro, il secondo dritto in piedi davanti a lui, e questi sono i momenti di quiete che Zlatan spesso vorrebbe utilizzare per chiedere a José qualcosa di molto stupido – qualcosa di cui sicuramente si pentirebbe, qualcosa che in realtà non dovrebbe nemmeno voler chiedere, perché la loro è una relazione di spogliatoio, giusto?, perché lui è solo il suo mister, giusto?, perché lui ama Helena ed ama i bambini e non conta se, quando ce l’ha dentro, esiste solo José. Quando escono da quella porta, il resto del mondo li insegue. E Zlatan deve per forza guardarlo.
Si riscuotono solo quando sentono dei passi pesanti e rumorosi muoversi lungo il corridoio e riecheggiare fra le pareti fino a raggiungerli. È il segnale codificato col quale Adriano li avverte del suo arrivo – qualcosa di molto simile a un “sì, fatevi almeno trovare vestiti” che nessuno ha mai detto ad alta voce ma che è sempre stato anche fin troppo chiaro.
Quando il Brasiliano spalanca la porta – con l’aria incazzosa che ha sempre addosso quando lo costringono a fare qualcosa che non vuole – li trova già lì belli e pronti, coi giubbotti chiusi ed i borsoni sulle spalle.
- Be’? – chiede, - Si va?
José annuisce senza esitazioni e li precede in corridoio. Quando Zlatan fa per passare oltre Adriano e seguirlo, quello per poco non lo manda a terra con uno sgambetto.
- Ma tu non cresci mai? – lo rimbrotta, recuperando l’equilibrio.
Adriano ghigna, palesemente soddisfatto.
- Tu sei cresciuto, nell’ultima mezz’ora?
Zlatan sospira e riprende la via del corridoio, tirandosi dietro il compagno di squadra neanche fosse un pupazzo di peluche.
“Nemmeno di un secondo”, si ritrova a pensare amaramente. Ma resta un pensiero.
Genere: Comico.
Pairing: Nessuno in particolare, accenni a José/Zlatan.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Crack, What If?, pseudoSlash.
- "Era passato ormai un mese dalla sventurata eruzione dell’Eyjafjallajökull, la cui immediata e più angosciante conseguenza era stata spargere ceneri per i cieli di tutta Europa senza che nessuno potesse prevederlo, impedirlo o fare qualcosa immediatamente dopo per risolvere l’incresciosa situazione."
Note: Dunque, questa storia è a) totalmente inutile, b) totalmente folle. E' nata quando s'è cominciato vagamente a parlare del fatto che il Barça non avrebbe potuto raggiungere Milano in aereo, al che il mio cervello non poteva proprio starsene lì buonino ad osservare i fatti, no, doveva inventare XD E, insomma, questo è quello che è venuto fuori. Dedicata alla Jan perché sì, ecco XD
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Pepissea


Era passato ormai un mese dalla sventurata eruzione dell’Eyjafjallajökull, la cui immediata e più angosciante conseguenza era stata spargere ceneri per i cieli di tutta Europa senza che nessuno potesse prevederlo, impedirlo o fare qualcosa immediatamente dopo per risolvere l’incresciosa situazione. Il commento di Pep alla questione, dopo aver appreso la notizia al telegiornale, era stato: “Ma porca di tutte quelle troie, dopo centottantasette anni doveva risvegliarsi e rompere i coglioni proprio adesso?”, al quale era seguito a distanza ravvicinata il commento di Bojan che, guardando il cielo con aria assorta come dovesse vedersi piovere una rana sulla testa da un momento all’altro, aveva detto “Non mi meraviglia che stia spargendo tutta questa robaccia in giro… inutilizzato da tutto questo tempo, doveva essere così impolverato.” Il minuto di silenzio che aveva seguito questa deduzione sarebbe rimasto nella storia di tutti i più importanti minuti di silenzio mai verificatisi a Barcellona per lungo, lungo tempo. Ma questa è un’altra storia.
Dopo due rinvii di un paio di giorni e poi una settimana, era altresì parso evidente che se anche le benedette semifinali fossero state spostate nello spazio e nel tempo fino ad essere organizzate in un universo parallelo, ucronico e geograficamente traslato su un pianeta vicino, le ceneri non sarebbero scomparse ed avrebbero continuato ad affliggere i cieli europei rendendo impossibili le tratte aeree ancora a lungo, ed era stato in forza di questo che, esattamente tre settimane dopo il disastro, Michel Platini aveva chiamato Joan Laporta e gli aveva spiegato che continuare a rinviare sarebbe stato del tutto inutile. “De scioeu mast go on, monsieur Laportà”, aveva detto.
“Laporta,” l’aveva corretto lui, infastidito. “E comunque ne parli col mio allenatore, che io il culo dalla Catalogna lo schiodo solo in casi di estremo bisogno – ed una semifinale di Coppa dei Campioni decisamente non rientra nella casistica indicata.”
“Si chiama Sciampions Lig,” aveva borbottato lui, e poi, rassegnato, s’era fatto passare Pep. “Monsieur Guardiolà!” l’aveva salutato con entusiasmo, “Comment ça va?”
“È Guardiola,” l’aveva corretto anche Pep con un ringhio sommesso, “E non intendo portare la mia squadra in Italia in queste condizioni.”
Il battibecco che ne era seguito sarebbe entrato anche lui nella storia di tutti i più importanti battibecchi mai verificatisi a Barcellona, ma si era nondimeno dovuto concludere con la sconfitta plateale di Pep per esigenze superiori, fra i sospiri rassegnati di tutta la squadra.
Fissata una nuova data per la partita – una che stavolta fosse definitiva – la prima questione da dirimere era stata quella dei biglietti aerei.
- Cosa vuol dire che non ci sono voli? – aveva chiesto Pep, fissando con aria incredula e anche vagamente pallata l’operatrice dell’agenzia di viaggi, seduta di fronte a lui tutta stretta nelle spalle come volesse scusarsi anche solo di esistere.
- Non è colpa mia, signor Guardiola… - aveva mugolato la ragazza, continuando a scrollare con la rotellina del mouse, pressando F5 sulla tastiera di tanto in tanto per aggiornare l’elenco di voli desolatamente vuoto, - Le ceneri sono ancora alte e pesanti, gli aerei non sono sicuri. Nessun mezzo in realtà lo è, dato che ultimamente i temporali si sono fatti sempre più frequenti e intensi, e-
- Senta, - l’aveva quindi interrotta Pep, massaggiandosi stancamente le tempie, - noi dobbiamo essere in Italia fra meno di due settimane, e non possiamo certo andarci a piedi. E lei capisce che non posso ficcare trenta persone fra giocatori e staff tecnico e medico in un treno per poi mandarli in giro per l’Europa fino a Milano. Mi trovi una soluzione.
La ragazza aveva abbassato lo sguardo, mortificata.
- Temo non ce ne siano, signor Guardiola. – aveva affermato tristemente.
Era stato allora che Carles si era avvicinato ed aveva proposto un modo per sfangarla.
- Guardi, mister, - aveva detto con aria professionale, - io non prometto niente, ma c’è un cugino di un fratello di un amico di un compagno delle elementari del secondo marito della migliore amica di mia cugina Dolores che ha una barca.
- Una barca. – aveva ripetuto Pep, come a cercare di convincersi della fattibilità dell’impresa, - Una cosa tipo uno yacht? Una piccola nave?
- No, una barca. – aveva insistito Carles, grattandosi la sommità della testa, - Da pesca, tipo.
- …ma come ci dovremmo arrivare noi in Italia con una barca da pesca?! – aveva strillato Pep, agitando le braccia, - Santo Dio, Carles!
Le cose si erano fatte anche più complesse quando, dopo aver appurato che nessun battello in condizioni umane sarebbe salpato in tempo utile, non certo col mare continuamente martoriato da tempeste in quel modo, la squadra s’era recata in pompa magna a prendere atto delle condizioni dell’imbarcazione che avrebbe dovuto condurli sani e salvi a destinazione, nonché di colui che sarebbe stato il loro timoniere nella buona e nella cattiva sorte, che i venti fossero favorevoli o no.
Il cugino del fratello dell’amico del compagno delle elementari del secondo marito della migliore amica di Dolores, cugina di Carles, viveva la propria vita in un costante stato di ubriachezza che gli concedeva tregua solo per pochi minuti al giorno, e si trascinava in stato semicomatoso dal pontile mezzo coperto di alghe sul quale pareva vivere al ponte della sua pseudo-barca da pesca le cui travi si tenevano palesemente attaccate con lo sputo. Arrivando, Pep e i suoi ragazzi lo trovarono piegato in due oltre il parapetto a vomitare alimenti di incerta provenienza sia quanto a conformazione molecolare sia quanto a tempo trascorso all’interno dello stomaco. Quando gli chiesero se si sentisse male, lui rispose “È solo un po’ di mal di mare”, ed i ragazzi preferirono evitare di fargli notare che la barca era ferma.
- Signor… - provò a chiamarlo Pep quando lo vide scivolare come senza vita lungo il fianco della barca, per poi tornare a sedersi sul pontile, - Signore, mi chiamo Josep Guardiola, piacere. – disse porgendogli una mano, che l’uomo ignorò platealmente, continuando a fissare laconico l’orizzonte oltre il quale nubi nere cariche di pioggia si addensavano inesorabili. Bojan tirò su il cappuccio, sempre pensando alle rane. – Ehm, posso sapere come si chiama? – proseguì Pep, incerto.
- Ho dimenticato il mio nome molti anni fa. – rispose l’uomo tetro, dando i brividi a tutti, - Non serve un nome, quando si è soli col Mare. Il Mare non ti chiama per nome.
- …no, naturalmente. – rispose Pep, deglutendo a fatica, - Senta, a noi serve un passaggio in barca fino, facciamo, in Italia. – disse, gesticolando a caso per darsi un tono. – Lei sarebbe disposto?
L’uomo si voltò a guardarlo e poi, non senza una certa fatica, si erse sulle gambe, torreggiando su tutti loro.
- Josep Guardiola, - disse sempre più cupo, - temi tu la morte?
Pep inspirò profondamente.
- In realtà sì. – rispose con un certo imbarazzo, - Ma vede, non stiamo organizzando una missione suicida, davvero. Vogliamo solo andare in Italia. Speravamo che lei potesse esserci d’aiuto, tutto qua.
L’uomo si grattò il mento, gli occhi distanti persi in chissà che scenario mortifero.
- Potrei. – rispose quindi, e una nuova luce illuminò i visi di tutti i presenti, - Ma ho perso le chiavi della barca. – confessò, tornando a portare l’oscurità su di loro, - Sono finite dentro quella grotta. – disse, indicando un punto moderatamente lontano della scogliera, - Mentre inseguivo un cerbiatto.
- …un cerbiatto? – chiese Pep, gli occhi enormi.
- I misteri del Mare sono molti. – grugnì l’uomo.
- Sì, e quelli delle allucinazioni post-sbornia anche. – commentò in un sospiro Thierry, scuotendo teatralmente il capo mentre Pep gli lanciava un’occhiataccia volta a zittirlo.
- Senta… - disse l’allenatore, pinzandosi la radice del naso, - Noi dobbiamo assolutamente partire, in un modo o nell’altro. Dobbiamo recuperare quelle chiavi. La pagheremo profumatamente, se solo lei-
- Ci ho già provato. – disse l’uomo, solenne, - Ma il pertugio fra le rocce è troppo piccolo perché un essere umano di statura normale possa passarci.
Simultaneamente, tutti gli occhi si voltarono a fissare Lionel, che sbocconcellava un panino appoggiato a un palo di legno poco distante.
- Cosa? – chiese l’argentino, mandando giù un boccone. Venti minuti dopo, stava appeso con una corda alla vita, dondolante a picco sul mare, dando indicazioni ai compagni che lo tenevano da sopra perché lo indirizzassero il più precisamente possibile verso l’ingresso della grotta.
- Va bene così? – strillò Gerard dall’alto, sollevando una mano perché Dani e Victor, impegnati a manovrare la corda, si fermassero. Lionel aspettò di riprendersi dalle svariate botte in testa che aveva preso rimpallando da uno scoglio all’altro come in un flipper impazzito, e poi piantò i piedi contro la roccia bagnata e scivolosa, sollevando un pollice in direzione dell’amico prima di avventurarsi all’interno della grotta.
Alto non più di una cinquantina di centimetri, l’ambiente era stretto e angusto, e perfino il minuscolo argentino ebbe serie difficoltà a strisciare prono verso la fine della galleria e tirarne fuori le chiavi. Quando, mezz’ora dopo, fu riuscito a tornare in cima alla scogliera, stringendo forte fra le dita il frutto del proprio sacrificio umano, la prima cosa che chiese all’uomo senza nome fu di spiegargli come diavolo ci fossero finite quelle chiavi così in fondo, ma l’uomo non rispose, e sorrise in modo così inquietante che a nessuno passo neanche per l’anticamera del cervello la possibilità di insistere sul punto.
L’imbarcazione – senza nome come il suo proprietario e capitano – salpò nella notte spagnola, la stiva piena di viveri solo a metà, dal momento che l’altra metà era ingombra di tutte le bottiglie di vino catalano senza il quale il capitano non sembrava capace nemmeno di respirare, figurarsi camminare o ragionare lucidamente. Anche se, poi, pure in queste ultime due attività non è che brillasse, vino catalano o meno.
I primi problemi cominciarono a palesarsi quando le nubi scure, che li avevano minacciati quando erano ancora ancorati a terra, misero in atto i loro propositi guerrafondai scaricando sulle loro teste ettolitri d’acqua, tuoni e fulmini senza che loro potessero nemmeno ripararsi – a parte Bojan, che indossava ancora in cappuccio ma più per difendersi dall’eventuale caduta di rane che per altro.
- Finiremo alla deriva a mangiarci a vicenda per cercare di sopravvivere! – presagì immediatamente Pedro, agitando le braccia sopra la testa.
- Sta’ zitto, Pedrito. – lo minacciò Pep, stagliandosi contro il cielo scuro scosso a tratti da lampi lunghi e irregolari, abbaglianti come improvvisi fari nella notte, - O ti tengo fuori squadra fino all’anno prossimo.
- Non ci sarà una squadra e non ci sarà nemmeno un anno prossimo, per tutti noi! – continuò ad agitarsi Pedro mentre Bojan, spaventato dalle urla come un neonato, si metteva a piangere in un angolo, consolato da Thierry e Gerard, - Saremo già fortunati se arriveremo a vedere l’alba di domani mattina!
- Carles. – ordinò Pep, continuando a scrutare l’orizzonte appeso a una cima, gli occhi sottili e la pioggia che si faceva beffe del suo principio di calvizie, - Legalo. Ci serve una polena.
Le ultime parole che Pedro sentì prima di essere afferrato, imbavagliato e legato alla prua dell’imbarcazione furono “e spera che non si incontrino iceberg lungo il cammino”, suggerimento che il ragazzo accettò immediatamente cominciando a pregare in tutte le lingue a lui conosciute, che fendere le acque, per quanto agitate e violente, era una cosa, ma andare a sbattere di naso contro granitici blocchi di ghiaccio di svariate dimensioni era un affare del tutto diverso.
La tempesta cessò di infuriare solo l’indomani mattina. Stanchi e distrutti, i giocatori del Barça si aggiravano come marinai ubriachi sul ponte della nave, incerti sulle gambe, così come il capitano senza nome, che aveva dormito fino a dieci minuti prima ed aveva preso a bere non appena aperti gli occhi.
- Ma dove cazzo siamo? – si chiese Pep, gettando occhiate incuriosite in giro. Tutto attorno alla barca si apriva un corridoio di acque adagiato in mezzo a due rigogliose ali di vegetazione tropicale, con piante e fiori che mai avevano visto prima di quel momento.
- Ad occhio e croce, nella Foresta Amazzonica. – suppose Zlatan dopo essere riemerso dalla cabina del capitano della quale aveva preso possesso nell’esatto istante in cui erano saliti a bordo della barca, - Oppure su un altro pianeta. – scrollò le spalle, tirando fuori dal borsone il cellulare e componendo un numero a memoria. – Zay? – chiamò poco dopo, - Sì, siamo in viaggio. No, non ci crederai mai, ma ti racconterò appena sarò tornato a Milano. Senti, ma avete mica posto lì da voi? Perché io non ci ritorno a Barcellona in barca, beninteso. Aspetterò che la nube del cazzo si tolga dalle palle e poi tornerò in aereo, faranno a meno di me da qui a fine campionato.
Pep si voltò a guardarlo con aria sconcertata e anche un po’ oltraggiata.
- Potresti smetterla di parlare col tuo ex allenatore mentre siamo dispersi a risalire il corso del Rio delle Amazzoni che non si capisce come abbiamo raggiunto in una notte di viaggio col mare in tempesta?! – strillò, muovendosi tanto concitatamente da far ondeggiare la barca e pucciare Pedro nell’acqua come un savoiardo nel caffè.
Zlatan lo guardò malissimo, arricciando le labbra in una smorfia grandemente disapprovante.
- No. – rispose, prima di tornare a rivolgersi al suo interlocutore dall’altro lato dell’oceano, - Zaaaay, mi hai dato in mano a della gentaglia! – cominciò a lagnarsi, passeggiando nervosamente lungo il ponte, - Voglio tornare a casa, quando finisce il prestito? Sì, lo so che non è un prestito, ma potresti parlare col presidente…
Pep scosse il capo, sospirò profondamente e sollevò gli occhi al cielo plumbeo del Brasile – a quel punto, tanto valeva considerarsi davvero lì, se volevano avere una qualche speranza di venirne fuori – chiedendosi quanto ancora sarebbe durato quel supplizio.
La risposta tardò ad arrivare, perché mai, quando una risposta ti serve immediatamente, essa immediatamente arriva. Il viaggio durò tre giorni e tre notti, fu intenso e spossante, continuamente disturbato dal chiacchiericcio di Zlatan al telefono – chiacchiericcio che s’era poi trasformato in piagnisteo quando per qualche ragione le comunicazioni s’erano interrotte lasciandolo privo della sua dose di Mourinho quotidiana – dall’ondeggiare scomposto del capitano da un lato all’altro del ponte al solo scopo di sporgersi oltre il parapetto e vomitare e dalla rabbia e dalla frustrazione di un gruppo di uomini che pensava di costituire una squadra di calcio e che invece, per quel periodo di tempo, dovette dimostrare di essere in grado di pescare, nutrirsi dei crudi frutti del mare e sopravvivere a delle tempeste tali da lasciare incredulo chiunque sulle possibilità di sopravvivenza di quell’imbarcazione tanto malmessa quanto resistente.
Per tutta la durata del viaggio, attraversando oceani e osservando dalla barca gente sulle sponde delle terre che costeggiavano e che cercava di comunicare con loro tramite versi strani assimilabili a un certo “ma cu minchia sugnu?” che nessuno di loro era riuscito a interpretare, Pep rimase al proprio posto a prua, un piede ben piantato sulla punta della barca e il gomito poggiato sul ginocchio, lo sguardo sempre oltre l’orizzonte e la posa tipica dei comandanti colmi di onore e coraggio, quale lui d’altronde era.
Arrivarono a Genova sfiancati, smagriti, lerci e rattoppati come pantaloni vecchi, ma temprati da tutte le difficoltà che avevano superato e pronti ad affrontare l’Inter – e divorarne i calciatori, più per fame che per effettivo spirito combattivo. Una delegazione del club nerazzurro li accolse al porto come da programma. Furono rifocillati da deliziose cameriere in abitino nero e grembiule, furono loro donati dei vestiti umani e decenti e furono loro offerte brandine in un centro di prima accoglienza per immigrati, perché potessero riposarsi.
Solo dopo che si furono risvegliati José Mourinho in persona andò a porgere loro gli omaggi del presidente e della squadra tutta, ottenendo in cambio di essere schienato contro il pavimento dall’assalto del suo svedese preferito all’urlo di “ossantoddio, Zay, tienimi con te nella tua enorme villa con centinaia di servi per sempre”, robe che mai gli si erano sentite dire e probabilmente mai gli si sarebbero sentite ripetere.
Una volta ricompostosi, José si rimise in piedi e, accarezzando Zlatan placido al suo fianco come fosse un cucciolo di cane o qualcos’altro di spaventosamente simile, sorrise.
- Benvenuti! – li salutò, spalancando le braccia in un movimento quasi ecumenico, - L’Italia vi accoglie, o prodi giocatori del Barcellona. Prodi quanto stupidi, peraltro. – commentò, scoppiando a ridere come un cretino, - Gli aeroporti sono stati riaperti il giorno dopo la vostra partenza dalla Spagna.
Il silenzio calò sul dormitorio ricolmo di calciatori in pigiama appena riemersi da un sonno lungo dodici ore dopo aver attraversato il Mediterraneo su una barcarola piena di buchi come un groviera.
- …ma tu e Zlatan siete stati continuativamente al telefono per dei giorni… - balbettò Pep, le labbra tremule e lo sguardo vacuo, - Perché non avvertirci, perché… perché non mandare qualcuno…?
- E perderci lo spettacolo meraviglioso delle vostre urla in vivavoce per tutto il tempo? – chiese José, sorridendo placido e sistemandosi la cravatta, - Siamo la squadra più odiata d’Italia, che diamine, un motivo ci sarà pure. A proposito, - disse casualmente, avviandosi tranquillo verso l’uscita della camerata, - viste le ottime condizioni metereologiche, la partita è stata anticipata. Giochiamo stasera alle venti e quarantacinque a San Siro. Vi converrà partire al più presto. – numerosi ringhi di protesta accompagnarono la sua affermazione, così che lui si sentì quasi obbligato a sorridere più apertamente e precisare: - Però almeno potrete prendere l’aereo!
Pep e i suoi giocatori lo osservarono allontanarsi e poi scomparire oltre la porta, e fu solo dopo un paio di minuti che l’allenatore ritrovò la parola.
- Giocheremo sì alle venti e quarantacinque a San Siro, - grugnì, gli occhi scintillanti di furia omicida, - ma con la fascia nera al braccio. Avanti, miei prodi!
La rissa e il placcaggio della polizia che susseguirono sarebbero rimasti nella storia di tutte le risse e di tutti i placcaggi della polizia mai accostati alla stirpe del glorioso club catalano blaugrana, ma anche questa, come si suol dire, è un’altra storia.
Genere: Erotico.
Pairing: José/Pep.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, PWP, Dub-con, Violence (più o meno), Flashfic.
- "Qual era l'accordo?"
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF Calcio (FC Barcelona), José Mourinho/Pep Guardiola, abuso di potere. Quanto sono originale io coi titoli, nessuno.
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Abuso Di Potere


Lo fissa con odio sincero, profondo e affilato, mentre José ricambia la sua occhiata con una strafottenza altrettanto sincera, altrettanto profonda e altrettanto affilata, entrando dentro di lui con un colpo secco, di quelli che fanno male perché vogliono farlo. Josep digrigna i denti, stringendo con forza le mani attorno al tessuto morbido del divano, ansimando appena.
- Stronzo. – ringhia, mentre José lo afferra per i fianchi e si spinge più in profondità dentro di lui, - Fa’ piano.
- Qual era l’accordo? – lo prende in giro l’uomo, indugiando sulla sua erezione senza accarezzarla davvero.
- L’accordo era per scopare, non per farmi violentare a caso quando tu ne avevi voglia, pezzo di merda che non sei altro. – protesta lui, e José lo zittisce tirandoselo contro con violenza, obbligandolo a scivolare lungo tutto lo schienale e ritrovarsi con la testa incastrata fra i cuscini, così piegato su se stesso da sentirsi mancare l’aria.
- Mi pare di non aver violentato nessuno, fino ad ora. – gli fa notare José, sempre con quel sorriso di merda sulla faccia, - Sbaglio? – chiede allusivo, degnandosi finalmente di accarezzarlo piano fra le cosce, senza seguire affatto il ritmo delle spinte e frustrandolo fino all’inverosimile.
Josep vorrebbe, una volta tanto, smetterla di limitarsi a vomitargli addosso ingiurie, ed allontanarlo. Dirgli in faccia “col cazzo che mi lascio scopare ancora, tu come si scopa non lo sai, tu sai solo fare male e basta, e provo pena per chiunque finirà nel tuo letto da questo momento in avanti”, ma poi la mano di quest’uomo di merda che continua ad approfittare di lui – perché, cazzo, non sarà mica il primo scoperto a masturbarsi nelle docce, non è giusto, cazzo cazzo cazzo, non è giusto che solo lui debba sopportare un ricatto simile – quella mano, merda, si chiude attorno alla sua erezione e finalmente lo fa per bene, e si muove più velocemente, seguendo il ritmo delle spinte poderose ed aiutandolo a dimenticare il male che fa, e Josep chiude gli occhi, esausto, e quando viene lo fa trattenendo il respiro, un attimo prima che José si chini a baciarlo per rubarglielo tutto dalle labbra.
Si allontana senza neanche aspettare che l’erezione cominci a scemare, e lo fa perché sa che gli farà più male così, proprio ora che le sue difese sono tutte abbassate e il suo corpo è un unico, sensibilissimo fascio di nervi sovraeccitati. 
- A domani, quindi. – lo saluta risistemandosi brevemente prima di abbandonarlo sul divano. Josep ci mette un po’ a rimettersi dritto, e l’unica cosa per cui ringrazia Dio, davvero, è essere solo in casa, perché per muoversi e rivestirsi gli servirà decisamente più tempo.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: G
AVVERTIMENTI: Gen.
- "Mi sembra di aver perso qualcosa."
Note: Ambientata poco prima di Barça-Inter. Il titolo è un proverbio di origine che non ricordo dettomi da Tab un secolo fa. Prompt: Perdere/Ritrovare @ It100.
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LA CASA NON PERDE// (PERDERE)
- Mi sembra di aver perso qualcosa. – borbotta Mario, rovistando ovunque e mettendo a soqquadro l’intera camera.
- Qualcosa? – chiede distrattamente Davide, continuando a sfogliare la rivista che ha per le mani, - Qualcosa tipo cosa? La testa, magari?
Mario si lascia sfuggire un mugolio sconfitto, ricadendo seduto sul letto accanto a lui.
- Non lo so, è una sensazione. – sbuffa contrariato, - A te non è mai capitato di avere la sensazione di aver perso qualcosa e non riuscire a capire cosa?
Davide sorride, posa la rivista di lato e lo guarda con un’indulgenza quasi sproporzionata rispetto al loro rapporto e all’età che hanno.
- Sì. – risponde, - Erano le volte in cui avevo perso la testa.

(RITROVARE) //LA CASA NASCONDE
Quando entra in camera, dopo aver parlato col mister per quelle che gli sono sembrate delle ore ed essersi poi sentito candidamente dire che “a Barcellona vieni anche tu, ovvio che vieni anche tu, vengono tutti, figurarsi se non vieni anche tu!”, la prima cosa che nota è il braccialetto elastico nerazzurro che credeva di aver perso eoni fa ed invece era lì a fare bella mostra di sé sotto la lampada alogena sulla scrivania, come niente fosse.
- Ah! – esclama indicandolo col dito puntato, - Eccolo!
- Eh? – biascica Davide, svegliandosi per il suo schiamazzo e mettendosi a sedere con aria ancora pesantemente assonnata, - Ma di che parli?
- Il braccialetto! – strillacchia Mario, quasi saltando fino alla scrivania, recuperandolo e infilandolo senza aspettare neanche un secondo, - Era questo quello che avevo perso, Dade! È sempre stato qui.
Davide sorride ancora, divertito.
- Come la tua testa. – risponde, - A proposito, a Barcellona ci andiamo entrambi, vero?
- Uh, sì. – risponde lui, gesticolando disinteressato come se la cosa fosse della minima importanza, - Mourinho me l’ha appena detto.
Davide ridacchia, stringendosi nelle spalle.
- E allora era proprio la testa. – soggiunge a bassa voce, ma Mario non lo sente e lui non ha nessun bisogno di ripeterglielo.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Mario/Davide, cenni minimi di Mario/José onesided.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Lemon.
- "Il loro rapporto è un tacito scambio di concessioni, e può funzionare solo in questo modo."
Note: Storia scritta come immediato seguito di Inter-Fiorentina, valida per l'andata delle semifinali della Coppa Italia 2010. L'idea di dare un seguito alla rabbia di Mario dopo la sostituzione era troppo pressante perché io potessi ignorarla X3 (Precisazione: che il tatuaggio di Mario sull'avambraccio sinistro esista, è quasi certo, ma in cosa consista è un mistero XD Diciamo che ho voluto vederla così sperando di anticipare il canon come a volte succede u.u)
Titolo rubato a Chained To You dei Savage Garden.
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Sudden Sense Of Urgency


L’acqua è talmente gelida che Mario ha come l’impressione di aver perso sensibilità su tutta la superficie della pelle. L’ultima cosa che ha sentito, prima di uscire dal campo, è stata la voce del mister strillare qualcosa di troppo fastidiosamente simile a “fatti una doccia fredda” per poter essere ignorato, ed è stato solo facendo appello a quel po’ di autocontrollo che ancora gli era rimasto in corpo che è riuscito a frenarsi dal girare su se stesso, tornare verso di lui e saltargli addosso per pestarlo a sangue.
Non ha mai capito quale sia il problema fra lui e il mister, sicuramente è qualcosa che ha a che fare con due caratteri incompatibili, forse era vero quel discorso sulla tensione sessuale irrisolta che faceva Zlatan ridendo come un cretino e prendendolo platealmente per il culo prima di allontanarsi troppo per poterselo permettere ancora, comunque non è una cosa che Mario abbia mai voluto comprendere a fondo perché innegabilmente c’è qualcosa che lo blocca, quando si parla di Mourinho. In ogni momento della sua giornata in cui l’allenatore è presente nella sfera di cose che lo circondano, Mario è arrabbiato. Qualcosa nella sua persona lo irrita profondamente, e se già è un sentimento tanto forte quando non ne conosce il motivo, può solo immaginare quanto potrebbe arrivare ad essere devastante se solo arrivasse a spiegarselo anche parzialmente, perciò, per quieto vivere e con buona pace di tutti, ha sempre lasciato perdere.
Negli spogliatoi, da solo, è rimasto a lungo in silenzio, seduto sulla panca davanti alle docce. Lo schermo acceso, nella stanza accanto, ha riempito l’aria della telecronaca di Scarpini, e lui è rimasto ad ascoltare i suoi compagni per niente tranquilli, chiusi in difesa e in qualche modo vincitori nonostante tutto. Guardando il vuoto, s’è ripetuto mentalmente che l’assist per il gol-vittoria l’ha fatto lui. Che dovrebbe andarne orgoglioso, che non dovrebbe comportarsi così – come se tutto fosse sempre una battaglia e perciò fosse suo pieno diritto ringhiare e prendere a unghiate in faccia il mondo – però poi ha pensato che, cazzo, quell’assist sarà stato sufficiente a vincere una partita, ma non ad obbligare Mourinho a concedergli due secondi in più per riprendersi dal dolore della botta prima di ripiegare in difesa. Due secondi, non una vita e mezzo, cazzo. Come fa a non infuriarsi?
Quando ha sentito i suoi compagni entrare nello spogliatoio, stanchi ma soddisfatti, s’è tolto di dosso tutto e s’è infilato in doccia, senza rivolgere una parola a nessuno. È rimasto lì sotto il getto d’acqua ghiacciata, mentre loro sfilavano al suo fianco uno dopo l’altro, lo guardavano con palese preoccupazione e poi s’allontanavano con un sospiro sconfitto. È ancora lì adesso che sente la vocina di Davide farsi strada oltre il ticchettio delle gocce d’acqua sulla ceramica del pavimento e raggiungere le sue orecchie, chiamandolo per nome.
Per un attimo, sorride: la voce di Davide è ancora un po’ infantile, ma più che altro nel modo in cui la utilizza, non certo per il timbro. Per questo, è un po’ ridicolo parlare di vocina, e Mario si scrolla di dosso il pensiero chiudendo l’acqua e scuotendo il capo, consapevole di stare bagnando anche lui.
Davide non si lamenta. Si piazza nella doccia al suo fianco, getta indietro l’asciugamano ed armeggia con le manopole per ottenere l’acqua all’esatta temperatura che desidera, restando un po’ sotto il getto prima di decidersi a parlare.
- Ho chiesto al mister se potevo aspettarti. – dice, - Mi ha quasi mandato a quel paese. È molto arrabbiato.
- Lo sono anch’io. – fa presente Mario, ed ora che la tensione è scivolata via dai suoi muscoli, ed ora che l’acqua non picchia più e resta cristallizzata in goccioline finissime sulla sua pelle, comincia a sentire freddo.
- Sì, ma tu non hai ragione di esserlo. – risponde tranquillamente Davide, insaponandosi diligentemente ovunque e tornando a lasciarsi investire in pieno dal getto d’acqua poco dopo. – Per cos’è che sei sclerato in quel modo?
- Ma cazzo, Dade, - comincia lui, gesticolando come fa sempre quando cerca di spiegare al mondo i mille e più motivi per cui è evidente che lo odia, - hai visto come mi hanno pestato per tutta la partita? Guarda qua, cazzo! – dice, indicando la crosticina sulla fronte, - Tutti i figli di puttana che giocano nelle altre squadre di questo campionato di merda saranno contenti solo quando riusciranno a spaccarmi la testa in due e camminare coi tacchetti sul mio cervello, cazzo.
- Ci sono andati giù pesante, è vero. – minimizza Davide, - Ma non è per quello che ti sei arrabbiato.
- Infatti, mi sono arrabbiato perché niente di quello che faccio è mai abbastanza, Dà. Stavo giocando bene!
- Ah. – lo interrompe Davide, sciacquando via il sapone e spremendo un po’ di shampoo sul palmo della mano, - Quindi ti sei arrabbiato per la sostituzione. Volevi continuare a fare la primadonna in campo e t’ha dato fastidio che il mister non te l’abbia permesso. È questo il punto.
- Per come la metti tu, - ringhia Mario, stringendo i pugni lungo le cosce, - sembro una testa di cazzo.
- Forse perché lo sei? – chiede Davide, inarcando un sopracciglio e voltandosi a guardarlo con aria scettica.
La reazione di Mario è istantanea: stende le braccia, lo afferra per le spalle e lo schianta di schiena contro la parete bagnata della doccia, sostituendosi al suo corpo sotto il getto d’acqua tiepida e poi avvicinandosi a lui abbastanza da poterlo guardare dritto negli occhi, ed abbastanza da non capire se è l’acqua o la sua vicinanza a restituire al suo corpo il calore perduto.
- Vaffanculo. – gli soffia sulle labbra, e poi lo bacia con la solita irruenza di quando non ci vede più dalla rabbia, stringendolo forte, mordendolo e lasciando ovunque segni evidenti del proprio passaggio – quelli che, più del freddo di Milano, lo obbligano ad andare in giro con la maglia dolcevita sotto tutto il resto anche quando esce con gli amici.
Il fatto è, e Davide lo sa, che Mario è uno che accumula, accumula, accumula, e poi sente il bisogno fisico di esplodere e scaricare. E non è importante che si lasci gravare sulle spalle anche cose che non avrebbe nessun motivo di considerare come offese o richieste personali: Mario è convinto che il mondo lo odi – anche perché il mondo non gli ha ancora dato prova del contrario – e, dato che è così, ogni cosa che succede è un problema di primaria importanza. Fra lui e il mister, fra lui e la squadra, fra lui e l’Italia, fra lui e l’universo.
Davide schiude le labbra e anche le cosce per evitare di farsi troppo male, ha accettato molto tempo fa questo ruolo all’interno della vita di Mario, e non è un ruolo che gli sta stretto, così come non è un ruolo che lo infastidisce, perché è l’unico essere in tutto l’intero mondo da cui Mario non si senta attaccato. Non sa bene come sia potuta succedere una cosa simile, quale fosse la congiunzione astrale che vegliava sulle loro teste la prima volta che i loro occhi si sono incrociati, quale dio fosse lì a propiziare la loro unione ed altre cazzate simili, sa solo che a livello chimico qualcosa fra i loro corpi è scattato, e adesso vivono in simbiosi.
Non è ancora chiaro cosa Mario faccia per Davide, per ricambiare tutto ciò che Davide fa per lui, ma Davide, di questo, non s’è mai lamentato. Si fa prestare una giacca di tanto in tanto, ha preteso di conoscere tutti i suoi amici e di farsi tagliare i capelli da Teo, poi un giorno l’ha guardato ed ha preteso di fargli tatuare il suo nome addosso. “Adesso?”, ha chiesto Mario. “Adesso”, ha risposto lui, ed ora c’è il suo nome sul suo avambraccio sinistro, nero su nero, quasi invisibile, ma persistente.
A Mario, le sue, non sono mai sembrate richieste esagerate. Forse cambierà idea se mai un giorno Davide dovesse sorridergli e proporgli di andare a vivere insieme ed adottare un trilione di bambini ghanesi, ma anche in quel caso non è poi tanto sicuro che riuscirebbe a guardarlo con indifferenza e rispondergli “ma sei fuori”. Il loro rapporto è un tacito scambio di concessioni, e può funzionare solo in questo modo.
Davide si lascia sollevare in alto, la sua schiena striscia contro la parete senza attrito, aiutata dall’acqua che ancora piove su entrambi. Mario lo guarda dritto negli occhi, lo bacia e poi si ritrae, e continua a guardarlo fisso, quasi volesse sfidarlo, quando se lo tira contro ed entra dentro di lui, reggendolo saldamente per i fianchi mentre Davide incrocia le gambe dietro la sua schiena e poggia le mani sulle sue spalle, affondando le unghie nella sua pelle. Mario grugnisce di qualcosa di troppo spaventosamente confuso fra dolore e piacere per poterlo davvero identificare, e continua a guardarlo negli occhi seguendo il movimento lento e un po’ dondolante dei propri affondi dentro il suo corpo. Le labbra di Davide sono dischiuse, si lasciano sfuggire gemiti osceni e invitanti, Mario lo bacia solleticando la sua lingua con la propria perché non riesce a farne a meno, e quando stringe il pugno attorno alla sua erezione e comincia a masturbarlo lo fa solo perché la voce di Davide che sale di tono ed anche di volume implorandolo di andare avanti è la soddisfazione più enorme che s’è preso questa serata, più dell’assist, più di tutto.
Viene dentro di lui con un ringhio di gola, e schiaccia Davide fra se stesso e il muro perché non vuole lasciarlo andare, non vuole neanche permettergli di poggiare di nuovo i piedi a terra. Nasconde il viso nell’incavo del suo collo e respira forte, cercando di domare il proprio cuore. Davide gli accarezza la nuca con la punta delle dita, stringendolo come volesse proteggerlo da tutti i mali del mondo.
È un momento che dura pochissimo: quando entrambi riescono a tornare abbastanza lucidi da rendersi conto di dove sono, Mario lascia andare Davide e Davide smette di stringerlo come fosse il suo unico scudo in mezzo a una battaglia campale. Non si guardano nemmeno, Mario passa a Davide il suo asciugamano e ne cerca uno per sé. Si rivestono in silenzio, ma uscendo dallo spogliatoio Mario sorride, e Davide è un po’ più felice – la loro partita, comunque, l’hanno vinta entrambi.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Davide/Mario.
Rating: PG13
AVVERTIMENTI: Angst, Fluff, Slash.
- Davide ha un problema. Solo che non è quello che tutti credono.
Note: Scritta per una concomitanza di fattori vari ed eventuali XD In realtà accarezzavo l’idea da tempo – più o meno da quando José ha ritenuto opportuno farci sapere che lui e Davide avevano “parlato di qualcosa” e che Davide era stato “molto sincero con lui” e robaccia varia – ma non avevo ancora trovato modo di buttarla giù come volevo XD Alla fine, mi ha aiutata la mancata convocazione di Davide per Livorno-Inter, e ovviamente la spinta insostituibile dell’iniziativa estemporanea di Criticoni dedicata alle sbornie.
Ps: Il titolo viene dall’omonima canzone dei Mumford & Sons.
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Little Lion Man
31. Slash/Yaoi


José si sporge ad annusarlo come fosse un cane antidroga o qualcosa di ancora più spaventoso, e Davide – perché si sente in colpa, perché sa di essere nel torto, perché ha paura di ciò che avverrà nei prossimi minuti – si fa minuscolo sulla seggiolina nell’ufficio del mister, stringendosi nelle spalle e cercando di trattenere il respiro quanto più possibile, di modo che lui non possa sentire l’odore del suo fiato.
- Hai bevuto. – sentenzia José, guardandolo inespressivo, - E credo che tu non abbia nemmeno dormito. Sei ancora sbronzo?
- No… - scuote il capo Davide, dapprima energicamente, poi sempre più debolmente, man mano che va rendendosi conto di quanto la testa faccia male ad ogni minimo movimento, - Ieri c’era il compleanno di mio zio, a casa, ho solo bevuto un po’ di vino… - biascica, recitando la bugia che ha preparato nelle ultime tre ore cercando di non mostrare alcuna incertezza.
José si allontana da lui senza guardarlo, e si appoggia alla propria scrivania, incrociando le braccia sul petto. Solo allora gli solleva gli occhi addosso, scrutandolo con un misto di severità ed apprensione.
- Quando sei arrivato tardi in allenamento e hai cercato di darmi a bere che fosse perché tuo nonno si era sentito male, - chiede pacato, - quanto ci ho messo a capire che mentivi?
Davide abbassa lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore e scacciando con quel dolore quello meno forte ma più persistente che gli pulsa nelle tempie.
- Non ho nemmeno avuto tempo di finire la frase. – ricorda mestamente, torcendosi le mani in grembo.
- E quando mi hai detto che non ti sentivi bene in squadra perché non ti facevo giocare, quanto ci ho messo a capire che era ben altro ciò che mi stavi nascondendo? – chiede ancora, il tono più mite e dolce di quanto non fosse prima.
- …le è bastato guardarmi negli occhi, mister. – deglutisce Davide, cercando di sopprimere il mezzo singhiozzo che, premendo con forza dal petto verso l’alto, minaccia di esplodergli in gola. – Mister, io-
- La verità, bambino. – si raccomanda José, chinandosi fino a guardarlo dritto negli occhi, - Non voglio sentire altro.
Davide socchiude gli occhi e poi torna a sollevare lo sguardo in quello di José, reggendolo solo con difficoltà.
- Non gli ho ancora detto niente. – confessa in un sussurro spezzato, gli occhi lucidi e arrossati, - Non ho il coraggio di dirgli niente e non voglio nemmeno dirgli niente. E io così non ci so più stare. Non… - tentenna, passandosi una mano sulla fronte e fra i capelli in disordine, - Non funziono più! Il mio corpo non reagisce più come dovrebbe e la mia mente non è salda. Sto facendo un casino dietro l’altro, non sto bene e non voglio risolvere la situazione perché non trovo il coraggio per farlo.
- E quindi vorresti cosa, esattamente? – indaga José, inarcando un sopracciglio, - Che ti rispedissi in Primavera con la scusa del tuo rendimento recente?
- Non servirebbe. – scuote il capo Davide, tornando ad abbassare lo sguardo sulle proprie mani, ora inerti e intrecciate sul suo grembo, - Non ci impedirebbe di vederci, di parlare, e soprattutto non mi impedirebbe di vivere con lui.
José si lascia andare ad una mezza risata, annuendo.
- E quindi? – chiede, quasi sfidandolo, - Vuoi qualcosa di più netto? Qualcosa di definitivo, magari? Un prestito a qualche squadretta in qualche angolo d’Italia, o preferisci espatriare? – scuote il capo, tornando a ridere, stavolta più sarcastico che divertito, - Davide, questa squadra si è liberata di una primadonna perché cominciava a non poterne più dei capricci. Vuoi sostituire Zlatan? Non ne hai le capacità, lasciatelo dire.
Davide si copre il viso con entrambe le mani, massaggiando con forza guance e tempie nel tentativo di scacciare almeno un po’ quello strano torpore che sta cominciando a invadergli la testa.
- Io non lo so. – ammette quindi, sospirando così profondamente da dare a José l’impressione di stare per sgonfiarsi del tutto, - Non ne ho idea. Non chiedo niente perché non so cosa chiedere.
José sorride, condiscendente, e si china su di lui, costringendolo a sollevare il capo con un buffetto sotto al mento.
- Te lo dico io che cosa facciamo adesso. – propone incoraggiante, - Mario ha la febbre, ma sta meglio di ieri, per cui è tornato a casa. E visto che anche tu non è che sia proprio così esageratamente in forma, non posso certo portarti con me a Livorno. – scuote il capo, come a dare maggior forza alla propria idea. – Sarai sicuramente molto più utile qui. Peraltro… - riflette poi, - ho saputo che Mario e l’austriaco vanno in giro insieme spesso, ultimamente. È vero? – chiede con aria curiosa ma apparentemente innocente. Davide annuisce, senza capire dove stia andando a parare il discorso. – Perfetto. – annuisce a propria volta José, compiaciuto, - Avrò bisogno di rinforzi in attacco. Marko sarà felice della convocazione!
Davide lo fissa con aria incerta per molti secondi – l’alcool che ancora gli confonde i pensieri gli impedisce di comprendere appieno ciò che il mister sta suggerendogli – e José aspetta solo fino a quando non lo vede piegare il capo come un cagnolino curioso, prima di specificare meglio cosa intenda.
- Bambino… - sospira, passandosi una mano fra i capelli in un gesto perfettamente fluido e naturale, - Ci sono cose che io posso risolvere. – annuisce, - Ci sono molte cose che io posso risolvere. A conti fatti, sono praticamente onnipotente, ma ci sono ancora delle cose molto piccole e molto molto importanti con le quali non posso interferire se non indirettamente. Ora… - e sospira ancora, per nulla rassicurato dal suo sguardo ancora vacuo, - …se io ti metto nelle condizioni giuste, tu la risolvi questa situazione? Perché è una cosa che puoi fare solo tu, sai? Nessun altro.
Davide tira su col naso, incerto, stringendosi nelle spalle.
- Non lo so, mister. – ammette, non senza vergogna, - Io ci ho provato, davvero. Giuro che ci ho provato, ma ogni volta, quando me lo sono ritrovato di fronte… - si lascia sfuggire un mugolio sofferente, la testa che riprende a pulsare come stesse lì lì per esplodere, - Non ho speranze, capisce cosa intendo? E forse sentirmi dire no sarebbe ancora peggio che restare nell’incertezza, per cui-
- Parti dal presupposto sbagliato. – gli fa notare José, aiutandolo a tirarsi in piedi con risolutezza, - Tu credi di doverlo fare per Mario. Per ottenere qualcosa, per ottenere lui, forse. Non è così. Devi farlo per te stesso, sei tu che devi uscirne. A Mario non interessa adesso, e se non deve interessargli non gli interesserà neanche in futuro. Ma tu… - sorride ancora, risistemandogli la frangetta sulla fronte, - sei tu che devi trovare il coraggio di guardarti allo specchio e stare bene con te stesso. E questo non dipende dalla risposta di Mario, ma solo dalla forza che troverai per porre la domanda.
Davide cerca di tirare fuori un sorriso raccattato alla meno peggio dalle profondità della sua insicurezza, e José subito lo sprona a fare di meglio sorridendo più apertamente – un’espressione perfino stupida, ma così divertente che Davide non può fare a meno di imitarla, lasciandosi andare ad una risatina sollevata mentre José lo omaggia di qualche pacca d’incoraggiamento sulle spalle.
- Prima però, - consiglia saggiamente, - sarà meglio che tu ti faccia una doccia, ragazzo mio. O se Mario non è ancora stato sterminato dall’influenza, lo sterminerai tu appena farai tanto di provare a baciarlo.

*

Il mal di testa è tornato a farsi sentire