Genere: Introspettivo, Triste, Romantico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: R/NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Lime.
- Alcuni si sentono più sereni nell'ascoltare musica ad occhi chiusi. Altri preferiscono passeggiare per strada. O leggere un libro. A José piace andare a dormire con Zlatan che gli accarezza i capelli. E cos'è che rende sereni voi?
Note: La fiamma è accesa, omg \o/ Non ricordo più nemmeno da quanto non scrivevo una Jobra come si deve. *piange sangue* Stupidi pairing estemporanei che mi distraggono dall'Unico Vero Dio. *si vota al Jobra promettendo di chiamare tutti i suoi figli maschi José e Zlatan con numeri romani in coda al nome per distinguerli gli uni dagli altri* Ehm.
Dunque, blasfemie randomiche a parte, in realtà questa non è una fic ma un concentrato di vari flash Jobra che mi hanno attraversato la mente nelle ultime settimane grazie ad un po' di gente con cui ho parlato (credit: Martha, Def ed Any). Dal momento che scrivere tutte fic differenti avrebbe portato ad un milione di inutili e inconsistenti doppi drabble, ho preferito dare al tutto una parvenza di coerenza con la realtà e scrivere una fic unitaria XD Che poi comunque è molto spezzettata lo stesso. Però ho passato delle ore fra Inter.it, Fcinternews.it e Fcbarcelona.cat per andare recuperando tutte le informazioni che mi servivano XD E ciò mi ha portato ad odiare il mondo - le RPF sono le fic più stressanti dell'universo, ma è anche per questo che ci piacciono.
Titolo rubato a un verso di Home dei Simply Red.
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Quando, la notte a cavallo fra il diciannove e il venti febbraio, José sentì qualcuno battere una serie di colpi potenti e decisi contro la porta della sua camera ad Appiano, per un secondo i polmoni gli saltarono in gola, e lì rimasero, quasi soffocandolo, mentre il suo cuore ricollegava automaticamente quel modo di bussare a Zlatan e il suo cervello cercava inutilmente di ricordargli che aspettarsi una sua visita lì in ritiro a quell’ora di notte era quantomeno ridicolo.
Si mise in piedi quasi con circospezione, avvolgendosi nella propria vestaglia e cercando invano di combattere il freddo notturno che entrava nonostante le finestre sbarrate, strofinando le mani l’una contro l’altra e poi lungo le braccia, nude come il petto al di sotto del tessuto in lana leggera.
- Chi è? – chiese a bassa voce, accostando l’orecchio alla porta in attesa di una risposta che giunse pochi secondi dopo, forte e chiara, del tutto dimentica del bisogno di fare silenzio, a quell’ora e in quel posto, per non svegliare nessuno.
- Il postino. Ma non intendo suonare un’altra volta, quindi se non apri prendo e me ne torno a Barcellona col primo aereo di domani.
Era Zlatan.

*

Seduto sul letto, Zlatan rimirava una fotografia plastificata che aveva trovato proprio lì sul suo comodino, qualche secondo prima, dopo aver gettato il borsone accanto alla porta e il giubbotto su una poltrona non tanto distante.
- Ce ne hai messo di tempo, per venire ad aprire. – gli fece notare, senza staccare gli occhi dalle numerose croci che coprivano i visi dei giocatori e dei membri dello staff che non facevano più parte della squadra per la nuova stagione, - E, Dio mio, Zay, che cosa macabra. Ma come ti è saltato in mente? Sembra una qualche stronzata voodoo.
- Non lo è. – borbottò José, avvicinandoglisi e strappandogli la foto dalle mani, - Ma che ci fai qui, Zlatan?
Lo svedese gli sollevò gli occhi addosso per la prima volta da quando era arrivato, e lo studiò attentamente per qualche secondo, prima di sospirare profondamente.
- Il Mister non mi ha convocato per la partita contro il Racing. – confessò, tornando ad abbassare lo sguardo, la voce ancora ferma e serena come stesse parlando della lista della spesa piuttosto che di un palese fallimento professionale, - Quando sono uscito dalla Masia, mi sono guardato intorno ed ho odiato Barcellona così tanto che ho temuto di poter arrivare a fare una pazzia. Perciò ho chiamato Helena, le ho detto di non aspettarmi per un paio di giorni e mi sono fiondato in aeroporto.
José sospirò a propria volta, sedendosi accanto a lui, la fotografia ancora trattenuta mollemente fra le dita.
- Non dovresti essere qui. – lo rimproverò a bassa voce, - Fra tre giorni avete una partita di Champions League. Se anche non giocherai domani contro il Racing, non puoi permetterti di perdere giorni di preparazione per-
- Sono in dubbio anche contro lo Stoccarda. – concluse Zlatan, lapidario, - E se avessi ammazzato Guardiola a mani nude come volevo fare quando ha annunciato le convocazioni, sarei stato in dubbio ancora per un lungo periodo di tempo. – sorrise debolmente, lanciandogli un’occhiata un po’ incerta, - Ho preferito evitare.
José si allungò a posare la foto sul comodino, dove era rimasta fino a prima dell’arrivo di Zlatan, e poi gli accarezzò lentamente una guancia, guardandolo con attenzione.
- Sei capitato in un brutto momento. – disse, quasi giustificandosi, - Non stiamo andando bene come dovremmo.
Zlatan sorrise, un po’ tristemente, seguendo il movimento delle sue dita contro la sua guancia e il suo zigomo.
- L’Inter non lo fa mai. – commentò, - Per i giornalisti, c’è sempre qualcosa in più che poteva essere fatto e invece non è stato fatto.
- No. – scosse il capo José, aggrottando le sopracciglia, - No, non stiamo andando bene come io vorrei. – precisò, mentre lo sguardo di Zlatan si faceva più serio, e perfino vagamente più preoccupato. – Non so quanto intendi rimanere, e non so cosa sei venuto a cercare, ma non è detto che possa dartelo. Ho i nervi a fior di pelle, e-
- Così mi offendi. – lo prese in giro Zlatan, tirandogli una mezza spallata giocosa, - Non mi sono mica fatto mille chilometri solo per venire a scopare con te, special one. Sei speciale, ma non ce l’hai d’oro.
José rise, ricambiando la spinta e poi restandogli vicino, in modo da continuare a sfiorarlo e sentire il tepore della sua pelle nonostante i vestiti.
- Non riesco ad immaginare altre utilità per la mia persona, in questo momento. – si schernì con un sorriso amaro.
- Cristo, siamo già all’autofustigazione. – roteò gli occhi Zlatan, sfilandosi velocemente di dosso maglia e pantaloni ed infilandosi sotto le lenzuola ancora calde del corpo di José, prima di allungarsi ad afferrarlo per le spalle, strattonargli via la vestaglia e trarlo a sé fra le coperte, costringendolo a stendersi al suo fianco, - Meno male che io riesco ad immaginare un’utilità per la mia, di persona, adesso.
José si sistemò accanto a lui, poggiando il capo nell’incavo della sua spalla e chiudendo serenamente gli occhi nel momento in cui Zlatan cominciò a far passare le dita fra i capelli sulla sua fronte e sulle sue tempie.
- Questo mi manca. – sussurrò in un raro accesso di sincerità, - Non hai idea di quanta serenità era in grado di darmi prima delle partite difficili.
Zlatan si morse un labbro, restando in silenzio per molti secondi, prima di chinarsi sulla sua fronte per poggiare un bacio lieve e un po’ umido sulla sua pelle accaldata e corrucciata dalla preoccupazione.
- Dormi. – disse con un sorriso, ascoltandolo respirare più tranquillamente, - Andrà tutto bene.

*

L’indomani mattina, José si svegliò col brusio della televisione in sottofondo. Aprì gli occhi e vide Zlatan  sdraiato al suo fianco, appoggiato sui gomiti, il telecomando in una mano e lo sguardo ancora un po’ imbrattato di sonno fisso sullo schermo. Era vestito.
- Hai già visto i ragazzi? – gli chiese, rigirandosi sul materasso. Zlatan si riscosse dal semi-torpore in cui sembrava essere caduto, e si voltò a guardarlo con un sorriso a increspare le labbra.
- No, non ancora. Stavo per uscire. – rispose, e poi si prese una pausa, mordicchiandosi nervosamente un labbro. – Ho visto te, però. – riprese incerto, - La conferenza stampa. – sospirò e si voltò verso di lui, abbassandosi anche un po’, in modo da poterlo guardare senza dover girare il capo. – Zay, - lo chiamò piano, la voce venata di preoccupazione, - te lo chiederò solo una volta, perciò cerca di essere sincero. Sforzati. – inspirò ed espirò profondamente, prima di chiederglielo. – Stai bene?
- Sì. – rispose immediatamente José, senza neanche darsi la pena di restare a pensarci qualche secondo.
Stava mentendo. Zlatan se ne accorse.

*

- Hai le spalle forti, - gli disse, prima di lasciarlo andare in panchina e rintanarsi in qualche Sky Box dove nessuno avrebbe potuto vederlo, e chi l’avesse visto sarebbe stato adeguatamente pagato per tacere, - ma non sei indistruttibile. Quindi cerca di stare attento.
José distolse lo sguardo e la prima cosa che fece quando si sedette in panchina fu spegnere il cervello.

*

Ore dopo, si sarebbe rivisto incrociare i polsi di fronte al mondo, con lo sguardo fisso nel vuoto, e non si sarebbe riconosciuto.

*

- Dimmi che resterai. – gli sussurrò sul collo, facendosi spazio fra le sue cosce mentre Zlatan lo accoglieva dentro di sé e fra le sue braccia con un gemito di gola, - Ho bisogno di te, contro il Chelsea.
- Io non gioco più per questa squadra, Zay. – gli rispose dolcemente lui, baciandolo lungo il collo, - Non chiedermi di giocare ancora per te.
- Ti sto chiedendo di restare. – insistette José, spingendosi con forza dentro di lui e strappandogli ogni ansito di piacere dalle labbra, un bacio dopo l’altro, - Per me.
Zlatan dischiuse gli occhi, cercando i suoi e sollevando una mano per accarezzargli il viso. Era una sensazione incredibile, si disse José, abbassandosi a baciarlo ancora, la consapevolezza di potergli fare tanto male e tanto bene nello stesso momento.
- Dimmi che resterai. – ripeté stringendo la sua erezione fra le dita ed accarezzandolo al ritmo delle proprie spinte, - Resterai?
Zlatan venne chiudendo gli occhi con tanta forza da lasciarsi sfuggire una lacrima. Minuscola, trasparente, quasi inconsistente.
- Sì. – rispose alla fine, tornando a respirare mentre José veniva dentro di lui, - Sì, resterò.

*

- Avevi detto che saresti rimasto.
Zlatan non riuscì neanche a sollevare il viso per guardarlo.
- Il mister mi ha convocato, Zay. – cercò di giustificarsi, - Non posso e non voglio dire di no. Non fare scenate.
- No. – quasi ringhiò lui, stringendo i pugni lungo i fianchi, - No, io non devo mai fare scenate. Tu puoi promettere al mondo i mari, i monti e la luna, ed il mondo non ha nessun diritto di lamentarsi se poi tu non sei in grado di regalargli neanche un granello di sabbia. Naturalmente.
- Sono rimasto finché ho potuto. – si difese Zlatan, tornando a cercare i suoi occhi. José non glieli aveva mai negati, ma per la prima volta, solo per un secondo, nell’osservare quanta delusione ci fosse, mischiata alla rabbia e ad un’irrazionale paura che Zlatan, a mesi di distanza, non riusciva ancora a spiegarsi, nonostante tutte le rassicurazioni che gli aveva fornito, desiderò ardentemente che invece l’avesse fatto. Solo per quella volta, solo per un secondo.
- Ti avevo chiesto di restare. Avevi detto di sì.
- Sì, be’, - borbottò lui, passandosi una mano fra i capelli e distogliendo lo sguardo per primo, - non ho mai detto che sarebbe stato per sempre.
José rimase in silenzio, le labbra dischiuse, le mani tremanti. Zlatan poteva sentire la sua rabbia crescere esponenzialmente, gonfiarsi come un pallone aerostatico, alimentata da un fuoco perfino più caldo.
- Già. – disse, chinandosi a recuperare il suo borsone ed avvicinandosi per schiacciarglielo contro il petto, - Già, non l’hai mai fatto, d’altronde. E ora vai pure da Guardiola, ammesso che tu sia mai davvero arrivato qui, in primo luogo. – Zlatan fece per ribattere, ma José lo spinse lontano da sé con tutto il borsone, guardandolo con astio. – Te ne sei almeno accorto? Che c’ero io, in quel letto, e non Guardiola? Riusciresti a riconoscere la differenza?
- Questo – boccheggiò Zlatan, stringendo al petto la borsa come uno scudo, - Questo è scorretto, José.
- Scorretto. – sorrise amaramente José, uscendo dalla stanza senza guardarlo ancora, - No, questo è vero. Rivedi il tuo italiano, Zingaro. Troppo spagnolo te l’ha fatto dimenticare.

*

Guardare gli highlight e rendersi effettivamente conto del fatto che Guardiola ci aveva visto giusto, a richiamarlo a casa, visto che era stato solo grazie al gol di Zlatan che il Barça era riuscito a lasciare Stoccarda senza perdere, non lo consolò.

*

- Non ho tempo per te, adesso. – disse gelida la voce di Zlatan, rispondendo alla chiamata al secondo squillo, - Sono in un posto che amo, sono nella squadra in cui voglio giocare. José, finché non capirai questo, fra noi due ci sarà per sempre qualcosa fuori posto.
Tu sei fuori posto, zingaro. – rispose José. Avrebbe voluto poter continuare ad essere arrabbiato. – Non è lì che dovresti stare.
- Ma è qui che voglio stare. – insistette Zlatan, concitato, - Rispettalo, José. Rispettami.

*

- So che sei lì. – disse Zlatan, parlando alla segreteria telefonica, - So che sei lì e so che vorresti rispondere, ora che sai che sono io. Non farlo. Non è possibile parlare con te, perciò ascoltami e basta. Non avrei mai voluto che questa cosa ti piombasse fra capo e collo alla vigilia della fottuta partita col Chelsea, ma Cristo, Zay, prima o poi doveva venire fuori per forza. Era inevitabile, Zay, il modo in cui andava avanti non era giusto per nessuno di noi due. Le croci sulle facce, e le recriminazioni, e le accuse, e le litigate… - José lo sentì sospirare, ma rimase seduto in poltrona, le mani congiunte ai lati del naso, lo sguardo fisso sulla parete di fronte. – Devi venirne fuori, Zay. E quando ne sarai fuori, io sarò lì.

*

Non gli era mai capitato di essere così nervoso per una partita che stava vincendo.
Scese negli spogliatoi dieci minuti prima della fine del primo tempo, e lì rimase a camminare avanti e indietro all’interno della sala ovale chiedendosi cosa dire. Qualcosa avrebbe dovuto dire comunque, in ogni caso, ma per la prima volta nella sua vita non aveva idea di cosa. Caricare la squadra era sempre stato facile, in passato. Quando si era sotto, la partita doveva essere una guerra di conquista. Quando si era in vantaggio, invece, doveva essere come presidiare un forte, ma senza attendere i nemici al varco, piuttosto cercandoli ovunque, per costringerli a venire fuori.
In quel preciso istante, invece, avrebbe voluto avere solo le parole giuste per calmarli tutti. Per dire loro “lo so che in Campionato è dura, che siamo tutti nervosi, che io da solo lo sono anche più di voialtri messi assieme, ma questa è un’altra cosa. Questa è l’Europa, e bisogna portare il risultato a casa così che tutti vedano cos’è l’Inter. Bisogna andare avanti per ascoltarli tutti sciogliersi in elogi sperticati e gratitudini sconfinate – e poi ridere di loro”.
Ripeté quello stesso discorso a se stesso un paio di volte, guardandosi fisso nello specchio, e non suonò bene come avrebbe voluto. Al terzo tentativo, desiderò prendersi a schiaffi – e invece infilò una mano nella tasca del cappotto, e ne tirò fuori il cellulare. Lo schermo spento e lucido gli rimandò indietro il viso di un uomo stanco e solo. Uccise il riflesso nell’unico modo che gli venne in mente.
- Sei nervoso? – chiese Zlatan senza neanche dire “pronto”, accettando la chiamata forse anche prima che il suo cellulare si mettesse a squillare, - Non esserlo. Vi sto guardando, andrà tutto bene.
José sospirò, abbandonandosi su un seggiolino a caso e massaggiandosi stancamente la radice del naso.
- Non mi hai mai detto… - cominciò incerto, - Non mi hai mai detto se c’era qualcosa di me che riusciva a renderti sereno.
Zlatan ridacchiò piano, dall’altro lato della cornetta ed anche dell’Europa.
- Sì. – rispose, la voce dolcissima come José non ricordava più di averla mai sentita, - Quando mi svegliavo, la mattina di una partita, in ritiro, e sentivo l’acqua scorrere in bagno, mi alzavo, ti raggiungevo e vedevo che ti stavi facendo la barba. Mi… - rise ancora, un po’ in imbarazzo, - mi sedevo sullo sgabellino, quello fra il lavandino e la doccia, e tu, senza nemmeno guardarmi, cominciavi il riepilogo tattico della partita. – José rise a propria volta, assieme a lui. La sua risata risuonò per tutto lo spogliatoio vuoto, ma era allegra. – Quello mi rasserenava. Sembravi sempre così tranquillo. Come facevo ad avere paura?
Avrebbe voluto averlo vicino, in quel momento. Poter allungare un braccio e sentire sulle dita il calore della sua pelle. Anche solo per un attimo. Lui, che aveva sempre creduto nei miracoli solo quando meritati, per un secondo si ritrovò a pregare per un miracolo che non aveva fatto niente per guadagnarsi. Ridammelo. Solo per un secondo.
- Grazie. – disse. Zlatan non sarebbe apparso comunque.
- Non c’è di che. – rispose lui. – Zay… - sussurrò, prima che riuscisse a interrompere la chiamata, - Io non ho dimenticato niente. E non ti confondo con nessun altro.
José annuì, accarezzando il cellulare con il pollice, come fosse il suo viso.
- Lo so.

*

Scendendo negli spogliatoi per l’intervallo fra il primo e il secondo tempo, la squadra lo trovò davanti allo specchio, insaponato e con un rasoio in mano, intento a farsi la barba. Stupiti dalla stranezza, i ragazzi, incerti sul da farsi, presero posto sulla lunga panchina davanti alla fila di lavandini ed osservarono le sue mani muoversi attentamente, con estrema calma, come fosse solo nel bagno di casa sua.
- Mister…? – accennò Javier, dopo qualche secondo di imbarazzato silenzio, - È… è tutto a posto?
José sorrise a se stesso ed ai suoi giocatori, attraverso il riflesso dello specchio.
Poi, senza nemmeno guardarli, cominciò il riepilogo tattico.

*

- Non ricordo di aver mai visto una nevicata simile a Barcellona. – rise José, il naso schiacciato contro la finestra e gli occhi fissi sul mare, - A così pochi giorni dalla primavera, poi!
Zlatan ridacchiò ironico, rigirandosi fra le lenzuola.
- Potresti smetterla di essere entusiasta come un ragazzino? – lo prese in giro, - È molto meno bella quando ti devi allenare nella tormenta.
- Be’, adesso non ti stai allenando. – gli fece notare José, - Potresti anche alzare il culo e venire a goderti lo spettacolo.
- Oppure, - propose lui, stendendosi supino e stiracchiandosi per tutta la propria lunghezza, certo che José avrebbe guardato il suo riflesso sul vetro, - potresti tornare a letto.
José si voltò a guardarlo, sorridendo ed inarcando le sopracciglia.
- È un invito? O un ordine? – chiese malizioso, e Zlatan si morse il labbro inferiore.
- Dipende da che gioco vuoi giocare. – rispose ricambiandogli l’occhiata.
José tornò verso il letto, sedendosi sulla sponda ed osservandolo dall’alto, quasi senza osare toccarlo.
- Eccoti. – lo salutò, sorridendo più sincero.
- Bentornato anche a te. – rise Zlatan, prima di sollevarsi a baciarlo.
Fuori dall’albergo, su tutta Barcellona, continuò a nevicare per ore. José avrebbe voluto il tempo per contare i fiocchi, e le ore, e i minuti, e ricordare tutto una volta tornato a Milano, ma si limitò a contare i gemiti di Zlatan, e le volte in cui lo chiamò per nome, dimentico di tutto il resto, finalmente a casa, nell’unico posto possibile – un luogo senza coordinate perso fra le sue spalle, i suoi capelli, i suoi fianchi e le sue mani. L’unico solo per loro.
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