rp: bushido

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Fler/Bill (accennato), Fler/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, fandom!AU (Doctor Who), Underage.
- Fler ha sette anni quando un uomo misterioso atterra nel cortile sul retro di casa sua con una cabina telefonica blu tutta rotta che ripara con del nastro biadesivo ed un po' di colla.
Ne ha trentuno quando l'uomo, del tutto all'improvviso, si rifà vivo.
Note: Yeee *O*/ Evviva il COW-T perché mi permette di rimettere mano a robe cominciate millenni fa e dimenticate sotto le sabbie del tempo XD Per la precisione, l'idea di questo rip-off è nata mentre recuperavo il Doctor Who. Perdutamente innamorata della dinamica Dottore/Companion, ho deciso di scrivere un DW!rip-off per ogni singola OTP della mia vita, il Mollamy, il Jobra, il Dersecest, il Bleo, e poi volevo scrivere qualcosa anche in ambito german rap/TH, e questo è, sostanzialmente, quello che ne è venuto fuori. Yay? XD
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THE BOY WHO WAITED
PART ONE

Non aveva mai creduto che si fosse trattato di un sogno. Era un bambino incasinato, lo era sempre stato, non riusciva a ricordare un momento della propria infanzia in cui per un motivo o per l’altro non si fosse ritrovato immerso in problemi e guai di ogni tipo, ma era assolutamente certo di non essere mai stato fuori di sé abbastanza da perdere la cognizione di cosa fosse reale e cosa invece non lo fosse.
Nonostante la realtà alla quale era abituato non fosse in alcun modo piacevole – suo padre non c’era praticamente mai stato (di lui conservava il ricordo di un’ombra, di una voce sommessa e stanca, di una mano grande e callosa e di una ruga orizzontale proprio in mezzo alla fronte, immagini sbiadite che assumevano una consistenza vaga solo quando chiudeva gli occhi prima di addormentarsi, e che invariabilmente erano già sparite quando li riapriva il mattino dopo), sua madre lavorava tutto il giorno per cercare di tirare avanti come meglio poteva, il quartiere, be’, era Tempelhof, nascendoci dentro imparavi a conoscerlo per la giungla che era senza aspettarti niente di diverso dal fatto che mostrasse artigli e zanne ogni volta che provavi a fingere di poterti dimenticare di lei – si era sempre rifiutato, fin da piccolo, di vivere in un mondo di fantasia. La fantasia era un privilegio dei bambini con due genitori (due posti di lavoro, due stipendi). Era un privilegio di chi non doveva svegliarsi all’alba per andare a scuola a piedi. Un privilegio di chi poteva permettersi di tornare a casa ed accendere la televisione e passare le successive sei ore a stordirsi di cartoni animati prima che la mamma lo chiamasse perché era pronta la cena. Un privilegio di chi aveva una mamma che lo avrebbe chiamato nel momento in cui la cena sarebbe stata pronta.
Un privilegio che lui non aveva.
La fantasia era una bugia comoda che lui si era rifiutato di lasciarsi raccontare. Preferiva vivere nella realtà – spigolosa, dura, dolorosa ma sincera. Gli piaceva pensare di poterla conoscere, anche se ciò non significava avere anche solo il minimo potere di cambiarla. Ma era lì, tangibile, sicura. Non era un’illusione, era tutto ciò a cui dovevi abituarti, perché era tutto ciò che ti avrebbe accompagnato per il resto della tua vita. L’unica cosa davvero tua. Il tuo mondo.
Per questo motivo era sempre stato sicuro di non aver sognato, quella notte. Perché era vigile, perché i suoi occhi erano bene aperti e attenti, perché quell'uomo era apparso davvero, nel cortile di casa sua, lui e quella strana cabina telefonica. Non c'erano cabine telefoniche nel suo quartiere - c'era solo ciò che ne rimaneva dopo anni di vandalismo e tag di artisti di strada e vagabondi che le scambiavano per un comodo rifugio caldo in cui passare la notte - e di sicuro non ce n'erano mai state nel suo cortile, o in quel quadrato di ghiaia polverose e biancastra che sua madre chiamava cortile -, e così com'era vero che non ce n'era mai stata una era anche vero che non ce n'era più stata una dopo quella notte, e così come entrambe queste cose erano vere, Fler era sicuro di averla vista, lei e quell'uomo, e che non si fosse trattato di un sogno, né di un'illusione, né della fantasia di un bambino solo e triste e frustrato e spaventato dalla realtà.
Era accaduto veramente. Era accaduto veramente e non era stato un attimo, era stato delle ore. Era stato lo schianto - di cui nessuno sembrava essersi accorto -, era stato uscire in cortile e trovare quella cabina telefonica lì, ferma in mezzo al niente, avvolta dal fumo e dalla nebbia nel silenzio assoluto della notte. Era stato avvicinarsi e sfiorare con la punta delle dita la vernice blu con cui era dipinta, era stato sentirne lo smalto graffiato e sbiadito sotto i polpastrelli, era stato indietreggiare di qualche passo e trattenere il fiato mentre la porta si apriva con uno scricchiolio sinistro e quell'uomo altissimo dalla pelle scura e dal sorriso abbagliante ne veniva fuori con tutti i vestiti stropicciati ed un'espressione di scuse ad addolcire i tratti del viso.
Fler c'era, era lì. L'aveva visto. L'aveva sentito.
- Mi dispiace, - aveva detto l'uomo, allontanandosi dalla cabina telefonica ed osservandola con aria preoccupata, - ho combinato un disastro. Avresti mica del biadesivo e un po' di colla?
Fler l'aveva fissato a lungo in silenzio, le labbra dischiuse e gli occhi spalancati mentre cercava di fare mente locale chiedendosi se in casa ci fosse niente di quello che quell'uomo stava domandando. Alla fine aveva risposto di sì, era scappato di corsa dentro casa ed era salito al piano di sopra, infilandosi di corsa nello sgabuzzino all'interno del quale suo padre teneva tutti gli attrezzi del suo mestiere - qualunque fosse - prima di andare via di casa. Odiava lo sgabuzzino, non perché la lampadina si fosse fulminata anni prima e non fosse mai stata cambiata, condannando quella stanza minuscola ad un'eternità di buio - Fler non aveva alcuna paura del buio; non c'era niente, nel buio, a parte il buio, e il buio non poteva toccarti, né farti del male -, ma perché si trattava di una stanza chiusa, senza finestre, e puzzava dell'odore di papà invecchiato di mille anni, come se, nonostante lui fosse andato via, fosse rimasto un pezzo del suo corpo nascosto là dentro, e non riuscisse a nessuno di trovarlo per gettarlo via.
Aveva afferrato la cassetta degli attrezzi di papà e l'aveva trascinata fuori, in corridoio. Era di metallo, mezza arrugginita, ed i manici lasciavano sulle mani una traccia marroncina che puzzava incredibilmente. L'aveva aperta ed aveva rovistato all'interno, trovando ciò che gli serviva, ed era corso subito di sotto, senza riporre la cassetta degli attrezzi al proprio posto. Ci avrebbe pensato più tardi, o forse l'avrebbe lasciata lì, spostandola in un angolo del corridoio in modo che mamma non la notasse.
- Ho trovato questi... - aveva detto all'uomo, una volta tornato in cortile. Aveva teso la mano, mostrandogli il piccolo tesoro risultato della sua avventura, e l'uomo aveva sorriso, ringraziandolo con un cenno del capo.
- Vivi qui tutto da solo? - gli aveva chiesto, mentre si avvicinava alla cabina telefonica e cominciava a rattopparla. Fler si era mosso in avanti per guardarlo muoversi più da vicino.
- No. - aveva risposto, scuotendo il capo, - C'è mia mamma con me.
- Capisco. - aveva annuito l'uomo, sempre sorridendo, - E allora perché sei solo adesso?
Fler aveva abbassato lo sguardo. Era solo sempre, non soltanto in quel momento. Conosceva l'amore di sua madre come una certezza istintuale, ne era consapevole come era consapevole di tutte le altre cose reali che lo circondavano, le cose ovvie, il sole, la luna, il cielo, il letto, lo zucchero, lo zaino per andare a scuola, i lividi per le botte dei bulli, il sangue dal naso, la fame, la sete, il sonno, il bisogno di andare in bagno. Fra tutte queste cose c'era l'affetto di mamma, vero, eterno, tangibile, più tangibile perfino di mamma in sé.
Fler si sentiva amato. Sapeva di essere amato.
Ma si sentiva anche solo. E sapeva di essere solo.
Aveva scrollato le spalle, come se non gliene importasse poi tanto, continuando ad osservarlo lavorare.
- Tu da dove vieni? - gli aveva chiesto quindi, quando il peso del silenzio aveva cominciato a farsi insopportabile.
L'uomo aveva riso, incollando la porta scardinata al proprio posto.
- Un po' da tutte le parti. - aveva risposto. Fler l'aveva guardato con diffidenza, scrutando il suo profilo nel buio. Anche senza nemmeno una luce accesa se non quelle dei lampioni sulla strada dall'altro lato della casa, il tatuaggio che gli copriva un lato del collo era talmente grande e scuro da risultare perfettamente visibile.
Quello era sicuramente un tipo pericoloso. Solo un tipo pericoloso risponde così a domande talmente dirette.
- Non è un posto. - gli aveva fatto notare con aria imbronciata, ma l'uomo non aveva dato segno di averlo sentito, allontanandosi dalla cabina telefonica per osservarla da ogni parte con aria soddisfatta.
- Bene, - aveva detto quindi, - è a posto. - Poi si era voltato a guardarlo, sorridendo incoraggiante. - Vieni a fare un giro con me? - gli aveva chiesto.
Fler aveva aggrottato le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto ed indietreggiando ancora, sulla difensiva.
- Nemmeno ti conosco. - aveva protestato diffidente.
- Ma io sono il Dottore. - aveva risposto l'uomo con quel sorriso incrollabile ed un'aria di ovvietà che aveva costretto Fler a distendere i lineamenti del volto mentre si domandava distrattamente e curiosamente "ma il Dottore chi?".
L'uomo aveva socchiuso la porta della cabina telefonica, invitandolo ad avvicinarsi.
- Vieni con me. - gli aveva detto, - E' solo un giretto.
- Ma è troppo piccola quella. - aveva protestato Fler, indicandola e restando fermo dove si trovava.
L'uomo aveva sorriso ancora.
- È più grande dentro. - lo aveva rassicurato.
Fler aveva deglutito, voltandosi verso la porta sul retro, intenzionato a correre dentro senza più voltarsi indietro. Casa sua giaceva immobile e addormentata a pochi passi da lui. Era buia, troppo grande, vuota, e lui era tornato a guardare il Dottore senza nessun ripensamento.
Lui lo aveva portato in alto, lontano da casa sua, lontano dal quartiere, lontano da quel mondo al quale Fler aveva deciso di attaccarsi in maniera così disperata perché era l'unica cosa che conoscesse. Aveva aperto la porta della cabina telefonica, spalancandola sul blu intenso dell'universo, e gli aveva detto "guardati intorno, guarda com'è bello", e con le lacrime agli occhi Fler aveva guardato nella profondità di un abisso grande in maniera incalcolabile, e si era sentito minuscolo ed enorme, insignificante ed assoluto, e completamente senza fiato.
In orbita assieme alle stelle, aveva scoperto un nuovo tipo di realtà, una realtà sconosciuta, ma non per questo meno vera, non per questo meno sua. C'era altro oltre alla casa vuota, oltre alle strade sporche di Tempelhof, oltre alla verità dolorosa di Berlino, c'era altro oltre alle cose vere e brutte che erano state la sua unica possibilità fino al giorno prima.
Era fantastico, ma non era una fantasia, e Fler lo voleva. Lo voleva tutto, lo voleva per sé.
- So che cosa significa. - aveva detto il Dottore, sedendosi accanto a lui sul bordo della cabina telefonica, i piedi penzoloni sul vuoto assoluto, - Sentirsi soli, intendo. - aveva spiegato con un mezzo sorriso, - Sono l'ultimo rimasto della mia specie.
- E tutti gli altri che fine hanno fatto? - aveva chiesto Fler, voltandosi a guardarlo. Il riflesso dell'universo contenuto nei suoi occhi lo riempiva di sgomento.
- Li ho uccisi. - aveva risposto il Dottore, senza guardarlo. Per qualche motivo, Fler non ne aveva avuto paura.
Erano atterrati senza danni qualche istante dopo. Il cortile e la casa erano sempre uguali, vuoti e silenziosi anche se adesso i primi raggi di sole del mattino li accarezzavano incerti, donando loro un po' di colore.
- Adesso te ne andrai. - aveva detto Fler, guardando in basso le proprie scarpe da tennis sporche e impolverate. Non aveva avuto il coraggio di guardarlo ancora.
- Ma torno subito. - lo aveva rassicurato il Dottore con un sorriso, stringendogli con calore una spalla, - Starò via solo cinque minuti.
Fler aveva sollevato lo sguardo, ed aveva deciso di credere al suo sorriso.
Il Dottore non era più tornato, ma per anni Fler non aveva mai smesso di aspettarlo.
*
Bill si solleva sulle braccia e prende fiato, prima di lasciarsi ricadere su un fianco accanto a lui e pulirsi la bocca col dorso della mano. Fler, ancora intontito dall’orgasmo, steso sulla schiena e con braccia e gambe finalmente libere di rilassarsi dopo la tensione degli ultimi minuti, cerca di ricondurre il proprio respiro ad un ritmo meno affannoso, e intanto si volta a guardare il ragazzino, tutto intento a lisciarsi i capelli lungo le spalle, osservandone meccanicamente le punte con aria professionale per controllare che non siano rovinate.
- Come mai? – domanda distrattamente, afferrando un lembo del lenzuolo fra le dita ed usandolo per ripulirsi l’uccello.
- Mh? – cinguetta Bill, voltandosi a guardarlo, - Come mai cosa?
- Come mai il regalo. – spiega Fler con un sorriso, - Non lo fai mai.
- Non è un regalo e ommioddio che cosa orrenda da dire. – ride Bill, tirandogli uno schiaffo su una spalla e poi rotolando sullo stomaco, avvicinandosi un po’ di più. – Mi andava di farlo e basta. Cos’è, non si può?
- Ma sì, figurati. – ride anche lui, - Ti pare che mi stia lamentando? – commenta, schiaffeggiandogli piano il sedere. Bill si lascia sfuggire un urletto tanto carino quanto palesemente finto, e Fler ride ancora, alzandosi dal letto e stiracchiandosi davanti alla finestra.
- Tira le tende. – si lamenta Bill, appoggiando la testa sul cuscino, - Il Chaku è sempre lì di guardia e se scopre che ti ho fatto entrare senza pagare un’altra volta va a dire tutto a Tomi. Non voglio essere rimproverato di nuovo.
- Tuo fratello dovrebbe cominciare a farsi i fatti suoi. – sbuffa Fler, - Non aveva detto che i soldi che facevi tu erano solo tuoi e potevi tenerteli?
- Sì… - sospira Bill, - Ma poi ho fatto un casino.
Fler si volta a guardarlo, incuriosito.
- Un casino tipo?
Bill scrolla le spalle, come fosse una cosa di infima importanza.
- C’era questa borsa…
- Non dire altro. – ride ad alta voce Fler, chinandosi a recuperare i jeans da terra per indossarli, - Milledue? Millecinque?
- Tremila e nove. – sospira Bill.
Fler ride ancora.
- Ti vedo. – sghignazza, - Che entri tutto contento da Louis Vuitton—
- Era Prada.
- Irrilevante. – ride lui, - Ti vedo entrare tutto felice con tutte le tue banconote spiegazzate e strappate, mentre le commesse fuggono come impazzite di fronte alla tua maglia a rete e ai tuoi shorts.
- Non indossavo niente del genere. – borbotta Bill, sollevandosi in ginocchio sul letto ed incrociando le braccia sul petto magro, le belle sopracciglia dal disegno perfettamente simmetrico corrucciate in un’espressione offesa, - E non mi piace quando mi prendi in giro.
- Scusa, ma non posso farne a meno. – ride ancora Fler, avvicinandosi per stampargli un bacio innocente sulle labbra e poi piegandosi per recuperare la maglietta stropicciata dal pavimento, - Immagino che quando l’ha scoperto ti abbia cazziato per bene.
- Per giorni e giorni! – sbuffa Bill, scivolando giù dal letto e chiudendo le tende alla finestra, lasciandone aperto solo uno spiraglio per guardare fuori, alla strada tranquilla e silenziosa che dà sul retro del palazzo fatiscente in cui vive e lavora, - Mi ha detto che se tutto quello che devo fare coi soldi è comprare idiozie, allora è meglio che li tenga lui e mi passi qualcosa mensilmente. “Le borse non si mangiano, Bill,” mi fa, “Il cibo si mangia”. Ma sai cosa? A me di mangiare non frega proprio niente. Anche perché se ingrasso posso anche dimenticarmi di continuare a lavorare. Ma una borsa serve sempre!
- Certo, soprattutto se costa quasi quattromila euro. – ride Fler, raccogliendo la cintura da terra e stringendosela in vita, - Tuo fratello fa bene a tenerti al guinzaglio, - ammette poi, avvicinandosi ed appoggiandogli una mano sulla testa per lasciargli un bacio sulla tempia, - Lasciato a te stesso, appassiresti e moriresti come un fiore. Uno di quei fiori scemi, però. Tipo le margherite.
- Se morissi e rinascessi fiore, come minimo sarei una rosa centifolia. – ribatte Bill, offeso, voltandosi a guardarlo.
- Ed il fatto che tu abbia passato del tempo a pensare che tipo di fiore saresti se morissi e rinascessi vegetale è solo un’altra prova in più che tuo fratello fa bene a toglierti la patria potestà su te stesso. – commenta Fler, divertito. – Hai da mangiare, piuttosto? Ho un appuntamento importante alle quattro e mezza e non ho tempo di fermarmi da qualche parte.
- Devono esserci dei biscotti, di là. – risponde Bill distrattamente, indicandogli il cucinino nell’angolo, - Sulla mensola.
- Biscotti? – ride Fler, - Vivi di questo, adesso?
- Sono buoni e mi fanno sentire felice. – sbuffa Bill, facendogli una linguaccia, - Lasciami in pace.
- Va bene, va bene. – Fler ride ancora e si allunga a recuperare il pacchetto colorato, tirandone fuori un biscotto rotondo e spesso, farcito al cioccolato. – Mmh, i miei preferiti.
- Anche i miei. – sorride Bill. Poi torna a voltarsi verso la finestra, guardando fuori, e il suo sguardo si fa subito più scuro, quasi confuso.
- Cos’è? – sorride Fler, ingoiando mezzo biscotto in un solo morso ed avvicinandosi nuovamente alla finestra, avvolgendo un braccio attorno alla vita sottile di Bill e spiando fuori da sopra la sua spalla, - La tua guardia del corpo mi aspetta per prendermi a pugni?
- Eh? – mugugna Bill, così concentrato nella propria riflessione da realizzare con un secondo di ritardo quello che gli ha chiesto, - No, il Chaku non c’è, stranamente. Però… che strano, vivo qui da tanti anni ma non mi ero mai accorto che ci fosse una cabina telefonica su questa strada.
Le parole risvegliano in Fler il ricordo più prezioso della sua infanzia, quello di cui non ha mai parlato a nessuno. La notte in casa da solo, il botto, i rottami della cabina e il fumo che ne veniva fuori, e quell’uomo, l’uomo che gli aveva chiesto del nastro biadesivo e un po’ di colla e poi l’aveva portato a spasso per l’universo, riconducendolo a casa non più tardi di cinque minuti dopo, come se il tempo passato a fissare le stelle così da vicino da poterle quasi sentire bruciare sulla pelle non fosse mai nemmeno trascorso.
- Che cabina telefonica? – domanda, l’emozione che gli trema nella voce.
- Quella. – risponde Bill, indicandola oltre il vetro, - La vedi? Che poi, di quel colore lì non mi pare di averne mai viste in giro. Eppure sembra vecchissima. Le cose di cui uno non si accorge quando sta chiuso in casa a spalancare le gambe per gli estranei. Vedi? Se avessi una borsa potrei uscire, anche solo per vantarmene in giro, e allora potrei accorgermi… dove vai?
- Devo andare. – Fler si affretta a recuperare portafogli e cellulare dallo spoglio tavolo quadrato sul quale li ha lasciati entrando, e infilarli velocemente in tasca.
- Ma dove? – domanda Bill, aggrottando le sopracciglia con evidente preoccupazione, - Al tuo appuntamento?
- No. – borbotta confusamente lui, lanciando un’ultima occhiata fuori dalla finestra per assicurarsi che la cabina telefonica sia ancora lì, - Cioè… sì. Dopo. Prima devo controllare una cosa. Ci sentiamo. – conclude, prima di lanciarsi fuori dall’appartamento e giù per le scale.
Prega che la cabina sia ancora lì quando esce per strada, e quella c’è, e quando Fler se la ritrova di fronte non può fare a meno di fermarsi ad osservarla, per un secondo. È esattamente come la ricorda, il blu antico, un po’ rovinato delle assi di legno, quella targa, l’aria misteriosa. Si avvicina un passo dopo l’altro, senza rendersi conto che, man mano che avanza, comincia a correre sempre più velocemente, finché la cabina non prende ad avvicinarsi con una velocità pericolosa, e lui finisce per schiantarvisi sopra, tempestando la porta di pugni.
- Apri! – grida, - Lo so che sei là dentro! Vieni fuori!
Non smette di bussare e urlare finché non sente il suono inconfondibile della serratura che scatta, e solo allora, rendendosi conto di non essersi mai davvero aspettato che la porta si aprisse, salta indietro, allontanandosi repentinamente. La porta si apre con un cigolio sinistro, lasciando vedere solo buio per un po’, almeno fino a quando, dallo spiraglio, non fa capolino la testa di quell’uomo.
- Tu! – strilla Fler, puntandogli contro un dito.
- Io! – grida a propria volta l’uomo. Poi corruga le sopracciglia, fissandolo con gli occhi ridotti a due fessure, come quelli di un gatto, - Non sei la persona che mi aspettavo di vedere.
- Ah, no?! – insiste Fler, - Che strano! Forse perché quando sei andato via mi hai detto che saresti tornato in cinque minuti!
- Come, prego?
- Ed io avevo sette anni, allora!
- …oh. – il lume dell’intelletto sembra accendere improvvisamente lo sguardo scuro dell’uomo, che apre definitivamente la porta, senza però convincersi ad uscire dalla cabina e restando lì, sulla soglia, una mano sulla porta e l’altra sullo stipite, a guardarlo stupito, - Oh. Aspetta. Che ore sono.
- Forse ti interesserebbe sapere più che altro che anno è. – borbotta Fler, incrociando le braccia sul petto.
- Sì, anche. – annuisce il Dottore, - Ma soprattutto che ore sono.
Fler sospira, sollevando la manica della giacca per controllare l’orario sull’orologio da polso.
- Dieci alle quattro, perché?
- Ah! Bene. – risponde il Dottore, illuminandosi in volto, - Ho ancora tempo.
- No che non hai ancora tempo! – sbraita Fler, sbattendo una mano contro la porta blu, - Sei in ritardo di cinque minuti e ventiquattro anni!
- … sì, è vero, per quell’appuntamento sì. – annuisce il Dottore, - Non per l’altro, però.
- Non avevamo nessun altro appuntamento!
- Non io e te, è vero! – annuisce ancora il Dottore, con convinzione.
Fler lascia ricadere il braccio lungo il fianco, spiazzato.
- Vuoi dire che non sei qui per me? – domanda con un filo di voce.
- Come, prego? – ripete il Dottore, inarcando un sopracciglio.
- Non sei tornato qui per me! – sbotta Fler, sconvolto, - Avevi promesso di tornare, ed ora sei qui e mi vieni a dire che ci sei capitato per caso?!
- Tecnicamente no, non è un caso. – scuote il capo il Dottore, - Sono capitato qui perché, come ti dicevo, ho un altro appuntamento. Precisamente alle quattro e mezza.
- Non me ne frega niente! – ribatte Fler, gesticolando animatamente a mezz’aria, - Ti ho aspettato per più di vent’anni e tu hai la faccia tosta di ripresentarti adesso e dirmi che non mi stavi nemmeno cercando! Perché l’hai fatto?! Perché mi hai detto che saresti tornato se non ne avevi la benché minima intenzione?! Ero solo un bambino, mi hai preso in giro!
- Ma io avevo intenzione di tornare. – risponde il Dottore, placido, - Non pensavo onestamente di fare così tardi. Devo aver perso il senso del tempo.
- Sì? – domanda Fler, inarcando un sopracciglio, - Facendo cosa, esattamente?
Il Dottore scrolla le spalle.
- Un po’ di questo, - risponde, - Un po’ di quello.
Fler si passa una mano sul viso, sospirando stancamente.
- Certo.
È in quell’istante che la voce di Chakuza lo raggiunge, modulata nel classico grido cavernoso per il quale ormai ha imparato a conoscerlo e, in una certa misura – piccola, considerate le sue dimensioni –, anche a temerlo.
- Fler! – urla il nano pelato, correndogli incontro, - Ti ho visto!
- Merda. – sibila Fler, osservandolo avvicinarsi velocemente dall’angolo opposto della strada. Si volta verso il Dottore, piantandogli entrambe le mani sulle spalle e spingendolo verso l’interno della cabina, - Presto, fammi entrare!
- Intraprendente. – annuisce il Dottore, - Mi piace. Autoinvitarsi in casa altrui. Lo faccio spesso anch’io.
- Sta’ un po’ zitto! – sbotta Fler, irritato, spingendolo dentro e poi chiudendosi la porta alle spalle. Anche l’interno della cabina è uguale a come lo ricordava, immenso e un po’ freddo e stranissimo, con quella plancia di comando circolare proprio al centro e tutto il resto dell’arredamento bizzarro, scale che non si sa dove conducano, porte che non si ha idea su che stanza si aprano. Si volta a guardare fuori dallo spioncino e, per un secondo, vede solo il cranio rasato di Chakuza che prende tutto lo spazio, come un’enorme luna bianca e lucida. Poco dopo, lo sente picchiare contro la porta.
- Apri! – dice da fuori, - Ti ho visto! Apri! Ti avevo promesso che ti avrei spezzato le dita una ad una, se ti avessi rivisto da queste parti! Quindi ora apri!
- Oh. – considera il Dottore, apparentemente molto divertito dalle sue parole, - Fidanzato?
- Cosa?! – sbotta Fler, - No!
- Ex-Fidanzato, allora?
- Ma assolutamente no!
- Fidanzato del fidanzato, dunque.
- Ma cosa— smettila! – lo zittisce lui, premendogli entrambe le mani sulla bocca, - Dobbiamo andare via. Fai muovere questa cosa.
Il Dottore si allontana da lui, aggrottando lievemente le sopracciglia.
- Spazio personale, prego. – borbotta, sistemandosi addosso i vestiti. Fler li nota solo adesso per la prima volta. L’uomo indossa una tuta grigia palesemente nuova e palesemente costosa che però gli dà l’aria di essere qualcuno che si vesta con immensa modestia. Una specie di accattone di lusso, un povero dentro ricco fuori, uno di quelli che li guardi e sembra non vogliano farti pesare addosso tutti i loro soldi, ma in realtà vogliono mostrarti esattamente quanti ne hanno dandoti però l’impressione di non contarli nemmeno.
- Sei ricco? – gli chiede così, a bruciapelo.
- Mi sento una persona ricca, sì. – annuisce il Dottore, - Ho tanti amici, l’immensità dello spazio-tempo tutta per me, una bellissima astronave e—
- Tanti soldi? – suggerisce Fler.
Il Dottore inclina il capo e lo guarda come avesse appena detto l’idiozia del secolo.
- No. – risponde candidamente, - Non saprei che farmene.
- Beato te. – ribatte Fler, scrollando le spalle, - Ora, per favore, possiamo andarcene? Questa cosa può muoversi, no?
- È la seconda volta che la chiami cosa. – nota il Dottore, offendendosi quasi avesse chiamato “cosa” lui, - E ti sconsiglio vivamente di perseverare. È molto permalosa.
- Chi è permalosa? – domanda Fler, guardandolo con confusione evidente negli occhi.
- La TARDIS. – risponde il Dottore, allargando entrambe le braccia come a presentargli qualcuno che non può essere indicato direttamente. E questo perché si trova tutto intorno a loro. – Tempo e Relativa Dimensione Interna allo Spazio. È la mia astronave.
- Va bene, okay, ma può muoversi? – sospira Fler in tono lamentoso, - Quel gorilla là fuori vuole il mio sangue, e se non ce ne andiamo da qui prima o poi finirà per abbattere la porta ed entrare, e ti assicuro che non vuoi vedere di cosa è capace in tutto il suo imponente metro e mezzo di altezza.
- Non sembra granché imponente. – considera il Dottore, sollevando una mano a circa un metro e mezzo dal suolo, - Dici che è alto più o meno così? Sono sicuro che riuscirei a tenerlo lontano anche solo stendendo il braccio.
- Oh Dio mio, - ringhia Fler, frustrato, aggirandolo e muovendosi deciso verso la plancia, - Era così per dire! Non è altissimo, ma è più alto di un metro e mezzo, e comunque quello che non ha in altezza lo compensa in larghezza, per cui leviamoci dalle palle.
- Ma si può sapere almeno cos’è che gli hai fatto? – domanda il Dottore.
- A lui? – sbotta Fler, osservando la plancia con curiosità, cercando di ricordare come gliel’ha vista manovrare venti anni prima, - Niente. È la guardia del corpo di un mio amico. Non vuole che gli vada vicino.
- E perché non vuole che tu gli vada vicino?
- Perché poi finiamo sempre a letto insieme senza che io possa permettermi di pagarlo. – risponde Fler in un ringhio frustrato, - Come si pilota questa cosa?!
- … quasi tutto quello che hai detto mi confonde. – annuisce il Dottore, - Ma, in ogni caso, se fossi in te, non tirerei quella leva. – aggiunge, indicando una lunga leva grigia pochi centimetri alla sua sinistra con un cenno del capo.
Fler non ha nemmeno un ripensamento, mentre la afferra e la tira energicamente verso di sé.
Quello che accade dopo non è semplice da spiegare, e Fler non è neanche tanto sicuro di capirlo. Quello che sa è che il battere imperterrito dei pugni di Chakuza contro la porta della cabina blu si interrompe bruscamente, o forse è semplicemente nascosto dal rumore sempre più alto che l’astronave emette sollevandosi – o almeno così sembra dal tremito che la scuote e dall’improvvisa mancanza di equilibrio che manda Fler quasi disteso per terra – e poi cominciando a viaggiare.
Si fermano un paio di minuti dopo, e mentre ancora la TARDIS trema, cercando di stabilizzarsi, Fler si aggrappa alla plancia di comando e poi accetta l’aiuto del Dottore per riuscire ad alzarsi in piedi.
- Che… Che cosa è successo? – domanda confusamente, guardandosi intorno come non riuscisse più a riconoscere il luogo in cui si trova, anche se l’interno dell’astronave non è cambiato nemmeno di una virgola.
- Eh. – risponde il Dottore con un sospiro quasi paterno, - Te l’avevo detto, io, di non tirare la leva. Spero che tu non abbia impegni per il resto del pomeriggio. Anche se potrebbe essere un problema di relativa importanza. – aggiunge con una mezza risata.
Fler lo guarda per un paio di secondi con occhio bovino, e poi si lancia contro la porta, spalancandola.
Capisce di avere un problema quando, di fronte a lui, si apre un mondo sconosciuto di fronte al quale perfino la visione dell’immensità dell’universo di ventiquattro anni prima sembra impallidire.

continua
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Eko/Valezka, Fler/Chakuza.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash, Het.
- "Ora, io ho sempre saputo che un momento simile sarebbe arrivato, prima o poi, ma ho sempre creduto fermamente che sarebbero stati Bushido e la sua donna ad aprire le porte all’invasione delle bandiere color arcobaleno e delle tutine rosa shocking in pvc, e invece guarda cosa mi combinano questi due, prendono, si ubriacano e si vanno a sposare a Las Vegas, ma vi pare modo? Senza neanche un briciolo di romanticismo, nello squallore più totale! Almeno, quando m’immaginavo il matrimonio delle loro maestà, potevo immaginare qualcosa di un certo spessore, una roba tipo Carlo e Diana, per intenderci, con lunghi abiti bianchi con lo strascico, corone, gioielli di famiglia, vescovi che benedicono unioni volute dal Signore e via così. E invece mi sveglio una mattina e vedo che la prima coppia di rapper sposati fra loro della storia sono questi due deficienti con anelli grossi come quelli che le bambine trovano nelle uova di Pasqua, ma non ugualmente carini. Ma vi pare? È un disonore."
Note: Credete pure ai vostri occhi, la nuova shot del GD è qui! E, in un'incredibile concomitanza di buone notizie, non solo è una shot dal POV di Eko, un POV che, sappiamo, attendiamo tutti con impazienza, ma è anche, finalmente, l'ultimo spin-off prima di ricominciare a parlare di cose serie tipo LA TRAMA. Sì, non ce la siamo dimenticati. Anche questa serie ne ha una. No, l'argomento principale della serie non è il matrimonio del Flerkuza, anche se ne parliamo di nuovo anche in questa shot (perché non sarebbe il GD se lo stesso identico avvenimento non venisse riproposto in mille salse da due trilioni di POV differenti). Portate pazienza per questa lunghissima shot (Eko aveva voglia di raccontarci la sua INTERA ESISTENZA, scusate) e vi promettiamo che già nella prossima shot cose nuove ed incredibili cominceranno ad accadere!
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LIVING THE DREAM

In pratica è successo che Fler e Chakuza si sono sposati, e noi lo veniamo a sapere il giorno dopo quando, uscendo tutti dalle nostre camere e scendendo fino al piano terra per fare colazione, troviamo Bill e Bushido che fissano il vuoto aprendo e chiudendo la bocca come pesci rossi nell’acquario mentre Chakuza cerca di darsi un contegno spilluzzicando la colazione e Fler si regge un panno bagnato sulla testa, mentre la sua tazza di caffè nero viene riempita a intervalli regolari da un cameriere che pare messo lì apposta per fare solo questo.
Io, per la verità, neanche volevo scendere a fare colazione. Stavo bene in camera mia. Mi hanno piazzato in una ricostruzione in piccolo della foresta Amazzonica, con le liane che pendono giù dal soffitto e le pozze d’acqua sul pavimento in bagno, che non ho ancora capito se è per mantenersi in tono con l’ambiente o perché s’è rotto lo sciacquone e per tamponare l’esondazione in bagno ci ho dovuto mettere gli asciugamani. Tant’è che poi per fare i bisogni ho dovuto usare il bagno di Kay, che invece è stato infilato in una stanza della reggia di Versailles trasportata qui appositamente da Parigi, e ha le tende di broccato pure nella doccia. Una roba, veramente.
Comunque, io stavo lì tranquillo appeso alla mia liana e dondolavo a testa in giù, quando il telefono squilla urlando come Tarzan. Saltando agilmente da una liana all’altra, mentre il mio pigiama-perizoma svolazza nell’aria umida della foresta pluviale, giungo fino al comodino ed allungo un piede prensile verso la cornetta. La stringo fra le dita e la pianta del piede e, piegandomi con notevole nonchalance, la porto all’orecchio, rispondendo con un verso scimmiesco. Poi mi rendo conto che mi sono lasciato un po’ trasportare e mi riprendo.
- Pronto? – dico, e Kay, dall’altro lato, trattiene il fiato, prima di rispondere.
- Vieni giù, - mi fa, - abbiamo un problema.
Insomma, vado di sotto e poso gli occhi sulla coppia reale in stato catatonico, e ipotizzo che una maledizione sia stata lanciata sul nostro re e sulla nostra principessa. Sicuramente qualcosa che coinvolge il primo cavaliere e il consigliere di corte deve essere accaduta, perché mai Bushido e la principessa sono stati in questo stato, se non per cose che coinvolgessero Chakuza e il suo consorte privo di fissa dimora.
- Insomma, - domando, prendendo posto accanto al principino Tom che, gli occhi ancora chiusi ed evidentemente infastidito dall’essere stato buttato giù dal letto a quest’ora, dorme col naso affondato nella propria tazza, - che è successo?
Bushido continua a fissare il vuoto mentre la nostra reale sovrana prova a rispondermi, non ci riesce e pertanto tira fuori un fazzoletto di pizzo da non so dove e ci scoppia a piangere dentro, tutto scosso dai singhiozzi, mentre Fler si lamenta perché il suono del pianto di Bill lo infastidisce e Chakuza si passa una mano sul viso, spossato.
- Fler e Chakuza si sono sposati. – chiarisce per tutti Kay. Tom affonda di un altro paio di centimetri nella propria tazza, poi gorgoglia e si tira su, il naso impiastricciato di schiuma. Si pulisce con un tovagliolino e poi torna a dormire in piedi.
Io guardo il mondo – Bushido ancora imbambolato, Bill che piange più forte al solo sentire il problema che viene ripetuto ad alta voce da Kay, Fler e Chakuza che indossano degli anelli orrendi e quei due strani amici dei gemelli che, dimostrando molta più intelligenza di tutti noialtri, se ne stanno per fatti loro ignorandoci – e spalanco gli occhi.
- Mi sa che voi due vi siete bevuti il cervello, - dico, rivolgendomi alla coppia di novelli sposi, - e se ve lo dico io che fino a due minuti fa stavo penzolando giù da una liana, potete credermi.
- Stavi facendo cosa? – domanda Kay, fissandomi con un paio d’occhi pallati che sono tutto un programma, ma io lo liquido con un gesto della mano perché mi pare che qui i problemi siano ben altri. Questi due si sono sposati, non so se rendo l’idea. Ora noi torneremo in Germania e tutto il mondo titolerà che Fler e Chakuza sono la prima coppia di rapper tedeschi gay ad essersi unita in matrimonio. No, voglio dire. Chakuza e Fler. Ce li avete presenti?
Ora, io ho sempre saputo che un momento simile sarebbe arrivato, prima o poi, ma ho sempre creduto fermamente che sarebbero stati Bushido e la sua donna ad aprire le porte all’invasione delle bandiere color arcobaleno e delle tutine rosa shocking in pvc, e invece guarda cosa mi combinano questi due, prendono, si ubriacano e si vanno a sposare a Las Vegas, ma vi pare modo? Senza neanche un briciolo di romanticismo, nello squallore più totale! Almeno, quando m’immaginavo il matrimonio delle loro maestà, potevo immaginare qualcosa di un certo spessore, una roba tipo Carlo e Diana, per intenderci, con lunghi abiti bianchi con lo strascico, corone, gioielli di famiglia, vescovi che benedicono unioni volute dal Signore e via così. E invece mi sveglio una mattina e vedo che la prima coppia di rapper sposati fra loro della storia sono questi due deficienti con anelli grossi come quelli che le bambine trovano nelle uova di Pasqua, ma non ugualmente carini. Ma vi pare? È un disonore.
- Senti, non mi sembrano fatti tuoi. – protesta Chakuza, evidentemente di malumore. Dico io, se dovevi essere così uggioso, tanto valeva che non ti sposassi affatto. Ti ho forse obbligato io a farlo? No, sto esprimendo un’opinione su quello che credo sia stato un comportamento assolutamente folle. Puoi tu odiarmi perché do voce alle mie proteste? Ma assolutamente no. Qui mi sa che l’usciere di corte si sta prendendo delle libertà che se il nostro signore e padrone fosse in sé non gli concederebbe assolutamente. Solo che egli non è in sé, quindi mi tocca difendermi da solo.
- Sto solo dicendo – ribatto, fissandolo in cagnesco, - che non mi sembra una gran pensata quella di sposarvi. Non avete riflettuto sulle conseguenze di questo gesto? Il matrimonio è un vincolo sacro.
- Ah, e tu sei il massimo esperto in materia, suppongo! – sbotta Chakuza, battendo un pugno sul tavolo. Fler, al suo fianco, mugola dolorosamente e gli posa una mano sul braccio per tenerlo fermo. No, dico. Lo ripeto. Gli posa una mano sul braccio per tenerlo fermo! Ma delicatamente, come la moglie che è! Non credo di aver mai visto niente di più gay in vita mia, ed io ho accompagnato Bill a fare shopping. No, per dire.
Mentre ancora inorridisco per questa cosa della mano sul braccio – me la sognerò nei secoli a venire, il mio sonno non sarà mai più tranquillo e sereno, io che ho sempre dormito come un bambino, mi viene da piangere – Fler si toglie la pezza bagnata dalla testa e manda giù un po’ di caffè, per poi rivolgersi direttamente a me. Io mi metto a bere il mio latte macchiato perché ho paura che mi contagerà con la sua gaytudine se mi guarda dritto negli occhi. Come Medusa, ma con delle miniature dei Village People per capelli al posto dei serpenti.
- Eko, - mi spiega con pazienza, - eravamo ubriachi, non ci abbiamo riflettuto granché sopra e probabilmente abbiamo agito in maniera avventata, ma non siamo pentiti di averlo fatto e ci rendiamo perfettamente conto della nostra situazione adesso. Siamo molto contenti di come sono andate le cose, e ti pregherei di rispettare almeno questo.
- Sono contenti, loro! – strilla a quel punto Bill, il viso inondato da una marea di lacrime e mascara. La sua voce è talmente alta che Fler fa una smorfia e torna a nascondersi sotto il suo panno bagnato, sofferente. – Siete contenti, eh? E io non ho potuto nemmeno organizzare un rinfresco, o occuparmi dei fiori per decorare la cappella! Scommetto che non c’era nemmeno una rosa bianca sulla navata centrale!
- Io scommetto che non c’era nemmeno la navata. – borbotta Tom, gorgogliando col naso di nuovo tuffato nel caffellatte, e Bill torna a piangere, lanciando il fazzoletto ormai sporco alle sue spalle e centrando in pieno il cesto pieno di altri fazzoletti usati che il cameriere dritto in piedi dietro di lui regge fra le braccia, per poi prenderne un altro dal dispensatore che un altro cameriere, fermo al suo fianco, gli porge con sussiego.
Io sbatto le palpebre un paio di volte, fissandolo con sconcerto.
- No, dico, - sbotto, - è questo il problema? Cioè, tutta questa tragedia greca, - dico, indicando in un gesto omnicomprensivo i pianti, i fazzoletti, tutta la corte depressa forzata a scendere per la colazione ad orari indecenti eccetera eccetera, - non è perché quei due si sono sposati ma perché la principessa non è stata avvertita in tempo per organizzare le nozze?
Mentre Bill scoppia in lacrime un’altra volta, perché evidentemente le mie parole hanno fatto centro nel cuore del problema, Bushido sospira e sorseggia il proprio caffè con l’aria compunta di uno che soffre molto ma non vuole darlo a vedere per orgoglio personale; una faccia che per la verità ha spesso, perché voi dovete sapere che il nostro signore e padrone, qui, è convinto che tutto il mondo ce l’abbia con lui. C’è la vita vera, e poi c’è la vita che Bushido è convinto di vivere nella propria testa, e in questa deviazione della realtà il cosmo intero complotta contro la sua felicità, ma lui, con la sua forza, il suo eroismo e la sua caparbietà è sempre in grado di ribaltare situazioni senza speranza e risolvere ogni problema, mentre cavalca in sella al proprio stallone bianco panna verso il suo per sempre felici e contenti.
Naturalmente non c’è bisogno che io stia qui a dirvi che è tutta una montatura, che in realtà quest’uomo oltre al fatto che gli va sempre bene in generale ha anche una fortuna sfacciata che, tipo, gli permette di non morire mai, una roba che le persone normali purtroppo non possono neanche sognare, ma lui ci crede molto, e questo gli permette di andare in giro a fare quella faccia lì, la faccia dell’eroe tormentato, e crederci pure tantissimo, e risultare per questo molto convincente mentre beve il suo caffè e si pinza la radice del naso come non riuscisse a capacitarsi di avere tutte queste sfighe, poverino.
- Io, per la verità, di problemi con quello che è successo ne avrei parecchi. – dice, lanciando a Fler un’occhiata tale che mi viene voglia di agitargli una mano davanti alla faccia e dirgli “whoa, ehi, adesso, calmiamoci prima di scatenare un conflitto atomico solo perché il nostro ex amante si è sposato con l’usciere”, - Ma sì, sostanzialmente il problema che ha scatenato la tragedia sotto i tuoi occhi al momento è questo.
- Ci tenevo così tanto, Eko! – squittisce disperata la principessa, riemergendo dal fazzolettino usato e soffiandosi il naso con veemenza.
- Ma se neanche sapevi che avevano intenzione di farlo? – obietto io, inarcando un sopracciglio.
Bill si interrompe e per un paio di secondi cala il silenzio. E poi riprende a piangere con più convinzione.
- Sì, appunto! – dice, come se quello che ho appena detto fosse in qualche modo stato di aiuto alla sua causa, - Non ci tenevo solo perché non sapevo che sarebbe accaduto, ma una volta che è accaduto ho scoperto che ci tenevo tantissimo! Non capisci? Se me l’avessero detto, ci avrei tenuto un sacco!
- Bill, solo tu nel mondo puoi considerare l’interesse per un avvenimento retroattivo. – sospira Tom, facendo le bollicine nel caffellatte.
Nel mentre, però, io sono costretto ad ammettere che, in fondo, il ragionamento ha senso. Intendo, non è che Bill andasse in giro strillando di voler essere il wedding planner di Fler e Chakuza, ma non lo faceva solo perché non aveva idea del fatto che questi due volessero sposarsi. Probabilmente, se l’avesse saputo allora sì, sarebbe andato in giro strillando di voler essere il loro wedding planner e tutto. Ora da un lato sono grato a Chakuza e Fler per averci risparmiato l’imbarazzo, ma dall’altro mi dispiace per la povera principessa, che tiene a poche cose nel mondo – in genere tutte quelle sbagliate – e per giunta nessuno gliele dà mai.
- Okay. – annuisco quindi, e tutti si voltano a guardarmi con una preoccupazione decisamente fuori luogo, - C’è una sola soluzione, per questo.
- Eko, non credo che tu sia nella posizione di proporre soluzioni a problemi inesistenti. – borbotta Chakuza, guardandomi in cagnesco. Ma io vedo che la principessa ha sollevato gli occhi su di me e mi sta fissando speranzosa, e io non posso deluderla proprio adesso.
- Tu e Fler dovreste sposarvi di nuovo. – proseguo quindi, ignorandolo, - Qui, nella sala ricevimenti dell’albergo. Bill potrebbe avere il resto della giornata per organizzare l’evento, stasera potreste dire sì in una cornice meno squallida di una stupida cappella a Las Vegas con qualche finto prete ubriaco che vi benedice, e tutti sarebbero contenti.
- Eko! – si agita tutto Bill, lanciando via il fazzoletto e giungendo le mani sotto il mento, - Ma così, all’improvviso? Organizzare un matrimonio in sole dodici ore? È impossibile!
- Be’, - scrollo le spalle, guardando altrove, - se non pensi di potercela fare, meglio così, passeremo la serata fuori e ci divertiremo lo stesso.
- Stai scherzando?! – strilla a quel punto lui, saltando in piedi ed asciugandosi sommariamente gli occhi, - Mi metto subito al lavoro.
Abbandona la sala subito dopo, riapparendo dopo qualche secondo per afferrare suo fratello e Bushido e trascinarli via con sé, mentre loro gli sbraitano dietro di lasciarli andare immediatamente e lui, naturalmente, non sta affatto a sentirli.
A fare colazione restiamo solo io, Kay, i novelli sposi e i due amici dei gemelli, i quali spariscono a loro volta quando Bill si riaffaccia ed inarca un sopracciglio, segnale apparentemente sufficiente a convincerli a seguirlo con un sospiro.
- Nessuno ha chiesto il nostro parere. – nota a quel punto Chakuza, sconvolto.
Fler emette un lamento disperato, si toglie la pezza umida dalla faccia e si alza in piedi.
- Ho bisogno di dormire. – conclude, abbandonando il tavolo a propria volta.
Restando compostamente seduto, io mi godo il mio caffè ed il mio croissant, consapevole di aver compiuto anche oggi la mia buona azione quotidiana.
*
Con i preparativi, comunque, io non voglio avere niente a che fare. C’è solo un numero limitato di gaiezza che un uomo eterosessuale può sopportare prima di cominciare a dubitare delle proprie posizioni aperte e liberali, e Bill che si improvvisa wedding planner e si mette ad addobbare la sala conferenze dell’albergo riempiendola di nastri di seta, palle traslucide di vetro di boemia, rose rosa, giacinti e gelsomini supera abbondantemente quel numero già di per sé superato dal fatto che il matrimonio è quello di Chakuza e Fler, per cui io decido di lasciare ognuno alla propria occupazione – anche perché Bill il mio aiuto non lo ha chiesto – ed esco felice per le strade di Las Vegas.
Una cosa bella di Las Vegas è che fra il giorno e la notte non esiste la minima distinzione. Cioè, tu ti svegli tranquillo di buon mattino, bevi il tuo caffè, mangi il tuo biscotto, trangugi la tua fetta di pane tostato con burro e marmellata, poi prendi, esci e per strada sono le undici di sera. Cioè, non nel vero senso dell’espressione, intendo, non è che c’è una calotta di vetro sopra Las Vegas che simula il buio e il sorgere della luna eccetera eccetera, no; tu esci per strada a mezzogiorno e non è che è notte, c’è il sole e tutto, però ecco, locali che in qualsiasi altro posto nel mondo a quest’orario qui sarebbero chiusi a doppia mandata, a Las Vegas sono aperti.
Per cui io passeggio allegramente per strada mentre gente già ubriaca corre, urla e si bacia pubblicamente senza il minimo pudore, e poi trovo un localino simpatico che mi ispira, e decido di passare lì il resto della mia giornata.
Poi niente, entro, mi siedo, ordino una birra, guardo il palco e vedo che c’è sopra Valezka che canta, e decido che voglio passarci anche il resto della mia vita.
*
La cosa con Valezka è stata molto complicata. Lo è stata fin da subito, ma non sia mai detto di me che sono un uomo che non gli piacciono le cose complicate, perché io per le cose complicate impazzisco, cioè, mi piacciono proprio un botto, tant’è che vivo con Bushido. Cioè, non assieme, ma quasi, specie considerato il fatto che quando sei nel giro del Bu non c’è scampo, che tu viva a venti o a duecento metri da lui sarà sempre e comunque come se gli vivessi in casa. Bushido è il tipo che si presenta sulla porta di casa tua e ti dice “che stai facendo?”, e se tu tipo gli rispondi “guardavo porno in tv col dolby surround a volume massimo” ti strilla “non finché vivi sotto il mio tetto!”, e tu ti terrorizzi e gli rispondi di sì e spegni subito la televisione anche se dentro di te sei consapevole di non vivere sotto il suo tetto. È tutta una questione di modo di porsi, sapete, Bushido c’ha un po’ quell’atteggiamento che potrebbe vendere ventilatori in Lapponia.
Comunque, il punto non sono le enormi potenzialità di venditore di ventilatori porta a porta di Bushido, il punto è che Bushido è una cosa complessa, e il fatto che io sia un suo sottoposto dimostra che a me le cose complesse piacciono molto.
E infatti Valezka è tipo la cosa che mi è piaciuta di più in tutta la vita.
L’ho conosciuta che aveva ventun anni, ed io ne avevo diciannove. Eravamo due pischelli che non sapevano niente del mondo e volevano soltanto divertirsi, ma il punto non è tanto che fossimo giovani e avessimo voglia di divertirci, ma che non fossimo solo in due. Era infatti il duemiladue, e sapete cosa succedeva nel mondo fra il duemilauno e il duemiladue? Pacey e Joey si mettevano insieme, rovinando la vita di Dawson, e poi rovinandosi la vita a vicenda già che c’erano.
In sostanza, più o meno, è la stessa cosa che è successa a noi. Nel duemiladue, infatti, io lavoravo in un negozio di scarpe – no, lo so che sembra che quello che sto dicendo non abbia nemmeno una minuscola parvenza di logica, ma non è così, seguitemi e giuro che, alla fine, tutto avrà senso – da qualche anno, dopo aver lasciato la scuola, anche se in realtà sarebbe più corretto dire che è stata la scuola a lasciare me, nel senso che alla terza espulsione abbiamo entrambi capito che le nostre differenze erano inconciliabili, ed abbiamo pertanto deciso di prendere strade differenti, per la soddisfazione di entrambi.
Insomma, io lavoravo in questo negozio di scarpe che si chiamava Il Piede del Fauno, che voglio dire, è un nome ridicolo e anche fuorviante, perché i fauni hanno piedi caprini ma noi non vendevamo scarpe caprine, vendevamo scarpe normali. Era un lavoro part-time, stavo lì solo qualche ora ogni mattina, anche perché il proprietario, il vecchio signor Wagner, aveva qualcosa come otto miliardi di anni e riusciva a restare sveglio e presente a se stesso solo nella fascia oraria fra le dieci del mattino e mezzogiorno, però ecco, io mi divertivo abbastanza, la paga non era male, tutto considerato, e di lì passavano un sacco di ragazzi perché principalmente vendevamo scarpe da tennis e in quegli anni la scarpa da tennis era un must per tutti gli adolescenti in tutto il mondo.
Insomma, è stato lì che un giorno ho conosciuto Kool Savas. Ovviamente, ai tempi non era Kool, era solo Savas, però aveva un progetto. È importante avere un progetto, nella vita. Pensate a Bushido, lui un progetto ce l’aveva, ed era diventare il più grande rapper tedesco mai esistito. Oh, è dovuto passare per l’inferno, per riuscirci, ma c’è riuscito, eh. E tutto perché aveva un progetto.
Anche Savas ne aveva uno. Un pelo più modesto – aprire un’etichetta e diventare famoso – ma ce l’aveva. E un giorno entra al Piede, che gli servivano un paio di scarpe nuove, e mi trova lì che sistemo scarpe sugli scaffali cantando Ready to Die, e mi fa “Tu!”. Al che io mi volto e lo guardo, e tenete presente che io appunto ai tempi ero poco più di un pischello, mentre lui praticamente era già un uomo adulto. Per cui mi fa “canti bene”, e io ovviamente reagisco come reagiscono tutti i pischelli quando un uomo adulto fa loro un complimento, cioè da un lato mi sento fighissimo e dall’altro mi pongo due o tre dubbi su cosa il tipo voglia da me.
Lui mi fa “guarda, sto aprendo un’etichetta. Se ti va, vieni in studio e ti facciamo un provino”, e poi mi passa questo bigliettino da visita col suo nome, l’indirizzo e il numero di telefono.
Sul subito ero un po’ incerto, cioè, ero consapevole che non è che potessi rimanere impiegato al Piede del vecchio signor Wagner per sempre, anche perché lui aveva già passato l’ottantina e mi aveva già detto che, alla sua morte, il Piede sarebbe morto con lui. Per inciso, in questo momento il vecchio signor Wagner ha superato abbondantemente i novanta ma è ancora perfettamente vivo e vegeto, e il Piede assieme a lui. Comunque, niente, non è che io sognassi di diventare un cantante o chissà che, però mi sembrava che la prospettiva di mettermi a lavorare per un ventisettenne mi sorridesse un pelo di più che quella di lavorare per un ottantaduenne, per cui dico arrivederci al vecchio signor Wagner e, il giorno dopo, mi presento agli studi della Optik Records, faccio il mio provino e, fra poderose pacche sulle spalle e poderose dosi di birra alla spina, entro a far parte della grande famiglia di Savas.
Voi dovete capire, Savas, da quel momento in poi, per me è diventato una specie di punto di riferimento. Per dire, i miei erano divorziati, io sostanzialmente ero cresciuto senza un padre perché a quei tempi, capite, non era mica come adesso, quando un uomo se ne andava di casa non è che si prendeva bene coi diritti del padre, i finesettimana insieme, le visite giornaliere e tutto il resto. A quei tempi te ne andavi di casa e basta, e mio padre questo aveva fatto. Quindi niente, quest’uomo che non era assolutamente vecchio al punto da farmi da padre ma che in parte si comportava da tale, quest’uomo che mangiava solo lattuga e beveva solo latte di soia, quest’uomo che suo padre era stato prigioniero di guerra e che aveva vissuto l’infanzia fra la Germania e la Turchia, quest’uomo che a meno di trent’anni era già indipendente e sapeva esattamente cosa voleva dalla vita, per me era una specie di faro nell’oscurità, uno che io lo guardavo e pensavo ecco!, alla sua età io voglio avere le stesse cose che avrà lui, voglio fare le stesse cose che fa lui. Magari mangiando bistecche, anche, ma insomma.
In ogni caso, succede che Savas mi accoglie nella sua vita come una specie di orfano adottato, anche se non sono orfano e lui non mi adotta. Un pomeriggio restiamo alla Optik a lavorare a qualche beat fino a tardi e, ad un certo punto, il mio stomaco esplode in gorgoglii sinistri, e lui si mette a ridere e mi fa “vieni a cena da me, ti faccio conoscere la mia ragazza”.
E qui entra in gioco Dawson’s Creek, appunto. Insomma, Savas mi porta a casa da lui, entriamo e io sento questa voce dolce che viene da una stanza che, dall’ingresso, non riesco a vedere. E Savas fa “Vale? Ho portato ospiti”, e lei si affaccia.
Vedo prima i capelli. I ricci! Questo casco enorme di ricciolini bellissimi che sembra di trovarsi davanti all’improvviso Diana Ross al suo meglio solo un pelo più bionda! Io non so bene come funzionino i colpi di fulmine, non è che mi sia capitato molte volte di prendermi così bene all’improvviso con una ragazza, ma sono abbastanza sicuro che quello per Valezka sia stato un colpo di fulmine. Ma non uno di quelli scemi, che ti prendi una cotta e dopo due mesi, importante per quanto la relazione possa essere stata, è già tutto finito. No, io guardo Valezka, la sua pelle color caramello, quei ricciolini, il sorriso enorme e quegli occhi scintillanti da cerbiatta, e penso “è lei!”, con entusiasmo, proprio, con convinzione, perché era lei davvero.
Unico problema: è la ragazza di Savas, ovviamente. Cazzo!, penso, dico, ma si può essere più sfigati? Vi pare che la donna di cui devo andarmi a innamorare perdutamente può essere una ragazza normale, libera, disponibile? No! Dev’essere la cazzo di tipa del mio datore di lavoro nonché pilastro e faro luminoso attorno al quale la mia nuova vita ruota. Dico.
Insomma, da questa cena io esco completamente traumatizzato, perché da un lato ho incontrato la donna della mia vita e dall’altro è la donna del mio migliore amico. Tragedia. Novello Pacey del rap tedesco, mi aggiro depresso per la città per giorni sapendo di voler baciare questa donna senza poterlo fare. E mi prendo pure male con me stesso perché a me Pacey stava sul culo. Cioè, ti affido la mia donna e ti dico “prenditene cura finché io metto a posto la mia merda” e tu te la limoni alle mie spalle, restauri una barca in suo nome, diventi il beniamino della sua famiglia eccetera eccetera? Ma sei proprio stronzo.
E quindi sono lì che mi sento uno stronzo e non voglio e prego intensamente che qualche altra donna che non sia la fidanzata di Kool Savas mi appaia davanti rubandomi il cuore, quando un giorno che sono solo agli studi ovviamente si presenta Valezka, e io perdo completamente il senno.
Siccome Savas è fuori ma dovrebbe tornare fra poco, mentre lo aspettiamo ci sediamo e parliamo un po’, e viene fuori che abbiamo un sacco di cose in comune, tipo che a nessuno dei due piace la maionese, che entrambi pensiamo che la gente abbia un’opinione esageratamente negativa nonché discriminante sui piccioni e che sia io che lei proviamo sentimenti contrastanti nei confronti del crème caramel. Cioè, più che altro lei ride e mi dice che non aveva mai pensato a nessuna di queste cose nei termini in cui io gliele ho presentate, ma che ora che le ha sentite è perfettamente d’accordo con me e le piace il mio modo di pensare. Una roba in seguito alla quale io sento di avere ogni diritto possibile di immaginare una lunga vita priva di maionese, piena di piccioni e moderatamente dotata di crème caramel al suo fianco, se non che mentre io sono perso in queste mie legittime fantasie noto che lei è nervosa e un po’ triste e continua a guardare l’orologio come una che ha una cosa tremenda da fare e allo stesso tempo vuole farla il prima possibile e non vuole farla mai.
Al che le chiedo se c’è qualche problema, ed è lì che lei mi fa questo sorriso minuscolo e triste così bello che io ovviamente mi innamoro di lei il triplo, e mi spiega che è da qualche settimana che cerca di trovare il coraggio per lasciare Savas. “Oddio,” le faccio io, “Lo sapevo che sarebbe successo. È colpa mia!”, e lei scoppia a ridere e mi fa “Eko, sei un cretino”, e poi mi spiega che no, non è colpa mia. Mi spiega che lei e Savas si sono messi insieme tre anni prima, che lei era solo una ragazzina, quando l’ha conosciuto, e che lui era fighissimo e faceva un sacco di cose appropriatamente fighissime tipo nutrirsi per settimane intere solo di bieta e ravanelli e via così, e che lei s’è innamorata di lui anche perché lui che era così adulto non la trattava come una ragazzina e tutto il resto, una roba che io potevo capire perfettamente perché, insomma, per me era stato uguale. Per cui le dico che la capisco e lei mi fa “ah, ti sei innamorato di lui anche tu?”, e io lancio uno strillo e sollevo entrambe le braccia e dico “no!”, e lei ride e mi dice “ti stavo prendendo in giro”, e io mi innamoro di nuovo e capisco che la mia vita da quel momento in poi sarà un continuo innamorarmi di lei di nuovo e di nuovo, così, senza soluzione di continuità.
Mentre io realizzo questa cosa che un po’ mi spaventa ma che in generale mi piace e basta, lei continua e mi dice che sì, insomma, è rimasta innamorata di lui per un sacco di tempo, ma che ha l’impressione di essere cresciuta, adesso, e non si sente più così attaccata a lui. Gli vuole bene, gli è affezionata, l’idea di spezzargli il cuore la devasta, però insomma, lui sta cominciando a parlare di convivenza e lei ha bisogno di chiudere questa storia prima che diventi troppo grande e ingestibile.
E io la bacio.
Tipo che non me ne frega niente! Okay! Che ancora non l’abbia lasciato, che magari possa cambiare idea e decidere di restare con lui, trasferirsi in casa sua, sposarlo e fare con lui un milione di bambini! Che mi abbia detto che comunque non è certo a causa mia che vuole lasciarlo! Non me ne frega niente. La bacio e basta. E mi batte il cuore tantissimo perché lei mi piace così tanto che il terrore di venire respinto è quasi paralizzante. Ma non a sufficienza, evidentemente, perché alla fine la bacio comunque.
E ovviamente è quello il momento in cui Kool Savas rientra, e ci trova in quel modo lì che ci baciamo impunemente all’interno di un locale per il quale lui e lui solo paga l’affitto.
Insomma, non proprio la cosa migliore che poteva accadere, specie perché Valezka voleva lasciarlo per tutta una serie di motivi validissimi e onesti, e lui invece ci ha beccati a fare l’unica cosa che quei motivi li invalida tutti. A quel punto non conta più che lei volesse lasciarlo già da prima che ci conoscessimo, che sia semplicemente cresciuta e le sia passata la cotta adolescenziale e non si senta pronta a vivere tutto il resto della propria vita al fianco di un uomo di cui non è sicura di essere innamorata, no; l’unico motivo per cui lei vuole lasciarlo, dal punto di vista di Savas, è che io l’ho limonata in casa sua. Una roba falsa e pure un po’ triste, in definitiva, ecco, specie perché invalida tutta la questione del volergli ancora bene ed essere triste all’idea di spezzargli il cuore, una cosa che puoi dire quando lasci il tuo uomo perché ti è passata la cotta, ma che non puoi assolutamente dire quando lo lasci dopo che lui ti ha beccato a limonarti un suo sottoposto sul luogo di lavoro.
Insomma, Savas non la prende bene, ovviamente. Sfido io. Si lancia in tutta questa filippica un po’ imbarazzante, e come avete potuto, e in casa mia, e la mia donna, e io ti ho accolto come un fratello, e io ti ho dato l’opportunità della vita, e come ho potuto essere così cieco, e certo Eko che sei proprio uno stronzo e via così. Ci butta fuori entrambi, intimandoci di non farci più vedere o ci sguinzaglia contro i cani. E, dice, non in senso figurato. Al che io lo prendo in parola, perché non c’ho mezza voglia, proprio, di finire sbranato dai dobermann. Proprio ora, poi, che ho Valezka.
Lei è fantastica, ovviamente. Io mi scuso e lei mi sorride e mi abbraccia. “Non è colpa tua,” mi fa, e io sono già lì che penso che ora mi dirà addio e non vorrà più vedermi, e invece lei resta. Tipo che io mi ero trasferito in un appartamento che Savas mi aveva fatto affittare, si era anche preso cura lui della caparra e tutto il resto, e ovviamente non posso più restare lì, e lei mi fa “vieni a stare da me”. Che lei non è che stia in una reggia, poi, ma a me sembra che lo sia perché è un appartamento così carino e così pulito e così profumato, e tutte le stanze hanno una parete dipinta, ogni stanza di un colore diverso, e i mobili sono in tinta. Che poi sono i mobili dell’IKEA, ma non si nota perché sono così carini e il tutto è assemblato con tanto gusto che io boh.
E quindi niente, io per un po’ cerco qualche altro lavoro, non funziona niente, provo a chiedere al vecchio signor Wagner di riprendermi con sé che così almeno cerco di provvedere per la spesa come un brav’uomo dovrebbe fare per la sua donna, ma lui con quel suo unico dente residuo in bocca mi dice “aria, ragazzo!”, che ha già preso un altro tipo più giovane e scemo di me e può pagarlo la metà per fare il doppio delle cose.
Nel mentre, Savas non può sguinzagliarci contro i cani perché io e Valezka ci teniamo ben lontani dalla sua proprietà, ma nel mentre, per pura soddisfazione, mette in moto la macchina delle diss, e in un paio di settimane tutte le radio underground che passano rap locale risuonano del nome mio e di quello della mia ragazza affiancati ad epiteti non proprio piacevoli tipo troia, vacca, stronzo e derivati. Una roba di una tristezza immensa che va avanti per settimane, ma che dico settimane, mesi!, ma che dico mesi, no, mesi, giusto, non va avanti per più di qualche mese.
Perché? Perché a un certo punto arriva Bushido.
Bushido arriva che io ho da poco trovato lavoro in un bar e preparo caffè per gente triste con lavori seri dalle sei del mattino alle sei di sera. È un lavoro abbastanza schifoso che mi costringe a stare in piedi a fare sempre le stesse cose per dodici ore filate, che dopo mesi che tu sei stato un cantante è una roba un po’ schifa, ma anche che dopo anni passati a vendere scarpe da tennis per un matusalemme con un solo dente e la gengiva più bavosa del west è una cosa un po’ schifa, il che dovrebbe funzionare bene come termine di paragone, perché quanto credete che potesse essere bello lavorare per il vecchio Wagner? Ecco, lavorare al Falce di Luna era pure peggio. Volete sapere perché si chiamava così? Ecco, perché Youssuf, il proprietario, si vantava che il bar apriva quando ancora la luna non era tramontata, e chiudeva che già era sorta di nuovo da un pezzo. No, dico, vi pare un buon motivo per vantarsi? Io dico che se vi vantate per una roba simile siete degli schiavisti impenitenti che sfruttano i lavoratori bisognosi pagandoli dieci centesimi all’ora senza neanche permettere loro di portarsi a casa le mance, ecco.
Comunque, la cosa principale del Falce di Luna, oltra al fatto che è il posto peggio del mondo in cui lavorare, è che è un bar di Tempelhof. E voi a chi pensate se io dico Tempelhof? Eh, infatti.
Bushido mi si para davanti un giorno che sono le sette del mattino e io ho sonno. La cosa che ci accomuna, quella sulla quale troviamo subito terreno di comunicazione, è che ha sonno anche lui. Entra, mi fa “non ho dormito tutta la notte”, e io, che sono una persona sincera, dico “io sì, ma ho sonno uguale”. Al che lui mi guarda, si abbassa gli occhiali da sole palesemente troppo costosi sul naso e sorride divertito. Mi fa “e tu chi sei?”, e io potrei anche rispondergli dandogli tutti i miei dati anagrafici e una breve cronistoria della mia esistenza, ma mi dico, a che pro? E gli dico “sono Eko, il barista. Caffè?”, e lui fa “certo, Eko il Barista, caffè”.
Poco dopo entra Youssuf, che nel mentre era impegnato a scaricare il camioncino con le ciambelle. Entra con la sua bella confezione di ciambelle e vede che io ne voglio palesemente una, ma mica me la dà, lo stronzo. No! Si mette lì a sistemarle nella vetrinetta accanto al bancone, con compiacimento, proprio, che, se potesse, si metterebbe a cantare “ed Eko niente ciambelle, ed Eko niente ciambelle!”.
Ovviamente, Bushido e i suoi occhiali da sole palesemente troppo costosi se ne accorgono. E fanno, “Youssuf, Atze, fammi un favore, allungami una di quelle ciambelle, una di quelle con la crema, grazie”, che io non so neanche come facesse a sapere che volevo proprio quella lì, ma lo sapeva. Io non lo sapevo ancora, cazzo, ma lui sì.
E Youssuf, uno stronzo che io non gli ho mai visto neanche offrire una caramella a un moccioso, prende e gli dà la ciambella. “Certo, Atze,” gli fa. E io lì capisco che ho davanti un tipo importante. O pericoloso. O anche entrambi, perché porre limiti alla Provvidenza?
Comunque, lui aspetta che Youssuf sia sparito di nuovo, e poi, tranquillo come se non stesse succedendo niente, come se non stesse violando delle leggi, tipo, nel farlo, mi offre la ciambella. Lui la ciambella non l’ha nemmeno pagata, eh, gli è stata offerta a sua volta. E lui la offre a me. “Tieni,” mi fa, “Sembri avere fame.”
Dico, c’ho la faccia del bambino africano con la pancia rotonda e la mosca sull’angolo dell’occhio? Ce l’ho? Non mi pare. Ma la ciambella ha un aspetto appetitoso e io ho effettivamente fame, quindi mi faccio passare il rigurgito di orgoglio e la mangio, non prima però di aver fatto all’uomo un cenno di ringraziamento, non si dica che mia madre mi ha cresciuto ineducato.
Poi, mentre sorseggia il suo caffè, mi fa “io comunque ti conosco”, e a quel punto, mentre pulisco il bancone e servo gli altri clienti che man mano entrano ed escono dal bar, ci mettiamo a chiacchierare del più e del meno, chi sono, chi non sono, che ho fatto, che non ho fatto, dove mi ha già visto?, boh, forse da qualche parte mentre ero in concerto, o forse ha visto qualche video che hanno passato in televisione, e quando glielo dico lui s’illumina, spalanca l’occhione color cioccolato e mi indica. “Eko,” fa, “Eko Fresh!”, e io “presente!”, tristezza. Lui scoppia a ridere e mi fa “senti, sono curioso: cos’è successo davvero fra te e Kool Savas?”, e io, placido, “gli ho rubato la ragazza”. Pausa di silenzio. La pausa si prolunga. Io nel mentre gli ho preparato un altro caffè e lui, prima di parlare ancora, lo beve tutto. “Ma che, davvero?”, mi fa, e io annuisco. E mentre sono lì che penso con serietà alla mia vita, alle mie scelte e al fatto che servo caffè al banco di un bar nel quartiere peggiore di Berlino perché non sono stato in grado di tenere l’uccello nelle mutande, metaforicamente parlando, Bushido sorride. Sul momento è un sorriso che non riconosco, anche perché non lo conosco, come fai a riconoscere una cosa che non conosci? Passaggi logici che si perdono ovunque. Comunque, sul momento non lo riconosco, ma col passare degli anni imparerò a capire cosa vuol dire. Vuol dire soldi, e sembra che io sia appena diventato una gallina dalle uova d’oro.
“Eko il Barista,” mi fa lui, tirando fuori dal portafogli una banconota da cento euro e posandomela lì sul bancone, “Io ho un sogno.”
“Minchia,” penso io, occhieggiando la banconota, “Forse lo sto avendo pure io.”
Insomma, com’è, come non è, due giorni dopo torno a casa da Valezka con un contratto ed un sacco di soldi per produrre un album di coppia, io e lei insieme. È il periodo più bello della mia vita. Io e Valezka non facciamo altro che cantare insieme, limonare ovunque ed improvvisare pic nic sul tappeto peloso rosa del suo salotto. Nel mentre, io comincio a partecipare alle spese di gestione dell’appartamento, e quindi casa di Valezka piano piano diventa casa nostra, ed è una cosa bellissima. All’improvviso non importa più a nessuno dei due che fuori da quelle quattro stanze ci sia un mondo tremendo in cui sia io che lei abbiamo tradito la fiducia di un caro amico, ed ora che quel caro amico, ferito, ci odia, noi ci facciamo sovvenzionare da uno che sta facendo la propria fortuna sulle diss che riesce a produrre su qualsiasi altro rapper di una certa rilevanza della scena tedesca. A Bushido non importa che l’obbiettivo sia Sido, piuttosto che Fler, piuttosto che Kool Savas, gli interessa semplicemente averne uno, perché ogni volta che abbatte qualcuno sale di un gradino sul fianco della piramide sociale, e a lui interessa la cima. Poi, se glielo chiedi, lui ti dice che è un romantico, eh. Ti dice che lo sta facendo per proteggere il tuo amore e quello della tua donna, che la vostra storia l’ha commosso, che l’amore vince sempre e lui modestamente è il cavaliere dei puri di cuore e tutto il resto, ma la verità la sappiamo noi e la sa anche lui, quindi non importa.
Poi succede quello che succede sempre quando le cose vanno così bene che tu quasi non riesci a crederci: tutto finisce. E no, non succede d’improvviso. Non è che da un giorno all’altro cose che fino al giorno prima avevano sempre funzionato benissimo improvvisamente smettono di funzionare lasciandoti a piedi come l’auto nuova comprata due mesi fa e dalla quale non ti saresti mai aspettato un tradimento simile.
Le cose richiedono sempre una buona quantità di tempo prima di accadere. La cosa è che, mentre loro lavorano in background per rovinarsi come l’antivirus mentre navighi su YouPorn lavora in background per bloccare i peggio pop up e i peggio malware, tu non te ne accorgi. Non le noti nemmeno, le piccole cose che capitano. Loro capitano e tu niente, completamente ignaro. Chiaro che, quando poi ti esplodono in faccia come i palloncini quando li gonfi troppo, ti prendono di sorpresa. Ma non è che siano davvero sorprese, lo sono solo per te.
E infatti, quando Valezka dopo un paio d’anni di convivenza è venuta da me e mi ha detto “e allora?” è stata una sorpresa solo per me, che avevo vissuto quei due anni in uno stato di beatitudine perfetta inseguendo il sogno del cantante innamorato sotto protezione dell’eroe romantico del nuovo secolo; non è stato per niente sorprendente per lei, invece, che quei due anni li aveva vissuti aspettandosi qualcosa che non arrivava mai e che probabilmente avrebbe continuato a non arrivare mai se lei avesse continuato ad attenderla silenziosamente.
A quei tempi, tutta la questione mi sembrò surreale. Avevo ventidue anni, ma mi sentivo ancora un ragazzino, e sentirmi dire cose tipo “dobbiamo pensare al nostro futuro”, “ci servirà una casa più grande”, “mi piacerebbe avere un giardino” e “se fosse femmina potremmo chiamarla Cynthia” mi terrorizzò profondamente. Non ci avevo mai pensato, non avevo la minima intenzione di pensarci e mi sembrava assurdo che Valezka lo stesse facendo, per cui ogni volta che lei tirava fuori uno di questi argomenti con quella sua aria sognante e piena di speranza per il futuro la mia reazione era l’unica possibile: tacere.
E infatti sono stati i miei silenzi ad uccidere la nostra relazione. Un giorno lei è venuta da me – e posso solo immaginare quanto le sia costato raccogliere il coraggio e confrontarsi apertamente con me per una cosa che, avessi io avuto un cervello normale, non avrebbe avuto bisogno di nessun confronto – e mi ha chiesto “e allora?”, ed io non ho neanche potuto fare il finto tonto, perché sapevo esattamente a cosa si stava riferendo. E perciò le ho detto l’unica cosa che potevo dirle in una situazione come quella, che poi era la verità. “Non sono pronto, Vale,” le ho detto. E lei, donna con due palle così, che quando a me mi dicono che la donna era meglio nel Medioevo io m’incazzo perché come Valezka non ce n’erano mica, nel Medioevo, l’ha accettato. Non c’è stato odio o risentimento, nel nostro addio, niente stronzate del tipo “ho sprecato i migliori anni della mia vita per starti dietro”. Nessuno aveva sprecato niente, e lo sapevamo. Eravamo stati felici. Non c’era nessun motivo di rovinare il ricordo di ciò che era stato solo perché, da quel momento in poi, non poteva più esistere.
Quella sera, dopo aver preparato una borsa con un po’ di biancheria pulita e lo spazzolino da denti, sono uscito da casa di Valezka per non rimetterci più piede, e sono andato da Bushido. Lui mi ha accolto in casa sua, che ai tempi non era ancora la Villa Gialla, ma ci stavamo arrivando, e mi ha ascoltato pazientemente di fronte ad un’insalatiera piena fino all’orlo di kebab preso dal suo kebabbaro di fiducia. Dopodiché mi ha guardato con quegli occhi che fa sempre quando ti vuole bene ma pensa che tu sia stupido, e mi ha detto “Eko! Dopo tutta la fatica che abbiamo fatto per farvi diventare i nuovi Romeo e Giulietta del giovane rap tedesco,” e poi ci siamo messi a ridere. Al che mi ha chiesto come stavo, ed io ho risposto sinceramente che, tutto considerato, stavo piuttosto bene. Lui ha annuito, mi ha ospitato per la notte e il giorno dopo mi ha trovato un appartamento, che poi è quello in cui vivo ancora oggi, ed un contratto per entrare a far parte dell’Ersguterjunge.
Non è che io sia triste per come le cose sono andate, alla fine. Ho una visione della realtà semplicistica abbastanza da pensare che le cose vanno in un modo perché devono andare in quel modo lì, poi sta a te prenderne il meglio e non lasciarti sommergere dal peggio. Secondo me, se a fine giornata puoi andare a letto pensando “bene! Oggi non mi sono lasciato sommergere dal peggio”, hai già vinto. Ed io, modestamente, non mi sono lasciato sommergere mai. Anche perché sarebbe un problema, non so nuotare.
Ogni tanto, però, tipo adesso, o meglio adesso specialmente, visto che ce l’ho di fronte che canta l’ultimo successo di Alicia Keys, ripenso a Valezka e alla sua casa con le pareti colorate e al suo tappeto di pelo rosa sul quale facevamo lunghi pic nic indoor parlando della danza d’accoppiamento delle api o del ritrovamento di uno scheletro alieno in fondo all’Oceano Pacifico, e mi viene da pensa che sì, forse le cose sono andate esattamente come dovevano andare. Ma forse, se mi ci metto d’impegno, potrebbero tornare com’erano.
*
Mi si avvicina con quel sorriso che io non so come affrontare, seriamente. A parte che sono ridicolo perché la sto fissando come se fosse impossibile per lei trovarsi qui, mentre in realtà lo sapevo pure che s’era trasferita negli Stati Uniti un paio d’anni fa. È che mi fa un’impressione pazzesca trovarmela di fronte dopo tutto questo tempo.
Lei, ovviamente, è ancora bellissima, perché le persone che hai amato e che poi hai perso senza mai davvero smettere di amarle non diventano mai brutte. Anzi, semmai su di loro – ma solo su di loro – il tempo e la distanza hanno più effetto di una ricostruzione facciale completa, tipo, mentre tu hai sempre l’impressione che su di te il tempo sia passato senza pietà, rendendoti più vecchio e più brutto e con gli occhi un po’ più a palla e le guance un po’ più cascanti e la pancia un po’ più tonda e sporgente. E quindi io sono qui che la fisso chiedendomi se sia un fantasma o un’apparizione anche se so che non lo è, e tutto quello che riesco a pensare è “oddio, lei è bellissima e invece io sono diventato un roito!”, e mi prendo malissimo per questa cosa anche se coscientemente so che non è che posso essere diventato così tanto più brutto rispetto a quello che ero qualche anno fa, e poi lei finalmente arriva, si siede sulla poltroncina qui accanto a me, mi abbraccia stretto e mi chiama per nome. Così, con la voce della dolcezza. Ed io mi sciolgo perché questi anni che sono passati in mezzo a noi vengono spazzati via solo da quel nome, dal modo in cui lo pronuncia. Apro gli occhi e la guardo e siamo in quella casa, su quel tappeto peloso rosa. Anche se poi non è vero. Io mi sento come se fossi ancora lì.
E perciò potremmo parlare di un sacco di cose, tipo che lei potrebbe chiedermi come va, se sto con qualcuno, se ho in preparazione un nuovo album o anche qualche informazione sulle palesi pazzie che avvengono nella vita di noi tutti da quando Bushido è tornato dalla morte trasformandoci nell’avamposto tedesco dell’Arcigay, oppure io potrei chiederle cosa sta facendo per ora a parte le cover di Alicia Keys nei locali di Las Vegas, o potrei mettermi in ginocchio ed implorarla di uscire a cena con me anche se mi sa che a stento è mezzogiorno, ma niente di tutto questo accade. Io la guardo e le dico “sai cosa? Mi servirebbe qualcuno per cantare ad un matrimonio, stasera”. E lei mi fissa e la sua faccia dice tipo “cosa?”, e io annuisco. “Si sposano Chakuza e Fler,” dico, “Di nuovo. Ora, non sono sicuro che la principessa abbia previsto la presenza di una cantante, ma sono sicuro che le farà piacere. Vieni con me?”
E sono sicuro al cento percento che, di quello che dico, Valezka non capisca un accidente. Si starà chiedendo chi diamine sono Chakuza e Fler, perché sentano il bisogno di sposarsi un’altra volta, e soprattutto chi sia la principessa, ma non fa nessuna di queste domande, ed io non le do nessuna di queste risposte. Si mette a ridere, però, ed annuisce. Poi si alza e viene con me. È un buon inizio.
*
Quella sera, Valezka indossa un vestito pieno di volant e trine della stessa tonalità di fucsia degli orli e delle pochette che spuntano dai completi neri di Bill, di suo fratello e di Kay One, forzati a fare le damigelle d’onore in mancanza di donne più adatte allo scopo. Bushido, avvolto in un elegante completo grigio scuro, siede in prima fila, imbronciato come se gli fossero morti tutti i cani tutti insieme, una roba vergognosa. Io, infilato in un completo di lino beige, gli batto un paio di pacche sulla spalla.
- Coraggio, Atze, - gli dico, - È un po’ come dar via una figlia, no? – provo a consolarlo, mentre di fronte all’altare Fler e Chakuza si scambiano pigramente i loro anelli dalle forme improponibili per una seconda volta che non dev’essere per niente meno surreale della prima, sul sottofondo musicale di Bill che si perde in singhiozzi e di Valezka che canta No One.
- Ecco, appunto, Eko. – dice lui, ringhiando, - Ti pare che, se avessi una figlia, la darei in sposa ad uno come Chakuza?
E qui non aggiungo niente perché in effetti mi rendo conto che sarebbe crudele. Povero Bushido. Praticamente, se aveva un erede, nel mondo, quell’erede era Fler. Ora è come avere indirettamente regalato tutto il proprio impero a Chakuza. Il nano austriaco. Due volte! Avremo bisogno di molto champagne, più tardi.
La cerimonia finisce che il mal di testa di Fler è, se possibile, ancora peggiorato. Bill chiede a Chakuza di restare per un brindisi, ed è evidente che Chakuza vorrebbe dire sì perché è l’unica reazione che il suo corpo concepisce di fronte a Bill, un sì proprio generalizzato che si espande in tutte le direzioni e su tutti i piani di accettazione dell’uomo, ma prima di dare aria alla bocca si volta a guardare Fler, vede in che condizioni è e, miracolosamente, risponde di no.
- Devo riportarlo in camera o sviene. – aggiunge con una mezza risata. Fler gli tira un cazzotto contro una spalla che non dev’essere stato nemmeno tanto tenero, e lui non si lamenta neanche. Mi volto verso Bushido con l’intenzione di dirgli “guarda! Almeno lo tratta bene, con rispetto”, ma lui mi zittisce prima ancora che io possa provarci. Eh, se vuoi essere geloso della tua progenie, allora. Siilo. Cosa vuoi da me.
Lo lascio andare, che tanto prima di poter pensare razionalmente a questa cosa che Fler s’è sposato con l’uomo che gli ha rubato Bill gli serviranno degli anni, e mi volto verso Valezka.
- È sempre così, da voi? – mi domanda ridendo mentre si sfila dai capelli i fermagli fucsia intonati col vestito.
- In realtà ci hai preso in una giornata quasi normale. – rispondo io. La cosa divertente è che non è nemmeno una battuta, sono serissimo.
È ancora più divertente, però, quando lei mi chiede se ho qualcosa da fare e se non mi piacerebbe andare a cena insieme da qualche parte. Sul momento vado nel panico perché, oddio, cosa le rispondo? Cosa sta succedendo? Farò bene ad accettare? Dovrei ritrasformarmi in Tarzan e colpirla sulla nuca con una mazza per poi trascinarla in camera mia fra le mie liane e le mie pozze acquitrinose?, però alla fine mi calmo, le sorrido, annuisco, la prendo per mano e camminiamo tranquilli verso l’uscita.
Quando domani partiremo per abbandonare il Nuovo Mondo e tornare nel Vecchio, lei sarà seduta al mio fianco, sull’aereo. Ma in quel momento lì io ancora non lo so. Mi godo la serata, il casino per le strade, la voce dolce e melodiosa di Valezka mentre chiacchieriamo del più e del meno di fronte a una buona bistecca ed abbondanti dosi di vino rosso, e penso che l’inizio non è buono, è proprio ottimo. E dalle premesse sembra che possa solo migliorare.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Bushido.
Rating: PG-13
AVVISI: Slash.
- "Il problema di Las Vegas, sostanzialmente, è che è uguale a come te la immagini, uguale a come te la mostrano nei film. Questa è, a mio parere, una cosa profondamente sbagliata. I film non ti devono mostrare le cose come sono, i film devono esagerare e ingigantire ed eccedere. Io devo essere consapevole, quando guardo Bruce Willis che si prende in corpo tre pallottole, cammina scalzo e si rotola sui vetri infranti, sopravvive a due esplosioni e si rialza intatto dopo essere stato sbalzato per trentacinque metri su un’autostrada dopo essere stato investito da un camion che viaggiava a una velocità di cento chilometri orari, che quello che sto guardando è fasullo, nella realtà non c’è."
Note: E insomma. *si schiarisce la voce, guardandosi intorno e poi battendo un paio di colpi sul microfono per verificare che funzioni* Si sente? Uno, due, tre, prova, uno, due, tre, prova. Salve a tutti! Buonasera. *si guarda intorno in maniera imbarazzata* Non so quante volte vi ho detto "ciao, gente, il GD è tornato!" sentendomi scema perché in realtà non se n'era mai andato XD Ecco, questa è una di quelle volte. Quindi, il GD è tornato! Ma questo non stupisce nessuno perché capita con una frequenza di una volta ogni due mesi XD
Stavolta, però, torna in maniera più consistente, riprendendo in mano la storyline principale (...circa. Okay, è uno spin-off anche questo, ma vi giuro che racconta cose che interessano a tutti voi, tipo il Flerkuza che convola a giuste nozze. Eh? Non ho detto niente) per raccontarvi cose assolutamente folli e ridicole. E' anche la penultima shot ambientata in America! Gioite! Dopo questa ce n'è solo un'altra, e poi i nostri torneranno nelle amate terre patrie per continuare a raccontarci altre cose ridicole. Sono sicura che non volete perderveli.
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PAURA E DELIRIO A LAS VEGAS

A me l’America non piace. Cioè, non so se l’America non mi piaccia, in realtà, perché l’America è grossa e lunga, cioè, intendo che è un continente molto esteso e tu non puoi passare un paio di settimane negli Stati Uniti in balia del piano-vacanze di una casalinga isterica così smaniosa che pare abbia messo piede fuori dalla Germania per la prima volta nella sua vita quando tu sai perfettamente che non è vero, e dire che l’America ti fa schifo. Principalmente perché non l’hai vista, hai visto solo quella frazione che la casalinga isterica di cui sopra, pianificando i tuoi spostamenti con una severità da generale nazista, ti ha permesso di vedere. Tutto il resto ti è ignoto, e in effetti tutto il resto è ignoto anche a me, ma posso dire con certezza che quello che ho visto dell’America non incontra il mio gusto, e d’altronde non avrebbe mai potuto essere altrimenti visto che, contrariamente alla quasi totalità del resto dei miei compagni di viaggio, io qui non ci volevo venire.
Seriamente. Quando Bill e Bushido, assisi sul loro trono di velluto e legno intagliato e laccato d’oro, hanno annunciato cerimoniosamente che saremmo partiti tutti assieme, come il circo che siamo, tutti si sono emozionati, perché Fler, per dire, al pensiero degli Stati Uniti si esalta ancora come un bambino, e New York è un po’ la sua Mecca personale, e per Bushido, Bill e Tom invece è un po’ come andare a stare nella cara, vecchia casa di villeggiatura che ormai si conosce a memoria ma si ama profondamente perché è comunque un posto che spezza la routine dei quattro palazzi in croce che sei sempre costretto a rivedere in loop quando resti a casa. Non vi dico poi la festa che hanno fatto Kay ed Eko, che pareva gli avessero annunciato, non lo so, che sarebbero presto stati ammessi in un club esclusivo che offre in dono ai propri iscritti un harem di vergini a testa.
Io, invece, non volevo partire. A me piace l’Austria, voglio dire, pure la Germania per la maggior parte del tempo mi sta sul cazzo perché è troppo metropolizzata, e quando tu sei uno che gli piace l’Austria, che gli piace stare nelle baite di montagna circondato solo da capre e vacche, che già il traffico sotto la finestra gli fa fare fatica a dormire, è chiaro che andare a passare tutti questi giorni in un posto in cui le macchine non si fermano mai, le persone parlano continuamente e di capre e vacche non se ne vedono nel giro di chilometri, non può essere la prima cosa da fare nella lista delle Cose Da Fare Assolutamente Prima Di Morire.
Ma sono partito, perché partivano tutti e non mi piaceva l’idea di fare il guastafeste e comunque Fler era così felice che non c’era proprio modo di disertare. Ci sono molte cose alle quali posso resistere – credo, anche se non ci ho mai provato, in realtà la resistenza non è proprio il mio forte – ma fra queste cose non c’è l’idea di andare in vacanza con Fler in un luogo distante miliardi di chilometri da Daniel. Lo so che non è una cosa bella da dire, o anche da pensare, e lo so che ormai il ragazzino in qualche modo è di famiglia, e non mi dà più nemmeno tutto questo fastidio, ma se mi si chiede, in tutta coscienza, “vuoi tu, Peter Pangerl, porre un oceano fra te, Patrick Losensky e Daniel Kobler?”, io, onestamente, non me la sento di dire che non voglio, sarebbe una menzogna bella e buona e io per lo più cerco di non mentire, visto che non sono capace di farlo.
Quindi sì, sono salito anch’io sull’aereo con tutti gli altri e ho ingoiato i numerosi rospi che mi è toccato mettere in bocca da quando ho messo piede in questo luogo che, peraltro, non presenta per me neanche un interesse di tipo scientifico-culinario. Voglio dire, sono passato davanti a dei ristoranti che avevano la faccia tosta di esporre davanti alla porta d’ingresso cartelli con sopra scritto “specialità di cucina americana”. Ma che specialità vuoi avere negli Stati Uniti? L’hot dog? Il pollo fritto? Capirei fossimo in Messico, ma qui! Gente che la cucina non sa nemmeno come la si usa, che i fornelli al più servono a scaldare i sughi pronti, che la cosa cotta più complessa che mangiano è la carne alla griglia. Suvvia. Era ovvio che mi sarei annoiato e infastidito oltre il limite consentito fin quasi a esplodere.
Ho sopportato, però. Avrei potuto essere molto più piaga di quanto non sia stato, avrei potuto guardare tutti in cagnesco e non lasciarmi coinvolgere quando Bushido, durante i pasti, mi chiamava al suo fianco per elencare il menu chiedendomi esplicitamente di riempirlo di assurdità se possibile nemmeno esistenti per far dannare i camerieri, avrei potuto stare sempre chiuso in camera senza seguire gli altri nei loro assurdi giri turistici, avrei potuto ignorarli tutti quanti quando si sono dati alla pazza gioia la mattina del provino, mentre i ragazzi stavano alla Maverick con Jost e noi siamo rimasti in albergo e poi Bushido ha avuto quella geniale idea della piscina ed Eko s’è messo a rincorrere quella ragazza con la gonnellina di mezze noci di cocco tenute su con un filo di spago, e invece no!, sono stato di compagnia, non mi sono immusonito troppo, ho bevuto, ho mangiato, cioè, ho partecipato a pranzi e cene senza affamarmi per protesta contro il trattamento palesemente poco equo che mi veniva riservato in quanto cittadino austriaco per nulla interessato a farsi una cultura sugli usi e i costumi statunitensi, ho supportato sua maestà nella nobile missione da lui scelta – fare impazzire tutti i capo-camerieri di tutti i (numerosi) alberghi in cui abbiamo soggiornato da quando siamo qui – e sono stato una compagnia generalmente piacevole anche se il più delle volte sono finito nella fila dietro con Kay ed Eko mentre Fler e Bushido andavano in giro tutti gonfi e tronfi a farsi belli per le strade di questa città orrenda con baracchini che vendono wurstel agli angoli sotto i semafori, persone che camminano venendoti addosso come se nemmeno ti vedessero e gente che dorme sotto i ponti avvolta nella carta di giornale.
Certo, però, non immaginavo che potesse esistere qualcosa di ancora peggiore rispetto a quello che avevo già visto. Mi sembrava di aver sopportato già abbastanza noia, luci notturne, venditori di hot dog e ragazze con lunghe chiome platinate finte ed enormi seni a palla finti e giganteschi sederi finti infilati in shorts di jeans costosi quanto una plastica facciale. E invece. Invece c’è Las Vegas.
Il problema di Las Vegas, sostanzialmente, è che è uguale a come te la immagini, uguale a come te la mostrano nei film. Questa è, a mio parere, una cosa profondamente sbagliata. I film non ti devono mostrare le cose come sono, i film devono esagerare e ingigantire ed eccedere. Io devo essere consapevole, quando guardo Bruce Willis che si prende in corpo tre pallottole, cammina scalzo e si rotola sui vetri infranti, sopravvive a due esplosioni e si rialza intatto dopo essere stato sbalzato per trentacinque metri su un’autostrada dopo essere stato investito da un camion che viaggiava a una velocità di cento chilometri orari, che quello che sto guardando è fasullo, nella realtà non c’è. È per questo che riesco a divertirmi. Perché so che, se un giorno dovessi darmi alla malavita e dovessi fuggire nella notte, non ci sarebbe nessun poliziotto in canotta nera con un caricatore per mitragliatore annodato in vita a mo’ di marsupio ad inseguirmi, e se anche un soggetto simile ci fosse, se io gli sparassi, lo lanciassi contro una vetrina infrangendola, gli piazzassi bombe sotto il sedere e infine lo investissi con un camion, lui morirebbe. Se non alla prima, alla seconda, o alla terza, o alla quarta. Prima o poi creperebbe, e io potrei scappare in Messico.
Quello che intendo è: è importante che i film ti mostrino la fantasia, così da darti gli strumenti per riconoscere la realtà. Confondere le due cose può essere pericoloso. Io diffido sempre dei film realistici, perché sapete come funzionano, i cosiddetti film “realistici”? Loro ti raccontano una storia verosimile, sì, ma poi ci mettono sempre quel particolare che non può accadere mai nella vita, tipo che lo sfigato di turno prende botte per tutto l’anno ma alla fine porta la reginetta della scuola al ballo scolastico, o tipo che la squadra più sfigata del campionato perde quindici partite di fila ma nella seconda parte della stagione cambia allenatore e quello mette tutti in riga ed alla fine loro vincono il titolo pur rimanendo dei bravi ed onesti calciatori da squadra di bassa classifica, o cose del genere. Il realismo è il cancro del cinema moderno, dico io, perché ti racconta una balla ma te la fa passare come una cosa plausibile, e tu ci credi, e questo porta solo casini. Più pallottole, meno lezioni di vita, questo voglio io dal cinema.
E quindi se il cinema mi mostra Las Vegas e i casinò e gli hotel e i bordelli di lusso e le insegne luminose e le conigliette di Playboy ad ogni angolo di strada e i turisti che spendono miliardi in una notte e la gente ubriaca che si diverte e tutte queste altre cose, mi aspetto che siano balle, e invece arrivi a Las Vegas e Las Vegas è esattamente così, uguale, precisa e sputata a com’era nei film che hai visto, e voglio dire, può esistere una cosa più sbagliata di questa? Io credo di no.
- Ma perché dobbiamo restare ancora? – chiedo, guardando malissimo l’entrata dell’albergo nel quale si suppone noi si dorma per le prossime due o tre notti, prima di tornare in Germania, - I Tokio Hotel hanno finito, no? Hanno già un radioso futuro che li attende fra le braccia di sua maestà, che per l’occasione assumerà il titolo di sua santità, suppongo. – dico sprezzante, - Potremmo anche tornare a casa, una buona volta.
Fler si allunga verso di me e mi tira uno scappellotto tanto forte che io quasi mi ribalto, mentre Jost mi passa accanto squadrandomi con malcelato schifo e poi prosegue il suo cammino oltre me con uno sbuffo stizzito.
- I ragazzi sono contenti di lavorare con Anis, - mi spiega Fler, mentre Bill, esaltato come un’adolescente in gita scolastica – e non sto mettendo apostrofi fra le parole a caso – informa suo fratello e Bushido di quanto meraviglioso sia l’albergo che lui e Fler hanno scelto appositamente per noi tutti, - ma ciò non vuol dire che siano felici all’idea di aver perso il treno con la Maverick, in qualunque modo ciò sia successo. – sospira, - Hanno bisogno di un po’ di svago.
- Sì, ma noi che c’entriamo?! – insisto io, pestando i piedi, - Io non mi sento depresso, o meglio, mi sento depresso, ma solo perché sono qui. Se tornassimo in Germania, starei subito meglio!
- Chaku, sei una rottura di palle. – commenta lui, sollevando gli occhi al cielo, - Non puoi provare a divertirti, per una volta?
- No! – sbuffo io, - Mi pare evidente di no! Voglio tornare a casa.
- Oh, tu non hai appena detto questa frase con questo tono di voce. – sibila Fler, voltandosi a guardarmi con sincero sconcerto.
- Sì, invece, l’ho detta. – annuisco io, per nulla imbarazzato dal palese sfoggio di infantilismo che mi sto concedendo con cognizione di causa, - Voglio tornare a casa. Odio questo posto. Voglio tornare a casa!
- Chakuza! – mi ferma lui, proprio nel momento in cui io stringo i pugni lungo i fianchi e quasi comincio a saltellare sul posto, - Abbi un minimo di contegno, santo Dio. Mi metti in imbarazzo. – borbotta, lanciando intorno a sé un paio di occhiate incerte.
- Tanto in questo posto incivile nessuno capisce il tedesco. – sbuffo io, contrariato. Lui inarca un sopracciglio.
- Dicevo con Georg e Gustav. Loro magari si aspettavano ancora che tu fossi una persona normale. – commenta incrociando le braccia sul petto.
- Ebbene non lo sono. – dico, scrollando le spalle, - Come d’altronde nessun altro in questo gruppo. E mi spieghi perché siamo venuti proprio in quest’albergo?!
- Perché è bello. – risponde lui con un mezzo sorriso, prendendomi per mano e cominciando a camminare in coda alla processione di gente che comincia ad entrare in hotel, - Le stanze sono tutte diverse, ognuna ispirata ad un tema differente, e vengono assegnate a caso. È divertentissimo, io e Bill quando siamo venuti qui in vacanza la prima volta ne abbiamo beccata una ispirata a Tarzan. Ti sarebbe piaciuta, c’erano anche i tanga leopardati nei cassetti.
- Ma che posto è questo?! – strillo allarmato, mentre entro in una hall tutto sommato normale, anche piuttosto elegante, piena di gente vestita benissimo che sorseggia martini e ride coprendosi la bocca col dorso della mano. - …no, sul serio, non sembra male. – commento calmandomi, mentre Fler ride divertito accompagnandomi all’ascensore, separandoci dal resto del gruppetto che comincia a sua volta a smembrarsi mentre le varie coppie vengono indirizzate verso ascensori diversi che conducono, suppongo, a diverse parti dell’albergo, - Adesso comincio ad avere paura di quello che troveremo in camera.
- Dai, se siamo fortunati becchiamo la stanza che hanno assegnato a me e a Bill al nostro… doveva essere il terzo o il quarto viaggio qui, sì. – annuisce.
- Ma si può sapere quante volte siete venuti qui insieme?! – sbotto irritato, mentre le porte dell’ascensore mi si chiudono a due centimetri dal naso.
- Era una stanza molto elegante, tutta nera e bianca. – racconta sognante Fler, ignorandomi o forse proprio non sentendomi, perso com’è nella sua testa, - Speriamo sia quella, dannazione alla mia memoria, non ricordo qual era il numero.
Io lo ignoro, perché non c’è molto altro che possa fare a parte afferrarlo per la nuca e fracassargli la testa contro una parete per farlo tacere, e perciò la sua voce rimane lì, una specie di sottofondo musicale mentre io cerco di pensare ad altro, tipo che massimo fra tre giorni sarò finalmente di nuovo a casa mia, dove mi accoglierà il familiare gocciolio di tutti i rubinetti sguarniti e quell’allegro rumore crepitante che fa tanto caminetto in cui si produce il forno elettrico ogni volta che sta acceso per più di venti minuti.
- Ah, eccola. – dice Fler, attirando la mia attenzione ed allontanandomi dai pensieri piacevoli ai quali mi stavo abbandonando, - La nostra stanza.
Lo affianco mentre lui lascia scivolare la tessera magnetica nell’apposita apertura e, quando la porta si spalanca sul palese universo parallelo che la nostra stanza è, impallidisco. Il perimetro della camera è ovale, e le pareti sono ricoperte di moquette viola traslucida, folta quasi come il pelo di un barboncino. Posso vedere fin da qui che, se mi appoggiassi al muro, la mia mano sparirebbe almeno fino al polso. C’è un armadio, in un angolo. Sembra in plastica. Ed è rosa. La sensazione è quella, straniantissima, di star guardando un mobile di Barbie ingigantito ed infilato in una stanza vera. Ho quasi paura di avvicinarmi ed aprirlo perché temo che, se tirassi la maniglia, le ante non si aprirebbero, ed io scoprirei che non sono vere ante, come quello non è un vero armadio, ma solo un blocco di plastica cavo con finte maniglie e finti solchi per far credere alla gente di poterlo aprire quando invece così non è.
Ma il pezzo forte dell’arredamento è un altro, ed i miei occhi lo registrano solo dopo, forse perché, ad un primo sguardo, l’immagine impressa nella mia retina era sembrata talmente assurda al mio cervello da non poter essere razionalizzata, motivo per il quale io avevo guardato la stanza e il letto non l’avevo neanche notato. Ma al secondo sguardo non posso proprio ignorarlo, e nel momento in cui comincio a rendermi conto della gravità della situazione sento provenire dal fondo della mia gola un rantolo esausto.
Il letto è un cuore enorme. Rosa, come l’armadio, ma morbido. È a forma di cuore la struttura in legno, è a forma di cuore la rete, è a forma di cuore il materasso, sono a forma di cuore pure le lenzuola ed i cuscini, tutto. Tutto sui toni del rosa, del bianco e del viola, per richiamare le pareti, suppongo, un tocco di classe che non può fare a meno di essere notato.
Fler allunga una mano ad accendere la luce. È rosa anche quella. E nel momento esatto in cui il lampadario – che sembra plastificato come l’armadio – si accende, si accende anche una fila di luci – neanche a dirlo: rosa – incastonate alla base del letto. Il quale, per pronto accomodo, si mette a ruotare su se stesso.
- Manca solo la colonna sonora. – uggiola Fler, sconcertato.
In quel momento, squilla il telefono. La suoneria sembra la musichetta di un carillon per bambini, con la differenza che suona molto somigliante a Lady Marmalade. E il Voulezvous couchez avec moi, ce soir? è polifonico.
Mentre io rimango in sconcertata contemplazione di questo disastro dell’arredamento moderno, una roba talmente pacchiana che anche se fossi ancora etero mi darebbe comunque i brividi dal disgusto, Fler attraversa la soglia, ne ha proprio il coraggio, ed io lo stimo molto per questo, e si avvicina al comodino sul quale è appoggiato il telefono, sollevandone la cornetta.
- Pronto? – risponde. Gli strilli ultrasonici che oltrepassano le barriere dello spazio e del tempo raggiungendo i miei timpani e facendoli esplodere in mille coriandoli sarebbero abbastanza per capire chi è il suo interlocutore, anche se qualche secondo dopo lui non lo esplicitasse. – Ciao, Bill. Dove siete finiti? Mh-hm, capisco. Noi siamo nella… - poggia una mano sulla cornetta, attirando la mia attenzione con un psst vagamente cospiratorio, - Chaku, - mi chiama sottovoce, - guarda un po’ dentro l’armadio, attaccato ad un’anta dovrebbe esserci un gagliardetto col nome della stanza.
- Ah, perché, si apre, quella roba? – chiedo, indicando l’armadio senza osare mettere piede nella stanza. C’è la moquette viola anche sul pavimento. Sarà alta almeno cinque centimetri. Scommetto che cresce spontaneamente e nessuno viene a tosarla perché ne hanno tutti paura. – E io non ci entro qua dentro, comunque.
Fler si china appena, apre il cassetto del comodino e ne tira fuori una sfilza di palle rosse attaccate l’una all’altra da supporti in plastica dello stesso colore, e me la tira addosso. Io la scanso con malcelato schifo, e mi concedo anche un urletto disgustato.
- Non fare il cretino. – mi rimprovera lui, ed io sospiro, rassegnandomi ad entrare ed aprendo l’armadio. Il gagliardetto c’è, sembra lo stemma della casata nobiliare delle Barbie dell’Ordine delle Vergini Devote al Rosa Fosforescente. Sopra c’è scritto “Pretty in Pink”. Se lo dice lui.
Riferisco il nome della stanza a Fler, che a sua volta lo riferisce a Bill. Sento la sua voce un po’ stridula chiedere “awww, il nome sembra così carino, com’è? È bella?”, e non lascia neanche il tempo a Fler di rispondere che subito si mette a strillare “io ed Anis siamo nella Presidential Beauty and Elegance! Ci fermiamo qui per cena, non scendiamo al ristorante. Voi restate in camera vostra?”
Fler mi lancia un’occhiata, e lo sgomento sul mio viso dev’essere tanto palese che non ha bisogno di pormi la domanda per rispondere.
- No, usciamo. – annuisce con sicurezza, - Porto il Chaku in giro. Sai cosa fanno gli altri? – chiede, una punta di speranza che rende più squillante il tono della sua voce, e che finisce immediatamente spazzata via dal suo volto quando Bill risponde blaterando qualcosa a proposito di Eko, di suo Kay One e di tournée per Las Vegas alla ricerca di ragazze da portarsi a letto coinvolgendo anche Tom e Georg per la bella presenza, mentre Gustav restava a dormire in camera propria per potersi svegliare all’alba ed uscire di buon’ora per scattare qualche bella foto del quartiere. – D’accordo. – sbuffa deluso, - Allora a doma—
- …cosa? – indago io, osservandolo allontanare la cornetta dall’orecchio per guardarla per qualche secondo come non potesse credere a ciò che ha appena sentito.
- Non ha neanche aspettato che finissi la parola! – sbotta sconvolto, riattaccando e lasciandosi ricadere stancamente sul letto. Io mi seggo al suo fianco, pensando chissà!, magari la consistenza morbida del materasso sotto il sedere mi ispira e riesco a sdraiarlo. Quest’orribile letto sembrerà meno orribile, se trovo un modo interessante per utilizzarlo.
E invece no, perché appena mi seggo alzo gli occhi al soffitto, giusto per capire se c’è la moquette anche lì, e vedo che, invece della moquette, c’è un enorme specchio, anche lui a forma di cuore, che riflette l’intera superficie del letto.
- …io qui non ci dormo. – sentenzia Fler, alzandosi istantaneamente in piedi. – Chaku. Usciamo.
- Sì. – annuisco, alzandomi a mia volta.
Io e lui non siamo mai stati così d’accordo in vita nostra, è prodigioso.
Finisce che c’infiliamo nel primo locale a portata di mano, che è un posto arredato come una tavola calda in mezzo al deserto, con gli sgabelli davanti al balcone e finti cactus di plastica pieni di lucine colorate fra un tavolino e l’altro.
Ci sediamo ad un tavolo accanto al quale un manichino vestito e acconciato come Uma Thurman in Pulp Fiction finge di ballare il twist. Ha i piedi imbottiti nudi e senza dita, è pallido come la morte e ha le labbra così rosse e le palpebre così nere da fare quasi paura. La parrucca che indossa è tutta scompigliata e, nel complesso, è l’immagine stessa della tristezza.
- Quando rientriamo ci facciamo cambiare stanza, Chaku, tranquillo. – cerca di rassicurarmi Fler, mentre fa cenno ad una cameriera di raggiungerci e lei, accelerando sui suoi pattini e disinteressandosi della gonnellina a quadretti che le si solleva sulle cosce nel movimento, si affretta ad obbedire, fermandosi proprio accanto a noi con un sorriso smagliante, già pronta a prendere l’ordinazione. – Due birre, grazie.
La ragazza prende nota e si allontana subito dopo. La sua lunga coda bionda termina in un boccolo dalla rotondità praticamente perfetta, che dondola sulla rotondità ugualmente perfetta del suo sedere mentre gira dietro il bancone per recuperare la nostra ordinazione. Io mi chiedo a cosa mi serva ancora notare cose del genere se tanto non le posso più toccare, e mi abbatto sul tavolino, sbuffando come una teiera.
- Già che ci sei, non potresti farci cambiare anche città? – provo in un uggiolio depresso, e Fler sospira, esasperato.
- Ne abbiamo già parlato. – mi ricorda, - Santo Dio, ti fa così fatica aspettare un paio di giorni?
- Se devo passarli in una stanza pelosa in cui tutta la mobilia è a forma di cuore, sì! – spiego io, rimettendomi dritto e battendo lievemente un pugno sul tavolo per sottolineare il punto della questione, e cioè che ho ragione. – Già in condizioni normali mi sarebbe di peso, perché voglio tornare a casa, ma così… e poi scommetto che la coppia reale ha una stanza come si deve, una stanza rispettabile! Spiegami perché noi siamo dovuti finire nel buduoir di Barbie Regina della Notte in Calze a Rete e Babydoll.
- Ti ho già spiegato che l’assegnazione delle camere è del tutto casuale, Chaku. – esala lui, scuotendo il capo e lanciando un’occhiata supplice al soffitto. Le nostre birre, nel mentre, arrivano, e Fler saluta la cameriera bionda con un sorriso fascinoso al quale lei risponde arrossendo e stringendosi nelle spalle prima di sparire in un elegante volteggio sui pattini a rotelle. Io grugnisco e afferro la mia bottiglia di birra, mandandone giù metà in un sorso solo.
- Non credere che non l’abbia visto. – borbotto cupamente, e Fler ride.
- Ci credo che l’hai visto, l’ho fatto apposta. – risponde in scioltezza, bevendo un paio di sorsi dalla propria bottiglia. Io spalanco gli occhi, sconcertato.
- Puttana. – sbotto, riprendendo a bere. Fler ride di nuovo, stringendosi nelle spalle.
- In qualche modo dovevo pur distrarti. – si giustifica, - Quello non fallisce mai.
- Ah, sì? – domando io, scettico, - Be’, se vuoi un suggerimento, non c’è bisogno di metterti a fare il cretino con le cameriere, per distrarmi. Mettiti in ginocchio, scendi sotto al tavolo e segui la scia luminosa verso il cavallo dei miei pantaloni. Quello mi distrae che è una meraviglia.
- E poi sono io, la puttana. – ride ancora lui, gettando indietro il capo. Io bevo ancora un po’ di birra e seguo la linea del suo collo. Improvvisamente, il letto luminoso e ruotante a forma di cuore in camera mi sembra meno orribile di prima. È un letto, dopotutto.
- Be’, io quantomeno certe cose le chiedo a te, non mi metto a fare il deficiente con altra gente a caso. – borbotto con disappunto, e lui torna a guardarmi, inarcando un sopracciglio.
- Ma se ti ho visto prima che le facevi una radiografia completa al culo come se ne andasse della tua vita? – mi prende in giro, e poi, notando che la mia bottiglia di birra è già vuota e che anche la sua si appresta a fare la stessa tragica fine nel giro di un altro sorso, chiede ad un cameriere di portarne altre due. Stavolta è un ragazzo, non avrà più di diciott’anni. È sui pattini anche lui, ha i capelli ricci e biondi e gli occhi di un azzurro tale che sembra finto. Faccio la radiografia anche al suo, di culo, mentre mando giù il primo sorso della mia nuova bottiglia di birra. Giusto per non farmi mancare niente. – Almeno non si può dire che tu faccia torto a qualcuno. – considera Fler, annuendo con una certa serietà, - Un po’ una categoria, un po’ l’altra. Non poniamoci limiti.
- Ma la pianti? – sbotto, tirandogli addosso un tovagliolino di carta strappato al dispensatore e appallottolato con furia fra due dita. Lui si scherma con un braccio, ridacchiando vago, e poi sembra placarsi, perché per un paio di minuti non dice una parola. Si limita a sorseggiare la propria birra guardandosi intorno con un sorriso un po’ ebete sulla faccia, e quando sento qualcosa intrufolarsi fra le mie cosce e strofinarsi insistentemente contro il cavallo dei miei pantaloni per un istante il mio cervello rifiuta categoricamente l’ipotesi che quel qualcosa possa essere una qualsiasi parte del corpo di Fler. Voglio dire, è così placido e calmo, sta guardando tutt’altro, e— e se non si ferma immediatamente saranno cazzi amari per tutti quanti. – Fler? – lo chiamo, deglutendo a fatica, - Guarda che scherzavo, prima.
- Scherzavi? – domanda lui, tornando a guardarmi con occhi grandi e puri, - Non capisco di cosa tu stia parlando. – esala con un filo di voce, tramutandosi in Bambi sotto ai miei occhi sconvolti e colmi di paura. Ho già visto abbastanza dell’America per dire che non mi piace. Adesso che ho visto cosa fa alla gente, posso affermare con estrema tranquillità che la odio, anche.
- Fler! – insisto io, alzando appena la voce perché sia chiaro che lo sto rimproverando e disapprovando tantissimo, - Ma sei ubriaco?! – chiedo, mandando giù un po’ di birra anch’io, per buona misura. Se lui è ubriaco, voglio esserlo anch’io. Non la voglio la responsabilità di quello che potrebbe accadere. Voglio ubriacarmi come mai sono stato ubriaco nella mia vita e poi dare la colpa a Bushido per qualunque guaio possiamo combinare io e Fler questa notte. Mi sembra una punizione giusta ed equa, voglio dire, lui mi ha portato in America. In qualche modo dovrà pagare. – Aspetta, - dico quindi, tornando per un attimo presente a me stesso, - ma come fai ad essere già ubriaco? Hai bevuto una bottiglia di birra e mezza, a voler esagerare.
Fler ridacchia divertito, facendo dondolare la sua bottiglia sul ripiano del tavolo e rischiando di rovesciarla un paio di volte.
- Potrei o non potrei aver bevuto qualcosa prima di arrivare in albergo, con Anis. – risponde, annuendo con ampi e lenti cenni del capo.
- Che diavolo vuol dire che potresti o non potresti?! – strillo sconvolto, battendo il palmo di una mano aperta sul tavolo, - O l’hai fatto, o non l’hai fatto! Ma soprattutto, quanto sei cretino se hai deciso di bere ancora pur sapendo di averlo già fatto? Li abbiamo già fatti due secoli fa, questi discorsi! Credevo che ormai ti sapessi controllare!
- Oh, andiamo, Chaku! – sbotta lui, roteando gli occhi, - Mi sto solo divertendo un po’. Non è che tutti gli alcolisti debbano per forza diventare astemi. Io non lo sono, per dire, a me bere piace.
- Sì, magari pure troppo. – sbuffo contrariato, - Dai, torniamo in albergo.
- No, c’è uno specchio enorme su quel letto. – risponde lui con una risatina divertita in maniera quasi criminale, - Non ci dormo là dentro. Chi ce la fa ad addormentarsi con la luce delle lampadine che ti si riflette sulla pelata e poi rimbalza sullo specchio e mi finisce negli occhi?
- Vorrà dire che terrò su il cappellino. – grugnisco, tirandogli uno schiaffetto contro una spalla ed alzandomi in piedi, - Dai, andiamo almeno a prendere un po’ d’aria. E poi questo posto fa schifo.
Inizialmente, Fler non è molto convinto della mia idea. Vorrebbe restare al locale ancora un po’, sospetto che non gli vada granché di muoversi, il che è molto male perché so per certo che se continua a bere e stare seduto prima o poi finisce che si addormenta, e in quel caso dovrò chiamare un carro attrezzi per riportarlo in albergo, motivo per il quale insisto e, alla fine, la spunto io. Andiamo un po’ in giro nella notte illuminata e chiassosa di Las Vegas, ma di aria fresca intorno a noi non ce n’è neanche a pagarne. Scommetto che in questo periodo a Berlino il venticello comincia già a soffiare fresco per le strade della città, e qui, invece? Caldo soffocante, sudato e appiccicaticcio. Questa città non ha lati positivi.
In compenso ha strade piene di lucine colorate di fronte alle quali Fler, in questo stato, è capace di restare immobile per minuti interi, in adorante contemplazione. Ed è durante una di queste adoranti contemplazioni alle quali io non bado, perché so che esaurito l’interesse si esauriscono anche loro, che Fler prende una decisione. Una decisione catastrofica, una decisione che cambierà le nostre vite per sempre, ed io sul momento nemmeno me ne accorgo perché, dopo averla pagata, mi sono portato via dal locale la seconda bottiglia di birra semivuota, ed ho continuato a sorseggiarla per tutto il tempo, e questo, lo ammetto, non ha giovato alla mia lucidità mentale.
Perciò, nel momento in cui Fler si ferma in mezzo al nulla e, fissando un punto a caso nel vuoto enorme che rimbomba dentro i suoi occhi, esala “ommioddio, Chaku, dobbiamo sposarci”, io, in un primo momento, non lo capisco.
- Eh? – biascico, fermandomi a mia volta e voltandomi a guardarlo. Lo trovo che non sta più fissando il vuoto dentro la propria testa, purtroppo, ma bensì qualcosa di decisamente più concreto. Una cappella, una di quelle che si vedono spesso nei film ambientati a Las Vegas in cui lui e lei, ubriachi fradici, si sposano senza essere pienamente coscienti di ciò che stanno per fare, e si risvegliano il giorno dopo con due anelli orrendi al dito, vestiti con costumi imbarazzanti e ridicoli, passando poi i successivi novanta minuti di pellicola a riempire se stessi e il telespettatore di paranoie sul matrimonio e sull’amore per poi scoprire che il contratto non è valido fuori da Las Vegas ma che loro due, in fondo, si amano abbastanza da procedere anche al rito vero, con tutti i crismi, per unirsi per sempre nei secoli dei secoli amen. Segue cerimonia in abito bianco che io non arrivo quasi mai a vedere perché con quei film di solito mi addormento intorno alla mezz’ora.
- Dobbiamo sposarci. – ribadisce lui, indicando la porta spalancata della cappella dalla quale escono un tizio che avrà come minimo sessant’anni abbracciato ad una tipa che ne avrà almeno quaranta di meno, e che camminano entrambi ondeggiando, ridendo ed agitando una bottiglia di champagne che sgocciola per strada. – Subito. Adesso. Lì.
- Fler, no! – cerco di riportarlo a più miti consigli, stringendogli una mano e provando a tirarlo via, - Dai, torniamo in albergo! Che c’entra sposarci adesso? Ma qui, poi? Avanti, è un cliché!
- È perfetto! – insiste lui, quasi saltellando sul posto e prendendo a trascinarmi verso la cappella, ottenendo peraltro molti più risultati di quanti ne abbia ottenuti io provando a trascinarlo dal lato opposto, - È questo il posto! Dev’essere qui. Coraggio, Chaku. È il grande momento!
- Ma il grande momento di cosa?! – strillo io, genuinamente terrorizzato, mentre attraversiamo l’entrata e ci dirigiamo speditamente verso un bancone vuoto sulla sinistra. O meglio, lui si dirige speditamente verso il bancone vuoto sulla sinistra. Io vengo trainato a rimorchio. – Fler, sul serio. Non sono abbastanza ubriaco per fare questa cosa.
- Io sì, invece. – mi liquida lui con una risatina divertita, premendo il palmo della mano contro il campanello dall’aria molto retrò poggiato sul tavolo. Il trillo si diffonde cristallino per la stanza e, pochi secondi dopo, un uomo vestito da prete che palesemente non è un prete né mai sarà un prete, con un bicchiere enorme di coca cola in una mano ed una confezione di patatine del McDonald’s nell’altra, si presenta al nostro cospetto e rutta.
- Avete suonato? – domanda, tirandosi un colpetto sul petto con un pugno chiuso, - Chiedo scusa. Stavo cenando.
- Vogliamo sposarci! – dice immediatamente Fler.
- No, non vogliamo. – piagnucolo io, provando a lanciare uno sguardo supplice al finto prete perché capisca che ho bisogno d’aiuto e mi salvi. Lui non lo capisce, e conseguentemente neanche mi salva.
- Invece sì. – insiste Fler, annuendo deciso, - Vogliamo sposarci e vogliamo una bottiglia di whiskey.
- Io posso darvi entrambe le cose. – annuisce il prete, poggiando cibo e bevanda sul tavolo e chinandosi ad aprire uno sportellino dietro il bancone, per tirarne fuori un’enorme bottiglia di liquore, - A cominciare dal whiskey. Per il matrimonio, sarà un po’ più complicato, ma non molto. Piacere, - sorride, porgendo la mano a Fler, - chiamatemi pure padre Isaiah.
- Piacere, padre. – sorride Fler, annuendo come se ci fosse qualcosa per cui annuire. Prende la bottiglia di whiskey e me la passa. – Tieni. – dice, - Fai in modo di essere ubriaco abbastanza per sposarti, fra una ventina di minuti.
Mi viene da piangere, ma prendo la bottiglia in mano e mi lascio ricadere su un’enorme poltrona rossa e morbidissima mentre osservo Fler e padre Isaiah volteggiare da un bancone all’altro, visionando enormi libri dai contenuti palesemente mistici ed oscuri che non possono portare nella mia vita nulla di buono.
Mi attacco alla bottiglia bevendo direttamente da lì, visto che non mi è stato fornito un bicchiere. Nel mentre, lancio un’occhiata all’altare, in fondo alla stanza. Un altro finto prete, più o meno dell’età del primo, ma con una faccia più grigia e l’aria di uno che è stato sveglio e al lavoro per diciotto ore filate, al punto da essere arrivato a reggersi in piedi solo tenendosi stretto ad una flebo di caffè endovena, sta sposando due tizi vestiti da Elvis e Marilyn. Sono carini, in qualche modo. Sembrano felici. Lei, avvolta nel suo abitino bianco e con una parrucca che le lascia scivolare sulla nuca qualche ciocca di capelli castana, si stringe a lui, infilato a forza in una tutina dorata aderentissima talmente appesantita dai decori e dalla brillantina da scivolargli quasi giù dalle spalle. Ridono, e quando dicono “sì” lo fanno urlando, come se ne andassero così orgogliosi da non riuscire a trattenere la gioia. Mi fanno sorridere, sorridere sinceramente. O forse è solo un effetto collaterale dell’alcool. La perdita totale di senno, intendo.
Come sia o come non sia non lo so, tutto ciò che so è che una mezz’ora dopo io sono ancora su questa poltrona e la bottiglia di whiskey è già semivuota. Il prete che ha sposato Elvis e Marilyn è sparito, quindi suppongo che il suo turno fosse finito, il che è un bene perché se dobbiamo sposarci tanto vale che ad unirci nel sacro vincolo del matrimonio di Las Vegas sia padre Isaiah, che quantomeno mi sembra un tipo sveglio.
- Chaku! – mi chiama ad un certo punto Fler, ed io sollevo lo sguardo e ci metto un po’ ad individuarlo. Lui e padre Isaiah si sono spostati praticamente dall’altro lato della cappella, vicino ad un grande banco frigo di fronte al quale Fler saltella e si sbraccia per farsi notare. Mi sollevo con un grugnito sofferente e disperato e, muovendomi come un orango in procinto di crollare in letargo – se gli oranghi vanno in letargo –, lo raggiungo.
- Cosa? – borbotto, guardando prima lui, poi padre Isaiah ed infine il banco frigo con aria molto sospettosa. Fler mi fa un sorriso da bambino così ampio da mangiargli via tutta la faccia.
- Prima ho scelto i nostri anelli. – mi racconta, mettendomi davanti al naso i due pugni chiusi, - Scegli la mano!
Io sospiro e batto uno schiaffetto lieve sulla destra. Fler ride e la schiude, rovesciandola col palmo verso l’alto così che io possa vedere cosa contiene. È un anello piuttosto grande, con un grottesco teschio con le orbite scavate e dipinte di rosso e tutti i denti in bella vista. È orripilante.
- E questo sarebbe il mio? – domando scettico. Fler annuisce, apre l’altro pugno e mi mostra il suo: altrettanto enorme, assomiglierebbe al mio in tutto e per tutto se non fosse decorato con un enorme cuore metallico con un lucchetto chiuso al centro. Benaugurante, non c’è che dire. – Fanno schifo. – sentenzio. Fler ridacchia.
- Sono meravigliosi. – stabilisce. – Comunque, ora ho scelto anche la torta. – continua, voltandosi verso il banco frigo, - Vediamo se indovini qual è!
- Mmh… - borbotto io, occhieggiando le belle torte dall’aspetto talmente perfetto da sembrare plastificate, come tutto da queste parti, mi rendo conto, tutte in fila sul bancone. Ce n’è una azzurra decorata da perline bianche, una bianchissima su cinque strati ed una bassa, ampia e rettangolare con delle decorazioni tali da far pensare al prato di un campo da calcio, ma scommetto che quella preferita da Fler è un’altra. – Quella rosa? – domando, indicando l’ultima sulla destra, e Fler batte le mani, annuendo compiaciuto.
- Bingo! – esulta, chinandosi a sfilarmi il cappellino per un secondo per lasciarmi un bacio sulla testa, prima di rimettere tutto a posto. – La tiri fuori, padre Isaiah!
Il prete, o quel che è, indossa brevemente un grembiule e, sorridendo divertito, apre il banco frigo, tirandone fuori la nostra bella torta e posandola sul tavolo accanto a noi. Fler ci si avvicina, rimirando il dolce da ogni lato e studiandolo come ci fosse qualcosa che non va.
- Che c’è? – domando, imitandolo e squadrandolo a mia volta. Fler si illumina e schiaccia con un dito l’omino di plastica che rappresenta lo sposo, facendo in modo di affondarlo nella panna fin quasi al petto.
- Adesso è perfetta! – ridacchia divertito, ed io non so se dovrei offendermi per la palese presa in giro alla mia statura, o soltanto preoccuparmi perché si è appena identificato con la sposa. Non vorrà mica che lo riporti in camera tenendolo in braccio?
- Bene, se volete seguirmi… - dice quindi padre Isaiah, facendoci strada verso l’altare, che è una specie di inginocchiatoio in plastica bianca tutto pieno di ditate e impronte di scarpe.
- Vieni qui, Chaku, inginocchiati. – dice Fler, inginocchiandosi per primo e tirandomi per la manica della maglietta per costringermi a fare lo stesso, - Facciamo le cose per bene.
- Non posso tornare a prendere la mia bottiglia di whiskey, prima? – piagnucolo io, senza fare in effetti troppa resistenza e prendendo posto al suo fianco, - Mi aiuterebbe molto.
- Sssh. – mi rimprovera lui, agitando un dito davanti alle labbra, - Sta per cominciare. – dice, come se stesse parlando di un film. O del matrimonio di qualcun altro.
Di quello che succede dopo non ho un ricordo precisissimo. Padre Isaiah dice qualcosa, sembra molto divertito, fa un discorso molto lungo sulla sacralità del vincolo che ci unirà e sull’importanza della famiglia come istituzione fondamentale della società, ma le parole precise che dice io non le ricordo, forse nemmeno le identifico, non mi interessano. Una cosa sola so, ed è che quando chiede a Fler se vuole prendermi come suo sposo, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà, nella buona e nella cattiva sorte finché morte non ci separi, lui dice sì, e non lo dice come se fosse ubriaco. Il suo sorriso non è alcolico, la sua voce non è incerta, i suoi occhi sono chiari e limpidi e fissi nei miei. E quando rivolge la stessa domanda a me, la mia risposta è identica alla sua, sia nei modi che nelle intenzioni.
Quindi suppongo di sì. Sì, Fler. Lo voglio.
Quando ci alziamo, mi rendo conto che il sermone di padre Isaiah dev’essere stato di una certa lunghezza, perché mi fanno male le ginocchia. Fler si rimette subito a ridere, mi allaccia al collo e sussurra “ed ora lo sposo può baciare l’altro sposo”, prima di coprire le mie labbra con le sue. Io lo stringo alla vita, chiudo gli occhi e lo bacio profondamente, non so per quanti minuti. Tanti, comunque. Il suo sapore è piacevole, nonostante il retrogusto un po’ amarognolo della birra.
Quando ci separiamo, padre Isaiah ha indossato nuovamente il grembiule e ci ha tagliato due fette di torta.
- Mangiate, - dice, - io nel mentre vi impacchetto il resto.
Siamo fuori non più di dieci minuti dopo. Fler porta il pacco della torta come fosse un sacchetto della spesa, facendolo dondolare avanti e indietro lungo il suo fianco mentre io rimiro da ogni lato il mio anello trovandolo sempre meno brutto ogni secondo che passa. Ci sto facendo l’occhio, suppongo. Il suo è più brutto, c’è un cuore sopra. Sul mio, quantomeno, c’è solo un teschio. Una cosa con una sua dignità. Non fosse per quegli occhi rossi che lo fanno sembrare finto, sarebbe perfino un bel pezzo d’arredamento, visto che è grosso quanto un piccolo soprammobile. E pesante tanto quanto, peraltro.
È solo quando la mano di Fler si intreccia con la mia e mi volto a guardarlo che vedo che non ha più le guance rosse e il suo sorriso s’è fatto meno vago e infantile.
- Tu non eri ubriaco! – dico in un borbottio deluso, perché io invece adesso lo sono. Lui si mette a ridere.
- Invece sì. – annuisce, stringendo la presa sulla mia mano, - Ho bevuto davvero qualcosa, mentre stavo in giro con Anis. Però ho esagerato un po’ con le scene, lo ammetto. – ridacchia, - È che ero felice. Avevo bisogno di una spintarella.
- O non l’avresti mai fatto? – domando, continuando a guardarlo. Lui tiene il naso puntato per aria, e gli brillano gli occhi alla luce di tutte le insegne colorate che illuminano la strada che stiamo attraversando.
- No, forse no. – ammette, - Tu?
- Sicuramente no. – dico sinceramente. Lui, invece di arrabbiarsi, si mette a ridere e mi gira un braccio attorno alle spalle, stampandomi un bacio umido sulla guancia.
- Sei pentito? – mi chiede, restandomi appoggiato addosso.
Scuoto il capo con forza.
- Questo mai. – dico, cercando ostinatamente i suoi occhi finché non me li concede. Lui annuisce, sorridendomi serenamente. Vorrei che questa notte non finisse mai. Anche se sono confuso e un po’ nauseato e quella torta faceva schifo ed ho un anello orribile al dito e non credo di avere ancora realizzato pienamente cosa effettivamente io e Fler abbiamo appena combinato, vorrei che questi istanti potessero dilatarsi nel tempo e durare per sempre. Lo vorrei veramente.
E invece niente, perché il tempo c’ha questa brutta abitudine di passare, ed è sempre troppo poco, ma da un certo punto di vista va bene anche così, perché la cosa bella dei minuti che passano è che ce n’è sempre uno successivo, be’, almeno fino a quando non muori, ma non mi sembra questo il caso, e comunque adesso non ci voglio pensare. Per cui alla fine li prendo bene, questi secondi che non rimangono immobili e diventano altri secondi. Questi secondi in cui il sorriso di Fler si allarga, si istupidisce e si fa più sonnacchioso. Questi secondi che ci riconducono in albergo, su per l’ascensore e nella nostra stanza cuoriforme, rosa e pelosa.
- Non accendere la luce. – bisbiglia lui, tirandomi per un polso e trascinandomi verso il letto, - Sennò quell’affare si mette a girare. E poi non voglio vedere lo specchio.
Io annuisco, chiudendomi la porta alle spalle e seguendolo. Lui ricade sul materasso, io ricado su di lui e scoppiamo a ridere, ed il secondo dopo sto già scivolando con le labbra sul profilo del suo collo, che è da quando l’ho visto piegarlo al locale che sto pensando che vorrei baciarlo, e non mi sembra quasi vero di poterlo fare adesso, anche se i nostri mugolii sono sempre più bassi e confusi e i nostri movimenti sempre più lenti e goffi.
Alla fine non combiniamo niente. Fler si addormenta mentre gli sto slacciando la cintura, io rido e mi appoggio con la fronte contro la sua spalla, e questo è sufficiente, perché chiudo gli occhi e due secondi dopo sto già dormendo anch’io, con la sua cintura fra le mani e il teschio sull’anello che preme con forza contro la mia pancia, solo che sono tanto stanco e ubriaco che non ci faccio nemmeno caso.
Ci faccio caso l’indomani mattina, però, quando la terra improvvisamente si ribalta e io mi ritrovo col sedere sul pavimento dopo che il nord e il sud si sono capovolti, e tutto quello che riesco a capire è che Fler sta strillando e io sento un pizzicorino fastidioso proprio accanto all’ombelico.
- Ma cosa cazzo—?! – grida Fler dal bagno, prima di piegarsi sul water e vomitare anche l’anima, - Chaku! È tutta colpa tua! – strilla fra un conato e l’altro. Io sbatto le palpebre, fissando il vuoto con aria confusa. Che cosa è successo? Mi alzo in piedi e mi dirigo verso l’armadio, lo apro e guardo la mia immagine riflessa nello specchio fissato all’interno di una delle ante. Ho una faccia talmente stravolta… sono inguardabile.
Sollevo la maglietta, giusto per osservarmi la pancia, e quando vedo l’enorme stampa di un teschio sulla pelle arrossata spalanco gli occhi e comincio a ricordare.
Fler che vomita in bagno.
Quest’anello orribile che indosso.
La confezione in cartoncino ondulato della torta che abbiamo posato sul comò rientrando.
Oh, mio Dio.
- C’è nessuno? – chiede la voce un po’ stridula di Bill da fuori, battendo sulla porta come un indemoniato. Ogni colpo sul legno è una capriola del mio cervello, mentre Fler continua a vomitare e suppongo che ne avrà per un bel po’. Probabilmente ieri, quando mi ha detto di non aver bevuto poi così tanto, mentiva.
Mi dirigo verso la porta più per far cessare i colpi e far tacere Bill che perché mi vada davvero di mostrarmi al mondo in queste condizioni, per cui mi limito ad aprire e poi torno indietro, accasciandomi seduto sul letto come senza vita, le spalle curve, le braccia molli, il volto senza espressione.
- Ma che…? – borbotta Bill, facendosi strada all’interno della stanza, - Oddio, - commenta, incapace di trattenere una risatina, - questa suite è di una bruttezza che non si racconta.
Bushido, accanto a lui, tende l’orecchio e sente Fler che continua a diffondere nell’aria questa sinfonia di morte che mi accompagna ormai da cinque minuti buoni, e si irrigidisce come un pezzo di legno.
- Oh, no. – dice perentorio, ed io quasi vorrei scoppiare a ridere gonfiando il petto come un pollo e dirgli “ha! Visto? C’è qualcosa che non puoi controllare, e questa cosa è la nostra palese follia”. Lo farei davvero se non fosse ridicolo. No, ok, forse lo farei davvero anche se è ridicolo. È che ho troppo mal di testa.
- No cosa? – domanda Bill, con l’aria di un bambino che non abbia capito niente della vita in generale, descrizione che peraltro non si allontana di molto dalla realtà dei fatti, per quanto lo riguarda. I conati di Fler sembrano fermarsi, e mentre Bushido continua a fissarmi agghiacciato come avessi messo incinta la sua primogenita senza prima ottenere il suo consenso e la sua mano in matrimonio lo ascoltiamo esalare un sospiro soddisfatto e sereno che dura la bellezza di due secondi contati, dopo i quali riprende a vomitare come se non avesse già fatto la stessa identica cosa fino a due secondi prima. Cosa gli sarà rimasto nello stomaco da espellere non lo so, non voglio saperlo e nemmeno voglio provare a immaginarlo.
Io mi spalmo una manata sulla faccia. Bushido ringhia sottovoce. Bill esala un “non capisco” infantilmente confuso. Fler continua a vomitare.
Decido di prendere in mano la situazione. Mi alzo, raggiungo il comò, apro il pacchetto e ne indico il contenuto con un cenno del capo.
- Abbiamo molte cose di cui parlare. – esordisco con serietà. – Torta?
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Bill/Bushido, David/Bushido (accennato).
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Gen, Angst, Slash.
- "Non c’è niente nella vita che possa prepararvi a compiere quarant’anni, lasciate che ve lo dica."
Note: L'immortalità è un po' la caratteristica principale di questa saga, no? *ride* Ebbene sì, dopo chissà quanti mesi dall'ultimo postaggio a riguardo, il GD torna fra voi per parlarvi di cose di cui non frega a nessuno. No, in realtà non è andata proprio così XD Di base, volevo scrivere una cosa per celebrare i quarant'anni del nostro uomo gay preferito nel mondo, ovvero David Jost, il quale è passato dagli -enta agli -anta esattamente cinque giorni fa, che il buon Dio l'abbia in gloria. Insomma, io volevo scrivere questa compleanno!fic, però il GD mi chiamava, esso voleva che la scrivessi all'interno della sua confusa e confusionaria timeline, ed io non ho potuto fare altro che seguire la sua voce e lasciare che mi conducesse dove voleva. Di base in realtà io credo che questa storia sia incomprensibile, se non avete letto il GD, e per di più credo che al suo interno ci siano riferimenti ad una shot che, per una serie di ragioni inutili, non ho ancora postato. Insomma, abbiate pazienza, con me. *ride*
Partecipa anche alla challenge indetta da 500themes_ita, ispirandosi al prompt #83 (Contando gli anni), e all'ottavo round della Zodiaco!Challenge.
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PICK ME UP WHEN I'M FEELING BLUE

Sipping whiskey out the bottle
not thinking 'bout tomorrow
singing Sweet Home Alabama all summer long

Quando ieri notte sono andato a dormire – molto tardi, ho una regola personale secondo la quale non importa quando scatti la mezzanotte, il nuovo giorno comincia sempre quando mi sveglio dopo aver dormito. Sì, lavorando per i Tokio Hotel mi è capitato spesso che certi giorni durassero quarantotto o anche settantadue ore – l’ho fatto sperando che l’indomani non dovesse mai arrivare. Ieri sera sono uscito, ho acciuffato Dave – unico essere umano rimastomi amico da quando la mia intera esistenza ha smesso di ruotare attorno a quattro ragazzini con evidenti comportamenti asociali per spostarsi sull’asse di un tunisino pazzo, immortale e rompipalle – e l’ho portato in giro per locali come usavamo fare quando eravamo ancora entrambi single, in cerca di ragazzo e disperati abbastanza da pensare che, mal che andasse, potevamo sempre ritirarci in una villetta sul mare nel Devonshire ed allevare gatti finché la senilità non ci avesse uccisi nei nostri letti.
Ogni tanto, ad un uomo, cose come questa servono. Intendo, gli serve recuperare un buon vecchio amico, uno che non c’entri niente con tutti i casini che ha vissuto nel passato recente della sua esistenza, ed uscire con lui, recandosi in qualche allegro posto sperduto di periferia in cui uomini che di giorno fanno i lavascale indossano un costume da pompiere e si denudano per la tua gioia. Ad un uomo serve stare con quell’amico in quel posto e perdersi dentro una pinta di birra nel ricordare episodi divertenti della propria giovinezza, gli serve giusto per ricordarsi che, per quanto tremenda possa essere la sua vita in questo momento, c’è stato un periodo della sua esistenza in cui è stato giovane e stupido, mortalmente stupido, e nessun guaio può essere abbastanza da rimpiangere una cosa del genere.
Io, per dire, sapendo che, il giorno dopo, mi sarei svegliato quarantenne, avevo un bisogno estremo di chiacchierare con Dave e rivangare quell’agghiacciante periodo della mia esistenza in cui indossavo jeans oversize, portavo i capelli come Nick Carter dei Backstreet Boys ed osavo presentarmi in queste condizioni per dei photoshoot che poi finivano fra le pagine patinate di riviste per ragazzine preadolescenti.
Perfino compiere quarant’anni è meno imbarazzante di questo.
Intorno alle tre del mattino, ed intorno alla quinta birra, con gli occhi semichiusi e pesanti di sonno, Dave s’è voltato verso di me e, guardandomi con palese sofferenza, mi ha detto che, se non intendevo salire su un cubo e rimorchiare uno spogliarellista, sarebbe stato molto meglio chiudere lì la serata. Io ho guardato l’uomo dagli ondeggianti pettorali che si agitava come un tarantolato indossando solo un tanga leopardato ed un papillon rosso annodato attorno al collo, ed ho sospirato. “D’accordo,” ho detto, “torniamocene a casa.”
Sono arrivato sano e salvo al mio appartamento dopo un’ora e una decina di chilometri percorsi a passo d’uomo per evitare di attirare l’attenzione di qualche vigile urbano di pattuglia – perché sui rotocalchi mi bastano le facce della gentaglia che rappresento per un motivo o per l’altro, non ho alcun interesse a finirci anch’io ritratto dall’obbiettivo dell’autovelox, peraltro dopo non essere neanche riuscito a mettermi in posa – e dopo aver salutato Dave mi sono ritirato in camera da letto.
Attirato come una falena dalla luminescenza dello schermo del portatile rimasto acceso quando ero uscito, mi sono seduto per qualche istante davanti al computer ed ho lanciato un’occhiata falsamente distratta alla mia bacheca su Facebook ed ai circa cinquecento messaggi d’auguri che s’erano andati accumulando da mezzanotte alle quattro.
Sospirando pesantemente, mi sono alzato in piedi, ho tirato fuori il cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni, l’ho riacceso – dopo averlo colpevolmente tenuto spento per tutta la serata, completamente incurante del fatto che qualcosa di grave avrebbe potuto succedere e qualcuno avrebbe potuto avere bisogno di sentirmi con urgenza – ed ho aspettato che, per i successivi venti minuti, tutti gli sms, i messaggi in segreteria e gli avvisi di chiamata di chi mi aveva cercato per farmi gli auguri finissero di scaricarsi. Dopodiché, ho posato il telefono sul comodino, mi sono lasciato ricadere a quattro di bastoni sul letto e, nascondendo la testa sotto il cuscino in un’abile imitazione di struzzo africano, e sono crollato in coma etilico.
Qualche mese fa, quando sono stato trascinato in un capannone in periferia e lì sono stato aperto in due, nel momento in cui ho chiuso gli occhi mi sono sentito tragicamente depresso, perché ero convinto che la mia vita stesse per finire e trovavo questo pensiero assolutamente inaccettabile.
Qualcuno avrebbe dovuto dirmi allora che, qualche mese dopo, mi sarei addormentato fra le comode e morbide lenzuola di seta del mio letto indossando ancora i miei mocassini scamosciati blu, ed avrei desiderato di non svegliarmi più solo per non dover per forza compiere quarant’anni.
Sono sicuro che, se l’avessi immaginato, avrei accolto la possibilità della morte imminente con minor sconforto.
*
Non c’è niente nella vita che possa prepararvi a compiere quarant’anni, lasciate che ve lo dica. Se pensate di aver sofferto, nella vostra esistenza, se pensate di aver avuto una vita sufficientemente difficile da poter dire che passare dagli –enta agli –anta non sarà in grado di sconvolgervi nemmeno un pochettino, be’, vi sbagliate. Non è neanche una questione di vecchiaia in sé – naturalmente è anche una questione di vecchiaia in sé, chi voglio prendere in giro? Ma non è solo quello il problema, ecco – ma piuttosto una questione di traguardi.
A quarant’anni sei più o meno a metà della tua vita. Poi okay, magari arrivi a cento, ma quando hai quarant’anni questo non lo puoi sapere, ti basi sull’aspettativa di vita che la tua società di riferimento, le tue condizioni fisiche e psicologiche ed il modo generico in cui stai al mondo ti danno, e dici d’accordo, ci sono, sono al giro di boa, sono sulla cima del monte, da qui è tutta discesa, devo solo rotolare a valle. Ma mentre mi arrampicavo fino a qui, che cosa ho fatto?
E questa domanda, te la poni lì. A quarant’anni. Non a trenta, quando sei ancora troppo giovane per pensare di poter essere arrivato da qualche parte, e non a cinquanta, che peraltro è un’età talmente lontana che quando ti immagini nel futuro neanche la pensi, ma a quaranta. Quaranta è un bel numero, tondo, rassicurante, e allo stesso tempo spaventosamente netto. Quaranta è quel numero di anni raggiunto il quale per la società che ti ha cresciuto tu devi esserti realizzato.
Credetemi, è un bel casino, quando ci arrivi, capire se ci sei riuscito o meno.
Passare dai ventinove ai trenta, a ripensarci oggi, non è stato così traumatico. Insomma, sì, naturalmente avevo la sensazione di stare entrando in un nuovo periodo della mia vita, cominciavo a sentirmi sulle spalle il peso degli anni, cominciavo a notare in me stesso certi cambiamenti che mi obbligavano a rendermi conto di quanto fossi cresciuto nel tempo, ed anche a chiedermi come fosse stato possibile non notarlo tanto a lungo, ma lì è finita. Sapete quella sensazione che ogni tanto ti prende quando ti convinci che un certo avvenimento cambierà la tua vita, o quantomeno la tua percezione delle cose, e invece poi quella cosa accade ed il giorno dopo tu ti svegli e, di base, non è cambiato niente? E da un lato ti senti deluso per tutta quell’aspettativa sprecata, ma dall’altro sorridi perché ti senti quasi rassicurato dal fatto che la tua vita sia rimasta la stessa, perfettamente controllabile, perfettamente monotona come, in fondo, ti piace che sia?
Ecco, per me i trent’anni sono stati questo. Non ho fatto grandi tragedie, ho accolto con sorrisi di circostanza le battutine degli amici e dei parenti circa le rughe, gli anni che passano e l’essere ormai dei bimbi grandi, sono rimasto al telefono più di mezz’ora ascoltando pazientemente e senza risentimento le lagne di mia madre sul suo essersi ormai rassegnata a non diventare mai nonna, poi mi sono fatto una doccia, mi sono cambiato, sono uscito e mi sono presentato alla festa a sorpresa che i miei amici credevano di avere organizzato tanto perfettamente da non avermi fatto capire dove si fosse tenuta. È stata una bella serata, ne ho ricordi piuttosto chiari.
Ho riso senza falsità, mi sono concesso un capriccio o due, ho bevuto più di quanto non faccia di solito ma senza mettermi in ridicolo e, quando sono andato a dormire, l’ho fatto pensando che dal giorno dopo tutto sarebbe stato diverso, più bello, più entusiasmante, più vero, ma quando mi sono svegliato e ho capito che invece non sarebbe successo, non mi sono sentito triste. Per niente. Ho sorriso, ho fatto colazione, mi sono lavato i denti e sono andato a lavorare, e mi sono sentito contento così, anche se era palese che la mia pelle non fosse più la stessa dei vent’anni, anche se era vero che probabilmente non avrei mai dato un nipote a mia madre, anche se non avevo passato la notte con nessuno ed in generale non avevo diviso la mia vita con qualcuno in un lungo periodo di tempo. Ero a posto. Felice non direi, la felicità è un sentimento così breve e fugace, una scintilla che si accende ed è così preziosa proprio perché si smorza subito. Felice no, ma contento, contento sì.
Alla fine, sapete, la grande questione della gioia, nella vita, sta tutta lì. Nel tuo grado di contentezza quando vai a dormire dopo una giornata pesante, e nel tuo grado di contentezza quando ti svegli al mattino prima di affrontarne un’altra. È davvero tutto lì, in quel pensiero minuscolo col quale di coccoli prima di addormentarti e in quell’altro altrettanto minuscolo col quale ti dai la forza di uscire dal letto.
Ogni tanto può capitare che quel pensiero dolce, quel pensiero incoraggiante, manchino del tutto.
Che poi è il motivo di base per cui io, stamattina, non voglio neanche aprire gli occhi.
*
E invece squilla il telefono.
Tra le svariate miriadi di cose che lo squillo del telefono rappresenta – quasi tutte brutte, specie quando hai un incarico di responsabilità come il mio – ce n’è una molto reale, tangibile e particolarmente sgradevole: il suono del telefono è sempre forte, penetrante ed improvviso. Spezza il silenzio, fa automaticamente sobbalzare, non tanto per la paura, ma per quell’automatica reazione di allarme con la quale l’organismo umano reagisce a suoni simili.
Negli ultimi anni, la gente ha provato in ogni modo ad attutire questa sensazione spiacevole; ha cambiato le classiche suonerie con i toni polifonici, poi ha sostituito anche loro con suoni più particolari e scherzosi, come il miagolio di un gatto o una buffa voce che ti chiama in modi stupidi per attirare la tua attenzione, e poi anche questi suoni sono spariti per lasciare posto alle canzoni che più ci piacciono in un determinato periodo, o alle nostre preferite di sempre.
L’effetto non cambia. Il nostro cellulare potrebbe squillare anche con la canzone con cui ci addormentava nostra madre da bambini, e l’effetto continuerebbe a non cambiare. Quando squilla, improvviso, spaccando il silenzio che ti eri costruito attorno ed all’interno del quale ti eri rifugiato come in un bozzolo caldo e rassicurante, perdi il controllo sul tuo corpo e sobbalzi, sgrani gli occhi, ti volti automaticamente verso la fonte del suono per assicurarti che sia tutto a posto.
Il mio cellulare suona la Lambada, quando mi chiamano, e Dio solo sa se non ho ricordi meravigliosi legati a questa canzone e ad un avvenente portoricano di nome Gael col quale ho ballato su una spiaggia a notte fonda mentre l’eco di questa canzone giungeva a noi tramite la radiolina accesa di una panineria lì vicino, ma nonostante questo, quando squilla io sobbalzo, mi volto a guardarlo con terrore per un secondo e poi, già il secondo successivo, aggrotto le sopracciglia, fissandolo adesso con astio.
Sono ufficialmente le dieci del mattino del dodici agosto, io mi sono appena svegliato e perciò non posso più fingere di avere ancora trentanove anni e di essere ancora fermo al giorno prima, e fa un caldo tale che anche qualcuno con molta più voglia di vivere di me farebbe fatica a trovarne, se dovesse necessariamente alzarsi dal letto.
Sospiro ed allungo una mano verso il telefono, sollevandolo per scrutare il display. È Bill, naturalmente. Se non è mia madre, è sempre Bill.
Mentre sospiro un’altra volta chiedendomi quante possibilità ci siano che il mio figlioccio adottivo onorario decida di chiamare la polizia e denunciare la mia scomparsa se persisto nel non rispondergli, realizzo che a conti fatti non posso continuare ad ignorare la questione. Non è che ci siano possibilità che scompaia, che il tempo torni indietro o che in qualche modo i compleanni vengano cancellati dalla legislazione mondiale, se io insisto a non rispondere al telefono. In realtà, che io risponda o meno, non cambierà proprio niente, nella mia età. Ma almeno, se risponderò potrò smettere di ascoltare la Lambada.
Devo decisamente cambiare suoneria.
- Pronto?
- David! – Bill mi strilla nelle orecchie, la voce già rotta dal pianto liberatorio che immagino si starà lasciando scorrere lungo le guance assieme agli usuali venti chili di kajal, - Dio mio, David, ma sei impazzito? Ma sei impazzito? Hai idea di quanto mi hai fatto preoccupare? Ma come ti è saltato in testa di ignorare le mie chiamate, con tutto quello che è successo negli ultimi mesi?
In realtà, negli ultimi mesi non è successo niente di particolarmente assurdo, fatta eccezione per un viaggio negli Stati Uniti che si è concluso con un matrimonio inatteso e per la breve parentesi di momentaneo dolore emotivo durante la quale il mio ragazzo mi ha lasciato per andare a curare la malaria in Africa con la sola imposizione dei propri pettorali scolpiti nel marmo. L’avvenimento al quale Bill si riferisce, invece, è accaduto mesi fa, ha coinvolto solo me, le mie budella e un coltello non particolarmente affilato, e non avrebbe più modo di ripetersi, dal momento che Bushido, dopo l’accaduto, ha cominciato a pagare uomini perché mi proteggessero seguendomi nell’ombra e terrorizzandomi a morte quando, tornando a casa alle tre del mattino dopo una bevuta, me li vedo spuntare di fronte avvolti nei loro completi neri mentre mi rassicurano dicendo “è tutto a posto, signor Jost, vada pure”.
- Sono vivo, Bill. – annuncio pazientemente, staccandomi di dosso le lenzuola appiccicate alle gambe e sollevandomi faticosamente a sedere mentre ascolto Bill confermare il mio attuale stato in vita a qualcuno accanto a lui, qualcuno che deduco essere Bushido dal modo annoiato in cui risponde “ma te l’avevo detto, Bill”. – Posso andare, adesso? Ho bisogno di una doccia.
- No. – risponde Bill, perentorio, - Cioè, sì, potrai andare a farti una doccia presto, ma prima: tanti auguri! – mi strilla nelle orecchie, inutilmente eccitato per qualcosa che non eccita nemmeno me, figurarsi se dovrebbe avere lui qualche diritto a sentirsi eccitato al mio posto.
- Grazie. – concedo svogliato, - Ora posso andare?
- No! – sbotta Bill, offesissimo, - Ma che ti prende? Ho bisogno di sapere a che ora sei libero, stasera.
- No, Bill, non hai bisogno di saperlo. – gli spiego io con un sospiro stanco mentre costringo il mio vecchio corpo a sollevarsi dalla dolce comodità del materasso memory foam.
- No? – chiede lui, vagamente smarrito. Posso immaginarlo sbattere le lunghe ciglia ricurve, gli occhi di quel brillante castano dorato che fanno capolino da sotto le palpebre pittate di grigio metallizzato.
- No. – confermo, dirigendomi serenamente verso il bagno, - Perché non intendo partecipare ad alcuna festa, per i miei quarant’anni, - spiego, cercando di utilizzare il tono di voce più pacato che i nervi repressi che tremano sottopelle mi consentano, - Non intendo organizzarla a casa mia, non intendo lasciartela organizzare a casa tua, non intendo aprire regali e sorridere fingendo di essere contento nel festeggiare l’inesorabile restringersi della finestra di tempo che mi separa dalla morte e non intendo neanche stare ad ascoltarti mentre cerchi di convincermi che invece sarà una bella festa e ci divertiremo un sacco.
Dall’altro lato della cornetta, Bill resta in silenzio per tre minuti netti. Un record.
- Bill? – lo chiamo, - Sono stato chiaro?
- È scappato. – mi risponde Bushido. Non riesco a decifrare il tono della sua voce. – Gli hai detto che non vuoi saperne niente?
- In sostanza, sì. – annuisco, - Ed è quello che ripeto adesso anche a te. Inoltre, sto per spegnere il cellulare. Ti prego di non inscenare il finimondo, se non mi senti nell’arco delle prossime ventiquattro ore. Gradirei trascorrere questo giorno senza che mi venga ricordato continuamente che sono un vecchiaccio.
Bushido ride appena, lo immagino scuotere il capo.
- Jost, sei un cretino. – mi rimprovera, - Ma d’accordo.
Mi fermo, immobile, una mano sulla maniglia della porta del bagno, l’altra stretta attorno al telefono.
- D’accordo? – domando per conferma.
- D’accordo. – ribadisce lui con sicurezza, - Ci sentiamo, Jost.
D’accordo. Mi sarei aspettato una maggiore insistenza.
*
È una doccia lunga e rilassante, all’avocado e ai minerali del Mar Morto – sebbene io non abbia idea di quale sia l’odore dei minerali del Mar Morto, per cui principalmente è una doccia all’avocado e basta – quella che mi concedo e alla quale mi concedo come non mi sono mai concesso a nessun altro essere con una declinazione al femminile. Lei è buona, con me, mi tratta con rispetto, non sente il bisogno di farmi gli auguri e, pertanto, di farmi sentire vecchio.
Per la verità, dal momento che è una doccia ipertecnologica di ultima generazione, dotata di ogni comfort e di un dispositivo elettronico incredibilmente efficiente che le permette di esprimersi attraverso una voce femminile dalle tonalità suadenti e placide, se avessi attivato il programma “buongiorno del mattino” so che, dopo aver acceso la radio, mi ricorderebbe la data di oggi, l’orario di inizio della doccia, le principali notizie del mattino, gli aggiornamenti sulla viabilità e il traffico e, alla fine, mi farebbe anche gli auguri di compleanno. Fortunatamente, sono stato abbastanza furbo da disattivare quella modalità al secondo giorno di utilizzo, e pertanto la voce di Serafine, che poi è il nome con cui la voce suadente s’è presentata durante la configurazione al primo utilizzo, si limita ad augurarmi il buongiorno e a chiedermi se preferisco doccia semplice, idromassaggio o cromoterapia.
Opto per la doccia semplice, all’avocado e ai minerali del Mar Morto, come vi dicevo, e ne vengo fuori qualcosa come tre quarti d’ora dopo, raggrinzito come una prugna e stupefatto dal fatto che il guanto di crine che ho usato per lo scrub mi abbia lasciato ancora della pelle addosso. È una sensazione abbastanza meravigliosa, e posso sorridere sinceramente mentre, dopo essermi accuratamente asciugato, esco dal bagno avvolto in un microasciugamano che mi copre appena i fianchi. Vado in cucina, bevo una tazza del caffè che la caffettiera ha provveduto a preparare da sé una mezz’oretta fa, poi recupero il nuovo numero di Vanity Fair e passo la successiva ora seduto al tavolo della colazione, le gambe stese sull’unica altra sedia libera, a fingere di leggere mentre in realtà fantastico su immaginari lavori di ristrutturazione alla facciata del palazzo e immaginari operai unti di sudore e sporchi di gesso e cemento armato che fanno educatamente irruzione in casa mia dalla finestra, chiedono un bicchiere d’acqua per dissetarsi dalla calura estiva e poi mi prendono ripetutamente contro il piano in marmo bianco sopra la lavastoviglie. Uno dopo l’altro, a volte anche in coppia.
Dopodiché, ho bisogno di un’altra doccia.
*
Decidere dove andare, o cosa fare del resto della mia giornata, non è così semplice. Non facciamo mai caso a quanto i nostri impegni, intendo quelli che ci scandiscono le giornate, siano per lo più dipendenti dagli altri, più che da noi stessi, fino a quando non spegniamo il telefono. Nel momento in cui quel dettaglio viene a mancare, ecco che improvvisamente ci ritroviamo con un mucchio di tempo libero per le mani e nessuna idea su come impiegarlo.
Dopo essermi assicurato che il sole splenda e che la temperatura esterna oscilli fra i ventinove e i trentadue gradi, stabilisco che restare a casa non ha senso. Primo perché è un luogo facilmente identificabile. Chiunque volesse pensare di volermi trovare, cercherebbe qui per prima cosa. E io non intendo farmi trovare.
Secondo perché fa veramente troppo caldo, ed un uomo attento all’ambiente e al riscaldamento globale quale io sono non può in alcun modo sopportare di risolvere questo problema chiudendosi in una stanza col condizionatore a temperature polari. Qualche pinguino mi ringrazierà per questo, penso con orgoglio mentre indosso il costume da bagno, un paio di bermuda ed una maglietta e, infradito ai piedi, mi lancio verso Steglitz-Zehlendorf.
Tutte le mie buone intenzioni, il mio accorato sostegno verso la causa ambientalista e il mio affetto per i pinguini disagiati che perdono le loro case di ghiaccio a causa del riscaldamento globale, viene meno in un soffio quando, arrivato alla spiaggia del Wannsee, la trovo gremita di gente come non l’ho mai vista da che sono al mondo. E, ricordiamolo, stiamo parlando di quarant’anni. Evidentemente, oggi tutti devono avere avuto la mia stessa idea. Quanti eroi che vogliono salvare il mondo un condizionatore spento alla volta. Greenpeace sarà soddisfatta.
Tanto vale, mi dico, ormai sono qui. Recupero il borsone e mi faccio strada fra ragazzini impegnati a tirare su monumenti di sabbia, donne impegnate a diventare esse stesse monumenti cospargendosi abbondantemente il corpo di creme solari di ogni tipo e uomini che preferirebbero diventare monumenti anch’essi, pietrificandosi possibilmente sul posto, in modo da non dover passare un secondo in più della loro vita ad annoiarsi disperatamente sotto quel sole cocente.
In mezzo a questo acquerello di umanità varia, trovo un posticino grande abbastanza per ospitare il mio telo da mare e me stesso, entrambi piegati in due in modo da occupare il minor numero di metri quadrati possibile.
Ci sono tanti di quei colori, su questa spiaggia, tanti di quei suoni. Gli ombrelloni di ogni dimensione, aperti e puntati verso il sole, sono così tanti che sono sicuro che, se sorvolassi la spiaggia, li vedrei come pois multicolori sul vestito di una ragazza. I gabbiani strillano con forza, ma non abbastanza forte da sovrastare il mormorio incessante del chiacchiericcio delle persone, ognuno perso nelle proprie cose, ognuno annodato nel groviglio dei propri drammi personali, o coccolato nel tepore di qualcosa di bello. Una donna sta parlando del vestito da sposa di sua figlia con un’amica, lo descrive così minuziosamente che quando ha finito potrei disegnarlo senza sbagliare un dettaglio. Una bambina di una decina d’anni sta cercando di spiegare al fratellino, credo, o ad un amichetto più piccolo, come funzionano le onde del mare. Lui fatica a starle dietro e ad un certo punto lei, frustrata, strilla “ma sei stupido?!”, e corre a tuffarsi in acqua. Un uomo parla con un coetaneo, probabilmente un amico. Ha lo sguardo triste, dice “non ce la faccio più”. Non riesco a cogliere i dettagli del discorso, in realtà nemmeno voglio.
Mi appoggio al telo con entrambe le mani, le braccia tese ai lati del corpo. Mi piego indietro e scruto il cielo terso, macchiato qua e là da qualche sbuffo di nuvola. Sembrano fiocchi di panna montata. Nei pressi del sole, il colore del cielo si fa più chiaro, sbiadito, brillante, quasi trasparente. Dà proprio l’impressione di non essere altro che una campana di vetro, tutta attorno al pianeta, attraverso la quale i raggi del sole passano appena. Tuttavia, riesco a sentirli sulla pelle, ed è una sensazione piacevole.
Dietro di me, una famiglia composta da una madre e tre ragazzini di varia età si decide ad andare via, liberando un po’ di spazio. Me ne approfitto, prima che arrivi qualcun altro. Stendo per bene il telo, e mi ci stendo per bene sopra anch’io. Chiudo gli occhi, sorridendo appena. Li tengo chiusi a lungo.
*
La giornata scorre così tranquillamente da sembrare finta. Intorno a mezzogiorno, mi rifugio in uno dei numerosi ristoranti che affollano il lungolago, ed in barba a tutti i miei principi etici e morali passo un paio di piacevolissime ore rifocillandomi – cioè gozzovigliando come un maiale su metà del menu del giorno – e pascendomi nell’aria freddissima che riempie la stanza al punto che, entrando, pare di non essere nemmeno più in estate. Tutta questa gente con le loro giacchettine addosso mentre fuori le persone vorrebbero strapparsi ogni indumento e bruciarlo pur di sentire un minimo di fresco, sono esilaranti. Li osservo con divertimento, facendo punto d’onore nel restare in maniche corte per tutto il tempo nonostante la pelle d’oca da freddo.
Quando comincio a sentire le estremità del mio corpo perdere sensibilità, decido che ne ho avuto abbastanza. Pago, esco dal ristorante e l’escursione termica fra interno ed esterno è tale che un qualsiasi uomo meno fisicamente preparato di me sverrebbe all’istante. Fortunatamente, io sono ancora in forma, e sopporto con stoica testardaggine gli schiaffi del vento caldissimo che scompiglia i capelli di tutte le signore presenti, e poi torno in spiaggia.
C’è molta meno gente, adesso. Il sole sta cominciando ad abbassarsi, le ore migliori per la tintarella sono già finite e chi è qui dalla mattina comincia ad avere troppo caldo, e ad essere troppo stanco, per non desiderare di trovarsi altrove.
Io mi approprio di un paio di metri di sabbia umida in riva, e mi seggo a guardare il lago. L’acqua è meravigliosa, tutta azzurra e bianca, e si arriccia capricciosa attorno ai corpi dei ragazzi e delle ragazze che fanno il bagno. Con ogni schizzo, sembra di sentirla ridere.
Ci vogliono ore, prima che qualcosa cambi. Osservo il sole disegnare un arco perfetto nel cielo, e perdo completamente di vista la cognizione del tempo e dello spazio. È come essere solo, su questa spiaggia. Siamo solo io e il sole che scandisce i minuti e le ore fino alla fine di quella giornata, e gli sono grato, perché da un certo punto in poi sembra che si sia messo a correre, per far calare la notte il prima possibile. Molto premuroso, da parte sua. Starò sicuramente molto meglio, quando queste ventiquattro ore saranno finalmente passate.
E poi, improvvisamente, appena il sole fa tanto di bagnarsi la punta dei piedi, qualcuno si siede accanto a me, posa una bottiglia di whiskey sul mio telo, in mezzo a noi, e tira fuori un walkman – un walkman – dalla borsa nera che porta a tracolla.
Nel momento in cui capisco che si tratta di Bushido, lui mi ha già infilato un auricolare in un orecchio, e le note di Sweet Home Alabama cominciano a farsi strada dentro di me.
- Sul serio? – dico, voltandomi verso di lui con gli occhi sgranati, - Vuoi consolarmi per la mia triste vecchiaia e mi porti un walkman, del whiskey e una cassetta dei Lynyrd Skynyrd?
Bushido ride, il suono della sua voce è dolce, quasi tenero. Non mi guarda nemmeno, impegnato com’è a fissare il lago ormai praticamente vuoto.
- Hai il coraggio e la faccia tosta di dirmi che questa canzone non ti piace? – domanda.
Io sospiro, abbassando lo sguardo.
- La adoro. – ammetto, - Ma questo non significa—
- Bill c’è rimasto malissimo, sai? – mi interrompe. Io faccio una smorfia. Naturalmente, Bill. Lo dico senza risentimento, come il dato di fatto che è: con Bushido, tutto, sempre, è una questione di Bill. Qualsiasi cosa quest’uomo faccia o non faccia, la fa o non la fa tenendo sempre in considerazione Bill per primo, e poi, secondariamente, se necessario, tutto il resto del mondo. – Ci teneva un sacco.
- Non mi stupisce affatto. – commento con un mezzo sorriso, - Adora dare feste.
- Non è solo quello. – mi corregge Bushido, perfettamente calmo, - Tu sei stato come un padre, per lui. Tom ha avuto Gordon, ma Bill ha avuto te. Sei stato il suo mentore, e ricordati che è completamente a causa tua che oggi lui è quello che è. – lo osservo sospirare e poi sorridere, - Devi capire che è così felice di non averti perso che non farebbe che dare feste in tuo onore. E tu pretendi che non festeggi il tuo compleanno? – ridacchia appena, scuotendo il capo, - Ma non capisci che, se facessi il compleanno ogni giorno, lui organizzerebbe ogni giorno una festa diversa, solo ed esclusivamente per celebrare il fatto che esisti?
Non fingo nemmeno di provare a trattenere le lacrime. La cosa più odiosa è che tutto questo io lo so. L’ho sempre saputo, Bushido non è venuto qui a snocciolarmi verità sconosciute come il dio immortale che in realtà sospetto sia veramente. È solo venuto qui al momento giusto, nella cornice giusta, perfino con la giusta colonna sonora, per ricordarmelo.
- Sono veramente egoista, - sospiro, asciugandomi gli occhi, - vero?
- Sì. – risponde lui, sinceramente, - Ma dal momento che lo siamo tutti, almeno sei in buona compagnia. Tieni, - aggiunge poi, sollevando la bottiglia verso di me, - bevi. Ne avrai bisogno.
Obbedisco senza neanche chiedergli perché.
- Come hai fatto a trovarmi? – chiedo fra un sorso e l’altro. Bushido si limita ad indicare con un cenno del capo i due uomini vestiti di nero che mi sorvegliano attentamente dal molo. Poveretti, devono soffrire parecchio, con le cravatte annodate e le maniche lunghe. Chissà da quanto sono qui. – Lo sai, questo è stalking.
Bushido scrolla le spalle.
- Fammi causa. – butta lì, rubandomi la bottiglia. Gliela richiedo indietro pochi istanti dopo, e per molti minuti, finché non ne vediamo il fondo, restiamo lì in riva a bere e a lasciarci bagnare i piedi dalle onde.
*
Il motivo della bottiglia di whiskey lo capisco solo qualche ora dopo, intorno a mezzanotte. La festa, per la gioia di Bill, è stata splendida. Non è che mi abbia fatto dimenticare che sono depresso e che probabilmente mi chiuderò in una SPA per tutto il resto della prossima settimana per farmi massaggiare da giovani tailandesi finché non sarò ringiovanito abbastanza da poter mostrare nuovamente la mia faccia in pubblico, ma almeno è stato un modo piacevole per passare le ultime ore di questa giornata da cancellare con persone di cui m’importa, ed alle quali importa di me. La spiaggia era un luogo bellissimo, impersonale e rassicurante, ma in effetti il calore umano ha qualcosa in più rispetto a quello del sole. Quando capiranno cos’è e riusciranno a imbottigliarlo, scommetto che gran parte dei problemi del mondo potrà essere facilmente risolta.
Al momento, Chakuza è sdraiato a terra con un imbuto di dimensioni preoccupanti in bocca. Fler è disteso al suo fianco, e conta “uno! Due! Tre!” per ogni secondo che il suo nuovo marito riesce a passare in apnea bevendo birra bavarese che Eko Fresh versa direttamente nell’imbuto dalla spalliera del divano sul quale è appollaiato. Tom, che ha bevuto pure lui come un tacchino, è seduto su un divano, arrabbiato per chissà quale oscuro motivo, mentre suo fratello, ridendo come un deficiente per chissà che battuta, gli tira le treccine a casaccio.
Bill è raggiante. C’è come un alone di gioia e santità, attorno a lui. Praticamente vederselo passare di fronte è come avere una visione della vergine Maria quando era un’adolescente dark. O forse, appunto, è solo il whiskey ad aver reso più semplice una cosa complicata, più piacevole una cosa dolorosa. A volte anche fuggire così va bene, sapete, purché ci siano le braccia di qualcuno a tenerti ancorato a terra.
- Ehi. – mi saluta Bushido, il quale, con questo bicchiere di vino rosso che tiene in mano e il completo elegante che indossa, sembra quasi l’uomo serio che in realtà non è. Non potrò mai dimenticarmi che quest’uomo è venuto a recuperarmi su una spiaggia, al tramonto, portando con sé un walkman e i Lynyrd Skynyrd. – Tutto a posto?
- Direi di sì. – sorrido, accettando l’altro bicchiere di vino che mi porge, - Non sono già abbastanza ubriaco? – rido.
- No, sei ubriaco al punto giusto. – ride anche lui, e poi si sistema accanto a me, osservando la festa andare avanti con curiosità e divertimento, proprio come ho fatto anch’io fino ad ora. – Senti, - dice quindi, - lo sai qual è la cura per la malattia del non avere più vent’anni? – domanda.
Mi volto a guardarlo, inarcando un sopracciglio.
- Avere qualcuno che ce li abbia ancora. – ghigna lui. Io spalanco gli occhi. – Seconda stanza a destra al piano di sopra. – dice quindi, consegnandomi una chiave di ottone. – Va’ e riproduciti.
- Stai scherzando. – balbetto sconvolto.
Ma no, non sta scherzando. Ed ecco che il whiskey torna utile mentre scoppio a ridere, accettando di buon grado il suo gentile presente e lasciando che il giovanotto al piano di sopra mi aiuti a dimenticare quanti anni ho – e il mio nome, anche – prima di tornare a dormire.
Scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido, Fler/Chakuza (accennato).
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: AU, Angst, Violence, Lemon, Slash.
- Bill ha da poco compiuto diciott'anni, e batte le strade da quando ne aveva sedici. Ormai è abituato alla sua routine, e la notte e le strade fredde di Berlino sono il suo regno, ma quando prova ad adescare un agente in borghese tutto cambia: il ragazzo viene portato in prigione, dove subisce subito un tentativo di violenza al quale risponde altrettanto violentemente, riducendo il suo assalitore in fin di vita. Per questo motivo, viene condannato a scontare una pena di dodici anni nel carcere in cui è già recluso, ma fin dall'inizio è chiaro che la sua permanenza all'interno della struttura non sarà semplice e priva di pericoli: gli agenti di custodia lo odiano per quello che ha fatto al loro collega, gli altri detenuti lo vedono solo come un oggetto sul quale scaricare la frustrazione sessuale e non esitano a riempirlo di botte quando lui si nega, e in tutto questo ci si mette a rendere il tutto più difficoltoso anche Bushido, indiscusso boss del braccio in cui Bill è rinchiuso, che ha ricevuto ordine di proteggerlo direttamente dal direttore della prigione. Ma Bill è in grado di difendersi da solo, o almeno così crede, ed è bene intenzionato a dimostrarlo all'uomo e anche a chiunque altro voglia provare a mettersi sulla sua strada. Il problema è che, forse, non è così in grado di difendersi come crede.
Note: Il plot di questa storia risale ad anni fa - no, seriamente, non è che buttiamo lì le parole a caso, se diciamo anni state pur certi che intendiamo davvero anni - e riesce a vedere la luce solo adesso solo perché noi siamo estremamente culopese. E perché quando l'abbiamo plottato la Tab non aveva ancora visto Oz (dal quale questa storia attinge a piene mani in quanto ad ambientazione ed ispirazione generale), e non era pensabile scrivere una cosa simile senza aver prima visto almeno qualche episodio di quella serie.
Nel caso ve lo steste chiedendo, sappiamo perfettamente che ci sono delle incongruenze fra la realtà reale delle cose vere e il modo in cui certe cose accadono in questa storia (tipo che tutta la parte ambientata in prigione - quindi, uh, il 90%? *ride* - l'abbiamo scritta senza prima leggere trattati di 100 pagine sul sistema carcerario tedesco), e la cosa ci tocca molto limitatamente. Ma molto, credeteci. *rotolano felici per campi di tulipani alti venti metri* Buona lettura, se vorrete!
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
ALLES GUTE KOMMT VON UNTEN

Come ogni mattina, quando si accendono le luci e le serrature automatiche che tengono chiuse le porte delle celle si aprono, Bushido si alza dal letto – che occupa da solo, forte del potere che esercita su tutto il braccio nonostante la propria condizione di detenuto – e si dirige verso il piccolo lavandino sormontato dallo specchio che occupa non più di una ventina di centimetri in un angolino della cella. Lancia un’occhiata annoiata al proprio riflesso e poi tira giù i boxer, concedendosi un po’ di sollievo davanti alla tazza del cesso, stando bene attento a non sporcare, perché alle pulizie in cella devono provvedere da soli, e lui ha preferito darsi alla criminalità organizzata piuttosto che pulire i cessi per guadagnare qualche spicciolo da ragazzino, figurarsi se si piega a farlo adesso che, facendolo, non vedrebbe neanche il becco di un quattrino.
Sbadiglia lavandosi attentamente le mani, e nel frattempo sbircia oltre le sbarre, nel corridoio. Qualche detenuto più mattiniero di lui è già uscito dalla propria cella ed ora si aggira per l’area comune come uno zombie, guardandosi intorno e studiando ogni particolare di quel luogo come se già non lo conoscesse a memoria. Le televisioni in fondo alla sala sono ancora spente, la sala computer, la biblioteca e la palestra sono ancora chiuse e gli unici suoni che si possono sentire sono quelli che producono le scarpe degli agenti di custodia che abbandonano le loro postazioni per farsi dare il cambio da quelli del turno di giorno, dopo le fatiche della notte passata in piedi a rigirarsi i pollici.
Pian piano, tutti i detenuti cominciano a venire fuori dalle coperte. Gli agenti di custodia prendono i loro posti e cominciano gli usuali giri. Presto, le varie sale ricreative saranno aperte, il biliardo posizionato lontano dai tavolini in un punto non troppo dislocato ma neanche troppo centrale dell’area comune sarà circondato di galeotti in cerca di un po’ di divertimento, e l’usuale vita del braccio A riprenderà a scorrere, pacifica, e niente turberà la sua quiete.
Niente succede mai, nel braccio A. Bushido tiene tutto sotto controllo.
Bushido è dentro da sei anni. Ne ha beccati molti di più, quando l’hanno preso, ma fra uno sconto e l’altro è riuscito a ridurli a sei. Entro un paio di mesi, finalmente avrà la sua udienza per provare ad uscire con la condizionale. Con la condotta che ha tenuto e con una buona lettera di presentazione da parte del direttore Jost, uscire sarà un gioco da ragazzi. E una volta fuori, potrà riprendere tranquillamente la sua vita.
Fino ad allora, però, nel braccio A deve continuare a non succedere niente. O meglio, tutto ciò che vi succede deve continuare ad essere tenuto costantemente sott’occhio, perché non accada nulla di troppo pericoloso. Le regole di Bushido sono chiare, cristalline: chi vuole, scopi, ma niente violenza; chi vuole farsi, si faccia, ma niente overdose; chi vuole prendere a cazzotti qualcun altro, non si crei troppi problemi, ma niente ammazzatine fuori controllo; chi vuole contrabbandare sigarette, riviste porno o il cazzo che gli pare, ne ha piena facoltà, ma se qualcuno viene beccato farà meglio a rimanere zitto, o a non farsi beccare affatto.
Così scorre la vita nel braccio A. Così Bushido fa buona guardia alla propria reputazione, ed anche alla propria futura libertà.
Nell’uscire finalmente dalla propria cella, quando le luci nella sala comune sono ormai state accese e perfino i televisori sono già stati sintonizzati sul telegiornale del mattino, lancia un cenno d’intesa ai suoi ragazzi sparsi in giro – Fler e Chakuza che si intravedono appena davanti ai lavandini nel bagno comune, intenti a lavarsi i denti, Eko e Kay già appollaiati sulle sedioline davanti alla tv che gridano alle guardie di cambiare canale per sentirsi rispondere di andarsene a fanculo, Saad seduto ad uno dei tavolini più distanti, le mani incrociate sotto il mento e un’aria pensosa a rendere duri e cupi i tratti del suo viso – e si compiace di vedere tutto in ordine. Fra un’ora al massimo, gli impiegati nel laboratorio tessile verranno smistati nella loro area, e dopo non molto anche gli addetti al servizio postale interno alla prigione abbandoneranno il braccio. Da ultimi, lui e i suoi ragazzi, verso le undici, andranno in cucina per cominciare a provvedere alla pulizia della sala mensa e al pranzo per tutti i detenuti. E la giornata passerà così, fra un’incombenza e l’altra, un po’ di svago in palestra e un’occhiata indagatrice lanciata in giro per il braccio per assicurarsi che nelle ore buche Sido e i suoi non combinino qualche cazzata di cui lui sarà costretto a pagare le conseguenze, fino al ritorno in cella e al buio.
Sbadigliando ancora un po’, si avvicina a Saad, prendendo posto accanto a lui. Il libanese lo saluta con un cenno del capo, continuando a fissare ostinatamente il vuoto, quell’espressione cupa dipinta sulla faccia. Lui e Baba Saad, com’è più noto per strada, si sono conosciuti per un caso fortuito; Bushido in quel periodo si trovava in carcere a scontare una pena di qualche mese per possesso illegale d’arma da fuoco. Saad, allora, era poco più che un ragazzino e infinitamente meno di un uomo. L’avevano fermato per guida in stato di ubriachezza e gli avevano trovato in tasca un po’ di merda, roba a basso costo, che intendeva rivendere per pagarsi qualche sfizio e magari un po’ di sesso, e così era finito dentro per qualche mese anche lui. Li avevano piazzati in cella insieme, Bushido s’era fatto raccontare la sua storia – la fuga dal suo paese devastato dalla guerra, i soldi che non bastavano mai, i genitori che avevano progressivamente smesso di interessarsi di lui, troppo pressati dalle difficoltà economiche – e poi gli aveva detto di fare il bravo per i mesi che gli restavano da scontare, ed andarlo a cercare a Tempelhof non appena fosse uscito. Avrebbe trovato lui un buon lavoro da affidargli, qualcosa per cui sarebbe stato protetto, entro i limiti per i quali si poteva essere protetti facendo un mestiere come il loro, e così, quando, qualche mese dopo di lui, anche Saad era uscito di galera, Bushido l’aveva subito preso fra i suoi, e l’aveva messo a spacciare su circuiti sicuri, roba buona. Non l’aveva più lasciato andare.
Quando Bushido è stato arrestato per la seconda volta, e s’è ritrovato a dover gestire la consapevolezza di dover rimanere in carcere per almeno altri sei anni, è stato a Baba Saad che ha lasciato tutto. Gli ha detto di tenere a bada ogni cosa, di circondarsi di amici fidati, nel caso dovesse succedere qualcosa anche a lui, e quando poi anche Saad è stato di nuovo messo dentro, salutandolo al suo arrivo non si è stupito di trovarlo sereno e sorridente. “Fuori è tutto a posto, Bu, si occupa di tutto D-Bo,” gli ha detto, e Bushido gli ha rifilato una gran pacca sulla spalla e si è sentito molto, molto orgoglioso di lui, come non si era mai sentito orgoglioso di nessun altro in vita sua.
- Mbe’? – gli chiede adesso, sistemandosi sulla sedia e tirando fuori dalla tasca dei pantaloni un mazzo di carte, che comincia immediatamente a mescolare, - Cos’è quella faccia scura?
Saad scrolla le spalle, come se improvvisamente, qualsiasi fosse il pensiero che l’aveva tenuto sulle spine fino a poco prima, ora non avesse più alcun problema nel mondo, e si volta a guardarlo, distogliendo gli occhi da quel punto vuoto che prima sembrava fissare con tanta intensità.
- Te lo dico io, non mi piace come si stanno mettendo le cose. – gli dice, facendogli cenno di distribuire pure le carte, se vuole. Bushido provvede immediatamente, senza risparmiarsi un sorriso di vago scherno per quel tono così cupamente profetico. Si fida di Saad, lavorando con lui ha imparato a tenere conto delle sue percezioni, ma ultimamente il ragazzo sembra essersi fatto inutilmente sospettoso, specie nei confronti di Sido, che è sì uno stronzo, ma non è un coglione, e sa bene quali sono i propri limiti, e quanto oltre può spingersi prima di sorpassarli.
- E come si starebbero mettendo queste cose? – domanda quindi, controllando con una rapida occhiata le carte che ha in mano e confrontandole con quelle che ha disposto sul tavolo.
Saad sospira, quasi offeso da quel suo tono così ilare, che deve giudicare estremamente fuori luogo.
- Ti dico che Sido sta macchinando qualcosa. – dice a bassa voce, cospiratorio, - Quello ormai non si accontenta più di niente. Droga, sigarette e porno non gli bastano più. L’altra volta l’ho visto parlare con due checche in un angolo del cortile, durante l’ora d’aria.
- E che ti devo dire? – scrolla le spalle Bushido, raccogliendo un paio di carte dal tavolo con una delle proprie e mettendole da parte in un mazzetto, - Si sarà svegliato con un certo languorino, quel giorno.
- Cazzone. – borbotta Saad per tutta risposta, allungandosi a tirargli uno scappellotto dietro la nuca e, già che c’è, sporgendosi per vedere cos’ha in mano, prima di fare la propria mossa. Bushido lo lascia libero di muoversi come crede, ridendo divertito, e poco dopo Saad riprende a parlare. – Bu, a quello non piace l’uccello, e il buco del culo nemmeno, e quella strafiga della sua signora viene a trovarlo due volte al mese. Ti dico che ha in mente qualcosa.
- Ma qualcosa tipo cosa? – ride Bushido, finendo di ripulire il tavolo dalle carte, - Scopa! Oggi ti tocca pulire la friggitrice.
Saad ignora sia l’ordine che l’esultanza con cui Bushido accompagna la vittoria, e continua a fissare l’ultima carta che gli è rimasta in mano, come fosse incerto sul da farsi.
- E se stesse organizzando un giro di prostituzione? – domanda curiosamente, e Bushido inarca un sopracciglio.
- Qui dentro? – chiede di rimando, accennando con le braccia all’ambiente chiuso che li circonda, e con un cenno del capo agli agenti di custodia che fanno la ronda tutto attorno a loro. Saad scrolla le spalle, come se questi fossero particolari del tutto irrilevanti.
- Sai meglio di me che se si vuole trovare un luogo appartato in cui fare qualcosa senza essere visti, qua dentro, lo si trova, esattamente come lo si trova di fuori. – gli fa notare. Bushido sbuffa, già annoiato dalla questione.
- Senti, facciamo così: - dice per tagliare corto, - io sono l’ultima persona che voglia guai in questo braccio, - lo rassicura, - per cui ti prometto che terrò le orecchie ben tese e, al primo segnale di pericolo, ci muoveremo per rimettere le cose a posto. Ok?
Saad sbuffa qualcosa, probabilmente un assenso, ma non è per niente soddisfatto dalla risposta. Tuttavia, evita di proseguire nelle proprie rimostranze quando vede avvicinarsi Fler e Chakuza che, giocando come due idioti a tirarsi colpi di asciugamano ancora umido sulla schiena e sul sedere, prendono posto sulle due sedie rimaste vuote attorno al tavolino. Fler, in particolare, gira la propria al contrario, in modo da potersi sedere a cavalcioni, il viso rivolto al grande cancello che separa il corridoio del braccio dal resto della prigione, insomma, la porta dalla quale chiunque voglia uscire e chiunque voglia entrare deve necessariamente passare.
- Oggi arriva un po’ di carne fresca. – dice con una certa eccitazione, le spalle tese sotto la canottiera così attillata da mostrare tutti i tatuaggi che ha addosso senza coprirne quasi neanche uno. La sua emozione è facilmente comprensibile, se si pensa che in prigione si hanno pochi svaghi oltre a quelli di vedere ogni tanto un po’ di facce nuove e prenderle di mira fino a quando non saranno diventate anche loro facce vecchie, ma Chakuza non coglie la sfumatura e, sbuffando infastidito, gli tira una scarpata.
- Attento che ti si vede sbavare da qui. – lo minaccia, mentre Fler ride e gli ritira indietro la scarpa, - Cazzo, guarda che non è femmina davvero, ci assomiglia soltanto. – borbotta, e Saad si volta a guardarlo, incuriosito.
- Allora è vero? – domanda, e Chakuza annuisce, incrociando le braccia sul petto.
- Sì, lo trasferiscono qui. E il mio consiglio personale e spassionato è di starne tutti alla larga. È un ragazzino instabile e pericoloso, e come ha staccato l’uccello a morsi a quella guardia giurata che ha cercato di farselo succhiare, può staccarlo a chiunque di noi.
Bushido ride divertito, recuperando le carte e riprendendo a mescolarle con destrezza.
- Capito, Saad? – dice in tono canzonatorio, - Stai attento a ciò che dice il Chaku! Se per caso una notte senti che l’uccello se ne sta uscendo dalle mutande da solo per andarsi a fare una passeggiatina in bocca alla puttana, svegliati di corsa e vallo a recuperare, o potresti non vederlo più tornare a casa!
- Sfotti, sfotti. – borbotta Chakuza, imbronciandosi, mentre Fler ride a crepapelle, piegato in due sulla spalliera della sedia, e Saad taglia il mazzo che Bushido gli porge, apparentemente nient’affatto divertito dalla piega che sta prendendo la conversazione. – Poi magari quello decide di ripetere la performance con qualche sventurato pure qui, e addio pace nel braccio. Chissà con chi se la prenderà Jost, quando avrà bisogno di un capro espiatorio?
- Oh, Chaku, ma quanto la fai lunga? – sospira Bushido, continuando a ridere e distribuendo carte a tutti e quattro, - Per evitare che uno ti stacchi il cazzo a morsi, basta non infilargli il cazzo in bocca, ti pare? Col fatto che questo Kaulitz arriva qui già famoso per meriti pregressi, scommetti che non dovrò nemmeno spargere la voce che è off-limits? Non gli si avvicinerà nessuno!
- Sarà. – commenta Fler, continuando a sbirciare il cancello di tanto in tanto, - Dicono che sia molto bello.
- Per quanto mi riguarda, - protesta Saad, - potrebbe avere pure il viso di un angelo, ma se in mezzo alle gambe ha un uccello, non è roba per me.
- Sei fortunato, dunque, il tuo arnese è salvo. – esulta Bushido, ridendo sguaiatamente mentre Fler gli fa eco e Chakuza, sentendosi probabilmente trattato con scarsa considerazione rispetto a quella che meriterebbe, continua a borbottare in una litania di grugniti intraducibili in dialetto austriaco stretto.
Passano solo un paio di minuti – in cui Bushido continua a battere tutti, distribuendo gli incarichi più disgustosi in cucina ogni volta che porta a casa un punto – e poi si sente scattare la serratura del cancello. Tutti i prigionieri che, nell’ultima mezz’ora, sono arrivati ad affollare la sala comune, alzano la testa, interrompendo le proprie attività di colpo per osservare i nuovi detenuti in arrivo. C’è qualche volto conosciuto, per qualcuno. Volano sorrisi e battute, qualche saluto in un italiano tanto finto e forzato da non riuscire nemmeno in parte a coprire l’accento tedesco – Bushido li odia quelli che fingono di saper parlare la lingua dei loro padri, pur essendo tedeschi che più tedeschi non si potrebbe; lui finge forse di saper parlare il tunisino, solo perché la sua pelle è del colore del caramello e quella testa di cazzo di suo padre ha avuto la geniale pensata di nascere in un paese pieno di morti di fame dal quale è dovuto fuggire prima di poter incontrare sua madre a Bonn? Certamente no – ma naturalmente in meno di un secondo tutti gli occhi vengono calamitati dalla figura magra e quasi trasparente che se ne sta rintanata dietro le figure più robuste degli altri detenuti.

Bill Kaulitz ha diciott’anni compiuti da tre settimane, e se ne sente addosso centodiciotto almeno mentre passeggia lentamente per la strada ormai quasi del tutto silenziosa, fatta eccezione per lo scalpiccio dei propri stessi passi sul marciapiede umido di brina. È tardi, o forse è molto presto. Saranno le cinque del mattino almeno, si vede già il sole rischiarare dal basso l’orizzonte e il cielo, fino a lambire perfino qualche nuvola. Le prime notti che ha passato solo per strada, Bill non poteva fare a meno di fermarsi affascinato a fissare l’alba, ogni volta che gli capitava di vederne una. Più che la poesia del fatto in sé, lo colpiva essere riuscito a sopravvivere alle notti, al loro gelo, al calore umido e appiccicaticcio delle mani che lo toccavano, lo tiravano, gli strappavano i vestiti di dosso, lo aprivano, lo frugavano, lo riempivano di lividi. Passeggiando verso la squallida stanzetta senza mobili che si ostina a chiamare casa più per rivendicazione di orgoglio che perché assomigli ad una casa vera, quante volte ha rallentato il passo per lasciare che l’aria fresca del mattino gli scacciasse un po’ di dosso quell’orribile calore che ormai aveva cominciato ad associare alla notte?
Ora questa poesia, o almeno quel poco che ne restava, s’è dispersa. Sopravvivere giorno dopo giorno ha smesso di essere un miracolo, è diventata routine. Il vero miracolo, si dice anche adesso, mentre intravede la propria scalcinata palazzina fare capolino in fondo alla strada e per questo comincia a rovistare nelle tasche della giacca per tirare fuori le chiavi del portone, il vero miracolo sarebbe crepare, una buona volta.
Suo fratello lo aspetta nascosto nell’ombra dietro un pilastro, dove la luce del lampione non può raggiungerlo. Nel notare l’ombra scura che gli si avvicina, Bill sussulta e tira fuori il coltellino che porta sempre con sé, puntandoglielo contro. Lui, però, si mette in favore di luce abbastanza in fretta da scampare a morte certa.
- Tomi. – esala Bill, richiudendo la lama e rimettendo a posto il coltellino nella tasca interna della giacca, - Quante volte ti ho detto di non arrivarmi mai alle spalle? Potevo ammazzarti.
- Scusa. – biascica Tom, tenendo le mani ben sollevate sopra la testa finché il coltello non sparisce, per poi lasciarsele ricadere come inermi lungo i fianchi. – Come stai? Era un po’ che non venivo a trovarti.
- Fa niente. – scrolla le spalle lui, distogliendo lo sguardo, - Ti ho detto mille volte di non farlo. Non voglio che ci vedano insieme.
- Bill, ti prego… - sospira suo fratello, allungando una mano verso di lui e accarezzandogli lievemente una guancia. Bill si ritrae all’istante, e Tom spalanca gli occhi. – È gonfia. – esala, avvicinandoglisi velocemente e scostandogli i capelli dal viso per guardarlo meglio mentre Bill cerca inutilmente di ripiegare il collo contro la spalla, come un cigno, nel tentativo di difendersi dal suo sguardo indagatore. – Ti hanno picchiato?
- Non è niente di grave. – risponde lui, minimizzando. – Adesso torna a casa, è quasi mattina. Devi andare a scuola.
Tom lo afferra per le spalle, e per qualche secondo sembra che voglia prendere a scuoterlo così forte da mandarlo in pezzi. Poi, però, si limita a tirarselo contro, appoggiandogli una mano sulla testa per costringerlo a reclinarla contro il suo petto. Bill fa un po’ di storie, ma quando il suo profumo dolce lo avvolge interamente non può fare a meno di lasciarsi andare, e stringere con forza fra le dita un lembo dell’enorme maglietta che indossa.
- Torna a casa con me. – gli chiede suo fratello, e Bill scuote il capo. Questa scena, negli ultimi anni, si è ripetuta talmente tante volte che a Bill ormai il solo pensiero di doverla ripetere ancora dà la nausea. Si allontana da suo fratello con un gesto secco.
- Vattene, Tom. – dice aspro, guardandolo con durezza. Tom si morde un labbro.
- Resto qui con te, stanotte, magari. – prova. Bill scuote il capo un’altra volta.
- Non sto ancora rientrando. – mente, ma quando capisce che Tom non ha intenzione di andarsene è costretto a cambiare i programmi per la serata, o quello che ne resta. – Sul serio, sto andando al bagno pubblico per vedere se c’è qualche vecchio rincoglionito insonne che ha ancora voglia di scopare. – dice, utilizzando di proposito tutti i termini più feroci, quelli che, lo sa, danno a Tom i brividi dal disgusto.
- Lascia stare, - insiste suo fratello, infilando le mani in tasca e tirandole fuori piene di soldi, - per stasera basta, ti do qualcosa io.
Bill prende le banconote dalle sue mani e le conserva, ma gli volta comunque le spalle.
- Tornatene a casa. – dice un’ultima volta, prima di dirigersi verso il bagno pubblico, un passo dopo l’altro.
Il posto è di uno squallore che lo atterrisce, ed è così ogni volta. Inizialmente, Bill pensava che sarebbe stato facile abituarsi a tutti quei terribili dettagli che ormai rappresentano la sua quotidianità, ma se questo è stato vero per il vivere da solo, per quel buco del suo appartamento, perfino per il dover battere le strade, per le scopate dolorose quando andava male e disgustose quando andava bene con i suoi clienti e per gran parte di tutte le altre cose che rendono la sua vita terribile e vergognosa, l’orrore che prova ogni volta che varca la soglia del bagno pubblico non è mai riuscito a sfumarsi in una sensazione meno spaventosa, o meno violenta. Ogni volta che entra lì dentro sente chiaramente un piccolo pezzo di sé che muore, ed è convinto che, quando finalmente creperà, sarà per colpa di questo dolore sordo e accecante che prova ogni volta che frequenta il bagno pubblico. Sarà lui ad ucciderlo, lui con le sue piastrelle sporche agli angoli e nelle intercapedini fra l’una e l’altra, quando il cemento emerge da sotto, lui ed i lavandini che funzionano uno sì e uno no, lui e le ragnatele agli angoli del soffitto, lui e le porte cigolanti dei cessi sempre sporchi, lui e i drogati che vengono a vomitare l’anima ogni notte, quelli che ogni tanto, accasciati contro la tazza del cesso, vomitano così tanto da non lasciarsi in corpo più niente, nemmeno il cuore che batte.
Bill morirà qua dentro, ne è certo, morirà perché sarà questo posto ad ucciderlo. Ma non stanotte.
Stanotte la luce al neon funziona a intermittenza e il bagno pubblico è silenzioso, eccezion fatta per un tipo che se ne sta in disparte, davanti all’ultimo lavandino, e si lava le mani con l’aria di uno che è lì a lavarsi le mani da un bel po’, in attesa di qualcosa che sembrava non dovesse arrivare mai, e che quando lo vede avvicinarsi si ferma istantaneamente, come se quel qualcosa che stava aspettando da tanto finalmente si fosse deciso a raggiungerlo.
Bill gli sorride, appoggiandosi alla parete accanto a lui e sporgendo in avanti il bacino mentre incrocia le braccia sul petto. È un bell’uomo, alto, magro, brizzolato. Ha occhi azzurri ed espressivi, appena segnati da qualche ruga d’espressione sul contorno. Potrebbe quasi andarci a letto solo per concludere in bellezza la serata, se non sapesse che la quasi totalità di quelli che vanno a puttane lo fanno solo perché nessun altro li vuole, il che automaticamente li inserisce nella categoria degli sfigati, o comunque di gente con la quale il resto della gente non va a letto. Certo, il tipo è carino, ma da qualche parte la fregatura dev’esserci. Magari puzza, magari non gli si rizza o resta su due minuti e poi si sgonfia subito, magari ce l’ha piccolo, o magari troppo grosso, magari è uno di quelli con la testa piena di un sacco di idee strane e pericolose e Bill sta andando a cacciarsi in un guaio ancora più enorme di quello in cui è già. La fregatura dev’esserci per forza, ma in questo momento tornare a casa non è un’opzione, perciò Bill non ci sta a pensare su più di tanto, e si butta.
- Ehi, - dice, guardandolo seducente, - ti va di divertirci un po’? Non costo molto, scommetto che resterai sorpreso.
E invece, a restare sorpreso è lui. Il tizio sorride, si apre la giacca, infila una mano nella tasca interna, tira fuori il distintivo.
- Polizia. – dice.
Eccola qua, la fregatura.
Si lascia condurre in centrale, anche perché sa che resistere non farebbe altro che peggiorare la sua situazione. Gli chiedono un documento d’identità, ma lui non ne ha uno. Il poliziotto che lo sta interrogando ghigna e gli fa sapere che una notte in gattabuia non gliela leva nessuno. D’accordo, pensa Bill, chi se ne frega, e quando il tizio gli chiede di identificarsi lui risponde sollevando il medio.
- È identificativo abbastanza? – domanda con aria di sfida. Il poliziotto gli sferra un manrovescio che, se non fosse ammanettato alla sedia, lo manderebbe giù per terra. Bill sente i muscoli delle spalle, delle braccia e del collo tirare dolorosamente, ma non fa una piega. Quando torna a guardare il poliziotto, gli scivola giù dalle labbra un rivolino di sangue.
- Mi fai schifo. – dice l’uomo, lanciandogli un’occhiata disgustata da così vicino che Bill può sentire l’odore del suo alito. Sa di mentine e caffè. Non è del tutto spiacevole. Quello di suo padre odorava allo stesso modo. – Tutti quelli come te mi fanno schifo.
Le similitudini fra il poliziotto e suo padre non si fermano all’odore dell’alito, pare.
Viene portato in carcere immediatamente. Il commissariato in cui l’ha trascinato il poliziotto che l’ha adescato per strada non è attrezzato per ospitare qualcuno per la notte. È un buco piccolo, squallido e triste all’interno del quale poliziotti assonnati che si tengono su un caffè dopo l’altro si aggirano con aria persa, consapevoli di stare gettando via la propria vita fra quattro mura, nascosti dentro una divisa, dietro a un distintivo, alle spalle di una pistola che avrà sempre più potere di loro. Per strada, Bill era altrettanto consapevole di stare buttando via se stesso, ma almeno non era costretto a nascondersi in una stanzetta satura di fumo e polvere. Le strade erano il suo regno, la sua casa, la sua unica, vastissima prigione. Lui aveva imparato a conoscerle e a non sentirsi solo e sperduto nella loro immensità.
Per questo motivo, la cella in cui lo scaraventano gli pare claustrofobica. In realtà è abbastanza consapevole del fatto che non si tratti di una cella propriamente piccola, anzi, è abbastanza spaziosa. C’è un letto, un letto vero, con un bel materasso di gommapiuma e la rete di metallo, che è molto più di quanto si possa dire del sottoscala in cui vive, c’è una finestra, un lavandino e un cesso pulito da usare, se ne ha voglia.
Non ne ha voglia. Resta tutta la notte raggomitolato in un angolo, sul pavimento, a tremare. Vuole uscire di lì, vuole uscire di lì immediatamente. È talmente sotto shock da non riuscire a pensare a niente. Si addormenta così, per inerzia, perché gli si svuota la testa e non riesce a tenersi sveglio solo ascoltando il rumore dei propri denti che battono.
Quando sente la serratura della cella scattare, si sveglia di soprassalto. È lucido, molto più di quanto non lo fosse quando si è addormentato, e non trema più. Anche la sua posizione è più rilassata. Fa per alzarsi da terra, d’altronde immagina che la guardia appena entrata sia venuta per accompagnarlo fuori, ma quello gli allunga addosso le mani con una tale velocità che Bill non fa in tempo a scansarsi, e lo manda a sbattere contro la parete alle sue spalle. Bill urla, sente il proprio grido vagare per tutto il corridoio silenzioso con la sola risposta dell’eco e contemporaneamente sente qualcosa nella propria spalla scricchiolare pericolosamente, e fa male, malissimo, ma non ha il tempo di urlare anche per quello che subito dovrebbe trovare la forza per urlare per il dolore che gli causa la mano della guardia stretta attorno al suo collo sottile, come volesse soffocarlo. Urlerebbe volentieri un’altra volta, adesso, sì, ma non riesce a trovare fiato a sufficienza.
Il poliziotto si prende tutto il tempo che gli serve per osservarlo accartocciarsi sul pavimento come una foglia morta, e poi slaccia la cintura e i pantaloni. La cintura la sfila proprio dai passanti, e quando si china su di lui la usa per legargli i polsi dietro la schiena. Bill geme di dolore e cerca di capire cosa cazzo stia succedendo, ma il poliziotto lo tira su di peso, lo scaraventa di nuovo contro la parete e subito dopo gli è addosso infilandogli l’uccello in bocca di prepotenza, tenendogliela aperta con il pollice e l’indice premuti contro le guance, la punta del cazzo che gli sfiora l’imboccatura della gola, costringendolo a tossire e contorcersi per lo stimolo di vomitare mentre quella bestia schifosa si muove, scopandogli la bocca senza vergogna, grugnendo come un animale, come l’animale che è.
Bill si sente soffocare, si sente soffocato dal vomito, dalla saliva, dalla presenza ingombrante che gli invade la gola con tanta forza e prepotenza da sembrare voglia attraversarlo tutto fino allo stomaco, e l’unica cosa che riesce a pensare è che lui, una cosa del genere, non l’ha mai fatta se non per soldi. Mai, mai nella sua vita.
E non intende cominciare a subirla adesso.
Cerca di rimettersi dritto, trova la forza di spingere l’erezione dell’uomo fuori dalla propria bocca di qualche centimetro, facendo pressione con la lingua, abbastanza per riprendere a respirare e consentirsi un po’ di tregua dai conati di vomito, per poter ragionare lucidamente. L’uomo si accorge subito di quello che sta succedendo, e ghigna, un po’ sorpreso, quando lo sente cominciare a succhiare docilmente.
- Troia…! – esala, riprendendo a spingersi dentro di lui, anche se, ora che sa di non doverlo più forzare, il suo ritmo s’è assestato su un tipo di violenza meno invasiva e più umiliante, - Lo sapevo che andavi solo addomesticato un po’… Che troia sei, succhialo, bravo.
Bill si permette perfino di mugolare appena, e quando l’uomo geme un “sì” arreso e perso, e molla la presa sul suo viso, Bill chiude i denti come tenaglie, stringendo forte.
L’uomo comincia a urlare immediatamente. Il suo grido è potente come una deflagrazione, non aumenta d’intensità coi secondi, è subito alto, rauco e grondante di dolore, e non fa che farsi sempre più disperato e senza scampo quando la guardia, in preda al panico, comincia a dimenarsi per sottrarsi a quella stretta mortale, con l’unico risultato di costringere Bill a stringere ancora di più la presa, come in un riflesso condizionato, come fosse un animale selvaggio che è finalmente riuscito ad agguantare la propria preda per il collo dopo un inseguimento sfiancante, e che adesso non ha la minima intenzione di lasciarla andare.
Non lo molla, neanche quando le luci nel corridoio si accendono. Neanche quando comincia a riempirsi di guardie. Neanche quando quelle stesse guardie si mettono a urlare, cercano di aprire la grata della cella che il bastardo, entrando, s’è richiuso alle spalle per evitare che lui fuggisse. Bill sorride storto, continuando a stringere quel cazzo disgustoso, ormai livido e sanguinolento, fra i denti serrati. Sono in prigione, in prigione insieme, e nessuno potrà salvarlo.
Per il momento in cui le guardie riescono a trovare un duplicato delle chiavi della cella per entrare, l’uomo è già svenuto. Si è accasciato a terra come senza vita, gli occhi chiusi, il respiro corto. Bill molla appena la presa, poi la stringe di nuovo e con uno scatto violento solleva la testa.
L’uomo spalanca gli occhi, lancia un grido lancinante e poi torna a stendersi per terra, contorcendosi come un’anguilla, mentre dal moncherino che gli è rimasto fra le cosce scorrono fiumi di sangue scuro e denso.
Bill sputa lontano il proprio pasto indigesto, e quando le guardie gli si avvicinano per tirarlo su e trascinarlo via, coi denti e le labbra ancora tutti sporchi di sangue, sta ancora sorridendo.
Di prigione non esce più. Non ha la minima idea di che fine abbia fatto l’agente che, a quanto pare, ha quasi ucciso. E sembra che a nessuno importi che quello la sua fine, qualunque sia stata, se l’è meritata, perché ha cercato di stuprarlo. Pare che il fatto che Bill non abbia quasi una casa, che si sia rifiutato di identificarsi, che faccia la troia per tirare a campare e che fosse stato rinchiuso in una cella per passare la notte in attesa di accertamenti, in qualche modo legittimasse lo stronzo che gli ha ficcato l’uccello in gola, che quasi lo incoraggiasse a farlo.
Lo tengono isolato in una cella finché il processo non finisce. Nel mentre, la sua storia fa il giro della prigione, o almeno così gli dice il detenuto incaricato dalla mensa di portargli da mangiare sotto la sorveglianza degli agenti di custodia. Bill piange ventiquattro ore al giorno, ma non vedere mai la luce del sole non lo aiuta a capire quanto tempo stia passando.
Lo tirano fuori di lì un giorno, gli dicono che è per presenziare al processo. Bill non ne capisce un cazzo. Non ha mangiato quasi niente, negli ultimi giorni, non si lava da settimane, o almeno così gli sembra, gli fa male una spalla e si sente debole, tanto da riuscire appena a camminare.
Una cosa, però, la capisce. I dodici anni che gli danno per aver quasi ammazzato quel figlio di puttana. Da scontarsi nel carcere in cui è già recluso. Capisce anche che, almeno, lo tireranno fuori dall’isolamento. Lo spostano al braccio A, o almeno così gli pare di capire. Perché è un braccio tranquillo, perché lì non ci sono mai casini, perché lì l’ordine è rispettato.
A Bill questo non interessa. Gli basta uscire dal buco dove è stato rinchiuso fino ad ora. Pensa che riuscirà perfino a sorridere quando, finalmente, si sarà lasciato alle spalle la cella d’isolamento.
Ma non è così.


Bushido gli lancia un’occhiata incuriosita, studiando la sua figura – il collo e i polsi magrissimi, la pelle quasi trasparente, gli occhi grandi e pesanti di trucco sbavato, i capelli lunghi e in disordine – e per un secondo il ragazzino incrocia il suo sguardo e sembra ricambiarlo con aria di sfida, corrugando le sopracciglia e tendendo le labbra fino a ridurle ad una linea sottile e livida di rabbia, che gli taglia in due il volto.
- È lui. – gli dice Fler, sporgendosi verso il suo orecchio per sussurrare, - Te l’avevo detto che era bello.
Bushido annuisce, pensieroso. Forse, dopotutto, un paio di voci gli toccherà farle circolare comunque.

*

La guardia viene a prenderlo a mezzogiorno, il momento meno opportuno per distoglierlo dalla cucina perché i suoi sono bravi ragazzi ma, senza l'ombra della sua persona a fargli venire la stretta al culo, quelli si siedono da una parte e se la prendono comoda, così poi i compiti si ammucchiano, le cose non vengono fatte, la gente s'incazza e la tensione sale. Vorrebbe fargli capire che fare quello che devono fare nei tempi in cui va fatto non ridurrebbe la loro virilità, ma permetterebbe a tutti quanti di farsi molto prima i cazzi propri; ma è difficile convincere qualcuno di una teoria astratta quando quello capisce soltanto le cose di cui può avere un riscontro immediato. E siccome lavorare quando nessuno ti guarda ti porta solo ad essere sfottuto dal resto della gente che ti circonda, quelli non fanno niente. Bushido, d'altronde, nemmeno si stupisce; lui lo sa che non tutti nascono capi e molti non nascono nemmeno soldati, ma stupide pecore incapaci di ragionare anche al livello più basilare. E' già abbastanza fortunato a dover gestire un branco di disadatti con poche perversioni che quando parla lo sta a sentire, non può anche pretendere da loro un'organizzazione di tipo pratico.
“Ferchichi,” lo chiama la guardia, porgendogli le manette già aperte e aspettandosi che lui faccia lo stesso con i propri polsi.
Bushido si volta aldilà del banco su cui poi appoggeranno i contenitori d'acciaio con il cibo da servire ai detenuti. Si pulisce la mano su uno straccio che tiene legato in vita e fa un cenno interrogativo alla guardia, senza mai staccare gli occhi dai suoi.
“Jost ti vuole nel suo ufficio,” precisa il secondino.
“Motivo?” Chiede Bushido, allungando le braccia perché quello possa chiudergli le manette intorno ai polsi. Il freddo del metallo e la stretta improvvisa – guarda caso sempre accidentalmente esagerata – non gli fanno nemmeno più effetto, sono diventati parte della routine che costituisce il tragitto per e dall'ufficio del direttore.
“Perché, Ferchichi? Se non ti piace, non vieni?” Sorride sprezzante la guardia, spingendolo in malo modo fuori dalla cucina.
Bushido ricambia con una smorfia strafottente, senza voltarsi verso l'uomo che gli cammina alle spalle. “Il grande capo chiama, dev'esserci qualcosa di grosso dietro.”
“Magari ti danno la grazia,” lo prende in giro la guardia, mentre lo scorta oltre l'area comune, dove i detenuti presenti si voltano a guardarli, subito incuriositi dalla novità. “Sei quello buono tu, no?”
Non capita spesso che Bushido finisca nei guai e sono in molti ad esserne contenti. Qualcuno più coraggioso ghigna nella sua direzione, altri si limitano a fissarlo con espressione indecifrabile.
Bushido serra la mascella e si sforza di non rispondere alla guardia. Sa per esperienza che c'è un limite ben preciso fin dove ci si può spingere a reagire con loro, poi quelle ti spaccano la testa a manganellate e tu hai comunque torto. Allunga il passo dietro suggerimento del secondino e, mentre cammina, lancia un'occhiata agli uomini di Sido che lo seguono con lo sguardo finché non sparisce oltre la prima cancellata. Sido però non c'è.
L'ufficio del direttore Jost è l'unica stanza del braccio A che sembri apparentemente un posto normale.
C'è una vera porta in legno, delle vere finestre – anche se sbarrate – e un vero arredamento.
L'uomo siede dietro una scrivania da ufficio larga quanto tutta la cella di Bushido e, quando lui e la guardia entrano dopo aver ottenuto il permesso, lo trovano indaffarato a firmare una gran quantità di fogli.
“Puoi andare, Hans, Grazie,” dice alla guardia, alzando soltanto una mano ben aperta.
Quella lancia un'occhiata a Bushido che ormai conosce la procedura e se ne sta in piedi a due metri dal direttore, le mani ammanettate bene in vista e il capo chino, anche se la sua espressione suscita più noia che ubbidienza. E' così che funziona con Jost, ti chiama e poi te ne stai tre ore ad aspettare che abbia finito i suoi comodi, come se tu non avessi niente di meglio da fare che contare i rombi sul suo tappeto indiano. Ancora non l'ha capito che pulire il pavimento dei cessi è sempre più emozionante che stare a sentire lui.
“Sta tranquillo, Hans,” dice Jost dopo qualche secondo di silenzio durante il quale non ha sentito la porta chiudersi, “il signor Ferchichi sa bene che aggredirmi non gli conviene.”
“Ma signore,” insiste Hans.
Jost mette ancora qualche firma, la sua stilografica graffia la carta con un suono fastidioso. Poi sospira e richiude la penna. “Vai pure, Hans,” ripete con calma ma con decisione. “Qua ci penso io.”
Nel braccio A non ci sono buone guardie. Ci sono solo guardie stronze e guardie che lo sono un po' meno. Bushido sa che Hans fa parte del secondo gruppo. E' uno che sa di fare un mestiere di merda che non vale i due spiccioli in più che guadagna, ma lo fa perché ha due marmocchi a casa e quelli devono mangiare. E' un coglione, naturalmente, come quasi tutte le divise, però è quel tipo di coglione che Bushido tollera perché almeno non ti colpisce per divertimento quando si annoia. Hans rompe i coglioni solo quando proprio gli gira male, che è più o meno quando comincia a pesargli di stare in questo buco con loro per delle settimane di fila e di vedere la moglie due ore al giorno mentre lei dorme, se va bene.
Hans gli lancia un'ultima occhiata e poi decide che se il direttore Jost vuole rischiare la vita di sua spontanea volontà, non è affar suo. Jost scrive ancora un po' e quando finalmente mette giù la penna, Bushido ha i crampi alle braccia, ma col cazzo che cambia posizione e lo dà a vedere.
“Ferchichi, siediti,” gli dice Jost, togliendosi gli occhiali da lettura e massaggiandosi la radice del naso.
Bushido non si muove, si limita a sollevare lo sguardo su di lui e a lasciar penzolare la testa di lato con aria annoiata. “Preferisco di no,” risponde.
Jost inspira tra i denti e poi si appoggia allo schienale della poltrona. “Fare il duro non ti servirà a niente,” gli dice per nulla colpito. “Non ti ho chiamato per qualcosa che hai fatto.”
“Non avrebbe potuto, non ho fatto niente,” ribadisce lui, sul viso un'espressione indecifrabile.
“Tu fai sempre qualcosa, Ferchichi,” commenta Jost. “Io devo solo provarlo.”
“Auguri,” sorride Bushido, scuotendo un po' le spalle in una risatina silenziosa.
Bushido e Jost possono dire di conoscersi da un sacco di tempo, anche se nessuno dei due la considera propriamente una conoscenza piacevole. All'epoca, lui faceva dentro e fuori dalla sua cella già da sei anni, quindi si può dire che quando Jost è arrivato a posare il culo sulla sua poltrona di pelle, la prigione gliel'hanno consegnata già con Bushido dentro che faceva il bello e il cattivo tempo come il capo quartiere che è. I primi tempi è stata dura perché lui non era affatto il direttore che è adesso, e Bushido ci godeva come un maiale a farlo impazzire. Gli isolamenti che si è fatto anche per delle cazzate durante i primi anni di Jost, sono quelli che sono valsi davvero la pena. Poi, col tempo, Jost ha tirato fuori le palle, si è guadagnato il suo rispetto – Bushido è disposto a capire solo quello, d'altronde – e le cose hanno iniziato ad ingranare diversamente. E' stato Jost a volere il suo trasferimento nel braccio A quando si è costituito e, anche se Bushido non ha mai promesso realmente di farlo, butta un occhio per impedire che la gente si accoltelli troppo, da quelle parti.
“Ti ho chiamato,” riprende Jost “Perché ho una questione da discutere con te.”
“Farà meglio ad essere interessante.” Bushido solleva un sopracciglio, scettico. “Perché la sala mensa è un posto delicato, Jost. E io sono in questo tuo ufficietto di merda da più di mezz'ora. Se qualcuno decide che era il momento buono per aprire in due qualche stronzo, non te la prendere con me.”
“Avrai notato i nuovi arrivi oggi,” dice Jost.
Bushido socchiude gli occhi e fa un cenno disinteressato col capo. “Può essere,” risponde vago.
“Uno di loro si chiama Bill,” continua Jost, pazientemente. “E' poco più che un ragazzino e gli hanno dato dodici anni per tentato omicidio.”
In quella descrizione Bushido non ha alcun problema a riconoscere il corpo esile ed emaciato che ha attraversato l'area comune incollato alla guardia, quella mattina, perciò annuisce. “E allora?”
“Sai perfettamente com'è la vita qua dentro per quelli come lui.”
Quando entri in galera puoi essere tre cose: puoi essere uno che si fa rispettare, uno che non lo fa e puoi essere morto. Difficilmente puoi farti i cazzi tuoi senza rientrare in nessuna delle tre categorie. Bushido conosce poche persone che ci riescono e sono tutti boss anziani, la cui morte scatenerebbe guerre di dimensioni tali che la gente preferisce starne alla larga. Naturalmente questo ragazzino, Bill, rientra nella seconda categoria. Non importa quanti uccelli abbia staccato a morsi, è carne da macello; se gli dice bene, diventerà la puttana personale di qualcuno. Se gli dice male, finirà per impiccarsi con le coperte come il frocio giamaicano quattro settimane fa.
“E' la legge della giungla, Jost” dice Bushido, con una scrollata di spalle. “Ma non si sa mai, magari tira fuori le palle e resta vivo.”
“Io preferirei non correre il rischio,” commenta Jost. “Vorrei che te ne occupassi tu.”
“Non se ne parla neanche,” risponde Bushido, immediatamente, lasciando perdere la calma mantenuta finora. “Io non faccio da balia a nessuno.”
“Devi soltanto tenerlo d'occhio,” spiega Jost. “Impedire che se ne approfittino e che si faccia ammazzare, o peggio, che si ammazzi da solo.”
“No,” Bushido scuote la testa con vigore.
“Tu dici di avere una certa influenza su questo carcere,” insiste Jost. “Se è davvero così, allora ti basterà far circolare la voce che è sotto la tua protezione e nessuno gli farà niente. Ti chiedo solo questo.”
Bushido ha cominciato a scuotere la testa a metà frase. “Tu non capisci, Jost,” gli dice avvicinandosi alla scrivania. Vorrebbe indicarlo, ma il movimento del polso si porta dietro tutte le manette, così rinuncia e cerca di essere convincente facendogli ombra sulla scrivania. “Quel tipo ha staccato l'uccello ad una guardia, ok? E' pazzo. Chissà che cazzo di casini potrebbe combinare. E io non voglio casini quando sono ad un passo dall'uscire da questo buco di merda con la condizionale.”
“Non è pazzo,” sospira Jost. “E' soltanto spaventato e probabilmente è stato aggredito.”
“Per me può anche aver morso la prima cosa che si è trovato in bocca perché aveva fame,” commenta Bushido. “Non me ne frega niente, Jost. Se quello combina qualche altra cazzata mentre è sotto la mia custodia, io di qui non esco più.”
Jost non vorrebbe arrivare a questo, ma non ha altra scelta. “La tua uscita dipende dalla mia parola,” gli fa notare con molta serietà. “E se ti rifiuti, io dirò che, a mio avviso, non ci sono gli estremi per darti la condizionale.”
Bushido trasfigura. “Che bastardo!” Sibila tra i denti. Fa un passo indietro come volesse andarsene, ma poi la rabbia è tanta che si riavvicina alla scrivania, battendoci sopra entrambe le mani. “Sei un grandissimo bastardo!”
“Se è l'unico modo di trattare con te...” Jost si stringe nelle spalle, allargando impotente le braccia.
“Questa me la paghi, Jost.”
Hans viene richiamato perché riporti Bushido nella sua cella. Stavolta il tragitto è più silenzioso e Bushido non guarda nessuno mentre attraversa l'area comune; è troppo impegnato a prevedere come gestire la catastrofe che potrebbe impedirgli di uscire.

*

Quando Bushido torna dall'ufficio di Jost, il ragazzino sta sistemando le sue cose sul letto di sopra.
Non ha perso tempo, quel bastardo, a spedirglielo come un pacco postale.
“Sembra che tu abbia un nuovo compagno di cella, Ferchichi,” commenta Hans ridendo di lui e lasciando scivolare gli occhi sul corpo di Bill. “Fate amicizia, mi raccomando.”
Bushido ignora le parole della guardia, troppo impegnato a cercare quelle adatte a spiegare al ragazzino come funzionano le cose qui, ma è Bill che lo anticipa non appena la porta della cella si chiude, dando loro una parvenza di privacy. “Tu sei Ferchichi, vero?” Chiede.
Bushido nota che lo hanno fatto lavare e cambiare. Pulito e con i capelli ancora umidi e tirati all'indietro sembra completamente diverso da come lo ha visto stamattina; è vagamente più adulto, ma solo alla prima occhiata. Poi la rotondità del viso e gli occhi impauriti e sgranati, nonostante i quintali di trucco, tradiscono la sua vera età.
“Mi chiamano Bushido,” risponde, annuendo. “E tu devi essere Bill.”
Il ragazzino annuisce, quindi si issa sul letto di sopra. Quando si siede le sue gambe penzolano fino a metà del letto inferiore. E' altissimo.
“D'accordo, Bill,” continua Bushido, grattandosi la nuca. “E' la prima volta che finisci in galera?”
“Sì,” risponde lui. “Per colpa di due sbirri di merda.”
“Gli sbirri non piacciono a nessuno,” risponde Bushido. E' una di quelle cose che vanno dette a prescindere, anche se in quel momento non servono a niente. Sono come le bestemmie, scaricano il nervoso. “D'accordo, le regole qua sono semplici. La cella dobbiamo pulirla noi, quindi vedi di non sporcare. Mangia quando ti dicono di mangiare, vai a letto quando ti dicono di dormire. Non cercare guai e loro non verranno a cercare te. ”
Bill lo guarda dall'alto del letto a castello, poi gonfia una guancia e sbuffa. “Illuminante. Senti Bushido,” dice, calcando sul suo nome come lo trovasse ridicolo. “So perché mi hanno spostato qui con te, d'accordo? Jost vuole che tu mi faccia da baby sitter. Ma io non so chi sei e nemmeno m'interessa saperlo. Non ho bisogno di protezione, so cavarmela benissimo da solo. “
Bushido solleva entrambe le sopracciglia. Un piccola ruga gli divide la fronte a metà mentre, per sicurezza, lo guarda di nuovo da capo a piedi per vedere se è ancora magro ed effeminato com'era due minuti fa, perché da come parla sembra uno capace di spaccare la faccia a parecchia gente. E invece no, è sempre il mucchietto d'ossa che gli sembrava.
“E, tanto per essere chiari,” continua Bill. “Anche se fuori di qui batto, non ti far venire strane idee perché non sono la puttana di nessuno, chiaro?”
Bushido ha l'impressione che il ragazzino abbia passato l'ultima mezz'ora a mettere insieme questo bel discorsetto da duro, convinto che qui dentro gli basti fare la voce grossa per essere lasciato in pace.
Se fosse un altro tipo di persona, diciamo una con i coglioni per davvero e non una che i coglioni li stacca e basta e solo perché glieli mettono a portata di mano, magari potrebbe anche andargli bene, ma se per aprire bocca e dare fiato ai denti si mette seduto e dondola i piedi, ecco, far finta di essere uno che sa come si sta al mondo non gli serve a niente. E' fortunato che Jost lo abbia spedito da lui. Solo due celle più avanti c'è uno che è dentro per stupro. Non lo avrebbe nemmeno fatto finire di parlare.
Bushido è rimasto fermo di fronte alla porta per tutto il tempo, per nulla impressionato.
“Hai finito?” Chiede, quando Bill, finito di usare la bocca a sproposito, la imbroncia cercando di darsi un tono.
“Sì,” risponde.
Bushido annuisce. “Bene,” commenta, un attimo prima di afferrarlo per la maglietta e tirarlo giù sul pavimento. “Allora, tanto per cominciare, questo è il mio letto e se non vuoi che ti prenda a pedate nel culo subito, ti conviene scendere,” gli dice, mentre il ragazzino si raccoglie dal pavimento. Bushido gli fa il favore di riconsegnargli anche la coperta e il rotolo di carta igienica che aveva ordinatamente riposto sul suo materasso. “Secondo, quello che fai fuori di qui sono cazzi tuoi. Se proprio vuoi farti scopare anche dentro la prigione, vai a chiederlo a qualcun altro. A me il tuo preziosissimo culo non interessa.”
Bill si spolvera i pantaloni aderenti e deglutisce forte per la rabbia che gli tende i lineamenti, ma non dice una parola mentre ripone di nuovo le sue cose sul materasso in basso.
“E terzo,” conclude Bushido afferrando con forza le sbarre del letto per riprendersi il suo legittimo posto. “Se non vuoi il mio aiuto, non sarò certo io ad insistere. Vedremo come te la cavi a proteggerti da solo.” Bushido si distende sul materasso e incrocia le braccia dietro la testa. Fissa il soffitto scrostato della cella, fingendo di pensare agli affari suoi e intanto ascolta il ragazzino che si muove piano e incerto per la stanza, mettendo a posto le sue cose. E' silenzioso e profuma un sacco. Bushido avrà un bel da fare ad abituarsi al suo odore ogni giorno per i prossimi mesi.

*

Quando Bill si sveglia, l’indomani mattina, non vede l’ora di uscire da quella gabbia di merda. Tutto, di quel luogo, lo infastidisce a morte. Le grate, le ombre scure agli angoli, il cazzo di rubinetto che gocciola e non ha smesso di gocciolare un secondo scandendo gli attimi di quella notte infinita, lo specchio sbeccato appeso alla parete che gli rimanda la placida immagine di Bushido addormentato, il viso contro la parete, la schiena che si muove appena al ritmo del suo respiro. Odia lui più di tutto il resto, lui e quel suo atteggiamento insopportabile, come se tutto gli fosse dovuto, perfino il rispetto che chiede senza avergli neanche mostrato perché pensa di meritarlo.
Quell’uomo non ha capito niente, di lui. Non sa niente di come ha vissuto, di quello che ha passato e di come è in grado di ridurre un uomo, se solo vuole, dentro e fuori da un letto – o da qualsiasi altro posto in cui sia possibile fare sesso.
Bill sa difendersi da solo. Bill non ha bisogno di nessuno. Tutto quello di cui ha bisogno adesso è poter uscire da questa prigione del cazzo e camminare in silenzio per le strade di Berlino di notte, ma questo semplicemente non accadrà, per cui gli tocca accontentarsi della cosa più simile che possa procurarsi al momento.
Lo fa immediatamente, appena le luci si accendono e le gabbie si aprono. Sente il rumore metallico e netto della serratura che scatta, e scatta anche lui, dritto in piedi, già pronto per uscire, i pantaloni e la maglietta ancora addosso. Non li ha tolti dalla sera prima, si è rifiutato di mettersi comodo, perché farlo avrebbe significato accettare quella sistemazione come definitiva. Non vuole farlo. Lui non appartiene a quella gabbia di metallo e musi duri. Lui appartiene alla notte fredda e alle stelle che puntellano il cielo scuro e spaventoso. È lì che tornerà. In qualche modo ci riuscirà.
Non oggi, però. Non oggi, né domani, probabilmente non fino a quando i dodici anni che deve scontare saranno terminati. Uscendo dalla cella e guardandosi intorno, Bill si fa qualche conto. Lui, di anni, adesso ne ha diciotto. Quando uscirà da quel buco di merda, ne avrà trenta. Mercato rovinato per sempre, dovrà cambiare completamente target e chissà se qualcuno lo vorrà ancora, rovinato come sarà a quell’età.
Sospira, lanciando occhiate disinteressate qua e là, e sta per sedersi ad uno dei tavoli quando una guardia gli si avvicina e gli chiede di seguirlo.
- Perché? – domanda lui, aggrottando le sopracciglia, e la guardia sospira scocciata, sollevando gli occhi al cielo.
- Il direttore vuole vederti. – spiega, - Ora piantala di fare storie e muovi il culo, se non vuoi che ti ci trascini.
Bill serra le labbra, quasi raggomitolandosi sulla sedia. Il suo istinto gli dice di non seguirlo. È un istinto che gli ha insegnato la strada, perché quando batti queste percezioni devi averle per forza. Certo, molto lo fa lo studio, moltissimo l’osservazione, ma ci sono certi uomini che apparentemente non forniscono nessun indizio, certi individui che ad un primo sguardo possono sembrare tranquilli, nient’affatto pericolosi, e che invece sono quelli dai quali dovresti guardarti di più. Sono quelli che possono fare male davvero. Sono quelli che impari ad evitare, perché nessuna quantità di denaro può valere la pena di ritrovarsi con la pancia aperta in due da un coltellino svizzero, o dall’aspettare che i conati di vomito di esauriscano, accasciato in un angolo di strada, dopo essere stato picchiato per ore fino a svenire, o peggio, dal ritrovarsi morto in un fosso senza neanche aver capito come, o perché, e senza che nessuno lo sappia mai, o abbia il minimo interesse a recuperare il tuo corpo.
Bill non è mai andato con qualcuno che gli desse una sensazione simile. A volte arrivavano ad offrire anche parecchio, cifre enormi, cifre che facevano pensare a Bill “che cazzo, non posso rinunciare ad una cosa simile solo per un fottuto presentimento, se invece è una persona normale con i soldi che mi offre campo senza scendere più in strada per i prossimi due mesi…”, salvo poi realizzare che nessuna persona normale offrirebbe tanto denaro per una semplice scopata in qualche lurido buco o in mezzo alla strada.
No, Bill segue sempre l’istinto, Bill con quella gente non ci va, Bill è sopravvissuto bene o male senza traumi troppo grossi proprio per questo motivo. E quest’uomo, questa guardia, gli dà la stessa sensazione, e perciò Bill vorrebbe potergli voltare le spalle ed allontanarsi nella notte come ha sempre fatto per difendersi da questi spaventosi presentimenti, ma stavolta non può. Non può perché non esiste un posto, in questa prigione, in cui lui possa fuggire, o sentirsi al sicuro. Non c’è la sua topaia a proteggerlo dalla strada e dal suo gelo penetrante, o dagli uomini e dal loro calore appiccicaticcio. Perciò, Bill si alza, si lascia ammanettare e segue la guardia fuori dal braccio A, a sguardo basso.
Naturalmente non conosce la prigione, e non sa dove si trovi l’ufficio del direttore – il quale, immagina, vorrà parlargli di quello che ha fatto a quell’altra guardia, probabilmente minacciarlo, che non gli salti in testa di rifarlo con qualche detenuto o, peggio, con un altro agente di custodia – perciò segue docilmente il proprio accompagnatore, cercando di non agitarsi troppo quando gli sembra di stare camminando da troppo tempo. In circolo.
Si fermano davanti a una porticina che Bill è abbastanza sicuro di avere già visto un paio di minuti prima, in mezzo a un corridoio che Bill è quasi certo di aver già percorso. Non può essere la stanza del direttore, perché non c’è neanche una fottuta targhetta, sopra. È una porticina ampia appena a sufficienza per far passare un uomo, è di un colore spento e smorto, lo smalto grigiastro sbeccato in più punti, e un minuscolo vetro opaco attraverso il quale è impossibile scrutare l’interno. La guardia la apre, e Bill vede che la stanza non è altro che uno sgabuzzino.
I polsi ancora stretti e immobilizzati dalle manette, si volta a guardare l’agente di custodia aggrottando le sopracciglia.
- Entra. – dice quello, seccamente.
- No. – risponde Bill, - Questo non è l’ufficio del direttore.
L’uomo stira sulle labbra un ghigno infastidito, ed estrae il manganello dalla propria custodia, appesa al cinturone proprio accanto alla fondina della pistola. Bill ha appena il tempo di realizzare cosa sta per succedere, e poi sente un dolore insopportabile alla base della schiena, il dolore come di qualcosa che si spezza, anche se è abbastanza sicuro di non essersi rotto niente. Ma le gambe gli cedono, gli si mozza il respiro all’altezza della gola e vede bianco all’improvviso, perdendo l’equilibrio e lasciando così alla guardia tutto il tempo ed il modo di spingerlo dentro la stanza con uno strattone violento, per poi entrare dietro di lui e chiudersi la porta alle spalle.
Bill finisce contro un mucchio di scatoloni semivuoti addossati contro la parete opposta. L’ambiente è piccolo, claustrofobico, non c’è modo di scappare. L’uomo non accende la luce, e quindi Bill non può vederlo arrivare. Cerca di aggrapparsi agli scatoloni per mettersi in piedi e provare quantomeno a schermarsi il viso e la testa con le braccia, ma lo scatolone al quale si aggrappa è quasi vuoto e cede immediatamente sotto le sue dita che si stringono convulsamente attorno al bordo, e al peso del suo corpo che sembra improvvisamente essersi raddoppiato, triplicato, quadruplicato, da quando la botta alla base della schiena gli ha messo fuori uso le gambe.
La guardia gli si avvicina – gli basta un passo – e comincia a picchiarlo col manganello. È buio, e non può vedere dove lo colpisce, ma Bill ha come l’impressione che non gli importerebbe anche se la luce fosse accesa. Si prende una manganellata sulla tempia, una sulla spalla, parecchie sulle braccia e poi una, più forte delle altre, sulla nuca. Vorrebbe svenire, o crepare, ancora meglio, ma nessuna delle due cose succede. Il colpo lo lascia rintontito, confuso, ma cazzo, fottutamente vigile. Si accascia sul pavimento, accartocciato nei pochi centimetri di spazio che le scope e gli strofinacci gli lasciano libero, e resta lì con gli occhi sbarrati, il dolore che gli esplode nel corpo come un bombardamento, e nessuna capacità di muoversi, neanche per urlare o piangere, mentre l’agente lo prende a calci sulla pancia, sui fianchi, sulla schiena, fra le gambe.
- Questo è per Jäger, stronzo figlio di puttana che non sei altro. – urla, continuando a picchiarlo, - E stai attento a dormire con un occhio solo, la notte, perché prima o poi ti strappo le palle nel sonno, testa di cazzo, così magari lo capisci quello che cazzo hai fatto.
Bill perde il senso del tempo. Dopo un po’, tutte le sue percezioni fisiche cominciano a farsi sbiadite, distanti. La voce dell’uomo si abbassa di volume, anche il dolore diventa meno pressante e intollerabile, è solo un’eco lontana. Bill trova perfino la forza di piegare l’angolo delle labbra in un sorriso sereno. Forse finalmente è la fine, forse sta crepando, forse riuscirà ad essere libero, finalmente. Non ci sarà più una prigione di metallo a costringerlo, ed anche la sua prigione di strade, fuori da lì, sarà finalmente dimenticata per sempre.
E invece no.
La guardia smette di picchiarlo, una volta soddisfatta la sua rabbia, e si allontana, col fiatone. Recupera uno degli strofinacci appoggiati su uno scaffale, trovandolo un po’ alla cieca e facendo cadere una bottiglia di detersivo che atterra sulla testa di Bill – lui nemmeno la sente, ovviamente – e ripulisce il proprio manganello, scaraventandogli lo strofinaccio sporco di sangue sul viso subito dopo. L’odore metallico e penetrante del sangue dà a Bill la nausea istantaneamente, ma non ha ancora recuperato abbastanza forza o capacità di muoversi per potersi lamentare.
La porta si apre, e Bill la vede appena. La guardia esce, e lo lascia lì riverso per terra. Lo trova un inserviente, più di un’ora dopo.
- Porca puttana. – sibila, e Bill, che ha tenuto gli occhi chiusi fino a quel momento, li riapre, e lancia un urlo devastante quando il tipo lo afferra da sotto le ascelle e lo rimette in piedi, per portarlo in infermeria.
Non male, come inizio.

*

Resta in infermeria una settimana. Ne odia l’odore, odia tutti i detenuti nei lettini attorno al suo, odia i medici e gli infermieri che lo trattano con supponenza, lo toccano appena, difficilmente lo curano. Lo lasciano semplicemente lì disteso, lo puliscono quando se la fa addosso perché non riesce a muovere le gambe abbastanza da arrivare fino al cesso, e poi aspettano che il suo corpo faccia tutta la fatica di rimettersi in sesto da sé.
- Sei giovane, - gli dice il medico che lo visita distrattamente il terzo giorno, verificando la buona strada di guarigione intrapresa dai suoi tagli e lanciando occhiate disinteressate agli ematomi che lo ricoprono per un buon novanta percento su tutto il corpo, - per due schiaffetti, non vale neanche la pena di tenerti qui troppo a lungo.
Bill vorrebbe sgranare gli occhi e rispondere “due schiaffetti?”, ma è abbastanza sicuro che non otterrebbe niente a parte uno sguardo gelido, ed in ogni caso è contento di potere uscire da lì prima possibile. Ha sempre odiato gli ospedali, l’ansia che gli mettevano addosso, il loro odore di malattia e morte e paura e medicinali. L’odore insopportabile dei guanti in lattice, poi, o quello delle garze disinfettate. È nauseante. Le rare volte in cui s’è messo nei guai abbastanza da avere bisogno di cure mediche, si è sempre assicurato di potersi rimettere abbastanza in fretta da lasciare l’ospedale dopo al massimo un paio di notti, anche se per questo gli toccava dover fingere di stare meglio di quanto in realtà non stesse.
Qui non può farlo, e piano piano i giorni si accumulano, diventano quattro, poi cinque, poi sei, e Bill non ne può più. Un giorno, il detenuto che porta il pranzo e la cena ai ricoverati dalla mensa si sofferma con lui un po’ più a lungo. È un uomo basso, tarchiatello, pelato, dal viso stranamente rassicurante, forse a causa degli occhi chiari dallo sguardo limpido. Bill non lo conosce, ma d’altronde non ha passato abbastanza tempo fra gli altri detenuti per poter dire di conoscere qualcuno, a parte Bushido.
- Ciao, - lo saluta l’uomo, organizzandogli il vassoio in grembo, per potergli servire il suo pasto, - io sono Chakuza. Bushido manda i suoi saluti.
Bill aggrotta immediatamente le sopracciglia, serrando le labbra in una smorfia infastidita.
- Puoi dirgli di ficcarseli su per il culo. – risponde acido, e Chakuza ridacchia, posando il piatto col pollo in mezzo al vassoio e sistemandogli attorno le posate e il bicchiere per l’acqua, lasciandogli un piattino con le verdure sul comodino.
- Può essere indisponente, alle volte. – commenta.
- Non me ne frega un cazzo. – ribatte Bill, - Non li voglio, i suoi saluti di merda.
- Mi ha detto anche di riferirti… aspetta, com’è che ha detto? - aggiunge l’uomo, fingendo di soffermarsi a pensare e picchiettandosi il mento con l’indice mentre piega le labbra in una smorfia ironicamente riflessiva, - Ah, sì: gran lavoro stai facendo, nel proteggerti da solo. – sogghigna, - Così ha detto.
Bill digrigna i denti, furioso.
- Vaffanculo. – risponde, - Tu e lui. – conclude, e getta il vassoio in terra con un ringhio stizzito.
Chakuza ridacchia e non fa una piega. Chiama un inserviente per pulire il disastro combinato da Bill per terra, e poi si allontana, per portare il pranzo agli altri detenuti.
All’alba del settimo giorno, i progressi di Bill sono sufficienti da permettergli di deambulare sulle proprie gambe, pur con una certa fatica. Due infermieri lo mettono in piedi, gli riconsegnano i propri vestiti e poi chiamano due guardie perché lo scortino fino al braccio A. Bill cammina lentissimo in mezzo a loro, e per tutto il tempo il cuore gli batte tanto forte che potrebbe esplodergli. È paura, Bill la riconosce. Continua a guardare con attenzione ogni angolo, ogni corridoio, ogni incrocio, per essere certo che i due non lo stiano facendo girare in tondo per poi ficcarlo in uno sgabuzzino e finire l’opera del compare, e quando finalmente vede l’enorme cancello che è l’ingresso del suo braccio esala quasi un sospiro di sollievo. Lo inghiotte subito, quando si ricorda che non c’è proprio niente di cui essere sollevato.
Si trascina faticosamente nella propria cella, lasciandosi andare sul letto e ringraziando mentalmente per non avere insistito nel pretendere quello di sopra. Chiude gli occhi e dorme, per la prima volta in sette giorni. In infermeria era sempre sotto antidolorifici, e si sentiva confuso, per la maggior parte del tempo. Non sentire gli arti lo terrorizzava. Chiudere gli occhi sembrava spaventoso come condannarsi a morte. Adesso riesce quantomeno a sentire tutto. E fa tutto piuttosto male, ma almeno è rassicurante abbastanza da potersi concedere di chiudere gli occhi e assopirsi. Sa che, in caso di pericolo, il dolore lo sveglierà e renderà i suoi sensi abbastanza acuti da poter fronteggiare il problema. O almeno lo spera.
Problemi, comunque, non se ne presentano. Quando riapre gli occhi, dev’essere già notte fonda, perché le luci sono spente, la gabbia è chiusa e non si sente volare una mosca, a parte il ronzio silenzioso del russare pacato di Bushido. Bill si mette a sedere e gli sfugge un gemito di dolore. La schiena fa ancora male. Bushido si sveglia immediatamente, Bill lo sente muoversi sul materasso e poi gettare le gambe nel vuoto per saltare a terra, e impreca sottovoce perché avrebbe preferito risparmiarsi questo momento, quello in cui questo stronzo di merda rigirerà il coltello nella piaga dandogli del coglione con tutte le ragioni per farlo.
“D’accordo,” pensa Bill, “andiamo,” e solleva gli occhi, aggrottando le sopracciglia in una smorfia scontrosa. Bushido lo guarda con una certa severità, le braccia incrociate sul petto, e resta in silenzio a lungo.
- Be’? – lo invita quindi Bill, il tono strafottente, - Coraggio, lo so cosa vuoi dirmi.
Bushido inarca un sopracciglio, e poi parla.
- Il direttore ha deciso di lasciarti a riposo per un altro paio di giorni, - dice, - finché non ti rimetti. Dopodiché, verrai assegnato alla mensa, e lavorerai con me e i miei ragazzi. Questo è quanto. – conclude, e poi si arrampica nuovamente al proprio posto.
Si riaddormenta quasi subito. Bill mormora un “vaffanculo” fra i denti, e poi torna a stendersi a propria volta, ma non chiuderà occhio per tutto il resto della notte.

*

I due giorni successivi gli passano addosso come polvere. Nemmeno li sente. Il dolore diminuisce, piano ma considerevolmente, e quando il secondo giorno riesce a trascinarsi in mensa per il pranzo – dopo aver digiunato per tutto il giorno precedente – riesce a sentirsi perfino abbastanza orgoglioso di sé.
Si guarda intorno con curiosità ed osserva il luogo in cui, da domani, comincerà a lavorare. La sala è enorme, ci sono tre grandissimi tavoli di metallo sistemati parallelamente in verticale, ed altri due sui due lati corti opposti della stanza, posizionati in orizzontale. L’effetto è abbastanza straniante, ma non fastidioso. C’è una certa idea di ordine che lo intriga. E poi sembra tutto molto pulito, che è una cosa sempre piacevole dopo aver passato una settimana in infermeria a rotolarti nel piscio e nel tuo stesso sangue.
Recupera il proprio pranzo e si siede in un angolo, lontano da qualsiasi cosa possa essere definita un gruppo. Non ha interesse a sviluppare relazioni con gli altri detenuti, e comunque non sta ancora abbastanza bene da poter considerare l’interazione sociale come un’opzione valida. A metà del purè di patate, cominciano a dolergli le ossa. È la posizione, immagina, sta seduto e con le spalle piegate per cercare di attirare meno attenzione possibile, e la sua schiena – abituata a restare perlopiù in posizione sdraiata negli ultimi giorni – non può sostenere il peso del suo corpo troppo a lungo. Lascia perdere il cibo, perché il dolore gli sta togliendo la voglia di mangiare, e comincia a prepararsi mentalmente al calvario che sarà alzarsi in piedi e percorrere il lungo corridoio che separa la mensa dal braccio A. Sta per alzarsi, quando sente addosso gli occhi di qualcuno, e nel guardarsi intorno scopre che si tratta di due detenuti che parlottano fra loro, ghignano, ridacchiano e lo indicano con evidenti cenni del capo. Aggrotta le sopracciglia e sporge il mento con aria strafottente, quando i ghigni e i gesti dei due cominciano a farsi troppo insistenti e allusivi.
- ‘Cazzo volete? – ringhia esasperato, e uno dei due gesticola indicando prima se stesso, poi il suo compare, poi Bill, e infine mimando un atto sessuale spingendo l’indice di una mano attraverso un cerchio formato da indice e pollice dell’altra mano. Bill rotea gli occhi, lascia andare uno sbuffo parzialmente annoiato e parzialmente esasperato, e solleva il medio. I due scoppiano a ridere e lui si riserva il diritto di considerare chiusa la questione, perciò si alza in piedi, svuota i resti del proprio vassoio nel cestino e poi comincia a muoversi lentamente verso il braccio.
Quando arriva in sala comune, gli viene quasi da piangere. Un po’ perché ce l’ha fatta, un po’ perché tutto il corpo gli fa male da impazzire. Ci ha messo tanto di quel tempo, a camminare, che per il momento in cui arriva la sala comune è già quasi tutta piena, perché anche tutti gli altri detenuti hanno già fatto ritorno. Bill cerca un tavolino vuoto al quale sedersi, ma non ne trova. I pochi posti liberi sono a tavoli già occupati, e lui non vuole avere a che fare con nessuna di quella gente.
Decide di tornare in cella, ma in questo momento non può muovere un passo in più. Non ce la fa proprio. Ha bisogno di respirare, di calmarsi, di riposarsi un attimo, perciò si lascia andare in un angolino per terra e si fa piccolo piccolo, stringendo le ginocchia al petto e raggomitolandosi in una palla, sperando che nessuno lo noti e tutti lo lascino in pace.
È una speranza vana, e se non altro Bill dovrebbe avere imparato almeno quello, nel corso dei suoi primi dieci giorni scarsi di permanenza in prigione, ma in qualche modo riesce comunque a sentirsi stupito quando sente qualcuno richiamare la sua attenzione e, nel sollevare lo sguardo, si rende conto che sono i due detenuti che ci hanno provato prima in mensa. Il più alto e grosso dei due ribadisce l’offerta, e Bill li fissa entrambi, incredulo.
- Sono ridotto una merda. – fa presente, allargando le braccia e mostrando il viso e il collo ancora pieni di ematomi, - Come cazzo fa a venirvi voglia di scoparmi? Io non lo so.
- Non rompere il cazzo, adesso. – dice il tizio più basso, allungandosi a cercare di afferrarlo per una spalla, probabilmente per tirarlo su e trascinarlo in un luogo più appartato. In un movimento del tutto istintivo, Bill allunga entrambe le gambe e gli tira un calcio su uno stinco, abbastanza forte da costringerlo ad allontanarsi con un lamento, per poi tirare su la gamba dolente e massaggiarla con entrambe le mani. La soddisfazione di averlo costretto a saltellare ridicolmente su un piede solo per il dolore dura non più di una manciata di istanti, però, perché subito gli effetti del movimento improvviso si fanno sentire, sotto forma di una scarica elettrica di dolore concentrato che si accende alla base della sua schiena e si arrampica lungo tutta la sua spina dorsale, annebbiandogli la vista e scombinandogli il cervello.
Bill cerca di muoversi, ma fa fatica a respirare e questo lo confonde ancora di più, e la parete è liscia, troppo liscia, non gli offre alcun appiglio, e pochi secondi dopo, quando lui è riuscito a piegarsi sulle ginocchia e sta cercando in qualche recondito anfratto del proprio corpo la forza sufficiente per puntare un piede a terra e sollevarsi in piedi, uno dei due detenuti comincia a prenderlo a calci nello stomaco, e poco dopo si aggiunge anche l’altro, e Bill pensa chiaramente no basta cazzo non ne posso più ammazzatemi o toglietevi dalle palle non le reggo più le botte non la reggo più la nausea non reggo più un cazzo voglio morire ammazzatemi ammazzatemi ammazzatemi cazzo o lasciatemi in pace, e non ha idea di quanto tempo duri quella tortura, ma sa che ad un certo punto s’interrompe bruscamente, e lui si ritrova riverso a terra, ancora vivo, scosso dai tremiti di paura e dolore, e i due detenuti hanno fatto un paio di passi indietro, e a frapporsi fra lui e loro c’è un uomo che non ha mai visto prima, e che quando parla fa sbiancare quei due con una facilità che a giudicare dalla sua stazza – è magro, e decisamente non alto – non ha alcun motivo di esistere.
- Avanti, ragazzi, le conoscete le regole. – li rimprovera con fare paternalistico, - Fuori dal braccio, potete fare il cazzo che volete. Qui dentro, però, non deve volare una mosca. Io per me vi lascerei pure divertirvi, - aggiunge sollevando le braccia, - ma Bushido, lo sapete, lui non è magnanimo come me. Fossi in voi, mi terrei alla larga. – conclude, annuendo compitamente. Bill trova forza sufficiente a tenere aperti gli occhi e seguire la scena, ma si azzarda a rimettersi seduto, raggomitolandosi tremante in un angolo, solo quando i due si sono allontanati abbastanza da non rappresentare più una minaccia.
Il tipo si volta verso di lui, avvicinandosi con aria circospetta. Si muove in maniera strana, vagamente scimmiesca, forse, anche se comunque sta moderatamente dritto e non ciondola. Ha solo un’aria particolarmente svagata e assurda, probabilmente motivata dai ridicoli baffetti che disegnano un arco sul suo labbro superiore.
- Ohi, stai bene? – gli domanda, e Bill lascia andare una risata amara che dura il tempo di capire che ridere fa troppo male.
- Secondo te? – domanda con supponenza, tirando su col naso e sentendo sulla lingua il sapore del sangue, - Cristo, odio questo posto. Non ne posso più di essere picchiato. – si lamenta, guardando per terra e stringendosi nuovamente le ginocchia al petto. il tizio si siede al suo fianco, una gambe distesa sul pavimento, l’altra piegata, a fare da appoggio per il braccio.
- Se ti unissi al gruppo di Bushido, non avresti più problemi. – considera, scrollando le spalle con naturalezza.
- Sì, il problema è che non voglio. – ribatte Bill in un mezzo ringhio, - Non me ne frega un cazzo di queste beghe da coglioni e da stronzi. Fate la voce grossa, ma siete chiusi in una fottuta prigione. E questo Bushido poi chi cazzo sarebbe, un qualche boss o qualcosa del genere? Be’, non governa un cazzo, a parte una decina di stronzi come lui, teste di cazzo abbastanza grosse da farsi beccare come stupidi.
Il tipo lo ascolta con attenzione e poi scrolla le spalle un’altra volta, per nulla colpito dalla sua arringa.
- Qualsiasi posto sia quello in cui uno vive, - spiega, - la cosa importante è averne il controllo, capito? Così ti eviti di venire abbordato da due troie come quelle, che poi perdono il controllo, e magari ti risparmi di finire picchiato ogni volta che cambia il vento. Io, comunque, sono Eko Fresh, ladro specializzato in furti e rivendita di automobili di lusso. – si presenta, porgendogli la mano. Bill la squadra con disinteresse ed inarca un sopracciglio, decidendo di non stringerla.
- Bill Kaulitz, puttana, specializzato in prenderlo su per il culo e staccarlo a morsi a quelli che glielo infilano a forza in gola. – procede sulla sua stessa falsariga, prendendolo in giro, - Ti basta, come curriculum?
Eko si mette a ridere, annuendo.
- Sono capacità sempre utili, specie in prigione. – dice con trasporto, come se per lui la faccenda fosse incredibilmente seria. – Comunque, Bushido ci ha spiegato che vuoi essere lasciato in pace. Se vuoi il mio parere, non sei capace di farti lasciare in pace, e neanche ti conviene, ma ehi, - scrolla le spalle un’altra volta, sollevando entrambe le braccia in un gesto di resa, - ognuno è padrone del proprio destino.
- Se il tuo capo del cazzo ti ha spiegato che non voglio balie intorno, perché ti sei messo in mezzo? – domanda Bill, aggrottando le sopracciglia, infastidito.
- Ah, ma quella è una questione completamente differente. – risponde Eko, scuotendo il capo, - Non l’ho fatto per te, l’ho fatto perché noi teniamo ordine nel braccio. Per “noi” intendo “il gruppo di Bushido”, e per “tenere ordine nel braccio” intendo… - ci riflette un paio di secondi, - be’, tenere ordine nel braccio. – conclude annuendo. – Se ti serve qualcosa, in ogni caso, io o uno dei miei compari possiamo darti una mano. C’è Baba Saad, - dice, indicando un tizio impegnato a confabulare di qualcosa con Bushido ad un tavolo, - che è il braccio destro di Bu.
- Bu? – domanda Bill, inarcando un sopracciglio e faticando a trattenere l’impulso di scoppiare a ridere, riuscendoci solo riportando a galla il ricordo di quanto gli avesse fatto male lo stomaco quando ci aveva provato poco prima.
- Sì, ma tu non chiamarlo mai così. – lo avverte Eko Fresh, - S’incazza anche con noi, quando lo facciamo, figurarsi cosa non farebbe con te. Poi, vediamo, ci sono Fler e il Chaku, Chakuza. – continua, indicando due tizi seduti accanto davanti alla tv, che ridono come deficienti per le battute di qualche stupido comico nel programma che sta andando in onda. – Fler fuori si occupava di corse clandestine e spaccio. Il Chaku invece era un individuo pericoloso. Ammazzava la gente, sai. Col cibo. Era uno chef.
- Non doveva essere granché bravo, allora. – ipotizza Bill, ed Eko scoppia a ridere.
- Ma no, - spiega, - era la sua copertura. Serviva i pasti, ed invece di condirli solo con le spezie, aggiungeva giusto quel tocco di cianuro. In modo da rendere la cena indimenticabile, capito come? – aggiunge ridacchiando, e facendogli l’occhiolino. Bill sbatte le ciglia un paio di volte, decisamente poco impressionato dalla battuta.
- E gli permettono di lavorare in cucina? – domanda.
- Ah! – esclama Eko, - Lo conosci, dunque.
- Portava il cibo in infermeria mentre ero ricoverato. – scrolla le spalle lui, - Cibo, e fastidiosi saluti da parte del vostro stupido capo.
Eko annuisce compunto, incrociando le braccia sul petto.
- Bushido ci tiene, alla buona educazione. – commenta, e Bill rotea gli occhi. – Comunque, questi che ti ho detto, be’, sono i buoni. – Bill lo guarda con inequivocabile ironia, ed Eko tossicchia, schiarendosi la voce, - Intendo, i meno cattivi dei cattivi. Se devi tenerti alla larga da qualcuno, quel qualcuno è Sido. – dice, indicando un tizio con gli occhiali e l’aria da nerd sfigato, seduto ad un tavolo con altre due persone. – Lui gestisce il traffico della droga e delle sigarette in tutta la prigione. Bushido glielo lascia fare, a patto che lui non crei problemi. Ma non è che Sido si diverta, a fare il sottoposto di Bushido, per cui bisogna sempre tenere gli occhi aperti.
- Ti ho già detto che a me di queste stronzate non frega un cazzo. – ribadisce Bill, tornando a raggomitolarsi su se stesso. Eko annuisce.
- Sì, ma io te lo dico perché è importante conoscere il luogo in cui si vive, se non lo si può comandare. Tieniti alla larga da Sido e da quei due lì, B-Tight e Tony D. Era gente che faceva roba sporchissima, fuori, e sarebbero perfettamente in grado di ricominciare a farla anche qua dentro, se si trovassero davanti all’occasione giusta.
- Va bene, d’accordo. – sospira Bill, guardando altrove, - L’hai finita la lezione? Mi sto annoiando.
Eko aggrotta le sopracciglia, offeso.
- Sai, - borbotta, alzandosi in piedi, - sei indisponente.
Si allontana senza una parola di più, e Bill sospira sollevato quando lo vede tornare a sedersi accanto a Bushido, al tavolino che divide con Saad. Dopodiché, cerca di spingersi in piedi facendo pressione sulle gambe, utilizzando tutta la poca forza che ancora gli resta, e si trascina in gabbia, lasciandosi ricadere sul letto come un peso morto.
Ripensa al primo giorno in cui s’è svegliato in quella cella e tutto ciò che voleva era uscirne il prima possibile. Ora, vorrebbe poterlo non dover fare mai più.

*

Jost firma documenti da quattro ore e non si sente più la mano.
I detenuti sono convinti che il suo ufficio sia una stanza dei bottoni dalla quale potrebbe far piovere oro, se solo lo volesse. La verità è che lui è solo un impiegato statale con una penna stilografica molto costosa. Dopo aver ascoltato i suoi collaboratori e aver preso decisioni per questioni di cui non ha esperienza di prima mano, il resto del suo tempo è diviso tra l'occuparsi delle cause legali che sono attualmente in corso per e contro il penitenziario – che sono un numero esageratamente alto – e cercare di seguire le direttive dei piani alti che sono spesso contraddittorie e seguono il soffio del vento.
Quando finalmente alza la testa dalla pila di fogli che non accenna ad esaurirsi, è solo perché hanno bussato alla porta. Una delle guardie lo avvisa che Ferchichi chiede un colloquio. Jost si appoggia allo schienale della poltrona in pelle e si massaggia gli occhi stanchi. “Fallo entrare,” dice, consapevole di aver appena permesso all'ennesimo problema di mettersi in fila insieme a tutti gli altri che deve ancora risolvere. Il tunisino non è mai latore di buone notizie.
“Che cosa vuoi?” Gli chiede, non appena quello mette piede in ufficio, trascinandosi svogliatamente fino alla solita zona di sicurezza a qualche metro dalla scrivania. La guardia di sicurezza si ritira ad un suo cenno.
“Ma come, David, non mi saluti nemmeno?” Ghigna lui, piegando la testa di lato e guardandolo con strafottenza.
“E' Jost per te, Ferchichi,” gli ricorda.
“Allora tu chiamami Bushido.”
Jost è direttore del penitenziario da più tempo di quanto sia effettivamente sano ed ha imparato che a volte con i detenuti è meglio trattare che non pretendere. Ma questa non è una di quelle volte. “C'è un motivo per cui ti trovi qui, Ferchichi o hai lasciato il tuo regno incustodito solo per venire fin qui a ricordarmi come ti chiami?”
“Il mio regno è ben sorvegliato, non si preoccupi,” Bushido sposta il peso da un piede all'altro e solleva le mani bloccate dalle manette per grattarsi il naso con l'indice. “Sono qui perché la sua bambolina non se la passa tanto bene.”
“La mia bambolina? …Intendi Kaulitz?””
Bushido mastica lo stecchino che tiene sempre incastrato tra i denti. “Sì, lui,” annuisce. “Non ce l'ha un altro posto dove metterlo? Se continua così, quello non supera la settimana.”
“Pensavo che il medico lo tenesse in infermeria.”
“C'è stato,” Bushido muove entrambe le mani a sinistra e poi le sposta di nuovo a destra. “Ma poi è tornato in prigione con tutti gli altri. Ed è qui che cominciano i casini.”
Jost sospira e si passa una mano sugli occhi; non che serva a qualcosa ma lo aiuta a tenersi occupato mentre Ferchichi gli racconta quello che già si era aspettato. “Che cos'è successo?”
“Niente, ancora,” dice lui. “Ma succederà e non sono sicuro che sarà un bel vedere. Quello non può andarsene in giro per i cazzi suoi senza che qualcuno gli metta gli occhi addosso, Jost. I guai se li tira addosso anche solo respirando. Senza contare che è una testa di cazzo, quindi non ha nemmeno abbastanza cervello per evitarli.”
“Se non mi sbaglio, tu e i tuoi dovevate tenerlo d'occhio.”
Bushido sposta lo stecchino da un lato all'altro della bocca. “Ci abbiamo provato, ma a quanto pare il ragazzino non gradisce la nostra protezione,” risponde, con un sospiro falsamente contrito. “E un paio delle sue guardie non ha familiarità con il concetto di etica professionale.”
Lo sguardo di Ferchichi è apertamente accusatorio, ma Jost preferisce soprassedere perché non ha né il tempo né la voglia di discutere al riguardo. Scuote il capo e si stringe nelle spalle. “Purtroppo non c'è molto che posso fare. Gli hanno dato dodici anni e deve passarli qui.”
“E' questa la nuova politica del penitenziario per diminuire il numero dei detenuti? Lasciarli al proprio destino sperando che crepino prima della fine della condanna?” Chiede Bushido, con noncuranza e come se, in effetti, la situazione dei suoi colleghi gli interessasse qualcosa.
Lui ha sempre accettato le cose per come stavano fin da quando è arrivato, salvo il fatto che ha preso il comando della situazione non appena ha messo piede nel braccio; per il resto, però, non si è mai mosso per migliorare le condizioni sue o degli altri detenuti, tutt’al più ha promesso di non farle peggiorare. E' per questo che Jost lo usa come mediatore: il suo attaccamento allo status quo è già più di quanto possa chiedere a qualunque altro detenuto.
“A te non è mai fregato niente di come vivete qua dentro.”
“Qua dentro,” annuisce Bushido, “inteso come la prigione in generale, ma non nella mia cella. Sono piuttosto interessato a che ne è di quei due metri di spazio in cui sono costretto a vivere.”
Jost sente l'emicrania partire dalla base del collo e risalirgli il cervello, pronta ad esplodere inesorabile in uno di quei mal di testa in grado di stenderlo su un divano per giorni. “Non ti seguo, Ferchichi,” geme, aprendo un cassetto laterale della scrivania e cercandovi dentro a casaccio, sicuro che ci sia una qualche pillola sparsa in grado di aiutarlo. “Cerca di farla breve. La vedi quella pila di fogli davanti a te? Aspetta ancora che ci lasci l'autografo.”
“Il ragazzino ha pensato bene di salvare il culo chiudendosi in cella,” spiega Bushido. “Non ne esce da giorni e io vorrei evitare che morisse di consunzione nel letto sotto al mio.”
“E che cosa vuoi che faccia? Non posso trascinarlo fuori di lì se non vuole.”
Bushido gli riserva uno dei suoi sorrisi storti. “Non avevo dubbi che l'avresti detto, David.”
“Jost.”
“Voglio il permesso di portare del cibo in cella,” spiega Bushido. “Per lui, s'intende.”
“Per lui, certo,” ripete Jost. La precisazione strappa un sorriso anche al suo mal di testa. “Sai perfettamente che non sono ammessi favoritismi.”
Bushido annuisce. “Conosco il regolamento,” annuisce. “Lo consideri una misura precauzionale. Se si sente male, sarà considerato un tentativo di suicidio. E lei sa meglio di me che è più facile gestire uno strappo alla regola che l'opinione pubblica.”
Jost lo sa molto bene. I cittadini desiderano sentirsi al sicuro, non vogliono i ladri, gli stupratori e gli assassini liberi per strada. Li vogliono dietro le sbarre e solo allora, quando non minacciano più i loro quartieri – quando in sostanza non sono più affare loro – sono subito disposti a dimostrare pietà e ad accusare la polizia carceraria di qualunque cosa accada. Se per qualche motivo un detenuto ne accoltella un altro oppure si appende per la gola, quelli non sono più il truffatore o l'assassino che fino al giorno prima dovevano essere mandati a morte. Sono vittime di un sistema carcerario violento e disumano. Ed ecco i picchetti, le petizioni, gli scioperi della fame di gente legata ai cancelli del penitenziario, gente che urla e strepita finché un politico non interviene per concedere la grazia prima delle prossime elezioni.
Jost è consapevole che le sue guardie non sono stinchi di santo, ma sa che fra le mura della prigione c'è sempre una forte tensione generata da un gran numero di uomini rinchiusi in un unico posto senza la possibilità di sfogarsi in alcun modo e con la sola compagnia di poliziotti che odiano per principio e di altri detenuti con i quali, quasi sicuramente, hanno qualche conto in sospeso. E' fisiologico che gli incidenti capitino e, per quanto lui cerchi di stare attento, è umano anche lui. Solo che, apparentemente, questa non è una giustificazione valida con cui rispondere ad un tentato suicidio, nel caso.
“Credi davvero che potrebbe aiutarlo?” Chiede Jost.
“Se è ancora vero che chi non mangia da giorni ha fame...”
Jost ha già preso un foglio bianco per scarabocchiarci velocemente sopra l'autorizzazione. “E va bene, facciamo questo esperimento,” gli dice, richiudendo la stilografica ma tenendosi il permesso che non rimane a Bushido, naturalmente, ma va ad infilarsi nella cartella di documenti che giornalmente lascia il suo ufficio per essere fotocopiata, inviata in triplice copia e poi archiviata dalla sua segretaria. “Torna pure con gli altri, avverto io le guardie.”
L'agente di custodia che ha accompagnato Bushido fino all'ufficio del direttore viene richiamato perché lo scorti di nuovo all'interno del penitenziario.
Bushido conosce ormai la strada a memoria, così avanza docilmente, un passo dopo l'altro, senza bisogno che la guardia alle sue spalle lo spintoni o gli dica di darsi una mossa. Non ci vede niente di ribelle nel piantarsi a gambe larghe in mezzo ad un corridoio come un mulo recalcitrante solo per dare a vedere che se ne frega degli ordini. Lui non ha bisogno di queste ridicole manifestazioni di testardaggine per farsi valere e lo ha insegnato anche ai suoi ragazzi, così che si distinguano fin da subito dalla feccia che segue Sido come le mosche la merda.
Quando arriva, la cella è silenziosa e il ragazzino è così raggomitolato in un angolo che alla prima occhiata nemmeno lo vede. Se ne sta seduto in terra, tra il cesso e il lavandino, le gambe strette al petto e lo sguardo fisso e un po' vacuo che gli ha visto addosso ogni giorno durante l'ultima settimana.
“Beh, se volevi disperarti e lasciarti morire, potevi anche farlo sul letto, sai?” Lo apostrofa, facendo un passo all'interno e lasciando che la guardia gli chiuda la porta alle spalle. Il ragazzino gli dedica appena un'occhiata ma non dice una parola mentre Bushido si volta e porge i polsi alla guardia attraverso le sbarre. “Ti spiace?” Chiede, con un sorriso sghembo. “I braccialetti cominciano a stringere.”
L'uomo sbuffa una mezza risata e lo libera dalle manette, poi si allontana facendo un cenno ad entrambi. “Fate i bravi, là dentro.”
“Hai sentito?” Bushido si rivolge di nuovo al ragazzino, ripiegando un po' le maniche della camicia. “Dovresti comportarti a modo e sederti come un essere umano.”
“Si può sapere tu che cosa cazzo vuoi?” Sbotta Bill.
Bushido non si scompone. “Fa piacere sapere che non ti è scomparsa la voce e che la usi sempre per dire cose tanto piacevoli,” lo prende in giro.
“Senti, non ho nessuna voglia di-”
“Sta' zitto, fammi il favore. Ti ho portato da mangiare,” dice Bushido, tirando fuori dalla tasca qualcosa avvolto in tovaglioli di carta e una di quelle bottigliette di plastica in cui viene distribuito il succo frutta. “Spero che tu non sia allergico alle fragole, perché questo era l'unico rimasto.”
Bushido appoggia il cibo sul letto di sotto e lo spinge verso il ragazzino, quindi si appoggia al tavolo che c'è nell'angolo della cella e resta in attesa. “Mangia,” ordina con un cenno del capo dopo che si è allontanato abbastanza da lasciar intendere che questo è il massimo dell'interazione che ha previsto con lui.
Bill rimane immobile per un lungo istante e poi allunga una mano a recuperare il fagotto. “Com'è che tu puoi portare cibo in camera?” Chiede sospettoso mentre svolge l'involucro di carta e ne estrae un panino rotondo e straripante di ripieno.
“Ho un permesso speciale” spiega Bushido. “Ma fossi in te non mi farei vedere.”
Lo stomaco di Bill fa le capriole di fronte a quel ben di Dio e, anche se vorrebbe continuare a fregarsene, il ruggito inarrestabile del proprio stomaco lo costringe a cedere. Il primo morso gli fa quasi salire le lacrime agli occhi, tanto che si ritrova a mugolare compiaciuto. “Questa non è come la merda che servono in sala mensa,” commenta. “Dove l'hai trovato?
Bushido sorride. “L'ho fatto fare a Chakuza appositamente per te.”
Bill allontana subito il panino dalla bocca e si chiede se è ancora in tempo per vomitare anche il morso che ha già mandato giù.
Bushido scoppia a ridere. “Tranquillo, è buono. Fidati,” gli dice. “L'ho fatto preparare a lui perché per poter avvelenare i cibi, prima doveva prepararli. Ed è un ottimo cuoco.”
Il ragazzino ci pensa su qualche istante e osserva il panino con la stessa diffidenza con la quale guarda Bushido. Quel tipo potrebbe volergli mettere le mani addosso un giorno o l'altro, ma di sicuro non ha alcun motivo per volerlo morto. E poi con tutti gli uomini che ha in giro per la prigione, perché prendersi la briga di portargli del cibo avvelenato in camera? Tanto valeva farlo ammazzare da qualcuno una delle tante volte che lo hanno pestato.
“Mangia, ti ho detto,” ripete Bushido, più severamente. “Il panino è a posto. Il direttore sa che ti ho portato del cibo, quindi se adesso cadi in terra morto stecchito, lui saprà che ti ho ammazzato io. Sei più tranquillo adesso? Forza.”
“Ora sì che mi sento più sollevato, sapendo che finirai in isolamento se crepo,” commenta ironico Bill, però tira un altro morso al panino. “Come fa uno come Chakuza ad avere il permesso di lavorare nelle cucine?”
“Infatti non ci lavora,” Bushido si stringe nelle spalle e, visto che Bill sta mangiando, può anche arrampicarsi sul suo letto e stendersi lì, con le braccia dietro la testa. “Porta solo i pasti in infermeria, ma se si vuole fare qualcosa, il modo lo si trova.”
Per qualche minuto sulla cella cade il silenzio, interrotto soltanto dal ruminare di Bill che si è evidentemente lasciato andare alla fame e sta divorando il cibo come non ne vedesse da giorni, cosa che in effetti non fa. Bushido attende pazientemente che il ragazzino abbia finito e, quando quello finalmente si alza in piedi, gli rivolge la parola senza nemmeno voltarsi a guardarlo. “Pensi di passare qui dentro tutti gli anni che ti hanno dato?”
“E anche se fosse?”
“Se così fosse ti direi che non mi pagano per portarti da mangiare,” risponde. “Tienilo a mente mentre cerchi di usare i tuoi super-poteri per campare dodici anni senza mettere in bocca neanche un pezzo di pane.”
Bill si stende sulla sua branda, il viso rivolto verso il muro di fronte a sé, reso più scuro dall'ombra del letto di sopra e solo allora, lontano dallo sguardo di Bushido, si permette di deglutire di preoccupazione. Non può passare tutto il suo tempo in quello schifo di cella ma, per come stanno le cose, non può nemmeno avventurarsi fuori. Bill non crede nel tempo che sistema le cose, soprattutto in galera, dove al massimo sono pronti a tirargliele di nuovo perché si sono scordati di averlo già fatto una volta.
“Ehi, ragazzino?” La voce di Bushido è calda e bassa, e sempre così impostata che Bill lo trova ridicolo. Ma chi si crede di essere questo marocchino impiantato in Germania? Che diavolo vuole da lui e dalla sua vita? Perché non lo lascia in pace un istante? E' per questo che non riesce a concentrarsi e a trovare una soluzione al suo attuale problema come fa di solito, perché quello lassù, abbarbicato sul suo stupido trono non sta mai zitto e pretende anche che lui gli risponda. “Cosa vuoi?”
“La mia offerta è sempre valida.”
“Fottiti,” Bill si raggomitola e diventa ancora più piccolo. “Ti ho già detto che non ne ho bisogno.”
“Il panino lo hai fatto fuori, però.” La voce di Bushido non cambia di tono. Resta pacata e venata da un leggero umorismo. “E un grazie sarebbe gradito, sai? Non è che se batti per strada devi essere maleducato.”
Bill sbuffa rumorosamente dalle narici. “Nessuno ti aveva chiesto niente.”
Non a parole, pensa Bushido. E' evidente che, da qui in avanti, se vuole evitare che la situazione degeneri, la volontà del ragazzino non va più presa in considerazione.

*

Proprio per questo motivo, la prima cosa che Bushido fa all’alba del terzo giorno di Bill Kaulitz nelle cucine, dopo averlo osservato finire in tre risse nel giro di quarantotto ore, e quasi violentato dietro le caldaie durante il suo turno di pulizie, è andare a fare una visitina al suo vecchio amico Jost.
Ci sono voluti tre giorni solo perché Bill si riprendesse abbastanza da decidere di potersi fare un giro fuori dalla propria cella. Ce ne sono voluti altri due di suggerimenti velati per convincerlo a mettersi a lavorare. Bushido non ha intenzione di sprecare tutta la fatica fatta solo perché questa prigione, come tutti i luoghi in cui le gabbie superano in numero le stanze, è abitata solo da animali.
Osservandolo sulla soglia della porta, accompagnato da un agente di custodia e con i polsi stretti nelle manette, Jost sospira. Bushido solleva una mano per salutarlo agitando le dita. L’altra segue la prima nel movimento, ma resta lì appesa alla propria manetta come un peso morto.
- Il mio non è un lavoro, - commenta, - è espiazione. Può andare, agente.
L’agente di custodia spinge poco delicatamente Bushido all’interno dell’ufficio e poi si allontana, chiudendosi la porta alle spalle.
- Buongiorno, David. – lo saluta Bushido, svaccandosi senza complimenti sulla poltroncina di fronte alla grande scrivania dietro la quale il direttore si nasconde.
David si pinza la radice del naso, inspirando ed espirando profondamente.
- Guarda, Ferchichi, usualmente sarei ben felice di rimproverarti, ricordarti che per te sono direttore o al massimo Jost e tutto il resto dei preliminari che ti piace tanto mettere in pratica quando devi parlare con me, - comincia, osservando un sorrisetto divertito farsi strada sulle labbra del detenuto, - ma sono giorni che non fai altro che entrare ed uscire dal mio ufficio, e sinceramente non ne posso più di vedere la tua brutta faccia giorno dopo giorno dopo giorno, perciò facciamola breve e tagliamo i convenevoli: cosa diavolo vuoi?
- Ci siamo alzati col piede sbagliato, stamattina, eh? – ride Bushido. David rotea gli occhi. Gli ha appena detto di voler tagliare i preliminari, ed ecco che lui insiste, come non l’avesse neanche sentito.
- Sempre, Ferchichi. Sempre, credimi. Ora, ti dispiacerebbe, per cortesia, vuotare il sacco e poi sparire dalla mia vista per sempre? – domanda con educazione, recuperando una pila di fogli da un cassetto e prendendo a fingere di leggerli con estremo disinteresse, giusto per darsi qualcosa da fare.
Bushido si prende il suo tempo, prima di rispondere. Non perché abbia bisogno di raccogliere i pensieri – Jost lo conosce abbastanza bene da sapere che Bushido non muove un passo per parlare con qualcuno se non sa già esattamente cosa deve dirgli e come deve farlo in modo da ottenere precisamente ciò che vuole – ma appositamente per snervarlo, sperando che infastidirlo in questo modo lo porti a concedergli una risposta veloce e affermativa, solo per toglierselo dai piedi quanto prima.
Inutile dire che sta funzionando.
- Dunque, a proposito del ragazzino che mi hai affibbiato… - comincia lentamente, e David rotea gli occhi, nauseato.
- Non ne posso più di sentirti parlare di quest’argomento. Non ne posso più di te in generale, ma di questa cosa in particolare, poi, non riesco più a tollerare nemmeno l’esistenza. Ora lo sposto in isolamento e tanti saluti. – minaccia in un ringhio impietoso, e Bushido, prevedibilmente, si mette a ridere.
- Mamma mia, David, dovresti prenderti un calmante. Una camomilla, almeno, se non vuoi ricorrere alla prescrizione del tuo psichiatra. – suggerisce con tono falsamente preoccupato. David deve dar fondo a tutto il proprio autocontrollo per impedirsi di afferrare il pesante fermacarte a forma di zampa di leone che ingombra una buona percentuale della sua lussuosa scrivania in legno massello e tirarglielo dritto sulla fronte, proprio in mezzo agli occhi. Sarebbe soddisfacente – oh, Dio, sarebbe così soddisfacente – ma con la fortuna sfacciata che ha Bushido riuscirebbe sicuramente a sopravvivere; lui, invece, finirebbe arrestato e incriminato per tentato omicidio, e probabilmente sarebbe recluso proprio nella stessa prigione che fino ad ora, con alterni risultati, ha diretto. Questo sarebbe di sicuro meno soddisfacente, perciò David pone un freno alla propria furia, e si limita ad inspirare ed espirare rumorosamente dal naso, provando a recuperare la calma.
- Non ho bisogno di nessuna prescrizione, Ferchichi. – ribatte, sospirando con rassegnazione. – Coraggio, sputa il rospo. Cos’è che vuoi ora? Il permesso di portarlo a pisciare e reggergli l’uccello mentre lo fa? Puoi. Contento? Ora vai.
Bushido rimane in silenzio per un paio di secondi, il sorriso abbandona velocemente le sue labbra e le sue sopracciglia si aggrottano visibilmente. David si permette un sorriso di trionfo.
- Sei il peggior direttore di prigione esistente sulla faccia della terra. – commenta.
- Oh, e il tuo parere mi interessa così tanto che penso che stanotte non dormirò. – ribatte David, con un altro mezzo sorriso. – Seriamente, Ferchichi. Sputa il rospo. Non ho tempo da perdere. Specialmente con te.
- D’accordo, d’accordo. – sospira lui, mettendosi seduto in maniera vagamente più composta, come a dargli un segnale tangibile delle proprie buone intenzioni a passare ad argomenti più seri. – Allora, lo voglio fuori dalla cucina.
David aggrotta le sopracciglia, accomodandosi meglio contro lo schienale della propria enorme poltrona girevole in vera pelle.
- Come, prego? – domanda incerto. Bushido non si scompone.
- Lo voglio fuori dalla cucina. – ribadisce, - Pensavo che sarebbe stato più semplice tenerlo sotto controllo lì, ma la verità è che non fa che creare problemi. O sono i problemi che continuano a trovarlo, questo non mi è ancora del tutto chiaro. In ogni caso, - scrolla le spalle, e le manette producono un suono tintinnante particolarmente fastidioso, in risposta al suo movimento, - non posso più tenerlo lì. Non solo non riesco a farlo stare tranquillo, ma finisce per rallentare il lavoro a tutti. I miei ragazzi si lamentano e una ciurma scontenta è una ciurma potenzialmente pronta all’ammutinamento. Lo sposti da qualche altra parte.
- Scusami mentre trattengo a stento le risate sulla metafora piratesca. – sbotta David, inarcando un sopracciglio, - E scusa anche mentre cerco di non soffocarmi d’ilarità mentre realizzo che tu supponi di poter venire qui in quest’ufficio a fare il bello e il cattivo tempo senza che io ti rida in faccia e ti mostri la via più breve per toglierti dalle palle presentando il tuo triste fondoschiena alla punta dei miei stivali da milleduecento dollari.
Bushido inarca le sopracciglia così tanto che sulla sua fronte si formano rughe ondulate e profondissime.
- Questa è la cosa più gay che io abbia mai sentito dire in assoluto in tutta la mia vita, non scherzo. – lo avvisa. Ancora una volta, David deve trattenersi dal reagire in maniera sconsideratamente ed inappropriatamente violenta. Questa conversazione lo sta portando sull’orlo di una crisi di nervi.
- Va bene, Ferchichi, basta così. – sospira, massaggiandosi stancamente le tempie, - Sono stufo. Non ne posso più. Dove vorresti che lo spostassi?
Bushido scrolla le spalle, come non ci avesse ancora pensato. David lo odia. Questi giochini lo irritano. Entrambi sanno perfettamente che Bushido ha già pianificato quella conversazione nei minimi dettagli, ed entrambi sanno anche che tutti i tentativi di David di accorciarla e modificarne il corso sono stati vani. Perché, quindi, continuare a trascinarla inutilmente per chissà quanti altri minuti?
- Magari in biblioteca. – si degna finalmente di rispondere, - È un posto tranquillo, ci sono solo due ingressi e non dovrebbe fare altro che stare seduto al computer a registrare i libri presi in prestito. Inoltre, lì i miei ragazzi potrebbero tenerlo d’occhio meglio e più discretamente, così anche lui non se ne accorgerebbe e la smetterebbe di rompere le palle e piantare casini apposta per dispetto nei miei confronti. – sorride, accavallando le gambe. – Mi sembra la soluzione migliore per tutti.
David lo fissa con malcelata rabbia per un paio di secondi, chiedendosi se quest’uomo sappia di fronte a chi si trova. Se ne abbia un minimo di consapevolezza, almeno.
- Lo sai perché ti ho affidato questo ragazzino, Ferchichi? – domanda, e quello fa una smorfia.
- Me lo chiedo continuamente. – risponde.
- Me lo sono chiesto anch’io. – annuisce David, - E la verità è che fino a questo momento non ne avevo un’idea precisa. Ma adesso sì.
L’espressione di Bushido cambia. Si fa più seria, perfino preoccupata, mentre sulle labbra di David si disegna un sorrisetto divertito.
- Sarebbe?
- Non me ne frega niente, di quel ragazzino. – spiega David, - O meglio, non più di quanto non mi freghi di un qualsiasi altro detenuto. Quindi, in realtà, molto poco. Ma sai quanti omicidi e suicidi ci sono stati fra i nuovi arrivati nel corso dell’ultimo anno? È meglio che non ti dica il numero preciso, perché sono di quelle stime che farebbero rizzare i capelli sulla testa anche a uno stronzo come te. Posso però dirti che in percentuale stiamo parlando di più della metà dei nuovi detenuti, la maggior parte dei quali ragazzi molto giovani, che in teoria uscendo di qui in una decina d’anni o meno avrebbero potuto rifarsi una vita. – David si prende qualche secondo per tenere Bushido sulle spine, osservando i suoi occhi farsi più scuri, perfino preoccupati. – La verità è che te l’ho affidato perché è un caso perso, Ferchichi. Perché se il ragazzino crepa, in qualsiasi modo, io avrò la scusa perfetta per tenerti ingabbiato qui dentro fino a che non avrai scontato la tua pena integralmente. Perché davvero, se c’è qualcuno in questa prigione che non merita di rivedere la luce del sole il più a lungo possibile, questo sei tu. E sai perché, Ferchichi?
- Perché lei è uno stronzo e mi odia, direttore? – risponde immediatamente Bushido, gelido, tornando ad una forma di cortesia che con lui non ha mai usato e che, per la prima volta, stabilisce fra loro una distanza, sintomo evidente del fatto che lui non ha più alcuna voglia di scherzare.
- No. – ridacchia David, stendendosi comodamente contro lo schienale della poltrona e intrecciando le mani in grembo, - Perché la prigione non ti ha insegnato niente, Ferchichi. Sei sempre la stessa feccia che eri quando sei entrato qui dentro, e non hai alcun diritto di uscire. Non sei stato rieducato. – il suo ghigno si allarga, - Ecco perché ti ho affidato il ragazzino. Perché tu fallirai, e io potrò tenerti qui dentro. Non perché ti odio, ma perché è quello che meriti.
Bushido scatta in piedi, osservandolo dall’alto con rabbia evidente. Le sue mani tremano.
- È tutto? – domanda. David si concede un altro sorriso soddisfatto.
- Il permesso per il trasferimento del detenuto Bill Kaulitz in biblioteca è accordato. – conclude, - È tutto, sì.

*

All’alba del terzo giorno di biblioteca, Bill si è già annoiato così tanto da ripensare alle botte e ai tentativi di stupro con nostalgia. Almeno, allora succedeva qualcosa. Invece, adesso ogni ora è una tortura, i minuti non passano mai, le giornate sono infinite. Se pensa che gli toccano dodici anni di questa merda, gli viene da vomitare. Saranno dodici e sembreranno ventiquattro, visto che, palesemente, il tempo in quella stanza silenziosa scorre due volte più lentamente di quanto non faccia in tutto il resto della prigione e del mondo.
Il primo giorno è stato perfino piacevole. Un agente di custodia l’ha scortato alla biblioteca, gli ha mostrato la postazione e gli ha gettato fra le mani un breve opuscolo che gli spiegava in sintesi ciò che doveva fare e il funzionamento di base del programma col quale avrebbe dovuto registrare i prestiti e le restituzioni.
La biblioteca non è molto frequentata, la maggior parte dei detenuti preferisce fare altro rispetto a leggere, evidentemente, e Bill non può certo biasimare nessuno, per questo – non si avvicinerebbe a un libro neanche se stesse morendo di noia e non ci fossero altri passatempi possibili nel raggio di chilometri – e per questo motivo fin dall’inizio non è che il suo lavoro sia stato granché faticoso. Ogni paio d’ore, al massimo, un detenuto che magari era rimasto lì a leggere per eternità, si avvicinava alla sua scrivania e gli sventolava il libro davanti, e Bill non doveva fare altro che inserire nel programma il codice del libro e il numero di riconoscimento del detenuto, e il suo lavoro era finito. È stato piacevole perché le sue ossa avevano ancora bisogno di riprendersi da una recente scarica di legnate, e poter stare sostanzialmente seduto a rigirarsi i pollici per una mattinata intera era stato riposante, perfino soddisfacente, allo stesso modo in cui era soddisfacente ritornare da scuola il venerdì pomeriggio e gettarsi a pancia in su sul proprio letto a fissare il soffitto per ore, come faceva spesso a quattordici anni.
Anche il secondo giorno è passato senza particolari traumi. L’unica cosa un po’ strana che è successa è stata quando, ad un certo punto del pomeriggio, dopo aver sghignazzato seduti ad un tavolo senza mai avere aperto un libro da quando erano entrati in biblioteca, tre detenuti gli hanno chiesto di trovare per loro un volume che non riuscivano ad individuare. Bill si è fatto dare il titolo ed ha scoperto che il libro si trovava in uno scaffale parecchio in alto. L’ha indicato ai detenuti sghignazzanti, chiedendosi cosa diavolo avessero da ridere e stabilendo in ultimo che non gli interessava minimamente, e poi ha detto loro di usare pure la scala per recuperarlo. A quel punto, uno di loro gli ha risposto che i detenuti comuni non hanno il permesso di utilizzare la scala per prendere i libri. È uno specifico compito del detenuto al quale è stata affidata la gestione della biblioteca, ha detto.
Bill li ha guardati tutti e tre aggrottando le sopracciglia.
- Ma che stronzata è? – ha chiesto. I detenuti hanno scrollato le spalle, e lui si è detto che, in fondo, si trattava di una regola abbastanza idiota da poter essere perfino vera, e sospirando pesantemente ha recuperato la scala da sé, spostandola in corrispondenza dello scaffale giusto per poi arrampicarsi verso l’alto, un piolo dopo l’altro, sentendo tutte le ossa scricchiolare sinistramente ad ogni passo.
È stato allora che i tre detenuti hanno ripreso a sghignazzare. E prima ancora che Bill potesse darsi del cretino e saltare giù dalla scala, quelli l’hanno afferrata per i due lati e hanno cominciato a scuoterla violentemente a destra e a sinistra.
Bill ha lanciato un gridolino terrorizzato, aggrappandosi all’ultimo piolo in alto e stringendolo forte fra le braccia nel tentativo di ancorarsi a sufficienza per non cadere rovinosamente per terra, mentre il suo corpo ondeggiava senza posa seguendo il movimento della scala, e quegli stronzi continuavano a ridere, senza fermarsi un secondo, e poi all’improvviso è finito tutto, senza che lui capisse come né perché. Un attimo prima il mondo oscillava pericolosamente da un lato all’altro, e l’attimo dopo invece era fermo.
- Che cazzo…? – ha sillabato, ancora terrorizzato, voltandosi a guardare i tre detenuti ed osservandoli arretrare un passo dopo l’altro mentre cercava di recuperare l’equilibrio sulla scala.
- S-Scusa… - ha detto uno dei tre, afferrando gli altri due per le maniche delle rispettive magliette per trascinarli indietro più in fretta, - Non volevamo…
- Non volevate cosa?! – ha strillato a quel punto lui, sconvolto, voltandosi per scendere dalla scala in due grandi passi, - Ma sparite, coglioni! Sparite!
I tre non se lo sono fatto ripetere due volte, e quello, bene o male, è stato l’unico episodio emozionante della giornata. Bill si è naturalmente ritrovato a chiedersi cosa sia stato a metterli in fuga in quel modo, perché – e di questo è abbastanza sicuro – di certo non è stato il suo stupido culo ondeggiante per aria in completa balia del loro ridicolo bullismo da adolescenti mai cresciuti. E d’altronde gli è capitato anche di chiedersi cosa ci facessero Chakuza e Baba Saad in un angolo della biblioteca, apparentemente intenti a rigirarsi i pollici, e da quanto tempo fossero lì in osservazione, visto che lui, prima di quel momento, non li aveva notati affatto.
Ma è stato solo un pensiero di fugace curiosità, ed è passato subito. Questo perché sostanzialmente non gli importa un accidenti di quello che succede in questa dannata prigione. Attorno a lui o a causa sua o per qualunque altra ragione. È tutto così incredibilmente stupido che lui semplicemente rifiuta di averci qualcosa a che fare.
Adesso, però, la domanda torna a farsi insistentemente avanti nel momento in cui, dopo una giornata intera a rigirarsi i pollici, accade qualcosa di perfino più strano. I due detenuti che l’hanno abbordato in mensa ormai quasi due settimane fa, e che poi l’hanno ridotto uno straccio quando lui si è rifiutato di scoparseli, entrano in biblioteca una decina di minuti prima dell’orario in cui usualmente l’agente di custodia passa a prenderlo e chiude la porta a chiave per la notte, prima di ricondurlo alla propria cella.
L‘ultimo ad entrare, il più grosso, si chiude la porta alle spalle. A parte loro due e Bill, la biblioteca è completamente vuota, e nell’accorgersene lui immediatamente aggrotta le sopracciglia, alzandosi in piedi ed affrontandoli a muso duro.
- Non è aria. – dice il più scontrosamente possibile. I due si lanciano un’occhiata divertita, e poi quello più basso si avvicina di un altro passo, mentre il suo compare afferra una sedia e la incastra fra il pavimento e la maniglia della porta, per bloccarla.
- Indovina a chi non frega un accidente di che aria tira? – dice il tipo più basso, ormai così vicino che Bill può percepire distintamente il puzzo nauseante del suo sudore. – Adesso fai il bravo e tirati giù i pantaloni, culetto d’oro. Mostraci per cosa pagavano i tuoi clienti quando stavi fuori. – conclude, avvicinandosi ancora, le mani protese verso di lui.
Bill scatta indietro, soffiando come un gatto.
- Non vi avvicinate. – ringhia. La maniglia della porta si muove, ma naturalmente chiunque si trovi al di là non riesce ad aprirla, - La guardia sarà qui a minuti.
- No, credo di no. – ridacchia il suo compare, il quale, Bill scopre quando si avvicina a propria volta, puzza anche più di lui, - Indovina chi ha messo da parte qualche risparmio per chiedere all’agente un gentile favore…?
Bill digrigna i denti, nauseato.
- Cos’è, un quiz a premi? – commenta, sbirciando la porta e notando che la maniglia continua a muoversi. Se la guardia è stata pagata, allora chi è che sta cercando di aprirla? Forse, se riesce ad essere abbastanza veloce da aggirare questi due stronzi e lanciarsi sulla sedia per toglierla di mezzo… prova a calcolare le proprie possibilità, ma scopre ben presto di aver fatto la scelta sbagliata. I due gli sono addosso molto prima che lui riesca a concludere i propri calcoli, e nel momento in cui sente le loro luride mani addosso Bill non può far altro che urlare.
La maniglia smette di girare convulsamente, e a Bill salta il cuore in gola. Magari un detenuto stava provando ad entrare ma, quando ha sentito il suo urlo, ha saggiamente deciso di evitare di farsi coinvolgere in qualche rissa o qualcosa di peggio. È stato stupido, è stato stupido a non scappare immediatamente quando questi due stronzi si sono intrufolati in biblioteca, è stato uno stupido a perdere tutto quel tempo invece di lanciarsi sulla sedia appena pensata la mossa, è stato stupido a urlare perché forse, se fosse rimasto in silenzio, chiunque stesse cercando di aprire la porta avrebbe continuato a provarci finché non ci fosse riuscito, e tutto quello che gli succederà da questo momento in poi è solo colpa sua e della sua stupidità. In qualche modo, lo merita perfino. Il suo corpo, intento a dibattersi fra le mani dei due detenuti, non la pensa allo stesso modo, ma è così.
In ogni caso, non importa: passano al massimo dieci secondi, e poi la porta viene letteralmente scardinata, e un uomo alto e pallido coi capelli cortissimi e gli occhi di un azzurro incredibilmente intenso fa irruzione all’interno della biblioteca, interrompendo i due detenuti nel momento in cui il più basso infilava una mano giù per i pantaloni di Bill mentre il più grosso lo teneva fermo.
- Oh. – dice il tipo, che Bill riconosce come quello che Eko Fresh gli ha indicato come Fler giorni prima, - Allora ho fatto bene a insistere. Mi serve un libro. È una faccenda di una certa importanza. – spiega, e proseguendo nel proprio discorso guarda più i due detenuti che Bill. – Il mio capo non sarà contento, se non torno con buone notizie. – conclude.
I due detenuti lo mollano con una serie di ringhi frustrati, e Bill deve aggrapparsi ad uno dei tavoli da lettura per non cadere per terra.
- Ho già spento il terminale. – balbetta, indicando il computer che giace immobile e silenzioso sulla scrivania, - Non posso registrare altri prestiti se non lo riavvio, e non c’è tempo. La guardia dovrebbe… - balbetta. Fler fa un gesto vago con la mano.
- Non verrà nessuna guardia a prenderti oggi. – borbotta, - Il libro non era urgente, comunque. Sta’ attento, quando torni al braccio. – conclude, voltandogli le spalle e attraversando la porta, o meglio, il passaggio al posto del quale prima c’era una porta che giace adesso per terra, quasi spaccata in due, con una crepa visibilissima che la taglia in due parti quasi uguali da sopra a sotto, e lasciandolo lì senza una parola di più.

*

Bill odia le cucine e la sala mensa.
Odia dover fare la fila con in mano il vassoio e doversi guardare alle spalle perché c'è sempre qualcuno che allunga le mani. Odia dover aprire bocca per chiedere quello che gli va o non gli va di mangiare. Odia dover fare il percorso a ritroso verso uno dei tavoli vuoti che sono sempre in fondo e rischiare che qualcuno gli faccia lo sgambetto o si avvicini con una scusa qualsiasi per sputargli nella minestra.
E' già successo, quando non lo hanno proprio sbattuto contro un muro e palpato fino all'arrivo sempre tardivo e rilassato delle guardie di sicurezza, naturalmente.
Preferiva quando poteva mangiare in cella, ma Jost si è degnato a venire di persona ad avvisarlo che il suo permesso speciale era stato revocato non appena è stato in grado di restare in piedi per più di dieci minuti senza stampelle. Grazie Jost, sempre il solito stronzo. E' qua da nemmeno un mese e ha già capito che la prigione è piena di teste di cazzo, gli altri detenuti sono degli animali ma tra guardie e direttore non è che la gente libera sia tanto meglio.
Si siede nell'angolo più lontano della sala, vicino al palco che per chissà quale cazzo di ragione è stato costruito proprio qui. Bushido gli ha detto che una volta ci facevano gli spettacoli, quelli di beneficenza, organizzati da qualche attore impegnato nel sociale ansioso di aiutare la comunità, ma poi c'è stata una rissa e Jost non ne ha più voluto sapere. Com'è nella sua politica, tutto quello che non può controllare viene eliminato. Pare che questo braccio non veda visite coniugali da due anni e mezzo, per dire, una roba che ha fatto impazzire un sacco di gente. E poi quello si stupisce che i suoi detenuti cerchino di infilarlo nel primo culo che vedono.
Bill infila la forchetta in quello che dovrebbe essere purè ma è solo un intruglio giallognolo della consistenza del cemento. Gli viene da vomitare solamente all'idea di mangiarlo, ma ha già sperimentato più volte che, nonostante stia praticamente seduto tutto il giorno, non sopravvive alla giornata se non mangia a sufficienza. Sarà che sta sempre teso come una corda di violino e così consuma più calorie di quando era fuori e passava il tempo scopando.
A furia di fare passi falsi e di rischiare la vita o lo stupro ad ogni sospiro, Bill ha imparato anche un'altra cosa, ossia a prendere coscienza della situazione che versa in ogni luogo in cui mette piede prima di decidere se è il caso di rimanervi. In realtà questo è un insegnamento che Bushido gli ha ficcato a forza nel cervello, ripetendolo fino alla nausea ogni volta che ha parlato nelle ultime settimane. Bill ha sempre finto di fregarsene, ma non può negare che fra le mille stronzate che quell'uomo si fa uscire di bocca ogni giorno credendo di avere una qualche importanza per lui, questa è una delle più sensate.
Al momento in sala ci sono tre guardie. Dovrebbero essere quattro, tanto per cominciare, e le uniche tre presenti non sono granché attente; questo potrebbe voler dire guai, se qualcuno ha qualcosa in mente, ma potrebbe anche voler dire che quelli non hanno voglia di lavorare.
Gli uomini di Sido siedono tutti insieme da una parte, ma ce ne sono alcuni sparsi per la stanza, come per non lasciare certe zone sotto il controllo totale degli uomini di Bushido. D'altronde anche quelli fanno la stessa cosa. Bill può più o meno inquadrare questa stanza come fosse il tabellone del Risiko con il quale lui e suo fratello passavano interi pomeriggi prima che la sua famiglia cadesse a pezzi.
A lui questo schieramento da battaglia sembra una gran cazzata, non capisce per quale motivo questa gente senta il bisogno di farsi la guerra. Per ottenere che cosa? Sempre in gabbia si dorme, alla fine.
Ha ingurgitato controvoglia primo e secondo e sta per attaccare una pallida imitazione di torta alla ricotta, quando l'ombra tozza di uno dei bestioni di Sido si allunga sul suo vassoio.
“Ehi, fiorellino,” grugnisce, per poi ridere divertito del modo esilarante con cui ha rotto il ghiaccio mentre si sedeva sul tavolo.
Bill cerca di ignorarlo, anche se come tattica non si è rivelata poi così utile in passato. Quando questi scimmioni ritardati non si sentono abbastanza considerati – il che significa, se non vedono che ti pieghi autonomamente a novanta per compiacerli – reagiscono in malo modo. “Che fai, fiorellino?” Dice di nuovo, invadendo il suo spazio e condividendo con lui l'alito pestilenziale. “Non mi guardi nemmeno? Sei timido?”
Bill sospira infastidito, la testa bassa e lo sguardo fisso sulla sua forchetta. Si sposta qualche posto più avanti con tutto il vassoio sperando che il tipo abbia altro di meglio da fare, ma ovviamente non è così. Anzi, quello lo segue sempre più divertito, scoppiando in una risata roca e catarrosa quando Bill raggiunge la fine del tavolo, dove si accorge che è seduto un altro degli uomini di Sido, pronto a ghignare sdentato nella sua direzione. “Vai da qualche parte, culetto d'oro? Non ti piace la compagnia?”
Bill sospira di nuovo, d'altronde era strano che nessuno lo avesse ancora importunato; è lì seduto da più di venti minuti. A pensarci bene non gli capita di essere inchiodato al muro da giorni e perfino nelle docce, alle quali deve avvicinarsi con estrema attenzione, nessuno si è più avvicinato.
“Senti bene, principessa,” sputa fuori il primo dei due uomini quando finalmente si accorge che non ha nessuna intenzione di rispondergli, “finora mi pare di essere stato gentile, ma la mia pazienza ha un limite.”
“Non ti conviene farlo incazzare, sai bellezza?” Gli fa eco quell'altro. “Potrebbe non essere piacevole.”
Bill fa in tempo ad alzare la testa per dirgli che in nessun modo uno dei due potrà mai essere piacevole visto il tanfo di morto che esalano, che Eko si siede di fronte a lui, mangiando placidamente un biscotto a piccoli morsi, proprio come il criceto a cui assomiglia.
“Sai, ragazzino, ci ho messo una vita a trovarti,” esordisce come se quei due non fossero nemmeno lì. “Sei sempre in un posto diverso. Non è che ho tempo che mi avanza per giocare a nascondino, sai?”
“Eko...?”
“Sì, sono io. Vedo che fai progressi.” Lui continua a smangiucchiare il suo biscotto e sputa le gocce di cioccolato in un angolo del vassoio per poi guardarle con malcelato disgusto. “Ti piace la cioccolata? Io odio la cioccolata. E' perché una volta, da piccolo, sono stato morso.”
I due uomini di Sido scendono immediatamente dal tavolo e ringhiano tra i denti qualcosa che Bill fatica a capire, ma è chiaro che non è stata la sola – e per altro modesta – presenza di Eko a farli desistere, ma quello che Eko in sé, con le sue quattro ossa scombinate, rappresenta.
Eko gli lancia un'occhiata apparentemente disinteressata, ma segue i due con la coda dell'occhio finché non sono spariti, andandosi a rintanare in mezzo ai loro comparsi.
“Non mi piace nemmeno l'uva passa,” continua allora Eko, come Bill si fosse dimostrato interessato in qualche modo all'argomento. “Come sapore non è neanche male, è solo che è facile scambiarla per cioccolata. Tu sei lì che mangi il tuo bel biscotto e lei se ne sta lì, tonda e scura, proprio come fa la cioccolata. E io non li sopporto quelli che si travestono e fanno finta di essere qualcun altro.”
Bill lancia un'occhiata intorno a sé: Chakuza, Fler e Saad fingono tutti di fare altro mentre lo tengono sotto controllo da punti diversi della stanza. Bushido naturalmente non c'è, ma Bill sa perfettamente che nessuno dei suoi uomini si muove senza che lui lo sappia.
Scatta in piedi e si dirige a passo spedito verso le celle. La guardia all'entrata non si spreca nemmeno a guardarlo abbastanza a lungo da capire di chi si tratti.
Eko non lo segue, chiede soltanto con estremo e calcolato ritardo: “Quello lo mangi?” Indicando la torta di ricotta, prima di appropriarsene.
Bill entra in cella come una furia, dando uno spintone a Bushido che se ne sta di fronte al lavandino, intento a lavarsi la faccia.
“Esattamente, quale parte di non mi serve il tuo aiuto non hai capito?” Sbraita, mentre Bushido fa un passo indietro senza scomporsi e recupera il proprio asciugamano.
Finisce anche di asciugarsi e rimettersi la maglietta prima di dedicargli il minimo sindacale della sua attenzione mentre ispeziona con cura il proprio riflesso. “Sentiamo, di quale assurda fantasia stai blaterando questa volta?”
“Prima quell'armadio a due ante che fa irruzione nella biblioteca spaccando in due la porta, poi il nano pelato in lavanderia e oggi quello schizzato, Eko, che mi si piazza davanti in mensa a parlarmi di quanto odia la cioccolata. Seriamente, sei tu che ti circondi di casi umani e malati mentali per sentirti normale o sono loro che vedono in te qualcosa di familiare e ti si avvicinano?”
Bushido si volta a guardarlo con estrema lentezza e quando i suoi occhi si fissano in quelli di Bill sono infastiditi. “Ekram non è affatto un malato mentale,” commenta con calma “e sta con me perché è un tipo a posto, ma sono certo che sia io che lui sopravvivremo anche se la pensi diversamente. Il tuo giudizio, d'altra parte, non ci tocca minimamente. C'è altro? Dovrei andare.”
Bill fa una smorfia oltraggiata. “Hai sentito quello che ti ho detto o sei anche sordo oltre che stronzo?”
Bushido, che lo ha appena superato per raggiungere l'entrata della cella, si ferma e inspira contando ben oltre il dieci per mantenere la calma. “Dovresti essere riconoscente,” gli fa notare. “Se puoi ancora camminare sulle tue gambe, non è certo per merito tuo.”
“Riconoscente? Non posso andare nemmeno al cesso senza che uno dei tuoi mi segua!”
“E' per la tua sicurezza,” ripete Bushido, la voce tesa dal nervosismo e dalla voglia, ormai fuori controllo, di prendere quel ragazzino insopportabile e scuoterlo finché non gli ha mescolato tutte quante le ossa.
“Nessuno ti ha mai chiesto di proteggermi!”
Bushido è un tipo paziente. Non è mai stato una di quelle teste calde che scattano alla prima offesa. E' uno che se l'è anche presa per niente, questo è vero, ma quando lo fai incazzare, prima di frantumarti la faccia ci pensa due volte perché così gli vengono in mente il doppio dei modi per farti fuori.
Questo ragazzino, però, petulante, lagnosa, potenzialmente pericolosa spina che Jost ha fatto in modo di ficcargli ben a fondo nel fianco, ha già sfidato la sua pazienza più di certi omicidi eseguiti per farlo uscire di testa. Per questo finisce per girarsi ed attaccarlo al muro. “Sentimi bene, ragazzino,” gli sputa addosso, premendogli forte la mano contro la giugulare perché, per una volta, cazzo, stia zitto. “Senza me che ti paro il culo, tu qua dentro non campi una settimana, il che per me non sarebbe un problema in generale, perché a me di te non me ne frega un cazzo. Il fatto è che io sto per uscire con la condizionale, ma Jost ti ha affidato a me. Il che significa che se tu muori, se ti violentano, se ti feriscono, qualunque cosa ti succeda mentre sei sotto la mia protezione, io mi fotto la condizionale.”
Bushido preme la mano contro il suo collo ancora una volta e poi allenta la presa, senza però lasciarlo andare. Il ragazzino boccheggia e tossisce, stringendogli forte le dita intorno al polso per cercare di sostenersi e non pendere floscio come uno straccio. “Quindi, come vedi,” continua Bushido, continuando a parlargli a due centimetri dalla faccia, “non è per te e per il tuo bel faccino che i miei uomini ti stanno addosso tutto il giorno. Il tuo culo è il mio foglio di via e non ho nessuna intenzione di perderlo solo perché tu credi di potertela cavare da solo. Sto proteggendo i miei interessi.”
Bushido resta a guardarlo in cagnesco ancora per qualche secondo, poi con un gesto stizzito lo lascia andare e Bill cade come un sacco vuoto a terra, tossendo forte e massaggiandosi il collo che è chiazzato di rosso là dove le dita di Bushido lo hanno stretto.
“A me non frega niente dei tuoi interessi,” dice roco, non appena ha recuperato fiato sufficiente per replicare. Bushido non si capacita di come questo ragazzino possa ancora aver voglia di fare lo stronzo quando palesemente ha appena rischiato di essere strangolato. E' controproducente perfino per lui, non ha nessun istinto di sopravvivenza e se lui – che deve tenerlo in vita per forza – ha già di nuovo voglia di ammazzarlo, quante probabilità ci sono che superi anche solo i primi sei mesi di permanenza?
“Fai un favore a te stesso e chiudi quella fogna,” replica.
“No,” Bill si rialza a fatica, aggrappandosi al muro e lo guarda furioso. “No, perché non sono io quello che ha bisogno di te. Io, in questa fogna, devo passarci sicuramente dodici anni. Ma tu? Tu hai bisogno che io faccia il bravo per uscire in anticipo. Non è così?”
Bushido si irrigidisce. I tratti del suo viso si fanno ancora più severi e tesi. Per un attimo lo guarda con tanto di quell'odio che se solo si lasciasse libero di seguire l'istinto probabilmente lo ammazzerebbe davvero. “Te lo dico per l'ultima volta, ragazzino. Chiudi quella cazzo di bocca, non hai la minima idea di quello che stai dicendo.”
In tutta risposta, Bill ride. E' un suono debole e ancora provato ma gli dà abbastanza forza da mettersi di nuovo dritto e guardarlo negli occhi. “Tu non puoi governarmi,” gli dice sprezzante. “Se io decidessi di dare il culo a tutta la fottuta prigione, se volessi sfondarmi di droga e scatenare risse per il solo gusto di vedere se sopravvivo, tu non potresti impedirmelo. Tu non potresti fare proprio un bel niente.”
Bushido ringhia e si fa avanti con tanta violenza da sbatterlo di nuovo contro il muro. Gli si preme addosso con tutto il corpo, sbuffandogli sul viso fiato caldo che sa di dentifricio e tabacco. “Col cazzo, ragazzino!” Sibila fra i denti. “Posso fermare chiunque cerchi di scoparti. Posso impedire alla gente di venderti la roba e posso terrorizzare a morte chiunque anche solo pensi di sollevare un dito su di te.” Mano a mano che elenca, riacquista la calma e la sua voce si fa più stabile e severa. “Tu qua dentro non vai nemmeno a pisciare se io decido che non puoi farlo. Io ho il controllo sulla tua vita, accettalo.”
Lo lascia andare con la certezza che Bill non replicherà.
Infatti, una volta libero, si limita a lanciargli un'occhiata infuocata, sbuffando inviperito, prima di sbattere violentemente le mani contro le sbarre della cella in segno di stizza e andarsene.

*

Sono le quattro e mezzo del pomeriggio e Fler è appena rientrato dalla palestra dove avrebbe voluto scaricare lo stress sollevando i pesi, come fa di solito, ma qualche stronzo si annoiava e ha scatenato la rissa. Bushido ha una politica molto severa riguardo alle risse, che consiste principalmente nel non scatenarle, non finirci in mezzo se non è necessario ed evitare di fermarle quando sono gli altri a cominciarle e tu non c'entri niente.
Così ha preso il suo asciugamano ed è tornato in cella con l'idea di fare qualche flessione mentre le guardie tentavano di impedire che quelli di Sido ammazzassero un povero Cristo la cui unica colpa, a quanto pare, è quella di essere arabo senza far parte del giro di Bushido.
Da quello che ha visto, Hassan o come diavolo si chiama, non ha molte speranze. Il pezzo di vetro acuminato gli ha perforato lo stomaco un po' troppo a sinistra per non aver preso il fegato.
Non che Fler sia un medico, ma dopo tre o quattro dei suoi compagni finiti in infermeria più o meno allo stesso modo, ci ha fatto l'occhio. Solo sei mesi fa, prima che Jost chiamasse Sido e Bushido nel suo ufficio per organizzare la tregua – che poi non è che l'abbiano fatta sul serio – Eko ha rischiato parecchio.
Un infame lo ha colpito alle spalle. Tre coltellate ben assestate su un fianco ed Eko si è accasciato a terra come una marionetta. C'era tanto di quel sangue che sembrava avessero sgozzato un vitello o roba simile. E' stato in coma una settimana. Fler era dieci metri più avanti a pulire una pentola quando è successo. Quando l'ha visto a terra era convinto che non si sarebbe più rialzato perché la ferita era davvero brutta e invece dopo sei giorni il turco apre gli occhi e chiede della gomma da masticare, così dal nulla. Un pazzo.
Mentre è lì che fa flessioni e pensa agli affari suoi, un'ombra si allunga sul pavimento proprio davanti a lui, così alza gli occhi e si trova davanti il ragazzino, appoggiato con noncuranza all'entrata della cella, così magro che sembra una sbarra anche lui.
“Bill,” mormora un po' spaesato mentre si alza da terra con un saltello.
“Bei muscoli,” commenta lui, con un sorriso che Fler non è ben sicuro di sapere interpretare. O meglio, lo saprebbe se non ci fossero tutta una serie di circostanze ad urlargli nelle orecchie che si sta sbagliando e, semplicemente, non capisce i ragazzi. “Devi allenarti parecchio.”
“Cosa ci fai qui? E' successo qualcosa?” Fler tossicchia e recupera l'asciugamano appeso al letto per asciugarsi la faccia.
Bill resta attaccato alle sbarre ma scivola comunque all'interno, con un movimento lento e calcolato finché non può aggrapparsi alla gamba del letto a castello per accarezzarla con fare allusivo. “Non posso venirti a trovare, adesso? ”
“No, no.” Fler ride. “Assolutamente. E' che di solito te ne stai sulle tue.”
“Sono solo timido,” risponde, guardandolo in modi che di timido non hanno assolutamente niente. “Ci metto del tempo a trovarmi davvero a mio agio.”
La risata che scappa di bocca a Fler è così squillante che lui si sente in colpa e mette le mani avanti. “Scusami, ma visto che fuori battevi...” si giustifica, senza per altro alcun tatto.
Bill non si scompone, il suo sorriso si tende e diventa più furbo. “Quello è solo lavoro,” commenta mentre si stringe nelle spalle e gli si avvicina, facendo strisciare un dito lungo il materasso. “Non è la stessa cosa.”
“Capisco,” commenta Fler. Fa un passo indietro e si guarda intorno, cercando qualcosa da fare, giusto per non dover stare lì immobile a guardare il ragazzino, visto che si muove in modi che scatenano in lui reazioni pericolose. “E adesso che ti senti a tuo agio, posso fare qualcosa per te?”
“In effetti sì,” risponde il ragazzino. “Mi hanno detto che potresti rifornirmi in caso... avessi bisogno.”
Fler comincia a scuotere la testa ancora prima di aprire bocca. “No, no, no, ragazzino,” sorride. “Niente droga da queste parti.”
“Non ne vendi?” Chiede Bill, ironico. Lo sanno tutti che a far girare la droga per Bushido ci pensa Fler, è un'informazione di dominio pubblico. Cultura Generale Carceraria, se perfino uno come lui lo sa.
“Di sicuro non a te,” specifica Fler che ora ridacchia quasi divertito. Appende l'asciugamano al suo gancio vicino al lavello e si schiaffeggia un paio di volte davanti allo specchio con un gesto molto simile a quello che Bill ha visto fare a Bushido nemmeno due ore prima.
“Guarda che posso pagarti,” lo rassicura.
Fler lo guarda attraverso il riflesso. “A parte che non credo tu abbia abbastanza soldi per farlo visto che non hai avuto modo di recuperarne da che sei qui dentro,” premette. “Non posso proprio. Ordini dall'alto.”
Per un attimo la maschera sul viso di Bill si frantuma, lasciando solo una smorfia infastidita.
Quel coglione di un tunisino ha proprio deciso di rendergli la vita un inferno, vero? Quello che più lo fa infuriare è che Fler sappia esattamente in che situazione si trova, che nessuno è venuto ancora a fargli visita e che perciò non ha un euro. Di tirare su due spiccioli succhiandolo in giro non c'è verso, chi non ha paura di quello che ha fatto alla guardia, ha paura degli uomini di Bushido che lo seguono come un'ombra; ma non hanno ancora fatto i conti con la sua testardaggine e il fatto che campa da solo per la strada da un sacco di tempo e non ha affatto bisogno di nessuno di loro.
Recupera il proprio sorriso smagliante e attraversa la cella, appoggiandosi al muro, appena accanto al lavello. I suoi fianchi distano solo qualche centimetro dalla mano di Fler che lancia loro uno sguardo con la coda dell'occhio e sposta impercettibilmente le dita più lontano. “E tu esegui gli ordini come un cagnolino?” Chiede Bill. “Lui comanda e tu stai a cuccia?”
Fler sospira. “Senti, va così, d'accordo?” Si stringe nelle spalle. “Devi stare pulito e rigare dritto. Sono le regole.”
“Le regole di chi?” Mormora Bill, spingendo in avanti il mento, le labbra appena dischiuse. “Uno come te non dovrebbe stare alle regole. Dovrebbe farle.”
Fler lo guarda intensamente per qualche istante, forse curioso o forse turbato, Bill non saprebbe dirlo, quale che sia, comunque, gioca a suo favore perché perde il sorriso e si fa teso. Non sembra più tanto convinto.
“Andiamo,” dice severamente, indicando l'entrata della cella con un cenno del capo. “Fuori di qui. Ti riporto nella tua cella.”
“E se invece trovassimo un accordo?” Chiede Bill, appoggiando la testa al muro dietro di lui e facendo ondeggiare il bacino, in quel modo un po' vezzoso che Fler ha visto usare solo alle ragazze e a certi uomini su cui non metterebbe mai le mani però. Bill è diverso, non fa parte esattamente di nessuna delle due categorie e questo gli sta fottendo il cervello in un modo che non gli piace per niente. “Quale accordo?”
Fler è così facile che Bill prova quasi della tenerezza.
Si stacca dal muro e gli si avvicina, ma non abbastanza perché lui senta il bisogno di indietreggiare, così quando ormai è a tanto così dal respirargli in faccia, Fler non ha più il tempo di muoversi e nemmeno vuole farlo. “Diciamo che tu mi dai quello che voglio,” dice Bill a bassa voce. Si allunga ad accarezzargli un braccio dal gomito al polso, intorno al quale poi stringe la mano chiusa a pugno. “ E io ti do quello che vuoi tu.”
Fler deglutisce e si schiarisce la gola, cerca se non altro di darsi un contegno mentre il suo corpo reagisce contro la propria volontà. Guarda altrove, cercando i motivi per cui dovrebbe continuare a rifiutare. Bushido gli ha salvato la vita più volte di quante riesca a ricordarne e di sicuro se vive bene in quel posto di merda è solo perché c'è il nome di Bushido a proteggerlo. Questo da solo dovrebbe essere sufficiente a fargli tenere le mani a posto, ma se gli serve qualche altra motivazione: Bushido è anche un amico e gli ha chiesto un favore – okay, glielo ha ordinato, ma Bushido è un po' quel tipo di amico che ti ordina le cose e tu le fai perché sai perfettamente che poi lui ricambierà il favore senza che tu nemmeno glielo abbia chiesto e quando più ne hai bisogno – e tu non dici di no ad un amico che ti chiede un favore.
“Non lo verrà a sapere nessuno,” continua Bill, facendosi così vicino che ormai gli sta spalmato addosso. Fler sente il calore del suo corpo attraverso la canotta leggera che indossa e le mani si muovono da sole per posarsi sui fianchi magri di Bill, che gli ridacchia in un orecchio. “Ti prometto che terrò la bocca chiusa,” mormora ancora, sollevandogli addosso uno sguardo da gatta in calore che ne basterebbe la metà perché lui gli saltasse addosso. “A meno che tu non voglia diversamente, ovvio.”
Fler sente le proprie restrizioni venire meno una ad una, come elastici troppo tirati che alla fine si spezzano. Si fotta Bushido, si fotta la prigione, si fotta il divieto di non toccarlo e non passargli niente; il ragazzino ha ragione, lui non è un balia. E gli ordini vanno bene, fintanto che hanno a che fare con loro, ma questo ragazzino chi cazzo è? Se ha tanta voglia di darlo via in giro e di farsi, non è un problema di Bushido. O magari lo è, ma di sicuro non è un problema di Fler.
Chakuza s'incazzerebbe come una bestia e gliela farebbe pagare cara se solo lo venisse a sapere, ma non sarà di certo lui a dirglielo e in questo momento, con lo stomaco che gli fa i salti di gioia al pensiero di poter infilare l'uccello da qualche parte, per una volta, invece di farselo sempre e solo menare – quando non deve fare da solo poi – , non ci pensa nemmeno che Bill potrebbe anche non mantenere la parola.
Così alla fine se ne frega, ringhia qualcosa e trascina Bill in un angolo della stanza, dietro al letto dove sarà più difficile notarli e soprattutto interromperli. Gli dà un bacio affamato e frettoloso, le sue labbra premono solo per un attimo contro le sue, nemmeno troppo convinte, come se fosse un convenevole da togliersi dai piedi il più in fretta possibile. Bill quasi trova interessante come Fler senta il bisogno di baciarlo prima di infilargli le mani nelle mutande. A quanto pare c'è della dolcezza sotto la scorza dell'uomo indurito dalla galera, pensa dando fondo ha tutta la malignità ironica di cui, fortunatamente, la natura lo ha provvisto.
Fler gli lecca le labbra, prima di spostarsi più in basso, sul suo collo, e lasciarvi una traccia umida di piccoli morsi confusi. Bill emette una risatina allegra – è trionfale, ma Fler nemmeno lo nota – mentre viene girato con poca grazia e appoggiato al muro. Apre bene i palmi delle mani contro la parete; lo ha già fatto così tante volte che il gesto di sistemarsi per mantenere l'equilibrio gli viene quasi automatico.
“Ehi, ragazzone,” dice mentre Fler, alle sue spalle, gli tira giù in fretta e furia i pantaloni, “Non dimentichi niente ?”
“Hmn?” Mugugna Fler, tenendogli una mano in mezzo alle scapole come avesse paura di vederselo scappare via di sotto gli occhi e armeggia con i propri pantaloni, imprecando perché, evidentemente, collaborano molto meno di quelli di Bill.
Il ragazzino, dal canto suo, manda indietro una mano, il palmo aperto e le dita che si chiudono e si aprono in un gesto molto chiaro. “Si paga in anticipo.”
Fler annuisce e si fruga nelle tasche dei pantaloni prima di lasciarli cadere a terra definitivamente.
Gli consegna la roba che lui si affretta ad infilarsi su per il naso, un po' perché ne sente improvvisamente il bisogno come non ne sentiva da giorni, e un po' perché sinceramente vuole già essere strafatto quando Fler gli entrerà dentro per iniziare a grugnire come un animale.
Ci mette più del previsto, in effetti. Quando lo sente farsi strada dentro di sé, Bill inarca la schiena e preme bene le mani contro la parete della cella che sembra improvvisamente un po' più sfocata e fa tanto ridere.
In ogni caso non ha molta importanza, perché lui non sa già più nemmeno dov'è.

*

Quando Bill torna in cella, si regge a stento sulle gambe. Ha un sorriso idiota sulla faccia che non promette niente di buono, e Bushido se ne accorge subito, perché li conosce, quei sorrisi lì. Li vede ogni giorno, stampati sulle facce instupidite dalla roba di tutti quei coglioni che non capiscono che quando sei chiuso in prigione – quando cioè sei confinato in un posto in cui altri decidono per te, stabilendo cosa devi fare, dove, quando e in che modo – l’unica possibilità che hai di mantenere un certo controllo sulla tua persona è evitare di fotterti la testa con la droga. Tanti la usano come una via di fuga, l’unico modo per evadere da una realtà di catene e sbarre di ferro, ma la verità è che la droga è l’esatto opposto. Cominciare a drogarsi quando si sta in galera significa rinchiudersi di propria spontanea iniziativa all’interno di una gabbia ancora più stretta di quella all’interno della quale ci si trova già, con possibilità di decidere per te stesso ancora più limitate rispetto a quelle che ti vengono concesse, che sono già fin troppo poche.
Drogarsi non è un problema perché fa male, drogarsi è un problema semplicemente perché è una cosa da idioti. E ti porta a fare cose idiote. E Bushido, in questo momento, non può permettere a Bill di fare cose idiote, non quando da ciò che fa può dipendere tanto di ciò che invece farà lui nel suo futuro.
- Ti vedo bene. – comincia, scendendo giù dal letto con un saltello e parandoglisi di fronte. Bill ride e scuote il capo.
- No, dai, oggi lasciami in pace, non mi va proprio di starti a sentire. – lo liquida, avvicinandosi al proprio letto con passo barcollante e lasciandovisi ricadere sopra con un sospiro soddisfatto e una mezza risatina. – Ah, sono tutto indolenzito. – commenta in un cinguettio compiaciuto, - Era un po’ che non mi divertivo così.
Bushido gli lancia un’occhiata disgustata, avvicinandoglisi e torreggiando sopra di lui, restando in piedi accanto al suo letto.
- Immagino. – commenta, - E immagino anche che ti sentirai un cazzo fiero di te stesso quando ti sarà passato lo sballo.
- Sai quanto me ne frega di essere fiero di me stesso? – ride Bill, rigirandosi sullo stomaco e dondolando le gambe in aria, - Faccio la troia, andiamo, quanta stima di me stesso pensi che abbia? E a cosa cazzo pensi che mi servirebbe averne? – ride ancora, ondeggiando con il capo a destra e a sinistra in un movimento fluido e delicato, come seguisse il ritmo ipnotico di una qualche canzone che solo lui può sentire. – Piuttosto, tu… - continua poi in un risolino ironico, voltandosi ancora sulla schiena e stiracchiandosi pigramente, - mi sa che faresti meglio a rivedere tutta l’alta considerazione che hai di te stesso, perché… ricordi tutte le tue belle parole sull’onnipotenza e tutta l’altra merda che hai in testa e con la quale ti sei convinto di essere chissà che cazzo di re dei re qua dentro? Be’, non vale una sega. – ride un’altra volta, dondolando ancora i piedi in aria.
Bushido inarca un sopracciglio, per nulla impressionato da quel suo continuo dimenarsi sul letto come un ragazzino di quattro anni.
- Cosa intendi? – domanda, una mano su un fianco e le sopracciglia aggrottate. Bill si lascia andare ad un altro risolino, e si sistema il cuscino sotto la testa, cercando di gonfiarlo per renderlo più comodo.
- Sono stato bravo, sai? – pigola, - Non sono andato da Sido a farmi dare la roba. Mh-hm. – scuote il capo, - Ho pensato che fosse più sicuro andare da qualcun altro. E poi… - ridacchia, - quando ho pensato alla faccia che avresti fatto sapendolo…! Cioè, non potevo rinunciare all’occasione.
Bushido trattiene il respiro per un paio di secondi, irrigidendo il braccio lungo il fianco mentre le dita della mano appoggiata sul fianco si contraggono impercettibilmente, tremando appena, dando a Bill una chiarissima idea di quanto sia arrabbiato, e di quanto stia cercando di tenere quella mano lì solo per non utilizzarla contro di lui.
- Cosa cazzo stai dicendo, ragazzino? – domanda Bushido, la voce bassa, cavernosa, pericolosa, e il sorriso di Bill si allarga.
- Sto dicendo che la droga me l’ha data uno dei tuoi ragazzi. – chiarifica una volta per tutte, stringendosi nelle spalle, - Evidentemente non ti sono tanto fedeli come pensi, visto che mi è bastato dimenare un po’ i fianchi per convincere Fler.
Bill non ha neanche il tempo di capire cosa esattamente stia succedendo. Un attimo prima è ancora disteso sul proprio letto e sente il corpo così piacevolmente pesante e intorpidito da riflettere sulla possibilità di farsi un pisolino come si deve, una volta tanto, e l’attimo successivo è in piedi, sollevato a qualche centimetro da terra, le dita di Bushido strette attorno al colletto della sua maglietta con tanta forza da chiuderglielo attorno al collo come una tenaglia, impedendogli di respirare. Si dimena, afferrando il polso dell’uomo con entrambe le mani e cercando di spingerlo ad allontanare la mano e lasciarlo andare, ma le dita dell’uomo neanche accennano ad allentare la presa, e Bill, sentendosi soffocare, perde la propria lucidità, e comincia a tempestargli il braccio di pugni e graffi, mentre tende spasmodicamente le gambe, per cercare di arrivare a toccare il pavimento almeno con le punte dei piedi, senza riuscirci.
- Potrei spezzarti in due con una mano sola. – ringhia Bushido, stringendo la presa e costringendo Bill a un gemito convulso, mentre gli occhi gli si riempiono di lacrime, - Sei talmente un’inutile testa di cazzo che nessuno piangerebbe la tua scomparsa. La tua unica fortuna è stata arrivare in un periodo in cui di teste di cazzo come te ne erano già crepate troppe, perché se così non fosse stato tu saresti già all’altro mondo, e Dio solo sa se non sarei più che felice di farti fuori io stesso, ma la verità è che non ne vali la pena neanche per un cazzo. – conclude, scaraventandolo nuovamente sul letto. Bill si porta una mano alla gola, ripiegandosi su se stesso, scosso dai colpi di tosse mentre cerca di riprendere a respirare, rantolando pietosamente. – La prossima volta che ti avvicini ad uno dei miei, ragazzino, posso assicurarti che le statistiche sulla mortalità dei nuovi detenuti saranno in fondo alla lista delle mie priorità. – dice gelido, guardandolo con disgusto, - Tienilo bene a mente.
Bill neanche gli solleva gli occhi addosso, ed anche se lo facesse, con la vista così offuscata non riuscirebbe neanche ad individuarlo. Lo sente andare via, però, ed è una sensazione incredibilmente fisica, come se ad abbandonare la cella non fosse solo un corpo, ma anche tutta la rabbia che conteneva.
Solo allora gli sembra di riuscire a ricominciare a respirare liberamente.

*

Fler era un ragazzino, quando Bushido l’ha conosciuto. Aveva quattordici anni ed era ridicolo in tutte le sue manifestazioni, specie in quella in cui si dava un sacco di arie da adulto senza poterselo minimamente permettere, con quegli occhi azzurri enormi e quelle guanciotte rosa, per non parlare dei capelli, che appena si azzardava a fare tanto di lasciarli crescere qualche centimetro cominciavano a diventare chiarissimi e ricci come quelli di un putto.
Al tribunale dei minori l’avevano spedito a ripulire i muri che aveva contribuito a imbrattare con le sue tag – che poi erano il motivo per cui, in quello stesso tribunale, ci era finito – e Bushido l’aveva conosciuto proprio durante uno dei suoi turni. Fler – allora era ancora solo Patrick – dipingeva di bianco un muro e ogni tanto ci sputava sopra, giusto perché fosse chiaro che non lo faceva per piacere, ma solo per obbligo, e che se fosse stato per lui l’avrebbe magari imbiancato lo stesso, si, ma solo per riprendere a scarabocchiarci sopra subito dopo.
A Bushido era piaciuto l’atteggiamento. Lo aveva trovato ridicolo, in generale, ma in realtà gli aveva ricordato molto di quel se stesso che, qualche anno prima, aveva affrontato le strade con la stessa stupida tracotanza, supponendo presuntuosamente di poterle comandare con uno schiocco di dita, prima ancora di conoscerle. Lui aveva imparato sulla propria pelle a non commettere più errori di valutazione come quello, ma al ragazzino poteva andare meglio. A lui poteva rendere le cose più facili.
Più di ogni altra cosa, gli erano piaciuti i suoi occhi. Lo sguardo ardente, colmo di passione. Per come la vedeva lui, l’unico modo di comandare la strada era amarla. Amarla con passione, non come un’amica, non come una sorella, proprio come un’amante, un’amante pericolosa, una di quelle dalle quali ti devi guardare le spalle, ma anche una di quelle dalle quali finisci sempre per ritornare, perché non puoi farne a meno, perché ti appartengono, perché tu appartieni a loro.
Fler aveva negli occhi il germoglio di quell’amore. Bushido aveva sempre pensato con un certo orgoglio di averlo aiutato a farlo sbocciare.
È per questo che adesso dover recidere il gambo fa male. Anche se Bushido sa che va fatto, perché un’insubordinazione del genere non può essere tollerata, non può essere perdonata, non può essere nemmeno punita e basta, perché per quanto esemplare possa essere la punizione il succo rimarrebbe lo stesso: Fler ha disobbedito ad un suo preciso ordine, e sotto nessuna circostanza Bushido può adesso permettergli di continuare a fare parte dei suoi uomini. Fler non può espiare. Fler è fuori e basta.
- Ma si può sapere che hai oggi? Sei un pezzo di legno. – sta dicendo Chakuza, con tono lamentoso, quando lui entra nella cella. Non ha molto tempo, fra poco le gabbie verranno chiuse e le luci spente per la notte. Vorrebbe potersi prendere il tempo che gli serve, non tanto per dire ciò che deve, quanto per accettare di doverlo fare, ma d’altronde non può dimenticare che è sempre in una prigione che si trova. Per quante siano le cose sulle quali può avere un’autorità, la propria libertà personale non rientra nell’elenco.
- Fler. – lo chiama con severità, per attirare la sua attenzione, - Patrick.
Nel sentire la sua voce, Fler si irrigidisce all’istante, e Chakuza fa lo stesso quando si accorge che l’ha chiamato per nome. Guarda prima Bushido e poi il proprio compagno con aria confusa, ma non si azzarda a spiccicare una parola. L’espressione ed il tono di voce di Bushido non glielo consentono.
- Mi chiedevo quando saresti arrivato. – dice Fler, teso come una corda di violino. Le sue labbra a stento si muovono. Ha i pugni serrati e poggiati sulle ginocchia, le nocche quasi bianche, e le dita che tremano impercettibilmente per il nervosismo. – Non so come scusarmi.
- Non puoi farlo. – risponde subito Bushido, la sua espressione non cambia di un millimetro, anche se dentro di sé sta urlando; sta urlando dalla frustrazione, sta urlando dalla rabbia, sta urlando a Fler che è stato uno stupido a buttare via tutto quando per una cosa così insignificante come una cazzo di scopata, ma non può lasciarsi travolgere dall’emotività adesso, e se è diventato ciò che è, è anche e soprattutto perché ha sempre avuto il controllo sulle proprie reazioni. Se vuole rimproverare a Fler di aver perso questo stesso tipo di controllo, non può farlo perdendolo a propria volta. – Non c’è niente che tu possa dire o fare per cancellare la tua colpa. Sai meglio di me cosa sono venuto a fare.
Fler abbassa lo sguardo, colpevole.
- Aspetta un attimo… - si azzarda ad intervenire Chakuza, - Di cosa cazzo stiamo parlando? Cos’è successo? – si volta a guardare il proprio compagno con apprensione evidente, - Fler, che cazzo hai combinato?
- Ascoltami bene, Chakuza. – dice Bushido, mentre Fler resta immobile, pronto ad affrontare la sua condanna, - E bada di dirlo anche agli altri. – precisa, ed a questo punto anche Chakuza non può fare altro che pietrificarsi, perché quello che sta accadendo lo capisce perfettamente; è un rituale rodato. – Questo pomeriggio, Fler ha disobbedito ad un mio ordine, fornendo droga a quella rottura di coglioni del ragazzino in cambio di una scopata del cazzo. Per questo motivo, da questo momento in poi Fler non fa più parte della banda. Non dovrete più rivolgergli la parola, né fraternizzare con lui in alcun modo. – si volta a guardarlo, aggrottando le sopracciglia, - In alcun modo, Chakuza.
Le labbra di Chakuza tremano appena, come in una protesta muta, perché è ancora troppo sconvolto dalle informazioni che ha appena ricevuto per realizzare appieno cosa le parole di Bushido significhino. Ma il silenzio di Fler è troppo prolungato, la sua rassegnazione troppo evidente per porsi ancora delle domande a riguardo. È tutto vero. E sono ordini ai quali non è possibile disobbedire.
- Sì, Bushido. – annuisce quindi. Lui risponde con un cenno del capo, abbandonando la cella subito dopo, e a quel punto Chakuza non può fare altro che voltarsi a guardare Fler, allibito.
Lui ha ancora lo sguardo basso.
- Mi dispiace, Chaku. – mormora, - Lui ha… insomma, mi ha offerto qualcosa che tu non hai mai voluto darmi. – prova a giustificarsi. Chakuza aggrotta istantaneamente le sopracciglia, stringendo i pugni attorno al lenzuolo del letto sul quale è seduto.
- Non provarci nemmeno, Fler. – ringhia, - Non provare a darmi la colpa per quello che hai fatto. Noi avevamo un patto. Hai tradito Bushido, hai tradito la banda. – rimane in silenzio per un secondo, mordendosi con forza la lingua per cercare di trattenersi dal concludere il proprio pensiero, senza riuscirci. – Hai tradito me. – sussurra. Fler gli solleva addosso uno sguardo perso e contrito che Chakuza non riesce ad ignorare come vorrebbe. Per questo guarda altrove, mentre le celle cominciano a chiudersi con gli usuali scatti metallici, e poco dopo anche le luci vengono spente.
Chakuza si spoglia meccanicamente, fissando il vuoto e tendendo l’orecchio. Fler sembra immobile, pietrificato. Lui prende posto nel proprio letto e si sistema sotto le coperte, il viso rivolto alla parete apposta per non guardarlo, né ora, né quando si spoglierà per salire sul proprio letto.
- Mi dispiace, Chaku. – dice la sua voce nel buio. È lontana, e non conta più niente. Chakuza nemmeno risponde.

*

Bill ha vomitato l'anima e si sente uno straccio. Non è che prima di finire in galera si facesse regolarmente – la regolarità sistematica è per i tossici, a lui serviva per sciogliersi – ma capitava di tanto in tanto e il suo corpo ne reggeva abbastanza da non disfarsi appena finiva l'effetto. A quanto pare è bastato un soggiorno da quelle parti per fargli passare del tutto il vizio. Quando ha riaperto gli occhi era buttato su una sedia della sala comune senza avere la minima idea di come ci fosse arrivato. Poi ha sentito il sapore di marcio in bocca e si è trascinato nei bagni per vomitare. Per un attimo, mentre era chino su uno dei lavandini e la testa gli girava da far paura, si è chiesto dove cazzo fosse perché il bagno era pulito come quello di casa dei suoi, ma era quasi certo di non aver mai fatto in tempo a vomitarci dentro prima che suo padre lo buttasse fuori a calci nel culo. Il cervello ci ha messo un po' a mettersi al passo e, intanto che lo faceva, Bill s'è trascinato fino al primo muro disponibile e si è seduto per terra, in attesa che il mondo smettesse di girare. Ora fissa il vuoto, di nuovo accasciato per terra. Potrebbe alzarsi, ma non ne ha voglia e comunque sul pavimento si sta bene e nei bagni c'è silenzio.
O almeno, c'era finché quel tipo assurdo, Eko, non spalanca la porta e si ferma sulla soglia, a metà di un passo, fissandolo con i suoi occhietti rotondi e idioti da topo. “Ah, bello mio, non hai mica una bella cera,” commenta schioccando la lingua e scuotendo la testa.
Bill emette un lamento e torna a nascondere la faccia nelle proprie braccia incrociate. “Fammi il favore, sparisci e lasciami in pace,” sibila.
Eko chiude la porta con un piede, ancora in quella ridicola posizione a metà di un passo e, visto che è semi-chinato in avanti, sembra uno di quegli angioletti che sputano acqua dalle fontane, solo tristemente più brutto. Si avvicina ai lavandini ignorando completamente la sua richiesta e apre con grande attenzione la sua busta da bagno, dalla quale esce ogni genere di oggetto inutile. “So che hai combinato un bel casino,” continua.
“Ti ho detto di andartene,” insiste Bill. “Lo farei io, ma è meglio se non mi alzo.”
“Infatti, sta' pure disteso,” annuisce Eko, del tutto sordo a qualsiasi cosa farfugli quando riesce a snodare la lingua intorpidita. “Sai, non è stata una mossa tanto furba la tua. Qua sono tutti piuttosto elastici con la proprietà privata, un oggetto non è mai veramente tuo finché anche gli altri possono vederlo, capisci cosa intendo? Per questo c'è un botto di gente che viene ricoverata con roba nella pancia o nel culo. Perché quando vuoi che nessuno ti tocchi qualcosa, è meglio se la butti giù. Con le persone però è diverso, specie se queste persone sono di qualcuno da un sacco di tempo,” Eko scuote ancora la testa, mentre si riempie la faccia di schiuma da barba. “Le persone non si toccano, quando le tocchi succede sempre casino, tanto casino. Sai quanta gente c'è morta perché aveva toccato qualcuno? Prova a dire un numero. No, ma non lo dire, tanto non ci avvicini nemmeno. Comunque tanta. E tu che cosa vai a fare? Non solo tocchi Fler che non era roba tua, era roba di Chakuza e prima ancora di Bushido, ma vai a farti, con la sua roba quando Bushido ti aveva espressamente proibito di fare una qualsiasi di queste cose.”
Bill si lamenta ancora una volta, a voce più alta. “Ma che problema hai tu quando ti si dice di toglierti dai coglioni?” Sbotta, decidendo infine che se quello non se ne va, tanto vale cercare di andarsene lui. Si tira su a sedere e il bagno gira ancora. La buona notizia è che smette subito, così lui può provare ad alzarsi.
“Non mi piace andarmene quando me lo dicono gli altri,” annuisce Eko, come fosse una domanda seria.
“Sì, come ti pare,” borbotta Bill, aggrappandosi al muro per tenersi su.
“Comunque, a mio modesto parere, dovresti ragionare su quello che è accaduto oggi,” continua Eko, radendosi con cura ma agitando anche il rasoio in maniera vaga e preoccupante. “Ma naturalmente non lo farai perché sei un deficiente.”
“Ehi!” Sbotta Bill. Vorrebbe farsi valere, ma quando stacca le mani dal muro, a stento si regge in piedi, così non gli rimangono che le parole. “Vacci piano, d'accordo?”
“Non devi mica vergognarti. Io ce l'ho un cugino deficiente. Si chiama Ismet e non capisce un cazzo di niente, ma gli vogliamo tutti bene lo stesso.”
Bill rotea gli occhi e si chiede se tornare in cella non sia comunque preferibile allo stare qui con questo pazzo che blatera. “Mi fa piacere,” commenta, decidendo di avanzare un lavabo dopo l'altro fino alla porta.
Quando però è quasi arrivato alla porta e ha faticosamente messo mano alla maniglia, Eko parla di nuovo. “Sei uscito dalla sua cella in condizioni pietose, non stavi nemmeno in piedi. Mentre lui buttava fuori Fler dal gruppo, tu facevi il giro della prigione, strusciandoti praticamente su qualunque cosa avesse un pisello e ti accasciavi in un angolo della sala comune, privo di conoscenza. E nonostante questo, nessuno ti ha toccato perché in questo posto ormai l'hanno capito che sei uno dei suoi. E le persone degli altri, come ho detto, non si toccano mai se non si è pronti a fare un gran casino.”
Bill si ferma, la mano ancora sulla maniglia e deglutisce forte, buttando giù saliva e vomito e anche qualcosa che non sa bene cos'è, ma non va giù e gli stringe la gola.
“Bushido sarà anche una testa di cazzo, te lo concedo, ma non è uno stronzo. Se ti tiene d'occhio è perché conosce questo posto meglio di te e conosce pure te più di quanto tu non ti conosca da solo,” dice Eko, fissandolo attraverso il riflesso dello specchio e battendo gentilmente il rasoio contro il bordo del lavandino. “Gli mancano due mesi per uscire di qui con la condizionale. Quindi si, a lui conviene che tu non ti faccia ammazzare ma più che a lui conviene a te, mi segui? Se ti sta col fiato sul collo, è perché il suo fiato qui è un fottuto campo di forza. Abbiamo perso uno dei nostri perché pensavi che il tuo culo non valesse abbastanza per tenerlo al sicuro. Pensaci prima di fare qualche altra cazzata e credere che Bushido fa lo stronzo con te perché non ha altro di meglio da fare. Prova a pensare a chi ha fatto lo stronzo per primo e a chi ha perso di più, per colpa di chi.”
Eko si volta e torna a radersi senza guardarlo più.
Bill resta lì ad aspettare che lo faccia per un po', la mascella serrata per la tensione. Le sue dita si stringono intorno al ferro della maniglia ancora una volta, poi la preme di scatto verso il basso e scivola fuori dal bagno in silenzio.

*

La loro cella non è molto grande e ha una sola finestra, ovviamente sbarrata; ma è così piccola che quando fuori fa brutto tempo entra a malapena un filo di luce e a metà pomeriggio sembra già sera inoltrata.
Quando supera la soglia e si guarda intorno, ci mette un po' ad inquadrare Bushido che è disteso immobile sul letto di sopra, ma è così sottile che, se non si gira di fianco, non sporge poi troppo dal materasso.
Anche se Bushido non si muove, però, Bill sa che è sveglio dal modo in cui respira. Per questo si aspetta di sentirlo aprire bocca non appena fa un passo all'interno e invece niente, il silenzio.
Bill ha la brutta abitudine di irritarsi quando non viene considerato, probabilmente perché attirare l'attenzione è l'unica cosa che sa fare e, quando non gli riesce nemmeno quello, non è una bella sensazione.
Rimane lì in piedi vicino alla porta per un po', senza sapere esattamente come comportarsi e poi decide di darsi qualcosa da fare lavandosi le mani nel piccolo lavandino della cella.
“Ho parlato con quel tipo, il turco,” dice, buttando lì il primo argomento che gli viene in mente. Non che Eko sia granché come argomento, ma visti i recenti sviluppi, è anche l'unico.
Dal letto non arriva nessuna risposta. Bushido continua a restare disteso con gli occhi chiusi.
“Tanto perché tu lo sappia, non l'ho avvicinato io,” continua Bill, ricordandosi di essere stato minacciato a riguardo nemmeno qualche ora prima. “E' venuto lui da me. Più che altro è andato al cesso e io ero già lì.”
Bushido si schiarisce la gola, ma senza aprire gli occhi.
Bill chiude il rubinetto e si asciuga le mani. “Quando parla non si capisce un cazzo,” dice ancora, buttando lì una mezza risata che però non copre la tensione crescente nella sua voce. “E poi tiene dei pastelli a cera nella bustina da bagno insieme al dentifricio. Non ci sta con la testa, vero?”
In tutta risposta, Bushido si volta di lato, dalla parte del muro. E Bill si rompe le palle.
“Guarda che lo so che sei sveglio,” gli fa presente e, quando l'uomo si ostina a non rispondere, afferra una delle gambe del letto a castello e lo smuove, producendo un rumore sgangherato di ferro che attira una delle guardie. Bill gli fa cenno che è tutto a posto e, dopo aver lanciato un'occhiata dubbiosa alla cella, l'uomo si allontana di nuovo. “Di' un po', hai intenzione di continuare a comportarti come un bambino di cinque anni ancora per molto?” Chiede, strafottente.
“Dovresti esserci abituato,” la voce di Bushido arriva un po' roca, forse perché è stato in silenzio per ore, ma non sgradevole come invece suona la sua la prima volta che apre bocca al mattino, “tu lo fai di continuo. Io mi sono solo adattato al tuo modello comportamentale.”
“Bel modo di dimostrare maturità, per uno che accusa me di essere una testa di cazzo,” replica Bill.
Fa per distendersi su letto ma, quando vede che Bushido si sta girando verso di lui, ci rinuncia per accoglierlo a braccia incrociate, guardandolo storto.
“Per tua informazione, io non devo dimostrare niente, ragazzino,” risponde, guardandolo dritto negli occhi senza nessuna esitazione, cosa che Bill non riesce a fare con continuità. “Tu invece, fino a prova contraria, sei ancora una testa di cazzo.”
Bill diventa paonazzo, incapace di controllare la propria rabbia. Per uno che, bene o male, ha dovuto imparare a tenere a bada le proprie emozioni per battere in strada, è un fallimento di proporzioni epiche non riuscire a sostenere una conversazione senza dare di matto. Ma la colpa è dello stronzo e del suo stupido modo di fare, come se il mondo dovesse sempre inginocchiarglisi ai piedi. E lui cretino, ha anche pensato che potesse esserci un modo per comunicare con questo idiota pieno di merda.
Tutte queste cose però non gliele dice perché anche se le sue labbra tremano e la sua lingua ha una gran voglia di sciogliersi e vomitargli addosso tutto quanto, la gola gli fa ancora male dove lui l'ha stretta.
“Sai che ti dico, torna a fare finta di dormire,” sputa quindi, infilandosi nel proprio letto infastidito, tanto per avere la scusa di allontanarsi per quel che può. “Non ho bisogno di te, né tanto meno di parlarti. Anzi, se non ti sento aprire bocca e sparare le tue stronzate, tanto meglio.”
“Per me va bene,” dichiara Bushido. “Se vuoi rinunciare alla mia protezione, sono affari tuoi. Ne riparliamo tra due settimane, magari per allora ti sarà tornato in mente come ti hanno conciato quando hai voluto fare per conto tuo.”
Bill fissa le molle del letto sopra il suo che ondeggiano un'ultima volta, segno che Bushido si è girato di nuovo. Pensava che si sarebbe sentito meglio dopo aver vinto una battaglia contro di lui, ma ha la bocca amara e non è sicuro si tratti solo di vomito.

*

È la prima volta che vede suo fratello da quando è rinchiuso in questo buco di merda, e non può fare a meno di sentirsi nervoso al riguardo. Ormai è in prigione da quasi due mesi, e naturalmente questa è la prima visita che riceve. È la prima volta che mette piede nella piccola sala accuratamente sorvegliata, piena di tavoli rotondi e sedioline basse e scomode. Le pareti sono grigie, il pavimento è grigio, anche i mobili sono tutti grigi, così come i distributori automatici sistemati in fondo alla stanza. L’unica cosa colorata, all’interno dell’ambiente, sono le merendine tutte in fila oltre i vetri, e naturalmente i vestiti dei parenti in visita.
Tom arriva in perfetto orario, e Bill ha immaginato questo momento molto a lungo durante i giorni che hanno seguito l’ultima telefonata che si sono scambiati, e ha sempre pensato che sarebbe stato composto, quando l’avrebbe visto, che non si sarebbe lasciato travolgere dalle emozioni, che l’avrebbe tenuto a distanza – d’altronde, era sempre stato bravissimo, in questo, almeno da quando era andato via di casa –, che avrebbe fatto di tutto per dare a Tom l’impressione di essere perfettamente in grado di cavarsela da solo, anche in un ambiente palesemente ostile come quello, ma la verità è che, dopo tutto quello che ha passato da quando è qui, vedere il suo volto lo scuote fin dentro, e non è capace di stare immobile, semplicemente deve seguire il primo impulso che gli attraversa i nervi e i muscoli, e salta in piedi, lanciandosi verso di lui per allacciargli le braccia al collo, nascondendo il viso contro il suo petto con un sospiro sollevato.
Tom lo accoglie fra le proprie braccia con la naturalezza di chi non ha mai perso l’abitudine a farlo, e Bill non può fare a meno di pensare che è incredibile che ci riesca ancora esattamente come quando erano più piccoli, anche se negli ultimi anni hanno passato molto più tempo lontani l’uno dall’altro che insieme. Il pensiero non manca di riempirlo di tristezza, come ogni volta, ma si forza a tenerlo lontano dalla propria mente fin da subito. È stata una sua scelta, in fin dei conti. Sarebbe ridicolo pentirsene adesso.
- Ehi. – lo saluta Tom, allontanandosi da lui per sorridergli un po’ tristemente e guardarlo da ogni lato, come ad assicurarsi che sia ancora tutto a posto, - Stai bene?
- Sì. – risponde Bill con un mezzo sorriso incerto, le mani ancora poggiate sul suo petto.
- Balle. – lo rimbrotta Tom, accarezzandogli una guancia, - Sei così magro che fai paura. Non mangi?
- Tomi, ti prego, da quando sei diventato nostra madre? – sbotta Bill, allontanandosi da lui e prendendo posto su una delle due sedie attorno ad uno dei pochi tavoli rimasti liberi. Lo sguardo di Tom si incupisce all’istante, quando lo sente nominare Simone. Si siede di fronte a lui e sospira.
- Perché non vuoi che le dica dove sei? – gli domanda apprensivo, - Verrebbe a trovarti.
- Appunto. – ribatte seccamente Bill, - Non ho mai voluto vederla quando vivevo praticamente per strada, cosa ti fa pensare che possa volerla vedere adesso che vivo in un posto ancora peggiore?
Tom sospira ancora, passandosi una mano sul volto.
- Non ha mai smesso di preoccuparsi per te. – dice a bassa voce.
- Non è esatto. – ritorce Bill, distogliendo lo sguardo, - Ha cominciato quando a me non serviva più, è diverso.
- Sei crudele, Bill. – lo rimprovera suo fratello, lanciandogli un’occhiata di fuoco, - Mamma ti ha sempre capito. Ti ha—
- Non mi ha mai difeso. – lo interrompe Bill, gelido, come non gli importasse nemmeno. – So che non l’ha fatto solo perché aveva paura di papà. Ma se pensi che questo possa giustificarla ai miei occhi, ti sbagli. Tu ti sei preso botte che non ti spettavano, per proteggere me. Lei non l’ha mai fatto.
Tom si copre il viso con entrambe le mani, scuotendo il capo.
- Dici cose agghiaccianti, Bill. – esala in un rantolo, - Per favore, sta’ zitto.
Bill obbedisce, serrando le labbra e guardando in basso, mordendosi con forza l’interno di una guancia. Riesce a capire perché Tom inorridisca al pensiero di suo fratello che giudica l’affetto dei propri familiari attraverso le botte che sono stati capaci di prendersi per difenderlo dalla furia di suo padre, ma allo stesso tempo non riesce ad immaginare nessun altro indice per misurare una cosa del genere, per cui per quale motivo non dovrebbe essere quello? Ha capito che poteva fidarsi di suo fratello quando Tom si era fisicamente messo di mezzo fra la sua guancia e il palmo ruvido della mano di suo padre. Sua madre non l’aveva mai fatto. Se poteva esserci un metro per stabilire chi dei due tenesse di più a lui, non poteva essere che quello, per quanto squallido e, probabilmente, fuori di testa potesse sembrare.
Aspetta che Tom si sia calmato, e quando lui finalmente smette di coprirsi il viso e torna a guardarlo si arrischia perfino a rivolgergli un sorriso incoraggiante. Tom risponde con un sorriso uguale, lasciando scivolare una mano sulla superficie del tavolo, a cercare la sua da stringere. Bill gliela concede senza indugiare, godendo del calore delle dita di suo fratello strette teneramente attorno alle sue.
- Non parliamone più. – dice Tom, scuotendo il capo, anche se è evidente che intende “almeno per ora”, - Sono felice che almeno tu abbia voluto vedere me. Finalmente. Sei uno stronzo.
Bill ridacchia, stringendosi nelle spalle e ravviandosi i capelli dietro un orecchio.
- Credimi, è stato meglio non vedersi fino ad adesso. – risponde. Se solo ripensa a tutti i lividi che ancora aveva addosso fino ad un paio di settimane fa, si sente male. Non avrebbe mai potuto farsi vedere da Tom ridotto in quelle condizioni, senza contare il dolore alla schiena che ancora ogni tanto lo tormenta. Sa bene, ad esempio, che quest’incontro non potrà durare più di una ventina di minuti, e questo non tanto perché gli incontri coi familiari siano regolati secondo una tabella oraria molto precisa e inamovibile – lo sono, comunque, come tutto in quel dannato posto – ma perché Bill sa che dopo venti minuti passati seduto su una sedia tanto scomoda la sua schiena comincerà a protestare molto vivacemente, e lui sarà costretto ad andare via se non vuole scoppiare a piangere davanti a Tom. È già tutto abbastanza difficile senza dover aggiungere l’umiliazione di una cosa simile.
È per questo che si è rifiutato anche solo di chiamarlo per così tanto tempo, ed è sempre per questo che, pur dopo averlo chiamato, aver parlato con lui due o tre volte ed avergli chiesto un po’ di soldi da mandargli con la posta e magari una maglietta ed un paio di pantaloni nuovi, visto che i suoi erano ormai ridotti a brandelli per i motivi più svariati, ha esitato ancora più a lungo prima di accettare che venisse a trovarlo, e questo nonostante sapesse – riusciva a sentirlo nella sua voce – quanto Tom fosse impaziente di vederlo, di sincerarsi che stesse bene osservandolo coi propri occhi.
Questo perché lui non sta bene. L’unico modo che ha di stare bene quando il dolore – non solo quello alla schiena – comincia a farsi troppo forte è andare da Sido, e farsi dare un po’ di roba. È per quello che gli servono i soldi. È per quello che continua a chiederne. Ma questo a Tom non può dirlo, non vuole dirglielo, malgrado suo fratello abbia dimostrato negli anni di essere perfettamente in grado di continuare ad amarlo nonostante tutta la merda che sputava o in cui si andava a cacciare ad intervalli regolari.
Tom lavora per sostenerlo. Piccoli lavoretti, naturalmente, perché suo padre non avrebbe mai accettato di dargli dei soldi da passare a lui, ma è sempre stato così, da quando Bill è scappato di casa. Bill ha cercato più e più volte, all’inizio, di dirgli di smetterla, di fargli capire che non aveva bisogno dei suoi soldi, che scopando in giro riusciva a mantenersi perfettamente, ma la verità è che erano tutte bugie, e Tom non ha mai sbagliato a leggerle nei suoi occhi, per cui per quanto Bill potesse tentare di allontanarlo Tom si rifiutava di lasciarglielo fare, ed è sempre tornato, portandogli sempre qualcosa. Dopo un po’, Bill ha smesso di sentirsi in colpa nell’accettare il suo denaro, ma quel senso di colpa è tornato a farsi sentire con prepotenza da quando quel denaro ha cominciato a finire puntualmente nelle tasche di Sido o di uno dei suoi spacciatori di fiducia sparsi per il braccio.
- Lo sai, Billi? – dice Tom, stringendo appena la presa delle proprie dita attorno alle sue, - Sono preoccupato.
Bill sospira, roteando gli occhi.
- Lo sei sempre. – sbuffa, scrollando le spalle.
- E ho sempre ragione ad esserlo, non ti pare? – insiste suo fratello, ma lo fa con un sorriso tanto dolce che è impossibile arrabbiarsi con lui.
- Sto bene. – ripete Bill, annuendo con più decisione. Non sa chi sta cercando di convincere, se Tom o se stesso. In ogni caso, non funziona granché bene.
Tom distoglie lo sguardo, stufo di sentirsi dire bugie e di poterle leggere così chiaramente nei suoi occhi. Preferisce ascoltare Bill mentire senza doverlo guardare. È più semplice fingere di potergli credere, così.
- D’accordo. – annuisce, alzandosi in piedi. Bill lo segue nel movimento all’istante. – Ti… ti manderò qualcos’altro, fra un paio di giorni. Al massimo una settimana. Puoi resistere, nel frattempo? – gli domanda, tornando a guardarlo negli occhi mentre gli accarezza il viso. Bill si appoggia al palmo della sua mano, annuendo lievemente, e stavolta non sta mentendo.
- Ho ancora qualcosa da parte, non preoccuparti. – lo rassicura. Tom sorride ed annuisce ancora, tirandoselo contro per un altro abbraccio.
Quando l’agente di guardia davanti alla porta comincia ad avvisare tutti i presenti che l’orario di visita sta per concludersi, Bill fa un sacco di fatica a lasciarlo andare.

*

Non passa neanche mezz’ora, che si sta già dirigendo verso la cella di Sido. Stringe le dita attorno alle banconote tutte spiegazzate che tiene in tasca, e non può fare a meno di pensare che incontrare Tom sia stato un errore madornale. Adesso la sola idea di spendere così quei soldi gli dà la nausea, ma è una nausea che non può permettersi, specie quando conosce quella che gli afferra lo stomaco e lo devasta quando sta troppo tempo senza una dose. Non è ancora mai andato in crisi d’astinenza – non ne ha avuto il tempo, e fortunatamente neanche il modo – ma quello che ha sentito nella sua vita, quello che ha visto durante gli anni di permanenza per le strade e la scossa di dolore nervoso che ha già provato sulla sua pelle quando ha lasciato passare troppo tempo fra una sniffata e l’altra sono tutte informazioni abbastanza circostanziate perché lui possa sapere al di là di ogni ragionevole dubbio che in quella condizione non intende trovarcisi proprio per un cazzo. E quindi, senso di colpa o meno, inghiotte amaro e si ferma davanti alla cella di Sido.
Appena fuori, proprio davanti alla porta, c’è un gorilla che sarà anche appena più basso di lui, ma in compenso è largo tre volte tanto. Bill ripensa con un po’ di nostalgia ai tempi in cui per strada per seminare uno stronzo come questo bastava un calcio nelle palle. Qui non può farlo – il rischio è di finire in buca, e non ci tiene affatto a farsi spogliare di tutti i suoi vestiti per finire abbandonato in una cella sotterranea sporca e maleodorante, senza finestra e con solo un secchio in un angolo per pisciare, per chissà quanto tempo – ed anche se potesse i giorni in prigione gli hanno insegnato la prudenza a suon di botte. E la sua schiena ancora ne risente, e ci tiene a ricordarglielo pungendo dolorosamente all’altezza dell’osso sacro. È già stato in piedi troppo a lungo.
- Fammi passare, Tony. – ringhia con evidente nervosismo. Quello sghignazza, incrociando le braccia sul petto.
- Magari oggi a Sido non va di vedere la tua faccia di cazzo, Kaulitz. Che ne pensi? – domanda, appoggiandosi con tranquillità alle sbarre dietro di lui. Sido, seduto su una sediolina di legno che tiene in equilibrio sui piedi posteriori, ha le gambe incrociate sulla superficie del tavolo di fronte a sé, e le mani intrecciate sullo stomaco. Osserva la scena senza mostrare né interesse, né disinteresse. Semplicemente attenzione.
- Tony, levati dai coglioni. – insiste Bill, le mani che tremano lungo i fianchi, - Ho i soldi. Non costringermi a ficcarteli su per il culo.
- Dici che mi piacerebbe? – chiede ancora quello, già ridendo fra sé per la battuta che sta per fare, - Te lo chiedo perché sai, il parere di un esperto è sempre importante.
Tutto il corpo di Bill è scosso da un tremito di frustrazione e impazienza, e sta quasi per tirargli un’unghiata in un occhio fregandosene della prudenza ed anche della paura di quante ne prenderebbe se si mettesse a litigare con Tony D, quando Sido tira giù le gambe dalla scrivania, mettendosi in piedi.
- Vatti a fare un giro, Tony. – dice gelido, incrociando le braccia sul petto ed appoggiandosi ad una parete. Tony D sta ancora ridendo, mentre si allontana verso la sala comune.
Bill irrompe nella cella come una furia, tirando fuori dalla tasca tutti i soldi che ha e schiantandoli contro la superficie del tavolo con stizza, guardando Sido negli occhi e digrignando i denti.
- Bella storia siete, voi maschi alfa di questo buco di merda. – non può fare a meno di commentare, - Vi nascondete tutti dietro chi ha le spalle più larghe di voi, sempre. Siete solo delle mezze seghe. Tu, quell’altro, tutti uguali. Avete tutti i vostri mastini favoriti coi quali fingere di poter fare la voce grossa anche se sapete perfettamente che se solo volessero potrebbero spezzarvi le gambe con uno schiocco delle dita. Mi fate pena.
Sido sorride, apparentemente neanche turbato dalle sue parole.
- Ciao, Bill. – lo saluta con un breve cenno del capo, - È un piacere anche per me.
- Non sono in vena di convenevoli, né di false cortesie, e sicuramente quello che ho detto fino ad ora non c’entra niente col piacere di vederti, che giusto per essere chiari non esiste. – batte con forza la mano sulle banconote sparpagliate sul tavolo, - Dammi quella merda e fammi tornare in cella.
Sido si prende il proprio tempo, prima di rispondere. Guarda lui, poi i soldi sul tavolo, poi di nuovo lui, e sorride ancora.
- Tu facevi la puttana, prima di finire qui. Correggimi se sbaglio. – comincia. Bill rotea gli occhi e lascia andare un lamento infastidito. Non c’è speranza di ottenere quello che vuole in tempi brevi, se ne rende conto anche da solo, sa capirlo quando qualcuno temporeggia nel tentativo di confonderlo, perciò lascia il denaro sul tavolo ed incrocia le braccia sul petto a propria volta, fissandolo dritto negli occhi, con attenzione.
- Non sbagli. Ora posso avere quello per cui ho pagato e andarmene? – domanda. Sido scuote il capo, smette anche di sorridere. La sua espressione si fa seria, perfino professionale, e Bill non sa più cosa aspettarsi da lui.
- Cosa penseresti, - dice, - se ti dicessi che ho una proposta per te?
- Penserei che non me ne frega niente e che ti sei bevuto il cervello. – sbuffa Bill, picchiettando nervosamente la punta del piede contro il pavimento, - Sido, qual è il tuo problema? – domanda annoiato, ma Sido non risponde. Si volta verso il tavolo, raccoglie tutte le banconote sparse sulla superficie, le spiana, le mette in ordine in un blocchetto che si prende perfino il tempo di pareggiare, e poi le porge a Bill.
- La mia proposta potrebbe permetterti di risparmiare questi spiccioli per qualcosa di meglio. – spiega, - Che ne so… ho sentito dire che se ne hai abbastanza da parte, puoi permetterti di corrompere qualche agente di custodia. – aggiunge con un mezzo sorriso, - E quando hai un agente di custodia dalla tua, la vita qua dentro può essere molto più semplice. E mi pare che a te un po’ di semplicità servirebbe eccome.
Bill gli lascia scorrere addosso un’occhiata incuriosita, anche se mantiene le braccia incrociate sul petto in segno di chiusura. Posa gli occhi sulle banconote che Sido continua tranquillamente a porgergli, e qualche secondo dopo gliele strappa di mano con un gesto secco, infilandosele sbrigativamente in tasca.
- Continua. – lo invita, senza però mostrare particolare interesse. Sido, comunque, sorride come se avesse vinto chissà che guerra.
- È da qualche mese che cerco di mettere su una nuova attività, da queste parti, - comincia vago, - ma purtroppo non ha ancora avuto modo di decollare perché, capisci bene, manchiamo in materia prima.
- …materia prima. – ripete Bill, inarcando un sopracciglio, - Posso solo immaginare di che tipo di materia prima si tratti, visto che ne stai parlando con me.
- Immagini bene. – ridacchia Sido, spostando il peso del corpo da un piede all’altro, per accomodarsi meglio contro la parete. – Insomma, ti sarai guardato intorno, da quando sei qua. Sei senza dubbio il più carino del gruppo. La gente pagherebbe per scoparti, come ben sai. E questo è un po’ il punto del mio discorso.
Bill rimane in silenzio per un paio di secondi, prima di concedersi un mezzo ghigno ironico.
- Non dirai mica sul serio? – sbotta, - Qui dentro? Vuoi farmi fare la puttana a tempo pieno qui dentro? Devo ricordarti che è per questo motivo che ci sono finito, qui?
Sido si stringe nelle spalle, sorridendo beato.
- Gli anni di esperienza nel campo contano, Kaulitz. – risponde semplicemente, - La mia proposta, comunque, è questa. Tu lavori per me, e in compenso… - si infila una mano in tasca, tirandone fuori una fialetta trasparente. Bill le lancia un’occhiata veloce e tutti i suoi sensi tornano ad acuirsi in un istante in maniera quasi dolorosa, pungendo sottopelle. La vuole. La vuole adesso. Direbbe di sì a qualsiasi cosa, per averla, e non riesce neanche a provare pena per se stesso mentre lo pensa. Ma se almeno può ottenerla senza per questo buttare via i soldi di Tom…
- D’accordo. – annuisce in fretta, afferrando la fialetta prima ancora che Sido possa aver sollevato completamente la mano. La stringe fra le dita con tanta forza che potrebbe spaccarla, ed è solo pensando a questo che cerca di allentare un po’ la presa. – Dimmi cosa devo fare.

*

Una delle docce gocciola. Solo nel bagno comune, appoggiato ad una parete e in nervosa attesa dell’uomo al quale ha appena venduto il culo per una fottuta dose il cui effetto non sarà durato più di cinque minuti, Bill non riesce a concentrarsi su nessun altro dettaglio. Gli effetti della dose stanno ancora scivolando via, sono lenti come l’acqua sporca agli angoli delle strade dopo che ha piovuto per ore, e si lasciano dietro la stessa velenosa traccia viscida e spiacevole. E il cazzo di rubinetto della doccia gocciola, e il suono si allarga dentro le sue orecchie in cerchi concentrici che gli fanno pulsare dolorosamente le tempie, e tutto quello che riesce a pensare è che plic il fottuto rubinetto della doccia plic gocciola plic. E lo stronzo non arriva. Plic.
Sta quasi per andarsene, dal momento che la schiena lo sta uccidendo e se resta in piedi un secondo di più palesemente morirà, quando il tizio che sta aspettando finalmente arriva. Solo che non è da solo. Non è uno, e non sono nemmeno due. Sono tre, e appena Bill riesce a mettere in moto il proprio cervello confuso abbastanza da contarli tutti, fa immediatamente un passo indietro.
- No. – dice risolutamente, - Io non le faccio queste stronzate. Potete tornare indietro e dire a Sido che per quello che mi interessa può anche andare a farsi fottere.
I tre si guardano fra loro, sembrano stupiti. Poi si lanciano sorrisi complici l’un l’altro, e riprendono ad avanzare verso di lui.
- Sai cosa, puttana? – dice uno di loro, allungano una mano ed afferrandolo per i capelli, tirandoli con forza ed obbligandolo a gemere di dolore mentre piega il capo all’indietro, cercando di seguire il suo movimento per non farsi troppo male, - Ce ne frega un cazzo di cosa fai o non fai. Abbiamo pagato, quindi ora tu stai buono e te lo fai mettere su per il culo, anche da tutti e tre contemporaneamente, se ci gira. Ci siamo capiti? – conclude con uno strattone. Bill quasi grida, ma poi si morde un labbro, e cerca di trattenere le lacrime che si stanno già raccogliendo fra le sue ciglia. Schiude gli occhi, guarda il tipo che lo tiene ancora stretto per i capelli, e digrigna i denti. Dopodiché, gli sputa in faccia.
- Certe cose le puoi ottenere solo pagando, quando sei una merda come quella che siete voi. – ringhia, e il tipo ringhia a propria volta, asciugandosi il viso col dorso della mano e poi afferrandogli la testa più saldamente, solo per spingerlo di faccia contro la parete.
Bill osserva il muro avvicinarsi quasi al rallentatore, e quando sbatte contro la superficie piastrellata e gelida il dolore gli esplode nella testa come una bomba, in macchie biancastre che gli offuscano la vista. Urla, e urla più forte quando qualcuno lo prende a calci nelle gambe, all’altezza delle ginocchia, che si piegano contro la sua volontà.
Il secondo dopo è rannicchiato sul pavimento, apre gli occhi e vede solo rosso e uno stronzo lo sta prendendo a calci nella schiena con tanta forza che lui non riesce a smettere di urlare. Semplicemente non riesce, ci prova a tenere la bocca chiusa, se non altro per non dare soddisfazione a questi psicopatici di merda, ma fa semplicemente troppo male, e il residuo della droga che ha sniffato non fa che amplificare la sensazione di dolore riempiendogli il corpo di brividi insopportabili, e lui continua a scuotersi e a urlare e gli stronzi continuano a calpestarlo, e quando uno dei tre gli sfila di dosso i pantaloni lui pensa “bene, cazzo, adesso almeno magari la smetteranno di picchiarmi e si concentreranno per scoparmi”, ma un altro dei tre stronzi gli si inginocchia accanto e gli sorride in un modo che gli fa quasi scoppiare il cuore di paura. Bill lo osserva sollevarsi la manica della maglietta fino al gomito e stringere la mano a pugno e pensa “no, cazzo, Dio, Dio, ti prego, no”, e ansima terrorizzato, e vorrebbe provare ad alzarsi in piedi e fuggire via, ma le gambe non rispondono, e la schiena fa male come gliel’avessero spezzata, e lui non riesce più a respirare, e poi le nocche dell’uomo premono contro di lui e lui urla così forte che si sente esplodere i polmoni nel petto, e strabuzza gli occhi, e poi qualcosa si spacca, e a lui non resta più fiato neanche per gridare.
Mentre la vista gli si annebbia, gli sembra di scorgere una figura familiare sulla porta del bagno. Una figura piccola, magra, che si muove in maniera strana. “Eko?” pensa, ma potrebbe essere un’illusione, così come la vocetta nasale che sillaba “merda”, un attimo prima che la figura scompaia, veloce com’è apparsa.
Un paio di minuti dopo, però, entrano in bagno cinque persone. Bill non vede un cazzo di quello che sta succedendo, non gl’importa nemmeno. Tutto quello che sa è che un attimo non respira, e l’attimo dopo qualcuno lo svuota, e lui può finalmente tornare a respirare. Anche se fa male. Come fa male tutto il resto.
Fa tutto così fottutamente male che non riesce a tenere gli occhi aperti abbastanza a lungo neanche per riconoscere Bushido che, mentre i suoi riducono quei tre bastardi in fin di vita, lo solleva di peso fra le braccia e lo trascina di corsa in infermeria.

*

Bill ha imparato a riconoscere l'infermeria dalla lampada che pende storta nel centro del soffitto pieno di crepe, così quando apre gli occhi non perde neanche un secondo a chiedersi dove si trovi. Impiega più tempo a capire perché sia di nuovo disteso su un letto e si senta stanco, assonnato e debole.
I ricordi arrivano insieme al dolore, quello sordo tra le gambe e quello più acuto e quasi insostenibile alla schiena che sembra essersi svegliata all'improvviso insieme a lui.
Geme infastidito e tenta di girarsi di fianco, che è l'unico modo che conosce per alleviare le fitte pungenti, ma non riesce. Non riesce nemmeno a capire quale arto sta muovendo quando lo muove. Se lo muove. Ha la testa così confusa, chissà quanti cazzo di antidolorifici gli hanno dato. Chissà quanto cazzo farebbe male senza; il solo pensiero lo fa rabbrividire.
Prova di nuovo a voltarsi, lancia un braccio sul materasso e afferra il lenzuolo. Cerca di usare quello per issarsi, ma gli sembra di pesare una tonnellata. Riesce soltanto a sollevarsi di qualche centimetro e, quando ricade giù, la schiena fa ancora più male e il dolore gli strappa di bocca un lamento disperato del quale si vergogna. E' così stanco che ha voglia di piangere.
Furioso, tira un pugno sul materasso mentre si morde forte un labbro per trattenere le lacrime di dolore e frustrazione. Non può stare disteso in quel modo un minuto di più, lo sa. “Dottoressa,” mormora. La voce gli esce debolissima e roca, rotta dal respiro affannato. Prova a chiamarla più forte ma non arriva nessuno. Gli fa male perfino la gola.
Mette insieme le forze, si concentra e si gira di scatto con un gesto rabbioso. Cercando alla cieca un appiglio a cui aggrapparsi, urta il vassoio che c'è sul comodino e quello cade, portandosi dietro una scodella, le posate e tutto il resto del suo pranzo, probabilmente. Ricade anche lui, sul materasso, e la fitta di dolore è così forte che lo riduce ai singhiozzi. “Vaffanculo!” Piagnucola. “Vaffanculo.”
“Ehi, piano” gli dice qualcuno, posandogli una mano sul braccio.
Bill fa uno scatto che gli strappa un'altra smorfia di dolore. Si volta a guardare chi è stato con tanto odio che quello fa un passo indietro. E' uno degli uomini di Bushido, quello basso e pelato.
“Tranquillo,” Chakuza tiene le mani bene in vista. “Non voglio farti niente. Mi sono avvicinato solo perché sembravi nei casini. Ti ricordi di me? Sono Chakuza.”
Bill lo guarda male un altro po' prima di sbuffare. “Mi hanno quasi stuprato, non ho mica perso la memoria,” replica infastidito. Si sforza di tirarsi su, ma anche mettersi seduto è un'impressa impossibile e per quanto tenti di nasconderlo, il dolore gli contorce i tratti del viso.
“Posso aiutarti?” Chiede Chakuza, prima di farsi avanti di nuovo.
Bill vorrebbe dirgli di andare a fanculo, ce l'ha sulla punta della lingua e la rabbia che prova per tutto e tutti indistintamente in questo momento vorrebbe tanto farglielo dire, ma non ce la fa più a stare in quella posizione. Così annuisce brevemente.
“Vuoi sederti?” Chiede l'uomo, sorreggendolo per il braccio.
Bill scuote la testa velocemente. “Di lato va bene,” lo informa mentre il peso sulla schiena si allenta e il dolore diventa più sopportabile. Adesso gli viene quasi da piangere per il sollievo.
“Ecco fatto. Va meglio?”
Bill annuisce sbrigativamente. Vorrebbe poter chiudere la conversazione adesso che non ha più voglia di accasciarsi e morire, ma Chakuza resta di fianco a letto e l'ombra della sua testa rotonda si allunga sulle coperte che sta fissando, impedendogli di ignorare completamente la sua presenza. Così sospira e si volta verso di lui con un sopracciglio sollevato. “Ti serve qualcosa?” Chiede.
“A me no, ma magari hai fame,” commenta lui. Voltandosi per recuperare un altro vassoio dal carrello che si trascina dietro.
Bill lancia un'occhiata al cibo che è finito per terra, dall'altra parte del letto.
“Lo avevo appoggiato sul comodino visto che dormivi,” si giustifica Chakuza, seguendo il suo sguardo mentre sistema il nuovo vassoio sul braccio mobile perché possa accedervi più facilmente.
Bill torna a guardare lui e quello che sta facendo. Chakuza dice cose talmente ovvie che non trova nessun argomento con cui replicare, perciò resta in silenzio mentre l'uomo appoggia con cura il piatto di carne e verdura, l'acqua, il pane e una porzione di budino alla vaniglia.
“L'hai fatta tu questa roba?” Chiede Bill.
“Non dirmi che hai paura,” commenta Chakuza, passandogli il tovagliolo e le posate, che poi sono solo una forchetta di plastica con le punte arrotondate e un cucchiaio, sia mai che gli venga in mente di sgozzare qualcuno. “Se serve a farti stare più tranquillo, non mi conviene avvelenare il cibo che servo. Non ho alcuna voglia di marcire qui dentro per sempre. “
Bill sbuffa dal naso, iniziando a tagliare la carne. “Lo dicevo perché ha un bell'aspetto,” precisa, con un ghigno. “Hai la coda di paglia, per caso?”
Chakuza non se la prende, ma a dirla tutta non sorride neanche. “Da queste parti è sempre meglio pensare al peggio e poi, nel caso, cambiare opinione,” commenta.
“Sì,” borbotta Bill. “Me ne sono accorto.”
“Sempre troppo tardi,” Chakuza nota l'occhiata che gli lancia una delle guardie e si affretta a fingersi indaffarato. In via del tutto eccezionale, decide che può raccogliere lui quello che è caduto. “Sei stato fortunato.”
Bill immagina che a fronte della possibilità di prendersi una malattia venerea, perdere un arto o l'uso cosciente del proprio corpo, lo strazio di una schiena a pezzi e dei dieci punti che gli hanno messo nel culo siano considerabili come una fortuna. Forse crepare lo sarebbe stato di più. “Infatti, non lo vedi come festeggio?” Chiede ironico. “Credo che lo champagne arriverà da un momento all'altro.”
“Dico sul serio,” insiste Chakuza. “Se non fosse stato per Eko, poteva andarti molto peggio.”
Allora era davvero lui la figurina magra che ha intravisto prima di perdere i sensi. “Mi è sembrato di vederlo,” mormora.
“Non doveva essere lì. Ti ha seguito di sua spontanea volontà, perché è pazzo o sa il cazzo perché,” spiega Chakuza, mentre impila i piatti sporchi sul carrello. “Dovresti ringraziarlo appena esci dall'infermeria.”
“Se mai uscirò, sarà il mio primo pensiero,” fa in modo di suonare ironico ma non gli riesce un granché bene, forse perché ogni volta che apre bocca gli torna in mente la paura che ha provato – che non era quella buona che ti tiene all'erta ma quella violenta e paralizzante che non ti serve a sopravvivere a niente, perché ti lascia inerme contro qualunque pericolo ti si pari davanti – ed è consapevole che se non ne ha provata di più lo deve soltanto a quell'uomo con la faccia da topo.
“Bene,” annuisce Chakuza, sollevandosi finalmente da terra. “E magari potresti provare a mostrare un po' di riconoscenza in generale. “
Bill gli alza subito addosso un'occhiata altezzosa e infastidita. “Prego?”
Durante tutto il tempo che ha passato là dentro, Bill si è abituato che alle sue reazioni scostanti la gente reagisce ridendo oppure trattandolo ancora più di merda di quanto lui non faccia con gli altri. Chakuza invece sospira. “E' normale che tu non voglia fidarti di nessuno qua dentro, soprattutto perché hai visto quanti pezzi di merda ci sono,” spiega. “Ma dopo che ti sei fatto un'idea di che aria tira, ti accorgi che un amico ti serve. Qua dentro da solo non puoi sopravvivere. Vale per tutti, non solo per quelli come te.”
“Che sarebbero?”
“Quelli che non si sanno difendere,” specifica Chakuza, con molta più pazienza di quanto, ancora una volta, Bill si aspetti da lui. “Ed è inutile che fai quella faccia, perché sei tu quello su un letto d'ospedale e io quello in piedi, quindi almeno su questo mi darai ragione.”
Bill non smette di fare nessuna faccia anzi, se possibile lo guarda perfino peggio, e fa schioccare la lingua. “Di' un po' ti manda lui, per caso?” Chiede, sviando il discorso.
“No, non mi manda nessuno perché, se ti è sfuggito, questo è il mio lavoro,” replica Chakuza. “Comunque Bushido era preoccupato per te. Quando Eko è venuto ad avvisarci, è sbiancato, che per lui è una bella impresa.”
Bill si fa scappare una risatina che gli esce camuffata come l'ennesimo sbuffo, ma è comunque riconoscibile, tanto che anche Chakuza ride.
“Non ci ha pensato un secondo, ragazzino,” aggiunge poi più serio, con una scrollata di spalle. “E dopo tutto quello che ci hai combinato e abbiamo... perso, per pararti il culo, forse sarebbe il caso che ti ricredessi, non ti sembra?”
A quel punto la guardia ne ha avuto abbastanza e si incammina verso di lui, costringendolo a recuperare il suo carrello senza poter aggiungere altro.
Bill è contento così perché sa di poter dire le parole che ha in gola una volta sola, e non sarà qui.

*

Jost è incazzato come una bestia.
Non che Bushido si aspettasse di trovarlo pacifico e pronto al dialogo, ma quando la guardia lo fa entrare nell'ufficio del direttore, lui ha appena finito di sbattere il telefono contro il muro dall'altra parte della stanza e quello, naturalmente, si è fracassato in tre pezzi.
“Sai che l'infarto è una delle più comuni cause di mortalità tra gli uomini della tua età, specialmente quelli che fanno un lavoro di merda come il tuo?” Commenta, mettendosi obbediente al suo posto, con le mani bene in vista davanti a sé.
“Stai zitto!” Urla Jost, senza che per altro Bushido sia colpito dalla violenza con la quale lo fa. “Abbi la decenza di tacere, almeno.”
Bushido chiude la bocca, ma con l'aria di uno che ti accontenta. Jost questa cosa di lui non la sopporta, come non sopporta tante altre cose, ma questa più delle altre perché Bushido non dovrebbe accontentare nessuno. Lui dovrebbe eseguire gli ordini perché è un detenuto. E i detenuti fanno questo, ma lui ovviamente si sente al di sopra di tutto. Ce lo ha scritto in faccia e alle volte Jost ha davvero una gran voglia di prenderlo a pugni finché non si stanca.
Alla fine si ricorda che non può e si ricorda anche che, fra tutte le cose che non può permettersi di fare, mostrarsi così vulnerabile è proprio l'ultima, pertanto emette un sospiro e lo guarda duramente. “Quello che è successo oggi è inammissibile,” inizia. “Da chiunque e da te più di chiunque altro.”
“Non mi sembrava di essere un detenuto speciale. “
“Ti sembra eccome, Ferchichi,” continua Jost. “Ti sembra eccome. Io garantisco per te per farti dare la condizionale e tu mi mandi d'urgenza tre uomini in ospedale?”
Bushido, in realtà, non ha mandato all'ospedale proprio nessuno. E' entrato in quel bagno, ha rotto il naso a uno dei tre e ha lasciato che i suoi si occupassero del resto mentre recuperava le quattro ossa di Bill per portarlo in infermeria. Jost lo ha fatto chiamare solo perché sa che Chakuza e gli altri ragazzi non si muovono senza che lui lo abbia ordinato.
“Chiamiamoli danni collaterali. Mi hanno attaccato, mi sono difeso.”
“Li hai quasi ammazzati.”
Bushido non fa una piega. “Quasi,” dice soltanto. “Si vede che sono scivolati e hanno battuto la testa nel modo sbagliato. Succede.”
“Piantala con le cazzate!” Sbraita David. “Con questa bravata hai messo a rischio la libertà vigilata! Non posso coprirti in eterno.”
Bushido fa qualche passo irritato verso la scrivania. “Vuoi parlare di cazzate, David?” Ringhia, a voce abbastanza alta da stabilire quanto sia incazzato ma non abbastanza da richiamare l'attenzione della guardia fuori. Jost si fa indietro per affrontarlo, ma senza paura. “Parliamo di cazzate! Pensi davvero che se mi sono mosso dalla mia cella per prendere a calci nel culo tre stronzi lo abbia fatto per divertirmi e rischiare di perdere tutto quello per cui ho lavorato finora? Te lo dico io, Jost, no. Li ho fatti pestare perché stavano per violentare il tuo fottuto ragazzino. “
“Avresti potuto chiamare le guardie.”
“Vuoi sapere la cosa divertente, Jost? Le ho avvertite le tue stramaledette guardie. Eko ha avvisato loro prima di me ma si vede che quelle sono sorde perché sono arrivate mezz'ora dopo. Se la prendono comoda i tuoi uomini, eh? Tanto c'è tempo. D'altronde che cazzo vuoi aspettarti da gente che sa benissimo quali zone è meglio non perlustrare se non si hanno né le palle né la voglia di intervenire!”
David si appoggia allo schienale della sedia e per un attimo guarda altrove. Fosse un qualsiasi altro detenuto, replicherebbe e magari negherebbe anche, ma con Anis Ferchichi no. Se fra loro c'è il rapporto che c'è – per quanto sbagliato possa essere – è anche e soprattutto perché non si sono mai detti cazzate a vicenda. Certo, Ferchichi ne spara di grosse ma non con la volontà di fargliele anche bere, e David non gli mente, nel bene e nel male. Pertanto annuisce, prendendo atto della pigrizia di guardie carcerarie che può permettersi di punire fino ad un certo punto.
C'è uno strano equilibro nelle carceri, fra gli occhi che si possono chiudere e i reati che non si possono commettere e mantenere la bilancia perfettamente in pari è il compito più difficile di tutti. Guarda caso il suo. “Chi è stato?”
“Sido, è stato,” sbuffa Bushido, mentre la rabbia lo abbandona come fosse bastato urlare per liberarsene. Torna anche al suo posto. “Non ti è arrivato l'ultimo numero del gazzettino ufficiale?”
“Siete sul piede di guerra, lo so,” replica Jost infastidito. Conoscere lo status quo della prigione è un fattore importante per mantenere tutto sotto controllo.
Bushido scuote la testa. “No, lui è sul piede di guerra,” precisa. “Io sto cercando di tenerlo buono.”
“Pestando a sangue tre dei suoi?”
“Ha iniziato lui.”
David annuisce ironicamente. “E questo non ha niente a che vedere con l'allontanamento di Fler?” Butta lì, come se fosse una cosa da nulla.
Bushido lo fulmina con lo sguardo. “No.”
David lo fissa dritto negli occhi per minuti interi e poi sorride. “Diciamo che faccio finta di crederti perché ne ho piene le palle di tutti e due,” commenta, recuperando qualche foglio e iniziando a scriverci sopra come se volesse in questo modo annunciare la fine della discussione. “Tu pensa a stargli lontano anche quando uscirà dalla buca. Spiegherò alla commissione la tua posizione, farò leva sul fatto che il tuo spirito comunitario è più spiccato di quello degli scagnozzi di Sido. E speriamo che questo faccia ombra sul fatto che è l'ennesima storia di droga.”
“Ti aiuterà il fatto che né te né la commissione avete prove a riguardo.”
“Le prove si trovano.”
Bushido ride. “Auguri, allora.”
Jost chiama la guardia e lo fa portare via senza abbassarsi a rispondergli ancora e a Bushido sta bene così. Sa che per un po' almeno le acque si calmeranno e lui potrà sistemare il macello che si è andato a creare, come al solito. Esce dalla stanza con la flemma di chi non ha nessuna fretta né di raggiungere qualche altro posto né di liberarti della sua presenza perché sa che ti dà fastidio e si lascia ricondurre docilmente nella cella che ancora vuota. Bill dev'essere ancora in infermeria.
Non si preoccupa però, Chakuza è lì a controllare e se fosse successo qualcosa, Bushido lo saprebbe già, pertanto si issa sul suo letto e si distende con uno sbuffo stanco, coprendosi gli occhi con un avambraccio.
E' così che Bill lo trova, quasi quaranta minuti dopo, quando faticosamente riesce a tornare in cella, con l'aiuto della guardia che è costretta a sostenerlo perché la schiena gli fa ancora male.
Rimane per un po' al centro della stanza, i rumori della prigione vanno affievolendosi, è quasi ora che spengano le luci, ormai.
“Sei tornato,” dice Bushido, senza cambiare posizione.
Bill annuisce e stringe i pugni lunghi fianchi, per darsi coraggio stavolta, ma le parole fanno tutto da sole. Escono più facilmente di quanto sperava, forse perché sono davvero sincere. “Grazie per oggi,” mormora.
Bushido gli fa solo un cenno. Non c'è bisogno di dire altro.

*

La vita nella prigione diventa più facile. Non che le pareti si colorino di rosa e i detenuti comincino a cantare in rima spargendo ovunque amore e gioia, ma almeno non tentano più di ammazzarlo, scoparselo o fare le due cose insieme e, per quanto lo riguarda, a Bill sta bene così. Naturalmente questo succede perché lui ha deciso di accettare la protezione di Bushido – il che significa che ovunque vada uno dei suoi uomini lo tiene d'occhio, in ogni momento della giornata – e quindi nessuno che abbia un cervello si azzarda anche solo ad annusarlo da lontano. Dopo la schiena a pezzi, i punti di sutura e una dose di legnate che in confronto quelle di suo padre erano carezze, Bill comincia quasi ad abituarsi e ad apprezzare la possibilità di farsi una passeggiata nel cortile senza rischiare la vita. Ad aiutare questo processo c'è anche il fatto che Bushido non gli fa mai pesare il fatto che glielo avesse detto. Non nomina mai quello che è successo in passato, non ne fa nemmeno un accenno. Dopo l'aggressione per volontà di Sido – che, intanto, pare non si sia ravveduto quando Jost glielo ha chiesto la prima volta dopo tre giorni e che, per questo, sia ancora chiuso in buca con nessuna prospettiva di uscirne tanto presto – Bushido ha ricominciato da zero, con lui e lo ha perfino trascinato via da quel buco di merda della libreria per farlo trasferire nelle cucine con i suoi ragazzi, adesso che può farlo senza rischiare niente.
Bill davvero non sa come possa ottenere sempre tutto quello che vuole con Jost. Lui e il direttore della prigione hanno parlato una volta soltanto, quando lui è entrato, e non è che si siano detti grandi cose.
Più che altro Jost ha tentato di avvisarlo che sarebbe stato un inferno, solo che non l'ha fatto un granché bene, perché è evidente che non ha proprio un'idea chiara di quello che succede là dentro, della droga che gira, della gente che sparisce le ore per poi tornare più sfatta di prima. Bill vuole credere che non lo sappia, anche se in fondo è consapevole che è così, perché se solo pensa che sia a conoscenza di tutto, ricomincia ad aver paura delle cose orribili che si nascondono dietro l'angolo e non ne ha proprio voglia; non ora che la tensione si è allentata al punto che arriva perfino a scherzare con gli altri, ogni tanto.
L'unica cosa che Bushido gli ha davvero ordinato di fare è andare alle sedute di recupero per la sua dipendenza. Non è che Bill abbia fatto i salti di gioia – lui non è certo il tipo che si alza in piedi e racconta i cazzi suoi ad un cerchio di altri disperati che si sono ridotti a sniffare qualunque cosa pur di dimenticarsi in che mondo vivono – ma questa al tunisino gliela doveva, anche solo perché grazie a lui cammina ancora. Lui è contento, il tipo che gestisce le sedute pure e tutti dicono che funzionerà. A Bill sembra che funzionerà perché non c'è più nessuno che gli venderebbe la roba ormai, ma che sia per un motivo o per l'altro va bene uguale, a lui conviene non avere più crisi. Non vuole trovarsi a strisciare ai piedi di qualcuno peggiore di Sido. Se qualcuno del genere c'è.
Insomma, per essere uno che i primi mesi li ha passati in infermeria, con l'unica speranza che, una volta uscito, non ce lo rimandassero troppo presto, la sua vita è sensibilmente migliorata e questo significa che, oltre ai doveri – fin troppi – ha anche un certo numero di piaceri che ora può godersi senza dover sempre pensare a quanto fa schifo la sua vita in generale. Anche perché, a ben pensarci, per come stanno le cose adesso, faceva ben più schifo fuori.
Qui dentro ha un letto, il riscaldamento e mangia tre volte al giorno, se si escludono le docce in comune e qualche detenuto che dovrebbe imparare ad usarle, giusto per non rischiare di ammazzarli tutti, sta quasi pensando che alla fine di questi dodici anni che gli restano da passare in cella, potrebbe mordere un altro paio di uccelli e prolungare il soggiorno. Ha cominciato a scherzare, appunto.
Ora che scandisce il suo tempo con le cose che ha da fare, è anche più facile farlo passare. Qualcuno gli ha detto che così è anche più facile rendersi conto di quanto ne passa, ma lui ha scrollato le spalle e come al solito è andato per la sua strada.
Bill ha il risveglio difficile, nel senso che potesse dormirebbe per metà della giornata e passerebbe l'altra metà a svegliarsi buttato su una sedia a caso, ma non può farlo naturalmente; per questo Bushido, fra le tante responsabilità, si è accollato anche quella di afferrarlo per l'orlo dei pantaloni e tirarlo giù dal letto, tutte le mattine alle sette precise, quando le luci si accendono. All'inizio è stato traumatico – leggi molto irritante – ma alla fine si è abituato e da qualche giorno a questa parte, riesce perfino a prevedere quando la sua mano si allungherà verso di lui e si scosta prima, saltando giù per conto suo.
Il lunedì non è diverso dalla domenica dentro una prigione, ma per chissà quale automatismo mentale sono tutti quanti più scorbutici. Loro delle cucine devono sistemare le scorte, ne arrivano di nuove ogni inizio settimana. Bill pensava che ci fosse qualcuno – chi, gli gnomi? Lo ha preso in giro Saad – che lo faceva per loro, perché non si intascassero qualcosa, ma poi ha scoperto che tutto il cibo arriva in grossi bidoni pesanti che per aprirli devi comunque portarli in cucina, aprirli e poi rimettere a posto. Quindi se proprio ti fotti qualcosa, hai comunque prima fatto il tuo dovere.
Il mercoledì, Eko lo ha convinto ad andare in palestra, anche se poi lui non solleva nemmeno un chilo e a Bill fare pesi non interessa, così finisce che si siedono sulla panca e Bill gli fa duemila domande su Bushido e sulla banda, cercando di dare un senso al groviglio sconclusionato di parole che è il linguaggio di quell'uomo.
Il venerdì ha le sedute di recupero, il che significa che deve recarsi in questa saletta adiacente l'infermeria, sedersi sulla sua piccola sedia di legno e stare a sentire gli altri che si pentono e si dolgono di aver fatto uso di droga, alcuni trovano anche la faccia tosta di assicurare ai presenti che senza si sta meglio. Sì, forse. A Bill non importa granché ma è molto bravo a fingere il contrario. Lui non ha ancora parlato. Il medico o quello che è che presiede le sedute gli ha chiesto un paio di volte come stava, lui ha risposto bene e poi sono stati a guardarsi negli occhi per cinque minuti annuendo. Ha ancora molta strada da fare, pare.
Il resto del tempo in cui non lavora, non finge di allenarsi in palestra e non si oppone ostinatamente all'auto analisi, lo passa con Bushido. Bill lo segue letteralmente passo passo ovunque vada.
Adesso che hanno sistemato la questione della protezione, quell'uomo lo incuriosisce. Si chiede che cosa lo abbia spinto a continuare a difenderlo nonostante tutto. Bill è perfettamente consapevole che la libertà vigilata di Bushido è legata al suo comportamento, ma sa anche che la possibilità di un privilegio così grande si perde anche solo per la metà delle cose che Bushido ha combinato per parare il culo a lui. Ad un certo punto avrebbe anche potuto andare da Jost, visto che sembrano tanto in confidenza, e fargli presente che Bill non era affare suo e invece non lo ha fatto.
In questi giorni lo ha osservato attentamente mentre parlava con i suoi ragazzi o tentava un dialogo con i suoi nemici che invece gli hanno riso in faccia. Bill era lì di fianco e nessuno gli ha posato gli occhi addosso, hanno fissato solo Bushido fintanto che ha parlato.
A quanto gli è sembrato di capire Bushido sta lavorando da tempo nel tentativo di trovare un accordo con Sido, una specie di tregua. Ci stava provando già prima che arrivasse lui ma con scarsi risultati e ora, con Sido chiuso in buca, è ancora peggio perché i suoi uomini gli si sono chiusi intorno e se hanno un qualche sentimento nei confronti della situazione è di odio profondo. Detestano Bushido e lo vorrebbero morto, così quando si presenta nelle loro celle accompagnato da Bill, è già tanto se lo fanno parlare. Bushido però non molla, così come non ha mollato con lui.
“Si può sapere chi te lo fa fare?” Chiede Bill mentre lasciano la cella di Tony D.
“Fare cosa?”
“Questo sforzo assurdo. Cerchi di entrare nella testa della gente anche se quella ha chiaramente il piombo fuso nel cervello. Insomma, guardali!” Bill accenna agli uomini di Sido che, alle loro spalle, ancora ridono di gusto. “Come puoi pensare che capiranno mai qualcosa?”
Le labbra di Bushido s'increspano in un sorriso appena accennato che Bill riesce a vedere solo perché lo sta fissando anche se lui non lo guarda. “Vuoi dire che dovrei lasciar perdere chi si ostina a ripetermi continuamente no?”
Bill alza gli occhi al cielo mentre lo segue nei bagni. “Questa è una situazione diversa,” precisa.
“No, non lo è.” Bushido si slaccia i polsini della camicia e li tira un po' su, quindi si toglie l'orologio e glielo passa prima di accingersi a lavarsi le mani. “Sono solo incredibilmente testardi perché credono che accettare una tregua sia segno di debolezza. Quello che non capiscono, perché sono così pieni di loro stessi da non vedere nient'altro, è che se smettessimo di farci la guerra potremmo ottenere molto di più qua dentro.”
“Tipo?” Chiede Bill, rigirandosi il grosso orologio da uomo tra le dita magrissime.
“Più sicurezza, più libertà, la fiducia di Jost,” elenca Bushido. “Se vedesse che non ci ammazziamo per un posto in mensa, forse sarebbe più ben disposto ad organizzare attività di cui finora non ha nemmeno voluto sentir parlare. Ha paura di quello che potrebbe succedere da un momento all'altro e non gli si può dare torto quando i detenuti non fanno che aggredirsi gli uni con gli altri.”
“Com'è che tu e Jost andate così d'accordo?”
Bushido scrolla le mani nel lavandino e le asciuga sui pantaloni. “Che cos'è, stamattina, la giornata delle domande?” Esclama ridendo e riprendendosi l'orologio. “Non dovresti essere da qualche altra parte?”
“Sfortunatamente per te no,” replica Bill, che è costretto ad asciugarsi le mani anche lui dopo che Bushido le ha sfiorate con le sue. “Allora?”
“Allora cosa?”
“Tu e Jost vi conoscevate?”
Bushido espira dal naso. “Lo sai, ragazzino, non vado molto d'accordo con gli interrogatori,” gli fa notare mentre si avviano insieme fuori dai bagni e di nuovo in direzione delle celle.
“Non è un interrogatorio, sto facendo conversazione.”
“Allora non ti dispiacerà se ti faccio io qualche domanda.”
Bill ha passato troppo tempo per strada a dubitare di chiunque gli si avvicinasse, nascondendo per questo ogni tipo di informazione personale, per essere entusiasta di quella prospettiva, perciò si irrigidisce un po'; ma trova comunque la faccia tosta di stringersi nelle spalle. “Che cosa vuoi sapere?” Chiede.
Si incamminano lungo il corridoio che porta alle celle. Apparentemente hanno un sacco di libertà, ma i percorsi sono segnati, non ci sono molte alternative. “Quello che ti è venuto a trovare è tuo fratello?” Chiede Bushido.
“Cosa fai, mi spii adesso?” Chiede Bill, lanciandogli un mezzo sorriso storto e nervoso, più che altro per prendere tempo.
“Con te non si sa mai,” scherza Bushido. “Comunque mi trovavo a passare da quelle parti. E, anche se non rispondi... siete due gocce d'acqua.”
“Tom ed io siamo gemelli,” sospira Bill.
“Ma non mi dire,” Bushido ride di cuore. Una cosa che prima faceva spesso, a quanto dice Eko, ma che Bill non gli aveva mai visto fare. E' un po' assurdo che rida proprio parlando di suo fratello che, per lui, è tutto tranne che un argomento di cui ridere. “E anche lui fa la tua stessa vita?”
Bill scuote la testa. “No, lui è il gemello buono.”
Per un po' smettono di discutere perché Bushido deve fermarsi a parlare con un paio di persone e Bill resta lì al suo fianco, in silenzio. Potrebbe allontanarsi per evitare definitivamente l'argomento, e accarezza l'idea di farlo, ma poi si rende conto che potrebbe andare in ben pochi posti e che alla sera Bushido lo inchioderebbe di nuovo, quindi tanto vale restare. O forse gli piace stare lì a guardarlo mentre ha a che fare con gli altri detenuti, il modo un po' impostato ed eccessivo con cui si presenta, la posa che assume – molto rilassata eppure autoritaria – Bill non ha idea di come ci riesca, ma sembra che per lui i muri della prigione non esistono. Da come si muove ti dà l'idea che una volta finito di chiacchierare potrebbe continuare a camminare oltre il corridoio, superare la cancellata e uscire all'aria aperta. Così, come niente.
“E il resto della tua famiglia?” Quando Bushido riprende il discorso, sono nella sala comune e lui era perso nei suoi pensieri. “Tuo padre e tua madre?”
Bill si stringe nelle spalle. “Ci hanno guardati e dopo un'attenta analisi hanno deciso che lui era più conveniente.”
“Vuoi dire che tu eri troppo problematico?”
“Troppo frocio,” precisa subito Bill, con un'asprezza nella voce che non nasconde niente dell'odio che prova.
Bushido annuisce come se quel breve scambio di frasi fosse stato sufficiente a fargli inquadrare l'intero problema. Si trattasse di qualunque altra persona, Bill ne dubiterebbe fortemente ma, trattandosi di Bushido, gli concede il beneficio del dubbio.
“Quindi tuo padre non accetta il tuo stile di vita.”
A Bill scappa da ridere. “Sì, è un modo come un altro di dirlo.”
Bushido gli lancia uno sguardo interrogativo, forse il primo da quando si conoscono. Bill sbuffa un'altra risata, una amara però. “Quando mio padre lo ha saputo mi ha preso subito a cinghiate per evitare che il Signore lo ritenesse responsabile, immagino. Dopodiché mi ha spedito da un prete e da un medico e quando il primo non mi ha esorcizzato come sperava e il secondo gli ha confermato che non era una malattia, mi ha preso a cinghiate di nuovo, perché secondo lui non se ne danno mai abbastanza di cinghiate a chi ama prenderlo nel culo, che è tutto ciò che ha capito lui quando gliel'ho detto.”
“E tua madre?”
Gli occhi di Bill si fanno più scuri, come se fosse più difficile per lui parlare con tanta leggerezza della madre. “Mia madre è rimasta in silenzio, come suppongo ci si aspettasse da lei,” sospira. “Mio fratello mi ha difeso per un po', ma casa mia non era più vivibile e così me ne sono andato. D'altronde gli rimaneva sempre un figlio con cui consolarsi.”
“Non li senti mai? Neanche adesso?”
“Non credo che sappiano che sono qui. L'ultima volta che ho visto mio padre è stato quando me ne sono andato. Mia madre ha continuato a volermi incontrare per qualche mese, cercando di convincermi a perdere le cattive abitudini. Poi si è stancata anche lei,” Bill si stringe nelle spalle. “Immagino fosse più facile fingere che ero morto piuttosto che sapermi per strada, non so.”
“Tuo fratello deve volerti molto bene,” commenta Bushido, mentre raggiungono la cella. Sistema alcuni articoli da bagno che gli sono arrivati per posta sulla mensolina sotto allo specchio. “E' lui che ti porta i soldi?”
Bill annuisce. “Non dovrebbe, ma è impossibile farlo smettere.”
“Ha la testa dura come suo fratello,” sorride Bushido. Davanti allo specchio si schiaffeggia piano la faccia, come fa di solito. Bill non ha capito se è per ridare tono al viso o per svegliarsi, anche se propende per la seconda visto che Bushido non sembra il tipo da maschere facciali. “Sei fortunato ad avere qualcuno che sta dalla tua parte. Quando sei nella merda fino al collo, anche una persona sola fa la differenza.”
Bill lo osserva con attenzione, non perde nemmeno il più piccolo dei movimenti. Quand'era più piccolo non era così bravo a notare i dettagli, ma col tempo le cose sono cambiate; ha dovuto imparare a riconoscere le situazioni dalle prime avvisaglie, in modo da potersi difendere. E ora scruta Bushido mentre si aggira per la cella e rifà il proprio letto in maniera metodica e veloce, la maniera di uno che abituato a fare gli stessi gesti da un sacco di tempo. “Per te chi c'era?”
“Chi ti dice che c'era qualcuno?” Chiede l'uomo, allungandosi a stendere bene il lenzuolo.
Bill si è seduto per terra e scrolla le spalle. “Hai l'aria di uno che aveva qualcuno dalla sua parte.”
Bushido non si volta, ma sorride. “Era mia madre,” risponde Bushido e Bill resta stupito perché in realtà non si aspettava che l'uomo rispondesse. “Mi ha sempre difeso, anche quando non me lo meritavo perché mio padre se lo meritava sempre meno di me.”
“Non andavate d'accordo?”
Bushido solleva una spalla. “Quand'era sobrio andava quasi tutto bene. Ma non lo era mai,” spiega con un sospiro. La sua voce ha il tono rassegnato di chi una situazione l'ha già vissuta ad ogni livello e, quale che sia, vi ha già trovato una soluzione. Mentre a Bill fa ancora male sapere che a casa sua non si può più fare il suo nome, Bushido sta solo raccontando un fatto come un altro che casualmente è successo a lui come poteva succedere a chiunque. “Picchiava mia madre ogni volta che poteva e picchiava me ogni volta che cercavo di difenderla. Ho sopportato finché non ha messo le mani su mio fratello, allora non ci ho visto più. Quella è stata la prima volta che sono finito in galera.”
“Lo hai ucciso?”
Bushido scuote la testa. “No, ma lui mi ha fatto arrestare per aggressione perché gli ho rotto il naso. Mi sono fatto sei mesi di riformatorio,” spiega. “Quando sono tornato a casa, però, lui non c'era. Mia madre lo aveva buttato fuori a calci.”
Bill annuisce e basta, perché non sa che cos'altro dire.
A quanto pare lui e Bushido non sono poi così tanto diversi.
Quando Chakuza compare sulla porta della cella ad avvertire Bushido che è ora di occuparsi della cucina, Bill si chiede cosa sarebbe cambiato nella sua vita se tornando dall'ospedale quel giorno, a sparire di casa fosse stato suo padre e non lui.
Poi scuote la testa e si affretta dietro Bushido quando lui lo chiama.

*

Decide di farlo quella notte. Non che ci abbia davvero pensato, in realtà, non l’ha certo programmato o pianificato, ma è qualcosa di cui il suo corpo sente un intenso bisogno, prima ancora della sua mente. Non può che immaginare che si tratti di un residuo di quando ancora viveva a casa sua, dove niente lo aiutava a capire di fronte a chi si trovasse più delle reazioni fisiche che aveva in sua presenza. Il modo in cui suo padre lo guardava, come se neanche riuscisse a reggere la sua vista tale era il disgusto che la sua persona gli suscitava, il modo in cui sua madre distoglieva dolorosamente lo sguardo trincerandosi dietro un muro di scuse e di falsa impotenza, il modo in cui invece Tom non smetteva mai, nemmeno per un secondo, di cercarlo con gli occhi, e con le braccia, ed a volte, nei momenti più duri, perfino con le labbra, quando sfiorava in un bacio infantile ma spaventosamente confortante qualche livido particolarmente vistoso su uno zigomo, o sull’angolo delle sue labbra.
Questa è probabilmente l’unica cosa che Bill ricorderà per sempre, di casa propria. E si tratta di un insegnamento che ha sempre seguito con scrupolosa attenzione.
Ed è per questo che quella notte scivola fuori dal proprio letto. Perché dopo le settimane che ha passato ad osservarlo, a seguirlo ovunque, a seguire perfino i suoi ordini fingendo che si trattasse di consigli per mandarli giù con meno difficoltà, c’è ancora qualcosa che vuole chiedere a Bushido, una domanda senza voce della cui risposta sente di avere bisogno più di qualsiasi altra cosa Bushido gli abbia mai detto, o dimostrato, o fatto capire a parole.
È un’azione che gli serve. Gli occhi che sfuggono o che restano incollati. Le mani che si avvicinano o si nascondono. I tocchi che si fanno curiosi o si ritraggono. Di questo ha bisogno. E dopo sarà facile, sì, sarà molto più facile capire il perché di molte cose. Perfino capire di più Bushido stesso.
La prigione è naturalmente avvolta nel buio più totale. Bill è rimasto sveglio tutto il tempo, per controllare gli agenti di custodia. L’ultimo è passato con la torcia una ventina di minuti fa, ed era il quarto. Ciò vuol dire che sono ormai quasi le cinque del mattino, fra un paio d’ore le celle verranno aperte e le luci riaccese, e nel frattempo nessun altro secondino dovrebbe passare a spiarli.
Bushido sembra dormire serenamente, il viso rivolto verso il muro. Le sue spalle si sollevano e si riabbassano lentamente, seguendo il ritmo placido del suo respiro, e Bill ne segue la linea con attenzione, rendendosi conto per la prima volta in quel momento di quanto in realtà sia quelle che tutto il resto del corpo di Bushido sia sottile. È strabiliante che, pur magro com’è, riesca a farsi rispettare da tutta quella gente. Se non lo conoscesse almeno un po’, se non sapesse che non è certo a causa della forza fisica di Bushido che tutti chinano il capo ad ogni suo ordine, non riuscirebbe neanche a crederci.
Gli viene perfino da sorridere, nel pensarlo, ma quando si accorge della piega che hanno preso le sue labbra – e i suoi pensieri – si affretta a scuotere il capo, liberandosi di quel fardello di melensaggini gratuite. Non è un ragazzino, non è stupido, e soprattutto di Bushido non gliene frega niente. Non in questo senso, almeno, e decisamente non prima di averlo sottoposto a quest’ultimo test.
Pianta le mani sul materasso e si issa senza difficoltà sul letto di Bushido, sedendosi sulla sponda per poi distendersi un attimo dopo, raggomitolandosi contro la schiena dell’uomo e strusciando il viso in mezzo alle sue scapole come un gattino in cerca di coccole, lasciandosi perfino sfuggire un mugolio minuscolo, giusto per attirare la sua attenzione e dargli una mano a svegliarsi, nel caso la sua improvvisa presenza da sola non sia riuscita nell’intento.
Bushido si sveglia – Bill lo sente nel ritmo del suo respiro, che cambia all’istante – ma non si agita. Sembra quasi che se l’aspettasse, anche se, in realtà, con Bushido non si può mai dire. Non ha quasi mai reazioni talmente improvvise o violente da far supporre che non immaginasse già che qualcosa dovesse prima o poi avvenire.
- Che cazzo stai facendo, ragazzino? – domanda, e infatti la sua voce è perfettamente tranquilla, perfino rilassata. Anche troppo.
Bill, comunque, sorride, allungando una mano a scivolare lungo il suo fianco, e poi avvolgendogli un braccio attorno alla vita.
- Non riuscivo a dormire, - risponde a bassa voce, lasciandogli baci lievissimi lungo la spina dorsale attraverso il tessuto di cotone sottile della canottiera che l’uomo indossa, - e perciò ho pensato di venire a farti una visitina. Magari potevi darmi una mano, - suggerisce, - o magari… - aggiunge con un altro sorrisino, la mano che scivola giù fra le gambe di Bushido, - potevo darla io a te.
Bushido non fa niente per fermarlo, e Bill non si accorge neanche di quanto questo dovrebbe deluderlo. Si è messo in questa situazione proprio perché voleva provare qualcosa a Bushido e a se stesso, d’altronde, perché voleva dimostrare che anche lui non è poi diverso da tutti gli altri uomini di quella prigione, perfino da tutti gli uomini che si sono avvicendati dentro e contro di lui per strada, e non stanno forse i fatti dimostrando che ha ragione? E non dovrebbe forse questo rattristarlo, o deluderlo, o perfino farlo arrabbiare, invece di costringerlo a sorridere stupidamente solo perché quest’uomo lo sta sostanzialmente lasciando fare?
Bushido lascia che la sua mano scivoli oltre l’elastico dei suoi pantaloni e lo stuzzichi lievemente attraverso i boxer. Si volta verso di lui, però, quando le dita di Bill superano anche quell’ultima barriera di tessuto, sfiorandolo leggermente. Non gli lascia il tempo di stringerlo, e nemmeno di accorgersi che i suoi tocchi non hanno davvero avuto su di lui l’effetto che Bill immagina abbiano avuto.
Bill allarga le braccia, accogliendolo contro il suo corpo, e non si accorge nemmeno che qualcosa non va, che Bushido non sta rispondendo come lui pensava che avrebbe risposto, come avrebbe dovuto rispondere.
Non se ne accorge finché non gli preme sulle labbra un bacio umido e gonfio di desiderio che non pensava nemmeno di stare provando. E sente quelle stesse labbra chiuse, e piegate in un sorriso sarcastico.
- Sul serio, ragazzino? – domanda Bushido, e Bill può sentire il trillo di una risata fra l’incredulo e l’ironico nella sua voce resa un po’ roca dalle ore di sonno, - Ci hai appena provato sul serio?
Bill ringhia, ritraendosi come si fosse scottato. Si stringe nelle spalle, aggrottando le sopracciglia e squadrando con fastidio l’espressione divertita di Bushido.
- Sei uno stronzo. – grugnisce, quasi tremando dalla rabbia e dalla vergogna. Bushido, per tutta risposta, ride.
- Ma davvero? – domanda, scuotendo il capo, - Forse, - ammette quindi, - ma tu sei ridicolo. Sentiamo, cos’è che pensavi, esattamente? – ridacchia ancora, - Che in fondo in fondo tutto quello che ho fatto l’ho fatto per il tuo bel culetto? O per la tua bella boccuccia? E sentiamo, - aggiunge in un’altra risata, sempre più divertita, - pensi davvero che, se fosse stato questo quello che volevo, non me lo sarei già preso? Con le buone o con le cattive?
Bill distoglie lo sguardo, stringendo i pugni.
- Chi se ne frega. – sbotta astioso, - Era solo una prova, comunque. Per cui, bravo, Bushido. L’hai superata. Non te ne frega un cazzo del mio corpo e non mi hai aiutato solo perché volevi scoparmi. Complimenti, sei il primo uomo onesto che incontro, peccato che tu sia in galera perché evidentemente la tua onestà è solo una stronzata di facciata. E vaffanculo. – cerca di concludere, voltandosi istantaneamente dall’altro lato per saltare giù dal letto, ma Bushido glielo impedisce, afferrandolo per un gomito e schiacciandoselo contro.
- Non puoi prendermi per il culo, ragazzino. – gli sussurra all’orecchio, - Una prova? Ma fammi il piacere. Questa non era una prova.
- Non so di cosa cazzo stai parlando. – soffia Bill, cercando di sfuggirgli, - Lasciami andare.
- Non prima di aver chiarito il punto. – insiste Bushido, stringendolo più forte. Bill si impedisce di gemere di dolore solo perché non intende in alcun modo dargliela vinta, non più di quanto non se la sia già presa lui da sé.
- Che sarebbe? – ribatte con supponenza, voltandosi a guardarlo da sopra una spalla, per quanto può. Bushido sta ancora sorridendo.
- Sarebbe che non ci sono vie d’uscita facili, nella vita, ragazzino. Mai. – risponde, - Qui dentro, poi. E men che meno con me. A me dici la verità, Bill. Anche quella che non vuoi dire a te stesso.
- Ti ripeto che non so di cosa cazzo stai parlando! – ringhia ancora Bill, riprendendo a dimenarsi per costringere Bushido a mollare la presa e ottenendo in cambio soltanto le sue dita che affondano con forza ancora maggiore nell’interno del suo gomito.
- Lo so io, allora. – dice Bushido, e sta ancora finendo di parlare quando la sua mano si posa ruvida fra le sue cosce, premendo appena, giusto per mettere in evidenza l’erezione svettante che gonfia il tessuto morbido dei suoi pantaloni. Bill si lascia sfuggire un gemito frustrato senza riuscire ad impedirselo per tempo, e subito dopo arrossisce così violentemente da farsi venire un capogiro. – Non dirmi che era solo una prova. – prosegue l’uomo, lasciandolo andare per poi quasi spingerlo giù dal letto. Bill atterra sui piedi, si piega appena per il dolore alla schiena e poi si volta a guardarlo. Bushido lo sta fissando con estrema serietà. Non ha bisogno di aggiungere “perché sappiamo entrambi che non lo era”.
- …tu sei solo un bastardo. – gli sibila contro, allontanandosi quasi di un passo. Bushido agita una mano come a scacciare via quelle idiozie, voltandosi nuovamente verso la parete.
A Bill non resta molto altro da fare che rintanarsi un’altra volta sotto le coperte. Molto più scomodamente di prima.

*

Bill non gli rivolge più la parola. Dal giorno dopo in poi, anzi, agisce quasi come se Bushido non esistesse davvero. Segue i suoi ordini in cucina solo perché non vuole problemi, e perché sa che ignorarlo anche in quel senso non avrebbe altra conseguenza che indurre Bushido a parlargli di più, fosse anche solo per rimproverarlo. Bill, invece, non ha alcuna voglia né intenzione di sentire ancora la sua voce, ed è per questo che fa in modo di rigare dritto quando sa che deve farlo, mentre per tutto il resto del tempo si limita a starsene sulle sue, le braccia incrociate sul petto e il broncio di uno che sia convinto di essere stato offeso in modo così plateale, palese e gratuito da non poter pensare nemmeno lontanamente alla possibilità di un perdono.
Il primo giorno, Bushido si limita a registrare la cosa sotto la categoria “stronzate da ragazzino capriccioso e infantile”, e non se ne preoccupa. Gli passerà, si dice, e anche se non gli passa, chi se ne frega? Purché stia lontano dai guai.
Il secondo giorno, la cosa comincia onestamente ad infastidirlo. Bill non risponde neanche ai più banali buongiorno e buonanotte, lo fissa come fosse un criminale – cosa che è, ma un tale livello di disgusto per la questione non dovrebbe certo rispecchiarsi negli occhi di Bill, dal momento che lui faceva la puttana – ed è generalmente indisponente quando non direttamente insopportabile.
Bushido sente lo scatto della serratura alle sue spalle quando le guardie spengono le luci augurando a loro modo la buonanotte ai carcerati, e sospira profondamente, restando in piedi accanto al letto. Bill finge palesemente di dormire, quasi completamente nascosto sotto le coperte.
- Bill. – lo chiama a bassa voce, ma lui, naturalmente, non risponde. – Bill! – ripete dunque, e Bill sbuffa rumorosamente, scattando a sedere e voltandosi a guardarlo.
- Cosa cazzo vuoi?! – sibila, onestamente dispiaciuto dal non potere urlargli in faccia come vorrebbe.
Bushido recupera la sedia di plastica accanto al tavolo e la trascina vicino al letto, sedendosi ed appoggiando i gomiti sulle ginocchia, piegandosi appena per poter guardare Bill più da vicino.
- Parlare. – risponde. Bill soffia, distogliendo lo sguardo.
- Io no. – ribatte secco. Bushido sospira un’altra volta, scuotendo il capo.
- Bill, non so cosa cazzo ti sia successo nella testa, ma qualsiasi cosa sia è un gran casino e ti tocca ripulirla. – dice quindi, - Credimi, posso capire per quale motivo tu possa esserti—
- Ma stai zitto! – lo interrompe Bill, voltandosi nuovamente a guardarlo con aria perfino incredula, - Ma sei un coglione o cosa?! Punto primo, qualsiasi cosa tu pensi di aver capito di me è sbagliata, questo posso dirtelo con sicurezza. Punto secondo, ti ho già detto che non voglio parlare, e potresti quantomeno fare finta di voler rispettare questo mio desiderio. E punto terzo, - i suoi occhi diventano sottili come quelli di un gatto, e ugualmente gelidi e distanti, - puoi comandare dentro questa prigione, Bushido, puoi comandare le mie azioni mentre lavoro, puoi perfino dirmi di stare zitto o levarmi dalle palle se non mi vuoi intorno, ma non puoi, Bushido, non puoi controllare quello che c’è nella mia testa. Per cui, piantala di ordinarmi di ripulire cose di cui non sai un cazzo, e vattene a dormire. Questa conversazione è finita. – conclude, tornando a distendersi sotto le coperte, fino a nascondersi quasi completamente.
Bushido ringhia fra sé, infastidito e frustrato. Non c’è proprio modo, si dice, di far funzionare le cose con questo ragazzino. E non riesce a capire perché non riesca a stargli bene anche così. Non è un uomo stupido, è sempre stato in grado di riconoscere una causa persa, ogni volta che se n’è trovata una davanti, ed è sempre stato abbastanza furbo da capire quando gli conveniva insistere su qualcosa, per quanto senza speranza potesse apparire, e quando invece fosse molto più utile girare i tacchi e scappare a gambe levate. Bill, decisamente, è qualcosa dalla quale dovrebbe scappare, anche perché ormai all’udienza per la libertà vigilata manca davvero pochissimo, ed a tutto dovrebbe pensare meno che a sistemare i rapporti con un ragazzino che, nel giro di un paio di settimane, se tutto va come pensa, non rivedrà mai più, ma semplicemente non riesce. Forse per ostinazione, forse per chissà quale altro motivo.
Ne parla con Saad, all’alba del terzo giorno di musi lunghi e occhiate al vetriolo. Lui lo fissa con una certa pietà, sospira e gli chiede “stai scherzando?”, e Bushido non saprebbe spiegare esattamente il perché di una reazione simile, perciò aggrotta le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto.
- Che cosa intendi dire? – borbotta contrariato, e Saad scuote il capo.
- Intendo dire che chi se ne frega, Bushido! – sbotta, - E in ogni caso, devi essere cieco, per non accorgertene. Ma poi fai sempre così, attorto a te succedono le cose più disparate, ma tu figurati se le noti. Ti ho detto mesi fa che credevo che Sido avesse in mente qualche stronzata delle tue, ma tu non mi hai creduto finché non hai visto coi tuoi occhi di che cosa stavo parlando! E anche stavolta è uguale, cose assolutamente palesi succedono tutte intorno a te e tu niente. È surreale come tu possa essere ancora vivo e soprattutto a capo di una qualsiasi banda.
- Saad, - grugnisce lui, - stai andando in cerca di rissa o cosa?
L’uomo si lascia sfuggire un mugolio esasperato, passandosi una mano sul volto.
- No, dico, - comincia, - esattamente, cos’è che ti aspettavi? Che non ti si appiccicasse al culo come una cozza? Quello come minimo il gesto più gentile che si è mai visto rivolgere è stata una bastonata sul naso. E tu gli hai salvato la vita qualcosa come duecento volte! Le sappiamo ancora fare le addizioni o no?
Bushido lo guarda, gli occhi bene aperti, le labbra appena dischiuse.
- …tu credi, mh? – riflette, abbassando lo sguardo, pensieroso.
- Io credo? Quanto te n’è mai fregato di quello che credeva chiunque che non fosse te stesso? – sospira Saad, lanciando uno sguardo supplice al cielo. – Quello che so, Bushido, è che qualunque sia il problema lo devi risolvere, ma non nella testa del ragazzino, nella tua. – precisa, puntandogli un indice contro, - Perché tu fra due settimane sei fuori di qui e noi che restiamo indietro, per non parlare dei fratelli che aspettano fuori, abbiamo tutti bisogno di una guida. E tu la testa devi averla dov’è giusto che sia. Sono stato chiaro?
Bushido gli lancia un’occhiata vagamente indisposta, sbuffando piano.
- Mi sto rompendo il cazzo di tutto questo rimproverarmi a caso. – sbotta, - Piantiamola.
- Chi è che ti ha rimproverato, oltre me? – domanda Saad, inarcando un sopracciglio.
“Bill,” sta per rispondere Bushido, ma si ferma per tempo. Saad, però, il suo mestiere lo sa fare bene, e lo capisce comunque. Fortunatamente, si limita a un mezzo sorriso ironico, e non commenta.
Quando arriva di fronte alla porta del bagno, dopo essersi preso almeno un paio d’ore per starsi un po’ a sentire e chiedersi se davvero intende esporsi in questo modo, ci trova davanti Chakuza, appoggiato alla parete, che fa la guardia, come pensava. Bill è incredibilmente abitudinario, un po’ perché l’abitudine è una sicurezza per chiunque, un po’ perché essere sorvegliato a vista ventiquattro ore su ventiquattro ti forza a fare più o meno sempre le stesse cose, più o meno sempre nello stesso modo, più o meno sempre allo stesso orario.
Chakuza spalanca gli occhi nell’accorgersi di lui, perché anche Bushido è un tipo abitudinario, ma contrariamente a Bill non lo si è mai visto fare una doccia a quest’ora del pomeriggio.
- Ohi. – lo saluta, sfilandosi il berretto per grattarsi confusamente la testa, - Com’è?
Bushido scrolla le spalle.
- È dentro, vero? – domanda, e Chakuza annuisce. – Fai in modo che non ci disturbi nessuno. – si raccomanda quindi, passandogli oltre con un asciugamano appoggiato sulla spalla. Chakuza lo osserva passare, incredulo, e quando Bushido si ferma, poco prima di oltrepassare il muricciolo che protegge le docce da sguardi indiscreti, quasi si paralizza sul posto. – Hai parlato con Fler, ultimamente? – domanda.
Chakuza abbassa istantaneamente lo sguardo.
- No. – risponde.
- Bene. – annuisce Bushido, cercando di ignorare la fastidiosa puntura di senso di colpa che percepisce da qualche parte fra lo stomaco e il cuore. Fosse anche solo per quello che ha fatto alla sua banda in generale e al suo rapporto con una delle persone che avesse di più care nel mondo nel particolare, non dovrebbe volere avere più niente a che fare con questo ragazzino. E invece dà le spalle a Chakuza, supera il muretto e si spoglia, entrando nella doccia accanto a quella che Bill sta usando ed aprendo l’acqua, armeggiando coi rubinetti per ottenere la temperatura che desidera prima di cominciare ad insaponarsi pigramente.
Per molti minuti non si sente altro che lo scosciare dell’acqua, e Bill riesce perfino ad illudersi che Bushido lo lascerà in pace, che magari sia entrato solo perché voleva farsi una doccia, non perché cercasse una scusa per parlargli. Ed invece, naturalmente, è così.
- Mi dispiace per quello che è successo. – dice. Bill si volta a guardarlo così di scatto che urta il sapone appoggiato sul muretto basso dietro di lui. Naturalmente, non si china a raccoglierlo.
- Cosa? – domanda, quasi senza fiato. Bushido si lascia sfuggire un sorriso vagamente intenerito, di fronte a tutta quella sorpresa.
- Cos’è, credevi che non fossi in grado di chiedere scusa a qualcuno quando mi rendo conto di essere nel torto? – lo prende in giro, inarcando un sopracciglio. Bill fa la stessa cosa, tornando a rilassarsi e sciacquarsi i capelli sotto la doccia.
- No, credevo proprio che non fossi in grado di renderti conto di quando avevi torto o meno. – risponde sarcastico, guardando altrove. Bushido ridacchia, scuotendo il capo.
- Sorpresa, dunque. – scrolla le spalle, e poi sospira. – Ascolta.
- Ho qualche speranza di risparmiarmi questa cosa? – chiede immediatamente Bill, lasciandosi sfuggire un mugolio già stanco, appoggiandosi alla parete.
- No. – ridacchia ancora Bushido, - Ora smettila di fare il bambino e stammi a sentire, prima che mi passi la voglia e ti mandi pesantemente a fanculo.
- Okay, okay… - sospira lui, stringendosi nelle spalle. – Parla.
Bushido finisce di sciacquarsi prendendosi tutto il tempo necessario per farlo, e solo dopo chiude i rubinetti e si volta verso Bill, appoggiandosi al muricciolo che separa le due cabine della doccia.
- Ragazzino, - sospira, concedendosi un breve sorriso rassicurante, - io ho trent’anni. – Bill inarca un sopracciglio, ed è lì lì per chiedergli “e allora?”, quando Bushido prosegue. – Io ho trent’anni, - ripete, - e tu sei un ragazzino convinto di avere visto tante cose, nella vita, ma la verità è che hai visto sempre le stesse, ripetute tante volte da sembrare tantissime, sì, ma sempre le stesse. Sei confuso, - dice, ignorando lo sguardo deluso e un po’ ferito di Bill che vaga altrove, sulle piastrelle bagnate lungo le quali scorre l’acqua che ancora gli piove addosso dalla doccia, - non hai idea di quello che vuoi, e qualsiasi cosa sia, io non potrei dartela, Bill. Ho l’udienza per la libertà vigilata fra due settimane, sarò fuori di qui prima che tu possa anche solo rendertene conto, e non posso… - si interrompe per un paio di secondi, osservando Bill stringersi nelle spalle così tanto da apparire improvvisamente minuscolo, molto più piccolo di quanto già usualmente non sia. – Non posso mettermi a giocare con te, non è così che mi comporto. Quello che volevi stanotte, io non posso dartelo. Non per poi uscire e lasciarti qui da solo. Capisci cosa intendo?
Bill mantiene lo sguardo basso, i capelli scuri fradici che scivolano a coprirgli il volto quasi nella sua interezza. Bushido non riesce a scorgere la sua espressione, ma la voce con cui parla, pochi secondi dopo, è sufficiente a dargliene un’idea più che precisa.
- Scopare o meno, a questo punto, non conta più un cazzo. – risponde, chiudendo di scatto il rubinetto ed afferrando l’asciugamano alle sue spalle, - Il danno ormai l’hai fatto comunque.
È sparito il secondo dopo, correndo sul pavimento bagnato, coperto a malapena dall’asciugamano avvolto attorno al corpo magro. Bushido lo osserva andare via sentendosi inspiegabilmente colpevole e stupido. Specie visto che tutto quello che riesce a pensare è che spera che, correndo a quel modo, non scivoli e non si faccia male da qualche parte.

*

Sido ci mette altri quattro giorni ad uscire dalla buca, e Bushido sa che non è certo per ciò che ha fatto che è stato rinchiuso là dentro così a lungo, quanto più per ciò che non ha detto. Se pensa a Jost e a quanti esaurimenti nervosi deve avere affrontato nel corso delle ultime settimane perché, ogni volta che scendeva in buca a chiedere a Sido una confessione, quello rispondeva sempre con un’alzata di spalle, gli viene da sorridere, e quasi la parte più cattiva di lui vorrebbe tirare a Sido una bella pacca sulla spalla e tornare amici come prima, anche se, applicata a loro, l’espressione perde di senso, dal momento che né quando stavano entrambi fuori, né da quando stanno entrambi dentro, si sono mai potuti chiamare amici.
In ogni caso, si tratta solo di una piccola parte di lui a desiderarlo, forse anche per quieto vivere, ma fortunatamente quella non è una voce alla quale Bushido si senta particolarmente incline a rispondere. Non adesso, forse mai.
Vederselo apparire di fronte in magazzino mentre fa la cernita della roba da mangiare e cerca di capire dove siano finiti i dieci barattoli di fagioli che mancano all’appello non lo aiuta ad essere condiscendente nei suoi confronti.
- Sido. – lo saluta con l’aria di uno che preferirebbe di gran lunga prenderlo a calci nelle palle, piuttosto che doverlo salutare, ma che comunque si piega a farlo per buona educazione, - Vedo che non sei neanche passato dal bagno, prima di venire a trovarmi. – osserva, accennando col capo alla barba che gli ricopre le guance e il mento, - Potevi quantomeno raderti, prima.
- Avevo fretta di venire a salutarti. – risponde Sido con un sorriso, gli occhi che lo scrutano febbrilmente, con tanto palese astio da poter fare quasi paura, se non fosse che Bushido sa di essere perfettamente in grado di gestire quest’uomo anche al suo peggio. – E poi, sai, dopo che passi in buca tanti di quei giorni da perderne il conto, l’ultima cosa che vuoi è tornare in cella. Preferisci gli ampi spazi, non so se rendo. La mensa è uno spazio molto ampio, e guarda caso volevo scambiare due parole con te, per cui ho pensato di prendere due piccioni con una fava. Ed eccomi qua.
- Bene. – risponde immediatamente lui, dando chiaramente segno di averlo a malapena ascoltato, - Ora che tutta questa montagna di cose di cui non m’interessa niente è finalmente uscita dalla tua bocca, e tu ti sei liberato di questo peso, che ne dici di tornartene in un luogo in cui puoi effettivamente stare e lasciarmi in pace, di modo che possa finire di lavorare?
Sido ghigna divertito, quasi compiaciuto dalla sua durezza.
- Non ti ruberò molto tempo. – lo rassicura, spostando il peso del corpo da un piede all’altro e muovendo qualche passo all’interno dell’ampio magazzino sul retro della mensa, sfiorando i vari barattoli e le varie lattine riposte sugli scaffali più per darsi un tono che perché gli interessi davvero cosa si trova lì. – Volevo solo ringraziarti per lo scherzetto che mi hai tirato. Mi ha fatto capire molte cose. È stato un bell’insegnamento.
- Ne sono lieto. – risponde Bushido con un sorriso smagliante, segnando sul bloc notes che porta con sé che all’appello mancano anche due interi sacchi di patate. Sarà esilarante andare da Jost a fare l’elenco degli assenti e poi osservarlo sclerare come un invasato per l’ennesimo furto di vettovaglie destinato a restare senza un colpevole. – Spero che non ti verrà più in mente di organizzare qualche altra stronzata delle tue. Hai visto che posso fermarti quando voglio, come voglio, e anche facendola franca. Cosa che di certo non rientra invece nelle tue competenze.
Il sorriso di Sido si allarga, mentre lui annuisce con sussiego.
- Hai ragione. – ammette, - Infatti, sai qual è la cosa più importante che questo sfortunato episodio mi ha fatto capire? – chiede retorico, appendendo entrambe le mani ai fianchi. Bushido si volta a guardarlo, aggrottando le sopracciglia, e Sido sorride ancora. – Mi ha fatto capire che tu la fai sempre franca, - prosegue, - e che questo gioca a mio favore. Sai perché, Bushido? Perché tu uscirai da questo posto. Presto, molto presto, il tuo culo nero sarà fuori da questa prigione, e per quanto solo Dio sappia quanto mi faccia incazzare la sola idea di te in libertà mentre io resto qui a marcire, non averti più fra le palle potrà portare solo benefici a me, ed a tutto quello che intendo fare una volta che a governare qui dentro sarò rimasto solo io.
Il tono di Sido si è fatto via via più serio man mano che il suo monologo proseguiva, ed in accordo con le parole che sentiva anche l’espressione di Bushido si è rabbuiata ed irrigidita sempre più. Le sue labbra sono ridotte ad una linea sottilissima, e i suoi occhi non sono che due macchie scurissime all’interno delle quali si agitano rabbia, irritazione e fastidio, e vedere il sorriso di Sido farsi sempre più ilare e compiaciuto con ogni secondo che passa non riesce a fare altro che indisporlo ancora di più.
- Sido, attento a te. – lo minaccia in un ringhio di gola, - Se ti azzardi a combinare qualcosa—
- Oh, ma non devi preoccuparti. – lo interrompe lui con una risata frivola, agitando una mano a mezz’aria come a scacciare via anche solo l’idea di poter complottare qualcosa mentre lui è ancora dentro, - Le settimane che ho passato in buca mi hanno insegnato il valore della pazienza. Saprò attendere, - precisa con un altro sorriso, più pericoloso degli altri, - e quando sarai fuori, Bushido, niente potrà più fermarmi. E quel tuo ragazzino, visto che ci tieni tanto, sarà il primo a pagarne le conseguenze.
Bushido si ferma, il sangue di ghiaccio nelle vene.
- Non ti permettere. – sibila. Sido sorride ancora.
- Ti lascio al tuo lavoro, Bushido. – conclude con un breve cenno del capo, prima di voltargli le spalle con la sicurezza di chi sa di non rischiare niente. – Buona giornata.

*

Bushido ha passato così tanto tempo in attesa di questa udienza che quando arriva, nemmeno riesce a crederci. E' come aver aspettato per anni qualcosa che, in fondo in fondo, non credeva si sarebbe mai davvero realizzata – anche se faceva di tutto per convincersi del contrario – e vedersela poi succedere davanti agli occhi di punto in bianco.
Tutto ciò che ha fatto in questi ultimi anni, e soprattutto in questi ultimi mesi, è stato in funzione del momento in cui si recherà in quell'aula di tribunale e ascolterà la volontà del giudice, ma è sempre stato un evento ancora lontano, vago, del tutto irreale, esattamente come la fine della condanna per qualunque carcerato che non abbia preso l'ergastolo. Tutti sanno che prima o poi usciranno; ma quel poi appare sempre un giorno troppo lontano per vederne l'alba.
Per questo Bushido è nervoso mentre si sistema la cravatta di fronte allo specchio nella sua cella; la tensione non lo ha fatto dormire e, nonostante la voglia che ha di lasciare questo buco di merda, era quasi meglio l'attesa infinita di un giorno ancora da definire che non quella ben calcolata delle ore e dei minuti precisi che lo separano da quell'aula di tribunale.
Bill è seduto sul suo letto, ma si finge estremamente interessato al libro che ha per le mani. Non gli parla da giorni – cioè dalla storia delle docce – ma Bushido al momento non ha il cervello abbastanza sgombro per potergli prestare attenzione. Non appena questa faccenda sarà sistemata, quando tornerà a prendere le sue cose prima di andarsene, gli parlerà di nuovo e cercherà di farsi odiare un po' di meno; anche perché di più gli sembra impossibile, a giudicare dal foro che Bill gli sta facendo dietro la testa quando lo guarda mentre crede di non essere visto.
Non riesce a tenere le mani lontane dalla cravatta, forse perché si sente strangolare e, per quanto la sposti e la muova e la snodi per riannodarla subito dopo, quella sembra sempre storta. Mentre se la fa passare di nuovo intorno al collo, ripassa mentalmente il percorso che dovrà fare. Jost è venuto personalmente ad informarlo in cella ieri sera. Ha detto che lo accompagnerà all'udienza e Bushido è contento di questo. Sa che ci saranno un sacco di stronzi in quell'aula e vuole averne almeno uno dalla sua parte.
La cella si fa improvvisamente più buia quando la figura massiccia di Fler si ferma sulla porta, occupandone praticamente tutta la superficie.
Bushido si volta e lo osserva, senza lasciar trasparire nessuna emozione. “Che cosa vuoi?” Chiede.
Bill solleva lo sguardo dal libro e li scruta entrambi con attenzione, facendosi istintivamente più piccolo nel tentativo di rendersi invisibile; d'altronde lo sa che la tensione che adesso rende elettrica l'aria l'ha generata lui e vorrebbe poter scomparire perché si sente pesare addosso la responsabilità.
“Devo parlarti,” mormora Fler, che sostiene il suo sguardo ma senza sfidarlo. La sua è un'occhiata coraggiosa ma piena di umiltà. Bill trova incredibile come sia chiaro e lampante che si sta scusando anche senza dire nemmeno una parola.
Bushido gli fa un cenno col mento.
Fler scuote la testa. “In privato,” precisa, indicando Bill con un movimento degli occhi che vorrebbe essere impercettibile ma non sfugge al ragazzino, il quale apre subito la bocca per parlare e viene puntualmente interrotto da Bushido che lo aveva già previsto.
“Bill, lasciaci da soli qualche minuto, per favore.”
“Questa è anche la mia cella,” gli fa notare lui.
Bushido nemmeno lo guarda. “Sono sicuro che puoi continuare a fare finta di leggere anche nel corridoio.”
Oltraggiato, Bill rimane letteralmente a bocca aperta per qualche secondo, forse in attesa di ipotetiche scuse che per nessun motivo potrebbero mai uscire dalla bocca del tunisino e, quando finalmente si rende conto che quei due – che stanno immobili a fissarsi – aspettano solo che lui se ne vada, sbuffa violentemente, afferra in malo modo il suo libro e quindi si piazza di fronte a Fler con aria imbronciata finché quello non si sposta e lo lascia passare.
Bushido lo osserva finché non lo vede sedersi per terra a gambe incrociate più avanti, nel corridoio, prima di invitare Fler all'interno. “Non ho molto tempo, quindi vediamo di farla breve,” commenta. “Tu non dovresti nemmeno essere qui.”
“Lo so, ma è una cosa importante e pensavo volessi saperla.”
Bushido allarga le braccia, invitandolo a proseguire.
Fler si guarda intorno, ma nelle vicinanze non c'è nessuno perché, quando alla mattina le porte si aprono, nessuno vuole rimanere in cella, così durante il giorno quasi tutti i carcerati sono in sala comune o in palestra e questo lascia a loro un po' di privacy. “Corre voce che Sido abbia in mente qualcosa per quando sarai all'udienza.”
“Sido si è premurato di venirmelo a dire di persona,” gli fa presente Bushido. “Ma stava solo facendo promesse che non può mantenere, come al solito, visto che non può fare nient'altro.”
Fler scuote la testa. “Stavolta no. Girano soldi. Qualcuno è stato pagato.”
Bushido torna subito serio e lo guarda, corrugando la fronte preoccupato. “Chi?”
“Non lo so, sto ancora cercando di scoprirlo,” risponde Fler. “La cosa certa è che si tratta di una cazzo di cifra enorme. Potrebbe essere per una persona sola, molto probabilmente per un gruppo, in ogni caso Sido si sta organizzando per quando sarai uscito di qui.”
Bushido rimane impassibile e solo la tensione dei suoi lineamenti lascia trasparire la rabbia che gli si agita nello stomaco. Le minacce a vuoto di Sido non le preoccupavano, ma i soldi sono tutt'altra storia. Da qualche parte, in quella prigione, c'è un uomo o un gruppo di uomini che hanno ricevuto del denaro e che devono tenere fede a quel pagamento. C'è un intero ingranaggio che si è messo in moto e va fermato.
Bushido si riscuote quando vede David, vestito di tutto punto imboccare il corridoio che porta alla cella. Il direttore si ferma a chiedere a Bill che diavolo ci fa buttato per terra come un barbone e il ragazzino risponde qualcosa di infastidito, agitando le mani. “Dovete scoprire di chi si tratta,” dice Bushido. “Uno, due, dieci uomini, non m'interessa. Trovateli e teneteli d'occhio, dovete essere pronti se e quando attaccheranno.”
Fler gli lancia un'occhiata a metà tra l'incredulità e la sorpresa e Bushido gli sorride quasi con tenerezza, anche se sul suo volto c'è anche quell'espressione preoccupata. “Di' pure ai ragazzi che ti mando io e se qualcuno ha da ridire, ci penserò appena torno dall'udienza,” commenta, abbracciandolo stretto e dandogli due pacche di bentornato sulle spalle.
“Non ti preoccupare, Losensky. Te lo porto via solo per qualche ora,” esclama la voce divertita di Jost, costringendoli a separarsi. “Cos'è, non vi parlate per settimane e ora fate la tragedia greca?”
“La nostalgia è una brutta bestia,” Bushido ride, dissolvendo l'aria cupa nella cella e Fler gli regge il gioco, scoppiando in una risata piena e cristallina che lascia basito soprattutto Bill, che è rientrato approfittando della presenza di Jost e si è rintanato di nuovo nel suo letto.
“Ragazzino, fai il bravo,” lo apostrofa Bushido. Bill vorrebbe replicare qualcosa di acido ma quello che legge negli occhi di Bushido lo fa rabbrividire. Si scolla dal letto per seguirlo fino all'entrata della cella, dove Jost gli sta facendo mettere le manette per portarlo via e lo fissa sperando che dica qualcosa di più, che lo rassicuri su ciò che gli è sembrato di scorgere in quell'occhiata, ma Bushido sta zitto.
Quando Jost gli chiede se è pronto, annuisce e basta.
Poi si incammina senza voltarsi più.

*

L'aula per le udienze si trova all'interno della prigione e, nonostante il nome, è appena poco più grande di uno stanzino. Quasi accostato alla parete più lontana dalla porta c'è un lungo tavolo di metallo che ospita le persone incaricate di sfogliare la sua documentazione e giudicare se sia pronto o meno ad uscire da quel carcere. David ha una sedia proprio accanto alla sua e a quella del suo avvocato. Nella stanza c'è un tale silenzio che anche il minimo spostamento produce un suono violento che rimbomba fino al soffitto e sbatte contro le tre piccole finestre rettangolari, di quelle che si aprono grazie ad un lungo bastone che arriva fino a terra. L'aria è fredda e pesante e gli occhi del giudice sono disinteressati, lontani, vedono già il campo da golf sul quale si recherà dopo aver deciso dei prossimi vent'anni della sua vita.
O almeno questo è quello che Bushido si immagina sarebbe successo se l'udienza avesse effettivamente avuto luogo, ma lui nell'aula nemmeno ci entra.
David lo accompagna fino alla porta e poi lo lascia seduto su una panca, appena fuori dall'aula, gli dice di aspettare e lo affida ad una guardia con le mani incrociate dietro la schiena, che non avrà più di vent'anni e da lì ad un paio d'ore sarà distesa per terra col naso rotto.
Il tempo scorre lento, soprattutto perché Bushido non stacca gli occhi dal quadrante dell'orologio; le lancette fanno fatica a muoversi, ogni scatto è faticoso. I secondi passano come minuti, i minuti come ore e, se qualche ora è passata, Bushido potrebbe giurare che sia stata una vita intera.
Quando Fler si presenta all'improvviso è sconvolto e ha il fiatone. Bushido si alza in piedi, risvegliando la guardia dal proprio torpore ma ne ignora i richiami mentre cerca sul viso di Fler una spiegazione alla sua presenza e all'agitazione che gli fa tremare le mani, nel caso non faccia in tempo a dargliela a voce.
Fler però sa come vanno queste cose, così gli frana addosso e gli artiglia la bella camicia elegante per rimanergli attaccato e darsi il tempo di sussurrargli all'orecchio che li hanno trovati e che la morte che aspetta il ragazzino non è né pietosa né veloce.
La guardia riesce ad agganciare Fler sotto le braccia e a strapparlo via da Bushido che per un istante resta immobile a fissare il vuoto, mentre le parole dell'amico si ripetono all'infinito nella sua testa.
Fler lo guarda mentre la guardia lo tiene fermo e inchiodato al muro, urlando ai suoi compagni di venire a dargli una mano.
L'aula per le udienze è a pochi passi da lì e Jost è lì dentro ormai da così tanto tempo che non può mancare molto al momento in cui lo chiamerà. Potrebbe davvero uscire di lì e – se è abbastanza furbo – non tornarci mai più, prendere sua madre e sparire per sempre.
Invece solleva i polsi ammanettati, chiude le mani a pugno e colpisce la guardia sulla nuca. Quella barcolla un attimo, si gira farfugliando impaurito nella radio e cercando a tentoni il manganello che gli pende dalla cintura. Bushido lo colpisce ancora e ancora, finché non cade a terra.
Fa un cenno a Fler che si dilegua prima che possano fermarlo e va ad avvertire la prigione che Bushido non se ne va. Quando Jost accorre al trambusto, Bushido è chino sul ragazzo a cui ha spaccato il naso, ma non resta fermo. Si avventa anche sulle guardie che sono appena arrivate in soccorso della prima, comincia a tirare pugni alla cieca finché in tre non lo bloccano e una manganellata sui denti non riduce al silenzio il suo ringhio furioso.
“Portatelo in buca,” ordina Jost alla fine, perché non può fare proprio nient'altro.
Quando i loro sguardi s'incontrano, sono in due a chiedersi se ne sia valsa la pena.

*

La notte passa lenta, esasperante. Seduto in un angolo, la schiena nuda contro la parete e l’umidità pesante dei sotterranei ad appesantirgli il respiro, Bushido guarda il soffitto, lo guarda ossessivamente, per ore, e cerca nelle variopinte chiazze di muffa che lo ricoprono un senso a quello che ha fatto, all’opportunità che ha mandato a puttane. Non sa se gli ricapiterà ancora di poter fronteggiare la reale occasione di uscire da quel buco di merda, ma il punto non è nemmeno più tanto quello. È diverso, ed è molto più spaventoso, e somiglia in maniera inquietante ad una domanda che Bushido non ha quasi nemmeno il coraggio di porsi. Ma è lì, riecheggia nel retro della sua mente, minacciosa e sospesa, come un fantasma, e per questo molto più difficile da ignorare di un qualsiasi altro fugace pensiero.
Se anche dovesse ripresentarsi l’occasione di uscire, fra sei mesi o un anno o due, uscirei? Oppure basterebbe sapere Bill in pericolo per rinunciare alla possibilità volta dopo volta dopo volta?
Jost arriva presto, l’indomani mattina. Bushido non sa se sia perché aveva fretta di chiudere la questione – forse l’agente s’è fatto più male di quanto Bushido non avesse previsto, forse ci sono state delle complicazioni, forse forse forse, non è che gli interessi più di tanto, in ogni caso, ed è agghiacciante pensarlo perché, quando ancora sperava di poter rivedere la luce del sole da uomo libero o quasi tale, di questi dettagli gli interessava sempre moltissimo, mentre adesso non sono che nebbia, confusi sullo sfondo, particolari insignificanti – o semplicemente perché vuole vederci più chiaro in prima persona, ma non perde tempo ad entrare e fare cenno all’agente di restare fuori dalla porta blindata.
- Che cazzo hai fatto e perché. – dice, restando in piedi accanto a lui. Non è nemmeno una domanda.
Bushido non ha motivo di nascondere niente.
- Sido ha minacciato l’incolumità di Bill. – risponde guardando fisso davanti a sé, - Se fossi uscito, avrei perso il controllo di tutto, qua dentro, e lui sarebbe finito male. – trattiene per un attimo il fiato, realizzando che tutte le risposte alle domande che si è posto sono racchiuse nella manciata di parole che sta per pronunciare. – Non potevo permetterlo.
Jost ci mette un po’ a capire cosa ciò che Bushido ha appena detto significhi, ma poi annuisce.
- Doveva essere il tuo lasciapassare per uscire, - commenta con un mezzo ghigno disilluso, - non il motivo per cui non avresti più voluto farlo.
Bushido scrolla le spalle, alzandosi in piedi. Si volta a guardarlo, e il direttore gli porge i suoi abiti.
- Cosa vuoi che ti dica, Jost? – scrolla le spalle, cominciando a rivestirsi, - Quel che è fatto è fatto. Ora voglio solo tornarmene in cella e smettere di pensare a quello che… - sospira, distogliendo lo sguardo. È la prima volta che David glielo vede fare. – A tutto. – conclude con un’altra scrollata di spalle, indossando anche la maglietta e poi tornando a guardarlo. – Posso andare?
Jost sospira, ma annuisce e si volta verso la porta, facendo segno alla guardia di aprire tramite il vetro che rende possibile spiare all’interno della cella.
Due agenti di custodia lo scortano fino al cancello d’ingresso del braccio A, e lì lo lasciano senza una parola. Lo guardano con odio per tutto il tempo – Bushido le conosce, le guardie carcerarie, sa che gli porteranno rancore per sempre per avere osato spaccare il naso ad un loro compagno, ma sa anche di essere abbastanza fortunato da non essere un bersaglio semplice per nessuna delle loro vendette; Bill, a suo tempo, non è stato altrettanto fortunato, e forse anche questo ha inciso sulla sua ultima decisione – ma si limitano a questo, allontanandosi in una sinfonia di borbottii sussurrati a mezza voce e niente più.
Bushido si avvicina alla propria cella, naturalmente già aperta, visto l’orario, e non ha bisogno di guardarsi troppo a lungo intorno per accorgersi di Bill, anche perché lui, quando lo vede arrivare, da seduto sul letto com’era scatta in piedi, le braccia rigide lungo i fianchi, le gambe dritte come fusi, la schiena quasi bloccata dalla tensione, così come i lineamenti del volto pietrificati in un’espressione ansiosa e perfino un po’ impaurita.
- Chakuza mi ha detto… - comincia incerto, - mi ha spiegato. Tutta la situazione. Quello che… - esita appena, mordendosi il labbro inferiore, gli occhi che vagano svelti intorno alla figura di Bushido come non riuscisse a inquadrarla correttamente, o come se si sentisse troppo in imbarazzo per farlo, - Quello che sarebbe potuto succedere. E il fatto che hai deciso di rimanere.
Bushido annuisce, distogliendo a propria volta lo sguardo. Si sente stupido, ma si sente perfino più stupido quando capisce che in realtà si sente così solo perché anche lui è in imbarazzo, proprio come il ragazzino che ha di fronte. Solo che il ragazzino è un ragazzino. È giustificato. Per lui non si può dire lo stesso.
- Stai bene? – gli domanda, - Non è successo niente?
- Niente. – risponde subito Bill, scuotendo il capo, per rassicurarlo. I capelli scuri, morbidi e setosi, ancora freschi di shampoo, gli scivolano lungo le spalle, e Bushido sente il bisogno di concedersi un atto tenero, ed accarezzarli. È il primo atto tenero che si concede da anni. È come sentirsi sciogliere sul cuore un grumo di lava. Brucia da impazzire.
- Bene. – commenta con un mezzo sorriso, - Sarebbe stato deludente se avessi mandato tutto a puttane e fossi tornato fin qui solo per trovarti ridotto ad un mucchietto d’ossa in frantumi in un angolo. No?
Bill si irrigidisce ancora una volta, le labbra strette in una linea sottilissima.
- Mi dispiace. – mugola piano, - Ma grazie.
Bushido si concede un altro mezzo sorriso, e vorrebbe replicare qualcosa di sarcastico, qualcosa che possa sollevare almeno in parte il velo di sacralità che è piombato loro addosso da quando lui è tornato in cella, ma Bill non gli dà il tempo di farlo. Si sporge in avanti ed approfitta delle sue labbra dischiuse per baciarlo piano, lentamente ma profondamente, stringendo le dita sottili attorno al tessuto della sua maglietta e tirando appena per stringerselo al petto.
Bushido posa le proprie mani sulle sue. Sono grandi il doppio, le coprono interamente. Ricambia il bacio con un abbandono al quale non si lascia andare da più tempo di quanto non riesca a ricordare, e si separa da lui con uno schiocco soffice e discreto solo quando sente il bacio concludersi naturalmente, di sua iniziativa.
Bill, così vicino da potergli leggere negli occhi qualsiasi cosa, lo guarda intensamente. Si sta già fidando di lui al punto da rimettere la propria vita nelle sue mani.
Bushido accetta la responsabilità. E stavolta è una sua scelta.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Drammatico, Romantico.
Pairing: Bill/Chakuza, Bill/Bushido, Fler/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- "Bill mi guarda fisso, i suoi occhi brillano. Cova una rabbia che lo scuote tutto, il suo corpo è così sottile che trema sotto le ondate di livore che gli arrossano le guance. So che in questo momento potrebbe uccidermi, se solo avesse l’arma con cui farlo."
Note: Ed eccoci qui col nuovo episodio di SE \o/ Teoricamente doveva andare su tipo una settimana fa, solo che poi m'è passato di mente, la Tab è partita con le altre per andare a vedere il concerto del Bu a Berlino (ç_ç) e fra una cosa e l'altra ho preferito postare adesso. Attenzione al cuore, mentre leggete.
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I CAN’T HURT YOU ANYMORE

Bill mi guarda fisso, i suoi occhi brillano. Cova una rabbia che lo scuote tutto, il suo corpo è così sottile che trema sotto le ondate di livore che gli arrossano le guance. So che in questo momento potrebbe uccidermi, se solo avesse l’arma con cui farlo. I capelli scompigliati gli ricadono lungo il collo, il suo respiro è pesante e mi sfiora il viso in carezze quasi violente mentre lo schiaccio contro il muro, un avambraccio pressato sopra il collo e una mano a stringerlo con forza alla spalla. Mi guarda come se lo stessi torturando, come se il mio comportamento fino ad ora fosse stato quello di un despota, e lui stesse affrontando il martirio con orgoglio, coraggio e fierezza, e mentre presso il mio avambraccio con più forza contro la sua gola, mozzandogli il respiro e osservandogli inghiottire la preghiera di lasciarlo andare che è tanto forte da non lasciarsi sfuggire neanche per una sillaba, cerco di ricordargli che qui non ci sono vittime né carnefici, che ciò che ha fatto è sbagliato e che dovrebbe tornarsene a casa.
E poi lo bacio.
*
Il mio risveglio, stamattina, non sembrava preannunciare niente di speciale, figurarsi qualcosa di disastroso come Bill che irrompe nel mio ufficio rovesciando il mondo come ormai ha imparato a fare – e se sa farlo bene, pochi cazzi, è colpa mia, che nel ribaltamento dei mondi altrui sono un campione – costringendomi prima a schienarlo contro un muro, poi a tentare di soffocarlo, quindi a baciarlo sa Dio perché.
Stamattina mi sono svegliato col russare debole e regolare di Pat piantato nelle orecchie, e all’improvviso mi sono sentito addosso dieci anni di meno, ed ho borbottato “Frank, siamo in ritardo”. Al che lui ha aperto un occhio e mi ha guardato come se non capisse un accidenti di ciò che stavo dicendo, giustamente, e a quel punto ho riso perché non so cosa avessi pensato di preciso ma era evidente che mi stavo riferendo a qualcosa successo uno sproposito di anni prima, probabilmente una delle mille volte che mi sono fermato a casa sua perché il giorno dopo dovevamo andare presto da qualche fornitore prima dell’apertura dei negozi – prima che Tempelhof, o almeno la parte onesta di Tempelhof, quella che non viveva di notte, cominciasse a risvegliarsi. Era una scusa che usavo spesso, “resto da te così domani facciamo prima e non devo passarti a prendere”, ma la verità era che intanto adoravo i bignè che sua madre faceva in casa, e poi adoravo anche passare la notte con lui davanti alla tv parlando di cose assurde e fumando uno spinello fino a stordirci al punto di dire e vedere cose veramente allucinanti, crollare addormentati esausti alle cinque del mattino e poi, naturalmente, svegliarci in ritardo. Il che mi riporta alla prima frase che ho detto stamattina, e che comunque, non so, non è una cosa che parla solo di ritardi a un appuntamento o cose simili che poi scompaiono nel giro di pochi giorni, quanto più una cosa generale. Io e Patrick siamo in ritardo, è vero. È verissimo.
- Anis, vaffanculo. – mi fa lui, e si rigira a pancia sotto mentre io non riesco a smettere di ridere, - Ma perché cazzo mi dovevi svegliare… e piantala di ridere! – sbotta, e mi tira un cuscino sulla faccia mentre contemporaneamente cerca di scalciarmi via dal letto e anche di nascondersi sotto due chilometri di lenzuola per cercare di tornare a dormire. Io però a quel punto ormai sono sveglio, quindi niente, mi avvicino e me lo stringo contro, un po’ anche per la questione del ritardo, appoggiandogli il mento su una spalla e sorridendogli contro una guancia. – ‘Cazzo fai? – mi chiede lui, che sta ancora palesemente dormendo, e io rido e lascio scivolare una mano lungo la sua schiena, sotto le lenzuola.
- Suono la sveglia. – dico con una risatina, accarezzandolo distrattamente fra le natiche, al che lui solleva la testa dal cuscino come se solo ora avesse cominciato a capire cosa stia esattamente succedendo, mi guarda con gli occhi enormi e poi mi scoppia a ridere in faccia.
- Ma vaccagare. – ride come un demente, e poi salta in piedi e, nudo com’è, che io mi preoccupo pure che Karima possa vederlo e non sarebbe il caso – non perché Karima non sappia, quanto più perché poi partirebbe con la millecentesima tirata sui costumi discinti di questa casa, cosa che decisamente mi rovinerebbe il risveglio – insomma, nudo com’è mi informa che va a preparare il caffè e mi lascia tutto il tempo di suonarmela da me, la sveglia. Voglio dire. Ma chi me l’ha fatto fare di tirarmi in casa quest’individuo – ripetute volte negli ultimi dieci anni, peraltro – io non lo so.
Comunque, mi sono messo in piedi, anche perché era evidente che, a meno che non volessi accoppiarmi coi cuscini o col materasso mentre coperte e pareti ci spiavano libidinosi, lì nel letto non c’era trippa per gatti, dal momento che tutta la trippa e anche tutti i gatti s’erano spostati in cucina per preparare la colazione. Sono rotolato giù dal materasso, mi sono infilato la prima cosa che ho trovato così da poter urlare “ma è Fler che va in giro nudo, io no!” se Karima si fosse improvvisamente palesata in cucina prima delle nove ed ho infilato il corridoio. Fler fischiettava maneggiando la moka con mani esperte, ed io ho sorriso.
- Perché tutta questa fretta? – ho chiesto, guardandomi intorno per assicurarmi che Karima non ci fosse ancora e poi appendendomi alle sue spalle e sfiorandogli il collo con la punta del naso.
- Io non ho nessuna fretta. – ha risposto lui, serafico, continuando a maneggiare la moka, - D’altronde, mia madre non mi aspetta prima di mezzogiorno. Sei tu che devi essere all’Ersguterjunge fra tipo dieci minuti.
- Che? – ho sbottato con una smorfia infastidita, subito mitigata dall’odore penetrante del caffè in polvere che si è diffuso nell’aria in cucina non appena Fler ne ha aperto il barattolo, - Non vieni con me?
- No, te l’ho detto ieri che sono a pranzo da mia madre. – ha sbuffato lui, roteando gli occhi ed accendendo il fornello sotto la caffettiera, - È una settimana che mi chiama ogni giorno chiedendomi quando vado a trovarla. Scommetto che mentre ne parlavo non mi hai sentito.
- Dipende. – ho mormorato abbattuto, tornando a nascondere il naso contro il suo collo, - Stavamo facendo qualcosa, mentre me ne parlavi?
- Guardavamo la tv, Anis. – ha ridacchiato lui, asciugandosi le mani umide contro un panno.
- E allora è ovvio che non ti stessi ascoltando, non ero abbastanza concentrato su di te! – ho ribattuto, spingendomi verso di lui, - Provi a ripetermi i concetti base adesso? – ho proposto speranzoso, ma lui ha riso e si è divincolato senza fatica dalla mia stretta, dirigendosi tranquillo verso il bagno.
- Vatti a fare una doccia. – mi ha suggerito, - E per punizione, vai in bagno al piano di sopra.
In quel momento, naturalmente, Karima è uscita dalla sua stanza, vestita di tutto punto e perfettamente in ordine, pronta a cominciare le grandi pulizie che ogni mattina organizza e che si protraggono puntualmente fino a sera, ed ha osservato – non senza un certo turbamento – il sedere di Fler mentre, ondeggiando tranquillo, spariva dietro la porta del bagno, proprio nel momento in cui lui, sereno come un bambino appena sveglio di domenica mattina, tirava su una mano e la salutava col più serafico dei “buona giornata, Karima”. Al che lei, naturalmente, sopraffatta dalla perfezione di Fler – che è l’unico essere umano che riesce a gestire pure le situazioni più improbabili senza mai andare in imbarazzo, che mi viene da ridere se solo provo a ricordarmi com’era quando aveva quattordici anni e si scioglieva andando nel panico ogni volta che lo guardavo – non poteva guardarlo con disapprovazione, anche perché si sarebbe trovata a guardare con disapprovazione una porta chiusa, e pertanto si è voltata a guardare me con l’occhio torvo presagio di sventura.
- Che c’è? – ho sbottato, mentre lei scendeva dal piano di sopra carica di disapprovazione e severità, - Sono vestito!
Naturalmente non ha attaccato.
- Il signor Losensky non lo era. – ha risposto lei, tetra, passandomi davanti senza guardarmi, come se non mi meritassi ulteriore attenzione da parte sua.
- Potresti anche cominciare a chiamarlo Patrick, immagino. – ho borbottato, mentre lei passava davanti ai fornelli, sbirciava il caffè già uscito nella moka e spegneva il fuoco.
- Il nostro grado d’intimità – ha detto, sollevando un singolo sopracciglio da madre puritana di svariati secoli fa, - non è ancora tale da giustificare simili prese di confidenza. Inoltre, vorrei ricordarle che non mi ha ancora comunicato quando il signor Losensky ha deciso di tornare a stabilirsi definitivamente nel proprio appartamento, signor Ferchichi.
Forse perché di buttarlo fuori non ho la minima intenzione, ho pensato io guardandola con l’occhio pallato.
- Be’, per ora è qui, comunque. – ho concluso, scrollando le spalle, - Quindi sii gentile con lui, ha avuto un’infanzia difficile.
- E non fatico a immaginare di chi possa essere la colpa. – ha commentato lei, versando il caffè in due tazzine e cominciando ad armeggiare in giro con l’obbiettivo di raccoglie latte e biscotti in quantità industriale nel minor tempo possibile e poi, probabilmente, iscriversi al Guinness dei primati.
- Che cosa vorresti dire, con questo? – ho sbottato io, incrociando le braccia sul petto e mettendo il broncio come quando avevo tredici anni, che peraltro è una cosa che Karima non può sapere perché quando avevo tredici anni ancora non la conoscevo. Ogni tanto ho l’impressione che, siccome mi ha conosciuto già adulto, abbia dimenticato che un tempo sono stato un bambino anch’io, e che posso ricadere in quello stato infantile quando voglio, peraltro. Altre volte, invece, mi sembra che, anche se mi ha conosciuto che ero già grande, in realtà non abbia poi fatto mai molto affidamento sulla mia maturità.
In ogni caso, non mi ha risposto – probabilmente perché non ero degno della sua voce come non lo ero stato dei suoi occhi poco prima – e quando Patrick è uscito dal bagno lavato e vestito di tutto punto e lui e Karima si sono messi a confabulare strigliandomi perché ero ancora in pigiama e ovviamente in ritardo ho sbuffato “d’accordo, d’accordo, datemi tregua tutti e due!” e sono fuggito al piano di sopra, grandemente deluso dai miei sudditi indisciplinati e colmo di disappunto per la mia regale autorità violata.
Solo che, quando mezz’ora dopo sono uscito di casa, nonostante il pensiero delle ore infinite di noia che mi attendevano all’Ersguterjunge, sorridevo come un cretino. E questo non posso proprio negarlo.
*
Per dire, ero così felice che neanche la vista dell’Ersguterjunge è riuscita a deprimermi. E dire che in genere mi basta entrare in questo posto per sentirmi crollare addosso tutto. Voglio dire, io non dico che queste pareti le ho tirate su col sudore della mia fronte – perché così non è. Forse i soldi per comprarle li ho tirati su col sudore della mia fronte, ma le pareti decisamente no – però erano comunque una cosa mia, e in quanto cosa mia erano stati inglobati dalla mia persona e rimessi al mondo marchiati. Come tutto ciò che tocco, perché odio che ciò che tocco, ciò che amo, mi venga portato via, e l’unico modo che si ha per assicurarsi la paternità a vita di qualcosa è lasciargli addosso un segno. Nessuno vuole una macchina graffiata, nessuno vuole un motorino pieno di adesivi, nessuno – nessuno mentalmente sano, almeno – dovrebbe volere un corpo che ha addosso il sapore e l’odore di un altro. Poi non sempre va a finirti bene, però intanto tu il tuo marchio lo lasci. Almeno così hai più possibilità di tenerti stretto ciò che vorresti portarti dietro fin nella tomba.
Ora io mi guardo intorno e queste pareti non le riconosco. Il mio ufficio era pieno di poster. Miei poster, ovviamente. Quando hanno ritinteggiato, me li sono fatti mettere da parte perché volevo riappenderli subito dopo, solo che poi lo scatolone in cui avrebbero dovuto conservarli non s’è più ritrovato. E quindi io avevo una stanza che ero io, rappresentava me, una stanza in cui mi sentivo a mio agio, e ora invece mi sento un impiegato delle poste in uno stanzino bianco e anonimo che odio e che mi dà la nausea dal momento in cui ci metto piede al momento in cui ne esco. È una cosa devastante.
Eppure, ero così di buon umore che, entrando qua dentro e fissando le pareti bianchissime, non ho pensato “che schifo, dov’è finita la mia vita?” come faccio sempre, bensì “più tardi a casa devo ricordarmi di chiedere a Pat se gli è rimasto qualche poster vecchio, magari qualcosa dell’Aggro”, visto che dubito fortemente che si sia messo a collezionare poster delle mie uscite discografiche comprando Bravo travestito da quindicenne infoiata mentre passavamo le nostre giornate a insultarci da una parte all’altra di Berlino.
Questa sensazione di beatitudine interiore è durata naturalmente fino a quando la segretaria piccola e carina che si occupa di accogliere gli ospiti all’ingresso e smistarli nelle varie aree del palazzo in cui devono andare non è spuntata sulla soglia della mia porta e, con aria un po’ colpevole e un po’ impacciata, mi ha detto che il signor Kaulitz era all’Ersguterjunge e desiderava vedermi.
In un primo momento ho pensato “ma non esiste”. Ho anche rimandato a memoria la tabella degli orari e dei giorni lavorativi di Bill per essere proprio certo che no, oggi non avrebbe dovuto trovarsi qui, non a quest’orario né in nessun altro orario, ed avrei voluto guardare la segretaria negli occhi e dirle “dev’essersi sbagliata”, solo che poi mi sono reso conto di quanto sarebbe stato assurdo ed ho deglutito forzatamente, cercando di ricompormi.
- Sono molto impegnato. – le ho detto. Lei ha guardato la mia scrivania sgombra, il computer ancora spento e la generale aria di nullafacenza che si respirava nella stanza, e poi è tornata a guardare me, con occhi sempre più tristi e colpevoli, probabilmente chiedendosi quanto ci avrei messo a licenziarla, al punto che avrei voluto darle una pacca sulla spalla e rassicurarla, che tanto ormai non ho più potere neanche sui dipendenti in questa cazzo di etichetta.
- Ecco… - ha proseguito lei, incerta, - Il signor Kaulitz ha molto insistito. – ha detto, e io cosa potevo ribattere, a quel punto? “Digli di andarsene a fanculo e, se continua a insistere, insisti anche tu e defenestralo”? Ho sospirato tanto profondamente che mi ha fatto male il petto, ed ho annuito.
- Fallo passare.
Lei ha annuito come a volersi scusare ed è sparita in un secondo. Il secondo successivo, al suo posto c’era Bill, e io avevo smesso di respirare. Ho pensato distrattamente “è tremendo che il mio ultimo respiro sia stato così doloroso”, e poi non ho avuto spazio neanche per i pensieri. Bill stava già occupando tutto.
- Scusa se ti disturbo. – ha mormorato, gli occhi nascosti dietro un paio di giganteschi occhiali da sole a mascherina e i capelli tirati indietro e stretti in una coda alta a imprigionare le ciocche bionde, come a cercare di tenere a bada lui domando i suoi capelli. Come fosse possibile, l’una cosa o l’altra.
- Fa niente. – ho sputato con una difficoltà estrema, sperando che lui non la notasse. Lui ha abbassato appena gli occhiali sul naso, lanciandomi una lunga occhiata scrutatrice prima di sfilarli del tutto e riporli nella borsa a braccio in un gesto fluido e abitudinario. – Ti serviva qualcosa?
Lui si è guardato intorno con aria un po’ confusa, penso non fosse mai entrato qua dentro e deve aver fatto una certa fatica a riconoscere l’ambiente come familiare.
- Posso sedermi? – ha chiesto, al termine del giro di studio. Io ho piantato le mani sulla scrivania e mi sono alzato in piedi.
- A dire la verità preferirei di no. – ho detto in un fiato, osservando i suoi occhi macchiarsi della consapevolezza di non essere una presenza gradita, una cosa che aveva spesso osservato negli occhi di molti, ma mai nei miei. – Cosa ci fai qui, Bill?
- Volevo solo parlarti. – ha sbottato offeso, incrociando le braccia sul petto.
- Potevi prendere un appuntamento, come fanno tutti gli altri. – gli ho fatto notare.
- Tutti gli altri…? – ha spalancato gli occhi lui, incredulo, - Anis, capisco tutto, ma—
- Sono molto impegnato, Bill. – ho detto, battendo con una certa forza le mani sul tavolo e sperando che questo bastasse ad intimorirlo, o a farmi mandare a quel paese, raggiungendo comunque l’effetto desiderato, ovvero buttarlo fuori da questa stanza il prima possibile, per evitare di perdere il controllo di me stesso.
- Impegnato a fare cosa? – mi ha chiesto lui, senza cedere di un passo, fissandomi con gli occhi brillanti di rabbia, offesa, tradimento e tutte quelle altre piccole cose che è in grado di mettere in un solo sguardo quando vuole farti sentire una merda fatta e finita, - Impegnato a— a fare cosa, Anis? Cos’è che ti tiene tanto impegnato da non lasciarti neanche un minuto libero per stare a sentire me?
- Quali diritti speciali dovresti avere tu? – ho sbottato io, alzando la voce e sollevando le braccia come ad invitarlo ad andare oltre ed affondare il coltello, se ne era capace, - Sentiamo, Bill! Quali diritti che non ti sia già fottuto da solo nonostante io te li avessi ridati tutti in mano appena ti ho posato gli occhi addosso? Eh?
Lui ha spalancato gli occhi, le labbra gli tremavano.
- Non so, Anis. Quelli che si riservano a un normale essere umano quando ti chiede due minuti per parlare?
- Tu non chiedi, Bill! – ho tuonato io, esasperato, - Tu non chiedi, è questo che ti sfugge! Tu ti presenti e pretendi!
- Io non ho preteso niente! – s’è difeso lui, quasi stringendosi nelle spalle, - Io ti ho chiesto—
- Tu ti sei presentato qui come se riceverti da parte mia fosse una cosa ovvia! – gli ho fatto notare, allargando le braccia ai lati del corpo, - L’idea che a me non andasse di vederti non ti è mai passata neanche per l’anticamera del cervello! Tu agisci come se tutto ti fosse dovuto e te ne sbatti il cazzo di quello che il resto dell’universo possa pensare, perché tanto i sentimenti degli altri non sono importanti come i tuoi! Nessuno soffre come te, vero Bill? Nessuno è in una situazione peggiore della tua, giusto?
I suoi occhi si sono fatti liquidi all’improvviso, le guance arrossate e il respiro accelerato. Ho avuto paura che si sentisse male, ma non ho smesso di guardarlo duramente neanche per un secondo.
- Sei ingiusto. – ha esalato con un filo di voce, - Credi che per me sia facile, Anis? – mi ha strillato contro, - Pensi che per me vederti ritornare dopo un anno e tutto il resto sia stato semplice? Pensi che mi diverta, cazzo, che sia felice della situazione in cui siamo? Se pensi questo di me, allora non mi conosci, perché—
Gli sono saltato addosso prima che potesse concludere la frase. L’ho spinto contro il muro, mi sono schiacciato contro di lui, ho piantato un braccio contro il suo collo e l’ho guardato.
- Smettila di parlarmi come se fossi il primo stronzo cui puoi rifilare tutte le tue cazzate preimpostate da diva del cinema muto, Bill. – gli ho ringhiato addosso, - Vuoi sapere cosa penso? No, non penso che per te sia facile. Però penso che ti piaccia complicarla. Non penso che tu sia felice, però penso che il dolore ti faccia sentire al sicuro, perché non sei felice da tanto di quel tempo che provare della felicità vera ti spaventa. Non penso che tu ti diverta, ma penso che tu ti senta meglio quando mi trascini nel tuo cazzo di baratro di tristezza, Bill, questo penso. E non dirmi che non ti conosco. Perché sai che non è vero, come sai che invece è vero tutto quello che ho detto adesso.
E ora Bill mi guarda fisso, i suoi occhi brillano. Cova una rabbia che lo scuote tutto, il suo corpo è così sottile che trema sotto le ondate di livore che gli arrossano le guance. So che in questo momento potrebbe uccidermi, se solo avesse l’arma con cui farlo. I capelli scompigliati gli ricadono lungo il collo, il suo respiro è pesante e mi sfiora il viso in carezze quasi violente mentre lo schiaccio contro il muro, un avambraccio pressato sopra il collo e una mano a stringerlo con forza alla spalla. Mi guarda come se lo stessi torturando, come se il mio comportamento fino ad ora fosse stato quello di un despota, e lui stesse affrontando il martirio con orgoglio, coraggio e fierezza, e mentre presso il mio avambraccio con più forza contro la sua gola, mozzandogli il respiro e osservandogli inghiottire la preghiera di lasciarlo andare che è tanto forte da non lasciarsi sfuggire neanche per una sillaba, cerco di ricordargli che qui non ci sono vittime né carnefici, che ciò che ha fatto è sbagliato e che dovrebbe tornarsene a casa.
E poi lo bacio. Lo bacio perché è troppo vicino, lo bacio perché mi manca, lo bacio perché – cazzo – io questo ragazzino lo amo tanto che mi scoppia la testa se solo ci penso, che il mio corpo non mi sembra robusto a sufficienza per sostenerlo, lo bacio perché l’ho perso, perché voglio lasciarlo andare ma non ci riesco, lo bacio perché voglio il suo sapore sulla lingua e quando lui solleva le mani e mi stringe alla nuca, graffiandomi la pelle del collo fino a che sento il sangue scorrere in un rivolo lento e sottilissimo giù fino al colletto della maglietta, sento che lo vuole anche lui, sento che tutto il casino che c’è dentro la mia testa c’è uguale anche nella sua.
Lo allontano dalla parete schiacciandomelo contro, lo stringo fra le braccia e lui aderisce perfettamente al mio corpo come non si fosse mai allontanato nemmeno di un millimetro dal mio fianco. Siamo due universi paralleli e perfettamente distinti io e lui, adesso, eppure alle volte basta così poco e Bill è ancora lì, è ancora mio, e non capisco come tutto questo non possa essere vero e reale – so che non lo è, lo so, ma adesso che siamo così vicini mi sembra l’unica verità possibile. E quindi, ciò che invece è vero, lui con Chakuza, io con Patrick, deve essere una bugia.
Torniamo a dirci la verità, piccolo, vuoi?
È nel momento in cui lo penso – che poi è lo stesso momento in cui lo appoggio sulla scrivania sgombra e mi allontano appena dalle sue labbra per riprendere fiato – che mi rendo conto di quanto tutto questo sia assurdo, di quanto il mio cervello prenda a sragionare per vie incomprensibili quando ho Bill intorno. Cos’è che voglio dare a bere a questo ragazzino? Che non importa niente di quello che siamo diventati, che possiamo tornare com’eravamo prima che tutto questo accadesse dimenticando gli ultimi mesi e andando avanti per una strada che nemmeno esiste se non nelle nostre fantasie quando escludiamo dai pensieri tutto il resto del mondo che non siamo noi due? Che storia voglio raccontare a Bill, a me stesso? Che cosa cazzo sto facendo?
Lui schiude le palpebre quando non mi sente tornare a baciarlo. Sotto le sue ciglia, che tremano in un battito sottile come quello delle ali di una farfalla, passa la consapevolezza che è cambiato qualcosa rispetto a un secondo fa. Poso le mani sulle sue, allontanandole dal mio collo e posandogliele in grembo. Lui, seduto sulla scrivania, le spalle un po’ curve e l’espressione corrucciata, le labbra arricciate in una smorfia delusa e triste, mi guarda e mi implora di non farlo, non fermarmi, dargli mezz’ora di tregua dalla realtà.
Non posso farlo, piccolo, io ti amo troppo per mentirti così spudoratamente.
- Vai via. – gli sussurro sulle labbra. Stringo le mani attorno alle sue e ne accarezzo il dorso coi pollici.
Lui sospira stremato. La sua testa si piega in avanti in cerca di appoggio e la sua fronte trova il mio petto con una naturalezza che mi smuove qualcosa dentro. È sempre la stessa storia, queste piccole cose riaccendono la scintilla, ma è dura tenerla accesa quando il fuoco non prende.
- Non è come se mi stessi dicendo “vai, non ci vedremo più”… - mugola, strusciando la fronte contro la mia maglietta, - Fra poco comincia il tour… mi dici come faremo? Perché io non lo so.
- In qualche modo faremo. – sorrido appena, lasciando una delle sue mani per sciogliergli la coda ed accarezzargli lentamente i capelli, ravviandoglieli sulle tempie, dietro le orecchie, sul collo. – Tu però devi starmi lontano, piccolo. Io prometto che starò lontano da te.
Bill deglutisce a fatica, prendendosi un secondo prima di parlare.
- E se io non volessi starti lontano? – pigola a voce bassissima, e scommetto che gli è servita più forza per dirmi questa singola frase di quanta non gliene sia servita per presentarsi qui e mettersi a strillarmi contro. E già per fare quello gliene è servita parecchia.
Mi allontano da lui, lasciandolo andare. Sto ancora sorridendo, quando lui si rimette in piedi.
- Non vuoi nemmeno starmi vicino, però. – gli faccio notare. È straniante essere così tranquillo adesso. Mi sembra di stare facendo la prima cosa giusta in assoluto da quando sono tornato in Germania.
Lui non mi risponde. Si morde un labbro e nemmeno annuisce, abbassa lo sguardo e si ricompone in fretta prima di sgattaiolarmi alle spalle, oltre la porta, fuori dall’Ersguterjunge, fuori dalla mia vita spero almeno per la prossima settimana. Il tempo di prepararmi alla tortura che mi aspetta. Te lo prometto, piccolo, sarà tutto più facile, da ora in poi. Farò in modo che lo sia.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Commedia, Erotico, Romantico.
Pairing: Fler/Chakuza, Bushido/Fler, Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: R/NC-17.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash, Angst.
- "La mia settimana è cominciata molto male."
Note: Cioè, rendiamoci conto: stiamo ricominciando ad avere un ritmo di postaggio quasi umano *piange commossa* Dunque, precisazione prima di lasciarvi alla lettura: nonostante il titolo e l'adorabile "vol. 2" pucciato lì accanto, questa storia non è il diretto seguito di quella postata da Tabata qualche tempo fa. Però vi è legata inscindibilmente *huhuhu*
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GREEN EYED MONSTER, vol. 2

La mia settimana è cominciata molto male. Che non è come per dire che lunedì mi sono svegliato dopo un incubo e come prima cosa, per esempio, ho infilato le pantofole e dentro c’ho trovato uno scorpione ed ho sentito umido e mi sono accorto di avere la casa allagata scoprendo poi che s’erano rotte contemporaneamente tutte le tubature dell’appartamento a causa di un ingorgo del cesso del tipo del piano di sopra che tra l’altro ha fatto marcire tanto le travi del soffitto da costringerle a crollare e riversare liquami nel centro del mio salotto. No, quello sarebbe stato un brutto inizio di settimana, ma tutto sommato imputabile alle sfighe e ai casi della vita, le classiche cose di cui in genere ti fai una ragione rimboccandoti le maniche e scrollando le spalle prima di metterti al lavoro per rimettere tutto a posto.
No, il mio inizio di settimana è stato di gran lunga peggiore, ed è coinciso con un risveglio orribile, sì, ma per motivi molto più gravi di quelli che ho indicato sopra. D’altronde, Eko Fresh che si attacca al campanello di casa tua per mezz’ora alle sette del mattino è peggio di un incubo, uno scorpione, un allagamento e un chilo di liquami di dubbia origine, tutti assieme e centrifugati in un’unica, enorme Apocalisse. Eko Fresh è Eko Fresh, se non lo conosci non puoi capire, e se lo conosci lo eviti.
Comunque sia, immaginatemi. O se non volete immaginare me immaginate qualcun altro, non importa, in ogni caso: mi alzo, grugnisco come un orso ingiustamente svegliato dal proprio legittimo letargo, vado alla porta e spero almeno sia Bill, che pressa il campanello a ripetizione perché non mi vede da ben quattro ore e vuole assolutamente recuperare il tempo perduto chiudendosi a doppia mandata con me in camera da letto fino a domenica, e invece niente, è appunto Eko che mi guarda come gli avessero appena ucciso la madre, stringendo al petto un giornale con una mano e tenendo un pacchettino un po’ unto di olio nell’altra.
- Eko. – constato, e mi chiedo se magari posso trovare una scusa per mandarlo via, solo che lui non mi dà il tempo neanche di mettere in moto i meccanismi del cervello, perché mi scosta di lato, entra in casa e si chiude la porta alle spalle. Rigirando la chiave nella serratura. – Eko?! – chiedo, vagamente inquietato dal fatto che sia arrivato qui di corsa portando del cibo e segregandosi con me all’interno di un appartamento neanche tanto grande le cui pareti hanno visto troppo per potersi turbare ancora.
- È successa una cosa terribile. – esordisce lui, tetro, e io penso che sì, eccome se è successa una cosa terribile, siamo chiusi nel mio appartamento! Non vedo cosa potrebbe esistere di più terribile di questo. – Forse è meglio che ti siedi. – continua, annuendo pensieroso.
- Sto bene in piedi. – dico, vagamente preoccupato. Già sono in posizione svantaggiosa così, figurarsi se mi siedo. Cerco anche di dirmi che è del tutto irrazionale, da parte mia, pensare che Eko sia venuto qua e si sia chiuso con me qui dentro perché voleva approfittare del mio corpo, ma i meccanismi cerebrali di cui sopra sono ancora spenti e l’omino del cervello sta ancora passando ad oliarli tutti per bene prima di attivarli, perciò continuo a pensare che, appena mi sarò seduto, Eko mi ribalterà sull’isola della cucina e si prenderà la mia verginità, e per evitare tutto ciò resto in piedi.
- Credimi. – insiste lui, spingendomi verso l’isola della cucina – lo sapevo, io! – e forzandomi a sedere su uno sgabello, - E già che ci sei, prendi il krapfen.
- Che krapfen? – chiedo io, tirando su i pantaloni del pigiama fino ad altezze ascellari e pentendomi di non aver provveduto a comprare una cintura di castità per premunirmi rispetto ad eventualità simili.
- Quello che ti ho portato. – continua lui, perfettamente tranquillo, indicando il pacchetto unto che ha poggiato sul ripiano, - Mangia. Ne avrai bisogno.
- Senti, Eko! – mi ribello a quel punto io, saltando in piedi, - Non ho fame e non mi voglio sedere! Ora, mi spieghi qual è il tuo problema, prima che mi venga voglia di afferrarti per la collottola e buttarti fuori di casa dalla finestra?!
Eko mi guarda male e sbuffa, evidentemente indispettito dal mio comportamento, e con tutta la calma del mondo prende e mi srotola davanti agli occhi il giornale. È una rivista scandalistica di quelle che costano uno sputo ogni dieci, roba che gli edicolanti te le tirano dietro per quante gliene avanzano arrivati a domenica, e in prima pagina, proprio al centro, c’è una gigantografia di Fler e Bushido beccati da un paparazzo dentro un ristorante. Fronte contro fronte.
- …ah. – sillabo io, a corto d’aria, sedendomi istintivamente sul primo sgabello che trovo tastando con la mano dietro di me e mandando la mano non impegnata nelle ricerche ad afferrare il krapfen dentro il sacchetto. – Ah.
- “Ah” mi pare una reazione eufemistica. – commenta lui, e mentre io sono qua che stacco un morso di krapfen e spero che cioccolato e zucchero mi invadano le vene ed intontiscano il cervello, e mi chiedo quando abbia imparato il significato della parola “eufemistico”, lui si lancia in una dissertazione dissennata delle sue. – No, ma dico, ti rendi conto? Cioè, da Bushido non mi sconvolge, visti i precedenti, anche se forse dovrebbe sconvolgermi pure questo perché, voglio dire, Bill almeno sembrava femmina, potevamo dire che era confuso, - ma dire a chi, Eko? – ma il senzatetto? Voglio dire, Fler, gay? Ma te lo saresti mai aspettato?
- Io… - comincio, deglutendo a fatica. Il pezzo di krapfen è duro come marmo e non scivola giù per la gola manco morto. Rifletto brevemente sulla mia salivazione del tutto azzerata e mi rassegno a morire soffocato dal krapfen di Eko. - …non lo so.
- Ma poi! – continua lui, evidentemente scioccato da questa rivelazione, - Tu c’hai vissuto praticamente insieme per un millennio, ew! Non è che ti ha allungato mani addosso nel sonno? Tipo che ti ha ubriacato e mentre eri lì in coma etilico ti ha ribaltato sul materasso e ti si è fatto di nascosto? Hai controllato?
- No, Eko! – quasi sbotto io, fissandolo allucinato, - Non ho controllato e non— Fler non ha fatto niente del genere, andiamo, non è che siccome uno è gay… o quello che è… - inspiro ed espiro a fatica, - sente il bisogno di metterti le mani addosso e violentarti o cose simili! – spiego. E poi mi viene voglia di appendere una corda alle travi del soffitto e impiccarmi, perché… Dio mio. No, Eko, Fler non ha approfittato di me nel sonno, è più probabile che sia avvenuto l’esatto contrario, ma non è il caso che tu lo sappia.
- Bah! – conclude lui, allargando le braccia lungo i fianchi e sedendosi sullo sgabello di fronte a me, allargando la rivista sul ripiano per guardarla ancora, come volesse cogliere sfumature che non era riuscito a notare prima. – Che schifo, comunque.
- Ma che schifo cosa?! – esplodo io, irrazionalmente irritato da questa cosa, - Devo ricordarti che io sto con Bill?! Se vuoi venire a fare moralismo, vai a farlo in una casa in cui non si scopa abitualmente fra uomini!
Lui solleva gli occhi scuri e vacui e mi fissa a lungo, come non capisse dove voglio andare a parare.
- Ma che c’entra? – chiede infatti, - Bill è una cosa diversa. Lui è praticamente una donna.
E io vorrei rispondergli che no, semmai Bill è teoricamente una donna, ma praticamente è decisamente maschio, solo che poi ricordo l’indiscutibile verità nella testa di Eko – indiscutibile non perché sia esatta, ma perché è quella che vede lui e che non è disposto a cambiare neanche per tutto l’oro del mondo, visto che è l’unico universo in cui riesce a vivere senza traumi – e questa indiscutibile verità nella sua testa dice che Bill sì, potrà pure avere l’uccello, ma è comunque una femmina. Per cui per lui è ormai perfettamente normale che vada a letto coi maschi, o che un maschio abbia voglia di andare a letto con lui. Lei. Quel che è.
La cosa che mi turba davvero è che io lo so che Eko vede Bill in questi termini. E quindi, forse, se m’incazzo per quel “che schifo”, non è per Bill.
Il discorso muore lì, anche perché Eko quello che doveva fare – rovinarmi la giornata – l’ha fatto, e io due minuti dopo resto solo a darmi del coglione e pensare che tanto, peggio di così non potrà andare. Naturalmente mi sbaglio, perché due ore dopo incontro Bill e lui è taciturno ed evidentemente scazzato, e c’è un enorme problema quando Bill è sia taciturno che scazzato, perché Bill si scazza spesso ma ci tiene sempre a far sapere al mondo perché, visto che adora farlo sentire in colpa. Quando Bill si scazza e non sa dirti perché, il motivo è che non vuole farlo.
Da quando sta con me, è capitato una volta sola. Poi è venuto fuori che era per una litigata a caso con suo fratello, ma naturalmente io mi sono sempre preoccupato perché, prima che stessimo insieme, questi momenti di scazzo cronico gli venivano solo quando qualcosa gli ricordava Bushido. E allora lui era morto, quindi, insomma, non era il caso di immischiarmi. Ancora oggi, ci sono momenti come questo, in cui Bill è arrabbiato e, per continuare ad arrabbiarsi in pace, vola fino ad un altro pianeta – un pianeta sul quale io non posso raggiungerlo, dal quale mi sento distante.
Bill è rimasto su quel pianeta per tutta la settimana fino ad ora, e questo, sommato al fatto che Bushido sta con Fler e, Dio solo sa perché, questa cosa mi manda in bestia, ha reso la mia vita impossibile nell’ultima settimana.
Stamattina, comunque, dopo che ieri sera mi ha chiamato dicendomi che non sarebbe passato da casa perché era stanco e preferiva andarsene a letto a dormire – dichiarazione che in genere mi fa capire a che punto sia arrivata la sua malinconia – mi ha richiamato, per chiedermi se potevo passare a prenderlo dagli studi dell’Ersguterjunge, visto che aveva da fare qui per qualcosa. Dopo una settimana passata a vederci poco e male, e dopo l’ultima notte trascorsa senza di lui, mollarlo all’EGJ senza un passaggio per andare ovunque volesse, per quanto potessi essere irritato dalla sua distanza e dall’EGJ in generale, non era davvero un’opzione, perciò mi sono schiaffeggiato un paio di volte davanti allo specchio, mi sono dato un contegno, mi sono vestito e sono saltato in macchina.
Gli studi dell’EGJ, da quando Bushido è tornato, non sono più gli stessi che erano prima che morisse. Io ho dei ricordi stupendi, di questo posto. Serate passate ad ubriacarsi mangiando schifezze e parlando di cazzate finendo per dormire sui divani, giornate passate ad inseguire un’idea di Bushido e un beat particolarmente figo, voce su voce, in un’improvvisazione continua. Le feste, il cazzeggio, i giorni fantastici in cui il lavoro andava alla grande, tutto funzionava alla perfezione e sembravamo tutti ingranaggi minuscoli di un più grande meccanismo che una volta avviato andava avanti da sé senza dover più spingere niente.
Poi lui è morto, e gli studi sono diventati una grande camera ardente perenne. Anche senza la sua salma esposta in bella mostra in una bara col coperchio di vetro, era qui che ci riunivamo tutti per struggerci un po’, quando ne sentivamo il bisogno. Dopo il funerale, Saad ce l’aveva messa tutta per far riprendere i lavori, ma un po’ perché alcuni di noi – io per primo – non eravamo d’accordo, un po’ perché la Germania era ancora troppo scossa per pensare al rap, niente era mai ripartito per bene, perciò entrare qua dentro più che altro era riappropriarsi di quel pezzo di Bushido che avevamo perso tutti e che tutti potevamo ritrovare fra queste stanze, come se parte del suo spirito fosse rimasto intrappolato fra le molecole dell’aria, dell’intonaco grattato via dai muri, delle poltrone malandate.
Quando lui è tornato, poi, è stato anche peggio: la Universal ha preteso di colonizzare tutto, mandare emissari cui sono stati affidati uffici, e che hanno avanzato pretese, che hanno chiamato ditte di operai che hanno ristrutturato, ridipinto, rimodernato, riarredato, rinfrescato. Hanno preso tutto quello che c’era e l’hanno spazzato via, e adesso passare in mezzo a questi corridoi non mi dà più nessuna bella sensazione. Non c’è nessun ricordo legato alla moquette nuova o al divano impeccabile in pelle bianca. Non c’è nessun ricordo sulle porte girevoli o su quelle a vetri, automatiche e sempre lucide. Ora tutto ciò che mi resta camminando qua dentro è la rabbia per tutto quello che c’era e che nessuno di noi riuscirà mai più a ritrovare, perché è stato gettato via da troppe persone.
Comunque, nel momento in cui io sto qui che guardo il divano e mi chiedo se sedermi o meno, che tanto sta vicino all’ingresso e quindi, uscendo, Bill deve passare per forza di qui, in un modo o nell’altro, la voce di Fler mi impedisce di muovermi oltre.
- Che ci fai tu qui? – mi chiede, e non c’è cattiveria, nella sua voce, solo stupore e incredulità, come se si fosse immaginato tante volte la possibilità di trovarmi qui davanti a questo divano ed ogni singola volta si fosse detto “ma no, che cazzata, non accadrà mai”. È accaduto.
Mi volto lentamente, abbozzando un mezzo sorriso.
- Ciao. – comincio imbarazzato, - Scusa.
Lui sgrana gli occhi, fissandomi sempre più sconvolto.
- Di che ti scusi? – chiede giustamente. Di che mi scuso? Me lo chiedo anch’io. Mica è casa sua, questa, non sono entrato dalla finestra per svaligiargli l’appartamento. Perché non posso semplicemente dirgli “Bill mi ha chiesto di passarlo a prendere, lo sto aspettando”? Perché non posso avere una conversazione – o un rapporto – normale, con quest’uomo?
- Non lo so. – ammetto, ed è una risposta sia alla sua domanda che alle numerose che mi sono posto io negli ultimi trenta secondi. – Come stai?
Lui continua a fissarmi come fossi un alieno o sa Dio cos’altro.
- Bene, immagino. – risponde restando sulla difensiva, a qualche metro di distanza.
- Immagini? – chiedo io, inarcando un sopracciglio, - Stai bene o no?
- Sì! – sbotta lui, e poi si massaggia le tempie, sospirando profondamente. Quando torna a guardarmi negli occhi, è visibilmente più tranquillo. Invidio Fler per la capacità che ha di mettere ordine all’istante nella propria testa. Immagino sia una delle numerose eredità del ghetto, motivo per il quale non averla non è che mi deprima più di tanto, ma ammetto che è una capacità che sarebbe comodo possedere, di tanto in tanto. – Sì, sto bene, Chaku.
- Quella cosa che hai fatto… - sorrido un po’, accennando il movimento di lui che solleva le braccia ai lati della testa, - sembri un’altra persona, adesso. Funziona sempre?
Inspiegabilmente, lui capisce subito a cosa mi sto riferendo.
- Sì. – ride a bassa voce, - Stavi pensando che servirebbe anche a te?
- Esatto. – rido anch’io, e nel tempo che impiego a concedermi questa risata liberatoria, chiudendo anche gli occhi, lui si avvicina e mi posa due dita sulle tempie, massaggiando piano. Quando riapro gli occhi, la pressione delle sue dita e i suoi occhi assurdamente vicini sono le uniche cose vere in tutto l’universo. Perciò mi sembra il caso di dire qualcosa di altrettanto vero, e anche in fretta. – Mi sei mancato.
Lui smette subito di toccarmi, naturalmente, e si allontana di un paio di passi.
- Io dovrei- - comincia, ma naturalmente io gli impedisco di finire.
- È che non ci siamo più visti né sentiti! – comincio a blaterare, gesticolando come faccio solo quando non ho idea di cosa sto dicendo e spero che i miei movimenti possano distrarre dal contenuto delle mie parole, - Ero un po’ preoccupato, sai, per come ci eravamo lasciati. – realizzo solo mentre parlo che in realtà quello che è uscito da casa sua coperto di sangue ed ematomi, alcuni dei quali sono qui ancora oggi nonostante le lunghe settimane di mancata frequentazione, ero io, quindi forse dovrebbe essere lui quello che s’è preoccupato per me. Che ne sapeva, lui, di cosa mi succedeva nel mentre? Potevo uscire da casa sua e accasciarmi al primo angolo morendo per un’emorragia interna, per dire. Certo, poi i giornali in qualche modo gliel’avrebbero fatto sapere, e quindi – visto che sulle prime pagine di tutte le riviste scandalistiche non ci sono foto del mio cadavere all’obitorio bensì foto di me che passeggio con Bill, vado a cena con Bill, vado al parco con Bill e faccio un altro mucchio di cose con Bill – lui probabilmente non ha avuto motivo per preoccuparsi né nient’altro, però boh, è abbastanza assurdo che io adesso gli stia dicendo che ero preoccupato per lui. E peraltro ho continuato a parlare anche adesso che nel mentre mi stavo parlando nella testa, quindi non ho idea di cos’ho detto negli ultimi dieci minuti. Ma dev’essere qualcosa di assurdo, se mi sta guardando con quella faccia lì, come se stessi imprecando in latino mentre la testa mi ruota sul collo di trecentosessanta gradi e fiotti di vomito verde escono a fontana da ogni orifizio del mio corpo.
- Chaku… - mi chiama lui, un sorriso divertito appena accennato sulle labbra, - Chaku! – e io mi interrompo a metà di una parola che non ho pensato e non saprò mai di aver detto. – Mi sei mancato anche tu. – sorride più serenamente, appoggiandosi di spalle alla parete, - Sono contento che le ferite vadano meglio. Almeno non sei più inguardabile. – ridacchia.
E io non lo so cosa mi prende. Probabilmente la stessa cosa che mi è presa mentre Eko blaterava di lui e Bushido lunedì mattina in casa mia, ingozzandomi di krapfen e sperando bastassero per non sconvolgermi troppo. Probabilmente la stessa cosa che mi è presa tutte le volte in cui ero consapevole di doverlo lasciare andare, o doverlo quantomeno aiutare a staccarsi, o di dover rispettare la sua scelta di non volermi più rivedere. Probabilmente la stessa cosa che mi prende sempre, insomma, quando c’è di mezzo lui. Una cosa che non so e non posso fermare, una cosa a riguardo della quale mi fa paura ammettere che non voglio cercare di fermare.
Neanche me ne accorgo, quando mi avvicino, perché è un movimento talmente collaudato che ce l’ho tipo inciso nelle ossa. La forma del suo petto contro il mio, le sue spalle sotto le mie mani, le sue labbra pressate sulle mie. Il suo sapore che è sempre lo stesso.
Io non me ne accorgo, lui sì. Mi pianta addosso le mani e mi spinge indietro con forza, schiacciandosi contro la parete come se servisse a difendersi, e mi dà l’impressione che, se potesse, sfonderebbe il muro e indietreggerebbe ancora. Non può, ed è l’unico motivo per cui sto continuando a guardarlo negli occhi. Posso quasi vedermici riflesso dentro. La mia espressione confusa, come se io per primo non avessi capito cosa stavo facendo.
Lo capivo, Fler. Stavo sbagliando lo stesso, ma lo capivo.
*
Ho bisogno di appoggiarmi da qualche parte, e scelgo la parete perché sembra abbastanza rigida, dopotutto, anche se a volte ho come l’impressione che i muri all’EGJ siano fatti di cartone, tanto sono sottili, che se uno parla un po’ più ad alta voce dall’altro lato senti tutto.
Guardo Chakuza e vorrei potergli leggere nella sua testa con la disinvoltura con la quale in genere lo faccio quando non sono così confuso e turbato e minacciato – da cosa, neanche lo so – ma non ci riesco. Respiro profondamente, mi rendo conto che non mi basta, respiro ancora.
- Non- - comincio, incerto, - Non intendevo questo.
Lui mi guarda e non risponde. Ha le labbra dischiuse, gli occhi persi, e io non so che dirgli di più. Non so neanche se avergli detto quello che gli ho appena detto sia stato corretto, perché non è vero. Non lo è del tutto, almeno. Mi piacerebbe che lo fosse, ma non può esserlo se mi basta così poco per non capire più niente.
- Scu- - comincia lui, ma io mi agito subito, mi stacco dal muro e comincio a muovere le braccia per fermarlo.
- Non scusarti. – lo blocco, scuotendo il capo, - Mi sono fatto fraintendere io. Insomma, mi manchi, sì, ma non in quel senso. E poi sto con-
- Lo so con chi stai. – mi interrompe lui. Ho perso il conto delle volte in cui ci siamo parlati addosso, interrompendoci a vicenda, solo oggi. È un gioco che abbiamo condotto dalla prima volta che ci siamo visti, la verità è che io e Chakuza siamo due teste troppo dure perché dai nostri scontri possa davvero uscire qualcosa di buono. Motivo in più per cui è necessario chiuderla adesso. Sarebbe stato meglio chiuderla prima, ma se adesso è tutto ciò che resta, è adesso che dobbiamo chiuderla.
- Sto con Anis. – dico comunque. E lo dico scandendo bene ogni lettera, parlando chiaro e ad alta voce. Così che lui possa sentirlo, sentirlo davvero, e non possa ignorarlo.
Chakuza non mi guarda. Annuisce sbrigativamente, poi borbotta qualcosa sull’aspettare in macchina, che è meglio, e poi si dilegua in un batter d’occhio. Mentre lo osservo attraversare la porta per uscire dagli studi, colgo l’occhiata di sfuggita che mi lancia attraverso lo specchio accanto all’appendipanni, e nei suoi occhi – ora che sono lievemente più calmo – leggo chiaramente che sta già per dimenticare quello che gli ho appena detto, perché non c’è niente che Chakuza possa impedirsi di scordare, se gli fa comodo.
Sospiro pesantemente, riprendendo il corridoio e ricominciando a muovermi verso l’ufficio di Anis come stavo facendo prima di incontrare Chakuza di fronte al divano. Mentre busso alla porta, più per abitudine che perché Anis abbia mai richiesto da me un simile riguardo, penso che è altamente presuntuoso, e anche altamente stupido, da parte nostra, pensare di poter chiudere qualcosa che non abbiamo ancora nemmeno aperto. È il problema della nostra esistenza tentare di chiudere cose non aperte e tentare di convivere con cose mai chiuse come se lo fossero. E io ne so qualcosa.
Quando entro nell’ufficio, Anis si sta palesemente annoiando, e a me viene da ridere. Me lo ricordo ai tempi dell’Aggro, lui era uno capace di darsi alla macchia per giorni e comparire agli studi in tempo per la registrazione, fare la sua cosa e poi sparire ancora fino a chissà quando. Ora è diverso, ora c’è la Universal di mezzo, e la Universal ha tabelle con orari prefissati, appuntamenti programmati giorni prima, giornate di lavoro scandite nel minimo dettaglio. Il classico lavoro da impiegato statale dal quale Anis è sempre fuggito da che è nato, insomma, eppure ora è costretto a sottoporsi a cose simili, cose delle quali nemmeno comprende l’utilità, perché giustamente lui cosa ci sta a fare dietro a una scrivania se non ha canzoni da scrivere, demo da ascoltare o rapporti di vendita da visionare compiaciuto?
- Come va? – chiedo divertito, chiudendomi la porta alle spalle ed avvicinandomi. Lui smette di fingere di scorrere con gli occhi incartamenti inutili e si stende tutto sullo schienale della sedia, che è di quelli a molla e quindi segue la sua spinta, piegandosi all’indietro e permettendogli di stiracchiarsi come può con un grugnito di soddisfazione un po’ frustrata.
- Secondo te? – ribatte lui, tornando dritto e grattandosi distrattamente la fronte, - Voglio tornarmene a casa e non posso.
- Perché? – rido, appoggiandomi alla scrivania, - Aspetti che suoni la campanella?
- Devo incontrare un tipo… - borbotta lui, lanciandomi un’occhiata indispettita, - Un manager, cazzo ne so. Fra mezz’ora. Cristo, ma chi me l’ha fatto fare? Potevo stare sdraiato in una spiaggia a bere latte di cocco mentre le turiste mi guardavano come una specialità locale, adesso. E invece, guardami.
- E invece sei tornato nell’ostile Germania, il cui trono era stato usurpato dal tuo vigliacco fratellastro pelato, e hai combattuto per riconquistare regno e principessa.
- Per poi perderli entrambi. – sorride lievemente. Nei suoi occhi c’è una traccia di tristezza che è solo un’ombra. La scaccia via battendo le palpebre, e poi torna a guardarmi. – Cos’hai? – mi chiede, scrutandomi incuriosito.
Io distolgo lo sguardo, perché non voglio che veda. Alle volte, però, mi sembra quasi che non ne abbia bisogno. Mi sembra che i miei turbamenti li percepisca nell’aria, come quando dal niente ha capito che ero tornato a casa dopo aver scopato con Nicole. È una libertà di lettura che gli ho lasciato io e della quale pagherò per sempre le conseguenze.
- Niente. – biascico, - È tutto ok.
Lui non mi risponde, si vede lontano un miglio che non mi crede manco per niente. Resta un po’ seduto sulla propria poltrona, rigirandosi i pollici e guardandomi. Lo so perché, anche se sto fissando la parete come se stesse affiorando Gesù Cristo in persona da sotto l’intonaco, mi sento addosso i suoi occhi, e mi fanno sentire a disagio.
Poi lo sento alzarsi e fare il giro della scrivania, raggiungendomi, e solo allora torno a guardarlo e lo vedo che mi sorride. Faccio per dirgli qualcosa, ma lui si sporge in avanti e mi bacia leggerissimo sulle labbra. Sta ancora sorridendo.
Non devo dirgli niente. Chiudo gli occhi e sporgo appena le labbra. Lui ride, mi ride proprio addosso, e poi mi si stringe contro, facendosi spazio fra le mie gambe mentre io mi sollevo e mi seggo sulla scrivania, lasciandogli tutto il posto che gli serve. Piego il capo e lui approfondisce il bacio, attirandomi a sé con una mano sulla nuca. E non gli importa che la porta non sia chiusa a chiave, perché se per caso qualcuno la aprisse e ci vedesse, lui non avrebbe alcun problema a dirgli di andarsi a fare un giro mentre lui finisce di scoparmi. E questo può succedere perché lui mi porta a cena fuori, perché usciamo insieme, perché se gli chiedono se stiamo insieme, pure come una battuta, lui risponde di sì con tutta la serietà del mondo. Non perché stia legandosi a me per sempre come fossimo sposati, semplicemente perché sa che non c’è motivo di mentire a riguardo.
Non c’è niente di nascosto, di quello che siamo. È la prima volta che mi sento così in tutta la mia vita. Anis è stato l’unico a farmi sentire in questo modo. E io gli sono grato mentre lo aiuto a scostarmi i vestiti di dosso e piegarmi sul tavolo, prendendolo dentro con un gemito che gli spengo sulla spalla, prima di tempestarla di baci e morsi.
Quando vengo fra le sue dita, mi lascio sfuggire un gemito più forte degli altri, e lui sorride soddisfatto sul mio collo.
- Visto? – mi dice. Il suo respiro è pesante e sorrido anch’io. – Qualsiasi cosa fosse, ora è passata.
Lo abbraccio stretto, solo per qualche secondo. Non l’ho mai fatto con lui, non così, ma oggi mi sento piccolo, e l’ufficio all’improvviso mi sembra la cameretta in cui dormivo da ragazzino, nella casa con mamma, a Tempelhof. Adesso mia madre non ci vive più, là. La prima cosa che ho fatto, quando ho cominciato a vedere soldi veri, è stata comprarle una bella villetta in un bel quartiere pieno di verde dove passano i ragazzi a portare il giornale e il latte al mattino.
- È passata. – confermo, anche se forse non è del tutto vero. – Grazie.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Drammatico, Triste, Erotico, Romantico.
Pairing: Fler/Chakuza, Bushido/Fler, Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash, Angst, Violence.
- "Io sono una persona molto paziente."
Note: Intanto mi scuso in ginocchio per il ritardo /o\ *si prostra* Me lo vedrete fare spesso, in futuro, perché continuo ad aggiungere fandom alle mie preferenze e non ho il tempo oggettivo di scrivere tutto quello che vorrei. Ma non preoccupatevi, tutto ciò vedrà una fine. Cioè, non il mio fangirling, quello dubito ce l'abbia, una fine, figurarsi vederla da qualche parte alla fine del tunnel. No, dico, questa storia avrà una fine, lo giuro sul sorriso idiota del Bu, che è un giuramento importante. E... non posso spoilerarvi niente, ma fin d'ora: cercate di non volermi male, io non c'entro, fanno tutto loro.
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A WOUND UNHEALING

Io sono una persona molto paziente. Lo sono perché da piccolino non ero paziente per niente, e questo mi ha insegnato molte cose. L’episodio più emblematico della mia esistenza, in questo senso, risale ai miei… dovevano essere quindici, da poco passati, o una cosa del genere. Anis – che allora era solo Sonny e andava in giro rattoppato e malconcio come l’immigrato che non è mai stato anche se avrebbe dovuto – aveva deciso di mostrarmi la sua fantastica moto, una roba di cui si parlava da mesi e della quale lui favoleggiava cose assurde tipo che potesse scalare i palazzi e cazzate simili ovviamente false ma alle quali io credevo ciecamente perché ero un ragazzino e la mia testa era tutto un concentrato di ammirazione per questo tipo assolutamente folle che poi in un modo o nell’altro mi avrebbe cambiato irrimediabilmente la vita.
Comunque sia, io ero molto emozionato per questo grande evento che mi coinvolgeva e che palesemente doveva aprirmi le porte di un futuro più luminoso e splendente che mai, ed ero così emozionato che, nel momento in cui vidi la saracinesca del garage dietro casa sua cominciare a sollevarsi, mi ci fiondai contro neanche fosse stata un materasso e io un uomo provato da dodici ore di lavoro continuativo in fabbrica.
In sunto, andai a sfracellarmi contro la saracinesca sollevata a metà e caddi a terra all’indietro, tagliuzzandomi peraltro i palmi delle mani sulle pietruzze che ricoprivano il vialetto là davanti e piagnucolando come un deficiente mentre Anis mi passava accanto a mi guardava allibito, tirando su quel che restava da tirare su sia della saracinesca che di me, ed aiutandomi a scrollarmi di dosso un po’ di terriccio bianco e polveroso.
- Guarda che tu devi calmarti. – mi disse allora, una mano sul fianco e il capo lievemente inclinato, - Facendo le cose di corsa, non arriverai da nessuna parte. Devi riflettere, con calma, segui il ritmo del tuo cervello. Non sei tanto lento da diventare un pericolo, se ti ascolti un po’. Hai un buon ritmo. – il che era palesemente il più bel complimento mi fosse mai stato fatto dopo “aaaw, Patty, che begli occhioni che hai, bello della mamma!”, detto da mia madre quando dovevo avere qualcosa come cinque anni.
Comunque sia, da quel momento – anche per non ripetere figuracce tipo la saracinesca presa di naso – ho cercato di fare tesoro di quell’insegnamento, e riflettere sempre. Che è una cosa che quando stai per strada ti aiuta molto, se non sei stupido. Cioè, se sei stupido è meglio che tu non rifletta, rischi di prenderti troppo tempo e non è il caso. Ma se il cervello si muove bene, se hai un buon ritmo, come mi ha detto Anis, allora è ok. E io ho cominciato a seguire il mio ritmo, e in effetti da quel momento le cose in generale per me hanno cominciato a girare in un verso lievemente migliore rispetto a quello che avevano imboccato prima.
Comunque, per spiegare quanto infinita e profonda sia la mia pazienza, basta osservare l’evoluzione del mio rapporto con Chaku nei secoli. Dico “nei secoli” un po’ perché fa ridere, e qua se non la si prende con simpatia è un dramma, e un po’ perché a volte davvero mi pare che siano passati centinaia d’anni da quando l’ho visto da vicino – più o meno, visto che ero nascosto dietro un mausoleo – durante il funerale di Anis.
Comunque sia, di strada ne abbiamo fatta un casino. Non è stato sempre semplice – in realtà non lo è stato mai – e non è stato sempre divertente – anche se spesso in realtà sì – eppure mi gloriavo, fino a qualcosa come due minuti fa, di essere riuscito comunque sempre a mantenerlo una costante della mia vita nell’ultimo anno, un qualcosa cui potessi affidarmi. Non a lui in quanto Chaku, per carità, non gli affiderei manco una pianta grassa, ma alla sua presenza in quanto tale, quello sì.
In questo momento, però, guardo il Chaku – lo vedo qui seduto sul mio divano che si torce le mani in grembo e fissa il vuoto con aria pallata cercando di trovare le parole per dirmi ciò che mi deve dire – e mi rendo conto che le costanti, in realtà, sono una stronzata enorme con cui gli esseri umani si divertono a illudersi di poter avere qualcosa di incrollabile nella propria esistenza, quando invece non esiste proprio un bel niente che sia incrollabile. Questa è l’ultima cosa che mi ha insegnato Anis, povero stronzo, che credeva di poter giocare con la vita e la morte ed uscirne vittorioso comunque, e invece ha perso, eccome se ha perso.
- Io… - comincia Chakuza, e a me viene voglia di dargli un buffetto su una guancia e mandarlo a mangiare gelati, che ne so. Davvero, Chaku non ha quasi mai problemi a dirti le cose che deve dirti, anche perché sono quasi sempre cose che riguardano problemi di ordine pratico. “S’è intasato il cesso” o “non funziona più il frigorifero”. Insomma, lui ti presenta un problema per il quale è sicuro che in due riuscirete a trovare una soluzione, questo è quanto. È così evidente che, adesso, sta cercando di trovare le parole per farmi un discorso completamente diverso, che davvero mi viene voglia di fargli due coccole e dirgli che non importa, suvvia, qualsiasi cosa sia andrà a posto da sola, non preoccuparti, Chaku.
Tra l’altro in tutto questo mi viene in mente – così dal nulla – che da quando è entrato non mi è ancora saltato addosso, e questo dovrebbe preoccuparmi. Mi viene in mente all’improvviso perché ormai quando ho il Chaku intorno ho imparato ad autosettarmi in una modalità di ricezione dati che sia Chaku-friendly, e siccome quest’uomo ha tempistiche tutte proprie devo anche adattarmici, o rischio di combinare casini. Mi viene anche da pensare che lui non si preoccupa di generare disastri quando si muove, lui si muove e basta devastando l’ambiente circostante, un po’ come Anis, ma questo non è davvero un problema, al momento. Io sono uno che a queste cose ci sta attento.
Comunque, è strano che non abbia già trovato una scusa random per espletare quella che è la sua funzione primaria nel mondo, ovvero disperdere il seme, per cui mi viene da pensare “cazzo, sarà davvero preoccupato per qualcosa di serio, il Chaku, o non sarebbe qui a rigirarsi i pollici invece di usarli in modo decisamente più proficuo”, e mi siedo al suo fianco sul divano, cercando di guardarlo negli occhi per provare a intuire cosa confonda ulteriormente il suo cervello già confuso a livello base.
Insomma, lui si gira e mi guarda. Solo per una frazione di secondo, e io lì, in quella frazione di secondo, leggo tutto quello che mi serve sapere: il senso di colpa. Parliamone. Quest’uomo non s’è mai – mai mai mai – sentito in colpa nei miei confronti anche quando ha fatto cose per le quali una persona normale sarebbe andata di gran carriera a costituirsi alla prima centrale di polizia disponibile. E, Dio mio, non oso immaginare cosa possa aver combinato questa volta per avere stampata in faccia un’espressione così colpevole da essere tanto palese, nella sua colpevolezza, da lasciarmi turbato.
- Chaku? – lo chiamo, un po’ incerto, - Togliti quella roba dalla faccia, se non è indispensabile che tu ce la tenga.
- …uh? – chiede lui, confuso, passandosi un dito su una guancia come ci fosse rimasto sopra uno sbuffo di panna o che so io, - Di che-
- Che cos’hai? – taglio corto io, anche perché non mi va di spiegargli che ormai lo leggo come un libro aperto e non è il caso che faccia tanto il misterioso, - Avanti, parla, o la testa ti diventerà così calda che ti prenderà fuoco il berretto.
Il Chaku inspira ed espira profondamente. Si gonfia tutto come un palloncino e poi si risgonfia, mi sembra improvvisamente molto piccolo, a guardarlo adesso, anche perché è tutto curvo e abbacchiato e non mi guarda e invece io sto qua con la schiena bella dritta e lo fisso perché mi piacerebbe anche avere una risposta entro il prossimo trentennio, Chaku, non è che posso restare qui in attesa del momento in cui ti sentirai pronto a svelare i misteriosi e oscuri segreti della tua psiche.
- Senti, io e te dovremmo parlare. – mi dice, e già il fatto che sia lì a usare condizionali a sproposito mi urta. Voglio dire, sei venuto fin qui, hai preso possesso del mio divano e sei qui a inspirare ed espirare teatralmente da mezz’ora, mi pare chiaro che dobbiamo parlare e non dovremmo parlare, quindi parla. – A proposito di una cosa molto importante.
Comincio a subodorare qualcosa, perché Chaku non ha molte cose veramente importanti, nella sua vita. Il suo lavoro, la sua famiglia. Bill. E siccome per lavorare lavora e lutti in famiglia non ce ne sono ancora stati, almeno che io sappia, mi sa che il problema qui è anche più grave di quanto non avessi immaginato. Ed ecco che si spiega il senso di colpa nei suoi occhi.
Mi alzo in piedi e mi dirigo verso la cucina, perché non voglio stare qui seduto mentre lui mi dice ciò che mi deve dire. Voglio avere le mani e la testa occupate. Prendo a montare la moka con una precisione quasi malata, stando bene attento a non versare caffè ed asciugare con un panno ogni singola gocciolina d’acqua sulla superficie metallica.
- Fler… - mi chiama lui, dalla soglia della porta, avvicinandosi a disagio. – Mi dispiace. – dice solo, abbassando lo sguardo. E io vorrei – anzi, voglio, stavolta voglio – fargli notare che non può dare sempre per scontato che io lo capisca a prescindere. Non può pretendere che lo scusi, non può pretendere che lo perdoni, se non trova neanche le palle di dirmi come stanno le cose. Io non posso farlo, se lui non si prende almeno la responsabilità di impedirmi di capirle da solo.
- Per cosa ti dispiaci? – chiedo, continuando a preparare il caffè e ripulendo il ripiano con una pezza umida. Il mobile in legno laccato bianco torna subito immacolato. Ho una bella casa, cazzo, la vivo così poco. Sono un cretino.
- …lo sai. – biascica lui, incapace di sollevarmi gli occhi addosso.
- No, non lo so. – continuo io, e mi rendo conto di essere odioso, e anzi, in un’altra situazione sicuramente a guardarmi agire con un atteggiamento simile mi prenderei a cazzotti da solo, ma qui ed oggi Chaku non può veramente pretendere della bontà da me, ed io in ogni caso non sono disposto a concedergliela.
Chakuza sospira, si avvicina e io faccio uno scatto indietro, perché non voglio che mi tocchi. Non voglio neanche che mi sfiori o che le sue mani possano arrivare ad una distanza tale da poterglielo permettere anche se poi non lo farà. Lui mi guarda come se l’avessi appena accoltellato alla schiena, e recupera la caffettiera, poggiandola sul fornello e accendendo il fuoco.
- Bill è venuto da me, qualche giorno fa. – comincia. Io comincio a contare i giorni in cui non l’ho visto, recentemente, e mi do dell’idiota. – Lui e Bushido hanno rotto. – comincio a contare anche i giorni in cui Anis ha chiamato, sempre più spesso, intrattenendosi in conversazioni sempre più lunghe, e mi do della testa di cazzo. – Bill dice di volerci provare. Dice di essere serio, stavolta.
E io mi mando a fanculo da solo e basta, davvero, perché certe cose puoi non vederle solo se non vuoi farlo.
Mi volto verso di lui con una lentezza che stupisce per primo me stesso. È come se il mio corpo stesse cercando di fermarmi per impedirmi di fare qualche pazzia. Ma io la voglio fare, questa pazzia. Cazzo, se la voglio fare, Dio, ora che lo guardo con quell’espressione colpevole ancora addosso ho come l’impressione di non aver mai voluto qualcosa così tanto, nella mia vita. È perché volevo te, Chaku. Ti ho voluto con una forza che tu non t’immagini nemmeno, ti ho voluto con una forza che nemmeno Bill può immaginare, perché io il ragazzino lo adoro, ma quello che ha voluto l’ha sempre ottenuto senza sforzare niente più dei suoi occhioni e delle sue labbra a sbattere un po’ più lentamente e piegarsi in un sorriso appena più triste. Cazzo, Chaku. Cazzo.
Il primo pugno non lo realizzo in maniera cosciente. Mi fanno male le nocche della mano e anche il dorso, quindi non posso fare a meno di realizzarlo a livello fisico, ma nella mia testa? io non sto picchiando nessuno. Se la mano mi fa male è perché la congiunzione astrale che proietta i suoi influssi su di noi ha evidentemente degli effetti negativi sul mio karma, effetti che poi si ripercuotono sotto forma di dolori ossei sparsi qua e là e concentrati sulla mia mano destra.
Il secondo pugno lo realizzo per forza, perché il Chaku comincia a sanguinare. Mi macchia di rosso il pavimento cadendoci a terra, e la cosa più assurda di tutte, la cosa più triste, è che non si difende. Non lo so, probabilmente starà pensando qualcosa del tipo “ora lo lascio sfogare, magari mi spezza qualche osso ma alla fine lascia perdere”. Chaku, guarda che ti stai sbagliando, e anche parecchio. Io sono fuori di me, non ci vedo più e tutto quello a cui riesco a pensare in questo momento è come inchiodarti meglio a terra per prenderti a cazzotti fino a quando a sporcare il mio pavimento non sarà solo il tuo sangue ma anche il tuo cervello spappolato. Per ciò, Chaku, alzati e reagisci, almeno prova a malmenarmi, se ti riesce, perché sennò da qui vivo non esci.
Lo afferro per i polsi e li tengo stretti tra le dita con più forza di quanta non vorrei utilizzarne – molta più di quanta ne serva, peraltro, perché Chakuza, d’accordo, non è esattamente esile come un preadolescente anoressico, ma la sua forza non è neanche paragonabile alla mia quando sono infuriato. Lui devasta le case? D’accordo, ma io pestavo gli spacciatori marocchini trentenni a sedici anni nei vicoli di Tempelhof. Misurati con questo, austriaco.
Stringo tanto forte che sento le ossa scricchiolare sotto i polpastrelli. Penso che potrei spaccargli i polsi e sarebbe divertente osservare la sua faccia stravolta mentre si rende conto che non ho intenzione di lasciarlo andare, ma poi capisco che sarebbe troppo netto, come avviso, che se davvero voglio fargli capire quali sono le mie intenzioni prima di portarle a termine e ucciderlo senza pietà come merita, devo andarci con mano più leggera. Perciò i polsi non li spacco, li tengo stretti e li imprigiono sotto le ginocchia, schiacciandolo contro il pavimento. Lui si dibatte per un po’, ma cazzo, non sono certo un peso piuma, e lui non riesce a muoversi. Voglio sentirti implorare, Chakuza, voglio che tu mi chieda sanguinando di lasciarti andare, perché ho come l’impressione che questo sarà l’unico modo in cui riuscirò a dirti addio davvero.
Certe relazioni che si aprono nel sangue, non possono fare altro che chiudersi nello stesso modo. È per questo motivo che avrei dovuto capire immediatamente che la mia relazione con Anis non avrebbe mai potuto chiudersi nel modo in cui pensavo si fosse chiusa, col nostro sangue mescolato su un marciapiede sporco e solitario in una strada secondaria persa nel nulla in mezzo a Berlino: la mia relazione con Anis non è cominciata nel sangue, quindi non poteva chiudersi lì. La nostra sì, Chakuza, quindi vediamo di chiuderla adesso.
All’inizio non sento che mi sta chiamando. Preso come sono a sbattergli addosso i pugni fra il viso e il petto, non riesco a trovare abbastanza concentrazione in più per mettere in funzione le orecchie e percepire la sua voce. Poi la sua voce – ridotta a un rantolo sottile e vischioso come i rivoletti di sangue che gli colano giù dalle labbra e dal sopracciglio – riesce a farsi strada fra i thud compatti delle mie nocche contro le sue ossa, e io lo sento. Per un secondo, più o meno, riesco a ignorare i complimenti interiori che gli rivolgo per essere sopravvissuto più a lungo di quanto altri esseri umani al suo posto non sarebbero stati capaci di fare, perché sentirlo gemere di dolore sotto i miei colpi è troppo soddisfacente, è una cosa che ho represso senza darle sfogo per troppo tempo per non apprezzarla in maniera assoluta e totale. Continuo a pestarlo, un cazzotto dopo l’altro, e ascolto la sua voce generalmente così profonda diventare sempre più sottile e mi compiaccio, davvero, perché quest’uomo nell’ultimo anno per me è stato una montagna concettualmente insormontabile, nonostante le sue dimensioni tutto sommato ridotte, e adesso sono io che l’ho messo giù, sono io che gli sto facendo del male, sono io che comando, sono io che decido, Chakuza, la tua vita è nelle mie mani e credimi, non sta facendo male un terzo di quanto non abbia fatto male a me lasciare il mio cuore nelle tue.
Mi fermo – del tutto all’improvviso e senza neanche volerlo – quando mi rendo conto che non sta più protestando. Non è facile, in realtà, perché sono molto più attratto da particolari scemi tipo la macchia di sangue che si allarga sulle piastrelle sotto di lui, o il modo in cui strizza le palpebre nel tentativo di proteggere almeno gli occhi. Quindi in un primo momento niente, il pensiero di poter essere andato un po’ oltre neanche mi sfiora, e per un po’ continuo a pestarlo come fosse ancora tutto a posto – in un certo senso – e questa fosse ancora una colluttazione normale in cui io attacco e lui si difende.
Poi, finalmente, capisco che non è così. Che lui è immobile, non parla, non si agita, e pure il respiro in realtà s’è fatto un tantino faticoso, che potrebbe essere perché gli sto seduto sullo stomaco, ma anche perché gli ho sfondato la testa a cazzotti, non essendo io medico non lo posso capire subito. Perciò, la prima cosa che faccio – dopo, naturalmente, aver frenato le mani, prima di devastarlo del tutto – è cercare di sincerarmi che sia ancora vivo.
- …Chaku? – chiamo piano, e voglio dire, mi viene anche un po’ da ridere perché io non posso pestare un uomo fino a fargli diventare il cranio ovale e poi chiamarlo Chaku, c’è qualcosa che non va. – Chaku, stai bene?
Dico, deficiente che non sei altro, non sta bene no. Ti pare – mi dico, sempre da solo, che tanto il Chaku non può parlare e sono quasi sicuro che, anche se potesse, non sarebbe un compagno di conversazione adatto – che uno può passare un’intera mezz’ora della propria vita sdraiato su un pavimento a farsi cambiare i connotati da un pazzo isterico cui non va giù di essere stato appena mollato?, che poi è questo che è successo, eh?, niente di meno e niente di più, io sono stato mollato e quindi gli sono saltato addosso con la chiara intenzione di ammazzarlo. Voglio dire, avevo i miei motivi, ma non si fanno, queste cose. Quindi no, chiaro che non sta bene, che cazzo gli chiedo?, che se potesse rispondermi mi tirerebbe uno dei suoi soprammobili oblunghi sul naso. Certo, sempre se fossimo a casa sua.
Comincio ad essere un po’ confuso.
- Chaku. – lo chiamo ancora, più seriamente, scendendogli di dosso così magari evito di ucciderlo definitivamente, e sollevandogli piano la testa per rendermi conto del fatto che no, non gliel’ho spaccata contro il pavimento, è ancora lì, perfettamente sferica, giusto un po’ bozzuta dove ha battuto, e la chiazza di sangue che c’è sotto tanto per cominciare non è così ampia come l’esaltazione di prima mi faceva pensare, e tanto per concludere, cosa ancora migliore, è giusto il sangue che è uscito dalle ferite sul viso, non è che gli ho bucato il cranio ed è scivolato fuori dalle orecchie quel po’ di cervello che gli era rimasto. È ancora integro, intendo, più o meno.
- Ok… - cerco di scandirmi il tempo da solo, nel silenzio surreale in cui è immersa la mia casa da quando ho smesso di picchiare Chakuza, - Vediamo di capire… - biascico, ma parlo senza neanche sapere cos’è che sto dicendo, perché in realtà voglio solo sentire qualcosa, dato che il vuoto un po’ mi spaventa. Non mi sento in grado di controllarlo, specialmente in questo momento. – Ora ti metti in piedi. – suggerisco, ma naturalmente il Chaku da solo non lo fa mica, anche se sento che ora respira meglio, quindi magari si sta riprendendo. Lo sollevo cercando di fare piano, me lo carico in spalla e lui si lascia dietro una scia di sangue neanche stessi trascinando un cadavere, sporcandomi tutta la maglietta.
Mi mugola qualcosa addosso mentre lo trascino verso il divano e poi lo sistemo fra i cuscini cercando di usare la maggior delicatezza possibile. Quando torno a guardarlo, lui ha gli occhi aperti. Cioè, non proprio aperti, diciamo meno chiusi di prima. E guarda il mondo con aria del tutto disinteressata. Probabilmente il cervello tutto a posto proprio non è, dev’essersi staccato dalle pareti della scatola cranica e ora galleggia lì in mezzo a liquidi non ben definiti con tutte le sinapsi scollegate, e già mi figuro il resto della vita di quest’uomo costretto a rimanere sul divano mentre Bill lo nutre con minestrine varie cercando di impedirgli di sbrodolarsi sul bavaglio. Oddio, conoscendo il ragazzino non reggerà neanche due mesi, ma d’altronde anche io probabilmente lascerei perdere dopo un periodo non tanto più lungo, perciò è meglio che lo rimetta in sesto o qua è un disastro.
- Cosa… - mormora lui, incerto, e io evito di restare lì in attesa mentre lui riprende coscienza di ciò che è e di cosa gli sta succedendo, e vado in bagno, nella speranza di avere lì una cassetta del pronto soccorso. È ridicolo, so dov’è la cassetta del pronto soccorso in casa del Chaku, so dov’è in casa di Bill, so dov’è in casa di Anis e so dov’era in casa di Nicole, ma non ho idea di dove sia qui in casa mia. Non so neanche se ci sia.
Fortunatamente c’è, quindi quando torno indietro non lo faccio a mani vuote come un cretino, ma con il disinfettante e un vario campionario di cerotti di diverse dimensioni fra le mani. Chakuza mi guarda senza capire cosa ci faccia io lì, probabilmente.
- Mi dispiace. – butto lì giusto per dire qualcosa, - Spero non faccia troppo male.
- Uh? – chiede lui, senza dimostrare particolare presenza a se stesso, - Male? Non direi, ma non lo so, sono un po’ intorpidito…
Fortuna che sei intorpidito, penso io, se eri vigile e attento probabilmente stavi giù urlando in preda al dolore desiderando la morte piuttosto che subire ancora questa tortura infinita. Mi seggo accanto a lui sul divano, imbevo un po’ di cotone idrofilo nel disinfettante – l’alcool che non brucia, quello dei bimbi piccoli, non ricordo nemmeno quando l’ho comprato ma ero sicuro che, se dovevo avere del disinfettante, sarebbe stato questo, perché odio il bruciore dell’alcool normale. Ne odio anche il colore, per la verità.
- Stai buono, - dico, passando il batuffolo sulle ferite, cercando di fare piano, - Ti do una sistemata.
Lui annuisce ed io mi metto lì buono a fare qualcosa che non so fare, perché quando andavo in giro pestando gente per strada e ricevendo da loro lo stesso quantitativo di botte che somministravo, era mia madre a rimettermi a posto. Poi, le varie fidanzate di Anis, donne che avevano imparato l’arte standogli accanto. E anche l’ultima volta, è stato Chakuza a prendersi cura di me.
Io non sono per niente capace, ma visto che sono stato io a ridurlo in questo stato pietoso, è giusto che mi prenda le mie responsabilità e lo rimetta in sesto. D’altronde, qualcuno dovrà pur farlo. Uno qualsiasi di tutti noi.
Restiamo in silenzio così a lungo che riesco, per un po’, a crogiolarmi nella piacevole sensazione che Chakuza si lascerà ripulire e poi andrà via sempre restando zitto. Sarebbe una bella cosa, da parte sua, almeno dimostrerebbe di aver capito quanto cazzo ci sto male, e di non voler rigirare ulteriormente il dito nella piaga.
Purtroppo, però, è di Chakuza, che stiamo parlando. Lui il dito nella piaga te lo rigira non perché non voglia, ma perché non arriva a capire che non è il caso.
- Fler, - comincia, - io non vorrei che tu pensassi—
- Io vorrei che tu non dicessi niente, adesso. – lo interrompo, riponendo tutto al proprio posto nella cassetta del pronto soccorso ed ammucchiando il cotone idrofilo sporco di sangue di lato, per gettarlo via, - Ho capito l’antifona. E, credimi, vorrei poterti dire che sono felice per te e che possiamo rimanere amici, ma non posso farlo. – vedo qualcosa spezzarsi nei suoi occhi. Schiude le labbra e so che vorrebbe provare a fermarmi, ed è proprio il caso che io non glielo permetta, perché stavolta non ce la posso fare, Chaku. Stavolta proprio no. – Non guardarmi così. – cerco di sorridere, - Sarai felice, anche senza avermi intorno. Probabilmente andrà anche meglio. – e poi torno serio, e il sorriso scompare. – Non cercarmi. Non mi lascerei trovare comunque.
Il nostro addio è molto più impersonale, impacciato e meno sentito di quanto non abbia mai pensato immaginandomelo. Lo accompagno alla porta con tranquillità, cercando di non dargli a vedere che mi reggo appena sulle gambe anche se so che lui se ne accorge. Lui mi saluta con un ciao dimesso, cercando di non darmi a vedere che gli tremano le mani anche se sa che io me ne sono accorto. Quando la porta si chiude alle sue spalle, il suo profumo resta nell’aria di casa mia appena il tempo di essere mangiato dall’odore dei mobili ancora troppo nuovi, e poi io scrollo le spalle, vado in cucina e comincio a ripulire per terra.
*
Da quando Chakuza è uscito da quella porta, nient’altro c’è passato. Nemmeno io, che sono chiuso in casa da cinque giorni. Non è che abbia chissà che paranoie in mente, paura di incontrarlo o chissà che – Berlino è grande e “frequentare lo stesso giro” ha perso senso da quando Bill e Bushido sono due giri diversi a sé stanti – è solo che non mi è venuta voglia. In casa avevo tutto ciò che poteva servirmi, ho dovuto raschiare un po’ il fondo del barile, ma tra scatolette e cibi precotti vari sono sopravvissuto dignitosamente a questa quasi-settimana di solitudine senza rimpiangere il mondo di fuori neanche per il calore del sole sulla pelle. Ti scalda altrettanto anche attraverso i vetri delle finestre.
Quando Bushido arriva, ovviamente senza prima preannunciarsi, mi trova con una pezza umida fra le mani e le maniche del maglione tirate su fino ai gomiti. Stavo lavando i piatti dopo un lauto pasto a base di fagioli in scatola riscaldati a bagnomaria. Ora sono le undici e mezza di sera, lui è sulla soglia della mia porta, è il primo essere umano che la attraversa da giorni ed è ubriaco.
- Anis…? – lo chiamo, ma lui non risponde. Mi fa un sorriso idiota e mi si scaraventa fra le braccia, si vede proprio che si lascia andare, che non ne può più di stare in piedi. Siccome è leggero come un materassino di gommapiuma, lo tengo dritto e lo accompagno verso il divano, chiudendomi la porta alle spalle e cercando di sistemarlo fra i cuscini cercando di impedire che rotoli a terra. – Anis, ma che cazzo—
- Sono ubriaco. – dice lui, come a volermene informare nel caso non l’avessi capito.
- Sì, l’avevo afferrato. – gli faccio presente con una smorfia, - Puzzi tanto che ti sentirei pure a due isolati di distanza, cazzo, ma quanto hai bevuto?
- A sufficienza. – risponde lui, annuendo come se servisse un tono professionale per parlare di una roba simile. Sospiro e roteo gli occhi, sedendomi accanto a lui sul divano e tirandogli un’ancata per costringerlo a spostarsi un po’ e farmi spazio.
- Sì, a sufficienza per farti esplodere il fegato. – ribatto, e lui subito scoppia a ridere come avessi fatto la battuta del secolo, e mi tira uno scappellotto sulla nuca. Solo che poi la mano resta là, e siccome di tenerla immobile non gli va, perché mai nulla nel suo corpo è immobile, prende a farmi delle carezzine minuscole, quasi impercettibili, neanche fossi un cane o un qualche altro animale domestico. – Che è successo? – chiedo con un sospiro, e sospiro perché già lo so cosa è successo, e so anche che sentirmelo ripetere non mi farà bene, perché ciò che Anis mi dirà ha delle implicazioni che lui non conosce e delle quali vorrei parlargli, ma non posso farlo. Tutto ciò che posso fare è restare in silenzio ed ascoltarlo mentre, fissando la parete di fronte a sé, in un punto vuoto defilato rispetto al televisore e ai quadri astratti che erano già qui quando ho preso l’appartamento, mi racconta quanto fa schifo la sua vita al momento, e perché.
La cosa sorprendente è che mi parla di tutto. Principalmente di Bill, com’è ovvio, ma in realtà non tralascia niente. Mi parla dell’etichetta a puttane, di tutta la rete di amicizie che aveva intessuto e che ora è scomparsa quasi del tutto, ma anche di sua madre e di quanto faticosamente abbia accettato tutto ciò e provi comunque a stargli accanto, seppur con difficoltà. Mi parla di suo padre che mentre lui era a Miami è morto e del fatto che non mi sa dire se gli dispiaccia non essere andato al suo funerale e non aver saputo a lungo neanche che un funerale ci fosse stato. Mi parla del vuoto nel petto che sente quando ci pensa e mi parla del freddo che c’è in casa, che è enorme, e mi parla del profumo di Bill che ogni tanto sente ancora quando apre l’armadio o schiaccia il naso contro un cuscino. E mi parla dello spazzolino della sua principessa che è ancora lì nel bicchierino in bagno, dei suoi asciugamani, di tutte le cose che non ha portato via perché erano oggettivamente troppe e in gran parte inutili, decorazioni stupide con cui rinforzavano entrambi la sensazione dello stare insieme. E che ora restano lì solo a testimoniare che insieme non esiste più.
Anis tutte queste cose può dirmele solo perché ora sta così. Perché non ce la fa più a tenersele dentro e l’alcool lo sta usando come scusa per tirarle fuori. Perché prima Bushido era la parte più grande di lui ed ora invece è solo il nome che usa per lavorare. E sarebbe bello vederlo ritornare Bushido davvero, non perché non mi piaccia Anis, ma perché Bushido è tutto ciò per cui Anis ha combattuto. È tutto ciò che si è guadagnato. Ed è orribile vederlo gettare via una parte così enorme e significativa di lui, indipendentemente dal fatto che sia colpa sua o meno se quella parte è morta.
Sollevo una mano, un po’ incerto, e gliela batto sulla spalla in un paio di pacche che spero siano consolatorie. Mi fa schifo dirgli cose banali quando lui invece fino a questo momento mi ha detto cose tremende e bellissime aprendosi il cuore in due e lasciandone venire fuori tutto il sangue, per capirci, ma non è che possa fare poi molto altro.
- Cerca di stare tranquillo. – gli dico, forzando un sorriso bugiardo anche più delle parole che pronuncio, - È probabile che sia solo un momento di confusione. Bill è piccolino, lo sai, è solo un ragazzino. Vedrai che… - deglutisco, prima di andare avanti. Mi chiedo “ma ci credi davvero?”, e rispondermi “no” non basta a fermarmi. – Vedrai che alla fine tornerà da te, e andrà tutto a posto.
Anis, che fino ad ora non mi ha guardato per niente, si volta nella mia direzione. Ha gli occhi lucidi e i capelli scompigliati che gli cadono sulla fronte e sulle tempie. La barba è un po’ più lunga del solito, ma il disegno è rimasto intatto. I suoi lineamenti dritti e fieri sono gli stessi che mi perdevo ad ammirare da ragazzino, quando cercavo di trattenere in corpo più alcool di quanto non potessi fisiologicamente lasciarmi scorrere nelle vene, solo per cercare di dimostrargli quanto fossi grande, quanto potesse ritenermi un suo pari, quanto potesse fidarsi di me.
- Per quanto mi riguarda, - risponde, il tono molto più lucido di quanto entrambi non vorremmo, - può restare dov’è per sempre. Se Chakuza lo rende felice, ci resti. Io… - sospira, cercando di rilassare i muscoli e gettando indietro il capo, poggiandolo sullo schienale e fissando il soffitto, - non ti dico che ho sbagliato. Ho fatto ciò che ho ritenuto opportuno in quel momento, ma purtroppo le cose non sono andate come avevo pensato. In questo momento non saprei neanche dirti se è vero che sono tornato solo per l’etichetta, o se forse non ero semplicemente arrabbiato perché non riuscivo più a tollerare di non avere più niente quando prima avevo tutto. Il punto è che mi sono stancato. – torna a guardarmi, la sua mano pressa ancora contro la mia nuca ed io non so se dovrei averne paura, - Ci ho provato, a rimettere le cose a posto. Ma non ci sono riuscito. Ed ora sono stanco. E non mi va più di tentare. Per cui, che vada come deve andare. Abbasso le armi, il re ha perso. Qualcuno ne sarà felice.
Mi verrebbe voglia di abbracciarlo, ma allo stesso tempo ho paura di cosa potrei fare se mi lasciassi andare a questo punto. Stringo un po’ la presa sulla sua spalla, come a cercare di rassicurarlo con maggiore convinzione. Lui mi guarda con un pizzico di delusione negli occhi e io distolgo lo sguardo.
- Vado a preparare un po’ di caffè. – dico dopo essermi schiarito la voce, alzandomi in piedi e liberandomi della sua mano ancora ferma e pesante sulla nuca, - Vediamo se posso rimetterti in sesto abbastanza da rimandarti a casa tua… altrimenti, c’è il divano. – dico, con una mezza risatina imbarazzata.
Scappo in cucina con la coda fra le gambe, mi sento una merda e non ci sto con la testa. L’agitazione che mi ha preso guardandolo negli occhi per quella frazione di secondo non è spiegabile se non con tutta l’interezza del nostro vissuto. Che è una cosa in cui pesano tanto le parole che ci siamo detti, ma ancora di più quelle che nessuno di noi ha mai avuto il coraggio di pronunciare ad alta voce.
Non so quanti secoli ci metto a preparare la dannata moka. Lo faccio con metodo perché voglio tempo e non voglio pensare, e questo mi ricorda Chakuza, ed al fatto che questa moka la stavo preparando così anche mentre lui cercava di mollarmi fallendo per principio, e questa cosa mi mette addosso ancora più agitazione. Ho paura per quello che potrebbe succedere questa notte in questa casa – ci sono cose che non dovrebbero mai accadere. Ci sono cose che è meglio se restano ipotesi. Io ci credo fermamente, in questa cosa. E so che Anis riuscirebbe a gettare in terra tutto quello che ho costruito con fatica in tutti questi anni senza la minima difficoltà. Io non ho quasi mai paura fino al punto da tremare, ma sto tremando come una foglia. E me ne accorgo solo quando le mani di Anis si posano sulle mie spalle, stringendo e mollando impercettibilmente la presa mentre sento il suo respiro caldissimo sulla nuca.
- Forse avevi ragione tu fin dall’inizio. – parla pianissimo, sulla mia pelle. Non riesco a ricordare molte occasioni in cui ho sentito il suo respiro così vicino da confonderlo col mio. – Sarei dovuto rimanere con te.
Mi cade la caffettiera dalle mani. Fa un baccano infernale andandosi a schiantare sul fondo del lavandino. Si apre in due, ne viene fuori tutto il caffè. Avevo appena pulito. Non riesco a voltarmi e nemmeno a parlare, mi sento di ghiaccio. Non so nemmeno se respiro ancora e sono ancora vivo, o se a tenermi in piedi è solo la tensione.
Lui si china appena in avanti, sento le sue labbra calde e un po’ umide sul mio collo e lascio andare un gemito involontario che è di pura sorpresa.
- Pat. – mi chiama lui, pianissimo, - Guardami.
Io non lo voglio guardare, ma quando entra in gioco Bushido volere e non volere sono cose indipendenti dalla tua volontà, per quanto tutto ciò possa sembrare assurdo. Quindi il punto non è se io voglio o meno, perché vuole lui, e tanto basta per costringermi a girarmi e obbedire.
Nei suoi occhi non lo capisco cosa c’è. Sono tristi, però. Sollevo una mano e gli accarezzo una guancia, lui si appoggia contro il mio palmo con un gesto esausto. Siamo vicinissimi, sento tutti gli spigoli e le curve del suo corpo addosso. Sento cose che preferirei non sentire. Mi viene da ridere se penso che lui di me e Chakuza non sa niente, in teoria dovrebbe ancora credermi etero – se mai gli è sorto il dubbio sul punto. Odio pensare a Chakuza anche in questo momento, vorrei poterlo buttare fuori dalla mia testa a calci, ma non ci sono mai riuscito in tutto quest’anno e mi spaventa, sinceramente, che non ci stia riuscendo neanche Anis adesso.
Poi si sporge in avanti e poggia le labbra sulle mie. È una cosa così stupida, siamo grandi, abbiamo superato l’adolescenza da abbastanza tempo per evitare i baci a stampo, soprattutto quando non è il caso di perdersi in cazzate simili, eppure all’inizio sono solo le sue labbra. Sanno di lui mischiato a tutto l’alcool che ha mandato giù prima di venire qui. Hanno esattamente lo stesso sapore che potevano avere dieci anni fa. Mi sembra di stare chiudendo un cerchio e mi fa paura anche questo perché i cerchi, per loro natura, sono ciclici. Chiuderne uno non vuol dire interromperlo.
La sua lingua mi accarezza piano dopo un po’, ed io esito solo un attimo, prima di lasciarla passare. E quando ci sfioriamo davvero, quando il bacio comincia a diventare una cosa seria, bagnata e calda, lo sento sporgersi in avanti con più decisione. Pianta le mani sul lavello, ai lati del mio corpo, e mi si schiaccia addosso. Io allaccio le braccia dietro la sua nuca e lo stringo con tanta forza che mi fanno male le spalle, le dita e i polsi. E tutto comincia a diventare più confuso, se non altro perché io mi rompo le palle di pensare, di farmi domande, di riflettere su quanto ci faremo schifo domani e quanto tutto ciò sarà stato inutile perché nella merda siamo e sempre lì resteremo indipendentemente da quanto a lungo e con quanta forza anche inconsciamente abbiamo atteso questo momento. C’è Anis che mi accarezza ovunque spingendosi contro di me, ho un suo ginocchio fra le gambe e le sue labbra che mollano le mie solo per permettermi di respirare, ma siccome non riescono ad abbandonarmi del tutto scendono lungo il mio collo, mentre le sue dita afferrano l’orlo del maglioncino e lo tirano violentemente verso l’alto per liberarsene.
Potrei cercare di fermarlo, ma non voglio. Il pensiero che sia ubriaco dovrebbe obbligarmi a cercare di interrompere tutto questo, ma me ne frego. C’è questo momento bellissimo in cui mi slaccia i pantaloni e me li lascia scivolare lungo le gambe, e prende ad accarezzarmi guardandomi negli occhi. Mi vanno a fuoco le guance e sono imbarazzato come mai in vita mia, ma non riesco a smettere di guardarlo a mia volta. Ansimo sulle sue labbra, quasi silenziosamente, e lui mi bacia solo ogni tanto, è come se aspettasse di sentirsi scivolare il mio sapore via dalla lingua e poi tornasse subito a cercare di catturarlo ancora, per vedere quanto a lungo riesce a trattenerlo. E poi gli afferro un polso per fermarlo e, quando riesco a farmi lasciare, faccio per voltarmi e dargli le spalle, ma lui mi ferma.
- No. – dice semplicemente, e quando io torno a guardarlo mi aiuta a issarmi sul ripiano della cucina. Quando lo sento duro fra le gambe, due secondi dopo, capisco cosa vuole, e lo bacio con foga, stringendo il suo viso fra le mani. Mi ci perdo del tutto, lui mi stringe per i fianchi e subito dopo sta già spingendosi con forza dentro di me. Non credo che si stia chiedendo qualcosa a riguardo, e mi sta bene così. Voglio che questo momento sia solo nostro, che non ci sia spazio per nient’altro.
Tremo quando ricomincia ad accarezzarmi fra le cosce, e chiudo gli occhi con tanta forza che vedo bianco. Lo sento ridere appena vicino al mio orecchio, con la mano libera torna a stringermi possessivamente il fianco.
Non mi dice nulla, anche se potrebbe dirmi qualsiasi cosa. Avrebbe davvero il potere di devastarmi la vita, in questo momento, se solo dicesse quelle tre parole che non so se gli siano mai girate per la testa in relazione a me, ma che per quanto mi riguarda sono state un pensiero fisso molto a lungo, tra un momento in cui cercavo di nascondermelo e l’altro. Però lui non lo dice. Forse ce l’ha lì, sulla punta della lingua, ma capisco chiaramente che preferirebbe staccarsela a morsi pur di non farmi del male adesso, e quindi non lo dice. Ed io vengo fra le sue dita con un gemito liberatorio, e me lo stringo forte contro mentre lui continua a spingere dentro di me finché non lo sento venire a sua volta, stringendomi forte i fianchi e mordendomi la spalla abbastanza forte da lasciarmi il segno ma non altrettanto da farmi male.
Restiamo immobili giusto il tempo di riprendere fiato, e quando ci allontaniamo, nell’attimo che passa fra il momento in cui fa un passo indietro e quello in cui torniamo a guardarci negli occhi, mi faccio assalire dalla paura irrazionale che guardandoci non ci riconosceremo, ci vedremo come due estranei e ci chiederemo che cazzo abbiamo fatto.
E invece, quando ci guardiamo, scoppiamo a ridere. Come due imbecilli. Io mi piego in due così tanto che cado dal ripiano e rotolo sul pavimento. Mi faccio un male cane ma non riesco a smettere di ridere, e Anis che mi guarda in queste condizioni non può fare altro che ridere più forte. Ed è un dramma quando succede così, perché le risate si alimentano di altre risate, perciò finisce che rimaniamo lì a rotolare sul pavimento della mia cucina dove cinque giorni fa ho pestato Chakuza fino a fargli uscire il cervello dalle orecchie, e ridiamo come deficienti per mezz’ore intere, non so nemmeno io quanto, tant’è che alla fine siamo del tutto senza fiato ed ansimiamo come se, invece di scopare e ridere, avessimo corso la maratona di New York. Una roba surreale.
- Ho fame. – dice lui, rimettendosi in piedi e risistemandosi sommariamente i vestiti, prima di porgermi la mano per aiutarmi ad alzarmi, - Che hai in casa?
- Ma io ho già cenato! – gli faccio notare, indicando le stoviglie pulite messe a scolare, - Dai, che palle, mi devi far rimettere a cucinare?
Lui scrolla le spalle ed apre il frigorifero. Osserva con attenzione tutto ciò che ha davanti, poi lo richiude, torna a guardarmi e risponde.
- Sì, perché non c’è niente di già pronto.
Ciò detto, apre tutti gli stipetti, tira fuori una serie di cose a caso che io a stento riconosco e probabilmente non ho neanche comprato, ed erano già qui quando ho comprato l’appartamento, assieme ai quadri astratti, e poi mi sorride trionfante.
- E che dovrei farci io con… - sollevo un barattolino a caso, - del brodo granulare di pesce?
Lui sorride ancora, più apertamente.
- Comincia a mettere l’acqua a bollire. – risponde, - Non so cucinare, ma ricordo a memoria il ricettario di Karima.
Genere: Commedia, Erotico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Flashfic, PWP, Slash, Lemon.
- "Non si è mai troppo grandi per sedersi in grembo a Babbo Natale."
Note: Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia su prompt RPF German Rap/RPF Tokio Hotel, Bushido/Bill Kaulitz, "Non si è mai troppo grandi per sedersi in grembo a Babbo Natale".
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
COSPLAY

Le cosce di Bill si chiudono come tenaglie attorno ai suoi fianchi, e Bushido lo stringe con forza in vita un po’ perché ha quasi paura possa scivolargli di dosso cadendo all’indietro – Bill, d’altronde, non è questo illuminante esempio di coordinazione e grazia dal quale non puoi mai aspettarti idiozie simili, anche nel mezzo della scopata più grandiosa che ti pare di ricordare da che sei venuto al mondo, circa – un po’ perché il modo in cui si muove freneticamente addosso a lui, accogliendolo in profondità all’interno del suo corpo mentre i loro fianchi collidono con un rumore schioccante che gli riempie le orecchie e il cervello fino a stordirlo, gli fa venire voglia di afferrarlo tanto forte da lasciargli addosso i segni.
Pianta le dita sui suoi fianchi bianchissimi ed anche se, avvolto in quel costume rosso, bianco ed enorme e in lana spessissima, sente un caldo che potrebbe perfino squagliarsi e non se ne accorgerebbe nemmeno, continua a spingere, andando incontro a Bill ogni volta che i suoi fianchi stretti si calano sulla sua erezione che quasi esplode dalla voglia che ha di venirgli dentro ogni volta che si stringe tutto intorno a lui.
Le mani di Bill, sottilissime come tutto ciò che fa parte del suo corpo, accarezzano con bramosia le lunghe maniche rosse, appendendocisi in un gesto un po’ infantile mentre solleva le cosce per allacciargliele dietro la schiena, strattonando poi con una certa forza, come volesse usarle come leva per spingerglisi contro più violentemente, fino a sentirlo più profondamente che può, fin quasi a fargli male.
- Oh, cazzo. – ringhia Bushido, stringendolo con forza perfino eccessiva e baciandolo ovunque mentre con una mano scivola fra le sue gambe ad accarezzarlo con cura, seguendo il ritmo delle sue spinte. – Bill, cazzo.
- Sì. – risponde Bill, se di risposta si tratta, premendo le labbra contro le sue ed invadendo letteralmente la sua bocca con la lingua mentre viene fra le sue dita con un gemito prorompente, - . – e Bushido nasconde il viso contro il suo collo mentre si svuota con la stessa violenza dentro di lui, mordendo la pelle tenera della spalla e coprendola poi di baci un po’ consolatori e un po’ teneri, seguendo il segno della chiostra dei denti sulla pelle arrossata.
Il movimento è stato così repentino che la lunga coda del cappuccio è stata sballottata in avanti e ora pende pigramente lungo la schiena di Bill, ondeggiando lenta al ritmo dei loro respiri concitati.
- Adesso… - ansima Bushido, allontanandosi un po’, ma non così tanto, il minimo indispensabile per guardarlo negli occhi, - devi proprio spiegarmi – borbotta, tirando indietro il cappello, prima che il pon pon bianco gli solletichi il naso fino a farlo starnutire, - perché hai preteso che mi conciassi così prima di scopare.
Bill si lascia andare ad un sorriso malizioso, sporgendosi per strofinare la punta del naso contro il suo in un gesto tenerissimo, allacciandolo al collo.
- È sempre stato uno dei miei sogni proibiti. – risponde sibillino, in una risatina divertita.
Bushido inarca un sopracciglio, dubbioso.
- Non sarai un po’ troppo grande per questo? – chiede, indicando la casacca rossa ed enorme che pende lungo i suoi fianchi nudi, e subito dopo i pantaloni di fustagno, dello stesso colore, arrotolati attorno alle caviglie.
Bill ride ancora, coprendosi pudicamente le labbra un po’ umide e arrossate.
- Non si è mai troppo grandi per sedersi in grembo a Babbo Natale.
Genere: Comico, Generale, Romantico (accennato).
Pairing: Bill/Bushido (accennato).
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Slash (accennato).
- Il regalo che Tom compra a suo fratello Bill per Natale si rivela il pretesto per concedere all'estro artistico di Bill di avere sfogo in modi poco convenzionali. E ci va di mezzo un povero modellino di Gundam.
Note: Questa storia nasce principalmente per rendere omaggio al Gundam più gaio della storia – un’invenzione splendida per la quale ringrazio che il mondo sia composto da persone del tutto folli – e per soddisfare le menti perverse di Tab e Meg, le quali in realtà hanno plottato questa storia ben prima che io mi decidessi a scriverla, roleplayandola su Twitter. Di fronte alle meraviglie da loro partorite (come l’idea dello sposalizio fra Gundam e Ken XD), io non ho proprio potuto evitare di piegarmi al volere del Dio del Fangirling, perciò l’ho scritta XD E questo è il mio regalo di Natale al fandom dei Criceti Crucchi più famosi della storia <3 (Bushido s’è insinuato senza che io potessi in alcun modo fermarlo. Cattivo Bu, cattivo.)
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REMEMBER
77. Remember

Quale fosse il motivo per cui Tom avesse insistito tanto per avere il salvadanaio di porcellana, Simone lo comprese nell’esatto momento in cui il bambino si presentò davanti a lei, avvolto in un giaccone grande il doppio della sua taglia. I capelli biondi e ingarbugliati stavano tutti raccolti sotto un cappellino gonfio e rovinato che, allungandosi dietro la sua nuca e terminando con un pon pon che forse un tempo era stato morbido e rotondo, gli dava quasi l’aspetto di una specie di Babbo Natale dei piccoli, minuscolo, mingherlino, affannato e scompigliato.
- Cos’hai fatto tutto il pomeriggio, Tomi? – chiese dolcemente, inginocchiandosi davanti a lui e sfilandogli il cappellino, per poi riordinargli i capelli sulla fronte e sulle tempie, - Dove sei stato?
Tom sorrise furbo, tirando fuori dalla giacca un pacco regalo di medie dimensioni ma che, in braccio a lui, sembrava grande almeno due volte tanto.
- L’ho trovato! – disse trionfante, agitando il pacco avvolto in una bella confezione blu scuro, lucida e cangiante sotto la luce della lampada, - Il regalo per Bill!
Simone spalancò gli occhi, parzialmente intenerita e parzialmente stupita. Fece per chiedergli dove avesse trovato i soldi per acquistarlo – qualsiasi cosa fosse – ma lì, appunto, ricordò del salvadanaio in ceramica e di come avesse inizialmente pensato che quel porcellino dall’aria beata e pasciuta non sarebbe sopravvissuto neanche una settimana, per poi osservarlo rimpinguarsi giorno dopo giorno con tutte le monetine con cui lei, Jörg e Gordon continuavano a riempirlo di tanto in tanto, sotto lo sguardo grato e speranzoso del Tom più carino che Simone riuscisse a ricordare in anni di soddisfatta maternità.
E dire che Tom, a tutti gli effetti, era quello carino, fra i gemelli; di Bill si sarebbero potute dire molte cose, a fronte dei suoi dieci anni scarsi di vita – che fosse talentuoso, anche se su come incanalare questo suo talento nessuno aveva ancora le idee granché chiare, Bill compreso, che fosse piacevolmente autoironico ma anche in grado di prendersi tragicamente e fastidiosamente sul serio anche troppo facilmente, che fosse trasgressivo, sempre per quanto possa essere trasgressivo un bambino di dieci anni, che fosse manesco e capriccioso e intelligente, ma che fosse carino, nel senso più ampio e dolce e tenero e morbido del termine, quello proprio no. Bill già parlava di lasciarsi crescere le unghie per ficcarle negli occhi di chi lo prendeva in giro, carino proprio no.
- Oh! – annuì la donna, scrutando il figlio con aria curiosa, - E cos’è?
- Un giocattolo. – rispose Tom con una scrollatina di spalle, come fosse del tutto ovvio. In effetti lo era, ma Simone non poteva fare a meno di sentirsi profondamente inquieta sul punto. Bill poteva essere così incredibilmente facile all’offesa, quando si trattava di ciò che gli altri facevano per compiacerlo – il suo ragionamento di base, peraltro non del tutto assurdo, era qualcosa di molto simile a un secco “a me non interessa se fai qualcosa per rendermi felice, se poi non riesci a rendermi effettivamente felice, non meriti la mia gratitudine, ma al limite una lunga e penosa occhiata prima di un tragico e teatrale sospiro e della mia fuga in camera”.
- E che giocattolo è? – chiese quindi, timorosa, stringendosi un po’ nelle spalle.
Tom arricciò il naso, indispettito.
- È una sorpresa, è solo per lui. – sbottò, prima di liberarsi della sua stretta, posare il pacco sotto l’albero e salire in camera propria, chiamando Bill a gran voce.
Simone sospirò, risollevandosi in piedi. Ripensò alla Barbie Sirena che Bill custodiva geloso come un cane da guardia, impedendo a chiunque – lei compresa – di avvicinarsi, e sperò che Tom fosse già abbastanza furbo da riuscire a fare i propri conti e capire.
*
Dieci anni, a Tom, non erano decisamente bastati. Lui e Bill avevano trascorso insieme la totalità di quel tempo, più i nove mesi addizionali all’interno dell’utero materno, che però probabilmente non andavano calcolati nell’atto della computa finale, semplicemente perché erano stati mesi di convivenza inconscia – e, se c’era stata della coscienza, Tom l’aveva dimenticato. Fosse perché quando sei nella pancia di tua madre non sei ancora in grado di ricordare, o fosse perché Bill l’aveva traumatizzato già allora così tanto da costringerlo a rimuovere ogni ricordo, non gli interessava scoprirlo.
Comunque fossero andate le cose, Tom aveva sempre trovato suo fratello un oggetto strano e misterioso da maneggiare con cura, al pari dei coltelli, delle pistole giocattolo – che non andavano mai mai mai puntate contro Gordon, perché i pallini finivano sempre in qualche modo per conficcarglisi negli stinchi – e delle creme cosmetiche di sua madre. Doveva d’altronde esserci un motivo per cui invece tutte quelle cose Bill le maneggiava con la leggerezza di una pallina di gomma, come fossero state del tutto innocue – e sì che Tom aveva problemi anche a maneggiare le palline di gomma, che in mano a lui sembravano improvvisamente diventare armi mortali atte a sventrare vasi, infrangere vetri e sbudellare infelici e sfortunate bocce di pesci rossi.
Insomma, doveva esserci un’affinità fra Bill, i coltelli, le pistole giocattolo e le creme cosmetiche di Simone, e al di là di quella lampante che legava suo fratello alle ultime, la più grande somiglianza che lo legava agli altri due tipi di oggetto era sicuramente la sua capacità di diventare qualcosa di incredibilmente pericoloso in un lasso di tempo talmente breve da non permetterti in alcun modo di prendere delle contromisure adeguate ad arginarlo.
Suo fratello, seduto sul tappeto di fronte a lui ed illuminato a tratti dalle luci a intermittenza che adornavano l’albero, si rigirava fra le mani il modellino del Gundam che, risparmiando per mesi, era riuscito a comprargli per Natale, guardandolo da ogni lato come non riuscisse a trovargli un senso neanche sforzandosi. Alle sue spalle, Tom poté sentire Gordon schiacciarsi una sonora pacca esasperata sulla fronte, mentre Simone sospirava profondamente.
- Uhm, ti piace? – chiese timoroso, guardando il fratello dal basso verso l’alto dopo avere inclinato lievemente il capo. Bill soppesò il modellino come volesse provare a rilevarne la densità e poi sospirò profondamente, alzandosi in piedi.
- Suppongo di sì. – rispose quindi, allontanandosi verso le scale con aria meditativa.
- …suppone? – chiese Tom, quando suo fratello fu sparito al piano di sopra, voltandosi a guardare sua madre e Gordon in cerca di una spiegazione. L’uomo scrollò le spalle e scosse il capo, preferendo rintanarsi in cucina finché la nuvola di delusione di Bill non si fosse dissipata, e Simone si accucciò sul tappeto accanto al figlio, accarezzandogli dolcemente la testolina bionda.
- Tuo fratello… - cercò di spiegargli, - è un ragazzino difficile.
Tom sospirò, abbandonandosi di schiena contro il divano e fissando i ghirigori senza senso che decoravano il tappeto.
- Lo so. – rispose affranto, - A volte mi piacerebbe che ci assomigliassimo di più.
- Tu sei convinto di essere un ragazzino facile? – rise Simone, coccolandolo un po’.
- Be’, non lo so se sono facile o difficile, ma sicuramente non sono difficile quanto lui! – sbottò Tom, allargando le braccia ai lati del corpo. Simone rise ancora, traendolo contro di sé e ravviandogli i capelli dietro le orecchie, stringendoli poi in una coda appena accennata che lasciò immediatamente libera di ricadergli lateralmente lungo una spalla.
- Coraggio. – lo esortò quindi, sollevandosi in piedi e trainandolo con sé verso la cucina, - Vieni a prendere un po’ di dolce, e poi portane una fetta anche a tuo fratello.
*
Tom bussò discretamente alla porta ed attese che suo fratello gli desse il via libera, prima di entrare, ponendo naturalmente davanti a sé – e cioè fra se stesso e qualsiasi tipo di pericolo rappresentato principalmente da Bill con gli artigli sfoderati e le zanne a fare capolino fra le labbra, pronto a colpire alla giugulare – il piatto col dolce che sua madre aveva preparato nel pomeriggio, riflettendo sulla possibilità di usarlo come distrazione estemporanea se si fosse presentata la necessità di fuggire per salvarsi la vita o, almeno, provare a vender cara la pelle.
Suo fratello, comunque, non sembrava intenzionato a farlo a pezzi. Entrando in camera, Tom lo vide chino sulla propria scrivania, circondato da tutta una serie di oggetti che in genere utilizzava per distruggere e ridecorare da capo le magliette che Simone gli comprava. Immaginando che dovesse essersi messo a fare l’imitazione della bella sarta di paese come sempre quando sentiva il bisogno di dimostrare al mondo quali meraviglie le sue mani erano in grado di produrre, Tom si avvicinò con un sorriso, posando il piatto sul tavolo accanto a lui.
Inorridì – per usare il termine più adatto a descrivere il suo sconcerto – non appena posò gli occhi sul Gundam, o meglio: su ciò che il Gundam era diventato dopo essere passato per le abili quanto psicotiche mani di suo fratello.
Dove prima c’era stato del sobrio nero semilucido, ora si susseguivano infinite distese di smalto rosa confetto ancora fresco, interrotto a sprazzi da composizioni di strass e perline che, quando avevano una forma, ricordavano quella dei fiori, ed in qualche punto specifico perfino dei cuori.
- Bill…? – lo chiamò, visibilmente scosso, - Cosa…? – provò a chiedere, ma la domanda tutto sommato garbata rimase imprigionata nella sua gola, schiacciata dal più sincero ma allo stesso modo meno educato “cosa cazzo stai facendo al regalo che ti ho comprato spendendo in un colpo tutti i miei risparmi degli ultimi mesi?!”. Tom lottò con se stesso, e fu una battaglia lunga e difficile, ma alla fine riuscì a trattenere nelle profondità della gola lo strillo aquilino che avrebbe voluto lasciare andare. Trattenne però in quel modo pure tutto il resto della domanda, motivo per cui Bill poté permettersi di ignorarla felicemente e sollevare il Gundam, reggendolo accuratamente dalle parti non coperte di smalto rosa, per mostrarglielo in tutto il proprio cosiddetto e supposto splendore.
- Adesso sì che è bellissimo! – disse con entusiasmo, guardando il modellino con occhi traboccanti d’amore, - Grazie mille per il regalo, Tomi!
Grazie per il regalo – le parole rimbalzarono all’interno della sua testa, battendo contro le pareti del cranio e capitombolando in giro, inciampando fra un neurone e l’altro, per una serie di istanti che parve infinita.
- Bill… - cercò di recuperare l’uso della parola, inumidendosi le labbra secche, - cosa hai fatto a Gundam?
- Be’, ma l’ho preparato, ovviamente. – rispose Bill, con tutta la naturalezza del mondo.
- Preparato a cosa? – insistette Tom, sempre più spaventato.
Bill sorrise come gli aveva visto fare solo nelle occasioni di maggiore felicità della sua intera esistenza.
- Per il matrimonio! – rispose candido, avviandosi verso la cesta dei giocattoli – quasi sempre vuota, visto che i giocattoli preferivano stare sparsi sul pavimento, dove avevano molto più spazio per, uhm, stare immobili in attesa che qualcuno li recuperasse per usarli o metterli a posto – e tirandone fuori il Ken Tritone che alla sua Barbie Sirena favorita si accompagnava da sempre, ma che Bill non aveva mai tenuto granché in considerazione.
- Il matrimonio. – balbettò Tom, incerto. – Bill, quello è il fidanzato di Barbie. – protestò, in un disperato tentativo di evitare l’inevitabile.
- Be’, Barbie voleva la sua indipendenza. – motivò Bill con una scrollatina di spalle, affiancando Gundam a Ken e rimirandoli l’uno accanto all’altro come per verificarne la giustezza a livello di amalgama sentimentale, - È una donna emancipata, sai?
- Emanciche? – chiese Tom, - No, guarda, non lo voglio sapere, sembra una cosa orribile.
Bill sospirò, roteando gli occhi.
- Vuol dire che-
- Ho detto che non lo voglio sapere, scusa! – lo fermò Tom, piantandogli una mano sulla faccia per impedirgli fisicamente di parlare ancora, - E comunque non puoi far mettere insieme Ken e Gundam, sono due maschi! Che schifo!
- Tomi, - rispose Bill, laconico, - Gundam è un robot, non ha un sesso.
- Peggio ancora! – continuò Tom, annuendo decisamente, - Se non ha sesso, non dovresti costringerlo ad accoppiarsi con un Ken che invece un sesso ce l’ha eccome!
- Ma non ha sesso nemmeno Ken! – gli fece notare Bill, - È un tritone!
- La coda è finta! – disse Tom, puntando il dito contro il suddetto addobbo pseudo ittico.
- Sì, e sotto non ha niente. – illustrò Bill, denudando il povero pupazzo dell’unico indumento che ne coprisse le pudenda. – Vedi? Al più un calzino sotto la plastica.
- Eh, e allora perché due esseri asessuati dovrebbero sposarsi, scusa? – cercò di inquisire Tom, indicando a propria volta le mutande di ferro – ormai rosa confetto – del Gundam. – Non ne hanno alcun bisogno!
- Ma è una questione di amore, Tomi! – piagnucolò Bill, rattristato dalla mancanza di comprensione che suo fratello mostrava nei confronti di quella romantica storia.
- Ma come hanno fatto ad innamorarsi, se uno stava nel baule e l’altro l’hai torturato ricoprendolo di paillettes fino ad ora?!
Bill aggrottò le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto e guardando suo fratello con tutta la disapprovazione di cui era capace.
- Tu non hai nessun rispetto del vero amore. – dichiarò stizzito, - Cosa importa – aggiunse poi, più dolcemente, - di quale sia il tuo sesso o delle condizioni in cui ti sei innamorato? Alla fine, - concluse con un sorriso, - non è l’amore stesso che conta, più di tutto il resto?
Tom lo osservò per qualche minuto, e la convinzione di Bill non vacillò di un punto, mentre finalmente disponeva ordinatamente tutti i suoi pupazzi sulla scrivania in due gruppi ben distinti che Tom immaginò essere quello dei parenti della sposa – se una sposa c’era – a sinistra, e quello dei parenti dello sposo a destra, mentre Gundam e Ken attraversavano orgogliosamente la navata centrale, orgogliosi nel luccicare delle loro paillettes e delle scaglie delle loro code. O quel che erano.

Molti, molti anni più tardi, quando Bill avrebbe preso a vedersi sempre più spesso con un certo rapper pseudotunisino che nulla aveva a che fare con la sua persona, nell’osservare i due avvicinarsi, diventare sempre più intimi e poi, finalmente, innamorarsi, Tom avrebbe per un istante ripensato al Gundam ed a Ken che si univano in matrimonio in quella notte di Natale di tanti anni fa, ed avrebbe zittito definitivamente qualsiasi protesta potesse immaginare riguardo quella relazione.
Alla fine, probabilmente, aveva davvero ragione Bill. Non è l’amore che conta, più di tutto il resto?
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Comico, Generale.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Quello che dico io è: se muori, muori."
Note: Quest’uomo voleva parlare da lungo tempo XD E da altrettanto tempo io volevo lasciargli la possibilità di farlo, perciò spero che quanto avete letto non vi abbia deluso. Io mi sono divertita moltissimo, Eko è l’unico modo che ho per guardare a quello che è accaduto/sta accadendo/accadrà alla Saga con un pizzico di dovuto umorismo XD Eko for President, subito.
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THE WAY THINGS GO

Quello che dico io è: se muori, muori. C’è un motivo per cui ognuno può morire una volta sola, e non è una questione fisica, cioè, voglio dire, è anche una questione fisica, ma è che principalmente morire è una rottura di palle. Nel senso, c’è da prendersi cura del cadavere, c’è da affidarlo all’impresa di pompe funebri giusta, c’è da tenere d’occhio i preparativi del funerale, la veglia, la cena, e poi naturalmente c’è da avere a che fare col fatto che la gente è triste, eh, e non le viene mica voglia di sorridere, perché uno fa tanto di dire “per il mio funerale, voglio che ridiate e balliate nudi sui tavoli!”, e i suoi migliori amici in genere stanno lì a dire “ma sì, vedrai, rideremo, racconteremo barzellette e la danza delle odalische del ghetto sui tavoli non ce la farà mancare nessuno!”, ma poi, quando la disgrazia accade, non c’è tanta voglia di ridere, e se per caso ti azzardi a tirare fuori la faccenda delle odalische gli altri ti guardano come se fossi una specie di mostro assassino, perciò meglio lasciare perdere.
Insomma, quello che intendo è che non è che tu puoi morire e costringere tutta la tua famiglia e i tuoi amici a tutta questa serie di operazioni deprimenti, per poi venirtene fuori fresco come una rosa con un codino assurdo e i capelli morbidi e lucidi, vestito di bianco come Gesù Cristo dopo la resurrezione, e dire “be’, eccomi qui, in realtà non ero morto, sono tornato, amatemi come prima”. Voglio dire, è scorretto, non sono cose che si fanno.
Quando Bushido è morto, naturalmente sono successe un mucchio di cose. E parlo del mucchio di cose che sono successe subito, immediatamente dopo la sua morte, non di tutto il casino altrettanto incasinato che è venuto giù dopo con Fler infermiere, Fler e Chaku agenti speciali nella notte di Tempelhof e Saad traditore e assassino. Quello poi è stato l’apice. No, parlo delle cose immediatamente successive, tutto quello che abbiamo dovuto dire, e fare, e sopportare, la Principessa in pezzi, il Principino confuso, il Cavaliere del Re che quasi ci rimette lo stomaco se non peggio e il Senzatetto che passa più tempo intorno a noi che in casa sua. Voglio dire, sono stati sacrifici di una certa entità, roba che abbiamo tutti tollerato perché credevamo di avere un motivo per farlo, e quel motivo era che, in fondo, eravamo tutti uniti dalla perdita di quest’uomo insopportabile che però era il nostro capo e lo sarebbe rimasto comunque, anche dopo, indipendentemente da tutto.
Insomma, ci siamo fatti forza e siamo andati avanti, tutti insieme. Almeno fino a quando è stato possibile, poi ovviamente è venuta fuori quella roba di Saad e quindi “tutti insieme” ha un po’ cambiato la sua conformazione, nel senso che quello che stava apprestandosi a diventare il cardine della nuova Ersguterjunge naturalmente è venuto a mancare, per dirla così in termini blandi, quindi le maglie della nostra rete si sono un po’ sfaldate. Per dire, chi lo vede più Nyze, da un po’? Lui e Saad avevano un buon rapporto, deve esserci rimasto di merda quando ha scoperto che era stato lui ad ammazzare Bu. Oppure Kay, per dire. Lui bazzica ancora perché a parte il fatto che comunque siamo tutti affezionati l’uno all’altro – e vorrei dire, è anche ovvio, ti affezioni per forza alle persone con le quali ti sei scattato una foto in collant e mutande – lui con Bill e Tom si diverte parecchio, perché sono vicini come età, quindi sta ancora da queste parti, ma non è mica più come prima, con tutto questo fatto della fidanzata e della nuova casa in centro a Berlino e tutto il resto.
Insomma, ci siamo un po’ persi l’uno con l’altro, che non è stato proprio bello – anche perché eravamo tipo abituati a vivere in simbiosi tutti assieme, la Villa Gialla era un po’ la nostra tana… non so se avete presente, ci sono dei roditori glabri, da qualche parte nel mondo, che vivono tutti sotto terra e per non sentire freddo si spiaccicano l’un l’altro e vivono tutti assieme… okay, forse non erano roditori glabri, ma comunque mi è rimasta impressa questa foto di questo topo senza peli, rosa e cieco che… no, ma comunque non è questo il fulcro del discorso – insomma, non è stato bello ma ci abbiamo guadagnato in tranquillità. Voglio dire, quando le cose sono più tranquille lo capisci perché improvvisamente riesci ad organizzarti la vita senza che questo rappresenti un problema per il prossimo. Per dire, prima, subito dopo la morte di Bushido, c’era il problema-Principessa, e quindi, se a me saltava in testa di ordinare al ristorante un’impepata di cozze e mangiarmela – ora non so se si possa ordinare al ristorante un’impepata di cozze e farsela portare a casa, ma non è importante – insomma, non potevo farlo, perché alla Principessa l’impepata di cozze non piace ed io dovevo mettere in conto che se Bill mi si presentava a casa di umore piagnucoloso, dovevo nutrirlo, che poi è magro e mi deperisce, perciò la mia impepata di cozze non la potevo avere. Dovevamo tutti nutrirci con alimenti Bill-approvati, se no era un dramma.
La cosa è andata avanti per un bel po’, con alti e bassi di varia natura, almeno fino a quando Saad non è morto. Che poi vuol dire che Bill l’ha ucciso, ma questo è un segreto che non deve sapere nessuno, quindi state attenti con chi parlate, quando uscite di qui. Insomma, dopo quel momento sono successe svariate cose, non è che noi si sia tornati esattamente alla normalità – suppongo che una delle varie controindicazioni della morte, a parte il fatto che muori, sia che niente torna più come prima – però almeno abbiamo cominciato a risparmiarci le visite a sorpresa di Bill, che può sembrare una cosa banale, ma è invece una cosa importantissima, perché è importante sapere che puoi tornare a casa e svaccarti sul divano, alla sera, sapendo anche che nessuna Principessa parata a lutto si presenterà alla tua porta in cerca di coccole che non sei sicuro di essere in grado di darle, e che ti guarderà peraltro malissimo prendendo possesso del tuo divano e dormendoci anche, se non sarai in grado di soddisfarla pienamente. Almeno, non so se era così che Bill si comportava anche con gli altri, ma di sicuro era così che si comportava con me.
Insomma, questa situazione ha continuato ad essere più o meno pseudo pacifica per una buona quantità di tempo. Non so cosa facesse Bill, più che altro mi limitavo a pensare che fosse tornato una normale ragazzina della sua età e perciò, che ne so, avesse ricominciato a giocare con le bambole e via discorrendo. L’importante era che non mi importunasse e che, se volevamo vederci perché io potessi offrirgli da mangiare da qualche parte, fosse perché entrambi lo volevamo e non solo perché lui aveva voglia di rendermi il suo cuscino del pianto preferito per una notte.
Tutto ciò era evidentemente troppo bello per poter durare, e perciò Bushido – che non è uno che possa vantare di migliorare la qualità della vita della gente, in genere – ha pensato di mandare tutto a puttane risorgendo.
Insomma, io sono là che aspetto la mia pizza, no? Sono tornato a casa stanco dopo una giornata di registrazioni con Sentino – che non so se lo conoscete, ma è un fuori di testa più fuori di testa di me, eh. È uno che ti si presenta in studio cantando di aver visto trifogli rosa crescere lungo il battistrada del marciapiedi, perché prima di uscire s’è sparato una canna grossa quanto una bottiglietta d’acqua. Insomma, dopo una giornata passata con un tipo simile, che ogni tanto ti guarda con gli occhi vacui e le pupille dilatate, che tu ti chiedi se per caso una colonia di folletti non sia appena spuntata dal nulla sulla tua testa, tu hai voglia solo di tornartene a casa, abbatterti sul primo divano che incontri e muoverti solo per sollevare la cornetta del telefono, ordinare la pizza e poi andarla a recuperare sulla soglia della porta, punto.
Quindi è quello che faccio: mi getto sul divano, decido di ordinare una quattro formaggi perché voglio qualcosa di pesante che mi mandi in coma fino a domani mattina, e poi resto lì a rigirarmi i pollici, godendo del silenzio che mi rimbomba nella testa, fino a quando non suona il campanello.
Io lì non lo so che la mia vita sta per cambiare, perciò mi alzo tranquillo e sono pure felice perché penso “pizza!” e tutto ciò che voglio è soffocare nel formaggio e morire felice. Solo che quando apro la porta non mi trovo davanti il ragazzo delle pizze. No. Io mi trovo davanti Bushido.
E quindi, naturalmente, lo investo di testa e scappo.
Mentre scendo per le scale cercando di stare attento a non ruzzolare giù di testa, che sarebbe un po’ una conclusione eccessiva anche per una giornata tanto brutta come quella, l’unica cosa che riesco a pensare con chiarezza è che tutto ciò deve essere colpa di Chakuza. Cioè, per forza. Penso “magari Saad non c’entrava niente e Chaku e il Senzatetto hanno preso un abbaglio, inducendo in errore anche la Principessa” – penso così, “inducendo in errore”, perché mi viene in mente una volta che Bill s’è presentato a casa mia, Bushido era ancora vivo, ai tempi, e io gli faccio “Principessa, ma che cazzo ci fai qui?” e lui chiama Bushido e fa “Ani-iiis, sono a casa di Eko ma tu non ci sei!” con tono piagnucoloso e Bushido gli fa “passamelo” e io faccio a Bushido “pronto?” e lui mi fa “Bill credeva che ci saremmo visti da te”, e io giustamente rispondo “Bill ha sbagliato” e lui, tranquillissimo, mi ribatte “Bill con voi non sbaglia mai, tienilo a mente. Circostanze confuse l’hanno indotto in errore”, quindi è questo che mi viene in mente, circostanze confuse che poi sono Chakuza e il Senzatetto, che magari non sono circostanze ma confusi lo sono di certo, hanno indotto la Principessa a credere che fosse opportuno fare fuori Saad mentre così non era, e ora Bushido è tornato dal mondo dei morti per vendicare l’ingiusta scomparsa del cugino innocente. Solo che magari qualche circostanza confusa ha indotto in errore anche lui, e quindi lui, invece di prendersela con Chaku e il Senzatetto, che sono i diretti responsabili, se la prende con me.
Proprio per questo motivo, appena arrivo giù in strada e mi rovisto nelle tasche dei jeans trovando il telefonino, la prima cosa che faccio è chiamare lui.
- Pro- - mi fa, ma io non gli lascio il tempo di concludere.
- Chakuza, Cristo santo, ho un fantasma in casa! – dico tutto d’un fiato. E, voglio dire, nel momento in cui lo dico io ci credo, perché pensare che Bushido sia risorto dalle sue ceneri come la tunisina fenice è molto più sensato di una qualsiasi alternativa che la mia mente possa propormi, tipo che ha vissuto sotto un sasso dietro casa mia per tutti questi mesi, salvo poi rispuntare lindo e pinto come non fosse successo niente perché aveva finito il sale nella sua casa di pietra, per dire.
- Tu hai cosa dove, Eko? – fa Chaku con voce stridula, come non capisse minimamente cosa sto dicendo. Eppure, sto parlando in tedesco. Non può mica aspettarsi che tiri fuori dal cappello qualche dialetto alpino che conosce solo lui, la sua famiglia e qualche capra.
- Cristo santo! – ripeto io per buona misura, - Il cazzo di fantasma! È tornato perché abbiamo fatto qualcosa di sbagliato! Cristo santo, Cristo santo! – e, siccome lui sembra ancora non capire, mi spiego meglio: - Chakuza, quando hai fatto fuori Saad – dico sbrigativamente, dando a lui la colpa perché non mi va di ripetere il complesso processo mentale dell’indurre in errore la Principessa, - tu eri sicuro che fosse lui l’assassino, vero? Perché se non era lui e quell’altro è tornato per vendicare il cugino morto, Cristo, giuro che ti appendo per le palle in Alexanderplatz, Chakuza!
- Eko… - sospira lui, e lo fa con quel tono come a dire “ah! La santa pazienza che ho!”, mentre io vorrei dirgli “vola basso, austriaco, che tanto per cominciare sei anche più spostato di me, tu, e comunque sei un nano di merda”, - È una serata di merda. – sì, ma anche a me cosa me ne frega, - Seriamente. – ma puoi pure giurarmelo su tua madre! – Ma proprio di quelle che vorresti non fossero mai iniziate.
- Dillo a me! – esplodo gesticolando, - Apro la porta mentre aspetto il ragazzo delle pizze e mi trovo davanti il cazzo di fantasma che-
- Una serata di merda, dicevo, - riprende lui interrompendomi e facendo sfoggio di grande maleducazione, come se chiamarsi come l’amichetto preferito di Heidi lo esonerasse dal lasciar finire gli altri prima di cominciare a blaterare idiozie che non interessano a nessuno, - perciò… - lo sento che si interrompe un attimo e poi cambia argomento all’improvviso, che è una cosa che capisco bene perché pure io lo faccio, sono gli unici momenti in cui il cervello mio e quello di Chakuza funzionano in sintonia. - …Eko, ‘cazzo chiedi la pizza a mezzanotte passata, scusa?! – mi fa, solo che questo non è il momento di pensare alla pizza, naturalmente, e glielo dico pure.
- Ma non è la pizza il punto fondamentale, Chakuza! – gli faccio, - Ti hai dei problemi seri! Il punto è che io ho aperto la porta e mi sono trovato davanti Bushido. Bushido, capisci?
Lui si prende una pausa per realizzare.
- Eko…? – mi chiama. Io roteo gli occhi.
- Un cazzo di fantasma, capito? Un fantasma. Cristo. – e la pausa me la prendo io, per cercare di respirare di nuovo. – Io non ci rientro in casa, quindi tu ora mi passi a prendere e mi porti da te. – decido arbitrariamente, - E domani torno con un estintore bello pesante o qualcosa di più adatto. Come si uccidono i fantasmi, Chakuza?
- …dubito che la schiuma chimica funzioni. – sospira, - Eko, senti. Ora vengo da te e poi saliamo insieme. – mi fa con aria rassicurante, come se io potessi sentirmi rassicurato dalla sua presenza! – Così ti faccio vedere che non c’è nessun fantasma, in casa tua. Soprattutto non quello di Bushido.
- Fa’ un po’ quel cazzo che credi. – rispondo annuendo compitamente, perché Bushido buon’anima me lo diceva sempre, puoi dire tutte le parolacce che vuoi, ma la tua espressione dev’essere sempre quella di uno che sta dicendo le cose più educate del mondo, così la gente ti prende sul serio. E poi mi guardava a lungo, con aria comprensiva, e mi diceva “e Dio sa se hai bisogno di essere preso sul serio tu, Ekram”, me lo diceva proprio col mio nome, Dio l’abbia in gloria. – Comunque sono sicuro quasi al cento per cento che il fantasma sul pianerottolo sia colpa tua, in qualche modo contorto. Sei la fonte di tutti i mali. Magari – realizzo all’improvviso, e ancora lì non so quanto ho ragione, - dall’alto dei cieli ha saputo che vuoi chiudergli l’Ersguterjunge ed ora ci perseguiterà a vita.
- Eko, ti prego! – si lagna lui, e io scrollo le spalle.
- Comunque il succo è: vieni perché sennò scappo da Kay. E tu non vuoi che io scappi da Kay, perché Kay vive in un porcile peggio di casa tua, e se sarò costretto a stare da lui poi vorrò le tue palle su un piatto d’argento.
Lui mi chiede se intendo mangiarmele, e tutto ciò che rispondo io è un vaffanculo irritato, decidendo poi di restare lì in attesa perché di rimettere piede nel mio appartamento da solo non se ne parla nemmeno sotto tortura, nossignore: quando salirò nuovamente per quelle scale, sarà solo con un’adeguata vittima sacrificale di nome Chakuza al mio fianco.
La serata, comunque, procede in maniera abbastanza assurda, e se lo dico io potete fidarvi. Tra Chakuza che arriva e, come prima cosa, quando vede Bushido, decide di chiamare Fler, e Bushido che poi si mette a parlarmi di donne che fanno cose strane con le noci di cocco, anche quando poi rimaniamo soli perché lui ha deciso di dormire a casa mia per chissà che assurdo motivo, rischio di perderci la testa numerose volte, e sto evitando di parlare del momento tremendo in cui Bushido e il Senzatetto si sono messi a flirtare sul mio tavolino da caffè, perché sarebbe troppo da ripercorrere adesso per la mia povera psiche stanca, ecco.
Comunque, da una partenza del genere non si può certo migliorare, e da allora, appunto, le cose non hanno fatto che degenerare verso il fondo del fondo. Ripeto: c’è un motivo per cui si muore una volta sola e dalla morte non si torna. La gente ci mette tanto a ricostruirsi quando perde una parte così importante di sé, e tu non puoi tornare e mandare all’aria tutti gli sforzi che le persone che ti amavano hanno fatto per andare avanti. Bushido mi sa che non l’ha messa in conto, questa cosa, tornando. Non so esattamente cosa si aspettasse, ma di sicuro non si aspettava di trovare tutto sbagliato come poi è stato – lui non è uno cui piaccia mettersi in mezzo alle cose quando sa di non poterle rivoltare a proprio favore. Probabilmente si aspettava davvero che la Principessa tornasse ad essere sua e anche tutti noi riprendessimo i posti che avevamo prima che morisse. Non lo so. Un po’ mi dispiace che niente di quello che pensava si sia avverato, d’altro canto però mi dico che è stato lui a decidere di morire ed altrettanto ha fatto quando ha deciso di risorgere. Bushido non è mai stato uno da rifiutare le proprie responsabilità, e gli toccherà farlo anche adesso, che voglia o meno.
Il che ci riporta – non senza difficoltà, mi rendo conto, ma cercate lo stesso di seguirmi – a parecchie settimane dopo. Le signorine che fanno cose con le noci di cocco non sono che un vecchio ricordo, nelle menti di noi tutti, perché negli ultimi tempi è successo un putiferio: il mondo ha scoperto della resurrezione di Bushido e, cosa ancora peggiore, la Principessa ha scoperto della resurrezione di Bushido, cosa che ha portato con sé tutta una serie di drammi di varia entità e portata che hanno raggiunto il loro culmine nel momento in cui alla Universal hanno deciso che a loro non importa quanto male possa essere conciata una situazione, ciò che importa loro è la possibilità di ricavarne dell’utile. Ora, seguitemi: un rapper muore durante uno scontro a fuoco lasciando a casa una vedova affranta e peraltro appena maggiorenne; meno di un anno dopo, quello stesso rapper risorge dicendo di essere stato nascosto in America fino a quel momento e di essere appena tornato in Germania camminando probabilmente sulle acque, e quella stessa vedova affranta è apparentemente lì per lui, pronta a farsi riaccogliere nella regale dimora con gli occhi pieni di devoto amore.
Ciò che la Universal non sa è che, mentre loro facevano i loro calcoli, in mezzo è successo di tutto – cioè Bill e Bushido hanno consumato il loro amore, si sono apparentemente rimessi insieme e poi, dal nulla, è venuto fuori che Bill in realtà stava con Chakuza e aveva dimenticato di rendere noto il particolare a tutti noi – che va be’, non è importante – ed a Bushido stesso – che invece di importanza ne ha eccome.
Tanto per cominciare, già tutti dovremmo avere dei problemi col fatto che Chakuza stia con la Principessa. Questo perché la Principessa, checché ne dica il suo titolo onorifico – e il suo aspetto e tutto il resto – è un maschio. E Chakuza è Chakuza. E sì, lo so che dopo Bushido praticamente nulla dovrebbe più stupirmi e nulla dovrebbe essere automaticamente considerato eterosessuale fino a prova contraria, ma!, intendo, è di Chakuza che stiamo parlando, insomma, si dovrebbe avere almeno un po’ di raffinatezza, credo, per essere gay, quindi Chakuza dovrebbe essere tipo l’antitesi dell’omosessualità, lui, i suoi prosciutti stagionati del 1980 e le sue muffe nel frigorifero. E invece toh, viene fuori che è gay. Che è gay e che sta con la Principessa di qualcun altro, a rendere le cose ancora peggiori. Non so se vi rendete conto dell’enormità del tutto.
La cosa veramente grave è che Bushido si rende subito conto dell’enormità del tutto, e così – dopo aver buttato fuori di casa la sua Principessa privandola della sua corona e dell’anello nuziale che sanciva la sua sovranità – prende la spada e monta in groppa al suo cavallo arabo bianco, diretto a casa del suo personalissimo Lancillotto e fermamente intenzionato a lavare l’onta del tradimento col sangue. Che poi è un’altra cosa che mi turba molto, perché io ho studiato poco, nella mia vita, ma una cosa la so, e cioè che Lancillotto era un gran figo, altrimenti Ginevra col cazzo che mollava Artù per un paio di braccia forti a caso. Quindi il mio sconvolgimento è ancora maggiore, se penso che, se dovessi indicare tutta una serie di Lancillotti fra le persone che conosco, il Chaky, con tutto il rispetto, sarebbe l’ultimo della lista, sotto perfino al Senzatetto, quindi figurarsi.
A Bushido, però, non interessano questo tipo di discorsi. Lui vuole il sangue di Chakuza che ha messo le mani addosso a roba che non gli apparteneva, e quel sangue ottiene, spargendosene un po’ sulle mani e un po’ sulle pareti di casa del Chaky. Chakuza però non muore, come tutte le erbe cattive è parecchio resistente, da quel punto di vista; e forse è meglio, perché se fosse morto tanto per cominciare non so come avrebbe potuto reagire la Principessa, e tanto per continuare chi mi assicura che poi non sarebbe risorto anche lui, magari fra altri nove mesi, tornando dalla Lapponia o dall’Australia o che so io e generando ancora più caos di quanto già non ne abbia generato il sovrano sperimentando la propria immortalità ai danni di noi tutti?
Insomma, Chakuza non muore, Chakuza si rimette con Bill. Come, non lo so e non voglio nemmeno saperlo. Immagino sia stata una questione regolare, capito come?, Bill torna a casa, lo trova con l’occhio nero, bla bla, fetta di carne, bacio appassionato e via così, solo che Bushido non è mica uno che prende e molla l’osso per una minuzia simile – perché per lui i no delle persone tendenzialmente sono minuzie, soprattutto quando sa di avere le armi adatte per trasformarli in sì – no, lui è più il tipo che all’osso ci si attacca con tutta la sua bellissima chiostra di denti nuovi di zecca fino a quando non lo stacca dal resto del corpo, e quindi resta lì, attaccato a Bill come una patella sul suo scoglio; e uno magari si dice “eh, lui è ostinato, ma il karma saprà punirlo”. E invece no! Il karma non lo punisce mai, quest’uomo, gli è asservito come noi tutti, tant’è che cosa fa la Universal? Gli organizza un video in cui lui può molestare sessualmente la Principessa mascherando il tutto con le esigenze di copione! Se non è fortuna questa – per lui, sfortuna per tutto il resto del mondo – non so cosa possa esserlo.
Se c’è una cosa che Bushido sa fare, comunque, è usare il suo corpo. Anche perché lui non è uno che canta, è uno che si esibisce, e c’è una bella differenza, fra le due cose. Lui quel corpo è abituato a venderlo giornalmente – in senso puramente platonico, almeno credo – a migliaia di ragazzine, ragazzini, uomini adulti e puzzolenti e in sovrappeso e casalinghe in ansia da ribellione, nonché ad un altro svariato centinaio di tipologie umane, perciò nessuno di noi aveva veramente dei dubbi su chi sarebbe uscito vincitore dallo scontro fra titani. Che poi titani non sono, perché Chakuza al massimo può essere il cugino sfigato e sottomisura dei titani, per dire.
Insomma, fatto sta che: Bushido continua a girare intorno alla sua Principessa – e questo io lo so non perché vado in giro spiandoli, per carità, spiarli è l’ultimo dei miei desideri, lo era in passato, lo è adesso e lo sarà per sempre, come le cose che non cambiano mai tipo le muffe del frigo di Chaky che ormai le conosciamo per nome e i gerani degli studi dell’Ersguterjunge che non possono cambiare posizione sennò Bushido si indispone e non canta più a tempo nemmeno se lo minacci di infilargli il metronomo su per il culo – e la Principessa cede, perché è la Principessa e perché lui è Bushido.
E in fondo, io penso, il fulcro del tutto è un po’ questo. Io non sono bravo a trovare i nodi fondamentali delle questioni, perché come avrete potuto notare in realtà mi perdo spesso. Nella mia testa ma anche nel mondo che mi circonda. Ma questo punto è così fondamentale, così primario, così assoluto nella mia vita degli ultimi tre anni, che non posso proprio mancarlo. Come il mio nome o che ne so. È lì, c’è da tanto, c’è da troppo, non penso andrà più via. Il punto è che Bushido e Bill potranno anche smettere di amarsi come prima, amare altre persone, fare altro, trasferirsi in America o in Russia o in Papuasia, ma resteranno sempre quello che sono stati fino ad adesso, Bushido il Re e Bill la Principessa. Bill non smette di essere la Principessa di Bushido uscendo da quella porta. Ed altri uomini – io, il Chaky, chiunque altro – possono rivolgersi a lui utilizzando quello stesso nome, ma non sarà mai la stessa cosa, perché quel nome ha un senso preciso solo se usato da Bushido. È così che funziona, è così che gira, questa cosa non finirà mai. Io lo so che è così, e so che è vero che anche se la maggior parte dei punti fissi rappresentano delle garanzie – perché sono in quel modo e non cambiano mai e quindi, anche se tutto si distrugge, sempre da loro puoi ripartire – so anche che a volte sono degli ostacoli insormontabili. Perché a volte vuoi distruggere tutto. E i punti fissi te lo impediscono.
È questo che penso adesso, in questo preciso istante. Davanti a me – e davanti a un sacco di altra gente che queste cose non dovrebbe vederle, anche – ci sono Bill, Bushido e Chakuza. Bill piange, e continua a farlo stretto a suo fratello, per molto tempo. Bushido e Chakuza si guardano negli occhi e parlano di Bill come se non ci fosse. Esprimono una proprietà su qualcosa che non dovrebbe essere di proprietà di nessuno e sulla quale sentono entrambi di avere dei diritti. Guadagnati col tempo, con la fatica, con l’amore che hanno investito in questo ragazzino che più che altro, a me, sembra solo troppo piccolo e confuso per decidere qualcosa – qualsiasi cosa. E io questo penso. Le cose, purtroppo, vanno in un modo, e quando vanno in quel modo poi tornare indietro è impossibile. È per questo che non si torna dalla morte. Ma è anche per questo che la Principessa resterà Principessa funerali o meno.
È così che gira, e non è rassicurante pensarlo. Ma io queste cose non dovrei pensarle. E nemmeno dovrei dirvele. Quindi voi ricordatevi di dimenticarvele, prima di andare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Fler/Chakuza, Sido/Bushido/Bill/Fler/Chakuza (wut?).
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Crack, Slash, Fivesome.
- Tom Kaulitz ha cinque certezze. Sono poche, ma sono buone. O almeno così crede.
Note: Vorrei potermi liberare di un po’ di responsabilità concernenti questa storia, per cui: l’ha plottata Tab, Meg s’è rifiutata di scriverla passandomi la palla e Def me l’ha betata e mi ha istigata a postarla, mentre Gra, con la sua meravigliosa challenge per DispariSome, mi ha fornito il pretesto perfetto per farlo davvero. Oltre ciò, non ho poi molto da dire, a parte il fatto che dovreste avere molta pietà di me e di Tom. Ma molta davvero. *piange*
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PRINCIPLE OF UNCERTAINTY

Nel corso del mio ultimo anno di vita, gran parte delle mie certezze sono state prese, gettate in terra come pezze vecchie e poi calpestate senza ritegno né dignità come non avessero il benché minimo valore. Io capisco che la vita è sempre un divenire, non c’è mai nulla che sia uguale un minuto dopo averla vista, sono grato a David per il corso di filosofia accelerata cui mi ha sottoposto prima dell’Abitur e tutto il resto, ma comprendetemi, non è bello quando credi in qualcosa fino a un determinato secondo della tua esistenza e poi in quel determinato secondo succede qualcosa che devasta tutto come una specie di uragano, lasciandoti in mutande e con nient’altro in mano oltre alla tua disperazione.
E sì, mi rendo conto di stare esprimendomi in termini catastrofistici, emodepressivi e generalmente iperdrammatici, ma ci sarà un motivo per il quale condivido il cento percento del mio corredo genetico con mio fratello Bill; in qualcosa dovevamo pure assomigliarci, ed evidentemente questo qualcosa è la propensione al drammatismo spicciolo da tragedia catastrofenaturalistica americana. Oltre al talento nell’usare le parole, naturalmente, voglio dire, visto quanti termini nuovi di zecca sono stato in grado di coniare in meno di cinque minuti di monologo? Sono meraviglioso.
Comunque, mia meraviglia personale a parte, parlavo delle mie certezze. Ne avevo poche, ma tutte erano ben salde e costituivano le fondamenta del mio intero essere, per svariati motivi.
La prima e più importante di tutte era: Bill non è gay.
…non osate ridere né guardarmi in quel modo! Io sono la persona che conosce Bill meglio in assoluto in tutto l’intero universo, lo conosco da prima che venissimo al mondo, da prima che venissimo generati, da prima che la grande volontà dell’universo decidesse che era giusto che due Kaulitz uguali calpestassero il suolo del pianeta Terra contemporaneamente, io e Bill siamo una cosa sola da che il Big Bang è esploso generando l’universo e via discorrendo, se vi dico che mio fratello non aveva mai dato segno della sua inclinazione omosessuale dovete credermi. No, trucco, unghie e capelli non sono segno di inclinazione omosessuale, furbastri supponenti che non siete altro – e nemmeno i vestiti! Bill non era gay, posso giurarlo, so che scopava con delle donne e non fate queste facce sconvolte e nauseate, era un ragazzo assolutamente normale. Oh.
Poi, Bushido è piombato nelle nostre vite. Prego inserire musica drammatica in questo punto.
Ora, io non ho mai nascosto la mia preferenza per il lato cattivo del rap tedesco. Voglio dire, di fronte a una scelta, ho sempre scelto l’Aggro Berlin e Sido. Senza nemmeno rifletterci su, in realtà. Però, ecco, Bushido mi piaceva, per il semplice fatto che – voglio dire: è sfrontato, è cazzuto, è stato arrestato, è un rapper. Come poteva non piacermi?
Quindi, insomma, quando David mi ha detto che probabilmente ci sarebbe stata una collaborazione con uno dei suoi uomini, per il nuovo album, io naturalmente mi sono esaltato, e non dico di essermi messo a squittire come una fangirl – a questo proposito, non chiedete mai a Georg di raccontarvi la mia reazione, poi dovrei uccidere lui e voi e temo che questo causerebbe dei problemi non indifferenti alla mia carriera – dicevo, non mi sono certo stracciato le vesti di dosso crollando a piangere di commozione, anche perché le vesti che avevo addosso dovevano valere sul migliaio di euro tutto compreso, ma sono comunque stato molto felice. Certo, Kay One non era assolutamente il mio preferito nel mucchio degli artisti sotto contratto all’Ersguterjunge & Co., ma era meglio di niente. Ero ancora vagamente dubbioso riguardo quando fosse opportuno inserire del rap nelle nostre canzoni, ma mi fidavo di David.
Naturalmente non avrei dovuto. Alla fine non siamo riusciti a infilare il rap in nemmeno una delle nostre canzoni. In compenso, Bushido è riuscito a infilare le mani nelle mutande di mio fratello.
Voglio dire.
La seconda certezza fondante la mia esistenza, dato che apprezzavo l’uomo e tutto il resto, era Bushido non è gay. Poi l’uomo arriva, sparge sorrisi smaglianti e acqua di colonia da non so quante centinaia di euro per tutto lo studio e il minuto dopo lo trovo lì che flirta spudoratamente con mio fratello, costringendolo a stringersi imbarazzato nelle spalle esili e spostare altrove lo sguardo brillante di emozione. Io lo conosco mio fratello, lo so quando si sente compiaciuto, e il primo passo per scalare la montagna di gambe chilometriche che conduce al suo cuore è lusingarlo. Bushido ci stava riuscendo.
Insomma, per me è stato un disastro umano! Due certezze spazzate via in un colpo solo da un tunisino con un opinabile taglio di capelli ed un’ancora più opinabile propensione verso l’inchiostrazione indiscriminata del proprio corpo! Non si fa così, non è corretto.
Come potrete abbondantemente immaginare da voi, venire a patti con tutto ciò non è stato semplice. Vi risparmierò la cronaca dei lunghi mesi che ho passato, nell’ordine, a: ostracizzare mio fratello da qualsiasi mia decisione, fosse essa mettere o meno i cetrioli in un panino o cambiare radicalmente taglio di capelli; combattere una guerra di grugniti e ringhi di varia natura nei confronti di Bushido per aver privato mio fratello della sua innocenza o almeno di un’emanazione della stessa; combattere una guerra di pari violenza e pari intensità dotata però anche di scazzottate ai limiti del legale con David, che ritenevo primo e principale colpevole del disastro in atto, visto che avrebbe dovuto dire a mio fratello di piantarla una buona volta e stare lontano dal tunisino o, in alternativa, avrebbe dovuto prendere il suddetto tunisino e trascinarlo di fronte a un tribunale per circonvenzione e abuso di incapace e costringere i giudici a rinchiuderlo in uno sgabuzzino in compagnia di turchi che non vedono da anni la luce del sole, per tutto il resto della sua vita, tipo, e invece non stava facendo niente del genere e si limitava anche lui a spargere sorrisi e acqua di colonia come non ci fosse un domani, così, al solo scopo di mandarmi ai pazzi.
Alla fine, dopo numerose tribolazioni, ho accettato la realtà – nel senso che mi sono rassegnato, ecco. Accettare è un termine un po’ forte, ti fa pensare ad un uomo che si sveglia al mattino e, con tutto l’orgoglio dei suoi vent’anni, spalanca la finestra, alza gli occhi al cielo, inspira a pieni polmoni ed esclama “io posso farcela e ce la farò!” richiamando a sé le forze della natura perché lo pervadano e lo aiutino ad uscire dalla brutta situazione in cui s’è cacciato. Ecco, io non direi di essermi comportato proprio così, per questo “rassegnare” è un termine più preciso, perché ti fa pensare a un uomo che si sveglia al mattino e, con tutto l’orgoglio dei suoi vent’anni, incurva le spalle, sospira e sbotta “va be’, poteva andare peggio, poteva mettersi con Chakuza”. Per dire.
Comunque, da lì in poi le cose hanno cominciato a migliorare. Io ho ripreso a parlare con Bill, ho smesso di picchiare David e ho anche scoperto che in fin dei conti il Billshido diventato realtà non era nemmeno così male. Voglio dire, mio fratello era parecchio frustrato, ultimamente, e da quando andava a letto con Bushido invece le cose sembravano andare sensibilmente meglio, perciò evidentemente Madre Natura sapeva cosa fare quando li aveva chiusi entrambi in uno sgabuzzino per indagare sulle nuove frontiere della loro sessualità. Bisognerebbe sempre fidarsi di Madre Natura, lei sa cosa fa e non sbaglia mai. Ha fatto me etero perché non poteva privare le donne della mia bellezza, ha fatto Georg e Gustav etero perché non poteva dare agli omosessuali anche questa sfiga e ha fatto Bushido e Bill omosessuali perché potessero trovarsi e ristabilire gli equilibri dell’universo, evidentemente. Chi sono io per oppormi? Nessuno. E quindi non mi oppongo.
I problemi hanno ricominciato a bussare alla mia porta quando la storia fra Bill e Bushido ha cominciato a farsi seria. Intendiamoci, io non avrei avuto nulla in contrario se quei due avessero continuato a scopare come ricci fino ad esaurire la forza che li spingeva l’uno verso l’altro, ma loro no, volevano fare i romantici, gli innamorati, e si sa come finiscono queste cose, che poi ci si appiccica come crauti ai wurstel e non ci si stacca più nemmeno coi lacrimogeni. E quindi è cominciata la lunga trafila di cose che odio e che succedono sempre in questi casi: presentazione dei genitori – che poi in realtà è stata la cosa meno devastante, perché Bushido per qualche motivo adora la frittata con le cipolle di mia madre ed io per motivi ancora meno comprensibili adoro lo spezzatino con le patate della signora Luise Maria – pellegrinaggi continui negli appartamenti altrui, spostamento dei primi vestiti e, dulcis in fundo, presentazione degli amici.
E lì crolla la mia terza certezza. Nello specifico: se anche Bushido fosse gay, i rapper in generale non potrebbero esserlo.
Immagino lo sappiate già, comunque: Bushido vive in un’enorme villa gialla che io suppongo possa essere vista dallo spazio al pari della grande muraglia cinese, se non altro perché il suo colore è tale da dover essere per forza catarifrangente, quindi immagino che catturi la luce del sole e poi la proietti nell’universo per centinaia di migliaia di anni luce. Scommetto che esiste un qualche pianeta perso nel nulla dal quale vedono i suoi bagliori giallastri, e scommetto anche che la credono una stella. E l’avranno nominata in qualche modo tipo B-Ush1d0. O chessò io. Comunque! Il nostro tunisino preferito vive in questa villa, e naturalmente non ci vive da solo. Fino a qualche tempo fa ci viveva con Kay One e D-Bo, poi Kay One ha deciso giustamente di fuggire per rincorrere il miraggio dell’eterosessualità e D-Bo ha deciso di imitarlo per rincorrere quello dell’indipendenza, e quindi Bushido s’è visto costretto a cambiare coinquilino.
E qui entra in gioco Fler.
Dunque, Fler è un uomo che mi sono ritrovato ad apprezzare parecchio, in passato, se non altro perché Sido diceva un gran bene di lui, se lo portava ovunque e tutto il resto. E poi, ammettiamolo, l’uomo col rap ci sa fare, e ci dà dentro che è una meraviglia. L’ultimo album, poi, è una delle cose più grandiose siano state prodotte all’AB nei suoi quasi dieci anni di meravigliosa esistenza, perciò io, ecco, gli volevo del bene.
Quando ha deciso di riappacificarsi col vecchio amico e poi arcinemico, non è che ci abbia trovato qualcosa da ridire. Trovo però decisamente qualcosa da ridire nell’entrare in casa di Bushido in compagnia del sovrano della baracca e della sua regina – mio fratello – e ritrovarmi appunto Fler sul divano che limona selvaggiamente con Chakuza. Ecco, questo mi turba parecchio, ed ho da ridire eccome, per due motivi fondamentali: il primo è che una cosa del genere ovviamente distrugge la mia certezza sui rapper che non sono mai gay, il secondo è che non si limita a distruggere solo questo ma distrugge anche la quarta delle mie certezze – che, ve lo anticipo fin d’ora, sono cinque, quindi sopportate stoicamente, che il martirio sta per concludersi. Tale certezza era: se anche Bushido fosse gay e tutti i rapper in parata avessero deciso di seguire il suo illuminato esempio, per nessun motivo al mondo Chakuza sarebbe un essere umano sessualmente attivo. E invece, tutto insieme, scopro che non solo il rap tedesco in parata ha deciso di seguire le orme del suo principale esponente, ma ha deciso di farlo anche Chakuza e, cosa peggiore di tutte, ha deciso di farlo con Fler. Di fronte ai miei occhi!
Poi, per dire, mi sarei aspettato una reazione alla “cielo! Mio marito!” pur senza mariti implicati. Capite cosa intendo? Qualcosa tipo Fler e Chakuza che si tirano un inesistente lenzuolo fin sotto il mento ed urlano cose random tipo “oddio! Non ci aspettavamo una vostra visita! Ci dispiace! Ci spostiamo immediatamente al piano di sopra, e non certo per continuare ma per fare harakiri a seguito della nostra intimità violata” e via così. E invece niente, io mi vedo questi due uomini adulti che restano nell’esatta posizione in cui erano quando li abbiamo beccati – per la precisione e nel caso vi interessi, anche se ne dubito: Chakuza seduto sul divano con Fler a cavalcioni nell’atto di sollevarsi per liberarsi più facilmente dei jeans – e si voltano a sorriderci e salutarci come niente fosse, e insomma, mi prendo male! Chiunque si prenderebbe male, in una situazione del genere! E quindi raccolgo ciò che di mio è caduto fin sul pavimento di Bushido – la mascella, per lo stupore, non le palle, quelle le tengo sempre in gran conto e al loro posto – e fuggo via il più lontano possibile. Letteralmente.
È un peccato che mio fratello abbia gambe così lunghe, sia così leggero e, soprattutto, sappia esattamente dove trovarmi quando entro in depressione e mi chiudo in posizione fetale rinnegando l’esistenza del mondo esterno.
Insomma, sono stato riportato indietro al grido di “ma dai, Tomi, sono così carini!” e non ho potuto fare a meno di rassegnarmi ancora e prendere atto del fatto che la mia vita aveva deciso di tradirmi ribaltandosi al contrario mentre io dormivo o ero comunque momentaneamente assente, e senza nemmeno lasciare un messaggio dopo il segnale acustico. Ci sono tragedie alle quali uno dovrebbe essere preparato prima, e invece niente, un attimo prima sei un uomo felice e l’attimo dopo ti ritrovi su un divano giallo dentro una casa gialla che mangi pasticcini gialli bevendo tè al limone mentre un rapper tunisino divora di baci tuo fratello da un lato e altri due rapper dall’altro lato si fanno prendere da una sorta di delirio pro-gay e ti raccontano tutta la loro vita e, soprattutto, come e quanto in meglio sia cambiata la loro vita da quando hanno scoperto di amarsi. Che sono cose che uno non vorrebbe mai sentirsi dire, intendo, ascoltare Chakuza che ti racconta dei suoi piani di vita matrimoniale con Fler aggiungendo che prima o poi gli piacerebbe anche adottare dei bambini o, in assenza, almeno qualche cane? No, grazie, vivo felice anche senza.
Comunque niente – e aiutatemi a ripetere niente – di tutto questo poteva prepararmi al dramma cosmologico che da lì a poco si sarebbe verificato. Perché uno vede tante cose, nel corso della propria vita, e io ne ho viste un mucchio, credetemi, e dopo un po’ si convince che niente potrà più stupirlo o piombarlo in un baratro di disperazione, perché ci si riprende da tutto, no? Io mi sono ripreso da mio fratello, tanto per cominciare, poi mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo, mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo che è Bushido, mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo che è Bushido e ha due amici che sono Chakuza e Fler e che stanno insieme!, e dopo tutto questo pensavo che nulla più avrebbe potuto scalfirmi. E invece no. Non avevo tenuto conto del fatto che al peggio non c’è mai fine.
E tutto ciò mi riporta ad oggi. A una cena con tutta la crew di Bushido che è finita da almeno mezz’ora e a me che, svaccato su questa poltrona e con un bicchiere di vino rosso ancora quasi del tutto pieno in mano, osservo la scena che si presenta di fronte ai miei occhi e che coinvolge mio fratello, Bushido, Chakuza, Fler e Sido, che s’è fermato a chiacchierare un po’ dopo la fine del pasto.
Ricordate della quinta certezza cui accennavo prima? Ecco, recita pressappoco così: se anche Bushido fosse gay e tutti i rapper in parata avessero deciso di seguire il suo illuminato esempio, e se pure Chakuza dovesse rivelarsi un essere umano sessualmente attivo, una cosa non potrà mai cambiare, e questa cosa è che Sido non è gay né mai lo diventerà.
Capite bene che è un po’ difficile ripeterlo adesso che lo stesso Sido che mai e poi mai dovrebbe essere gay si spinge e sgomita per cercarsi uno spazio fra le braccia di mio fratello mentre Bushido lo tiene stretto da dietro strusciandosi contro di lui e Fler e Chakuza si danno alla pazza gioia baciandosi e spogliando contemporaneamente tutti gli altri, aiutati da una maestria che dimostra esperienza di un tipo che non sono certo di voler conoscere. E tutto questo qui, di fronte ai miei occhi.
- Ragazzi… - azzardo incerto, osservando il mio bicchiere di vino e allontanandolo con aria dubbiosa, sia mai il problema non sia negli appetiti sessuali ma nelle bevande, - non credete di stare un po’ esagerando? Siete tutti ubriachi e… - mi rispondono solo mugolii incomprensibili, che si protraggono a lungo come in una nenia.
- Shai qual è il tuo problema, Tooomi? – borbotta Bill, cadendo un po’ da un lato e un po’ dall’altro, sorretto dalle braccia malferme di Bushido che lo sistema esattamente nel mezzo fra il suo corpo e quello di Sido, mentre Fler e Chakuza si avvicinano, circondandolo ai lati con una serie di spaventose risatine compiaciute, - Che tu… non ti shai divertirrrre. – sentenzia mio fratello ridacchiando a propria volta e lasciandosi maneggiare come una bambola.
Io mi passo una mano sugli occhi, disperato. Dovrei fare qualcosa, tipo alzarmi, piantarmi in mezzo a tutti questi uomini concupiscenti e fuori di testa, prelevare mio fratello e portarlo il più lontano possibile da qui prima che abusino della sua persona…
- Oh, sì, A-Anis, così! – mugola Bill, allungando braccia e gambe a caso come se, oltre ad Anis, volesse inglobare dentro di sé pure tutti gli altri che lo stanno accarezzando baciando sfiorando ovunque in questo stesso momento. E lì io sospiro ancora, poso il vino e mi alzo in piedi diretto al piano di sopra, senza prelevare nessuno. Anche perché mi rendo conto che il piano originario, quello di salvare Bill prima che abusassero della sua persona, non posso più portarlo a termine: non sono più tanto sicuro di chi stia abusando di chi altri, in questo momento.
Le mie certezze ormai sono tutte sparite nel nulla. Non sono più sicuro di niente. Una cosa, comunque, la so: la prossima volta che Bill e Bushido mi invitano a cena, li mando tutti a fanculo senza nemmeno passare dal via.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, Fler/Chakuza, Fler/Nicole.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Lemon.
- "Mi piacerebbe poter dire che la mia vita fino a questo momento, nelle ultime settimane, abbia fatto schifo."
Note: Ma buongiorno *_*v Non ve l’aspettavate quasi più, uh? XD Mi rendo conto che vi ho costrette ad aspettare tantissimo e ciò è orrendo, ma spero che vi siate godute questa shot enorme – per quanto sia godibile, visto ciò che accade al suo interno… *riflette* …okay, credo che almeno una di voi se la sia goduta sufficientemente XD Comunque u.u Perdonate il mio Bimbo mentre sfiora nuove vette di perfezione dove non si credeva nemmeno che sarebbe stato possibile (ormai è oltre anche il concetto stesso di Gary Stu. Esiste un Gary Stu alla seconda o anche alla terza? Ecco). E insomma, per il resto, aspettatevi novità nel prossimo futuro: haters to the left, SE continua imperterrita u.u
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YOUR LOVE ALONE IS NOT ENOUGH

Mi piacerebbe poter dire che la mia vita fino a questo momento, nelle ultime settimane, abbia fatto schifo. Se fosse vero, non aspetterei con tanta ansia l’arrivo di Chakuza, stasera. Anzi, lo aspetterei come una specie di benedizione. Una cosa di cui ho bisogno. Se il mio rapporto con Nicole facesse schifo, non vedrei l’ora di rivedere Chakuza, perché so quello che Chakuza mi fa, e sentirmelo addosso – o anche sentirlo vicino – sarebbe l’unica cosa che vorrei, e la vorrei senza rimpianti, anche perché sarebbe un’ottima scusa per mettere fine al mio rapporto con lei.
La verità, purtroppo, è che a Nicole voglio bene, e con Nicole sto bene. Questo rende tutto molto più difficile, e sfortunatamente non cancella il problema: io continuo ad aspettare Chakuza con la stessa ansia, come fosse una benedizione, anche se so perfettamente che è quanto di più lontano esista da una cosa simile, soprattutto per me e soprattutto in questo momento.
A peggiorare una situazione già catastrofica, si aggiunge il fatto che io conosco Chakuza e so prevederlo. Il che non significa che sappia anche prevenirlo, perché purtroppo quella è una malattia che non riesco a farmi passare, ed anche quando mi sembra di essere guarito il contagio torna sempre a farsi sentire, ed è ogni volta un po’ più forte. Però, insomma, prevederlo sì. Quindi, quando apro la porta e me lo ritrovo di fronte che mi guarda con aria colpevole e un po’ abbattuta, tutto ciò che riesco a pensare è “me lo aspettavo”. Mi viene un po’ voglia di prenderlo a calci per il pianerottolo e buttarlo giù dalle scale, a dire la verità, ma a voler essere ancora più sinceri in realtà sono stato qui dentro da solo ad aspettarlo per qualcosa come sei ore e non ne posso più di sentire i miei stessi pensieri che rimbombano fra le pareti, perciò lascio perdere i propositi violenti e mi limito a guardarlo.
Era semplicemente ovvio che, dopo la questione fra Bill e Bushido, sfumata la rabbia, il Chaku mi si sarebbe rattristato in questo modo. Ed anche volendo, io non sarei per niente riuscito a mollarlo da solo nel casino del suo cervello, ed è questo il motivo per cui cinque o sei ore fa ho salutato Nicole, l’ho portata a casa sua e me ne sono tornato nel mio appartamento – nel quale non mettevo piede da settimane, avendo vissuto da Anis quando ancora Bill stava con Chakuza, e da Nicole quando poi il ragazzino s’è trasferito.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi. L’altroieri, però, mi ha mandato un messaggio sul cellulare. E oggi mi ha chiamato. Nel messaggio s’è limitato a salutarmi e chiedermi come stavo. Quando mi ha chiamato, abbiamo parlato della pioggia che ultimamente martella incessante Berlino, a ricordarci che ormai siamo in pieno autunno e fra poco saremo in inverno, sarà finito un altro anno e noi siamo ancora nello stesso identico punto in cui eravamo un anno fa, persi e senza voglia di fare niente.
Chakuza non mi ha detto che oggi sarebbe venuto a trovarmi, ma gli ho sentito la voglia nella voce – l’ho sentita in come vibrava bassa contro la cornetta, scivolandomi lungo il collo in brividi – ed è stato più chiaro in quel modo, salutandomi appena dopo avermi ricordato di portare l’ombrello, se uscivo, di quanto non sarebbe stato chiaro se mi avesse comunicato l’orario in cui sarebbe passato di qua.
- Sei in ritardo di dieci minuti sulla tabella di marcia. – lo prendo in giro, lasciandogli libero l’ingresso ed addentrandomi all’interno dell’appartamento, verso la cucina. Cristo, quest’appartamento a volte mi sembra enorme. I chilometri, ci sono, fra l’ingresso e tutto il resto. – Dovresti già stare piagnucolando perché non ti senti abbastanza amato.
- Stronzo. – borbotta lui, entrando con un po’ d’imbarazzo e richiudendosi la porta alle spalle, - Cazzo, fra te e Bushido non so chi sia peggio.
- Lui, è ovvio. – scrollo le spalle, riemergendo dalla cucina con due bottiglie di birra, - Io sono un santo martire.
Chakuza lascia andare una mezza risata amara e si gratta lentamente la nuca, accettando la birra e seguendomi mentre mi lascio andare sul divano con un tonfo scazzato.
- Scusa se- - comincia, ma non ho intenzione di ascoltarlo mentre si dispiace di qualcosa di cui non è dispiaciuto, perciò lo fermo con un cenno della mano libera, scuotendo il capo prima di prendere una sorsata di birra.
- È ok. Immaginavo che non avresti voluto startene per conto tuo. Basta che sia chiaro che possiamo distrarci come vuoi tranne che facendo a botte, perché proprio non ho voglia di violenze oggi. D’accordo?
Lui annuisce ed abbassa lo sguardo, a disagio.
Io sospiro. Okay, mi sto comportando come una merda fatta e finita. Chaku è stato mollato, c’è qualcosa di ingiusto in tutto questo – per quanto non riesca a sentirmi triste neanche sforzandomi, se ci penso – e dovrei essere comprensivo e di supporto. In fondo, qualsiasi cosa sia successa fra me e lui, fra lui e Bill, fra Bill e Bushido e fra Bushido e me, io e Chakuza siamo comunque amici. Voglio dire, prima di tutto lo eravamo. Quello che sento adesso – qualsiasi cosa sia, Nicole o meno – oltre a non avere ragione di esistere, non dovrebbe impicciarmi mentre cerco di consolarlo. Perciò conto fino a dieci e mi modero un po’.
- Dunque… - riprendo più conciliante, grattandomi distrattamente la fronte, - è tremendo vederti così, Chakuza. Vuoi smadonnare un po’? Prometto che non ti prenderò a testate, se cominci a dare della troia alla signora Luise Maria.
- Sinceramente, - borbotta lui, poggiandosi stancamente contro lo schienale del divano, - l’unica persona cui vorrei dare della troia adesso non è nemmeno una donna. – e questo, assieme ai suoi occhi improvvisamente cupi ed alla linea tesa e nervosa delle sue labbra, mi basta a capire che non è di Bushido che sta parlando, ma del ragazzino.
Un po’ vorrei fargli una carezzina sulla testa – come a un bambino di dodici anni, sì – e dirgli che è troppo facile prendersela con Bill, in una situazione simile, solo perché non riesce a gestirsi. Chakuza non capisce che, per quanto Bill possa sembrare adulto e maturo, resta comunque un ragazzino. Con tutta la sua immaturità, Chakuza ha sempre quasi dieci anni più di lui. C’è qualcosa che non torna, in quest’equazione, nessuno dovrebbe aspettarsi da un bambino che agisca come un adulto. Io non me lo sono mai aspettato, da Bill. Bill lo prendi con le caramelle e gli abbracci teneri, e se ti sta bene questo deve starti bene anche che poi, di fronte ad Anis, non sappia controllarsi. Non sono due cose diverse, è solo che è piccolo. Non può piacerti quando ti fa comodo e darti fastidio quando improvvisamente ti pesta i piedi.
Però mi rendo conto che cose simili a Chakuza non posso mica dirle. Sarebbe come se, chessò, Nyze fosse venuto da me dopo che lui ed Anis erano andati via dall’Aggro, e mi avesse detto “sì, be’, però è facile prendersela con Bushido adesso”. Cazzo, era facile sì e non desideravo altro. So che Chaku non desidera altro, adesso, perciò lo lascio fare.
- Ti va di parlarne? – chiedo a bassa voce, mettendomi comodo sul divano e voltandomi verso di lui.
- Sai cosa? – sbotta lui, mandando giù un’altra sorsata di birra, - Mi andrebbe sì di parlarne, se solo riuscissi a capire cosa dire al riguardo!
Mi lascio andare ad un mezzo sorriso divertito, perché la sua espressione – gli occhi spalancati, le labbra arricciate in una smorfia stupita e le sopracciglia inarcate verso l’alto – è molto buffa.
- Intendi?
- Intendo che non ho ancora neanche capito cosa cazzo è successo, Fler. – sospira, tornando ad abbattersi fra i cuscini, - Voglio dire, stavamo… okay, non bene, d’accordo? Non bene. Con Bushido fra i piedi, come vuoi stare bene?, è impossibile. Però stavamo insieme. Capisci? Insieme e basta.
Capisco sì. Mi inumidisco le labbra e cerco di focalizzarmi sull’immagine appagante di lui che ruzzola giù dalle scale rotolando per strada attraverso la porta a vetri spaccata del mio palazzo. Che è una cosa alla quale nemmeno dovrei pensare, perché io sto con Nicole e adesso non dovrei essere geloso, ma tant’è.
- E all’improvviso, boh, tutto ciò che so è che vanno a vivere insieme. Motivo? Perché lui è Bushido. Ti pare un motivo, questo?
Rido un po’, sistemandomi più comodamente.
- Io l’ho quasi fatto fuori, perché lui era Bushido, ricordi? – ghigno indicandomi, - Mi pare un motivo eccome.
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, prima di mollarmi una spinta parecchio risentita contro la spalla.
- Non mi piace quando ne parli così. – sbuffa poi, ingollando in un sorso mezza bottiglia di birra.
- Così come? – lo prendo in giro io, giocando con la mia.
- Come una cosa importante. – spiega lui, tornando a guardarmi con quella strana aria cupa che, quando gliela vedo addosso, mi dà sempre i brividi.
- Chakuza, ma lui è importante. – gli faccio presente, e continuerei tranquillamente su questa china, come ho sempre fatto quando chiunque, amici o giornalisti che fossero, mi ha dato il la per cominciare a parlare di Anis, se solo non notassi le sue sopracciglia corrugarsi ulteriormente e il suo broncio farsi più marcato. - …e tu non ci tieni affatto a sentirtelo ripetere adesso, mh? – chiedo con un mezzo sorriso, chinandomi appena per cercare i suoi occhi.
- No, per niente. – annuisce lui, senza fuggire il mio sguardo, - Anzi, ti sarei grato se riuscissi per una volta a non essere così dannatamente palese, quando parli di lui, visto che in questo momento la sua esistenza sulla terra già basta a farmi uscire di testa.
Rido un po’, anche perché quando mi rendo conto quanto sia in effetti palese, come dice Chaku, il modo in cui mi rivolgo a Bushido, mi sento sempre in imbarazzo. È una questione di immaturità, credo; intendo, a lui è legato un pezzo di me che probabilmente non è mai cresciuto. Quindi, quando c’è lui di mezzo, penso ed agisco come un ragazzino. È ovvio che, quando Bill mi dice che non sa più dove sbattere la testa, io lo capisco senza nemmeno sforzarmi. È semplicemente ovvio.
- Scusami. – biascico, adocchiando la sua bottiglia ormai vuota, - Senti, vado a prendertene un’altra e poi ricominciamo. Accendiamo la tv e mentre guardiamo qualche cagata mi dici tutto per bene, d’accordo?
Mi alzo in piedi, ma Chakuza mi imita, ed io mi fermo a guardarlo con aria un po’ contrariata.
- Be’? – chiedo, - Non mi serve aiuto per-
- No, - mi interrompe lui, scuotendo il capo, - venire qui è stata una pessima idea. – borbotta, muovendosi un po’ incerto intorno al divano, come faticasse a trovare l’uscita. Eppure è lì a due metri. Forse non fatica a trovare l’uscita, forse fatica a trovare la voglia di uscire. – È meglio se vado e-
- Ehi, ehi, Chaku… - lo fermo, recuperandolo per le spalle e tenendolo fermo, mentre torno a cercare i suoi occhi, - Sta’ un po’ calmo, eh? Ti ho detto che mi dispiace, ero sovrappensiero e l’ho presa a ridere. Lo so che è una cosa seria. Se stai un po’ tranquillo ne parliamo, mh? Sul serio.
- No, davvero. – insiste lui, cercando di sottrarsi alla mia stretta, - Lo sto realizzando adesso. Non è il caso, non voglio nemmeno dirtele, queste cose. Tu sei… l’ultima persona dalla quale dovessi andare, e non dovresti nemmeno essere solo, perciò...
Non so perché m’impunto. Probabilmente perché, in fin dei conti, a lasciarlo andare proprio non ci riesco.
- Però lo sono. E mi fa piacere che tu sia venuto qui. – tiro fuori in un fiato, quasi a fatica, stringendolo più forte, - Io e te, ultimamente… abbiamo proprio fatto un sacco di casini, me ne rendo conto, però tu, Chaku, voglio dire, non sei così male, come persona. E dai, mi sembra assurdo perdersi così in un bicchiere d’acqua. – sospiro. – Resta un po’, ti va?
Lui sospira e mi alza addosso uno sguardo vagamente confuso.
- Senza fare altri casini? – mi chiede, sorridendo appena.
- Senza fare altri casini. – confermo annuendo, - Facciamo i bravi, per una volta. Tu mi parli delle tue pene di cuore e io ti somministro dell’alcool per dimenticare. È così che funziona fra la gente normale, giusto?
Lui annuisce a sua volta, distogliendo lo sguardo e massaggiandosi la fronte con una mano.
- Noi due non siamo normali per niente. – mi fa notare in un soffio, - Questo potrebbe essere un problema.
- Basterà tenere a bada l’uccello. – annuisco compostamente, tirandogli una pacca sulla spalla, - Credi di esserne capace?
- Che domanda del cazzo. – grugnisce lui, - In tutti i sensi, poi. Sei uno stronzo.
Sospiro un po’, allontanandomi da lui e dirigendomi lentamente verso il divano.
- Questo l’hai già detto entrando. Almeno rinnova il campionario d’insulti, se proprio devi.
- Be’, non sono io l’esperto di diss, qui dentro. – protesta, tirandomi uno scappellotto dietro la nuca.
Io lancio un lamento palesemente fasullo e mi massaggio il collo che non duole affatto.
- Tieni a posto le mani! – borbotto contrariato, lanciandogli un’occhiataccia colma di un risentimento non più vero di tutto il resto.
Chakuza sospira e mi lascia scivolare addosso uno sguardo che non promette nulla di buono. Anche se dipende dalla prospettiva in cui lo si guarda. Se la prospettiva da cui dovessi guardarlo adesso fosse semplicemente quella di me e lui in una casa vuota mentre fuori si fa buio, prometterebbe cose stupende. Il problema è che devo per forza guardarla dalla prospettiva in cui oltre a noi due in questa casa ci sono altre due persone là fuori. C’è un ragazzino che sta giocando col fuoco e c’è un uomo che si sta perdendo in un danno. E c’è anche una donna, la mia, a casa da sola, che aspetta domani solo per rivedermi. Quindi no, l’occhiata di Chaku non promette niente di buono, a livello generale. Anche se mi piacerebbe potermi fermare alla prospettiva semplice delle cose, per una volta.
- Non puoi chiedermi di tenere a posto troppe cose. – rincara, inumidendosi le labbra, - Faccio già abbastanza fatica.
“E ci risiamo”, mi viene da pensare mentre arrossisco come una liceale. Cristo santo, ci sono volte in cui, prima ancora che infilarlo in una cintura di castità e legargli le mani così che non possa più muoverle, avrei voglia di prendere dello scotch – quello spesso e largo, tipo da imballaggio – e tappargli la dannata bocca. I danni maggiori che fa quest’uomo, non li fa quando ti tocca. Quando arriva a toccarti è perché il danno l’ha già fatto parlando. Perché dice cose senza capire cosa sta dicendo, o se lo capisce è abbastanza stronzo o stupido o sincero – e non so quale sia la cosa peggiore – da dirlo lo stesso, e tu ci perdi la testa.
- Piantala di dire cazzate. – sbuffo, distogliendo lo sguardo, - Piantala prima ancora di cominciare, per favore. Avevamo detto di non fare altri casini.
- Non sto facendo niente. – mi rassicura lui, alzando entrambe le mani e mantenendo perfino la distanza di sicurezza, - Non siamo nemmeno vicini.
- E cerchiamo di mantenere la situazione il più a lungo possibile, ok? – chiedo con tono un po’ allarmato. Anche troppo. – Davvero, Chakuza, farlo è proprio l’ultimo degli errori possibili, okay? Non ce lo possiamo permettere.
Chakuza sbuffa contrariato, tornando a rilasciare le mani lungo i fianchi.
- Non voglio mica prenderti a calci. – si giustifica in un mugugno, - E d’altronde non capisco quale potrebbe essere il problema, se anche lo facessimo. Io non sto più con Bill, giusto?
- Giusto. – ringhio io, per tutta risposta, - Ma io sto con Nicole, nel caso tu non te ne sia accorto, e non sono la parete contro cui puoi rimbalzare quando ti pare, okay? Se non vuoi farti definitivamente mandare a fanculo come avresti meritato già da qualche mese, tieni a freno la lingua, il cazzo e anche tutto il resto. È un consiglio da amico.
Lui sospira e, ovviamente, fa l’ultima cosa che dovrebbe venirgli in mente di fare. Scommetto che invece è stato tipo il suo primo pensiero. Mi si avvicina lentamente, io sospiro a mia volta e mi appoggio già esausto contro lo schienale del divano, piegando un po’ le gambe e cercando di recuperare uno stato d’animo meno isterico ripescandolo da quando ero ancora tranquillo e sereno e Chakuza non voleva ancora scopare. Se mai c’è stato un momento in questa serata in cui non ha voluto farlo.
Quando arriva ad un passo da me, solleva le braccia e mi accarezza il collo, risalendolo tutto e poggiandomi le mani sulle guance, obbligandomi a sollevare lo sguardo per trovare i suoi occhi.
- Stiamo sbagliando di nuovo tutto. – mi avverte con un mezzo sorriso.
- No, tu stai sbagliando di nuovo tutto. – lo correggo contrariato, ma lui sorride ancora ed io mi mordo un labbro.
- E tu mi stai di nuovo lasciando fare. Perché continui a lasciarmi fare?
- Perché sei uno stronzo. – ed è l’unica risposta che si merita.
Lui ride e si piega un po’ a sfiorarmi le labbra.
- È vero. – mi sussurra addosso, - Però non è per questo che mi lasci fare.
- Se speri – ringhio di frustrazione, cercando con poca convinzione – e quindi poco successo – di farmi mollare, - se speri che ti dica qualcosa in questa situazione del cazzo, dico, se speri che te lo dica adesso, tu sei proprio fuori strada, pezzo di merda.
- Fler, ssh. – mi zittisce, baciandomi appena, - Non voglio che tu mi dica niente. Sul serio. Cristo, non sono tanto stronzo da venire a cercare una cosa simile da te se Bill non riesce a darmela perché c’è Bushido di mezzo.
Socchiudo gli occhi. Sta dicendo cose tremende. Non lo posso ascoltare.
- Chakuza, mi lasci andare?
Lui sospira.
- Quante volte me l’hai chiesto, da quando ci conosciamo?
- Tante… - sussurro stremato, - Troppe.
- Ed io l’ho mai fatto?
Rido amaramente, scuotendo il capo per quanto lui mi permette.
- Non è mai troppo tardi per cominciare, non credi?
Chakuza segue il profilo del mio viso con le labbra e poi esita solo qualche secondo, prima di baciarmi. E nei secondi in cui la sua bocca non è pressata sulla mia e le nostre lingue non si stanno cercando a vicenda, lui parla. E come al solito fa danni.
- Credo di sì, invece. – confessa piano, - Fler, noi due non ci perdiamo in un bicchiere d’acqua. Se questo fosse un bicchiere d’acqua, non ci perderemmo affatto. Il problema è che non lo è.
Dopodiché, mi bacia. Ed io, quando lui mi bacia, non capisco più niente. Giuro, nessuno mi ha mai baciato come mi bacia Chakuza, e la cosa allucinante è che all’inizio non era per niente così. Voglio dire, baciava bene ma non esattamente come piaceva a me, questa è una cosa che è venuta dopo, col tempo. E gliel’ho insegnata io. Gliel’ho insegnato io come e dove toccarmi, e questa cosa mi fa impazzire. Non saprei nemmeno dire come, mi fa impazzire e basta.
- Questo è… - ansimo quando mi lascia andare per tirarmi in piedi e cominciare a trascinarmi verso la camera da letto. Incredibile come ricordi ancora dov’è, qui c’è stato solo una volta. Evidentemente ha un talento per sviluppare planimetrie istantanee delle case, per ogni evenienza, - Questo è stato molto scorretto. Non le dovresti dire, queste cose.
- Non lo direi, se non fosse vero. – risponde lui, spingendomi sul materasso e salendomi a cavalcioni addosso, - Te ne dico poche cazzate, ormai…
- Già che tu ammetta di dirmene qualcuna… - gli faccio notare con un broncio che lui non si risparmia di mordere nemmeno per un attimo, - E comunque certe volte è anche peggio, quando sei sincero.
Si ferma solo un secondo. Che poi non è neanche vero, perché non si ferma per niente. È solo un po’ meno frenetico. Continua ad accarezzarmi un fianco con una mano ed a slacciarmi i pantaloni con l’altra, ma si solleva a guardarmi negli occhi e si prende un secondo, prima di parlare ancora.
- Se ti offrissi qualcosa di meno… - comincia serio, - intendo, se cominciassi a mentirti e basta, tu ci staresti? – sospira, - Sarebbe bello e sarebbe facile, ma tu non sei facile neanche per un cazzo. Probabilmente, già alla quarta stronzata prenderesti la tua roba e cambieresti città.
Annuisco, sollevando una mano ad accarezzargli la nuca.
- E infatti ci sono andato vicinissimo.
Annuisce anche lui, sollevandosi appena per sfilare la felpa.
- Sono contento che ci sia tu qui, adesso. – mi dice, continuando a guardarmi negli occhi, - Non so dove sarei, altrimenti.
- In qualche bordello, Chaku. – rido io, ma lui mi toglie il respiro spingendosi lentamente contro di me.
- Sono contento di essere con te, invece. – ribadisce, tornando a baciarmi, - Cristo, dimmi che non mi fermerai, stavolta. Mi sto scordando di cosa sai.
- Stronzate… - ansimo, piegando il capo per lasciargli campo libero sul mio collo, - mi hai baciato anche troppo spesso.
- Ti baciavo ogni giorno, fino a nove mesi fa. – intrufola un ginocchio fra le mie gambe e lo strofina contro la mia erezione da sopra il tessuto pesante dei jeans, - Ti scopavo ogni giorno. Non ti manca?
- Fanculo. – sibilo, seguendo i suoi movimenti col bacino, - Chaku, stai proprio parlando troppo stasera.
Mi bacia lentamente, lasciando scivolare la lingua sulla mia per dei secondi infiniti, e quando si separa dalle mie labbra si appoggia su di me, fronte contro fronte.
- Lo sai che oggi è diverso, vero? – cerca di convincermi, gli occhi scuri di voglia che cercano i miei nel buio della camera da letto, - Non è come quando ho portato Bill da Bushido. Oggi non sono fuori di testa come quel giorno. Sono lucido.
Scuoto il capo e finisco per sfiorare le sue labbra con le mie nel movimento.
- Non lo sei affatto. – gli faccio notare con un mezzo sorriso, - Lo vedi perché dico che parli troppo? Se stessi zitto, avresti un mucchio di problemi in meno.
- Fler… - mi chiama lui, riprendendo a strusciarsi contro di me, - Dico sul serio. – e mi bacia ancora, - Mi piace il tuo sapore.
Mi ci perdo dentro un secondo. Nella sua voce, nei suoi movimenti, nella frizione deliziosa della fibbia dei suoi pantaloni che striscia contro la mia erezione attraverso il cotone sottile dei boxer.
Mi ci perdo dentro un secondo. Un secondo solo.
- È per Bill che lo stai facendo. – gli sussurro all’orecchio mentre scioglie la cintura, - È per lui. Vero? È perché non hai lui che sei qui.
E lui si ferma. Trattiene anche il respiro, per un po’. Poi mi si spinge contro con una certa violenza, tant’è che io ho il tempo di sentirlo tutto – eccitato, frustrato, arrabbiato – e vedere le stelle, e poi mi ringhia sulle labbra.
- È per lui. – conferma, - Sì. Contento, adesso?
Subito dopo, smetto di sentire il calore e la pressione del suo corpo, e quando riprendo a guardarmi lucidamente intorno lo vedo seduto sul bordo del letto, le spalle curve e l’espressione corrucciata che non riesco a cogliere nei dettagli. Ma non ne ho bisogno, li ricordo comunque a memoria.
Tutto quello che riesco a pensare, in questo momento, è che Chakuza ora come ora non ci sta con la testa. Che, per questa situazione, la testa potrebbe perderla del tutto e definitivamente. Che non voglio che succeda. E che voglio essere io quello che gl’impedirà di perdersi dentro se stesso. Voglio essere io e non m’interessa di nient’altro. Non so nemmeno perché, forse da Anis ho ereditato anche questa stupida spinta pseudo eroica per la quale non riesco a stare bene se non so che è tutto a posto e che lo è perché io ho voluto così, non lo so. Fatto sta che mi sollevo a sedere, puntellandomi sul materasso con le mani, e sospiro profondamente. Mi avvicino a lui e sento il suo respiro, vedo la sua sagoma scuotersi appena nell’ombra e mi chino sulla sua spalla, lasciando un bacio sulla sua pelle calda.
Chakuza si volta a cercare i miei occhi. E li trova perché io non scosto lo sguardo.
- Fler- - mi sporgo in avanti e gli tappo la bocca, baciandolo piano.
- Piantala di parlare così tanto. – ordino mordendogli un labbro, - Cristo, piantala, per favore. Lo so, okay? So tutto, Chaku. E non me ne frega un accidenti, in questo momento.
- No, non lo sai! – insiste lui, agitandosi tutto e voltandosi verso di me, cercando di tenermi fermo per le spalle, - Tu sei convinto che io per te-
Lo fermo ancora, baciandolo più profondamente e più a lungo. Più lentamente, anche, così che possa perdercisi dentro e dimenticare che prima stava parlando.
- Lo so. – dico in un sussurro, quando mi allontano da lui, - Lo so che abbiamo una cosa, Chaku. Lo so.
Lui ride appena, è una risata amara.
- “Una cosa”… - ripete, e le virgolette che ci mette sono così evidenti che scappa da ridere anche a me.
- Esiste un altro modo di chiamarla? – lo prendo in giro, cercando le sue labbra. Lui mi accontenta, sporgendosi in avanti e stendendomi nuovamente sul materasso.
- Sì, penso che esista. – confessa, respirandomi addosso e sfilandomi i boxer, - Ma ho paura che se lo facessi poi mi si rivolterebbe il mondo sotto ai piedi.
Ed io annuisco e non parlo più. E lo lascio fare, mentre si inumidisce le dita e mi accarezza fra le natiche, mentre torna a baciarmi e mentre scende a mordermi sul collo, mentre mi masturba senza che debba chiederglielo, mentre si spinge contro di me e dentro di me, lento e preciso, fino a farmi perdere il controllo di ciò che penso dico e faccio, lo lascio fare e non dico una parola perché so che è vero, so che certe cose vanno tenute sotto silenzio, non le espliciti certe situazioni, restano non dette. Ed è meglio così, perché ci sono cose che a dirle scompaiono. Se, quando avevo sedici o diciassette anni, io avessi detto ad Anis quello che mi passava per la testa, oggi un noi – un me e lui, un Patrick ed Anis – non esisterebbe. Certe cose le conservi fino al momento giusto, per certe altre il momento giusto non arriva mai.
Chakuza non è mio. Noi il nostro momento giusto non l’avremo mai.
A questo punto, si tratta soltanto di farci l’abitudine.
*
Farci l’abitudine, comunque, richiede tempo. Per abituarsi a qualcosa, quella cosa deve ripetersi due, tre, quattro, cinque, infinite volte, così tu puoi scrivertela dentro, addosso e attorno, e non dimenticarla più. Invece, svegliarmi accanto a Chakuza – svegliarmi così vicino a lui, il naso affondato nell’incavo del suo collo e le sue gambe intrecciate con le mie – è una cosa completamente nuova, perciò non ci sono per nulla abituato. Quando apro gli occhi, fatico a riconoscere le mie lenzuola, il mio letto e la mia stanza, perché c’è Chakuza che rende tutto diverso. L’armadio a muro sulla parete di fronte a me non è più uguale a prima perché c’è la curva della sua spalla a tagliarlo in due, e le coperte non hanno più la stessa forma perché qui sotto ci siamo io e lui insieme, e io tutto questo non l’ho mai visto così, perciò in un primo istante non capisco dove sono né cosa sto facendo, e mi irrigidisco tutto fra le sue braccia, così repentinamente che, nonostante stia dormendo – e so bene che quando dorme svegliarlo è praticamente impossibile – lui mi sente, e si sveglia a propria volta.
- Pat…? – mugola confuso, sciogliendo il nodo delle sue dita dietro la mia schiena, - Che?
Mi imbarazzo subito ed abbasso lo sguardo, scuotendo il capo.
- Niente. – biascico, - Fa caldo.
- Ma non è vero per niente. – si lamenta lui, stringendomisi contro ed affondando il viso per metà contro il cuscino e per metà contro il mio collo, - È l’alba, torna a dormire.
- Mi sporgo un po’ oltre la sua testa per controllare la radiosveglia sul comodino, e realizzo che non è per niente l’alba. Anzi, l’abbiamo saltata da un pezzo.
- Sono quasi le undici e mezza. – lo informo, - Possiamo anche pensare direttamente al pranzo, altroché.
Si scosta da me con uno sbuffo risentito, guardandomi con attenzione, come volesse rendersi proprio conto del fatto che io sia qui in questo momento, così vicino a lui da dividere il suo stesso calore e il suo stesso odore ed anche il suo stesso respiro.
- Avevi programmi, per oggi? – mi chiede, senza particolari inflessioni nella voce.
Io sospiro, prima di rispondere, perché mi sento a disagio.
- Nicole. – ammetto in un soffio, - Dovevo vederla, ovviamente.
Lui annuisce, un po’ indispettito.
- Ovviamente. – commenta acido. Io lo guardo, inarcando un po’ le sopracciglia. – E non fissarmi in questo modo. – borbotta lui, e poi sospira a sua volta, ugualmente a disagio. - …io non posso chiederti niente.
Rido contro la sua spalla, scuotendo lievemente il capo.
- Scelta mia, insomma. – esplicito, cercando i suoi occhi. Lui ricambia il mio sguardo e mi bacia lievemente, prima di annuire.
- Scelta tua.
La mia scelta è molto semplice e non può che essere una sola. Io magari non lo realizzo chiaramente mentre mi lavo, mi vesto ed esco di casa, ma è l’unica cosa cui riesco a pensare quando arrivo all’appartamento di Nicole e suono al citofono per farmi aprire. Voglio sbrigarmi qui, voglio che sia una cosa breve perché voglio tornare da Chakuza che mi sta aspettando nel mio appartamento, dato che mi ha detto che si sarebbe preso l’intera giornata di riposo per dormire, visto quanto si sentiva stanco. Non puoi stare con una donna quando il tuo primo pensiero è che vorresti stare altrove con un’altra persona, sia essa maschio o femmina, perciò la mia scelta quella è, e quella resta. Devo lasciare Nicole.
Mi aspetta sulla soglia di casa, asciugandosi le mani sul grembiule bianco e un po’ vecchio che indossa sopra la tuta da casa. Ha i capelli raccolti dietro la nuca. È carina. Per un momento mi chiedo “ma perché lo sto facendo?”, e resto in attesa di una risposta che non arriva. Non so più nemmeno se è davvero Chaku il motivo per cui la lascio, forse alla fine l’avrei lasciata lo stesso, per una scusa o per l’altra. Forse l’unico merito di Chakuza è che questo momento sia adesso, adesso che per lei non è ancora così doloroso. Forse. Non lo so, se sarà doloroso. Per me non lo è, in questo momento, e per questo forse dovrei sentirmi in colpa. Ma non ci riesco.
- Oggi ho fatto un sogno assurdo. – ridacchia, sollevandosi sulle punte per baciarmi lievemente sulle labbra, - C’era questo cane enorme che stava a guardarmi da dentro la mia valigia, ed era pelosissimo e morbidissimo, e a un certo punto il cane si metteva a parlare e lo faceva con la tua voce. Non mi ricordo cosa diceva, ma mi veniva da ridere, forse perché era strano sentire parlare un cane con la tua voce!
Rido a mia volta, seguendola all’interno dell’appartamento. Il tavolo è ancora sgombro, forse ha appena cominciato a cucinare. Magari riesco perfino a non farle sprecare cibo.
- Non sei mica tanto carina a sognarmi come se fossi un cane, eh. – le faccio notare invece, e mi do dell’idiota da solo, subito dopo, perché sto perdendo tempo. Non dovrei voler perdere tempo. Forse un po’ in colpa mi ci sento, dopotutto, perché è vero che questa situazione è colpa mia.
- Non è che ti abbia dato del cane, Pat… - mi prende in giro lei, tornando a smanettare con le pentole di fronte ai fornelli. Io la seguo fino in cucina e la guardo muoversi tranquilla per un po’. Poi capisco che devo fermarla, e visto che non so come fare mi allungo a chiudere il gas girando una delle manopole.
- Scemo. – mi rimprovera lei, ridacchiando, e poggia la mano sulla manopola, pressando un po’ per riaccendere il fornello, solo che non ci riesce, perché io la fermo prima, posando una mano sulla sua e risalendo fino al polso, tirandola un po’ per costringerla a girarsi.
- Pat? – mi chiama, incerta, inarcando le sopracciglia verso il basso.
- Devo parlarti. – sputo fuori d’un fiato, guardandola dritta negli occhi.
Lei non dice niente e nemmeno si muove, in realtà. Non so se vi è mai capitato di dover dire qualcosa a qualcuno e arrivare a quel momento preciso, guardare quella persona negli occhi e sapere che già sa che cosa dovete dire. A rigor di logica dovrebbe rendere tutto più facile, perché è un po’ come se non ci fosse davvero niente da dire davvero, si tratta solo di sbrigare la formalità del dirlo ad alta voce, ma il concetto è già noto e magari l’altra persona dovrebbe pure aver fatto in tempo a prepararsi, visto che già lo sa. Però in realtà non è così. In realtà quando tu sai una cosa non hai ancora risolto un cazzo. Tu la sai, sì, è dentro di te, ma questo non ti solleva di niente dal dolore che provi quando poi quella stessa cosa la senti. È come sapere che un tuo parente o un tuo carissimo amico è malato terminale e sta in ospedale collegato a una macchina. Lo sai che morirà, cazzo, ovvio che lo sai, passano i mesi e tu ti prepari, ma quando poi lui muore lo stesso tu scopri che non eri pronto davvero perché nessuno te l’ha detto davvero. È una cosa complicata. È più facile dire la verità quando nessuno sa niente, è più gestibile. Quando ti dicono una cosa che già sai stai male il doppio, perché sei stupido e perché ti senti tale.
- Forse sarebbe il caso che noi due non ci vedessimo più, per un po’.
Lo dico perché è la prima cosa che mi viene in mente, e solo dopo che l’ho detto mi rendo conto che ho saltato tutta la parte in mezzo. Quella che fa più o meno non ti amo, credo di essere innamorato di un altro, credo che dovremmo lasciarci perché non è giusto per nessuno dei due restare in questa situazione, e solo dopo avrei dovuto dire anche il resto, sarebbe il caso di non vedersi più per un po’. Ma, forse perché volevo sbrigarmi in fretta, forse perché le palle per dire “ti lascio” non ce le ho, non l’ho detto.
Nicole sgrana gli occhi e mi guarda, annichilita.
- Pat- - prova a chiamarmi, ma io le lascio andare il polso e la interrompo.
- Scusa. – scollo a fatica, - Non volevo dirtelo così, è… ho fatto casino. – ammetto in un sospiro, - Il problema è che… - la guardo e non so se voglio davvero dirglielo. Non so se voglio davvero. Non… - sono innamorato. Di un’altra persona. – mi interrompo, prendo fiato, - Che è maschio. Ed è Chakuza.
Nicole schiude le labbra. Non come nel gesto di chi si prepara a dire qualcosa, eh. È solo stupita. Le sue labbra formano una o praticamente perfetta, mentre continua a guardarmi.
- Pat? – chiede. Magari si aspettava di essere lasciata, ma non per un uomo, ok.
- È complicato. – mi gratto la nuca, imbarazzato, - Va avanti da un po’.
- Mentre noi…
- No! – mi affretto a negare, - No, assolutamente, intendo, c’era prima di te. Poi non c’è stato per molto tempo, ed io ho pensato che… insomma, che potesse andare, fra noi due. Non ti ho mai tradita con lui. – preciso, guardandola dritta negli occhi. Non so cosa possa farsene, di questa precisazione, ma tant’è. – Né con nessun altro, ovviamente. – aggiungo in un mezzo sospiro esausto, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi.
Lei annuisce lentamente, respirando così piano che non riesco nemmeno a vedere il suo petto alzarsi ed abbassarsi. Tortura con le mani l’orlo del grembiule già stropicciato, mentre un paio di ciocche bionde sfuggono al mollettone dietro la testa, ricadendole ai lati del viso quando lo china per spostare lo sguardo sulla punta delle pantofole che indossa.
- Mi dispiace. – aggiungo. Non so cosa possa farsene anche delle mie scuse, in realtà mi sembra di starle riempiendo la testa per evitare che mi stia davvero a sentire. Io le ho detto che sono innamorato di un uomo, di Chakuza!, e poi ho continuato ad aggiungere particolari idioti e inutili, soltanto per deviare l’attenzione verso qualcosa che fosse meno scomodo rispetto alle immagini che sicuramente si staranno formando nella sua testa mentre io sono qui a dire e pensare e anche fare assurdità.
- Potresti… - dice con difficoltà poco dopo, inumidendosi confusamente le labbra, - …intendo, andare? Non… non me la sento di parlare adesso. – conclude in un mezzo singhiozzo. Io annuisco lentamente, allontanandomi a ritroso, senza voltarle le spalle.
- Non subito, ok? – mi raccomando, - Ma quando ti senti… più tranquilla, ecco, chiamami. Ne parliamo. Sono quasi sicuro che non serva a niente, ma-
- Non servirebbe a niente, infatti. – taglia corto lei, voltando lo sguardo altrove, - …ma ti chiamerò. Fra… qualche tempo.
E finisce così, con me che me la lascio alle spalle, chiudo la porta e scendo al piano terra, per poi mettermi a camminare tranquillo per le strade di Berlino, verso casa. Mentre svuoto la testa da tutto – tutto quanto – quasi non mi accorgo che i piedi, da soli, stanno andando verso casa di Chakuza. Quando lo capisco mi scappa una risata, perché sarebbe allucinante andare lì adesso, contando che Chaku è già dove dovrei andare, e cioè nel mio appartamento. Ricomincio a guardare le strade, cerco la via più breve per tornare a casa e quando torno – apro con le chiavi, non voglio disturbare, e poi è casa mia, che diamine – lo trovo che dorme sul divano. Ha perfino fatto la fatica di alzarsi dal letto, commovente.
- Chaku. – sbotto risentito, - Oh, guarda che quel divano costa quanto tutta casa tua intera, sai?
- Mmhn…? – apre gli occhi lui, stiracchiandosi per quant’è lungo – cioè poco – e puntando i piedi sul bracciolo, a rischio di scardinarlo, - Già tornato? – sbadiglia, - Fatto presto.
- Avevo poco da fare. – sospiro crollando sul divano accanto a lui, che tira indietro le gambe per farmi posto e poi si mette seduto, grattandosi distrattamente la pancia.
- È andata bene?
- Quando mai vanno bene queste cose?! – sbotto irritato, e lui ride, ma è una risata triste.
- Hai ragione. – annuisce distratto, cercando a tentoni coi piedi le pantofole che mi ha ovviamente rubato per affrontare l’impervio e lungo tragitto che lo separava dal letto al divano – tipo, cinque metri, comprensivi di corridoio ricoperto di moquette.
- Comunque, - sospiro, rilassando la schiena e il collo, - insomma, quello che dovevo fare l’ho fatto.
- Anche io. – dice improvvisamente lui saltando in piedi, sistemandosi le pantofole e muovendosi spedito verso la cucina neanche conoscesse già tutto l’appartamento a menadito, - Insalata di riso. Ne ho fatta un po’ tanta, ma si può sempre conservare. Ci ho messo l’olio così tiene di più, volendo ci si potrebbe mettere anche la maionese ma non ne avevi in casa. Comunque hai gli stipetti pieni di roba, me le sogno io ‘ste cose a casa mia, facciamo cambio di appartamento?
Sollevo la testa per guardarlo di sbieco mentre torna dalla cucina con una ciotola enorme piena di riso fino a scoppiare e due cucchiai in mano.
- Hai preparato da mangiare? – chiedo, - Ma funziona la mia cucina? Non la uso da secoli…
- No, non l’avevi mai usata. – ride lui, - Almeno, ho dovuto togliere io lo scotch dal fornello grande, quindi quello di sicuro non l’hai mai toccato.
Rido anch’io, vagamente imbarazzato.
- Ti sei subito messo a tuo agio. – commento, mentre lui si siede accanto a me e posa la ciotola sul divano, fra di noi, incurante di quanto enormemente potrebbe macchiarsi la fodera.
- Odio perdere tempo. – mi risponde, cercando a tentoni il telecomando mentre mi passa il mio cucchiaio. Accende la televisione, fa un po’ di zapping, si ferma su un programma scemo e poi mi fa un mezzo sorriso idiota.
- Buon appetito. – dice.
- Buon appetito. – rispondo.
E poi comincio a mangiare.
*
Se questa fosse una situazione normale – voglio dire, se io e Chakuza vivessimo una vita da persone normali, non ci sarebbero problemi di sorta. So come funzionano le relazioni, in genere quando t’innamori di una persona nuova – o ti innamori di nuovo della stessa persona per la centesima volta – attraversi un periodo in cui vedi esclusivamente solo quella persona e tutto ciò che fai, pensi e dici lo rivolgi idealmente a quella persona lì, come se nell’universo intero non esistesse nessun altro. A prescindere da quanto profondo sia l’affetto che stai provando, eh, perché può essere il vero amore così come una semplice cotta, funziona sempre allo stesso modo. Perciò io e Chakuza ci ritroviamo da un lato a non voler fare altro che starci intorno – non è nemmeno una cosa sessuale, il che mi sconvolge più di quanto dovrebbe – e dall’altro lato a renderci conto che comunque non è così che possiamo fare.
Almeno, non è così che può fare lui, dato che, al di là di tutto, c’è ancora un album da ultimare e definire, in uscita fra pochissimo e con un tour da preparare.
Quando mi sveglio, lo trovo già vigile, il che mi preoccupa. Chakuza raramente riemerge dal mondo dei sogni prima che lo faccia io, e quando lo fa è quasi sempre perché ha qualcosa di ingombrante e complicato che gli ingolfa la testa. Oltretutto, in genere quando si sveglia prima di me si alza anche prima di me. Si alza, prepara la colazione, si lava e comincia a vestirsi, semplicemente perché, come tutte le cose piccole, è uno che deve scaricare l’energia in fretta, perché poi non ci mette molto a ricaricarsi. Voglio dire, è come quando riempi d’acqua un vaso e un bicchiere contemporaneamente: il bicchiere si riempie subito, il vaso ci mette più tempo. Chakuza è un bicchiere, quindi è svelto nell’autoricarica.
Oggi invece niente, è sveglio e fissa il soffitto con aria contrita e seria, le sopracciglia aggrottate e le labbra così strette da sembrare disegnate. Mi sollevo sugli avambracci, piantando i gomiti sul materasso, e lo guardo.
- Posso sempre contare su di te quando si tratta di cominciare la giornata nel modo giusto, mh? – scherzo, e sento la tensione sciogliersi su di lui tutta in un colpo: rilassa i lineamenti e la sua mano, che prima mi stringeva un braccio con forza, allenta la presa e mi accarezza lentamente, come a scusarsi in caso mi avesse fatto male. Naturalmente non me ne aveva fatto, figurarsi, ma è carino che mi accarezzi, perciò lo lascio fare e sorrido anch’io, mentre lui sospira e si stiracchia un po’ a fatica. – Qual è il problema? – chiedo, e quando lo vedo partire in quarta per dirmi che non c’è proprio alcun problema lo fermo nel modo più efficace che conosco, baciandolo a fondo. – E non mi dire cazzate, ci metto due secondi a mandarti ko, austriaco.
Lui ride ancora, scuotendo il capo.
- Mi tocca andare in studio, oggi. – dice in un sospiro stanco, - Ti lascio immaginare quanto ne abbia voglia.
Sollevo gli occhi al cielo, esasperato.
- Abbiamo presentato la regressione infantile odierna di Peter Pangerl. – sbuffo, - Andiamo, Chaku. È il tuo lavoro, non fare il ragazzino.
- Ma ci sarà Bill… - mi fa notare in una mezza lamentela, e io vorrei tirargli un pugno sul naso e dargli del cretino, perché il fatto che io conosca a memoria il suo cervello non dovrebbe dargli l’impressione di avere il diritto di prendermi a coltellate come e quando gli pare, ma lascio perdere, preferendo un altro sbuffo e accasciandomi stancamente sul cuscino.
- Sensibile come al solito, vedo. Mi stupisci ogni giorno di più.
Lui mi si arrotola contro, nascondendo il viso nell’incavo del mio collo e respirando direttamente sulla mia pelle per qualche secondo, prima di parlare ancora.
- Scusa. – dice. Dovrei trasalire – Chakuza s’è appena scusato. Voglio dire, non so se ci si può rendere conto di quanto questa cosa sia assurda. Me lo sarò mica sognato? – ma lui non me ne dà il tempo. – Vieni con me? – chiede. Quando mi allontano un po’ per cercare i suoi occhi, lo trovo già lì pronto a ricambiarmi lo sguardo con una serietà ed una tranquillità che mi stupiscono profondamente.
- Perché? – chiedo un po’ incerto. Lui non distoglie lo sguardo.
- Perché ne ho bisogno. – risponde sinceramente. E poi lo ripete, ma stavolta non è una domanda. – Vieni con me.
E visto che non è una domanda, io non ho nemmeno bisogno di rispondere.
*
Non ho idea di come Chakuza potesse pensare che la mia presenza in questa stanza potesse risolvere le cose o renderle meno pesanti. Allo stato attuale dei fatti, probabilmente non fa che peggiorarle, perché io in questo gruppo di persone non c’entro neanche per sbaglio, perché Jost mi sta guardando come se fossi un folle – nei suoi occhi c’è qualcosa di molto simile a un “ma sei fuori a infilarti di tua iniziativa in questa guerra fredda?” – perché Anis non riesce a capire in che veste io sia qui al momento, perché Bill vorrebbe piangere e sento le sue lacrime come se mi stessero scorrendo sulla pelle anche se non ne ha ancora versata nemmeno una e soprattutto perché Chakuza si sta comportando in maniera talmente pessima che io per primo avrei voglia di prenderlo per la nuca e spaccargli la faccia contro una parete. La mia presenza qui non è semplicemente inutile, no, è deleteria.
Da quando siamo arrivati, Chakuza non ha rivolto a Bill nemmeno un saluto. Il che è idiota ed è irritante ed è ridicolo, perché io so che vorrebbe sollevare lo sguardo e cercare quantomeno di sorridergli, lo sa Bushido, lo sa Bill, lo sa Jost, tutti qui dentro sappiamo che dentro la testa di Chakuza c’è di tutto ma di sicuro non lo stimolo di ignorarlo. Ed è frustrante e imbarazzante osservarlo mentre fissa ostinatamente lo sguardo sul programma che Jost sta proiettando sulla parete di fronte – una sequela di date di cui prendo nota solo distrattamente, dato che so già che non avrò una parte nemmeno marginale in tutto questo – quando tutti sappiamo che di quel programma non gli frega un accidenti, quando tutti sappiamo che l’unica cosa che vorrebbe guardare è appena lì alla sua destra e sta smaniando per avere quegli occhi addosso almeno un’altra volta, anche solo per un attimo.
L’atmosfera non ci impiega niente a tendersi come un elastico, in queste condizioni. E, dopo qualche minuto, come un elastico scatta anche, e Chakuza deve solo ringraziare che Bushido ami Bill al punto da desiderare di non deluderlo mai, perché altrimenti l’ultimo saluto di Anis, prima di uscire, non sarebbe stato “a domani”, ma un pugno sul naso.
Quando la sala s’è svuotata quasi totalmente, i Tokio Hotel sono sfilati come una corte al seguito della Principessa che accompagnava il Sovrano e gran parte dello staff ha seguito l’illuminato esempio, Jost ci guarda a lungo, a me e a Chakuza, e poi solleva entrambe le braccia in un gesto di resa.
- Io non ne voglio sapere niente. – borbotta, e il secondo dopo è fuori anche lui. Lo osservo uscire ed anche se non vedo Chakuza e non lo sento muoversi, so che sta tremando di rabbia sotto la superficie della sua calma apparente, e vorrebbe devastare questa stanza facendone a pezzi ogni singolo mobile e buttando giù le pareti a testate. L’unica cosa che lo frena è che non è a casa sua e non è un vandalo, perché vivaddio i suoi genitori almeno l’hanno educato per bene, altrimenti in pochi minuti la Universal si ritroverebbe rasa al suolo per la furia di un solo uomo.
Mi volto a guardarlo sospirando anticipatamente. Lo faccio adesso, tanto so che dovrò ripetermi in futuro.
- Non dire una parola. – dice Chakuza, alzandosi in piedi di scatto e cominciando a vagare per la sala riunioni come una tigre in gabbia, - Nemmeno una parola.
- Non sto fiatando. – gli faccio notare, inarcando un sopracciglio e restando seduto dove sono, - E comunque sei tu quello che dovrebbe parlare.
- E per dire cosa, di grazia?! – sbotta lui, voltandosi repentinamente a guardarmi. Io scrollo le spalle.
- Per motivare il tuo comportarti come un ragazzino di due anni, magari? – ipotizzo, fingendo di rifletterci su, - O per ammettere di essere stato un coglione.
- Fler, vaffanculo. – taglia corto lui. Io sospiro ancora, come volevasi dimostrare, e mi alzo in piedi.
- Naturalmente. – annuisco, - Questo è il momento in cui io comincio con l’elenco puntato delle cose che ho sbagliato fino ad adesso, giusto? A partire da quando ti ho lasciato mettermi le mani addosso un secolo fa fino a quando te l’ho permesso per l’ennesima volta ieri, mh? – lo prendo in giro con un sorriso stronzo, - Oggi non mi va. – concludo con una scrollata di spalle, - Perciò a fanculo ti ci mando io, e visto che non sei abbastanza uomo da trovare le palle per muovere il culo e andare dal ragazzino per scusarti di esserti comportato come un idiota, lo faccio io. – lo osservo spalancare gli occhi e la bocca nel tentativo di dirmi qualcosa che probabilmente suona come un altro vaffanculo, anche se ben più risentito, ma non gli do il tempo di tradurre questa espressione scioccata in lingua tedesca, perché gli volto le spalle e mi dirigo tranquillamente verso la porta. – Comunque stasera porto la pizza, se ti trovo a imbrattare la cucina con qualche schifezza delle tue giuro che ti lascio a pulire da solo fino a domattina. – concludo. Mi volto solo sulla soglia, e guardandolo gli sorrido. – A più tardi.
Lui solleva una mano, punta un dito come a chiedere la parola e poi le sue spalle si rilassano in un sospiro stremato.
- …a più tardi. – si rassegna. Io sorrido ancora, uscendo dalla sala riunioni. Prendere nota: con Chakuza, litigare non serve. Potrebbe tornarmi utile in futuro.
*
Anis mi accoglie sulla porta con le sopracciglia aggrottate e gli occhi ridotti a due fessure. Conosco quell’espressione, è quella che, se noi si vivesse in un’altra epoca e ci si vestisse di raso e velluto con le armature al posto dei panciotti che comunque non usiamo ed enormi pantaloni a sbuffo che si fermano appena sotto il ginocchio, farebbe da preavviso al suo puntarmi contro il viso un indice e strillare “traditore!”. Visto che invece viviamo nel ventunesimo secolo e ci vestiamo in jeans e maglietta, lui comunque mi punta un indice contro il viso e comunque apre la bocca per darmi del traditore, ma l’effetto non è lo stesso, non c’è lo stesso pathos, perciò mi basta sbuffare platealmente, afferrare il suddetto dito e allontanarlo spiccio dalla mia persona, per intrufolarmi in casa sua e guardarmi intorno, riprendendo confidenza con l’ambiente circostante.
- Potrei denunciarti per violazione di proprietà privata. – mugugna Anis, massaggiandosi il dito come gliel’avessi lussato. Io sbuffo ancora, agitando una mano con aria disinteressata.
- Non cominciamo col giochino dell’elenco delle malefatte, perché sai che perderesti, okay? – taglio corto, tornando a guardarlo con le mani sui fianchi. – Bill?
Lui incrocia le braccia sul petto.
- È di sopra. – risponde burbero, - E non hai il permesso di andare a trovarlo.
- È una vera fortuna che non te l’abbia chiesto, allora! – esclamo con entusiasmo, dandogli le spalle e dirigendomi verso le scale, - E tu non hai il permesso di salire a interromperci, comunque.
- È una vera fortuna- - comincia lui, ma lo interrompo con una risata, saltando gli scalini a due a due per far prima, motivo per cui lui lascia perdere e si dirige in cucina con un “bah!” esasperato.
Bill – in camera del quale entro senza bussare – sta ascoltando musica con gli auricolari ben piantati nelle orecchie. È steso sul letto, i capelli sparsi sul cuscino e le gambe intrecciate. Ultimamente è così magro che sotto i pantaloni – che si allargano in sbuffi sul materasso sotto di lui – sembra non abbia niente a parte due stampelle per tenersi dritto.
Bill è un’ulteriore prova di quello che dicevo prima riguardo i contenitori piccoli che si riempiono più in fretta, mentre i contenitori grandi hanno bisogno di più tempo. Lui sarà sottile, ma è così incredibilmente lungo che per forza, quando succede qualcosa che lo drena e lo svuota del tutto, ha bisogno di lunghi periodi di nullafacenza, per potersi ricaricare per bene.
Solleva appena le palpebre ancora pesanti di trucco, e mi saluta con due dita.
- Stanco? – chiedo, lasciandomi andare di peso al suo fianco con tanta forza che il suo corpo, leggerissimo, saltella sul materasso e poi torna giù in uno sbuffo sommesso.
- Mmh-mh. – annuisce lui, è un gesto impercettibile. Lo noto solo perché ormai lo conosco abbastanza bene da non aver bisogno di gesti plateali, per comprenderlo. È anche questo, che lo stanca così tanto: non è facile capire Bill, per questo è costretto a esprimersi sempre in maniera chiassosa, o nessuno gli dà retta. Bill non è mai pacato, non è mai silenzioso, è sempre in qualche modo violento in ogni sua manifestazione. Però quando si scarica è in questi termini che si riduce. Esprimersi diventa una questione di millimetri, e tu devi imparare a misurarli correttamente, se vuoi continuare a stargli dietro.
- Lo immaginavo. – dico, accomodandomi meglio accanto a lui, - Chakuza è stato un coglione, puoi anche dirlo, sai?
Lui scuote il capo, due millimetri a destra, altri due a sinistra. Pressa appena il pollice contro il pulsante di spegnimento del lettore mp3, e poi mi guarda con l’aria di un cucciolo bastonato, gli occhi enormi su quel visino sfilato tanto umidi da stringermi il cuore. Spalanco le braccia, e lui si fionda su di me esaurendo probabilmente in un unico colpo tutta l’energia che era stato in grado di recuperare con l’immobilità che aveva tenuto fino a quel momento. Singhiozza contro il mio petto, macchiandomi la maglietta, e non me ne frega niente. Fosse qualsiasi altra persona in una qualsiasi altra situazione, ricorderei quanto questa maglietta di merda costi in realtà e sarei pronto a staccare più di una testa a morsi, come punizione. Ma è Bill e sta male, e quindi tutto il resto – maglietta di merda compresa – non vale un cazzo. Ed io lo lascio piangermi addosso.
Non dice niente per un sacco di tempo, un po’ perché sa che non c’è molto da dire, un po’ perché sa perfettamente anche di non aver bisogno di dire niente proprio a me, e così tutto quello che risuona per la stanza, per molti minuti, è il suo pianto sommesso. Non fa rumore perché non vuole che Anis lo senta, io lo trovo tenero ma mi annoda lo stomaco, perciò cerco di tranquillizzarlo abbastanza da farlo smettere, almeno un pochino. Gli accarezzo le spalle, lentamente, e lui mi si stringe contro, nascondendo il musetto contro di me, risalendo su fino alla spalla e al collo. Si lascia dietro una traccia scura che faticherò a giustificare a Chakuza – fa niente.
- Ehi… - lo chiamo dopo un po’, quando sento i suoi singhiozzi affievolirsi almeno un po’, - Meglio?
Scuote il capo, le sue spalle si scuotono con lui.
- È tutto… - singhiozza, la voce gli muore in gola, - Non ci capisco più niente, Patrick.
- Ma non c’è niente da capire. – cerco di sorridere, abbracciandolo stretto, - È solo un momento un po’ confuso, vedrai che lasciando al tempo fare il suo mestiere tutto andrà al suo posto.
Lui solleva gli occhi. Mi guarda con aria persa, le guance rigate di lacrime e le labbra che ancora tremano un po’.
- Ci credi davvero a questa cosa? – chiede debolmente.
Io scrollo le spalle.
- Il tempo ti ha guarito, quando credevi che Anis fosse morto. Ti guarirà anche adesso, in special modo perché non è morto nessuno.
Lo osservo abbassare lo sguardo per un attimo, e poi tornare a rifugiarsi nell’incavo del mio collo.
- Io non sono mai guarito da quel dolore. – sussurra sulla mia pelle, - È per questo che quando l’ho visto sono impazzito di gioia, nonostante tutto. Perché non mi ero mai veramente rassegnato. E se non l’ho fatto per lui, anche se ero convinto fosse morto… come pensi che potrei rassegnarmi adesso, sapendo che Peter invece è vivo?
Questo è il punto in cui dovrei stringermelo contro e rassicurarlo. Dirgli che presto questo dolore sordo che sente continuamente nel fondo del petto si affievolirà e passerà del tutto, dirgli che dimenticherà – anche se non è vero, perché nella vita non si dimentica mai, ed io ne sono la prova vivente, è che ti abitui, tutto qua, alla fine il dolore diventa una parte di te, mette radici o qualcosa del genere, come le radici degli alberi penetrano la terra fino a sconquassarla del tutto, e ne diventano parte, il dolore fa la stessa cosa col tuo corpo, e alla fine smetti anche di notarlo. Vorrei dirgli che è normale, è così per tutti, è perfino giusto sentirsi in questo modo, per certi versi, ma non posso. Non posso perché, uscito da questa casa, con la traccia del suo mascara ancora sulla maglietta, io prenderò la mia macchina e passerò in pizzeria, recupererò due pizze e due bottiglie di birra e nel giro di un’altra mezz’ora sarò a casa di Chakuza, e lì mangeremo metà pizza ciascuno, butteremo giù la birra in due minuti netti e il minuto successivo saremo già schiacciati contro una qualsiasi superficie a morderci ovunque come se dovessimo divorarci a vicenda. E quindi non ce la faccio, adesso, a guardare questo ragazzino disperato e dirgli che è giusto che soffra. Non ce la faccio.
- Si sistemerà tutto. – gli sussurro fra i capelli, e lui mi stringe al collo con tanta forza da togliermi il respiro, - Ti prometto che si sistemerà tutto. – ripeto, cingendolo alla vita.
Lui annuisce. Lo fa con forza, con l’ostinazione dei bambini, e so che non ci crede ma vuole provarci. Ce lo faremo bastare, ragazzino. Tu provaci. Proviamoci entrambi.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, David/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- "È Bushido a stabilire l’ordine di rotazione della Terra e di tutti i pianeti circostanti, è lui che piazza il Sole al centro del Sistema Solare, è lui che traccia il tragitto di comete ed asteroidi, accende e spegne le stelle e regola l’espansione delle galassie."
Note: Perché serviva spiegare un po’ com’è che si siano mosse le cose al di là del triangolo Bu/Bill/Chaku XD E perché David mancava con amore a tutti noi (o almeno mi auguro o_ò A me sì, comunque XD).
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WHEN THE GOING GETS TOUGH THE TOUGH GET GOING

Le questioni di parruccheria e cosmetica, con Bill, non sono mai state un problema. Per ciò che riguarda se stesso e il proprio aspetto, Bill segue fondamentalmente due criteri base, sui quali poi si può creare di tutto ma che vanno seguiti scrupolosamente. Bill è molto più creativo di ciò che la gente immagina guardandolo, solo che il suo strumento non è davvero la voce: Bill utilizza se stesso, ed è per questo che lui e Bushido sono tanto simili; hanno praticamente lo stesso modo di approcciarsi alla vita, prendendola di petto, sentendola su ogni centimetro della propria pelle. Non per coraggio, ma perché il loro corpo è la loro unica arma e il loro unico scudo. Perciò, il corpo è una cosa sulla quale Bill sente di dover avere un enorme controllo, ma allo stesso tempo è fantasioso per ciò che riguarda il suo utilizzo. I cambiamenti, per lui, non sono mai stati momenti difficili, quanto più gli unici istanti in cui Bill sentisse di poter esprimere appieno tutto il proprio talento. Tutto il contrario di suo fratello, che invece è una persona molto più normale ed il proprio corpo lo usa solo per scopare, perciò, se trova uno stile in cui si sente a proprio agio e nel quale si trova piacevole, tende a cercare di preservarlo per evitare di avere problemi.
Comunque, i due criteri base sui quali si basano le concessioni che Bill fa a truccatori e stilisti quando gli lavorano addosso sono: che lo mantengano il più femminile possibile e che, in mancanza di una femminilità sfacciata, si impegnino almeno a mantenerlo bellissimo. Sono le uniche due cose che Bill pretenda davvero quando si lascia andare alle mani esperte dei professionisti. Femmina. Se non femmina, talmente bello che ad un maschio non deve importare del suo sesso. È su questo che Bill ha basato tutta la propria carriera ed è per questo che Bill è diventato famoso. Perciò è questo che Bill vuole, sempre e comunque. Non so perché Bill odi il genere umano al punto da desiderare così ardentemente di metterlo in difficoltà ogni volta che mostra pubblicamente il musetto, così è, comunque, ed è per questo che si mostra struccato e trasandato solo di fronte agli occhi di chi ama: sono le uniche persone che non sente il bisogno di mettere a disagio o in imbarazzo.
Il motivo per cui sto dicendo tutto questo è che sto cercando di spiegare anche a me stesso quanto sia stato difficile convincere Bill a sottoporsi al solito restyling preventivo in attesa dei frutti del lavoro di Bushido, quando invece non mi è mai capitato neanche che fosse necessario chiederla, a Bill, una cosa del genere. Faceva tutto parte dello stato di esaltazione in cui Bill entrava in modo del tutto naturale ogni volta che gli veniva annunciata la data di uscita del nuovo lavoro. Era anche il motivo per cui lavorava alacremente, cercando di non sbagliare e mettendocela tutta, finanche a sfinirsi: tutto in previsione del momento in cui sarebbe potuto tornare a lavorare nel suo ambiente favorito, non lo spazio piccolo e chiuso delle sale di registrazioni, ma gli ampi spazi aperti dei palchi e degli stadi di tutto il mondo.
A questo giro, niente del genere di è verificato. Ho spiegato a Bill tutto quello che questo singolo avrebbe comportato – apparizioni pubbliche, un tour, riarrangiamenti di vecchi lavori, collaborazioni, presenze ovunque su qualsiasi canale televisivo, tutte cose che fino ad un anno fa l’avrebbero reso felice da scoppiare, ma la sua reazione è stata così tragicamente apatica da togliere perfino a me la voglia di lavorare.
Non mi aspettavo, naturalmente, di vederlo saltare in aria in preda alla gioia, questo è ovvio. Anche un idiota capirebbe che, in questo periodo della sua esistenza, Bill preferirebbe anche trovarsi completamente da solo appollaiato sulla punta di un iceberg in scioglimento al Polo Nord, piuttosto che restare qui a rimbalzare da un lato all’altro di Berlino nel tentativo di sbrogliare la matassa che ha al posto del cervello. Però speravo che il lavoro riuscisse a distrarlo. Ancora di più, speravo che riuscissero a distrarlo le fasi precedenti al lavoro, che sono quelle che gli piacciono di più. Quelle, appunto, in cui si restaura. Quelle in cui può chiudere gli occhi e lasciare che le persone lo coccolino, lo plasmino e squittiscano soddisfatte mentre lo osservano diventare stupendo sotto le loro dita, prima di lasciarlo tornare a guardarsi ed osservarlo sorridere soddisfatto di se stesso, perché ancora una volta ce l’ha fatta, ancora una volta è diverso ed ancora una volta è bellissimo. Sono le fasi dei trucchi, delle pettinature sperimentali, dei massaggi, dello shopping sfrenato. Bill ci impazziva, dietro a queste cose, un anno fa. Non posso fare a meno di chiedermi quanto di lui sia morto assieme a Bushido, visto che ci sono pezzi di sé che Bill non è riuscito a recuperare nemmeno grazie a Chakuza.
Bill non si aspettava che sarebbe stato costretto a lavorare con Bushido. C’è stato un tempo – che sembra lontano secoli – in cui l’idea era effettivamente balenata nella mente dei capi, alla Universal. Allora Bushido era vivo, lui e Bill erano la coppia d’oro dello show business tedesco ed erano presi al punto che, pur di stare insieme, avrebbero accettato qualsiasi tipo di contratto lavorativo, a qualsiasi condizione, purché permettesse loro di passare insieme la maggior quantità di tempo possibile.
Alla Universal l’idea del duetto piaceva moltissimo, s’era parlato di inserirla nel primo album disponibile – il nuovo lavoro dei Tokio Hotel, quello che non è mai uscito, visto che per Heavy Metal Payback, che invece è uscito postumo, le registrazioni s’erano già concluse da un pezzo – si stava addirittura cominciando a stilare qualche linea guida del progetto, prima di sottoporla all’attenzione dei diretti interessati.
Poi Bushido è morto e la Universal ha scrollato le spalle pensando di poter guadagnare dall’evento perfino più di quanto avrebbe potuto guadagnare col duetto, perciò l’idea non è mai uscita dagli uffici degli amministratori e non se n’è più nemmeno parlato, neanche per scherzo.
Il ritorno in vita di Bushido, ovviamente, ha cambiato di nuovo all’improvviso tutte le carte in tavola. Ai vertici della Universal, io, la sparizione di Bushido non ho potuto venderla come una trovata pubblicitaria. È gente che ha fiuto, per queste cose, è gente che le conosce, che ne comprende appieno i tempi e i modi. La morte di Bushido non si è svolta né nei modi più corretti né nei tempi più consoni, non c’era la minima possibilità che io potessi dire una balla simile a gente di quel calibro senza che loro mi ridessero dietro e mi licenziassero pure. Perciò, per quanto la cosa potesse farmi girare le palle, ho dovuto sputarla fuori tutta, mettendomici anche in mezzo, parlando dei timori di Bushido, della sua preoccupazione per Bill e del lungo periodo che l’aveva portato a maturare quella decisione.
In cambio per la mia sincerità, ho ottenuto altrettanta sincerità. Non pietà, naturalmente – non c’era speranza che ci si facesse sfuggire una storia simile lasciandola cadere nel dimenticatoio e concedendo a Bushido l’anonimato che voleva – ma non sono stato deriso, non sono stato trattato con sufficienza anche se era palese che nel gruppo qualcuno avesse sbagliato – e quel qualcuno ero io – e, cosa ancora più importante, non sono stato mandato a fanculo, né sono stato privato del mio incarico coi Tokio Hotel o con Bushido stesso. Tra l’altro, il mio impegno con Bushido non era mai stato ufficiale, alla Universal non avrebbero impiegato più di un minuto per togliermelo dalle mani – non avrebbero avuto neanche bisogno di tirare fuori il contratto per mostrarmelo. Insomma, diciamo che, tutto sommato, la trattativa non è andata poi così male.
L’unica cosa che proprio non potevo aspettarmi, da questa trattativa, è che fosse alla pari. Che fosse uno scambio. Quando firmi per una major, guadagni in fama, guadagni in denaro e guadagni anche in soddisfazione, ma perdi irrimediabilmente un pezzo molto consistente della tua indipendenza. Cose come “l’ultima parola sul proprio lavoro” diventano nient’altro che vecchi ricordi, perché neanche al più famoso dei gruppi viene mai consentito di uscire sul mercato se ciò che ha prodotto non è perfetto per l’etichetta, più che per il gruppo stesso.
Questo ragionamento Bushido lo conosce. Perché di fare il salto da indie e major l’ha deciso lui, e quando l’ha fatto sapeva esattamente dove stava andando e come e perché lo stava facendo. Perciò Bushido l’ha sempre saputo che, tornando allo scoperto, il momento delle pretese sarebbe arrivato.
Bill, invece, è sotto contratto da quando aveva quindici anni. Bushido sapeva quantificare ciò che stava perdendo in libertà proprio perché quella libertà, prima di firmare con la Universal, l’aveva vissuta pienamente. Bill no. Bill non ha mai vissuto in una realtà diversa da questa, e non ha mai vissuto nemmeno in una realtà in cui non sa dove andare a sbattere la testa perché ovunque sbatta fa troppo male per poterlo tollerare. Perciò non si aspettava che io arrivassi con la mia bella cartellina portandogli nuovo lavoro da fare. Si aspettava che le due realtà – la major e Bushido di nuovo in vita – non si incontrassero mai. Si aspettava una pausa, si aspettava che il resto del mondo in cui ha vissuto fino ad adesso fosse disorientato da quello che è accaduto esattamente come lui.
Non era preparato alle pretese. Non sapeva che sarebbero arrivate. Ed io non ho mai avuto il tempo né il modo di parlargliene, prima. Perciò il suo sguardo smarrito non mi ha stupito. Rattristato, sfiduciato, incupito. Ma non stupito. Bill è decisamente troppo piccolo, per tutto questo. Crescerà in un colpo, o finirà schiacciato dagli uomini troppo adulti che si è sempre ritrovato ad amare.
Ciò che Bill non ha mai tenuto in considerazione, nell’ultimo anno, nonostante sia uno che all’opinione della gente ci tiene eccome, è appunto cosa pensassero le persone di tutto quello che vedevano o sentivano. Nel corso di quest’ultimo anno, a Bill sono stati attribuiti flirt con chiunque gli gravitasse intorno, e perfino con tutta una serie di persone che invece col suo entourage non avevano niente a che fare. Questo perché la stampa scandalistica è un essere vivente e, in quanto tale, ha bisogno di nutrirsi. Il suo cibo è il pettegolezzo. Niente di diverso. Il lutto è stato un argomento di discussione valido per la stampa per un tempo addirittura minore di quanto non lo sia stato per Bill. Dopodiché i giornalisti hanno cominciato a pensare fosse assurdo che questo ragazzino ancora nel fiore degli anni non si concedesse, di tanto in tanto, qualche piccola scappatella. E si sono messi in moto per trovargliene una.
L’unico motivo per il quale non sono mai riusciti a dimostrare niente è che, in effetti, Bill di scappatelle non se n’è concessa nemmeno una. È passato dalla stretta asfissiante del proprio cordoglio a quella morbida e rassicurante di Chakuza, senza mai uscire allo scoperto con qualcosa di diverso. Per dirla in termini chiari, è stato come se fosse passato da una casa all’altra attraversando un sottopassaggio che le collegava. I giornalisti non lo hanno mai visto andar fuori con nessuno, e quando si è trattato di Chakuza è stato mio dovere coprirlo perché la loro storia restasse confinata in quella casa in cui Bill era passato, senza mai attraversare la porta principale ed uscire allo scoperto. Io non fallisco mai, quando mi si dà un incarico del genere. Deve ancora nascere il paparazzo che riuscirà a fregarmi.
Il risultato di tutto ciò, comunque – un risultato cui Bill non aveva dato la minima importanza, perché sì, per lui l’opinione della gente è importante, ma ogni singolo essere umano esistente al mondo è comunque scavalcato da se stesso, nella lista delle priorità – è che le illazioni dei giornalisti, dalla quasi totalità dell’universo intero, sono state prese, appunto, per semplici illazioni. Niente di diverso. E Bill è diventato una specie di vergine di ferro. Per i romantici, un ragazzino triste che non riusciva a liberarsi del fantasma del primo ed unico uomo avesse mai amato; per tutti gli altri, uno che, dopo aver capito quanti soldi poteva fare mostrandosi in giro al fianco di Bushido, ora aveva capito anche che poteva farne molti di più senza mostrarsi al fianco di nessuno. In entrambi i casi, per l’opinione pubblica, durante tutto quest’ultimo anno, Bill non ha mai combinato niente. Mai. Con nessuno.
Ecco perché, nel momento esatto in cui l’opinione pubblica è venuta a sapere della resurrezione di Bushido – pubblicizzata né più e né meno che con le armi che io stesso avevo fornito alla Universal, lasciando che i giornalisti raccontassero della dura vita del ghetto e di un uomo che non ci viveva più ma che, per quanto fosse andato lontano, non era mai riuscito a liberarsene – dopo il momento di smarrimento iniziale, dopo lo sgomento, dopo la realizzazione, dopo le risate per sdrammatizzare e cercare di tirare su milioni di fan che, per quella morte, avevano sofferto genuinamente, è venuta l’ora di pensare a Bill. E Bill, per tutti, era ancora la vedova sofferente di un anno prima.
Delle indagini di mercato che la Universal ha chiesto per organizzare un piano pubblicitario degno di questo nome e dell’evento che il ritorno di Bushido in Germania era, sono stato incaricato io. La Universal mi ha fornito un team di psicologi, sociologi e statistici e mi ha detto di tornare con dei numeri e delle percentuali ragionate. E quelle, naturalmente, non si sono fatte attendere. Ed erano sempre uguali. La gente li rivoleva insieme. Era la favola più romantica dell’ultimo decennio, più di Lady Diana, più di Carlo e Camilla, più di Letizia e Felipe di Spagna, più di chiunque altro.
Avessi dovuto sbrigarmela da solo, andando d’intuito e di supposizioni come ho fatto quando i Tokio Hotel li ho messi sotto contratto, quelli che sembrano milioni di anni fa, avrei raggiunto le stesse conclusioni di questo gruppo di studio, con la differenza che avrei potuto mentire al riguardo. Sarebbe stato pericoloso e folle e probabilmente mi sarebbe costato il posto di lavoro, ma avrei potuto farlo. A queste condizioni, circondato da gente pronta a parlare anche per cifre irrisorie, non potevo trattenere niente. E quindi il mio responso per la Universal è stato molto semplice e molto chiaro: se c’è qualcosa da organizzare, è fra Bill e Bushido che va organizzata.
Ed è fra Bill e Bushido che la organizzano, in effetti. Studiandola fin nel minimo dettaglio, la collaborazione, la promozione, il video, il packaging, un abbozzo di tour ed un mellifluo “stiamo a vedere come si evolve la cosa, prima di optare per qualcosa di più specifico”, come già questo non fosse specifico abbastanza. Ed è toccato a me andare da Bill ed osservarlo nel pieno della sua confusione mentale, per poi ricordargli che è ora di alzarsi e ricominciare a fare il proprio dovere. Che la sua vita non passa solo attraverso le mani dei due uomini che ha amato ed ama ancora, che la sua vita è qualcosa di più grande, che non appartiene a lui ma ad altri milioni di persone. Che l’ha venduta, la sua vita. “Solo quella pubblica”, mi dice lui, ed io annuisco perché è vero, ma gli ricordo anche che se si rifiuta di mostrarla ancora, quella vita pubblica, la gente comincerà a pretendere il privato. Bill ribatte che la gente lo sta già facendo ed io rispondo che non ha nemmeno idea di cosa possono arrivare a pretendere ancora da lui. Rispondo che il fatto sia ancora una stellina sulla cresta dell’onda non lo salva dal rischio di diventare una stellina che l’onda la guarda dal basso, ed alla quale non resta che lasciarsene travolgere. Gli rispondo che non ha idea di cosa ancora possano arrivare a chiedergli i grandi capi, non ha idea di che lavori umilianti siano costretti a fare i dimenticati dal mondo, per tirare su qualche spicciolo. Cantare alle sagre di paese, presenziare alle feste di compleanno dei ricchi rampolli della borghesia tedesca, è questo che vuoi, Bill? È questo che vuoi? No che non lo vuoi. Per cui non costringermi a ripetermi, Bill, alza il culo, oggi si comincia il restauro.
Morale della favola, per convincere Bill a muoversi non sono bastate le minacce, non sono bastati i rimbrotti, non è bastata la razionalità e suppongo non sarebbe bastata nemmeno una richiesta di Bushido o Chakuza in persona – figurarsi quella di un tizio a caso dalle alte sfere della Universal. Ho dovuto costringere al restauro anche Tom, pure se dall’etichetta per i Tokio Hotel adesso non hanno in programma niente. Se la cosa dovesse muoversi bene, è probabile che anche loro saranno coinvolti nel tour, ma per adesso è tutto molto vago e fumoso ed io preferisco di gran lunga non parlarne né con Tom né con Georg o con Gustav, perché Tom è già abbastanza esasperato dalla situazione e gli altri due ne sono già abbastanza infastiditi, senza che peraltro vedano il minimo motivo per sentirsene coinvolti. Posso capirli: un conto è dover faticare ed irritarsi per qualcosa che si sente come propria, per la quale ci si sente in diritto e in dovere di combattere – ed è quello che sta facendo Tom; un altro conto è osservare una situazione dall’esterno, detestarla già così e dover fronteggiare il rischio di sentircisi catapultati dentro senza la benché minima voglia.
Ciò che ho adesso per le mani, comunque, sono due ragazzini confusi e storditi, esattamente come prima, ma con due acconciature diverse. Non un gran guadagno, ma alla Universal sembra bastare. Almeno, è stato abbastanza per contattare Bushido e sottoporgli un ultimatum molto chiaro – ci diamo una mossa con una nuova canzone, o ce la diamo noi per te, una richiesta di fronte alla quale, lo sapevo, Bushido non poteva che cedere – e, subito dopo, contattare me e chiedermi gentilmente ma fermamente di cominciare a muovermi per un video.
Un video.
Confesso che, quando mi è piovuta la richiesta per telefono, fra capo e collo, un po’ m’è venuto da ridere. Finché si trattava di registrare e mandare il singolo in giro per radio, la cosa non era esageratamente problematica. Problematica sì, assolutamente, ma non era la fine del mondo. Ma un video. Un video. Prendere questi tre uomini ed i loro rispettivi entourage e costringerli insieme in un determinato posto. Follia.
Inutile dire che anche l’idea per il video è partita come suggerimento spassionato dagli uffici dei grandi capi. Naturalmente senza specifiche di alcun tipo, ma nel momento in cui ti senti dire “trova qualcuno che faccia al caso nostro, Jost”, e fino a due minuti prima s’è parlato di come sfruttare adeguatamente l’idea di Bill e Bushido come coppia reale dello showbiz tedesco, ancora viva nei cuori di migliaia di fan, chiaro che la prima cosa cui si pensa è portare il testo ad un regista con una certa passione per un determinato tipo di video, uno che sappia come sfruttare la chimica fra due persone, uno che capisca come funzionino queste relazioni, uno che sappia buttarle giù con uno storyboard spendibile sul mercato e tutto il resto.
Uno come Hans, insomma. Non avevo molta scelta.
Io ed Hans ci conosciamo da una vita. Ci siamo incontrati quando io ancora cantavo nei Bed & Breakfast, durante le riprese del video di Get It Right. Allora era appena uscito dall’accademia delle belle arti e non era che un ragazzino un po’ confuso che Herr Winkler aveva assunto da poco e maltrattava, da bravo regista ultracinquantenne con decenni di esperienza nel campo dei video delle boyband. Non ricordo bene com’è che facemmo amicizia, in realtà credo sia successo perché Hans aveva la brutta abitudine di lamentarsi sempre e comunque di qualsiasi cosa, era molto piagnucoloso – non che abbia mai smesso di esserlo – ed allora io ero un tipo dal cuore molto tenero che da queste cose si faceva prendere facilmente, perciò ci caddi con tutte le scarpe e finimmo per avvicinarci parecchio, anche se mai oltre un determinato limite – Hans è troppo checca perfino per il sottoscritto. Non che questo mi porti a volergli meno bene, ma a non desiderarlo sdraiato al mio fianco su un materasso sì, eccome.
Comunque sia, quando ho capito cos’è che volevano quelli della Universal da me, da Bill, da Bushido e da questa produzione, non ho esitato a contattare Hans. Perché è uno che sa il fatto proprio – almeno adesso – perché è bravo, perché sa lavorare e perché è un rompiballe. Che può sembrare una caratteristica poco meritoria, ma lo diventa improvvisamente tantissimo nel momento in cui si deve avere a che fare con gente ancora più rompiballe.
Nel caso di specie, Bushido.
Ora, ci tengo che non si pensi che il mio giudizio su Bushido sia falsato da ciò che provo per lui. D’altronde, puoi provare più o meno qualsiasi tipo di sentimento per un’altra persona, senza che questo oscuri la tua capacità di vederlo per ciò che è. Anzi, spesso è il contrario: quando provi qualcosa di più profondo per qualcuno è proprio perché l’hai visto in ogni sua sfaccettatura – anche le peggiori – e sei riuscito a dirti non che ti piacciono anche quelle – una cosa del genere è buona solo a riempire le bocche dei romantici, ma non può corrispondere alla realtà, non c’è verso per cui una persona sana di mente possa coscientemente amare un difetto – ma che puoi sopportarle, in favore di tutto il resto.
Quindi io lo so che Bushido è un rompiballe. Lo è per un miliardo di cose diverse, peraltro. Lo è per ciò che riguarda se stesso, lo è per ciò che riguarda la sua immensa e variopinta corte e lo è anche nei confronti di tutto il resto del mondo, perché quell’uomo è davvero fermamente convinto che, potesse mettere le mani su tutto l’intero orbe terracqueo per governarlo, sarebbe in grado di fare un lavoro splendido. Perciò tutto deve girare nel verso da lui prestabilito. È Bushido a stabilire l’ordine di rotazione della Terra e di tutti i pianeti circostanti, è lui che piazza il Sole al centro del Sistema Solare, è lui che traccia il tragitto di comete ed asteroidi, accende e spegne le stelle e regola l’espansione delle galassie. C’è poco da fare, quando uno vuole avere un controllo simile su tutto ciò che lo circonda. Non puoi non concederglielo, ed allo stesso tempo non puoi non limitarlo. Perciò io avevo bisogno di Hans. Avevo bisogno di qualcuno che fosse rompiballe tanto quanto lui, perché almeno ci fosse qualcuno pronto a litigarci, con Bushido, per costringerlo a vedere galassie diverse dalla propria. Per ricordargli che non è Dio ma un impiegato, e come tale deve lavorare.
Bushido, al momento, non è il maggiore dei miei problemi ma indubbiamente è un problema. Non può non esserlo anche quando non me lo trovo sotto gli occhi, perché anche quando non è con me, o io non sono con lui, in alcun modo posso dimenticare che al momento Bill e Chakuza stanno praticamente insieme e lui è praticamente solo. C’è una netta differenza fra ciò che il mondo sa – perché è ufficiale – e ciò che invece è vero e sappiamo solo noi. Il mondo sa che fra Bill e Bushido le cose sono tranquille – magari immaginano non siano più come un tempo, ma niente oltre a questo – non sa che Bill, quando dorme, dorme con Chakuza. E non sa che Bushido dorme solo in casa propria, con la compagnia di Fler in una stanza degli ospiti a caso, quando va bene. Ciò che è reale è questo. È ciò con cui dobbiamo fare i conti. Nessun altro oltre noi fa i conti con questo tipo di realtà, per il resto del mondo non esiste. Eppure è tanto vera che non ci si dorme la notte.
Mi sollevo dalla poltrona sulla quale sono stato affossato fino ad ora, poggiando il portatile bollente sul tavolino basso di fronte a me, e mi sgranchisco le gambe e le braccia, stendendo la schiena e mugolando soddisfatto quando sento le ossa crocchiare, i muscoli sciogliersi e i tendini riacquistare una parvenza di elasticità. Lancio una veloce occhiata all’orologio a muro: sono le undici ed io posso ragionevolmente dire di aver fatto quanto dovevo, per oggi. Il singolo è entrato in decima posizione nella classifica dei più venduti della settimana, e contando l’incertezza delle masse, in questo momento, è un risultato più che soddisfacente. Sarebbe qualcosa di cui gioire, se il gruppo per il quale lavoro fosse disposto alla gioia. Così non è, perciò la prendo come una gratificazione personale neanche tanto desiderata e mi chino ad arrestare il sistema, attendendo che il computer si spenga per chiuderlo e cominciare a prepararmi per andare a dormire.
Naturalmente c’è chi ha deciso che non posso. Potrei dare la colpa al buon Dio nel quale non è che abbia mai creduto, in realtà, ma visto che posso dare la colpa al suo più bravo imitatore qui sulla terra è nei confronti di Bushido che ringhio, nel momento esatto in cui rispondo al citofono e lo vedo apparire sul monitor, che guarda dritto in camera, come a ricambiarmi lo sguardo che gli sto lanciando io.
- Che sorpresa. – sbotto acido. Lui grugnisce qualcosa che somiglia a un “apri” ed io obbedisco roteando gli occhi e lasciandogli la porta aperta mentre torno in salotto e mi abbatto esausto contro il divano, preparandomi a quella che sarà sicuramente una discussione sfiancante. Semplicemente perché Bushido non viene a cercarti se non ha qualcosa da dirti, e non ha niente da dire che non sia sfiancante.
Appare sulla soglia della mia porta in jeans e maglietta, come si fosse appena alzato dal letto e si fosse messo addosso le prime cose trovate in giro per casa. Anche le infradito che porta sembrano ciabatte da casa, e nel complesso è molto buffo perché ha i capelli arruffati e si è appena sprecato a raccoglierli in una cosa disordinata, col risultato che un sacco di ciocche sono sfuggite all’elastico nero e sottile e ora gli incorniciano il viso, scendendo scurissime lungo gli zigomi, arricciandosi appena in punta.
È quasi illegalmente bello ed io distolgo lo sguardo.
Lui comunque non sembra della disposizione d’animo di venirmi incontro mentre mentalmente lo imploro di non essere, solo per una sera, se stesso. Perché quando è se stesso io non ragiono, ed in questo periodo ho bisogno di molta lucidità. E invece niente, Bushido non mi ascolta o non vuole farlo, e continua ad essere tragicamente se stesso mentre si lascia andare sulla poltrona al mio fianco e sospira pesantemente, il petto che si alza e si abbassa sotto il cotone sottilissimo della maglietta. È vecchia e usurata, attraverso le maglie un po’ slabbrate si intuisce il colore della sua pelle.
- Niente sonno? – chiedo fingendo disinteresse, sistemandomi sul divano in modo da poterlo guardare senza dovermi necessariamente voltare per farlo.
- No. – scuote il capo lui, guardando invece un punto a caso fra l’enorme vuoto che ha dentro il cervello e quello altrettanto grande che lo circonda. – Ho pensato di passare a vedere se eri sveglio.
Scrollo le spalle.
- Lo sono, come vedi. Ora, visto che è tardi e sono stanco, se-
- Tu non sei stato per niente un bravo collaboratore, David.
Spalanco gli occhi e non posso proprio, davvero, fare a meno di guardarlo. Perché tu, Bushido, non puoi dirmela una cosa simile. Io ho messo in gioco affetti, culo e credibilità, per te. Tu non puoi dirmi una cosa simile.
- Che intendi? – chiedo, glaciale. Ma perfino il mio astio si smorza quando lui solleva gli occhi nei miei ed io dentro ci vedo tanta di quella tristezza che una morsa mi stringe il petto e mi mozza il respiro, comprimendo la cassa toracica con tanta forza che mi sento mancare. Bushido era un uomo del quale si potevano dire moltissime cose, ma che fosse un entusiasta era indubbio. Perché era abituato a guadagnarsi ciò che possedeva, conosceva il brivido della lotta e del fare di tutto per ottenere qualcosa, ogni giorno era una sfida perché ogni giorno c’era qualcosa da rendere proprio o da mantenere tale. Nei suoi occhi adesso c’è solo un uomo che ha perso tutto e non sa né come riprenderselo, né se valga la pena tentare. E quindi forse è vero, Bushido. Forse non sono stato per niente un bravo collaboratore.
- Io credo che avrei fatto meglio a restare a Miami. – lo dice con una certa serenità, come non avesse fatto altro che pensarci per le ultime ore e questa fosse la naturale conclusione del suo naturale ragionamento, cosa che in effetti è anche possibile, considerata la situazione attuale. – Probabilmente, se avessi saputo che Bill era ancora nel giro ma era felice con qualcun altro… - si interrompe un attimo e si morde un labbro, esitando appena. Poi riprende, - Non ci sarebbe stato bisogno di dirmi che era Chakuza. Quello probabilmente non avrei voluto saperlo. Ma se avessi saputo che era semplicemente okay, non sarei tornato. Avrei trovato un altro modo, credo. L’Ersguterjunge è importante, ma guarda cosa ho fatto a Bill. E lui lo era di più, questa è una certezza. Eppure gli ho distrutto la vita, due volte, e non riesco a fermarmi. Continuo a farlo ogni volta che lo vedo. – lo sguardo è di nuovo fisso nel vuoto, sta ragionando fra sé. È insolitamente calmo, e questo vuol dire che sta insolitamente male.
Credo sia una cosa che succede spesso a chi ha la pretesa di gestire le vite altrui come fossero la propria, come fa Bushido. Quando gestisci la tua vita sai cosa aspettarti da te stesso. Se prendi una decisione, sai che gesti far seguire a quel pensiero. Se succede qualcosa, sai di chi è la responsabilità e puoi muoverti nella maniera più opportuna.
Gestire le vite degli altri non è impossibile. Solo che non puoi farlo come fossero pezzi di te stesso. È molto più complicato di così. Devi tenere ben presenti le differenze che separano ogni essere umano dall’altro, perché è solo grazie a quelle – grazie ai piccoli particolari che distinguono le persone – che puoi provare ad immaginare le loro reazioni ad una determinata decisione o ad un determinato evento. Bushido gestisce benissimo se stesso, ma dimentica di tenere a mente i particolari quando prova a gestire gli altri. Perciò, quando la vita gli ricorda che no, per quanto gli piaccia immaginare chi ama come un pezzo di se stesso, quelle persone comunque non lo sono, lui è sempre un po’ stupito, dalla cosa. Potranno passare anni, ma immagino sarà sempre così. Ora lui è qui che parla di Bill che si rifà una vita, di Bill che soffre nel vederlo tornare, di Bill che non sa più chi scegliere fra lui e Chakuza, e lo fa con rassegnazione, ma è una rassegnazione stupita e poco convinta. Perché non se l’aspettava e non riesce ad ammettere che al mondo possano succedere anche cose come queste. Cose che lui non ha previsto.
- Cos’è che dovrei dirti? – chiedo con un mezzo sospiro, massaggiandomi una tempia, - Hai ragione. Avrei dovuto dirtelo. Non l’ho fatto e se fossi stato più chiaro probabilmente tutto sarebbe andato in maniera diversa. Quindi cosa devo fare, adesso? Chiedere scusa?
Bushido resta in silenzio per un po’, prima di rispondermi.
- No. – dice alla fine, - No, non credo di volere le tue scuse. – si stira indietro contro lo schienale della poltrona, poggiando le braccia sui braccioli e continuando a guardare davanti a sé. – “Scusa” è solo una parola, in fondo. Sentirla o meno non mi cambia l’esistenza. Penso che le scuse andrebbero fatte solo quando possono servire a qualcosa. Salvare un rapporto o ricucire qualcosa che si è strappato. – mi guarda con un paio d’occhi indecifrabili, - Non credo che tu debba chiedermi scusa perché non ce l’ho con te e fra noi non è cambiato niente. Credo anche che sentirti in colpa, da parte tua, sarebbe molto stupido. Ci sono cose – continua con un sospiro, - che è difficile o impossibile prevedere. – e poi ghigna, - Se pretendessi delle scuse da te, dovrei pretenderle anche da me stesso. E non è così.
Ghigno un po’, scuotendo il capo.
- Figurarsi. – lo prendo in giro, - Il solo concetto è impensabile.
Lui ride di cuore, spalmandosi contro lo schienale della poltrona e scrollando le spalle. La sua espressione non cambia anche quando riprende a parlare, è sempre fissa nel vuoto ed ancora sorride, fa un po’ paura perché a vederlo così sereno si fatica ad intuire la tempesta che gli passa negli occhi.
- Sto facendo un casino dietro l’altro. – mi informa, come non lo sapessi già, - Patrick vive praticamente con me. Ed è strano, ed io non gli sto parlando come dovrei. C’è qualcosa che mi nasconde ed io non sto insistendo per farmela dire. – aggrotta un po’ le sopracciglia, pensieroso, - C’è qualcosa che vuole dirmi, sta solo aspettando che glielo chieda. E non glielo sto chiedendo, non voglio chiederglielo. – sospira, massaggiandosi la fronte, - Sto facendo così anche con Bill. Bill sta cercando di dirmi qualcosa ed io non glielo sto lasciando fare.
Traggo un respiro profondissimo, grattandomi distrattamente la nuca.
- Evidentemente non sei ancora pronto. – butto lì, scrollando le spalle. E Bushido lascia andare una risata piccolissima.
- Ho trentun anni. – mi fa notare, - Non c’è niente cui io non sia pronto. Se c’è qualcosa alla quale non sono pronto, vuol dire che sono cresciuto male. O non sono cresciuto abbastanza. Ed io non sono niente di queste due cose. Quindi, qualsiasi cosa sia quello che sto cercando di impedire a tutti voi di non-dire… dovrò accettarla e basta, penso. E decidere per conto mio.
- Continui a ripetere sempre gli stessi errori. – ringhio un po’, spostandomi a disagio sul divano, - Tu non stai impedendo niente a nessuno. Vola basso, Bushido, sei importante ma non sei il cazzo di creatore. Se Fler avesse voluto dirti qualcosa, pensi davvero che avrebbe aspettato una tua domanda? Se Bill volesse davvero dirti qualcosa, pensi che aspetterebbe placidamente che sia tu a lasciarlo parlare? L’aria di Miami ti ha stordito, o quello che è tornato in Germania non è più Anis, ma Tarek, perché ti ostini a dimenticare che siamo esseri umani, non marionette, e in quanto tali facciamo il cazzo che vogliamo, Bushido. Se Fler e Bill non ti stanno dicendo niente, vuol dire che non credono tu abbia il diritto o il dovere di sapere. È così che pensano le persone normali, Bushido. “Non lo so? Non me l’hanno voluto dire”. Non “Non lo so? Sto impedendo loro di dirlo.” Chiaro?
- Io non sono una persona normale. – ribatte lui, guardandomi dritto negli occhi.
- Lo sei! – mi agito io, battendo un pugno contro il bracciolo del divano, - Lo sei, Cristo santo, non sei davvero immortale, tu sei morto, Bushido!
- Non sono morto! – urla, alzandosi in piedi. Mi alzo a mia volta. Non che questo mi aiuti a fronteggiarlo da pari, ma almeno non è come continuare a guardarlo da seduto.
- Lo sei, Bushido! – sbotto gesticolando, - Respiri, il tuo cuore batte e rompi ancora i coglioni all’universo creato, ma tu sei morto! Sei un fantasma! E non sei più quello che eri due anni fa, devi venirci a patti!
Ed è così che mi ritrovo a sbattere contro il muro alle mie spalle, l’avambraccio di Bushido pressato contro il collo ed un dolore sordo che parte dalla base della schiena diffondendosi lungo tutta la spina dorsale, mentre respiro a fatica sotto la pressione del suo peso sul mio corpo.
- Io non sono morto. – ringhia a due centimetri dal mio viso, - È l’unica cosa che dovete davvero ficcarvi in testa, tutti quanti, e sulla quale non transigo. Io sono vivo, Jost. Sono vivo. Non sono un fottuto fantasma, sono vivo, cazzo.
Non rispondo perché non saprei che dirgli e perché non ho abbastanza fiato per farlo. In realtà dovrei dirgli che dargli del morto è inesatto tanto quanto dargli del vivo. Bushido è un uomo in bilico. Una parte di ciò che siamo muore giorno dopo giorno, questo è inevitabile. Con ogni persona cui diciamo addio, ogni posto che smettiamo di frequentare, ogni abitudine sulla quale smettiamo di insistere, va via un pezzo più o meno consistente della nostra esistenza. Quel pezzo muore, è irrecuperabile, ed è anche il motivo per cui siamo sempre persone diverse in qualsiasi momento della nostra vita ci si guardi.
Con Bushido, però, la cosa è ben più complicata. Non è un’abitudine, quella che lui ha ammazzato. Non è una frequentazione sporadica, non è una questione di conoscenza marginale o occasionale. Lui ha preso ciò che era, tutto, intero, completo, ci ha aggiunto ciò che era stato fino a quel momento, ed è quello ciò che lui ha ucciso. C’è un limite rispetto a quanto puoi uccidere di te stesso prima di ucciderti del tutto, e lui quel limite l’ha travalicato come travalica ogni limite gli si ponga davanti, perché – assoluto per com’è – doveva esserlo anche morendo. E quindi no, Bushido, tu non sei vivo. Forse non sei nemmeno morto, ma vivo non lo sei di sicuro, perché hai sacrificato troppo per esserlo ancora. Una persona può sacrificare un rene, può sacrificare un polmone, parti di stomaco o di intestino, parti di fegato, qualsiasi cosa. Ma prendere un cuore, asportarlo per intero e pretendere che un corpo continui a vivere è impensabile. Bushido non ha davvero una misura di ciò che ha fatto. E qualcuno dovrebbe dargliela.
Solo che io non sono capace. Perciò resto in silenzio e non riesco neanche a reggergli lo sguardo. Quando mi vede evitare i suoi occhi, mi lascia andare. Io scivolo un po’ contro la parete e fatico a reggermi sulle gambe, mentre mi massaggio distrattamente il collo indolenzito.
- Io non capisco cosa pretendi, Bushido. – dico sfiduciato, sospirando pesantemente, - Cos’è che vuoi? Che la vita riprenda il suo corso a partire dal momento esatto in cui sei andato via? O da qualche giorno prima, così da risparmiarci la visione del tuo corpo in un lago di sangue?
Stringe le labbra finché diventano due linee sottilissime, e lo vedo perché torno a guardarlo. Perché sono triste, per lui e per tutti, e non so cosa fare. Per la prima volta non ho idea di come risolvere questa situazione. Forse avevi torto, Bushido, forse avevamo torto entrambi. Non sono così bravo a sistemare le cose. Nemmeno quando serve.
- Io non so cosa dirti. – esalo alla fine, allargando arreso le braccia, - Non posso ridarti quello che hai perso, non può ridartelo nessuno. Non può ridartelo nemmeno Bill. Tu non hai perso solo lui, lo capisci questo? Te ne rendi conto?
Stavolta lo sguardo lo abbassa lui. Non muove un passo ma solleva una mano a coprirsi gli occhi. Osservo il movimento farsi sempre più stanco mentre massaggia la fronte e poi scivola fra i capelli, districandone nodi inesistenti e ravviandoli all’indietro, liberandoli dall’elastico e trattiene fra due dita e col quale comincia distrattamente a giocare, prima di tornare a guardarmi.
- Io non so cosa devo fare, David. – dice con sincerità così eccessiva da risultare dolorosa, - Io ho bisogno che tu mi dica cosa devo fare qui e adesso. Perché se tu non mi dici cosa devo fare della mia vita in questo preciso istante, penso che ne farò brandelli e la butterò nel canale, al suo posto.
Io sospiro, perché quest’uomo non è veramente gestibile. Continua a mettere la sua vita nelle mie mani, quando le mie mani sono l’ultimo posto in cui dovrebbe stare.
- Lo ami ancora? – chiedo a bassa voce, e lui lascia andare una mezza risata amara.
- Non fosse stato così, non sarei tornato. – ammette senza neanche pensarci su.
Io scrollo le spalle e sistemo la maglietta un po’ stropicciata.
- E allora ti sei risposto da solo. Sai già cosa fare. – lo osservo sbuffare un sorriso incerto, abbassando appena lo sguardo, e mi affretto a precisare, - E se interpreti quello che ti ho appena detto come “smetti di combattere e tornatene a Miami”, allora non hai palle.
Bushido ride e ride davvero, stavolta. Scuote lievemente il capo mentre ravvia i capelli fra le mani e li stringe in una coda piccola e alta dietro la testa, decisamente più ordinati rispetto a quanto non fossero quando è arrivato.
- Tu meriteresti di essere massacrato a legnate, Jost. – annuisce simulando serietà e ficcandosi le mani in tasca, - Ad ogni modo, grazie.
Sbuffo scrollando le spalle.
- Non ringraziare. Sono andato in vacanza alle Bahamas due volte, coi soldi che mi hai lasciato andandotene.
Ride ancora un po’, allontanandosi verso la porta dandomi le spalle e salutandomi con due dita, senza più guardarmi. Resto solo meno di due minuti dopo, ho come l’impressione di avere riaperto qualcosa che stava per chiudersi e non sono sicuro che qualcuno mi ringrazierà per questo. Non sono sicuro neanche che io stesso mi ringrazierò per questo, e peggio ancora non sono per nulla sicuro che lo farà Bushido.
Il portatile è spento, ma io non ho più sonno. Passerò la nottata a giocare a Free Cell.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza, Fler/Nicole.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Het, Language, Lime, Slash.
- "Quando Fler e Nicole tornano, ridendo come due deficienti, io tengo in braccio entrambi i miei cani minuscoli e sono perfettamente soddisfatto di me. Patrick mi chiede perché di colori diversi. Io rispondo che bianco e nero, insieme, sono una combinazione bellissima."
Note: Questo, signore care, è il Billshido di Schmetterlingseffekt. Vorrei poter stare qui le ore a parlarne, perché il rapporto che si instaura fra loro in questa shot mi manda fuori di testa per ragioni incomprensibili <3 Ma sono tornata tardi da lavoro – checché se ne dica, ho una vita, come tutti XD – ed ho una figlia che attende questo capitolo con trepidazione. Cercate solo di comprenderli, non sono stronzi, solo pazzi XD
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MEIN REVIER

La notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda è che, alla fine, ho di nuovo casa mia. A quanto ho capito, è stata la prima cosa alla quale David ha pensato - dopo, naturalmente, avermi riportato in Germania con la stessa navigata disinvoltura con la quale mi aveva aiutato ad uscirne. Pare che qui, la mia bella villa gialla - sui cui mobili sto lasciando scorrere le dita proprio adesso - fosse diventata una specie di museo alla mia memoria. O qualche altra simile stronzata.
Quello che ho imparato dalla mia morte fasulla è che, quando morirò sul serio, voglio che niente sia come è stato stavolta. Non voglio un funerale, non voglio un museo, non voglio una ricorrenza, non voglio un cazzo. Non voglio essere ricordato. Preferisco andarmene nella tomba con la certezza che nessuno saprà chi sono già due ore dopo la mia scomparsa, piuttosto che crepare con la speranza di contare ancora qualcosa per qualcuno negli anni. Tanto nessuno ricorda mai davvero. Non sei mai davvero niente per nessuno. Quando muori vieni spazzato via. La vita va avanti. È giusto così. Per questo, non farò altri drammi.
Fanculo.
Ricominciamo da capo.
La notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda è che, alla fine, ho di nuovo casa mia. Non potete veramente capire quanto sia importante avere una casa fino a quando non vi costringono a chiamare in questo modo un posto che non lo è. Nel caso di specie io mi sono costretto da solo, ma in genere questo non conta poi molto, quando stai male. È il classico motivo per cui, quando sei triste e qualcuno ti dice “sì, ma te la sei andata a cercare”, tutto ciò che hai voglia di fare tu è prendere il dannato qualcuno per il collo e spaccargli la testa contro il muro. Cercato o no, è dolore, quello che sto sentendo. Abbine almeno rispetto.
Prima di rientrare qua dentro - non ho nemmeno chiesto a David come sia riuscito a rimetterci sopra le mani, immagino siano fatti suoi come ottiene le cose. Per me è okay - credevo che avrei odiato ogni singolo centimetro di questo appartamento, perché ogni singolo centimetro mi parla di Bill. Odora di lui, sa di lui, ho fotografie del suo corpo, del suo viso, dei suoi sorrisi, dei suoi occhi, su ogni fottutissimo centimetro di questi mobili, di questo pavimento, di queste pareti. È ovunque. E lo sapevo prima di rimetterci piede. Quindi pensavo avrei sofferto come un cane - rivedere Bill ovunque senza possibilità di dimenticarmi perfino che esistiamo ancora nello stesso mondo, impensabile.
E invece no. Cioè, naturalmente se dicessi adesso che non sto male al pensiero di Bill in questa città ed al pensiero di me che non posso più vederlo – perché sono stato io a buttarlo fuori dalla mia vita – ed al pensiero di quello che avevamo ormai completamente devastato dalla distanza e dal tempo, sto male. Ovvio che non posso guardare una fottuta parete senza rivederci contro Bill con una nettezza tale da poterlo quasi disegnare a memoria.
Allo stesso tempo, però, questo posto mi consola. Nonostante tutto quello che è successo, tutta la gente che c’è passata, tutte le cose che sono state portate via, toccate da sconosciuti, spostate da dove le tenevo sempre e via dicendo, questo posto è rimasto mio. Ha ancora intatti tutti i suoi colori, perfino gli odori – se cammino lentamente da una stanza all’altra – sono sempre gli stessi. Mancano pezzi interi di ciò che questa villa è stato, ma è ancora lei. Ed io sono uguale. Mancano pezzi interi di me, ma sono ancora qui. Quando mi seggo sul divano, guardo il vuoto e penso che senza Bill non posso sopravvivere – perché Bill era il motivo per cui sopravvivevo, cazzo, e ora non ce l’ho più – osservare la casa mi consola. Lei ha resistito. Se possono farlo dei fottuti mattoni, potrò farlo anch’io.
- Anis?
Sollevo lo sguardo e davanti a me c’è Pat, in piedi, con una mano sulla fibbia enorme della cintura che indossa e l’altra sollevata per aria, il mazzo di chiavi – che è il doppione delle chiavi di questo appartamento. Praticamente è stato la prima persona dalla quale mi sono catapultato con la copia, appena ho avuto le chiavi in mano – appeso all’indice che dondola lentamente avanti e indietro, mentre lui muove quasi impercettibilmente la mano per impedirgli di fermarsi.
Pat sarebbe palesemente la notizia migliore di queste ultime tre settimane di merda, se non avessi riavuto casa mia. Siccome ho riavuto la casa, non è la notizia migliore ma resta comunque una notizia bellissima.
Tra le varie cose che ho trovato irrimediabilmente cambiate, quando sono tornato, Patrick è stato quello che mi ha spaventato di più. Da quando lui e quello stronzo di Chakuza hanno scoperto che ero vivo in poi, io e lui ci siamo presi un po’ di tempo per noi. Perché ne avevamo bisogno. Io e Pat ci siamo allontanati bruscamente troppe volte, nella nostra vita. La quasi totalità delle quali a causa mia, peraltro, ma non intendo certo pentirmi di ciò che ho fatto nella speranza di migliorare le cose. Così come non intendo pentirmi di essermi finto morto per cercare di tirare fuori Bill da un ghetto cui non appartiene e nel quale peraltro non ha mai veramente vissuto, non intendo pentirmi delle innumerevoli volte in cui ho lasciato indietro Patrick nel tentativo di risparmiare sia a me che a lui qualcosa che c’era e che tuttavia non poteva essere vissuto come sarebbe stato giusto viverlo, per una quantità di fattori talmente elevata che non mi va nemmeno di elencarli adesso.
Comunque sia, nel tempo che ci siamo presi per noi prima che io e Bill ci rivedessimo e poi tutto precipitasse, io ho trovato un Patrick molto diverso da quello che avevo lasciato prima di partire. Di lui possono essere dette molte cose, ma non di certo sia una persona spenta. C’ha sempre avuto il fuoco negli occhi, Patrick, fin da quando era piccolissimo. Ha continuato a tenere viva quella fiamma crescendo, e bruciava ancora quando mi ha infilato un coltello in un braccio in quel dannato vicolo, la notte in cui Saad mi ha quasi mandato all’altro mondo con due fottuti proiettili. E invece, tornando da Miami, io questo ho trovato. Un ragazzino spento.
Ci ho messo un po’ a ritrovarlo, ma adesso che è qui e gioca con le chiavi davanti a me non posso fare a meno di sorridere nel rendermi conto che mi è bastato grattare un po’ quella superficie opaca che gli copriva gli occhi, per riportarli alla loro lucentezza originaria. Ancora non ho la più pallida idea di cosa li avesse resi così cupi – posso pensare di essere stato io, morendo; ma non lo so. Patrick non s’è mai spento perché l’avevo lasciato, semmai il contrario, più io mi allontanavo, più lui brillava di rabbia – ma al momento non conta tantissimo. L’importante è che sia di nuovo qui e che mi sia rimasto accanto. Che viva praticamente a casa mia, ad esempio, sembra una cazzata – e in fondo lo è, lui sta comunque in giro per la maggior parte del tempo e quando stiamo insieme non facciamo che cazzeggiare – ma è importante. È necessario, io ne ho bisogno e lui lo sa, perciò resta anche se avrebbe decisamente di meglio da fare che non rimanere qui a distrarmi il più possibile per evitare di permettermi di pensare a Bill.
Per dire, s’è messo con Nicole, questa ragazza che gli va dietro da anni senza che lui sia mai riuscito ad afferrare anche solo lontanamente il concetto. Patrick, con le donne, è sempre stato un po’ così. Svampito. Nel senso che non è granché bravo ad averci a che fare. È più tipo da maschi, nel senso innocente del termine. Cioè, gli piace la compagnia maschile, è uno bravo a cazzeggiare, ride, gioca a basket, si attacca alla playstation dimenticandosi per ore del mondo che lo circonda e via così. È rimasto un sacco un ragazzino, perciò le donne le maneggia con una certa difficoltà. Al contempo, però, quando si mette con una tipa prende sempre quest’impegno molto sul serio, perché è uno responsabile, lui, quindi non capita mai che, se sta con una, si dimentichi della sua esistenza. Ecco perché Nicole è sempre fra i piedi, ad esempio. Fler non la molla mai, quando è in giro è sempre con lei e quando viene qui per cena la porta. Ora, per dire, sono sicuro che lei ci stia aspettando in macchina di fuori, visto che Patrick è passato per venirmi a prendere.
Insomma, quello che intendo dire, riassumendo, è che avrebbe sicuramente di meglio da fare che non passare con me le sue ore. Però, quando si fa tardi e siamo qui a giocare a carte da ore e Nicole comincia a sbadigliare, quello che Patrick fa non è augurarmi la buonanotte ed andarsene. No, lui riaccompagna Nicole a casa ed è a lei che augura la buonanotte, prima di tornare qui da me. È sempre qui che ritorna e in realtà è sempre qui che sta, e c’è stato perfino quando tutta l’intera crew è stata riunita in questa casa, due giorni dopo che era rientrata in mio possesso, perché io potessi parlare loro di quello che presumibilmente sarebbe stato il nostro futuro. C’è stato lui e c’è stata Nicole. Sono carini, insieme. Fler sembra felice, a guardarlo. Sorride. Insomma. È più di quanto non si potesse dire di lui sei anni fa.
La riunione è stata una cosa che David ha voluto fortemente quando mi ha spiegato – ridendo peraltro di me che avevo effettivamente sperato il contrario – che non ci sarebbe stata neanche la più piccola possibilità di riuscire ad uscire vivo dalle mani della Universal se, dopo essere risorto, non mi fossi lasciato usare per tirare su un po’ di quattrini. “Se volevi essere lasciato in pace,” mi ha detto, “potevi restartene a Miami. Sei voluto tornare, hai voluto la scena madre? Ebbene, ogni attrice di film muto che si rispetti, nella scena madre o muore o dona le proprie virtù ad un uomo. Tu morire non puoi…” quindi ho da donare le mie virtù alla Universal.
Lì, io ho arbitrariamente deciso che, a quel punto, se di ritorno si doveva trattare, non sarebbe stato solo quello di Bushido, ma dell’Ersguterjunge tutta. Come ha intelligentemente sintetizzato Fler – che, ovviamente, mentre io discutevo con David della faccenda, era lì a farsi fare le carezzine sul collo da Nicole, praticamente sdraiata addosso a lui – “allora non ti limiti a donare le tue, di virtù, doni anche quelle di tutti gli altri. Furbo”. Furbo, sì, e necessario. Sono un sovrano solo se ho dei sudditi, d’altronde. In caso contrario, non sono niente.
Quindi la riunione si è svolta in questi termini, più o meno: ho accolto in casa mia Eko, Nyze, Kay e Bizzy, mi sono seduto sulla mia poltrona preferita, Fler s’è seduto a sinistra sul bracciolo a pochi centimetri dalla mia mano, Nicole s’è ordinatamente messa in piedi dietro di lui e David si è posizionato dritto e fiero alla mia destra, le mani incrociate sul petto e lo sguardo sicuro e tranquillo del manager di successo.
Eko è stato il primo a sollevare un dito, puntarlo contro Fler e schiudere le labbra per chiedere, con la maggiore innocenza e col minor tatto possibile, perché il Senzatetto fosse seduto lì e dove fosse finita la Principessa. La domanda ha posto in luce tutta una serie infinita e molto controversa di questioni che io ho preso in blocco e, con l’autorità da me stesso autoconferitami, ho messo da parte, rispondendo solo in parte e, comunque, solo con le informazioni che mi conveniva lasciare trapelare. D’altronde ad Eko non serve sapere che Fler il posto su quel bracciolo se l’è guadagnato in anni e anni di duro lavoro senza peraltro beccare mai niente in cambio. Anzi, sono quasi certo che Eko abbia decisamente bisogno di non sapere niente del genere.
Patrick,“ ho specificato, “è qui perché quello il suo posto. Quanto alla Principessa,” ho continuato, “è scappata col fottuto usciere,” e tutti si sono voltati a guardarsi intorno. Hanno notato l’assenza di quello stronzo di Chakuza. Ed hanno capito. “Perciò, vi sarei grato se, da questo momento in poi, sia quella troia che quel pezzo di merda uscissero dai vostri pensieri e non se ne facesse parola più in mia presenza,” li ho informati sorridendo. “Ciò detto, per quanto riguarda la mia resurrezione…” e lì David mi ha fermato sbuffando, fortunatamente, ed è passato ad aprire il proprio lucentissimo portatile nel mezzo del tavolino da caffè per poi illustrare alla mia squadra quale sarebbe stato il programma della loro esistenza per i successivi anni a venire fino alla morte.
Ho approfittato del momento di confusione in cui la mia crew cercava di prendere atto dell’agenda più fitta su cui posassero gli occhi da mesi, per sollevarmi dalla poltrona e spostarmi in un angolo della casa in cui mi sentissi più a mio agio e libero di prendermi a testate da solo per ciò che avevo appena detto, ed il luogo deputato è stato la cucina. È stato lì che – dopo aver rinunciato al proposito delle testate ed aver ripiegato su una più salutare birra sulle bollicine della quale perdermi un po’ in attesa di sentirmi meglio e tornare di là – mi sono visto spuntare Patrick, le mani intrecciate sul petto, le sopracciglia inarcate ed un sorrisino stronzo a piegare le labbra sottili, mentre si appoggiava disinvoltamente con una spalla allo stipite della porta, incrociando le gambe.
“Piantala di fare la troia,” ho sputato fuori acido, “Entra, se devi entrare, e chiudi la porta. Oppure torna di là.”
Lui s’è messo a ridere, ma è entrato ed ha chiuso la porta.
“Hai il troia facile, oggi,” mi ha fatto notare, rubandomi la birra dalle mani e bevendone a propria volta, “Quello che mi chiedo è: perché dirlo quando non lo pensi?”
“Chi ti dice che non lo penso?” ho ringhiato, riappropriandomi della mia dannata bottiglia. Patrick ha riso.
“Nessuno me lo dice,” ha risposto candidamente, “Io lo so.”
E il problema è quello. Non che lui lo sappia. Ma che ha ragione, dannazione.
Il problema enorme che ho con Patrick è che con lui, anche senza volerlo, mi sono aperto troppo. Gli ho detto un sacco di balle, ma gli ho detto anche un sacco di cose vere, nel corso dei lunghi anni in cui ci siamo conosciuti. Gli ho dato modo di imparare a distinguere le mie bugie dalle mie verità, e il risultato di tutto questo è che io, adesso, con lui non posso mentire. Patrick non è mai palese, quando mi sputtana. Non mi dice mai che ho torto, non mi manda mai a fanculo come il cazzaro che sono meriterebbe. Però se io lo guardo negli occhi lo capisco, se lo sa o meno che ho detto una cazzata. E questo basta, il più delle volte, a farmi desistere dal dirgliela.
E questo è valso quella sera in quella cucina così come vale adesso, perciò non lo faccio attendere, mi alzo in piedi e mi sistemo i vestiti addosso, chiedendogli se Nicole sia fuori che ci aspetta, e rido divertito quando lo sento rispondere che ovviamente sì, è nell’Escalade ed è emozionatissima perché non è mai stata ad un allevamento di cani in vita sua. Rido perché in realtà neanche io sono mai stato ad un allevamento di cani e non ho idea di cosa aspettarmi da questa cosa, oggi. Per dire, non so se arriverò lì e sarò circondato da un’orda di cuccioli minuscoli e morbidissimi e sarò quindi costretto a dar via tutta la mia dignità in un colpo solo accasciandomi fra di loro e guardandoli tutti con occhi innamorati mentre non riesco a decidere quale prendere in braccio accarezzare grattare sprimacciare per primo.
I cani, voglio che sia comunque reso noto, sono stati un’idea di Patrick. Il giorno dopo aver ricevuto le chiavi della villa, Pat ha cominciato a piagnucolare perché era enorme e vuota. Non so che problema abbia con le case vuote, è una cosa che si trascina dietro da sempre, tant’è che faceva come un pazzo anche quando dividevamo l’appartamento e lo lasciavo lì solo troppo a lungo. Comunque, più è grande la casa più lui si lamenta. Casa mia, ovviamente, è enorme. Perciò lui s’è lamentato tantissimo. E la cosa più allucinante è che non ha posto il problema in termini “starai solo, qui dentro, i cani potrebbero farti bene”. No, l’ha posto in termini “questa casa è vuota da far spavento, ci voglio dentro dei cani”. Tranquillissimo, come dovesse fermarsi a vivere qui per sempre. Non è che la cosa mi dispiaccia in sé e per sé, ma anche datti una calmata, ragazzino.
Quindi, è stato Patrick a decidere che dovevo avere due cani – uno, a suo dire, per quanto grande, sarebbe stato comunque troppo poco per riempire la casa. Così come ha deciso che dovevo avere due cani, ha deciso anche di che razza dovevano essere – “Ovviamente labrador, Anis. Non c’è niente di meglio di una bella coppia di labrador per rendere una casa vivibile e rumorosa”. Ora, sul rumoroso posso anche essere d’accordo, ma quale casa extralusso quale la mia è diventa più vivibile con due cani a colonizzarne ogni singola stanza? – ed in conseguenza di ciò ha deciso anche dove dovevo andarli a prendere. Motivo per cui adesso siamo qui all’ingresso di questo allevamento in aperta campagna e ci guardiamo intorno con aria un po’ smarrita chiedendoci dove siamo finiti e soprattutto dove sia finita Berlino, che anche a sforzarsi non si scorge più nemmeno all’orizzonte.
Ovviamente l’aria smarrita è quella mia e di Nicole, perché Patrick è così incredibilmente a suo agio che un po’ mi viene da chiedergli se qui ci sia già stato. E infatti lo faccio. E lui mi guarda spalancando gli occhioni azzurri ed inarcando le sopracciglia, e risponde.
- No, è la prima volta. – candido come un giglio, - Ma ho cercato su qualche forum un consiglio per un buon allevamento specializzato, perché sai, no?, ogni allevamento, se è serio, si specializza su una sola razza, così da avere esemplari migliori, e poi niente, ho cercato su Google e già che vedevo le indicazioni stradali ho usato le mappe per farmi un’idea del posto. Indicativa, mica lo so a memoria. Giusto per capire dove dovevo andare, più o meno.
Annuisco e Nicole lascia andare una risatina tenera, dopodiché oltrepassiamo il cancello e ci introduciamo all’interno dell’allevamento. Io scorgo in lontananza un tizio che sembra un indigeno, cioè, insomma, uno del luogo, e lo indico col dito.
- Magari lui può aiutarci. – faccio, armato delle migliore intenzioni. Fler borbotta “nah” e mi liquida con un cenno disinteressato, puntando dritto verso un enorme casolare in fondo al vialetto di ghiaia sul quale stiamo camminando.
- È lì, - illustra, - quello là è il reparto maternità.
Ah, be’, ovvio. Il reparto maternità. Questo perché aveva solo un’idea indicativa del posto.
Io e Nicole continuiamo a seguire Fler come fosse il padrone di casa – probabilmente sulle mappe di Google deve averci passato la notte, altroché. Non gli crederò mai più quando mi chiede il computer per controllare la posta. Questo non è controllare la posta – e lo facciamo fino a che non raggiungiamo il casolare in fondo al vialetto.
- Dobbiamo entrare? – chiede Nicole.
Patrick sorride, scuote il capo e la prende per mano. Non prende per mano anche me solo per decenza, suppongo, però mi cattura con un’occhiata molto orgogliosa della sua persona e mi invita a seguirlo mentre svolta dietro l’edificio e ci mostra un enorme spiazzo occupato per più di metà da un recinto grandissimo. Ripieno di cuccioli. Sono così tanti e così piccoli che continuano a salire l’uno sull’altro, aggrovigliandosi come i gomitoli di lana nella cesta, pestandosi le orecchie a vicenda ed emettendo guaiti acuti e lamentosi ogni volta che si salgono addosso e si fanno male alle zampette e ai musetti.
Non c’è verso che noi tre qui si possa sopportare questa vista.
Nicole parte a squittire immediatamente, le mani giunte sul petto e gli occhi che brillano. Io resisto il tempo di un mugolio random e poi mi sciolgo in un’aw veramente poco regale, inclinando il capo e sorridendo mentre lascio scorrere lo sguardo sul nutrito branco di cagnetti, e Fler comincia a ridere felice, affiancandosi a Nicole ed abbracciandola da dietro, alle spalle, dondolando un po’ e sussurrandole all’orecchio qualcosa che non sento.
Ci si avvicina un tizio ma io non lo vedo, sono troppo concentrato a guardare questi batuffoli di pelo che si accavallano come le onde rotolando l’uno sull’altro. Sorrido appena, il tizio ride e si rivolge a Fler, che tiene ancora strettissima Nicole fra le braccia. Le ha poggiato il mento su una spalla e lei ha stretto le mani piccole dalle dita sottilissime attorno al suo avambraccio. Berlino spunta fra un dito bianchissimo e l’altro. La B, il ditino, la R, un altro ditino, pezzi di fiamme, un pezzo di I, un altro ditino. Mi concentro sul disegno e non sento una parola del dialogo fra Fler e l’uomo. tutto quello che so è che meno di un minuto dopo le porte del recinto ci sono state aperte e siamo tutti e tre seduti in terra e circondati da cagnetti troppo piccoli per potersi fidare di noi ma troppo curiosi per poterci stare alla larga. Nicole ne insegue uno gattonando, Fler le tira un pizzicotto sul fianco e poi prende in giro un cagnetto tirandolo per la coda e ridendo dei suoi guaiti irritati, ed io… io mi lascio scegliere.
Skyline è il primo ad avvicinarsi. Non so perché ma lo chiamo immediatamente così; quando vedo il batuffolo bianco panna che mi rotola incontro quasi accidentalmente, andando a sbattere contro il mio ginocchio, decido che sarà mio e che sarà Skyline. Il cane mi guarda curiosamente per qualche secondo, io guardo lui, allungo una mano e lui mi morde. Non ha neanche un dentino, dev’essere piccolissimo. Rido perché le sue gengive, nonostante tutta la forza che ci mette a stringere la mascella, mi fanno solo il solletico. Lo sollevo per la collottola fino al mio viso, lui mi guarda risentito, abbaia un paio di volte e poi si affloscia tutto come una specie di peluche svuotato del suo riempimento di lanugine, e io rido ancora.
Sherlee arriva dopo, ed arriva accompagnata da un altro maschietto bianco panna che le sta facendo la posta. Ho perso di vista Fler e Nicole da tanto di quel tempo che potrebbero essere scomparsi – sollevo il naso dal livello-cuccioli cui l’ho tenuto fino ad ora e mi rendo conto che sì, sono scomparsi. Nota per me, mandare a fanculo Patrick la prossima volta che si propone per accompagnarmi fuori città, è palese che ha solo voglia di un po’ di sesso outdoor ed io non ho davvero bisogno di concedergli cose simili per vivere un’esistenza felice – e insomma, resto qui seduto nell’erba e osservo questa macchiolina pelosa nera che sculetta altezzosa cercando di allontanarsi dall’altro maschietto. Skyline si è già abituato alle mie carezze e mi sta ronfando in grembo, ma quando si risveglia dal suo sonnecchiare e osserva la scena con quegli occhioni enormi color cioccolato si prende subito bene, salta in piedi, si lancia giù dalle mie gambe ed ovviamente capitombola in terra arrotolandosi su se stesso in una coreografia di cagnetti che si scostano per non finire travolti dal suo rollio.
A questo punto, nell’osservare Skyline rimettersi dritto sulle zampe e pararsi fra il maschietto e Sherlee, prima decido che non posso privare Skyline della cagnetta che vuole proteggere, e poi decido anche che si chiama Sherlee. Sherlee perché inizia per S come Skyline. Sherlee perché suona bene, accanto a Skyline. È musicale. Come Bonnie e Clyde. Come Bill e Bushido.
Quando Fler e Nicole tornano, ridendo come due deficienti, io tengo in braccio entrambi i miei cani minuscoli e sono perfettamente soddisfatto di me. Patrick mi chiede perché di colori diversi. Io rispondo che bianco e nero, insieme, sono una combinazione bellissima.
*
È la stessa cosa che penso delle ciocche bianchissime che scendono sulle spalle di Bill, intrecciandosi ai suoi capelli nero pece e risaltando sulla maglietta nerissima che indossa quando me lo vedo spuntare davanti agli studi della Universal, dove sono stato convocato oggi per discutere gli ultimi dettagli del mio piano di lavoro. Penso al bianco e al nero che si rincorrono fra i capelli di Bill in una pettinatura nuova, che non gli ho mai nemmeno immaginato addosso e che gli dà un’aria selvaggia che non riesce in alcun modo a scalfire l’innocenza ostinata dei suoi tratti da ragazzino, penso al bianco della sua pelle e penso ai toni scuri della mia, Skyline e Sherlee, bianco e nero è tutto ciò che penso. Non riesco a realizzare che Bill è effettivamente un dettaglio del mio piano di lavoro, finché non è David a farmelo notare.
David, per inciso, mi sta parlando da dieci minuti, e credo di non aver registrato in memoria neanche una delle cose che ha detto. Il che non è bene, perché fra poco David se ne accorgerà e farà come fa sempre quando mi disapprova moltissimo: pianterà le mani sui fianchi, sporgerà un’anca nello stesso preciso identico modo che ha passato a Bill come eredità ideologica e mi guarderà come fossi un essere umano indegno di solcare il suo stesso suolo perché non capisce la fortuna enorme che ha avuto nel trovare un uomo come lui perché si occupasse dei suoi affari. È vero, Jost, non merito per niente. Ma Bill è lì seduto su quella seggiolina di plastica dall’aria scomodissima, i capelli gli ricadono come una cascata sulle spalle e davanti al viso ed osservarlo guardare altrove con quell’aria persa, seria e tristissima, mi toglie tempo e voglia per fare qualsiasi altra cosa, compreso ascoltarti. È a lui che penso. È lui che vedo. È lui che ascolto, anche se non sto sentendo niente. Dov’è che vorresti essere, piccolo? Dove sei, amore mio?
Lo schioccare di dita che mi risveglia è sicuramente la cosa più omosessuale di cui abbia mai fatto esperienza in assoluto – e io, di esperienze omosessuali, posso parlare con una certa competenza – subito dopo lo sguardo da gay in carriera oltraggiato che David mi sta rivolgendo in questo momento. Ogni tanto mi ritrovo a pensare che io per quest’uomo provo del rispetto e non capisco perché invece lui non ne provi per se stesso.
- Bushido, mi stai ascoltando? – chiede con aria tendente all’isterico, mettendo le mani sui fianchi e sporgendo l’anca come da me ampiamente previsto, - È da mezz’ora che-
- Sì. – annuisco sbrigativamente, - Lo so. E no, non ti stavo ascoltando. – lui mi lancia un’occhiata semplicemente basita – e anche disgustata e offesa e ferita e un altro migliaio di cose circa – ed io mi affretto a rettificare. – Mi dispiace. – aggiungo, - Dicevi?
- Dicevo, - riprende, incrociando le braccia sul petto e battendo un piede per terra, - che ti sarei grato se restassi concentrato. E tranquillo. Oggi siamo qui perché tu e… - sospira e lancia un’occhiata a Bill ancora seduto sulla sedia. Finge di non essersi ancora accorta di me, la mia principessa, ma io so che sa perfettamente che sono qui. So che mi sente. - …insomma. – sospira ancora Jost,- Dovete tirare fuori qualcosa. Vogliono una collaborazione e la vogliono fra voi due. Non è in discussione, questo punto. Lo capisci questo, Bushido?
Annuisco compitamente. Lo capisco, sì. Non mi sta bene ma lo capisco.
- Troverò un modo di uscirne. – gli dico.
- No. – scuote il capo lui, - Tu non devi trovare un modo di uscirne. Devi trovare un modo di obbedire e basta, per una volta. Stare alle regole, ricordi cosa significa? – vorrei rispondere di no. Non ci sono mai stato, d’altronde. Ma risparmierò a David almeno questo peso, limitandomi ad annuire. – Regole. – ripete, - Ti concentri sul lavoro. Non perdi tempo. E… - il mio sguardo indugia ancora sulla figura magra di Bill, - e non lo tocchi. Gli parli il minimo indispensabile. Lo guardi anche meno. Chiaro?
Ringhio, riportando i miei occhi nei suoi.
- Stai parlando per dare aria alla bocca, Jost? – chiedo sprezzante. Come fosse possibile per me coesistere nello stesso universo di Bill staccandogli gli occhi di dosso o permettendogli di dimenticarsi della mia esistenza. Coglione io ad averlo pensato. Coglione io ad averci sperato. – Lo sai che-
- Quello che so, - mi interrompe lui, glaciale, - è che non mi interessa un fico secco di quale sia la relazione privata che al momento c’è fra te e Bill. Il tuo primo pensiero al mattino e l’ultimo alla sera sono saltargli addosso? Benissimo. Non mi riguarda. Me ne sbatto, Bushido. Ciò che pretendo da te, - e si sporge a battermi due dita petulanti contro il petto, - è un minimo di professionalità. Non mi fido di come agisci quando stai intorno a Bill, non mi fido di come reagisci alla sua presenza, ma la mia professionalità adesso mi impone di farlo. Spero che la tua ti imponga di rispettare tutto questo.
Agito disinteressato una mano. Jost pretende di ragionare con un pazzo. Io non sono una persona irrazionale. Sono, anzi, una persona molto metodica e dotata di un forte senso logico. Ciò non toglie io sia pazzo. Ciò non toglie io sia pazzo di Bill.
Nel momento in cui Jost si allontana ed esce dalla stanza, sospirando e scuotendo il capo e lasciando me e Bill qui da soli – io da un lato, lui dall’altro – immersi in una specie di ambiente sottovuoto fatto solo di silenzio compresso, io so che il discorso che mi ha appena fatto non è servito a niente. la mia professionalità, al momento, non mi impone un bel niente. Tutto ciò che mi impongo – assolutamente da solo, non ho bisogno di chiamare in causa nessuna responsabilità altrui – è continuare a guardare Bill fino a quando non avrà dato segno di aver accettato il fatto che sono qui e che gli tocca considerarmi.
Bill si rassegna quasi cinque minuti dopo, e sono cinque minuti talmente densi che sembrano cinque ore. Quando lo osservo sollevare un braccio e rigirarsi una ciocca bianca fra le dita, la tensione che si è accumulata in questi cinque minuti – cinque ore – di silenzio, si scioglie e scivola lungo le mie spalle, lasciando posto ad un nervosismo nuovo, più ansioso.
Bill si alza in piedi, afferra la sua seggiolina per lo schienale e la trascina fino al tavolo. Poi la rimette in terra, si siede e la sistema vicina al tavolo, in modo da poter poggiare i gomiti sul ripiano in formica.
- …ciao. – biascica quindi, - …non so che altro dire. – aggiunge poi sinceramente, abbassando lo sguardo.
Io lascio andare una mezza risata ironica, massaggiandomi distrattamente la nuca.
- È un ottimo inizio, principessa. – lo prendo in giro, - È quasi un mese che non ci vediamo e tu non sai cosa dire. La tua loquacità si è di molto ridotta, da quando frequenti Chakuza.
Lo vedo aggrottare le sopracciglia e stringere i denti. La sua mascella scatta silenziosamente – è appena un tremito sulla sua guancia – ed i pugni si serrano sul tavolo. Vorrei sorridere soddisfatto, perché mi piace scuoterlo in questo modo, ma mi trattengo.
- Non cominciare, Anis. – dice secco. Vorrebbe suonare come un ordine ma è più che altro un’implorazione strozzata. – Non è il caso di tirare in mezzo Peter.
- Sai cosa? No. – rido ancora io, - Non sarebbe per nulla stato il caso di tirare in mezzo Peter. – gli faccio il verso, sottolineando il nome con disgusto, - Ma non sono stato io il primo a farlo, mi pare. Sei tu che l’hai tirato in mezzo, facendoti fottere per nove cazzo di mesi, subito dopo la mia morte.
Bill mi guarda e boccheggia, sulle mie ultime parole. Stringe le dita e schiude le labbra, spalancando gli occhi e tendendosi tutto sulla sedia.
- Non ti permettere- - comincia, ma non mi è mai piaciuto sentirmi dire cose che limitassero la mia libertà di agire. Perciò limito io la sua, zittendolo come so fare meglio. Urlando.
- Mi permetto quello che cazzo voglio, Bill. – ringhio, - Tu non sei nella posizione di impedirmi niente. Conto i giorni, Bill, e tre mesi non sono un cazzo. L’hai superato in fretta, il lutto.
- Non ricominciare! – strilla lui, le lacrime agli occhi, - Mi hai già detto quello che pensi di me, non hai motivo di ripetermelo!
Mi alzo in piedi, battendo i pugni sul tavolo e sovrastandolo.
- Il motivo ce l’ho, ed è che non ti è ancora entrato in testa! – gli faccio notare, - Perciò te lo ripeterò finché non l’avrai capito, Bill.
Lui si alza lentamente. Pianta le mani sul tavolo e si solleva, guardandomi dritto negli occhi. Vuole piangere, è palese, ha già un paio di lacrimoni pronti per rotolargli lungo le guance, ma tiene duro. La mia principessa tiene duro.
- Ripetimelo, allora. – dice fiero, - Dillo ancora, Anis, avanti. Magari te ne convinci.
E lo ripeto.
- Troia.
A piena voce e senza esitazioni. Senza nemmeno abbassare lo sguardo. Non lo abbassa nemmeno lui, ed anzi ghigna quando mi sente scivolare l’offesa fra le labbra.
- Bravo. – e il suo sorriso mi sfida, - Suona bene? Ti piace? Dillo ancora.
- A te piace sentirtelo ripetere? – ringhio, sporgendomi verso di lui. Lui non indietreggia. – Troia. – ribadisco, - È quello che sei.
- È quello che sono. – annuisce lui, - Sono stato a letto con Peter. Mi sono innamorato di lui. Sono felice con lui, Anis. Questo fa di me una troia? – ride appena, una risata leggera, ed allarga le braccia, avvicinandosi a me, - Allora lo sono.
Ed io non ci vedo più. Passi essere stato a letto con quello stronzo di Chakuza, passi credere di amarlo – non è amore, Bill, non è come quello che hai con me, cazzo, non le senti le scintille? – passi anche la fottuta cazzo di felicità, ma a me non lo dici. Non così, non con quegli occhi. Non con quel sorriso. Io non sono disposto a sentirtelo dire, Bill, non sono disposto ad accettarlo. Perciò lo afferro per un polso e lo strattono violentemente verso di me, costringendolo a fare il giro del tavolo per poi spingerlo a schiantarsi di spalle contro la parete, con un tonfo sordo ed un mugolio di dolore appena accennato.
Lui solleva subito lo sguardo, scrollando il capo per liberarsi dalle pesanti ciocche intrecciate che gli ingombrano la vista. È fiera e altezzosa, la mia principessa, e mi guarda con occhi privi della minima pietà. È così arrabbiato che, potesse – non lo tenessi così schiacciato contro la parete – mi salterebbe al collo per sbranarmi.
- Non osare. – sibila, e dice proprio non osare, usa quel verbo lì, una cosa che ha del maestoso, del sacrale. Se mi avesse detto che non dovevo permettermi, gli avrei riso in faccia. Ma lui dice non osare ed io percepisco distintamente la sua furia e la sua offesa. Lo sento di nuovo mio come non lo sento mio da un anno intero, cazzo. E se ne rende conto anche lui, non appena pronuncia quelle poche parole. Il suo sguardo esita appena sul mio e poi torna a farsi affilato come un coltello. – No, Anis.
- No? – chiedo io, chinandomi su di lui, - No cosa?
- No. – ringhia, piantandomi entrambe le mani sul petto e pressando, - Non ci provare, non ci pensare nemmeno. Non voglio.
- Non sto pensando a niente, principessa. – gli soffio sul collo, e non lo sfioro nemmeno, se non col respiro. Sono solo parole, è solo aria. Io non ti sto toccando, principessa, quindi cos’è che dovrei smettere di fare?
- Non dire stronzate. – protesta lui, pressando con più forza le mani sul mio petto. La spinta si fa troppo insistente e fastidiosa, motivo per cui lo stringo per i polsi e poi lo blocco al muro, le braccia alte sopra la testa. – Anis!
- Bill. – lo chiamo a mia volta, e ghigno, - Sei felice col tuo principe azzurro, principessa? – chiedo, - Dillo ancora.
- Sono felice. – ripete, sostenendo il mio sguardo. Mi spingo contro di lui, i nostri bacini collidono e lui non riesce a trattenere un mugolio.
- Dillo ancora. – gli sussurro addosso, schiacciandomi addosso a lui con tanta forza che non può più neanche fingere di non aver sentito quanto sono duro oltre il tessuto spesso dei jeans. – Dimmi ancora che sei felice.
- Sono felice, Anis. – ripete lui in un sussurro che si confonde con un gemito, - Cazzo… sono felice, perché non ti rassegni?
- Perché… - gli scivolo addosso con la punta del naso, inspirando a fondo il suo profumo, - perché sei mio, piccolo. Lo sai.
Rabbrividisce sotto le mie mani, trema così forte che si scuote tutto, e le gambe quasi gli cedono.
Potrebbe dirmi che non è vero. Potrebbe dirmi che non è più mio da un pezzo. Ma non è questo quello che esce dalle sue labbra. Non è questo quello che dice.
- …mi hai mandato via tu. – respira a fatica, cercando di divincolarsi un paio di volte, prima di arrendersi alla mia stretta.
Io ghigno, ancora nascosto contro il suo collo, e mi spingo nuovamente fra le sue gambe. Lui le schiude con una naturalezza disarmante. È quello il mio posto, cazzo. È mio, mi spetta. Lo voglio, fanculo.
- È vero, ti ho mandato via io. – torno a guardarlo negli occhi, sussurrandogli sulle labbra, - Perché te lo sei meritato.
- Io non ho fatto niente. – ansima Bill, muovendo lentamente il bacino contro di me, - Spostati.
- Me lo chiedi spalancando le gambe, Bill? – rido a bassa voce, schiudendo le labbra sulla pelle sottile e morbida della sua gola, - E poi non sei una troia?
- Non sono la tua troia. – precisa lui, e le mie labbra gli si richiudono addosso. E lui ricomincia a tremare appena io inizio a succhiare. – Anis… cazzo.
Sorrido sulla sua pelle, mentre lui riprende a muoversi. Finge di stare provando a divincolarsi, ma in realtà non fa che strusciarsi più velocemente contro di me.
- Guarda come ti agiti. – rido, e mi allontano da lui. La macchia arrossata umida di saliva spicca sulla pelle bianca del suo collo come il sangue sulle lenzuola bianchissime del suo letto, la notte in cui sono morto. La nostra è una storia di contrasti. Il bianco e il nero, Bill. Non puoi dimenticartelo.
- Smettila. – ringhia, - Lasciami. – sono richieste vuote. Non sta chiedendo niente. Sta chiedendo me, dal modo in cui si struscia, dal modo in cui le sue labbra mi cercano schiudendosi appena mentre ansima a corto d’aria, io lo capisco che sta chiedendo me. – Anis… Anis, ti prego.
- Mi preghi di fare cosa, piccolo? – gli chiedo addosso.
- Lasciami. – prova lui, ma la sua voce è incerta.
- Sbagliato. – scuoto il capo io, baciandolo piano sul mento.
- Lasciami, cazzo. – prova ancora.
- Sbagliato. – ripeto, risalendo a baciarlo appena sotto il labbro inferiore.
Lui trema. Mi si scioglie contro, tiepido e arreso.
- Scopami. – ansima alla fine, - Anis, ti prego… ti prego, scopami.
Io ghigno. E lo lascio andare. Ed è una cosa così improvvisa che Bill, privato da un momento all’altro delle mie mani e del mio corpo che lo sostengono schiacciandolo al muro, quasi non riesce più a reggersi sulle gambe, e deve aggrapparsi con le unghie alla parete per non rovinare a terra. Mi guarda con quegli occhi da cerbiatto, enormi, il trucco nero ed elegante appena un po’ sbavato dalle lacrime che non si è ancora lasciato libero di versare.
Mi guarda e non mi chiede cosa sto facendo. Non mi chiede perché non lo sto più toccando o perché non ho già una mano fra le sue cosce. Legge tutto quello che gli serve nel mio sorriso, la principessa. Perché è brava a farlo, perché gliel’ho insegnato io a capirmi anche quando sto zitto, anche quando faccio di tutto per non essere capito. E quindi Bill mi capisce, si rimette dritto sulle gambe, si avvicina e mi schiaffeggia.
- Io non ti amo più. – mi dice seccamente, mentre torno a guardarlo, - Vaffanculo, Anis.
La mia mano si alza prima che possa fermarla e non sono tanto sicuro che, se ne avessi avuto il tempo, l’avrei fermata comunque. Si abbatte contro la sua guancia con violenza, lascia lo stampo rossissimo di quattro dita sulla sua pelle bianca ed osservo il viso di Bill scattare lateralmente, i suoi capelli ovunque, le lacrime che finalmente scendono non tanto per il dolore quanto perché lo schiaffo ha finalmente spazzato via la fissità dal suo volto, devastando quella stupida maschera di orgoglio e onore dietro al quale il mio piccolino si nascondeva. Non puoi giocare ad essere un altro con me, Bill. Così come non posso farlo neanch’io.
- Non sprecare fiato per mentire a me. – ringhio, - Comincia a pensare a come giustificherai i miei marchi con Chakuza, principessa. – consiglio, e non mi spreco nemmeno a ghignare, indicando con un cenno del capo il succhiotto che spicca ancora sul suo collo. E l’impronta del mio schiaffo.
La guancia mi fa incredibilmente male e credo che Bill mi abbia graffiato con le unghie. Sono marchiato anch’io. Ma aspetto di lasciare la stanza per portare una mano al volto e ringhiare.
*
In questi giorni ho scritto una canzone. Che non sia niente di eccezionale non è nemmeno da mettere in discussione, ma è tutto quello che sono riuscito a tirare fuori fra una cosa e l’altra. Dove il concetto “una cosa e l’altra” può essere tranquillamente riassunto in me e Fler sul divano che giochiamo alla playstation mentre Skyline e Sherlee devastano il mio salotto rovesciando i divani e mandando a terra i soprammobili, e Nicole prepara da mangiare. È la prima cosa che mi ha detto Patrick di lei, peraltro, “sai che è bravissima ai fornelli?”, fa, compiaciutissimo, “Devo farti provare il suo polpettone”. E da lì è diventato “devo farti provare il filetto al pepe”, “devo farti provare i maccheroni al sugo”, “devo farti provare il maiale alle mele” ed il risultato di tutti questi tentativi è che ormai davvero Nicole va via solo per andare a dormire. La mia casa è diventata un disastro. Ed io ho scritto una canzone. Che lo so che fa schifo, quindi non mi stupisce adesso, mentre la passo a Fler – sulla cui spalla Sherlee ha fatto il nido, divertendosi da mezz’ora a mordergli un orecchio – osservare le sue sopracciglia inarcarsi mentre lascia scorrere dubbioso gli occhi sul foglio, piegando le labbra in una smorfia poco convinta.
- E con questa – chiede, recuperando Sherlee per la collottola e sistemandosela in grembo, dove lei prende subito a mordergli la maglietta, - cos’è che intenderesti fare?
- Intendo, non intenderei, - preciso in un mezzo grugnito, - farne il singolo per il quale la Universal mi rompe i coglioni da una settimana.
Lui, naturalmente, scoppia a ridere. Dalla cucina arriva un buon profumo di funghi saltati in padella, e Skyline sgambetta felice verso quella direzione, il naso per aria e la coda che si dimena da un lato all’altro con tanta forza che penso potrebbe prendere il volo come una specie di elicottero peloso e con le orecchie.
- Okay. – borbotto, - Lo so che ho scritto di meglio.
- Oh, - ride ancora Patrick, - questo non è veramente in discussione. Più che altro mi chiedo se tu ti sia reso effettivamente conto di cosa stavi scrivendo, mentre lo facevi, o se ti è stato suggerito mentre eri tipo in trance artistica e non te ne sei accorto fino alla fine.
Solleva il foglietto spiegazzato che mi sono portato dietro in tutti questi giorni per scrivere quando avevo voglia, e me lo sventola davanti al naso.
- Prinzessin? – chiede quindi, con un ghigno stronzo, - L’amore del ghetto, il capo in guerra, le bande rivali e la principessa infedele, Anis?
Io distolgo lo sguardo con un lamento seccato.
- È solo una canzone. – borbotto, - Non c’entra niente con tutto il resto. È un’altra storia. Lei va a letto col capo della banda avversaria. – mi giustifico, gesticolando distrattamente verso il foglietto.
- Certo, assolutamente. – ride ancora lui, annuendo mentre cerca di liberare la maglietta dai dentini da latte di Sherlee, - D’altronde, non si può parlare di metafora, in questo caso. Non ritroveremo in questo… - torna a guardare il foglio, rileggendo velocemente un passaggio, - …uomo senza onore che ha tradito la sua stessa gente… - e ride di nuovo, - non ci ritroveremo certo Chakuza. E… - legge più in basso, - Lei, cane di razza, che ha morso la mano che la accarezzava, di certo non c’entra niente con Bill. Sono due persone assolutamente casuali.
- Senti. – ringhio io, strappandogli il foglio di mano, piegandomelo e sollevando il bacino dal divano per infilarlo nuovamente in tasca, - L’alternativa era: scrivo io o lascio che qualcuno alla Universal, magari Jost, scriva qualcosa per me. La seconda scelta, se permetti, non era una scelta, perché io-
- Tu di sicuro non ti fai scrivere un testo da un ex boybander che gestisce un gruppo di marmocchi che giocano alle rockstar, indubbiamente.
- Esatto. – annuisco animatamente io, - Questo è venuto fuori, d’accordo? Questo è.
- E questo farai cantare a Bill. – scrolla le spalle lui, - Com’è che fa il ritornello? Mi dispiace, non ero in me, riprendimi con te, grandioso re? Non ho letto bene.
Mi sollevo dal divano e lo mando a fanculo. Nicole viene fuori dalla cucina avvolta in un vecchio grembiule di Karima – Karima mi manca. Queste cose vado realizzandole ancora pezzo dopo pezzo – con una pirofila strabordante di pennette con panna e funghi, ed annuncia che il pranzo è pronto. Io però non mangio.
*
Chakuza, naturalmente, non è stata una mia idea. Come non è stata una mia idea niente di tutto questo, dal momento che avrei preferito di gran lunga scrivere un’autobiografia con i dettagli completi della mia morte e della mia resurrezione piuttosto che trovarmi in una situazione del genere. Ma se anche fosse stato possibile che questa canzone, questo video, questo momento di merda in cui io guardo Bill e Bill guarda altrove, fossero una mia idea, di sicuro Chakuza non avrebbe avuto un posto in tutto questo. Ed invece è qui perché i grandi capi della Universal, qui, non appena hanno messo gli occhi sul testo hanno cominciato a fregarsi le mani e sogghignare furbamente.
“Lo trovano perfetto,” ha ghignato Jost, dandomi la notizia, “Naturalmente. Sai ancora perfettamente come venderti. Dovresti smetterla di pagarmi per ciò che faccio.”
Vaglielo a spiegare che non ne avevo la benché minima intenzione.
Chakuza, comunque, non è stata una mia idea, ed in ogni caso non sono proprio sicuro che, dopo aver letto il testo, sia granché felice di essere qui a fare questa parte fingendocisi perfino a proprio agio – sorridente e cordiale con tutti meno che con Fler, di fronte al quale, per motivi che non comprendo, è letteralmente sbiancato nel momento in cui l’ha visto comparire sul set mano nella mano con Nicole. Suppongo non se lo aspettasse e basta, anche Bill, quando ha posato gli occhi addosso alla coppietta felice – l’unica nel raggio di chilometri – ha fatto una smorfia incredula che mi ha quasi fatto venire voglia di ridere.
Questa è la prima volta che ci vediamo tutti e tre insieme. Le registrazioni si sono svolte in momenti separati e distinti – “Ovviamente mi organizzerò perché non dobbiate mai incontrarvi neanche per caso all’uscita degli studi”, è stato il commento di Jost all’intera situazione, mentre prendeva appunti sulla propria agenda – ed è un bene che in questo momento noi si sia circondati da così tante persone. Perché Bill e Chakuza sono troppo vicini, per i miei gusti. Ed io comincio a sentire la rabbia crepitarmi come fuoco sulla pelle, tendendo tutti i miei sensi.
Al momento io sto seduto su un divanetto e Bill e Chakuza sono persi da qualche parte alle mie spalle, mentre il regista spiega per l’ennesima volta il concetto del video che ci siamo già sentiti ripetere abbondantemente uno per uno – almeno, a me avrà ricordato la questione del tu-sei-furioso-ma-non-vuoi-lasciarlo-andare quelle trecento volte, quindi mi auguro che, per giustizia divina, l’abbia ripetuta anche a loro. Sono qui su questo divano e tengo le braccia incrociate sul petto e mi chiedo perché abbia lasciato a Jost la possibilità di scegliere il regista per questo dannato video, visto che quest’uomo appartiene decisamente alla sua stessa razza – che poi temo sia quella cui appartengo anch’io, ma io sono molto meno palese – e continua a gesticolare brillando di luce propria ed autocompiacendosi per la genialità intrinseca del concept del suo meraviglioso storyboard per il video. Mi viene da dirgli che la storia che lui sta mettendo per immagini sul fottuto schermo l’ho scritta prima io nella mia fottuta canzone. E che comunque fa cagare. E in ogni caso è un inno all’omosessualità che sia io che il german rap ci saremmo volentieri risparmiati, perciò la smetta di volteggiare in giro per il set sventolando quella sua tremenda sciarpina in raso rosa e torni qui a fare il suo mestiere, così da poterci rimandare tutti a casa il più in fretta possibile, che ho Sherlee e Skyline soli a casa e nessuno che giochi con loro e dia loro da mangiare.
La tiritera, a Dio piacendo, dieci minuti dopo finisce. Herr Vorderberg – così si chiama la piaga sociale che ci dirige – si piazza sulla sua seggiolina di pezza stile regista hollywoodiano, accavalla le lunghe gambe avvolte in microscopici pantaloni a quadrucci bianchi e neri e batte le mani, lanciando a tutti noi un’occhiata fra l’annoiato e il disapprovante da dietro le lenti tonde dei suoi occhiali da sole. Continuo a chiedermi Jost dove l’abbia conosciuto, questo tipo, e poi mi alzo in piedi, perché il tizio comincia a mostrare segni d’impazienza e non voglio dargli l’opportunità di esibirsi nella scena madre che gli vedo brillare negli occhi, seguendo il copione della quale lui dovrebbe alzarsi in piedi, gettare indietro la sua sciarpina rosa ed uscire dal set pestando i piedi e strillando che siamo tutti degli incompetenti e non meritiamo la sua professionalità.
Quando mi giro, quello stronzo di Chakuza s’è già tolto dalle palle. Bill si aggira con aria abbattuta attorno al letto sfatto che ci fa da scenografia per la prima scena del video, ed io ghigno discretamente.
- Allora! – squittisce Vorderberg, - Via le magliette! I pantaloni potete anche tenerli su. – mi viene da ridere ma la mia espressione non lo dimostra, quando mi avvicino anch’io al letto e ne sfioro le lenzuola bianchissime con una mano, fingendo di risistemarle meglio. – Normalmente, il mio amore per il realismo mi imporrebbe di farvi spogliare integralmente, ma… - lo osservo lanciare un’occhiata a Jost, Jost la ricambia con una tale quantità di minacce che Vorderberg quasi indietreggia, - …ma per evitare problemi cercheremo di inquadrarvi solo a mezza figura. Ora, se volete cortesemente prendere posto…
La scena che dobbiamo girare è praticamente un porno softcore. Sapete, di quelli in cui la gente si muove e geme ed ansima e si capisce che sta scopando, ma in realtà non si vede niente di niente perché gli attori non stanno davvero scopando, stanno solo strusciandosi l’uno contro l’altro. Hans Vorderberg, il nostro talentuoso regista gay, ha deciso, leggendo il testo della canzone, che in ogni caso non potevamo comunque sputtanarci più di così, perciò tanto valeva darsi alla pazza gioia e girare questa lunga scena d’amore in cui io e Bill facciamo di tutto su questo letto, in modo da poterla intramezzare con altre parti del video durante il montaggio. Per tutto il resto delle riprese, questo sembrerà un video normale – scene di vita quotidiana, gente che canta su sfondo nero illuminata da luci azzurre e via così – ma oggi bisogna girare questa scena, quindi il set sembra quello di un porno, Bill è a disagio, Chakuza sta spalmato contro la parete a dieci metri di distanza – le braccia incrociate sul petto e una gamba sollevata, il piede piantato contro il muro – ed io ghigno.
Sfilo le scarpe e mi sistemo sul letto, lanciando un’occhiata a Bill che si stringe nelle spalle e guarda altrove. Sospiro, togliendo la maglietta in un gesto veloce e lasciandola poi ricadere per terra, osservando poi uno degli svariati assistenti biondi di Hans – tutti biondi, questi assistenti, una cosa surreale ed anche un po’ inquietante – chinarsi a recuperarla ed appoggiarla su una sedia, fuori dall’inquadratura.
- Signor Kaulitz, - lo richiama Vorderberg, agitando una mano con aria annoiata, - la mia insalata di alghe arame e rucola non aspetterà i suoi comodi e sono già le undici. Vogliamo darci una mossa? Deve solo sfilare la maglietta e stendersi, non mi sembra una richiesta esageratamente onerosa, da parte mia.
Bill gli lancia un’occhiata irritata e la stessa cosa fa Chakuza, ancora fermo in posa plastica contro il muro, mentre Fler nasconde una mezza risata ed io combatto contro me stesso una lotta impari per fermare il ghigno che tenta di risalire alle labbra. Lo lascio fare, alla fine, e quando Bill guarda me, togliendo la maglietta e stendendosi al mio fianco, se ne accorge.
- Ti diverti? – mi chiede acido, puntando i gomiti sul materasso per calciare via le scarpe da tennis e recuperando il lenzuolo dai piedi del letto, rimboccandoselo fino alle spalle.
- In realtà sì. – rispondo candidamente, continuando a ghignare, - Tu no?
- Affatto. – ringhia lui, - Speravo che, dopo quello che è successo, non ci saremmo più rivisti.
- Illuso. – rido io, mentre Hans ci strilla di metterci in posizione, motivo per il quale mi avvicino a lui e lo osservo girarsi su un fianco e togliersi il lenzuolo di dosso per darmi modo di girargli un braccio attorno alla vita.
- Già. – risponde lui, gelido, - D’altronde, l’erba cattiva non muore mai e tu ne sei un esempio perfetto.
- Bella battuta, principessa. – rido, tirandomelo contro. Lui trattiene il respiro per un attimo e poi lo rilascia tutto in una volta. Il suo fiato caldo mi sfiora il petto e la mia mano scende a stringergli un fianco con maggiore decisione. – Mi sei mancato, piccolo. – aggiungo, muovendomi impercettibilmente contro di lui.
Bill trema, stringendo una mano attorno al lenzuolo.
- Anis, ti prego. – mormora, - Non qui, almeno.
- Stiamo recitando. – gli ricordo, accennando alle telecamere tutte intorno a noi, - Rilassati.
- Tu non sei per niente rilassato. – mi prende in giro lui, allusivo.
- Mi fai quest’effetto. – rido ancora, accarezzandogli il fianco morbido col pollice, - Che posso farci?
- Avete preso confidenza per bene? – ci sfotte Vorderberg, picchiettando nervosamente con un tacco sul pavimento, - Allora. Tendenzialmente – comincia a spiegare, gesticolando fluido, - non servirebbe la musica di sottofondo, per girare questa scena. Ma voglio che siate il più sincronici possibile, perciò ve la metto. Seguite il flusso, lasciate fluire la musica in voi! E non siate esageratamente espliciti, già così subiremo tanti di quei tagli che il mio capolavoro ne verrà fuori irrimediabilmente danneggiato! – conclude con tono tragico. Dopodiché lo vediamo accennare col capo ad un altro assistente, le luci si spengono, si accendono i riflettori e tutto si fa silenzio, mentre le prime note del pianoforte si diffondono nell’aria.
La mia mano risale il fianco di Bill, sfioro col pollice la sua pancia e il suo petto e lui socchiude gli occhi, stringendo le labbra.
- Anis… - mi chiama piano, - Questa è stata una pessima idea.
- Rilassati, piccolo. – gli ripeto, accarezzandogli il collo e sistemandomi fra le sue gambe quando lui ne solleva una e la allaccia ai miei fianchi, - È solo un video.
- Non l’ho mai fatta una cosa del genere. – bisbiglia, piegando un po’ il capo per esporre il collo quando le mie labbra scendono a sfiorarlo, - È strano farla con te.
- Avresti preferito farla con Chakuza? – chiedo a bassa voce, mordicchiandogli il mento.
- Ti prego, non- - e geme un po’ quando mi spingo contro di lui, - …non metterlo in mezzo adesso. Anis, cosa stiamo facendo…?
- Devo spiegartelo coi disegnini? – rido un po’, mordendo la pelle tenerissima sotto l’orecchio, - Hai un buon profumo.
- Ti stupisce? – chiede lui, accarezzandomi la nuca, - L’ho sempre avuto.
- Mi stupisce. – annuisco io, sfiorandogli le labbra con le mie, - Tu non sei più lo stesso di un anno fa.
- Io sono lo stesso. – mugola mentre lo bacio piano in punta di labbra, - Sei tu che non mi riconosci più.
- Non è così, principessa. – gli sussurro sulla bocca, respirando appena contro di lui, - Tu sei cambiato.
Mi preme le mani contro il petto, spingendomi disteso sul materasso e seguendomi nel movimento, ritrovandosi seduto sul mio grembo, le mie mani sui suoi fianchi, le sue che viaggiano dai pettorali alle mie spalle.
- Io sono lo stesso. – ripete, scendendo su di me e schiacciandosi contro il mio corpo, - Sei tu che non mi riconosci più.
Mentre io lo guardo – e non esiste altro oltre a lui nel mondo, e so che per lui è lo stesso perché glielo leggo negli occhi – qualcuno impreca in fondo alla stanza. Hans manda un assistente a zittire colui che sta cercando di rovinare il suo meraviglioso lavoro e, dopo qualche secondo di bisbigli irritati e concitati la porta di uscita del set si spalanca e, tra il buio che regna sovrano nella stanza e la luce fortissima che viene da fuori, per un attimo la figura di Chakuza si staglia nettissima sulla soglia. Poi la porta si richiude, la figura scompare, Bill torna in sé e cerca di rotolare su un fianco, scendendomi di dosso. Io lo trattengo per i fianchi, però, e lui non riesce a muoversi.
- Lasciami. – sibila attonito, - Lasciami subito.
- Vorderberg non ha detto stop. – gli faccio notare, serrando la presa sui suoi fianchi. Bill si irrigidisce sotto le mie dita e mi graffia il petto con le unghie.
- Stronzo. – sputa fuori fra i denti, - Ti odio. Odio questa situazione del cazzo. Ti odio da morire.
La porta si apre ancora, la figura di Patrick la oltrepassa – seguita a breve da quella minuscola e sottile di Nicole – ed io continuo a tenere Bill fra le dita come non volessi più lasciarlo andare.
- Anche io ti odio. – ringhio, spingendomi dal basso verso l’alto contro di lui, - Sei una troia traditrice. Questa canzone è tua. Ci sei tu, qui dentro. Ti odio.
- Sei un bastardo. – risponde lui in un ringhio similissimo, continuando a stringermi le unghia addosso con tanta forza da farmi male, - Stai mentendo.
- Io non mento mai. – stringo più forte, - Ti odio. Cazzo, ti odio.
- Vaffanculo. – si dibatte lui sopra di me, - Lasciami andare. – ha gli occhi lucidi e non capisco se sia rabbia o tristezza o tutte e due le cose insieme, - Lasciami andare, stronzo, ti odio. Ti odio!
Lo afferro per la nuca, tirandomelo vicino e fermandomi solo quando siamo così vicini da poter respirare le stesse molecole d’aria, scambiandocele sulle labbra.
- Ti amo. – sussurro, guardandolo negli occhi.
- Vaffanculo. – ripete lui. – Ti amo. – e mi bacia, ma dura solo un attimo. Ci baciamo facendoci del male, questi non sono baci, sono morsi, e però sono baci lo stesso, e ci agitiamo sul letto così tanto che il lenzuolo scivola via, mentre ci aggrappiamo con forza l’uno all’altro. Ma è davvero solo un attimo, Bill cerca di separarsi da me quasi subito e, quando io non lo lascio andare, prima si dibatte violentemente e poi mugola forte, puntando le ginocchia sul materasso e staccandosi da me con tutta la forza che ha, ricadendo sul materasso al mio fianco, senza fiato. Gli occhi gli brillano di rabbia. È furioso.
- Luci! – strilla Hans, scattando in piedi e gesticolando animatamente. Quando le luci si accendono, lo osservo avvicinarsi furioso al letto, le mani fra i capelli ed i lineamenti deformati dalla rabbia, - Cos’è questo? Cosa?! Stavate andando benissimo e improvvisamente… impazzite! – ulula, appendendosi alla propria sciarpina con tanta forza da darmi l’impressione che finirà per strozzarsi, - Oh, Dio, ho bisogno di un tè e ne ho bisogno adesso. – mugola abbattuto, - Klaus! – urla poi, ed uno degli assistenti biondi, quello con camicia bianca e sciarpina di seta a scacchi – che le sciarpine siano una caratteristica distintiva di questa troupe? – si solleva dalla propria seggiolina e va immediatamente a recuperare il thermos, riempiendo una tazza di tè fumante e portandola velocemente ad Hans, che lo aspetta già con la mano tesa.
Bill abbassa lo sguardo e torna a coprirsi col lenzuolo. È in imbarazzo, si sente in colpa e gli sento addosso la voglia di correre e inseguire Chakuza, dovunque sia andato. Stringo i denti e mi rimetto in piedi, infilando le scarpe e recuperando la maglietta dalla sedia poco distante, mentre Hans continua ad inveire contro la nostra palese mancanza di professionalità e ci manda tutti a riposo nei camerini mentre lui mangia la sua dannata insalata di alghe arami e rucola.
Esco di fuori, perché restare lì con Bill non è un’opzione, e vado alla ricerca dei distributori automatici perché sento il bisogno di un caffè, e quando esco il mio sguardo incontra quello di Patrick, che sta borbottando qualcosa mentre Nicola gli sta ferma accanto, le mani strette in grembo.
- Tu! – mi urla lui, alzandosi in piedi e venendomi incontro, - Dico, sei uscito fuori di testa?! Come cazzo hai pensato che-
- Ehi! – lo fermo io, afferrandolo per i polsi per impedirgli di gesticolare in maniera così convulsa. Mi confonde. – Di che cazzo stai parlando? Stavamo girando!
- Girando il cazzo, Anis! – insiste lui, liberandosi con uno strattone dalla mia stretta, - Quello era-
- Stavamo seguendo il copione! – insisto, allargando le braccia ai lati del corpo. Veramente non capisco cosa Patrick si aspettasse da me, in una situazione come quella. Cazzo, io non capisco cosa si aspettino tutti da me nella situazione di merda in cui sono.
- Il copione! – strilla ancora lui, e poi si passa una mano sulla fronte e prende un respiro profondissimo, prima di parlare ancora. – Chakuza è furioso.
- Me ne sbatto i coglioni.
- Sei uno stronzo!
- Coraggio. – rido, - Dimmelo anche tu. Nicole, vuoi favorire? Oggi è la giornata dello stronzo libero.
Lei si stringe nelle spalle, immediatamente imbarazzata dal mio tono, ed abbassa lo sguardo, facendosi da parte. Si sente a disagio e io sono uno stronzo, è vero.
- Non tirarla in mezzo, Cristo santo! – mi rimprovera Patrick, frapponendosi fisicamente fra me e lei, più che per proteggere lei, per recuperare i miei occhi. – Anis, un minimo di controllo. Cazzo, controllo! Ne avevi anche troppo da ragazzino, e oggi che sei un uomo adulto… vai fuori di testa! Che cazzo!
- Senti, non ce l’ho il controllo di questa cosa, okay?! – sbraito gesticolando, - Non so cosa dirti! Non ho che farci! E non me ne frega un cazzo di Chakuza, cosa vuoi che ti dica? Che mi dispiace se sta male?! Non è vero!
- Oh, vaffanculo. – taglia corto lui, agitando un braccio nella mia direzione per sottolineare l’invito a fottermi e voltandomi le spalle, - Fai un po’ il cazzo che vuoi, tanto è quello che fai sempre. – e va via. Nicole lo segue docile, senza dirmi una parola, e io rimango lì come un coglione, anche più nervoso di quanto non fossi prima e ancora privo di caffè. Perfetto.
Quando anche David viene a cercarmi – ed ho appena raggiunto la dannata macchinetta del caffè, quindi il mondo sta appena cominciando a fare lievemente meno schifo – alzo gli occhi al cielo e mi chiedo se Dio non stia un po’ esagerando con le punizioni. So di essere colpevole di molte cose, ma preferirei scontarle all’inferno come previsto dal contratto, non ci tengo ad espiare in terra per poi magari ritrovarmi seminudo su una nuvola con la sola compagnia di un’arpa quando sarò morto.
- Tu! – mi punta, sprizzando rabbia dagli occhi.
- Io! – ammetto, sollevando le braccia, - Oggi non berrò neanche un caffè.
- Dico, - mi ignora lui, piazzandosi fra me e la macchinetta, le mani sui fianchi e l’anca in avanti, - cos’era esattamente quello, Bushido?!
- Un unicorno rosa. – borbotto allontanandomi, - Ora puoi per favore lasciarmi in pace?
- No! – mi viene dietro lui, cercando di tenere il mio passo, - Bushido, nessuno ti aveva chiesto di baciarlo sul serio!
- E invece è successo. – ringhio io, spalancando la porta e tornando sul set, dove Hans, appollaiato sulla sua seggiolina, sta ancora ruminando alghe, - Fammi causa.
David si ferma, spalancando la bocca e gli occhi. Poi torna ad aggrottare le sopracciglia.
- Ti stai comportando come un ragazzino. – mi rimprovera.
- Fammi causa anche per questo. – annuisco. Dopodiché lo ascolto mandarmi a fanculo – oggi, davvero, ne sto collezionando di ogni tipo – e comincio a vagare per i corridoi degli studi. Mancano ancora almeno dieci minuti alla ripresa dei lavori – dieci minuti o, comunque, il tempo necessario per mangiare delle alghe, che non so quanto sia, in realtà, anche perché nutro dei seri dubbi già sul fatto che delle alghe si possano effettivamente mandare già senza vomitarle assieme a svariati pranzi di svariati Natali precedenti. Io non ho un cazzo da fare e non posso tornare indietro perché non voglio rivedere David. Perciò vago e basta, senza una meta, senza nemmeno guardarmi intorno. A un certo punto, comincio perfino a pensare di essermi perso e che, tutto sommato, mi sta pure bene così.
E invece no, non mi sono perso e lo capisco fin troppo bene quando, vagando alla cieca, finisco di fronte alla porta del mio camerino. Sono ancora qui, non posso perdermi in uno spazio chiuso – così come non posso uscire dalla situazione in cui sono, che uscita non ne ha – e continuo a non sapere cosa fare.
È per questo, probabilmente, che faccio quei due metri che mi separano dal camerino di Bill. Non so se lui sia ancora là dentro – per la verità non so nemmeno se ci sia mai entrato – ma direi che posso fare un tentativo. Bill non è mai stato qualcuno da cui andare quando la situazione si faceva troppo complicata – Bill è stato tante cose, ma mai un salvagente; non gli ho dato modo di esserlo – ma non vedo perché non provare adesso. Magari mi darà la risposta che cerco. Come ne esco, piccolo? Come ne esco?
Non so neanche che risposta voglio, comunque. E quando entro – senza bussare – mi rendo pure conto di quanto io sia stato stupido a pensare, anche per un solo secondo, che Bill potesse darmene una. Una qualsiasi, figurarsi una sensata. Lo trovo che mi dà le spalle, le mani strette con forza contro lo schienale della poltroncina girevole davanti allo specchio, gli occhi chiusi e il viso basso, i capelli che scivolano sul suo viso e sul suo petto attorcigliandosi in quelle ciocche lunghissime e le labbra semidischiuse un po’ umide. Ha le sopracciglia aggrottate e si vede così bene, che sta malissimo, che per un attimo non posso proprio fare a meno di sentirmi sbagliato e fuori luogo. Non solo qui ed ora, in senso più generale. È la prima volta, in assoluto, che penso che forse avrei dovuto restare a Miami.
Dura solo un attimo, comunque. Lui non si accorge di me, almeno fino a quando le mie mani non si posano sulle sue spalle sottili e le stringono, massaggiandole lentamente. Rilascia un sospiro profondissimo, sciogliendo in un secondo tutti i muscoli tesi, e socchiude gli occhi.
- Perché… - mormora arreso, appoggiandosi stancamente contro di me, - Perché non mi lasci in pace?
- Perché non posso, piccolo. – rispondo sinceramente, strofinando appena le labbra contro la sua guancia, - E perché tu non vuoi.
- Io vorrei… - sospira, sollevando una mano a cercare la mia, - Vorrei riuscire a mandarti via.
Le mie labbra scendono lungo il suo collo, e lo sento rabbrividire.
- Perché non lo fai, allora? – chiedo in un sussurro contro la sua pelle.
Lui non risponde fino a che non mi si rigira fra le braccia. Mi lascia scorrere le mani sul petto, accarezzandomi attraverso il cotone sottile della maglietta, e mi guarda negli occhi.
- Perché non posso. – risponde. Ed è sincero anche lui.
Io sorrido appena e lui mi fa da specchio, ed è contro lo specchio che finiamo, quando lo spingo appena in avanti, pressando le labbra contro le sue e stringendolo possessivo alla vita mentre lui si aggrappa con forza alle mie spalle e mi si arrampica addosso, allacciandosi ai miei fianchi e piegando il capo per approfondire il bacio, lasciandosi accarezzare fra un ansito e un mugolio che mi riempiono le orecchie al punto che dimentico tutto il resto del mondo. Come sempre, quando si tratta di Bill c’è solo lui. Non ci sono più nemmeno io.
- Anis… - mi sussurra addosso lui, strusciandosi lentamente contro di me, - Anis, per favore…
- No. – rispondo io, lasciandogli un bacio lievissimo sulle labbra piene e arrossate, - Assolutamente no.
- Non sai nemmeno cosa voglio… - mi mugola sul collo, accarezzandomi la nuca e ridisegnando il mio tatuaggio – di cui ricorda ogni fottuta linea – con le labbra.
- Lo so, invece. – e per dimostrarglielo mi spingo contro di lui, accogliendo sulla lingua il suo mugolio affannato, - Ma non ti voglio così.
- Non mi… - ride appena, stringendomi forte a sé, - Anis, non-
- No. – mi separo deciso da lui, costringendolo a rimettere i piedi a terra, - Non sei mio. Non ti voglio.
Bill mi guarda per qualche secondo, gli occhi annebbiati di voglia, e resta in silenzio. Poi lascia andare un mezzo risolino incerto e mi si avvicina, sfiorandomi un braccio.
- Anis… - mi chiama piano, ma io mi scosto. Ed è allora che lui realizza che davvero non ho intenzione di scoparlo, i suoi occhi si schiariscono e le sue sopracciglia si aggrottano, il labbro inferiore che trema di rabbia mentre cerca le parole adatte con cui insultarmi. – Tu… non puoi dire sul serio. – mormora, - Anis, dopo quello che mi hai fatto oggi-
- Non ho fatto niente, piccolo. – ghigno io, sistemandomi la maglietta stropicciata addosso, - Sei tu che implori. Io nego e basta.
- Non giocare a fare lo stronzo con me! – strilla lui, piantandomi un dito nel centro del petto, ed io mi metto a ridere.
- Non gioco, piccolo. Non lo faccio più da tempo.
Gli volto le spalle ed ho perfino il tempo di allontanarmi da lui di un paio di metri, prima di sentirlo mormorare pianissimo un lamento incerto.
- Tu… non mi ami affatto. – sussurra, - Sei uno stronzo e basta. Uno così non può amare nessuno.
- Uno così – mi volto a guardarlo, - magari non ama più, ma di certo ha amato tantissimo. Questa è l’unica certezza che ho, principessa.
Bill nemmeno mi guarda. Si concede un sorriso minuscolo e socchiude gli occhi.
- Almeno ne hai una. – esala appena.
Almeno ne ho una. E preferirei non averla.
*
Bill mi passa sotto gli occhi – e sotto le mani – come un fantasma, nei giorni successivi. È un’illusione e lo vedo sfocato e sfuggente. Sul set del video lo tocco spesso – rifacciamo la scena, ne giriamo di altre, cantiamo e tutto il resto – ma lo sento evanescente e impalpabile sotto le dita. Mi prendo le rivincite dei bambini, parlo con Hans, faccio il fascinoso e faccio togliere qualche scena a Chakuza – “che poi lo vedi com’è, no? È meglio se mentre canta lui ci sono scene fra me e Bill, o scene di Bill da solo, è più elegante così” – Chakuza s’indigna e scalpita e strepita e scalcia come un puledro imbizzarrito, io non sono professionale – lo so, Chaky – io sono uno stronzo – lo so, Chaky – io sono un fottuto pezzo di merda – lo so, Chaky, e tu non hai palle perché tutte queste cose me le dici alle spalle, le sussurri e Bill, te ne lamenti con Jost, le ringhi addosso a Patrick quando casualmente lo becchi senza Nicole. Lo so, Chakuza, lo so cosa sono. Lo so bene, è per questo che riesco a non provare mai vergogna, qualsiasi cosa faccia.
Riesco a rivedere Bill come una cosa viva solo quando ormai le riprese stanno per concludersi, trascinandosi fiaccamente fra le ultime riprese di scene che abbiamo già ripetuto fino allo sfinimento al punto che – lo sento – il corpo di Bill è nauseato dal continuo sentirmi addosso, come il mio lo è dal suo continuo ritrarsi.
Andiamo in pausa – oggi il menu di Hans comprende riso in bianco con pisellini biologici e cubetti di prosciutto cotto magro senza conservanti – ed io fuggo dal set prima che Jost mi avvicini per la paternale quotidiana – come se sentirmi ripetere “comportati bene” fosse mai servito a spronarmi in questo senso – e quando mi avvicino ai distributori automatici per recuperare un caffè ed anche uno snack da propinare al mio stomaco che, a causa dell’eccesso di caffeina a digiuno degli ultimi giorni, sta già preparandosi all’arrivo dell’imminente gastrite, e lo vedo.
È stanco, il mio piccolo. È stanco almeno quanto lo sono io, ma le sue spalle sono così sottili che non riescono a reggerlo altrettanto bene. Non riesce nemmeno ad essere arrabbiato, sta lì, appoggiato con una mano alla macchinetta, mentre nell’altra mano regge un bicchiere ricolmo di un’imitazione di caffellatte che fa venire la nausea anche senza bisogno di sentirne l’odore.
Mi avvicino piano, discretamente, e sorrido appena quando mi fermo al suo fianco.
- È un po’ tardi per il caffellatte, non credi, principessa?
Bill mugola a bassissima voce, stringendo le dita attorno al bicchiere e socchiudendo gli occhi.
- Per favore, Anis… no.
Sospiro, smanettando coi pulsanti sul pannello della macchinetta ed infilando un euro nella fessura, restando poi in attesa del mio caffè.
- No. – rispondo a bassa voce, - Tu non sai neanche cosa mi chiedi di non fare.
- Ti sto chiedendo – ringhia Bill fra i denti stringendo tanto la presa sul bicchiere che ho quasi paura possa spaccarlo, - di non farlo, Anis. Non continuare a mettermi in questa situazione. Mi stai… - sospira pesantemente, trattenendo un attimo il fiato nei polmoni prima di rassegnarsi a lasciarlo andare, - mi stai torturando.
Recupero il mio bicchierino e lancio a Bill un’occhiata infastidita, appoggiandomi di spalle alla parete.
- Mi stai chiedendo di lasciarti in pace. – gli spiego pacatamente, - Di non vederti più. Di non guardarti, non toccarti e non pensarti nemmeno. È questo quello che mi stai chiedendo.
Lui apre gli occhi di scatto, dardeggiandomi con un’occhiata furiosa.
- Magari è quello che voglio.
Mi sollevo dalla parete e mi avvicino a lui, chinandomi per parlargli guardandolo negli occhi, così vicino che sento addosso il suo respiro.
- Se fosse ciò che vuoi, piccolo, non mi vedresti più. Te lo assicuro. Non metto le mani sulla roba degli altri.
Bill lascia andare un ghigno poco convinto, fronteggiandomi con una fierezza tale che sento il bisogno fisico di stringerlo alla macchinetta, costringendolo ad indietreggiare. Non sei più forte di me, piccolo. Non puoi esserlo, perché è per te che io sono così forte.
- Non sono tuo, non mi vuoi. – mi prende in giro, lasciando scivolare fra le labbra le stesse parole con cui l’ho apostrofato qualche giorno fa, - È vero, sai? – mi soffia addosso, - E allora perché continui?
Lo schiaccio contro la macchinetta, piantando le mani sopra la copertura di plastica e imprigionandolo fra le mie braccia.
- Non sei ancora suo. – sfioro il suo profilo con le labbra e con la punta del naso, lievissimo, - Lo sento che mi vuoi, piccolo.
Bill cerca di non gemere, quando mi spingo con forza contro il suo bacino, ma quel singhiozzo minuscolo che gli sfugge dalle labbra finisce sulle mie, che lo sfiorano soltanto e sono già abbastanza per mandarlo fuori di testa. E so che questo lo senti, piccolo. So che sei con me, adesso. Il punto è quello. Dovresti esserlo sempre. E invece lo sei solo quando ti sto così addosso. Come si può chiedermi di accettarlo?
- Anis, no. – mi implora, la voce rotta dall’ansia, - Qui no, davvero. In mezzo al corridoio… no.
- È questo il tuo problema, piccolo? – mi avvicino ancora, leccandogli appena il labbro inferiore, - Che potrebbero vederci?
- Sì! – risponde lui d’impeto, - E che… non dovresti. Quindi lasciami, per favore, ti prego… - si agita e punta le mani contro il mio petto, cercando di allontanarmi.
Io lo ignoro. Non è così che Bill mi allontanerebbe, se mi volesse davvero lontano. Non è così che mi manderebbe via, non è così che mi farebbe capire di non amarmi più. Non ci stai riuscendo, piccolo, non ci stai riuscendo affatto a mentirmi. Perciò avanzo ancora, lo stringo ai fianchi e lo schiaccio contro la macchinetta. E lui dice “no”, ed io non lo sento. Forzo le sue labbra e lui urla “no” ed io non lo sento. La mia lingua sfiora la sua, lui la morde, urla ancora, “no!”. Ed io non lo sento.
Però sento Chakuza. Sento la sua voce tuonare alle mie spalle e poi mi sento strattonare via con una forza insospettabile, e quando vado a sbattere contro la parete di fronte sollevo lo sguardo e lo vedo frapporsi fra me e Bill, il respiro pesante, i lineamenti del stravolti dalla rabbia e i pugni chiusi, le braccia rigide lungo i fianchi. Bill, ancora steso contro il distributore automatico, ansima e ci guarda, gli occhi enormi ed umidi di lacrime.
- Sei un pezzo di merda! – mi apostrofa in un ringhio. Ed è un ringhio dei suoi, fatti con quella voce lì, l’unica cosa di lui che possa veramente spaventare. Con me non attacca, comunque. Io non ho paura di niente. Ho visto la morte in faccia e meno di un mese dopo ero vivo e vegeto a Miami. Ho cercato di farmi fuori anche lì, ed ora sono qui. La sua voce non mi fa niente.
Mi rimetto dritto, guardandolo fiero dall’alto in basso.
- Non male. Puoi fare di meglio.
Chakuza mi è addosso il secondo dopo. Mi afferra per il colletto della maglia e mi spinge contro il muro, sollevandomi verso l’alto in un ringhio che si perde nell’urlo con cui Bill si stacca di prepotenza dalla macchinetta del caffè e gli si attacca alle spalle, cercando di tirarlo via.
- No! – grida, e Chakuza non se lo scrolla di dosso ma resta fermo a guardarmi con occhi di fuoco, digrignando i denti mentre io mi lascio andare ad un sorriso soddisfatto. – Peter, per favore… - lo implora, le mani che scendono lungo le sue braccia, - Lascialo andare. – ed io rido divertito, stavolta non mi trattengo. Principessa, principessa. Quest’arte te l’ho insegnata io. Piegare la volontà delle persone facendosi sentire loro addosso… stiamo giocando esattamente lo stesso gioco, piccolo. Lo stesso identico.
Chakuza mi lascia andare, ma lo fa con violenza, strattonandomi e sbattendomi ancora una volta contro la parete, prima di togliermi le mani di dosso.
- Bushido, - mi apostrofa poi, in un ringhio bassissimo, - Levati dalle palle. È l’ultimo consiglio che ti do.
Bill rabbrividisce, stringendo le dita sulle sue braccia e cercando di convincerlo ad allontanarsi.
- Che ti piaccia o no, - rispondo io a muso duro, - è qui che sto adesso, Chakuza. E non intendo andarmene da nessuna parte. Perciò, - ghigno, - è corretto che ti dica che non intendo farmi da parte.
- Cosa cazzo sta succedendo qui? – chiede David, apparendo in corridoio, probabilmente attirato dalle urla di Bill. Dietro di lui appaiono in fila Fler e Nicole, Tom e metà della mia crew. Abbiamo giocato sporco, io e Bill, ultimamente. Me ne rendo conto solo adesso che vedo tutti qui riuniti come ad una fottuta ultima cena. Abbiamo tutti i nostri rinforzi. Bill è sempre venuto qui con Tom, io mi sono sempre portato dietro la crew o quello che ne resta da quando i miei due uomini principali hanno deciso di essere entrambi due stronzi – ed uno è morto ammazzato, l’altro mi ha rubato tutto – e Chakuza invece niente. Chakuza nessuno. Chakuza era solo contro di me e contro Bill. Questo è giocare sporco, ma al momento non posso evitarlo.
La domanda di David resta senza risposta, ma ciò che sta succedendo sono tutti capacissimi di comprenderlo da soli, nel momento in cui Chakuza, guardandomi dritto negli occhi, parla ancora.
- Non ti aspettare che questo cambi qualcosa. – dice, e gli si tendono addosso tutti i muscoli. Sta facendo uno sforzo sovrumano per non prendermi a cazzotti, lo vedo nel modo in cui gli si irrigidiscono i muscoli delle spalle e del collo.
- Non me lo aspetto. – rispondo io, scuotendo il capo, - Voglio solo che tu sappia a cosa vai incontro.
Chakuza solleva il mento, sfacciato.
- Illuminami. – mi invita.
E io faccio un passo avanti. E quando rispondo, lo faccio guardando Bill.
- Io non gliele tolgo le mani di dosso.
- Bushido. – mi richiama David, facendosi avanti, ma finisce ignorato per la seconda volta quando a farsi avanti è Chakuza.
- Hai intenzione di importi su di lui?
- Ti risulta che io faccia sempre qualcosa di meno che impormi? – chiedo con un sorriso, - Nessuno decide se non ha dei motivi per farlo. Quindi devo darglieli.
Stiamo parlando di Bill come non fosse neanche presente. Ed in effetti è un po’ così – la mia principessa s’è allontanata di un paio di passi, non tiene più le mani sulle spalle di Chakuza e guarda il vuoto con occhi spenti, torturandosi il labbro inferiore fra i denti.
- Bel modo di dargli dei motivi. – commenta Chakuza, - Lo costringi a fare quello che vuoi.
- Imporre non è costringere. – gli faccio notare, fronteggiandolo serenamente, - Bill può sempre dire di no. Ma se mente, io lo capisco. Tu puoi dire lo stesso?
- Con me – risponde lui, - non deve mentire a prescindere. Non ha mai dovuto farlo.
- No? – rido io, - Allora probabilmente non gli hai mai chiesto cosa voglia dire il tatuaggio sul suo fianco. O magari mi sbaglio e te l’ha detto, che quel tatuaggio sono io. Magari non ti ha mentito ma questo non cambia il concetto di base.
Chakuza ringhia, stringendo i pugni.
- È passato un sacco di tempo. – ribatte, - Se Bill non fosse innamorato di me, non staremmo neanche discutendo. Sarebbe tornato con te senza battere ciglio e saremmo tutti a casa nostra.
- Per favore… - singhiozza Bill, passandosi una mano sugli occhi, - volete smetterla?
I miei occhi lo accarezzano tutto, anche se lui non può vedermi, e nessuno osa muoversi, dal fondo del corridoio. Fler scalpita, Tom è basito, David non sa cosa fare, c’è perfino Hans, lì in mezzo, e nessuno muove un dito per salvare la mia principessa che piange. Io non dovrei essere quello che pone fine a questa questione. Non voglio nemmeno. Io sono incazzato e sono cocciuto e lo rivoglio. Io guardo Chakuza e tutto ciò che penso è che vorrei provocarlo fino a costringerlo a saltarmi addosso, per poi sentirmi pienamente giustificato mentre gli spacco la faccia spegnendo il cervello. Ma Bill sta piangendo e, se nessuno si muove, è proprio perché, anche se non voglio, sono io che devo farlo.
- D’accordo. – annuisco, - Volevo solo mettere in chiaro le cose.
- E scommetto – ritorce Chakuza, - che con lui non ne hai mai parlato, prima. No, perché tu fai sempre così. Tu- tu non chiedi mai, tu decidi, gli altri si adattano! Scommetto che non gli hai mai chiesto se ti volesse addosso, tu te lo sei preso e basta.
Io aggrotto le sopracciglia.
- Gli ho chiesto se mi voleva. – ringhio, - Ha detto di no. Mentiva. – lancio un’occhiata a Bill, - Visto che a lui non rifili stronzate, diglielo.
Bill trasale e mi guarda per un secondo. Poi Chakuza si gira a guardarlo a propria volta, come in attesa della sua risposta, ed è il suo sguardo che Bill ricambia a lungo, mentre le lacrime gli offuscano gli occhi. E poi lo vedo serrare le palpebre – le lacrime rotolano lungo le guance e gli bagnano la maglietta – e portare le mani alle tempie, prima di scoppiare ad urlare.
- Basta! – grida, - Basta, basta, basta! Che cosa credi che sia, una bambola che parla a comando?! Bill digli questo, Bill digli quest’altro! – torna a fissare Chakuza, scosso dai singhiozzi, - E tu non mi guardare in quel modo, come fossi perfettamente innocente, cazzo! Smettetela! Tutti e due!
Lo guardo duramente, infilandomi le mani in tasca.
- Volevo solo chiarire, Bill. – ripeto, - Se continuiamo a non parlare, non riusciremo mai a chiarirci. Io potrei spaccargli il muso qui ed ora e lui potrebbe fare lo stesso con me, e non avremmo risolto niente comunque.
E io faccio per dire altro ma mi interrompo, perché Tom si fa strada sgomitando in mezzo al pubblico non pagante del fondo del corridoio e raggiunge suo fratello, stringendolo per le spalle sottili e tirandoselo contro.
- Adesso basta. – lo sento mormorare, - Bill, vieni via. Lascia che gli scimmioni si litighino il territorio come preferiscono. – ma Bill non lo ascolta. Si dibatte violentemente fra le sue braccia, scalcia e strepita, e poi mi urla contro.
- E per te questo è chiarire?! – strilla, - Per te chiarire è umiliare me dandomi ordini ed umiliare lui facendogli vedere quanto sei più bravo?!
- Bill… - cerca di intromettersi Chakuza, conciliante, ma Bill non ascolta nemmeno lui.
- No! – continua a urlare, - A me sembra che a nessuno di voi due freghi qualcosa di quello che provo io! L’unica cosa che volete è che io scelga in quale letto stare!
Tom digrigna i denti, stringendolo con maggiore decisione. E io m’incazzo. Non dovrei ma lo faccio.
- Umiliarti, cazzo! – ringhio, - Io sono sempre stato sincero con te, Bill! E invece io torno e tu mi menti! Non mi dici che stai con lui ma ci stai quando ti bacio, e Chakuza in tutto questo è sempre in mezzo ai coglioni, ed io come devo scoprirlo, cazzo, origliando! Non sono io che ti umilio, Bill, sei tu che umili te stesso.
- Tu te ne sei andato! – mi ricorda Bill, grazie principessa, come ci fosse ancora una minima, minuscola possibilità che io possa dimenticarlo, - Tu mi hai mentito molto prima che lo facessi io! Hai fatto finta di morire per poi tornare e non ti sei chiesto che cosa cazzo fosse successo nel mentre! Mi hai solo schienato contro quel cazzo di muro ed eri a posto, giusto? Certo che sì! Tu non chiedi mai, d’altronde! Ed hai tanti diritti quanti ne ha Peter, sappilo, non uno di più.
- Cazzo. – soffio io, serrando le labbra prima di lasciarmi andare ad un ghigno gratuito quanto liberatorio. Come tutto il resto di ciò che dico. – Neanche ti ci avessi costretto, a scopare. – faccio un passo verso di lui, Chakuza si mette di mezzo ed io lo spintono lontano anche se fa resistenza. Spero, me lo auguro davvero, che Tom non alzi un dito. O è la volta che succede qualcosa di veramente brutto. Non voglio niente fra me e Bill, adesso. – Te lo ricordi – ringhio chinandomi su di lui, - te lo ricordi quando ti infilavi nel mio letto e mi imploravi di lasciarti restare? Te lo ricordi quando mi hai detto di amarmi? E quando te l’ho detto io, te lo ricordi? Per me non è cambiato un cazzo, Bill. Proprio un cazzo.
- Per me sì. – risponde lui, ricambiandomi l’occhiata, - Perché ho dovuto ficcarmi in testa che non c’eri più, ho dovuto imparare a fare a meno di te, ed ora che sei tornato non puoi pretendere che cancelli un anno di sofferenza come niente. Sono stato male, cazzo, non puoi rinfacciarmelo, se ho cercato di superarlo!
Io lascio andare una risata amara, scuotendo il capo.
- No, non posso, è evidente. Era quello che volevo, in fondo. – ammetto, lanciando una mezza occhiata a David. Ma non trovo comprensione nel suo sguardo. Forse nemmeno la cercavo, comunque. So esattamente cosa aspettarmi da quello che ho qui, adesso. Ora lo so. È niente. È tutto ciò che posso aspettarmi. Un cazzo. – Farei meglio a tornarmene oltreoceano, mh? – chiedo, tornando a guardare Bill, - È questo che devi dirmi, piccolo? Se devi, trova le palle. Trovale adesso.
E Bill piange. Un pianto diverso da quello di prima, non è furioso, non è frustrato, la mia principessa è solo triste. Perché vorrebbe dirmi di andarmene ed allo stesso tempo non mi vuole lontano. Perché vorrebbe potermi mandare a fanculo e non riesce a permetterselo. Perché è felice con Chakuza, ed io lo so, ma so anche che lo amo e lui ama me. E forse sono anche io, quindi, che gli sto impedendo di lasciarmi andare. Ma lui mi sta aiutando. Io lo so che è così. Io ti conosco, principessa, io ti ho tirato su in tanti di quei modi che tu nemmeno ti rendi conto di quanti sono. Se sei così è perché è così che ti ho cresciuto, piccolo. E mi fa un cazzo di male vederti così adesso, ma lo capisci anche tu – me lo dice il tuo silenzio – che la situazione è davvero troppo complicata, per sbrogliarla e basta. Qui qualcuno dovrà stare male per forza. Qui dovremo stare male io e te. È così. Perciò basta nascondersi dietro ai vetri, Bill. Troppo trasparenti. E si rompono troppo facilmente.
Cerco di sorridere, mentre gli accarezzo una guancia, asciugando col pollice tutte le lacrime che incontro al mio passaggio.
- Non piangere. – chiedo piano, - Non c’è niente da piangere. Guardami negli occhi.
Bill fa un passo indietro, e suo fratello lo segue.
- Non farlo. – mi implora, la voce rotta.
- No. – nego io, avanzando ancora, - No, tu non farlo. Non mentire più. Dimmelo qui ed ora. Degli altri non mi frega niente, Bill. Tu dammi un motivo per restare ed io resto.
Lui solleva lo sguardo e mi fissa attentamente. Attraverso il velo di lacrime che gli intorbidisce lo sguardo, riesco a vedere i suoi occhi ridipingere noi due e solo noi due in questa stanza. Tom, che pure lo sta ancora stringendo protettivo per le spalle, non esiste più. Non c’è più la platea, non c’è nessuno, non c’è nemmeno Chakuza. Ci siamo solo noi, perché gli ho chiesto di decidere di noi. E Bill è uno che quando deve decidere lo fa per bene. Perciò si concentra, la mia principessa, e si concentra solo sul problema più pressante.
Odio essere un problema pressante. C’è stato un tempo in cui ero solo l’uomo che amavi, Bill. Vorrei lo ricordassi ancora. O vorrei smettere di ricordarlo io.
- Resta. – risponde alla fine, tirando su col naso, - Perché ho bisogno che tu resti, per favore. Ma non so più in che ruolo. – e lo dice in un mugolio così piccolo, così arreso, così da lui, che sorrido teneramente e, poco dopo, non riesco a trattenere la risata naturale che mi affiora alle guarda. Lui arrossisce e non si offende, perché i miei toni li ricorda ancora tutti benissimo e sa che in questo momento non lo sto prendendo in giro.
- Come amica del cuore, magari? – propongo con una scrollatina di spalle.
La risata non la trattiene neanche lui. Se lo permette solo perché nei suoi occhi siamo ancora soli.
- Piantala di fare il cretino. – borbotta, e poi inspira ed espira, e quando schiude le palpebre nei suoi occhi c’è di nuovo anche tutto il resto. Perciò mi adatto, ed anche per me è lo stesso. Faccio un passo indietro, ne faccio anche più di uno, e torno quasi vicino alla parete di fronte. – Forse è meglio se entrambi… provate un po’ a stare al vostro posto. Senza forzare le cose. – chiede Bill, guardando alternativamente me e Chakuza. Lo stronzo ringhia al mio fianco, e ne ha anche tutte le ragioni. Ma non si scosta e non mi manda a fanculo quando mi giro a fronteggiarlo, tendendogli la mano.
- Quello che la principessa dice, si fa. – dico pacatamente, - Questo mi auguro non sia cambiato. – Chakuza è un po’ incerto, non sa se stringermi la mano o meno, perciò aggiungo – Non è una tregua, è un patto di coesistenza.
E lui annuisce e la dannata mano, finalmente, la stringe pure.
- La parola della principessa è legge. – mi rassicura. E questo è tutto quello che mi serve sapere.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, David/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash.
- "Sulla pista oggi il vento è così forte che devo camminare per forza un po’ inclinato in avanti, mentre mi muovo verso la scala per salire sull’aereo."
Note: Io vorrei dire, a proposito di questa shot, che è evidente che per seguire EKR serve una grande dose si umanità e pazienza, nonché parecchio cuore. In assenza di queste qualità è ovvio che non si capisca niente di ciò che provano i personaggi ed è anche ovvio, credo, volerli sbranare ad uno ad uno. Io spero che voi possiate trovare dentro voi stessi un po’ di quella comprensione umana che serve per star dietro a della gente che, per un motivo o per l’altro, soffre. Altrimenti, lasciatevi pure andare al bashing, prometto che non vi fermerò XD
Comunque, adesso sapete in che termini s’è svolto il Dashido. Adesso, se proprio volete, potete paragonarlo al Bikuza e decidere chi ha più colpe e chi ne ha di meno. O rassegnarvi magari al fatto che nessuno ne abbia XD A voi la scelta. David la sua l’ha detta, e Bushido anche.
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NIE WIEDER

Sulla pista oggi il vento è così forte che devo camminare per forza un po’ inclinato in avanti, mentre mi muovo verso la scala per salire sull’aereo. Intorno a me la gente si muove frenetica trascinando borsoni e sacchetti di plastica, sorridono quasi tutti. Partire per Miami, d’altronde, è una cosa che in genere rende allegri. È un bel posto per una vacanza ed è un bel posto anche per gli incontri lavorativi, come dimostrano i numerosi uomini d’affari che si ritagliano un po’ di spazio fra una famiglia e l’altra, avvolti nei loro completi gessati e in compagnia delle loro onnipresenti ventiquattrore. Io forse avrei potuto essere una persona così, una persona che va in giro in gessato e ventiquattrore. Forse potrei esserlo anche adesso, il mio mestiere non me lo vieterebbe, e forse è proprio perché non voglio che invece mi ostino ad andare in giro in jeans, maglietta e giacca di pelle, quando le circostanze non mi obbligano all’abito formale – ed anche lì, in genere, riesco comunque a piegarle al mio volere, le circostanze.
In sostanza sembro un pesce fuor d’acqua in mezzo a tutta questa gente che si muove inequivocabilmente o per turismo o per lavoro. Io perché mi muovo? A guardarmi non lo si saprebbe dire, ho con me solo uno zaino. Se mi guardassi da fuori, non saprei indovinarlo, il perché della mia partenza. In realtà ho difficoltà a capirlo anche guardandomi da dentro. Questo è un po’ un problema, ma penso me ne occuperò a tempo debito – cioè quando sarò già arrivato, perché trovare una risposta a questo perché potrebbe essere sufficiente a costringermi a rimanere qui, e nonostante tutto non voglio farlo. Anche se non so perché sto partendo, voglio partire lo stesso.
Oggi è il ventotto settembre. Quando, stamattina, ho chiamato Tom, per assicurarmi che fosse tutto a posto, attraverso la cornetta e sotto la voce agitata del mio stupido chitarrista preoccupato ho sentito il flusso persistente delle lacrime di Bill venare l’aria in un lamento continuo e regolare, ed ho sospirato.
Io penso che Bushido sia entrato dentro Bill fino ad impossessarsi di ogni singola cellula del suo corpo. Ci sono molti modi di sentire la mancanza di una persona e tutti coloro che hanno vissuto al fianco di quell’uomo – l’avessero fatto per mesi, per anni o per pochi giorni – adesso sentono il vuoto causato dalla sua assenza in modi molto diversi. Ognuno ha il proprio ed ogni modo è intimo e personale, ma nessuno – nessuno – si sente mancare un pezzo di sé come sta succedendo adesso a Bill. Bill, che era una persona della quale si poteva dire tutto meno che fosse incompleta – perché lo vedevi da come andava in giro, da come sorrideva, da come gli brillavano gli occhi, che non gli mancava niente – Bill adesso è una cosa spezzata in due e non riesce a recuperare il pezzo di sé che ha perso. Non oso immaginare cosa dev’essere stato per Tom scoprire che l’altra metà di suo fratello non era più lui, ma so che sono fiero di lui per come si sta comportando adesso, soprattutto perché con Bushido lui non era mai veramente venuto a patti e Bill non l’ha mai neanche aiutato ad avvicinarglisi, quindi è molto bello da parte sua, adesso, mettere da parte il proprio risentimento per stringersi attorno a suo fratello mentre lui piange e strepita come Bushido fosse morto ieri, solo perché oggi è il suo compleanno e non possono più festeggiarlo insieme.
Bushido, naturalmente, non è morto, e questo dovreste già saperlo. Solo che oggi, ventotto settembre duemilaotto, lo so solo io. E lui, dall’altro lato dell’oceano. Anche se non sono proprio sicuro che, nonostante sia sopravvissuto, al momento sia propenso a credersi vivo. Ci sono molti modi anche di morire, in fondo; non mi sembra di mentire, quando ripeto a me stesso che meno di tre mesi fa noi quell’uomo l’abbiamo seppellito per sempre. Quello che c’è adesso in quell’appartamento a Miami non è Bushido e non è nemmeno Anis Mohamed Youssef Ferchichi, e non è il King of Kingz e non è niente di quello che Bushido è stato quando era ancora se stesso ed era qui. Quindi sì, Bushido è morto. Pensarla in questi termini non è sbagliato.
Solo che è morto un nome. Un nome significa tanto, ma non tutto. C’è ancora un corpo, c’è ancora un uomo, quell’uomo è vivo e non riesce ad esserlo.
Questo è probabilmente il motivo per cui sto partendo, dopotutto.
Un bambino sfugge al controllo della madre e si mette a girare in tondo per la pista, facendo lo slalom fra i viaggiatori che un po’ ridono e un po’ sono infastiditi dal suo muoversi così frenetico. Io sbuffo un mezzo sorriso e resto appena il tempo di osservare il bimbo inciampare sui propri stessi piedini incerti e cadere per terra con un tonfo, subito seguito da uno scoppio di pianto accorato e lamentoso che mi ricorda moltissimo il pianto di Bill, motivo per cui distolgo lo sguardo e smetto di restare lì in attesa del niente: stringo una mano con forza attorno alla cinghia dello zaino e risalgo la scala, andando alla ricerca del mio posto. Quando lo trovo, mi siedo ed allaccio la cintura. Sistemo lo schienale del sedile perché sia ben dritto ed infilo lo zaino sotto il sedile di fronte al mio. Poi mi rilasso. Chiudo gli occhi. E non resto sveglio abbastanza da sentire la hostess spiegarmi come dovrò salvarmi la vita in caso di pericolo.
*
Bushido non sa che sono qui e probabilmente neanche se lo aspetta. Quando l’ho sentito l’ultima volta, ieri sera, non sembrava essere abbastanza presente a se stesso da aspettarsi alcunché, d’altronde. Di certo non poteva aspettarsi che avessi già il biglietto in mano mentre lo ascoltavo biascicare qualcosa sulla birra americana che sembra piscio, scuotendo il capo mentre si fracassava il ginocchio contro un mobile non meglio identificato e cominciava poi a mugolare di dolore accasciandosi a terra. Ora – che è più o meno lo stesso orario del giorno dopo – mi auguro solo di non ritrovarlo nello stesso posto in cui l’ho immaginato mentre parlavamo al telefono ieri, ed è con un sospiro sfiduciato che mi infilo in un taxi e ripeto a memoria l’indirizzo al conducente, recuperando poi il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans e componendo il numero di Tom.
Lui non risponde subito, e quando lo fa il suo tono di voce è soffice e un po’ assonnato.
- David…? – mugola, - Che ore sono…?
Io sorrido appena.
- Un ottimo orario per fare la nanna, in realtà. – lo prendo in giro, - Un po’ presto per i tuoi standard, ma potrebbe diventare un’ottima abitudine.
- Sei un cretino. – borbotta lui in un mezzo sussurro, - Bill dorme. – dice poi, senza attendere che sia io a chiederglielo, - È rimasto qui a parlare piangendo per ore, e poi s’è addormentato. Dovresti vederlo. È sfatto.
Serro la mascella, annuendo meccanicamente, anche se lui non può vedermi.
- Lo immagino. Lo tieni da te, stanotte?
- Ovvio. Che pretendi, che lo riporti a casa sua? – poi sospira e lo sento allungarsi sul materasso, stendendo un braccio. Bill mugola mentre lui lo stringe, ma sento nella cornetta il suo respiro tranquillo e regolare e so che non s’è svegliato, perciò sorrido. – Non ha fatto che parlare di lui. – continua Tom, la voce bassa venata di tristezza. – Non sono riuscito a farlo parlare d’altro.
- È ancora presto… - gli spiego, sospirando appena, - Starà meglio. Fra un po’.
- No, io non credo, David. – dice lui, e ne è talmente sicuro che non trovo la forza di rispondergli che è convinto così solo perché è piccolo e perché, come suo fratello, in questo momento è convinto che, morto Bushido, sia morto anche tutto il resto. Bill e Tom non sono mai stati tanto distanti l’uno dall’altro come lo sono adesso. Al contempo, però, non sono nemmeno mai stati tanto vicini. – Io non credo. – ripete più nervosamente. – Non so cosa fare con lui.
- Devi solo stargli vicino, Tom. – cerco di rassicurarlo, - Solo questo. Andrà meglio.
- Mi sono rotto di sentirtelo ripetere. – singhiozza lui, ed io mi rendo conto che questo ragazzino, perché di ragazzino si tratta, ha ascoltato per tutto il giorno il pianto disperato della persona cui tiene di più al mondo, e non ha potuto versare con lui neanche una lacrima. Perché quando Bill si dispera tu devi restare lucido, perché a Bill viene facile lasciarsi ricadere così profondamente nella propria tristezza da non essere più in grado di tirarsene fuori. E quindi serve qualcuno che resti lì pronto ad afferrarlo saldamente quando cade. Tom oggi non ha versato una lacrima. Tom piange adesso, al telefono con me. – Perché cazzo è dovuto succedere? – si lamenta, - Riportalo indietro. – ed io ho i brividi, perché Tom non sa che potrei farlo davvero, quello che mi chiede. Potrei e al contempo non posso.
- Tom… - lo chiamo a mezza voce, ma lui mi interrompe tirando su col naso.
- Scusami. – dice, asciugandosi le lacrime, - Ora passa. A me passa.
- Mi dispiace. – sospiro io, muovendomi a disagio sul sedile, - Appena torno a casa-
- Sei in viaggio? – cambia subito argomento lui, e nella sua voce non c’è quasi più traccia di pianto, - Dove vai?
- Affari. – rispondo io, vago, - Non preoccupartene. Cerca di badare ad una cosa per volta. – sorrido un po’.
- Sì. – annuisce lui. Non perde neanche tempo a domandare oltre, sa che se avessi voluto dirgli qualcosa l’avrei semplicemente fatto. Ed ha comunque altro cui pensare, al momento. – Allora ci sentiamo.
Annuisco e lo saluto a bassa voce, ascoltando la chiamata interrompersi ed il segnale della linea caduta sostituirsi alla voce impastata di Tom, mentre i freni del taxi stridono sotto di me e l’automobile si ferma di fronte al palazzo di Bushido. La strada è illuminata e piena di gente. Il tassista si volta e dice “arrivati, io pago e scendo dalla macchina senza dire una parola, guardandomi distrattamente intorno per recuperare la memoria fisica dell’ultima volta che sono stato qui e lasciare che siano i miei piedi a guidarmi verso il palazzo giusto, la scala giusta, la porta giusta. Apro con le chiavi, tengo il doppione nel mazzo che uso comunemente in Germania anche per quelle di casa mia.
L’appartamento è buio e, se non sapessi che per forza Bushido deve trovarsi qui, lo penserei disabitato. Le finestre sono tutte chiuse, peraltro, con le serrande abbassate, l’aria è pesante e densa e non si sente volare una mosca. Mi chiudo la porta alle spalle con delicatezza, ed evito di accendere la luce, muovendomi all’interno della casa con un po’ di difficoltà, finché non mi abituo all’oscurità.
Bushido sta dormendo sul divano. O almeno suppongo stia dormendo: non lo sento respirare, mi auguro che non sia morto davvero proprio quando io ho deciso di alzare il culo per venire a trovarlo.
Mi siedo sul bracciolo del divano ed inspiro profondamente.
- Tarek. – chiamo ad alta voce.
Lui non si sveglia.
Io sospiro ancora.
- Anis. – sussurro più dolcemente. E il suo respiro cambia ritmo. S’è svegliato.
Lo sento muoversi sul divano, la pelle crocchia sotto di lui, e poi lo osservo sbadigliare e stendere le braccia per stiracchiarsi, mettendosi seduto. Resta in perfetto silenzio finché non ha chiaro a grandi linee chi sia, dove si trovi, chi sono io e perché sono qui.
- David. – mi chiama quindi, - Andato bene il viaggio? – e la sua voce è ancora impastata di sonno ed alcool. Muovo un piede e si rovesciano per terra due o tre bottiglie di birra. Io sospiro, Bushido ride. – Spero non fossero ancora piene. – commenta. Io evito di rispondere che ho i miei dubbi al riguardo.
- Dormivi già? – chiedo, - È presto.
Lui scrolla le spalle.
- Avevo sonno. – risponde. Non “ero triste”, non “è meglio se dormo perché altrimenti mi ubriaco fino a vomitare l’anima”, nemmeno “mi annoiavo e non c’era nulla da fare”, che sarebbe sì una bugia ma comunque meno sfacciata di quella che ha detto. “Avevo sonno”, dice lui.
- E quando hai sonno non ti viene mai in mente di andare almeno a letto? – lo rimprovero, - Ti fotterai la schiena, continuando a dormire qua sopra.
Lui scrolla ancora le spalle. Giustamente, non gliene frega un accidenti di quello che succederà alla sua schiena da questo momento in poi.
Io, ancora appollaiato sul bracciolo, resto in silenzio qualche secondo in più, prima di parlare ancora.
- Ti ho portato un regalo. – affermo, recuperando lo zainetto e sistemandomelo in grembo mentre lo apro e comincio a rovistare all’interno. – Tanti auguri, a proposito.
Lui lascia andare un ghigno e sbuffa.
- Non ho voglia di festeggiare i trent’anni. – risponde, - Sto diventando vecchio.
- Ah, grazie mille. – ringhio io, tirandogli addosso il pacchetto avvolto nella carta argentata e lucida, - Ora chiudi la bocca e aprilo.
Lui frena la caduta del pacco lungo il suo petto, con una mano sola, e poi lo solleva all’interno del viso, guardandolo attentamente, come potesse sbirciare oltre la carta per scoprire di cosa si tratti.
- Cos’è? – chiede, rigirandoselo con cura fra le mani.
- Dio, ma aprirlo e basta no? – borbotto scivolando giù dal bracciolo sul cuscino accanto a lui.
Lui segue il consiglio, fortunatamente. Prende il pacchetto con entrambe le mani e lo scarta con una lentezza esasperante, stando bene attento a non strappare la carta né l’adesivo dorato che la teneva sigillata. Mi viene quasi voglia di rubarglielo di mano ed aprirlo io, il più in fretta possibile. Bushido è un uomo che le attese e i silenzi sa manipolarli bene. Io, in questo momento, non dovrei stare praticamente saltando sul divano, frustrato dall’aspettativa di vedere come reagirà a ritrovarsi il regalo sotto gli occhi, quando l’avrà aperto. Eppure lo sto facendo.
Quando il CD viene fuori dalla carta, Bushido lo guarda a lungo in silenzio, prima di voltarsi e sollevarlo a mezz’aria, guardandomi da sotto le sopracciglia inarcate. Non dice niente, me lo mostra e basta, e non capisco cosa mi stiano chiedendo i suoi occhi.
- Be’? – chiedo alla fine, - Il packaging è come lo volevi?
- Potevate usare la foto della sega elettrica. – borbotta lui, tornando a rimirare la custodia da ogni lato, - Mi piaceva di più, lo sapevi anche. E poi in questa sembro una specie di meccanico appena uscito da sotto una macchina.
- E questo ha mandato in delirio la Germania intera, se t’interessa saperlo. – comincio con entusiasmo, - Non hai nemmeno idea della quantità di ragazzine che… - ma mi fermo, quando capisco, dalla sua espressione, che no, non ha idea della quantità di ragazzine che, e soprattutto non gli interessa. – Comunque abbiamo usato anche quella. Quella della sega elettrica, dico. Lo so che ti piaceva di più.
Lui annuisce distrattamente.
- Come stanno andando le vendite? – chiede. Non che gliene freghi qualcosa. Comunque è già tanto averlo trovato in stato semicosciente e non semicomatoso, immagino, perciò se vuole fare un po’ di conversazione io di certo non gliela negherò.
- Ovviamente benissimo. – rispondo con un sospiro, - La Germania ti idolatra, Bushido. Sei diventato una specie di santo.
- E non sono nemmeno dovuto morire sul serio… - commenta con un ghigno fra l’ironico e l’incattivito, - L’Ersguterjunge?
Scrollo le spalle.
- Non si può pretendere si rimettano già al lavoro. È stato abbastanza faticoso costringere la Universal a fare pressione su Saad perché si decidesse a finire di produrti l’album e metterlo in commercio. Non erano mica d’accordo. Chakuza ha tirato su il bordello.
Lui sbuffa una mezza risata, rilassandosi contro lo schienale del divano.
- È ancora arrabbiato, Chaky? – chiede, gli occhi socchiusi e la testa reclinata all’indietro. Mi chiedo se non abbia intenzione di riaddormentarsi qui ed ora. E questo mi ricorda Bill durante tutto il suo primo mese di lutto, dopo la sua morte. Non faceva che dormire. Si svegliava, piangeva fino a sfinirsi e poi dormiva ancora. Tom mi ha detto che pensava fosse l’unico modo in cui suo fratello riuscisse a far trascorrere le giornate. Se non si fosse esaurito e poi addormentato, quelle non sarebbero mai passate. Credo che per Bushido sia più o meno la stessa cosa, adesso.
- È scosso. Come tutti. – sospiro. A Bill non accenno. – La settimana prossima saremo a TRL. Hanno organizzato con l’occasione del tuo compleanno, ma sono riuscito almeno a farla spostare di modo che non cadesse proprio oggi. Non sarebbe stato il caso.
Bushido annuisce lentamente.
- Suppongo di no. – concorda, stendendosi appena sul divano. Il CD è poggiato sul cuscino accanto a lui, e lui nemmeno lo tocca più. – Queste cose potevi anche dirmele per telefono, comunque. – ride poi, - Non c’era bisogno del viaggio transoceanico.
- Dico, uno si prodiga tanto… - borbotto, rimettendomi in piedi e tirando su i jeans che, nel mentre, minacciano di rovinare a terra. Poi gli tendo una mano. – Coraggio, in piedi.
Lui schiude gli occhi e mi guarda come fossi un alieno.
- Eh? – chiede, sollevando il capo dal divano.
- In piedi, ho detto. – ripeto, scandendo bene le parole perché siano chiare. – È il tuo fottuto compleanno. Per i miei trent’anni, sono andato in giro per bar fino alle sei del mattino. Non intendo riportarti a casa prima di allora.
Lui si irrigidisce, schiude le labbra e fa per dire qualcosa – so anche precisamente cosa: sta per dire “no”. E siccome i no di Bushido non sono semplici no, sono “no, non se ne parla, toglitelo dalla testa e se solo fai tanto di ostinarti ti faccio del male fisico”, gli impedisco di dirlo afferrando un cuscino proprio lì di fianco a lui e schiacciandoglielo contro il viso.
- Jo- - annaspa lui, agitando le mani mentre io premo contro la stoffa col palmo bene aperto, - Jost! – abbaia, e si libera della pressione scivolando sotto al cuscino e poi in piedi, - Avevi intenzione di ammazzarmi sul serio, Cristo santo?! – urla, a due centimetri dal mio viso.
- Be’, - lo affronto a muso duro, - sempre meglio farlo io che non osservarti mentre ti… ti consumi su questo divano, Bushido! Dico, ma ti sei guardato allo specchio, ultimamente?! Da quanto non ti radi? Da quanto non ti lavi, Dio mio, da quanto non mangi? – e lo spintono, rimettendolo a sedere sul divano e guardandolo dall’alto, i pugni piantati sui fianchi, piegandomi appena in avanti per fissarlo negli occhi. È così che rimprovero i piccoli, quando è necessario. È così che rimprovererò anche lui. – Sei magro, sfatto e inguardabile. Ti ho permesso di sopravvivere senza sputtanarti e sono intenzionato a costringerti a sopravvivere anche con dignità, se tu non senti il bisogno di farlo per te stesso. D’accordo? Quindi ora – lo afferro per le spalle e lo rimetto dritto. È dimagrito davvero. – alzati in piedi e muovi il culo, stronzo. Ti aspetto il tempo della doccia.
Lui mi fissa per un minuto buono con un paio di occhi da pesce lesso che mi fanno venire il nervoso. Sto giusto chiedendomi se non dovrei farlo cadere a terra con uno sgambetto e poi pestarlo con violenza fino a lasciare di lui solo un mucchietto d’ossa sanguinolente, quando lui prende e ride. Saranno mesi che non lo sento ridere così, Dio. Una bella risata piena, di quelle fatte con convinzione. Lo vedo gettare indietro il capo – i capelli arruffati che gli si scompongono appena sulla testa – e stendere il collo mentre chiude gli occhi e schiude le labbra, pressandosi una mano contro lo stomaco, la maglia bianca e larghissima che si arriccia in sbuffi attorno alle sue dita scure e bene aperte.
Imbarazzato, aggrotto le sopracciglia.
- E allora… - borbotto, spintonandolo contro una spalla. Lui ride ancora un po’, ed asciuga una lacrima dall’angolo di un occhio, scuotendo il capo.
- D’accordo, papà. – continua a ridere in singhiozzi minuscoli. Dico, che cretino. – Vado a rendermi guardabile, visto che me lo chiedi con tanta insistenza.
Quando esce dal bagno, in realtà, è molto più che guardabile. Faccio fatica a non distogliere lo sguardo perché – davvero – sarebbe ridicolo abbassare gli occhi adesso, ma è dura. È dura perché lui è seminudo, ancora un po’ umido di doccia, sbarbato e coi capelli scompigliati sulla testa. Stanno crescendo, e il fatto siano ancora pesanti d’acqua li porta ad appiccicarglisi sulla fronte. Lui li scosta con un gesto lento e distratto, sistemando meglio l’asciugamano attorno ai fianchi e piazzandosi davanti allo specchio del salotto – le gambe semidivaricate e il bacino lievemente sporto in avanti – per riavviarli con più cura sulle tempie e sulla nuca.
- Stanno allungando. – mi fa notare, guardando la propria immagine riflessa, - Non ho pensato di tagliarli.
- Non ti stanno male. – rispondo io con una scrollata di spalle, decidendomi finalmente a smettere di fissarlo.
- Vanno bene per Tarek. – continua lui, perso in chissà che cosa dentro la propria testa, - Magari li faccio allungare ancora.
- Potrebbe essere una buona idea. – annuisco io, fingendo interesse per la sua copertura qui, - Saresti ancora meno riconoscibile. – e ancora più bello, anche, ma è un pensiero che mi attraversa solo marginalmente, senza colpirmi in pieno. Ho imparato ad evitare cose simili, nei tre anni che hanno visto quest’uomo frequentare i miei ambienti più spesso di quanto già non facesse prima per cause lavorative.
Bushido non risponde alla mia ultima nota. Pianta le mani sui fianchi, sospira e si volta a guardarmi.
- Allora. – comincia quindi, - Dove mi porti?
Io inarco le sopracciglia.
- Nudo, da nessuna parte. – rispondo, accennando col capo all’asciugamano che è ancora l’unica cosa che lo copre, - Se ti vesti, andiamo a bere da qualche parte. E se fai il bravo magari ti compro anche una torta.
Lui sorride e non aggiunge altro, voltandomi le spalle ed infilandosi in camera da letto. Quando ne viene fuori, ha addosso una camicia bianca e un paio di jeans scuri. Infila le scarpe da tennis saltellando prima su un piede e poi sull’altro, quindi mi si para davanti a braccia larghe.
- Be’? – chiede, - Bello?
- Bushido, piantala. – ringhio io, tirandogli una spinta contro una spalla, - Ti preferivo depresso. – borbotto, muovendomi verso la porta.
- Balle. – ghigna lui, - E poi sciogliti un po’, Jost, è il nostro primo appuntamento, in fondo!
- Bushido, sei avvertito. – insisto, chiudendo la porta quando lui esce dietro di me, - Continua a fare il deficiente e prima ti ubriaco e poi ti lascio ad un angolo di strada.
Lui ride e solleva le mani all’altezza del viso, bene aperte, in segno di resa.
- Okay, okay, Jost. Hai vinto. Te lo concedo.
- Da quando… - mi lamento, girando le chiavi nella toppa, - Da quando le vittorie si concedono? Di solito le vittorie le vince chi le ha vinte.
Bushido ride ancora.
- Mi sono perso alla prima ripetizione del verbo vincere. – commenta, sistemandosi addosso la camicia mentre io cerco disperatamente di non guardarlo, - Comunque l’idea di andare in giro a bere mi piace. Anche se non saprei dove portarti. – e ride un po’, - Dovrei conoscerlo, questo posto, ormai. Sono tre mesi.
Mi volto a guardarlo con aria un po’ sconvolta.
- E non sei mai uscito di casa?
- Per la verità sì… - borbotta lui, scrollando le spalle, - Ma il minimarket è proprio qui sotto. Quindi, insomma, non è che abbia avuto veramente occasione di spingermi tanto in là nell’esplorazione del quartiere.
Io sospiro, passandomi una mano sulla fronte.
- Va bene, va bene… non mi va di litigare. – mi arrendo, sconfitto, - Adesso ti porto al Palms. O al Chico Loco. Magari se non vogliamo casino ci infiliamo al Tropical Paradise, conosco personalmente il proprietario e potrebbe trovarci un privè. O magari… - e continuo sulla stessa traccia per quelli che mi sembrano una decina di minuti, sciorinando un nome di locale alla moda dietro l’altro, al punto che al quindicesimo la cosa comincia a diventare disturbante perfino per me, ed è a quel punto che alzo lo sguardo su di lui e capisco che non è disturbante solo per me.
- Tu – dice Bushido, indicandomi con un dito, - sei veramente un esemplare perfetto di omosessuale in carriera. Io non ho parole.
Io cambio colore e lo sferzo con un’occhiataccia che spero lo uccida definitivamente, risolvendo in un colpo sia i miei che i suoi problemi. Bushido però non muore, la cosa non mi stupisce ed io smetto di arrabbiarmi. D’altronde, non è che possa dirgli “no, non sono un perfetto esemplare di omosessuale in carriera”. Sono un esemplare, sono un omosessuale, sono in carriera e sono indubbiamente perfetto, anche. Perciò pace.
- Diamoci una mossa. – dico quindi, - Se arriviamo tardi potremmo non trovare più privè. – e mi muovo verso l’ascensore. Bushido mi segue, e nello specchio dell’ascensore, quando le porte si aprono, scorgo l’ombra di una smorfia ad increspargli le labbra. – Qualcosa non va? – chiedo immediatamente.
- Niente di particolare. – scrolla le spalle lui, - Solo che pensavo che magari, invece di andarci a chiudere in un qualche locale alla moda pieno di fighetti ubriachi, potremmo andare in qualche pub meno frequentato. Una roba tranquilla, insomma. – lui osserva il mio sopracciglio sinistro inarcarsi in maniera convincentemente dubbiosa, e si affretta a precisare. – Mi diverto, Jost, promesso. Solo che non c’ho voglia di casini. Non mi va di vedere gente.
- Sono sconosciuti. – gli faccio notare. Non vedo che problema debba esserci ad avere a che fare con gente che non ti conosce, non vuole nemmeno conoscerti e probabilmente dimenticherà il tuo viso prima del sorgere del sole, il giorno dopo.
- Sono gente. – risponde semplicemente Bushido, e il suo tono di voce è netto e deciso. – Ora, visto che sai perfettamente che faccio già abbastanza fatica ad uscire di casa, al momento, - ed è raggelante la calma serafica con cui ne parla. Come fosse normale. Magari è convinto lo sia, - potresti almeno cedere se ti dico che non voglio vedere gente? Mi basti tu. Davvero.
Ed io cedo, che altro dovrei fare? D’altronde, Bushido è il mio datore di lavoro – e praticamente nient’altro – mi paga profumatamente per ciò che faccio ed io non dovrei prendermi certe libertà come cercare di salvarlo dalla depressione, quando è palese che l’ultima cosa che vuole è proprio essere salvato. Non mi paga per questo. Io dovrei ricordarmelo. Anche se probabilmente, proprio perché non è per questo che mi paga, questa è la cosa che dovrei fare con maggiore attenzione.
Alla fine non andiamo al Palms, non andiamo al Chico Loco e non posso neanche passare a salutare Micah al Tropical Paradise. Passeggiamo sul lungomare, invece, ed io osservo Bushido prendere lentamente coscienza del luogo in cui si trova. Quando mi ha detto che probabilmente Miami sarebbe stata la soluzione migliore per quella fuga assurda, io ho approvato per due motivi: primo, era abbastanza lontano da essere un luogo sufficientemente sicuro; secondo, era abbastanza bello da rappresentare una distrazione.
Il problema è che Bushido, in questi mesi, non s’è mai concesso di distrarsi. Lo sta facendo ora per la prima volta e si sta rendendo conto di aver vissuto in un paradiso senza mai lasciarsi la possibilità di esplorarlo. I suoi occhi si perdono seguendo la linea dell’orizzonte affogata nel mare, e la sua pelle si colora dei toni aranciati del tramonto che si sfuma in sera, e quando lo sento respirare a pieni polmoni respiro improvvisamente meglio anch’io. Perciò non mi lamento quando ci fermiamo in un localino proprio lì, sulla spiaggia, una specie di casotto di legno col tetto spiovente e un sacco di ghirlande di fiori che pendono dal soffitto decorando cocchi, manghi, papaye ed altri frutti di cui non conosco nemmeno il nome.
Il bancone gira tutto attorno al locale, io e Bushido prendiamo posto su due sgabelli e cominciamo a farci servire da bere. So che non dovrei permettergli di ingurgitare altro alcool dopo tutto quello che sicuramente ha mandato giù negli ultimi giorni, ma cazzo, è il suo compleanno. Non intendo impedirgli niente proprio oggi. Che beva pure. Tra l’altro, avere a che fare con lui ubriaco è comunque molto più semplice che avere a che fare con lui da lucido. Che poi è il motivo per cui lo stronzo cerca di ubriacarsi il meno possibile, quando è in compagnia. Gli piace rendere complicate le cose alla gente.
Oggi no, però. Evidentemente il divertimento che proverebbe nel rendermi difficile l’esistenza è surclassato in necessità dal bisogno che ha di stordirsi, perciò non ci pensa nemmeno a mantenersi lucido, e butta giù una birra dopo l’altra, chiedendo di tanto in tanto anche un cocktail o qualcosa di diverso per cambiare gradazione alcolica e stordirsi di più e più in fretta. Io bevo il minimo indispensabile, se non altro perché almeno uno dei due dovrà ricordarsi la strada di casa, quando questo strazio sarà finito.
Nel mentre lo ascolto parlare, e Bushido mi dice un sacco di cose, anche se nei fatti non mi sta dicendo praticamente niente. Lo so che Miami è un bel posto, Bushido, è assurdo che ancora non lo sapessi tu. Lo so che ti manca Berlino, Bushido, lo so. Lo so che ti manca tua madre. Sta bene tua madre, Bushido. Lo so che ti mancano i tuoi ragazzi, manchi tantissimo anche a loro. Lo so che qui fa troppo caldo per te, no, non ti ci potevo mandare in Antartide, Bushido. Lo so che non riesci a chiedermi di Bill. Sta male, Bushido. Sta un sacco male. Ma visto che non chiedi non rispondo. Per ora è meglio così.
Quando ci allontaniamo dal locale, molte ore più tardi, la luna è alta nel mezzo di un cielo nerissimo ed abbiamo speso un capitale in bibite. Bushido si regge a stento sulle gambe, tant’è che devo sostenerlo io, e meno male che è leggerissimo altrimenti ci accasceremmo entrambi per strada in un angolo e dovrebbero venirci a recuperare con un carro attrezzi prima di bloccare il traffico, domattina.
L’appartamento è sempre buio e incasinato, quando torniamo, e Bushido sta ancora blaterando roba, con la differenza che adesso lo sta facendo completamente steso contro di me, ad un centimetro dal mio orecchio, e mi sfiora piano il lobo con le labbra ogni volta che dice una parola.
- Sono stanco, - mi dice, - non mi piace stare qui. Posso tornare a casa?
- No, Bushido. – rispondo stendendolo sul proprio letto perfettamente rifatto e immacolato al punto che mi chiedo se ci abbia mai veramente dormito, - Non puoi, lo sai.
- Ma mi sento solo. – borbotta. Come fosse una giustificazione alle sue richieste assurde. Non lo è, Bushido, non ci sono giustificazioni per le tue richieste e non potrei lasciarti tornare anche se invece ce ne fossero. Mi dispiace. Dio sa che mi dispiace, cazzo. Ma non posso proprio.
Sfilo via le coperte da sotto il suo corpo e cerco di rimboccargliele sotto il mento, ma lui prima le scosta con una mano e poi, quando io insisto, si mette a scalciare come un moccioso.
- Va bene, va bene! – mi arrendo, - Dormi scoperto, come preferisci! Io vado di là. – affermo irritato, e faccio per mollarlo lì e trasferirmi sul divano, che ho sonno, il jet lag comincia a farsi sentire nonostante l’abitudine e domani a non-mi-ricordo-che-orario-devo-ricontrollare-la-carta-d’imbarco ho l’aereo per rientrare in Germania. Scemo io e fanculo ai viaggi transoceanici.
E invece niente, non mi allontano, non faccio nemmeno un centimetro, perché le dita della sua mano si chiudono come una tenaglia attorno al mio polso ed io quasi finisco steso sul letto accanto a lui. Riesco a tenermi in piedi per puro miracolo, e mi volto a guardarlo con un sopracciglio inarcato in segno di muta richiesta.
- Resti? – mi chiede a mezza voce. Ha gli occhi chiusi. Credo non voglia vedermi. Credo non voglia vedere niente.
- Sto già restando. – gli faccio notare, senza neanche provare a forzare la sua stretta, - Sono qui a due metri, se hai bisogno.
- Resta qui. – specifica lui, stringendo con maggiore decisione e tirandomi un po’, - Nel letto.
Mi giro per guardarlo attentamente, anche se lui ha ancora gli occhi chiusi e quindi di certo non può accorgersene. Schiude appena le dita per permettermi di girare anche il polso, così da non dovermelo torcere, e poi torna a stringermi. Non è che abbia bisogno di trattenermi. Vuole solo sentirmi sotto i polpastrelli.
- Bushido… - lo chiamo a bassa voce, - Non fare il coglione.
Lui stringe ancora la presa e non dice niente. Non dice niente tanto a lungo che finisco per sentirmi io il coglione della situazione. E quindi pianto un ginocchio sul materasso e lui, quando sente la pressione del mio corpo, si scosta per farmi spazio, così da lasciarmi distendere accanto a lui.
La situazione è assurda. La nostra posizione, anche. Io non dovrei essere qui disteso e lui non dovrebbe volere da me ciò che penso voglia. Sono io che dovrei volere queste cose da lui. Sono io che le voglio, in realtà, ma non dovrei potermele prendere. Bushido non dovrebbe volermele dare.
- Toccami. – dice piano, la sua voce è un sussurro pieno di bisogno.
- Bushido… - cerco di richiamarlo un’ultima volta, ma lui mi ferma.
- Ssh. – sospira, stendendosi meglio sul materasso. – Toccami.
Io mi mordo un labbro e sollevo una mano, e per un secondo la lascio lì a mezz’aria perché non ho idea di come dovrei o potrei toccarlo. Insomma, non è un uomo qualsiasi. È Bushido. Non so nemmeno da che lato prenderlo.
Mentre penso che farò sicuramente qualche cazzata colossale, e che anzi probabilmente la mia cazzata colossale la sto già facendo, poso una mano sul suo petto e la lascio scorrere verso il basso. Le dita si impigliano una ad una fra i bottoni della camicia e li slacciano uno dopo l’altro. Bushido rabbrividisce ogni volta che mi muovo. Schiude le labbra e stira indietro il capo, i capelli che si scompigliano contro il cuscino.
- Di più. – mormora fra le labbra, e spinge il bacino verso l’alto nello stesso momento in cui la mia mano ci finisce sopra, sfiorandolo appena. Slaccio i pantaloni e lo accarezzo piano, stringendo le dita attorno alla sua erezione ancora incompleta e pompando lentamente. Dio mio, cosa sto facendo? Perché lo sto facendo? Resto qui, il gomito piantato sul materasso, lievemente sollevato per guardarlo meglio, e lo osservo inarcarsi sotto i miei movimenti, ed è praticamente l’unica cosa che fa. Non mi cerca con le mani, non mi cerca con le labbra, non mi cerca neanche coi pensieri, Bushido, lo so perfettamente cos’è che sta cercando. Non posso ridartela io la tua principessa, Bushido. Non può ridartela nessuno. Ti toccherà accontentarti.
Quando smette di farsi bastare la mano, quando comincia a volere di più, io non lo capisco perché me lo dice. Lo capisco perché si mette seduto in un movimento lento e strascicato, insospettabilmente sensuale – ci resto a bocca aperta, non me lo aspettavo per niente, ma Dio mio, appena lo vedo sollevarsi in quel modo, la testa piegata su una spalla e le braccia tese, deglutisco a fatica e respiro con difficoltà se possibile ancora maggiore.
Sfilo la mano e lui si volta verso di me, mettendosi in ginocchio sul materasso.
- Stenditi. – sussurra piegandomisi addosso, - Voltati.
Obbedisco e in aggiunta mi spoglio anche. È chiaro che lui non lo farà ed è chiaro che invece si aspetta lo faccia io per lui. continua a tenere gli occhi chiusi, non mi guarda, non mi parla se non per lo stretto indispensabile e soprattutto non mi bacia nemmeno. Da nessuna parte. Si regge sulle braccia, sospeso sopra di me, sento il suo calore intorno ma non addosso, e aspetta che io mi sia spogliato abbastanza per lasciarmi scivolare un paio di dita umide fra le natiche. Rabbrividisco sotto la leggera pressione dei suoi polpastrelli e mi inarco contro di lui, lasciando scivolare fra le labbra un ringhio roco.
- Mi manchi. – lo sento sussurrare contro la mia spalla, - Dio… mi manchi. – ed affonda dentro di me, sostenendosi sul materasso con entrambe le mani, - Cazzo, mi manchi. – lo so che ti manca, Bushido. Cazzo, lo so. Lo so che stai male. Non avrei mai dovuto permetterti niente di simile. Non avrei mai dovuto lasciarti uscire dai confini della fottuta Germania, non avrei mai dovuto lasciarti andare, non avrei – cazzo, sì – non avrei mai dovuto permetterti di mettere su questa commedia del cazzo – Dio, Bushido, più forte – e adesso dovrei prenderti a ceffoni – – dovrei riportarti a casa per i capelli – sì, cazzo, sì – dovrei – cazzo, sì – non lo so, affondo il viso nel cuscino mentre vengo e lo sento spingere ancora un paio di volte, ma lui non viene. Non viene, cazzo. Le spinte si smorzano e basta, il suo respiro, da concitato che era, si regolarizza, ed esce dal mio corpo insoddisfatto, lasciandosi rotolare sulla schiena e poi su un fianco senza guardarmi neanche per sbaglio.
Mi volto anch’io, mettendomi seduto a fatica e passandomi una mano sulla fronte.
- Bushido… - lo chiamo a bassa voce. Lui non mi risponde. Respira piano. Non dorme. Resta immobile.
Mi risistemo appena ed esco dalla stanza, abbandonandomi esausto sul divano appena incrocia la mia traiettoria, perché non mi reggo più in piedi. Quando chiudo gli occhi, lo faccio esattamente per lo stesso motivo per cui l’ha fatto Bushido. Non voglio più vedere niente. Anche se dubito che stanotte riuscirò a dormire.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Flashfic, Slash.
- Dopo un litigio con Anis, Bill esce di casa. E cade in un cliché.
Note: *_* Bikuza, yay! No, Fedy, non odiarmi. È anche Billshido, visto? XD E poi è oggettivamente piccola e pucciosa, o almeno, io la trovo molto carina. Mi piace perché il Billshido è conflittuale e il Bikuza è dolce. Queste sono le caratteristiche che preferisco principalmente nei rispettivi pairing, quindi è ovvio provare dell’affetto XD
Titolo regalato dalla Tab. Partecipante all’Iniziativa Estemporanea Silenzio-Assenso di Criticoni.
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BACKLASH

Bill si muove fra le lenzuola con una certa fatica. È ancora intorpidito ed assonnato, e nel mezzo del semicoma post-alcolico in cui ancora si trova cerca a stento di ritrovare un briciolo di lucidità per ricordare cosa sia successo ieri sera, cosa sia stato di lui e perché non si trova fra le lenzuola familiari di Anis, col suo familiare odore addosso e col suo familiare tepore a riscaldarlo mentre si risveglia.
Piano piano, mentre riemerge dal cuscino contro il quale ha schiacciato il viso addormentandosi, ricorda. Il litigio con Anis, andare via di casa sbattendo la porta, dirsi che non avrebbe ceduto a nessuno stupido cliché, sarebbe andato di filato a casa di suo fratello e gli avrebbe chiesto ospitalità per la notte, solo per quella notte, poi, cazzo, sarebbe tornato a casa e lui ed Anis avrebbero sicuramente chiarito. D’altronde era sempre così, fra loro: non si divertivano se non potevano devastarsi a vicenda, dicendosi addosso di tutto, anche cose che non pensavano, ma soprattutto quelle che pensavano veramente, perché sono quelle, in fondo, che fanno più male. E dirgli che è uno stronzo e lo odierebbe se non lo amasse è mille volte più doloroso che dirgli che non lo ama affatto. Fa più male perché è più vero.
Bill continua a ricordare, stendendosi sul letto a pancia in su, mentre i suoi occhi si abituano alla luce del giorno che filtra in strisce irregolari che si allungano progressivamente sulla parete di fronte. Si stiracchia assieme alla luce e ricorda che invece in quegli stupidi cliché del cazzo c’è caduto con tutte le scarpe. Non è andato da Tomi, ha preferito infilarsi nel primo pub incontrato per strada, fregandosene della possibilità di incontrare fan – d’altronde, che fan rispondenti al suo target avrebbe mai potuto incontrare in un pub tanto schifoso alle tre del mattino? – ed anche di quella di incontrare paparazzi – si fottessero anche loro e si cercassero una vita, invece di sbranare ogni brandello della sua fino a lasciare solo le dannate ossa – ed attaccandosi ad una bottiglia di birra, poi un’altra, poi un’altra, e poi…? E poi…?
Qualcuno mugugna al suo fianco e si sposta più vicino a lui, poggiandogli un braccio sul ventre senza pesargli troppo addosso.
…e poi Chakuza, ecco.
Bill guarda i suoi lineamenti fieri e dritti, il profilo del suo naso, le linee sottili delle sue labbra, e lo osserva mentre lentamente si sveglia. Si aspetta un po’ che, quando l’austriaco avrà finito di schiudere gli occhi, si scosterà da lui con aria infastidita e imbarazzata, rendendosi conto di aver messo le mani dove mai – mai e poi mai – avrebbe dovuto. E invece non accade. Quando gli occhi verdissimi di Chakuza si piantano nei suoi, l’uomo non si allontana. Non sposta nemmeno il braccio. In realtà non si muove di un millimetro, se si esclude il movimento lento che i suoi respiri impongono al suo petto.
- Stai bene? – chiede piano, la voce ancora un po’ arrochita dal sonno. Bill ripensa ad Anis e a la sua voce gli rimbomba nelle orecchie fino a fargli dolere i timpani, solo per un istante. Poi ripensa alle mani di Chakuza che gli scivolano addosso, alle sue labbra sul suo collo, al suo corpo tutto pressato contro il proprio, e sorride.
Non sente il bisogno di rispondere. Chakuza non sente il bisogno di chiedere altro.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Rape, Slash.
- "Mamma… posso dirtelo che sono felice? Secondo te è abbastanza per dire di stare bene?"
Note: Storia ispirata ad una splendida poesia di Emily Dickinson, che ho letto perché partecipante a questo concorso indetto da Harriet sul suo LJ. Non avrei mai letto la poesia, non fosse stato per il contest, quindi sono contenta di averlo letto XD E andate a leggerla anche voi, pure se non è che vi serva per la comprensione della storia in sé. È la storia in sé che, temo, non è granché comprensibile XD Spero lo sia e spero faccia male a voi leggerla quanto male ha fatto a me scriverla ;_; Billi ;_;
Devo dire che in genere io le storie così non le apprezzo per niente. La maggior parte della gente che ne scrive, non sa come farlo e si esibisce spesso in clamorosi buchi nell’acqua. Spero non lo sia anche questa, ma non vi assicuro niente, dal momento che non ho mai scritto niente di simile XD
Ultime due precisazioni. Primo: scrivere questa shot mi ha fatto venire voglia di scrivere una long di cui questo sia praticamente il prequel. Quindi è anche probabile che prima o poi la vediate su questi schermi XD Secondo: il titolo della storia è rubato all’omonima – e bellissima – canzone degli Strokes.
Grazie per aver letto e arrivederci :)
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HEART IN A CAGE

Specchio entra sempre per primo, perché visto che mi somiglia tanto gli altri magari credono che poi loro mi faranno meno paura, quando entreranno. Ma io non ho paura per niente, sai mamma?, io non ho paura per niente perché ormai sono un sacco abituato a loro che vanno e vengono dalla stanza, e sorrido a tutti, anche perché sono sempre gentili con me – ma sempre sempre – e poi non mi hanno mai fatto niente di male, lo sai?, quindi non ho per niente paura. Però loro sono convinti che io abbia paura, infatti sono sempre un sacco timorosi, sai che mi toccano a stento, mamma?, non lo so mica perché, io sono un sacco forte, non mi servono queste delicatezze, però a loro non posso dirlo, poverini, fanno tanta strada per venire dal loro mondo fino nel mio, solo per vedermi, quindi non li posso rimproverare, lo capisci, mamma?, non posso proprio.
Che poi secondo me Specchio me l’hanno pure costruito in laboratorio, sai mamma?, apposta per me. Perché mi assomiglia veramente tantissimo, tipo che è uguale, tipo che se ricalco i suoi lineamenti coi miei siamo la stessa persona, tipo che abbiamo lo stesso odore, la stessa forma, tipo che se lo tocco su un braccio lui ha il mio stesso calore – ma proprio uguale, mamma, è una cosa stranissima! – tipo che se lo guardo negli occhi non c’è solo il mio stesso colore, ci sono proprio io. Tipo che lo sento – mi crepita sulla pelle come una scintilla – lo sento che siamo proprio identici. A volte guardo Specchio e mi chiedo – ma non è che mi hanno rubato qualcosa una notte che dormivo e l’hanno plasmato proprio da un pezzo di me? Perché quando Specchio va via, sai mamma, mi sembra un po’ che stia andando via con lui una parte del mio corpo. E fa un po’ male. E poi torna tutto a posto quando Specchio ritorna. Per questo dico che forse l’hanno creato in laboratorio apposta. Ma è una cosa stupida, vero?, vero mamma?, i fantasmi non si fanno in laboratorio, i fantasmi sono fantasmi e basta. Magari Specchio è il mio fantasma, magari io sono morto. Magari sono io il suo fantasma, visto che Specchio è un sacco luminoso e io invece sono un sacco spento.
Papà, quando viene a trovarmi, mi dice sempre che Specchio ha pianto un po’. Lo chiama con un nome che non conosco, non lo chiama Specchio, ma d’altronde anche quando io lo chiamo papà lui scuote il capo e mi risponde che no, non si chiama papà, non è papà, non è papà, Bill, papà è a casa, è venuto a trovarti la settimana scorsa, lo ricordi, Bill?, non lo ricordo no, sei tu papà, perché non ti fai chiamare papà?, io non mi chiamo Bill, io non ce l’ho un nome. Papà non mi vuole bene, non si lascia chiamare papà e non mi ha nemmeno battezzato. Non è giusto chiamarmi in quel modo, quello non è il mio nome. Mamma, neanche tu dovresti chiamarmi Bill. Nessuno dovrebbe chiamarmi Bill. Bill non esiste.
Comunque, anche quando papà mi dice che Specchio ha pianto, mi dice sempre anche che non devo sentirmi in colpa, non è colpa mia se Specchio piange. Specchio non dovrebbe mai piangere, comunque, è troppo bello per piangere. Io preferirei che non piangesse. Però non posso farci niente. Anche se papà mi dice che il modo per farlo smettere di piangere è stare meglio. Ma io sto bene, mamma, diglielo anche tu, com’è che non lo vedete? Sono perfettamente guarito, non ho più male da nessuna parte, non c’è più sangue, sono di nuovo pulito. Però non posso uscire, è l’unico problema, non posso uscire perché non riesco a camminare. Quando ci riuscirò uscirò, papà e mamma, è una promessa, quindi dite a Specchio che la smetta di piangere, per favore, tutto a suo tempo, mi rimetterò in piedi, piano piano. Piano piano, però. Piano piano.
E poi c’è Amore. Quando Amore entra nella stanza io sorrido senza sforzarmi. Amore sono quasi certo che non si chiami proprio Amore, ma io non riesco a ricordare il suo nome, ed è l’unica cosa che mi fa male. Sono sicuro che lui c’era da prima, non viene a trovarmi da adesso, lui c’era da prima che entrassi qua dentro. E non riesco a ricordare come si chiama. E lui ogni tanto me lo chiede, mi chiede se lo so come si chiama, lo sai come mi chiamo, Amore?, e io non me lo ricordo e scuoto il capo, ma lo chiamo Amore perché lui chiama Amore me, ed è così che voglio chiamarlo, anche se il suo sorriso, quando lo chiamo così, è un sacco triste.
Amore ha dei colori bellissimi. È colorato come il caramello, anche se non ha lo stesso sapore. E ha gli occhi come il cioccolato e i capelli come l’ebano, e le mani grandi, le mani grandi e forti, ed è l’unico che mi tocca tantissimo, mi tocca fino a darmi fastidio, però è un fastidio a cui non riesco a rinunciare, sai mamma? Lo so, mamma, lo so che queste cose non si fanno, lo so che sono cose sporche, lo so che non dovrei lasciarmi baciare da lui, lo so che non dovrebbe toccarmi. Lo sa anche lui, mamma, te lo giuro, si ferma sempre prima di andare troppo oltre, è buono, le sa queste cose, non mi farebbe mai del male. Te lo giuro, mamma, mi bacia e mi accarezza soltanto. Lo so che secondo te è sbagliato, ma ti prego, non dirgli più di smetterla, io ne ho bisogno, mi piace tantissimo.
Amore poi porta sempre un sacco di gente strana, mi viene tanto da ridere quando arrivano. È che sono tanti tantissimi, non è che ho un nome per tutti, però le loro facce, quelle sì, quelle le conservo tutte, sono tutti divertenti. Lui sembra un re, quando viene con quelle persone, perché loro sembrano la sua corte. È così bello il mio Amore quando me li presenta, te li ricordi loro? Questo è… questo è… non mi ricordo i nomi, mi dispiace, mi dispiace signore tondo con gli occhi verdi, mi dispiace signore strambo coi baffetti, mi dispiace ragazzo abbronzato che assomiglia a un porcellino, io vi voglio un sacco bene, lo so, lo sento, però non mi riesce di ricordare come vi chiamate, perdonatemi.
E poi arriva il momento che Amore dice ai ragazzi che è ora di andare, ed io comincio a rabbrividire e non sto più nella pelle, perché quando i ragazzi vanno Amore si avvicina. E mi sfiora le spalle, con le sue mani grandi, ed io piego il capo e lui mi bacia sul collo e poi si siede al mio fianco. E io gli scivolo addosso e mi strofino contro il suo corpo, che è caldo e forte, e sento che mi manca anche se non ricordo di essere mai stato con lui – Amore, mi perdoni se non me lo ricordo? Perché devo ricordarmi solo cose tristissime quando penso a cose come questa? Perché non ricordo le tue mani, perché ricordo solo quelle di un’altra persona? Non voglio ricordare, Amore, chiudimi gli occhi, tappami le orecchie, serrami le labbra, e Amore lo fa, Amore è bravissimo, Amore mi stringe, ti amo, Amore, e lui mi dice di non dirlo. Non dirlo, Amore, me lo dirai quando starai meglio. Amore, sto bene. Posso dirtelo. Amore, ti amo, ti amo tantissimo.
Poi Amore va via ed arrivi tu, mamma. Mamma… posso dirtelo che sono felice? Secondo te è abbastanza per dire di stare bene? Sento la testa tanto leggera. Posso andare a casa con Amore? Magari Specchio smetterebbe di piangere. Pensi che papà sarebbe d’accordo? Perché tu non lo sei, mamma? Io sono felice. Non lo vedi che sono felice? Sto piangendo di gioia. Sto piangendo di gioia, non lo vedi? È gioia, vero? Ho la testa vuota e il cuore pienissimo, mamma. È gioia, vero? È gioia?
Non dirmi che non lo sai, mamma. A me sembra gioia. Io voglio credere che lo sia, ti dispiace?
Comunque d’accordo. È okay. Sto bene, comunque. Le caramelle?


*

- Non abbiamo rilevato dei miglioramenti veri e propri, nell’ultimo mese di terapia. Ma siamo sicuri che sia solo una questione di tempo. Ai farmaci reagisce bene, l’umore è ottimo, non presenta più cambiamenti eccessivamente repentini. Suppongo che-
- Dovrei poterlo portare a casa.
- …no, signor Ferchichi. È ancora presto.
- È un fottuto anno che-
- Anis, per favore.
- No, Tom, Anis il cazzo, è-
- Signor Ferchichi, devo ricordarle che siamo in un ospedale?
- …
- Quando pensa che potremmo portarlo via, dottoressa?
- Non saprei dirle, signor Jost. Come cercavo di dire prima, suppongo che dovremo semplicemente avere pazienza.
- Io non ne ho.
- Anis.
- Io non ne ho. Lo porterò fuori di qui, dottoressa. Ragazzi, andiamo.

*

Amore va via, dietro di lui ci sono i ragazzi, c’è papà, c’è anche Specchio. Li saluto dalla finestra muovendo la mano, e loro mi sorridono tutti. Che belli che sono. Tornate domani? A domani. Buonanotte.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste.
Pairing: Bill/Chakuza, Fler/Chakuza, Fler/Nicole.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Het, Lemon, Slash.
- "La notte non si rassegna a finire ed io comincio ad essere davvero stanco di lei."
Note: Vorrei dire cose, riguardo questa shot – ci sarebbero cose da dire, riguardo questa shot – ma non ho tempo :D Sappiate solo che vi voglio del bene perché la risposta di pubblico alla scorsa storia è stata veramente meravigliosa, e mi auguro di non avervi fatto troppo male con questa. Sì, lo so, Fler è Fler ed è una piaga sociale. Fedy, mi dispiace di non averti dato ciò che ti aspettavi XDDD Non odiare troppo Nicole e studia, che hai compito =P A tutte le altre, grazie per aver letto nonostante l’enorme mole di pagine (ma è la prima volta che il Bimbo parla nella LTP. E lo fa per mandare Chakuza da Bill. Siate fieri di lui! XD), ed a presto <3
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EWIGE NACHT

Quando Bill mi ha chiamato al cellulare, oggi, io ho ringraziato una buona quantità di dei, perché non ne potevo già più di stare sul divano a fissare ed odiare ogni singolo centimetro del dannato pavimento di casa mia. Per quanto negli ultimi mesi abbia avuto modo di stare spesso a casa – sono stato più spesso da Sido, sì, ma non potevo pretendere di stabilirmi lì per sempre, non c’erano i motivi e sarebbe stato allucinante – non sono mai davvero riuscito ad appropriarmi di questo appartamento. Sarà che non lo voglio davvero, sarà che non me ne frega niente, sarà che gli unici due posti in cui sento di aver davvero vissuto sono la topaia che ho condiviso con Anis ai tempi dell’Aggro e la topaia che ho condiviso con Chakuza in tempi più recenti, insomma, non lo so cosa sarà, so solo che io questo posto lo odio e non lo ripeterò mai abbastanza.
Comunque, ho risposto pure con gioia – anche perché, ‘cazzo ne sapevo io che, mentre stavo a rigirarmi i pollici sul divano, in casa di Anis aveva luogo l’Apocalisse? – ma ho fatto in fretta a tornare coi piedi per terra. Bill ha un modo tutto suo di dirti che sta male anche senza dirtelo effettivamente. È qualcosa nel ritmo del suo respiro, nel modo in cui senti che sta cercando di trattenere perfino i battiti del proprio cuore, perché fanno male pure quelli e lui non sa come uscire da questo groviglio di dolore enorme che gli si è abbattuto contro. Bill è una persona che dovrebbe essere sempre felice, perché è evidente che il suo corpo non ha la costituzione adatta per resistere alla sofferenza. Ci vogliono spalle, per restare in piedi quando ti prende in pieno una valanga. Ci vogliono spalle e muscoli e la pelle di cuoio, non ti bastano i coglioni. Lui quelli ce li ha, ma gli manca tutto il resto.
Insomma, non ho avuto bisogno che mi dicesse niente. Peraltro, anche quando sono passato a prenderlo per portarlo a prendere una cioccolata da qualche parte, non ho esattamente avuto l’impressione che gli andasse di parlare. A volte è così, c’hai solo bisogno, tipo, di fare qualcosa. Hai quasi l’impressione che provando a spiegarti faresti solo danni maggiori, perciò niente, hai bisogno di distrarti, fare roba, andare in posti, vedere cose. Poi torni in te, poi puoi anche parlare, sul momento però no, e Bill era scosso e le sue guance erano ancora rosse e i suoi occhi ancora rossi, ma io non ho chiesto. E lui in genere risponde anche quando non chiedo, quindi il fatto che non rispondesse a prescindere mi ha dato l’idea che volesse, appunto, solo fare robe, andare in posti, vedere cose. E perciò gli ho fatto fare robe, l’ho portato in posti e gli ho dato da vedere cose.
E lui è stato anche un po’ meglio, mi ha sorriso e tutto, e poi niente, non mi ricordo com’è che abbiamo deciso di passare da Chakuza – probabilmente avevamo solo entrambi voglia di vederlo, solo questo, anche se non ce lo siamo detti, primo perché non ho bisogno che Bill mi dica quando ha voglia di vedere il Chaku, glielo sento addosso, e secondo perché non ho bisogno di dire a Bill quando ho voglia di vederlo io, perché non esiste – e lì è ovviamente precipitato tutto, perché fra le mille cose che potevamo aspettarci – o almeno, che poteva aspettarsi Bill, visto che effettivamente io non sapevo niente di quello che era successo fra lui e Bushido solo poche ore prima – l’immagine di Chakuza seduto su uno sgabello accanto all’isola con una borsa del ghiaccio spiaccicata sulla faccia era proprio l’ultima che potesse venirci in mente, ecco.
Il resto io l’ho visto accadere. Ci sono dei momenti – è una cosa che ho imparato a fare da ragazzino – ci sono dei momenti in cui smetto di viverlo, quello che mi sta succedendo, e mi limito a guardarlo. Non serve che sia una cosa necessariamente dolorosa o sconvolgente, basta che mi accorga che in un altro modo non potrei tollerarla. Perciò ho osservato Bill avvicinarsi a Chakuza, sussurrargli “è stato lui, vero?”, ho osservato Chakuza annuire, confermare, vuotare il sacco su tutto anche lì di fronte a me, e poi ho osservato Bill andare in bagno a prendere la cassetta del pronto soccorso, e lì – quando gli occhi verdi e pesti di Chakuza si sono spostati sui miei – lì mi sono tolto dalle palle, come suppongo avrei già dovuto fare da mesi e in maniera ben più radicale di quanto non abbia fatto.
E me ne sono tornato a casa.
Sono passate due ore da quando ho lasciato Chakuza appollaiato lì sullo sgabello, con Bill che si prendeva cura delle varie ferite e abrasioni che c’erano ovunque sul suo viso, sul suo collo, sulle nocche delle sue mani, dopo la scazzottata che ha avuto luogo a casa sua. Quello che dev’essere successo prima che io e Bill arrivassimo posso solo immaginarlo. Posso solo immaginarla, l’espressione di Anis, mentre si presenta a casa di Chakuza intenzionato a rivoltarlo come un fottuto calzino per l’imperdonabile colpa di aver messo le mani sul suo ragazzino quando non doveva. Posso solo immaginarla e mi viene anche un po’ da ridere, perché cazzo, Anis, tu sei morto. I morti non hanno diritti, ed i diritti non sono retroattivi: se resusciti, non puoi riavere indietro quelli che hai perso.
Ecco, se resusciti non puoi riavere indietro ciò che hai perso. Qualcuno dovrebbe dirglielo chiaro, ad Anis. Anche se io non penso che avrei il coraggio di farlo.
Comunque, sono passate due ore ed io, da quando sono tonato qui nel mio appartamento vuoto, ho cercato di non pensare. Ho riesumato il vecchio Game Boy che Sido mi ha passato quando sua figlia ha smesso di usarlo in favore della Playstation, ed ho tirato fuori qualche cartuccia recuperata secoli prima nelle cuccette dei tour-bus, quando ancora i ragazzi ci giocavano, con queste robe, e gli studi dell’Aggro, quando non si lavorava, erano tutto un risuonare delle musichette elettroniche del Tetris.
Insomma, mi sono seduto lì sul mio enorme divano bianco panna che è un divano palesemente da single, così come questa è una casa palesemente da single. Sarebbe anche bello usarla nel modo giusto – per rimorchiare, cioè – ma sto cominciando a rassegnarmi alla mia vita così per com’è ora. Triste da dire, ma non c’ho nemmeno voglia di andare per locali. È che, boh – e nel mentre Super Mario si infila in un tubo verde e ne riesce grande il doppio rispetto a quando c’è entrato – mi sembra di aver fatto una serie incredibile di buchi nell’acqua. Non parlo solo di Chakuza, anche Anis, pensandoci col senno di poi, Dio mio, è stato un disastro. Io non posso continuare ad avere solo relazioni che non sono relazioni. E con le donne non mi è mai andata bene, una dopo l’altra mi hanno sempre lasciato tutte. Insomma, uno deve pure rassegnarsi, quando si rende conto che non c’è speranza, no? Se non funziono con gli uni e non funziono con le altre, magari funziono da solo e basta.
Quello che è successo lo so. Lo so perché me l’ha detto il Chaku e lo so perché era esattamente ciò che volevo. Una cena per festeggiare il ritorno di Anis? Oh, andiamo. Mi meraviglio di come Anis stesso possa essere stato tanto stupido da cascarci, anche se probabilmente ha accettato solo perché di Bill e Chakuza non sapeva niente, quindi non poteva immaginare quanto potesse essere pericoloso infilarli in una casa in cui era presente anche lui.
Comunque io volevo che Anis venisse a saperlo perché né Bill né Chakuza avrebbero mai fatto il primo passo ed io non volevo essere il solito Patrick costretto a farlo al loro posto. Stavolta no. Stavano per distruggere la vita dell’uomo che li aveva fatti incontrare? Benissimo. Che lo facessero da sé, però. Io non volevo essere l’amico incaricato di dire le cose come stanno allo sfigato di turno. Mi sono già rotto le palle di questo ruolo. Non mi si addice nemmeno.
Però è tutto sommato vero che uno dovrebbe stare attento a ciò che desidera, perché potrebbe avverarsi davvero. Quante volte tutti noi abbiamo sperato che Anis tornasse vivo dalla morte? Io, un’infinità. Bill, quasi sicuramente, la mia infinità al quadrato. Perfino Chakuza deve averlo pensato, prima di innamorarsi di Bill. E quello è tornato davvero, causando il finimondo. Si fottano le stelle cadenti e il desiderio espresso dopo aver spento le candeline sulla torta di compleanno, non c’è bisogno di queste cazzate per far diventare qualcosa realtà. Basta essere in molti a volerlo, o almeno così pare. O forse così non è ed Anis è tornato in vita perché è un supereroe. Me lo ricordo a diciott’anni correre come una furia per le strade di Tempelhof e arrampicarsi sulle grondaie scalando le villette fino ai tetti, e penso che come possibilità quella dei superpoteri non è nemmeno tanto remota. E intanto Super Mario viene mandato a gambe all’aria da un funghetto con un’espressione cattivissima.
Comunque io adesso ho ottenuto ciò che volevo e dovrei essere perfettamente in pace con me stesso. So come funziona Anis, so che in genere la rabbia è la prima delle sue reazioni, ma che fa in fretta a tornare in sé, perché non sopporta di lasciarsi sfuggire il controllo delle situazioni problematiche dalle mani. Quindi ha mandato a fanculo Bill, ha mandato a fanculo Chakuza – pestandolo, già che c’era – ed ora starà riacquistando coscienza di sé e realizzando cos’ha combinato.
So perfettamente dove andrà quando questo processo sarà terminato. Ed era il mio obiettivo, sul serio, non essere io a dirglielo ma essere io a consolarlo, almeno un po’. So che accadrà e non riesco a sentirmi contento e soddisfatto come dovrei.
Purtroppo, so anche perché non riesco a sentirmi così. Non ci riesco perché mi dispiace per il ragazzino, tanto per cominciare. Perché il ragazzino ci credeva tanto, in se stesso e in Chakuza, proprio come coppia. Ed anche se non so se riusciranno a sopravvivere a questa tempesta uniti, so per certo che, pure se ci riuscissero, non sarebbe più come prima, non sarebbe più la stessa cosa. Anis c’è sempre stato, fra loro. Solo che prima era un fantasma. Non puoi più dare del fantasma a una persona che puoi vedere e sentire e toccare.
Mi dispiace anche per Anis, ovviamente. Mi dispiace perché forse se gliel’avessi detto io sarebbe stato diverso. Forse sarei riuscito a metterla in un modo che non sembrasse irrimediabilmente pessimo, forse sarei riuscito a convincerlo a pensare un po’, prima di gettarsi a peso morto in quel casino di rabbia e senso di colpa che gli ingolfava la testa. Forse, insomma, avrebbe anche sofferto di meno, se fossi stato io a dirglielo, nel giusto modo. Forse.
Soprattutto, comunque, mi dispiace per Peter. Peter era un sacco felice, davvero, prima che tornasse Anis. Anche se girargli intorno non era proprio la mia prima aspirazione della giornata, quando capitava perché esigeva di vedermi per un motivo o per l’altro tipo riappendere le tende in camera dopo averle lavate o risistemare lo scaldabagno defunto, stare con lui era piacevole. Perché, ecco, sorrideva e insomma, era simpatico. Chakuza non è il tipo che quando si innamora si dimentica della tua esistenza e di tutto il resto che non sia la persona che ama. Magari si distrae, magari si perde in se stesso, ma poi si ritrova, e quando si ritrova è bello stargli accanto.
Insomma, mi dispiace che si sia ritrovato con un occhio nero ed il ghiaccio sullo zigomo, alla fine di tutto questo, solo perché io non ho avuto le palle e la voglia di prendere Anis, stringerlo in un angolo e raccontargli l’unica cosa sulla quale valesse la pena tenerlo aggiornato, e che nessuno gli diceva.
Però è quello che ho voluto, me lo sono scelto e adesso ho poco da sfogarmi sui tastini mezzi scassati del Game Boy. Io sono uno che le sue responsabilità se le prende. L’ho sempre fatto. Quindi non faccio una piega quando qualcuno suona al citofono. Non guardo nemmeno l’orario, perché Anis non ha orari per cercarmi, non ne ha mai avuti. Quando eravamo ragazzini, me lo vedevo spuntare sotto la finestra anche all’alba. Se si svegliava presto e sentiva il bisogno di venire a cercarmi, chi ero io per dirgli no?
Al citofono è lui, anche se lui, quando glielo chiedo, non mi risponde.
Apro il portone con un sospiro e poi apro anche la porta e mi fermo lì sulla soglia ad aspettarlo. Il mio indirizzo è stata la prima cosa che Anis mi ha chiesto quando ci siamo incontrati da soli. Quello, e il mio numero di telefono. Non ha avuto bisogno di spiegarmi perché li volesse, era semplicemente evidente che, dal momento che ero andato a cercarlo nel suo appartamento dopo aver fatto anche la fatica di convincere Eko a svelarmi l’indirizzo, avremmo ricominciato a frequentarci, punto e basta. Perciò gliel’ho dato, l’indirizzo. Ed anche il numero di telefono. “Per ogni eventualità”. Ecco l’eventualità.
Anis fa le scale con una certa fatica. È ubriaco fradicio e io sto al quarto piano. E questo palazzo è di quelli vecchio stile, dove un piano vale tipo per due.
Inarco un sopracciglio.
- Potevi prendere l’ascensore. – gli faccio notare incrociando le braccia sul petto e cercando di comportarmi come non sapessi niente, - Quanto hai bevuto, Anis?
- Pochissimo. – grugnisce lui, che puzza di alcool lontano un metro, abbattendomisi letteralmente addosso ed aspettando quindi che sia io a trascinarlo all’interno dell’appartamento e chiudergli la porta alle spalle.
- Pochissimo, certo. – lo prendo in giro, - Hai già vomitato, almeno?
- No e non lo farò perché ho bevuto poco. Fanculo, Frank, non è serata, okay?
Mi stupisco solo un po’, quando mi sento chiamare in quel modo. Provo a tenerlo in piedi mentre lo aiuto a raggiungere il divano, e cerco i suoi occhi. Li trovo e sono cupi e confusi. Non c’è niente da leggere, lì dentro, stanotte. O forse c’è troppo ed io ho bisogno di un po’ di tempo per fare ordine e capire.
Comunque, che mi abbia chiamato Frank è ridicolo ma anche ovvio, contando il fatto che quando avevamo circa vent’anni – cioè lui ne aveva venti ed io desideravo averli già ma stavo ancora abbondantemente fermo sotto i diciotto – andavo sempre a raccoglierlo in giro per locali, quando si ubriacava così. Ed ero Frank, allora, Fler non era che un bel nome coreografico da dipingere sui muri di tutta Berlino. Quindi era ovvio che mi chiamasse così, com’è ovvio che mi chiami così anche adesso.
- D’accordo, d’accordo… - concedo, aiutandolo a distendersi sul mio divano bianco ed osservandolo mentre tira su i piedi con tutte le scarpe, mettendosi comodo. Mi rovinerà la fodera ma sta qui disteso con un avambraccio a coprirgli gli occhi e i capelli sparsi ovunque sui cuscini, quindi in fondo chissenefrega della fodera. – Che ti è preso? – continuo poi, sedendomi lì accanto, su quel po’ di spazio libero che lascia il suo corpo. Lui solleva le gambe, - I morti non dovrebbero bere, lo sai? – ed aspetta che io mi sia sistemato per bene sul cuscino, appoggiandomi allo schienale, per stendermi le gambe in grembo e tornare a stiracchiarsi.
- Bevo quanto cazzo mi pare e piace, Frank. – mi informa, tirandomi pure un calcio sul ginocchio, - Anche perché non sono morto. – e si prende una pausa, prima di dire quello che sta per dire. Se la prende lo stesso anche se io so cosa sta per dire, lui sa che io lo so ed io so che lui lo sa. – Purtroppo. – conclude infatti, alla fine, ed io lo mando giustamente a fanculo.
- Non dire stronzate, adesso, – lo rimprovero aspramente, scazzottandolo senza pietà contro una spalla, - o giuro che stavolta all’inferno ti ci mando davvero con le mie mani, così mi assicuro che arrivi a destinazione senza fermarti a Miami durante il viaggio.
Lui sorride appena – è un sorriso che gli sento sbuffare, più che altro – e scuote il capo.
- Non saresti capace. Nessuno è mai stato capace di farmi davvero fuori. Mi chiedo se non dovrei fare da me. Se vuoi un lavoro fatto per bene, fattelo da solo, si dice. No?
- Piantala. – ringhio a bassa voce, - ‘Cazzo ti prende? Se ti sei fatto non so nemmeno quante cazzo di ore di volo transoceanico per venirmi a dire che eri vivo e poi cominciare a parlare di suicidio, sappi che ti do una mano.
Lui ride ancora e si toglie il braccio dalla faccia. Lo lascia andare contro il divano e fissa il mio soffitto. C’è accesa solo l’abat-jour sul tavolino, che oltretutto sta dal mio lato, quindi il suo viso è quasi tutto in ombra e anche il resto della stanza non è che sia meglio illuminato. Anis inspira profondamente, prima di riprendere a parlare.
- Avresti dovuto dirmelo. – dice quindi, tutto d’un fiato.
Mi tendo come una corda di violino.
- Dirti cosa? – chiedo, guardando altrove.
Lui ride di nuovo.
- Lo sai cosa. David mi ha detto che sei stato molto vicino a tutti, mentre io ero via. È impossibile che tu non te ne sia accorto. Devi saperlo per forza.
- Non so niente. – borbotto infastidito. Anis struscia una gamba contro la mia, come non avesse la forza di sollevarsi a darmi una manata contro la spalla.
- Pat. – dice semplicemente. Ed io sospiro.
- Mi dispiace, Atze. – esalo in un fiato, abbassando lo sguardo, - Non sapevo come fare.
Anis si strofina gli occhi con entrambe le mani, inspirando ed espirando a pieni polmoni.
- Sono troppo ubriaco per pensare. – confessa alla fine, tornando a stendersi prendendo il maggiore spazio possibile, - Come cazzo è potuto succedere, Patrick?
- Conosci Bill, conosci Chakuza. – rispondo scrollando le spalle, - Ecco com’è successo.
Anis scuote il capo.
- No. – insiste, - No, Pat. Non posso… non ci riesco.
Io deglutisco. Mi scosto le sue gambe di dosso e mi metto in piedi, andando dritto verso la camera da letto. Lui non mi chiede cosa sto facendo, tanto è ovvio che sto andando a recuperargli una coperta, e non fa una piega quando torno con un vecchio plaid di lana grigia e glielo stendo addosso, rimboccandoglielo sotto il mento.
- Quando me ne sono andato, - mi dice, mentre faccio il giro del divano per tornarmene in camera, - Chakuza era ancora etero. Cioè, che Bill si sia innamorato di nuovo mi… - ride piano, - mi sembra meno assurdo dell’idea del Chaky che diventa gay. Sul serio.
Mi fermo e mi appoggio allo schienale, tirando su una gamba per sedermi in bilico sul bordo e aiutandomi a tenermi in equilibrio con una mano, mentre lo guardo dall’alto.
- Quante cose vuoi sapere, Anis? – gli chiedo sottovoce, fissandolo dritto negli occhi. Lui mi ricambia l’occhiata senza cambiare espressione.
- Per oggi sono a posto. – risponde annuendo. E chiude gli occhi.
Io gli riavvio i capelli sulla fronte in un gesto distratto, prima di muovermi verso la camera e, a metà del corridoio, decidere che non è lì che voglio stare. Prendo le chiavi ed indosso una giacca, e due minuti dopo sono fuori dal mio appartamento.
Fuori c’è un bel venticello fresco e secco, non troppo tagliente, molto piacevole. Mi rendo conto che sta finendo settembre, e poi, nell’ordine, ricordo che dopodomani è il ventotto ed Anis fa trentun anni. Mi metto a ridere così, in mezzo alla strada, anche se non c’è proprio niente da ridere perché quest’uomo è tornato da Miami solo per avere un compleanno di merda, in pratica. Però rido lo stesso, che posso farci, è assurdo. E nel mentre vado a zonzo per le strade di Berlino e come sempre, ogni volta che lo faccio, i miei piedi mi portano da Chakuza. Non so se sia colpa del fatto che ormai questo tragitto lo conosco a memoria, quindi se non penso a dove sto andando e inserisco il pilota automatico è lì che mi porta il mio corpo, senza che io abbia neanche bisogno di chiederglielo, comunque è così.
Quando arrivo sotto casa sua, guardo a lungo il palazzo prima di decidermi sul da farsi. È molto probabile che Bill sia ancora qui, visto che ce l’ho lasciato, e rifletto bene sulla possibilità di attaccarmi al campanello per svegliare lui e il Chaku con un infarto e poi fuggire silenziosamente nella notte, oppure suonare come una persona normale, svegliarli comunque e poi salire su e restare lì fino all’alba, così, giusto per il gusto di non lasciarli in pace. Potrebbe essere il mio regalo di compleanno per Anis, sono quasi sicuro che apprezzerebbe molto.
Alla fine, decido per la seconda opzione. Suono e, quando la voce assonnata di Chakuza mi risponde al citofono – quest’uomo dorme che è una meraviglia: può succedergli qualunque cosa, nel corso della giornata, ma appena gli si scaricano le pile lui prende e si spegne. Poco da fare – rispondo allegramente che sono io. Lui non ha bisogno di chiedere chi sia io, e mi apre il portone. Me lo ritrovo in pantaloncini e canotta che si stropiccia l’occhio sano, quando arrivo sul suo pianerottolo.
- Nostalgia di casa? – mi chiede, scostandosi dalla soglia per lasciarmi passare.
- Coglione. – rispondo in un grugnito infastidito, guardandomi intorno, - Il ragazzino dorme?
Chakuza chiude la porta e sospira sconsolato.
- Dobbiamo per forza parlarne? – mugola affranto, avvicinandosi a me e prendendo a gironzolarmi intorno come a voler capire cosa ho intenzione di fare prendendo le misure dei miei movimenti. – Comunque, - risponde alla fine, - se dorme, lo sta facendo a casa sua. Di certo non qui.
Io mi volto a guardarlo con una certa curiosità, appoggiandomi allo schienale della poltrona.
- L’hai mandato via?
- Lui è andato via. – precisa, aggrottando le sopracciglia, - Io l’ho lasciato andare.
Mi prendo una pausa di mezzo secondo, per dare enfasi al mio pensiero al riguardo.
- Coglione. – dico poi. Chakuza mi manda a fanculo e si infila nel cucinino, cominciando ad armeggiare con la caffettiera.
- Se non eri di umore nostalgico, - borbotta in mezzo allo scrosciare dell’acqua nel lavabo, - si può capire perché sei venuto da queste parti?
Scrollo le spalle, facendo il giro della poltrona e sedendomi compostamente per un secondo, prima di svaccarmi lanciando braccia e gambe in giro come fossi a casa mia.
- Passavo da queste parti. – rispondo in un mezzo ghigno. Poi prendo fiato. E rispondo sul serio. – Anis è venuto a trovarmi.
Chakuza diventa un pezzo di ghiaccio e, quando si riscuote, lo fa solo per chiudere il rubinetto e posare la caffettiera ancora aperta sul ripiano del lavello. Si asciuga le mani, poi si appoggia contro il mobile della cucina e si volta a guardarmi. Mi guarda tipo per dei secoli, là immobile, ed io inarco un sopracciglio.
- Be’? – chiedo infastidito. Chakuza sospira, gira attorno all’isola e viene a sedersi sul divano, qui di fianco, sporgendosi verso di me.
- L’idea della cena a casa di Bushido è stata tua. – mi spiega pacatamente. Non sorride ma non ha nemmeno un’espressione risentita. Non lo capisco e mi dà anche un po’ sui nervi, sinceramente. – Il fatto che io abbia accettato di prestarmi a quella ridicola mascherata non deve farti pensare che io non avessi capito dove voleva andare a parare. Ti conosco, Fler, non puoi prendermi per il culo. Quante volte devo ripetertelo? – faccio per mandarlo a fanculo come merita, ma lui mi ferma sorridendo appena. – Non vieni fino a qua per dirmi che Bushido è venuto a trovarti, Fler. Avanti. Sputa il rospo.
Resto lì con le labbra dischiuse a guardarlo per un po’. Poi mi ricompongo, mi metto dritto e gli tiro uno scappellotto tremendo sulla nuca, tant’è che la sua testa rimbalza in avanti e, quando solleva lo sguardo per mandarmi a cagare fissandomi negli occhi, lo fa con un’espressione a metà fra l’addolorato e l’oltraggiato.
- Piantala di fare lo splendido. – gli tarpo immediatamente le ali, tornando a svaccarmi sulla poltrona. E poi sospiro. – Che cosa vuoi che ti dica, Chakuza? Sei innamorato di quel ragazzino da tanto di quel tempo che mi sembra di averti sempre conosciuto solo così. È strano immaginare un mondo in cui tu non stai con Bill e non sei completamente perso per lui.
Chakuza arrossisce e guarda altrove, ed io mi rendo conto che è la prima volta che parliamo in questi termini di Bill. Suppongo che se lui avesse avuto l’accortezza di dirmi fin da subito che stavano insieme, come ha fatto Bill, le cose sarebbero andate molto diversamente. O forse no, perché Anis sarebbe comunque tornato e noi saremmo comunque dovuti passare attraverso la fine del mondo, che lo volessimo o meno.
- Allo stesso tempo, però… - continuo sospirando, - è strano immaginare un mondo in cui Anis possa rassegnarsi. Su una qualsiasi cosa, figurarsi il suo ragazzino adorato. – Chakuza ringhia, - E non fare il cane rabbioso. – lo rimprovero aspramente, incrociando le braccia sul petto, - Lo sai che è il suo ragazzino. Comunque lo è. Anche se adesso è tuo, resta suo.
- È assurdo. – borbotta Chakuza, - …credo che Bill stia cercano di spiegarmi la stessa cosa. Da quando Bushido è tornato.
Io mi stringo nelle spalle.
- Sarà assurdo, ma è così. Devo venirtelo a spiegare io, come funziona il tuo fidanzato?
Chakuza socchiude gli occhi e scuote il capo, espirando rassegnato.
- Quando le dici tu, le cose sembrano più vere. – dice alla fine, stendendosi contro lo schienale del divano. Io mi mordo un labbro e non rispondo, e restiamo entrambi fermi svaccati contro gli schienali dei nostri rispettivi e sdrucitissimi troni per un tempo indefinibile. Almeno fino a quando Chakuza non si decide a parlare ancora. – Cosa dovrei fare, secondo te?
Mi volto a guardarlo e faccio fatica a non dargli del coglione per la terza volta in mezz’ora.
- Come, scusa? – domando incredulo, - Tu stai chiedendo a me cosa penso che dovresti fare?
Annuisce senza fare una piega. Io lo guardo attentamente e, quando mi sono assicurato per l’ennesima volta da che lo conosco sul fatto che sì, è proprio vero ed è proprio così, nonostante la cosa mi causi ancora meraviglia quando ci penso, rispondo.
- Dovresti-
- Andare a fanculo non rientra fra le opzioni possibili. – si affretta a mettere le mani avanti, senza lasciarmi concludere. Io gli tiro addosso un cuscino.
- …lasciare parlare la gente, tanto per cominciare. E poi… - sospiro, mentre lui si toglie il cuscino dalla faccia e lo stringe sullo stomaco, - …e poi dovresti andare da Bill, Peter.
Chakuza mi guarda come avessi appena detto la cazzata del secolo. Questo sguardo, se posso permettermi – e posso – è una cosa alla quale lui non dovrebbe avere diritto, per ovvi motivi. Aggrotto le sopracciglia e lo minaccio fisicamente di strappargli il cuore a mani nude passando per la gola, se non se lo toglie immediatamente di dosso. Lui non riesce, ma almeno guarda altrove finché non riesce a trovare un’espressione facciale meno odiosa.
- Ma se n’è andato lui, Fler. – mi fa notare a mezza voce, - Non posso andargli dietro così.
Io roteo gli occhi.
- Mi meraviglio che tu non gli sia andato dietro immediatamente appena l’hai visto uscire dalla tua porta, Dio mio! – sbotto esasperato, - Io certe volte non lo capisco cosa c’hai nel cervello, Chaku.
Lui sospira, abbattendosi di nuovo contro lo schienale.
- Nemmeno io. – ammette, - Sarà che per la maggior parte del tempo non c’è niente. Quando improvvisamente appaiono cose, ho difficoltà a gestirle.
Rido di gusto e lui ride con me, fra un coglione che gli lancio e l’altro. Restiamo a ridere per un po’, ed è una cosa piacevole. È piacevole anche che, qualche secondo dopo, lui tiri fuori dal fondo del petto una voce dolcissima – così ruvida e profonda com’è la sua sempre, ma più tenera – e mi chieda come sto.
Io scollo le spalle.
- Sopravvivo. – rispondo sinceramente.
- Sicuro? – si assicura lui, lanciandomi un’occhiata incerta.
Io sospiro.
- Frena quello che sta apparendo adesso, Chaku. Qualsiasi cosa sia. – gli ricambio l’occhiata, - Non mi pare il caso, proprio ora che ti sto mandando da Bill.
Lui abbassa gli occhi con un’espressione da cane bastonato.
- Già. – annuisce. Poi si passa le mani sul viso e inspira ed espira profondamente, prima di alzarsi in piedi. - Chiudi tu casa? – chiede distrattamente, muovendosi già verso la camera da letto per vestirsi, - Ce le hai ancora le chiavi, giusto?
Io annuisco silenziosamente. Lo mando a fanculo, quando lo vedo ripassarmi davanti vestito di tutto punto, diretto alla porta. Lo mando a fanculo ma lui non lo sente. Anche perché non l’ho detto ad alta voce, l’ho solo pensato. Ed io e Chakuza ci capiamo bene, ma probabilmente non così tanto.
In casa di Chakuza io ci resto, e resto anche del tutto immobile per una mezz’oretta, circa. Poi mi alzo dalla poltrona e mi guardo intorno senza sapere bene cosa fare di me stesso. Per certo so che non voglio tornare a casa, ma so anche che se non mi do un motivo per restare qui non ci resterò, perché per quanto il Chaku possa ironizzare sul fatto che trascorro qui una buona metà della mia esistenza – o forse anche di più – questa non è casa mia. Perciò mi guardo intorno e, siccome qui è il solito bordello, mi metto a sistemare. Poso i soprammobili ai loro posti, spiego bene la fodera del divano e poi mi infilo nello sgabuzzino alla ricerca del piumino, per spolverare i mobili. Mentre cerco mi accorgo di sfuggita del vecchio tappeto peloso del Chaku, quello che prima stava in salotto, e che adesso è qui in un angolo arrotolato e stretto con lo scotch. Gli lascio scorrere sopra gli occhi ma non lo tocco. Recupero il piumino e spolvero tutto per bene, e quando ho finito tiro su le maniche della felpa, indosso il grembiule e comincio a lavare i piatti.
Alla fine mi faccio prendere bene ed entro in una specie di trance mistica. Quando riprendo coscienza di me stesso sono le tre del mattino, non ho idea di dove sia Chakuza, non so se Anis sia ancora a casa mia e questo appartamento splende come uno specchio, pulito come non è mai stato da quando Chakuza lo abita – e probabilmente neanche da prima. Soprattutto, però, non ho ancora neanche un filo di sonno. Voglio che questa notte finisca adesso perché non ne posso già più, perciò cerco la mia coperta coi cavallucci marini e, anche se non fa davvero freddo e non ne avrei bisogno, mi ci avvolgo dentro e mi butto sulla poltrona, tirando su le gambe e cercando di addormentarmi.
Ovviamente non riesco. Mi rigiro per un po’ e poi, prima di diventare isterico, mi metto in piedi, indosso nuovamente la giacca ed esco da qui, che l’odore del detersivo alla lavanda mi è entrato nel cervello e mi sta facendo lentamente impazzire. Chiudo bene la porta, con le chiavi – sì, Chaku, ce le ho ancora, stronzo, certo che ce le ho ancora – e comincio a camminare. Senza meta. Di nuovo dal Chaku non posso tornarci, perciò non metto il pilota automatico, cerco soltanto di spingermi il più lontano possibile sia da casa mia che da casa sua, andando verso il centro.
Non è che ci sia molta vita in giro, comunque. Siamo in mezzo alla settimana, domani la gente normale lavora ed è già molto tardi. I pub chiuderanno tutti fra poco ed io vado in giro col cappuccio calato fino al naso anche se è poco probabile che qualcuno mi riconosca. Tengo su il cappuccio anche quando mi decido ad entrare in un locale e sedermi su uno sgabello di fronte al bancone. Scorgo con la coda dell’occhio il barista che mi fissa con aria un po’ impaurita e faccio apposta la voce cattiva mentre gli ordino una birra. Quello mormora un “sì, subito” che mi fa quasi scoppiare a ridere e io resto in attesa giocando con le arachidi nella ciotolina di vetro – ne prendo qualcuna, la poso sul ripiano, le metto in ordine dalla più grande alla più piccola – però siccome non ho fame non ne mangio nemmeno una.
La mia birra nel mentre arriva, io comincio a sorseggiarla e mi sto già annoiando, quando mi sento picchiettare sulla spalla con due dita. Chiunque mi abbia riconosciuto nonostante il novanta percento del mio corpo sia nascosto, tatuaggi compresi, merita un premio, perché deve amarmi tantissimo. Perciò mi volto e sorrido, per nulla infastidito, e quando capisco chi è – ci metto un po’ a riconoscerla, perché non la vedo da una vita – capisco che non deve stupirmi il fatto che mi abbia riconosciuto.
- Nicole! – la saluto, scendendo dallo sgabello ed abbracciandola stretta, - Cazzo, saranno secoli!
Lei risponde con un sorriso allegro, lasciandosi stringere e facendomi un sacco di versetti festosi, motivo per cui rido. Quando si allontana, riavvia i capelli biondi dietro le orecchie e mi accorgo che li ha tagliati, dall’ultima volta, perciò le faccio i complimenti per la nuova pettinatura e lei arrossisce.
Nicole è molto più di una groupie e molto più di una fan, tant’è che non ci sono nemmeno mai andato a letto. Da quando nel… oddio, non ricordo, un sacco di anni fa, comunque, s’è infilata nel backstage di non mi ricordo che festival – cantavo ancora con Anis, allora – per sommergermi di complimenti riguardo quanto fossi bravo e quanto fosse evidente l’anima che ci mettevo nel cantare, ignorando completamente Anis che ringhiava offeso dietro le mie spalle, c’è sempre stato un bel rapporto fra di noi. Non siamo amici perché non ci frequentiamo, non abbiamo nemmeno i numeri di telefono, per dire, ma lei ha sempre creduto molto in tutto ciò che ho fatto e come cantante le piaccio davvero, quindi quando viene ai concerti stiamo sempre un po’ insieme e chiacchieriamo per delle mezz’ore. È un bel rapporto, per nulla impegnativo. L’unico della mia vita, palesemente.
Restiamo lì a chiacchierare per un po’ del più e del meno, lei mi parla degli uomini che le sono passati per le mani nell’ultimo anno – tutti cretini – ed io evito di parlarle dell’uomo che è passato per le mie – cretino uguale, ma non posso dirlo – quindi la consolo un po’, le offro da bere e, quando il proprietario del locale ci butta fuori per chiudere, ci mettiamo a girovagare per le strade. O meglio, lei girovaga ed io sto bene attento a seguirla, sennò finisce che torno a casa del Chaku, anche perché abbiamo bevuto un po’ e ora sono vagamente brillo, quindi le possibilità di trovarmi all’improvviso di fronte al suo palazzotto diroccato sono più alte di quanto non lo fossero un’ora fa.
Alla fine, fra una risata e l’altra, lei si ferma di fronte ad una bella porta a vetri e si stringe nelle spalle. È magra e bassa e quando lo fa sembra minuscola, ha anche due occhioni castani enormi sul suo viso un po’ segnato dal tempo – lo penso solo distrattamente che è più grande di me, più di Anis, peraltro, non mi interessa davvero.
- Se vuoi… se ti va, - balbetta incerta, - possiamo salire un po’ da me. È tardi.
Realizzo cosa mi sta chiedendo e realizzo anche che dovrei dirle di no. Dovrei fare il cavaliere, sorriderle e dirle che sono stanco ma sarà sicuramente per un’altra volta, anche se un’altra volta sicuramente non ci sarà.
Però, penso, perché cazzo dovrei farlo? Non faccio male a nessuno, salendo da lei. A nessuno importa se io vado a letto con questa donna, è una cosa che riguarda solo noi due. Io le voglio bene, un po’. E a lei interesso. Voglio dire, mi piace anche. Perché dovrei dirle di no? Perché dovrei rifiutarmi?
Penso che Chakuza non rifiuterebbe. Penso che nemmeno Anis rifiuterebbe. Penso a Bill e so che lui sì, direbbe proprio di no, perché lui è uno che se non ti ama non ci viene a letto con te, ma sul momento decido che non mi interessa. Non ho mai detto di essere una persona migliore di Bill e non l’ho nemmeno mai pensato. Quindi fanculo al resto. Fanculo tutto.
L’appartamento di Nicole è buio e non le lascio il tempo di illuminarlo, perché appena passiamo oltre la porta e ce la richiudiamo alle spalle la spingo delicatamente contro il muro e mi chino a baciarla, chiudendo gli occhi. Sa di birra, è esattamente lo stesso sapore che ho io. Un po’ amaro ma piacevole. La sua lingua scivola sulla mia e le mie mani le scivolano addosso, sulle spalle e lungo le braccia. La afferro per la vita e me la tiro contro, lei sussulta e lascia andare un gemito colmo di ansia ed aspettativa quando sente la mia erezione premerle contro il bacino. Io le sorrido sulle labbra e lei solleva le mani sfiorandomi le braccia a partire dai polsi, risalendo su verso il gomito, accarezzandomi i bicipiti e poi appendendosi alle mie spalle, saggiando la consistenza dei muscoli contratti sotto le dita, attraverso la maglia di acrilico.
Io mi scosto appena e sfilo la maglietta, lei mi guarda a lungo mordendosi un labbro e poi si china sul mio petto mordicchiando e leccando come una gattina un po’ a caso e lasciando andare anche dei miagolii da gattina che, assieme ai baci e alla sua lingua e ai suoi denti che scorrono sulla mia pelle, mi fanno sibilare il suo nome, mentre torno a stenderla contro la parete e scendo a morderle e succhiarle il collo, inspirando il profumo lieve e dolce che viene dai suoi capelli.
Le sbottono i jeans e l’aiuto a liberarsene, lei si solleva sulle punte e mi allaccia al collo, respirandomi addosso mentre io le accarezzo i fianchi e poi, lentamente, insinuo una mano fra le sue cosce. Il mugolio che mi scivola sulla pelle quando comincio a strofinare piano un dito contro di lei mi dà la conferma che no, non ho dimenticato come si tocca una donna per farla gemere, e mentre il suo bacino segue i movimenti della mia mano – che scivola più in profondità, dando modo alle mie dita di cercare e trovare il calore umido del suo corpo – io la afferro da dietro un ginocchio con la mano libera e la aiuto a divaricare le gambe. Lei non oppone resistenza e si appoggia senza fiato contro la parete, chiudendo gli occhi e respirando attraverso le labbra dischiuse e un po’ umide.
Torno a baciarla slacciandomi i jeans e lasciandoli scivolare verso il basso il minimo indispensabile, e lei mi morde un labbro, quando io la afferro per la vita e la tiro su. Mi stringe le gambe attorno ai fianchi, muovendosi contro di me; la sento bagnatissima contro la pelle accaldata e ringhio. Lei rabbrividisce, la sento tremare e scuotersi tutta sotto i polpastrelli, e visto che questa casa non la conosco e non so dove andare torno a spingerla verso la parete. Lei non riesce a parlare, a stento respira, ed io la stringo alla vita con un braccio, tenendola sollevata da terra mentre cerco il portafogli nella tasca posteriore dei jeans. Infilo le dita in una taschina, riemergo col preservativo, lo scarto e lo indosso. È tutto molto meccanico e non riesce a smettere di esserlo neanche quando mi spingo dentro di lei, neanche quando lei esala il mio nome fra gli ansiti – mi sembra una vita che non sento pronunciare il mio nome così da una voce di donna – e si inarca sotto le mie mani che le accarezzano la schiena. Il suo bacino si muove ritmicamente seguendo le mie spinte lente e misurate, lei si regge con forza su di me, piantandomi le unghie nelle spalle, e io ringhio, un po’ perché fa male, un po’ perché mi piace, ma quando mi svuoto contro il preservativo – solo qualche attimo dopo averla sentita lanciare un urletto e stringersi convulsamente attorno al mio cazzo – lo capisco anche senza rifletterci su, che sono venuto per sfregamento meccanico. Questo non è fare l’amore, non è neanche sesso.
Non so cos’è e a questo punto non mi interessa nemmeno scoprirlo, comunque. Aspetto che Nicole riprenda fiato, la aiuto a rimettersi coi piedi per terra e poi la sostengo delicatamente, mentre recupera la forza nelle gambe – è così piccola e magra che ho paura di spezzarla, se la stringo troppo forte. Lei mi si stringe contro e si appoggia al mio petto, intrecciando le dita delle mani con le mie. Non so perché la lascio fare, non dovrei essere tenero, adesso. Però sono stanco, non ho voglia di scostarla. Il suo corpo è caldo e sa del mio odore mischiato al suo. Il suo corpo al momento è l’unico posto al mondo in cui non sono solo, perciò me lo tengo stretto contro e mi lascio accompagnare verso la sua camera da letto.
Il letto di Nicole non sa di niente, però. Cioè, sa di pulito, sa di cotone, sa di detersivo, sa un po’ anche del suo profumo, ma se mi cerco non mi trovo e presto smetterò di trovarmi anche addosso a lei. La stringo il più possibile finché ci sono ancora, chiudo gli occhi e la accarezzo, cullandola un po’ mentre si addormenta stesa contro di me, e mi immagino altrove, in un altro letto, stretto fra altre braccia, con un corpo dalla consistenza completamente diversa schiacciato contro il mio, e penso che il mio odore in casa di Chakuza c’è. È sulla mia poltrona ed è nel suo letto, nonostante tutto, ed è nell’aria e soprattutto ce l’ha addosso lui, e non scompare. È la traccia che ci annusiamo addosso ogni volta che siamo vicini, è il motivo per cui dovrei smettere di vederlo, è il motivo per cui non riesco a smettere di vederlo, ed ora che il profumo di Nicole sta abbandonando anche la mia pelle ecco che l’odore di Chakuza riaffiora ed a me viene voglia di ficcarmi sotto una doccia e strofinare così forte da farmi male, per cercare di cacciarlo via, anche se so che non ci riuscirei.
Mi manca. Mi manca come non mi è mai mancato niente in tutta la mia vita, mi manca anche più di quanto non mi sia mancato Anis e non so dire se sia perché per un periodo di tempo ho creduto in noi – in me e in Chakuza, intendo – o se sia perché semplicemente mi sono preso una sbandata come non ne ho mai viste. Di quelle che ti fanno riconsiderare tutte le sbandate passate, perché quando lo senti così forte, il cuore che batte nel petto, e non hai nemmeno bisogno di vederla quella determinata persona, perché il tuo corpo reagisca, allora capisci che sei perso e che prima avevi solo giocato, o frainteso, e che comunque di amore fino a quel momento non ci avevi capito un cazzo.
Mi sono completamente fottuto il cervello. Chakuza, mi hai fottuto il cervello e non te ne frega niente.
Scivolo fuori dal letto di Nicole e lei spalanca subito quegli occhioni castani nel buio e mi guarda dispiaciuta, mordendosi un labbro.
- Ho sbagliato qualcosa? – chiede a mezza voce, ed io sorrido teneramente, tornando a sedermi accanto a lei sul materasso e riavviandole i capelli dietro un orecchio.
- Assolutamente no. È stato bellissimo. Ma devo tornare a casa, domani ho da lavorare e aspetto gente. – mai dette così tante bugie tutte assieme. Fosse qui, Anis mi prenderebbe a cazzotti fino a farmela passare del tutto, la voglia di mentire.
Lei annuisce ma insiste per darmi il suo numero. Lo scrive su un pezzetto di carta con una biro che funziona male e me lo consegna imbarazzata, abbassando lo sguardo. Io sospiro, sorrido ancora e la bacio sulla fronte, rimettendomi in piedi e risistemandomi i vestiti addosso prima di conservare il bigliettino. Non so cosa me ne farò, sinceramente.
Saranno più o meno le quattro e mezza, massimo le cinque del mattino, quando esco di nuovo in strada. Il sole non è ancora sorto, naturalmente, io non ho la minima intenzione di tornare a casa mia perché non intendo vedere Anis adesso, e quindi ripercorro a ritroso la strada che mi ha portato fino a qui. E me ne torno a casa di Chakuza.
Quando apro con le chiavi, per un secondo mi guardo intorno e resto basito. Non tanto perché l’appartamento è ancora deserto e non sono abituato ad entrare qui in situazioni simili, quanto piuttosto perché l’appartamento è pulitissimo e non ricordo di averlo pulito io. Vedere l’appartamento di Chakuza pulito è un miracolo paragonabile ad un’apparizione della Madonna, tipo, quindi resto un po’ sconvolto sulla soglia prima di ricordare cos’è successo e mettermi il cuore in pace.
La notte non si rassegna a finire ed io comincio ad essere davvero stanco di lei. La poltrona è scomodissima. Mi ci raggomitolo sopra con tutta la coperta, ma non riesco a prendere sonno e continuo a rigirarmi alla ricerca di una posizione comoda. Non la trovo, e quando mi decido ad alzarmi mi fanno male tutte le giunture.
- Catorcio… - mi dico, e la mia voce risuona all’interno dell’appartamento. Non c’è eco, fortunatamente, e per questo devo ringraziare le dimensioni ridicole di questo posto.
Mi sgranchisco un po’, mi guardo intorno e alla fine mando a fanculo il buonsenso e mi infilo in camera di Chakuza. Non l’ho sistemata io, ma la camera da letto del Chaku è sempre sistemata per principio, perciò non devo fare altro che scalciare via le scarpe e infilarmi sotto le coperte.
- Ciao… - mormoro inspirando a fondo l’odore di Peter dalle lenzuola. Non sono davvero tanto ubriaco da giustificare un comportamento simile. Non sono neanche tanto ubriaco da giustificare il fatto che sto un po’ piangendo, in questo momento, anche se non è niente di teatrale. Però faccio finta di esserlo per concedermi una scusante e perché, cazzo, ne ho bisogno.
Aspetto di essermi calmato, prima di recuperare il cellulare e il bigliettino, sedermi sul letto e, con le lenzuola tirate su fino al naso, chiamare Nicole. Lo faccio perché mi dispiace che sia sola adesso. Lo faccio perché non mi sono comportato bene. Lo faccio perché ho bisogno di sentire una cazzo di voce umana cui in questo momento importi della mia presenza, perché mi sembra di girare a vuoto, porca puttana, e non so come fermarmi, non so dove fermarmi, non so nemmeno se voglio davvero. Vorrei che Chakuza fosse qui, adesso. Chaku, non ti manderei via, se provassi a baciarmi ora. Però tu non ci sei, c’è solo il tuo odore e devo accontentarmi.
Nicole mi risponde anche se l’ho palesemente svegliata. La sua voce è un mugolio stanco e assonnato. È gentile e non mi manda a fanculo, anzi, ride e mi dice che non si aspettava che l’avrei chiamata sul serio. Io sbuffo una mezza risata ed ammetto sinceramente che non me l’aspettavo neanche io. Lei mi dà dello stronzo ed io la trovo una cosa carina, perciò le chiedo di vederci domani per un caffè, dopo pranzo. Decidiamo di vederci fuori dagli studi dell’Aggro e, quando chiudo la telefonata, non ho idea di dove andrò a finire continuando su questa strada. Nicole, comunque, è carina. E almeno lei c’è.
Il sole comincia appena a spuntare dietro i palazzi, quando finalmente mi addormento. Chakuza non è rientrato. Comincio a chiedermi se lo farà mai.
*
Non ho idea di quante ore siano passate, quando mi sveglio. Sento qualcuno trafficare da qualche parte nella stanza e, per quanto ne so, potrei anche essere regredito ai dodici anni, perché questi sono i rumori che faceva mia madre quando entrava in camera mia di mattina presto per raccogliere i vestiti sporchi da ficcare in lavatrice. Sento il fruscio del cotone e mugolo un “mamma…?” un po’ confuso, ma sono ancora talmente assonnato che non riesco ad aprire gli occhi.
Però Chakuza ride, ed allora li spalanco.
- Ben svegliato. – mi prende in giro. È fresco di doccia e sta rovistando in un cassetto alla ricerca di una maglietta da indossare. Il fatto che sia seminudo non mi aiuta in niente, mi sento in imbarazzo, vorrei sparire e mi rendo conto di aver dormito a casa sua. Cioè, lo so che ho dormito a casa sua, ma mi rendo conto solo adesso di quanto sia assurdo il fatto in sé.
- Sei tornato adesso…? – chiedo, la voce ancora impastata dal sonno, e lui ride ancora.
- Veramente da un paio d’ore. – risponde, individuando finalmente la maglietta che cercava e indossandola, - Ma dormivi così bene che non mi è sembrato il caso di svegliarti. Ti hanno sfrattato da casa tua? – io rispondo con un mugolio frustrato, rigirandomi fra le coperte e stiracchiandomi piano, mentre lui ride ancora. – Piuttosto, - riprende poi, sistemandosi per bene davanti allo specchio, - si può sapere perché cazzo mi hai ripulito casa? – chiede con aria divertita, - Mi è preso un colpo, quando sono entrato!
Scrollo le spalle, mettendomi seduto. Non mi va di scendere dal letto.
- Non lo so. – borbotto, - Era il solito bordello, ho sistemato qualcosa e mi sono fatto prendere la mano.
- L’ho visto! – ride ancora, - Aspetta un secondo. – aggiunge poi, quindi scompare oltre la porta e lo sento armeggiare di là. Quando torna, porta fra le mani un vassoio pieno di roba, ed io spalanco gli occhi.
- Che cazzo è, Chakuza? – chiedo, sconvolto. Lui ride ancora, posa il vassoio sulle mie ginocchia e poi si siede accanto a me.
- La colazione. – risponde, - Non sapevo che avevi dormito qui, altrimenti mi sarei fermato a comprare qualcosa fuori… comunque ti ho fatto il caffellatte ed ho riesumato delle merendine… - indica della roba ammaccaticcia chiusa in degli involucri di plastica, con un gesto distratto, - Erano nella credenza da un po’ ma dovrebbero essere ancora commestibili.
- …Chakuza, - lo fermo, pinzandomi la radice del naso, - perché mi hai portato la colazione a letto?
- Be’, - comincia lui, - ho fatto la doccia, tu continuavi a dormire, non avevo niente da fare e-
- Chakuza! – lo richiamo, alzando lievemente la voce. Lui deglutisce, prende una merendina, la scarta e ne manda giù un pezzetto, prima di sospirare e rispondermi.
- È andata… bene, con Bill. – dice senza guardarmi negli occhi, - Perciò credo di doverti ringraziare.
Prendo una tazza piena di caffellatte dolcissimo fra le mani, e ne bevo un po’.
- Non ringraziare. – dico tetro.
- …ma è merito tuo se-
- Lo so. – taglio corto, - Non ringraziare.
Chakuza sospira e mangia un altro pezzo di merendina. Poi lo sento spostarsi più vicino e mi passa un braccio attorno alle spalle. Così, dal nulla. Io vado nel panico più totale. Vado così nel panico che non riesco nemmeno a muovermi, divento una statua di sale e fisso il vuoto mentre lui mi stringe a sé, rischiando peraltro di ribaltare il vassoio.
- Ti va di parlarne? – mi chiede a bassa voce, sussurrandomelo contro una tempia.
- No, cazzo. – mi lamento sconvolto, - Lasciami.
- Piantala. Ti va di mandarmi a fanculo?
Sospiro.
- …sì.
Lui annuisce lentamente.
- E allora fallo.
- Fanculo, Chaku.
Restiamo in silenzio per un po’.
- Ti senti meglio? – mi chiede poi.
Io scuoto il capo.
- Per nulla. – rispondo.
Chakuza ride piano contro la mia pelle e mi stringe ancora un po’.
- Dovevi dirlo con più convinzione.
- Non mi andava e oh- insomma, Chakuza, mi lasci andare? – mi lamento, ma non mi scosto davvero, perciò Chakuza ride ancora e in effetti non mi lascia andare neanche un po’. Resta lì e il suo profumo lo respiro direttamente addosso a lui, che dopo una notte passata a cercarmelo addosso e fra le coperte è una bella cosa, intendo, avere finalmente l’originale a portata di mano.
- Va meglio adesso? – chiede alla fine, quando mi sente sospirare profondamente. Io mi rimetto dritto e solo allora lui mi lascia andare.
- Un po’. – ammetto controvoglia. Che ci posso fare, è vero. – Io non lo capirò mai cosa vuoi da me, Chakuza. – brontolo incrociando le gambe sul materasso ed incurvando un po’ le spalle. Mi sento quasi stanco.
Chakuza sospira a propria volta e mi sfiora appena un braccio col suo.
- Da te voglio te. – risponde in un soffio, - Non saprei metterla in un altro modo. Cerca di capirmi e basta.
- …insomma. – borbotto, mangiando pure io una merendina, - Non è che sia proprio facile starti dietro, Chakuza.
Lui ride piano.
- Lo so. – risponde.
Io sospiro e mi tolgo il vassoio di dosso. Lui non mi ferma quando mi rimetto in piedi, sistemo alla buona i vestiti stropicciati ed indosso le scarpe. Si limita a guardarmi con un’espressione a metà fra la tenerezza e la beatitudine e la sua felicità è così evidente che mi viene voglia di prenderlo a cazzotti, ma lascio perdere.
- Ci si sente, eh? – lo saluto con un cenno del capo. Lui risponde con un cenno uguale e mi fa un po’ strano, quando esco dal suo appartamento, non sentire i rumori tipici di lui che devasta casa perché me ne sono andato. Dovrò farci l’abitudine.
Quando arrivo a casa mia è quasi mezzogiorno. Apro e spero quasi di non trovarcelo Anis, qua dentro, perché sono veramente molto stanco e voglio farmi una doccia, sistemarmi, vestirmi, andare un’oretta agli studi e poi prendere il mio dannato caffè con Nicole.
Invece niente, ovviamente lui è ancora sul divano e ancora dorme. Durante la notte si è rigirato in ogni modo, i pantaloni della tuta gli sono risaliti su fino alle ginocchia ed ha una gamba ancorata allo schienale del divano. Un braccio pende giù verso il pavimento e l’altro è abbandonato dietro la testa, sul bracciolo. Respira con la bocca semidischiusa, la maglietta gli lascia scoperta la pancia ed i capelli gli sono finiti tutti sulla faccia, mentre la coperta si è arrotolata come un serpente tutta attorno al suo corpo. È talmente ridicolo che non posso proprio fare a meno di ridere, e quando lo faccio, anche se cerco di fare piano, lui si riscuote ed apre gli occhi.
Mentre si tira su a sedere con l’aria di uno che non capisce molto bene dove si trovi e perché, penso distrattamente che lui e Bill devono essere uno spettacolo, quando dormono insieme. Uno sbava e scalcia, l’altro si agita neanche fosse posseduto…
Realizzo in un secondo, mentre lo saluto con un cenno della mano e vado verso la cucina per preparare un caffè, che io ho dormito palesemente con troppi uomini, nel corso della mia esistenza. È impensabile che adesso io sia in questa situazione e conosca a memoria il modo in cui dormono tutti, Anis, Bill, Chakuza. È una cosa veramente assurda. Io sono un essere umano veramente assurdo.
Anis appare sulla soglia della cucina mentre io infilo la cialda nella macchinetta del caffè e decido di cambiare anche l’acqua nel recipiente, anche perché chissà da quanto è qui a ristagnare. Mi meraviglio di non trovarci dentro le rane.
- Che fai? – mi chiede grattandosi la pancia. Una gamba dei pantaloni è tornata al suo posto, l’altra è ancora tutta arricciata attorno al suo ginocchio. E poi, senza soluzione di continuità, aggiunge – Ma hai scopato?
Io lo guardo, e sono anche vagamente oltraggiato, lo ammetto.
- Ma che cazzo…? – chiedo, pigiando il bottone. La cucina si riempie dei rumori forti e vibranti della macchinetta, e Bushido scrolla le spalle.
- Ce l’hai tipo scritto in faccia. – mi fa notare, indicandomi il viso, - E comunque sei vestito come ieri. Che stronzo, io qui a deprimermi e tu in giro a scopare. Non ho parole.
- Tu non ti sei depresso, - gli faccio notare, piazzando due tazzine al loro posto sotto gli erogatori, - tu hai dormito. Sul mio divano. Non hai il diritto di contestare se scopo.
- E chi contesta! – ride lui, divertitissimo, - Chi è? La conosco?
Io scrollo le spalle, mugugnando risentito mentre spengo la macchinetta e gli porgo la sua tazzina piena. Con Bushido, il caffè si beve amaro.
- Nicole. – rispondo in un borbottio appena comprensibile. Anis spalanca gli occhi e schiude pure le labbra.
- …quella! – dice, tornando a puntarmi col dito, - Finalmente! Cristo, Pat, sono anni che ti viene dietro!
Io agito una mano e mando giù il caffè.
- Piantala di farti i cazzi miei. – lo minaccio con un’occhiata glaciale, - E tu non sembri per niente un uomo che abbia appena perso il grande amore della sua vita, comunque.
Anis si appoggia contro lo stipite e guarda un punto oltre la mia spalla, un punto che non significa niente e dove non c’è niente. Sorride ancora, ma è un sorriso così spento che mi mando a fanculo da solo e mi viene voglia di mangiarmi la lingua.
- No, eh? – chiede a mezza voce, sorseggiando il proprio caffè.
- …Anis- - provo a chiamarlo, ma lui mi ferma.
- Posso farmi una doccia? – chiede, posando la tazzina sul ripiano della cucina e stiracchiandosi un po’, - E mi presti qualcosa di tuo?
Io deglutisco, penso a Chakuza per un istante e poi lo sbatto fuori a calci dalla mia memoria. Mi concentro su Anis.
- Ti prendo un asciugamani.
Lui annuisce e sorride ancora. Quando scompare lungo il corridoio, aprendo porte a caso alla ricerca del bagno e chiedendomi se le uso tutte, queste fottute stanze, rido un po’. Magari stasera lo invito a cena.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Commedia.
Pairing: Bill/Chakuza, Bill/Bushido, Tom/Cassandra.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Het, Angst.
- "A volte mi sembra quasi di essere io, quello che è morto perdendosi pezzi della vita degli altri."
Note: Salve O/ Qui parla l’autrice che palesemente non avrebbe mai dovuto scrivere questa storia, perché nel farlo s’è strappata il cuore dal petto più e più volte nel tentativo di sopravvivere a Tom. Cosa peraltro impossibile, perché Liz lo ama e vederlo soffrire la distrugge. Oltretutto, fare sia a Tomi che al Billshido ciò che è stato loro fatto in questa shot era palesemente mestiere di Tabata. Liz gliel’ha rubato perché le piaceva Epic!Tomi sul finale. E poi Tomi ha deciso di fare ciò che voleva di queste otto pagine, ficcandoci dentro dosi esagerate di Fler – l’autrice se ne scusa – e follie varie ed eventuali, girando attorno al punto per una quantità indecente di tempo prima di arrivarci. Speriamo solo che riusciate a sopravvivere a tutto questo, ecco. Fedy, sappi che ti amiamo per il tuo contegnoso stoicismo. E… insomma ;_; So che è dura, ma non abbandonateci *sparge amore e Fler in dosi uguali per tenersi vicine le fangirl*
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I’M AN OUTSIDER OUTSIDE OF EVERYTHING

Per sapere che Bushido era ancora vivo, io ho dovuto fisicamente estorcere l’informazione a mio fratello, costringendolo in un angolo e schiacciandolo fra me stesso e la parete intrappolandolo fra le mie braccia finché non si fosse deciso a parlare e raccontarmi tutto. È stato in questo modo che ho appreso che io e lui eravamo venuti a conoscenza della cosa nello stesso modo, cioè attraverso la dannata rivista.
Quando mi sono ritrovato quella copertina davanti, la prima cosa che ho pensato è stata “Che cazzo, Bushido non andrebbe mai in giro con una fottuta coda”. E quindi, a quello che stavo guardando, non ho dato un centesimo.
Ho chiamato Bill, però, perché supponevo potesse avere voglia di smadonnare un po’. Cioè, trovi una roba così su una rivista del cazzo, ti viene un po’ voglia di tirare giù i santi uno per uno e dire loro cosa esattamente pensi delle loro sacre persone.
E invece niente. Chiamo, squilla, lui non risponde. E io mi preoccupo, ovviamente. Perché penso “Dio mio, se Bill è in quel periodo del mese in cui finge di avere il ciclo per ricordarsi che il suo obiettivo primario è diventare il più possibile donna senza farsi tagliare via l’uccello, allora ci sta anche che l’abbia presa un po’ tanto male. E quindi magari, più che avere voglia di tirare giù i santi, ha avuto voglia di piangere”.
Insomma, alzo il culo e mi muovo. Se Bill sta piangendo fino a sputare i polmoni, mi dico, è giusto che non stia da solo a farlo. Penso: magari se mi sbrigo arrivo pure prima di quella piaga sociale di Chakuza, che al momento, peraltro, sta così fottutamente appiccicato al culo di mio fratello da darmi da pensare voglia farci tutt’altro che starci solo appiccicato, a quel culo. Prima o poi dovrò prenderlo di petto e dirgli che è inutile che ci speri, a mio fratello piacciono alti, scuri e pericolosi, e lui non è niente di queste tre cose. Fler – che pure è tanto bianco che, appena fa un po’ di fatica, tira fuori un paio di guanciotte rosse neanche fosse Heidi che sono una cosa spassosa – al suo confronto è una minaccia molto più consistente. Anche se a Fler potrei anche darlo, mio fratello. Anche perché, tanto per cominciare, sa maneggiarlo, che con Bill non è una cosa così scontata. Anche Bushido, a volte, faticava a domarlo. Fler invece ci va in scioltezza. Senza problemi. E poi, andiamo, è Fler. Palesemente non potrei mai rifiutargli nulla.
Comunque, niente. Arrivo a casa sua e mi faccio tutto un filmino per il quale, quando mi aprirà e vedrà che sono io, mi si getterà fra le braccia chiamandomi piano fra i singhiozzi – “Tomi, Tomi!” – ed io potrò fare la parte del fratello maggiore adulto, maturo e comprensivo – che poi mi si adatta un casino, perché mi fa sempre bellissimo – e consolarlo stringendolo forte ed accarezzandogli i capelli, per poi piazzarlo con una pizza in grembo davanti a The Notebook fino a rincoglionimento totale e successiva nottata passata a dormire avvinghiati sul divano. Come da copione, insomma.
E invece niente, di nuovo. Mi accoglie il vuoto, Bill non c’è, ‘sticazzi. Medito se tornarmene a casa, ma poi mi dico “che diamine, magari era fuori e non lo sa ancora. Allora, a questo punto, è meglio che mi trovi qui, così potrò essere io a dirglielo”. E giù altri filmini con me – fratello perfetto – che mostro quella roba a Bill – piccolissimo e sconvolto – e dopo lo rassicuro dicendogli “vedrai, ora ne parliamo con David. Li lasciamo in mutande, quei bastardi”.
Comunque, resto lì armato di buone intenzioni e di infinita pazienza, ad aspettare che mio fratello torni da… dovunque si trovi. E resto lì le ore. Tant’è che a un certo punto mi rompo pure le palle ed uso il doppione delle chiavi per salire e infilarmi nel suo appartamento, dove mi svacco su uno dei divani e poi continuo a restare in attesa finché non sento il rombo del motore dell’Audi di David, che ormai conosco a memoria. E mi chiedo, in effetti, cosa ci faccia Bill con David. Però sono troppo cretino, forse, o forse troppo ingenuo, e comunque quella cosa sulla rivista non l’ho mica presa così sul serio, perciò tutto ciò che faccio è saltare in piedi e muovermi anche con aria piuttosto rabbiosa verso la porta, spalancandola nello stesso identico momento in cui mio fratello viene fuori dall’ascensore.
Disfatto.
Non si aspetta di vedermi, e quando mi inquadra spalanca gli occhi arrossati e stanchi.
- Tomi… - sussurra appena, immobilizzandosi sulla porta. – Come… perché-
- Dove cazzo sei stato?! – lo attacco io, preoccupato dai suoi lineamenti tesi e dalle tracce evidenti di pianto che ancora gli rigano le guance, - Cristo, non hai neanche portato con te il telefono! Mi sono preoccupato!
Bill si passa una mano sugli occhi, sospirando profondamente, e poi mi supera, infilandosi nel niente di spazio che c’è fra il mio corpo e lo stipite della porta.
- Tomi, per favore… - mugola, dirigendosi verso il frigorifero ed aprendolo alla ricerca di qualcosa da bere, - Oggi non è proprio giornata.
- Cazzo, no che non è giornata. – borbotto, e fanculo a tutti i buoni propositi del dirglielo con tatto. – Hai visto il Bravo di oggi?
Bill riemerge dal frigorifero con un bottiglia d’acqua in mano, e appena sente la parola “Bravo” si congela sul posto.
- …l’ho visto. – risponde in un soffio, senza guardarmi.
- Che stronzi, mh? Ora viene fuori che Bushido è risorto. – butto lì. E lo faccio con cattiveria, visto che quando qualcuno in qualche parte del mondo pronuncia il suo nome, Bill sta fisicamente male. – Il prossimo passo qual è, la santificazione?
Bill si volta a guardarmi con una calma raggelante. Non dice una parola, ma solo a cercare di leggere cosa c’è nel fondo dei suoi occhi mi salgono i brividi per tutta la schiena. Manda giù un altro sorso d’acqua, poi posa la bottiglia sul ripiano accanto al frigorifero e si asciuga le labbra col dorso della mano, come un bambino. È l’unica cosa che incrina appena la dignità glaciale e del tutto fuori luogo con la quale continua a parlare.
- Non è risorto. È lui.
E potrei ridere, dargli del cretino, mandarlo a fanculo o anche urlargli di piantarla di prendermi in giro. Ma non lo faccio. Perché quest’espressione qui io l’ho già vista, secoli fa. Anche se ormai stavo cominciando a dimenticarla.
Capisco che Bushido non può essere altro che vivo, perché questo è il suo Bill. Quello che s’era portato nella tomba. Ecco, adesso l’ha riportato fuori.
Bill guarda altrove e fa per evitarmi – lo vedo che si allontana verso la camera da letto, perfettamente intenzionato a non dire una parola di più sull’argomento – ma io decido che mi sono rotto i coglioni di non sapere cosa gira per la testa di mio fratello. Da quando mi sono mosso di casa non ho fatto che cercare di immaginare ciò che Bill avrebbe potuto fare o stesse facendo, e non ne ho presa una. Tutto sbagliato. E dire che un tempo riuscivo a capire quali sarebbero state le sue mosse ancora prima che lui le facesse. Ora non mi riesce nemmeno di immaginare cosa stia combinando nel momento in cui lo combina.
Mi alzo in piedi e mi muovo svelto verso di lui, piantando una mano sulla parete così improvvisamente che lui quasi va a sbattere contro il mio braccio. Si ferma appena in tempo e si volta a guardarmi con aria oltraggiata, le sopracciglia inarcate e le labbra piegate in una smorfia infastidita.
- Sono stanco. – mi informa atono, - Voglio andare a dormire.
- Non mi interessa. – rispondo io, sollevando anche l’altro braccio e intrappolandolo perché non possa sfuggirmi. – Cosa è successo?
- Niente. – ringhia a muso duro. Io aggrotto le sopracciglia e mi chino sul suo collo, annusandolo piano. Lui si scosta di pochissimo, trattenendo il respiro. Non è spaventato da ciò che sto facendo. È spaventato da ciò che potrei leggergli addosso.
- Hai scopato. – dico, tornando a guardarlo negli occhi, - Da quanto lo sai? Da quanto vi vedete?
- Non sono cazzi tuoi. – sbotta acido, e mi pressa le mani contro il petto nel tentativo di allontanarmi. Io batto i pugni contro il muro talmente forte che l’eco rimbomba per tutto l’appartamento silenzioso, e Bill mi guarda con aria sinceramente spaventata.
- Lo sono. – rispondo a voce bassa, gli sto così vicino che posso leggergli negli occhi qualunque cosa. Bill, ogni tanto, ha bisogno di essere costretto. – Come cazzo ha fatto? Perché l’hai visto? Perché ci hai scopato, Cristo santo? Da quanto è tornato?
Bill mugola e distoglie lo sguardo, mordicchiandosi un labbro con aria incerta.
- Non… non lo so, Tomi. – biascica, stringendosi nelle spalle, - Non so niente, so solo che è qui. Non volevo-
- Non dire balle. – lo interrompo con un grugnito contrariato, - Forse davvero non sai niente, ma non venirmi a raccontare che non volevi andarci a letto. Non ci saresti andato. – sospiro e mi scosto appena. – Non ti ha spiegato proprio nulla?
Lui non risponde subito.
- Non gliene ho dato veramente il tempo. – ammette alla fine, sospirando pesantemente, - Dice di averlo fatto per me. Dice… che era preoccupato. Che l’ha fatto perché ero in pericolo. Ma era lui quello a cui avevano sparato! Non io! – riprende con più veemenza. Io penso distrattamente che Bushido era in casa di mio fratello, quando è morto, anche se poi non è morto davvero. Penso che, se di fronte a quella finestra non ci fosse stato Bushido, fra mio fratello e tutto il resto, forse le cose sarebbero andate diversamente.
Penso che Bill, come al solito, non stia riuscendo a vedere la situazione nel modo corretto – ricordandosi cioè che esistono altri cervelli ed altri modi di affrontare le situazioni oltre al suo. Così come non ha mai capito perché io abbia distrutto l’intera discografia di Bushido, quando mi ha detto che stavano insieme, non riesce a capire perché Bushido abbia deciso di distruggere la propria vita, quando ha scoperto che stare insieme a lui era troppo pericoloso. È evidente.
- …come ha fatto? – chiedo quindi, allontanandomi da lui e lasciandolo nuovamente libero di muoversi, - Come c’è riuscito?
- A sopravvivere? – chiede lui di rimando, sorridendo amaramente mentre ricomincia a respirare, - O a starsene nascosto fino ad ora?
Io rido appena.
- Entrambe le cose.
La voce di Bill mi fa eco con una risata uguale.
- Non so neanche questo. – risponde con un sospiro, - Però c’entra David.
- Gli ha offerto i propri organi in regalo? – scherzo, - L’ho sempre detto io che il modo in cui lo guardava non mi tornava…
- Ma no! – ride più apertamente Bill, coprendosi le labbra con una mano, - Non c’entra col fatto che sia sopravvissuto, credo. Però con tutto il resto sì.
Io annuisco e per la testa mi passano pensieri di ogni tipo – dall’andare a pestare David finché non mi abbia spiegato per bene in che cazzo di casino si sia andato a ficcare lui trascinandosi dietro noi tutti quanti insieme, all’andare a fare la stessa precisa identica cosa anche con Bushido, per gli stessi precisi identici motivi e con gli stessi precisi identici intenti – e mio fratello nel mentre smette di ridere – la sua risata si spegne sfumandosi nel silenzio come un vecchio disco di musica anni Sessanta o chessò io – e si lascia andare seduto sul divano. Non sembra più tanto intenzionato a restarsene solo a piangersi addosso, e questo mi sta bene, perciò mi siedo al suo fianco e gli passo un braccio contro le spalle, stringendomelo addosso e coccolandolo un po’.
- Tomi… - si lamenta a bassa voce, nascondendo il viso sul mio collo, - Ho fatto una cazzata enorme.
Io annuisco perché sì, me ne rendo conto che andare a letto con Bushido sia stata una mossa un tantino avventata. Però io, in quel momento lì, non so un cazzo. Io mi sto davvero solo illudendo – come al solito – di avere vinto. Di sapere cosa ci sia nella testa di mio fratello.
Probabilmente io ho smesso di sapere con esattezza cosa ci sia in quella testa a diciassette anni. E non ho più ripreso.
Che sia stata una mossa un tantino avventata, perciò, è tutto ciò che penso. E lo stringo un po’ di più, e quando gli dico “si sistemerà tutto” lo faccio credendoci. Proprio perché non so un cazzo. Non si sistemerà niente, invece. Adesso che osservo mio fratello sbiancare mentre Bushido gli dice che sa tutto, invece, è molto più chiaro che non si risolverà proprio un bel niente. Ed io, in tutto questo, riesco solo a pensare che Bushido sa molto più di quanto non sappia io.
A volte mi sembra quasi di essere io, quello che è morto perdendosi pezzi della vita degli altri.
*
Cassandra è stata inizialmente solo una scopata, nonché l’unica cosa buona sia venuta fuori dalla frequentazione forzata di rapper cui mi ha costretto per lungo tempo il fatto che mio fratello andasse a letto col capobranco. Seriamente, io avrei fatto volentieri a meno di essere controvoglia risucchiato in un mondo che credevo il massimo del figo e tutto il resto, per scoprire che tutta la gente su cui avrei scommesso qualsiasi cosa era in realtà un manipolo di deficienti. Voglio dire, Chakuza è un cuoco. Eko un cretino. Io ero felice quando credevo che questa gente fosse gente pericolosa. Ero felice di odiare mio fratello perché stava infilandosi in un mondo oscuro e potenzialmente mortale. Ma questo ho potuto pensarlo per qualche mese, prima che – per forza di cose, perché ci mancava l’aria, altrimenti – io e Bill ricominciassimo a frequentarci e parlare. Quindi, tolti quei pochi mesi all’inizio, ho dovuto comunque fronteggiare più di due anni di frequentazione. Sarebbe stato veramente drammatico se, oltre alla distruzione dei miei miti infantili, io non avessi ricavato nient’altro.
Ok, ho conosciuto Fler, d’accordo, questo teoricamente sarebbe dovuto bastarmi anche senza Cassandra. Intendo, Fler è l’unica cosa che sia rimasta pressoché intatta di tutti i miei miti, perché è un figo davvero. Cioè, al di là di qualsiasi cosa si potesse dire di Bushido – compreso il fatto fosse palesemente un pedofilo; magari non violentatore, ma pedofilo di sicuro – era ovvio che lui fosse l’unico vero gangster del mucchio, in mezzo a gente che c’era entrata per caso. E Fler è uguale, però meglio perché non è uno stronzo intollerabile come invece Bushido è sempre stato, è ancora e sempre sarà se la Morte non si accorge di esserselo lasciato sfuggire e non viene a riprenderselo. Al di là di Fler, comunque, sono tutti veramente da prendere e buttare nel cesso, dal lato dell’Ersguterjunge. Ed infatti Fler non è dell’Ersguterjunge. Quelli dell’Aggro mi sono rifiutato di incontrarli, comunque; non vorrei ritrovarmi a scoprire controvoglia che Sido fa la maglia guardando Verbotene Liebe in pausa pranzo.
Comunque. Cassandra, dicevo. È un po’ inquietante che io volessi parlare di Cassandra e sia finito a raccontare quanto profondamente apprezzi Fler. È che lui è tipo una roccia, avreste dovuto vederlo quel giorno in cui è venuto a prendere Bill a casa per portarlo fuori – c’è stato un periodo, dopo quella notte tremenda, in cui solo lui portava Bill fuori, perché Bill voleva in giro solo lui – ed io ero ancora preso malissimo per tutta la faccenda di Saad – “la faccenda di Saad”, sentitemi, sono costretto a parlare per eufemismi, sennò non riesco – e quindi ho ringhiato e pure parecchio, sono arrivato quasi a buttarlo fuori di casa, e lui niente, mi si avvicina con quei fanali azzurri piantati nei miei occhi e fa “non ti ho chiesto il permesso di portare fuori tuo fratello, ragazzino”, che io quando mi sono sentito chiamare in quel modo mi sono pure sentito un sacco a disagio, perché boh, il suo “ragazzino” è Bill e va bene essere gemelli, ma non confondiamo, e comunque niente, mi sono zittito all’istante perché comunque ha un modo di parlarti che è pacato tranquillo pure quando vedi che se ti rifiuti di obbedire ti fa di tutto. Fa un sacco paura Fler, quando ti guarda e ti parla così.
Ma io volevo parlare di Cassandra.
Cassandra era una donna di Bushido. Problema numero uno degli uomini con carisma: quando ti mettono le mani addosso è la fine, una volta è per sempre. Quindi, niente, quando io ho conosciuto Cassandra lei ovviamente già non ci stava più con Bushido, però era ancora una delle sue donne, e per questo motivo metterle le mani addosso è stato assolutamente impossibile fino a quanto Bushido non s’è tolto dalle palle. Contando il fatto che era una dei pochissimi membri della famiglia allargata di Bushido con cui Bill andasse perfettamente d’accordo, e contando il fatto che per questo gravitava tantissimo intorno a casa nostra, potete bene immaginare la tortura di vedere questa bellezza color caramello svolazzarmi sotto il naso a intervalli regolari di una volta ogni due giorni, senza poterla toccare neanche per sbaglio pena morte istantanea preceduta da tortura pubblica nel cortile della Villa Gialla.
Insomma, per tutto il periodo in cui Bill è stato con Bushido, io ho approfittato del fatto che tutti – Bushido compreso – fossero distratti dall’omosessualità emergente del loro capo, ed ho cominciato ad accerchiare Cassie. Non ho fatto nient’altro ed in realtà anche quel poco che ho fatto non è stato niente di eclatante. C’è questo momento meraviglioso, nel corteggiamento, che sta proprio all’inizio; è un momento in cui tu non fai praticamente nulla, ti limiti a dare dei segnali e restare in attesa per vedere se quei segnali sono stati colti e accettati. Perciò c’è stato questo periodo stupendo in cui io e Cassandra non abbiamo fatto che sorriderci.
Non è che le morissi dietro, eh. Anche perché, con l’ombra scura di Bushido a pendere sopra le nostre povere teste innocenti, non è che mi aspettassi davvero qualcosa. Però era un’opportunità, era bella e tanto valeva tenerla da conto. Al più mi perdevo in qualche epica fantasia nella quale, in seguito ad un’esplosione particolarmente forte di tensione sessuale irrisolta, finivo per schienarla contro una parete senza pensare alle conseguenze di quel gesto; a quel punto, Bushido ci beccava ed il resto della fantasia ero io che restavo a fronteggiarlo a testa alta, riempiendolo di botte sotto lo sguardo estasiato sia di Cassandra – che, appena concluso il pestaggio, mi saltava al collo ringraziandomi per averla liberata dal giogo del crudele dittatore – che di Bill – il quale poi diceva a Bushido ancora in terra e sanguinante qualcosa di meraviglioso tipo “Anis… ti credevo un uomo forte”, per poi chinare il capo ed allontanarsi con me e Cassandra nella luce del tramonto, verso un futuro migliore.
Volete far felice un uomo? Dategli un pomeriggio da solo sul divano e la libertà di immaginare sesso, botte e dichiarazioni epiche nelle quantità che preferisce. Avrete salvato una vita. Io me la sono salvata così, per dire – ok, magari non la vita, ma la razionalità di sicuro; c’erano questi momenti in cui la presenza di Bushido, per quanto potessi sforzarmi di ignorarla, era così ingombrante che non mi sentivo libero di fare niente. Sono cose che possono mandarti al manicomio. Soprattutto se non te le sei scelte.
Comunque poi Bushido è morto, ed io non è che abbia avuto granché modo di pensare a Cassandra, tra mio fratello che si deprimeva, mio fratello che cominciava ad impiantarsi notte e giorno a casa del dannato Chakuza e mio fratello che finiva per uccidere libanesi in mezzo a una strada a due giorni da Natale. Insomma, fra mio fratello e mio fratello, non è che avessi granché tempo libero. Come sempre. Mio fratello riempie la totalità del tempo di chiunque gli graviti attorno. Tutti, poi. Anche contemporaneamente. Palesemente non può essere una persona sola. Io ho in realtà tre o quattro gemelli, me ne accoro da queste piccole cose ed anche dal fatto che non è possibile cambiare umore repentinamente tanto quanto fa mio fratello di continuo. Quindi per forza devono essere tre o quattro. Magari Bushido s’era rotto le palle per questo, quando ha deciso di disertare e darsi alla macchia. Comprendo la sua obiezione di coscienza.
Al di là delle cazzate, comunque, anche dopo la roba di Saad sono stato molto preso. Pure troppo preso, nel senso che sono entrato in loop iperprotettivo nei confronti di Bill. Peraltro è un cosa che lui detesta ma che a me serve perché, essendo sempre stati appiccicati come le gomme da masticare alla suola delle scarpe, quando me lo perdo di vista comincio a dare di matto. Sono perfettamente consapevole dell’assurdità di tutto questo e so anche che per Bill non è la stessa cosa – d’altronde, per quanto gemelli, siamo comunque due persone diverse e viviamo le relazioni in modi diversi – ma non posso farci niente. Quindi, in pratica, ho passato tutto un periodo orrendo in cui ho costretto Bill a vivere con me – anche se lui aveva decisamente bisogno di coccole, quindi non si è esattamente lamentato – e non ho permesso a nessuno di avvicinarsi a noi, con l’eccezione di Fler, di fronte al quale ero palesemente impotente e del quale comunque Bill aveva un intenso bisogno.
Da quella situazione, se Cassandra non avesse deciso autonomamente di smettere di sorridere e baciarmi, io probabilmente non ne sarei mai uscito. E in realtà dopo non è che sia veramente successo qualcosa. Solo, niente, ha ripreso a sorridere ma ha anche continuato a baciarmi. E tutto il resto.
Fra me e Cassandra c’è una cosa un sacco tranquilla. Che mi piace tantissimo. E credo di averne il bisogno, adesso – intendo, di tenere fra le mani qualcosa che sia dolce e buono e basta, senza dovermi preoccupare di vederlo crollare fra le mie mani da un momento all’altro. Il ritorno di Bushido, in questo momento, non mi interessa, e soprattutto non mi intralcia in nessun modo, perché Cassandra è forte davvero, e per quanto lui possa insistere con gli sguardi confusi e disapprovanti che mi lancia da ieri, e per quanto possa insistere a chiamarla “stella” anche quando siamo insieme, so che Cassandra è più forte di lui. Ne ho parlato con Fler, dopo quel disastro di cena che ha avuto luogo a casa di Bushido, e lui ha riso. “Donne del ghetto”, ha commentato. Io ho annuito perché mi sa che ha ragione. Sono le femmine, quelle veramente cazzute. Per quanto tutto ciò possa sembrare assurdo.
Tutta questa premessa – su me, su Cassandra, su Fler che non c’entrava ma c’è entrato lo stesso chissà come, e su Bill, naturalmente – io l’ho fatta per spiegare che, a parte le sparizioni settimanali alle quali ultimamente mio fratello si lascia andare e per le quali dovrò decidermi a torchiare per bene David – perché lui non può propinarmi scuse come “Bill è in beauty farm” ed aspettarsi pure che io ci creda – insomma, a parte questo, prima del ritorno di Bushido io stavo conducendo un’esistenza piuttosto felice e tranquilla. C’erano delle cose oggettivamente incomprensibili – il rifiorire immotivato di mio fratello, e non che non mi facesse piacere, ma restava incomprensibile; o l’ombra scura perennemente presente negli occhi di Fler; o la ruga che, sempre con maggiore insistenza, andava formandosi sulla fronte di David, proprio in mezzo alle sue sopracciglia – ma non erano cose che mi infastidissero particolarmente.
Ma ora è tutto diverso. E adesso, in questo salotto, di fronte a questa scenata indecente, di fronte alle lacrime di mio fratello, di fronte all’espressione dura e risentita e soprattutto ferita di Bushido, io devo prenderne atto.
*
Potrei raccontare nel dettaglio la giornata di oggi fin da quando mi sono svegliato, ma sono quasi sicuro che perdermi nella mia testa al momento sarebbe deleterio. Non devo perdermi, devo solo cercare di riassumere le ultime ore della mia esistenza per avere un punto fisso da cui ripartire quando finalmente riuscirò a prendere pienamente coscienza del disastro in atto.
Quindi niente resoconto dettagliato, non mi soffermerò su quanto fosse buono stamattina il profumo di Cassie attaccato alle mie lenzuola, alla mia pelle e ad ogni molecola d’aria che riempiva la stanza; non mi soffermerò su quanto abbia trovato odioso lo squillo del cellulare e non mi soffermerò su quanto mi sia sentito stupido nel rassegnarmi comunque a rispondere alla chiamata appena individuato il nome di Bill sul display. Non parlerò diffusamente di quanto mi sia sembrato strano sentirgli dire “vado da Anis… mi accompagni?” – Dio, come faccio a non parlarne diffusamente? Bill ha sempre visto i momenti di intimità con Bushido come, tipo, cose sacre e inviolabili, per quale cazzo di motivo avrebbe dovuto volermi fra le palle in una situazione come quella? – e non dirò nemmeno quanto io l’abbia trovato teso quando sono passato a prenderlo da casa sua per portarlo all’appartamento in cui Bushido sta per ora; non lo descriverò, anche se potrei dipingerle, le linee corrucciate delle sue sopracciglia, e disegnare il broncio teso e chiuso delle sue labbra.
Però posso raccontare quello che è successo da quando ho messo piede in questa casa, perché questo è importante. Posso raccontare di Bushido tanto scuro da fare paura, colore della pelle a parte. Posso raccontare della paura di Bill, perché me la sono sentita fisicamente addosso per tutto il tempo. Posso parlare del suo imbarazzo quando Bushido gli ha chiesto di andare a prendere da bere in cucina mettendoci meno tempo di quanto non ne avesse perso il giorno prima durante la cena. Posso parlare a lungo della luce tremolante negli occhi di mio fratello e di quella netta e brillante negli occhi di Bushido. Posso parlare di quel momento di immobilità in cui io mi ero già impossessato di un divano su cui svaccarmi e mi stavo ancora chiedendo cosa cazzo ci facessi proprio io e proprio in quel momento in quel dannato salotto, mentre alle mie spalle, fra gli occhi di Bill e quelli di Bushido, scoppiava una guerra tale che avrei dovuto sentirne il clangore anche se fossi stato su un altro pianeta. E invece niente. Invece il silenzio. Posso descrivere ogni sfumatura di quel silenzio – quella tesa, quella angosciata, quella già prematuramente disperata – posso farlo, devo farlo, perché quel silenzio è stato l’ultimo di questa giornata che abbia avuto un significato e sia valso qualcosa.
Poi Bushido ha parlato.
- So tutto.
La sua voce risuona in questo silenzio in maniera così fisica che mi sembra di poterla toccare. È scura e decisa. È molto da lui, così com’è molto da lui dare per scontato la gente capisca a prescindere di cosa stia parlando. Per me non è così ed evidentemente neanche per Bill, che si ferma a metà del salotto e si volta a guardarlo, inarcando appena le sopracciglia.
- Sai cosa? – chiede, forzando un sorriso talmente tirato che io lo guardo e penso “Cristo, Bill. Ma se lo sai già, perché chiedi?”. Ed io, in questo momento, continuo a non sapere un cazzo. Ed è un attimo di confusione che dura veramente pochissimo, solo pochi secondi. Il tempo che serve a Bushido per mettersi in piedi, sollevandosi in tutto il suo fottuto metro e novanta di altezza, e ricominciare a parlare.
- So di te e Chakuza, Bill.
E lì mi esplode il cervello. Perché, non so se vi è mai capitato, ma a volte succede che tu passi in mezzo ad una situazione, no?, diciamo pure che la vivi, ne sei partecipe e tutto, però non la comprendi pienamente. Ci sono un sacco di sfumature che ti sfuggono e il tuo cervello le registra però gli mancano tasselli, e visto che gli mancano tasselli non riesce a ricomporre gli indizi in un quadro che abbia un senso. Perciò quei particolari apparentemente stupidi – il nome di Chakuza che diventa Peter sempre più spesso sulle sue labbra, le fughe continue, i momenti di imbarazzo quando si parlava di lui e così via – tu poco a poco te li dimentichi, li archivi come cose prive di importanza.
E poi arriva qualcuno che invece la soluzione del puzzle già ce l’ha. E gli basta mezza parola, cazzo. Solo mezza. E a te basta sentirla che rimetti tutto al suo posto. E lì o razionalizzi o ti esplode il cervello.
A me esplode il cervello.
In mezzo a tutto quello che potrei pensare – Bill s’è messo con Chakuza; Bill è stato a letto con Bushido; Bill e Chakuza stanno ancora insieme? – io penso solo che è la seconda volta che mio fratello mi butta fuori a calci dalla sua vita. Penso che di tutto questo – di mio fratello che boccheggia a corto d’aria e di Bushido che continua a guardarlo con un misto di delusione e dolore – non mi importa niente. Penso che c’è stato un tempo in cui io e Bill eravamo attaccatissimi. E penso che mio fratello adesso non mi dice più nemmeno quando si innamora di qualcuno. Non mi dice quando è felice, non mi spiega perché lo è e non mi dà modo di gioirne con lui – Bill non ci ha nemmeno provato, a vedere se la mia reazione al sapere di lui e Chakuza sarebbe stata diversa rispetto a quella che ho avuto quando ho saputo di lui e Bushido.
E penso anche che tutto questo è ingiusto. Perché non posso sentirlo quand’è felice, ma in compenso quando il cuore gli batte tanto forte da fargli male lo sento ancora.
- Non hai niente da dire? – chiede Bushido a bassa voce, restando fermo dov’è. Bill deglutisce pesantemente.
- Anis- - comincia piano, ma Bushido lo ferma con un ringhio imperioso.
- Non so se voglio davvero sentirti parlare. – dice d’un fiato, guardandolo dritto negli occhi.
Bill china il capo e le lacrime cominciano a rotolargli lungo le guance in grossi goccioloni brillanti.
- Mi hai chiesto se non avevo niente da dire. Vorrei rispondere almeno a quello.
- Non so se la voglio, la tua risposta! – precisa Bushido alzando la voce e tendendosi tutto verso Bill, che incassa la testa nelle spalle come se l’urto della sua voce lo sentisse addosso né più e né meno di un ceffone.
- …Anis, ti prego. – cerca di calmarlo Bill, parlando dolcemente, anche se non riesce nemmeno a guardarlo e quindi, penso, l’effetto del suono della sua voce è di molto ridimensionato. – Lascia che ti spieghi.
- Cosa vuoi spiegarmi, Bill? – insiste lui, tagliente come una lama, - Vuoi spiegarmi perché mi sei caduto fra le braccia e ti sei fatto scopare nonostante stessi con lui da quasi un fottuto anno? – e si lascia andare ad una mezza risata ironica, incrociando le braccia sul petto mentre Bill serra le palpebre e stringe le labbra. – Quasi un anno! – ripete Bushido, il tono a metà fra il risentito e il crudelmente divertito, - Che bel lutto! Alla prima occasione favorevole-
- Non è stato così, Anis! – esplode mio fratello, stringendo i pugni, ma la sua esplosione non è niente paragonata al rombo della voce di Bushido, pochi secondi dopo.
- Te lo dico io com’è stato, cazzo! – urla, e parla proprio come se fosse stato qui sempre, in ogni momento. Perciò a me un po’ viene voglia di crederci, alla sua versione. – Quanto hai aspettato? Tre mesi? Quanto, prima di buttarti fra le sue braccia? E siete stati felici, fino ad ora? Sei tornato dritto a scopare con lui dopo avermi mandato a fanculo nonostante ti fossi fatto mettere le mani addosso- no, nonostante mi avessi chiesto tu stesso di metterti le mani addosso?!
Bill si copre il volto con le mani.
- Anis, ti prego… - mormora, e la sua voce attutita riempie la stanza in un lamento sofferente. Bushido inspira ed espira.
- Ho capito che voglio che parli, Bill. – dice freddamente, senza staccargli gli occhi di dosso, - Sono curioso di vedere se troveresti un modo di metterla che non ti faccia passare per una qualsiasi di tutte le altre troie che mi sono passate nel letto per tutta la mia vita.
Bill non solleva lo sguardo. Le sue mani stringono appena la presa sulle sue guance e poi scivolano lentamente nel vuoto, lungo i suoi fianchi. E lì restano, ai lati del suo corpo, a dondolare inermi. Seguo il tintinnio dei suoi bracciali e mi concentro su quello, perché preferisco quel suono alla voce di mio fratello che ammette “Non credo che esista, Anis”. Perché dice troppe cose tutte insieme.
Bill, che cazzo.
Che cazzo, Bill.
Bushido non se l’aspetta, comunque. Probabilmente – come me – credeva che si sarebbe difeso. Che avrebbe combattuto, in qualche modo. Che avrebbe cercato di metterla in un qualche modo che non lo facesse sembrare poi così colpevole. E invece mio fratello non esita un attimo per dargli ragione e chiudere il discorso.
Né io né Bushido ci aspettavamo niente di simile. Probabilmente perché né io né Bushido abbiamo la più pallida idea di come sia stato l’ultimo anno della vita di mio fratello. Ed in questo momento di chi sia la colpa di questa mancanza non importa poi neanche tanto.
- Fuori da questa casa. – la voce di Bushido è così bassa e lontana che sembra provenire da un altro luogo. Fa quasi paura. – Non ti ci voglio più vedere, qua dentro. Né altrove. Fanculo, Bill, noi abbiamo chiuso.
Bill solleva lo sguardo e gli punta addosso un paio di occhi enormi di terrore e lacrime.
- No… - mormora senza fiato, - Anis, no.
- Decido io, principessa. – dice lui, guardando altrove. Immagino lo faccia perché non è facile mandare a fanculo la persona per la quale ti saresti letteralmente fatto ammazzare guardandola negli occhi. – Come sempre. Sparisci.
Bill non si muove subito. Resta immobile per qualche secondo e lo guarda. Bushido non fa una piega. Il mondo intero sembra essersi del tutto dimenticato di me, ed io ne sono contento.
Riprendo a respirare solo quando Bushido si sposta e Bill prende quel movimento per ciò che è – un invito estremamente fisico a togliersi dalle palle. Obbedisce, si muove oltre la porta e scompare in corridoio, e lì ricordo che devo per forza andargli dietro – per quanto non sappia cosa dirgli e nemmeno se voglio dirgli qualcosa. O anche solo vederlo, stargli accanto, pensare a lui – primo perché è venuto in macchina con me e secondo perché io non voglio restarci in questa casa con quest’uomo che guarda il vuoto e si morde un labbro a sangue mentre negli occhi gli brucia di tutto. Perciò seguo Bill e lo faccio in silenzio, fino a quando non mi trovo sulla porta. Mentre io sono lì, Bushido lascia andare un sospiro ed io lo sento. Lo sento e non so perché mi sconvolge tanto, però lo fa.
Mi volto a guardarlo, cercando le parole. Non è facile. Non lo è per niente.
- L’ho capito perché l’hai fatto. – dico alla fine. Lui mi solleva addosso uno sguardo estenuato e non risponde. – Perché sei andato via, dico… non ho capito come, ma ho capito perché. – mi fermo un attimo e sospiro anch’io. – Mi dispiace. – aggiungo poi, - Se me ne avessi parlato, l’avrei portato via io.
Bushido serra le labbra e continua a restare in silenzio. Smette anche di guardarmi, però, e quindi decido di andare via davvero. Questo silenzio, stavolta, non sono proprio in grado di sostenerlo. Né di parlarne.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Lemon, Slash.
- "Chiunque ci sia dietro a tutto questo, ha un pessimo senso dell'umorismo e se solo riuscissi a staccare gli occhi da quello che vedo, allora starei già chiamando la redazione, David e chiunque in questo momento meriti le mie urla."
Note: …ebbene è successo XD Non so se ve lo aspettaste e, in caso ve lo aspettaste, se ve lo aspettaste così. Io e Tab – che questa shot l’abbiamo scritta insieme per il semplicissimo motivo che ci saremmo entrambe strappate i capelli dalla testa se avessimo dovuto scriverla da sole, per motivi diversi ma complementari XD – sappiamo con certezza che almeno una di voi (senza fare nomi e cognomi ma solo nickname: FedyKaulitz XD) ci era arrivata molto – ma molto – vicina. Per il resto, speriamo che nulla di ciò che è stato scritto qui sopra vi abbia deluso. Liz ci tiene a specificare che ama moltissimo Bushido e l’ha amato in questa shot in pratica come mai prima XD Tab ci tiene a rimarcare il suo odio, BTW. Quanto al resto, ci si vede venerdì per lo spin-off :)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
CRASH INTO ME

Io sono un tipo piuttosto abitudinario, nonostante il lavoro che faccio. O forse proprio per il lavoro che faccio. Quando passi periodi lunghissimi a dormire in una città diversa ogni notte, ti attacchi alle piccole cose pur di ricreare un minimo di atmosfera di casa. Per questo quando sono in tour faccio colazione con una certa marca di cereali, e solo con quella, che poi è la stessa che uso quando sono a casa. Voglio oggetti per il bagno precisi, voglio camerini che contengano più o meno tutti le stesse cose e il mio tour bus, per quanto è umanamente possibile, contiene tutto ciò che possa farmi dimenticare che mi trovo su un mezzo semovente. Nella mia cuccetta ho una specie di versione da viaggio della mia camera vera: stesse foto, stesse creme, stessi oggetti sul comodino.
Tom dice che sono quasi maniacale, io dico solo che questo è il mio modo di non alienarmi. Ci si perde facilmente senza punti fissi. Dopo due settimane di tour, per dire, già ti senti un po' fuori fase. Tre mesi lontano da casa, dormendo su un camion, possono avere delle conseguenze non indifferenti sul cervello umano. Mio fratello ovviamente non condivide i miei metodi. Lui per combattere l'alienazione ci entra dentro con tutte le scarpe. Dice che ha due vite diverse, una quando è a casa e una quando invece a casa non c'è. La differenza sostanziale tra le due vite è che in tour si permette di cambiare ragazza ogni notte e di scopare come se non ci fosse un domani, cosa che non fa quando è a Berlino perché quando è a Berlino non ha bisogno di scaricare nessuna tensione, né tantomeno di farsi bello raccogliendo donne come la rete per la pesca a strascico perché non abbiamo i giornalisti attaccati al sedere così spesso come invece uno pensa. Perché la verità su mio fratello, alla fine, è che fa sesso perché gli piace, certo, ma lo fa anche perché non fa nessuno sport e quello è il modo che gli rimane per scaricare lo stress. Beh, quello e la Wii, ma diciamo che preferisce la prima opzione per ovvie ragioni. Questo, tra le altre cose, mi fa venire in mente che Chakuza è uguale. Lui farà anche sport, credo, a dire il vero non lo so, ma quelle due spalle lì deve averle per qualche motivo, comunque il fatto è che Chakuza fa sesso per lo stesso motivo. E al momento la cosa mi riguarda da vicino perché, insomma, lo fa con me e questo significa che non c'è momento che passiamo insieme senza che lui mi spalmi su qualche superficie, così, senza nemmeno grandi discorsi a volte. Alché c'è da chiedersi se non sia molto, molto stressato ma credo di no. Credo che nel suo caso oltre allo stress, ci sia anche il fatto che gli piace proprio. E a me piace che a lui piaccia perché piace anche a me. E comunque mi sono perso.
Dicevo che io sono un tipo piuttosto abitudinario quando sono in tour, e anche a casa non scherzo. Se sono nel mio appartamento, e quindi non ho niente da fare, e quindi posso fare più o meno tutto quello che voglio, di solito non faccio assolutamente niente; che per uno che di solito lavora dalle sei del mattino alle tre di notte con l'obbligo di sorridere a chiunque, è la vacanza migliore del mondo.
Mi sveglio, faccio colazione e telefono a Peter per parlargli essenzialmente di nulla e distogliere la sua attenzione da qualunque cosa stia facendo per farlo concentrare su di me, che mi sono appena svegliato e ho assoluto bisogno di sentirmi amato. Lui di solito la mattina è un amore - Peter è sempre un amore, in realtà, tranne quando s'incazza per qualcosa, che di solito non sono io, però, quindi, in sostanza, per me è sempre un amore - e sta a sentire tutto quello che gli dico e ride. Ed è un bel suono il Chaku che ride al mattino. Quindi, di solito, dopo averlo tenuto un tempo indecente al telefono, telefono a mio fratello, che si ingelosisce se non faccio perdere almeno quaranta minuti anche a lui. A quel punto mi faccio la doccia, scelgo i vestiti e raggiungo Peter a casa sua, o lui viene qui. A volte vado alla Beatlefield se sono sicuro che Stickle non c'è. Ma di solito c'è, perché lui lavora.
In queste ultime settimane, però, la mia routine è stata ampiamente devastata dalle paranoie di David. Mentre ero a Disneyland con Peter mi ha fatto promettere che per un po' ci saremmo visti di meno, io e lui, e con più attenzione perché i giornalisti stanno cercando lo scoop. Averglielo promesso, in realtà, un po' mi scoccia perché quando prometto, poi mantengo anche e questo significa che per vedere Peter devo fare delle acrobazie che nemmeno il Cirque du Soleil, tipo che devo uscire di casa struccatissimo e con il viso tutto coperto e devo prima andare da qualche parte che con la casa di Peter non c'entra niente, qualcosa di poco interessante per i giornalisti nel caso fossero appostati, tipo, non lo so, il supermercato o un negozio qualunque - anche se poi non è vero che non gli interessa perché si inventano storie su qualunque cosa. Tipo vado al mercato, compro due mele, e all'improvviso sto seguendo una nuova dieta di qualche guru indonesiano che prevede solo due frutti al giorno. Vado in farmacia, e sono sicuramente sotto anti-depressivi. Entro in un negozio di animali e voglio comprare un chihuaua come Paris Hilton. In sostanza ovunque vada, se loro mi stanno dietro, uscirà un articolo. Però questo serve, li depista. Dopo un po' che compro mele, anti-depressivi e chihuaua torno a casa, loro si stufano e quindi io esco e vado da Peter.
Peter di questi problemi non ne ha, a lui non lo segue nessuno. A lui basta arrivare in macchina e lasciarla nel parcheggio interno del complesso residenziale. Lì dentro i paparazzi non possono entrare, per cui lui può anche scendere dall'auto con una freccia sulla testa e la scritta al neon - CHAKUZA - che lampeggia, tanto non lo vede nessuno. Comunque, dicevo, per via della paranoia di David, ho promesso di non andare di continuo da Peter. Quindi stamattina, dopo la mia colazione, dopo aver chiamato il mio amore e aver saputo che è a casa, si annoia, gli manco - e se fossi lì faremmo l'amore tipo ovunque, tipo in ogni modo, tipo che è meglio se non ci penso perché sono tre giorni che non lo vedo e non ho nemmeno la testa impegnata a preparare concerti e quindi lo voglio. Uffa. - dopo tutto questo, anche dopo Tom, la doccia, i vestiti e David che mi telefona per farmi promettere di fare il bravo - d'altronde lo fa solo quelle quattro o cinque volte al giorno - non ho niente da fare. Quindi mi accoccolo sul divano e decido che posso anche dare un'occhiata a quel mezzo quintale di riviste che mi arrivano per posta e che di solito ammucchio tutte insieme per leggerle quando proprio non riesco a cazzeggiare in altro modo. Ci sono un sacco di cataloghi di moda, qualche rivista del settore e tutta la stampa che per un motivo o per un altro possa contenere articoli che mi riguardano. Mi piace sapere cosa dicono su di me e tenere il conto delle volte che sono diventato anoressico, ho tentato il suicidio, oppure ho litigato con il mio manager per qualche motivo da diva. E poi, visto che sono chiuso in casa perché qualcuno cerca di capire con chi me la faccio, allora voglio sapere quanto ci sono andati vicino. L'ultima volta che abbiamo avuto un allarme del genere avevano puntato su Jimi Blue. Andiamo! Ma vi pare? Quando l'ho detto a Chakuza ha riso così forte che non riuscivo nemmeno a farlo smettere. Quando poi lo ha incontrato ad una serata, una settimana dopo, poca ci mancava che riprendesse a ridergli in faccia.
Se hanno pensato a Jimi Blue allora stanno seriamente pescando a caso, non sono davvero preoccupato. Tolgo di mezzo le riviste di moda, recupero le altre e ci do un'occhiata per vedere da quale partire. Di solito le metto in ordine di interesse, prima le notizie o gli articoli più noiosi, poi quelle che davvero vorrei leggere, così mi godo di più l'attesa. Solo che questa volta non funziona, perché mentre sto impilando le riviste, l'occhio mi cade sulla copertina di Bravo e mi congelo.
Chiunque ci sia dietro a tutto questo, ha un pessimo senso dell'umorismo e se solo riuscissi a staccare gli occhi da quello che vedo, allora starei già chiamando la redazione, David e chiunque in questo momento meriti le mie urla.
La foto in copertina mostra l'entrata della Unversal Music Deutschland, e un uomo che sta uscendo dal portone. E' alto e indossa un cappotto elegante, nero a tre quarti ma questo non importa, per certi versi non lo guardo nemmeno. E' il titolo che mi fa incazzare, perché Bravo ne ha dette tante, ma adesso ha passato ogni limite.
Sono tornato, dice il titolo. Chi sono? E poi i suoi due nomi. Sono le parole di Wer Ich bin e io voglio ammazzare qualcuno.
All'interno l'articolo è semplicemente disgustoso. Ci sono solo due foto, prese da angolazioni diverse, ma le tre pagine che compongono l'articolo le riportano all'infinito: ingrandite, speculari, sgranatissime, nel dettaglio. E ogni didascalia è peggio di quella che la precede, e sono così arrabbiato che mi viene da piangere. E piango, cazzo, perché non ne avevano il diritto. Dicono che Bushido è tornato, come se fosse andato - che cazzo ne so, in America! - e ora fosse di nuovo qui. Anis è morto, stronzi, non può tornare. L'articolo non lo leggo tutto, perché non ne ho bisogno. Già alla prima pagina sono nauseato e non m'importa neanche delle loro congetture. Vaffanculo.
Dicono che lo hanno visto, che era lui, giocano con un uomo che è morto un anno fa e con i sentimenti miei e di tutti gli altri. E non riesco nemmeno ad immaginare come si possa essere così stronzi da sfruttare un dolore simile pur di vendere.
Tornato un cazzo, se fosse tornato - come poi? COME? E' morto, lo sanno bene - se fosse tornato, in qualunque modo, è da me che sarebbe venuto. E invece lo abbiamo seppellito e sono stato a guardare ogni singolo grammo di terra che gli abbiamo versato sulla bara fin a ricoprire tutto per bene. E' morto e questi non riescono a lasciarlo in pace nemmeno dopo il suo funerale. Vaffanculo.
Sono in piedi e recupero il cappotto un attimo dopo. Al diavolo le paranoie di David, ho bisogno di vedere Peter. E ne ho bisogno adesso.
Se mi seguono, almeno scriveranno qualcosa di vero.
*
A casa di Peter ci sono arrivato con la mia auto, ignorando la guardia del corpo che ho sempre fra i piedi. Non ho nemmeno sentito cosa diceva, l'ho evitata e basta. Mi hanno anche fotografato, mentre uscivo, ho visto i flash e me ne sono fregato anche di quelli. Venitemi dietro, nessun problema. Se non capite con chi scopo, siete liberi di inventarvelo, venirmelo a chiedere, pedinarmi. Ma giocare con i morti, no.
Parcheggio di traverso, male e di fretta, in mezzo alla strada perché Peter si ostina ad abitare in un palazzo popolare, tipo, non lo so. C'è un sacco di gente nel suo condominio, alla faccia dell'anonimato. E non c'è portiere, il portone fa schifo. Mi attacco al campanello perché le chiavi di casa sua le ho nella borsa. E la borsa è a casa, col mio cellulare, per cui non ho nemmeno avuto modo di chiamare David ed urlargli contro mentre venivo qua.
"Chi è?"
"Bill. Apri."
Sono dentro praticamente mentre il portone scatta e mi faccio le scale a piedi, che tanto l'ascensore non funziona mai. Arrivo su che sto già imprecando e non so nemmeno che cosa dico, in realtà. "Ehi, che sorpresa, non ti... aspettavo." Lui mi guarda perché sono un disastro, sono tipo in tuta e sto urlando da solo. E piango. "Che succede?"
Chakuza si allarma subito se io sono sconvolto. O meglio, i primi tempi si agitava tutto perché - in effetti - non era abituato al fatto che io faccio un dramma di qualunque cosa, per cui era sempre in agitazione. Poi un po' ha imparato. Solo che ora sto piangendo e sono visibilmente fuori di me, quindi è preoccupato.
"Io non posso crederci!" Sbraito e lui mi fa entrare e chiude la porta. Mi guarda con gli occhioni rotondi sgranati. "I redattori di Bravo sono esseri ignobili sono la... la feccia dell'umanità. Io non capisco come si possano fare cose del genere e poi tornare a casa a dormire, cazzo! Ci sono cose su cui non si può scherzare, non si deve! Ma che cazzo di gente è, questa? Eh? Me lo spieghi?"
"... non lo so?" Poi mi ferma per le spalle. "Bill, non capisco niente se fai così. Mi dici che cos'è successo, per favore?"
E io tiro su col naso e poi annuisco. Quindi gli passo il giornale. "Sono dei bastardi," dico soltanto. E aspetto che anche lui legga il titolo e veda la foto. E s'incazzi. E lo voglio proprio il Chaku incazzato.
Aspetto. Lui legge. E io aspetto e non esplode.
"Quando è uscito questo numero?" E' la prima cosa che chiede quando finalmente alza gli occhi dalla rivista. Si è letto tutto l'articolo.
Mi stringo nelle spalle. "Non lo so, ieri credo. Non lo so! Chi se ne frega!" Replico. "Hanno preso le foto di uno che ci assomiglia e hanno messo su questa... questa cosa! Non è giusto! Non dovrebbero avere il permesso di fare cose del genere, loro-"
"Bill."
Io lo guardo per due motivi: il primo perché mi ha chiamato con un tono preciso, che mi mette una gran paura anche se non so perché. Il secondo è che mi rendo conto che non è affatto inorridito da tutta la faccenda. E dovrebbe. Chakuza riesce ad inorridirsi per molto meno. Quindi mi chiedo perché sia sbiancato, perché mi guardi e dentro i suoi occhi io ci veda un senso di colpa che non ha senso di trovarsi lì.
"E' meglio se ti siedi, vuoi?"
"Sedermi? No, non voglio sedermi, Peter," sbraito. "Voglio che andiamo da David, lo carichiamo in macchina e quindi andiamo a spaccare la faccia al direttore di Bravo. Ecco cosa voglio." Non mi risponde. Guarda me, guarda il giornale e non capisco cos'abbia da stare tranquillo. "Chakuza, questi bastardi usano Anis per aumentare le ven-"
"E' lui."
Per un istante io non registro esattamente le parole che dice, il concetto, di per sé, è già troppo da sopportare. La prima cosa che penso è che non ho capito, o che è impazzito, insomma che è assurdo. "Che cosa stai dicendo?" Chiedo. "Anis è morto." E non mi trema nemmeno la voce mentre lo dico perché è una cosa che non dovrei dirgli, dovrebbe già saperla. E' come dirgli che la Terra gira.
Chaku, vienimi incontro, Cristo.
"Bill, ti prego, siediti."
"No," insisto. "Si può sapere che ti prende?"
Lui si gratta la nuca, a disagio. Si siede lui al posto mio, sul bracciolo di una poltrona, posa la rivista sul tavolo e quella si arriccia tutta perché non abbiamo fatto che stropicciarla e tenerla arrotolata. "Bushido non è morto," mormora.
"Che cazzo stai dicendo?"
"Bill, ascolta."
"No! Che.Cazzo.Stai.Dicendo!" E urlo, perché sembra un incubo. Da una parte mi dicono che è tornato, dall'altro vengo qui e lui non trova niente di meglio da fare che prendermi per il culo. "Lo trovi divertente? Credi che sia divertente startene lì con la faccia seria e dirmi che è vivo? Non sei spiritoso!"
"Non sto scherzando!" E grida anche lui per sovrastare la mia voce, e forse anche i suoi pensieri. E la situazione, lo capisco dopo.
Sto zitto e lo guardo. Gli occhi di Peter sono bellissimi, di un verde non troppo chiaro e sono screziati. Bisogna stargli vicino per vederli bene e io li ho guardati così tanto in questo ultimo anno che li so leggere. Hanno paura, adesso, e sono occhi un po' tristi. E quel senso di colpa è sempre lì. C'è tutto questo, là dentro, ma non c'è nessuna bugia.
"Non è possibile," dico. Faccio un passo indietro, inconsciamente diretto alla porta e lui si alza di corsa e mi viene vicino, mi prende per i polsi.
"Bill, calmati, ti prego!"
"No!" Sbraito. "Ero al suo funerale, c'eri anche tu, cazzo, la bara! L'hai vista! E i proiettili e tutto quel sangue, Peter. Che cosa stai dicendo?" Scuoto la testa e piango senza rendermi conto di farlo. Lo so quando sento il sale sulle labbra mentre lui mi stringe le mani intorno ai polsi ancora più forte.
"Non abbiamo mai visto il corpo, Bill."
"Era là dentro," singhiozzo.
"No, non c'era," insiste lui. "Ricordi che volevi vederlo e non te lo hanno permesso?"
Ho urlato quel giorno e urlo adesso. "Non è possibile! Dov'era se non è morto? Dov'è stato? Perché? Peter, non dire cazzate!"
Lui non dice niente, mi guarda e basta. E io semplicemente so che è vero perché in realtà Chaku scherzi di merda come questi non me ne farebbe mai e perché ora sono sull'orlo della crisi isterica e lui piuttosto che ridurmi così si fa investire, quindi no. E' tutto vero. "Tu come lo sai?" Realizzo all'improvviso. "Tu lo sapevi da quanto?"
"Da poco," mi risponde subito lui. "Molto, molto poco."
"Perchè non me l'hai detto?"
"Bill, come facevo?"
"Come hai fatto adesso!" Replico. "Voglio vederlo. Dov'è?"
Scuote la testa. "Non lo so."
"Cazzate, Peter. Dimmelo."
"Io-"
"Dimmelo!" Stavolta urlo e lo spingo indietro, colpendolo al petto.
"Bill, è la verità!"
"Dimmi dov'è!" Urlo ancora, alzo le braccia, lo colpisco forte, e lui un po' si difende, un po' cerca di bloccarmi. "Tu lo sai dov'è e non vuoi dirmelo!"
"NON LO SO!" La voce di Chakuza rimbomba per tutta la stanza e mi zittisce, come sempre. Lui non lo sa. Bushido è vivo. E se è vivo la Terra può anche smettere di girare. Non so neanche cosa significhi davvero tutto questo. Singhiozzo mentre lui mi stringe a sé, forte, come volesse avvolgermi tutto, e la mia voce si sostituisce alla sua, nell'eco della stanza. "L'ho visto una sola volta. Non so dove sia adesso. Non pensavo nemmeno che fosse... ancora qui, Bill."
"Voglio vederlo," gli nascondo il viso addosso. "Peter, ti prego, dimmi chi lo sa."
Alla fine cede. "Fler," mormora e io non penso al perché Fler lo sappia, penso solo che lo sa e che sono già due persone che lo sapevano mentre io ero all'oscuro di tutto. Chakuza recupera il cellulare e mi trascina sul divano.
Io non voglio stendermi, voglio urlare, ma non ho la forza, così ascolto gli squilli mentre mi accoccolo contro di lui e penso che da qualche parte, in questo momento, Bushido è vivo. E respira. E penso che non sia possibile.
La voce di Fler è un borbottio, non sento cosa dice. Lo sento fare una pausa quando Chakuza gli dice che io so. E io trattengo il fiato, Fler conosce il posto. Penso solo questo. Peter gli dice che va bene, annuisce.
"Dov'è?" Chiedo subito.
Lui mi guarda, sempre a disagio. "E' meglio chiamare David," risponde.
"David? Il mio David?" Mi sollevo e mi scosto, sedendomi sul divano.
"Bill..."
"Non chiamarmi per nome!" Esclamò e lo sguardo oltraggiato che gli lancio lo costringe a guardare altrove. "Tu, Fler, David, qualcun altro a parte me? Il mondo intero, forse, visto che Bravo gli fa pure le foto come se fosse normale?" Mi ripeto che questa cosa non è possibile ma anche che se esiste una possibilità surreale che tutto ciò sia vero, allora sono così incazzato, oltre che sconvolto, che farò del male a qualcuno.
Lui espira, piano. "Solo noi tre," dice. "Ed Eko."
"Perfetto!" Ho già il telefono in mano. "Anche lo scemo del villaggio lo sapeva. Questa cosa è... è... vaffanculo!"
"Gli telefono," si offre lui.
"Non ti azzardare nemmeno," lo congelo sul posto. "David è roba mia."
Il cellulare di David è sempre occupato. A volte con gli altri ragazzi lo prendiamo in giro dicendo che, evidentemente, tutte le linee telefoniche dell'universo devono passare da lui perché a qualunque ora lo chiami, alla prima non ti risponde mai. E nemmeno alla seconda o alla terza. Finisce che devi riattaccare e riprovare in un secondo momento e ancora finché non hai il culo di beccarlo tra una telefonata e l'altra.
Io sono furioso, però, quindi non mi fermo. Compongo il numero, attendo e quando sento il segnale di occupato, riattacco, ricompongo il numero e ricomincio.
"Bill, calmati, per favore." Peter si è alzato e mi gira intorno come un condor. Sa che non deve neanche provare a toccarmi adesso, non può fare niente. Può solo sperare che mi tranquillizzi ma non ho intenzione di farlo perché Bushido è vivo. Penso con rabbia che mi deve delle spiegazioni. E poi, proprio mentre riattacco per richiamare David ancora una volta, mi rendo conto che se è vivo anche io ne dovrò una a lui.
"Pronto?"
"Dov'è?"
Mi sembra quasi di vederlo, David che aggrotta le sopracciglia. "Bill?"
"Lo so come mi chiamo," dico spiccio. "Dov'è?"
"Dov'è chi?" Fa lui. "Cosa stai dicendo? Hai per caso bevuto?"
Mi alzo perché non riesco a stare fermo, quasi mi scontro contro Chakuza che non sta fermo nemmeno lui. "Anis. Bravo lo ha fotografato."
"Bill," risponde piano e io so che sta per dirmi che è morto. "Bushido è morto."
"Già, questo è quello che credevo anche io ma quello nella foto è lui e Chakuza lo conferma. Quindi adesso tu mi dici dov'è."
Dall'altra parte della cornetta il silenzio è pesantissimo. Non lo sento nemmeno respirare. So che è ancora lì perché non è caduta la linea. "Sei a casa di Peter?"
"Sì."
"Fatti accompagnare da me. Ci andiamo insieme," la sua voce è professionale, quasi gelida. Ha una paura fottuta. E fa bene perché sono incazzato.
"Bushido è vivo e tu lo sapevi," dico. "Ti conviene avere un buon motivo per tutto questo David, perché giuro su Dio che me la paghi."
Quello che dice non lo sento, ho già riattaccato.
Io e Peter siamo fuori di casa l'attimo dopo ma in quel momento neanche mi rendo conto di quanto immenso sia il disastro che ho per le mani.
Io voglio solo vedere Anis.
*
Per tutto il tragitto in macchina di Peter, io non faccio che stringere un labbro tra i denti così forte che sento il sapore del sangue sulla lingua. Mi accorgo a malapena di quello che succede intorno a me. Colgo i lineamenti tesi e lo sguardo ansioso di Peter, colgo la calma surreale di David – che poi mi irrita oltremodo, perché è la calma con la quale in genere affronta le grane sul lavoro. Il fotografo è in ritardo? È con questa faccia che cerca di rintracciarlo al telefono. Le camere in albergo non sono ancora pronte? È con questa faccia che invita il consierge a darsi una mossa. Un giornalista fa una domanda eccessivamente personale? È con questa faccia che lo minaccia di trascinarlo in giudizio alla prima occasione favorevole. Qui, però, non si parla di lavoro. Si parla della mia vita. Della vita di Anis. David non dovrebbe avere quest’espressione addosso, e io riesco a tollerarla solo perché, appunto, in realtà tutto mi sta passando vicino senza sfiorarmi, come fossi fatto d’aria.
Sto guardando fisso davanti a me, vedo quello che mi passa davanti agli occhi – per dire, riconosco i quartieri, le strade, so che nei paraggi abita Eko – ma ne prendo nota come di particolari marginali. In realtà sto ripercorrendo a memoria gli ultimi nove mesi della mia esistenza e sto cercando il punto dal quale cominciare per parlare con Anis. Sto cercando di capire se dovrei cominciare picchiandolo perché mi ha spezzato il cuore fingendo di essere morto, o se forse sarebbe meglio cominciare spezzando il suo, confessandogli che sto con Chakuza.
E la cosa più assurda, la cosa più incredibile, è che sto dando per scontate così tante cose che, se solo penso di fermarmi a rifletterci e contarle tutte, mi viene quasi da ridere. Do per scontato che voglia rivedermi, do per scontato che provi ancora qualcosa per me, do per scontato anche di provare ancora io qualcosa per lui. Io amo Peter. Lo amo, no? Dio, sì che lo amo. L’ho aspettato per tanto di quel tempo, e sono così felice, Cristo, certo che lo amo. Ma la sola idea di rivedere adesso Anis mi confonde al punto che non so se le farfalle ce le ho nello stomaco o nella testa. O se quello che mi agita sia una folata di vento o un dannato uragano.
La macchina si ferma davanti al portone di un palazzo che non conosco. Mi sembra perfino di non averlo mai visto, il che è surreale, perché questa è Berlino, la Berlino di Anis, ed io con lui questa città l’ho vista tutta. Mi ha portato ovunque, me l’ha insegnata metro dopo metro, “la mia città sono io, principessa,” mi diceva, “se non conosci lei, non conosci me” ed io lo seguivo senza fare storie e mi perdevo nella sua voce mentre mi parlava delle cose più stupide, di come contava i metri per ricordare dove fossero posizionati i vicoli sicuri quando scappava dalla polizia in servizio la notte, di come avrebbe potuto girare senza sbagliare strada perfino ad occhi chiusi, dei locali che frequentava, dei posti in cui si nascondeva, delle case in cui dormiva quando si riduceva stremato al mattino dopo una notte di lavoro e cazzeggio. Dovrei ricordarmelo, questo posto, devo necessariamente esserci passato davanti, almeno una volta. Dovrei ricordare tutto, di quello che mi ha detto Anis. Ogni cosa che mi ha mostrato ed ogni parola con cui l’ha accompagnata. Ma ho il vuoto nel cervello, adesso, e questo posto non lo riconosco per niente.
- È qui.
Sento la voce di David come un’eco lontana. Peter non parla, e gliene sono grato, in questo momento. Vorrei voltarmi e dire a David che ha poco da fare l’epico, lui, ora come ora. Che è qui lo so, perché è qui che mi ha portato e lui sa perfettamente che, se solo avesse osato prendermi in giro e portarmi da qualche altra parte, gli avrei cavato gli occhi con le mie stesse mani. Che è qui lo so, anche perché me lo sento sotto la pelle. Guardo in alto, scorro tutto il palazzo – non ho idea di quale sia il piano in cui sta – e so che è lì dentro. So che è a qualche metro da me. So che fra meno di un minuto lo rivedrò. E mi copro di brividi, al punto che comincio a tremare.
Peter mi si avvicina. È discreto, lo è quasi sempre quando sa che a toccarmi male potrei esplodere. E invece non esplodo perché, come al solito, lui mi tocca benissimo. Allunga una mano e stringe la mia. La accarezza un po’, solo lievemente, sa che, se in questo momento si comportasse in maniera eccessivamente tenera, lo allontanerei. E invece non è eccessivo, è solo giusto, mi sfiora, mi stringe ed io mi calmo un po’. Abbastanza da voltarmi verso David e seguirlo con gli occhi senza ucciderlo mentre tira fuori dalla tasca dei jeans un mazzo di chiavi ed apre il portone, tenendolo dischiuso mentre mi fa cenno di entrare alla svelta. Obbedisco non perché me lo sta ordinando, ma perché la voglia di vedere Anis mi sta facendo bruciare da dentro.
Il tempo sta scorrendo a rilento. Vorrei poter essere più veloce, vorrei potermi muovere prima, vorrei essere già dov’è lui e vorrei averlo già sotto gli occhi. Ho paura che potrebbe andarsene di nuovo – ne ho paura e non l’ho ancora nemmeno rivisto – ho paura che, ad aprire quella porta in ritardo, Anis potrebbe non esserci. Non posso continuare a sopravvivere in questo stato ancora a lungo, perciò devo sbrigarmi e non mi riesce. Non mi riesce di essere più svelto e non mi riesce di essere già lì, cerco di divorare le scale di corsa e invece mi sento paralizzato.
David non so dove sia. È rimasto indietro, suppongo. Peter è sempre qui accanto a me. Continua a stringermi ed è d’aiuto davvero. Se mi lasciasse andare, probabilmente mi metterei a correre. E non posso correre, perché le mie gambe sono troppo rigide. Se solo mi muovessi nel modo sbagliato, penso che mi spezzerei. Sono un fascio di nervi e sento dolore ovunque, sudo freddo e sto male. Sto malissimo, cazzo. Forse mi sto già spezzando. Forse Peter non può aiutarmi anche stavolta.
Mi fermo quando Peter mi tira. Peter mi tira perché David gli ha indicato la porta giusta. Io seguo il cenno di David e fisso il legno fino ad impararne a memoria le venature. Poi David suona al campanello e sento i passi.
Non sono di Anis.
E infatti, quando la porta si apre, di fronte a me c’è Patrick. Che mi guarda come se fosse perfettamente normale. Tutto, poi. Che lui sia lì, che io sia lì, che Anis sia lì, da qualche parte. Neanche avessimo tutti avvisato per tempo e questa fosse una cordiale cena di famiglia. Non lo è, cazzo. Mi sta esplodendo il cuore. Non riesco nemmeno a respirare.
Patrick non parla. Però mi sorride. È intenerito, o forse no, i sorrisi di Fler sono sempre molto morbidi e questo è perfettamente uguale a tutti gli altri. Non so se sia sempre intenerito quando mi sorride, o se sia proprio il suo sorriso così. Dovrei chiedere a qualcuno che lo conosca meglio di me. Non mi viene in mente neanche un nome a parte Anis, e di decifrare i sorrisi di Patrick col suo aiuto, al momento, non mi interessa per nulla.
Mi faccio avanti di un solo passo, Fler tiene entrambe le mani sugli stipiti della porta ed ingombra l’entrata per intero. Potrei spostarlo solo a testate, e non sono sicuro che ci riuscirei davvero, anche provandoci. Comunque, nel movimento mi tiro dietro Peter, gli occhi di Patrick scendono sulle nostre mani ancora strette insieme e gli passa un lampo scuro negli occhi. I suoi lineamenti si tendono tutti e so che sta pensando che non dovrei stringere questa mano con Anis così vicino a noi. Lo so che lo sta pensando. Lo sto pensando anch’io. Ma se lascio Peter adesso vado in pezzi, perciò la mano resta dov’è.
La mano resta dov’è, sì, ma si irrigidisce anche lei, come i lineamenti di Fler. Sento le scintille nel punto in cui dovrebbe esserci Peter. Questa cosa la capisco meno, ma in realtà sto capendo pochissimo di quello che sta succedendo. Continuo a prendere nota dei particolari come dovessi riutilizzarli più tardi per ricostruire la scena di un crimine. Quello che vedo ora non sono che tasselli sparsi di qualcosa che non riesco a realizzare nella sua completezza. Vedo solo pezzi di cose. La mano di Peter, gli occhi di Fler, quel poco che si intravede oltre le sue spalle dell’appartamento illuminato poco e male. Nient’altro.
Mi inumidisco le labbra, prima di parlare.
- Voglio vederlo.
Fler inspira profondamente e poi trattiene il fiato per un secondo, prima di rispondermi.
- Lui vuole vedere te. – dice a bassa voce. E poi si scosta.
Forse perché sono un bambino, forse perché sono uno stupido, mi aspetto di trovarmi subito Anis davanti agli occhi come dovesse apparire per una qualche ragione. Non lo so, ci resto male quando non lo vedo. Resto fermo per un sacco di tempo. Lui lì all’ingresso non c’è.
- Dov’è? – chiedo, voltandomi a guardare Fler. Ho gli occhi pieni di lacrime, Patrick è una macchia sfocata che sbuffa una risata e mi precede. Seguo l’oscillare incerto delle mie lacrime che si colorano delle tinte della sua felpa, è una felpa ridicola che gli ho regalato io, bianca con le stelline verdi. Non posso credere che la indossi sul serio, è assurdo.
Gli vado dietro e Peter mi segue, continua a stringermi la mano ma è da quando ho messo piede nell’appartamento che ho perso sensibilità su tutto il corpo. So che le lacrime stanno scendendo – perché erano troppo pesanti perché le ciglia potessero tenerle intrappolate ancora a lungo – ma non me le sento scorrere addosso. So che mi sto muovendo, ma non sento i piedi toccare terra. So che Peter mi stringe, ma non sento il calore della sua pelle. Non sentirò più niente per tutto il resto della mia vita, lo so. Non ci riuscirò più. Però almeno ho smesso di sentire male. Anche se non posso dire di stare meglio così.
Patrick apre una porta senza bussare prima. Il mio cuore esplode. Di nuovo. E ancora.
Resta sulla soglia e si scosta per farmi passare. La mano è ancora lì. La stringo fortissimo, so che lo sto facendo. La stringo talmente forte che non posso evitare di accorgermene, quando la sento scivolare via.
Me ne accorgo e non vedo più niente, in un solo attimo.
Anis è lì. Sta in piedi davanti ad una poltrona, come si fosse appena alzato. Mi guarda dritto negli occhi ed ha quell’espressione buffissima che non si capisce mai se diventerà uno sorriso o uno sbuffo ironico. Ha i capelli lunghi – Dio mio, sono lunghissimi – ma li tiene stretti in un codino che spunta da dietro e gli solletica la nuca.
Sto piangendo, lo so. Devo essere un disastro. Ci stiamo vedendo adesso dopo un anno e sono tremendo.
Non riesco a spiccicare una parola, ho paura perfino ad aprire le labbra perché non so che mugolio in frantumi potrebbe venirne fuori. Parla Anis per me. Mi si avvicina piano, un passo dopo l’altro, e quando arriva tanto vicino che devo per forza sollevare lo sguardo per continuare a tenerlo piantato nei suoi occhi, si inginocchia. Così che lo sguardo posso fare a meno di alzarlo, e lo abbasso. Le lacrime scendono in goccioloni enormi. Le vedo e non le sento.
Ma ricomincio a bruciare nel momento esatto in cui la mano che prima stringeva quella di Peter finisce stretta fra le dita lunghe e forti di Anis. La tiene con una delicatezza che è solo sua, neanche fossi fatto di porcellana. La stringe appena. La bacia piano.
- È bello rivederti, principessa.
Ed io mi sento sciogliere. Non mi reggo più, gli frano addosso, non so come faccio a reggermi al suo collo mentre piango e mi lamento e lo stringo e non capisco più niente, ed è un bene che avesse un ginocchio piegato e sollevato da terra, o sarei caduto sbattendo contro pavimento così forte che avrei avuto un motivo molto più stupido per piangere. E invece sto piangendo per lui. Perché lo sto sentendo sotto le dita. Perché è vivo, perché è qui, perché sento il suo sorriso tenero contro il collo, perché sento il suo profumo, perché posso seguire con le labbra il profilo del suo viso e posso perdermici, posso farlo perché è vivo ed è tornato da me, ed al momento non mi interessano i motivi, non mi interesserebbe neanche se fosse morto davvero e poi risorto, anche se so che non è possibile: sarebbe comunque tornato da me, ed è tutto ciò che conta ora.
Sento solo distrattamente la porta che si chiude alle nostre spalle, ho gli occhi semichiusi e quel po’ che riesco a vedere resta filtrato dalle lacrime. Anis è una macchia scura con un buon profumo e un buonissimo sapore. Lo assaggio piano sulle labbra e in punta di lingua quando lui prova a baciarmi. E ci prova davvero, per la prima volta nella sua intera esistenza – comunque per la prima volta da quando mi tocca – non sta pretendendo niente. Mi sta solo dicendo che è qui e se lo voglio è ancora mio. Ed io lo voglio. Voglio che sia mio perché io non ho mai smesso di essere suo.
La sua fronte sfiora la mia e non si allontana dalla mia bocca, quando parla.
- Dovrei dirti un milione di cose, piccolo. – mi sussurra addosso, una mano che scivola contro il mio fianco, sotto la maglia.
Lo bacio lentamente.
- Dovresti. – annuisco senza schiudere gli occhi. Il suo naso sfiora il mio e mi solletica appena. Mi viene un po’ da ridere e lo faccio. È una risatina così piccola che mi stupisco che lui riesca a sentirla. Comunque la sente e ne fa una un sacco simile. Mi scoppia il cuore di gioia, cazzo.
Si tira in piedi, mi tiene saldamente per la vita e finisco per rimettermi dritto anch’io. Cerco di stringerlo forte al collo, o cadrò di nuovo.
- Ce la fai? – chiede a bassa voce, scivolandomi addosso lungo una guancia, il mento, il collo, - Ti tengo, se non ce la fai.
- Non ce la faccio. – ammetto spossato. Lui sorride e mi tira su di peso, allacciandomi sotto le gambe. Stringo le cosce così forte attorno alle sue anche, che quasi mi faccio male da solo.
Anis mi spinge contro una parete ed io piego il capo mentre bacia e morde ovunque riesca ad arrivare, sussurrandomi addosso cose stupende, o magari sono cazzate, però è la sua voce, e se la sento dire che gli sono mancato, se la sento dire che so ancora di buono, se la sento dire che sono esattamente come mi ricordava, anche se non è vero, anche se fa male, è bellissimo. È talmente bello che continuo a piangere, continuo a piangere anche se ormai sto ansimando e non faccio che agitarmi contro di lui perché non ce la faccio più, voglio sentirmelo contro e voglio sentirmelo dentro, e se non lo avrò immediatamente comincerò a piangere così forte che mi faranno male i polmoni.
Anis spoglia me e se stesso in un arco di tempo che non riesco a quantificare. Il suo calore e la sua forma pressati sulla pelle già da soli bastano a farmi mugolare di piacere. Non ricordo quando, sono riuscito a infilare due dita fra le maglie dello stupido elastico che gli teneva stretti i capelli, perciò ho sciolto la coda. Ora le mie dita passano attraverso le sue ciocche scure e mosse, le sento morbidissime sotto i polpastrelli e sorrido. Non li avevo mai potuti accarezzare così, i suoi capelli. Mi piacciono così tanto, spero che non li tagli più.
Lo chiamo pianissimo e stringo le dita sulle sue spalle, affondando quasi le unghie nella sua pelle. Lui ringhia e mi bacia con maggiore convinzione. Fa bene, ha ragione, gli ho detto che può farlo, voglio che lo faccia.
- Ti prego… - mugolo stremato, e lui non perde neanche un altro minuto prima di spingersi lentissimo contro di me. Si fa sentire appena, si tira subito indietro, - Ti prego! – ripeto, mordendogli le labbra, e l’attimo dopo è lì dentro di me. Esattamente al suo posto.
Si muove piano, così piano che a stento lo riconosco. Non è il suo ritmo questo, non è il suo modo di toccarmi. Questo continuo esitare e chiedersi se può – glielo leggo negli occhi, lo vedo oltre le ciglia lunghissime ed oltre la nebbia del piacere che prova – questo continuare a stringermi appena, questo non è lui. Io lo ricordo, com’era. Ricordo come mi sentivo a sbattere di schiena sulla testata del letto perché mentre mi scopava mi aveva tirato su di peso e mi ci aveva appoggiato contro per spingersi con più forza dentro di me. Ricordo com’era sentirlo affondare fino al limite, finché quasi faceva male, e ricordo com’era forte e salda la stretta delle sue mani contro i miei fianchi. Ricordo la sua lingua insinuarsi fra le mie labbra e giocare a rincorrere la mia senza chiedere per favore. È questo che voglio. Rivoglio il mio Anis. Lo rivoglio com’era. So che c’è ancora, lo rivoglio con me.
Lo chiamo pianissimo, gli mordo le labbra, gli chiedo di andare più veloce. Glielo chiedo, lo imploro, la voce spezzata dagli ansiti, le sue mani mi scorrono lungo i fianchi e così fanno anche i suoi occhi. Non mi ha ancora nemmeno accarezzato ed il solo modo in cui si muove dentro di me, colpendo tutti i punti giusti come se non avesse fatto altro fino al giorno prima, mi sembra già abbastanza per urlare e gemere ed ho paura di poter venire anche solo così, senza l’aiuto delle sue mani. Ne ho paura perché sarebbe stupendo – c’è riuscito solo lui – e ne ho paura perché sarebbe assurdo.
Lo sento sorridere contro il mio collo, sbuffando appena.
- Un tatuaggio nuovo… - commenta scivolando con le dita sulla scritta che si arrotola su se stessa fino alla mia anca, - È recente?
- È fra le cose di cui possiamo parlare dopo. – mi lamento cercando le sue labbra.
Lui si tira indietro apposta per non concedermele.
- È una B. – ride appena, e mi prende in giro sporgendosi un po’ solo per poi ritirarsi.
Lo tengo fermo chiudendo le mani a coppa sui suoi zigomi, e tirandomelo contro.
- Sei tu scritto addosso. – confesso, ed allora lui mi bacia. E ricomincia a spingere. Ed è duro, è forte, è veloce e impetuoso. È lui.
Smetto di trattenere la voce anche se fra noi e tutto il resto del mondo c’è solo una porta. Qui dentro siamo solo noi due, quindi – per quanto mi riguarda – anche in tutto il resto del mondo ci siamo solo noi due. Ci sono solo le dita di Anis, c’è solo il suo cazzo che si fa strada di prepotenza dentro di me, c’è solo lui che ricorda il mio corpo centimetro per centimetro, ci sono io che cerco il suo sapore ovunque, c’è solo il momento in cui mi stringe e trattiene il fiato, c’è solo il momento in cui una spinta più forte e mirata delle altre colpisce proprio il punto che mi fa urlare di piacere, c’è il momento in cui vengo, c’è il momento in cui viene lui, c’è un momento perfetto in cui esiste solo questo ed io non ho bisogno di nient’altro.
Ed è solo un momento. Purtroppo, dannazione, è solo un momento. Esito – le dita perse fra i suoi capelli – solo qualche secondo, il tempo di riprendere fiato, prima di cominciare a realizzare cosa è successo. Cosa ho lasciato succedesse, meglio. Ricomincio a fare la conta delle persone che popolano il mio mondo. Ricordo David – e che voglio pestarlo. Ricordo Patrick – e che voglio parlargli, anche se non so nemmeno di cosa.
Ricordo Peter.
Cristo.
Ricordo Peter. E non ho idea di come farò a guardarlo negli occhi quando sarò uscito da qui e lo troverò ad aspettarmi.
Anis mi poggia a terra ed ho di nuovo paura che mi cedano le gambe. Mi aggrappo con forza alle sue spalle, uso le unghie e lui si lamenta un po’.
- Fai piano, principessa… mi hai devastato abbastanza, ti pare?
Schiudo gli occhi – bruciano da impazzire per quanto ho pianto e per quanto forte li ho strizzati – e tutto quello che vedo, per un lungo periodo di tempo, è la pelle di Anis. Mi ci perdo come fosse un paesaggio di un nuovo mondo, annego nei suoi colori caldi e nel suo profumo aspro e forte, lo sfioro piano con la punta del naso e poi gli pianto le mani sul petto. E lo allontano.
Il mio movimento è molto più violento e repentino di quanto non volessi. Questo perché sento fisicamente che se non me lo allontano di dosso il prima possibile potrebbe succedere qualcosa di irreparabile.
Poi ci rifletto. E capisco che qualcosa di irreparabile è già successo.
Sollevo lo sguardo e trovo gli occhi di Anis. Mi fissano con un misto di confusione ed incredulità, e lui è tenerissimo, in questo momento: le labbra semidischiuse sono ancora umide dei baci che ci siamo scambiati e i capelli sono arruffati perché ci ho perso le mani dentro così a lungo che hanno perso il senso che la coda aveva loro imposto prima che la sciogliessi. Ha gli occhi grandi, il mio Anis, e li sta usando per chiedermi cosa mi prende. Perché non lo capisce. E mi viene di nuovo da piangere e mi dispiace che non capisca, e so che non potrebbe neanche volendo, perché io non ho la forza di dirgli cosa mi passa per la testa. Non ho la forza neanche di dirgli cosa è passato per la mia vita nell’ultimo anno. Non ho la forza di fare niente perché non ce la faccio a pensare che a solo pronunciare il nome di Peter affiancato al mio, come sarebbe giusto, potrei perdere Anis. Perderlo adesso dopo averlo ritrovato… io non posso farcela. Io non ho abbastanza sangue in corpo, non sono abbastanza forte e non ho altre lacrime da versare. Perciò faccio l’unica cosa che posso fare senza rischiare troppo.
- Stronzo. – sibilo astioso, e lo faccio perché ho ragione, perché voglio litigare e perché i litigi sono una cosa che io e Anis conosciamo bene. Sono una cosa dalla quale sappiamo come uscire. Ogni volta che litigavamo, prima che morisse, era come subire gli scossoni di un terremoto. Crollava la casa e dopo, con una serie interminabile di scosse di assestamento durante le quali lui concedeva qualcosa a me ed io concedevo qualcosa a lui, ricominciavamo ad andare d’accordo. Era tutto davvero così semplice. Voglio che torni ad essere tutto semplice com’era allora. – Stronzo. Tu… come hai potuto, Anis?
Lui inspira profondamente e le sue labbra diventano sottili come linee, mentre tutti i suoi lineamenti si tendono. Gli vedo passare negli occhi qualcosa che suona più o meno come un “ecco, ci siamo”, e stringo forte i pugni.
- Era necessario, piccolo. – risponde seccamente, - Eri in pericolo.
- Ero… - annaspo, stringendomi nelle spalle e cominciando a cercare in giro i miei vestiti, - Ti avevano sparato! Eri tu quello in pericolo! Cos’è, appena hai visto che eri riuscito a salvare la pelle, piuttosto che tornare da me dove saresti stato di nuovo in pericolo, hai preferito andartene?!
Gli passa sul volto un’ombra di offesa, la vedo nel modo caratteristico in cui aggrotta le sopracciglia, ma non ho il tempo materiale di soffermarmi su quello che gli ho detto – non ho modo di realizzare quanto sto essendo cattivo in questo momento – perché lui prova a fermarmi con un “Bill” stentato ed io non voglio lasciarglielo fare. Perché potrebbe consolarmi, e non voglio che sia lui a farlo. Perché voglio urlargli di tutto e non voglio lasciare che lui me lo impedisca.
- Tu… tu sei vivo, Cristo santo! Da quanto? Dove cazzo sei stato, Anis, nascosto qui dentro per tutto l’ultimo anno? Ti sei divertito, qui da solo? Come le hai passate le giornate, spiandomi? Mandando… mandando David a… il mio manager, cazzo, Anis, tu… non avevi il diritto di farlo!
- Piccolo, - cerca di avvicinarmisi, mettendo le mani avanti come avesse paura che potessi scattare improvvisamente a morderlo al collo, - non sai cos’è successo. Noi non dovremmo litigare, dovremmo parlare.
- No, sei tu che non sai cos’è successo! – urlo spintonandolo lontano, - Io sono quasi morto di dolore, stronzo! Ho pensato che non ce l’avrei fatta, mi sono sentito finito! Io ho ucciso un uomo per te! Lo sai questo? Te l’ha detto David? Ho ucciso un uomo perché quell’uomo aveva ucciso te, e tu non eri morto! – mi fermo a riprendere fiato ed Anis è lì fermo che mi guarda. Non c’è più traccia di offesa nella sua espressione, adesso è solo triste. Non riesco a capire se avergli detto queste cose fa di me una persona ingiusta o se semplicemente dovessi farlo e basta. Io non ho torto. Io non ho torto, cazzo. Io non posso pensare di avere torto, perché se ammettessi di aver sbagliato tutto fino ad ora, con questo litigio, con quello che abbiamo fatto prima, col modo in cui ho vissuto l’ultimo anno… se ammettessi di aver sbagliato tutto, io non saprei più da dove ricominciare. Anis non potrebbe aiutarmi. Non potrebbe aiutarmi Peter. Non potrebbe aiutarmi Tomi, non potrebbe aiutarmi Patrick, non potrebbe aiutarmi nemmeno David. E io non potrei farcela comunque. Sarei una persona finita. Non voglio. Io non ho torto. Io ho ragione. – Noi possiamo solo litigare, Anis. – dico infine, distogliendo lo sguardo e finendo di rivestirmi, - Perché non ho nient’altro di cui parlare con te.
E non aggiungo nient’altro. Non lo fa neanche lui. Restiamo a guardarci a lungo e io vorrei fare una cosa che, quando stavamo insieme prima, facevo spesso, dopo le litigate. Anis non è mai stato davvero morbido, con me, se mi meritavo di essere mandato a fanculo ci andavo anche. Nel senso che mi ci mandava senza problemi. Ed io ero sempre troppo cocciuto e arrabbiato e isterico e tutto per capire che quel “vaffanculo” era un “riprenditi, Bill, perché io non posso avere a che fare con un sedicenne, ne ho le palle piene”. E quindi sì, urlavo “d’accordo, come preferisci!”, ma prima di uscire sbattendo la porta dicevo sempre “a più tardi!”. Ed era una cosa carina perché succedeva sempre che dopo un paio d’ora, quando sentiva che la mia rabbia era sbollita ed ero di nuovo pronto al dialogo, Anis mi raggiungeva dovunque fossi – dovesse anche essere casa di mia madre a Loitsche – e veniva a riprendermi. Era il suo modo silenzioso di chiedermi scusa. Tornare a casa con lui era il mio modo silenzioso di chiedere scusa a lui.
Ora non posso farlo. Non posso dirgli “a più tardi!”, non posso dirgli proprio un bel niente. Non posso neanche permettermi di sperare che lui venga a riprendermi comunque, fra un paio d’ore. Posso solo tacere, finire di rimettermi a posto ed uscire dalla stanza. Perciò lo faccio. Anis non cerca nemmeno di fermarmi.
Il mondo, di fuori, mi sembra ghiacciato. Volto in giro lo sguardo alla ricerca di Peter e Patrick e non trovo nessuno dei due. Non fatico ad immaginare cosa possa essere successo: Peter avrà cominciato a devastare un appartamento non suo e Patrick, per evitare che lui si ritrovasse nei confronti di Bushido con più debiti di quanti non ne abbia già, l’avrà trascinato via. Ora starà probabilmente cercando di calmarlo a suo modo. Non ho mai capito in che modo Patrick calmasse Peter, ma è straordinariamente efficace. D’altronde non mi stupisce, Patrick è straordinariamente efficace nel calmare chiunque. Vorrei che fosse qui, adesso, così potrebbe calmare me. E poi potrei mandarlo a calmare anche Anis.
Mi accorgo di David solo quando lui si accorge di me. E non succede subito, visto che si era palesemente perso nella propria testa mentre osservava il vuoto, appollaiato sul bracciolo di una poltrona. Solleva lo sguardo chiarissimo su di me e non me la sento di urlare anche contro di lui. Però se lo meriterebbe.
- …sono esausto. – dico in un mezzo singhiozzo, e il secondo successivo David è accanto a me e mi stringe fra le braccia. E so che dovrei avercela a morte con lui e odiarlo furiosamente e tutto, ma mi concedo di rimandare. Non ce la faccio, voglio rimandare. Mi appoggio contro di lui e nascondo il viso nell’incavo del suo collo. Piango solo un altro po’. – Voglio andare a casa.
David annuisce piano, la sua guancia ruvida struscia lentamente contro la mia, infastidendo la pelle già irritata dalle lacrime, ma non lo allontanerei per niente al mondo.
- Ti ci riporto. Vuoi andare da Tom?
- No. – mi lamento, - Voglio andarmene a casa mia. Voglio… voglio andare a dormire. Mi porti al mio appartamento, per favore?
Lui annuisce ancora, e mi resta vicino mentre mi allontano ed asciugo le lacrime. Non diciamo una parola. Restiamo in silenzio fino a casa, ed anche lì l’unica cosa che sento è un saluto a bassa voce ed una richiesta, “fatti sentire quanto prima, Bill. Quando vuoi, ma quanto prima”. Annuisco e basta. Ho detto delle cose tremende, oggi. Voglio dimenticarmi che rumore fa la mia voce. Non lo tollero più.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Fler/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Lui ha annuito e mi ha baciato ancora. E, poco prima di prendermi, lì sul divano, mi ha sussurrato sulle labbra “sono felice, piccolo, sai?”. Io ho sorriso e gli ho risposto “anche io lo sono”. Parlavamo chiaramente di due felicità diverse."
Note: Quando io scrivo qualcosa, o sto raccontando una storia (e allora ho una trama e vengono fuori come niente malloppi da trenta pagine minimo), o sto seguendo una suggestione. Questa oneshot rientra nel secondo caso, e quindi presumibilmente comincerò ad odiarla non appena la ricopierò al pc (al momento sto scrivendo sul mio bellissimo squadernino Muji da 7mm, in ufficio di mamma). Ora come ora, comunque, provo per lei una discreta quantità di affetto. Perché è piccola ma, pur nel suo essere così sospesa, la trovo completa: senza raccontare quasi niente, descrive la fine di un amore e l’incerto inizio di un altro (anche se quest’ultimo dipende un po’ da quello che ci volete vedere voi XD Io, per dire, ce lo vedo; e sono felice così =P). Spero abbiate gradito ^^
Titolo rubato ad un verso di Back For Good dei Take That (non commentate, grazie XD). Storia partecipante a Temporal-mente. <3
Ps. Il 31 marzo è stato scelto perché pare che, proprio quel giorno lì, sia stata scattata questa foto. Il fangirling ha fatto il resto XD
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UNAWARE BUT UNDERLINED
"I never loved someone the way that I'm lovin' you." (Fallin' – Alicia Keys)

Nel momento in cui la mia vita è cambiata per sempre, io stavo festeggiando il compleanno di Georg. È un peccato che, come punto di riferimento, io abbia solo una data – il trentuno marzo duemilanove – e non anche un orario – che ne so, le nove, le dieci, le undici di sera – perché se avessi quello potrei anche dire esattamente che cos’è che stavo facendo in quel preciso attimo. Se erano le nove, per dire, stavo prendendo a scappellotti mio fratello perché lanciava occhiate fin troppo esplicite alla sorella di Gustav. Se erano le dieci, stavo sbocconcellando con aria annoiata delle tartine dal sapore orrendo. Se erano le undici, stavo cercando il cellulare in un delirio di borse e giacconi, e lo stavo cercando per chiamare Anis. Perché mi mancava, perché non lo sentivo da due ore e perché mi stavo annoiando al punto da desiderare il suicidio – o cominciare a fantasticare sulle sue mani che mi scorrevano addosso non più di dodici ore prima.
E invece niente. Invece non so che ore erano mentre Anis e Fler ricominciavano a parlare dopo anni di silenzio e guerra di bande, e quindi non saprò mai né a che ora precisamente sia andata a puttane la relazione più importante della mia vita, né che cazzo stessi facendo mentre tutto questo accadeva. E tutto ciò è ridicolo.
Anis non mi ha mai parlato di Fler. Non che avesse qualcosa da nascondere – o almeno credo – e non che non ne avesse voglia – Anis è uno cui va sempre di parlare, qualsiasi sia l’argomento in discussione. È che io non ho mai chiesto. Sinceramente, la cosa non mi ha mai interessato più di tanto. Mio fratello mi parlava di diss e scontri fra rapper ed io archiviavo il tutto alla voce “bambinate”. Come si fa a prendere sul serio un gruppo di uomini che si sfanculano via radio? È ridicolo, è ancora più ridicolo dei bambini che si fanno i dispetti spaccandosi i giocattoli a vicenda.
Per quanto Tomi potesse esaltarsi, e per quanto gli occhi di Anis potessero prendere a brillare quando c’era di parlare del suo passato all’Aggro Berlin ed a tutta la merda che s’erano buttati addosso fra di loro quando lui aveva deciso di andare via – quel milione di anni prima – per me rimaneva tutto troppo stupido, troppo infantile e, soprattutto, troppo distante per rappresentare un argomento interessante. Era una cosa, era accaduta, era antica: non c’entrava niente col mio presente, io ed Anis vivevamo insieme in una villa enorme, gialla, tremenda e bellissima, in uno dei quartieri più ricchi di Berlino. Cosa poteva avere a che fare la nostra vita meravigliosa con quel passato così stupido?
Quindi, d’accordo, lo ammetto. Forse in parte è anche colpa mia, se io e Anis ci troviamo in questa situazione, adesso. Forse avrei dovuto essere più curioso e attento, forse avrei dovuto interessarmi di più.
Ma ero innamorato. Anche Anis era innamorato, io lo so questo. E quando ami così vivi in mezzo alle certezze, sei forte dei tuoi sentimenti e convinto al cento per cento che non potranno mai venire meno.
Forse, anche se avessi saputo di Fler e di tutto ciò che il suo nome scatenava nella mente di Anis, non sarei comunque riuscito ad accorgermi di quello che stava succedendo. Probabilmente neanche Anis se n’è accorto, probabilmente è solo successo. E nessuno avrebbe potuto farci proprio un bel niente.
La cosa più assurda di tutte è che io, Fler, non l’ho nemmeno mai incontrato. Non fosse un rapper famoso, non saprei nemmeno che faccia ha e non conoscerei neppure il suono della sua voce. Anis ci ha tenuti separati come era giusto facesso fin dal principio, perché Anis è uno attento a queste cose, smista bene ogni oggetto che possiede e lo tiene chiuso nel proprio universo di appartenenza. Fler veniva dal ghetto, e lì è rimasto, anche se non so dove viva adesso e dubito fortemente che stia in un appartamento diroccato in quel di Tempelhof.
Io, comunque, col ghetto nella testa di Anis non c’entravo niente. E infatti ne sono rimasto fuori.
Quando mio fratello mi ha riaccompagnato alla villa, dopo la festa di Georg, Anis non era ancora tornato a casa. Ho sbuffato pesantemente, perché odio che non sia a casa quando torno. C’è quasi sempre, d’altronde, mi sarà capitato di non trovarlo solo un paio di volte. E poi non mi sono certo trasferito da lui per non trovarlo.
Comunque, insomma, lui non c’era, perciò io ho fatto la doccia, ho scrostato via dalla faccia quei due chili di trucco sfatto che la impiastricciavano, mi sono cambiato e mi sono arrotolato sul divano di fronte alla televisione. Anis ha un televisore da centottanta pollici che credo sia illegale. Qualsiasi cosa, vista su uno schermo tanto grande, sembra incredibile ed enorme. La pubblicità di una marca di grissini con in sottofondo una colonna sonora firmata Hans Zimmer può sembrare la cosa più epica del mondo, anche se tutto ciò che vedi è un nonnino che passa attraverso un campo di grano accarezzando ogni spiga neanche fosse un nipote. Non è questione di quello che vedi, è questione di come lo vedi, di quanto nitidi e vividi sono i colori, di quanto è chiara la risoluzione del video, di quanto è alto il volume che le casse parietali ti sparano dritto nelle orecchie. Se riesci a farti prendere dalla sensazione fisica che ciò che stai guardando costringe il tuo cervello a provare, è molto probabile che tu ti ci perda dentro e poi fatichi ad uscirne. Soprattutto se sei molto stanco.
Io sono stato particolarmente sfigato e, subito dopo la pubblicità dei grissini, ho beccato gli ultimi venti minuti di Matrix Revolution. Non potete capire che esperienza extrasensoriale sia guardare quel film su un televisore come quello, finché non lo provate. È una cosa più che epica, è una cosa esagerata, quasi eccessiva. A me piacciono da morire le cose esagerate ed eccessive, tant’è che sono come sono, adoro mio fratello e, quando mi sono innamorato, mi sono innamorato di Anis.
Insomma, sono rimasto lì sul divano a stordirmi di Keanu Reeves, e quando Anis è tornato a casa non me ne sono nemmeno accorto. Non ho sentito girare le chiavi nella porta, non ho sentito la porta aprirsi e richiudersi, non l’ho neanche sentito muovere i primi passi all’interno della casa. Mi sono accorto di lui solo quando il divano s’è mosso sotto di me, il profumo dell’aria è cambiato ed ho sentito la sua voce bassa e un po’ roca chiedermi “Di nuovo ipnotizzato, piccolo?”.
La sua voce mi ha riportato sulla terra, perciò mi sono riscosso e mi sono voltato a guardarlo, mugolando scontento come faccio sempre quando pretendo le coccole arretrate, e lui ha sorriso e spalancato le braccia. Quando mi sono spalmato contro di lui, gli ho annusato addosso l’odore acre del kebab, ed ho storto il naso.
- Dove sei stato? – gli ho chiesto in un altro mugolio stanco. E poi, senza aspettare che mi rispondesse e fosse lui a ricambiare la domanda, gli ho raccontato la mia serata. – La festa di Georg è stata noiosa, come tutto ciò che ha a che fare con Georg. Non vedevo l’ora di andarmene, e tra l’altro deve aver scelto il servizio di catering peggiore di tutta la Germania, perché ho mangiato delle tartine così orribili che ne sento ancora il saporaccio sulla lingua. – ho sospirato profondamente, - E ora non posso nemmeno chiederti di mandarlo via, perché sicuramente saprai di cipolla, olive e spezie. Sei tremendo.
Anis ha riso piano fra i miei capelli e mi ha stretto più forte, accarezzandomi lentamente le braccia.
- Io sono uscito con Ali ed altri ragazzi. – ha risposto quindi, visto che gli stavo lasciando il tempo di farlo.
Io ho sbuffato.
- Lo sapevo che doveva essere colpa di qualche arabo. – ho borbottato stancamente, - Quale figlio di non so che cugino “non-di-sangue-ma-fa-lo-stesso” sta per sposarsi, questa volta?
Anis ha riso ancora, più forte.
- Niente del genere, piccolo. – ha scosso il capo, - Però io e Fler avevamo bisogno di parlare e lui sapeva che non avremmo potuto farlo in campo neutro. Mi doveva del vantaggio.
Ho sollevato gli occhi, fissandolo imbronciato.
- Giocate ancora a farvi la guerra? – ho biascicato stancamente. Anis ha riso di nuovo, accarezzandomi il collo ed attirandomi a sé per un bacio umido e svelto.
- Abbiamo appena smesso. – ha risposto quindi, ma io non ho realizzato cosa questo potesse significare, perché lui mi aveva appena baciato e, anche se sapeva davvero di kebab, quando Anis mi bacia io smetto di pensare. Mi ha respirato un po’ fra le labbra e si è allontanato appena, poggiando la fronte contro la mia. - …se vuoi vado a lavarmi i denti. – ha suggerito dolcemente, con un mezzo sorriso.
Io ho scosso il capo.
- Vai benissimo così.
Lui ha annuito e mi ha baciato ancora. E, poco prima di prendermi, lì sul divano, mi ha sussurrato sulle labbra “sono felice, piccolo, sai?”. Io ho sorriso e gli ho risposto “anche io lo sono”. Parlavamo chiaramente di due felicità diverse.
Anis non è mai veramente cambiato, nel corso delle ultime settimane, e non sono cambiato neanche io. Non è stato come svegliarsi una mattina e scoprire di non volere più niente dall’uomo che mi dormiva accanto.
Uccidere l’amore non è tanto facile. È un sentimento persistente. Ci vuole del tempo. È un processo lungo. L’amore non lo devasti in un colpo, perché anche di fronte alle cose peggiori l’amore non scompare. Non è una bomba, non puoi farlo esplodere, contare i danni e constatare che non ne è rimasta traccia.
L’amore lo logori poco a poco. Lui c’è, continua a resistere fino all’ultimo. Quando lasci la persona che hai amato, in quel preciso momento l’ami ancora. E le ultime tracce di quel sentimento continui a tenertele dentro, finché non le piangi.
Il nostro amore l’ha ucciso un uomo con cui io non ho mai avuto nemmeno il piacere di parlare. L’ho solo visto crescere negli occhi di Anis, nei suoi continui ritardi, nelle sue mezze risposte confuse e nel suo nome che si affacciava sempre più spesso sulle sue labbra.
Non credo che Anis fosse mai stato innamorato, prima di innamorarsi di me. Il problema di quando t’innamori una volta, comunque, è che la volta successiva, se ricapita, lo riconosci. Anis deve averlo capito, quando è successo. Quando il battito del suo cuore ha cambiato ritmo. Quando il suo nome sulla lingua ha cambiato gusto. Quando i suoi colori hanno cominciato a significare più di quanto non fosse pronto ad ammettere. Anis deve averlo capito per forza.
Io non l’ho realizzato finché non gli ho sentito addosso un sapore che non era mio e non era nemmeno nostro. Non l’ho realizzato, in sostanza, fino a questo preciso momento.
- L’hai baciato? – parlo, ma non riconosco il suono della mia stessa voce.
Neanche Anis lo riconosce, o forse semplicemente non crede che possa davvero averglielo chiesto.
Deglutisce pesantemente, guardandomi negli occhi.
- Ma che dici, piccolo? – chiede con una certa tenerezza, sporgendosi per baciarmi ancora. Io lo fermo, piantandogli una mano sul petto. Non voglio sentirlo di nuovo, questo sapore sconosciuto.
- L’hai baciato. – ripeto, e stavolta non è una domanda. La domanda viene dopo. – Perché?
Anis non protesta. Non riesce neanche a reggere il mio sguardo. E dire che mi sto impegnando tanto per non piangere. Non voglio che si senta in colpa, voglio solo che mi dica come stanno le cose. Cosa intende fare di noi. Cosa intende fare di me.
- Anis… - lo chiamo piano, cercando i suoi occhi, - Perché? – e, visto che ancora non risponde, provo a rispondere io. – Lo ami?
Lo sento tendersi tutto a pochi centimetri da me. Quasi trema. Si inumidisce le labbra, sospira profondamente.
- È complicato, piccolo.
Complicato, dice lui. Non è esattamente quello che si dice delle cose semplici che però non vuoi risolvere?
- Prova a spiegarmelo. – insisto senza distogliere lo sguardo.
Lui lascia affiorare alle labbra un mezzo sorriso stanco.
- Non credo che ci riuscirei. – ammette poi in un sussurro, - Per la verità non riesco a spiegarlo nemmeno a me stesso, piccolo. Non saprei neppure dirti se è una cosa che c’è sempre stata o sia nata adesso. Non so nemmeno se mi piace, come puoi pretendere che sappia se lo amo?
- Non sai se ti piace? – annaspo a fiato corto. La semplicità con cui ne parla mi dà i brividi. – Ma l’hai baciato…
- Una cosa non implica l’altra, piccolo.
- L’hai baciato perché non avevi niente di meglio da fare?
- L’ho baciato perché volevo baciarlo, Bill. – risponde duramente, aggrottando le sopracciglia, - Questo vuol dire che adesso so di cosa sa e so che mi è piaciuto il suo sapore. Mi chiedi se lo amo? Non lo so, piccolo. Il bacio si è fermato molto prima che riuscissi a capirlo.
Inspiro ed espiro. Mi prendo tutto il tempo che mi serve.
- Io ti amo. – dico infine, - Non ho mai amato nessuno come amo te. Non sai se ami lui, d’accordo. Sappi però che io amo te. Quindi, adesso, è tua la scelta.
Anis mi guarda a lungo. Schiude le labbra ma non parla. Ricambio il suo sguardo e lo scruto attentamente, cercando da qualche parte nel fondo dei suoi occhi una qualche traccia di me.
Non la trovo.
Mi allontano trattenendo il fiato. Non penso di essere pronto a sentirmi dire che è meglio se porto via le mie cose.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Chakuza, Fler/Chakuza, Fler/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- "Fler si guarda intorno con aria allarmata e posa la bottiglia. Gli rimane sul labbro inferiore una goccia di birra e la cancella velocemente con la lingua. Ci resto un tantino. Sulla lingua e sulle labbra. Il sapore di Fler lo conosco così bene che mi sembra quasi di sentirmelo addosso mentre lo guardo."
Note: Ehm. Ci dispiace. Sorpresa ^O^
Dunque, ieri sera il fratello della Tab - dalla quale mi trovo in vacanza - ha spento il modem mentre noi cercavamo di mantenere i nostri impegni di madri devote - che hanno in pugno la storia, ve lo assicuriamo; per quanto possa sembrare stia andando a ramengo, non è così. Da ciò si deduce che dopo aver postato la prima parte non abbiamo potuto postare anche la seconda. Quindi, insomma, ci dispiace per chi dovesse aver già letto la prima parte senza poter sapere che fosse appunto la prima, e speriamo che abbiate gradito la seconda. Che peraltro è la parte più bella perché il Flerkuza finalmente limona. A parte questo: il Bu è bellerrimo - anche se non fa molto più che ridere; il Chaku merita disapprovazione - e Tab mi sta odiando molto per questo, ma lei sa che non disapprovo il Chaku a prescindere ma solo quando mette mano sul bimbo quando non dovrebbe. Adesso sta protestando che Fler gli appartiene, ma io mi dissocio; Fler... so che può sembrare un po', come dire, una mezza zoccola, però... la presenza del Bu mi sconfinfera un po' tutti, quindi giustificatelo se si fa un po' annusare qui e là tipo stendendosi sul tavolino in una chiara offerta che, peraltro, nella testa del Chaku, il Bu non solo nota ma accetta di buon grado anche se in realtà il povero tunisino si è limitato a posare la propria tazzina lì accanto al culetto in offerta. Per quanto riguarda Eko (del quale probabilmente non vi frega una sega, ma io lo amo, perciò ne parlo) egli è il bene, ha palesemente capito tutto di cosa succede nei letti degli altri - anche perché nel suo non succede niente, quindi ha del tempo libero - ed è lol. E la questione del fantasma noi ce la portiamo dietro da circa un milioni di anni.
Ci scusiamo ancora per il disguido e divertitevi ^O^
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TYPISCH ICH

Fler si attacca alla bottiglia con un’urgenza stranissima, e siccome non gliela vedo addosso da un sacco di mesi, questa necessità spasmodica di bere, un po’ mi preoccupo. Anche se mi rendo conto che forse avrei dovuto preoccuparmi già da prima, quando mi ha chiesto di uscire insieme perché doveva assolutamente parlarmi, ma io no, non mi preoccupo mai al momento giusto. Mi sono sentito dire “Usciamo? Ho bisogno di parlarti” ed ho pensato solo “Ah”. Ed era un “ah” ironico, del tipo “ma allora esisto ancora nel tuo mondo, pure se non ti fai più vedere e quando ti cerco sei evasivo e scostante”. Come se non sapesse che a me ‘ste cose danno fastidio.
A tutti gli effetti, l’ultima volta che ci siamo guardati negli occhi è stato circa due settimane fa, quando l’ho… quando gli ho di nuovo messo le mani addosso dopo una pausa che durava da… da Bill, praticamente. Analisi non ne ho fatte, conclusioni non ne ho tirate. Ho smesso di cercare di trovare un senso razionale al mio rapporto con Fler. Non c’è un senso razionale, siamo partiti col piede sbagliato e con quello continuiamo a camminare.
- Be’? Che mi dici? – provo a chiedere sorridendo, mentre rubo dal suo piatto gli stuzzichini che ci hanno portato con la birra. I miei sono già finiti perché sono così nervoso che li ho buttati giù senza nemmeno accorgermene.
Fler si guarda intorno con aria allarmata e posa la bottiglia. Gli rimane sul labbro inferiore una goccia di birra e la cancella velocemente con la lingua. Ci resto un tantino. Sulla lingua e sulle labbra. Il sapore di Fler lo conosco così bene che mi sembra quasi di sentirmelo addosso mentre lo guardo.
Devo calmarmi un po’.
Mando giù un altro stuzzichino.
- Non sono stato molto chiaro, quando ci siamo visti l’ultima volta. – comincia lui con una lucidità sorprendente. Fler è un tipo schietto ma s’imbarazza per un niente, che è una cosa che posso capire benissimo, visto che per me è uguale. Cioè, io sono meno schietto. Però m’imbarazzo lo stesso. Comunque adesso mi sta guardando negli occhi e non è imbarazzato neanche un po’. È perfettamente lucido e tranquillo, come se questo discorso se lo fosse ripetuto in testa per mesi.
Mi fa un po’ paura, come cosa. I discorsi si preparano solo quando sono importanti.
Annuisco vagamente ed allungo di nuovo la mano verso il suo piattino. Lui la schiaffeggia a mezz’aria.
- La pianti di mangiarti la mia cena? – ride, rilassandosi un po’ contro lo schienale, - Oggi sono da solo, non mi va di tornare a casa e cucinare. Fammi mangiare.
- Be’, potresti venire da me, passiamo dalla signora Lotte e… - mi fermo quando mi rendo conto che io per primo non capisco se lo sto invitando a mangiare o a fare altro. Nella mia testa c’è la stessa incertezza che leggo nei suoi occhi. La cosa è veramente spaventosa.
Fler sospira e mordicchia un crostino pieno di mozzarella filante, ma lo riposa subito. I suoi lineamenti si tendono all’improvviso, perché c’è crollato addosso il silenzio e non è facile riprendere un discorso in una situazione simile. Non è facile anche perché io lo sto guardando come se avessi paura di farlo sparire muovendomi, me ne rendo conto. Ma è tutto troppo strano, troppo serio forse, le nostre interazioni non sono quasi mai così. Spariamo cazzate o ci insultiamo, ma non siamo mai seri.
- Di cos’è che volevi parlarmi? – cerco di aiutarlo, chinandomi un po’ nella sua direzione.
Fler sospira, si morde l’interno di una guancia e manda giù un altro po’ di birra.
- Chaku, io adesso te lo dico, ma tu non dai di matto, okay? – e me lo chiede col tono incerto di chi sa perfettamente che ciò che dirà provocherà esattamente la reazione che sta cercando di scongiurare.
- Fler…? – lo chiamo incerto, aggrottando un po’ le sopracciglia.
- No, sul serio. – si sistema sulla sedia lui, mettendo le mani avanti, - Prima di tutto non è una cosa a lungo termine, e poi potrebbe essere la soluzione migliore, credo, e-
- Fler, tu stai giustificando qualcosa che non so. – gli faccio notare, vagamente allarmato, - Ti rendi comprensibile?
Sospira ancora, più forte, con aria quasi rassegnata. Poi cambia di nuovo posizione sulla sedia, e proprio mentre sto pensando che il suo non riuscire a stare comodo mi ricorda cose che non vorrei mai più richiamare alla memoria – e che però ogni tanto mi tocca ricordare comunque, se non altro perché me lo merito – lui parla.
- Ho pensato… - comincia piano, - che potrei andare un po’ fuori città. Non mi sembra che la mia presenza qui sia di aiuto a nessuno, dico, non a te né a me sicuramente, e Sido sta per andare in tour e pensavo che potrei andare con lui, anche perché è da tanto che non vado un po’ in giro a cantare e mi manca. Così sarebbe tutto molto più semplice, non credi?
Finisce di parlare ed io resto in silenzio. Lo fisso. E leggo nei suoi occhi lo stesso naturalissimo ragionamento che passa per il cervello a me: fosse un amico, sorriderei e direi “perfetto, Atze, mi sembra una cosa meravigliosa!”, gli allungherei una manata sulla spalla, gli offrirei il secondo giro di birra e poi lo saluterei augurandogli buona fortuna.
- Perché? – chiedo invece. Quindi mi sa che nel ragionamento perfettamente naturale di cui sopra c’è una falla. O che la falla sta nelle nostre teste. Per lo meno nella mia.
- Come, perché? – chiede Fler, spiazzato, inclinando il capo.
- Dico… - continuo, - l’altra sera… quando ti ho chiesto se non volevi più vedermi, hai detto che non era così, e ora-
- Ma non è che non voglia più vederti! – si affretta a correggermi lui, ma non mi guarda negli occhi. Cerco di resistere al bisogno di afferrarlo per il mento e costringerlo a farlo. – È solo per questo periodo, tu sei un po’ confuso ed è meglio che non ti stia intorno.
Aggrotto le sopracciglia e mi lascio andare ad un mezzo ringhio.
- Piantala di parlare come se capissi tutto. – borbotto contrariato.
Fler mi lancia un’occhiata supponente.
- E tu piantala di parlare come se io non capissi niente. – ribatte asciutto. – Hai questo brutto vizio, Chakuza, di considerarmi un cretino. È un errore madornale che continui a ripetere.
Incrocio le braccia sul petto.
- Io non penso che tu sia un cretino. – cerco di convincerlo, ma lui mi zittisce con un cenno della mano.
- Non ti stavo chiedendo il permesso. – dice duramente, - Parto dopodomani.
Spalanco gli occhi.
- …senti. – protesto a bassa voce, - Tu non puoi prendermi così per il culo, Fler. Tipo, non puoi dirmi… - abbasso la voce e mi avvicino, cercando di non attirare l’attenzione, - non puoi dirmi che non ti andava, l’altra sera, e pensare che io ci creda. Ti stavo toccando. Lo so che ti andava. Tu non capisci che non puoi dirmi no quando io so che dentro la tua testa c’è un sì. – lui fa una smorfia contrariata, ma io non mi fermo e non gli lascio il tempo di negare, - E non puoi dirmi che devi parlarmi di qualcosa e poi, vedendo che la mia risposta non ti piace, sperare di darmi a bere che non stavi chiedendo il permesso. Tu non sei mai sincero con me. Questa cosa deve finire.
Fler stringe le dita attorno alla bottiglia e mi fissa, sconvolto. Io trattengo il respiro.
- Chakuza… - comincia, ma si ferma subito. Ha gli occhi spalancati e ci posso vedere dentro tanto di quello schifo che mi sento male. Esita un po’ e per un secondo ho quasi paura che lo dica. Che finalmente lo ammetta a chiare lettere. Che lo sa, Cristo, che sa tutto, e che quindi sono io che dovrei smetterla di prenderlo per il culo. Piantarla e basta. Ma non lo dirà, io lo so. Infatti lo vedo abbassare lo sguardo e mordersi un labbro, posando un pugno chiuso sul tavolo, - …smettila. – conclude semplicemente. – È meglio per tutti.
Tiro un sospiro di sollievo e mi avvicino ancora un po’.
- Intanto, io non credo che sparire sarebbe meglio né per te né per me. – spiego, - Basta solo cercare di calmarsi un po’ tutti e due… - sono io che devo calmarmi, ma va be’, - Possiamo tranquillamente stare nello stesso posto senza che-
- Pensavo la stessa cosa mentre spostavamo l’armadio. – mi interrompe lui, occhi bassi, - E mi sbagliavo.
- Be’, quello magari è stato un errore. – non so dove voglio andare a parare, visto che ha ragione lui. Se resta, ricapiterà. È matematico. Lo so come funziona. Lo so come funziono. Funzioniamo così. – Possiamo evitarlo, in futuro.
- No che non possiamo. – protesta.
- Oh, avanti. – sbotto io, agitando una mano, - Non è che abbia voglia di saltarti addosso ogni volta che ti vedo. – Fler trasale e si irrigidisce sulla sedia. È offeso e io mi stupisco di quanto sia facile portarlo dove voglio. Poi mi ricordo che dovrei smetterla di stupirmi. In realtà io e Fler non facciamo che metterci agli angoli da quando ci siamo conosciuti. Il nostro non è un rapporto, è un incontro di boxe perenne. Lui mi spinge alle corde ed ottiene quello che vuole, e la stessa cosa faccio io nel momento successivo. È un meccanismo talmente rodato che pensare di interromperlo non è veramente possibile. – Non sempre, Fler, ma ogni tanto succede. – ammetto semplicemente. – Che dovrei fare? Ignorarlo?
La risposta è sì, ovviamente. La risposta che passa sul viso di Fler è “sì, stronzo, sì che dovresti”. Ma resta un riflesso sul suo viso, non si traduce in parole ed io sono ancora in vantaggio. Sono in vantaggio solo perché lui non mi sputtana, d’accordo, ma è un vantaggio comunque.
Paghiamo e usciamo in strada qualche secondo dopo; il vento secco e freddo del primo autunno mi sferza in pieno viso e tiro su il cappuccio della felpa, rimpiangendo immediatamente il tepore dell’interno del locale. Fler è teso e nervoso come mai, sento a pelle che, potesse, mi schiaccerebbe contro un muro e mi pesterebbe a sangue fino a farmi dimenticare come mi chiamo. È una sensazione che per certi versi posso capire: fino a due settimane fa ero perfettamente felice e sereno, non mi mancava niente. Da due settimane a questa parte, però, non faccio che darmi motivi per spaccarmi la testa contro un muro.
Forse dovrei farlo: risolverei un mucchio di problemi.
Passeggiamo in silenzio per un po’, mi pare di non avere una direzione, però a un certo punto ci fermiamo e Fler mi guarda.
- La tua macchina… è da queste parti? – mi chiede.
A me viene un po’ da sorridere. Certe volte si comporta in maniera assurda.
- No, dobbiamo andare da tutt’altro lato, verso-
- No. – riprende, scuotendo il capo, - La mia macchina è qui. – si ferma ed indica una mastodontica Escalade nera all’interno della quale la mia utilitaria entra due volte. Anche se me l’ha fatta sistemare per il compleanno – con il bagagliaio nuovo, la vernice nuova, la tappezzeria nuova, così bella come non mi sembrava fosse nemmeno quando l’ho comprata – resta comunque una cosa ridicola in confronto a questo gigante su ruote. Io rimango a boccheggiare qualche secondo e lui ne approfitta per continuare, - Io ora salgo e me ne torno a casa mia. Se vuoi, ti do un passaggio fino alla tua macchina. Poi tu ci sali e te ne torni a casa tua. – si ferma ancora, esita. – E poi sarebbe meglio non sentirci né vederci più, Chaku.
Odio che mi abbia detto una cosa simile col tono in cui l’ha fatto. Dolce, rassegnato, tranquillo. I toni della voce di Fler sono sempre molto chiari, perché quasi sempre lui sa esattamente cosa ti sta dicendo. Non parla a caso, Fler. Non apre la bocca per darle aria. È un uomo pratico, dice lo stretto indispensabile e te lo dice esattamente come deve dirtelo.
Odio che mi abbia detto una cosa simile con questo tono, perché adesso so che non stava mentendo quando mi diceva che no, non voleva. Non voleva davvero.
Odio che mi abbia detto una cosa simile. Lo odio e basta.
- Fler-
- No. – mi sorride appena, - Mi dispiace. Io ci tengo a te. È il massimo che sono disposto a dirti, Chakuza, ma tu sai esattamente cosa significano queste parole. Io ci tengo a te. Però non esiste, Chaku. Pensavo di… pensavo di star via per un po’ e credevo che, lasciando andare le cose com’era giusto andassero, quando fossi tornato avrei trovato una situazione migliore. Ma tu ci ricaschi, Chaku.
- Aspetta, Fler-
- No, guardati. – vorrei che la smettesse di cominciare tutte le sue frasi con un no. – Lo sai da quanto non mi guardavi così? – io deglutisco, ma mando giù solo aria. – Odio quando mi costringi a dirti cose simili. – riprende lui, un po’ infastidito, - Comunque questi occhi li ho aspettati per mesi e non sono mai arrivati. Tornano adesso quando decido di andarmene… ci ricaschi troppo facilmente, ed io sto cominciando a pensare che fra noi due non ci sia proprio niente, Chakuza.
Lo afferro per una spalla e lo sbatto contro lo sportello dell’Escalade. Lui non fa una piega, continua a guardarmi.
- Questo non puoi dirlo. – ringhio a bassa voce, - Non puoi dirlo, Fler.
- E invece lo dico. – non accenna nemmeno a scostarsi da me. Anzi, mi prende per il bavero della felpa e mi tira più vicino, così vicino che sento il suo respiro caldo addosso. Non capisco se mi sta torturando o se è solo dannatamente indeciso. Le sue parole non denunciano indecisione, comunque. – Lo dico perché mi stai mandando fuori di testa. Quando ho deciso di restarti intorno, Chaku, l’ho fatto dicendoti chiaramente di fare in modo che ne valesse la pena. Ti sembra di averlo fatto?
Lo afferro per i fianchi, di prepotenza, e mi schiaccio contro il suo corpo. Non mi interessa se siamo per strada. Non mi interessa se possono vederci. Non mi interessa neanche se vuole andarsene, io non lo lascio.
- Non in quel senso. – scuote il capo lui. Fra noi c’è la solita tensione di sempre. Fra me e Fler sono sempre scariche elettriche, non è mai una cosa tranquilla. Com’è che non le ho sentite, in questi mesi? Dov’ero con la testa?
E penso a Bill.
Lo penso a casa sua.
Lo penso che mi aspetta.
E penso a me e mi sento una merda.
Mi allontano.
- …no, credo di non averlo fatto, Patrick. – ammetto a bassa voce, - Mi dispiace.
Lui annuisce e si sistema i jeans, tirandoli su per i passanti della cintura. L’ho scombinato un sacco. Ha anche il giubbotto sollevato e un lembo di felpa incastrato nell’orlo dei pantaloni.
- Non ce l’ho con te. – dice, ma non è sincero. Vorrebbe non avercela con me. Però mi sta detestando. Probabilmente perché non riesco a trovare il modo giusto di trattenerlo.
So che un modo c’è.
So anche che dire addio a Bill per Fler, però, non è una possibilità contemplabile.
- Vorrei solo chiuderla nella maniera più semplice e tranquilla possibile. – continua lui, finendo di sistemarsi. Poi sbuffa un mezzo sorriso. – È patetico che io e te ci si decida a parlare chiaro solo alla fine, vero?
Mi inumidisco le labbra.
- Non volevo neanche che arrivasse, la fine. – dico sinceramente.
Lui ride un po’, è una risata per nulla risentita.
- Preferivi continuare a prenderci in giro tutti? – alzo lo sguardo e mi arrabbio, e lui ride ancora. – Te stesso compreso, ovviamente. – io sospiro e torno a guardarmi la punta delle scarpe. Sento ancora la sua risata, sottile e breve, e poi lo vedo chinarsi un po’ per recuperarmi: appoggia le labbra sulle mie e poi si rimette dritto, così che io sono costretto a risollevare il viso a mia volta, se non voglio perderlo. È un bacio così, asciutto e semplice. Non è per nulla una cosa nostra, noi non ci baciamo mai così. È sempre una cosa molto più fisica e bagnata, ed anche più violenta. Questa è una cosa che con noi non c’entra, ed è quello che mi fa pensare che un noi non c’è già più.
Però c’era. Io lo so. Che Fler ci creda o no, noi c’eravamo.
Le nostra labbra schioccano appena quando lui si allontana, ed io non ho il coraggio di chiedere di più, anche se lo vorrei. Anche se, mentre tenevo gli occhi chiusi e mi lasciavo baciare, non esisteva davvero nient’altro. Probabilmente dipende dal fatto che io e Fler abbiamo sempre usato il sesso principalmente come scacciapensieri. Più di ogni altra cosa, quelli erano i momenti in cui smettevamo di ragionare. Ed io decisamente avrei bisogno di smettere di ragionare, in questo momento. O di ricominciare a farlo, forse.
- Quello nel canale doveva essere l’ultimo. – mi dice piano, - Però potrebbe essere l’ultimo anche questo, suppongo.
Io sbuffo un po’.
- Ci pensi da tanto, eh?
Fler annuisce.
- Da molto più di tanto.
Restiamo in silenzio per qualche secondo, e nel tempo che passa Fler infila le chiavi nella serratura ed apre lo sportello, arrampicandosi disinvoltamente sul sedile e restando lì con una gamba penzoloni verso la strada e l’altra ben piantata sul bordo della portiera.
- Allora non ci vediamo più. – chiedo conferma, mentre sulle sue labbra affiora un sorriso tranquillo.
- Penso proprio di no. – annuisce.
- E non ci sentiamo più.
- No, Chaku. Non ci sentiamo più.
Annuisco anche io. Ho improvvisamente voglia di tornarmene a casa e prendere a cazzotti qualcuno dei soprammobili di gomma che mamma mi compra ogni tanto. Se ne esce con certe cose assurde. C’è un vaso – un vaso enorme, ha dentro fiori di plastica impolveratissimi – che servirebbe proprio bene allo scopo.
- Addio. – gli sussurro, mentre lui tira su l’altra gamba.
Fler ride.
- Come sei epico. – e sono le ultime parole che mi dice prima di chiudere lo sportello e farmi cenno con la testa di togliermi di mezzo, se non voglio finire investito dall’Escalade mentre la tira fuori dal posteggio.
Non lo seguo con gli occhi perché non voglio vederlo scomparire dietro un angolo. Cristo, non ricordo un giorno della mia vita nell’ultimo anno in cui Fler non ci sia stato, fra alti e bassi. Non può andarsene così, cazzo. Anche se l’ho lasciato andare, non avrei dovuto. Non è stato giusto.
Risalgo sul marciapiedi e comincio a dirigermi verso la macchina, le mani nelle tasche e lo scazzo che vortica a mille nella testa, quando squilla il telefono. Tiro fuori l’apparecchio con stizza e fisso lo schermo. È tardi per Bill, a quest’ora già dorme. E infatti non è lui.
- Eko…? – spalanco gli occhi e lo dico pure ad alta voce. Eko non mi chiama quasi mai, lo fa solo in momenti di reale bisogno. Quando è morto Bushido, per esempio.
Accetto la chiamata e rispondo.
- Pro-
- Chakuza, Cristo santo, ho un fantasma in casa!
Mi perdo.
Letteralmente.
Stringo il telefono fra le mani e deglutisco.
- Tu hai cosa dove, Eko?
- Cristo santo! – ripete lui, senza il minimo senso, - Il cazzo di fantasma! È tornato perché abbiamo fatto qualcosa di sbagliato! Cristo santo, Cristo santo! Chakuza, quando hai fatto fuori Saad tu eri sicuro che fosse lui l’assassino, vero? Perché se non era lui e quell’altro è tornato per vendicare il cugino morto, Cristo, giuro che ti appendo per le palle in Alexanderplatz, Chakuza!
Seriamente, non ho la più pallida idea di cosa stia parlando. So solo che quando ha nominato Saad m’è salito il cuore in gola e che spero vivamente non sia per strada a parlare di tutte queste cazzate, altrimenti lo appendo io per le palle in Alexanderplatz.
- Eko… - sospiro pesantemente, - È una serata di merda. Seriamente. Ma proprio di quelle che vorresti non fossero mai iniziate.
- Dillo a me! Apro la porta mentre aspetto il ragazzo delle pizze e mi ritrovo davanti il cazzo di fantasma che-
- Una serata di merda, dicevo, perciò… - controllo l’orario, - Eko, ‘cazzo chiedi la pizza a mezzanotte passata, scusa?!
- Ma non è la pizza il punto fondamentale, Chakuza! Tu hai dei problemi seri! – mi sbraita all’orecchio. E poi chiarisce una volta per tutte: - Il punto è che io ho aperto la porta e davanti mi sono ritrovato Bushido. Bushido, capisci?
No. Non capisco.
- Eko…?
- Un cazzo di fantasma, capito? Un fantasma. Cristo. – fa una pausa. – Io non ci rientro in casa, quindi tu ora mi passi a prendere e mi porti da te. E domani torno con un estintore bello pesante o qualcosa di più adatto. Come si uccidono i fantasmi, Chakuza?
- …dubito che la schiuma chimica funzioni. – sospiro. È evidentemente ubriaco. – Eko, senti. – non ci tengo a portarmelo a casa, stanotte, - Ora vengo da te e poi saliamo insieme. Così ti faccio vedere che non c’è nessun fantasma, in casa tua. Soprattutto non quello di Bushido.
- Fa’ un po’ quel che cazzo credi. – dice lui, improvvisamente compunto, - Comunque sono sicuro quasi al cento per cento che il fantasma sul pianerottolo sia colpa tua, in qualche modo contorto. Sei la fonte di tutti i mali. Magari dall’alto dei cieli ha saputo che vuoi chiudergli l’Ersguterjunge ed ora ci perseguiterà a vita.
- Eko, ti prego!
- Comunque il succo è: vieni perché sennò scappo da Kay. E tu non vuoi che io scappi da Kay, perché Kay vive in un porcile peggio di casa tua, e se sarò costretto a stare da lui poi vorrò le tue palle su un piatto d’argento.
- Per mangiarle? – sbotto irritato, - La tua fissazione per le mie palle è inquietante.
Mi manda a fanculo e chiude la conversazione senza neanche abbassarsi ad aggiungere altro.
Raggiungo la macchina in tempi ragionevoli ma non supersonici, ecco, se Eko è ubriaco può anche stare per strada a rinfrescarsi la testa per un po’. Intendo, non è il tipo cui salterebbero tutti addosso come Bill, e non è neanche il tipo da sfondarsi al punto da rotolare per i marciapiedi come Fler, perciò posso stare abbastanza tranquillo.
Quando arrivo sotto casa sua lo trovo a camminare avanti e indietro con aria furiosa, proprio di fronte al portone del palazzo. Accosto senza posteggiare, sperando di cavarmela in una decina di minuti, e scendo dall’auto.
- Cristo, Chaku, ci hai messo un’era! – mi assale lui, - Il senza-tetto? – chiede poi, guardandosi intorno. Si riferisce a Fler. Ogni volta che me lo vede piantato accanto parte col solito teatrino per il quale Fler in realtà non ha una casa e vive da me perché non ha i mezzi per pagarsene una propria, visto che è un rapper sfigato. Sarà meglio non parlare dell’Escalade con Eko.
Digrigno i denti e ringhio un po’.
- Non siamo mica sposati. – sbotto acido, - Non so nemmeno dove cazzo sia.
Lui annuisce.
- Questo spiega la tua ira, Atze. – dice con aria comprensiva, - Non dovresti rinnegare i tuoi sentimenti. Prendi esempio da Bushido, buon’anima: il suo fantasma sarà irrequieto, ma almeno nella vita s’è goduto tutto quello che ha voluto.
Per un attimo accarezzo con amore la possibilità di afferrare il cric dal portabagagli e prendere Eko a mazzate fino a lasciarlo svenuto per terra.
- A proposito di fantasma… - sbotto esasperato, - Non sono venuto qui per questo?
Lui annuisce come lo stesse ricordando in questo preciso momento.
- Eccome. – mi afferra per un braccio e comincia a trascinarmi, - Mi dirai tu se è vero o meno. Io, comunque, là dentro non ci torno.
- Va bene, va bene! Cristo! Ma non mi spingere così, so camminare da solo! – protesto quando prende a spintonarmi su per le scale, fino al secondo piano.
Facciamo tutto di corsa, che è una cosa che detesto – fare le cose di corsa, dico – e quando arriviamo di fronte alla porta dell’appartamento – ovviamente spalancata, Eko ha le pecore turche a pascolargli in testa, lo so – lui mi molla lì e si rifugia verso l’ascensore.
- Vai avanti. – dice con aria sconvolta, - Io aspetterò qui fuori il tuo urlo di terrore.
Sospiro pesantemente ed agito una mano, mandandolo a quel paese senza troppe cerimonie. Mi introduco nell’appartamento buio e silenzioso, convinto che tutto ciò che troverò sarà al limite qualche ladro che si è intrufolato qua dentro mentre Eko era fuori a sclerare e rompermi le palle, perciò mi sento addirittura fortunato quando vedo che l’ingresso è vuoto e così anche il salotto. Mi dirigo spedito verso la camera da letto, so che è là che Eko tiene gli orologi e le chiavi della Mercedes, perciò se c’è qualche malintenzionato sarà lì. L’idea del fantasma l’ho abbandonata da un pezzo. Era delirante, in fondo.
Per questo, quando mi si spalanca la porta del bagno di fronte al viso, quasi ci resto secco. Ma sul serio.
Perché questo non è un cazzo di fantasma. Qui non c’è proprio niente di simile. Qui c’è qualcosa di molto peggiore.
Qui c’è Bushido. Vivo.
Cristo.
Stringe una salvietta fra le mani e si asciuga lentamente i palmi, perfettamente a proprio agio. Io resto lì a guardarlo, troneggia su di me come una specie di statua di qualche dio antico. Ma ha un’espressione del cazzo che poi immagino sia la stessa che ho io. Voglio dire, mi fissa come se mi stesse vedendo per la prima volta. La luce giallastra del bagno lo colpisce in pieno da dietro, così che dal corridoio buio io non posso vederlo perfettamente in ogni dettaglio, ma scorgo la sagoma di una coda corta a svettare dietro la nuca e mi rendo conto del tempo passato.
Nove mesi.
Un anno fa sembra un altro universo.
Bushido è vivo.
- Chaky. – mi chiama lui, ed il tono è morbido e divertito. È esattamente la voce che ricordo. È lui. – Ho saputo che stai cercando di mandarmi in bancarotta. – e ride appena, uno sbuffo ironico e per nulla cattivo.
Continuo a guardarlo e non riesco a spiccicare una parola. Non riesco neanche a capire cos’è che dovrei dirgli.
Eko non mi sente urlare e si affaccia alla porta, fissandoci con aria allibita.
- Chaku… - mi chiama con voce tremante, - Perché non stai scappando?
Io deglutisco.
Non stacco gli occhi da Bushido.
Cerco a tentoni la tasca sui jeans ed il cellulare nella tasca. Quando lo trovo e lo sollevo all’altezza del viso, mi schiarisco la voce.
- Credo che chiamerò Fler. – esalo. E sono le prime ed ultime parole che dico, mentre Bushido ride e scuote il capo, per nulla stupito.
Cristo.
Non è stupito.
Se non è stupito da Fler… quante altre cose sa?
*
Riesco a sentire solo tre cose, in questo momento. Una è la voce di Eko, isterica e nasale e concitata, che si confonde nella raffica di domande con cui sta tartassando Bushido, che, per proprio conto, sta mangiucchiando pistacchi perfettamente a proprio agio, sul divano. Un’altra è la risata di Bushido stesso, che si intervalla alle domande di Eko quando si fanno troppo assurde. Tipo quando lui chiede se all’Inferno fa caldo e gli dà dello stronzo per non essere tornato prima.
Sopra tutto, comunque, sento il suono della linea libera sul cellulare di Fler. Che non mi risponde. Ovviamente.
Un po’ lo capisco. Me lo vedo, seduto al volante di quella cazzo di macchina enorme, che fissa il display del telefonino e impreca ad alta voce. “Che cazzo vuole ancora questo?”. Ti voglio qui perché c’è qualcosa che hai perso e abbiamo ritrovato. Ti voglio qui perché, anche se non lo sai, ho trovato qualcosa che hai perso e non volevo ritrovassi.
Ti voglio qui perché qui c’è l’unica cosa Bill abbia mai perso davvero.
E un po’ spero ancora che, se tu passassi attraverso quella porta, non vedresti niente, solo me ed Eko in paranoia di fronte al vuoto. Diresti “Be’? ‘Cazzo mi hai chiamato a fare, Chaku?”. Ed io mi guarderei intorno, Bushido sarebbe sparito e allora potrei ridere e dirti “Niente, non mi andava che te ne andassi, tutto qua”. E potrei avere ancora una possibilità di decidere per i giorni a seguire.
- Non ti ha voluto manco il diavolo in persona, Atze! – sento Eko che si affloscia sul divano accanto a Bushido con un tonfo pesante. Mi volto e lo vedo che sta lì, vicinissimo al bracciolo, come avesse paura di toccarlo, - Stai sul cazzo anche a lui!
E Bushido ride ancora.
Io interrompo la chiamata – che tanto squilla a vuoto – ed allo stronzo in fuga mando un messaggio. “Devo parlarti di Bushido”. Speriamo che almeno così la smetta di fare l’adolescente ribelle.
Bushido sta ancora ridendo e sgranocchiando pistacchi, nel mentre. È perfettamente tranquillo, neanche non fosse andato mai via. E invece di mezzo c’è una morte – la sua – un coltello in una pancia – la mia – un bacio – sbagliato – una relazione – la nostra, mia e di Fler – un’altra morte – di Saad – e un’altra relazione – la nostra, mia e di Bill.
Una resurrezione, francamente, mi pare eccessiva.
Lo stronzo in fuga non richiama. Ringhio e lo richiamo io. Non mi aspetto che risponda, voglio solo rompergli i coglioni, e invece eccolo che risponde al primo squillo, furioso.
- Chakuza, sei patetico, tirare fuori Bushido per-
- È vivo. – lo interrompo, senza aspettare che abbia concluso il cazziatone.
Lui rimane zitto e non respira nemmeno.
- Sei pessimo. – riprende a fatica dopo un po’, - Se era un tentativo di zittirmi per-
- Era un tentativo di zittirti. – ammetto, - Per poi spiegarti che è vivo davvero.
Fler esita. Io guardo ancora Bushido ed Eko – Eko gli sta rubando il pacchetto di pistacchi dandogli del fantasma egoista del cazzo – e Bushido solleva lo sguardo verso di me e mi sorride. Lo fa con calma e naturalezza, come ha sempre fatto. Sorrideva di continuo. È una cosa di cui ho parlato anche con Fler, in un tempo che mi sembra lontano secoli, ed anche lui ha ammesso che era vero, Bushido da quando era all’Ersguterjunge sorrideva sempre. Fler ha aggiunto acido anche “perché i problemi li aveva lasciati a noi poveri stronzi e di tutto il resto si era dimenticato”, ma il punto della questione era un altro: Bushido sorrideva sempre perché non aveva motivo di essere triste. La sua vita era perfetta.
È assurdo che sia morto e poi tornato in vita per ritrovarsi in mano un qualcosa che non esiste più. Non so nemmeno come farò a dirglielo.
- Chakuza. – mi richiama Fler dall’altro lato della cornetta, - Cosa cazzo stai dicendo?
Sempre che in qualche modo non lo sappia già, ovviamente.
- Vieni a casa di Eko. – ordino, comunicandogli l’indirizzo. Lui fa una smorfia infastidita di cui sento l’eco in un lamento. Lo zittisco. – È una cosa seria, Fler. Vieni. – vienitelo a riprendere.
Lui interrompe la chiamata imprecando ad alta voce, io ripongo il cellulare in tasca e torno in salotto, aggirandomi con aria inquieta attorno al tavolino basso davanti al divano.
- Lo stronzo sta a due isolati da qua. Ci puoi pensare? – mi dice Eko, che continua a fissarmi con gli occhi a palla come fosse ancora sicuro che l’ipotesi fantasma sia più razionale rispetto all’ipotesi “sono ancora vivo”. – Da due settimane. E indovina dov’è stato prima, per tutto questo tempo.
Bushido ride.
- …non ne ho idea. Sotto terra? – provo, fissando Bushido con lo stesso sguardo allucinato col quale Eko fissa me.
Bushido ride ancora ed io, sinceramente, vorrei la piantasse.
- A Miami! – sbotta Eko, allargando le braccia in segno di profondo sgomento.
In un primo momento non capisco. Penso solo: è a Miami che si va, dopo morti?
Poi realizzo.
E un po’ mi viene anche voglia di mandarlo a fanculo. A Miami va, il bastardo. A Miami.
Prendo fiato.
- Bushido, tu eri morto. – metto bene in chiaro, così che nessuno di noi possa scordarlo, visto che qui mi pare si stia passando sopra la cosa con un po’ troppa leggerezza. Lui annuisce e mi fa segno di sedermi in poltrona. Io obbedisco senza fiatare.
- È complicato da spiegare, Chaky. – dice, con una certa tenerezza, - Ma vi dirò tutto, piano piano. Prima, però, ho delle questioni da risolvere.
Ed io sono lì che tremo e prego in un centinaio di lingue che fra le varie questioni da risolvere non ci sia anche Bill, che suonano al campanello.
Io guardo Eko ed Eko guarda me.
- Mbe’? – sbotta, sollevando supponente il mento, - È il tuo uomo, tu l’hai chiamato, vai ad aprirgli.
Lo mando a fanculo e mi alzo in piedi mentre Bushido ride ancora – anche se c’è una sorta di tensione, nella sua risata, una nota un po’ stridente che nelle risate di prima non c’era. Non fatico a ricollegarla alla presenza di Fler oltre quella porta. A meno che non sia il ragazzo delle pizze che Eko minaccia di denunciare da ore.
Apro la porta e di fronte a me c’è un Fler che non ho mai visto in vita mia. Ha quattordici anni negli occhi, non uno di più. Poi non è cambiato per niente, ma gli occhi bastano: sono enormi, liquidi e persissimi. E dovrebbero essere gelidi, perché quando Fler è scazzato i suoi occhi diventano pezzi di ghiaccio, ma non c’è traccia di freddo in fondo alle sue pupille. Non ce n’è davvero per niente. Sono caldi, anzi. E non stanno guardando me.
- Sei venuto davvero… - esalo, un po’ sconvolto. A saperlo, avrei usato la scusa di Bushido per quando ha continuato a darmi picche nell’ultimo periodo.
Stupido Peter. Piantiamola un po’. Me lo dico da solo, va’.
Lui annuisce, comunque.
- Se scopro che è una cazzata, Chakuza, ti prendo a calci nelle palle fino a fartele uscire dalla gola.
Sospiro e mi lamento anche un po’.
- Ma che avete tutti stasera con le mie povere palle? – mugolo, scostandomi lievemente dall’uscio per farlo entrare.
- Le tue palle sono un pericolo pubblico. – precisa lui con una mezza risata, sfilandosi la giacca ed appendendola all’attaccapanni. Poi torna a guardarmi. È ancora un ragazzino e questa cosa mi distrugge in un modo che non capisco. Mi fa venire un groppo in gola che non so decifrare. – Mi spieghi un po’? – chiede appena, - E… a proposito… quello stronzo del padrone di casa?
- Eko è di là… - spiego, indicando il corridoio con un dito. Esito un po’, prima di aggiungere il resto. - …con lui.
Fler deglutisce e stringe le labbra.
- È tornato dalla morte?
Io scuoto il capo. No, è tornato da Miami.
Mi mordo la lingua.
- Pare non sia morto affatto, in realtà. E… sappia un mucchio di cose.
Fler annuisce anche troppo tranquillamente. Guarda un punto a caso nel vuoto e socchiude appena le palpebre, come si stesse perdendo nei propri pensieri ed avesse bisogno del giusto tempo per farlo. Poi sbuffa una mezza risata.
- Mi scazza e mi sembra anche un po’ assurdo da dire, - confessa alla fine, - ma è così schifosamente da lui che non fatico neanche a crederci. – poi scuote il capo e torna a guardarmi. – Mi ci porti? – e lo dice con lo stesso identico tono di un bambino un po’ impaurito che chiede al padre burbero di accompagnarlo sull’ottovolante.
Annuisco senza volerlo fare davvero e lancio un’occhiata alla porta come a chiedermi se esista la possibilità di afferrare Fler per il cappuccio della felpa, uscire da quest’appartamento e riprendere il corso della nostra vita esattamente per com’era prima di stasera. Non ho il tempo di concludere il pensiero che sto già portando Fler al cospetto di Bushido – ed è una cosa molto epica, a pensarci; questi due si sono lasciati accoltellandosi. Voglio dire. È assurdo.
Entro prima di Fler e non so bene come annunciarlo. Ci vado giù in maniera tranquilla.
- Atze? – e mi sento vagamente in colpa ad usare ancora questo soprannome, - Senti, c’è Fler.
Bushido ride e la voce di Patrick mi arriva dritta alle spalle come una pugnalata. È vicinissimo.
- Non ho mica bisogno del permesso, per ricevere udienza, io. – mi supera e si para davanti a Bushido con una calma impressionante, - Ho il lasciapassare automatico.
Bushido non si alza. Nemmeno si muove. Resta seduto sul divano e lo guarda con un sorriso strafottente sul volto. Sembra incredibilmente più giovane anche lui, il che è strano. Immagino sia l’effetto della presenza di Fler.
Ci sono un sacco di cose che mi vanno di traverso, stasera. Non mi piace proprio come si sta mettendo la situazione in generale.
Fler sorride appena e si siede sul tavolino basso, proprio di fronte a Bushido. Le loro ginocchia quasi si sfiorano e Fler si piega un po’ in avanti per guardarlo dritto negli occhi.
- Ero lì, quella notte, perché volevo dirti che eravamo a posto, Atze. – lascia scivolare le parole fuori dalle labbra con naturalezza disarmante, - Ero lì sotto per questo. Non sono stato io. Volevo dirtelo. Non sono stato io. E siamo a posto.
Bushido inspira ed espira, senza perdere il sorriso.
- Lo so. – dice a bassa voce. Non aggiunge nient’altro.
Vorrei poter dire qualcosa anch’io. Vorrei poterli mandare a fanculo entrambi, tanto per cominciare. Bushido perché è tornato, Fler per altre duemila ragioni. Cazzo, a guardarlo mi viene un nervoso che non so nemmeno descrivere. Mi prudono le mani. Ha ancora sulla faccia quel sorrisino di prima e lui e Bushido che si guardano negli occhi senza dire altro sembrano una cosa unica nata insieme. E mi viene da ridere perché Fler me l’aveva pure detto: non esplicitamente, ma tutte le volte che partiva in quarta a parlare di Anis, dietro ciò che diceva c’era sempre un concetto di base che lo vedeva coinvolto con lui in un modo diverso rispetto al modo in cui era stato coinvolto con chiunque altro nella sua vita. Ed io lì a ridere e prenderlo in giro. Io lì a pensare che fra noi ci fosse… io lì come un cretino.
Aveva ragione Fler. Se mai c’è stato qualcosa, non c’è più nulla già da un pezzo. E se pure un qualche frammento era rimasto, nell’ultimo minuto è stato spazzato via.
O almeno così mi sembra.
Non facesse così fottutamente male, forse lo capirei meglio.
Bushido si piega in avanti a propria volta. Lo fa con un sorriso strafottente sul volto. Si piega in avanti e sfiora quasi la fronte di Fler con la sua.
- …non so come chiamarti. – ride alla fine, e Fler lo segue, socchiudendo gli occhi e scuotendo il capo, - Mi viene in mente di tutto. – c’è Eko che li fissa sconvolto e poi guarda me quasi in imbarazzo, ma loro lo ignorano. Ci ignorano. – Ragazzino, Frank, Fler…
- Patrick andrà bene, Anis. – lo interrompe Fler, sorridendo più apertamente.
Patrick non va bene neanche per un cazzo. Io lo chiamo Patrick solo quando lo rimprovero. Neanche quando scopiamo. Fanculo. Patrick non va bene neanche per un cazzo.
- Io comunque non sono tornato dall’altro mondo per una rimpatriata. – dice ad un tratto Bushido, alzandosi in piedi e venendo verso di me, mentre Fler prende e si mette comodo sul tavolino, piantando i palmi sul vetro e stirandosi un po’ indietro con un mezzo sorriso soddisfatto sul volto. Non mi vede più da almeno mezz’ora e quella posizione lì mi fa incazzare oltre ogni dire. – Potrà sembrarti assurdo, Chaky, ma sono venuto per parlare con te.
Sollevo lo sguardo e lo fisso, sconvolto.
- Con me?
Ma vaffanculo, anche.
Lui annuisce.
- Volevo dirti personalmente, - dice con tono scherzoso, - di piantarla di mandare in malora la mia attività, prima che io ti prenda per le palle e te le stacchi di peso per usarle come bolas. – Fler scoppia a ridere. Anche Eko. Vorrei che lasciassero tutti in pace le mie palle ma mi rendo conto da solo che hanno ragione loro a volerle su un piatto. – Poi naturalmente lo ripeterò anche agli stronzi della Universal, ma con te ci tenevo a discutere la cosa in maniera più rilassata. – continua tranquillamente. – Quindi, magari, ora che sai che sono vivo, me la lasci aperta l’Ersguterjunge?
Avrei solo una domanda, da fargli, ed è: se dico sì, poi scompari?
Naturalmente, però, non chiedo. Mi limito ad annuire. E lui mi stringe al collo in un mezzo abbraccio grato che fa sorridere Fler.
Ironico. È la prima volta che mi vede da minuti interi. L’ha fatto solo quando Bushido mi ha toccato.
*
Eko non riesce fisicamente a stare zitto. Probabilmente è una reazione allo spavento e allo stupore ed anche alla felicità di ritrovarsi Bushido vivo e vegeto in carne ed ossa, proprio di fronte agli occhi. Continua a porgli domande allucinanti stile “e con cosa andavi in giro a Miami? Camicie hawaiane?”. Chiede e gesticola e chiede ancora e Bushido non fa che ridere e rispondere, “sì, Eko”, “no, Eko”, “nella maniera più assoluta e totale no, Eko, mai”, e tutto quello che io riesco a registrare, di tutto questo, è che Fler non gli ha ancora staccato gli occhi di dosso.
È una cosa incredibile, non l’ho mai visto comportarsi così: è come se ci fossero delle calamite, addosso a Bushido. Ovunque vada, comunque si muova, gli occhi di Fler non lo abbandonano mai, neanche per un secondo. È stato così anche durante quella dannata puntata di TRL, ma allora Bushido era un’immagine su uno schermo piatto a cristalli liquidi, non era una minaccia.
…ed allora io ero ancora una persona migliore. Una persona che non pensava a Bushido come ad una minaccia, appunto.
Comunque sia, sono ancora infastidito. Da qualche parte nel corso di questa serata, mentre Eko parlava e Bushido rideva e rispondeva senza guardarlo, ricambiando solo gli occhi azzurri di Fler con un compiacimento addirittura irritante, m’è venuta voglia di mettere una mano fra di loro. Una cosa proprio da bambini, mettere la mano ed agitarla, come a dire “allora? Vi ricordate che ci sono anch’io, qua di lato?”. Ma la verità è che non mi hanno messo loro in un angolo, mi ci sono rifugiato da solo, perché non ho la più pallida idea di cosa fare. Quest’uomo, prima di morire, mi ha affidato delle cose. Ed io dovrei, tipo, fare rapporto, no? Aggiornarlo sullo stato dei suoi beni.
Solo che il bene che mi ha lasciato io me lo sono preso.
E questo è un problema enorme.
Mi alzo in piedi.
- Mentre Eko continua a chiederti… cos’è che gli hai appena chiesto, Eko?
- Se ha visto qualche donna che s’infilava una noce di cocco su per il-
- Mentre Eko continua a chiederti delle discutibili abitudini sessuali delle flori… comunque si chiamino le donne che vivono in Florida, - Fler e Bushido ridono contemporaneamente, e Fler scuote pure un po’ il capo con rassegnazione. Mi sento vagamente in imbarazzo, - …io vado a preparare un caffè. Sarà una nottata lunga.
Bushido annuisce semplicemente ed io mi rifugio fra le quattro mura piastrellate della cucina di Eko. Una cucina palesemente vuota, peraltro, perché pare che tutti i rapper abbiano la brutta abitudine di non passare mai del tempo in casa propria. Tant’è che Eko è sempre buttato da Kay. Il quale però è sempre buttato dalla madre, perciò alla fine passano entrambi tutto il tempo a casa della povera donna. Col risultato che casa di Eko è quasi sempre vuotissima.
Armeggio qua e là spalancando tutti gli stipetti, perché non può davvero esistere un uomo che non tenga in casa del caffè ed una moka, ed infatti alla fine trovo tutto e, sospirando di sollievo, mi metto a preparare, sperando di perdere abbastanza tempo per… non so nemmeno io per che cosa. Per far riposare il cervello e tornare di là con una scorta di lucidità sufficiente ad affrontare quello che mi aspetta, suppongo. Anche se non ho idea di cosa mi aspetti, perché mi fa paura immaginarlo.
Mentre metto la caffettiera sul fuoco, sento Fler ridacchiare alle mie spalle ed aggrotto istantaneamente le sopracciglia, voltandomi a guardarlo. Lo trovo con le braccia incrociate sul petto, appoggiato con una spalla allo stipite della porta. Mi fissa, palesemente divertito, con un sopracciglio inarcato. Dio, odio quando è così… così.
- Be’? – chiedo sgarbatamente, ricominciando ad aprire ante e sportelli alla ricerca di qualche tazzina o, al limite, dei bicchierini di plastica. Il punto è che non posso pensare eroicamente cose tipo “mi aspetta la morte ma non cederò di un passo”, e pensarlo a riguardo di Bill, e poi vedermi apparire Fler sulla soglia e provare il desiderio praticamente irresistibile di tirarlo in cucina, chiudere la porta e stenderlo sul ripiano accanto al lavello. Non è… non posso continuare a fare così. Non posso.
Lui mi viene accanto ridacchiando serenamente, e mi aiuta nella ricerca.
- Sei troppo nervoso. – mi dice, - È un comportamento sospetto.
Be’, grazie, lo so anch’io.
- Non dovresti essere di là a ricordare a Bushido che non hai mai avuto occhi per altri che per lui? – ringhio infastidito, e lui si ferma e mi guarda per un secondo. Poi scoppia a ridere.
- Tu sei assurdo! – commenta ironico, - Come puoi essere geloso in questo momento?!
- Non sono geloso! – cerco di difendermi, anche se dovrei cominciare a ricordarmi più spesso che mentire a Fler serve a poco. Un po’ perché fiuta le menzogne – come quell’altro, accidenti a lui – ed un po’ perché comunque si convince di quello che vuole e poi ci marcia indipendentemente da come stiano le cose in effetti. Insomma, proprio come quell’altro. Stramerda.
- Chakuza, Dio mio, ma il fatto che io sia andato via, poco fa, non ti è servito a niente?
Spengo il fuoco sotto la caffettiera.
- Sei stato via praticamente mezz’ora. – borbotto a bassa voce, - Cosa vuoi che sia cambiato, in mezz’ora?
Vorrei che Fler si offendesse – in genere, quando lo prendo per il culo, lo fa – ma non fa che ridacchiare ancora e scuotere il capo.
- È che il discorso sulle noci di cocco aveva cominciato ad inquietare anche me. – dice, ignorando la frecciata e riprendendo il dialogo dall’inizio, - E poi volevo vedere come stavi.
- Oh, ma guarda. – sbotto, con la maturità di un bambino di dieci anni, - T’interessa?
Lui mi fissa per un secondo, ed in quel secondo i suoi occhi azzurrissimi brillano in maniera spaventosa.
- Certo che mi interessa, Chaku. – sospira, - Proprio perché m’interessa-
- Ora non partirtene col discorso di rito stile “è per te che lo faccio”. Non l’hai fatto per me, quando te ne sei andato.
Si appoggia al mobile ed allunga una mano ad aprire lo stipetto più in alto. Le tazzine sono là. Lui nemmeno le guarda, continua a fissare me.
- In ogni caso, sono stato via solo mezz’ora. E sono tornato quando mi hai chiamato.
- Perché ti ho parlato di Bushido.
Scrolla le spalle.
- Il motivo non è importante.
“Col cazzo”, vorrei rispondere, ma lo trattengo in punta di lingua perché questa discussione è già abbastanza assurda così.
- Dimmi la verità, Fler. – lo sfido, versando il caffè, - Perché sei tornato?
Lui sospira pesantemente e infila le mani nelle tasche. Sotto la spinta, i pantaloni si abbassano appena, scivolando lungo la sua vita e lasciandomi intravedere un lembo di pelle appena sopra i fianchi. Deglutisco.
- Cosa vuoi sentirmi rispondere, Chaku? – chiede lui, quasi dolcemente. – A questo punto, posso dirti tutto quello che vuoi. Non è importante.
- Sei tornato per vedere lui? – ringhio, voltandomi improvvisamente a guardarlo. Lo trovo che già ride.
- Sì. – dice tranquillamente, - O, in alternativa, per sventrarti in caso mi avessi detto una balla solo per farmi tornare. Soddisfatto così?
Soddisfatto un cazzo.
Sospiro pesantemente, mentre Fler recupera due delle quattro tazzine colme di caffè, allontanandosi verso la porta.
- Ah, dimenticavo. – dice con aria falsamente casuale. E lì capisco che mi sta prendendo in giro, o torturando, o comunque non si sta comportando in maniera corretta nei miei confronti. Odio avergli dato abbastanza ragioni per farlo senza sentirsi in colpa. – Anis vuole il riassunto delle puntate precedenti. Ed io quello che dovevo dirgli gliel’ho già detto.
- No, manca ancora la dichiarazione d’amore. – sbotto acido.
Fler non si abbassa al mio livello, inarca un sopracciglio e ghigna.
- Dici? – domanda allusivo, e poi scompare oltre la soglia.
Quando torno di là con la tazzina mia e quella di Eko, Fler è di nuovo seduto sul tavolino e sta di nuovo guardando Bushido come non vedesse altro. Mi rassegno: non è come, è così.
Resto in piedi, passo la tazzina ad Eko ed osservo Bushido che beve il proprio caffè e poi posa la tazza sul tavolino, proprio accanto al punto in cui è seduto Fler. Lo sfiora col braccio, proprio lì sul fianco, e per un attimo io guardo i loro corpi che vengono a contatto, colgo il leggero brivido che scuote le spalle di Fler e colgo anche quel breve lampo di compiacimento che increspa le labbra di Bushido, e mi chiedo cosa stia esattamente succedendo in questa stanza. Se si stiano comportando così solo perché sanno perfettamente che Eko certe cose non le vede – o fa finta di non vederle – e che io piuttosto che parlarne con anima viva mi farei volentieri sparare.
Non lo so.
Mi viene voglia di menare le mani, comunque.
Mi riscuoto quando Bushido si schiarisce la voce e mi chiama.
- Allora, Chaky… - dice, mettendosi comodo sul divano ed incrociando le braccia sul petto, - Cosa mi racconti?
Ed io per un attimo mi sento confuso. Cosa gli racconto? Cioè, davvero, cosa tiro fuori dal cappello? Cosa gli dico? Cosa, che non abbia a che fare con Bill – perché non voglio nemmeno che ci pensi – o con me e Bill – perché il solo pensiero che lo scopra in questo momento mi terrorizza – o con me e Fler – perché ho la vaga impressione che sarebbe perfino capace di uccidermi, se sapesse i dettagli di quest’ultimo anno.
Cosa mi invento?
Lancio un’occhiata a Fler e lui non è d’aiuto. I suoi occhi sono freddi e vuoti, mi guarda quasi con la stessa curiosità con cui mi guarda Bushido. Come se si stesse chiedendo anche lui “vediamo come se ne tira fuori”.
Io mi seggo su una poltrona e richiamo alla memoria i brevi stralci di racconto che sono riuscito a cogliere dalla conversazione fitta di domande e risposte assurde fra Bushido ed Eko, prima che Fler arrivasse. Bushido è qui da due settimane. Due settimane fa – come quasi sempre, quando abbiamo potuto, negli ultimi mesi – Bill era con me. Probabilmente era con me anche mentre lui era in volo. E mentre quest'uomo atterrava, il suo ragazzino urlava il mio nome, nel mio letto. E, cazzo, stavamo da Dio. Ora Bushido mi chiama Chaky, e la cosa mi devasta. Non so più nemmeno se odiarlo perché è tornato o chiedergli di essere comprensivo prima ancora di avergli detto perché.
Mando giù a fatica un respiro che sembra di cemento, tanta è la resistenza che fa mentre mi scende per la gola, e poi guardo il pavimento e comincio a parlare.
- I primi mesi dopo che sei morto – parlo come stessi parlando ad un fantasma. Forse perché quasi preferirei che fosse così. – sono stati un casino. Non sapevamo davvero dove voltarci o cosa fare. Era tutto un chiedere, interviste di continuo. Ci siamo gestiti abbastanza bene, ma è stato pesante.
Bushido sorride appena.
- Mi dispiace. – lascia scivolare fra le mie parole, senza interrompermi davvero. Io annuisco e riprendo.
- TRL ci ha un po’ scombussolati. Ma d’altronde già allora avevo parlato con Fler, e quindi sapevo che lui non c’entrava niente. È stato… molto d’aiuto, in quel periodo. – e mi stupisco di essere riuscito a non nominare Bill nemmeno una volta. Bushido inarca le sopracciglia. Se ne accorge, forse. Capisce che c’è qualcosa che non va. Non lo so. Io continuo. – Poi Fler mi ha convinto a fare qualche indagine. E così abbiamo scoperto chi era stato a farti fuori. – mi prendo un attimo di pausa per capire come dirglielo, perché credo che queste non siano notizie facili da dare. Queste non sono nemmeno notizie che si danno, in genere. Non dici a un morto chi l’ha ucciso. Non quando ti può ascoltare, almeno.
Lui, comunque, mi anticipa.
- Saad. – dice, ed io sollevo gli occhi nei suoi e lo fisso come se lo stessi vedendo adesso per la prima volta. – L’ho immaginato quando ho saputo che era morto. – mi spiega lui con un mezzo sorriso. – Sono stato… mi sono tenuto informato, ecco.
Io annuisco e deglutisco ancora, con maggiore difficoltà. Mi sembra che più cose io tiri fuori più ciò che resta dentro si allarghi e prenda tutto lo spazio. E mi rendo conto che in realtà non è così. In realtà è solo Bill che si espande. Prima stava compresso nel mio petto assieme a tutto il resto, ma adesso tutto il resto sta uscendo. E lui si sta riprendendo il suo spazio. Ed io non voglio buttare fuori anche lui. Non voglio.
- Quindi siete stati voi a- - comincia Bushido, ma non finisce, perché Fler lo ferma.
E, visto che Fler mi conosce, lo fa.
Sa che io non lo tirerò mai fuori. Sa di doverlo fare lui al mio posto.
- Ti ha vendicato Bill, Anis.
Bushido si irrigidisce sul divano. Lo faccio anch’io, sulla mia poltrona.
Fler respira per tutti e due. È l’unico che lo faccia, d’altronde.
Eko si schiarisce la voce e si alza in piedi.
- Me ne vado al cesso. – borbotta con tono serio, - Voi raccontategli pure dei mesi in cui piangeva di continuo, io non voglio più sentirne nemmeno accennare. – commenta, sparendo in corridoio. Eko ha tutta una serie di problemi, quando si parla della sofferenza di Bill. Un po’ perché l’ha sempre considerato una lagna, un po’ però anche perché ricordo che i primi tempi, quando passava a trovarmi e lo trovava piangente sul mio divano, non sapeva mai che pesci prendere. La principessa in lacrime lo confonde, non sa come consolarla. E c’erano serate in cui i suoi soliti movimenti goffi e sgraziati non bastavano a far sorridere Bill. Di quelle serate, Eko non vuole più sentir parlare.
Quando sento la porta chiudersi, Bushido sta già preparando quella faccia lì. Quella delle domande gravi e importanti. L’ultima volta gliel’ho vista addosso quando mi ha spiegato cosa avrei dovuto fare con Bill in caso lui fosse morto. Rivederla adesso, quando ho mancato in quasi tutti i compiti che mi erano stati assegnati – tranne in quello di tenerlo vivo – è tremendo.
- Come sta Bill?
Lo chiede a voce bassissima. È il tono delle grandi occasioni. Delle grandi domande. Di quelle che non ammettono rispose elusive.
Ed io non so che dirgli.
Sta bene, perché sta con me.
Sta bene, e non so come starebbe se sapesse di te.
Sta bene, e non voglio che scopra di te.
Sta bene, ed ho paura di immaginare che starebbe meglio se gli dicessi che sei vivo.
- Sta bene. – ma è la voce di Fler a parlare. – Sta bene, Anis. Non preoccuparti.
Lui annuisce e vedo chiaro nei suoi occhi il desiderio di chiedere di più. Però non sa cosa, e di questo ringrazio, perché giuro che io non so più neanche cosa pensare. Figurarsi se riuscirei anche a dirgli qualcosa. Comunque solleva lo sguardo e lo fissa nuovamente su di me, riprendendo a sorridere.
- Grazie, Chaky. Sei stato un ottimo braccio destro.
Io lo guardo ed è la prima volta in mesi che mi viene da piangere.
Fler si alza in piedi.
- Credo che dovremmo andarcene tutti a casa a dormire, Anis. – dice a mezza voce, sorridendo sereno, - Te compreso.
Lui ride.
- Io da qui non mi muovo, Eko ha una camera degli ospiti che è un paradiso. – scherza, alzandosi a propria volta. – E poi credo che abbia ancora qualche altra curiosità su noci di cocco e signorine di facili costumi, da soddisfare. Visto che comunque… - si prende una pausa e deglutisce, - …sono stato via a lungo, mi sembra giusto restare finché non sarà completamente a posto.
Andiamo via con Eko che ci strilla alle spalle di non lasciarlo solo con il fantasma. Bushido lo afferra per il collo e se lo tira dietro, strofinandogli forte le nocche contro la testa, fra i suoi addolorati lamenti di protesta, e Fler ride ad alta voce e dice ad Eko che ognuno ha quello che si merita, e mentre lui lo dice io non posso che pensare che è una delle cazzate più enormi che gli siano mai uscite di bocca. Mi chiedo se ci creda e, mentre lo osservo smorzare il sorriso fino a lasciarlo scomparire del tutto appena la porta si chiude, realizzo che no, non ci crede affatto, e ritrovo un pezzo del mio Fler – intendo, quello che ho conosciuto io, quello con cui ho praticamente diviso tutto per gran parte dell’anno scorso e quello a cui ho continuato a pensare mentre andavo avanti con la mia vita intrecciandola alla vita di Bill.
Sospiro.
- Sei stato insopportabile. – commento mentre ci avviamo verso l’uscita.
- Sì, me ne sono reso conto. – annuisce lui, tranquillissimo, - Mi dispiace. Non è una cosa che controllo. Dovresti averne una mezza idea.
Sospiro ancora, mentre apro lo sportello della macchina posteggiata qua davanti.
- Stai continuando ad essere insopportabile. – gli faccio notare, infilandomi nell’automobile. Aspetto che faccia il giro della macchina e prenda posto al mio fianco, lo aspetto con una naturalezza perfino disturbante, ma mi accorgo che è disturbante solo nel momento in cui lui è effettivamente seduto e ci guardiamo come non avessimo idea di cosa fare adesso.
- Ti accompagno a casa? – chiedo a mezza voce, continuando a guardarlo incerto.
- Ovviamente sì. – risponde lui, quasi inorridendo. – Che pensavi?
- Non pensavo. – mi mordo un labbro. – Ci credi, se ti dico che non pensavo, vero?
- Ovviamente no.
Ingrano la marcia e metto in moto la macchina.
- L’Escalade la lasci qui?
- Sì. – annuisce lui, - Ma se deve essere tutto questo dramma, riportarmi al mio fottuto appartamento, la recupero e vado da solo.
- Fler, ti prego, è stata una serata abbastanza difficile-
- Ed io dovrei già essere a letto con i bagagli pronti per dopodomani. – ringhia ancora lui, guardando la notte fuori dal finestrino. – Cazzo. Ora come lo dirò a Sido?
Lo guardo, fermandomi al semaforo.
- Dirgli cosa?
Lui sospira pesantemente, scuotendo il capo.
- Che non parto più.
Scatta il verde ma io non mi muovo. Nessuno suona perché sono le due del mattino e questa zona a quest’ora non è affatto frequentata, perciò resto lì a due passi dall’incrocio e l’unica cosa che riesco a pensare è…
- Non parti?
Fler sospira ancora e si volta finalmente a guardarmi. Lo vedo che fa fatica. Mi dispiace che debba fare tutta questa fatica. So che era più facile per lui, quando poteva concentrarsi solo su Bushido. So che non è facile restare da solo con me. Lo vedo dal modo in cui trema appena la luce nei suoi occhi.
- No. – risponde alla fine, - Qualcuno dovrà pure essere nei dintorni a raccogliere i pezzi, quando dirai a Bushido che il suo ragazzino ora è il tuo ragazzino.
Mi si ferma il cuore in gola e ripenso all’inizio di questa serata. A me che, sicurissimo, riflettevo e mi dicevo che era impossibile Fler lo ammettesse ad alta voce. Assolutamente impossibile. E parlavo, sicuro del mio vantaggio. Adesso mi sento vulnerabile come un bambino.
- …già. – annuisco, rimettendo in moto. – Mi dispiace. – aggiungo poi. Mi ci sento quasi costretto.
Lui ride.
- Pensi davvero che ce l’abbia con te per questo? – chiede a mezza voce. Io non lo so. So solo che dovrebbe avercela con me e basta, per un motivo qualsiasi. Scelga lui. – Noi siamo a posto, Chaku-
- Non è vero. – mi guarda, io lo evito. – Non è vero che siamo a posto. Non dirlo.
Lo sento sospirare ancora.
- Okay. – annuisce alla fine.
Non diciamo più nemmeno una parola, fino a che non arriviamo sotto casa sua. È lì che, quando lo vedo scivolare fuori dalla macchina, mi viene voglia di fermarlo. Ci sono delle serate che ho trascorso con Fler che ricordo come infinite. Una è quella in cui l’ho violentato. Una è quella in cui abbiamo ammazzato Saad. Questa è un’altra. Sono sempre sere che è difficile lasciare andare via. Lasciare che si concludano sembra assurdo. Lo fermo afferrandolo saldamente per un polso e lui ricasca sul sedile. Ha fatto la stessa cosa quella notte lì, la prima delle nostre notti infinite, solo che allora cadere l’ha costretto a mugolare di dolore. Ora sospira soltanto, rassegnato, come se lo aspettasse.
- Dimmi, Chaku.
Sospiro anch’io.
- Allora ci vediamo domani?
Lui si volta a guardarmi.
- Potresti… non lo so, fregartene? Fare finta che io non esista? Dimenticarti di me, cancellarmi completamente da quella testaccia di cazzo che ti ritrovi? È un’ipotesi contemplabile, Chakuza?
La risposta viene fuori naturale.
- No.
Restiamo immobili solo per un secondo. Lui ha già le gambe fuori dalla macchina ed una mano piantata nel sedile a sostenere il peso del corpo. Quando la solleva per afferrarmi per il bavero del giubbotto, si avvicina quasi automaticamente, e prima di poterlo realizzare davvero ci stiamo già baciando – frenetici e sconvolti, pure con una certa rabbia, come se nessuno dei due lo volesse davvero, o odiasse dover ammettere di volerlo, invece.
Si stacca da me con violenza, ansimando, ed io lo trattengo per la maglia. Non lo vedo, perché lascio gli occhi chiusi.
- Cristo. – me lo sussurra sulle labbra, - Vaffanculo. A te, ai tuoi no del cazzo e a questa situazione di merda. Vaffanculo.
Non rispondo, continuo a cercare di recuperare un ritmo più decente per il mio respiro. E continuo anche a trattenerlo.
- Lasciami andare, Chakuza, Cristo santo. – mi implora lui, quasi con dolore, ma non mi toglie le mani di dosso. Continua a stringermi per il giubbotto.
- Ti lascio appena mi lasci tu.
- Vaffanculo.
- Piantala.
- Vaffanculo, Chakuza.
Restiamo a respirarci addosso ancora per qualche secondo, in perfetto silenzio. Poi mi lascia andare e, quando lo fa, anche io lascio andare lui. Mi ritrovo i suoi occhi addosso appena apro i miei. Sono furiosi e gelidi. Deglutisco.
- Ora sono io che dovrei chiederti perché l’hai fatto. Dopo avermi detto che non volevi più vedermi, poi. – dico duramente, reggendo lo sguardo, - Ma non te lo chiedo, Fler. Perché lo so già. Tu che dici?
Dice che mi tira un cazzotto, evidentemente.
Batto con la testa contro il finestrino, dietro, e mi faccio un male cane. Non so se mi fa più male la testa o lo zigomo su cui è arrivato il cazzotto.
- Cazzo! – mi lamento, cercando di massaggiarmi ovunque contemporaneamente, - Fler?
Lui è già uscito dalla macchina.
- Sei un pezzo di merda. – mi dice, furioso, - Ci vediamo domani. – e poi chiude con violenza lo sportello ed entra nel palazzo, scomparendo alla mia vista.
Rientro in casa mezz’ora dopo con un mal di testa allucinante e lo zigomo gonfio e bollente. Vorrei ficcare la testa nel freezer, almeno… non so se servirebbe a qualcosa, in realtà, ma è quello che voglio fare adesso – anche solo per andare alla ricerca di un qualche cosa di freddo da mettermi in faccia – quindi apro lo sportello, e prendo a smadonnare quando chiaramente il cazzo di aggeggio è del tutto allagato, dal momento che ha deciso di rompersi. Fanculo anche a lui. L’acqua è colata fin nello scompartimento di sotto, e ne viene fuori un odore disgustoso. Dio che schifo.
Dovrei pulirlo, probabilmente, ma non mi va per niente. Sfilo il maglione che odora di Fler e mi viene la nausea. Sarà il senso di colpa: visto che sono troppo incasinato per percepirlo davvero, si presenta come voglia di vomitare. Sono già a due passi dal bagno, quando squilla il cellulare.
Il nome sullo schermo mi gela il sangue nelle vene. Lo fisso per un tempo che mi pare lungo minuti interi e non riesco a decidermi su cosa fare. Sono quasi le tre. Dovrebbe stare dormendo.
- Bill? – chiamo piano appena riesco a convincermi ad accettare la chiamata, - È successo qualcosa?
- Aaaah, Peter! – mi strilla nell’orecchio, ma non è un urlo spaventato, è solo concitato e un po’ ansioso e c’è anche una traccia di quell’eccitazione irrazionale che prende Bill quando è preoccupato per qualcosa di stupido che sa perfettamente andrà nel migliore dei modi ma sul quale si diverte a ricamare drammi senza motivo. – Ci hai messo una vita a rispondere, mi stavo preoccupando!
- Bill… - sospiro, - ma hai visto che ore sono?
- Sì, naturalmente, ma dovevo chiederti se sei riuscito a fermare Fler, non pretenderai mica che aspettassi domattina! Se non ci sei riuscito dovrò andarlo a recuperare io personalmente. – borbotta con aria cospiratoria, - Scommetto che hai fatto fiasco. Devo mettermi il cappotto? Metto il cappotto. Mi passi a prendere? Andiamo insieme.
Mi passo una mano sulla testa, cercando il bernoccolo. Lo trovo e lo pesto un po’. Cristo che male.
- Bill… - lo richiamo, mugugnando, - …sono quasi sicuro che tu mi abbia nascosto qualcosa.
Lui si lascia andare ad una mezza risatina imbarazzata.
- Fler mi aveva chiesto di non dirti che voleva andarsene. Perché voleva parlartene lui per primo, capisci?, non potevo tradirlo.
Mi si conficca uno spillo nel petto solo a sentire la parola. Solo a sentire lui parlare di tradimento. Lui che per me ha sfilato l’anello e il bracciale di Bushido. Li ha tolti di mezzo – e li aveva tenuti addosso per mesi, prima – solo per far spazio a me. Ed io… Cristo.
- Non devi preoccuparti per lui. – lo rassicuro, deglutendo a fatica, - Ha deciso di restare, alla fine.
Bill strilla contento.
- Davvero?! Ma è fantastico! E come ci sei riuscito?!
Ha provato ad andarsene e me lo sono stretto contro, Bill. Tutto qui.
- Gli ho fatto capire che avevamo ancora tutti bisogno di lui.
Bill ride ancora.
- Bravo! – si complimenta, - È vero.
- Già.
Mi lascio andare sul divano e poi affondo il naso fra i cuscini. C’è l’odore di Bill, qui. È un odore piacevole, un odore tranquillo. È sempre lui, sempre uguale, sempre lo stesso da mesi. Non è un intruso, non è sbagliato, è l’odore che dovrei avere addosso sempre. Poi ripenso a Bushido vivo in casa di Eko. Non so più quale sia l’odore giusto. Non lo capisco più.
- Peter? – mi chiama lui, - Sei stanco, vero? Lo sento dal modo in cui respiri.
Sbuffo una mezza risata.
- Capisci se sono stanco dai miei respiri?
Ridacchia anche lui.
- Ovviamente sì. – dice con una punta di orgoglio. – Ci sentiamo domani verso mezzogiorno? Così dormiamo e poi ci organizziamo per la giornata, okay? Ho voglia di vederti…
Inspiro ed espiro e penso solo al profumo.
- Sì, anch’io ho voglia di vederti.
Bill ride.
- Allora ci sentiamo domani. Buonanotte. – dice a bassa voce, prima di interrompere la conversazione.
Tutte le luci di casa sono spente ad eccezione di quella del bagno. Sento il bisogno fisico di una doccia, ma sento molto più il bisogno di dormire qui, perciò lascio perdere l’odore di Fler. Lo butto fuori dalla testa a calci. Affondo ancora più profondamente fra i cuscini e mi addormento.
Shot appartenente alla serie Schmetterlingseffekt, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bushido/Bill, David/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo."
Note: …*risata malefica in dissolvenza*
Ed io tendenzialmente il mio lavoro l’ho concluso *indica la risata* ma a questo punto vi aggiungo anche che “La sospensione dell'incredulità è un particolare carattere semiotico che consiste nella volontà, da parte del lettore o dello spettatore, di sospendere le proprie facoltà critiche allo scopo di ignorare le incongruenze secondarie e godere di un'opera di fantasia”. A mio modesto parere (mio di liz) questa storia non è incongruente. Se avrete la bontà di aspettare, tutto sarà spiegato. Ma Tab ci tiene perché è paranoica *annuisce* E comunque è un concetto che piace molto anche a me, quello della sospensione d’incredulità, perciò, ecco, sospendetevi :*
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Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo.

SCHMETTERLINGSEFFEKT

C’è il sole, oggi. È una bella giornata, bella davvero, di quelle che poi da queste parti sono rare, perché il cielo di Berlino è quasi sempre una macchia grigia uniforme che ti dà l’impressione di essere un blocco di cemento. Ti sembra pesante allo stesso modo, almeno, ti sembra che a lasciartela cadere sulla testa ti schiaccerebbe a morte.
Dentro l’Audi nera d’ordinanza che mi è stata esplicitamente richiesta per mantenere il più possibile l’anonimato, io guardo il cielo di oggi – che non è grigio, ma di un bel celeste arioso e fresco – e penso che sto andando a tirarlo giù. Lo sto facendo consapevolmente e colpevolmente. Ed anche se, col cemento, quest’azzurro non c’entra niente, penso che, quando ci cadrà in testa, sarà pesante comunque.
Mi chiedo se Bill sia diventato forte abbastanza da reggere il colpo. Mi chiedo se sia maturato abbastanza, se le sue spalle si siano inspessite, se le sue gambe siano diventate più robuste, le sue braccia più salde. Me lo chiedo e lo rivedo come l’ho visto due giorni fa, prima che Chakuza lo caricasse in macchina per portarlo a Disneyland. Lo vedo piccolo e sottile e stupidamente felice come ha reimparato ad essere solo di recente. E realizzo che potrebbero passare anche anni, ma un colpo simile Bill non riuscirebbe a sostenerlo proprio mai.
*
Osservare le cose dall’esterno, in questi ultimi mesi, è stato come osservare delle piante ricrescere in giardino dopo l’inverno. Tra l’altro, il paragone è più che appropriato – suppongo che le metafore azzeccate siano ciò che mi resta in eredità dei Bed&Breakfast e degli aiuti a Bill quando ancora si rivolgeva a me se doveva scrivere una canzone – perché intorno a dicembre io mi sono guardato intorno e, proprio come un giardiniere, ho portato con desolazione le mani ai capelli e mi sono detto che, come niente, avrei perso tutto il roseto.
I problemi sono cominciati la notte – o meglio, l’alba – in cui Tom, strillando come una scimmia isterica, mi ha chiamato al telefono, implorandomi di andare subito a casa sua, perché Bill “palesemente s’era rincoglionito e lui aveva bisogno di una mano per tirarlo fuori dal pantano di merda in cui era caduto”.
Tom tende ad iperreagire, quando si tratta di suo fratello, questo c’è da dirlo. Basta toccarglielo e lui impazzisce. Gli ho visto fare delle cose assurde – investire la discografia di Bushido non è stata neanche la più allucinante; per dire, sono stato io ad applicare cerotti su cerotti su quella sua allucinante faccia da schiaffi, quando è tornato una notte alle quattro abbaiando che “quelli non erano rapper ma animali”. Alla mia domanda legittima – “Cosa hai fatto per meritare le botte, Tom?” – lui ha risposto altrettanto legittimamente – “Ho dato a Bushido del pedofilo” – e, a quel punto, sono stato io ad abbaiare “tu non sei un chitarrista, sei un microcefalo”. Questo per dire che, quando entra in conto Bill, Tom smette di ragionare e segue il flusso dell’amore indiscusso che prova per lui. Solo che è un cretino, quindi come si muove sbaglia.
In ogni caso, questa tendenza all’esagerazione di Tom mi ha portato a prendere sottogamba la questione. Voglio dire, io dormivo, quando lui ha chiamato. Per cominciare a ragionare con un minimo di senso, a me serve del caffè. E non ho mai del caffè in casa prima delle sette, perché per preparare del caffè devo prima alzarmi dal letto, naturalmente, e ciò non avviene quasi mai prima di quell’orario, a meno di casi straordinari. Quindi, in poche parole, ho cercato di calmarlo e rimandarlo a nanna – sperando che ci fosse stato, a nanna, almeno per qualche ora.
Il problema – enorme – di Tom è che, quando sragiona, si fissa. Non ne esce più. Ha odiato Bushido per anni, cominciando vagamente ad accettare l’idea della sua presenza – e più con rassegnazione che con piacere – solo qualche mese prima che morisse, per dire. E tutt’ora prova dell’antipatia palese per Chakuza, nonostante non sappia cosa c’è in realtà fra lui e suo fratello, perché a suo dire è troppo presente nella vita di Bill. E, ripeto, Tom non ha idea dei modi e delle misure in cui Chakuza è presente nella vita di Bill. Non sa che la vita di Bill è ancora una vita e non un insieme di vuoti solo perché Chakuza li riempie tutti. Non sa che c’è lui dietro ad ogni sorriso, ad ogni occhiata dolce, ad ogni gesto tenero di suo fratello. Non sa che Bill ha ricominciato a respirare davvero solo perché ora può farlo anche dalle sue labbra. E, pur non sapendo tutte queste cose, lo malsopporta.
Tom si è fissato anche quella notte. Mattina. Insomma. Non c’è stato verso di scollarlo dal telefono, perciò alla fine mi sono rassegnato, mi sono vestito, ho mandato giù del latte di soia nella speranza che risvegliare il mio apparato digerente servisse anche a risvegliare il resto del mio corpo e mi sono messo in macchina, alla volta dell’appartamento del mio angosciato chitarrista.
All’arrivo, Tom mi ha accolto con aria tesa. In genere, quando sclera, Tom è molto buffo, perché si agita tanto, strilla e strepita. Se ritiene tu non stia capendo abbastanza profondamente il motivo del suo sgomento, ti scuote per le spalle. Come se servisse a qualcosa. Quella mattina, invece, me lo sono ritrovato che mi fissava serio, le sopracciglia aggrottate, tutto intento a torturare coi denti il labbro inferiore, fino a screpolarlo.
“Sono sconvolto,” mi ha detto, mentre mi invitava ad entrare ed a chiudermi la porta alle spalle.
“Sì, lo vedo,” ho risposto io, appendendo la giacca all’attaccapanni e sbirciando lungo il corridoio verso l’unica luce che vedessi, e che proveniva dal salotto, “Qual è il problema?”
Tom ha esitato, prima di rispondere. Ha deviato un po’ lo sguardo verso un punto vuoto oltre le mie spalle, e poi è tornato a guardarmi fisso ed ha schiuso le labbra.
“Che Bill non lo è. Non è sconvolto. È questo, il problema.”
In realtà, questo era parte del problema. Io sono abituato a guardarli tutti in faccia e nel complesso, i drammi. Il mio mestiere è sbrogliarli. Risolverli. Fare in modo che tutto si concluda bene. E sono bravo a farlo – è questa la ragione per cui mi trovo oggi in questa posizione del cazzo. Tom no, Tom del problema vede solo quello che gli interessa. Come quando suo fratello è stato male e ciò ci ha costretti a cancellare un tour; per Tom, l’unica cosa importante era il dolore di Bill, non il dramma economico e pubblicitario che da quelle cancellazioni sarebbe derivato. In quel caso, fu la stessa cosa.
Suo fratello aveva ucciso Saad. Saad era l’uomo che aveva ucciso Bushido. Fler e Chakuza gli erano rimasti accanto per tutto il tempo e non avevano mosso un dito che fosse uno per fermarlo. Questo era il problema nella sua completezza. Ovviamente, però, a Tom interessava solo che suo fratello non fosse turbato quanto sarebbe stato giusto dall’aver premuto il grilletto e spedito un proiettile nel mezzo della fronte di un altro essere umano.
L’apatia di Bill – se poi di apatia si poteva parlare; io, per dire, l’avrei descritta più come serena accettazione – non era dunque tutto il problema. Ne era però una consistente parte, e questo era abbastanza chiaro. Io, Bill, lo trovai seduto sul divano che guardava fisso davanti a sé senza particolare interesse, come stesse guardando scorrere l’acqua di un fiume. Pure un po’ annoiato, per la verità.
Quando mi raccontò cos’era successo – ripetendo le stesse parole che aveva già detto al fratello, immagino, perché sembravano rodate. Di quei discorsi che vengono fuori dopo che te li sei ripassati mentalmente almeno una ventina di volte – lo fece con incredibile calma. Con enorme compostezza. Le mani rigide strette in grembo, le ginocchia che si sfioravano, il petto scosso appena dai respiri. Sul volto, un sorriso rassicurante e serafico che mi diede i brividi. Me li dà ancora, a ripensarci.
Bill non ha omesso niente, nel racconto. Tant’è che quando, per scrupolo, sono andato da Fler a chiedergli la sua versione dei fatti – anche per capire cosa ne avessero fatto del corpo. Ed è incredibile con quanta freddezza si possa arrivare a pensare, quando hai già visto un altro uomo morire – non l’ho trovata differente nemmeno in un punto.
Bill non ha cominciato ad avere un problema quel giorno. Bill ha cominciato ad avere un problema quando il suo problema principale è svanito.
Durante i mesi precedenti all’assassinio di Saad, Bill aveva vissuto con l’unico obiettivo di mettere il punto a quella storia. Voleva essere lui a farlo perché lo sentiva come un suo diritto. Anzi: perché Bushido gli aveva dato quel diritto. L’aveva fatto portandoselo a letto, dicendogli di amarlo, rendendolo una parte tutt’altro che ininfluente della propria esistenza. Facendolo suo, in pratica. Bill, quel diritto, l’aveva per concessione regale, per dirla con parole che a Bushido farebbero anche un gran piacere. Non credo che Bill pensasse di farlo fuori fin dall’inizio, eh. Penso però che volesse essere lui a trovare il modo in cui concludere la storia. E penso che, quando ha guardato Saad negli occhi – forse anche prima, forse anche solo pensando a come si sarebbe sentito guardando Saad negli occhi – abbia deciso che quello andasse bene. Che un proiettile fosse sufficiente.
Risolta la questione, Bill ha cominciato ad appassire. È una cosa piuttosto normale, credo: il fiore ha un fine. Il fine del fiore è il frutto. Il fiore muore, appena il frutto nasce.
Cosa sia successo fra Bill e Chakuza, io non lo saprò mai con certezza. Bill non ne parla volentieri. Neanche con me, pure se ha dovuto per forza informarmi almeno in parte di ciò che stava succedendo, visto che – come sempre – a me è toccato coprirlo. Con suo fratello, con la stampa, col mondo, sostanzialmente. Mi è sembrato di ripetere l’esperienza Bushido, per certi versi. Quasi avrei voluto dire a Bill “l’hai visto, com’è andata la prima volta. Allora?”.
Bill non parla di Chakuza perché Bill ha un modo molto intenso di vivere le storie d’amore, quando iniziano. Visto che è una testa dura e si caccia sempre in situazioni complicate, è naturale che poi abbia paura di distruggere tutto e vedere il frutto della propria fatica spargersi sul tavolo come un castello di carte abbattuto da un soffio. “Meno ne parlo”, pensa, “più facile sarà che resti tutto in piedi”. Quindi, anche se io so dove va a dormire, e con chi esce, e con chi scappa a Disneyland, e di chi sono i segni rossi che ha sul collo quando arriva agli studi brillando di luce propria, non saprò mai nel dettaglio com’è che i fatti si sono svolti. Come si siano mossi. Quando abbiano cominciato.
Per certi versi, è molto meglio così. Perché sono bravo a coprire le cose, ma ci sono persone alle quali non riesco a nascondere quasi niente.
Purtroppo, da un annetto a questa parte, lavoro alle dirette dipendenze di una di queste.
*
Fatto sta: Bill e Chakuza stanno insieme, e per quanto io abbia svariati milioni di motivi per pensare questo sia l’errore del secolo, per quanto io continui intimamente a credere che probabilmente avrei dovuto recuperare Bill per i capelli e riportarlo dalla parte giusta della Germania quando Bushido è morto, devo purtroppo ammettere che Bill non sarebbe qui – bello, in salute, possibilmente neanche vivo – se non ci fosse stato Chakuza. La tensione che ha tenuto Bill insieme quando Chakuza non c’era era la furia con la quale lui cercava di sfuggire a ciò che stava provando nei suoi confronti. Quando quella tensione si è sciolta – quando Bill ha smesso di fuggire – si sarebbe certamente disfatto, se a quel punto non ci fosse stata una forza di tutt’altro tipo a tenerlo insieme. La forza di tutt’altro tipo, nel caso di specie, è quella delle braccia di Chakuza. Delle sue spalle, della sua strana, complicata maturità e di quello che prova per Bill.
Chakuza, Dio mio, lo adora. Anche Bushido lo adorava, ma c’è qualcosa di fondamentalmente diverso, nei loro sguardi, che è evidente se solo li si sa guardare. Bushido guardava Bill come fosse una cosa propria, quasi un pezzo di corpo. I suoi occhi riflettevano un senso di appartenenza che rendeva Bill orgoglioso.
Chakuza, invece, lo guarda come se fosse un regalo. Qualcosa di totalmente inaspettato, che è nuovo ogni volta che cambia la luce, il giorno, l’angolazione o la prospettiva. Qualcosa di diverso che non riesce ancora a capire perfettamente e che, anche per questo, lo avvince. I suoi occhi riflettono un senso di gratitudine che rende Bill orgoglioso. Ancora. Credo che Bill abbia pensato che non avrebbe mai più provato niente del genere. Ed invece è capitato di nuovo. È per questo che Bill guarda Chakuza con la stessa gratitudine con la quale viene osservato.
Per certi versi, ciò che lega loro due è molto più maturo di ciò che un tempo ha legato Bill a Bushido.
Questa sarebbe una cosa bellissima. Se solo io oggi non fossi in questa dannata Audi nera di merda. Direzione aeroporto.
*
Bushido era un uomo molto organizzato. Il fatto che, generalmente, si comportasse come un cretino – divertendosi a tirare scemo chiunque, per esempio – mi ha spesso fatto perdere di vista la verità fondamentale per la quale, per fare il suo mestiere e gestirsi adeguatamente, uno debba per forza esserlo.
Il mestiere di Bushido… è complicato definirlo. Bushido era un cantante. Fin qui, tutto chiaro. Bushido era anche un personaggio pubblico, e questo faceva mestiere a sé indipendentemente anche dal canto. Era famoso perché cantava, ma non era rimasto famoso solo perché aveva cantato. Mantenere un’immagine pubblica che ti tenga di continuo sulla cresta dell’onda non dipende solo da quanti biglietti riesci a vendere in occasione di un concerto, o da quanti dischi d’oro riesci a piazzare appesi alle pareti dei tuoi studi. Serve altro, servono le sbruffonate, l’iperpresenza sugli schermi – di qualsiasi tipo – serve del fascino e serve saperlo usare. Bushido, in tutto questo, è sempre stato bravissimo. Suppongo fosse così perché s’è sempre gestito da solo, fin da piccolo. Errori su errori, a un certo punto impari.
In aggiunta a tutto questo, l’altro mestiere di Bushido – un lavoro a tempo pieno – era quello di non perdere contatto con le proprie origini. Quando vivi in un bel quartiere residenziale, circondato da alberi rigogliosi, con una piccola piscina sul retro, Spongebob in televisione e World Of Warcraft sempre acceso sul pc, ci può anche stare che ogni tanto ti dimentichi di essere venuto da un ghetto, dallo spaccio e da tutto il resto.
Bushido non era un criminale.
Non più, almeno.
Ma c’era un pezzo di lui che era rimasto a Tempelhof. Era un pezzo di lui che aveva il suo valore. E che in caso di bisogno doveva farsi valere.
Quindi no, Bushido non era un criminale. Ma aveva ancora un nome che sapeva farsi rispettare, se qualcuno aveva bisogno di un favore.
Ed anche questi sono mestieri, suppongo.
È evidente, comunque, che quando devi gestire tre situazioni così diverse fra loro – devi cantare e devi essere un pagliaccio e devi anche ricevere all’Ersguterjunge gente che ti parla dei suoi problemi in stile Padrino, ecco cosa intendo – devi anche saperti organizzare. Devi essere uno che guarda piuttosto avanti nel futuro, uno che capisce come andranno le cose prima ancora che quelle comincino a muoversi in una determinata direzione. Perché non puoi permetterti di essere impreparato di fronte ai casi della vita, no, devi prevederli sempre e devi prevederli tutti.
Nella maggior parte dei casi, non puoi nemmeno farcela da solo. Anche se Bushido, ammetto, si destreggiava più che bene anche prima che arrivassi io.
Io non ho capito cosa Bushido intendesse esattamente quando mi ha chiesto se ero bravo a sistemare le cose, almeno fino a che non ho avuto qualcosa da sistemare per lui. E questo è successo tre giorni prima che morisse.
Tre giorni prima che morisse – prima ancora di andare da chiunque altro, sospetto – Bushido è venuto da me. Mi ha detto chi era, mi ha tenuto fermo in una kebaberia per circa tre ore solo per descrivermi da dove veniva, cosa c’era nella sua testa e, soprattutto, cosa stava preparandosi ad affrontare.
Dopodiché, senza nemmeno chiedermi se per caso mi andasse di farmi assumere da lui, ha cominciato a darmi direttive.
Non è che abbia dato per scontato il mio assenso, eh. Questo ci tengo a precisarlo, perché Bushido non ha mai dato per scontato nulla. Anzi, è probabilmente l’uomo che si aspetta di meno in assoluto, dalla vita. Direi quasi che non si aspetta proprio un bel niente. E tutto il suo modo di pensare, di agire e di risolvere le cose, si esprime così. Proprio perché non si aspetta nulla di gratuito, lui le cose se le prende. Il mio assenso – la mia complicità… quello che ora si esprime in me che viaggio verso l’aeroporto – lui non l’ha dato per scontato. Se l’è preso. Punto.
Insomma, gli ordini erano molto semplici: “nel caso dovessi morire – nel caso, Jost, non fare quella faccia, lo so che ti mancherei più di quanto potresti sopportare, ma cerca di essere uomo e forte” “Bushido, fottiti” “Oh! Come sei sboccato” una risata delle sue, “Nel caso dovessi morire, Jost, a Bill sto già pensando da adesso. Chakuza, uno dei miei, non è ancora nel giro come gli altri. Non che sia un pivello, è solo che la sua testa fa più resistenza. Sarà che è austriaco. Sarà che è un cuoco. Sarà che stava in fattoria coi genitori, tipo. Sarà che era biondo ossigenato, quando l’ho conosciuto” e giù altre risate, “Comunque a Bill penserà lui. Lo terrà su di morale. Ma non posso contare sul suo lavoro per tenerlo anche lontano dai guai con la stampa. Quello posso tranquillamente affidarlo a te – posso, vero? – tu le sai sistemare, queste cose”.
Al di là del suo essere come al solito un intollerabile buffone, si capiva lontano un miglio stesse parlando con estrema serietà. Questo per il semplice fatto che Bushido era un uomo molto orgoglioso. Non arrivava a chiedere niente, se non sapeva di averne effettivo bisogno. È uno dei motivi per cui, quando Bushido chiedeva, la gente non si tirava mai indietro. Perché ci si rendeva tutti immediatamente conto del fatto che c’era evidente necessità.
Quando, tre giorni dopo, Tom mi chiamò per dirmi che lo stronzo era morto, che Bill piangeva avvinghiato al suo dannato cadavere fino a pochi minuti prima e che adesso il corpo era in viaggio verso l’ospedale – “…l’ospedale, Tom?” “…sì. Era ancora… respirava. Poco. Ma respirava. A Bill non l’ho detto.” – io sono andato lì solo perché dovevo preparare l’ospedale all’arrivo del mio protetto. Era ciò che mi aveva chiesto Bushido, in fondo, no? E conoscevo Bill abbastanza da sapere che, una volta realizzato che il corpo del suo uomo non era più lì, non gli stava piangendo addosso e non lo stava sentendo sotto le mani, la prima cosa che avrebbe chiesto – e l’avrebbe anche ottenuta, perché Tom, alla fine, non riesce a negargli mai niente – sarebbe stato farsi portare dovunque fosse lui.
Dovevo disporre la sicurezza. Dovevo parlare coi medici. Dovevo parlare con le infermiere.
Di certo non mi aspettavo che, appena messo piede nell’edificio, un medico mi raggiungesse e, con aria piuttosto seria, mi rivelasse candidamente che “avevano avuto esplicita richiesta di conferire solo con me”.
A ripensarci, rivedo la scena con una perfezione tale che non sembrano passati nemmeno due giorni. E invece è quasi un anno. Il medico che mi si avvicina – “Il signor Jost?” – io che esito – “Sono qui perché-…” – lui che mi interrompe – “Abbiamo ricevuto esplicita richiesta di conferire solo con lei” – io che lo fisso disorientato – e penso: è arrivato fino a questo punto, quell’essere assurdo? È venuto a parlare perfino coi medici, in previsione della propria morte? – e lui che mi poggia una mano sulla spalla e mi conduce di là. E Bushido sul lettino.
Mentre i miei ricordi indugiano sul suo volto pallido e provato – Bushido aveva la capacità di diventare, tipo, bianco, quando stava male. Non un bianco da carnagione chiara, un bianco spaventoso, cadaverico. Appropriato, direi, vista la situazione in cui si trovava in quel momento – le porte a vetri smerigliate e scorrevoli della sala arrivi dell’aeroporto si spalancano, ed io osservo il flusso di turisti americani che sfilano allegramente fra i nastri trasportatori per recuperare i bagagli e godersi un po’ di sane vacanze europee; osservo anche i tedeschi che tornano dalle spiagge d’oltreoceano, arrossati dal sole e con certi sorrisi da pubblicità – non tanto per la perfezione, quanto per la felicità che mostrano – che ti riempiono il cuore; e fra una persona e l’altra, un po’ mescolato fra la folla, i capelli lunghi che sfiorano il collo, gli occhiali da sole a coprire quasi metà del viso ed il pizzetto curato a rendere anonima e irriconoscibile l’altra metà, osservo anche lui.
Si guarda intorno. Sta cercando me. Le linee nere e definite del tatuaggio sul collo spuntano appena, giocando a nascondino col colletto della camicia bianca che spunta dallo scollo a v del maglioncino di cotone blu che indossa. È, forse, un po’ troppo leggero per il periodo in cui siamo. È roba primaverile, mentre qui le porte dell’autunno si schiudono lasciando passare i primi spifferi di freddo. Immagino che i lunghi mesi di soggiorno a Miami abbiano un po’ sfasato il suo termostato naturale. Ed era già sfasato di suo, eh, capacissimo di andare in giro in maniche corte in pieno inverno. L’ho visto coi miei occhi.
Quando finalmente mi trova, sorride. Ed anche se al momento vorrei alternativamente prenderlo a cazzotti, rispedirlo negli Stati Uniti con un calcio o terminare il lavoro che Saad non è stato evidentemente capace di concludere, sorrido anch’io. Perché mi tira fuori uno di quei sorrisi brevettati ai quali non puoi sfuggire. Sono cose solo sue.
Peraltro…
- Ma lo fai apposta a mettere sempre questi maglioncini qua, quando devi incontrarmi?
Bushido ride ad alta voce e posa l’enorme trolley rosso che si trascina alle spalle.
- Ti sono mancato, Jost? – chiede con aria fascinosa, piantando una mano sul fianco.
Io inarco un sopracciglio.
- Meno ti vedo, più felice sono. Questo mi sembrava fosse chiaro.
Lui finge disperazione ed inarca le sopracciglia verso il basso, sfilando gli occhiali da sole per potermi somministrare più disinvoltamente quella specie di occhiata da cucciolo bastonato che non so come riesca a tirare fuori all’occorrenza, dall’alto del suo abbondante metro e novanta.
- Ma mi hai fatto tornare tu! – si lamenta con aria affranta.
Io sospiro.
- Sì. – ammetto, - Ti ho chiamato io. – “e me ne sto già pentendo”, vorrei aggiungere. Ma lui ha ricominciato a sorridere. E insomma. – L’ho fatto per un motivo serio, comunque, e lo sai perfettamente. E invece, come al solito, stai facendo il deficiente.
- Sdrammatizzo, Jost. – mi corregge, riprendendo a muoversi disinvoltamente verso l’uscita. Ricorda ancora tutto perfettamente, un po’ mi fa pensare che sia venuto altre volte, nel corso dell’ultimo anno. Altrimenti non si spiega la sicurezza con la quale si riappropria degli ambienti. Poi però ricordo che lui è Bushido, che le cose non le vive, le possiede, perciò non mi pare più nemmeno tanto strano che ricordi ancora perfettamente Berlino-Schönefeld.
Io sospiro ancora e gli vado dietro. Non ho nemmeno bisogno di guidarlo verso la macchina, ricorda anche lei. Pure se l’ultima volta che l’ha vista è stata quando l’ho accompagnato proprio a questo aeroporto, un anno fa. L’altra volta era in partenza, però. Stavolta è di ritorno. E non so ancora per quanto.
- Allora. – comincia tranquillamente, aspettando che abbia aperto il portabagagli per posare al suo interno la valigia, - Cos’è cambiato, mentre ero via? A parte il fatto che la gente non ascolta più buona musica perché il Chaky mi chiude l’azienda, ovviamente. – aggiunge con una risata naturale.
È cambiato, tanto per cominciare, che il Chaky non ti vuole solo chiudere l’azienda, ma si diverte anche a chiudere il tuo ex ragazzo nel proprio appartamento. Con la di lui complicità e per la sua gioia, peraltro. Gioia che condividono solo loro due, inoltre, perché in quei periodi Tom sclera – e sto finendo le scuse plausibili al riguardo, lo ammetto. Credo di aver raschiato il fondo con “è in beauty farm”, la settimana scorsa – ed io non me la passo mai in maniera piacevole, quando Tom sclera. C’è di nuovo anche che, ricordi l’altra tua ex? Cassandra? Ecco, quando Tom non è impegnato a sclerare perché non capisce con chi sta uscendo suo fratello, si vede con lei. E non credo giochino a scacchi, quando lo fanno. C’è poi quell’altro tuo ex ragazzo, quello che non è mai diventato tale, Patrick, lo ricordi lui? Ecco, lui me lo sto perdendo. Non credo di aver mai visto Fler triste com’è in questo periodo. Ed è un anno che ci gira intorno, sai? Non è bello quando vedi uno che sta decorosamente bene ridursi così. Ed i motivi, peraltro, sfuggono a tutti meno che a me, perché grazie a te – o per colpa tua – ho imparato ad osservare.
Sono cambiate un mucchio di cose, Bushido. Del tipo che prima si stava bene. E adesso è un casino. Ma come si fa a dirtelo?
- Be’, fa più freddo. – annuisco con aria competente, - Sicuro di aver portato abbastanza roba pesante?
Lui scrolla le spalle ed entra disinvoltamente in macchina.
- Non ho lasciato niente lì. – risponde sovrappensiero, quando mi osserva sedermi al posto del guidatore. Lo guardo con sincero sgomento. – Intendo… tranne i soprammobili, ovviamente. E qualche vestito che-
- Bushido… - lo recupero dal vortice di pensieri assolutamente inopportuni in cui si sta allegramente gettando, - ne abbiamo già discusso, di questa cosa, e-
- Tranquillo, Jost. – mi interrompe con uno sbuffo infastidito, - Non ho intenzione di restare più del necessario.
Al che, giustamente, mi viene da rispondere “No, noi avevamo concordato che non saresti rimasto più di un mesetto, giusto il tempo di risolvere la questione. Com’è che adesso un mesetto è diventato il necessario? E perché il necessario mi fa paura, come periodo di tempo?”. Però non lo faccio.
- Sarà. – borbotto scontento, mettendo in moto. – Comunque sia-
- Non mi farò vedere da anima viva. – mi interrompe ancora, - Briegmann a parte, naturalmente, altrimenti come faccio a riprendermi l’EGJ?
- Sì… quello lo do per scontato, Bushido. Comunque sia, stavo dicendo, - sbuffo e guardo fuori dal finestrino. Non mi fa bene sentirmi in imbarazzo, al momento. Non mi fa bene sentirmi in imbarazzo perché ricordo fin troppo bene che nove mesi fa le dita che adesso pestano sulla tastiera del cellulare, scrivendo messaggi diretti non so e non voglio sapere a chi, sfioravano la mia pelle. Non mi fa bene. Non mi fa bene per niente. Sono evidentemente un cretino. - …bentornato, ecco.
Bushido ride, non solleva gli occhi dal cellulare e mi molla un paio di pacche sulla spalla.
- Anche io sono contento di rivederti, Jost. Mi sei mancato anche tu.
E se da un lato penso che, grazie a questa sfacciata naturalezza, per certi versi avere a che fare con lui è incredibilmente facile, dall’altro lato penso che lo odio. La mia giornata di oggi è un continuo realizzare che, da questa situazione, non riusciremo mai ad uscire vivi.
*
Ho appena lasciato Bushido in uno dei numerosi appartamenti che ha continuato a tenere qua a Berlino nonostante, quando è andato via, non si pensasse minimamente all’eventualità che potesse tornare. In realtà, il fatto che ci fossero ancora tutti questi appartamenti a suo nome, qui nei dintorni, avrebbe dovuto darmi da pensare in tal senso. Voglio dire, non tieni la zavorra inutile di dieci dannati posti vuoti, se non pensi che prima o poi tornerai a utilizzarli. Soprattutto, non li tieni quando sai che la tua etichetta è destinata a chiudere e sai anche perfettamente che, vendendo quelli, potresti tranquillamente sopravvivere di rendita per tutto il resto della tua esistenza. Quindi sì, in effetti avrei dovuto pensarci. O avrei dovuto costringerlo – convincerlo, Bushido non lo costringi mai – a venderli.
Gli ho promesso il kebab per cena. Quell’uomo, alle volte, è un bambino. Nel senso che se gli prende un capriccio, vallo a smuovere, poi. Non si può. Avrei potuto fargli la spesa e preparargli un buon piatto di pasta – dice di aver imparato a cucinare, mentre stava a Miami, ma che vuoi che si impari a cucinare in America? Gli hot dog? – ma lui no, lui vuole il suo intruglio malefico e disgustosamente piccante che peraltro io non posso mangiare in quanto riempito fino a esplodere di carne varia ed eventuale, ovviamente. Niente pasta, il kebab, per lui. È stato palesemente troppo lontano da casa.
Perciò, è cercando una kebaberia che chiamo Bill al cellulare. Giusto per capire se sta bene e se si diverte. O forse solo perché mi sento in colpa.
- David! – strilla lui, la voce che sprizza gioia ad ogni nota, come nei migliori casi di esaltazione zucchero-indotta. Chakuza deve averlo ingozzato di dolcetti.
Sorrido intenerito, anche se, da qualche parte dentro di me, sto strillando “santo cielo” in tutte le lingue che conosco. E non sono così poche.
- Bill, ciao. – lo saluto, individuando finalmente una kebaberia ed introducendomi all’interno dell’ambiente caldo e saturo dell’odore forte delle cipolle, delle olive, delle salse piccanti e della carne che ruota sullo spiedo. – Dove sei?
- Disneyland! – riprende a strillare. E lo immagino sollevare un braccio in segno di gioia. Come il bambino che sta ricominciando ad essere da quando può. – Puoi crederci? Siamo appena usciti… entrati… cioè, siamo usciti dal parco ed entrati in albergo! – e sottolinea l’imbarazzante confusione da allegria con una risatina sottile e divertita.
- Aha, capisco… - mugugno, indicando al ragazzo dietro al bancone di preparare due panini con… be’, tutto quello che vuole metterci, è indifferente. – Sei con… - ed esito, perché ho paura a parlarne con Bushido che mi aspetta in quell’appartamento buio e silenzioso a qualche strada da qui.
Bill, comunque, non mi lascia rispondere. È ansioso di dirlo lui, quel nome.
- Sìsì! – miagola entusiasta, - Sono con Peter, stiamo decidendo se andare fuori a cena! E oggi mi ha comprato un mucchio di caramelle, non è carino?
- …già. – annuisco a fatica, - Molto. Senti… pensate di rientrare in settimana? O comunque a breve?
- Assolutamente no! – ride ancora lui, - Avanti, David, è il nostro mesiversario, te l’ho detto tre giorni fa! Non starai mica per dirmi che c’è del lavoro da fare…
Per un secondo, accarezzo l’opportunità di smontargli i piani. Non perché non voglia che sia felice, tutt’altro, dubito che esista un’altra persona al mondo – a parte Tom – che voglia Bill felice più di quanto lo voglia io. Solo che mi viene da pensare che fra poco ricorrerà il compleanno di Bushido. Sarebbero trentun anni, se non fosse morto. Che poi non è morto davvero, d’accordo, ma certe volte – in maniera del tutto irrazionale – mi viene da pensare che Bill questo lutto non l’abbia vissuto per niente bene. Che si sia distratto troppo.
Non lo so, in realtà non mi pare che il lutto di Bushido sia stato davvero vissuto per bene da qualcuno. Forse solo da sua madre. La cosa è un po’ ironica e un po’ – tanto – triste. Vorrei solo che Bill non fosse con Chakuza, adesso. E lo penso mentre il ragazzo dietro al bancone mi consegna i due panini incartati e insacchettati.
- No, no. – lo rassicuro con una mezza risata, porgendo al ragazzo una banconota da dieci, e attendendo il resto, - È tutto a posto. Volevo solo esserne sicuro. Per stasera non ci sentiamo più, giusto?
- No, infatti. – annuisce lui, più tranquillo, - Pensavamo di fare tardi. – aggiunge poi, con una mezza risatina.
Sospiro profondamente, intascando le monetine e tornando in strada.
- D’accordo, Bill. Avete il mio benestare, anche se volete andare fuori a cena. Però, ti prego, non costringermi a correre dietro i paparazzi sventolando assegni nella speranza di salvaguardare la tua carriera e la tua immagine pubblica, d’accordo? – anche perché, vorrei aggiungere, pure se non lo faccio, dato che il giorno si avvicina, ovunque si stanno organizzando trasmissioni celebrative, concerti all’onore e bla bla bla. Tutta roba che quando la racconto a Bushido lo fa ridere di gusto. “Non sono mai stato amato tanto,” si lamenta giocosamente, “quando ero vivo”. Mi sa che ha ragione.
Bill non coglie il sottinteso del mio discorso. Meglio così, in fondo.
- Sì, sì, lo so. – si lagna sbuffando, - Niente baci, niente carezze, niente di niente in pubblico.
- Bravo. – mi complimento subito. – E… per quando tornerete a Berlino… - mi faccio forza perché devo dirlo. Devo dirlo per forza, perché non posso rischiare niente e se Bushido è in città io non posso mettere Bill nelle condizioni di farsi beccare da lui con Chakuza. Anche per un caso fortuito. Anche se quell’idiota decidesse davvero di non uscire ma si limitasse a guardare fuori dalla finestra e casualmente li vedesse. - …ho saputo da fonti fidate che Bravo è in cerca della paparazzata del secolo. Mi sa che non siete stati granché discreti ultimamente. – non è vero, sto inventando. Bill, però, non può saperlo. – Magari è meglio che tu e Chakuza vi vediate un po’ di meno, per le prossime settimane. D’accordo?
Il suo silenzio mi raggiunge come una stilettata in mezzo ai polmoni. Sento voci di persone, risate di bambini ed altri miriadi di rumori, tutti attorno a lui, ma lui resta in silenzio.
- …ma non ci siamo visti per niente, la scorsa settimana… - mugola scontento, - E presto dovremo rimetterci al lavoro…!
Ha ragione, insomma. Ha ragione.
- Bill, non mi deludere adesso. – ringhio, e sono irritato perché ho torto. – Un po’ di professionalità, Cristo.
Dall’altro lato della cornetta, lui esita, incerto.
- Non… - balbetta insicuro. Poi sospira. - …mi dispiace. È che ci vediamo così poco che… mi dispiace. Faremo come vuoi tu, David.
Il mio sospiro fa eco al suo. È ugualmente profondo e ugualmente affranto, almeno.
- Lo so, Bill. Lo so che è difficile. – e sono triste per Bushido, ma è Bill il mio bambino, in fondo. – Facciamo che alla prima pausa disponibile vi do due settimane solo per voi. – suggerisco con un mezzo sorriso che spero lui senta fra le vibrazioni delle mie parole.
- …due settimane? – chiede Bill, incredulo, - Intere?
- Sì. – confermo io senza un’esitazione. E non m’importa, in questo momento, se ciò significa che dovrò rispedire Bushido a Miami quanto prima, anche a costo di fare carte false. – Due settimane piene, senza nemmeno un impegno. Dì a Chakuza di organizzarsi. – concludo con una risatina.
L’urlo di gioia di Bill si fa attendere solo un secondo. Poi arriva, come previsto, spaccandomi i timpani e, in buona misura, anche il cuore. Io, davvero, non so che pesci prendere. Dovunque guardo vedo profilarsi disastri a lungo termine. Di quelli che rovinano la vita a lungo.
Io non ci credo che Bushido potrà passare per il suolo tedesco per poi tornarsene negli Stati Uniti senza colpo ferire. Io non ci credo, per il semplice fatto che quell’uomo non… non passa mai senza lasciare traccia. Non è neanche colpa sua. Non gli riesce e basta.
Allontano la cornetta dall’orecchio e parto con le lamentele di routine. Del tipo “Sono troppo buono, palesemente ti vizio, sei venuto su diva perché ti ho lasciato fare tutto quello che volevi” e così via. Bill mi ferma come al solito, ringraziandomi con quel tono dolce che non ammette repliche per il semplice fatto che, quando lo usa, ti sta parlando col cuore in mano.
- Saremo buoni buonissimi, David. Promesso. – cinguetta al settimo cielo.
Sorrido, inspiegabilmente soddisfatto di me stesso.
- Bravo. Ora vai, su. E divertiti.
Lui ridacchia appena.
- Lo farò. Grazie, David.
Mi si stringe il cuore.
- Figurati. Buonanotte.
Chiudo la telefonata prima che possa dire altro. Me lo vedo già che corre verso Chakuza, che chissà dove lo stava aspettando per non disturbarlo. È discreto, con lui. È gentile. È palesemente la scelta perfetta. La più perfetta che Bill poteva fare dopo Bushido.
Sospiro pesantemente.
- E tutto questo… - borbotto, incamminandomi verso l’appartamento, - perché quello mi ha scopato, una volta. Io devo essere completamente pazzo.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash.
- "Cosa. Ci. Fai. Tu. Qui."
Note: No, non siamo ubriache, stiamo solo tornando indietro nel tempo XD La tragica verità è che ci eravamo completamente dimenticate dell’esistenza di questa shot *O*/ Cioè, no, ok, la sua esistenza la ricordavamo, solo che è stata scritta un po’ così out of the blue per un po’ di fanservice gratuito (a me il Billshido rumoroso piace tanto, e poi mi diverto a torturare Tab facendole piagnucolare “sì, però sono belli T_T” a dispetto del suo orientamento di fandom. GratuitamenteCattiva!Liz XD
A parte questo, non ho molto da dire, a parte il fatto che spero vi sia piaciuta e che, continuando di questo passo, probabilmente Tom e Fler in un non lontano futuro finiranno insieme XD
Settimana prossima si torna a SE =P Non vi distraete troppo con giochini neri e arancioni dall’aspetto ingombrante.
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DEL PERCHÉ BILL SI RITROVÒ A DOVER COMPRARE UNA CASA NUOVA

Io e Tom non abbiamo ancora imparato ad andare d’accordo e, per come mi sta guardando in questo momento – come volesse prendermi a cazzotti ma non si sentisse ancora fisicamente pronto a farlo, un atteggiamento tipico dei ragazzini – penso che non impareremo mai. È una cosa di cui in un certo senso mi dispiaccio, è una cosa di cui si dispiace Bill – per il quale è fondamentale che le persone che ama vadano d’accordo – è una cosa di cui si dispiace Jost – che vorrebbe sempre pace intorno a sé, mentre io e questo scricciolo coi rasta seguitiamo a privarlo in questo senso – ed è una cosa di cui si dispiace pure la mia crew, soprattutto Chakuza e soprattutto quando lo mando a prendere Bill in momenti in cui è con Tom. Ammetto di farlo apposta, ecco. Solo che Chakuza non sono io e Tom non si permette di guardarlo con gli occhi con cui guarda me. E, in ogni caso, sa bene che a Chaky non dà fastidio prendere a tirargli uno scappellotto sulla nuca per rimetterlo a cuccia. Io, invece, Tom non posso toccarlo.
Per questo motivo – perché devo fare il bravo, insomma – adesso cerco di stare tranquillo e non farlo rotolare fino alla parete di fronte con una schicchera sul naso, e mi appoggio allo stipite della porta, reggendo il mio pacco regalo ben stretto sotto il braccio. Lui mi guarda come un leoncino incazzoso, e stringe la presa sulla porta. Sembra indeciso sulla possibilità di scostarsi o sbattermela in faccia.
- Cosa. Ci. Fai. Tu. Qui.
È incredibile come, attraverso lo schermo di un televisore o fra le pagine patinate di una rivista, possano passare messaggi così distorti. Il mondo intero è convinto che il gemello rompiballe sia Bill. Bill – e posso assicurarlo di persona, perché io sono un uomo paziente ma ho dei limiti molto rigidi – è delizioso. Una volta che chiarisci bene patti e regole, andare avanti con lui è meraviglioso, perché non sgarra di niente. Cammina sempre lungo la linea tratteggiata, non inciampa e, se deve farti il casino, te lo fa privatamente.
Tom, invece, è una piaga solenne. Dio mio, è intollerabile. Io non so come faccio a non spaccargli la faccia come meriterebbe ogni volta che posso o ogni volta che me ne dà occasione – tipo quando parla con l’aria di una checca oltraggiata, calcando le sillabe ed usando punteggiature opinabili.
- In quella domanda, se era una domanda, - preciso rimettendomi dritto, visto che gli atteggiamenti fascinosi che mandano Jost in brodo di giuggiole su Tom non hanno il minimo effetto, - tanto per cominciare ci andava un punto interrogativo sul finale. E poi ho come l’impressione che-
- Tu non dovresti essere qui! – mi fa notare, ignorando apertamente la lezione di grammatica che stavo faticosamente tirando su solo per lui, - Tu e Bill avete litigato! Gli hai tirato un pacco enorme per il compleanno!
Sospiro pesantemente e non fatico ad immaginare perché Tom abbia il dente così avvelenato sul punto. Bill, in genere, non si lagna con lui di me, visto che sa che il fatto che stiamo insieme non gli va giù. Ma suppongo che la faccenda del compleanno mancato l’abbia mandato abbastanza su di giri da impedirgli di considerare chi – della massa indistinta di spalle su cui piangere che vede quando è depresso – fosse la persona con cui stavaparlando.
- Questo è esattamente il motivo per cui sono qui, Tom. – rivelo quindi, sospirando ancora, - Mi dispiace non essere potuto venire a festeggiare con voi i diciott’anni-
- Per quello che mi riguarda, mi hai fatto un regalo bellissimo!
- …ma ho avuto da lavorare. – proseguo, cercando di trattenere le mani. – E comunque sia, sono venuto a chiedere scusa a Bill. – annuisco, indicando compiaciuto il pacco regalo. – A te non ho portato nulla, s’intende. – ghigno poi, infilando una mano nella tasca interna della giacca, - Almeno a voler considerare “nulla” il Fler 90210 Mixtape. – rivelo poi, estraendo il cd e sventolandoglielo davanti agli occhi neanche fosse una caramella.
Tom si mette a brillare. Io sorrido soddisfatto. Bill ricordava bene, questo Mixtape è stato fra le vittime innocenti del massacro della mia discografia ad opera dell’Escalade. Lo vedo che allunga le mani verso il disco neanche fosse un’apparizione divina, le labbra dischiuse e gli occhi enormi.
Sollevo il braccio.
- Sai quanto m’è costato? – lo prendo in giro, - Non tanto in termini economici, quanto in termini di orgoglio. Voglio dire, roba di Fler…!
Lui si mette a saltellare.
- Oh, dammelo! Dammelo! – borbotta, allungandosi su di me per raggiungerlo, mentre io lo sollevo sempre più in alto, ben deciso ad arrivare anche a mettermi sulle punte per impedirgli di toccarlo prima dell’esatto momento in cui vorrò io.
L’esatto momento in cui lo voglio arriva pochi secondi dopo, quando – a seguito delle manovre per cercare di impossessarsi del disco – l’occhio di Tom cade inavvertitamente sulla confezione del regalo.
- Bushido… - borbotta rimettendosi in piedi ed allontanandosi di qualche centimetro, - Ma quella carta…
Io comincio a sudare freddo. Non gli do il tempo di finire, comunque: gli faccio passare Fler sotto il naso e lui ne segue tipo l’odore, è una cosa buffissima. Certe volte penso che mi basterebbe andare dalle parti dell’Aggro Berlin, dire a Fler che magari si può tornare amici e poi tornare qui a regalarlo a Tom, e tutti i miei problemi sarebbero risolti, potrei entrare e uscire impunemente da questa casa senza causare scompensi ormonali a nessuno e il mondo vivrebbe in pace. Poi mi ricordo che certe cose non dovrei pensarle nemmeno per scherzo, e che comunque Fler non si meriterebbe di essere usato a questo modo, nonostante tutto, e lascio perdere.
Lascio Fler nelle mani del suo legittimo proprietario – che a pensarla così mi fa pure un po’ senso, nonché darmi del fastidio indistinto che comincerò immediatamente ad ignorare – e mi dirigo verso la camera di Bill mentre Tom biascica che non me la farà passare liscia e il momento in cui pagherò per tutte le mie colpe è solo rimandato. Però lo dice con un’aria talmente sognante, mentre accarezza la copertina e fluttua verso il mega-impianto stereo che è stato il primo regalo che ho fatto a Bill quando ci siamo messi insieme, che non mi preoccupo nemmeno.
Busso piano alla porta e aspetto. Il singhiozzo che mi raggiunge dall’altro lato, dato che siamo appena al due settembre, non mi stupisce.
- Non voglio guardare The Notebook un’altra volta, Tomi! – si lagna la principessa, probabilmente immersa in un caos di cuscini e lenzuola, come ogni sua degna compagna di fiabe, - Piango già abbastanza anche senza stimolo, mi pare!
Mi viene un po’ da ridere, a sentirlo così depresso. Se lo conosco bene – ed è così – saranno già ventiquattro ore almeno che pensa senza sosta che evidentemente io non lo amo abbastanza, che devo essermi completamente dimenticato di lui e del suo compleanno e che sicuramente mi starò divertendo con un branco di groupie seminude come niente fosse stato. Mi starà ricoprendo di improperi e si starà dicendo che non vuole più vedermi né sentirmi. E piange perché non è vero che non vuole più vedermi né sentirmi.
Non gli rispondo, voglio vedere la sua faccia prima che abbia il tempo di prepararsi alla mia presenza, perciò mi limito a poggiare una mano sulla maniglia e ruotarla, spingendo lievemente la porta.
- E non entrareeee! – continua a lagnarsi lui, - Sono impresentabile! – ma io entro lo stesso.
La sua espressione, quando si rende conto di chi sono, è un capolavoro. Spalanca gli occhi – liquidi e persi – e schiude le labbra – vagamente gonfie e un po’ umide – e resta lì, immobile, un ammasso di capelli scomposti sulla testa e il faccino più confuso che gli abbia mai visto addosso. È tutto raggomitolato in uno spicchio di letto, le ginocchia al petto e le braccia a stringere le gambe. Solo la testa si solleva e mi dà modo di capire che quello è ancora il mio ragazzo e non una palla di emodepressione da piagnisteo immotivato.
- Principessa… - lo saluto con un cenno del capo e un sorriso un po’ stronzo, - sono venuto a fare ammenda per i miei peccati.
- Anis… - esala lui, con lo stesso tono con cui mi è capitato di sentirgli chiamare il mio nome mentre ancora dormiva. Resta con quell’espressione deliziosa addosso ancora solo per un secondo. Poi ricorda di essere Bill Kaulitz, di aver appena compiuto diciott’anni e di avere tutti i diritti di questo mondo di farmi sentire una merda perché non c’ero. Perciò aggrotta le sopracciglia e stringe le labbra in una smorfia piccata e delusa. – Anis. – ripete, più duramente, - Hai finalmente trovato il tempo per ricordarti della mia esistenza?
Io sospiro e roteo gli occhi, entrando in camera e chiudendomi la porta alle spalle.
- Ti ho chiamato, ieri, piccolo. – gli ricordo, - Non mi sono dimenticato della tua esistenza.
- Non c’eri! – mi attacca subito lui, saltando in ginocchio con uno scatto da capriolo imbizzarrito, - Io ero lì che spegnevo le mie diciotto candeline… diciotto candeline!... e tu non c’eri!
Mi lascio andare ad un altro sospiro, mettendomi seduto ai piedi del suo letto. È meraviglioso come, quando mi ha sotto gli occhi, Bill non riesca a fare a meno di starmi vicino. Non so com’è che abbia sviluppato questo bisogno, probabilmente dipende dal fatto che io ho la necessità fisica di toccarlo di continuo. Quando siamo nella stessa stanza, è molto raro che non gli stia addosso in qualche modo. Se succede, ho qualche motivo serio per non stargli appiccicato – tipo stare lavorando o stare litigando con Saad. Ma in genere quando litigo con Saad sto anche bene attento a tenere Bill il più vicino possibile. Giusto perché il messaggio sia sempre chiaro e mai contraddittorio.
Comunque sia, appena mi appoggio sul materasso, Bill gattona verso di me, e subito dopo me lo trovo accucciato al fianco. Visto che è ancora arrabbiato, però, tutto il contatto che condividiamo è la sua mano stretta attorno al mio braccio, come volesse tenermi lì per tutto il tempo della sfuriata. E infatti, subito dopo ricomincia a parlare.
- E poi non ha nessuna importanza che tu abbia chiamato! – mi rinfaccia, le labbra strette in un broncino da baci, - Chissà cosa stavi facendo mentre eri al telefono con me! – ripesco dai file di memoria: stavo pestando Chakuza perché si ostinava a non collaborare attivamente per il duetto che devo infilare nell’album. Niente di compromettente. – E comunque avresti dovuto esserci! – conclude quindi, strattonando il braccio un po’ qui e un po’ lì, come a richiamarmi dal punto in cui mi sono perso. Bill sa sempre quando smetto di ascoltarlo.
- Ho capito, principessa, ho capito. – annuisco, - Avrei dovuto esserci. – allungo un braccio e me lo tiro contro. Bill non fa la minima resistenza, si lascia avvolgere e si schiaccia contro di me aderendo immediatamente al mio corpo, neanche fosse nato apposta. Mi stringe le braccia attorno al collo e nasconde il viso sulla mia spalla, strusciando il naso contro la maglia come a volersi scavare una via per la pelle. – Ho pensato a te di continuo. – gli sussurro fra i capelli, - E mi è dispiaciuto sentirti così arrabbiato, al telefono. Avrei preferito farti un po’ di coccole.
- Ma eri tipo lontanissimo… - mugola, risalendo il mio collo con le labbra.
- Avrei potuto coccolarti lo stesso. – rido, e lui arrossisce e mi dà un pizzicotto poco convinto sulla nuca.
- Non dire queste cose… - borbotta, strusciandosi un po’.
Io sogghigno.
- Ti ho portato un regalo. – dico poi, separandomi controvoglia dal calore del suo corpo, - Non vuoi aprirlo?
Lui mi guarda con un paio d’occhi enormi e brillanti, gli nasce il sorriso sulle labbra ed io, invece di sentirmi in colpa come sarebbe giusto, comincio a gongolare pensando alla faccia che farà quando vedrà cosa gli ho portato. Certe volte raggiungo picchi di infantilismo tali da stupirmi da solo, davvero.
- Un regalo…? – cinguetta estasiato, giungendo le mani sotto il mento nella posa tipica da ragazzino innamorato che mi somministra sempre quando vuole intenerirmi, - Cos’è? Cos’è? È per farti perdonare?
- Già. – annuisco compitamente, recuperando il pacchetto e consegnandoglielo. Bill non è come suo fratello, davvero, Bill è allo stesso tempo una delle cose più diverse ed uguali che esistano rispetto a Tom, e comunque sia gli manca la conoscenza di base di cui invece suo fratello è anche troppo pieno. Per dire, Tom l’ha capito subito che questo pacco viene da un sexy shop. Bill, invece, si ferma ad osservare la carta nera con il nome del negozio traslucido e quasi irriconoscibile se non in controluce e l’enorme fiocco rosso che chiude il tutto, e si limita a squittire di gioia perché è un pacchetto molto elegante e potrebbe contenere qualsiasi cosa, da un rolex a un bracciale di diamanti al microfono originale usato da Nena al suo primo concerto, per dire.
Lo osservo con un compiacimento probabilmente illegale e decisamente inopportuno, mentre scioglie con navigata grazia il fiocco – anni e anni di gavetta come cucciolo di casa e favorito dalle fan, suppongo – e spacchetta il tutto, ficcando le mani nella carta velina e riemergendo due secondi dopo con un’espressione adorabilmente sconvolta e un dildo nero e arancione da trenta centimetri per le mani.
Ah, che soddisfazione. Dio, potessi tirare fuori una macchina fotografica e scattargli una foto in questo preciso istante, giuro che lo farei. È strepitoso: mi guarda come non riuscisse a capacitarsi della mia esistenza in questo momento e in questo luogo, stringe le mani attorno al giocattolo ed ha le labbra dischiuse come volesse dirmi qualcosa ma non sapesse cosa.
È stupendo, giuro.
- Anis! – urla alla fine, agitandomi il coso davanti agli occhi come se da solo bastasse a farmi sentire inopportuno. Io, naturalmente, scoppio a ridere, - ‘Cazzo ridi?! – si lamenta lui, mettendosi dritto sulle ginocchia e attaccandomi con entrambi i pugni chiusi, finendo inevitabilmente per lasciarsi intrappolare i polsi fra le mie dita.
- Be’, è una cosa utile e simpatica! – mi giustifico ridendo e trattenendolo mentre lui si sforza di essere minaccioso, - E poi sono i tuoi colori preferiti!
- I miei colori preferiti! – ripete lui, incredulo, - Ma sentilo!
Io rido ancora e lo tiro giù, e quando lo bacio lui mi si scioglie sulle labbra. Mugola e si dibatte solo un secondo – mentre già la sua lingua gioca a nascondino con la mia – poi cede e mi sbuffa contro, stringendomi nuovamente al collo con le braccia. Mi tiene così stretto che il giocattolo quasi si intromette fra di noi, dato che lui si ostina a tenerlo in mano, ed io lo scosto con un gesto sbrigativo, prima di accarezzarlo morbidamente su una guancia e seguire i suoi movimenti mentre inclina il capo e mi si sistema a cavalcioni in grembo, approfondendo il bacio.
Lo attiro contro di me stringendolo con un braccio alla vita, e lui lascia andare un versetto acuto e stupito che mi fa sorridere. Sorride anche Bill, mi sorride addosso e so che abbiamo già fatto pace. È fantastico che io non abbia nemmeno dovuto chiedere scusa. Io e Bill siamo perfetti per questo, perché non possiamo stare lontani, perché non abbiamo bisogno di dire le cose, perché c’incastriamo con una facilità sconvolgente. Perché non vedo niente quando me lo trovo in giro, perché non vede niente nemmeno lui, perché quello che è stato prima e quello che sarà poi, quando stiamo così vicini, non importa nemmeno. Perché siamo liberi, quando siamo insieme. Anche se poi liberi non siamo affatto, visto che non facciamo che imprigionarci a vicenda. Ma è giusto così.
- Ho pensato che non ci saremmo più rivisti, perché ti ho chiuso il telefono in faccia a quel modo… - biascica confusamente, tirando la mia maglia verso l’alto mentre io scendo a sfiorare con le labbra la pelle tenera e calda del suo collo, - Ho pensato… Anis, la maglietta… - mi scosto con una mezza risata, così che lui possa finalmente togliermela di dosso, e poi lo lascio riprendere a parlare, perché quando la principessa ha bisogno di sfogarsi, inutile lamentarsi, la si deve lasciar fare, - Ho pensato che avresti cominciato ad odiarmi perché mi ero arrabbiato… e poi ti ho odiato anch’io perché c’erano tutte le persone alle quali voglio bene, a quella festa, e però non c’eri tu…
- Lo so, piccolo… - lo zittisco, mozzandogli il respiro con un morso lieve, - La tua testa è un disastro, sai? – lo prendo in giro, stringendogli i glutei attraverso il tessuto leggero del pigiama. Lui mugola, a metà fra l’imbarazzato e il compiaciuto.
- Non è un disastro… - borbotta, - I pantaloni…
Lo ribalto sul materasso e lo spingo un po’ indietro. Lui non ha ancora lasciato andare il giocattolo, cosa che un po’ mi fa ridere, se devo dire la verità.
- Cos’è… - lo prendo in giro mentre, guardandolo dall’alto, comincio a sfibbiare lentamente la cintura, - ti ci sei già affezionato? – chiedo, indicando il dildo con un cenno del capo, - Il prossimo passo è dargli un nome?
Lui arrossisce istantaneamente e lo lascia andare di peso sul materasso, ma non riesce a staccarmi gli occhi di dosso. Io ghigno e lascio la cintura a pendere dai fianchi, retta solo dai passanti dei jeans, afferrando Bill per la vita e sistemandolo sul materasso, introducendomi fra le sue gambe perché ogni mio movimento ed ogni suo movimento coincidano con uno sfiorarsi dei nostri bacini.
- Togli… - lo sento lamentarsi, mentre sfiora con le dita il bottone e la zip dei miei pantaloni, - Per favore…
Annuisco compiaciuto, sfibbiando il bottone ed aprendo la zip, e non potrei essere più lento di come sono. Sto impazzendo di desiderio ma adoro guardarlo quando è così perso, adoro guardarlo quando noi siamo l’unica cosa che riesce a realizzare e adoro guardarlo quando fissa il mio corpo con quest’aria innamorata e confusa, come non sapesse dove vuole mettere le mani prima e solo per questo motivo sta fermo immobile senza toccare niente.
- Anis… - mi chiama, e quando mi chiama io non resisto più. È sempre stato così, fin dalla prima volta, e se vado ancora più indietro con la memoria, alle notti in cui ancora non stavamo insieme, ad esempio, e mi chiedeva di restare, ricordo che è sempre grazie a quello che ha avuto la meglio su di me. Gli bastava chiamarmi per nome ed io ero finito, non potevo più dirgli no. È incredibile, se ci penso. Mi sento anche un po’ un cretino, volendo. Gli è bastato chiamarmi per nome, davvero, tutta la nostra storia è questo, lui mi ha chiamato per nome e mi ha sconfitto così. Penso che quando basta così poco è amore. È amore e basta.
Resto semivestito solo perché ho voglia di spogliare lui. Resto semivestito anche perché ho altri progetti per la serata, in realtà, e se mi spogliassi – se la mia pelle toccasse la sua, se non ci fosse più niente fra di noi – di sicuro perderei il controllo e finirei con il non riuscire a realizzarne neanche uno. Ed invece è giusto che la mia principessa si goda il suo regalo. Prima che, Dio, io mi goda lei, finalmente.
- Ora aspetta un secondo, principessa… - gli sussurro all’orecchio, dopo essermi liberato del suo pigiama, - ti va di giocare?
Bill mi fissa con aria supplichevole, poggiando le mani sulle mie spalle ed attirandomi a sé.
- No… - mugugna scontento, - Non mi va di giocare, mi vai tu…
Io rido, sfiorandogli lentamente il collo in una scia di baci umidi.
- Anche a me vai tu, ma prima voglio vederti giocare un po’. Avanti, non vuoi provarlo, il tuo regalo?
- Noo-oh… - mugola, spingendo in alto il bacino alla ricerca del mio, - Per favore, Anis…
- A-ha. – scuoto il capo, mettendomi dritto e poi sistemandomi seduto fra i cuscini, poggiandomi di schiena alla testiera del letto e sporgendomi verso il comodino per aprirne il cassetto e tirare fuori un preservativo e un tubetto di lubrificante semivuoto. – Tu fai contento me, io faccio contento te, principessa. Le conosci le regole.
Bill, ancora disteso sul materasso, mi guarda al contrario per qualche secondo – i capelli dispersi ovunque sulle lenzuola bianchissime – e poi sospira pesantemente e si mette seduto, andando a tentoni fra le coperte per recuperare il giocattolo e poi gattonando con aria impacciata e infantile fino a me.
- D’accordo… - pigola arreso, - però posso starti addosso? Almeno sentirti… - e struscia un po’ il viso contro il mio petto.
Annuisco sorridendo e lui lascia andare un sospirone felice che mi fa ridere, perché non c’è mai davvero stata la possibilità che potessi rifiutargli una concessione simile. Dopodiché lo aiuto a sistemarsi seduto sul mio grembo. Il che vuol dire che impazzirò per tutto il tempo in cui vorrò guardarlo.
Dannazione.
Bill si volta a lanciarmi un’occhiatina furba e io gli mordo una spalla per protesta.
- Come sei scorretto… - lo rimprovero. Lui ride, gettando indietro il capo e strusciandosi contro di me.
- Tu fai contento me, io faccio contento te, mio signore. – dice, per tutta risposta. – Le conosci le regole.
- Ti sei fatto troppo furbo, sai? – rido, baciandolo lentamente. Lui risponde mugolando, mi ruba dalle mani il tubetto di lubrificante e poi si scosta un po’, restando a cavalcioni ma puntellandosi sul materasso con le ginocchia, in modo da restare sollevato.
- E ora sta’ a guardare e pentiti. – sussurra a bassa voce, spargendo un po’ di lubrificante su due dita e scendendo ad accarezzarsi da solo fra le natiche, stuzzicandosi con lentezza assassina e godendo del mio sguardo perso che segue i suoi movimenti come mi stesse ipnotizzando. Si mordicchia distrattamente un labbro, gli occhi chiusi, i capelli cadono liberi e selvaggi sulle spalle, lungo la schiena, solleticandomi il petto, e mentre lui si muove per accogliersi più disinvoltamente io lascio scivolare una mano dentro i pantaloni e cerco di darmi un po’ di sollievo. Bill mi lancia un’occhiataccia glaciale – come mi abbia visto è un mistero – ed io smetto subito. – Tu no. – borbotta, - Tu guardi.
Tiro fuori la mano, sorridendo divertito.
- Agli ordini, principessa.
Bill lascia andare una risata leggera ed allunga una mano.
- Me lo passi…? – chiede, stendendo bene le dita per accogliere il giocattolino. Io comincio a pensare concretamente all’eventualità di mettergli in mano ben altro che il dildo, ma lascio comunque scivolare le dita fra le lenzuola e recupero l’affare dal punto in cui Bill l’ha lasciato cadere mentre mi si sistemava addosso, passandoglielo un po’ di controvoglia. – Grazie. – sorride, recuperandolo dalle mie mani. Lo stringe un po’, guardandolo da un lato e dall’altro come a volerne memorizzare per bene la struttura, per poi poterlo utilizzare al meglio – ha guardato così anche me, qualche volta, agli inizi – e mentre io sono qui che immagino le sue manine sottili ricoperte di lubrificante che accarezzano il dildo in tutte le direzioni, ecco che lui mi stupisce. Ravvia una ciocca di capelli dietro l’orecchio, di modo che possa guardarlo bene in viso, e chiude gli occhi, mentre lascia scivolare il giocattolo fra le labbra e comincia a succhiarlo come fosse un gelato molto gustoso. Facendo pure un sacco di rumorini compiaciuti, peraltro.
- Sei… - ringhio, allungando una mano ad accarezzargli possessivamente il collo e la nuca, - Sei una cosa incredibile.
Lui solleva la mano libera e la posa sulla mia, è così pallida che il contrasto con la mia pelle e coi suoi capelli la rende quasi abbagliante. Combatto contro una forza di gravità tutta particolare – quella che spinge il mio corpo verso il suo – per non cedere all’impulso di tirarmelo contro, sfilargli quella roba dalle labbra e mettere al suo posto qualcosa di decisamente più interessante, qualcosa su cui lascerebbe scorrere la lingua allo stesso modo che ora mi fa vedere con aria sfacciata, qualcosa che sparirebbe fra le sue labbra a profondità ancora maggiori, perché Bill quando mi prende non mi prende solo in bocca, mi tira giù fino in gola, si fa sentire ovunque, ed è odioso che invece a godersi questo trattamento privilegiato sia un dannato pezzo di plastica che nemmeno se ne accorge. Deficiente io, come ho potuto pensare che potesse essere un regalo appropriato?
- Bill… - lo chiamo confusamente, tirandolo un po’. Lui sbuffa una mezza risatina e scuote il capo.
- No-oh. – mi rimprovera, sfilando il dildo dalla bocca, - Volevi guardare, no? – “no”, risponde una voce dentro di me, ma va be’, - Guarda.
Mi guarda, mentre accoglie disinvoltamente il dildo dentro di sé. So che vorrebbe sorridere, lo vedo da come gli brillano gli occhi; so anche, però, che la mia principessa è tanto brava a fingersi adulta quanto poi non è capace di mantenersi tale quando ciò che si aspettava in un modo va in un altro. Ed ecco che piange se non mi presento alla sua festa di compleanno. Ed ecco che adesso, con un cazzo di gomma da trenta centimetri a farsi strada dentro il suo corpo, il bambino proprio non ce la fa a fare il furbo e sorridere come volesse sfidarmi. Resta lì, gli occhi pesanti e il respiro ridotto a singhiozzi. Mi guarda e si muove piano, lentamente, in gesti lunghi e un po’ irregolari, confusi. Sorrido, perché fa tenerezza. Ci sono dei momenti in cui ricordo d’un tratto quanto Bill sia piccolo, e finisco sempre per sentirmi in colpa.
Me lo tiro contro. La sua schiena aderisce al mio petto e lui mugola scontento quando il movimento causa un effetto troppo brusco sul modo in cui regge il dildo, che gli sfugge di mano e rotola sul materasso, lontano da noi. Si allunga a recuperarlo - le dita che scivolano fra le lenzuola alla cieca, confuse ma bene aperte - ed io lo fermo, trattenendolo per un polso e conducendolo verso di me. Mi stringe subito, la principessa, appena mi tocca. Come fossi una cosa sua e ci tenesse a ribadirlo. Sa che può farlo, perché sa che è vero.
- Non ti serve. - gli sussurro all’orecchio, baciandolo lievemente sulla linea della mascella.
- Ma me l’hai regalato tu… - borbotta, e lo fa solo per prendersi gioco di me, visto che sento nei tremiti dai quali è scosso che brucia del mio stesso desiderio.
- E adesso non ti serve. - ripeto, la voce bassa che vibra direttamente sulla sua pelle, mentre lo sollevo appena e mi faccio strada dentro di lui, seguendo la via già aperta dal dildo e sentendolo adattarsi lentamente alla mia forma con un mugolio soddisfatto.
- Anis… - mi chiama in un sospiro pesante, sollevando entrambe le braccia ad allacciarmi al collo mentre io lo stringo fermamente per la vita e, con una mano, accarezzo la sua erezione, seguendo il ritmo dei miei movimenti. I miei ansiti si perdono nei suoi, la sua voce nella mia, non so più, a un certo punto, se è lui che continua a ripetere il mio nome o sono io che continuo a ripetere il suo. Seguo la traccia fisica dei suoi suoni sul suo corpo. Il petto che si gonfia aritmicamente, le labbra umide che si arrossano sotto la scia di morsi coi quali le tortura, i muscoli del collo e delle spalle che si flettono e si tendono mentre lui si muove per assecondare i miei gesti. È la nostra musica. La sentiamo solo noi.
Getta indietro il capo quando gli mordo una spalla. Si appoggia contro di me e si muove più velocemente; quando la principessa smania è perché c’è vicina, ed io sorrido fra me e me stringendolo con maggiore decisione ed affondando dentro di lui con maggiore forza, perché odio farlo aspettare. Odio deluderlo, in realtà. Succede già abbastanza spesso fuori dalle lenzuola, perché io possa permettere di ripetere l’errore anche quando siamo a letto. Questi momenti sono perfetti. Devono esserlo. Ci sono coppie per le quali il sesso non è che l’appendice in aggiunta di tutto il resto. Io e Bill ci esprimiamo col corpo. La voce è per cantare, non per le dichiarazioni d’amore. Io e Bill ci dichiariamo facendolo.
Quando mi piego un po’ in avanti, alla ricerca delle sue labbra, noto che, per quanto tenga gli occhi chiusi e tutto il suo corpo sia rilassato contro il mio, si sta trattenendo. Perché dalla sua gola vengono fuori solo singhiozzi strozzati. Il che è uno spreco addirittura offensivo, perché la voce della mia principessa è stupenda, quando geme ed ansima. È stupenda quando chiama il mio nome. È stupenda quando urla.
- Piccolo… - gli sussurro, mordendogli il collo, - non ti stai facendo sentire…
- Anis… - borbotta lui, aggrottando appena le sopracciglia, - perché devi sempre… c’è Tomi di là…
- Non è qua. - concludo, baciandolo sotto l’orecchio, - Avanti. Fammi sentire quanto mi senti.
Lo stringo ancora e lui mi accontenta. Mi chiama a bassa voce. Mi chiama di nuovo, il tono che si alza al ritmo delle mie spinte. E quando viene, lo fa urlando. Urlando e stringendosi attorno a me in quel modo che mi fa impazzire, che mi fa sentire a posto e senza fiato. In quel modo che mi fa ringhiare direttamente sulla sua pelle, il modo che mi costringe a morderlo e leccarlo e succhiarlo fino a lasciargli i segni. Perché li veda e sappia che gli sono addosso anche quando non lo sto toccando.
Restiamo fermi il tempo necessario per riprendere fiato e tornare lucidi. È incredibile quanto sia facile spegnere il cervello quando sono in compagnia di Bill. In realtà ogni tanto penso che i momenti che passiamo insieme e nei quali non ci stiamo toccando - non necessariamente in senso sessuale: il più delle volte basta anche solo una carezza - non siano altro che diversivi in attesa del momento in cui ci toccheremo. E poi, in quel momento lì - quello in cui finalmente ci tocchiamo - è tutto perfetto. Mettiamo il punto alla frase e diamo un senso alla giornata.
Non so da quando il nostro rapporto sia diventato così di dipendenza. Probabilmente dal primo momento in cui l’ho sfiorato ed ho sentito che mi piaceva la consistenza della sua pelle sotto i polpastrelli, almeno quanto a lui piaceva la pressione delle mie mani sul suo corpo.
- Non sono più tanto arrabbiato con te… - confessa, stirandosi sonnacchioso sul materasso prima di appallottolarsi nuovamente contro il mio petto, - Ti ho perdonato. - annuisce poi, con aria seria, - Il regalo, comunque, me lo tengo.
- Assolutamente no. - borbotto io, giocando distrattamente coi suoi capelli mentre lui disegna cerchi inesistenti sul mio petto, - Lo buttiamo dalla finestra appena riprendo a muovere le gambe.
- A parte che dovrei essere io quello con difficoltà di movimento… - si lamenta, pizzicandomi appena un fianco, - Ormai mi sono affezionato! Potrei davvero dargli un nome e sarebbe un’ottima compagnia per le fredde notti in cui tu non ci sei…
Lascio scorrere la mano lungo il suo collo, fino alla spalla, e lì mi fermo, stringendo forte.
- Magari potremmo evitarle, queste fredde notti in cui non ci sono.
Lui solleva appena il viso. I suoi occhi ambrati si fanno enormi - sono ancora liquidi e un po’ annebbiati, ma brillano di una luce incredibilmente intensa, tutta sua - e lo osservo schiudere le labbra e cercare le parole per una sequela di infiniti, terribili minuti.
- Cosa-
- Non dobbiamo per forza pensarci adesso. - sorrido conciliante, - E’ solo un’idea. Almeno non dovresti dare un nome al dildo. - sdrammatizzo, baciandogli la fronte.
Bill mugola un assenso confuso, ma è imbarazzato e il rossore sulle sue guance si diffonde con tonalità così carine che mi viene voglia di prenderlo a morsi o a pizzicotti, neanche avesse due anni. Lo stringo a me, coccolandolo un po’. Non sono mai stato così tenero con nessuno, nella mia intera esistenza. Mai.
- Quando devi andare…? - mi chiede in un miagolio scontento, stringendomi le braccia attorno alla vita e strusciando il naso contro il mio petto.
- Presto, piccolo. - sospiro, - Mi aspettano agli studi. Sono scappato di nascosto da Saad.
Lui ride, cristallino e divertito, e scuote il capo.
- Ti farai buttare fuori dalla tua stessa etichetta.
- Per riuscirci dovranno farmi fuori, principessa. - gli faccio notare ridendo a mia volta, - E comunque guarda che io sono immortale.
- Sì, certo! - mi rimbrotta, omaggiandomi anche di un piccolo pugno sul petto. - Rivestiti, dai. Ti accompagno alla porta.
- Nudo?
Finisco a rivestirmi sul pavimento, dopo che mi ci ha spinto. Adoro - Dio, adoro - prenderlo in giro.
*
Appena usciamo nel corridoio, realizzo all’improvviso che la nostra musica, quella mia e di Bill, non l’abbiamo sentita solo noi. La prima cosa che vediamo è Tom. Tom, per la precisione, sta tutto raggomitolato sul divano come se per terra fosse stato pieno di scorpioni fino ad un minuto prima che noi venissimo fuori dalla stanza di Bill. Tiene stretta fra le braccia la copertina del CD che gli ho regalato e, mentre la voce di Fler si diffonde per la stanza riempiendomi di una certa nostalgia che non riesco ad ignorare come vorrei, ci fossa con gli occhioni spalancati, come avesse paura di noi. Guarda suo fratello e sembra vederlo per la prima volta. Guarda me e fa come se nemmeno mi vedesse.
Palesemente non era pronto a sentirci scopare. Posso comprenderlo, neanche la mia crew era pronta, quando è successo a loro.
Bill sospira pesantemente e mi scorta fino all’ingresso senza lasciarmi andare neanche per un secondo. Mi bacia sulla soglia e mi dice che mi chiamerà più tardi.
- Per la buonanotte? - chiedo io, con un sorrisetto stronzo.
Lui sorride nello stesso modo.
- Per la buonanotte. - annuisce compiaciuto.
Faccio per ridere e baciarlo, prima di andare via, ma mi fermo, perché Tom si mette in ginocchio sul divano e solleva un dito come a chiedere il permesso di parlare. Io e Bill ci voltiamo a guardarlo, siamo ancora così vicini che posso sentirmi il suo profumo addosso. Non è mai facile dare retta a qualcun altro che non sia lui, a queste condizioni, ma Tom è tutto sommato speciale. Quando Tom parla, lo si ascolta. Se non altro perché ascoltare Tom è una delle attività preferite di Bill, nonostante tutto.
- Io credo… - comincia il principino, un po’ incerto, - …che a te serva un appartamento nuovo, Bill. - annuisce compunto, - Un posto dove startene per i fatti tuoi, ecco. - si interrompe un secondo, ci guarda e poi annuisce ancora. - Già, già. - conferma, immergendosi nello sfoglio del libretto accluso al CD.
La risata, stavolta non la trattengo. Ride anche Bill. Nella sua risata c’è una nota incerta che non fatico a ricondurre alla mia proposta di qualche minuto fa, ma suppongo sia giusto che esiti al riguardo. È ancora piccino, in fondo. Ha appena fatto diciott‘anni.
Lo saluto con un bacio, lui mi si appende al collo come una scimmietta per qualche secondo e poi mi lascia andare con un mugolio piagnucoloso. Uscendo dall’appartamento ed entrando in ascensore, tiro le somme della giornata odierna e stabilisco che, in fin dei conti, il bilancio non è affatto negativo. Suppongo che, anche stasera, Saad sbraiterà a vuoto.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash.
- "Questa telefonata significa più di quello che sembra e m'incazzo all'idea che mi raggiunga in un momento del genere."
Note: Questo spin-off io sognavo di scriverlo da un po’ e la cosa è evidente di fronte al fatto che non ho avuto grossi problemi esistenziali a buttare giù le cinque pagine che compongono la mia parte. L’evento ha del miracoloso, credetemi. Per quanto sia uno spin-off e per quanto sia breve (sempre 10 pagine ma in questi ultimi tempi ci siamo abituate a stordirvi con ben altri numeri *ride*) racchiude in sintesi praticamente tutta la storia e io lo amo molto per questo.
Ogni giudizio di carattere morale sul comportamento del Chakuza verrà amabilmente ignorato dalla sottoscritta… no scherzo! XD Scherzo, davvero. Se avete qualcosa da dire, ditela pure. E’ bello quando avete cose da dire.
Ah! Il file di questa storia è rimasto nominato TeLoRegaloPrenditeneCura!Bu per giorni e giorni, tanto che io lo spin-off volevo chiamarlo così ma Liz non me lo ha permesso. =P
In fine, tanto per concludere: il sito ufficiale di Eine Kugel Reicht è aggiornato e la Timeline è ora comprensiva di EXP + 10%, StaadtFeind nr.1, Collide (ma non questa X’D).
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
I WILL

Ci sono dei momenti in cui Bill è bellissimo. Sono momenti molto precisi e specifici, perché Bill è generalmente bello, ma in quei determinati istanti splende. Quando è felice di vedermi, per esempio. Capita si passi settimane intere senza poter fare altro che sentirsi al telefono, e quando finalmente riusciamo a metterci le mani addosso sul suo viso si apre un sorriso così enorme che lui sembra illuminarsi tutto.
Adesso è uno di quei momenti. La stanza è immersa nella penombra del primo mattino, il sole non è ancora sorto e Bill sta dormendo al mio fianco. Non è carino e delicato come ci si aspetterebbe da uno con la sua faccia. Sta steso sul materasso, le braccia e le gambe larghissime, e dorme a bocca aperta, russando un po’. È così che finisce puntualmente per rovinarsi la voce, ogni volta si ritrova con la gola gonfia come un canotto e fa fatica perfino a parlare. È che qui siamo circondati da un terreno piuttosto ampio, somiglia un po’ all’aperta campagna, ed anche il freddo è quello dell’aperta campagna. Bill non riesce a ficcarselo in testa o, più probabilmente, non gli importa.
Mi rigiro su un fianco e pianto il gomito sul cuscino, tenendomi dritto per poterlo osservare dall’alto, e mi mordo subito un labbro. Io e Bill abbiamo un tacito accordo per il quale col suo corpo posso fare tutto ciò che voglio, ma sarebbe carino se almeno, prima di toccarlo, lo avvertissi che sto per farlo. Questo non perché Bill sia infastidito dall’idea di avere le mie mani addosso mentre dorme. No, è che Bill ha un estremo bisogno di sentirsi parte di questa coppia. Col fatto che nelle occasioni pubbliche è richiesto da lui il più religioso silenzio, Bill ha necessità di fare casino, quando siamo chiusi in casa, nel nostro mondo. E quindi vuole avere diritto di parola, se decido di toccarlo.
Bill, comunque, ci mette ore a svegliarsi. Ed in queste condizioni non posso certo aspettarlo.
Gli faccio scivolare un braccio dietro la schiena e l’altro sul ventre, stringendomelo contro. Lui non reagisce immediatamente ma, appena il suo corpo tocca il mio e ne percepisce il calore, si raggomitola sul mio petto come un gatto in cerca di coccole.
Sorrido appena, infilando una mano sotto la maglietta e scorrendo la traccia della sua spina dorsale lungo la schiena magra. Bill mi sbava un po’ sulla maglietta, mugolando scontento. “Tomi…”, borbotta, tirando un mezzo calcio al vuoto, ed io sbuffo una mezza risata e scuoto il capo. Fino a qualche mese fa, una cosa del genere mi avrebbe indisposto in maniera furiosa. Mi sarei alzato e Bill non mi avrebbe più rivisto fino a sera. Fino a qualche mese fa, un “Tomi” mugolato in questo momento sarebbe stato, più che un’offesa, il tentativo inconscio di Bill di ricordarmi che l’avevo portato via dal suo mondo. Che sì, d’accordo, lui forse aveva fatto uno sforzo per intrufolarsi nel mio, ma ero stato io a portarlo via definitivamente, stabilendo che stare con me significava anche stare solo con me.
Non lo nascondo e non me ne vergogno, so bene di quali colpe mi sono macchiato nel corso della mia vita: il rapimento di Bill rientra nell’elenco, assieme a tutto il resto, ma è una delle poche cose di cui nemmeno mi pento.
Lo bacio su una tempia e Bill si rilassa subito. Scioglie i lineamenti tesi del sonno disturbato e solleva le braccia a stringermi al collo. Il respiro profondo e quieto che gli scuote appena il petto mi conferma che sta ancora dormendo, ed io comincio apposta a muovermi piano, per non svegliarlo. Gli disegno addosso il mio nome, tutto per esteso, lungo il fianco. È da un po’ che parliamo di questo fianco, Bill vuole assolutamente scriverci su qualcosa ed è da quando me l’ha detto che non faccio che ripetergli che ho un nome abbastanza lungo da starci per esteso, fino all’inguine. Ogni volta lui ride e mi guarda e dice “Anis, lo sai che non si può…”, ma è più deluso che razionale. Lo so che gli dispiace. Potesse, mi starebbe attaccato addosso giorno e notte, altro che tatuaggi. Solo che non può. Perciò ho preso l’abitudine di scriverglielo addosso con la punta delle dita. A lui piace.
Insinuo le dita oltre l’orlo dei pantaloni. È ancora caldo di sonno. Respiro forte contro il suo collo e lui piega un po’ il capo, appoggiandosi sulla mia spalla e sfiorandola con le labbra umide. Io sorrido sulla sua fronte e vago un po’ lungo le cosce magre e i fianchi stretti prima di risalire lungo la cucitura dei boxer e poi superare l’orlo anche di quel sottile strato di cotone, sfiorandolo appena fra le natiche. Caldissimo e morbidissimo, Bill mi accoglie dentro di sé senza la minima difficoltà, ancora provato dalla notte appena trascorsa. Lo sento trattenere per un attimo il respiro mentre le dita da una diventano due, e quando scendo a succhiare avidamente la pelle liscia e sottile del collo avverto il ritmo dei suoi respiri cambiare all’improvviso, e quando il mugolio che trema dentro la sua gola mi annuncia che sta per svegliarsi rallento appena il ritmo con cui le mie dita si muovono dentro di lui, così che svegliandosi non debba sentirsi troppo invaso.
- Anis… - borbotta contro la mia spalla riprendendo conoscenza, il bacino che si muove indipendentemente dalla sua volontà per seguire il ritmo imposto dalle mie dita, - Lo stai facendo di nuovo…
- Mh-hm. – annuisco, baciandolo piano lungo il profilo della mascella, fino alle labbra, - Ti spiace?
- Quante… - ansima, piantandomi le unghie sul braccio, - quante volte… devo dirti… di chiedere…?
Sorrido e scendo a mordergli il collo, ipnotizzato dal movimento lento dei suoi fianchi.
- Posso entrare, principessa? – chiedo ironico, mordendo piano.
- Sei… - i suoi occhi chiusi fanno fatica a restare tali, le ciglia tremano impercettibilmente nel buio della stanza, - sei già dentro…
Rido un po’, stringendomelo addosso di modo che possa sentirmi alla perfezione.
- Non parlavo delle dita, Bill. – mormoro ad un centimetro dal suo orecchio, rallentando il ritmo, - Ho voglia di sentirti.
Bill ansima forte sulla mia pelle, gli occhi serrati.
- Ma… David-
- Aspetterà.
- …Anis, tutta la notte, noi…
- Dimmi che non vuoi e ti lascio subito in pace.
Bill ansima pesantemente e mi si abbandona addosso, cercando sollievo per la propria eccitazione pulsante fra le gambe.
- …come faccio a dirti che non voglio? – mugola, cercando le mie labbra per un bacio che gli concedo immediatamente.
- Non dirlo, principessa. – e Bill infatti non lo dice. Dimentica Jost, che probabilmente starà già tartassando il suo povero cellulare di chiamate che resteranno senza risposta, e si solleva sulle braccia, scavalcandomi e sedendosi su di me, allacciandomi al collo.
- Facciamo in fretta, però? – chiede con aria rassegnata, strofinandosi contro di me.
- Dammi il mio tempo, Bill. – obietto baciandolo velocemente.
- Anche se non te lo do… - mugugna lui sulle mie labbra, - te lo prendi lo stesso.
Rido a bassa voce, sistemandomelo per bene in grembo ed entrando lentamente dentro di lui. Bill si tende tutto intorno a me e getta all’indietro il capo, gli occhi serrati e le labbra dischiuse, il respiro debole e un po’ affannoso. È il mio modo di fare con tutto, credo. Se penso che qualcosa mi spetti, me la prendo. E le cose mi spettano se anche solo le voglio. Finché non pensavo che Bill mi spettasse, Bill nel mio letto non è entrato. O meglio, lui è entrato nel mio letto perché è un ragazzino cocciuto e testardo, ma io non sono entrato dentro di lui, e questa era una sfumatura molto importante. Ma quando l’ho voluto, me lo sono preso. E succede sempre così: quando voglio tempo, quando voglio attenzioni, quando voglio la sua presenza, quando voglio lui, io me lo prendo. Ho fatto così anche con altri, prima che lui arrivasse. In modi e per motivi diversi, ma l’ho fatto.
Suppongo sia una colpa anche questa.
Suppongo sia questo, anche, il motivo per cui questa sera uscirò con Chakuza e metterò in chiaro quello che a grandi linee sto cercando di fargli capire da quando l’ho mandato all’aeroporto a recuperare Bill.
Io mi sono messo nei casini da solo.
Si sta avvicinando il momento di pagare, in un modo o nell’altro.
Fra le tante cose che mi ha insegnato Tempelhof – ed è assurdo pensarci mentre Bill si muove lentamente su di me, sollevandosi ed abbassandosi in sincrono con le mie spinte – c’è anche la massima fondamentale della vita per cui non importa affatto chi ha ragione e chi torto. Il punto non è essere dei bravi ragazzi o dei cattivi ragazzi: la vita riserva solo merda per tutti. Il punto non è come ti comporti, il punto è se resti in piedi alla fine della serata. Se ancora respiri. Se non perdi sangue. E, in caso tu lo perda, se sei forte abbastanza da rimarginare la ferita prima che ti uccida. È questa l’unica cosa che conti.
Prima di Bill, non mi sarebbe importato di andare da Chakuza e spiegargli per bene che, per qualsiasi evenienza, toccherà a lui prendersi cura di Bill. Non mi sarebbe importato perché non avevo nessuno di cui m’importasse anche oltre me stesso. Io per Bill non ho paura solo finché resto in piedi. È il periodo che seguirà la mia caduta, che mi terrorizza. Non mi era mai successo, prima d’ora. L’unica altra persona per la quale ho provato un simile trasporto è stata mia madre, ma lei è troppo distante dal mio mondo e da ciò che sono ora, per essere davvero in pericolo. Al momento, a rischiare sono solo io, ma se io muoio non ho idea di cosa potrebbe succedere in giro. Non ho idea di cosa la mia assenza potrebbe scatenare.
Se Fler darà inizio alla fine del mondo facendomi fuori, voglio che Bill abbia un cavaliere dalla sua parte. E voglio che quel cavaliere sia Chakuza.
- Anis… - Bill mi chiama a bassa voce, stando bene attento a come pronuncia il mio nome, lasciando scivolare la s fra i denti e la lingua, ed io scendo ad accarezzarlo lentamente fra le gambe. Subito i suoi movimenti si fanno più ansiosi e concitati, e non passa molto prima di sentirlo tendersi e stringersi attorno a me, mentre lascia andare il capo all’indietro e viene fra le mie dita, arrendendosi alla mia stretta. Continua a muoversi anche dopo l’orgasmo, continua a farlo anche se è spossato e indolenzito. Non gli importa, sa che non vuole fermarsi finché non sarò venuto anch’io e quindi, testardo, continua ad agitarsi.
Io sorrido appena e cerco di trattenermi quanto possibile, perché adoro quando si muove in questo modo. Languido, sensuale, lento. Bill non lo è quasi mai, in genere è una pertica imbizzarrita priva della benché minima grazia, ma in questi momenti, quando è stanco e sopraffatto dalla sensazione indomabile dell’orgasmo che ancora lo scuote a tratti, riesce ad essere davvero sexy. Senza nemmeno volerlo, ed è quello il punto. Quando si atteggia, Bill può attrarre al massimo qualche sedicenne in aria di bisessualità. Sono i momenti in cui non si controlla, quelli in cui è veramente sensuale.
Venti minuti dopo – ha appena avuto il tempo di riprendere fiato, io sto ancora cercando il mio – sta già volteggiando confusamente dall’armadio allo specchio, impegnatissimo nell’attività di vestirsi nella maniera più adatta per andare alla Universal, affrontare suo fratello e fargli credere per lui sia indifferente ottenere la sua approvazione o meno. Bill, ogni tanto, tira fuori una combattività che non c’entra niente col ghetto e nemmeno con i capricci ostinati di una principessa. È una cosa propria del suo essere com’è, un misto di testardaggine infantile ed orgoglio spaventosamente adulto che costringono gli altri a chinare il capo. Con la crew c’è già riuscito. Suo fratello, però, è uguale a lui. Quindi servirà più tempo.
Mi sollevo dal materasso, lasciandomi ricadere di dosso le lenzuola, e scorgo l’occhiata imbarazzata che Bill mi lancia dallo specchio, prima di tornare a concentrarsi sul proprio riflesso e sulla sequela di bottoni che deve preoccuparsi di affibbiare assennatamente sul petto. Sorrido nell’ombra, non visto. Poche cose mi compiacciono come la consapevolezza che, ad avermi davanti ogni ora del giorno e della notte, Bill non riuscirebbe mai a staccarmi gli occhi di dosso. Non riuscirò mai a capire davvero a cosa pensasse la principessa bianca come la luna quando ha deciso di innamorarsi dell’uomo nero, ma so per certo che, quando l’ha fatto, l’ha fatto per davvero. E perciò, di fronte a me, Bill è arreso.
Lo stringo ai fianchi con le braccia ed a lui basta sentire la lieve pressione del mio sesso già quasi nuovamente pronto a prenderlo, per irrigidirsi ed arrossire.
- Anis… - sussurra piano, mentre io mi chino a baciargli il collo e lo solletico appena con le labbra, - Ma abbiamo appena finito, e poi è già tardi, e-
- Farò da solo quando sarai andato via. – gli respiro addosso. Bill mugola e stende il collo, ripiegando il capo contro la mia spalla.
- …è uno spreco. – biascica, spingendosi verso di me, - E non sono ancora completamente vestito…
Ghigno e gli mordicchio un lobo.
- Ma è già tardi. – concludo, chiudendo i bottoni dei jeans e poi allacciando la fibbia della cintura, - Stai attento che salti bottoni. – dico, accennando col mento alla sua immagine nello specchio. Mi fermo un po’ a guardarlo, mentre lo faccio. Respira profondamente, le sue mani seguono il profilo delle mie ed i suoi occhi sono lucidi e pieni di voglia. – Sei bellissimo.
Bill mi si rigira fra le braccia, allacciandomi al collo e strofinandosi sfacciatamente contro di me. La chiusura metallica della cinta, contro la mia pelle bollente, è quasi dolorosa.
- …posso restare a guardarti? – chiede, lasciando baci piccoli ed umidi lungo la linea delle mie clavicole, - Solo un po’…
- Devo fare da solo perché tu devi andare via, principessa. – gli faccio notare, stringendolo alla vita, - Se resti, non ho motivo di fare da me. Ti pare?
- È che… - si morde un labbro, sospirando pesantemente, - non ti ho mai visto, e invece tu…
Lo bacio lentamente, profondamente, fino a sentirlo confuso ed abbandonato in punta di lingua.
- Mi vuoi guardare, piccolo? – gli chiedo fra le labbra, e lui annuisce in silenzio, gli occhi socchiusi, le palpebre che tremano appena. Rido e lo bacio di nuovo. – Non adesso. – concludo, lasciandogli una sonora pacca sul sedere, - Jost poi mi insulta. – e mi allontano.
Bill rimane quei due, tre secondi a fissarmi dall’alto in basso – la linea dei pettorali, gli addominali, l’ombelico, le ossa sporgenti delle anche, il desiderio che svetta imponente fra le gambe – e poi si lascia andare ad un ringhio piccolo e frustrato, incrociando le braccia sul petto.
- Hai sempre avuto in testa questa cosa dell’obbedire a David, tu… - borbotta, ravviandosi i capelli dietro le spalle con un gesto stizzito.
Io rido.
- Be’, è un alleato utile, in ogni caso. Per dire, ti copre ancora con tuo fratello, quando lui accidentalmente dimentica che stiamo insieme da tre anni.
I lineamenti del volto di Bill si rilassano e la sua bocca si piega in un sorriso delizioso. Fare la conta degli anni con lui funziona sempre. In realtà funziona sempre anche con me – quando ci penso non mi sembra vero finché non realizzo che è davvero così. Certe lunghezze ti sembrano irreali, se non le misuri costantemente.
Sospira e torna ad aggrottare le sopracciglia, rimettendo su il broncio tipico delle finte offese.
- Be’, d’accordo, visto che non vuoi accettare la mia generosa offerta, resta qui da solo. – mi si avvicina di un passo e mi spinge all’indietro. Io lo lascio fare e cado sul letto. Mi tengo sollevato piantando i gomiti sul materasso e lo fisso di rimando, con aria di sfida. Lui mi fa una linguaccia. – Riprendi confidenza con la tua mano, mi sa che è troppo tempo che non ti do occasione di usarla. – io rido ed obbedisco, accarezzandomi lentamente un paio di volte. Bill arrossisce e si morde un labbro, guardandomi attentamente. – Ricordami di chiedertelo più spesso. – pigola poi, deglutendo a fatica. – Comunque ti odio! – borbotta, ed esce dalla camera sculettando infuriato, battendosi oltraggiato la porta alle spalle.
Rido e mi lascio andare disteso sul letto, rinunciando subito al proposito iniziale. Senza Bill non è lo stesso. E stasera penso che, per un po’, mi farò guardare.
Prima, però, ho una faccenda da risolvere.
Allungo una mano verso il comodino e recupero il cellulare, componendo a memoria il numero di Chakuza e restando in attesa finché lui non risponde.
- Chaky? – lo chiamo, mentre sento in sottofondo la voce di sua madre che gli chiede se per caso non sono Klaudia, e di salutarmi, in caso fossi lei. Ridacchio. – Ho un favore da chiederti. – lui annuisce, un “uh-hu” confuso che mi fa ridere ancora. – Possiamo vederci, più tardi? – lui risponde con un “ma sì, ovvio, a che ora?”. Io sospiro. – Nel pomeriggio. – poi ghigno un po’, - A patto che tu dica a tua madre che non sono la tua ex.

*

Bushido mi chiama che sto riparando un lavandino in casa di mia madre e un po' quella telefonata me l'aspettavo. Non che sapessi quello che poi mi avrebbe detto ma è evidente che in questi giorni sta accadendo qualcosa e che lui ci avrebbe chiesto favori.
A dirla tutta, sono due settimane che a casa sua facciamo finta che gli attacchi di Fler non si siano fatti più aggressivi e che le sue risposte non si siano automaticamente regolate di conseguenza. In questi ultimi tempi, Atze ha sempre tentato di essere diplomatico ma quando le offese pesanti hanno cominciato a piovere sulla Principessa, ha smesso con la convivenza pacifica e non ha più risparmiato una virgola a quel cretino di Fler.
Comunque lui non parla e noi non chiediamo. Sediamo nel suo salotto e beviamo birra. La nostra attività principale, tendenzialmente, è quella di ignorare: le diss di Fler, l'incazzatura che tende il viso di Bushido e Bill, ovvio.
Bill siamo bravissimi a fingere che non sia in casa e che non si stia facendo la doccia. Quando compare in salotto vestito, truccato e perfetto come sempre, noi fingiamo che le ore precedenti non le abbia passate a scopare con Bushido. Perfino Eko butta sempre lì un "Ciao Principessa" che sembra che Bill venga da fuori piuttosto che dalla camera da letto.
Una roba così, però, la reggi solo per poco; poi la tensione ti sfonda il fegato. Quindi sono contento quando quella telefonata arriva. Quasi sospiro di sollievo.
Esco fuori da sotto il fottuto lavandino che non ne vuole sapere di farsi rimettere in sesto - dovrò chiamare un cazzo di idraulico - e do a mia madre un nuovo buon motivo per ricominciare a dirmi che secondo lei dovrei stringere di più, oppure farlo di meno, o anche chiudere l'acqua che l'ho già fatto quattro ore fa quando sono arrivato qui ma ancora continua a dirmelo. Quando apro il flick, lei smette di improvvisarsi idraulico per chiedermi "E' Klaudia? Me la saluti?"
Klaudia non è più la mia ragazza da un mese e mezzo ma mia madre finge che non sia così. Le ho detto più volte che io e lei non ci vediamo più, che si è addirittura trasferita dall'altra parte della città e che ha rivoluto indietro quel quintale di ciarpame che aveva lasciato nei miei cassetti ma mia madre niente, da quell'orecchio non ci sente.
La verità è che la prolungata presenza di Klaudia nella mia vita l'aveva portata a convincersi - mia madre, non Klaudia - che ci saremmo sposati di lì a poco e che c'era un nipotino in arrivo, in non più di sei mesi, massimo un anno. Klaudia non stava pensando di avere figli e io comunque non stavo pensando di sposare Klaudia. In ogni caso ci siamo lasciati, per motivi - tra l'altro - che non posso spiegare a mia madre, per cui...
"No, mamma, non è Klaudia," sospiro alla fine e sento Bushido che ride. "Atze?"
Spingo gentilmente mia madre fuori dalla stanza e la sento borbottare che a lei quel Bushido non piace mica tanto.
"Disturbo?"
Incastro il telefono tra il collo e la spalla e mi lavo le mani. "No, figurati. Anzi, mi salvi da una mattinata di morchia giù da un lavandino."
"Conosco un paio di ragazze che pagherebbero per vederti in canotta e sporco di morchia."
Rido mentre m i asciugo le mani. "Grazie ma sono a posto così."
"E Klaudia?"
Dio, anche lui con questa Klaudia. "Andata," rispondo e mi siedo sul water coperto.
Per terra c'è un casino di attrezzi e di cenci luridi, nonché quel catino appena sotto il sifone che è pieno di roba schifosa.
"Un vero peccato," commenta lui. "Era un amore, Klaudia."
"Non so se avresti detto lo stesso, conoscendola," sorrido. "Era un po' isterica."
"Credo di essere abituato all'isteria," risponde lui. "Klaudia almeno non aveva 19 anni, Chakuza."
Qui evito proprio di rispondere. Ho paura ad aprire bocca su Bill, con Bushido non sai mai cosa puoi dire e cosa no. Per dire, io lo so che Bill a volte va fuori controllo - tipo che l'altro giorno che l'ho accompagnato al supermercato per ordine di Atze e non ha trovato le caramelle che cercava. Per venti minuti non gli ho potuto parlare perché qualunque cosa dicessi mi mangiava la testa. E questo è solo un esempio. Io però mica posso fare notare ad Atze che il suo fidanzato è fuori come un citofono. "C'era qualcosa che volevi dirmi?" Cerco di deviare il discorso, che di Klaudia mi sono anche un po' rotto.
"Sì, ho un favore da chiederti."
"Uh-uh" annuisco vago perché forse mi è venuto in mente che il problema del lavandino potrebbe essere il tubo stesso. E se devo cambiare un tubo, piuttosto compro a mia madre un bagno nuovo.
"Possiamo vederci più tardi?"
La voce non smette di essere divertita, ma cambia tono. E' più bassa, più netta e questo mi fa capire che c'è un certo grado di serietà dietro al cazzeggio. Klaudia serviva a coprire la pesantezza di una motivazione che non mi dice. "Sì, ovvio, a che ora?"
"Nel pomeriggio," ghigna. "A patto che tu dica a tua madre che non sono la tua ex."
Fissiamo in una birreria non lontana da casa mia. Quando riattacco, con il lavandino che gocciola in sottofondo, so che questa telefonata significa più di quello che sembra e, per quanto assurdo sia, mi incazzo all'idea che mi abbia raggiunto mentre riparavo il lavandino. Questa non è una telefonata normale, doveva arrivarmi nel momento meno normale del mondo. Invece sono a casa di mia madre, a fare una cosa per lei come faccio sempre ogni volta che riesce ad acchiapparmi e so che da lì a quattro ore Bushido mi dirà qualcosa che non mi piacerà per niente. Ma proprio no.

*

La birreria è un buco incastrato tra due palazzi giganteschi, in una via praticamente invisibile appena dietro casa mia. Quando mi sono trasferito, ci venivo quasi ogni sera perché era comoda e perché ci si mangiava bene e il mio frigo era sempre vuoto. La situazione della mia dispensa non è cambiata molto negli ultimi due anni, in effetti. Il mio problema non è che non mi vada di cucinare, anzi, io adoro cucinare. E' che non ho la testa per fare la spesa, tenere a mente le scadenze o comprare le cose giuste nella quantità giusta. Anche quando andavo all'istituto professionale - ho studiato da cuoco. Sì, io. - il mio problema non era mai preparare qualcosa ma avere tutti gli ingredienti, o gli utensili. Ero molto distratto. Il tipico caso di E' bravo ma non si impegna. Ad ogni modo, anche ad aver voglia di cucinare, non avevo mai niente in casa con cui farlo, per cui scendevo, mi facevo due passi a piedi e andavo a farmi sfamare dalla proprietaria del locale, che era una donna gigantesca e mi faceva quasi più paura di suo marito. Poi, più o meno sei mesi fa, i due hanno venduto e la birreria ha cambiato gestione, diventando di proprietà di una famiglia di tunisini, che le zuppe non te le fanno, ma ti preparano il kebab. Tra le altre cose, ho poi scoperto che questi sono parenti di Bushido. In effetti non so se siano parenti veri o parenti di altro tipo, con Bushido non si sa mai: ha le mani in pasta ovunque e la tendenza a chiamare parenti tutta una serie di persone diverse, per motivi che no so e neanche voglio sapere.
Quando spingo la porta, di fatto, lo trovo già dentro seduto ad uno dei tavoli riservati che parla con uno dei proprietari che indossa una canotta bianca tragica e ha al collo una patacca da far rabbrividire il buon gusto. Mi rendo conto che ho appena fatto dei giudizi di stile sul tunisino proprietario di una bettola della semi-periferia berlinese. Questa è evidentemente l'influenza malefica della Principessa e dei suoi giudizi cinici sulle donne in carne coi pantaloni a vita bassa. Devo decisamente chiedere a Bushido di trovare a Bill un'altra guardia del corpo che non sia io.
I due parlano fitto e Bushido ride in quella maniera un po' sguaiata che ha quando siamo fra di noi. E' da segnali come questo - il tipo di risata, le sue braccia che si appoggiano sullo schienale della sedia dove sta seduto al contrario - che capisci che è tranquillo e, di conseguenza, che in quel posto ti ci puoi rilassare. E' un posto amico.
Il tipo si chiama Fouad, se non ricordo male, ed ha una sorella bellissima, che si chiama Halida e non è quasi mai presente nel locale. E' timidissima, e l'abbiamo vista spuntare solo un paio di volte da dietro la porta delle cucine. Intanto che mi perdo nella mia testa e negli occhi di quella donna, che li ho visti una volta sola e potrei ricordarmeli finché campo, Bushido si accorge di me. "Chaky, da questa parte," mi chiama a gran voce, agitando la mano.
Mi siedo al tavolo e Bushido ordina per entrambi due birre rosse senza chiedere il mio parere. Fouad sparisce all'istante e solo allora noto che il locale è praticamente quasi vuoto.
"Allora? Che succede?" Chiedo quando il tunisino ritorna con le birre per poi eclissarsi di nuovo.
Bushido beve un sorso dal suo bicchiere e ci guarda dentro con un'aria pensosa che non mi piace. Quando uno si perde in mezzo litro di birra e sembra vederci dentro il futuro del mondo, significa che sta cercando le parole da dirti e che quelle parole sono le più pesanti che ti sia mai capitato di sentire.
"Immagino che tu sappia come stanno le cose tra me e Fler in questo periodo," dice alla fine.
E' un esordio che non mi aspettavo. Voglio dire, sapevo che avremmo parlato di Fler, ma non con questo tono. Me lo aspettavo arrabbiato, non così, come se Fler fosse il preambolo trascurabile di una questione ancora più seria. Al momento non ci sono questioni più serie di Patrick Losensky che spara minchiate sulla Principessa, su Bushido e sull'Ersguterjunge.
Mi sbaglio.
"Sì, direi di sì," rispondo, senza fargli notare che questa è una cosa che hanno capito anche i muri. Io dico che anche la signora Lotte, la mia vicina di casa, ormai lo ha capito che Fler e Bushido si odiano e che Fler lo prende in giro perché ha un fidanzato. "Credo che Fler abbia passato ogni limite."
Lui fa un mezzo sorriso intenerito, senza alzare lo sguardo. E' uno di quelli che fa incazzare Saad, che non li sopporta perché, generalmente, sono rivolti a due persone soltanto. Uno è Bill - e lasciamo perdere che cosa Saad pensi di quel ragazzino -, e l'altro è Fler al quale, nonostante tutto, Bushido si ostina a rivolgere una sorta di rispetto nostalgico che gli impedisce di riempire le nostre canzoni di merda vera. Urliamo a Fler da mesi ma Bushido non ci ha mai permesso di dirgli veramente chissà cosa. Saad per questo potrebbe uccidere, proprio non riesce a capire come faccia Bushido a permettergli tante delle cose che gli permette. E dire che è piuttosto semplice da capire: lui e Fler sono cresciuti insieme e si sono divisi per una cazzata tanto grossa che era quasi impossibile non rimanere con l'amaro in bocca. Voglio dire, sì d'accordo i soldi e gli ideali, ma erano cose di cui forse si poteva discutere, cose che non erano sufficienti a troncare i ponti, ad offendere madri e fidanzati. Quei due si rispettano perché erano amici e quando rispetti un'amicizia che non c'è più, in realtà quella c'è ancora o non la rispetteresti. E Saad, cazzo, mica lo vede. Va avanti per la sua strada e non c'è verso di farglielo capire.
"Ho visto Fler tre giorni fa," la voce di Bushido cambia tono e si fa più calda. Questa volta alza lo sguardo e mi osserva mentre io spalanco la mascella su una birra che ho appena assaggiato. "Abbiamo stabilito una tregua di qualche ora per poter parlare."
Annuisco lentamente. Certo, ha senso. Credo.
"E abbiamo deciso che chiuderemo la questione una volta per tutte."
Nella mia testa quelle parole suonano un po' come l'enorme gong di una chiesa buddista e rintronano sulle pareti del mio cervello, stordendomi neanche troppo leggermente.
Bevo. "E per chiudere, intendi...?"
"Intendo finirla," dice subito lui. "E' andata avanti troppo a lungo."
Io per un momento rimango immobile e mi chiedo se quello che ho capito ha un senso oppure no. Bushido non può veramente avere in mente di far fuori Fler. Quello canta e basta, cazzo. Noi cantiamo e basta. Mica puoi pensare sul serio di uccidere un cristiano come se fossimo in un film di Tarantino. Lui deve leggere la confusione sul mio viso, anche perché ce l'ho stampata in faccia - lo so perché mi conosco e quando trovo che qualcosa sia assurdo senza possibilità d'appello, la mia faccia riporta esattamente il mio pensiero. Ho i lineamenti di gomma, mi muovo tutto. Sono un pessimo giocatore di poker.
"Immaginavo che avresti reagito così," mi dice con uno sbuffo divertito.
"Non ho reagito in nessun modo."
Lui annuisce un po', come uno che vuole dirti di sì quando pensa tutto il contrario e poi beve di nuovo. "Tu quando non vuoi parlare, le cose le dici lo stesso," commenta. "Il viso, le mani, il modo in cui ti muovi. Se qualcosa non ti va o ti confonde, in qualche modo traspare. Non menti mai, per questo sei qui stasera."
"Non capisco," ammetto.
Lui prende un sospiro lungo, che fa ancora più paura del tempo che si è preso per cercare le parole che hanno dato il via a questa serata. E' un sospiro per darsi coraggio. E io mi chiedo a cosa gli serva questo coraggio. Cosa può far paura a Bushido che coinvolga me, Fler e questa birreria?
"Tra quattro giorni, io e Fler ci incontreremo e chiariremo la cosa fra di noi."
"Ma Atze, non-"
Mi ferma sollevando una mano, l'indice e il medio diritti e il resto delle dita leggermente piegato, come a chiedermi tempo più che a darmi ordini. E io mi fermo perché come al solito mi sono buttato senza aspettare.
"Quello che avrà luogo da qui a tre giorni è già stato deciso e non deve interessarti, se non per un motivo soltanto," quelle dita sollevate diventano una "Ed è lo stesso motivo per cui ti ho chiamato."
Questa volta sto zitto.
"Come ti ho detto al telefono, ho bisogno di un favore."
"Qualunque cosa, Atze."
"No." Mi ghiaccia con quel rifiuto e l'occhiata che mi lancia è sufficiente perché io mi senta in dovere di guardarlo. "Non accettare prima di sapere di cosa si tratta. Se dirai d sì, lo farai consapevole dell'impegno che ti sei preso."
L'aria è tipo elettrica, non ho idea di come ci sia riuscito. Fatto sta che sono in ansia e ora più che mai vorrei essere sotto il lavandino in casa di mia madre piuttosto che qui di fronte a quest'uomo che è visibilmente sul punto di rivelarmi qualcosa che non voglio sentire.
"Quando io e Fler ci scontreremo, non so come andrà a finire," esclama poi, dopo interminabili minuti di silenzio. "Fler ci sa fare con le armi, gliel'ho insegnato io."
Non so se dovrei preoccuparmi del fatto che sorride, anche se è sempre uno di quei sorrisi amarissimi che gli sollevano un solo angolo della bocca. "Quindi potrei creparci se quella sera decidesse di incazzarsi sul serio." Poi mi guarda. "E credimi, è sulla buona strada."
Il mio cervello non potrebbe girare più a vuoto di così perché adesso ho due interrogativi. In primo luogo mi sto chiedendo ancora una volta in che razza di universo parallelo sono finito per ritrovarmi nella condizione di ascoltare questa discussione. In secondo luogo, adesso devo anche cercare di capire quale sia il mio ruolo in tutto questo.
Rimango in silenzio e attendo il resto che mi arriva dritto in faccia, senza nessun preavviso. Con Bushido è facile capire quali siano le cose importanti: sono quelle che ti dice senza giri di parole. "Se io muoio, voglio che sia tu a prenderti cura di Bill."
Vorrei che avesse detto qualcos'altro. Il mio primo pensiero coerente dopo quelle parole è che vorrei non averle sentite, non male da parte della persona a cui le hai appena dette. Lui ha la prontezza di spirito di continuare a parlare e riempire il baratro che si è aperto tra me e lui e che è pieno di tutto ciò che quella richiesta implica. La morte di Bushido, la sofferenza di Bill e io che devo tenerlo insieme quando è chiaro che cadrebbe a pezzi.
"Dopo la mia morte," e lo ripete di nuovo, con quella calma assurda, "ci sarebbe un gran casino, credo. O almeno io lo spero che se crepo ci sia casino."
Fa un sorriso e ne strappa uno anche a me. La tensione un po' si scioglie, che è quello che ci vuole perché le cose serie vanno affrontate con un certo grado di rilassamento o non si ha abbastanza cervello per reagire nel modo giusto.
"Bill in questo casino ce l'ho trascinato io," dice poi, "ma non voglio che ci resti se io non sono con lui."
Annuisco perchè questo lo so già. Ho visto come lo tratta e con che cura lo guarda. Bushido non lo perde mai di vista, Bill, lo tiene sempre sott'occhio anche se non sembra. Anche quando non è lì fisicamente. E nessuno osa dirgli o fargli niente - Fler è un caso a parte - proprio perchè quel ragazzino il marchio di Bushido è come se lo portasse addosso. E' roba sua, lo sanno tutti. Però credo che lo distruggerebbero se sapessero che Bushido non può vederli né sentirli. E se conosco un po' Bill, non vorrà andarsene di qui se Bushido non ci sarà più. Anzi, si aggrapperà ancora di più a tutto quello che gli ricorda il suo uomo e non ci sarà verso di schiodarlo. E Dio solo sa come gli ridurrebbero la vita una merda se si arrogasse il diritto di far parte del giro anche senza avere più il letto di Bushido da scaldare.
Per quanto io possa ancora fare fatica ad accettare l'idea di un duello e di un morto, non mi è difficile capire che Bill avrebbe bisogno di protezione. Questo non c'entra niente con il ghetto e con le bande, c'entra con le persone. Se sei circondato da gente che ti odia, vorresti sempre qualcuno che sia dalla tua parte. Questo lo capisco anche io. E Bill ne avrebbe bisogno, se Bushido morisse. Ce l'avrà qualcuno che lo protegge, perché la possibilità di rifiutare non l'ho nemmeno presa in considerazione e me ne rendo conto all'improvviso, come una rivelazione divina.
Negli ultimi tempi io e quel ragazzino abbiamo passato un sacco di tempo insieme perché Bushido mi manda a prenderlo e riportarlo, e Bill mi parla un sacco - mi sfianca a furia di chiacchere, non sta mai zitto. E io un po' mi sono affezionato a quella pertica che urla e strepita davanti ai negozi di scarpe. Non voglio che stia male e non voglio neanche che qualcuno si azzardi a pensare di poterglielo fare solo perché Bushido non è più lì.
Ci sarò io con lui. "Conta su di me, Atze," gli dico.
"L'ho già fatto," e sorride.

Quattro giorni dopo, Bushido è morto e io stringo tra le braccia un Bill scosso dai singhiozzi che non si riprenderà se non quasi quattro mesi dopo, quando ogni cosa è ormai precipitata e io ho imboccato un casino dietro l'altro senza fermarmi in tempo.
Di quella sera in birreria mi resta ogni dettaglio, come se ce lo avessi marchiato addosso nella testa, perché di fronte a quei bicchieri di birra io a Bushido ho fatto una promessa importante e nel bene o nel male, quella promessa l'ho mantenuta.
Lui lo sa.
Genere: Romantico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Fluff, Slash.
- Al venti dicembre duemilaotto, Bill Kaulitz si aspetta un Natale normale. Ed invece gli capita fra le mani il Babbo. E va tutto per il verso sbagliato - ma chissà che invece non sia proprio il verso giusto, alla fine.
Note: C’è qualcosa di meraviglioso nel svegliarsi al mattino e rendersi conto di aver scritto qualcosa come nove pagine di storia (seimila parole, all’incirca) tutte di seguito XD Anche nell’assoluta incertezza della loro qualità effettiva, il pensiero di avercela fatta è esaltante XD Accidenti, comunque, a questa mia assurda mania di plottare storie destinate palesemente allo sviluppo in più capitoli e convincermi a farle partecipare ai contest come oneshot.
Questa storia è stata scritta per il Fidelity X-Mas Party ’08, proposto da Lokex. I punti da cui prendere ispirazione erano tre: bisognava ci fosse un cavallo (e Palla di Neve spero ricopra adeguatamente il ruolo con la sua apertura alare da tre metri e mezzo circa XD), un personaggio della letteratura (ed io ho deciso arbitrariamente che Babbo Natale è tale personaggio) e dovevano essere presenti le parole “fino a Natale”.
Il difetto principale di questa storia è che nella seconda parte si mette a correre in maniera spaventosa, e quindi, poverina, si rovina un sacco. Ma la prima parte mi piace molto e l’idea originale era meravigliosa: giustamente non era mia, ma di Nai. Me l’ha plottata in dieci minuti e poi abbiamo coccolato insieme l’idea finché non siamo state soddisfatte di ogni più minuscolo dettaglio, e solo dopo l’ho scritta XD In un certo senso, quindi, è decisamente una collaborazione. E c’è un pezzo di Nai in questo contest <3
A parte questo, non molto altro da dire: mi dispiace per l’aberrante lunghezza e spero non annoi XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
A CHRISTMAS CAROL

Quello era indubbiamente Babbo Natale. Bill ne era sicuro. Da qualsiasi lato lo si guardasse, non c’erano dubbi che tenessero: era tondo, era vestito di rosso, aveva le guanciotte lucide e sporgenti, una lunga e morbida barba bianca ed un cappello col pon pon sulla testa. Lo fissava bonario come non avevano mai fatto nemmeno i suoi nonni e la sua pancia si sporgeva in avanti fin quasi a sfiorarlo ogni volta che respirava.
Oltretutto, era uscito dal suo camino.
Non poteva che essere Babbo Natale.
La cosa poneva Bill di fronte a tutta una serie di interrogativi che valeva la pena porsi. Del tipo “ma allora esiste davvero?”, molto differente dal più classico “ma allora non è vero che non esiste?”, perché in realtà Bill aveva sempre tenuto moltissimo a quell’intimissima parte di sé che non aveva mai smesso di credere alle fiabe. Perciò sì, sarebbe valsa la pena di prendersi un momento per rifletterci e sbottare in un “ha! Allora avevo ragione!” che poi sarebbe stato il caso di infiocchettare un po’ e passare a Tom come appropriatissimo regalo di Natale – “chi è che aveva ragione, Tomi? Ripeti dopo di me: Bill”.
L’uomo di fronte a lui, comunque, non gli diede tempo di riflettere su niente, perché si espresse in un rotondissimo “ho ho ho” e poi gli diede un paio di pacche sulla spalla, tranquillo, gioviale, serafico, come fosse perfettamente normale avere Babbo Natale in salotto.
Bill si guardò intorno. In casa non c’era nessuno.
Erano lui e il nonnino lappone. Un incredibile testa a testa.
- Caro Bill… - disse il vecchietto, sempre sorridendo, ed a Bill quasi venne da ridere a propria volta nel pensare che lui, da piccolo, ne aveva scritte tante letterine a Babbo Natale, cominciando appunto con “Caro Babbo Natale”, - sicuramente ti starai chiedendo perché sono qui.
Bill inclinò il capo e si grattò una guancia.
- Fra le altre cose, sì. – ammise annuendo.
Babbo Natale rise ancora.
- E ti starai probabilmente chiedendo anche perché io sia qui il venti dicembre, visto che i regali si portano il ventiquattro notte…
Okay, quindi Babbo Natale portava davvero i regali. Questo apriva delle prospettive meravigliose: se era davvero lui che portava i regali, perché tutti – perfino lui! – ricordavano sempre i pomeriggi di shopping festivo prima della fatidica sera? Babbo Natale governava le loro memorie? Dava loro dei ricordi falsi perché si illudessero sulla sua non-esistenza? La cosa cominciava a farsi complessa.
- …anche. – annuì Bill, che in realtà non se l’era chiesto perché era ancora impegnato a cercare un modo abbastanza crudele e sfacciato per dirlo a Tom.
- Ebbene… - Babbo Natale si chinò e recuperò da terra il sacco di iuta che aveva mandato in avanscoperta lungo la canna del camino, e sul quale poi Bill l’aveva visto agilmente cadere qualche secondo dopo, - ho un regalo in anticipo per te! – e, così dicendo, tirò fuori dal sacco un minuscolo cucciolo di unicorno.
Che era indubbiamente un unicorno. Bianco, col musetto tondo e rilassato, dormiva amabilmente e stava tutto raggomitolato su se stesso, la lunga criniera azzurra e lucente a scivolare sul collo, confondendosi con la foltissima coda ripiegata contro una zampetta. Ed un ridicolo abbozzo di corno tondo e dall’aspetto gommoso ad uscire dalla fronte, proprio sopra gli occhietti chiusi. Era talmente piccolo che stava tutto sul palmo della mano di Babbo Natale.
Il primo istinto di Bill fu sollevare una mano ed accarezzarlo. Il secondo, gongolare fra sé ripetendo al fratello immaginario che aveva nella testa “ma allora vedi che esistono anche gli unicorni? Haha!”. Il terzo – che poi fu ciò che fece – fu puntare un dito contro Babbo Natale, inorridire e strillare.
- Ma tu ci sei caduto sopra!!! Avresti potuto ucciderlo!!!
Babbo Natale rise bonario – il solito serafico “ho ho ho” che era davvero un suono tondo – e sistemò sul naso gli occhialini – minuscoli e cerchiati d’oro, Bill sospettava fossero anche abbondantemente inutili, visto che erano perfino più piccoli delle sue pupille. Occhiali decorativi, insomma.
- Bill, il sacco di Babbo Natale è un sacco magico. – spiegò, - Sai quante ernie mi verrebbero, altrimenti? I miei poveri reni ne risentirebbero. – aggiunse annuendo, - Le cose si materializzano solo quando io ne ho bisogno.
Bill inarcò le sopracciglia.
- Ma allora perché usare il sacco? Se le materializzi così…
Babbo Natale s’imbronciò come un bambino.
- Ma così è molto più carino! – motivò infervorandosi, e Bill non poté che dargli ragione. – Comunque sia, mi aspettavo di trovarti molto più ricettivo! – continuò sbuffando.
Bill si sentì tremendamente in colpa. Insomma, era Babbo Natale! Venuto a trovarlo anzitempo con un unicorno in mano, addirittura! Avrebbe dovuto essere più carino, con lui. Decisamente.
- Mi… mi dispiace. – mugolò affranto, stringendosi nelle spalle ed abbassando lo sguardo, - Scusami, Babbo, è che la tua è stata una visita inaspettata, quindi… - si fermò e rifletté. Poi tornò a sollevare gli occhi in quelli puntuti e azzurrissimi del nonnino, e s’illuminò in viso. – Aspetta qui! – disse, allontanandosi a saltelli verso la cucina.
Tornò due minuti dopo con un piattino colmo di biscotti al cioccolato ed un bicchiere pieno di latte fino all’orlo.
- Ho ho ho! – rise felice Babbo Natale, poggiando l’unicorno sul pancione sporgente e battendo le mani, - Questa sì che è una bella accoglienza! – si complimentò, sedendosi al tavolo senza chiedere il permesso e poggiando sul ripiano di legno il cucciolo prima che finisse schiacciato fra il pancione e il bordo.
Bill si sedette accanto a lui e lo osservò ruminare biscotti ed annaffiarli col latte per una quantità di tempo indefinito, prima di poggiare il mento sul palmo della mano e guardarlo con aria inquisitoria.
- Dunque, Babbo… cosa ti porta da queste parti? – chiese, col tono più casuale possibile. Non voleva essere più sgarbato di quanto già non fosse stato.
- Ah, già! – disse il nonnino, tornando subito serio e ripulendosi le labbra col dorso della mano guantata, - Ho un enorme favore da chiederti, Bill.
Il moro lo osservò recuperare l’unicorno ancora dormiente e riposarlo sul palmo della mano, porgendoglielo.
- Come forse saprai, gli unicorni sono animali piuttosto rari. – cominciò ad istruirlo con aria professionale, annuendo fra sé, - Si dice siano estinti, ma non è così. In realtà qualche esemplare c’è ancora, ma sono molto pochi. Tanto pochi che, generalmente, i genitori stanno molto attenti a non perdere i piccoli in giro. – il nonnino inarcò le sopracciglia verso il basso, scontento. – Per qualche motivo, però, i genitori di questo cucciolino sono scomparsi. Ed è veramente molto piccolo, come vedi non gli sono ancora cresciute le ali…
Bill annuì partecipe, piegando le labbra in un broncio triste e giungendo le mani sul petto.
- Ma è terribile… - commentò, - ed i suoi genitori non si possono trovare…?
- Ho già messo una squadra di elfi alla ricerca. – annuì il nonnino, serissimo, - Ma ci vorrà del tempo, capisci?
Bill annuì e sfiorò teneramente il musetto dell’unicorno con due dita. Lui non mostrò neanche di accorgersene e continuò a dormire beato.
- Ora… fossimo in un altro periodo dell’anno, - ricominciò a borbottare Babbo Natale, mentre Bill si perdeva sulle lunghissime ciglia del cucciolo, - non ti chiederei mai un favore simile. Ma siamo proprio sotto le feste e sia io che Mamma Natale che gli elfi siamo molto impegnati coi preparativi, e con una squadra in missione in giro per il mondo non è tanto semplice conciliare il tutto, e i cuccioli di unicorno hanno bisogno di molte attenzioni, e…
Bill sollevò gli occhi sul nonnetto.
- …aspetta un attimo, Babbo. – cominciò allarmato, - Di che favore stiamo parlando?
“…ma soprattutto, vogliamo parlare di Mamma Natale?”, gli venne quasi naturale aggiungere. S’interruppe giusto in tempo, riportando alla memoria un’antica lezione impartitagli da David durante gli anni della loro gavetta e splendidamente riassumibile in “i filtri, Dio, Bill!, i filtri, quando parli!”.
Babbo Natale, comunque, si strinse imbarazzato nelle spalle.
- Ho bisogno di una persona fidata cui lasciare l’unicorno. – spiegò, - Capisci, qualcuno che possa prendersene cura. Solo per qualche giorno! – si affrettò a rassicurarlo, - Il venticinque sera verrei immancabilmente a riprenderlo, e per allora conto anche di avere ritrovato i suoi genitori!
Bill lo fissò, gli occhi enormi.
- Ed io sarei una persona fidata…? – chiese incerto, indicandosi. Generalmente, solo suo fratello era tanto stupido da pensare di lui una cosa simile senza pensare anche a quanto fosse drammaticamente inesatta, per voler usare un eufemismo.
Babbo Natale annuì compiaciuto.
- Sì, Bill. Tu ti affezioni alle cose e credi nella mia esistenza ed anche in quella degli unicorni, quindi sei la persona più adatta. Ma soprattutto… - aggiunse con aria grave, agitandogli un dito guantato di fronte al naso, - sei ancora vergine. E, com’è noto, solo i vergini possono domare gli unicorni.
Incerto fra la possibilità di sprofondare in un baratro da aprire nel pavimento grazie alla forza del proprio imbarazzo, e quella di scappare via il più lontano possibile più o meno per lo stesso motivo, Bill arrossì.
- Io non… - biascicò, ma si rese presto conto dell’inutilità di mentire di fronte a Babbo Natale. - …sì, capisco. – annuì quindi alla fine, abbassando gli occhi.
Era ingiusto che uno dei motivi più gravi della sua sofferenza interiore fosse anche uno dei motivi che gli avrebbe dato la possibilità di prendersi cura di un cucciolino tanto bello. Oltre che di dimostrare a se stesso e al mondo che aveva sempre avuto ragione lui su tutto, ovviamente.
- Solo una cosa devi sempre tenere a mente. – disse a quel punto Babbo Natale, posando il cucciolo sul tavolo di fronte a lui, - L’unicorno può stare solo con gente che creda nella sua esistenza. Come tutte le creature fatate, se qualcuno nega la sua realtà… - pausa enfatica che Bill non apprezzò, se non altro perché la situazione era già abbastanza complessa senza aggiungerci pathos non necessario, - …morirà.
Bill deglutì. E poi fu il panico.
- Mio fratello… - boccheggiò, - lui non ha mai creduto… - si perse nei propri pensieri, - nessuno che frequenti abitualmente questa casa ha mai creduto negli esseri fantastici, Babbino!!! – strillò confuso, - Come farò?! Forse David nella sua infanzia può aver creduto nelle fiabe, ogni tanto i suoi occhi scintillano ancora della luce della fantasia, ma tutti gli altri… Georg!!! Gustav crede in Dio, però, quindi forse…
- Dio non c’entra niente con la fantasia, Bill, è una favoletta che si racconta ai bambini per farli stare buoni! – lo blandì Babbo Natale con una risata divertita, mentre il cervello di Bill andava in palese overload di irrazionalità. – Sta’ tranquillo. – lo rassicurò alla fine il vecchietto, - So per certo che troverai una soluzione ed andrà tutto bene.
Bill non era tanto sicuro che il nonnino lappone avesse ragione, sotto molti aspetti. Non era tanto sicuro di essere affidabile, tanto per cominciare, non era nemmeno tanto fiducioso da pensare che una soluzione si sarebbe comunque trovata. In poche parole, l’unica certezza che aveva era quella di essere vergine, ed era una certezza che avrebbe volentieri fatto a meno di portarsi dietro, peraltro.
Così era, comunque. Babbo Natale ringraziò per latte e biscotti e si accomiatò con un abbraccio bonario, prima di ricordargli che si trattava comunque di un breve periodo di tempo – “solo fino al venticinque sera, Bill!” – e lasciarlo solo col cucciolo dormiente ancora sul tavolo. E neanche la più pallida idea di come risolvere quel garbuglio.
*
Lui ed Anis s’erano conosciuti – conosciuti davvero, non incrociati e salutati – durante il backstage dei Comet del 2005. Ciò che Bill sapeva di quell’uomo era riconducibile a ciò che Tom gli aveva detto di lui, disperandosi fra un ascolto nostalgico e l’altro di fronte alla rottura fra l’Aggro Berlin ed uno dei suoi rapper preferiti. La cosa lo aveva segnato nel profondo, e Bill poteva ancora ricordare, senza nemmeno sforzarsi troppo, i piagnistei infiniti di suo fratello ed i pomeriggi passati ad ascoltare i sampler dell’Aggro conditi dal racconto di una storia di gangster di strada che un po’ l’aveva sempre affascinato, anche se non capiva esattamente cosa tutto ciò avesse a che fare con la musica. Ma Bill aveva sempre avuto un’idea molto romantica, della musica, perciò non era strano che non capisse cosa c’entrassero una mandria di uomini imbufaliti con la delicatezza perfetta di un ritornello in armonia con le strofe che lo seguono e precedono.
Lui aveva quindici anni e Tom non aveva ancora deciso se fosse più opportuno odiare Bushido e restare fedele all’Aggro o mollare l’Aggro e seguire Bushido nella sua nuova avventura. Di qualsiasi tipo fossero i pensieri che vorticavano nella testa di quel suo assurdo fratello, sembravano essere molto seri, drammatici ed epici: Tom la vedeva come una questione della massima importanza. Tant’è che tutto era cominciato proprio perché a quei Comet lui non aveva la benché minima intenzione di trovarsi davanti al proprio idolo senza sapere cosa dire. Perciò, quando Bushido aveva fatto tanto di avvicinarsi, con addosso il sorriso suadente e tranquillo delle rare occasioni in cui voleva solo congratularsi senza sentire il bisogno spasmodico di aggiungere in cosa al complimento qualche cavolata delle sue, Tom era letteralmente scappato verso i bagni. Le sue ultime parole nei confronti del fratello erano state “Tienilo impegnato mentre io cerco di evadere attraverso le prese d’aria”.
Bill aveva sospirato teatralmente, osservando con occhio vagamente divertito lo sguardo di Bushido seguire suo fratello fino a che non lo perse di vista, e poi aveva aspettato candidamente che fosse l’uomo ad avvicinarsi e cominciare a discutere.
“Ma… tuo fratello?”, aveva chiesto Bushido, usando un tono incredibilmente confidenziale, neanche si conoscessero da sempre.
Bill aveva ridacchiato appena. Si sentiva talmente piccolo, di fronte a lui, da non riuscire proprio ad evitare l’imbarazzo.
“È un tipo emotivo,” aveva risposto dopo un attimo d’incertezza. Bushido aveva riso di gusto e gli si era seduto accanto senza chiedere il permesso.
La chiacchierata era proseguita senza intoppi: lui e Bushido avevano parlato del più e del meno come non avrebbe mai creduto possibile, Bushido era stato schietto e sincero e ad un certo punto s’era perfino lamentato della sua età.
“Sei troppo piccolo, per quest’ambiente,” gli aveva detto, e quando Bill aveva provato a replicare che con lui non poteva parlare di gangsta-rap perché, nonostante il fratello che si ritrovava, lui e quel tipo di musica erano lontani anni luce e bene intenzionati a restarlo, Bushido aveva replicato schernendolo con una mezza risata. “Parlo della musica in generale. È facile consumarsi, quando si è piccoli come te.”
“…e tu ne hai visti tanti? Consumarsi, intendo…” era stata la sua risposta incuriosita, venata appena da una nota più dolce e intimidita provocata probabilmente dalle almeno sei bottiglie di birra che aveva in qualche modo convinto Bushido a recuperargli sottobanco per tutto il tempo della loro conversazione.
“Mi stai dando del vecchio, ragazzino?”, aveva replicato Bushido con una risata divertita. Bill era arrossito istantaneamente e s’era affrettato a negare, agitandogli le braccia di fronte al viso come se le parole fossero state fisiche e lui avesse avuto il potere di cancellarle. Si era calmato solo quando Bushido aveva riso ancora, più dolcemente, e l’aveva rimesso a sedere scompigliandogli i capelli con una grande mano color caramello. “Sì, ne ho visti tanti,” aveva risposto quindi, annuendo appena, “Non è una bella cosa. Ti servirebbe una protezione. Niente di eclatante,” aveva spiegato, gesticolando disinteressato, “giusto qualcuno con cui parlare quando ti sembra di non farcela. A volte aiuta.”
Era stato in quel preciso istante – mentre portava per l’ennesima volta la bottiglia di birra alle labbra per farsi coraggio e scacciare l’imbarazzo con un sorso d’alcool – che Bill aveva deciso di essersi innamorato. Ci aveva fantasticato su un sacco – sul primo amore e tutte quelle cose che credeva di aver già provato per Linda e che invece s’erano spente in un niente quando s’era allontanato da Magdeburgo – ed in effetti gli sembrava un po’ strano ritrovarsi a capire lucidamente di essersi innamorato, quando invece con Tom aveva sempre parlato di cose tutte diverse, brividi inconsci, incertezze, tremori eccetera eccetera. Non c’era niente del genere. Però guardare Bushido lo scaldava più della birra e, quando lui aveva parlato di una persona con cui parlare quando avesse avuto paura di non farcela, nella mente di Bill s’era formato il suo nome. Prima ancora di quello di Tomi o di Andi o di sua madre.
Quindi sì, era stata una decisione perfettamente consapevole: quella di cominciare a ronzargli intorno perché era lui, Bushido, non chiunque altro, che avrebbe dovuto proteggerlo ed impedirgli di consumarsi.
Bushido, però, fondamentalmente, non era mai cresciuto davvero. O meglio: per certi versi era molto maturo e saggio e tutto quanto, ma per altri era un disastro. Tutto, in lui, faceva pensare ad un’infanzia non goduta e quindi rincorsa finché fosse stato possibile. Perfino i suoi modi di divertirsi erano assurdi – a partire dai sabati notte su World of Warcraft per concludere con i modi decisamente opinabili che aveva di prenderlo pubblicamente in giro flirtando in maniera spudorata e perfino pesante. Col tempo, Bill aveva imparato ad abituarsi, ma la cosa sconvolgente del tutto era stata percepire chiaramente che nulla del suo amore s’era mai perso neanche di fronte alle cose peggiori. Non di fronte all’uscita sul sesso orale, non di fronte alla proposta di matrimonio estemporanea, nemmeno di fronte alle centinaia di volte in cui quegli scherzi Bushido li faceva in privato, quando uscivano insieme sotto copertura o quando Bill si presentava a casa sua.
Con Linda il sentimento sfioriva appena litigavano. Era una cosa automatica.
Con Anis persisteva. Non c’era modo di tirarlo via.
Unico guaio, come nella migliore delle tradizioni da sfigato che l’avevano sempre perseguitato – a partire dai bulli del liceo per continuare con le doppie punte e la frustrazione del non riuscire ad abbinare quel fantastico giubbino bianco con le ragnatele con nulla, col risultato di sembrare ogni volta inguainato in una tuta spaziale – non si era mai dichiarato. Erano passati tre dannatissimi anni – ormai quasi quattro – e non solo non aveva mai confessato i propri sentimenti a Bushido, ma nemmeno li aveva mai fatti in qualche modo trapelare. Con nessuno, poi. Neanche uno sfogo. Tomi l’aveva più o meno capito da solo, ma Bill non avrebbe confermato neanche a morire – gli prendeva un batticuore assurdo ogni volta che ci pensava. Si sentiva sempre incredibilmente stupido.
La cosa, fortunatamente, non aveva mai minato i rapporti fra lui ed Anis. Perciò, quando quel venti dicembre Bill si ritrovò con un unicorno – un unicorno! – in mano e l’ordine di Babbo Natale - …Babbo Natale!!! – di prendersene cura fino a Natale, il suo primo pensiero, nonché l’unica soluzione avesse trovato, era stato andare da Bushido.
S’era attaccato al campanello della casa gialla con la furia di un disperato, pregando in un centinaio di lingue – molte delle quali inventate – che Bushido fosse in casa, solo e ben disposto nei suoi confronti e, quando poi aveva sentito la serratura della porta scattare, aveva serrato gli occhi e stretto forte al petto il cucciolo d’unicorno addormentato ed aveva pregato ancora, stavolta perché non scomparisse.
Quando era tornato a guardare il mondo, la prima cosa che l’aveva colpito era stata la presenza caldissima del cucciolo ancora stretto fra le braccia. Il battito del suo cuoricino, lento e calmo, si spandeva all’interno del suo piccolo e morbido corpo e si diffondeva poi anche dentro il suo petto, facendosi sentire fino in gola.
Di fronte all’inevitabile consapevolezza di essere capitato davanti a qualcuno che, evidentemente, negli unicorni credeva eccome – dato che il piccolo era ancora lì – Bill si prese un secondo per realizzare il pensiero, digerirlo e venirci a patti. Poi sollevò lo sguardo e si ritrovò davanti un Bushido in perfetta tenuta da scazzo casalingo – tuta enorme ed anonima maglietta bianca – i cui occhi giocavano a rimpiattino saltando ansiosi dal suo viso al cucciolo e poi di nuovo al suo viso.
- Bill…? – esalò appena l’uomo, decidendosi finalmente a fissarlo negli occhi, in cerca di una risposta.
- Ciao. – rispose lui, abbozzando un sorriso incerto e sollevando una mano per salutarlo, - Posso entrare?
Bushido annuì meccanicamente.
- Sì, certo che… Bill, cos’è questo? – concluse in un mezzo rantolo, indicando il cucciolo.
Bill deglutì a fatica e lo sollevò un po’, perché Bushido potesse vederlo meglio.
- …esattamente quello che sembra, temo. – rispose annuendo e tornando a nascondere il piccolo fra le braccia.
Bushido si prese qualche secondo per riflettere, prima di tornare ad aprire bocca.
- Non è possibile, Bill. – disse alla fine, gli occhi ancora spalancati, - Ha le ali. Queste cose non… - ma non ebbe tempo di concludere, perché Bill scattò in avanti e pressò il palmo di una mano contro le sue labbra, cercando di spingerlo indietro per quanto gli consentissero quegli abbozzi di muscoli che si ritrovava e che, in confronto alla strenua resistenza del fisico fermo e compatto di Bushido, sembravano ancora più ridicoli.
- Non dirlo! – disse allarmato, agitandosi tutto, - Ti prego, se lo dici morirà!
Bushido smise di resistere e si lasciò spingere in casa, osservando un po’ sconcertato Bill chiudersi la porta alle spalle con un calcio, il cucciolo ancora stretto al petto e la mano libera ancora impegnata a chiudergli la bocca. Lo lasciò solo quando fu certo di aver chiuso bene la porta ed essere solo con lui nell’ampio salotto che accoglieva chiunque mettesse piede nella villa.
- Bill, che diavolo sta succedendo qui? Cos’è questo animale e cosa significa che potrebbe morire?!
Bill non rispose subito. Il palmo della sua mano conservava ancora qualche traccia del calore delle labbra di Bushido, ed il ragazzo trovò difficile ignorare il pensiero per concentrarsi su fatti di maggiore importanza, per molti secondi. Bushido dovette chiamarlo un paio di volte per ottenere un qualche cenno di vita.
- È… - cercò di spiegare Bill, deglutendo agitato, - È una creatura di fantasia, Bu, se dici che non… insomma, scompare!
Bushido continuò a guardarlo e poi si passò una mano sugli occhi, inspirando ed espirando con calma.
- Bill… - lo richiamò con aria stanca, - …quello che hai detto non ha senso, te ne rendi conto? Una creatura di fantasia, dici? È qua, lo sto guardando, è un… un accidenti di cavallo con le ali-
- E il corno. – precisò Bill, indicando la fronte vagamente sporgente del cucciolo, - È un unicorno, infatti. Non si vede perché è ancora piccolo…
- …un unicorno.
Bill annuì e lo osservò cercare a tentoni con la mano un divano alle sue spalle, per poi lasciarcisi ricadere sopra con un tonfo non appena l’ebbe trovato.
- Bu…? – lo chiamò debolmente, andandogli vicino ed esitando un po’ prima di sedersi al suo fianco, cosa che alla fine fece comunque. – Tutto bene?
Bushido non rispose alla domanda, ma lo guardò intensamente.
- Un unicorno, Bill?
Bill annuì di nuovo.
Bushido prese atto, annuendo a propria volta.
- Bill, credo dovrai raccontarmi questa storia dall’inizio.
Il ragazzo fece una mezza smorfia, sistemando il cucciolo su un cuscino ricamato appoggiato al bracciolo.
- Odio quando ripeti così spesso il mio nome. – borbottò scontento, - Sembri mio padre, sempre sul punto di rimproverarmi o chissà che.
Bushido si massaggiò lentamente le tempie, chiudendo gli occhi.
- In effetti ho voglia di rimproverarti, B-… insomma. Ma non saprei per cosa farlo esattamente, quindi aspetterò che tu abbia finito di raccontare. E poi vedremo.
Bill incrociò le braccia sul petto e sbuffò teatralmente.
- Senti, non è colpa mia, è stato Babbo Natale che-
- Babbo Natale, Bill?!
- La pianti di ripetere il mio nome? So come mi chiamo.
Bushido respirò ancora, sempre più profondamente, e tornò ad alzarsi in piedi, cominciando a camminare nervosamente intorno al tavolino basso nel centro del salotto, le mani sui fianchi e la maglietta che si arrotolava in sbuffi attorno alle dita.
- …spiega meglio. – lo invitò, continuando a camminare.
Bill lo guardò, inclinando lievemente il capo.
- Non ti fermi?
- No. – rispose con naturalezza l’uomo, scuotendo il capo, - Scarico. Parla.
Il ragazzo annuì incerto.
- Be’, tutto è cominciato stamattina verso l’una del pomeriggio, quando mi sono svegliato-
- Bill, ti prego, evita le incoerenze, è già tutto abbastanza confuso… - lo implorò l’uomo, massaggiandosi la fronte, - Mattina o pomeriggio?
- Mi confondi! Ti muovi! – si agitò il ragazzo, spiegazzando la fodera del divano sotto le dita, - Era mattina perché io mi ero appena svegliato, ma era pomeriggio perché io mi sveglio di pomeriggio, quando sono in vacanza!
Bushido annuì lentamente, continuando a camminare.
- …d’accordo, ci sono. Quindi eri sveglio e…?
- E c’era Babbo Natale in salotto.
Bushido si fermò. Solo per qualche secondo. Poi riprese la sua marcia.
- Bu?
- Sì, sì. Babbo Natale. Vai pure avanti.
Bill inarcò le sopracciglia, incerto, e si concesse una smorfia impaurita prima di portare il cuscino con sopra il cucciolo di unicorno sulle ginocchia e cominciare ad accarezzarlo delicatamente.
- Be’, lui mi ha consegnato questo… Bu, non mi stai credendo per niente, vero?
- Ho un unicorno sotto agli occhi, Bill. – gli fece notare l’uomo, guardandolo distrattamente, - Non sono nella posizione di non credere. Qualsiasi cosa tu mi dica.
Bill annuì lentamente, insicuro.
- …insomma, - riprese, - mi ha consegnato il cucciolo e mi ha chiesto per favore di prendermene cura fino a Natale, visto che lui e Mamma Natale… - sollevò gli occhi e si ritrovò di fronte Bushido che lo guardava come non l’avesse mai visto prima, fermo nel centro del salotto con gli occhi spalancati e le braccia molli lungo i fianchi. Sospirò. – Scusa, Bu. Vado via subito. – mugolò, recuperando il cucciolotto e rimettendosi in piedi.
- No, ehi, ehi, aspetta. – si affrettò a fermarlo Bushido, poggiando entrambe le mani sulle sue spalle e spingendolo delicatamente a sedere, - Non ti ho chiesto di andartene. – si sedette al suo fianco, continuando a tenere una mano sulla sua spalla e massaggiando un po’ per rassicurarlo, - …Bill, perché sei venuto da me? In poche parole.
- Devo… tenere il cucciolo fino a Natale. – ammise il ragazzo, - L’ho promesso a Babbo Natale, non potevo dire no a Babbo Natale, e lo so che sembra assurdo, ma è così. E non potevo restare a casa, Tomi non ci crede negli unicorni, e nemmeno in Babbo Natale, perciò ho pensato-
- Che io invece ci credessi? – lo interruppe Bushido, vagamente divertito.
Bill sbuffò, sollevandogli addosso un broncio adorabile ed un paio di occhioni ostinati.
- Be’, avevo ragione, no? – e Bushido sorrise. - …però no, non ho pensato quello. In realtà… non ho pensato affatto, ho solo sentito che dovevo venire da te, ecco.
Bushido sorrise ancora, più apertamente, mentre se lo tirava contro e lasciava che si accomodasse contro il suo petto, l’unicorno un po’ schiacciato fra i loro corpi, ma ancora placidamente addormentato.
- Vuoi restare qui fino a Natale? – gli chiese a bassa voce, sussurrandogli all’orecchio, - Non sei spaventato? Sono un uomo poco raccomandabile e ti ho fatto un sacco di avances, negli ultimi anni…
“Ne avessi anche mai concretizzata una…” si ritrovò a pensare tristemente Bill.
- No, sono… tranquillo. – ammise con un mezzo sospiro. – Pensi che potrei restare?
Bushido guardò lui e l’unicorno e poi si espresse in un mezzo sbuffo incerto.
- Non hai portato niente con te… - Bill scattò in piedi senza neanche lasciargli il tempo di concludere la frase.
- Oh, posso tornare a casa, preparare la borsa ed essere di nuovo qui in, facciamo, mezz’ora! – strillò saltellando eccitato da un piede all’altro, - Bu, mi hai salvato la vita! Cioè, a me ed al cucciolo! – rise, gettandogli le braccia al collo.
Bushido sospirò, accarezzandogli distrattamente i capelli mentre recuperava l’unicorno che, nella foga dell’abbraccio, Bill aveva dimenticato di dover stringere.
- Ecco, bravissimo. – annuì il ragazzino quando si fu separato di lui, non appena si accorse di come Bushido tenesse saldamente il cucciolo tutto nel palmo della mano, - Tienilo tu. Io faccio subito!
L’uomo lo osservò uscire come una furia – esattamente com’era entrato – e poi lanciò un’occhiata all’unicorno, sollevandolo fino all’altezza del viso per osservarlo da vicino. Il piccolo dischiuse le palpebre quasi subito, e lo fissò a propria volta con un paio di enormi ed acquosi occhioni azzurri.
- Dio, sei vero… sul serio. – commentò Bushido, avvicinandosi fin quasi a sfiorarlo con la punta del naso. Il cucciolo si sporse in avanti e lo morse, stringendogli saldamente il naso fra le gengive prive di denti. - …e sei anche pericoloso. – borbottò l’uomo, staccandoselo di dosso e ripulendosi con il dorso della mano libera. Sorrise. – Più o meno come quello che ti ha portato qui, mi sa. – concluse, poggiandolo nuovamente sul cuscino. E cominciando a chiedersi di cosa, esattamente, si nutrissero gli unicorni.
La pace durò all’incirca due secondi. Si interruppe precisamente quando il cucciolo si fu ripreso dal suo placido sonno abbastanza da capire esattamente dove fosse, con chi si trovasse e, soprattutto, con chi non si trovasse. Bushido lo osservò curiosamente sollevare il capino, guardarsi intorno e poi, con una naturalezza quasi sfacciata, saltare giù dal divano e trotterellare spedito verso la porta.
Lo seguì con lo sguardo e, quando si rese conto che il cosino non sembrava intenzionato a fermarsi, gli andò dietro anche coi piedi.
- Dov’è che staresti andando? – gli chiese, chinandosi e cercando di riprenderlo in mano.
Vigile e attento, il cucciolo si scostò e, incerto sugli zoccoli, rotolò lateralmente, caprioleggiando per qualche centimetro di moquette prima di rimettersi dritto, scuotere il collo per sistemare la corta criniera argentata e riprendere la propria marcia impettita verso la porta.
Bushido continuò a seguirlo, sempre più attonito, finché il cucciolo non arrivò alla porta e batté un paio di volte con uno zoccolo contro la superficie in legno.
- …devo aprire? – chiese l’uomo, piegandosi sulle ginocchia per guardarlo più da vicino e molleggiando sulle punte dei piedi per mantenere l’equilibrio.
Il cucciolo si limitò a fissarlo con aria supponente, battendo nuovamente lo zoccolo contro il legno.
- Bill mi ucciderà, se ti lascio fare. – gli fece presente, mettendo comunque una mano sulla maniglia.
Il cucciolino nitrì – o meglio, vagì un’idea di nitrito – e Bushido sospirò. Quegli occhi azzurri lo stavano fissando con tanta di quella disapprovazione che si sentiva quasi fuori luogo.
Tutto ciò che poté fare a quel punto il pover’uomo fu rimettersi in piedi ed aprire la porta. E sarebbe stato ciò che doveva essere. Punkt. Lui non credeva nel destino, ma non credeva di credere neanche ad unicorni e Babbi Natali vari ed eventuali, fino al giorno prima, perciò…
Il cucciolo trotterellò felice sulla ghiaia del sentiero davanti casa per qualche metro, e dopodiché Bushido lo vide spiegare le piccole ali ancora immature e spiccare un salto da record, per le dimensioni del suo corpo. Planò disinvoltamente fra le braccia di Bill, che stava lì fermo come in attesa e lo guardava con enormi occhi adoranti.
- Bill? – chiese, uscendo a propria volta di casa e raggiungendolo sul selciato, - Come mai sei ancora qui?
Bill tirò fuori la lingua e sorrise appena, come per scusarsi.
- Ho dimenticato di dirtelo. – biascicò poi, stringendosi nelle spalle, - Il cucciolo non può stare solo in compagnia di persone non vergini, perché solo un vergine può… - si interruppe ed arrossì istantaneamente, - …domarlo.
Bushido aprì la bocca.
Non seppe sinceramente che dire.
- Ah. – si rassegnò alla fine, tornando a cercare di darsi un contegno, - Capisco.
Bill abbassò lo sguardo, imbarazzato a morte.
- Bu, credo che… dovrai andare tu a prendere qualcosa per il mio cambio. – mormorò, consegnandogli direttamente in mano le chiavi di casa.
Bushido chiuse gli occhi e contò fino a dieci. Non servì a calmarsi.
Sarebbero stati cinque giorni decisamente pesanti.
*
Tom era un ragazzo che Bushido non aveva ancora capito completamente. Era, se possibile, ancora più umorale del fratello, e riusciva a passare da uno stato d’animo all’altro con una velocità spaventosa, a tratti disorientante. Perciò, quando Bushido lo osservò entrare tranquillamente in casa, posare le chiavi sulla consolle e poi voltarsi sorridendo alla ricerca di Bill, incassò la testa nelle spalle e si preparò al peggio.
Certo, avere le mani nel cassetto della biancheria intima di Bill non aiutava i suoi disperati tentativi di darsi un tono. Pregò che Tom capisse, anche se non era sicuro di cosa ci fosse in effetti da capire.
Gli occhi di Tom si spalancarono ed il ragazzo lasciò cadere in terra il giubbotto che ancora stringeva nella mano ed attendeva di essere appeso all’attaccapanni.
- Bushido…? – esalò incerto, mentre lui, per evitare di fargli pensare stesse facendo qualcosa di sconveniente, continuava a rovistare con nonchalance fra le mutande di Bill. Cosa che forse non era la più appropriata da fare, dopotutto. - …cosa stai facendo?
Bushido si decise finalmente ad afferrare quante più paia di boxer poté ed infilarle di gran corsa nello zainetto che teneva per le bretelle con la mano libera.
- Ciao, Tom. – disse con un sorriso, cercando di distrarlo.
Tom deglutì ed annuì.
- Oh… - disse, arrossendo vagamente, - Ciao, sì, scusa, è che… - indicò con un gesto distratto Bushido, il cassetto ancora aperto ed i boxer che sporgevano dall’apertura dello zaino, - …capisci, non è una cosa tanto normale.
Bushido sospirò.
Ciclicamente, Tom ritornava sempre sullo stesso punto.
- Tom, non pensare male, per favore.
- Oh, no, ma Atze, sul serio, lo sai che a me puoi dirlo.
Appunto. L’uomo richiuse il cassetto e cominciò a marciare verso il bagno, ben deciso a non perdere altro tempo recuperando dei vestiti per Bill – gli avrebbe dato qualcosa di suo – prendere solo lo stresso indispensabile – spazzolino, trucchi e lacca, in poche parole, ovvero cose che non poteva fornirgli da sé – e poi fuggire immediatamente da quell’appartamento. Possibilmente senza dare spiegazioni a Tom.
- Non c’è niente da dire, Tom, lo sai. – biascicò mentre armeggiava con la trousse di Bill – sei chili almeno di beauty case – chiedendosi se potesse eliminare qualcosa o dovesse rassegnarsi a portare proprio tutto.
Tom aveva un problema, con lui. O lui aveva un problema con Tom. In ogni caso, c’era un problema nella loro relazione, e questo problema era l’adorazione cieca che il chitarrista nutriva nei suoi confronti. Il classico amore profondo che riservi agli idoli, le cose che non ti passano mai, anche con gli anni, quelle che possono portarti ad arrossire per il sorriso di un uomo anche se non hai alcuna intenzione di andarci a letto insieme – cosa che Tom faceva spesso, con lui. Arrossire, non andarci a letto. Per carità.
Insomma, lo adorava. Tutta quell’adorazione, però, non poteva avere uno sfogo pubblico, perché Tom era un piccolo gangsta-rapper fedele e mai e poi mai avrebbe potuto rinnegare l’Aggro Berlin di fronte ai microfoni ed alle telecamere. Perciò, se tutte le dichiarazioni d’amore pubbliche erano per Sido e compagnia, era nel privato che invece Tom “si faceva perdonare”, ronzandogli intorno come un moscone e sommergendolo di attenzioni. In un modo, peraltro, drammaticamente sbagliato.
- Atze, sul serio, è orribile che né tu né Bill vogliate ancora ammetterlo! Non dico pubblicamente, ma io sono suo fratello e noi siamo amici!
…ovvero decidendo arbitrariamente di diventare suo confidente personale – un po’ come il fratello aveva deciso arbitrariamente di diventare una specie di animale da compagnia ed accoccolarglisi addosso ogni piè sospinto – ed autoconvincendosi per chissà quale motivo che lui e Bill stessero insieme. Certo, immaginava che la quantità enorme di tempo che il Kaulitz minore trascorreva a casa sua potesse essere un indizio in tal senso, ma Bill era tragicamente piccolo, minorenne nell’aspetto ed anche in tutto il resto, per quanto l’anagrafe cercasse di convincere tutti del contrario. Non l’avrebbe mai toccato, non in quel senso e con niente che andasse oltre un flirt un tantinello spinto. E solo per ridere un po’.
- Tom… - borbottò, rassegnandosi a recuperare la trousse per intero e chiudendo lo zaino con uno scatto secco. Bill odiava che lui ripetesse così spesso il suo nome, come volesse rimproverarlo? Ebbene, Bushido detestava che i gemelli gli dessero in effetti quintali di occasioni per riprenderli esalando il loro nome in un rimprovero da padre sconfitto. – Ti ho detto e ripetuto almeno cinquecento volte che tuo fratello non è il mio ragazzo.
Tom annuì ed indicò lo zaino.
- Stai prendendo il suo cambio per la notte? – chiese innocentemente. Bushido annuì. – E quanto si ferma da te? – proseguì il ragazzo. Bushido rimase in silenzio. Tom annuì vittorioso. – Non è il tuo ragazzo, eh?
Bushido provò l’intenso desiderio di dargli un colpo di zaino sulla testa, tramortirlo e fuggire dalla finestra. Ma sarebbe stato ridicolo e sospettava Bill non l’avrebbe mai perdonato, per una cosa simile, perciò si trattenne.
- Non si ferma da me per i motivi che immagini tu. – borbottò in un mezzo ringhio frustrato, caricando lo zaino – incomprensibilmente pesante – in spalla e dirigendosi verso la porta.
- No, naturalmente. – annuì Tom, battendogli una pacca sulla schiena, - E allora perché?
Bushido fu tentato di rovesciargli addosso tutta l’intera storia dell’unicorno e di Babbo Natale. Ma questo sarebbe stato ancora più ridicolo del dargli uno zaino in testa, e probabilmente Bill sarebbe stato altrettanto incapace di perdonarlo, se l’unicorno fosse scomparso perché Tom aveva detto ridendo “ma cose simili non esistono!”, perciò si costrinse al silenzio. Lo salutò a bassa voce e Tom rimase ad agitare festosamente la mano sulla soglia della porta strillando “verrò presto a trovarvi!” per tutto il tempo che lui impiegò a scendere le scale e rimettersi in strada.
Non aveva alcuna voglia di tornare a casa, ma il pensiero ci fosse Bill solo con l’unicorno – e con la possibilità che uno qualsiasi della sua crew passasse di lì per impossessarsi della Wii come al solito – lo convinse a non fuggire in vacanza a Miami e tornare alla villa.
Già sul selciato, quando ancora non aveva toccato la porta di casa, cominciò ad avere paura: dall’interno dell’abitazione provenivano rumori sospetti.
- Cosa sta succedendo? – disse ad alta voce, introducendosi in casa e lasciando ricadere lo zaino per terra. Di fronte a lui, un dramma aveva luogo. Del cucciolo di unicorno grande una spanna che aveva lasciato prima di uscire, non restava niente. S’era però tramutato in un puledro di dimensioni tutt’altro che trascurabili, con un paio d’ali larghe almeno un metro, perfettamente formate ed anche perfettamente dispiegate. Proprio nel centro del suo salotto.
Si guardò intorno, adocchiando la decina buona di narghilè nei più svariati materiali frangibili che campeggiavano su gran parte dei mobili della sala e tirò un mezzo sospiro di sollievo: non ne mancava nessuno all’appello – ancora. In compenso c’erano due poltrone rovesciate ed il tappeto arrotolato in un angolo.
Anche Bill stava arrotolato. Sul divano. Con le mani nei capelli.
- Bu! – strillò, saltando in piedi non appena lo vide, - Gli ho dato solo un po’ di latte!
Bushido annuì vagamente, osservando l’ampia macchia bianca che copriva per metà la maglietta di Bill. Doveva essere stato davvero poco, visto che la maggior parte del liquido sembrava finito addosso a lui.
- Ti sei sporcato tutto… - gli fece notare, indicandolo e rimpiangendo di non avergli preso dei vestiti per cambiarsi. Nei suoi sarebbe letteralmente annegato.
- Sì, ma non importa! – protestò il ragazzo, agitandosi, - Non riesco a fermarlo!
Bushido sospirò.
- Hai provato a chiederglielo? – propose, sentendosi un idiota fatto e finito e chiedendo silenziosamente ad Allah perché gli stesse facendo una cosa simile. Bill lo fissò per qualche secondo, inclinando il capo. – Sì, be’… - aggiunse quindi lui, imbarazzato, - quando sei andato via… non dico che io ed il cucciolo abbiamo dialogato, ecco, però insomma, sembra capire. – scrollò le spalle. – Magari, se glielo chiedi…
Il ragazzo annuì lentamente e si spostò verso il puledro che, nel mentre, aveva preso a brucare le frange del tappetino sotto al mobile del televisore, con evidente soddisfazione.
- Palla di Neve…? – lo chiamò, mettendo le mani avanti in caso fosse improvvisamente impazzito. Il puledro non diede segno di volerlo fare ma neanche di volergli dar retta, e continuò a ruminare placidamente il persiano. – Palla di Neve, potresti smetterla?
L’unicorno alzò il musetto e sbatté gli occhioni. E, mentre Bushido cercava di non ridere per il nome che Bill gli aveva affibbiato, cercò col naso il musetto di Bill e lo strofinò un po’, in un tacito assenso, prima di salire con gli zoccoli sul divano ed accucciarsi per una sana dormita.
Bill batté le mani, entusiasta.
- Visto? – rise Bushido, recuperando lo zaino da terra e consegnandolo a Bill, - È un animale ragionevole. – Bill annuì. – Ed ora… - continuò l’uomo, sospirando teatralmente, - vieni di là. Dovrò darti qualcosa da mettere, visto che non sono riuscito a prenderti dei vestiti.
- E come mai? – chiese Bill, giustamente curioso, seguendolo verso la camera da letto.
- C’era tuo fratello in casa. Mi ha trovato con le mani nel cassetto delle mutande. Puoi immaginare il dialogo che ne è seguito.
Bushido si aspettò una risata, ma Bill non rise affatto. E lui cercò di non farci caso.
*
La notte avrebbe potuto essere più piacevole, se le operazioni di nanna fossero andate nel verso giusto. Avere a che fare con Bill, però, significava senza dubbio avere a che fare con un bambino molto piccolo e molto capriccioso, e con individui simili – Bushido aveva imparato a capire – c’era poco da stare a contestare. Perciò, quando Bill s’era intrufolato nel suo letto alle nove di sera ed aveva stabilito del tutto arbitrariamente che ci sarebbe pure rimasto causa bagno personale raggiungibile tramite porticina accanto all’armadio, Anis s’era ritrovato con poco altro da fare che non chinare la testa ed andare a rifugiarsi nella camera degli ospiti, pregando intensamente che la donna delle pulizie le avesse dato una rinfrescata generale, l’ultima volta che era venuta.
Bill aveva anche provato a chiedergli se gli andasse di dormire con lui – facendolo peraltro con un candore disarmante, al punto che Bushido s’era un po’ chiesto se non fosse il caso di tenerlo con lui, tipo, per sempre, e proteggerlo dai mali del mondo – ma Anis aveva appena avuto il tempo di rimirare il proprio meraviglioso letto a tre piazze con amore profondo e valutare la proposta – pro e contro… più contro che pro, Bill a letto era un pericolo sotto svariati punti di vista – che l’unicorno aveva deciso di far valere la propria autorità di animale fatato e s’era appollaiato sul letto accanto a lui, testolina sul cuscino ed ali morbidamente ripiegate attorno al corpo.
Non c’era stato modo di rimuoverlo dal suo posto – anche quando Bill gliel’aveva chiesto – perciò Bushido aveva ipotizzato l’animale non lo volesse proprio fra i piedi: e piuttosto che fare arrabbiare il cucciolo di unicorno di Babbo Natale, aveva preferito ritirarsi in camera degli ospiti. Col risultato di ritrovarsi recluso in un letto singolo – non toccava materassi tanto piccoli da quando aveva sedici anni – sul quale non poteva neanche espandersi come sarebbe stato buono, naturale e giusto. E non chiudere occhio per tutta la notte, ovviamente.
Alle otto del mattino, frustrato e stanco morto e con un pensiero fisso che suonava più o meno “dovrò cambiare le lenzuola nel mio letto? Chissà se gli unicorni sporcano come i cavalli normali…”, Bushido si alzò in piedi, spalancò le tende e salutò il nuovo giorno con un’imprecazione furiosa nel ritrovarsi davanti al cancello di casa la solita mandria di giornalisti attaccati con la colla al culo di Bill, e che per questo motivo alle vicissitudini di quel benedetto culo erano anche incredibilmente interessati.
Sospirò.
Spalancò la finestra.
Si affacciò.
- Dorme ancora e no, non me lo sono scopato!
Una risatina timida lo raggiunse alle spalle e Bushido si voltò per ritrovarsi davanti Bill in groppa al puledro. Che era cresciuto ancora.
- Bill…? – lo chiamò incerto, e lui rise ancora, rimettendo i piedi per terra, - Stamattina mi sono svegliato presto e gli ho dato un biscotto mentre facevo colazione. – lo indico, - Questo è il risultato.
L’uomo si passo una mano sugli occhi.
- Scusa, Bill, ma visto che sappiamo che appena mette qualcosa in bocca cresce a dismisura, non potremmo smettere?
- Non vorrai mica che lo lasci morire di fame? – rispose seccamente Bill, guardandolo con disapprovazione neanche stesse davvero progettando di far morire di stenti il povero unicorno. Poi indicò la finestra, - C’è gente?
Bushido scrollò le spalle.
- La solita. – rispose con falsa noncuranza.
Bill annuì e si affacciò a propria volta, salutando la folla con ampi gesti del braccio e trascinando per un polso Bushido perché lo raggiungesse.
- No, di nuovo no, Bill… - provò a mugolare stancamente lui, ancora provato dalla mancanza di sonno ed ancora privo di un caffè per renderla meno fastidiosa.
- Ma non capisci, Bu? – disse il ragazzo, continuando a tirarlo finché ebbe raggiunto il proprio scopo, - Se ci comportiamo in maniera losca otteniamo l’effetto contrario a quello desiderato… sorridi, foto.
Bushido sorrise ed agitò un braccio in segno di saluto verso il fotografo di Yam!.
- E se ci comportiamo da novelli fidanzati, invece, che effetto otteniamo? – chiese tra i denti mentre si lasciava immortalare da almeno un’altra decina di paparazzi.
- Ah, non ne ho idea. – scrollò le spalle Bill, sorridendo amabilmente, - Vedremo con l’uscita della settimana prossima.
Era appena cominciato il ventuno dicembre, al ventiquattro notte mancavano quattro giorni pieni e Bushido non sapeva nemmeno se sarebbe sopravvissuto per vedere l’alba del giorno dopo. Sospirando pesantemente, richiuse la finestra e richiuse le tende, muovendosi con aria afflitta verso l’uscita della stanza. L’unicorno, ancora appollaiato sulla soglia, gli diede una musata sulla testa, come a dirgli “non ce l’ho con te, è la situazione complicata”. Bushido lo fissò malissimo e scese le scale in direzione della cucina. Si fermò con un principio d’infarto quando, adocchiando il salone – del quale si aveva una visione quasi completa, dal pianerottolo del piano di sopra – lo vide già infestato dalla crew al gran completo.
Allargò istintivamente le braccia, spingendo Bill e l’unicorno indietro perché nessuno potesse vederli.
- Ragazzi! – sbraitò con aria falsamente cordiale, - Che sorpresa! Qual buon vento?
Kay One sollevò una mano e la agitò gioiosamente.
- Ciao Bu! Speriamo non ti dispiaccia, c’era la finale di pattinaggio artistico maschile e-
- Pattinaggio artistico maschile…? – chiese allucinato, e i ragazzi scoppiarono a ridere.
Chakuza sollevò un DVD.
- Volevano vedere questo. – spiegò pacatamente. Fra le sue mani campeggiava il porno che gli avevano regalato l’anno scorso per il compleanno, per puro spirito di scherzo. E che invece sembrava aver riscosso un successo di gran lunga maggiore rispetto alle aspettative – un po’ come la riedizione di King Of Kingz senza Fler.
- ...non so nemmeno cosa dirvi prima. – biascicò Bushido in preda ai principi di una crisi di nervi, - L’avrete già visto ottomila volte. I film porno non si guardano in gruppo. Sono le otto del mattino. Questa è casa mia. – agitò una mano con aria disinteressata, - Scegliete il rimprovero che vi piace di più e poi fate quello che vi pare. Io mi preparo un caffè.
Chakuza annuì mentre premeva play sul telecomando e la familiare eco dei gemiti di una donna si diffondeva per la casa, assieme alle urla da stadio di tutta la crew. Viveva a stretto contatto con un branco di animali. Questa cosa era assolutamente disdicevole, per uno della sua risma.
- Ohi, ragazzi, - annunciò Saad sollevandosi in piedi dopo essersi faticosamente districato dal groviglio di arti umani che infestava il divano, - io vado in bagno.
E Bushido si fermò a due passi dalla moka.
I bagni erano al piano superiore.
Al piano superiore c’era Bill.
E il dannato unicorno di Babbo Natale.
- No! – si voltò di scatto, afferrando Saad per le spalle un attimo prima che cominciasse a salire le scale e sperando che Bill, nel mentre, avesse avuto almeno il buonsenso di nascondersi.
Bill. Buonsenso. Doveva immediatamente buttare tutti fuori da quella casa.
- Atze, che ti piglia? – chiese giustamente Saad, fissandolo con gli occhioni verdi spalancati, - Devo farmi una pisciata!
- I bagni sono fuori uso. – disse lui, secchissimo, senza mollare la presa.
- Qualcosa in casa tua non funziona? – si intromise Chakuza, inarcando supponente le sopracciglia, - Credibile come un duetto con Sido, Atze. – poi sorrise crudele, - Hai qualcuno di sopra, mh?
Il problema con Bill era fossero tutti abituati alla sua presenza, sì. Ma di giorno. Bill non si fermava mai a dormire da lui – per ovvi e ragionevoli motivi – e Bushido non poteva presentarlo in quel momento e in quel modo, non con un unicorno alle spalle, soprattutto, e comunque non ci sarebbe stato niente da presentare, che diavolo andava pensando?!, il suo raziocinio stava prendendo degli svarioni non indifferenti, quella mattina.
- Di sopra non c’è nessuno e fate conto che non ci sono neanche i cessi. – rispose lui a muso duro, - Ora alzate il culo e, se proprio volete darvi ad una sessione di porno comunitario, fatelo sul selciato di fronte casa, almeno quegli stronzi dei giornalisti avranno qualcosa di serio di cui parlare.
- Atze, io non intendo tornarmene a casa mia per una-
- Io non intendo tenervi qui un secondo di più, perciò-
- Bu? Ho un problema con l’unicorno, non vuole… oh.
E l’aria, nella grande casa gialla, si fece immobile.
Bill stava affacciato dal pianerottolo, i capelli ancora scomposti dal sonno e gli occhi grandi e curiosi. L’unicorno s’era affacciato accanto a lui, entrambi guardavano Bushido con aria cucciolosa e sembravano incerti su quale fosse la loro posizione nel mondo. Saad, le spalle ancora strette fra le mani di Bushido, si irrigidì all’istante, seguito a ruota dal resto della crew.
L’unicorno non morì né scomparve nei lunghi minuti di silenzio che seguirono il suo arrivo. Il che avrebbe dovuto preoccupare Bushido più di tutto il resto, probabilmente. Poteva anche andare bene che l’unicorno non fosse scomparso di fronte a lui – non andava bene per niente, in realtà, ma poteva con enorme sforzo accettarlo, ecco – ma l’idea di avere un’intera crew composta da ragazzini che ancora credevano negli unicorni lo sgomentava abbondantemente. E quella avrebbe dovuta essere la sua banda, il non plus ultra del virilissimo german-rap, insomma, i bad boys di Berlino. Probabilmente Fler aveva ragione, i veri deutscha bad boys stavano all’Aggro.
Saad sollevò una mano puntando il dito verso l’unicorno. Bocca e occhi spalancati, lo fissò a lungo, fino a quando l’unicorno non nitrì il proprio disappunto e Bill non fu costretto a specificare “credo gli dispiaccia essere indicato. È molto maleducato, Saad”. Al che, il braccio del libanese cadde come morto lungo il suo fianco e l’uomo annuì pesantemente, senza staccare gli occhi dall’animale.
Le sue prime parole, qualche istante dopo, furono “credo che andrò a pisciare a casa mia”. Guadagnando un cenno di approvazione da parte di tutta l’intera crew, che si mise in piedi abbandonando il divano – e il porno ancora acceso – con sincronia perfetta, neanche si fosse trattato di un unico corpo.
Bushido si passò stancamente una mano sugli occhi.
- Mi pare scontato che non voglio che questa cosa esca da questa casa. – disse con aria burbera, prima che i ragazzi uscissero dall’appartamento. Chakuza si fermò sulla soglia della porta e lo fissò, allucinato.
- Ti pare che siamo così idioti da andare pure a parlarne in giro, Atze?
La domanda, in effetti, si rispondeva da sola. Perciò Bushido non aggiunse altro.
*
Adattarsi a convivere con l’unicorno non fu particolarmente difficile: Bushido capì già all’alba del ventidue dicembre – quando se lo ritrovò steso addosso, naturalmente dalla parte meno piacevole, non appena aprì gli occhi – che quel cavallo aveva con lui un enorme problema indecifrabile di cui non riusciva a parlargli – strano, perché sapeva essere molto eloquente, quando voleva. E poi Bill traduceva per lui. Come Bill potesse comprenderlo era una domanda che non voleva porsi, ma rimaneva il fatto che, quando qualcuno della crew passava per la casa, ad esempio, Palla di Neve ci tenesse a dire la propria sulla presenza di estranei in casa, e Bill traduceva meticolosamente ogni educato invito a togliersi dalle palle. Per qualche motivo, però, quando l’unicorno indirizzava un nitrito di disappunto a Bushido, non c’era verso di costringere Bill a spiegargli perché ce l’avesse con lui. Il che poteva essere frustrante, visto che l’animale si stava facendo enorme e Bushido cominciava a temere per la propria vita – soprattutto quando si vedeva sbattuto contro una parete a causa di un colpo di coda.
In ogni caso, stabilito che lui e Palla di Neve erano l’uno l’antitesi dell’altro e che, per questo motivo, sarebbe stato molto meglio tenerli lontani, la convivenza era stata perfino piacevole. L’unicorno era educato, si scostava per farlo passare, non intralciava la via verso il bagno ed a parte soffocarlo di dispetti come lo scherzetto del sedere sulla faccia non faceva niente di particolarmente molesto.
Il problema era Bill, che Allah l’aiutasse.
Bill era pieno di fissazioni assurde. Erano così tante che non erano nemmeno calcolabili. Bushido le approssimò ad un numero tendente all’infinito e, quando lo fece, gli venne da pensare di essere stato perfino troppo generoso nel sottrarne qualcuna di poco conto. Bill non mangiava mele. A Bill piaceva la cioccolata ma solo a determinate condizioni. Bill non mangiava quasi niente non contenesse più conservanti che ingredienti naturali. Bill aveva bisogno di piastrare giornalmente i capelli perché odiava i boccoli. Bill odiava gli insetti e non usciva mai in giardino per paura delle punture. Bill era di una pigrizia sconcertante ed era capacissimo di richiamare te – che stavi in camera da letto dall’altro lato della casa a farti un’abbondante quantità di cavoli tuoi – per farsi portare dalla cucina – vicino al salotto – un bicchiere d’acqua – in salotto dove stava lui, appunto.
Bushido sospirò, posando il dannato bicchiere d’acqua sul tavolino basso accanto al divano dove Bill stava svaccato, sfogliando una rivista mentre con la mano libera accarezzava Palla di Neve, morbidamente accucciato sull’altro cuscino, ai suoi piedi. Inarcò le sopracciglia.
- Palla, potresti anche lasciami un po’ di spazio per sedermi… - si lamentò, piantando le mani sui fianchi ed osservando l’unicorno, ormai grande quanto un normalissimo cavallo e con un’apertura alare da albatros, mentre sonnecchiava sul divano.
L’unicorno sollevò appena una palpebra e sbuffò un nitrito disinteressato.
- Dice che c’è l’altro divano. – tradusse distrattamente Bill, senza sollevare gli occhi dalla rivista.
Bushido aggrottò le sopracciglia e fece una smorfia, deluso.
- Insomma, ho smesso di essere padrone di casa mia nel momento in cui siete entrati da quella porta. – si lamentò, accucciandosi sull’altro divano e cercando a tentoni il telecomando fra i cuscini, - E a Natale mancano ancora tre giorni!
Bill gli sollevò addosso un paio di occhi incredibilmente brillanti, allungandosi a recuperare il suo bicchiere d’acqua dal tavolino.
- Mi dispiace di darti tanto disturbo…
Bushido grugnì con disappunto.
- Non ti dispiace affatto. – borbottò, - Ti piace da morire farti servire e riverire, eh?
Bill lasciò andare una risatina divertita, coprendosi le labbra con una mano.
- Assolutamente sì. – ammise annuendo. E poi esitò solo un secondo, abbassando appena lo sguardo, - …fosse per me, rimarrei qui per sempre.
Bushido inarcò le sopracciglia. Fece per rispondere qualcosa – una cosa qualunque, la prima battuta che gli fosse capitata sulla punta della lingua – ma dovette interrompersi causa campanello martellante direttamente nelle orecchie. Sospirò e si mise in piedi.
- Vedi di far sparire quell’animale, mentre vedo chi è.
Bill annuì e saltò in piedi.
- Palla di Neve? Fuss! – ordinò con ingenua gioia.
Bushido sospirò: era assurdo che Bill si fosse convinto di essere stato in grado di addestrare l’unicorno in due giorni. Quell’animale palesemente lo idolatrava e lo seguiva ovunque, non c’era bisogno di trattarlo come un pastore tedesco, per portarlo in giro per casa.
Il campanello strillò ancora, offeso dal suo disinteresse.
- Ho capito, ho capito… - biascicò Bushido, sporgendosi per spiare l’identità dell’ospite al di là dello spioncino. Quando capì di chi si trattava, gli venne voglia di prendere a cazzotti Babbo Natale, e si ripromise che, qualora l’avesse visto, sarebbe stata la prima cosa che avrebbe fatto. – Merda… mormorò scontento, - Bill, c’è tuo fratello! – urlò poi, in direzione delle scale che portavano al piano di sopra.
Bill si affacciò e lo fissò, attonito.
- E che ci fa qui? – chiese incerto.
Bushido scrollò le spalle.
- È il tuo gemello, siete voi quelli della telepatia gemellare-
- Non usare quel termine, a Tomi non piace, lui non crede nella telepatia.
- No, ma dice di sapere sempre cosa ti passa nella testa, per quanto io creda impossibile anche solo intuire cosa ci sia là dentro. – precisò lui, indicandolo con un dito, - Comunque sia, io non intendo averci a che fare.
Bill continuò a guardarlo con la stessa aria stupita.
- Io devo stare con Palla di Neve, Bu. – gli fece notare.
- Palla può stare da solo, per un po’! – cercò di convincerlo lui, per quanto sapesse perfettamente che no, Palla non poteva stare da solo. Palla sclerava appena Bill si chiudeva in bagno, figurarsi. – Tuo fratello mi stressa, Bill!
Bill scrollò le spalle.
- Vuoi che Palla di Neve fugga dalla finestra? – gli chiese, - È già successo, lo sai!
Bushido ringhiò.
- Tu e le tue dannate due ore di ricostruzione ogni volta che ti strucchi. – borbottò disperato, - Sparisci. – disse poi con un gesto vago, - Cerco di rimandarlo a casa.
Bill rise e scomparve oltre le scale, mentre Bushido sospirava profondamente e si preparava ad affrontare il dramma.
Tom apparve sulla soglia fissandolo con l’aria navigata dell’uomo che della vita ha capito tutto, e Bushido si chiese distrattamente come avrebbe reagito se fosse salito su, avesse recuperato Palla di Neve e gliel’avesse graziosamente posato di fronte.
Sospirò.
Probabilmente Tom avrebbe riso e gli avrebbe detto qualcosa tipo “non è più assurdo di te che cerchi di farmi credere che in realtà tu e Bill non state insieme”.
- Ciao, Tom. – lo salutò atono, - Qual buon vento?
Lui avanzò all’interno dell’appartamento senza chiedere il permesso, guardandosi intorno con aria sospettosa. Bushido temette si mettesse ad annusare l’aria, in cerca chissà di che cosa, poi.
- Allora… - chiese invece il ragazzo, voltandosi a guardarlo con malizia, - mio fratello?
Bushido sospirò.
- È uscito.
- Aha… - disse Tom, palesemente senza credergli, - quindi se vado di sopra e lo cerco in camera da letto non lo trovo, eh?
L’uomo deglutì.
Bill aveva preso possesso della camera da letto al punto che Tom non avrebbe faticato a pensare tutto e il contrario di tutto anche solo a metterci piede dentro: vestiti ovunque, trucchi sparsi in giro sulla toletta, un quintale di scarpe affiancate in un’ordinatissima fila contro la parete…
- Non ti farò entrare in camera mia, Tom, non siamo ancora abbastanza intimi. – scherzò, cercando di porre freno al dramma in atto. Tom non ne fu granché impressionato.
- Guarda che i flirt con me non funzionano. – ghignò invece, piantando una mano sul fianco e sporgendo appena un’anca, come il fratello faceva anche troppo spesso. – Allora, che mi racconti?
“Che tuo fratello mi fa ammattire, il suo unicorno mi odia ed ho un Bravo in cui io e Bill salutiamo i giornalisti dalla finestra della camera degli ospiti, come la fottuta famiglia reale inglese, in uscita entro la fine di questo mese. Ho una vita molto piena, sì.”
- Niente, Tom. – biascicò, andandosi ad abbattere contro il divano poco distante, - Tuo fratello mangia sempre chili di dolciumi, non muove mai un dito in casa ed è generalmente il solito ragazzino lamentoso coccola-dipendente. Ti basta così?
Tom aggrottò le sopracciglia ed incrociò le braccia sul petto.
- Sei un mostro. – lo accusò infine, fissandolo con estremo disappunto, - Non dovresti parlarne così!
Bushido mugolò sconfitto e si passò una mano sugli occhi.
- Lo sai che voglio bene a tuo fratello, Tom-
- È il tuo ragazzo! – sbottò lui, - Dovresti volergliene di più!
- Ma non è il mio ragazzo!
Tom si spiaccicò una manata esasperata sulla fronte e sospirò teatralmente, andando a sedersi accanto a lui sul divano.
- Ascoltami bene. – gli disse poi, fissandolo intensamente negli occhi e piantandogli un dito proprio nel mezzo della fronte, - Io ho capito che piaci a mio fratello nel momento stesso in cui sono tornato in albergo con lui dopo i Comet, millemila secoli fa, e lui mi ha detto con occhio sbrilluccicoso “Bushido è una persona fantastica!”. – disse, cercando con poco successo di imitare la voce di Bill, vagamente più acuta della sua. – Io. – precisò, indicandosi, - Io sono un tonto. – annuì, - Io le cose non le capisco a meno che non siano palesi.
- Oppure – protestò Bushido, sbuffando annoiato e scuotendo il capo per cercare di liberarsi dall’indice puntato contro la fronte, - capisci fischi per fiaschi. Visto che io e tuo fratello non stiamo insieme e lui non mi ha mai detto-
- Non te l’ha mai detto perché guardati!, - riprese Tom, roteando gli occhi, - ti basta che io faccia tanto di insinuarlo e scleri! Chiaro, me l’hai terrorizzato, povero piccino, non ti dirà mai niente!
Bushido spalancò gli occhi, fissandolo sgomento.
- Tom. – sospirò alla fine, passandosi una mano sulla fronte, - cos’è che stai cercando di dirmi?
Tom sospirò a propria volta, con l’aria di uno che decisamente deve dare fondo a tutte le proprie riserve di pazienza, per star dietro ai tonti coi quali si ritrova ad avere a che fare.
- Sto cercando di dirti che tu non ascolti abbastanza. – rispose quindi, liberandogli la fronte dal peso di quell’indice puntato ed incrociando le braccia sul petto, - Non ascolti abbastanza Bill, o te ne saresti accorto da te. Già da un sacco di tempo, peraltro. – sospirò ancora, - E non ascolti me. Che, non a caso, non ho mai usato le parole “state insieme”.
Bushido ringhiò.
- Tom, non ho più neanche idea di quante volte mi hai ripetuto che tuo fratello è il mio ragazzo!
- Appunto. – sorrise trionfante Tom, inclinando furbo il capo, - E su questo, Atze, non puoi proprio darmi torto: magari non state insieme, ma lui di sicuro è tuo da anni. E quanto al suo essere un ragazzo, se vuoi posso confermartelo per iscritto. Ma credo che sarebbe meglio se controllassi tu di persona.
E così se ne andò: trascinandosi dietro tutto il proprio carico di inopportuna quanto fastidiosa sincerità. Bushido rimase lì, sulla porta, a fissare il vuoto. Per un sacco di tempo, poi. Fin quasi a sentirsi ridicolo da solo, perfino: il che, per uno che in genere non si sentiva ridicolo neanche quando rincorreva i propri compagni di crew con un carrello, era davvero inquietante.
Tornò presente a se stesso ed al mondo che lo circondava soltanto quando Bill tossicchiò appena da qualche parte alla sua sinistra. Mentre lui rimaneva in ascetica contemplazione del nulla, il ragazzo aveva avuto tutto il tempo di uscire dalla stanza in cui si augurava si fosse nascosto, scendere le scale e piantarglisi là di fianco con l’espressione tipica di uno pronto a chiedere scusa anche solo per essere venuto al mondo.
Bushido lo guardò. Piccolo e spaurito, Bill non riusciva nemmeno a guardarlo. Era talmente rosso in viso che c’era da chiedersi se per caso non avesse la febbre – e, in caso di risposta affermativa, preoccuparsi: Jost non aveva fatto che chiamarlo una volta ogni tre ore per assicurarsi che stesse bene e minacciarlo di violente e tremende ripercussioni legali in caso succedesse qualcosa al suo bambino. Bushido comprendeva quell’uomo e provava anche della sincera pietà, nei suoi confronti, ma sapeva che poteva essere un discreto rompimento di palle, se solo ci si metteva, perciò no, non aveva nessuna intenzione di rovinargli il cucciolo. Soprattutto perché, oltre Jost, se fosse successo qualcosa al leader dei Tokio Hotel, gli avrebbero voluto male davvero in tanti.
L’uomo si schiarì la voce, sporgendosi verso di lui ed allungando un braccio quasi a volerlo consolare per chissà cosa, ma Bill lo stupì nel modo più impensabile e normale di tutti: aprendo bocca e parlando. Il punto di Bill era proprio quello: parlava continuamente, ma tirargli fuori di bocca le cose veramente importanti era difficile quanto raggiungere la luna saltando.
- Mi dispiace che tu l’abbia dovuto sapere così. – disse invece Bill, dando probabilmente fondo a tutte le proprie riserve di sincerità, - Tomi tende ad avere la bocca troppo larga. – sospirò, - Spero solo tu non ti sia arrabbiato.
Bushido deglutì faticosamente.
- Bill… - cominciò, ma si fermò subito, incerto su come continuare. Era sempre stato una persona piuttosto fisica, e questo valeva anche per i tentativi di consolazione. Ma come diavolo faceva a consolare quel ragazzino? Se toccarlo sembrava fuori discussione proprio a causa del motivo della sua tristezza…
Palla di Neve, neanche stesse intuendo i suoi pensieri più nascosti, si parò fra lui e Bill, scrutandolo con occhi disapprovanti. Bushido resse il suo sguardo ed aggrottò le sopracciglia, resistendo appena al desiderio di ricoprire quel dannato cavallo d’improperi e tirargli pure una botta sul muso. Cercò di calmarsi ripetendosi che si trattava del dannato unicorno di Babbo Natale, non avrebbe dovuto volere far del male al dannato unicorno di Babbo Natale, ma per qualche strano motivo pensieri simili gli facevano venire voglia solo di ricoprire d’improperi e dare una botta sul muso anche al dannato vecchio, perciò lasciò perdere.
Fece per eludere il cavallo e raggiungere Bill alle sue spalle. Anche solo per accarezzargli un po’ la testa. Giusto per non fargli capire che non era arrabbiato, non era disgustato e non era niente di negativo in generale, ma Palla di Neve nitrì di scazzato disappunto e non gli permise nemmeno di fare un passo.
- Palla… - lo chiamò rabbioso, ma si fermò appena il pigolio incerto della voce di Bill lo raggiunse da dietro il corpo possente dell’animale.
- Palla di Neve… - lo chiamò il ragazzino, e subito quello si voltò a guardarlo, - Sitz.
Ed obbedì all’istante.
Tutto ciò che Bushido riuscì a pensare, osservando Bill risalire mestamente le scale, diretto probabilmente in camera da letto, fu “dannazione. Mi sa che l’unicorno l’ha addestrato davvero”. E, mordendosi un labbro mentre decideva di passare la notte al piano di sotto – visto che la sola idea di dormire ad un paio di metri da Bill lo turbava in maniera non descrivibile – gli venne quasi da pensare che l’addestramento dell’unicorno di Babbo Natale non fosse l’unico danno combinato da Bill prima da quando era arrivato in quella casa. Probabilmente non era nemmeno il più grave.
*
Il ventitre dicembre scivolò lentamente sotto le loro dita senza che neanche si guardassero, quasi. La mattina fu pigra e silenziosa – Bill non aveva chiuso occhio e si aggirava per casa come uno zombie, fissando il vuoto con occhi spenti ed evitando il suo sguardo a tutti i costi. A Bushido non era poi andata tanto meglio – il bracciolo del divano non s’era rivelato un cuscino piacevole, e per la verità neanche il suo turbamento s’era rivelato granché simpatico, come compagno di sonno, ragion per cui, praticamente, non aveva dormito affatto.
Fra una telefonata ridacchiante di Tom, una minacciosa di Jost e gli spettri invisibili della crew che spuntavano all’improvviso per rubare un po’ di Wii – per poi naturalmente dileguarsi alla prima comparsa di Bill o di Palla di Neve – Bushido non aveva posato quasi per nulla gli occhi sul proprio ospite; a parte un breve momento d’imbarazzo verso mezzogiorno – cioè quando Bill aveva deciso di scendere al piano di sotto per la colazione – occasione in cui Bill s’era ritrovato senza zucchero e Bushido s’era ritrovato abbastanza soprappensiero da biascicare un distratto “è qui sopra”, prima di sollevarsi a recuperare il barattolo sul ripiano della credenza senza curarsi del corpicino del ragazzo che finiva schiacciato fra il suo e la superficie rigida e legnosa del mobile.
Il respiro di Bill gli aveva sfiorato la pelle del collo ed il suo calore era giunto chiarissimo attraverso i vestiti, colpendolo nel centro del petto ed annullando qualsiasi traccia di pensiero razionale dentro di lui, per moltissimi secondi. Non riusciva a capire se quello fosse solo imbarazzo, se si sentisse a disagio perché Bill l’aveva conosciuto che era uno scricciolo ed il pensiero di doverlo guardare da adulto per la prima volta lo mandava in confusione… o le radici di quel turbamento fossero differenti.
Se per caso non avesse ragione Tom, ad esempio. Se i suoi continui tentativi di mantenere quella relazione fra il vago e l’incerto non fossero in realtà i trucchi furbi di un trentenne che sa esattamente come rigirarsi i ragazzini fra le mani. Di un trentenne magari perfino spaventato dalla possibilità che il ragazzino che ha coccolato fino a poco tempo prima possa ritrovarsi cresciuto e senza più alcun bisogno di lui.
Bill era parte della sua vita da un sacco di tempo, ormai.
Era difficile identificare adesso dove finisse lo scherzo e cominciasse il desiderio.
Il ventiquattro dicembre, la consapevolezza che quel gioco del silenzio non sarebbe potuto durare in eterno lo raggiunse come un pugno in pieno viso nel momento in cui, verso le quattro del pomeriggio, Bill si presentò al suo cospetto in salotto, accompagnato come al solito da Palla di Neve. Con la piccola aggiunta dello zainetto che Bushido aveva portato per lui da casa sua.
- …che? – chiese l’uomo, indicando lo zaino con un cenno del capo.
Bill ne torturò le bretelle fra le dita, mordicchiandosi il labbro inferiore.
- È praticamente Natale… - disse dopo un po’, sguardo basso ed aria afflitta, - e penso che tu abbia di meglio da fare che non badare ad uno come me. – sospirò, - Anche perché non riesco a parlarti. Né a guardarti. Né a fare nient’altro.
- …Bill, ascoltami-
- No. – scosse il capo lui, riuscendo solo per un secondo a sostenere i suoi occhi, prima di tornare a puntare i propri sui ghirigori del tappeto, - Questa cosa… mi è caduta addosso come un macigno. – spiegò a fatica, - Io non avevo alcun problema con… con il fatto che mi piacessi. Ma ora che lo sai è tutto diverso. E siccome è evidente che non… - tornò a guardarlo fugacemente e poi si disperse ancora sul pavimento, - insomma, penso che andrò a casa e parlerò con Tomi. Se riesco a parlare con lui prima che veda Palla di Neve, allora magari-
- Ma Bill… - cercò di riportarlo in sé lui, massaggiandosi la fronte e mettendosi in piedi, - cerca di ragionare. Palla è diventato enorme. Non puoi uscire da qui con quell’animale appresso!
Bill si morse ancora il labbro, a disagio.
- …ti sta rovinando tutto il parquet, al piano di sopra. – lo informò, - Sono gli zoccoli, credo. Ti sto distruggendo casa e ti sto distruggendo la vita e-
- E magari invece non mi stai proprio distruggendo niente. – lo interruppe l’uomo, andandogli incontro e posandogli le braccia sulle spalle. Non lo toccava da un sacco di tempo e, quando i loro corpi vennero in contatto, si ritrovò letteralmente ricoperto di brividi. – Adesso ti calmi. – lanciò un’occhiata a Palla di Neve che, nel mentre, allarmato da tanta vicinanza, stava per mettersi di mezzo, - E tu ti levi di torno. Raus. – borbottò infastidito nei suoi confronti. Palla di Neve rispose con uno sbuffo risentito, accucciandosi lì di fianco senza spostarsi di un millimetro. – Bill, - sospirò Bushido, roteando gli occhi prima di tornare a guardarlo, - qui nessuno ha problemi con nessun altro, d’accordo? Non c’è niente che non vada. Non sono offeso e comunque ti ho chiesto io di restare fino a Natale. E non sarà Natale prima di stanotte a mezzanotte. – Bill lo guardò con aria smarrita, perdendosi un po’ nei suoi occhi, e Bushido si ritrovò a sospirare ancora, esplicitando ulteriormente, - Quindi adesso ci mettiamo in cucina e prepariamo qualcosa di buono, ok? Un bel cenone. E ci godremo la serata. E del resto parleremo poi.
Bill aveva sorriso ed aveva fatto quello sguardo lì, quello allegro e brillante che in genere precedeva i momenti in cui mandava a quel paese il buonsenso e ti saltava al collo riempiendoti di baci a caso – senza badarci se per caso uno dei baci finiva sulle labbra. Senza badarci o badandoci eccome, c’era quasi da chiederselo.
Non fu tanto piacevole osservarlo spegnere di prepotenza quella luce e trattenersi dall’abbracciarlo. Comunque, le due ore successive passarono piacevolmente, mentre entrambi stavano immersi in cucina fra chili di pentole e pentolini alla ricerca di qualcosa di commestibile fra credenza e frigorifero.
Palla di Neve seguì con cipiglio critico tutte le operazioni di cottura, senza mai intralciarle ma nemmeno favorirle; quando, alla fine, Bill si mise in testa di fare i biscotti di pan di zenzero – “perché stanno tanto bene attaccati all’albero, Bu, non hai idea quanto!” – pretese anche che lui uscisse dalla cucina, e di buttarlo fuori s’incaricò proprio l’unicorno, spingendolo a musate fuori dalla stanza senza la minima delicatezza.
Bushido si augurò che Babbo Natale lo buttasse fuori di casa al secondo giorno, visto il brutto carattere, ma non protestò e si svaccò sul divano mentre attendeva che Bill riemergesse da quell’incredibile frenesia da casalinga festosa.
Cosa che successe puntualmente un paio d’ore dopo: Bushido lo vide venir fuori dalla cucina completamente ricoperto di farina e zucchero, ma con un sorriso talmente smagliante sul volto da non riuscire neanche a prenderlo in giro.
- Non voglio nemmeno immaginare il delirio che ci sarà in cucina… - sbuffò divertito, senza nemmeno alzarsi in piedi. Bill gli regalò una linguaccia ed una mezza risata.
- La cucina è ok… sono io da ristrutturare!
Bushido lanciò un’occhiata all’orologio a muro e rise a propria volta.
- Be’, sono quasi le sette e mezza. Se vai a farti in bagno adesso, c’è una qualche possibilità tu sia già ristrutturato per l’ora di cena?
Bill aveva tirato di nuovo fuori la lingua, mostrando il piercing e lanciando un’occhiatina all’albero di Natale illuminato che i ragazzi della crew erano venuti a sistemare poco a poco come scusa per essersi defilati ed averlo mollato da solo con Bill Kaulitz ed un unicorno, ma aver continuato a gravitare di nascosto per la casa solo in virtù delle consolle per i videogiochi.
In realtà non c’era proprio da stupirsi che tutti quanti credessero negli unicorni, se poi in effetti si comportavano da bambini di dieci anni. Fler doveva indubitabilmente avere ragione.
- È un po’ triste che sotto non ci siano regali. – commentò appena, spolverandosi un po’ la maglietta.
- Ti sbagli. – rise Bushido, indicando con un cenno del capo Palla di Neve placidamente accoccolato sotto le fronte dell’abete, sul tappeto parzialmente ricoperto di aghi, - C’è lui.
Bill ridacchiò.
- E quello lo chiami regalo? – chiese ironico.
Bushido scrollò le spalle.
- Quello proprio no. La tua compagnia, però, può essere.
Lo osservò arrossire e borbottare qualcosa di confuso, prima di cominciare a correre a rotta di collo verso il piano superiore senza nemmeno guardarsi indietro, e si ritrovò a riflettere su quanto in realtà fosse davvero poco netto il confine fra i suoi sentimenti. In realtà, nella sua vita, erano sempre stati chiari solo gli odi. Per tutto il resto – ed anche per qualcuno di quegli odi stessi – vagava in un limbo d’incertezza in cui un sentimento avrebbe tranquillamente potuto essere qualsiasi altro.
In sostanza, gli piaceva avere Bill intorno.
In sostanza, probabilmente, se non l’aveva mai visto come un probabile compagno, era stato perché si era ostinato a non volercelo vedere. Oltre che perché lui era Bushido e quell’altro Bill Kaulitz, naturalmente. Sono cose, queste, che già da sole frenano i rapporti, in genere.
Bill ridiscese nel tempo record di un’ora e mezza, quando già Palla di Neve aveva ripreso conoscenza dal pisolino pomeridiano e si apprestava a piantare grane – tipo mangiando i babbi di stoffa appesi ai rami dell’albero – perché al suo risveglio non aveva trovato Bill a fargli le coccole.
Bushido sollevò lo sguardo e se lo ritrovò immerso in un accappatoio bianco dalle cui maniche spuntavano appena le mani. Attorno alla sua vita, la cintura faceva almeno due giri ed era ancora molle al punto che, quando si muoveva, i lembi dell’accappatoio si separavano e si poteva scorgere al di sotto qualche spicchio di pelle bianchissima ed ancora umida di doccia. Da sotto il cappuccio e le pesanti ciocche di capelli neri ancora bagnati, Bill lo fissava con estremo imbarazzo, stringendosi nelle spalle.
- …ho dimenticato di chiederti qualcosa per cambiarmi, quando sono andato in bagno. – biascicò incerto, abbassando lo sguardo.
Bushido sospirò pesantemente e si alzò in piedi, raggiungendolo di fronte alle scale con un sorriso bonario ad increspare le labbra.
- Tu sei un danno. – gli fece presente, sollevando le mani per frizionargli i capelli col cappuccio, mentre pesanti gocce trasparenti scendevano la china di quella cascata d’ebano per infrangersi contro il pallore delle sue scapole. – Guardati qui. Siamo a dicembre inoltrato e non ti sei nemmeno asciugato per bene.
Bill sorrise appena, e sotto le ciglia ancora bagnate i suoi occhi brillarono di una luce incredibilmente intensa. Intensa al punto che Bushido ebbe quasi difficoltà a sostenerla.
Gli venne in aiuto la sfiga, perché la luce saltò in quel preciso istante.
- Merda… - imprecò, stringendo la presa su Bill neanche avesse paura di sentirselo svanire sotto le mani col favore del buio. Il ragazzo, per contro, gli si strinse addosso, agitandosi appena. – Deve essere saltata la luce. Con tutte le decorazioni che ci sono accese per ora nelle strade… - ringhiò, - Aspetta, dai. Vado a controllare il quadro elettrico.
Fece per allontanarsi, ma Bill scattò immediatamente a stringerlo per un braccio. Nel buio e nel silenzio, le sue dita ossute serrate attorno al polso erano quasi inquietanti. Ma erano umide e calde, e Bushido non faticò a cedere alla loro richiesta di fermarsi, tornando a cercare di scorgere il suo profilo nel buio profondissimo che annegava la casa.
- Bu… - lo chiamò Bill, la voce tremante, - sai cos’è che dice sempre Palla di Neve quando mi vieni così vicino?
Bushido scosse appena il capo, e si rassegnò a tirar fuori un “no” umanamente comprensibile soltanto quando capì che, con quel buio, Bill non avrebbe mai potuto vederlo.
- Dice sempre che sei pericoloso. – continuò Bill in un sussurro. Era così vicino che Bushido poteva sentire il suo respiro sul viso. Sapeva di zucchero e cose dolci. Era un buon odore. – E dice anche che dovresti starmi lontano.
- Forse – sussurrò a propria volta, molto più incerto di quanto avrebbe voluto, - dovrei dargli retta.
Bill rise piano, un trillo appena percettibile, e gli posò entrambe le mani sul petto.
- Palla di Neve non può vederci, adesso.
E Bushido l’aveva schiacciato contro il muro il secondo successivo. L’aveva baciato subito dopo. L’aveva condotto su per le scale quasi di seguito. E s’era chiuso alle spalle la porta della propria camera da letto non più di due minuti più tardi.
Quando la luce tornò in casa – da sola, senza che nessuno ce la riportasse – il salotto venne illuminato solo dal bagliore delle lucine intermittenti che adornavano l’albero di Natale. Di Palla di Neve non c’era più traccia. A meno di non voler considerare una traccia una finestra spalancata.
*
Bill era scoppiato a piangere nel momento stesso in cui s’era reso conto del danno che avevano combinato. In un primo momento, ancora perso nell’assonnato sfinimento che aveva seguito il loro incontrarsi e scontrarsi pelle contro pelle fra le lenzuola fresche di bucato, era rimasto immobile contro il suo petto e non aveva detto nulla, ma quando finalmente avevano ripreso a parlare e Bushido gli aveva fatto notare quanto le premesse di quella relazione fossero sbagliate e disastrose – l’età! Due mondi diversi! Il tuo manager mi ucciderà, Bill – il ragazzo l’aveva zittito con un bacio veloce pregandolo di non sparare cavolate a raffica quando non poteva insultarlo come giusto e poi, d’improvviso, aveva spalancato gli occhi, mormorato un “Palla” afflitto ed era scoppiato in lacrime. Singhiozzando talmente forte, poi, da dare a Bushido l’impressione potesse spaccarsi. Un’impressione che, per la prima volta, lo terrorizzava – e non solo per le possibili ripercussioni legali.
Quando erano scesi di sotto, era bastata una breve perlustrazione della casa – fra un “Babbo Natale mi ucciderà” e l’altro – per rendersi conto che sì, le previsioni di Bill si erano avverate: non era più vergine; l’unicorno era scappato. Volando via dalla finestra ed immettendosi nel traffico notturno del ventiquattro dicembre a Berlino, peraltro. Fossero almeno stati in campana… ma no, proprio nella capitale tedesca.
Bushido sospirò pesantemente e si strofinò gli occhi con una certa forza, cercando di recuperare lucidità mentale. Quando ci riuscì, l’unica cosa che pensò fu che quello era proprio il momento di mettere in campo la crew: una manciata di uomini forti, asserviti, indipendenti e fondamentalmente stupidi. Una manciata di uomini, soprattutto, che quell’unicorno lo vedeva senza dubbio. Perciò, perfettamente sfruttabili.
- Tu non ci stai con la testa, Atze. – fu il commento di D-Bo quando, di fronte a tutto il resto della crew, gli venne spiegata la situazione.
- Cioè, tu e Bill – precisò Eko, spalancando smisuratamente gli occhi, - avete scopato. E già questo basterebbe a sconvolgermi. Ma oltretutto tu mi vieni a dire che quell’allucinante creatura stava qui solo perché il ragazzino qua era vergine e che ora che non lo è più è fuggita chissà dove…
- …ed a noi tocca cercarla?! – rincarò la dose Chakuza, agitandosi nervosamente attorno al divano, - Noi siamo rapper! È già allucinante ci fosse un unicorno in casa tua, io non intendo prestarmi a-
- Tu ti presterai a qualsiasi cosa io ti chiederò. – fu il secco commento di Bushido, spedendoli tutti fuori casa e tirandosi appresso Bill mentre si immetteva a propria volta per le strade della città, - Altrimenti io ti licenzierò e farò in modo da non farti più mettere piede in qualsiasi etichetta della città.
Mentre Chakuza borbottava inascoltato un “vorrà dire che andrò da Sido e Fler, sia mai loro siano meno cazzoni di te!”, Bushido si affiancò a Bill e gli strinse protettivo una spalla.
- Guarda che lo ritroviamo. – cercò di rassicurarlo, preoccupato dai suoi lineamenti tesi. Bill era sempre sull’orlo del crollo. Pensare di doverlo rimettere in piedi dopo una caduta era spaventoso: se non altro perché lui era così fragile da minacciare di rompersi in una quantità infinita di minuscoli pezzi, in caso fosse caduto davvero.
- Bu, non capisci… - mugolò il ragazzo, asciugandosi le guance, - io avevo fatto una promessa a Babbo Natale… - continuò mentre Saad borbottava un “bah!” sconvolto alle sue spalle, - ed invece Palla di Neve è scappato per colpa mia e… - Bushido lo osservò sollevare lo sguardo e poi spalancare gli occhioni, prima di puntare il dito verso un punto imprecisato di fronte a lui e prendere fiato neanche dovesse apprestarsi a cantare per i successivi dieci minuti di seguito senza avere la possibilità di respirare. E poi esplose: - Palla!!!
L’unicorno stava in effetti immobile a qualche metro di distanza da loro. I passanti sembravano non vederlo e continuavano a vivere la loro gioiosa festività senza curarsi del delirio in cui invece loro stavano immersi.
Bill cercò di andargli incontro, ma Palla di Neve nitrì adirato e s’impennò.
- Palla, non… non fare così, ti prego… - provò il ragazzo, ma l’unicorno non lo ascoltò. Nitrì ancora, sempre più indignato, e poi partì al galoppo quasi stesse inseguendo una preda.
Bushido non attese che un paio di secondi prima di afferrare Bill per il polso e trascinarselo dietro alle calcagna dell’animale impazzito, mentre tutto il resto della crew ammetteva che rimanere comunque lì al freddo e al gelo senza combinare niente era perfino più assurdo che seguire il proprio capo in quell’impresa allucinante: e decideva pertanto di mettersi a correre a propria volta.
Tutto ciò che Bill riuscì a commentare, fra uno sbuffo di fiato e l’altro, mentre Palla di Neve si fermava di fronte ad un palazzo e spiegava le ali per volare fino al decimo piano, fu “io questo posto lo conosco”. E poi più niente, perché quel palazzo era casa sua: e perché Palla di Neve ci fosse tornato era un mistero che si sarebbe dipanato solo quando l’avrebbero seguito.
*
All’interno dell’appartamento, Tom stava disperatamente cercando di non morire dalle risate mentre Gustav passava a Georg il proprio regalo di Natale commentando distrattamente “c’è anche la piastra per il frisé” prima ancora che il bassista riuscisse a scartarlo.
- E che cazzo, Gusti, sarà il quarto anno consecutivo che mi regali una piastra per capelli, a Natale! – borbottò il ragazzo mentre Tom rotolava sul divano andando ad impattare contro un povero manager esausto che tutto avrebbe voluto tranne ritrovarsi la notte della vigilia a babysitterare tre adolescenti palesemente mononeuronici.
- Ma ti dico che questa ha la piastra per il frisé! – insisté Gustav, oltraggiato da tanta ingratitudine, - Quella dell’anno scorso non ce l’aveva!
- Io non la uso, la dannata piastra per il frisé! – sbraitò Georg, agitando in tondo il proprio regalo ancora mezzo impacchettato, - Ti pare che io sia tipo da frisè?!
Gustav scrollò le spalle.
- Uno non può mai sapere, magari ti viene voglia di cambiare.
E su quell’ultima battuta la finestra s’era infranta ed un’enorme cavallo alato aveva fatto irruzione in salotto. Un cavallo alato con un enorme corno bianco e lucidissimo nel mezzo della fronte. Un cavallo alato e cornuto con un paio d’occhi talmente azzurri e acquosi da sembrare finti, peraltro.
Insomma, un unicorno.
Tom guardò Georg. Che guardò Gustav. Che non se la sentì di tirare nuovamente in ballo il frisé per motivare l’assurdità dell’accaduto. Alla fine, tutti e tre guardarono David come si aspettassero da lui una soluzione definitiva.
Il manager fissò l’unicorno, la bocca spalancata e le braccia molli lungo i fianchi.
- Ragazzi… lo vedo solo io?
La scrollata di capo simultanea che seguì la sua domanda non lo rassicurò per niente. Invece di dirsi “ah! Allora non sono pazzo!”, lo portò a commentare “ah! Allora siamo pazzi in quattro!”.
- Palla! – strillò qualcuno aprendo la porta di scatto. E quel qualcuno era Bill. Seguito da Bushido. E dall’Ersguterjunge al completo. Compreso Eko, che magari non era più sotto contratto all’etichetta ma, quando c’era da seguire il capo, sembrava sempre pronto ad obbedire.
David deglutì a fatica.
- Loro li vedo solo io, però, giusto?
Tom, Gustav e Georg scrollarono nuovamente il capo in sincrono.
Ed a quel punto ci sarebbe davvero stato da chiedersi cosa diavolo stesse succedendo, ma l’unicorno li batté tutti sul tempo guardandoli uno per uno con sincero scazzo… prima di posare i propri enormi occhioni acquamarina su Tom e dirigersi con aria innamorata verso di lui.
- Ehi! – sbottò Tom, sulla difensiva, - Stai lontano, eh?!
- No, Palla! – strillò ancora Bill, tendendo una mano verso l’animale, - Morirai!
Bushido lo fermò posandogli una mano sulla spalla.
- Aspetta. – suggerì, fissando curiosamente la scena, - Sembra che sappia quello che fa.
Ed in effetti Palla di Neve lo sapeva davvero. Ne ebbero tutti la conferma nel momento in cui lo videro accucciarsi placidamente ai piedi del chitarrista e lì restare, sprofondando immediatamente in un tranquillo sonno ristoratore. Il volo doveva averlo sfiancato.
- Ho ho ho! – disse a quel punto Babbo Natale, carambolando giù dal camino e rotolando felice fin nel centro del salotto, - Ouch. Dovrei ricominciare ad usare gli abiti imbottiti. Erano incredibilmente d’aiuto, in queste situazioni.
Una bolla di silenzio si espanse per tutta l’estensione della stanza.
Ed esplose solo quando Bill si mise a piagnucolare.
- Babbino! – disse con tono lamentoso, - Mi hai preso in giro!
Babbo Natale sistemò gli occhialini tondi sul naso, prima di rimettersi in piedi e guardare Bill con aria critica.
- Io ti ho preso in giro, Bill? Mi pare che qui quello che non ha onorato la sua promessa sia stato tu…
- Ma tu mi avevi detto che l’unicorno poteva stare solo con i vergini! – continuò a borbottare Bill, del tutto sordo ai rimproveri, come in effetti tutti si aspettavano, - E invece guardalo, sta lì e fa le fusa a mio fratello!
Il nonnino si voltò a guardare Tom, squadrandolo compitamente da capo a piedi.
- Infatti, non c’è nessun errore. L’unicorno ha individuato il vergine più vicino e-
- I-Io non sono vergine! – protestò Tom, agitandosi convulsamente ed arrossendo imbarazzato, - Io non sono vergine proprio per niente! Che diavolo di storia è questa?!
Babbo Natale gli si avvicinò, lanciandogli un’occhiataccia critica.
- A-ah, Tom! – lo rimproverò, agitandogli un dito guantato davanti agli occhi, - Niente bugie! O quest’anno, per te, niente regali!
Il silenzio piombò nuovamente nella stanza, e le attenzioni di tutti furono concentrate su Babbo Natale che, dopo aver controllato che l’unicorno stesse bene, si sedeva compostamente sul divano, intrecciando le dita sul ventre sporgente e guardando il suo attonito pubblico con aria placida e pacifica.
- State tranquilli, ragazzi miei, ho un regalo per tutti voi, tranne che per quelli che l’hanno già ricevuto. – li rassicurò bonario, lanciando un’occhiata di paterna soddisfazione a Bill e Bushido, - Ora, se avrete la pazienza di starmi a sentire, vi racconterò la storia di un cucciolo di unicorno, di un ragazzo innamorato e di un uomo parecchio distratto. E poi vi darò i vostri regali. – si interruppe un attimo, guardandosi intorno con aria curiosa. – Ma prima, non ci sarebbe mica un bel bicchiere di latte e qualche biscotto?
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Triste, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- "Mi chiamo Anis Mohamed Youssef Ferchichi e l’ultima volta che ho parlato avevo un buco nel petto, uno nella gamba ed uno squarcio sul braccio, ero ricoperto di sangue e stavo morendo. L’ultima volta che ho parlato è stata proprio l’ultima volta che il mondo ha sentito la mia voce, perché io su quel letto ci sono morto davvero."
Note: Mi chiamo liz e non pubblico una shot di EKR dalla fine di ottobre o.o Sono turbata quanto voi, ma se avete continuato a seguire la saga sapete perfettamente che non sono rimasta con le mani in mano, bensì mi sono dedicata a salvare Tab dal baratro. Riguardo questa shot in realtà ci sarebbero tante cose da dire. Tanto per cominciare che speriamo che il POV scelto non vi abbia mandate ai pazzi XD Sappiamo che non è la scelta più razionale possibile (dovevate vederci in fase di scrittura:
liz: ricordami perché abbiamo scelto questo POV.
Tab: non… non lo so.). Comunque speriamo vi sia piaciuto e che abbiate sofferto tanto *_* Per noi è stato un parto. Be’, per la liz almeno. Tab scriveva stile treno.
Comunque questo capitolo è schizofrenico. Il Bu si tirava fuori roba lol dal cappello – o, com’è anche più probabile, in quanto puro spirito è circondato da gente lol che fa e dice cavolate. *liz si prostra davanti ad Eko e lo idolatra come una statuina sacra del Buddha*
Fler palesemente è un mito e le sue avventure sono già leggenda. L’infermiera è nata per caso. Ci stiamo ancora chiedendo come sia stato possibile.
Comunque, da qualche parte dentro di noi il Bu è ancora vivo *riot*
PS: Il titolo è rubato ai Coldplay. E comunque di questa shot abbiamo una diapositiva. =P
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THE HARDEST PART

Mi chiamo Anis Mohamed Youssef Ferchichi e l’ultima volta che ho parlato avevo un buco nel petto, uno nella gamba ed uno squarcio sul braccio, ero ricoperto di sangue e stavo morendo. L’ultima volta che ho parlato è stata proprio l’ultima volta che il mondo ha sentito la mia voce, perché io su quel letto ci sono morto davvero. D’accordo, non lì, su quel letto ci ho solo lasciato il cuore e sono morto dopo, in ambulanza, proprio un attimo prima di arrivare in ospedale. Non sono mai stato davvero un uomo fortunato.
Comunque la sostanza non cambia. La sostanza è il mio corpo che si decompone metri e metri sotto terra. Io con la sostanza non c’entro più niente. Un corpo non ce l’ho più. Il mucchio d’ossa che si polverizza nella bara non mi appartiene. Di me è rimasto solo questo. Voce che nessuno sente. Presenza che nessuno percepisce. La capacità di guardare il mondo – una capacità che non ho chiesto e che, sinceramente, al momento preferirei non avere.
Bill si stira contro il materasso, getta indietro il capo ed ansima forte, gli occhi chiusi, l’espressione rilassata, è completamente assente. Il mio bracciale brilla prepotente attorno al suo polso nonostante l’oscurità della camera ed io vorrei evitare di guardare, ma quando non hai occhi, quando sei tutto e non sei niente – cose che capisci solo da morto, davvero – non puoi davvero evitare scene simili. Sono la realtà e tu ne fai semplicemente parte.
*
L’ospedale è buio e silenzioso, nonostante non sia affatto notte. Jost – sempre bravo a risolvere i problemi – ha dato disposizioni perché il caos generato dalla rissa dopo TRL sia tenuto fuori dalla bolla di vuoto assoluto in cui ha infilato Bill per evitare di sconvolgerlo più di quanto già non sia. Allo stesso modo, dottori ed infermieri passano per il corridoio antistante la sala operatoria come fossero fantasmi, scivolando sul pavimento lucido in perfetto silenzio.
Occhi bassi e lacrime cristallizzate sulle ciglia, Bill resta immobile sulla sedia. Tom, seduto accanto a lui, gli stringe una mano e gioca con la fede attorno al suo anulare sinistro. È enorme, per le dita sottilissime di Bill – e d’altronde era mia, perciò la cosa non mi stupisce – fa tutto il giro e Tom ogni tanto la tira verso la nocca come volesse sfilarla. La rimette al suo posto ogni volta che Bill stringe appena le dita, quando la sente sgusciare via.
Oltre la porta che Bill sta fingendo di non fissare, c’è Chakuza sotto i ferri. L’intervento sta andando bene, fortunatamente il coltello era maneggiato da un incompetente. Avrebbe sicuramente ucciso Bill, se fosse arrivato a mettergli le mani addosso, ma Chakuza è un uomo forte ed è riuscito a salvare la pelle. La lama non è arrivata nemmeno a ferire lo stomaco – quello sarebbe stato un problema – c’è solo una lacerazione piuttosto ampia da ricucire. Fler è stato bravo a dare le giuste direttive.
Fler.
Fler sta vagando nervosamente per il corridoio, le sue scarpe da ginnastica sono l’unica cosa che fa rumore, mentre la suola scricchiola nervosamente sulle piastrelle grigie. Non si sente nient’altro fino a quando il cellulare di Jost non squilla. Suona La Bamba, negli anni ottanta era un pezzo che andava forte. Probabilmente sarebbe il caso di ridere, di fronte ad una cosa del genere, ma non ride nessuno ed ognuno ha i propri motivi per farlo.
L’uomo si affretta a rispondere non appena scorge il numero sul display. È nervoso ed agitato.
- Sì? – attende che dall’altro lato della cornetta dicano qualcosa, mentre Tom gli scocca un’occhiata infastidita e Fler si appoggia contro una parete incrociando le braccia e sollevando un piede ad ancorarsi al muro. Lascerà una macchia, ma non può più camminare perché faceva rumore, e però deve darsi qualcosa da fare, perciò picchietta la parete con la punta del piede ed ogni volta che solleva la scarpa si intravede al di sotto l’alone scuro della traccia che lascia la suola.
Bill non dice una parola.
- No. – continua Jost, ignorando volutamente qualsiasi cosa lo circondi per concentrarsi solo sul suo interlocutore, - No, non preoccuparti. È tutto a posto. Non sappiamo ancora i dettagli, ma è tutto sotto controllo.
- Ma con chi cazzo parli, David?! – sbotta Tom, stringendo un braccio attorno alle spalle di Bill, che si riscuote appena ma non solleva lo sguardo.
David si allontana un po’ dalla cornetta, incerto.
- …Briegmann. – risponde evasivo, guardando altrove.
- Be’, - continua Tom, insoddisfatto, - non mi pare il cazzo di momento in cui stare a parlare del cazzo di lavoro, David.
Bill singhiozza e solleva il viso verso il fratello. Sono tanto vicini che gli sfiora una guancia con le labbra, mentre gli parla.
- Tomi, ti prego…
Fler deve intercettare il tremito nella sua voce. Non so quando abbia imparato a capire così bene Bill. So che da Fler non potevo aspettarmi niente di meno, perché gliel’ho insegnato io come si sta al mondo e come si controllano le situazioni, gliel’ho insegnato io che i problemi non vanno risolti ma prevenuti, quando è possibile. Ed infatti Fler previene. Le lacrime di Bill potrebbero essere un problema ed io già le vedo – posso immaginarle – scorrere lungo le sue guance.
- Adesso ci calmiamo, Kaulitz. – utilizza apposta il cognome, non vuole essere invasivo, solo razionale. – Non c’è affatto bisogno di-
- Te lo dico io di cosa non c'è bisogno! – lo interrompe Tom, ben deciso a non cedere di un passo. La conosco l’ostinazione dei Kaulitz. – Non c'è bisogno che mio fratello sia qui, che pianga un amico con un buco in pancia, che tu venga a farmi la predica e che David parli con la fottuta Universal in questo cazzo di preciso momento! Ecco di cosa non c’è bisogno!
Nel silenzio che cala dopo quest’attacco, si sente distintamente il click che annuncia l’interruzione della chiamata da parte dell’interlocutore di David. Se quello era davvero il presidente della Universal Music Deutschland, Tom avrà dei problemi seri da risolvere, già a partire da domani. Ma posso immaginare che al momento la cosa non gli interessi granché.
Si volta invece a guardare Bill, sollevando anche l’altra mano a stringerlo attorno una spalla e cercando i suoi occhi.
- Ti riporto a casa. – dice, secco ma dolce. Conosco anche quel tono. È il tono con cui in genere convince Bill a fare qualsiasi cosa, perché a Bill piace moltissimo sentirsi amato e quel tono gronda amore da ogni lato, dannazione.
Bill si tende tutto sotto le sue mani.
- No. – risponde, e suo fratello aggrotta le sopracciglia, - Voglio restare qui.
- Non esiste. – protesta Tom con veemenza, - Tu vieni a casa con me. Non ci resti qui, stanotte.
Fler solleva un braccio come a chiedere il permesso di parlare.
- Posso restare anche io e-
- Non ci resta qui, stanotte. – precisa lui, senza staccare gli occhi dal fratello.
Bill lo guarda ancora ed in fondo alle sue pupille c’è un pizzico di rabbia che me lo fa ricordare esattamente com’era nei suoi momenti migliori. Quando era lui, non il fantasma piangente di se stesso. Quando s’imponeva e pretendeva conto e ragione di tutto, quando richiedeva attenzione e quando dichiarava candidamente che in ogni caso avrebbe fatto solo ciò che gli interessava o che sarebbe stato meglio per lui. Quando era ancora una cosa mia.
- Non sei tu a dover decidere. – dice duramente. Poi il suo sguardo si fa più dolce, e forza perfino un sorriso stremato mentre sfiora con due dita la guancia del fratello, - Fammi restare, per favore.
Tom sospira e sposta le mani dalle sue spalle al suo volto. Lo tiene come una cosa preziosa, delicatamente.
- Sei sfatto, cucciolo. Devi riposare. – suggerisce pacatamente, - Ti porto qui come prima cosa domani mattina, promesso. Ti prego, torna a casa.
Bill scuote il capo e si morde un labbro, sollevando entrambe le mani a stringersi attorno alla maglietta di Tom.
- Lo hanno portato dentro, Tomi, ed io voglio vederlo uscire. – dice a bassa voce, perfettamente lucido, - Deve uscire. Almeno lui.
Se avessi ancora un cuore che batte si fermerebbe adesso. Ma io non sono più sostanza da tempo. Non sono più corpo da tempo. Non sono più niente da tempo. Bill aveva torto. Il problema non è solo di chi resta. È anche di chi va via.
- E va bene, va bene. – ringhia Tom, scuotendo rassegnato il capo, - Però io resto. Voialtri – avverte infastidito con una breve occhiata a Fler e David, - potete andare via.
Negli occhi di Fler si fa strada una preoccupazione nuova. Mette giù il piede e scioglie le braccia lungo i fianchi, schiude le labbra per dire qualcosa ma Jost lo precede.
- Tom… - chiama piano, con lo stesso tono sommesso di un padre ormai da lungo tempo rassegnato.
- Non hai altro da fare, cazzo? – sibila il ragazzo, interrompendolo e squadrandolo cupamente.
David si tira indietro e non aggiunge altro. Fler non ha nessuna voglia di litigare ma qualcosa deve dirla comunque.
- Io non posso andare via con Chakuza là dentro. – dice pianamente, perfettamente a proprio agio, - Starò di fuori, per qualsiasi evenienza sapete dove trovarmi.
Seguo Fler finché non esce dal corridoio, svoltando nella sala accettazione dell’ospedale e dirigendosi verso la porta scorrevole che porta al parcheggio tutto intorno alla struttura, scomparendo nella notte com’è sempre stato bravo a fare all’occorrenza, e poi torno a guardare Bill, che s’è slacciato dal fratello ed ha ancora due lacrime immobili appena sotto le palpebre. Non so cosa aspettino, per scendere. I suoi lineamenti sono tesi e contratti, se non avessi impresso la sua forma – tutte le sue forme – così profondamente nella mia memoria – e la memoria è davvero l’unica cosa che resta – probabilmente faticherei a riconoscerlo.
Capisco cosa aspettavano quelle due lacrime per cadere quando la porta della sala operatoria si apre discretamente e ne esce fuori un esserino delizioso, biondo e pallido, con un paio di enormi occhi azzurri ed un sorriso incoraggiante sulle belle labbra rosse. L’infermiera perfetta, davvero. Tom la squadra compiaciuto dall’alto in basso, in fondo non è un suo amico quello che ha rischiato di morire. Ovviamente, Bill non ha occhi che per lei, anche se non è lei che sta guardando ma la sua divisa.
- Com’è andata? – chiede, la voce rotta, scattando in piedi mentre le lacrime caracollano giù lungo le sue guance ripercorrendo la scia ormai asciutta di un pianto già vecchio.
La signorina sorride più apertamente, inclinando il capo e lasciando la lunga coda bionda ondeggiare sulla schiena.
- Il signor Pangerl sta bene. – dice, ed il sospiro di sollievo che sfugge alle labbra di Bill non potrebbe ignorarlo nemmeno un sordo. La bionda sorride teneramente, prima di continuare. – Al momento è ancora sotto anestesia e non potrà ricevere visite almeno fino a domattina, ma l’intervento è andato bene, resterà solo una cicatrice. Purtroppo – sospira, - il coltello era seghettato, - e Bill sorride un po’, - perciò la lacerazione è stata complessa da ricucire, ma un buon chirurgo plastico dovrebbe poter risolvere il problema.
Viene un po’ da ridere anche a me – ed è tremendo voler ridere quando non puoi. Non so nemmeno se la mia risata riecheggerebbe sinistramente lungo questo corridoio semivuoto. La mia condizione non è molto simpatica. Comunque mi viene da ridere perché l’unica cicatrice che ha – quella sul sopracciglio – Chakuza se l’è fatta sbattendo contro un armadio. Non gli sembrerà vero di avere una vera e propria cicatrice da eroe. Secondo me la tiene.
- Non potrei… - Bill si interrompe mentre suo fratello, dietro di lui, comincia a raccogliere giubbotti e borse, dato che, se lo conosco bene, non intende restare nei paraggi se non si può entrare e visitare il povero ferito, - …vederlo? Solo per un attimo?
L’infermiera finge di esitare perché sa che non dovrebbe ma in realtà il linguaggio del suo corpo parla chiarissimo: il sorriso è dolce, le sopracciglia inarcate verso il basso, le lunghe ciglia battono su un paio di occhi incredibilmente lucidi. Bill se l’è già conquistata.
Parla chiaro anche la lunghissima occhiata che lancia a Tom, e che Tom le ricambia senza problemi di sorta, condendola pure con un sorriso malizioso. Il ragazzo lascia cadere i giubbotti sulle sedie di plastica e resta in piedi, mentre David sospira ed interrompe minuti interi di imbarazzato silenzio per salutare i ragazzi e dire che ripasserà domattina, mentre già armeggia alla ricerca del cellulare – probabilmente per riprendere la telefonata bruscamente interrotta qualche tempo prima.
- Solo qualche minuto. – dice l’infermiera agitando un dito ungulato perfettamente laccato di rosso sotto al naso di Bill. Apre la porta e Bill scivola di soppiatto oltre l’uscio; non nota affatto Tom avvicinarsi alla donna con aria predatoria. In una situazione normale gli tirerebbe dietro improperi fino a farlo diventare sordo.
Quando la porta gli si chiude alle spalle, Bill si ritrova in un ambiente stretto e poco confortevole. Ci sono un paio di sedie di plastica in un angolo, un tavolino spoglio con sopra una cartella medica che non capirebbe neanche se provasse a leggerla con attenzione e nient’altro. È pulito, ma vuoto in maniera desolante. A riempire più di metà della parete a destra, comunque, c’è un’enorme vetro spesso e lindo. Al di là del vetro c’è tutto ciò che gli interessa al momento.
Alcuni infermieri spostano Chakuza dal lettino operatorio alla barella sulla quale lo porteranno nella stanza che Saad ha esplicitamente richiesto per lui, pretendendo di sistemare tutto da solo nonostante David si sia impuntato fino all’ultimo per occuparsi dell’intera faccenda.
Bill fissa il corpo dell’uomo che viene spostato con delicatezza. Osserva gli occhi chiusi ed il tessuto leggero del ridicolo camice che gli hanno messo addosso sollevarsi appena al ritmo del suo respiro, che è debole e lento ma c’è.
Poggia una mano sul vetro. La fronte, subito dopo. Socchiude gli occhi e sorride.
Mi sento come se stessi spiando uno sconosciuto. Fa male anche se non ho più un corpo per sentire dolore.
*
L’indomani mattina Bill arriva all’ospedale ad un orario assolutamente indecente. Suo fratello è riuscito a trascinarlo controvoglia a casa nel momento in cui l’infermiera è tornata a riprenderlo nella saletta antistante la sala operatoria – visibilmente più scarmigliata e meno perfettamente truccata di prima – e Bill s’è sentito dire che tutto ciò che avrebbe potuto fare per il resto della notte sarebbe stato mettersi a fissare insistentemente il muro. Quando Bill ha chiesto a suo fratello se poteva comunque restare, Tom gli ha dato del pazzo da ricovero. Bill s’è sentito in dovere di dargli ragione e s’è lasciato scortare a casa.
Durante la notte non è cambiato molto. Fler è rientrato in ospedale verso le due del mattino, congelato e con un principio di raffreddore già in atto, stretto in una felpa bianca e nera che non sarebbe riuscita a proteggerlo dal ghiaccio della notte tedesca neanche se fosse stata in lana pura – ed era solo cotone pesante. S’è guardato in giro, ha individuato l’infermierina bionda vagolante di fronte alla camera di Chaky e le ha chiesto se il signor Pangerl stesse là dentro.
Lei ha risposto di sì ma che le visite non erano ammesse.
Fler ha flirtato in maniera veramente spudorata. Alla signorina non dev’essere sembrato vero beccarne due in una sera, comunque per tutto c’è un prezzo e Fler lo sa bene: il quarto d’ora passato a soddisfare l’infermiera nello sgabuzzino delle scope gli è valso la possibilità di starsene al caldo in camera di Chakuza, affondato in una poltrona in pelle marrone, per tutto il resto della notte.
Quando s’è seduto, tirando una gamba su un bracciolo e lasciandola penzolare nel vuoto mentre poggiava il viso contro le nocche del pugno chiuso e piantava il gomito nel bracciolo opposto, ha sospirato e borbottato “Atze, non hai idea del freddo che fa. Comunque lo sapevo che te ne saresti tirato fuori. E, oh, non hai idea di cosa ho dovuto fare per riuscire ad entrare qua dentro!”.
Avrei voluto ridere di nuovo, in tutta sincerità. Vedere Fler così dopo averlo visto per tutti gli ultimi cinque anni in una luce completamente diversa mi fa bene, credo. Le sensazioni di benessere non sono chiare come quelle di malessere. Ma non lo sono mai, non lo erano neanche quand’ero vivo.
Bill arriva, comunque, accompagnato da un fratello così gloriosamente scazzato da non lasciare adito a dubbio alcuno sulla sua voglia di trovarsi da tutt’altra parte. Oltretutto, come sono arrivati la biondina ha ripreso a ronzargli intorno, e Tom la guarda con lo stesso interesse col quale guarderebbe una merda di cane per strada, perciò la situazione in sé non è che sia esattamente idilliaca.
A me viene ancora da ridere, per inciso.
Bill entra di soppiatto nella stanza di Chakuza e vede Fler sonnecchiare sulla poltrona, il capo penzolante avanti e indietro. Gli si avvicina con un sorriso tenerissimo in viso, è un bel po’ che non lo vedo splendere in questo modo. I capelli sono sciolti e morbidi sulle spalle e non ha addosso un filo di trucco, solo qualche catenina, il mio bracciale e il mio anello.
Gli si piega addosso e lo scuote per una spalla.
- Fler, - lo chiama piano, per non disturbare Chaky, - ehi, ci siamo qui noi adesso… vuoi andare a casa?
Fler gli spalanca un paio d’occhi acquosi e assonnati addosso e si riscuote.
- No… - mormora confusamente, - sto bene, vado solo… - non si capisce cosa borbotti mentre torna a chiudere gli occhi. Bill ridacchia e lo scuote ancora, mentre Tom si appollaia letteralmente su un tavolino nell’angolo opposto della stanza. – Sì, sì! – si sveglia lui a quel punto, - Okay, ho capito… vado a darmi una sciacquata al viso e… volete del caffè? – i gemelli annuiscono in contemporanea, Fler si alza dalla poltrona e si sgranchisce le gambe e le braccia, prima di passarsi una mano sugli occhi e sbadigliare sonoramente. – Allora resti tu qui mentre sono via? – chiede un’ultima volta, come rassicurazione, muovendosi già verso la porta.
Bill annuisce tranquillo e si siede sulla poltrona.
- Oh, ma è caldissima! – ride.
Fler ride a propria volta, la mano già sulla maniglia.
- Sì, te l’ho tenuta così apposta. – scherza uscendo.
Abbiamo appena il tempo di sentire il mezzo strillo concitato dell’infermiera che se lo ritrova davanti agli occhi, prima che lui chiuda la porta gridando “no, ancora?!” e fuggendo verso i bagni degli uomini – di fronte alla cui porta non sono nemmeno sicuro che lei si fermerebbe – che la stanza ripiomba nel silenzio e tutto ciò che riusciamo a sentire è il bip continuo del macchinario che ci informa che Chakuza sta bene, così come i suoi respiri profondi e regolari.
- Senti, ma se continua a fare il bell’addormentato possiamo andare? – si lagna Tom, piantando le mani sul tavolo ed accavallando le gambe, facendo dondolare una seggiolina di plastica con un piede.
Bill si volta a guardarlo con aria estremamente disapprovante.
- Dobbiamo restare finché non si sveglia! Pensa tu se apre gli occhi e si ritrova da solo!
- Oh, sì. – ridacchia Chakuza. Bill sente la sua voce e si volta a guardarlo con la lentezza impaziente e desiderosa di conservare la meraviglia dell’attimo con la quale in genere si guarda alle sorprese più belle, - Avrei potuto spaventarmi moltissimo.
Bill gli getta le braccia al collo all’istante.
- Chaku! – urla, saltandogli letteralmente addosso, - Oddio, sei sveglio! Come stai?
- Ouch… - borbotta un po’ lui, cercando di scostarsi da Bill che preme contro la ferita ancora fresca di sutura, - Sono stato meglio, ma devo dire che pensavo che le coltellate facessero più male.
- Che uomo. – lo prende in giro Tom, inarcando un sopracciglio, - Quasi te ne facciamo avere un’altra, va’.
Bill gli lancia un’altra occhiataccia, rinunciando alla poltrona per accucciarsi sul letto accanto a Chakuza, una gamba piegata sul materassino, l’altra a reggere saldamente il peso sul pavimento.
Vorrei un corpo solo per poter uscire da questa stanza, adesso.
Fler rientra affannato, stringendo tra le braccia tre bicchierini colmi di caffè annacquato.
- Dio mio, ma è una strega… - biascica confusamente, tirando giù col gomito un lembo della felpa incastrata nella cintura dei pantaloni, - Ragazzi, ma anche a voi…? – solleva lo sguardo e lo punta su Chakuza, che nel mentre s’è sollevato a sedere ed ora lo sta guardando a propria volta, sorridendo come un bambino ed agitando una mano in segno di saluto nella sua direzione. - …lo sapevo. – ride, avvicinandosi e scuotendo il capo, - Bushido non poteva averti preso in crew senza che valessi veramente qualcosa.
È strano sentir parlare di se stessi da morti. Non è una cosa che dovrebbe naturalmente accadere. Forse invece accade sempre, ma io ne avrei comunque fatto volentieri a meno.
Bill si irrigidisce così all’improvviso e così repentinamente che il suo disagio si estende anche a tutti gli altri. Tom si fa teso sul tavolino, Chakuza rabbrividisce leggermente ed osserva il ragazzo – il mio ragazzo – scivolare sul materasso fino a lasciarsi ricadere sulla poltrona.
Fler capisce qualcosa che capisco anche io. Pure se preferirei non capirlo affatto. E si scusa.
Il silenzio che si prolunga dopo è tanto imbarazzante quanto confortante. Sorseggiano tutti i loro caffè avvolti in una bolla di disagio che si risolve scoppiando all’improvviso nel momento in cui Tom salta in piedi ed annuncia a gran voce che sono già in ritardo per l’appuntamento alla Universal e che David li starà sicuramente aspettando di fuori. Bill si morde un labbro e posa il proprio bicchierino ancora mezzo pieno sul comodino accanto al letto, alzandosi in piedi.
- Torno questo pomeriggio, d’accordo? – dice a Chakuza, ed io so che vorrebbe dirgli altro perché conosco i suoi occhi e so quando stanno nascondendo ciò che la sua voce non può ancora dire. Giuro che se potessi distoglierei lo sguardo.
Fler e Chakuza restano soli il secondo successivo. Fler riprende posto sulla poltrona e gli allunga una pacca amichevole sulla spalla. Chakuza si lamenta sonoramente.
- Un po’ di delicatezza, cavolo, sono stato ferito! – borbotta sistemandosi contro il cuscino.
Fler ride, incrociando le gambe sulla poltrona.
- Molto eroico, da parte tua. – commenta con un sorriso furbo.
Chakuza scrolla le spalle.
- Bill era in pericolo.
Fler sbuffa un’altra mezza risata e scuote il capo, sistemandosi meglio sul cuscino.
Chakuza si inumidisce le labbra e poi sorride lievemente.
- Sai che stanotte ti ho sentito?
Fler spalanca gli occhi su di lui, schiudendo appena le labbra ed arrossendo.
- Come, prego…? – chiede ansioso.
Chakuza ride con più convinzione.
- Non ero mica in coma, dormivo e basta! – spiega, - Mi hanno svegliato i rumori e poi ti sei messo a parlare…
- Ma farmi sapere che mi stavo sputtanando, no…?
Chakuza scuote il capo e ride ancora, piegandosi lievemente in avanti.
- Hai bevuto? – s’informa interessato, lanciandogli un’occhiata dubbiosa.
- Nemmeno un goccio. – risponde fieramente Fler. Poi ci riflette. – Be’, una birra. Ma sono stato in giro tutta la notte, rischiavo la morte per congelamento, avevo bisogno di un po’ d’alcool.
Chakuza lo guarda, disapprovandolo gravemente.
- Patrick… - comincia severo.
- Niente Patrick, non me la merito la strigliata! – borbotta Fler in risposta, incrociando le braccia sul petto.
Tutto quello che mi interesserebbe, al momento, sarebbe uscire da questa stanza e raggiungere Bill. Dovunque si trovi. Fargli sentire che ci sono, dannazione, che da qualche parte ci sono ancora, anche se lui non può vedermi né sentirmi. Anche se sono morto, cazzo, io esisto ancora. Resto bloccato – imprigionato – qui. Non sono più parte di questo mondo.
È incredibilmente crudele essere costretto a sapere comunque tutte queste cose.
*
Eko Fresh entra nella stanza – Dio, mi fa piacere rivederlo, non credevo l’avrei mai detto, pensato o qualsiasi cosa sia quella che sto facendo adesso – e lo dice. Così. Senza preavviso e senza nemmeno spiegarsi.
- Atze, l’hanno chiamato Flerkuza.
Su quella sua faccia allungata da topo lo stupore è comico da morire. Quand’è stupita, la faccia di Eko si allunga a dismisura.
- Hanno chiamato cosa in che modo? – sbotta Fler, riconoscendo immediatamente il proprio nome e non altrettanto immediatamente quello di Chakuza. È meraviglioso che non sappia di cosa Eko stia parlando. Io ci sono già passato, quindi sono un passo avanti.
- Ma sei ancora qui tu? – chiede Eko, notando solo in quel momento la sua presenza rannicchiata sulla poltrona, - Ma non ce l’hai una vita? – poi scrolla le spalle, voltandosi verso Bill che staziona ai piedi del letto di Chakuza ed avvolge un gomitolo di lana dal lungo filo che Chakuza tiene appallottolato in grembo e sbroglia con attenzione. – Ohi, principessa. – lo saluta con un cenno del capo, - Che combinate?
- Volevo fare un maglione! – borbotta Bill, imbronciandosi e gonfiando le guance, - Ma non sono stato capace.
Eko ridacchia.
- Ma per chi? Per Chaku?
Bill scuote il capo.
- Per Fler! – spiega, mentre Fler solleva un braccio come a dire “presente” e si stringe nelle spalle, tirando su col naso. – S’è preso un raffreddore assurdo, ma è perché va sempre in giro in felpa. Visto che si ostina a passare le notti all’addiaccio, volevo almeno che avesse qualcosa di caldo…
- Ruberò una borsa dell’acqua calda da casa di Sido. – biascica Fler, allungandosi a recuperare un fazzolettino dal comodino per soffiarsi il naso.
- Potresti dormire sulla poltrona e basta. – suggerisce Chakuza con un sorriso furbo, - Giuro che non origlio più. – aggiunge quando Fler gli lancia un’occhiataccia offesa e imbarazzata.
- Oppure potresti tornartene a casa tua, tanto per cambiare, e dimostrarci di averne una. – rincara Eko, recuperando la seggiolina di plastica e trascinandola fino al letto per poi sedersi a gambe divaricate e chinarsi in avanti con aria cospiratoria.
Bill si china immediatamente verso di lui. Ha sempre adorato dargli corda, parlare con Eko lo diverte oltremodo.
- Allora, cos’è che dicevi quando sei entrato? – lo stuzzica, tirando un po’ il filo per dire a Chakuza di darsi una mossa.
Eko annuisce con aria seria al punto che Fler si sente turbato e si china a propria volta, e tutti e tre fanno capannello attorno ad Eko che solleva un dito e si mette a raccontare.
- Stavo vagando su fanfiktion.de con Kay, e ci siamo imbattuti nel primo esemplare di Flerkuza della storia.
- Ma si può sapere che cazzo è ‘sto Flercoso? – sbotta Fler irritatissimo, tirando su il colletto della felpa e tirando su pure col naso, già che c’è.
Eko lo guarda con fastidio palese.
- Ma sei sempre così lento di comprendonio o che? – commenta impietosito, - Fler e Chakuza insieme fanno il Flerkuza.
- No… non ci credo! – ride Bill, battendo entusiasta una mano su un ginocchio e rischiando di disfare nuovamente il gomitolo che, rotolando sul materasso, raggiunge le mani di Chakuza, che possono così salvarlo prima di distruggere ore di lavoro per l’esaltazione di un momento, - Hanno già cominciato a scriverci su?
Chakuza si passa una mano sugli occhi, disperato.
- Non è possibile… - sospira affranto.
Fler continua a non capire, ma è giusto così, lui con le fanfiction non ha mai avuto a che fare.
- Ma scrivere su cosa? – chiede quindi, ed Eko rotea gli occhi battendosi una mano sulla fronte.
- Quando c’è stato il casino a TRL, non è che sia stata ripresa perfettamente proprio tutta la scena. – spiega pazientemente, - Diciamo che le riprese si sono focalizzate più che altro su te che prendi in mano la situazione ed aiuti a caricare Chaku sull’ambulanza improvvisandoti George Clooney dei poveri in un episodio di Ghetto-ER.
A Fler continua a sfuggire il passaggio fondamentale.
Chakuza lo esplicita per lui. O almeno ci prova.
- Credo che scrivano su noi due, Pat.
- Scrivano chi? E cosa?
Bill ha pietà delle nostre anime – soprattutto della mia che, a quanto pare, esiste davvero – risolvendo il problema con una lezioncina semplice ed accurata delle sue.
- Le fangirl, Fler. – spiega annuendo, - Mi sa che vi hanno preso in simpatia ed ora scrivono fanfiction su di voi. Ciò che Eko sta tentando di dire-
- Eko può dirlo da solo. – annuisce lui, interrompendolo e rivolgendosi a Chakuza, - Quindi insomma, c’era questa storia incredibile in cui tu stai all’ospedale in punto di morte e Fler è lì al tuo capezzale che piange e quindi tu ti risvegli e gli dici che in realtà l’hai sempre amato, e-
- Ma che roba è?! – scatta in piedi Fler, giustamente terrorizzato, - Cristo, ma è da malati mentali!
Eko agita una mano come a dirgli di aspettare.
- No, ma poi migliora! – commenta con competenza, ma a Fler non sembra interessare molto.
- Ma può pure essere il nuovo capolavoro della narrativa tedesca, fanculo! – si tira indietro, soffiandosi ancora il naso, - Vado a farmi un giro, cazzo. E dopo magari me ne vado davvero a casa.
- Volesse Iddio. – implora Eko, per poi tornare a guardare Chakuza, - Dicevo, tu l’hai sempre amato, e…
Bill salta giù dal materasso, rischiando di mandare all’aria Chakuza con tutto il letto.
- Fler! Aspetta! – lo richiama mentre lui esce dalla porta, - Ti accompagno.
Fler scrolla le spalle come se la cosa non gli importasse minimamente, ma aspetta comunque che Bill sia uscito dopo di lui per richiudere la porta. Dall’interno della stanza giungono le risate soffocate di Eko e di Chakuza, e Fler rotea gli occhi, infastidito.
- Non prendertela troppo… - cerca di consolarlo con un sorriso tenero dei suoi, - Ti va una cioccolata calda? – suggerisce indicando la macchinetta a qualche metro di distanza da loro.
Fler ghigna stanco.
- Se me la correggi con una dose abbondante di vodka, possiamo cominciare a parlarne.
Bill gli lancia un’occhiata curiosa, inclinando lievemente il capo, e Fler ride e scuote il capo.
- Prendiamo questa cioccolata, - concede, - e dopo andiamo a farci un giro fuori. Ti va, ragazzino?
Bill annuisce freneticamente e trotterella verso la macchinetta automatica, recuperando due cioccolate che insiste per pagare e seguendo Fler all’esterno dell’ospedale. Il suo sguardo si fa enorme e brillante quando si posa sul manto bianco che copre le strade.
- Ha nevicato…! – esala estasiato, stringendosi nel cappottino.
Fler rotea gli occhi.
- Perfetto, ci mancava solo questo. Morirò.
Bill ride e muove qualche passo sul marciapiedi, attento a non scivolare.
- Se ti rassegnassi a stare al chiuso, di notte, come tutte le persone normali… - suggerisce, giocando con la punta di una scarpa in un cumulo di neve attorno al lampione.
- Ci sono abituato, non è un problema. – borbotta Fler, agitando una mano, - Tu non ficcare i piedi là dentro, ti prenderai una polmonite.
- Guarda che sei tu quello che starnutisce da giorni! – ride Bill, socchiudendo gli occhi su una folata di vento particolarmente freddo.
Fler lo liquida con un cenno della mano e sbuffa, il suo fiato si condensa e lui e Bill lo osservano disperdersi nell'aria. Tirano giù un sorso di cioccolata bollente quasi contemporaneo e li sento sospirare di sollievo nello stesso modo, a distanza di pochissimi secondi.
- Dovresti veramente riguardarti, un po'... – borbotta Bill affiancandoglisi e cominciando a camminare lungo il marciapiedi, - Peter era preoccupato l'altra sera, quando non ti ha visto arrivare...
- Ah, davvero? – Fler arrossisce vagamente, è comico vederlo arrossire così, e poi si perde in un ghigno un po' più furbo, lanciando un'occhiatina allusiva a Bill, - E tu che ci facevi l'altra sera da Peter?
Bill sorseggia la cioccolata, incerto.
- Ogni tanto... – biascica fissando il vapore acqueo che risale dal bicchierino plastificato, - ...mi piace passare un po' di tempo con lui. Mi sento più a casa nel suo appartamento che non nel mio. È strano... – aggiunge con un sorriso triste, - perché casa mia è piena di ricordi di Anis, quindi dovrei trovarmi meglio lì, e invece...
Fler sbuffa una mezza risata, finendo la cioccolata e gettando il bicchierino in un cassonetto dell'immondizia.
- Guarda che non devi nasconderlo con me, se state insieme. – butta lì semplicemente, infilando le mani in tasca per proteggerle dal gelo, - Non ve la scrivo una diss contro.
Bill si volta a guardarlo come se avesse detto contemporaneamente la cosa più offensiva e la cosa più ridicola del mondo.
- Ma... non... – si agita arrossendo e stringendo il bicchierino fra le mani, - Non stiamo insieme!
Fler inarca un sopracciglio e lo fissa. La sua espressione non è incredula come dovrebbe essere, se davvero pensava stessero insieme. Ci sono un sacco di cose che mi sfuggono, in tutto questo. O forse la cosa spaventosa è che in realtà non mi sfugge niente e capisco tutto, e questo mi infastidisce perché non dovrei – sono morto, non dovrei davvero – e neanche vorrei.
- No? – insiste, mentre Bill butta via il bicchierino ancora mezzo pieno e tira fuori dalla borsa un paio di guanti, - Strano.
- Strano perché? – chiede lui, infilando i guanti con fin troppa cura per non dare chiaramente ad intendere di star cercando un pretesto per non guardare Fler, il quale scrolla indifferentemente le spalle.
- È stata la prima cosa che ho pensato quando ti ho visto a casa di Chakuza. – rivela in un mezzo sospiro, - Ho pensato che steste insieme.
Bill annuisce compitamente torcendosi le mani in grembo.
- Potresti… - biascica imbarazzato, - …non dirglielo? – Fler inarca un sopracciglio, incerto, e Bill si affretta a spiegarsi, - Ecco, - borbotta, - non vorrei che… cioè, io mi trovo bene con lui, non vorrei che decidesse di allontanarsi per un pettegolezzo. – sospira, - Io lo so, come sono fatto. Lo so che è difficile stami accanto senza che la gente pensi di tutto e di più. – sorride stancamente, - Sapessi quello che si pensa in genere di quella povera anima di mio fratello. – Fler ridacchia perché evidentemente lo sa, cosa si pensa di Bill e Tom, ed anche Bill si concede una risata. – Insomma, ci tengo che Chaku resti dov’è. Quindi non dirgli niente, ok? – conclude un po’ ansioso.
- Okay, okay, ragazzino, calmati! – sbotta Fler, divertito, sollevando entrambe le braccia in segno di resa, - Non avevo comunque alcuna intenzione di andare da Chakuza a chiedergli conferma né niente di simile. Tranquillo. – Bill annuisce ed abbassa lo sguardo, in imbarazzo. Fler sospira e cambia discorso, vedo un brillio di gratitudine negli occhi di Bill ed un po’ mi infastidisce davvero che qui si viva perfettamente anche senza di me. – Comunque, davvero, non preoccuparti per il sottoscritto. – lo rassicura stringendosi nelle spalle, - Ci sono abituato al freddo. Bushido mi teneva fuori anche fino alle quattro del mattino.
Bill annuisce e sulle sue labbra si forma un mezzo sorriso intenerito mentre si muove lentamente sul marciapiede. È un sorriso che anticipa una domanda che non sa se può fare. Potessi, tratterrei il respiro. Poi mi rendo conto che, in un certo senso, lo sto già facendo.
- Com’era? – chiede a bassa voce, stringendo le mani in grembo, - Da ragazzo, dico. Io ne so molto poco.
Fler inarca un po’ un sopracciglio, ma non sembra molto stupito di sentirsi chiedere una cosa simile.
- Be’, non era esattamente il tipo che a uno facesse piacere frequentare. – riflette, scavando fra i ricordi, - Voglio dire, era uno stronzo. Ed era pericoloso, ma non nel senso del romanzetto per ragazzine, cioè, non era il classico tipo cupo che al limite poi però ti tiene fuori fino all’una e mezzo e torna a casa. Quello rideva sempre ma ci metteva niente a infilarti un coltello nel fianco, all’occorrenza.
Bill ridacchia e si stringe nelle spalle.
- Sì, lo so che rideva spesso. – annuisce, guardando i mucchietti di neve ammassati lungo il marciapiedi.
- Nah, non lo sai. – Fler lo butta lì con indifferenza, Bill aggrotta le sopracciglia e fa per rispondergli male, ma si ferma appena si volta a guardarlo e lo vede sorridere nostalgico. – A diciott’anni Anis non rideva come ha cominciato a ridere dopo aver fatto i soldi.
- Certo che tu… - borbotta con un mezzo broncio, - quando te la leghi al dito è proprio per sempre, eh?
Fler scrolla le spalle.
- Non proprio per sempre. – risponde noncurante, - Per quanto merita.
Bill si morde un labbro e palesemente non sa se porre la domanda che gli trema sulle labbra. Alla fine lo fa. Mi fa tenerezza e sono anche un po’ contento – Bill non era davvero tipo si tenesse qualcosa dentro. Vorrei che tornasse a sorridere come faceva con me, anche se pare io non sorridessi con lui come facevo con Fler. C’è decisamente qualcosa che non va in quest’equazione.
- …Bushido meritava di essere odiato fino a quando non fosse morto?
Fler riflette. Fissa dritto di fronte a sé. Ho paura di ciò che potrebbe dire. Anche se sono morto e per me non cambierà niente, qualsiasi sia la sua risposta.
- …avrebbe meritato che continuassi ad odiarlo anche dopo.
*
A Chakuza, i medici hanno prescritto venti giorni di ricovero che lui ha passato tutti - uno per uno - a borbottare che stava bene e che non c'era bisogno lo tenessero lì. Ha insistito per alzarsi due giorni dopo l'operazione, fingendo che la sutura non gli facesse un male d'inferno e finendo per farsi saltare i punti. Due volte, nel giro di una settimana.
Fler, ad un certo punto, si è così spazientito di vederlo grondare sangue a casaccio che lo ha rimesso di peso sul letto urlando che era un coglione, e poi ha chiamato l'infermierina deliziosa che lo perseguitava da giorni e lo ha fatto sedare.
Il tutto tra le risate di Eko e gli occhioni sgranati di Bill che davanti al sangue ha ancora delle brutte reazioni. Fortuntamente, aggiungerei. Non voglio assistere al giorno in cui il sangue non gli farà più effetto.
In questi venti giorni, Chakuza non è mai rimasto solo. A parte sua madre - le cui visite meriterebbero un resoconto tutto loro, perché quella donna gli è ossessivamente attaccata e questo genera e ha generato scene di panico miste a scenate furiose ben poco austriache -, qualcuno della crew era sempre presente nella sua stanza. E questo mi ha reso molto orgoglioso di loro. E di me, che li ho tenuti insieme fino all'ultimo.
Da quando lo hanno portato in sala operatoria a quando hanno deciso di dimetterlo, ogni singolo membro dell'Ersguterjunge ha attraversato i corridoi dell'ospedale almeno una volta, per portargli i suoi saluti o per offrirsi di dare una mano a Bill e Fler che, invece, quella stanza non l'hanno praticamente mai lasciata.
Fler è uno che se si prende a cuore qualcosa, la fa fino in fondo. Fino a che la questione non è risolta e lui non ha più niente da fare al riguardo. Ha fatto così con l'Aggro Berlin - ci credeva, e ha continuato a crederci anche quando me ne sono andato. Sapeva di poterci lavorare sopra, e non l'ha mollata - e sta facendo così con Chakuza.
Nel momento in cui lo ha raccolto di terra con le budella di fuori e ha dato istruzioni ai medici, si è preso la responsabilità di vederlo arrivare vivo alla fine della faccenda. E la fine è fuori dall'ospedale, quindi Patrick è andato a trovarlo ogni giorno, dalla mattina fino alla sera.
I primi tre giorni, le infermiere - tutte, non solo quella che ha continuato a scoparsi nello sgabuzzino delle scope come prima cosa quando arrivava in ospedale, così poi lo lasciava in pace - hanno tentato di cacciarlo via perché si ostinava ad arrivare prima dell'orario di visita e ad andarsene solo a notte inoltrata. Poi hanno smesso, un po' perché Katrina - l'infermierina deliziosa - ha cominciato a parlare in giro del suo sguardo penetrante e poi perché lui il suo sguardo penetrante, quello vero, ha cominciato ad usarlo con le infermiere, così che gli sono cadute tutte ai piedi come sacchi di patate e perfino Karla, l'infermiera sessantenne di pediatria, si faceva quattro piani d'ascensore avanti e indietro per portargli un paio di cuscini in più per il Chaku. Una volta comprata la metà femminile della clinica, Fler non ha più avuto problemi, e si è perfino organizzato per andare a prendere Bill a casa e riportarcelo ogni giorno, con grande disappunto di Tom che pensava di essersi liberato di ogni rivale quando sono morto io e invece ora se ne ritrova due.
Bill, d'altronde, è un'altra storia. Quello che l'ha spinto a stazionare in quella stanza d'ospedale a chiacchierare per ore e giocare a carte - a guardare telenovelas anche. Ho visto Peter con il suicidio negli occhi - supera il senso dell'onore di Fler e di certo non ha niente a che vedere con l'amicizia di Eko o l'appartenenza della Crew.
Chakuza per Bill non è mai stato crew, ed ha smesso di essere un semplice amico il giorno in cui gliel'ho mandato all'aeroporto, ormai quasi un anno e mezzo fa. Chakuza è stato il primo ad accettarlo, e Bill gli vuole così bene che adesso che io non sono lì con lui, vederli insieme mi strappa il cuore.
Il medico è stato lì ieri sera e ha dato a Chakuza il permesso di tornare a casa.
Adesso Bill gli sta facendo la sacca, mentre Patrick gli passa le sue cose una ad una, semi-appoggiato al letto perché è ancora debole. Scherzano e fanno cose assolutamente innocenti; un anno fa pregavo che questo avvenisse in fretta - perché volevo Bill felice con la mia gente - e adesso anche solo il fatto che Chakuza rida alle battute di Bill mi infastidisce.
All'improvviso mi sembra che Chakuza stia oltrepassando una linea, che Bill glielo stia lasciando fare. O viceversa, non lo so. Eppure sono anche consapevole che non è vero, che quello che sto guardando è solo ciò che io capisco e che forse loro non sanno ancora.
E' come vedere il futuro scritto nei loro occhi. E non è lontano che dieci chilometri.
L'auto di Bill li aspetta nel parcheggio dell'ospedale.
Fler non è venuto, e se potessi lo costringerei ad esserci. Si è presentato qui per venti giorni consecutivi, uno dietro l'altro, ad orari improponibili e oggi che mi serve - oggi che Katrina è in ferie, per altro - Bill si offre di riportare Chakuza a casa e Fler non fa una piega. Dice sì, va bene. E io lo so perché lo ha fatto, e solo per questo vorrei pestarlo.
Bill è un pessimo guidatore, per questo Tom continua a portarlo in giro in auto nonostante abbia la patente: è terrorizzato all'idea che suo fratello finisca per schiantarsi contro un palo una delle tante volte in cui usa lo specchietto retrovisore per sistemarsi la frangia. Bill è vanesio, e questo contrasta in maniera pericolosa con la sua sicurezza in auto. Chakuza però non se ne accorge nemmeno, è troppo impegnato a godersi il viaggio e le parole di Bill che si srotolano nell'abitacolo senza soluzione di continuità, come al solito. Non so nemmeno che cos'abbia di nuovo da raccontargli, dal momento che non si sono persi di vista un secondo, ma Bill trova sempre qualcosa da dirti quando gli piace la tua compagnia. Ed è così bello mentre parla e si entusiasma che spesso non senti nemmeno quello che dice, ti perdi nel movimento delle sue labbra o nella luce che gli si accende negli occhi.
Bill parcheggia di fronte al palazzo dove abita Chakuza ma lui non gli permette di tirare fuori la sacca dal bagagliaio. "Ce la faccio, tranquillo," lo rassicura sorridendo.
Mi ritrovo a sperare che lo ringrazi e che poi si salutino, ma so perfettamente che è una speranza davvero stupida: Bill sale sempre, da tre mesi.
E adesso sembra anche più sensato che lo faccia: ci sono i punti ancora un po' aperti di Chaku. C'è la sua sacca pesante. Deve salire.
L'appartamento per una volta è in ordine. La madre di Peter ha approfittato dell'assenza del figlio e ha dato una pulita e una sistemata a tutte le cianfrusaglie che quell'uomo tiene in giro. Bill ridacchia e glielo fà notare. "Sembra tutta un'altra casa," dice scherzando.
"Non preoccuparti, non ci vorranno più di tre giorni a farla tornare come prima," risponde lui, che si è già avviato in camera.
Bill lo segue. Ha lasciato la borsa e il cappotto in salotto, come fa sempre. Ormai si muove a suo agio, sa quasi tutto di quella casa. Gli manca solo di capire dove riporre gli abiti, perché i cassetti della stanza da letto sono l'unica cosa che non ha mai avuto modo di aprire.
Eppure non sembra a disagio, tira fuori le maglie e i pantaloni, chiede dove vanno e poi le ripone. Lascia di proposito la biancheria, così a quella ci pensa Peter: cerca di non creare motivi di imbarazzo perché nell'aria ce n'è anche troppo. Anche se non è imbarazzo, e vorrei dirglielo. Quando la sacca rimane vuota, Bill si dà da fare a ripiegarla e Chakuza si dà da fare a prendergliela dalle mani e ad infilarla nell'armadio. Non si fermano e non si sfiorano, perchè lo sentono a pelle che a guardarsi e a toccarsi poi sarà difficile dare la colpa a quella sacca se Bill è ancora in piedi di fronte a Chakuza, entrambi protetti dall'anta dell'armadio aperta.
Prendono fiato insieme, ma è Chakuza a parlare. "Grazie," dice.
"Di niente," Bill scuote la testa con troppa forza. Si è fatto triste, all'improvviso. "Allora io... vado." Indica alle sue spalle, senza voltarsi e sforza un sorriso che però muore subito, perchè non è sincero. Non è felice, non vuole andare. Sorride solo perché è l'unico modo che ha per evitare che Chakuza gli chieda cosa c'è che non va.
Ringrazierei di non avere un cuore, se le mie sensazioni non fossero ancora tutte al loro posto e i miei battiti, sempre più forti, non li sentissi lo stesso, come un boato nelle orecchie. Succede quando Chakuza allunga una mano ad accarezzargli appena una guancia con il pollice. E' un gesto automatico, non ha pensato davvero di farlo ma quando la mano si è mossa lui non ha trovato un motivo per fermarla. Il motivo sono io, cazzo, ma sono morto quindi non valgo più.
Bill socchiude gli occhi e si appoggia contro il palmo della sua mano. Il suo sospiro di sollievo fa più male dei colpi di pistola che mi hanno ucciso. Significano: finalmente. Ed è un finalmente che non mi contiene più. L'attimo dopo Bill gli si spinge addosso, preme le labbra contro le sue e Peter lo considera un permesso sufficiente a proseguire. Sto male perchè non c'è un luogo preciso da cui sto guardando, sono ovunque. E non ho ostacoli. Fra me e loro non c'è niente che blocchi la visuale. Niente dietro cui possa nascondermi. La cosa avviene davanti ai miei occhi, senza che io possa veramente chiuderli.
Così vedo Bill schiudere le labbra e lasciarlo entrare. Lo vedo gettargli le braccia al collo e vedo il suo corpo che si accomoda in quell'abbraccio, si lascia stringere; le curve morbide della sua pancia si appoggiano contro gli addominali di Chakuza e io mi sorprendo che si incastrino bene, ancora convinto che questo possa accadere solo con me.
E allora realizzo che adesso è suo, o lo sarà presto. Che manca poco. In ogni caso il bacio di Bill è sincero ed è innamorato, è la concessione di un permesso che Chakuza desiderava da mesi senza saperlo e che Bill aveva tanta voglia e tanta paura di dargli.
Il bacio è dolce, ma breve. Per me i secondi si dilatano in eternità, ma non è passato che qualche istante quando riaprono gli occhi e si allontanano impercettibilmente senza un suono. Si guardano attraverso palpebre rese pesanti dalla voglia di conoscersi in altro modo, dal bisogno di toccarsi in maniera completamente differente. La distanza che hanno posto tra loro la coprono insieme, nello stesso istante. Il suono delle loro labbra che si incontrano di nuovo affonda nei sospiri di Bill e nei mugolii di Chakuza che lo stringe alla vita e lo spinge indietro, verso il letto.
Chakuza è impacciato, non ha mai avuto un ragazzo tra le braccia. Non ne ha mai toccato uno, a parte se stesso, e non sa dove mettere le mani; ma è una cosa che s'impara in fretta. Le sue dita trovano la strada sotto la camicia di Bill fin troppo velocemente. Bill esala il suo nome mentre Chakuza gli scivola addosso e prende il mio posto tra le sue gambe. Non ha idea di cosa sta facendo, ma lo fa comunque. Le mani di Bill sono abbastanza esperte da condurlo esattamente dove deve andare.
Bill gli toglie la maglia e la getta a caso oltre il bordo del letto, si aggrappa alle sue spalle e si spinge contro di lui per sentirlo ringhiare. L'assoluta padronanza di se stesso e dei suoi movimenti mi manda in bestia ora che la sta usando su qualcun altro. Vorrei gridare e non posso. Vorrei fermarli e non posso, perchè non sono lì. Perchè non sarebbe giusto. Perchè Bill è felice e io devo accettarlo. Si stira su quel materasso mentre getta indietro la testa e mugola. Chakuza ha il viso affondato nel suo collo e le mani sulla cintura dei suoi pantaloni. Lo sta spogliando a fatica, perchè vorrebbe anche accarezzarlo e strusciarglisi addosso, e ringhia di frustrazione per non poter fare tutte le cose insieme.
Bill è lì disteso per lui, senza più la camicia, che s'inarca sotto le sue dita. C'è da perderci il fiato e la testa. L'ho persa anche io così, allo stesso modo. Bill sembra sciogliersi tra un morso e l'altro che Chakuza gli lascia sul collo ma poi apre gli occhi e la magia s'infrange, in qualche modo. Ha il mio braccialetto ancora al polso, luccica nel buio e mentre io mi chiedo come possa farsi toccare da Chakuza avendolo ancora addosso, lui pensa la stessa cosa.
"Peter..." pigola incerto. E non so se lo faccia perchè è sull'orlo delle lacrime o se ha paura della reazione di Chakuza.
L'uomo solleva lo sguardo e si riprende quando vede quello negli occhi di Bill. Quando vede le lacrime che scivolano lente ai lati del suo viso. "Bill!" mormora nel panico. "Che succede?"
Lo so che nella sua testa si sta chiedendo se per caso non gli ha fatto male. Lo so perché c'è da chiederselo con Bill, non pesa niente. Sembra fatto di niente.
"Io non posso," sussurra Bill. "Non... non ci riesco. E' ancora troppo presto."
Mi prendo la soddisfazione di gustarmi la consapevolezza che si fa strada negli occhi di Chakuza. Capisce che lui c'entra poco in quelle lacrime; Bill sta piangendo per me.
Bill esita. "Mi dispiace."
"Non preoccuparti," Chakuza cerca di essere comprensivo. Ha capito, perché è un uomo sensibile, ma è anche incredibilmente frustrato perchè è un uomo, appunto. Si scosta da lui e gli dà modo di arrotolarsi su se stesso, perchè ne ha bisogno. Così come ha bisogno di piangere. "Ti lascio la stanza per... risistemarti," sceglie la parola con cura. Deve dirgli di rimettersi addosso i vestiti ma deve fargli capire che non può restare. Risistemarti è una buona scelta. Non troppo fredda e abbastanza chiara.
Bill annuisce, ma non dice niente. Lo lascia uscire prima di iniziare a singhiozzare.
Osservo quel suo corpo lunghissimo farsi minuscolo, mentre si abbraccia.
Le prime settimane dopo la mia morte le ha passate così, avvolto in se stesso a cercare un po' del calore residuo del mio corpo. E ora mi sento in colpa perché era tornato a sorridere e io in qualche modo, stanotte, quel sorriso gliel'ho strappato via di nuovo.
Aspetto con lui che il dolore si attenui; il mio o il suo, non ha importanza. Alla fine è passata un'ora quando si alza dal letto di Chakuza e si riveste. Aggancia la camicia nera di fronte allo specchio. Lo guardo e per un attimo il suo riflesso sembra fissare un punto indefinito alle sue spalle, dove mi piace immaginarmi. Fingo che ci stiamo guardando, ma non gli chiedo scusa per averlo turbato perché so che lui non la sta chiedendo a me.
Qualche minuto dopo si presenta da Chakuza che è seduto sul divano - il loro divano - e si tiene la testa fra le mani. Alza lo sguardo quando lo sente arrivare.
Bill gli mostra le chiavi dell'auto solo per un istante e poi torna a stringerle con violenza nel pugno chiuso. Sono i nervi a tenerlo insieme e ha paura che, parlando, andrà di nuovo in pezzi.
Ha paura anche Chakuza, per cui non si scambiano una parola.
Si annuiscono e basta.
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- Bill sta sotto la pioggia. Il perché ce lo spiega Bushido. Più o meno.
Note: Dunque… questa storia è nata in maniera assolutamente vaga, così, out of the blue. Stavo ascoltando Auf Der Suche di Bushido e Baba Saad, e questa canzone si apre con un paio di versi campionati da un’altra canzone, Foolish Games di Jewel… che poi è quella che dà il titolo alla fic. Ed i due versi sono appunto quelli che la aprono. Ed attorno alla quale gira tutta la storia che storia non è. Perché questa non è una storia. *piange*
Spero comunque che possa esservi piaciuta XD
PS: Il Flershido è canon. Punto. *muore*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
FOOLISH GAMES

You took your coat off and stood in the rain
You were always crazy like that.

Sta piovendo così tanto che quasi non si riesce a distinguere niente, oltre le finestre. Si vede la notte – la notte non puoi evitare di vederla, perché è enorme e nera e circonda tutto – si vede la forma di qualche albero che macchia il panorama, si vedono- no, si intuiscono le case degli altri, il resto del quartiere, ma in realtà l’unica cosa che si vede chiaramente è la pioggia stessa. Gocce e gocce e gocce, così tante che sembrano una tenda d’acqua.
Sta piovendo così tanto che quasi non si riesce a distinguere niente. Però là fuori c’è Bill. C’è il suo corpo minuscolo scosso dai tremiti per il freddo, c’è il suo impermeabile stretto ed elegante, c’è l’enorme ombrello nero che ha calato sopra la testa fino a schermare perfino gli occhi, per nascondersi forse, anche se nessuno potrebbe riconoscerlo, in mezzo a quel diluvio.
Sta piovendo così tanto che quasi non si riesce a distinguere niente. Però là fuori c’è Bill. Bushido lo sa. Ed è questo il suo problema.


*

Eko stava raccontando la vecchia storia di quando aveva fatto sparire gli occhiali di Sido. Quella storia, Bill l’aveva già sentita almeno un centinaio di volte, da quando stava con Bushido, e la cosa stava cominciando a farsi grottesca. Non che in genere trovasse particolarmente opinabile ciò che la crew trovava divertente – non era molto dissimile da ciò che trovavano divertente Tom, Georg e Gustav… i videogame, le battute sconce, cazzeggiare fino alle cinque del mattino e via così – ma doveva esserci un limite alla quantità di volte in cui puoi sentire la stessa identica storia e trovarla ancora divertente.
Invece no, evidentemente non c’era, perché tutti stavano lì seduti attorno al tavolino stracolmo di bottiglie di birra – religioso silenzio e sorrisi pieni d’aspettativa sui volti – e Bill poteva sentirli fremere in attesa del momento di ridere.
Insomma, come i bambini piccoli. Puoi fare bubu settete mille volte, non si annoiano mica. Erano uguali.
Annoiato, si stirò lungo il divano e si appoggiò un po’ contro Bushido, strusciandosi il minimo indispensabile per rendere chiare le proprie intenzioni – o almeno il proprio disagio – ma non così esplicitamente da farsi urlare contro. Non che Anis disprezzasse le pomiciate pubbliche, pure se spinte, ma c’erano momenti in cui decisamente non gli faceva piacere trovarsi un gattino annoiato sulle ginocchia. Soprattutto se quel gattino era sul punto di tirare fuori gli artigli e rovinargli i jeans. O la serata.
Lui, ovviamente, lo capì al volo.
- Aspetta un attimo, piccolo. – bisbigliò sottovoce, stringendo una mano attorno al suo ginocchio, come per rassicurarlo, - Eko sta finendo.
- E lui si volta e fa “ma i miei occhiali?”. – continuò infatti l’uomo, spalancando gli occhi ed imitando l’espressione di Sido, - Ed io gli faccio “non lo so, perché non provi a guardare di là?, c’era la tua giacca sulla sedia” e lo vedo che si avvicina alla sedia… - pausa enfatica, Bushido tremò letteralmente sotto le mani di Bill e Bill si sentì praticamente obbligato a ridacchiare a propria volta, perché per quanto noiosa potesse essere quella storia il pensiero che un gruppo di uomini adulti potesse riderne era troppo divertente per ignorarlo, - …solo che sulla sedia c’era Fler rannicchiato che dormiva come un moccioso, e Sido va e gli mette le mani addosso e Fler si alza e strilla “BUSHIDO!”.
Bill si scostò dal corpo di Anis appena in tempo per evitare di venire travolto mentre l’uomo si piegava in due e scoppiava a ridere, in sincrono con tutti gli altri. Guardarlo ridere era sempre una cosa molto tenera, perché tanto bello riusciva ad essere quando sorrideva composto tanto improvvisamente diventava ridicolo quando rideva in maniera incontrollata. Sembrava quasi che nessuno gli avesse mai insegnato a farlo, quando Anis rideva non era solo una questione che coinvolgeva le labbra la lingua la gola, no, coinvolgeva tutto il suo corpo, il ventre le gambe le braccia gli occhi, ogni cosa.
Tornò ad appoggiarsi contro di lui solo appena l’uomo fu tornato a rilassarsi contro lo schienale del divano. Anis lo accolse con una risatina sbuffata e tenera e strinse un braccio attorno alle sue spalle, trascinandoselo sul petto. Bill mugolò, sollevandosi a sfiorargli il collo con le labbra.
- Torniamo a casa…? – sussurrò allusivo, strusciando il naso contro il tatuaggio.
Bushido rise.
- È presto. – rispose, dolce ma deciso. – Restiamo ancora un po’.
Bill aggrottò le sopracciglia, deluso.
- Ma perché-
- Bill. – lo riprese Anis, accarezzandogli una spalla, - Rilassati, ok? Non usciamo tanto spesso. Goditela un po’.
Avrebbe voluto rispondere che in realtà se la sarebbe goduta molto di più a casa, sotto le lenzuola e fra le sue braccia, tanto per cominciare, ma conosceva abbastanza Anis da sapere che, in situazioni come quella, l’unico modo di spuntarla era mettersi a litigare, ed in realtà non è che ci tenesse in maniera particolare. Sospirò e si tirò dritto, per poi poggiare il gomito sul bracciolo opposto e sbuffare sonoramente.
- Chaku… - chiamò annoiato, e l’uomo, dalla poltrona a fianco, gli dedicò immediatamente tutta la propria attenzione, - Che mi dici di bello?
Chakuza rise, chinandosi verso di lui.
- Cosa vuoi raccontato, Bill? – chiese curiosamente, imitando la sua posizione e poggiando a propria volta il gomito contro il bracciolo. Era divertente che, così di fronte, Chakuza dovesse comunque piegare il collo verso l’alto per guardarlo negli occhi. Bill si accucciò un po’ sul cuscino per arrivare alla sua altezza e farsi, se possibile, perfino più piccino. Fu soddisfatto quando Chakuza riuscì a guardarlo dall’alto in basso.
Fu soddisfatto, precisamente, quando sentì gli occhi di Bushido fissi sulla schiena. Farsi così piccino significava sempre “guardami, non mi trovi carino?”. Ed Anis lo sapeva.
- Non lo so… - piagnucolò lamentoso, con un mezzo sorrisetto, inumidendosi le labbra, - Qualsiasi cosa… sei l’unico che non mi ignora. – concluse, tirando indietro una gamba abbastanza da dare un piccolo calcio sullo stinco a Bushido. Giusto per assicurarsi stesse guardando davvero.
Chakuza rise nervosamente, grattandosi la nuca e sistemandosi il cappellino sulla testa.
- Uhm… - balbettò, - non so, non è che abbia avuto una giornata granché entusiasmante…
- Ma non importa! – ridacchiò lui, stendendosi letteralmente sul bracciolo e lisciandosi i capelli lungo una spalla, - Dove pensi di andare dopo…?
Bushido ringhiò alle sue spalle e Bill ghignò interiormente ma non diede alcun segno di averlo notato. Poteva immaginarlo perfettamente aggrottare le sopracciglia ed accavallare nervosamente le gambe, come faceva sempre quando non era soddisfatto dell’andamento di qualcosa. Giocava con l’orlo dei vestiti, sistemava i lacci delle scarpe, si grattava una guancia, Bushido era incredibilmente palese nel dimostrare il proprio scontento. Bill adorava che lo fosse perché adorava metterlo a disagio. Era l’unico a riuscirci.
- Uh… - Chakuza spalancò gli occhi, un po’ senza capire, un po’ fingendo di non aver capito, ed inarcò le sopracciglia, - Penso che me ne andrò a casa a dormire, suppongo… - biascicò incerto.
Bill inclinò lateralmente il capo.
- Niente compagnia? – chiese con naturalezza, sbattendo le ciglia.
Chakuza arrossì furiosamente.
- Compagnia? – balbettò confuso, tirandosi dritto sulla poltrona.
Bill sorrise allusivo.
- Qualcuno con cui passare la notte, Chaku… - spiegò in un sussurro, chiudendo un po’ le palpebre.
- Ah! – disse l’uomo, come lo stesse davvero realizzando solo in quel momento, - Ecco… cioè, stasera non è serata… - biascicò, guardandosi intorno alla ricerca di aiuto. Saad, appollaiato sul bracciolo al suo fianco, si dondolò un po’ sulle gambe e ghignò divertito, mentre Eko tratteneva a stento le risate dalla propria sedia, - E la piantate?! – si lamentò Chakuza, arrossendo ancora di più.
- Scusa, ma ti si sta rigirando sul palmo della mano! – rise Saad, schiacciandogli la visiera del berretto sugli occhi, - Bravo Bill, mettilo in ridicolo.
- Sì… - ghignò Eko, incrociando le braccia sul petto, - Rendi ridicolo lui ed anche Bushido… Atze, c’è il tuo uomo che ci prova con un altro dei tuoi uomini, te ne sei accorto…?
Anis, chiamato in causa, grugnì del fastidio indistinto, tornando a posare entrambi i piedi per terra e stringendo le mani attorno alle ginocchia, nervoso.
- I miei uomini – disse infastidito, guardando fisso davanti a sé, - dovrebbero imparare a stare ai loro posti.
Bill aggrottò le sopracciglia, voltandosi a guardarlo indisposto mentre Chakuza tornava a sedersi composto e borbottava una scusa imbarazzata figlia del bisogno assoluto di non mandare a puttane una serata semplicemente perfetta fino a dieci minuti prima.
C’era quasi da provare della pietà per quell’uomo. Bill sapeva quanto lui e Bushido fossero amici. Gli dispiaceva un po’ averlo trascinato in quella sceneggiata per la quale, lo sapeva, Bushido non gli avrebbe rivolto la parola per giorni interi, ma insomma. Certe volte mettere Anis in difficoltà era l’unico modo per farsi ascoltare, almeno un po’.

*

Fuori piove ancora. Bushido non sa sinceramente cosa fare e questo non va bene, perché se almeno fosse tranquillo potrebbe decidere di lasciar stare Bill là fuori finché non si sia sciolto con le lacrime in mezzo alla pioggia e fregarsene. Andarsene a dormire e basta. Oppure, fanculo, uscire, recuperarlo e tirarlo in casa, infilarlo in una vasca d’acqua calda e scioglierlo lui, fra la schiuma e le labbra.
Karima lo guarda indispettita, e Bushido non riesce a reggerlo, quello sguardo.
- Piove. – gli fa notare.
- Me ne sono accorto. – risponde seccamente lui.
- C’è il bambino di fuori. – spiega allora lei, le braccia incrociate sul petto pieno da nonna bonaria.
A Bushido piace quando Karima chiama Bill “il bambino”. Gli piace perché lo fa sentire uno di famiglia.
Comunque il bambino è là fuori, da solo sotto la pioggia, con l’unica protezione di un impermeabile ed un ombrello. È là fuori ormai da quasi mezz’ora. La sua figuretta smilza sta già diventando indistinguibile contro il cielo scurissimo. I contorni si sfocano e la pioggia è più fitta. Bushido deve aguzzare lo sguardo per capire che non è andato via e c’è ancora qualcosa da guardare.
- Tornerà a casa. – dice, ma non ne è affatto convinto.
Non ne è convinta nemmeno Karima. I suoi occhi lo disapprovano ancora. Bushido cerca di ignorarla ma è come Bill là fuori, non ci riesce davvero. E questo è un altro dannato problema.


*

Bill si sistemò rigidamente sul sedile della BMW, chiudendo la cintura di sicurezza di modo che non spiegazzasse la giacca e la maglietta sotto. Bushido si sedette al suo fianco, poggiando le mani sul sedile e stringendolo fra le dita come volesse frantumarlo.
Bill incassò la testa fra le spalle. Strigliata in arrivo.
- La prossima volta, se potessi fare a meno di mettermi così sfacciatamente in ridicolo di fronte a tutti, te ne sarei immensamente grato, Bill. – disse Bushido con aria sostenuta, fissando la strada dritto davanti a sé.
Bill aggrottò le sopracciglia. Certe volte non riusciva veramente a capire perché Anis non potesse litigare come tutte le persone normali, strillando parolacce e magari lanciando un paio di ceffoni. Lui no, lui doveva rimproverarlo. Doveva farlo sentire piccolo e stupido e inadeguato, altrimenti non sarebbe mai stato contento. Non sarebbe stato abbastanza riconoscergli abbastanza maturità da concedergli un “vaffanculo”, no. Doveva dirgli “non si fa”. Neanche fosse ancora lo stesso quindicenne che sfotteva nel duemilacinque.
- Be’, la prossima volta starai attento a non ignorarmi e forse allora vedrò di non metterti in ridicolo. – rispose con un broncio. Era perfettamente consapevole dell’incredibile infantilismo di una simile risposta, ma d’altronde Anis lo stava trattando come un ragazzino, quindi perché rovinargli la festa.
- Ci stavamo divertendo. – gli fece notare lui, - Ma tu non sei contento se non sei sempre al centro dell’attenzione di tutti.
- Io me ne frego dell’attenzione di tutti. – mentì lui, aggrottando le sopracciglia, - Volevo solo la tua!
- Ed è per questo che ti sei messo a flirtare con Chakuza, sì?
- Sì! – quasi strillò, guardandolo improvvisamente in viso, - Esattamente per questo!
Anis non ricambiò il suo sguardo.
Bill digrignò i denti e sentì l’irrefrenabile impulso di scoppiare a piangere in quel preciso istante. Anis almeno si sentiva in colpa, quando lui piangeva.
- Dovrei veramente andarmene con qualcun altro! – gridò invece, tirandogli un pugno contro un fianco, - Sei uno stronzo!
Bushido non fece una piega. Ma imboccò una strada che non era quella che li avrebbe portati a casa sua.
- Dove stai andando? – chiese Bill, il cuore in gola, spalancando gli occhi, - Anis?
- Ti porto a casa. – rispose seccamente lui, senza degnarlo di uno sguardo, - Mi sembra evidente che sei regredito ai dodici anni. I bambini vanno a letto a casa propria, no?
Bill strinse i pugni lungo le cosce.
- Non sono un bambino, piantala.
- Ti comporti come tale. Ti comporti anche come se in realtà di me non te ne fregasse granché, Bill, dunque?
- Non me… - annaspò lui, percependo distintamente le lacrime farsi strada fra le ciglia, - Non me ne fregasse niente, Anis? Ogni cazzo di cosa che faccio è in tua funzione, vaffanculo!
- Sai che odio quando flirti. – disse lui, duro.
- Volevo attirare la tua attenzione!
- Potevi, cazzo, spogliarti e ballare nudo sul tavolo, Bill! – gridò Anis, voltandosi finalmente a guardarlo, - Tu non flirti in giro. Capito? Non lo fai.
Bill slacciò la cintura di sicurezza, lasciandola tornare a posto con uno scatto secco.
- Non sei mio padre, fottiti!
Anis non disse niente. Strinse di più la presa sul volante e si fermò senza scomporsi di fronte al cancello del suo complesso residenziale.
- Buona notte, Bill. – disse freddamente, senza guardarlo.
Bill lo fissò arrabbiato, in attesa che facesse qualcosa. Anche solo voltarsi nella sua direzione, cazzo.
Ma lui non fece niente, Bill si rassegnò e lo mandò a fanculo un’ultima volta prima di scendere dalla BMW ed infilarsi risolutamente all’interno del proprio palazzo.

*

Karima ha acceso le luci sul vialetto d’ingresso. In genere, la notte le tengono spente, a meno di aspettare qualche visita. Ma di fuori c’è il bambino e Karima ha deciso che se Bushido vuole lasciarlo a congelare almeno dovrà anche guardarlo mentre diventa una statua di ghiaccio. E quindi ha acceso le luci.
Nel momento stesso in cui la luce ha invaso l’ambiente esterno, a Bushido s’è fermato il cuore in gola. Bill era lì immobile in mezzo alla ghiaia, fermo, ritto in piedi, tremante come un cucciolo impaurito. Ma fissava dritto la finestra, come aspettandosi di vedere i suoi occhi da un momento all’altro.
Bushido e Bill si guardano negli occhi attraverso il vetro bagnato, da almeno dieci minuti. Bill s’è avvicinato alla finestra, appena ha intuito che anche Bushido lo stava vedendo. E adesso è lì fermo che lo guarda.
Bushido non sa dannatamente cosa fare.
Decide Bill per lui.
Bushido lo osserva lasciar cadere l’ombrello alle spalle. Compie una parabola perfetta e gocciola pioggia ovunque, sembra la coreografia di una fontana. A Bill piacciono i giochi d’acqua, Bushido se lo ricorda solo in quel momento. Non riesce a staccargli gli occhi di dosso, non quando lascia cadere l’ombrello, non quando la massa vaporosa dei suoi capelli comincia ad appiattirsi e inumidirsi fino a grondare acqua da tutte le parti. Nemmeno quando, lentissimo, scioglie la cinta che tiene l’impermeabile stretto in vita e lo apre, lasciandoselo scivolare lungo le braccia fino a cadere.
Deglutisce e resta immobile.
Se Karima fosse lì gli direbbe che il bambino sta prendendo freddo. Sul serio, adesso.
Karima è andata a dormire dopo aver acceso le luci.
Bill non sembra intenzionato a cedere di un passo. Per un attimo, Bushido spera lasci perdere e fugga via senza degnarlo di un altro sguardo. Ma Bill resta lì. Non si muove.
E allora si muove lui. Si alza lentamente e lo raggiunge alla finestra. Solleva una mano e la posa sul vetro, è ghiacciato. Può solo immaginare quanto freddo faccia fuori. Bill lo guarda, il trucco sciolto lungo le guance. Bushido non sa se sia per la pioggia o perché sta piangendo. Ma lo sguardo di Bill è fiero e serio. Non è uno sguardo da lacrime.
Bushido si allontana verso la porta.
È quasi convinto che quando la aprirà non troverà niente, dall’altro lato. Bill sembrava una visione trasparente, sotto la pioggia, vederselo scomparire d’improvviso non lo stupirebbe. Non si stupisce di non ritrovarselo davanti, infatti. Sta quasi per richiudere la porta e tornare dentro, si affaccia solo per scrupolo. E ringrazia mentalmente Dio per averlo fatto, quando si accorge che Bill non è andato via: è solo rimasto fermo dov’era, sotto la pioggia.
- …vieni sotto la pensilina, dai. – mormora sottovoce, e non è neanche sicuro che in tutto quello scrosciare d’acqua Bill lo abbia sentito.
Bill l’ha sentito. Scuote il capo e quei suoi capelli lunghissimi si muovono appena, appiccicandoglisi alle guance ed al collo nudo.
- Bill, sta diluviando.
- Pensi che non me ne sia accorto?
Bushido sospira e muove un passo sul vialetto. Si congela. Sospira ancora, ma si decide e viene fuori, avvicinandoglisi lentamente ed andando subito alla ricerca di una sua mano. La prende fra le proprie – è un piccolo cubetto di ghiaccio – cerca di scaldarla, la sente tremare sul palmo e gli viene voglia di abbracciare Bill e nascondere il viso sulla piega del suo collo, ma non lo fa.
- Vuoi venire dentro? – chiede, tornando a guardarlo con disapprovazione negli occhi.
- Mi vuoi in casa anche se sono una puttana? – ritorce lui, velenoso, ficcandogli le unghia nel palmo.
- Io – precisa Bushido con una smorfia a metà fra l’irritazione e il dolore, - non ti ho dato della puttana.
- È come se l’avessi fatto. – ritorce Bill, guardandolo fieramente negli occhi.
Bushido fa un’altra smorfia.
- Sei venuto per litigare, Bill? – sbotta acido, cercando di lasciargli la mano. Bill non glielo permette.
- Sì. – risponde invece, annuendo appena, - Io non sono tuo figlio, Anis. Sono il tuo ragazzo. Non mi rimproveri, con me ci litighi, capito?
E Bushido ricorda anche il motivo – quello fondamentale – per cui Bill gli piace tanto. Che poi è lo stesso motivo per cui non avrebbe mai dovuto portarselo a letto. O innamorarsene.
Sono identici. Decisionisti e cocciuti e orgogliosi e stronzi fino al midollo nello stesso identico modo.
- Odio quando flirti. – sibila Bushido, alle strette, - Se stai con me, non puoi flirtare con gli altri. Sono geloso, lo sai.
- Oh, allora solo perché sei geloso io devo improvvisamente diventare una perfetta donnina di casa e smettere di divertirmi. Certo, Anis, ovviamente.
L’uomo aggrotta le sopracciglia, indisposto.
- ‘Cazzo intendi dire, Bill? Dovrei lasciarti-
- Non stai litigando, cazzo. – Bill si passa la mano libera sugli occhi, stanco. – Piantala di essere così dannatamente tranquillo. Non mi stai elencando gli insegnamenti base del Corano. – gli si avvicina, posa quella stessa mano sul suo petto e stringe le dita attorno al tessuto ormai fradicio della sua camicia, - Stai dicendo che sei geloso. Cazzo. Che mi vuoi solo per te. È questo che stai dicendo, vero?
Bushido abbassa lo sguardo e si morde un labbro.
- Anis…
Torna a guardarlo, gli occhi brillanti di rabbia e di pioggia.
- Vaffanculo, Bill. – le labbra del ragazzo diventano sottili come linee, le guance si arrossano, - Sei una tortura. Cazzo, sì che ti voglio solo per me. Potessi, ti metterei le mani addosso alle otto del mattino e non le toglierei più fino a sera! Cazzo, non è che ti voglia per me,
tu sei mio perché io ti amo, Bill, e vaffanculo.
Il ragazzo si mordicchia il labbro inferiore. La pioggia continua a scorrergli sul viso, lungo le guance, lungo il collo, sopra i vestiti. Bushido resta immobile e non sa che fare. Bill si solleva sulle punte non perché ne abbia veramente bisogno ma perché sa che ad Anis piace quando lo fa. Si solleva sulle punte e lo allaccia al collo, stringendosi contro di lui.
- Siamo due deficienti. – gli bisbiglia all’orecchio in uno sbuffo divertito.
Bushido lo stringe alla vita.
- Tu lo sei. – ritorce borbottando, - Ti prenderai una polmonite coi controfiocchi. Ed io appresso a te.
Bill scrolla le spalle.
- Vorrà dire che staremo un po’ a letto insieme.
- Sai che meraviglia. – sospira simulando un fastidio che s’è perso con l’ultimo sbuffo di fiato, e Bill gli pizzica la nuca. Bushido ride. – Scherzavo, scherzavo. – lo rassicura, abbracciandolo un po’ più stretto.
- Dovremmo litigare più spesso. – mugola lui, sfiorandogli una spalla con le labbra. I vestiti sono tutti così bagnati che è come essere nudi.
Bushido si scosta da lui solo per baciarlo.
- Farò il possibile. – promette. La pioggia, tutto intorno, continua a cadere.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Lime, Slash.
- Il dramma delle relazioni a distanza, di avere un fratello poco conciliante e di due esseri umani che sono probabilmente la peggiore accoppiata della storia delle relazioni sentimentali. O forse no.
Note: Questa storia nasce ormai… un paio di settimane fa, sì, dopo aver visto l’ormai celeberrimo episodio 51 della THTV. Tab mi ha accolta appena sveglia strillando che Bill era bellissimo, donnissima e lo voleva assolutamente subito con Bushido. Quando ho visto anche io l’episodio mi sono ritrovata d’accordo, perché, insomma, è così piccolo e carino *______* che viene proprio voglia di ficcarlo fra le braccia del signor Ferchichi e metterli lì a ferirsi a vicenda *-*
Sì, lo so, è un’altra Billshido semi-triste ._. Il punto è che, quando dico che il mio fandom ispira dolore, non è che lo dico così a cavolo, lo dico perché è vero -.- Io volevo che questa fosse una storia fluff, ed in effetti era cominciata bene in questo senso è_é però poi s’è diluita nel dramma ed in una certa riflessione sui rapporti di coppia a distanza che, insomma, non sono mai cose esattamente lol, perciò alla fine, per quanto la storia in sé si concluda bene, immagino possa essere un po’ pesante, da leggere. I tatini non fanno che ferirsi quasi per tutto il tempo ;_;” *abbraccia i tatini*
Il titolo gliel’ha dato Tab. Il Salutandotiaffogo, invece, io; ma era di Tiziano Ferro XD
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POOL SIDE MANNERS
salutandotiaffogo

Bill si rigirò fra le lenzuola e sorrise ad occhi chiusi nell’accorgersi che la pelle non sfregava contro la fresca morbidezza del cotone, ma contro un calore familiare e un po’ ruvido, avvolto attorno al suo corpo esattamente come una coperta, ma molto più dolce. Sollevò le mani, le palpebre sempre abbassate, e le portò a sfiorare il petto della persona distesa al suo fianco – e tutta attorno a lui. La resistenza ostinata dei muscoli sotto i polpastrelli lo fece mugolare di piacere, così come allo stesso modo lo fece mugolare l’abbandono arreso delle gambe dell’altro quando le sue cercarono spazio fra di loro per un intreccio scomodo ma di cui sentiva assolutamente il bisogno.
Bushido rise, e fu allora che il ragazzo si decise ad aprire gli occhi.
- Da quando sei sveglio? – chiese, strisciando fra le sue braccia per raggiungere le sue labbra.
- Non ne ho la più pallida idea. – rispose lui, ridendo ancora, - Un paio d’ore?
- E non mi hai svegliato? – insistette lui, gli occhi già brillanti nell’attesa di una di quelle frasi tremendamente sdolcinate delle quali in genere ridi, quando te ne parlano gli altri, ma che ti scaldano il cuore quando sono rivolte a te.
- Be’, veramente ci ho provato. – rispose invece Bushido. Bill rise di cuore e si ricordò perché stava con lui. Le frasi sdolcinate non erano proprio di suo gusto. – È che non sei veramente una persona svegliabile. Soprattutto quando ti tengono in piedi fino a tarda notte.
Bill si mosse contro di lui, facendo le fusa come un gatto.
- E chissà di chi è la colpa, mh?
Bushido sorrise e roteò gli occhi.
- Mia, vostro onore, ma ho avuto la complicità della vittima.
Bill rise ancora e gli si strinse contro, posando il capo sulla sua spalla.
- Spiegare la tua presenza sarà un disastro.
Bushido si irrigidì sotto di lui, e Bill aggrottò le sopracciglia.
- …non credo ce ne sarà bisogno, piccolo.
Il moro si ritrovò a stringere così forte i pugni da piantarsi le unghie nei palmi. Fino a farsi male.
- Sei arrivato ieri sera.
- E devo ripartire fra tre ore.
- Non è possibile! – si lamentò lui, rivoltandosi sul materasso e guardandolo negli occhi, - Sei arrivato… dieci ore fa! Ed abbiamo dormito per le ultime quattro! Non puoi andartene, Anis, ti prego…
Bushido gli sfiorò una guancia con due dita, sorridendo appena.
- Non sarei neanche dovuto venire, piccolo. Ho le riprese per il video del nuovo singolo.
Bill gli si abbatté addosso, sospirando pesantemente.
- Quella canzone fa schifo. E quell’uomo è viscido.
- Ma… - rise lui, - Ma se è uno zucchero! Ti ha anche regalato una caramella, quando-
- Appunto! – tornò a guardarlo Bill, mugolando scontento, - È tremendo! Che razza di uomo regala una caramella ad un ragazzo?!
- Un uomo che scambia il suddetto ragazzo per la nipotina della mia cugina bianca?
- Tu non hai una-
- Ma cosa pensi che gli importi? – rise ancora Bushido, divertito oltre il legale, arricciandosi su se stesso, - Ha un milione di anni, perché deluderlo?
Bill mugolò e si ripiegò contro il suo collo, abbracciandolo stretto.
- Che razza di ore sono…?
- Molto molto tardi, piccolo. Siete abituati a svegliarvi sempre quando la gente normale va a fare il riposino pomeridiano?
Bill scrollò le spalle.
- Più o meno. – si allungò verso il comodino e recuperò il cellulare, scalciando un po’ le lenzuola per muoversi più liberamente e componendo a memoria il numero di Tom. – Tomi? – chiamò pigolando, - Sììì, lo so, avevo sonno da morire… c’è la TV, per caso? Mmmhn. Mandali via. Scendo fra una mezz’ora.
Chiuse la conversazione e si voltò a guardare l’altro uomo, che lo fissava di rimando con aria critica.
- Tu- - cominciò, ma Bushido non lo lasciò finire, poggiandogli un dito sulle labbra.
- No, Bill. – rifiutò nettamente.
Lui si divincolò dalla stretta e ricominciò a parlare.
- Hai detto tre ore, no? Ci muoviamo, facciamo colazione tutti insieme e poi ti accompagno in aeroporto!
Bushido scosse il capo.
- Hai dimenticato dei pezzi. Ci muoviamo, facciamo colazione tutti insieme, io tollero tuo fratello che, se va bene, mi fissa come fossi un assassino e, se va male, mi prende a insulti, e poi mi accompagni in aeroporto dove dovrò sopportare anche le tue lacrime. È così che andrà.
- Anis, ti prego
- No, Bill, sono io che ti prego!
Si fissarono per qualche istante, e Bill trovò surreale che stessero a tutti gli effetti litigando ma avvinghiati come non volessero lasciarsi andare mai più.
- …cosa ti costa?
Bushido fece una smorfia. Gli costava eccome, e Bill lo sapeva. Gli costava la fatica di non tirare qualcosa di molto doloroso in faccia ad un fratello scostante che non credeva fosse davvero compreso nel pacchetto Kaulitz e che invece lo era senza via di scampo. Gli costava starsene immerso in un mondo non suo, un mondo che gli era del tutto ostile e che continuava – giustamente – a vederlo come un intruso ogni volta che si mostrava in giro. Gli costava, soprattutto, resistere alla tentazione di mandare tutto a fanculo e restargli accanto quando lo vedeva piangere. Prendere tutto – il nuovo album, il video, il singolo e perfino Karel Gott – buttarlo nel cesso e tirare lo sciacquone. Solo per restargli accanto.
Ma costava altrettanto a Bill osservarlo rinunciare a dei momenti preziosi in cui avrebbero potuto semplicemente stare insieme, solo perché si sentiva a disagio in mezzo ai suoi amici. Solo perché suo fratello faceva lo stronzo. Solo perché ad Anis non piaceva vederlo piangere.
Alla fine, l’uomo cedette. Grugnì infastidito e si mise seduto. Bill commentò solo con un sorriso.
*
- Oh. Capisco. – furono le prime parole di Tom quando li vide avanzare lungo il bordo della piscina. Bill sorrideva lievemente stringendo la mano di Bushido, e fondamentalmente, in quel preciso istante, che suo fratello fosse un isterico geloso era una cosa che gli interessava solo in via marginale. Poteva tollerarlo.
Anis non sembrava dello stesso avviso, però, e si premurò di farglielo sapere cercando di divincolarsi dalla sua stretta. Bill gli lanciò un’occhiataccia.
- Anis, non siamo al liceo e quella non è la ragazza che ti veniva dietro e dalla quale non vuoi farti vedere mano nella mano con me. È mio fratello. Piantala.
Bushido sospirò e roteò gli occhi.
- È palesemente la ragazza che veniva dietro a te, ecco perché non voglio che ci veda mano nella mano. – lo prese in giro con un mezzo ghigno.
- Piantala col twincest, amore, posso uccidere per molto meno. – lo avvisò con un sorriso serafico. Bushido grugnì e lasciò perdere.
- Allora ho fatto bene a mandarla via davvero, la tv. – commentò il rasta addentando un sandwich dalla dubbia farcitura. – Come cazzo avresti fatto ad arrivare fino a qui tu, eh, tunisino?
Bushido strinse con forza le dita attorno a quelle sottilissime di Bill, facendogli quasi male.
- Pagando, naturalmente, Kaulitz. – rispose tagliente, - Di tasca mia. Non lasciando che a saldare il conto fosse la mia casa produttrice. Ma mi pare perfino superfluo specificarlo.
- E allora perché lo fai? – ritorse supponente il biondo, mandando giù un sorso di succo di frutta.
Bushido ringhiò. Bill gli strinse un braccio attorno alla vita.
- Ci calmiamo tutti quanti? – chiese con un sorriso zuccheroso, - Tomi, Anis andrà via fra qualche ora, saresti molto gentile se potessi-
- Io non sono gentile. – lo interruppe suo fratello, accavallando pigramente le gambe.
Bill fece una smorfia.
- Potresti essere buono con me, allora? – insisté il moro, accomodandosi su una delle sedie e spingendo Bushido a fare lo stesso.
Tom concesse un gesto di vaga approvazione e tornò ad affondare il naso nell’enorme bicchiere di succo di frutta.
- Grazie mille, Tomi. – concluse Bill con lo stesso sorriso di prima. Bushido guardò altrove, aggrottando le sopracciglia. Quel sorriso lo irritava a morte. Era un sorriso condiscendente, tenero ed arreso, e Bill lo usava solo con Tom. Era come se, ogni volta che mostrava quel sorriso, Bill stesse ribadendo il concetto fondamentale che Tom si gloriava di rinfacciargli ogni volta che se lo trovava fra i piedi: lui è mio ed io sono suo, ci apparteniamo in un modo che tu non potrai mai neanche lontanamente arrivare a comprendere. E ci sono cose di lui che saranno sempre e solo mie. Non potrai mai nemmeno sfiorarle.
Quel sorriso era una di quelle cose.
Bushido lo odiava.
- Anis, ti vanno queste robe…? Non mi piacciono per niente… - mugolò Bill, facendogli scivolare sotto il naso un contenitore di plastica pieno di roba fritta vagamente somigliante a patatine, - Sono dolci. – specificò il moro, - Mangiano certe schifezze, da questa parte del mondo…
Bushido scrollò le spalle ed allungò una mano verso il cesto della frutta posato nel centro del tavolo, recuperando un’arancia ed andando alla ricerca di un coltello per sbucciarla.
- Quindi molli il lavoro per venire a scopare oltreoceano, tunisino? – ricominciò prevedibilmente Tom dopo qualche secondo, piluccando dal proprio contenitore ricolmo di frutta mista in pezzi.
- Il mio lavoro, se permetti, sono fatti miei. – replicò seccamente Bushido, senza degnarlo nemmeno di uno sguardo.
Tom scrollò le spalle.
- Be’, sai com’è, fino a ieri Bill si lamentava che eri così tremendamente impegnato da non poterlo nemmeno chiamare al cellulare… evidentemente invece non fai un cazzo tutto il giorno, tu.
- Tom, senti- - cominciò, già irritato, ma Bill lo fermò pressandogli quelle dita incredibilmente sottili tutte attorno al polso, e rivolgendogli un’occhiata da cucciolo ferito, scuotendo appena il capo.
Bushido sospirò e tornò a stendersi contro lo schienale della sedia, sbucciando l’arancia. Tom sorrise trionfante.
- Sei fortunato che non ci sia David da questa parti. – riprese il rasta, passando a divorare il secondo sandwich, - Altrimenti avrebbe chiamato la sicurezza per farti buttare fuori. Non lo sai che abbiamo riservato tutta l’area VIP? Non ci potresti nemmeno stare, qui.
- Sono con tuo fratello, nel caso ti fosse sfuggito. – specificò l’uomo, mandando giù uno spicchio del frutto.
Tom sogghignò.
- Uh, già, è vero. Sai, trovo ancora difficile abituarmi al pensiero che ormai non sei più solo tu che sbavi dietro al culo di mio fratello, e che ora la cosa è reciproca.
- Cristo santo! – strillò, battendo arancia e coltello sul tavolo, - Mi sono rotto i coglioni di-
- Anis, ti prego. – lo fermò ancora Bill, mordendosi un labbro con aria sofferente, prima di rivolgersi al fratello, - Tomi, te l’ho chiesto come favore personale. Ti scongiuro. Ti prometto che dopo faremo qualcosa di bello io e te da soli, appena Anis sarà andato via.
Tom si alzò in piedi, gettando sulla tovaglia quanto restava del suo sandwich mangiucchiato.
- Fate il cazzo che vi pare. – rispose con una scrollata di spalle, prima di sfilare la maglietta e dirigersi tranquillamente verso la piscina a qualche metro da loro.
Bill si voltò a guardare il proprio uomo e, riflessa nei suoi occhi, trovò tanta di quella disapprovazione che ci si perse dentro.
- Scu-
- Non ci provare nemmeno, a scusarti. – tagliò corto l’uomo, recuperando l’arancia e ricominciando a tagliarne via spicchi, - È una tua fottuta colpa, questa situazione. Continua a dargliele tutte vinte e vedrai dove andremo a finire.
Bill si morse l’interno di una guancia, forzando un sorriso mite.
- Lo so, Anis. È per questo che mi scuso. Cercherò di sistemare la situazione appena sarai andato via. Promesso.
Bushido scosse il capo e sospirò, esausto.
- Prometti a me e lui due cose diverse, piccolo. – commentò con un mezzo sorriso, - Così è perfino peggio.
Bill si ripiegò contro la sua spalla, socchiudendo gli occhi.
- Non voglio litigare, Anis… è bello averti qui, non ci vedevamo da… tipo un mese.
Lui sospirò ancora, passandogli un braccio attorno alle spalle.
- Sì, all’incirca. – concesse con un cenno d’assenso. – Ti mancavo?
Bill sorrise contro la sua pelle, inspirando il suo profumo.
- Come l’aria.
- Ma sei ancora vivo.
- …non fare lo stronzo, adesso.
Bushido rise, lasciandogli un bacio sulla testa.
- Mi mancavi anche tu. – ammise a bassa voce.
- Sì, in effetti ti vedo sciupato… - commentò Bill con una risatina, - Si vede che la mia assenza ti devasta.
Per qualche secondo, Anis non disse niente. Poi strinse la presa della mano sulla sua spalla e lo guardò.
- È vero. – rispose, - Mi devasta.
Bill arrossì, perché c’erano volte in cui i filtri di Anis non si limitavano ad essere sottili come sempre, ma andavano oltre, sparivano e basta. Erano quei momenti in cui aveva l’impressione di potergli leggere nel cuore. Ed era spaventosa la quantità di affetto che riusciva a vederci dentro.
Distolse lo sguardo, perché era sempre difficile reggere gli occhi di Anis quando lo guardavano con quella purezza. Paradossalmente, era molto più facile gestirlo quando era affamato ed eccitato, che non quando era così tranquillo. Era troppo sincero. Era un sincerità che non poteva che farti piacere, d’accordo, ma feriva anche, perché era assoluta. Era unica. Era tagliente.
Era come se cercasse di entrargli dentro al corpo, ogni volta che lo guardava così. Come se stesse cercando di procurargli una ferita per intrufolarsi dentro di lui.
- Mangi regolarmente? – chiese per deviare il discorso, chiedendosi se fosse normale per un diciannovenne chiedere una cosa simile al proprio fidanzato trentenne.
Bushido rise.
- Le pizze a casa di Chaky contano come pasti regolari?
- …vecchie di quanti giorni? – chiese con una punta di disgusto, abbattendosi contro la sua spalla. Spalla che Bushido scrollò, facendolo saltellare tutto fino a confondergli le idee.
- A saperlo, piccolo. – ammise, inclinando un po’ il capo.
Bill sorrise lievemente e si accoccolò contro di lui. Tom riemerse dalla piscina proprio in quel momento, ed avanzò a bordo vasca fradicio e luminoso del riflesso del sole che batteva attraverso le gocce d’acqua sulla sua pelle liscia e ambrata.
- Prendetevi una stanza. – commentò acido, afferrando un accappatoio ed usandolo come un asciugamani prima di gettarlo a casaccio sulla sedia e tornare verso la piscina, per appropriarsi di una sdraio.
Bushido non avrebbe commentato l’uscita, se non avesse sentito chiaramente Bill ridacchiare contro di lui.
- ‘Cazzo ridi, Bill? – borbottò deluso, - Tuo fratello è uno stronzo.
Il ragazzo scrollo le spalle, spalmandoglisi addosso.
- Era una battuta carina.
- Solo nelle vostre teste contorte.
- Ma dai… - cercò di rabbonirlo con un sorriso sereno, - Era come dire che siamo molto appassionati.
- No, piccolo, era come dire “mi fate schifo, toglietevi dai piedi”.
- Vuoi insegnarmi a capire il mio gemello, Anis?
Bushido sospirò.
- Vorrei insegnarti a non farti prendere per il culo, testone che non sei altro. Ma è una battaglia persa in partenza. Almeno con lui.
Bill scrollò le spalle. Non aveva ancora toccato cibo.
Bushido si ritrovò per la prima volta a chiedersi se fosse troppo teso perfino per mangiare.
- Che ore sono? – si sentì chiedere da quella vocina estenuata e debole che anticipava sempre i loro addii.
- Molto tardi. – biascicò senza nemmeno guardare l’orologio. Lo fece Bill per lui.
- È vero… - confermò tristemente, - Andiamo a prepararci?
Anis scosse il capo.
- Io vado a prepararmi, cucciolo. Tu resti qui.
- Io ti accompagno.
- No.
- Io. Ti. Accompagno.
- No-oh.
Bill mise su un broncio delizioso, incrociando le braccia sul petto.
- La pianti di fare il bambino? – lo rimproverò a mezza voce, inarcando un sopracciglio con aria inquisitoria.
Bushido sospirò.
- Promettimi che non piangerai.
Bill sorrise.
- Promesso.
*
Bill era talmente teso che, Bushido ne era sicuro, se solo avesse provato a sfiorarlo sarebbe andato in mille pezzi. Infilò lo spazzolino da denti nel beauty case e poi infilò quest’ultimo nello zaino, guardandosi intorno alla ricerca di qualcosa che potesse avere scordato.
Bill stava seduto sul letto e Bushido si chiese se esistesse un modo per piegarlo in quattro ed infilare nello zaino pure lui, visto che aveva l’impressione che l’unica cosa che avrebbe rimpianto, una volta rimesso piede in Germania, sarebbe stato il suo corpo.
Bushido non era mai stato tipo da grandi riflessioni, eppure con Bill si ritrovava a volte a provare sentimenti che non avevano il minimo senso. Ad esempio, in quel momento: Bill era lì, a due metri da lui. Gli sarebbe bastato allungare un braccio e l’avrebbe toccato.
Eppure gli mancava. Non si sentiva abbastanza vicino. Era come trovarsi già dall’altro lato dell’oceano e invece, a voler esagerare, stava appena dall’altro lato del tappeto. E non era nemmeno vero, perché in realtà sul tappeto ci teneva i piedi quasi per intero.
- Bill? – lo chiamò a mezza voce, e lui tirò su il capo come si fosse svegliato in quel momento.
- Preso tutto? – chiese con un sorriso appena accennato, stringendo i pugni attorno alle ginocchia rigidamente piegate. Sembrava una bambola di plastica.
Gli si avvicinò, lasciando cadere lo zaino per terra e sedendosi sul letto accanto a lui.
- Lo sai che mi mancherai? – chiese, poggiando una mano sulla sua e percependola fredda e tesa sotto i polpastrelli, - Sul serio.
Bill si morse un labbro.
- Devi per forza-
- Devo per forza. – lo interruppe, annuendo brevemente. Con Bill era sempre tutto molto difficile. Concedergli qualcosa poteva essere davvero incredibilmente pericoloso, se poi ci si lasciava sfuggire il controllo.
Si piegò su di lui, baciandolo lentamente, come a voler stiracchiare il tempo. Magari, se si muovevano a rallentatore loro, anche le lancette non avrebbero avuto tanta fretta di fare il giro del quadrante.
Bill sollevò le braccia a cingergli il collo, e Bushido mugolò di disappunto perché, anche a non volergli concedere le cose, Bill sapeva bene come prendersele. Quando Bill sollevava le braccia in quel modo, quando lo stringeva al collo, quando si alzava sulle ginocchia e poi lo scavalcava con una gamba, sedendoglisi in grembo, non era mai per un paio di coccole e non era mai per un blando saluto.
- Bill, è-
- Arriverai in tempo. – lo rassicurò lui, prendendogli entrambe le braccia e conducendolo finché non gli concesse un abbraccio, - Promesso.
Bushido scansò il pensiero pericoloso – no, piccolo, non ci arriverò perché non ci voglio nemmeno arrivare – e chiuse gli occhi, stringendosi contro il suo corpo magrissimo, premendoselo addosso come a volerselo marchiare sulla pelle, solo per sentirsi ripetere dai propri sensi, per l’ennesima volta, che in realtà non ne aveva bisogno, perché Bill era sempre lì: le ossa appuntite del suo bacino, la curva incredibilmente flessibile della sua schiena, le spalle piccole e strette, il collo sinuoso ed elegante, la linea dura della mascella, la morbidezza surreale delle sue labbra.
Non ho nessun motivo di sentire la tua mancanza, amore, perché ti ho addosso sempre.
Ed invece no, ho tutti i motivi del mondo di sentire la tua mancanza, amore, perché non ci sei mai.

Lo aiutò a venir fuori dai jeans e da quell’assurda maglia da donna che s’era messo addosso prima di scendere di sotto, e poi si stese sul letto, e lasciò che fosse Bill a fare il resto. Gli piaceva quando Bill lo spogliava, perché lo faceva sempre con timore. E con una certa concentrazione. Era buffo, si metteva addosso un’espressione infantile veramente carinissima. Bushido lo osservava ed a volte non poteva fare a meno di afferrarlo per la nuca e tirarlo verso di sé per baciarlo ed avere una scusa sensata per chiudere gli occhi, così da non dover ridere.
Quella volta non lo fece perché in realtà di voglia di ridere ce n’era davvero poca. Lo tenne stretto per i fianchi mentre Bill gli sfilava i pantaloni e poi si spingeva contro la sua erezione, lasciandola scivolare contro la propria, pressandogli entrambe le mani sugli addominali, per reggersi dritto. Bushido ringhiò, lo prese per un polso e portò la mano alle labbra, lasciando un bacio su ogni polpastrello. Bill lo guardò e sorrise, e poi premette le punte delle dita contro le stesse labbra che lui dischiuse, accogliendole dentro la propria bocca, accarezzandole con la lingua e perdendosi nei mugolii di risposta di Bill.
Lo lascò andare con un sorriso furbo, baciando un’ultima volta le punte delle dita prima di seguirne il cammino lungo il proprio petto e il proprio ventre. Poi le osservò scomparire sotto il corpo di Bill e, quando lo vide chiudere gli occhi e schiudere le labbra, perdendosi in un’estasi solitaria del tutto priva di suono, seppe che si stava preparando per lui.
Lo sollevò per i fianchi perché voleva vederlo. Voleva osservare quelle dita affusolate entrare ed uscire del suo corpo, prepararlo alla sua presenza. Non che bastassero, in genere – Bill aveva ancora un mucchio di difficoltà a tenerlo dentro senza dover buttare fuori tutta l’aria che aveva in corpo, per fargli spazio – ma cazzo se erano belle.
Quando Bill sfilò le dita, Bushido non aspettò neanche un attimo per prendere il loro posto. Se lo lasciò scivolare addosso godendo della resistenza del suo corpo, mentre Bill stringeva i denti e tornava a premere le mani contro il suo ventre, cercando di imporgli un ritmo meno frenetico, paralizzando il tempo quando si tirava su, arrivando fino al limite, prima di aiutarlo a riprendere il suo corso lasciandosi ricadere verso il basso, prendendolo dentro fino all’ultimo centimetro.
Bushido lo strinse forte alla vita, si augurò di lasciargli dei segni evidenti, segni tali che non avrebbe più potuto alzare le braccia in concerto, perché con quelle micro magliette che metteva ogni volta si sarebbe ritrovato seminudo e tutti avrebbero visto. Segni viola talmente prepotenti, contro quella pelle bianchissima, che nessuno avrebbe potuto equivocare.
Sei mio. Quando non ci sei. Quando non ci sono. Lo sei sempre.
Bill si spinse contro di lui, una volta, due volte, più forte e più veloce, accarezzandosi distrattamente fra le cosce, come non ne avesse davvero bisogno perché la cosa che lo faceva godere non erano le mani, non erano le carezze, non era neanche la sua stretta, la cosa che lo faceva godere era il suo cazzo, piantato dentro di lui così in profondità da sconvolgergli il corpo e la testa, tanto in profondità da togliergli il fiato, la capacità di pensare, di far battere il cuore, di provare dolore, perfino di esistere. Restava solo il suo corpo a muoversi. Avanti. E indietro. Avanti. E indietro.
Bushido venne con un gemito soffocato, mordendosi un labbro e scattando in avanti, per un secondo completamente impossibilitato a controllare le proprie funzioni motorie, proprio mentre Bill stringeva con più decisione la mano attorno alla propria erezione pulsante e pompava un paio di volte, aiutandosi a raggiungere l’orgasmo e venendogli addosso, gettando indietro il capo.
Se ne accorse in quel momento, Bushido. Se ne accorse quando Bill tirò indietro la testa, perché vide una lacrima cadergli lungo la guancia. E si chiese per quale dolore stesse piangendo il suo ragazzo. Però a lui non disse niente.
*
Bill non gli si era ancora arricciato addosso. Erano seduti di fronte al gate già da una ventina di minuti e dovevano aver scambiato in tutto tre o quattro parole – qualcosa tipo “quanto manca?”, “un po’” – dopodiché erano rimasti immobili, ognuno sul proprio scomodo seggiolino, a fissare il tabellone luminoso delle partenze sulla parete di fronte a loro.
Che Bill non gli si arricciasse addosso ad una mezz’ora scarsa dalla propria partenza era disturbante, strano e triste. A Bushido non piaceva.
- Potresti almeno salutarmi. O intendi tenermi il muso finché non sarò salito sull’aereo, solo perché mi sto rifiutando di restare?
Bill gli lanciò un’occhiata infastidita. Una delle numerose cose che avevano in comune – uno dei numerosi motivi per cui non avrebbero mai dovuto stare insieme, ed anche uno dei numerosi motivi per i quali invece non riuscivano a stare l’uno lontano dall’altro – era l’incredibile fragilità dei loro momenti di calma. C’erano, sì, c’erano momenti in cui riuscivano a stare tranquilli. Ma duravano generalmente poco ed erano seguiti da interi giorni di agitazione tali da portarli a litigare per un niente. Senza un perché. Per il gusto di farlo. O forse neanche per quello.
- Non ho il diritto di essere triste? – chiese il ragazzo, stringendo le mani sulle ginocchia.
- Sì che ce l’hai. – ritorse lui, serissimo, - Ma non è un tuo diritto esclusivo, Bill. Se credi che a me faccia piacere-
- Io non credo che a te faccia piacere! – disse Bill, voltandosi di scatto a guardarlo. Poi si fermò, sembrò riflettere sulla possibilità di restare in silenzio o continuare a parlare, e Bushido vide i suoi occhi colorarsi dei toni opachi dell’incertezza e poi diventare liquidi e brillare per un secondo, prima di spegnersi, scendendo a fissare le punte delle anonime scarpe da tennis che indossava. S’era arreso. Arreso al litigio. – Credo non te ne freghi un bel niente. – disse infatti.
Bushido digrignò i denti.
- Sono venuto fino a qui dalla fottuta Germania, Bill! – gli rinfacciò Bushido, tirando distrattamente un calcio allo zaino posato sul pavimento fra le sue gambe. Era assurdo trovarsi in quel momento a ripetere quelle cose. Era il tipo di litigio più rodato che possedessero. “A te non frega niente di me – e per dimostrare che ho torto ti faccio arrabbiare”. “Non è vero, m’importa – e per dimostrartelo ti faccio del male”. Era una cosa talmente automatica che a volte Bill non aveva più nemmeno bisogno di dargli la frase di partenza, per cominciare ad urlare. Si ritrovavano a litigare furiosamente l’uno da una parte del divano e l’altro all’angolo opposto senza neanche aver bisogno di un motivo per farlo.
- Potresti rimandare le riprese del video e restare un po’… - disse Bill, ma il tono della sua voce non era speranzoso. Quella non suonava nemmeno come una richiesta. Era solo il ripetersi di un copione già scritto.
- Resterei, lo sai, ma non posso. – c’era da annoiarsi.
- Non vuoi. – c’era da smetterla, da smetterla davvero di continuare a prendersi in giro così.
- Bill, piantala di dire cazzate. – c’era da smetterla davvero.
Se io ti amo e tu mi ami, qual è il senso di questi discorsi? A cosa serve farsi del male in questa maniera del cazzo? A cosa serve inciderti addosso una ferita ogni volta che ci vediamo, solo per vedere che sono ancora in grado di farti male? Solo perché se ti faccio male vuol dire che ti importa ancora? Perché dovrei farlo, se già lo so che t’importa? Perché devo farti del male se tutto quello che voglio è un bacio e sentirmi ripetere che ami me solo me fino a quando non dovrò salire su quel fottuto aereo e sarò costretto a dimenticarmelo?
- Lasciamoci, Anis.
Bushido sollevò gli occhi. Prima sulle poltroncine di fronte alla sua. Non guardava nessuna delle persone lì sedute, ma almeno un paio di viaggiatori in attesa si sentirono molto disturbati da quello sguardo, e cominciarono ad agitarsi sul posto. Così Bushido guardò un po’ più in alto, sul tabellone delle partenze. Mancava un quarto d’ora all’inizio delle operazioni d’imbarco, più o meno.
Mentre Bill rimaneva zitto e immobile al suo fianco, Anis riavvolse il nastro della memoria a partire da due giorni prima. Da un colpo di testa e da un volo transoceanico. Dall’arrivo in un aeroporto sconosciuto e dal viaggio in taxi fino all’albergo. Dal sorriso sconvolto e felice di Bill e dalle sue braccia strette attorno alle spalle. Dal calore della sua pelle e dalla morbidezza incredibile del suo corpo. Da quanto gli fosse mancato stare dentro di lui. Dai suoi occhi brillanti mentre veniva sotto le sue spinte. Dalle sue mani serrate attorno alla sua stessa eccitazione.
Lasciarsi.
Perché?
A parte il dolore degli addii, a parte le incomprensioni di fondo, a parte il suo fottuto fratello impossibile, a parte la sua arrendevolezza, a parte gli impegni, a parte la nostalgia, a parte i litigi, a parte le ferite, a parte le difficoltà oggettive di portare avanti quella relazione assurda…
…ce l’avevano, loro, un motivo per lasciarsi?
- È a te che non frega un cazzo di questa relazione, Bill. – scoccò velenoso, senza preoccuparsi di tenere bassa la voce, - È a te che non frega un cazzo dei sacrifici che faccio. Se prendo un dannato aereo e rinuncio a due notti di sonno per raggiungerti, tu non puoi limitarti ad essere felice, no! – ghignò cattivo, recuperando lo zaino da terra e tirandoselo in spalla, mentre si alzava in piedi, - Tu, cazzo, tu devi cominciare a pretendere l’assurdo! Devi pretendere che io resti, anche se fino a un’ora fa stavi dicendo a quello stronzo di Tom che appena me ne fossi andato saresti stato tutto a sua disposizione!
Bill abbassò lo sguardo e rimase seduto, come pietrificato. Nemmeno respirava.
- Vuoi lasciarmi, Bill? – lo rimproverò alla fine, cupo, - Per me va bene. Ma non dire “lasciamoci” e soprattutto non dare a me la colpa. Prenditi le tue responsabilità e dimmi che vuoi lasciarmi, vaffanculo.
Bill strinse le mani in grembo e Bushido capì che piangeva solo dal tono di voce, quando parlò.
- Non capisci un cazzo. – lo sentì rantolare esausto, - Non capisci un cazzo di niente. Dovrei lasciarti anche solo per questo, stronzo supponente che sei. – sollevò lo sguardo, fissandolo finalmente negli occhi, lunghe strisce di kajal a rigargli le guance, - Ti senti tanto adulto, eh? A dirmi “prenditi le tue responsabilità”… ma cazzo, la responsabilità di questa storia è tua, stronzo! Sei tu che mi hai fatto innamorare, sei tu che hai insistito, sei tu che sei così come sei, ed io non posso smettere di provare queste cose, e non posso lasciarti, stronzo, perché ti amo!, ma mi fai male, Cristo, come faccio ad evitare di fartelo pesare, me lo spieghi?!
Tornò ad abbassare lo sguardo, ficcando entrambe le mani nell’enorme borsa che si trascinava dietro, alla ricerca di un qualche fazzolettino col quale ripulirsi il viso. Bushido si passò una mano sugli occhi. Si sentiva esausto. La sua non era una stanchezza da insonnia. Non era il jet lag e non erano neanche i litigi, a sfiancarlo così. Era, probabilmente, l’impossibilità fisiologica di rendere felice Bill. Renderlo felice sempre.
Sei mio quando ci sono e quando non ci sono. Ma non sei mai felice. Perciò, che tu sia mio comunque non è abbastanza.
Gli si inginocchiò di fronte, cercando i suoi occhi. Non li trovò perché erano ancora persi dentro il borsone, alle ricerca del famoso fazzolettino che, fra le lacrime che gli offuscavano la vista, sembrava completamente introvabile. Gli passo un pollice su una guancia, imbrattandosi tutto, e non gli importò. Così come non gli importò di non riuscire a fare nient’altro che allargare la macchia di trucco contro la sua pelle arrossata.
- Avevo ragione, non saresti dovuto venire… - disse in un soffio, senza riuscire a staccargli gli occhi di dosso, - Hai visto che hai pianto?
Bill rilasciò un singhiozzo stremato, stringendosi nelle spalle.
- Giuro che non volevo piangere. – si lagnò, distogliendo lo sguardo, - Avevo promesso, non volevo piangere. Ma tu volevi litigare, accidenti a te. Perché vuoi sempre litigare?
Bushido scosse il capo. Non aveva una risposta.
- Non lo so. – confessò a bassa voce, - Ogni tanto è solo… succede. Forse preferivo che piangessi per un litigio che non perché stavo andando via. Piangi sempre, quando vado via…
- Perché vai via! – motivò Bill, stringendo i pugni attorno alla borsa. – Mi sembra un motivo più che valido!
Bushido inarcò le sopracciglia, sollevandosi un po’ per riuscire ad abbracciarlo. Erano in una posizione ridicola. Bill seduto sul seggiolino e lui piegato in quella maniera assurda. Però il corpo di Bill era caldo e tremava ancora un po’. I suoi respiri spezzati s’infrangevano contro la pelle del suo collo dandogli i brividi.
Cinque minuti all’imbarco. Queste cose succedevano sempre a cinque minuti dall’imbarco.
- Scusami. – concesse in un sospiro, stringendoselo contro, - Anche se non posso dirti che smetteremo di litigare. O che sarà più facile. Non posso neanche dirti che ci proverò, perché non so se voglio provarci, a rendere le cose più semplici.
Bill scosse il capo, serrando le dita attorno alla sua maglietta.
- Ma io non voglio che cambi. – mugolò fra i singhiozzi, - A me piace così, Anis. A me piaci così. È così che ti ho scelto, è così che ti voglio. Tu… - gli lasciò un bacio distratto sulla guancia, - tu non devi cambiare. Però non puoi neanche pretendere che lo faccia io.
“Il volo LH7833 per Berlino, Germania, è in partenza dal gate numero 8. I passeggeri sono pregati di avvicinarsi per facilitare le operazioni d’imbarco.”
Bill strinse la presa attorno alla sua maglietta. Lo rilasciò subito dopo.
- Lo so che devi andare… - disse in un sospiro, - …e so anche che vorresti restare. Davvero.
Bushido sorrise contro la sua tempia, accarezzandogli gentilmente la nuca.
- Non sai quanto. – rispose con un ghigno.
Bill rise – una risata estenuata, ma almeno sinceramente divertita.
- No, so anche quanto. – lo corresse, strusciandoglisi casualmente addosso.
Rise anche Bushido.
- Sei tremendo. – commentò con finto disappunto, separandosi da lui.
Bill non piangeva più.
- Vedi? – disse il ragazzo, indicandosi gli occhi, - Ti sto salutando e non sto piangendo! Sono adulto.
Bushido annuì.
- Sono orgoglioso di te. – concesse, scompigliandogli i capelli.
Le sue lamentele – “non riuscirò mai a rimetterli a posto senza lacca, Anis!” – lo accompagnarono fino al gate. Ed anche un po’ dopo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Slash.
- Bill e Bushido si preparano per andare alla festa di Halloween che David ha organizzato a casa propria, ma qualcosa li fermerà lungo il cammino...
Note: Questa storia – scritta per il primo concorso di Fidelity, l’Halloween Fest – è nata dal desiderio del tutto assurdo di far dire a Bill che voleva chiamare sua figlia Samhain XD Non chiedetemi perché, visto che un motivo non esiste non saprei cosa dirvi. So che l’idea mi piaceva ed ho voluto buttarla giù. Era nata per essere una shot breve, fluff, abbastanza divertente, ed alla fine è di una tristezza sconcertante. Questo, suppongo, perché io credo che sia Bill che Bushido vivano la paternità in modo molto… sentito, ecco. Perciò, che dire, si sono fatti un sacco di film pucciosi. E poi arriva la madre e… ;_; Prima o poi riuscirò a dar loro dei figli. <- ha già plottato tre o quattro storie in cui accade.
Gli obblighi per il contest erano la zucca (e c’è XD) un colore (ed ho usato il nero della piuma e dei vestiti di Bill), la presenza di Halloween (…che mi pare sia palese XD) e la contestualizzazione della città (con Berlino, ho fatto il meglio che ho potuto XD). Spero di non aver toppato XD
Mi è piaciuto scrivere questa storia, nonostante odi farmi del male scrivendo. E me ne sono fatta XD Non c’è niente di più doloroso, per quanto mi riguarda, delle illusioni che si spengono nel nulla. Questa storia ne è schifosamente piena. Però la vita è anche questo, punkt. Per una Billshido felice aspetterò il prossimo schizzo d’ispirazione =P
PS: Un grazie e un enorme bacio a Nai per il betaggio.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
SAMHAIN

La serata era cominciata – e proseguita – così bene, che Bill stava seriamente cominciando a sentirsi fiducioso rispetto al mondo che lo circondava. Generalmente, quando usciva con Anis l’universo intero sembrava mettersi di mezzo per ostacolarli – Tom si faceva prendere da uno scoppio di gelosia acuta, David ricordava improvvisamente che il giorno dopo avevano delle interviste e non poteva andare a letto tardi, la madre di Anis pretendeva il figlio a cena, Chakuza si spaccava la testa contro un armadio e si doveva correre tutti in ospedale e così via discorrendo – perciò era davvero raro perdersi in tutta quella piccola serie di normalissimi gesti che compongono una normalissima serata fra fidanzati e be’, sì, godersela. La doccia mentre lui si fa la barba, asciugare i capelli mentre lui si veste, vestirsi mentre lui si lamenta che si sta facendo notte, raggiungerlo in salotto, i baci, gli “andiamo”, perdere tempo sulla soglia indecisi fra uscire e rituffarsi in camera da letto…
Decisamente non erano cose che potessero godersi tanto spesso. Perciò Bill era felice. Ed il fatto fosse la notte di Halloween lo rendeva solo più emozionato.
Halloween in Germania non era esattamente fra le feste più sentite – troppo americana, troppo confusionaria, non ce lo mandi il tuo bambino a bussare alle porte di ogni casa di Berlino, si sa mai cosa ci trovi dietro quando ti aprono – ma a Bill i travestimenti erano sempre piaciuti, perciò aveva letteralmente obbligato David ad organizzare una festa nel mega-appartamento che aveva comprato quando anche loro si erano trasferiti nella capitale. Qualcosa di semplice, giusto una cinquantina di persone, solo gli amici più intimi, il loro staff, la crew, qualche imbucato, cose così.
Ed Anis, naturalmente. Anis che, come da fantasia sessuale ricorrente, aveva provveduto ad avvolgere in cinquecento strati di tessuto dalle tonalità oscillanti dal blu notte all’azzurro cielo, prima di sentirsi rivolgere uno scocciato “Bill, da cosa cazzo sarei vestito?” cui aveva reagito con un sospiro rassegnato, prima di rispondere “Da tuareg, anche se ti manca il fascino, il mistero, la sensualità-”, “Il cammello,” aveva concluso Anis chinandosi a baciarlo sulle labbra, e la questione s’era chiusa lì.
Bill s’era vestito da principe – o almeno quella era stata la sua intenzione iniziale, ma quando aveva cominciato ad aggiungere borchie su borchie, reti su reti e chili di trucco su chili di trucco, Anis s’era giustamente voltato a guardarlo ed aveva commentato che dovrebbe essere vietato travestirsi da Bill Kaulitz ad Halloween. Se non a tutti, almeno a Bill Kaulitz stesso.
“Non sono travestito da me stesso!” aveva obiettato lui, offesissimo, mostrando con cipiglio fiero la lunga piuma nera che pendeva dal cappello a tesa larga, “Sono un principe! Un bellissimo principe!”.
“Con seri problemi di orientamento sessuale,” aveva sghignazzato Bushido, dandogli una pacca sul sedere.
“Esistono anche i principi gay,” era stata la sua secca e lapidaria risposta. Anis non aveva ribattuto – anche perché, se poteva esistere un re del ghetto, di sicuro poteva esisterne anche un principe. E se era gay il re, figurarsi il resto della famiglia reale.
Erano usciti nel gelo di fine ottobre avvolti in tanti di quegli strati di lana che i loro costumi neanche s’intravedevano, sotto. Tutto ciò che restava erano i pantaloni azzurrissimi di Anis, quello sciocco turbante che Bill gli aveva calcato sulla testa e la piuma nera del ragazzo, che ondeggiava libera lungo la sua schiena, fra le scapole magrissime e appuntite, mascherate appena un po’ dalla forma dal giaccone imbottito.
Stavano ancora camminando verso casa di David – a pochi isolati dalla loro – quando l’avevano sentito. Nella perfetta indifferenza generale – un ghiaccio, quello del popolo tedesco, che Anis riusciva a comprendere solo marginalmente e solo perché in Germania aveva sempre vissuto, e che a Bill invece non era mai appartenuto, probabilmente perché a Bill non importava moltissimo del proprio luogo di provenienza, preferiva divertirsi a conquistare il mondo piuttosto che restare attaccato alle proprie radici di sfigato campagnolo senza speranze.
L’avevano sentito, comunque, il pianto di un bambino. E non avevano potuto ignorarlo.
Anis aveva guardato Bill, Bill l’aveva fissato di rimando e poi s’erano annuiti a vicenda ed avevano cominciato a perlustrare la zona con gli occhi. L’avevano trovato accanto a un cassonetto dell’immondizia, come in ogni classico del genere. Non particolarmente nascosto, per la verità, era solo lì, dove non è che ti aspetti esattamente di trovare una culla addobbata di giocattoli come un albero di Natale prematuro, che custodisce al proprio interno un bambino frignante bianco e lucido di lacrime, una piccola perla, però più rumorosa.
Bill si avvicinò col timore che Anis gli aveva visto usare solo nei confronti delle cose fragili. Il timore col quale approcciava il proprio fratello quando lo vedeva triste, ad esempio. O quello col quale si avvicinava a lui dopo un brutto litigio – quando aveva paura di perderlo.
Sorrise rassicurante, stringendosi a lui mentre si chinavano a sbirciare all’interno del passeggino.
- Ma è piccolissimo… - fu il commento del ragazzo, esalato appena fra uno sbuffo di fiato condensato e l’altro, - Avrà un paio di mesi…
Per la verità il fagotto di copertine, peluche e sonagli era un po’ troppo grassoccio per essere davvero così piccolo, ma all’uomo non sembrò il caso di farlo notare al proprio compagno che, sempre più esitante, allungava una manina bianca e ghiacciata verso la creatura, probabilmente nel tentativo di sincerarsi della sua effettiva esistenza.
- Anis… - mormorò Bill sfiorando la guancia del bambino ed ottenendo in cambio un pianto ancora più dirotto ed un sacco di agitazione sotto le coltri di lana, comprensiva di braccina agitate e gambette scalcianti, - che facciamo? Non possiamo mica lasciarlo qui.
L’uomo si morse un labbro e cercò di riflettere, mentre Bill lasciava scivolare le dita lungo la guancia del bambino ed andava a cercarne la piccola mano – ora esposta al freddo della notte – fino a farsi catturare da quei salsicciotti paffuti che continuavano ad aprirsi e chiudersi convulsamente alla ricerca di qualcosa da stringere.
- Forse dovremmo portarlo alla polizia… - cercò di suggerire facendo leva sulla parte più razionale di sé e cercando di ignorare il proprio cervello che, alla vista di Bill che pasticciava col bambino piangente, aveva già fatto le valigie da tempo. – Magari i suoi genitori lo stanno cercando, non sembra… un bambino abbandonato.
Bill aggrottò le sopracciglia.
- Che esperienza hai tu, esattamente, circa i bambini abbandonati? – protestò animatamente, rimboccando le coperte attorno al corpicino ancora scosso dai singhiozzi, - E poi, che vuol dire? Se non sono chiusi in un sacchetto di plastica allora non possono essere stati abbandonati? È accanto a un dannato cassonetto dell’immondizia! Che altro ti serve?!
In realtà a Bushido non sarebbe servito altro, teoricamente. Solo che pensava anche ci fosse una bella differenza fra il rimanere colpiti da un bambino piangente e solo nella notte ed il prendersene la responsabilità.
Non era una cosa loro, di lui o di Bill. Era una cosa che gli era capitata fra le braccia.
Triste quanto vuoi, ma non da prendere sottogamba.
Gli occhi di Bill, comunque, urlavano “teniamolo”, e Bushido dovette farsi violenza per non ricordargli che non si stava affatto parlando di un cucciolo o di qualcosa di altrettanto semplice trovato per strada.
Sospirò profondamente e scrollò le spalle. Era una tipica situazione in cui, qualsiasi cosa fosse uscita dalle sue labbra, sarebbe stata quella sbagliata. Perciò preferì stare zitto e lasciare che Bill si esibisse in una delle proprie attività preferite – fingere di saper risolvere i problemi proponendo soluzioni al limite dell’assurdo, alle quali tutti poi sottostavano perché… perché lui era Bill e non esisteva davvero qualcuno capace di resistere a quelle labbra, quegli occhi e quelle sopracciglia, quando si atteggiavano in un determinato modo.
- Facciamo così, Anis… - sorrise infatti il ragazzo, posandogli distrattamente una mano sul braccio, in corrispondenza del tatuaggio col nome di sua madre che, quando veniva chiamato in causa, come in quel momento, risvegliava sempre la parte più tenera, più morbida e più drammaticamente scema della sua personalità, - Stanotte lo portiamo a casa, così almeno si scalda un po’. Domani mattina, con calma, ci ragioniamo su e vediamo se è il caso di portarlo alla polizia o procedere diversamente.
Sarebbe stata una soluzione perfettamente razionale, e Bushido sarebbe stato perfino d’accordo, non fosse stato per il piccolo particolare che lui amava Bill e, siccome lo amava, lo conosceva anche. Conoscerlo, nella situazione specifica, implicava leggergli dentro, però. E nel fondo degli occhi di Bill c’era ancora lo stesso urlo di pochi minuti prima. Teniamolo.
Sospirò.
- D’accordo. – concesse estenuato. D’altronde, erano comunque quasi le undici di sera ed aveva i suoi dubbi che portare il pargolo alla polizia avrebbe sortito effetti immediati. – La festa? – chiese quindi, estraendo già il cellulare dalla tasca del cappotto per avvertire chi di dovere che non si sarebbero presentati.
Bill inarcò un sopracciglio e lo fissò con curiosità.
- Che c’entra la festa? – chiese, con aria perfettamente ignara.
- …ci andiamo o no? – esplicitò lui, facendo scattare il flick del cellulare per invitare chiaramente Bill a rispondere “no, naturalmente torniamo a casa”. Bill non colse l’invito.
- Ovviamente sì. – rispose, disincastrando le ruote del passeggino dai sacchetti di plastica sparsi per terra, - Anzi, diamoci una mossa. Congelerà, se continua a stare qua fuori.
Bushido annuì e si mise al suo fianco per accompagnarlo lungo le poche vie che ancora li separavano dall’appartamento di David, dove, dato l’orario, tutti dovevano già aspettarli da almeno una buona mezz’ora, se non di più. A quel punto, riflettere sulla propria condizione di uomo asservito sarebbe stato deleterio ed inutile: poteva solo immaginare il putiferio che sarebbe scoppiato quando, alla festa, tutti i loro amici e conoscenti avrebbero posato gli occhi sul nuovo membro temporaneo della loro famiglia. Più che lanciarsi a peso morto sul materasso dell’autocommiserazione, gli conveniva restare attento e vigile e badare che Bill non perdesse troppo la testa.
*
David Jost era una persona estremamente semplice da capire, come tutte le persone puntigliose ed ordinate. Solo persone come lui potevano svolgere un mestiere come il suo con tanta bravura, perché per riuscire a governare quattro scalmanati in odore di successo ti serve comunque mantenere una certa rigidità. Uno schema mentale molto solido, insomma, qualcosa cui aggrapparti quando ti svegli al mattino e ti trovi immerso nel caos di un gruppo di adolescenti fuori di testa che sbraitano incolpandosi vicendevolmente per l’estinzione del latte all’interno del frigorifero, e tu non puoi fare altro che guardarti intorno, renderti conto di esserti addormentato sulla tastiera del computer e sperare di non avere i segni dei tasti su tutta la faccia, perché rimproverare dei ragazzini in quelle condizioni di certo non aiuta a renderti autoritario e serio.
A Bushido erano bastate un paio d’ore per inquadrarlo. Quando, spinto da un Bill in palese ansia da approvazione, s’era presentato all’ufficio del manager per ufficializzare la loro relazione, Jost aveva ascoltato ciò che aveva da dire e poi gli aveva posto tre semplicissime domande.
Numero uno: ci tieni davvero a lui?
Numero due: sai in cosa ti stai cacciando?
Numero tre: sei proprio sicuro di volertici cacciare?

Aveva incassato i suoi tre sì di risposta, aveva annuito e poi, semplicemente, aveva agito.
Tempo una settimana, il mondo sapeva che la relazione che migliaia di fangirl avevano immaginato per mesi era semplicemente diventata realtà. Tempo un’altra settimana, il fuoco fatuo della morbosa curiosità dei paparazzi s’era un po’ attenuato ed era tornato ai livelli – altissimi, ma tutto sommato normali – sui quali si attestava in qualsiasi altro periodo dell’anno.
Se le cose si erano svolte così pacificamente, Bushido sospettava lo si dovesse unicamente a quell’uomo. La sua metodicità era qualcosa di incrollabile ed incredibilmente utile.
Bushido, perciò, si fidava di Jost. E, entrando nel suo appartamento, si disse che non aveva niente di cui preoccuparsi, non sarebbe stato da solo a fronteggiare la palese follia di Bill – che aveva continuato a chiacchierare di stanzette con le pareti rosa o celesti per tutto il tempo della strada – e la giustificata curiosità del resto dei loro amici.
Jost, grazie a Dio, non lo deluse.
Stava appollaiato su una sedia a fianco di un’enorme zucca intagliata che sovrastava tutti gli ospiti di almeno una spanna. Non poteva essere vera, ma era bella come lo fosse. Non era palesemente fasulla: non era lucida né eccessivamente liscia e plastificata. Era, invece, opaca e piena di bitorzoli. Ed emanava anche un buon profumo.
Bushido e Bill fecero il loro ingresso all’interno dell’appartamento del manager che l’orologio aveva appena finito di scoccare l’undicesimo rintocco, e la zucca fu in effetti la prima cosa che Bushido vide. Fu anche la prima cosa che vide Bill, naturalmente, e fu per questo che squittì di gioia e batté le mani e per un secondo – un solo secondo – Bushido ricordò che era un ragazzino e sperò potesse essere infantile proprio in tutti i campi: compreso quello delle decisioni avventate.
La verità, però, era che Bill fosse sì un tipo da decisioni avventate, ma anche uno che quella stessa decisione, una volta che l’aveva presa, la portava avanti fino alle sue estreme conseguenze.
Anis pregò semplicemente che quella di Bill non fosse ancora una decisione. E sollevò una mano per salutare.
Tom, che aveva aperto loro la porta, li squadrava dalla soglia con un’espressione indecifrabile sul volto.
- …non capisco da cosa siete travestiti. – confessò alla fine, inclinando un po’ il capo, - Una famiglia di immigrati, tipo? – chiese, puntando il dito verso il passeggino. – Bill, ma dove l’hai trovata questa bambola? Dio mio, è così realistica che fa impressione… - mugolò con orrore mal dissimulato, lasciandosi andare perfino ad una smorfia.
Bill distolse gli occhi dalla zucca e li portò sul proprio fratello.
- Non è una bambola. – precisò candidamente, - È un bambino vero.
Il silenzio, che era ovvio crollasse su tutti loro dopo una rivelazione del genere, fece esattamente ciò che Bushido si aspettava. L’uomo si ritrovò quindi ad osservare Bill e suo fratello squadrarsi con aria incerta mentre, tutto intorno, i vari invitati – poteva perfino intravedere l’immancabile cappellino di Chakuza qualche metro più in là – si voltavano a spiare la scena.
In tutto questo, l’unico suono che sentì fu quello della sedia sulla quale David stava appollaiato. La sentì strisciare contro il pavimento per molti lunghissimi e sfiancanti secondi e poi fermarsi. L’uomo li guardava entrambi. Lui e la zucca sembravano guardarli con lo stesso cipiglio carico di… non era esattamente disapprovazione. Qualcosa più sul tipo del “ma esattamente, per quale motivo siete così stupidi?”. Una cosa più da padre rassegnato e bonario che non da uomo giudicante.
Già il secondo successivo, la perfetta illusione di silenzio che avevano vissuto s’era dissolta come una bolla di sapone e tutti gli invitati s’erano raggruppati attorno al passeggino per sbirciare all’interno. Il bimbo dormiva tranquillo, per niente disturbato dal vociare che riempiva la stanza. Bill osservò le sue guanciotte tonde prendere colore mentre il pancino si alzava e si abbassava al ritmo un po’ accelerato del suo respiro, e Bushido sorrise.
David si fece strada attraverso il capannello di invitati con un semplice colpo di tosse. La marea si aprì come di fronte a Mosè e lui poté guardare all’interno del passeggino, per poi scrutare le espressioni dei nuovi arrivati ed incrociare le braccia sul petto.
- Prima di tutto, Tom, - disse, rivolgendosi al rasta, - chiudi la bocca. Non ti hanno mica appena detto di averlo partorito. – sospirò pesantemente mentre Tom, imbarazzato, obbediva, e poi tornò a guardare Bill. – L’avete trovato da qualche parte, vero?
Il moro annuì, stringendosi lievemente nelle spalle.
- Era vicino ad un cassonetto. – spiegò sommessamente, in un tono che utilizzava solo col proprio manager, lui che in genere era tutto un’esplosione di esuberanza o, al limite, di scazzo cronico. – Non potevamo lasciarlo lì.
David annuì e si voltò a guardare Bushido, una domanda palese e silenziosa negli occhi.
Bushido scrollò le spalle e scosse il capo, arreso. David tornò a guardare il proprio cantante e fece la domanda di cui Anis aveva più paura in assoluto.
Ma avrebbe dovuto aspettarsela. David era un tipo da domande. Se non sai, non puoi gestire.
- Cosa avete intenzione di fare? – chiese a bruciapelo, come fosse un’informazione ordinaria, qualcosa di cui hai giusto bisogno per organizzarti la giornata, ed invece si stava parlando di organizzare un’intera esistenza. La loro, quella del bambino, tutte.
Bill si morse un labbro.
- Non potevamo lasciarlo lì… - ripeté con meno decisione. Bushido osservò la sicurezza vacillare nei suoi occhi e ricordò per quale motivo Jost riusciva ancora a stare dietro a quei ragazzi nonostante tutti gli anni passati e le confidenze condivise, cose che in genere trasformano i rapporti lavorativi in rapporti affettivi. Con lui non era successo, lui era riuscito a mantenere con i ragazzi un rapporto affettivo completamente avulso e parallelo a quello lavorativo. Era questo l’unico motivo per il quale ancora riusciva a portare un po’ di sale in quelle zucche.
David annuì a prese atto.
- Intendete tenerlo? – precisò dunque, e Bill sbiancò, terrorizzato.
- David, non mi sembra il caso- - cercò di intromettersi Bushido, che sì, non aveva alcuna voglia di ritrovarsi una responsabilità simile fra capo e collo così all’improvviso, ma non aveva nemmeno voglia di stare ad osservare il proprio ragazzo sciogliersi in un mare di lacrime perché si rendeva conto di essersi perso in fantasie poco raccomandabili nell’illusione di una notte stregata come quella.
Il manager, comunque, lo zittì con un cenno del capo.
- È una cosa importante. – spiegò a mezza voce, senza il minimo astio e senza neanche un pizzico d’irritazione, solo con competenza: da bravo amministratore di vite altrui. – Intanto, c’è da pensare alla denuncia. Poi, se pensate ci sia la possibilità di tenerlo, avviare le pratiche per l’adozione. Quando e se la madre dovesse ripresentarsi, naturalmente andrebbe tutto a quel paese, ma in caso contrario si dovrà formalizzare il tutto e-
- David, ma Cristo santo, non lo vogliono mica tenere, il moccioso! – sbottò Tom, scioccato, piantando una mano sul fianco e sporgendo un po’ l’anca in una posa molto simile a quelle tanto tipiche di Bill.
David inarcò un sopracciglio e tornò a guardare il Kaulitz minore.
- Bill? – lo chiamò, palesemente alla ricerca di una conferma o di una smentita rispetto alle parole del fratello.
Bill continuò a mordersi il labbro.
Bushido sospirò.
- Sarà il caso di pensarci domattina, David. – disse infine, stringendo con un braccio Bill attorno alle spalle, - È quasi mezzanotte, ormai, e siamo venuti qui per festeggiare. Il bambino, semplicemente, non potevamo lasciarlo lì. Al resto penseremo domani. D’accordo?
David lo guardò ed annuì sbrigativamente. Nei suoi occhi c’era ancora soltanto efficienza.
- D’accordo. – confermò, - Era solo per prospettarvi ogni possibilità. – poi sorrise, addolcendo lo sguardo e stendendo i lineamenti del volto, - Ma possiamo sicuramente farlo anche domani mattina. – concesse sereno.
Bill forzò un sorriso poco convinto, Tom sbuffò e si mosse verso il tavolo colmo di drink e stuzzichini e Bushido realizzò coscientemente di aver appena evitato al mondo una crisi isterica del proprio ragazzo.
Il mondo avrebbe dovuto cominciare a pensare ad un adeguato compenso nei suoi confronti.
- Ehi… - mormorò, rivolgendosi al ragazzo quando la folla si fu dispersa, - È tutto a posto, sì?
Bill ridacchiò nervosamente.
- Sì, certo. – annuì, - È che non mi aspettavo che gli altri la prendessero così seriamente.
- Così seriamente, Bill? – ritorse con un sorriso incredulo e vagamente ilare.
Bill esitò incerto.
- Lo so che un bambino è una cosa seria, Anis. – sospirò profondamente, - Solo non mi aspettavo che… va be’. – si arrese alla fine, scrollando le spalle, - Meglio trovare un posto silenzioso dove metterlo.
Bushido annuì e lo osservò allontanarsi a sguardo basso verso David, che ciarlava allegramente con Tobi accanto alla zucca. Bill richiamò l’attenzione del manager tirandogli la maglia – un gesto infantile che Bill ripeteva spesso con chiunque e che Bushido sospettava fosse stato generato dai vestiti extralarge di Tom, che imploravano per essere tirati – e poi Bushido li vide sparire insieme lungo il corridoio.
- Atze. – si sentì quindi chiamare, e quando si voltò trovò a guardarlo Chakuza, o almeno ciò che in una vita passata doveva essere stato Chakuza e che in questa era, invece…
- …da cosa sei travestito, Chaky?
- Uh? Da Peter Pan.
…un Peter Pan con un berretto da baseball calcato fin quasi sotto le orecchie.
Scoppiò a ridere senza ritegno e ringraziò Dio di avergli dato un amico naturalmente ridicolo, perché in situazioni come quelle ci si ricordava sempre che cose simili erano davvero indispensabili.
- Non mi prendere per il culo, Atze, ci ho messo due secoli a sceglierlo… - borbottò Chakuza, incrociando le braccia sul petto.
Bushido continuò a ridere, cercando invano di fermarsi.
- Scusa, scusa… - concesse quando infine gli riuscì di porre un freno a quello scoppio d’ilarità, - È che… è una calzamaglia, quella, Chaky?
- Era nel costume!!! – si giustificò lui, arrossendo furiosamente e macchiando di rosso quella tondissima faccia bianco latte.
- E non c’era anche un cappellino, assieme al costume? – inquisì, indicando il berretto con un cenno del capo.
- Sì, ma che cavolo, c’era una piuma sopra! Volevo far contento Bill perché sembrava tenerci a tutta questa storia dei costumi, ma ho ancora una dignità. – spiegò seriamente, annuendo. Poi si interruppe un secondo e fece una cosa che Bushido aveva imparato ad interpretare come segno di guai: assottigliò gli occhi. Quando Chakuza assottigliava gli occhi era perché stava per farti una domanda scomoda. E stava per fartela a bruciapelo, scorrettamente, di modo che non potessi proprio evitarla. – E tu? – chiese infatti, inarcando un sopracciglio inquisitore.
Bushido sospirò.
- Io… sono vestito da tuareg. – rise sfibbiando il cappotto e lasciandoselo scivolare lungo le braccia, prima di appenderlo alla spalliera di una sedia.
Chakuza ridacchiò scuotendo il capo.
- Non era quella la domanda. – precisò con un’occhiata dubbiosa.
Bushido scrollò le spalle e sospirò ancora.
- Non lo so se ho ancora abbastanza dignità per dirgli no su questo punto. – rispose guardando altrove, visibilmente in imbarazzo.
Chakuza gli allungò una poderosa pacca in mezzo alle scapole.
- Ti ha ridotto uno straccio, Atze. – commentò divertito, - Ma si tratta sempre di un bambino. Non vostro, oltretutto.
- Sì, sì! – esalò lui con tono lamentoso, alzando gli occhi al cielo, - Credi che non ci abbia pensato? È assurdo, ci è capitato fra le mani meno di un’ora fa e lungo la strada Bill è riuscito a farsi tanti e tali film da confondermi.
- …confonderti in che senso? – inquisì Chakuza, sospettoso.
- Non ne ho idea. – rispose sinceramente lui, - In tutti i sensi, temo. È che mi piacerebbe-
- Alt, alt! – lo fermò l’uomo, agitandogli le mani davanti al viso, - Fermati. Stai per dire una cosa di cui potresti pentirti fra qualche minuto.
Bushido si morse un labbro e rimase in silenzio.
Jost, nel mentre, era tornato in salotto. Da solo. Bill doveva essere rimasto con il bambino.
- È questa la cosa che mi spaventa. – disse alla fine, allungandosi a recuperare una lattina di birra dal tavolo poco distante, - Forse invece non me ne pentirei.
*
Era una femminuccia, doveva trovarle un nome.
David era andato via da dieci minuti ed era da quando s’erano ritrovati costretti a spogliarla e cambiarla – visto che aveva ricominciato a piangere e non aveva smesso fino a quando non avevano capito che il fastidio era nel pannolino, e perciò dovevano eliminarlo – che Bill non faceva che pensare a quel particolare.
Era una femminuccia, doveva trovarle un nome.
Fu per questo che, quando Tom, certo di trovarlo ancora lì, entrò in camera e si gettò sul letto accanto a lui, le prime parole di Bill furono proprio quelle.
- È una femminuccia, dovrò trovarle un nome.
Tom rise e si stese per tutta la lunghezza del materasso, allargando gambe e braccia e tirandolo per un lembo della maglia traslucida che, in teoria, doveva rappresentare la camicia del bellissimo principe che era.
- Cos’è, le hai sbirciato sotto la gonna? – chiese suo fratello quando ebbe ottenuto ciò che desiderava, cioè che lui gli si distendesse praticamente addosso, poggiando il capo contro la sua spalla ed una mano sul suo petto.
- No, scemo. – borbottò Bill, pizzicandolo attraverso la maglia, - Le ho cambiato il pannolino. – Tom inarcò un sopracciglio, dubbioso. – Be’… David le ha tolto il pannolino e l’ha avvolta in un telo di lino ripiegato in quattro… e poi l’ha fissato con una spilla da balia.
Il rasta scoppiò a ridere, passandosi una mano sugli occhi.
- Quando penso che quell’uomo non potrebbe essere più gay di com’è, ecco che lui mi contraddice! – commentò divertito. Bill lo punì con un altro pizzicotto.
- Non essere cattivo con David, la piccola aveva bisogno di essere cambiata! - ...ed io non avrei saputo dove mettere le mani per farlo, pensò distrattamente ed un po’ amaramente, ma evitò di dirlo ad alta voce. – E comunque da cosa diavolo saresti vestito? Mi sembrava di essere stato chiaro, costume obbligatorio!
Tom roteò gli occhi.
- Sono vestito da me stesso! – spiegò annuendo.
- Ma non puoi vestirti da te stesso! – protestò Bill, incredulo.
- Be’, tu l’hai fatto. – scrollò le spalle suo fratello.
Bill sbuffò.
- Ma perché lo dite tutti? Sono vestito da principe…
Tom ridacchiò e gli lasciò un bacino sulla tempia, stringendolo un po’ per le spalle.
- Non cambiare discorso, comunque. – lo riprese teneramente, - Stavamo parlando della bambina.
- Oh, sì. – annuì lui, - È femminuccia, - ricominciò immediatamente, - perciò-
- Non puoi tenerla, Bill. – lo interruppe seccamente Tom, stringendo un po’ di più la presa sulla sua spalla. – Non è tua.
- …be’, chi l’ha fatta non la voleva. – ritorse lui in un mugugno triste.
- Magari l’ha solo persa. – cercò di farlo ragionare il biondo.
- Ma non si perdono i bambini, Tomi! – sbottò, sollevando di scatto il capo per guardarlo negli occhi. Tom non lo evitò.
- Si perdono tante di quelle cose, nel mondo. – rispose con una scrollatina di spalle, - Comunque non puoi tenerla lo stesso. Non sei in grado. Guarda in faccia la realtà.
Bill tornò ad affondare il naso nel suo petto, giusto per ribadire ulteriormente che, in quel momento, di guardare in faccia la realtà non aveva proprio nessunissima voglia.
- Bill… - lo richiamò suo fratello. Il moro rispose con un mugolio indecifrabile e Tom sospirò e continuò a parlare. – Presente quell’enorme zucca che c’è in salotto? – chiese dal nulla, con tono divertito, - Ecco, pensa se ti dicessi: prendi quella zucca ed abbine cura fino all’anno prossimo. La voglio ritrovare nelle stesse precise identiche condizioni fra trecentosessantacinque giorni. Sarebbe una responsabilità mica male, eh? – Bill non rispose. Strinse la presa delle dita attorno alla sua maglietta e si limitò a sospirare. – Pensa tu con un bambino. Il bambino non deve neanche rimanere nelle stesse precise identiche condizioni, no, deve crescere, diventare più forte, imparare cose nuove. Tu ti stanchi di tutto dopo una settimana, Billi-
- Sarebbe diverso! – protestò finalmente lui, agitandosi furiosamente, - Non sarei solo, tanto per cominciare, e poi non potrei mai stancarmi di un bambino, non è mica un hobby del cavolo, è… - si morse un labbro, - …sarebbe una cosa mia e di Anis, capisci? L’abbiamo trovata insieme, sarebbe una cosa tutta nostra…
Tom rise sommessamente e lo circondò anche con l’altro braccio, stringendoselo contro.
- Tu stai facendo un mucchio di capricci, ma non sei proprio in grado di agire da persona responsabile. Una persona responsabile avrebbe preso il passeggino con tutti i sonaglini e, per prima cosa, l’avrebbe portato in centrale. Magari in ospedale, in alternativa, ma di certo non qui. E non fantasticando su quanto sarebbe bello tenerselo in salotto, quello stesso passeggino. – gli spiegò, coccolandolo lentamente, le dita fra i capelli ed il mento contro la fronte. – Né tu né Bushido avete fatto niente del genere. E questo dimostra che non siete ancora pronti per fare i genitori. – scrollò le spalle, - Prima o poi lo sarete. Ma adesso la bambina ha bisogno di un papà che sappia effettivamente come cambiarle un pannolino, non credi?
La bambina pensò bene di dargli ragione ricominciando immediatamente a miagolare scontenta, agitandosi fra le copertine. Bill si mise seduto e sbirciò all’interno del passeggino.
- Ma farà continuamente così…? – chiese sovrappensiero, allungando una mano ad accarezzarla su una guancia e sorridendo appena quando la vide calmarsi al suo tocco.
Tom si sedette al suo fianco.
- Non che io abbia un’esperienza particolarmente ricca, quanto a bambini, ma mamma si lamentava sempre dei bambini piagnoni, ricordi? Perciò probabilmente sì, fin quando non crescono, piangono.
- Mh. – annuì lui, vagamente triste.
Tom gli mise una mano sulla spalla.
- È che hanno solo questo modo di farsi capire. – spiegò con un sorriso.
Bill sorrise di rimando e si ripiegò contro di lui, alla ricerca di un altro po’ di coccole.
- Secondo te cos’è che sta cercando di dire adesso? – chiese a mezza voce, continuando a guardare la piccola.
Tom sospirò.
- Credo che le manchi qualcuno, Bill. Credo anche che a te manchi qualcuno come lei, ma… insomma. Lei dovrebbe venire prima, no?
Bill si morse un labbro ed annuì.
*
Si svegliò con la lieve risatina di Anis nelle orecchie e sorrise a propria volta, schiudendo gli occhi.
- Dormivi? – gli chiese l’uomo, sedendosi accanto a lui e facendogli passare un braccio attorno alla pancia, tirandoselo contro.
- Nnho… - mentì, mugolandogli addosso e stendendo il capo sulla sua spalla.
Anis rise ancora, fra i suoi capelli, e gli lasciò un bacio sulla tempia.
- Ho visto uscire tuo fratello e non te e mi sono un po’ preoccupato… - confessò, lanciando un’occhiata alla bambina profondamente addormentata nel passeggino.
- Deve essere andato via appena mi sono appisolato… - ipotizzò Bill, stringendosi nelle spalle. Poi lo guardò: - Appisolato, non addormentato, c’è differenza.
Bushido rise e scosse il capo, intenerito.
- Allora, oltre ad esserti appisolato, cosa stavi facendo?
Bill sorrise.
- La guardavo.
- …la?
- Già. – annuì entusiasta, - È una femminuccia. Dovremo trovarle un nome.
Bushido rise ancora, stavolta contro il suo collo, e lo strinse più forte.
- Se fai così, Bill, sarà difficile lasciarla andare.
Bill intrecciò le dita con le sue, mugolando mentre le labbra dell’uomo tracciavano una scia di calore un po’ umido lungo il suo zigomo.
- Non dobbiamo per forza. – protestò debolmente, chiudendo gli occhi.
- E invece sì. – gli sussurrò l’uomo, baciandogli la nuca, - Anche se eri bellissimo mentre la accarezzavi, per strada.
- Ed io muoio dalla voglia di vedertela prendere in braccio, Anis… - mugolò Bill, cercando di rivoltarsi nella sua stretta per baciarlo sulle labbra.
L’uomo lo lasciò muoversi e rispose al bacio perdendocisi dentro, Bill lo sentì abbandonare ogni resistenza in punta di lingua, mentre lasciava che l’abbraccio e le carezze sciogliessero ogni esitazione. Da qualche parte nella testa di Anis, Bill lo sapeva, c’era un mondo speciale in cui quella bambina era già loro e trotterellava felice per casa alla ricerca di un giocattolo o di qualcosa da mordicchiare. Quel posto, Bill lo conosceva bene. C’era anche nella sua, di testa.
Era orribile che l’unica realtà nella quale fosse proprio impossibile trovarlo, fosse anche l’unica realtà che contava qualcosa.
Si separarono l’uno dall’altro senza fare neanche un suono, restando per qualche secondo a respirare e basta, fronte contro fronte.
- Come la chiameresti? – chiese Anis senza aprire gli occhi.
Bill aggrottò le sopracciglia.
Il condizionale feriva un po’.
- Samhain. – rispose d’un fiato, stringendo le braccia attorno al suo collo.
Bushido sbuffò una mezza risata.
- Sarebbe?
- Celtico. – rispose Bill con un sorriso, - È la notte di Halloween in celtico.
- E pensi che sarebbe un nome adatto, per una bambina?
Il moro scrollò le spalle, abbandonandosi più comodamente contro di lui.
- Tu pensi che saremmo due genitori adatti, per una bambina?
Bushido strinse la presa attorno alla sua vita. Poi sospirò.
- Torniamo a casa?
*
C’era ancora molto freddo ed era decisamente molto tardi, ma Samhain s’era svegliata e, per la prima volta da quando l’avevano trovata, sembrava di buonumore. Appena aveva aperto gli occhioni aveva trovato Bill a fissarla dall’alto con una tenerezza disarmante, e non aveva avuto paura. Bill aveva sorriso. “Ciao stellina…” le aveva detto, “sei sveglia?”. Lei non aveva risposto, naturalmente, ma aveva afferrato un sonaglino a caso ed aveva cominciato a mordicchiarlo con quelle gengive rosa ed infantili, sbavando copiosamente sia sul giocattolo che sul telo di spugna che David aveva steso sulle coperte.
Bill e Bushido erano scesi per strada una decina di minuti dopo, nelle orecchie ancora le raccomandazioni del manager – controllare il pannolino, darle del latte tiepido come prima cosa appena tornati a casa, tenerla al caldo, coccolarla – e s’erano avviati sulla stessa strada che avevano percorso al contrario per arrivare da David.
Samhain stringeva fra le mani il sonaglio, Bill stringeva fra le mani il manubrio del passeggino e Bushido stringeva fra le mani le spalle fragilissime del proprio ragazzo.
Né Bill né Bushido – e probabilmente nemmeno Samhain – se ne accorsero, quando passarono di fronte al cassonetto dell’immondizia che li aveva visti unirsi. Era già nascosto sul fondo della mente, l’avrebbero riportato alla luce l’indomani mattina, quando tutto non sarebbe più stato magico e perfetto come in quell’istante ed avrebbe improvvisamente assunto toni più cupi e seri.
Davanti al cassonetto, però, ci passarono comunque. Ed anche quella seconda volta sentirono qualcosa.
- Karen!
L’urlo di una donna.
Si fermarono istantaneamente, stretti tutti l’uno all’altro, e si voltarono verso la fonte di quell’urlo: un corpo magro e slanciato, una donna bionda e pallida con un paio di enormi occhi celesti, avvolta in un cappotto beige ed affiancata da un bambino paffuto biondo anche lui, che stringeva per un polso.
- Oh mio Dio, Karen! – ripeté la donna, avvicinandosi a loro e tirando il bambino per il polso per un metro circa, prima di chinarsi e prenderlo in braccio per velocizzare le operazioni di spostamento, - Grazie a Dio!
Bill serrò automaticamente le dita attorno al manubrio. Bushido fece lo stesso con le sue spalle.
Era la madre.
Piangeva.
Era la madre.
La osservarono chinarsi sul passeggino e sfiorare la bambina con affetto e timore, come a volersi sincerare fosse ancora tutta intera, mormorando paroline dolci fra un singhiozzo e l’altro mentre il piccolino, accucciato accanto a lei, prendeva a piangere a propria volta, scosso dai suoi singhiozzi.
Samhain la imitò presto.
Bill si morse una guancia.
- I bambini… piangono molto spesso, Anis. – commentò a mezza voce, mentre si allontanava impercettibilmente dal passeggino, lasciandolo andare. Bushido non lasciò lui.
I due osservarono la donna riprendersi lentamente, smettere di singhiozzare e rimettersi in piedi, le mani strette saldamente attorno a quelle minuscole della bambina.
- Karl m’è scappato di mano… - spiegò la donna, asciugando le lacrime del bambino con un fazzoletto di carta, - C’era molta confusione e l’ho perso, ho dovuto rincorrerlo, non potevo lasciarlo andare via così, solo che quando sono tornata qui Karen era scomparsa e… - si morse un labbro, - Grazie a Dio siete tornati qui… grazie a Dio. Scusatemi. Grazie.
Bushido annuì lentamente. Bill si nascose contro di lui senza neanche un po’ di vergogna.
Quando la madre e i bambini furono spariti dietro l’angolo, i primi singhiozzi cominciarono a riempire l’aria, sovrastando il rumore dei tacchi dei passanti contro il marciapiede ghiacciato. Bushido li soffocò tutti uno dopo l’altro contro il proprio cappotto, stringendosi addosso Bill come il bambino fosse stato lui.
- Anis… - mormorò il ragazzo, andando alla ricerca di calore nell’incavo del suo collo, - Samhain…
- Va bene così, cucciolo. – lo rassicurò accarezzandogli la nuca, - Saremmo stati due genitori fantastici.
Bill annuì freneticamente contro la sua pelle, incapace di frenare le lacrime.
Prima o poi lo sarebbero stati davvero. In ogni realtà possibile.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Così si presenta oggi, apro la porta e lui è lì, appoggiato allo stipite, che mi fissa con un sorriso furbo da bambino monello che mi fa venire voglia di lasciargli addosso baci a stampo finché non gli vengo a noia."
Note: *si guarda intorno con aria sospettosa* Sono le tre e mezza del mattino, ho sonno e non posso andare a dormire, sono stanca, triste, depressa e sto per pubblicare senza il permesso di Tab, ma se restavo a ciondolare per casa senza un perché ancora cinque minuti sarei impazzita, perciò tanto vale fare qualcosa di utile e metter su questa gioiosa vaccatina, visto che domani comincia la round-robin e non voglio andarle di mezzo al primo giorno.
*sospira* Che dire? In realtà ho voglia di scrivere questo spin-off dalla prima volta che ho letto Eine Kugel Reicht °_° Va’ che tempismo, mh? È la meraviglia. Ma è che l’idea del Bu che insegna a Bill come usare la pistola era semplicemente troppo patapuccia per lasciarla andare ç.ç *ama* La triste verità è che, morte a parte, il Billshido di EKR è davvero un Billshido felice. Cioè, cazzo, loro erano felici, prima che lo stronzo morisse ;____; *getta odio immeritato random sul Bu che se è morto non l’ha fatto certo di propria spontanea iniziativa*
Comunque ._. Spero vi sia piaciuta <3 :*
PS. Il titolo viene da una canzone dei Nightwish. Mai sentita, ma mi piace il suono delle parole. E poi lo dice Bill nella shot.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THIS MOMENT IS ETERNITY

Se dovessi provare a descrivere quanto è bello in questo momento, neanche ci riuscirei. Anis non è una persona cupa, anzi, ride spesso, ma ci sono dei momenti in cui vedi che non sta solo ridendo, no, dietro c’è tutto un universo che sta nella sua testa e che è ciò che l’ha portato a sorridere in quella maniera. Sono i momenti in cui capisco che non ha fatto altro che pensare a me per ore, fino ad avere nella mente un’idea più che chiara di ciò che avrebbe dovuto dirmi, e quando ride così io so che lo fa perché ha progettato qualcosa di assolutamente meraviglioso e non vede l’ora di dirmelo.
Così si presenta oggi, apro la porta e lui è lì, appoggiato allo stipite, che mi fissa con un sorriso furbo da bambino monello che mi fa venire voglia di lasciargli addosso baci a stampo finché non gli vengo a noia.
- Principessa. – mi saluta con un cenno del capo vagamente simile ad un inchino, mentre io mi lascio contagiare dal suo sorriso e mi scosto dall’uscio per farlo passare. – Hai qualcosa da mangiare? Non ho ancora toccato cibo oggi.
Vorrei dirgli che non ricordo di aver comprato niente di commestibile, ma lascio perdere quando lo osservo infilarsi risolutamente in cucina ed uscirne subito dopo con una fetta di prosciutto che pende dalle labbra ed un bicchiere di succo d’ananas in una mano.
- Non so da quanto fossero in frigo… - lo avverto con una risatina.
Lui scrolla le spalle.
- Il sapore non è male. – mi rassicura, mandando giù il prosciutto. – A casa di Chakuza abbiamo preso tante di quelle intossicazioni epiche che mi sa che ormai ho l’intestino di ferro. – conclude bevendo d’un fiato anche il succo e dandosi un pugnetto sull’addome come a dimostrarmene la resistenza.
Penso che ho davvero un po’ paura di casa di Chakuza, me ne parlano tutti come di un posto molto pericoloso. A dare un po’ di corda ad Eko ti racconta di certi incontri ravvicinati con scarafaggi multiformi, nel bagno, da lasciarti agghiacciato. Non so, ho come l’impressione che quell’appartamento non vedrà la mia persona tanto presto.
Nel mentre, Anis si stiracchia soddisfatto ed il secondo dopo mi si abbatte addosso, strizzandomi in un abbraccio che sa di voglia e di una certa nostalgia stupida e pure molto tenera.
- Sono distrutto. – borbotta, - Voglio andare in pensione.
- Non sei ancora abbastanza vecchio. – lo rassicuro, visto che so che è esattamente quello che vuole sentirsi dire.
Lui ride e si china a baciarmi stringendomi per la vita, ed io sono già lì che allungo le mani cercando di eliminare lo stupido giubbotto che ancora lo avvolge per arrivare a toccare qualcosa di caldo, qualcosa di buono, qualcosa di suo, quando lui si allontana ridendo ancora, in uno sbuffo che riesco a soffocare fra le labbra solo in parte.
- Aspetta, aspetta. – mi dice facendo sfoggio di una pazienza che, dipendesse da me, schiaccerei sotto le scarpe per poi schienarlo sul letto, - Ho altri programmi per oggi.
- Io no! – biascico cominciando a spingerlo verso la camera da letto, piantandogli entrambe le mani sul petto. Lui ride e scuote il capo ma non protesta, indietreggia mentre lo spingo e continua a guardarmi come se fossi una cosa bellissima e inspiegabile. Adoro quando lo fa.
Impatta contro il letto e ci si lascia schienare davvero, mi fiondo entusiasta su di lui e sfilo via il dannato giubbotto che è peggio dei vestiti, perché è ruvido e freddo dell’aria della notte. Faccio per lasciarlo ricadere per terra ma lui mi ferma - “aspetta, aspetta!”, sempre ridendo, è meraviglioso il suono che fa – lo prende fra le mani e lo adagia con cura sul pavimento. Poi nota il disappunto nel mio broncio ed allarga le braccia – “okay principessa, riprendi da dove hai lasciato” – ed è tutto ciò che ho bisogno di sentirmi dire, afferro la maglia e la tiro via, resisto all’impulso di baciarlo ovunque solo perché devo disfarmi di tutti gli altri vestiti – i miei, i suoi, sono solo barriere inutili – e solo quando ci sono finalmente riuscito mi sistemo meglio sul suo grembo e mi struscio come un gatto contro la sua pelle, mi nutro del suo calore, lo sfioro ovunque ed ovunque mi lascio sfiorare. E lui continua a ridere. Ed è stupendo. Sono arrossito fino alla punta dei capelli e mi sento una liceale, ma in questo preciso istante non me ne frega un accidenti.
Mugolo un po’, rimettendomi seduto e incrociando le braccia sul petto.
- Ma non stai facendo niente! – mi lamento, imbronciandomi di nuovo.
Anis ride e solleva le mani a cingermi i fianchi, passa il pollice sul tatuaggio a forma di stella e lo disegna distrattamente, dandomi i brividi ovunque.
- Te l’ho detto che avevo altri programmi. – mi prende in giro con un sorrisino stronzo, ed io inarco un sopracciglio.
- E non li puoi cambiare? – chiedo, e sottolineo la richiesta spingendomi col bacino contro di lui.
Grazie a Dio Anis ha sempre reazioni corporee molto prevedibili, perciò mi prendo giusto un secondo per esultare interiormente quando vedo il suo sorriso cambiare colore e mi ritrovo all’improvviso rivoltato sul letto con tutto il suo peso addosso e le labbra schiacciate con forza contro il collo.
Lo abbraccio stretto, mugolando compiaciuto e sorridendo trionfante, visto che lui non può vedermi. Lui ride ancora – mi ride dritto sulla pelle – e borbotta “sarai la mia rovina, principessa”, ed io penso che mi va benissimo, perché lui è già la mia.
Non passa molto prima di ritrovarmi le sue mani ovunque, e rido divertito bisbigliando “non eri stanco…?”, mentre lui mi morde sul collo per mettermi a tacere. E d’accordo, penso io, non dico altro, da qui in poi solo mugolii, anche perché so che gli piacciono. E mugolo. Mugolo mentre mi sfiora e mi bacia e mi accarezza piantandomi le mani addosso di prepotenza, scrivendomi sul corpo l’intensità del suo desiderio, un desiderio che gli pulsa fra le gambe con una furia incontrollata, lo stesso desiderio che accolgo dentro di me fra i suoi, i miei, i nostri sospiri, il desiderio che lui spinge con forza fino in fondo al mio corpo, fin dove fa male e fin dove mi fa godere di più, il desiderio che mi costringe a piantargli le unghie nella schiena e i denti nella spalla, il desiderio per cui ansima contro la mia pelle, lo stesso desiderio per cui ansimo anche io. Il desiderio per cui vengo fra le sue dita è lo stesso per cui lui viene dentro di me. Siamo identici. Siamo uno. Siamo perfetti e questo momento è eterno.
Riprendo a respirare lentamente, fra le sue braccia, schiacciato fra il suo corpo e il materasso. Inspiro il suo odore, quello un po’ acre del suo sudore che si mischia all’odore del tabacco ed a quello del dopobarba. Rimango semplicemente immobile, gli occhi chiusi, e so che finirei per addormentarmi se lui non si riscuotesse e si mettesse seduto sul letto al mio fianco. Non si copre, non ha il minimo senso del pudore. Gli getto addosso il lenzuolo solo perché, in caso contrario, non riuscirò mai a smettere di guardarlo.
- Allora, questi grandi piani che avevi? – sbotto, cercando di darmi un tono mentre mi sistemo a mia volta, coprendomi come posso e ritrovandomi immediatamente addosso le sue mani che tirano via le coperte un po’ per infastidirmi ed un po’ perché gli piace fissarmi.
- Ah, già! – e gli ricompare sulle labbra il sorriso giocoso col quale è arrivato, mentre si sporge oltre il mio corpo e recupera il giubbotto da terra, posandoselo in grembo, - Hai dei peluche?
Inarco le sopracciglia.
- …quando sono venuto a vivere qui, Tomi mi ha obbligato a portarmi dietro i regali delle fan, c’è uno scatolone da qualche parte… - rifletto, - Tipo sull’armadio, controlla. Perché, comunque?
Anis annuisce ma non risponde. Si alza in piedi ed io distolgo lo sguardo perché altrimenti da questa situazione non uscirò mai vivo, ma lo osservo comunque tirarsi dritto sulle punte per raggiungere lo scatolone in cima all’armadio e poi tirarlo giù, rovistando all’interno. Ne tira fuori un paio di slip e cinque o sei reggiseni di cui non ricordavo l’esistenza. Li tiene su due dita, inarca le sopracciglia e un po’ mi prende in giro, un po’ è infastidito dalla loro presenza.
- Buttali via! – protesto imbarazzato, e lui ride e li rimette a posto. Dopodiché comincia sistematicamente a tirar fuori ogni singolo peluche mi sia stato regalato nell’ultimo anno, e li sistema ordinati sul pavimento, a ridosso della parete, proprio di fronte al letto. Uno accanto all’altro, come un plotone d’esecuzione.
Comincio giustamente a temere.
Lui rimira il lavoro soddisfatto ed io gli tiro addosso i pantaloni sperando indossi almeno quelli. Li ignora felicemente, lasciandoli ricadere a terra per poi voltarsi e tornare a sedersi accanto a me sul letto, prendendomi fra le braccia e costringendomi a sedermi praticamente addosso a lui. Non che mi dispiaccia, ma palesemente non uscirò vivo da questa situazione.
- Allora, principessa, stasera ti insegno una cosa che, in quanto mio compagno, devi saper fare per forza.
Io dovrei preoccuparmi, ma mi ha appena detto che sono il suo compagno, perciò decido che me ne frego, qualsiasi cosa sia la farò.
- Cosa? – chiedo curiosamente mentre mi sistemo contro di lui cercando di non scatenare imprevedibili reazioni a catena né nel mio né nel suo corpo.
È lì che lui si allunga verso il giubbotto, lo riporta vicino e fruga un po’ nelle tasche. E poi riemerge con la Heckler. Io la guardo con un po’ di timore perché generalmente evita di tirarla fuori in mia presenza. È una cosa tremenda, mi ricorda pezzi di lui che preferirei ignorare del tutto – e che per contro non posso ignorare affatto. Perché sono il suo compagno, appunto.
- …Anis, tu non vuoi, vero, che io-
- Userai i peluche come bersagli. – annuisce tranquillamente lui, - Non preoccuparti, ti aiuterò io, le prime volte.
- Anis, io non posso sparare ai peluche! – cerco di tirarmi indietro, ma lui ride, posa la pistola e mi stringe in un abbraccio fermo e deciso, soffiandomi sul collo.
- Calmati. – dice a bassa voce, - Sono solo pezzi di stoffa. Non sono neanche tuoi. E poi devi saperlo fare.
Il suo fiato sulla pelle non è veramente sostenibile. Cerco di distrarmi.
- Sentiranno gli spari…
Torna a sollevare la pistola.
- Vedi questo? – dice, indicando una specie di cilindro sulla punta, - È il silenziatore. Sai cosa significa? Che, quando spari, si sente solo una specie di psiuh.
Rido un po’ perché il suono che ha fatto è abbastanza ridicolo. All’improvviso, mi viene voglia di sentirlo, questo psiuh. Allungo una mano, il palmo bene aperto, ed Anis sorride e mi consegna la pistola. Naturalmente, è pesante da morire. La mia presa fa schifo e sia la mia mano che la pistola cadono sul materasso. Anis ride ed io mi imbarazzo furiosamente, distogliendo lo sguardo.
- Riprendila, dai. – annuisce incoraggiante. Io obbedisco. La tengo con due mani, me la rigiro fra le dita. È fredda ed enorme e così dannatamente impersonale che vorrei gettarla via.
- Fosse mia, le metterei un po’ di teschi qua e là… - rifletto a mezza voce, - È così spoglia…
Anis ride di cuore, la sua risata vibra tutta attraverso il mio corpo ed io mi ritrovo a pensare senza un perché che mi piace amplificare la sua voce. Dovrebbe parlare solo attraverso di me.
- Avanti. – riprende lui, stringendo le mie mani fra le sue e puntando la pistola verso il primo peluche della fila, una specie di topo deforme con le ali viola. – Spariamo a lui. È brutto, vero?
Lo osservo.
- È un insulto al decoro, direi.
Anis annuisce.
- Ora lo togliamo di mezzo. Uno psiuh e resterà solo un mucchietto di ovatta. Ci sei? – annuisco e mi concentro, aggrottando le sopracciglia. Anis ride ma so che lo fa perché mi trova tenero. Le sue risate hanno toni così differenti e precisi che, una volta imparate tutte a memoria, potrebbe anche solo ridere senza dire una parola per tutto il resto della sua vita, e lo capirei comunque.
Socchiudo gli occhi. Non intendo prendere la mira. Lascio che lo faccia Anis, dietro di me. Premo l’indice sul grilletto e lui preme il proprio sul mio. Pressa più forte di me.
Fa davvero psiuh. È un suono talmente ridicolo, e il topo viola si sfalda con una facilità così sciocca che non so, per un secondo dimentico di stare maneggiando una pistola e scoppio semplicemente a ridere. Così, piegandomi pure un po’. Anis si abbatte contro la mia schiena e ride a propria volta, lasciandomi un bacio su una vertebra a caso, ed io riapro gli occhi e vedo la pistola enorme fra le mie mani piccolissime fra le sue che invece sono grandi e forti e sono felice di una felicità molto molto stupida. Che forse non dovrei provare. E che però è qui e mi riscalda tutto.
- Bene! Abbiamo tolto di mezzo il topo viola. – commenta entusiasta Anis, - Passiamo al prossimo. – e punta contro il successivo.
- Ma no, è un gattino… - mi lamento io, mugolando infelice, - È carino, lasciamolo per ultimo!
- Vero. I belli sempre per ultimi, prima li si scopa, poi li si ammazza. L’arte della guerra. Sei un talento! – mi prende in giro lui, baciandomi sul collo. Io rido.
- Quell’altro. – dico, indicando un drago con due orribili occhi rossi e pallati, - Mi inquieta, posso sparare a lui?
Anis sorride compiaciuto.
- Provi da solo? – io annuisco. – Se fai centro, un bacio in premio.
Psiuh.
Il drago è illeso, in compenso la carta da parati non può dire lo stesso.
Il bacio in premio, però, visto che sono la principessa, lo prendo comunque.
Genere: Comico.
Pairing: Bill/Bushido, David/Tom.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Crack, Slash.
- Bill ha avuto un'idea geniale: una collaborazione Bushido/Tokio Hotel che possa soddisfare le fangirl molto più di quanto non facciano i flirt pubblici. Il problema è che questa stessa idea finisce per rivoltarsi non solo contro chi l'ha avuta, ma pure contro tutti gli altri. Buongusto delle fangirl lettrici a casa compreso ._."
Note: Questa storia nasce in un modo molto perverso – come perfettamente intuibile dalla tematica, immagino. Nasce, precisamente, con me che, in crisi d’astinenza da Billshido, mi piego a leggere una Billshido/Torg AU decisamente opinabile che non vi linko perché ci sono cose che vanno tenute nascoste alle masse no matter what. Nella storia in questione, Bill era un gioioso allievo un po’ ribelle che finiva in punizione, sorvegliato dal prof di storia – vi lascio indovinare chi fosse. Tom e Georg erano due giocatori di football e l’unica loro utilità era rotolarsi fra i documenti del povero prof di storia di cui sopra – povero non perché fosse in sé sfigato, ma perché non puoi mettere Bushido a fare il prof e non aspettarti che io ci rida su. E anche parecchio.
Comunque. Niente, m’è venuta voglia di infilare Bill in una divisa da scolaretta XD La colpa è del crossdressing. Perciò di Sar@. La colpa del crossdressing è sempre sua. La colpa del Tost – e quindi del conseguente inserimento di Tom che ha dato da solo un perché alla fic – invece, è di Yul, che si lamentava (come al solito) che nessuno le scrive mai fic sulla coppia che piace a lei. Toh XD
Insomma, come vedete io sono completamente innocente °_° La colpa è tutta di altri XD Ma spero comunque che queste cinque paginette di follia vi siano state gradite <3
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FOREPLAY

Tom lo stava guardando come fosse pazzo già da una decina di minuti abbondanti e, sinceramente, la cosa cominciava a farsi un puntino irritante. Bill incrociò le braccia sul petto e sporse un broncio molto offeso, aggrottando le sopracciglia e dardeggiandolo con un’occhiata risentita.
- Be’? – borbottò, - Che hai da fissarmi così?
Tom deglutì e si sistemò meglio sul divano.
- …non avrei affatto dovuto dirtelo. – concluse annuendo lentamente per darsi ragione da solo, - Avrei dovuto continuare a lasciarti nella tua ignoranza, perso nel tuo idillio amoroso col tuo rapper dal cuore di panna, così non avresti mai saputo che…
- …che tu te la fai col mio manager.
- Che è anche il mio manager. – precisò piccato. – Sì, comunque. Non l’avresti mai saputo e non saremmo mai arrivati a questo punto.
Bill batté un piedino a terra e si espresse nel migliore dei suoi bronci da diva insoddisfatta.
- Non mi pare di averti mai dato fastidio, fino ad ora! Ed è un mese che lo so! – si premurò di fargli sapere, fissandolo astioso.
- Ed infatti m’era sembrata troppa grazia! – strillò Tom, scattando in piedi e prendendo a muoversi ossessivamente intorno al divano, - Non lo farò, Bill.
Bill si tirò indietro, i tratti del viso che denunciavano un profondo sgomento – la bocca spalancata, il cipiglio oltraggiato, gli occhi liquidi e brillanti – e lo puntò col dito.
- Come puoi…!
- Non lo farò! – ripeté più duramente Tom, - Ma poi, che utilità potresti ricavarne?!
- Be’, almeno non sarei solo!
- Ma che vuol dire, io non sarei mica lì con te!
- Non fisicamente, ma spiritualmente sì!
- Ma è follia!!! E poi perché, se tu vai a sputtanarti col tuo uomo, devo farlo anche io col mio?!
- Per gemellarità! Che gemello di merda sei?!
- Un gemello che ci tiene alla propria dignità!
- Ti fai David, che dignità può esserti rimasta da difendere ancora?!
Tom ringhiò e concentrò sulla punta della lingua tutto l’astio ed il fastidio di cui si riteneva capace.
- La dignità di uno che per scopare non ha bisogno di infilarsi in un costume e fingere di essere una cosa che non è!
Bill serrò le labbra, risentito.
- Non è un costume! – precisò poi, indicando l’enorme sacchetto di plastica trasparente che giaceva immobile ai suoi piedi, - È una divisa. E quale migliore occasione di utilizzarla, se non questa? È l’unico momento in cui possiamo rischiare di beccarli insieme!
- Io non scoperò con David nella stessa stanza in cui tu stai scopando con Bushido, Bill!
- Ma chi te l’ha chiesto?! – continuò ad urlare lui, sempre più sconvolto, - Dobbiamo solo andarci insieme, poi prenderemo ognuno una stanza!
Tom roteò gli occhi.
- Lo sapevo io. – mormorò con la furia depressa di un uomo sull’orlo di una crisi di nervi, - L’avevo detto a David. Ai Tokio Hotel non serve una collaborazione con Bushido. È pericoloso dare a quei due l’opportunità di stare insieme anche per lavoro. Sarà un dramma.
Bill trasalì.
- Vuoi dire che hai provato a sabotare il mio magnifico piano fin dall’inizio, Tomi?!
Suo fratello lo guardò e non ebbe neanche la forza di deprimersi oltre.
- Sapevo che doveva essere una tua macchinazione malvagia. – disse invece, tornando a lasciarsi andare sul divano. – Bill, non puoi essere serio. Quei due stanno lavorando, e sono peraltro gli unici lo stiano facendo. Se andiamo a romper loro i coglioni, il nuovo album dei Tokio Hotel non vedrà la luce né oggi né domani né mai. E tu non vuoi che questo accada, vero?
- Ovvio che non voglio! – protestò Bill, disgustato da tanta sfacciataggine, - Che domande. Però per un giorno non andrà mica tutto a puttane!
- Ma perché, Dio mio, perché non puoi aspettare che finiscano di registrare?! Già Bushido è una frana, in sala di registrazione, David sarà isterico, ci presentiamo noi conciati… così! – sbraitò, indicando a propria volta il sacchetto di plastica con un dito, - Sarà la fine!
Bill roteò gli occhi e si preparò ad usare il proprio asso nella manica.
- Tom. Seriamente. Da quando hanno cominciato a lavorare, tu hai più scopato? – Tom fece per aprire la bocca ma Bill lo fermò puntandogli un ditino perfettamente smaltato sulle labbra. – A-ha! – lo rimproverò bonario, - Sii sincero.
E Tom deglutì. Deglutì perché sapeva perfettamente che, quando Bill ti chiedeva di essere sincero, era perché conosceva già la verità. Perciò l’avrebbe saputo all’istante, in caso di menzogna. E le rappresaglie sarebbero state multiformi e spaventose e più variegate di una coppa di gelato fruttato in cinque o sei gusti diversi.
- …no. – si decise a rispondere mestamente alla fine.
- E non ti manca? – chiese Bill, avvolgendolo in un abbraccio improvvisamente comprensivo e simpatetico.
- …sì. – singhiozzò Tom, che già vedeva profilarsi l’Apocalisse all’orizzonte.
- E non vuoi ricominciare a farlo?
- …mh. – annuì, lasciandosi andare contro la sua spalla e chiudendo gli occhi nella speranza di riaprirli poi ed accorgersi di essersi appena svegliato da un orrendo incubo.
Naturalmente non accadde.
- E allora indossa la tua divisa, Tomi… - ghignò Bill, separandosi da lui, - Prima che ti rifili la mia.
Tom guardò in basso al sacchetto e vide le gioiose piegoline di una gonnella alla marinaretta sbucare fuori dalla chiusura in alto. Deglutì ancora e si chinò a raccogliere i pantaloni.
*
David Jost ed Anis Mohamed Youssef Ferchichi erano due uomini molto simili, in svariati ambiti della loro esistenza. Non avere avuto un padre per la maggior parte della loro vita li aveva resi abili a sbrogliare le situazioni complicate per fatti propri, senza creare problemi e capendo sempre in anticipo quale fosse la strada più giusta da intraprendere.
Per tale motivo, era bastato loro guardarsi negli occhi due-minuti-due per capire che, dalla strampalata eppure convincente idea di Bill – io ed Anis siamo sempre in giro a flirtare! Diamo soddisfazione seria alle fangirl! Baciamoci! O forse è meglio incidere un brano insieme?, e naturalmente la scelta era caduta sulla seconda ipotesi – si sarebbe potuto cavare fuori qualcosa di sensato solo a patto di sedersi amabilmente al tavolino e scrivere.
“Scrivere” significava semplicemente che Anis avrebbe dovuto sedersi al suddetto tavolino e buttare giù la solita fiumana di parole non necessariamente dotate di senso ma possibilmente non troppo orrende da sentire una dietro l’altra. Per quanto riguardava David, invece, dal momento che era palese che Bill non si sarebbe mai e poi mai davvero deciso a dare un perché alle idee sparse che spiaccicava un po’ ovunque su qualsiasi superficie disponibile, gli sarebbe toccato sedersi a propria volta e cercare di buttar giù qualcosa di abbastanza poppeggiante da non preoccupare nessuno ma non abbastanza smorto da uccidere di noia i loro fan.
Fu in questa situazione – chinati entrambi su un foglio di carta a scrivere alacremente come ai tempi della scuola – che li colse un lieve ticchettio alla porta dell’ufficio nel quale si erano rintanati per scrivere – o per pomiciare indisturbati, come aveva insinuato Natalie facendo sfoggio di incredibile quanto fuori luogo ironia.
David sollevò gli occhi per posarli su un paio completamente diversi dai suoi – più scuri e più grandi e con delle ciglia da Maybelline che, dannazione, ma si truccava? – ma macchiati della stessa incredula curiosità.
Bushido si premurò di dare voce ai pensieri di entrambi alzandosi in piedi e battendo un pugno contro il tavolo.
- Ma chi cazzo rompe i coglioni?! – disse l’uomo dirigendosi a passi veloci verso la porta, mentre David gettava uno sguardo al foglio e motivava quell’astio con le lunghe ed arzigogolate linee d’inchiostro che il rapper aveva tracciato sul quadernetto, per poi cancellarle invariabilmente e pure con una certa furia.
David osservò l’uomo pararsi di fronte alla porta e spalancarla con tanto impeto da potere arrivare a scardinarla senza problemi.
- Non è il momento di- - iniziò, ma le parole gli morirono in gola quando, di fronte ai suoi occhi, si parò esattamente l’ultimo spettacolo che potesse aspettarsi di vedere in una situazione come quella. Forse in un sogno, forse ad Halloween, forse in un universo alternativo avrebbe potuto accettare come normalità vedere Bill vestito come una scolaretta, ma non – assolutamente non – quando stava cercando di scrivere una canzone. Per lui, peraltro.
- Buonasera, signor Ferchichi… - cominciò Bill, stringendosi pudicamente nelle spalle e piegando un po’ le gambine per guardarlo dal basso come una lolitina un po’ scema, - io e Tomi siamo qui per le ripetizioni… se anche il signor Jost è in casa.
Nella mente di Bushido si formarono tutta una serie di giustificatissime domande. Signor Ferchichi?, tanto per cominciare. E poi, a seguire, ripetizioni? In casa? Signor Jost?
- Che succede? – riecheggiò alle sue spalle la voce del manager, e l’uomo, non riuscendo a trovare parole adeguate per spiegare cosa stesse guardando, si limitò a farsi da parte e lasciare che Bill e Tom si stagliassero contro la soglia della porta in tutto il loro – presunto – splendore.
Se già Bill poteva definirsi uno spettacolo inquietante – in molti sensi, peraltro – con quell’indecente gonnellina blu a piegoline che non riusciva a coprire neanche tutti i boxer e la maglia leggera che si fermava ondeggiando proprio sull’orlo del tatuaggio sull’inguine, Tom era addirittura straniante: s’era infilato dentro una divisa da damerino svogliato – camicia semiaperta, cravattino allentato, mani mollemente abbandonate nelle tasche dei pantaloni chiari – che lo rendeva… perfino conturbante. Più di quanto già non fosse di solito, almeno.
- …oh. – fu il commento del manager.
Bushido lo guardò.
- Oh? – chiese, inarcando un sopracciglio e puntando i gemelli con un dito, - Questa ti sembra una cosa da “oh”? Non da “Cristo santo” o da “siete indecenti” o chessò io?
David deglutì e si ritrovò costretto ad abbassare lo sguardo, mentre Bill ghignava in maniera così cattiva da fare paura.
- Sì, be’, sapevo… - deglutì, - …sapevo delle divise, ecco.
Bushido lo guardò. Bill rideva. Tom fissava il proprio gemello ed il proprio manager con una curiosità venata appena dall’ebetismo tipico di chi non sta capendo un accidenti di ciò che si sta verificando di fronte ai propri occhi.
- Sarebbe a dire? – chiese il rapper, impaziente, senza riuscire a tornare a guardare Bill, che nel mentre aveva incrociato le braccina dietro la schiena e stava ondeggiando felice da un piede all’altro, facendo frusciare la gonna.
- Sarebbe a dire, - cinguettò appunto il moro, palesemente divertito, - che erano nel suo armadio. Gliele ho rubate.
L’invocazione di Tom – un “David…?” che probabilmente sentì solo Bushido, tanto era basso e tremolante – era quanto di più vicino al lamento disperato di un condannato a morte che l’uomo avesse mai sentito.
- Stavo… - motivò il manager, furiosamente imbarazzato, - …aspettando il momento giusto per tirarle fuori… - sollevò gli occhi sul proprio ragazzo, - Ma non erano per te e per Bill, erano per… te e me…
Bill continuò a sorridere trionfante come avesse capito tutto perfettamente fin dall’inizio e anzi fosse stato lui a manovrare i desideri del manager apposta per obbligarlo a comprare due divise da scolaretti di modo che poi lui potesse sgattaiolare felicemente in camera sua e rubargliele.
Bushido si chiese ragionevolmente come avesse potuto passare tanto tempo con quell’uomo senza capire le oscenità che gli vagavano per la testa.
Tom, semplicemente, scattò in avanti con un ringhio furioso e strillò un “Ma io ti ammazzo! Tu volevi infilarmi in una gonna!” che sarebbe stato sicuramente il preludio di una morte certa – visto che Jost stava a capo chino e non sembrava intenzionato a difendersi – se Bushido non avesse allungato una mano e fermato il Kaulitz assassino arpionandolo per la collottola e riportandolo letteralmente coi piedi per terra, borbottando con una certa competenza “Adesso ci calmiamo e facciamo le persone serie, ok?”.
Tom continuò a ringhiare oltraggiato fra le sue mani, mentre Bill, naturalmente, ignorava il suo invito a calmarsi tutti e, soprattutto, tornare tutti sani maschi etero – cosa che non sarebbe guastata, visto come si finiva a trentasei anni, scivolando su quella china – preferendo saltellare felice per la stanza fra incredibili sollevamenti di gonna e planare disinvoltamente sul tavolo, accavallando le gambe e rovesciando uno zainetto pieno di libri sulla superficie che, fino a pochi secondi prima, ospitava il lavoro di tutta una settimana, ora inesorabilmente disperso sul pavimento.
Jost rimase immobile seduto al proprio posto con gli occhi bassi, cosa di cui Bushido gli fu anche in parte grato, visto che, da quell’angolazione lì, si doveva avere una panoramica di un certo sederino davvero niente male. E il sederino era suo, ringhiò interiormente Bushido.
No, tornare sani maschi etero sarebbe stato parecchio difficile.
- Io e Tomi abbiamo problemi con certe equazioni… - disse Bill, angelico, aprendo un libro d’inglese a caso e puntando il dito su qualcosa che doveva probabilmente essere una qualche coniugazione di un qualche verbo che, di numeri, non ne vedeva implicati neanche per sbaglio.
- Bill, potresti almeno essere meno palese. – commentò Bushido, mentre Tom si liberava dalla sua stretta ed andava a schiantarsi contro un divano, lanciando alternativamente occhiate d’odio a Jost, al fratello e perfino a lui che, in tutto quel disastro, era l’unica persona veramente incolpevole.
Il moro aggrottò le sopracciglia, offeso, ed accavallò le gambe in un’imitazione di Basic Instinct così perfetta – mutande a parte – che avrebbe potuto valergli l’Oscar.
- Domani c’è un compito in classe… - raccontò ritrovando immediatamente il proprio entusiasmo e ignorando per contro la sua protesta, - Vero, Tomi?
“Tomi” grugnì.
- Tomi?
- Sì, sì. – confermò il rasta con un vago gesto della mano, tornando a fissare il proprio manager con aria omicida.
Bushido roteò gli occhi e poi si volse implorante verso David, alla ricerca di un po’ d’aiuto e, chissà, di una camicia di forza. Magari nell’armadio aveva anche quella. Si ritrovò di fronte uno spettacolo ancora più agghiacciante dell’imitazione di Sharon Stone: David Jost stava raggomitolato sulla propria sedia, con la testa fra le mani, e mugolava indistintamente “è la fine, è la mia fine” ondeggiando pure un po’.
- Signore dammi la forza. – sospirò il rapper esasperato, per quanto si rendesse perfettamente conto dell’inutilità di stare lì ad invocare l’inesistente rompicoglioni che, apparentemente, si divertiva a rendere le loro vite un inferno in terra. – Bill, hai veramente bisogno d’aiuto per studiare o vuoi solo rompere i coglioni e sabotare la tua band?
Bill s’infuriò e gli sollevò il libro a un palmo dal naso.
- La matematica! – borbottò offeso.
- Questo – puntò il dito Bushido, scostandosi il libro di dosso, - è inglese.
Bill tirò il manuale a sé e lo guardò con un certo interesse. Poi scrollò le spalle e tornò a spiaccicarglielo in faccia.
- Potrebbe spiegarmi l’esercizio numero ventuno, signor Ferchichi?
Dal momento che Bill non sembrava disposto a ragionare in tempi utili – posto lo fosse mai stato, naturalmente – Bushido sospirò e si voltò verso Tom, che quantomeno sembrava ancora in sé. O meglio: era fuori di è, ma aveva ragione ad esserlo. In tutta onestà non avrebbe saputo immaginare in che modo Tom potesse aiutarlo a sistemare la situazione, ma era un tentativo da fare comunque.
- Tom, - disse conciliante, - so che sei arrabbiato-
- Io non sono arrabbiato. – ringhiò il biondo, assottigliando gli occhi come quelli di un gatto, - Io sono perfettamente lucido. Io lo ucciderò. Lo legherò al letto, lo avvelenerò e così morirà fra atroci dolori mentre io incido sulla sua pelle le fottute piegoline della fottuta gonna che voleva farmi indossare.
Al sentire quelle parole, il mugolio indistinto di David si fece più forte. Bushido cominciò a temere seriamente per la vita di tutti in quell’angusto studiolo. Principalmente per la propria, oltretutto. Ne sarebbe uscito vivo solo Bill, come la sottospecie di angelo della morte che in effetti era.
Sospirò.
- Tesoro. – chiese poi al proprio ragazzo, fissandolo intensamente, - Ti senti mica trascurato, ultimamente?
Bill lo fissò con sincera incredulità.
- Sì. – rispose quindi, annuendo compunto.
Tom ringhiò e David sollevò il capino – gli occhi veramente colmi di lacrime. Bushido si chiese se fosse possibile consolare con un abbraccio un uomo di quell’età, ma poi decise che non sarebbe stato il caso di abbracciare qualcuno di fronte a Bill neanche se quel qualcuno avesse avuto dodici o tredici anni. Anzi, forse sarebbe stato peggio.
Indicò con un vago gesto della mano il bizzarro abbigliamento del suo ragazzo.
- Questi… - disse, abbracciando con lo sguardo camicetta e gonnellina, - sono un sintomo del tuo disagio?
Bill continuò a fissarlo con incredulità.
- Sì. – rispose ancora, sempre annuendo compunto.
Bushido incrociò le braccia sul petto e meditò.
- Vuoi mica scopare? – chiese infine, come illuminandosi d’immenso.
Bill sollevò la gonnellina dall’orlo ed inarcò un sopracciglio come se la risposta fosse implicita in quel movimento.
Bushido annuì e poi sorrise, scuotendo il capo, divertito. Si chinò verso di lui, stringendolo alla vita con un braccio fino a trascinarlo in piedi e schiacciarselo contro, fissandolo negli occhi ad un centimetro dal suo viso.
- E non bastava chiedere…? – gli soffiò addosso, osservando compiaciuto gli effetti del proprio respiro sul suo corpo – il rossore delle guance, gli occhi improvvisamente luminosi, la lingua a saettare fra le labbra per inumidirle nella speranza di ricevere un bacio.
Bill sollevò una gamba e la insinuò fra le sue.
- Allora forse è meglio se mi porta di là, signor Ferchichi… e studiamo anatomia.
Bushido rise.
- Questa era orribile, Bill.
- Sì, è vero. – rise anche il ragazzo, stringendosi nelle spalle, - Comunque io volevo anche aiutare loro due, eh. – borbottò accennando col capo sia a Tom sempre seduto sul divano a ringhiare che a David sempre seduto sulla sedia a piangere, - Non siamo mica gli unici che hanno smesso di scopare causa lavoro.
Bushido scosse il capo.
- Hai fatto più danno che altro, mi sa. – commentò come se gli altri due non fossero presenti e non potessero sentire. La reazione di Tom fu incassare ancora di più la testa fra le spalle ed intensificare la quantità d’odio fuoriuscente dagli occhi.
David guardò Bushido con aria persa.
- Non vorrete veramente andarvene… - piagnucolò indecentemente, deglutendo terrorizzato.
Bushido scrollò le spalle.
- Sei un uomo piacevole, Jost, ma, che dire?, Bill ha decisamente bisogno di una mano.
- O anche due. – rincarò il moro, annuendo freneticamente in un frusciare di capelli che Bushido si ritrovò controvoglia ad immaginare stretti in due graziosi codini legati ai lati della testa.
Mentre trascinava il ragazzo in una stanza adiacente, pensò d’altronde che magari, prima di farlo, il tempo per un po’ di foreplay si sarebbe pure trovato.
Né Bill né Bushido avvertirono le urla provenire dall’altra stanza, quando Tom portò a termine la propria vendetta. Non sembravano, in ogni caso, segnali della morte di nessuno.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Commedia, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst (lievissimo), Slash.
- "Sapevo che sarebbe stato un disastro fin dal momento in cui Bill entrò nel mio ufficio e mi guardò con quegli occhi lì."
Note: …*l’amore la sommerge* Dio quanto mi mancavano ;___; Bill e Bu, vivi, felici ;O; *muore* Sono in iperventilazione, al momento, perché l’ho riletta alla ricerca di correzioni da fare per pubblicarla, e mi è pure piaciuta. Miracolo & sconvolgimento emotivo *annuisce*
DAVID!!! X’D *progetta grandi cose per lui* No, davvero, non ho niente da dire è.é Però questa cosa andava scritta. Punto. XD
PS: Il titolo è rubato all’ennesima canzone del Bu e significa “quest’unico desiderio” <3
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DIESER EINE WUNSCH

Sapevo che sarebbe stato un disastro fin dal momento in cui Bill entrò nel mio ufficio e mi guardò con quegli occhi lì. Che non sono i suoi occhi normali, perché in genere Bill quando ti guarda in maniera normale non ti fa paura. È quando dà alle sue occhiate quell’inflessione cucciolosa ed amorevole e apparentemente innocua che mira a scioglierti il cuore per assoggettarti al suo volere, che tu cominci a tremare. Ma tremare davvero.
Perciò, quando lo vidi entrare nella stanza, timido e timoroso e tutto occhi, io tremai, e cercai di farmi minuscolo sulla poltrona in pelle marrone, quasi per sparirci dentro.
Naturalmente non c’era alcuna possibilità che una cosa simile avvenisse. Eravamo solo io e lui nella stanza, lui non parlava ancora ma io sapevo perfettamente che l’avrebbe fatto da lì a poco, e che quello sarebbe stato l’inizio della fine. E non c’era niente che potessi fare se non prepararmi al peggio e sperare di contenere i danni.
Che sarebbero stati enormi.
Lo seppi con certezza nel momento in cui si sedette – senza avere ricevuto alcun invito in proposito, s’intende – e si dedicò per qualche secondo alla complicata operazione di torturarsi le dita, prima di sollevarmi addosso quelle pozze castane e schiudere le labbra per garantire una via di fuga a cinque minuscoli sussurri – l’inizio della fine, appunto: sai, David, Anis ed io…
- No. – risposi pacatamente, sistemando dei documenti sparsi sulla scrivania. Avrebbero tranquillamente potuto essere carta straccia o fogli bianchi, non era importante: ciò che importava era darsi un tono e, soprattutto, dare ad intendere a Bill fossi indaffaratissimo e non fossi perciò disposto ad ascoltare le sue follie.
Lo vidi combattere per un secondo fra la possibilità di mantenere l’espressione da cucciolo o mettere su un broncio molto indispettito. Probabilmente non sapeva quale fra i due potesse avere, a lungo andare, maggiore effetto sul sottoscritto. Sperai imboccasse la strada sbagliata.
Lui si mantenne cucciolo ed io imprecai contro il mio cattivo karma.
- Non sai neanche cosa stavo per dirti… - mugolò dispiaciuto, sorridendo appena in un modo lieve e lontano da diva delusa dalla vita.
Io finii di rassettare le inutili scartoffie e mi chinai verso di lui, guardandolo severamente.
- Non ne ho bisogno, Bill. – spiegai, - Hai nominato Bushido. Qualsiasi cosa sia, non può che essere un disastro, visto che saremo in giro per la Germania per tutta la prossima settimana. – mi fermai un attimo. – In tour. – precisai poi, nel caso l’avesse dimenticato.
Bill annuì freneticamente, un sorriso un po’ più fiducioso a farsi strada sul suo volto.
- È proprio per questo che pensavo che magari Tom avrebbe potuto trasferirsi nel tourbus di Georg e Gustav e-
Lo fermai con un cenno della mano, guardandolo negli occhi con la fissità di un pazzo.
- Cioè tu vuoi mandare tuo fratello da Georg e Gustav per tenere Bushido nel tuo tourbus. – esplicai con aria assente, - Vuoi distruggere ciò che resta dei Tokio Hotel, Bill?
Lui inarcò le sopracciglia ed abbassò lo sguardo, palesemente colpevole.
Niente da dire riguardo le capacità quasi schizofreniche di Bill di cambiare umore ogni qualvolta se ne presenti la necessità. E io ci casco come un cretino, sempre.
- Bill, non puoi chiedermelo. – cercai di farlo ragionare. Sarebbe stata la guerra. Io non potevo permettermi di dare all’unico chitarrista che accettasse di suonare nei Tokio Hotel un’occasione per mollarli definitivamente e diventare un uomo del ghetto come desiderava. Soprattutto perché, se fosse diventato un uomo del ghetto in quel periodo, come minimo avrebbe scatenato una guerra fra bande nel tentativo di massacrare di botte Bushido e tutta la sua compagnia. Il che mi avrebbe portato a dover organizzare un funerale che non ero davvero sicuro di voler organizzare – anche se avrebbe risolto un mucchio di problemi alla base.
- Ci vediamo così poco, David… - rispose semplicemente lui, riprendendo a torturarsi le dita, - È davvero troppo poco. È riuscito a ritagliarsi una settimana libera. Lo capisci, David? Tu lo sai perfettamente quanto costi una settimana di libertà. – tornò a guardarmi, improvvisamente serio. Nei suoi occhi, una luce matura che mi spaventò non poco. – Per favore. Solo questa volta.
Sospirai.
- Naturalmente dovrò vedermela io, con tuo fratello. – borbottai irritato, ricominciando ad affastellare fogliame di fronte a me, sperando, chissà, di creare una pila e nascondermi agli occhi dei miei impegni.
Bill ridacchiò lievemente.
- Ancora con me non parla. – disse a bassa voce, e non aggiunse altro.
Feci un vago gesto con la mano.
- Sparisci. – buttai lì, disperdendo la pila di inutili fogli e cercando di capire cosa farne, - E digli di venire solo all’ultimo momento! – aggiunsi mentre Bill letteralmente scattava in piedi, scavalcava la scrivania e mi saltava addosso, affogandomi nei propri capelli.
Non riuscii a scollarmelo di dosso per tutta la successiva mezz’ora, ma non posso dire che mi dispiacque.
Mi dispiacque moltissimo ciò che fui costretto a fare dopo, però.
Entrai in camera di Tom che lui già subodorava guai. Tom ha questo talento particolarissimo per le situazioni di pericolo: quando sa che nel giro di poco tempo potrebbe succedere qualcosa di brutto per se stesso o per suo fratello, scatta sull’attenti e dà il via alle manovre di fuga. Chessò: fugge alle Maldive, o torna a casa a Loitsche o si dà alla macchia. In ogni caso, scompare e si tira fuori d’impaccio.
Quella volta arrivai in anticipo – se sia stata fortuna o sfortuna non saprei dirlo – e lo trovai nel bel mezzo di una frenetica preparazione di borsone per la notte.
Guardai lui. Il borsone. Di nuovo lui.
- Dove stai andando? – chiesi in tono casuale, come fosse una normale curiosità di manager.
Lui deglutì e rispose con la stessa falsa neutralità.
- Da Andi. – disse annuendo, - Mi andava di cambiare aria, per un po’. Almeno fino all’inizio del tour.
Annuii.
- Perfetto. – concordai, - Mi sembra un’ottima idea. Ma prima dobbiamo parlare.
E lì Tom naturalmente cominciò ad andare fuori di testa. Probabilmente non immaginava cosa stessi per dirgli di preciso, ma dalla curva delle mie sopracciglia doveva averne intuito la generica gravità. Fui per un attimo orgoglioso di lui, ma tornai subito in me.
- Tu non ti arrabbierai. – ordinai tranquillamente, puntandolo con un dito.
Tom aggrottò le sopracciglia.
- David, non dirmelo neanche.
Sospirai.
- Devo prepararti al-
- Non dirmelo neanche!!! – ripeté, strillando come un indemoniato, - Non dirmelo, cazzo, no!
- Tom, calmati! – cercai di fermarlo afferrandolo per le braccia, prima che cominciasse a lanciare tutto intorno il contenuto del borsone. Lui mi ignorò.
- Dimmi che viene stasera. Cazzo, dimmi che sta con lui stasera perché io stasera non ci sono, David. Posso sopportarlo, se sto a chilometri di distanza!
- Tom… - sospirai pesantemente, spingendolo con tanta forza da mandarlo seduto sul letto. Non ne servì molta, in realtà. Tom è piuttosto gracile, ed anche quando è davvero arrabbiato la sua forza non aumenta, perché con la rabbia Tom ci si svuota del tutto. - …tuo fratello ci tiene moltissimo. – partii, sperando che questa fosse la via giusta.
Non lo era, naturalmente, ma non me ne stupii più di tanto. Qualcosa nel mio karma era decisamente storto.
- Non me ne frega un cazzo di ciò a cui tiene lui! – sbraitò furiosamente, cercando di rimettersi in piedi. Glielo impedii.
- Si vedono poco.
- Potrebbero non vedersi mai!
- Bushido ha faticato per prendersi una settimana di ferie.
- Poteva risparmiarselo! – si fermò. - …quale settimana?
- Tom, tu non ti arrabbierai.
- Io. Sono. Già. Arrabbiato. – e lo disse con freddezza. Con una specie di furia immobile che mi diede i brividi. Guardandomi negli occhi, lo disse, senza evitare i miei neanche per un secondo.
Sospirai ancora.
- Starai nel tourbus con Georg e Gustav.
- No.
- Solo per una settimana!
- No, Cristo!
Scattò nuovamente in piedi e non fui abbastanza veloce da fermarlo. Me lo trovai che mi fissava dai dieci e passa centimetri di cui mi stacca in altezza, ed il fuoco che bruciava nei suoi occhi nocciola aveva veramente qualcosa di inestinguibile che faceva paura.
Non mi stupì che Tom non volesse parlare con suo fratello. Probabilmente quello sguardo era l’unica cosa che si sentisse davvero in obbligo di risparmiargli. Più degli insulti o delle incomprensioni o della mancata accettazione.
- Qualsiasi cosa tu possa dire o fare, Tom, non cambierà la situazione. – mi sforzai di dire seccamente. Lui aggrottò le sopracciglia ed il suo sguardo si fece distante. Io non stavo parlando solo del tour e lui l’aveva capito.
- Ho bisogno di… - biascicò scuotendo il capo e passandosi una mano sulla fronte. Poi si rese probabilmente conto del fatto che ripetere la stessa lagna di sempre – ho bisogno di tempo per abituarmi, la colonna sonora delle ultime settimane – sarebbe stato completamente inutile, e lasciò perdere. – Tanto devo per forza accettarlo, no? – ringhiò cattivo, - Bill ha sempre ragione, alla fine dei giochi.
Sospirai e scrollai le spalle.
- Bill è innamorato.
Tom ringhiò ancora e non rispose. E meno male, perché non so cosa avrebbe potuto dirmi con precisione, ma immagino piuttosto bene che sarebbe stato qualcosa di davvero poco piacevole.
Viste le premesse, avrei dovuto aspettarmi che la cosa potesse solo peggiorare, da quel momento in poi. Ed infatti me lo aspettai. Tornai da Bill, lo rassicurai sul fatto che suo fratello non avrebbe compiuto una strage ma che gli sarebbe convenuto comunque stargli alla larga se non voleva mettere alla prova la propria fortuna e poi mi preparai ad accogliere Bushido in casa mia. Più o meno.
Con Bushido avevo avuto pochi scambi ridotti al minimo, fino a quel momento. Il periodo di tempo più lungo mi fosse capitato di condividere con lui era stato quando, asfissiato dalle lamentele di un Tom sull’orlo di un crisi isterica per la preoccupazione, m’ero diretto all’infausta Villa Gialla degli Orrori e mi ero eretto contro la porta per poi sgonfiarmi subito dopo nel ritrovarmi davanti una donnina alta un metro e venti che mi invitava ad accomodarmi e chiedeva al padrone di casa, all’interno, se mi sarei fermato a cena.
Bushido non mi chiese se mi andasse di mangiare con loro. Aspettò che lanciassi uno sguardo un po’ incerto a Bill – accucciato in un angolo del divano in una tuta palesemente ottomila taglie più larga di quella che gli sarebbe servita – e poi mi fece strada all’interno della villa.
Restai solo per il tempo della cena e, per qualche strano motivo, Bushido mi convinse. Non dovette fare nulla di particolare – nulla più che sorridere e… suppongo indossare una camicia bianca sotto un maglione blu. Ma questo non deve necessariamente essere reso noto. – ma lo fece. Andai via che mi sentivo bene.
Ciò non toglieva che Bushido rappresentava la fonte primaria dei miei problemi, in quel momento. Non potevo prenderlo alla leggera.
Allora non immaginavo che sarebbe stata una maledizione dura a morire. A ripensarci adesso è quasi divertente. Quasi.
La partenza era fissata per le quattro del pomeriggio. Erano le due e Bill stava saltellando, chiaro segno che Bushido sarebbe arrivato a minuti. Osservai il minore dei Kaulitz specchiarsi in qualsiasi superficie riflettente lo circondasse e poi decidere che doveva necessariamente andare in bagno a darsi una risistemata. Sparì nel corridoio e sentii i suoi passi frenetici muoversi ticchettando sul pavimento e poi la chiave girare nella toppa.
Suonò il campanello in quel preciso istante e la casa venne avvolta nel silenzio.
Deglutii profondamente e mi diressi verso la porta. Quando la aprii, mi trovai di fronte Bushido in posa plastica, un braccio mollemente poggiato contro lo stipite ed una mano in tasca. Il solito sorriso brevettato. Il maglioncino e la camicia.
Mi diedi dell’idiota.
- Tu. – notificai, cercando di mantenere un’impassibile freddezza che non mi facesse sembrare uno stronzo irritato – perché non lo ero – ma neanche gli desse a intendere che lo trovassi simpatico – perché così non era.
Il sorriso sul volto di Bushido si allargò e lo vidi rimettersi dritto in una posa che non dovesse necessariamente ricordare quella di una foto da poster, prima di farsi avanti, trascinandosi alle spalle una valigia di dimensioni – ringraziando il cielo – piuttosto contenute.
- Non sono qui per te, Jost. – mi prese giovialmente in giro, - Anche se possiamo organizzarci.
Mi allontanai, aggrottando le sopracciglia. Alle mie spalle, risuonò la voce di Bill.
- Anis! – lo sentii sillabare in tono di rimprovero, - Che dici?!
Bushido mi staccò gli occhi di dosso e li portò su Bill. E per un istante potei capire esattamente per quale motivo Bill fosse disposto ad andare perfino contro l’altra metà di se stesso, per tenersi attaccato a lui. Lo si vedeva chiaramente nei loro sguardi che in fondo – ma neanche troppo in fondo – ne valeva semplicemente la pena.
- Vieni qui. – rise Bushido, giocosamente.
Bill gli si catapultò fra le braccia. Quando lo sentii mormorare “un’intera settimana! Puoi crederci?”, ritenni più opportuno farmi da parte. Tom andava aiutato a preparare valigie che non voleva assolutamente essere costretto ad usare.
*
Bushido era, invero, un uomo molto discreto. Non si sarebbe detto, e in effetti forse “discreto” non è la parola più adatta per descriverlo. Probabilmente era solo… opportuno, ecco. Era la grande differenza che correva fra lui e Tom, una differenza motivata principalmente dallo scarto d’età che li separava. Bushido aveva imparato a memoria pregi e difetti della propria posizione e della propria personalità, e li usava con discernimento e disinvoltura. Tom no. Tom era un bambino che si agitava a casaccio. Proprio per questo motivo, creò molti più problemi lui che non l’uomo, durante il passare della lunga settimana di tour che ci accompagnò in giro per tutta la Germania.
Bill non si accorse di nulla. Un po’ perché, quando scendeva dal palco, si catapultava nel tourbus e da lì non usciva fino al giorno dopo. Un po’ anche perché le manovre contenitive a base di birra pizza e cazzeggio sul tourbus di Gustav e Georg sortirono i loro positivi effetti e Tom riuscì non dico a rasserenarsi ma almeno a svagarsi un po’.
In ogni caso, non successe nulla di irreparabile. Bill uscì da quella settimana come trasfigurato. Mi piaceva vederlo in quel modo. Era raro vederlo così felice, prima di Bushido.
- Non sei proprio una completa e totale dannazione. – gli dissi una mattina, preparando il caffè sul loro tourbus. Bill dormiva felicemente, mi aspettavo lo facesse anche lui e mi stupii non poco quando invece me lo vidi apparire accanto in maglietta e pantaloncini.
Lui rise, palesemente divertito.
- Non sapevo mi considerassi una dannazione. – commentò distrattamente, mentre si allungava a recuperare dei biscotti dal ripiano.
Risi anch’io.
- È difficile considerarti un miracolo, visto lo sconvolgimento che porti.
Scrollò le spalle, aprendo il frigorifero e mandando giù circa mezzo litro di latte direttamente dal cartone.
- Tu sei uno bravo a sistemare le cose, vero, Jost? – chiese, senza aggiungere niente al mio precedente commento.
Inarcai le sopracciglia, inclinando lievemente il capo.
- Quando serve. – risposi vagamente, tornando a concentrarmi sul caffè.
Lui annuì.
- Perfetto. – rispose con una mezza risata ed una scrollatina di spalle, - Allora non hai nulla di cui preoccuparti, sistemerai anche me.
Lo fissai, ancora un po’ intontito dal sonno, mentre recuperava una tazza, versava il latte rimanente e vi lasciava piovere sopra una cascata di biscotti, spezzettandoli distrattamente a colpi di cucchiaio prima di tornare verso le cuccette.
- …non si mangia in zona notte! – fu tutto ciò che riuscii a dire. Passai naturalmente ignorato.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Violence.
- "Io mi chiamo Tom Kaulitz e in questa storia di me non sentirete parlare."
Note: Come nelle migliori tradizioni del rap, questa è una collaborazione. D'accordo, tutta la serie lo è, ma questa one-shot è proprio scritta a quattro mani. E' una Tabata feat. Liz, ecco.
Dunque, Gegen Meine Willen è stato un po' il mio dramma personale. Amavo l'idea di dare voce a Tom, l'ho amata un po' meno quando poi mi è toccato scriverla. Tom mi dà dei problemi e forse me li dà perché è una voce totalmente estranea a tutta la serie. Tomi è fuori dal ghetto; ed è un personaggio totalmente esterno. Come dice lui stesso: non c'entra niente. Ma potevano mancare il suo giudizio, la sua rabbia, il suo supporto ma, soprattutto... la sua versione della morte del Bushido?! XD. Prima che mi dimentichi, ho creato un gioioso schemino della timeline di EKR, così potete vedere la porzione temporale coperta da ogni singola fanfic. Enjoy.
Liz, in queste note, vuole aggiungere che ama Tomi!
E basta.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
GEGEN MEINEN WILLEN

Io mi chiamo Tom Kaulitz e in questa storia di me non sentirete parlare.
Forse vi hanno abituato a sentire il mio nome affiancato a quello di mio fratello ma la mia presenza, negli eventi che seguono, non è rilevante. Io con Bushido e con Bill non c'entro niente. L'Esguterjunge e l'Aggro Berlin erano e sono rimaste per me soltanto due etichette che sfornavano buona musica. Del loro incontro, del loro stupido fidanzamento e della catastrofe che ne è conseguita io non sono che uno spettatore, e neanche uno dei più attivi. Non sono mai stato d'accordo con Bill per le scelte che ha fatto e i fatti, alla fine, mi hanno dato ragione. La sua storia con Bushido è durata un anno. Adesso, qualche mese dopo la sua morte, Bill è un mucchio di cocci rotti che non sa rimettersi insieme.
Ovviamente, l'inizio di questa storia non coincide col momento in cui essa è iniziata per me. Bill e Bushido stavano già insieme da un sacco di tempo prima che io venissi a saperlo, ma dei mesi che hanno preceduto la mia scoperta della faccenda non mi interessa. Anzi, non voglio proprio saperne niente. Bill ha cercato tante volte di raccontarmi, ma non gliel'ho mai permesso.
Non voglio sapere come sia stato possibile che uno come Bushido sia finito a farsela con mio fratello. Non voglio sapere cos'ha provato Bill a baciare - o qualsiasi altra cosa - un altro uomo. Io voglio bene a Bill e lo accetto per quello che è. Ma i dettagli no, grazie.
Dunque, ricordo molto bene il giorno in cui tutto questo è iniziato per me. Me lo ricordo per due motivi precisi: il primo è che non vedevo mio fratello da una settimana; il secondo è che se tuo fratello ti dice, tutto in una volta, che è omosessuale e si scopa il tuo cantante preferito, te lo ricorderai a vita. Ve lo assicuro.
Io e Bill abbiamo appuntamento in questo ristorante che io adoro, ed è una specie di RoadHouse americana dove servono bistecche grosse come cavalli. Dovrei sapere che quando Bill si offre di pagare e acconsente a pranzare in un posto del genere deve farsi perdonare qualcosa ma in quel momento non ci penso. E non ci penso perché Bill è appena tornato da chissàdove. Non ha voluto dirmi dove andava quando è partito sette giorni fa, e nonostante mi telefonasse quattro volte al giorno, tutti i giorni, si è sempre rifiutato di dirmelo. Così, quando lo trovo già seduto ad un tavolo in quel cazzo di ristorante, non vado a pensare che abbia prenotato e mi offrirà il pranzo perchè nasconde qualcosa. Cioè, lo penso, ma me ne frego.
Bill se ne sta seduto in un angolo dell'enorme sala del ristorante. Sta giocando distrattamente con la forchetta, facendo le righe sulla tovaglia. E' un po' nervoso, lo vedo da come ciondola i pedi. Sorrido perchè quando è solo Bill non ha la minima percezione di se stesso ed è bello da guardare. Non è in posa. Rimango accanto ad una colonna, seminascosto e lo osservo mentre gioca con una ciocca di capelli e poi se la sistema dietro un orecchio. Col fatto che sono sette giorni che non lo vedo, mi batte forte il cuore.
A me batte sempre forte il cuore quando non ho Bill accanto a me, mi manca l'aria; e non perchè io lo ami in quel senso, o puttanate simili. E che penso che per un lungo periodo di tempo non ce l'ho avuto sotto gli occhi e non avrei potuto farci niente se gli fosse successo qualcosa. Ho paura. E quando posso rivederlo, toccarlo e abbracciarlo di nuovo tiro un sospiro di sollievo, perchè a quel punto niente può più andar male. In realtà sì, ma non è questo il punto.
Che poi non è proprio un pensiero cosciente, è più una sensazione. Dal momento che non abbiamo mai davvero bisogno di parlare, il mio rapporto con Bill è fatto di sensazioni. Io percepisco quello che prova in qualche modo che ovviamente non so spiegare, ma c'è. E' lì.
Ed è lo stesso tipo di capacità che permette a lui di sentire che io sono arrivato. Difatti si gira e mi sorride. "Tomi!"
Faccio finta di non essere così estremamente felice di vederlo che lo stritolerei in un abbraccio e non lo lascerei più andare. Lo voglio intensamente ma Bill se n'è andato senza dirmi dov'era diretto - in altre parole: mi ha mollato a casa come un cretino - quindi sarò felice di vederlo, ma non lo coccolerò come ho intenso desiderio di fare. Si merita almeno una punizione. Quando si alza e mi si stringe addosso, però, tutti i miei buoni propositi vanno alle ortiche. Il mio fratellino è qui, non è finito in un fosso senza un rene. Non. Importa. Nient'altro. Lo stringo fortissimo e gli piazzo un bacio sulla guancia, tanto nel ristorante non c'è quasi nessuno e poi non me ne frega un cazzo. Bill non è nemmeno passato da casa quando è sceso all'aeroporto. Mi ha dato appuntamento direttamente qui. Io non ho avuto modo di sdarmi in smancerie, quindi lo faccio adesso. E chi se ne frega.
"Dove sei stato?"
"Tomi!" Miagola lui e sbuffa, tornando a sedersi.
"Non cominciare. Sei stato via una settimana," dico imitandolo. "Avresti almeno potuto avvertirmi."
"L'ho fatto," risponde. "Ti ho detto che andavo via."
"Ah beh allora!" Commento sarcastico. La cameriera ci porta i menu e io lo apro, sfogliandolo distrattamente. "Potevi essere chissà dove!"
"Non sono andato molto lontano," mormora. Sollevo gli occhi e vorrei essere arrabbiatissimo, ma lo fa anche lui e mi stende. Bill quando vuole è un maledetto bastardo, conosce tutti i miei punti deboli. E lui che mi fa gli occhioni è un punto debole. Questo perché Bill sa che mostrarsi incredibilmente fragile e delicato fa leva sul mio senso di protezione.
"D'accordo, non fa niente," cedo alla fine, scuotendo la testa. "Se avevi bisogno di levarti dalle palle per un po', non sarò certo io a dirti che non potevi farlo; però mi hai sempre detto dove andavi. Anzi, ci andavamo insieme."
Si morde un labbro e abbassa di nuovo lo sguardo, quindi sospira.
"Volevo dirtelo, Tomi, davvero. E' solo che è successa una cosa e io dovevo rifletterci sopra."
"Che cos'è successo?"
Lui sorride. "Prima mangiamo, va bene?"
Lo fisso negli occhi e cerco di trovarci la risposta che mi serve. Non posso leggere nella testa di mio fratello, ovviamente, ma sono bravo a cogliere le sfumature delle sue espressioni. Per esempio, adesso so che è nervoso e preoccupato, quindi teme la mia reazione. Qualsiasi cosa sia successa, forse non è grave in generale, ma di certo avrà un forte impatto su di me. Comunque so che non devo metterlo sotto pressione. "Va bene," dico. "D'altronde mi stavo giusto preparando la salsa prima che tu mi chiamassi dall'aeroporto."
"La salsa senza di me?" Chiede oltraggiato lui, spalancando gli occhi e poi scoppiando a ridere.
Rido anche io e poi ordiniamo.
Mi faccio portare un piatto di carne bello sostanzioso perchè so che mi aspetta qualcosa di assurdo. Bill non ha mai fatto un colpo di testa simile, di andarsene senza lasciare tracce. Deve passargli qualcosa di grosso per la testa. Lui, comunque, mangia almeno quanto me. Segno che gli serve coraggio, o che sta prendendo il tempo, il che un po' mi fa ridere e un po' m'innervosisce. E' quando arriva il dolce che gli chiedo: "Allora?"
Lui annuisce e butta giù il pezzo di cheescake. Si pulisce la bocca e poi si tortura le mani. "Sai tutte quelle cose che mi dicono sempre?"
"Quali cose?"
"Su di me, sul fatto che io sia..." si stringe nelle spalle.
"Gay?" Concludo per lui e, quando annuisce, aggiungo: "Stai ancora dietro a quello che dicono? Fregatene. Lo sappiamo che non-"
"Lo sono." Mi fissa.
Sono ancora a metà della frase precedente, ho la bocca aperta, la mano in aria che si agita. "Cosa?" Mi esce fuori una specie di lamento strozzato, come se mi fosse rimasto incastrato un pezzo di pane in gola. Tossisco, mi batto anche. "Come?"
"Io sono gay," sussurra.
D'accordo, mi aspettavo che fosse una cosa grossa; ma non così grossa. Cioè, cosa diavolo significa che lui è gay? Lui non è gay. E' mio fratello! "Bill che cosa stai dicendo? Sei... sicuro?"
Lui sorride, un po' imbarazzato. "Tu cosa ne dici?"
"Non lo so!" Mi agito. Lo so che mi agito e non vorrei. Inizio a muovere le braccia ovunque quando sono agitato, sembro un pazzo. "Magari credi di essere gay. Magari è una fase, poi ti passa. Insomma, quelle cose lì. Siamo adolescenti, no? Sei solo confuso."
Scuote la testa. Dio, la scuote. Dovrebbe dirmi Sì, hai ragione Tomi. Dev'essere come dici tu e invece scuote la testa. "Ci penso da tanto sai?" Sbatte gli occhioni. "Non è una cosa che ho scoperto l'altro giorno. E poi sono successe delle cose. Volevo dirtelo subito ma..." sospira. "Avevo paura che non l'avresti presa bene."
Vorrei chiedergli quali cose sono successe, ma non lo faccio.
Bill aveva paura di non essere compreso. Da me. Scherziamo? Io sono il suo gemello. Il solo fatto che abbia anche solo vagamente pensato che non avrei capito è un fatto gravissimo che cancella tutto quanto il resto. Io sono Tom Kaulitz. Io sono suo fratello gemello. Qualunque cosa mi dica, io sono con lui. Lo vedo che tiene gli occhi bassi e si guarda le mani. "Ok, ok non importa. Bill, guardami." Mi affretto a dire. E lui alza la testa. "Senti, va bene. Insomma, non è niente di che, d'accordo? Io ti voglio bene lo stesso."
Lui mi guarda.
"Dico davvero," annuisco. Sto mentendo spudoratamente. Io non voglio che mio fratello sia gay. Ma non voglio neanche che pensi che non lo accetterò per quello che è perchè, cazzo, non è così. E' Bill, lo accetterei in qualunque modo. "Non ha nessuna importanza. Io... sono contento che tu me lo abbia detto."
Mi fissa ancora per un po' e poi sorride. Il suo sorriso, quello bello, chiaro e solare che illumina tutta la stanza. Quello di mio fratello. "Grazie Tomi, sapevo che avresti capito."
Eh, capito un cazzo.
Non faccio neanche in tempo a recuperare quel poco di cervello che avevo e che mi ha letteralmente disintegrato con questa splendida bomba, che me ne tira subito un'altra. "Io sono... innamorato di una persona."
Ok, questa è più difficile. Insomma, voglio dire, è la solita storia: finchè il discorso si fa in generale, non ci sono problemi. Gli omosessuali? Io non ho nessun problema con gli omosessuali. Io sono una persona con la mente aperta. Però se penso che c'è uno che vuole mettere le mani addosso a mio fratello, mi viene voglia di spaccargli la faccia; se poi penso che Bill mi sta dicendo che quelle mani addosso le vuole, mi viene da spaccare la faccia anche a lui. E non posso. No, Tom, non puoi proprio, mi dico. Bill ti sta confessando la cosa più importante della sua vita e tu non puoi mollarlo lì così solo perchè il tuo cervello fatica ad ingranare.
"D-davvero?" Butto lì, cercando di essere disinvolto. Mi verso un bicchiere d'acqua che basterebbe ad annegarmi. "E' qualcuno che conosco?"
Lui annuisce. Un po' sorride, ma è nervoso. Comunque lo sa che la situazione non è ancora esattamente stabile. Mi sembra che stiamo entrambi camminando su un tappeto di uova, neanche troppo sode. "... Sì."
A questo punto ci sono due opzioni.
O si tratta di Andi, e giuro su mia madre che se ha toccato Bill più del dovuto prima che io gli dessi la mia benedizione lo faccio a pezzi. Oppure è Georg, che fino a ieri non era gay; ma non lo era neanche mio fratello. E se Bill dice che lo conosco, e non è Andi, allora non può essere che Georg, che con quella piastra per capelli un po' di dubbi me ne ha sempre fatti venire. E per quanto sia il mio migliore amico non uscirà vivo dal tourbus.
Ovviamente non mi fermo neanche lontanamente a pensare che forse - forse - magari i due non hanno affatto circuito mio fratello. Non me ne frega niente di questa possibilità. Nè Andi nè Georg dovevano permettersi di... permettersi di cosa? Andare con mio fratello se mio fratello voleva? Cristo, che casino. "Chi è?"
"Prometti che non ti arrabbierai?"
Quindi è Andi. "E' Andi?" Lo ammazzo. Probabilmente gli andava dietro da anni, avrà giocato sul fatto che Bill dice di non fidarsi delle fan perché amano la maschera pubblica e non lui. Lo avrà intortato con le cazzate, Andi è bravo a parlare. In effetti non ha mai veramente detto di essere gay, ma lo abbiamo sempre pensato tutti, aspettavamo solo che trovasse il coraggio di uscire dall'armadio. Certo poteva evitare di uscirci a braccetto con mio fratello! Che cazzo!
Eppure era chiaro, si comportavano allo stesso modo. E alla fine che Bill sia davvero gay non è poi questa novità sconvolgente. Ok, non l'ho presa bene, ma cioè... non è come se me lo dicesse Gustav, per dire. Che poi è il motivo per cui non penso si tratti del mio batterista. Gustav non potrebbe mai essere gay. E' Gustav!
Intanto, mentre sono perso nel mio delirio, mi rendo conto che Bill mi sta parlando e lo guardo, seguo il labiale dal momento che i miei pensieri stanno coprendo la voce. "No, non è Andi," dice.
"Georg?" Sbraito allora. Tutto ciò non è davvero possibile. "Dio Mio, come puoi essere innamorato di Georg? Non si ama nemmeno lui, guarda come va in giro!"
"Cosa c'entra Georg? Non sapevo che fosse gay," commenta lui.
"Non lo è!" Replico. "O almeno non lo so, chi se ne frega! Non è Georg?"
"No."
A quel punto mi trovo un po’ spiazzato. Se non è né Andi né Georg, direi che non so proprio di chi si possa trattare e che io lo conosca, sinceramente, mi pare un po' improbabile. Continuo a guardare mio fratello in attesa di delucidazioni. Lui si morde nervosamente un labbro. "Tom, prometti davvero che non ti arrabbierai?"
"Perchè dovrei farlo?"
"Perchè è un po' più grande di me," risponde.
"Un po' quanto?"
"Un po'," insiste. Allunga un braccio sul tavolo a cercare le mie dita e le stringe. "Ma è davvero una persona fantastica."
D'accordo, questa persona fantastica verrà investita dall'Escalade, alla guida della quale ovviamente ci sarò io. Chiunque egli sia. Che poi, se ci penso, l'unica persona che racchiude in sé tutte le caratteristiche - gay, che io conosco, più grande di Bill - è David. E io voglio sperare, per il mio manager soprattutto, che non sia lui perché altrimenti scorrerà il sangue. E no, non sarò io a tirargliele. Pagherò qualcuno più grosso e più incazzato di me. Offenderò delle madri a nome suo, se necessario.
Solo che Bill non mi dà il tempo. Non mi dà il tempo di chiedergli se si tratta del nostro manager, non mi dà il tempo di prepararmi. Apre la bocca e lo dice.
"E' Bushido."
In quel preciso istante le lettere che compongono il nome del rapper più famoso della Germania non trovano un senso nella mia testa. Bill deve aver cambiato discorso mentre ero perso tra le mie paranoie. "Cosa c'entra Bushido?"
"E' lui," dice. "Mi sono innamorato di lui."
Mi vengono a mente le cose che Bushido ha detto a mio fratello nelle varie interviste. L'ultima, neanche tanto tempo fa, era assolutamente indecente. Solo che questo fa parte dello spettacolo, è il suo modo di fare. Sono dei gran coglioni all'Eguterjunge: Bushido tratta Kay-One come se fosse il suo cagnolino da compagnia...
"E' per via di quello che ha detto?" Chiedo. A volte Bill è così ingenuo che-
"Siamo andati a letto insieme."
"Cosa?"
A quel punto mi aspetto da lui qualunque cosa, prima fra tutte quella che neghi. Che rida e mi dica che mi sta prendendo per il culo. Bill può essere una merda, quando vuole. Può tirarti scemo e farti lo scherzo più stronzo del mondo e poi continuare a ridere anche quando tu ne hai avuto abbastanza e preferiresti piantarla lì. Ci sono certe volte che ti viene da picchiarlo da quanto fa il cretino. Però questa volta proprio non ride, neanche un secondo. "Bill, cosa cazzo stai dicendo?"
"E' successo tre mesi fa."
"Tre mesi... tre mesi fa?" Sono fuori di me, solo che non sono mai stato il tipo da urlare. Batto un pugno sul tavolo che ribalta sia il mio che il suo cucchiaino. "Tre fottuti mesi fa? Cosa aspettavi a dirmelo? Chi cazzo lo sa?"
"Nessuno," poi ci ripensa. "David."
"David," mi sento scemo a ripetere tutto quello che sento ma se dicessi quello che mi passa per il cervello, finirei per litigare con lui. Che poi, cazzo, ci voglio litigare. Ho tutto il diritto di litigare con lui perchè se ne sta lì seduto, dopo una settimana che non lo vedo, dopo tre mesi di puttanate in cui mi ha nascosto una cosa del genere. Vaffanculo, Bill. "Avresti dovuto dirmelo."
"Non volevo dirtelo finché non era una cosa sicura."
"Perchè avete intenzione di sposarvi?" Esclamo sarcastico. "Oppure stavi solo aspettando che ti scopasse per dirmelo? Come funziona fra voi?"
Bill serra le labbra in una linea sottilissima, lo vedo stringere il tovagliolo con forza; però non ho voglia di ragionare. Non ho proprio un cazzo di voglia di rimanere seduto a questo tavolo e razionalizzare quello che Bill si è premurato di farmi sapere tutto quanto insieme.
Allontano con forza la sedia dal tavolo e mi alzo senza dirgli una parola. Lo sento vagheggiare alle mie spalle ma non mi volto. In questo preciso istante non voglio saperne niente di lui. Capita di rado che non m'importi di Bill ma quando succede è una cosa violenta. Esco dal ristorante senza guardare in faccia nessuno e raggiungo la macchina.
Apro la portiera quasi scardinandola e so di avere lo sguardo fisso del pazzo. Sto per fare qualcosa che mesi fa pensavo impossibile. Recupero il porta-cd, che fra l'altro è nero con dei disegni tribali, una roba che poteva regalarmi soltanto mio fratello, e comincio ad estrarre ogni singolo cd di Bushido che possiedo. Tutti. Gli originali, i masterizzati, le B-side, qualunque cosa contenga anche una sola delle sue canzoni. Li getto a terra di fronte all'Escalade, velocemente ma con soddisfazione. Ogni volta che ne cade uno sull'asfalto sento un moto di gioia sadica. Ora come ora penso che sono stato un cretino, in quel preciso momento penso che questa è la cosa più vicina a Bushido su cui posso passare sopra con la macchina.
Risalgo in auto e vedo Bill in lontananza uscire dal ristorante. Sento che mi chiama, ma io sono troppo impegnato a disintegrare i cd del suo fottuto amante con le ruote della mia Escalade. Sono talmente incazzato che sto andando avanti e indietro con la portiera ancora aperta.
"Tom!" Mi si piazza davanti al cofano, col rischio che metta sotto anche lui.
"Bill, levati di lì"
"No."
Lo metto sotto, penso esattamente questo. Ora premo l'acceleratore e lo metto sotto. Fine di Bushido. Fine di mio fratello. Ma, soprattutto, fine di Bushido che si fotte mio fratello. Faccio pure per mandare avanti l'auto e lui piazza entrambe le mani sul cofano. "Tomi, aspetta!"
Stringo le mani intorno al volante, inspiro ed espiro. Poi ringhio perchè tanto l'ha sempre vinta lui. "Che cos'altro devi dirmi?"
Fa il giro dell'auto, tenendoci sopra una mano e guardandomi dritto negli occhi. Quindi sale, si chiude dietro la portiera ed espira. "Non volevo che andasse così."
"Così come? Con te che sei gay e ti scopi Bushido?"
Lo vedo stringere le mani a pugno e la cosa un po' mi sorprende perchè di solito Bill scatta e basta, non ragiona. E' isterico. Si fa sempre come dice lui e basta. Questa volta no però, e il fatto che non si comporti come il solito Bill mi innervosisce perchè è come se volesse dimostrarmi che sta facendo la persona adulta, mentre io no.
"Tom, è una cosa importante," prova a dire. Alza lo sguardo su di me e ha quegli occhioni da cerbiatto di nuovo. "Lo so che ci sei rimasto male, e mi dispiace."
"Non abbastanza," ritorco.
"Che cosa avrei dovuto fare?"
"Dirmelo."
"Mi dispiace," ripete. "Ma sapevo che l'avresti presa così. E poi non ero sicuro.. è stato tutto un casino."
"E' stato?"
"E'. E' un casino," precisa. Poi sospira. "Non volevo tagliarti fuori, avevo soltanto bisogno di tempo."
"Tempo per trasformare uno rapper perfettamente normale in una checca," esplodo. E lo sguardo che mi lancia è così assurdamente incredulo che per un istante mi viene quasi da ritirare tutto. Poi penso che mio fratello se la fa con Bushido - Bushido, capite? - e la rabbia mi prende alla gola di nuovo. "Che cazzo! Sei infettivo!"
"Io... cosa?"
"Fino a qualche mese fa, a quello piacevano le ragazze!"
"Quello, come lo chiami tu, ha dichiarato di voler far sesso con me di fronte a milioni di spettatori," mi ricorda. "O te lo sei dimenticato?"
"Scherzava, Cristo! Faceva parte del personaggio!"
"Quel personaggio già veniva a letto con me quando diceva quelle cose, come la mettiamo?" Mi urla contro. "Io e Bushido stiamo insieme da molto prima!"
Rimango pietrificato. Il mio bel mondo dorato si frantuma in tante piccole schegge e su ogni scheggia c'è il viso di Bushido, serissimo. E lì tutta la rabbia che ho dentro esplode, o lo farebbe se non me ne andassi. Tutto si concentra in un'unica lunga sequenza di follie: il mio mito non è un mito proprio per un cazzo, e mio fratello è frocio, e io non l'ho saputo finché ormai non era troppo tardi. Tardi per cosa non lo so, ma di certo è tardi. E io sono incazzato nero. "Scendi."
"Cosa?"
"Scendi, porca puttana!" Grido. "O oltre ad essere un maledetto frocio, hai anche perso l'udito?"
Bill fà come gli ho detto. Scivola giù dall'Escalade e chiude la portiera, quasi delicatamente. Non mi fermo a guardarlo perchè so che mi fermerei. So di avergli detto delle cose orrende, so che dovrei scusarmi, ma non voglio. E' il mio momento di ribellione.
Se sta male, sono contento.
Le cose, comunque, non migliorano nei mesi successivi. Bill sembra non essersela presa affatto per quello che gli ho detto e vuole a tutti i costi che accetti questa relazione. Credo che lo faccia perchè, in effetti, non è mai succeso che uno di noi due prendesse una decisione senza l'approvazione dell'altro. Quando voglio qualcosa chiedo sempre a Bill cosa ne pensa e, se a lui non sta bene, allora non sono più tanto sicuro di volerla.
Forse sono arrabbiato anche per questo: io non voglio che lui si faccia scopare da Bushido, eppure questo non gli impedisce di sparire ogni volta che può e passare giorni interi murato vivo in casa di quell'uomo. Vuole che io sia felice della sua scelta, lo vuole disperatamente, ma se io non lo sono non sembra aver comunque intenzione di rinunciare a Bushido.
Questo dovrebbe darmi un'idea di quanto ci tenga, naturalmente, ma è chiaro che in quel momento non me ne frega niente. Per me Bill sta solo facendo una grandissima stronzata e si ostina a non darmi retta per il solo gusto di farlo. E se pensa che cambierò idea, si sbaglia.
Le cose continuano ad andare sempre peggio, principalmente perchè io non voglio che migliorino. Non voglio che lo porti a casa. Non voglio che me ne parli. Non voglio vederli insieme. Più Bill prova a parlarmene, meno voglio starlo a sentire. E lo so che sto facendo gratuitamente lo stronzo ma mio fratello deve farsi perdonare ancora un mucchio di cose, prima fra tutte il fatto che David lo abbia saputo prima di me.
Questo non mi va giù. Bill è mio fratello, avrei dovuto saperlo per primo. Dentro di me sono ancora convinto che se lo avessi saputo prima, avrei potuto impedire questa catastrofe. Perchè è così che la vedo io: come un disastro naturale di proporzioni epiche. E mi sono anche convinto di come sono andate le cose: Bill è finalmente venuto a patti con la propria sessualità e Bushido se n'è approfittato. Lo ha blandito con due moine, lo ha fatto sentire il centro del mondo - e Dio solo sa se Bill è egocentrico - e gli ha fatto due o tre regali, solo per portarselo a letto, ovviamente. Magari si è anche vantato con quelli della sua crew.
Le donne nel mondo del rap non contano un cazzo (okay, Bill non è una donna ma è come se lo fosse perchè se mi viene a dire che è lui a farsi Bushido, allora ho un problema molto più grave), io lo so. Mia madre odia il rap per questo, dice che le donne vengono trattate come pezzi di carne. E ora quel pezzo di carne è mio fratello. E io dovrei lasciarglielo così, senza dire niente? Già immagino quando Bushido si stancherà di lui e lo scaricherà così come lo ha tirato sue e di mio fratello non rimarrà che un mucchietto di pezzi rotti sul pavimento.
Bill non va a letto con la gente se non s'innamora prima. Quindi adesso ho un fratello innamorato di uno che se lo scoperà finchè non gli sarà venuto a noia. E poi tanti saluti, torna da dove sei venuto. E poi toccherà a me rimetterlo insieme, e mi dirà che è stato un cretino, che avrebbe dovuto capirlo. E io non potrò dirgli sì, è vero, sei stato un cretino. Dovrò consolarlo e basta; tenermi per me i miei 'te l'avevo detto'.
E poi Bushido ha quasi 30 anni: è indecentemente troppo vecchio per Bill.
Non so neanche per quale motivo odiarlo di più: se perché mi ha deluso profondamente come idolo o perché per farlo ha usato mio fratello. Vorrei dirgliele tutte queste cose e Bill deve captare una volta di più il vorticoso roteare dei miei neuroni perché una mattina entra in camera mia e ha sulle labbra il sorriso tirato che esce sempre quando fra di noi c'è una tensione irrisolta e lui non sa come reagirò.
La sera prima abbiamo litigato selvaggiamente, con tanto di piatti e padelle che volavano da tutte le parti, finchè io non l'ho insultato come non avevo mai fatto prima. Come un bambino di otto anni mi sono attaccato alle cazzate e gli ho dato della troia, insinuando che con ogni probabilità se la fa un po' con tutti quelli della crew, non solo con Bushido.
Sono geloso del tempo che passa con quella gente, in posti in cui io non posso essere. Non so quello che fa, non so quello che gli succede e non voglio farmelo dire. E' una situazione di merda.
Lui a quell'affermazione si è morso soltanto un labbro e mi ha mormorato che lo sapevo che non era vero. E infatti lo so. Bill non lo farebbe mai. L'ho detto solo perchè sono incazzato. Mi sento in colpa per le parole che mi sono uscite di bocca ma non ho intenzione di cedere, nè di ritrattare.
Però, quando entra nella mia stanza e mi dice che vorrebbe che ci incontrassimo - io e Bushido -, che se ci parlassi capirei che sto sbagliando, alla fine cedo. Cedo perchè mi sento in colpa e perchè in fondo voglio proprio parlarci con questo pezzo di merda. Voglio chiudere questa storia e riprendermi mio fratello.
Secondo la mia logica, Bushido non ha alcuna ragione di esistere vicino a mio fratello perché è un uomo e perchè è Bushido. E se potrò, un giorno, venire a patti col fatto che sia un uomo, non potrò mai venire a patti col fatto che sia Bushido.
Dal momento che lui è il King of Kingz e io sono solo il gemello della sua stramaledetta fidanzata, devo incontrarlo a casa sua. La casa di Bushido è una specie di reggia color giallo limone e ovviamente non ci vive da solo. Dentro ci trovo tutta la crew - fino a qualche tempo fa incontrarli era un mio sogno, ora farei ben a meno di loro - e ci trovo mio fratello che fa la sua figura, in piedi dietro Bushido, come si addice alla donna del capo.
Questa cosa non inizia affatto bene.
Bushido è seduto su una poltrona di pelle e mi guarda, non sembra nè divertito nè incazzato. E' perfettamente a suo agio, e la cosa è irritante. Mi chiedo come ho fatto a voler comprare tutti i suoi cd. Rimpiango di essere stato a due sue concerti. Lo odio.
Bill semba nervoso, si sistema una ciocca di capelli dietro l'orecchio e poi mi fa cenno di sedermi su un'altra poltrona. Questo salotto sembra l'interno di una tenda araba. Alchè il fatto che Bushido sia mezzo tunisino acquista improvvisamente un senso. Ci sono cuscini ovunque, anche per terra, e un basso tavolino con sopra un narghilé. L'idea di mio fratello vestito da odalisca mi balena nel cervello e mi viene voglia di vomitare.
Si siede sul bracciolo della mia poltrona e mi sorride. "Grazie per esser venuto," sussurra.
Io non gli rispondo, intanto una cameriera entra e ci serve dei pasticcini e del té, credo.
Non che abbia voglia di mangiare. L'ospitalità è comunque notevole. Quindi mi arrabbio di più. Bushido si sporge e mi tende la mano: al polso ha un orologio che costa all'incirca come la mia auto; si vede che gli piace sfoggiare le sue cose. "Tom, è un piacere rivederti."
"Non posso dire altrettanto."
Vedo Bill irrigidirsi. "Tom," sibila.
Bushido alza una mano. "No, va bene. E' normale che ce l'abbia con me," esclama.
E riesce a farsi odiare in maniere che non credevo possibili. Sento una linea netta che separa me da tutti i presenti e all'improvviso credo che avrei dovuto portarmi dietro Gustav e Georg. E magari anche Andi. Mi piacerebbe far sentire Bill come mi sento ora io: messo da parte. Vorrei che provasse questo. Adesso ha gli uomini del suo uomo a spalleggiarlo, vorrei vederlo al mio posto. Vorrei ridere. "Serviti pure," mi indica il vassoio dal quale gli altri della crew stanno prendendo cibo senza problemi. Incontro lo sguardo di Eko Fresh che ha in bocca due pasticcini e ne tiene un terzo in mano. Mi guarda come un topo appena sorpreso a rubare del grano. Chakuza gli dà una di quelle pacche sulla schiena che penso gli abbia smontato i polmoni.
Tutto questo è assurdo. Io non dovrei essere qui. Bill non dovrebbe essere qui. E tutta questa gente dovrebbe essere su un palco a cantare. Invece mangiano i pasticcini tunisini.
Ad ogni modo, non m'interessa se Bushido mi offre da mangiare o fà il grand'uomo in casa sua. Non ho intenzione di farmi incantare. "Che intenzioni hai con Bill?"
"Tom!" Bill scatta isterico.
"Mi hai detto che dovevo parlarci, giusto? Bene. Allora voglio sapere questo," mi volto di nuovo verso Bushido. "Che cosa credi di fare con mio fratello?"
"Io amo Bill," mi dice lui, senza scomporsi di una virgola.
"E ti aspetti che io ci creda?"
Bushido scrolla le spalle. "No e neanche m'interessa," risponde. "Non ho nessun bisogno che tu mi approvi, Tom. Se ho accettato di discuterne è solo perché Bill ci teneva ma so già che qualunque cosa io ti dica, tu non sarai d'accordo."
"Hai la coda di paglia."
"No, ho 30 anni mentre tu ne hai 19, e so molte più cose di te." Mi guarda, forse per vedere come reagisco, ma io tengo duro. Alla fine sospira. "Senti lo so che ce l'hai con me perchè mi vedi come una minaccia, ma ti assicuro che non lo sono."
"Bill non è roba per te."
"Lascialo decidere a lui," replica.
Ci guardiamo a lungo, in silenzio. Con la coda dell'occhio vedo gli altri che sono rilassati quanto lui, con i loro pasticcini e il loro té, ma sono pronti a scattare ad un suo cenno. Vorrei menare le mani, non l'ho mai fatto in vita mia ma mi viene voglia di farlo adesso, solo che lui non me ne dà la possibilità. Rimane serio e controllato. Mi usa il tono da paternale.
"Tu vuoi bene a tuo fratello e vorresti proteggerlo. Lo capisco questo, ma non c'è niente al mondo che mi spingerebbe a fargli del male."
"Stronzate!" Esclamo, stringendo le mani a pugno. "Cosa succederà quando ti stancherai di lui?"
"Tomi, adesso basta!" Esclama Bill.
"Non lo farò," mi guarda dritto negli occhi. Ignoriamo entrambi Bill, come se non esistesse e una parte di me neanche troppo nascosta sa che questo significherà danno tra qualche minuto. Bill odia essere ignorato. "Puoi arrabbiati se vuoi, va bene, è un tuo diritto, ma non ti aspettare che le cose cambino semplicemente perchè sei venuto qui a battere i piedi. Tu non sei mai stato un ostacolo."
"Anis!" Grida Bill.
"Oh sarò un ostacolo eccome, stronzo," a quel punto sbotto perchè se qui c'è qualcuno che gli romperà le palle, e gliele romperà anche bene, quello sono io. Nessuno mi porta via mio fratello, nemmeno i miei che divorziano, figuriamoci un mezzo-tedesco saltato fuori da due stradine luride a cantare cazzate. E divento anche razzista, già che ci siamo. "Scommettiamo che le dichiarazioni che hai fatto sono passabili legalmente?"
Mi alzo, si alzano tutti. Bushido no, però.
"Avanti fà pure," mi dice.
"Adesso basta!" Bill esplode e usa tutta la voce che possiede, ed è tanta. Ci guarda entrambi, e ha lo sguardo di nostra madre quando è veramente molto arrabbiata. "Tom, non ho bisogno che tu mi difenda, davvero, soprattutto quando non sono minacciato. Ti ho chiamato per ascoltare non per offendere. E Anis-"
Bushido lo anticipa. "Bill ha ragione. Non ci siamo comportati da persone civili. Tom, vogliamo ricominciare da capo?"
Cala il silenzio e la crew è un po' vagamente allibita. Credo che Bill non abbia mai urlato da quando è qui. Non di fronte a loro, le loro facce mi dicono questo e anche altro. Questi qui non hanno idea di che vipera diventi mio fratello quando vuole, altro che geisha servizievole.
Bill mi guarda così male che mi viene praticamente naturale non provarci nemmeno ad essere conciliante. "No, non vogliamo," rispondo. "E ora che ho fatto i conti, so che potrei denunciarti per molestie sessuali ai danni di minore, stupro, plagio mentale. La lista è molto lunga," pausa. Lo guardo negli occhi e perdo definitivamente la testa. "Pedofilo di merda."
A quel punto c'è una stasi. A ripensarci ora è una roba da film ed è divertente, in quel preciso momento lo è un po' meno. Solo che non ci penso perchè comincio a dubitare di me stesso, soprattutto, comincio a credere che forse anche questo gruppo di mangiatori di pasticcini tunisini potrebbe effettivamente essere pericoloso. Si ferma il tempo, quindi, e anche il vento. L'aria. Il respiro di mio fratello.
Bushido mi lancia uno sguardo che non riesco a decifrare. "Toglietemelo da davanti," esclama. Quindi si solleva dal divano e, con la coda dell'occhio, vedo Chakuza fare altrettanto. Lui solo. Bushido prende mio fratello per un fianco e se lo tira dietro. Incrocio il suo sguardo e vedo che abbassa gli occhi. Bill, che cazzo...
Solo qualche mese fa, mio fratello e io ci spalleggiavamo a vicenda. Ora arriva Bushido, gli fa conoscere le gioie del sesso, e mio fratello non vede altro. Sono qui per cercare di farlo rinsavire e quello nemmeno ha le palle di guardarmi mentre stanno per massacrarmi.
In realtà non mi massacrano, Chaku mi tira solo una sberla sulla nuca e mi spinge in avanti con quella. "Fidati, è meglio se la chiudi qui, per oggi," mi dice, con quella voce roca.
Mi butta praticamente fuori di casa e io, come un cretino, rimango sulla porta di quell'orrenda casa gialla per almeno due ore. Spero che mio fratello esca e mi raggiunga. Ogni minuto che passa fisso sempre di più lo sguardo su quella porta, neanche potessi aprirla col pensiero. Cazzo, è la dentro. Ha lasciato che mi buttassero fuori. Vaffanculo. E' rimasto lì. Bill è là dentro con quell'uomo, a fare chissà cosa. Uno che lo tratta come se fosse roba sua. "BILL, VAFFANCULO!" Lo urlo forte, senza rendermene conto. Mi spavento da solo con la mia voce.
La cosa si chiude lì, per un po'. Sono così arrabbiato e geloso e deluso e mille altre cose che non mi va di parlare con Bill. In realtà mi va, ormai mi capita così raramente di vederlo - lavoro a parte - che quando rimane in albergo con noi invece di raggiungere Bushido, vorrei sommergerlo di parole e raccontargli tutto, però non lo faccio. Non lo faccio perchè ho un orgoglio e non lo faccio perchè so che ci sta malissimo. Bill odia non potermi parlare. Lo vedo che ci prova di continuo ma io faccio in modo che le mie risposte siano sempre più scostanti. Ormai un po' ci provo gusto a vederlo abbassare gli occhi tristi. Ti sta bene.
Ti sta bene un paio di palle, mi manca da matti.
Quando esce a volte lo seguo finchè non lo vedo entrare in qualche albergo o in qualche discoteca e allora lì mi fermo, davanti all'entrata. Quando si danno appuntamento in un locale, non è mai Bushido ad aspettarlo. Bill dice il suo nome al buttafuori, quello controlla sulla lista e poi, puntualmente, Chakuza esce e se lo viene a prendere. Questa cosa mi fa girare le palle, lo tratta come una fottuta groupie. E lui che gli va dietro come un cagnolino.
Quando esce lo fa dopo ore. A volte non esce nemmeno e io dormo in macchina. David dà di matto quando torno perchè sono impresentabile. Scusa se non me ne frega niente di come mi stanno i capelli quando mio fratello ha palesemente perso la testa e nessuno sembra rendersene conto.
Una di queste sere, comunque, quando arrivo di fronte all'ennesimo locale sono già troppo ubriaco per rendermi conto che non ha senso raggiungere l'entrata del locale e farmi ridare Bill. Non ha senso perchè Bill ci và di sua spontanea volontà là dentro, e non ha senso perchè io sono solo e loro sono parecchi di più. Quella sera mio fratello non lo vedo nemmeno dipinto, non vedo neanche Bushido però. Quando torno a casa ho un occhio viola, ma so per certo che anche un paio di loro ne ha una copia identica. E qualche graffio, forse.
La telefonata che temo da quando mio fratello si è messo con Bushido arriva alle due di notte di quasi sei mesi dopo, in uno di quei momenti in cui sono pacificamente adormentato e il problema di Bill non è più tale. Ci siamo visti oggi ed era così bello e felice che per un po' mi sono dimenticato che è fidanzato col capo dell'Ersguterjunge e che è così innamorato che si respira già aria di convivenza. Quando il telefono squilla, io sono stranamente in pace con il mondo.
Poi arriva la voce spezzata di mio fratello, e mi prende il panico.
"Bill?"
Solo fottuti singhiozzi.
"Bill che succede? Stai bene?"
"E' morto," mormora. "Tomi, è morto."
"Chi? Bill che cosa stai dicendo?" Mi alzo dal letto, portandomi dietro il cellulare. Cerco a tentoni la luce sul comodino e cerco di capirci qualcosa.
"Anis..." e quel nome è appena un sussurro. Bill lo dice piano piano, e mi sembra quasi di vederlo - ranicchiato come poi lo troverò dopo - che mormora quelle quattro lettere come se a dirle troppo forte si avverasse qualcosa. "E' morto. Dio, è morto ed è qui. Me lo porteranno via, Tomi..."
Mi vesto mentre lo sento scoppiare in lacrime, i suoi singhiozzi sono rochi e violenti, e mi si spezza il cuore. "Adesso, ascoltami," cerco di superare il sibilo del suo respiro. "Dimmi dove sei."
"E' morto, Tomi."
"Bill, dimmi dove sei."
"A casa."
Non sento altro, sono già in macchina. Guido come un pazzo, infilo un rosso dopo l'altro e rischio quasi di ammazzarmi ad un incrocio ma non me ne frega niente. Voglio essere lì prima che arrivino i medici perchè non sapranno come trattarlo. Devo essere lì quando caricheranno Bushido sull'ambulanza. Devo essere lì e prendere Bill al volo quando cadrà. Parcheggio sotto casa quando anche i medici lo stanno facendo. Salgo con loro, appena dietro l'ultimo ma sono io ad aprire loro la porta. Chi è lei? Sono il fratello. Non gli serve altro, non importa al momento.
Quando raggiungo la stanza da letto, per un attimo non vedo assolutamente niente. Voglio dire, il letto, il pavimento, la finestra, è tutto lì ma non ha senso. Il vetro è rotto, il parquet, le coperte, tutto quanto è coperto di sangue. "Bill!"
Bill non alza lo sguardo. E' ranicchiato in posizione fetale contro il fianco di Bushido che è disteso sul letto, le gambe e le braccia che pendono. Ha lo sguardo rivolto al soffitto. I medici sciamano alle mie spalle, mi spostano senza guardarmi due volte e si avventano sull'uomo che è così assurdamente immobile in mezzo alla frenesia di questa stanza.
"Si sposti, per favore," dice uno dei paramedici.
Bill risponde: "No," poi guarda la donna che gli ha appena parlato e aggiunge, "Non portatelo via."
I medici non lo ascoltano, sono in due e si sistemano accanto al corpo. Bill cerca di mettersi in mezzo perchè continuano ad allontanarlo, così lo abbraccio. "Vieni via," gli mormoro premendogli il naso contro una guancia. "Bill, ci sono qua io."
"No," ansima. Non sembra sicuro di quello che dice, sembra che non sappia nemmeno dove si trovi e il mio cuore si spezza ancora un po'. "No..."
Lo tiro via, lui guarda solo Bushido che appare e scompare dietro ai medici che si muovono intorno a lui. "NO!" E' un grido rauco e violento, i medici non si voltano neanche. La freddezza con la quale ignorano il suo dolore fa male anche a me. So che devono farlo, che non avrebbe senso per loro girarsi ora. Che Bill deve strillare e loro devono ignorarlo, ma quando si piega in due contro il mio braccio che lo regge e scoppia di nuovo a piangere, li odio perchè non stanno facendo niente, perchè Bushido è morto e Bill sta male; e io non posso impedire che succeda. Bill si lascia andare in terra, sono costretto ad andargli dietro. Lo costringo a voltare la testa e lo schiaccio contro il mio petto. Fa resistenza ma poi rinuncia e mi si preme contro. "Tomi..."
Io continuo a guardare. Cerco di capire perchè gli girano ancora intorno, perchè provano e tentano e provano ancora. Il respiro è lievissimo, ma c'è. Lo sento dire ad uno dei medici, ma è solo un sussurro. Un sussurro soltanto. Non lo dicono a Bill. Io non glielo dico, perchè Bushido non sembra respirare. L'aria che esce dalle sue labbra è così poca che è come se non ci fosse. Non c'è. E' meglio che Bill non lo sappia. Soltanto dopo David mi dirà che Bushido è morto in ambulanza mentre lo portavano all'ospedale, che il più debole dei respiri c'era ancora quando sono arrivato io.
Io e Bill siamo seduti in terra, lui fra le mie braccia, e io gli accarezzo i capelli e penso che Bushido abbia aspettato che arrivassi. Non voleva lasciarlo solo.

*

Le lacrime di mio fratello non si sono ancora asciugate – nel senso che la traccia c’è ancora, la vedo distintamente che spicca appena un po’ più scura sulla sua pelle arrossata – quando mettiamo piede nell’appartamento di Bushido. La casa è enorme esattamente come l’ultima volta che ci sono stato, ma solo oggi riesco a comprenderne veramente le dimensioni. Quando ci sono stato io era pieno di rapper e pasticcini. Oggi è vuota, ci siamo solo io e Bill e l’eco di tanti di quei ricordi che non riesco a ignorarli nemmeno io, anche se mi danno il voltastomaco e mi fanno un male cane.
Non riesce ad ignorarli neppure mio fratello, però. E per lui è peggio, quindi sto zitto. Sto zitto tutto: non parlo e non penso neanche.
Malgrado tutto, comunque, Bill si muove con disinvoltura. È chiaro che non ci vede – perché a piangere così non vedi a un palmo dal tuo naso – ma non sbatte contro niente, va dritto per la sua strada con una sicurezza invidiabile. Lo guidano i piedi. Lo guidano i ricordi. Forse, qua dentro, c’è ancora qualcosa di Bushido. Ed è quello che lo guida.
- Tomi… - mi chiama debolmente, ed io stringo lo zaino nero fra le mani e gli vado dietro deglutendo appena, mentre mi guardo intorno, terribilmente a disagio. Non abbiamo nemmeno acceso le luci perché tanto Bill non ne ha bisogno ed io seguo lui, e non mi serve vederlo, per farlo.
Bill apre una porta e si ferma sulla soglia. Lo vedo che trattiene il respiro. Ho paura che possa soffocare perciò tiro giù un respiro tale che spero valga per due, e l’errore è quello perché il loro odore, qui dentro, è fortissimo. C’è il profumo di Bill, su tutto, e c’è la colonia di Bushido che lo segue e lo completa e si intreccia senza creare nessun fastidio.
Mio fratello è immobile e non respira, io respiro per due e ho gli occhi pieni di lacrime.
Distrattamente, penso che ogni volta che abbraccio mio fratello i nostri profumi si intrecciano allo stesso modo. E capisco perché mio fratello non vuole respirare. Perché l’amore è anche questo, profumi che s’intrecciano. Anche io ho desiderato smettere di respirare l’odore di Bill, quando lui si è allontanato da me. È per questo che Bill adesso non vuole più respirare l’odore di Bushido.
Gli poso una mano sulla spalla e lui lascia andare un singhiozzo che spezza l’incantesimo. Se non l’avessi toccato, penso che avrebbe potuto continuare a non respirare per sempre. Ma si sgonfia tutto, appena lo sfioro, e lui è già così piccolo che quasi scompare, perciò per non annullarsi del tutto alla fine a respirare è costretto per forza, e lo fa.
- Sì. – annuisce, come a rassicurarmi, - Di qua. – e mi porta verso una cassettiera che non è né grande né piccola ma non c’entra assolutamente niente con l’arredamento minimale della camera da letto. Il legno è più chiaro e un po’ rovinato e ci sono dei decori floreali che stonano eccome con il legno liscissimo e scuro del letto dallo scheletro quasi invisibile e i comodini sottilissimi. David – che è l’unica persona io conosca con un minimo di gusto, in generale – non sarebbe d’accordo con una scelta stilistica simile. Mi chiedo cosa ci faccia un mobile del genere in questa stanza, e Bill indovina la mia domanda e sorride appena, sfiorando lievemente la superficie un po’ ruvida e impolverata del ripiano colmo di portagioie che, in effetti, c’entrano poco pure loro. – È di sua madre. – illustra intenerito, - C’è un po’ di roba di sua madre sparsa per casa.
Annuisco, anche se non so bene a cosa. Non mi sento a mio agio perché non c’entro niente con questa casa e con questo buio e con queste serrande abbassate, né tantomeno con questa cassettiera ed i suoi portagioie. Bill mi sta aprendo davanti un mondo che non volevo conoscere – che non dovrei affatto conoscere.
Apre un cassetto e passa una mano fra le magliette ordinatamente piegate una sull’altra. Ne viene fuori un buon profumo di cotone appena lavato, e sono quasi sicuro che là dentro ci sia pure una di quelle bustine di granelli che tengono lontane le tarme. Non mi stupisce, la cassettiera sembra vecchia. È lavanda, ecco. È un buon profumo.
Bill tira fuori una maglietta dopo l’altra ed io apro lo zaino e tendo le braccia, tenendolo fermo davanti a lui. Mio fratello scuote il capo. No, queste non le porta via. Queste vuole tenerle un po’ fra le dita e basta.
Ogni maglietta si prende un pezzo di ripiano – Bill le drappeggia con cura sui portagioie così sembrano un po’ gonfie, così c’è dentro qualcosa che somigli a un po’ di vita – e quando lo spazio finisce Bill impila le nuove magliette sulle vecchie. E ci sono miriadi di disegni e colori che io ho visto solo ai concerti e nelle apparizioni pubbliche, ma che per Bill hanno un sapore e un significato tutto diverso.
Non fa niente di melodrammatico, mio fratello. Non schiaccia il viso contro il tessuto e non piange fino a sputare i polmoni. Sta lì a guarda le magliette. Il profumo arriva lo stesso e le lacrime scendono lo stesso, ma non c’è bisogno di esibire niente. Il dolore è già abbastanza vivo così.
- Cosa vuoi prendere…? – chiedo un po’ timoroso, poco dopo.
- Non lo so ancora con certezza. – confessa in una breve risatina che è un singhiozzo mascherato. Chiude il primo cassetto ma non posa le magliette, ed apre il secondo. Io mi giro mentre tutto il resto della biancheria di Bushido viene prelevato e riposto meticolosamente sul legno chiaro del mobile. Mio fratello guarda tutto con una sorta di soddisfazione e vorrei dirgli che sono solo vestiti, ma dubito servirebbe a qualcosa, com’è sempre servito poco in genere qualsiasi cosa gli abbia detto a proposito dell’uomo che amava.
Dell’uomo che amava, Dio. Quanto tardi l’ho capito? Quanti sorrisi di Bill mi sono perso? Ed ora mi ritrovo solo con le sue lacrime.
Quando torno a guardarlo, sulla cassettiera non c’è più niente. In compenso, ogni capo d’abbigliamento è stato spostato sul letto. Il letto è grande e li contiene tutti meglio, perciò non c’è niente che si accavalli su nient’altro e Bill può guardare tutto in un’unica volta, godendosi lo spettacolo. Si morde un labbro e quasi sicuramente si sta chiedendo perché non può portare via qualcosa. E si sta anche rispondendo che non gli servirebbero a niente, perché lui il suo amore non lo vuole nascondere, no, vuole sfoggiarlo. E vestiti simili non potrebbe indossarli comunque. Ecco perché a un certo punto lo vedo voltarsi nuovamente verso la cassettiera e scoperchiare un portagioie in legno nero, per scoprirne i tesori.
Stringo lo zaino fra le mani e mi chiedo se ci metteremo dentro qualcosa. Bill infila le mani fra i gioielli e ne tira fuori un bracciale di brillanti che luccica anche al buio. Se le pietre fossero solo un po’ più grandi ci si potrebbe specchiare dentro, e invece sono piccole e piuttosto discrete. È un gioiello piuttosto femminile. Mi chiedo se ce l’abbia lasciato Bill. Dall’ansia con la quale Bill lo stringe fra le dita e poi lo lega al polso, però, intuisco piuttosto facilmente che no, non è suo. Bill non tratta i suoi gioielli con quest’urgenza, perché sono la sua normalità. Il bracciale è di Bushido.
Fruga ancora un po’, mentre io ripiego lo zaino desolatamente vuoto sul braccio.
L’indice di Bill riemerge addobbato da un piccolo cerchietto opaco che intuisco appena nel buio.
- Cos’è? – chiedo curioso, e sul viso di Bill si apre un sorriso che è il primo sincero e pieno che gli vedo fare da quando… da mesi.
- Sapevo che l’avrei trovata… - commenta trasognato, rimirandola da ogni angolo, - È la sua fede.
- La fede…? – per un attimo, mi attraversa la mente un pensiero completamente idiota: si sono sposati? Vedo Las Vegas e costumi ridicoli, un finto prete drogato di caffè che si regge in piedi per forza di volontà mentre loro, completamente ubriachi alle cinque del mattino, si scambiano una promessa che vale molto più di quanto non stiano dicendo. Vorrei quasi dirlo a Bill, magari riderebbe. Lui non me ne dà il tempo, comunque.
- È stato sposato, in passato. – rivela tranquillo, - Non era facile che si decidesse a parlarne.
Faccio una smorfia.
- E tu ti metti addosso un anello che prova che un tempo era di qualcun altro?
Bill sorride.
- Non capisci. – dice, - È la parte di lui che non dava a nessuno, invece. L’ha data solo a me. – ed infila l’anello all’anulare sinistro. Adesso capisco, comunque, perciò annuisco compitamente.
A questo punto, però, mi sento inutile. Oltre a fare da pubblico mentre mio fratello si riappropria di ciò che di Bushido gli è sempre appartenuto – e che non poteva prendere perché, finché Bushido era in vita, non ne aveva bisogno – io ed il mio zaino vuoto non serviamo assolutamente a niente. Siamo fuori posto e fuori fase e fuori tutto.
- Questo…? – chiedo, sollevando lo zaino all’altezza del viso.
- Sì, qui ho finito. – annuisce Bill, e si avvia verso il letto. Sfila le federe dai cuscini e me le passa. – Queste. – dice spiccio, mentre volteggia veloce dal letto alla cassettiera per riporre i vestiti. Spoglia il materasso dalle lenzuola. – Anche queste. – io metto tutto dentro senza una parola, appallottolando ogni cosa. Mio fratello si sposta ed apre il cassetto del comodino a destra. Mi passa un orologio. – Il tempo. – dice piano. Un pacchetto di preservativi ed una confezione di lubrificante. – Questi. – ed arrossisce. Io non chiedo e non abbasso lo sguardo, non posso. Un pacchetto di sigarette quasi vuoto. – Questo. – si alza, fa il giro, apre l’altro cassetto.
Una pistola.
- La Heckler.
Deglutisco. La nascondo fra le lenzuola.
Bill sospira e si guarda intorno, le mani sui fianchi, un cipiglio critico ad aggrottare le sopracciglia.
- Ho fatto un disastro… - commenta fissando le magliette gettate alla rinfusa nel primo cassetto, assieme ad altra biancheria che in realtà stava nel secondo. – Tu sei più bravo a riordinare.
- …anche tu sai piegare le magliette. – borbotto.
Lui annuisce.
- Non voglio. – singhiozza poi. – È pieno lo zaino?
Non c’entrerebbe altro neanche volendo.
- Sì.
- Andiamo?
- Sì.
Quando Bill si chiude la porta alle spalle il profumo scompare e mi sembra un po’ di riuscire a riappropriarmi dello spazio e del tempo. Della giusta dimensione, insomma. In quella stanza l’aria non era viva, era ghiacciata in un passato in cui viva era stata.
La casa è ancora avvolta nell’oscurità. Le serrande sono abbassate e le tende tirate. La poca luce che filtra si perde inevitabilmente prima di poter essere in qualche modo utile. Brancolo nel buio ed anche mio fratello, ora che ha perso il motivo per stare qui, non sembra stare molto meglio.
Stiamo qui immobili a non capire cosa fare di noi stessi almeno fino a quando non gira una chiave nella toppa della porta d’ingresso. Bill si volta a guardarla con uno scatto isterico e la luce nei suoi occhi parla di un’intimità violata troppo presto e del tutto impunemente.
La porta si spalanca su cinque uomini che parlano animatamente fra loro. Litigano, direi. La luce si accende e l’espressione di Bill si addolcisce solo quando, fra i presenti, riconosce Chakuza. L’espressione di Bill si addolcisce perché negli occhi di quell’uomo ritrova un po’ dell’intimità di cui gli altri quattro non fanno parte – come potessi dimenticare il modo in cui Bill l’ha abbracciato quando è arrivato all’ospedale. Come potessi dimenticare il modo in cui gli si è attaccato al collo, ai vestiti, al petto, alla vita, per non cadere. Io ero lì per tenerlo e Bill si attaccava… a uno sconosciuto. Come potessi dimenticarlo.
Abbasso lo sguardo e mi mordo un labbro. Bill fissa i cinque. Chakuza solleva gli occhi mentre sta dando del coglione ad Eko Fresh. E strilla “Cristo!”, tirandosi indietro spaventato.
Bill lascia andare un sorriso timido un po’ sperduto. Io lo guardo solo per un attimo e poi mi concentro sui nuovi arrivati. Saad fissa mio fratello come fosse un prodotto di scarto di un’operazione necessaria. L’operazione necessaria era Bushido. Finché c’era Bushido, si teneva anche lo scarto. Adesso quei suoi occhi così spaventosamente verdi stanno dicendo che non c’è proprio più nessun motivo di tenere le scorie. Qualcosa di simile vedo riflessa negli occhi di Nyze, mentre in quelli di Eko Fresh c’è solo una leggera ansia ed in quelli di Kay One un’incredulità un po’ confusa.
Chakuza è solo stupito. E intenerito, credo.
- Bill… - sussurra incerto, abbozzando un sorriso, - Mi hai spaventato! Che… che ci fai qui?
Mio fratello sorride ancora e si stringe nelle spalle. Io mi stringo contro lo zaino come se fosse una cosa mia, perché ho paura che se lo portino via. E se Bill non potrà avere queste cose nel suo letto, stasera, me ne farò una colpa finché vivrò.
- Sono venuto a… prendere delle cose che avevo lasciato. – spiega mio fratello, senza perdere la calma, - Immaginavo che sareste venuti a ripulire, non volevo portaste via per sbaglio anche qualcosa di mio.
Chakuza annuisce comprensivo e Saad avanza nell’ingresso borbottando che, ora che ha preso tutto, può anche andare. Bill lo vede muoversi deciso verso il corridoio e gli saetta negli occhi la consapevolezza che, se entrerà in camera di Bushido, capirà che ha rovistato fra le sue cose.
La pistola, penso come in loop, oddio, la pistola.
- Dovrebbe esserci ancora un po’ di birra, in frigo. – dice Bill all’improvviso, facendosi avanti con un coraggio tutto nuovo, - Vi va di bere qualcosa?
Saad rotea gli occhi.
- Come se mi andasse di bere con te!
- Saad! – lo riprende Chakuza. Teoricamente sta un gradino più in basso di lui, ma credo questi siano i momenti in cui l’età conta di più. Sai meglio cosa fare. Smussi gli angoli. Penso con un po’ di tenerezza a Bushido che è morto a trent’anni e gli angoli li smussava benissimo, tanto che fra un angolo e l’altro è riuscito a far passare pure mio fratello. Che sarà pure sottile, ma resta ingombrante comunque.
Il libanese ringhia qualcosa di indistinto, ed Eko gli va vicino.
- Coraggio, Atze, è solo una bevuta.
Bill non perde quel cipiglio serio e fiero neanche per un secondo.
Mio fratello si muove fra il salotto e la cucina con la disinvoltura del padrone di casa. Mi fermo a riflettere sul fatto che questo pavimento gliel’ha insegnato Bushido, metro dopo metro. Bill se n’è appropriato un passo dopo l’altro, nel modo più naturale possibile. Questa è anche un po’ casa sua. La sta lasciando con uno zaino pieno di odori e simboli. Una fede non sua al dito e una pistola nascosta che vale molto molto molto più di una promessa di matrimonio.
A me dispiace un po’ non esserci stato mentre il suo amore si consumava. Sono qui mentre consuma il suo lutto, comunque. Non è la stessa cosa, ma ci sono. Ci sono e Bill lo sa. Per me è okay.
Scivoliamo fuori dall’appartamento mezz’ora e cinque bottiglie di birra dopo. I cinque cavalieri di Bushido stanno sul divano e non sanno davvero da che parte girarsi. Bill aveva un obiettivo semplice, loro devono passare al setaccio una quantità oscena di metri quadri di casa. E ciò che cercano, probabilmente, neanche lo troveranno. Perché viene via con noi. E quando loro se ne accorgeranno, noi saremo già al sicuro a casa.
Ci dormirà, con quella pistola sotto il cuscino, mio fratello. Così potrà difendersi e un pezzo di Bushido gli resterà sempre addosso. Sotto la testa. Ancorato al dito. Legato al polso. Dentro e tutto intorno a lui.
Sono quasi orgoglioso del mio cucciolo. S’era scelto un brav’uomo, in fondo.
*
Quando squilla il telefono, nel dopocena stanco e nervoso che precede la notte di sonno che, domani, ci condurrà a TRL – non solo Bill, anche io. Suppongo vogliano qualcuno di molto scenografico per reggergli la mano, ed io rispondo in pieno a tutti i requisiti. Sono scenografico e gli reggo la mano con un qualche perché. – la prima cosa che penso è che non ho fatto in tempo a finire di essere geloso di un uomo che posso subito cominciare ad essere geloso di un altro.
So che Chakuza non ha intenzioni di questo tipo, con mio fratello, ma Bill… Bill non ha nessuna voglia di allontanarsi dal mondo di Bushido, e sospetto sarebbe in grado di attaccarsi a qualsiasi cosa, pur di non cedere. È per questo che ci sono notti in cui ho semplicemente smesso di aspettarlo. Quando va male – ma proprio male – lui va da Chakuza.
- Pronto? – rispondo svogliatamente, andandomi a trincerare in camera mentre Bill, che fino a due secondi fa stava guardando The Notebook spiaccicato contro la mia spalla, frana sul divano con un mugolio di disapprovazione. “Tomi…?”, mi chiama. “Torno subito”, rispondo. Dall’altro lato della cornetta, la voce roca di Chakuza si esprime in una risata quasi dolce.
- Sta bene? – mi chiede curioso.
- Non è una brutta serata. – rispondo io, chiudendomi la porta alle spalle. – Forse è anche un po’ emozionato.
- Capisco. – annuisce, ma c’è una nota di nervosismo, nella sua voce, che inquieta anche me.
- Hai chiamato per un motivo specifico, - chiedo sbrigativamente, - o volevi solo fare conversazione? No, perché in questo caso hai sbagliato gemello.
- Potresti smettere un istante di stare sulla difensiva? – protesta lui, quasi annoiato, - Vengo in pace, sai?
Io sbuffo come un bambino viziato e mi viene un po’ da ridere perché io e Bill siamo davvero – ma davvero – gemelli.
- Va bene, smetto di ringhiare. – concedo, - Quindi, parliamo del tempo o…?
- Parliamo della trasmissione di domani. – mi informa lui, atono e pure un po’ offeso, come se fossi io il cretino colpevole di non averlo capito subito. – Bill può sentirmi?
Dovrei cominciare a preoccuparmi, immagino.
- …no, ma… che problema c’è per domani?
Chakuza tira fuori un sospirone paziente. Io comincio ragionevolmente ad irritarmi.
E poi la butta lì.
- Sarò sincero con te, Tom. – ma anche no, vorrei dire. Solo che sarebbe troppo da irresponsabile perfino per uno come me. – Dal momento che non è stato Fler ad ammazzare Bushido, non abbiamo più il controllo della situazione. Non sappiamo chi sia stato né perché.
Trattengo il fiato.
- Che… - annaspo confusamente, - che mi sono perso? Non dicevate che la polizia l’aveva lasciato andare per mancanza di prove ma che eravate certi… voi eravate certi!
- Sì, lo so. – concede lui con la stessa pazienza di prima. Dovrei ringraziarlo per questo, immagino. – Adesso però siamo certi che non sia stato lui, e questo significa che sono cambiate le carte in tavola. Chiunque abbia premuto il grilletto quella notte, potrebbe avere un altro movente. – si interrompe un secondo, come aspettasse di lasciarmi digerire tutte le informazioni. - …o un altro obiettivo. Quella a TRL sarà la prima uscita pubblica di Bill, e… insomma. – conclude quindi con un mezzo sospiro.
Bill. Bill. Il pensiero mi esplode nel cervello all’improvviso e mi devasta. Mi devasta, Cristo. Bill. Il mio fratellino. Bill.
- La security, abbiamo… - ansimo, agitato, - noi siamo protetti e… - mi fermo. Chakuza non avrebbe chiamato, se avesse ritenuto la security abbastanza per proteggere Bill. - …cosa pensi di fare?
- Crediamo che i momenti più pericolosi saranno all’entrata e all’uscita degli studi. – espone lui, freddo come un generale, - All’interno non può arrivare nessuno, senza autorizzazione, ma in mezzo alla folla è tutto molto più semplice. – fa pause strategiche all’interno del discorso, perché sa che io con tutta questa roba non c’entro davvero niente. Avevo un bel coraggio a fare la voce grossa con Bill parlando di dinamiche di crew e di cose che ero certo lui non sarebbe mai riuscito a capire, ma io? Ero davvero diverso da lui? Mi sembra che Chakuza stia parlando di cose assurde, eppure la paura che provo è reale. È reale perché Bushido c’è morto davvero, per queste cose assurde. – La security terrà indietro la gente. – riprende, - ma non si aspetta davvero un attacco violento. Dovremo fargli muro intorno, renderlo un bersaglio meno isolato. Chiunque voglia colpirlo, dovrà prima incontrare noi.
Io. Non so. Che dire.
- S… sì. – tiro fuori a fatica, - Okay, io che devo fare? – cerco di prendere coraggio così, dandomi un perché, un motivo di esistere in mezzo a tutto questo casino, perché non ci sto a guardare mio fratello che va via, non di nuovo, non sul serio, non così. – Chaku, che devo fare?
- Tu devi scortarlo all’entrata. – risponde lui, un po’ meno freddo di prima. – E sarai da solo, perché noi non possiamo arrivare con te.
Mi sento come quando, da piccolo, Bill aveva la febbre e mamma doveva badare ai bambini degli altri per tirar su qualche soldo. Doveva badare ai bambini degli altri e non poteva davvero badare anche ai propri, perciò, tenerissima com’è sempre stata, mi tirava da parte e mi diceva “Tom, tu sei il fratello maggiore, devi prenderti cura di Bill. Devi fare in modo che stia bene e non gli accada niente, mentre io sono impegnata. Okay?”. Ed io mi facevo grande e gonfiavo il petto perché allora combattevo contro una febbre ed un broncio triste e sapevo di poterli gestire tranquillamente con un abbraccio e qualche caramella. Adesso sto combattendo contro qualcosa di molto più grande e non è cambiato niente: sono il fratello maggiore e devo gestirlo per forza.
- Va bene. – dico con sicurezza, annuendo al mio riflesso spaurito che mi fissa dallo specchio sulla parete di fronte, - Me ne occuperò io. Non ci saranno problemi. – sospiro perché adesso che l’ho detto sto meglio. Mi sento svuotato. Ma quando ti senti svuotato va bene, è un’occasione per riempirti di nuovo. Io devo diventare tutto coraggio. Per Bill. Posso farlo. – Chakuza, ma voi chi? – chiedo alla fine, più che altro per capire esattamente con quali dei cavalieri di Sua Maestà dovrò avere a che fare domani.
Lui fa una pausa, ma stavolta non è una pausa per me. È per se stesso. Come stesse cercando di fare mente locale.
- …io e Fler. – risponde alla fine.
- Fler! – strillo io, agitando il braccio non impegnato e reggere il telefono, - Chakuza, se per caso ‘sto stronzo è veramente quello che ha ammazzato Bushido e si sta infiltrando per far fuori anche mio fratello, e tu ci stai cascando come una pera, giuro che di te non rimarranno neanche le ossa! – vorrei anche capire cosa sto dicendo. Penso di essere arrabbiato e basta, perciò sparo cavolate. Io devo fidarmi del Chaku di Bill. Devo farlo per forza, non posso sbagliare di nuovo.
Chakuza ride, giustamente. Io non rido con lui solo per imbarazzo.
- Molto intimidatorio, davvero. – mi prende in giro, anche se non riesco a sentirmi offeso, - Ad ogni modo, Fler è uno dei nostri, adesso. Garantisco io per lui.
Sospiro e roteo gli occhi.
- Ah, be’, se garantisci tu… - Bill mi chiama dal salotto. “Tomi!” pigola con quella sua vocetta estenuata. Credo che il film sia finito, per carità, quando finisce The Notebook Bill non è felice se non mi scarica addosso almeno due ore di lacrime. – Senti, devo andare… - avviso Chakuza dall’altro lato della cornetta, - Un’ultima curiosità: come diavolo hai avuto il mio numero?!
- Uh? – sembra stupito, - L’ho chiesto al vostro manager, naturalmente. – spiega in breve, - Che ti aspettavi?
Eh, non lo so che mi aspettavo. Dovresti dirmelo tu cosa aspettarmi, Peter Pangerl detto Chakuza.
Peter Pangerl, poi. Che razza di nome è per un gangsta rapper?
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Tom (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Incest (accennato), Slash.
- La relazione più pubblica dello showbiz tedesco è, in realtà, un affare molto privato. Tanto privato che Bill e Bushido, quando stanno nello stesso posto, devono pure stare almeno a una decina di metri di distanza l'uno dall'altro. Maledicendo ogni centimetro di quei metri - e le due zoccole che si sono avvinghiate al suo uomo - Bill ci racconta dei lati positivi e di quelli negativi della sua situazione sentimentale. Posto che i primi esistano e che i secondi abbiano importanza, naturalmente.
Note: Il mio coefficiente di inutilità aumenta di giorno in giorno. È una cosa scioccante XD L’ispirazione per questa vaccatina emoangst di quattro pagine, comunque, è arrivata guardando un video di Bushido con due groupie. È in realtà un video piuttosto divertente – le due sono due zoccole fatte e finite, ma il Bu è più o meno comico. Per quanto possa essere comico un uomo circondato da figa che sa ne beccherà pure un bel po’ durante la notte. – ma ovviamente io guardandolo ho ringhiato perché la situazione in sé è irritante da morire XD I motivi sono illogici e irrazionali e stupidamente innamorati, quindi ve li risparmio u.u Però ne è venuto fuori Bill, con una prepotenza che aveva dell’assurdo. Ed io ho ritenuto opportuno dargli soddisfazione è_é
Il twincest non era volontario. Giuro O_O” Ma tanto ormai ho smesso di chiedermi perché i miei personaggi agiscano in un modo piuttosto che in un altro. È palese che non hanno motivi -.-“
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
EIN GANZER MANN

Le troie sono due. Accucciato sul divano, stretto al proprio fratello come se da lui dipendesse la sua capacità di rimanere ancorato al mondo reale, per non scivolare in una rabbia irrazionale che – lo sa – sarebbe semplicemente l’inizio della fine del mondo, Bill le guarda. E le conta.
Le troie sono due. Una bionda ed una mora, come a dire: una per ogni gusto, senza possibilità di rimanere insoddisfatti. La classica cosa che farebbe oltremodo felice Tom, Bill sa anche questo, ma Tom stasera è gentile e gli sta attaccato come una patella allo scoglio, perché comprende che, se si allontanasse anche lui, poi Bill resterebbe senza ancore. E la rabbia di cui sopra comincerebbe a scorrere libera, tracimerebbe gli argini, gli saetterebbe fuori dagli occhi, e poi valla a riprendere. Valla a fermare. Non sopravvivrebbe nessuno perché, a costo di far fuori tutto l’intero locale, Bill cancellerebbe ogni traccia di quell’umiliazione inferta inconsapevolmente.
Le troie sono due e stanno attaccate ad Anis – a Bushido, Bushido, in pubblico è Bushido. Ed anche quando lo fa incazzare è Bushido. Anis è un nome per altre occasioni. Occasioni di cui al momento non gli interessa ricordare l’esistenza. Comunque gli stanno attaccate nello stesso preciso e identico modo in cui lui sta attaccato a Tom, ma ci sono delle piccole differenze.
Tanto per cominciare, le troie sono appunto due. Lui è uno solo. Uno solo e pure un po’ troppo magro qui e là per ricordare anche vagamente una sola di loro. Oltretutto, sono simili solo le pose: le troie abbracciano Anis perché vogliono essere scopate; Bill abbraccia Tom perché se non lo abbracciasse scoppierebbe a piangere di gelosia.
Le due troie – che sono comunque sempre ancora due, cazzo, è solo, Bushido? Non c’è qualche altro gangsta rapper cui attaccarsi per spogliarlo con gli occhi e anche con le mani, se capita? – si avvolgono attorno al suo corpo come fossero nate apposta, incastrandosi perfettamente e riempiendo di morbidezze le asperità un po’ spigolose del corpo magro del suo uomo. Il fatto che Anis fosse muscoloso ma magro l’ha sempre fatto impazzire, prima di questo momento: adesso lo odia e basta perché si rende conto che un corpo così è un corpo fatto apposta per essere toccato. E coperto. Da altri corpi. Altri corpi che non sono il suo, però, tant’è vero che lui ed Anis quando fanno l’amore non scopano, no, collidono. Ed è bello tanto quanto fa male.
Bill si agita sul posto e suo fratello stringe la presa attorno alle sue spalle.
- Calma, Billi… - ed è un tono da domatore, che lo farebbe infuriare, in qualsiasi altra occasione. Stasera no, però, perché ha davvero bisogno di essere domato.
Bill si lascia andare alla stretta ed abbassa gli occhi. Le palpebre scendono appena, c’è qualcosa che gli solletica le ciglia ma non la lascerà cadere. Non ha motivo di piangere. Non ha proprio nessun motivo di piangere.
Annuisce.
- Sto bene. – sputa fuori in un mezzo singhiozzo.
Tom gli sorride teneramente e stringe ancora un po’ la presa.
- Posso partire con le classiche rassicurazioni di rito?
Bill lo guarda senza capire, arricciando un po’ il naso. Tom ride a mezza voce e si china a lasciargli un bacino sulla punta.
- Punto primo: non sta facendo niente di male. Punto secondo: sono loro le troie. Punto terzo: sai che non significa nulla. Punto quarto: sai anche che preferirebbe stare qui piuttosto che dov’è.
Bill si costringe ad un sorriso e spera che Tom non noti la forzatura.
Si rifiuta di ribattere “il problema è che non c’è. Vorrebbe, forse, ma non c’è. Quindi, se anche vuole, non m’interessa”.
Come seguisse il copione mentale di Tom, comunque, o come se volesse dimostrare qualcosa a Bill, Anis mostra segni di insofferenza. Si districa dall’intreccio di corpi morbidi, si allunga verso il tavolino, afferra il bicchiere col drink colorato. Sta lì, si china a parlare con uno dei suoi, agita la mano – il ghiaccio tintinna ripetutamente contro le pareti di vetro, Bill sente solo quello – esita un po’ prima di tornare a poggiare la schiena contro i cuscini del divano.
Per un attimo, Bill s’illude che si alzerà in piedi ed andrà via. Sarebbe meglio non vederlo più per tutto il resto della serata, che non continuare a vederlo così.
Le illusioni non si avverano ed Anis – sempre Bushido. Come le troie sono sempre due – torna composto. Come ubbidendo ad ordini superiori, le troie tornano ad avvolgerlo nelle loro spire. Bill le vede sorridersi l’un l’altra con aria maliziosa, mentre fanno scivolare le mani sul suo petto.
Bushido ride e scuote il capo. Recupera le mani di entrambe e se le scosta di dosso.
- Sono troppo appiccicose, vedi? – dice Tom, che sta fissando la scena col suo stesso occhio critico, - Le sta mandando via.
Ed invece no, Bill lo sa. Non le manda via. Bushido non le manda mai via. Se sia una questione di apparenze o di orgoglio o di uniformarsi al resto della crew – perché, ora che si guarda in giro, le vede, Bill, le vede le troie: sono ovunque, pure sugli altri – Bill non lo sa. In fondo, non ha paura. Non è nemmeno arrabbiato.
Per qualche motivo, però, Anis l’ha ferito. Senza volere e senza coltello. Quando ne parleranno – stasera o domani. Magari mai. – Bill si lamenterà ed Anis capirà perché, ma non saprà di che scusarsi perché non avrà effettivamente nessun motivo per chiedere scusa. Dirà “mi dispiace” e sarà un “mi dispiace” generale, di quelli che dicono “non vorrei che la situazione fosse così schifosa, ma lo è. Non dipende da nessuno di noi due, è così e basta, piccolo, dobbiamo rassegnarci”.
Bill lo sa.
Ma vorrebbe qualcuno da incolpare. Vorrebbe poter incolpare Anis.
Quasi lo fa. Ma poi una delle troie solleva una gamba – ed è indecente, indossa un paio di short bianchi inguinali che dovrebbero essere vietati da qualche legge, e Bill è quasi sicuro lo siano – e la lascia ricadere con navigata distrazione fra quelle di Anis, sfiorandolo voluttuosamente col ginocchio e con tutta la lunghezza del polpaccio fino alla caviglia, per poi tornare indietro e posarsi lì, innocente, sorridente, soddisfatta.
Tom stringe la presa sulla sua spalla. Bill ha un “troia” che trema pericolosamente sulla labbra ed una lacrima che trema pericolosamente sulle ciglia.
Anis si alza di scatto e la troia finisce letteralmente schienata sul divano.
- Saad! – chiama Anis, con rabbia, teso come una corda di violino. Indossa una maglia larghissima, le maniche sono lunghe, scendono quasi a coprire il dorso delle mani. Sarebbe tenero, se il tessuto non gli si tirasse maliziosamente sulle spalle tornite e nervose. Siccome lo fa, non è tenero: è solo sexy.
Saad arriva subito, guardandosi intorno come a chiedersi dove sia il problema. Anis indica le troie. Le indica tutte e due. Saad guarda Bushido e chiede a lui dov’è il problema. Ed Anis fa un gesto con la mano. “Falle sparire”.
Bill non sorride perché non ha nulla di cui sorridere. Il nervosismo di Anis gli dice solo che lì, con lui davanti, essere toccato da quelle donne lo infastidisce. Ma non gli dice come potrebbe essere se lui non ci fosse.
Non gli dice com’è quando lui non c’è.
Non risolve proprio niente. Ed è la classica cosa che non si risolverà mai, oltretutto.
Le troie scompaiono. Da due a zero. Tutto intorno, gli altri membri della crew si fanno toccare, accarezzare e baciare. Alcuni perfino scopare attraverso i vestiti – è davvero impossibile non notare quelle anche perfettamente rotonde e quei seni sodi che ondeggiano mentre, nella penombra, le ragazze si spingono avanti e indietro sui grembi dei loro ospiti. Bushido rimane seduto sul divano. Non ci sono più troie. Resta Saad, per qualche secondo, proprio là accanto. Si china verso il suo King, gli posa una mano sulla spalla, Bill può immaginare la sua voce nasale un po’ preoccupata, “è tutto okay, Atze?”, ed Atze dice sì, gli dice che può andare. Saad lo fa, ma non perché sia tranquillo. Lo fa perché Bushido gliel’ha ordinato.
D’altronde, non c’è proprio niente di cui stare tranquilli. Bushido, seduto sul divano, resta solo e immobile, le mani incrociate di fronte al viso, la fronte pressata contro il dorso, i gomiti sulle ginocchia. Non guarda niente e nessuno. Bill vorrebbe che guardasse lui, così potrebbe fargli un cenno del capo, una qualsiasi cosa che servisse a rincuorarlo, perché vederlo in quelle condizioni – frustrato, nervoso, accigliato – non è davvero possibile, non senza sentire una fitta orribile nel centro del petto. Ma Bushido non lo guarda, Bill fa cenni al vuoto e con la fitta nel centro del petto dovrà imparare a conviverci, punto.
- Sei contento? – chiede Tom, ed il tono della sua voce è dolce e sollevato. Lo stringe ancora alla spalla, ma non è una stretta contenitiva. Lo sta abbracciando e basta. – Le ha mandate via. Come un vero uomo.
Bill abbassa gli occhi e scuote il capo.
- Forse un vero uomo se le sarebbe tenute. – e scopate. Ma non lo aggiunge perché fa insopportabilmente male.
- Che razza di veri uomini conosci? – ride Tom, allungandosi a recuperare la birra.
- Non lo so. – ammette Bill con un sospiro, - Forse non ne conosco nessuno.
- O forse ne hai un’idea completamente distorta. – lo corregge suo fratello. – Vedi, è per cose come queste che io non voglio relazioni. Perché poi dovrei togliermi le donne di dosso.
- E non lo faresti?
- È proprio il fatto che lo farei, ad infastidirmi.
Bill vorrebbe ringhiare, perché il tono di suo fratello stavolta è quasi di rimprovero. Come se gli stesse rinfacciando qualcosa. È un tono che non ammette repliche, e Bill si ritrova a replicare quasi controvoglia, solo per contraddirlo.
- Non lo so, dovrei dispiacermi per lui? Magari dirgli “tesoro, non importa, fa’ ciò che vuoi e fatti scopare come preferisci da chiunque si dimostri interessato”?
Tom gli scocca un’occhiata davvero poco comprensiva, e manda giù un paio di sorsi di birra. Così, schiacciato com’è su di lui, Bill li sente scivolare lungo la sua gola e poi giù fino allo stomaco. Abbassa lo sguardo.
- Vedi la situazione dalla sua prospettiva. – lo incita Tom. – Vorrebbe avere addosso te. Non può. Potrebbe avere addosso qualche troia. Non la vuole. Tu saresti felice?
Bill mugola e si arriccia ancora di più nella propria posizione.
- Ti odio quando mi dai torto.
Tom ride di gusto.
- Ma non ti sto dando torto. Sto dicendo che avete ragione entrambi.
Bill si astiene dal fargli notare che è come dire che il bicchiere può essere sia mezzo pieno che mezzo vuoto, dipende dalla prospettiva in cui lo guardi. Tom ha una visione un po’ comune della realtà. Un po’ troppo chiara. Avere una visione chiara della realtà non è un bene, perché la realtà non è davvero chiara. La realtà somiglia alle luci blu degli afterparty: ti sembra di stare vedendo qualcosa, ma in realtà è un’ombra. Stai guardando qualcos’altro, ma la tua mente e le luci ti prendono in giro.
Il problema non è mai stabilire se il bicchiere sia mezzo pieno o mezzo vuoto. Il problema è che il bicchiere è mezzo. Non è intero. Non c’è tutto. Che ci sia qualcosa dentro è del tutto indifferente, alla fine.
Ed è un po’ così anche per la loro relazione. Che si muove nell’ombra degli afterparty e nell’ombra della loro camera da letto. In silenzio. Che nessuno lo sappia. Che nessuno la veda. Che nessuno ne senta neanche l’odore.
È già qualcosa averlo, quell’amore? Dovrebbe vedere il bicchiere mezzo pieno ed accontentarsi?
È sempre un amore a metà. Bill può accontentarsi, ma è sempre un amore monco.
Bill sospira e guarda suo fratello che sorride, e non può fare a meno di sorridere a propria volta. Non è la prima volta che si ritrova con un amore a metà. Ormai, può quasi dire di esserci abituato. Anis non è Tom e Tom non è Anis, ma per Bill sono incompleti entrambi, ognuno nel proprio modo speciale.
Tom intreccia le dita con le sue e gli lascia un bacio sulla tempia.
- Ti sei un po’ calmato? – chiede premuroso.
Bill annuisce.
Dall’altro lato del salottino, Anis è tornato semplicemente Anis. Ha sciolto le dita, s’è alzato in piedi e s’è grattato stancamente la nuca, prima di richiamare Saad ed avvertirlo con poche parole del fatto che sta andando via. Saad s’è lamentato vagamente, ha risposto probabilmente con un “resta un altro po’, Atze, che risolvi andandotene via a mezzanotte?!” che Anis ha volutamente ignorato.
Bill lo osserva chinarsi a recuperare la giacca, e si separa da Tom. Lo fa perché sente sottopelle che Anis sta per guardarlo.
Ed in effetti Anis lo fa. Gli lancia un’occhiata ed un sorriso ed un saluto con la mano. Sono cose che può fare pubblicamente. Sono gesti che la gente interpreta come prese in giro o come i cavalli di battaglia di una falsa relazione che fa arruffare le penne a un sacco di ragazzine in tutta Europa. Può permetterseli. Bill può permettersi di ricambiarli, perché la gente li interpreta come gentilezze di cortesia.
Ammantano la loro relazione di bugie per poterla vivere il più sinceramente possibile. È un paradosso al quale Bill ha dovuto abituarsi. Bill ha dovuto abituarsi a così tante cose che ne ha perso il conto e non potrebbe elencarle neanche volendo. È orrendo perché ci sono dei momenti in cui si chiede se ne sia valsa davvero la pena.
Gli occhi di Anis, scuri e profondi nonostante le luci basse gli permettano appena di intuirli, gli ripetono che sì, ne vale la pena. Ne vale la pena sempre, giorno dopo giorno. Sì, sì, sì.
Bill freme sul divano e contro il corpo di suo fratello.
Anis esita nell’andare via. Continua a guardarlo.
Tom ride.
- Vuoi andare con lui? – chiede divertito, - Ti copro io.
Bill si trattiene dal saltare istantaneamente in piedi solo perché vuole prendersi il giusto tempo per ringraziarlo e dargli un bacino.
Mentre Tom sfila dalla tasca il cellulare per chiamare David ed avvertirlo che farà bene a predisporre una sicurezza adeguata, se non vuole che il Billshido si ritrovi sputtanato in copertina entro domani, Bill si allontana verso Anis. Lui lo guarda, capisce che lo sta seguendo e si lascia andare ad un sorriso, prima di voltarsi e fargli strada verso l’uscita.
Non si guardano. Non si sfiorano.
Ad osservarli da lontano, sono solo due che vanno via.
Il punto è che stanno andando via insieme. Il bicchiere è pieno. Solo per un attimo.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Erotico, Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Death, Lemon, Slash.
- "Anis è una sensazione. I ricordi non contano, ma la sua presenza resta. Ce l’ho sempre qui, attaccata alla pelle, come fosse una cosa viva. Come se lui fosse ancora vivo. E non me lo sono tatuato addosso ma lui c’è rimasto lo stesso."
Note: Prima di tutto vorrei ringraziare Tab, perché se non mi avesse dato una direzione questa storia sarebbe rimasta ferma a metà della prima pagina senza speranza di concludersi neanche fra un milione di anni ^^ Ed invece tutti i concetti delle sensazioni striscianti li ho ripresi da lei, li ho ampliati e li ho ficcati qui semplicemente perché… non lo so, rincorrevo l’idea da un po’, credo. Con Tab abbiamo parlato spesso di scrivere spin-off sui ricordi di Bill, ed alla fine non so come l’idea del sogno ha cominciato a farsi strada nella mia testolina pervertita, e questo è ciò che n’è venuto fuori. Mi rendo conto che non è una PWP XD Non è neanche una morte, però! XD È un po’ una roba a metà. Come il sogno di Bill =P
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SLEEPING WITH GHOSTS

Chaku è appena andato di là a dormire. So che non voleva perché di solito aspetta che io mi sia addormentato, così può posarmi una coperta sulle spalle, augurarmi una buona notte silenziosa e scivolare calmo nel suo letto ripetendosi che anche per stasera ha salvato la Principessa dal tracollo emotivo.
Stasera però il sonno non arriva. Sono già le quattro del mattino e Chaku è andato a letto solo perché ho insistito nel fargli notare che la sveglia alle sette sarebbe passata del tutto inosservata se non fosse andato immediatamente a riposarsi. Non che in genere la cosa basti a farlo rassegnare, di solito quando dico cose simili mi rimpinza di birra e a quel punto il sonno viene come conseguenza naturale, ma stasera i miei occhi erano troppo vispi e svegli, credo, per dargli ad intendere ci fosse una possibilità di mandarmi in stand by.
Non ce n’è. Lo so. Stasera non sono proprio riuscito a salvarmi dal tracollo emotivo.
Il salotto – o almeno, questa stanzetta minuscola che Chaku fa passare per salotto, cosa che mi fa ridere molto se penso alla villa gialla di Anis ed alle mille sale che la componevano come una reggia – è scuro e silenzioso attorno a me. Il plaid scozzese che mi sono tirato su fino al naso non è fisicamente in grado di scaldarmi ed io non so se sia perché c’è freddo o perché lo sento e basta.
Alla fine, immagino non faccia molta differenza. Le sensazioni sono quelle, il corpo non mente mai. Se alla mia pelle manca il calore di un abbraccio, se mi manca la pressione di dita che conoscevo a memoria e che non potrei mai confondere con quelle di nessun altro, allora è semplicemente così che sto ed è quella la mia verità. L’unica che conti. Poco importa se in genere dopo tre settimane dalla chiusura di un rapporto si ha già dimenticato tutto e si va alla ricerca di un altro.
Il mio rapporto non s’è chiuso. Il mio rapporto è morto.
Anis è morto.
A volte questo pensiero non c’è. O c’è ed io non me ne rendo conto. Ma se non lo vedo posso almeno fingere che non ci sia, perciò diciamo che non c’è. A volte la realtà è più forte dei miei ricordi, perché comunque la realtà è un po’ così: fastidiosa ed invasiva. E c’è David che mi dice cosa devo fare e mi chiede come sto, e c’è Tomi che mi spintona qua e là per negozi e poi mi piazza davanti al DVD di The Notebook dandomi un motivo valido per piangere ancora, e ci sono Georg e Gustav che fanno i pagliacci e c’è Andi che mi chiama per descrivermi la nuova sfumatura di platino dei suoi capelli e c’è mamma che mi compra i regali e me li manda via posta o me li porta di persona, e naturalmente quando sono tanto triste da non farcela più c’è Chaku che non mi rifiuta mai una birra ed un posto sul divano, perciò sì, il più delle volte ce la faccio e provo pure a dirmi che sono forte e non sto affatto male.
Di notte, però, capita che mi ritrovi senza niente da fare e con nessuna voce nelle orecchie. Nessuno che mi distragga, nessuno che mi indichi dove andare a sbattere la testa per mandare la memoria in coma e staccarle definitivamente la spina. Perciò resto così, come adesso, avvolto da una coperta inutile che non è calda la metà dell’abbraccio che non avrò più, e fisso il soffitto come se da lì dovesse venire una qualche risposta, e mi ritrovo terrorizzato all’improvviso quando comprendo che la risposta che aspetto non arriverà, semplicemente perché non esiste.
E perché i morti non parlano, ovviamente.
Tranne che nella mia testa. L’ultimo luogo dove sono sicuro di poter ritrovare la voce di Anis sempre, e non nelle sfumature metalliche di un lettore musicale, ma nella sua completezza. In tutto lo splendore dei toni cupi di quando era triste, di quelli più acuti della sua risata da bambino mai cresciuto e in quelli ruvidi e caldi di quando era eccitato e mi sussurrava nell’orecchio sapendo che mi avrebbe ridotto ad un mucchietto di voglia da rigirarsi fra le mani.
La cosa peggiore è che non sono davvero memorie, non sono cose riconducibili a momenti ben precisi. Di quelli ne ho pieno il cervello. Di lui esausto buttato sul divano dopo una giornata intensa che mi chiede per piacere di parlare a bassa voce, per fare un esempio. O di lui che squittisce – e lo faceva davvero, un suono acuto e pungente come la risata dei bambini insopportabili, ma che sulle sue labbra era dolce tanto quanto tu eri impreparato a sentirlo – di fronte a qualcosa di particolarmente buono da mangiare. Aprire gli occhi e trovarlo addormentato al mio fianco con le braccia e le gambe larghe fino ad avermi rubato tanto di quel materasso da costringermi a rotolargli addosso. E dargli una gomitata in pieno petto mugugnando che proprio non sa dormire in coppia, mentre lui mi chiude le braccia attorno alle spalle e mormora “dormi e basta” direttamente sul mio collo. Che poteva esserci freddo da morire o un caldo intollerabile ma fra quelle braccia si stava bene comunque, regolavano la temperatura dell’aria attorno a me.
Questi sono ricordi. Sono contestualizzabili. Mi basta chiudere gli occhi e non guardare divani cibi letti eccetera, per non pensarci. Mi basta concentrarmi abbastanza su un foglio di carta e su tutto lo schifo che ci voglio gettare sopra, per dire.
Con le sensazioni è più difficili, perché le sensazioni non sono contestualizzabili. Quelle, bastarde, strisciano sopra e sotto la pelle, ed una volta che le hai provate diventano parte di te, ti scorrono dentro e non hanno neanche bisogno di azionare un interruttore per risalire a galla.
Soprattutto, quando ce la fanno, non le puoi fermare. Non basta chiudere gli occhi. Restare da solo le amplifica. Circondarsi di voci rumori e suoni le rende solo più urgenti. Non scappi. Che tu sia solo su un divano o in mezzo a una folla vociante, sei solo tu e l’eco della tua voglia che ti si arrampica addosso e ti colonizza il cervello.
Anis è una sensazione. I ricordi non contano, ma la sua presenza resta. Ce l’ho sempre qui, attaccata alla pelle, come fosse una cosa viva. Come se lui fosse ancora vivo. E non me lo sono tatuato addosso ma lui c’è rimasto lo stesso. Lì, dove non l’ho mai messo. Dove è arrivato da solo. Nel posto che s’è guadagnato in mezzo al mio petto. In realtà, andandosene non ha lasciato un buco: perché non è mai andato via.
La coperta scivola via alla terza volta che mi rigiro sul cuscino del divano di Chaku che ormai ha preso la mia forma. Mi ci sono scavato una tana a forza di premerci contro le ossa, è diventato un po’ il mio posto qua dentro. È strano che casa di Chaku mi ricordi tanto Anis, perché casa di Anis era un palazzo maestoso e questo è un trilocale che sembra una topaia, ma a pensarci capisco subito che il collegamento è diverso: non è una questione di ricordi, sono appunto le sensazioni. Qui c’è l’odore di Anis. C’è l’odore della sua presenza, che è rimasta attaccata alle pareti. Chissà quante volte è venuto qui a passare una serata in compagnia, o per recuperare Chaku prima di andare da qualche parte o chissà che altro. E il suo odore s’è imposto su queste pareti, su questi cuscini e pure sulle particelle di ossigeno, tanto che lui ora è ovunque.
Un po’ ho paura di realizzare che potrebbe essere uscito da me. Potrei avercelo portato io respirando, muovendomi, rigirandomi sul divano.
Chino il capo ed annuso la pelle della mia spalla.
Anis è ancora lì, lo sento. È denso e scuro com’era da vivo. Se chiudo gli occhi abbastanza forte sento la pressione dei suoi polpastrelli, ed è calda e dolce, premurosa. Me lo vedo che si china su di me e borbotta “Ma perché ti sei addormentato sul divano?”, e per un attimo mi chiedo che cosa ci faccia qui, visto che teoricamente non dovrebbe – potrebbe – esserci, ma poi guardo la curva apprensiva delle sue labbra serrate e scuoto lentamente il capo. “Non lo so”, rispondo, “guardavo la tv”, ed è una bugia ma mi secca rispondergli che pensavo a lui, lo so che gli dispiacerebbe sapermi ancora triste e debole.
Lui scuote il capo rassegnato e si china, è in ginocchio proprio qui accanto, se mi sporgo solo un po’ lo sfioro con le labbra, ed ho davvero voglia di farlo ma mi sento stanco e pesante, perciò mi limito a guardarlo, così è lui che deve chinarsi. Lo fa dondolandosi appena sui talloni, un movimento oscillatorio un po’ infantile, si china e me lo sento sulle labbra. Si allontana quasi subito ed io assaggio il suo sapore, o ciò che ne resta, direttamente dalla mia bocca. D’improvviso mi rammarico di non averlo baciato più a fondo.
“Torna qui…”, mugolo pietosamente, ma Anis si rimette in piedi facendo leva sulle ginocchia e guida la mia mano a recuperare la coperta da terra.
“Mi fai spazio?”, mi chiede poi, ed io mi raggomitolo tutto diventando un pallina minuscola, così lui, che a dormire in due non ha mai imparato, può prendersi tutto lo spazio che vuole.
Crolla accanto a me ed i cuscini sbuffano, fanno puff, si gonfiano e si sgonfiano sotto di noi. Anis ride divertito ed io mi sciolgo. Mi sciolgo da me stesso e mi sciolgo su di lui, ed è una sensazione così nostalgica e liberatoria che mi viene quasi da piangere, perciò pigolo un lamento a caso mentre mi adatto nuovamente alla superficie dura del suo petto e del suo ventre.
“Che c’è, piccolo? Cos’è che ti manca?”, chiede, e mi prende in giro. Mi manchi tu, stupido, mi manchi da morire. Mi uccide non poterti seguire. Ma tu ora sei qui, quindi va bene.
Mi sollevo pressando le mani sulle sue gambe. Lui tende i muscoli per non farsi male ed io li sento gonfiarsi sotto di me e per un secondo vorrei ricadergli addosso e basta, ma so che me ne pentirei, perciò finisco di mettermi seduto e lo bacio. Cerco le sue labbra con una voracità che credevo di avere perduto, e lui mi risponde con un’ansia che non credevo possibile, sento la pressione delle sue braccia forti attorno alla vita, mi tira verso di sé ed è tutto un concentrato di calore e fermezza mentre io sono debole e mi arrendo una dieci cento mille volte ai tocchi della sua lingua e delle sue dita, mentre s’insinua sotto la maglietta leggera ed oltre l’orlo dei pantaloni ed io mi ricordo che lo faceva sempre, non sopportava di avermi così vicino e tollerare i vestiti, erano di troppo, sempre, sono di troppo anche i suoi ma per qualche motivo non riesco a trovare abbastanza lucidità mentale da toglierglieli e basta, perciò lascio che sia lui a guidarmi, come ha sempre fatto, e va bene così.
Si separa da me con una risatina divertita ed io me la sento trillare nelle orecchie. Rispondo con un sorriso perché mi fa felice vederlo felice. Tutto qua.
“Sei morbido…” mi dice contro un orecchio.
“Sei tu.”, rispondo io in un singhiozzo, e lui ride ancora. Non credo che capisca. Non credo che realizzi.
Nemmeno io credo di capire o di realizzare. È lui. Dio, è lui.
Scende a sbottonarmi i jeans ed io ridacchio.
“Non sei cambiato affatto”, lo apostrofo, baciandolo sulla punta del naso.
“E perché avrei dovuto?”, borbotta lui, aiutandomi a sollevarmi un po’ per liberarmi dai pantaloni il minimo indispensabile per mettermi le mani addosso, “Non ho mica fatto niente, di recente. Una noia mortale”. E mi viene voglia di prenderlo a pugni ed invece mi abbatto contro di lui e rido, rido, rido piano per non svegliare Chaku e per non svegliarmi neanche io, presso il naso contro la sua spalla e sento l’odore pulito e fresco del cotone – conosco questa maglietta, la B rossa sul davanti, non dovrei pensarci, la ignoro – Anis mi fa scorrere una mano lungo la schiena e l’altra davanti s’infila oltre l’orlo dei boxer e prende a giocare col mio corpo, che risponde subito. Dio, ne ho sentito così tanto la mancanza… così tanto…
Stringo le braccia attorno al suo collo e mi lascio solleticare dalla barba un po’ ispida, ansimando forte sulla sua pelle.
“Ti piace, piccolo?”, bisbiglia lui baciandomi sotto l’orecchio.
“Sì…”, sì che mi piace, vorrei di più ma mi piace, faccio per muovermi e scendere giù, cercando a tentoni la zip dei suoi jeans perché lo voglio davvero, non mi sembra possibile poterlo toccare ancora ed allora lo voglio tutto, ma non capisco perché quando tocco non tocco niente, le mani vagano a vuoto, c’è solo aria; apro gli occhi e lui è ancora qui che mi sorride e mi accarezza, ed io stringo i denti e contraggo i muscoli sperando di non venire ancora, non ancora, non ancora, ti prego, lo voglio sentire dentro, prima, ma lui bisbiglia “lascia perdere, piccolo, lascia perdere” e mi bacia ancora, ed io lo sento che è fisico e vero, non è solo aria, ma le mie mani non toccano più nulla, non c’è più nulla da toccare e non c’è più nulla da sentire, eppure le labbra sono lì, le mordo con forza mentre mi libero contro la sua mano, ed è allora che riesco a toccare qualcosa, qualcosa che è duro e consistente ed umido – umido? – e nudo – nudo? – ed apro gli occhi e lui non c’è.
Lui non c’è.
Ed io non sono seduto, sono ancora disteso.
E la coperta è ancora per terra.
E le mie mani stanno toccando me stesso.
Ho il fiatone e mi sanguina un labbro. Mordevo me stesso. Toccavo me stesso. Lui non c’era. Non c’è mai stato. Dormivo o sognavo ad occhi aperti o qualsiasi cosa fosse – lui non c’era. Non c’era. Non c’è.
Mi alzo in piedi di scatto e non so come faccio ad arrivare fino al bagno senza inciampare nei pantaloni che cascano o nella coperta aggrovigliata sul pavimento. Arrivo fino al bagno e mi abbatto contro il water, stringo forte le dita attorno al bordo della mezza vasca che lo fiancheggia e svuoto il niente che mi tengo dentro, perché stasera non ho neanche mangiato. La bile è acida e amara contro il palato, ha un sapore orrendo che mi fa venire voglia di vomitare ancora di più.
Sono amare pure le lacrime, vaffanculo a loro. Perché? Perché lo faccio? Perché mi prendo in giro? Perché non posso semplicemente mandare via o buttare giù o lasciare indietro o tirare avanti o qualunque sia la banale espressione che si usa per dire che rivoglio la mia vita, merda, la rivoglio sana, non voglio guardarmi allo specchio e ritrovarmi ogni volta disperso in un milione di pezzi…
Io non so come fare a ricompormi, non ne ho la più pallida idea… ho sempre lasciato che fosse Tomi a rimettermi insieme, e non capisco perché non ci riesce proprio stavolta che ne avrei più bisogno in assoluto…
- Bill? – la voce di Chaku è assonnata e confusa, all’inizio, ma poi lo sento muoversi dietro di me e capisco che sta cominciando a ragionare. La seconda volta che mi chiama, infatti, è più deciso. – Bill. – ripete, raggiungendomi in due passi ed accucciandosi accanto a me, - Che hai? Stai male?
Annuisco perché non ho la forza neanche di mentire.
- Cos’è? Lo stomaco? – chiede lui, lanciando un’occhiata poco convinta all’acqua torbida nel water, - Vuoi che ti prenda qualcosa? – ma tanto non c’è niente che possa farmi bene. – Bill?
Mi trascino sul pavimento verso di lui e mi schiaccio contro il suo petto. Che è caldo e si muove un po’ ansiosamente al ritmo del suo respiro.
- Bill…?
- Ho bisogno… - faccio fatica a parlare e mi nascondo contro di lui perché mi sento terribilmente in imbarazzo, - …posso stare un po’ così?
Lui annuisce appena e mi circonda con un braccio, mentre con la mano libera recupera un pezzo di carta igienica e si sporge verso la vasca, aprendo il rubinetto ed inumidendolo per poi passarmelo sulle labbra.
- Non riuscivi a dormire? – mi chiede, palesemente perché il silenzio s’è fatto insopportabilmente pesante.
Scuoto il capo. Dormivo ed il mio corpo andava fuori controllo. Vorrei non dormire mai più. Vorrei che non calasse più il sole.
- Sicuro di non volere usare il mio letto? – chiede ancora lui, imbarazzato e a disagio. – È davvero più comodo ed ho… - esita, - ho cambiato le lenzuola stamattina, se questo ti preoccupa e-
- Non sono preoccupato. – mando giù un po’ di saliva. Mi brucia la gola. – Non possiamo rimanere un po’ così e basta?
Chakuza si arrende. Smette, probabilmente, di cercare di scavarmi nella testa. Tanto sa che, se volessi dirgli qualcosa, gliela direi.
Restiamo immobili finché alla luce artificiale del bagno non si aggiunge quella del primo sole che filtra dalla finestra in alto. Non sembra meno artificiale dell’altra, ma io non sono neanche più tanto sicuro che riuscirei a distinguerle.
Genere: Comico, Romantio.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash.
- Quando viveva con Tom, difficoltà di convivenza era un'espressione senza senso, per Bill. Adesso che vive con Anis, però, qualcosa è decisamente cambiato...
Note: XD Bushido è evidentemente in grado di farmi fare cose inumane (per i miei standard) se riesco a tirare fuori in tre ore complessive una shottina di sette pagine solo per festeggiare degnamente il suo compleanno <3 You Give Love A Bad Name, omonima di una canzone dei Bon Jovi che probabilmente avrò pure ascoltato ma non ricorderei neanche se ne andasse nella mia vita – è da ieri che provo a canticchiarmela in mente ma vengono fuori solo pezzi sconnessi >_< - nasce da un’idea estemporanea di Tab: “me lo vedo il Bu che tormenta Bill non rispondendogli se lo chiama con un nome diverso rispetto a quello che sta pensando”.
Da qui, ovviamente, io non potevo che impazzire e decidere di… scrivere un breve trattato sulla difficoltà della vita di coppia, evidentemente X’D *dramma umano* Ovviamente, non poteva che essere felice, perché… be’, tutti voi penso sappiate quanto io sia attaccata alle Billshido felici che (quasi) nessuno mi scrive u.u E perciò mi tocca provvedere da sola. *piange*
(Avviso al popolo: il Bu sta lentamente invecchiando – dico lentamente perché sennò poi Sara si arrabbia XD – ha bisogno di Billshido felici. Scrivetegliene! XD)
Ovviamente io amo questa storia u.u Perché m’è venuta dal cuore e perché è stata una storia molto emotiva (nel senso che proprio andavo con l’emozione… non la mia, però XD) e fresca, comunque. E spero sia piaciuta anche a voi *_*v
PS: Karima e Bijoux, ovviamente, non esistono, sono mie e di Tab. <3
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YOU GIVE LOVE A BAD NAME

La parola “convivenza”, per Bill Kaulitz, aveva sempre avuto un significato molto positivo. Per non dire idillico, appagante o vantaggioso. Questo perché la parola “convivenza” era sempre stata sinonimo di Tom. E Tom era sempre stato sinonimo di “fratello che si diverte tanto a fare il figo pubblicamente quanto ad essere fondamentalmente un cucciolo inzerbinito nel privato”.
Bill era un despota. Lo era perché era un tipo preciso e perché sapeva esattamente cosa voleva dalla propria vita, perciò doveva sapere esattamente anche cosa voleva dalle proprie giornate. Minuto per minuto, dettaglio per dettaglio. E perciò era un despota. Tom, per contro, era tanto rilassato quanto attento alle sue esigenze – un po’ come se le esigenze di Bill finissero per essere in qualche modo anche le sue – quindi le loro personalità si completavano, intrecciandosi ed incastrandosi con una precisione tale da dissipare qualsiasi dubbio sulla loro gemellarità pure in chi li guardasse anche solo per sbaglio.
Quando Anis, dopo un lungo, lento e logorante corteggiamento durato – quanto?, tre anni? – aveva finalmente ottenuto il permesso di: in primo luogo, avvicinarsi alla sua persona; in secondo luogo, invitarlo a prendere qualcosa al primo pub disponibile; in terzo luogo, infilarsi nelle sue mutande; ed infine devastare l’intera sua vita travolgendolo come un dannato ciclone e lasciandolo sul ciglio dei suoi vent’anni innamorato perso e senza via di scampo – ed il come sarebbe rimasto per sempre un mistero, viste le premesse del loro rapporto – Tom aveva provato ad avvertirlo.
“Guarda che lui non è me”, gli aveva detto con la schiettezza tipica dei loro discorsi, “mica ti farebbe da servetto come faccio io solo perché sono palesemente troppo stupido per dirti no”.
Bill, dall’alto della propria innocente presunzione – cavolo: un uomo di quasi trent’anni lo amava; e non per scherzo né per sesso, Anis era stato dannatamente chiaro sul punto quando aveva preteso che la smettesse di flirtare con l’universo mondo perché la cosa lo faceva sentire stupido. Proprio così aveva detto. – l’aveva liquidato con un rapido cenno della mano ed un sospiro tronfio e pure un pochino strafottente.
“Tu non lo conosci”, aveva risposto con aria sognante, “è stupendo. Farebbe qualsiasi cosa per me”.
La prima cosa di cui Bill aveva dovuto prendere atto, per contro, non appena aveva accettato la proposta di convivenza di Anis ed aveva messo piede nell’enorme casa gialla che l’uomo possedeva a Berlino, era stata che sì, forse Anis avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui, ma nel concetto di “qualsiasi cosa” non rientrava, ad esempio, liberarsi del proprio orrido siamese dal pelo scuro con alle spalle circa mille anni di vita e sul muso uno sguardo cattivissimo. E che palesemente lo odiava.
La Bestia – Bijoux sul libretto dei vaccini, ma Bill non trovava che fosse un nome adatto ad un mostro artigliato che gli rovinava sistematicamente giubbini, magliette, pantaloni e qualsiasi altra cosa e poi gli rubava i gioielli per portarli nella cesta e farne Dio solo sapeva cosa – aveva preso a detestarlo dal primo giorno che s’era sistemato nella villa. A partire dalla prima mattina, quando, dopo una notte estenuante di sesso in cui aveva preteso di battezzare ogni stanza con la propria presenza – distruggendo Anis, ma era un problema secondario – s’era risvegliato col suo orrendo sedere proprio sulla faccia. Ed aveva conseguentemente lanciato un urlo tale da far saltare in aria il gatto, Anis, il letto ed anche la cameriera che dormiva nella stanza accanto.
La Bestia non era comunque l’unico nemico col quale dovesse combattere in quella casa che, a dispetto dei desideri del proprietario, decisamente non lo voleva fra i piedi. Per dire, Karima – la cameriera, appunto – lo odiava anche lei. Palesemente. Aveva cominciato a fissarlo con l’occhio torvo fin da quell’urlo spacca timpani ma giustificatissimo, e non aveva mai smesso. Insomma, non era colpa di Bill se continuava a propinargli cibo evidentemente immangiabile e non era fisicamente in grado di stirargli un paio di jeans senza che facessero la piega sul davanti come i pantaloni degli avvocati! Bill avrebbe avuto ogni diritto di detestarla, lei no, perché lui non le aveva mai fatto niente.
Alla fine, riflettendoci, Bill aveva capito cosa stava dietro all’odio smodato che le due femmine di casa – Bestia e cameriera – nutrivano nei suoi confronti: arrivando, aveva risucchiato completamente l’attenzione di Anis, e per quelle due megere egoiste non ne era più rimasta. Il gatto veniva accarezzato e portato in giro sulle spalle solo per sette o otto ore al giorno e la cameriera veniva ascoltata solo quando parlava, non anche quando magari avrebbe voluto parlare ma non lo faceva. Bill immaginava potessero essere questi i motivi di tanto odio, perché lui, per proprio conto, si sarebbe offeso enormemente se Anis avesse smesso di portarlo in giro tenendoselo appiccicato addosso, o se avesse smesso di indovinare dai suoi occhi quando avrebbe voluto dire qualcosa anche quando non lo faceva.
Nel mezzo di quel complotto, comunque, Anis non aveva reso le cose semplici: quell’uomo aveva una quantità di abitudini semplicemente disgustose che avrebbero impossibilitato chiunque a tollerarlo. Quella dello stecchino perennemente ficcato in bocca, per esempio, non era una posa da gangster: pure in casa, Anis girava sempre mordicchiando quell’orrendo bastoncino di legno. Il che, per dire, rendeva impossibile a Bill baciarlo quando desiderava in preda all’ispirazione. Era una cosa che uccideva l’erotismo, ecco!
A domanda, Anis rispondeva che “lo aiutava a non fumare, da quando aveva deciso di smettere”. Bill aveva scorso rapidamente la cartella di immagini che aveva salvato nel portatile ed aveva stabilito che no, la scusa non reggeva: Anis portava il coso in bocca fin dai tempi dell’Aggro Berlin.
“Da quanti anni è che stai cercando di smettere di fumare, scusa?!”, aveva chiesto esasperato un giorno, mostrando ad Anis una delle foto come prova schiacciante della sua menzogna.
Lui aveva risposto con un ghigno compiaciuto e soddisfatto.
“Hai una cartella di foto mie sul pc?”, aveva chiesto, evitando la sua domanda con abile mossa e mettendolo in imbarazzo per le successive sei ore.
Altra orrenda abitudine: le pantofoline celesti. Indecenti senza possibilità di scampo. Ed a questo si aggiungevano altre miriadi di cose – mangiare occasionalmente verdura, ascoltare anche quell’orrore di musica rap che già avrebbe dovuto bastargli produrre, andare in giro in pantaloncini, mettere il gel nei capelli nonostante fosse passato di moda da almeno sette anni – che Bill palesemente sopportava solo perché era abbastanza innamorato da calpestare il proprio onore e la propria dignità di uomo, perché altrimenti avrebbe fatto le valigie al secondo giorno con tanti saluti e arrivederci e la speranza di non vedersi davvero più.
Tutto questo strazio era comunque abbastanza normale se paragonato alla peggiore delle abitudini di Anis. L’unica che – sospettava – dovesse essere vietata perfino da qualche parte nella costituzione, nonché nella carta dei diritti umani.
Anis, tanto per cominciare, aveva troppi nomi per essere un uomo solo. C’erano i tre dell’anagrafe – Anis Mohamed Youssef – poi c’era il nome che gli aveva dato la strada – Sonny Black – il nome che s’era dato lui – Bushido – ed infine il titolo onorifico – King of Kingz.
Anis, soprattutto, si divertiva a tormentarlo, con quella storia dei millemila nomi. Fosse anche solo per il fatto che, quando gli aveva chiesto se Bill fosse un diminutivo, durante una delle loro prime uscite insieme, s’era sentito rispondere “no, nostra madre ci ha chiamati Bill e Tom perché voleva due nomi brevi”. Ed Anis s’era messo a ridere così di gusto che Bill aveva quasi temuto per il suo cuore, i suoi polmoni, la sua sanità mentale e, soprattutto, il precario equilibrio del bicchiere di martini fra le sue mani. Che, cadendo, avrebbe potuto finire sulla giacchettina color perla che aveva fregato a David in occasione dell’uscita. E non sarebbe stato saggio bruciarla per eliminare le prove del proprio furto.
In sostanza: Anis l’aveva preso in giro per secoli su quanto avere un nome di quattro lettere fosse poco tedesco e poco umanamente concepibile in generale, e quando Bill aveva provato a fargli notare che pure il suo ne contava solo quattro – ed oltretutto aveva un accento situato in un posto assurdo ed una s sibilata che doveva essere vietata dalla grammatica tedesca – s’era sentito rispondere che per lui la cosa non valeva perché dopo aveva altri pacchi di nomi per completare la brevità di quello con cui era venuto al mondo. Soprattutto, comunque, lui non era tedesco ma tunisino: perciò, le regole grammaticali potevano anche fargli una sega.
Surreale, sì, ma, in qualche contorto modo, perfino sensato.
Da quel momento in poi, Anis aveva cominciato a tormentarlo. Usando la scusa dei cinquecento nomi e quella per la quale i bravi amanti dovrebbero essere telepatici – “non valeva, per te e tuo fratello?”, vaffanculo a lui e pure alle illazioni twincest – gli aveva proposto un gioco: “quando mi chiamerai, non ti risponderò e non ti darò nemmeno retta se non l’avrai fatto col nome che stavo pensando in quel preciso istante”.
All’inizio era sembrata una cosa spensierata e divertente. Lo chiamava “Anis” e lui non rispondeva, ma quando si aggrappava alla sua schiena e cominciava a strusciarglisi contro si ammorbidiva immediatamente – anche se forse “ammorbidire” non era il termine più adatto.
Col passare del tempo, comunque, la situazione s’era fatta più pesante. Primo perché i suoi strusciamenti avevano perso effetto, secondo perché Anis aveva effettivamente cominciato ad offendersi quando Bill non indovinava il nome e terzo perché, nonostante litigassero ormai almeno una volta al giorno per quella questione, l’uomo s’era deciso a non lasciare perdere per nessuna ragione al mondo.
Il che poteva presentare delle difficoltà di tipo logistico non indifferenti.
Tipo: è il ventotto settembre, il tuo uomo fa il compleanno, avete già scopato a sazietà nella fascia oraria dalle mezzanotte del giorno prima alle sei del mattino della giornata odierna e quindi il tuo regalo può dirsi già abbondantemente consegnato – ed il Rolex che presenterai a cena è solo un surplus dettato dalla tua enorme magnanimità e dal fatto che Anis indossa degli orologi oggettivamente osceni – però hai comunque intenzione di organizzargli una festa.
Hai già prenotato un intero piano del Matrix, invitato tutti i tuoi amici e ti sei perfino assicurato che vengano i suoi, hai una torta di compleanno di dimensioni stratosferiche che arriverà alle dieci spaccate e il tuo problema principale – quando dovresti stare fermo davanti allo specchio a cercare di capire come essere così fottutamente bello da incollarti addosso gli occhi del mondo, in primis i suoi – è che ancora non sai se il tuo uomo ha progettato altro.
Perché ovviamente tutto ciò dovrebbe essere una sorpresa.
Ecco, in questi casi il giochino del non-ti-parlo-se-non-indovini può essere alquanto fastidioso.
Naturalmente, come tutti i giochi, anche questo ha le sue regole. Nello specifico: se Bill non indovina al terzo tentativo, perde il diritto di fare la domanda.
È per questo motivo che il moro deglutisce e riflette profondamente, mentre Anis gioca coi gladioli a qualche passo da lui, prima di provare per la terza fatidica volta.
La serra, sotto il sole delle due del pomeriggio, è calda e luminosa, ed un raggio di luce si riflette contro uno degli ammennicoli di metallo con i quali Anis gioca all’allegro giardiniere di tanto in tanto, colpendo Bill in un occhio come uno spillo. Dovrebbe prenderlo come un segno del destino e stare zitto, ma deve comunque chiedere, in qualche modo, perciò si fa forza, si stringe nelle spalle e va avanti.
- …Sonny? – prova timoroso. Le spalle di Anis si scuotono in una risata leggera, mentre qualche foglia secca viene tranciata e cade ai suoi piedi.
- Sbagliato. – lo prende in giro l’uomo, voltandosi ed appoggiandosi al tavolo da lavoro, lanciandogli un’occhiata furba. – Ed ora come facciamo?
Bill mette su un broncio fenomenale e ricorda con rammarico i tempi in cui viveva con Tom che, a questo punto, si sarebbe già sciolto in una pozza di amore fraterno e steso per terra ai suoi ordini.
Per un attimo, accarezza l’idea di farla comunque nonostante tutto, la dannata festa: e non invitarlo, il bastardo. Perché tanto è palese che non se lo merita. Poi ricorda che il suo uomo compie trent’anni, che deve essere paziente perché quando s’invecchia si diventa pure più ostinati e che, soprattutto, maggiori sono le possibilità che Anis si ubriachi maggiori sono anche le possibilità che possa strappargli qualche promessa tipo licenziare la cameriera o sopprimere la Bestia. Deve necessariamente portarlo alla festa.
- Amore… - prova quindi, rilassando i tratti del viso ed avvicinandoglisi con fare cuccioloso, per poi annodargli le braccia dietro al collo e gettarsi a peso morto su di lui, aderendo perfettamente al suo corpo, - Ho davvero bisogno di parlarti, potresti per favore smetterla con questo giochino ed ascoltarmi? E magari anche rispondermi?
Anis si china verso di lui e fa finta di baciarlo. Schiude le labbra e lo sfiora, e Bill è lì lì per pensare “vittoria!” e lasciarsi baciare quando l’apocalittico stronzo si tira indietro e ride ancora con quella risatina infantile che è tanto dolce quando viene espressa in un momento appropriato quanto odiosa quando invece è espressa in momenti come questo.
- Se vuoi che Amore rientri nella lista dei nomi possibili, dillo… e comunque non stavo pensando a quello, riprova.
- Eh, ma che cazzo! – strilla Bill a quel punto, separandosi da lui con uno scatto repentino. Anis non fa neanche la fatica di provare a trattenerlo e, ricominciando a ridere felicemente, ritorna ad occuparsi dei gladioli. Indispettito da tanto disinteresse, Bill intreccia le braccia sul petto. – Anis, è importante.
- No, non era nemmeno Anis.
- Stronzo!!!
- …e nemmeno “stronzo”. Per il futuro: non penso mai a me stesso in questi termini, perciò non ti conviene sprecare tentativi così, no?
Afferrare le cesoie e staccargli la testa, a questo punto, sarebbe una punizione ancora troppo blanda. Non basterebbe ad esprimere tutto il disappunto che riempie Bill fino alla punta dei capelli. E che sta per farlo esplodere.
Anis, per contro, tranquillo come un moccioso deficiente, taglia via dal vaso il gladiolo più bello e trotterella felice verso l’uscita della serra.
- Dove pensi di andare?! – chiede Bill con aria furibonda.
- Tu, piuttosto… vuoi rimanere qui tutto il giorno? – risponde divertito l’uomo. Per quanto la sua possa dirsi una “risposta” solo lavorando alacremente di fantasia.
Bill lo insegue macinando il pavimento sotto le scarpe, tanta è la forza rabbiosa con la quale avanza. È costretto a darsi una calmata solo dall’inizio della rampa di scale, che deve percorrere necessariamente con grazia ed eleganza, se non vuole ruzzolare giù e spaccarsi l’osso del collo al primo passo falso. Per un altro attimo la sua mente si perde in pensieri mortiferi e pensa che, se cadesse adesso, rotolerebbe addosso ad Anis ed almeno sarebbero in due a spaccarsi l’osso del collo. Della serie “morirò, ma ti porterò via con me!”. Sarebbe molto epico. Anche molto in linea con la sua personalità.
Ma il suo uomo fa sempre trent’anni e lui lo ama comunque, perciò deve sforzarsi di essere carino e gentile.
Proprio a questo scopo, invece di lanciarsi in avanti e buttarlo giù per le scale, si lancia in avanti con più moderazione e lo aggancia alle spalle, stringendogli le braccia attorno al collo e le gambe attorno al bacino. Anis esita e tentenna solo per un secondo, prima di sistemarselo contro la schiena, reggerlo sotto le cosce e continuare a scendere le scale – stavolta per due.
- Aniiiis… - mugola Bill, - senti, davvero…
- Cos’è che vuoi mangiare stasera, Bill? – no! Niente! Non potete mangiare qui, stasera! Panico! – Rispondi, tanto tu di nome hai solo questo.
- No, è che pensavo… non credi che-
- A che nome sto pensando adesso?
- …non mi va di giocare. – dice Bill a bassa voce, poggiando il mento contro la sua spalla ed abbassando lievemente le ciglia.
Anis sospira e lo porta fino in salotto, dove si china per aiutarlo a scendere sul divano. Una volta atterrato sui cuscini, Bill si accoccola contro un bracciolo e Bushido, dopo aver riposto il gladiolo sul tavolo, gli si siede a fianco, battendosi poi un paio di volte la mano sulle ginocchia in un chiaro invito ad avvicinarsi.
Bill non lo coglie. In compenso, si presenta la Bestia – alla quale non deve sembrare vero di trovare il grembo del padrone sgombro di altri ospiti, e che perciò ne approfitta per prenderne possesso, mentre Bill soffia irritato e si arriccia anche attorno ad un cuscino, oltre che attorno al bracciolo, già che c’è.
Bushido sospira ancora, teatralmente. Afferra la gatta per la collottola e la rimette per terra, ripetendo a Bill l’invito ad avvicinarsi.
- Sarai tutto pieno di peli… non voglio venire.
- Ma non sei mica allergico…
- Non voglio venire lo stesso.
Bushido fa per avvicinarsi e Bill si fa piccolissimo nel proprio angolo. A quel punto, all’uomo non resta che alzarsi ed andare via, Bill lo sa. In genere, quando fra loro si arriva ad un punto morto simile, Bushido si allontana ed attende che gli sbollisca la rabbia, e le cose si risolvono in questo modo.
Bushido, effettivamente, si alza. Ma non va via.
Si spiega davanti a lui, inginocchiandosi proprio di fronte al divano – mentre la gatta, dalla propria cesta nell’angolo, lo fissa con disapprovazione – e lo guarda seriamente.
- Mi perdoni? – chiede, senza neanche informarsi sul perché dovrebbe essere arrabbiato.
E questo è anche più irritante.
Bill sferra un calcio all’altezza della sua spalla, ma Anis è svelto a tirarsi indietro ed evitarlo con un “woah” di pura sorpresa.
- Lo sai perché sono arrabbiato?! – strilla inviperito, alzandosi in piedi mentre Bushido lo scruta in un misto di stupore e irritazione, - Eh?! Lo sai?!
- Per il gioco! – risponde Bushido, alzando a propria volta la voce e piantando le mani sui fianchi.
- No! – risponde Bill, imitando la sua posa e sporgendo un fianco, - Perché, nonostante io ti avessi chiesto di essere serio, hai continuato a rompere i coglioni! E questo è ben diverso! Ma a te non importa dei perché, tu chiedi scusa solo per farmi stare zitto! – constata amaramente, voltandogli le spalle e dirigendosi speditamente in camera da letto.
Bushido gli va dietro e lo afferra per un polso, bloccandolo sul posto.
- Ehi, ehi, adesso calmati, okay? – chiede, tirandoselo vicino e stringendolo in un abbraccio a caso. Dopo quasi un anno, Bill gli abbracci di Anis li conosce tutti a memoria. C’è quello caloroso ma amichevole, c’è quello delle donne – che è sempre uguale, sia sua madre o la moglie di suo fratello o la nuova fidanzata di Chakuza, non cambia – c’è quello di un attimo prima che ti chieda di fare l’amore, c’è quello consolatorio, ce ne sono un sacco, perché Anis è bravo ad abbracciare e ci mette sempre dei sentimenti diversi.
Adesso, però, Anis non ha la minima idea di come dovrebbe abbracciarlo – dovrebbe farlo come se gli dispiacesse davvero, ma non gli dispiace, perciò è impossibile – e quindi sembra solo… un abbraccio a caso. Del tutto inutile.
Bill si separa da lui con uno strattone secco e deciso.
Anis rimane immobile e non riprova ad abbracciarlo. Bill lo osserva mordersi incerto il labbro inferiore e sospira, dandogli le spalle e ricominciando a camminare verso la camera da letto. Una volta lì, si lascia andare sul letto con un soffice sbuffo d’aria che gli riempie i polmoni del profumo buono delle lenzuola lavate di fresco, e chiude gli occhi, stringendo le dita attorno al cuscino.
Rimane immobile fino a quando al profumo del cotone non si sostituisce il profumo di Anis.
- Oggi è il mio compleanno e tu sei stato irritante tutto il giorno. – lo rimprovera cupamente l’uomo, distendendosi al suo fianco e fissando il soffitto. Il gladiolo è sul comodino, Bill riesce a intravederne i petali oltre il suo corpo.
Socchiude gli occhi ed aggrotta le sopracciglia.
- Non è vero.
- Sì che è vero. – comincia ad elencare lui, - La prima cosa che mi hai chiesto stamattina era se dopo tutto il sesso che avevamo fatto stanotte avrei finalmente licenziato Karima. Poi ti ho chiesto di farmi il caffè e-
- Ma non lo so fare!
- …non hai nemmeno chiesto a Karima di farlo al posto tuo. Te ne sei andato in bagno e ne sei uscito solo quando-
- I miei capelli avevano bisogno di cura! – si lamenta lui, sconcertato, - Me li hai tirati, stanotte!
- E tu non ti sei lamentato, mentre lo facevo…
- Ma perché non era il momento adatto!
Rimangono interdetti a fissarsi, e questi sono i momenti in cui Bill pensa con terrore che ci sono cose di Anis alle quali non riuscirà mai ad abituarsi. Ma proprio mai. E questo lo spaventa, perché vuol dire che probabilmente ci sono anche delle cose di lui alle quali nemmeno Anis riuscirà mai ad abituarsi. Ed è triste, è orrendo e fa paura, perché lui Anis lo ama e sa che Anis lo ricambia, perciò il solo pensiero che potrebbero davvero arrivare a lasciarsi per un’incomprensione come questa è semplicemente troppo per-- per…
- Sei veramente arrabbiato? – chiede Anis, scivolandogli sulla guancia col dorso della mano tatuata.
Bill socchiude gli occhi ed annuisce lentamente.
- Mi dispiace. – ripete Bushido. – E stavolta so anche perché. – aggiunge con un mezzo sorriso.
Bill si scioglie in un mugolio esausto e gli salta letteralmente addosso, stringendolo attorno alla vita e nascondendo il volto contro il suo petto. Bushido lo accoglie con la solita risata bambina, ma sentirla tremare fin dentro al cuore è molto più dolce che sentirsela arrivare come una dimostrazione di scherno.
- Sei stancante… - commenta, sollevandosi a baciarlo sul tatuaggio sul collo.
- Tu, invece, sei facile da gestire come un tavolino richiudibile dell’IKEA. – risponde Bushido tirandolo più in alto per rubargli le labbra, - Ma ti amo lo stesso.
Bill gli sbuffa qualcosa in bocca ma non protesta quando Anis gli si stringe contro e ribalta le loro posizioni sul materasso.
- Ehi, ma io ti devo ancora chiedere una cosa. – si ricorda quando le labbra di Bushido scendono a lambirgli il collo.
L’uomo lo guarda e sorride pericoloso.
- Se indovini il nome a cui sto pensando adesso, okay.
Bill ringhia, ma non è veramente irritato. Aggrotta le sopracciglia e mette su il broncio d’ordinanza, ma si ferma un secondo a scrutare nelle profondità degli occhi di Anis e poi si scioglie in un mezzo sorriso un po’ stupito e un po’ divertito.
- Ma non stai pensando a nessun no-
Non riesce a terminare la frase perché Anis ride e lo bacia prima che possa. Bill ride con lui, si ridono fra le labbra per un sacco di tempo, fino a quando qualcosa non scivola fra i capelli di Bill e va ad incastrarsi dietro la conchiglia del suo orecchio.
- Cosa…? – biascica confuso. Il gladiolo gli solletica lievemente una tempia. – Serviva a questo?
Bushido ride.
- Per la verità pensavo che avresti potuto accorciarlo e sistemarlo per bene all’occhiello del completo che pensavi di mettere stasera.
Bill lo fissa.
- Il…
- Sì, l’hai lasciato appeso là. – suggerisce Bushido, indicando l’anta aperta dell’armadio dalla quale pende una cruccia che regge il gessato grigio che pensava effettivamente di indossare quella sera per la festa. – Oltretutto, non hai un fratello molto bravo a nascondere i segreti. – continua l’uomo con una mezza risata, - O meglio: dovresti dirgli che non si chiama in casa d’altri strillando “Il Matrix è una figata e tu sei un Dio ad aver prenotato proprio lì!”… almeno se non si è sicuri di chi ci sia dall’altro lato della cornetta.
Bill grugnisce un lungo lamento indispettito. I pensieri mortiferi ritornano, ma stavolta cambiano obiettivo ed anche modalità – sarebbe divertente provare a soffocare Tom con una delle sue odiose magliette. O con uno dei suoi dread. O, chissà, magari fargli lo scalpo.
- Allora lo sapevi già… - mugugna nascondendosi contro il suo collo.
- Già. – conferma Bushido baciandolo su una guancia e stando attento a non rovinare il fiore.
- Ecco perché non ti interessava la domanda… - borbotta ancora lui, - Ma perché mi hai chiesto cosa volessi mangiare, se lo sapevi?!
Bushido ghigna.
- Per infastidirti, mi sembra ovvio!
- …Anis!
L’uomo si alza in piedi e fa per dirigersi verso il salotto.
- Dove credi di andare?! Anis!
- Non è questo il nome. – scrolla le spalle, senza fermarsi, - Solo un tentativo rimasto!
- Ehi… ehi!!! Non puoi andartene così! Anis! Stronzo!!!
Titolo originale: id.
Autrice: bleepbloopbanana
Genere: Introspettivo, Romantio.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Violence (lieve), Slash, Traduzione.
- Bushido viene picchiato e deve consolare Bill. ...cosa c'è di strano in questo?
Note: Ma ciao *_* Mi era così mancato il fluff di Banana T___T A voi no? E poi il suo Bushido è La Tenerezza ed Il Lol, sul serio X’D Ha questo vizio di perdersi senza rimedio all’interno della propria testa, che è un groviglio, ammettiamolo, ed è semplicemente delizioso X3
Tradotta in due giorni – il secondo dei quali ha visto una sessione di traduzione cominciata all’una e un quarto e terminata mezz’ora dopo circa – soltanto perché so che Fedy non vuole pubblicarsi addosso. Ed io invece voglio la terza PWP del ciclo di Leatherpants, perciò, figliola, ora non hai più scuse XD Pubblica!
E voi amate questa storia palesemente amore e lasciate tanti commenti, che poi Banana li vuole tradotti u.u
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
PAINKILLER

Bushido sputa la birra dalla propria bocca alla lattina dalla quale l’aveva presa, quando la porta della sua camera d’albergo si apre per mostrargli un Bill Kaulitz dall’aspetto semplicemente esausto. Tossisce e sputacchia un po’ intorno e poggia velocemente la lattina sul tavolo prima di fare qualcosa di ancora più imbarazzante tipo riversarsene il contenuto addosso.
- Bill. – dice mandando giù un altro colpo di tosse e cercando di mostrarsi composto, - Questa sì che è una sorpresa.
Ciò che realmente vorrebbe dire è “cosa cazzo ci fai qui?” e “chi diamine ti ha fatto entrare?”, ma conosce già la risposta, almeno alla seconda domanda. Le sue bodyguard sono affezionate a Bill quanto lo è lui, e non altrettanto brave a nasconderlo, purtroppo.
- Voleva esserlo. – Bill entra nella stanza e chiude la porta con un colpo di tacco. – Non avevi alcuna intenzione di dirmelo, vero?
- Non dovresti avere un concerto a Parigi in questo preciso istante? – è una patetica scusa per evitare il discorso, e Bushido si giustifica con se stesso dicendosi che stava giusto cominciando a stare meglio e Bill ha rovinato tutto sorprendendolo e tirandolo fuori da quello stato di grazia. Si volta un po’, quanto può prima di sembrare uno col collo deforme, di modo che il largo livido viola che corre dalla guancia alla mandibola non sia così evidente.
Bill gira attorno al divano fino a fronteggiarlo e Bushido si chiede se sia il caso di sollevare distrattamente una mano e coprire il livido ala vista. Poi nota il tremito praticamente invisibile del labbro inferiore del proprio amante e butta il pensiero fuori dalla finestra.
- Non fare così. – sospira, afferrando Bill per la cintura ed avvicinandolo a sé finché le loro ginocchia non cozzano le une con le altre, - Sto bene.
Una mano perfettamente curata si solleva ad accarezzare l’aria sopra la sua pelle; Bushido la cattura e la porta alle labbra.
- Non sembra che tu sia bene.
- Sembra peggio di com’è. – prova a convincerlo, e quando le sopracciglia corrugate di Bill non si distendono Bushido maledice il non avere mai imparato come si rassicurino le persone. Bill lo fissa negli occhi nello stesso modo in cui faceva sua madre quando voleva capire se stesse mentendo o meno, e ci vuole un gran sforzo da parte sua e più di un po’ di forza d’animo per riuscire a reggere quello sguardo. Quando Bill prende fra le dita l’orlo della sua camicia, Bushido neanche prova a fermarlo.
Il rantolo strozzato che fuoriesce dalle labbra di Bill quando nota la grande macchia violacea sul suo petto lo fa trasalire. La mano di Bill si sposta sulle labbra e i suoi occhi si spalancano saettando dal suo petto al suo viso, e Bushido decide di provare di nuovo con la cosa del conforto.
- Davvero, non è così grave. – si schiarisce la gola e poi si dà un colpetto al livido, come per provare la veridicità di ciò che sta dicendo. – Visto?
Bill serra le labbra e sfiora gentilmente il gonfiore. Il livido è così ampio che tutta la sua mano bene aperta non riesce a contenerlo tutto, anche se spiega le dita. È calda e soffice sotto il suo palmo, e Bill fa scivolare la mano in ciò che può essere inteso solo come una carezza. Il contrasto fra le sue dita pallide e lunghe e la pelle scura del suo petto fa tremare qualcosa dentro Bushido.
- Come l’hai scoperto?
Bill lo accarezza con cautela, i polpastrelli che scorrono appena sulla sua pelle, e Bushido capisce improvvisamente cosa intende la gente quando parla di farfalle nello stomaco. Anche se, da ciò che sta sentendo volare là sotto, scommetterebbe sul fatto che ci sia qualche enorme uccellaccio, piuttosto che farfalle.
- David ci ha mostrato il filmato. E ci ha fatto tutta una enorme paternale sulla sicurezza sul palco. – risponde quietamente Bill, e Bushido si prende un momento per pensare “cazzo, c’è un filmato?” prima di fissare l’attenzione sui lineamenti tesi e lo sguardo stanco di Bill. C’è qualcosa che non torna nell’immagine; è tutto un po’ sfocato, e ci vuole un po’ perché la sua mente non così lucida si rimetta in moto abbastanza da capire cosa. Potrebbe darsi un cazzotto da solo per non averlo capito prima.
Bill non sta sorridendo.
Lo tira a sé, fra le proprie braccia ed immediatamente sul proprio grembo, baciandolo appena apre la bocca per dar voce ad una lamentela. Sente dolore su tutto il corpo, e la sensazione delle labbra di Bill sulle sue rende tutto ancora più intenso, ma il modo in cui si dimena e cerca di scappare è così dolce che Bushido non può che stringerselo contro con più decisione. Bill è sempre un ottimo anestetico, pensa mentre cerca di trattenere la propria lingua dal ricadere e immobilizzarsi.
La birra e gli antidolorifici lo fanno sentire un po’ stordito, che era esattamente ciò che voleva, ma rendono anche difficile baciare con la bravura che lo contraddistingue di solito. Al momento sospetta fortemente di stare sbavando un po’ ovunque nella bocca di Bill, ma dai soffici suoni compiaciuti che il ragazzo emette Bushido intuisce che la cosa non deve infastidirlo granché.
Bill si separa da lui con uno schiocco bagnato, e la sua espressione inebetita gli fa gonfiare un po’ il petto con orgoglio. È una bella scossa al proprio ego, sapere di potergli ancora rubare il fiato anche se è mezzo ubriaco e mezzo sedato. Si sporge per catturare ancora quelle belle labbra fra le proprie, ma Bill scuote il capo e lo spinge indietro.
- Ti è venuto addosso… - sospira, e sembra così disperato che Bushido quasi non riesce a riconoscerlo. – Ti ha… buttato a terra, e avresti potuto battere la testa e procurarti una commozione cerebrale-
Bill si interrompe con un suono strozzato e Bushido ha ancora abbastanza raziocinio da capire che non è proprio il momento di dirgli che in effetti la commozione se l’è procurata davvero. Gli strofina le braccia, invece, tracciando con la punta del naso la via fino alle sue clavicole, mentre Bill continua a parlare.
- A che cosa ti servono le guardie del corpo, comunque, se non possono proteggerti? Che cosa intendono fare la prossima volta che uno psicopatico prova a farti fuori? Lo… l-lui poteva spezzarti l’osso del collo-
- Ehi. – Bushido batte le palpebre, - Mi ha solo preso alla sprovvista. In un combattimento vero, quello stronzo non avrebbe avuto la minima possibilità contro di me.
Bill lancia una lunga occhiata al livido sul suo petto, che sembra starsi fottutamente espandendo.
- Ovviamente non hai visto tutto il “filmato”. – borbotta Bushido, offeso da una tale palese mancanza di fiducia nella propria prestanza fisica, - Altrimenti mi avresti visto dargli un cazzotto dritto in faccia. – uno, o anche due, tre, o una dozzina, pensa fra sé, ma giudica poco saggio dire a Bill che la security ha dovuto preoccuparsi più di tenere lui lontano dal ragazzo che non viceversa.
- Sei comunque ferito. – sussurra Bill, e tutto ciò che trattiene Bushido dall’uscirsene con un qualche commento sarcastico è la traccia di dolore che scorge nei suoi occhi.
- Sì. – dice invece, - Capita. Mi dai un bacio per farmi stare meglio?
Lo dice quasi per infastidirlo, e si sorprende quando invece viene fuori come una richiesta speranzosa ed intimidita dal bisogno. Bill affonda quegli adorabili denti sporgenti nel proprio labbro inferiore e, quando si avvicina, Bushido si aspetta una leccatina da gatto sulla guancia, di quelle che Bill gli concede quando ha voglia di giocare piuttosto che di farsi scopare. L’esitante strofinarsi delle sue labbra contro il livido affiora confusamente nella sua consapevolezza offuscata e, quando sente quelle labbra tremare, la sua pelle pizzica.
- Bill… - comincia, e si lascia andare ad una pausa insopportabilmente lunga quando lui guarda nella sua direzione, colmo di aspettativa. Cazzo, non ha la minima idea di cosa dovrebbe dire. La sua definizione di “conforto” è una virile pacca sulla schiena e un gioioso “non stare a pensarci”, ma qualcosa gli dice che non è esattamente il tipo di frase che Bill potrebbe prendere bene. Scarta dozzine di risposte nella propria mente e Bill continua a guardarlo, e si schiarisce la gola quando lo osserva chinare lievemente il capo, aspettando palesemente una qualche parola da parte sua.
Per un attimo accarezza l’idea di ripetere “sto bene”, ma Bill non gli ha già creduto la prima volta e non c’è nient’altro che ripeterlo ancora possa fare, se non farlo sembrare più ubriaco di quanto non sia in realtà. Potrebbe dire “avresti dovuto vedere quell’altro”, ma la curva delicata delle labbra tese di Bill gli suggerisce il ragazzo non sia dell’umore di prendere bene un po’ d’ironia. La sua mente palesa l’opportunità di un “ti amo”, ma Bushido scarta immediatamente l’ipotesi. Non lo dice così spesso, ma quando lo fa è perché lo intende, ed usarlo come una distrazione renderebbe quella frase qualcosa di disgustoso, qualcosa cui rifiuta di esporre Bill.
- Cosa? – Bill comincia a dare segni di affanno, e Bushido suppone non sia qualcosa di così ingiustificato, considerando che è rimasto lì seduto a fare “uuuh” per chissà quanto. – Che c’è? Stai bene?
- Sì. – riesce a gracchiare alla fine, - Adesso sì.
Fanculo le parole, decide quindi. Sono inutili quando può dire con un bacio tutto ciò che vuole esprimere e tutto ciò che Bill vuole sentire da lui. Perciò è questo, quello che va – intreccia una mano ai suoi soffici capelli neri e pressa la bocca sulla sua più soffice, sigillando la sua risposta.
Non c’è niente che abbia un sapore più dolce dell’arrendevolezza di Bill, e Bushido lo ricompensa con un bacio profondo quando lui riesce finalmente a rilassarsi fra le sue braccia. Lo ascolta mormorare nella sua bocca qualcosa che ricorda vagamente un “non possiamo”, ma la sua mente semplicemente si rifiuta di registrare espressioni come “non possiamo” o “non dovremmo”.
Sfila a Bill la gialla e la getta da qualche parte dietro al divano. Urta qualcosa che, dopo l’impatto, cade a terra con un tonfo, ma è troppo impegnato a sbucciare Bill della camicia ed a posare baci umidi e succhiotti sul suo petto per interessarsene. Bill gli si agita in grembo quando i suoi denti si chiudono attorno ad un capezzolo, e squittisce quando lo morde reprimendo il bisogno di grugnire di dolore.
I pantaloni richiedono qualche manovra in più per essere sfilati, e Bushido riesce a farli scendere fino alle ginocchia di Bill prima di arrendersi. Bill sta già ansimando e si sta già lasciando andare a quei soffici mugolii che gli piacciono tanto, e Bushido non riesce a smettere di toccarlo, stregato dal modo in cui gli si agita contro e poi cerca di fermarsi per paura di fargli male.
Vuole veramente ma veramente scoparselo, a quel punto, vuole rovesciarlo sul divano ed affondare nel suo corpo e farlo venire, ma le sue spalle e più o meno tutta la parte superiore del suo corpo strillano di dolore al solo pensiero. Improvvisa velocemente, ed è quasi sul punto di chinarsi e prendere l’eccitazione già mezza gonfia di Bill fra le labbra quando la sua mascella si unisce alla brigata anti-sesso e finisce per pressare il viso contro un ventre piatto e pallido, lamentandosi.
- Cosa? – sussulta Bill, - Oddio, cosa c’è che non va?
“Non penso che potremo fare sesso, perché ho paura di stare per svenire” non sembra una risposta accettabile, perciò Bushido non fa altro che sollevarsi e baciarlo ancora, rammaricandosi di non aver preso qualche antidolorifico in più così da poter rispondere con un “niente” senza dover per forza mentire. Bill si tira indietro con violenza ed evita un ulteriore tentativo di distrarlo con un bacio piegandosi di lato.
- Ti fa male? Oddio, ti sto seduto addosso, ovvio che ti fa male-
- No. – la parola viene fuori in un colpo di tosse e Bushido si ritrova terrorizzato di fronte all’espressione orripilata del viso di Bill. – È solo che… che… torna qui.
Riesce a riprendere Bill proprio quando lui è sul punto di saltare via e non può reprimere un grugnito di dolore quando il ragazzo atterra dritto sul suo petto. Bill soffia come un gatto e si rialza in piedi, con la tipica espressione di uno che non sa se dovrebbe affrettarsi a fargli le coccole o colpirlo sulla testa.
- Piantala!
- Sto bene. – insiste Bushido, provando a baciarlo ancora e ringhiando quando si ritrova rudemente rifiutato, - Sto bene e ti voglio, e se tu smettessi semplicemente di continuare a muoverti-
- Non sono venuto qui per il sesso!
- Ma visto che sei qui…
Bill rimane immobile sul suo grembo e lo guarda dall’alto in basso con più serietà di quanto Bushido sia in grado di sostenere già da sobrio, figurarsi adesso.
- Volevo semplicemente assicurarmi che tu stessi bene.
- Sto bene. – replica, - Sei qui.
- Ero spaventato. – ammette Bill, sistemandosi al suo fianco e spostando tutto il proprio peso sulle ginocchia, - Quando ho visto cosa è successo ho pensato- …a cosa sarebbe potuto accadere…
- Non è successo niente. – Bushido sospira e lo bacia dolcemente per impedirgli di protestare. – Stanotte resti qui. – non è una domanda, ma Bill risponde comunque con un altro bacio. Dura una lunga serie di minuti e ne passano un po’ anche a strofinare naso contro naso e viso contro viso, e poi Bill sfila i pantaloni e si distende sullo spazioso divano, spostandosi fino al bordo per fargli spazio.
Bushido si sistema cautamente al suo fianco e sistema il capo di Bill sotto il proprio mento; la sensazione del respiro di Bill sulla pelle del suo collo lo fa già sentire assonnato.
- E domani, puoi giocare a fare l’infermierina. – mormora fra i suoi capelli, ghignando sul sorriso che Bill cerca di nascondere.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Tom.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Incest, Language, Slash, Violence.
- Il circolo vizioso di un desiderio indecente e inesauribile.
Note: Okay XD È un disastro e me ne rendo conto da sola, perché non è abbastanza densa e non è abbastanza spiegata, suppongo. Probabilmente le manca qualcosa, il punto è che io non saprei cos’altro aggiungerci, perciò, insomma, penso resterà un figlio nato a metà, così. Non che sia incompleta XD È conclusa, ma probabilmente non me la sono gestita bene.
È figlia di un bisogno, questa storia. Fondamentalmente del mio bisogno di buttar fuori un po’ di cattiveria. Puntualmente mi capita, e quindi escono cose come questa, che sono sullo stesso filone di cattiveria gratuita di storie che conoscete benissimo e che per certi versi sono un po’ il mio segno distintivo nel fandom, perché le oneshot così, un po’ crude, un po’ disilluse, sono una cosa che sento molto mia. Questa è più piccola e meno, forse, consistente rispetto alle altre, ma batte su un tema che mi è caro, è che è quello della sostituzione affettiva.
Tra l’altro il fandom è un po’ fissato sull’idea del “vado con Bushido perché non posso avere mio fratello”, volevo provare a ribaltare i ruoli e vedere che ne veniva fuori.
A voi decidere se ho fatto bene o male XD
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TEUFELSKREIS

Tom è bellissimo. Tom è un maschio. Tom mi prende come un maschio.
Questi sono i tre motivi per i quali mi lascio scopare da mio fratello, punto. E lo faccio, oh, sì, lo faccio, ma non c’entra l’amore e non c’entra neanche l’attrazione fisica. Soprattutto, non c’entra il piacere, perché non è ciò che vado cercando.
Cercherò di essere chiaro, anche se so che maggiore è la chiarezza maggiore è anche la schiettezza. E maggiore è la schiettezza, maggiori sono le possibilità di tirarti addosso l’odio universale. Nessuno vuole sentirsi dire la verità. Io, però, la dico lo stesso, perché sono costretto a mentire così spesso e per così tante cose, nell’ambito privato e professionale della mia vita, che trattenermi anche di fronte allo specchio mi sembrerebbe allucinante, oltre che molto stupido. D’altronde, le confessioni uno può farle solo così: in solitaria. Se non vuole vedersi sfumare attorno la felicità come un miraggio, s’intende.
Io voglio bene a Tom. Sarebbe impossibile non volergliene, per me, per tutte le ragioni che vado sbandierando in giro e che sono completamente sincere, perché voglio bene a Tom in maniera così assoluta da non potere mentire a riguardo.
Gli voglio bene così tanto da potere mentire a lui, però.
Tom, oltretutto, è un ragazzo delizioso. Te ne accorgi quando lo vedi, quando gli parli, perfino quando entra nella stanza; tutto intorno a lui brilla perché Tom è positivo in maniera quasi insostenibile. Ride sempre, è sempre pronto a fare qualcosa, sempre pronto a mettersi in gioco. È una persona meravigliosa. E con me è sempre gentile.
È del tutto impossibile non volergli bene, davvero.
Ma non mi piace. Non è la persona che sogno la notte. Non è la persona che vorrei mi stringesse, anche se da lui mi lascio stringere.
Mi lascio stringere per tre motivi, che sono quelli di prima.
Tom è bellissimo, ed io non mi concedo mai meno del meglio.
Tom è un maschio, ed è un maschio ciò che voglio, anche se non è lui.
E Tom mi prende come un maschio, soprattutto. Mi prende e mi fa male esattamente come un maschio.
Esattamente come farebbe lui.
Ma lui non lo fa.
Per lui esisto solo come una specie di complemento d’arredo, una cosa che può usare finché gli torna comoda ma smette di avere un’incidenza nella sua vita nello stesso momento in cui gli toglie gli occhi di dosso.
E perciò, siccome lui non mi prende, io mi faccio prendere da Tom.
Non sarei potuto andare da nessun altro, questa è la mia scomoda verità. Io non sono davvero così sexy. Nessun maschio mi salterebbe addosso nel vedermi andare in giro come vado di solito quando sono in casa o quando vago per strada in incognito. Nessun maschio mi salterebbe addosso neanche se mi trovasse nudo sulla soglia della propria camera, temo. Perché io non sono veramente sexy, io sono una maschera di inchiostro creata ad uso e consumo di ragazzine innamorate di un’idea che con me non c’entra niente. L’idea di un mistero.
È sempre stato così. Fin da quando ero minuscolo, ho sempre desiderato che le persone – tutte – mi trovassero in qualche modo attraente. Disturbante, forse, d’accordo, ma io volevo addosso gli sguardi. Era quello il mio obiettivo principale. E non ho mai fallito, in questo senso.
Non era una questione di sessualità. Era una questione di orgoglio. Io ero io e dovevo essere riconosciuto come tale da chiunque. Oppure non ero niente.
Questo è rimasto, per me. David, poi, mi ha limato e perfezionato e reso più accessibile, vendendo di me un’immagine che batteva sul sesso, perché è questo che si vende oggi, ma io non sono davvero sexy. Non lo sono mai stato. Strano. Non sexy. Io. Non sexy.
Avessi anche solo provato ad andare da Georg o da Gustav, avrei preso probabilmente tutte le botte che in questi anni mi sarei meritato per motivi vari ed eventuali e che loro, per bontà e spirito di sacrificio, non mi hanno mai rifilato.
David non era un’opzione, naturalmente.
Se fossi andato da Andreas, mi avrebbe sgamato con la velocità di un fulmine.
Da Tom potevo aspettarmi esattamente la stessa cosa, ma Tom, contrariamente ad Andreas, non è in grado di dirmi no. Ed è esattamente su questo che ho fatto affidamento fin dalla prima volta.
“Tomi, non puoi dirmi no. Non puoi rifiutarti. Ne ho bisogno. Ho bisogno di te, Tomi, ho bisogno di sentirti adesso”.
Una recita perfetta.
E no, non me ne vergogno, vaffanculo, e neanche me ne pento.
Perché ne avevo bisogno davvero. Non di lui, forse, ma lui era tutto ciò che avevo, in ogni caso. Ho imparato presto, facendo questo mestiere, il valore della rassegnazione, dell’accontentarsi di ciò che già si ha. Dell’inseguire il sogno, sì, ma solo fino a quando il sogno non mostra la chiara intenzione di ucciderti. A quel punto, chini il capo e mandi giù.
Io ho chinato il capo. Ho mandato giù Tom.
Non era il sapore che cercavo, ma non era nemmeno un brutto sapore, in realtà.
*
Mio fratello non mi capisce, quando gli grido di spingere più forte. Quando mi aggrappo spasmodicamente alle sue spalle, quando stringo le cosce attorno ai suoi fianchi, quando mi abbatto con violenza su di lui, quando chiudo i denti sul suo collo e mordo come volessi spezzarlo in due, lui non mi capisce e si spaventa. Mi chiede se c’è qualcosa che non va, se mi sta facendo male, se non mi sento a posto.
Io vorrei semplicemente che mi sfondasse. Così, senza pensieri. Che mi spaccasse dentro. Che si facesse sentire fino nello stomaco, nei polmoni, nella gola, nel cervello. Vorrei solo questo.
Perché non so quante volte ho immaginato che al suo posto potesse esserci lui. E, nelle mie fantasie, lui sarebbe esattamente così. Violento e cattivo. Mi farebbe male. Mi farebbe male fin dentro.
È questo ciò che vorrei.
Tom riesce a darmelo solo se lo imploro.
Per me non è un problema. Implorare, dico. Ho implorato anche lui, ma lui, al contrario di Tom, mi ha spezzato il cuore. E questo è successo solo perché io sono il classico stupido che quel muscolo inutile te lo mette in mano anche quando non lo chiedi. Soprattutto quando non lo chiedi.
Io, lui, non ho avuto neanche bisogno di conoscerlo, per mettergli in mano il mio cuore. Dall’alto della mia colossale idiozia mi sono convinto di interessargli davvero. Non per i flirt televisivi o le dichiarazioni gettate al vento quando non ero lì, e nemmeno per gli abbracci e le occhiate languide quando c’incontravamo sul palco.
Ho confuso le luci scure che gli danzavano negli occhi durante gli afterparty per dichiarazioni. Ho confuso il tocco casuale della sua mano in mezzo alla folla per un attestato di desiderio. Ho confuso la gentilezza di un passaggio a casa per un invito a chiedere di più.
Ho confuso il niente col tutto, in poche parole. Ed è una cosa che capita spesso, quando t’innamori senza speranza.
Io non so esattamente di cosa sono innamorato. Se del fatto che lui mi piaccia o se del fatto che m’ero illuso di piacergli anch’io. Non so nemmeno se sia lui il mio obiettivo, non so se trovo attraente la curva della sua schiena o la linea delle sue braccia o la forza delle sue mani o l’intensità del suo sguardo, non lo so. Ci ho perso gli occhi a furia di guardarlo, quello sì, me lo sono impresso nella mente come un marchio a fuoco, anche, riconoscerei il suo profilo fra mille solo perché ormai lo conosco a memoria, d’accordo, ma non so se sia amore.
È una spinta violenta, è irrazionale, mi prende e mi strazia, quando mi assale non va via se Tomi non la butta fuori a calci facendosi strada di prepotenza dentro il mio corpo.
Se questo è amore, fa schifo davvero.
Io, comunque, ho implorato. Ho implorato perché non mi riportasse a casa, ho implorato perché mi tenesse con lui e gli ho rubato un bacio che è stata l’unica cosa che sono stato in grado di prendermi prima di vedermi letteralmente scaraventato fuori dalla BMW col fiatone, i capelli scomposti ed il gelo umidiccio del marciapiedi a filtrare attraverso il tessuto leggero dei jeans estivi.
Ho sbagliato, a prendermi quel bacio.
Su ciò che non sai puoi fantasticare.
Quello che conosci lo usi come termine di paragone, purtroppo.
E Tom ci prova, ma le sue labbra non sono mai abbastanza calde. I suoi fianchi non sono mai abbastanza forti. Le sue spalle abbastanza larghe o la sua pelle abbastanza ruvida.
Non c’è davvero niente in lui che possa ricordarmi ciò che voglio. Io chiudo gli occhi e inghiotto, inghiotto, inghiotto, perché il sapore non è quello ma almeno è un sapore. Perché posso accontentarmi, in fondo, e quando Tom spinge abbastanza forte un po’ ci credo. Stringo forte le palpebre e ci spero. Che ci sia lui fra le mie cosce, che ci sia lui sul mio petto, che ci sia lui fra le mie dita.
Odio dover aprire gli occhi sul respiro mozzo di mio fratello, le mani perse fra i suoi capelli e le gambe indolenzite intrecciate alle sue. Odio aprire gli occhi ed accorgermi che è un falso. Che mi sono dato a un falso. Mi sono concesso a un falso. Mi sono svenduto a un falso.
Io non ho idea di cosa passi per la mente di Tom quando mi scopa.
Io non lo voglio sapere.
Non è affar mio.
Ed è il motivo per cui non gli dico cosa passa per la mia quando imploro una spinta più profonda.
Lui è solo mio, almeno nella mia testa. Tom non deve vederlo. Non deve neanche immaginarlo, oppure io lo perdo. Perdo entrambi. Perdo lui che mi scivola via dai sogni e perdo Tom che mi scivola via dal cuore.
Certi segreti vanno custoditi. Certi segreti fanno semplicemente troppo schifo per essere rivelati.
*
Sono un caso disperato, me ne rendo conto.
- Stai bene, cucciolo?
Il mio è proprio un classico caso di circolo vizioso.
- Sì.
Senza uscita. Perché io non voglio trovarla.
- Sei pallido…
La mano di Tom scende dalla mia fronte alla mia guancia, e la stringe lievemente fra le dita prima di chinarsi a baciarmi sulle labbra.
Tom mi bacia perché questo è il suo modo di scusarsi per avermi fatto male.
Io mi lascio baciare perché questo è il mio modo di perdonarlo per non avermene fatto di più.
- Sto bene. – lo rassicuro tirandomi seduto. In realtà ho tutti i muscoli indolenziti e mi fa un po’ male la schiena. Oggi Tomi è stato quasi bravo. Mi chino su di lui e gli sfioro una guancia con le labbra. – Ti amo… - mormoro ad un millimetro dalla sua pelle, e lui si irrigidisce. – Grazie.
Tom si copre gli occhi con l’avambraccio.
- È la prima volta che me lo dici mentre non lo stiamo facendo. – commenta secco, le labbra tese.
Io sorrido.
- Volevo dirti qualcosa di carino. – spiego tranquillamente.
- Io non sono stato carino. – constata lui abbassando il braccio e portando una mano a sfiorare i segni rossi che mi ha lasciato sui polsi mentre li teneva stretti sopra la mia testa, esattamente come gli avevo chiesto. – Guarda qui…
Io sollevo i polsi per guardarli più da vicino. I segni delle dita sono un po’ troppo sottili per ricordarmi i suoi, ma…
- …sono belli. – annuisco con un sorriso. – Così mi resterai addosso fino a domani, no?
Lo sto prendendo in giro. È una cosa orrenda. Sono una persona orrenda.
Tom sorride appena, socchiudendo gli occhi.
- Io ti amo, Bill. – confessa alla fine, sedendosi al mio fianco e sporgendosi a baciarmi sulle labbra.
È tenero.
- Anche-
- No. – mi ferma lui, scuotendo il capo, - Io ti amo. Perciò… va bene. Okay? Non chiedermi più di farti male, io… l’ho capito. D’accordo.
Abbasso lo sguardo, perché non ho altro da fare. Perché mi sento in colpa e mi sento anche felice, ma non riesco a stabilire le quantità, la misura della gioia e la misura della tristezza. È tutto confuso.
- Posso farti male a modo mio. – continua Tom, chinandosi sul mio collo e stringendone teneramente la pelle fra i denti, - Se me lo permetti.
Ed è esattamente quello che non voglio. Non voglio che sia il modo di Tom. Non voglio che sia Tom. Non m’interessa che sia Tom, io voglio un fratello da cui farmi perdonare, non voglio un innamorato che assecondi i miei capricci. Io volevo un pupazzo vuoto che mi si spingesse contro nel letto e poi volevo braccia calde che mi consolassero una volta che il desiderio fosse sparito e mi fosse rimasta in corpo solo la voglia di piangere e urlare. Io non volevo perdere Tom.
Io volevo Bushido, cazzo, cazzo, io volevo Bushido, vaffanculo, e lo voglio ancora.
Mi separo da lui e scivolo sul materasso, fra le lenzuola, rimettendo i piedi a terra.
- Ci vediamo domani. – borbotto senza guardarlo, recuperando i vestiti e dirigendomi svelto verso la porta.
Tom non aggiunge niente. Posso sentirmi addosso il suo sguardo smarrito e mi fa male tanto che vorrei morire adesso.
È tutto sbagliato.
Sono tutto sbagliato.
La mia recita perfetta s’è sfaldata fra le mie mani e non mi resta neanche la polvere. Non mi resta niente. Da questo disastro io non uscirò più.
E forse adesso un po’ mi vergogno, sì. E mi pento, anche.
Scritta con Ross.
Genere: Comico, Demenziale.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Crack, Language, Slash.
- Bushido sente le persone cantare. Bushido sente le cose cantare. Bushido sente suo cugino cantare. Il problema è uno e uno solo: tutto cerca di convincerlo ad andare a letto con Bill Kaulitz.
Note: Allora… cioè, che io e Ross siamo fuori neanche come balconi, ma come mutande stese, mi pare sia pacifico XD Cioè, non siamo normali. Ma voi invece lo siete, perciò vi meritate un minimo di spiegazione, mi pare logico. Per quanto logica possa essere io adesso, visto che mi sono addormentata alle quattro del mattino.
Allora. Eli Stone è un adorabile telefilm dell’ABC che ha cominciato ieri la propria trasmissione italiana su Fox. La storia è quella di Eli, appunto, che un giorno, all’improvviso, comincia ad avere delle strane visioni. Cori di bambini che cantano, appunto, e simili demenziali amenità. Il nostro lavora come socio anziano in un importante studio legale, e da quando una visione di George Micheal che canta nel suo salotto lo coglie la sua vita non è più la stessa. Le sue visioni hanno lo scopo di indicargli quale caso sia più giusto patrocinare *annuisce* Chiaro, no?
Ora, nel telefilm dietro c’è un motivo. Ma io e Ross, nel nostro delirio di ieri sera, mentre guardavamo e commentavamo lo show, abbiamo deciso amabilmente di ignorarlo perché la semplice e sola idea che la gente (e le cose!) attorno a Bushido potesse cantare per rivelargli che il suo destino era scoparsi Bill Kaulitz era… semplicemente troppo bella per non buttarla giù.
E così è nata questa follia. Ne abbiamo scritto un pezzo l’una fino alla fine, perciò non posso neanche stare qui a dire cosa è mio e cosa è suo. È tutto un gioioso delirio. E quando la madre di Bu chiede a Bu di seppellire i mocassini sull’Himalaya, è una gioiosa citazione del telefilm, in cui Eli va appunto a spargere le ceneri del padre sul suddetto monte XD
E questo è quanto, suppongo.
Per la neurodeliri: lo facciamo apposta. Non siamo veramente pazze. Non abbiamo bisogno di assistenza. E non siamo sotto l’effetto di nessuna droga. È solo che sentiamo le persone cantare :D…
PS: Il titolo è la parodia del famoso "I see dead people" di SestoSensiana memoria *annuisce*
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I SEE SINGING PEOPLE

Io sono un rapper.
Io sono un rapper, ed in quanto tale ascolto musica rap.
Ascolto solo musica rap, perché mi tocca pure tenermi informato. Su cosa va al momento. Sugli argomenti di discussione più attuali. Sull’invenzione di nuove parolacce. O sugli insulti che i miei più cari ex-compagni mi inviano tramite canzoni di dubbio gusto.
Io sono un rapper ed ascolto rap. Solo musica rap.

Qualcuno mi spieghi perché, in questo momento, in una stanza che dovrebbe essere insonorizzata e soprattutto vuota a parte me, un coro di bambini vestiti come piccoli 50 Cent più magri e meno cazzuti stanno continuando a cantare gospel sulla mia situazione sentimentale.

Chiudo gli occhi una volta, due, tre. Ma se posso impedire a quei piccoli cretini di inquinare la mia retina con sdilinquenti immagini da chiesa battista, una cosa che non posso fare è impedire alla loro musica da strapazzo di sfondarmi il cervello. Solo musica rap, cristo, solo musica rap! Che cazzo è 'sta roba, ma soprattutto, chi cazzo li ha fatti emigrare qui?

Mi riprendo il dono della vista e li punto: li sfido. Loro, nella beata ingenuità che solo dei piccoli incoscienti coristi possono avere, cantano, ballano e ridono. Di me, è palese.
M'infilo le cuffie e sparo al massimo il nuovo successo di Sido, che cazzo, sarà pure un coglione con i controfiocchi, ma la musica - lui!, mica i coristi! - la sa fare. Mi perdo nelle prime note dissonanti e gongolo con calma quando m'accorgo che no, la voce non è quella di Sido e che no, non è nemmeno una sola voce. Ma smetteranno mai di cantare? E perché le cuffie non funzionano? Cazzo!

Sbatto le cuffie con rabbia sulla sedia e quando mi rigiro, è silenzio. Ed è il vuoto, perché i piccoli 50 cent hanno deciso che l'America è il paese dei sogni - mica la Germania, pezzenti! - e se ne sono andati via.

Chiunque sia stato la pagherà cara.

- Saad! - urlo dal corridoio. - Piccolo pezzo di merda, Saad! Dove cazzo li hai ficcati i tuoi bambinetti coristi? -
Il volto stravolto di mio cugino si affaccia dallo sgabuzzino. - E' un modo per chiedermi se ho qualche ragazzo per te? Mio dio, Atze, sei disgustoso! -

Ma che… - Coglione! - gli sbraito dietro. Rientro nella stanza, come pronto a lottare. Ma non c'è niente. Il vuoto.
… ho bisogno di una scopata. E' più che evidente.

Okay, cerchiamo di riassumere.
Fino a stamattina, io ero una persona assolutamente normale, per quanto normale possa essere uno con le mie origini, il mio modo di vedere la vita e la mia fedina penale. Però – giuro – sono pulito da mesi. Neanche un po’ d’oppio. Cioè, niente di niente. Ho tenuto chiunque lontano apposta, mia madre continuava a rompere perché la smettessi di andare in giro come uno zombie ed io ho promesso, niente droghe, mai più, grazie mille e arrivederci.
Non sono sotto l’effetto di niente.
Per la prima volta da quando sono uscito dal tunnel, rimpiango l’ecstasy. Almeno quella avrebbe potuto spiegare i fottuti bambini.

- Atze, mi dici che cazzo ti prende? – chiede quella merda di mio cugino che evidentemente non capisce che sono completamente rincoglionito ed ho bisogno solo di una camomilla molto potente.
- Niente! – sbotto istericamente, - Sono… nervoso. Per stasera. – butto lì.
In realtà non sono affatto nervoso. Non è certo uno stupido premio – cosa sono? I Comet? Me ne frega così poco che nemmeno mi ricordo! – a rendermi nervoso.

No, ciò che mi rende nervoso sono i bambini.
I bambini che cantavano di Bill Kaulitz.

… ma soprattutto, perché parlavano di una stramaledetta sciarpina argento?

Saad mi fissa con l'espressione vissuta che gli ho già visto addosso troppe volte nella mia breve vita: è lo sguardo truce di chi compatisce e vorrebbe contemporaneamente picchiare con tutte le sue forze il proprio migliore amico - o cugino, quel diamine che è - perché si fa di droga.

L'ha pensato persino lui.

Questo vuol dire che il mio comportamento non è normale. Non che non ci fossi già arrivato da solo, cazzo! - Non mi faccio di droghe. - dico io. Lui mi fissa e butta lì un come no che è tutto il contrario di quello che vuole intendere.

Sottolineo il tutto con le sopracciglia, spalancando gli occhi. - Non adesso! - Medito per un istante tutte le mie possibilità, che a ben pensarci, non sono molte. O mi faccio e non me lo ricordo. O sono sonnambulo e mi faccio (e non me ne ricordo, quindi magari questo si riduce alla prima categoria). Oppure sono pazzo - questo mi piace. Non è una cosa che puoi controllare, no?, non è colpa mia se io sono… pazzo! Ha. Pazzo. Suona bene. Venderei un sacco di dischi, cazzo.

Se solo riuscissi a pensare a qualcos'altro che non sia musica gospel. Magari i pazzi hanno mercato pure in quel genere.

Saad mi fissa. Ancora. … magari non sono pazzo. - Saad, mi hai fatto ascoltare musica dei Tokio Hotel mentre dormivo, per caso? Perché sai che io non la ascolto, quella roba, merda. -

Saad continua a fissarmi, e io comincio a sentirmi un tantino inibito. Come se dovessi masturbarmi di fronte al mondo, con tutti che mi fissano. Non sono fuori di testa!

- Atze, tu sei completamente pazzo. -

- Non sono pazzo! – strillo inviperito. Poi mi rendo conto che, con un atteggiamento del genere, non faccio che dargli ragione.
Cerco di calmarmi.

Io non sono veramente pazzo. Io sono… turbato da… qualcosa che devo aver visto. Qualcuno deve avermi fatto scivolare sotto il naso un video dei Tokio Hotel per qualche motivo che non comprendo. Io non me ne sono accorto, perché io a queste vaccate non ci bado, ma il mio cervello deve evidentemente aver captato qualche messaggio subliminale in sottofondo – ecco perché piacciono a tutti! Si spiega la più grande truffa della musica tedesca da tempi immemorabili! – ed ora il mio inconscio me lo ripropone perché…
…perché sono pazzo. Non c’è dubbio. È così.

- Atze, datti una calmata. – dice Saad, un po’ scazzato e un po’, pare, sinceramente preoccupato, - Cos’è, vuoi un po’ di birra? Qualcosa di più forte? Te la prendo. Basta che non mi chiedi una canna, perché ho promesso a tua madre-
- Non mi serve una cazzo di canna e neanche del cazzo di alcool, e soprattutto, vaffanculo, da quando fai promesse a mia madre, tu?!
- Ehi, ehi! – mi ferma lui, alzando le mani sulla difensiva, - Adesso non ricominciare a delirare. È stato un caso, lei era preoccupata e-
- Ed ha affidato la mia vita nelle tue mani?! Bella mossa! E bella fiducia nei miei confronti, soprattutto! E vaffanculo! – concludo la mia arringa con un ringhio frustrato.
Non ce l’ho veramente con mio cugino. Sono solo pazzo.

E terrorizzato.
Perché io stasera dovrò coesistere nello stesso ambiente con Bill Kaulitz, e venti bambini travestiti da 50 Cent fino a cinque minuti fa stavano cercando di convincermi a infilarmi nelle sue mutande.
E questo fa paura. Punkt.

… poi tutto ricomincia.
E quando dico tutto, intendo il glorioso coretto che m'ha accompagnato in questa pericolosa discesa nella psico-autoanalisi, lungo la china dell'ormai persa sanità mentale, dritto nel burrone della perdita del senno e infine a mollo nel torrente del trucco per vendere dischi (perché dire pazzia non mi piace più, ho deciso).

E' veramente Saad quello che sta ballando?

E' veramente mio cugino quel coso che si muove in maniera disorganizzata nel bel mezzo della sala d'incisione canticchiando canzoni che non gli ho mai sentito nemmeno bisbigliare a bassa voce, causa immediata radiazione dall'albo?

E' veramente lui, sangue del mio sangue, che mi sta dicendo di scopare Bill Kaulitz?, perché va bene la pubblicità e va bene il sesso che fa bene al cervello, ma qui si sta decisamente esagerando.

- Lo scoperaaai. - canticchia lui, imperterrito nonostante la mia espressione che dovrebbe comunicare tutto tranne che approvazione, ciondolante nella sua tunichetta da corista. - Davveeeroooo. - si muove convulsamente e ancheggia prima a destra e poi a sinistra, saltellando aritmicamente su entrambi i piedi.

… io sono pazzo. E mio cugino è stonato.

Lancia un mi sulla già detta battuta dello scoperai e io mi sento in dovere di fermarlo. Perché è chiaro che a nessun uomo dovrebbe essere concesso di vivere in un simile stato. Non ballando in quel modo, per la miseria!

Perciò, mi avvicino. Perché io sono un cugino che tiene ai propri cugini, mica come quegli stronzetti di quarto grado con il latte sul mento che si pungolano dai rispettivi seggioloni e gareggiano sugli strilli… okay, mi avvicino. … la demenza senile precoce quel cazzo che è non è contagiosa, vero? Stendo un dito davanti a me e faccio per toccarlo leggermente quando lui smette di muoversi - grazie! - smette di cantare - grazie! - e mi fissa.

… dove ha messo la tunica?

- Tua madre mi ammazzerà. - dice poi.

E al mio povero uccello in subbuglio all'idea di scopare, non ci pensa proprio nessuno?

Allora, premettiamo che effettivamente sono mesi che non mi concedo una sana scopata. E che ciò vuol dire che, se fossi pazzo, probabilmente il motivo sarebbe questo.
Purtroppo, essere un rapper molto figo ti dà un sacco di occasioni, ma anche fare uscire tipo due album all’anno non è tanto facile, e le occasioni te le ammazza tutte. Perché se devi vomitare diciotto canzoni in una settimana non puoi anche permetterti di vomitare alcool post-sbronza. Devi rimanere perfettamente lucido e concentrato.
Il che significa che la figa la vedi solo da lontano.
Al massimo in tv.
E le seghe sono cose pietose.
Perciò sì, niente sesso.

Ma questo non è abbastanza per giustificare un Saad cantante.
Finché rappa, d’accordo. A cantare non è capace. Mai più.

- Okay, Anis. – riprende lui. Ed io mi irrito, perché quando mi chiama per nome vuol dire che sta entrando in modalità paternale. Ed io non ho bisogno di un altro padre, mi basta quello che rompe mensilmente i coglioni per un aiutino economico, vada a fanculo pure lui e le scelte di vita palesemente sbagliate di quella povera santa di mia madre. – Tu adesso ti calmi, d’accordo? Noi stasera siamo in diretta nazionale e tu non puoi assolutamente permetterti di farci fare una figura di merda, chiaro? Non esiste.
- Senti, fino a prova contraria eri tu quello che ballava e cantava e mi istigava a scoparmi Bill Kaulitz, okay?! – abbaio in un impeto di furiosa irrazionalità.

Mi rendo conto solo dopo del dramma che mi sono appena procurato.

- Io stavo facendo cosa…? – chiede Saad, giustamente sbigottito.
Io, perdio, arrossisco.
Non mi capitava da secoli. Sicuramente non da quando ha cominciato a crescermi la barba.
- Niente!!! – cerco di mettere una pezza, agitandomi nervosamente da un lato all’altro della stanza.
Mio cugino mi segue, sempre più allucinato.
- Atze, a te ‘sto gioco con Kaulitz ha dato alla testa. – commenta, cercando di calmarmi con qualche pacca bene assestata sulla schiena, - Ma tu ti devi calmare, quello non è veramente femmina, c’ha la sorpresa nelle mutande. Non te lo puoi fare.
- Ma io non voglio farmelo!!! – sbraito, gli occhi fuori dalle orbite e le mani nei capelli.

- Io non ne sarei così sicuroooo! – cinguetta qualcuno appena entrato nella stanza.
Sollevo lo sguardo.
Chakuza – canotta nera e jeans extraextraextralarge d’ordinanza – balla il tip tap.
Con le scarpe con la suola di ferro e tutto. Ticchetta amorevolmente per la stanza agitando le manine ed un bastone da passeggio con la testa di un’anatra argentata in punta che, sinceramente, non ho la minima idea di dove abbia recuperato.
- A te piace l’idea! – continua a cinguettare, mentre Saad si traveste improvvisamente da Fred Astaire – smoking e papillon e tutto, ommioddio – e si unisce a lui nelle danze.
La cosa sconvolgente, a questo punto, mentre Saad ricomincia a cantare per aggiungere che la sorpresina nelle mutande di Bill potrebbe essere l’unico motivo per il quale gli vado dietro, è un’altra, però: Chakuza non ha più i propri vestiti, non ha più le scarpe da tip tap, non ha più il bastone, ma in compenso è vestito come Ginger Rogers in Cappello a Cilindro.

Sento il bisogno fisico di vomitare.

E' allora che fuggo. Perché quando qualcosa cerca di farmi vomitare - e non è l'alcool o un'influenza, che già mi sta sul culo, per carità -, quando qualcosa mi spinge sull'addome e sullo stomaco a quella maniera, allora o è un cadavere, o sono i miei amici che si sono improvvisamente rivelati per quella che era la loro vera natura.

E non mi interessa nulla se il bastone con la testa da papera era grazioso.

Spalanco la porta dello studio, inciampo sullo zoccolo del muro e quasi rovino per terra, ritirandomi in posizione eretta con uno scatto improvviso di reni. Poi corro via. La voce di Chakuza - leggermente più effeminata di quella di Saad, e sicuramente meno stonata - ancora m'insegue fino all'androne. - Non potrai farci nullaaa, perché so che lo desideriii. -

Spintono due o tre persone senza curarmi di loro e continuo a fuggire a rotta di collo lungo una via qualsiasi di Berlino.

Poi inciampo in una ragazzina pseudo-emo e la trascino a terra con me, perché se proprio si deve cadere - come dice Saad - meglio cadere con una figa in mano. Beh, non proprio letteralmente parlando, potrei sembrare un poco inopportuno. Comunque il proverbio finiva con e quando ti rialzi, se non te la sei già fatta, ricordati che il sesso verticale fa miracoli per la schiena. Lo so, è un po' lungo, ma non ho mai pensato di poter esaurire il sesso in un proverbio.

Forse il classico Scopa e vivi. Oppure Scopare fa bene alla salute.

- Ma tu sei Bushido! - squittisce la ragazzina. Mentre ci rialziamo, la fisso. E' così bassa e tozza che anche a voler fare sesso verticale, un'ernia del cazzo non me la toglie nessuno. - Ommiddio, ho sempre voluto un tuo autografo! -

- Eh. - dico io. Non so se ce la faccio. Mi guardo alle spalle per scorgere eventuali presenze inopportune. Niente: a quanto pare Fred Astaire è rimasto a farsela con Ginger. Ma perché scopano tutti, qui?

- Ho sempre sognato di incontrarti! Tu sei così uomo… -

- Ah, gra -

- e vorrei scoparti così tanto. - 'ca puttana. Ritiro tutto sulla stazza.

Alzo gli occhi dal foglietto e improvvisamente lo vedo. E' Bill Kaulitz con una gonna troppo corta per coprire i boxer e una camicetta troppo stretta per coprirgli i capezzoli e una voce troppo sexy per poterla ignorare.

Lui sorride e inizia a ballare, indicandosi. - You want me, me, me, in the morniiiing! - va bene che i Blues Brothers non sono mai stati il simbolo dell'eterosessualità, ma qui ci esagera. E perché nessuno si volta? Perché nessuno appare sconvolto quanto lo sono io?

Io lo sono. Sconvolto, intendo.

Per questo urlo. Un sacco. Urlo fino a far sparire Bill Kaulitz e far ricomparire una ragazzina in lacrime. E poi fuggo via. Da mia madre. Sperando che pure lei non decida improvvisamente di trasformarsi in Tom Kaulitz arrapato, perché questo sarebbe troppo. Persino per me.

Mamma, la santa donna, mi accoglie col cipiglio preoccupato che ogni madre dovrebbe avere nel vedere un figlio turbato quanto sono io in questo momento.
Mi permetto un attimo di complesso d’Edipo irrisolto per dichiararle amore imperituro, e le salto al collo, abbracciandola stretta.
- Mamma. Sono felice di vederti.
- Anis…? – mi chiama lei, giustamente turbata, almeno quanto me. – Sei sicuro di stare bene?
- No. – rispondo sinceramente, - È una giornata di merda.
- Anis! Il linguaggio!
- Sì, scusa. – sospiro esausto, svaccandomi lungo disteso sul divano e lanciando via le scarpe che, non so per quale miracolo, evitano di sfondare lo schermo del televisore, - Sono distrutto. Dammi qualcosa di buono da mangiare.
- Ma cosa posso prepararti così all’improvviso? – si agita tutta lei. Io sorrido tranquillo, perché tanto so che se ne uscirà con qualche meravigliosa genialata delle sue. – Dovrei avere ancora un po’ di couscous di ieri, vado a prendertelo. Ma si può capire cos’hai?

No, mamma. Non si può capire. Fortunatamente per te, almeno tu non puoi.

- Niente, ma’. – borbotto massaggiandomi la nuca, - Sono agitato per stasera perché-
- Perché tu lo sai, oh-oh, lo sai! Che Bill Kaulitz ti farai!

Mi tiro a sedere con uno scatto repentino.
- Mamma?! – strillo.
- Che c’è? – risponde lei, terrorizzata, quasi nascondendosi dietro al piatto di couscous, - Anis, sei pallido come un cencio…

Il che, suppongo, visto che tendenzialmente sono pure scuro di pelle, non dev’essere un buon segno.

- Scusa, m’era sembrato che dicessi qualcosa…
- Qualcosa? Tipo che?
- Tipo…
- Oh-oh-oh! Tu puoi negare ma lo sai! Che Bill Kaulitz alla fine di stasera ti farai!
- MAMMA!!!
Mia madre salta indietro, impallidendo, mentre io scatto in piedi con una velocità fulminea della quale la mia schiena risentirà in futuro, lo so.
- Anis… sono molto preoccupata per te.

Anche io sono molto preoccupato per me. Molto molto preoccupato per me.

- Senti… - riprende con tono dimesso, posando il couscous sul tavolino, - Ho una cosa per te. Pensavo avresti potuto indossarla stasera. – suggerisce sorridendo timidamente e sparendo in corridoio.
Giuro che se mi porta il bastone con l’anatra muoio qui.

La sento trafficare nello sgabuzzino e mi permetto di distrarmi un attimo. Un piccolo secondo che non dovrebbe nuocere alla mia psiche, chiaramente già stravolta da un Bill Kaulitz travestito da donna e dai miei amici improvvisamente passati al lato oscuro.

Lascio vagare gli occhi piano, dolcemente, fino a che questi non si posano in tranquillità sull'acquario di mia madre. Personalmente, ho sempre amato quei pesci. Riescono a rilassarmi nei momenti più difficili. Anche adesso sono assolutamente -

Ehi.

Perché tutti i pesci si affannano vicino al vetro? Strano, non gliel'ho mai visto fare dai 30 anni che sono qui - non che siano sempre gli stessi chiaramente. I pesci rossi si agitano in maniera convulsa, poi improvvisamente s'immobilizzano.

Hanno formato una scritta. Dice Bushido.

Mi passo stancamente una mano sugli occhi. Questo è troppo. Forse stanotte ho scopato e non me lo ricordo, motivo per cui io sono enormemente stanco… e… adesso è un cuore.

Chiudo gli occhi. - Solo un secondo tesoro! - urla mia madre dal retro. Vorrei tanto averla qui. Anche se cantasse canzoncine sconce su me e Bill. Parlando del diavolo, spuntano i pesci rossi. Quando riacquisto la vista, i pesci hanno scritto Bill. Beh. Messaggio abbastanza chiaro.

Si muovono di nuovo, sempre più convulsamente.

Quello è il disegno di un pene?

- Fottuti pesci rossi del cazzo! - tuono saltando sulla sedia e precipitandomi verso l'acquario. Poi butto una mano dentro la vasca nel disperato tentativo di disperderli, d'evitare che mia madre veda questa tragedia erotica che sembra una farsa da quanto è inopportuna.

- ANIS! - strilla per l'appunto lei, che nel frattempo è riemersa dallo sgabuzzino. - Per l'amor del cielo, Anis, cosa stai facendo?! -

- Mamma, posso spiegare…! - dico subito io togliendo il braccio dall'acqua e alzandolo davanti al mio viso: non si sa mai cosa potrebbero fare, delle madri in lutto per i loro pesci rossi. - E' che cercavo di… -

Lei alza una mano. - Non dire niente! Ho già visto abbastanza. E' chiaro che tu hai la febbre, Anis. - deglutisco. Sì, magari posso usarla come scusa, se ci aggiungo un paio di innocui funghetti. Credo di averne ancora un paio sotto il letto. - Comunque, volevo darti questi. - apre la scatola davanti al mio naso, che io mi preoccupo di storcere immediatamente, data la puzza, e mi mostra un paio di mocassini.

- Che? -

- Erano di tuo padre. Lui avrebbe voluto che tu li portassi nei momenti più importanti della tua vita, per ricordarti che eri speciale. - sì cazzo, ci posso credere. Con questi mocassini, a ricordarti in maniera speciale del fatto che sei sfigato ci pensa la tua sola immagine. Molto gentile. Mia madre tira su col naso. - Ha anche detto che… -

- Che? -

- …ti farai Bill Kaulitz perché!, pepperepè! -

- MAMMA! - urlo.

- Gesù! Anis, se non ti metti a letto ti ci porto di peso. -

Chino la testa a mo' di scusa. - D'accordo. Dicevi? -

- Tuo padre vorrebbe che dopo averli indossati e dopo che lui sia morto, tu andassi a seppellirli sull'Himalaya. -

La fisso intensamente. Fisso i pesci rossi. Il pene è sempre lì. Inequivocabile.

- Col cazzo. - rispondo io. Che se non altro, rimango in tema. Amen, sia fatta la tua fottuta volontà.

Afferro i dannati mocassini e mi trasferisco in quella che è stata camera mia almeno fino a quando non ho cominciato a fare avanti e indietro dalla galera. Getto la borsa che mi trascino dietro da stamattina sul letto e cerco di tranquillizzarmi.
Dunque, devo cambiarmi.
Sono quasi le sette di sera. Dovrei già essere bello che vestito e pronto per andare, ma la mia vita mi odia.
Mi lascio andare pensoso sul letto.
I mocassini mi guardano dallo zerbino.

Aspetta. Mi guardano?

- A-A-A-Anis! – E MI PARLANO ANCHE! – Non puoi sfuggire al tuo destino, devi seguire ciò che ti dico: fa-fa-fa-fa-fatti Bill Kaulitz! Fatti Bill Kaulitz!

Okay.
I mocassini di mio padre mi parlano.
Cantano.
E mi chiedono di farmi Bill Kaulitz a ritmo di Stayin’ Alive.
Se chiamo mia madre adesso, minimo rischio un duetto. E non voglio nemmeno pensare ai pesci.

Infilo le scarpe ai piedi con la risolutezza dell’uomo che non deve chiedere mai, poi sfilo i vestiti – sì, dopo aver infilato le scarpe. Ebbene? Se i pesci di mia madre possono essere un pene, io posso infilare i vestiti con l’ordine sbagliato. Vi sfido a fermarmi. – e mi rivesto.
Sono un figo.
Il mondo mi odia ancora, ma almeno andrò incontro al mio esaurimento nervoso con stile.

Saluto mia madre e scendo difilata, Saad mi aspetta con la macchina giusto qua sotto, in perfetto orario.
- Atze! – mi chiama premuroso, - Ti sei un po’ ripreso?
No, dovrei rispondere, ma posso lasciare da parte i valori del guerriero e mentire, per stasera.
- Tutto okay. – dico con un sorriso smagliante, - Ero solo un po’ agitato. Adesso sto bene.
- Perfetto. – dice lui, rimettendo in moto appena mi richiudo lo sportello alle spalle, - Che roba sono quelli? – chiede, indicando le mie calzature.
- Mocassini. – rispondo seccamente.
- Fan cagare. – commenta, annuendo a se stesso, - Si può capire perché li hai messi?
- Dovevo farli stare zitti.
Saad mi fissa come il pazzo che sono.
Lo ignoro. Sono contento che lui ignori me, mentre ci dirigiamo silenziosamente verso gli studi di VIVA.

Ovviamente qua fuori c’è un casino da manuale. Stuoli di ragazzine che mi si vorrebbero fare – ed a questo punto mi chiedo: ma mi ascoltano solo le fan dei Tokio Hotel? No, perché vorrei saperlo. Cioè, ce ne fosse una maggiorenne. Una sola. Mi accontenterei! E invece no, tutte ragazzine che puzzano ancora di latte. Ed ascoltano me. Ma perché? Io non dovevo manco cominciare a flirtare in diretta con Kaulitz. Mi sono condannato a morte da solo.
Mi fermo a fare qualche autografo perché, se non sorrido e faccio il carino, minimo Mirko mi ammazza e poi mi licenzia. O mi licenzia e poi mi ammazza, dipende dalle clausole che regolano il suo contratto. Mi premurerò d’informarmi, ne va della mia vita.
Arriva dal nulla una tizia che mi chiede cose random su quale sia il segreto del mio successo.
Cazzo ne so, tesoro, io sono l’ultimo a capirlo.
Comunque una scopata me la farei anche con questa. Si vede che ho proprio bisogno.

Blatero cose random e poi la stronza mi sgancia la bomba: “quale star fra quelle presenti oggi non vedi l’ora di incontrare?”.

E questa è una fangirl.
Io glielo leggo negli occhi.
Lei vuole sentirsi dire che voglio incontrare Bill. E come lei lo vogliono tutti gli altri.
È una congiura.
Fanculo.
- Personalmente, non vedo l’ora di incontrare Bill. – annuisco e cerco di darmi un tono da figo, anche se mi sento uno straccio, - Ho l’onore di presentare il Best Band award, stasera. Spero che vincano i Tokio Hotel, così potrò dare a Bill un bell’abbraccio ed un bel bacio!

E quello non ero veramente io. Cazzo.
Ma non è che questa strana possessione ha preso anche me?

Sospiro. Per lo meno non ballavo.
La stessa cosa non si può dire della giornalista, che si mette improvvisamente sulle punte e lancia paillettes a destra e a manca.
- Bill’s heeeere, there’s nooooothing to feeeear! – mi rassicura in una perfetta imitazione di Celine Dion. Ed io vorrei tanto mandarla a fanculo, ma mi rendo conto che se lo facessi poi ovviamente andrebbe in diretta nazionale e mi meriterei un gioioso licenziamento in tronco che, al momento, preferirei evitare.
Tanto è palese che ‘ste stronzate le vedo solo io.

Giungo sano e salvo all'interno della sala della premiazione, e incautamente penso che è da ben cinque minuti che nessuna apparizione arriva per funestarmi l'esistenza. Poi capisco che il parlare è vano - così come il pensare - quando davanti ai miei occhi compare il mio incubo peggiore. Che non ha bisogno di subdoli travestimenti o di un acquario per palesarsi in tutta la sua malvagia essenza.

Bill Kaulitz è vicino. La fine, pure.

Lo osservo con gli occhi spalancati e la bocca a prendere aria, mentre Saad al mio fianco s'irrigidisce leggermente e mormora qualche imprecazione fra i denti. Se solo riuscissi a pensare qualcosa di coerente, se solo capissi da quale lato pensa di attaccarmi adesso, mentre sguaina quel sorriso porco che non gli ho quasi mai visto fare - sempre al suo gemello, mai a me, oltretutto -, se solo fossi sano di mente.

Ma non lo sono.

Quindi pianto bene i piedi per terra e aspetto. Sono pronto.

- Ehi Bushido! - assottiglio gli occhi.

- Bill… - mormoro. La sua tattica è più sottile del previsto: non si limita alla pura sfacciataggine, no, lui deve crogiolarsi in quella lenta lussuria di cui è portatore.

- Va tutto bene? - chiede lui, perplesso.

Ti piacerebbe che non fosse così. Come è in realtà, cioè. Ma io sono un uomo, sono un duro, posso spingere all'infuori il petto e - Bacialooooo. Cosa aspetti su bacialooo. - trilla in quel momento un bottone della mia camicia. Lo affetto e lo strappo, calpestandolo con tutta la rabbia con cui non posso calpestare Bill.

- Perfettamente. - ringhio. Tom prende Bill per un braccio e lo trascina via, quasi spaventato. E' da tuo fratello che devi scappare, cocco, non me. Non. Da. Me.

- Atze, veramente. Finirai per spaventare qualcuno, a queste premiazioni. -

- Sciocchezze. - ribadisco io, garrulo per aver sconfitto il nemico. Finché dura. - Sto benissimo. - il bottone è ancora sotto il mio piede, sconfitto. Lo sento mugugnare, ma non mi faccio impietosire. Questo fino a che il mio mocassino non mi ringhia contro. - CAFONE! - strilla la calzatura. - Non capisci che gli fai male? -

Tolgo il piedi di soprassalto, e mi chino per raccogliere il bottone che, povero, piange e singhiozza un poco. Mi fa tenerezza. - Cavoli. Scusami signor bottone, io -

- Sono una LEI! - strilla la bottona. Cioè, no. La bottone. Il… vabeh. - Mi scusi per averla… uhm. Calpestata. - sussurro avvicinandomi a lei. Il bottone, cioè, la bottona sorride e poi, insieme ai mocassini, ricominciano a cantare. - You CAN always get what you waaaaant! - Questo è troppo. Prendo la bottona e la lancio nel primo cestino che trovo. Quanto alle scarpe, temo che dovrò tenermele. Se non altro la canzone è decente.

Quando salgo sul palco per premiare la miglior band, vedo il volto di Saad. E anche quello di Chakuza. Sembrano preoccupati. In effetti, sarei preoccupato pure io, se non fossi… beh. Me stesso. Mi schiarisco la voce, giocherello un po' con quel dannato trofeo, guardo la mano che ha stretto la mano di Bill Kaulitz tre minuti prima, e poi guardo il foglio. Cazzo! Cazzo.

- Tu-tu-tu-TU non ti puoi fermareeee. - trilla il premio. Quasi lo lascio cadere per terra.

- Ehm, Tokio Hotel! - dico. E li vedo arrivare dalle poltroncine. Lo vedo avvicinarsi sempre di più, e mi fisso i bottoni. Tacciono, muti. Persino i mocassini si sono azzittiti.

Quando Bill mi travolge e m'abbraccia come se fosse pieno di sentimenti verso di me, penso al peggio. Però l'abbraccio non diventa una morse letale, né i suoi capelli si attorcigliano attorno al mio collo. Faccio per staccarmi quando una voce mi colpisce l'orecchio, delicatamente. - Vorrei che tu mi scopassi. - dice Bill.

Io lo lascio andare, quasi cadere. Lui continua a fissarmi con sguardo provocante: probabilmente nella realtà sta solo facendo qualcosa - non dico di normale - ma da Bill Kaulitz. Mi volto verso Saad e Chakuza per dell'aiuto, ma è inutile. Già ballano e gorgogliano sulle poltrone.

- Vorrei leccarti tutto. -

Ossignore.

- Non sai da quanto tempo sogno le tue mani dentro di me… - sussurra in quella voce flautata che non dovrebbe rivolgere a me. Signore, perché mi fai questo, cazzo? Io avevo solo chiesto un po' di figa.

Bill emette un gemito decadente e io mi sento inevitabilmente mancare. Tutto pulsa, persino i miei pantaloni. - Dio, Anis, t'immagino così grosso sotto i boxer… - geme, avvicinandosi di nuovo a me. Io indietreggio. E indietreggio.

- Sì, Anis, ha… non vorrai fuggire da me, vero? -

- Invece sì! - strillo. - Cazzo, sì! -

Una mano sulla spalla mi ferma: io mi volto. E' Tom. - Tutto bene? - chiede lui.

Io annuisco, in mancanza d'altro. - Credo di sì. Credo… di sì. -

Bill mi fissa con aria attonita. Lo capisco. D'altra parte, mi fisserei con aria attonita anche io.

Al momento penso solo che vorrei essere seppellito qui ed ora. Ci manca solo che si mettano a cantare pure i miei occhiali da sole e-

- Hai richiesto la nostra presenza, noi ti mostriamo riconoscenza! Se stanotte la tua retta via seguirai, nelle mutande di Bill Kaulitz probabilmente finirai!

Afferro i fottuti traditori e li scaglio lontano.
- Non vi ho chiamato io, okay?! – strillo furioso.
La Germania intera mi guarda. E probabilmente ride di me.
Ho appena sfracellato un paio di occhiali D&G sulla moquette di un palco da premio adolescenziale e perché? Perché nelle assurde visioni che mi perseguitano, i dannati occhiali cantavano filastrocche che non saprei se definire presagi o maledizioni.
In ogni caso, mi fanno un terrore fottuto.

Bill Kaulitz, dall’alto di questa sua tenuta indecente da zoccola piena di catene e con stivali sadomaso, mi fissa e mi sorride. Io lo so che tu lo sai, brutta strega nero-dipendente. Io lo so che è un fottuto sortilegio. L’hai fatto per farmi impazzire! Confessa!
- Forse è meglio se ti rilassi un po’… - mi dice Tom, dandomi una pacca sulla spalla.
Io cerco di riacquistare il controllo, ma tanto non l’ho mai avuto. Che cerco di riacquistarlo a fare?

Il resto della premiazione si svolge come da copione, eccezion fatta per le Monrose che mi cantano una canzone facendo un paio di mossettine sexy, e la cosa potrebbe anche starci, se la canzone non ribadisse fondamentalmente il concetto già espresso dalla mia mente bacata fin da stamattina, cioè che devo farmi Bill Kaulitz.
Comincio a pensare di trovarmi in un film. Uno di quelli in cui devi trovare la donna del mistero e salvarla o esploderà il mondo, chessò, tipo nel Quinto Elemento. Io sono il fottuto Bruce Willis e Kaulitz è la mia Leeloo. Sono così sfigato che non ha nemmeno tette. È il male.
Quando anche Sido, al momento di esibirsi, invece di prendermi a parolacce mi invita a scoparmi Bill, capisco che è il momento di darci un taglio.
- Ti preferivo stronzo! – urlo, nello sgomento generale, mentre abbandono la sala.
Me ne frego dello sgomento generale.
Lo sgomento generale gli fa una sega, al mio sgomento interiore. Fanculo.

Mirko mi arpiona mentre faccio per abbandonare l’edificio. Il mio povero manager è stravolto dal mio comportamento. Posso capirlo, ma non m’interessa provare a farlo.
- Dove staresti andando, tu?! – mi sbraita in faccia.
- A dormire. – rispondo serafico, nulla più può farmi del male, - Credimi, ne ho bisogno.
- No, ti dico io di cosa hai bisogno. Ti prendi un calmante, ti fai dare una botta in testa così magari ritorni normale, presenzi al fottuto afterparty che VIVA riprenderà per intero e poi – la sua voce muta all’improvviso, gorgheggia felice e gli spunta un’arpa in mano, - ti scopi Bill Kaulitz!

Non esiste.
Non puoi dirmelo così in scioltezza.
L’arpa non ti giustifica.

Faccio per fuggire, ma lui mi viene dietro e mi afferra per una spalla. Lo guardo: è tornato normale.
- Hai capito bene quello che ti ho detto, Anis? – mi riprende severamente.
Vorrei dire no, perché non ho ancora capito per quale motivo dovrei volermi scopare Bill Kaulitz – a parte il fatto che ho un’erezione insopportabile in mezzo alle gambe da quando mi ha toccato, chiaro, ma è tutta suggestione, ci scommetto. Vero che lo è? Vero, vero, vero? – ma mi limito ad annuire contrito.
In fondo, non è colpa di Mirko, se sono pazzo.
Non voglio rovinargli la carriera.

Torno indietro mogio mogio. Sono mortalmente depresso.
Chakuza mi accoglie con un drink non meglio identificato. L’afterparty è già iniziato da un bel po’.
- Atze, ripigliati, su. Te l’ho corretto un tantino. – sorride, facendomi pure l’occhietto.
Esattamente ciò di cui avevo bisogno. Alcool e droghe.
Morirò.

Kaulitz, stretto fra il fratello e il manager dall’altra parte della sala, masturba una fottuta cannuccia con quelle labbra da zoccola che si ritrova, ed io percepisco la mia sudorazione prima azzerarsi e poi riprendere in fiotti continui che mi si rovesciano lungo la schiena.
Alcune goccioline scendono dalla fronte lungo le tempie.
- Scopateloscopateloscopatelo. – canticchiano.
Non morirò. Continuerò a stare così per sempre. Ma io voglio morire. E' un desiderio fisico, ormai, oltre che una chiara necessità mentale.

Lui sta lì, chiuso in un angolino, come il lottatore di boxe che aspetta l'ultimo secondo prima di tornare alla carica e distruggerti con un destro ben… no. Cristo, parliamo di Bill Kaulitz. Nemmeno la Madonna potrebbe dotarlo di una qualche forza fisica. Però ci sono ben altre armi di cui potrebbe dotarlo.

- Atze! - mi chiama una voce. Saad mi chiama, a voler essere precisi. Io non sono sicuro di volermi voltare. Non ne sono sicuro per niente. Perché non so più cosa aspettarmi dalla vita, tutto qui.
Alla fine, mi volto. Perché non si può passare tutta la vita a credere che gli oggetti parlino, giusto?

- EHI! - sbotta il mio mocassino. Io lo zittisco sbattendo il piede per terra. Quando alzo lo sguardo, di fronte a me non c'è nessuno. Ma proprio nessuno nessuno. Nemmeno l'aria, a voler esagerare.

- Atze, siamo quiiiiii. - mi chiama la voce, nuovamente alle mie spalle. Mi rivolto.

Eh, beh. Vorrei non averlo fatto. Potrei anche scoparmi il mocassino, davvero. Tutto pur di non vedere questo.

Mirko mi saluta con la manina mentre è impegnato in una strana quanto poco sicura posizione, un'anca tutta sbilenca quasi a voler sembrare… sexy. Signore. Mi dovrò mica scopare lui, adesso? Non ho nemmeno la forza per rispondere al saluto e… quello è David Jost?

Vorrei poter avere una macchina fotografica, perché è chiaro che questo non mi capiterà mai più. In realtà, non sta accadendo nemmeno adesso. E' tutto frutto della tua immaginazione, è tutto frutto della tua immagina -

Il coretto riparte. Solo che questa volta a muoversi a ritmo c'è tutta la mia crew. Quando cazzo ci sono arrivati, qui?, ma soprattutto, chi cazzo è che li ha convinti a vestirsi tutti così?

Giusto. La mia immaginazione.

David Jost, che sembra essere il capo corista, ondeggia e gorgheggia. Quest'uomo avrà un contrappasso terribile quando morirà. O forse l'ha già avuto, e i Tokio Hotel sono la sua punizione divina. Bene, penso: siamo in due.

Ad un certo punto, il coro si spacca in due ali. Saad e Chakuza ammiccano al sottoscritto come prima di un matrimonio. David è ancora fermo al centro: alza le sue mani al cielo, punta gli indici verso l'alto, e poi scatta verso il basso, ad indicare Lui.

Lui che è rimasto solo, nella mia fantasia, dietro il coro che s'è appena rotto, lui che beve assorto masturbando la cannuccia, lui con quelle labbra da zoccola, lui che mi fissa come se fossi un invasato.

Ehm.

Il coro non canta. Più eloquenti di così si muore, cazzo. Mi sento come una principessa controllata a vista durante la prima notte di nozze. Mi chiedo di chi sarà il sangue sul lenzuolo, al mattino. Di sicuro, ci saranno tutte le mie lacrime.

Mi avvicino a Bill e lo saluto. Lui mi saluta di rimando. E poi inizio a parlare.

- Senti, io devo assolutamente scoparti. Ci sono le voci che me lo dicono da tutto il giorno, i bambini di 50 Cent, mio cugino, Chakuza, i pesci, i mocassini, i giornalisti, le fan, i bottoni, il premio, gli occhiali, Sido, il mio manager, tutti, capisci?!, tutti, quindi io mi ti devo fare, devo per forza. d'accordo? Va bene? E' un problema? -

Bill Kaulitz mi osserva e sorride. Pacato. - D'accordo. - dice.

Vorrei urlare. Ma non lo farò. Perché so che da qualche parte, io ho ancora una dignità mentale.

Se non altro smetteranno di cantare.

Il bottone del colletto starnutisce.



Cazzo.
Titolo originale: id.
Autrice: Little Muse.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste, Erotico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Language, Lemon, Slash, Traduzione.
- Storia di un irrefrenabile desiderio e di una relazione riluttante.
Note: WIP.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
UNFURL

Il posto è affollato.
A Bill, generalmente, il posti affollati piacciono; i posti stretti ripieni di persone sono spesso quelli in cui si sente più a proprio agio, è per questo che adora tanto la città ed è per questo che adora tanto stare sul palco. Persone vuol dire pubblico, e lui lavora bene col pubblico. Ma tutto ciò che vorrebbe adesso sono gli orsetti gommosi e la Pay-Per-View che lo aspettano in hotel.
È abbastanza sicuro di non aver mai sollevato gli occhi dal proprio drink negli ultimi dieci minuti circa, ed in realtà l’ha appena sorseggiato da quando ha raggiunto il fondo ricco di sedimenti della bevanda. La conversazione che Tom e Georg stanno portando avanti lo interessa appena, ma non abbastanza da impedirgli di contare i secondi prima che sembri abbastanza ragionevole chiedere di nuovo a David se può andare via. Estrae il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans a fissa il display luminoso. Gli occhi ci mettono un po’ a focalizzarlo. Le uniche luci che rischiarano il patio nel quale si trovano adesso sono deboli lanterne ciondolanti (piuttosto precariamente, secondo lui) non troppo in alto sopra le loro teste. Il classico stratagemma che i padroni di casa utilizzano per rendere un ambiente invitante, finendo poi per raggiungere l’obiettivo opposto. Bill s’è seduto lì solo perché anche Tom l’aveva fatto. Ha il sospetto che la decisione del suo gemello abbia qualcosa a che fare con la vicinanza della piscina e della grande quantità di donne che la circondano. Ma non chiede.
- È presto. – lo informa Tom, poggiandogli una mano sul polso e spingendolo ad abbassare il cellulare. Non si era neanche accorto che suo fratello lo stesse guardando. – Rilassati.
- Voglio andarmene. – lo informa di rimando Bill, come se Tom non lo sapesse già. Si solleva un po’ per riporre il cellulare al proprio posto.
Tom lo guarda comprensivo, ma scuote il capo.
- Un’altra mezz’ora, più o meno. – ricorda a Bill, lanciando un’occhiata oltre le porte ed osservando le persone in eccesso riversarsi in cortile. È più affollato, dentro. Forse è per questo che Tom ha deciso di rimanere fuori, suppone Bill. – Credo che David stia facendo la guardia all’uscita.
- E dov’è Gustav? – chiede Bill; è una cosa stupida sulla quale concentrarsi, non gli interessa neanche, in realtà, ma gli dà una buona scusa per arrabbiarsi. – Il minimo che potrebbe fare è rimanere infelice qui con noi.
- Ehi, non è così male. – protesta Georg, sollevando il proprio drink, - Open bar. Vedi il bicchiere mezzo vuoto.
Bill sente lo sguardo che Tom gli lancia senza neanche bisogno di vederlo davvero, giusto per assicurarsi non sia nelle sue intenzioni mettersi a litigare con lui solo per aver fatto ironia su qualcosa che Bill ritiene serio. Ma Bill non può davvero prendersela con Georg. Non è mai stato particolarmente sensibile riguardo cose simili. Tende a scherzare per tirarsi fuori dalle situazioni poco piacevoli; una tattica che ha insegnato anche a Tom, con suo gran dispiacere. Almeno, comunque, il suo gemello sembra ancora in accordo con lui, stasera. Ancora qualche drink, però, e Bill non potrà più contare granché su questo.
- Non mi va di ubriacarmi. – è tutto ciò che dice. Quando beve diventa frivolo, e fa cose stupide quando è frivolo. Preferisce tenersi stretta la propria lucidità mentale. Si accontenterà del suo unico piccolissimo rum e coca, grazie mille. – Voglio solo tornarmene in albergo.
- Ce ne andremo presto. – lo rassicura Tom, sollevando la bottiglia di birra fino alle labbra. È di buona qualità, una marca che Bill sa suo fratello non sia abituato a bere, ed infatti lo vede sussultare un po’ mentre la manda giù. – Prova a divertirti. Non ti ucciderà.
- Infatti, non siamo così male come compagnia, no? – chiede Goerg, e Bill cerca di sorridergli.
- Immagino di no.
- Sicuro di non volere un altro drink? – inquisisce Tom, indicando il suo bicchiere ormai quasi vuoto. Bill s’è ritrovato a succhiare solo cubetti di ghiaccio ogni volta che ha provato a tirare su un po’ di liquido con la cannuccia, negli ultimi dieci minuti. – Te lo vado a prendere.
Bill forza con decisione un sorriso per questo, perché Tom sta diventando disgustosamente gentile nei suoi confronti, ma rifiuta, ticchettando distrattamente con le unghia sul bicchiere. Non che non voglia farsi un giro all’interno del locale, o almeno, non è solo questo il problema. È che proprio non vuole bere altro. Vuole andarsene.
Bill ridacchia e saltella involontariamente sulla propria sedia quando il cellulare che ha appena riposto comincia a vibrare violentemente, solleticandolo in posti strani. Tom gli lancia un’altra occhiata stranita e Bill tira timidamente fuori il telefonino, poggiandosi una mano in grembo ed osservando il display. Un nuovo messaggio.

Bel party, mh?


Bill inspira pesantemente e fissa le tre parole, corrucciando le sopracciglia. Tom lo sta ancora guardando, ma lui non ricambia lo sguardo né spiega niente. Piuttosto, preme il pulsante per chiudere il messaggio e ripone il cellulare al proprio posto. Quando Bill solleva lo sguardo su lui e Georg, Tom lo fissa ancora, sorseggiando la birra direttamente dalla bottiglia, ma non gli chiede quale sia il problema.
Georg ha ricominciato a parlare, nel frattempo, e Tom lo segue annuendo. Bill guarda la bocca di Georg, ma non lo sta ascoltando. Vuole davvero andare via.
Il telefono vibra ancora e Bill salta di nuovo, stavolta infastidito. Con un sospiro esasperato, lo riprende fra le mani. Tom sta guardando lui più di quanto non ascolti Georg, adesso. Un altro nuovo messaggio.

Ti trovo bene.

Bill esita, il pollice sopra il pulsante per cancellare, stavolta. Deglutisce. Dovrebbe premerlo. Invece, sospira ancora e clicca Rispondi, allontanandosi di parecchio dal proprio giudizio.

Dove sei?

Non gli piace l’idea di essere osservato, anche se la cosa non lo sorprende affatto. Tiene il telefono fuori dalla tasca, stavolta, in attesa della risposta. Che arriva velocemente.

Al bar.

Bill guarda di traverso il cellulare, cercando di lanciare un’occhiata anche a ciò che lo circonda e notando come gli occhi di Tom seguano la traccia dei suoi, perplessi. Il bar è all’interno, vicino al centro della casa, in cucina. Bill sta già per scrivere la domanda che gli ha appena attraversato la mente, quando arriva un nuovo messaggio a coprire il proprio testo sullo schermo.

Sei sempre bello.

Bill rotea gli occhi per la previsione e si sposta a disagio sulla sedia. Odia che cose come questa siano ancora in grado di fargli sentire le farfalle nello stomaco, e scaccia via la sensazione, comprimendola sul fondo del proprio corpo con una facilità che deriva dalla pratica, mentre stringe le labbra fino a renderle sottili come linee. Ed arriva un altro messaggio.

…e ti ho visto entrare ;)

In realtà la cosa comincia ad irritarlo un po’. O molto. È fastidiosa ed insensibile. Non è più come un anno prima, quando era divertente. Il messaggio successivo arriva velocemente.

Dove sei?

A quel punto, Bill spegne il telefono, pressando un pollice rabbioso contro il pulsante finché lo schermo non si oscura e tutto ciò che può vedervi riflesso è la sua espressione tesa che lo fissa di rimando. Getta il cellulare dentro la borsa bianca ai suoi piedi e torna ad affondare nella poltrona con uno sbuffo, portandosi dietro il bicchiere e ricominciando a succhiare cubetti di ghiaccio. Sono ancora dolci di rum.
Tom sembra in attesa di qualcosa, ma Bill si limita a scuotere il capo, chiudendo le labbra attorno al blocco congelato.
- Voglio andare via. – ripete, la lingua intirizzita dal freddo. – Non stiamo neanche facendo pubbliche relazioni. Qual è lo scopo di tutto ciò?
- Be’, allora vai a fare pubbliche relazioni. – suggerisce Tom, ma è l’ultima cosa che Bill abbia voglia di fare. Ciò che vuole fare è prendere David a pugni in faccia.
Rimane seduto lì, esattamente come ha fatto fino a quel momento, le braccia incrociate sul petto mentre fissa il vuoto di fronte a sé e Tom e Georg parlano fra loro, cercando di coinvolgerlo ogni tanto per ottenere solo di vederlo ricadere nuovamente nel silenzio dopo due parole. Sa che sta facendo preoccupare Tom, che suo fratello pensava lui avesse superato questa cosa, ma non riesce a dispiacersene.
Anche Bill pensava di averla superata.
La suoneria di Samy Deluxe del cellulare di Tom lo tira fuori dai propri pensieri, e guarda in alto per osservare il fratello portare il telefono all’orecchio.
- Sì? – lo sente dire, per fermarsi subito dopo in ascolto della persola dall’altro lato della cornetta. – Sul patio. – risponde dopo un momento, lanciando un’occhiata alle porte. – Non lo so. – abbassa il ricevitore dalle labbra e fa un cenno a Bill. – Perché il tuo cellulare è spento?
Bill scrolla le spalle. Ha le sue ragioni.
Tom smette di guardarlo.
- …sì, siamo pronti. Bill ci ha fatto impazzire. – solleva un piede e gli tira un calcetto giocoso. Bill risponde con un altro calcio, un po’ più forte, ma viene ignorato. – Quindi possiamo…? Sì. Sì, okay. Okay. Stiamo arrivando. – Tom abbassa il telefono ed interrompe la chiamata prima di riporlo in tasca, poggiando la birra sul tavolo di fronte a sé. – David dice che possiamo andare. Saki ci sta aspettando di fuori.
- Dove? – chiede Bill, alzandosi ansiosamente in piedi.
- Qui di fronte. – risponde Tom, richiamando l’attenzione di Georg con un cenno del capo. – Manda un messaggio a Gustav, così possiamo andarcene da qui.
- Ma avevi il cellulare in mano fino a poco fa! – protesta Georg, mettendosi in piedi a propria volta e recuperando comunque il proprio telefono dalla tasca. Bill li segue, sistemando la giacca ed abbassandosi per riprendere la borsa.
- Pronti? – chiede Tom ad entrambi, ma guarda solo Bill. Lui annuisce e lascia che sia suo fratello a fare strada attraverso le porte, all’interno della causa ed in mezzo alla folla degli ospiti presenti alla festa. I membri dello staff dell’etichetta e vari artisti parlottano e si muovono attorno a loro, tutti i suoni diventano uno e ronzano nelle orecchie di Bill. Le persone si fondono in un’unica entità, e per una volta questa sensazione non è eccitante, solo opprimente. Non vede l’ora di raggiungere la porta. Improvvisamente si ricorda del perché si sia unito a suo fratello nel cortile sul retro.
Bill non realizza che il modo più veloce per uscire da quel posto è passare per la cucina, almeno fino a che non ci si ritrova dentro. Tom non sapeva che portarlo in quella direzione era un errore. Bill tiene il capo chino, felice di stare stretto fra suo fratello e Georg, che chiude la breve fila dietro di lui.
Non vuole sollevare lo sguardo, davvero non vuole. Ma sente i suoi occhi addosso, scavano dentro di lui, e solleva la testa, lanciando un’occhiata al di là della propria spalla proprio mentre stanno per raggiungere la porta sul lato opposto della stanza.
Ci sono un sacco di persone affollate attorno al bar, ma una sola lo sta fissando.
Bill si ferma bruscamente, senza pensare davvero a cosa stia facendo, e Georg gli sbatte addosso.
- Cosa cazzo…? – butta fuori, spintonandolo un po’ e cercando di convincerlo a muoversi. Bill lo guarda, poi guarda di nuovo in avanti, verso la figura di Tom che si allontana velocemente.
- Devo, uh… devo tornare indietro un attimo. – dice a Georg, mentre ancora guarda Tom farsi strada fra la gente.
- Devi tornare indietro un attimo? – gli fa eco Georg, incredulo. – Dopo tutta la merda che hai detto fuori? Pensavo non vedessi l’ora di uscire!
- Infatti. – annuisce Bill. Torna a guardare il bassista. – Dì a Tom che non ci metterò molto. – aspetta che Georg scuota il capo e si muova oltre lui con un sospiro, prima di concedersi un’altra occhiata in direzione del bar. Sta facendo una cosa stupida, una cosa molto stupida, sta facendo ciò che ha evitato di fare per tutta la sera, ma non può semplicemente vederlo e passare oltre senza dire niente.
Sarebbe maleducato, se non altro.
Anche se è lui che si sta per intrufolare nella festa di qualcun altro, lo sguardo intenso che gli focalizza addosso fa sentire Bill come una preda. Un tempo adorava potersi arrendere sotto quegli occhi nel modo in cui non poteva arrendersi nei confronti di nessun altro che conoscesse. Adesso, si ritrova ad odiarli.
Perché non può più farlo.
- Ehi, bellezza. – dice Bushido quando Bill si ferma di fronte a lui, un sorrisetto a tirargli le labbra. Bill si fa minuscolo, a disagio per il nomignolo. – Che piacere incontrarti qui.
- Sapevi che ci sarei stato. – replica Bill, incrociando le braccia sul petto come una barriera.
- Già. – Bushido guarda in basso, verso la mano con cui stringe la birra. – Non pensavo che mi avresti parlato, comunque.
- Infatti non era nei miei piani.
Solleva di nuovo il capo per guardarlo.
- Ma lo stai facendo.
- Sì, be’. – Bill abbassa gli occhi, sollevando una spalla e scrollandola, sperando di sembrare a proprio agio. Non vuole guardare Bushido, ma lui sembra non avere nessun problema nel guardarlo a propria volta. Attentamente.
- Come va?
La parola bene è lì pronta per uscire, ma Bill la sopprime in favore di un “okay” decisamente più accurato.
- Tu?
Bushido imita la sua scrollata di spalle, prendendolo un po’ in giro. Ma la sua risposta è più onesta.
- Di merda.
Qualcuno diretto all’ingresso sbatte contro Bill e lo costringe a muoversi un po’ in avanti. È un modo molto poco elegante di ricordarsi che la stanza è piena di persone, tantissime persone. E quando l’attenzione di Bill torna a focalizzarsi su ciò che gli interessa di più, trova una mano posata sul proprio fianco destro, che lo tiene fermo. Sia lui che l’altro uomo fissano quella mano per un secondo, mentre Bushido lascia scorrere gentilmente un pollice sopra il tatuaggio che fa capolino dall’orlo della maglietta e dei pantaloni di Bill, prima di tirarla via.
Bill deglutisce e decide saggiamente di ritirarsi d’un passo. Perciò lo fa. Se non lo facesse, potrebbe avvicinarsi ancora.
Bushido si schiarisce la gola, distogliendo finalmente lo sguardo dalla figura di Bill, e lui si chiede vagamente se l’altro si sente anche solo un po’ a disagio come si sente lui.
- Penso che ti stiano aspettando, ragazzino.
- Probabilmente sì. – concede Bill, chiedendosi perché semplicemente non si decida ad allontanarsi e andarsene. Ma il perché lo sa. Non sono stati così vicini in mesi e la sensazione che sta provando è sia familiare che eccitante. Gli è mancata. Gli è mancato lui. Vorrebbe riuscire a parlargli e rendere di nuovo le cose semplici com’erano un tempo, per riuscire a restare nella stessa stanza senza danzarsi attorno. Anche se è sempre stata un po’ la loro specialità.
Bushido solleva lo sguardo, ma non su di lui – oltre la sua spalla. Ridacchia un po’, e c’è del biasimo nei propri stessi confronti, in quella risata.
- Decisamente sì. – dice, sollevando un sopracciglio in direzione della porta.
Bill si volta per trovare Tom che li fissa. Quando i suoi occhi trovano quelli del fratello, lo richiama con un rude cenno del capo. Bill serra le labbra e scuote il capo. Non è dell’umore di accettare la proiettività di suo fratello, anche se non può veramente biasimarlo per questo. Tom solleva un sopracciglio e si volta, scomparendo in mezzo alla folla.
- Merda. – mormora Bill. Conosce troppo bene suo fratello per illudersi che gliela dia vinta così facilmente.
- C’è qualche problema?
Bill torna a voltarsi verso di lui. Gli occhi di Bushido gli stanno nuovamente addosso.
- Sta andando a chiamare Saki.
- Ah, sì, la babysitter. – Bushido solleva la propria birra, come stesse facendo un brindisi in onore della guardia del corpo. – Quasi mi manca trovare sempre nuovi modi per dirgli di non rompere le palle. Salutamelo.
Bill torna a fissare la porta. Tom non è ancora tornato. Prima di pensare troppo a cosa sta facendo, chiede “Te la senti di evitarlo adesso?”.
Il sorriso soddisfatto svanisce dalle labbra di Bushido per la prima volta quella sera.
- Bill…
- Per parlare. – taglia corto lui, prima che l’altro possa protestare.
Bushido fa scorrere un pollice contro l’etichetta sulla bottiglia di birra.
- Non penso sia una buona idea.
- Perché? – chiede Bill con una smorfia insolente, anche se il perché lo conosce benissimo. È quasi una sfida. Bushido sospira e posa la birra, sporgendosi a stringergli nuovamente un fianco. Le sue dita sono ruvide e bagnate per la condensa sulla bottiglia. Bill lascia andare un ansito involontario mentre l’altro lo tira verso di sé fino a posizionarlo fra le proprie ginocchia.
- Perché non lo è. – dice a bassa voce, sfiorandogli il collo ad ogni respiro. Sfiora la guancia di Bill con la punta del naso, strofinandolo lungo la linea della sua mascella e poi lasciandolo andare. Torna a sedersi, i gomiti sul tavolo del bar. Allunga una mano verso la birra, ma Bill è più svelto e la prende prima che possa raggiungere la bottiglia, intrecciando le dita con le sue e tirandolo.
- Vieni con me. – ordina Bill, voltandosi e cominciando a camminare, felice di non incontrare nessuna resistenza quando lo fa. Non ha la minima idea di dove stia andando, ma suppone che le scale siano il posto più sicuro e privato possibile in una casa come quella. È lì che si dirige, trascinando Bushido dietro di sé e facendo strada ad entrambi attraverso la folla. È bello sapere di avere ancora tanto potere sul tuo ex quanto ne ha lui su di te.
Raggiungono finalmente le scale e Bill comincia a salire, spingendosi fra gli ospiti. Sta ancora stringendo la mano di Bushido, ma più mollemente. L’altro lo sta seguendo di sua spontanea volontà, adesso, per tutta la strada fino al primo piano, di fronte alla prima porta a destra.
Quando Bill la apre si trova di fronte un bagno e rotea gli occhi, uscendone e richiudendosi la porta alle spalle.
- Hai almeno la più pallida idea di dove stai andando?
- Non so neanche di chi sia questa casa. – risponde Bill, provando la porta successiva. Si apre su una camera per gli ospiti, e Bill si ritrova ad esitare sulla soglia. Bushido è ancora immobile dietro di lui, aspetta che si muova così da poter entrare entrambi. Le sue mani, una delle quali ancora stretta alla sua, si posano sui suoi fianchi e lo aiutano a fare un passo in avanti. Si lascia spingere. Una delle mani lascia la sua vita e Bill sente il click che annuncia la chiusura della porta. Lascia cadere la borsa per terra.
Una guancia si posa sulla sua spalla e lui si appoggia di schiena al petto dell’altro uomo. Il naso di Bushido si fa strada fra i suoi capelli, mentre le sue mani scivolano lungo i suoi fianchi per stringerlo nuovamente alla vita.
- Dannazione, profumi di buono.
Bill può sentire quelle parole caracollare giù lungo la sua schiena e farsi strada fino alle punte dei suoi piedi.
Rimangono immobili in quel modo per molti minuti, ondeggiando un po’ avanti e indietro. Bill solleva una mano e la posa sul collo di Bushido, chiudendo gli occhi.
- Cominceranno a chiedersi dove sei.
- E tu lasciaglielo fare.
Bill sente un sospiro sulla pelle.
- Per quanto mi piaccia fare arrabbiare tuo fratello, li starai davvero facendo preoccupare.
Bill scrolla le spalle.
- Tom sa che sono con te.
- Appunto.
- Da quando ti frega qualcosa di ciò che pensa Tom? – chiede Bill, sfilandosi le scarpe.
Un altro sospiro, e le braccia che lo stringono gli si chiudono addosso con più forza.
- …se non ti trovassi più, io mi preoccuperei.
Le sue labbra si posano sulla nuca di Bill, e lui trema quando continuano a scivolare lungo lo scollo della maglietta.
- Che stai facendo?
- Mi hai trascinato tu fino a qui – cosa pensi stia facendo?
- Non ti ho trascinato fino a qui per questo.
- Certo che no.
I suoi denti gli si chiudono attorno al lobo dell’orecchio e Bill riesce a recuperare abbastanza lucidità da allontanarsi da lui e sfuggire alla sua stretta. Bushido non molla la presa e Bill ricade all’indietro contro il suo petto.
- Ehi, chi è che ha scaricato chi altri? – chiede Bill.
- È irrilevante.
- Be’, non per me. – Bill spinge più forte e Bushido lo lascia andare, guardandolo poi attraversare la stanza fino a raggiungere l’altro lato del letto. Bill si muove silenziosamente per un po’, raccogliendo i pensieri. Improvvisamente realizza che è per questo che ha portato Bushido in questa stanza. È passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta in cui s’è concesso di sentirsi arrabbiato per questa storia, e non è mai riuscito a dirigere la sua rabbia contro l’unica persona che la meritasse. Torna a guardarlo, braccia incrociate. – Intendo, non mi toccavi quando stavamo insieme ma vuoi farlo adesso?
- Ti ho toccato un sacco quando stavamo insieme. – protesta lui, piuttosto offeso, come se Bill avesse insultato la sua mascolinità o qualcosa di simile.
Bill sbuffa ma non dice niente. Non può davvero contrastarlo su questo punto. Il fatto non si siano spinti fino ad un rapporto completo non dà torno a Bushido.
Bill vorrebbe chiederglielo. Vuole chiederlo fin da quando è successo. Vuole sapere esattamente perché fra loro è finita, cosa ci sia di sbagliato in lui e se, tanto per cominciare, è davvero colpa sua, ma chiedere avrebbe come unico effetto il rendere ufficialmente noto lui sia una ragazzina. Cazzo.
- Senti, piccolo. – comincia Bushido, infilandosi le mani nelle tasche e dandosi un’aria abbastanza rilassata da far venire a Bill voglia di gridare. – Io sono il tipo d’uomo… a cui non piace attaccarsi troppo. Tu vuoi scopare, e questo è okay. Ma questo non è tutto ciò che vuoi. – Bill apre la bocca, ma Bushido prosegue prima che lui possa dire niente. – E questo va bene. Funziona per te, d’accordo. Ma non funziona per me. Lo sapevi fin dall’inizio, d’altronde, no?
- E tu sapevi che a me non andava bene fin dall’inizio. – replica Bill, - Quindi perché sei stato con me?
Rimangono a fissarsi per un momento, e Bill è abbastanza sicuro che stiano entrambi aspettando che l’altro ceda per prima. Si rifiuta di essere lui a cedere. Fortunatamente, non deve: Bushido sospira e gira attorno al letto, avvicinandoglisi lentamente. Ed ecco di nuovo quella strana sensazione, quella che lo fa sentire come una preda, e Bill si allontana di un passo. Bushido sorride furbo e si ferma di fronte a lui, allungandosi per stringerlo alla vita.
- Perché non potevo impedirmelo. – spiega, avvicinandosi abbastanza da permettere a Bill si sentire il suo respiro sulle labbra, ma non di più. - …perché tu mi hai lasciato fare?
Questa domanda lo sconvolgerebbe, se fosse ancora in grado di prestarle attenzione. Ma Bushido è così vicino che lui non riesce a registrare niente oltre alla mano che gli posa sul collo, alle dita che gli toccano la mascella, alle labbra che sfiorano le sue. Perché lo sta lasciando fare anche adesso?
- …perché non potevo impedirtelo. – confessa alla fine. E, apparentemente, è la risposta giusta, perché le labbra di Bushido scendono improvvisamente sulle sue, e la mano che lo stringe al collo lo spinge vicino quasi fino all’impossibile. Bill si dice che non può impedire al sospiro vagamente imbarazzante che sfugge alle sue labbra di andare dove vuole, così come non può impedirsi di rispondere al bacio. È più facile decidere di non poter controllare le cose. È quasi un sollievo.
Non cerca di fermare niente di quanto sta accadendo. Non cerca di fermare le mani di Bushido mentre scendono sul suo sedere e lo tirano su. Non cerca di fermarsi quando il suo corpo viene steso sul letto della stanza degli ospiti di un produttore esecutivo a caso. E non ferma Bushido quando si stende sopra di lui. È una posizione familiare, ma in qualche modo sembra decisamente differente. Sta per succedere dell’altro, lo realizza chiaramente anche se è ancora accecato dal desiderio, e qualsiasi cosa sia, Bill intende lasciarlo accadere. È abbastanza sicuro che lascerebbe accadere qualsiasi cosa in assoluto, in questo momento.
- Nessuna promessa, ragazzino. – ansima Bill contro la sua bocca, lasciando scivolare una mano decisa sotto la sua maglietta.
Bill scuote il capo e solleva le braccia per aiutare Bushido a sfilargliela.
- Non mi interessa.
Ed è vero. Se si trattasse di chiunque altro forse gli interesserebbe, domani forse gli interesserà, ma adesso lo vuole e basta. È stufo di controllare ogni cosa e Bushido è troppo bravo a reggere il comando al posto suo. Bill deve ancora capire perché si senta così bene quando glielo lascia fare, ma è stufo anche di provarci. Se non c’è riuscito per tutto il tempo in cui la loro strana relazione s’è tenuta in piedi, perché dovrebbe continuare adesso? E comunque, per ora… è okay. Per ora, nemmeno vuole sapere di più.
- Merda. – dice Bushido all’improvviso, scostandosi da lui abbastanza da lanciare un’occhiata al resto della stanza.
- Cosa? – chiede Bill, imbarazzato ed anche un po’ intossicato di desiderio. Se Bushido si fermerà troppo a lungo, lui riprenderà a pensare, e non ha alcuna voglia di farlo.
- Il lubrificante.
Un’improvvisa fitta di paura lo scuote tutto. Inizialmente, deriva solo dal realizzare che sta davvero per lasciarsi scopare dal proprio ex. Ma poi Bushido scende a baciarlo sul petto, mordicchiando uno dei suoi capezzoli, ed allora l’ansia per la situazione si scioglie e viene rimpiazzata dal terrore puro che non c’è nulla che possano usare e che, per questo, forse dovranno fermarsi per davvero. Grugnisce, spostando una mano sulla sua nuca e trattenendolo fermo.
- La mia borsa. – ansima, colpito da un’immediata ispirazione. La bocca di Bushido rilascia il suo capezzolo abbastanza da mormorare un “mh?”, ma continua a leccarlo. Le dita di Bill si stringono contro il suo collo. – C’è… la cosa idratante dentro.
Bushido ride contro il suo petto, accarezzandolo dolcemente sui fianchi nudi.
- Molto mascolino.
Bill solleva la testa del cuscino per lanciargli un’occhiataccia.
- Vuoi farlo o no?
Gli occhi di Bushido si fanno più cupi, ed ogni traccia di giocosità scompare mentre scivola lungo il suo corpo per divorare nuovamente le sue labbra, più rudemente di prima, come stesse cercando di dimostrargli qualcosa. Bill lo prende per un sì.
Poi Bushido si allontana, così bruscamente che Bill si sente quasi disorientato prima di realizzare che sta semplicemente abbandonando il letto per cercare la sua borsa, ancora afflosciata sul tappeto davanti alla porta. Bushido afferra gli orli della propria maglietta, sfilandola con un gesto veloce e gettandola di lato sul pavimento. Poi si china accanto alla borsa e comincia a rovistare all’interno, prima di estrarre una bottiglia e tenerla fra le dita, mostrandola a Bill in attesa di una conferma.
Lui scuote il capo. Uomini.
- Fondotinta.
Bushido lo lascia ricadere nella borsa e ricomincia a scavare. Il tubetto successivo è quello giusto, e Bill annuisce. L’altro si rimette in piedi e torna vicino al letto, fermandosi quando lo raggiunge e gettando la bottiglietta sul materasso accanto a Bill. Poi comincia lentamente a sbottonare i pantaloni, sostenendo lo sguardo dell’altro mentre lo fa. Non c’è niente che Bill non abbia già visto prima, quando li lascia cadere, ma si sente adesso molto più vergine di quanto non sia mai stato. Quando Bushido non lo bacia e si limita a pressarlo col proprio corpo sul materasso, Bill è quasi abbastanza lucido da avere paura.
Spinge via la sensazione quando l’uomo ricomincia a toccarlo.
Può sentirsi addosso la sua erezione mentre lo bacia, a separarli ci sono solo i suoi jeans aderenti, ed inarca la schiena, piagnucolando un po’.
Bushido sorride sulle sue labbra.
- Lo vuoi.
Bill tira su col naso, un po’ esasperato. È eccitato, lo sa già, non ha bisogno che Bushido glielo ripeta. Più parole sono coinvolte nel processo, maggiori sono le possibilità di rimettersi a pensare. Perciò allunga una mano verso il basso ed avvolge le dita attorno all’erezione prominente dell’uomo, muovendole avanti e poi di nuovo indietro. Questo gli fa guadagnare un mugolio strozzato, e Bill sorride soddisfatto.
- Sta’ zitto. – ordina, ripetendo il movimento e baciandolo ancora.
Bushido grugnisce e comincia a maneggiare maldestramente la chiusura della sua cinta. Ha avuto un mucchio di problemi le prime volte che s’erano ritrovati a pomiciare, ma Bill è felice di notare che ricorda molto bene come scioglierla adesso, rilasciando le fibbie rapidamente tanto quanto Tom si vanta sempre di saper fare coi reggiseni delle ragazze. I pantaloni di Bill sono spariti assieme ai suoi boxer, gettati senza cura sul pavimento assieme a tutti gli altri indumenti, prima che lui abbia il tempo di pensarci, e subito dopo un’erezione si sta strofinando contro la sua e questo è semplicemente fantastico.
- Sì… - esala, spalancando le cosce il più possibile per facilitare il movimento.
- Dio, sei così… - Bushido si china per leccarlo lungo il collo, - Cristo, non hai idea di quanto sei bello in questo momento.
È carino, decide Bill. Sentirsi desiderato, anche se non si sente amato. Essere comunque voluto in qualche modo. Perciò lascia che il suo commento sia spingere i fianchi verso l’alto. Questo sembra far scattare qualche scintilla, perché Bushido comincia immediatamente a cercare la crema idratante.
- Ti voglio scopare. – dichiara, come se si aspettasse una protesta da parte sua.
Bill non protesta affatto.
Lascia che le sue dita ricoperte di lubrificante scendano giù lungo la sua coscia, fino alla sua apertura, così come ha lasciato accadere tutto il resto stasera. Lo incoraggia, anzi, spostandosi verso il basso quando cominciano ad accarezzare in cerchio l’anello di muscoli.
Bushido solleva il capo e si disinteressa per un attimo di ciò che sta facendo.
- Vuoi farti male? – lo avverte, - Stai fermo.
Bill obbedisce, per quanto faccia quasi male restare immobile. Hanno già fatto qualcosa con le dita, prima, ma non si sono mai spinti oltre. Sa di poterne prendere almeno due, anche se è passato un bel po’ di tempo, ed aspettare non è esattamente una cosa che gli venga bene fare. Bushido si sta comportando in maniera fottutamente meticolosa e, nella sua frustrazione, Bill ci mette diversi minuti a capire che lo sta anche torturando un po’.
Torna ad afferrare il suo membro, deliziato dai suoni che sente provenire dalla bocca dell’uomo.
- Di più. – comanda, lasciando una scia di baci sulla linea della sua mascella.
Bushido mormora qualcosa sulle dive impazienti, ma si spinge contro la stretta di Bill ed aggiunge un altro dito. Lo piega dentro di lui, in ciò che Bill riconosce essere una ricompensa, e Bill lancia un gridolino, sollevando involontariamente i fianchi dal materasso ed allentando la stretta.
- È lì, mh? – sospira Bushido, chinando il capo per catturare le labbra di Bill fra le sue. Si fa strada a forza con la lingua, stavolta, leccando quella di Bill con lo stesso ritmo col quale spinge le dita dentro di lui.
Mesi fa, questo sarebbe stato abbastanza. Avrebbero continuato in questo modo fino a venire entrambi. Ma stanotte Bill vuole di più, e sa di non essere il solo. Perciò tira Bushido verso di sé tornando a stringere attorno alla sua erezione, finché quest’ultima non batte contro la mano che ancora si spinge dentro al suo corpo.
Non ha bisogno di dirlo ad alta voce. Le dita di Bushido si ritirano e Bill si lamenta momentaneamente per la perdita, prima di sentire il tubetto di crema idratante che viene nuovamente aperto. Dannazione, quella merda è pure costosa, oltre che francese, e dovrà ordinarne ancora dopo stanotte.
Ma quando sente Bushido afferrarlo per i fianchi e spingersi in avanti, la punta della sua erezione che si fa strada dentro di lui, non può impedirsi di disinteressarsene completamente.
È grande, e questo è il suo primo pensiero. Più grande delle dita, decisamente. Non è tanto il fatto che sia doloroso, quanto che gli sembra semplicemente troppo. Si sente teso più di quanto il suo corpo non possa sopportare, come un palloncino un attimo prima di scoppiare. È la pressione, ed un dolore lancinante.
E poi Bushido si sposta. Lo colpisce nello stesso modo in cui l’hanno colpito le dita, un movimento verso l’alto, e la pressione non diminuisce, ma si intensifica in un’esplosione di bianco e caldissimo piacere. Le sue unghie affondano nelle spalle di Bushido, probabilmente lo graffiano. Bill si sente mugolare, ma è un suono lontano. Loro sono lontani. Tutto ciò che importa è come si sente adesso, il modo in cui il suo stesso pene pulsa ogni volta che Bushido si spinge più a fondo.
- Oddio. – mormora Bill prima che la bocca dell’uomo torni a coprire la sua, - .
- Cazzo, sei così stretto. – Bushido ringhia, spingendo ancora, sollevandolo un po’ per aiutarlo a venirgli incontro, come se già non lo facesse più che bene.
Bill si stringe attorno a lui per zittirlo; se Bushido grugnisce, non parla, e questo è esattamente ciò che vuole.
- Ti fa quasi pensare che non l’abbia mai fatto prima, mh? – sussurra Bill contro il suo orecchio, sarcastico, stringendo ancora. Bushido si spinge di nuovo contro di lui, e Bill getta indietro il capo, contro il cuscino, dimenticando di essere stizzito.
- Non mi stavo affatto lamentando. – lo prende in giro, entrando quasi per tutta la sua lunghezza e poi uscendo di nuovo. I fianchi di Bill prendono vita propria. Non s’è mai sentito così. È quasi un’esperienza extracorporea, eppure allo stesso tempo si sente incredibilmente presente. È come essere sotto l’effetto di qualche droga. E non è mai stato sotto l’effetto di una droga, ma suppone che la sensazione potrebbe essere simile a questa.
Una mano larga si chiude attorno alla sua erezione e questo, combinato con il resto, è quasi abbastanza da costringerlo a venire proprio in quel momento, ma vuole durare. Stringe ancora la presa sul membro di Bushido, inavvertitamente stavolta, e l’uomo sospira di piacere.
- Dio, dimmi che stai venendo.
Bill non può neanche pensare di prendere in giro la disperazione che Bushido sta mostrando, perché se la sente addosso.
- Sì. – ansima, un po’ perché il piacere lo stordisce ed un po’ perché sta effettivamente per venire. Manca davvero poco. Può già sentire i primi tremiti pulsare alla base del suo pene, può sentire i testicoli contrarsi, e sarà intenso, è una certezza.
E poi, siccome non vuole arrivarci da solo, si stringe ancora attorno all’asta che lo sta penetrando. La bocca di Bushido si apre in un urlo silenzioso, e Bill lo sente immobilizzarsi per un istante; può sentire anche la sua eccitazione contrarsi dentro di lui, prima di rilasciare l’orgasmo all’interno del suo corpo, e rimane fermo esattamente nel punto in cui Bill ha bisogno che stia. Si inarca e viene, il liquido cola lungo il suo ventre. Ricade indietro sul letto, si sente ipersensibile ed assonnato, respira a fatica. Il petto di Bushido gli pesa addosso ed i suoi fianchi sono collassati sui propri; si regge solo sugli avambracci.
Sta guardando in basso, verso di lui, e la sua espressione è stranissima. È abbastanza per fargli venire voglia di un po’ di tenerezza, perciò solleva una mano e la poggia sulla sua guancia, seguendone la linea con un dito fino al labbro inferiore. Gli occhi di Bushido si chiudono per un momento, come stesse cercando di godersi quel contatto il più profondamente possibile. Bill sta per sollevare esitante il capo per un bacio, ma poi lo sguardo di Bushido scompare e Bill lo sente tirarsi indietro e fuori da lui.
Bill sussulta nel rendersi conto di quanto vuoto si senta all’improvviso. Era troppo all’inizio, ma adesso si sente troppo vuoto senza. Se sia effettivamente solo una questione fisica o no, non gli è chiaro.
Bushido gli volta le spalle adesso, sta seduto sul bordo del letto e sta indossando i pantaloni; Bill si sente fastidiosamente nudo e non c’è nulla con cui coprirsi. Non hanno neanche disfatto il letto. I suoni della festa che vengono da sotto stanno cominciando a risvegliare i suoi sensi, e lui deglutisce. Tom sarà furioso.
- Dovresti tornare di sotto. – lo avverte Bushido, come riuscisse a sentire ciò che sta pensando. O forse la realtà sta cominciando a farsi pressante anche per lui.
- Sì. – annuisce Bill, fissando la sua schiena tesa. Ha come la sensazione che Bushido stia cercando di non guardarlo.
- …e dovrei anche io.
La frase ha un’inflessione strana, ma Bill si limita a dire nuovamente sì. Non crede che Bushido si stia riferendo alla festa.
L’uomo si alza in piedi e si china a recuperare la maglietta e le scarpe, facendo scivolare la maglia a maniche lunghe sopra la testa. Si volta a fronteggiare Bill ancora una volta dopo un attimo, gli occhi nervosi che si agitano attorno a lui che resta ancora disteso sul letto. Esita e poi dice semplicemente “Ci vediamo in giro, piccolo”.
Bill è abbastanza sicuro che non fosse ciò che voleva dire davvero, ma è comunque ciò che ha detto alla fine, per qualche ragione.
- Sì. – annuisce, - Certo.
Sente la porta aprirsi e poi richiudersi, ma tiene gli occhi bassi. Si arriccia su un fianco, senza recuperare i propri vestiti. Si sente disfatto e scomposto, e sta anche cominciando a ricordare perché non si lascia andare fuori controllo tanto spesso. Gli fa sempre desiderare di tornare indietro e fare l’esatto contrario.
Un tale livello di vulnerabilità dovrebbe essere illegale quando non c’è nessuno con cui puoi condividerlo.
Titolo originale: id.
Autrice: Cynical_Terror.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Tom.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, Incest, Language, Lemon, Slash, Traduzione.
- E' partito tutto con uno scherzo. Ma non sta ridendo più nessuno.
Note: WIP.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
INVITATION
Capitolo 1

Bill siede da solo nella propria camera d’albergo, arricciato sul letto con addosso solo il pigiama, e fissa con aria assente il televisore.
- Sono solo, grandioso… - mugugna, raccogliendo l’orlo del pantaloni che usa per dormire. L’hanno lasciato di nuovo lì, o meglio, è stato lui a rifiutare di uscire con loro. Si sente come una pezza usata, lo sa perfettamente, ed è stufo di discoteche, alcool e ragazze che si fanno carine solo per lui.
Avevano programmato di non uscire, quella sera. Avevano bisogno di un po’ di pausa dalla frenesia del tour, avevano semplicemente bisogno di un po’ di calma. Quella sarebbe stata la prima serata, dopo una settimana, in cui non ci si aspettava da loro che dovessero trovarsi da qualche parte. E, davvero, Bill era emozionato fin nel profondo dalla prospettiva di annoiarsi fino alle lacrime.
Avrebbero guardato un film e poi Tom aveva promesso che sarebbe rimasto un po’ con Bill per lavorare a qualche canzone. Bill aveva un sacco di idee, frasi e pezzetti di melodie che volteggiavano nella sua testa, ma non poteva fare niente senza che Tom rimanesse al suo fianco a provare accordi sulla chitarra.
Ma ovviamente, come al solito, niente era andato secondo i piani. Tom aveva incontrato una bionda sorprendentemente carina dopo il concerto. A Bill non era sembrata particolarmente diversa dalle altre, ma Tom aveva insistito col dire non avesse mai visto niente di simile. Lei era diversa, meravigliosa, e cazzo, lui aveva bisogno di una scopata. Ed aveva altre tre splendide amiche nel proprio appartamento, perché non organizzarsi per andare un po’ in giro per club, quella sera?
David aveva acconsentito, se non altro perché meritavano un po’ di libertà.
Bill sospira e fa zapping, fermandosi su una stupida commedia americana doppiata in tedesco. Osserva le loro bocche muoversi in maniera completamente diversa rispetto alle parole che sente.
Fare un giro dei club con un fratello sbronzo ed un gruppo di fangirl eccitate non era affatto l’idea che Bill aveva di una pausa. Preferisce di gran lunga restare seduto da solo nella propria camera, ed è esattamente ciò che sta facendo. E sono solo le dieci. Lo aspetta una lunga notte.
Normalmente, Bill sarebbe uscito con gli altri, avrebbe sorriso e si sarebbe ubriacato abbastanza da divertirsi un po’. Avrebbe fatto finta di ignorare il fatto che a Tom non fregava un cazzo del fatto lui ci fosse o meno. Non è mai stato bravo a fare da spalla, perciò Tom finisce sempre per fare coppia fissa con Georg, nei club, lasciando Bill e Gustav per i fatti loro.
- Mi sono rotto. – dice Bill. Dà un calcio al piccolo beauty case poggiato ai piedi del letto, e percepisce la propria frustrazione infiammarsi mentre la borsetta cade sul pavimento, spargendo intorno a sé il proprio contenuto. Si accovaccia sul materasso ed osserva il disastro. Fra le bottigliette di smalto e gli eyeliner sparpagliati per terra, c’è anche una piccola busta argentata, brillante del riflesso del televisore.
Sospira pesantemente mentre la fissa.
È stasera, giusto?, pensa, raggiungendola e trattenendola fra le dita. È indirizzata a lui, ma lui ha già capito molto più di quanto la busta in sé non dica. È tutto uno scherzo. La apre, per tirarne fuori il piccolo invito di compleanno.
- Ventotto settembre. – mormora, - Stasera.
È la festa per il compleanno di Bushido, e Bill è invitato.
- Naturalmente non mi ha invitato davvero.
L’invito era arrivato nella cassetta della posta più di una settimana prima, e s’erano fatti tutti una bella risata in proposito. Bushido continuava ad infastidire Bill da un sacco di tempo, ma era solo uno scherzo, anche se a Bill non sembrava poi così divertente. Tom aveva aperto la busta di fronte all’intera band, deridendo le poche frasi scritte a mano con le quali si richiedeva la presenza di Bill all’evento.
- Stupido Tom. – borbotta Bill, aggrottando le sopracciglia. Anche se Tom odia Bushido, lo odia davvero, deve essersi divertito un mondo a sbattergli tutta l’intera faccenda sul viso. Bill s’era sentito in imbarazzo già per l’invito, e s’era sentito ancora più a disagio perché, grazie a Tom, adesso tutti sapevano.
“Dovrei andarci solo per farlo arrabbiare”, pensa Bill. Ma ovviamente gli è stato impedito di muoversi. Come se ci avesse davvero pensato su, poi, come se…
- …avessi bisogno di farmi dire cosa posso o non posso fare. – ringhia ad alta voce. È improvvisamente furioso, e si alza in piedi, scavando sul fondo della valigia, incasinando la stanza mentre getta i vestiti qua e là sul pavimento. Riesce finalmente ad afferrare un paio di jeans ed un pullover nero a costine. Vestiti normali.
Li indossa, senza neanche starci a pensare mentre stende un po’ di trucco leggero; poco sugli occhi ed il lucidalabbra. Inforca un enorme paio di occhiali da sole, ridicoli per la notte, ma indispensabili, ed un morbido cappellino fatto a maglia sopra i capelli lisci. Getta un’occhiata a se stesso nello specchio e decide: è fottutamente bello, anche vestito così informalmente.
Senza pensare a ciò che sta facendo né a dove sta andando, chiama una macchina e sgattaiola dietro Saki all’ingresso dell’hotel. Lui non sembra neanche vederlo, è troppo impegnato a flirtare con la receptionist.
Bill accende una sigaretta proprio appena la BMW nera appare di fronte all’albergo. Lascia che l’autista scenda ed apra la portiera per lui, e gli passa il piccolo invito.
- Mi porti qui. – dice, salendo sulla macchina. All’interno, il fumo lo fa tossire, intrappolato sul lussuoso sedile posteriore. Attraverso il vetro oscurato che lo separa dell’autista, può ancora vedere l’invito argentato, tenuto su fra due dita per una breve ispezione. “Non pensare”, si dice mentre la macchina si mette in moto.
*
La macchina si ferma appena fuori dal club. C’è la fila, davanti alla porta d’ingresso, ed è lunga fino alla fine della strada. Bill deglutisce.
“Il programma è entrare, farmi scattare qualche foto, evitare Bushido e comportarmi esattamente come se non mi fossi mai divertito così tanto prima”, pensa. L’autista si gira e lo guarda attraverso il vetro.
- Chiamerò io. – dice Bill, - Qui faccio da solo.
Apre lo sportello e prova a respirare. È uscito da solo e, davvero, non dovrebbe essere così nervoso. Non c’è Tom, non c’è David e non c’è nessun’altro stronzo che possa permettersi di dirgli cosa fare.
E cosa dovrebbe fare adesso? È stato invitato e, che sia uno scherzo o meno, sa di essere in lista. China il capo: è nervoso; qualcuno potrebbe riconoscerlo. Si dirige verso l’inizio della fila.
Il buttafuori lo guarda dall’alto in basso.
- Invito? – chiede bruscamente.
Bill sorride, realizzando di aver lasciato la busta all’autista.
- Bill Kaulitz. – si limita a dire.
L’uomo inarca un sopracciglio e Bill abbassa lievemente gli occhiali. Gli occhi dell’altro si spalancano e la corda di velluto che blocca l’entrata viene spostata per lui.
- Da questa parte, Signore. – dice l’uomo, e Bill entra nel locale scuro, ridacchiando dentro di sé. È stato tutto molto semplice, ed in qualche modo si sente come un bimbo cattivo. Se solo gli altri sapessero dov’è… se solo lo sapesse Tom…
All’interno del club, Bill si sente quasi a casa. È uguale a qualsiasi altro club abbia frequentato di recente, scuro, rumoroso, pieno di corpi danzanti. Non riconosce nessuno nella folla, ed una sorta di eccitazione nervosa lo scuote tutto in un brivido. È davvero per conto proprio.
“È il momento di confondersi nella folla”, pensa. Confondersi nella folla è una parte del suo lavoro, è un professionista in questo. Scivola in mezzo alla calca, appare nelle foto, parla con qualche ragazza. Si sente uno scemo mentre stringe alla vita una ragazza e mentre ride assieme a lei, quando lei realizza chi è che la sta stringendo.
Firma un po’ di autografi, sbocconcella un po’ di stuzzichini e non gli importa affatto quando sempre più persone cominciano a notarlo. I fotografi all’interno del club, assoldati per documentare l’evento, si compiacciono enormemente di spingerlo a mettersi in posa per loro. Lui lo fa, sfila gli occhiali e il cappello e li ripone nella larga borsa che porta sulle spalle.
L’ultima cosa che poteva aspettarsi era di divertirsi, eppure sta succedendo. Prima ha individuato Bushido e la sua crew in un angolo della stanza, e tutto ciò che riesce a pensare è che, finché staranno lontani da lui, lui continuerà a divertirsi.
Dopo l’ennesimo incontro con una fangirl ridacchiante, Bill decide che ha bisogno di un drink. Si avvicina al bar, spintonando la folla ed atterrando finalmente di fronte al barista per ordinare un cosmopolitan. Mentre si appoggia al bancone, in attesa del proprio drink, qualcuno picchietta sulla sua spalla.
Si volta, ed i suoi occhi si allargano un po’. Riconosce quell’uomo immediatamente. È Chakuza, un amico di Bushido, che lo produce, in effetti.
- Cazzo, non posso crederci! – dice Chakuza.
Bill sorride.
- Uhm. Ciao.
Chakuza non sorride di rimando, e Bill si sente vagamente a disagio. È più alto di lui, ma si sente veramente minuscolo mentre Chakuza ghigna nella sua direzione.
- Cosa cazzo stai facendo qui? – chiede l’uomo.
- Io… - Bill arrossisce, - Non sono stato invitato?
- Era un fottuto scherzo! – dice Chakuza. Sta rendendo Bill nervoso, fissandolo direttamente negli occhi mentre gli parla. – Uno scherzo, no? E tu… e tu vieni sul serio?
- Be’, mi avete mandato un invito. – replica Bill.
Chakuza sta per dire qualcos’altro, qualcosa di spiacevole, Bill può quasi sentirlo, ma poi Bushido appare improvvisamente dietro di lui e lo spinge di lato. Bill resta a bocca aperta e lo fissa; si sente in trappola. Avrebbe dovuto sapere che non sarebbe mai riuscito ad evitare Bushido per tutta la sera. Avrebbe dovuto sapere che gli sarebbe toccato comunque almeno parlargli.
Avrebbe preferito continuare ad avere a che fare con Chakuza.
- Stai indietro, Atze. – dice Bushido a Chakuza, il tono basso e profondo. Guarda Bill e solleva un sopracciglio, chiaramente divertito dalla sua presenza, - Non è passata l’ora di andare a letto?
- Non ho un orario per andare a letto. – scocca Bill, immediatamente infastidito dal tono conciliante dell’uomo.
Lui ghigna in risposta.
- Non mi hai portato un regalo? – Chakuza grugnisce in sottofondo, e Bushido si avvicina di più a Bill, - Mh?
Lui scrolla le spalle, rifiutandosi di indietreggiare mentre Bushido si avvicina ancora.
- Ti offrirò un drink.
- Open bar. – dice Bushido. – Che ne dici di regalarmi la tua compagnia?
Il suggerimento lo fa arrossire, e gli attorciglia lo stomaco in una maniera strana. Bushido odora di sigaro, alcool e muschio. Bill cerca di comportarsi come non si sentisse intimidito – ed invece lo è.
- Um. – è la sua risposta.
Non ha veramente una scelta. Bushido si allunga oltre la sua spalla, afferra il drink di Bill e lo accompagna verso il privè. Bill non può scappare, il braccio di Bushido pesa sopra la sua spalla e Chakuza gli cammina stretto a fianco dall’altro lato, intrappolandolo.
Il primo impulso appena si avvicina al tavolo è di voltarsi e fuggire via, ma Bushido urla agli altri di mettersi in piedi per lasciarlo passare. Bill china il capo e si precipita all’interno, senza riuscire ad ignorare le occhiate degli uomini che lo circondano.
Bushido lo segue, sedendoglisi accanto. Presenta Bill ed il suo drink, e Bill arrossisce follemente, all’improvviso consapevole di quanto femminile sia il proprio cocktail, soprattutto paragonato alle birre di tutti gli altri. Chakuza scivola al suo fianco, dall’altro lato, e Bill smette istantaneamente di pensare al proprio drink. Può sentire il respiro di quell’uomo sul collo, stanno tutti strettissimi attorno al tavolino.
- Signori, - dice Bushido, - Bill ha deciso di graziarci della propria presenza.
Allarga quelle braccia muscolose e ne avvolge una attorno alle spalle di Bill, che si tende mentre l’uomo lo stringe.
- Ovviamente non sa come interpretare gli scherzi. – dice Chakuza, stridulo. Gli altri ridono e Bill può solo stringersi nelle spalle, umiliato, e fissare il tavolo, ricoperto di cicche di sigarette, bicchieri vuoti, cellulari e, Bill nota, anche un po’ di preservativi ancora sigillati. Deglutisce pesantemente; perché ha dovuto fare il cretino e scappare dall’albergo?
- Ti stai divertendo? – chiede Chakuza.
Bill solleva appena il viso.
- Molto. – riesce a rispondere.
- Così circondato da maschi, non mi riesce difficile crederlo. – ribatte l’uomo.
Questo fa ridere l’intera tavolata, e Bill vorrebbe semplicemente arricciarsi in una palla e morire. Bushido grugnisce al suo fianco, palesemente poco compiaciuto da ciò che sta accadendo, e tutti smettono all’istante di ridere.
- Siate gentili col mio ospite. – dice serio.
Bill scuote il capo e cerca di sorridere.
- Sto bene.
- Assolutamente. – dice Bushido, lasciando finalmente la presa sulla sua spalla.
Chakuza batte il proprio bicchiere contro il tavolo, guardando Bill con occhi pieni di disgusto.
- Frocio. – sputa fuori, la sigaretta che si agita un po’ troppo vicina al viso di Bill. Lui semplicemente abbassa il capo.
- Porta il tuo “frocio” fuori di qui. – dice Bushido, strappandogli la sigaretta dalle mani. Chakuza lo fissa da sopra la testa di Bill, e c’è della tensione, Bill può sentirla. Bushido annuisce brevemente e Chakuza cede, corrucciato. Si mette in piedi e spinge chiunque stia sulla sua strada verso l’uscita del privè.
- Qualcun altro ha dei problemi? – chiede Bushido. Nessuno dice niente e Bill manda giù velocemente il proprio drink, solo per trovarsi qualcosa da fare.
- Al ragazzino serve un altro drink. – dice l’uomo che sta seduto adesso accanto a Bill, - Cosa bevi? – si mette subito in piedi, perciò Bill non può dire no.
- Um. Un Cosmo. – mormora.
- Un che?
Per qualche ragione, Bill è più imbarazzato adesso di quanto non sia stato per tutto il resto della serata.
- Prendigli uno shot. – dice Bushido, - Prendine per tutti, e dì al barista di continuare a mandarne.
L’uomo annuisce e Bill si schiarisce la gola.
- Non lo so… - mormora, allontanandosi lievemente da Bushido. Ha paura del calore che si sprigiona dal suo corpo. – Forse dovrei andare…
- Non puoi andartene adesso, non abbiamo ancora tagliato la torta! – dice un altro uomo.
Bushido sogghigna.
- Uno shot.
Bill sente un piccolo sorriso farsi strada sul proprio volto, e sospira.
- Okay, ma solo uno.
*
Un’ora dopo, Bill è completamente andato, del tutto fuori di sé. Lo sono tutti, in realtà, e Bill ha anche smesso di interessarsi di ciò che gli altri potrebbero pensare di lui. E comunque, sono stati tutti dannatamente gentili, da quando Chakuza è andato via.
Bill ride senza nessun motivo e si stende accanto a Bushido, rubando uno shot ad uno dei suoi nuovi amici, e quasi cade in grembo all’uomo mentre manda giù il drink. Non sa nemmeno cosa ha bevuto.
Bushido lo aiuta a tirarsi dritto e Bill scivola indietro contro il divano, ghignando.
- Il ragazzino continua a bere. – dice uno dei nuovi amici. Bill gli solleva contro il medio senza nessuna ragione e tutti ridono.
- Vi sta battendo tutti. – commenta Bushido, fumando il sigaro.
Bill si sente orgoglioso e, con aria presuntuosa, biascica “Voi tutti… mi fate una sega”.
Questa battuta si guadagna la risata più fragorosa della serata, e Bill sente perfino qualcuno battergli una pacca sulla spalla. Li ha fatti ubriacare tutti, li tiene per le palle, questo è certo. Sa di essere carino, sa come battere le ciglia ed anche come sporgere le labbra. Funziona sempre con le piccole fangirl che si presentano ai loro concerti, ed è eccitante sapere che funziona anche con uomini più maturi capaci di intimidirlo.
Si rimette seduto, guarda Bushido.
- Ehi. – dice, allungando una mano. – Dammelo. – vuole il sigaro di Bushido.
L’uomo lo allontana dalla bocca.
- Vuoi succhiare questo, mh?
Bill scopre che gli piacciono i riferimenti sessuali del discorso, lo fanno sentire accaldato, più caldo di quanto non riesca a farlo sentire l’alcool. Annuisce, la mano ancora tesa, ma Bushido la spinge via e mette da sé il sigaro sulle sue labbra.
All’inizio il sigaro si limita a colpire le labbra di Bill.
- Apri. – dice Bushido. Bill ride ed il sigaro s’infiltra nella sua bocca. Aspira profondamente, inspirando il fumo, e l’attimo dopo si ritrova piegato in due a tossire come se dovesse sputare i polmoni.
I ragazzi ridacchiano e Bushido tira indietro il sigaro.
- Non devi mandare giù. – lo rimprovera.
Gli occhi di Bill si riempiono di lacrime e lui si passa una mano sopra le labbra. Guarda in alto, oltre Bushido, e si accorge che Chakuza è tornato e sta in un angolo, accigliato.
- È ora di tagliare la torta. – annuncia. Guarda Bill, ma a Bill non potrebbe interessare di meno. Si appoggia contro la spalla di Bushido.
- Falla portare qui, stiamo comodi. – dice Bushido. Chakuza va via e torna qualche minuto dopo, mentre tutti i partecipanti alla festa si avvicinano e mettono via i propri drink per la torta.
Bill ricorda improvvisamente perché si trova lì. È il compleanno di Bushido. È in un locale con Bushido ed è per i fatti propri.
Sta diventando tutto confuso; vede le candele accese, osserva il fuoco macchiare la sua visuale. Vuole toccarlo. Presto si mettono tutti a cantare. Bill poggia la testa contro la spalla di Bushido e si unisce al coro. Canta più forte di tutti, ride mentre lo fa, e guarda Bushido soffiare sulle candeline e spegnerle tutte insieme.
Bushido soffia anche contro il suo collo, ed una delle sue mani gli stringe una coscia. Qualcosa che assomiglia molto al fuoco brucia la sua pelle dalla coscia allo stomaco.
Bill si china più vicino a Bushido, incapace di frenarsi. Il filtro fra giusto e sbagliato è scomparso, lavato via dall’alcool. Si sono sempre infastiditi a vicenda, c’è sempre stato uno strano modo di provarci, fra loro. È sempre stato lì. L’ha sempre fatto sentire a disagio, gli faceva sudare le mani, ma anche…
Si avvicina ancora e sussurra roco “Buon compleanno” direttamente contro il suo orecchio.
*
È molto tardi. Esausto, Bill guarda appena lo schermo del proprio cellulare, incapace di processare le informazioni che gli sta dando. Tom gli ha inviato più di dieci messaggi di testo e ne ha lasciato uno anche in segreteria. Il telefono continua a cinguettargli di controllare i messaggi.
Bill lo ripone nella borsa.
Scuote il capo, aguzzando la vista. È in una camera d’albergo, in un piccolo salotto. Si lascia andare contro lo schienale del divano; ci sono persone sulla soglia della stanza. Stanno andando via, salutando, abbracciandosi, alcune si baciano. Bill non ricorda com’è arrivato lì, ma non è molto spaventato.
La sua mente è del tutto alla deriva e si sente come stesse dormendo, può sentirsi affondare più in profondità in qualcosa di così pesante ed invitante. Ma poi qualcosa tocca il suo viso e lui apre gli occhi. È Bushido.
- Non ce l’hai una casa?
Bill ride.
- Nessuno mi vuole a casa.
Bushido rimane sospeso sopra di lui e per un secondo Bill pensa che sia pronto per girarsi e andarsene. Ma si siede accanto a lui, troppo vicino.
- Ah, sì? E pensi che qualcuno ti voglia qui? – Bill lascia ricadere il capo contro la sua spalla, - Mh?
Bill ride ancora, stavolta proprio sul suo collo.
- Ti ho portato un regalo. – biascica.
- Stai giocando con me, piccolo? – la voce di Bushido e un po’ divertita, un po’ cupa e inquisitoria.
Bill si arrabbia e lo scosta indietro, improvvisamente pieno d’emozioni ed energia.
- Non sono piccolo! – quasi grida. Bushido sembra troppo sorpreso per muoversi. Bill si sposta verso l’uomo più maturo, poggiandogli le mani sulle spalle. – Non sono piccolo. Vaffanculo. – inspira un po’ del profumo di Bushido e poi non può più fermarsi, pressa il naso contro il suo collo e, semplicemente, inala.
Bushido ringhia e lo rimette seduto.
- Piccolo. – sibila, scandendo bene ogni lettera. Gli si appoggia contro e Bill può sentire quanto lui sia grande. Non solo alto, è tutto il suo corpo ad essere fitto di muscoli, e forte. Il peso di Bushido è quasi insostenibile. Non c’è più nessun flirt, non è uno scherzo. Chi è che l’ha portato così lontano?
Bill trema e dice “no”, soffice come un respiro.
- No? – chiede Bushido. Lo sta deridendo, lo diverte spingerlo in questo modo. – Cos’è che mi hai regalato? – pressa con forza una mano sul suo inguine e stringe piano. Bill è già eccitato. – Questo?
Bill squittisce e chiude gli occhi.
- No.
- Io non sto giocando. – dice Bushido.
Bill si sente male, gli duole lo stomaco, e può ancora respirare il profumo di Bushido, può ancora sentire il suo calore. È eccitato e disgustato in egual misura mentre Bushido si pressa contro di lui, strofinandosi forte contro il suo petto ed il suo ventre. Il suo peso lo domina completamente.
Bushido lo afferra per i fianchi e Bill geme, cercando di spingerlo via. Non ha mai avuto nessuno così addosso, mai.
- Sai solo parlare. – dice Bushido, guardandolo dritto negli occhi. Il suo alito puzza di tequila.
- Tu mi vuoi. – sospira Bill. La stretta dell’uomo sui suoi fianchi si fa più forte, e Bill ansima. Cerca di sfuggire alla presa di Bushido, alla ricerca di un po’ d’aria e di una via di fuga da quel calore. Ma Bushido la pensa diversamente. Lo afferra, afferra i suoi polsi e lo tiene fermo. Bill gli scivola in grembo, aggrappandosi alle sue spalle.
Tutto il suo corpo impazzisce di calore quando sente l’erezione di Bushido contro il sedere. Senza pensare si muove contro il rigonfiamento nei suoi pantaloni, solo un po’, e Bushido lo spinge in avanti, stringendogli i polsi, facendogli male, e poi, finalmente, baciandolo.
Nessuno l’ha baciato in più di due anni, e tutto ciò che Bill può fare e affondare in quel bacio e mugolare. È un bacio duro, bagnato e doloroso. È tutto ciò che Bill non vuole, ma lo costringe a contorcersi in grembo a Bushido, come una puttana.
L’uomo lo allontana da sé e ringhia.
- Voglio scoparti.
Bill scuote il capo e Bushido lo bacia ancora, famelico. Bill ha paura, ma tutto ciò che fa è strusciarsi contro l’erezione di Bushido, sentendosela crescere fra le gambe. Annaspa, e le mani di Bushido scivolano lungo la sua schiena fino alle sue natiche.
- Hai paura? – chiede l’uomo, stringendone una fra le dita.
Bill scuote il capo, le labbra un po’ umide.
Bushido stringe ancora, un dito a scorrere lungo le pieghe, seguendo le cuciture dei pantaloni di Bill.
- Mmh. Stai tremando. L’hai mai preso prima?
Bill scuote nuovamente il capo, ridotto ormai ad un tremolante mucchietto d’ossa nel grembo di Bushido.
Lui ride.
- Sei completamente ubriaco, vero? Sì che lo sei. Dovrei approfittarmi di te, piccolo?
- Fottiti. – balbetta Bill.
Bushido risponde spostandosi su di lui. Bill sospira, improvvisamente colpito da un’idea. Dimenandosi, ritaglia una via di fuga oltre la stretta dell’uomo e rotola sul pavimento. Oscilla e poi si aggrappa alle ginocchia di Bushido, allontanandole l’una dall’altra. Bushido non oppone molta resistenza. Lascia che Bill gli cada fra le gambe. Lui si curva in avanti e posa una guancia contro il suo inguine. Volta il capo e si strofina contro di lui, compiaciuto del calore che se ne sprigiona e dalla sua durezza. Non pensa a cosa sta per fare. È passato direttamente dalla paura alla determinazione. Mostrerà esattamente a Bushido quanto è adulto e quanto capace può essere.
- Cazzo. – sibila Bushido. Bill si aggrappa alla lampo, tutto si sfuma e Bushido gli accarezza una guancia. Non riesce a far scendere la zip e grugnisce.
- Lo vuoi, vero? – chiede Bill, - Hai detto che lo volevi.
Bushido ride, ma la risata viene fuori strozzata. Prende Bill per i capelli e lo tiene fermo.
- Era uno scherzo.
- Non ti credo. – dice Bill. Stringe con più forza la zip, la forza verso il basso e poi pressa il viso contro i suoi boxer. Può sentire l’erezione bollente di Bushido attraverso il tessuto; è dura. Bill le lascia sopra un piccolo morso attraverso gli indumenti. Bushido impreca, la mano stretta con più forza sui suoi capelli, ma Bill è troppo ubriaco per sentire davvero dolore. – Vuoi che lo faccia?
Strofina le mani contro i fianchi dell’uomo e sfiora con le labbra il rigonfiamento al di sotto dei boxer.
- Posso farlo. – dice, - Se vuoi che lo faccia. – si china a succhiare distrattamente la punta della sua eccitazione e mugugna. Non ha neanche mai pensato di fare una cosa simile prima, e questo lo fa tremare. È troppo spaventato per tirare fuori il suo membro e succhiarlo davvero. In qualche modo, spera ancora sia tutto un gioco e che Bushido non scoprirà il suo bluff.
L’uomo lo allontana da sé e lascia andare i suoi capelli. I suoi occhi sono pericolosi; Bill lo osserva infilarsi una mano nei boxer e tirarne fuori il proprio cazzo, direttamente sulla sua faccia. Quella cosa è enorme, e Bill fa una smorfia. Bushido si limita a ridere, tenendo stretto il proprio pene fra le dita e spingendolo verso Bill.
Lui trasale, osservando il prepuzio che si tira indietro per mostrarne la testa già bagnata. Non può farlo. Non può.
- Prendilo in bocca. – ordina Bushido, - Cosa c’è? È troppo grande? Non sei abituato a vederne di queste dimensioni? Non ne hai mai succhiato uno prima, piccolo Bill? Mmh?
Bill chiude gli occhi e si spinge in avanti, le labbra a sfiorare appena la punta.
- No. – ammette, pressando le labbra contro di lui.
Bushido sbuffa e pressa due dita contro la sua fronte. Bill le può sentire lì, è come se cercassero di marchiarlo. Bushido spinge dolcemente e Bill squittisce – completamente fuori di sé a causa dell’alcool – prima di ricadere seduto indietro. Rotola su un fianco, abbracciandosi stretto, e tutto diventa scuro e silenzioso.
Bushido si china accanto a lui e solleva il suo corpo arreso. Bill non si sveglia e Bushido lo rimette disteso sul divano.
- Stupido ragazzino. – mormora prima di lasciare la stanza.

Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Death, Slash (accennato).
- "La sinfonia distorta di un omicidio."
Note: EmotivamenteDistrutta!Liz. Buonasera, signore care T_T Prima di tutto: io spero tanto che questa Saga non vi stia venendo a noia, per due motivi, uno stupido ed uno intelligente; quello stupido è che per ora mi va di scrivere solo questo, quindi, se non vi interessa, non leggerete più niente di mio per un sacco di tempo XD *minaccia gratuita* Il motivo intelligente, invece, è che questa trama è bellissima. Io e Tab abbiamo scelto il modo più difficile per portarla avanti – in un puzzle di POV che si completano e si sovrappongono lasciando sempre il dubbio sulla verità, visto che sono comunque le opinioni e i modi di vedere le cose dei personaggi – ma speriamo tanto che vi stiate affezionando. Noi siamo oltre il limite legalmente consentito di auto-amore, comunque XD Fra poco ci arresteranno.
Ho aspettato tanto a scrivere questa shot, volevo farmi di Fler un’idea più chiara possibile. L’ho plottata quasi tutta in una notte di agonia da febbre e mal di stomaco. Non so se si veda, ma l’ho anche scritta tutta il giorno seguente, con un mal di testa ed un mal di stomaco perforanti XD Sono sopravvissuta, comunque – io, almeno.
Un grazie enorme a Tab perché c’è stata dall’inizio alla fine e mi ha rassicurata tantissimo.
Io, comunque, amo Fler.
E adesso come la mettiamo, col mistero della morte di Anis? :3
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VERRÄTER

A quattordici anni, quando non hai un padre, la prima cosa che fai è cercartelo. Sei piccolo e stupido, perciò non pensi; l’unica cosa che vuoi è avere un figo davanti agli occhi e dirti “Cazzo, sì, è così che voglio essere quando sarò cresciuto. Esattamente così”.
Il primo padre che mi sono scelto era un coglione di dimensioni notevoli. Era sempre completamente fatto, l’unica cosa buona che si potesse dire di lui era che aveva un talento mica male per la… scrittura artistica, se così si può dire. È stato lui a mettermi la prima bomboletta spray in mano ed a mostrarmi come, dove e quando usarla.
E così sono finito di fronte al tribunale minorile.
Di quel giorno ricordo solo mia madre piangere sul più grande errore della sua vita ed il sollievo che provai quando il giudice mi condannò a sei mesi di servizio sociale.
Per la verità era anche ironico trovarsi a coprire il proprio stesso nome con la vernice bianca per le strade. Avevo scritto un enorme “Patrick” sul muro che delimitava il campo giochi di un asilo, ed era una scritta coi controcoglioni, azzurra e gialla, stupenda. Il pensiero di trovarmi di nuovo di fronte a quella scritta con l’obbligo di cancellarla mi dava i brividi, ma non erano brividi del tutto spiacevoli.
Annulli il passato e ti muovi verso il futuro. O qualcosa di simile.
Comunque sia, quando mi ripresentai ai servizi sociali per ricevere l’attrezzatura, i permessi e sapere chi avrebbe condiviso lo strazio con me per quel periodo di tempo, avevo rinunciato all’idea di cercarmi un nuovo padre. In qualche modo, pensavo, se non ce l’hai non ti serve.
E poi lo vidi.
Anis, tanto per cominciare, sembrava più grande di tutti gli altri. Forse perché era già così alto, così scuro, e l’atteggiamento era di quelli tipici di chi ti fa sapere senza dirtelo che è una persona pericolosa, e che perciò ti conviene stare alla larga se non vuoi trovarti coinvolto in qualcosa di brutto.
L’assistente sociale me lo indicò con un cenno del capo. Stava seduto su una sedia di plastica gialla, un piede sollevato sul sedile, la posizione svaccata di chi ha già vissuto troppo per badare alla buona educazione ed uno stecchino immobile fra le labbra.
La stanza era piena di ragazzetti ricoperti di piercing e bianchi come il latte, che si facevano fighi fra loro parlando delle loro ultime meravigliose imprese – tipo entrare nella casa del vicino per mettergli paura e rubare qualche centinaio di marchi – e che a causa di ciò avrebbero passato i prossimi mesi a portare il pranzo e la cena ai vecchi del quartiere.
Anis restava immobile. Nessuno gli rivolgeva la parola e la cosa non sembrava turbarlo.
- Ehi. – lo avvicinai, cercando di mostrarmi tosto quanto lui, - Sembra che dovremo farla insieme, questa cosa.
Lui mi lanciò un’occhiata assolutamente incomprensibile, sfilando lo stecchino di bocca senza neanche cambiare posizione.
- Tu che hai fatto? – chiese con una certa curiosità.
- Eh? – chiesi di rimando io, lasciando ricadere la mano che gli avevo porto e che lui, ne sono sicuro, non aveva pensato di stringere nemmeno per un secondo.
Anis rise.
- Come mai sei finito qui? – precisò, alzandosi lentamente in piedi.
Mi superava in altezza almeno di una ventina di centimetri. Era disturbante.
- Sono un tagger. – risposi con un certo orgoglio.
Lui non si scompose.
- E basta?
E a me diede i brividi.
Quella fu la nostra prima conversazione. Da quel momento in poi, Anis passò la sua intera esistenza a sfottermi.
So che può sembrare allucinante da dire così, ma io mi adattai subito. Voglio dire, mi adattai quando mi disse che lui era finito in galera perché spacciava. Io, che mi sentivo tanto figo ad andare in giro scrivendo il mio stupido nome sui muri di Tempelhof, mi sentii improvvisamente, oltre che scemo, anche puro come un neonato. Quello spacciava, cazzo. E gli spacciatori lo sapevamo tutti, com’erano. Non erano come noi, che giravamo col serramanico in tasca solo perché faceva figo. Loro lo usavano, il fottuto serramanico.
Mi sfotteva per il mio nome, mi sfotteva per il mio stile, perché ero troppo bianco, perché non avevo ancora mai accoltellato nessuno, mi sfotteva di continuo. Io gli davo del coglione ed ogni tanto un pugno sulla spalla o sul petto, ma Anis sembrava di ferro, cazzo. Incassava senza muoversi. E rideva. Di continuo. Di me e di qualsiasi altra cosa.
Non decidemmo noi di chiamarci Frank White e Sonny Black. Lui l’avevano già soprannominato così da tempo, come il capomafia, perché aveva tutto un suo giro di gente che già gli pendeva dalle labbra – ed aveva solo diciassette anni, cazzo, quando si dice il potenziale – perciò quando cominciai a farmi vedere sempre al suo fianco ai ragazzi venne naturale darmi del Frank White.
Anis mi sfotteva anche per quello.
- Lo sai chi è Frank White?
- No.
- Ma l’hai mai visto King of New York?
- No.
E giù risate.
- C’è questo qui, - mi spiegò, - che è Cristopher Walken, l’attore, dico, ma nel film è il signore della droga di New York. Uno cazzuto. Tu non ti sai neanche preparare gli spinelli.
Altre risate.
- E come finisce questo? – chiesi io, sbuffando, - Conquista l’America e diventa presidente?
- Ci prova. – rise lui, - Ma finisce morto ammazzato. Ovviamente. – un sospiro, - Perché, come pensi che finiremo noialtri?
Non mi spaventò, perché da quando andavo in giro con lui il pensiero della morte era molto meno spaventoso di prima. Voglio dire, puoi avere paura le prime due, tre volte che ti puntano un coltello alla gola. Ma quando la scampi – quando cominci a scamparla puntualmente – il brivido lo perdi. Ti riempi un po’ di stupido orgoglio e un po’ di presunzione, e ti ficchi in testa che morirai solo quando lo deciderai tu, perché fino a quando hai voglia di lottare puoi sempre tirare fuori un coltello più grosso o un calcio meglio assestato.
Però la sua rassegnazione aveva un che di deprimente.
Lui era in assoluto il più forte del quartiere, non avrebbe dovuto avere paura di nessuno. Eppure conosceva perfettamente la propria situazione e sapeva esattamente cosa aspettarsi dalla vita.
Era triste, in qualche modo.
- Comunque, sta’ tranquillo. – mi disse quel giorno, lanciandomi una pacca tale sulla spalla che io quasi caddi dal muretto sul quale c’eravamo arrampicati, - Prima di morire, altro che Re di New York. Io diventerò il Re dei Re.
Sul muretto, sotto di noi, avevamo appena finito di scrivere “King of Kingz”. Avevo eseguito gli ordini senza capire. Era un bel lavoro.
Scoppiai a ridere. Lui con me.
Decisi ciò che volevo essere. Uno di quei kingz ai quali lui avrebbe dato ordini. Era tutto ciò che volessi dalla vita.
*
Io lo so, cosa credono tutti. Io so tutto perfettamente. Perché Bushido mi ha chiamato traditore per anni, ma lui è così, ha un modo proprio di vedere la vita che, anche quando cozza contro la realtà, non cambia di un millimetro. Io non ho tradito proprio nessuno. Se qui qualcuno ha tradito qualcosa, quel qualcuno è Bushido e quel qualcosa siamo noi. Sono io. È ciò che c’era, ciò che sognavamo insieme.
Per la verità ogni tanto sospetto lui non abbia mai sognato in coppia con nessuno. Quando lui parlava di Re dei Re, non lo faceva come per dire “io sto sopra ma anche voi non siete malaccio, vi porto con me con piacere”. No, l’intento era un altro.
Stare sopra. Sopra tutti. Sopra tutto.
Io non ho tradito proprio nessuno. Quando siamo entrati all’Aggro Berlin, l’abbiamo fatto insieme. Quando abbiamo cambiato nome, l’abbiamo fatto insieme. Quando è uscito King Of Kingz, io ero lì. Ero in tutte le tracce. Ero nei sampler ed ero con Bushido quando Sido non gli avrebbe dato un centesimo.
Poi Bushido ha cominciato a fare i soldi. Quelli veri. Quelli che perfino Sido gli invidiava.
Chi è il traditore se, quando le cose cominciano a girarti bene, prendi e te ne vai?
Il traditore sei tu che sei andato via, o quelli che restano e che cominciano ad odiarti?
Bushido ha le idee chiare in merito. Tradisce chi resta ed odia. Chi non riesce proprio a dimenticarsi un vecchio sogno, e ci resta aggrappato con tutte le proprie forze.
Anche io ho le idee chiare in merito. Tradisce chi va via. Chi, quel sogno, lo prende e lo calpesta senza pensarci su neanche mezza volta.
In questi mesi, sia io che lui non abbiamo fatto altro che ribadire costantemente le nostre idee. Spalandoci merda addosso a vicenda. Per quanto inutile possa sembrare come modo di condurre un litigio, in realtà non abbiamo fatto altro che preparare questo giorno.
Tu non puoi adorare qualcuno e poi ficcargli un coltello nello stomaco da un giorno all’altro.
Hai bisogno di una scusa. E come scusa non basta che quella persona ti molli nella merda. Noi abbiamo avuto bisogno di lunghi mesi di diffamazione. Di dircelo in pubblico, cosa pensavamo l’uno dell’altro. Di far sapere al mondo che ora ad unirci c’era solo l’odio.
E così, giorno dopo giorno, abbiamo costruito le basi per stanotte. Offesa dopo offesa, insulto dopo insulto.
Sido pianta il freno e si lascia andare contro il sedile.
- Era qui? – chiede disinteressato. È chiaro che vorrebbe trovarsi da tutt’altra parte.
Sido ha una moglie ed una figlia. Sido è un rapper, non un criminale. Sido, con tutto questo, non c’entra niente.
- Sì. – rispondo, aprendo lo sportello, - Puoi andartene. Non c’è bisogno che resti.
Lui sospira.
- Fler, io lo voglio morto almeno quanto te. – borbotta, fissandomi con l’espressione tipica di quando vuole farmi una paternale, - Però non mi pare il caso… avanti, che ne sai che non ti si presenta con tutta la crew e ti lascia bucato come groviera sull’asfalto?
Scuoto il capo. Non può proprio capire.
- È una cosa fra me e lui. Bushido sarà di parola.
- Sì. – sospira esasperato, - Di solito lo è, eh?
Ghigno. Punto per lui.
Bushido è scorretto con chi non ritiene degno della sua onestà.
E sono in pochi.
Io, forse, avanzo delle pretese che non merito, ma voglio fidarmi. Stavolta voglio farlo.
- Non ti preoccupare, stanotte non crepo di certo. – butto lì, più per rassicurare me stesso che non per rassicurare lui. In realtà, ciò che rende questo buio così scuro, questa luna così brillante e queste strade così silenziose è proprio il brivido dell’incertezza.
Io non ho nessuna garanzia di sopravvivenza, perché la persona che un tempo mi difendeva oggi mi affronterà con una pistola in mano.
Io non ho nessuna garanzia di sopravvivenza anche perché tutto ciò cui ho potuto pensare in questi ultimi anni si condensa in stanotte. Tutti i miei obiettivi sono qui. Tutte le mie ossessioni, oggi finiranno.
La mia più grande ossessione. Me la troverò faccia a faccia in un vicolo vuoto. E toccherà a me ucciderla. O esserne ucciso.
Quando la mia ossessione arriva, mi trova seduto su un lastrone di cemento. Svaccato e perfettamente a mio agio. Per qualche secondo spero che questo possa servire a ricordargli due ragazzini in un tribunale minorile che aspettano i rulli, le tute e la vernice bianca.
M’illudo, lo so.
- Fler. – mi saluta con un cenno del capo. Io sollevo solo il mento.
- La puttanella l’hai lasciata a casa? – ghigno cattivo, mettendomi in piedi.
Lui non fa una piega. Non si muove. Neanche si offende, lo stronzo.
- Questa è una cosa tra me e te, Atze. – mi dice.
Il moto di stizza mi porta a serrare i pugni. Gli darei un cazzotto qui ed ora, senza pensarci. Ma non è il momento.
- Non chiamarmi Atze. Per me tu non sei più niente. – e sputo in terra. Sputo in terra perché lui è qui e può vederlo. Che ciò che eravamo era perfetto. E ciò che siamo adesso fa schifo.
Sputo su ciò che siamo. Sputo perché odio ciò che siamo. E perché stanotte lo ucciderò.
Lui sospira ed abbassa lievemente lo sguardo. Posso leggere perfettamente, al di là dei suoi occhi scuri come il petrolio, che sta cercando una via. Un modo per farmi ragionare, per convincermi a rivedere la mia posizione.
Questo atteggiamento un po’ mi indispone ed un po’ mi fa ridere. Bushido non è abituato a convincere gli altri con le parole. Bushido le impone, le cose. Come ha imposto la sua fidanzata nel mondo del rap tedesco, come ha imposto i propri soldi sulla giustizia austriaca quando ne ha avuto bisogno, come ha imposto se stesso su un mercato che non credeva di avere bisogno di un tunisino incazzato col mondo e pronto a sputare in faccia alla Germania per farle vedere tutte le sue brutture.
Bushido convince così, imponendosi. Ed il rap tedesco ha dovuto accettare Bill Kaulitz. E l’Austria ha dovuto chinare il capo. E la Germania ha capito che non aspettava altri che quel tunisino.
Però, con me vuole parlare.
- Fler, ascoltami. – dice a bassa voce, mettendo quasi le mani avanti, - Non abbiamo bisogno di questo.
- Quando mi interesserà sapere cosa pensi riguardo ciò di cui ho bisogno, te lo chiederò. Fino ad allora, tappa quella fottuta bocca e comportati da uomo, non da frocio accomodante.
Anche perché non lo sai, di cosa ho bisogno. Non più.
Infilo una mano in tasca. Il coltello arriva subito, neanche l’avessi chiamato. Forse lo stavo facendo. Comincio a girargli intorno come un predatore, fissandolo negli occhi.
- Cazzo. – dice lui. È frustrato. È deluso. È arrabbiato.
Ha paura.
Gli salto addosso. Non gli lascio neanche il tempo di guardarsi intorno, lo getto a terra e lo spingo sul marciapiedi con tutto il peso del mio corpo. Mi sfugge, il bastardo – ci tiene alla pelle, si vede. È cambiato anche in questo. Rotola su un fianco, io mi sollevo sulle ginocchia e lo attacco ancora, puntandolo col coltello. Ghigno, perché non è riuscito a recuperare il suo. Cerca di tenermi lontano a mani nude, ma io ho la lama. Io taglio.
Sono il traditore e faccio più male di te.
Sono il tradito, ed odio molto di più.
- Fler, piantala! – ringhia, mentre cerca di tenermi stretto per i polsi.
Forzo la sua stretta. È sempre dannatamente potente. Mi fa un male cane. Vorrei ficcargli questo coltello nella gola e risolvere il problema, ma non so se ne sarei veramente capace. Probabilmente, se mi lasciasse andare, mi fermerei.
- Vaffanculo, Anis. – digrigno i denti e gli sono così vicino che mi sento addosso il suo fiato. Ed è orribile, è tremendo, mi fa pensare cose che non dovrei, mi fa ricordare cose che non dovrei, cose che toglierebbero a chiunque la voglia di ammazzare chicchessia, pomeriggi noiosi passati a tirare le pietre nel canale, notti adrenaliniche e silenziose per fare la posta a questo o a quel debitore insolvente, fargli il palo mentre sgattaiola silenzioso fuori dal letto di una donna non sua ma che s’è preso lo stesso, ed io c’ero, io ero lì, ero davanti al suo sorriso e al suo “grazie, Atze, ti devo un favore”. E quanti favori mi devi, adesso? Te li inciderei tutti sulla pelle, Anis, uno dopo l’altro. Ma non so se ne ho davvero la forza.
Grido, rotoliamo sul marciapiedi, la felpa gli si strappa, io mi distraggo e ricevo in cambio una gomitata fra le costole che mi mozza il fiato. Cerca di riprendersi, lo stronzo, di recuperare il solito coltellino sul fondo della tasca dei jeans, ma non posso lasciarglielo fare.
Lo afferro per la gola. Stringo forte e premo fino a farmi sentire sottopelle. Fino a lasciargli addosso l’impronta delle mie dita, che poi è l’unica impronta che possa lasciargli, oltre allo strappo di una coltellata o al foro di una pallottola.
Lo sento che cede. Lo sento che smette di crederci. Lo sento e gli leggo negli occhi – annebbiati, confusi, tristi? – gli stessi sentimenti che agitavano me quando ha mollato l’Aggro Berlin. Quando mi è passato davanti come se, dentro di lui, di me fosse rimasto solo un ricordo sbiadito. Mi ha guardato sorridendo, mi ha detto “Non arrenderti”, ed io ho pensato “Allora è così che finisce, coi sogni? Ti esplodono dentro e ti lasciano devastato come neanche dopo una guerra, ma da fuori non si vede? È questo tutto quello che resta, una traccia invisibile?”.
E perciò gli faccio il verso.
Gli faccio il verso perché anche di lui resterà solo una traccia invisibile.
- Non ti arrendere. – sibilo, - Non ti arrendere… Bushido.
Ed io non so se è stata una distrazione o se in qualche modo volevo che recuperasse quel fottuto coltello e lo usasse contro di me, ma tutto quello che sento è un dolore acuto e forte sulla coscia, una quindicina di centimetri sopra il ginocchio.
Mentre grido e mi sposto di lato, tocco la ferita e sento il sangue. E penso che è giusto così. Che ce ne ha messo, di tempo, per farmi sanguinare. Ma alla fine è la cosa più giusta, perché io in realtà sanguino da anni, il problema è che il sangue non riusciva a venire fuori. Ed ora è ovunque – sulle mie mani, sui miei vestiti, sul marciapiedi. Ed è giusto così.
Ma manca ancora qualcosa.
- Chiudiamola qui. – ansima lui, tirandosi indietro.
No, non la chiudiamo qui. Manca qualcosa. Ora la sua traccia io ce l’ho addosso. Manca la mia su di lui.
- Col cazzo! – mi slancio in avanti e lo sbatto contro un muro.
Prima un calcio nelle palle, stronzo, così impari ad andare col primo fighetto di turno fottendotene perfino di ciò che sei.
E poi la coltellata. Il mio marchio. Avrei voluto piantartelo nel cuore, lo sai? Però è vero, non ci riesco.
Forse volevo solo il tuo sangue addosso. E non come le mille volte in cui sono andato recuperandoti per le strade dopo una rissa o un regolamento di conti, no. Volevo essere io a ferirti.
Sulle mie mani, il nostro sangue si mescola.
Ora siamo davvero fratelli. Ironia della sorte.
E mentre io sento il tepore del suo sangue sui polpastrelli, lo sente anche lui, scendere silenzioso lungo il braccio. E ne ha davvero paura. Sangue significa che puoi morire. Paura significa che hai qualcuno che ti aspetta.
Bushido non vorrebbe davvero essere qui.
Bushido ha qualcuno che lo aspetta.
Bushido non è più un criminale e nemmeno un rapper.
Bushido non ha più niente a che vedere con me.
Cerco ancora di schiacciarlo contro il muro, ma c’è qualcosa che non va. Si riprende. Mi tira nello stomaco un calcio tale che mi viene da vomitare. Mi allontano e ricevo come ringraziamento due cazzotti che mi fanno vedere doppio. Cado a terra. Mi fa male la gamba ed anche tutto il resto del corpo. Il coltellino è volato via. Lo vedo ad un metro circa da me, mi basterebbe allungare un braccio e recuperarlo, ma nonostante la ferita Bushido è più veloce. Lo scalcia lontano, ed io non lo vedo più.
La sua voce mi raggiunge alle spalle.
- La chiudiamo qui.
È netta e cupa.
È dolorosa.
È stupido, ma non ho più voglia di lottare. Lo ascolto allontanarsi e non mi muovo più.
*
Terremoto.
No. Mani. Mi scuotono.
- ‘ca puttana, Fler, riprenditi.
La voce. È Sido.
Apro gli occhi.
- Cazzo. – continua lui, - Cazzo. Sei ferito.
- Sì… lo so da me, grazie. – ansimo, cercando di rimettermi quantomeno seduto.
- È profonda?
Lancio un’occhiata alla mia gamba. Ovviamente non posso guardare attraverso i jeans, ma quello che sento lo so benissimo.
- Ho visto di peggio. – mormoro, mentre lui mi aiuta ad alzarmi, - Tranquillo. Te l’ho detto che non crepo, stanotte.
- Sì, certo. – borbotta Sido, tirandomi in piedi, - Ce la fai a reggerti?
Mi allontano da lui e ci provo. Annuisco.
- Perfetto. Allora vieni in macchina, ti porto all’ospedale.
Rifletto.
- Ho da fare.
- ‘Cazzo hai da fare, Fler, hai un buco in una gamba! – mi rimprovera lui, evidentemente esasperato dalla situazione. Per un attimo mi dispiace. Se sono rimasto lì arrotolato per terra non era per il dolore alla gamba. Era per il dolore a tutto il resto. Mi dispiace che si sia preoccupato per qualcosa di così stupido, Sido non merita niente del genere. Lui è un uomo d’affari ed un cantante. Non merita questo.
- Ho un conto da regolare. – spiego, il più pacatamente possibile, - E se non lo risolvo stanotte, non lo risolvo più.
C’è assolutamente qualcosa che devo dire ad Anis.
A me basta così. Io sono stato abbastanza male. Anche lui. Possiamo… siamo pari. Lo siamo davvero.
- Mi sono rotto i coglioni. – risponde Sido in un ringhio di frustrazione. Poi sospira. – Dov’è che devo portarti?
Gli sollevo addosso un’occhiata incredula.
- Come, scusa?
- Sei ferito ad una gamba. Prima risolviamo qui, prima ti porto all’ospedale. – ragiona nervosamente, - Devo ricordarti che sei la punta di diamante dell’Aggro Berlin? – chiede poi con un cipiglio dittatoriale che è ciò che ha permesso a questa sua faccia da nerd di sopravvivere nonostante tutto in questo mondo assurdo. – E certi legami contano sempre, Atze. – aggiunge poi, - Perciò, dimmi dove devo portarti.
Mi viene un po’ da ridere e lo seguo fino alla BMW. So esattamente dov’è andato Anis. So anche come raggiungerlo, il posto, perché una cosa non è riuscito a farla, ed è stato tenere nascosto l’indirizzo di casa sua. Cose che capitano, quando la tua fidanzata campeggia sulla copertina di Bravo una volta ogni due settimane. Qualcuno fa una foto e tu casualmente riconosci il quartiere e magari anche il palazzo.
Indico a Sido dove andare e, quando ci arriviamo, mi faccio lasciare a qualche metro dalla traversa giusta.
- Aspetta qui. – dico piano.
Lui non risponde, spegne il motore, le luci ed accende la radio.
Io mi muovo piano. La gamba mi fa un cazzo di male, ma non è il momento di pensarci. Il palazzo lo riconosco subito. Sto qui che cerco di capire se posso suonare il campanello o qualcosa del genere, ed oltretutto mi chiedo se conosco davvero Bushido al punto da indovinare le sue mosse – non è mica detto sia qui, in fondo – quando sento qualcosa che mi confonde.
Mi confonde perché è il nostro fischio. Ma non è Bushido a farlo, perché lo riconoscerei. E non sono nemmeno io. Posso esserne ragionevolmente certo.
Non so chi è che abbia fischiato, ma non avrebbe dovuto farlo.
Sollevo lo sguardo sul palazzo e vedo una figura scura affacciarsi ad una delle finestre. È lui. Lo vedo. Lo saprei anche se non lo vedessi. Mi guarda, lo guardo, non capisco cosa sta succedendo. Vorrei avvertirlo, c’è qualcosa che non mi torna. Vorrei dirgli che siamo a posto, più di ogni altra cosa.
Siamo a posto, Atze.

.....Denn eine Kugel reicht

- Cazzo è successo?! – è la prima voce che sento. Ed è Sido che, evidentemente, m’ha seguito. – Fler!
- Non sono stato io! – urlo a mia volta, agitato. Al primo sparo si sovrappone il secondo. L’eco dal primo non s’è ancora spenta nel vicolo vuoto. Si aggiunge un urlo. È la voce di Kaulitz. Passi. Non so di chi. Luci che si accendono, qualche cane che abbaia.
La sinfonia distorta di un omicidio.
Sollevo lo sguardo sulla finestra, che è ancora buia, ma non c’è più nessuna sagoma. Siamo solo io e Sido in un fottuto vicolo deserto, e questo è molto male.
Sido mi tira via.
- Vieni, porca troia! Merda… - mormora furioso, - Merda, siamo nella merda…
Ed io penso che è vero.
Fisso la finestra. Non urla più nessuno.
Cominciano a sentirsi le voci delle altre persone, però. Fra poco qui sarà un disastro, ed io so esattamente con chi se la prenderà l’universo intero quando Bushido sarà morto.
…la mia ossessione è morta.
Ed io non posso prendermela neanche con me stesso.
*
L’ultima settimana della mia vita è stata in assoluto la peggiore. Non mi hanno neanche lasciato il tempo di soffrire in pace. E questo, per uno come me – che s’è crogiolato nel dolore e nel risentimento per anni, prima di decidersi a farne qualcosa – è stato tremendo. Ho risposto a non so quante domande. Sido ha continuato a rimproverarmi per ore, ed io mi sono sentito molto un bambino. Molto stupido.
Stavo molto male.
Ecco tutto.
Ma sono qui. Sono qui perché c’è anche lui, qui. È dentro una bara e non può sentirmi, ma cazzo, mi ha visto, prima di morire. E quindi io dovevo esserci. Anche se forse non sono abbastanza uomo da farmi vedere – perché non hanno potuto incriminarmi, visto che la mia pistola non ha sparato, ma l’ersguterjunge non ha bisogno di documenti ufficiali per sapere su chi gettare il biasimo di questa morte.
Solo che no, non sono stato io.
Io non volevo neanche.
La signora Luise piange rumorosamente. Abbraccia Saad, che la sostiene come un cavaliere, fissando gelido di fronte a sé. La signora Luise mi fa una pena infinita.
La signora Luise probabilmente adesso mi odia, anche se è l’unica donna oltre mia madre che ricordi la mia data di nascita, e questo perché le feste di compleanno le ho organizzate a casa sua per anni, prima di entrare all’Aggro Berlin con Anis.
Prima di diventare grande.
Troppo grande.
Mi mancano, quei pomeriggi.
Sto molto male, vaffanculo.
Sido è quasi in prima fila, in rappresentanza dell’Aggro Berlin. So che non vorrebbe essere qui, ma lui è uno responsabile, ed è uno con le palle, perciò s’è presentato. Davanti a tutti e senza chinare il capo, anche se, lo so, tutta l’ersguterjunge lo tratta come fosse un mandante o chissà che.
Tutte balle. Non so come faremo ad uscire da questa rete di stronzate.
Quando arriva la macchina nera che accompagna Kaulitz, ce ne accorgiamo tutti. Si irrigidiscono tutti. È una sensazione che rende elettrica l’aria, ed arriva fino a me, che sono nascosto dietro una stupida enorme tomba di famiglia a metri e metri di distanza.
Lo osservo scendere dalla macchina. È in nero, sembra minuscolo e stravolto. Mi fa pena anche lui. C’è il fratello, al suo fianco, ma resta in disparte. Lo vedo che gli stringe appena una spalla, come per consolarlo, e poi Kaulitz si muove da solo. La fidanzata che si cerca un posto.
Fosse stato davvero una donna, la donna di Anis, l’avrebbero lasciato passare con tutti gli onori. Ed invece guardalo, non lo lasciano nemmeno avvicinarsi. Deve andare a prenderlo Chakuza. Chakuza, Cristo santo. Non ha diritti, il ragazzino.
Saad s’irrigidisce e lascia la signora Luise alle cure della propria madre. Si allontana e poi lo perdo di vista. Non ci bado molto, osservo il prete che si lancia in un discorso privo del benché minimo senso, che Anis odierebbe. Cazzo, la saltavamo insieme, la messa della domenica. Ed in ogni caso lui era sempre troppo scuro per piacere alle brave famiglie che trovavamo fra le panche in chiesa.
Io mi appoggio contro la parete del mausoleo e mi viene un po’ da ridere.
Sarebbe una bella cosa, farsi una risata. Peccato io stia piangendo come non mi capitava da anni.
- Bella faccia tosta a presentarti qui.
Mi volto, accanto a me c’è Saad.
Non rispondo.
- Sappiamo tutti che sei stato tu.
- Allora sapete molto più di quanto non sappia io. – rispondo seccamente.
Faccio per voltarmi ed andarmene, perché questo confronto è proprio l’ultima cosa che voglio.
- Ti incastreremo. – dice lui, freddo e pratico.
Scrollo le spalle.
Saad non piange.
È tutto ciò che riesco a pensare.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Commedia, Romantico, Introspettivo.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash.
- "Cosa sto facendo? Non voglio veramente farlo."
Note: Sì, fa parte della saga ed è mia ma non c’è sesso XD Sono scioccata quanto voi. In realtà questa storia è nata davvero solo perché sia io che Tab volevamo vedere Bill alle prese con qualche disastro simile. È un Bill piuttosto tenero. E Bushido è tipo… la perfezione. *sguardo sognante* Tab l’ha odiato, continuava a dire che era felice morisse D: Ditele che è una donna orribile, mi raccomando.
E sì, lo so, Bill che parla della propria morte è ingiustamente è gratuitamente crudele. È Tab che mi insegna ad essere cattiva con le fangirl. Prendetevela con lei u.u
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NATURAL DISASTER

La casa di Anis mi ha sempre messo un po’ di paura.
Prima di tutto perché, oltre ad essere spaventosamente gialla, è anche spaventosamente grande. La odio proprio concettualmente, perché è una stupida casa da single straricco. Una casa da rimorchio, ecco. Quella che, quando la ragazza di turno si avvicina, provoca gridolini isterici e oh, mio dio, hai anche la terrazza? E me lo vedo lui, che sorride e risponde non è una terrazza, e poi le porta su, all’ultimo piano, e c’è la serra con il soffitto in vetro completamente apribile, come un’enorme finestra sul cielo.
No, dico, una serra.
Che se ne fa un rapper di una serra?
Neanche la cura lui!
Però gli piace, dice che dentro ci si trova bene e che ogni tanto gli piace fare crescere le cose. Vallo a capire.
Comunque sia, odio questa casa e ne ho pure paura. Poco da fare.
Ogni tanto, però, mi ritrovo a passarci giornate intere completamente da solo. Non è neanche così inusuale: ultimamente, poi, col fatto che passiamo a Berlino la quasi totalità del nostro tempo, è questione quasi quotidiana. Non ce la faccio a stare tutto il giorno appresso a Tom, non ce la faccio perché per Tom ogni occasione è buona per ricordarmi che odia il mio uomo ed odia il fatto che io ci stia insieme.
Visto che, per quanto mi riguarda, parlerei di Anis tutto il giorno, le occasioni per Tom si moltiplicano all’infinito, e la cosa è… frustrante.
Perciò, visto che non ci vuole niente ad afferrare Saki e strillare “scortami”, lo faccio spesso. Di solito qui c’è sempre Karima ad attendermi. Anche se ha sempre qualcosa da fare – e ci credo: questa casa è enorme e lei la governa praticamente da sola – trova sempre un po’ di tempo per farmi il tè al gelsomino, ed è una cosa fantastica. Anche perché di solito poi ci mettiamo a parlare e vengono fuori cose meravigliose tipo “quella volta che il signor Ferchichi si ritrovò un gatto in balcone e per poco non si ammazzò cadendo di sotto nel tentativo di recuperarlo prima che s’infilasse nella serra”, o altre amenità simili.
Il mio uomo, ovviamente, non si degna di farsi vedere prima delle otto di sera, minimo. Mi chiedo cosa se ne faccia di questa casa – cosa se ne faccia di tutti i suoi appartamenti, in genere – se poi ne usa solo le camere da letto, per dormire o altro, dipende. Dovrebbe imparare ad usare gli ambienti in maniera più creativa. Che so… dormire in salotto, o sul tavolo della cucina. Così tutte le stanze avrebbero un loro perché.
Oggi, quando sono arrivato, la casa era desolatamente vuota. Ho lasciato scivolare le chiavi sulla consolle all’ingresso, ho buttato in un angolo la borsa ed ho improvvisamente realizzato che è venerdì: ciò significa giornata libera di Karima e… per Anis non lo so, lui è sempre pieno di impegni, non ha un giorno libero neanche a pagarlo. Che poi lo pagano per tenersi impegnato, quindi mi pare pure normale.
Mi sono aggirato con aria da zombie per le stanze che conosco – vale a dire l’ingresso, il salotto e la cucina – poi sono andato a spalmarmi sul suo letto in camera, ho rotolato fra le lenzuola, ho disfatto tutto, combinato un casino epocale e poi, sorridendo come un bambino, sono tornato nella sala e mi sono gettato sul divano a peso morto, andando alla ricerca del telecomando per accendere la tv e vedere se per caso beccavo qualcosa di interessante – lui. Me. Nena. E così via.
Alla fine, mi sono rassegnato. Il vuoto regnava incontrastato ovunque e l’unica cosa interessante che ho scoperto dalla televisione è che VIVA non ci passa più spesso quanto prima. In compenso, ha i Killerpilze in rotazione continua, e ciò è oltremodo irritante. Dovrò parlarne con David.
Rimango accucciato sul divano, le adidas a strisciare con una certa crudele lentezza sulla pelle nera e – precedentemente – immacolata del cuscino, e proprio quando mi sembra di cominciare a sentire le voci nella testa per la noia – tipo: c’è mio fratello che continua a ripetermi “te l’avevo detto, che ti avrebbe trascurato!” – ricordo un particolare fondamentale e importantissimo che potrebbe cambiare la mia giornata.
Ultimamente, Karima s’è fatta prendere da una certa mania salutista che non so sinceramente da chi abbia preso – posso solo pensare all’unica, singola e mai ripetuta volta in cui David è passato di qui per riportarmi a casa ed Anis l’ha invitato a restare per cena.
No, la cosa va raccontata. A parte il fatto che mi sono sentito enormemente orgoglioso del mio uomo, per come in due-sorrisi-due sia riuscito a stregare David al punto che dopo cena ha accettato anche di andarsene a mani vuote, cioè senza il sottoscritto. Ma poi quest’uomo che in teoria mi ha quasi cresciuto ha fatto in dieci minuti più capricci di quanti ne faccia io in una settimana intera. E non vuole mangiare carne, e la salsa è troppo piccante, e nella pasta non ci saranno mica dei fegatini, perché io non li posso mangiare!
Insomma, la povera Karima gli ha dato da mangiare una ciotola di biada, tipo, e lui le ha fatto un sorriso talmente enorme e grato che credo l’abbia turbata nel profondo.
Perciò ha deciso che in questa casa si mangia solo lattuga.
Ora, se qui ci vivesse David, la cosa sarebbe pacifica: lui e Karima continuerebbero a ruminare erbacce e si amerebbero per tutto ciò che resta delle loro vite. Purtroppo, però, in questa casa orribile ci vive Anis, che è tutto meno che vegetariano, e quando torna a casa in genere è così affamato che bisogna ringraziare non ci mangi me e la cameriera crudi e vestiti per come siamo.
Si può immaginare bene che per un uomo impegnato come lui tornare a casa e trovare una vasca di roba verdognola e umidiccia non sia esattamente il ritratto di una cena perfetta. Certe volte guarda Karima con occhio triste, chiedendosi dove sia finita la brava cuoca tunisina cipolla-friendly che credeva di conoscere.
E poi, una o due notti fa, me l’ha confessato. Stavamo arrotolati sul suo letto, io stavo cercando di convincerlo a scoparmi ancora ma con scarsi risultati – anche Anis ha i suoi limiti, c’è da dirlo – e lui ha grugnito un dissenso random e poi ha detto “Ho fame. Mi mangerei un vitello. Karima mi affama. Voglio del kebab”. Così, tutto di seguito. I punti neanche c’erano, li aggiungo io per facilità di pensiero, perché mi dà fastidio ammettere che qualcuno oltre me possa pensare senza punteggiatura.
Ed ecco che ogni mio problema si risolve. So cosa fare!
Balzo in piedi senza spaccarmi in due per un motivo che posso imputare solo al sacro fuoco dell’amore che mi sostiene – altrimenti la mia schiena non avrebbe retto, posso giurarlo – e mi fiondo in cucina. Questo posto che mi è totalmente alieno. Io non cucino mai. Io faccio cucinare mio fratello, e non perché sia bravo, ma perché non voglio prendermi responsabilità in questo senso.
Vengo colto da un momento di panico.
Cosa sto facendo? Non voglio veramente farlo.
Poi mi torna in mente il mio Bu senza virgole e con tanta fame e sospiro.
Dunque, il manuale delle ricette di Karima dev’essere qui da qualche parte. Lei lo tira fuori solo in occasioni speciali, per piatti inusuali o che comunque non prepara da tempo, ma fortunatamente ha appuntato anche un sacco di ricette più semplici, più che altro perché quando è solo Anis lo usa per cucinare le uova coi piselli in tegame, per dire. Ha bisogno delle spiegazioni passo dopo passo.
Mi guardo intorno. La mensola. Ci sono tutta una serie di gioiosi libri. Mi avvicino con aria sprezzante e godo internamente nel non aver bisogno dello sgabello su cui Karima si arrampica di continuo, per arrivare a vedere i titoli sulle costine. In mezzo a un sacco di roba inutile, una copertina in pelle marrone un po’ logora mi colpisce, ed io sorrido. Ecco qua la mia Bibbia per le prossime due ore.
Tiro giù il volume e lo apro sul tavolo con una certa sacralità. Non posso credere che ci sia la ricetta per il latte e biscotti – comprensiva di conteggio preciso dei secondi per i quali il singolo biscotto può stare a mollo senza sfaldarsi – o quella per montare la moka, eppure ci sono. Se non fosse ridicolo sarebbe tenero. Prendo nota mentalmente di sfottere Anis fino alla morte per tutto ciò e passo avanti.
La ricetta del kebab ovviamente c’è. È verso la fine – ricette di livello avanzato, leggo scritto sulla pagina che le precede – e già ad una prima occhiata so che non le sopravvivrò. Intanto, già qua mi dice che ho bisogno di una cinquantina di fette di carne. Ora, non esiste. Sarò già fortunato a trovarne due. Facciamo che cerco di moderare le quantità degli ingredienti, ecco.
Corro verso il frigorifero giallo come la casa che domina incontrastato la cucina dall’alto dei suoi quasi tre metri d’altezza, e mi fiondo nel reparto carne – che poi è un cassetto accanto al reparto salumi, che è un altro cassetto.
In effetti, sono piuttosto fortunato: ben tre bistecche attendono solo che io le trasformi in qualcosa di commestibile.
Per un attimo mi chiedo se le bistecche vadano bene, come tipo di carne. Non ne sono proprio sicuro, qua la figura – sì, ci sono le foto, fissate alla pagina con le puntine da disegno rosse a pallini neri, come le coccinelle – sembra completamente diversa, ma comunque. Scrollo le spalle: in fondo è l’unica carne che c’è.
La ricetta ora dice che devo insaporirla con le spezie e marinarla.
Marinare non so nemmeno cosa significhi, sinceramente. Dovrei metterla a mollo in acqua salata?
Be’, le spezie, prima. Apro uno stipetto e tiro fuori tutto ciò che mi sembra possa corrispondere alla descrizione. Origano, menta, peperoncino, cannella… coriandolo? Che razza di nome è coriandolo, per una spezia? Ma poi, dovrò metterle tutte insieme?
La ricetta non è così specifica. Forse Karima sapeva che Anis non ci avrebbe mai messo su le mani, perciò non l’ha resa Bushido-friendly.
Mi piace questo modo di appellarmi alle cose.
Questa ricetta non è Bill-friendly, comunque. Ma è ciò che Anis vuole, perciò lo preparerò.
Dunque, afferro un pentolone da uno dei ripiani sotto il lavello, lo riempio d’acqua, spargo un po’ di sale e ci butto dentro le tre fette di carne. Fanno splash e si posano sul fondo senza ribellarsi. Annegano, ed io spargo sopra le ceneri di questo funerale. Origano, menta, peperoncino, cannella e pure coriandolo, che in realtà me l’aspettavo più simpatico, e invece e una roba fatta di palline inquietantissime.
A questo punto, suppongo vada cotta. Lancio un’occhiata a caso al ricettario e vedo un “un’ora e mezza circa” che immagino sia il tempo di cottura. Sinceramente, il tutto mi fa un po’ senso, perciò decido che basta così: accendo il fuoco sotto la pentola, ci metto su un bel coperchio e chiudo il tappo in alto, così il vapore non fugge via, e poi abbandono la cucina. Tornerò a controllare quando sarà scaduto il tempo.
Nel mentre, vagolo un po’ per casa. Questo posto è noiosissimo, quando non c’è nessuno in giro. Tanto per cominciare, c’è un silenzio di tomba, e questa cosa è inquietante. Continuo ad aspettarmi che salti fuori qualcuno random da un angolo, brandendo un coltello o qualcosa di peggio. È spettrale. Il fatto che qui intorno sia tenuto d’occhio da qualcosa come dieci o quindici guardie del corpo non mi rassicura minimamente.
Saltello in salotto e mi riapproprio del divano. Il telefono, dal tavolino alto qui a fianco, mi guarda e mi fa l’occhiolino. Potrei chiamare Tom, ma suppongo che litigheremmo. Potrei chiamare Anis, ma poi capirebbe che sono qui e vorrei fargli una sorpresa. Magari chiamo Chaku. No, e se poi è con lui e glielo dice? Be’, potrei sempre aprire la telefonata strillando “Non dirgli assolutamente che sono io!”, ma poi succederebbe come l’ultima volta, che lui sarebbe costretto a rintanarsi in un angolo e tutti si metterebbero a sfotterlo dicendogli che se ha una donna deve presentarla alla crew come tutti gli altri. E così poi lui dovrebbe dire che ero io e, a parte rovinare la sorpresa, Anis s’incazzerebbe pure, perché quando va in modalità è-mio-e-nessuno-lo-tocca io posso anche dirgli che Chaku è adorabile ma non ci combinerei mai niente, lui non mi ascolta comunque.
Insomma, non mi resta che annoiarmi. Annoiarmi e aspettare che il mio kebab – che, visto l’amore che ci ho messo nel prepararlo, non potrà che risultare buonissimo – sia pronto.
Un’ora e mezza.
Magari, se metto la sveglia nel cellulare, posso farmi una dormita…
*
Mi sveglio presto. Nel senso che la suoneria del cellulare non è ancora suonata. Lo so perché l’orologio piccolo tondo e giallo che fa da indicatore è ancora lì sul display. Quando suona, scompare. E invece è ancora lì. E io sono già sveglio. Il mio orologio biologico è molto ingiusto, nei miei confronti.
Poi realizzo di botto che il mio orologio biologico sta cercando di salvarmi la vita. Lo realizzo nel momento stesso in cui sento un fischio dannatamente spaventoso provenire dalla cucina e svegliarmi del tutto.
Salto giù dal divano e corro verso il mio povero kebab. Il tappo della pentola salta – è come un’esplosione, batte contro il soffitto e poi cade a terra, io strizzo gli occhi terrorizzato.
- Cristo! – rantolo in un impeto di frustrazione, mentre cerco di avvicinarmi alla pentola senza finire ustionato dagli schizzi d’acqua o abbrustolito dal fumo. Acqua, per la verità, ne è rimasta ben poca, e s’è trasformata in una brodaglia rappresa e schifosa che fa un puzzo infernale. La carne s’è carbonizzata quasi tutta, e le uniche cose che riesco davvero a distinguere sono le palline di coriandolo, ancora perfettamente sferiche, solo un po’ tostate, mescolate a granelli e fogliette di ogni tipo di schifezza.
Mi viene da vomitare.
Allungo una mano e faccio girare la manopola del fornello, spegnendo il fuoco.
Oddio, non so che fare.
Provo a prendere la pentola dalle maniglie, ma mi rendo conto anche a qualche centimetro di distanza che sono incandescenti. Dio, farò del male a Karima per tutto ciò. La sua ricetta era tutta sbagliata e troppo complicata da seguire, e vaffanculo!
Non so come mettere a raffreddare questa cosa.
Dio, è così calda che ho paura si possa sciogliere.
Ma l’acciaio inossidabile sarà pure… inscioglibile? Ma esiste, la parola?
Dio. Dio, dio, dio. Mi odio così tanto, cazzo.
Rifletto un po’. Mi viene da piangere, merda. Non ci riesco, a riflettere.
Penso solo al frigo. È mezzo vuoto, il giorno della spesa è domani, non c’è quasi più niente. Ci sarà lo spazio per una pentola. Apro lo sportello e vedo che, in effetti, c’è un ripiano completamente vuoto. È quello dei dolci, sta in alto, più vicino al freezer. Magari è pure più freddo. Magari, se la metto lì, si rinfresca più in fretta, ed avrò pure il tempo di pulire tutto questo disastro prima che Anis torni. Magari la scampo.
Dio. Voglio piangere.
Prendo la pentola con due strofinacci umidi e la metto là in alto. È una cosa tremenda. Stavo per morire! Stavo anche per fargli esplodere la casa, ma soprattutto stavo per morire! Già me lo vedo, tutto in nero al mio funerale, con un completo sobrio e semplice, le scarpe nere e lucide ed una camicia scura, senza cravatta, un cappello a tesa larga calato sul viso. Bellissimo! Ed io in una stupida bara a farmi mangiare dai vermi. Non posso credere di avere quasi privato il mio Bu della mia presenza, è una cosa indecente.
Piagnucolo un po’ mentre esco dalla cucina e vado di nuovo verso il telefono. Ho dannatamente bisogno di parlare con qualcuno. Accarezzo l’idea di chiamare comunque Tom, senza un perché, non m’interessa che mi rimproveri o mi prenda in giro, ho voglia di sentire un essere umano che mi parla. Potrei chiamare Anis e dirgli di venire subito, ma fare la solita figura del cretino che non sa come risolvere i guai in cui si caccia, e sinceramente non voglio che sia questa l’idea che ha di me. Non voglio che pensi di non potermi lasciare solo a casa senza che io combini qualche danno, anche se è vero che se mi lascia solo a casa ne combino.
Mentre sto qui ad accarezzare la cornetta di questo stupido e vecchio telefono d’epoca che non sono neanche sicuro funzioni, perché quando è in casa Anis va in giro col cordless ed usa solo quello, sento uno strano frizz frizz proveniente dalla cucina. Ho appena il tempo di sollevare il capo e dirmi “oddio, ancora no, ti prego”, che sull’intera villa cala un buio pesto e sconvolgente.
- Oddio… - mugolo terrorizzato, portandomi una mano sul petto, - Oddio… - cerco di muovermi senza urtare niente, ma non è facile perché i mobili non ricordo esattamente dove sono, sono troppi, perciò sbatto un po’ ovunque e domani avrò tanti di quei lividi che cominceranno tutti a pensare Anis mi picchi, ne sono sicuro.
Raggiungo la cucina e cerco di capire se sia successo qualcosa di irreparabile o se sia solo un guasto momentaneo, quando poso il piede su qualcosa di umido e scivoloso e casco a terra di schiena.
- Merda… - cerco di muovermi. Sono praticamente immerso in una pozza d’acqua. Mi sono infradicito tutto. Mi fa male la schiena ed anche il sedere, vaffanculo. Non so cosa sia successo ma di sicuro è una cosa tremenda, qui è tutto bagnato ed io non so più dove sbattere la testa, e la voglia di piangere non è più nemmeno una voglia, perché sto piangendo davvero. Coi singhiozzi e tutto. È tremendo. Sono un cretino.
Mi sollevo sui gomiti e, già che ci sono, mi bagno pure lì. Questo fottuto frigorifero non voglio neanche provare ad aprirlo. Che esploda pure, se vuole. Fanculo lui e tutto il resto.
Mi trascino stancamente fino all’angolo più lontano della cucina, e se non divento un disgustoso ammasso di schifezze devo ringraziare solo Karima che passa lo straccio due volte al giorno. Mi raggomitolo contro la parete e chiudo gli occhi, perché tanto non vedo niente ed in ogni caso, anche se vedessi qualcosa, non mi andrebbe di guardarla.
Resto così non so per quanto tempo. Posso sentire solo i miei singhiozzi e i miei respiri strozzati. Sono esattamente il bambino per cui mi piace farmi passare. Non esiste un Bill Kaulitz più maturo, sono una stupida maschera da palcoscenico. Non c’è niente di maturo o di adulto, in me, e non ho la minima idea del perché Anis mi trovi attraente o possa desiderare di stare con me, difendermi o mettersi nei casini mentre lo fa. Non me lo merito. Non mi merito niente. Faccio schifo.
Quando sento le chiavi girare nella toppa e la porta aprirsi e poi richiudersi, vorrei davvero chiamarlo. Ma un po’ mi vergogno, un po’ ho paura di ciò che potrebbe dire, un po’ proprio non mi riesce di smettere di piangere, perciò rimango qui a singhiozzare come un deficiente e neanche mi muovo, anzi, stringo ancora più le ginocchia al petto, fino a scomparirmi dentro.
Un interruttore scatta a vuoto. Una volta, due volte.
- Ma che…?
La voce di Anis mi fa saltare in cuore in gola. Mi sento soffocare e tossisco un po’.
- Chi c’è? – chiede lui, il tono fermo e deciso col quale immagino sia pronto ad affrontare qualsiasi devastazione.
Ma eri pronto per una devastazione simile, Anis…?
- Sono io… - piagnucolo disperato, stringendomi nelle spalle, - Sono in cucina…
La gomma delle suole delle sue scarpe da tennis striscia sulle piastrelle in marmo misto e si muove velocemente nella mia direzione.
- Bill? – chiede dolcemente, - Piccolo, ma dove sei? Da quando se n’è andata la luce?
- Non se n’è andata… - continuo a piangere, mentre lui prova a far scattare l’interruttore della cucina, anche stavolta senza successo, - L’ho fatta andare via io… - motivo confusamente, raggomitolandomi a palla.
Lui ridacchia, un po’ incerto.
- Non sei affatto così brutto. – cerca di consolarmi, - Ma mi dici dove sei?
- Qua in fondo! – strillo istericamente, sollevando il capo e battendolo forte contro qualcosa che non voglio identificare. – Ahi… - mugolo, - Mi va tutto storto, è un disastro…
- Okay, senti, calmati. – dice lui, conciliante, - Vado a prendere una torcia. Non ti muovere.
E chi ci pensa. Rimango in silenziosa attesa del suo ritorno, e sollevo lo sguardo solo quando sento la luce giallastra e calda della torcia scivolarmi curiosamente sul corpo.
- Cazzo, piccolo, ma che è successo…? – chiede lui, fissandomi sgomento dalla porta della cucina, - Ma stai bene?
- No. – rispondo a bassa voce, tornando ad abbassare lo sguardo.
La torcia mi abbandona. Vaga intorno al mio corpo, davanti al frigo, sui fornelli.
- Non dirmi che hai provato a cucinare… - esala lui, senza fiato e senza muoversi.
Io non rispondo.
- Bill, dai. – mi richiama pazientemente, - Vieni qui. Su.
- No! – ripeto ancora, più deciso.
Non so cosa sto facendo. Mi sento una merda e basta.
Anis sospira ed evita la pozzanghera, raggiungendomi ed accucciandosi al mio fianco, stringendomi immediatamente fra le braccia. Mi ci sciolgo senza pensare, affondando nella felpa che ha il suo profumo ed è morbidissima, al contrario della merda che mette Tom e che mi irrita sempre il viso.
- Mi dici cosa è successo? – chiede dolcemente.
- Tu volevi il kebab! – rispondo ansioso, aggrappandomi con forza alla sua maglia.
- Aha. – annuisce, - Okay, è colpa mia?
- …vaffanculo.
Anis ride fra i miei capelli. Capisco che stava scherzando. Non è che non lo sapessi, ma la sua risata mi conforta, un po’.
- Senti, è tutto okay. Ci sarà stato un corto circuito. Adesso tu mi reggi la torcia e lo sistemiamo, d’accordo?
È carino che abbia usato il plurale. Voglio dire, io non sarò mai e poi mai in grado di riparare un guasto all’impianto elettrico, non so neanche cambiare le lampadine, voglio dire, non sono nato per fare cose simili!, ma è lo stesso carino che lui provi a farmi sentire parte di questa cosa.
- Ti tengo la torcia… - annuisco piano, rimettendomi in ginocchio e poi in piedi, mentre lui continua a sorreggermi come avesse paura di vedermisi sfaldare fra le mani.
Lascia la cucina e torna qualche secondo dopo con una cassetta degli attrezzi.
No, vorrei ripeterlo: una cassetta degli attrezzi.
C’è qualcosa che non sappia fare?
- Vieni qui, dai. Diamoci una mossa. – dice spiccio, afferrando quei millemila quintali di frigorifero e spostandoli come niente.
- Ma… è pesante… - commento annichilito.
- Ha le rotelle, sotto. – risponde lui con un mezzo sorriso, chinandosi sul pavimento. – Aspetta. – borbotta, - La maglia è nuova, non la posso distruggere così. – la tira via con un gesto accorto e immediato, e me la tende educatamente, - Reggi?
Prendo la maglia e gli pianto la torcia addosso.
- Sì, ma non negli occhi. – sorride lui, riparandosi dalla luce - Tanto vuoi guardare più in basso, no?
Arrossisco e gli punto effettivamente la torcia sul petto.
- Ma la smetti di fare il cretino? – ride ancora, ed io non posso fare altro che seguirlo. – Puntamela qui sulla presa. – ordina poi, tornando serio. Io ubbidisco e lo sento mugugnare. – Eh, infatti, guarda, è perché s’è bagnato tutto. Magari dentro non s’è neanche bruciato. Il salvavita in teoria dovrebbe scattare prima. Mi passi il cacciavite a croce?
- Il che…? – chiedo, un po’ disorientato. Mi fa stranissimo sentirlo parlare così. L’uomo del ghetto, voglio dire. Ma com’è che non lo prendono a calci dalla mattina alla sera, quelli della crew? Io lo farei. Chakuza, che è un peluche, in confronto mi sembra un vero uomo di strada, al momento.
- Lo riconosci subito. – dice lui senza scomporsi, - Ha il manico rosso e giallo, è praticamente fosforescente.
Facilmente individuabile al buio. Sono ufficialmente sconvolto.
Lui stacca la presa, la apre, la tasta un po’.
- Sì, è bagnato ma non è andato in corto. – si volta e mi sorride. Io non lo vedo, perché la torcia è di nuovo puntata altrove, visto che la presa e gli addominali sono troppo vicini per puntare una ed ignorare gli altri, però lo sento lo stesso. – Siamo stati fortunati. – decreta alla fine, - Questa la lasciamo asciugare tranquilla ed ora riattacchiamo la luce. – annuisce e si rimette in piedi. Io me lo ritrovo improvvisamente a due centimetri dal mio corpo, mezzo nudo, lievemente sudato e coi pantaloni fradici d’acqua.
Non so come faccio a resistere alla tentazione di schienarlo e farmi scopare ora e subito.
- Passato lo spavento? – chiede, inclinando lievemente il capo.
Io annuisco senza neanche respirare.
- Perfetto. – annuisce anche lui, - Aspetta qui, vado a riattaccare l’interruttore principale.
Fa per muoversi e lasciare la cucina. Lo afferro per la cintura e lo tengo fermo.
La torcia cade a terra, per un qualche miracolo non si rompe e rotola oltre il suo corpo, proiettando le nostre ombre sulla parete di fronte.
Non dico niente. Socchiudo gli occhi. La sua ombra si china sulla mia e poi mi sento addosso le sue labbra.
- La luce può aspettare. – sussurra contro il mio collo.
Sorrido e mi lascio sollevare sul tavolo.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: PWP, Lemon, Slash.
- "Non hai idea di cosa sta succedendo. E non hai idea di cosa mi stai facendo."
Note: Gh. Sinceramente non so che dire. In realtà mentre scrivevo ero abbastanza terrorizzata, perché il POV di Bushido in questa storia mi atterrisce – per ovvi motivi che non sto qui a rivangare per preservare la sanità mentale di noi tutti. Al momento c’è Tab che mi dice cosa dovrei tendenzialmente scrivere in queste note, e siccome il mio cervello al momento è vuoto più o meno come quello del Bu alla fine di questa storia – ma io non ho fatto niente di zozzo, il che è deprimente – seguo ciecamente i suoi ordini.
Dunque. Questa storia è nata perché in Ersguterjunge Bushido parla delle volte in cui ha rifiutato Bill e l’ha rimandato a casa. Parla della perseveranza di Bill e di come andasse premiato per la sua cocciutaggine. È questo è semplicemente troppo bello, era troppo romantico perché io non desiderassi scriverci su, metterlo in chiaro, parlarne. Perciò l’ho fatto, con una gioiosa PWP – che è ormai il mio segno distintivo all’interno di questa saga XD (Morte -> Tab; Sesso -> liz. Eros e Thanatos, praticamente).
Spero che Bill non vi mandi troppo in WTF, ma d’altronde è un Bill che avete già un po’ intravisto in Driving Bill Kaulitz: il Bill di prima, quello felice. *piange*
Karima non è siciliana. Mi dicono di specificarlo dalla regia. Avrebbe potuto esserlo, ma Bu è uno che ci tiene a che le cose siano fatte per bene u.u Perciò Karima è tunisina come lui.
Comunque tutto ciò è schifosamente triste. E il fatto che io non riesca a risparmiarmi i riferimenti alla morte anche nel porno è TREMENDO. Odiatemi.
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CHAINED TO YOU

Questa serata si conclude come si concludono tutte le mie serate da una quantità di settimane così enorme da risultare quasi disturbante, se ci penso.
Io non sono una persona molto paziente. So esserlo, certo, quando ne riconosco l’utilità – o quando preferisco così – ma tendenzialmente la mia pazienza si esaurisce nel momento stesso in cui, dopo aver detto no, mi trovo ad ascoltare nient’altro che una richiesta più insistente di prima.
Se dico no è no. Ed è sempre stato così.
Per un qualche motivo che non comprendo, i miei no non hanno alcun effetto su Bill.
E questo è disturbante.
Mi aspetta sotto casa come al solito; stringe fra le mani un sacchetto di plastica e sta tutto avvoltolato in una specie di piumino dentro al quale il suo corpo magro e ossuto si perde senza speranza. Mi avvicino con un sospiro poco convinto.
È stata una giornata pesante e non ho voglia di dire no a nessuno.
Negare è sfiancante. Per negare devi motivare il tuo rifiuto. Accettare è molto più semplice, basta un mezzo sorriso.
Quando arrivo al suo fianco, stringendo in mano le chiavi di casa, so già che non sarò in grado di negare alcunché.
- Immaginavo che saresti tornato tardi… - sorride lui, serrando le dita attorno alle maniglie del sacchetto, - Avevi le registrazioni per quel video… - lo vedo che si sforza, mi viene quasi da ridere. – Reich…
- Sì. – taglio spiccio, infilando le chiavi nella serratura e facendola scattare poco dopo, - Quello. – preciso con un ghigno, sapendo che non ricorderà mai a memoria il titolo. Mi chiedo se abbia mai ascoltato la mia musica, o se tutta questa storia che si trascina da eternità non sia solo ciò che resta di un fratello che mi idolatrava e di qualche flirt un po’ troppo spregiudicato in televisione.
Nonostante la luce gialla dei lampioni renda l’aria della notte quasi fosforescente, lo vedo per un secondo illuminarsi di qualcosa di più puro del neon.
- Reich mir nicht deine Hand! – conclude con un sorriso, - Era questa, giusto? Mi avevi parlato di un video in riva al mare…
Sinceramente stupito, inarco un sopracciglio.
- Già. – annuisco aprendo la porta, - Be’?
Lui deglutisce e sembra ricordarsi solo adesso perché è qui. Solleva il sacchetto all’altezza del viso.
- Ti ho portato qualcosa da mangiare. – dichiara tranquillo, - Spero che ti piacciano gli hamburger.
- A chi non piacciono? – chiedo retorico, facendogli strada in casa.
Karima si affaccia dalla cucina. Dalle sue spalle arriva l’odore sottile e insinuante del soffritto di cipolle appena messo sul fuoco.
- Buonasera, signor Ferchichi. – mi saluta educatamente, - Il signor Kaulitz si ferma per cena? – chiede poi, salutando con un cenno del capo Bill al mio fianco.
- Sì. – annuisco io, rimpiangendo già qualsiasi cosa meravigliosa stesse preparando, mentre il mio buongusto abdica in favore di Bill, - Ma non c’è bisogno di preparare. Bill ha portato qualcosa.
Questa donna, che conosco da anni, sorride in un modo che mi fa un po’ paura, annuisce e si ritira in cucina per tirar giù la padella dal fuoco. Io sospiro ancora – perché ci sono volte in cui mi sento molto una pedina di qualcosa che non mi piace affatto – e faccio strada a Bill all’interno della casa, per quanto mi renda conto sia ridicolo, visto che ormai la conosce fin troppo bene.
- C’era freddo? – mi chiede all’improvviso, mentre sistemo i panini – una quantità industriale – sul tavolo di fronte a noi.
Sollevo lo sguardo.
- Cosa? – ribatto, vagamente confuso.
- …dove avete girato. – precisa con imbarazzo palpabile, giocando nervosamente con un paio di fazzolettini di carta sottilissima tirati fuori dal sacchetto, - Era in riva al mare, perciò ho pensato… forse faceva freddo.
Non so davvero cosa dovrei rispondere.
- Avevo il giubbotto. – dico alla fine. Non so se sia la risposta giusta, perché non ho la minima idea di cosa mi abbia chiesto.
- Ah. – annuisce Bill, e scosta la sedia dal tavolo per accomodarsi di fronte alla distesa di panini. – Tu quali preferisci? – chiede ancora, esitando nello scegliere la propria cena, - Ne ho presi di tutti i tipi, ce ne sono con le cipolle, coi cetriolini, senza niente, e poi col pollo, col manzo, credo, col vitello, forse uno col pesce ma non ricordo, è che non so che-
- Uno qualsiasi andrà bene. – lo fermo, sedendomi al suo fianco un po’ stordito, - Sei la solita macchinetta. – commento con un mezzo sorriso.
Lui aggrotta le sopracciglia ed io mi mordo un labbro. L’ho offeso.
- Tu, invece, sei il solito pezzo di ghiaccio. – ritorce. Il suo tono è glaciale almeno quanto mi accusa di essere, e le parole suonano come stilettate in un posto che non saprei identificare, ma fa un po’ male.
Forse è questa l’abitudine. Quando sei affezionato ad un sorriso e quello, all’improvviso, si spegne.
E tu non hai neanche capito che in realtà ti piaceva.
Scrollo di dosso i pensieri molesti, perché devo cercare di ricordarmi che qui si sta parlando di me e di Bill Kaulitz, non di una coppia da fotoromanzo. Queste idee malsane non dovrebbero neanche sfiorarmi.
- Vuoi litigare? – chiedo stancamente. Spero che risponda no, perché io non voglio.
Bill sospira.
- No. – risponde mesto. Bravo bambino. – Ma potresti essere un po’ più gentile, magari.
Sbuffo un mezzo sorriso e mi allungo verso di lui. Non ho la minima idea di cosa sto facendo, dev’essere il sonno. Gli passo una mano fra i capelli – sono morbidi e tiepidi – e poi la lascio scivolare sulla sua spalla – appuntita e spigolosa – stringendola con una sorta di affetto mal dissimulato.
- Sono esausto. – ammetto, dirigendo la stessa mano che l’ha toccato verso i panini, per recuperarne uno a caso, - Tu che hai fatto, oggi?
Lo osservo soffermarsi un attimo sul mio volto, come incuriosito dalla mia espressione. La mia espressione dev’essere piuttosto stupida, perché lui si mette a ridere. Non è fastidioso – non completamente, ma…
- Ti ho fatto una domanda, potresti anche rispondere. – protesto, aggrottando le sopracciglia.
- Sì, certo. – dice lui, spegnendo la risata e scacciando via una piccola lacrima di divertimento dagli occhi, - Sono stato un po’ in giro. Nulla da fare. Una noia. Ho giocato con Tomi.
- Il ritratto perfetto della giornata di un bimbo diligente. – dico con un sorriso, addentando il panino e rendendomi conto di avere in effetti un certo appetito.
- Be’, poi sono scappato e ho preso la cena. – completa lui, scrollando le spalle, - Non tanto diligente.
- Bill. – sospiro, mandando giù il… sarà pollo? Non riconosco il gusto. Potrebbe non essere neanche carne, per ciò che so o che m’importa. – Il tuo manager sa perfettamente che sei qui, così come sa perfettamente che sarai a casa prima di mezzanotte. Come Cenerentola.
Bill s’arruffa tutto come un pulcino, quando è arrabbiato.
È quello che fa anche adesso.
- Ci tieni tanto a guadagnarti la fiducia di David? – scocca a bruciapelo, - Fai sempre quello che dice lui!
- Ma non lo faccio perché lo dice lui. – preciso sorridendo, - Quello è il tuo compito.
- Be’, nemmeno io faccio le cose perché le dice lui. Anzi, - sospira pesantemente, - in genere, quando le dice, non le faccio e basta.
Ridacchio.
- E quindi sei qui per una sorta di ribellione adolescenziale nei confronti della tua figura paterna del momento?
Se lui può arruffarsi, posso anch’io.
Bill si morde l’interno di una guancia ed abbassa lo sguardo, offeso. Improvvisamente, me lo rivedo com’era due giorni fa, in questo stesso salotto, mentre cercava di convincermi a lasciarlo dormire con me. Allora dissi qualcosa di molto simile – qualcosa di molto stupido tipo “sei qua solo perché ti sei fatto un film che con la realtà non c’entra niente”. Non si dovrebbero mai dire cose simili a qualcun altro, perché in fondo non puoi sapere niente che cosa gli gira per la testa.
Un sentimento è un sentimento.
Ciò che provi non smetti di provarlo se ti dicono che non è reale.
Questo vale per Bill e purtroppo vale anche per me.
- Ora che ci penso… - commento distaccato, cercando di darmi un tono e farmi forza: se riesco a rimandarlo a casa anche stasera, magari non si ripresenta più. – È giusto l’ora della nanna. Se ti chiamo un taxi adesso, magari arrivi a casa in orario.
Scatta in piedi con la furia di un cucciolo in pericolo di vita. Non ha la minima idea di come difendersi, ma lo farà finché ne avrà la possibilità.
- Posso restare a dormire qui. – propone pacatamente, stringendo una mano attorno al bordo del tavolo, come volesse aggrapparvisi per non volare via.
A causa di cosa, non lo so, visto che sono tutto meno che forte come un uragano.
- No che non puoi. – nego risoluto.
- Hai milioni di stanze! Non devo stare per forza da te!
- Sì, e poi finisce come, quand’era?, la settimana scorsa? Devo ricordarti come mi sono svegliato?
Bill arrossisce ed abbassa lo sguardo.
- Non posso fidarmi di te. – continuo, - Non se t’intrufoli in camera mia nottetempo e cominci a… Bill, avanti, siamo seri. – scuoto il capo, il pensiero confonde anche me. Quella notte s’è stretto al mio corpo come non volesse più lasciarlo andare. Mi ha baciato, e d’improvviso ho realizzato quanto pericolosa fosse questa relazione, e quanto ancora più pericolosa potrebbe diventare se si concretizzasse in qualcosa di serio. Non posso lasciare accadere niente di simile. Io non sono un pazzo e non sono un suicida. – Torna a casa. – sollevo lo sguardo su di lui e non ci metto molto a capire che fra un po’ scoppierà a piangere. Mi avvicino, sfiorandogli una guancia con due dita. – Sei piccolo e molto molto avventato. Non hai idea di cosa sta succedendo.
E non hai idea di cosa mi stai facendo.
Lui solleva una mano e stringe con forza le mie dita fra le sue. Ho fatto male a toccarlo. Ho fatto malissimo.
- Non mandarmi via. – sussurra avvicinandosi ancora, fino ad aderire completamente al mio corpo, - Io non sono un problema. Cazzo, io ti amo.
Non so come faccio a trattenere il lamento di puro dolore che mi nasce in gola.
Io non so come governarlo.
Non so come fermarlo.
Non ho idea di come dovrei gestirlo, questo ragazzino così stupido.
So che fino ad un secondo fa il suo corpo era premuto contro il mio solo perché lui lo voleva. Adesso, però, adesso che me lo stringo contro, lo voglio anche io.
Io non sono bravo a mentire.
A me le menzogne non piacciono.
La verità è importante al punto che me la sono scritta addosso.
Lo bacio senza la minima delicatezza, perché nessuno di noi due la vuole. Non sono io. Quello che si contiene e quello che rimane impassibile e quello che non tocca e quello che nega e quello che rifiuta. Non sono io. Questa cosa fredda non sono io.
Il corpo di Bill è così caldo che riscalda tutto.
Lo sento sotto le dita, mentre le lascio scivolare sotto la sua maglietta, e lo sento sulla pelle del mio collo, dove il suo viso si posa alla ricerca di un riparo dall’imbarazzo, e dove le sue labbra si fermano, incerte su cosa fare. Così imparo la sua forma: la linea dritta dei suoi fianchi, la curva morbida della sua pancia, le colline e le valli della sua spina dorsale. La magrezza delle sue braccia e la pelle un po’ ruvida sui tatuaggi. La fragilità della sua nuca e l’impeto della sua eccitazione, premuta forte contro la mia in una sfida senza vincitori che è solo la dimostrazione fisica del nostro desiderio.
Lo spingo indietro fino al tavolo, buttando giù i panini per terra, e penso distrattamente che Karima domani mi maledirà in tunisino finché non mi verrà la nausea per le mie stesse radici.
Bill ride contro il mio orecchio.
- Ops.
Rido anche io.
- Sei una peste. – commento baciandolo in punta di labbra, un attimo prima di liberarmi dell’ingombro della sua maglietta.
- Ehi… - biascica imbarazzato, stringendosi a me come ad una coperta, - Li hai fatti cadere tu…
Le mie mani sfidano l’orlo dei suoi jeans e lo sconfiggono, passando oltre. È morbido e dolce, Bill, e fa dei mugolii deliziosi quando scendo a stuzzicarlo fra le natiche.
Mi piace il suono. Ne voglio ancora.
I pantaloni che indossa sono così stretti che mi rendono i movimenti difficili. Lui se ne accorge e sbuffa, agitato.
- Tirali via! – biascica ansiosamente sulle mie labbra, mentre le cerca per un altro bacio.
Obbedisco su tutti i fronti, i pantaloni scompaiono ed il mio movimento si fa più libero. Posso stuzzicarlo anche fra le gambe. La morbidezza delle sue cosce si chiude attorno al mio polso, mentre lo sfioro per tutta la lunghezza della sua erezione, prima di afferrarlo saldamente alla base e cominciare ad accarezzarlo con più decisione.
Bill si aggrappa con forza alle mie spalle. Poi cambia idea e mi si stringe al collo, come non si sentisse sicuro di restare in piedi, se non può avvolgersi completamente attorno a qualcosa. Alla fine, lascia andare un mugolio di pura frustrazione e, mentre io sto quasi abituandomi all’idea di stare facendo una sega ad un maschio che non sono io stesso e che è Bill Kaulitz, stringe i pugni attorno alla mia maglietta e la solleva furiosamente, tirandomela via di dosso.
- Non è giusto che stia così solo io… - borbotta scendendo e mordicchiarmi nervosamente le spalle ed il petto.
Io lo trovo tenero, non posso farci niente.
Lo afferro sotto le ginocchia, mettendolo seduto sul tavolo ed interrompendo i suoi lamenti con un altro bacio, mentre mi sistemo fra le sue gambe ed i nostri bacini collidono, azzerando la mia capacità di pensiero razionale.
- Fai piano… - sussurra lui ad un millimetro dalle mie labbra, ed io sorrido divertito, perché non ho ancora cominciato a fare niente.
Lo sento tremare sotto le mie mani. Non so se sia nervoso perché non si fida o perché l’aspetta da tanto tempo che non vedeva l’ora. In ogni caso, sono nervoso anche io. Ed il motivo proprio non lo so. So, però, che non devo perdere la calma. Né la lucidità.
Perché qua io potrei tranquillamente lasciarci il cervello.
E non è proprio il caso.
La logica stringente del mio raziocinio si scontra contro i baci di Bill. Che sono peggio di qualsiasi droga io abbia mai provato – e credo non me ne sia sfuggita nemmeno una – perché mi sento completamente fottuto nel momento stesso in cui lui artiglia i miei pantaloni e li sbottona, e quelli, totalmente dimentichi della mia volontà, proprio non ci pensano a restare su, e si lasciano ricadere inermi a terra.
Il tessuto che ci separa adesso è niente.
Anche del mio cervello non resta più niente.
Cerco di pensare. Cerco di riportare alla memoria la planimetria del mio appartamento. Quanti metri ci separino dalla camera da letto – chilometri, se ricordo ancora la disposizione delle stanze. Chilometri, la maggior parte dei quali su scale. Ma poi: ci sono dei preservativi, in casa? Be’, quelli dovrebbero esserci. C’è del lubrificante? Mi sembra già più improbabile.
- Bill… - faccio per chiamarlo, e non so se essere felice o triste o completamente rincoglionito e basta, - Non c’è-
- La mia borsa. – mugola lui, come la ricordasse solo in quel momento, stendendosi lungo tutta la superficie del tavolo per raggiungerla dov’è, agganciata allo schienale di una sedia.
Dio mio, è bellissimo.
Ma cos’ho guardato, fino ad oggi?
Scendo sul suo petto e gioco con un capezzolo, lingua e denti. Bill chiude gli occhi e ferma il braccio; poi si fa forza, recupera la borsa e la lascia ricadere con un tonfo accanto a noi. Io non mi separo da lui neanche per un secondo, e lui continua a lanciare mugolii che mi mandano fuori di testa, mentre cerca qualcosa sul fondo di un borsone che sembra profondo come quello di Mary Poppins.
Alla fine, riemerge con un tubetto in plastica bianca che si posa sulla pancia. Lo prendo tra le mani e lascio un bacio sopra al suo ombelico, mentre lui torna a cercare i preservativi e li trova immediatamente.
Mi allontano da lui, eliminando i restanti indumenti di troppo, ed indosso il preservativo.
Lui mi guarda come mi vedesse per la prima volta.
- Problemi? – chiedo sarcastico, inchiodandolo al tavolo fra le mie braccia.
Lui si copre il viso con entrambe le mani, ma riesco a vedere il rossore sulle sue guance, nonostante tutto.
- È bellissimo! – butta lì velocemente, in un singhiozzo imbarazzato che è semplicemente una delle cose più carine del mondo.
Rido a bassa voce e mi avvicino a lui, cercando a tentoni il tubetto di lubrificante che ho lasciato da qualche parte sul tavolo.
La sua morbidezza accoglie prima i miei polpastrelli, che la accarezzano in lungo e in largo, cercando di lubrificare il più possibile, e poi le mie dita. Non ho la minima idea di cosa dovrei fare, cerco di pensare a cosa preferirei fosse fatto a me ma non riesco molto bene nell’impresa. Mando un indice in avanscoperta, Bill ansima contro il mio collo e mi chiede di non fermarmi. Lo tocco piano, non mi sembra una cosa strana, mi sembra strano non averlo fatto prima.
- Ancora… - bisbiglia dopo un po’, - Ancora, ti prego…
A me sembra presto, per ciò che chiede. Mando in avanscoperta anche il medio, ed in effetti era presto, perché lo sento irrigidirsi a disagio tutto intorno a me, e le sue unghie si chiudono con forza sulla mia pelle.
- Tutto okay? – chiedo soprapensiero, mentre lo bacio su una guancia.
Lui annuisce.
- È un po’ ingombrante. – risponde, - È un po’ come te.
Per un attimo, mi preoccupo.
Sta parlando di due dita.
Non so davvero come potremo arrivare a sopravvivere a questa notte.
Lascio il suo corpo e lui mugola contrariato, spingendosi contro di me come a voler cercare di recuperare ciò che lo riempiva.
- Aspetta, aspetta… - sussurro fra i suoi capelli. Ho come l’impressione che dovrò essere io a imporre il passo successivo. Dannazione. Così sembra colpa mia.
Sono pensieri stupidi, comunque.
Mi spingo lentamente contro la sua apertura e, come immaginavo, la resistenza è ostinatissima.
- Non ti fermare. – ordina lui, trattenendo il fiato.
Io scuoto il capo e lo stringo a me.
- Puoi mordere, se vuoi. – annuisco deciso.
Bill schiude le labbra e poi le richiude attorno alla mia spalla.
Io aspetto. Poi mi muovo.
I suoi denti si conficcano nella mia carne con tanta forza che la sento strapparsi e cedere. Ma non è il mio turno di provare dolore, perciò non dico una parola.
Rimango fermo per qualche secondo, e faccio una fatica disumana perché qua dentro si sta bene da impazzire. Bene proprio da morirci senza rimpianti. Ho voglia di sentirlo mugolare ancora, vorrei sentirgli chiamare il mio nome, ma tutto ciò che sento sono respiri spezzati e la difficoltà di un bambino di abituarsi a qualcosa di troppo difficile.
- È davvero come te… - lo sento ansimare alla fine, già esausto.
Riprendo a muovermi con un sospiro di sollievo, e lui non riesce neanche a lamentarsi.
- Mi dispiace, piccolo. – sospiro baciandolo, - Sei bellissimo, lo sai?
Ha le lacrime agli occhi ed è bellissimo davvero.
- Sì, lo so. – trova le palle di rispondere, e d’improvviso penso che lo amo anche io. Che non me ne fotte un cazzo di niente, posso tenerlo fra le braccia anche se è maschio ed anche se tutto ciò si tramuterà in un disastro enorme.
Posso perfino andarne orgoglioso.
Ne vado orgoglioso, cazzo.
- Oddio. – si lamenta quando le mie spinte si fanno più potenti, - Ti manca molto?
Ghigno un po’.
- Che domande…
- Scusa! – biascica, - È che non so… fa un po’… non me ne sto pentendo! – si affretta a precisare, - …cosa devo fare…?
Tu niente, penso con fin troppa naturalezza, faccio io.
E lo faccio davvero. Ricomincio ad accarezzarlo fra le gambe, e le mie spinte e le mie carezze diventano un movimento unico. Vanno a ritmo coi suoi sospiri, coi suoi mugolii strozzati e con le spinte del suo bacino incontro al mio. Per un attimo sorrido, perché questo sì che è senso musicale.
Affondo con forza, così in profondità che ho paura di spaccarlo in due, ed è allora che lui rilascia un mugolio completamente diverso dai precedenti, e la sua stretta si fa più forte.
- Lì… - implora a mezza voce, - Era lì…
Annuisco e mi nascondo contro il suo collo. Non so se sono imbarazzato o ho solo voglia di lui. Comunque il suo collo è un buon rifugio, mentre torno a spingere ad un ritmo più serrato, cercando di colpire di nuovo il punto che l’ha fatto godere. I suoi lamenti scompaiono. Si fanno richieste. Ed io, a sentir dire certe cose da questa vocetta da bimbo mai cresciuto, perdo pure il senso del limite. Spingo con violenza, ma lui non protesta. Continua a riempirmi le orecchie, così, più forte, ancora, Dio, Anis, e quando lui lo dice, davvero, quando dice il mio nome, scarico una spinta che mi stordisce, come mi stordisce l’orgasmo mentre si schianta contro il preservativo e lascia me in stato di semicoscienza, completamente abbandonato contro il suo corpo.
La mia mano attorno alla sua eccitazione è umida.
Sorrido trionfante. Lui lo nota e mi dà uno schiaffo sulla nuca.
- Sei tremendo. – decreta alla fine, serrandosi attorno a me come il disastro che è.
Io mi riservo il diritto di non rispondere. Ed anche di non pensare.
Quando il sangue tornerà a circolare naturalmente nelle mie vene, e quando l’ossigeno tornerà ad arrivare al cervello, forse capirò per bene l’immenso casino in cui mi sono appena cacciato. Un immenso casino che sono le dita magre ed agili di Bill che disegnano il tatuaggio sul mio collo. Un immenso casino che sono i suoi capelli a solleticarmi il naso. E le sue gambe ancora attorno ai fianchi.
È un immenso casino che realizzerò dopo.
Adesso, devo solo ritrovare la camera da letto.
Genere: Introspettivo, Erotico, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- "Sono grato di essere dentro di lui, adesso. Perché altrimenti non saprei proprio cosa farmene, di me stesso."
Note: Fermo restando che neanche altri mille anni di Billshido canoniche riuscirebbero a redimermi per aver fatto questo al Bu XD c’è un motivo per cui questa storia è nata; il motivo è che, nel fandom inglese, ho beccato una Billshido reverse in cui, a mio parere, oltre ad invertire i ruoli, l’autrice ha invertito pure i caratteri: a sentire parlare Bill sembrava di sentire Bushido, e viceversa.
Io mi sono incazzata XD perché sinceramente non comprendo per quale motivo uno, solo perché sta sotto, dovrebbe diventare una femminuccia; o un altro, solo perché sta sopra, debba improvvisamente trasformarsi in un supermacho. Per me non esistono, cose del genere XD Perciò volevo semplicemente scrivere qualcosa in cui Bill potesse stare sopra rimanendo Bill e Bushido stare sotto rimanendo Bushido. Ora, non so se qualitativamente la storia sia valida, ma quanto a caratterizzazione mi sembra che la cosa sia riuscita secondo i piani. È già qualcosa *annuisce*
Tendenzialmente avrebbe dovuto essere una PWP. Sì, ridiamo tutti insieme. *sospira*
PS: Grazie a Tab per il titolo. E per il supporto morale. Lo so che è stata dura. Ti amo tantissimo per questo <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THINGS YOU SHOULDN'T SAY NOR DO

Non so chi abbia detto che il sesso è una questione di fiducia. Io, comunque, ci credo fermamente. Ci credo come in una fede, perché il ragionamento è lo stesso: come non puoi sapere se Dio esista, puoi solo crederci, non puoi neanche essere sicuro che la persona cui dai la tua fiducia non la tradirà; è una cosa in cui credi e basta.
È ironico che io non creda in Dio ma creda nella sacralità del sesso.
Questo, suppongo, è anche il motivo per cui io e Tom finiamo sempre per litigare, quando parliamo di cose simili. Lui non crede nella sacralità proprio di un bel niente, tantomeno in quella di una scopata da una notte e via. Per me, invece, è importantissimo. Ecco perché, nonostante ciò che sicuramente gradirebbero le fangirl, mai e poi mai potrei andare a letto con mio fratello: lui non darebbe alla cosa il giusto peso ed io ne uscirei fuori irrimediabilmente ferito. Sinceramente, perdere un fratello per un fraintendimento di base sarebbe troppo stupido anche per me, che di sciocchezze ne faccio sempre un’enormità, perciò no, grazie.
Io ho passato… no, be’, non tutta la mia vita, ma sicuramente gli ultimi cinque-sei anni della mia esistenza a cercare la persona con la quale avrei potuto fare sesso senza per questo sentirmi violato, privato di qualcosa di mio, usato e poi dimenticato. Avrebbe potuto essere una persona qualsiasi – perché non sono mai stato veramente maltrattato da nessuno che si sia trovato a stare con me – ma le sensazioni, o almeno, la pretesa di sentire a fiuto chi avrebbe potuto essere la persona giusta e chi no, mi hanno sempre frenato.
Avrebbe potuto essere una persona qualsiasi – è stato Bushido.
Nessuno può davvero chiedermi di spiegare perché; un perché, quando tutto ciò che senti in presenza di quella persona speciale è un brivido unico e caldissimo che ti scuote lungo tutta la spina dorsale, non esiste.
Io l’ho sentito subito.
Guardavo la TV, quell’uomo stava dicendo che avrebbe gradito il sottoscritto lo soddisfacesse in modi che in genere non chiedi neanche alla tua ragazza, se non è lei a proporteli, ed in tutto questo – mentre Tom smadonnava oltraggiato al mio fianco – io rabbrividivo e lo fissavo. Del tutto sconvolto.
Non era una sensazione piacevole, cazzo, no. C’era, da qualche parte dentro di me, forse, anche qualcosa di simile all’orgoglio ferito ed all’onore incrinato, ma Dio: quell’uomo voleva un pompino. Da me. Io avevo diciassette anni e tutto ciò che pensai in quel momento fu che sarei morto alla sola idea delle mie labbra serrate attorno al suo cazzo.
Deglutii a vuoto, con forza, e non riuscii a scrollarmi di dosso quella sensazione di ansioso disagio per tutta la settimana successiva.
E poi lo incontrai.
Sarò sincero, Anis non è una persona facile da gestire. Non lo è quando lo conosci abbastanza da guadagnarti il diritto di chiamarlo per nome, e non lo era a maggior ragione quando quel diritto ancora non l’avevo, e tutto ciò che potevo fare era chinare il capo, evitare imbarazzato il suo sguardo e chiamarlo Bushido. O non chiamarlo affatto.
Fu ad un party organizzato dalla Universal – allora era ancora sotto contratto lì. Lui non mi avvicinò, mi fissò con un ghigno sprezzante per tutto il tempo. Io dovetti resistere all’impulso di saltargli addosso con intenzioni poco chiare, e nel frattempo dovetti anche cercare di badare a Tom, che minacciava di azzannarlo alla giugulare con intenzioni, contrariamente alle mie, piuttosto evidenti.
Alla fine lo avvicinai io. E tutto ciò che feci fu salutarlo.
Capii subito che non se lo aspettava, lo capii dal modo in cui mi guardò, aggrottando le sopracciglia e cercando di trovarmi un senso piantandomi addosso quegli occhi spaventosamente scuri. Ed espliciti. Solo che non erano espliciti nel senso che mi sarei aspettato.
Non ci trovai dentro nessuna proposta sessuale.
Piuttosto, un infastidito “ma toglierti dalle palle, no?”.
Ecco, io sciocchezze ne faccio tante. A me le sfide piacciono.
La mia risposta, perciò, non poteva essere che una: no.
*
Bushido era quella persona speciale. Ovviamente, non mi bastava sentirmi attratto da lui come da una dannata calamita, per capirlo; però è indubbio che l’attrazione abbia giocato un ruolo fondamentale, in tutto questo. L’attrazione, un po’ di fortuna e la mia innata capacità di flirtare disinvoltamente quando ne riconosco la necessità.
Tom è sconvolto da tutto ciò.
Sì, be’, tutti sono sconvolti da tutto ciò.
La sola idea di stare con l’uomo che ho visto in televisione dovrebbe ripugnarmi, visto soprattutto quello che è il mio ideale di relazione sentimentale.
Fortunatamente, Anis è uno che, come me, ha ben chiara la differenza – enorme – che passa tra il pubblico e il privato. È uno che, come me, lo schermo che separa TV da vita reale lo sente fisico e spessissimo sotto le dita. È uno che, come me, quando entra in scena mette su una maschera di comodo che non è falsa ma neanche completamente vera. È uno che, come me, mostra solo pezzi di se stesso. Così che, se vuoi sapere com’è nella sua interezza, devi scoprirlo da solo.
Io e lui ci somigliamo in maniera veramente assurda. Quando l’ho capito – e ce ne ho messo, di tempo: sei mesi di frequentazione praticamente giornaliera; sei mesi ad asfissiarlo con la mia presenza, sei mesi di subdoli ricatti morali per farmi portare in giro, agli studi, perfino a cena fuori! – ma quando è successo è stato come una rivelazione. Una di quelle cose che si dice debbano succedere solo nei film, e invece no, la vita reale ne è piena.
Sono andato da Tom e gliel’ho detto. È lui. Lui chi?, ha chiesto giustamente mio fratello.
La mia persona speciale.
La faccina sgomenta di Tom è stato il premio per il mio coraggio: ho riso fin quando perfino il pensiero di stare con Bushido è sembrato all’improvviso meno stupido e più sensato che mai.
E dopo l’ho detto a lui. Sei tu. Sono cosa?, ha chiesto giustamente Anis.
La mia persona speciale.
Io la sua reazione la ricordo benissimo. Ha sospirato ed ha sorriso, scuotendo il capo con rassegnazione, come se lo aspettasse da sempre.
Ed era così, io lo so.
Cos’è che vuoi?, mi ha chiesto.
Un bacio, ho risposto.
Il primo di una lunga serie.
*
Io tendo a rendere tutto fin troppo romantico. È perché ho del mondo una visione molto realistica; una visione in cui fondamentalmente la vita non è che ti offra piaceri e gioie ad ogni piè sospinto. Perciò, quando succede, tanto vale goderteli e chissenefrega se sembri melenso mentre ti commuovi o cose simili. Non sono cose che capitano spesso.
Ogni cosa che succede, ogni cosa che concedi, ogni cosa che prendi, ha una sua importanza sentimentale della quale devi prendere atto.
L’importanza sentimentale del sesso sta nel fatto che, fondendoti completamente con la persona che ami, rubi un po’ di lei. E lasci un po’ di te. E lo stesso succede dall’altra parte: ti viene sottratto qualcosa, e qualcos’altro che prima non era tuo ti resta dentro.
Per questo dico che è questione di fiducia.
Amare, provare amore, quello è semplice: è un bisogno; è lì e non puoi ignorarlo, perché è come aver sete o fame. Ma amare, fare l’amore, è una cosa totalmente diversa.
Per quello la fiducia serve.
Quando ho detto ad Anis che volevo fare l’amore con lui, io ho preso la mia fiducia e gliel’ho messa fra le mani. E d’improvviso non m’importava più del dolore, delle complicazioni, dello sgomento di Tomi né di nient’altro oltre a noi. Il mio mondo era lui. Io iniziavo e mi concludevo in lui. E forse questo è troppo romantico, ma io sono così, punto.
Comunque, avevo ragione. Anis non ha mai tradito la mia fiducia, ed a questo punto penso proprio che non lo farà mai. Io non mi sbaglio, in genere, sulle persone. Tom è ancora qui, dopo tutti questi anni, d’altronde, no?
Perciò gliel’ho chiesto. Ad Anis, non a Tom.
Devo dire, comunque, che mi aspettavo una risposta simile.
- No.
E non aggiunge altro – non ne ha bisogno.
Io sospiro e roteo gli occhi.
- Perché no? – chiedo seccamente, accucciandomi sul letto in una posa palesemente scazzata e chiusa al dialogo. Il che è in qualche modo divertente, visto che sto a tutti gli effetti dialogando.
Anis inarca le sopracciglia e, per un secondo, sembra accarezzare l’idea di scattare in piedi, recuperare la propria maglietta e mollarmi qui, nudo, senza una spiegazione di più.
- Perché no. – conclude subito dopo.
Se fosse andato via, avrebbe chiarito meglio il punto.
- Sarebbe a dire? – insisto, incrociando le braccia sul petto.
- Sarebbe a dire – precisa lui, facendomi il verso, - che io non mi faccio scopare. Ed in ogni caso, questa questione della fiducia è ridicola.
Faccio una smorfia.
- Potresti evitare di ridicolizzare ciò in cui credo?
Lui sospira e scuote il capo. Probabilmente ha realizzato di aver optato per la scelta di parole meno azzeccata.
- Intendevo dire, Bill, che non hai bisogno di scoparmi per sapere che mi fido di te. Mi fido di te, te lo assicuro.
Aggrotto le sopracciglia.
- Vedi? Non cogli il punto. – mi lamento esasperato, - Non è che se non ti fai scopare allora non ti fidi di me. Scopare non c’entra. Il punto è che io voglio scoparti ma tu non ti fidi abbastanza da lasciarmelo fare!
- Okay, troppe parole. – mi ferma lui con un cenno annoiato, - Semplifica.
Io sospiro ancora.
- Voglio scoparti perché l’idea mi stuzzica, non perché voglio una prova di fiducia. Ma, se tu non mi lasci fare, evidentemente non ti fidi.
Anis mi guarda con un’ostilità che mi ricorda tanto le sue prime occhiate, quelle di quando era ancora Bushido ed io il ragazzino deficiente nei confronti del quale poteva prendersi tutte le libertà che voleva, tanto sapeva perfettamente che non avrei reagito.
- Magari la cosa non stuzzica me, ci hai pensato? – chiede astioso, le labbra sottili e tese come linee.
- Aha. Quindi i tuoi bisogni hanno una validità, i miei no. – inclino il capo, - Molto carino, da parte tua.
- Fanculo, Bill. – risponde schiettamente, come sempre, - I tuoi bisogni per me sono fondamentali, e lo sai, altrimenti non staremmo qui a discuterne. Però non puoi costringermi a fare una cosa simile con un ricatto morale.
Sorrido compiaciuto. Per certi versi, la questione sta andando a parare esattamente dove volevo io: sulle questioni di principio.
Le questioni di principio sono stupende. Non sono come i preconcetti e le paure, perché quelli sono istintivi e incrollabili. Le questioni di principio, invece, sono cose di cui ti convinci: puoi smantellarle una dopo l’altra, mattone su mattone, fino a lasciarne solo macerie.
Basta essere solo un po’ cattivi.
- E con uno fisico?
Vedo il terrore farsi strada nei suoi occhi.
- Spero di aver capito male. – scocca infastidito, cercando di recuperare un po’ di controllo.
Sorrido ancora.
- Dipende da ciò che hai capito. Se hai capito che non mi scoperai minimo per i prossimi vent’anni, allora hai capito bene.
Non si sconvolge né spalanca gli occhi, proprio perché aveva capito davvero.
- Bill. – cerca di ragionare. Poi, evidentemente, cambia idea. – Sei una merda.
Arriccio le labbra in una smorfia di disappunto.
- Non sei per niente carino.
- No che non lo sono. – ammette lui, lasciandosi andare di spalle contro la testiera del letto ed andando alla ricerca delle sigarette sul comodino, - Non lo sono mai stato e, cazzo, non intendo certo diventarlo. Se ti piaccio, ti piaccio perché sono io. Ed io non sono carino.
…lo odio, quando fa così.
La verità è che siamo davvero uguali. Perciò usiamo anche gli stessi trucchi. Certe volte mi sembra di parlare con un altro Tom, o un altro me stesso, che poi è la stessa cosa, solo più scuro e più sexy.
Come faccio io a non dargliela vinta, se usa la tattica del prendimi-come-sono-o-non-prendermi-affatto? È la stessa cosa che pretendo da lui. Non posso negargliela.
Mi raggomitolo in un angolo del letto, le ginocchia al petto ed il broncio più lungo della mia intera esistenza. Lui, ancora adagiato fra i cuscini e contro la testiera, sorride trionfante, mandandomi brividi caldi lungo le braccia e le gambe, facendosi sentire fin dove fa più male. Che è una cosa che odio, perché se c’è una cosa che Bushido sa fare è rendersi attraente ai miei occhi. Ma mi dà fastidio che lo faccia, perché Anis di solito non ne ha bisogno.
Adesso sono sotto scacco. Non posso parlare, perché se lo facessi mi lamenterei, e se mi lamentassi lui riderebbe di me. Non posso muovermi, perché se vado via lo lascio vincitore e non guadagno proprio un bel niente. Non posso fare proprio un cazzo.
Lui, rilassatissimo, recupera finalmente la dannata sigaretta e la fuma con evidente soddisfazione. Il bastardo.
- Stasera usciamo. – mi avverte poi, atono, andando alla ricerca del telecomando, - Niente di drammatico, non andare in paranoia. È il compleanno di Cassandra. Devi venire.
Mi mordo un labbro.
Quando rispondo il “no” che si merita, non lo faccio con la consapevolezza che potrei sfruttare la situazione a mio vantaggio. Dico no solo perché non mi va assolutamente di dirgli sì.
Però – anche se sono uno stupido – ci arrivo anche io. Dopo un po’, ma ci arrivo.
Sollevo lo sguardo cercando di non fargli notare che adesso so. Lui mi fissa di rimando, piuttosto seccato per il mio rifiuto.
- Cass ti sta simpatica.
- Ma non mi va di uscire.
- Non sei per niente carino.
Sorrido.
- No che non lo sono.
Anis mi guarda. No, Bushido mi guarda. Questi occhi glieli ho visti addosso quando Sido mi ha regalato la sua maschera come augurio di pronta guarigione per la cisti. Qualche tempo dopo lo incrociammo in un pub, e Sido si fece avanti chiedendomi come stessi, nel palese tentativo di irritarlo. E lui si irritò eccome. Non so come riuscimmo a sfuggire alla polizia, quella sera.
Questo sguardo è pericoloso.
È lo sguardo che mette su quando sente arrivare una sconfitta campale. È lo sguardo che precede il momento in cui decide che no, non si farà sconfiggere affatto. E mena le mani.
È Bushido che mi guarda.
Io ho davvero paura di Bushido.
Mi chiedo distrattamente dove sia Anis, in questo momento, ed è proprio in questo momento che Anis appare. Scuote il capo e si gratta la testa con aria confusa, sospirando pesantemente.
- Non voglio litigare. – sussurra un po’ stancamente, - Non voglio affatto litigare. Siamo stati bene, oggi. Stavamo bene, fino a mezz’ora fa.
Sorrido tristemente, perché lui è così. Lui non se ne accorge. Se stai male, glielo devi dire. Da solo non lo capisce.
- Forse non stavamo così bene come pensavi.
Lascia andare un lamento contrito e scivola sul materasso, raggiungendomi e stringendomi fra le braccia. Sento il suo respiro contro il collo e per un attimo penso seriamente alla possibilità di lasciar perdere. Mettere giù l’orgoglio e la voglia ed il pensiero che potrei ma lui non mi lascia fare e questo è ingiusto, e lasciare semplicemente perdere.
Bushido mi costringerebbe a lasciar perdere, ecco.
Fortunatamente, io sto parlando con Anis.
- È importante, vero?
Sollevo il capo così repentinamente che gli do una testata sul naso.
- Ah… e cazzo, Bill! – borbotta lui, massaggiandosi con due dita.
- Scusa! – biascico ansiosamente io, rivoltandomi ed inginocchiandomi fra le sue braccia, - Oddio, non volevo, ma… dici sul serio?
- Non ho ancora detto niente. – precisa lui con una mezza smorfia, - Non farti i viaggi.
Inarco le sopracciglia.
- Anis… - chiamo lamentoso.
- Okay, okay, sì, d’accordo! – concede lui, scuotendo il capo e stringendomi un po’, - Quanto sei insistente, Cristo.
Non so.
Dovrei realizzare qualcosa d’importante, credo. Questo, forse, dovrebbe essere uno di quei momenti d’epifania di cui parlavo prima, no? Quelli che t’investono come un’illuminazione e quando ti lasciano ti cambiano profondamente.
E invece sono qui che lo guardo negli occhi e riesco solo ad essere stupidamente ed infantilmente felice del fatto che lui stia facendo questa cosa e la stia facendo per me.
È una cosa stupida davvero, perché anche la stessa questione della fiducia e tutto… sembra lontanissima. Sono solo felice come se mi avesse portato un regalino inatteso.
È una cosa stupidissima.
Si china a baciarmi, e per un attimo rido perché sta prendendo l’iniziativa. È comico, in effetti. Però eravamo troppo vicini, Anis non sa stare così vicino senza baciarmi. Tutto questo è fantastico proprio perché Anis è l’unica persona che voglio dentro. Ed è l’unica persona dentro alla quale voglio stare.
In senso figurato e non.
Le sue mani scorrono per tutta la superficie della mia schiena, ampie e calde. Mi conta le vertebre, lo fa con una tenerezza tutta sua, esitando dove sono più spigolose e scendendo poi lungo le curve come stesse correndo giù per una collina.
Per un attimo scende a stuzzicarmi fra le natiche. Io mugolo, non so se sto mugolando perché è bellissimo o perché sta andando tutto nel verso sbagliato e non sono in grado di prendermi una cosa neanche quando mi viene offerta. La mia stupidità è epocale.
Anis si separa da me e scivola sulle ginocchia, fino a distendersi a pancia sotto sul materasso.
- Avanti. – dice alla fine. È secco, ma non infastidito. La sua voce, lievemente attutita dal cuscino, suona dolce alle mie orecchie.
Gattono al suo fianco, guardandomi intorno con aria effettivamente terrorizzata mentre lui slaccia i jeans e li scalcia ai piedi del letto, sfilando anche i boxer con una sorta di rassegnato stoicismo che trovo carino. Però a lui non piace essere carino, perciò non glielo dico.
Mi allungo oltre il suo corpo, raggiungendo il comodino e recuperando preservativi e lubrificante. È stranissimo trovarmi in questa situazione. Non ho neanche idea di che sensazione dia al tatto, un altro uomo. Conosco me stesso, ma non il corpo degli altri. Non nel modo in cui sto per conoscerlo adesso, comunque.
Anis respira tranquillo sotto di me. Sento il suono. Percepisco il lievissimo movimento del suo corpo. La curva della sua schiena è decisa e muscolosa. Sospiro mestamente – non credo di meritare tutto ciò – mentre mi sistemo fra le sue gambe.
Lui non ha bisogno che gli dica niente, si solleva un po’ e si regge sui gomiti. Non sembra avere alcuna intenzione di nascondersi contro il cuscino.
Io l’ho fatto, per la nostra prima volta.
Socchiudo gli occhi e non nego che vorrei proprio chiuderli del tutto, mentre lo preparo.
Sono un disastro. Non ci sto mettendo neanche un po’ di… lui in genere quando lo fa è così…
…sono un disastro.
Anis sorride.
- Sei piuttosto tenero. – dice, rilassandosi lentamente sotto le mie dita.
L’ho detto ad alta voce?
È normale dire le cose e non accorgersene?
Indosso il preservativo arrossendo furiosamente. Sono così agitato che probabilmente verrò in tempi da record. Mi sto odiando profondamente. Non avrei mai dovuto chiedergli niente. Stavamo molto meglio prima.
- …è piacevole. – sussurra lui. Ha socchiuso gli occhi. Dio.
Mi si stringe qualcosa dalle parti del petto.
Qualcos’altro sul bassoventre.
Mi avvicino.
- Scusami, non so se-
- Andrà bene. – mi rassicura con un cenno del capo, - Fai come vorresti che lo facessi io a te. Andrà bene.
Il suo corpo non mi accoglie volentieri. Oppone una resistenza che mi si stringe tutta intorno e mi costringe ad un mugolio che non è affatto diverso da quelli che faccio quando le posizioni sono invertite.
Anis lo prende come un vero uomo.
In silenzio.
Aggrotta appena le sopracciglia, è l’unica cosa che cambia rispetto a prima. Continua a non chiudere gli occhi.
Solo quando comincio a muovermi colgo dei segnali di disagio a cui non posso non badare, per quanto facciano pure un po’ male. Stringe le mani attorno al cuscino. Ogni tanto si morde l’interno della guancia.
Gli occhi non li chiude mai.
Cerca i miei.
Non è una posizione comoda. Non riesce a vedermi bene. Mi chino sulla sua schiena e mi avvicino, così da dargli una mano a guardarmi più comodamente. Lui mi sorride, ed è un sorriso un po’ stronzo.
- Non sei malaccio. – scocca con una mezza risata.
Io metto su un broncio terribilmente inappropriato. Lui ne ride e per me è okay.
- Adesso però muoviti, mh? – sbotta qualche secondo dopo. Io rido e mi chino a baciarlo, spingendomi un po’ più a fondo. – Comunque, se ti aspetti che strilli di gioia…
- …potresti, per favore… - ansimo io, cercando di resistere all’impulso di mordermi un labbro, - …evitare di distruggere questo momento?
Anis ride ancora e finalmente chiude gli occhi. Se l’avesse fatto prima, l’avrei odiato. Ma ora era… semplicemente il momento giusto.
- Continua. – chiede a bassa voce.
Io mi stringo a lui così tanto da sentirmi fondere sulla sua pelle. Il suo sudore ed il mio si mescolano insieme, mentre lo sento muoversi lentamente contro il materasso in cerca di soddisfazione per il proprio desiderio. Neanche ci provo, ad aiutarlo: sono confuso come un bambino il primo giorno di scuola, sarei perfettamente in grado di combinare qualcosa di irreparabile, se solo provassi a prenderlo in mano.
Sono grato di essere dentro di lui, adesso. Perché altrimenti non saprei proprio cosa farmene, di me stesso.
Tutto ciò che sento, nei secondi successivi, sono i miei mugolii che aumentano d’intensità. Anis sembra un altro. È triste, penso all’inizio, averlo costretto a fare una cosa simile. È bellissimo, comunque. In ogni caso, non è mai stato tipo da urlare. Ringhia quando viene contro le lenzuola bianche, ma è una cosa che fa sempre, quando viene. Non è cambiato niente. Quando vengo io, lascio andare uno strillo un po’ acuto e poi gli mordo una spalla, nel tentativo di sentirmi meno stupido e di odiare meno la mia voce. Anche questa è una cosa che faccio sempre.
Non è cambiato niente.
Non è bellissimo?
Non è cambiato niente.
Scivolo fuori dal suo corpo e mi lascio andare esausto al suo fianco. Non ho idea di quanto sia durato. Per un secondo, ho voglia di guardare l’orario, ma poi mi rendo conto che non l’ho controllato prima, perciò anche a saperlo adesso sarebbe inutile.
Quando realizzo lo squallore intrinseco di ciò che sto pensando, smetto di farlo.
Anis respira tranquillamente accanto a me. Non sembra particolarmente turbato, ma non apre neanche gli occhi. Spero di non aver combinato niente di tremendo. Mi avvicino. Che faccio, gli chiudo il naso come si fa ai bambini piccoli per farli svegliare?
- Dimmi che stasera vieni al compleanno di Cass. – biascica senza aprire gli occhi, sistemandosi meglio fra le lenzuola.
Arrossisco come un deficiente, senza nessun motivo.
- Ah… sì. – annuisco, accoccolandomi al suo fianco, - Certo.
Anis sorride. Due secondi dopo, sta già ronfando come un gatto contro la mia spalla.
Io non ho sonno.
Cerco di capire cosa dovrò indossare stasera e nel mentre sorrido senza un perché.
Suppongo sia lo stesso motivo per il quale sono arrossito prima, comunque.
Genere: Comico.
Pairing: Bill/Bushido, Tom/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Crack, Language, Slash.
- Bushido, i gemelli Kaulitz ed un supermercato. E' tutto ciò che dovete sapere XD
Note: Chiedo scusa, non volevo davvero scriverla XD E non ho altro da dire XD
(No, in realtà devo creditare: la scena delle ciliegie è un tributo ed è volutamente ripresa dal quarto capitolo di This Hour’s Duty, di Majestrix e Little Muse, tradotto da Tabata. Il ritorno sotto mentite spoglie del Generale PornoSoft!Bu <3)
(Ah: l’ispirazione principale, non c’è bisogno di dire da dove l’ho presa, no? Basta dire THTV XD)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
CANDYGASM

Bushido non aveva esperienza coi ragazzini. Tutto ciò di cui aveva esperienza era Bill Kaulitz che, seppure fosse facilmente indicabile come ragazzino senza possibilità d’errore, era comunque un ragazzino piuttosto atipico. Nel senso che da un ragazzino normale non ti aspetti che ti si presenti davanti con una camicetta nera così frufru da essere pure oscenamente sexy e l’espressione più maliziosa del mondo, chiedendoti se ti va una birra e magari chiacchierare un po’.
In realtà avrebbe dovuto capire in quel momento che quello sarebbe stato l’inizio di una lunga serie di problemi, se non legali – perché, Dio, quella notte Bill era stato molto più che consenziente – sicuramente gestionali e pure… sentimentali? Be’, sì, potevano anche essere definiti così.
Perché quando un ragazzino ti chiama piagnucolando nel mezzo della notte per avvertirti che gli manchi e tu, senza neanche una parola di più, salti dentro ai tuoi vestiti, poi dentro la tua macchina, e lo raggiungi, sì, c’è del sentimento dietro.
Quando il giorno di Natale il suddetto ragazzino ti prega praticamente in ginocchio di pranzare con la sua famiglia, e tu accetti, allora c’è ben più di un sentimento, dietro. Soprattutto se a quello stesso pranzo porti pure tua madre. Nonché tuo cugino.
Quando, infine, il solito ragazzino ti chiede di accompagnare lui e suo fratello a fare la spesa in qualità di scorta personale, nonostante in genere sia tu quello che ha bisogno della scorta, e tu, sorridendo come un deficiente, carichi entrambi i pargoli e ti dirigi felice al centro commerciale, allora non si tratta più neanche di sentimento. La parola giusta la conosci, è quella cosa spaventosa che comincia per A e che un buon rapper non dovrebbe provare se non nella sua spensierata accezione sessuale, ed invece eccoti lì che obbedisci silenziosamente e ne ricavi pure una certa gioia.
La verità dei ragazzini è che sono ingestibili: Bill sarà pure stato un ragazzino atipico, ma era ingestibile lo stesso. E, accoppiato a suo fratello, era una calamità ambulante.
Era questo tutto ciò che Bushido riusciva a pensare, alla soglia dei trent’anni, completamente smarrito di fronte ad un enorme espositore ricolmo di caramelle e dolciumi vari, mentre i gemelli Kaulitz, di fronte a lui, mettevano a soqquadro ogni singolo ripiano alla ricerca dello zuccherino perfetto.
- Bill… - chiamò a bassa voce, stringendo ansiosamente le dita attorno al manubrio del carrello, - Non è per fare il rompiballe, ma non ti pare di stare un po’ esagerando?
Bill fluttuò luccicando dall’espositore al carrello e liberò le braccia dall’enorme ingombro di caramelle già afferrate.
- Bu, non puoi capire quanto ti amo. – buttò lì a mo’ di calmante momentaneo, - David non ci avrebbe mai accompagnati! Solo tu sei stato tanto coraggioso!
O imbecille, commentò fra sé.
Ma forse coraggioso andava bene lo stesso.
- Senti, ma riuscirete a mangiarli?! – chiese, piuttosto incredulo, mentre ficcava una mano in profondità nel carrello e tirava fuori un pacchetto di caramelle gommose e trasparenti il cui materiale di fabbricazione era probabilmente vietato per legge nella maggior parte dei paesi della Comunità Europea. – Vi faranno male…
- Scherzi? – sbottò Tom, apparendo al suo fianco e riversandogli addosso una cascata di liquirizie di ogni tipo, - Georg va al cesso regolarmente solo se lo rimpinziamo di dolciumi. Vorrei vedere te con un bassista stitico in giro per casa.
Bushido si lasciò andare ad una smorfia infastidita, aiutando il Kaulitz maggiore a rovesciare le liquirizie nel carrello.
Anche Saad era stitico, da piccolo. Sua madre risolveva con un clistere, però, mica imbottendolo di veleno colorato.
- Oddio, quelle. Le voglio assolutamente. Ah… oddio. Uuuh…
Sconvolto e annichilito da versi per i quali in genere si compiaceva – perché li ascoltava fra le lenzuola, non in un supermercato a mezzogiorno – si voltò verso Bill, e lo trovò a fissare con aria innamorata un pacchetto di caramelle gialle zuccherate a forma di banana, sul ripiano più alto.
- Aaaah, Bu, le voglio! – strillò il ragazzo, attaccandosi al suo braccio e cominciando a tirarlo con aria furiosa.
- Bill, ma Cristo! – lo rimproverò lui, inorridendo profondamente, - Ma datti un contegno, cazzo, sembrava stessi per venire! – aggiunse a bassa voce.
- Ma quelle caramelle sono orgasmiche, Bu, le stravoglio! Banane!
- Dio, ma sei un doppio senso vivente… - commentò, cercando di frenare la corsa di Bill.
- Se non mi vuoi aiutare, le prenderò da solo. – concluse seccamente lui, dirigendosi deciso verso l’espositore e cominciando a scalare i ripiani, mentre Tom strillava “Ommioddio, gelatina di frutta!” e spiccava letteralmente il volo verso uno scaffale poco distante.
Bushido inspirò profondamente. Poi si rese conto che, in fondo, se si trovava lì a sottostare alla palese e dilagante schizofrenia di due gemelli pericolosi quanto identici, era stata una sua libera scelta. E i veri uomini non rimpiangono mai le libere scelte. Accettano il loro carico di drammi personali con orgoglio e stoica sopportazione, ed alla fine ne escono vittoriosi.
Allungò una mano ad afferrare Tom prima che si schiantasse contro le gelatine, e l’altra a recuperare Bill prima che si schiantasse contro il pavimento.
- Ragazzini. – spiegò seriamente, trattenendoli fermi accanto al carrello, - In genere, per favori più leggeri chiedo soldi e sesso per periodi di tempo varianti dai dieci anni ai successivi trenta. Ora, con voi non posso, perché tanto per cominciare avete meno soldi di me ed oltretutto scopo già uno di voi due, e ne so abbastanza da capire pure che non ne voglio un altro. Perciò, adesso ci diamo una calmata e cerchiamo di fare una spesa decente, okay?
Bill lo fissò con sincero ed offeso sgomento.
- Sei David! – esclamò, puntandolo con un dito, - Sei tremendo! Non posso credere di scoparti! Sei orrore!
Bushido mugolò del dolore vario ed eventuale e si passo una mano sulla fronte, fra i capelli cortissimi e sul collo, implorando perché lo spirito del guerriero lo sostenesse in quel momento di grave difficoltà.
- Bill, sto solo cercando di non vederti morire giovane e brufoloso per eccesso di zucchero nel sangue. – scoccò cattivo, sapendo esattamente dove mirare per far male.
Bill, infatti, si arricciò disperato attorno al gemello, mugolando “Mi maltratta! Tomi, fai qualcosa!” ed obbligando Tom a gonfiare quel – misero – petto che si ritrovava, in una pallida imitazione di galletto da combattimento che, al più, poteva farlo ridere.
- E tu, specie di scopettone con palesi problemi igienici, dì una sola parola e giuro che con le liquirizie ti ci tappo i buchi. Tutti.
Tom trasalì e si arricciò a propria volta contro Bill, di modo che i due gemelli Kaulitz smisero di essere due e si ridussero ad una palla di emorabbia.
- Ma chi me l’ha fatto fare… - sospirò Bushido, scuotendo il capo e cercando di riprendere il controllo della situazione. – Ora, tanto per cominciare, a voi servono decisamente dei vegetali. Perché siete stupidi, questo è evidente. Perciò, vegetali e pesce. – elencò compitamente, annuendo come a darsi ragione da solo e compiacendosi pure un po’ per il magnifico sfoggio di self-control che stava esercitando.
- Verdura?! – squittì Bill, slacciandosi dal gemello e balzando come un capriolo sulle ruote anteriori del carrello, - Ma è verde!
- Verde, fresca, buona e salutare. – aggiunse Bushido, annuendo ancora. – Non tutta la verdura però è ugualmente valida o piacevole. Prendiamo ad esempio il radicchio, il radicchio-
- Bu, piantala immediatamente, ma che schifo! – inorridì Bill, saltando giù dal carrello ed avvicinandosi a lui con aria che avrebbe potuto identificare come minacciosa, se Bill stesso non fosse stato un fuscello pure di qualche centimetro più basso di lui.
- Ma tu hai mai mangiato in maniera normale?! – chiese a quel punto, dirigendosi spedito verso il reparto ortofrutticolo, - Che so… pasta, carne, insomma, alimenti umani e commestibili!
- Le caramelle sono commestibilissime! – protestò Bill.
- Ed aiutano Georg ad andare di corpo! – precisò Tom.
- E voi due siete due deficienti, altro che verdura! – commentò Bushido, resistendo a stento all’impulso di ficcarli entrambi nel carrello e soffocarli con i sacchetti di dolciumi.
- E poi la pasta la mangiamo. – aggiunse Bill, riflessivo, - Tomi fa un sugo che è spettacolare!
Bushido lo sferzò con un’occhiataccia sarcastica.
- Tu cucini? – chiese, alla volta del rasta.
- Sì, e sono un Dio anche fra i fornelli! – attestò quello, gonfiandosi d’orgoglio, mentre Bushido cercava stoicamente di non scoppiare a ridere per quanto suonavano buffi insieme gli appellativi di dio del sesso e dio massaia.
- E sentiamo, - borbottò incredulo, - di cosa sarebbe composta, questa salsa?
- Mah, è variabile. – rifletté seriamente Tom, - Dipende da quello che c’è in casa. Comunque il ketchup è l’ingrediente base.
- Perfetto. – annuì Bushido, chinandosi a recuperare delle ciliegie da una cassa di frutta, - Il ketchup non è nemmeno cibo. Cominciamo bene.
- Ma va’! – protestò Bill, - Ha un buon sapore, è energetico e nutriente!
- Non sai neanche cosa voglia dire nutriente… - sospirò Bushido, rigirandosi le ciliegie fra le mani per constatarne la qualità e lo stato di maturazione, - Non parlare a vanvera. Toh, assaggia questa. – concluse, ficcandogli una ciliegia in bocca e sporcandosi con un po’ di succo quando Bill la morse. – Buona, mh? – chiese con un sorriso, ripulendosi le dita con la lingua.
Bill spalancò gli occhi e sembrò genuinamente entusiasta, mentre ruminava la propria ciliegia.
- È dolce… - commentò, - Ma c’è il semino! – borbottò, sporgendo le labbra per mettere in mostra il piccolo nocciolo pallido e lucido di saliva.
Bushido sospirò pesantemente ed allungò una mano, attendendo che il semino rotolasse dalle labbra di Bill al suo palmo, per poi avvolgerlo in un fazzoletto di carta e metterlo via.
- Ma questa roba è noiosa… - commentò a quel punto Tom, evidentemente frustrato perché a lui non era toccata nessuna ciliegia da prendere in bocca.
- Non è noiosa, è diversamente divertente. – precisò Bushido, - Per esempio, le ciliegie sono divertenti da mangiare… - sorrise compiaciuto, agitando due ciliegie, reggendole per il picciolo fra due dita, ed osservando gli sguardi di Bill e Tom incollarsi alle sfere rossastre e brillanti come ipnotizzati. – Oh, questo è divertente, per dire.
- Ehi! – sbottò Bill, interrompendo all’improvviso il movimento rotatorio della propria testa ed allungandosi ad afferrare le ciliegie, - Che fai, prendi per il culo?!
- Non in senso stretto, purtroppo. – si lamentò Bushido con un sospiro.
- Porco.
- Almeno tu staresti zitto. Con in bocca la tua caramella preferita.
- Porco!!! E Tomi?!
- Non infilare tuo fratello così a caso nei discorsi sessualmente espliciti, Bill… - mugolò lui, affranto.
Tom, sentendosi chiamato in causa ma non avendo seguito il discorso, pensò bene di strillare ed indicare un punto a caso nel vuoto.
- Oddio, Bill: il bancone dei gelati!
- Ehi, ehi! – li riprese Bushido, un secondo prima che i due sgattaiolassero verso il bancone, rotolanti e uggiolanti come cuccioli. – Avevamo detto del cibo umano!
- Ma hai problemi pure col gelato? – inquisì curiosamente Tom, - Ma che infanzia tremenda hai avuto?
- Niente di particolarmente esaltante, in effetti. – borbottò lui, cupo.
Bill sferrò un ceffone al fratello, mandandogli all’aria il cappellino.
- Come osi dirgli una cosa simile?! – strillò oltraggiato, - Non lo sai che suo padre maltrattava sua madre ed era un ubriacone e se n’è andato via quando lui aveva tre anni, per poi ripresentarsi solo ventitré anni dopo e solo perché lui era diventato famoso?! Sei un mostro!
- Grazie, Bill. – sospirò Bushido, - Ora, se qualcuno aveva intenzione di comprare la mia biografia, potrà tranquillamente risparmiarselo. Comunque! – riprese con tono imperioso, - Cerchiamo di non divagare. Concentriamoci. Focalizziamo l’obiettivo e-
- Già! – annuì Bill, entusiasta, - Focalizziamo l’obiettivo! Tipo: devo comprare del lubrificante.
Tom lo fissò a metà fra l’incredulo e il disgustato.
- Ma non puoi mica mangiarlo! – obiettò saggiamente, gesticolando come un moccioso.
- Mi auguro che non ci pensi nemmeno, a mangiarlo. – aggiunse Bushido con l’ennesimo sospiro, - Che dovresti fartene, Bill?
Bill modulò le labbra in un’espressione imbronciata e perplessa.
- È per Mister VibraBu… ha finito la sua scorta giusto ieri.
Il primo istinto di Busido fu quello di infilarsi nel carrello e nascondersi sotto i quintali di caramelle ancora stipati al suo interno.
- Bill! – strillò inviperito.
- Cos’è un VibraBu? – chiese invece Tom, curioso, ficcando a caso le mani nel carrello e riemergendo con un pacchetto di zuccherini alla fragola, - Perché io non ne ho uno?
- Non ne hai uno perché Mister VibraBu è unico, solo e mio! – sbottò Bill, offesissimo, afferrando il pacchetto di caramelle alla fragola e cominciando sistematicamente a trangugiarne il contenuto.
- Se ne sei così geloso dev’essere bello. – concluse Tom, facendo sfoggio di invidiabile intuito, mentre Bushido si passava una mano sugli occhi e pregava il solito dio sordo dei dannati guerrieri per un po’ d’aiuto. – Cos’è?
- È il vibratore che mi ha regalato Bu per quando non c’è e non può provvedere da sé. – spiegò compitamente Bill, mandando giù caramelle a manciate, - È viola, traslucido, fortissimo e con le palline dentro. – sorrise sognante, - Ed è anche enorme, oltretutto! – aggiunse annuendo e continuando ad ingurgitare caramelle, - Anche se non come l’originale, c’è da dire.
Bushido smise di pregare per un po’ d’aiuto e meditò di convertirsi ad una qualche fede che prevedesse la possibilità di richiedere una morta istantanea e non dolorosa.
Non gliene venne in mente nemmeno una.
Si voltò a guardare Tom, sperando avesse una reazione normale – tipo inorridire, saltare in aria, ricoprire il proprio gemello di disappunto o di liquirizia o cose simili – ma ovviamente il fottuto dio doveva averlo abbandonato per sempre, perché Tom reagì in maniera completamente diversa: si voltò a guardarlo con una lentezza esasperante, assottigliando gli occhi come quelli di un gatto e – Bushido poteva sentirlo sottopelle – anche affilando gli artigli. Che teoricamente possedeva il fratello. Ma insomma, metaforici!
- …davvero così grande? – chiese il rasta con un sorriso che non gli piacque proprio per niente, e così Bushido ribatté nell’unico modo possibile.
- Io non ti scoperò! – stabilì perentorio.
La cassiera a qualche metro da loro, la mamma con figli nel reparto a fianco e la nonnina che comprava frutta secca lì vicino lo guardarono come fosse un mostro.
Anche Tom.
- Perché lui sì e io no?! – strillò inviperito, strattonandolo infantilmente per la maglietta.
- Ossignore! – urlò Bushido, nascondendosi terrorizzato dietro Bill, per quanto si potesse fisicamente verificare una situazione simile, - Bill, fai qualcosa! Cristo, tuo fratello sta flirtando!
- Sì, ma lo fa solo perché vuole le caramelle. – sospirò Bill annoiato, liquidandolo con un flemmatico cenno della mano, - Non badargli, non ti ama quanto ti amo io.
Il punto era Bushido non fosse più tanto sicuro di che caramelle andasse cercando il maggiore dei Kaulitz.
- Comunque! – concluse Bill, battendo felicemente le mani, - Al lubrificante posso pure rinunciare, per oggi, tanto stasera ti fermi a dormire da noi, giusto?
Vagamente offeso dal fatto Bill non sentisse il bisogno di lubrificarsi per lui, Bushido cercò di protestare in maniera più o meno razionale.
- Visti gli ultimi sviluppi della giornata, non mi sembra un’idea saggia… - azzardò incerto.
- Perfetto, quindi resti a dormire da noi. – annuì Bill, - Allora Mister VibraBu non servirà! Tomi, se vuoi puoi provarlo.
- L’originale?
- Mister VibraBu! L’originale è mio!
- Uffa, sempre il solito egoista, tu! Sei pronto a dividere tutto: casa, vita, morte, buttarsi dal balcone, perfino i vermicelli gommosi, ma quando si parla di uccelli…
- Signore… - s’intromise la voce della cassiera, distogliendolo dallo spettacolo inumano, indecente ed inascoltabile dei gemelli Kaulitz che si litigavano il suo cazzo in mezzo alla fila di casalinghe a fare la spesa, - È tutto qui? C’è altro?
Bushido scosse lentamente il capo, cominciando a passare i pacchi di caramelle sul nastro trasportatore.
- Bene, fanno trecentosettantadue euro e quarantacinque centesimi. – sorrise la donna, conciliante, mentre Bill e Tom lasciavano indietro i sacchetti colmi di dolciumi per continuare ad accapigliarsi qualche metro più avanti.
Bushido infilò le mani nelle tasche ed aprì il portafogli.
Sollevò lo sguardo, depresso e deprimente, e si lasciò andare ad un sospiro distrutto.
- Accettate carte di credito?
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: PWP, Slash.
- "Fa male, ma è lui. Ed è così lui che fa male."
Note: Awh. Okay, è palese che io mai e poi mai riuscirò a staccarmi da questa serie XD D’altronde, perché dovrei? È solo una delle più belle fanfiction abbia mai letto, per quanto Tab possa ostinarsi a pensare che EKR non meriti tutto questo affetto. EKR merita questo ed anche di più. Anzi, decisamente meriterebbe di più, ma è questo che io so dare ^^ E poi per la storia canonica c’è già Tab che lavora alla grande (credetemi, io so: moriremo tutti); io, più che sovvenzionare con del porno gratuito, non posso è_é/ Perciò è quello che faccio u.u
Insomma: missing moment breve e senza pretese che esplicita una fantasia comune a me e Tab XD È venuto forse peggio di come speravo, ma c’è una frase che penso con molta immodestia di amare nel profondo: “Fa male, ma è lui. Ed è così lui che fa male”. Questo è semplicemente l’amore. Punto. u//////u”””
A parte questo, ho fatto un gioioso richiamino all’originale per quanto riguarda il darsi del Bu (ma detta così è tremenda, mi rendo conto), e mi sono vagamente auto-citata nel momento in cui faccio dire a Chakuza quel “Tu sei pazzo, Atze” che sì, dovrebbe proprio ricordarvi il Saad di Augenblick XD Ma se non l’avete riconosciuto non vi odierò *-*;;;
Ahm. Vediamo. La questione della verità tatuata addosso! È il gioioso ideogramma che il nostro s’è marchiato sulla mano destra. Grazie alla sempre utilissima Sara, adesso so che è un ideogramma cinese e sta per “verità”. Awh awh awh tutte in coro per il Bu con principi morali <3
Ed ora vi mollo, prima che le note diventino più lunghe della lemon “XD
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AFFIRMATION

Mezz’ora fa il letto era caldo di noi. Era caldo del mio corpo teso e sfatto sotto le sue mani, ed era caldo del suo, forte ed ostinato sotto le mie. Ad Anis piace quando dormo da lui. Succede di rado, perché casa sua finisce sempre per essere casa della crew, ma quando succede lui si esalta.
Dal momento che io sono un dormiglione, non mi sveglio mai prima di lui. Quando apro gli occhi, è sempre perché ho già le sue mani addosso.
Alle volte perfino dentro.
Mentirei, se dicessi che all’inizio non mi abbia turbato. Credo di aver fatto un salto di tre metri e di averlo pure schiaffeggiato, nell’incoscienza del dormiveglia, la prima volta che l’ha fatto.
Poi però è entrata in gioco l’abitudine – e soprattutto mi sono reso conto che questo modo appiccicoso e bruciante di desiderio che ha di porsi con me, non è altro che il suo modo di fare l’amore.
Lui non si esaurisce col sesso.
Io sono suo. Sempre. Soprattutto quando non scopiamo.
Adesso, la sua parte del letto è fredda; la mia, invece, è calda solo del mio scazzato rigirarmi fra le lenzuola. Che poi, mi sento assurdo quando penso cose simili: io non ho una mia parte del letto. Questo è solo lo stupido letto matrimoniale della stupida camera in cui dorme quando non sta con me. Dovrei odiare questo fottuto posto. E invece il suo profumo è ovunque.
Dal soggiorno arrivano le risate sguaiate di Saad. Eko si sta lamentando di qualcosa, sento la sua vocetta noiosa che si muove come in un flusso sotterraneo sotto le risate.
Anche Anis sta ridendo. Però la sua voce la sento nel petto, e mi scuote.
Mezz’ora fa, c’era la sua voce ovunque. Le sue mani ovunque.
Ed io, adesso, sono qui: nudo solo e disperatamente vuoto.
Mi sfioro da sopra le lenzuola.
Anche se chiudo gli occhi e provo a immaginare lui, le mie mani fanno schifo, come sostituto.
Piccole, magre, fragili. Gli artigli, poi.
Io amo le mie mani, cazzo. Prendere ad odiarle solo perché non mi scivolano addosso bene come le sue è… disturbante. Ecco. Non dovrei pensare queste cose.
Penso che dovrei scivolare silenziosamente fuori da questa stanza, ficcarmi in bagno e farmi una bella doccia per calmare i bollenti spiriti. Magari, se una doccia non basta, anche due. O una sega, Dio, qualsiasi cosa.
Mi stendo a pancia sotto, arrotolo il lenzuolo fra le gambe ed abbraccio il cuscino. Resto a pensare un po’. L’odore di Anis sta svanendo, il mio stupido profumo se lo sta mangiando tutto. Odio profumare così tanto, anche se ad Anis piace. Ciò che piace a me dovrebbe venire sempre prima, ed io vorrei essere inodore ed insapore, così da annusarmi e sentirmi addosso lui quando ci separiamo.
Invece, quando lui va via io resto solo io e non sono niente.
E dovrei veramente smetterla di pensare.
Sospiro, faccio per alzarmi, rimango seduto a fissarmi le punte dei piedi.
Dal fondo del corridoio sento un “’cazzo fai, Atze?” che mi costringe ad un ghigno irritato, perché io odio questo stupido nomignolo che si scambiano a vicenda. Non posso usarlo, perché ci sono cose che non potrò mai fare. Anche se un giorno questo mondo stronzo che s’è scelto o gli è capitato – non so – dovesse accettarmi, ci sono determinate cose che io non sarò mai e non potrò mai fare.
Sono giusto ad un centimetro dalla sponda del letto – cercò già con gli occhi le scarpe sul parquet – quando la serratura scatta e la porta si apre.
Vado nel panico.
Cristo.
Non sanno che sono in casa.
Anis non lo dice mai.
Io in genere resto buono zitto e tranquillo finché non vanno via.
Oddio.
Chi cazzo è?
Afferro il lenzuolo e lo porto a coprirmi di scatto, così di scatto che mi sfugge dalle dita e mi do da solo un pugno sul mento.
Sono ridicolo.
Ed infatti, chiudendosi la porta alle spalle, Anis ride.
- Solite seghe mentali di primo mattino, Bill? – chiede sarcastico, muovendosi perfettamente a proprio agio dalla porta al letto e lasciandosi ricadere con un tonfo sul materasso accanto a me.
Guardo altrove, imbarazzato.
- Sono quasi le undici. – mormoro incerto, - Il primo mattino è passato da un pezzo.
Si china e mi bacia sulle labbra, senza preavviso e senza un perché.
È una cosa che, Dio, adoro di lui. Mi tocca sempre. Come volesse lasciarmi un’impronta addosso.
- Non contraddirmi. – dice poi. Il tono è rude, ma sorride. – O almeno, se vuoi farlo, contraddicimi sulle cose importanti. Non sull’orario.
- Non mi stavo facendo le seghe mentali! – mi giustifico mentendo. È un giochino stupido, lui sa sempre quando mento. S’è tatuato addosso la verità mica per caso: ha un talento per riconoscerla.
Mi si spinge un po’ contro, pretendendo centimetri di materasso. Io mi scosto borbottando, finendo dalla sua parte e lasciandolo distendersi sulla mia. Ne prende possesso con tutto il corpo, allarga le braccia, allunga il collo, stira le gambe e tende la schiena. La camicia si stringe sul suo petto, i bottoni tirano un po’. Vorrei staccarli a morsi, uno dopo l’altro.
- Mi dispiace di essermi interrotto, prima. – sospira, socchiudendo gli occhi sul cuscino, - Non potevo lasciarli fuori dalla porta.
- Certo che no. – mugugno, guardando altrove. – La crew prima di tutto.
- Be’, per te la famiglia viene prima di tutto, no?
- La tua famiglia è tua madre. Non avrei niente in contrario se aprissi a tua madre, anche se nel mentre stiamo facendo sesso. – mi fermo, lui ride di cuore. – Cioè! – mi agito immediatamente, - Ovviamente ci fermeremmo! Avanti… hai capito.
Si rimette seduto e si allunga, afferrandomi con un braccio attorno al collo e trascinandomi verso di sé.
- Ho capito che sei geloso come un adolescente in calore. – spiega annuendo, - Cosa che peraltro sei. Spiegami chi me l’ha fatto fare.
Mi lascio andare ad un ghigno cattivo.
- La tua irrefrenabile libidine e il mio culo da ragazzina?
Sul culo da ragazzina lascia uno schiaffo che è una provocazione e un pegno d’affetto.
- Forse. – sorride furbo, - Per quanto debba ammettere che anche quello che hai davanti non mi faccia particolarmente schifo… - continua, insinuando una mano sotto al lenzuolo, fra le mie cosce.
Rabbrividisco ma mi lascio andare contro il suo petto, incapace di protestare.
- Non hai decenza. – sospiro sul suo collo, - Come fai a dire cose così palesemente…
- …dillo, su.
- …be’, gay!
Anis mi ride fra i capelli, il suo respiro arriva fino al mio orecchio e lo accarezza.
Sono eccitato come non mai, lui mi accarezza lentamente. Io chiudo gli occhi.
- Per quanto tu possa continuare a truccarti, piccolo, resti un maschietto. Sto toccando con mano la prova, al momento. – ride ed io rabbrividisco ancora. È vero, non ha decenza. – Ora, se io sono venuto a patti con la tua virilità, perché tu non ci sei ancora riuscito?
Perché forse mi piacerebbe essere donna.
Forse, se fossi donna, le pretese che ho su di te sarebbero legittime.
Forse nessuno mi guarderebbe come fossi un fenomeno da baraccone.
Forse quelle teste di cazzo dei tuoi amici mi avrebbero già accettato un casino di tempo fa.
Potrei prenderti dentro senza sensi di colpa. Potrei accoglierti come meriti.
Ed invece ti ritrovi con un surrogato di sesso. Con un maschio. Con uno che ti complica la vita.
Ma sono contento che resti.

- Io e la mia virilità stiamo benissimo. – protesto a denti stretti. La sua carezza si fa più decisa, ora mi stringe con sicurezza fra le dita. – Dio, continua… - sospiro, stendendomi meglio sopra di lui, per rendere i suoi movimenti più agevoli.
- Ho voglia di scoparti adesso, piccolo. – dice fra una carezza e l’altra, scendendo a lambire un lobo con le labbra, - Ti va?
- Ci sono quelli, di là… - mugugno lamentoso. In realtà sto pensando che non me ne frega un cazzo. Allargo le gambe e ruoto il bacino, sedendomi direttamente addosso a lui, proprio sopra la sua eccitazione.
- …ti va. – risponde lui per me, ridendo contro il mio collo e baciandomi sulla nuca, umido e caldo, proprio sul tatuaggio del simbolo dei Tokio Hotel. Questo mi fa sorridere, perché in fondo anche io ho un mio mondo al quale lui non appartiene ed all’interno del quale sarebbe stonato come un bucaneve ai tropici, però la cosa non lo mette a disagio come mette a disagio me.
Sospiro e mi lascio andare contro di lui. Vorrei pregarlo di smettere di accarezzarmi, o verrò subito ed odio venire quando non l’ho ancora sentito dentro, ma capisco in fretta di non avere bisogno di chiedergli niente: il ritmo delle sue carezze diminuisce e poi si ferma del tutto, mentre sbottona i jeans e vaga con la mano verso il comodino, alla ricerca dei preservativi.
Lo afferro e lo riporto verso di me.
- Piantala coi convenevoli. – sbotto a un centimetro dalle sue labbra, - Voglio sentirti mentre vieni.
Lui rilascia un sospiro improvviso e più profondo degli altri. Gli vedo brillare negli occhi una luce che è soddisfazione, orgoglio e desiderio. Una mistura che conosco bene, perché è la stessa che illumina me.
Mi spinge in avanti. Cado in ginocchio sul materasso e poi mi piego, piantando i gomiti nella gommapiuma per non scivolare col viso fra le lenzuola. Lui mi morde il collo e si sistema dietro di me, stuzzicando la mia apertura con la punta della sua erezione, già lievemente bagnata. La strofina lentamente avanti e indietro, forzandomi appena e ritirandosi subito dopo, cercando di lubrificare l’entrata nel modo più naturale possibile.
Questa frizione è così tesa ed erotica che mi mozza il respiro.
Cerco di mugolare a bassa voce e stringo le mani attorno alle lenzuola.
- Fatti sentire anche tu, però. – sibila ad un centimetro dal mio orecchio.
Scuoto il capo con una nettezza che è resa ridicola dalla mia ansia.
- Ci sono quelli, di là. – ripeto con più decisione.
Anis sorride ed entra dentro di me in un solo colpo, secco e deciso. Mi mordo un labbro per non urlare. Fa male, ma è lui. Ed è così lui che fa male.
- Anis… - mormoro in un lamento spezzato, strizzando forte le palpebre mentre mi chiudo attorno a lui, sentendolo mugolare di piacere contro la mia schiena. Tirargli fuori dalla bocca lamenti simili è oltremodo eccitante ed emozionante. Non te li aspetti, da uno come lui, ma quando si tratta di darsi Anis si dà e basta. Smette perfino di pensare.
Lo sento pompare velocemente dentro il mio corpo; stringe forte i miei fianchi tra le dita, e d’istinto capisco che è troppo preso per occuparsi di me. Scendo a sfiorarmi fra le gambe e lui sospira compiaciuto, sporgendosi per guardarmi.
- Cristo, sei bellissimo quando ti tocchi… - si complimenta con voce roca, baciandomi la nuca.
Sorrido e continuo a farlo, ma sono un completo disastro. Non riesco ad andare incontro alle sue spinte, ogni volta che lo sento battere dentro di me vorrei soltanto spingere e urlare, ma devo trattenermi perché cazzo, va bene fare sesso con gli altri di là, ma dare anche spettacolo no; e perdo il ritmo, e mi confondo, ed Anis ride dietro di me e mi dà un bacino sullo zigomo.
- Impiastro… - mormora, mordendomi la spalla e scendendo a sfiorarmi fra le gambe, - Devo fare tutto io?
Per dimostrare che anche io sono ancora in grado di fare qualcosa, contraggo i muscoli attorno a lui. Anis sorride e mi tira per il mento con la mano libera, baciandomi profondamente per attestare un assenso che non ha veramente bisogno di esplicitare. Però i suoi baci mi piacciono, perciò lo accetto con tutti i sentimenti.
- Oddio, Anis… - lo chiamo, cercando di reggermi in ginocchio senza tornare a cadere in avanti. Spero che lui continui a tenermi per la vita, o avrò poco da tentare in ogni caso, - Sto venendo… più forte… dai… - non so neanche cosa sto dicendo, è imbarazzante da morire. Cerco almeno di tenere la voce bassa. Oddio, spero che non ci senta nessuno.
- Piccolo… - spinge, spinge, accarezza e spinge, - Non ti sento…
- Anis…
- Cazzo, dillo forte!
Ed io lo urlo, cazzo, lo urlo e vaffanculo al resto, Anis, vaffanculo la crew, Anis, vaffanculo il non essere soli e l’ostinazione a non accettarmi e le umiliazioni che mi riservano quando non posso sentire ed anche i contrasti e le diffidenze, Anis, Anis, Anis, chiudo forte gli occhi e lui viene dentro di me, mi spingo contro il suo bacino e lo seguo col battito di cuore successivo.
Mi lascia andare ed io, prevedibilmente, cado in avanti. Meno prevedibilmente, lui mi segue, stendendosi su di me. Non pesa. È dolce.
- Non ti allontanare subito… - mormora. Sento le sue ciglia contro il collo, è una sensazione stupenda. – Abbiamo tempo.
- Non ne abbiamo. – rido a bassa voce, - Quelli sono ancora di là. – preciso.
- Sai che è insopportabile, quando lo dici? – ride, stringendomi alla vita. Poi sospira e scioglie le braccia, allontanandosi da me e rimettendosi in piedi. – Faccio subito. – commenta, abbottonando alla buona i jeans ed uscendo velocemente dalla camera.
Incuriosito, metto su un mezzo broncio che mi dispiace lui non possa vedere e mi avvolgo nel lenzuolo, alzandomi a mia volta in piedi e spiando attraverso la porta dischiusa ciò che avviene in soggiorno. C’è una bella visuale, piena e completa, da qui. Saad, Chakuza ed Eko stanno seduti sul divano, l’aria fra lo scazzato ed il forzatamente disinteressato. Eko ha le braccia incrociate ed un’espressione furiosa a stravolgere i tratti del viso, ma quell’uomo è così naturalmente divertente che non posso fare a meno di lasciarmi andare ad una risatina stupida.
Non dicono niente, si limitano a guardarlo mentre lui, controllatissimo, si china a recuperare una bottiglia di birra aperta e ne beve un sorso, tenendola saldamente per il collo.
Manda giù, la ripone sul tavolo e inarca le sopracciglia.
- Cosa? – chiede gelido, guardando tutti in generale e nessuno in particolare.
- Cosa, chiede lui. – borbotta Saad, alzandosi furiosamente in piedi, - Stavamo-
- Per concludere. – completa con aria assassina e sorriso sereno. – A domani?
Saad lo manda a fanculo. Eko scuote il capo e lo segue, borbottando qualcosa sull’amore che è una fregatura e basta. Chakuza non può fare a meno di ridacchiare. “Tu sei pazzo, Atze”, commenta – è una cosa che dice spesso – ma non mi sembra lo faccia con cattiveria. I rapper, comunque, valli a capire.
Sento battere la porta di casa meno di due secondi dopo.
Anis beve un altro sorso di birra.
- Finalmente soli, eh? – ghigna divertito, facendomi un cenno col capo per informarmi che sa esattamente che lo sto spiando da quando è andato via.
Sorrido, apro la porta e lascio cadere per terra il lenzuolo.
Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Crack, Slash, Language.
- Bill prova a mettere in pratica una delle proprie fantasie sessuali ricorrenti. Purtroppo per lui, nessuna delle persone in essa coinvolte sembrano essere disposte ad aiutarlo.
Note: Rotfl. Allora, prima di tutto sputtaniamo un po’ la Tab: questa storia è interamente una sua colpa ed un suo parto, io mi sono ritrovata controvoglia (ah, sì?) ad esserne l’esecutrice materiale, ma i credits per l’idea vanno tutti a lei u.u Si parlava gioiosamente di casalinghe e di ciò che le soddisfa, quando io ho strillato che tutto ciò faceva molto Billshido (non chiedetemi perché: ultimamente tutto ciò che penso o guardo fa molto Billshido); la sua risposta è stata “è vero, e potrebbe anche essere IU”. Allucinata, le ho chiesto in che assurdo modo avrei potuto rendere Bushido credibile come giardiniere, in una IU, e lei ha risposto “ma col foreplay, ovviamente!”.
Dopodiché, giuro, ha scritto i dialoghi. Praticamente tutti. Non ha neanche senso che vi quoti i pezzi precisi, perché sono davvero la maggioranza. Solo quelli con Tom all’inizio e la scena sul divano alla fine non hanno battute inventate da lei. Tutto il resto è furto autorizzato u.u
Sowieso. Spero che la fic vi sia piaciuta *-*;;; E lo so, sono detestabile perché continuo a perdermi nelle vaccate invece di scrivere ciò che dovrei ._. Mi fustigo abbastanza da sola, voi amatemi e basta, ‘kay? çOç
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CLICHÉ

- Io non sono d’accordo.
Bill scoccò un’occhiata annoiata al proprio fratello, e mise su un broncio al quale – lo sapeva – nessuno era mai in grado di resistere. Era a causa di quel broncio che si muovevano i mari e i monti; era a causa di quel broncio che neanche i vertici della Universal riuscivano a negargli qualsivoglia follia e che David piangeva amare lacrime nel sopportare i suoi innumerevoli capricci.
Era, infine, a causa di quel broncio, che suo fratello e Bushido avrebbero obbedito. Come sempre.
- Tom, se tu non fai il marito trascurante, la fantasia non ha senso. – spiegò pacatamente, intrecciando le braccia sul petto e sporgendo un’anca con fare civettuolo.
Tom si passò una mano sulla fronte, rilasciando un sospiro esasperato.
- Bill. Io sono tuo fratello e ti voglio un bene immenso. Ma tu non puoi davvero chiedermi di far parte delle tue fantasie sessuali.
Bill inorridì dalle punte dei piedi a quelle dei capelli, tirando un cazzotto schifato ed offeso contro la spalla del proprio gemello.
- Ma sei completamente scemo?! – strillò oltraggiato, - Non ti ho chiesto niente del genere, cazzo! Sei un pervertito! Ti ho solo chiesto di fare finta di essere mio marito ed uscire di casa dicendo che neanche stasera saresti tornato a cena per una riunione!
- E questo, se non l’hai capito, - strillò a propria volta Tom, mettendosi letteralmente le mani fra i capelli come un marito isterico, - è farmi diventare una parte delle tue fantasie sessuali!!!
- Ma non ti ho mica chiesto di-
- Non azzardarti neanche a dirlo perché giuro che ti faccio del male, Bill!!!
Il moro ringhiò e si trincerò prepotentemente dietro un muro di silenzio, sopracciglia aggrottate, bronci spinti fino all’inverosimile e piedini battuti nervosamente per terra.
- Bill…?
Mutismo.
- Bill!
Niente.
- …
Ostinazione.
- E va bene, va bene, Cristo!
E poi il classico sorriso che si apre all’improvviso e ti fa ricordare perché in effetti la gente lo trovi carino.
Tom si affrettò a raggiungere la porta, lanciando improperi ad ogni passo, mentre Bill lo inseguiva agitando una ventiquattrore stupidamente vuota e strillando “tesoro, non dimenticare la borsa!”.
Fuori dall’elegante villetta con giardino che i gemelli avevano recentemente comprato per le vacanze, tutto sembrava perfetto: il sole splendeva picchiando senza ritegno i passanti per le strade, gli uccellini cinguettavano rendendo i suddetti passanti isterici e, più in generale, i passanti soffrivano moltissimo, mentre a Bill la situazione pareva ad un passo da un idillio. E tutto ciò perché, in mezzo alle azalee, sporco di terra e sudato come un bue attaccato ad un aratro – nonché ugualmente furioso – Bushido stava piegato sulle ginocchia, e zappava.
- Awh… - si lasciò sfuggire il Kaulitz minore, mentre Tom roteava gli occhi ed afferrava la valigetta, chiedendosi se per caso non potesse usarla per fare del male a Bill, o a Bushido, o ad entrambi.
- Ehi, guarda che Marito Trascurante è ancora qui. – scoccò acido, - Potresti almeno avere la decenza di non fare gli occhi dolci al giardiniere in mia presenza! – si lamentò mentre Bushido, ignaro, continuava a zappare un buco possibilmente senza fondo.
- Tom, non infilarti senza permesso nelle mie fantasie sessuali! – lo rimbrottò Bill, spingendolo con una certa fretta verso il cancello.
- Ehi! E com’è finita con Moglie Depressa perché Marito Trascurante non torna a casa per cena?! Era la mia battuta madre!
- Sì, sì. – lo liquidò con un breve cenno della mano, - Mi mancherai tantissimo.
Tom mugolò un’offesa a caso e si fiondò letteralmente fuori dalla loro proprietà, inveendo contro l’ingiustizia divina che, potendo scegliere fra dargli un fratello e dargli una piaga, aveva scelto la seconda opzione.
Gongolando nel profondo, Bill tornò dentro casa e stabilì che una casalinga annoiata non poteva assolutamente uscire in giardino a controllare l’operato del giardiniere senza un drink in mano, perciò cominciò a rovistare fra stipetti e scaffali alla ricerca di qualcosa con cui generare un cocktail, ma fu costretto ben presto a rendersi conto del fatto che la minaccia di David – ripulire casa dagli alcolici prima che si trasformasse in un martini-dipendente – s’era tragicamente trasformata in realtà.
Ripiegò su una tristissima aranciata che non sarà stata alcolica ma almeno era allegra e colorata, e trotterellò felice all’esterno, cercando con gli occhi la figura di Bushido accoccolato fra i fiori, trovandolo ancora lì immobile a fissare perplesso il buco per terra.
- Rodriguez! – strillò poi, con evidente soddisfazione, - A che punto sei?
Osservò Bushido rabbrividire istericamente e si chiese perché mai, dal momento che dovevano esserci minimo quaranta gradi all’ombra e, per inciso, lui non era all’ombra.
- Ma guarda tu cosa mi tocca fare… - biascicò l’uomo, alzandosi faticosamente da terra e cercando di ripulire il povero paio di jeans che, pur non rappresentando magari il top della moda moderna, di sicuro non meritavano d’essere trattati come pezze, dal momento che nessuno dei suoi capi d’abbigliamento costava in genere meno di un centinaio di euro. – Sto piantando le azalee, signora, proprio come voleva lei. – flautò a quel punto, cercando di raccattare un sorriso che fosse anche solo lontanamente convincente.
Non lo fu abbastanza.
- Sei un completo disastro. – commentò infatti Bill, passando con velocità schizofrenica dal sorriso compiaciuto alla smorfia insoddisfatta che caratterizzava i suoi scazzi, - Possibile che tu non capisca?! Non è divertente se non sei spontaneo e sincero!
- Bill, cazzo! – si lamentò a quel punto, gettando per terra la zappa e piantando le mani sui fianchi, - Non mi viene bene la parte del giardiniere messicano! Che poi, non ho capito, perché doveva essere messicano?! Io sono tunisino! Il colore della mia pelle non è uguale a quello di un messicano! Sei razzista!
Bill mise su un broncio terribilmente infantile e terribilmente baciabile, ma Bushido si sforzò di ignorarlo perché ne andava del proprio onore.
- Ma sei stato tu a scegliere! – si giustificò il ragazzo, incrociando le braccia sul petto.
- Eh, be’, scusa, ma tra Rodriguez il Giardiniere Messicano e Richard il Postino, questo era il male minore! Abbi un po’ di pietà!
- Allora, – continuò Bill, petulante, - visto che era il male minore, fai almeno lo sforzo di calarti nella parte!
Ringhiando incomprensione, Bushido si chinò e recuperò la zappa, stringendola furiosamente fra le dita.
- Non vedi che sto zappando?
- Sì, ma non sei sessualmente attraente! – si lamentò Bill, gesticolando ampiamente come a voler dimostrare tutta l’enfasi del proprio disappunto.
- Ma Gesù, Bill, sono sudato, unto e sporco di terra, e se alzo un altro vaso di azalee mi viene l’ernia! – ansimò Bushido, ormai sulla via della pazzia senza ritorno, - Non posso anche essere sessualmente attraente! Questo cliché è una cazzata!
- Sei vecchio! – strillò a quel punto il ragazzo, deluso e sfiduciato, - E non ci stai mettendo alcun tipo di sentimento. Non ho parole per descrivere la tua crudeltà!
Bushido roteò gli occhi e fece tremare la zappa fra le mani, meditando sulla possibilità di piantarla in mezzo alla fronte del proprio amante e chiudere lì la lunga lista dei suoi problemi – una lista che cominciava con Bill e che con lui si chiudeva pure, ma Bill era molto lungo, perciò occupava parecchie voci.
- Guarda… - suggerì ad un certo punto Bill, meditativo, - Prova un po’ ad annaffiare, va’.
Rassegnato e depresso, Bushido si chinò a recuperare l’annaffiatoio a forma di papera gialla che aveva trovato in garage quando Bill gli aveva chiesto di metter su quella pantomima ridicola, e fece per annaffiare le azalee.
- Così? – chiese esitante, lanciando un’occhiata incerta ed un po’ imbarazzata al ragazzo al proprio fianco.
- Gesù, Anis! – urlò Bill, sollevando le braccia in un gesto di puro sconcerto, - Con la canna dell’acqua! Cristo! Come vuoi che mi venga qualcosa di sessualmente appetibile in mente, se usi l’innaffiatoio?! A forma di papera, poi! Sembri mia zia, cazzo!
- Dio mi venga in aiuto!!! – implorò l’uomo, del tutto fuori dalla grazia del suddetto Dio – e non solo perché non ci credeva – gettando in aria l’annaffiatoio e facendo per muovere qualche nervoso passo attorno alle azalee, - Ma ti pare normale farmi questo, Bill?! Cazzo, m’ero fatto tutto un filmino stupendo, noi due soli in casa, la musica, magari l’incenso, il picnic sul pavimento in salotto, sesso per ore… - si fermò sfiduciato, le braccia molli lungo i fianchi ed un’espressione di pura disperazione ad addolcire i tratti del viso, - E invece rompi con questa storia del giardiniere! Dico, ma non ti basto io per eccitarti?!
- Evidentemente no! – ribatté Bill, piccato.
- Be’, dovrei!!! – insistette Bushido, offeso al limite della sopportazione.
- Tu sei un uomo tremendo! – protesto Bill, andandogli dietro mentre lui riprendeva a girare in tondo, cercando di smaltire lo scazzo, - E non mi capisci mai! Vanifichi tutti i tentativi che faccio per mantenere questa relazione sessualmente intrigante!
- Ma vaffanculo, Bill! – sbottò l’uomo, afferrando un guanto e tirandoglielo contro, sperando che fargli del male fisico lo aiutasse a sentirsi meglio, - Se non sono sessualmente intrigante al naturale, puoi sempre mollarmi e andartene a cercare uno migliore!
- Non posso credere che tu stia dicendo cose simili!!! – ribadì Bill, rilanciandogli dietro il guanto, - Lo vedi? Lo vedi come sei?! Finiremo per passare le nostre giornate a guardarci negli occhi, annoiandoci a vicenda! E la nostra relazione finirà solo perché tu non hai un minimo di fantasia creativa! – non contento della già consistente marea di cazzate vomitate fino a quel momento, Bill si chinò ed afferrò il papero annaffiatoio, lanciandolo e colpendo Bushido sul naso, - Ecco! – biascicò infantilmente, - Lo sapevo che non eri serio! Io non t’interesso per niente! Stai cercando di farti lasciare perché non vuoi che si dica di te che mi hai spezzato il cuore, e vuoi fare passare me per il cattivo di turno!
Bushido si fermò in mezzo al giardino e si voltò a guardare Bill come fosse un assassino beccato sul fatto.
- …tu! – sbraitò, afferrandolo per le spalle e mettendolo letteralmente seduto su un sacco di terra per farlo star fermo, - Tu sei completamente pazzo, lasciatelo dire! – lo rimproverò aspramente. – Tanto per cominciare! io sono venuto qui col preciso intento di rendere la nostra relazione sessuale più viva e di fare tutt’altro che guardarci negli occhi! Secondo poi, sei tu che non capisci mai quanto mi sforzi per te! E mi chiami, e vengo! E ti lamenti, e ti ascolto! E vuoi essere accompagnato qua e là, e ti seguo! E vuoi essere difeso quando Saad dice che sei un deficiente, e ti difendo, nonostante Saad abbia evidentemente ragione! Al limite, quindi, sei tu che non tieni a questa relazione, e che cazzo!
- Non capisci niente!!! – strillò istericamente Bill, forzando la stretta delle sue mani e rimettendosi in piedi, - Sei tu che… che non sai fare il giardiniere! Non sono io pazzo! E tu poi non è vero che vieni sempre, e poi… - si fermò un attimo, reprimendo un piccolo singhiozzo che, nonostante tutto, Bushido non poté fare a meno di notare, - …e poi sei una merda, ecco, e vaffanculo, e vattene via, non voglio più vederti! – concluse, prendendolo letteralmente a pugni sul petto, prima di allontanarsi verso casa con l’aria incerta e ciondolante di chi vorrebbe camminare con disinvoltura ed orgoglio ma non ci riesce perché ha gli occhi pieni di lacrime.
Con aria vagamente allucinata, Bushido osservò Bill sparire oltre la porta di casa e poi la suddetta porta sbattere alle sue spalle. Si grattò confusamente la nuca, sospirando e cercando di capire cosa sarebbe stato più giusto fare per cercare di difendere il proprio orgoglio – almeno in parte – senza lasciar morire Bill per eccesso di autocommiserazione.
Alla fine, come sempre, mise da parte l’orgoglio e lo seguì all’interno della villetta.
- Bill… - mormorò con un sospiro, cercandolo con gli occhi nel salottino collegato all’ingresso e notandolo subito, arricciato com’era sul divano, - Bill, ehi… calmiamoci un attimo, ti va? È tutto a posto…
- Non è tutto a posto! – piagnucolò Bill, nascondendo il viso fra le braccia incrociate sulle ginocchia e dando prova di essere un puzzle umano, - Non ci hai messo neanche un po’ di buona volontà, sei stato un disastro. – insistette tra un singhiozzo e l’altro.
- Bill, cerca di capirmi anche tu… - biascicò l’uomo, sedendosi al suo fianco pur senza osare toccarlo, - Io non faccio il giardiniere! Io pago fior di quattrini uno stuolo di giardinieri che sistemano le azalee per me!
- E quindi – borbottò Bill, tirando su un paio d’occhioni luccicanti e dal trucco ormai irrimediabilmente compromesso causa lacrime, - vorresti pagare uno stuolo di giardinieri anche perché sistemassero me al posto tuo, magari?!
- Bill! – lo richiamò lui, sconcertato, - Ma come ti è saltata in mente, ‘sta storia?!
Bill tornò ad affondare fra le proprie braccia con un mugolio straziato.
- Non lo so… - spiegò, la voce attutita e triste, - Certe volte sei così insensibile! Credi che ti basti un letto, per esaurire il tuo compito? – singhiozzò con forza, - Sei barbarico! Non lo sai che la sessualità va continuamente stimolata?! Non lo leggi Vanity Fair, tu?! Non t’impegni! Non mi stuzzichi! E prima o poi dovrò trovarmi un giardiniere per davvero! E-
- E finiscila, dai. – sorrise Bushido, avvolgendolo in un abbraccio un po’ rude ma decisamente caldo, - Non sei stanco? – gli lasciò un bacino sulla tempia, - L’ho capito che ci sei rimasto male. Mi dispiace. Non credevo fosse così importante per te.
Bill reagì esattamente come si aspettava, srotolandosi immediatamente dal proprio abbraccio per arrotolarsi di conseguenza nel suo, stringendosi al suo petto e mugolando un misto di frustrazione, offesa e sollievo che, muovendosi in piccoli brividi sopra la pelle di Anis, raggiunse le sue labbra e lo costrinse ad un sorriso intenerito.
- Sei stupidissimo. – lo offese gratuitamente Bill, rovinando per sempre una maglietta che un tempo, prima di Rodriguez e del mascara, era stata bianca, - Ma non è proprio possibile avercela con te…
- Sì, perché sono un uomo paziente e amorevole. – annuì lui, cercando una posizione più comoda sul divano, - Anche se in realtà dovrei essere io a lamentarmi, adesso.
Bill lo pizzicò su un fianco.
- Glissiamo sulle scuse? – chiese piagnucoloso.
- Be’, io mi sono scusato. – precisò Bushido, - Quindi, al massimo-
- Se mi chiedi di scusarmi, ti pianto!
- …al massimo, glissiamo sulle tue, dicevo. – annuì compunto, stringendolo a sé.
Bill sorrise e si spinse in avanti per baciarlo a fior di labbra.
- È vero. – annuì dopo essersi separato da lui, - Sei un uomo paziente e amorevole.
Bushido sospirò e scosse il capo, rassegnato.
- Magari ora però mettiamo in pratica almeno una parte del piano, eh? – chiese, con lo stesso tono lamentoso usato da Bill poco prima.
Il ragazzo lo fissò senza capire.
- Intendi?
Bushido sorrise. E sfilò la maglietta.
Genere: Drammatico, Introspettivo.
Pairing: Bill/Tom, Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Incest, Violence.
- La routine delle sere di David è molto semplice. Torna a casa, cena, fa una doccia, guarda la TV. Poi risponde al citofono e fa entrare Bill, preparandosi ad ospitarlo per la notte.
Note: Prima di tutto, credit vari ed eventuali.
- A Yul per il secondo concorso sulla JostFic che mi ha ispirato la storia.
- A Tab perché mi ha costretto a scriverla XD
- Ai Depeche Mode, perché la citazione all’inizio è tratta da Personal Jesus (album: Violator), e la storia è ispirata alla canzone. Intesa in modo più positivo rispetto alle intenzioni originali (dannato gruppo emodepresso!).
- A Sara per la traduzione del testo di Beichte che appare in quella meraviglia di quote che è “Tutto questo è fin troppo vero, per essere anche bello” (perché se c’è una cosa che Bill sa fare, ecco, quella è scrivere), ed – ovviamente – ai Tokio Hotel per la canzone in sé.
- A Juccha per il titolo >*< E per il concetto sul provare a dire “ti amo” solo per sentire l’effetto che fa. Ti lovvo <3
Per il resto, non ho molto da dire. Anzi, non ho niente da dire. Riesce ad essere – in modi del tutto assurdi – una storia semplicissima ed anche una delle più difficili che io abbia mai provato a raccontare. Un disastro, insomma ._.”
Per quanto mi riguarda, la trovo molto affascinante. Ma forse mi sto facendo ammaliare dall’emoangst XD Grazie per aver letto fino a qui (e grazie a Yul, lei sa perché XD). Grazie a Misa, grazie alla Lemmina, grazie a Nai. Baci :*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
UNDEAD UNWASHED UNHOLY

Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who cares
Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who’s there

- Stavolta con quale dei due hai litigato?
Bill mi passa davanti, sfrecciando veloce verso il soggiorno. Si lascia alle spalle la porta aperta, il fruscio dei propri capelli e l’odore familiare delle proprie lacrime. Lo so che in teoria le lacrime non dovrebbero avere un odore, ma l’odore di quelle di Bill si sente sempre, ed è riconoscibilissimo. È il trucco che si scioglie. Che cola lungo le guance. È l’odore del sangue che esce in una singola goccia quasi asciutta sulle sue labbra – le morde sempre con una violenza inaudita, quando cerca di smettere di piangere. È l’unica persona che conosco che, per smettere di piangere, sopprime il dolore più grande con un dolore più piccolo. Non ha senso. Niente di lui ha mai avuto senso.
Lo osservo fermarsi davanti al divano, passare velocemente le dita sotto le ciglia e sulle guance e poi voltarsi finalmente a guardarmi. Sul suo viso non c’è quasi più traccia di niente. Cerca sempre di ripulirsi, prima di voltarsi verso di me.
- Posso restare da te stanotte? – chiede con un’incertezza solo mal simulata. Lo sa lui e lo so io che non dirò di no. E lo sappiamo entrambi semplicemente perché ci aspettavamo questo momento.
In realtà non ho neanche bisogno di chiedergli con quale dei due abbia litigato, posso intuirlo piuttosto facilmente solo osservandolo: ha il borsone in spalla. Il borsone è una vecchia borsa Adidas di quelle che in genere si usano per la palestra. Come faccia Bill – che è notoriamente più pigro di un bradipo – a possedere una cosa simile, va oltre la mia capacità di comprensione. Comunque, quando deve dormire fuori è sempre con questa cosa – piena fino all’orlo di cianfrusaglie che per la maggior parte neanche usa – che si muove. Senza, non esce neanche di casa.
Quando Bill dorme fuori, è perché ha litigato con Tom.
In genere, però, litigare con Tom non basta per presentarsi qui.
Quando Bill litiga con Tom, prepara il borsone e va da Bushido. Bushido è il suo… ragazzo? Uomo? Compagno? Non so. Non riuscirò mai a trovare un appellativo che non suoni stonato. Comunque è suo. È da lui che va a stare, quando litiga con Tom.
È quando litiga anche con Bushido, che viene da me.
*
La situazione di Bill è complicata. E non è affatto buona.
Ogni volta che ci penso non lo faccio con l’indifferenza dell’estraneo che osserva una situazione all’interno della quale non è affatto coinvolto. Io lo faccio con apprensione. Io sono davvero terrorizzato per Bill.
Ma d’altronde, sfido chiunque: la situazione di Bill preoccuperebbe anche un estraneo, anche uno che ne avesse appena sentito parlare, pure distrattamente, pure per sbaglio, pure origliando per caso una conversazione sull’autobus. Ed io – che questo ragazzino me lo sono cresciuto, un po’ – non posso fare a meno di andare in completa paranoia, ogni volta che ci penso.
Per inciso: ci penso ogni volta che Bill me ne dà l’occasione. Cioè ogni volta che piomba a casa mia. Cioè ogni volta che litiga con Bushido. Cioè ogni volta che litiga con Tom.
Cioè sempre.
La situazione di Bill è sempre stata complicata, da che lo conosco, e questo semplicemente perché la situazione di Bill è sempre stata legata indissolubilmente alla situazione di Tom. E la situazione di Tom non è complicata, la situazione di Tom è un dannato disastro.
Quando li ho conosciuti, i gemelli erano due ragazzini piccoli e stupidi. Il mio non è un giudizio impietoso, è un giudizio il più obiettivo possibile – ed è dato comunque con molta tenerezza di fondo. Troppa, temo.
Erano molto stupidi nel senso che erano convinti – fermamente convinti – il mondo stesse aspettando solo loro. Non avevano la più pallida idea dei sacrifici che si sarebbero ritrovati a compiere. Forse per questo accettarono di immergersi fin sopra la testa in un mondo che, dietro le quinte, non conserva niente dei glitter e delle paillette di cui ricopre la scena: erano disposti a tutto. E basta.
Ciò che mi ha sconvolto – ciò che mi ha dato la spinta finale, ciò che mi ha convinto a sceglierli fra tutte le enormi masse di ragazzetti alternativeggianti che già allora affollavano i palchi delle periferie – è stata l’abnegazione totale che provavano l’uno nei confronti dell’altro.
Bill e Tom sono sempre stati così. Strani.
Era una base buona dalla quale partire per fare soldi, ecco.
Io non ero un poveraccio. La mia non era una vita triste. Non andavo stancamente avanti nel tentativo di sbarcare il lunario giorno dopo giorno. Non avevo bisogno di una trovata pruriginosa che andasse a battere proprio lì dove i pensieri cattivi di tutti si fermano e si schiantano contro il muro del buonsenso.
Io stavo solo facendo il mio lavoro. Non avevo alcuna intenzione di venire a conoscenza di un segreto tanto grande. Non volevo essere partecipe di una cosa tanto spaventosa. Non volevo neanche fomentarla, lo giuro.
Non mi sento davvero in colpa, perché penso fosse inevitabile che fra Bill e Tom scoppiasse una cosa simile. Attaccati per com’erano, era solo questione di tempo. Certe cose rimangono sopite solo se la vita che uno si ritrova a vivere rimane sempre piatta ed immobile. Se sei circondato solo ed esclusivamente da persone che ti vogliono bene, se hai una madre devota che ti supporta, se hai un patrigno benevolo che ti sostiene, se hai degli amici intelligenti che scorgono oltre la superficie il bravo ragazzo che sei, non hai alcun bisogno di aggrapparti con tanta foga a tuo fratello.
La vita dei gemelli, però, non è rimasta piatta ed immobile. A tredici anni, Bill e Tom sono saliti su una trottola che non si è ancora fermata. E gira, gira. Non c’è mamma, non c’è papà, non ci sono amici. Sono solo Bill e Tom.
A qualcuno dovevano pure aggrapparsi, se non volevano volare via.
Hanno scelto di aggrapparsi l’uno all’altro. Era inevitabile. Non è stata colpa mia. Io ho solo favorito le condizioni, ma loro avrebbero potuto opporsi strenuamente – come Bill sta ancora cercando di fare, come Tom si ritrova a tentare di fare sempre più stancamente – e non sarebbe accaduto niente.
Siamo ad un passo dalla rovina.
E non sto parlando dei Tokio Hotel.
Sto parlando di Bill e Tom. Del ragazzino magrissimo che stringe una borsa enorme al fianco e mi chiede se può dormire a casa mia. Dell’altro ragazzino – uguale, identico, speculare – che sta tutto solo in un enorme appartamento, qualche isolato più in là, e probabilmente sta spaccando qualcosa. Perché è così che Tom reagisce al dolore, Tom distrugge.
Tom, ogni tanto, prova a distruggere anche suo fratello.
È per questo che Bill scappa. È per questo che fugge da Bushido.
Bushido.
Ogni tanto penso alla sua presenza in tutta questa storia e provo molta compassione per lui. Mi ritrovo quasi immerso in una sorta di empatia immotivata e pure un po’ pericolosa.
È che so cosa vuol dire avere a che fare coi gemelli.
È che so cosa vuol dire avere davanti Bill che piange e non vuole dire perché.
È che so cosa vuol dire avere addosso lo sguardo arroventato di Tom quando viene a riprenderselo.
Bushido fa quel che può. Anche lui non ha colpa di niente.
È questa storia, che è tutta una follia.
È ciò che ci sta dietro che non ha senso.
Immortale, sporco e sacrilego.
Io so di non avere motivi per avercela con me stesso.
Però quando ce l’hai con qualcuno in genere non stai neanche tanto a domandarti perché. Purtroppo.
*
Facciamo il punto della situazione.
Bill sta dormendo nel mio letto. Gli ho messo le sue lenzuola – un coordinato di cotone bianco finissimo del quale s’è letteralmente innamorato la prima volta che è venuto a passare la notte qui – gli ho sprimacciato il cuscino, gli ho posato accanto quell’orrore di peluche cui non rinuncerebbe neanche se fosse sposato e l’ho calmato abbastanza da fare in modo che potesse chiudere gli occhi senza che il semplice movimento lo portasse a piangere ancora.
Per le prossime cinque o sei ore, Bill starà bene. O meglio: non starà – non sentirà nulla, non avrà nulla di cui preoccuparsi, rimarrà avvolto nel sonno e nel silenzio senza pensare a niente.
Il suo cellulare è posato sul tavolino di cristallo basso proprio davanti al divano sul quale sto seduto adesso. È l’una. Bushido chiamerà al massimo fra un quarto d’ora – lo fa sempre.
Mentre aspetto, posso chiamare Tom. È quello che faccio sempre io.
- Pronto?
La sua voce è venata da una sorta di speranza un po’ infantile e demotivata. La speranza che ti trascini dietro, quella che sai di non dover continuare a nutrire ma conservi comunque.
Bill non lo chiama mai, ma Tom non fa che aspettare.
- Sono io. – rispondo in un sussurro, lanciando un’occhiata alla porta socchiusa della mia camera da letto.
La speranza di Tom vola via in un sospiro. Nel sospiro stanco col quale pronuncia il mio nome.
- David. È lì?
Annuisco, anche se lui non può vedermi.
- Dorme. – preciso, - Cos’è successo?
Tom sospira ancora, ma è un sospiro diverso.
Lo so che è difficile, Tom. Lo so.
- Niente. – sbotta lamentoso, - Abbiamo litigato. Almeno adesso so che è lì e non devo preoccuparmi.
Mi lascio andare ad una risatina divertita.
- Sì, lui è al sicuro. – confermo, - Tu come stai?
Posso immaginarlo scrollare le spalle e lasciarsi andare di peso sul divano – lo fa davvero, sento lo sbuffo d’aria e lo scricchiolio della pelle sotto di lui.
- Così. – borbotta, - Domani lo riaccompagni tu?
- Domani ci vediamo direttamente agli studi. Non farmi brutti scherzi.
Ridacchia.
- No, tranquillo. – mi rassicura, - Allora adesso vado a dormire.
- Ecco, bravo. – lo rimbrotto spiccio, - I mocciosi come te a quest’ora dovrebbero essere già a letto da un pezzo.
Non protesta, neanche mi risponde. Quando parla di nuovo, non si sta rivolgendo a me.
- David, quando si sveglia digli che… - si ferma, cerca le parole. Dev’essere tremendo. Forse, dentro di sé, fa la prova. “Digli che lo amo”. Giusto per vedere come suona sulla punta della lingua. - …va be’. Magari poi glielo dico io.
È questa la cosa che temo, Tom. È questo ciò che teme anche Bill.
Che tu possa dirglielo veramente.
*
Non ho quasi neanche il tempo di chiudere la conversazione con Tom, che il cellulare di Bill squilla. Generalmente, non faccio che allungarmi verso il tavolino, recuperarlo e rispondere a Bushido che s’informa sulla salute del proprio ragazzo, uomo, compagno o quel che è. Davvero, per me è imbarazzante starci a pensare. Sarà che siamo praticamente coetanei, sarà che fra noi non s’è mai davvero creato un rapporto – neanche di conoscenza, Bill è talmente geloso della loro relazione che è quasi più difficile incontrarsi adesso rispetto a quando lui era solo un collega, e neanche mio – sarà che be’, pur non sapendo niente so tutto ciò che c’è dietro – a lui, a Bill, a Tom, ecco, proprio tutto – ma insomma. Non lo so. Comunque preferisco evitare di parlare con lui, quando posso.
Il problema è che capisco la sua preoccupazione, ecco. Quando Bill litiga con qualcuno lo fa come se, da quel momento in poi, ritenesse implicito un addio. Bill litiga, cioè, e va via di casa sbattendo la porta e senza salutare, esattamente come fai quando la vista della persona che ti sta davanti ti è così insopportabile che il solo pensiero di rimanere a subirla un secondo di più ti nausea e ti ferisce a morte. Quando Bill imbocca la porta si ha sempre un po’ paura che non torni.
Giustamente, Bushido a lui ci tiene. E se ne sente responsabile, se non altro perché è stato chiaro fin dall’inizio Bill si stesse mettendo completamente nelle sue mani, senza riserve. Perciò chiama.
Io lo capisco fin troppo bene per negargli una rassicurazione. Perciò vinco l’imbarazzo ed il disagio, rispondo al dannato cellulare e gli dico puntualmente di stare tranquillo, che Bill dorme, lo informerò della sua chiamata e lo farò rintracciare l’indomani mattina appena sveglio.
È sempre così.
Stavolta no.
Mi allungo verso il tavolino ma sento uno scalpiccio di piedi nudi sul parquet dietro di me, perciò mi fermo e mi volto a guardare. Bill – maglietta e boxer, i capelli sciolti e scomposti lungo le spalle e gli occhi ancora rossi di pianto – corre fino al cellulare, lo afferra e lo porta all’orecchio in un gesto tanto veloce da sembrare unico.
- Anis? – risponde ansioso, stringendo l’apparecchio fra le mani con una violenza inaudita, - No, sono da David. Sì, lo so. Lo so, scusa. No, non dicevo sul serio. Ti giuro che… non dicevo sul serio.
È la prima volta che li sento parlare. Cioè, in realtà sto sentendo solo Bill, ma è una prima volta anche questa. In genere, quando parlano al telefono, Bill si nasconde. Che sia per sfuggire alle ire di Tom – che ogni volta che riesce anche solo a subodorare un qualche contatto fra lui e Bushido comincia a comportarsi come un pazzo assetato di sangue – o per proteggere in qualche modo un’intimità che, negli ultimi mesi – anche a causa della Universal ed anche a causa mia – è stata talmente pubblicizzata da non conservare d’intimo neppure il nome, non lo so. Comunque sia, si nasconde.
Evidentemente, stavolta aveva troppa fretta per pensarci.
…o, più semplicemente, non c’è Tom nei paraggi.
Sospiro, abbandonandomi contro lo schienale del divano, mentre Bill continua a sciorinare scuse in un singhiozzo continuo.
Il problema non è l’intimità resa pubblica, no. Il problema è Tom. Come sempre.
*
Bill chiude la conversazione con un sospiro stremato, e si lascia andare seduto accanto a me. Si piega in avanti come accartocciandosi su se stesso, e quando capisce che, continuando ad avvolgersi in questo modo, cadrà dal divano, tira su le gambe e si accuccia nell’angolo più lontano del sofà, stringendo le ginocchia al petto come un bambino piccolo.
- Voleva passare a prendermi. – mi informa atono, - Gli ho detto di restare a casa. Tanto ci vediamo domani. Non mi va proprio di vederlo adesso.
Sorrido lievemente.
- Ma se gli hai appena detto che non volevi lasciarlo e ti sei scusato per aver litigato qualcosa come tremila volte?
Bill si stringe nelle spalle, evitando il mio sguardo.
- Non mi va lo stesso di vederlo. – borbotta, - Scusa, lo so che dovrei dormire. Non ci riesco.
Annuisco.
- Ha chiamato tuo fratello. – lo informo con falso disinteresse, - Era preoccupato.
Bill aggrotta le sopracciglia, contrariato, e stringe con più forza le braccia intrecciate sotto le ginocchia.
- Mio fratello continua a sbagliare i tempi. – asserisce cupo, - Dovrebbe smetterla. Se sapermi in giro lo preoccupa tanto, perché non la pianta di costringermi ad andarmene?
Bill non sa – o non si rende conto. O non vuole capire – che l’intenzione di Tom è del tutto diversa. Bill non sa che Tom rinuncerebbe a qualsiasi cosa, per convincerlo a rimanere con lui per sempre. Bill non lo sa. Bill non se ne rende conto. Bill non vuole rendersene conto.
- Voleva che ti riferissi qualcosa. – dico, quasi lasciando sospesa la frase, solo per osservare la sua reazione. Bill solleva il viso e mi guarda: gli occhi spalancati e luminosi, le labbra socchiuse, sul volto un misto di ansia, felicità e paura che renderebbe chiaro perfino al più stupido che cosa sta aspettando di sentire. – Non mi ha detto cosa, però. – Bill abbassa lo sguardo. Si morde un labbro. Sospira pesantemente. – Ma ha aggiunto che te l’avrebbe detto lui stesso. – concludo.
Anche Bill conclude, sì. Di respirare.
Gli poso una mano sulla spalla.
- Ehi. – cerco di richiamarlo, preoccupato, - Stai bene?
Lui annuisce ma non risponde.
È un terrore giustificato, il suo. È anche il mio terrore. È il terrore di tutti tranne che di Tom, che si sta gettando contro questo disastro a testa bassa, neanche fosse l’unica soluzione possibile.
Bill – io. Bushido, forse, perfino lui – sa che è solo questione di tempo. Che prima o poi Tom dirà o farà qualcosa di talmente inequivocabile che, a quel punto, non potremo fare più niente per nasconderlo. Non ci saranno luoghi in cui scappare né bugie da orchestrare ad arte. Saremo solo noi di fronte al disastro. Con la speranza di sopravvivere. Con la certezza di soffrirne.
Bill ha paura. Bill ha ragione.
Tom, però, è innamorato. E chi potrebbe dire che ha torto?
*
Quand’ero più giovane, io volevo fare lo psicologo. Credevo di avere un vero e proprio talento per capire le persone. Credevo fosse un dono. Ne andavo perfino orgoglioso, perché mi aveva aiutato tanto in svariate occasioni della mia vita – non ultima il divorzio dei miei genitori, per non parlare di quello che ne seguì.
Credevo fosse un dono e lo credevo per davvero.
Naturalmente mi sbagliavo. Capire gli altri è evidentemente una punizione per un qualche tragico errore in una vita precedente. Quando capisci gli altri – cosa si muove nelle loro teste, i dolori che agitano le loro anime, le ansie che bloccano il battito dei loro cuori – ti precludi per principio qualsiasi possibilità di odiare qualcuno. Di riconoscergli una qualche crudeltà gratuita priva di movente. Di percepirne le assurdità.
Giustifichi tutto. Comprendi tutto. Assolvi tutto.
Io, purtroppo, non mi sono fermato a comprendere le ragioni di Bill, no. Per quanto sia sbagliato e controproducente – nonché vagamente irrazionale – comprendo anche le ragioni di Tom. Tom che, forse, è quello che ha più ragione di tutti – ma tutto il mondo contro. Anche se solo in prospettiva.
Tom è sempre stato così, per dire la verità. È per questo che insisto col fatto che dovevamo aspettarcelo. Tom non è cresciuto negli intenti, è cresciuto solo in intensità. Cioè quello che prova oggi è identico a ciò che provava ieri. Il problema è che è dannatamente più intenso. Mille volte più intenso. Perché fra ieri ed oggi ci sono state mille notti di silenzio. Mille notti in cui ha potuto semplicemente rimanere a pensare.
Pensare fa male.
Tom ha una fama che non gli rende giustizia. A lui piace passare per un puttaniere, davvero, gli piace un sacco. Forse gli piace proprio perché, se lascia che il mondo pensi il suo unico interesse sia portarsi a letto le groupie, allora il mondo non sospetterà mai nemmeno per sbaglio che il suo interesse reale sia un altro. A volte la mente usa meccanismi simili – sciocchi, subdoli, sostanzialmente inutili – per illuderti di stare facendo tutto il possibile per proteggerti.
In realtà sei nudo sotto un fuoco incrociato di domande sempre più pressanti.
Tom, alle domande su suo fratello, risponde né più né meno che come un innamorato. E lui lo sa.
Bill ha cominciato ad accorgersene, finalmente.
Noialtri… all’inizio l’abbiamo presa perfino con un certo orgoglio. “Guarda come l’abbiamo istruito bene. Guarda con che scioltezza risponde. Guarda che bel lavoro sta facendo. Guarda come s’ingrazia le fangirl”. C’era davvero di che essere orgogliosi.
Però, chiaramente, quando abbiamo visto che continuava a ripetere le stesse identiche cose pure in privato, abbiamo cominciato a nutrire seri dubbi sull’artificiosità di quanto aveva detto – nonché diversi altri dubbi su quanto avesse appreso dai nostri insegnamenti, ovviamente.
A lungo andare, l’ha capito pure Bill. Bill che, per contro, continua a non capire un accidenti di se stesso. O forse io sbaglio, vedo cose che non esistono e traggo conclusioni affrettate dal poco che conosco.
Ma, sinceramente, ne dubito.
Se mi sbagliassi, ovviamente, Bill non scapperebbe costantemente di casa per evitare proprio quella rivelazione lì. Quella che cambierebbe le vite di tutti.
Se mi sbagliassi – se non fosse esattamente come penso – Bill non avrebbe scelto Bushido nel disperato tentativo di porre Tom di fronte ad una sfida insostenibile – “non vorrai davvero cominciare ad odiare me, che sono tuo fratello, e lui, che è uno degli artisti che rispetti di più in assoluto?” – nella speranza di tenerlo a bada ancora per un po’ – fallendo miseramente, ma non poteva sospettarlo.
Se mi sbagliassi, nessuno dei drammi che ho già prefigurato così chiaramente nella mia testa avrà mai luogo, e Bill sarà autorizzato a darmi del cretino senza aspettarsi rappresaglie punitive, quando glielo racconterò.
Il punto, però, è un po’ diverso.
Il punto è che, se io mi sbagliassi, non si spiegherebbe un accidenti di ciò che sta succedendo.
Tom, a volte, picchia suo fratello. Io capisco perché lo fa. Bill dice di no, ma mente. Tom fa così, prende e gli tira un pugno. È la furia repressa, la gelosia, il senso di mancanza che avanza rispetto al senso di un’appartenenza che si sfalda giorno dopo giorno. Vedo arrivare Bill a notte fonda con certi lividi che fanno paura. E, se io mi sbagliassi, questa rabbia non avrebbe senso. Queste fughe notturne da un lato all’altro dalla città, queste fughe che si concludono qui, nel mio letto, a piangere sul cotone bianco finissimo, non avrebbero senso. Bushido non avrebbe senso – non avrebbe il minimo senso, davvero.
Ho provato a chiederlo a Bill. Ho provato a capire se se ne rendesse conto.
Gli ho chiesto “cosa ti dà il tuo rapporto con tuo fratello?”, e lui ha risposto “mi fa male”.
Gli ho chiesto “cosa ti dà il tuo rapporto con Bushido?”, e lui mi ha risposto che quando stanno insieme si sente al sicuro.
Lui forse non lo capisce. Lui forse si rifiuta di capirlo.
Io non ho rifiutato mai niente. Io capisco tutto sempre troppo bene. Troppo, troppo bene. Tanto bene che a volte rinuncerei volentieri al privilegio.
Il punto è che a scappare all’infinito non perdi niente. Bill tiene fra le mani Bushido – che s’è ritrovato letteralmente addosso un’anima da salvare. Scommetto che dev’essere dura, durissima – e tiene sulla corda suo fratello. Tom sta impazzendo e Bushido sta perdendo la testa.
Bill non ha nessuna colpa, di tutto questo.
Non ha neanche fatto niente per fermarlo, però.
E questo è un dannato problema. Per tutti.
- Bill. Adesso dovresti proprio andare a letto.
Bill si morde un labbro e stringe ancora di più le ginocchia al petto.
- Posso restare a dormire qui…?
- Stai già restando a dormire qui.
Scuote il capo.
- No, dico… qui. Sul divano. Dico con te.
Sospiro.
A quanti altri sarebbe capace di aggrapparsi pur di sfuggire all’amore della persona che ama?
- Vai a dormire. Nel letto ci sono le lenzuola che ti piacciono tanto.
*
I Kaulitz sono sempre stati strani.
I Kaulitz sono sempre stati anche un po’ stronzi, devo dire.
Quando sei come Bill e Tom – quando, cioè, hai un te stesso che ti completa in tutto e per tutto – è facile rinchiuderti in una sorta di bolla in cui, oltre all’altra metà di te, non esiste nient’altro. Perciò tutto il resto perde importanza. Tutto il resto non conta. Tutto il resto – pure se è un manager chiaramente in apprensione che cerca da una mattina di capire che diavolo di fine abbiano fatto il suo cantante ed il suo chitarrista – è zero.
Stamattina, Tom mi ha fatto lo scherzetto. Sinceramente me lo aspettavo: la serata di ieri minacciava di essere stata ben più scombinata rispetto a quanto riuscissi ad immaginare – e Bill era davvero troppo troppo triste per non denunciare qualcosa di veramente grave. Sapevo che Tom non si sarebbe sprecato a muovere il culo e venire a lavorare, così come sapevo con certezza che nemmeno Bill l’avrebbe fatto, a meno di tirarlo giù dal letto con la forza e spedirlo in bagno a calci.
Chiaramente, Bill ha passato l’intera mattinata a mordicchiarsi le labbra e telefonare a Bushido. Con la furia del pazzo, davvero. Neanche le labbra fossero Tom stesso e Bushido l’unico che sapesse dove trovarlo.
Tom non ha risposto al cellulare. Non ha risposto a casa. Non ha risposto e basta.
Alle undici e mezzo, Bill ha recuperato la borsa ed ha detto che andava a controllare, senza neanche salutare. È andato da solo. Per la verità avrebbe dovuto chiedere il permesso – o chiedermi di seguirlo – ma non l’ha fatto – nessuna delle due cose – e m’è sembrato assurdo insistere di fronte alla palese realtà per la quale voleva e doveva andare da solo.
Non s’è più fatto sentire, da allora.
Verso l’una ho detto a Georg e Gustav di prendersi il resto della giornata libera. Dubbiosi, loro hanno obbedito, se non altro perché sapevano non ci fosse altro da fare.
Adesso, alle due meno un quarto, io guardo Dave, Dave guarda me e poi sospiriamo in sincrono. Lo facciamo come se fossimo abituati ad assurdità di questo tipo, ma in realtà è una maschera che ci siamo costruiti addosso nell’eventualità che scene simili si fossero davvero realizzate. Cosa che non era mai successa, fino ad ora.
Prendo le chiavi dell’Audi e mi fiondo verso l’ascensore, macino metri di moquette, divoro la strada, arrivo di fronte casa dei gemelli, annullo le distanze spaziali ed in due secondi sono davanti alla porta dell’appartamento. Suono, nessuno risponde. Tiro fuori il mazzo cumulativo dalla tasca del giubbotto. Cerco il doppio delle chiavi. Ce l’ho? Ce l’ho. Apro.
Bill è seduto sul divano.
Inequivocabilmente solo. Inequivocabilmente immobile. Inequivocabilmente disperato.
Mi avvicino, guardandomi intorno con aria smarrita.
- Bill… dov’è Tom?
Fa spallucce.
- Bill?
- Non c’era. Non lo so. Se n’è andato.
Annuisco.
Potrebbe essere una cosa momentanea. Potrebbe essere uscito a comprare le sigarette – solo? Senza Saki, David? Quanto lo ritieni stupido? – potrebbe tornare da un momento all’altro. Magari mi sono davvero sbagliato, ho montato un casino sul nulla ed in realtà non è successo niente. Magari torna.
- Ha lasciato un biglietto?
Tremo, nel chiederlo. Tremo perché in realtà i gemelli sono sempre stati pure un po’ melodrammatici, nelle loro manifestazioni, e quindi non mi stupirebbe – non mi stupirebbe affatto – una bella lettera d’addio con tanto di confessione finale.
Bill, però, scuote il capo.
- No. – risponde con una voce talmente lontana e spaventosa da non sembrare neanche la sua.
Mi siedo al suo fianco e gli poggio una mano sulla spalla. Non so se per consolarlo o per avere una prova della sua presenza fisica accanto a me. Non è importante. Bill serra le labbra e sopprime un singhiozzo, ma non dice una parola di più.
Siccome capisco sempre tutto troppo bene – accidenti a me – capisco anche questa volta. Bill si sta pentendo non so quanto – non lo sa neanche lui, temo – di tutte le fughe ed i litigi degli ultimi mesi. Si sta pentendo di essere sfuggito alla confessione di Tom, così come di averne ignorati uno dopo l’altro tutti i segnali. Si sta pentendo di non aver reagito alle botte e si sta pentendo di essersi nascosto fra le braccia di un uomo che, poverino, non ha la minima idea della cosa dalla quale Bill lo accusa di proteggerlo – o almeno credo. Si sta pentendo di essere venuto a dormire da me. Invece di tornare qui. Da Tom. Che voleva solo sentirgli dire “Va bene, Tomi. Dimmelo. Lo accetterò comunque. Ti accetterò comunque”.
Tom, dal canto proprio, è stato gentilissimo. Bill non voleva sentire la sua confessione? Ebbene, non l’ha sentita. Né ad alta voce né affidata alle premure di un foglio troppo scarno per contenere davvero tutto ciò che la motivava.
Io lo so cosa si sta dicendo Bill in questo momento. Si sta ripetendo in una cantilena parole che ha scritto da sé. Tutto questo è fin troppo vero, per essere anche bello. Era anche quella una confessione, anche se con intenti tutti diversi. Quando l’hai scritta, te lo aspettavi? Lo sapevi già? Lo sospettavi, almeno?
Bill, ancora al mio fianco, si accartoccia su se stesso come fa sempre quando il peso della situazione che sta vivendo sembra del tutto insostenibile ed ingiusto. Stavolta – rispetto alle mille volte in cui l’ha fatto per capriccio – non ha nemmeno torto. Mi chino su di lui e cerco di abbracciarlo. Non è facile, perché lui non vuole essere abbracciato.
- C’è qualcosa che posso fare? – chiedo, quando il senso di colpa torna a pungere fortissimo sotto le ciglia.
Bill scuote il capo. Poi si ferma e dischiude le labbra.
- Voglio vedere Anis. – bisbiglia confusamente, - Però non voglio chiedergli di venire. Lo chiami tu per me?
Per un attimo, non so che fare. Vorrei sinceramente rispondere “non mi pare la soluzione migliore, Bill”. Poi, però, cambio idea. Bill è scappato fino ad adesso, anche se non era giusto lo facesse. Adesso che, però, anche Tom s’è deciso per la fuga, a Bill non si può proprio più togliere il diritto di niente.
Se vuole scappare in eterno, che lo faccia.
Se vuole provare a rialzarsi dalle proprie macerie, io lo aiuterò.
Se vuole dare a tutti noi una possibilità per cercare di risolvere questa situazione, io sono d’accordo.
Lentamente, allungo un braccio verso il tavolo. Recupero il cellulare. Cerco in rubrica il numero di Bushido.
- Pronto? – risponde lui, un po’ incerto.
- …salve. – deglutisco io, dopo un attimo di confusione. Non so mai come parlare, quando si tratta di lui. – C’è un problema… - lo informo vagamente, - Potresti venire qui a casa di Bill?
Lui non focalizza immediatamente. Di sicuro ha trovato strano che io mi riferissi a questo appartamento come “casa di Bill”. Lo capisco, l’ho trovato strano anche io. L’ha trovato strano anche Bill, che ora si raggomitola contro il mio fianco e comincia a piangere nel modo silenzioso e disperato dei dolori assoluti, stringendo un lembo della mia maglietta come avesse paura di scivolare giù dal divano.
Bushido lo sente.
- Arrivo fra dieci minuti. – mi informa spiccio, prima di chiudere la conversazione.
Poso il cellulare e mi volto verso Bill – adesso sì, adesso vuole essere abbracciato; tende le braccia, singhiozza pesantemente… adesso vuole un abbraccio.
Lo accontento. Lo so che non sono quello che vuole. Né quello che gli serve.
Al momento, però, non è importante.
Genere: Romantico, Introspettivo.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Fluff, Slash.
- Anis Mohamed Youssef Ferchichi è totalmente pazzo. Ecco perché.
Note: È una cretinata che mi ha ispirato ieri sera una chiacchierata su MSN con Lost White XD Parlavamo dell’eroismo del Bu e lei mi ha detto che, se lui fosse stato davvero un eroe, sarebbe andato fino in Messico a rapire Bill per il suo compleanno XD Da qui è nata una gioiosa battuta che faceva più o meno così:
Bu: *con aria eroica* Andiamo!
Bill: *con aria preoccupata* Aspetta, Bu, devo prendere il beauty…
Bu: *scioccato* Sono in volo da ventiquattro ore e tu pensi al beauty?! D:
Ovviamente poi la battuta me la sono completamente dimenticata e, una volta arrivata alla fine, mi sono accorta che non c’entrava più niente con quello che era venuto fuori “XD Io sono palesemente fuori come un citofono (cit. Tab <3).
Comunque. Questa storia è il fluff. Ed io la amo per una serie di ragioni idiote, tipo il fatto che l’ho scritta in un’ora “XD
Il titolo è preso da una canzone del Bu u.u Significa “momento, attimo, istante”. <3.
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AUGENBLICK

- Atze… tu sei completamente pazzo.
Bushido non saprebbe come giustificarsi. Cosa dire o cosa fare. Pertanto, non dice e non fa niente, a parte restare a fissa le punte di un paio di mocassini marroni che – ricorda solo in questo momento – Bill odia. Non avrebbe dovuto metterli. Potrà cambiarsi nel bagno dell’aereo, magari?
- Ma mi spieghi cosa diavolo ti sei messo in testa?! – Saad continua a parlargli nell’orecchio come se lui lo ascoltasse davvero, - Volare fino in Messico? Ma perché?! Te l’ha chiesto lui?!
Bushido scrolla le spalle e recupera da terra lo zaino che ha preparato in fretta e furia. Lo apre, rovista metodicamente all’interno, cerca il sacchetto con le scarpe, lo trova. Le nike beige. Non ricorda se a Bill piacciano. Almeno non sono gli altri mocassini, quelli neri: Bill li odia perfino più di quelli marroni, dice che lo fanno sembrare frocio.
Quando Bill dice cose del genere, la faccia di Bushido si trasforma sempre nell’espressione fisionomica di un punto interrogativo. Non sa se dovrebbe chiedersi prima “ma cosa ci faccio io con lui?” o “cosa ci fa lui con me?”. In genere, non ha tempo di chiedersi un bel niente: Bill ride del suo sgomento e lo bacia con forza. Bushido ama i baci di Bill perché non somigliano affatto a quelli delle femmine.
Ed in effetti questo dovrebbe turbarlo, forse.
- Anis, Cristo santo, è un viaggio di ventiquattro fottute ore! E tu hai una biografia ed un singolo in uscita fra una settimana, cazzo, Mirko andrà fuori di testa! – continua Saad, rosso come un pomodoro. Bushido ridacchia: suo cugino è pallido come una mozzarella, e quando si arrabbia è una delle cose più comiche del mondo. – Non avrai intenzione di cambiarti le scarpe adesso?! Perché vorresti cambiarti le scarpe?!
- No… - mormora, posando nuovamente il sacchetto nello zaino. Sono le prime parole che dice da quando sono partiti da casa, - No, non le cambio. – specifica.
- Okay. – annuisce Saad, palesemente esasperato, - E tutto il resto?
- Quale resto?
- Il resto delle cose che ho detto!!!
Bushido scrolla ancora le spalle perché non se le ricorda.
- Andrà tutto bene. – butta lì a mo’ di rassicurazione.
Saad scuote il capo e sospira pesantemente.
- Atze… - ripete con aria rassegnata, - Tu sei completamente pazzo.
*
Alle dieci a trentacinque di sera del trentuno agosto, Bushido siede su uno scomodo seggiolino dell’aeroporto di Madrid ed aspetta l’aereo dell’una e venti, quello che lo porterà a Città del Messico.
Ha cambiato le scarpe, ma non sull’aereo, perché l’hostess continuava a guardarlo male. Avrebbe voluto urlarle che non se l’era scelto lui l’aspetto da terrorista talebano, poteva anche risparmiarsi, la stronza, di farlo sentire così fottutamente a disagio. Per qualche motivo, sembrava pronta a saltargli addosso e stordirlo con un colpo in testa al primo movimento sospetto. Alzarsi per andare in bagno sarebbe stato un movimento sospetto, forse, perciò Bushido è rimasto seduto al proprio posto, senza scomporsi, fissando il vuoto e, ogni tanto, l’odiosa hostess, nel disperato tentativo di far passare il tempo.
Cambiare le scarpe è stata la prima cosa che ha fatto una volta sceso a Barajas. S’è infilato nel bagno degli uomini, ha sfilato i mocassini ed ha resistito all’impulso di buttarli nel cestino della carta straccia. Ha recuperato le nike, le ha indossate, ha deciso che non stavano bene coi jeans che indossava e che comunque faceva troppo caldo per tenerli ancora, perciò ha tolto anche i jeans ed ha infilato i pantaloni neri corti al ginocchio.
La maglietta blu ci stava sopra uno schifo. Ha messo via anche quella e ne ha recuperata una bianca. S’è chiesto se avesse portato altro, in caso si fosse sporcato in qualche modo ed avesse sentito il bisogno di cambiarsi, ma poi ha scrollato le spalle, s’è dato del cretino ed è tornato in sala d’aspetto.
Mentre attende, l’eco della voce di suo cugino riaffiora alla sua memoria, e si rende conto che, in effetti, di tutta la miriade di stronzate che Saad ha detto a Berlino, qualcosa ha registrato.
Volare fino in Messico? Ma perché?! Te l’ha chiesto lui?!
Bushido non ha una giustificazione, per questo. Se suo cugino glielo chiedesse di nuovo, in questo momento, risponderebbe “Bill al telefono sembrava triste”.
È felice che suo cugino non sia lì per chiederglielo.
*
La conversazione fra lui e Bill s’è svolta più o meno in questi termini.
“Che fai?”, ha chiesto Bushido.
“Dopodomani faccio il compleanno”, ha risposto Bill.
“Lo so”, ha ribattuto lui, “Non c’è bisogno che me lo ricordi”.
Bill ha sospirato.
“Non si sa mai”.
Bushido ha aggrottato le sopracciglia e, per nessun motivo in particolare, ha guardato l’orologio.
Probabilmente ha deciso in quel momento. Comunque non se n’è accorto.
Il respiro di Bill s’è fatto un po’ più affrettato.
“Mi manchi…”, s’è sentito sussurrare piano, ed è stato come sentirselo scivolare sulla pelle.
Ha deglutito con forza.
“Ti senti bene, Bill?”, ha chiesto, vagamente preoccupato.
“Mi manchi e basta”, è stata la secca risposta del ragazzo, “Sono solo, sai? Tomi non dorme in camera con me, oggi”.
“Che tragedia”, ha risposto con un mezzo ghigno.
Bill ha ridacchiato.
“A te manco?”.
Bushido s’è inumidito le labbra.
“Sì.”
“Vorrei che fossi qui, adesso”.
Fruscio di lenzuola. Respiri affaticati.
“Anche io, piccolo”, ha annuito, facendosi scorrere addosso una mano ed immaginando fosse quella di Bill.
Probabilmente aveva già deciso, prima di quel momento. Ma è stato con quella fantasia in mente che ha prenotato il biglietto aereo, tre quarti d’ora dopo.
*
Jost ha un momento d’esitazione, quando sente la sua voce al telefono.
- Disturbo? – chiede educatamente Bushido, cercando di trovare un cantuccio riparato dalle millemila voci dei turisti che affollano l’aeroporto di Città del Messico.
- No, non… Bushido? – chiede David con aria scioccata, ed Anis può immaginarlo perfettamente stringere isterico il cellulare fra le dita, come fa sempre quando qualcosa di totalmente inaspettato arriva a sconvolgere la sua tranquillità.
- Già. – ridacchia, - Senti, una cosa veloce: volevo solo sapere dove alloggiate, così-
- Ma dove sei? – è la naturale domanda del manager, più motivata da un certo amore per l’efficienza e la praticità che non da pura sorpresa.
- Al momento, all’inferno. – risponde Bushido con uno sbuffo esasperato, - Allora? Prendo un taxi o mandi qualcuno a prendermi?
David sospira.
Ed ha un altro momento d’esitazione quando se lo ritrova davanti, di fronte all’uscita passeggeri dell’aeroporto.
- Dio santo… - commenta impietoso, - Sei uno straccio. Da quando sei in volo?
- Per come mi sento adesso, suppongo che dovrei rispondere “da quando sono nato”. – borbotta, - Non hai detto niente a Bill, vero?
David sorride, aprendogli lo sportello della macchina.
- Sono un uomo molto romantico.
*
Il JW Marriot è un hotel a cinque stelle ma fa schifo. È organizzato male, incasinato e, già a guardarlo da fuori, non sembra molto altro che un blocco di cemento con troppi vetri sulle pareti. Bushido odia gli alberghi pseudo-moderni come questo: a lui piacciono le regge; non è Re mica per niente.
Comunque, all’interno di questo osceno blocco di cemento con troppi vetri sulle pareti, c’è Bill. Tanto basta per ignorare l’orrore estetico che suscita e passare oltre.
Jost si muove perfettamente a proprio agio fra gli intricatissimi corridoi della struttura, e saluta gente a caso, spandendo sorrisi a destra e a manca come dovesse vendere i Tokio Hotel ad ogni messicano che incontra. Bushido crede che il piano base sia questo, ma cerca di non pensarci perché gli viene troppo da ridere.
- A Bill verrà un colpo. – commenta il manager, indicando una stanza in fondo al corridoio.
- Non se lo aspetta? – chiede Bushido con un mezzo sorriso.
David lo guarda enigmatico.
- Tu te lo aspetteresti, da te stesso?
Bushido guarda altrove.
In effetti no.
*
Le prime parole che sente entrando nella suite, sono di Bill.
- David, finalmente sei tornato! – si lamenta, con la solita voce piagnucolosa di quando qualcuno gli fa un torto assolutamente idiota che lui però prende come peccato capitale, - Tomi è uno stronzo, non mi ha fatto il regalo!
- Bill, voi non vi fate mai regali. – cerca di calmarlo David, mentre Bushido comincia a sentirsi talmente fuori luogo che preferirebbe rifare tutti i corridoi al contrario e perdersi in quello schifo d’albergo altre centomila volte, piuttosto che entrare e salutare come si deve.
- Ma i diciannove anni sono diversi! – strilla Bill, Bushido ancora non può vederlo ma sa che deve avere addosso l’espressione più carina del mondo. – Sono gli ultimi prima dei venti! Da qui in poi smetterò di crescere e comincerò ad invecchiare! È drammatico!
- Come sei insensibile. – borbotta Tom, stravaccato su un divano che, per come lo vede Bushido, dall’angolo ombroso in cui aspetta il coraggio di farsi notare, varrà almeno il doppio di quanto non valga il chitarrista stesso, - Non dire queste cose a David, che poi si sente un rottame.
Anis sospira e stringe i pugni.
Prima o poi dovrà buttarsi e basta, no?
- Già. – concorda entrando finalmente nel salottino, - Io, per dire, mi sento ancora nel pieno delle mie forze.
Il silenzio cala glaciale su tutte le tre stanze che compongono la suite.
Tom spalanca gli occhi e sul suo viso nasce un sorriso irridente che costringerebbe Bushido ad arrossire, se non avesse dimenticato come si fa anni ed anni addietro.
Lentamente, come in un vecchio film romantico, Bill porta una mano alle labbra e singhiozza con forza.
- Sorpresa. – dice Bushido con un mezzo sorriso, - Neanche io ho portato un regalo. Posso restare lo stesso?
Bill si alza in piedi con un movimento fulmineo che, considerata la sua abilità pressoché nulla nel gestire le proprie reazioni corporee, è comico all’inverosimile. Si sbilancia, sembra sul punto di cadere, Bushido fa per sorreggerlo ma non ne ha bisogno, perché Bill si mette letteralmente a saltellare su una gamba, recupera l’equilibrio e poi gli corre fra le braccia, saltandogli addosso con tanto impeto da lasciarlo quasi steso a terra.
David – Bushido lo nota appena – fa un cenno a Tom, che borbotta qualcosa sull’andare a rompere le palle a Georg, e poi i due abbandonano la stanza senza una parola di più.
Bushido stringe le braccia attorno alla vita sottilissima di Bill.
Bill singhiozza.
- Oddio, come hai fatto… - pigola contro il suo collo. Non è una domanda, perché Bill non cerca mai risposte, da lui. È una constatazione sconvolta.
- Avevi voglia di vedermi, no?
Bill lo pizzica forte dietro la nuca.
- E tu no? – chiede lamentoso.
Bushido si scosta un po’ e lo bacia sulle labbra.
- I diciannove anni ti donano. Sei carino.
Bill arrossisce come una liceale e scuote il capo, tornando a nascondersi contro il suo petto.
- Non ho chiuso occhio, stanotte, devo essere impresentabile.
Bushido gli fa scorrere una mano sotto la maglietta, sulla schiena, sul ventre, sulle braccia. Non è un atto sessuale, ha solo voglia di sentirlo sotto i polpastrelli. Bill fa lo stesso, ma Bill è più romantico di lui, perciò non lo fa con le mani ma con le labbra. Lo bacia sotto un orecchio, lungo il profilo della B tatuata sul collo, sul mento, sul pomo d’Adamo.
- Io ti trovo bene. – commenta Bushido, stringendolo tanto forte da avere quasi paura di romperlo.
Bill non si lamenta.
Ogni tanto Bushido dimentica quanto Bill sia forte. Ricordarlo in questo modo è effettivamente molto bello.
- Questo posto, comunque, fa schifo. – riprende il controllo Bill, separandosi da lui e tirandolo per una mano verso il letto, - Toh, senti. – borbotta, spingendolo sul materasso, - Ti pare morbido?
Bushido piomba sul materasso con un tonfo sordo e comincia a ballonzolarci su in un gesto che fa ridere Bill in maniera incontrollata.
- Non è malaccio.
È morbido davvero.
Bill sbuffa.
- A me non sembra.
Bushido gli lascia scivolare una mano lungo il braccio – dalla spalla in giù – e poi lo stringe delicatamente per il polso.
- Non l’hai provato per bene. – argomenta, tirandolo verso di sé.
Bill sorride e si lascia trascinare.
- Convincimi. – concede.
Qualche ora più tardi, quando si sveglieranno, Bill lo accoglierà con una battuta che Anis non dimenticherà tanto facilmente.
Tu dovresti vendere materassi.
La cosa lo riempirà d’orgoglio, di divertimento e di tutta un’altra serie di cose che non è necessario dire ad alta voce.
Per il momento, la sua testa è piena solo di Bill e di un tanti auguri che, più che detto, va mostrato. In fondo, è per questo che è volato fino in Messico, no?
“Atze…”, borbotta Saad nella sua testa, prima che lui riesca finalmente a dimenticarlo del tutto, “Tu sei completamente pazzo”.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: PWP, Slash.
- "Neanche ci provo, a pensare sia venuto qui per qualcosa di diverso dal sesso.
Non stasera."

Note: Colpa di Tab XD In realtà le avevo detto millemila secoli fa che le avrei spinoffato Eine Kugel Reicht, semplicemente perché io amo da impazzire quella storia, nonostante il finale letteralmente strappacuore (piango ogni volta che la rileggo, è una cosa straziante ;_;). Ieri sera ero lì che mi lamentavo perché non sapevo cosa volessi scrivere e mi dibattevo tristemente fra la rape ed una roba tenero-lollosa, e non mi veniva di scriverle perché avevo passato le ultime due ore a vagolare nella cartella immagini di Bushido, cosa che era risultata nei miei ormoni in enorme disordine… perciò Tab ha risolto il mistero, annunciandomi che avevo voglia di scrivere porno.
Era vero °_° E questo è l’allegro (?) risultato XD Il titolo viene da una canzone stupenda dei Savage Garden che, ora che ci penso, è molto Billshidica. Testo qui.
Spero che questa mezz’oretta di lettura vi sia piaciuta! XD
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GUNNING DOWN ROMANCE

Neanche ci provo, a pensare sia venuto qui per qualcosa di diverso dal sesso.
Io so quando Anis è in vena di chiacchiere. So quando è in vena di cazzate, so quando è in vena di relax, so quando è in vena di tenerezze. Lo so perché i suoi occhi sono scuri e incomprensibili solo per chi non li guarda con la dovuta attenzione ed il dovuto rispetto.
Per me è sempre tutto molto chiaro.
Neanche ci provo, a pensare sia venuto qui per qualcosa di diverso dal sesso.
Non stasera.
- Piccolo, questa casa è un casino più del solito. – butta lì con un ghigno affamato che mi fa correre brividi caldi lungo tutta la schiena.
Io mi inumidisco le labbra e faccio un passo verso di lui. I miei piedi mostrano un’incertezza che non vorrei possedere, fermandosi a metà del movimento e facendomi inciampare comicamente sulla punta degli stivali.
Anis ride e la sua risata mi scivola sulla pelle come lava bollente. In questi momenti mi viene voglia solo di chiudere gli occhi e lasciarmi scivolare sulla prima superficie disponibile.
Il pavimento.
Una parete.
Il letto.
Lui.
- Passata una bella giornata? – continua a parlare. Il tono è malizioso, non è quello che utilizzeresti per una conversazione casuale. Non fa che confermarmi ulteriormente le sue intenzioni. Me le confermano la sua voce ed anche le sue dita, quando afferra con studiata lentezza il risvolto della giacca e se la sfila di dosso, posandola con disinteresse sul divano.
Lui sa che lo trovo sexy.
Lo sa che, quando gioca a fare il padrone della situazione, io gli impazzisco dietro.
Fortunatamente, così come lui sa tutte queste cose, io so che mi desidera da matti. Questo mi consola un po’, e mi aiuta a superare gli angoscianti momenti d’attesa durante i quali mi accerchia, prima di sbattermi sul materasso.
Gli piace farmi sentire desiderato.
Gli piace perché, quando lo fa, io non riesco a staccargli gli occhi di dosso.
- Così. – rispondo, cercando di eliminare qualsiasi traccia di ansia nella voce. A giudicare dal suo sorriso consapevole, non mi riesce bene. – Un po’ noiosa.
- Che cosa disdicevole. – commenta, avvicinandosi come un predatore. È scuro e misterioso e pericoloso e, quando vuole, come adesso, anche sinuoso come una pantera. Mi mordo un labbro. – Questa giornata va migliorata. – conclude, chinandosi su di me.
Non annulla la nostra distanza, però. Non è molto più alto di me, ma riesce sempre a mantenere quei due, tre centimetri di spazio fra le nostre bocche, che se solo provo a contarli davvero mi sento morire dentro.
Aspetta.
Io capisco cosa vuole.
Sollevo le braccia e le stringo attorno al suo collo. Mi tiro su e gli sfioro piano la bocca con la mia. Asciutto e timoroso. Dio solo sa se vorrei divorarlo qui seduta stante, ma ogni gioco ha le sue regole, e le regole di questo gioco Anis le ha decise molto tempo fa.
Mi sbuffa una mezza risata sulle labbra, stringendomi alla vita senza la minima gentilezza. La collisione dei nostri bacini genera nella mia testa una reazione tale che vedo le scintille, e mi lascio sfuggire un mugolio per metà sofferente e per metà talmente soddisfatto che ho quasi paura lui possa pensare mi basti così.
Poi mi rilasso: forse potrebbe bastare a me, ma di sicuro non basta a lui.
- Sei sexy quando sei così eccitato. – commenta a voce bassa contro il mio orecchio, mentre lascia scivolare una mano giù lungo la mia schiena, fino a stringere forte una natica. Mentre lo fa, mi spinge con maggiore decisione contro il proprio bacino, ed io sento la forza prepotente della sua erezione premere contro la mia.
Lo voglio. Adesso. Subito. È già tardi.
Mi attacco alla sua maglietta con l’urgenza ed i lamenti di un bambino capriccioso, strattonandola qua e là senza neanche capire esattamente da che lato tirarla per togliermela di torno.
- Pazienza, bimbo. – aggiunge in un’altra risata, scendendo a leccarmi voluttuosamente il collo, mentre una sua mano, quella non impegnata a stringermi il sedere come fosse una cosa sua, scende in lenta esplorazione della mia pancia e s’infiltra agile ed esperta oltre l’orlo dei jeans, alla ricerca della mia dolorosa erezione.
- Dio, sì… - ansimo, abbandonandomi contro la sua spalla, già a corto di fiato, - Bu…
- Mmmh… - mugola lui, soddisfattissimo, accarezzandomi dal basso verso l’alto, - Sì?
Vuole farmelo dire. Gli piace il suono di quella parola, penso. Posso capirlo, a ma piace quando lo dice lui.
- Scopami… - sussurro piano, tirandomi indietro abbastanza da poterlo baciare ancora.
Lui ride e stringe di più la presa attorno al mio cazzo, ed io per poco non mi lascio cadere per terra davvero.
- Stanotte ti scoperò finché non ne potrai più. – ringhia direttamente sulle mie labbra, artigliando l’orlo della mia maglietta e tirandolo su fino a sfilarmela dalle braccia.
Penso distrattamente che la possibilità che dica “adesso basta” sembra lontana come la fine del mondo, e corro con le mani ai bottoni dei suoi jeans.
Troppi vestiti inutili. Troppi, Dio, troppi.
Mi afferra sotto le cosce, prendendomi in braccio e muovendosi velocemente verso la prima parete disponibile, addosso alla quale mi schiaccia, prima di chiudermi addosso le labbra come una trappola. Chiudo gli occhi e mi lascio andare contro il muro, cercando di respirare senza riuscirci in maniera particolarmente convincente. Le sue labbra divorano centimetri di collo, petto, pancia, non so neanche come faccia ad essere ovunque contemporaneamente. Quest’uomo ha un dono.
Sospiro con forza, piantandogli le unghie nelle spalle, e mi infastidisce sentire sotto i polpastrelli il tessuto morbido in cotone. Preferirei di gran lunga la grana liscia e calda della sua pelle. E la resistenza ostinata dei suoi muscoli tonici.
Ricomincio a tirare la maglietta, ma lo faccio evidentemente dal punto sbagliato. Non lo so, non viene via, la stronza. Anis ride ancora e si allontana un attimo, lasciandomi andare, per esaudire il mio desiderio.
Nel mentre, per tenermi al mio posto, mi schiaccia con più forza contro il muro. La tensione del mio desiderio sta cominciando a farsi fastidiosa. Anche la sua, ci scommetto.
- Anis… - lo chiamo, ma esce fuori un’implorazione davvero vergognosa. Però pregarlo non mi dispiace. Lui, almeno, ascolta sempre. E fa anche i miracoli. Non è male, come Dio personale.
- Piccolo, se mi chiami così non mi trattengo. – mi avverte, fissandomi negli occhi con aria assassina.
Ci sono momenti in cui mi guarda e non riesco a sentirmi al sicuro. Non riesco a sentirmi a mio agio. Non voglio. Mi fa sentire come un pezzo di carne. Un pezzo di carne vivo e fottutamente bello.
- Non farlo… - sussurro piano contro la sua guancia, lasciandogli addosso una scia di baci umidi che si fermano e muoiono sulle sue labbra, come sempre, come tutto, come le mie proteste quando si ostina ad ignorare il mio bisogno per concentrarsi sui miei capezzoli, come i miei mugolii quando finalmente torna ad accarezzarmi fra le gambe, come l’ansito di pura sorpresa che mi coglie all’improvviso quando sento la punta della sua erezione stuzzicare insistentemente la mia.
Mugolo rocamente, spingendomi verso il basso, nel tentativo di procurarmi un po’ di sollievo con qualche strusciatina. La verità è che niente di quanto potrò provare così sarà anche solo lontanamente paragonabile a quello che sentirò quando lui sarà dentro di me, quando mi si spingerà contro con tanta forza da darmi l’impressione di volermi spaccare in due, quando toccherà quel punto segreto che ogni volta mi fa urlare come un pazzo, aggrappandomi al suo collo e ai suoi fianchi per non cadere dal letto in preda ad una spaventosa vertigine.
Anis è perfetto per me. Non è troppo. Non è appena giusto. È perfetto.
La prima volta che l’ho visto nudo, mi ha fatto una paura bestiale. Stava lì, di fronte a me, evidentemente compiaciuto, e mi si mostrava come la nostra fosse una competizione. Io, buttato sul materasso fra i cuscini, pallido, smorto e livido dalla paura per com’ero, mi sentivo veramente miserevole. Lui, dritto in piedi accanto al letto, liscio e teso, si stagliava in tutta la sua fottuta odiosa perfezione contro le mie tende bianchissime. Era il contrasto più eccitante che mi fosse mai capitato di guardare.
Quella notte, Anis ha osservato il mio sguardo perso posarsi addosso ad ogni centimetro del suo corpo, ed ha ghignato soddisfatto quando mi sono fermato vergognosamente proprio lì dove guardarlo era più piacevole, a causa della voglia indomabile che mi bruciava nei lombi non appena sfioravo l’idea.
“Non preoccuparti”, mi ha detto piano, salendo sul materasso al mio fianco, “se ti piace, non può farti male”.
Io ho chiuso gli occhi e l’ho ricordato esattamente come l’avevo visto contro le tende: le braccia rilassate lungo i fianchi, la linea tonica della schiena, le gambe leggermente divaricate, il suo profilo appena intuibile nel buio.
Se ha fatto male, non lo ricordo più.
Adesso non m’interessa.
Anis è perfetto per me. Non fa male neanche per sbaglio. Mi piace, mi piace e basta.
Mi si schiaccia contro ed io rilascio un sospiro che al dolore somiglia soltanto, mentre lo sento farsi strada dentro di me. Rude, veloce, come fosse arrabbiato. Riesce a mantenere ritmi simili anche per mezz’ora, ed è una cosa alla quale non riuscirò mai a rassegnarmi, perché dovrebbe essere fisicamente impossibile.
Ma non me ne frega niente: finché posso sentire la sua pelle contro la mia, finché posso sentire il calore assurdo della sua voglia dentro di me, finché lui è mio ed io sono suo in questo modo così speciale da farmi male al cuore, a me non interessa più niente.
Gli mordo forte una spalla mentre vengo contro la sua mano, sporcandogli la pancia. Ho voglia di scendere e leccare ogni centimetro del suo addome, giocare a nascondino contro il suo ombelico e poi prenderlo tutto in bocca fino in gola, fino a sentirmi stordito, ma Anis mi afferra forte per la vita e mi si stringe contro una, due, tre volte, fino ad esplodermi dentro, ed io respiro direttamente dalle sue labbra, senza pensare a nient’altro. Così accompagno gli ultimi tremiti dell’orgasmo, ed assieme alle sue spinte viene meno anche la voglia.
Lo abbraccio con una tenerezza che in genere non mi appartiene.
Rimango ad occhi chiusi e stringo le gambe attorno al suo bacino, quando lo sento muoversi piano per portarmi in camera da letto.
Appena tocco il materasso – fresco contro la mia pelle sudata e bollente – realizzo che non ci vedevamo da una settimana. E capisco la sua urgenza, i suoi occhi da predatore ed anche il mio desiderio folle.
Anis mi lascia scivolare una mano lungo la guancia, e la posa sulla curva del mio collo, attirandomi a sé per un altro bacio.
- Ci riposiamo un po’? – chiede con aria stupidamente tenera, aiutandomi ad accoccolarmi sul suo petto.
Sarà una notte sfiancante, penso, mentre sento le sue braccia stringersi possessivamente attorno alle mie spalle ed alla mia vita.
- Sì. – annuisco, continuando a guardarlo senza nemmeno battere le palpebre.
La seconda volta sarà più dolce. Lo è sempre.
La terza sarà una dichiarazione mancata. Lo è sempre.
Alla quarta non arriveremo, crolleremo addormentati l’uno fra le braccia dell’altro. Come sempre.
Le regole del gioco sono sempre le stesse. Anis le ha decise tanto tempo fa. Io le ho sottoscritte e continuo a farlo con ogni bacio che poso sulle sue labbra.
Finché possiamo – il più a lungo possibile – giocare è tutto.
Genere: Introspettivo, Drammatico, Romantico, Triste.
Pairing: Bushido/Bill, Bill/Tom.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Hurt/Comfort, Incest, Language, Lemon, Rape, Slash, Violence.
- Primo settembre 2009. E' il compleanno di Bill e Tom. Il minore dei gemelli Kaulitz, comunque, si ritroverà a ricevere un regalo inaspettato e decisamente poco piacevole. A raccogliere ciò che resta, però, un aiuto ugualmente insperato. E da qui, come sempre accade, niente sarà più come prima.
Note: WIP.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
L’asfalto ha un sapore amaro e polveroso. Ti si appiccica alla lingua e lo senti più forte perfino del gusto ferroso del sangue.
Quando, oltre al sapore del sangue, hai in bocca anche quello dell’asfalto, sai che è la fine. Hai toccato il fondo. D’istinto, anche se non hai mai provato prima una sensazione del genere e quindi non puoi esserne sicuro al cento per cento, sai che sta per avvicinarsi il momento in cui ti lasceranno andare.
Lo sai, o ci speri, comunque.
Ti lasciano davvero, fortunatamente.
- No, ma… è anche venuto! Ma che schifo!
- Lo volevi proprio, eh? Ti è piaciuto sentirtelo su per il culo, è vero?
- Ma lo sapevate che la troia oggi faceva vent’anni?
- Ma dai?
- Allora è perfetto! Tanti auguri, Kaulitz!
- Piaciuto il regalo?
Il regalo sa di sangue e d’asfalto.
È anche salato come una lacrima.
Ed amaro come la vergogna.
No, non ti è piaciuto. Avresti preferito continuare a goderti la nuova versione del Monopoli che t’ha regalato Tomi.

CRASH AND BURN
love is the light scaring darkness away

1. BLOODSTAINED
La BMW aveva esattamente una settimana e tre giorni. Le ore non avrebbe saputo indicarle. Probabilmente, se avesse saputo come si sarebbe evoluta quella serata, ne avrebbe preso nota.
Come uomo era assolutamente convinto le macchine fossero una netta affermazione di potere. Lui non era l’ultimo arrivato nell’industria musicale. Aveva alle spalle anni di gavetta e sacrifici difficilmente immaginabili. S’era meritato la fama che aveva. L’amore dei fedelissimi e l’odio delle masse di idioti.
La macchina andava cambiata, di tanto in tanto. Quando perdeva smalto. Quando diventava troppo nota. Quando diventava troppo pubblicizzata. Quando Bill Kaulitz se la faceva uguale, per dire.
La BMW aveva esattamente una settimana e tre giorni. Una settimana e tre giorni avevano anche gli interni in pelle bianco panna.
Le gomme tagliavano la strada con flemmatica calma. Il movimento della vettura era sicuro ed elegante, silenziosissimo. Oltre i finestrini c’era solo la notte, con la sua aria pesante carica di segreti. Per strada non c’era nessuno.
Quando Bushido accostò ed aggrottò le sopracciglia, cercando di distinguere la sagoma scura che arrancava strisciando sul marciapiedi, non capì subito di chi si trattava. A giudicare dalla magrezza spaventosa e dalla morbida onda dei capelli lungo le spalle e davanti al volto, ipotizzò potesse trattarsi di una prostituta. Da quelle parti succedeva spesso: un ladro o un cliente fuori di testa o le minacce di un protettore insoddisfatto, e le ragazze morivano sull’asfalto polveroso macchiato di sangue, con un coltello ficcato in profondità fra le viscere.
Spense il motore ed uscì velocemente dall’auto, attraversando in pochi passi il paio di metri che lo separava dalla figura ormai immobile, rannicchiata sul marciapiedi così strettamente da somigliare più che altro ad un mucchio di cenci, e si chinò, poggiando una mano sulla spalla della ragazza, sibilando un “ehi” un po’ incerto che sperò ricevesse risposta il più presto possibile.
Lei rispose con un mugolio incomprensibile, accucciandosi ancora di più e scostandosi neanche l’avesse minacciata con una torcia.
- Stai male? – le chiese, alzando un po’ il tono di voce, cercando di afferrarla più saldamente per le spalle senza scuoterla troppo, - Senti, se vuoi ti do un passaggio in ospedale, ho la macchina qui. – suggerì subito dopo, stupendosi della consistenza ossuta e forte delle braccia della ragazza sotto i palmi.
Lei si voltò impercettibilmente. I capelli le coprivano quasi tutto il viso. Erano scompigliati, sporchi ed appiccicati alle guance a causa del sangue, delle lacrime e della maschera pastosa di trucco ormai disciolto attorno agli occhi.
- Cosa è successo? – continuò a parlare lui, più nel tentativo di mantenerla sveglia mentre cercava di capire come trascinarla in macchina senza frantumarla, che per fare conversazione. – Ti hanno ferita? Picchiata? Dimmi qualcosa…
La ragazza rilasciò un altro lamento sofferente, portando una mano al braccio sinistro, che ancora Bushido stringeva saldamente fra le dita. Si accorse solo in quel momento che probabilmente dovevano averglielo fratturato.
La lasciò immediatamente andare.
Nel movimento, però, una scarica di dolore la scosse dal braccio al collo, costringendola a gettare indietro il capo in un urlo lancinante.
Non era una prostituta.
Non era una ragazza.
Bushido lasciò istantaneamente la presa e Bill ricadde a terra, battendo una spalla contro l’asfalto e riprendendo a mugolare dolorosamente, contorcendosi su se stesso.
- Cazzo… - biascicò in segno di scusa, chinandosi nuovamente su di lui e tirandolo su, facendogli passare un braccio dietro al collo, - Ma chi cazzo ti ha ridotto così? – chiese, consapevole che Bill non avrebbe risposto, impegnato com’era a mordersi un labbro per non piangere ancora, - Ma cazzo… - ripeté in una lamentela confusa, lanciando sguardi allarmati dal corpo tremante che teneva fra le braccia alla macchina malamente parcheggiata qualche metro più in là. – Okay, senti. – disse infine, - Ti tiro su e ti porto in macchina. D’accordo? – Bill mugolò ancora e dischiuse appena gli occhi, rilassandosi faticosamente contro di lui, - D’accordo. – annuì Bushido stringendolo a sé e rimettendosi in piedi.
Gli interni in pelle bianco panna avevano una settimana e tre giorni.
Le macchie sul sedile posteriore, dove l’aveva adagiato sulla colonna sonora dei suoi lamenti disfatti, non sarebbero più andate via.
*
- Lei è un parente?
Bushido guardò Bill abbandonato su una sedia in sala d’aspetto, avvolto in una coperta che lo faceva sembrare ancora più sottile di quanto non fosse. Gli occhi chiusi ed i capelli davanti al viso, era immobile come una statua di cera. Sembrava che neanche respirasse. Aveva voglia di avvicinarsi e mettergli una mano davanti al naso, giusto per verificare fosse ancora vivo.
- Se non è un parente, può restare qui fuori ma non entrare con lui. – disse l’infermiere dalla voce tremendamente nasale che lo fronteggiava al di là del banco dell’accettazione.
- Sono suo fratello. – rispose, senza staccare gli occhi di dosso dalla figurina apparentemente addormentata sulla poltrona.
L’infermiere sollevò un sopracciglio.
- Fratello? – chiese, palesemente divertito.
Bushido fece strisciare una banconota da cento euro sul banco e socchiuse gli occhi.
- Fratello. – concluse l’altro, annuendo. – Sarete ricevuti in pochi minuti.
Annuì a propria volta e tornò alle poltrone, sedendosi al fianco di Bill, ancora immobile sulla propria.
- Sei ancora vivo? – chiese spiccio, chinandosi su di lui.
Bill dischiuse gli occhi. Il suo sguardo era adesso molto più lucido e consapevole di quanto non fosse quando l’aveva trovato. Stringeva il braccio sinistro così vicino al corpo da dare l’impressione che quel braccio neanche ci fosse.
Non disse una parola.
- Senti, mi rendo conto che io devo essere più o meno l’ultima persona al mondo tu abbia voglia di avere intorno in un momento come questo… - commentò imbarazzato, guardando altrove, - Magari se mi dai il numero del tuo manager o di tuo fratello, li chiamo. O li chiami tu, se te la senti.
Bill scosse il capo. Bushido si ritrovò a pensare con una certa rabbia che se Bill Kaulitz s’era messo in testa di costringerlo a fargli da balia per tutto il tempo, era proprio fuori strada: un conto era la facciata da spasimante che propinava alle fangirl; un altro conto era la naturale cortesia che gli riservava nei backstage; cosa completamente diversa era definirsi un suo amico o chissà che altra follia.
- Va bene. – disse, sforzandosi comunque di non mostrarsi irritato, - Allora… be’, non posso lasciarti solo.
Bill scrollò le spalle.
- Non fare il grand’uomo. – lo riprese lui, aggrottando le sopracciglia. Odiava quando i ragazzini non si comportavano da ragazzini. Se c’era una cosa che la strada gli aveva insegnato, era che devi imparare in fretta qual è il tuo posto ed adattarti il prima possibile a comportarti nel pieno rispetto delle gerarchie. Poi puoi anche provare a mutare la tua posizione, ma non puoi comportarti da boss quando sei uno sgherro, così come non puoi comportarti da sgherro quando sei il boss.
Bill sorrise amaramente – una risata sofferta che si mischiò ad un lamento difficilmente equivocabile – e si morse un labbro.
- Certo che… - ringhiò, e furono le sue prime parole, - il tuo atteggiamento è cambiato parecchio, quando ti sei accorto che ero Bill Kaulitz.
Bushido strinse i pugni.
Quel ragazzino voleva costringerlo a completare l’opera già iniziata da altri, evidentemente. Stupidi mocciosi in vena di suicidio.
- Chi credevi che fossi? – continuò Bill, senza mai guardarlo negli occhi.
Si strinse nelle spalle.
- Una prostituta.
E Bill rise forte. Così amaramente che Bushido non riuscì a risparmiarsi l’imbarazzo ed il senso di colpa.
- Considerando come mi hai fatto cadere a terra prima, una puttana vale più di me, evidentemente. – prese nota Bill, annuendo compitamente, - Bene.
- Potresti per favore non essere intollerabile? – sbottò lui, tremendamente infastidito, - Fino a prova contraria, ti sto aiutando. E non mi hai ancora detto cosa ti è successo!
Bill ghignò e guardò altrove, trincerandosi nuovamente fra le maglie di un silenzio che Bushido non era affatto sicuro di volere dipanare. In fondo, lui non aveva proprio niente a che fare con quel ragazzino palesemente fuori di testa. Il lavoro è lavoro, la vita privata è un’altra cosa e lui avrebbe tranquillamente potuto lasciarlo dove l’aveva trovato senza sentirsi minimamente in colpa. D’altronde, quante centinaia di volte era successo a lui? Pestato a sangue e lasciato a lamentarsi in un angolo di strada – ed aveva solo sedici anni, cazzo – e se non ci fosse stato Fler a recuperarlo non sarebbe mai sopravvissuto abbastanza da raccontarlo.
Ognuno dovrebbe avere una persona che vada a raccoglierlo per strada, ecco.
Non era scritto da nessuna parte che quella persona, per Bill Kaulitz, dovesse essere lui. Aveva un dannato fratello che era tutta la sua vita e così via blaterando cazzate, no? Ed allora perché non si comportava come tale?! Perché non voleva chiamarlo?! Perché cazzo stava tirando proprio lui in mezzo a-
- Il dottore vi sta aspettando.
Bill si alzò prima di lui e gli crollò rovinosamente addosso meno di un secondo dopo, regalandogli anche una gomitata in pieno stomaco che si sarebbe volentieri risparmiato.
- Ma Cristo… - borbottò, afferrandolo per la vita un attimo prima che rotolasse sul pavimento senza nemmeno un lamento di dolore, - Si può capire che cazzo hai?!
Bill digrignò i denti e cercò di recuperare un equilibrio, senza riuscirci.
- …non riesco a camminare bene. – scollò alla fine, guardando altrove.
Bushido cercò di scrutare a fondo nei suoi occhi, alla ricerca di una motivazione. Una motivazione qualsiasi per rispondere a tutte le domande che aveva in testa. Perché eri fuori da solo? Che ti è successo? Perché vuoi che resti? Perché fai così?
Non trovò nulla.
Lo afferrò più saldamente dietro le spalle e sotto le ginocchia e si tirò in piedi, sollevandolo fra le braccia.
Bill rispose con un ringhio di stupore e fastidio.
- ‘Cazzo fai?!
Bushido non lo degnò di uno sguardo.
- Se non sei in grado di fare un passo, figurarsi cinque metri da qui alla porta. Ti aiuto.
- Non ho bisogno di nessun cazzo di aiuto.
- Certo. È evidente. Avrei dovuto lasciarti sul marciapiedi.
- Sarebbe stato molto meglio!
Non riuscì a resistere e lo pizzicò con una certa forza sul fianco.
- Taci, o ti faccio cadere a terra da qua, sai?
Bill, ancora mugolante per il dolore al fianco – nonché a tutto il resto – decise saggiamente di restare in silenzio mentre Bushido lo portava in sala visite – stupendosi davvero coscientemente di quanto fosse leggero, dato che, quando l’aveva portato in macchina, nella confusione del momento, non se n’era quasi neanche accorto – e lo adagiava con una certa cura sul lettino.
Il dottore arrivò in pochi secondi. Indossava già i guanti di lattice e la cosa lo fece sentire strano. Come rendersi conto in un attimo di cosa stesse effettivamente succedendo.
L’uomo – basso e dall’aspetto ordinario, piuttosto rassicurante, coi suoi lineamenti tondi e la pancia prominente che s’intravedeva sotto il camice e la camicia a righine gialle – li squadrò stranito. Prima Bill, sul quale lasciò scivolare un’occhiata incerta e piuttosto consapevole. Poi lui, alla vista del quale le sopracciglia si inarcarono fin quasi a sfiorare l’attaccatura dei capelli.
- Dunque… - cominciò incerto. Lanciò un’altra occhiata a Bill, ma lui non disse niente, perciò tornò a voltarsi verso Bushido. - …cos’è successo?
Lui si ritrovò a scrollare le spalle.
- Non me l’ha detto. Credo che l’abbiano picchiato. Il braccio… forse è fratturato.
Bill provò a muovere il braccio sinistro, ma non ci riuscì – almeno, non senza ringhiare di dolore.
Il medico gli si avvicinò e lo toccò con una certa competenza, sistemando gli occhiali sul naso.
- Lei è qui perché…? – chiese, mentre lo esaminava, rivolgendosi palesemente a Bushido.
- …l’ho trovato. – rispose lui, in mancanza di qualcosa di meglio.
- Dovrò informare la famiglia.
- No. – rispose nettamente Bill.
Il medico lo guardò con una certa curiosità. Anche Bushido.
- Lui va bene. – precisò Bill, senza abbassare lo sguardo.
- Lui va…? – cominciò il medico. Poi si lasciò andare ad una mezza risata. – Non esiste. – disse poi, - Deve darmi il numero di un parente.
Bill sospirò e si voltò a guardare Bushido.
- Fallo di nuovo. – ordinò secco.
Bushido spalancò gli occhi.
- Fare cosa?
- Quello che hai fatto all’accettazione, fratellone. – spiegò con un mezzo sbuffo esasperato.
Bushido sospirò a propria volta e mise mano al portafogli, chiedendosi quanto avesse intenzione di fargli sborsare quel ragazzino prima dell’alba.
- Capisco, lei è il fratello. – lo prese in giro il medico, accettando senza un commento la banconota, - Bene, signor Kaulitz. – proseguì poi, mettendo in chiaro ciò che Bushido aveva già subodorato, cioè che sapesse perfettamente con chi stava parlando. – Si stenda. Quanto a lei… - continuò, rivolgendosi a Bushido, - aspetti fuori.
Anis annuì ed abbandonò nervosamente la stanza, senza riuscire a scrollarsi di dosso la sensazione di terrore che gli avevano trasmesso gli occhi di Bill un attimo prima che uscisse.
Il medico lo raggiunse mezz’ora dopo. Abbastanza da concedergli il giro dell’edificio in cerca di una finestra, una sigaretta di rito ed un caffè dal sapore semplicemente osceno che gli aveva messo addosso una nausea talmente forte da costringerlo a cercare un bagno per poi chinarsi sulla tazza e scoprire che non ne sarebbe mai venuto fuori niente, perché non era nello stomaco, il problema.
Era nervoso.
Non riusciva a capire perché.
O meglio, sì, ma non poteva crederci.
- Il braccio non è fratturato, si tratta solo di una lieve contusione. Comunque, il ragazzo è stato violentato.
Per un attimo, credette di aver sentito male.
Aprì la bocca come per chiedere delle spiegazioni, ma la richiuse subito dopo.
- Non se n’era accorto?
Scosse il capo.
- E lui non gliel’ha detto.
Annuì.
Il medico sospirò.
- Senta, non so in che rapporti siate, ma-
- Ci siamo incontrati stasera. – si affrettò a spiegare, improvvisamente agitato. - …non penserà che io-
- No, no. – lo tranquillizzò il dottore, infilando le mani nelle ampie tasche del camice, - Intendevo solo dire che farebbe meglio a riportarlo immediatamente dai suoi familiari. Sperando che loro riescano a fargliene parlare. A me l’ha detto a bassissima voce, e se non l’avessi capito al volo non l’avrei mai saputo, perché subito dopo ha cominciato a negare insistentemente e non c’era verso di esaminarlo. – sospirò ancora, - Ho dovuto sedarlo. Sono intervenuto come ho potuto e dobbiamo ringraziare che gli effetti della violenza non siano stati particolarmente devastanti. – un mezzo sorriso stanco, - Una fortuna nella sfortuna.
Bushido si trattenne a stento dallo stringere i pugni e presentare agli occhiali del dottore le nocche della sua mano destra. Non c’era un’espressione che detestasse più di “una fortuna nella sfortuna”. Non è “una fortuna nella sfortuna” la magra consolazione che il cazzo dello stronzo che ti ha violentato non ti abbia perforato il colon o chissà che altro. Non è “una fortuna nella sfortuna” il fatto che un povero stronzo – quale lui, cazzo, era per non essersene accorto prima – ti trovi per strada e ti trascini in macchina per portarti all’ospedale. E non è “una fortuna nella sfortuna” essere ancora fottutamente vivi e dover fronteggiare una visita e delle domande dopo una cosa del genere.
È un bene che tu non abbia subito un’emorragia, è un bene che ti abbiano trovato ed è un bene essere ancora abbastanza presenti a se stessi da sostenere una conversazione. Ma non è una cazzo di fortuna.
- Capisco. – si limitò ad annuire, perplesso e un po’ scosso.
- Comunque, può portarlo a casa. Dal momento che è maggiorenne, ho già consegnato a lui tutto ciò che dovevo consegnargli, comprese le ricette. Per l’analisi del DNA che dovrà presentare alla polizia per la denuncia ci sarà da aspettare un po’, e… signor Bushido?
Tornò a guardare il medico solo perché mai – mai in tutta la propria vita – gli era capitato che qualcuno lo chiamasse “signor Bushido”.
- Sì?
- È molto scosso. – disse l’uomo con una certa gravità.
“Grazie mille”, pensò lui, annuendo compitamente, “non l’avrei mai immaginato”.
La sala visite era identica a come l’aveva lasciata, ed in effetti non c’era alcun motivo per il quale avrebbe dovuto trovarla differente. Tranne, forse, che ora sapeva qualcosa in più sul ragazzino che l’aveva quasi preso a parolacce come ringraziamento per averlo salvato.
Anche Bill era identico: lo aspettava – per motivi incomprensibili, visto che non aveva detto che sarebbe tornato – seduto sul lettino e con un’espressione rabbiosa a stravolgere i tratti del viso.
- Bill… - lo chiamò piano, avvicinandosi a lui.
Il ragazzo sollevò gli occhi nei suoi ed inarcò le sopracciglia.
- …te l’ha detto. – constatò, stringendo la presa delle dita attorno al lenzuolo di carta sul lettino, - Non aveva alcun diritto di farlo. Non dovevi saperlo. – si fermò un attimo, mordicchiandosi il labbro inferiore, - Guai a te se ti azzardi a dirlo a qualcuno. Nessuno-
- Tuo fratello, tanto per cominciare. – cominciò ad elencare Bushido con calma, appoggiandosi sulla branda accanto a lui, - Poi i tuoi genitori, i tuoi amici ed il tuo manager. Queste sono tutte le persone che devono saperlo. Se contavi di dirlo a meno persone rispetto a quelle in questa lista, stavi sbagliando.
- Non hai nessun diritto di-
- Lascia perdere. – lo interruppe con un mezzo sorriso, - Sono in vena di farmi dire che non ho diritti quanto tu di sentirti rimproverare.
Bill intrecciò le dita in grembo, abbassando lo sguardo.
- Allora non farlo. Non rimproverarmi.
- Non lo stavo facendo. – rispose Bushido con una scrollata di spalle, - Dai, vieni. Ti riporto a casa.
Bill non rispose. Ridiscese faticosamente giù dal lettino e si mise al suo fianco, seguendolo verso l’uscita.
- Certo che… - disse poi, quando furono nei pressi della macchina, - è ironico che a trovarmi sia stato proprio tu. Fra tutte le persone che avrebbero potuto… tu.
“È ironico sì”, pensò amaramente Bushido, “ma non per i motivi che immagini”.
Gli aprì la portiera e Bill scivolò silenziosamente sul sedile del passeggero, lanciando sguardi allarmati alla fodera del sedile posteriore, attraverso lo specchietto retrovisore.
- Te la ripagherò. – disse ansioso, mordicchiandosi l’interno di una guancia.
Bushido scrollò le spalle, accomodandosi alla guida.
- Non ho esattamente bisogno della tua carità, Bill. – precisò inarcando le sopracciglia e mettendo in moto.
- Certo. – ghignò lui a propria volta, - L’uomo musicalmente più influente di tutta la Germania, no? Era questo che diceva Vanity Fair. Dal secondo al primo posto in meno di due anni. A cosa ti servono i soldi di uno che sta ancora fermo al terzo?
Bushido gli lanciò un’occhiata risentita, sospirando e tornando immediatamente a guardare solo la strada.
- Intendevo dire che va bene così. – precisò, - Non devi sentirti in colpa per il sangue.
Bill scrollò le spalle.
- M’infastidisce pensare che non andrà più via. – spiegò, e Bushido ebbe chiaramente la sensazione che non stesse affatto parlando della tappezzeria della sua automobile, ma di qualcosa di profondamente diverso e ben più importante.
- È successo anche a me. – disse quindi, stringendo la presa delle dita attorno al volante.
Bill non capì. Gli sollevò addosso uno sguardo incerto e non disse nulla.
- Sono stato violentato anche io. – specificò quindi, senza ricambiare l’occhiata.
Era la prima volta che ne parlava. In… quasi quindici anni. Non era doloroso come aveva sempre pensato sarebbe stato. Suonava strano, questo sì, ma più che altro perché a rivedersi com’era adesso in quella situazione sentiva come una sorta di senso d’impossibilità che, ad un certo punto, gli bloccava perfino i ricordi. Ma niente di più, ecco. Era strano e basta.
Forse pizzicava un po’ sotto le ciglia.
Forse.
- …non voglio parlare di questa cosa. – deglutì Bill, incerto, - Cioè, mi dispiace, ma-
- Non sei molto gentile, ti pare? – ribatté lui, atono, concentrato sull’asfalto in rapido scorrimento sotto le ruote, - Ti parlo di una cosa così intima e tu mi rispondi che non te ne frega niente?
Le labbra di Bill divennero sottili come due linee, e Bushido lo scorse con la coda dell’occhio chinare il capo e socchiudere le palpebre. Aveva un occhio gonfissimo.
- Non intendevo… non l’ho detto in quel senso. – disse a bassa voce, - Non volevo offenderti.
Bushido sospirò.
- È successo mentre ero in prigione. Avevo sedici anni. – raccontò senza inflessioni particolari, - Per la verità quella volta non passai molto tempo dietro le sbarre. Un paio di giorni, al massimo. Nel 2005 ci sono stato per molto più tempo, ma per una faccenda completamente differente. – scrollò le spalle, - In ogni caso, una notte basta. Stavo in cella con questo tipo che avrà avuto il doppio degli anni che avevo io allora… - una breve occhiata, - …più o meno come me e te adesso, suppongo. Era stato gentile con me, tutto il giorno. Mi aveva detto che mi avrebbe protetto lui. Così, quella notte, mi spiegò cosa avrei dovuto fare io per garantirmela, quella protezione.
Bill rilasciò un sospiro talmente sofferto che per un secondo Bushido si sentì perfino in colpa.
- Mi… dispiace.
Un’altra scrollata di spalle.
- Quando il giudice mi ha posto la scelta fra la detenzione ed i lavori forzati, non ci ho pensato due volte. – ghignò, - Quel tizio mi offriva una protezione che non potevo permettermi.
Bill si fece minuscolo sul sedile e Bushido fermò la macchina.
- Lo capisci cosa sto cercando di dirti?
Il moro si strinse nelle spalle, concedendogli un sorriso amarissimo.
- Sinceramente? No.
- Sto cercando di dirti, Kaulitz… e sinceramente mi stupisco di dover mettere i sottotitoli proprio con te, che passi per uno intelligente… sto cercando di dirti che passa. – si interruppe un attimo ed osservò una mezza risata sfiduciata ed assassina nascere sul volto del ragazzo. L’assassino divenne lui. Lo afferrò saldamente per il mento e gli tenne stretta la mandibola fra due dita, per impedirgli di ridere davvero. – Ora fa male. Ed è uno schifo. E brucia. E ti stai chiedendo perché. Ma fra qualche tempo tutto questo non significherà più niente. Ti resterà per sempre una traccia dentro, ma tu non smetti di vivere perché uno stronzo ti ha fatto del male, okay?
Bill non rispose. Si limitò a guardarlo con aria contrita e supplichevole finché non ebbe finito. Non si mosse neanche per chiedergli di lasciarlo, e Bushido dovette farlo dando per scontato lui desiderasse essere lasciato. Cosa della quale in realtà non era sicuro, perché era abituato ad avere a che fare con persone che chiedevano esplicitamente ciò che volevano. Il ragazzino, però, non chiedeva niente. Addirittura, ti chiedeva di fare il contrario rispetto a ciò che gli sarebbe servito.
Non avrebbe dovuto lasciarsi travolgere in quel modo. Avrebbe dovuto fare il suo dovere da onesto cittadino – tralasciando il piccolo particolare della sua fedina penale tutt’altro che indicativa in quel senso – e poi sparire. Sarebbe stata la cosa migliore da fare.
Rimise in moto, diretto verso la via che Bill gli aveva indicato prima di partire, e non fece una piega quando, naturalmente, Bill cominciò a parlare.
- Erano in tre. – raccontò, senza singhiozzare né lamentarsi, - Conoscevano… mi conoscevano.
- Tutti ti conoscono, Bill.
- No. – scosse il capo lui, risoluto, - Questi mi conoscevano davvero. Sapevano anche la mia data di nascita. Mi hanno fatto gli auguri per il compleanno, e… - Bill s’interruppe e gli lanciò un’occhiata. Dovette accorgersi del suo disagio. Sorrise brevemente: - Non importa se tu non mi fai gli auguri. – lo rassicurò conciliante, - Mi hai già fatto il regalo, almeno.
Bushido ridacchiò, scuotendo il capo.
- Scusa, Bill. – sentì il bisogno fisico di dire, - Ho fatto casino, stasera.
- Mi sembra che l’abbiamo fatto entrambi. – rispose seccamente lui, - Perciò possiamo saltare i convenevoli? Io… sono contento che tu non mi abbia lasciato su quel marciapiede.
- Ed io sono contento di essere rimasto con te per tutto il tempo. – rispose con naturalezza, rendendosi conto solo a frase ultimata che sì, era vero.
Bill rimase un po’ in silenzio, giocando con la punta dei piedi sul tappetino di fronte al sedile.
- A me non sembrava di conoscerli, sai? – continuò poco dopo, quasi soprapensiero, - A te non dà fastidio? Sapere che c’è gente che conosce tutto di te… quando tu non sai niente di loro.
Bushido scrollò le spalle.
- È una controindicazione della fama. – spiegò seccamente.
- Sì. – annuì Bill con un mezzo sorriso, - E, come tutte le controindicazioni, fa schifo.
Bushido rise. Bill con lui.
L’atmosfera in macchina era surreale, ma in qualche modo era come se la carrozzeria li trattenesse in una dimensione parallela dove una scena simile non sembrava per nulla assurda. Perciò ridacchiarono per un po’, consolandosi a vicenda col suono di quella risata.
- È qui. – disse a un certo punto Bill, indicando un ampio portone in legno scuro che Bushido suppose fosse casa sua, - E mentirei se ti dicessi che mi va di tornare.
- Avanti. – borbottò l’uomo, fermando la macchina accanto al marciapiedi, - Prima o poi dovrai comunque andare a dormire. Ed io non intendo certo portarti a casa mia!
Bill rise ancora, coprendosi la bocca con una mano.
- Non avevo intenzione di chiedertelo. E poi devo… assolutamente parlare con mio fratello.
Bushido annuì.
- Devi proprio. – concordò con un sicuro cenno del capo. – Quanto alla tappezzeria… - commentò poi, mentre Bill scendeva faticosamente dalla vettura, - Ogni tanto fa bene ricordarsi dell’esistenza delle macchie. – annuì, lanciando un’occhiata ai sedili posteriori, - Le macchine sono più belle, quando sono vissute.
Bill sorrise amaramente e fece per muoversi verso il portone, ma si fermò dopo qualche passo, stringendosi incerto nelle spalle e voltandosi a guardarlo.
- Bushido. – lo richiamò seriamente. Lui si sporse dal finestrino, osservandolo dal basso verso l’alto, le sopracciglia inarcate in segno di curiosità, - Io sono… - cominciò con evidente difficoltà, - mentre loro… intendo, mentre lo facevano, io… - si fermò ancora, stringendo le dita attorno all’orlo della maglia con una forza tale che le nocche divennero pallidissime. - …non importa. – concluse quindi, scuotendo il capo, - Grazie di tutto.
Ed in un battito di ciglia era scomparso.
Quella avrebbe potuto essere la fine della storia.
Ma non fu così.

Titolo originale: id.
Autrice: bleepbloopbanana
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Language, Fluff, Traduzione.
- L'amore è un campo di battaglia e le parole "piacevole convivenza" sembrano formare un ossimoro. In ogni caso, questi due sembrano non desiderare altro.
Note: La mia prima traduzione Billshidoooooooo *_*!!! *muore* No, okay, ricomponiamoci e cerchiamo di essere seri. Allora, questa storia mi ha colpita per due ordini di motivi: prima di tutto, l’ho letta dopo una cosa orribile che mi ha uccisa XD ed alla quale suppongo ruberò l’idea per cercare di dare alla cosa un senso ed una dignità, perché l’idea stessa che nel mio fandom esistano robe simili mi dà i brividi di disgusto u.u Il secondo motivo è che Bill e Bu in questa storia sono amore ;_; Isterico!Bu all’inizio ha rapito il mio cuore fin da subito (e spero di averlo reso efficacemente ._.) e poetaintrance!Bu sul finale s’è guadagnato in una volta il mio amore imperituro XD (Come fosse difficile per me amarlo. Ehm). È carinissimo anche Bill XD Quando strilla “se non è l’una è l’altra, perciò se non vuoi parlare vuoi scopare” è il bene XD *abbraccia Billi*
Ovviamente, l’eroe della situazione resta Junior. Da questo momento so come si chiama il piccolo amico di Bushido. *ama profondamente*
Grazie per aver letto XD E spalate amore sulla storia *_*!!! *si dissolve in una nube di coriandoli*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
ANY WAY AT ALL

Bushido si rifiutò di guardare ancora l’orologio. Fissò ostinatamente lo sguardo sul televisore, schiacciando convulsamente i tasti col pollice mentre saltava da un canale all’altro. Gli occhi facevano quasi male, tanta era la forza che metteva nel cercare di non spostarli sul quadrante dell’orologio appeso al muro di fronte.
Stava disteso sul costoso divano in pelle nera con una certa rilassatezza forzata; ad un occhio poco allenato sarebbe sembrato perfettamente a proprio agio nel proprio lussuoso attico, ma uno sguardo più attento avrebbe facilmente rilevato la sottile tensione che tirava ogni singolo muscolo. Era aggressivamente rilassato, pronto a muoversi al primo cenno di necessità.
Le immagini tremolanti che scorrevano sullo schermo del televisore cominciavano a dargli il mal di testa, e le spalle gli dolevano per il modo in cui cercava di tenerle bloccate al loro posto, ma Bushido ignorò il bisogno di spostarsi in una posizione più confortevole. In verità, aveva intenzione di non muoversi affatto; era sicuro che i suoi occhi traditori si sarebbero incollati ai luminosi numeri verdi dell’orologio alla prima occasione favorevole.
Le dita lunghe e scure si contrassero attorno al telecomando, sintomo del disperato bisogno di una sigaretta. Si maledisse silenziosamente per essersi preparato in tempo per ricevere Bill proprio l’unica volta in cui lui decideva di presentarsi in ritardo. Non c’era la minima possibilità di concedersi una sigaretta veloce prima che arrivasse, adesso – non dopo essersi costretto a passare mezz’ora in mezzo a vari prodotti il cui scopo era fornire un’igiene orale superiore, per il bene del proprio schizzinoso amante.
Bill non gli aveva mai detto di trovare fastidioso il sapore delle sigarette, ma Bushido non era abbastanza ottuso da lasciarsi sfuggire il lieve arricciarsi del suo naso ogni volta che si baciavano, così come non poteva ignorare il modo in cui Bill si premurava di lavare e stuzzicare col filo interdentale i propri denti ogni volta che restava a dormire da lui. Avrebbe quasi potuto sentirsi offeso, se non avesse saputo che essere ossessivo riguardo al proprio aspetto faceva semplicemente parte della natura di Bill – ogni capello doveva essere al proprio posto, quando usciva di casa, e qualsiasi capello non lo fosse era così solo perché era stata sua cura scombinarlo in quel preciso modo. Bushido poteva capirlo; anche la propria immagine era importantissima, per lui, ma si trattava più di una questione di atteggiamento, che non di aspetto fisico in sé.
Non gli era mai interessato tanto dell’aspetto dei propri denti o di quale fosse il sapore della sua bocca, prima. Fumare era un vizio nel quale indulgeva quando lo stress si trasformava in una fastidiosa emicrania, ed il caffè non era niente più che una necessità, considerato il lavoro che faceva. Usare il colluttorio non era mai stata una priorità, e non lo sarebbe mai diventata se non fosse stato per un certo sensuale cantante dai capelli scuri.
Alla fine, era stato il cauto silenzio di Bill a decidere per lui. Era abituato ad ascoltare Bill lamentarsi per qualsiasi cosa – ed era ancora più abituato ad ignorarlo, quando lo faceva – ma il fatto che lui stesso non menzionasse nemmeno il problema gli aveva dato da pensare. Per come la vedeva lui, poteva anche sprecare un paio di minuti a spruzzarsi del liquido verde in bocca, per la felicità del proprio amante. Non era come, per esempio, cominciare a bere succo d’ananas per rendere il proprio sperma più saporito o chissà che.
Bushido tossì repentinamente, e qualsiasi molesto pensiero circa i tre cartoni del suddetto succo a riposare silenziosi nel minibar accanto alla vodka furono prontamente ignorati.
La porta si aprì con uno scatto secco proprio quando gli occhi di Bushido riuscirono a ribellarsi e piantarsi sul display dell’orologio. Le tre e quarantotto del mattino. Bill non era mai arrivato così tardi, prima di quel momento. Cercò di rilassarsi e si sedette più comodamente sul divano per osservare una massa di vestiti che avrebbero potuto contenere un corpo, così come non contenerlo affatto, attraversare la porta, per poi andare a sbattere contro un mucchio di riviste che erano state accidentalmente lasciate accanto alla porta.
- Ma lo pulisci mai questo posto? – domandò Bill con aria accigliata, liberandosi delle proprie numerose giacche e sfilando gli enormi occhiali da sole, così da poterlo fissare con appropriato disappunto.
- Brontolare, brontolare, brontolare. – Bushido non poté impedire ad un ghigno di distendergli le labbra, - Tu non fai mai altro?
- Be’, qualcuno dovrà pur farlo.
- Tu hai sbagliato lavoro, piccolo. – Bushido lo raggiunse oltre lo schienale del divano, afferrandolo per una mano e portandoselo vicino, - Dovresti fare la casalinga. Sarebbe perfetto per te.
- Sì, be’, tu- - Bushido lo interruppe con un bacio umido ed aperto. Una volta che cominciavano a lanciarsi frecciatine potevano andare avanti per ore, e per quanto la cosa potesse rappresentare un intrattenimento piacevole, la maggior parte delle volte, per quella sera aveva piani migliori.
Si separarono con un soffice schiocco, e Bill si leccò le labbra, spezzando la luccicante linea di saliva che ancora li univa. Bushido lo condusse attorno al divano e riprese a baciarlo appena gli si fu seduto accanto, mormorando dolcemente fra le sue labbra ogni volta che il piercing lo sfiorava.
- Anis… - ancora poco abituato al suono del suo nome di battesimo che scivolava fra quelle labbra morbide e piene, Bushido si tirò indietro e sussultò. Bill roteò gli occhi di fronte alla sua reazione e sospirò fra le sue labbra. – Pensavo…
- Non ti strapazzare troppo.
Bill lo pizzicò vendicativo su un braccio e Bushido schioccò un bacio divertito sul suo broncio offeso.
- Ascoltami. Tom stava-
- Tuo fratello non è esattamente l’argomento di discussione che preferisco al momento. – si lamentò Bushido, stendendo il capo sullo schienale del divano ed accarezzandogli una guancia, cercando di ignorare il pensiero del suo iperprotettivo gemello. Percepì Bill irrigidirsi fra le sue braccia prima di scostarsi da lui, e dischiuse gli occhi per osservarlo serrare furiosamente le labbra.
- Non vuoi mai parlare di niente.
Riuscì a stento a trattenersi dal bisogno di roteare gli occhi di fronte a quella palese esagerazione.
- Non alle tre del mattino, lo ammetto.
- Bene. – dichiarò Bill, alzandosi repentinamente in piedi e piegandosi per sciogliere il nodo degli stivali, prima di lanciarli attraverso la stanza. Batterono contro al muro con un debole tonfo, e le sue sopracciglia si inarcarono. Si inarcarono anche di più quando le pallide e magre dita di Bill cominciarono a sbottonare la camicia, e gli sarebbero scomparse sotto la frangia, se ne avesse avuta una, quando Bill lasciò scivolare la camicia lungo le spalle e si dedicò a sbottonare i propri pantaloni.
- …che stai facendo? – non che mi dispiaccia, rifletté Bushido, fissando con un certo apprezzamento il suo petto bianchissimo.
- Mi sto spogliando. – replicò bruscamente Bill, sfilando la cintura con tanta forza che Bushido dovette tirarsi indietro per non finire frustato in pieno viso. Lo sguardo di Bill gli confermò che quella doveva essere l’idea originaria.
- Questo posso vederlo da me. – disse lentamente, combattendo contro se stesso nel tentativo di mantenere il tono condiscendente che Bill odiava tanto, - Ma perché?
- Be’, se non è una cosa è l’altra, no? – Bill scivolò fuori dai propri jeans e li lanciò dietro al divano, - Non vuoi parlare, perciò devi voler scopare.
- Ehi, datti una calmata, adesso. – si chinò in avanti e fermò le sue mani prima che potessero liberarsi anche dei boxer, cercando di tenere a mente che Bill non aveva parlato per insultarlo. La piccola parte della sua mente che continuava ad insistere cercando di convincerlo che quello fosse invece lo scopo primario delle sue parole venne brutalmente zittita.
- Non voglio scopare. – disse calmo, - Junior è un po’ stanco, oggi.
Il suo tentativo di fare dell’umorismo si perse immediatamente quando Bill si liberò della sua stretta e lasciò scorrere nervosamente le mani fra i capelli.
- Allora cosa? – la disperata confusione nella sua voce lo spaventò un po’, e fece per alzarsi dal divano, ma Bill lo fermò con un rigido cenno del capo. – Non so che- - la voce gli rimase imprigionata nella gola, e Bushido rimase immobile in sbigottito silenzio mentre Bill si copriva il volto con le mani, prima di lasciarle ricadere lungo i fianchi lasciando delle chiare linee di pressione sulle guance arrossate.
Gli sbalzi d’umore di Bill non erano niente di straordinario. Piuttosto, erano diventati quasi una routine. Poteva spaziare dalla felicità alla rabbia in un battito di ciglia, e dalla rabbia all’eccitazione in ancora meno. Si potrebbe pensare che la celebrità possa rendere immuni agli accessi d’ansia ed all’insicurezza, ma ogni tanto lo stress lo pressava davvero troppo. Bushido, comunque, era abituato a tutto questo, e sapeva come gestirlo quando si ritrovava in quelle condizioni. Infatti non fu il cambiamento repentino a sorprenderlo, ma le parole che uscirono dalla sua bocca.
- Cosa vuoi? – la voce di Bill s’era abbassata fino a diventare un sussurro, mentre lui lasciava scorrere con una certa violenza le mani fra i capelli lisci lungo le spalle. I suoi occhi erano lontani ed era ovvio non si aspettasse una risposta. In ogni caso, fu ciò che ottenne.
- Te.
Quasi ebbe voglia di guardarsi intorno alla ricerca di chi avesse parlato, prima di riconoscere che si era trattato della propria stessa voce e di capire che le sue labbra si stavano ancora muovendo.
- Voglio te e basta.
Bill abbassò le mani e contrasse le labbra in una smorfia frustrata. Bushido non si interruppe per sentirsi offeso dal fatto quella palesemente non fosse la risposta che il cantante stava cercando.
- Disteso sulla schiena. Piegato sulle ginocchia. Anche sdraiato sul tavolo, qualche volta, te lo ricordi? – Bill aggrottò le sopracciglia e Bushido realizzò che avrebbe dovuto fermarsi prima di rovinare tutto, ma qualcosa che aveva tenuto dentro troppo a lungo non ne voleva proprio sapere di restare ancora nascosto. Stava forzandosi una via di fuga dal suo cuore attraverso la sua gola, ed il sapore delle parole era un po’ dolce ed un po’ amaro sulla lingua.
- Voglio te. Mentre dormi, mentre mangi, mentre ti lamenti, in ogni modo in cui posso averti. – si sentiva come sospeso in una realtà alternativa. Doveva essere qualcosa del genere, oppure un parassita alieno aveva fatto in modo di scavarsi una via all’interno del suo cranio per prendere il controllo del suo corpo, perché non riusciva ad immaginare altro che potesse giustificare l’uscita di una tale quantità di merda dalla sua bocca.
Dall’espressione di Bill, la possibilità non sembrava neanche tanto distante dalla verità.
- Ti voglio quando mi sveglio al mattino e quando vado a dormire alla sera e ti voglio anche per ogni secondo in mezzo. – la sensazione che stava provando era simile a quella del soffocamento, e Bushido si prese un secondo per lamentarsi con se stesso per aver mangiato la pizza vecchia di un giorno per cena, quella sera.
- Ti voglio quando sono arrabbiato, anche se lo sono a causa tua. Ti voglio quando sono ubriaco, perché sei il migliore dei sedativi, e ti voglio quando sono sobrio perché sei la più terribile delle droghe.
- Ti voglio… - la pressione sul petto stava cominciando a farlo sentire stordito, ma non riusciva a fermarsi, - Ti voglio tutto il tempo.
- E quando ti avrò, quando finalmente ti avrò, vivrò nel terrore del giorno in cui ti perderò.
E lì si fermò. Rimase a bocca aperta quando il flusso di parole s’interruppe. Fece per chiuderla, ma realizzò che era troppo secca per riuscirci. L’increspatura fra le sopracciglia di Bill non s’era distesa, e per un secondo il dubbio s’impadronì di lui e si chiese se per caso non avesse fatto altro che rendersi ridicolo.
- E mi avevi detto di non essere un poeta. – un paio di mani calde strinsero le sue, mentre Bill gli si sistemava facilmente in grembo. Bushido fissò la sua espressione impassibile e strofinò i suoi palmi umidi, sentendolo nascondere un tremito voltandosi.
- Io… - Bill deglutì e Bushido notò lo sforzo che dovette impiegare per reggere il suo sguardo. Il ragazzo si fece improvvisamente silenzioso, e Bushido riconobbe quel momento come il precursore di uno dei suoi soliti immensi discorsi per i quali poteva andare avanti per minuti interi senza neanche respirare. Si aspettava qualcosa di simile, e rimase sconvolto e pietrificato quando Bill lo smentì.
- Anche io voglio te.
Non dovette riflettere sul significato di quelle parole. La sua mente era già piena di ciò che lui per primo aveva voluto dire con quelle stesse parole, e lo sguardo serio negli occhi di Bill non fece che confermargli che anche lui intendeva lo stesso.
Le sue labbra soffici e carnose si strofinarono lievemente contro l’angolo della sua bocca, prima di coprirla completamente, e Bushido si ritrovò incerto fra la possibilità di continuare a tenere lo sguardo fisso in quello di Bill oppure chiudere gli occhi e lasciare semplicemente che fosse il suo corpo a sentirlo. Il lento abbassarsi delle palpebre del suo amante decise per lui, ed i due si avvicinarono, serrando le labbra insieme e respirando l’uno l’aria dell’altro.
I loro nasi si sfiorarono e si strofinarono l’uno contro l’altro, e Bushido batté giocosamente la fronte contro quella di Bill, permettendo al sorriso che gli era rimasto intrappolato negli occhi di risalire fino alle labbra. La lingua di Bill continuò a sfiorare la sua, e Bushido sentì la nuca riscaldarsi quando il piercing tintinnò contro i suoi denti. Lasciò scivolare lentamente una mano lungo la serica curva della schiena di Bill, giocando con la sua lingua nel tentativo di distrarlo.
La mano inanellata di Bill bloccò la sua prima che potesse raggiungere il suo sedere, ed il ragazzo lo allontanò con un sorrisetto che Bushido non faticò a definire sadico.
- Non pensarci nemmeno. – ghignò Bill fra le sue labbra, e Bushido non riuscì a trattenere un’espressione vagamente triste. Lo strinse a sé, tenendolo forte fra le braccia, e con altrettanta forza lo baciò.
In qualsiasi modo possa averti, Bill. Qualsiasi modo davvero.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- Storia di una relazione e del malinteso più enorme e fustrante di tutti i tempi XD
Note: Okay, io amo questa storia XD Prima di tutto, il titolo: in realtà la canzone di Bushido da cui è tratto e di una tristezza immonda XD Ma tutte o quasi le canzoni di quell’uomo sono di un deprimente colossale, perciò non c’è niente di cui stupirsi °-° Comunque sia! In realtà all’inizio voleva essere usato in modo molto lol e basta, però alla fine la storia stessa è un po’ più seria di quanto avessi preventivato (sebbene io la trovi comunque molto divertente e basta XD). Comunque vuol dire “quando un gangster piange”. Capite, è ridicolo X’D
Comunque è_é Dicevo, a me questa storia piace tanto, anche perché è un concentrato di cose che amo. C’è perfino un po’ di sano adorabile twincest fasullo! XD Non è la cosa più carina del mondo, Tomi che bacia Billi sul neo sotto il labbro? *____* *abbraccia i gemelli*
Okay, basta, c’è Yul che è curiosa di leggerla XD Spero vi sia piaciuta :*
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WENN EIN GANGSTER WEINT

Ho smesso molto tempo fa di credere che la vita potesse essere un insieme di certezze. Anzi, in realtà non l’ho mai creduto, perché fin da piccolo ho sempre saputo che nella vita la certezza è proprio l’ultima cosa che uno possa aspettarsi. È certa solo la morte, dicono alcuni, ma potrei avere da ridire. Se così fosse, io sarei morto qualcosa come un centinaio di volte. Il fatto io sia ancora in piedi dimostra piuttosto chiaramente che no, nella vita non c’è proprio niente di certo, e neanche nella morte.
Per dire, all’asilo tutti i miei compagni di classe avevano una mamma ed un papà. Alcuni papà o alcune mamme erano andati via di casa e vivevano altrove, ma continuavano ad esistere, prendevano i loro figli nel weekend e li portavano al parco, facevano loro splendidi regali eccetera eccetera. C’era anche un bambino il cui padre non c’era più, perché era morto. Ma prima di morire c’era stato. Ed il bambino ne parlava sempre come un eroe.
Mio padre, invece, non era proprio mai esistito. Il tunisino che mi aveva dato il colore della pelle, i lineamenti duri e rozzi e gli occhi scuri da arabo, nonché il nome più lungo che ricordi d’aver sentito a memoria d’uomo, svanì come uno sbuffo di fumo prima che io venissi al mondo. Mia madre non me ne ha mai parlato meno che rispettosamente – in un estremo tentativo di non riempirmi d’odio fin da piccolo, suppongo – ma la cosa non aiutò: penso di essere nato arrabbiato.
Comunque sia, mio padre non c’era. I padri degli altri, sì. Eppure io un padre avrei dovuto averlo. Ero nato, no? Ero vivo. Un padre doveva esserci. E invece non c’era. Prima certezza svanita.
Seconda certezza che mia madre aveva cercato di inculcarmi a forza nella testa: il mondo è un posto buono. Tempelhof non era male, a guardarla in cartolina. Lei mi portava lungo il canale di Teltow, mi mostrava le papere e rideva quando mi arrabbiavo perché non mangiavano le foglie che tiravo nell’acqua. Era il suo modo per farmi vedere che c’era anche qualcosa di bello, in giro per il mondo.
Poi però in prima la signora Keller – una donna talmente stronza e razzista che, al suo cospetto, pure il vecchio Adolf sarebbe sembrato un chierichetto – mi disse che dovevo, appunto, fare il bigliettino della festa del papà. Ritagliare il cartoncino con tanto di fottuto bordo a zigzag, scrivere ich liebe dich papa, ricoprire di colla, spargere la porporina e disegnare una pipa da colorare di marrone.
Sollevai lo sguardo, la troia mi guardava talmente schifata da far venire la nausea perfino a me. Le dissi “ich habe keine papa” e cercai di non mostrarmi furioso com’ero. Ero uno scricciolo alto un metro e ribollivo rabbia come una pentola a pressione. Lei batté due grosse ed arcuate dita smaltate di rosso sul cartoncino bianco e rispose che dovevo fare esattamente quello che facevano tutti gli altri miei compagni di classe. “Perciò fai il tuo biglietto della festa del papà, Anis”.
Pronunciò il mio nome con un tale disgusto che cominciai ad odiarlo. Anis non sarebbe stato tanto male come nome per un rapper, ma quando cominciai a rappare lo odiavo già così tanto che di pseudonimi me n’ero scelti altri due.
Vedete, non è certo neanche il nome, nella vita di un uomo.
Risultato: non avere nessuna certezza è proprio uguale ad averne troppe; non ti stupisci più di niente.
Quando Bill Kaulitz è entrato di prepotenza nella mia vita – in maniera molto più consistente rispetto a quanto non fossi già entrato io nella sua, peraltro – perciò, io non mi sono affatto stupito.
*
Cassandra fa girare il ghiaccio del proprio drink, giocando con la cannuccia rosa. Le lunghe unghie trasparenti terminano con una french bianca che mi ricorda Bill. Accidenti a me.
- Quindi il ragazzino torna domani dopo… quanto? Una ventina di giorni?
Ventidue, per la precisione. E comunque, per le relazioni appena cominciate, anche solo una settimana è già tantissimo.
- Sì, all’incirca.
Lei ride e beve un sorso del proprio Martini.
- È così palese che non vedi l’ora, Bu… sei comico da morire!
Aggrotto le sopracciglia ed affondo nella mia virilissima Berlinerweiße.
- È tutto a posto. Doveva lavorare.
- Certo. – ride lei, - È anche ligio al dovere, questo ragazzino. Mamma mia, scommetto che riuscirà nell’impresa nella quale hanno fallito tutte tranne una.
- …sarebbe?
- Farsi sposare, è ovvio! – conclude con una risata, trattenendo un cubetto di ghiaccio fra i denti.
- Prima di tutto, in Germania il matrimonio omosessuale non è consentito…
- Non ancora. – cinguetta lei, - Ma le unioni civili sì!
- Secondo poi, - proseguo ignorandola, - non parliamo di matrimonio. Io ho chiuso. Anzi, non sono mai stato sposato.
- Questo puoi negarlo in pubblico, ma non davanti a chi ti conosce! – mi fa notare in una mezza risatina tronfia, mandando giù un altro po’ di Martini.
Non posso che chinare il capo. Ha ragione.
- In ogni caso, sembra delizioso. – aggiunge con una scrollatina di spalle, - È stato uno zucchero, quando ci hai presentato. E poi ha degli effetti adorabili sulla tua personalità. Ti rende tenero! – faccio per organizzare una protesta dettagliata, dal momento che mi sta assalendo una nausea non meglio identificata, ma lei mi zittisce con un rapido cenno del capo. – Perciò, vedi di non rovinare tutto. Gli uomini rovinano sempre tutto.
- Mi conosci come un tipo che rovina le cose? – chiedo sarcastico, svuotando il boccale.
- Sì! – annuisce lei con una risata allegra, - E comunque, per quanto buono e bravo tu possa essere nei tuoi sogni, sei sempre un uomo.
O quello che ne resta.
*
È assurdo che a dirlo sia io e mi rendo conto possa sembrare uno sciocco espediente per togliersi responsabilità di dosso, ma è vero: è stato Bill a gettarsi fra le mie braccia. Io non avevo pianificato niente del genere. Mi ero limitato a constatare fosse una persona migliore rispetto a quella che pensavo, fine.
Vivere per strada ti insegna un sacco di cose utili – io, per dire, so aprire le macchine per ripararsi dalla pioggia, e senza far scattare l’allarme! – però ti riempie pure di pregiudizi. Ogni tanto mi ritrovo a guardare gli altri con un sorrisetto superiore sul viso, ripetendomi che non valgono niente perché non hanno vissuto esattamente quanto ho vissuto io.
Certe volte ho ragione, altre volte no.
Per quanto riguarda Bill, ero davvero convinto fosse un ragazzino viziato completamente incapace di venire a patti con i sacrifici che non solo il mondo della musica, ma il mondo stesso impone. Ad esempio, quando nel 2006 cominciò a girare quel gossip riguardo il fatto io l’avessi fatto piangere… be’, no, la notizia in sé era falsa perché non avevamo mai davvero fatto un’intervista a due ed io non gli avevo mai chiesto quello che si diceva in giro gli avessi chiesto – non del tutto, almeno – ma quando scherzai sul fatto del pompino mi sarei aspettato che piangesse davvero. Non mi avrebbe stupito, proprio per niente. Era piccolo, sembrava molto, molto montato e per giunta si vedeva lontano un miglio che nel suo entourage lo tenevano sotto una campana di vetro e con molti morbidi cuscini sui quali adagiarsi, perciò diedi per scontato potesse essere un’eventualità plausibile. Neanche mi sentii in colpa, voglio dire, prima o poi qualcuno doveva pur farlo piangere.
Ci incontrammo poi non mi ricordo a che premiazione. Gli chiesi senza mezzi termini se gli fosse passata l’offesa. Non so se fosse sincero quando quel giorno mi guardò, inarcò le sopracciglia e disse che non aveva nulla da farsi passare perché nulla era mai effettivamente cominciato. In ogni caso, la sua sincerità non era il punto. Mostrarsi così tranquillo e disinteressato, nonché disponibile a parlare con me senza schiaffeggiarmi o cavarmi gli occhi, era quello il punto. Era quello il suo merito.
Insomma, il ragazzino, come Cassandra ama chiamarlo, non era poi tanto male. Offrirgli una birra mi sembrò il minimo. Speravo lui la prendesse, non so, come un armistizio. A Tempelhof per firmare gli armistizi ci facevamo favori a vicenda. Una birra era un modo elegante per sottintendere lo stesso concetto, no?
Chakuza me lo disse appena tornai dal bar. “Che fai, Atze, ti metti a discutere coi ragazzini? Guarda che è un problema, non si scollano più”.
Scrollai le spalle e guardai altrove.
Purtroppo, fra me e Bill non è mai stato così semplice. Intendo: ci siamo incollati a vicenda.
*
Dicevo, comunque, fu Bill a saltarmi addosso.
Letteralmente.
Niente di sessuale, chiaro, ma mi saltò addosso lo stesso. Altra premiazione, altre vittorie schiaccianti, altri premi fioccati a destra e a manca per tutti quanti. Per me, per loro.
Erano i Comet del 2007. E no, non sto parlando del modo indecente in cui mi premiò, perché dare la colpa a quello sarebbe troppo semplice. Con quello, Bill dimostrava solo di aver recepito più che bene la lezione e di essere stato indottrinato a dovere. I litigi tirano, ma mai quanto le supposte relazioni. Lo faceva già con suo fratello… farlo con me probabilmente era perfino meno pericoloso, nonché meno straniante.
Non mi prese di sorpresa, non quello, a quello mi adattai subito.
Fu il dopo, che cambiò tutto. Fu un afterparty noioso e stantio dal quale mi allontanai presto, per fare un giro intorno al locale. Fu il momento in cui tornai all’ingresso per rientrare, recuperare la giacca ed avvertire che stavo andando via. Fu la soglia che superai e fu la luce che mi investì e che mi costrinse ad alzare lo sguardo. Su di lui. Che mi rovinò addosso.
- Merda… mi scusi… - biascicò mentre cercava di rimettersi dritto sui piedi. Non trovavo difficile reggerlo – era leggerissimo. Comunque, era divertente che non mi avesse riconosciuto.
- Già ubriaco a quest’ora? – lo schernii con un mezzo ghigno sul quale lui spalancò quegli enormi occhi color cioccolata, confondendomi. Le parole di Chakuza cominciarono a risuonarmi nelle orecchie come un mantra. Nei miei pensieri annoiati e distorti, lo stronzo sorrideva pure. Ma sopra tutto c’erano gli occhi di Bill. “I ragazzini si appiccicano”.
- Non sono ubriaco… - mormorò lui, strascicando le parole, - Ti cercavo.
Non avrei potuto essere più confuso di quanto già fossi, perciò il senso di smarrimento non aumentò. Si fece più ansioso, però.
- Per dirmi…?
Bill si strinse nelle spalle.
- Non lo so. – biascicò, - Prima c’eri, poi non c’eri più. Volevo capire dove fossi andato.
Inarcai le sopracciglia, incerto.
- Perché?
Lui abbassò lo sguardo e si morse un labbro.
- Ti va di fare una passeggiata? – mi chiese invece di rispondere.
- …non hai un altro trentenne a cui chiedere di accompagnarti in giro? Chessò, il tuo manager?
- Non voglio andare in giro con David. – si lamentò con una smorfia. Poi tornò a guardarmi e trasse un sospiro così enorme che il suo petto piccolissimo si gonfiò al punto che temetti potesse scoppiare. – Senti. – balbettò, improvvisamente più lucido, - Non so dove ho trovato il coraggio di chiedertelo. Probabilmente io non ti piaccio, però… è solo un giro, okay? Nulla di compromettente.
Ovviamente mi terrorizzò. Non starò certo qui a negarlo. Non capita tutti i giorni che un ragazzino palesemente ubriaco venga a chiederti una passeggiata notturna. A me, per dire, non era capitato proprio mai. Comunque, non c’era veramente un motivo per il quale dovessi negargli il piacere della mia compagnia – o per il quale dovessi negare a me stesso il brivido caldo di quegli occhi addosso – perciò accettai. Non mi preoccupai neanche di recuperare la giacca. Non faceva neanche freddo.
Bill rimase perfettamente in silenzio, per tutto il tempo. La notte era tiepida e piacevole. C’era una luna stupenda. Lo ricordo perché la sua pelle brillava.
Io non avevo nulla da dire, perciò, piuttosto che riempire i vuoti con stupide battute o frasi fatte, imitai il suo esempio. Lasciai che la passeggiata andasse come doveva. Quando ritornammo nei pressi del locale, suo fratello Tom lo stava aspettando, caracollando nervosamente da un lato all’altro dell’ampio ingresso del club, con quella sua strana camminata da papera. Bill lo vide ed accennò un saluto. Tom lo imitò, ma la sua mano si fermò a mezz’aria quando capì che al suo fianco c’ero io. Lo osservai guardarci interdetto per un lunghissimo minuto, prima di scoppiare a ridere scuotendo il capo e rientrare nell’edificio.
Quando tornai a guardare Bill, era arrossito in maniera indecente.
Supposi dovessero essersi detti qualcosa senza parlare. Ripetevano spesso di essere in grado di farlo, durante le interviste.
- Penso di dover andare. – mi salutò con un breve cenno del capo, - Anche se non mi hai risposto.
Inclinai il capo.
- Dev’essermi sfuggita la domanda. – ammisi.
Probabilmente la mia espressione rifletteva in pieno ciò che stavo pensando. Cioè che mi sentivo molto stupido. In ogni caso, quando Bill tornò a guardarmi, non poté trattenere una risatina che, in teoria, avrebbe dovuto infastidirmi – ma non lo fece.
- Ti ho chiesto se ti piaccio. – rispose a bruciapelo, incrociando le braccia dietro la schiena.
Deglutii.
Probabilmente io non ti piaccio, però…
Sì, lo ricordavo.
Cercai di sorridere.
- Non si fanno domande simili senza rispondere per primi. – cercai di difendermi strenuamente.
Bill spalancò gli occhi.
- Che vigliacco sei! – rise, dandomi un colpetto sulla spalla, - La mia risposta, comunque, era implicita nella domanda.
Ridacchiai.
- Come sei enigmatico.
- Dunque? – chiese lui, ansioso, lanciando uno sguardo all’ingresso del locale, dal quale Tom era tornato ad affacciarsi sporgendo solo occhi e naso, come una talpa curiosa di esplorare la superficie.
Sospirai.
- Dipende da cosa vuoi sentirti dire. – risposi roteando gli occhi, - Cerchi una dichiarazione d’amore?
Bill arrossì furiosamente e si coprì gli occhi con una mano.
- Possiamo uscire insieme qualche altra volta? – chiese a bassa voce, - Voglio sapere solo questo.
Sorrisi e tirai fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni, porgendoglielo.
- Lasciami il tuo numero. – risposi, - Ti chiamo io.
*
Sarebbe stato un modo molto figo e molto fascinoso per chiudere la storia, suppongo. Ricordo che rimasi qualche giorno a pensare al numero che mi aveva lasciato, chiedendomi se non potesse trattarsi di uno stupido scherzo da adolescente risentito. Non sarebbe stato impossibile. A diciassette anni, io, appena lasciato il liceo, ero andato a trovare la Keller e l’avevo presa in giro più o meno allo stesso modo. A quei tempi avevo scoperto le gioie del sesso già da qualche anno, ma ero in grado di padroneggiare davvero la questione solo da poco. Il sesso era più che altro un passatempo, ma come vendetta avrebbe potuto dimostrarsi perfino più piacevole.
Andai a trovarla a scuola, all’uscita. Una canottiera ed un paio di jeans strappati addosso – stavo scontando la mia condanna per vandalismo imbiancando i muri di Berlino, in quel periodo. “Frau Keller”, la salutai con un cenno del capo. Lei sussultò – stava assicurandosi che i bambini raggiungessero tutti le macchine dei loro genitori senza intoppi. Appoggiato alla rete del cortile, le braccia incrociate ed il petto gonfio di un orgoglio storto e meschino, io la guardavo, sorridendo sfacciatamente.
Non mi riconobbe. Ciononostante, il colore della mia pelle non sembrò più essere un problema, per lei. Io non mi sprecai a dirle chi fossi nello specifico. Mi presentai come un suo ex allievo, inventai un nome tedesco per confonderla un po’ e, nel complesso, ci provai così spudoratamente da farmi quasi schifo da solo. Il suo petto grasso e flaccido si sollevava ansioso seguendo il ritmo incontrollato nel suo respiro, ed io la guardavo come volessi mangiarla.
Le diedi il mio numero di cellulare. Le dissi di chiamarmi.
Quando mi chiamò, le rispose Fler. Minacciandola di morte. O qualcosa di simile, al momento non ricordo. Fler aveva molto estro, per queste cose. Ricordo comunque con certezza che la chiamò vecchia pervertita. Non riesco ancora a pensarci senza ridere come un pazzo, nonostante tutto.
In ogni caso, fissavo il numero di Bill Kaulitz e continuavo a ripetermi “magari lo chiamo e risponde suo padre che minaccia di denunciarmi. Oppure suo fratello che minaccia di denunciarmi. Oppure il suo manager che minaccia di denunciarmi”.
Alla fine lo chiamai perché il pensiero si stava facendo ossessivo. Continuavo a sognare denunce. Dovevo porre fine a quel circolo vizioso.
Oltretutto, ero vagamente curioso di capirci qualcosa, se non si trattava di uno scherzo.
Ero curioso di…
…be’. Bill Kaulitz è Bill Kaulitz. Non mentivo e neanche esageravo, quando dicevo che, se me l’avesse chiesto, non avrei pensato per più di due secondi alla possibilità di andare a letto con lui. Di cosa fossi curioso è abbastanza intuibile.
Comunque, mentre stavo lì ad arrovellarmi e prospettare lunghi procedimenti legali che si sarebbero conclusi soltanto con una lunga serie di zeri su un assegno, ascoltando con panico sempre crescente il tu-tu nella cornetta del telefono, Bill rispose.
Sospirai di sollievo, e non fu per la mancata denuncia, temo.
- Pronto?
- Ce ne hai messo di tempo a rispondere, Kaulitz.
- …credevo non mi avresti più chiamato.
Suppongo siano le tre battute più abusate della storia del cinema.
In ogni caso, fra noi cominciò così.
Zero certezze. Bill Kaulitz, comunque, aveva già cominciato a stupirmi.
*
Seguì un breve periodo di allegria alla Heidi. Sapete, l’entusiasmo dell’inizio di una relazione. Quello che ti esplode dentro indipendentemente da quanto tu possa rimanere a riflettere sulla possibilità di restare coi piedi per terra eccetera. Non esiste, questa dannata possibilità. Quando t’innamori, voli. Fine.
Tra l’altro, venne fuori che il fratello, all’afterparty, non mi stava platealmente prendendo in giro: rideva perché, già da qualche mese, Bill gli riempiva la testa di “dovrei dichiararmi o no?”. Quando ti senti approvato, voli anche più in alto.
Io e Bill volammo altissimo. Per un bel po’ di tempo.
La mia lunga e lenta agonia è cominciata nel maggio di quest’anno. Con tutti i problemi che Bill ha avuto alla gola – la cisti e tutto il resto – non è stato facile trovare un po’ di tempo per incontrarsi. I paparazzi assediavano l’ospedale, i suoi appartamenti, perfino casa di sua madre. Non c’era proprio modo. Perciò, quando mi ha chiamato al telefono – la voce ancora un po’ rauca ed affaticata – e mi ha detto “posso uscire, ci vediamo?”, mi sono messo a ringraziare un po’ tutti gli dei possibili. In questi casi non importa se ci si creda o meno.
Perciò arrivo sotto casa di Bill e lui è lì che brilla letteralmente. Non so, non era truccato e sembrava femmina quanto me, aveva i capelli appiccicati al viso e schiacciati da una cuffia di lana assolutamente improponibile – soprattutto vista la stagione – un paio di enormi occhiali a coprire metà del viso ed il colletto della giacca tirato su fino al mento. Ma era stupendo.
Non ci penso neanche un secondo, lo afferro per la giacca e me lo tiro contro. Lui mugola un qualcosa tipo “ci vedranno tutti”, io lo zittisco nel modo che entrambi preferiamo per fermare la sua logorrea, lui mugola ancora ma un qualcosa di diverso. Sorrido soddisfatto, lo trascino fino alla macchina, lo porto a casa mia. Lui ridacchia per tutto il tempo, mi racconta cose assurde sulla sua convalescenza per minuti interi, “lo sai che mi hanno infilato in una camicia da notte che era tremenda? A pois, ti rendi conto?! Ero orribile” ed io che sorrido ancora come un deficiente e penso che ad immaginarlo a me sembra una fantasia sessuale niente male anche in una camicia da notte a pois, che dire, sono gusti, e lui parla parla parla ed io sono felice davvero, al punto che quando me ne rendo conto mi do del cretino da solo per non averlo capito prima. Arriviamo sotto casa, lo prelevo quasi di peso, salutiamo la portinaia con un educato cenno del capo, corriamo su per le scale e mi fiondo sulla sua bocca appena varcato l’uscio, chiudendomi la porta alle spalle con un calcio tale da scheggiarla. Ed io sono lì che penso “Dio quanto mi sei mancato” e non so se darmi del deficiente o fustigarmi o godermi il momento, ma lui è lì, sotto di me, sul mio letto, che si fa spogliare e miagola e mi chiama per nome ed io impazzisco, quando mi chiama per nome, e poi a un certo punto lo dice.
Così.
Senza un perché.
Piano piano.
“Ti amo”.
Dovrebbe essere vietato – assolutamente vietato – dirlo in una situazione simile.
Mi ritrovo seduto sul materasso, di fronte a lui. Indossa solo i boxer ma non ho più nessuna voglia di saltargli addosso. La mia camicia s’è persa non so dove e neanche mi interessa. Lo guardo negli occhi e lui mi fissa di rimando.
Allungo una mano, gli sfioro una guancia, lo bacio sulle labbra e rispondo.
Così.
Senza un perché.
Piano piano.
“Anch’io”.
Gli si apre sul viso un sorriso fantastico.
A quel punto, se io fossi stato un vero uomo, mi sarei preso ciò che mi spettava e l’avremmo finita lì. Non nel senso che ci saremmo lasciati, nel senso che probabilmente avrei dato il via ad una lunga e soddisfacente relazione sessuale e sentimentale e saremmo stati tutti felici per sempre e bla bla. Ma io non sono veramente un uomo, sono un cretino. È palese. Sono un cretino che si lascia influenzare dalle chiacchiere di un’amica che fa paura, perché dannazione, se una che si chiama Cassandra viene da te e ti dice che rovinerai tutto, tu le credi. Se non le credi sei un pazzo suicida, ecco.
Perciò – Dio, mi rivedo con una chiarezza sconcertante – eccomi lì che lo guardo con l’aria dell’amante appassionato ma dolce e gentile e gli dico “Bill, non devi dimostrarmi niente. Se non sei ancora pronto, aspetterò”.
E lui che sorride.
Tenero come un cucciolo.
Ed annuisce.
Lì ho capito – per la seconda e definitiva volta nella mia esistenza – che, certezze o non certezze, è uguale. Tanto la vita ti smerda comunque.
*
Da quel momento, ho dato per scontato che Bill me l’avrebbe fatto sapere, una volta che fosse stato pronto. Cioè, non mi servivano dichiarazioni pubbliche o altre cose simili tipo “Bu, sono pronto a darti la mia verginità”, mi sarebbe bastato, non so, che mi si arrampicasse addosso mentre guardavamo la TV, o anche solo un accenno, qualsiasi cosa purché fosse un indizio. Anche un indizio fraintendibile! Dopo mi sarei scusato, ma almeno sarei riuscito, non lo so, ad infilargli una mano nelle mutande o convincerlo a farlo a propria volta! Non lo so.
Non sono neanche sicuro di riuscire a spiegarmi. Voglio dire, io lo amo. E lo desidero, cazzo. Per certi versi, pretendere una concessione era un mio diritto. Era un suo dovere darmela, no?
Invece niente.
Lui passava i pomeriggi da me – ed io gli morivo dietro, giuro. Una cosa indecente. Non poteva neanche lavarsi i denti senza che io mi ritrovassi a fissarlo con aria ebete dalla soglia del bagno. Povero ragazzo, devono pure essere stati momenti d’imbarazzo incredibili. Lavava i denti, asciugava lo smalto soffiandoci sopra, pettinava i capelli, sistemava la maglietta, qualsiasi cosa mi faceva venire voglia.
Ma lui non diceva niente. Non si faceva avanti, cazzo. Ogni tanto lo sorprendevo a guardarmi con le sopracciglia aggrottate ed un broncio adorabile sul volto, sembrava ce l’avesse con me. Io mi chinavo a baciarlo – perché non so resistere a quelle labbra – e poi gli chiedevo quale fosse il problema. Lui distoglieva lo sguardo e scuoteva il capo. “Niente”, rispondeva. Non ho fatto che pensare ai suoi “niente”, per tutto il tempo che è stato in tour in America. Probabilmente gli davano fastidio i miei sguardi. Non lo so, a me non avrebbero dato fastidio, anzi, sarei stato felice che lui mi guardasse nel modo in cui io guardavo lui, ma… be’, ho detto che l’avrei aspettato. Devo farlo, no?
No?
*
Ci dispiace, signore, ma le sue caratteristiche non soddisfano i requisiti base richiesti dalla nostra azienda.
Il Berlin-Schönefeld è, come al solito, un incredibile e spaventoso casino. Mi guardo intorno e mi chiedo chi me l’abbia fatto fare. Andarlo a prendere all’aeroporto, Dio. Probabilmente non mi lasceranno neanche portarlo con me. Non avrebbe senso. Io, se fossi in Jost, non lo lascerei andare a casa con Bushido.
In ogni caso.
Ci dispiace, signore, ma le sue caratteristiche non soddisfano i requisiti base richiesti dalla nostra azienda.
Questa è una delle frasi che ricordo con maggiore insistenza, dei miei diciott’anni. È stato un periodo abbastanza incasinato – incasinato più o meno come questo aeroporto, sì – c’era la droga, c’era la fottuta prigione, c’era Fler, c’erano un sacco di cose alle quali ogni tanto penso con rabbia, perché mi hanno rubato tempo, ogni tanto con gratitudine, perché mi hanno reso ciò che sono, ed ogni tanto con tenerezza, perché ero proprio un piccolo imbecille.
Appena finito di scontare la pena per vandalismo, non potendo tornare a scuola, andai a cercare lavoro un po’ ovunque. Cominciai cercando di impiegarmi come operaio da qualche parte. Andavo, facevo il colloquio, lasciavo il mio recapito, incassavo con un sorriso il mio “le faremo sapere” e poi smadonnavo come un posseduto quando arrivava la lettera di rifiuto. Se si sprecavano a farmela arrivare.
Ma sto tergiversando.
Ciò che intendevo dire è che mi capita spesso di sentirmi esattamente in questo modo, quando sto con Bill. Non credo che sia colpa sua – o meglio, non credo che lo faccia apposta. È un senso di disagio che mi prende all’improvviso, quando sono particolarmente frustrato o stanco. Vedo lui, così giovane, così tenero, così… stavo per dire spensierato, ma in realtà Bill non è spensierato, è solo luminoso. Anche quando ha qualche grana per le mani, non perde la sua brillantezza.
Mi sento inadeguato. Solo a volte.
Fortunatamente, poi, succede sempre l’unica cosa che è davvero in grado di farmi sentire a posto con me stesso e con questa relazione. Bill arriva. E mi sorride. Io guardo le sue labbra e i suoi occhi e so che sta sorridendo per me. E tanto mi basta.
- Bentornato… - lo saluto, mentre lui mi vola fra le braccia ridacchiando come un deficiente.
- Non credevo che saresti venuto! – cinguetta aggrappandosi al mio collo e sollevandosi quei due centimetri che gli mancano per arrivare a baciarmi, - Sei fantastico… - mugola piano, abbandonandosi contro di me.
- Sono passato solo a salutarti. – spiego con una scrollatina di spalle, - Immagino tu sia stanco.
- Un po’ sì. – medita con un mezzo broncio pensoso, - Però se vuoi possiamo stare un po’ insieme.
Lancio un’occhiata a Jost.
- Siamo sicuri che… - accenno un po’ titubante, indicandolo con un cenno del capo.
- Portatelo via. Dove vuoi. L’importante è che sparisca. – è la stanca risposta dell’uomo, mentre si allontana senza uno sguardo di più.
Una risatina divertita si unisce a quella di Bill, e Tom abbraccia suo fratello come fosse una coperta, come fa sempre quando lo deve salutare per un lungo periodo di tempo – il lungo periodo di tempo, in genere, scatta già dopo due ore.
- Non badarci. – dice il biondo, riferendosi a Jost, - Durante i tour fa sempre così, va in overdose. Poi torna ad amarci più di prima, ma non penso avrà nulla in contrario a liberarsi di Bill per un po’.
Bill solleva gli occhioni su suo fratello ed espone un broncio adorabile.
- A te non mancherò? – pigola querulo, incrociando le braccia sul petto.
Tom ride e gli lascia un bacio proprio sul neo che ha sotto al labbro inferiore.
Io guardo e deglutisco e probabilmente dovrei essere infastidito. Probabilmente. Ma comunque non lo sono. I Kaulitz li prendi come sono. Ciò significa che o li prendi entrambi o non ne prendi nessuno.
- Adesso molla il mio ragazzo, Atze, prima che la gente cominci a pensare sia il tuo. – ridacchio infilando un braccio fra loro ed attirando Bill a me.
- Ma lui è mio. – ghigna furbo Tom, facendogli l’occhiolino.
Bill ride e mi si spiaccica addosso.
- Ho abbastanza amore per entrambi. – conclude con un sorrisino.
Ed io forse sono davvero un cretino, ma a me basta.
*
Neanche il tempo di entrare in casa, che già Bill mi sta guardando come se l’avessi offeso personalmente. Ripercorro con la memoria gli ultimi istanti: okay, non gli ho aperto lo sportello della macchina, sono entrato prima di lui, non gli ho tenuto spalancato il portone e… ma queste cose non le faccio comunque mai!
- È tutto a posto? – chiedo incerto, guardandolo storto.
Bill sbuffa.
- Un bacio? – chiede con aria scazzata, sporgendo il viso.
Cerco di sorridere e lo bacio lievemente sulle labbra.
- Tutto qui?! – borbotta non appena mi separo da lui.
Scrollo le spalle.
A volte non capisco davvero a che gioco stia giocando.
Lui si passa una mano sulla fronte, fra i capelli, sul collo. Seguo il movimento delle sue dita come ipnotizzato e mi mordo le labbra.
- Non so perché, - riprende, - ogni volta che devo parlare seriamente con te mi tocca ubriacarmi per prendere coraggio, oppure esasperarmi abbastanza da non badare alla paura.
Spalanco gli occhi.
- Bill?
- Insomma, cos’è? Ti fa schifo che io sia maschio? È per questo che non vuoi scoparmi?! Oppure sono le relazioni serie a frenarti? Cazzo! – batte una mano sul tavolo, fissandomi rabbioso, - Se l’avessi saputo, non ti avrei mai detto che ti amavo! Vaffanculo!
Questo ragazzino dev’essere fuori legge. Sono convinto che sia illegale.
Sul serio.
- Rispondimi, almeno!
- Aspetta, aspetta, Bill… - mi faccio avanti, prendendogli le mani e stringendole nello stesso momento, - Sono confuso. Quando ti ho detto che avrei aspettato finché non fossi stato pronto…
- Io ho pensato che fosse un modo per dirmi che tu non eri pronto! – sbraita, cercando di liberarsi, - Impreparato, io! Ma ti venivo dietro da mesi, Cristo, non vedevo l’ora di infilarmi nelle tue mutande! Ma quanto cretino puoi essere?!
- Bill! – lo rimprovero, sinceramente sconvolto, - Adesso datti una calmata!
- Non mi calmo neanche per un cazzo. – sibila lui, occhi bassi ed espressione serissima. Si sporge in avanti e neanche mi bacia, m’invade. La lingua e le labbra ed i denti e quel piercing tremendo. – Capito l’antifona?
C’è poco da fare.
Uno si dice tante cose. Che non può stupirsi, che non ha certezze, che tanto è sempre così, nulla può veramente darti una scossa e farti sragionare.
È stupendo che io abbia trovato Bill. È l’unico che ci riesce.
Lo afferro per i fianchi, schiacciandolo contro il muro e spostando immediatamente le mani sulle sue natiche, saggiandone la consistenza attraverso il tessuto ruvido dei jeans. Lui ansima quando i nostri bacini si scontrano, e tira indietro il capo, cercando le mie labbra.
- Ragazzino… - gli sussurro addosso, prima di accontentarlo, - Quando ti ho chiesto se non ti sentissi ancora pronto, intendevo esattamente ciò che stavo dicendo. – sorrido. Lui tira fuori la lingua e mi lecca le labbra. Io le schiudo ed il piercing mi batte sui denti. È il suono più erotico che abbia mai sentito. – Non presumere troppo, quando ti parlo. Hai idea da quanto tempo volessi infilarmi io nelle tue mutande?
Bill sorride a propria volta e mi stringe le cosce attorno ai fianchi, issandosi fino a superarmi di qualche centimetro. Guarda in basso, verso di me, un sorriso aperto ad increspargli le labbra e gli occhi semichiusi che mi fissano con bramosia.
- Hai ragione. – mormora, piegandosi per baciarmi ancora, - Abbiamo solo perso un sacco di tempo.
Lancio un’occhiata alla porta della camera da letto. Saranno quattro metri, da qui.
Valuto la situazione.
Oh, be’.
La moquette, in fondo, è morbida e pulita.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bushido/Bill, David/Tom (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Lime, Slash.
- Tom è a casa, sta cercando invano di rispettare la promessa che ha fatto a David, ripassando un po' di accordi ed esercitandosi alla chitarra. Anche Bill, teoricamente, dovrebbe esercitarsi: ma c'è Bushido con lui, sul divano, e perciò il cantante sembra avere di meglio da fare. Tom, però, non ci sta. E l'arrivo di David pone le basi per una sfida fra fratelli che non porterà nulla di buono (tranne che per le fangirl u.u).
Note: In realtà questa storia è il mio modo (personalissimo, forse troppo XD) di festeggiare il terzo anniversario dall’uscita del singolo di Durch Den Monsun <3 L’inizio del delirio, lo sbarco del male sulla terra, l’avvento dell’Anticristo eccetera eccetera è_é Non a caso, gli accordi che suona Tomi all’inizio sono proprio di quella canzone ^^ Avevo promesso ad Ana che avrei scritto solo ed esclusivamente dei Tokio Hotel, oggi, senza infiltrazioni Bushidiche varie ed eventuali, ma… cosa devo dirvi? ;_; Io più passano i giorni più amo quell’uomo. È contro la mia volontà (più o meno). Poi, da quando ho scoperto che il Tost si adatta al Billshido con una naturalezza disarmante, è trionfo. *piange*
Ciò detto… il fatto dell’intercalare dei gemelli è vero XD Dicono continuamente “und, um”. E lo dice anche Bushido, ho le prove video XD
A parte questo, nulla da dire. Per il titolo (ed anche per la forzatura morale a scrivere XD) si ringrazia Yul. Dannata istigatrice XD Ma ti lovvo lo stesso <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
UND, UM…

Mi… do… mi…

- E insomma, io ero là e lui davanti a me che mi guardava come se gli dovessi dei soldi. Sul serio, non sto scherzando!

Do… mi…

- E poi, e poi?
- Niente, io mi avvicino, freddissimo, tranquillo, voglio dire, io con lui ho chiuso, non avevamo nient’altro di cui parlare… e Fler mi guardava come se si aspettasse delle scuse o chissà che, perciò l’ho ignorato e mi sono semplicemente seduto.

Do… la minore… sol…

- E lui che ha fatto?
- Eh, all’inizio ha provato a fare il figo. Sai com’è, piccolo, di fronte a me si sentono tutti un tantinello in soggezione. – sorriso stronzo e fascinoso, toccatina a caso sulla coscia, mio fratello squittisce, ci casca e lo fa pure apposta – Quindi eravamo lì, io bevevo una birra, lui mi guardava male, intorno c’era tutta la mia crew che stava sull’allerta contro la sua crew, und, um

Le corde della chitarra stridettero con tale forza sotto le sue dita, che Bill e Bushido, comodamente spiaccicati l’uno addosso all’altro sul divano dell’appartamento berlinese dei gemelli Kaulitz, si voltarono a guardarlo con aria sconvolta. Bill trovò anche opportuno fargli notare quanto fosse fastidioso parlare col proprio uomo e dover sentire in sottofondo lui che palesemente non sapeva suonare e si limitava a fare casino con quello strumento diabolico.
- Questo è inaccettabile! – ringhiò Tom posando la chitarra lateralmente con tale indisposto scazzo che non si preoccupò neanche che potesse rovinarsi, cosa che in genere rappresentava il primo punto della sua lista di drammi personali.

Ma da quando c’è Bushido, no.
Da quando lui e Bill stanno insieme, sono loro il primo punto della mia lista di drammi personali.


Bill lo omaggiò di un’occhiata da cucciolo smarrito e innocente, ed inclinò il capo come a dare maggior forza al proprio stupore.
- Cosa sarebbe inaccettabile, Tomi? – pigolò poi, mentre Bushido, rendendosi probabilmente conto di quanto aveva detto, si limitava ad un ghigno estremamente divertito, allungando un braccio dietro la schiena di suo fratello.
- Questo tizio – disse Tom indicando Bushido, - ci copia.
Bill inarcò un sopracciglio.
Bushido rise.
Tom li odiò entrambi.
- Farebbe cosa, scusa? – chiese ancora suo fratello, sempre più innocente.
- Ma l’hai sentito o no?!
- Oh, sì… - mugolò compiacente Bill, lanciando un’occhiata di pura lussuria al proprio uomo, che rispose con un sorriso divertito e compiaciuto, - Lo stavo ascoltando molto attentamente.
- Ma che schifo. – commentò Tom con un vago gesto della mano, mentre Bushido scrollava le spalle come a dire “eh, che ci vuoi fare, è così carino che gli si perdona tutto”. – Comunque, se lo stavi ascoltando tanto attentamente, avrai senz’altro notato che ha detto undum! – disse, pronunciando l’intercalare così velocemente che sembrò una parola unica.
- Undum…? – biascicò Bill, portando un dito alle labbra e lanciando un’occhiata maliziosa ad Anis, dando a Tom l’esatta misura di quanto gl’interessasse quel discorso: zero. – Sarebbe?
- Und, um! Il nostro intercalare! – spiegò Tom, gesticolando come un bambino isterico.
- Pensi di essere l’unico ad usarlo in tutta la Germania? – gli chiese il fratello, distendendosi letteralmente sul petto di Bushido, con tale naturalezza da dargli il voltastomaco.
- No che non ero l’unico! – borbottò Tom, cercando di recuperare una parvenza di razionalità, - Eravamo in due, io e tu!
- E adesso anche Bu.
- Non chiamarlo Bu!
- È il mio uomo e lo chiamo come mi pare e piace!
- Okay, okay, ragazzini, diamoci un taglio. – li interruppe Bushido, agitando bonario le mani, in una perfetta imitazione di un vecchio padre benevolo, - Chiedo scusa, Tom, non volevo appropriarmi di una cosa vostra. È che a passare tanto tempo con le persone si assumono anche le loro abitudini. – si giustificò con un sorriso conciliante.
- Be’, cerca di non farlo più. – biascicò il rasta, incrociando le braccia sul petto e ritrovandosi controvoglia costretto ad abbassare lo sguardo ed arrossire, sentendosi drammaticamente in difetto di fronte al sorriso sereno dell’uomo, - Ed ora mi avete anche rovinato il pomeriggio! Dovevo studiare, l’avevo promesso a David! Per inciso, Bill, anche tu avevi promesso…
- Sì, ma io ho di meglio da fare… - miagolò sensualmente suo fratello mettendosi in ginocchio sul divano e circondando il collo di Bushido con le braccia.
Tom roteò gli occhi, sempre più disgustato.
- Be’, per me puoi fare quello che cavolo vuoi. – mentì, - Ma non puoi permetterti di rovinare i miei piani!
Bill scrollò le spalle, senza staccare neanche per un secondo gli occhi da quelli di Bushido, che nel mentre stava facendo scivolare le mani sotto l’orlo della sua maglietta, per vagare con dita falsamente distratte sulle punte di tre stelle tatuate in uno dei punti più perversi in assoluto che un maschio adulto omosessuale potesse immaginare.
- Potevi sempre andare in camera tua, a studiare. – commentò più per interesse personale che per preoccupazione nei suoi confronti.
- Non posso certo lasciarvi soli qui! L’ultima volta abbiamo dovuto rifoderare il divano!
Bushido rise di cuore, gettando indietro il capo e dando a Bill l’opportunità di chinarsi sul suo collo, per attaccare voracemente con le labbra la pelle sensibile sul pomo d’Adamo.
- Scusa, Atze. – lo apostrofò Bushido, incapace di trattenere un mugolio di piacere, - Non volevamo sporcare.
- Già. – ridacchiò Bill, scendendo a mordicchiargli il colletto della camicia, strattonandolo qua e là come un cucciolo affamato, - Ci siamo fatti un po’ prendere la mano.
- Voi due. Siete. Disgustosi. – li indicò Tom, inorridendo come una scolaretta e vergognandosene profondamente.
- Avanti piccolo, sta’ un po’ tranquillo… - rise Bushido, afferrando Bill per i capelli ed allontanandolo in un gesto che, più che mirato a fermarlo, sembrava bene intenzionato a trascinarselo vicino per un uso di quella bocca che fosse meno stupido che non rovinare i colletti delle sue camicie, - Non vedi che tuo fratello si turba?
- Io non mi turbo!!! – strillò Tom, dirigendosi speditamente verso il divano e prendendo posto accanto all’intreccio di braccia e gambe che erano diventati suo fratello e Bushido, - Cerco solo di porvi un freno, prima di dover costringere nuovamente David a giustificare le spese di tappezzeria di fronte alla Universal!
Bill si voltò a guardarlo con aria estremamente disapprovante.
- Cosa diavolo staresti combinando, Tom? – chiese acido, aggrottando le sopracciglia.
- Vi tengo d’occhio! – rispose lui con naturalezza, stringendo ostinatamente le braccia sul petto.
Bushido sorrise e scosse il capo, facendo per scrollarsi Bill di dosso.
- Coraggio bellezza, non possiamo certo dare spettacolo di fronte a tuo fratello. – si giustificò, quando Bill gli si aggrappò addosso e cominciò a mugolare che non voleva essere scaricato perché gli piaceva sentirsi addosso la pressione nei suoi pantaloni, - Non che il voyeurismo mi disgusti particolarmente, ma non è il caso. E piantala di parlare dei miei pantaloni. – sorrise affascinante, chinandosi a lasciargli un bacino sulle labbra prima di posizionarlo sul cuscino come un peluche.
Bill si raggomitolò e divenne una palla di rabbia.
- Ti odio. – ringhiò, voltandosi a guardare Tom, che resistette al suo attacco psichico e rispose con un grugnito gemello ed ugualmente furioso.
La porta all’ingresso fece tlack e poi sbam in quel preciso istante.
- Ragazzi! – cinguettò la voce gioviale di David, facendosi strada attraverso il corridoio fino a loro, - Come vanno gli esercizi? Vi ho portato il gelato!
Il volto sorridente del loro manager si affacciò alla porta del soggiorno, scrutando l’ambiente con grandi occhioni azzurri pieni di devota fiducia.
- Oh. – fu costretto a commentare David quando si rese conto di ciò che aveva sotto gli occhi, - Vi vedo… distratti.
In realtà, “distratti” non rispecchiava efficacemente la situazione nella sua interezza. Bushido, seduto sulla sponda più distante del divano, sollevò una mano e lo salutò piuttosto comicamente, con un breve cenno del capo. Bill, palesemente calato nella parte da reginetta tragica che tanto gli piaceva metter su quando qualcuno rovinava i suoi piani, neanche diede segno di accorgersi della sua presenza. Tom, per contro, lo investì con la classica occhiata luccicante con la quale, in genere, si accolgono i salvatori.
David deglutì.
Non era una bella situazione di partenza.
Entrò nella stanza, poggiando il sacchetto con le vaschette di gelato sul tavolo e guardandosi intorno con aria smarrita.
- …interrompo qualcosa? – chiese timidamente, infilando le mani in tasca per darsi un tono.
Bill sollevò lo sguardo solo per fustigarlo con un’enorme quantità d’odio.
- Si stava cercando di trombare, ma evidentemente è impossibile.
David resistette stoicamente a portare una mano al petto e lasciarsi andare ad un gh di sofferenza, mentre tutti nella stanza si voltavano a guardare il cantante con aria sconvolta e scioccata. Anche Bushido, la cui espressione allucinata era perfino più divertente del solito.
D’altronde, come dargli torto? Probabilmente la sparata di Bill aveva messo a disagio pure il gelato.
- …okay, ho capito. – annuì il manager, mentre Tom si agitava sul divano come un’anima in pena, - Brutto momento. Allora io andrei… il gelato è qua.
- No! – strillò a quel punto il rasta, scattando in piedi ed andando letteralmente a prelevare David dal centro della stanza, per trascinarlo, tirandolo per un polso, fino al divano, - Perché non resti ancora un po’?
David gli lanciò un’occhiata poco convinta. Tom la ignorò e procedette nell’esposizione di un sorriso talmente gioviale – e talmente falso – che avrebbe rassicurato perfino un cieco, solo grazie alle onde positive che da esso di spandevano.
Bill mugolò un lamento disgustato e Bushido rise divertito, guadagnandosi in cambio un pizzicotto che non sembrò né turbarlo né infastidirlo più di tanto.
- Be’, visto che insisti tanto… - borbottò David, accomodandosi meglio contro i cuscini, - Allora… - iniziò incerto, - Come procedeva il pomeriggio, prima che arrivassi? – Bill fece per aprire bocca, ma il manager lo fermò con uno sbrigativo cenno della mano, - La tua opinione l’ho già sentita, Bill. Bushido?
L’uomo si strinse nelle spalle e si accomodò a propria volta in una posa speculare a quella di David, mentre Bill decideva che poteva ancora fare qualcosa per infastidire il mondo intero e quel qualcosa era stendersi letteralmente addosso al proprio uomo e cominciare a molestarlo sessualmente sotto gli occhi di tutti.
- Stavamo… aspetta, Bill… - cominciò il rapper, preso un po’ alla sprovvista dai movimenti chiaramente piccati del proprio ragazzo, - Stavamo chiacchierando un po’ e purtroppo abbiamo disturbato Tom, che si stava esercitando…
- Oh… - annuì David, sorridendo orgoglioso alla volta di Tom, - Allora stavi studiando sul serio. Bravo ragazzo.
- Sì, perché io quando faccio una promessa la mantengo. – disse il biondo, orgoglioso, mentre Bill tirava fuori la lingua e stabiliva il modo perfetto per irritarlo ancora di più, portando una mano dietro la schiena di Bushido ed infilandola sotto la maglietta per accarezzarlo lungo i fianchi.
- Anche io mi stavo esercitando! – protestò Bill, issandosi sulle braccia per poi lasciarsi ricadere morbidamente in grembo ad Anis, - Bu, diglielo anche tu!
Bushido rise, un po’ imbarazzato, ed annuì alla volta del manager.
- Se parlare a macchinetta può dirsi esercizio, allora ne stava facendo tanto. – confermò con una scrollatina di spalle, mentre Bill protestava strusciandoglisi addosso come uno scoiattolo isterico.
Tom sentì il fastidio crescere e montare dallo stomaco al cervello, costringendolo ad ammutolire ed aggrottare le sopracciglia, furioso. Odiava quando Bill usava il sesso per metterlo in soggezione. Sapeva che per lui era difficile avere a che fare col pensiero lui fosse sessualmente attivo. Ed usava questo suo disagio per farlo sentire stupido e piccolo e infantile. Lui non aveva mai usato il sesso con le groupie per fare del male a Bill, ma Bill usava il sesso con Bushido per fare del male a lui, e questo non gli andava giù. Neanche un po’.
Ghignò malefico, stendendosi improvvisamente all’indietro e impattando quasi subito con la schiena contro il petto tonico di David.
La sensazione – quella pressione dura e compatta contro la sua schiena – pur non potendo dirsi spiacevole, di sicuro lo turbò più del necessario, ma smise di pensarci nell’istante esatto in cui gli occhi di Bill si posarono su di lui e, oltre quelle macchie castane brillanti, Tom poté scorgere precisamente tutto lo sgomento che lo stava cogliendo.
Il suo sorriso si allargò, mentre si sistemava meglio addosso al manager che, per contro, un po’ stupito e un po’ infastidito, lo afferrava per le spalle nel tentativo di scrollarselo di dosso.
- E tu, invece? – chiese Bushido, mentre cercava di non soffocare sotto la stretta di Bill che, dopo le manovre del gemello, s’era fatta insopportabilmente pesante, - Come mai sei passato da queste parti?
- Be’… - rispose David, mentre Tom gli si arrampicava letteralmente addosso e gli infilava rudemente un ginocchio fra le gambe, rischiando peraltro di porre fine alla sua vita da uomo per ripicca, - Ho la tendenza a non fidarmi dei ragazzi, e- Tom, che diamine stai combinando?!
- Niente! – biascicò il rasta, infilandogli una mano sotto la maglietta con aria corrucciata, mentre Bill mormorava un acidissimo “lo so io, che sta combinando”, - Continuate a parlare!
David fissò entrambi i gemelli con aria inquisitoria, lasciandosi poi andare ad un sospiro stremato e rassegnato, scuotendo il capo.
- Insomma. – continuò, mentre Tom raggiungeva il suo scopo ed infilava una seconda mano sotto la sua maglietta e Bill, per contro, scendeva a sbottonare i pantaloni di Anis, - Non mi fido, e come vedi faccio bene. Perciò sono passato a controllare. Ma non sapevo ci fossi anche tu.
Bushido annuì comprensivo, schiaffeggiando una mano di Bill ed ottenendo come unico risultato che lui usasse l’altra mano per procedere a slacciare la cintura.
- Sì, mi rendo conto. Io non sapevo che dovessero studiare, Bill non me l’ha detto. Se l’avessi saputo, non sarei mai venuto a disturbare.
David sorrise complice, osservando vagamente confuso Tom armeggiare con la fibbia dei suoi jeans.
- Apprezzo l’intenzione. Ma non c’è proprio modo di governarli. Tom? – il ragazzo sollevò lo sguardo, fissandolo con un broncio terribilmente ostinato e terribilmente carino, - Non ti chiedo di fermarti, tanto sarebbe inutile, ma ti dispiacerebbe fare più piano? Mi stai slogando un’anca.
Tom mugugnò un assenso incomprensibile e lanciò un’occhiata a Bill, che nel mentre stava sfilando l’ingombrante cintura autoreferenziale di Bushido per gettarla per terra. Decise che non era il caso di fermarsi ancora e slacciò il terzo bottone dei jeans di David, esprimendosi in un mugolio soddisfatto quando riuscì a completare l’operazione senza problemi di sorta.
- Sì, vedo. – annuì Bushido. Bill sollevò lo sguardo e lo piantò nel suo. Bushido non fece una piega. Bill sospirò e gli infilò una mano nei boxer. – E qui ti volevo. – borbottò l’uomo afferrandolo per il polso e tirandolo via con uno scatto talmente repentino che Bill mugolò di dolore. A quel punto, anche Tom fermò la propria incuriosita esplorazione dei pantaloni di David, e si voltò per osservare la scena.
- Ma sei duro, l’ho sentito! – si lamentò il moro, prendendo a saltellare sul divano mentre Bushido si rimetteva in piedi.
- E tu non hai decenza, tuo fratello ha ragione. – lo rimproverò il rapper, dandogli un buffetto sulla fronte, - Questo può andare bene, ma solo in privato. Perciò… - argomentò, sollevandolo per i fianchi e caricandoselo in spalla come un sacco di patate, - se volete scusarci. – concluse, rivolgendo un breve cenno del capo a David e Tom, prima di voltarsi e dirigersi verso la camera di Bill.
Tom osservò suo fratello allontanarsi penzolante sulla schiena di Bushido. Si scambiarono uno sguardo allucinato da un lato all’altro della stanza, e stabilirono silenziosamente che avrebbero chiarito dopo.
Stremato, Tom si lasciò andare contro lo schienale del divano, sospirando pesantemente.
David scosse il capo e sospirò a propria volta, risistemando i pantaloni e sospingendo Tom verso un punto meno critico del divano, prima di accostarglisi con aria premurosa.
- Non devi spiegarmi niente. – lo rassicurò con un mezzo sorriso, - Ho capito cos’è successo. Ora stai meglio?
Tom mugolò un lamento sofferto e distolse lo sguardo, mortalmente in imbarazzo.
- Penso che mi farebbe bene un po’ del gelato che hai portato. – biascicò. David fece per alzarsi ed andare a prenderlo, ma Tom lo trattenne vicino a sé, afferrandolo per un braccio. – No. – disse con aria implorante, - Resta. Devo scusarmi.
David sorrise teneramente, lasciandogli un buffetto sulla guancia.
- No, non devi. Ti ho detto che ho capito. So che Bill può essere… fastidioso, quando vuole.
- Sì, lo è. – mugolò Tom, accucciandosi contro di lui, - Certe volte mi sento davvero preso in giro.
David rise, ed attraverso il suo petto il suono vibrò e si espanse dentro il corpo di Tom, dolce e rassicurante come un abbraccio.
- Non ti sta prendendo in giro. È solo che vorrebbe la tua approvazione.
- Questo non è il modo giusto per ottenerla!
- Sì, ma tu gli hai spiegato quale sarebbe, il modo giusto?
Tom mugolò ancora e si nascose più profondamente contro la sua maglietta.
- Possiamo non parlarne? – implorò pietosamente.
David sorrise e lo abbracciò con dolcezza.
- Prima o poi dovremo farlo comunque. Ma non è necessario farlo adesso. – poi indicò il gelato, - Lo vuoi ancora?
Tom guardò l’uomo, poi le vaschette, poi ancora l’uomo.
Scosse il capo.
- Preferisco stare così un altro po’.
Genere: Erotico.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, PWP, Slash.
- Per Bill non è un momento facile. La gola gratta e non riesce a cantare come vorrebbe, e per di più il tour americano si sta dimostrando molto più pesante del previsto. Ecco perché, dopo gli show canadesi, pretende una vacanza. E, quando la ottiene, torna a casa per passarla in santa pace. Ma accadrà qualcosa che sicuramente non poteva prevedere.
Note: E ce la fece XD Questa storia – scritta in quattro giorni nella maniera più scombinata possibile, ovvero partendo da tre quarti – è stato un gioioso parto, come sa chiunque abbia continuato a vedere fra i miei nick su MSN messaggi minatori che incitavano ad ignorarmi perché stavo producendo del porno. E giuro che all’inizio voleva essere solo questo, del giocoso porno, ma non so perché io ho questa mania delle strutture che… uff XD
Si ringraziano tantissimo Tab e Yul che hanno sofferto con Bill seguendo in diretta il copincolla della lemon XD Billi ve ne sarà per sempre grato. Un po’ meno alla Tab, che a un certo punto ha sbottato “Bushido, te prego, daglielo!”. Ma sono cose che nelle PWP succedono, e poi Bill lo voleva XD
Grazie anche a Misa, che l’ha betata <3
A parte questo, l’H1 esiste davvero ed è bello da far schifo. Quando io e Misa saremo ricche e fighe ci trasferiremo ad Amburgo e lo compreremo, e faremo un mucchio di soldi. *ama* Se volete guardarlo, sul sito ufficiale ci sono delle gioiose foto.
Quanto alla fantomatica pausa di cinque giorni tra il Canada ed Hollywood… true story. Il canon è canon u.u Niente da fare u.u
PS: Il titolo è stato gentilmente offerto da Tab <3 Il sottotitolo, invece, dall’omonima canzone di Bushido XD *una donna ossessionata* Significa “hai coraggio?”.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
LUSH
Hast Du Mut?

Ogni tanto, se ne rendeva conto da sé, si trasformava in un rompiballe di dimensioni cosmiche. Era grato a chiunque riuscisse a continuare a sopportarlo, in quelle occasioni, perché erano proprio i momenti in cui essere lasciato solo gli sarebbe dispiaciuto di più. Era una classica reazione allo stress. Quando cominciava a diventare una piaga, tutti sapevano che doveva essere successo qualcosa di spiacevole. O doveva sentirsi poco bene.
Tom l’aveva sempre capito – perché lo conosceva da una vita – e da qualche anno aveva cominciato a capirlo anche David. Bill supponeva che per entrambi si trattasse di un sacrificio dovuto. Che gli volessero bene e perciò sopportassero stoicamente senza lamentarsi troppo.
A Bill dispiaceva diventare insopportabile.
A volte, però, succedeva e basta.
- Sarai soddisfatto, adesso. – sospirò teatralmente suo fratello, affossandosi il più possibile al proprio posto vicino al finestrino, sull’aereo diretto a Berlino di quell’undici febbraio duemilaotto, - Una bella vacanza e pure un viaggio transatlantico. Dio, quanto ti odio.
Bill ridacchiò a bassa voce e gli regalò un biscotto di quelli che aveva ordinato alla hostess poco prima. Tom lo mandò giù direttamente dalle sue mani, come un cagnolino, e Bill rise ancora.
- Scusami. – biascicò il moro, - È che ho mal di gola. Sono un po’ stanco. Avevo bisogno di una pausa.
Suo fratello lo fissò con aria allucinata.
- Dopo due sole date, Bill?
- Erano due sold out! – protestò lui, ostinato.
- E allora? – sbottò Tom, scrollando le spalle, - Mica cantare per più persone è più faticoso. Non dovevi preparare da mangiare a tutte le millequattrocento ragazze che c’erano…
Bill sospirò e scosse il capo, mangiando un biscotto e buttandolo giù con un po’ di tè.
Non si aspettava certo che Tom lo approvasse. Suo fratello lo sentiva perfettamente, fin dentro, ma aveva pure tutti i diritti del mondo di avercela con lui.
In ogni caso, ormai era su quell’aereo. Non aveva alcuna intenzione di tornare indietro. Voleva soltanto prendersi qualche giorno di pausa. Fra il Canada ed Hollywood, in fondo, c’erano cinque giorni di stacco. Non aveva neanche costretto David a manovre particolarmente esasperanti – sebbene il sospiro che il manager aveva lanciato quando l’aveva informato dei propri progetti potesse essere interpretato come “esasperato” con una possibilità di errore dello zero virgola uno percento.
Aveva voglia di respirare un po’ l’aria di casa. Poco importava l’avesse lasciata non più di una settimana prima.
Forse, l’aria di casa gli avrebbe fatto passare quel fastidioso mal di gola che continuava a grattargli sulle corde vocali ogni volta che apriva bocca per cantare.
*
Non avrebbe resistito ad un’altra serata di fronte alla TV, in attesa del ritorno di Tom.
Due giorni dopo il suo arrivo ad Amburgo, assieme al mal di gola che si ostinava a restare dov’era, era questa l’unica altra certezza che Bill potesse vantare.
- Dovresti uscire di più. – gli disse suo fratello con aria distratta mentre, molto più attentamente rispetto a quanto si preoccupasse di lui, sistemava il berretto sulla testa, - In fondo, siamo tornati perché tu potessi rilassarti un po’. Ed invece stai tutto il tempo qui tappato in casa…
Bill, pigramente accucciato sul divano in perfetta tenuta da scazzo casalingo, scrollò le spalle senza rinunciare neanche per un secondo ad uno zapping tanto noioso quanto inutile.
- Avanti, fatti bello ed esci con me. Stasera andiamo al Funky Pussy!
- Ma quel locale è sempre pieno solo di ragazze! – borbottò Bill inorridito.
Tom spalancò gli occhi e ritenne opportuno perfino voltarsi a guardarlo con aria sconcertata.
- Bill, certe tue uscite mi turbano profondamente.
- …non in quel senso, cretino! – strillò, arrossendo d’impulso, - Intendo che è imbarazzante essere circondato solo da femmine…
Tom dischiuse le labbra come per dire qualcosa, poi sembrò ripensarci ed infine lasciò ricadere le braccia lungo il corpo in un plateale segno di resa.
- Bill, non aggiungere altro: peggiori solo la situazione.
Il moro aggrottò le sopracciglia e si raggomitolò con maggiore ostinazione sul divano, incrociando le braccia sul petto e mormorando un “fottiti” che suonò più come un lamento che come un’offesa.
- Billi, cucciolo, ti prego, non litighiamo. – mugolò pietosamente Tom, piegandosi a dargli un bacino sulla guancia, - Fai quello che vuoi, per me è ok. Non dovrei far tardi stanotte, - aggiunse poi, allontanandosi spedito verso la porta, - ci rivediamo appena torno. – e lo salutò lanciandogli un altro bacio, prima di uscire.
Rimasto solo, a Bill non rimase che sprofondare fra i cuscini e fissare con aria ebete la propria faccia perfettamente tirata a lucido che stava passando proprio in quel momento in TV sotto forma del video di 1000 Meere.
- Odio VIVA… - mugugnò dolorosamente, tirandosi in piedi e cominciando a zompettare a piedi nudi in giro per l’appartamento, con l’aria di un fallito che non avesse la minima idea della direzione da dare alla propria vita.
Cosa che, in effetti, poteva rappresentare abbastanza bene lo stato di cose di quel momento.
La gola proprio non funzionava come avrebbe dovuto.
E lui probabilmente stava un po’ perdendo la forza di combattere. O la voglia di provarci.
Entrò in bagno e si fermò di fronte al lavandino. Sciacquò velocemente il viso e ciò che vide quando tornò a guardarsi allo specchio non gli piacque affatto.
- Bill, sei un cesso. – si disse impietoso, toccando il proprio riflesso su una guancia. – Dovresti davvero seguire l’esempio di Tomi. Metterti in tiro ed uscire. Sia mai che ti venga un po’ di coraggio per fare della tua vita qualcosa di buono.
Sospirò e socchiuse gli occhi.
Be’, rimanere in casa a parlare da soli, da che mondo era mondo, non aveva mai aiutato nessuno.
*
Forse fu per questo che, seguendo la frenesia di dieci minuti assolutamente folli, si truccò, si vestì di tutto punto, indossò un paio di occhiali scuri e si fiondò fuori di casa, alla disperata ricerca di un taxi che lo portasse da qualche parte.
Qualsiasi parte andava bene, in effetti, purché fosse movimentata. E non fosse il dannato Funky Pussy, ovviamente.
Il tassista sembrava averlo riconosciuto. Da come continuava a guardare nello specchietto retrovisore, per cogliere uno spicchio del suo viso, Bill poteva dire con certezza quasi assoluta si stesse chiedendo se fosse il caso di domandargli un autografo per la figlia.
- Dove la porto…? – chiese timoroso.
Bill apprezzò che lui non lo chiamasse “signor Kaulitz”. Odiava quando gli sconosciuti lo apostrofavano in quel modo. Era una delle poche cose che odiasse davvero della fama – l’impossibilità di godere del calmo e freddo anonimato del quale usufruiva chiunque, perfino il più immeritevole degli esseri umani. Tutti tranne lui sembravano aver diritto ad un po’ di pace.
Gli sarebbe bastato che almeno le persone che era costretto ad incontrare fossero abbastanza educate da risparmiargli la tortura, evitandosi l’uso del suo cognome. Lui non li conosceva, d’altronde. Non poteva rispondere con un “Sì, grazie mille, signor Vattelappesca”. Si sentiva incredibilmente in difetto rispetto a chi usava il suo cognome per rivolgersi a lui senza presentarsi prima.
- Non lo so… - rispose con un sorriso di circostanza, - Ho voglia di svagarmi un po’, ma non sono un gran frequentatore di discoteche…
- Be’… - rifletté il tassista, mettendo in moto, - l’H1 è un bel locale. Mia figlia mi raccontava di esserci stata qualche weekend fa…
- No, la prego, - ridacchiò Bill, - non mi dica che è un locale per ragazzine.
Il tassista rise a propria volta, per nulla offeso.
- Mia figlia ha venticinque anni. – precisò, - Comunque è un bel posto e non è frequentato da gente… fastidiosa. Se capisce cosa intendo.
Che meraviglia, educato e pure attento alle esigenze delle celebrità in fuga dalla fama.
- Sì. – annuì Bill compitamente, - Grazie mille, allora. L’H1 sarà perfetto.
*
L’H1, in effetti, era perfetto per un mucchio di motivi diversi. Bill cominciò a ringraziare l’anonimo tassista nel momento in cui mise piede nell’ampio, oscuro e sensuale ambiente del locale, ed in pratica non smise più.
Le luci – cupissime, viola ed azzurre, salvo quelle giallastre che illuminavano i gradini che portavano alle varie zone del bar – rendevano l’ambiente misterioso e riservato abbastanza da garantire a chi stesse abbastanza lontano dalla pista da ballo un meraviglioso paio d’ore di solitudine. Le zone, poi, erano tutte perfettamente ordinate e differenti le une dalle altre. Così che chi voleva sfondarsi d’alcool intrecciando conversazioni futili con i vicini si dirigeva al bar, chi voleva perdersi nel movimento ipnotico di un paio di dischi house andava in pista e chi preferiva stare semplicemente seduto a godersi il proprio essere lì per nessun motivo particolare aveva tutta una lunghissima serie di poltrone in pelle nera aderenti al muro dall’aspetto invitantissimo.
Oltretutto, il club sembrava frequentato solo da over-30. Non c’era la benché minima possibilità che lo riconoscessero.
Bill afferrò una birra al volo al bancone e poi si diresse speditamente verso la fila di poltrone, mirando ad una che sembrava particolarmente comoda e cercando di raggiungerla prima che gli venisse soffiata da sotto il naso.
Si accomodò, portò la bottiglia alle labbra, bevve un lungo sorso di birra ghiacciata, si guardò intorno e si sentì perfettamente soddisfatto di se stesso.
Dopodiché, una voce stranamente familiare lo costrinse a voltarsi e realizzare d’improvviso di essere un enorme improponibile cazzone.
- Bill Kaulitz…?
Bushido stava seduto sulla poltrona accanto alla sua. Doveva averlo osservato durante tutte le sue precedenti manovre, senza staccargli gli occhi di dosso, solo per ridere di lui.
Dio.
Perché doveva essere così drammaticamente stupido? E sfigato?
Come diavolo aveva fatto a non riconoscere Bushido proprio lì accanto, mentre sceglieva con cura la poltrona da occupare?!
- Ciao… - abbozzò incerto, perché in realtà, nonostante i numerosi quanto brevi incontri che avevano preceduto quel momento, non è che avesse ancora ben capito come fosse conveniente comportarsi con quell’uomo. A volte sembrava il ritratto della dolcezza e dell’educazione. L’attimo dopo lo sentivi che diceva all’amico di turno in quali e quanti modi sarebbe riuscito a farti urlare di piacere, se fossi stato una femmina.
Era disorientante.
- Credevo fossi in America… - commentò lui giusto per amor di conversazione, mentre rispondeva al saluto con un cenno del capo.
- Sì, be’… sono tornato per un po’. – rispose Bill, ancora un po’ impaurito, - Avevamo una pausa, sai…
- E tu, - rise Bushido, fissandolo con un sopracciglio inarcato, - quando hai qualche giorno di pausa, invece di restare a goderti la vita in America, torni in questa topaia?
Bill abbassò lo sguardo, a disagio, e si strinse nelle spalle.
- Be’, questo posto non è così male… - si giustificò blandamente, tornando a cercare rifugio nella birra.
- E come mai sei qui tutto solo? – continuò a prenderlo in giro Bushido.
Era odioso.
- Potrei chiederti la stessa cosa. – rispose acido, in un improvviso moto di spirito.
Bushido rise come avesse fatto una battuta, e la cosa non lo offese come avrebbe dovuto.
- Avevo voglia di festeggiare. – rispose.
- Di solito, non si festeggia in compagnia? – ritorse Bill, profondamente insoddisfatto dal tono e dall’andamento della conversazione.
Bushido scrollò le spalle.
- Suppongo che ci siano delle cose che valga la pena viversi in solitudine.
Bill deglutì, mordicchiandosi un labbro.
- Sì. Sono d’accordo. – annuì discretamente.
Bushido lo scrutò brevemente – un’occhiata calda ed intensa che Bill sentì addosso con una pesantezza quasi fisica.
- Te ne prendo un’altra?
- …cosa?
- La birra. L’hai già finita. Ne vuoi un’altra?
Bill rimase per qualche secondo immobile, un po’ interdetto. C’era decisamente qualcosa di diverso – un divario enorme – fra la discussione che stavano intrattenendo prima e quella che avevano appena intrapreso. Sì, si rendeva conto da sé di rasentare il ridicolo, nel notare differenze simili fra una presa in giro e l’offerta di una birra, ma…
…no, non c’era nessun ma.
Era solo la presenza di quell’uomo che lo inquietava e lo stordiva.
E l’ambiente, anche. Così… lo notava solo in quel momento, che strano, ma… le poltrone appartate, le luci basse, la musica a volume altissimo che ti confondeva anche se non volevi ascoltarla, per non parlare di tutti i profumi mischiati che riempivano l’aria rendendola greve e difficoltosa da mandar giù, davano al posto un tocco d’intimità che, pur non essendo completamente spiacevole, lo metteva a disagio.
Scrollò le spalle.
- Va bene. – concesse, - Ma sappi che non ti riuscirà di farmi ubriacare.
Bushido sogghignò, facendo un cenno al barman che, in pochi secondi, fece arrivare fra le loro mani due bottiglie piene e ghiacciate.
- Perché mai dovrei farti ubriacare, Kaulitz? – chiese insinuante.
Bill non sapeva se lo stesse ancora prendendo in giro o meno, ma quello suonava comunque come un flirt. Pure abbastanza spudorato.
Avrebbe dovuto esserci abituato – Bushido flirtava con lui praticamente ogni volta che gli capitava a tiro – ma la situazione in cui si trovavano in quel momento era così lontana dalla ribalta televisiva che Bill non poté fare a meno di dirsi che, se in altre occasioni aveva bollato quei flirt come pubblicità da dare in pasto ai media, in quel momento non c’era proprio niente da pubblicizzare, e nessun paparazzo da nutrire.
Probabilmente lo stronzo voleva solo giocare, pensò cupo, aggrottando le sopracciglia. Era molto da lui, in fondo: ghignare e mostrarsi figo e superiore e prenderlo per il culo a parole per evitare di doverlo fare davvero. Era un tratto che gli aveva sempre dato fastidio, della sua schizofrenica personalità: se lo voleva, perché non cercava di prenderselo e basta?
Mandò giù un sorso di birra.
Calmati, Bill. Calmati. Non vuoi davvero che Bushido ti prenda e ti porti a casa propria, per poi scoparti. Non lo vuoi.
No?

Disconnesse le sinapsi del proprio cervello quando si rese conto che pensare stava diventando a tutti gli effetti più pericoloso che agire senza farlo. Chi l’avrebbe mai detto.
In ogni caso, non era disposto a cedere neanche di un punto. Non di fronte ad uno che era palesemente un codardo, peraltro.
- Per portarmi a letto, è chiaro. – rispose quindi con un sorrisino spavaldo, - Tanto è ovvio che, se non fossi ubriaco perso, non ci starei mai.
Bushido rise, estremamente divertito, e fece tintinnare la propria bottiglia contro la sua.
- Un punto per te, Kaulitz. – si complimentò, - Ma ammetto che il mio obiettivo è costringerti ad un sì da sobrio. E senza giornalisti che possano far pensare ad un’accettazione di convenienza.
Spalancò gli occhi e quasi si soffocò con la propria stessa saliva.
Andava bene giocare, ma… quell’uomo stava giocando su un livello tutto diverso dal suo.
Forse.
- Be’, allora siamo a posto. – mugugnò imbarazzato, tornando a cercare conforto nell’alcool, - Tanto non accadrà mai.
- Che bello, ogni tanto, sentirti parlare ancora come il ragazzino che sei! – commentò l’uomo, evidentemente divertito, - A sentirti in genere, con tutte quelle cazzate seriose sull’anima gemella e la castità forzata e tutto il resto, si fatica proprio a capire quanti anni hai.
Bill scrollò le spalle.
- Che non si capisca la mia età va bene. Non posso lamentarmi. Non posso lamentarmi neanche se la gente non capisce il mio sesso, figurati.
- Ah! Che tu sia maschio, è una certezza matematica.
Gli lanciò un’occhiataccia, infastidito.
- Intendi?
- Che sei uno stronzetto sfacciato. – mormorò Bushido appoggiando i gomiti sulle ginocchia e sporgendosi fin quasi a sfiorare il suo profilo con le labbra, - Quindi, forse sei un po’ zoccola, ma resti comunque maschio.
Saltare oltraggiato in piedi e poi schiaffeggiarlo sarebbero state le cose più giuste da fare. Avrebbero chiuso il conto – presumibilmente per sempre – gli avrebbero ridato un po’ di dignità ed un po’ d’autostima, e magari avrebbe avuto anche qualcosa di divertente da raccontare a Tomi quando fosse tornato dal suo consueto giro di scopate, quella notte.
In ogni caso, non aveva voglia di fare niente del genere.
Diede la colpa alla birra, alla musica ed all’aria pesante. Non si fermò a pensare neanche per un secondo che la cosa potesse essere imputabile alla vicinanza di Bushido, all’odore forte e deciso del suo dopobarba, al suono piacevole che producevano le sue parole a così pochi centimetri dalla sua pelle o al suo sguardo talmente intenso e scuro da pietrificarlo.
Era molto, molto più comodo e facile dare la colpa alla birra, alla musica ed all’aria pesante.
- Be’, insomma. – sorrise vittorioso Bushido, raddrizzando la schiena e poi mettendosi in piedi, - Buona fortuna per il resto dei concerti in America e buon divertimento per il resto della serata. Per oggi, io ho concluso.
Così dicendo, accennò un saluto con la mano e fece per abbandonare il privè ed uscire dal locale.
Bill saltò in piedi e lo richiamò con una velocità tale che ebbe quasi un capogiro.
- Aspetta! – disse, quando riuscì a recuperare abbastanza presenza di spirito.
- …cosa? – chiese un po’ incerto Bushido, voltandosi interdetto a guardarlo.
Bill si morse un labbro, piantò una mano sul fianco e cercò di darsi l’aria più navigata che poté.
- Non mi porti con te?
*
Non c’era proprio che dire: era andato alla ricerca di una serata diversa dalle altre, una serata che gli desse indietro tutta la propria forza ed il coraggio di combattere, ed aveva trovato Bushido. E non solo: si era fatto allegramente prelevare, infilare in una BMW che, non fosse stata sinonimo di uno dei momenti più confusi e tormentati della sua vita, avrebbe amato al punto da svendersi per salirci su – ed in effetti era un po’ ciò che stava facendo – ed infine aveva accettato di rimanere lì, accucciato sul sedile del passeggero a rimirarsi la french, nel più assoluto silenzio, mentre Bushido guidava verso casa propria.
- Non sapevo che abitassi ad Amburgo… - borbottò atono, giusto per spezzare quel silenzio insopportabile, - Credevo fossi di Berlino.
- Ed infatti lo sono. – annuì serenamente lui, concentrato sulla strada, - Ma sono diventato ricco molto prima di te, perciò ho già cominciato ad espandere i miei possedimenti in tutta la Germania. Un giorno, conquisterò il mondo.
Bill rise a bassa voce, coprendosi le labbra con una mano.
Bushido lo squadrò dall’alto in basso, un po’ risentito.
- Era una battuta, potevi anche fartela, una bella risata.
- Non parlarmi come se fossi uno che non ride mai. – si lamentò Bill, aggrottando le sopracciglia, - Non lo sono.
- Be’, abbiamo passato le ultime due ore insieme e ti ho visto fare solo sorrisini storti e qualche ghigno. Ho le prove che ho ragione.
- Non parlarmi nemmeno come se fossi un mio amico. – aggiunse il moro, piccato, - Non lo sei.
Bushido roteò gli occhi e lanciò un mugolio annoiato.
- Sei un ragazzino impossibile. Dovrei riportarti a casa tua e basta.
- …dopo essere arrivati fino a qui?
- Fino a qui è circa a tre isolati dal tuo appartamento, come mi hai fatto notare dieci minuti fa, quando ci siamo passati davanti, perciò non blaterare.
- …è passato davvero così poco tempo…? – chiese Bill, sinceramente stupito, - Cazzo, mi sembrava fossero passate ore
- Questo perché sei un bimbo noioso e provare ad intavolare una conversazione con te è assolutamente impossibile. – commentò Bushido, annuendo compitamente.
Bill gli tirò uno schiaffetto contro la coscia, lamentandosi di quanto trovasse assurdo che continuasse ad offenderlo e chiamarlo “bimbo”, ma se ne pentì subito dopo.
Dio, non dai uno schiaffo sulla coscia ad uno che ti sta portando a casa propria! Non se vi conoscete appena e vi siete incontrati due ore prima!
Bushido, comunque, non ne sembrò particolarmente turbato, e continuò a guidare tranquillamente, senza scollare gli occhi dalla strada nemmeno per un secondo.
Si fermarono di fronte ad un condominio che, più che richiamare alla mente i sobborghi di Tempelhof, sembrava un ordinato ospizio per vecchi ricconi. Palazzi bassi, bianchissimi, con i balconi pieni di fiorellini ed un ampio e pulito cortile interno, con un’enorme aiuola ed un’altrettanto enorme palma piantata proprio nel centro.
- Una palma…?
- Lasciamo perdere. – borbottò Bushido, mentre gli faceva strada verso la propria palazzina, - Ho dovuto affrontare l’ira funesta di un centinaio di casalinghe frustrate, solo per aver detto incautamente che tenere una pianta esotica in un cortile ad Amburgo avrebbe potuto non essere un’idea poi così geniale. – sospirò pesantemente, aprendo il portone e tenendolo fermo finché Bill non fu entrato all’interno dell’ingresso, - Dovresti vederla come si agita quando c’è vento. Una cosa tremenda.
Il moro annuì trasognato, un po’ confuso dal fiume di parole e, soprattutto, dall’immagine mentale di Bushido che litiga con le massaie durante una riunione di condominio particolarmente accesa.
- Ma che diavolo ci fai in un posto simile…? – biascicò divertito, mentre salivano le scale diretti al primo piano.
- Ci vivo. – rispose Bushido con una scrollatina di spalle, - Cinque o sei mesi all’anno. È qui che vengo a comporre.
- Tu componi?! – strillò, fermandosi in mezzo alle scale e voltandosi a guardarlo come fosse stato un alieno.
- Aha, molto divertente. – borbottò Bushido dandogli un buffetto sulla fronte ed oltrepassandolo fino a raggiungere il proprio pianerottolo.
- No, sul serio… - si affrettò a raggiungerlo Bill, facendo gli ultimi gradini quasi in un unico salto, - Credevo che quelli come voi si mettessero a cantare direttamente sulla base…
- Quelli come noi sono artisti normali che scrivono la musica sulla quale cantano ed anche i testi che ci mettono sopra. – precisò Bushido, armeggiando con le chiavi alla ricerca di quella giusta, - Il che è molto più rispetto a quanto si possa dire di quelli come voi. – buttò lì in un’offesa che, per quanto bruciasse, era pure abbastanza giustificata, visto che, in effetti, il tono con cui l’aveva rimbrottato fino a quel momento era abbastanza incredulo da motivare la sua rabbia.
- Scusami, non volevo insinuare tu fossi un incapace… - borbottò, in un blando tentativo di recuperare i punti persi, - È che un po’ l’ho sempre pensato, e… - sollevò lo sguardo. Bushido lo fissava a propria volta, estremamente critico. - …ok, la pianto qui.
- Molto, molto meglio. – concluse l’uomo aprendo la porta ed invitandolo ad entrare. – E questa è la mia modesta dimora. – commentò tronfio, mostrando l’interno dell’appartamento con un ampio cenno del braccio, mentre si richiudeva la porta alle spalle.
Bill si guardò intorno, stringendo con forza i pugni dentro alle tasche dei jeans.
La modesta dimora di Bushido constava di un ingresso fuso con un salotto di dimensioni stratosferiche, un soggiorno che si poteva intravedere da una porta aperta sulla sinistra con tanto di cucina incorporata, una porta chiusa che si apriva probabilmente su una camera da letto che non avrebbe avuto nulla da invidiare alle altre stanze e… be’, da qualche parte doveva pure esserci un bagno.
- Modesta, eh? – chiese divertito, avvicinandosi al divano ed accarezzandone la superficie scamosciata color panna.
- Dovresti vedere quella a Berlino. – ribatté lui con un ghigno furbo mentre si sfilava la giacca e gli porgeva una mano per prendere la sua.
Bill tolse il giubbotto di jeans e glielo consegnò, continuando a vagare per quell’enorme stanza, soffermandosi a scrutare con un misto di invidia ed ammirazione tutti i particolari dell’arredamento.
- Mi sento improvvisamente molto povero. – commentò con un mezzo sorriso, fermandosi innamorato di fronte ad un gigantesco tavolo rotondo in marmo nero striato bianco.
- Lo prenderò come un complimento. – rise Bushido, poggiando le due giacche sopra una poltrona ed avvicinandosi a lui, - E, quando verrò a trovarti a casa tua, ricambierò.
Bill si voltò a guardarlo, inarcando supponente un sopracciglio.
- Chi diavolo ti fa pensare che ti inviterò mai a casa mia?
Bushido ridacchiò.
- Il fatto che mi ti sei praticamente offerto su un piatto d’argento meno di un’ora fa…? – suppose, reggendogli il gioco.
Bill rise e si sporse verso di lui, ammiccando divertito.
- Ma questo non significa che debba considerarti tanto importante da portarti a casa… - gli sussurrò addosso, senza smettere di guardarlo negli occhi, - Forse la zoccola non sono io, no…?
Bushido indietreggiò ed il suo sguardo cambio colore e consistenza.
Se le atmosfere avessero potuto fare rumore, spezzandosi, in quel caso sarebbe stato come sentire venir giù una casa. Tutto un palazzo.
Quel crollo, Bill quasi se lo sentì sulla testa.
- Ragazzino, cerca di non esagerare. – disse duramente l’uomo, sporgendosi a guardarlo con rabbia. Bill si strinse nelle spalle, sulla difensiva. – Va bene anche giocare pesante, ma quando si comincia a fare sul serio stai attento. Pensavo di portarti qui, darti da bere qualcosa, fare ancora un po’ il simpatico e poi riportarti a casa. Non costringermi a saltare la parte della simpatia. So essere davvero poco piacevole, quando voglio.
Sarebbe stato facilissimo, a quel punto, chinare il capo e scusarsi. Sarebbe stato facilissimo e probabilmente sarebbe stata anche la mossa giusta. Bastava fare qualche piccola rinuncia qua e là. Bastava rinunciare ad occupare la serata in attesa del ritorno di Tom. Bastava rinunciare a prendersi la ragione con la forza. Bastava rinunciare al ricordo della sensazione che aveva provato all’H1 quando Bushido l’aveva guardato a lungo e intensamente, prima di offrirgli un’altra birra.
Bastava rinunciare a quel po’ d’orgoglio che era riuscito a raccogliere a fatica durante tutta quella sfiancante serata.
Bastava rinunciare alla vittoria, in fondo.
Sarebbe bastato rinunciare a tutto questo, obbedire da bravo bambino e fare come al solito: sottomettersi. Accettare. Annuire. Sì, sì, sì.
Ma dannazione.
Non era andato in giro da solo per Amburgo mettendo a rischio la propria stessa incolumità, e non era arrivato all’H1, e soprattutto non aveva passato le ultime due ore a flirtare con Bushido per ritrovarsi poi fra le mani il solito noioso ed insopportabile niente.
Si appoggiò morbidamente al tavolo, puntando le mani sul tavolo ed accavallando sensualmente le gambe, e poi si concesse un mezzo sorriso storto e intrigante.
- Che delusione… - sussurrò carezzevole, inclinando lievemente il capo, - Mi porti qui, mi dai ad intendere che riusciremo a cavarne qualcosa di più di qualche blanda promessa televisiva… e poi ti ritiri con un nulla di fatto? – ridacchiò brevemente, sbattendo le ciglia, - Ti ho proprio sopravvalutato, Bushido.
Lui gli fu addosso in meno di un secondo. Non lo sfiorava neanche, ma la sua sola presenza era talmente ingombrante che per poco Bill non si sentì mancare il fiato.
Bushido lo fissava, qualche centimetro più in alto di lui, e gli respirava addosso.
Era furioso. Glielo si leggeva negli occhi.
- Kaulitz, che cazzo vuoi?
Soddisfatto, Bill lo fissò di rimando ed allargò il sorriso.
- Speravo potessi dirmelo tu.
Gli occhi dell’uomo si fecero sottili e brucianti come tizzoni ardenti, tanto che Bill dovette farsi violenza per non distogliere lo sguardo.
Si stava mettendo nei guai. Si stava mettendo nei guai e la cosa non riusciva a dispiacergli completamente. E non era neppure tanto ubriaco.
Però almeno il mal di gola sembrava sparito.
Forse perché non aveva ancora avuto modo di pensarci.
- Non mi provocare, Kaulitz… - sussurrò rocamente Bushido, sollevando una mano e lasciandogliela scorrere sul ventre fino al petto, da sopra la maglietta.
La sua pelle era talmente calda che Bill ne percepì perfettamente addosso la temperatura, nonostante il cotone. Gli diede i brividi.
- Magari è esattamente questo, quello che voglio. – rispose in un ansito scomposto, sporgendosi ancora verso di lui fino ad insinuare una gamba fra le sue, stuzzicandolo in uno strofinio discreto ma continuo e, soprattutto, terribilmente ben mirato.
Bushido si inumidì le labbra ed afferrò con malagrazia un lembo della sua maglietta, tirandola su tanto in fretta da rischiare di strappargli via anche le braccia, assieme all’indumento.
Avrebbe dovuto sentirsi offeso e maltrattato.
Appena l’ingombro della maglia si ritrovò dimenticato sul pavimento a qualche metro da loro, tornò semplicemente a guardare Bushido negli occhi a distanza così ravvicinata da poter sentire i loro stessi respiri incontrarsi a metà fra le loro bocche ed attorcigliarsi l’uno con l’altro.
Sollevò le braccia e cominciò a sbottonare la camicia dell’uomo. Così lentamente che si infastidì da solo.
Bushido, però, non si lamentò. Lo lasciò fare e procedette per proprio conto all’esplorazione della sua pelle – la morbidezza della pancia, la consistenza un po’ più ruvida dei pettorali e l’attrito evidente dei suoi capezzoli induriti sotto i polpastrelli – mentre Bill continuava a guardarlo negli occhi – oh, non avrebbe rinunciato neanche per un minuto a quello sguardo di fuoco – e a respirargli sul viso.
In quel momento, si sentiva perfetto.
Si sentiva sexy.
Il mal di gola non contava.
Lo sbattimento del viaggio e l’ansia da prestazione prima dei concerti erano nulla.
Il senso di frustrazione, piccolezza e disagio che aveva provato mettendo piede in America, scomparsi.
Era tutto perfetto, tutto meraviglioso. Tutti gli ingranaggi giravano per il verso giusto.
- Meglio chiuderla qua. – disse Bushido, cercando di allontanarsi, ma Bill lo trattenne vicino, stringendo con forza il colletto della sua camicia.
- Non voglio chiuderla qua. – ansimò, allentando la presa e lasciando scivolare lentamente l’indumento lungo le spalle e la schiena dell’uomo, per poi scendere a sbottonare anche i jeans, scoprendo quei pochi ma preziosi centimetri di pelle del ventre non nascosti dai boxer.
Non avrebbe mai detto di potersi sentire tanto attratto da un corpo maschile. Forse dipendeva dal senso di potenza che si sprigionava inarrestabile dalle spalle larghe e dalle braccia possenti di Bushido. Forse, semplicemente, le proporzioni e la consistenza e la sensazione al tatto dei suoi muscoli tesi e nervosi erano tanto piacevoli da non lasciare più spazio per pensare razionalmente al fatto lui fosse un uomo e non fosse perciò normale essere attratto da una cosa simile.
D’altronde, s’era sempre ritenuto un esteta.
Ed il corpo di Bushido era bellissimo.
Irresistibilmente attratto dalla sua pelle scura – e da quel profumo ossessivo che sembrava avere effetti magnetici su di lui – si chinò sul suo petto. Nessuna idea in mente, nessun piano su cosa fare una volta che fosse arrivato a sfiorarlo con le labbra, ma il punto era proprio quello: sfiorarlo; cogliere il suo sapore, anche solo per un attimo. Il resto l’avrebbe deciso poi.
Bushido, però, lo trattenne per le spalle e si allontanò di qualche centimetro, impedendogli di raggiungere il suo scopo.
- Lo ripeto, è meglio chiuderla qua. – disse cupamente, - Il giochino sta andando troppo oltre. Basta, d’accordo?
- Ma cazzo… - si lamentò lui, cercando di forzare la sua presa, - Io lo voglio! Ed a quanto mi sembra di capire… - aggiunse con un ghigno, strofinando ancora una volta il ginocchio contro il suo inguine, - anche a te l’idea piace…
- Fammi il piacere. – sbottò Bushido, lasciandolo andare ed allontanandosi nervosamente di qualche passo, - Tirerebbe a chiunque, in una situazione simile. Non prendiamoci per il culo.
- Peccato. – continuò a stuzzicarlo lui, ansioso di non perdere l’occasione, - Mi sembrava un ottimo programma per la serata. Come ti ho già detto, io lo volevo.
- Ma per favore! – ringhiò Bushido, incredulo, - Vuoi per favore piantarla con questa commedia del ragazzino infoiato?
- Non so se si è capito, ma sono veramente eccitato, stronzo che non sei altro! – strillò lui a propria volta, piantando con più forza le mani sul tavolo, - Se ti dico che lo voglio è perché lo voglio e basta, Cristo!
- Cortesemente! – continuò a rimproverarlo Bushido, tornandogli vicino ed afferrandolo per una spalla, per poi sbatterlo disteso sulla superficie ghiacciata di marmo, - Cosa cazzo vorresti, tu?
In un impeto di coraggio del quale non avrebbe saputo neanche spiegare l’origine, Bill spalancò le gambe e si strusciò contro di lui.
E quello, Dio, gli fece perdere la testa.
Bushido grugnì un lamento frustrato e gli si piegò addosso, mordendogli il collo come una bestia affamata e spingendosi così profondamente contro di lui che Bill non riuscì a trattenere un gemito di puro piacere, e piegò il capo per offrirsi più apertamente.
- Voglio te. – sussurrò eccitato, afferrando una mano dell’uomo e portandola alla propria eccitazione, ancora fastidiosamente prigioniera dei jeans.
Bushido rilasciò un sospiro esasperato e si rimise dritto, scuotendo il capo come a volersi liberare dai cattivi pensieri. Poi gli sbottonò i jeans e li tirò giù assieme ai boxer in un movimento fulmineo e quasi doloroso.
Bill lo guardò inarcando le sopracciglia, incerto sulle sue intenzioni.
Lui rimase qualche secondo interdetto a fissare la sua erezione. Era evidente non sapesse che farsene – ed era anche giusto.
E poi fece esattamente l’ultima cosa che Bill si sarebbe mai aspettato, come a voler dimostrare che se è vero che certi stereotipi sulla cultura rap sono smaccatamente veri, ce ne sono altri che sono invece, be’, più flessibili.
Si chinò, serrò gli occhi e lo prese in bocca.
Tutto.
Bill si sentì mancare il fiato. Ansimò alla ricerca d’aria, non ne trovò e si aggrappò con forza alle spalle dell’uomo – ancora chino su di lui – come se potesse aiutarlo a riprendere a respirare. Bushido, però, non fece niente del genere: cominciò a muoversi avanti e indietro lentamente ma inesorabilmente, senza interrompersi neanche per un secondo. Per lui sembrava normale stare lì e non prendersi neanche un attimo per respirare. Bill non stava succhiando un cazzo, ma non riusciva a farlo lo stesso.
Dio. Ecco a cosa serve cantare ininterrottamente per quaranta o cinquanta secondi.
Stravolto, rovesciò il capo all’indietro e prese ad ansimare furiosamente, mentre Bushido lo stringeva con sicurezza per i fianchi e gli impediva di muoversi, dettando il ritmo e la potenza delle spinte, ora più lentamente, ora più velocemente, finché Bill non si sentì praticamente esplodere, cercò di trattenersi, peggiorò solo le cose ed, infine, venne.
Bushido si scostò subito, infastidito, e sputò per terra i residui del suo orgasmo.
Bill si coprì il volto e rimase steso sul tavolo, incapace perfino di pensare, figurarsi di muoversi.
- Cazzo… - mormorò l’uomo, passandosi una mano sulle labbra.
Il ragazzo lo sentì distrattamente allontanarsi spedito da lui, verso qualcosa che riconobbe essere la stanza da letto solo quando sollevò lo sguardo e vide che, in effetti, la porta precedentemente chiusa non lo era più, e dall’interno della stanza proveniva una luce.
Con estrema fatica, raccolse i pochi brandelli di lucidità sopravvissuti ai dieci minuti precedenti, e si rimise in piedi.
*
In camera da letto, la luce bassa e giallastra dell’abat-jour si rifletteva sulla pelle scura dell’uomo, dandole un colore sensuale ed illuminandola un po’ come il sole del tramonto. Era una visione talmente sexy che, per un secondo, Bill non si sentì in grado di attraversare la soglia e dovette fermarsi a riprendere fiato.
Bushido stava pigramente disteso sul proprio letto, i jeans ancora sbottonati ed una mano sulla fronte. Il petto si sollevava e si riabbassava al ritmo del suo respiro, in un movimento ipnotico dal quale Bill aveva difficoltà a separarsi. Era rassicurante, a proprio modo. Pensare che fino a qualche secondo prima quel petto si alzava e si abbassava a diretto contatto con la sua pelle era…
…no, era ancora troppo. Scosse il capo e si costrinse a superare quel momento di stallo, dirigendosi a passo incerto verso il letto e sedendosi su una sponda, sfiorando appena le gambe dell’uomo coi fianchi.
Bushido sollevò lievemente il braccio e lo investì con un’occhiata infastidita e pungente, senza però commentare in alcun modo la sua presenza.
Bill deglutì e si strinse nelle spalle.
- Mi hai-
- Ti ho succhiato il cazzo.
Cristo.
- Perché l’hai-
- Perché ti tirava, ed è stato a causa mia. Non potevo lasciarti in quel modo.
- Avresti potuto-
- No, non avrei potuto.
Arricciò le labbra, offeso.
- Potresti farmi finire, una volta o l’altra?
Bushido scrollò le spalle.
- Perché mai? Tanto sono sempre gli stessi discorsi, volta dopo volta.
- …non credevo avessi esperienza con gli uomini.
Bushido lo guardò ancora, inarcando le sopracciglia e sollevandosi sul materasso, puntando i gomiti nella gommapiuma. I suoi addominali si contrassero brevemente e poi tornarono a rilassarsi, e la differenza fu minima al punto che Bill temette di averla sognata.
- Maschi, femmine… - disse l’uomo a bassa voce, - Non c’è veramente differenza. È superficiale pensare possano essercene.
- Secondo me è superficiale il contrario. – protestò Bill, aggrottando le sopracciglia, - Maschi e femmine sono differenti. Non puoi equipararli in nome di un’uguaglianza ipocrita.
Bushido ghignò, vagamente divertito.
- E la differenza che vuoi sottolineare, nello specifico, quale sarebbe?
Bill trovò il coraggio di sporgersi in avanti. In qualche modo.
Il cuore gli batteva nel petto con tanta forza che probabilmente era stato proprio lui a trascinarlo.
- I maschi… - ansimò faticosamente, - sono più orgogliosi delle donne. Non accettano regali, se ricevono un favore lo ricambiano.
Bushido rise di gusto. La sua gola vibrò ed il suo petto si scosse e Bill si sentì di nuovo come stesse per soffocare.
- E questo sarebbe un ragionamento da maschio? Cioè secondo te ogni uomo ricambia il favore ad ogni donna dalla quale si fa fare un pompino? Cielo, sei veramente molto più piccolo di quanto pensassi!
Bill abbassò lo sguardo, arrossendo come una liceale. Non avrebbe neanche saputo quantificare quanto si sentisse inetto e imbarazzato e fuori luogo, in quel momento. Nonostante ciò che aveva appena fatto, Bushido sembrava così a proprio agio, disteso per metà sul materasso, la pelle lucida sotto la luce artificiale e quel ghigno stronzo sulle labbra, oh, così dannatamente sexy, che per un secondo si chiese lui cosa diamine ci stesse a fare in quel posto.
Strinse brevemente le dita attorno al lenzuolo arricciato ai piedi del letto, e poi spostò la mano in avanti, lungo la gamba dell’uomo. La sua carezza, lentissima, strisciò contro il tessuto ruvido dei jeans, riscaldandogli il palmo in maniera quasi dolorosa.
Bushido lo guardò e non mosse un muscolo. Di questo, Bill gli fu immensamente grato.
- Cosa stai facendo con quella mano? – chiese incolore.
Bill non rispose. Si morse un labbro e si congelò sul posto, interrompendo anche la carezza – senza però scostarsi di un centimetro da lui.
- Ragazzino, mi era sembrato di essere stato chiaro, prima. – aggiunse l’uomo, ancora immobile.
- Be’, non lo sei stato. – borbottò Bill incerto, - Cazzo, se è no è no, ma almeno dillo chiaro. Se mi fai un pompino e poi te ne vai in camera da letto, per me non è no.
Bushido sospirò e si scrollò la sua mano di dosso, piegando mollemente una gamba.
- Se dico questo benedetto no, te ne vai? – chiese, inclinando lievemente il capo con aria strafottente.
- …io voglio… - cominciò Bill, ma si rese conto di non riuscire a continuare quando sollevò gli occhi su di lui. Non riusciva a capire la sua espressione. Non riusciva a capire il suo modo di ragionare. Non riusciva a capire cosa stesse sentendo. Non riusciva a capirne nulla, i suoi occhi erano specchi torbidi e non riflettevano proprio un bel niente. – Voglio-
- Non ho ancora capito se t’interessa una scopata random o una scopata con me, davvero. Sei un ragazzino misterioso.
- Non sono un ragazzino.
- Lo sei. Sei piccolo, stupido e infoiato. Come tutti i ragazzini. – sospirò ancora, regalandogli un mezzo sorriso superiore. – Avvicinati.
L’invito arrivò così improvviso che Bill non lo capì. O meglio: percepì la successione delle lettere, quel komm hier che aveva ormai indissolubilmente legato all’erotismo – dannata canzone sessualmente esplicita – ma non riuscì a rendersi conto delle conseguenze di quella richiesta.
Bushido voleva si avvicinasse.
Bushido stava sorridendo come volesse prenderlo in giro.
E lui l’avrebbe lasciato fare, oh, sì, prendimi pure in giro purché tu mi prenda in qualche modo.
Strisciò sulle lenzuola tiepide, avvicinandosi impaurito. Non aveva neanche problemi ad ammetterlo con se stesso: si sentiva azzerato. Nella possibilità di pensare, di agire autonomamente, di realizzare qualsiasi cosa, di rifiutare qualsiasi cosa.
In balia del respiro che gonfiava il petto di Bushido.
- È divertente vederti così incerto proprio al dunque. – commentò divertito lui, - Non sembri più neanche lo stesso ragazzino coraggioso di qualche minuto fa.
- Non sono incerto.
Non sono neanche mai stato un ragazzino coraggioso, però.
Accorciò le distanze fino a lasciare solo un centimetro di spazio fra le loro bocche. Sperò che quel centimetro bastasse al proprio respiro per continuare ad uscire naturalmente, ma non successe. Il problema sembrava alla base – nei polmoni. Immobili. Congelati. Come lui.
Bushido sorrise, sollevando una mano e prendendogli il mento fra le dita. Lo girò da un lato e dall’altro, lentamente, di pochi centimetri, come volesse controllare la qualità della sua pelle o della linea della sua mascella. Come stesse per comprarlo.
Dio. Si sentiva così umiliato. Dannazione.
Socchiuse gli occhi. Bushido rise a pochi millimetri dalle sue labbra. E poi i millimetri sparirono tutti.
Baciarlo era stranissimo. Aveva le labbra morbide.
Non l’aveva ancora baciato, da quando s’erano incontrati. Era un po’ assurdo, soprattutto a pensare che le sue labbra avevano già- Dio, perché penso una cosa del genere proprio in questo momento, Cristo santo, cosa c’è che non va in me?!
Cercò di ritrarsi – per un motivo che non gli era veramente chiaro – ma Bushido rise ancora e lo trattenne vicino. Gli lasciò scivolare la mano lungo il collo – il palmo bene aperto perfettamente aderente alla sua pelle accaldata – e lungo la spalla, e poi giù fino a cingerlo saldamente per i fianchi.
- Aspetta… - mormorò Bill, ma Bushido scosse il capo e lo strattonò senza particolari riguardi sul materasso, rovesciando le loro posizioni fino a sovrastarlo.
Il viso affondato nel cuscino, Bill sbottò uno sbuffo di fiato un po’ impaurito, un po’ sorpreso ed un po’ qualcos’altro che non si sentiva tanto pronto ad ammettere.
Dietro di lui – riuscì a coglierlo solo con la coda dell’occhio – Bushido lo guardava dall’alto, incomprensibilmente serio. Sentì le sue mani liberargli i fianchi, e poi una di esse posarsi sulla nuca e scendere lentamente lungo il disegno della sua spina dorsale, fino alla base.
Avrebbe dovuto rimettere la maglietta, prima di entrare in camera.
Eppure, in qualche modo, era piacevole. Quella carezza era perfino… rilassante. Stringendo le dita attorno al lenzuolo, sentendolo arricciarsi e staccarsi dagli angoli con uno scatto secco, Bill cercò di immaginare una realtà perfetta in cui esisteva solo quella carezza.
Bushido scivolò con le mani sotto il suo inguine, lo afferrò saldamente alla vita e lo costrinse a piegarsi.
- Oddio! – si ritrovò a strillare sorpreso, aggrappandosi al cuscino come stesse cercando di salvarsi da un uragano.
Bushido rise di gusto, piegandosi su di lui e sfiorandogli il collo con la lingua.
- Non ti spaventare. È che se non sporgi un po’ il sedere sarà difficile andare da qualche parte, stasera.
Bill arrossì come un deficiente e si nascose ancor più in profondità nella piuma d’oca. Alla fine di quella serata, probabilmente, sarebbe stata la cosa che avrebbe ricordato meglio.
Quella, e la pressione dell’erezione di Bushido ancora serrata dentro i pantaloni, proprio contro alle sue natiche.
- E questo come lo sai? – chiese, mimando un ghigno superiore e rendendosi conto già da sé di quanto apparisse ridicolo, nella situazione contingente.
Bushido, infatti, per l’ennesima volta, rise di lui.
- Se t’interessa tanto, sono stato in prigione.
Diosanto. Ed io sono qui nel tuo letto.
- Paura?
- No. – si affrettò a rispondere, - Figurati.
Bushido rise ancora, mordendogli un lobo e tirandolo lievemente verso di sé.
- È stato solo per poco, comunque. Ma si imparano tante cose.
- Non sono sicuro di volere sapere quali…
- Be’, sono quelle che mi permetteranno di farti meno male possibile, stanotte. – sibilò lui, improvvisamente incattivito, - Perciò zitto e mosca. E mostra un po’ di gratitudine.
Bill deglutì e si morse un labbro, nascondendo il viso fra le mani.
- Hai imparato ad essere gentile…? – chiese quasi implorante, in un mezzo singhiozzo stremato.
- E da chi avrei dovuto imparare? – rise Bushido, slacciandogli lentamente i pantaloni, - Lì nessuno lo è mai. Allarga le gambe. – Bill ubbidì. – Ecco, bravissimo. – commentò l’uomo, regalandogli una carezza in premio sul fianco mentre gli lasciava scivolare i jeans lungo le cosce.
Bushido si separò da lui per un solo secondo, liberandolo dall’ingombro dei pantaloni, e poi tornò a schiacciarglisi addosso, piegandosi sulla curva della sua schiena fino a sfiorargli un orecchio con le labbra.
- Farai tutto ciò che ti dirò…? – bisbigliò, la voce roca e carezzevole.
Avrebbe dovuto scappare il più lontano possibile senza nemmeno guardarsi indietro. E chiamare la polizia!
Annuì.
Bushido sorrise.
- Bravo. – si complimentò, slacciandosi la cintura. Bill la sentì tintinnare per qualche secondo, e la rivide dopo poco sul pavimento.
La cosa successiva che sentì, fu l’erezione bollente di Bushido contro una natica. Il calore. La durezza. Si sentì soffocare e gli venne da piangere nel realizzare quanto fosse a propria volta eccitato.
Doveva decisamente esserci qualcosa di sbagliato in lui.
Bushido sospirò, prendendosi un attimo per riflettere, come non sapesse cosa farsene del suo corpo tremante fra le braccia.
Oh, Bill avrebbe saputo cosa suggerirgli.
Aveva solo bisogno di essere toccato.
- Bushi-
- Shush. – lo zittì lui, rude, - Fammi pensare.
- Ma Cristo. – singhiozzò Bill, al limite della sopportazione, cominciando ad agitarsi, - A cosa cazzo devi pensare?!
- Ad un modo per non spaccarti in due, deficiente che non sei altro. – lo rimproverò Bushido con uno schiaffo neanche troppo discreto sul sedere, - Cazzo. Ecco perché non vado mai con gli uomini. Senti come sei asciutto! – si lamentò, facendogli passare due dita fra le natiche, stuzzicando rudemente la sua apertura e costringendolo a mordersi una guancia per non lanciare un urletto facilmente equivocabile, - Come faccio a farlo passare qua dentro?
- A-Adesso… - ansimò sconvolto, cercando di riacquistare la funzionalità delle gambe per impedir loro di tremare, - cerca di non vantarti troppo. Cosa sarà mai? – sbottò con presunzione, cercando curiosamente di coglierne almeno un’occhiata.
Bushido rise di un divertimento talmente sfacciato che Bill non poté fare a meno di arrossire ancora.
- Se vuoi, voltati e guarda. – lo invitò con disinvoltura, - Ma poi non dire che non ti avevo avvertito.
Bill aggrottò le sopracciglia e raddrizzò la schiena per potersi voltare più facilmente.
- …Dio. – mormorò alla fine, incapace di staccargli gli occhi di dosso, - Lasciamo perdere? Non sono convinto che possa-
- Entrerà, cretino. – rise ancora Bushido, afferrandolo per il collo senza fargli male e riportandolo a piegarsi sul cuscino, - Non è così grosso. Basta che non cominci a spaventarti.
- Oddio, non posso credere di-
- Piantala di fare il moccioso. – lo rimproverò ancora lui, più duramente, - Se sono sopravvissuto io, sopravvivrai anche tu. E non farmi dire una parola di più sull’argomento.
Bill socchiuse gli occhi e trattenne il fiato. Lo rilasciò solo quando fu certo di poter riprendere a respirare senza tossire.
- Okay… - sussurrò dispiaciuto, - Scusa, non volevo.
Bushido sorrise e lo strinse dolcemente alla vita, accarezzandogli la pancia e scendendo giù a stuzzicare distrattamente la sua erezione.
- Lo so. – lo rassicurò, - Cerca solo di rilassarti. Andrà tutto bene. Proverò a fare in modo che ti piaccia. – disse, afferrando il suo pene alla base e cominciando ad accarezzarlo lentamente.
Bill mugugnò qualcosa e si spinse contro di lui, sistemandosi proprio contro la sua eccitazione più per fortuna che per reale intuito.
Fu un’ottima mossa.
Quel calore e quella consistenza stuzzicavano i suoi sensi fino a confonderlo. Si sentiva immensamente stupido, immensamente spaventato e, ciò che contava di più, immensamente libero.
Si sentiva bene.
Bushido si piegò su di lui ed aderì perfettamente contro la sua schiena. La sua pelle, liscia ed asciutta, provocò un attrito piacevolissimo contro quella già lievemente imperlata di sudore di Bill, che rabbrividì e si morse un labbro e, nello stesso momento, realizzò che probabilmente era arrivato il momento. Che quell’inaspettata – e mai tanto desiderata – vicinanza forse voleva dire proprio quello. Che c’erano.
Serrò le palpebre spingendosi contro il cuscino con un’ansia quasi dolorosa, ma Bushido non fece niente per molto tempo. Bill sentì il rumore di un cassetto che si apriva, di una mano che rovistava all’interno e poi vari suoni di pacchetti di carta e plastica che venivano scostati prelevati aperti e nel mentre le dannate dita di quell’uomo stavano strette attorno al suo cazzo e non si fermavano neanche per sbaglio.
- Okay, piccolo, ci siamo. – annunciò alla fine Bushido, fermando la mano per indossare il preservativo. – Mi dispiace di non avere niente con cui aiutare, ma di solito con le donne non mi serve.
Bill ansimò una risatina divertita.
- Si bagnano tutte appena ti vedono…?
Bushido rise con lui, dandogli un buffetto su una guancia.
- Ovvio. Ma in genere sono semplicemente delle troie.
- Un punto anche a te per l’onestà! – rise ancora Bill, scuotendo il capo, - Adesso siamo pari.
Bushido sbuffò e gli baciò la nuca, scostando lateralmente i lunghi capelli umidi di sudore e soffermandosi divertito a giocare con la lingua sul suo tatuaggio.
- Senti, farà male. – lo avvertì, vagamente apprensivo, - Non c’è proprio niente che ti obblighi a farlo, perciò se vuoi-
- Cristo! – ringhiò Bill, spingendosi contro di lui, - Non ti sembra un po’ tardi per discorsi simili? Piantala con le cazzate ed usa un po’ di saliva! Lo insegnano tutti i porno!
Bushido rise sonoramente, premiandolo con qualche carezza extra fra le cosce.
- Ma guardati. Che peccato che queste ammissioni tu le faccia solo in privato!
- Potresti evitare di prendermi per il culo? Mi ammazzi la voglia. – protestò lui, offeso.
Bushido rise ancora e Bill pensò che non capiva più se quell’uomo continuava a tenerlo lì – il culo per aria e completamente nudo – per scoparselo o per ridere di lui. In ogni caso, la cosa cominciava a farsi frustrante.
- Infelice scelta di parole, Bill. – disse l’uomo, premendosi contro di lui e stuzzicando la sua apertura con la propria erezione. Bill mugugnò, combattuto fra il desiderio di ritrarsi e quello di avvicinarsi ancora. Alla fine mandò a quel paese il buonsenso e si spinse verso il suo corpo. Bushido indietreggiò subito, - Ehi, ehi, aspetta! – ridacchiò, - Capisco l’impazienza, ma non vuoi veramente farlo in questo modo. Fidati.
- Sai che c’è?! – strillò Bill, a un passo dal dare fuori di matto, - C’è che mi sto rompendo i coglioni! – si lamentò, mentre Bushido mugugnava un “mh-hm” e si leccava una mano, - Non ne posso più di tutte queste prese in giro! Non sono un ragazzino e non sono un deficiente, quindi se hai intenzione di scoparmi scopami, altrimenti vai a fanculo e- ah! – le parole gli morirono in gola, strozzate dalla pressione umida del pene dell’uomo che, lentamente, forzava la sua apertura, costringendola ad aprirsi al proprio passaggio.
Annaspando alla ricerca d’aria, scosso dall’interno da un dolore che non ricordava di aver mai provato tanto intensamente, allungò una mano e strinse con forza la testiera del letto, afferrando con la mano libera il cuscino e cercando di sottrarsi ad una spinta che improvvisamente sembrava molto meno desiderabile rispetto a qualche secondo prima.
- Aspetta, aspetta, Bill… - mormorò Bushido, chinandosi su di lui ed accarezzandogli il collo con le labbra ed i capelli con una mano, mentre con l’altra lo teneva fermo per i fianchi, - Se adesso cominci a fare così, è la fine…
- Non- - ansimò sconnessamente, - Non ti muovere… - lo implorò, strizzando gli occhi, - Aspetta un attimo…
- Sì, sto fermo. – annuì Bushido, strofinando teneramente una guancia contro la sua e pungendolo con la barba in un movimento che, stranamente, non risultò affatto fastidioso. – Vai piano. Rilassati.
Bill rilasciò un singhiozzo strozzato e piegò il capo lungo la spalla, cercando di riprendere a respirare normalmente. Rilassarsi, diceva lui. Come fosse possibile, con un affare di quelle dimensioni piantato su per il culo! Avrebbe tanto voluto dirglielo, dirgli di stare zitto e sparare meno cazzate, ma faceva ancora troppo male, era ancora troppo strano e, soprattutto, la sensazione della sua voce carezzevole contro la pelle era ancora troppo consolatoria, e lui ne aveva ancora troppo bisogno per privarsene.
- Che devo fare, Bushido…? – piagnucolò indecentemente, passandosi una mano sugli occhi.
- Prima di tutto, non chiamarmi per nome e non parlare con quel tono, altrimenti impazzisco. – sussurrò lui contro il suo collo, - Già non è facile mantenere il controllo, non mettermi ulteriormente alla prova.
Bill ridacchiò – e come riuscì a trovare abbastanza fiato per farlo fu effettivamente un mistero.
- Penso di poterlo prendere come un complimento.
- Be’, lo era. – annuì Bushido, - Ora… - sospirò, - Fosse per me ti direi di rimanere così teso, cazzo, sei così stretto che… - si interruppe e scosse il capo. – Siccome però sono un uomo buono, ti consiglio di cercare di rilassare i muscoli.
- Senti, non è veramente possibile!
- Sì che lo è. – sorrise l’uomo, tornando ad accarezzarlo lentamente fra le gambe, - Cerca di seguire la sensazione più piacevole, non quella più dolorosa. Chiudi gli occhi, se vuoi. Tanto, l’importante è che lo spettacolo più bello me lo goda io.
- …piantala… - ansimò Bill, arrossendo furiosamente, - Stai diventando melenso…
- Sto cercando di metterti a tuo agio! – rise ancora Bushido, - E poi sto aspettando che tu mi dica che posso ricominciare a muovermi. Tra l’altro: fallo presto.
Bill biascicò una protesta imbarazzata e tornò a nascondersi contro il cuscino.
- Basta che continui con quella mano… - sospirò deliziato, mentre Bushido continuava a masturbarlo, - Muoviti… - concluse con un mugolio d’approvazione, abbracciando il cucino per accomodarsi meglio.
Bushido deglutì – la sua gola era talmente vicina alla sua schiena che poté sentire il pomo d’Adamo scivolare contro una vertebra, prima verso il basso, poi verso l’alto – e si spinse lievemente contro di lui, rilasciando un sospiro di piacere a diretto contatto contro la sua pelle. Il suo fiato era caldissimo ed umido. Bill si sentì rabbrividire fin dentro al petto, e strinse con maggior forza il cuscino, mordendosi le labbra.
Bushido riprese a muoversi con meno delicatezza, rispetto a prima, e Bill dovette rivedere in toto tutto ciò che pensava di aver acquisito come esperienza con i film porno. Non era vero, non diventava piacevole dopo un po’, non smetteva di fare male e se la mano di Bushido si fosse fermata lui non avrebbe avuto più nemmeno un motivo valido per restare lì a sottomettersi a quella tortura.
Ma la mano c’era.
E non si fermava.
Non si fermò durante le spinte, non si fermò mentre aumentavano d’intensità e velocità, non si fermò mentre Bushido si abbatteva contro di lui e gli stuzzicava un lobo coi denti, non si fermò nemmeno quando Bill sentì l’erezione dell’uomo contrarsi e poi rilassarsi in un’unica volta, rilasciando un orgasmo che si infranse come un’onda anche dentro di lui, e che poi provò in prima persona quando la mano si strinse e lo accarezzò più velocemente, dalla base alla punta, una, due, tre spinte secche, fino a che non venne.
Si lasciò andare contro il materasso con un verso gutturale al quale Bushido rispose con una mezza risata interrotta ogni tanto da ansiti sconnessi e pure palesemente soddisfatti. Rimase nascosto contro il cuscino – preda di un imbarazzo che giudicò piuttosto normale, vista la situazione – finché Bushido, dopo essersi lasciato ricadere al suo fianco, non allungò una mano a scostargli i capelli dal viso.
- Allora? – chiese l’uomo, anche lui vagamente imbarazzato, - Com’è stata, come prima volta?
- …che razza di domanda!!! – strillò Bill, afferrando il cuscino e schiacciandoselo contro il viso, - Sei un porco! Vuoi sentirti dire “oh, Bushido, sei stato uno stallone!” o che?!
- Ma lo dicevo per te! – rise Bushido, così divertito che fu costretto a piegarsi su se stesso e stringersi la pancia fra le braccia.
Bill borbottò qualcosa di incomprensibile e tirò giù solo un angolo del cuscino, spiando Bushido – ormai di nuovo placidamente disteso sul materasso – oltre il muro di piume e cotone.
Dannazione. Avrebbe dovuto smetterla di trovarlo così attraente.
- È stato traumatico… - rispose alla fine, strascicando penosamente le parole, - Però non lo dimenticherò mai, ecco…
- Oddio. – sospirò Bushido, roteando gli occhi, - Doloroso fino a questo punto?
Bill scosse debolmente il capo.
- Mi è piaciuto… - corresse, abbassando lo sguardo.
Bushido gli lanciò un’occhiata sorpresa.
- Non ti conviene ripeterlo. – lo avvertì alla fine, con un sorriso malizioso.
Bill arrossì ancora e se ne vergognò profondamente. Poi provò a muoversi e realizzò con una chiarezza piuttosto urtante che non ci sarebbe riuscito per un lungo periodo di tempo.
Sollevò nuovamente lo sguardo su Bushido.
- Senti…
- Sì. – rispose lui, senza lasciarlo terminare.
- …non sai neanche cosa volevo chiederti…
Bushido rise, afferrando il lenzuolo ai piedi del letto e portandolo a coprirli entrambi.
- Sì, puoi restare a dormire qui. – precisò, scrollando le spalle.
Bill aggrottò le sopracciglia.
- Anche questa parte del discorso è sempre uguale?
Bushido lo fissò con manifesto divertimento, pizzicandogli una guancia.
- No. – rispose, - Ma a questo punto mi sembra stupido negarlo: mi farebbe piacere se restassi.
Bill si morse un labbro e risistemò il cuscino sotto la testa.
*
Lo risvegliò uno scheiße che avrebbe potuto tranquillamente ricondurre a David quei giorni in cui restava mezz’ore intere a battere contro la porta nel tentativo di svegliarlo, non fosse stato che, purtroppo per lui, l’amnesia del giorno dopo aiutava solo gli ubriachi – e neanche sempre – e quindi lui ricordava piuttosto bene tutto ciò che era successo la sera e la notte precedente.
Bushido compreso.
Aprì gli occhi e l’uomo era lì, impegnato a rovistare in un armadio che sembrava un ritratto dell’Apocalisse per quanto era incasinato, e che gli fece correre brividi di pura paura lungo tutto il corpo.
- Buongiorno… - accennò timidamente, provando a sollevarsi sui gomiti e realizzando con un certo orgoglio di non soffrire di particolari dolori addominali, contrariamente alle proprie aspettative.
Bushido lo guardò per un attimo come fosse stato un incubo diventato realtà. Poi sorrise lievemente e tornò a rovistare sul fondo dell’armadio.
- Stavo per lasciarti le chiavi di casa. – commentò, esaminando da vicino una camicia rossa inaspettatamente normale, - Non ti risvegliavi più.
- Ho sempre un po’ di difficoltà, al mattino… - biascicò imbarazzato, guardando le lenzuola. – A proposito, che ore sono…?
Bushido scrollò le spalle.
- Non ne ho la più pallida idea. – rispose sinceramente, gettando via la camicia rossa e recuperandone una se possibile ancora più normale, grigia.
Proprio in quel momento, come avesse sentito proprio il bisogno di informarlo dell’orario, il suo cellulare prese a squillare insistentemente dal fondo della tasca dei suoi jeans.
I suoi jeans.
Rotolò fuori dal letto e li cercò ovunque, per ritrovarli sotto una poltroncina di cui aveva ignorato l’esistenza per tutta la sera precedente. Rovistò nelle tasche e tirò fuori il cellulare. Ed improvvisamente capì perché il telefono avesse tanta voglia di ricordargli che ore fossero: lo stava chiamando suo fratello.
- Tomi, scusa! – piagnucolò rispondendo, prima ancora di lasciare all’altro il tempo di rimbrottarlo come avrebbe meritato, - Avrei dovuto avvertire!
- Avresti dovuto sì, testa di cazzo patentata che non sei altro! – lo rimproverò lui, bene intenzionato a non fermarsi di fronte alle sue scuse, - Non che io sia contrario a sapere che anche tu sei in grado di goderti la tua cazzo di vita, ma si può sapere dove cazzo sei?! Cazzo!
Troppi cazzi in una sola frase.
Ne aveva già avuto abbastanza per la notte!
- Scusami, mi sono fermato a dormire fuori…
- Questo lo vedo da me, grazie al cazzo! Non ci sei!
- Tomi, ti dispiacerebbe per favore essere meno volgare…?
- Fottiti tu e pure la volgarità! Muovi il culo e torna a casa, abbiamo un aereo fra tre ore e non intendo cercarti per tutta Amburgo, ma se dovrò lo farò, ed in aeroporto ti ci trascinerò per i capelli! – strepitò Tom, furioso, - E questa è una minaccia! – concluse, sbattendogli il telefono in faccia.
Bill sospirò e ripose il cellulare nella tasca dei pantaloni, accucciandosi sulla moquette accanto al letto e massaggiandosi le tempie.
Bushido lasciò finalmente andare la risata che aveva trattenuto per tutta la durata della conversazione e si avvicinò a lui, accucciandosi al suo fianco – in una posizione piuttosto comica, c’era da ammetterlo – e scompigliandogli teneramente i capelli.
- Drammi in vista?
Bill scrollò le spalle.
- Credo fosse solo un po’ preoccupato. E probabilmente ha dormito sul divano per aspettarmi. Dormire sul divano lo indispone. – sospirò, - Anche aspettarmi. – concluse, alzando gli occhi al cielo.
Bushido rise ancora.
- Poteva pure chiamare.
- Nah. Da me pretende che non lo faccia, quando sta via. – ammise con un sorriso.
- Be’, allora vestiti, dai. – sospirò l’uomo, rimettendosi in piedi, - Ti accompagno a casa. E poi devo scappare.
- Usato e gettato via! Mi spezzi il cuore!
Bushido rise e lo tirò su per un braccio.
- Adesso non fare la liceale tradita. – spiegò compitamente, - Ho da fare, stasera ci sono gli Echo e devo andare a riscuotere del favore pubblico.
- Questo spiega perché sei così in tiro… - commentò Bill, adocchiando gli ordinatissimi pantaloni e l’ordinatissima camicia che indossava, - Ti andrebbe di spiegare a mio fratello che si può fare rap ed anche vestire come persone normali, di tanto in tanto?
- E non fare nemmeno il furbo. – borbottò Bushido, tirandogli il mento in un modo che illuse Bill del fatto lui volesse baciarlo, e che per contro lo portò a ritrovarsi deluso e vagamente offeso quando si accorse che niente del genere sarebbe accaduto.
- Be’. – mugugnò cupamente, - Io stasera ho un concerto dall’altro lato dell’Oceano eppure sono qui a perdere tempo. Potresti pure essere gentile.
Bushido rise e recuperò dall’armadio una cravatta che girò attorno al collo e cominciò a maneggiare con poca abilità.
- Sono stato gentilissimo. – gli fece notare, - Ma ora ho altro da fare. Per esempio capire come diavolo si annoda questo cappio.
- Ci sono un sacco di cose che non so di te… per esempio, non sapevo che indossassi cravatte… - disse Bill, recuperando i boxer ed infilandoli saltellando sui piedi per avvicinarsi a lui.
- Infatti non lo faccio! Ed ho perfettamente ragione a non farlo! Ma stasera è importante ed il mio manager mi blatera nelle orecchie da giorni su… - sospirò, - Lasciamo perdere. Mi strozzerò e basta.
- Aspetta… - biascicò Bill, infilandosi fra Bushido e lo specchio, - Faccio io…
- Sai come fare? – chiese lui, spalancando gli occhi.
- Certo che sì! – mentì. In realtà aveva solo voglia di sentire il suo calore addosso, ancora per un po’. Ma insomma, era una persona intelligente, sarebbe pure riuscito a fare un dannato nodo ad una dannata cravatta.
Abbozzò un nodo e rimirò il proprio lavoro.
Be’, la cravatta era un disastro.
Bushido, comunque, stava bene.
Arrossì.
- Non mi pare sia proprio perfetta… - ci tenne a precisare l’uomo, ammazzando quella flebile atmosfera vagamente romantica che era riuscito a fatica a ricreare. – Ma… - continuò sorridendo, stringendolo alla vita e portandoselo vicino per baciarlo e ricostruire con quel bacio qualcosa di ancora migliore, - …va bene così. Al limite, me la faccio aggiustare da qualcuno una volta lì.
Lo lasciò andare ed andò alla ricerca delle scarpe, come nulla fosse stato, uscendo dalla stanza e lasciandolo solo davanti allo specchio, senza forza nelle gambe e con le guance bollenti come brace.
Bill trattenne a stento un grido deficiente.
Poi scosse il capo, si guardò intorno, recuperò i vestiti e chiese gentilmente dove fosse il bagno.
Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Bushido/Bill.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Language, Slash.
- L'elaborazione del lutto passa per varie fasi. Durante quarantotto tragiche ore, Tom Kaulitz non solo sarà costretto ad affrontarle tutte, ma costringerà anche i propri innocenti coinquilini a passare attraverso il suo stesso calvario. Il problema? Be', che ovviamente non è morto nessuno :D
Note: La storia di questa fanfiction è interessante XD No, davvero: di solito non lo penso, dei vari iter che descrivo nelle post-fazioni – mi limito a sproloquiare senza senso perché io amo sproloquiare senza senso – ma stavolta è stato come se il mondo intero stesse da un lato cospirando perché io scrivessi questa fanfiction e dall’altro lato perché invece non lo facessi XD
Mi spiego meglio: era il ventisei marzo di quest’anno. Nonostante i concerti del 1000 Hotels Tour fossero stati tutti annullati e rimandati a data da destinarsi, io arrivavo a casa della mia neechan, a Padova, e lei mi mostrava tutti i poster che, nei mesi, aveva accumulato per me. Fra di essi, ce n’era pure uno di Bushido, vi giuro, enorme e bellissimo <3 In realtà, la mia ossessione per Bushido – un’ossessione tutta fangirlante, perché la musica che fa non mi piace affatto – era già cominciata qualche mese prima, sempre a causa della neechan. Potete averne un assaggio nelle note finali di The Point Is, che è stata, in effetti, la prima BushiBill che ho scritto, anche se in realtà è una twincest sotto mentite spoglie.
Comunque sia, è stato in quel momento che ho cominciato a pensare di utilizzare nuovamente Bushido in una storia. Anche se allora non lo dissi a nessuno – e sì che ero circondata di fangirl che magari avrebbero preferito lo facessi: così avrebbero potuto uccidermi lì ed il problema si sarebbe risolto XD
Qualche settimana dopo, da casa di mia zia (era il primo aprile, e la data non è casuale XD) vidi su un fansite sui TH una falsa news che parlava di come Bill, risvegliatosi dopo l’intervento, avesse deciso di dichiarare al mondo il proprio amore per Bushido, e di come i due avessero deciso di lasciare entrambi lo showbiz per trasferirsi alle Maldive e vivere in pace la loro nuova vita da sposini.
La mia reazione poteva essere una sola: prima tormentare tutte le fangirl spacciando il link ovunque per vantarmi di come la “mia coppia” fosse diventata canon XD e dopo scriverci su.
C’è da dire che qui sono pure cominciati i problemi, perché non appena ho cominciato a rivelare in giro il mio piano malefico le fangirl hanno cominciato sistematicamente ad odiarmi (soprattutto la mia neechan, che ha fatto di tutto per, alternativamente, impedirmi di scrivere questa storia o impedirmi di mettere le mani su qualsiasi cosa stessimo scrivendo insieme per evitare potessi far degenerare anche quelle XD).
È così, comunque, che la trama di questa storia comincia a prendere forma.
Per poi degenerare completamente.
Avevo tenuto conto di tutti i fattori: dell’innamoramento di Bill, di un Bushido credibile e lontano dagli eccessi cui il proprio ruolo nel business musicale lo obbliga (non per altro, è solo che ci sono degli elementi, nella storia di vita di Anis, che portano tranquillamente a credere lui sia molto diverso da come appare in video), di una sorta di bonaria collaborazione fra i vari membri della band per preservare la felicità che il frontman sta provando…
Avevo pure provato a tenere conto di Tom (nel senso che sapevo che il suo ruolo in questa storia sarebbe stato quello del fratello geloso), ma davvero, non immaginavo neanche lontanamente che poi la sua gelosia potesse sfociare in questo XD E “questo”, per inciso, non è un affetto di tipo incestuoso – almeno, non nella mia visione del Kaulitzest – ma di sicuro non è qualcosa di molto normale, ecco XD
Maneggiare Tom mi ha divertita tanto, ma in realtà non posso dire di essermi divertita meno con gli altri. Ho messo in atto una situazione totalmente inedita, cercando di rivedere le “solite” caratterizzazioni che di solito impongo a questi personaggi, senza stravolgerle (perché se le uso spesso un motivo ci sarà! XD) ma anche rinnovandole, e concedendomi anche qualche caduta melensa di tanto in tanto – e chi conosce la mia produzione sa che comunque non succede tanto spesso XD
Credo che, al di là del mero fangirling, siano questi i motivi per i quali questa storia mi piace tanto. Questi, ed anche il fatto che è comunque una fanfiction piuttosto comica, già a partire dal titolo: quella dello “spring, spring!” è una formula lollosa che io e la neechan usiamo spesso, parodiando la strafamosa Spring Nicht originale, e so che lei mi odierà per questo, perché aveva giurato che non avrebbe mai letto questa fanfiction, ma questo è esattamente il tipo di titolo che suppongo potrebbe farle cambiare idea XD
Comunque sia, spero che, cadute melense e momenti emoangst gratuiti a parte, questa fic piaccia anche a voi :)
In conclusione (e sarebbe pure ora), questa storia non può che essere dedicata a quattro persone: alla mia neechan, perché non la leggerà mai XD, a Meg, perché il mio Bushido le piace <3, a Yul, perché mi ha offerto appoggio incondizionato ed è una mia fangirl *_* ed a Sara, perché ha cominciato a odiarmi dal primo momento in cui le ho detto che l’avrei scritta, visto che sapeva pure che alla fine le sarebbe toccato leggerla X3
Ovviamente, un ringraziamento speciale va fatto alla splendida Misako, perché se l’è sorbita in anteprima e l’ha pure betata <3 E ci tengo a specificarle che, se questo ringraziamento non era ancora nel documento quando gliel’ho mandato, era perché non ero ancora sicura che le andasse davvero di betare una BushiBill XDDDD :*
Grazie per aver letto fin qui (se davvero l’avete fatto! XD) ed alla prossima <3
PS: La canzone che Bill cita quando dice “questa non è casa mia, è casa loro” è veramente una canzone degli Smiths XD E si intitola There Is A Light That Never Goes Out. Ovviamente è una delle cose più emo che esistano, ma è anche molto bella <3
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BITTE, SPRING, SPRING!

- …e quindi stiamo insieme.
Bill amava dare di sé l’idea di essere un tipo tremendamente egoista. Il classico carro armato che si prende le proprie soddisfazioni a tutti i costi, facendo valere la propria influenza sulle persone su cui ha una certa presa ed asfaltando senza riguardi tutti gli altri, pur di ottenere ciò che vuole.
In realtà, Bill aveva fatto propri con incredibile diligenza tutti gli insegnamenti che Jost gli aveva propinato da quando avevano cominciato a lavorare insieme.
Nello specifico, aveva trovato particolarmente gratificante – ed aveva perciò preso alla lettera ed imparato a memoria – il primo dei suoi personalissimi comandamenti: sei la colonna portante del gruppo. Ciò che farai si rifletterà inevitabilmente sulla reputazione della band. Perciò, qualsiasi cosa tu decida di fare, è alla band che devi renderne conto per prima.
Già. Mentre per Georg e Gustav non esistevano leggi – cosa che sembrava, per certi versi, gratificarli parecchio – e per Tom ne esisteva solo una ma orribile – niente al mondo ti salverà mai da chitarra e solfeggio almeno due volte a settimana – le leggi di Bill sembravano scritte apposta per nutrire il suo già spropositatamente pasciuto ego.
Per questo motivo, Bill non avrebbe mai imbastito una relazione con qualcuno senza prima darne notizia al gruppo.
Il caso di specie non faceva eccezione.
La notizia di quella che a tutti gli effetti era la prima “relazione seria” di Bill dai gloriosissimi tempi in cui era inequivocabilmente eterosessuale e sognava di sposare Linda e riempire la propria madre di nipoti, fu accolta nel loft di Amburgo con sgomento ed incredulità.
Com’era semplicemente ovvio accadesse.
- Bushido…? – articolò confusamente Tom, scrutando il proprio gemello con aria scioccata dal divano in cui era affondato quando lui, entrando in casa, aveva chiesto a tutti di sedersi – e ora gli sembrava di capire profondamente perché – dal momento che aveva da dare loro una grande notizia.
- Anis. – precisò Bill, aggrottando le sopracciglia, - È così che si chiama. Te lo ripeto da settimane.
- Ma è Bushido! – rimarcò Tom, con aria sempre più sconvolta, prendendo a gesticolare animatamente.
Bill sospirò come se avere a che fare con lui fosse la prova più straziante che gli fosse mai capitato di affrontare, e poi scosse lievemente il capo, voltandosi a guardare David, che rimaneva impassibile sul proprio sgabello, il portatile aperto ed acceso sulle ginocchia ed una sigaretta a pendere mollemente dalle labbra.
Il manager si prese il tempo di aspirare ed espirare il fumo un paio di volte, prima di dire qualcosa.
- Potrebbe essere tuo padre. – commentò quindi con un sorriso sarcastico.
- Ha solo trent’anni! – protestò Bill offeso, - Un padre piuttosto precoce, non credi?
Gustav ridacchiò a bassa voce, mentre nella mente di Tom le parole “solo”, “trent’anni” e “padre” assumevano consistenza fisica e si mettevano a palleggiare felici coi suoi neuroni.
- Be’. – riprese il manager, scrollando le spalle, - Sarete sicuramente la coppia più strana si sia vista dai tempi di Beyoncé e Jay-Z…
- Paragone più che azzeccato! – aggiunse Georg divertito, dando finalmente a Gustav la scusa per accasciarsi sul divano e ridere fin quasi a soffocarsi.
- …ma congratulazioni comunque. – concluse Jost, prima di accodarsi allegramente alle risate degli altri due.
Bill li fissò tutti e tre con malcelato disgusto, prima di scuotere teatralmente la setosa massa di capelli che gli scivolavano lungo le spalle e ritirarsi in camera propria.
Accucciato sul divano, con stampata addosso un’espressione di puro smarrimento che mal si intonava al clima ilare che pervadeva l’appartamento, Tom rimase immobile a scrutare il vuoto con aria assente, come fosse in trance ed anche bene intenzionato a restarci il più a lungo possibile.
- Dio mio, Bushido! – riprese David, asciugando una lacrima di divertimento puro dall’angolo di un occhio, - Niente male come prima storia pubblica! Prevedo grossi scossoni in casa!
- Io sono turbato! – ritorse Gustav, deciso a proseguire il gioco fin quando fosse stato possibile, - Conosciamo tutti quanto ambiguo sia il rapporto di Bill con suo fratello… non trovate quantomeno sospetto che sia andato a mettersi proprio con un rapper?!
- Per carità! – rispose David, ormai sul punto di rotolare giù dallo sgabello, stringendo fra le braccia il pc per impedirsi di lasciarlo rovinare a terra, - È il contrario, è Bill che fa presa solo su quel determinato tipo di persona! Bushido non è neanche il peggiore potesse capitargli, in realtà!
Georg si accasciò moribondo sul divano, rotolando contro Gustav e coinvolgendolo in una danza dell’ilarità che aveva dell’inquietante.
Tutto ciò che Tom riuscì a fare fu continuare a fissare il vuoto ed esalare uno sgomento “Ma è Bushido” che, oltre a rimarcare quanto aveva già fatto notare ad un fratello che, di fronte al suo shock, s’era rivelato del tutto insensibile, costrinse i suoi coinquilini a voltarsi verso di lui e prendere coscienza del fatto in quella catatonia risiedesse evidentemente un problema di una certa consistenza.
- Tom… - mugugnò David, riponendo il pc al sicuro sul tavolo, - provaci, almeno, a prenderla bene.
- Ma… è Bushido! – ripeté lui, ricominciando a gesticolare come un bambino di tre anni.
Georg roteò gli occhi.
- Eccolo che comincia…
- È Bushido! – rimarcò nuovamente Tom, - Bu-shi-do!
- Tooom… - riprese il manager, spegnendo il portatile, - Niente paranoie, su! Doveva pur succedere, prima o poi, che tuo fratello si mettesse con qualcuno!
- Ma Bushido non è qualcuno, è Bushido!
Evidentemente non c’era molto altro da dire. O da spiegare. David, Gustav e Georg emisero un sospiro simultaneo che tanto diceva su quanto fossero abituati a scene di simile follia, e poi il batterista commentò che era quasi certo il nome del rapper non fosse mai stato ripetuto tante volte come quel pomeriggio, e che quindi, probabilmente, al fianco di Anis al momento c’era il Kaulitz sbagliato.
Gustav decisamente non poteva capire. Lui non correva il rischio che, tipo, sua sorella andasse a mettersi con Axl Rose! Nessuno di loro poteva capire, perché in effetti nessuno di loro aveva una sorella in pericolo!
Tecnicamente, neanche lui, ma era una questione di insignificanti dettagli.
Si sollevò dal divano, mentre ancora Georg rantolava gli ultimi strascichi della risata che la precedente battuta di Gustav gli aveva indotto, e si diresse cautamente verso la camera di Bill.
- Lascia perdere… - lo ammonì Jost, inarcando le sopracciglia, - Non ne ricaverai niente di utile.
Tom non gli concesse risposta di alcun tipo e sparì lungo il corridoio.
Ristette più di un paio di secondi di fronte alla porta, prima di decidersi finalmente a bussare.
- Bill… - chiamò a bassa voce, scollando le lettere con manifesta difficoltà, - Posso entrare?
I passi di suo fratello si mossero veloci sul parquet, e poco dopo Tom si ritrovò di fronte il suo viso, mestamente sorridente.
- Certo che puoi entrare… - mormorò Bill, scostandosi dall’uscio per farlo passare e richiudendosi la porta alle spalle quando lui fu in camera, - Non ce l’ho con te, mi dà solo fastidio che l’abbiate presa per una barzelletta, perché proprio non lo è.
- Io… - deglutì faticosamente, - non l’ho presa per una barzelletta.
Oh, no. Non avrei proprio potuto prenderla più seriamente di così.
Bill si espresse in un sorriso minuscolo e poi lo invitò a sedersi sul letto, facendolo a propria volta.
- Avanti. – disse infine, strizzando maliziosamente le palpebre, - Chiedimelo.
Tom abbassò lo sguardo e boccheggiò confusamente per qualche secondo.
- …l’avete fatto…? – chiese infine, con aria dubbiosa.
Bill scoppiò a ridere divertito, dondolandosi giocosamente sul materasso.
- Non dovresti porre domande di cui non vuoi veramente sapere la risposta! – gli fece notare, e Tom non poté che annuire di fronte all’incontestabile veridicità di quell’assunto. – Fammi le domande giuste, Tomi. – sorrise suo fratello, sporgendosi lievemente verso di lui, - Quelle importanti.
Tom annuì ancora. Si sentiva incredibilmente stupido: a vagare per la testa, c’erano solo domande idiote. Da quanto tempo? Perché così in fretta? Perché proprio lui?
Perché non potevi restare per sempre il mio adorato fratellino perfetto in eterna attesa del vero amore? Quello che fa battere il cuore e piangere e ridere come mai prima? L’amore perfetto, il più importante di tutti?
In quel modo sarebbe stato più semplice. Uno più importante di me non sarebbe mai arrivato, e…

Scosse il capo, mentre Bill ridacchiava debolmente.
- Non essere vigliacco, Tomi. Prometto che la risposta non ti ucciderà.
Io al posto tuo non ne sarei così sicuro.
Sospirò profondamente e socchiuse gli occhi.
C’era solo da buttarsi.
Spring, spring, Tomi.
- Lo ami? – chiese tutto d’un fiato, anche se non era proprio sicuro di voler sapere la risposta.
Sul volto di Bill si aprì finalmente il primo sorriso davvero felice della giornata.
- Sì. – rispose tranquillamente, arrossendo pure un po’.
Tom digerì l’informazione ed annuì.
Superata questa…
Posso sopravvivere davvero a tutto.
- E lui ti ama? – continuò quindi.
- Dice di sì. – cinguettò Bill, stringendosi nelle spalle.
- E lo dimostra, anche?
Bill non rispose. E non ce ne fu neppure bisogno, perché il suo sorriso era già, da solo, abbastanza eloquente.
- Io proprio non capisco. – esalò infine Tom, scuotendo il capo e grattandosi la fronte, - Come cavolo fa a piacerti un tipo che ha detto in diretta nazionale che gli sarebbe piaciuto farsi fare un pompino da te?!
Bill ridacchiò a bassa voce.
- Anis è un tipo un po’ rude… - giustificò con aria sognante, - Non mi fa passare nessun capriccio, sai? Mi contesta apertamente quando crede che sbagli e non mi tratta come un moccioso cretino incapace di prendersi le proprie responsabilità. E poi non si fa scrupoli a prendermi in giro. A volte prende e mi chiama “bella figa”, per dire. Ammazzerei chiunque altro ci provasse, ma lui…
- Ti piace che ti maltratti, riassumendo? – cercò di chiarire Tom, interrompendolo con una smorfia schifata.
- Mi piace che si sia schietti e sinceri con me, Tom. – precisò Bill, guardandolo dritto negli occhi. Sorrideva ancora. – E questo dovresti saperlo anche tu.
Il biondo sospirò, abbassando lievemente le palpebre.
- Ok. – annuì alla fine, - La domanda è cretina ma devo fartela lo stesso: c’è qualcosa che io possa fare per cambiare questa situazione?
Bill rise divertito, gettando indietro il capo.
- Tomi… - lo richiamò appena, trascinando la risata.
- Sì, sì, ok. – lo fermò lui, agitando una mano, - Almeno non mi sfottere. È difficile, per me…
- Tom, avanti! – mugolò lui, abbattendosi contro una sua spalla e strusciandoglisi addosso come un gattino impaziente, - Non c’è proprio motivo di essere geloso! Eri e rimani mio fratello. – lo rassicurò, - Eri e rimani la persona più importante per me. – Tom sorrise ed annuì lievemente, lasciandogli un buffetto sulla guancia in risposta del quale Bill rise piano. – Ti vedo un po’ troppo scosso, però. – continuò il moro, dubbioso, - Forse è meglio se vai a farti una tisana, no? Vuoi che te la prepari io?
Tom scosse mestamente il capo, cercando di sorridere con più sicurezza.
- Magari vado a bere qualcosa con Georg. – rispose, - A te va di uscire?
Bill inclinò lateralmente il capo, con una smorfia pensosa.
- Penso che passerò la nottata al telefono. – confessò infine, lasciandosi andare disteso sul letto mentre Tom si alzava.
Il rasta ridacchiò a bassa voce, poggiando due dita sulla maniglia della porta.
- Povero Andreas! – ironizzò, lasciando la camera fra le risatine di Bill.
In corridoio, appoggiato in posa plastica alla porta della propria camera, antistante a quella di Bill, Georg – le braccia incrociate sul petto ed una coreografica cascata di liscissimi capelli castani a ricadere sul viso – sembrava stesse aspettando proprio lui e non avesse fatto altro da che era venuto al mondo.
- Georg! – lo richiamò Tom, simulando spavento con un saltello indietro, - Che, siamo finiti in un vecchio western? Ti mancano solo stivali e stellina da sceriffo…
Il bassista lo omaggiò con un ghigno di puro scherno e si separò dalla parete, andandogli incontro.
- Evita di fare il grand’uomo con me, signor “ma-è-Bushido”, che fino a poco fa stavo ridendo di te mentre davi di matto. – lo prese in giro, afferrandolo poi con un braccio attorno al collo e trascinandolo impietosamente verso un posto più sicuro in cui parlare.
La cucina, scelta appositamente in quanto uno dei pochissimi luoghi protetti da quattro mura in quella casa completamente priva di spazi chiusi, era effettivamente deserta. Due bottiglie di birra attendevano ansiose sul tavolo che loro le afferrassero, le stappassero e ci dessero dentro con le confessioni da Veri Uomini.
Anche se, in quel caso, le confessioni dei Veri Uomini sembravano più le lamentele di un fidanzatino tredicenne tradito.
Tom era sempre stato consapevole del fatto il suo rapporto con Bill in quel senso non fosse normale. Erano sempre stati troppo attaccati, troppo gelosi, troppo possessivi, sì, perfino troppo morbosi per potere anche solo pensare di vivere quanto li legava – che in fondo non era che un affetto puro al punto da fare paura – in modo sereno e rilassato.
Non s’erano neppure mai veramente innamorati di qualcuno, però.
Ed ecco che sorgeva il problema.
- Allora? Com’è andata?
A Georg non piaceva prestarsi a quel gioco di insistenze e domande infantili. Più che altro, era della parrocchia “esponi il problema e datti da fare per trovare una soluzione”. Indugiare sul dramma fine a se stesso lo infastidiva. Ma si piegava: in fondo, è questo quello che fai quando vuoi bene a una persona, no? Ti pieghi alle sue regole. Giochi per farla felice.
Avrebbe dovuto farlo anche lui con Bill. E farlo sul serio. Non dire “d’accordo” e poi rifugiarsi in una bottiglia di birra per esprimere tutto il proprio disappunto.
- Dice di amarlo. – borbottò guardando malinconicamente la superficie in fòrmica del tavolo.
Georg sghignazzò.
- Sarà vero. Lo conosci tuo fratello.
Tom annuì distrattamente, appoggiando il mento sul palmo della mano e lasciandosi poi andare con uno sbuffo contro il tavolo.
- Non so che fare. – ammise in un sospiro, socchiudendo gli occhi.
- Perché dovresti fare qualcosa? Non mi pare ci sia nessuna donzella in difficoltà… ed anche quando, tu in genere sei quello che le mette in pericolo, le donzelle, non quello che le salva.
Tom si concesse uno sbuffo ed una risatina divertita, e Georg si sollevò dalla sedia sorridendo vittorioso come faceva sempre quando aveva l’impressione di avere arginato un disastro che altrimenti si sarebbe dimostrato ingestibile. Circumnavigò il tavolo e in due passi gli fu accanto, schiacciandogli con forza una mano sulla spalla.
- Avanti. La mia parcella è una birra. Andiamo?
*
Passando attraverso il salotto e dirigendosi a passo spedito verso la porta, tintinnando neanche fosse stato un campanellino sotto vento a causa dell’incredibile quantità di orridi accessori argentati che indossava, Bill si premurò di informare il mondo – ovvero suo fratello, il suo manager ed i suoi due compagni di band – che stava uscendo con Anis.
Seguendo il proprio fratello con lo sguardo, tutto ciò che Tom riuscì a fare fu scattare in piedi e, sfoggiando un’aria talmente innocente da risultare perfino fastidiosa, chiedere se poteva uscire con loro.
Mentre Georg e Gustav scoppiavano prevedibilmente a ridere, David e Bill si voltarono a guardarlo, sollevando un sopracciglio e sfoggiando peraltro incredibile simultaneità.
Fu il manager a parlare per primo, incrociando le braccia sul petto e sbuffando pesantemente.
- Cos’è, Tom? – si informò acido, - Stai passando al contrattacco?
Tom lo investì con un’altra occhiata carica di studiatissima innocenza, e scrollò le spalle.
- Conoscendo il tipo, mi pare il minimo preoccuparmi per Bill. – rispose con noncuranza.
- Bill starà benissimo. – lo apostrofò duramente suo fratello, arricciando le labbra in una smorfia infastidita, - E starà ancora meglio quando Tomi la smetterà di preoccuparsi.
- Non cominciate a parlare in terza persona, è straniante. – li fermò David, frapponendo simbolicamente le mani lungo l’immaginaria scia di elettricità purissima che collegava i loro occhi, - Tom, lascia andare tuo fratello. E, per inciso, Bill: il fatto io non stia osteggiando la relazione fra te e Bushido-
- Si chiama Anis. – lo interruppe acido il moro, - Ed io ho diciott’anni! Non potresti comunque osteggiare un bel niente!
- Oh! Punti di vista. – scoccò Jost con un sorrisino spaventoso, - Dicevo, il fatto io ti permetta di uscire con Bushido – rincarò, - non deve farti pensare di poter andare impunemente in giro come non fossi tu. Cercate di essere discreti.
Bill scrollò le spalle e, con un ultimo sbuffo da diva insoddisfatta, si trascinò all’esterno dell’appartamento, premurandosi anche di sbattere ogni sfortunata porta incontrasse lungo il proprio cammino.
- Non eravamo d’accordo che non avresti fatto niente per salvare la damigella in pericolo? – scollò laconico Georg, grattandosi la pancia dal divano sul quale era sprofondato, senza staccare gli occhi dal video di LaFee che passava su Viva.
- Non eravamo d’accordo affatto. – grugnì Tom, dirigendosi speditamente verso la propria camera, - È una delle situazioni più del cazzo che abbia mai vissuto.
David lanciò un’occhiata eloquente a Georg, che rispose con un terrorizzato “Ah, no! Io ho già dato ieri!”. La stessa cosa fece con Gustav, il quale neanche lo degnò di una risposta verbale: si limitò a sollevare un sopracciglio in seguito al quale David non poté che sollevare entrambe le mani e mugolare “Ok, ok, ho capito!”, riponendo le armi.
- Pare che dovremo semplicemente aspettare che gli passi. – rifletté a bassa voce. – Perché ho come la vaga impressione che non sarà così semplice?
Georg e Gustav si lanciarono uno sguardo complice ed ugualmente rassegnato, di fronte al quale David eruppe in un sospiro di resa che sarebbe suonato deprimente pure se la situazione non fosse stata tragica come in effetti era.
Tom uscì dalla propria camera, vestito di tutto punto, non più di due minuti dopo.
- Io esco. – annunciò bellicoso, e non aggiunse altro.
Quando fu andato via, David impiegò più di un paio di minuti della propria esistenza semplicemente a rimirare il vuoto, come se questo riponesse nelle pieghe del proprio silenzio il segreto per risolvere tutti i guai che Bill aveva portato con sé riscoprendosi capace d’amare qualcos’altro oltre alla propria messa in piega per la prima volta dopo eoni.
- Contare sul vostro appoggio sarebbe ridicolo, vero? – mugolò infine alla volta del proprio batterista e del proprio bassista, i quali, nel frattempo, avevano approfittato del suo momento di silenzio per darsi ad un’entusiasmante partita di Mario Kart.
I due scoccarono un laconico no simultaneo e tornarono a perdersi nelle sbuffanti nuvolette bianche che uscivano dagli improponibili veicoli dei protagonisti del videogioco, senza più calcolarlo. David sospirò ancora, si alzò in piedi, afferrò una giacca a caso e si preparò a salvare la reputazione di Tom da un disastro pubblico.
*
Più che altro, gli sembrava strano non essere ancora stato riconosciuto.
Insomma: quel posto era ben frequentato. C’erano perfino un paio di ragazze, giovani “promesse” della Universal, con le quali avrebbe potuto giurare d’essere stato a letto – più o meno: in genere non è che ricordasse proprio i lineamenti, già dopo qualche minuto, ecco.
Tutta l’attenzione del locale, comunque, sembrava essersi focalizzata sul piccolo e relativamente appartato tavolinetto al quale avevano preso posto suo fratello e Bushido non appena erano arrivati – dopo di lui. Nonostante fossero partiti prima. Ignorare l’irrazionale rabbia gelosa che da questa consapevolezza derivava sembrava a dir poco impossibile.
D’altronde, non è che potesse proprio lamentarsi del fatto nessuno lo calcolasse: anche la sua, di attenzione, era puntata su quel tavolinetto. Anche se non per la stessa curiosità morbosa che pervadeva gli altri avventori del locale.
…be’, forse un po’ sì.
Ma era preoccupato! Ecco. Era solo preoccupato!
Una cameriera bionda gli si avvicinò e gli chiese con fare amichevole se fosse pronto per ordinare, domanda alla quale lui rispose con sincerità, se non altro perché la sua testa era talmente impegnata a registrare ogni singola azione di Bill e Bushido che non aveva proprio altri neuroni liberi da utilizzare nell’ideazione di una menzogna. E perciò: no, non sono pronto. E in realtà non voglio niente, sono qui solo perché ero preoccupato per mio fratello.
La ragazza lo squadrò come fosse stato un alieno. Lui non vide i suoi occhi, ma se li sentì scorrere addosso, così stupiti e perplessi com’erano. La cosa lo infastidì, ma be’, supponeva potesse essere una reazione normale.
- Ci porti due birre, per favore. – ordinò quindi la lamentosa voce di Jost, che Tom non stentò a riconoscere malgrado non riuscisse a staccare gli occhi dall’idillico quadretto amoroso del tavolino nell’angolo.
- Sì, signor Jost. – rispose la ragazza, con aria sommessa, dileguandosi in un secondo.
David si lasciò cadere pesantemente sulla sedia di fronte alla sua e si passò una mano sugli occhi.
- Portarlo nel locale che frequentiamo di solito, che mossa geniale! – scollò con palese fastidio, - Non sono ancora riuscito a capire se tuo fratello stia cercando di scaraventarci di peso sull’Olimpo del gossip o se stia semplicemente provando a gettarci tutti in una fossa dalla quale sarebbe troppa fatica anche solo provare ad uscire.
- Mh. – borbottò lui.
- Ovviamente, non hai sentito una parola. – notificò piatto David, inarcando le sopracciglia.
- Mh. – ripeté lui atono.
La cameriera tornò indietro, posando due boccali di birra nel centro del tavolo, e poi scomparve così com’era riapparsa, lasciandoli nuovamente da soli.
- Tom… - lo chiamò David, vagamente infastidito. – Tom, Cristo santo! – sbottò quindi, visto che lui continuava ad ignorarlo, afferrandolo per una spalla e costringendolo fisicamente a notarlo, - Non stanno facendo un cazzo! – lo informò sbigottito, - Vuoi piantarla di guardarli e starmi a sentire? Ti sei almeno accorto che sono arrivato?!
- Ma sì… - mugugnò Tom, attaccandosi alla propria bottiglia con aria offesa, - Certo che me ne sono accorto… solo che Bushido stava-
- Cosa? – chiese acido David, - Stava porgendo a tuo fratello la ciotola dei salatini? No, perché questa è l’unica cosa che gli ho visto fare da quando sono qui, e decisamente non è qualcosa che possa mettere Bill in pericolo di vita. A meno che tuo fratello non sia così idiota da strozzarsi con un’arachide, cosa della quale in effetti mi preoccuperei anche io, se solo non fossi così dannatamente infastidito da-… Tom, hai di nuovo smesso di ascoltarmi?!
Il rasta si limitò a roteare gli occhi, staccandoli nuovamente da Bill e Bushido e decidendo di voltarsi radicalmente dall’altro lato, dando la schiena ai due e tornando a concentrarsi solo sulla birra.
- Parli troppo. – fece quindi notare al proprio manager, - Non ho bisogno che tu mi dica tutte queste cose. Lo so perfettamente anche io che quello che sto facendo è assurdo.
- Ed allora, Dio mio, vuoi spiegarmi per quale accidenti di motivo lo stai facendo?! – si lamentò David, esasperato, - Passi pure il fatto che lo pedini quando esce di casa, ma dire alla cameriera quelle cose… che poi, col cazzo: in realtà, il fatto che pedini tuo fratello non passa affatto. – rifletté, aggrottando le sopracciglia, - Perché diavolo lo pedini?!
- Ma che vuoi che ne sappia… - borbottò Tom annoiato, scuotendo il capo.
- Oh, no. – lo fermò David, deciso, - Con me non funziona quest’atteggiamento. Non sei più un dodicenne.
- E questo significa che non posso più fare cose irrazionali? No, perché se stai dicendo questo, ti assicuro che il mio cervello non è d’accordo. – rimbrottò acido il ragazzo.
- Infatti non stavo dicendo questo. – sospirò rassegnato David, - Puoi pure comportarti in maniera irrazionale quanto vuoi, caro mio, ma a diciott’anni nessuno può salvarti dalla responsabilità delle tue azioni. Tutto qua.
Tom rispose con uno sbuffo infantile, poggiando il mento sul palmo della mano.
- Che vuoi che ti dica? – sbottò, - Posso dirti una qualunque cosa ti faccia stare tranquillo, tanto non cambia la realtà dei fatti. – lo sferzò con un’occhiataccia impietosa, mordendosi un labbro. – Vuoi che ti dica che non sono geloso? Che approvo questa relazione? Che non m’interessa ciò che Bill fa e può andare con chi vuole? Scegli tu. Io ripeto.
David lo fissò sbigottito, restando per qualche secondo con le labbra dischiuse, senza sapere che dire. Tom occupò quei momenti continuando a sorseggiare la birra, forzandosi violentemente a non voltarsi e tornare a guardare suo fratello che flirtava col suo uomo come se la cosa non dovesse avere conseguenze enormi sulla propria sanità mentale.
- Tom, parliamone seriamente. – cominciò David, conciliante, intrecciando le dita sul tavolo con aria professionale, - Quanto ti ha turbato questa cosa?
- Un casino, mi sembra ovvio! – strepitò Tom, posando un po’ troppo rumorosamente la bottiglia, - Altrimenti non starei qui a spiarli, ti pare?
- Perché ti rifiuti ostinatamente di capire ciò che ti dico? – mugolò disperatamente David, - Sto cercando di capire se davvero non ti aspettavi che succedesse.
Il ragazzo lo guardò dall’alto in basso, dubbioso.
- Non ne avevo idea, altro che “non aspettarselo”.
David raddrizzò le spalle, lasciandosi ricadere le mani, ancora intrecciate, in grembo.
- Secondo te com’è che Georg e Gustav l’hanno presa con tanta ironia? – chiese, adesso sinceramente stupito, - E com’è che io non ho afferrato tuo fratello per le spalle per inchiodarlo al muro e punirlo corporalmente per il guaio in cui si stava cacciando?
- Che ne so?! – quasi strillò Tom, improvvisamente più agitato di quanto già non fosse, - Perché siete di mentalità molto aperta?!
- …perché, Tom… - spiegò il manager, visibilmente confuso, - Bill e Bushido si frequentano da mesi, e tuo fratello non ha fatto che parlarne con aria adorante da quando lo conosce…
- Appunto! E questo mi ha dato già abbastanza fastidio da permettermi di… David? Perché mi guardi così?
- Tu sei ridicolo. – asserì l’uomo, incrociando le braccia sul petto, - Non so a che gioco stai giocando, ma non me la fai. Oh, no. Stai cercando di dirmi che tutto il preavviso che tuo fratello ti ha dato non è stato comunque sufficiente per elaborare questo lutto?!
- Bill non mi ha dato nessun preavviso! – corresse lui, stringendo convulsamente fra le dita il collo della bottiglia, - Preavvisarmi sarebbe stato dirmi quando l’ha conosciuto che pensava fra di loro potesse succedere qualcosa! Così io avrei preso le dovute precauzioni e-
- E cosa? L’avresti chiuso in casa? L’avresti costretto a farsi suora? O avresti cominciato a pedinarlo fin dal primo giorno?
- Non lo so, cazzo! – grugnì Tom fra i denti, battendo un pugno sul tavolo, - Non lo so.
- Probabilmente sì, mi avresti seguito fin dal primo giorno. Apposta per mettermi in imbarazzo, suppongo.
Tom sollevò lo sguardo. Bill si stagliava, in tutta la sua altezza, contro le luci al neon azzurrognole che venavano le pareti del locale. La scenografia gli dava un’aria spaventosa, quasi da fantasma vendicatore. I suoi occhi brillanti di rabbia e le gote arrossate di vergogna non lenivano in alcun modo quell’aspetto terrificante.
- Bill, ascolta… - cercò di rabbonirlo David, sollevandosi in piedi ed andandogli incontro, mentre Bushido, dal tavolino poco distante, osservava il tutto con una mano sulla fronte ed un’espressione incredibilmente preoccupata a deformare i tratti del viso.
- Portatelo via, David. – sibilò il moro, irritato, - Forse dovresti crocifiggere lui al muro. – scoccò seccamente, lanciandogli un’occhiata che avrebbe fatto sentire colpevole pure un santo.
- S… - balbettò il manager, - Ehi, adesso calmati…
Bill, però, già non lo ascoltava più. Gli aveva dato le spalle e si stava dirigendo verso il proprio tavolo con noncuranza.
- Cazzo. – mugugnò David, afferrando Tom per un braccio dopo aver frettolosamente lasciato una banconota da dieci sul tavolo, - Avanti, muoviti! – lo incitò brutalmente, trascinandolo verso l’uscita, - Non posso neanche dargli torto, stavolta! Bel casino hai combinato! Sarà un miracolo se su Bravo finiranno loro col loro idillio e non noi con le nostre cazzate!
Tom si lasciò trascinare senza opporre neanche un minimo di resistenza.
- Non volevo… - borbottò a mezza voce, fissando la strada buia mentre il vento gelido dell’Amburgo invernale gli sferzava il viso, ghiacciandolo, - Davvero…
- Certo, certo. – sbottò David con una smorfia, - Raccontalo ad uno che non ti ha sentito vaneggiare per le ultime due… che dico, ventiquattro ore, Tom!
Il rasta non aggiunse neanche una parola. Se non altro perché, in effetti, quelle scuse improvvisate così, propinate a David perché non avrebbe mai davvero avuto il coraggio di rivolgerle a Bill, sembravano false pure a lui che le aveva partorite – e che, diavolo, le pensava davvero, in un certo senso.
Continuò a farsi trascinare. Fino in macchina, fino in casa, fino in camera.
Alle tre del mattino, rinunciando del tutto al proposito di dormire, con Bill ancora disperso da qualche parte con Bushido e quell’orrendo miscuglio di gelosia, preoccupazione e senso di colpa a gravargli sul petto, fu lui stesso a trascinarsi fino al divano del soggiorno, sul quale si lasciò cadere di colpo, pesantemente, e dal quale prese a fissare la parete vuota di fronte a sé, quasi senza neanche battere ciglio.
*
Il campanello squillò alle quattro.
Tom lo benedisse.
E poi scattò in piedi, perché se avesse aspettato che squillasse ancora, probabilmente, avrebbe pure lasciato che si svegliassero tutti. E sentirsi addosso pure gli sguardi colmi di disapprovazione di Georg, Gustav e David, oltre quello che sicuramente avrebbe imbrattato gli occhi di suo fratello, non era affatto una prospettiva piacevole da affrontare.
Quando aprì la porta, però, si accorse che suo fratello non lo stava disapprovando affatto.
In effetti, totalmente ubriaco com’era, suo fratello doveva essersi a malapena accorto di lui.
- Bill… - bisbigliò incerto, mentre lo osservava rotolare mugugnante addosso a Bushido, che lo tratteneva sicuro con un braccio sotto le spalle e l’altro attorno alla vita.
Già. Perché suo fratello non era neanche solo.
- Ehi. – ridacchiò divertito Bushido, - Te lo sei perso per strada.
No, è lui che ha perso me.
O forse hai ragione tu ed io sono solo un enorme cretino.

- …grazie per averlo riportato… - esalò, rendendosi conto da solo di quanto suonasse ridicolo da dire, e ringraziando anche interiormente per la sbronza di suo fratello, che, almeno, gli avrebbe impedito di ricordare che stavano parlando di lui come fosse stato un cucciolo smarrito.
- Nnhooo… - borbottò Bill, nascondendo il viso sul collo dell’uomo che lo reggeva, - Ti ho detto che volevo andare a casa tua… questa non è casa mia, è casa loro
Bushido roteò gli occhi, cercando di rimetterlo in piedi, visto che, mentre parlava, aveva pure preso a scivolare inesorabilmente verso il pavimento.
- Scusalo. – disse a Tom, - Non è stato attento a quello che mandava giù. È veramente una fogna, quando ci si mette. – borbottò, - E, ovviamente, - aggiunse, con una nota di esasperazione nella voce che a Tom suonò incredibilmente familiare, - in macchina ha preteso di ascoltare gli Smiths. Senza offesa, eh, ma tuo fratello ha dei gusti musicali veramente di merda.
- …già… - deglutì lui con difficoltà, - glielo… glielo dico sempre anch’io…
Bushido rise apertamente e poi gli consegnò suo fratello fra le braccia.
Prevedibilmente, Bill già dormiva.
- Grazie… - ripeté Tom, abbassando lo sguardo su di lui. Aveva i capelli arruffati, russava e gli stava rotolando un rivolino di saliva giù per il mento.
- Piantala di ringraziare. – scrollò le spalle Bushido, - Non potevo mica portarmelo a casa in queste condizioni, dai. Lo affido a te, so che è in buone mani. Salutamelo, quando si sveglia. – concluse con un sorriso conciliante, prima di sollevare una mano in segno di saluto e ripartire alla volta delle scale quasi di corsa.
*
- Tomi…
Quando Bill mugugnò il suo nome, alle prime luci dell’alba del giorno successivo, Tom aveva appena cominciato a prendere sonno. Non gli ci volle molto per riscuotersi e sollevare il capo dal cuscino sul quale l’aveva posato, piantando un gomito nel materasso e poggiando il mento sulla mano, per osservare suo fratello dall’alto.
- Mio Dio, sto una merda… - si lamentò il moro, disincastrando con difficoltà un braccio dalle lenzuola e portandoselo sulla fronte, dove lo lasciò ricadere a coprire gli occhi, miagolando sofferenza, - Ma che diavolo è successo…?
- Ti sei ubriacato, ieri… - lo informò lui, deglutendo a fatica, - Perché…
- Sì. – lo fermò Bill, annuendo lentamente senza poter fermare una smorfia di dolore a increspargli le labbra, - Ok, ho ricordato. Cristo, ho un mal di testa atroce…
- Vuoi che vada a prenderti un bicchiere d’acqua?
Bill sollevò la mano dagli occhi, lanciandogli uno sguardo dubbioso.
- Lascia perdere… - borbottò alla fine, voltandosi su un fianco ed arrotolandoglisi addosso, - Tomi, perché ti sei comportato in quel modo, ieri?
Tom si mordicchiò un labbro, scivolando lentamente con un dito lungo il profilo pallido ed ossuto del viso e del collo di suo fratello.
- Sei un po’ caldo… - sussurrò, guardando altrove.
- Non cambiare argomento… - lo rimproverò Bill, afferrandogli un fianco fra le dita e minacciando di pizzicarlo a morte. – Rispondi. Non capisco proprio come tu possa essere così vigliacco, avendo un fratello coraggioso come me.
- Che vuoi che ti dica? – rimuginò Tom, scrollando le spalle, - Devi esserti preso tu tutti i geni buoni.
- Il coraggio non è genetico, cretino. – ritorse lui, pizzicandolo davvero, anche se molto più leggermente di quanto la sua minaccia non avesse lasciato intendere, - Vuoi rispondere o no?
Tom si lasciò andare ad un sospiro rassegnato, sbuffando un mezzo sorriso.
- Ero preoccupato per te. – concesse brevemente.
- Ah-ha. Guarda che qui ci sono solo io, eh. Puoi parlare liberamente. – lo rassicurò Bill, ridacchiando piano.
- Forse è proprio a te che non voglio dirlo. Non ci hai pensato? – scoccò, stringendo la presa sulla sua guancia ed evitando il suo sguardo.
Bill si separò lievemente da lui, inarcando le sopracciglia.
- Mi stai facendo un male cane, Tom.
- Oh. – si riscosse lui, lasciandogli il viso, - Scusa.
- Non quello. – rispose suo fratello, afferrandogli la mano con la propria e riportandosela sulla guancia, - Parlami.
Parlargli. Come se quello che aveva da dire fosse così semplice da sputare fuori. Come se quello che aveva da dire fosse giusto, tanto per cominciare. Come se avesse davvero qualche diritto di sentirsi così…
…preoccupato triste solo ansioso e tutto il resto…
- Ho paura che mi mancherai. – sussurrò, abbandonandosi contro di lui, nascondendo il viso sul suo collo, - Anzi, in realtà ho solo paura di perderti del tutto. Perché, per mancarmi, mi manchi già.
Bill sbuffò una risatina intenerita, stringendolo forte per le spalle.
- Guarda che io sono qui e non intendo muovermi.
- Certo, per ora. – sibilò lui, affondando il capo più in profondità, spingendosi contro la sua pelle, - Ma pensa se questa storia con Bushido dovesse andare avanti. Magari fra qualche mese davvero sentirai casa sua come se fosse più casa tua di questa, e vorrai andartene. – sospirò, scuotendo lentamente il capo come a farsi più spazio fra la sua spalla e il suo mento. – Che poi il problema non è neanche davvero Bushido. Probabilmente non sarà lui, ma prima o poi andrai via davvero. Con lui o con qualcun altro.
- Tomi…
- Io no. – lo interruppe ansioso, tornando a sollevare lo sguardo su di lui, - Io non andrò mai via con nessuno. Tu lo sai questo. È come se avessi addosso… uno di quei dannati collari con il guinzaglio che si allunga. Mi allontano, mi allontano, faccio pure il giro del quartiere, se voglio, ma è qui che torno. Sempre. Perché sei tu che lo reggi, quel guinzaglio. – si fermò un secondo, cercando di decifrare una risposta nei suoi occhi confusi e ancora lievemente velati di sonno. – Capisci cosa sto cercando di dirti?
- …a grandi linee. – rispose Bill, passandogli dolcemente una mano fra i capelli. – Però, sinceramente, al momento quello ubriaco sembri tu.
Tom sospirò profondamente, lasciandosi andare di nuovo contro di lui.
- Lo sapevo. Non hai capito.
- Ehi… - sussurrò suo fratello, sollevandogli lievemente il mento con due dita, - Guarda che ho capito. Davvero.
- Sì, certo… - si limitò a biascicare lui, scuotendo piano il capo e sospirando ancora. – Sono stanco. Ti spiace se dormo un po’?
Bill tornò a distendersi sul materasso, facendogli posto, e Tom gli si arricciò addosso esattamente come aveva fatto lui stesso pochi minuti prima.
- Tomi… - lo richiamò poco dopo, accarezzandogli lentamente una spalla, - Sai che io mi sento così ogni volta?
Lui sollevò lo sguardo, incontrando quello vagamente triste di suo fratello.
- Come?
- Ogni sera che incontri qualcuno, prendi e te ne vai… - spiegò Bill, stringendosi imbarazzato nelle spalle, - Io penso che potrebbe essere quel momento. Che “lei” potrebbe essere la ragazza giusta, che tu possa innamorarti e andartene. Davvero, lo penso ogni volta.
- Ma che stai dicendo…? – ritorse Tom, con una smorfia, - Sai che questo è impossibile, io non mi innamoro mai.
- Tu… - sbuffò lui, contrariato, - ti ostini a parlare sempre come se potessi prevedere il futuro, quando in realtà non puoi farlo! Guarda me: avevo tutto un programma, la ragazza dei sogni, quella che mi avrebbe amato per com’ero e non per ciò che mostravo in pubblico, una ragazza dolce e carina con la quale potessi condividere tutto, con cui potessi giocare a Monopoli fino allo sfinimento ogni notte, e mi sono ritrovato con… con Bushido! A lui il Monopoli neanche piace! – borbottò, gesticolando convulsamente, mentre Tom ridacchiava divertito. – Del piano originale è rimasto solo l’amore. – aggiunse poi, teneramente. – Tu non hai neanche idea delle migliaia di forme sotto le quali l’amore ti si può presentare. Una mattina ti sveglierai e ce l’avrai accanto. E magari non sarà neanche una di quelle bombe supersexy che ti ostini ad immaginare tu. – lo redarguì, con un cipiglio serio piuttosto comico, - Magari sarà Georg, chessò! – sbottò, ridacchiando a propria volta, - O comunque l’ultima persona che ti saresti aspettato, ecco.
Tom rise più apertamente, arruffandogli dolcemente i capelli.
- Con questo vuoi dire che…?
- Che non sei il solo ad avere paura. – rispose Bill, sorridendo lievemente, - Tom, noi siamo nati insieme, abbiamo sempre vissuto insieme, e quando penso alla nostra morte, lo sai, penso che anche in quel momento saremo insieme, come sempre. Tu sei in assoluto la persona più importante, per me. Senza di te, io non avrei senso.
Il rasta sorrise, chinandosi su di lui e lasciandogli un lieve bacio sulla fronte.
- Questo non cambierà mai. – continuò Bill, stringendoglisi addosso, - Perciò, io potrò pure vivere in un’altra casa, amare altre persone ed avere dei figli o chessò io, ma noi non ci lasceremo mai.
Nel sospiro stremato che Tom gli rilasciò sulla pelle, accompagnato da un sorriso sereno e disteso che era il primo degli ultimi due giorni, sembrò svanire tutta la tensione e l’angoscia delle ultime ore. Svanire davvero: come non fosse mai esistita.
- Certo che è buffo. – borbottò il biondo, accomodandosi meglio sul materasso ed accogliendo Bill sul proprio petto.
- Cosa? – rise l’altro, sistemandoglisi addosso, - Che sia bastato così poco per tranquillizzarti?
- No. – ritorse lui, ridacchiando ironico, - Che tu abbia parlato di figli. Sto cercando di immaginare alternativamente te e Bushido incinti, ma è uno spettacolo disgustoso! – rispose, ridendo sguaiatamente.
Bill lo fissò, orripilato.
- Ma tu fai veramente schifo! – strillò, salendogli a cavalcioni e cercando di soffocarlo con un cuscino.
- Probabilmente, comunque… - sospirò Tom fra le risate, liberandosi del cuscino e trattenendo Bill per i polsi, - sarebbe un buon padre. – concluse, sorridendo serenamente.
Bill sorrise di rimando, scendendogli di dosso ed adagiandosi nuovamente fra le coperte.
- Tomi? – lo chiamò poco dopo, incerto.
- Sì? – lo incitò a continuare lui, recuperando il lenzuolo e coprendo entrambi.
- Questo significa che domani posso invitarlo a cena? – chiese a mezza voce, dubbioso.
Tom si prese un secondo per riflettere.
- Adesso non esageriamo. – borbottò alla fine, scuotendo il capo con decisione. – Buonanotte.
- Ma sono le-
- Buonanotte, Bill.
- Uffa. Sei sempre il solito codardo guastafeste. – sbuffò il moro, incrociando le braccia sul petto prima di scalciare come un puledro imbizzarrito e voltarsi su un fianco, rubandogli tutta la coperta.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bill/Tom, Bushido/Bill.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Incest, Onesided.
- "Conosco gli stereotipi della musica rap, ci banchetto dalla mattina alla sera. Se mai è esistito un gay-rap, qualcuno ha avuto la grazia e la decenza di affondarlo prima che diventasse ricordabile. Per un rapper non va bene essere omosessuale. Va bene circondarsi di ragazzine sculettanti e mezze nude, vestirsi comodo e fare sfoggio del denaro che possiede.
Trovare adorabile Bill Kaulitz non rientra nelle caratteristiche che fanno di un uomo un buon rapper.
Peraltro, trovare adorabile Bill Kaulitz, a trent'anni, non rientra neanche nelle caratteristiche che fanno di un uomo un buon uomo."

Note: Tanto per cominciare, io non sono una fan del Billshido u.u” Però il BushiBill onesided mi stuzzica a livelli indicibili *____* Perdonatemi se ogni tanto scappo dal seminato e travalico ogni limite imposto dalla decenza per gettarmi in queste cose oscene e senza ritegno XD Non ci posso fare niente, è la mia anima fangirlante (fangirlo su ogni livello del reale, e anche su svariati livelli dell’irreale *annuisce*) che mi impone di farlo. Io non ho colpe u_u
L’idea di scrivere questa fanfiction nasce dopo la visione di due video su YouTube. In uno dei due video, Bushido (la cui musica odio, ma che ritengo adorabile XD) ammetteva di trovare Bill carino. Nell’altro, Gülcan (donna diabolica!) faceva in modo che, durante una puntata di Viva Live in cui erano presenti i Tokio Hotel, alla vigilia degli EMA, lui e Bill si mettessero a dialogare del più e del meno al telefono, ripetendosi reciprocamente quanto si stimassero l’un l’altro XD (con qualche incursione di Tom, che però preferiamo ignorare ù.ù). Dopo aver visto questi due video, non si poteva pretendere che io restassi impassibile XD E poi è stato bellissimo terrorizzare Ana strillando “Scriverò una BushiBill onesided in cui Bushido sarà il confidente di Bill *____*!!!”. Insomma, dovevo farlo, prima o poi! XD
Piuttosto, devo rivedere il mio rapporto col personaggio di Tom -___- A parte il fatto che, ormai, in qualunque fanfiction lo infili, metto in bocca ad un altro personaggio una spudorata dichiarazione d’amore. È terribile, devo smetterla, un uomo che parla pubblicamente del proprio uccello come di un pennarello non si merita dichiarazioni d’amore tanto accorate -.-“ Ma comunque ormai mi sto affezionando ad un tipo di caratterizzazione di questo ragazzo sempre più morbosa e ossessiva çOç Da Mindless Self Indulgence (che non potete ancora leggere, perché sta partecipando ad un concorso – tifate per me!), continuando con Wide per concludere con questa, è stata una china discendente verso l’abominio çOç Tra l’altro in questa fanfiction è particolarmente odioso. È talmente stronzo che gli altri sembrano tutti vittime, pure se poi non lo sono o.o *picchia Tom*
Ovviamente (neanche a dirlo!), siccome è una fanfiction piuttosto anticonvenzionale, per il fandom in cui è inserita, e siccome è un enorme ed abominevole ammasso di seghe mentali più o meno gratuite, io la amo. T_T”. Spero piaccia anche a voi <3 Per scriverla ci ho messo tutto l’impegno di cui sono stata capace X3 Baci :*
PS: Descrivendo il primo incontro fra Bushido e Bill, mi sono limitata ad ipotizzare una puntata di Viva Live in cui fossero stato semplicemente invitati sia lui che i Tokio Hotel. Ana poi mi ha fatto capire che non è detto sia esistito un momento del genere XD Che ricordava di qualche occasione in cui i ragazzi erano stati tutti insieme, ma erano i Comet, ed io preferivo non fosse una premiazione. Siccome è anche giusto che il cervello di Ana non funzioni perfettamente, alle due del mattino (momento in cui ha letto la storia… XD), perdonate entrambe se ci sono imperfezioni simili, e limitatevi a fingere che sia successo u.u Che poi, accidenti, è una fanfiction!!! *strilla*
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THE POINT IS

- Credo che prima o poi dovesse semplicemente… succedere, ecco.
Bill è nervoso. Lo vedo dai suoi occhi – quando è agitato fa sempre in modo di non guardarti mai fisso. È come se avesse paura che, guardandoti troppo a lungo, potesse aiutarti ad arrivare a scoprirlo in posti che non vorrebbe mai venissero alla luce. È una delle cose che trovo più affascinanti, di lui. Il fatto che, se pure si lasci sfiorare con entusiasmo, Bill Kaulitz non si lasci mai afferrare del tutto.
Immagino che avrei dovuto semplicemente saperlo.
Ma mi rendo conto da solo di pretendere troppo. Un po’ perché io sono l’antitesi perfetta della sensibilità – e infatti mi stupisce che lui, che per contro di sensibilità ne ha fin troppa, mi abbia scelto come confidente personale – e un po’ perché non puoi pretendere di aspettarti qualcosa da qualcuno quando, in realtà, di quel qualcuno non sai niente.
Però è un discorso che fanno un po’ tutti, quando rimangono scottati da una delusione amorosa, no? Recriminano.
Io, su di lui, non ci riesco.
Resto solo io. E Tom, ovviamente.
Anche se non so se, in tutta onestà, riuscirei mai ad avercela con lui.
In fondo, per essere stati scelti come proprietà esclusiva di Bill Kaulitz, non si può davvero incolpare nessuno.
- Cos’è che è successo esattamente, Bill? – domando atono. Stavolta sono io a distogliere lo sguardo, mentre lui mi fissa con insistenza, un attimo prima di tornare a rifugiare gli occhi in un angolo di appartamento che non lo stia giudicando – vale a dire tutti gli angoli meno quello del divano sul quale sto seduto.
Dà un po’ fastidio ammettere di stare giudicando qualcuno. Non pensavo sarebbe mai accaduto. Voglio dire, mi piaceva credermi più figo di certe cose. Superiore a certi comportamenti. Migliore di tutti gli altri, da un certo punto di vista.
Per chiunque creda ancora nelle proprietà salvifiche dell’amore, ho un messaggio: evidentemente non avete capito un cazzo.
- Lo sai. – borbotta lui, stringendosi nelle spalle, - Ne abbiamo parlato.
- Hai detto che era venuto fuori l’argomento. – correggo io, - Anzi, no. – quando arrivi al punto di doverti correggere da solo, sai di stare andando fuori di testa. – Hai detto che Tom sembrava nervoso. Che questo ti inquietava. Che credevi di sapere cosa ci fosse dietro e che avevi paura di scoprire che sarebbe successo qualcosa. – aspiro una boccata dalla sigaretta e lui storce il naso. Odia che mi mostri così impassibile di fronte ai suoi drammi personali. Ultime notizie, piccolino: devo. – Sono ufficialmente un confidente da aggiornare. Se non mi dai notizie fresche, sono del tutto inutile.
Bill fa un’altra smorfia, roteando gli occhi.
- Troppo puntiglioso. – si lamenta, - Quello che è successo lo sai già. Era nell’aria.
Solo un tipo come te potrebbe credere che una cosa simile potesse davvero essere nell’aria. Quando, a galleggiare nell’aria, ci sono molecole velenose, non si respira più, Bill. E tu invece respiri, respiri eccome. Ed anch’io. Quindi no, non era nell’aria. Perché, se lo fosse stato davvero, staremmo tutti all’altro mondo già da un sacco di tempo.
- Sarà. – concedo, con un vago gesto della mano.
Bill segue gli sbuffi di fumo grigiastro nell’aria di fronte al mio viso, e sorride appena. Un sorriso a bassa frequenza. Non fossimo così vicini, neanche lo vedrei.
C’è da dire che Bill vive un po’ tutta la sua vita, a bassa frequenza. Così che, quando fa qualcosa di appena più rumoroso, finisce per sconvolgere il mondo.
- Il punto non è questo. – mi apostrofa severo, allungando due dita e pretendendo una sigaretta, che concedo malvolentieri perché odio guardarlo fumare. – Il punto è un altro. Voglio dire, cose simili le puoi provare? E, se non ti piacciono, gettarle nel dimenticatoio e dirti, “va be’, è stata un’esperienza, mai più, grazie”? – scuote il capo, si dà le risposte da solo. – No che non lo puoi fare. Io con Tom devo continuare a viverci. Io a Tom voglio bene, non posso dimenticare e passare avanti, non posso ignorare che è cambiato qualcosa. Che razza di affetto sarebbe, il mio, se pretendessi di tenere Tom in gabbia contro la sua volontà?
Ora sono io a scrollare le spalle. Pure un po’ incerto, se vogliamo.
Il fatto è che non so bene cosa rispondergli. Anche se, in effetti, sfido chiunque a trovare una risposta plausibile, in questa situazione.
- No che non puoi provarle e basta, certe cose. – ribadisce lui, più convinto. – No che non puoi dimenticare. – fa una pausa, sospira. – Tu che ne pensi, Anis?
Penso che siamo fottuti, piccolo. Entrambi.
*
Ho conosciuto Bill Kaulitz da Gülcan. Ero ospite su Viva Live e non sapevo che ci fossero anche i Tokio Hotel. Stavo cercando di evitare la tortura che rappresenta la voce di quella donna tremenda, quando ti trapana i timpani per urlarti nelle orecchie che adora la tua musica e altre cazzate varie che dimenticherà – e dimenticherai – al più presto, e perciò, avendo sentito il suo chiacchiericcio insopportabile sollevarsi da un angolino riparato del backstage, stavo orientandomi nella direzione opposta, quando sentii una voce completamente diversa dalla sua sollevarsi e coprirla. Quella voce sottile, ma decisa ed entusiasta, aveva chiamato il mio nome.
Mi voltai, e Bill stava agitando una mano nella mia direzione. Non l’avevo mai visto dal vivo, prima di quel momento.
Lo trovai adorabile.
Conosco gli stereotipi della musica rap, ci banchetto dalla mattina alla sera. Se mai è esistito un gay-rap, qualcuno ha avuto la grazia e la decenza di affondarlo prima che diventasse ricordabile. Per un rapper non va bene essere omosessuale. Va bene circondarsi di ragazzine sculettanti e mezze nude, vestirsi comodo e fare sfoggio del denaro che possiede.
Trovare adorabile Bill Kaulitz non rientra nelle caratteristiche che fanno di un uomo un buon rapper.
Peraltro, trovare adorabile Bill Kaulitz, a trent’anni, non rientra neanche nelle caratteristiche che fanno di un uomo un buon uomo.
Ma io lo trovai adorabile, sollevai una mano e risposi al saluto. Lui sorrise e mi salutò con più fervore. Questo diede modo a Gülcan di accorgersi della mia presenza, e la vidi voltarsi nella mia direzione, spalancando la bocca in un urletto concitato ed eccitato.
Terrore.
Feci segno a Bill che magari potevamo parlare dopo, feci dietro-front e mi rifugiai nel bagno degli uomini, augurandomi che, almeno lì, la pazza si decidesse a non entrare.
Ovviamente mi illudevo.
*
Quel giorno, io e Bill non riuscimmo affatto a parlare. Quando lui venne rilasciato dal diavolo in shorts e zeppe perché potesse venirmi a scovare in bagno, fu raggiunto dal suo gruppo, che non gli si scollò di dosso per tutto il tempo. Ricordo ancora lo sguardo che avevano sul viso Tom, Georg e Gustav quando provai ad avvicinarmi. C’era una tale ostilità, nei loro occhi, che mi fece paura.
In seguito, Bill mi spiegò che si trattava di “certe cose” che scrivevano alcune loro fan su noi due. Fanfiction. Ero a conoscenza del fenomeno che li riguardava, ma dannazione, non pensavo di farne parte. Comunque sia, Bill mi disse che i ragazzi erano piuttosto aperti, sull’argomento, ma solo se la cosa restava in famiglia. Ed io non ero “famiglia”, decisamente.
Non so che effetto mi fece scoprire che esistevano effettivamente delle storie in cui fra me e lui succedeva qualcosa. In ogni caso, non dovetti trovarlo poi così strano, perché mi passò addosso senza sconvolgimenti particolarmente memorabili.
Probabilmente anche perché, quando Bill me ne parlò, avevo già fatto i conti da tempo con l’attrazione che provavo per lui.
In ogni caso, cominciammo a vederci. Frequentando sempre gli stessi ambienti, è più o meno inevitabile incrociarsi di continuo. Ci si scambia i numeri, ci si saluta ogni tanto, poi ci si dice “magari usciamo a bere qualcosa” e lo si fa davvero.
Ci vuole davvero poco ad abituarsi alla presenza di una persona. A considerarla una parte più o meno importante della propria vita.
Io e Bill siamo sempre usciti da soli. Il motivo è che, pur andando incredibilmente d’accordo – io lo stimo e lui stima me, il rispetto reciproco che proviamo nei confronti l’uno dell’altro ha gettato le basi per qualcosa che non sarebbe strano chiamare amicizia – ci rendiamo entrambi perfettamente conto del fatto che non ci sentiremmo a nostro agio nel frequentare le nostre rispettive comitive. Intendiamoci: non è particolarmente strano se Bill Kaulitz frequenta Bushido, ma sarebbe quantomeno inusuale vederlo andare in giro con tutta la crew di gangsta rap tedesco al gran completo. E non è particolarmente strano se Bushido frequenta Bill Kaulitz, ma sarebbe quantomeno poco ortodosso vederlo andare in giro con un gruppetto di spensierati adolescenti germanici.
Ovviamente, di tutto questo io sono enormemente felice. Dal momento che Bill mi piace, ed anche tanto, è stupendo che possa passare un po’ di tempo da solo con lui, senza che per lui questo sia un peso.
Era naturale, però, che prima o poi le cose cambiassero. Se non altro perché pretendere che tutto rimanga immobile così come ti piace sarebbe per lo meno egoista, da parte di una persona. Perché ciò che per te è stupendo in un determinato modo, può non esserlo per un altro.
Che poi era esattamente quello che stava succedendo a Tom, anche se ci abbiamo messo tutti un bel po’ di tempo, per capirlo.
Io, per esempio, ho cominciato a capirlo anche prima di Bill. Perché, col passare del tempo, ho osservato gli sguardi di Georg e Gustav cambiare, farsi da ostinatamente ostili a distrattamente indispettiti, per poi lasciare il posto ad un’abitudine annoiata e vagamente infastidita, che si dipingeva nelle loro pupille quando passavo a prendere Bill al loft.
Ma gli occhi di Tom non sono mai cambiati. Gli occhi di Tom hanno continuato a fissarmi con violenza, per tutto il tempo. Non so se avete mai visto gli occhi di un cane bastonato, per dire. Tutto il linguaggio del corpo del cane, quando viene bastonato, viene utilizzato per far capire all’uomo che lo bastona che l’animale s’è sottomesso, e non intende provare ad attaccarlo. Questo perché il cane sa perfettamente che, se continuasse a ringhiare, riceverebbe in cambio solo altre botte. Ma gli occhi del cane, quelli no. Sono l’unica cosa che in lui rimane immutata. Brillante ed assassina.
Gli occhi del cane urlano vendetta.
Quando Tom ha capito che non avrebbe potuto impedire a Bill di frequentarmi, perché non aveva una minima ragione valida per chiederglielo, s’è comportato proprio come un cane bastonato. Ha abbassato le orecchie e nascosto la coda fra le zampe, ma ha continuato a guardarmi come stesse cercando di dirmi che, se solo avesse potuto, mi avrebbe azzannato al collo e sbranato vivo.
Quando anche Bill se n’è accorto, io e lui eravamo già piuttosto in confidenza. Ci frequentavamo almeno da un paio di mesi, ci vedevamo spesso e parlavamo a lungo. Parlare con Bill è stupendo, perché nel dialogo è talmente aperto e disponibile che tu non puoi proprio fare a meno di sentirti a tuo agio. Non è il tipo da farti pesare le cazzate che dici, pure quando ne dici tante, e ti ascolta con attenzione. Quando ha un’opinione diversa dalla tua, non te la impone come una legge, non ti getta addosso ultimatum intimandoti di cambiare idea se non vuoi vederlo uscire dalla tua vita.
Penso sia cresciuto così grazie alla lunga palestra alla quale l’ha sottoposto Tom, che di cazzate, alcune per divertimento ed altre perché le pensa davvero, ne dice tante. Comunque sia, Bill è una delle poche persone famose al mondo col quale si possa avere un vero scambio di idee. È per questo che, quando lo conoscono, le persone più grandi di lui ne rimangono affascinate.
Bill venne da me un giorno e mi disse che c’era qualcosa che non andava in Tom. Che stava cambiando. Che lo sentiva diverso.
Ed io semplicemente pensai che si stesse avvicinando il momento della verità.
*
Quando fra due persone c’è un rapporto particolare, lo vedi a distanza. Ovviamente, non è qualcosa di plateale. O meglio, è qualcosa di plateale, perché non ci vuole una sensibilità particolare per notarlo, ma non è qualcosa di platealmente esibito, ecco.
I gemelli Kaulitz non esibiscono niente, proprio per un cazzo. Se siete convinti che, sul palco, quando si strusciano l’uno contro l’altro e si lanciano occhiate languide per far strillare le ragazze, stiano esibendo qualcosa, siete fuori strada. Quello che fanno sul palco è solo lavoro. Al più, un gioco innocuo del quale hanno deciso insieme regole e modalità, molto tempo fa.
No, quello che realmente li lega si vede quando sono lontani da fan e telecamere. Quando nessuno li guarda eppure loro non si staccano l’uno dall’altro neanche a tranciare con le tenaglie il filamento invisibile che li unisce. Detto così può sembrare stupido, ma non lo è affatto.
Per la maggior parte del tempo, Bill e Tom neanche si sfiorano.
Ma non lo fanno semplicemente perché non ne hanno alcun bisogno.
Il loro collante è nascosto in profondità nei loro corpi. Sta in una fisicità essenziale ma appassionata, in quella parte non materiale di loro che è rimasta la stessa, divisa in due entità. Un organo particolare che è solo loro, e di nessun altro.
Quello che c’è nella testa delle ragazzine, dunque, non è completamente folle. Come ogni fantasia, nasce da qualcosa di molto concreto e spaventosamente reale. Tra Bill e suo fratello questa cosa c’è sempre stata. Come tutti gli altri, le ragazzine l’hanno percepita e hanno cominciato a fantasticare.
Certo, c’è anche da dire che sia Bill che Tom erano stati molto bravi a mantenere la cosa sotto controllo.
Prima che arrivassi io.
*
Devo in qualche modo assumermi la responsabilità della rabbia di Tom e della confusione di Bill, a questo punto. Se adesso siamo in tre a stare uno schifo, è solo colpa mia. Sarebbe stato giusto aspettarsi da me quella dose base di saggezza che aiuta gli adulti a non mettersi a giocare coi ragazzini, visto che si sa che, quando succede, la situazione si tramuta sempre in un disastro, ma che dire?, non ce l’ho fatta.
Sarebbe bastato tirarsi indietro al momento giusto. Non vedere Bill così spesso. Non incoraggiarlo a confidarsi.
Se fossi stato più saggio, Tom non avrebbe sentito in pericolo il suo territorio – perché Bill è il suo territorio. Se fossi stato più saggio, Tom non sarebbe uscito da ogni grazia divina – perché evidentemente è questo che gli fa la paura di perdere Bill. Se fossi stato più saggio, Tom non avrebbe mai sentito il bisogno di piantare paletti attorno ai suoi possedimenti – perché è in questo senso che va interpretato il suo gesto.
Se fossi stato più saggio, Tom non avrebbe mai baciato suo fratello.
*
- Stavamo suonando. Lo facciamo spesso, lui suona ed io canto. La maggior parte delle canzoni nasce così. A me non veniva in mente niente, perciò stavamo giocando un po’ con Monsun. E poi è successo. All’improvviso. Ha posato la chitarra, mi ha guardato, si è sporto verso di me e mi ha baciato. Si è allontanato solo per un attimo, non ha avuto il tempo neanche di riaprire gli occhi, e io non avevo ancora avuto il tempo di chiudere i miei. Mi ha detto “Volevo provare da tanto tempo”. È una cosa stupida, vero? È una giustificazione. Non ha senso giustificarti quando baci tuo fratello, non c’è motivazione che tenga, è comunque un errore. Dovresti almeno avere la decenza di stare zitto. Tom non ha alcuna decenza. Io lo so che è successo solo perché è geloso. Perché ha paura che possa scappare da lui. Perché lui senza di me non può stare. Lo dice spesso. Io so che è la verità. Però a me è piaciuto. Tom ha le labbra morbide, sai? E un buon sapore. Ed è dolce. Ed io… non lo so, mi sembra che questa cosa stia dentro di me da tanto tempo. Non mi sembra strano. Dovrebbe sembrarmi strano? Tom è sempre stato “il mio grande amore”, in un certo senso. Il fatto è che solo ora mi sembra di capire in quale senso. Prima non era così, eppure non è cambiato molto, adesso. È buffo, no? È una contraddizione così stupida… talmente stupida che non so proprio come affrontarla. Ma il fatto è che devo. Io Tom l’ho sentito sulla lingua. L’ho sentito bene, lo so che non è più la stessa cosa neanche per lui. Me lo sono sentito addosso. Lo so. Però, anche se lo so, non so cosa fare. Te l’ho già detto, è comunque un errore. Qualsiasi cosa decida, sarà sbagliata in ogni caso.
Prende fiato. Ne ha bisogno. Anche io.
- Tu che ne pensi, Anis?
Penso che tu avresti potuto prenderla meglio.
Penso che io avrei dovuto prenderla peggio.
Penso che siamo fottuti, piccolo. Entrambi.
*
Tom, a differenza di Bill, è molto aggressivo. E indisponente. Penso che questo dipenda soprattutto dal fatto che, a molti livelli, Tom sia molto più bello di suo fratello. Ha un aspetto più sano. Ha un aspetto più maschio. Ha un aspetto più sensuale. O meglio, la sua sensualità si esprime in maniera più diretta rispetto a quella obliqua di Bill. È più ingombrante, più lampante, più assoluta. Non devono piacerti “determinate cose”, per farti piacere Tom Kaulitz. Tom Kaulitz ti piace comunque, perché quando è nei paraggi l’odore del testosterone si sente a miglia di distanza. Poi, magari, se sei maschio anche tu, non desideri automaticamente di scopartelo. Ma lo rispetti o lo invidi, non c’è via di scampo. Non potrebbe mai rimanerti indifferente, e lui lo sa.
Tutto questo si traduce in una sicurezza in sé stesso e nelle proprie facoltà che ne fa un ragazzo veramente intollerabile. Un tipo che, quando ti parla e ti guarda, sta invariabilmente pensando di essere migliore di te. E non si preoccupa di fartelo sapere.
Mi aspettavo una sua visita.
Dopo aver rimesso in chiaro cosa gli appartiene, era semplicemente il passo successivo.
- So che sai tutto. – annuncia sorridendo, accavallando le gambe sulla poltrona della quale s’è impossessato. Ha un atteggiamento simile con tutto, vedo. Non poteva limitarsi a sedersi, no. Le cose su cui poggia le mani diventano sue, le ingloba, stampa loro addosso un attestato di proprietà. È inquietante.
- Cos’è che dovrei sapere? – chiedo io, fingendo ingenuità mentre mi seggo di fronte a lui sul divano.
- So che mio fratello ti ha raccontato ogni cosa. – risponde lui, senza neanche incrinare il sorriso presuntuoso che gli increspa le labbra.
- Te l’ha detto Bill?
- Non ne ha avuto bisogno. Io lo conosco, so che l’ha fatto.
Sorrido a metà. Fa un po’ male sentirlo parlare così. Fa sempre male realizzare che c’è qualcuno che capisce la persona che ami meglio di quanto non faccia tu.
- Cosa sei venuto a fare qui, Tom?
La mia è una domanda legittima. Tom sa che mi piace Bill. Lo sanno tutti, Bill incluso. Lo sanno tutti perché io non l’ho mai nascosto. E perché, anche se non mi sono mai azzardato a toccarlo, dal mio comportamento è sempre stato palese. Ed è altrettanto noto che a Bill piace la mia compagnia, piaccio io come persona e probabilmente mi vuole anche un po’ di bene, ma in quel senso proprio non mi ricambia.
Quindi, cosa cazzo voglia ancora Tom Kaulitz da me è un quesito che ho tutti i diritti di porre. E per il quale avrei ragione di pretendere una risposta.
Lui si mette comodo, allungando le gambe davanti a sé e stendendosi meglio sulla poltrona. Ne copre praticamente ogni centimetro. È incredibile, non ha bisogno di trovarsi in casa propria per essere nel suo territorio. Il suo territorio si muove con lui. È ogni luogo nel raggio di dieci metri dalla sua persona.
- Mio fratello tiene molto al tuo parere. – mi informa, sorridendo tranquillamente e intrecciando le dita dietro la nuca. – Tu, però, sei una persona normale. E non puoi capire cosa c’è tra noi. Come tutti gli altri stronzi, ti limiti a giudicare, pensare che l’incesto faccia schifo e inorridire di conseguenza. Per di più, lui ti piace…
- Tom. – lo interrompo io, deglutendo forzatamente. È orribile sentirsi messo alle strette da un diciottenne. Uno schifo. – Vai al punto.
- Il punto è molto semplice. – mi sta minacciando. La cosa tremenda è che, per farmi sentire in pericolo, non ha neanche bisogno di rendersi fisicamente aggressivo. – Tu azzardati a frenarlo con qualche giudizio moralista del cazzo, - sorridere in questo modo è più che sufficiente per spaventare qualcuno. – azzardati solo a provarci, a portarmelo via, e sei un uomo morto.
*
- Devo scusarmi per una marea di cose.
Bill sta sorridendo debolmente e sta fissando con insistenza il pavimento. Tiene le mani strette a pugno e abbandonate in grembo e respira lentamente, agitato.
- Mi dispiace di averti coinvolto in questa cosa. – mormora inquieto, - Lo so che è uno schifo. So che è una cosa pesante. Non avrei dovuto parlartene, avrei fatto meglio a sbrigarmela da solo, o a parlare direttamente con Tom. – sospira pesantemente, battendo le palpebre solo quando ricorda che deve farlo. – Non si possono caricare gli amici con problemi simili, è ingiusto.
Sono grato del fatto che usi la parola “amico” nei miei confronti.
…no, non sono grato. Ne sono felice.
E mi accorgo da solo del fatto che la mia è la stessa felicità di chi ha deciso che è già un miracolo avere dalla vita quel poco che ti permette di sentirti gratificato, quindi tanto vale entusiasmarsi anche per le piccole cose.
- Mi dispiace anche per la piazzata di Tom. – continua arrossendo, - Non so di preciso cosa ti abbia detto, ma posso immaginarlo. – ridacchia lievemente, sciogliendo i pugni e portando le mani a serrare le ginocchia, - Immaginavo anche che qualcosa di simile potesse succedere, ma non ho potuto fare niente per fermarlo. Mi dispiace davvero…
- Piantala di scusarti. – sospiro io, accomodandomi meglio contro lo schienale del divano, - Ti fa piacere che Tom sia venuto a farmi una scenata. Avanti. Siamo due persone intelligenti e non siamo due sconosciuti. Non prendiamoci in giro.
Si mordicchia incerto un labbro, lanciandomi un’occhiata imbarazzata.
- Hai ragione. – ammette alla fine, - Quando mi ha detto che era venuto a parlarti mi ha fatto felice. Ma avrei comunque preferito risparmiarti una cosa simile. So che mio fratello può essere…
- …un mastodontico rompicoglioni?
- …fastidioso. Ecco.
- Sì, anche fastidioso può andare.
Ridacchiamo sottovoce, le mani di Bill si rilassano e parte della tensione che si è accumulata sulle sue spalle scivola via con la stretta che scompare. Quando torniamo a guardarci, stiamo entrambi sorridendo più serenamente.
- Anis, non ho la più pallida idea di cosa dovrei fare. Tu che ne pensi?
Penso che mi piacerebbe darti una risposta, piccolino. Mi piacerebbe che i miei trent’anni servissero a qualcosa, di tanto in tanto, e mi dessero davvero la saggezza per aiutarti a venir fuori da tutto questo, ma la verità è che non posso. E non solo perché l’ho tacitamente promesso a Tom. Non solo perché ho paura delle conseguenza che una mia risposta netta potrebbe avere su di voi, su di noi, su tutti quanti.
Non hai la più pallida idea di cosa dovresti fare? Non sei l’unico.
- Certe situazioni non hanno una soluzione. – ammetto, stringendomi nelle spalle. – Una cosa come questa non la risolveremmo neanche se avessimo a disposizione due vite per pensarci su. A volte… - sussurro, spostando lo sguardo verso un punto meno luminoso dei suoi occhi, - ti tocca semplicemente vivertela fino in fondo e vedere dove va a parare. – sorrido, cercando di risultare rassicurante, ma non so quanto mi riesca. – Tanto non c’è niente di irreversibile. Se qualcosa va storto, se ti fai male, ci sarà comunque qualcuno che ti vuole bene pronto ad aiutarti a riprenderti.
Bill sbuffa una risatina divertita, coprendosi le labbra con una mano.
- Parli come me quando voglio farmi coraggio.
Io inarco le sopracciglia, stupito.
- Cioè? – chiedo curioso.
- Dici cose stupide. E convincenti.
*
Non so se lo rivedrò. È uscito da casa mia cinque minuti fa ed ho già come la sensazione che tutti gli ultimi mesi della mia vita siano stati un’allucinazione. Che lo sia stato lui. Che lo sia stato perfino Tom, nonostante la pelle d’oca che ancora provo al ricordo di ieri sera sia un segnale spaventosamente fisico della sua concretezza.
Non so neanche cosa succederà fra lui e Tom. Uscendo, Bill mi ha ringraziato per i consigli, dicendo di aver capito. Lo invidio, perché per quanto mi riguarda non ho affatto capito cosa gli ho consigliato. Ho il timore di averlo spinto fra le braccia di suo fratello, e se così fosse mi dispiacerebbe. Non perché l’incesto in sé mi faccia particolarmente schifo, al contrario di quanto possa pensare Tom. In una qualsiasi altra situazione, sì, probabilmente starei già vomitando per il disgusto, è vero. Ma c’è Bill in gioco, qui. Niente che abbia a che fare con la sua persona potrebbe mai essere percepito dai miei sensi come qualcosa di disgustoso. È così che funziona il mio corpo. È così che funziona da quando l’ho conosciuto.
No, non è per qualche bigotta ragione morale che mi dispiacerebbe aver consigliato a Bill di provarci, con Tom. È l’inevitabile certezza che soffrirà. Che soffrirà da cani. E che, quando questo accadrà, cercherà un capro espiatorio per non arrivare ad odiarsi.
Quando questo accadrà, il capro espiatorio non sarà Tom.
Sarò io.
È questo che mi dispiace.
Che, fra vent’anni, quando questa follia sarà finita, e Bill e Tom saranno tornati ad essere due fratelli normali, e dei Tokio Hotel sarà rimasto un ricordo vivo solo nelle loro teste e in quelle di qualche giovane madre di famiglia ancora affezionata alla propria adolescenza, sarò io ad essere odiato. Quello che rimarrà di me nella testa di Bill, sarà l’immagine del bastardo che l’ha convinto a fare l’errore più grosso della sua vita. Quello che rimarrà di me nella testa di Tom, sarà l’immagine del bastardo che non ha fatto niente per fermare la catastrofe in divenire. Se, malauguratamente, la cosa dovesse venire fuori, e dovessero arrivare a conoscersi i dettagli in pubblico, quello che rimarrà di me nella testa di ogni singola fottuta persona che abiti questo merdoso paese, questo merdoso continente e questo merdoso mondo, sarà l’immagine del vecchio stronzo che ha rovinato la vita di due giovani, innocenti ragazzini.
E perché, poi?
Perché di uno dei due era innamorato.
Bella fregatura.
Cosa ne penso, mi chiede lui. Penso che potrei demolire l’intero palazzo a cazzotti, al momento. Penso che è stato orribile osservare la persona che amo innamorarsi di qualcuno che considero imbattibile. Penso che mi consola che questo qualcuno, almeno, lo ricambi.
Cosa penso.
Che sono fottuto.
E che spero di esserlo solo io. Punto.
Genere: Commedia, Romantico, Introspettivo.
Pairing: Bill/David, Tom/David, Bill/Georg, Bill/Bushido.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Underage.
- Bill ha fatto a pugni con un paio di bulli a scuola e Tom è rimasto fuori fino a tardi con Andreas: e seguito di tutto ciò, i gemelli finiscono in punizione e si ritrovano a dover passare una notte in casa da soli quando Simone e Gordon vengono invitati a cena fuori. Quando litigano, però, tutto precipita. E precipita anche Bill: in una realtà completamente diversa dalla propria, governata da un misterioso sovrano che manipola i luoghi e i tempi e che, soprattutto, tiene prigioniero suo fratello. Riuscirà Bill a salvarlo, o rimarrà imprigionato nel labirinto senza riuscire a trovarne l'uscita prima delle tredici ore al termine delle quali Tom verrà trasformato in un goblin?
Note: Punto primo: mi scuso enormemente perché, se non avete visto Labyrinth, questa storia probabilmente vi sembrerà una menata pure noiosa con un qualche significato nascosto (c’è è_é lo giuro! è_é) ma assolutamente dimenticabilissima. Lo è *annuisce* Ma io la amo perché, se invece avete visto Labyrinth, ci troverete dentro tante di quelle citazioni che vi verrà da ridere continuamente. Questa non è veramente una fanfiction, è un ridicolo tributo! XD
Ciò detto, il Tost ed il Biorg sono molto forti in questa storia o_ò Per quanto riguarda il Tost, sapevo che ci sarei caduta. Il Biorg invece mi ha preso in contropiede ma l’ho amato parecchio o_ò Il Bu si limita ad essere ridicolo, però insomma, almeno becca i baci =P
E sì, l’omino baffuto è Eko Fresh. Sono spiacente, ma lui era perfetto, punto XD
Poi, be’, insomma, non ho molto altro da dire. Scritta per il terzo contest della Jost Fiction, alla fine avrebbe voluto essere molto più erotica però non ce l’ho fatta XD Era decisamente decisamente underage ed un po’, lo ammetto, mi fa senso, a questi livelli. Quattordici anni sono davvero troppo troppo pochini per farsi mettere le mani addosso da un re dei goblin trentenne ;_;” Chiedo perdono a Tomi che si struscia, povero cuore. Comunque la scena era puccina! XD Mi sa che sono andata un po’ fuori tema, ma Yulin e Tabata mi perdoneranno. Al limite, mi creano un premio apposta. So che lo vogliono anche loro. Questa storia è FOLLE XD
Comunque tendenzialmente sarebbe una Bost. <- wtf. *muore*
Ora basta, sono le cinque del mattino e scrivo ininterrottamente da quasi sei ore. Credo che andrò a morire nel mio letto, per ciò che resta di questa notte assurda. Grazie della lettura e spero non vi siate annoiati troppo <3
PS. Quando ho scoperto che labirinto, in tedesco, si dice allo stesso modo che in inglese, volevo morire. Perché ho già una Labyrinth, fra le mie storie.
Fortunatamente, il tedesco ha degli articoli che con gli articoli inglesi non c’entrano un beneamato. Grazie WordReference -.-“
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DAS LABYRINTH
“Will I hold you again?” (The Space Between – Dave Matthews Band)

Simone, bellissima nel proprio vestito in raso nero, aderente e lungo e liscio e splendido – e Bill avrebbe tanto voluto rubarglielo, tagliuzzarlo qua e là e farne una maglietta niente male da indossare sopra la maglia a rete – rimase ferma sulla porta un paio di minuti abbondanti, squadrando entrambi i propri figli con un cipiglio serio e severo.
- E non si esce. – precisò, - Siete in punizione.
Bill mugolò.
- È Tom che è tornato tardi ieri notte, non io… - disse affranto, arrotolandosi in un angolo del divano mentre suo fratello si inorgogliva ripensando alla precedente nottata, passata con Andreas a fingersi diciottenne per rimorchiare a Magdeburgo.
- Tu devi ancora finire di scontare la tua pena per la rissa, Bill. – gli ricordo Gordon, avvolto in un completo da sera che lo faceva sembrare solo più ridicolo del solito, e già in genere lo era parecchio.
- Ma non è stata colpa mia! – ricordò il ragazzino, agitandosi fra i cuscini, - Sono stati quegli stronzi a-
- Un’altra parola, Bill, - minacciò sua madre con un sorriso bellissimo, fiero e mortale, - e ti aggiungo un’altra settimana alla punizione. D’accordo?
Il ragazzo sbuffò ed afferrò la copertina abbandonata in mezzo al divano, avvolgendocisi stretto col preciso intento di non lasciarne neanche un centimetro al fratello.
- Fate i bravi. – commentò un’ultima volta Simone, già in procinto di uscire. – Torneremo prima di mezzanotte. – e così dicendo abbandonò la casa, seguita a ruota dal proprio compagno.
Bill lanciò un’occhiataccia a Tom, per proprio conto ancora perso nei ricordi della sera precedente e ghignante e felice come se tutto fosse perfettamente perfetto attorno a lui.
- Io ti odio. – sibilò maligno, riportando l’attenzione del fratello su di sé. Lui lo guardò stralunato, come lo stesse vedendo in quel momento per la prima volta.
- Billi…? – fece, spalancando gli occhioni castani ed allungando una mano incerta verso di lui.
- Niente Billi! – strillò il ragazzo, richiudendosi a palla nell’angolo, - È tutta colpa tua! Se ieri non avessi deciso di fare il cretino e restar fuori con quell’altro deficiente fino alle dannate tre del mattino, oggi saremmo fuori a divertirci!
- Be’, io sì. – precisò il biondo, sistemando dietro un orecchio una ciocca di quei suoi disordinati capelli dalla forma improponibile, - Tu no, Bill, perché come ti ha detto mamma prima sei ancora in punizione.
- Non capisco perché solo io sono stato messo in punizione per la rissa! – si lamentò ancora il moro, incrociando le braccia sul petto, - Sei stato coinvolto anche tu!
- Be’, sei stato tu a cominciare… - rifletté Tom, inarcando le sopracciglia, - Io sono solo venuto a ripescarti prima che ti spaccassero qualche osso. – annuì con convinzione.
- Non mi avrebbero spaccato nessun osso. – ringhiò Bill, furioso, - Li stavo riducendo tutti in poltiglia. E comunque il punto non è questo, il punto è che sei uno stronzo e ti odio!
Tom sospirò e sollevò gli occhi al soffitto, come in cerca di un qualche aiuto da parte delle divinità dei piani alti – visto che quelle dei piani bassi avevano già interferito notevolmente sulla sua vita dotandolo di un gemello cattivo.
- Bill, fai il bravo. – suggerì pazientemente, - Niente rotture di palle, ho Lancillotto in ostaggio.
Il ragazzo spalancò gli occhi, oltraggiato.
- Tu hai… - annaspò, stringendo le dita come tenaglie attorto alla coperta, - hai preso Lancillotto!!! Sei senza cuore!!! Ridammelo!!!
- È in un luogo sicuro. – lo prese in giro il biondo con un mezzo ghigno, - Ma lo riavrai solo se riuscirai a passare questa serata con me senza farmi impazzire, fratellino.
Bill mugolò scontento e si raggomitolò ancor di più nel proprio angolo, frugando fra i cuscini alla ricerca di qualcosa. Tom lo osservò incuriosito, inclinando lievemente il capo.
- Cosa stai combinando? – chiese dubbioso, sporgendosi verso di lui.
- Cerco Labyrinth. – borbottò in risposta Bill, riuscendo finalmente a mettere le manine artigliate sulla sua personalissima bibbia foderata di rosso ed aprendola ad una pagina a caso sulle ginocchia. Quale pagina fosse non era importante: aveva letto e riletto quel libro tante di quelle volte che ormai lo conosceva a memoria, perciò era perfettamente in grado di riprendere il filo del discorso qualsiasi fosse la pagina su cui posava lo sguardo.
Tom sbuffò e roteò gli occhi.
- Non potresti, per una volta nella tua vita, mettere via quel coso e stare un po’ con me, visto che ultimamente ci vediamo pochissimo? – si lamentò pigolante.
- Questo perché tu e l’altro deficiente siete sempre in giro a rimorchiare. – borbottò Bill senza staccare gli occhi dal libro.
- Be’, tu potresti venire con noi. – ritorse Tom in un borbottio irritato.
- Tomi, non ha senso dire che vorresti uscire con me per andare a rimorchiare, dato che è implicito che quando si rimorchia si sta con altri… - gli ricordò il moro soprappensiero, già perso fra le righe.
Tom ringhiò e si alzò in piedi di scatto, muovendosi con rabbia lontano dal divano.
- E va bene, fai un po’ quel cazzo che vuoi. – lo rimproverò, - Io vado di sopra a chiamare Andi, sperando che anche lui sia stato messo in punizione. – biascicò lamentoso, dirigendosi verso le scale, - E torturerò Lancillotto per ripicca, sappilo!
Bill sospirò ed annuì. Suo fratello sapeva bene che qualsiasi ferita inflitta al corpo di Lancillotto si sarebbe poi miracolosamente trasformata in una ferita molto più grave al suo, di corpo, e dal momento che Bill era ragionevolmente convinto che suo fratello non ci tenesse poi così tanto a ritrovarsi la punta di un anfibio su per il culo, era piuttosto tranquillo riguardo la sorte del suo orsacchiotto favorito.
Continuò semplicemente a leggere, avvolgendosi nella coperta e lasciandosi trascinare dalla fiaba.
Da sopra, arrivava in un’eco indistinta la voce di Tom che, furioso, strillava nella cornetta quanto fosse orribile avere un fratello gemello, quanto ancora più orribile fosse avere Bill come fratello gemello e quanto invece sarebbe stato meraviglioso che lui e Andreas fossero stati fratelli, magari non gemelli, ma comunque imparentati; sarebbero stati sicuramente molto più complici e si sarebbero divertiti molto di più e bla bla bla… Bill si chinò in avanti, recuperando una scarpa da terra e lanciandola con forza in aria, fino a colpire il basso soffitto sopra di sé, provocando un inquietante rumore contro l’intonaco.
- Vuoi stare un po’ zitto?! – borbottò offeso, - Non riesco a concentrarmi!
La risposta di suo fratello alle sue lamentele fu, ovviamente, continuare a parlare più forte.
Bill serrò la mascella e socchiuse le palpebre, scontento. Tom era arrabbiato ed a lui dava fastidio, quando lo era. Primo, perché la sua rabbia se la sentiva nello stomaco – una delle tante controindicazioni della gemellarità, supponeva. Secondo, perché Tom si arrabbiava davvero solo per cose che riguardavano lui, probabilmente perché, in un certo senso, riteneva che solo lui fosse un argomento tanto serio da meritare rabbia. In tutti gli altri ambiti della vita, Tom era sempre o quasi sempre allegro e spensierato, ma quando si parlava di Bill se la prendeva ogni volta come lo stessero ricoprendo di offese mortali.
Bill odiava essere oggetto d’odio. Perché sentiva il bisogno fisico di odiare a propria volta, quando succedeva.
E lui non voleva affatto odiare Tom.
- Re dei Goblin, Re dei Goblin… - sussurrò quasi a prendersi in giro da solo, perfino sorridendo un po’, - ovunque ti trovi adesso, porta via questo ragazzo, lontanissimo da me… -
“È insopportabile, Andi…”, sbraitò Tom dal piano di sopra, “Certe volte penso che sarebbe stato meglio se non fosse mai venuto fuori, lo stronzo”.
Bill abbassò lo sguardo, incassando la testa nelle spalle.
Quello aveva… fatto male.
- Desidero proprio che i goblin ti portino via… - esalò in un sussurro estenuato, - All’istante.
Dal piano superiore non venne più alcun suono. Non il chiacchiericcio furioso di suo fratello e nemmeno il suo muoversi circolarmente avanti e indietro per la stanza, strisciando sul pavimento con le suole di gomma delle scarpe da tennis. Immaginò dovesse aver chiuso la conversazione ed essersi messo a letto. Tom poteva restare sveglio per giorni e giorni, quando era felice, ma quando si arrabbiava o si intristiva si spossava subito ed era capace di dormire per sempre. Almeno finché non fosse sbollita la rabbia.
Bill sospirò e richiuse il libro, lasciandoselo scivolare giù lungo le gambe per poi recuperarlo e posarlo sul cuscino accanto a sé. Si avvolse meglio nella coperta – c’era un freddo incredibile, in casa, e fuori pioveva a dirotto. Sperò che sua madre e Gordon avessero portato con loro un ombrello – e cominciò a salire pigramente le scale.
- Tomi… - chiamò già a metà della rampa, - Senti, facciamo pace prima che tu ti addormenti e mi tenga il broncio fino alla fine dei secoli…?
Dalla stanza continuò a non giungere alcun suono. Anche la luce era spenta, non filtrava niente da sotto la porta.
Bill deglutì, riportando alla memoria le frasi pronunciate mentre stava ancora rannicchiato sul divano.
Non era veramente possibile che…
- Tomi… - chiamò ancora, aprendo la porta e fermandosi sulla soglia, - Tomi, stai bene…?
La stanza era vuota. Vuota, buia e silenziosa. Dal balcone aperto, il temporale invadeva la casa, bagnando il letto e i mobili e il pavimento e infrangendo col frastuono dei tuoni il silenzio irreale dell’ambiente. Bill deglutì e si strinse nella coperta, raggiungendo la finestra e richiudendola col gancio, mentre abbandonava la stanza e si muoveva lungo il corridoio, alla ricerca del fratello.
Naturalmente, Tomi non era da nessuna parte.
Il cuore stretto in una morsa e tutti i muscoli contratti, Bill tornò in camera e si guardò intorno.
- Tomi, non mi sto divertendo… - mugugnò, sperando solo che suo fratello si ricordasse di essere un epocale cretino ed avesse voglia di ricordarlo anche a lui, magari strisciando fuori dal letto con un urlo per spaventarlo. O qualcos’altro di altrettanto stupido, purché – dannazione – fosse ancora lì da qualche parte.
Una voce ridacchiò alle sue spalle, e Bill si voltò di scatto per trovarsi di fronte… niente. Il buio della stanza e nient’altro.
- C’è nessuno…? – chiese con aria incerta, avanzando verso il luogo dal quale la voce era arrivata e guardandosi intorno con aria circospetta.
Una voce diversa, più roca, ma dallo stesso timbro stridulo della prima lo raggiunse nuovamente alle spalle. Bill fece per voltarsi ma non ne ebbe il tempo: a metà della torsione si accorse di un’ombra – qualcosa di piccolo e peloso – che scompariva dietro il letto. Ed altre risate. Risatine inascoltabili, spaventose, cominciarono a fioccare da ogni angolo della camera, e mentre Bill si metteva al centro, avvolto dalla coperta come dovesse schermarlo contro i mali del mondo, qualcosa di pesante sbatté più volte contro il vetro della finestra – thud thud thud – accompagnato da un battito d’ali che gli diede i brividi e gli annodò lo stomaco. Bill girò sui tacchi e vide un’enorme civetta bianca battere con forza contro le imposte, pressando le zampe artigliate sul legno come a volerle spalancare. Una volta, due volte, tre volte, e poi la finestra cedette sotto il peso dei colpi, aprendosi. Bill si coprì istintivamente il capo, piegandosi un po’ su se stesso mentre l’enorme uccello attraversava la stanza fermandosi dal lato opposto.
Quando Bill riaprì gli occhi, qualche secondo dopo, il battito d’ali era cessato. Si voltò a guardare verso il punto nel quale avrebbe dovuto trovarsi il volatile, ma la civetta non c’era più. Al suo posto, però, c’era un uomo.
Doveva essere alto più o meno quanto lui, ma sembrava incredibilmente più… vecchio probabilmente non era la parola giusta, perché in realtà sembrava anche incredibilmente giovane. La sua era un’età indecifrabile, ma la sicurezza che si sprigionava dalla sua persona e soprattutto da quegli occhi azzurrissimi che gli teneva puntati contro – con una sfacciataggine che lo turbava – parlava di una saggezza acquisita con anni… secoli di vita.
Era una saggezza strana, comunque.
Era spaventosa. Quegli occhi erano spaventosi.
Bill si avvicinò, muovendosi quasi contro la propria volontà.
- Tu sei… il Re dei Goblin… - disse senza fiato, stringendosi la coperta attorno alle spalle.
L’uomo chinò il capo in segno d’assenso, sorridendo lievemente, quasi fosse solo divertito dalle sue esitazioni.
- M-Mio fratello… - disse Bill, deglutendo appena.
- Ciò che è detto è detto. – rispose l’uomo, rimanendo immobile contro la porta, le braccia incrociate sul petto.
È successo davvero, si disse Bill, mordendosi un labbro, per colpa mia…
- Ti prego… - annaspò, le lacrime agli occhi, - dov’è adesso?
L’uomo sollevò appena il mento squadrato, gli occhi celesti a dardeggiare su di lui ed i corti capelli castani scossi appena dal vento furioso che invadeva la stanza.
- Sai molto bene dov’è. – rivelò severo, senza muoversi di un centimetro.
- Ti scongiuro… - continuò Bill, indifeso e smarrito, - riportamelo.
L’uomo si mosse verso di lui, scuotendo lentamente il capo.
- Bill… - suggerì suadente, a bassa voce, - dimentica tuo fratello.
Il moro spalancò gli occhi.
- Non posso! – strillò, stringendo i pugni, - Non voglio! Ridammi mio fratello!
L’altro non mostrò di essere particolarmente colpito dalla sua disperazione, e si limitò a sollevare una mano.
- Io ti ho portato un regalo… - disse semplicemente, mentre una sfera di luce si concentrava sulle punte delle sue dita fino a concretizzarsi in un globo trasparente. – È un cristallo magico. – rispose con un sorriso furbo alla domanda che Bill non ebbe fiato e coraggio di porre, - Se guardi al suo interno, puoi vedere i tuoi sogni. – si avvicinò ancora, sussurrando, - Quelli più profondi, quelli che non hai nemmeno capito di stare sognando. Però – continuò, separandosi sbrigativamente da lui, - non è certo un regalo da dare ad un ragazzino che si preoccupi di cose futili come un fratello lagnoso.
Bill rimase immobile e silenzioso, in attesa del resto.
- Se lo vuoi, dimentica tuo fratello. – disse infatti l’uomo, sorridendo conciliante.
Il ragazzo si morse nuovamente un labbro, incerto.
- Non posso. – disse poi, - Ti prego, per favore, dimmi-
- Bill. – tuonò l’uomo, mentre la sfera di cristallo si trasformava in un serpente – un serpente, Dio! – fra le sue dita. – Non sfidarmi. – concluse, prima di lanciargli il serpente addosso.
Bill urlò, raggomitolandosi su se stesso mentre percepiva distintamente le spire del rettile avvolgersi attorno al suo collo, ma la sua paura si affievolì e scomparve – ed in breve ne rimase solo il battito un po’ accelerato del suo cuore – quando si accorse che il serpente s’era trasformato in uno scialle colorato ed era poi caduto a terra. Fra le risatine dei goblin alle sue spalle, per le quali neanche si voltò – aveva già capito che non ne avrebbe comunque visto nemmeno uno.
Si rimise dritto e deglutì, stringendo i pugni e cercando di farsi forza.
- Dimmi dov’è. – insistette, - Dimmi dov’è mio fratello.
L’uomo sospirò annoiato e stese un braccio verso la finestra, indicando all’esterno.
- È lì. Nel mio castello. – concesse disinteressato.
Bill seguì il dito puntato e guardò fuori. Il mondo non era più quello che ricordava. Dove avrebbero dovuto esserci la notte e un temporale e le vie scure di Loitsche c’era invece un enorme e intricatissimo labirinto di piante e mura, ed oltre un grande castello che s’intravedeva appena nell’aria rossiccia che avvolgeva tutto e che sembrava infuocata.
Bill lasciò ricadere la coperta – non c’era più nemmeno freddo – e si mosse. Quando si voltò indietro, casa sua era scomparsa. C’era solo un terreno arido e vuoto, qualche sterpaglia, e quell’uomo, che lo fissava sarcastico.
- Torna indietro, Bill. – suggerì con un sorriso strafottente, - Torna indietro finché sei in tempo.
Bill aggrottò le sopracciglia.
- No! – protestò deciso, - Non posso e non voglio, lo capisci questo?! Lui è mio fratello! – sbottò, tornando a guardare il labirinto ed il castello.
- Be’… - sussurrò l’uomo, - puoi sempre provare a riprendertelo. È un peccato – aggiunse con una risatina, - che tu abbia così poco tempo.
- …poco tempo…? – chiese Bill, confuso e teso.
L’uomo rise, gli occhi sottili e freddi, sempre disturbanti.
- Solo tredici ore. Poi, il tuo lagnoso fratello diventerà uno di noi.
- A-Aspetta… - cercò di fermarlo Bill, ma l’uomo lo zittì ancora con un risoluto cenno del capo.
- Solo tredici ore. – ripeté, - Fai del tuo meglio, Bill. – e scomparve.
*
Faceva caldo. Era incredibile pensare di avere appena lasciato l’inverno in Germania ed essersi ritrovati all’improvviso immersi in un’estate così torrida ed in un posto che non sembrava nemmeno esistere davvero.
Girando attorno all’enorme parete che sembrava circondare l’intero labirinto, Bill si chiese se sarebbe mai riuscito a tornare a casa. O a trovare davvero Tomi.
Si morse una guancia.
Il solo pensare che la sua sparizione fosse davvero una sua colpa gli stringeva il cuore così tanto da fargli male. Non voleva davvero che sparisse. Non voleva affatto che sparisse. E non riusciva a trovare la stupida entrata dello stupido dannatissimo labirinto.
Stava quasi per arricciarsi in un angolino e mettersi semplicemente a piangere – non era un piagnone, non lo era affatto, dava a tutti i bulli del filo da torcere, a scuola, ma lì era diverso, non era scuola, non c’era Tomi, era lontano da casa ed era tutta colpa sua – quando un rumore scrosciante lo colpì. Dove c’era movimento doveva per forza esserci qualcosa a produrlo.
Pregò intensamente che non fosse solo una stupida cascatella a caso e si avvicinò alla fonte del rumore.
Quando vide da cosa era provocato, fu seriamente incerto sulla possibilità di mettersi a ridere o essere felice e basta perché aveva trovato qualcuno.
Un ragazzo dai capelli lunghi fino alla base del collo, forse solo un po’ più corti di quelli di Tomi, e gonfi – doveva avere più o meno la sua età – stava fermo a gambe larghe davanti ad una piccola pozza d’acqua e, semplicemente, faceva pipì.
- Scusa… - disse Bill, titubante, cercando di trattenere le risate.
- Oh? – disse il ragazzo, voltandosi a guardarlo, - Ah, sei tu. – borbottò poi, esaurendo il proprio bisogno e richiudendo i pantaloni, prima di saltare giù dal muretto sul quale era issato e recuperare da terra una specie di diffusore a spruzzo come quelli che la mamma metteva in bagno e cambiava ogni due settimane.
Bill non si fermò a riflettere sul fatto che quell’individuo non fosse stupito di vederlo: aveva altre priorità, al momento. Quando il tizio prese a camminare, il moro si limitò ad andargli dietro.
- Io mi chiamo Bill. - disse incoraggiante.
- Sì, lo so. – rispose lui, con aria annoiata, - Io mi chiamo Georg.
Proprio in quel momento, da una fenditura nel muro venne fuori un minuscolo esserino alato, in tutto e per tutto simile ad un insetto, ma ridacchiante e dalla forma vagamente antropomorfa.
- Queste sono…
- Fate. – concluse per lui il ragazzo, - Quarantasette! – esclamò poi, spruzzando qualcosa sulla fatina ed osservandola cadere a terra, stordita.
- …me le aspettavo più carine. – commentò Bill, scrutando la creatura per terra, - Sembrano mosconi. – continuò con una smorfia.
- Che ti aspettavi? – disse il tipo, acido, - Sono solo fate.
Bill annuì vagamente e poi tornò a concentrarsi sul proprio obiettivo.
- Senti, - disse ansioso, - io devo assolutamente trovare mio fratello. Tu puoi aiutarmi?
- Forse sì, forse no… - rispose quello, sibillino. – Quarantotto! – e mandò al tappeto un’altra fatina. – Cos’è che ti serve?
- Io… - borbottò Bill, confuso, - …dov’è l’entrata?
- Ah, chissà. Sei proprio sicuro di volere andare là dentro? Quarantanove! – e giù un’altra fata.
Bill aggrottò le sopracciglia ed incrociò le braccia sul petto.
- Ma vuoi starmi a sentire?! – protestò infastidito, - Allora, puoi aiutarmi o no?!
Il ragazzo si decise finalmente a fermarsi a squadrarlo con aria disapprovante.
- Tu non mi fai le domande giuste. – rivelò seriamente, piantando le mani sui fianchi.
Bill abbassò lo sguardo e sospirò.
- …come faccio ad entrare? – chiese alla fine, già esausto, passandosi una mano sugli occhi.
Georg sorrise subito.
- Ecco, questa è un domanda a cui posso rispondere! – disse gioviale. – Puoi entrare da lì. – rivelò. E nel momento stesso in cui pronunciò quelle parole, nell’enorme muro di cinta che circondava il labirinto si aprì un pesantissimo cancello.
- …ma… - biascicò Bill, fissando il tutto con aria sconvolta, - Quando ti ho chiesto dov’era l’entrata, tu-
- Devi imparare a chiedere le cose giuste, Bill. – commentò semplicemente il ragazzo, annuendo. – Per esempio… - continuò, accompagnandolo all’interno, - adesso dove pensi di andare? A destra o a sinistra?
Bill guardò entrambe le vie, sporgendosi un po’ per cercare di scrutare il più lontano possibile. Fu inutile: le due strade erano completamente identiche.
- Una vale l’altra. – rispose con una scrollatina di spalle.
Georg inorridì, disgustato.
- È questo il problema con i tipi come te, non date il giusto valore alle cose! Ecco perché tuo fratello è prigioniero!
Bill abbassò lo sguardo, colpevole. Il ragazzo aveva perfettamente ragione.
- Sai cosa ti dico? – continuò Georg, sempre più infuriato, - Non ci riuscirai mai, ad uscire da questo labirinto. Se anche dovessi arrivare al centro, non riusciresti mai a venirne fuori!
- Be’, questo è ancora da vedere! – rispose Bill, sollevando il capo ed aggrottando le sopracciglia, offeso.
Il ragazzo scosse una mano come a scacciare le mosche, deluso.
- Datti da fare, ragazzino, o non ce la farai davvero. – borbottò, prima di lasciarlo lì e tornare a varcare il cancello, richiudendoselo alle spalle senza neanche toccarlo.
Bill sospirò e cercò di farsi forza. C’era poco da fare. A parte cominciare a camminare.
*
Tutto quello che Tom riusciva a fare era stringersi nelle spalle. Era veramente l’unico movimento gli fosse consentito, visto che la corda d’oro che lo stringeva attorno alle braccia non gli permetteva neanche di allontanarle dai fianchi.
Seduto sopra un’enorme poltrona in velluto rosso, reso muto da una fascia stretta con forza attorno alla bocca, il biondo si dibatté un po’ e poi mugolò affranto. Non c’era modo di liberarsi.
L’uomo che lo teneva prigioniero stava seduto su una poltrona del tutto identica alla sua, ma al contrario di lui aveva mani e piedi completamente liberi e, volendo, avrebbe potuto alzarsi ed andare via. Ed invece rimaneva lì immobile a guardarlo con aria furba, posandogli addosso quegli incredibili e freddissimi occhi azzurri mentre l’esercito di creaturine deformi che lo circondavano lo torturava nei modi più assurdi – dal solletico ai pizzicotti – fino a farlo impazzire.
- Hmpf- - si lamentò il ragazzo, cercando di saltare giù dalla sedia. Non gli riuscì nemmeno quello, perché la corda d’oro era assicurata allo schienale della poltrona. Si limitò perciò a lanciare occhiatacce all’uomo che stava seduto di fronte a lui, una gamba posata sul bracciolo della propria poltrona ed un piccolo frustino nero a battere contro lo stivale.
- Tu dovresti imparare il valore del silenzio, Tom. – disse appunto l’uomo, tornando a sedersi composto per guardarlo negli occhi. – È per questo che sei finito qui, no?
Tom si agitò e cominciò un lungo discorso che sarebbe suonato più o meno come un “no, io non lo so perché sono qui e non ho capito un accidenti di questa storia degli gnomi o dei folletti o di qualunque altra cavolata si tratti, è roba per quell’idiota di mio fratello e, a proposito, se vengo a scoprire che tutto questo è opera sua, giuro che lo faccio fuori con le mie stesse mani, e comunque non ho capito bene per quale oscuro motivo dovrei chiamarti Re e perché sto legato a questa stupida dannata sedia con tutte queste creaturine bitorzolute che mi fanno il solletico, voglio dire, è palesemente una violazione dei diritti umani, lo sai che mio padre fa il camionista, eh?, lo sai?, potrebbe passarti sopra col suo camion e di te non resterebbe niente, e dove cavolo è mio fratello, comunque?!”. Sarebbe suonato così, ma naturalmente non poté che suonare invece come un unico e prolungato “hmpf”, visto che la fascia attorno alla bocca teneva fermo anche il mento e gli impediva di articolare suoni comprensibili.
- Sei incredibilmente fastidioso. – commentò ancora l’uomo, inarcando le sopracciglia con supponenza, - Tuo fratello ha fatto bene a mandarti qui.
Tom spalancò gli occhi. L’uomo sorrise.
Il momento successivo vide Tom sconfiggere le leggi della fisica – per quanto si potesse parlare di leggi simili in un mondo popolato di goblin – e tirarsi in piedi. La fisica, comunque, tornò immediatamente a riprendere possesso della realtà, ed in breve Tom si ritrovò in ginocchio per terra, schiacciato dal peso della poltrona e con le braccia strette in una posizione che gli provocava un dolore allucinante alle spalle.
Gli esserini intorno a lui ridevano come stessero assistendo allo spettacolo più divertente della loro intera vita. Ed era probabilmente così.
Anche l’uomo rise – Tom sentì distintamente uno sbuffo fra il compassionevole ed il divertito liberarsi nell’aria e solleticargli fastidiosamente le orecchie – prima di avvicinarsi a lui, afferrare la sedia per lo schienale e rimetterla dritta. Con lui ancora seduto sopra.
- Se hai tutta questa voglia di muoverti, lo farai alle mie condizioni. – disse quindi, chinandosi a guardarlo dritto negli occhi e sorridendo mefistofelico.
Tom non capì esattamente come si svolsero i fatti in successione. Si rese conto solo che, a un certo punto, non aveva più mani e piedi legati. A tenerlo prigioniero era rimasta solo la fascia sulla bocca. Per qualche motivo, comunque, assolutamente contro la propria volontà, stava ballando in tondo con quell’uomo misterioso che cantava you made me believe in magic. E i goblin, intorno, ridevano.
Mentre piroettavano intorno alla stanza, l’uomo fissò gli occhi azzurrissimi in quelli ambrati e luminosi e brillanti di confusione di Tom e sorrise, stringendolo alla vita.
- Se tuo fratello non sarà qui entro nove ore e mezzo… - sussurrò direttamente al suo orecchio, chinandosi su di lui, - …tu sarai mio.
Tom pressò le mani contro il suo petto, ma non riuscì ad allontanarsi.
Deglutì.
*
Nel frattempo, metri e metri sotto il livello del suolo – se un livello del suolo c’era, in quel mondo assurdo – Bill concludeva la propria caduta a precipizio lungo un improponibile tunnel lastricato di mani parlanti.
Palesemente non sarebbe mai arrivato a trovare Tomi.
*
Appena la musica aveva smesso di venare l’aria, Tom era stato gentilmente preso per i fianchi e rimesso seduto al proprio posto – corde d’oro comprese.
Aveva provato a lamentarsi, ma tutto ciò che aveva ottenuto era stato un buffetto sulla guancia ed un canzonatorio “slap that baby” che l’aveva fatto rabbrividire fin nel profondo, mentre l’uomo – del quale ancora, per inciso, non sapeva il nome – si chinava su di lui e scrutava qualcosa all’interno di una sfera trasparente.
Spalancò gli occhi quando vide cosa in effetti l’uomo stava guardando.
- Mmnh!!! – strillò, agitandosi convulsamente mentre l’uomo lo tratteneva per le spalle.
- Sì, sì, il tuo fratellino. – sorrise l’uomo, - Che poi è il motivo per cui stai qui, Tom. – il suo sorriso si allargò mentre stringeva la presa sulle sue spalle, - Non ti voleva più ed ha chiesto ai goblin di portarti via… a questo punto, sarebbe perfino meglio se restassi con me di tua spontanea iniziativa, no? – lo prese in giro, sfiorando col naso il profilo della sua guancia, - Piuttosto che sentirti indesiderato…
Tom si irrigidì sotto le sue mani e rimase immobile a guardare l’immagine di Bill che si guardava intorno, smarrito, nel buio.
Magari era davvero Bill che l’aveva mandato in quel posto, ma adesso lo stava cercando. Voleva tornare a riprenderselo.
E quindi no, non si sentiva indesiderato. Assolutamente no.
Scosse il capo.
L’uomo ringhiò e lo lasciò andare, tornando a sedersi al proprio posto e portando la sfera con sé.
- Non sarebbe dovuto arrivare alle segrete. – commentò infastidito, accavallando le gambe. – Georg, comunque, lo riporterà indietro… ed a quel punto, vedendo di dover ricominciare tutto da capo, si arrenderà. – commentò con una mezza risatina.
*
Gli occhi di Bill non ebbero nemmeno il tempo di abituarsi al buio, che subito una candela arrivò a rischiarare l’ambiente. Si trovava in una sorta di grotta, o di qualcos’altro di molto simile. Il tetto era roccioso ed umido e c’erano delle inquietanti catene a pendere immobili verso il pavimento. Deglutì, voltando lo sguardo in giro, e quasi saltò in aria dallo spavento quando, seduto su una tavola a qualche metro da lui, trovò Georg, il ragazzo che aveva incontrato fuori dal labirinto.
- Tu! – strillò, puntandolo con un dito, - Cosa diavolo ci fai qui?!
Georg si tirò in piedi con un sorriso furbo sul volto.
- Sapevo che ti avrei ripescato qua sotto. – lo prese allegramente in giro, - Sei finito in una segreta. Il labirinto ne è pieno. – sorrise ancora, in maniera più sottile e insinuante, socchiudendo gli occhi come quelli di un gatto, - Lo sai a cosa servono le segrete, piccolo Bill?
Il ragazzo si strinse nelle spalle, infastidito e un po’ spaventato.
- …tu sì? – chiese titubante, guardandolo con diffidenza.
Georg sghignazzò.
- A chiuderci dentro le persone che si vogliono dimenticare. – rivelò il ragazzo, tirando dietro un orecchio una ciocca di capelli. – Fortunatamente, - aggiunse poi, il tono più gioviale ma sempre canzonatorio, - sono venuto a riprenderti! Guardacaso, conosco una scorciatoia per uscire dal labirinto proprio partendo da questa stanza!
- Ma io non posso fermarmi! – strillò ancora Bill, muovendo qualche passo nervoso all’interno della stanza, - Tomi mi aspetta, io lo so! È colpa mia e devo salvarlo! Non posso fermarmi proprio adesso!
- Oh, certo. – borbottò Georg, incrociando le braccia sul petto, - Scemo io a preoccuparmi ed a venire fino a qui per tirarti fuori.
Bill gli lanciò un’occhiata curiosa da sotto le lunghe ciglia scure.
- Eri preoccupato…? Per me?
Georg guardò altrove, agitando una mano.
- Un bel ragazzino come te, tutto solo in questo posto oscuro… - motivò con disinteresse, come fosse normale. – Ora, coraggio, seguimi. Ti porto fuori di qui.
- No! – insistette Bill, - Tu… non capisci. – mugolò, abbassando lo sguardo, - Lui è mio fratello, non c’è nessuno che sia tanto importante quanto lui, e… io questo mondo lo conosco, perché tutti i miei sogni vi appartengono, ma lui… - si morse un labbro, - lui non c’entra niente, non è di qui, sarà spaventato ed io… devo portarlo a casa. Davvero. Devo riportarlo con me. – sollevò nuovamente gli occhi in quelli verdissimi dell’altro ragazzo, - Non ti chiedo di portarmi fino al castello… se non vuoi, va bene, ma… portami almeno fin dove puoi! Dopo me la caverò da solo!
Georg roteò gli occhi, poco convinto.
- Peggiorerà soltanto, da ora in poi. – lo avvisò con piglio serio.
Bill scosse il capo.
- Non m’importa.
Rimasero a fissarsi a lungo, entrambi fermi sulle loro posizioni. Il primo a cedere, però, fu Georg.
- E va bene, - concesse alla fine, sbuffando sonoramente, - vieni con me.
Bill non riuscì a trattenere il gridolino di gioia che nacque spontaneo nel fondo della sua gola, e premette tanto per uscire che lui dovette lasciarglielo fare.
- Sì, ma non entusiasmarti adesso, ragazzino, - disse Georg mentre attraversavano un lungo ed oscuro corridoio, - siamo ancora… - ma si fermò all’improvviso quando in mezzo a loro rotolò una sfera di cristallo perfettamente lucida e tonda, trasparente e liscissima. - …oh.
- Cosa…? – chiese Bill, incerto, notando appena la pallina rotolante.
- Be’…? – chiese una voce gracchiante e sgradevole dal buio. Quando Bill alzò lo sguardo sulla figura, notò che la sfera si era fermata ai suoi piedi e poi aveva preso a volteggiare fino a rimbalzarle in mano. – Che cosa sta succedendo qui?
- …come? – chiese Bill per riflesso, ormai quasi abituato alle stranezze del posto.
Georg rimase immobile e silenzioso, tesissimo. E non sembrò molto stupito quando la figura ammantata si liberò della propria copertura e, da sotto il mantello, venne fuori l’uomo misterioso, lo stesso che aveva rapito suo fratello.
Bill fece istintivamente un passo indietro, prontamente imitato da Georg.
- Niente, mio signore! – si affrettò a difendersi il ragazzo, mettendo le mani avanti.
- Niente?! Niente, Georg?! – insistette l’uomo, avvicinandoglisi con fare intimidatorio, - Lo stavi aiutando!
- No, mio signore, mai! – rispose il ragazzo, - Lo stavo portando all’inizio del labirinto!
- Cosa?! – chiese Bill, oltraggiato, - Come hai potuto?!
- Stai mentendo. – disse l’uomo, piegandosi a guardare Georg negli occhi, - È tradimento questo, Georg, lo sai? Dovrei prenderti ed appenderti a testa in giù nella Gora dell’Eterno Fetore, sai?!
Georg abbassò lo sguardo, colpevole.
- Chiedo perdono, mio signore.
Lui non sembrò badare alla richiesta, tant’è che il perdono non lo concesse affatto. Si voltò però a guardare Bill, avvicinandosi a lui, stavolta, e poggiando un braccio sul muro per poi chinarsi a scrutarlo negli occhi con aria pericolosa.
- Allora, Bill… - disse malizioso, sfiorando quasi il profilo del suo viso con le labbra, - ti sta divertendo, il mio labirinto?
Bill aggrottò le sopracciglia. Quello era lo stesso atteggiamento intimidatorio che usavano con lui i bulli del Gymnasium, nella speranza di obbligarlo ad abbassare la testa. E se lui si trovava in punizione, quella sera, era proprio perché, ad atteggiamenti come quello, reagiva sempre nello stesso modo. Opponendosi.
- È un gioco da ragazzi. – disse con un sorrisetto furbo, inclinando il capo.
L’uomo rise a propria volta, estremamente divertito.
- Un gioco da ragazzi, dici. – annuì, separandosi da lui, - Bene, allora che ne dici di alzare un po’ la posta? – chiese, voltandosi all’indietro verso un enorme orologio, apparso dal nulla. Mosse le dita in un movimento circolare e le lancette, guidate dalla magia, si spostarono in avanti. Una, due, tre ore.
- Questo non è giusto! – protestò Bill, stringendo i pugni.
- Non è giusto, dici? – chiese l’uomo, continuando a ridere supponente, - Mi chiedo quale sia l’idea che hai della giustizia. – replicò, allontanandosi di qualche passo. – E visto che trovi il mio labirinto così semplice da affrontare… vediamo come te la cavi col mio piccolo amico qui dietro. – prese la sfera di cristallo che ancora teneva mollemente in mano e la scaraventò con forza nel buio del corridoio. Subito dopo, scomparve.
Georg deglutì e spalancò gli occhi.
- Oh, no… - lo sentì esalare sconsolato Bill. – No, questo no…
- Questo cosa, Georg?! – chiese Bill, impaurito, appendendosi al suo braccio.
- Non lo senti?! – disse il ragazzo, indicando nel buio, - Gli spazzini!
Bill ebbe appena il tempo di cominciare a sentire lo stridio metallico di un centinaio di lame che sfregavano l’una contro l’altra, che già Georg l’aveva afferrato per un braccio e lo tirava lungo il corridoio, verso il lato opposto, strillandogli di darsi una mossa. Bill lo seguì senza fare storie, voltandosi solo di tanto in tanto e cogliendo appena l’immagine di un gigantesco marchingegno che, velocissimo, abbatteva qualsiasi cosa trovasse sul proprio cammino fra rumori agghiaccianti.
- Merda… - commentò Georg quando arrivarono alla fine del corridoio ed andarono a schiantarsi contro un cancello inoppugnabilmente chiuso, - È la fine! Certo che… la Gora dell’Eterno Fetore prima, gli spazzini poi… ti sta trattando proprio con tutti i riguardi!
Bill ringhiò e tirò un calcio di pura frustrazione contro una parete. Il rumore delle lame era forte, ma non riuscì del tutto a coprire il thud un po’ ovattato che fece il suo piede battendo contro la roccia.
- Oltre questa parete… - disse, lasciandovi scorrere sopra una mano, - È vuoto! Georg! Aiutami a spingere!
Ed era vuoto davvero. Riuscirono a rintanarsi in una specie di antro dopo aver frantumato la friabile parete di finta roccia, giusto un attimo prima che la macchina metallica passasse alle loro spalle, abbattendo il cancello e continuando per la propria strada.
- Ma chi me l’ha fatto fare di aiutarti, ragazzino, me lo spieghi?! – borbottò Georg tirandosi in piedi dopo la rovinosa caduta cui era stato costretto per mettersi in salvo.
- Aiutarmi?! – strillò a quel punto Bill, ricordando il discorso di poco prima con l’uomo misterioso, - Ma se hai detto che mi stavi riportando all’ingresso!
- Questo è quello che ho detto a lui, per distrarlo! – motivò il ragazzo, - Vieni, questa scala dovrebbe riportarci in superficie. – aggiunse poi, indicando una scala a pioli poggiata contro il muro lì di fianco.
- Come faccio a fidarmi ancora di te? – chiese Bill, con tono lamentoso, - Se menti-
- Mettiamola così: - lo interruppe Georg, cominciando la scalata, - che alternative hai?
- …nessuna, in effetti. – ammise il moro, abbassando lo sguardo.
- Infatti. – annuì il ragazzo, già a metà scala, - Ti dai una mossa o no? – osservò Bill annuire e mettersi al suo seguito e sospirò, scuotendo il capo, - Devi capire la mia posizione, ragazzino. – cercò di giustificarsi, nemmeno lui sapeva perché, - Io non sono esattamente quello che si dice un coraggioso. E David mi fa paura.
- David… è così che si chiama.
- Già.
- E ti fa tutta questa paura?
- Lo sai perfettamente che è il Re dei Goblin. Se fossi di queste parti, spaventerebbe anche te. Oltretutto, la Gora dell’Eterno Fetore-
- Oh, che mai potrà fare?! Puzzare?!
- Be’, è dannatamente abbastanza per non essere piacevole, no? Oltretutto, come ci metti piede, sei condannato a puzzare per sempre! Non c’è sapone che tenga! Una vera maledizione. – continuò a lamentarsi fino a che non furono finalmente in superficie. Sbucarono da un vaso nel mezzo di una piazzetta dalla quale partivano molti viali delimitati da siepi altissime.
- E adesso dove andiamo…? – chiese Bill, guardandosi intorno con aria smarrita.
- Ah, no! – borbottò Georg, allontanandosi celermente da lui, - Adesso vai per la tua strada! Ho promesso di accompagnarti solo fin dove avrei potuto! Bene, qui mi fermo!
Bill inarcò le sopracciglia verso il basso, stringendosi nelle spalle.
- …pensavo… che avessi capito le mie ragioni… - commentò tristemente.
Georg sospirò, roteando gli occhi e incrociando le braccia sul petto.
- Le ho capite, le tue ragioni, è solo che-
- Pensavo fossimo diventati amici! – aggiunse Bill, gli occhi pieni di lacrime e le mani strette all’altezza del cuore.
Georg spalancò gli occhi.
- …amici? – chiese con aria stupita, - …non ho mai avuto degli amici…
Bill arrossì un po’, stringendosi nelle spalle.
- Be’, in fondo mi hai aiutato… sai, anche io, non è che abbia tutti questi amici, nel mondo da cui provengo… e tu sei stato… be’, abbastanza gentile. – sospirò, - Perciò sì, ti considero un amico.
Georg annuì lentamente e si prese qualche secondo per riflettere.
- Oh, insomma. – concesse alla fine, - D’accordo. Proviamo ad andare di là.
Bill si lasciò andare ad un urletto di gioia, ma la sua felicità durò poco. Esattamente fino al momento in cui Georg si ricordò di essere un vigliacco.
Appena girato l’angolo, i due vennero infatti investiti da un suono spaventoso – l’ululato di sofferenza di un essere probabilmente altrettanto spaventoso – e Georg ci mise un secondo a girare sui tacchi e dirigersi verso un punto a caso purché fosse il più lontano possibile da lì.
- Ma non avevi detto che eravamo amici?! – si lamentò Bill, cercando di artigliarlo prima che sparisse oltre l’angolo.
- No, ragazzino, l’hai detto tu! E comunque, io non sono amico di nessuno: sono amico solo di me stesso, come tutti.
- Ma non è giusto!
- No, non lo è.
- …ma è così.
E quello decisamente era qualcosa di nuovo imparato sulla giustizia.
*
L’essere probabilmente spaventoso che aveva ululato fino a far scappare Georg, in realtà non era affatto un essere spaventoso. Bill se ne accorse non appena raggiunse la fonte dell’urlo e la spiò da dietro una siepe: si trattava di un ragazzo, probabilmente un po’ più piccolo di lui, sicuramente molto più basso ed anche più tarchiatello. Biondo e pallido.
Ma ululava effettivamente come una bestia.
Il problema era la bestia non fosse lui, bensì le creaturine che lo circondavano: goblin, indubbiamente, ed armati – tenevano in mano lunghi bastoni che ospitavano in punta degli esseri se possibile ancora più rivoltanti dei loro proprietari, piccoli, glabri e rosa, e con enormi bocche dotate di spaventosi denti aguzzi. I goblin usavano quelle armi vive per torturare il povero ragazzo, che pendeva dal ramo di un albero a testa in giù e continuava ad urlare il proprio dolore fra un “lasciatemi andare” e l’altro.
Georg poteva essere un codardo, ma Bill decisamente della codardia era l’antitesi.
- Se solo avessi una pietra da lanciare… - si ritrovò a borbottare, mordicchiandosi un labbro e guardandosi già intorno alla ricerca di un sasso.
Quel mondo magico e spaventoso lo stupì una volta di più: i sassi cominciarono in effetti a rotolare verso i suoi piedi, neanche li avesse evocati con un rito voodoo. Sorridendo un po’, si chinò a raccoglierne uno e lo lanciò in mezzo al gruppetto di goblin, centrandone uno sull’elmo. Il caos che da ciò si generò lo divertì parecchio e si concluse, dopo una serie di impacciati movimenti degli esserini confusi e spaventati, con la fuga dei suddetti esserini impazziti. Per dove, non voleva saperlo.
Il ragazzo continuava a sbraitare.
Bill decise che fosse il momento giusto per tirarsi fuori dal proprio nascondiglio.
- Uhm… ciao. – disse salutandolo timidamente con la mano, - Io sono Bill e-
- Sei stato tu a farli scappare? – ringhiò burbero il biondino, sempre a testa in giù.
- Er… sì, ho usato dei sassi che-
- Io mi chiamo Gustav. – lo interruppe ancora il biondo, annuendo, - Ti dispiacerebbe…?
- Oh, sì! – annuì Bill, dirigendosi verso la radice dell’albero, dove aveva già avvistato il nodo che teneva tesa la corda, - Faccio subito! – annunciò impettito, sciogliendo il nodo ed osservando Gustav cadere a terra di testa il secondo successivo, producendosi in un ululato di dolore dei propri. – Oddio! Oddio, scusami! – disse preoccupato, avvicinandosi di corsa al corpo riverso in terra, - Ti sei fatto molto male?
- No, figurati… - rispose quello, ironico, - Be’, comunque sto meglio di prima. – ammise, prima di concedergli un sorriso, - Grazie.
Bill sorrise di rimando, stringendosi un po’ imbarazzato nelle spalle.
- Senti, Gustav, io dovrei arrivare al castello. Ne ho assolutamente bisogno. Non è che tu sapresti indicarmi la strada da prendere?
Gustav lo guardò per qualche secondo con aria genuinamente curiosa, prima di stringersi nelle spalle.
- Non ne ho la più pallida idea. – ammise alla fine, - Quelle, comunque, potrebbero essere un indizio. – disse, indicando con un cenno del capo due porte.
- Queste prima non c’erano… - borbottò Bill, scontento, - Qui tutto continua a cambiare senza un senso!
- Perché non è detto che ciò che vedi sia esattamente come sembra, Bill. – rispose Gustav con un sorriso sornione.
- Sì. – annuì Bill, - Sto cominciando a capirlo. Come credi si possano aprire, queste porte?
Il ragazzo si strinse nelle spalle, vagamente divertito.
- Be’, ci sono delle maniglie, in fondo. – rispose.
- …e quindi? – chiese di rimando Bill, per nulla illuminato dalla rivelazione.
Gustav sospirò e lasciò scivolare un dito lungo il cerchio metallico della porta a destra.
- Le maniglie esistono per bussare, no?
*
Tom cercò di divincolarsi, ma la presa dell’uomo non si ammorbidì neanche un po’. Oltretutto, il ragazzo sospettava che continuare ad agitarglisi in grembo in quel modo potesse non essere il modo migliore per risolvere la questione: la situazione era equivoca, il sorriso e gli occhi di quell’uomo erano equivoci e, soprattutto, ciò che sentiva premere contro il sedere, oltre la stoffa dei jeans che indossava, era talmente equivoco da rasentare addirittura l’esplicito.
L’uomo gli sorrise, gli occhi stretti come due fessure e brillanti come la luce stessa del giorno.
- Sei un ragazzino davvero vivace… - commentò, sfiorandogli distrattamente una coscia, - Forse, quando sarai mio, dovrò chiamarti David.
*
Al di là della porta c’era qualcosa che somigliava moltissimo ad un bosco ma era molto più scuro, spaventoso e misterioso di tutti i boschi che Bill avesse visto in vita propria.
Non che, in effetti, ne avesse visti tanti: odiava la natura, odiava gli insetti ed odiava tutto ciò che in generale i salutisti adoravano – compreso il frinire dei grilli e l’aria pura di montagna, anzi, il frinire dei grilli gli dava il mal di testa e l’aria pura lo costringeva a giornate intere passate a letto con la febbre a quaranta; comunque, in quella foresta non c’era proprio niente di simile ai boschi che aveva visto. Non c’era luce, non arrivava neanche un po’ di sole filtrato attraverso le foglie, e l’aria era pesante ed umida come quella di una palude.
- Non credo sia stata una buona idea entrare qua dentro… - commentò Gustav alle sue spalle.
- Non avrai mica paura? – chiese Bill, di rimando.
- Paura, io? – rise Gustav, infilando le mani nelle tasche, - Assolutamente no. È solo che-
Silenzio.
- …è solo che? – chiese Bill, continuando ad esplorare l’ambiente circostante e tentando di trattenere le copiose smorfie di disgusto che affioravano alle sue labbra ogni volta che si bagnava toccando qualcosa di umido e marcio. Dalle sue spalle non giunse alcuna risposta. Si voltò a guardare. – Gustav…? – ma dietro di lui non c’era più nessuno.
*
Su uno scenario completamente differente, Georg si stava dibattendo fra le sterpaglie e le rocce nude di un bosco morto e deserto, borbottando fra sé. Quel ragazzino impossibile che non si rassegnava mai non aveva fatto altro che metterlo nei guai in milioni di modi diversi, e quella stupida faccenda dell’amicizia continuava a tormentarlo senza lasciarlo in pace neanche un secondo.
Quando sentì distintamente la voce di Bill invocare il suo aiuto, tutto ciò che riuscì a pensare fu “Arrivo!”. E non fu neanche abbastanza intelligente da tenerselo per sé, anche se desiderò vivamente di averlo fatto quando, voltandosi per ripercorrere la strada al contrario e raggiungere il ragazzo in pericolo, vide che non c’era nessun ragazzo in pericolo, ma solo David, espressione seria e braccia incrociate sul petto, che lo scrutava con aria severa.
- Dov’è che stai andando, Georg…? – chiese l’uomo, irridente.
- …naturalmente a recuperare il ragazzo per riportarlo all’ingresso del labirinto. – mentì, mordendosi un labbro, - Come da programma.
- Ah, davvero? – chiese David, insinuante, - Perché sai, avrei detto che invece tu stessi correndo in suo soccorso.
- Io? – rise lui, cercando di darsi un tono, - Ma che idee. Dopo gli ordini che mi avete dato…
- Già. – annuì il re dei goblin, - Sarebbe veramente molto stupido, da parte tua, disobbedirmi ancora.
- …già. – concordò il ragazzo, abbassando lo sguardo.
David sorrise.
- Cosa c’è, Georg? – lo prese in giro con un sorriso cattivo, - Non mi dirai che provi qualcosa per lui? Che ti sei fatto irretire da quello stupido ragazzino?
- Assolutamente no! – protestò lui, - Io non-
- Perché – precisò l’uomo, piantandogli il frustino nel petto, - non penserai davvero che un ragazzino carino come quello potrebbe interessarsi minimamente ad un rifiuto vigliacco come te, vero?
Georg abbassò lo sguardo e voltò le spalle.
- No, mio signore. – annuì alla fine.
David sorrise ancora.
- Allora…
- Vado a riportarlo all’ingresso del labirinto. – biascicò Georg, dando all’uomo le spalle e cominciando a muoversi in direzione di Bill, - Come da programma.
David annuì. Poi lo fermò, richiamandolo.
- Aspetta. – disse, mentre una sfera di cristallo appariva fra le sue mani, - Portagli questo. – ordinò, lanciando il globo. Quando giunse nelle mani di Georg, s’era già trasformato in un frutto.
- …che cos’è, mio signore? – chiese timidamente, senza sollevare il capo.
- Un presente, naturalmente. – rispose lui, sereno.
- …voi non gli fareste del male, vero? Perché io… non credo che potrei farlo.
David ringhiò e gli si avvicinò con fare minaccioso, puntandolo nuovamente con il frustino.
- Tu gli darai quel frutto, Georg, o io ti spedisco a calci nella Gora dell’Eterno Fetore, senza pensarci su neanche un momento! – lo minacciò bruscamente, - Sono stato chiaro?
- …sì, mio signore. – annuì il ragazzo, riprendendo la strada verso il proprio obiettivo.
- E… Georg? – lo richiamò un’ultima volta David, prima di sparire, - Se mai lui dovesse baciarti… ti trasformerò in un principe.
- …davvero…? – chiese lui, incredulo.
L’uomo rise.
- Oh sì, eccome. – rispose, - Anche alla Gora dell’Eterno Fetore servirà un principe, no?
*
Bill non era mai scappato strillando, da che era venuto al mondo. Be’, forse da piccolo, di fronte a qualche orrendo insetto palesemente nato per attentare al suo sistema nervoso in primo luogo ed alla sua vita in secondo, ma da quando aveva cominciato più o meno a capire cosa significasse diventare grandi, correre dei rischi e prendersi la responsabilità delle proprie azioni, Bill non era mai scappato strillando di fronte a niente.
All’interno di quel bosco, però, aveva trovato delle creature talmente spaventose – non c’era altro modo per definire quegli enormi uccelli canterini che continuavano a staccarsi teste ed arti vari ed eventuali a vicenda con lo scopo di usare le suddette parti del corpo per i più diversi tipi di sport – che fuggire strillando era diventata l’unica alternativa possibile.
Fu così che rincontrò Georg: intrappolato contro una parete rocciosa e circondato dagli uccelli canterini – che dovevano aver preso piuttosto male il suo staccare tutte le loro teste e lanciarle lontano per guadagnare qualche secondo di vantaggio nella fuga – stava già cominciando a chiedersi quanto fosse doloroso morire per mano di uno stormo di pennuti quando una corda discesa dall’alto lo colpì sulla testa. Sollevò lo sguardo e lì c’era Georg.
- Afferrala! – disse spiccio il ragazzo, mostrandogli la corda ben assicurata contro uno sperone.
Bill non se lo fece ripetere due volte e, per quanto le sue doti fisiche fossero decisamente scarse, la paura irrazionale che provava in quel momento – paura di perdere la vita, di non ritrovare Tomi, di non riuscire a tornare a casa – ebbe un effetto più che benefico sulle sue doti di scalatore, perché meno di un minuto dopo si ritrovava in alto, lontano dai pennuti, a stringere le braccia attorno al collo di un Georg mortalmente imbarazzato.
- Sei tornato! Sei venuto ad aiutarmi! – strillò commosso, saltellando sul posto, - Sapevo che non potevi essere del tutto cattivo! – e, così dicendo, in maniera del tutto naturale e inaspettata, sporse le labbra verso la sua guancia.
- No! – cercò invano di trattenerlo Georg, - Cosa fai?! Non baciarmi! – ma fu del tutto inutile: quando le sue labbra sfiorarono la guancia liscia del giovane, sotto di loro si aprì un baratro e scivolarono per metri e metri, rotolando fra le sterpaglie, fino ad una parete rocciosa che dava su una disgustosa palude di melma.
Riuscirono a salvarsi solo perché Georg ebbe la prontezza di spirito di afferrare uno spuntone che fuoriusciva dalla parete, prima di cadere nella palude, e Bill riuscì a frenarsi un attimo prima di franargli addosso.
- …oddio… - si lamentò, cercando di non respirare quando il puzzo incredibile che si sollevava dall’acqua raggiunse le sue narici, - Ma che posto è questo?
Georg deglutì.
- La Gora dell’Eterno Fetore.
- Dio mio, è veramente disgustoso! – commentò Bill, tirando su il ragazzo finché non si fu assicurato allo stretto corridoio di pietre che costeggiava la fiancata dello strapiombo.
- Dobbiamo… uscire immediatamente da questo posto. – lo avvisò il ragazzo, cominciando a spingerlo lungo il sentiero, - Certo che, anche tu, dovevi proprio baciarmi?!
- Aaah, poche storie! – rise Bill, - Tanto lo so che sei tornato indietro per aiutarmi! E perché siamo amici!
- Nella maniera più assoluta, no! – precisò lui, adirato, - Sono tornato indietro solo per darti questa! – borbottò, ficcando una mano in tasca ed armeggiando alla ricerca di qualcosa. Sfortuna volle che il suo armeggiare, però, avesse luogo proprio mentre la pietra sulla quale si trovava si decideva a porre fine alla propria vita, sfaldandosi in mille pezzi. Nel momento in cui Bill se ne accorse ed allungò un braccio per aiutarlo, anche la sua pietra cedette, ed in breve si ritrovarono entrambi a cadere verso il basso, strizzando gli occhi per la paura di finire proprio in quell’acquitrino disgustoso dal quale proveniva l’olezzo pungente che impregnava l’aria.
- Oh… cazzo! – sbottò invece la persona sulla quale caddero.
Bill sollevò lo sguardo, cercando di riprendersi dalla caduta.
- …Gustav! – disse, saltando anche al collo di quest’ultimo ma evitando inappropriati baci, visto che quello che aveva rifilato a Georg sembrava essere il motivo della loro presenza in quel luogo osceno, - Ma allora sei ancora vivo!
- Dannazione, sì che lo sono! – biascicò il biondo mentre si tirava in piedi, - Sono caduto in una dannata trappola, in quella foresta! – poi il suo sguardo dardeggiò su Georg, che si stava a propria volta risollevando a qualche passo da lui. – E quello chi sarebbe?
- Lui è Georg, - lo presentò Bill con un sorriso, - è un amico anche lui!
- La vogliamo piantare con questa storia degli amici?! – si lamentò il ragazzo, spolverandosi i pantaloni. – Piuttosto: là c’è un ponte. – dichiarò, indicando un punto qualche metro più in là, - Probabilmente porta all’uscita.
Bill annuì ed i tre si incamminarono verso l’unica via di salvezza cui potessero pensare, ma una volta giunti di fronte al ponte, appena provarono a metter piede sull’instabile asse di legno che lo componeva, una voce tonante li fermò.
- Altolà. – disse la voce, e da dietro un albero venne fuori un uomo altissimo e dalla pelle scura, ricoperto di tatuaggi, - Non potete passare. – disse, frapponendosi fra i tre disperati e la libertà.
- Oh, balle! – ringhiò Georg, facendosi avanti e dimenticando perfino di essere un vigliacco, in virtù della puzza, - Noi dobbiamo uscire di qui! Non si respira!
- Nessuno passa di qui senza il mio permesso. – precisò l’uomo, - Il mio nome è Bushido e sono il guardiano di questo ponte. E quelli sono gli ordini.
Gustav gli si parò davanti. Doveva essere alto più o meno la metà dell’uomo, e non era largo nemmeno il doppio.
Bill li osservò prendersi a cazzotti per molti minuti. Perfino con un certo divertimento.
*
Un attimo prima di abbandonare la palude – dopo una scenetta delirante quanto deliziosa durante la quale, dopo aver stabilito di essere entrambi ugualmente bravi a fare a botte, Bushido e Gustav s’erano autoproclamati rispettosamente l’uno il fratello di sangue dell’altro – Georg aveva accarezzato l’ipotesi di prendere il frutto e buttarlo nella melma. Questo l’avrebbe probabilmente condannato a qualcosa di perfino più spiacevole della Gora, ma almeno gli avrebbe impedito di fare del male a Bill.
La voce di David, risuonando nella sua testa, gli aveva consigliato di non compiere gesti avventati, però. E così lui non ne aveva compiuti.
Dopodiché, era venuto fuori che Bushido non solo sapeva come uscire dalla Gora, ma, a quanto diceva, anche come giungere al castello. Bill non era stato per nulla in grado di trattenersi: gli era saltato al collo, l’aveva ricoperto di baci un po’ ovunque, aveva raccontato la triste storia del suo fratellino rapito ed il danno era stato fatto. Bushido promise di portarli tutti al castello entro il sorgere del sole e li obbligò ad una marcia serratissima attraverso un bosco molto più fitto ma, per fortuna, anche molto più luminoso di quello in cui Gustav era sparito ore prima.
Dalla propria stanza del trono, David osservava tutto questo continuando a stringere Tom fra le braccia, pressandoselo addosso in un’esplicita tortura.
- Guarda quanta pena si dà per te… - commentò, sfiorandogli una guancia con due dita, - per un fanciullo così piccolo come te… - aggiunse, con un sorriso pericoloso, - Ma presto tutto questo finirà. – annuì compiaciuto, - Non appena Georg gli darà il mio regalo, Bill dimenticherà tutto… anche di te.
Sotto il bavaglio, Tom avrebbe voluto mordersi un labbro; ma non ci riuscì.
*
- Sì, però io sto morendo di fame. – si premurò di far sapere al mondo Gustav mentre incedeva fiero al fianco di Bushido, che gli ricordava quanto fosse in effetti poco virile andare in giro borbottando cose simili.
- Un guerriero soffre in silenzio. – disse l’uomo, seriamente, e Bill si ritrovò a chiedersi quando fosse diventato un guerriero; se per caso le botte a scuola facessero di lui un guerriero; e soprattutto… se davvero valesse tanta pena un fratello che, chiacchierando al telefono col proprio migliore amico, parlava di quanto migliore sarebbe potuta essere la sua vita se lui non fosse esistito affatto.
Il suo stomaco brontolò proprio nel mezzo di questi allegri pensieri, e Bill rilassò le spalle, sconsolato.
- Ho fame anche io… - borbottò incerto, - Ma non possiamo fermarci.
Georg si fece avanti con un paio di colpi di tosse per schiarirsi la voce.
- Bill… io avrei… - sospirò, prima di tirar fuori dalla tasca una bellissima pesca dal profumo squisito, - questa. – sussurrò, porgendogli il frutto.
Bill spalancò gli occhi – le voci di Gustav e Bushido, ancora impegnati a discutere della mascolinità dell’appetito, erano ormai lontane.
- Georg! – disse entusiasta, - Tu sei un salvavita! – e, così dicendo, addentò la pesca.
*
E poi fu come precipitare in un sogno.
Un incredibile senso di spossatezza lo colse, e riuscì appena a cogliere l’immagine di Georg che si allontanava biascicando “cosa ho fatto…?”, prima di lasciarsi ricadere esausto contro un albero e scivolare lungo il tronco fino a terra, mentre miriadi di bolle di sapone – ognuna con dentro un sogno diverso – lo circondavano e gli annebbiavano la vista.
Nella più grande, nella più bella, nella più luminosa di tutte c’era una chiassosa festa danzante, decine e decine di invitati a ridere e divertirsi, e Bill poteva vedere anche un altro se stesso, no, non era un altro se stesso, era proprio lui, là, in mezzo a tutta quella gente, completamente vestito di bianco e luccicante come una stella, farsi strada fra le miriadi di persone mentre da un lato all’altro della stanza rimbalzava l’immagine di quell’uomo, David.
Stretto fra le sue braccia, suo fratello. Sembrava completamente incosciente: i suoi occhi – solitamente così luminosi – erano vuoti e spenti, la sua bocca piena era coperta da un bavaglio e le mani erano assicurate dietro la schiena con una corda d’oro zecchino.
David lo cullava teneramente, danzando con lui e stringendolo alla vita, pressandoselo contro, e suo fratello non reagiva; David lo sfiorava con la punta del naso e con le labbra ma non lo toccava mai sul viso, anche se tutto il resto del suo corpo era così vicino a quello di suo fratello da confonderli quasi l’uno per l’altro.
Bill annaspò: non voleva vedere Tomi in quelle condizioni, non voleva vederlo fra le mani di quell’uomo, non a causa sua, doveva salvarlo, doveva assolutamente salvarlo, e poi David scomparve e Tomi con lui, e quando Bill sentì la presenza di quegli occhi di ghiaccio contro il collo e si voltò a guardare, David era tornato ma Tomi non era con lui.
- Dov’è- - provò a chiedere, spaventato, ma l’uomo gli posò un dito sulle labbra. Non gli ordinò di stare zitto, ma fu come l’avesse fatto: il fiato volò via e ciò che rimase del suo raziocinio lo seguì quando le braccia forti di David si chiusero attorno alla sua vita e lo strinsero violentemente.
E poi fu lui a danzare.
*
Quando si risvegliò era molto confuso. Aveva una pesca marcia fra le mani – la gettò via con disgusto non appena vide venirne fuori un vermicello dall’aspetto orrendo – e si trovava in un luogo mai visto prima – una discarica colma di oggetti, cianfrusaglie di ogni tipo confuse e mescolate fra loro fino a non riuscire a distinguere cosa fosse cosa in precedenza.
- Vuoi scendere dalla mia schiena?! – disse una vocetta nasale proveniente dal mucchio di cianfrusaglie sotto di lui. Bill si lasciò scivolare a terra e, quando si voltò, si ritrovò di fronte un ometto dalla faccia vagamente allungata – gli ricordava un po’ un topolino – con dei ridicoli baffetti sotto il naso. – Be’? – disse l’ometto, - Cos’hai da fissare?
- Io… non lo so… - rispose sinceramente Bill, passandosi una mano sulla fronte, - Io credo… stavo cercando qualcosa…
- Oh, eccome se stavi cercando qualcosa! – annuì l’altro, rovistando in una borsa che portava a tracolla lungo un fianco, - Ecco quello che cercavi! – disse, tirandone fuori il suo orsetto, - È il tuo Lancillotto, giusto? – chiese con un mezzo sorriso.
Bill prese l’orsacchiotto fra le mani e sorrise a propria volta.
- Sì, è lui, è… che assurdità, avevo dimenticato di stare cercando proprio lui… - aggiunse con una risatina.
L’omino annuì.
- Dunque, già che ci sei… - suggerì, scortandolo verso una tenda, - perché non dai un’occhiata qua dentro e vedi se per caso c’è qualcos’altro che ti interessa?
Bill lo seguì e, quando oltrepassò la soglia dell’ambiente, vide finalmente la prima cosa familiare su cui posasse gli occhi da ore: la propria camera. Perfettamente identica a come l’aveva lasciata: i letti, il disegno di Topolino sulla parete, e tutti i giocattoli della sua infanzia al loro posto. Stringendo al petto Lancillotto, in un impeto di commozione, si gettò sul letto e chiuse gli occhi. Poi si rigirò sul materasso e, quando fu di nuovo supino, tornò a guardare il soffitto.
- È stato solo un sogno… - si disse, rimettendosi seduto fra le lenzuola, - Lancillotto, puoi crederci…? È stato tutto solo un sogno… - scese con un saltello giù dal letto e si diresse verso la porta, per controllare se sua madre e Gordon fossero tornati.
Ma quando mise la mano sulla maniglia, non ebbe neanche il tempo di girarla che la porta si spalancò sullo stesso omino baffuto di prima.
- Resta qua dentro, ragazzino, non c’è proprio niente per te, là fuori. – disse l’omino annuendo e chiudendosi la porta alle spalle, - Tutto ciò che ti serve è qua dentro. – continuò, scortandolo verso la sedia di fronte alla scrivania ed aiutandolo a sedersi, - Vedi? Tutti i tuoi giocattoli, tutto ciò che per te abbia avuto un valore, è qui dentro. C’è anche la Barbie Sirena che hai perso, la ricordi? Ecco qui. – aggiunse, consegnandogli la bambola fra le mani, mentre lui squadrava il tutto con aria assente. C’era qualcosa che gli sfuggiva, qualcosa che non riusciva a capire, che non riusciva a ricordare, eppure sembrava importante, perché era come gli mancasse un pezzo di cuore.
Lasciò scorrere lo sguardo sulla scrivania e gli occhi si posarono su un libro dalla copertina morbida e rossa. Labyrinth. Lo conosceva, era il suo libro preferito, lo sapeva praticamente tutto a memoria. Lo aprì ad una pagina a caso e cominciò a leggere automaticamente, ad alta voce.
- Con rischi indicibili… - disse in un sussurro, - e traversie innumerevoli, io ho superato la strada per questo castello oltre la città di Goblin, per riprendere… - s’interruppe e spalancò gli occhi, - …per riprendere il ragazzo che tu hai rapito! Tomi! – saltò in piedi, ricordando, - Mio fratello! Io devo salvare mio fratello!
- Bill! – strillarono due voci conosciute, ed il ragazzo sollevò gli occhi proprio mentre, tutto intorno a lui, le pareti di quella stanza finta cedevano mattone dopo mattone, rivelandosi inconsistenti come farina, sfaldandosi senza nemmeno un tocco.
Bushido e Gustav si affacciarono fra le macerie, tendendogli ognuno una mano.
- Ci chiedevamo dove fossi finito! – disse il biondo, mentre l’uomo più alto lo aiutava a riaffiorare in superficie, - Siamo quasi arrivati al castello!
- Davvero?! – s’illuminò Bill, speranzoso.
Bushido sorrise trionfante.
- Ebbene sì! – disse orgoglioso, indicando poco distante, - Siamo alle porte della città di Goblin.
*
Non fu difficile entrare all’interno della città – la guardia non guardava proprio un bel niente, anzi, dormiva in piedi, e per scostare le porte bastava spingerle; più difficile fu farlo in silenzio, dal momento che, appena giunti di fronte al cancello, Bushido aveva cominciato a strillare oltraggiato chiedendosi dove fosse finita la cavalleria se, dopo aver bussato più e più volte, nessuno veniva ad aprire e bisognava, in sostanza, fare tutto da soli. Ci volle una grande inventiva – e che Bill prendesse una mira un po’ particolare per i propri baci – per riuscire a far tacere il valoroso guerriero abbastanza a lungo da introdursi all’interno della cittadina.
Fu qui che vennero improvvisamente attaccati da un enorme robot gigante, dall’aria antica ma piuttosto funzionale. Sembrava più che altro un’armatura indossata da un essere veramente gigantesco, ma il punto non era tanto cosa fosse quanto più il fatto che possedesse un’ascia e, in quanto possessore di tale arma, andasse temuto.
Bushido gli diede della caffettiera e lo sfidò a duello. Questo lo irritò molto.
Sarebbero probabilmente finiti tutti molto ma molto male, se in quel momento, dalle mura superiori, non fosse arrivato Georg, correndo come un pazzo e gettandosi addosso al robot per poi afferrarne la testa metallica fra le mani e scardinarla con la forza di un vichingo, gettandola a terra.
A manovrare il bestione era in realtà una bestiolina: un goblin dall’aspetto piuttosto ridicolo. Georg prese fra le mani e scardinò con la forza di un vichingo anche lui.
- Ed ora tocca a me! – disse il ragazzo, prendendo possesso dei comandi del robot, - Vediamo come si guida quest’affare.
A guidarlo non riuscì affatto; in compenso, fu tanto bravo da incastrare l’ascia fra due pietre sopra le testa del robot, e continuò a maneggiare convulsamente tutti i pulsanti, le manopole ed i timoni che gli capitarono sottomano, finché l’enorme armatura non si accasciò priva di vita su se stessa, vittima di un banalissimo quanto ridicolo corto circuito.
Georg venne fuori stremato dalle lamiere, e la prima cosa che fece fu lasciarsi cadere a terra.
La seconda, cercare gli occhi di Bill, che si inginocchiò immediatamente al suo fianco.
- Non chiedo il tuo perdono. – disse il ragazzo, abbassando lo sguardo, - Non mi vergogno di averti dato quella pesca. Erano gli ordini di David, ed io ti avevo avvertito di essere un codardo. Oltretutto, non ho nessun interesse nelle amicizie, e-
- Ma io ti perdono. – disse Bill con un sorriso.
Georg tornò a guardarlo, gli occhi liquidi e persi.
- …davvero?
Bill annuì.
- Certe volte, le cose giuste sono giuste davvero.
*
All’interno del palazzo regnava il silenzio più totale. Di David – e di Tom, naturalmente – non c’era nessuna traccia. Entrare era stato perfino troppo facile, un po’ come se David si aspettasse davvero il suo arrivo ed un po’ anche come se avesse la certezza che comunque non sarebbe mai riuscito a trovarlo.
Mancavano ormai pochi minuti allo scoccare della tredicesima ora. L’unica via da seguire era una scala che partiva dalla sala del trono – immersa nel caos come fosse stata abbandonata in fretta e furia – e si perdeva in alto, chissà dove.
Bill si morse un labbro.
- Non possono che essere andati di là. – rifletté ad alta voce.
- Bene, allora. – disse Bushido, già sul piede di guerra, - Che stiamo aspettando?
Bill si voltò a guardare quegli strani compagni di viaggio che, nel bene e nel male, fra bassi ed alti di vario genere, gli erano stati accanto, e sorrise.
- Mi avete permesso di arrivare fino a qui, e per questo vi sarò sempre riconoscente… - disse sereno, - Ma questa è una cosa che devo fare da solo.
Georg si irrigidì.
- Ma… - provò a protestare, ma Bushido lo fermò posandogli una mano sulla spalla.
- Se è così che devi farlo, - disse serio, annuendo nei confronti di Bill, - allora è giusto che tu lo faccia così. Sei un valoroso. E te la caverai egregiamente.
Bill sorrise ancora.
- …per qualsiasi cosa dovesse servirti… - disse Georg, abbassando timidamente lo sguardo.
Bill annuì.
- Conterò sempre su di voi.
*
La scala si perdeva nel nulla. In una distesa di macerie scomposte che un po’ facevano da pavimento ed un po’ volteggiavano minacciose nell’aria, quasi volessero caderti sulla testa da un momento all’altro.
Quasi proprio volessero ricordarti quello che la vita in fondo è sempre: un pericolo costante, quello di venire schiacciati da qualcosa di troppo grosso rispetto al peso che si può reggere.
Suo fratello, imbavagliato e privo di conoscenza, volteggiava proprio assieme ad una di quelle macerie, a qualche metro da lui. Fra Bill e il suo obiettivo, però, c’era ancora David.
L’uomo lo fissava incattivito, gli occhi sottili come quelli di un gatto e le braccia rigide lungo i fianchi.
- Ridammi mio fratello. – disse fermamente Bill, senza perdersi d’animo.
David ringhiò, facendoglisi più vicino.
- Non sfidarmi, Bill. – sibilò ad un centimetro dal suo volto, - Sono stato molto generoso, fino ad adesso, ma posso essere anche altrettanto crudele, quando voglio.
- Generoso, tu…? – ritorse Bill con un sorriso stremato, - E quand’è che lo saresti stato?
- Sempre! – replicò David girandogli intorno come un predatore, adirato, - Hai voluto che rapissi tuo fratello, l’ho rapito! Mi sono fatto sempre più terrificante vedendo quanto ti facevi piccolo e spaventato ogni volta che mi vedevi, ed ho sovvertito l’ordine del tempo, di un intero mondo!, solo per seguire esattamente i tuoi desideri, Bill. – si fermò di fronte a lui, sollevando una mano e sfiorandogli teneramente una guancia. – Non lo vedi…? Sono sfiancato dal mostrarmi sempre proprio come tu mi desideri, Bill.
Rosso d’imbarazzo, messo a disagio da un tocco che non avrebbe mai immaginato così caldo, Bill deglutì. Quell’uomo gli offriva un sogno, non aveva fatto altro che offrirgli il suo sogno perfetto da quando aveva messo piede nel suo mondo…
…ma suo fratello era lì a causa sua. E Tomi era troppo importante – troppo più importante del resto – per dimenticarlo. O per preferirgli uno stupido sogno. I sogni potevano tenergli compagnia durante la notte, ma per tutto il resto della sua vita sapeva che, se avesse dovuto scegliere qualcuno cui affidarsi completamente, quel qualcuno non sarebbe stato il re dei goblin, ma il proprio fratello.
Socchiuse gli occhi e poi li riaprì con decisione, cercando di ignorare le sensazioni che la mano di quell’uomo provocava in lui scorrendogli lungo la pelle del collo.
- Con rischi indicibili e traversie innumerevoli, - cominciò a recitare, - io ho superato la strada per questo castello oltre la città di Goblin. – deglutì, - Per riprendere il ragazzo che tu hai rapito. La mia volontà è forte come la tua, ed il mio regno altrettanto…
- Bill, non farlo. – lo interruppe l’uomo, stringendo la presa della mano attorno alla sua spalla, - Lascia solo che io ti domini, e potrai avere tutto quello che desideri. Io ti darò tutto quello che desideri.
Bill chiuse gli occhi ed andò avanti.
- …il mio regno è altrettanto grande.
- Non hai che da temermi! – ringhiò David, stringendo fino a fargli male, - Temermi, amarmi e fare tutto ciò che ti dirò. Ed io diventerò il tuo schiavo.
Bill si concesse un mezzo sorriso, prima di riaprire gli occhi. Ed andare ancora avanti.
- Il mio regno è altrettanto grande. – ripeté. – Tu… - sospirò, - tu non hai nessun potere, su di me.
E poi fu di nuovo come precipitare in un sogno. Però al contrario.
*
Spalancò gli occhi sul buio del proprio salotto, ansimando forte. C’era qualcosa che decisamente non andava nei suoi pantaloni ed era del tutto assurdo sentirsi così eccitati dopo un sogno simile, ma aveva poco da fare se non prenderne atto e rendersi conto di non essersi mai mosso da quel divano. Probabilmente neppure per provare a fare la pace con Tomi, come dimostrava il libro di Labyrinth ancora aperto a metà sulle sue ginocchia.
Posò il libretto sul cuscino accanto a sé, stiracchiando le gambe e soffrendo con le sue povere giunture che, piegate per tutto quel tempo, sembravano essersi completamente raggrinzite, e sembravano anche bene intenzionate a non sgranchirsi in tempi brevi.
Zoppicando un po’, si avvolse meglio nella coperta e si diresse verso le scale, chiamando suo fratello.
Si incontrarono sul pianerottolo, e si guardarono a lungo. Ad entrambi, però, basto un solo secondo per capire che era successo di nuovo.
- Bill, ma che razza di sogno hai fatto…? – commentò suo fratello con un mezzo sorriso incredulo, - A parte il fatto che c’era gente assurda, permettimi di protestare: mi hai fatto rapire dal re dei goblin! – rise, - Peraltro… un pervertito mica da poco.
Risero insieme per molti minuti, seduti sulle scale. Lì, ancora intenti a commentare i dettagli del sogno, li ritrovarono Simone e Gordon quando tornarono, a mezzanotte precisa. In perfetto orario.
*
Quando, in rapida successione, i gemelli conobbero Georg e Gustav, Simone disse che sembrava quasi che il Destino si stesse preparando a fare qualcosa di veramente grande per loro.
Nessuno si stupì quando David Jost, inviato dalla Universal, propose ai ragazzi un contratto per il loro primo disco. Nessuno si stupì perché era davvero un sacco di tempo che quella Simone diceva che i suoi figli erano davvero destinati a qualcosa di enorme.
Era giusto non stupirsi. Ma quello era il motivo sbagliato.
Bill continuava a dire di averlo visto in sogno, tutto quello.
E Tom gli dava man forte dicendo che l’aveva visto anche lui.
Quando, un giorno, dal nulla, Bill sorrise furbo al proprio benefattore e gli disse “tu… non hai nessun potere, su di me”, David Jost non capì. Si offese pure, in realtà. Non che chiedesse di avere chissà che potere sui loro corpi e sulle loro anime, ma non era mica tanto gentile quel frugoletto coi capelli neri come petrolio e sparati in aria come schegge di vetro, che si presentava così dal nulla a dirgli “tu non sei nessuno”.
David non capì e si offese.
Geog e Gustav non capirono e si chiesero se per caso Bill non avesse intenzione di sabotare la band prima ancora che riuscissero a produrre il disco.
Tom, però, scosse rassegnato il capo e gli sorrise, complice. Questo, per Bill, era più che sufficiente.
Genere: Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Angst, Rape, AU.
- "Bill è diventato in un istante l’unica forza ed anche l’unica debolezza di Bushido. E se ciò che fa la forza del capo fa la forza anche della banda, allo stesso modo è vero per ciò che rende entrambi deboli."
Note: Aaah, questa storia. *la abbraccia* Diciamo che per certi versi è una cosa che non avrei mai scritto se non sotto determinate circostanze (il non-con per me è una roba che meno ce n'è nel mondo, meglio è, ma qui era necessario), mentre per molti altri è una cosa incredibilmente mia, specie nella struttura che fino a qualche tempo fa usavo solo io e che invece adesso si sono messi a usare tutti quanti perché alternare le parti nel presente e nel passato e differenziarle col corsivo fa figo. Ehm, dicevamo.
No, niente, in realtà il merito principale di questa storia è che mi ha fatto capire che mi piace descrivere le scene di violenza. Non la violenza sessuale, proprio i ceffoni, i calci, i pugni, quelle robe lì, mi diverto un mondo a scriverle. Ora che mi rileggo non so se è proprio un merito, ma tant'è. Enjoy!
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
L’odore dell’asfalto.
Le luci tremule dei lampioni.
Le risate sconosciute che riecheggiano nel vicolo.
L’eco della musica che rimbomba dentro il locale, sembra lontana chilometri. E secoli. Vite intere.
Il dolore acuto che gli squarcia il ventre fin nelle viscere.
Il bruciore delle lacrime fra le ciglia.
Il sapore del sangue sulla lingua.
La scia di silenzio irreale.
L’odore dell’asfalto.

Il profumo di Anis.


ZERRISSEN

Bill non può stare da solo. Il che equivale a dire che Bushido non vuole che stia da solo, non adesso, specie non stanotte, che fuori piove e da qualche parte qualcuno sta pagando il peccato mortale di avergli messo le mani addosso per cercare di indebolire lui.
Chakuza non sa bene come dovrebbe avere a che fare con questo ragazzino. La sua stessa presenza lo confonde, lo ha sempre confuso. Lui è uno con una mente semplice, e ne va fiero. Non che sia stupido, ma le cose complesse lo spaventano, perché hanno sempre risvolti imprevedibili. E così, quando il suo capo, ormai quasi quattro anni fa, ha presentato a lui e agli altri della banda questo ragazzino col visino da donnetta, il corpicino smunto e l’aria di uno che si sente molto fortunato perché non ha capito un accidenti del casino in cui s’è andato a cacciare, fin da subito Chakuza ha capito che la sua presenza avrebbe portato guai.
Non perché portarsi a letto un ragazzino rendesse Bushido automaticamente attaccabile sul piano della credibilità – a chiunque avesse osato mettere in dubbio la sua virilità negli ultimi quattro anni, Bushido ha sempre risposto sfoggiando gli attributi nel modo più violento e crudele possibile, giusto per mantenere le cose il più chiare possibile – ma perché lo rendeva debole.
Bushido è sempre stato un capo assoluto. Lo è sempre stato perché ha sempre avuto quel modo di parlare, quel modo di muoversi, quel modo di spiegarti le cose, quel modo anche di mostrartele, quando nella zucca a parole non ti ci volevano proprio entrare, tale da renderlo il tipo di persona alla quale affideresti la vita senza indugio. In molti non capiscono cosa faccia di un capo un vero capo. Non notano le differenze, si perdono dietro dettagli stupidi quando in realtà l’unica cosa che conta è quella: ci riesce, un uomo, a convincerti che i motivi che ti dà quando ti parla sono sufficienti per svegliarti ogni giorno e andare a prendere e dare ogni sorta di legnate fino a ridurti ad un mucchio di lividi e bernoccoli? Perché se quell’uomo ci riesce, se ci riesce e allo stesso tempo riesce a convincerti del fatto che non c’è niente che a lui importi più del gruppo che avete formato, che è disposto a sacrificare tutto meno la fratellanza che avete stretto, se quell’uomo riesce a darti queste certezze, allora quell’uomo è un capo. Un capo vero.
Bushido ha perso questa spinta nel momento in cui si è innamorato di Bill. Improvvisamente, c’era qualcosa che contava più del gruppo, più della banda, più del loro legame. Più di tutto il resto. E quel qualcuno era Bill. Improvvisamente, anche la banda diventava sacrificabile, tutto era potenzialmente sacrificabile, per il bene di Bill.
Bill è diventato in un istante l’unica forza ed anche l’unica debolezza di Bushido. E se ciò che fa la forza del capo fa la forza anche della banda, allo stesso modo è vero per ciò che rende entrambi deboli.
Bill è sempre stato un pericolo, e Chakuza l’ha sempre saputo, ma non ha mai potuto – né, in fondo, voluto – farci niente, perché era stata la parola di Bushido a imporlo, e la parola di Bushido, be’, quella è sempre stata legge. Solo per loro, però. Non è servito molto tempo perché la voce cominciasse a girare per la città, perché topi che prima trascorrevano tutto il loro tempo nascosti nelle loro fogne cominciassero a sollevare la testa e tirare fuori il naso dalla melma.
Quando le strade capiscono che sei disposto a sacrificare qualcosa, non esitano a strappartelo di dosso. E, in un certo senso, è esattamente quello che è successo.

La serata è di quelle fiacche. Di quelle tranquille. Di quelle in cui Bushido non ha paura a lasciare andare Bill in giro da solo, anche perché non è che sia proprio da solo. C’è suo fratello, con lui. Tom è un bravo ragazzo, col casino in cui Bill s’è andato a infilare non solo non c’entra niente, ma neanche vuole averci minimamente a che fare. È per questo che, quando Bill e Tom escono insieme, non ci sono guardie del corpo intorno. A Bill già non piacciono normalmente, ma s’è forzato a mandarle giù perché Bushido non avrebbe mai ceduto di un punto, a riguardo, ma quando esce con suo fratello non le ammette neanche per semplice sorveglianza discreta da lontano.
Tom è un bravo ragazzo, sì, ma è un bravo ragazzo che si distrae parecchio. Soprattutto, è un bravo ragazzo che però non è tanto bravo a tenere l’uccello nei pantaloni. L’hanno seguito per settimane. Hanno seguito entrambi per settimane, e lo sanno bene.
Tom è l’anello debole. È lui che va sfruttato.


- To’. – dice Chakuza, piazzandogli davanti una fetta di pizza trovata in frigorifero e riscaldata due minuti nel forno a microonde, - Dovrebbe essere ancora buona.
Bill guarda la pizza e poi guarda lui, e cerca di sedersi più comodamente nell’angolo di divano in cui si è rifugiato appena arrivato a casa sua. Si è anche sfilato le scarpe per tirare su i piedi e rannicchiarsi meglio, ma Chakuza non è proprio sicuro al cento percento che si tratti di una posa, o di un modo per starsene più sulle sue. Probabilmente voleva soltanto tirare su i piedi dal pavimento, visto quanto è sporco. Dovrebbe decidersi a dare una lavata in giro, la casa fa vomitare, ma a lui non è che freghi più di tanto, visto che sostanzialmente neanche ci vive, è solo un posto in cui viene a cadere in coma dopo una giornata intera passata a ciondolare per Tempelhof facendo una cosa piuttosto che un’altra. Gli frega poco delle condizioni del pavimento, o della cucina, o di qualsiasi altra cosa, in realtà, perfino delle lenzuola sul letto nel quale dorme. Non è che può stare a pensare all’eventualità in cui Bushido decida di lasciargli il ragazzino per la notte. Il ragazzino si farà piacere anche il pavimento sporco, se vuole restare, altrimenti quella è la porta.
- Ehm… non ce l’hai una cosa più… - gesticola vagamente a mezz’aria, come se i ghirigori immaginari che sta disegnando con le unghie pittate di nero dovessero avere un qualche significato particolare per lui che uno smalto da vicino non l’ha mai visto neanche in confezione. Chakuza lo guarda sbattendo le palpebre un paio di volte.
- Più? – domanda, lasciandosi ricadere di peso sul divano con una fetta di pizza in mano.
- …non lo so. – deglutisce faticosamente Bill, osservandolo mordere la fetta e sbrodolarsi addosso quelli che hanno l’aria di essere circa due litri d’olio ed altrettanti di salsa di pomodoro. – Meno unta, forse.
- Ho solo la pizza. – scrolla le spalle Chakuza, asciugandosi il muso col dorso della mano e anche con una buona porzione di avambraccio, - Assaggiala, è buona.
Bill fa una smorfia incerta e distoglie lo sguardo.
- Mi è passata la fame. – borbotta, prendendo a giochicchiare distrattamente con l’orlo sfilacciato del cuscino che si è tirato in grembo per abbracciarlo nel momento stesso in cui s’è seduto.

La ragazza che hanno pagato trascina Tom in bagno dopo meno di mezz’ora passata a strusciarsi in mezzo alla pista da ballo. Pagano anche un cameriere perché corregga il drink che Bill ha ordinato con uno zuccherino tutto particolare. Sulla lingua non sentirà niente di strano, almeno fino a quando non lo trascineranno fuori. Allora sì che sentirà qualcosa di molto, molto strano in bocca, ma sarà sballato abbastanza da non riuscire a protestare né a sottrarsi a loro.
Bushido recepirà il messaggio. Lo recepirà forte e chiaro.


- Non so, vuoi metterti a dormire? – domanda Chakuza, aggirandosi attorno a lui come un’anima in pena. Non ha propriamente accettato di prenderselo in casa, perché Bushido non gliel’ha chiesto per favore. Non che Chakuza sia arrabbiato con lui per questo, Bushido può prendere e pretendere esattamente ciò che vuole perché è così che gira il meccanismo, ma avere il ragazzino in giro per casa lo mette in agitazione. La sua persona lo confonde, non per altro, è che non ha mai avuto a che fare con una persona che abbia vissuto la sua stessa esperienza, che non è semplicemente essere stato violentato, ma essere stato violentato a causa della persona che ami, ed è profondamente differente perché nel primo caso la scelta è casuale, mentre nel secondo è precisa e determinata; e questa cosa lo agita, perché cosa gli dici a uno così? A uno che deve sentirsi male ogni volta che guarda Bushido negli occhi, per tutta una serie di ragioni che Chakuza non è neanche sicuro di riuscire ad elencare anche se si mette a pensarci? Ad uno che si sveglia ogni giorno accanto al suo uomo e sa che qualsiasi cosa orribile gli sia capitata è stata causata dal semplice fatto di stare con lui, ad uno che sa perfettamente quanto grande possa essere il senso di colpa che si agita dentro lo stomaco del proprio compagno quando pensa a tutta la sofferenza che gli ha involontariamente causato, ad uno che, ogni volta che si guarda allo specchio, non può fare altro che ripetersi che ha passato la boa, indietro non ci tornerà mai, non riavrà mai più quello che ha perso e resterà strappato dentro per sempre, ad uno che sta così, uno come lui, uno come Chakuza, che picchia i ragazzini che non pagano per la droga a sangue freddo, uno che per ordine del suo capo punta la pistola contro la pancia di una donna incinta per convincere il marito a pagare i suoi debiti di gioco, uno che appicca tranquillamente fuoco a un locale per lanciare un avvertimento a qualche commerciante troppo cocciuto, uno così cosa può dire a uno come Bill? Niente può dirgli, ecco cosa. Niente in assoluto.
E vederlo lì col naso appiccicato alla finestra, mentre di fuori viene giù il cielo in scariche di pioggia così uniformi e improvvise da far sembrare che Dio stia prendendo a secchiate d’acqua il mondo per annegarlo da quanto fa schifo, non lo aiuta a sentirsi meno a disagio.
- Dove dovrei mettermi a dormire? – domanda Bill, continuando a guardare fuori.
Chakuza scrolla le spalle.
- Sul divano. – butta lì. Va bene ospitarlo, ma cedergli il letto, anche no.
- Non ho sonno. – ribatte il ragazzino, e continua a fissare la notte.

Gli si avvicinano immediatamente, quando lo vedono ciondolare con la testa. Non possono perdere tempo, la ragazza ha promesso che tratterrà Tom il più possibile, ma non possono fidarsi né di lei, né delle tempistiche dal ragazzo, e naturalmente non possono fidarsi di Bushido: sanno che Bill non vuole guardie intorno quando è in giro col fratello, ma sanno anche che Bushido non è uno che mantenga le promesse che fa. D’altronde, non è mantenendo promesse che diventi il capo della malavita organizzata del quartiere. Non è mantenendo la parola data che prendi il controllo su tutto ciò che abbia un minimo di valore nel giro di chilometri. No, è proprio facendo esattamente il contrario di ciò che giuri e spergiuri, che si amministra il potere. Loro lo sanno bene, perché hanno imparato da lui.
Chi siano non importa. Non importerà a nessuno. Bushido è ancora troppo grande per potere essere battuto da un gruppo di ombre, per quanto organizzate. Non è importante chi sono, non è importante neanche cosa vogliono, quale sia il loro obbiettivo finale. Il punto è che hanno un messaggio da mandare, ed è così che intendono diffonderlo.
Uno di loro afferra Bill per un braccio. Lo trascina in piedi, e Bill gli solleva addosso uno sguardo appesantito dal sonno, dall’alcool e dalla droga che gli hanno fatto mettere nel bicchiere. Aggrotta le sopracciglia, piegando le labbra in una smorfia pesante di disappunto, ma non riesce a dire una parola, perché ha i sensi troppo intorpiditi.
Lo trascinano fuori, nel freddo piovoso della notte. Il vicolo è buio e silenzioso, non c’è neanche un gatto randagio a rovistare nei cassonetti dell’immondizia. Uno preme le mani contro entrambe le spalle di Bill, nel tentativo di costringerlo a mettersi in ginocchio con le buone. Bill mugola come un bambino svegliato nel mezzo della notte da un genitore rompicoglioni, e scuote il capo con forza. Loro non hanno tempo per stare dietro ai suoi capricci, e lo prendono a calci sulle ginocchia finché non crolla sull’asfalto bagnato.
Uno lo afferra per il mento, tirandogli su il viso e osservandolo nella luce fioca che illumina la strada principale e arriva a rischiarare il vicolo solo per metà. È bello, il ragazzino, bello abbastanza da confondere anche il più eterosessuale degli uomini, ma questa non è una questione di sesso, non è nemmeno una questione di piacere, o di una sciocca vendetta che non avrebbe alcun senso di esistere.
È una questione di potere, è una questione di debolezza. Mettere le mani addosso al ragazzino equivale a far sapere a Bushido che sanno bene come e dove colpirlo, se vogliono, e che l’intensità del colpo può variare a seconda di quanto siano incazzati. Equivale a fargli sapere che anche un gruppo di uomini senza volto e senza nome può togliergli qualcosa di caro, e che se non lo fanno stanotte è solo perché per mandare adeguatamente il messaggio serve che Bill torni a casa vivo. Malconcio e rovinato per sempre, ma vivo.
L’ombra più alta del gruppo si avvicina di un passo, maneggia la fibbia della cintura fino a scioglierla e poi apre la zip dei pantaloni. Il suono risveglia qualcosa nel retro della testa di Bill, un segnale d’allarme che alcool e droga hanno tacitato a sufficienza fino ad adesso, ma che ora comincia a pulsare dolorosamente. «No…» biascica il ragazzino, e cerca di spostarsi quando il cazzo duro e teso dell’uomo gli sfiora le labbra. Come unico compenso per il movimento, ottiene uno schiaffo in pieno volto che gli fa girare la testa dal lato opposto così violentemente da fargli male al collo. Spalanca gli occhi nella notte buia e stantia del vicolo riparato da sguardi indiscreti e prova a urlare, ma nel momento esatto in cui spalanca la bocca l’uccello dell’uomo gli si intrufola fra le labbra, premendoglisi contro fino in gola.
La reazione del suo corpo è immediata: Bill si sente soffocare e sente la spinta acida e dolorosa di un conato di vomito che non riesce a risalirgli fino in gola, e gli contrae lo stomaco in uno spasmo insopportabile, reso ancora più doloroso dal bruciore che gli avvampa nell’esofago quando è costretto a mandare giù il rigurgito con un blocco di saliva che scivola giù più duro del cemento. Prova a spostarsi indietro, ma le mani forti di qualcuno gli tengono la testa ben ferma, il collo eretto, la bocca spalancata. Le dita che gli premono con forza sulle guance, per impedirgli di far scattare la mandibola, sembrano volergli scavare sotto la pelle, fra i muscoli e la carne e le ossa. L’uomo che gli sta scopando la bocca si muove veloce avanti e indietro, scivolandogli fra il palato e la lingua e premendosi ogni volta così in profondità che Bill strabuzza gli occhi e si soffoca da solo con l’aria che non riesce a passare, coi rigurgiti che continuano a risalire ad ogni spinta, con le urla che vorrebbe essere abbastanza forte da riuscire a sputare fuori assieme a tutto il resto, e che invece restano lì, confinate in fondo alla sua gola, ricacciate sempre più in basso dalla punta del cazzo dell’uomo, ogni volta che, con una nuova spinta, si introduce più violentemente dentro di lui.
L’uomo viene con un gemito roco e disgustoso, e resta piantato dentro di lui fino alla base, disinteressandosi completamente di quanto lui, a corto d’aria e soffocato dallo sperma che gli scivola giù per la gola, possa dimenarsi nel tentativo di liberarsi. Poi si ritrae, e anche l’uomo che lo teneva fermo da dietro lo lascia libero di piegarsi in avanti, stringersi una mano attorno alla gola dolorante, tossire e, finalmente, vomitare, rovesciando tutto l’alcool che aveva in corpo fra i cassonetti dell’immondizia.
«Meglio» dice uno degli uomini che l’anno aggredito, ridendo divertito, «Così sei più lucido per il secondo round.»


- In questo momento li sta facendo fuori. – dice Bill dopo qualche minuto, voltandosi per rannicchiarsi sul davanzale, senza accennare ad allontanarsi dalla finestra. Solleva le gambe, portando le ginocchia al petto e stringendole in un abbraccio consolatorio, mentre vi appoggia contro il mento. Le sue labbra sono piegate in un sorriso minuscolo che Chakuza non riesce ad interpretare. – Li sta facendo fuori tutti.
- Come fa a sapere i nomi? – chiede lui, stupidamente, e Bill risponde con una mezza risatina.
- Li ha scoperti. – chiarifica, scrollando le spalle, - Che domanda è? Lo conosci da prima di me.
È vero, vorrebbe dire Chakuza, è vero, ma il Bushido che conoscevo io prima che arrivassi tu non avrebbe mai fatto una cosa simile. Non avrebbe mai indagato sulle identità degli stupratori della sua donna per poi andarli ad ammazzare tutti con le proprie mani uno per uno. Non l’avrebbe mai fatto semplicemente perché non si sarebbe mai tenuto stretto una donna abbastanza a lungo da concedere a qualcuno il lusso di pensare che a lui importasse abbastanza di lei per renderla un bersaglio facile.
No, ragazzino, e questo vorrebbe dirglielo proprio, Chakuza, ma non lo fa perché non ha idea di come parlargliene senza che sembri uno scatto d’astio ingiustificato, no, devo fartela proprio, questa domanda, perché Bushido per come lo conoscevo io una cosa così non l’avrebbe fatta mai nella vita.
- Ti va una birra? – gli chiede invece. Bill ci pensa su.
- Me la porti qui? – domanda in un mezzo pigolio incerto.
- Perché non ti allontani da quella finestra, invece? – propone lui con una smorfia infastidita, - Piove. Prenderai freddo. Poi quello s’incazza.
Bill scuote il capo, e Chakuza sospira.
- Va bene, - concede, - te la porto lì.

Il secondo round è lui riverso in terra, con la faccia schiacciata contro un sacchetto di plastica sporco e maleodorante, che piange a dirotto mordendosi la lingua a sangue mentre un uomo lo tiene fermo, di modo che non possa voltarsi a guardare chi lo sta stuprando, mentre gli altri, a turno, lo violentano ripetutamente.
Il secondo round fa male ed è umiliante quanto e più del primo. Bill piange e non riesce a muovere neanche un arto. Ha le gambe anchilosate da quanto a lungo le ha tenute piegate, e le braccia molli ripiegate sotto il petto.
Non smette mai di sentire dolore. Ogni volta che qualcuno si tira fuori e qualcun altro lo sostituisce è una tortura straziante, che gli squarcia le viscere e gli rivolta lo stomaco. Sente le spinte di quegli uomini come un terremoto che gli fa tremare le ossa, e man mano che le sue urla si affievoliscono perché la sua gola, affaticata, comincia a non riuscire più ad emetterne, anche la sua vista si annebbia. Ogni cosa perde la propria fisionomia, i contrasti scompaiono fondendosi in una nuvola confusa e biancastra che gli si agita davanti al viso impedendogli di mettere a fuoco l’ambiente circostante.
Sa che c’è una strada, a pochi passi, una strada trafficata. Sente i passi delle persone, le loro risate, i suoni che le loro automobili producono fermandosi e poi ripartendo, le sgommate che i bulletti del quartiere si concedono per impressionare le ragazze partendo a razzo sui rettilinei sgombri non appena scatta il verde, e si chiede come sia possibile che nessuno lo senta urlare, che nessuno si stia accorgendo di niente, che nessuno lo venga a salvare.
Continua a chiederselo fino all’ultimo istante, quando, drenato dal dolore e dalla fatica, finalmente sviene.


- A me, comunque, ha detto che stanotte non tornava. – butta lì Chakuza. Non è vero, ma ha l’impressione che se non dà al ragazzino un motivo qualsiasi per andarsene a dormire se lo ritroverà sveglio fra i piedi per tutta la notte. E questo non va bene, perché se Bill non si addormenta nemmeno Chakuza riuscirà a farlo. E Bill potrà anche non avere niente da fare, domani mattina, ma Chakuza no, Chakuza ha la sveglia alle sette per andare a controllare una certa situazione in un certo bar dall’altro lato del quartiere, per vedere se può riscuotere un certo incasso, o se magari non è il caso di ricoprire il proprietario di una certa dose di cazzotti e sputi in faccia, giusto per fargli capire che Bushido potrà essere tutto preso nella propria vendetta personale, e il gruppo potrà anche essersi indebolito per la necessità di stringersi attorno alla sua strana principessa ferita, ma comandano ancora loro. E che nessuno se lo dimentichi.
- Non è possibile. – scuote il capo Bill, restando con le spalle poggiate al vetro gelido della finestra.
- Perché? – domanda Chakuza, - A te ha detto diversamente?
- No. – risponde lui, sinceramente, - Ma non mi lascerebbe mai da solo.
- Infatti ti ha lasciato con me. – gli fa notare l’uomo, vagamente infastidito da quel suo considerarlo palesemente non all’altezza del proprio uomo.
Bill gli concede un mezzo sorriso imbarazzato e incerto.
- Non è la stessa cosa. – gli risponde in un sussurro.

Tom esce trafelato, guardandosi intorno con gli occhi sgranati e il fiatone. Ha la maglietta tutta scomposta addosso, i capelli che gli cadono sul viso, infastidendolo, e continua a lanciarseli dietro le spalle con gesti stizziti e nervosi. Lo chiama a bassa voce, prima, poi più forte quando non sente arrivare risposta, e poi lancia un grido quando lo vede raggomitolato contro i sacchetti dell’immondizia sparsi per terra, seminudo, ferito, sanguinante e pesto.
Gli si accovaccia di fianco, guardandolo da ogni lato ma senza azzardarsi a toccarlo. «Bill» mugola disperatamente, «Dio, no, Bill…»
Bill sente solo l’eco della sua voce, ma già quello da solo è in grado di fargli venire voglia di piangere dalla gioia. Non pensa al fatto che Tom ad uscire ci abbia impiegato ore, non pensa al fatto che è stato lui a lasciarlo da solo per primo; sarebbe così facile dargli la colpa di tutto, ma la realtà è che Tom potrà avere delle colpe pratiche, ma il vero motivo per cui si trova in queste condizioni è un altro, e Bill lo comprende alla perfezione, e perciò non riesce a fare altro che sentirsi grato perché Tom, alla fine, è arrivato, e l’ha trovato, e adesso, ancora accucciato al suo fianco, picchia forte sulla tastiera del cellulare, sbagliando numero tre volte perché ha gli occhi pieni di lacrime, per chiamare Anis.


Chakuza sta sonnecchiando sul divano da una ventina di minuti circa, quando sente le ruote della macchina di Bushido pestare l’asfalto e poi fermarsi proprio sotto casa sua. Bill è rimasto appoggiato di schiena alla finestra per tutto il tempo, rannicchiato sui cuscini che s’è sistemato come un nido sul davanzale, e quando sente il rombo del motore si volta a guardare la strada. I fari della BMW gli illuminano il volto per un secondo, prima di spegnersi. È sufficiente perché Chakuza possa vederlo sorridere. È un sorriso piccolo e discreto di quelli con cui le persone dicono a se stesse “visto? Avevi ragione”, anche se da qualche parte avevano cominciato a dubitarne.
Chakuza si alza in piedi e lo raggiunge alla finestra, osservandolo mentre distende faticosamente le lunghe gambe, sgranchendosi le ginocchia doloranti per la posizione in cui sono state costrette a rimanere piegate per ore.
- Non ci ha messo molto. – commenta.
- È un professionista. – annuisce Bill con un sorrisetto, stringendosi nelle spalle.

Il profumo di Anis è ovunque, mentre lo stringe a sé, accarezzandogli i capelli incrostati di sangue, lacrime e sperma, scostandoglieli dal viso per verificarne le condizioni.
«Sei ridotto male, piccolo» gli dice con un mezzo sorriso, lasciando che a rassicurarlo non siano le sue parole – perché su quelle hanno adottato una politica di massima sincerità che Bill è contento di non veder tradita neanche adesso che avrebbe proprio bisogno di sentirsi dire una bugia – ma il tono della sua voce, l’espressione del suo viso, il calore delle sue dita sulla pelle, «Ma ti rimetteremo in sesto, non ti preoccupare.»
Bill annuisce debolmente, mentre Tom impreca da qualche parte alla sua destra. «Mi dispiace, cazzo, non volevo—»
«Tom, non è colpa tua» dice Bushido, spiccio, stringendo Bill per le spalle e da sotto le ginocchia per sollevarlo in braccio, «Non ti preoccupare, lo risolveremo.»
«Non rassicurarmi» risponde suo fratello, soffiando infastidito, «Non rassicurarmi, cazzo.»
Bill si volta appena per guardarlo, e vede che Tom ha gli occhi rossi e gonfi, e lo guarda come se fosse rientrato a casa dopo un viaggio di una settimana e l’avesse trovato sul pavimento in frantumi. Tom lo guarda e non vede lui, vede i cocci di un vaso rotto da una pallonata mentre papà e mamma erano fuori a cena. Lo guarda come non avesse idea di cosa fare per rimetterlo a posto. Bill si morde un labbro per non scoppiare a piangere un’altra volta, ma è controproducente, perché il labbro è gonfio e spaccato e non appena i suoi denti vi affondano riprende subito a fare male e sanguinare.
«Shh, shh, piccolo» sussurra Bushido, stringendoselo al petto, «Non piangere, fa’ il bravo» lo culla come un bambino piccolo, «Sta’ buono, su» e Bill annuisce velocemente, nascondendo il viso contro la sua maglietta e chiudendo gli occhi, provando a sciogliere i muscoli in tensione abbastanza da lasciarsi andare al sonno.


- Grazie dell’ospitalità. – sorride Bill, salutandolo con un cenno del capo. Bushido sorride, soddisfatto come un padre di fronte al figlio che mostra ad un amico di famiglia quanto è beneducato.
- Aspettami in macchina, - gli dice, - c’è Fler. Io arrivo subito.
Bill annuisce, lo saluta con un bacio lievissimo sulle labbra e poi si volta, imboccando la porta e poi l’ascensore, per scendere al piano terra. Bushido resta in silenzio abbastanza a lungo da sentire l’eco del portone del palazzo che si apre e si richiude con uno scatto metallico, e poi la voce di Fler che saluta Bill, quella di Bill che ricambia e il suono un po’ ovattato della portiera del sedile posteriore che viene aperta e tenuta aperta fino a quando lui non è seduto al suo posto. Poi si volta verso Chakuza.
- Cos’hai da fare domani mattina? – domanda con tono pratico. Chakuza sa già dove andrà a parare questa discussione.
- C’è da andare da quel tizio del bar che ha aperto due mesi fa… - prova, ma Bushido scuote subito il capo.
- Mandaci Eko. Tu prendi D-Bo, Kay e Saad. C’è un po’ di pulizia da fare. Ti do gli indirizzi.
- Bu, che palle… - sbuffa Chakuza, roteando gli occhi. Bushido risponde con un sorriso appena visibile, e Chakuza sospira. – Ok, ok, - borbotta, - ci penso io.
Bushido annuisce, e lo saluta con una pacca sulla spalla, dandogli appuntamento all’indomani in serata per farsi dire se ci sono stati problemi o meno. Ma non ce ne saranno, questo entrambi lo sanno già, e la serata la passeranno di fronte a una birra a parlare del più e del meno come se non fosse cambiato niente, quando in realtà è cambiato tutto.
Ma questo Chakuza a Bushido non può dirlo, e non potrà farlo fino a che l’uomo non se ne accorgerà da solo. Ma allora, probabilmente il fatto di averlo indovinato prima di lui non avrà nessun valore, come non avrà nessun valore neanche il fatto che alla fine anche lui l’abbia capito. Sarà solo un rimpianto che entrambi avranno, un danno al quale non potranno rimediare in alcun modo.
A quel momento, comunque, penseranno quando arriverà. Per ora, a Chakuza è passato il sonno, perciò recupera un’altra bottiglia di birra dal frigorifero e si lascia andare sul divano di fronte a un dvd a caso, cercando già un modo per far sparire sei cadaveri domani mattina, perché è l’unica cosa sensata sulla quale è possibile concentrarsi adesso.

Bill si sveglia all’ospedale dopo non sa nemmeno lui quante ore di sonno. Bushido è vigile al suo fianco, gli tiene la mano e non sembra nemmeno stanco, anche se Bill può leggergli negli occhi che stanotte non ha dormito neanche un minuto.
Gli concede un sorriso ferito e provato, e Bushido ricambia con uno dei suoi, uno di quelli che riesce a dargli forza anche senza bisogno che Bushido aggiunga niente.
«Come stai?» gli chiede. Bill inspira, espira, e si rende conto di esserne ancora capace.
«Meglio» risponde quindi. Bushido annuisce.
«Adesso raccontami tutto, dall’inizio e nei dettagli.»
Bill prende fiato, e comincia a raccontare.
Genere: Comico.
Pairing: Chakuza/Fler.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Slash, Crack.
- Alle prese col gatto più brutto del mondo. Or is it?
Note: (Yes, it is.)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
THE ASTRONAUT CAT

- È brutto da fare schifo.
Fler inclina la testa di trenta gradi, e Chakuza lo imita, cercando di seguire il movimento per guardare il gatto dalla sua stessa prospettiva. A lui non sembra tanto male, quindi magari la prospettiva di Fler è differente. Chakuza è un bravo fidanzato, gli interessano le prospettive differenti dalle quali il suo uomo può osservare gatti randagi piombati all’improvviso nel mezzo degli uffici della Beatlefield. Magari è un problema di statura? Forse Fler lo vede in maniera differente perché è più alto? Chakuza si solleva sulle ginocchia, tendendosi tutto in modo da cercare di raggiungere più o meno la stessa altezza di Fler seduto per terra con le gambe incrociate al suo fianco.
Niente, il gatto continua a non sembrargli niente di così orrendo.
- Non è malvagio. – commenta quindi, scrollando le spalle.
Fler si volta a guardarlo con lentezza innaturale, una smorfia sconvolta a deformare la linea generalmente così regolare e piacevole delle labbra.
- Chaku, è privo di peli. – comincia ad enumerare, - Ha solo un set di baffi ed è pieno di bitorzoli. E poi è tutto storto, e ha la faccia cattiva! Guarda qua come ci fissa. – conclude, indicando con un cenno del capo il micio, che in effetti li sta guardando entrambi come se l’idea di dover condividere dello spazio con loro lo disgustasse profondamente. Chakuza non capisce perché anche il gatto sia così preso male. Gli ha messo per terra una tovaglietta allegra e colorata, ha riempito una ciotola d’acqua ed è corso a comprare i croccantini per nutrirlo, e quello li ha appena degnati di un mezzo sguardo disinteressato. Dovrebbe essere affamato da morire, e invece eccolo lì che li guarda in cagnesco, come se poi fosse possibile per un gatto guardare in cagnesco chicchessia.
- Forse lo disturba il fatto che continui a fissarlo. – ipotizza.
- Smetterei, se non fosse così tremendamente brutto. Ma non riesco, è ipnotico. La sua bruttezza mi sconcerta. – risponde Fler, annuendo compitamente. Chakuza aggrotta le sopracciglia, perché adesso si sta proprio esagerando.
- Non è così brutto. – insiste, incrociando le braccia sul petto e sciogliendole quando la loro lunghezza insufficiente comincia a rendere la posa ridicola, - Ha un suo perché.
- E quale sarebbe? – domanda Fler, - No, aspetta, - lo interrompe appena lo vede aprire la bocca, - non voglio saperlo. Ma rimettilo in strada! – dice quindi, puntando un dito contro la finestra dalla quale il gatto è entrato un’oretta fa, e che è ancora aperta, in attesa di chissà cosa.
- Che? Ma perché? – sbotta Chakuza, avvicinandosi al gatto con tutte le intenzioni di stringerlo fra le braccia con fare paterno e protettivo. Il gatto, comunque, glielo impedisce, soffiandogli contro e rintanandosi in un angolo.
- Perché è evidente che neanche lui vuole essere qui. – spiega Fler, - Probabilmente si è perso. Veniva giù dal suo pianeta abitato solo da gatti orrendi come lui, ed è scivolato attraverso la tua finestra, schiantandosi al suolo. E tu, invece di lasciarlo pietosamente morire e poi buttare il suo cadavere nell’immondizia, hai dovuto per forza prendertene cura, anche se lui palesemente ti odia e vorrebbe trovarsi il più possibile lontano da te.
- Ok, prima di tutto, il gatto non mi odia. – sbotta Chakuza, offeso, aggrottando le sopracciglia, - Secondo poi, non era né morto né moribondo, quando è entrato dalla finestra, e non si è schiantato, è saltato come fanno tutti i gatti, atterrando sulle zampe. E terzo, non esiste nessun pianeta abitato solo da gatti orrendi, da nessuna parte nel cosmo.
- Il fatto che ti abbia sentito il bisogno di precisare prima tutto il resto e solo alla fine questo la dice lunga sul tuo conto, Chaku. – sospira Fler, scuotendo il capo e pinzandosi la radice del naso. – Comunque, non importa. Oltre ad essere brutto come la morte, è sicuramente anche ammalato, quindi buttalo fuori.
- Lo porterò dal veterinario. – scrolla le spalle lui, e mentre Fler esala un sospiro sconfitto torna a voltarsi verso la bestiola, ancora rintanata nell’angolo. – Coraggio, gatto, mangia. – lo invita, indicando la ciotola ancora piena di croccantini.
- Magari non ha fame. – ipotizza Fler. Chakuza si volta a guardarlo facendo tanto d’occhi.
- Ma è un randagio! – esclama, - Tutti i randagi hanno fame.
- Allora forse non è un randagio. – scrolla le spalle Fler, - Magari c’è una vecchia pazza che vive da sola nella sua casa-gattile, circondata da gatti orrendi come questo, tutti naturalmente provenienti dallo stesso pianeta abitato solo da gatti orrendi, che adesso va in giro per le strade di Berlino, roteando la propria borsetta consunta, piangendo e sputando per terra, stringendosi nel suo cappotto tarmato e unto, cercando il suo favorito perduto.
- Fler, ti stai lasciando trascinare un po’. – lo avvisa Chakuza, e Fler sbuffa, disinteressato.
- Sto solo cercando di dare un po’ di fascino alla sua figura. Almeno, con una storia interessante la sua esistenza avrebbe un perché. Così è solo un gatto alieno orribile e puzzolente.
- Ma la vuoi piantare con questa storia del pianeta alieno abitato solo da gatti orrendi?! – sbotta Chakuza, sul punto di perdere la pazienza, - E poi ti ho già detto che non è così orribile! Abbi un po’ di rispetto per le sue sfortune, non tutti nasciamo biondi, alti due metri e con gli occhi azzurri.
- È vero, alcuni di noi nascono pelati, alti un metro e venti e con le braccia corte. – ammette Fler, annuendo compitamente, - Ora capisco per quale motivo vuoi tenerlo con te: ti ci rivedi.
- D’accordo, hai passato il limite. – borbotta Chakuza, e sta quasi per saltargli addosso e prenderlo a legnate come un bravo fidanzato sempre dovrebbe fare nei confronti della propria fidanzata quando finisce per parlare a vanvera troppo a lungo, quando all’improvviso la porta si apre e Bushido fa irruzione all’interno degli uffici della Beatlefield come se ne possedesse le chiavi, cosa peraltro non del tutto impossibile, dal momento che i soldi per la caparra dell’acquisto dell’edificio li ha avanzati lui, e Chakuza ancora paga interessi al suo commercialista, al riguardo.
- Ah, siete qui entrambi, bene. – commenta l’uomo, annuendo, - Dite un po’, avete mica visto un… Gatto! – strilla quindi, gli occhi che si riempiono di gioia e affetto nell’individuare la figura dell’orribile randagio rannicchiato in un angolo, - Eccoti qui. – dice con bonaria pazienza, allargando le braccia in un gesto di ecumenico amore talmente grande e pio da far quasi venire voglia a Chakuza e Fler di lanciarsi contro di lui per un abbraccio. Fortunatamente, riescono a mantenere abbastanza compostezza da non cedere al malsano impulso. Cosa che invece il randagio si lascia liberissimo di fare, srotolandosi e scattando come una molla per saltare fra le braccia dell’uomo, appollaiandosi poi sulla di lui testa. – Grazie per averlo trovato, l’ho perso poco fa e non riuscivo a capire dove fosse andato a cacciarsi.
- Cioè, questo gatto è tuo? – borbotta Fler, gli occhi spalancati, indicando l’animale acciambellato e ronfante sulla testa del suo migliore amico.
- Sì. Be’, temporaneamente. L’ho trovato per strada. – annuisce lui, - Sapete bene quanto mi stia a cuore la sorte degli sfortunati che posso salvare dai loro miseri destini. È quello che è successo anche con voi, d’altronde.
Chakuza aggrotta le sopracciglia, offeso da ciò che le parole di Bushido implicano.
- Potresti cortesemente non venire qui in casa mia a fingere di avermi salvato da una vita di stenti solo perché dieci anni fa ho avuto la malaugurata idea di inseguirti e farti ascoltare un sample dopo un concerto? – domanda. Bushido ridacchia, totalmente disinteressato alla protesta.
- Aspetta, aspetta… - riprende Fler, grattandosi la nuca, - Cosa vorrebbe dire che è tuo “temporaneamente”? – chiede, - Lo hai preso con te per nutrirlo e insegnargli a dormire sulla tua testa, e poi lo rimetti per strada? Voglio dire, non sarebbe la prima volta che lasci a piedi qualcuno dopo avergli insegnato a venerarti come un Dio… - aggiunge tagliente, - Ma speravo almeno che con gli animali innocenti, per quanto spaventosamente brutti, tu potessi mostrare un po’ di cuore.
Bushido sorride misterioso, stringendosi nelle spalle.
- Questo è un segreto. – cinguetta, prima di voltare loro le spalle. – A presto!
I due lo osservano abbandonare la stanza, allontanandosi per i corridoi degli studi fischiettando piacevolmente. Stanno ancora guardandosi negli occhi con fare stupito quando un boato assordante li costringe quasi a rotolare per terra.
- Ma cosa cazzo…? – biascica Chakuza, guardandosi intorno spaesato. Fler scuote il capo e lancia un’occhiata alla finestra ancora aperta. Il suo volto si cristallizza in un’espressione colma di sconcerto.
- …Chaku… - annuncia, indicando fuori con una mano tremula. Chakuza si alza in piedi e gli si sistema accanto, osservando un palese disco voltante che si allontana a velocità sostenuta attraverso i cieli di Berlino, lasciandosi dietro una simpatica scia di nuvolette bianche. - …questo è troppo demenziale perfino per noi. Non può stare accadendo davvero.
La porta dell’ufficio si riapre pochi istanti dopo, e Bushido appare sulla soglia. Il gatto non c’è più. Naturalmente.
- Oh, eccovi qui. – dice l’uomo, sorridendo cordiale, - Vi va una birra?
Chakuza e Fler si guardano e poi lanciano a Bushido un’occhiata incerta.
- Bu… - prova timidamente Fler, - Che fine ha fatto il gatto?
L’uomo sbatte le palpebre un paio di volte, incerto.
- Quale gatto? – domanda. Chakuza e Fler deglutiscono.
- Lascia perdere. – conclude Chakuza, scuotendo il capo, e poi sospira. – Direi che una birra ci sta tutta.
Fler non commenta, ma non può fare altro che essere d’accordo.
Fandom: RP: Musica
Personaggi:
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Angst, Drabble.
- "L’infanzia è un periodo onestamente sopravvalutato."
Note: La verità è che il motivo principale per cui mi piace il Bu – a parte il fatto che è un deficiente e mi fa lollare come poche altre cose nell’universo – è quest’aura di fierezza che emana e che gli permette di fare anche le cazzate più indegne con l’unico risultato di costringerti a fissarlo per ore con ammirazione profonda, perché oh, non è mica da tutti organizzare – per dire – ricongiungimenti degni della peggiore puntata di C’è Posta Per Te e riuscire comunque a venirne fuori come un figo. XD Son cose.
Spero di essere riuscita a riportare almeno in parte in queste poche parole la fierezza di cui parlavo prima <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
King Of Kingz
9. I wanna shine on in the hearts of men (The Killers)


L’infanzia è un periodo onestamente sopravvalutato. Ho sentito gente, anche a me vicina, parlare come se la mancanza di un padre o di una reggia in cui vivere da piccoli avesse stravolto loro l’esistenza solo in negativo, e se mi è concesso avere un parere a riguardo – e sì, mi è concesso, perché ho vissuto in una topaia e senza un padre per ventitre anni della mia vita e ne avrei volentieri fatto a meno anche dopo, perché a me è concesso tutto e perché quando non mi è concesso qualcosa me lo prendo lo stesso – credo sia un discorso da perdenti.
L’infanzia ti cambia la vita, sì, e anche se un giorno ti svegli e decidi di raderti i capelli a zero. Anche se un giorno ti svegli e decidi che vuoi tatuarti un dragone attorcigliato al corpo. Anche se un giorno ti svegli e decidi che vuoi mangiare un gelato invece di una fetta di pane con le acciughe.
Incolpare l’infanzia di ciò che si diventa è da idioti ed è da sfigati.
Io avevo dieci anni quando ho deciso che volevo diventare il re del mondo. Parliamo di questo, non di mio padre che scompare per rifarsi vivo solo ventitre anni dopo quando sente odore di soldi. Parliamo di questo, non dei miei precedenti penali. Parliamo di questo, non di mia madre che mi cresce da sola a Tempelhof. Parliamo di questo. Parliamo di questo, cazzo.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Storia appartenente alla serie Jung Und Nicht Mehr Jugendfrei, prequel di Eine Kugel Reicht.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bushido/Fler (accennato).
Personaggi: Bushido, Fler.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Violence, Language.
- "Questo è lo scambio. Il tuo silenzio per i tuoi occhi."
Note: Devo precisarlo, ad uso e consumo di mia figlia Fedy, che non hanno combinato nient’altro che stringersi, su quel letto? =P *lolla* Scherzi a parte (no, ma non sto scherzando, non hanno combinato niente *scuote capino*), io amo questa shottina, come in realtà amo ogni singola shottina di JUNMJ – e come in realtà amo anche tutto il resto della Saga XD Scriverla, nonostante l’argomento (chissà se si capisce cos’è successo al mio Bimbo… *fischietta*), è stato piacevolissimo, e il rapporto fra questi due, oltre a ricoprirmi di frustrazione perché devo per forza cercare di mantenerli entro un certo limite, mi dà soddisfazioni incredibili. Il Flershido ruleggia <3
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Blackened Blue Eyes
#4 Chamomile


Entro nella kebaberia che paio una furia, me ne rendo conto, ma non ci sto con la testa, quindi me ne fotto. Me ne fotto degli sguardi di tutti questi cazzo di arabi che mi circondano, me ne fotto dell’aria sconvolta con cui mi scrutano quei – pochi – clienti che col giro non c’entrano un cazzo ed erano qui solo per mangiare il loro dannato panino e me ne fotto anche del grido irritato col quale mi apostrofa il padrone del locale – che poi dovrebbe essere un cugino di Arafat, e per quello che vale la parola cugino da queste parti potrebbe non entrarci niente con tutta la sua famiglia, peraltro. Non me ne sbatte una sega. Non trovo il ragazzino. Qualcuno mi deve delle risposte.
- Arafat. – sbraito, abbattendomi con una mano contro il tavolo al quale lo trovo seduto placidamente a giocare a carte con uno sconosciuto. Non dico altro, dallo sguardo che gli lancio dovrebbe capire cosa voglio da lui e dovrebbe anche capire che lo voglio subito, senza cazzate, ma evidentemente sto pretendendo troppo da questo stronzo – e con “troppo” non intendo la capacità di capire, ma quella di mettere da parte il proprio essere un pezzo di merda per rispondere subito, così che io possa capire dov’è e volare a recuperarlo, porca troia, visto che anche sua madre non lo sente da stamattina. E Patrick chiama sempre sua madre a metà mattinata, per dirle di non preoccuparsi.
- Sonny. – mi chiama a sua volta lui, tranquillissimo, - Come mai tutto sconvolto?
- Come mai, secondo te?! – batto di nuovo la mano, e stavolta mi faccio perfino male, - Dov’è. – e non è una domanda, non lo è neanche per un cazzo. È un fottuto ordine. Voglio la mia risposta. Adesso.
Lui torna a guardare le carte.
- Non so di cosa stai parlando.
- Non mi prendere per il culo, Arafat! – urlo, ed afferro le carte che ha in mano, schiacciandole poi contro il ripiano di legno, spiegazzandole e spargendole per tutto il tavolo, - Il ragazzino! Dove cazzo l’hai mandato da solo? Perché cazzo non me l’hai detto prima?!
Tutto intorno a noi si fa il silenzio più totale. Non si muove nessuno, guardano tutti questa scena ridicola nel mezzo del locale, ed in tutto questo a me non sbatte una sega nemmeno se sto facendo la figura del coglione. Il ragazzino ha fatto quattordici anni un mese fa e va in giro con una pistola che, per quanto bella, sa usare correttamente da meno di una settimana. Non ci può andare in giro da solo, Arafat non deve permettersi di mandarlo in giro da solo, non quando sa benissimo che per me sarebbe perfettamente okay accompagnarlo pure dall’altro lato della strafottutissima Germania del cazzo.
E quindi resto lì in piedi accanto a lui seduto e lo guardo come volessi ammazzarlo – che poi è assolutamente vero – o almeno lo faccio fino a che lui non decide che ha sopportato abbastanza, e si alza in piedi, squadrandomi dall’alto in basso con la stessa intensità omicida che c’è nei miei occhi. Il problema è che nei suoi viene fuori in maniera molto più convincente, mi sa.
- Punto primo, Anis, modera il linguaggio. – mi rimprovera, schiaffeggiandomi con una certa violenza sulla nuca. Io ringhio ma non ho il tempo di rispondere. – Punto secondo, sei ancora la mezza sega che eri l’anno scorso, mi pare, quindi per quale cazzo di motivo dovrei interpellarti prima di prendere una decisione? – e mi schiaffeggia ancora, stavolta sulla guancia.
Io rispondo con un mezzo ghigno da stronzetto.
- Punto terzo? – chiedo sfacciatamente, e con questo mi guadagno il terzo schiaffo nel giro degli ultimi sessanta secondi.
- Non mi serve un punto terzo. – risponde lui, tornando a sedere, - Ed ora levati dai coglioni.
- Non mi levo dai coglioni neanche per un cazzo. – rispondo immediatamente, e lui mi solleva addosso di nuovo quegli occhi furiosi. Non so com’è che reggo questo sguardo. Probabilmente perché non me ne frega più un cazzo nemmeno di lui. Fino a qualche mese fa sì, fino a qualche mese fa sopra Arafat c’era praticamente solo mia madre, e questo perché Arafat è tutto ciò di cui ho bisogno per diventare quello che voglio diventare, ossia qualcuno. Adesso non è più così. Adesso, cazzo, con Patrick di mezzo, Arafat non è più niente. Se dovrò passare sul cadavere di questo stronzo, per sapere dov’è il ragazzino, lo farò, e lo farò senza pentirmene. – Dimmi dov’è.
Arafat mi guarda a lungo, neanche stesse cercando di capire solo guardandomi se faccio sul serio o meno. E mentre lui mi guarda io ripenso al ragazzino con in mano la pistola, il giorno del suo compleanno, e poi ripenso al ragazzino che tira un barattolo di vernice in testa ad uno sconosciuto mettendo a rischio le palle per un altro sconosciuto – con la differenza che il secondo sconosciuto ero io – e poi vado ancora più indietro e ripenso al ragazzino nell’atrio del tribunale minorile che mi guarda con aria strafottente e mi dice “sembra che dovremmo farla insieme, questa cosa”, e fra tutte queste cose penso al ragazzino che mi segue ovunque, penso al ragazzino che mi fa il palo, penso al ragazzino che mi tiene i conti della roba venduta, penso al ragazzino che usa lo zainetto della scuola per le consegne – ed a lui non si avvicinano quasi mai, quando va in giro con quello zainetto lì, perché è così chiaro che è un ragazzino scemo che i poliziotti non lo prendono nemmeno in considerazione – e mentre penso a tutte queste cose penso anche che sì, faccio un sacco sul serio, ed è bene che Arafat lo capisca e lo capisca adesso. Non si gioca con le mie cose. Non me li fai questi scherzi, a me.
Arafat tutte queste cose sembra leggermele negli occhi, alla fine, ed io questo – il fatto che l’ha capito – lo leggo nei suoi a mia volta, perciò quando apre la bocca so già che lo sta facendo per dirmi dov’è Patrick, e tutti i miei sensi si tendono – voglio sentirlo subito, quello che sta per dirmi; voglio registrarlo subito e voglio scattare il prima possibile per raggiungerlo dovunque sia. Poi alla fine magari non è successo un cazzo, ma io ho bisogno di vederlo e di sapere che sta bene adesso, quindi in questo momento l’eventualità che sia tutto a posto nemmeno mi sfiora.
Solo che la porta del locale si apre ed il rumore interrompe Arafat. Io mi volto per mandare a fanculo lo stronzo con pessimo tempismo che mi sta rovinando la giornata, e invece non mando a fanculo nessuno, perché resto inchiodato al pavimento, paralizzato e pure muto.
- Che avete tutti da guardare?
Non so cosa cazzo abbiano gli altri, Pat, ma io ho da guardare che sei pesto come se ti fossero passati addosso con un carro armato, porca puttana.
- Pat- - faccio per chiamarlo, ma lui mi lancia un’occhiata gelida, o almeno, quella che sarebbe un’occhiata gelida se lui non avesse gli occhi rossi e gonfi di pianto e un rivolo di sangue rappreso che corre giù lungo la tempia e fino alla guancia.
- Sto bene. – dice ad alta voce, così da farlo sentire a tutti, - Ve li fate un po’ di cazzi vostri?! – aggiunge poi, arrabbiato, e tutti i fottuti arabi qua intorno tornano ai loro affari, perché nel momento in cui il ragazzino ha ringhiato gli hanno visto addosso la voglia di sbranarli tutti. E qui si vive secondo la legge fondamentale che, per evitare problemi più grossi, va bene ignorare i problemi piccoli. Quando avrò una crew tutta mia, questa sarà la prima legge del ghetto che manderò a puttane.
Patrick si avvicina zoppicando un po’, ma io non mi sporgo ad aiutarlo perché so che se solo mi azzardassi a toccarlo, in questo momento, mi staccherebbe le mani a morsi. Perciò lo osservo mentre arranca fino al tavolo di Arafat e posa il suo zainetto per terra. Quello non fa neanche rumore, quando lo appoggia, il che vuol dire che è vuoto. E questo vuol dire che, qualsiasi cosa gli sia capitata, Patrick ha portato a termine il suo compito.
La cosa diventa evidente quando tira fuori dalla tasca il portafogli e posa i suoi bei cinquecento euro proprio lì sotto al naso di Arafat, in mezzo alle carte da gioco tutte scombinate.
Lo stronzo prende le banconote, le fa frusciare svelto fra le dita per controllare non siano false, poi le conta una ad una, ne vaglia con gli occhi ogni imperfezione, le spiega, le mette in ordine sul tavolo, poi ne prende la metà e la consegna a Patrick, che incassa senza una parola.
- È andato tutto bene? – chiede Arafat.
- Tutto bene. – risponde Patrick, - Solo una rissa del cazzo.
Arafat annuisce compiaciuto.
- Te la cavi bene. – commenta, - Facciamo che oggi ti sei guadagnato un extra. – e gli allunga altri cinquanta euro. Non credo che Arafat abbia mai fatto niente di simile con nessuno. Con me non l’ha mai fatto di sicuro, perciò resto lì un po’ inebetito mentre osservo Patrick, che invece continua a non fare una piega, prendere anche quella banconota e conservarla nel portafogli assieme alle altre. – Signori, abbiamo un piccolo signore della droga, fra noi, pare. Sicuramente cento volte meglio di certi suoi amichetti che non fanno altro che lamentarsi. – e mi sferza con un ghigno divertito.
Qualcuno nella folla che mangia kebab qua intorno commenta distrattamente che se il ragazzino continua così diventerà il re dello spaccio, in città. Qualcun altro gli fa il verso e ride “sì, Frank White”. Lo ripete qualche altro.
- Frank White. – ride anche Arafat. – Ti piace, Patrick?
Il ragazzino scrolla le spalle. Probabilmente non sa neanche chi rappresenti la figura di Frank White per questi quattro stronzi. Accetta il suo battesimo e fine, perché è bravo, sa quando tacere, sa come incassare i complimenti ed ha già capito che in certe situazioni è meglio lasciar fare gli altri.
Tutto quello che riesco a pensare io, in questo momento, è che per la prima volta mi pento di averlo portato in mezzo a tutta questa merda. Ed ancora non so nemmeno cosa gli è successo, ma se si aspetta che mi beva la cazzata della rissa è fuori strada, il ragazzino. Decisamente fuori strada.
La transazione si conclude, Arafat torna alle sue carte, il ragazzino recupera lo zaino e si muove lentamente verso l’uscita. Io lancio un’occhiataccia ad Arafat, ma lui mi ignora, perciò ringhio e borbotto un “fanculo” risentito, prima di seguire Patrick. Quando Arafat ride, alle mie spalle, so che sta ridendo di me, ma non mi volto, non mi fermo e trattengo l’impulso di saltargli alla gola e strozzarlo, perché Patrick è uscito fuori dal locale ed anche se è più lento del solito ha comunque due gambe chilometriche, quindi se non mi sbrigo lo perderò. Tra l’altro penso proprio voglia seminarmi, perché per quanto ammaccato si sta sforzando un sacco di muoversi in fretta.
- Ragazzino. – lo chiamo, quando riusciamo a lasciarci la kebaberia alle spalle. Lui non si ferma. – Patrick! – insisto, e allora lui la pianta di cercare di sfuggirmi. Ma non si volta a guardarmi. Fa nulla: vuole fare il ragazzino? È piccolo, può permetterselo. È già stato abbastanza adulto là dentro quella specie di girone infernale. Perciò giro io, tutto attorno a lui, fino a pararmi di fronte ai suoi occhi. Che non trovo, perché stanno puntati verso il basso. – Be’? Avevi le palle per guardare Arafat dritto negli occhi, lì dentro, ma non le hai adesso per guardare me che sono un tuo amico?
Lui stringe il pugno attorno alla bretella dello zaino che tiene su una spalla sola, ma si ostina a non guardarmi. Perfetto, d’accordo, ho capito. Si sente in imbarazzo e si vergogna perché le ha prese. Ma Dio mio, ragazzino, può capitare.
- Ehi… - cerco di suonare conciliante, piantandomi le mani sui fianchi, - Guarda che è successo a tutti più di una volta, eh? È tutto a posto, poi passa. E comunque prendere le botte serve a insegnarti come tirarle, quindi… - commento con una risatina.
Lui continua a non sollevare lo sguardo. E io mi rompo i coglioni.
- Ragazzino, piantala di fare la testa di cazzo e guardami. – lo rimprovero, e mentre lo faccio allungo una mano e lo afferro per il mento, costringendolo a fissarmi. Lui il mio sguardo lo regge mezzo secondo contato, poi si agita tutto per liberarsi dalla mia stretta e, quando sta per riuscirci, io lo afferro con entrambe le mani ai lati della testa e lo obbligo a stare fermo.
E lui chiude gli occhi. Chiude i fottuti occhi, cazzo.
- …ma si può sapere cosa cazzo hai? – chiedo, e visto che non posso cercare la risposta dentro ai suoi occhi la cerco sulla sua pelle arrossata e sulle ferite appena disinfettate, - Sei già stato a casa? Ti ha risistemato tua madre?
Lui scuote il capo, non parla e continua a non aprire gli occhi.
- Sei andato all’ospedale, allora? – provo ad indovinare. Non lo so, che cazzo mi sta a significare questa conversazione ad uno? Sto facendo un monologo? – Perché non sei venuto subito da me?
Lui ricomincia a dimenarsi ed io continuo a tenerlo fermo.
- Patrick… - lo chiamo piano, e siccome siamo in mezzo alla strada e la cosa sta cominciando a farsi equivoca e lui è comunque ancora minorenne, oltre che maschio, oltre che un altro miliardo di altre cose che al momento non ha senso elencare, lo trascino in un vicolo lì di fianco, e poi ricomincio a parlare. – Pat. – lo chiamo ancora, più dolcemente, - Li apri gli occhi, per favore? Non ti voglio fare niente di male, Cristo santo!
Lui lascia andare un respiro tesissimo e schiude gli occhi, che sono umidi e arrossati. Continua a non parlare, naturalmente, ma adesso non mi aspetto niente di diverso.
- È tutto ok, chiaro? – comincio, - Ora ti lascio andare, ma tu non chiudi gli occhi. D’accordo?
Lui annuisce, io lo lascio andare ed in effetti continua a tenere gli occhi aperti. Il problema è che riprende a guardare altrove.
- No. – lo riprendo, riportandolo con lo sguardo su di me afferrandolo per il mento, - Non mi vuoi parlare? D’accordo, continuerò a blaterare da solo per tutta la giornata, se hai deciso così, ma almeno mi guardi. Guardi solo me. – lui aggrotta le sopracciglia e piega le labbra in una smorfia contrariata, ma io lo fermo dicendo “a-ha!” ed agitandogli un dito davanti al naso. – Questo è lo scambio. Il tuo silenzio per i tuoi occhi.
Penso distrattamente che nello scambio non è compreso niente di mio, ma tanto so che non me lo farà notare. Infatti Patrick continua a tacere. Ma fortunatamente continua anche a guardarmi.
- …okay. – annuisco. Le cose cominciano ad andare come dico io, e questo è rassicurante. – Hai mangiato? Ti porto a mangiare un panino e vediamo se quello ti scioglie la lingua.
Patrick scrolla le spalle e si muove per uscire dal vicolo. Io mi metto subito accanto a lui perché altrimenti perdo il controllo visivo coi suoi occhi e, per com’è la situazione adesso, sarebbe come essere sordo e non poter nemmeno osservare il labiale di una persona che non conosce il linguaggio dei segni. Cioè se perdo i suoi occhi non riesco più a discutere con lui. Questo non è possibile, al momento, quindi mi affretto a inseguirlo.
Non che sia difficile, comunque, riprendere terreno. Dato che zoppica, si muove davvero un sacco lento. Soprattutto per i suoi standard – io questo ragazzino sono abituato a vederlo volare per le strade, mi sembra assurdo guardarlo adesso e trovarlo così ammaccato.
- Ma com’è che zoppichi? – chiedo, e lui distoglie lo sguardo. Lo recupero per il mento, ancora. – La regola. – gli ricordo, - Fai il bravo. Com’è che zoppichi? Ti hanno preso a calci nelle gambe?
Lui annuisce sbrigativamente, così io so per certo che no, non l’hanno preso a calci nelle gambe. Dev’essere successo qualcos’altro. Avrò tempo per scoprirlo, al momento il ragazzino sicuramente non vuole sentirsi sotto assedio, perciò questa la lascio correre.
- Certo che sei andato a incrociare proprio degli stronzi come si deve. – commento mentre mi fermo sulla sponda del canale, al baracchino di un tizio che vende hot dog dal sapore orrendo e che è vecchio almeno quant’è vecchio il quartiere.
Patrick mi lancia un’occhiata incerta, quando ordino due panini, ma io gli faccio capire – pagando e consegnandogli il suo pranzo – che non me ne frega un accidenti di quanti dubbi possa avere sulla qualità di questi panini: non deve avere dubbi, faranno schifo. Ma gli toccano, è così che funziona. Quando le cose vanno male si va sulla riva del canale e si mangiano gli hot dog disgustosi del vecchio Olaf, e si lanciano le pietre nell’acqua e si parla, poi si recupera una birra e possibilmente ci si ubriaca. Una cosa per volta, però.
Quando mi siedo sul muro in cemento armato, Patrick esita più di qualche secondo, e resta fermo a saggiare con gli occhi la consistenza dei lastroni, prima di accucciarsi in una posizione stranissima, con una gamba sotto il sedere e l’altra che penzola giù verso il corso d’acqua. Io inarco le sopracciglia.
- Ti si bloccherà la circolazione e quando ti rimetterai in piedi avrai tutta la gamba addormentata, e dovrò trascinarti a casa in preda al fastidio perché non riuscirai nemmeno a poggiare il piede per terra. – gli faccio notare, inarcando un sopracciglio. Lui se ne frega abbondantemente e me lo fa capire scrollando le spalle. – Va bene, va bene. – rido, - Ora puoi anche guardare altrove. – annuisco, spostando gli occhi sull’acqua che ristagna quasi del tutto immobile ai nostri piedi, - Goditi il tuo panino.
Il suo panino, Patrick non se lo gode. Ed io rido quando, dopo il primo morso, gli esce dalle labbra un versetto disgustato. È fantastico, non è proprio riuscito a trattenerlo, l’ho sentito che ci ha provato, ha cercato di contrarre i muscoli del collo per tenerlo intrappolato nel fondo della gola, ma il disgusto era troppo e quindi ha dovuto lasciarlo andare. Meraviglioso.
Torno a guardarlo che sto ancora ridendo. E lui sta già guardando me di rimando.
- Buono? – chiedo ironico.
- Fa schifo! – risponde lui, di getto.
- Bentornata, voce. – saluto con un cenno della mano, e lui arrossisce e distoglie lo sguardo. Adesso è okay, può farlo perché ha ripreso a parlare, - Ora me lo dici cosa è successo? – chiedo dolcemente, mandando giù un altro pezzo di questo panino disgustoso che però contiene palesemente delle sostanze stupefacenti che creano dipendenza, e me lo conferma pure Patrick che, nonostante abbia appena detto che il panino fa schifo, ne morde un altro pezzo anche lui.
- No. – risponde con un mezzo grugnito, ingoiando con una certa difficoltà, - Non mi va.
- D’accordo. – annuisco subito io, sollevando in segno di resa la mano non impegnata a reggere il panino, - Allora, caro, raccontami com’è andata la tua giornata lavorativa, ed io poi ti parlerò dei piatti che ho lavato e dei pannolini che ho cambiato mentre aspettavo il tuo ritorno.
- Coglione. – borbotta lui, tirandomi una spinta contro la spalla, - …è andato tutto bene. Tranne quando ha cominciato ad andare male.
Io rido un po’.
- È più o meno sempre così, ragazzino. – gli faccio notare, - Va tutto bene, finché comincia ad andare male. È quello il punto. Cos’è che è andato male?
- Le solite cose. – risponde lui vago, - Quante volte ti sarà capitato, diecimila? Gli stronzi non volevano pagare e siccome io ero uno e loro erano più di uno hanno pensato bene di convincermi a starmene buono pestandomi a sangue. Tutto qua. Però tu non ti sei mai ridotto così. – aggiunge, indicandosi il viso.
Io, tanto per cominciare, lo mando mentalmente a fanculo. Se davvero i tizi non avessero voluto pagare, chiunque fossero, una volta pestato e lasciato in fin di vita sul marciapiede sarebbero effettivamente andati via senza pagare. E invece il ragazzino ad Arafat li ha portati, i suoi fottuti cinquecento euro. Quindi è palese che qua mi si sta prendendo per il culo, ma è altrettanto palese che ad insistere non guadagnerei altro che un vaffanculo e, probabilmente, anche uno spintone nel canale, perciò mi limito ad annuire comprensivo.
- Come ti dicevo prima, - gli spiego, - è successo a tutti di essere pestati. – e glielo dico perché so che, anche se non so come né perché, che sia stato pestato è una realtà difficilmente contestabile. – È così che ci si fa la corazza. Tu non mi hai mai visto ridotto così, ma ciò non vuol dire che io non mi ci sia effettivamente ridotto prima di conoscerti. Quindi non farti le pare da ragazzina oltraggiata, sono solo un paio di lividi, non è successo niente di irreparabile. Non ti sei nemmeno rotto niente, visto? È tutto a posto.
Lui non risponde. Guarda il canale, guarda il sole che si sta lentamente abbassando sul profilo della città, e poi finisce il suo panino. Resto lì in silenzio dieci minuti contati. Dopodiché lo recupero per le spalle, lo rimetto in piedi e comincio a trascinarmelo per tutta Berlino.
Da che sono nato non c’è mai stato niente di più consolatorio che andare in giro per la città. Quando perfino casa era troppo uno schifo per continuare a starci, io cominciavo a camminare e non mi fermavo finché non sentivo di non farcela più. È così che sono finito a lavorarci, per la strada. Perché la strada, quando ti prende, ti prende tutto. E tu non puoi più lasciarla, dopo.
A camminare e basta Patrick non si diverte granché, però, anche perché non sta bene per niente, quindi ad un certo punto mi fermo da un amico e, visto che mi ricordo delle sue velleità artistiche, recupero un po’ di bombolette spray di vari colori. Le metto in uno zainetto e lo raggiungo di fuori, dove gli avevo detto di aspettarmi, dopodiché riprendo a trascinarmelo per le strade e, quando ci fermiamo di fronte ad un muro di media altezza, bianco, sporco e inutilizzato, nel retro del cortile di un asilo, gli consegno lo zaino e sorrido soddisfatto.
Lui inarca un sopracciglio e mi fissa, dubbioso.
- Che roba è? – chiede. Io roteo gli occhi e sospiro.
- Ma ce l’hai nel DNA questa mania di chiedere prima di aprire il regalo? È lì, ce l’hai in mano, aprilo e vedilo da solo che roba è!
Non riesco a trattenere i suoi gridolini di gioia neanche se gli metto una mano sulla bocca, quando si rende conto di cos’ha per le mani. Credo non abbia mai visto tutti questi colori insieme, e quando indica il muro e mi chiede se sia per lui io rido e gli rispondo che sì, è per lui, anche se in realtà questo muro lo sto rubando a Berlino per regalarglielo. Berlino mi perdonerà, comunque. Mi deve della roba, questa città. Posso ben pretendere un muro in cambio.
Lo osservo maneggiare le bombolette con una certa destrezza, e quando vedo il disegno che prende forma – un enorme “king of kingz” che io stesso, modestamente, gli ho suggerito di realizzare, visto che continuava a saltellare zoppicando di fronte al muro senza riuscire a cavarsi un’idea che fosse una dalla testa – comincio a sospettare che questo ragazzino, se fosse nato in un altro posto e in altre condizioni, probabilmente avrebbe avuto del successo. Ci sa fare, con le mani. Cioè, ci sa fare coi colori. Anche se non è tanto normale che io mi rettifichi i pensieri da solo.
Alla fine, non so quante ore ci abbia messo, ma il disegno è lì, completo e perfetto, senza nemmeno una sbavatura, colorato e brillante. Puzza di vernice in maniera nauseante, ma ne vale la pena. Ci arrampichiamo sul muro – lui ha bisogno di una mano, ma gliela do volentieri – e restiamo seduti lì in contemplazione del vuoto mentre il sole tramonta dietro ai palazzi, in lontananza, e il cielo si fa scuro. Stasera è anche pieno di stelle, ma c’è un buio pesto tutto intorno, perché nel cortile qui non ci sono lampioni, quindi riesco a malapena a vedere ad un palmo dal mio naso.
- Frank? – lo chiamo. Lui non si volta. – Ehi, Pat, ti ci dovrai abituare, eh. Guarda che cominceranno a chiamarti tutti così, da oggi in poi.
Lui mi guarda un po’ curioso, come si fosse svegliato adesso.
- Eh? – chiede, ed io roteo gli occhi.
- Arafat ha deciso che sei Frank White. Quindi dovrai abituartici. È una cosa importante. – lui continua a guardarmi con quella faccia lì, come non capisse un accidenti di ciò che sta accadendo intorno a lui, perciò io rido e chiedo: - Lo sai chi è Frank White?
- No. – risponde lui, scuotendo piano il capo. Io rido.
- Ma l’hai mai visto King of New York?
- No. – risponde ancora lui, tranquillissimo. Ed io rido ancora, perché dai, ragazzino, ma come sei cresciuto?
- C’è questo qui, - spiego, - che è Cristopher Walken, l’attore, dico, ma nel film è il signore della droga di New York. Uno cazzuto. Tu non ti sai neanche preparare gli spinelli. – lo prendo in giro, e lui sbuffa e mi tira una spinta contro la spalla.
- E come finisce questo? – chiede, ancora offeso, - Conquista l’America e diventa presidente?
- Ci prova. – rido di nuovo io, - Ma finisce morto ammazzato. Ovviamente. – e sospiro. Cosa devo dirti, ragazzino? Sei stato pestato, lo so, ma qualcuno dovrà pur dirtele, queste cose. – Perché, - aggiungo, - come pensi che finiremo noialtri?
Lo vedo irrigidirsi e deglutire, mentre i miei occhi si abituano al buio della notte e trovano i suoi con una facilità disarmante.
- Comunque, sta’ tranquillo. – lo rassicuro, e nel farlo gli tiro una pacca sulla spalla tale che lui quasi casca di sotto, - Prima di morire, altro che Re di New York. Io diventerò il Re dei Re. – e tu vieni con me, ragazzino. Anche se questo non lo aggiungo, ad alta voce. Però col cazzo che ti lascio andare.
Quando lo riporto a casa è già notte fonda. Sua madre dorme, ma è tanto abituata ad averci entrambi a casa a quest’orario che ci ha lasciato latte e biscotti con un bigliettino sul tavolo della cucina. Nel biglietto – che peraltro è indirizzato a me, cosa per la quale comincio a ridere per interrompermi solo dopo mezz’ora – c’è scritto “sono sicura che sei riuscito a ritrovarlo, Anis. Vuoi gentilmente dirgli che domani mattina lo ricoprirò di botte?”. Patrick aggrotta le sopracciglia, quando legge il messaggio. Io tiro fuori una penna dalla tasca posteriore dei jeans e, sotto alla nota della signora Losensky, ne aggiungo una mia. “È stato un bravo ragazzo e non ha chiamato solo perché costretto dalle circostanze. Niente botte. Grazie per il latte”.
Patrick manda giù il suo latte e biscotti perché – a suo dire – deve cancellare l’orrendo sapore di quell’hot dog disgustoso. Io mangio per imitazione. Non è che abbia veramente fame, e per la verità comincio ad avere sonno. Sono stato teso tutto il giorno, poi sono stato euforico perché ho palesemente recuperato il ragazzino dal baratro in cui stava cadendo, ed adesso che mi si stanno sciogliendo i muscoli perché lo vedo qui tranquillo che trangugia biscotti affogandoli nel latte, la tensione scivola via e comincio a sentirmi stanco.
Quando finisce il suo latte lo accompagno in camera sua, perché a salire le scale ha evidenti difficoltà. Mentre mi faccio passare il suo braccio sopra alle spalle e lo tengo fermo, reggendolo saldamente per il polso con una mano e per la vita con il braccio, penso distrattamente che ormai è alto quanto me e che meno di un anno fa questa posizione non era nemmeno pensabile. Mi viene da ridere ma non lo faccio.
Patrick sfila via la maglietta e calcia lontano i pantaloni, con me là davanti, senza problemi. Io, non so cosa mi prende, distolgo lo sguardo. Comunque sono stanco, ragazzino, e tu mi stai torturando. Si infila sotto le coperte e poi mi guarda, e quando io faccio per salutarlo ed imboccare la finestra per scendere e sparire nella notte lui inclina un po’ il capo e mi chiede “ma non resti?”. Non ho idea del perché lo dica con questo tono qui, come fosse scontato che io dovessi restare e quindi fosse buono e giusto da parte sua guardarmi come se, andandomene, io stessi facendo una cosa assolutamente priva di senso logico.
- …se vuoi resto. – annuisco, richiudendo la finestra. – Ce l’hai un sacco a pelo?
- Uh? – chiede lui stendendosi sul materasso, già più addormentato che sveglio, - Puoi metterti qui accanto, il letto è grande. Ci entriamo in due.
- Ragazzino, io non ci dormo con un maschio. – dico nervosamente, e penso che se non ha un sacco a pelo mi costringo pure a dormire sul pavimento, pur di non mettermi nel letto con lui. Non va per niente bene quello che sta succedendo nella mia testa per ora, comunque. Devo recuperare il controllo. Un uomo senza controllo non è niente.
- C’è un vecchio materasso qui sotto… - scrolla le spalle lui, chinandosi a tirarlo fuori da sotto al letto e lasciandolo strisciare sul pavimento fino a piazzarlo proprio lì accanto, - È un po’ impolverato, ma-
- Fa niente. – borbotto, lasciandomici andare sopra e cominciando immediatamente a tossire per la polvere che si solleva tutta intorno a me. Lui mi guarda come fossi completamente cretino. – Be’? – chiedo io, - Non avevi sonno?
- …tu mi sa che non stai tanto bene. – mi prende pure in giro. E io lo mando a fanculo fra i denti, ma lui non mi sente perché si sta muovendo come un indemoniato per trovarsi una posizione comoda fra le coperte.
Io mi passo una mano sulla fronte. E chi dorme, stanotte?
La risposta è “nessuno”. Ma non mi arriva nel modo che pensavo. Perché è okay finché sono io che non dormo perché mi passano per la testa cose che decisamente non dovrebbero neanche apparire fugacemente per poi scomparire in una nuvola di fumo. Non è altrettanto okay se, nel silenzio assoluto della stanza – perché Patrick ha smesso di muoversi ed io non ho mai cominciato a farlo – comincio a sentire il respiro del ragazzino farsi sempre più profondo, breve e concitato. È una cosa tremendamente graduale, comincia nel momento in cui lui smette di muoversi e va aumentando. È talmente graduale che posso sentire ogni sfumatura. Mi terrorizza.
Mi metto seduto di scatto e lancio un’occhiata al letto. Patrick è immobile, steso supino, le mani piantate sul materasso che tirano il lenzuolo e il petto scosso freneticamente da respiri talmente corti e affannosi che sembra non riesca nemmeno a tirarne fuori la quantità di ossigeno minima per non soffocare.
- Ragazzino. – lo chiamo a mezza voce, mettendomi in ginocchio e guardandolo dall’alto, - Ragazzino, che hai?
- A- - prova a chiamarmi lui, ma non riesce, non subito, almeno, - Anis. – riesce a buttare fuori in un rantolo soffocato. Io non so che fare. Non ho mai visto niente del genere, cazzo. Che gli è preso?
Mi piego su di lui, gli sfioro un braccio e poi una mano e lui scatta come una fottuta molla. Da che è steso sul letto me lo ritrovo tutto rannicchiato in un angolo, seduto contro il muro, tanto piccolo che sembra un gomitolo di nervi.
- Ragazzino, che cosa c’è? – chiedo, e mi sposto di nuovo verso di lui, che si fa ancora più minuscolo, - Patrick. Non fare così, Cristo.
- Non ci… - ansima lui, ma non riesce a concludere la frase. Quindi, forse, quello che sta cercando di dirmi è proprio che non ci riesce, a livello generale. – Anis. – mi chiama ancora, e io decido che basta così. Non me ne frega un cazzo se i maschi non dormono coi maschi e se io in particolare dovrei evitare assolutamente di dormire con quest’altro maschio in particolare, e non me ne frega un cazzo anche se ha intenzione di scattare come se l’avessi punto ogni volta che provo a toccarlo: mi isso sulle braccia, mi seggo sul letto accanto a lui, lo afferro per le spalle e me lo tiro contro.
Lui, ovviamente, parte a dimenarsi come un’anguilla. Ma io continuo a tenerlo stretto.
- È tutto okay, Pat. – gli sussurro piano all’orecchio, - Lasciami fare. – e lo accarezzo lungo le braccia, la schiena, la nuca, il collo, - È tutto a posto. Non è successo niente. Che cazzo ti hanno combinato oggi, ragazzino…?
Lui trema tutto e scuote veloce il capo, serrando le labbra ed anche gli occhi.
- Ehi, ehi… - lo tiro su per il mento, - È ok. Non devi dirmelo. Non parlare. – sorrido, - Però voglio i tuoi occhi. Quelli me li dai.
Lui si morde un labbro e per un secondo resta completamente immobile, le mani sul mio petto, le dita strette convulsamente attorno alla mia maglia, e non dice una parola. Non parla più, il ragazzino. Però annuisce. Gli occhi me li dà. E allora è okay.
Non so in quanto tempo passa questa notte – non ne ho idea, le ore sembrano secoli eppure non mi pesano per niente addosso – però so come passa. Con gli occhi di Patrick nei miei e i miei nei suoi. Le sue mani sul mio petto. E le mie mani ovunque.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Storia appartenente alla serie Jung Und Nicht Mehr Jugendfrei, prequel di Eine Kugel Reicht.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bushido/Fler (accennato).
Rating: R
AVVERTIMENTI: Language.
- "Sollevo gli occhi nei suoi. Non lo so, se è tutto chiaro. Potrei rivederlo?"
Commento dell'autrice: In realtà inizialmente questa shot non doveva neanche esistere XD L’ispirazione per scrivere è arrivata quando mi è capitato sotto gli occhi il commento in cui Fedy diceva che le sarebbe piaciuto vedere il momento in cui Anis aveva insegnato a Patrick come sparare. [AVVISO PUBBLICO] Questo, a riprova del fatto che, anche se a rispondere mi pesa il culo, i vostri commenti li leggo ancora con piacere ed amore XD Perciò cercate di perdonarmi e, se volete, fatevi sentire ancora <3 [/AVVISO PUBBLICO] Comunque! XD Fedy ha chiesto ed io ho praticamente eseguito, tutto qua. Poi i due deficienti mi sono sfuggiti di mano, hanno fatto cose, detto robe ed alla fine ciò che emerge con più prepotenza da questa shot è che il german rap, nell’universo della Saga, è minato alla base dal suo signore e padrone e dal di lui collega. Essendo entrambi gai fino al midollo, la situazione attuale di SE non sembra più tanto incomprensibile, suppongo. XD
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Shot Through The Heart
#11 Cinnamon Apple Spice


- Allora, - mi fa, con la sicurezza di un generale o chissà che altro è convinto di essere in quella testa di tunisino del ghetto, - qui si mangia non più tardi dell’una, perché la Mama deve prendere la pillola per il cuore, chiaro, ragazzino? – io annuisco lentamente, guardandolo fisso, e penso che quest’uomo ha una Heckler in mano, che io reggo fra le dita la mia Smith & Wesson e concludo che è surreale che, di fronte al plotone di bottiglie vuote che mi ha sistemato davanti al muro del cortile sul retro di casa sua, quest’uomo mi parli della pillola per il cuore di sua madre, presentandomela pure come il motivo per il quale dobbiamo darci una mossa. – Ottimo. – riprende quindi, scostandosi per lasciarmi osservare bene la fila di bottiglie, - Quelli sono i tuoi bersagli. Ora-
- Aspetta, aspetta… - mi passo una mano sulla fronte, confuso, - Senti, chiariamo che io non l’ho mai tenuta una pistola in mano, okay?
Lui inarca un sopracciglio ed indica la Smith & Wesson con un cenno del capo.
- Sì, va be’, a parte il tenerla in mano e basta. – preciso scrollando le spalle e sollevando la mano che regge l’arma, come a fargli vedere quanto male la sto tenendo, - Non c’ho mai sparato. Cioè, non so nemmeno da dove cominciare. E poi è scarica.
Anis rotea gli occhi e me la tira via di mano, dopo aver infilato con disinvoltura la Heckler in tasca. La tocca un po’ qui e un po’ lì – non riesco nemmeno a seguire con sicurezza i suoi movimenti – se la rigira fra le mani ed il tamburo rotola fuori dal corpo centrale, pieno di proiettili. Lui mi guarda ancora, ed inarca un altro sopracciglio.
- …io non l’ho caricata. – mi giustifico, guardando altrove.
- Sì, infatti l’ho caricata io. – precisa lui, - Prima di regalartela. Ma non l’hai nemmeno guardata bene?
Fisso gli occhi su un angolo del giardino. Proprio a ridosso del muro, s’è accumulato un mucchietto di foglie ingiallite ormai secche. C’è qualche formica che fa la spola da un lato all’altro del giardino, un piccolo plotone che si muove alla ricerca di una preda, magari sotto le foglie hanno messo su un formicaio.
Come faccio a dire ad Anis che il giorno del mio compleanno sono tornato a casa, ho posato la pistola nel cassetto e non l’ho più toccata? Anche nei giorni successivi, quando l’ho guardata, non ho osato allungare le mani e non l’ho nemmeno sfiorata. Una pistola, per quanto bella, resta una pistola. È una cosa che può uccidere degli esseri umani. Quando l’ho riposta nel comodino, quella sera, ho sentito un brivido scorrermi lungo la schiena ed ho capito che era paura. È per paura che non l’ho toccata. Quindi non lo sapevo che Anis ci aveva messo i proiettili dentro. E forse, se l’avessi saputo, non solo non l’avrei più toccata, ma non l’avrei nemmeno più guardata.
Anis non mi dice niente, ma lo vedo che si è offeso. Guarda la pistola, richiude il tamburo, la sistema con tutta la calma e l’attenzione del mondo e, ovviamente, tiene il muso. Io sospiro. Voglio dire, non è che volevo offenderlo. Lo so che me l’ha regalata lui e gli è costata un sacco e si aspettava, non lo so, che strillassi di gioia e pretendessi di usarla immediatamente, perché lui un po’ è così con le cose che lo esaltano. Tipo, io l’ho visto anche con me. Da quando mi ha conosciuto, ha sempre preteso la mia attenzione completa e totale, ed anche quando cerca di controllarmi – e quindi sta sempre buttato a casa mia, mi segue ovunque eccetera – io lo so che non è solo una questione di controllo, è soprattutto l’essere preso dal momento che lo spinge a comportarsi così. Si aspettava che fosse lo stesso per me e la Smith & Wesson, ma non ha messo in conto la possibilità che io potessi funzionare diversamente. Io sono già innamorato di questa signorina, però faccio fatica a dirlo ad alta voce. Deve darmi un po’ di tempo.
- Quindi… - biascico, un po’ a disagio, - cos’è che devo fare esattamente?
- Per quello che ti frega, - sbotta lui, puntando la pistola contro una bottiglia a caso, il braccio teso e gli occhi bene aperti, - potevo anche darti un libretto d’istruzioni e lasciarti imparare da solo, invece di prepararti tutto qui dietro casa mia invitandoti pure a pranzo. Magari avresti preferito.
Roteo gli occhi, andandogli vicino e guardando la direzione verso la quale punta la pistola, per cercare di capire che bottiglia sia nel mirino.
- Non è vero. – commento, - Solo che non mi aspettavo… è stata una cosa improvvisa. È quella azzurra?
- Sì. – risponde sbrigativamente lui, - E non parlarne così, non ti ho chiesto di sposarmi. È una pistola, è bella, è un regalo importante ed è importante che a fartelo sia stato io, ma al di là di quello che vuol dire fra noi è una cosa che ti servirà. Quindi prendila sul serio.
- La sto prendendo sul serio. – gli faccio notare, aggrottando le sopracciglia, - Anche troppo.
- Non esiste troppo. – scrolla le spalle lui. Ed è un attimo. Poi succede qualcosa – che io nemmeno capisco – e l’attimo dopo la bottiglia azzurra è in frantumi. Mi accorgo dello sparo solo quando ne sento risuonare l’eco nel cortile e giù in strada, e resto lì accanto a lui, le labbra dischiuse e gli occhi spalancati, a fissarlo come se non l’avessi mai visto prima. E in effetti un po’ è così. Non l’avevo mica mai visto sparare. L’indice che preme il grilletto, la sua pelle che diventa più chiara a causa della pressione e poi torna subito del suo colore quando molla la presa, i tendini delle sue dita che si contraggono e poi rilasciano la tensione, la spalla che scatta appena per attutire il rinculo dello sparo. Sono tutti particolari che noto e ricostruisco dopo, quando l’eco si assopisce e l’unica traccia di ciò che è successo sono i cocci di vetro e il proiettile conficcato fra un mattone e l’altro nel muro.
- Dunque. – dice a bassa voce, abbassando l’arma, - Questo è in sostanza tutto quello che c’è da fare. Sollevi il braccio, - mi mostra, tornando a puntare un’altra bottiglia, - carichi, - e pressa il pollice contro il cane, tirandolo verso il basso con un click, - miri, - i suoi occhi concentratissimi sull’obiettivo brillano quasi, - bang. – e parte un altro colpo. Stavolta, ad andare in frantumi è una bottiglia di un verde anonimo, e il proiettile si pianta per terra, nel cemento armato. Dalla pistola cade una cartuccia vuota, al primo sparo non l’avevo notata cadere. La maglietta strettissima che Anis indossa tira sui suoi addominali tesi ed io distolgo lo sguardo. – È tutto chiaro?
Sollevo gli occhi nei suoi. Non lo so, se è tutto chiaro. Potrei rivederlo?
- Sì… penso di sì. – annuisco confusamente, tendendo la mano. – Posso provare, se vuoi.
- Sì, - ride appena lui, - siamo qui per questo. – e mi consegna la pistola. La lascio lì, sul palmo, e la guardo un po’ da ogni lato prima di stringerla fra le dita cercando di imitare la presa salda di Anis, puntandola contro una bottiglia a caso, lì di fronte al muro.
- Tienila stretta. – dice Anis, scivolando dietro di me ed allungando un braccio a coprire il mio, teso, per tutta la sua lunghezza, poggiando la mano sulla mia e guidando le mie dita perché aderiscano bene all’impugnatura, - E non ti distrarre. Quando spari… - mi parla direttamente all’orecchio, sfiorandomi il lobo con le labbra ogni volta che le muove, - stai facendo qualcosa di molto grande, ragazzino. È una cosa che devi assaporare, perché stringi fra le dita la vita intera di un uomo. Tutto quello che ha, tutto quello che sa, tutto quello che ama, per un secondo è tuo, perché sei tu a deciderne il futuro.
Io annuisco piano, deglutendo, e quando mi muovo a disagio, spostando il peso da un piede all’altro, sento Anis che mi si pressa contro con più forza e trattengo il fiato perché non riesco ad ammettere neanche con me stesso cosa sto sentendo. Da parte sua nei miei confronti o da parte mia nei suoi.
- Sono… solo bottiglie. – ironizzo, cercando di alleggerire la tensione. Anis ride – mi ride addosso – e io tremo.
- Adesso sì. Ma oggi o domani potrebbe essere una persona. Quindi non pensarle come fossero bottiglie. Pensale come se fossero già esseri umani. – sospira e mi indica una bottiglia trasparente con un cenno del capo. – Quello è un figlio di puttana. Fa entrare di nascosto senegalesi e namibiane in Germania, ma poi le costringe a prostituirsi per strada. E coi soldi ricavati compra cocaina che poi rivende alle feste dei ragazzini ricchi. Lui è pulito, ma chissà quanti ne sono morti a causa della sua merda. Forse più di quanti ne siano morti a causa della nostra.
La mia mano si stringe attorno al manico con più forza, ed io aggrotto le sopracciglia. Anis sorride.
- Però ha una moglie che ama, - continua, - e un figlio per cui farebbe di tutto. Riesci a vederlo mentre lo porta al parco, la domenica? Riesci a vederlo spingere il passeggino sul ponte, fra i viali, mentre sua moglie gli cammina al fianco, stringendolo al braccio?
Mollo la presa e le dita di Anis si serrano sulle mie, rinsaldandola.
- Sai tutte queste cose – sussurra – e devi sparare comunque.
Deglutisco ancora, lasciandomi un po’ andare contro di lui. Cazzo, Anis, non mi stai rendendo le cose facili per nulla.
- Dritto. – mi rimprovera lui, e per costringermi a rimettermi composto mi tira una spinta col bacino che è proprio l’ultima cosa che dovrebbe fare in questo momento. Trattengo il fiato nella gola ed obbedisco, comunque, tornando a stringere per bene la pistola. – Allora. Quel bastardo lì, - e indica ancora la bottiglia trasparente, - tu devi farlo fuori. E devi farlo fuori perché te lo sto chiedendo io. Nessun altro motivo, non lo odi, non ti ha fatto niente, magari potrebbe anche esserti amico in futuro. Ma io ti sto chiedendo di ammazzarlo. Quindi tu ora devi ammazzarlo.
- …solo perché me lo chiedi tu? – biascico, e mi rendo conto di essere del tutto senza voce. Ma non è che non ci sia, è che non riesce a uscire.
- Solo perché te lo chiedo io. – annuisce lui. – Occhi aperti, devi vederlo bene l’uomo che uccidi. Guardalo negli occhi e lascia che ti guardi lui. Sei in assoluto la persona più importante della sua vita. Sua moglie, i suoi figli, sua madre, non sono niente. Tu sei il suo Dio, perciò lascia che ti guardi bene e guardalo bene anche tu. E poi – la sua voce è solo un sussurro sulla mia pelle. Io sto guardando la bottiglia e sto vedendo un uomo senza volto. L’uomo che devo uccidere. Perché me l’ha chiesto lui. Lui che non vedo ma sento addosso. Ovunque. Ovunque, Dio, è ovunque. – E poi spara, ragazzino.
Le sue dita si chiudono sulle mie, io presso il grilletto, il proiettile parte e va a conficcarsi sulla parete. La bottiglia non la prende nemmeno di striscio, ovviamente. In compenso, i miei polmoni sono esplosi il mio cuore è in due. Non mi è mai successo di sentirmi così. Non saprei nemmeno dire esattamente cosa sia successo, ma so per certo che quando la sua mano s’è stretta attorno alla mia, quando me lo sono sentito tutto addosso, qualcosa s’è conficcato nel mio cuore, proprio nel centro, e sono state le sue dita a spingerlo in fondo, e quello ora è lì, come una specie di enorme spilla da balia, e non si muove. Mi fa male anche respirare. Perciò immagino che i miei polmoni siano esplosi. E che il mio cuore sia in due.
- Mancata. – sorride Anis, così vicino che quasi sento la pressione del suo sorriso sulla mia stessa faccia. – Dovremo riprovare.
- Troppo… - annaspo, perché questa situazione è insostenibile e mi fa male il petto, - Sei troppo vicino.
Lui si scosta appena, ma non si allontana veramente, e mi guarda incuriosito.
- Troppo vicino? – chiede a bassa voce. Sembra non capisca davvero. Io so di essere arrossito e so anche che quello che sto per dirgli è anche più palese di quello che di solito mi azzardo a dire a me stesso, ma non posso proprio evitarlo, perché se gli permetto di restare lì dov’è ancora per un solo secondo esploderò.
- Sei troppo vicino. – ripeto quindi, la sua mano è ancora stretta sulla mia ed i miei occhi sono ancora fissi sulla bottiglia intatta, - Mi dai i brividi. Mi confondi. Allontanati, per favore.
Sono stato talmente chiaro che non posso pensare, davvero, non posso credere che non abbia capito cosa sto cercando di dirgli. Quindi, quando stringe la presa sulla mia mano, quando solleva un braccio e mi allaccia alla vita, quando la sua mano scivola casualmente contro il mio fianco e quando mi tira contro di sé, e cazzo, quando sento che oltre il tessuto ruvido e spesso dei jeans è duro come pensavo non l’avrei mai sentito, so che anche lui sta cercando di dirmi qualcosa. Solo che lui non riesce ad essere esplicito come lo sono io, non riesce o non vuole, e probabilmente è meglio così, perché io già non capisco più niente e se solo lui si azzarda a darmi un cazzo di via libera, anche se non so nemmeno per cosa, io la follia la faccio. Lo so che la faccio. Perciò, Anis, spostati. Per favore.
E lui si allontana, come mi sentisse parlare. Scioglie la stretta attorno ai miei fianchi e si allontana, lasciandomi andare anche la mano.
- Non farci caso. – mi dice. Penso che una persona normale, al posto suo, si sarebbe come minimo scusata. Lui non lo fa, però. E questo vuol dire che non è dispiaciuto affatto. E che io uscirò pazzo molto presto.
Annuisco confusamente e deglutisco, stringendo la pistola con entrambe le mani e puntando nuovamente la bottiglia.
- Okay. – riprende lui, e si volta a guardarmi, ma stavolta non mi tocca. – Capito tutto, quindi? Miri, premi, attento al rinculo, la spalla non tenerla troppo rigida, o ti farai male.
Io annuisco, ma sono teso per i cazzi miei e non è facile rilassarmi, in queste condizioni.
- Più morbido il braccio, Pat. – si allunga appena a toccarmi la spalla e, quando mi sente rabbrividire sotto i polpastrelli, aggrotta le sopracciglia e piega le labbra in una smorfia irritata. – Piantala. – mi rimprovera. – Sii uomo. Riprenditi. – e sappiamo entrambi da cosa devo riprendermi, però solo io so che non è semplice come lui cerca di darmi a intendere. Stronzo.
Mi arrabbio, perché a volte ho come l’impressione che lo faccia apposta ad ignorare quello che mi passa per la testa. Che non lo capisca non è nemmeno un’opzione, quello è ovunque, è soprattutto nel mio cervello, e lo sa perfettamente. Mi sono rassegnato da tempo all’idea. Perciò niente, lui lo sa che cosa sta succedendo, lo sa perché non riesco a rilassarmi, e se ne sta deliberatamente sbattendo i coglioni. Perché poi s’incazza quando le cose non girano nel verso che lui aveva stabilito, ed evidentemente che il mio verso casualmente giri verso il suo è proprio una cosa inaccettabile, quindi eccolo che dà di matto e mi guarda come se gli stessi facendo chissà che torto, ma sai cosa, Anis, sai cosa?, sei tu che mi fai torto, e fai torto a te stesso. E vaffanculo.
Sparo, la bottiglia va in frantumi, il proiettile si conficca nel muro assieme a tutti gli altri ed io, vaffanculo pure a me, finisco seduto per terra.
Siccome non me lo aspettavo – nel senso che, cazzo, il rinculo è forte davvero – rimango lì, con le gambe stese sul cemento sporco di questo fottuto cortile e gli occhi fissi sulla bottiglia in frantumi, e devo avere un’espressione veramente del cazzo. Ma veramente. Sposto lentissimo lo sguardo dalla bottiglia ad Anis e lo trovo che mi guarda con aria allucinata, le labbra dischiuse, tipo come se fossi diventato, non lo so, fucsia fosforescente sotto i suoi occhi, da un momento all’altro. Boh.
E l’attimo dopo eccolo che si piega in due e ride come un cretino, pressandosi una mano sulla pancia, e la sua risata è così forte che riecheggia più degli spari, nel cortile, fra le case, giù in strada e nella mia testa.
- Ma vaffanculo… - borbotto cambiando di nuovo colore e rimettendomi in piedi, - Oh, stronzo, piantala di ridere! – mi lamento, spintonandolo malamente contro una spalla. Lui, ovviamente, se ne frega e continua a ridere, anche quando io la pianto di spintonarlo, che tanto non serve, e mi spolvero i jeans, recuperando la Smith & Wesson da terra ed infilandomela in tasca.
- Hai deciso che per oggi basta? – mi prende in giro asciugandosi una lacrima di divertimento dall’angolo di un occhio, mentre cerca di porre un freno alle dannate risate. Io incrocio le braccia sul petto e guardo altrove.
- Sì. – ringhio, - Mi sono rotto le palle. Domani se ne parla.
Lui si calma ed annuisce, e quando si rimette dritto solleva un braccio e sbircia l’orario sull’orologio da polso che indossa, e che è enorme e pesantissimo, e gli scivola lungo il polso magro fino ad impigliarsi nel punto in cui l’avambraccio si ingrossa appena.
- Perfettamente in tempo per il pranzo. – si compiace, - Corri in casa, la Mama ti ha preparato qualcosa con delle mele e del pepe, io non ho idea di cosa sia ma lei dice che è buono, perciò lo sarà. – mi annuncia, indicandomi con un cenno del capo la porta di casa che dà sul cortile. Io lo guardo interrogativo, inclinando appena il capo.
- Tu non vieni? – chiedo, scrutandolo curiosamente.
Lui si inumidisce le labbra.
- Ho una cosa da fare in un posto, prima. – butta lì, misterioso. E va via prima di me.
La Mama mi ha preparato l’arista di maiale alle mele. È dolce ed è piccante, ed è un sapore che mi piace un sacco. Anis però non so dov’è, in questo momento. E questo mi piace un sacco di meno.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Genere: Comico, Parodia.
Pairing: Fler/Bushido, accennato Fler/Chakuza.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Crack, OC.
- La fangirl arrivò alla Villa Gialla una mattina di primavera tendente all'estate come tante altre.
Note: Questa storia è una follia nata solo ed esclusivamente a causa di Critti. Io non intendo spiegare nulla del processo mentale che ci sta dietro, ma intendo lamentarmi pubblicamente del fatto che su quel dannato tema di Temporal-mente io ho cominciato quattro dannate storie e questa è l’unica io sia riuscita a finire XD Il che mi offende come fanwriter, come donna e come-… chissenefrega *annuisce* Spero vi siate divertite XD
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Fangirl In Da House
"Se giochi a lungo e non cambi mai la posta il banco ti frega a meno che, quando si presenta la mano giusta, non scommetti il massimo e te lo porti via tu il banco!" (Ocean's Eleven – Fate il vostro gioco)


La fangirl giunse alla Villa Gialla in una bella mezza mattina di primavera tendente all’estate. Le cinciallegre cinguettavano felici nel giardino del Re e tutto era pace e quiete, nessuno fiatava, perfino il bianco Skyline e la nera Sherlee – miracolosamente – tacevano, e l’unico suono potesse essere ascoltato, nel silenzio del quartiere bene all’interno del quale la meravigliosa villa spiccava come la proverbiale ciliegina sulla torta, era quello dell’acqua che scorreva dal rubinetto giù nello scarico del lavandino e il lento ed assonnato sfregare dello spazzolino sopra i denti del sovrano indiscusso del luogo.
All’improvviso, mentre sua maestà rifletteva sulla possibilità di rigirare lo spazzolino e provare la nuova funzionalità pulisci-lingua che in realtà lo inquietava non poco – d’altronde, chi si lascerebbe accarezzare la lingua da una doppia serie di sei spatoline in gomma viola aromatizzata alla menta, col rischio di scoppiare a ridere per il solletico e morire in modo ben poco regale, soffocati dal proprio stesso dentifricio alle erbe? – qualcuno si attaccò al campanello e cominciò a suonare una serie di trilli dal ritmo stranamente familiare, ed il Re impiegò non pochi dei neuroni già svegli per riconoscere che quello era il beat di base di Kennst Du Die Stars e che, soprattutto, il misterioso visitatore minacciava di continuare con quell’irritante scampanellio all’infinito, se non avesse avuto al più presto la sua assoluta attenzione.
Fu per questo motivo che sua altezza decise di scollarsi dal proprio lucidissimo lavandino in marmo misto nero striato bianco e muoversi ciabattando verso la porta, spazzolino ancora mollemente pendente dalle labbra, mentre Sherlee e Skyline gli saltellavano intorno, finalmente memori del loro ruolo di cani da guardia, abbaiando come ossessi verso la porta ed inciampando sulle proprie stesse zampe nella foga di saltare il più in alto possibile per cercare di rubare lo spazzolino dalla bocca del loro signore e padrone.
Quando sua altezza schiuse l’uscio della porta di casa, non poté fare a meno di schiudere lievemente le labbra e restare lì, vagamente interdetto, di fronte alla signorina minuta che gli si parava davanti, le braccia incrociate dietro la schiena e due code sbarazzine a spuntare dai lati della testa, mosse appena dal leggero venticello che rinfrescava l’aria.
- Uh? – disse molto intelligentemente sua maestà. Sherlee saltò più in alto di Skyline e gli rubò lo spazzolino di bocca. La ragazza lo guardò per qualche attimo con aria curiosa. Dopodiché, sorrise.
- Mi aspettavo meglio. – commentò serafica, sorridendo beatamente, chiudendo gli enormi occhi azzurri e piegando un po’ la testolina tonda, - Ma sei bello lo stesso. Posso entrare? Grazie. – e il secondo dopo stava già facendosi strada all’interno della Villa Gialla, guardandosi intorno evidentemente emozionata e toccando tutti gli oggetti il più possibile, come volesse imprimersene la forma sui polpastrelli per non dimenticarla più. E fu allora che lo chiese. Sua maestà non aveva ancora nemmeno richiuso la porta. – E il mio bimbo dov’è?
Bushido, sovrano unico e solo di quell’appartamento da quando D-Bo aveva preferito vendersi al suo usciere di corte e cambiare etichetta, mentre Kay One aveva improvvisamente stabilito di essere eterosessuale – “no, Bu, davvero. Cioè, sono innamorato di lei, non prenderla male, eh” – trasferendosi in Berlino-centro con la sua adorata e biondissima Mandy, richiuse la porta e si grattò la testa. Viveva solo, fino a prova contraria. E non ricordava assolutamente di essere mai stato a letto con quella tizia – per quanto fosse in effetti difficile richiamarle tutte alla memoria senza confondersi – perciò era ragionevolmente certo di non doverle alcun figlio. Alla luce di tutto ciò, la presenza di un bimbo in quella casa gli sembrava da escludersi nella maniera più assoluta.
Si fece avanti con un sorriso fascinoso, reso in parte ridicolo dagli sbuffi di dentifricio che ancora gli adornavano le labbra, e cercò di essere conciliante.
- Ragazzina. – disse affabile, - Non c’è nessun bimbo qui.
Lei cambiò letteralmente espressione. Da che il suo visino poteva essere senza dubbio alcuno indicato come l’espressione stessa della gioia mista a beatitudine tanto tipica delle fanatiche che finalmente incontrano l’idolo della loro vita, i suoi lineamenti si trasformarono nella personificazione stessa dello sgomento: spalancò gli occhioni e piegò verso il basso gli angoli della bocca, tirandosi indietro all’improvviso, oltraggiata.
- L’hai buttato fuori di casa! – lo accusò, puntandogli contro un ditino tondo, - Di già!
Sua maestà la guardò, incerto. Skyline fece lo stesso. Sherlee mordicchiava ancora lo spazzolino, persa nel suo sapore mentolato e divertita dal solletico che le spatoline di gomma provocavano al suo palato.
- No, guarda… - rispose, cercando di essere razionale, - Tutti coloro che sono andati via di qua l’hanno fatto di loro spontanea iniziativa. – le spiegò, - Io non ho mai costretto nessuno ad andarsene, capisci cosa intendo? – disse, gesticolando come a volerle spiegare meglio e nel modo più chiaro possibile ciò che intendeva, - Kay s’è fidanzato con una tipa, D-Bo-
- Sì, ma chi se ne frega! – continuò la ragazza, agitando disinteressata una mano, - Io sto parlando del mio bimbo, mica di questa gentaglia!
Sua altezza reale si degnò finalmente di chiudere le labbra e riflettere, ripulendosi la bocca dal dentifricio col dorso della mano, e poi ripulendo il suddetto dorso contro i pantaloni del pigiama. Quella ragazzina – che a questo punto probabilmente tanto ragazzina non era – continuava a parlare di questo fantomatico bambino che lui era ragionevolmente sicuro di non dover ascrivere al suo libro paga degli alimenti. Ma ciò non escludeva a priori la possibilità che in effetti un bambino fosse passato da quelle parti, infilandosi a tradimento nella Villa Gialla passando sotto l’intercapedine della porta, tipo, come i gatti, ad esempio. Probabilmente era solo una mamma un po’ ansiosa ed esaurita, c’era da comprenderla, compatirla ed aiutarla.
- Ehm… - azzardò, grattandosi il collo, - Sì, mi rendo conto. Senti, se hai perso il tuo bambino mi dispiace. Sarò felice di aiutarti. – la rassicurò, gonfiando eroicamente il petto. – Ho molte guardie del corpo sparse qui intorno, se mi fai una breve descrizione fisica e mi dici quanti anni ha e come si chiama magari-
- Oh, andiamo! – borbottò lei, saltando sul divano e prendendone possesso, tirando le scarpe dall’altro lato della stanza, - Lo sai benissimo com’è fatto, lo conosci da vent’anni! – poi si guardò curiosamente intorno. – Hai mica da mangiare?
Qualcosa fece crack nel cervello di sua maestà. La ragazza lo osservò con gli occhioni spalancati circumnavigare il divano e sedersi compostamente lì accanto a lei. Appena lo ebbe visto accomodarsi, allungò le gambe sulle sue ginocchia, mettendosi comoda.
- Grazie. – disse, - Ne avevo proprio bisogno.
Bushido non capì esattamente cosa stesse succedendo, ma – sovrappensiero per com’era – prese a massaggiare le caviglie della signorina, sempre guardandola come fosse appena atterrata sul suo divano in sella ad una barca alata con vele di zucchero filato.
- Sì, esattamente. – mugolò compiaciuta lei, stendendosi meglio contro i cuscini, - Ho fatto un lungo viaggio e sono esausta. E visto che il bimbo non è in casa dovremo camminare ancora, quindi un massaggio ci sta come una ciliegina sulla torta.
- Ma si può sapere chi è questo bimbo del quale parli?! – strillò il sovrano, dando prova di saper essere maestoso anche nelle sue incazzature, trattenendosi regalmente dal mandarla in aria con una manata, - E poi come faccio a conoscerlo da vent’anni se è un bambino?!
- Ma che bambino?! – strillò ugualmente lei, allungandosi a tirargli uno scappellotto dietro la nuca, - Ha quasi trent’anni!
Il cervello di sua maestà fece nuovamente crack, in un punto distinto rispetto al precedente, così che improvvisamente Bushido si ritrovò con un cervello tripartito pensante contemporaneamente a tre cose diverse. Se un cervello sembrava propenso a buttare immediatamente la ragazza fuori di casa, il secondo cercava di prodigarne per comprenderne il mistero ed il terzo pensava che nessuno, qui, aveva ancora terminato di lavare i denti, e ciò era disdicevole per un sovrano.
- Scusami, eh… - mormorò sua maestà, già stanco nonostante fossero appena le dieci del mattino, - …io non capisco. Ho delle difficoltà. Chi sei tu esattamente?
- Io sono una fangirl. – rispose candidamente lei, mettendosi seduta sul divano a gambe incrociate, - Il mio nome non ha importanza.
- Ne avrà quando dovrò denunciarti per violazione di proprietà privata. – le fece notare sua maestà, annuendo compito. Lei annuì allo stesso modo, sorridendo felice.
- Questo è un motivo per cui è meglio che io non ti dica il mio nome per esteso. – decise sbrigativa, - Dunque, qui dobbiamo discutere una faccenda di fondamentale importanza, e cioè-
- Cioè chi tu sia e cosa tu voglia da me, per l’appunto. – annuì ancora bushido, ed incrociò le braccia sul petto, così che la fangirl capì che non si sarebbe arrivati da nessuna parte senza che uno dei due cedesse. Peccato lei non fosse affatto interessata a farlo.
- Dunque. – disse, mettendosi in ginocchio e gattonando fino a lui, poggiandogli una mano sulla spalla, - È importante che io ti premetta due cose, Bubbolo. – Bubbolo?, si chiese il sovrano, un po’ disorientato, ma non ebbe tempo di esporre ad alta voce i propri dubbi e le proprie perplessità sul lasciarsi appellare con un soprannome tanto ridicolo, perché la fangirl riprese immediatamente a parlare, - Io ti amo. – disse infatti la ragazza, battendo due pacche amichevoli contro la sua spalla.
- Prendo atto. – rispose lui, tirandosi vagamente indietro. Mai fidarsi delle fangirl. – La seconda cosa?
La ragazza sorrise.
- Ti amo troppo per rispettarti anche. – aggiunse quindi lei, beata come su una nuvola, immersa nella pace degli angeli. – Perciò, premesso che non mi interessa ciò che pensi, cosa sei davvero e se ciò che succederà oggi sia compreso o meno nella tua biografia, mi trovo qui per costringerti a fare della roba.
Sua altezza annuì con grande eleganza, incassando regalmente l’informazione e riflettendo con la tipica saggezza e bontà che il suo status di sovrano universale gli imponeva.
- Che io possa non voler fare queste robe cui tu vuoi costringermi, è un’eventualità che posso permettermi di prendere in considerazione? – chiese, riconoscendo immediatamente negli occhi della fangirl la volontà assoluta di costringerlo comunque, qualsiasi cosa pensasse lui al riguardo.
- Ovviamente no. – scosse il capino lei, - Farai esattamente ciò che ti dirò, senza fiatare. Ed io poi scomparirò come non fossi mai esistita, promesso.
Sua maestà rifletté accuratamente sulle varie possibilità che gli si paravano davanti. Certo, poteva mettersi a litigare con la ragazzina e correre il rischio di non schiodarsela mai più di dosso – così come il rischio altrettanto grave di perdere la pazienza e prenderla a ceffoni, dandole la scusa perfetta per fargli causa e diventare parte della sua vita per sempre nei secoli dei secoli amen. Oppure poteva – e fu ciò che accarezzò con maggiore compiacimento, fin da subito – cedere alle sue richieste e togliersela definitivamente dalle balle. D’altronde, cosa mai avrebbe potuto chiedere? Un bacio? Un autografo? Il manoscritto originale dell’autobiografia? Poteva dar via tutte e tre le cose – la bocca, il proprio nome ed anche la storia romanzata della sua vita – senza particolari turbe psichiche. Fu per questo che sorrise amabilmente, piegandosi un po’ verso di lei ed annuendo affettuoso.
- D’accordo, ragazzina. – disse, - Spara. Quello che vuoi.
Lei giunse le mani sotto il mento, ed i suoi occhi si espansero verso l’infinito ed oltre, riempiendosi di lucciconi di dubbia natura che Bushido pensò dovessero essere le luci provocate dalle proiezioni NC-17 che stavano avendo luogo all’interno del giovane cervellino invasato. Si ritrovò perfino a sorridere con una certa sincera tenerezza quando lei si sporse verso di lui, le gote arrossate dall’emozione ed il labbro inferiore un po’ tremulo. Sollevò una mano per accarezzarle una gota paffuta, ravviandole poi dietro l’orecchio una ciocca di capelli sfuggita ad una delle due codine e sporgendosi a propria volta in avanti per darle ciò che tanto bramava. E poi lei lo disse.
- Allora in piedi, siamo già in ritardo.
Sua maestà spalancò gli occhioni castani già in parte semichiusi e la guardò con evidente confusione riflessa nelle pupille. Aveva appena fatto la bocca al pensiero di darle un bacetto – erano secoli, all’incirca, che con tutto quello che era successo non aveva trovato modo di schienare una donna sul divano – e lei cosa faceva? Prendeva e si alzava?
- Scusa, signorinella. – borbottò, mettendosi in piedi al suo fianco, - Stavo cercando di darti ciò che volevi.
Lei lo guardò con quei suoi enormi occhioni azzurri pieni di stupore ed inclinò lievemente il capino.
- Anche io sto cercando di prendermi ciò che voglio. – lo informò candida, scrollando le spalle.
- Allontanandoti da me?
Lei lo scrutò ancora, incerta, e poi rimise ai piedi le scarpe che aveva calciato via pochi minuti prima.
- Be’, dovremo pure andare a cercare Fler. Altrimenti come farai a baciarlo?
Una quarta parte si staccò dal cervello di Bushido, rotolando all’interno della sua scatola cranica fino a sbattere contro l’osso occipitale.
- Baciare… Patrick? – chiese, boccheggiando affannosamente come un pesce tenuto forzosamente fuori dalla propria boccia, fra le grinfie di un gatto ed osservato con puro sadismo da un tredicenne pazzo in vena di crudeltà accudito da una madre trascurante e da un padre sempre al lavoro. Solo, sperduto e senza scampo, il povero pesce-Bushido annaspò e si dibatté fra le grinfie del gatto-fangirl, cercando di tornare in sé e recuperare della lucidità da qualche parte in mezzo a ciò che rimaneva della propria razionalità.
- Sì. – rispose lei, sbattendosene altamente, per dirla nel modo più appropriato e rispondente alla realtà, del trauma interiore che il povero sovrano stava vivendo. – Solo questo, un bacetto, con lingua e tutto ovviamente, non sono mica cretina, e poi sparirò per sempre dalla tua vita. – sorrise adorabile, sollevando due dita in segno di vittoria. – Promesso!
Bushido la guardò a lungo, incerto. Altre possibilità si aprivano davanti a lui come strade mai solcate da piede umano, e in quanto sovrano era suo compito riflettere bene su ciò che gli aspettava su ogni possibile cammino, così da… oh, fanculo.
- Ragazzina. – disse, abbattuto, - Facciamolo e facciamolo in fretta.
La fangirl sorrise demoniaca. E il sovrano, prima di uscire di casa, si permise – solo un po’ – di sudare freddo.

*

Patrick Losensky, prima di essere un rapper, prima di essere un ex-criminale di Tempelhof, prima di essere una personalità eminente nel mondo del german rap, prima di essere l’amichetto preferito di Bushido, prima di essere l’ex stellina di punta dell’Aggro Berlin, prima di essere tedesco e anche, probabilmente, prima di essere maschio, era un onesto lavoratore. Uno cui piaceva che le cose fossero fatte per bene, oltretutto, con ordine, senza schiamazzi, senza affrettarsi, seguendo un iter ben preciso. Per dire, al mattino gli piaceva svegliarsi, fare colazione – prima caffè zuccherato, poi un biscottino al miele, poi una fetta biscottata con un puntolino di burro, poi mandare a fanculo la dieta e bere mezzo litro di latte pucciandoci dentro una quindicina di biscotti al cioccolato e cinque o sei fette biscottate con sopra burro e marmellata – poi lavarsi – prima la doccia, poi i denti, infine le orecchie – farsi la barba – rifinendone bene il disegno – e poi vestirsi – mutande, calze, pantaloni, maglietta e solo dopo scarpe e giacca. Insomma, era uno metodico.
Per questo, vedersi apparire sulla soglia della porta Bushido accompagnato da una ragazzina sconosciuta e sentirsi poi schienare sulla parete opposta neanche due secondi dopo, con le labbra dell’amico pressate contro le sue e la sua lingua a cercare di farsi spazio dentro di lui, lo mandò letteralmente nel panico. Quello non era il giusto iter da seguire. Se proprio Bushido voleva limonarlo doveva prima presentarsi con tranquillità, poi sorridergli amabilmente, avanzare verso di lui lento, guardandolo in maniera inequivocabile, infine stringerlo al muro, accarezzargli lievemente un braccio e solo dopo, eventualmente, pressare le labbra contro le sue ed infilargli la lingua in gola. C’era un metodo da seguire! Andava rispettato!
Mentre Bushido continuava a baciarlo, mettendoci – lì sì – un sacco di metodo pure invidiabile, tanto che Fler cominciò a chiedersi se per caso non avrebbe dovuto lasciar perdere ciò che era successo fino a quel momento per concentrarsi su quanto sarebbe accaduto da quel momento in poi, Patrick sentì distintamente la vocetta istericamente compiaciuta della ragazzina sillabare follie del tipo “lo sapevo che scriverlo nelle fanfic non bastava, dovevo venire a pretenderlo di persona… d’altronde, si dice che per portarsi a casa il banco uno deve scommettere il massimo, ed io il banco qui me lo porto a casa eccome”, scattando fotografie a velocità straordinarie, roba da fare invidia al miglior paparazzo sulla piazza.
Fu ancora la voce della signorina ad interromperli definitivamente, una decina e due paia di centinaia di scatti dopo.
- Eh sì, okay, - disse con tono lamentoso, spostando graziosamente il peso da un piedino all’altro, - però, per quanto possa farmi piacere osservarvi mentre vi mangiate la faccia a vicenda, io ho altro da fare e pochissimo tempo per farlo, perciò… - e così dicendo afferrò Fler per una spalla e lo trascinò lontano da Bushido, - Bubbolo, tu puoi andare. Ora muoviamoci, bimbo mio adorato, la Beatlefield non sta esattamente dietro l’angolo.
- Eh? – chiese giustamente il rapper, guardandola con enormi occhioni azzurrissimi, - Cosa? Chi? …perché?
- Eh? – gli fece eco il suo degno sovrano, degnandosi però di esplicare meglio i pensieri che, confusamente, si accavallavano all’interno del suo privatissimo cervello quadripartito, - Perché alla Beatlefield? – e poi un  brivido lo scosse lungo tutta la spina dorsale, costringendolo ad un tremito. – Non avrai intenzione di…
- Esattamente. – sorrise amabile la fangirl, - Coraggio, bimbo, - continuò, strattonando Fler verso l’uscita, - Sai, io ti amo ma non ti rispetto e bla bla, mi sono un tantino rotta le palle di questi disclaimer, tanto tu un’autobiografia ufficiale nemmeno ce l’hai, ti spiace se passiamo un attimo dal Chaky e te lo limoni una decina di minuti, tanto per gradire? Ho delle fangirl che aspettano un picspam in community e non vorrei deluderle, grazie.
Silente, Bushido osservò la fangirl uscire tirandosi dietro Fler come un sacco di patate, del tutto indisturbata nonostante gli oltre ottanta chili di peso dell’uomo e i suoi ragguardevoli due metri circa d’altezza, mentre lui provava a dibattersi utilizzando la tecnica del pesce fuor d’acqua che egli stesso aveva avuto la sfortuna di provare sulla propria stessa pelle, e sospirò. Aveva ancora dei denti da lavare, d’altronde. E fu concentrandosi su questo che, dopo una sbrigativa scrollatina di spalle, prese la strada di casa.
Storia appartenente alla serie Jung Und Nicht Mehr Jugendfrei, prequel di Eine Kugel Reicht.
Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Nessuno.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Language.
- "Quando torno a spostare la mia attenzione su di lui, Anis sta ancora sorridendo. Io non riesco nemmeno a trovare un’espressione, perché sono troppo felice."
Note: Sono circa due ore che cerco di postare questa storia X’D Prendetevela con Tab, ella mi ha fatto leggere cose ed io mi sono enormemente distratta. Comunque! Ecco a voi il secondo episodio di Mini!Fler e Mini!Bu alle prese con le difficoltà dell’adolescenza, i primi batticuori, le prime consegne, le prime pistole *annuisce compitamente* Son ragazzini, d’altronde. E Fler è palesemente troppo piccino per ciò a cui lo sottopongo ;_; Ponfolo. Ma questo non fa che renderlo ai miei occhi più puccino e meritevole d’amore. Sono una madre asservita. E Bushido è bellissimo. E la Smith & Wesson (che è quella che Fler porta con orgoglio in Staatsfeind #1, oltretutto XD), potete vederla cliccando qui, io la amo, è meravigliosa, ne voglio una uguale e soprattutto me la sto coccolando da millemila milioni di mesi. 
A parte ciò, unica precisazione riguardo al titolo, rubato (e riadattato) da un verso della splendida Weapon di Matthew Good. Posso già sentire Meg urlare come una fangirl impazzita in sottofondo. \o/
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
How He Made Me A Weapon


Anis entra in camera mia dalla finestra e sta già sorridendo. Io – che sono qua seduto sul letto e sfoglio un volume di Spider Man che dovrà avere trent’anni, e comunque lo so a memoria – faccio finta di non notarlo, perché vedo che sta già sorridendo in quel modo lì. Anis quando sorride in quel modo lì sta pensando cose. Quando Anis pensa cose bisogna cominciare a preoccuparsi, anche perché non è che lo capisci, cosa sta pensando, finché non te lo dice lui; sai solo che qualcosa c’è, ma non sai cosa, ecco.
- La grondaia sta cedendo. – mi fa, e si butta sul letto accanto a me, facendo saltare tutto il materasso.
- Continui ad appendertici… - gli faccio notare, scrollando le spalle e girando la pagina, - È solo una grondaia, lasciala in pace. Puoi entrare dalla porta.
- È più comodo così. – ride lui, - Evito tua madre che mi chiede se voglio mangiare perché “oh, Anis, sei così magro”!
- Patrick! – mi chiama mia madre dal piano di sotto, appunto, - È già salito Anis?
Io sbuffo e mi metto in piedi, abbandonando il fumetto aperto sul letto ed affacciandomi alla porta per parlarle attraverso la tromba delle scale, mentre Anis, giustamente, ride, prendendo il fumetto in mano e cominciando a sfogliarlo con aria perfettamente tranquilla.
- Sì! – urlo, - Ma la vecchia scala di papà c’è ancora da qualche parte? – chiedo.
- Sì, tesoro, c’è, - risponde lei, mentre la sento aprire il frigo, - ma non ti permetterò di mettere una scala davanti alla tua finestra.
Io sbuffo ancora, roteo gli occhi e mi chiudo la porta alle spalle, tornando a letto.
- Devasterai la grondaia perché mamma non mi fa mettere su la scala.
Anis ride ancora, e continua a sfogliare l’albo.
- Tua madre ha ragione. Chissà quanti omaccioni brutti e cattivi salirebbero.
Io ghigno.
- Te compreso?
- Io – continua a ridere lui, dandomi un colpo di fumetto sulla testa, - non sono un omaccione, non sono brutto e non sono cattivo.
Inarco le sopracciglia e potrei rispondere a tono a tutte e tre le cose. Faccio anche per dirlo, in realtà, apro la bocca e tutto, cercando di riprendermi il fumetto, ma mia madre apre la porta e, per evitare che mi trovi tutto spalmato addosso a lui, mi tiro indietro, schiacciando le spalle contro la parete e guardandola con aria un po’ irritata quando avanza all’interno della stanza reggendo fra le braccia un vassoio con due bicchieri di latte e un piattino con qualche biscotto al cioccolato. Mi sa che stavano pure finendo e quella era la mia colazione di domani, che palle. Mi toccherà tirare fuori da sotto il materasso qualche soldo e andare a comprare qualcosa per i fatti miei. Poi il resto glielo metto nel portafogli, tanto mamma i soldi non li conta mai, non li contava prima e non si accorgeva che sparivano e non li conta adesso, e non si accorge che appaiono.
- Anis, sei sempre più magro! – chioccia mia madre, posando il vassoio sul mio comodino e intrecciando le mani sul cuore in una posa apprensiva, - Bevi un po’ di latte e mangia un po’ di biscotti, per favore. Tua madre comincerà a chiedersi se non ti affamiamo, quando vieni qui da noi!
Io roteo gli occhi ed evito di dire che la madre di Anis, chiunque sia, probabilmente non sa nemmeno della mia esistenza, figuriamoci della sua e figuriamoci poi se sa che è qui che Anis viene a passare i pomeriggi quando non lavora. Chissà se sa che lavora, oltretutto. Magari è ancora convinta che frequenti il ginnasio, ‘cazzo ne so. Anis è capace di farti credere quello che vuole.
- Signora, - la saluta lui con un cenno del capo, e fa quel sorriso lì, quello delle femmine, che quando lo fa alle ragazze per strada va anche bene, ma se lo fa a mia madre io un po’ mi schifo, se devo dire la verità, perciò storco il naso e faccio una smorfia, distogliendo lo sguardo, e lui ride. – Grazie mille dell’ospitalità. – continua, e mentre mia madre si prende benissimo e comincia a chiedergli come sta e tutto a me viene voglia di mandarlo a fanculo.
Comunque, a un certo punto ci sono loro che continuano a parlare e io non so se mi dà più fastidio che Anis stia parlando con mia madre o che mia madre stia parlando con Anis, però non è neanche così importante, alla fine, e tutto ciò che riesco a fare è mettermi a sbuffare. Mia madre si lamenta che cerco di tenerla all’oscuro della mia vita – e non sa che è vero, e non sa che le sto facendo un favore – e Anis si mette a ridere. Lo odio quando ride così.
- In realtà oggi sono venuto perché volevo chiedere a Patrick quand’è che fa il compleanno. Giusto per sapere. – fa. Ed io mi sento gelare il sangue nelle vene.
- Oh! – s’illumina mia madre, e io per poco non mi spiaccico una manata sulla faccia, - All’inizio del mese prossimo, il tre aprile.
- Mamma, ma chi ti ha detto di-
- Oh… - ghigna Anis, e basta questo a zittirmi, - Fra poco. – mi fa notare con un altro di quelli sorrisi lì, tipo quelli delle femmine, però quando li fa a me non sono quelli delle femmine. Non so perché mi sorride in questo modo, a volte, però so che sa che mi mette un sacco in imbarazzo. Forse è per questo che lo fa, visto che è uno stronzo. – E sono quindici, giusto? – e io voglio sparire.
Mia madre spalanca gli occhi e mette su una faccia un po’ stupita e un po’ confusa, tipo che secondo me si sta chiedendo se Anis non abbia fatto male i conti, e quindi fa tipo “uhm” e io abbasso lo sguardo ed arrossisco, e lei tipo “no, Anis, ti sbagli, deve farne quattordici”.
Anis si ferma immobilissimo accanto a me. Si prende il tuo tempo, non so a cosa pensi, comunque quando sollevo gli occhi mi sta guardando fisso e sta ghignando in una maniera insopportabile, che io per forza devo aggrottare le sopracciglia e guardarlo come se volessi ucciderlo qui ed ora, anche se a lui la cosa non fa il minimo effetto, perché continua a ghignare in quel modo.
- Ti fai grande! – dice alla fine, e io un po’ apprezzo che non mi abbia sputtanato con mia madre, ma tanto dall’altro lato so che me la farà scontare tutta quando saremo da soli, quindi non lo apprezzo più di tanto, so già che non se lo merita.
Mia madre scende al piano di sotto qualche secondo dopo, e io nemmeno lo guardo, Anis: lo sento che sta ancora ghignando, qui accanto a me, ed è troppo vicino per poterlo guardare che ghigna in questo modo e restare tranquillo. Nel senso, so già che se mi volto e lo vedo che ghigna così e così vicino, faccio qualcosa. E sono quasi sicuro che sarebbe qualcosa di cui mi pentirei, anche se non so esattamente cosa farei, quindi preferisco non fare niente e basta. Lui mi spintona un po’.
- Quattordici ne avevi, mh? – mi prende in giro, - Ragazzino, sei stupidissimo.
- Non sono stupido! – sbotto, tornando a guardarlo, - Non ho mentito, ne ho quasi quattordici!
- Sì, ma tu mi hai detto che li avevi già compiuti… - fa un rapido calcolo, - tre mesi fa. – e ride. Poi sospira e mi guarda, inarcando un po’ le sopracciglia. – Sei bravo a raccontare balle. – mi fa, avvicinandosi appena, - Ci ero cascato, anche se a guardarti, adesso che lo so, è ovvio che sei un bambino. È un bel talento, ti sarà utile in futuro. – e poi si avvicina ancora e io respiro a fatica. È troppo vicino, non si va così vicini alle persone, invadi il loro spazio, rubi la loro aria, non si fa e basta. – Solo, non provarci mai più con me, ragazzino. Potrei arrabbiarmi.
E io boccheggio un po’, perché quando me lo dice è veramente troppo troppo vicino, e quindi mi tiro indietro, e nel tirarmi indietro mi dimentico che il mio, per quanto grande, giustamente è un letto singolo, e quindi casco. Si può essere più idioti? Casco. Col culo per terra. E mi faccio pure un cazzo di male, oltretutto. E Anis, manco a dirlo, ride come se non avesse mai visto niente di più divertente in vita propria. Che poi mi sa che è anche vero. Sto facendo una figura ridicola dietro l’altra.
- Insomma, il tre aprile. – lo vedo che prende nota, lui c’ha tipo questa cosa che si scrive le cose in testa, no? Fa così anche quando Arafat gli dice cosa fare e dove andare, lui segna tutto mentalmente e quando lo fa glielo vedi passare negli occhi, tipo. Che poi è strano, perché ha gli occhi scuri e torbidi, quindi non ti aspetti che possano parlare tanto. Però quando lui vuole lo fanno. Quando vuole che tu lo capisca senza sprecarsi a parlare, per esempio. Con me l’ha fatto ancora pochissime volte, però io l’ho afferrato, quelle volte, cos’è che mi stava dicendo. Quindi penso che lo farà più spesso, in futuro, e siccome Anis è uno cazzuto questo vuol dire che sono cazzuto anch’io. E ne sono orgoglioso, ecco.
In tutto questo però sono ancora seduto in terra come un cretino, perciò – siccome mi sento ancora più stupido a pensare in grande quando sembro un idiota – mi metto in piedi e lo fisso. Ormai sono alto quasi quanto lui. In tre mesi sono cresciuto un casino, e anche se lui dice che è merito suo, che mi tiene in forma, io penso sia solo merito del fatto che sto crescendo e basta, quindi in pratica non è merito di nessuno, al limite mio. E insomma, non può mica prendersi tutti i meriti lui.
- Sì, il tre aprile. – confermo, - Cosa, vuoi portarmi il regalo?
- La mia presenza sarebbe un regalo sufficiente. – ride lui, scendendo giù dal letto apposta per ricordarmi che mi supera ancora di almeno cinque centimetri, - Ma in realtà ho dei progetti migliori. Solo che, visto che sei ancora così piccino, li rimanderò all’anno prossimo.
Aggrotto le sopracciglia e sbuffo.
- Che progetti?
- Fidati.
- Riguardano me, ho il diritto di-
- Fidati. – ripete lui, voltandosi verso la finestra. – Andiamo? Siamo in ritardo di dieci minuti, Arafat ha parlato col cubano, stamattina, e dobbiamo andare al porto a recuperare un carico.
Io sbuffo, mentre lo osservo scavalcare il davanzale e cominciare a scendere lungo la grondaia. Lo imito, reggendomi al tubo come mi ha insegnato a fare lui una delle prime volte che è venuto, e solo quando siamo di nuovo a terra, sul prato tutto rovinato del cortile dietro casa mia, gli parlo ancora.
- Quanti chili dobbiamo portarci in giro, stavolta? Otto? Dieci?
Lui ghigna e annuisce.
- Dieci. Ma tanto ormai hai le spalle forti. Cosa vuoi che siano cinque chili di polvere? Mi sa che lo zaino della scuola pesava di più.
- Sì, ma – gli faccio notare, - i libri della scuola non mi attiravano addosso gli spiantati che volevano rubarseli.
- A proposito, - mi chiede lui, andando verso la macchina, - ci vai ancora, sì?
- Uh? – chiedo io, mentre lui apre lo sportello, facendo il giro della macchina, - Dove?
- A scuola, ragazzino. – borbotta sedendosi al proprio posto, - A scuola.
Io mi seggo lì di fianco e scrollo le spalle.
- Tu non ci vai più.
- Ti ho chiesto se ci vai tu, non se ci vado io. – mi fa notare lui, e io distolgo lo sguardo.
- Non avevano nient’altro da dirmi, al ginnasio. – rispondo a bassa voce.
Lui sospira e mette in moto.
- Sei stupidissimo, ragazzino. – commenta. Però poi ride. – Mi sa che hai ragione, comunque.
Il discorso lo chiudiamo così e io a scuola non ci metto più piede, e non me ne pento nemmeno, perché comunque andare in giro con Anis è un sacco più istruttivo, e poi guadagno bene, Arafat mi ha preso in simpatia perché dice che sono sfacciato e ho le palle – e se Arafat ti dice che hai le palle allora le hai davvero – e mi sa che presto mi farà fare qualcosa tutto da solo, che io ci spero, perché per quanto mi piaccia andare in giro con Anis lui è convinto che io non saprei fare niente, senza di lui, e questo non è vero, saprei cavarmela alla grande. Solo che ad Anis non basta dirgliele, le cose, per fargliele capire: devi fargliele vedere. Quindi lui non si rassegnerà ad ammettere che anche io sono capace di farcela, almeno fino a quando non mi avrà visto tornare vivo da un lavoro che ho portato a termine tutto da solo.
Comunque niente, le cose vanno bene, quel pomeriggio – e in realtà vanno bene anche i pomeriggi successivi, e settimana dopo settimana io entro sempre più nel giro, e i soldi diventano di più, e le sbronze più frequenti, e Anis diventa praticamente una costante della mia vita. E io che prima mi annoiavo un sacco comincio a fare un sacco di cose, comincio a uscire di notte – quando Arafat decide che sono pronto ed Anis è d’accordo con lui, non prima – e anche se il lavoro da solo continua a farsi attendere in realtà non posso lamentarmi, perché faccio un sacco di cose tutto il giorno, non mi riposo quasi mai e porto a casa un sacco di soldi e altrettanti posso tenerne per me. Finché mamma non capisce da dove vengono, va bene, e quando lo capirà sarà okay lo stesso, perché le farò capire che è tutto a posto, non sono in pericolo, sto diventando forte e comunque Anis mi aiuta. Si fida di lui, anche se non penso dovrebbe. Cioè, lei si fida di lui a livello generale. È questo che non dovrebbe fare. Però potrebbe fidarsi di lui per quello che riguarda me, perché con me Anis è onesto, e fa le cose per bene. Di questo si può fidare. Di questo posso fidarmi anch’io.
In sostanza, in questo periodo che c’ho un sacco da fare, mi passano di mente i grandi progetti che Anis ha per me e per il mio compleanno. Me li ricordo solo il tre aprile, che non c’ho nemmeno voglia di svegliarmi perché ieri sera sono rimasto ad aspettare Anis nel punto in cui dovevamo vederci per qualcosa come millemila ore, dalle undici alle due del mattino circa, e solo alle due, appunto, lo stronzo s’è degnato di farmi sapere che potevo tornarmene a casa perché lui aveva trovato da fare e non poteva farsi vedere. E al telefono sentivo ridacchiare una troia, ovviamente. Il suo da fare, quando dice che non ha tempo per me, in genere quello è. Quindi me ne sono tornato a casa pure coi coglioni girati, e sono riuscito ad addormentarmi che erano tipo le quattro del mattino. Perciò ora mi da fastidio che mi tiri i sassolini sulla finestra, che rischia anche di rompermi il vetro. E – apro un occhio e guardo la sveglia – sono le undici. Ho sonno. Stronzo due volte.
Mi alzo controvoglia, mi affaccio e lui mi tira una sassata sulla faccia. Cioè, fanculo. Non è che lo fa apposta, me ne rendo conto, ma fanculo lo stesso.
- Ahi! – ruggisco, tirandogli indietro il sasso, - Ma dico, che stronzo!
- Scusa! – ride lui, prendendo il sasso al volo e facendoselo saltare sul palmo, - Certo che quando dormi non ti smuove nessuno!
- Veramente mi hai svegliato mezz’ora fa. Non mi sono affacciato subito perché non volevo farlo. Sei uno stronzo, comunque, ieri potevi almeno-
- Oh, andiamo, Pat, ho avuto da fare, te l’ho detto e ti ho chiamato, cosa volevi di più, che venissi a salutarti e darti il bacio della buona notte mentre cercavo di infilarmi fra le gambe di Marina, ieri?
Aggrotto le sopracciglia e incrocio le braccia sul petto.
- È il mio compleanno. – dico. Non so perché lo dico.
Lui sorride.
- Lo so. È per questo che sono qui. – non mi fa tanti auguri. Dico, che stronzo. – Scendi?
Io sospiro e neanche gli chiedo perché vuole che scenda, tanto è palese che se non vado giù io con le mie gambe sale a prendermi e a portarmi giù lui, perciò richiudo la finestra, mi infilo un paio di pantaloni ed una maglietta a caso, recupero le scarpe, metto la giacca e saluto mamma, che fa la gnorri e fa finta di niente anche se ho visto un pacco regalo enorme nascosto dietro la poltrona, in salotto.
Quando esco in strada, Anis è già in macchina che suona il clacson.
- Sì, sono qui! – borbotto, scavalcando il cofano con un salto per fare prima. Sono cresciuto ancora, nell’ultimo mese. Le mie gambe sono diventate chilometriche, posso farci un sacco di cose. Comunque entro in macchina. – Tutta ‘sta fretta perché?
- Perché siamo in ritardo, ovviamente. – annuisce lui, mettendo in moto, - Arafat ti farà il culo, ragazzino, perché io gli dirò che è stata colpa tua.
- Ma lavoriamo anche oggi? – mi lagno, sollevando una gamba per incastrarmi fra il cruscotto e il sedile, anche se ormai non mi riesce più bene come mi riusciva quattro mesi fa, - Non ce l’ho il diritto a una vacanza, almeno oggi?
- Li vuoi i tuoi regali, ragazzino? Allora te li devi guadagnare. – risponde lui, pratico, sfilando svelto fra le strade di Berlino nonostante il catorcio.
- Ma i regali non dovrebbero arrivare gratis? Che regali sono, se me li devo guadagnare? – borbotto.
- La vita gratis non ti dà niente, ragazzino. – annuisce lui, - Quindi ora basta lamentarti, Arafat ha in serbo qualcosa di importante per te.
- Sì, però – scrollo le spalle io, - noi non stiamo andando da Arafat.
Lui si irrigidisce appena e poi ghigna.
- Ma bravo. Sappiamo già le strade a memoria?
- Tu sei convinto che io sia scemo, ma non è mica vero. – gli faccio notare, sollevando anche l’altra gamba e cercando una posizione più comoda.
- Ti sbagli, ragazzino. – mi corregge con un mezzo ghigno, - Io non sono convinto che tu sia scemo. Sono solo convinto di essere più intelligente di te.
- Oh, sì, immagino che ci sia una differenza. – protesto astioso, sferzandolo con un’occhiataccia, o almeno provandoci. Non che ci si riesca mai particolarmente bene, con lui. Il punto è che, se decide di ignorarti, tu puoi pure ricoprirlo di ingiurie, ma non lo scalfisci per niente. Quindi chiaramente ora lui guarda dritto sulla strada e se ne frega dei miei occhi, anche se sto facendo di tutto per cercare di perforargli il cranio col solo sguardo. Stronzo.
- Ragazzino, - ride lui, svoltando all’improvviso in una strada che non conosco, - vuoi piantarla di fissarmi così? Non te lo do il tuo regalo, sai?
- Non mi servono i tuoi regali. – sbotto, rimettendomi dritto, - Senti, ma dove mi porti? – chiedo poi, e non riesco a trattenere la curiosità nella voce, dannazione. Lui, comunque, la ignora del tutto, e si ferma alla prima parte di ciò che ho detto. Ne esce sempre facilmente, così, ascolta solo quello che vuole. O meglio, ascolta tutto, registra tutto e risponde solo a ciò che vuole.
- Potrei anche offendermi. Non sai cosa voglio regalarti, oltretutto. Potrebbe piacerti.
- Ma ti ho detto che non mi interessa! – insisto, - Dove andiamo?
- Se non ti interessa faccio il giro e ti riporto a casa, eh?
- Ma la vuoi piantare di non ascoltarmi?! – sbotto, saltellando praticamente sul sedile, - Ti sto chiedendo da mezz’ora dove andiamo e tu mi ignori!
- Non è esatto. – ghigna lui, parcheggiando di fronte ad una casetta bianca e grigia dall’aria non ricchissima ma nemmeno tanto ammaccata come le altre che costeggiano la via, - Mi hai chiesto dove stavamo andando ed io ti ho risposto che se l’articolo non t’interessava ti avrei riportato a casa. È una risposta.
- Del cazzo. – borbotto io, imitandolo quando, dopo aver spento il motore, apre lo sportello e scende dalla macchina, - Quale sarebbe l’articolo che dovrebbe interessarmi?
- Be’, - risponde con un sorrisino, imboccando un vialetto ghiaioso, - io, suppongo.
- Non erano i tuoi regali? – rispondo con un ghigno furbo.
- Io non sono un bel regalo? – continua lui, ridendo come il cretino che è.
- Tu sei uno stronzo. – gli faccio notare, e lui ride ancora.
- Una cosa non esclude l’altra. – risponde serafico, - E ora modera il linguaggio, ragazzino. Stai per conoscere la Mama.
Io non ho il tempo materiale di chiedermi cosa intenda lui con quest’epico “la Mama” che peraltro gli è scivolato fra le labbra avvolto in un’aura di sacralità che mi fa pure paura. Non ho neanche il tempo materiale di mandarlo a fanculo perché a me, di moderare il linguaggio, non me lo dici, tunisino del cazzo o quel che sei o qualunque sia il dannato luogo dal quale provieni. In realtà non ho il tempo materiale di fare niente, perché appena Anis apre la porta io finisco stretto fra due braccia e schiacciato contro un paio di seni, tipo, giganteschi, che profumano distintamente di cioccolata. E comincio ad agitarmi.
- Buon compleanno, Pat! – dicono le tette giganti, ed io sento Anis ridere da qualche parte intorno a me, anche se non riesco a identificare quale, visto che tutti i suoni mi arrivano ovattati. Il mio naso è perso da qualche parte assieme alla mia faccia, io inalo solo odore di dolci ma ciò non significa che io riesca a respirare. Infatti non ci riesco, e cerco di farlo notare alle tette giganti appendendomi un po’ ovunque e cercando di spingerle via, ma non ci riesco perché hanno una presa di ferro. Dico, delle tette con una presa. Non potevo aspettarmi niente di diverso dalla donna che ha partorito Anis, suppongo.
- Mama, Mama… - lo sento dire, e poi le due tette giganti, finalmente, mi lasciano libero. Quando torno a respirare, vedo che appartengono ad una signora bassa e rotondissima, pallida e incredibilmente tedesca. C’ha pure gli occhioni azzurri e i capelli rossi e lunghi e lisci e mi sa che quelle sono tipo lentiggini. Cioè, wow. Com’è che da questa signora bianchissima è venuto fuori il tunisino? – Non me lo soffocare, - continua Anis, ed io mi rendo conto che sono libero perché lui l’ha presa per un braccio per sbaciucchiarsela con un gusto che manco fosse fatta di zucchero, - mi serve ancora.
La signora mi guarda come se non avesse mai visto niente di più bello di me al mondo, tipo.
- Oh, Anis, - sospira stringendo le mani al petto mentre io guardo prima lei e poi il figlio con aria fra lo sconvolto e l’impaurito, - ma è carinissimo!
Io spalanco gli occhi e mi concentro su di lui. Però punto l’indice contro di lei.
- Mi conosce? – chiedo confusamente. Anis ride.
- Mi ha parlato moltissimo di te! – risponde la signora al suo posto. Io continuo a guardare Anis come se lo stessi vedendo per la prima volta, e la signora continua a parlarmi come se io non la stessi indicando in un modo che, peraltro, se ci fosse qui mia madre mi darebbe mestolate sulle mani, - Mi ha anche detto che oggi è il tuo compleanno, quindi tanti auguri, tesoro! Dentro c’è la torta e qualche amico coi regali, e- oh, a proposito, io sono Luise.
Io cerco di prendere tutte le informazioni che la signora mi sta passando e organizzarmele nel cervello, ma non mi viene tanto bene. Un po’ perché, boh, Anis che parla di me a sua madre mi stupisce e mi imbarazza pure. Voglio dire, boh. Cioè, boh. È strano. Eppoi di che gente parla? Non ho capito, chi c’è qua dentro? Ma è una festa a sorpresa o che?
E comunque non ho il tempo di lamentarmi – di nuovo – perché la signora mi tira ancora verso di sé, mi stringe e, mentre Anis ride di cuore e sale al piano di sopra – ‘cazzo mi lasci qui da solo con tua madre, stronzo?! – mi trascina verso la sala da pranzo, dove ovviamente trovo gli altri. E gli altri sono Arafat, Hussein, Mirko, Abdallah e tutti gli altri della banda, che io comincio a chiedermi se a questo punto anche la signora non sia una spacciatrice o chissà che. E nel frattempo Anis è ancora sparito al piano di sopra e io sono qui con tutti che mi fanno gli auguri e mi danno manate sulle spalle e mi passano pacchetti con le caramelle – perché sfottono, gli stronzi, e visto che sono quattordici anni mi regalano le caramelle, che cazzo – e la signora Luise mi propina una fetta di torta grande quanto la mia testa ed è tutta al cioccolato e con la panna sopra, quindi a un certo punto basta, me ne frego, mi siedo e comincio a mangiare, che tanto stanno ridendo tutti, quindi non vedo perché non dovrei farlo anch’io.
Il momento di grazia è interrotto da Anis, ovviamente, figurarsi se quell’uomo mi lascia in pace una volta che sono tranquillo per i fatti miei. Che poi non sono tranquillo per i fatti miei, al più sono tranquillo per i fatti suoi, perché questa gente con me fino a qualche mese fa non c’entrava niente, e invece ora sono diventato tipo parte della famiglia. Che non è come rinnegare mia madre, è più come… allargarsi verso qualcosa di più completo. Non lo so, Anis ogni tanto mi dice che ci sono cose che capisci solo col tempo, quando vai crescendo. Questa cosa io sto cominciando a capirla ma non è che so proprio spiegarla.
Comunque è una cosa piacevole. Allargarsi verso qualcosa di più completo, dico, non Anis che mi interrompe proprio mentre sto mandando giù la rosellina di biscotto che la signora Luise mi ha appena detto di avere intagliato per me durante la mattinata.
- Ragazzino. – dice, tutto serio, - Vieni di fuori, dai.
Io sollevo lo sguardo col biscotto mezzo in bocca e mi lamento.
- Ma sto mangiando! – protesto, e tutti ridono attorno a me. Anis aggrotta le sopracciglia ed Arafat, qui accanto a me, mi tira una mezza gomitata contro la spalla e mi dice di alzarmi.
- Vai con lui, - mi fa, - che ha anche preteso di pagartelo tutto da solo, il tuo regalo.
Io piego un po’ il capo e Anis neanche mi aspetta, prende e imbocca la porta. Che devo fare io? Lo seguo, ovvio.
Finisce che mi porta nel cortile dietro casa sua, che è un posto anche un po’ schifoso, nel senso che da davanti la villetta sembra pure carina, però qui dietro non solo si vedono tutte le case popolari vecchissime e piene di crepe, ma pure il cortile in sé non è che sia tutta ‘sta meraviglia. È pieno di erbacce e un sacco disordinato, e le lastre di pietra sono macchiate di umido e muschio a chiazze.
Resta un sacco in silenzio, comunque, ed io comincio pure ad innervosirmi. Primo perché c’è ancora la torta col biscotto che mi aspetta, dentro. Secondo perché voglio il mio regalo. E terzo perché vedo che è teso, cioè, è molto serio, come se stesse per dirmi qualcosa di importantissimo, quindi chiaramente sono teso e serio anch’io, però non è che sappia reggerle così bene, ancora, queste atmosfere, quindi finisco per innervosirmi un sacco. Se non sbotto “allora?!” è solo perché so che si arrabbierebbe.
Ed è lì che lui ovviamente sorride. La questione dei sorrisi, con Anis, è complicata, perché lui ride e sorride sempre, ma tu in genere lo capisci che non fa sul serio. Che al limite ti sta prendendo in giro. Però in questo momento lui mi sorride e io vedo senza fatica che è un sorriso sincero. Ed è una cosa un po’ strana, però mi piace la sensazione che mi dà, proprio a pelle. Ho un po’ di brividi. Spero di non essere arrossito, sarebbe ridicolo.
- Buon compleanno. – fa, e mi passa questa scatola nera legata da un laccio rosso sangue, scurissimo, di raso. Un sacco elegante, poi. Mi fa strano pure a prenderlo in mano, ma lo faccio lo stesso perché non posso mica lasciarlo in mano a lui.
- Cos’è? – chiedo mentre slaccio il nastro. È una cosa da bambini, ma sono curioso. Vorrei che me lo dicesse subito, cos’è, però allo stesso tempo vorrei anche che me lo lasciasse scoprire da solo. Mi sento un po’ emozionato, non ho mai ricevuto un pacchetto così bello.
- Aprilo. – risponde lui, e sorride ancora, appoggiandosi di schiena contro il muro della casa, al mio fianco. Io lo imito, dondolandomi un po’ sui piedi mentre scoperchio la scatola e frugo nella carta velina, cercando il mio regalo fra gli strati sottilissimi.
E lei viene fuori.
Anis ride quando mi osserva tirare su la Smith & Wesson guardandola come fosse… non lo so, penso che così si dovrebbero guardare tipo le donne. Quelle bellissime per le quali sai che faresti di tutto, tipo morire, tipo uccidere, ed io così ci sto guardando una pistola. Cazzo, è stupenda. Mi pesa contro la mano quando la impugno per guardarla da ogni lato, e nel tentativo di sentirla meglio sotto i polpastrelli lascio cadere in terra la scatola, che è sempre bellissima ma non bella quanto lei. È tutta intagliata. Tipo nei minimi particolari. È argentata e brilla nella luce del sole ed è tutto intagliato perfino il tamburo. E io una pistola non l’ho mai presa in mano prima d’ora, a parte la Heckler che Anis mi ha chiesto di reggergli un attimo una settimana fa, e ora che ci penso ho guardato la Heckler più o meno come ora sto guardando la Smith & Wesson, ma lei la guardo con più amore, perché è più bella, perché è il mio regalo, perché è mia.
Quando torno a spostare la mia attenzione su di lui, Anis sta ancora sorridendo. Io non riesco nemmeno a trovare un’espressione, perché sono troppo felice. Non lo so che espressione dovrei fare in questo momento, non sono mai stato così felice e mi riesce difficile trovare un sorriso adatto. Poi sembro sempre un cretino, quando sorrido, me lo diceva anche Martina della terza classe, che poi non mi ha mai voluto limonare per questo, stronza che era. Comunque al momento non importa, io però non so che espressione fare, quindi non ne faccio nessuna, lo guardo e basta.
- Ti piace? – chiede quindi lui, inarcando un sopracciglio.
Io annuisco lentamente.
- È stupenda. – aggiungo, - Non immagino neanche quanto ti è costata.
- Non importa. – scuote il capo lui, - Piuttosto, sai usarla?
Rido anch’io, stavolta per imbarazzo.
- Per niente. – ammetto, - Dovrai insegnarmi tu.
Lui fa una specie di sospiro teatrale, alzando gli occhi al cielo.
- Ti si devono insegnare un sacco di cose. – commenta in un mezzo borbottio.
Io annuisco. Voglio dire, ho quattordici anni. Cosa pensa, che nasci ed assieme a te viene fuori il manuale d’istruzioni per la vita?
- Mi fa piacere se me le insegni tu. – dico io, sinceramente. Perché è vero. Cioè, lui è un po’ il tipo che vorrei essere io da grande. Perché è cazzuto ed è uno stronzo ma è un sacco bravo in tutto quello che fa. È una persona alla quale non puoi dire niente. È uno stronzo, ok, sì, e ottiene tutto quello che vuole. E protegge i suoi cari. E non deve niente a nessuno. E ce l’ha fatta da solo. E io voglio essere uguale. Voglio essere come lui.
E lui, quando mi sente parlare, mi guarda a lungo, per un secondo infinito che io non capisco, mi guarda con quegli occhi che sembra mi vogliano scavare nel cervello o sotto la pelle, e poi si inumidisce le labbra e sbuffa qualcosa, dandomi un colpetto contro la fronte col palmo della mano.
- Vedrò di accontentarti, ragazzino. – mi fa, - E ora torniamo dentro, la torta della Mama aspetta.
La torta della Mama, naturalmente. Io rido, ripenso al biscotto a forma di rosa e penso che è un po’ stupido desiderare ancora quel biscotto con la stessa voglia con cui lo desideravo prima, perché adesso ho una pistola e dovrei essere più grande e meno scemo. Invece niente, sono uguale a prima e in fondo questa cosa mi piace. Seguo Anis in casa, nascondendo la pistola nella tasca dei jeans, dietro, coprendola con la maglietta. Ho paura che la vedranno tutti, ma insomma. Ne hanno una ciascuno. E poi è bellissima, la mia Smith & Wesson. Non vedo l’ora di metterla nel cassetto del comodino, stasera. Magari domani mi faccio accompagnare da Anis da qualche parte per comprare la fondina. Non vedo l’ora di cominciare ad usarla.
Storia appartenente alla serie Jung Und Nicht Mehr Jugendfrei, prequel di Eine Kugel Reicht.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Violence, Language.
- "È un tagger, lui. E lo mettono a lavorare con me.
Il sistema giudiziario tedesco ha fatto un altro buco nell’acqua, mi sa."
Note: *brilla* Okay, io palesemente mi farò prendere per sempre da questa storia e non riuscirò più ad uscirne, perché me ne sono innamorata. Dunque, saranno almeno cinque o sei mesi che plotto questo breve prequel di EKR. Che poi, breve: si tratterà comunque di dodici shot che ripercorreranno il rapporto fra Anis e Patrick prima dell’inizio della Saga, dalla loro adolescenza (di cui avete potuto osservare l’inizio proprio in questa shot XD È a questo che ho riferito il tema “green”, intendendolo nel suo significato metaforico di giovane, immaturo) fino a quell’ultimo incontro di cui si accenna in I Will, e nel quale i due decidono una breve tregua prima di scontrarsi a coltellate *annuisce*
Non ho moltissimo da dire, a parte che ho adorato scrivere questa storia e che no, non è ripresa dalla biografia di Bushido, anche perché non conosco il tedesco e lui si ostina a non volersi espandere oltralpe, quindi non l’ho letta XD Questo è quello che immagino io di loro due, mi piacciono e tanto mi basta. Non siete d’accordo, me ne frego abbondantemente *annuisce di nuovo* 
Ah, il titolo XD viene da un film bellissimo con Denzel Washington ed Ethan Hawke. Se non l’avete visto, dovete tutti. Io lo amo oltremodo. E con questo saluto XD
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Training Day
#3 Green


Lo stronzo mi ha detto “aspetta qui”, e si è volatilizzato. Questo, tipo, mezz’ora fa. Ora, non so se tutti questi pezzi di merda hanno una vita, non so se le loro cazzo di giornate le passino tutto il tempo qui, ma io una vita decisamente ce l’ho e non ho neanche un cazzo di tempo da perdere. Ho da fare, ho degli appuntamenti, devo consegnare della roba entro le cinque e sono già le fottute quattro e venti. Porca troia, ma avere un po’ di rispetto per il lavoro degli altri no, eh?
Comunque, già che sono qui e non ho un cazzo da fare, tanto vale che mi metta seduto e passi un po’ il tempo in maniera proficua. Dunque, Ari mi ha pagato la percentuale delle consegne del mese scorso, ma mi sa che ha fatto qualche cazzata stronza delle sue, come al solito, perché non mi tornano i conti. Ari è uno a posto ma non ha ancora capito che il fatto che ho diciotto anni non mi impedirebbe di piantargli un coltello nella pancia. Meglio metterle in chiaro, certe cose. Dovrò parlargli. E comunque non esiste che io rischi le palle andando a litigare con gente armata solo perché lui ha deciso di cambiare la tariffa, ha “dimenticato” di dirlo ai clienti e quelli ora si rifiutano di pagare tutto per bene. Cioè, ok,  se vuoi ci vado, a litigare, se vuoi te li lascio pure in terra con pochissima volta di continuare a fare i coglioni che cavillano sui prezzi, ma dammi un po’ di supporto, amico, cioè, dammi della gente, i soldi sufficienti, una pistola, cazzo.
Nel mentre il tizio dei servizi sociali è ancora sparito e io mi ridisegno in testa Berlino raggiungendo l’unica conclusione possibile, cioè che non riuscirò mai, neanche volando, ad essere dove devo in tempo per la consegna. Arafat mi farà un culo così, stasera, c’avrà pure ragione, io non potrò pretendere niente e non potrò nemmeno fargli il famoso discorsetto sul pagarmi di più e meglio perché è pure stata colpa mia, che sono stato un cazzone, se mi hanno beccato. Questa cosa mi dà sui nervi. Da oggi in poi, basta cazzate.
Tiro su un piede sulla sedia ed ecco che lo vedo, finalmente, lo stronzo. Non è solo, comunque, sta lì che mi indica e accanto a lui c’è questo ragazzino che dovrà avere tipo quattordici anni, che ne so, si sente la puzza di latte da qui. Dio, spero proprio che non sia lui quello di cui mi parlava mentre io fingevo di ascoltarlo prima, perché non esiste che mi incollino al culo questo moccioso. Non c’ho il tempo di fare la balia, io, soprattutto non a un ragazzino così bianco e così biondo e con occhi così azzurri. Cos’è, c’ho scritto in faccia “sono un uomo buono pronto a prendermi cura della vostra disastrata prole tedesca”? Io me ne sbatto il cazzo della disastrata prole tedesca. Al più gli vendo della coca.
Comunque, quel figlio di puttana del tizio dei servizi sociali la pianta di indicarmi, alla buon’ora, e mi saluta con un cenno della mano, dileguandosi dopo un ghigno stronzo che mi fa pensare che non vedo l’ora di tornare qua dentro solo per fargliela pagare, e il ragazzino resta lì immobile a qualche metro ancora per un po’. Poi, finalmente, visto che io non intendo muovermi, capisce che deve tirare fuori le palle e mi si avvicina. E a me viene subito da ridere perché fa il gradasso e mi porge pure la mano. Dio mio, quanti anni avrà, cazzo, a vederlo da vicino sembra ancora più piccolo. Hai dodici anni? Perché non vai ad aiutare la nonna a finire la torta della domenica?
- Ehi. – mi fa, - Sembra che dovremo farla insieme, questa cosa.
Io lo guardo dall’alto in basso e sfilo lo stuzzicadenti dalla bocca, inumidendomi un po’ le labbra.
- Tu che hai fatto? – chiedo. Anche perché, se crede veramente che noi si andrà in giro per Berlino ridipingendo i muri, è veramente fuori strada.
- Eh? – ribatte lui, spalancando quegli occhi che sono azzurri in maniera veramente ridicola, e poi ha delle ciglia troppo lunghe, non fosse ben piantato com’è e indiscutibilmente piatto sembrerebbe una ragazzina. Comunque non ha davvero capito un cazzo, e lo osservo mentre lascia ricadere la mano lungo il fianco con aria un po’ sperduta. “Dio mio”, mi dico. E poi mi alzo in piedi.
È pure basso. Dico io.
- Come mai sei finito qui? – traduco. E lo vedo che gonfia il petto, orgoglioso.
- Sono un tagger. – fa. È un tagger, lui. E lo mettono a lavorare con me.
Il sistema giudiziario tedesco ha fatto un altro buco nell’acqua, mi sa. Trattengo un ghigno e non mi scompongo più di tanto.
- E basta? – chiedo. E lo vedo che rabbrividisce tutto. Devo assolutamente cercare di non ridere, ma la cosa in sé è troppo divertente. Mi sa che me lo trascino dietro per la consegna.
- Cioè… - balbetta lui, spostando a disagio il peso da un piede all’altro, - Oh, questo faccio io. ‘Sticazzi.
E basta, a questo punto rido perché, voglio dire, guardatelo. Secondo me a dodici anni neanche ci arriva.
- Senti un po’, ragazzino-
- Mi chiamo Patrick! – precisa lui, stringendo le mani attorno al manico del barattolo di vernice bianca che gli hanno già consegnato, - Cerca di ricordartelo.
Io ghigno.
- D’accordo, ragazzino. – insisto, - Hai da fare, questo pomeriggio?
Lui mi rifila un’occhiata stranita e solleva a mezz’aria il barattolo. Io rido ancora e lui aggrotta le sopracciglia.
- Ma sai ridere e basta? – borbotta, ed è talmente pallido che gli posso vedere addosso l’imbarazzo, sulle guance lievemente arrossate. Sorrido: ci sono abituato, la mia risata ha un effetti simile su tutti. Be’, su tutte le ragazzine, almeno. Il fatto che lui sia un ragazzino non mi stupisce come dovrebbe forse, ma alla fine mi dico, oh, è talmente biondo e ha gli occhioni talmente grandi ed è ancora talmente piccino che penso possa permettersi di passare per ragazzina, almeno per i prossimi minuti. Quando comincerò a portarmelo in giro, vedremo.
- Andiamo. – gli dico, afferrandolo senza delicatezza per un braccio e cominciando a tirarlo verso l’uscita senza neanche preoccuparmi di passare a recuperare i rulli prima di rimettermi per strada, - Così te lo faccio vedere, cos’altro so fare.
- Ma non dovremmo- - prova a fermarmi lui, ed io mi fermo – lì in mezzo al marciapiedi dove sono – e lo guardo negli occhi, sempre stringendogli il braccio. Ha su una maglietta nera senza maniche e lo sto stringendo talmente forte che, sotto la pressione, la sua pelle si è arrossata subito. E comunque anche le sue braccia sono troppo bianche. Il contrasto con i miei colori è quasi divertente. Ma che ci hanno messo a combinare insieme? Chissà dove vive, poi, questo ragazzino. Dovrò riportarcelo, a casa, stasera.
- Ascoltami bene, Patrick. – lui sembra stupito dal fatto che mi ricordi il suo nome. Vorrei dargli una bottarella sulla fronte, tipo. Ragazzino, non è che se insisto a ignorarti vuol dire che non ti ho nemmeno ascoltato. Vuol dire che ti ho ascoltato e me ne frego. – Ti spiego come funziona. – e lui resta lì con gli occhi spalancati, le labbra dischiuse e quel barattolo ancora in mano. E mi ascolta. – Io sono un uomo molto impegnato. Ci sei?
Lui annuisce lentamente, lo sguardo un po’ perso.
- Bene. – annuisco anch’io, - Ora, lo so che dovremmo andare ridipingendo e tutto, ma seriamente, io ho di meglio da fare e sono già in ritardo, e tu dubito che provi tutto questo piacere all’idea di andare cancellando le tue opere d’arte in giro per Berlino, perciò-
- Veramente – mi interrompe lui, grattandosi una guancia, - io tipo pensavo che fosse un buon modo per ricominciare, nel senso, non è che taggo da molto ed ho fatto più che altro merdate, e il tizio con cui taggavo prima, va be’, lasciamo perdere, e comunque-
- Ragazzino! – lo fermo.
- Patrick! – mi ricorda lui.
- Sì, naturalmente. – annuisco io, - Ti avevo detto di seguirmi. Stai zitto e mi segui fino a quando non ti dico che puoi parlare?
- Ehi- - comincia lui, sul piede di guerra, ed io, annoiato, gli pianto una mano sulla bocca e roteo gli occhi.
- Cosa esattamente ti è incomprensibile del concetto “non ho tempo da perdere”, ragazzino? – lui mugugna qualcosa contro il mio palmo e io stringo più forte. – Ascoltami e basta, adesso. Io devo essere dall’altra parte di Berlino entro… - sollevo un polso e guardo l’orologio, - dieci minuti. Quindi ora prendiamo la macchina e tu la pianti di fare storie, okay?
Lo lascio andare così che possa rispondere, e lui, naturalmente, protesta.
- Ma io- - comincia, ed io lascio andare un mugolio sofferente e torno a tappargli la bocca.
- Ragazzino. Tu ti lagni troppo. – gli faccio notare. Lui aggrotta le sopracciglia, ma non si agita più. – Allora? Ce la diamo una mossa?
Quando lo lascio andare di nuovo, lui non protesta. Quando mi muovo verso lo scassone che Ari mi ha dato in affidamento per le consegne, mi segue. Continua a trascinarsi dietro il barattolo, però, neanche fosse convinto di poterlo riutilizzare più tardi. Bah, contento lui.
Sono già in ritardo di dieci minuti. Arafat mi farà il culo.

*

Il ragazzino non ha detto una singola parola, da quando ci siamo infilati in macchina. È rimasto lì seduto, fermo come un pezzo di legno e ugualmente socievole, tra l’altro. Dico io, non ti voglio mica pestare. Sto anche cercando di fare il gentile. Se faccio una battuta e fischio al finestrino una puttanella con la gonna troppo corta, magari fischia anche tu. O ridi, o chessò io, non stare lì immobile ad abbracciare il barattolo della vernice neanche fosse un fottuto peluche.
Comunque, quando arriviamo gli dico di non muoversi e aspettarmi lì, scendo di volata e recupero il carico – tre chili, cazzo, stasera ci si diverte, la percentuale sarà bella altina per il rischio e tutto – cercando di ignorare le urla isteriche di Arafat che mi ricorda che sono un buono a niente e che comunque le venti ore di servizio civile dovrò farle, o mi rompe il culo prima lui e poi tutti gli altri amici suoi, e quando torno in macchina il ragazzino è effettivamente ancora lì, anche se s’è messo più a suo agio, ha steso la schiena contro il sedile ed ha sollevato un piede, incastrandolo sul cruscotto per stare – suppongo – più comodo. Presto, o almeno mi auguro sia così per lui, crescerà, e così non potrà più starci, perciò lo lascio fare, e mi rimetto accanto a lui, al volante.
- Non ti sei ancora liberato di quel barattolo? – chiedo, rimettendo in moto il catorcio e tirandogli in grembo lo zaino pieno di roba. Lui se lo sistema addosso senza neanche chiedere cosa ci sia dentro, e scrolla le spalle.
- Senti… - chiede invece, vagamente intimorito. Ed io lo so che è intimorito, anche se lui guarda fuori dal finestrino e fa il muso duro per cercare di non farmelo capire. - …dov’è che stiamo andando?
- Consegna. – rispondo io, - L’indirizzo è meglio che tu non lo sappia, e cerca di dimenticare le strade, anche. Tanto, appena finiamo le venti ore, non mi vedrai più nemmeno da lontano e tornerai alla tua bella casetta in… dov’è che stai? In centro?
Lui mi lancia un’occhiata incerta, inarcando un sopracciglio.
- Guarda che sto a Tempelhof pure io. – risponde candido, - Che pensavi?
Io lo guardo e, ovviamente, non gli do un centesimo.
- Tu? – chiedo, - E sei ancora vivo?
Lui incrocia le braccia sul petto, sopra il barattolo ed anche sopra lo zaino che non so se ha capito essere pieno di droga.
- Guarda che me la cavo benone, io. – mi fa, tutto preso, - Sono sempre stato abituato a fare le cose per i fatti miei.
- Sempre? – rido io, svoltando a destra, - Quanti anni puoi avere, dodici? Da quanto stai per strada, due mesi? E sei già finito dentro.
- Io ho quattordici anni! – quasi urla lui, mettendo giù il piede, - Che cazzo, non starò qui a farmi prendere per il culo da uno che non so nemmeno come cazzo si chiami!
- Ehi, ehi, frena! – rido io, - Rispetto per i quattordici anni, alla tua età io già spacciavo. Dovrai darti una mossa, mi sa che sei in ritardo sul programma. – lui mi guarda senza capire un accidenti di quello che sto dicendo, ed io gli indico lo zaino con un cenno del mento. – Aprilo.
Lui inarca un sopracciglio e sfibbia la cinghietta, sbirciando all’interno. Quando risolleva il viso, ha gli occhi ancora più enormi di quanto non fossero già prima.
- Ma è-
- Cocaina purissima. – annuisco io, - La migliore qui a Berlino e probabilmente anche in tutto il resto della Germania. – illustro con un certo orgoglio, - Tre chili. Con questi, io e te stasera ci si sbronza.
- …ci sbronzeremo con la cocaina?
Rido e gli tiro uno scappellotto dietro la nuca. Lui risponde con un “ahi” appena mugolato, massaggiandosi piano il punto arrossato e dolorante.
- Coi soldi del ricavo, ragazzino. Sveglia!
- …ah. – annuisce lui, e pare che si prenda un po’ di tempo per assimilare il concetto, tipo. Cioè, non lo so, Fissa per bene lo zaino e il suo contenuto ed annuisce piano, inumidendosi appena le labbra ed aggrottando un po’ le sopracciglia. – E lo fai spesso? – chiede poi.
- È il mio lavoro. – rispondo io con naturalezza, - Non è il miglior lavoro del mondo, ma passo il tempo, mi faccio un nome e guadagno bene. Le tre cose fondamentali nella vita di un uomo.
Lui ride a bassa voce, richiudendo lo zaino.
- Mangiare, dormire, scopare?
- Mangiare è per i deboli, dormire per gli sfigati. Sullo scopare te lo concedo, ma non è una priorità, ragazzino. Le scopate sono i premi per il tuo duro lavoro, non roba che ti piove dal cielo. Se le puttane ti piovono dal cielo e tu non te le sei guadagnate, allora sono puttane di scarso valore.
Lui annuisce ancora e resta buono, tranquillo e in silenzio per tutto il resto del tragitto in macchina. Mi muovo a mio agio fra le strade di Berlino e smetto di dare importanza alla sua presenza al mio fianco. Mi ci abituo, per così dire. Il ragazzino è discreto e silenzioso, e mentre posteggio sotto casa del cliente penso che sarebbe una  buona spalla, anche se è strano forte – guarda come si stringe ancora a quel barattolo, Dio mio. Ragazzino, non ci andiamo a ridipingere Berlino. Gettalo via, quell’inutile coso.
- Resta qui, okay? – faccio, uscendo dalla macchina e poi piegandomi per affacciarmi all’interno e guardarlo negli occhi, recuperando lo zaino direttamente dal suo grembo, - Questione di due minuti. Poi ci andiamo a divertire. – lui non annuisce né muove un qualsiasi altro muscolo, in realtà nemmeno sorride; si limita a continuare a fissarmi come se mi stesse studiando. Non hai niente da studiare, ragazzino, non mi capisci mica se non mi lascio capire io. – E non fare quella faccia. – lo prendo in giro, - Dai che oggi anche tu hai lavorato. Vediamo se possiamo farti piovere da cielo una puttana meritata. – e rido, e fingo di ignorare il rossore indecente che gli ha colorato le guance e l’ha obbligato e distogliere lo sguardo e borbottare un assenso a caso, mentre sistemo lo zaino in spalla e mi muovo verso il citofono.
Mentre avanzo, specchiandomi nella porta a vetri del palazzo, sulla quale mi ritrovo a cercare il riflesso azzurro e un po’ confuso degli occhioni del ragazzino, annuso l’aria e cerco di sentire le vibrazioni del posto. Il quartiere è bello. Il cliente è nuovo. Potrebbe essere un figlio di papà che non sa come spendere i soldi del compleanno, o potrebbe anche essere una vecchia checca che la coca la userà sui figli di papà di cui sopra, per rintontirli prima di poter mettere le mani su qualche bel culetto pallido e vergine. Scrollo le spalle – l’aria è tranquilla – controllo il nome sul citofono e schiaccio il pulsante.
- Sì? – è un ragazzino.
- La pizza. – rispondo tranquillamente.
- Primo piano. – mi dice quello, e apre il portone. Io mi volto appena a far cenno al ragazzino di non muoversi. Lui nemmeno risponde – sembra quasi che voglia dirmi “certo che non mi muovo, non so nemmeno dove sono, ‘cazzo precisi a fare?”, e devo dire che mi piace, quest’atteggiamento. È uno cui servono poche parole per afferrare i concetti. E bravo il ragazzino.
Comunque, salgo al primo piano e mi compiaccio, perché Ari i clienti li sceglie un po’ alla cazzo di cane – nel senso che è uno che non fa distinzione fra stronzi e gente onesta, è per questo che, in un modo o nell’altro, mi ritrovo sempre in mezzo ai casini – però stavolta pare essergli andata bene. Il palazzo è bello, un sacco pulito, e c’ha i pavimenti in marmo misto, con tutti gli zerbini con sopra scritto “welcome” fuori dalle porte, e sono belle cose da vedere, quando vivi in una topaia per tutto il resto del tempo. Cioè, io non sono invidioso di questa gente, tanto lo so che prima o poi sguazzerò nell’oro, perciò mi fa piacere venire a lavorare in un posto tranquillo, tanto per cambiare.
Il tizio che mi aspetta sulla porta avrà diciassette anni, più o meno, e sta lì tutto impettito con le sopracciglia corrucciate e i lineamenti tesi. Rido.
- Tranquillo, amico, io do a te quello che vuoi, tu dai a me quello che voglio e non succederà niente di spiacevole. – lo prendo in giro. Lui mi lancia un’occhiata infuriata ed infila le mani nella tasca posteriore dei jeans, tirandone fuori il portafogli.
- Fai meno lo spiritoso, arabo. – mi risponde, e io stringo un po’ i pugni attorno allo zainetto ma non scatto e non gli do il cazzotto che merita, perché Arafat lo dice sempre: “la buttano sul colore della tua pelle per farti sentire fuori posto, ragazzo, ma tu sei nato a Bonn!”, e quando lo dice lui, ridendo in quel modo, non posso fare a meno di riderci su anch’io. Arafat è uno stronzo ma è uno stronzo cazzuto, se capite cosa intendo. Cioè, è uno stronzo che vale la pena di seguire.
Comunque, niente, non gli salto al collo e recupero i pacchetti con la droga dentro, lui mi passa i soldi, io li conto e ovviamente tutto quello che ho appena detto di Arafat fino ad ora va a farsi fottere perché i soldi sono meno di quanto dovrebbero essere e coincidono più o meno col prezzo che avrebbe avuto la stessa quantità di droga prima del rincaro. Ora, magari a ‘sto stronzetto Arafat l’ha pure detto, che il prezzo era aumentato, e ora questo sta cercando di fregarmi, ma quello che dico io è che è sbagliato il metodo, non è organico. Se lo dici ad alcuni sì e ad altri no, come faccio io a capire se è vero che non ne sanno niente o stanno solo cercando di prendermi per il culo? E che cazzo. Non c’ho neanche il serramanico appresso, puttana miseria.
- Senti, amico… - comincio, grattandomi distrattamente la fronte e ricontando i soldi, per evitare casini, - Non facciamone un dramma, ma qui c’è meno di quanto dovrebbe esserci. Quindi, o mi dai il resto, o mi riprendo un po’ di roba. E allora mi fai entrare in casa, perché non posso certo mettermi a pesare cocaina qui in corridoio. E comunque mi servirà una bilancia e-
- ‘Cazzo dici? – mi interrompe quello, sempre più incazzato, - Il tizio mi ha detto questa cifra. Questo ti do.
- No, guarda, – scuoto il capo io, cercando di essere ragionevole, - non posso proprio darti ragione. Ti avranno detto male, fatto sta che io devo tornare con i soldi giusti, okay? Quindi, adesso, senza creare problemi… - e lì capisco che i problemi li ho solo io, perché alle spalle del tipo spuntano altri due tipi che potranno avere più o meno la sua età o forse anche un po’ più grandi ma che comunque non rientrano nella cerchia di gente con la quale mi metterei a litigare, essendo due armadi. Sospiro pesantemente. – Amico, che razza di atteggiamento. – borbotto annoiato, - Ti ho forse alzato addosso un dito? Non mi pare il caso di metterla così sul piano fisico, siamo uomini di mondo.
- Tu adesso ti levi dai coglioni. – mi dice lui, ed io rido, facendo scricchiolare le ossa delle mani. A me non me lo dici, di andare fuori dai coglioni.
- Non posso proprio. – gli faccio notare. E poi mi chiedo se non sto per caso cercando di suicidarmi, perché i due tizi dietro non sembrano granché intenzionati a parlare, ed anzi, uno infila una mano in una tasca e quello che succede dopo lo vedo scorrere davanti agli occhi come al rallentatore. Sarebbe un’esperienza divertente, non fosse anche completamente assurda: il tizio tira fuori la mano, io scorgo la lama che luccica appena nella luce al neon che avvolge il corridoio, e poi un enorme barattolo di vernice bianca mi passa a due centimetri dalla testa, va a schiantarsi contro la fronte del tipo e il coltellino vola a due metri da noi. E poi è il silenzio per una quantità di secondi enorme.
Mi volto, il ragazzino è lì che fissa me – ha appena spaccato la testa di un cristiano con un barattolo di vernice e fissa me – con quegli occhioni spalancati e il fiato un po’ corto.
- Ragazzino?! – chiedo, vagamente isterico. Dico io, la stavo gestendo più che bene. I ragazzini ti complicano sempre l’esistenza.
- Ci stavi mettendo troppo! – si giustifica lui, rigidissimo.
È tutto quello che riusciamo a dirci, perché l’altro armadio – quello che non ha la testa spaccata in due e non sta rantolando per terra cercando di tamponare l’enorme ferita che ha sulla fronte per non morire dissanguato – si risveglia dal momento di confusione ed esala un “figlio di puttana” che non so bene se sia riferito a me o al ragazzino, ma in ogni caso al momento non è importante. Faccio l’unica cosa saggia da fare in queste situazioni: strappo i pacchetti di roba dalle mani dello stronzetto, li rimetto a posto nello zaino, lo infilo in spalla, afferro il ragazzino per un braccio e mi metto a correre.
Lui biascica un “cosa…?” incerto, mentre cerca di adeguare il passo al mio, ed io lo zittisco stringendo la presa sul braccio.
- Dopo. – taglio corto, - Ora vola. – e lui si limita ad annuire ed obbedire. Meno di mezz’ora dopo siamo già da Arafat, il quale mi accoglie gelido e pure un po’ incazzato.
- Hai uno zainetto troppo pesante e il portafogli, immagino, troppo leggero, Sonny. – mi fa notare. Io mollo il ragazzino lì sulla soglia e lo raggiungo al tavolo della kebaberia che gli fa praticamente da ufficio, scosto il piatto di kebab e gli lascio lo zaino davanti agli occhi. Poi ficco le mani in tasca e tiro fuori anche i soldi.
- Mi hai mandato da una testa di cazzo con due coglioni a fare da supporto, Ari. – mi lamento, posando anche le banconote accanto allo zaino.
Lui le guarda con sufficienza e nemmeno le tocca.
- Un cazzo e due coglioni, direi che quanto ad anatomia ci siamo. – annuisce, - Che è successo, Anis?
- È successo che mi sono rotto le palle di avere a che fare con i tuoi clienti del cazzo, Arafat! – urlo, battendo un pugno sulla superficie di legno, - Se mi ascoltassi-
- Se tu non puzzassi ancora di latte, - mi interrompe lui, - ti ascolterei. Visto che sei un poppante, ti ignoro, com’è giusto.
- Piantala. – ringhio io, - Il ragazzino lì ha dovuto spaccare la testa ad uno dei due coglioni con un fottuto barattolo di vernice, o mi avrebbero pestato a sangue! – che poi è vero. In una situazione normale non l’avrei mai detto, ma mi girano le palle a livelli disumani quando Ari mi tratta da ragazzino, perciò urlo e sbraito e gesticolo indicando il ragazzino in fondo alla stanza e vedo che tutti improvvisamente perdono interesse nella mia persona e si voltano a guardare lui.
Mi volto anch’io, e vedo che lui si fa minuscolo in un angolo. Bianco e biondo e coi boccoli e tutto il resto e Dio mio, siamo in una kebaberia piena di tunisini.
- Chi è? – chiede Arafat, inarcando un sopracciglio. Io scrollo le spalle e cerco di fare il disinvolto.
- È il tipo con cui devo lavorare per i servizi sociali. – spiego, - Patrick.
- Patrick. – Arafat ripete il suo nome lasciandolo scivolare lentamente fuori dalle labbra, come per immagazzinare meglio l’informazione. Poi sorride e si alza in piedi, andandogli incontro, - Ciao, Patrick. – dice, porgendogli una mano. Il ragazzino la guarda e poi la stringe con aria intimorita, ma siccome ha le sopracciglia aggrottate nel tentativo di risultare minaccioso il risultato finale è molto ridicolo. E infatti ridacchiano quasi tutti. – Cos’è che hai fatto con questo barattolo di vernice?
Il ragazzino si stringe nelle spalle e guarda altrove.
- L’ho usato nel modo migliore. – risponde. Arafat ride di gusto, gli altri a seguito, e io inarco le sopracciglia, divertito. Il ragazzino ha del talento.
Arafat si volta a guardarmi e gli tira una pacca sulla spalla tale che il ragazzino, poveretto, è costretto a fare un passo in avanti per non ruzzolare a terra.
- Tienitelo caro, Sonny. – mi consiglia, tornando al tavolo e decidendosi finalmente a contare i soldi, - Sarà pallidino, ma di sicuro non gli mancano le palle.
Io sorrido e lancio un’occhiata al ragazzino che, ora che tutti lo lasciano in pace perché Ari ha smesso di cagarlo, si sta massaggiando la spalla dolorante, borbottando fra sé.
- Sì, me ne sono accorto. – annuisco, - Quanto a quello che è successo oggi-
- Quanto a quello che è successo oggi, - mi interrompe lui, sbattendomi in mano trecento euro, - mi fai il favore di stare zitto e andarti a divertire. Manderò i miei ragazzi a chiarire la situazione con tutti i clienti, contento?
Io sbuffo e borbotto un “sì, chissenefrega” al quale Arafat risponde con un ghigno stronzo talmente insopportabile che penso che è meglio se me ne vado, così evito di farmi saltare in testa di spaccargli la faccia. Anche perché avrei la peggio.
Mi piazzo davanti al ragazzino e gli sventolo una banconota da cento sotto il naso.
- Questa è tua. – dico, e lui si allunga subito a prenderla e se la rigira fra le mani guardandola attentamente come non ne avesse mai vista una, cosa peraltro probabile ancora più che possibile, e io sorrido ancora. – Andiamo a farci un giro, ragazzino. – lo invito poi, battendogli una pacca sulla spalla, - Offro io.
Mentre ci infiliamo di nuovo in macchina, lui mi lancia delle occhiatine strane che sono quelle tipiche che lanci quando vuoi chiedere qualcosa e non sai se puoi.
- Sì? – chiedo ridendo e mettendo in modo la macchina, mentre lui si sistema col piede sul cruscotto – molto più comodo di prima, visto che non ha più l’ingombro del barattolo.
Il ragazzino non si fa pregare, per sputare il rospo.
- Ma tu come cazzo ti chiami? – chiede, sinceramente incuriosito, e io rido ancora. – Fra Sonny e A… A… quello che era, non c’ho capito niente.
- Anis. – sghignazzo, - Con la esse sibilata. Ricordatelo.
Lui annuisce, ripete “Anis” con la esse sibilata ed io so che se lo ricorderà.
È così che prende a chiamarmi, mentre continua a fare domande. Chi era quello grosso che quasi gli scardinava una spalla, chi erano gli altri, ‘cazzo c’era in quel piatto, e così via. Una specie di macchinetta, non lo ferma più nessuno e in realtà non ho veramente voglia di fermarlo. È incuriosito da tutto e non fatica a capire niente, mi viene dietro che è una meraviglia e come discussione non è niente male, nel senso, ne vengo fuori come una specie di mentore, mica cazzi.
Comunque parla per tutto il tempo veramente, perciò a un certo punto ci infilo entrambi in un locale, ci svacco entrambi su un divano pieno di cuscini e ci faccio – sempre ad entrambi – portare birra a litri. Non ho idea se il ragazzino si sia mai ubriacato prima di adesso, ma direi che se l’ha già fatto è meglio per lui e se invece non l’ha ancora fatto è meglio che si dia una mossa, che è già in ritardo col programma.
Quando ne usciamo non ho idea  di quante ore siano passate, ma mi viene da ridere un po’ perché sono brillo e un po’ perché il ragazzino è stravolto. Ha smesso da un pezzo di dire cose sensate, ma ha continuato comunque a mormorare roba incomprensibile, e ora sta biascicando qualcosa a proposito di suo padre che è uno stronzo, e ciondola per strada, le braccia pesanti lungo i fianchi e la banconota che esce un po’ dalla tasca posteriore dei jeans. Sospiro e la ficco bene dentro, che se continua così la perde, e poi cerco di tenerlo dritto passandomi un suo braccio sopra le spalle.
- Non funziona… - mormora barcollando, - Non posso camminare sulle punte, cazzo, Anis! – si lamenta, e in effetti mi sa che sono un po’ troppo alto per portarmelo in giro così.
Comunque sia la cosa smette di avere un’importanza quando lo osservo piegarsi letteralmente in due in un angolo, appoggiandosi con una mano ben piantata contro il muro di un palazzo, per vomitare. Sospiro. Ragazzini.
- Coraggio… - lo rassicuro, passandogli lentamente una mano lungo la schiena, - Meglio fuori che dentro.
- St-Stronzo… - biascica lui fra un conato e l’altro, lamentandosi un po’.
Io rido e continuo ad accarezzarlo piano, finché non smette. Lo aiuto a tirarsi su, gli passo un fazzolettino di carta, lo osservo ripulirsi e poi mi metto di nuovo a ridere quando lui, ormai tornato in sé, mi lancia un’occhiataccia furiosa.
- Avanti. – dico, tirandogli una spintarella giocosa contro la spalla, - Era il tuo battesimo del fuoco. – lui continua a guardarmi con aria disapprovante, gli occhi che brillano per le lacrime causate dai conati, ed io me lo tiro contro, scompigliandogli i capelli, - Dai, che ti riporto a casa. È stata una giornata stancante, mh?
- Per niente. – borbotta lui, - Comunque non siamo passati al tribunale per firmare il rientro, e-
Lo interrompo ridendo ancora.
- Ragazzino, tu vivi in un mondo tutto tuo. – lo prendo in giro, - Meglio se taci un po’, adesso.
E lui in silenzio ci resta, tant’è che pure le indicazioni per arrivare a casa sua me le dà solo a gesti. Ma non lo fa perché gli ho detto di stare zitto, lo fa perché è stanco e, dal modo in cui tiene un avambraccio premuto contro la fronte e dal modo in cui le labbra gli si piegano in una smorfia addolorata ogni volta che la macchina prende un fosso per strada, suppongo non stia poi tanto bene.
Quando mi dice di fermarmi, io spengo il motore e mi stendo un po’ contro il sedile, osservandolo scendere lentamente dalla macchina e fare il giro. Prima di attraversare la strada, si ferma e mi lancia un’occhiata incerta.
- Cosa? – chiedo curioso.
Lui scrolla le spalle.
- Niente. – biascica, - Allora ci si vede. – e mi volta le spalle.
Io sorrido.
- Sì… domani alle dieci al porto, sul canale.
Lui si immobilizza e si volta a guardarmi, confuso. Io sorrido ancora.
- Non vorrai mica farmi tornare fino a qui. – spiego, sporgendo un gomito fuori dal finestrino, - Ci sono un sacco di cose da fare, domani.
Lui ci mette un po’, a capire. Poi realizza. E non sorride, non si scompone, non fa una piega. Annuisce ed incassa. Il ragazzino ha davvero bisogno di sentirsi dire pochissimo.
Annuisco anch’io, compiaciuto, rimettendo in moto la macchina e muovendomi nella notte, direzione casa. Ho come l’impressione che, se voglio dividere i guadagni e continuare comunque a mettere da parte i soldi, dovrò lavorare un casino di più, da oggi in poi.
Genere: Romantico, Commedia, Erotico.
Pairing: Chakuza/Fler/Bushido.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash, Threesome.
- "Ed è allora che guardo Fler – imbarazzato oltre il legale – e poi guardo Bushido e mi dico che ho voglia di farmi stringere un po’."
Note: No, non era per niente previsto un seguito a Potremmo Provare In Tre XD Non era previsto e non l’avevo plottato, ma egli è nato \o/ E io non sono esattamente nota per il lasciare morire i plotcriceti. Al limite, ci metto due secoli a partorirli, tergiversando e procrastinando eccetera eccetera, ma alla fine nascono. Per questo, in particolare, dovete ringraziare la Meg, che possiede l’account di FaceBook del Chaku (io mi sono ancora rifiutata. Anche perché il Chaku non gioca a Restaurant City, quindi averlo fra gli amici non mi sarebbe del benché minimo aiuto u.u), grazie al quale abbiamo scoperto che il povero tatino è stato male, in questi giorni. Costretto a letto e tutto, povero puccio. Da qui (e dal beauty case delle medicine dei miei nonni, ad essere totalmente sinceri XD) è nata questa cazzata che Tab s’è sorbita passo passo su MSN come al solito, e che poi Def ha avuto il buon cuore di betare successivamente. Grazie ad entrambi e spero vi abbia divertiti (uccidendovi con quantità illegali di fluff) quanto ha divertito me.
Se state chiedendovi se dovreste aspettarvi anche il Bu, giusto per completare il trittico delle delizie (d’altronde, dopo Grazia e Graziella, manca ancora Grazie al Cazzo), temo – per voi, per me, per loro – che la risposta sia sì. Eeeeh.
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Magari Ci Entriamo In Tre
"Every night, every day, just to be there in your arms." (Can't Get You Out Of My Head - Kylie Minogue)


A quanto ho capito, Fler da piccolo stava spesso male. Fa un po' specie, osservandolo com'è ora, immaginarlo piccolino, magari a tredici, quattordici anni, coi boccoli biondi schiacciati sulla fronte e sulle guance, umidi di sudore, che sta tutto infagottato in un quintale di coperte, con le guance rosse e un termometro fra le labbra e quegli occhioni enormi, azzurrissimi, resi umidi dalla febbre, che si guardano intorno con aria annoiata mentre sfoglia tipo un fumetto o chissà che altro per passare il tempo, il pigiama che gli si appiccica addosso e il petto che si muove lentamente e il respiro pesante e... ed è meglio che mi fermo altrimenti finisce male, Dio mio.
Comunque, stava spesso male. Bushido dice che era perché usciva poco di casa, infatti - dice sempre lui - quando ha preso a frequentarlo e stare fuori ogni notte, la situazione è migliorata e lui ha smesso di raffreddarsi sempre, scambiando i raffreddori coi lividi da pestaggio. Non so che guadagno possa essere, ma Bushido va molto orgoglioso di aver reso forte il sistema immunitario di Fler, anche se in cambio ha dovuto portarlo in giro con sé mentre spacciava e robe simili.
In ogni caso, il succo del discorso è che, stando sempre male, ha avuto modo di imparare un sacco di roba sui raffreddori, sulle febbri e sulle medicine con le quali contrastare queste piaghe sociali. Allo stesso modo, però, ha sviluppato un odio profondo per tutto ciò che sia malaticcio, deboluccio e moccioloso. E se la sua conoscenza del tutto è il motivo per cui sto steso in questo letto con un beauty case pieno di medicine fra le mani, il suo odio atavico per la febbre è il motivo per cui, in questo letto, ci sto tutto da solo. E mi annoio a morte.
Tutto è cominciato la notte in cui io e Bushido abbiamo deciso che ci eravamo rotti le palle di stare senza Fler e che, per questo motivo, saremmo andati dalla Svizzera direttamente fino a Lahr per passare un po' di tempo con lui. Sapevamo bene - conoscendo Fler per il pezzo di legno che è - che la piazzata ci avrebbe come minimo fatto guadagnare uno sfanculamento immediato senza possibilità d'appello, ma sapevamo altrettanto bene - conoscendo Fler per la zoccola che è - che sarebbe bastato poco per farsi perdonare, perciò abbiamo deciso di andare comunque. E infatti, come volevasi dimostrare, per prima cosa Fler ci ha mandati a fanculo, ma appena abbiamo fatto tanto di mettergli le mani addosso l'abbiamo visto sciogliersi fra le nostre dita come burro, ed è sempre uno spettacolo quando lo fa, perché anche quando si prende bene e lo vedi che fa cose veramente allucinanti in posizioni altrettanto allucinanti, riesce comunque a mantenere quella sorta di... non saprei spiegarlo, è una specie di imbarazzo di base che si mischia alla sua scontrosità naturale, che sembra sempre di vedergli scritto in faccia “ma che cazzo sto facendo? E perché? Ma anche chissenefrega, Dio, è bellissimo”.
Insomma, sia io che Bushido abbiamo avuto modo di essere orgogliosi del nostro genio, ma fare tutto di corsa quando sei appena uscito da una doccia veloce e sei ancora dannatamente accaldato da due ore di concerto, non è esattamente qualcosa di cui andare altrettanto orgogliosi. In un primo momento non me ne sono mica accorto, nel senso, non è che mi sia sentito subito male. Però, quando l'indomani mattina mi sono svegliato strettissimo a Fler, con le labbra contro la sua spalla e, per prima cosa, ho starnutito, ho cominciato a pentirmi di tutta una serie di cose, compreso il non essermi asciugato per bene prima di rivestirmi per mettermi in macchina e partire alla volta della mia seconda madre patria abbandonando il mondo della mucche e del cioccolato al fianco di Bushido, nella sua Mercedes.
Comunque anche lì, sul momento, avevo solo starnutito. Non mi sembrava ci fosse niente di così enormemente grave. Stavo lì in una camera d'albergo non mia, erano le sei del mattino circa, Bushido dormiva ancora come un ghiro con una gamba incastrata fra le mie ed ho starnutito. Tutto qui.
Fler, però, ha aperto gli occhi - subito sveglissimi, ed aveva dormito solo, tipo, tre ore. Neanche piene. E dopo del sesso stancantissimo. Sa solo lui come fa - e mi ha guardato come se fossi un mostro disgustoso appena apparso di fronte ai suoi occhi.
- ...hai per caso preso freddo? - mi ha chiesto, gelido, scostandosi appena. Io mi sono affrettato a negare.
- Mi prudeva il naso. - ho risposto, cercando di suonare convincente, - Ti sono stato schiacciato addosso tutta la notte. Forse per quello.
Lui si è piegato ad annusarsi un po' la spalla ed ha borbottato un “sa di te” a metà fra il tenero e il risentito, motivo per cui io mi sono sentito in diritto di sporgermi e baciarlo, poco prima che lui decidesse che non era il caso e saltasse in piedi, diretto al bagno.
- Che fai? - gli ho chiesto, disincastrandomi dalla stretta di Bushido - che ha approfittato del mio spostamento per colonizzare tutto il letto - ed andandogli dietro. Lui ha scrollato le spalle, tirando su i pantaloni della tuta che stavano scivolandogli sotto il sedere.
- Doccia. - ha risposto, - Fai il caffè?
- Aspetta... - mi sono affrettato a fermarlo, stringendolo da dietro e tirandomelo appresso mentre raggiungevo il cucinino in un angolo, - Mi dai una mano? - ho chiesto, sorridendogli sulla schiena.
- Sai perfettamente come si prepara il caffè anche senza che ti aiuti io, Chaky... - mi ha fatto notare lui, cercando di divincolarsi. Per tutta risposta, io l'ho schiacciato contro il cucinino.
- Non ho detto che la mano mi serviva per il caffè. - ho ghignato, strusciandomi un po' su di lui.
L'ho sentito irrigidirsi immediatamente nella mia stretta ed ho sorriso, baciandogli una spalla.
- Ma voglio farmi una doccia... - si è lagnato, piantando le mani sul tavolo e smettendo di cercare di liberarsi.
- Non sei ancora così sporco. - ho riso io.
- Sei un maiale. - mi ha risposto lui, senza ritrarsi quando mi ha sentito avanzare un po' verso di lui. - Chaky... no.
- Eddai... - ho insistito io, infilandogli una mano nei pantaloni ed accarezzandolo piano, - Solo io e tu? - ho chiesto. Sia mai. Uno ci prova sempre.
- No! - ha ovviamente risposto lui, oltraggiato. Però poi l'ho sentito sospirare ed ho capito che magari non saremmo stati soli ma ne sarebbe venuto fuori comunque qualcosa di buono. - ...svegli Anis? - ha chiesto a bassa voce, piegandosi lievemente sul mobile.
Per svegliarlo, gli ho tirato una scarpa. Ma quando si è resto conto della situazione non s'è neanche sognato di lamentarsi, lui.
Insomma, le cose, almeno per quella mattina - ed almeno fino a quando Godsilla e Reason non sono entrati in camera di Fler per svegliarlo, convinti di trovarlo da solo nel letto e trovandolo invece in compagnia di altre due persone schiacciato fra un tavolo ed il cucinino - sono andate bene. Fler è tornato a Berlino in macchina con noi ed io e Bushido abbiamo perciò avuto l'occasione di osservarlo raggomitolarsi tutto e addormentarsi sul sedile posteriore. Scene patetiche con due uomini adulti che guardano un uomo altrettanto adulto dormire placido come un bambino a pochi centimetri da loro e si lasciano andare a sospironi innamorati e occhiate languide. E via così.
Ovviamente, appena arrivati a Berlino Fler era riposatissimo, ha preteso di riappropriarsi di casa ripulendola tutta da cima a fondo - d'altronde era via da più di un mese, era normale avesse voglia di toccare tutto - e poi, naturalmente, ha preteso di riappropriarsi anche del letto. A nostro modo. Una giornata decisamente piacevole, d'accordo, ma anche stancante. Ed io covavo l'influenza.
Insomma, il giorno dopo, ovviamente, quando ho aperto gli occhi - mi sveglio sempre per primo, un po' perché ho fame presto, un po' perché Fler si agita sempre prima di svegliarsi, e siccome è mattiniero ed io ho il sonno leggero, insomma, ci svegliamo a vicenda. Bushido invece è un ghiro e potrebbe dormire per secoli - comunque, appena ho aperto gli occhi mi sono accorto subito che c'era qualcosa che non andava. Purtroppo, se n'è accorto anche Fler.
- Tu hai la febbre. - mi ha detto. Più che una constatazione, sembrava tipo una condanna a morte. Tu non puoi dire “hai la febbre” come diresti “sei condannato alla sedia elettrica, Peter Pangerl”. È una cosa ingiusta.
- No... - mi sono lamentato io. La mia voce era più che altro un rantolo roco, ma io ho sempre la voce un po' così, ringhiante, ed ho sperato che Fler non cogliesse la differenza. Figurarsi.
- Hai la febbre. - ha ripetuto lui, - Hai gli occhi lucidi. La voce rauca. - e si è chinato a sfiorarmi la fronte con la propria. - E sei caldo. Hai la febbre.
- Non è vero. - ho borbottato, e l'ho afferrato per la nuca nel tentativo di spingermelo contro e zittirlo in via definitiva, ma lui ha opposto resistenza e s'è messo seduto.
- Tu hai la febbre e non me la passerai. - ha decretato con decisione. - Perciò io vado a stare sul divano.
E così dicendo, anche se non aveva fatto altro che dormire fino a quel momento, ha preso il cuscino ed il lenzuolo - rubandolo a me e Bushido, il quale s'è finalmente deciso a svegliarsi imprecando per il freddo e la nudità improvvisa - e s'è trasferito in salotto.
L'ho visto uscire dalla stanza e mi sono voltato verso Bushido, che nel frattempo aveva cambiato posizione e s'era tutto raggomitolato cercando di dormire ancora.
- Ohi, Bu? - l'ho chiamato, - Fler se n'è andato.
- Tornerà quando avrà fame. - ha biascicato lui, riprendendo a ronfare. Io gli ho tirato uno scappellotto sulla fronte.
- Non è un cane! - gli ho strillato, mentre lui spalancava gli occhi e si metteva seduto borbottando un “ahi” risentito e massaggiandosi il punto dolente, - Dice che ho la febbre.
Bushido mi ha schiaffato una mano sulla fronte – facendomi peraltro un male fottuto – tenendo l’altra sulla propria, e fissando il vuoto per dei lunghi secondi.
- Be’, ha ragione. – ha concluso, saltando in piedi, - Sei caldo. Avrai preso fresco, povero.
L’ho osservato, nudo per com’era, dirigersi verso l’armadio ed estrarne una coperta di lana che doveva essere costata quanto una pecora viva, per poi tornare verso il letto ed avvoltolarmi tutto come una specie di involtino primavera.
- Bushido, che cazzo stai facendo? – ho chiesto con aria curiosa.
- Mi prendo cura di te. – ha risposto lui, annuendo compitamente.
- Non voglio restare a letto! – ho sbraitato, ed avrei continuato a lagnarmi se lui non si fosse chinato a zittirmi baciandomi pure con una certa prepotenza e rischiando oltretutto di soffocarmi.
- Stai buono. – mi ha detto poi, rimettendosi dritto ed infilandosi un paio di pantaloni a caso – di Fler. – Io vado di là.
Io sono rimasto lì avvolto nelle mie coperte per due minuti circa. Mi sono detto, vedi tu che carino. Mi ricopre di lana, magari è anche andato a prendermi un bicchiere d’acqua, che ho voglia di bere, e forse è andato pure a recuperare Fler, che ho voglia di lui. Insomma, mi sono un po’ lasciato andare su pensieri simili circa Bushido, dicendomi anche che non era male come compagno, in fondo, e comunque bacia da Dio, quando improvvisamente sento Fler gemere. Io, i gemiti di Patrick, li sento a chilometri di distanza. Non è possibile che un suono così lagnoso e intollerabile e fottutamente sexy possa sfuggirmi. E quello era un gemito. Senza dubbio.
Mi sono alzato di corsa e, così avvolto nella coperta per com’ero, sono uscito fuori dalla stanza per ritrovarmi davanti allo spettacolo di Bushido che schiena Fler contro la parete del corridoio e si fa avanti per baciarlo mentre lui mugola “no, Chaky non sta bene, non voglio”.
- Traditore fedifrago! – ho urlato.
- Tu volevi scopartelo in camera, ieri. – mi ha fatto notare lui, - Ti ho sentito.
- Be’, non l’ho fatto!
- Perché lui ti ha fermato. Nemmeno io l’ho fatto.
- Perché lui ti ha fermato ed io sono arrivato e ti ho visto!
Ci ha interrotti la risata di Fler. Che è una delle cose più carine del mondo e non si capisce come possa venire da un torello alto due metri.
- Siete gelosi. – ci ha rivelato, come una specie di saggio buddista, - Che coglioni. – e poi è sparito in bagno. E io e Bushido siamo rimasti lì a guardarci, effettivamente come due coglioni. Poi io ho scrollato le spalle e me ne sono tornato a letto.
La giornata è continuata in maniera tutto sommato tranquilla fino a quando, giunta sera, nonostante fossimo tutti e tre deliziosamente incastrati sul letto a guardare la televisione, Fler si è alzato e ha recuperato il pigiama, annunciando candidamente che “allora lui andava sul divano”. Okay, forse avrei dovuto sospettare qualcosa perché non eravamo proprio così incastrati: Fler stava sul lato sinistro del letto, Bushido stava accanto a lui e lo stringeva ed io stavo svaccato su Bushido e sfioravo Fler giusto con un braccio. Loro erano incastrati, io stavo lì posato. E starnutivo.
Perciò, quando ho ricollegato le cose, ho alzato lo sguardo ed ho chiesto a Fler se stesse andando di là perché non voleva dormire con me.
- Sì. – ha risposto candidamente lui. Giuro, ci sono rimasto di merda.
- Pat, non fare il cazzone. – ha risposto duramente Bushido, - Torna a letto.
Fler, che non è esattamente uno cui piaccia farsi mettere i piedi in testa, gli ha ricambiato l’occhiata truce ed ha piantato una mano sul fianco.
- Vado dove cazzo voglio. – ha ribadito, - Ovvero, sul divano. – dopodiché, è uscito.
Bushido ha ringhiato qualcosa ma è rimasto steso a letto. Nel silenzio della camera, io ho tirato su col naso ed ho continuato a fissare la porta attraverso la quale Fler era uscito per quelle che mi sono sembrate svariate eternità. Poi, senza che nemmeno me ne accorgessi, Bushido è scivolato sotto le coperte al mio fianco, ha spento la luce sul comodino e mi ha lasciato scivolare un braccio attorno alle spalle, stringendomi a sé.
Non è stato fastidioso dormire insieme – abbiamo dormito insieme per tutto il periodo in cui Fler è stato via, in tour – ma un conto è farlo sapendo che Fler è lontano chilometri e non c’è nessuna possibilità di averlo nel letto in tempi brevi, un altro è farlo sapendo che invece Fler è lì a qualche metro e che se non sta con noi è solo perché è uno stronzetto che si diverte a tenerci sulla corda e ogni tanto si perde in follie tipo questa. L’indomani mattina, quando ci siamo svegliati, io e Bushido eravamo ancora nella stessa identica posizione rispetto a quando ci eravamo addormentati.
- Bu… - l’ho chiamato piano, la voce ridotta a un rantolo, - Mi sa che sto peggiorando.
Lui, inaspettatamente, non mi ha costretto a chiamarlo altre duemila volte e s’è svegliato subito, schiarendosi la gola con un paio di colpi di tosse ed accarezzandomi la fronte con una mano.
- Sì, Chaky. – ha risposto un po’ cupo, - Sei più caldo.
Siamo rimasti lì a deprimerci – io a guardare il vuoto, Bushido ad accarezzarmi una spalla con fare consolatorio – fino a quando la porta non si è spalancata. Fler, fresco di doccia ed anche riposato come un bambino dopo dodici ore di sonno, non ci ha nemmeno salutati, tutto preso com’era ad avanzare con la testa ficcata per metà in questo enorme beauty case tristissimo e nero all’interno del quale sembrava fosse contenuta la soluzione di tutti i mali del mondo, tanta era l’attenzione con la quale lui lo controllava e ricontrollava.
Io e Bushido ci siamo guardati ed abbiamo scrollato contemporaneamente le spalle mentre Fler si lasciava ricadere sul letto in mezzo a noi – sgomitando da un lato e dall’altro per riprendersi il posto che era suo di diritto e del quale il nostro avvicinamento notturno lo aveva, a suo parere, ingiustamente privato – e poi si voltava verso di me con l’aria di un ragazzino che ha appena fatto qualcosa di molto gentile e per il quale si aspetta perciò riconoscenza vita natural durante.
- Poi non dire che non ci tengo, a te. – ha dichiarato, mostrandomi il beauty case. Io ho sbirciato all’interno e nel mentre l’ho ascoltato spiegare. – Qua dentro ci sono tutte le medicine che possono servirti. C’è lo spray nasale, ci sono le vitamine, c’è la tachipirina se la febbre si alza ancora, ci sono le pillole per il mal di testa, c’è lo sciroppo e c’è anche la pomata da passare sul petto se la tosse peggiora. – ha elencato con aria competente, indicando ogni medicina con un dito. – Visto? È dalle sette che sono in giro fra casa e farmacia per preparare tutto.
L’ho guardato con un’aria a metà fra il grato ed il totalmente rincoglionito, e Bushido ha riso tenero dietro di lui. Questo è Fler, in sostanza. Al di là del sesso, questo è il motivo per cui né io né Bushido ci sogneremmo mai di fare qualcosa per distruggere l’equilibrio perfetto che regna in questa casa.
Quando ho fatto per sporgermi verso di lui e baciarlo, comunque, lui s’è ritratto, piantandomi una mano sulla faccia.
- Quando guarisci. – ha detto deciso. Io ho lanciato un’occhiata a Bushido, come a dirgli “be’, ok, bacialo tu per me”, ma quando lui ha fatto tanto di avvicinarglisi e spingerlo a voltarsi per esaudire la mia muta richiesta, Fler ha piantato una mano sulla faccia anche a lui ed ha risposto – Quando guarisce Chaky. – e questo ha chiuso la questione.
Meno di un minuto dopo s’è rimesso in piedi ed è uscito dalla stanza. Io sono tornato ad abbattermi contro Bushido perché i brividi di freddo mi stavano uccidendo e lui, quantomeno, è una stufetta naturale non da poco, e poi ho sospirato.
- Forse è meglio se mi trasferisco in camera degli ospiti. – ho annunciato tetro, borbottando un po’.
- Stai benissimo qui dove stai. – ha risposto lui, decisissimo, ed io ho riso.
- Grazie, ma quel coglione continuerà a dormire sul divano, se io non mi schiodo. Quindi ora prendo il cocktail di medicinali che con tanto amore lo stronzo ha preparato per me, e vado in camera degli ospiti. – Bushido ha fatto per protestare, ma io mi sono sollevato e l’ho zittito con un’occhiata prima che lui potesse anche solo cominciare. – Mi dai una mano? – ho chiesto, avvolgendomi nella coperta di lana che supponevo sarebbe stato il mio bozzolo per molti giorni a venire. Bushido ha annuito, e lì è cominciato il mio breve trasloco.
Questa è, in sostanza, la storia di come sono finito in questa stanza noiosissima, con questo letto minuscolo, senza neanche il televisore. Da quando sono qui la febbre si è alzata – ed ho preso la tachipirina – ho avuto mal di testa – ed ho preso le pillole – la tosse è peggiorata – ed ho preso lo sciroppo e spalmato la crema – e mi sono sentito un sacco debole – ed ho mandato giù quintali di disgustosi bicchieri d’acqua all’interno dei quali avevo fatto sciogliere quelle enormi pillole frizzanti all’arancia che Fler chiama “vitamine”. E adesso sto effettivamente meglio. La tosse sta scomparendo, la febbre è quasi del tutto estinta e non sono più costretto a vivere attaccato alla boccetta dello spray nasale per non morire soffocato dal mio stesso muco. Sto riappropriandomi di una vita sana e priva di malesseri e sono perciò molto orgoglioso di me stesso.
Bushido, nonostante abbia ripreso a lavorare, visto che fra poco esce l’audiolibro della biografia, ha passato un po’ di tempo con me ogni giorno. È entrato qui dentro, mi ha dato un bacio, s’è seduto sulla seggiolina e poi si è messo a parlare. Quell’uomo ha una voce che sembra fatta apposta per calmarti, quando non urla. Cioè, si mette lì e parla di cazzate e tu dopo un po’ smetti anche di capire effettivamente cos’è che ti sta dicendo. Lo senti e basta, è sufficiente.
Perciò è questo ciò che ho fatto in questo giorni: ho cominciato a guarire preoccupandomi di non farcela per il concerto del sedici, ho ascoltato Bushido parlare, ho dormito e non ho mai visto Fler. In compenso so che ha accolto la notizia del mio trasferimento qua dentro con un incomprensibile “oh” – riprendendo immediatamente il suo posto al fianco di Bushido nel letto – e che da una settimana lui e Bushido non fanno che litigare. Cominciano al mattino appena svegli e finiscono alla sera quando chiudono gli occhi. Non so cosa si dicano, ma sono sette giorni che, ogni volta che sono in casa insieme, li sento abbaiare come cani, anche se, ogni volta che gli chiedo se c’è qualcosa che non va, Bushido sorride e risponde che è tutto a posto.
Il risultato delle urla e dei litigi io lo comprendo solo oggi, nel momento in cui, dopo essermi rifornito con la mia dose giornaliera di acqua all’arancia, sollevo gli occhi e mi ritrovo davanti Fler che appare sulla soglia – la porta non l’ha aperta lui, ma una mano che si è infilata fra il suo braccio e il suo fianco e l’ha aperta al suo posto – ed entra nella stanza palesemente controvoglia, spintonato da dietro, guardandosi intorno con un broncio stupidissimo e carinissimo, gli occhi che si soffermano su ogni particolare della stanzetta evitando accuratamente il particolare più importante, che sono io e sento tanto la mancanza di quegli occhi addosso che ho voglia di mettermi ad agitare le braccia sventolando bandiere segnaletiche per farmi notare.
- Pat! – lo chiamo, e sono talmente felice di vederlo che non mi importa se mi ha ignorato fino ad oggi, - Sto meglio! – e ci tengo a precisare che io glielo dico, ma lui nemmeno si è informato.
- Hai ancora un po’ di raffreddore. – mi fa notare lui, impietoso, mentre Bushido rotea gli occhi, lo supera e si fa avanti, posando un cestino pieno di frutta sul comodino ed arrampicandosi disinvoltamente sul letto al mio fianco. È un singolo, ma Bushido è sottile e qui ci si sta comodi, in due.
- La frutta – mi dice Bushido, baciandomi piano sulle labbra, - l’ha comprata lui. Dovevi vederlo, al mercato, fra le bancarelle, che sceglieva personalmente le mele.
Io rido e guardo Fler, che sta ancora immobile nel centro della stanza, guarda altrove e tiene le braccia incrociate sul petto.
- Te ne intendi? – chiedo, recuperando una mela lucidissima dal cestino ed addentandola con soddisfazione. Fler scrolla le spalle e non risponde.
Bushido ride e prende a raccontarmi di come quella mattina si sia messo in testa di convincerlo a venirmi finalmente a trovare, io borbotto ma Bushido non lascia spazio per le mie lamentele e continua col racconto, e dipingendomi davanti agli occhi un Fler che gli ricambia un’occhiata incerta e gli dice “sì, però Chaky ce l’avrà sicuramente con me… non posso presentarmi a mani vuote”, e decide perciò di andarmi a comprare della frutta fresca. Mi viene da ridere perché è ovvio che Fler avrebbe potuto anche entrare qui dentro nudo come mamma l’aveva fatto e sarebbe stato bellissimo lo stesso. Anzi, probabilmente sarebbe stato anche meglio. Ed è allora che guardo Fler – imbarazzato oltre il legale – e poi guardo Bushido e mi dico che ho voglia di farmi stringere un po’. Che sono giorni che non faccio che pensare a guarire, più che per il concerto, più che per la gola che gratta, più che per i brividi e tutto il resto, perché voglio tornare a stare con loro, nel letto, giorno e notte e in tutte le altre ore che ci passano di mezzo.
È per questo che mi scosto un po’, sul materasso, e parlo.
- Magari… - ipotizzo, prendendo con gli occhi le misure del letto, - Magari ci entriamo in tre.
Fler inarca un sopracciglio.
- Impossibile. – nega seccamente.
Bushido sospira.
- È un tuo problema. – risponde. E, nel momento in cui io mi volto a guardarlo intenzionato a chiedergli se non abbia voglia di farsi sfanculare definitivamente, sento una sua mano scivolare verso l’alto sulla mia coscia, e mi dico “oh”.
Fler si accorge del movimento, ma in un primo istante non fa nulla. Resta lì, ci guarda con aria estremamente disapprovante – le braccia serrate sul petto, gli occhi che brillano di gelosia – e mi osserva stendermi indietro sul cuscino mentre Bushido si gira su un fianco e lascia scivolare la mano sopra i miei boxer, accarezzandomi lentamente. Chiudo gli occhi e mi lascio andare ed è allora che sento Fler mugolare “ma così non è giusto!”, e poi tutto il letto trema e si agita ed io apro gli occhi e rido perché Patrick è lì che cerca il suo spazio, Bushido e lì che glielo concede ed io sono qui che mi rimetto seduto, allargo braccia e gambe e lo stringo a me, mentre lui si rigira fra le mie braccia per darmi le spalle ed aderire perfettamente con la schiena al mio petto.
Bushido ghigna, mettendosi in ginocchio e stringendo Fler da davanti.
- Sì che ci entriamo in tre.
- Lo sapevo che volevi andare a parare qui… - borbotta Fler, stendendosi contro di me e muovendosi appena contro la mia erezione, mentre gira il capo alla ricerca delle mie labbra, - Chaky, se mi passi il raffreddore non ti perdonerò mai.
- Sei forte e pieno di salute. – lo prendo in giro io, e poi sulle sue labbra mi ci perdo, perché sono calde e sanno di lui e non le sento da giorni e mi sono mancate un casino. – Cazzo, oggi tocca prima a me, sì, Bu?
Bushido annuisce e sorride, e si tira un po’ indietro, afferrando Patrick per la vita e portandolo con sé nel movimento per sbottonargli i pantaloni e spogliarlo. Forse non toccava proprio a me per primo, oggi, ma Anis è tranquillo, bacia Fler lungo il collo fin sotto l’orecchio e lo aiuta a risistemarsi fra le mie gambe, accarezzandolo piano fra le cosce mentre io scendo a prepararlo con le dita umide e poi entro lentamente dentro di lui, osservandolo reggersi alle sue spalle con le mani ben salde per potersi muovere come preferisce, dettando lui il ritmo delle mie spinte e lamentandosi rumorosamente, mordendo le labbra di Bushido, quando mi muovo diversamente da come lui vorrebbe. Morde Bushido, Bushido guarda me, io mi fermo e lascio che sia Fler ad imporsi come vuole, tra un ansito e un mugolio appena trattenuto, e quando veniamo – in che ordine non saprei nemmeno dirlo – io mi sporgo in avanti per baciare la nuca di Fler, Bushido si sporge in avanti per baciare lui e Fler, invece, si scosta. Perciò tutto ciò che io ottengo solo le labbra di Bushido e tutto ciò che Bushido ottiene sono le mie.
Per quanto inizialmente la cosa sia inattesa – sia io che lui ci aspettavamo un sapore diverso – facciamo in fretta a dimenticarcelo. Fler solleva una mano ad accarezzarmi la nuca e con l’altra scivola dalla spalla al collo di Bushido, massaggiando piano, e ride a mezza voce.
- Siete bellissimi. – commenta poco dopo, quando io e Bushido ci separiamo con un lieve schiocco e ci guardiamo negli occhi, un po’ confusi. – Mi siete mancati.
Io e Bushido imitiamo la sua risata e cerchiamo le sue labbra, prima lui – perché mi sa che toccava a lui, ecco – e poi io, e Fler ci bacia entrambi lentamente, perfettamente soddisfatto.
Dopodiché, lo osservo disincastrarsi dalla nostra stretta e stendersi al mio fianco, mugolando piano.
- Stanco? – gli chiedo, chinandomi a baciargli una tempia mentre Bushido prende posto accanto a lui, schiacciandosi il più possibile contro il muro per non costringermi a rotolare rovinosamente per terra.
Fler annuisce, gli occhi già chiusi.
- Dormo solo un po’. – mugugna, e poi il suo respiro si regolarizza ed io e Bushido restiamo ad osservarlo ipnotizzati, come sempre.
Quando si risveglia, un paio d’ore più tardi, ha gli occhi lucidi e un po’ arrossati.
- Lo sapevo io… - borbotta confusamente, - Chakuza, ti odio… fuori da questa casa…
Un po’ incerto, io lo guardo, senza capire.
- Ma che c’è? – chiedo confusamente, - Ti senti male?
Bushido spalanca gli occhi, si mette seduto e gli sfiora lievemente la fronte, prima di sporgersi oltre il suo corpo ed anche oltre il mio, allungandosi fino al comodino e recuperando il termometro dal primo cassetto, per scuoterlo un po’ e infilarglielo gentilmente sotto l’ascella, mentre Fler si lascia maneggiare neanche fosse fatto di pongo.
Quando il termometro riemerge, Fler si nasconde sotto le coperte. E Bushido mi guarda.
- Trentotto. – decreta cupo, - E mi sa che siamo solo all’inizio.
- Fanculo. – biascica Fler, lamentoso, - Vi odio entrambi. – ed un brivido di freddo lo scuote tutto. - …restate?
E noi lo sappiamo che si meriterebbe di essere mandato a fanculo e lasciato solo in quarantena. Però, visto che, anche se il letto è piccolo, in tre ci si entra tranquillamente, preferiamo infilarci sotto le coperte al suo fianco ed aspettare che sia lui a dirci di non volerci più fra le palle. Sempre che questo avvenga, ovviamente.
Genere: Romantico, Commedia.
Pairing: Chakuza/Fler/Bushido.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash, Threesome.
- "Forse è ingiusto che a me servano due persone per sentirmi nel modo in cui si sente la gente in genere quando ne ha anche una sola, ma non è un mio problema. Così sono io. Così siamo noi. Provate a darci torto."
Commento dell'autrice: XD Questa storia è nata perché il mio cervello è palesemente incapace di stare fermo due-minuti-due, e quando ho visto Fler parlare al telefono in foto, nel backstage dello show di Lahr, sono partita ad immaginarlo al telefono col suo uomo. Poi però non riuscivo a scegliere quale dargli. E quindi glieli ho dati entrambi XD Sì, è il mio bimbo e lo vizio, con ciò? STFU.
Comunque è.é Storia per il 98% veritiera (ho dovuto incastrarci dentro pure il concerto del Chaky nella patria delle mucche, delle banche e della puntualità!), dove il 2% di falsità è rappresentato dall’esistenza specifica di fiori e cioccolatini, perché tutto il resto, io lo so, sesso compreso, sta accadendo veramente o è già accaduto o comunque accadrà, date loro solo il giusto tempo. E comunque me ne frego :D
Spero abbiate gradito. E grazie a Def – un santo – per il betaggio.
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Potremmo Provare In Tre
"Al risveglio mi ritrovo solo, come nella vita di sempre." (Angel Sanctuary)


Silla e Reason mi hanno salutato dieci minuti fa con grandi pacche sulle spalle, ridendo. Erano già palesemente ubriachi per la birra che abbiamo visto scorrere a fiumi nel backstage, dopo il concerto, ma hanno avuto comunque il coraggio di chiedermi se mi andasse di uscire con loro a bere qualcos’altro, visto che era l’ultima data del tour e tutto. Io in realtà non è che avessi tutta questa voglia, sto praticamente lavorando senza fermarmi mai da quasi un mese e sono sfiancato, perciò ho sorriso e li ho invitati ad andare gioiosamente a fanculo o in qualsiasi altro posto desiderassero. Loro, ubriachi com’erano, l’hanno presa per una bellissima battuta e si sono allontanati sghignazzando e cantando vecchie canzoni di 50 Cent con un accento improponibile.
E quindi io sono rimasto qui e mi sono ritrovato solo, come nella vita di sempre, o meglio: com’era la mia vita di sempre prima che la mia vita di sempre diventasse un immenso, frenetico ed affannoso casino. Vietato ai minori di diciott’anni, poi.
Sospirando, penso che non dovrei lamentarmi e che quei due coglioni al momento mi mancano pure, e mi infilo in bagno, sfilando la maglietta e cominciando ad armeggiare coi rubinetti della doccia per miscelare acqua calda e fredda. Se tutto va bene e Silla e Reason non si fanno investire durante la notte, vagando per le strade di Lahr in stato semicomatoso con più alcool che sangue nelle vene, domani mattina sarò in viaggio per Berlino. Mi manca casa e mi mancano i due coglioni, soprattutto. Tra l’altro suona benissimo, “i due coglioni”. È anche anatomicamente corretto.
Mentre sono qui che guardo il getto d’acqua e pregusto quella che palesemente sarà la doccia migliore della mia vita dopo quella volta in cui i due coglioni hanno deciso che sì, in fondo si poteva provare a farla in tre, suonano alla porta. Mi trattengo a stento dal lanciare un urlo frustrato e chiudo tutto, rassegnandomi a dover ricominciare tutto da capo dopo aver liquidato lo scocciatore chiunque egli sia; dopodiché mi muovo verso la porta strascicando i piedi e grugnendo un “arrivo” infastidito, sperando che il mio odio attraversi il tempo e lo spazio e raggiunga lo sconosciuto visitatore, obbligandolo a scappare a gambe levate ancora prima che io sia arrivato ad aprire.
Invece niente, apro e lo scocciatore è ancora lì, solo che non è uno solo. Sono due. E sono, appunto, i due coglioni.
So che ho detto fino a due minuti fa che mi mancavano e tutto, ma se si aspettavano che una piazzata del genere mi sciogliesse come una ragazzina costringendomi a saltare loro al collo e sottopormi a chissà che oscura pratica sessuale abbiano progettato insieme nelle lunghe notti di solitudine dell’ultimo mese, hanno fatto i conti senza l’oste. Fiori e cioccolatini – gli uni stretti in un mazzo coloratissimo fra le braccia del tunisino, gli altri avvolti in un elegante pacco nero e dorato fra le braccia dell’austriaco – non mi fanno il minimo effetto, perciò mi limito a sollevare un sopracciglio ed incrociare le braccia sul petto. Sono stanco, sono le due passate del mattino e voglio dormire.
- Ma voi due non avete mai proprio un cazzo da fare, eh? – borbotto, picchiettando un piede per terra. Bushido scoppia a ridere facendosi strada all’interno della camera e buttando i fiori sul primo mobile che incontra nel proprio cammino, visto che, adesso che ha fatto il suo ingresso trionfale, non gli servono più. Chakuza, invece, resta sulla porta e mi guarda con sgomento.
- Ma vedi tu che stronzo! – sbotta, spiaccicandomi il pacco di cioccolatini sul petto e poi lasciandolo andare, così che io sono per forza costretto a stringerlo fra le braccia prima che cada a terra e si distrugga definitivamente, - Non solo uno è già stanco di suo e si fa i chilometri solo per venire a trovarti, ma deve pure vedersi accolto così…
Io sbuffo e chiudo la porta.
- Non vi ha invitati nessuno. – faccio notare ad entrambi, posando i cioccolatini sullo stesso mobile dove stanno i fiori. Bushido s’è già svaccato sul mio letto e Chakuza si sta guardando intorno con aria critica, cercando di intuire a quante stelle possa essere l’albergo giudicando dalla tappezzeria, suppongo. – Cos’è questa piazzata? – chiedo poi, sedendomi sul letto accanto a Bushido e rinunciando alla bellissima doccia di cui sopra, - Vi ho sentiti al telefono, tipo, dieci minuti fa. E mi avete detto che il concerto a Sagogn era appena finito e stavate mettendovi in marcia per tornare in albergo!
- Mentivamo. – risponde candidamente Bushido, sorridendo e chinandosi a baciarmi su una guancia, - Puzzi in maniera indecente, Pat.
- Perché io lavoro sul serio. – faccio notare, - Ero sul palco fino a due ore fa e non sono ancora riuscito a lavarmi.
- Possiamo farlo tutti insieme. – ghigna Chakuza, giocherellando con la fodera sfilacciata di una poltrona. Bushido gli risponde con una risatina divertita che io sento contro il collo perché, puzza o non puzza, lui è ancora lì, vicinissimo. Io, invece, grugnisco con disappunto.
- Ma anche no. Io posso fare la mia doccia mentre voi vi rimettete in auto e ve ne tornate a casa, e domani, quando sarò a Berlino, ne riparleremo.
Chakuza e Bushido ridono insieme, ed io, imbarazzato, distolgo lo sguardo. Ok, lo so che ho detto una cosa ridicola. Ciononostante, non è giusto che mi si prenda così sfacciatamente in giro. Sono stanco, io. Ho un sacco di cose da fare. Mica come loro.
- Io ho un’idea migliore. – annuisce Chakuza, arrampicandosi sul letto accanto a noi. Fortunatamente lo spazio è sufficiente per tutti e tre. – Adesso finiamo di sporcarti, poi tu vai a lavarti.
Bushido ride ancora ed io mi ritiro in un angolo.
- Col cazzo! – mi lamento.
- Anche con quello, sì. – annuisce Chakuza, prendendomi in giro, e Bushido ride così forte che sento l’aria tremare.
- Fai schifo. – borbotto inorridito, - E tu sei uno stronzo. – continuo, indicando il dannato tunisino, - Anzi, siete stronzi entrambi. Dio, ma chi me l’ha fatto fare…
Nessuno mi risponde, e in realtà una risposta non serve nemmeno, nel momento in cui Chakuza comincia ad armeggiare con la cintura dei miei pantaloni e Bushido mi lascia scorrere le mani lungo la schiena, scivolando con le labbra sul mio collo e sulle mie spalle. Lascio andare un gemito e chiudo gli occhi appena Chakuza comincia ad accarezzarmi fra le gambe. Per la doccia avrò tempo dopo.

*

La mia storia con Bushido non ha bisogno di essere raccontata dal principio, perché quella lo conoscono tutti anche troppo bene. Un ragazzino perso nella grande città, un tunisino che in Tunisia non c’è mai stato e che a diciott’anni aveva già visto anche troppo, un incontro fortuito, i muri di Berlino da ridipingere e così via, l’amicizia, il rap, l’Aggro Berlin, la fama, i soldi, troppi soldi e poi l’Ersguterjunge, le diss, gli anni di sfanculamenti gratuiti e poi una confessione a cuore aperto fra biografie e testi di canzoni, la morte di un mito e una riappacificazione che ha messo a soqquadro l’intero showbiz tedesco.
Ciò che forse va raccontato è quello che ci sta dietro, perché per quanto in molti malignino e in moltissimi suppongano, la cosa non è mai stata detta pubblicamente.
Dunque, io e Bushido abbiamo cominciato a scopare da subito. Dite pure ciò che volete – che i rapper certe robe non le fanno, che io ero praticamente un bambino, non m’interessa. Avevo quattordici anni ed avrei potuto mettere le mani su qualsiasi sciacquetta mi gravitasse intorno nel ghetto, ma non me ne interessava nemmeno una. Nel momento in cui l’ho visto in quell’ufficio spoglissimo e deprimente, ai servizi sociali, ed ho pensato “cazzo, ma sei bellissimo” come prima cosa, posandogli gli occhi addosso, avevo poco da stare a riflettere sul punto: ho capito dove stava andando a parare la mia sessualità e mi sono dato da fare perché ottenesse soddisfazione.
Fortunatamente per me, anche Bushido non è mai stato tipo da domande, quindi quando praticamente gli sono piombato addosso strappandogli la maglietta e infilandogli la lingua in gola, piuttosto che perdere tempo a chiedersi perché, s’è dato da fare per fare in modo che, qualsiasi fosse il motivo di quello che stava accadendo, ne valesse la pena comunque.
Da quel momento in poi – e io avevo sempre quattordici anni, eh – io e Bushido, per così dire, siamo sempre stati insieme. O non ci siamo stati mai, perché in fondo continuavamo comunque a fare il cazzo che volevamo con chiunque volessimo, però, insomma, scopavamo tantissimo e comunque avevamo un rapporto molto intimo, andavamo sempre in giro insieme, ogni notte insieme, lo spaccio insieme, le ubriacature insieme, le risse insieme e così via. Poi il coglione prende e dice che vuole uscire dall’Aggro perché si rompe le balle a dividere i guadagni coi grandi capi e non gli piace essere trattato come un pischello quando lui è il re dei re e simili puttanate, e ha pure il coraggio non solo di dirmelo in faccia, ma anche di chiedermi di seguirlo nella sua nuova etichetta. Al che era ovvio che non si poteva continuare a scopare, quando invece mi andava di sfancularlo e, anche se non mi fosse andata, mi sarebbe toccato farlo per contratto e orgoglio.
Da lì è veramente storia nota, compresa la riappacificazione che alla fine è stata anche più patetica di quello che si è sentito in giro, nel senso che, un mese prima che l’Aggro chiudesse, io già sapevo che avrebbe chiuso, e la cosa mi ha fatto girare i coglioni. Non so se vi è mai capitato di credere in qualcosa quanto io ho creduto nell’Aggro, e non so se vi è mai capitato di dovere a qualcosa tanto quanto io devo all’Aggro, fatto sta che quell’etichetta era la mia vita e, quando ho saputo che avrebbe chiuso, ho sentito il bisogno di tornare ad aggrapparmi all’unica altra cosa che fosse stata la mia vita prima di quel momento. Quella cosa era Bushido e ritrovarmi sulle sue labbra mentre casa mia chiudeva per sempre era esattamente ciò di cui avevo bisogno. Punto.
Tutto è precipitato nel momento in cui ho conosciuto Chakuza.
So che può sembrare assurdo, da dire, perché tu non puoi conoscere un nano pelato austriaco che si veste da metalmeccanico ed ha un diploma di cuoco, e lasciare che quest’essere ti sconvolga l’esistenza. Soprattutto non puoi lasciare che quest’essere ti si porti a letto. Non quando stai con Bushido, andiamo, Bushido è oggettivamente un uomo bellissimo, Chakuza non è oggettivamente nemmeno piacevole.
Fatto sta: ho conosciuto Chakuza e l’attimo dopo ero perso. Non saprei nemmeno dire perché – deve avere a che fare con la sua voce, comunque, mi muove cose dentro – ma è stato così. Bushido ci presenta – “Peter, questo è Patrick, Patrick, questo è Peter” – e l’attimo dopo io sono lì seduto sul divano accanto a Bushido che guardo il Chaky seduto in poltrona che mi parla del gatto della sua vicina gesticolando come un tredicenne, e penso ai millemila modi in cui vorrei sentirmi addosso quelle mani. La follia.
Sul momento sono rimasto zitto, naturalmente. Bushido stava là compiaciutissimo a dire a tutti che ero il suo ragazzo ed era la prima volta che lo faceva – nel senso, era ovvio che il rapporto che avevamo in quel momento era profondamente diverso rispetto a quello che avevamo quando eravamo ragazzini, era una cosa più seria e peraltro l’idea mi piaceva pure – non potevo rovinare tutto a così pochi giorni dal momento in cui ci eravamo ritrovati. Però Chakuza continuava a girarci intorno e soprattutto continuava a girarmi per la testa, non c’era verso di tenerlo fuori, così a un certo punto basta, preso da palese follia, sono andato fino alla Beatlefield – potete crederci? Ho preso e sono andato fino alla Beatlefield! – urlandogli cose assurde tipo che non doveva permettersi di incontrarmi, parlarmi o anche solo pensarmi – e, voglio dire, tu non puoi dire queste cose a un uomo, soprattutto se sei andato tu a cercarlo praticamente in casa propria – e che, insomma, mi piaceva e fanculo al resto. Trenta secondi dopo la sfuriata lui mi stava ancora guardando con gli occhi sgranati, chiedendosi cosa farsene di me. Due minuti dopo, l’aveva capito e mi aveva schienato sulla scrivania.
È quindi cominciato per me uno sfiancante periodo di tempo in cui nella mia vita non ho combinato niente perché ero troppo impegnato a saltare con estrema disinvoltura dal letto del mio uomo al letto del mio amante. Praticamente per giorni interi ho vissuto in un universo parallelo in cui non facevo in tempo ad uscire dal post-orgasmo di una scopata che subito mi ritrovavo immerso nella scopata successiva. Una specie di paradiso in terra, ok, ma presentava controindicazioni non trascurabili. Tipo il senso di colpa, per dire.
La realtà dei fatti è che in fondo io nonostante tutto sono un bravo ragazzo, mi seccava un po’ questo balletto da un letto all’altro. Non si fanno queste robe. Peraltro io voglio bene ad Anis, e con Chakuza… boh, Chakuza in realtà è un mistero, suppongo che ci sia qualcosa di piuttosto animalesco fra di noi, nel senso che impazzisco dietro al suo odore ed al suono della sua voce, quindi per forza dev’essere un istinto più che un sentimento, però voglio del bene anche a lui. Lui ne vuole a me, oltretutto, ed Anis mi ha sempre tenuto caro con pazienza per più di dieci anni, quindi ad un certo punto ho cominciato a sentirmi come se li stessi tradendo entrambi, e la cosa non era per niente piacevole.
Così ho preso in mano la situazione.
Per prima cosa, sono andato da Bushido. Dovevo innanzitutto informarlo della mia relazione con Chakuza. Poi gli avrei anche detto che non intendevo rinunciare a lui in nessun modo e avremmo trovato un modo per convivere col mio essere intimamente troia – cosa insospettabile, ma resa ormai evidente dalla gioia con la quale saltellavo da un uomo all’atro – senza che nessuno sentisse il bisogno di staccare la testa a qualcun altro in un impeto di gelosia.
Devo dire due cose: primo, probabilmente sopravvalutavo l’amore cieco di Anis nei miei confronti, perché non credo abbia mai avuto voglia di staccare la testa al Chaky perché mi si era portato a letto; secondo, è palese che il motivo per cui io e Bushido si va tanto d’accordo è che né io né lui, quando si parla di ciò che ci tiriamo nel letto, pensiamo veramente né a ciò che stiamo facendo né alle possibili conseguenze.
Insomma, gliel’ho detto mentre mangiavamo un panino. Per quel giorno lui aveva già abbondantemente buttato fuori di casa D-Bo e Kay One per tirarci dentro me, così da potermi scopare su ogni superficie liscia disponibile ed anche su una buona quantità di superfici ruvide, perciò eravamo solissimi di fronte alla televisione spenta e la mia voce è risuonata nella stanza come, tipo, la voce divina che detta a Mosè i Dieci Comandamenti. “Sono stato a letto con Chakuza”, così, seccamente. D’altronde, anche ad indorare la pillola, suppongo il concetto in sé non fosse granché migliorabile.
Lui s’è voltato a guardarmi, gli occhi fissi nei miei e spenti come la capocchia di uno spillo. “Quando? Dove? Come?” mi ha chiesto a bassa voce. Ho riflettuto sulle varie possibili risposte che avrei potuto dargli e poi ho sospirato. “Non vuoi saperlo”, ho risposto, “Comunque non voglio lasciarti. Cioè, ovviamente se tu non vuoi lasciare me. Però Chakuza… non lo so, non voglio lasciare neanche lui”. Bushido ha annuito lentamente e su di noi, per molti minuti, è sceso il silenzio.
Ho parlato ancora solo quando ho capito che lui non l’avrebbe mai fatto.
“Senti, Anis…” ho mormorato con imbarazzo palese, giocando con le mie stesse dita e mordicchiandomi un labbro, “Non è che… secondo te si potrebbe provare in tre?”
Dicevo prima che io e Bushido non è che si pensi davvero, quando si tratta di scopare. Perciò non deve veramente stupirvi che abbia annuito anche in quel caso, senza scomporsi più di tanto. “Ci metterò un po’ di tempo ad abituarmi” mi ha risposto candidamente, “ma sì, penso che si possa provare. Il Chaky è un bravo ragazzo”. Non cercate di capire come sia possibile che lui abbia continuato a pensare di quello che si sbatteva il suo uomo che fosse “un bravo ragazzo”. Si parla della testa di Anis – uno che la normalità nemmeno la conosce.
Da lì in poi, il nostro problema principale è stato cercare un modo per dirlo, appunto, al Chaky. Non sapevamo se anche lui fosse un uomo che non pensava, in campo sessuale. Voglio dire, ci aveva messo due minuti a ribaltarmi sulla scrivania del proprio ufficio, ma poteva essere stato un momento di pazzia istantanea poi ripetuto perché si era preso una sbandata per me o che so io. Non puoi andare a proporre giochini erotici a tre alla gente così a cuor leggero, così io e Bushido abbiamo cercato di progettarla per bene, nel dettaglio. Ed abbiamo organizzato una cena.
Bushido ha ovviamente mandato me a chiederlo al Chaky, per cui la scena si è svolta più o meno in questi termini: mi sono presentato a casa di Chakuza sorridendo felice, mi sono fatto schienare e mentre lui si perdeva fra una spinta e l’altra l’ho invitato a cena da noi. Lui ha ovviamente detto “sì” ma non sono proprio sicuro si riferisse alla cena, tant’è che, quando ha ripreso conoscenza e consapevolezza di se stesso e del mondo circostante, mi ha chiesto “che cazzo intendevi con venire a cena da te e Bushido?”. Gli ho spiegato brevemente che avevamo bisogno di discutere con lui un certo progetto, e quando ho visto le sue sopracciglia inarcarsi tanto che pensavo sarebbero fuggite dalla sua faccia proiettandosi nell’infinito, mi sono fatto schienare di nuovo, risolvendo il problema alla radice.
Il giorno dopo, a cena, l’imbarazzo di Chakuza era palese. Non provava nessun risentimento o vergogna a scoparmi in ogni posizione umanamente immaginabile ed in ogni luogo si prestasse allo scopo, però sedere di fronte ad una triglia al forno allo stesso tavolo con l’uomo che si scopava e il di lui compagno ufficiale, per qualche motivo, lo turbava parecchio. Quindi continuava a fare disastri tipo strozzarsi con le lische e sbattere la mano contro il bicchiere mentre si allungava a prendere il vino, la qual cosa stava cominciando a farsi urtante. Voglio dire, quando cerchi di convincere il tuo uomo della possibilità di trascinarsi un terzo elemento nel letto, gradiresti che il suddetto terzo elemento non approfittasse di ogni occasione favorevole per rendersi ridicolo. Ma Chakuza non stava facendo altro ed io cominciavo ad avere paura che a un certo punto Anis si sarebbe voltato a guardarmi e mi avrebbe detto “ma non esiste”.
È stato per questo motivo che ho deciso – di nuovo – di prendere in mano la situazione e darmi da fare. D’altronde, prendevo già in mano loro stessi abbastanza spesso da non aver paura di quali potessero essere le conseguenze delle mie parole. E insomma, l’ho detto e basta. “Così, Chaky, siccome sei un bel tipo e comunque mi piace molto venire a letto con te e però fare le cose di nascosto mi fa sentire poco pulito, ho parlato con Anis della nostra situazione ed abbiamo deciso che sì, in fondo potremmo provarci in tre, volendo.”
La risposta di Chakuza non è stata esattamente positiva. Intendo, uno che si alza lasciando a metà la propria triglia nel piatto e comincia letteralmente a correre verso la porta, in genere, non ti sta dando una risposta positiva. Io e Bushido l’abbiamo osservato spalancare il portone della Villa Gialla e catapultarsi sul selciato per poi sparire nella notte, e siamo rimasti lì a guardarci chiedendoci dove avessimo sbagliato, almeno fino a quando Chakuza, una mezz’ora dopo, è tornato.
“Ok”, ha detto, tornando a sedersi di fronte alla propria triglia ormai fredda, “dov’è la fregatura?”
“Fregatura?” ho chiesto io, con aria sinceramente curiosa. Chakuza ha annuito compitamente.
“Bushido che mi permette di metterti le mani addosso in un letto sul quale è disteso anche lui? Deve esserci una fregatura. Per forza”, ha spiegato con competenza. Io ho guardato Anis e lui ha scosso il capo, scrollando le spalle come a dirmi “no, guarda, non ho la più pallida idea di cosa gli giri per la testa, mi dispiace”.
Sono tornato a guardare Chaky.
“Non c’è nessuna fregatura, Peter”, gli ho risposto, cercando di fargli capire quanto fossi serio sul punto, “E poi piaci anche a lui.”
“Oh, andiamo…!” ha borbottato lui, incredulo.
“Ehi, guarda che è vero!” si è lamentato Bushido, sentendosi evidentemente preso poco sul serio.
Chakuza l’ha guardato ed ha preso atto della situazione, valutandone i pro e i contro. Ho osservato gli ingranaggi muoversi nel fondo dei suoi occhi verdissimi, e poi lui ha parlato ancora.
“Non dovrò fare niente che non vorrò?” ha chiesto con una certa preoccupazione.
Io e Bushido abbiamo scosso contemporaneamente il capo. Nessuno voleva obbligarlo a dare il culo – non sul momento, almeno – a me bastava potermeli tenere entrambi nel letto di modo da non dover fare la fatica di cambiare casa quando ne volevo uno piuttosto che un altro. Intimamente troia, d’altronde, l’ho detto.
“E non dovrò, tipo… darvi la mia anima o firmare un contratto col sangue o che so io, giusto?”
“Ma ovvio che no!” ho quasi urlato io, sconvolto da tanta idiozia.
“Piantala di fare il coglione, Chakuza” ha rincarato la dose Bushido.
E Chakuza ha smesso, appunto. Il resto di quella sera, se lo ricordo bene – e lo ricordo bene – mi è passato addosso sotto forma delle mani di Chakuza e delle labbra di Bushido. Non ricordo serate più piacevoli di quella, né prima né dopo, a tutt’oggi.
Chakuza s’è trasferito alla Villa Gialla pochissimi giorni dopo, sotto domanda insistente di Bushido, perché io mi ostinavo a piantargli le mani sul petto e mandarlo a sbattere contro la parete di fronte ogni santa volta che provava a mettermi le mani addosso in assenza dell’austriaco. Il concetto, per me, è semplicissimo: se ho deciso di parlare, l’ho fatto perché li voglio entrambi e voglio essere sincero con entrambi. Non posso scopare con uno quando l’altro non c’è, è ingiusto e poco onesto. Perciò, in questa casa, senza Chakuza non si scopa.
Quindi Chakuza s’è trasferito e da quel momento conviviamo. Tutti e tre. Nella Villa Gialla. Ed io pensavo sarebbe stato un disastro completo, perché tre maschi in una casa sono decisamente troppi per poter vivere felicemente, per quanto uno dei tre – nella fattispecie, io – possa prodigarsi per rendere tutti felici, contenti e sessualmente soddisfatti.
La verità è che sì, per la maggior parte del tempo questa convivenza è un disastro, perché tre maschi sono davvero troppi. Ma ci sono dei momenti meravigliosi in cui tutto questo non mi pesa e io mi rendo conto di essere un fottuto genio, perché palesemente ho reso la mia vita bellissima e l’ho fatto senza nemmeno impegnarmi. Sono cose.
Per dire, Chakuza cucina, no? Lo fa spessissimo perché è bravo e sa di esserlo e gli piace sentirsi ammirato ed apprezzato per qualcosa che sa fare bene. È molto vanitoso e avido di complimenti, e siccome non ha molti motivi per sentirsi dire “bello, bravo, ancora!”, cerca di prenderne il più possibile nei rari momenti in cui può – quando scopa, quando canta e quando, appunto, cucina.
Niente, io e Bushido, quando Chakuza cucina, impazziamo letteralmente. Sarà che è davvero bravo, sarà che mette su quell’aria a metà fra il paterno e il competente ed io e Anis un padre non l’abbiamo mai avuto, quindi ci piace, ogni tanto, fingere che Chakuza lo sia. Comunque sia, diamo di matto e ci trasformiamo in due dodicenni, ugualmente insopportabili e ugualmente idioti. Ci mettiamo a girare per la cucina toccando tutto, gli rubiamo i pezzi di cibo dalle terrine e gli gironzoliamo attorno come avvoltoi con l’espressione facciale di due cuccioli coccolosi, e non ci rassegniamo fino a quando lui non sospira e dice “d’accordo”, imboccandoci con qualche assaggio preso direttamente dalle pentole col cucchiaio di legno, mentre ancora il cibo si cucina.
Oppure ci sono queste notti meravigliose in cui ci prende benissimo – ma veramente benissimo – e tutto funziona nel verso giusto e ci incastriamo che è una meraviglia e, quando crolliamo esausti sul materasso, lo facciamo annodati come siamo stati fino a quel momento perché stavamo scopando, solo che non scopiamo più, quindi ci limitiamo a tenerci strettissimi l’un l’altro e io posso misurare il ritmo del mio respiro paragonandolo ai loro, e un attimo prima di addormentarci – ancora stretti come prima – mi rendo conto che stiamo respirando con la stessa identica velocità. E quando mi sveglio l’indomani mattina mi accorgo che durante la notte ci siamo spostati e Chakuza è finito tipo tutto rovesciato addosso a Bushido, che se l’è stretto contro, e non lo so, li guardo e mi si riempie il cuore, perché c’abbiamo una cosa stupenda e io non potrei mai rinunciare neanche ad un istante di tutto questo.

*

E poi naturalmente c’è il sesso. Cristo, il sesso. È evidente che il buon Dio ci ha creati per incastrarci a tre a tre. La perfezione della coppia è un falso storico, una menzogna della Chiesa, ‘cazzo ne so, non tornerei ad un rapporto a due neanche per tutto l’oro del mondo. Lo penso con convinzione adesso, in questa camera d’albergo, anche se sono stanco e sono quasi le tre del mattino e ce l’ho coi due coglioni perché sono due coglioni e non c’era bisogno che si mettessero in macchina e macinassero tre ore e mezza di autostrada per venire fino a qui dalla fottuta Svizzera, però, cazzo, sono felice che ci siano.
Bushido scivola in mezzo alle mie gambe, baciandomi lentamente, ed io guardo altrove, teso come una corda di violino perché sono ancora scazzato per le loro prese in giro di prima. Chakuza si sistema alle mie spalle e mi aiuta a distendermi sul suo petto, accarezzandomi il collo e la schiena.
- Dai, Pat… - ride Anis, - Dio, perché devi essere sempre un blocco di ghiaccio?
- Perché così poi è più bello quando si scioglie. – mi sussurra Chakuza all’orecchio, trattenendo il lobo fra le labbra e mordicchiandolo appena. Io lascio andare un mugolio involontario.
- Stronzo… - borbotto socchiudendo gli occhi, - Stronzi tutti e due.
- Questo l’hai già detto. – mi fa notare Bushido, stringendo la mia erezione fra le dita ed accarezzandomi piano. – Chaky, scioglilo un po’, altrimenti qua mi sa che crolliamo addormentati prima che il miracolo abbia luogo.
Poi si lamentano perché, ogni volta che mi mettono le mani addosso o provano a farmi delle coccole varie ed eventuali, divento un pezzo di legno. Dico, vedete come mi trattano? Molestato e preso in giro. Questa non è la vita che sognavo.
Chakuza, nel mentre, infila un dito in mezzo al bacio che io e Anis ci stiamo scambiando, ed io sento il suo sapore sulla lingua e lo inseguo subito. Anis ridacchia, tirandosi indietro senza neanche una traccia di delusione o risentimento nei gesti né nella voce, e rimane ad osservarmi quasi compiaciuto mentre lascio scivolare in bocca un secondo dito e mi perdo a giocare con le falangi, mordicchiandole appena.
Mi sento addosso entrambi i loro sguardi e per un attimo penso che non ho spento la luce. Ma chissenefrega, a un certo punto, le dita di Chakuza scivolano fuori dalle mie labbra e scorrono per tutta la lunghezza della mia schiena fino ad insinuarsi fra le mie natiche, stuzzicandomi lievemente e forzando con pazienza il mio corpo, prima un dito, poi l’altro, e nel mentre Bushido sta scendendo in una scia di baci lungo il mio petto e il mio stomaco, si ferma a giocare col mio ombelico e poi scende ancora, prendendomi in bocca quasi per intero e costringendomi a gettare indietro il capo gemendo ad alta voce sulla risatina divertita di Chakuza, che si china a mordermi sul collo, baciando dolcemente la traccia lasciata dai suoi denti quando si scosta.
- Bu… - chiamo piano, mentre le dita di Chakuza guadagnano spazio, allargandosi dentro di me, - Cha… cazzo. – mi agito contro di loro, strusciandomi ovunque sia possibile e cercando di spingermi più a fondo nella bocca di Anis, ma lui si tira indietro e sorride, lanciando un’occhiata allusiva a Chakuza.
- Pronto? – chiede a lui, anche se dovrebbe chiederlo a me, ma va bene lo stesso, anche perché io non potrei rispondere e comunque Chakuza mi conosce abbastanza da farlo al mio posto.
- Pronto. – annuisce infatti, sfilando le dita, - Quando vuoi.
Socchiudo gli occhi e lancio a Bushido un’occhiata che lo immobilizza sul posto, inumidendomi lentamente le labbra. Li nota anche Chakuza, i miei occhi, e si tende tutto contro la mia schiena, mormorando un “cazzo, Fler” che la dice lunga su quello che vorrebbe farmi. Dio, se non è meraviglioso tenerli sulla corda con così poco.
- Quando voglio io. – preciso a bassa voce. E, come al solito, prendo in mano la situazione, lasciandomi scivolare più comodamente sul cuscino e sfiorando con le labbra l’erezione di Chakuza – adesso inginocchiato al mio fianco – mentre Bushido si sistema meglio fra le mie cosce. – Adesso.
Anis non se lo fa ripetere due volte ed il momento in cui il suo cazzo entra nel mio corpo coincide esattamente col momento in cui il cazzo di Chakuza entra nella mia bocca. Ed io posso averli entrambi nello stesso momento, posso sentirli spingere contemporaneamente dentro di me e posso sentire le loro voci – i loro ansiti, i loro gemiti – intrecciarsi e fondersi con la mia – i miei – e non ho bisogno d’altro. Sono perfettamente completo così. Forse è ingiusto che a me servano due persone per sentirmi nel modo in cui si sente la gente in genere quando ne ha anche una sola, ma non è un mio problema. Così sono io. Così siamo noi. Provate a darci torto.
Quando una mano scende ad accarezzarmi fra le gambe, aiutandomi a venire appena prima di Anis, appena dopo di Peter, non so neanche a chi appartenga. Potrebbe essere perfino mia. È la parte davvero meravigliosa di questo rapporto: essere in tre non è davvero fastidioso, perché nei momenti che contano – e no, non sto parlando solo del sesso, stavolta – sappiamo essere esattamente come una persona sola.
Mi lascio andare stremato contro il materasso, raggomitolandomi su un fianco mentre Bushido si sistema al mio fianco e Chakuza si stende in orizzontale sui cuscini, le gambe dalla parte di Anis, la testa dalla mia. Lo osservo prendere Anis a calci su una spalla per guadagnarsi un po’ di spazio e sorrido, anche se sto crollando di sonno e so che domattina Silla e Reason verranno a svegliarmi e sembreranno molto più riposati di me, nonostante il dopo sbornia. Questo, sempre ammesso non fuggano inorriditi quando ci vedranno qui tutti annodati nel letto.
- Sì, però – mugola Chakuza, allungando un braccio a circondarmi le spalle, - adesso ti riposi mezz’ora e poi tocca a me, giusto?
Mi volto a guardarlo e spalanco gli occhi, mentre Bushido, al mio fianco, ride di gusto.
- Ma non esiste proprio! – quasi urlo, - Chakuza, sono stanco!
- Ma anch’io! – mi fa notare, - Sono venuto fin qui dalla Svizzera!
- È vero. – conferma Anis, chinandosi a recuperare dal comodino un depliant promozionale dell’albergo e sfogliandolo distrattamente, - Mi ha costretto ad andare con lui prima del concerto, così ci saremmo potuti muovere più in fretta.
- Ho capito, - boccheggio io, - ma non mi interessa! Sei venuto, sii in pace col mondo!
- Ma io voglio scoparti! – esplicita lui, oltraggiato, - Ho fatto i chilometri! Mi spetta!
Questi sono i momenti in cui mi piacerebbe tantissimo tornare a risvegliarmi e ritrovarmi solo, come nella vita di sempre. Poi Anis si alza in piedi, raggiunge il mobile, recupera i cioccolatini, torna a letto e ne dà uno a me ed uno a Chakuza.
- Tacete un po’. – ci rimprovera, tornando a sfogliare il depliant, - La gente normale a quest’ora dorme.
Mando giù il cioccolatino e penso distrattamente che della gente normale non mi frega un accidenti. E poi ricomincio a litigare col Chaky.
Genere: Romantico, Commedia.
Pairing: Fler/Chakuza, Fler/Bushido (accennato), Fler/Doreen (accennato).
Personaggi: Chakuza, Fler, Bushido, Eko Fresh, DJ Stickle.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, What If?.
- Poco tempo dopo l'uscita del quarto album di studio, Fler viene allontanato dall'Aggro Berlin. Ed ecco che si ritrova seduto di fronte alla scrivania biposto di Chakuza e DJ Stickle, alla Beatlefield. Partendo da questi presupposti, palesemente non potrà accadere niente di meno che disastroso. Ed infatti il disastro accade.
Note: Io amo il Flerkuza per motivi che con questa storia non c’entrano niente XD Nel senso che questa coppia – almeno per quanto mi riguarda – è nata all’interno di EKR e per il preciso motivo che lì questi due personaggi si trovavano ad interagire in un determinato modo con un qualche perché. Ho sempre pensato, lavorando alla saga, che in qualsiasi altro contesto il Flerkuza non avrebbe mai potuto avere senso. Con Fler per le mani, si poteva lavorare col Flershido, che praticamente è canon. Con Chaku per le mani, volendo poteva venire fuori del buon Chakushido. Ma il Flerkuza come lo giustifichi? Non puoi, questi due sanno l’uno dell’esistenza dell’altro solo per le beghe di quartiere dei loro superiori, suppongo X’D
Caso ha voluto che però io finissi col posare lo sguardo sulla bio di Fler sul suo sito, e riuscissi a carpire, fra le varie cose, che ultimamente c’erano stati dei rumor in merito ad un suo probabile abbandono dell’Aggro Berlin. I motivi non c’entrano niente con quelli da me esposti in questa storia XD ma è stato questo – assieme alla notizia del fatto che uno dei brani di Fler, il nuovo album in uscita a marzo, è stato cantato con Doreen, fidanzata da lungo tempo con Sido – a far scattare nella mia testolina una molla. La molla in questione, ballonzolando, diceva: “e se questa collaborazione con Doreen avesse avuto l’effetto di avvicinare i due? E se, in seguito a questo, Fler fosse stato allontanato dall’Aggro Berlin? E se, in cerca di una nuova etichetta, fosse approdato alla Beatlefield?”.
Questa è, in sostanza, la risposta che mi sono data XD Lunga, sì. Dimenticabile, anche. Ma c’è un Bushido che amo XD E la scenetta finale se la vale tutta u.u *decisa*
Partecipante all’adorabile Criticoni!Challenge Temporal-mente <3
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Egal Was War
I'm not gonna blast you on the radio, I'm not gonna lie on you or your family. (Survivor – Destiny's Child)


Dalla propria poltrona dietro la scrivania biposto che lui e Stickle usavano per ricevere i visitatori e i giornalisti nell’ufficio principale della Beatlefield, Chakuza si guardò intorno con aria smarrita e per un solo, singolo secondo si chiese se per caso non fosse precipitato in una realtà alternativa in cui fosse normale vedere Patrick Losensky – alias Frank White alias Fler – seduto su una poltrona a rimirarsi le unghie in attesa di una risposta affermativa alla domanda “allora, mi mettete sotto contratto o no?”. Se lo chiese per il semplice fatto che Stickle non sembrava granché turbato di fronte al fatto, ma lui era sicuro – ma sicuro davvero – che invece dovesse esserci almeno un motivo per provare dell’inquietudine, e quel motivo cominciasse per B e finisse per O.
- Scusatemi un secondo… - s’intromise quindi, massaggiandosi le tempie in previsione del mal di testa che sarebbe sicuramente arrivato quando avrebbe raccontato il tutto a quello che, comunque, restava il suo capo, indipendenza dell’etichetta a parte, - Fler, posso capire cosa ci fai tu qui?
Stickle si voltò a guardarlo neanche avesse visto un alieno planare con un disco volante nel mezzo dell’ufficio.
- Chakuza, ma tu non li leggi i giornali? – borbottò, inarcando un sopracciglio, - Non lo sai che Sido l’ha buttato fuori dall’Aggro?
Chakuza, in effetti, no, giornali non ne leggeva. O meglio, come tutte le persone normali e mediamente impegnate, scorreva le prime pagine di cronaca e dava giusto un’occhiata ai necrologi, fermandosi ampiamente prima dell’inserto sul mondo dello spettacolo. E, nei rari casi in cui tornava a casa abbastanza riposato da sopravvivere alla cena e alla doccia e concedersi un po’ di televisione, tutto desiderava meno che guardare a ripetizione i telegiornali di informazione musicale di MTv: tutto quello che poteva importargli sapere – vicissitudini dell’Aggro Berlin comprese – arrivava all’Ersguterjunge tramite Bushido, e visto che quella notizia non era arrivata Chakuza non ne aveva saputo niente. Fino a quel momento, almeno.
- …buttato fuori dall’Aggro. – prese atto, annuendo compitamente, - E perché?
Stickle sembrò in effetti sorpreso dalla domanda. Stickle era un uomo semplice, Chakuza adorava questo suo essere semplice perché ne faceva un collega perfetto. Per dire, collaborare con Bushido era straziante. Con Eko Fresh, neanche a parlarne. Ma Stickle, lui era per le cose palesi. Non andava mai troppo a fondo, anche perché si sa che a scavare si trova solo fango.
- Questo non lo so. – rispose quindi sinceramente il DJ, - Fler?
Losensky, svaccato sulla poltrona in pelle neanche fosse già convinto di essere a casa e potesse perciò prendere possesso di qualsiasi cosa lo circondasse, inarcò un sopracciglio e li fissò entrambi come a dire “che domanda del cazzo”.
- Mi sono scopato la donna di Sido. – rispose comunque, scrollando le spalle.
Chakuza sentì l’improvviso e insopprimibile bisogno di scoppiare a ridere istericamente e uscire dall’ufficio senza dire una parola. Probabilmente l’avrebbero preso per pazzo, ma almeno si sarebbe cavato d’impiccio e, quando il danno si fosse compiuto – perché si sarebbe compiuto: gli occhi di Stickle brillavano, e quegli occhi tondi e scuri brillavano solo quando intuiva enormi possibilità di guadagno dietro un semplice gesto – avrebbe potuto giustificarsi con Bushido dicendo “io non c’entro niente, quando mi è stata posta la possibilità sono fuggito ridendo. Amen”.
- Oh… - borbottò invece, sistemando dei documenti assolutamente vuoti e privi di utilità sulla scrivania, - Capisco. – in realtà non capiva. Perché cavolo uno silurato dall’Aggro Berlin per essersi scopato la donna del capo doveva venire a rompere i coglioni all’Ersguterjunge?
Realizzò proprio mentre formulava mentalmente il lunghissimo nome della dannata etichetta di Bushido.
La Beatlefield non era l’Ersguterjunge. Ecco perché Fler era lì.
- Stickle? – chiamò quindi il collega, voltandosi appena nella sua direzione, - Non pensi che potrebbe essere, tipo, la scelta peggiore che potessimo mai fare?
Stickle non sembrò capire.
- No. – rispose candidamente, - Fler vende dischi con una media di cinquantamila a botta. No, Chakuza, non penso proprio che potrebbe essere la scelta peggiore che potessimo mai fare.
- Ma… Bushido… - cercò di insistere lui, senza lasciarsi sfuggire l’occhiata infastidita di Fler, dalla poltrona, - Intendo, lui non sarà-
- Oh, ma con Bushido ci parli tu. – disse bonariamente Stickle, battendogli una pacca sulla spalla, - Ti ascolta, sei uno dei pochi.
Il panico s’impossessò di lui con la stessa facilità con cui se ne impossessava il sonno quando poggiava la testa sul cuscino dopo dodici ore di duro lavoro.
- Io non glielo dico a Bushido che l’uomo che lo sfancula da anni è sotto contratto alla Beatlefield! – strillò, alzandosi in piedi, - E tu, - aggiunse, indicando Fler, - non sei ancora sotto contratto da nessuna parte, per inciso, quindi non metterti troppo comodo!
Fler non fece una piega. Piuttosto, si svaccò ulteriormente, stendendo un paio di gambe semplicemente chilometriche – doveva essere più alto perfino di Bushido – dritte davanti a sé, fino a sfiorare la scrivania.
- Vorrei precisare che è stato Bushido il primo a prendersela con me. Io ce l’avevo solo con Eko Fresh. – disse con tono neutro, scrollando appena le spalle.
- Questa dovrebbe essere una giustificazione? – chiese Chakuza, fissandolo allucinato, - Ma sai stare seduto composto?
- Sì. – disse Fler, rispondendo palesemente alla prima domanda, - E no, non me l’ha insegnato nessuno. – concluse, rispondendo anche alla seconda. – Stare seduti composti è una referenza per entrare a far parte della Beatlefield? No, perché in questo caso-
- Di cos’è che stiamo parlando?! – strillò ancora Chakuza, tornando a guardare Stickle, - Intendo, cosa ce ne facciamo di lui? Lo mettiamo sotto contratto e gli produciamo un album ignorandone i contenuti ed ignorando anche che Bushido staccherà le nostre teste a morsi, quando lo verrà a sapere?
Stickle sembrò pensarci su per un momento.
- Be’, è un’idea. – rispose infine, - Ho un po’ di beat da parte, si potrebbe-
- Ma Cristo santo! – esalò, abbattendosi esausto contro la scrivania e scivolando nuovamente sulla propria poltrona, - Sento che finirà male.
- Allora sono dentro? – chiese Fler, rimettendosi dritto per poi sporgersi un pochino in avanti come volendosi alzare senza sentirsi ancora pronto a farlo, - Giusto per capire, eh.
Stickle gli sorrise bonariamente, mentre Chakuza sfilava il cappellino per riprendere a massaggiarsi le tempie con più efficacia.
- Ma sì, guarda, già domani mattina se vuoi puoi portare del materiale. Se ne hai s’intende.
- Sono pieno di materiale. – rispose Fler, alzandosi finalmente, - Il contratto?
- Certo che ne hai di fretta. – borbottò acido Chakuza, inarcando un sopracciglio mentre gli lanciava un’occhiataccia disapprovante.
I lineamenti di Fler si tesero repentinamente, e Chakuza lo osservò con occhio pallato avvicinarsi e fare il giro della scrivania, fino a che non lo vide planare tranquillamente seduto sul tavolo, sollevando appena una gamba e guardandolo dall’alto con una certa aria di supponenza che non gli piacque per niente.
- Senti, io contro di te non ho niente, okay? – lo rassicurò, - Non posso dire che tu mi piaccia a chissà quali livelli, ma sei ascoltabile, sicuramente più di certa altra merda che viene fuori dalla premiata ditta EGJ e affini, almeno hai una voce e qualcosa da dire. Però se intendi cominciare a rompermi i coglioni fin dal primo minuto-
- Ehi, allora! – si alzò in piedi, anche perché fronteggiarlo in quel modo era decisamente più facile, visto che Fler, da seduto, non rappresentava più quella specie di monolite che invece era quando stava dritto sulle gambe, - Tanto per cominciare, questa è la mia etichetta, quindi se io decido di romperti i coglioni e tu vuoi restare, resti a queste condizioni, chiaro?
Fler incassò la testa nelle spalle, ma non lo fece con l’aria di uno che si sente colpevole ed accetta un meritato rimprovero. Sembrava più una specie di enorme gatto pronto a saltargli addosso e sfregiarlo, tipo.
- Secondo poi, sarebbe il caso che da queste parti non si parlasse male di Bushido, visto che siamo affiliati all’Ersguterjunge, ti piaccia o no. E, per inciso, se l’EGJ è tanto piena di merda, cosa ci sei venuto a fare qui, eh? Perché non ti sei aperto una dannata etichetta per conto tuo?
Fler lo guardò a lungo, e poi si limitò a scrollare le spalle e rimettersi in piedi, privandolo in un colpo del vantaggio che aveva accumulato fino a quel momento.
- Io non ho la più pallida idea di come si gestisca un’etichetta. – spiegò alla fine, con candore disarmante, - Io canto e basta. E voglio continuare a farlo anche se ho ficcato l’uccello dove non dovevo. Ho sbagliato, ma non è un motivo valido per stare zitto. E siccome non ci torno strisciando da Bushido, e di sicuro non potevo andare a bussare alla porta di Eko Fresh, sono venuto qui. Mi sono detto “sia mai il cuoco austriaco è meno testa di cazzo degli altri”. Ma magari mi sbagliavo.
Chakuza trasalì, chiedendosi per un secondo se avrebbe potuto spacciare per legittima difesa afferrare il tagliacarte sul tavolo e infilarglielo nello stomaco. Quel tizio stava palesemente cercando di farsi pestare, e per quanto lui fosse in genere un uomo equilibrato e socievole e privo di rabbia trattenuta o frustrazioni varie ed eventuali, ecco, atteggiamenti simili erano proprio ciò che lo faceva esplodere. A prenderlo in etichetta loro gli stavano facendo un dannato favore, lo capiva o no il citrullo?, o pensava che gli occhioni azzurri e il sorrisetto spavaldo da soli bastassero a guadagnarsi un posto di lavoro? Avesse avuto magari un paio di tette in più, forse sì, ma a queste condizioni si trattava solo di prenderlo e sbatterlo fuori a calci nel sedere.
Stickle rise con un tono paterno che lo infastidì oltremodo e si frappose fra loro, piantando le mani sui loro petti.
- Vedo che andate già d’accordo. – annuì, e Chakuza si chiese se per caso fosse pazzo, - Lo produrrai proprio bene quest’album, Chaky. – e lì non si chiese più niente. Stickle era pazzo. E basta.
- Io non voglio produrlo. – gli fece notare Chakuza, indicandogli Fler, così che poi Stickle non potesse dire “eh, ma lui ha detto solo ‘non voglio produrlo’ senza specificare di chi stesse parlando, ho pensato si riferisse alle begonie nel vaso sul davanzale”.
- Naturalmente, Chaky. – lo ignorò bellamente il DJ, - Per te va bene, Fler?
Losensky scrollò le spalle, nel tutto disinteressato.
- Come ho già detto, a me il suo stile piace abbastanza, perciò-
- Ma a che gioco stai giocando?! – strillò ancora Chakuza, e solo la mano di Stickle ancora piantata sul petto gli impedì di sporgersi in avanti ed assestargli un cazzotto di quelli seri dritto sul muso.
- Tu sei proprio fuori. – commentò la faccia da schiaffi, allontanandosi e prendendo la via della porta, - Allora ci si vede domani per firmare il contratto, eh? – salutò senza nemmeno guardarli, uscendo.
Solo quando la sua aura palesemente indisponente ebbe abbandonato la stanza, Chakuza poté dire di aver cominciato a respirare normalmente e senza provare inconsulte pulsioni omicide.
- Dico, ma che ti salta in mente di prendere Fler alla Beatlefield?! – esplose, liberandosi dell’ingombro della mano di Stickle e prendendo ad aggirarsi nervosamente per l’ufficio.
- Che ti salta in mente a te di comportarti come un bambino delle elementari, semmai. – borbottò per tutta risposta Stickle, avvicinandosi al proprio portatile e digitando velocemente un indirizzo sulla tastiera, - Dico, le hai viste che percentuali di vendite? Fattura più di Sido. Non ti ricorda niente, questo?
Chakuza si mise a borbottare, incrociando le braccia sul petto.
- Bushido. – rispose di malavoglia, guardando altrove.
- Esatto. – annuì Stickle, sorridendo comprensivo, - E chi è Bushido oggi?
Chakuza roteò gli occhi e ricominciò a camminare nervosamente in giro, avvicinandosi contrariato all’appendiabiti per recuperare la propria giacca.
- Ho capito l’antifona, Stickle. – annuì alla fine, - Vado a suicidarmi, così dopo tu potrai avere la tua gallina dalle uova d’oro ed essere felice. Pensami, ogni tanto, quando sarò morto.
L’uomo lo salutò ridendo.
- Sarà fatto. – aggiunse, osservandolo andare via. Il fatto che non cercasse di rassicurarlo, in effetti, non era per niente rassicurante.

*

Andare a parlare con Bushido di Fler in casa sua rientrava probabilmente nella lunga lista di peccati mortali non detti per i quali Bushido poi si sarebbe sentito in diritto di condannarti a morte ed eseguire la condanna seduta stante. Chakuza ne era perfettamente cosciente, mentre varcava il cancelletto dell’enorme villa gialla e si immetteva sul selciato, diretto alla porta dopo che, dal citofono esterno, la voce allegra di Bushido l’aveva salutato con un gioviale “Ohi, Chaky, che bella sorpresa! Dai, vieni dentro!”.
Con aria terrorizzata, Chakuza spinse la porta d’ingresso e si ritrovò nel caldo, confortevole e rassicurante ingresso di casa Ferchichi. Tutto era esattamente come al solito: perfetto, pulito ed ordinato. Bushido giocava a World of Warcraft alla propria postazione pc e Kay e D-Bo si stavano drogando di Spongebob svaccati sul divano appena intuibile nell’area del salotto più lontana da dove si trovava lui.
- Chaky, finisco di sterminare questa merda e sono subito da te! – strillò Bushido, pestando con entusiasmo sulla tastiera senza fili che teneva comodamente adagiata sulle ginocchia, - Devo dirti una cosa stupenda!
- Eh… - mugolò Chakuza, già emotivamente distrutto, - Anche io dovrei parlarti.
Al sentirlo tanto afflitto, Bushido – che si faceva un gran vanto dell’essere sempre a disposizione dei suoi sottoposti, qualsiasi problema potessero avere – lasciò gli orchetti al loro triste destino e si alzò dalla postazione, raggiungendolo all’ingresso.
- Chaky! – gli disse con aria preoccupata, - Che succede? Sei uno straccio.
Chakuza agitò una mano.
- Non preoccuparti. Dimmi, piuttosto, questa bella notizia…?
Bushido cominciò a risplendere di luce propria, trascinandolo verso la cucina e piantandolo su uno sgabello mentre come niente tirava fuori due bottiglie di birra ed un’enorme ciotola piena di patatine e salatini vari.
- Indovina chi ha perso il proprio posto di punta di diamante dell’etichetta, proprio oggi? – disse poi con aria cospiratoria, mandando giù patatine a manciate, evidentemente preso dall’euforia del momento.
Tale stato d’animo non poteva essere certo usato per descrivere Chakuza, il quale, per conto proprio, con le patatine ci si sarebbe volentieri strozzato per essere dispensato dall’obbligo di rovinare la giornata a quello che, in fondo, era un uomo buono e incolpevole.
- …no, dimmelo tu. – disse, forzando un sorriso e ritrovandosi poi a sorridere più sinceramente mentre Bushido si appollaiava su uno sgabello di fronte a lui, tirando su i pantaloni larghissimi e cascanti della tuta, perché la smettessero di impicciarlo nei movimenti.
- Fler! – rivelò quindi, battendo divertito una mano sul tavolo, - Pare che abbia messo le mani sulla donna di Sido. Voglio dire, onore al merito, stavano insieme da, tipo, secoli e non c’era mai riuscito nessuno, almeno che io sappia, e io so sempre tutto, però che goduria sapere che ora è a spasso senza sapere dove battere la testa! – esultò raggiante, ricominciando a mandare giù patatine e birra in quantità uguali.
- Eh… - biascicò Chakuza, deglutendo faticosamente, - pensa un po’…
Seguì un imbarazzante momento di silenzio. O meglio, Bushido continuò a parlare – Dio solo sapeva per dire cosa: probabilmente per continuare a prendere in giro questa nuova e allettante versione di Fler vagabondo privo di lavoro che tanto lo entusiasmava – ma Chakuza non colse una parola del suo monologo, preso com’era a cercare di farsi coraggio da sé.
In fondo era un uomo. Un capo, a suo modo. Stickle contava su di lui per una pensione più che decorosa, ed in effetti Fler vendeva davvero tanto, e se lui voleva aprire la catena di ristoranti che era sempre stata il suo sogno fin da quando aveva capito cosa significava sognare, be’, un aiuto economico in più oltre agli introiti dei duetti col King avrebbe certamente fatto comodo.
Sospirò pesantemente, passandosi una mano sulla fronte.
- Ehm… Bushido? – lo chiamò, fermandosi perché l’uomo potesse concludere la risata che s’era provocato da solo con qualche battuta incredibilmente arguta che si sarebbe persa nelle sabbie del tempo, - Indovina un po’ chi è che è passato oggi alla Beatlefield? – buttò poi fuori tutto d’un fiato, onde evitare ripensamenti dell’ultimo minuto.
Se si fosse trovato di fronte a un uomo mediamente stupido, il dialogo sarebbe proseguito come da copione in una sequela di “uh? No, dimmi tutto”, che l’avrebbero probabilmente ucciso molto prima che lui potesse decidersi a confessare il fattaccio, ma fortunatamente – o sfortunatamente – per lui, Bushido non era mai stato un uomo mediamente stupido e nemmeno mediamente intelligente: era, piuttosto, il classico esempio di genio male applicato. Volendo, avrebbe potuto essere un nobel in qualsiasi cosa, ma dal momento che aveva preferito sprecare giovinezza e adolescenza spacciando e imbrattando i muri di Tempelhof, ecco che si ritrovava milionario, proprietario di una quantità indecente di roba e famoso praticamente in tutta l’Europa, oltre che per lo meno noto in tutto il mondo conosciuto. Il che dava davvero un’idea di cosa avrebbe potuto diventare se solo si fosse applicato.
Ed infatti Bushido non lo deluse. La sua espressione divenne immediatamente, da allegra e giovale, cupa e irritata. Chakuza tremò sul proprio sgabello, mentre l’uomo lo fissava intensamente e poi lasciava scorrere sulla lingua poche lettere – abbastanza per mandarlo nel panico, comunque.
- No.
- …Atze, non-
- No.
L’austriaco sospirò profondamente, pinzandosi la radice del naso ed andando alla ricerca delle parole più adatte per spiegare a Bushido che Stickle ci teneva proprio a comprare una villa alle Maldive. Aveva una mezza idea che la risposta di Bushido sarebbe stata quanto di più simile a “si fotta Stickle” potesse essere pronunciato senza utilizzare le parole “si fotta Stickle”, appunto, ma provare non costava niente, in fondo. Magari una o due braccia staccate via nell’impeto momentaneo della rabbia, ecco.
- Atze, Stickle pensa che-
- Si fotta Stickle! – disse Bushido, dando prova di ammirevole schiettezza, saltando in piedi e aggirandosi nervosamente per la cucina esattamente come Chakuza ricordava di aver fatto neanche un’ora prima in ufficio, - Ma soprattutto si fotta Fler! Voi non lo prenderete alla Beatlefield.
“Sono assolutamente d’accordo”, avrebbe voluto rispondere Chakuza, ma la questione si faceva complicata, arrivati a quel punto. Primo: Bushido, ogni tanto, aveva bisogno di essere arginato; aveva questa tendenza a prendere il controllo pure di cose su cui sommariamente non avrebbe dovuto osare mettere bocca, quindi ogni tanto, quando partiva coi suoi deliri da patriarca onnipotente, c’era bisogno di qualcuno che gli dicesse “sì, certo caro, ma anche a cuccia, vuoi?”. La Beatlefield era solo un’affiliata dell’Ersguterjunge, non ne era parte. E lui e Stickle erano liberi di prendere qualsiasi decisione volessero senza che per questo Bushido si sentisse in diritto di porre veti ogni piè sospinto. Secondo poi: loro erano comunque degli uomini d’affari ai quali, in poche parole, delle beghe passate di due ragazzini che non erano stati in grado di dimenticarsi, poteva fregare limitatamente. Nel senso, se c’era da battere una pacca sulla spalla a Bushido perché ora Fler usciva con la sua ex, lo si faceva. Ma niente di più. Terzo ed ultimo: alla questione della catena di ristoranti lui aveva pure cominciato a farci la bocca, alla fine.
Partendo da queste considerazioni, Chakuza si preparò a vedere sfumare la prospettiva di una serata tranquilla – e anche di evitare un litigio con Bushido – e si rassegnò ad una morte lenta e dolorosa.
- Atze, senti, lo sai che io in genere sono con te qualsiasi cosa tu dica. Lo sai, vero? – Bushido ringhiò e spalancò il frigorifero, infilandoci dentro la testa alla ricerca di qualcosa con cui trastullarsi, - Quando ti sei trasferito nella villa e Saad ti ha riso in faccia dicendoti che avresti fatto la figura del deficiente andando a vivere in una casa gialla, chi ti è rimasto al fianco fino all’ultimo ed ha convinto Kay e D-Bo a dividere le spese con te?
- …tu. – mugolò Bushido riemergendo dal frigorifero con due fette di pane fresco ed un chilo di salumi di ogni tipo.
- Esatto. E quando hai deciso di duettare con il signor Gott ed Eko ti ha tenuto il muso per un mese e mezzo dandoti del coglione col cervello in salamoia? Chi è che ti è rimasto accanto?
- Be’, per la questione Gott ho dovuto rinunciare al contratto con MTv, in fondo, e-
- Chi è che ti è rimasto accanto, comunque? – lo interruppe Chakuza, sudando freddo.
Bushido sospirò profondamente, cominciando ad imbottire il panino.
- Sempre tu. – ammise alla fine, tornando ad abbattersi sul proprio sgabello.
- Ecco. – annuì soddisfatto Chakuza, - Quindi, ti dispiacerebbe, adesso, essere tu, per una volta, quello che resta accanto a me, visto che ne ho bisogno?
Bushido trangugiò un morso di panino e sbuffò.
- Be’, detta così è terribilmente gay, Chaky, ma ho capito dove vuoi andare a parare.
Chakuza si fermò un attimo a riflettere sul fatto che uno che scrive una canzone in cui, praticamente, fa una dichiarazione del tipo “ci siamo tanto amati ma ora andiamo ognuno per la propria strada” ad un altro uomo, palesemente non ha il diritto di dire a qualcuno cosa suoni o non suoni gay, ma ritenne poco saggio mettersi lì a dibattere il punto con Bushido. Soprattutto perché il “ci siamo tanto amati” era riferito proprio al Losensky che era da sempre il centro di tutti i pensieri di vendetta di Bushido, e siccome “chi disprezza compra” è un detto, ma anche una grande verità, l’austriaco decise che, per quella volta, sarebbe stato il caso di lasciar correre, ed annuì.
- Quindi? – insisté invece, piegandosi un po’ verso di lui per guardarlo negli occhi anche se lui aveva già abbassato lo sguardo sul panino imbottito.
Bushido sospirò per l’ennesima volta e scrollò le spalle.
- Quindi niente. – concesse infine, - Basta che gli mettiate una museruola se per caso gli salta in testa di fare il mio nome. Per il resto, avete carta bianca.
Un’altra cosa veramente poco opportuna di Bushido era come fosse in grado di rigirare le frittate come nemmeno lui – che pure aveva un diploma di cuoco – sapeva fare. Lui non gli aveva chiesto un fottuto permesso, gli aveva chiesto sostegno! Ma per come l’aveva messa il tunisino sembrava chissà che dannata concessione regale.
Chakuza sospirò a propria volta: visto quanto aveva rischiato, tutto sommato, poteva dirsi contento così.

*

Quando arrivò alla Beatlefield, l’indomani mattina, sembrava quasi che si fossero tutti organizzati per non essere presenti al momento fatidico che avrebbe rovinato tutte le loro vite. Di Stickle aveva avuto notizia quella mattina tramite un sms che peraltro l’aveva svegliato senza alcun motivo alle sei, per informarlo che Saad era perso in chissà che delirio perché non riusciva a venire a capo di una traccia campionata che lo stava mandando ai pazzi, e che lui, da bravo DJ competente e responsabile, stava andando all’EGJ a dargli una mano. “Perciò non aspettarti di avermi fra i piedi, Chaky!”, era stata la gioviale conclusione del messaggio. Conclusione in seguito alla quale lui, fra le altre cose, aveva avuto voglia di prendere e schiantare il cellulare contro il muro, per poi tornarsene a dormire e mandare a fanculo un po’ tutto e tutti per il resto della giornata.
Il suo senso di responsabilità l’aveva comunque portato a muovere il culo verso le dieci e mezza, ed era perciò arrivato agli studi convintissimo di trovarli immersi nel solito fermento. Non che ci fosse mai un cazzo da fare, da quelle parti, soprattutto considerando che non c’erano album in uscita per i prossimi mesi, ma c’era sempre un sacco di gente a bivaccare attorno ai distributori automatici, per dire, e invece quel giorno niente, neanche un’ombra, solo lui, i – pochi – dischi d’oro, le pareti e l’eco.
Si aggirò per un po’ fra i locali vuoti e pulitissimi – almeno aveva la certezza che, nella prima mattinata, gli addetti al servizio di pulizia avessero fatto il loro dovere – e poi tornò a rifugiarsi  nell’ufficio che condivideva col fantasma di Stickle. Fu lì, mentre si perdeva in un’avvincente partita di Mahjong sul portatile, che lo raggiunse lo squillo gracchiante del citofono.
- Qualcuno… - cominciò a strillare con tono lamentoso, ma dalle profondità dei corridoi della Beatlefield non giunse che il riverbero della sua stessa voce, perciò alla fine si rassegnò e si mise in piedi, raggiungendo il citofono e schiacciando il pulsante dell’accettazione di chiamata, restando in attesa dell’immagine sullo schermo. La testa di Fler apparve – esageratamente tonda – pochi secondi dopo. - …ah, tu. – lo salutò con poco entusiasmo.
Fler sollevò lo sguardo sulla telecamera, e i suoi occhi – enormi, quella stupida telecamera era ridicola – invasero tutto il campo visivo di Chakuza.
- Alla buon’ora… - cominciò a lamentarsi Losensky, - Sono passato alle otto, alle otto e mezza, alle nove, alle nove e mezza-
- Sì, sì, capito l’antifona. – borbottò sbrigativo Chakuza, aprendo il portone esterno, - Mi sono svegliato tardi, okay?
- Quanta dedizione… - ghignò sardonico quello, spingendo il portone e sparendo alla sua vista. Fortunatamente, anche, perché fosse rimasto lì a sogghignare ancora un solo secondo Chakuza avrebbe cominciato a considerare seriamente la possibilità di affacciarsi al balcone e tirargli giù un mattone sulla testa, per dire.
Mentre attendeva che l’essere insopportabile che Bushido aveva tutti i diritti di odiare salisse le scale, Chakuza si chiese quale potesse essere il modo di accoglierlo per farlo sentire il più possibile sottoposto e asservito alle regole dell’etichetta – fra le quali andava assolutamente ricordata la clausola “non si parla male di Bushido neanche a fronte di possibilità di guadagno multimilionarie”. Alla fine, scorso il contratto che Stickle gli aveva lasciato in ordinata doppia copia sulla scrivania, decise che la tattica migliore era attenderlo seduto sul tavolo. Informale ma indice di una certa sicurezza di sé.
Si posizionò con un saltello sulla superficie in legno e si girò prima da un lato, poi dall’altro e infine, insoddisfatto, torno a mettersi dritto, così da poter scorgere la figura di Fler elegantemente svaccata contro lo stipite della porta, mentre il tipo lo guardava come fosse stato una cacchina di plastica con gli occhi o qualcos’altro di ugualmente stupido e ridicolo.
Ebbe appena il tempo di chiedersi da quanto Losensky lo stesse osservando, che la risposta giunse da sola sotto forma di risata derisoria: abbastanza da prenderlo in giro a vita per le ultime manovre, evidentemente.
- Ehm… - cercò di riportare il tutto su un piano più serio, indicando i contratti sulla scrivania, - Allora, le vuoi mettere queste firme o sei tornato solo a rompere le palle?
- Le metto, le metto… - rise ancora Fler, avvicinandosi alla scrivania e sedendosi dalla parte opposta del tavolo, - Dove?
- Abbiamo veramente molta fretta, eh? – ringhiò lui, scorrendo i fogli alla ricerca dei punti precisi e segnandoli con una x prima di passarli all’altro uomo.
- Certo che tu hai dei problemi molto molto seri, Pangerl. – lo guardò storto lui, prendendo i fogli e cominciando a stampare il proprio nome ovunque con la grazia del tagger che non aveva mai cessato di essere. A guardare la firma – proprio la firma per esteso, non l’autografo – di Bushido, si aveva sempre l’impressione che si trattasse di un medico o chissà chi; Fler invece riusciva ad essere grezzo pure firmandosi Patrick Losensky. Ce ne voleva, di malagrazia. – Prima mi dici di darmi una mossa, poi mi rimproveri perché faccio in fretta…
- Prima di tutto, chiamami Chakuza e manteniamo questo rapporto un rapporto lavorativo, grazie. – borbottò, passandogli anche la seconda copia del contratto, - Secondo poi-
- Ma già dissento sul primo punto. – ghignò Fler, riconsegnandogli il secondo contratto firmato e controfirmato, - Non intendo andare oltre il rapporto lavorativo, tranquillo. Anche perché, senza offesa, non sei proprio il mio tipo. Troppo basso, poco culo, pochissime tette. Decisamente passo il turno.
- Cristo benedetto… - esalò Chakuza, scendendo dalla scrivania per conservare una copia del contratto nel primo cassetto, - Toh, una ti tocca. E ora tornatene da dove sei venuto, - qualche antro infernale, c’era da supporre! – e fatti rivedere solo in compagnia di Stickle, visto che lui almeno ti sopporta.
Fler non obbedì, e Chakuza era sul punto di cominciare una convincente paternale su quanto fosse indispensabile eseguire all’istante gli ordini per coesistere con lui, quando si accorse che il tipo stava cercando di dirgli qualcosa. Non parlando, ovviamente, no: alla maniera di Bushido; guardandoti negli occhi con un cipiglio insofferente come a dire “dovresti aver già capito, sei scemo o cosa?”.
- Qualcosa non ti è chiara? – si informò, guardandolo con una certa curiosità.
Fler sembrò, per la prima volta in assoluto da quando aveva cominciato ad avere a che fare con lui, sinceramente confuso. O comunque privo di qualcosa da dire. Chakuza si sentì insospettabilmente orgoglioso si essere stato in grado di zittirlo senza tappargli fisicamente la bocca, e restò lì a gongolare in solitaria finché Losensky non si risolse a degnarlo di una risposta.
- Stickle… - cominciò, un po’ incerto, - mi aveva detto di cominciare a portare qualcosa, se volevo. E insomma, io qui ho un testo.
Chakuza lo guardò. A lungo.
Chissà perché, s’era aspettato che le parole del giorno prima fossero solo una sbruffonata. Perché uno che è appena uscito con un album dovrebbe avere ancora altro materiale? Uno, per avere una riserva di testi, deve… be’, lavorare. E farlo costantemente. Non solo in previsione di un album.
- Ah. – rispose stralunato, - Ah. Be’… d’accordo. – biascicò, grattandosi confusamente la nuca, - Vuoi… intendo, possiamo andare in sala prove. Se vuoi mi puoi fare sentire di cosa si tratta.
Losensky annuì senza esitazioni, e Chakuza diede la colpa per il senso di smarrimento che stava provando al fatto che all’Ersguterjunge non si lavorava quasi mai in maniera normale. Lì la questione “lavoro” era quasi sempre traducibile in “svacco estremo per mesi e mesi finché il King non fosse risorto dalle ceneri della propria tuta con una ventina di testi da distribuire in parti uguali e dai quali partire per creare qualcosa di per lo meno accettabile”. A quanto pareva, però, le abitudini all’Aggro Berlin erano completamente diverse.
Entrando in sala prove, Chakuza si vide accolto da una breve nota in cui Stickle gli faceva sapere che il suo sacrificio umano era stato molto apprezzato perché Bushido l’aveva cazziato solo mezz’ora – a fronte delle dodici ore di tortura che si sarebbe meritato, un gran guadagno, questo era indubbio – e che aveva già caricato i beat nel portatile in sala mixaggio, se aveva voglia di provare qualcosa con Fler. Chakuza appallottolò il foglio con una mano, stritolandolo con una certa immeritata furia, e lo gettò stizzito nel cestino dell’immondizia.
- Be’, se vuoi… - si voltò a cercarlo per indicargli dove e come mettersi, ma Fler aveva già infilato le cuffie e stazionava con aria assente davanti al microfono, probabilmente ripassando a memoria il famoso testo che doveva cantargli. – Ah. Certo che fai veramente come a casa tua, eh?
Fler gli rivolse un sorrisino sghembo, spostando il peso da una gamba all’altra.
- Funziona ovunque più o meno allo stesso modo, penso. – rispose con una scrollata di spalle. Chakuza annuì anche se non stava pensando niente del genere e si rifugiò in cabina di regia, oltre il vetro. Accese il microfono e restò in attesa.
- La prima la facciamo senza musica. – avvertì l’uomo dall’altro lato della stanza, il quale, per tutta risposta, annuì assorto, - Così magari capisco un po’ il ritmo e la cadenza e vediamo cosa metterle di sottofondo. Parti quando vuoi.
Dopodiché, si rassegnò a venire sommerso da una scarica di insulti più o meno pesanti e più o meno velati nei confronti di Sido, Bushido, Eko Fresh, possibilmente pure la donna che s’era scopato, le donne che s’erano scopate gli altri ed una buona quantità di madri – per non parlare di qualche eventuale padre – ed incassò la testa nelle spalle, cercando di farsi minuscolo sulla poltrona.
Ma il suo karma aveva evidentemente deciso di tirarlo scemo. E, neanche a voler evidenziare più efficacemente il punto, la canzone di Fler cominciò con un “ti ho amata” e si concluse con un “ti amo ancora”. E non – come era capitato spesso di dire prendendo in giro la sua relazione controversa con Bushido – un “ti amo” fraintendibile, una cosa che può essere anche amicizia, una cosa senza inflessioni e senza sesso, no: un “ti amo” vero. Un “ti amo” per una donna. Doreen. La donna di Sido.
Quando Fler smise di cantare – senza incespicare mai nelle parole, roba da non credersi, visto che Bushido farneticava di continuo, per dire, e lo stesso Fler nelle poche interviste che aveva visto e che lo vedevano protagonista, faceva del balbettio confuso una specie di cavallo di battaglia, soprattutto quando si infervorava – Chakuza per qualche secondo rimase lì a guardarlo attraverso il vetro mentre tornava ad aprire gli occhi – scurissimi nella penombra della sala insonorizzata – e riprendeva fiato.
- Be’? – lo sentì chiedere dopo qualche secondo, - Non ne scrivo quasi mai, roba così. – aggiunse con un certo imbarazzo, - L’ultima dev’essere stata tipo una dichiarazione d’amore per una compagna di banco alle elementari. Quindi magari se mi dici qualcosa…
Un po’ dubbioso, Chakuza si sporse in avanti e pressò un indice contro il pulsante che apriva la comunicazione dalla sala mixer alla sala prove, e poi però si rese conto di non avere niente di preciso da dire, perciò rimase lì a bocca aperta, vagamente confuso, incerto sul da farsi e, in generale, sostanzialmente stupito. Fler continuò a guardarlo con aria curiosa, dall’altro lato del vetro, e Chakuza si alzò in piedi, rimise la poltrona al proprio posto e lo raggiunse nella sala insonorizzata. Solo per prendere tempo. Per trovare qualcosa da dire – e non una cosa qualsiasi, perché il momento non era da cosa qualsiasi, era un momento che pretendeva di più.
- È… - cominciò, appoggiandosi contro una parete e incrociando le braccia sul petto, giusto per darsi un tono, - È un testo molto romantico. E lei, voglio dire, la citi proprio, la chiami per nome. È una cosa… messa così sembra che ti abbia preso parecchio, ecco.
Fler scrollò le spalle, distogliendo lo sguardo.
- Io ero innamorato di Doreen. – confessò quindi, con una semplicità disarmante, - La nostra è stata una storia molto classica, Chakuza, sembra bella solo perché quando la canto lo faccio con un certo sentimento. Ma a conti fatti io sono stato un idiota e lei una troia, tutto qua. Lei mi ha tirato scemo per mesi, mi ha detto che avrebbe lasciato Sido e sarebbe rimasta con me e tutto il corredo di stronzate che si usano in genere per far cadere un maschio in una trappola. Ha detto di amarmi e invece voleva solo cambiare cazzo per un po’. Poi è tornata da lui strisciando come la vipera che è e lui, fra lei e me, ha scelto lei. – scrollò ancora le spalle, appoggiandosi a propria volta contro la parete, proprio accanto a Chakuza, - Io ci stavo bene all’Aggro. Il casino che ho montato negli scorsi mesi… - gli lanciò un’occhiata divertita, piegando appena un angolo della bocca in un sorriso sghembo, - …anche se sono sicuro tu non ne sappia niente… insomma, non l’ho montato perché stavo male nella crew. L’ho montato perché lei continuava a dirmi di non preoccuparmi, che alla fine sarebbe rimasta con me. E siccome mi stava sul cazzo che continuasse comunque a tornare nel letto di Sido, alla sera, mentre con me erano solo sveltine contro le pareti degli studi, non ci ho visto più, ed ho cominciato a prendermela con Sido. – sospirò pesantemente, scuotendo il capo con aria vagamente abbattuta, - L’ho fatta io, la cazzata. Mica Sido. Ha fatto bene a buttarmi fuori. Magari è la volta buona che comincio a imparare dai miei errori.
Chakuza annuì lentamente, metabolizzando con un po’ di fatica le parole dell’uomo. Era abituato ad essere circondato da uomini che, come niente, ti buttavano sul tavolo la storia intera della loro esistenza – Bushido era così, per dire – ma si trattava di personaggi carismatici e accentratori, gente che, se non aveva la tua completa e totale attenzione, non riusciva a stare tranquilla. Quello di Fler però non era stato un tentativo di mettersi al centro del mondo, era stato solo… uno sfogo. Una cosa anche piuttosto intima, volendo. Era strano, Losensky, avere a che fare con lui era un po’ come camminare su una lastra di vetro. C’era da chiedersi quando si sarebbe spaccata ferendoti i piedi.
- Sai, - disse infine, stringendosi nelle spalle, - quando hai detto a me e Stickle di esserti scopato la donna di Sido… cioè, non sembrava che dietro ci fosse tutto questo. Non sembrava che la amassi, intendo.
Fler sbuffò, appoggiandosi più comodamente al muro.
- La vita mi ha insegnato a disamorarmi in fretta. – borbottò, e sembrò sincero nel dirlo, anche se c’era una strana luce nostalgica nei suoi occhi, qualcosa che li rendeva insolitamente brillanti eppure allo stesso tempo insolitamente cupi, qualcosa che impedì a Chakuza di prenderlo completamente in parola.
Annuì, comunque, perché non era certo compito suo mettersi lì a disquisire degli affetti di Fler. Non si conoscevano da nemmeno due giorni ed aveva comunque dei seri dubbi che Fler gli avrebbe dato il permesso di farlo anche se i giorni fossero stati un migliaio o un milione. Peraltro, non credeva di averne nemmeno alcuna voglia.
Sistemandosi più comodamente contro la parete e sollevando un piede contro il muro, Chakuza tirò su la manica destra della maglietta e mostrò a Fler l’avambraccio. L’altro inarcò un sopracciglio e lo fissò dubbioso per molti istanti.
- Sì, bei ghirigori. – rispose alla fine, con un vago cenno d’assenso, - L’effetto quale doveva essere? Tirarmi improvvisamente su di morale mostrandomi la meraviglia dei tuoi flessori e dei tuoi estensori? Perché guarda che, tanto per cominciare, non sono niente di che, e comunque io non sono giù di morale.
Chakuza sbuffò e gli tirò una gomitata neanche troppo discreta nelle costole.
- Sotto questi ghirigori c’è scritto Silvia. – rivelò quindi, tornando a mettere a posto la manica, - È stata la mia donna per un sacco di tempo. Era una cosa seria, insomma. Almeno fino a quando non ha deciso che non era più il caso che continuasse.
Fler sospirò e scrollò le spalle.
- Non si scrivono addosso i nomi delle donne. Si sa che quelli non durano per sempre.
- Be’, tu hai addosso ovunque il simbolo dell’Aggro Berlin, no? Non mi pare sia durato tanto più a lungo di Silvia.
Fler guardò altrove, allontanandosi un po’ da lui. Aveva un modo molto fisico di dimostrare l’offesa e l’imbarazzo, si ritrovò a pensare Chakuza. Era in tutto e per tutto simile a quei bambini spacconi che però, quando la maestra o un genitore li rimprovera, finiscono sempre per mettersi in un angolino a giocare coi cubi di gomma cercando a stento di trattenere le lacrime, tenendo su il broncio per tutta la giornata e rifiutandosi di farsi prendere in braccio o anche solo accarezzare.
Chakuza sospirò profondamente.
- Mi dispiace. – borbottò, - Non volevo rigirare il coltello nella piaga. Solo che mi pare che a volte tu non ti renda conto di quanto sei irritante.
- Ti sbagli. – sospirò a propria volta Fler, - Lo faccio apposta. Mi dispiace che la tua donna ti abbia mollato.
Chakuza annuì semplicemente, scrollando le spalle.
- Era solo per dirti che so come ti senti. Voglio dire, non c’è bisogno che tu mi dica che non stai male o cose simili. Non c’è neanche bisogno che tu mi dica come stai, in realtà.
Fler rise a bassa voce ed annuì, sollevando anche lui un piede contro la parete. Chakuza immaginò dovessero sembrare abbastanza ridicoli, a guardarli così. Nella penombra della sala prove a chiacchierare delle loro pene d’amore.
- Quindi… - riprese alla fine, spezzando il silenzio degli ultimi istanti, - quella canzone lì vuol dire che non ci saranno diss, nell’album che uscirà con noi?
Lui lo fissò come fosse appena sceso dalla luna.
- Scherzi? – lo prese in giro, rimettendosi dritto e ficcando le mani nelle tasche dei jeans, - Ho già pronte a casa almeno cinque o sei tracce in cui spalo merda su di lei, su Sido e anche su una buona metà delle loro famiglie.
Chakuza rise, e rise anche Fler. All’interno degli studi deserti, il suono non riverberò nemmeno in maniera troppo fastidiosa.

*

- Insomma, capisci, - blaterò Chakuza, gesticolando con aria agitata, - si può lavorare con lui!
Eko – che, quando quella mattina s’era installato sul divano della villa di Bushido mettendo mano alla Wii, aveva progettato tutto meno che dedicare tre o quattro ore all’ascolto degli sproloqui lavorativi di Chakuza – sospirò teatralmente e si abbatté di schiena contro il bracciolo del divano, guardandolo con l’aria di un martire.
- Chakuza… - borbottò, mostrandogli il controller della consolle come a cercare di fargli notare senza dirglielo che aveva di meglio da fare, - È un essere umano, non ha dodici anni, è un rapper famoso. Perché ti stupisce tanto che lavori?
- Perché… - balbetto lui, grattandosi confusamente la nuca, - lavora! Cioè, arriva, si mette lì dietro al microfono, ripassa il testo un paio di volte e canta! Non cazzeggia, non rompe i coglioni perché vuole portato il caffè ogni tre minuti, non fa i capricci se per caso il geranio sulla finestra è piegato a sinistra piuttosto che a destra e questo lo distrae e lo obbliga a impappinarsi-
- Sì, Chaku! – lo interruppe malamente Eko, alzando il tono della voce, - Il fatto che Bushido in sala di registrazione sia una piaga, non ti autorizza a stupirti come se fossi di fronte a un lecca lecca di dieci metri, se per caso becchi un rapper che sa rappare!!!
Lui incassò la testa fra le spalle ed aggrottò le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto.
- Non sono stupito come davanti a un lecca lecca! – precisò offeso, - È solo che è strano, non c’ho mai lavorato, con uno così. Stickle è ordinato, nelle sue cose, per dire, ma Fler… voglio dire, è tipo meccanico. È come se fosse programmato!
Eko continuò a fissarlo con aria allucinata, prima di grattarsi la fronte e rimettersi dritto, per guardarlo più comodamente negli occhi.
- Chaku, fa il suo lavoro. Cioè, non capisco cos’è che ti turbi in questa maniera. Sul serio.
Bushido scelse proprio quel momento per planare addosso a Chakuza con la delicatezza di un elefante in una pozza di fango, abbattendosi senza discriminazioni sul divano, su di lui ed anche su Eko, mandando all’aria il joystick e lasciando che le uova che il personaggio del videogame stava cercando di ribaltare nel tegamino finissero rovinosamente sul tappetino virtuale che adornava il pavimento dell’altrettanto virtuale cucina.
- Cos’è che turba Chaky? – chiese, gli occhi castani spalancati mentre si sistemava tranquillamente in mezzo a loro, costringendoli a farsi minuscoli sui lati opposti del divano.
- Cristo Iddio, Bushido! – lo rimproverò Eko, tirandogli uno scappellotto dietro la nuca, - Mi hai fatto perdere!
Sullo schermo al plasma, la ragazzina tonda, bionda e dagli enormi occhioni azzurri che stava maneggiando la padella, scoppiò in lacrime, crollando in ginocchio sul pavimento.
Bushido scrollò le spalle.
- Puoi ricominciare. – disse altezzoso, ruotando di novanta gradi per ignorare fisicamente Eko e concedere tutta la propria attenzione al suo Chaky turbato. – Dicevi?
- Fler! – borbottò Chakuza, stringendosi nelle spalle.
Bushido lo guardo con tanto d’occhi e poi sospirò.
- Chaky… saranno passate già due settimane… lo so che ha due occhi che disorientano e un bel culo, ma per favore, riprenditi!
- Ma non c’entra niente!!! – strillò Chakuza, mentre Eko scoppiava a ridere alle spalle di Bushido, - Io parlavo di tutt’altro!
- Oh, senti, Chaku… - rincarò il turco, ricominciando a far rimestare impasti alla bimba sullo schermo, - l’abbiamo pensato tutti, sai? Ho chiesto anche a Saad, Danny, Kay, Nyze… e tutti quelli con cui hai parlato ultimamente sono d’accordo nel dire che non se ne può più di sentirti parlare di Fler!
Bushido annuì, incrociando seriamente le braccia sul petto.
- Davvero, Chaky. – aggiunse, - Io ti avverto, lo conosco, Fler è pericoloso. Non è tanto che si appiccichi, il problema… anche se lo fa… comunque non è tanto quello il problema, tanto più il fatto che quando si appiccica poi a te non viene tanto voglia di scollartelo di dosso, sai?
- Mi pare… - biascicò Chakuza, sull’orlo di una crisi isterica, - che qua stiate dando per scontata una cosa che non è affatto scontata.
Eko e Bushido si guardarono a lungo e poi tornarono a fissare lui.
- Be’, che ti piace ormai è chiaro, no? – disse il primo.
- Appunto. – annuì il secondo.
- Ma neanche per un cazzo! – abbaiò Chakuza, saltando in piedi, - Ma che roba! Ohi, io sono eterosessuale, eh?!
- Chaky, la sessualità è un flusso. – annuì Bushido, con aria enormemente competente, - Metti che io ora mi volto e vedo che Eko ha un’espressione carina-
- Oh! – protestò quello, agitando un pugno. Bushido lo rabbonì con una carezzina sulla testa.
- No, Eko, dico per ipotesi. Dicevo, - riprese, tornando a rivolgersi a Chakuza, - metti che mi volto, Eko ha un’espressione carina e in virtù di ciò a me viene voglia di farmelo. Che mi frega di collocarmi da una parte o dall’altra della barricata? Intanto voglio farmelo!
- L’immagine mentale – confessò Chakuza, scosso da un brivido, - è raccapricciante. In sostanza, cos’è che stai cercando di dirmi?
Bushido sospirò, si accomodò contro lo schienale del divano e poi si espresse in uno di quei sorrisi ampi e furbi che ti davano sempre l’idea di essere un coglione, perché l’avevi magari trattato da cretino fino a quel momento ma in realtà era lui che si stava prendendo gioco di te.
- In linea generale, Chaky, pensa di meno e scopa di più. Nel particolare… - scrollò le spalle e sorrise ancora, - gestisciti Fler. Perché se continui così non te lo togli più dalla testa, sai?
Eko annuì partecipe, facendo saltare le uova nel tegamino della bimba.
- Pensa a lui! – aggiunse, senza nemmeno guardarli, - Ci ha messo anni!
Bushido lo ribaltò sul divano con uno spintone.
- Non è vero neanche per un cazzo!
Eko, costretto a far cadere di nuovo le uova per terra, gli saltò addosso, ringhiando frustrato.
- Ora lo vediamo, cos’è vero e cosa no!
Chakuza lasciò l’appartamento che quei due ancora si menavano.

*

La voce di Fler gli stava scivolando in brividi dalle orecchie alle spalle passando per il collo. Questo, Chakuza doveva ammetterlo e basta. Avevano registrato almeno una decina di tracce, nelle ultime settimane – erano diventate ormai più di tre, i giorni si rincorrevano veloci perché Fler aveva ritmi frenetici, sul lavoro, ed era stato Chakuza a doversi adattare, se non altro per non fare una figura del cazzo di fronte ad uno che, a conti fatti, era pure più piccolo di lui – ma per quanti giorni potessero passare, per quante canzoni potesse aggiungere all’elenco e per quante volte potesse riascoltarle tutte, Doreen restava una delle cose migliori che avesse sentito nell’ultimo anno.
Era un po’ comico come, in un mondo quasi privo di donne – donne, non puttane – qual era quello del rap, le canzoni migliori fossero sempre quelle dedicate a loro. Bushido aveva dato il meglio con Jenny e con Janine. Fler aveva Doreen.
Lui aveva avuto Silvia, per un po’. Era pur vero però che su Silvia lui non aveva mai scritto una parola.
Si alzò in piedi, sospirando pesantemente e sfilando le cuffie, poggiandole delicatamente sul mixer, stando attento a non combinare danni. La Beatlefield era vuota e silenziosa già da almeno un paio d’ore. Stickle era passato a salutarlo prima di tornarsene a casa e godersi un meritato riposo e l’impresa di pulizie non sarebbe arrivata prima dell’indomani alle cinque.
Lanciò un’occhiata distratta al quadrante dell’orologio a muro: segnava mezzanotte passata da una decina di minuti abbondanti; magari avrebbe dovuto tornare a casa anche lui. Il meritato riposo di cui sopra gli spettava in quanto diligente lavoratore. In quelle ultime settimane s’era letteralmente sfiancato, dannazione pure a Fler ed a quella sua assurda iperattività.
Spense le luci dall’interruttore principale ed imprecò nel buio. Aveva dimenticato di prendere la fottuta giacca, prima. Tirò fuori il cellulare dalla tasca e lo utilizzò a mo’ di lampadina, vagando a tentoni lungo il corridoio e verso l’ingresso, alla ricerca dell’attaccapanni. E continuò a camminare così fino a quando qualcosa non lo frenò a metà di un passo. Qualcosa di grosso e compatto come un enorme gomitolo di lana lasciato lì in mezzo al niente. Qualcosa che, quando lui vi inciampò addosso, rischiando pure di coinvolgerlo in una rovinosa caduta e riuscendo a salvarsi solo per forza di volontà, mugolò un lamento sofferente e poi lo mandò a fanculo.
Qualcosa che parlava con la voce di Fler. E che quindi non era qualcosa. Era Fler.
- Fler? – chiamò stupito, tastandolo un po’ ovunque con aria incredula, come a volersi sincerare fosse davvero lui e non, tipo, una sagoma di cartone. Parlante, magari. In qualche modo doveva spiegarli, il mugolio ed il vaffanculo.
- E togliti di mezzo… - continuò a lamentarsi l’altro, spingendolo lontano con poca convinzione e tirandogli una gomitata nelle palle quando, con frustrazione, si accorse di non riuscire a mandarlo via.
- Ma che cazzo ci fai qui?! – chiese Chakuza, cercando con poco successo di tirarlo in piedi, - Perché stai seduto? E come hai fatto a entrare?!
- Mi stai… facendo troppe domande. – concluse Fler in un lamento frustrato, muovendosi appena nell’ombra. Chakuza ascoltò il fruscio della sua felpa di acrilico, che sfregava contro la parete ogni volta che Fler si spostava per mettersi comodo.
- No, non direi… - borbottò rinunciando al proposito di metterlo dritto e sedendosi quindi accanto a lui, - Ti sto facendo le domande giuste. Che è successo?
- Un cazzo. – biascicò lui, spintonandolo con una spallata, - Lasciami in pace.
- Sei praticamente a casa mia! – gli fece presente Chakuza, aggrottando le sopracciglia, - Devi ancora spiegarmi come sei entrato e… ma sei ubriaco?
- No! – sbottò Fler, massaggiandosi le tempie, - …ero ubriaco prima di addormentarmi qui, tipo.
- Ah, certo. – ridacchiò lui, inarcando le sopracciglia e restituendogli una spallata meno ostile, - Questo cambia tutto. Stickle ti ha dato le chiavi? – ipotizzò quindi, immaginando che, altrimenti, Fler non gli avrebbe mai dato una spiegazione.
- Mhn. – annuì semplicemente l’altro, sistemandosi un po’ contro il muro ed un po’ contro la sua spalla. Un po’ come capitava, in realtà, spargendo quelle chilometriche gambe ovunque lungo il corridoio stretto. – Tipo una settimana fa. Dice che ormai sono di casa.
- Be’, è vero. – ammise lui, cercando di sistemarsi in modo che Fler non gli pesasse troppo addosso, - Quindi?
- Quindi cosa? – borbottò, tirandogli un calcio nello stinco per costringerlo a stare fermo, una buona volta.
- Quindi cos’è successo? Com’è che sei in queste condizioni?
Fler sospirò profondamente, e rimase zitto per qualche secondo, come chiedendosi se fosse il caso di sbottonarsi sull’accaduto o meno.
- Avanti, Fler. – lo incitò Chakuza, sgomitandolo fra le costole, - Mi hai praticamente raccontato tutto della tua ultima storia d’amore, cos’altro vuoi nascondermi?
Fler ridacchiò a bassa voce, massaggiandosi lentamente il fianco dolorante.
- …non lo so, in effetti. – biascicò, poggiando il capo contro la parete, - Forse non voglio dirti che sono tornato da lei strisciando. Non è una cosa di cui andare granché orgogliosi, ti pare?
Chakuza sospirò, lasciandogli una pacca consolatoria su una spalla.
- Sei un uomo e sei innamorato… - lo giustificò conciliante.
- Mah… - rispose Fler, scrollando le spalle, - Sono andato da lei completamente ubriaco. Non lo so, non… non ho fatto un tentativo di tornare insieme. Volevo mandarla a fanculo, credo. Volevo vederla, cazzo.
- …cosa ti ha detto?
Fler rise amaramente, scuotendo il capo.
- Che, per la scopata che sono stato, sto facendo fin troppo casino. – si fermò un attimo, immobile. Mentre la sua vista si abituava al buio, Chakuza intuì i suoi occhi nell’oscurità e li fissò con attenzione, in cerca di un qualche tremito o incertezza. Che non arrivò. – Non penso che potrò mai dimenticarlo.
Chakuza si inumidì le labbra, annuendo lentamente.
- Silvia mi ha lasciato dicendomi che non riusciva neanche a pensare di potersi svegliare un altro giorno dopo aver dormito al mio fianco. – disse d’un fiato, guardando fisso davanti a sé mentre Fler – lo sentiva sulla pelle – gli spostava gli occhi addosso. – No, non sono cose che si dimenticano, mi dispiace. Però ricordarle ogni giorno ti permette di mandarle a fanculo con tutta la convinzione che meritano, non ti pare?
Fler si sistemò appena contro la sua spalla, raddrizzando la schiena e voltando un po’ il viso. Attraverso il cotone della felpa Chakuza poté sentire il calore dello sbuffo di fiato nel quale venne fuori la sua risatina un po’ rassegnata e un po’ sinceramente divertita.
- Che sfigati siamo. – lo sentì commentare ironicamente, senza intenzioni offensive, - Cos’è che avevi fatto alla tua donna, Chakuza?
Lui scrollò le spalle.
- Credo di averla voluta sposare. – rispose un po’ incerto, - Mi sa che mi sono fatto prendere la mano. Sai quando ti esalti…
- Sì, lo so bene. – rise ancora Fler, e stavolta il fiato Chakuza lo sentì direttamente sulla pelle del collo, - Sei un tipo romantico, mh?
- Quando m’innamoro, m’innamoro. Tutto qua. – borbottò lui, imbarazzato. – È così anche per te, no? Hai fatto la rivoluzione…
- Mi sa che dovremmo imparare a sceglierci meglio gli innamorati, Chakuza. – annuì Fler, piegando una gamba e sfiorandolo involontariamente col ginocchio, - Io toppo tipo di continuo. Non me ne va bene una.
Chakuza rise apertamente, ricambiando la ginocchiata involontaria con una volontaria e dando a Fler il la per partire con un gioco di spintarelle simili.
- Parli come un ragazzino. – gli fece notare, - Si sente che sei più giovane di me.
- Guarda che è solo un anno di differenza! – rise ad alta voce Fler, - Senti che roba…
- Be’, un anno ha il suo peso, in queste situazioni! – si lamentò Chakuza, sentendosi improvvisamente molto stupido, - Io non ho frignato, quando Silvia mi ha lasciato, per dire.
- Nemmeno io sto frignando! – ritorse Fler in un borbottio infastidito, - Alla fine ce l’ho mandata a fanculo, eh?
- Oh, sì, me lo immagino. – annuì Chakuza, - “Ti prego, Doreen, non faccio che pensarti, torna con me!”… è così che mandi a fanculo la gente, tu?
- Fanculo. – lo spintonò Fler, per tutta risposta, - È così che mando a fanculo la gente. Tu, comunque, sei uno stronzo. Non si consolano mica così, le persone. Che roba, veramente. Uno viene qui, ti si addormenta nei corridoi degli studi e tu prendi e gli dai del moccioso. Sei acido. Ora prendo e-
Non riuscì nemmeno a concludere la frase, Chakuza non lo lasciò finire. Senza nemmeno chiedersi perché avesse voglia di farlo – o se farlo fosse opportuno, tanto per cominciare – si voltò nella sua direzione e lo baciò.
Quando si separò da lui, gli sarebbe piaciuto poter dire che quello che si erano scambiati era stato un bacio equivocabile. Come quelle cose imbarazzantissime che capitano ogni tanto, in cui vuoi salutare qualcuno baciandolo su una guancia però in qualche modo non vi capite bene e la cosa finisce in uno sfregamento fugace di labbra ed in un sorriso ed una scusa impacciati biascicati confusamente mentre ci si allontana. O come quando continui a scontrarti col tizio che ti sta di fronte sul marciapiedi, perché lui va a destra quando ci vai tu e tu vai a sinistra quando ci va lui e non riuscite ad uscire dal momento di sincronia monocellulare dei vostri cervelli.
Non s’era trattato mica di uno sfregamento involontario. E non era andato a sbattergli contro per caso. Aveva voluto baciarlo. D’accordo, non c’era stato niente di più spinto di due labbra che si toccano, ma sempre di bacio s’era trattato. C’era, boh, da prenderne atto, probabilmente.
- …tu le consoli sempre così, le persone? – chiese Fler, con una voce talmente sottile che Chakuza si chiese se fosse bastato così poco per tirargli via tutto il fiato.
- Be’, no… - si affrettò a rispondere, agitato, - Credo dipenda dalla persona.
- E perché… - chiese giustamente Fler, esitando appena, - Voglio dire, perché hai consolato così me?
- Non… - biascicò lui, intenzionato a partire con un comizio in cui affermare tutto e il contrario di tutto e rendendosi conto solo dopo aver iniziato di non avere in realtà nulla da dire, - …non ne ho idea. Cioè, volevo farlo. Insomma, è solo un bacio.
Fler rimase immobile e silenzioso per un secondo.
- Io sono un uomo. – gli fece notare alla fine. La mente di Chakuza registrò con un silenzioso “eh”.
- Credo di essermene accorto. – ribatté, vagamente piccato, - Prima di baciarti, Fler. Non è che vado in giro a baciare chiunque per sport. Prima di baciare qualcuno, mi accerto almeno che sia proprio la persona che volevo baciare.
Fler rimase ancora in silenzio.
- …certo. – annuì alla fine, - …dovrei ringraziarti?
- Fler-
- No, sul serio! – lo interruppe lui, ansioso, - Cioè, non lo so. Sto meglio, adesso. Quindi forse dovrei ringraziarti.
- …se ci tieni. – si rassegnò lui, inspirando profondamente.
Fler annuì.
- Grazie. – aggiunse poi, con convinzione. – Mi baceresti di nuovo?
Chakuza lo guardò. Si augurò che Fler, nel buio, non riuscisse a distinguere la sua espressione da triglia surgelata. Ma dal momento che lui vedeva fin troppo bene la sua – un po’ incerta ma sincera e presente a se stessa, quella di un ragazzino che non è mai cresciuto e chiede perché non sa che certe cose si ottengono anche col semplice silenzio – non ci sperò più di tanto.
- Eh? – chiese, un po’ confusamente.
- Mica subito. – si affrettò a mettere le mani avanti Fler, - Dico, per il futuro, per ipotesi-
- Cosa?!
- Cioè, non è che voglio che adesso prendi e all’improvviso mi schieni contro il primo muro, eh, è solo che-
- Aspetta, aspetta! – lo fermò Chakuza, prendendogli il viso fra le mani e tenendolo fisicamente immobile, - Ho… capito cosa intendi. Cioè, fermati un momento. Non dico che non… - si interruppe, cercando le parole più adatte, - …non dico che mi dispiacerebbe o che, ma non partire come un treno in corsa, eh, è una cosa strana.
- Sì, lo so che è una cosa strana, che cazzo. – ritorse lui, sbuffando un po’. Il suo respiro lo solleticò sulle labbra e Chakuza lo guardò a lungo negli occhi.
- Posso baciarti anche adesso, credo. – disse a mezza voce, - Se vuoi ancora.
Fler rise nervosamente, muovendosi appena contro di lui. Erano così vicini che bastava un niente a toccarsi.
- Alla faccia del non partire come un treno in corsa… - lo prese in giro, probabilmente cercando di stemperare l’atmosfera tesa.
- Me l’hai chiesto tu. – borbottò Chakuza, offeso, - Lo vuoi ancora o no?
Fler non rispose. Si mordicchiò il labbro inferiore e poi si limitò ad annuire. Chakuza si sporse in avanti e sfiorò nuovamente le sue labbra con le proprie, pressandosi contro di lui in un movimento del tutto naturale, semplicissimo – anche troppo.
Si sentì stupido dopo qualche secondo in quel modo. Stavano fermi, non stavano praticamente facendo niente, perciò fu anche per attenuare quella strana sensazione di inadeguatezza che schiuse le labbra e sfiorò con la lingua quelle di Fler, come a chiedergli il permesso. Le dita dell’altro si strinsero con forza attorno alla sua felpa, all’altezza dei fianchi, mentre il permesso veniva concesso e Chakuza piegava appena il capo, lasciando la propria lingua incontrarsi e giocare con quella di Fler con una lentezza ed una calma che fino a due minuti prima avrebbero avuto del surreale. E che suonavano benissimo, invece, in quel preciso istante.
Fler rise appena smisero di baciarsi. Non sciolse la presa attorno alla sua felpa e non aprì nemmeno gli occhi, si limitò a ridere a bassa voce e restare lì, fermo, un po’ inebetito, mentre Chakuza tornava a guardarlo con una certa divertita curiosità.
- Potrei anche farci l’abitudine. – gli disse a mezza voce, quando recuperò abbastanza fiato. Chakuza rise di rimando.
- Stai di nuovo correndo come un treno. – lo rimproverò bonario, - Facciamo che adesso ce ne andiamo a casa e ci facciamo una dormita? In letti separati, s’intende.
Fler rise ancora e poggiò appena la fronte contro la sua. Aveva ancora gli occhi chiusi.
- Domani mattina ripenserai a questa battuta e ti sentirai un cretino. – lo avvertì.
- Mi conosci già tanto bene? – sbuffò Chakuza, sorridendo, - Sono un libro aperto.
Fler scosse il capo.
- Ci si sente sempre dei cretini, in questi casi.
Quali casi?, avrebbe voluto chiedere lui. Ma Fler lo lasciò andare e riaprì gli occhi. Era in piedi il secondo dopo. E Chakuza, di fermarlo, non ebbe proprio il coraggio.

*

Svegliandosi l’indomani mattina, le prime due cose che Chakuza aveva pensato erano state “sono un cretino” e “devo dirlo a Bushido”. La prima considerazione non l’aveva stupito più di tanto – in fondo l’aveva un po’ aspettata tutta la notte, se non altro perché, al solo pensarci, la voce di Fler, con quel tono dolce e un po’ perso, gli risuonava ancora nelle orecchie – e neanche la seconda, per dirla tutta, era davvero riuscita a turbarlo come forse avrebbe dovuto. D’altronde, che cavolo avrebbe dovuto dire a Bushido? “Fra una cosa e l’altra ieri poi ci siamo baciati due volte”? Che razza di discorso sarebbe stato? E poi, anche ammettendo che tutto questo avesse un senso, cosa avrebbe dovuto impedire a Bushido di ridergli in faccia e dirgli “sì, ma chi se ne frega”?
Eppure, per qualche motivo, voleva parlarne con Bushido. Probabilmente perché era evidente che, se da qualche parte l’argomento Fler doveva essere preso – lasciando da parte tutti gli imbarazzanti doppi sensi di un’espressione simile – quella parte doveva essere Bushido. Per forza di cose. Perché lo conosceva, perché ci aveva già avuto a che fare e soprattutto perché aveva avuto ragione a dirgli di risolverla prima di farsi prendere. Il problema era che lui non era stato abbastanza sveglio da dargli retta.
È che Fler non sembrava pericoloso. Non in quel senso, almeno. Si fosse trattato di farci a pugni o scontrarsi con un coltellino in un vicolo buio, be’, ok, allora da quel punto di vista avrebbe potuto tranquillamente dargli del tipo pericoloso. Ma l’eventualità di trovarsi a limonare con lui in un corridoio? Chi avrebbe mai potuto pensarci?
In realtà non c’era neanche un modo corretto di dirla, una cosa del genere. Quando una cosa non dovrebbe verificarsi e poi però si verifica comunque, insomma, puoi anche indorare la pillola ed immergerla nel cioccolato liquido, sempre amara resta.
Perciò, quel pomeriggio, quando arrivò a casa di Bushido, decise saggiamente di non infiocchettare per niente il pacco regalo, e presentare il disastro nudo e crudo, così per com’era. Sperando magari di ridimensionarlo un tantino. Perché a guardarlo per come lo vedeva lui, al momento, era spaventoso.
- Io e Fler ci siamo baciati. – esclamò, restando in piedi di fronte al divano mentre Bushido, seduto fra i cuscini e col portatile sulle ginocchia, lo guardava con aria allucinata.
Si sentiva tanto un bambino di ritorno da scuola con la pagella piena di insufficienze. Bushido continuò a guardarlo mentre, senza badare allo schermo, trucidava gli orchetti di World of Warcraft con gesti automatici dettati ormai da un’abitudine quasi quinquennale.
Il silenzio si protrasse molto a lungo.
- Chaky… - rantolò poi l’uomo, lasciando in pace la tastiera per passarsi una mano sulla fronte, - Chaky, no…
Chakuza aggrottò le sopracciglia con disappunto.
- Be’, non ti ho mica detto di aver investito una bambina che tornava a casa da scuola, che cazzo. – borbottò, lasciandosi ricadere seduto al suo fianco, - E chiudi un po’ questa merda, che ho dei problemi seri, io.
- Eccome se li hai. – annuì Bushido, chiudendo di botto lo schermo del portatile e voltandosi per guardarlo con attenzione, - Quanto avanti siete andati?
- Che cosa ti ho detto? Che ci siamo baciati! Quindi mi pare ovvio che ci siamo solo baciati! Se avessi risposto “l’ho spalmato sul mixer e me lo sono scopato per dritto e per rovescio”, allora avrebbe voluto dire che l’avrei scopato per dritto e per rovescio! – rispose istericamente, - Ti ho detto questo, per caso? Non te l’ho detto! Quindi sai già quanto avanti siamo andati.
Bushido ci rifletté qualche secondo.
- Parecchio. – suppose poi, annuendo.
Chakuza annuì di rimando.
- Per una decina abbondante di minuti. – precisò quindi, - Due volte.
Bushido rise a bassa voce, scuotendo il capo con una rassegnazione divertita molto paterna.
- Ma come ti è saltato in mente? – chiese poi.
Chakuza si lasciò andare con un sospiro contro lo schienale, le braccia inerti in grembo.
- Non ne ho idea. – rispose sinceramente, - Era lì, era triste, l’ho baciato.
- Non fa una piega. – rise ancora Bushido, - Cos’era successo?
- Be’, ha avuto questo casino con la donna di Sido, no? – biascicò Chakuza, senza nemmeno chiedersi se fosse il caso di raccontare una cosa simile all’uomo che, in teoria, Fler lo odiava, e quindi di quelle informazioni avrebbe potuto fare un uso molto scorretto, volendo. Tra l’altro, non è che Bushido passasse poi per un individuo di chissà che alta moralità. Ma c’era anche da dire che in genere era vero: Bushido sapeva sempre tutto. Perciò, perché trattenersi, a un certo punto? – Insomma, ieri è andato da lei, hanno avuto questa discussione, lei gli ha mollato un due di picche tremendo e io me lo sono ritrovato mezzo ubriaco seduto per terra in un corridoio degli studi. Che avrei dovuto fare?
- Non saprei, - ipotizzò Bushido con un’altra risata, - preparargli un caffè e rimandarlo a casa propria?
Chakuza mugolò afflitto, sistemandosi il cappellino sulla testa.
- Non ci ho pensato. – borbottò con un sospiro, - E adesso mi sa che è tardi per dirgli “senti, lasciamo perdere e facciamo che ti offro un caffè per riparare”.
Bushido rise un’altra volta, cercando di incoraggiarlo con qualche pacca sulla spalla.
- Chaky, guarda, io non so che intenzioni abbia tu con quell’uomo, ma lasciatelo dire da uno che lo conosce bene: Fler è una trappola.
Chakuza gli sollevò gli occhi addosso, inarcando un sopracciglio.
- Stai per darmi una lezione di Flerologia?
Bushido rise possibilmente ancora più forte.
- Vedila così: - spiegò quindi, - Fler nemmeno se ne accorge, di quello che ti fa. E tu, senza capire né come né perché, improvvisamente ti ritrovi che lo stai baciando. È un classico.
- Un classico? – chiese Chakuza, giustamente turbato, - No, perché, scusa, quanti ne conosci a cui è successo?
- Be’, uno. – rispose Bushido con una scrollatina di spalle. E poi si indicò. – Il sottoscritto.
Chakuza rimase immobile, ponderando attentamente la possibilità di alzarsi in piedi, uscire da quella casa e fingere che quella conversazione non avesse mai avuto luogo.
- Tu… cosa? – chiese invece, incredulo, - E quando?
- Giusto quei due secoli fa. – rispose Bushido con un mezzo sorriso intenerito, - Tranquillo.
- No, - lo fermò Chakuza, sollevando perentorio una mano, - non mi dire di stare tranquillo perché tu che rassicuri me dicendomi di stare tranquillo perché tra te e Fler è una cosa chiusa… no. Ok? No.
Bushido rise per la millesima volta in quella mezz’ora, annuendo conciliante.
- In sostanza, - spiegò quindi, - è successo quando sono andato via dall’Aggro Berlin. Fler, sai, è sempre stato un tipo fedele. Nel senso, aveva degli ideali, i suoi ideali l’Aggro li incarnava bene. Io volevo fare soldi, ero un figo e mi rompeva il cazzo dividere i guadagni con Sido, in tutta sincerità. – scrollò le spalle, - Faccio a Fler: “vieni via con me?”, lui risponde: “col cazzo”. Io mi infurio e lo sfanculo. Nel senso che gli dico “per quanto mi riguarda, fottiti e tanti saluti”. E quindi, insomma, lui prende e fa la tragedia greca. Sai, no? “Non puoi farmi questo”, “cazzo, siamo fratelli”, “Atze, non puoi andartene” e via così. E parlava, parlava. E mi guardava con quegli occhi lì. Intendo, quegli occhi lì. – precisò con un altro sospiro, - Che avrei dovuto fare?
Chakuza fece una mezza smorfia, abbozzando un sorriso.
- Immagino che il consiglio del caffè non valesse, nel caso specifico, mh?
Bushido rise ancora.
- No, direi di no. Perciò lo bacio e quando mi stacco lui fa “volevi zittirmi?”. E no, non è che volessi zittirlo. Volevo baciarlo. Però, capisci, lui non ci arriva. Non è che lo capisce, che è un individuo baciabile e che quando fa determinate cose a te ti scatta la molla dentro. Siccome fondamentalmente è eterosessuale, - si interruppe e ci rifletté, poi corresse: - siccome principalmente va con le donne, ecco, non ci pensa. Quindi, in sostanza, se ti piace devi dirglielo, però preparati perché… - sospirò, - voglio dire, non passa.
Chakuza lo guardò attentamente, cercando di trovare alle sue parole un senso meno malinconico e meno pesante.
- Non ti è passata? – chiese poi, quasi timoroso.
- Be’, non è che trascorra la mia intera esistenza a pensare a lui, - chiarì Bushido, - però insomma. Ogni tanto capita, e quando succede ci ripenso nello stesso modo in cui ci pensavo il giorno in cui l’ho baciato.
Chakuza deglutì a fatica.
- Preferisci che io… - iniziò incerto, ma Bushido lo fermò con un’altra risata tonante delle sue.
- No, Chaky. Tu che mi chiedi se devi farti da parte per favorire qualcosa fra me e Fler è anche peggio di me che ti rassicuro sul contrario. – ci rifletté un po’, - E comunque ti rassicuro lo stesso, perché fra me e Fler non c’è più una possibilità che sia una, e soprattutto io non voglio. – lo guardò un po’ dubbioso, nascondendo l’ennesimo sorriso, - Era questo il problema?
Chakuza esitò qualche attimo.
- In realtà non lo so. – ammise poi, - Forse. Comunque sono contento di avertelo sentito dire.

*

- Ho parlato con Bushido.
Fler si separò da lui ancora vagamente confuso, le labbra gonfie, gli occhi semichiusi e le dita strette con forza attorno al colletto della sua polo.
- Tu cosa? – chiese, senza capire, mentre Chakuza, dopo la breve parentesi informativa, tornava a fare ciò che stava facendo fino a pochi secondi prima, cioè spalmarlo contro lo schienale della sedia sulla quale era seduto, baciandolo voracemente. – Cha… - cercò di fermarlo Fler, puntando i piedi per terra e indietreggiando sulle rotelle della poltrona, - Chakuza, che cazzo stai dicendo?! – si decise a urlare poi, alzandosi anche in piedi per sottolineare meglio la propria intenzione bellicosa, dopo aver visto che l’unico effetto del suo arretrare era stato l’avanzare di Chakuza in direzione ostinata e contraria.
- Che c’è? – rispose lui, in un mormorio in parte annoiato e in parte deluso dalla prospettiva di vedere sfumare un interessante pomeriggio di baci, - Mi hai capito, no?
- Sì, appunto perché ti ho capito… - precisò Fler, tornando a sedersi ed osservando con sgomento Chakuza tentare di riavvicinarsi, - Fermati un po’! – lo rimproverò, piantandogli una mano nel mezzo del petto, - Cos’hai detto a Bushido?
- Be’, gli ho detto di noi. – rispose Chakuza con un vago gesto della mano, - Insomma, di quello che è successo. Quando ci siamo baciati e… nelle settimane successive, dico.
Gli occhi di Fler, già abbastanza inquietanti anche nella normalità, si spalancarono a dismisura, diventando quasi terrificanti.
- Fler…? – lo chiamò a mezza voce Chakuza, senza azzardarsi a toccarlo per paura che potesse, tipo, morderlo.
- Ma come cazzo… - cominciò lui, con aria assente, - No, dico, ma sei un cretino o che?! A Bushido!
Chakuza aggrottò le sopracciglia, appoggiandosi al mixer e fissandolo con aria ostile.
- Be’, scusami se non sapevo con chi parlarne. La prossima volta mi attacco alla prima gay line disponibile e vedo che mi consigliano loro, preferisci?
Fler cercò di calmarsi e lo raggiunse al mixer, appoggiandosi accanto a lui e sospirando pesantemente.
- Scusami… - cedette, guardandolo con aria un po’ triste, - Non è che sia arrabbiato perché l’hai detto in generale. Voglio dire, non è un problema se lo dici. In ogni caso, se viene qualcuno a prendere per il culo, farò in modo che se ne penta amaramente. È che… Bushido! Fra tutti, lui!
Chakuza incrociò le braccia sul petto.
- Se è per quello che è successo fra voi, guarda che-
- No! – lo fermò Fler, con troppa ansia perché non sembrasse sospetto. Chakuza lasciò perdere solo perché in realtà non gli andava davvero di affrontare l’argomento. – Non è per quello, è che-
- Bushido non è stronzo come pensi, - lo interruppe lui, accigliato, - non penso intenda andare a vendere la notizia al migliore offerente, d’accordo? Rilassati.
Fler sospirò ancora, scuotendo il capo.
- Bushido è una cosa complicata. – cercò quindi di spiegargli. Chakuza scrollò le spalle.
- Sì, lui dice lo stesso di te. – d’altronde, se Fler ci teneva tanto a tirarglielo fuori di bocca, chi era lui per fermarlo?
Il “davvero?” che ricevette in risposta, comunque, lo mandò fuori dalla grazia di Dio. Letteralmente.
- Sì. – rispose in un ringhio di gola, - Sì. Una tirata di mezz’ora mi ha fatto, su te, su voi, su quello che siete stati, non siete, non sarete più e tutto il dannato resto. E poi ci ha tenuto a rassicurarmi sul fatto che no, non devo preoccuparmi di niente, perché figurati se lui si mette in mezzo, a questo punto. Ora cosa? – concluse con un altro ringhio, - Prendi e corri fino a casa sua per spiegargli che ha fatto i conti senza l’oste e che per quanto ti riguarda potete riprendere da dove vi eravate interrotti? Bene! Fai pure! Però ricordati chi è stato a gettare fango su te e tutto il tuo albero genealogico, negli ultimi anni, e ricordati che non ero io a darti del traditore nelle mie canzoni! – si fermò e prese fiato, - Ora puoi andartene, se vuoi.
Fler lo guardò per qualche secondo, restando in rigoroso silenzio per tutto il tempo. Non lo si sentiva neanche respirare. Chakuza cominciò a pensare si fosse trasformato in una statua di sale o chissà che altra assurdità simile, e lui approfittò di quel momento d’incertezza per ricominciare a parlare.
- Se dovessi uscire di qui ed andare a casa di Bushido adesso… - spiegò con un mezzo sorriso, - sarebbe per dirgli che ha fatto i conti senza l’oste. Perché – rise divertito, - è tremendo che ti abbia ridotto in questo stato senza motivo, Chaku.
Chakuza borbottò qualcosa di incomprensibile, abbassando lo sguardo. Fler si sporse in avanti e gli lasciò un bacio sotto l’orecchio, cosa che lo fece rabbrividire abbondantemente e lo costrinse a tornare a guardarlo.
- Senti, sai che avevi ragione? – continuò Fler, guardandolo e sorridendo come volesse prenderlo in giro, ma senza cattiveria, - Anche io quando m’innamoro, m’innamoro.
- …Fler-
- No, aspetta, dai. – rise, - È già abbastanza imbarazzante così, ti pare? Almeno lo dico una volta sola e risolviamo il problema. Ok?
- …se proprio ci tieni. – annuì Chakuza, ancora vagamente stordito, - Dì pure.
Fler gli mollò uno scappellotto dietro la nuca tale che gli volò via il cappellino.
- Di certo non intendo dirti che mi sono innamorato di te, stronzo insensibile che non sei altro. – lo rimproverò con un mezzo sbuffo, - Però se vogliamo fare le cose per bene, intendo, ci sto.
Chakuza rise a bassa voce, sollevando un braccio e tirandoselo contro – fregandosene, per una volta, se nel movimento spostavano tutti gli equalizzatori di quella dannata macchina infernale del mixer.
- Fare le cose per bene… - ripeté divertito, - Che cosa diamine vorrebbe dire “fare le cose per bene”? Devo far stipulare agli avvocati un altro contratto?
- Devi andare a fanculo, principalmente. – lo rimbrottò Fler, tirandogli una gomitata neanche troppo discreta nello stomaco, - Non so neanche perché te le dico, certe cose. Mica te le meriti.
Chakuza rise ancora e si sporse a baciarlo, spegnendo sul nascere il distributore automatico di lamentele che Fler stava apprestandosi a diventare.
- Questo era per zittirmi? – chiese Fler con un mezzo sorriso, quando si separarono.
- Che fai, ti autociti? – lo prese in giro Chakuza, spintonandolo con una spalla.
- Una specie. – rise l’altro, massaggiandosi la spalla, - Facciamo che cancello il passato così che tu non debba più sentirti geloso.
- Ehi… - borbottò Chakuza. E fece anche per aggiungere “io non sono geloso”, ma da un lato sarebbe stato piuttosto ridicolo se avesse detto una cosa simile dopo la scenata di qualche minuto prima, e dall’altro lato non vedeva per quale motivo risparmiarsi di rimarcare il punto “se tu e Bushido vi riavvicinate, nessuno sopravvivrà per esserne testimone”. D’altronde, a quanto pareva rientrava nei suoi diritti. Perciò lasciò perdere. – Fa nulla. – ridacchiò sollevato. E poi si dedicò ad un’attività che, ne era sicuro, nei mesi futuri avrebbe trovato parecchio divertente: rovinare ore e ore di registrazioni di Stickle spalmando Fler in ogni posizione per tutta la lunghezza della consolle.

*

- Quindi adesso stanno insieme, tipo? – chiese Eko, farcendo un panino virtuale con del tonno virtuale ad andando alla ricerca di un pomodoro virtuale all’interno di una cucina virtuale.
- Sì, così pare. – rispose Bushido, sventrando un orchetto e procedendo alla volta di un suo degno compare.
- Ma è una cosa seria? – chiese ancora Eko, tagliando il pomodoro virtuale in sottili fettine virtuali usando un coltello virtuale su un tagliere virtuale.
- Be’, non credo che abbiano intenzione di sposarsi, però probabilmente andranno a vivere insieme. – scrollò le spalle Bushido, trucidando anche il secondo orchetto ed appiccando il fuoco ad un innocente tetto di paglia, - D’altronde, non vedo perché no. In ogni caso passano il tempo a limonare, che stiano appiccicati per ore o meno.
- Eh, la gioventù. – annuì Eko, finendo di riempire il suo panino virtuale ed infilzandolo con uno stecchino virtuale, adornato a sua volta da una deliziosa oliva denocciolata anche lei virtuale. – Sono contento per loro.
Bushido demolì ciò che restava dello scheletro bruciacchiato della casa ed annuì.
- Sì, anch’io.
Silenzio.
- Bu? – lo chiamò quindi Eko, - Li spegniamo, ‘sti cazzo di affari? Usciamo e ci troviamo una donna, dai. Sul serio.
Bushido lo guardò solo per un secondo.
- Ma devo arrivare al check point. – motivò, indicando lo schermo oltre il quale un’orda di elfi neri stava depredando una carovana di mercanti.
Eko tornò a sprofondare nel divano e cominciò a farcire un altro panino virtuale.
- Okay, - rispose con un sospiro, - solo fino al check point.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: ChakuzaxBushido.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash.
- "Manca qualcosa, da questa parte. Non sei simmetrico."
Commento dell'autrice: Una roba che non avrei mai scritto, non fosse stato per una serie di coincidenze e di aiuti dall’esterno XD Tutto è cominciato nel momento in cui ho scoperto che il tatuaggio sull’avambraccio destro di Chakuza recita “Silvia”, che è il nome di sua madre. Ne ho parlato con Tab – squittendo come la fangirl che sono, peraltro – e mi sono messa a riflettere sul fatto che Bushido ha un tatuaggio col nome della propria madre (Luise Maria) anche lui sull’avambraccio destro. Insomma, la cosa mi ha fatto fangirlare, Tab mi ha strillato di scriverci su ed io l’ho fatto. Ora, lei al 90% voleva del Bikuza, ma… insomma XD Erano secoli che volevo scrivere Chakushido. Sono contenta di averlo fatto e sono contenta di aver potuto scrivere una lemon (e poco altro XD) da poter rifilare felicemente al P0rn Fest di Fanfic_Italia <3 Su prompt “tatuaggio” <3 *gioia e tripudio* Infine! Tante grazie a Meg per avermi plottato l’interazione Chakushido/frigorifero XD Ed a Tab (che ancora se ne pente, lo so) per il titolo. Spero non vi abbia fatto troppo schifo, nel complesso XD
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Water Temperature


- Manca qualcosa, da questa parte. Non sei simmetrico.
Chakuza solleva gli occhi abbandonando controvoglia il cuscino, e si piega un po’ per guardarlo in faccia e cercare di capire cos’è che intenda dire. I suoi occhi castani brillano ma non dicono niente di speciale, lui non vuole lasciarsi leggere. Chakuza sospira e lascia perdere i tentativi, tornando ad abbattersi sul cuscino.
- Qualcosa cosa? – chiede con un certo fastidio, - E dove?
Lui ride, una risata divertita, e si rigira sul fianco.
- Un tatuaggio. – risponde, - Qui. – conclude tracciando con due dita un ghirigoro immaginario lungo l’interno del suo avambraccio destro.
Chakuza deglutisce silenziosamente e distoglie lo sguardo.
- E che dovrei scriverci? – chiede a bassa voce, sistemandosi meglio sul materasso.
Lui scrolla le spalle.
- Potrei suggerirti qualcosa. – propone con un mezzo sorriso.
- Il tuo nome? – lo prende in giro Chakuza, ridendo sonoramente, - Neanche se mi paghi.
Lui ride ancora, compiaciuto.
- No, non credo sarebbe una buona idea. – gli fa notare, mettendosi seduto, - Però forse possiamo pensare a qualcosa di simile. Scrivere qualcosa che-
- Tu ti ci scrivi i temi, addosso. – protesta Chakuza, vagamente irritato, - Non voglio niente di uguale a quello che hai scritto sul corpo tu.
Lui inarca le sopracciglia e sorride ancora.
- Ho detto simile. – precisa, - Non uguale.

*

È andato nel posto che gli ha consigliato lui. Gli altri tatuaggi li ha fatti sempre altrove – per la verità non gli è mai interessato il posto, bastava fosse pulito, ecco, per il resto poteva adattarsi a tutto. Però stavolta è andato nello stesso posto in cui ha fatto il tatuaggio lui, non sa neanche bene perché, lui nemmeno gliel’ha chiesto. Ha detto soltanto “magari vai lì”, e Chakuza ha risposto “magari, sì” e poi c’è andato davvero. Non s’è nemmeno fermato a rifletterci su. Non è che ci fosse qualcosa su cui riflettere.
Eppure adesso – adesso che sta in sala d’aspetto e guarda le pareti gialle e vede ovunque le foto degli altri che sono passati di lì prima di lui, e scorge anche le sue, tutta una serie, inchiodate al muro una di fianco all’altra – adesso un po’ se lo chiede, se non ci sia qualcosa su cui riflettere.
Alla fine decide che no, non c’è niente: è già abbastanza assurdo accettare di trovarsi nella situazione in cui si trova, senza dover necessariamente andare a cercarci un senso dentro. Le situazioni nemmeno ce l’hanno, un senso, il più delle volte.
Il tatuatore si affaccia dalla porta dello studio e lo invita ad alzarsi in piedi ed entrare, tutto un sorriso.
- Ce l’hai un disegno o vuoi guardare il catalogo? – si informa, già porgendogli un’enorme raccoglitore pieno zeppo di fogli e foglietti ripieni di disegni e ghirigori. Chakuza scuote il capo e rifiuta l’offerta. E poi gli dice cosa vuole.

*

Si presenta a casa sua col braccio avvolto nella pellicola trasparente. Sembra una coscia di pollo, con la differenza che ci sono macchie di sangue misto a inchiostro un po’ ovunque e che fa un male fottuto. Sa che chiunque altro lo prenderebbe in giro, per una cosa simile, ma lui no, lui lo sa che dopo un tatuaggio simile è sempre meglio metterci intorno la pellicola trasparente, così si evitano infezioni mentre le ferite si cicatrizzano intrappolando l’inchiostro sottopelle.
- L’hai fatto oggi? – lui sorride e Chakuza mostra il braccio fasciato con orgoglio. Lui lo afferra immediatamente e lo porta in basso, torcendolo un po’, per guardare il tatuaggio. Chakuza lo osserva corrugare le sopracciglia ed aguzzare lo sguardo. – Cos’è che c’è scritto?
- Silvia. – risponde lui, seccamente, mentre libera il braccio e s’intrufola in casa, dirigendosi spedito verso la cucina per svuotare il frigorifero.
Lui rimane immobile sulla soglia, per un po’, come non capisse cosa c’entri quel tatuaggio con tutti i loro discorsi di quella mattina. Poi realizza. Chakuza lo osserva sorridere – meglio: osserva il sorriso aprirsi sulle sue labbra mostrando la chiostra bianchissima dei denti e scavandogli le fossette sulle guance, mentre le sopracciglia si distendono e gli occhi si socchiudono, brillando di divertimento.
- Tua madre! – dice infine, avvicinandosi a lui e battendogli una pacca mastodontica sulla spalla, - Cazzo se è un pensiero carino! La signora Pangerl sarà commossa.
Chakuza ride e beve un po’ di birra, richiudendo il frigorifero e cercando di allontanarsi verso il soggiorno. Lui, però, gli stringe il braccio attorno al collo e lo trattiene contro di sé, spingendoglisi addosso.
- Una cosa simile. – si sente sussurrare all’orecchio, e rabbrividisce. – L’hai fatto davvero.
- Perché non avrei dovuto? – cerca di darsi un tono, ma la voce trema e non può nasconderlo. Non a lui.
Il braccio dell’uomo scende dal collo lungo il petto e lo stringe alla vita, Chakuza è in trappola e sente la sua eccitazione premere dietro di lui. Si ritrova schiacciato contro il frigorifero l’attimo dopo, le mani premute con forza contro lo sportello argenteo ghiacciato come la neve, i palmi bene aperti per cercare di puntellarsi sulla superficie liscissima senza scivolare. Il suo fiato sul collo è bollente e lo confonde. Sta mediamente bene, comunque, col freddo davanti e l’inferno alle spalle.
- Bushido… - lo chiama, e lui gli morde la nuca in risposta. Chakuza chiude gli occhi e lo lascia fare, allontanandosi dal frigorifero per permettergli di liberarlo dei pantaloni e poi lasciandosi schiacciare nuovamente contro lo sportello con un lamento soffocato, - Cristo, è freddissimo.
Bushido si libera della cintura ed abbassa la zip dei jeans.
- Si scalderà. – gli sussurra all’orecchio prima di mordergli il lobo.
Chakuza non ci crede granché ed in realtà non gli importa, china lateralmente il capo e gli lascia campo libero perché sa che a Bushido piace sentire il suo sapore sulla lingua, gli piace almeno quanto a lui piaccia lasciarsi assaggiare, e quelli sono gli unici momenti in cui la loro disastrata situazione non gli pesa: perché sa che piace a entrambi, si stanno come scambiando un favore, per certi versi – io do a te ciò che vuoi, tu lasci che mi prenda ciò che voglio io – sono pari, sono allo stesso livello, e per quanto possa sembrare assurdo è davvero così. Chakuza si sente molto più passivo quando sono fuori dal letto – quando resta la notte a casa sua, quando risponde sì ad ogni richiesta, quando si fa tatuare sul fottuto braccio il nome della madre per farlo contento – che non quando scopano.
Bushido si spinge dentro di lui con una forza improvvisa e incontenibile, tanto che Chakuza è costretto a piegarsi in avanti per agevolare il suo ingresso e non opporre troppa resistenza, perché lo sa, se stringe i muscoli, se si chiude, se anche solo tenta di fermarlo, Bushido non obbedisce, Bushido avanza comunque, Bushido lo spezza. Poi si scusa. Poi dice che non voleva. Ed è anche vero. Nel frattempo, però, l’ha devastato, e per quanto possa pentirsi dopo, Chakuza sa che di quel rimorso non c’era traccia durante, perciò sono scuse che non gli servono. Preferisce lasciarlo fare e stringere i denti inseguendo l’aspettativa di un momento che arriva solo più tardi, mentre Bushido stringe con forza la sua erezione fra le mani e spinge, spinge, spinge, facendosi strada dentro di lui alla ricerca di un punto che hanno scoperto da poco e che, per quanto erano andate male le loro prime volte, avevano perfino perso la speranza di trovare.
E invece bastava solo abituarsi, prenderci la mano: scavarsi un posto dentro di lui ed aspettare che i muscoli si accomodassero attorno alla sua virilità, imparare il modo giusto di muoversi e di spingere, il modo giusto di stringere, il modo giusto di toccare. Ed eccolo lì.
Chakuza ansima con forza e getta indietro il capo, le mani vagano alla cieca sullo sportello del frigorifero, che sta cominciando a scaldarsi davvero, e ad un certo punto Bushido comincia ad affondare con talmente tanta forza che Chakuza si ritrova completamente schiacciato sulla superficie in acciaio. Ed è vero, è calda.
Bushido si svuota dentro di lui con un grugnito e Chakuza lo segue un paio di spinte dopo, geme e chiude gli occhi e quando li riapre il povero sportello s’è sporcato del suo piacere. E c’è una lucetta rossa che lampeggia.
- Che cazzo…? – ha appena il tempo di esalare fra gli ansiti, che subito il frigorifero lo interrompe.
Inserire temperatura desiderata. – chiede una voce di donna, metallica e affascinante, e Chakuza si irrigidisce mentre Bushido gli si abbatte contro, ridendo e respirando sulla sua spalla.
- Ma che hai fatto?
Chakuza cerca di voltarsi – respira ancora affannosamente – e solleva le mani in segno di difesa.
- Io non ho fatto niente! – protesta, mentre il frigorifero ripete pazientemente la propria richiesta.
Bushido ride ancora e gli lascia un bacio ruvido sul collo.
- No, in effetti ho fatto tutto io. – ed è il suo saluto, perché Chakuza lo sente uscire ed allontanarsi da sé pochissimi secondi dopo, e poi lo osserva anche uscire dalla cucina dopo aver esaudito le implorazioni del frigo, e rimane lì, i pantaloni calati e lo sguardo assente, mentre Bushido mormora “Ti spiacerebbe pulire lo sportello?”, prima di sparire in corridoio, verso il bagno.
Silenziosamente, Chakuza si riveste ed afferra uno strofinaccio appeso sullo schienale di una sedia. Lo inumidisce appena, prima di cominciare a lavare via la traccia del loro amplesso.
Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG
AVVISI: Gen, AU, Flashfic.
- "'E tu come ci sei arrivato là sopra?' 'Mi sono arrampicato.'"
Note: Un'AU che è anche una flashfic. *piange amore* Non so se riuscite a cogliere la vaga meraviglia di fare una cosa simile. Poi vabbe', è una storia scritta un po' a cazzo di cane, questo sicuramente, però comunque scrivere un'AU in così poche parole è un'impresa, questo me lo concederete XD E se non me lo concedete, chissene e_e *si prende onorificenze da sé*
A parte questo, l'idea di scriverla è nata questo pomeriggio posando gli occhi sul nuovo avatar di Fler su Twitter, che come vedete è la copertina del nuovo Air Max Musik, e lo ritrae con un paio d'ali nere di plastica stropicciata spiegate dietro la schiena. *piange splendore* A lui il premio di cosa più bella vista oggi assieme a The Fighter.
Scritta per il prompt Attesa @ terza settimana del COW-T. E con questo mi ritiro. *va in pensione*
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DESPERATE ANGEL
got no wings to fly

Non sa più neanche da quanto tempo stia aspettando. Le ali cominciano a pesare, ormai. È ridicolo, perché le ali in sé sono terribilmente leggere, ma è la loro presenza che ormai si sta facendo insopportabile. Il modo in cui tirano sulle scapole, desiderose di spalancarsi. Il modo in cui fremono ogni volta che lui apre e chiude le mani. È doloroso averle e non poter volare. Poterle aprire solo per impedire che si atrofizzino. Stare, come adesso, seduto sulla sommità di questo muro così alto, ed esserci arrivato scalandolo, come un comune mortale. Non poterne scendere lanciandosi nel vuoto in picchiata, planando a pochi centimetri dall’asfalto per poi riprendere quota e tornare su, su, dribblando i palazzi e tuffandosi in mezzo alle nuvole, provando a raggiungere il cielo per grattarne la scorza azzurra e bussare alla porta di casa.
Ma Dio è stato chiaro, quando l’ha mandato sulla terra. Quando gli ha tolto le sue belle ali candide e morbide, sostituendole con quelle nere e stropicciate che ancora porta appese alla schiena, Dio gli ha detto di non provare nemmeno a fare ritorno in Paradiso finché non fosse stato il momento giusto. Non ha specificato di che momento stesse parlando, ma Fler è abbastanza sicuro che questo momento non sia ancora giunto, perché l’avrebbe sentito. E perché le sue ali sono ancora nere e incapaci di volare, naturalmente.
- E tu come ci sei arrivato, là sopra? – chiede una voce vagamente lamentosa, parecchi metri sotto di lui. Semisdraiato per terra, appoggiato di spalle al muro sul quale lui stesso è seduto, c’è un ragazzo. Sembra più grande di lui. È pieno di lividi, porta un braccio stretto al petto come se la sola idea di muoverlo gli causasse un tormento insostenibile e la sua voce è una sinfonia di gemiti e lamenti di dolore, ma sorride, e sembra perfettamente a suo agio pur nelle condizioni in cui è, come se fossero quelle in cui usualmente è abituato a sopravvivere.
- Mi sono arrampicato. – risponde lui, saltando giù e piombando dritto in piedi a pochi centimetri da lui. Si piega sulle gambe per cercare di attutire il colpo e già che c’è resta piegato, si accuccia sulle ginocchia e gli si avvicina, scrutandolo con interesse. – Che ti è successo?
- Una sciocchezza. – dice il ragazzo, agitando la mano sana davanti al viso, - Un incidente sul lavoro.
- Che tipo di lavoro causa incidenti del genere? – domanda Fler, inarcando un sopracciglio.
Il ragazzo ride, e la sua risata si perde quasi subito in un colpo di tosse che si trasforma a sua volta in un altro gemito carico di dolore, mentre cambia posizione per cercare di non pesare troppo sulla spalla malconcia.
- Il tipo di lavoro dal quale un ragazzino con una faccia e un paio d’occhi come i tuoi dovrebbe stare sempre lontano. – dice, recuperando la calma ed anche quel tono strafottente che già da un paio di minuti sembra voler invitare Fler a prenderlo a calci nelle costole.
- Fai sempre così? – gli chiede con evidente fastidio, rimettendosi dritto e spolverandosi i jeans all’altezza delle ginocchia.
- Così come? – chiede il ragazzo, seguendolo con gli occhi ed inarcando un sopracciglio con aria divertita.
- Così. – risponde Fler, indicandolo con un cenno del capo.
- Così tipo “finire sdraiato in un angolo di strada senza riuscire quasi nemmeno a respirare per il dolore”?
- No. Così tipo da far pensare a chi ti ascolta che chiunque ti abbia ridotto in queste condizioni deve avere avuto i suoi buoni motivi per farlo.
Il tipo sbuffa una mezza risata incredula, mettendosi a sedere più compostamente mentre comincia a riprendersi.
- Ma quanti anni hai? – gli chiede curiosamente. Fler appende le mani ai fianchi magri da ragazzino.
- Tu quanti me ne dai? – domanda spavaldo. Il tipo ride, e stavolta riesce perfino a rantolare di meno.
- Quattordici. – risponde. Fler guarda altrove.
- In un certo senso, ne ho quattordici davvero. – annuisce. Il tipo inarca un sopracciglio.
- In un certo senso…? – ripete divertito, e poi scuote il capo, tendendogli una mano. – Aiutami a mettermi in piedi. – dice. Fler guarda quella mano e le dita incrostate di sangue per qualche secondo, prima di afferrarla per tirarlo in piedi. – Anis. – si presenta il ragazzo, stringendogli la mano con decisione invece di lasciarla andare, mentre fa qualche tentativo di restare in piedi senza dovere per forza appoggiarsi al muro dietro di sé. – Tu?
Fler fa per schiudere le labbra e rispondere col proprio nome, ma esita. Aspetta un paio di secondi. Poi se ne inventa uno nuovo.
- Patrick. – risponde. Anis annuisce, lasciandogli finalmente andare la mano solo per appoggiarsi a lui.
- Bene, Patrick. Ti andrebbe di accompagnarmi in ospedale?
Fler lo guarda con sospetto. Il corpo del ragazzo è caldo e ogni tanto si scuote ancora in brividi scomposti quando viene attraversato da scariche di dolore più forti delle altre.
Lancia un’occhiata alla volta celeste, scura e puntellata di stelle. Non è sicuro che il Paradiso possa attendere ancora molto tempo, ma questi venti minuti per accompagnare Anis al pronto soccorso può anche prenderseli.
- D’accordo. – annuisce, incamminandosi verso l’ospedale e trascinandoselo dietro.
Non viste, le sue ali cominciano a farsi più morbide, e il nero che le avvolge si stempera in una sfumatura più tenue che continua a schiarirsi passo dopo passo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia.
Pairing: Bill/Bushido, Tom/OFC.
Rating: R
AVVISI: Slash, Angst, OC, What If?, Het, Underage.
- "Riassumendo: ho sedici anni, sono – forse – tedesca, ho la pelle scura e mi chiamo Luise Maria. Ho un Vati ed una Mutti. Ho anche una madre che è morta quando avevo cinque anni. Ho uno zio che odia che lo chiami zio. Poi ho un DaDa che vorrebbe farmi entrare nel mondo dello spettacolo, anche se tutti tranne Mutti sono contrari, e tutta una serie di altri personaggi che girano attorno alla mia famiglia e che rendono le mie giornate abbastanza folli da valere la pena di essere raccontate.
Io non sono un’adolescente comune. Sono l’esatto contrario di un’adolescente comune, in effetti. E la mia storia posso raccontarla nei dettagli solo perché ho una Mutti patologicamente logorroica ed ossessivamente innamorata dei propri ricordi – nonché con un’innata passione per raccontare favole della buonanotte decisamente atipiche.
"
Note: Che io sia riuscita a finire questa storia, tanto per cominciare, è un miracolo XD L'ho cominciata all'incirca un paio d'anni fa, dopo aver messo le mani su questo articolo e anche su quest'altro. Fermo restando che non credo a una sola parola, l'idea era così sfiziosa che non ho proprio potuto impedirmi di plottare a riguardo XD Solo che dopo un po' le cose da fare, i fandom e tutto il resto, come spesso accade, si sono accavallate, ed ho lasciato perdere la scrittura quando ero più o meno a metà della storia.
Dopo due anni (che poi sono il motivo per cui lo stacco stilistico fra la prima e la seconda parte della storia è così evidente, soprattutto nell'uso dei corsivi ma anche in generale nelle scelte narrative, e ci mancherebbe altro che non fosse evidente, aggiungerei), non credevo che sarei riuscita a riprenderla e concluderla, ma il COW-T ha fatto anche questo miracolo. Il prompt Famiglia per la seconda missione della terza settimana era troppo perfetto per non convincermi a muovere il culo e contribuire alla causa con quella che sapevo sarebbe stata una storia piuttosto corposa. Così, anche se fa schifo, posso illudermi che abbia una sua validità lo stesso. *gocciolone*
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LOVE IS NOISE

Io ho sedici anni. Sono svizzera. O tunisina. Sono tedesca, suppongo, perché la Germania è tutto ciò che riesco a ricordare da che ero molto piccola. Comunque, non sembro tedesca. Non sembro neanche svizzera. La mia pelle è scura – non nera, però: color caramello, identico a quello della mia madre biologica.
A Vati piace il colore della mia pelle. Anche allo zio piace tanto. Io sono convinta che Mutti lo odi, comunque. Per quanto riguarda me, non saprei: non odio i miei colori, ma se Vati, alla fine, sceglie sempre Mutti, vuol dire che gli piace anche la sua pelle bianchissima e così orgogliosamente tedesca. Ogni tanto mi piacerebbe essere bianca.
Ah, mi chiamo Luise Maria. È un nome orrendo ma non riesco ad odiarlo. Primo, perché è il nome di nonna, e nonna è stupenda. Secondo, perché Vati è un mammone, ed è orgoglioso del fatto che sua figlia si chiami come la sua adorata mamma. Terzo, perché Vati questo nome se l’è tatuato sul braccio. E sì, okay, lo so che non l’ha tatuato per me ma per nonna, ma non c’entra, mi porta comunque scritta sulla pelle. Ed è una sensazione bellissima, perché lui si scrive addosso solo le cose irrinunciabili: c’è la B che è il suo marchio da guerriero, c’è Berlino che l’ha visto crescere, c’è la Verità che è ciò in cui crede, c’è quell’orrido Electro Ghetto che gli ha dato i soldi e poi c’è Luise Maria, che sono io e che è la nonna.
Vati è molto geloso di ciò che si scrive sul corpo. Davvero, ci mette solo la roba importantissima: non s’è scritto addosso niente neanche su Mutti, sebbene ogni tanto mi venga da pensare che la B sul collo non stia solo per Bushido. Cioè, intendo, forse è come il Luise Maria: un tempo era solo per nonna, ora è anche per me. La B un tempo era solo per Bushido, forse oggi è anche per Mutti.
Riassumendo: ho sedici anni, sono – forse – tedesca, ho la pelle scura e mi chiamo Luise Maria. Ho un Vati ed una Mutti. Ho anche una madre che è morta quando avevo cinque anni. Ho uno zio che odia che lo chiami zio. Poi ho un DaDa che vorrebbe farmi entrare nel mondo dello spettacolo, anche se tutti tranne Mutti sono contrari, e tutta una serie di altri personaggi che girano attorno alla mia famiglia e che rendono le mie giornate abbastanza folli da valere la pena di essere raccontate.
Io non sono un’adolescente comune. Sono l’esatto contrario di un’adolescente comune, in effetti. E la mia storia posso raccontarla nei dettagli solo perché ho una Mutti patologicamente logorroica ed ossessivamente innamorata dei propri ricordi – nonché con un’innata passione per raccontare favole della buonanotte decisamente atipiche.
Ah, dimenticavo: la mia Mutti non è una donna. È Bill Kaulitz.
*
Mutti la mette sempre in questo modo, quando racconta la storia: se tuo padre fosse stato meno cretino, le cose si sarebbero risolte molto prima e molto più facilmente. Ora, quando Mutti comincia in questo modo poi possono succedere tre cose diverse: se io sono in modalità “Vati-è-meraviglioso-e-chiunque-lo-tocchi-merita-di-morire”, litighiamo; se Mutti è in modalità “Diva-lamentosa-random” ed io non mi sento troppo acida, la ascolto lamentarsi di Vati e poi ci facciamo una risata; se, infine, Vati è in modalità “sono-un-figo-il-cui-unico-errore-è-stato-prendervisi-in-casa”, allora ci arrabbiamo tutti e tre, litighiamo furiosamente, io vado a dormire da zio Tom e Vati dorme sul divano.
La prima situazione alla fine si risolve sempre bene, perché io vado a farmi coccolare un po’ da Vati e dopo qualche minuto Mutti si scusa – perché può sostenere un carico di sensi di colpa molto limitato, la mia Mutti, con quelle spalle così sottili, è solo per questo che alla fine è così dolce.
La seconda situazione non presenta mai problemi di sorta.
La terza fa schifo perché odio quando Vati si arrabbia. Anche se significa che posso restare a dormire da zio Tom con una scusa valida, non mi piace lo stesso.
In ogni caso, queste situazioni non si sviluppano mai abbastanza in fretta da impedire a Mutti di raccontare tutta la storia con dovizia di particolari, perciò la so quasi a memoria, ormai. Ed è una bella cosa, perché quanti altri ragazzi possono dire di conoscere a memoria l’intera storia della propria esistenza? La maggior parte di loro si affida agli album di fotografie, e non saprà mai di aver fatto o detto cose tremende o bellissime, quand’era più piccolo, semplicemente perché nessuno lo ricorda, ed anche se lo ricorda nessuno lo ripete abbastanza da imprimerlo nella memoria di tutti.
Mutti invece è così: se non ricorda tutto tutto, va in paranoia. Detesta perdersi pezzi di ciò che ama. Che poi è il motivo per cui si ostina a ricordare con orrore i pochi infausti giorni che, da bambino, passò lontano da zio Tom, quando tornò prima dal campo estivo. Odia essersi perso i particolari.
A volere dire esattamente le cose come stanno, io non ricordo proprio tutto della mia esistenza. Ho un buco enorme, e il buco enorme sono i cinque anni di vita che precedono il mio arrivo in questa casa. Non credo mi sia successo qualcosa di spiacevole – non ho brutti ricordi della mia madre biologica e non credo affatto che mi maltrattasse, se è questo che vi state chiedendo – è solo che nessuno me li ha mai raccontati, quei cinque anni. Ed io perciò non ne so niente.
È per questo che ho qualche difficoltà ad iniziare questo racconto: non so da che parte prenderlo. Perché la mia storia in effetti comincia con la mia nascita, non col mio arrivo a Berlino. Solo che ho difficoltà a ricondurre la mia nascita all’inizio di qualcosa, visto che la mia nascita, in teoria, non avrebbe dovuto essere l’inizio di niente.
Neanche di me.
Mettiamola così: il mio Vati è stupendo, okay?, ed io lo amo tantissimo. Non ne avrei voluto un altro neanche a poter scegliere. Oddio, non lo so, forse se a cinque anni me l’avessero proposto ne avrei scelto uno diverso. Comunque, ora come ora, non ne vorrei un altro neanche per scherzo.
Ciò non toglie che abbia fatto i suoi bravi errori nella vita. E con errori non mi riferisco al ridicolo taglio di capelli che ancora portava fino a qualche anno fa o a certe patacche che tutt’oggi indossa al posto di orologi umani ed eleganti – per non parlare dei mocassini.
Il mio Vati mi voleva morta.
È brutto da dire senza filtri, ma io stessa preferisco pensarla così, con secchezza, schiettamente, perché fa meno male che non aggiungendoci sopra melodramma gratuito.
Mi consolo dicendomi che non è che volesse morta proprio me, ecco, voleva morta un’idea. L’idea di potersi ritrovare a ventinove anni con una bambina da accudire ed una tizia da tenersi in casa con la quale aveva passato insieme quanti, sei, sette giorni? Avrebbe spaventato anche me.
Forse anch’io avrei pagato per uccidermi, ecco.
Per questo non ce l’ho con lui. Non più, almeno.
Insomma, ha pagato. Sui giornali, a quanto ho capito, è uscito fuori che la gravidanza di mia madre era stata una truffa, che non c’era di mezzo nessun bambino. Questo perché allora Vati andò in giro apposta a smentire tutto. Buttò lì una storia di ricatto… ne uscì pure maluccio, peraltro, perché era un periodo un po’ burrascoso per il suo rapporto coi media, avevano già cominciato a dargli addosso in tutte le lingue per altri motivi e quindi, quando lui andò in giro a fare la voce grossa e a borbottare “Nessuno ricatta Bushido”, tutti diedero ragione a mia madre, anche se non sapevano se ci fosse davvero un bambino di mezzo. Io c’ero, sì, ma loro non potevano saperlo. Mia madre poteva davvero essere una delle tante in cerca di denaro che truffano un tizio ricchissimo basandosi sul niente, ma Vati era Bushido, il King of Kingz, quello che spaccava le teste dei diciannovenni in Austria e che scatenava le risse e che aveva il passato da criminale di strada e un mucchio di canzoni che non era neanche possibile riprodurre in pubblico perché vietate per legge, perciò per tutti loro aveva automaticamente torto.
Quale che fosse la reazione comune, comunque, Vati pagò. Mia madre prese i soldi ma non portò a termine la missione. Mi tenne. A tutt’oggi – forse perché di lei non ricordo quasi niente – non so perché lo fece. Non voglio pensare che mi ritenne più utile da viva. È un pensiero meschino – non tanto nei suoi confronti, quanto più nei miei. Significherebbe farsi male gratuitamente, e siccome ho già abbastanza casini di mio, almeno da un anno a questa parte, non ho proprio bisogno di altri motivi per cui soffrire.
Che poi è il motivo per cui sto buttando giù queste memorie, perché forse se raccolgo tutto e faccio una cosa per bene magari trovo anche le parole per dire la verità a Vati e Mutti senza rischiare la morte di nessuno. Al limite, se non funziona la via della razionalità, passo il malloppo a Mutti e le dico qualcosa di carino tipo “l’ho scritto per farti piacere”. Mutti ci cascherà sicuramente – è il vecchio trucco alla Notebook, funziona sempre – ed eviterà di darmi addosso per i contenuti.
Nota per me: cancellare le ultime cinque righe.
Mi lascio andare contro la sedia e ticchetto sulla scrivania con la matita. Punta-gomma, punta-gomma, punta-gomma. Smetto quando vedo la superficie in fòrmica ricoprirsi di puntellini di grafite. Karima mi lapiderà. O mi ucciderà. O prima mi lapiderà e poi mi ucciderà. Ci credo che fa la tata a Vati da due secoli e mezzo, sono uguali, affettuosi ma burberi.
Sospiro pesantemente e cancello i puntellini.
Trottolo si mette a vibrare quasi immediatamente, mandando il tavolo in rivolta sotto le mie mani. Trema tutto, è divertentissimo. Trottolo è il mio cellulare, si chiama così da quando la suoneria ha smesso di funzionare. Vati si rifiuta di comprarmene uno nuovo perché il cellulare s’è ridotto in queste condizioni in seguito ad un volo che gli ho fatto fare fuori dalla finestra. Ero nervosa, che dire. Da allora funziona solo la vibrazione, e per sentirla anche a distanza ho dovuto metterla ad un livello assurdamente alto, e DaDa una volta sentendolo ha sbottato “che è ‘sto trottolio?!”, sentendo provenire il suono dagli abissi della mia borsa. Da quel momento è Trottolo.
Mi allungo e recuperarlo e rispondo con un sorriso quando vedo chi sta chiamando.
- Dimmi che la Madre Badessa e il Sovrano Assoluto non sono in casa.
Rido di cuore.
- Ma non dovevi lavorare oggi, - sghignazzo maliziosa, - zio Tom?
- Dio, Lu! – sbotta lui oltraggiato, - Mi vengono i brividi quando mi chiami così!
- Be’, sei mio zio, no? – ridacchio, coprendomi le labbra con una mano.
- Tecnicamente no! – asserisce lui, esaltandosi improvvisamente, - Quindi, che ne diresti—
- Che ne diresti di parlare di meno e muoverti di più? – suggerisco a bassa voce, - Saranno a casa fra un’ora al massimo.
- …sono già per strada.
Interrompo la conversazione e mi lascio andare ad un risolino stupido mentre finisco di togliere le macchie di grafite dal tavolo.
Sono i drammi della vita familiare; hai un Vati un po’ severo ed una Mutti comprensiva ma facilmente preoccupabile, hai una cameriera burbera ma complice, ma soprattutto hai uno zio che non è veramente tuo zio, che è bellissimo e che ami follemente da quando eri tanto piccola che hai smesso di contare gli anni.
Può capitare di mettertici insieme. Succede.
È questo, il mio piccolo grande segreto. Quello che devo trovare il coraggio di dire a Vati e Mutti. Quello per cui sto scrivendo questa storia.
Non è esattamente la fine del mondo, ma oh, ci si avvicina parecchio.
*
Mi annoio a morte. Zio Tom sta blaterando al telefono con DaDa da mezz’ora e fra un’altra mezz’ora Vati e Mutti saranno qui. Non abbiamo ancora scopato e non penso che scoperemo oggi. La cosa mi frustra perché aspetto il ciclo da un momento all’altro e il cretino non capisce che deve cogliere l’attimo se non vuole rimanere a bocca asciutta per la prossima settimana – be’, quattro giorni, ma tre glieli aggiungo per punizione di mia spontanea iniziativa, vaffanculo a lui.
- David, ti giuro che ho mal di stomaco. – cerca di giustificarsi di fronte all’uomo che lo rimprovera al telefono, - E che cazzo, uno non può neanche andare ad agonizzare sul cesso di casa propria, quando sta male? – si ferma. Nel silenzio assoluto, sento l’eco della voce di DaDa strillare “non quando per ‘cesso di casa propria’ si intende tutt’altro, Tom!”, col tono paternalistico che usa anche con Mutti quando arriva in ritardo. – Senti… - sospira, guarda l’orologio, - Fra tre quarti d’ora torno. Promesso. A dopo. – interrompe la chiamata e si lascia ricadere sul divano accanto a me, gettando di malagrazia il telefono sul tavolino.
- …ci tieni a dare un gemello a Trottolo? – chiedo teneramente, adagiandomi contro di lui. È depresso, lo sento dal modo in cui respira, pesantemente, con difficoltà. Oggi non si scopa proprio.
Lui mi fa passare un braccio attorno alle spalle e mi stringe a sé, mugolando deluso. È facile dimenticare che ha quasi il doppio dei miei anni.
- Mi dispiace, piccola. – biascica, ed io rido perché Vati chiama Mutti allo stesso modo, ma al maschile. – David non si decide a mollare l’osso.
- E tu digli la verità. – suggerisco rotolandogli in grembo e sollevando una mano ad afferrare una di quelle intricate meraviglie che si ritrova per capelli, arrotolandomela attorno al dito.
- Sì, certo. – borbotta lui aggrottando le sopracciglia in un modo tutto suo, che non c’entra niente neanche con Mutti; un modo dolcissimo che esprime tutta la sua preoccupazione ed il casino enorme che ha in testa. – Mi vedo già: “ehi, David, ciao! Hai presente Luise Maria? Sì, la figlia di Bushido e Bill, quella che vorresti far sfondare come cantante entro la fine dell’anno? Stiamo insieme già da parecchi mesi. Hai sentito chi è il nuovo allenatore della nazionale?”. – scuote il capo, disperatamente. Io rido e scendo con un dito a disegnare il profilo della sua fronte. Mi fermo fra le sopracciglia e stendo la piccola ruga che gli invecchia i tratti del viso. Lui sorride e si china a baciarmi. Amo quando lo fa. Amo quando sorride prima di baciarmi, gli resta il sorriso sulle labbra ed essere baciati da un sorriso è una cosa stupenda. – Penso che stia capendo qualcosa, sai? – ammette in un soffio, rimettendosi seduto. – Mi conosce troppo bene.
Io sbuffo e mi sistemo meglio contro il suo petto, sfilando le scarpe e tirando i piedi sul divano per stare più comoda.
- Dovresti dirgli che hai una ragazza. – biascico, stringendo un lembo della sua maglietta, - Così almeno smetterebbe di essere sospettoso quando ti vede sparire.
- Cucciola, se vuoi veramente lavorare con David, fai tesoro di questo prezioso consiglio: - solleva un indice con aria superiore, fissandomi serio. – i manager, se gli dai un dito, si fregano il braccio, la spalla e anche buona parte del collo. – sghignazza, - Assieme alla manica della magliettina alla moda che la tua Mutti ti ha regalato per il compleanno. – aggiunge, pizzicandomi sulla spalla al di sopra della suddetta maglia, mentre io ridacchio e mi arrotolo come un riccio attorno a lui. – Seriamente, - riprende, baciandomi sulla fronte, - se gli dicessi che sto con qualcuno poi comincerebbe il calvario del chi è. Ed una volta che sai che qualcuno c’è… - sospira e scuote il capo, - non è così difficile risalire all’identità. Non per David, almeno. – sorride a metà, - L’ha già fatto in passato, so di cosa parlo.
- A-ha, quindi sei già stato con un’altra sedicenne figliastra di tuo fratello e David l’ha scoperto! – lo prendo in giro con aria falsamente stupita.
Lui grugnisce qualcosa e mi tira una guancia.
- Fai meno la spiritosa. E piantala di ricordarmi che sei figlia di Bill!
Mi sollevo sulle ginocchia, piantandomi a cavalcioni sopra di lui.
- Posso provare a fartelo dimenticare, se vuoi. – soffio direttamente sulle sue labbra, e lui si arrende perché per qualche strano motivo non sa proprio resistermi. Non so se sia perché mi tiene vicinissima a sé da quando avevo cinque anni o per qualche altro motivo, so solo che non è mai stato in grado di dirmi no. Per fortuna.
Mi chino a baciarlo e sento subito le sue mani risalire la curva dei miei fianchi e stringersi attorno alla mia vita, possessive. Sono gli unici momenti in cui non importa di chi sono figlia: i momenti in cui sono una cosa sua, i momenti in cui le nostre pelli diventano una, i momenti in cui mi tiene tutta per sé. I momenti che preferisco della giornata.
Interrompe il bacio per scivolarmi lungo il collo – le labbra ancora umide, calde e perfettamente aderenti alla mie pelle.
- Zio… - mugolo estasiata. E lui, inspiegabilmente!, si interrompe all’istante.
- E che cazzo, Lu! – borbotta, abbattendosi esasperato contro la mia spalla, - Ma la vuoi piantare con questo zio di merda?!
- Che palle sei! – mi arrabbio a mia volta, scavalcandolo e lasciandomi ricadere sul divano al suo fianco, - Quando ti fissi sulle cose è la fine!
- Scusa se mi fa senso sentirmi chiamare zio mentre sto cercando di scopare!
- Ma ti chiamo zio da sempre! – protesto io, arrotolandomi in un angolo, - È come se Mutti si svegliasse un bel giorno e decidesse di scoparmi! Io mica smetterei di chiamarlo Mutti!
Lo vedo impallidire e tirarsi indietro.
- Tu sei proprio figlia di tuo padre… - commenta allucinato, - È un’immagine agghiacciante!
Sospiro.
- Se uso Vati per fare lo stesso esempio?
- Lu!!!
- DaDa?
- Ma Diocristo, avrà un centinaio d’anni!!!
- Perché ti sconvolge più DaDa di Vati?
- È… una questione di età!
- È vero, Vati è più giovane di DaDa. Quindi lui va bene?
- Lu!!!
Rido e mi abbatto contro di lui, cadendogli addosso con tanto impeto che finiamo entrambi distesi sul divano, e zio Tom è costretto a manovre incredibili per impedirci di cadere a terra come sassi.
- Ti stavo prendendo in giro… - lo rassicuro baciandogli il mento e tirandogli i dread, - È l’unico modo che ho per farti smettere di chiedere!
- Smetterei di chiedere se tu smettessi di chiamarmi zio, una buona volta. – mi sbuffa contro una guancia. Il telefono sul tavolino ricomincia a squillare, riempiendo l’aria delle note dell’ultimo successo di Samy Deluxe. Zio Tom ha dei gusti orrendi, nemmeno Vati ascolta Samy Deluxe, anche se dovrebbe farlo per mestiere. – Ma non molla proprio mai?! – sbotta istericamente, allungando un braccio a recuperare l’apparecchio. – David, Cristo santo! Finisco di cagare e arrivo!
Non riesco a trattenere una risatina e zio Tom mi fissa con aria omicida. Vicina come sono, posso sentire perfettamente il silenzio dall’altro lato della cornetta cristallizzarsi per qualche secondo, prima di erompere in uno scioccato “Caghi in tandem, Tom?” che mi uccide definitivamente, obbligandomi a ridere se non voglio soffocarmi da sola.
Zio Tom mi guarda, sempre più scioccato, e mi manda a rotolare dall’altro lato del divano con uno spintone tutt’altro che affettuoso.
- Era la televisione! – butta lì, rivolgendosi a DaDa.
La risata del mio aspirante manager è talmente tonante che la sento fino a qui. Ed allo stesso modo sento distintamente il suo “Caghi di fronte alla tv, Tom?”, che mi stende una volta per tutte, costringendomi a schiacciare il naso contro un bracciolo se non voglio farmi riconoscere all’istante.
Il battibecco continua per qualche secondo, ma io non lo seguo più. Poggio la testa contro il braccio e mi lascio andare, osservando zio Tom muoversi nervosamente intorno al tavolino, gesticolando furioso. È così bello che non sono neanche più arrabbiata per il sesso che non abbiamo fatto.
- Perfetto. – lo sento sospirare quando, alla fine, riesce a staccarsi dai rimproveri di DaDa, - Mi ha detto di salutare da parte sua la mia misteriosa ragazza, ed ha aggiunto che si compiace per il suo senso dell’umorismo, visto che rideva per tutte le sue battute.
- Da quando hai una ragazza, Tomi? – borbotta Mutti spuntando alle sue spalle, seguito a ruota da Vati che, quando si accorge che c’è anche zio Tom, grugnisce un saluto indistinto a va a chiudersi nel suo salottino privato.
Mentre zio Tom suda tutte le sette magliette che indossa per lo spavento, io lancio a Mutti un’occhiata inquisitoria.
- È andata male. – risponde lui con un sospiro così teatrale che, se potessi, lo filmerei, lo riprodurrei come l’ologramma della principessa Leila e lo terrei sul comodino per sempre. Io annuisco, abbassando lo sguardo. - Va' a fargli un po' di coccole, su. - mi incita lui, sorridendo conciliante.
Io e zio Tom ci salutiamo con un cenno del capo e basta; è il massimo che ci concediamo in presenza di Mutti e Vati, ultimamente. È stata un'idea di zio Tom, quella di diminuire i contatti. “Siamo sempre stati appiccicati”, ho cercato di oppormi io, “s’insospettiranno, se smettiamo”. Lui mi ha guardato sorridendo come avessi ancora cinque anni ed ha risposto che ormai sono una signorinella, e sicuramente mio padre avrebbe preferito evitare di vedermi comportare ancora come fossi stata una bambina. “A sedici anni non stai ancora seduta in braccio a tuo zio”, ha detto con un sorriso un po’ storto, “a meno che non te lo scopi”, ha concluso dandomi un bacio. Da quel giorno, niente più baci e abbracci in presenza dei miei genitori. Ovviamente, Mutti se n’è accorto ed ha dato di matto: s’è convinto avessimo litigato o chissà cos’altro, ho fatto una fatica bestiale a convincerlo che semplicemente non mi andava più di stargli così attaccata. Ho fatto una fatica bestiale soprattutto perché non era vero che non mi andava più di stargli così attaccata.
Comunque sia, adesso Vati ha bisogno di me, perciò anche volendo non avrei tempo per le smancerie. Trotterello silenziosamente verso la sua tana mentre Mutti rovescia parole addosso a zio Tom pretendendo di sapere tutto della sua giornata nello stesso istante in cui gli racconta della propria. Busso con cautela ed aspetto il permesso di entrare, e nel mentre mi fisso le punte dei piedi nudi con aria un po' incerta.
Quando cinque anni fa la Universal non ha rinnovato il contratto ai Tokio Hotel, il mondo l'ha presa in maniera meno drammatica di quanto non ci si sarebbe aspettati. Me lo ricordo bene, perché non penso potrò mai dimenticare tutte le lacrime che mi ha versato addosso Mutti. Che ha versato addosso a me, addosso a Vati, addosso a zio Tom, addosso a Georg e Gustav, addosso a DaDa, a chiunque. Mutti ha pianto tanto che nessun altro ha sentito il bisogno di farlo. Ha pianto lui per tutti. S'è riempito della tristezza di tutti quanti e l'ha rovesciata tutta da solo, dev’essere stato faticoso da morire, ed infatti alla fine era drenata, la mia povera Mutti. Drenata e stanca e triste ed avrebbe voluto piangere ancora ma erano finite le lacrime, pure quelle degli altri.
È stata la prima volta in cui ho avuto paura per la vita di qualcuno. È una sensazione orribile. Non è come quando sei semplicemente preoccupata e basta, è una cosa più profonda, più disturbante. È quando ti fermi, guardi un corpo emaciato e pallido e ti chiedi “ma io, senza questa persona, potrei mai stare?”. E ti rispondi “no”. Quando ti rispondi “no”, è la fine.
Mutti è dimagrito. Di più.
Ha avuto un sacco di problemi. È finito su un sacco di giornali.
Vati è andato fuori di testa nel giro di due giorni. Non si staccava dal letto, non riusciva a fare niente, stava immobile accanto a Mutti e cantava Schmetterling perché è l'unica sua canzone che a Mutti piaccia davvero. E Mutti piagnucolava e ringraziava ed abbracciava e tirava su col naso e mi chiamava, “Lu, tesoro, vieni qui”, e per un po’ ho pianto io al posto suo, così che lui potesse riprendersi. Solo un pochino.
Ne siamo usciti proprio grazie al fatto che Mutti non aveva permesso a nessun altro di piangere. Zio Tom per primo e di seguito tutti gli altri, non potendo essere tristi, si sono dati da fare, sono corsi ai ripari, hanno rilasciato dichiarazioni, sedato i media, letteralmente barricato la casa quando c’è stato bisogno. Non penso che potrò mai dimenticare l'epica notte del dodici agosto duemilaquattordici, in cui da questa villa non si poté uscire, perché da qualsiasi lato la si guardasse le ombre dei giornalisti appostati si stagliavano minacciose contro le mura gialle. Ed erano siepi di ombre.
Avevo undici anni allora. Avevamo appena finito di mangiare, Vati mi preparava la cioccolata della buonanotte ed io, arricciata sul letto accanto a Mutti, disegnavo palloncini. Mutti guardava fuori dalle finestre, si rigirava i miei ricci fra le dita come anelli e mormorava imprecazioni sottovoce. Era bellissimo ed era anche sciupato da fare paura.
Qualcuno doveva aver fatto la spia sul compleanno di DaDa e sul fatto che intendevamo festeggiarlo con una cena informale proprio qui, visto che Mutti non riusciva ancora a muoversi. C’eravamo ritrovati tutti in trappola prima di poter fare o dire alcunché.
Io non ero veramente spaventata per la mia incolumità – erano già sei anni che mi confrontavo con quella vitaccia, gli appostamenti stavano diventando parte della mia abitudine – più che altro c'era un senso di fastidio che mi scorreva inarrestabile sotto la pelle, ed i palloncini che stavo disegnando li avrei voluti davanti per farli scoppiare tutti a mani nude.
Gli altri, invece, sembravano davvero preoccupati. Suppongo lo fossero proprio, per Mutti: poteva succedere qualunque cosa, nelle condizioni in cui era, e non sarebbero neanche stati in grado di chiamare un’ambulanza senza che il fatto finisse in prima pagina su tutti i giornali della nazione.
È stato allora che è successo: Vati s’è bruciato con la cioccolata, zio Tom ha riso e lui e Georg si sono guardati in quel modo speciale in cui ogni tanto si guardano, quello che sottintende anni di complicità basata su un'amicizia talmente maschia da esprimersi solo in prese per il culo. E solo in senso figurato.
Gustav ha riso a propria volta, indovinando la domanda nei loro occhi esattamente come, suppongo, deve essersi ritrovato a fare spesso quando militava nei Tokio Hotel.
DaDa ha sbuffato.
“Voi non lo farete”, ha detto.
Io mi sono guardata attorno con aria smarrita, perché in tutta sincerità non avevo la più pallida idea di cosa stesse capitando.
Zio Tom s’è alzato in piedi. Gli altri l’hanno seguito. Vati s’è affacciato dalla cucina succhiandosi un pollice, Mutti l’ha guardato, ha riso e ha scosso il capo.
“Tomi...”, ha detto, dolcissimo come solo lui sa essere quando vuole, “Non dovete per forza”.
Zio Tom ha scrollato le spalle.
Georg ha sbottato “Sono secoli che non meno qualcuno. Mi prudono le mani”.
Gustav s’è alzato dalla poltrona con un sospiro falsamente esasperato e intimamente eccitato.
E li ho visti scivolare fuori dalla villa e fronteggiare i giornalisti a muso duro come criminali, esattamente come certi tipi di cui mi raccontava Vati quando Mutti era troppo stanco per darsi da fare con le favole della buonanotte.
Fieri, decisi, arrabbiati.
Il resto è storia, su tutti i giornali.
Zio Tom che sbotta “Avete rotto i coglioni”. Un giornalista che si lancia comunque in qualche domanda sul futuro dei componenti della band. Zio Tom che precisa “Forse non avete capito... avete rotto i coglioni!”. Un altro giornalista che accenna una protesta.
E le botte da orbi che cominciano a volare ovunque nel momento stesso in cui i tre folli si lanciano proprio in mezzo al vespaio. Ridendo come bambini e menando calci e pugni come ne andasse della loro stessa vita.
Dentro casa, Mutti teneva una mano pressata sulle labbra. Per nascondere il sorriso.
DaDa scuoteva il capo e rideva, dando loro dei pazzi, incerto fra la possibilità di chiamare la polizia per porre un freno al disastro in tempo utile o godersi lo spettacolo fino alla fine.
Io, estasiata, stavo col naso appiccicato al vetro e strillavo felice “Mutti, Mutti, i tre moschettieri!”. Vati entrò sbrigativamente in camera, mi rimise seduta sul letto e poggiò la tazza di cioccolata fumante sul comodino.
“Bevi”, disse burbero, lanciando un’occhiata fuori. Poi sospirò ed uscì.
Tenendo la Heckler in mano.
Ci finì in tribunale, per quella piazzata. Ma riuscì a frenare l’Apocalisse e disperse i giornalisti, e Mutti, al mio fianco, sospirò languidamente ed aggiunse “C’è anche D’Artagnan”. Ed è una cosa che spero gli ripeta spesso, perché Vati se la merita proprio.
“Mi dispiace solo non aver filmato niente”, fu il secco commento di DaDa quando gli altri adulti di casa rientrarono, ridendo come deficienti. “Adesso possiamo per favore tagliare la torta prima che arrivi la polizia?”.
In effetti, DaDa arrivò appena a spegnere le candeline.
Comunque, da quel giorno in poi le cose andarono un pochino meglio. Per quanto meglio possano andare delle cose in generale quando la quasi totalità della tua famiglia è sotto denuncia per percosse, minacce e possesso illegale d’arma da fuoco.
I nomi e le vicende sui giornali furono, come spesso accade in quest’ambiente, più benedizioni che maledizioni, e da quel momento in poi le opportunità di lavoro fioccarono per tutti: zio Tom decise di accettare la proposta di DaDa e si gettò nella produzione, Gustav partì in tour coi Foo Fighters come seconda batteria – un sogno diventato realtà, né più né meno – Georg ebbe appena il tempo di laurearsi, finalmente, che subito lo chiamarono a sostituire il bassista degli U2 per un frammento del tour americano, mentre Adam Clayton recuperava da una brutta tendinite. Ed a Mutti venne offerto un intero programma radiofonico, un programma tutto suo.
Che poi è il motivo dello scazzo serale di Vati.
Fra gli anni che ha passato sul fronte del palco e quelli di cui ha avuto bisogno per leccarsi le ferite, Mutti ha sviluppato per lo showbiz musicale un’acredine piuttosto violenta. Una volta me l’ha esplicitata in maniera molto chiara: “A me nessuno ha regalato niente”, ha detto astioso, mentre discuteva con Vati sull’accettare o meno l’offerta di RTL, “Solo prese per il culo da quando ho cominciato a cantare a quando ho smesso”. Un mezzo ghigno. “Ed ora mi offrono un programma e mi dicono per iscritto che potrò gestirlo come vorrò e scrivere tutti i testi delle interviste”.
Vati ha ghignato con lui.
“Ti vogliono vedere litigare con un po’ di gente”, ha chiarito per me che ruminavo spinaci e non capivo.
Mutti ha riso.
“Perché non mi hanno mai visto litigare”, ha aggiunto con un certo orgoglio.
“E non sanno che coi cazzotti vai forte nonostante la french”, ha annuito Vati, compiaciutissimo, mentre posava la forchetta sul bordo del piatto e scendeva ad accarezzargli una mano.
E mentre io li fissavo sognante, trovandoli bellissimi, Mutti ha detto “E sia”. Ed è stato davvero.
BK non è soltanto uno dei programmi radiofonici più ascoltati in Germania. Ha un sito cliccatissimo anche all’estero sul quale vengono caricati i podcast e le traduzioni, perciò in verità il sogno di Mutti è ancora vivo – raggiungere tutti e ovunque – ma quel programma è un disastro: è cattivo.
Io non do torto alla mia Mutti se vuole vendicarsi un po’ in giro. Non gli ho dato torto quando s’è ritrovato i Killerpilze in studio ed ha chiesto lumi sul concept del video di una certa Letzte Minute, così come ha cercato di informarsi sulla nascita del testo, mettendoli mortalmente in imbarazzo. Ed ho riso come una pazza quando ha salutato in diretta l’arrivo di LaFee con un secco “Oddio, tesoro, il vestito ti stringe, sei sicura che la costumista ti abbia dato la taglia giusta?”.
Mutti è così, è scorretto.
Mutti è anche molto coerente.
Ed oggi Vati accompagnava Kay One a presentare il nuovo album solista proprio al BK.
- Sì. – risponde finalmente la voce cavernosa di Vati da dentro la propria tana, - Arrivo fra poco.
Lancio un’occhiata all’orologio da polso. Sono quasi le sette.
- Non sono venuta a chiamarti per la cena. – biascico, - Posso entrare?
Vati grugnisce qualcosa che potrebbe essere un assenso come un diniego, ma è la cosa che fa sempre quando è arrabbiato. Vorrebbe farsi consolare ma non te lo dirà mai ad alta voce, perciò ringhia ed osserva che succede: se ti metti paura e vai via, affonda sempre di più nella propria rabbia ed è capace di riempirti di astio finché campi; se sei coraggioso, se rischi ed entri, se ce la fai a stargli dietro, però, i premi sono abbracci e sorrisi.
Deglutisco e faccio ruotare la maniglia, entrando nella stanza. Vati ha lanciato via la polo nel momento stesso in cui è entrato. Me ne accorgo perché la trovo appesa allo spigolo della libreria, sulla parete a sinistra. Quando a Vati succede qualcosa di brutto è come se avesse immediatamente bisogno di dimenticarselo, di togliere via tutte le tracce. Probabilmente non s’è tolto tutti i vestiti solo perché immaginava che sarei arrivata io.
La polo, comunque, pende dallo spigolo. Io mi muovo verso di lei e la recupero, appallottolandomela fra le mani mentre mi avvicino a lui. Vati, disteso su un tappeto e circondato da cuscini ammonticchiati dietro la schiena e sotto i gomiti, stringe fra le dita con una certa violenza il narghilè e fissa silenzioso il vuoto.
- Non posso credere che tu sia così depresso per Kay! – mugolo contrariata, abbandonandomi al suo fianco con uno sbuffo che scuote l’aria e che lui non mostra di apprezzare particolarmente. – Avanti, ha trent’anni e conosce Mutti da più di undici… sa perfettamente come difendersi dalle sue frecciate!
Vati mi lancia un’occhiata un po’ ambigua, di quelle delle quali non riesci a cogliere il senso perché ha degli occhi talmente scuri che a volte ti ci perdi e ti sembrano vuoti. In realtà ti ci perdi proprio perché invece sono densissimi.
- Lui sì. – butta lì, tirando una boccata dal narghilè, - Sono io che non ho ancora imparato.
Inarco le sopracciglia.
- Sapevi che se la sarebbe presa anche con te. – cerco di farlo ragionare, mentre lui borbotta qualcosa sulle figlie ingrate.
- Ma se l’è presa solo con me! – precisa, lamentandosi come un bambino.
- Ma è perché trova Kay cuccioloso! Avanti, lo troviamo tutti cuccioloso! Anche tu lo trovi cuccioloso!
Vati mugola qualcosa di assolutamente incomprensibile e si arriccia attorno a un cuscino. Io trovo che ci sia un palese spreco di abbracci, in tutto questo, perciò elimino l’impedimento in morbida piuma d’oca e mi sostituisco a lui. Vati mi strizza forte. Il suo petto profuma d’incenso ed è caldo e liscio. Vati è sempre stato bravissimo ad abbracciare.
- Dice che sto cercando di far diventare Kay una copia venuta male di Chakuza.
Annuisco.
- Questo perché ad entrambi Chaku piace. Quindi tu ci trasformi le persone e Mutti si offende quando lo fai. – confermo ridacchiando.
- Sai che sei tutta Bill? Sei d’aiuto quanto un mattone di cemento ancorato ai piedi, cazzo… - borbotta fra i miei capelli, e io rido e mi stringo a lui.
Affondo nel suo profumo e lui mi stringe ancora.
- Mutti ha bisogno di prendersela con qualcuno. – spiego pazientemente.
È una cosa che Vati sa alla perfezione, ed è una caratteristica di Mutti che gli piace pure, perché ce l’hanno in comune, ma ogni tanto gli fa bene sentirselo ripetere. Così lo prende per la maledizione inestinguibile che è e si mette il cuore in pace, ecco. Non so quand’è che si sia messo in testa la vana speranza che Mutti potesse trattarlo come un’eccezione… è che Mutti lo tratta già da eccezione in così svariati campi della propria esistenza che chiedergli pure di farlo mentre lavora è insensibile, oltre che assurdo.
Insomma, se lo tiene nel letto da una quantità enorme di anni.
Io non so se potrei tenere nel mio letto zio Tom altrettanto a lungo.
- Sì, lo so. – biascica lui, - Torniamo di là, Karima avrà già preparato la cena. Hai finito di rendere una pezza la mia povera maglietta? – chiede, indicando con un cenno del capo la polo spiegazzata fra le mie mani.
Sbuffo e gliel’appoggio sulla testa come un cappuccio.
- Mi ci vorranno secoli per rimettere i capelli a posto… - continua a borbottare mentre ci alziamo in piedi, sfilandosi la polo dalla testa per indossarla.
- Scusa, Mutti, credevo fossi Vati. – lo prendo in giro, pizzicandolo su un fianco. Lui ride e non risponde.
Quando torniamo di là, dalla cucina arriva un odore fortissimo di aceto. Io amo l’odore dell’aceto, mi fa sentire ubriaca. Soprattutto quando è in grande quantità.
- Karima fa la frittella? – tiro a indovinare, mentre ringrazio in tutte le lingue che conosco (poche, Vati e Mutti parlano quasi esclusivamente tedesco ed io non sono meno pigra di loro, in questo senso) che il mio Vati si sia scelto una tata che cucina crucco solo se indispensabile, - Strano, lo fa solo quando siamo tanti e non può fare la carne…
E mi muore il respiro in gola quando vedo che in effetti in sala da pranzo oltre a Mutti c’è ancora zio Tom. Ed all’allegro quadretto s’è aggiunto anche DaDa.
Ora. Io amo tantissimo DaDa, perché è un uomo che porta bellezza ovunque vada. No, sul serio, è una cosa incredibile: zio Tom è un figo ma è un insetto stecco infilato in una tenda; Mutti è bellissimo, ma è altamente opinabile; Vati è un concentrato di testosterone, ma è volgarissimo; Chaku è caruccio, ma è praticamente un peluche; Saad ha degli occhi stupendi, ma anche il sorriso cattivo; Eko mi fa ridere, ma è un topo; Kay è cucciolo, ma sembra una scimmia; Gustav è fascinoso, ma è il figlio segreto di Knut o di uno a caso dei suoi discendenti; Georg ha dei bicipiti per i quali potrei anche lasciare zio Tom, ma per il resto è un Picasso. Gli uomini che fanno parte della mia vita sono palesemente quanto di più lontano dalla perfezione sia mai stato visto solcare questa terra.
DaDa no, però. DaDa, tanto per cominciare, è tanto bello che potrebbe essere uscito direttamente dalla copertina di un Harmony, e non me ne stupirei. Cioè, tipo, se apparisse all’improvviso con una camicia bianca aperta fino a metà petto, pantaloni in pelle e stivali di cuoio al ginocchio, presentandosi come il nuovo stalliere, penso che lo guarderei e finirei per sposarlo l’attimo dopo. Una cosa incredibile.
Poi, DaDa ha un sorriso da pubblicità. Bianco ed enorme e assolutamente perfetto. Che basta guardarlo e ti senti bene, ecco.
Oltretutto, DaDa mi ama profondamente e vuole farmi diventare famosa, quindi è ovvio che in pratica sia il mio essere umano preferito nell’universo.
Però, ecco. DaDa ha quasi scoperto la mia storia con zio Tom. E Vati odia questa sua ambizione a rendermi famosa. È un’altra delle poche cose sulle quali lui e Mutti litigano di continuo – indipendentemente da ciò che possa pensarne io, oltretutto; il fatto non ha nulla a che vedere con me, perché io posso effettivamente fare quello che voglio, e lo faccio. È una cosa di principio fra loro due.
Vati è già abbastanza arrabbiato.
Zio Tom è già abbastanza teso.
Mutti è già abbastanza nervoso.
Io sono già abbastanza stanca.
Non sarà una cena facile.
Comunque sia, appena mi vede DaDa mi sorride felice come se nulla nel mondo potesse girare nel verso sbagliato, ed io sul suo sorriso da boybander mi ci sciolgo, come sempre; lascio il braccio a Vati e mi fondo verso di lui, stringendolo al collo mentre lui mi tira su per la vita.
Sento lo zio sbuffare ma evito di fargli la linguaccia che meriterebbe.
- Tesoro, ciao! – mi saluta DaDa giulivo, mentre io gli saltello intorno, - A Briegmann piaci, ragazzina.
Sorrido. Non potevo proprio andare buca col presidente della Universal Music Deutschland.
- Perché gli piace la mia voce o per quei due disgraziati che mi hanno cresciuta? – domando sarcastica, indicando Vati e Mutti con due cenni del capo.
Vati borbotta che lui la Universal l’ha mollata secoli fa ed è stata la scelta migliore della sua esistenza. Mutti, invece, si lascia andare ad un sorriso un po’ triste e un po’ dolce, ma non commenta.
DaDa scrolla felicemente le spalle.
- Ti ritiene vendibile, tutto qua.
- E quando non lo sarai più, ti scaricherà. – aggiunge Vati, quasi in un ringhio.
- Come capita a tutti. – scocca zio Tom, vagamente amareggiato.
Vedo Vati e Mutti dirigersi contemporaneamente verso la porta del soggiorno nel disperato tentativo di abbandonare il campo. Quando capiscono di starsi muovendo in sincrono, si fermano. Mutti ricomincia a sistemare le posate attorno ai piatti. Vati gli si affianca e sistema i tovaglioli.
DaDa sospira pazientemente.
- Abbiamo un appuntamento per dopodomani alle nove.
- Ha scuola. – butta lì Vati.
- Ti giustifico io. – mi rassicura Mutti.
Non so se stanno semplicemente cominciando a litigare per la solita questione del “non la voglio nel mondo dello spettacolo/invece io sì” o se questo è solo uno strascico di ciò che è successo al BK questo pomeriggio. Comunque, non mi piace. Odio che in questa casa si litighi perché sono tutti maschi, perciò volano botte. Le botte sono eroiche e sexy solo quando le prende qualcuno che non ami.
In ogni caso, da quando Mutti mi ha adottata legalmente, oltre che sentimentalmente, questa cosa delle giustificazioni per le assenze manda Vati su tutte le furie. Spero che non gli dica la solita stronzata di rito per cui—
- Il coglione sono stato io che ti ho portato i documenti, vaffanculo a me.
…appunto.
Mutti non ha degli occhi normali, no, Mutti ha dei laghi. Non sono dello stesso colore, ma non è quello il punto: quando piove troppo s’ingrossano ed esondano. E non è una questione di lacrime – Mutti piange spesso, ma non così spesso – è una questione di sentimenti. Te li rovescia addosso. E adesso, nei suoi occhi, è riflessa solo una rabbia cieca ed un incredibile desiderio di fare male. Diretto tutto contro Vati.
Io lo so che si amano. Non ne dubito neanche adesso.
Forse è per questo che vederli così mi fa tanto male.
- M’è passata la fame. – biascico, abbassando lo sguardo.
Mutti smette di provare ad uccidere Vati con gli occhi e si volta verso di me.
- Tesoro, non—
- Non ho fame. – ribadisco scuotendo il capo. – Vado in camera mia.
Mi lascio alle spalle gli “è colpa tua” che Mutti comincia immediatamente a riversare su un silenziosissimo Vati, e mi chiudo in camera, abbandonandomi sul letto e nascondendo il viso contro il cuscino.
Io non odio la mia vita. Sono un’adolescente felice. Ho una bella famiglia— fuori di testa, ma bella. Non ho nessun motivo per essere triste. Questi però sono i casi in cui fatico a ricordarmelo. Quando Mutti urla e Vati tace per non dire di peggio. Quando esco di qui a notte fonda per andare a bere e trovo Vati raggomitolato sul divano, o sento la musica a basso volume venire fuori da sotto la porta della sua tana. Possono smettere di parlarsi anche per settimane intere, perché Vati è l’unico – proprio l’unico – di fronte al quale Mutti diventa impermeabile ai sensi di colpa.
Forse perché, penso, sono cattivi entrambi. Io lo so, questo. Forse non lo erano un tempo, forse lo sono solo diventati, ma comunque è questo che sono, profondamente. Ce l’hanno con tutti. E quindi ce l’hanno anche l’uno con l’altro.
È difficile da capire, se non lo vivi. Ma si amano tanto quanto si odiano. E per me è una cosa normale. Anche se fa male.
*
Ho aperto il quaderno sulla scrivania ed ho infilato le cuffie nelle orecchie. So che di là non stanno ancora litigando: la cena per Vati è sacra e silenziosa; ed è proprio questo, ciò che non voglio sentire, il loro silenzio. I silenzi, in questa famiglia, sono sempre molto pesanti, perché sono obbligati. Mutti è logorroico, oltretutto, perciò non sentirlo parlare è tremendo. Non parla solo quando vorrebbe dire cose orribili, ecco. Odio i silenzi perché so che ci sono le cose orribili dietro.
Comunque, sto ascoltando Unter der Sonne a palla. C’avrà pure dieci anni, questa canzone, ma è sempre un qualcosa di stupendo. Io adoro la voce di Chaku, mi piace più di quella di Vati perché è ruvida e maschile e quando ti parla sembra che ti stia rimproverando. Io credo sia questo che deve fare il rap, rimproverarti. Con la voce che ho, non ci riuscirei mai, è per questo che ho rinunciato al proposito fin da subito e, su consiglio di DaDa, mi sono data all’R&B. Ho una voce squillante ma dolce, quindi mi ci adatto meglio.
Comunque per un sacco di tempo avrei voluto fare rap, perché a me fondamentalmente piace parlare, mi piace dire le cose, ed il rap per fare questo è perfetto.
Sotto il sole le cose sembrano brillare di più, ma la sporcizia resta sporcizia, questo mi dice Chaku in questo preciso momento, ed io chino il capo a ritmo delle sue parole e penso che è vero, e che questo riflette non solo la mia vita, ma la vita di tutti.
Per dire, io sono molto amata. Sono molto amata e mi sento molto amata.
Ma sono stata molto odiata, in passato. È una traccia che mi porto dentro e non potrò mai estirpare.
Mutti mi ha molto odiata. Ed anche questo non potrà mai essere estirpato. Anche se ora c’è il sole e ridiamo e stiamo tutti insieme. Nei silenzi dei miei genitori resta la traccia dell’odio di un tempo.
E forse è per questo che ci sto tanto male.
Vati e Mutti erano molto felici, prima del mio arrivo. La loro è una storia d’amore molto eroica, nel suo piccolo che piccolo non è. Si sono accerchiati per un sacco di tempo convinti di stare semplicemente giocando, poi è capitato del tutto casualmente di trovarsi vicinissimi ed hanno capito che forse non stavano giocando proprio per un cavolo.
È sempre divertente quando Mutti me lo racconta e Vati per caso è lì ad ascoltare – magari ti sembra che sia distratto e non ci badi, e invece pende letteralmente dalle sue labbra. Mutti parte sempre in quarta con il discorso degli amanti predestinati e compagnia cantante, ed il tormentone di questo racconto è sempre “Lo sai che non baciavo un essere umano da tre anni? Tre anni! E non sono impazzito nel mentre. È evidente che stavo aspettando tuo padre”. E Vati risponde puntualmente “No, è evidente che eri talmente represso che, pure se avesse provato a baciarti un cammello, ti ci saresti buttato a pesce”. Ed io rido e Vati ride e Mutti lo guarda e sorride e ripete con più convinzione “Io aspettavo te”, ed allora tu ci credi. Perché quando Mutti parla in quel modo, tu gli credi. Può pure mentire, in quel preciso istante, ma nei suoi occhi c’è l’universo che brilla e ti confonde, perciò tu gli credi e basta.
Gli crede anche Vati. A Vati piace tantissimo credere alle fantasie di Mutti. Io so che è perché hanno abitato l’uno le fantasie dell’altro per una quantità spropositata di tempo. È come me con zio Tom: lui è stato nei miei sogni tanto a lungo – anni e anni e anni – che quando le sue mani mentono intrecciandosi alle mie, quando le sue braccia mentono stringendomi alla vita, quando le sue labbra mentono incollandosi alla mia pelle, quando il suo intero corpo mente fondendosi col mio e regalandomi mezz’ora di illusione in cui non c’è Mutti non c’è Vati non c’è DaDa ed io sono sua e lui è mio, io ci credo. Ciecamente. Poi torno alla realtà, ma per quei trenta fottuti minuti io ci credo e basta.
E lo stesso è per Vati, credo. Lui lo sa che Bushido e Bill Kaulitz non sono mai stati gli amanti del destino, lo sa che la loro relazione ha portato più danni che altro, lo sa che è anche colpa sua se il contratto dei Tokio Hotel con la Universal è saltato, ma quando Mutti lo guarda negli occhi e gli dice che stava aspettando lui e ne è certo, Vati ci crede. È bello crederci. Ci credo anche io.
Vati e Mutti hanno un sacco di fangirl. E un fanclub. Non ufficiale, ma piuttosto attivo, devo dire. Io mi ci diverto un casino, ogni tanto mi intrufolo ai raduni ed è sempre il delirio cosmico perché Vati si mette a strillare come un’aquila quando sa che ci vado. Mutti è d’accordo con lui, peraltro; le fangirl non gli sono mai piaciute particolarmente, però con me ha sempre seguito il principio fondamentale del fai ciò che vuoi, che è una cosa che suppongo abbia imparato direttamente da quella sciroccata di nonna Simone, perciò non mi rimprovera quasi mai.
Insomma, il fanclub ha anche creato un adorabile canale su YouTube al quale Mutti – nonostante l’antipatia per le fangirl! – ricorre sempre, quando gli salta in testa di raccontarmi la sua storia con Vati. Ha bisogno del supporto audiovisivo, dice. In realtà gli piace rivedersi giovane e bello. Non che adesso sia meno bello, ma gli anni passano per tutti, è così che va la vita. E poi si diverte a sfottere Vati, che ai tempi era oggettivamente improponibile, la maggior parte delle volte.
Il primo contatto fra Vati e Mutti è, credo, il più famoso abbordaggio della storia della musica tedesca. Fondamentalmente, Vati era in TV e lo stavano intervistando, e lui si prese un secondo di diretta per annunciare al mondo che gli sarebbe piaciuto farsi fare un lavoretto di bocca proprio da Mutti.
Seguì una vera e propria rivoluzione. Non c’era una – una che fosse una – fan dei Tokio Hotel non desiderasse Bushido morto. Possibilmente anche sodomizzato da uno o più animali a scelta fra buoi, cavalli e tori. In famiglia, DaDa la prese sudando freddo, zio Tom la prese come un’offesa personale – ma gli passò presto, zio Tom non è fisicamente in grado di restare arrabbiato a lungo – e Mutti la prese scoppiando in lacrime e strillando che non era un dannatissimo frocio e s’era rotto i coglioni di sentirsi apostrofato in quel modo da tutti i pezzi di merda che pensavano di poterselo permettere.
Mutti aveva diciassette anni. Vati undici di più.
Probabilmente avrei pianto anche io, ma il destino che piace tanto a Mutti quando si parla di relazioni amorose ha voluto che mi prendessi una sbandata colossale per uno che ha quattordici anni più di me. Penso di aver battuto i miei genitori su tutta la linea, e se le nuove generazioni sono i passi avanti della specie allora mi sa che con me il passo l’ha fatto un po’ troppo lungo, l’umanità.
Comunque. Vati scoprì che ad insistere pubblicamente sull’argomento ci si poteva pure guadagnare sopra, e siccome per gli affari ha sempre avuto un fiuto niente male – ed è sempre stato bravissimo a vendersi – ha proseguito. Ha aggiustato il tiro, non è stato più così esplicito con le richieste, ha cominciato ad infilare nei propri discorsi anche veri e propri complimenti, non soltanto apprezzamenti di tipo sessuale, ed infine ha sferrato l’assalto finale chiedendo ripetutamente – e in più occasioni – ai propri fan di votare per i Tokio Hotel in qualunque manifestazione musicale fossero in lizza per un premio.
Non so se Vati fosse consapevole di stare preparando Mutti alla cotta più devastante, violenta ed invasiva della propria vita. Io non credo lo fosse. Io credo fosse solo stupidamente divertito dalla cosa.
Fatto sta che in quei tre anni Mutti non baciò nessuno. Andava pure lamentandosene in giro, il che è piuttosto comico, se ci si pensa, perché non è questione di cliché, lui avrebbe davvero potuto farlo con chiunque in qualsiasi momento, ma niente. È anche per questo che un po’ gli si crede per forza, quando dice che stava aspettando Vati. Perché è vero che in fondo l’ha fatto.
Alla fine, dopo tre anni di incontri semicasuali a premiazioni varie ed eventuali, Mutti fece la propria mossa. Intervistato a riguardo delle continue avances di Bushido, rispose con una scrollatina di spalle ed un sorriso da manuale. “Bushido promette, promette… ma non mantiene mai”. È un altro degli eventi che in casa vengono ricordati in modo sempre diverso, dipende dalla persona a cui hai chiesto. DaDa, per dire, è ancora traumatizzato. Ci sono certe cose che con lui non si possono proprio discutere. Zio Tom ci si fa su una risata che è stupenda, da stare ad ascoltare, perché è a metà fra l’intenerito e il derisorio. Non so come faccia, ma zio Tom ha un sacco di talenti nascosti. Mutti ne parla con un certo orgoglio, come la ribellione di una principessa tenuta troppo a lungo sotto una campana di vetro – e poco importa lui non fosse quasi niente di tutto questo, Mutti ha sempre avuto il pallino della lotta per l’indipendenza e nessuno ha mai il coraggio di smontare le sue fantasie a riguardo. Vati invece è stupendo: quando glielo chiedi inarca le sopracciglia e borbotta “Cristo, mi fece paura!”. Ho sempre avuto questi flash mentali di lui che si volta verso Saad e strilla “un biglietto per l’Australia, prego”. Meraviglia.
Alla fine, si beccarono agli EMA. I Tokio Hotel erano lì perché nominati per il Best Headliner, Vati e Chaku premiavano il Best German Act. “Io mi stavo cagando addosso”, precisa sempre Vati. “Cioè, Bill non era normale. Non che lo sia mai diventato, poi, ma voglio dire… non si dicono queste cose in tv”. Chiaro che Mutti lo picchia, ogni volta che dice così. “E comunque anche io ero spaventato”, aggiunge fra un ceffone isterico e l’altro, “Avevo l’impressione di avere tirato un po’ troppo la corda ed ero lì a menarmela chiedendomi ‘e se lo fa davvero?’”.
L’incontro di quella notte mi piace sentirmelo raccontare da Chaku e zio Tom. Perché sono spassosi, quando li imitano. Zio Tom si butta contro il primo ripiano disponibile – se siamo in cucina la cosa è ancora più divertente, perché ha a portata di mano tutto ciò che gli serve per imitare al meglio Mutti – infila un cucchiaio in un bicchiere e poi si ficca il manico in bocca come fosse una cannuccia, e comincia a sballottarlo qua e là con la lingua.
Chaku gli si avvicina cercando di farsi alto e disinvolto. Disinvolto lo è, alto un po’ meno, ma quando sfotte Vati mette su un’espressione mitica a metà fra l’incazzatura e la strafottenza che è un qualcosa di stupendo. Già a questo punto io soffoco dalle risate, in genere.
Zio Tom alza lo sguardo e finge di arrossire come una vergine, Chaku lo inchioda al ripiano imprigionandolo fra le braccia.
“Chi è che promette, promette e non mantiene mai?” dice quindi, imitando la voce di Vati.
E poi generalmente a questo punto Mutti sclera e li separa prima che imitino anche il resto, visto che i report di MTV della serata li ritraggono avvinghiati in un angolo a fare sconcezze fino alle cinque del mattino circa. Vati dice che Mutti gli saltò letteralmente addosso e lui quasi rischiò di cadere e finire col sedere per terra. “Sono rimasto in piedi per miracolo e sono riuscito a trascinarlo in un angolo solo perché evidentemente Dio esiste”, dice, anche se lui a Dio continua a non credere. Peraltro, Mutti annuisce freneticamente e conferma. “Gli sono saltato addosso, è vero. Ma è colpa sua, era troppo vicino!”, borbotta, come se servisse a giustificarlo.
Vati e Mutti hanno vissuto l’amore più romantico di cui abbia mai sentito parlare. L’unica altra storia altrettanto romantica alla quale riesco a pensare è quella di Eko e Valezka, che pur di amarsi in santa pace hanno scatenato tipo una guerra fra bande. Ma Vati e Mutti sono meglio, perché non si sono bruciati subito come quegli altri due. Tant’è che Eko e Valezka si sono persi di vista, mentre Vati e Mutti sono ancora qui, l’uno appiccicato all’altro come il primo giorno.
Allontano il quaderno – sono esausta – e mi tiro un po’ indietro sulla sedia, sgranchendo le dita. Apro e chiudo il pugno, lo riapro e quando lo richiudo sento la voce di zio Tom gettare fuori una bestemmia da manuale e poi sento sbattere la porta d’ingresso. Dopo, silenzio.
Mi alzo ed esco da camera mia, aggirandomi furtivamente per il corridoio buio. Di fronte all’attaccapanni, DaDa sta recuperando il cappotto.
Mi avvicino. Non so neanche cosa dirgli.
- Lu, tesoro, scusami. – mi precede lui con un sorriso stanco, - Doveva essere una serata allegra. Giuro che sono venuto con le migliori intenzioni, volevo solo parlarti dell’appuntamento con Briegmann.
Annuisco.
- Hai rimproverato zio Tom? – chiedo timorosa, giocando con l’orlo della sciarpa bianca che gli pende dal collo.
- Non ho più l’autorità per rimproverare nessuno, in questa casa. Né fuori. – chiarisce lui seccamente, scrollando le spalle. – Vorrei solo che non fosse così misterioso. Tom è un cretino e un chiacchierone, lo sai, perciò quando non parla… - sospira pesantemente, - Ho paura che stia nascondendo qualcosa di grave. Sono solo preoccupato, ecco tutto.
Annuisco ancora perché il suo ragionamento non fa una piega. Io e zio Tom siamo in torto. Lo siamo sempre e comunque. Perché abbiamo sbagliato fin dall’inizio – io ad innamorarmi di lui, lui a concedermi il suo amore – e perché non abbiamo abbastanza coraggio per rimediare all’errore, ma non ne abbiamo abbastanza neanche da confessarlo. Questa storia non può che finire male.
- Stai lontana dal soggiorno, per un po’. – mi avverte alla fine DaDa, già sulla soglia della porta e pronto ad andare, - I tuoi si stanno “confrontando” e non vorrei che ti arrivasse un piatto vagante sulla testa.
Ridacchio richiudendogli la porta alle spalle, ed ovviamente la prima cosa che faccio, una volta rimasta sola, è avvicinarmi con cautela al soggiorno e spiare Vati e Mutti che si confrontano da un punto d’ombra nel corridoio. Mutti ha lo sguardo basso e triste, sta impilando i piatti sporchi della cena. Vati è di schiena e versa la frittella avanzata in un unico piattino, per metterla in frigo.
Non è inusuale vederli sparecchiare. Sono entrambi due pigroni viziati – Vati ha sempre avuto Karima, Mutti ha sempre avuto zio Tom – ma le piccole cose del quotidiano casalingo li attraggono in maniera oserei dire morbosa. Oltretutto, è con le faccende domestiche che tengono impegnate le mani quando vorrebbero saltarsi addosso e prendersi vicendevolmente a sberle. La tensione violenta del loro silenzio si diluisce nel cozzare tintinnante delle stoviglie, ed i loro lineamenti si rilassano tic dopo tic, fino a quando Vati non butta fuori un sospiro tale che lo vedo quasi sgonfiarsi e Mutti si morde un labbro e lo fissa intensamente, solo per un secondo, prima che Vati gli si avvicini e lo stringa a sé allacciandolo alla vita, tirandoselo contro con una furia possessiva che è arrabbiata e innamorata insieme; una furia che scioglie il nodo che ho sullo stomaco e mi costringe a un singhiozzo sollevato che soffoco solo perché ho paura di venire scoperta.
Vado via quando si baciano. Passo in camera a prendere il pigiama e vado in bagno, dove apprendo con orrore che, a coronamento di una serata di merda, le mestruazioni sono finalmente arrivate. Dopodomani ho un appuntamento con l’uomo che può cambiare il mio futuro e sarò mestruata ed isterica, perfetto. Ritiro tutto: non sono un’adolescente felice, sono una sfigata. E mi sa che è ereditario. La genetica è un’opinione.
*
Il mio primo ricordo è anche l’unico che ho di mia madre. È un ricordo principalmente visivo e sonoro, ma quella visiva e quella sonora sono due caratteristiche stridenti, non armoniche. La prima mi parla di un foglio di album liscio, grande, talmente grande che la mia mano premuta su quella superficie bianchissima sembrava come persa in un deserto di neve, macchiata appena di tanto in tanto da sbuffi colorati tracciati coi pastelli a cera sparsi alla rinfusa sul tavolo. Sono così tanti che non riesco nemmeno a contarli. Sto fissando questo foglio bianco scarabocchiato a caso e sto cercando di capire cosa potrei disegnarci sopra, quando ecco che la traccia visiva si mescola a quella sonora.
Mia madre che sussurra “mi gira la testa”. E poi un tonfo.
Non ho la minima idea di cosa possa essere successo dopo. Immagino che una delle amiche di mamma, o un suo parente, o un vicino, o comunque qualcuno abbia bussato alla porta, mi abbia sentito piangere e sia quindi entrato in casa con la forza, per poi prendere atto di ciò che era successo e chiamare la polizia.
Mia madre se l’è portata via un aneurisma. Il primo aereo che ho preso è stato quello che, in seguito a quest’evento, mi ha portata dalla Svizzera in Germania. Ricordo l’hostess che mi prese in consegna, aveva gli occhi dolci e grandi e lunghi capelli biondi. Mi parlava dolcemente ed io capivo molto poco di ciò che mi diceva.
Dopo questo, nella mia memoria c’è un altro buco. Le successive immagini che ho appartengono alla villa gialla di Vati, ma suppongo di non essere andata direttamente lì, perciò posso solo ipotizzare di essere rimasta qualche ora in un qualche centro di assistenza sociale mentre qualcuno si occupava di avvisare Vati del mio arrivo.
Ricordo la sua faccia quando mi vide, però. Sono solo flash, niente di concreto, ma ricordo i suoi occhi spalancati su quel viso così squadrato e allungato, la barba che gli copriva le guance, e il fatto che non ebbe il coraggio di abbracciarmi. Io indossavo un vestitino lungo alle ginocchia, calzette bianche e scarpette di vernice nere. Le ricordo dondolare giù dalla panchina sulla quale stavo appollaiata, rimpiangendo i peluche che qualcuno mi aveva infilato in valigia, senza lasciarmene in mano neanche uno. Mi sarebbe piaciuto poter stringere qualcosa, in quel momento, visto che quell’uomo così alto e magro al quale sembrava mi volessero dare non sembrava avere alcuna intenzione di stringere me.
Rimasi lì immobile per non so quanto tempo, mentre aspettavo fuori dall’ufficio all’interno del quale l’assistente sociale stava spiegando bene a Vati chi ero, perché mi trovavo lì in quel momento e quale decisione tutti aspettavano che lui prendesse. Vidi uscire prima le sue scarpe, perché avevo gli occhi piantati sul pavimento e non mi arrischiavo a sollevarli nemmeno per sbaglio. Erano dei mocassini scamosciati semplicemente orrendi. In quel momento, però, ricordo di averli trovati carini, in qualche modo teneri. Rassicuranti. Non saprei dire.
- Luise. – mi chiamò piano, accucciandosi di fronte a me e molleggiando un po’ sulle gambe, - Hai un bellissimo nome.
Arrossii, stringendomi nelle spalle.
- Chi sei tu? – domandai, arricciandomi una ciocca di capelli attorno a un dito giusto per darmi qualcosa da fare e smettere di torturare l’orlo della gonna che stavo stropicciando da minuti interi.
Lui prese un respiro profondissimo, prima di rispondermi.
- Sono il tuo papà. – disse, appoggiandosi con le mani alla seduta della panchina per non perdere l’equilibrio.
- Mamma diceva che eri impegnato. – buttai lì io, sempre fissando altrove. Lui sollevò una mano e mi accarezzò una guancia, e solo allora sollevai gli occhi nei suoi, permettendomi di perdermi nel suo sguardo caldo e avvolgente come una coperta.
- Da adesso in poi, non lo sarò più. – tagliò corto lui con un sorriso, e poi allargò le braccia.
Non so da quanto tempo non ricevessi un abbraccio. Il suo, quel giorno, comunque, mi sembrò il più bello che mi avessero mai dato.
Sospiro profondamente, abbattendomi contro lo schienale della sedia in sala d’aspetto. Rileggo la scena che ho scritto da capo, e mi colpisce la forza di questo ricordo. Il suo profumo, il calore del suo corpo, la morbidezza del maglione che stringevo fra le dita mentre, aggrappandomi a lui e piangendo, mi nascondevo contro il suo petto. Improvvisamente, il fatto che Vati non approvi di questo mio incontro con Briegmann e delle porte che potrebbe aprirmi inizia ad avere un suo peso specifico. Non che mi senta costretta a rinunciare solo perché lui non vuole e io gli sono grata per tutto quello che ha fatto per me quando qualcun altro magari non avrebbe creduto a niente e mi avrebbe piazzata in un orfanotrofio in attesa che qualcun altro mi adottasse, ma un po’ mi pesa non avere la sua approvazione in questo momento.
- Sei pronta? – mi chiede DaDa, apparendomi di fronte come la Fata Madrina di Cenerentola, paragone che, peraltro, gli calza a pennello, - Ancora pochi minuti e poi ti toccherà dimostrare quanto vali. – Mi stringo nelle spalle, tirando su le gambe fino al petto e rannicchiandomi sulla sedia. Lui mi guarda inarcando un sopracciglio, e poi si siede al mio fianco. – Duecento anni fa circa, c’era un bellissimo principe tedesco di nome David Jost. Egli era conosciuto come il ragazzo più snodato che il glorioso regno di Germania avesse mai visto. Purtroppo, ormai è vecchio e stanco, e in questo momento ti sta invidiando con ferocia e violenza. – annuisce compitamente, e io mi metto a ridere, nascondendo il viso dietro agli avambracci incrociati. – C’è qualcosa che non va? – mi chiede lui, accarezzandomi lentamente i capelli. Io mi sciolgo, arrotolandomi addosso a lui ed inspirando con forza il profumo delizioso del suo dopobarba.
- Vati non sarà contento. – considero mestamente, - Comunque vada, peraltro.
Lui si stringe nelle spalle, sbuffando teatralmente.
- Lascia che ti dica che tuo padre non è mai contento, a meno che le cose non vadano esattamente come vuole lui, cosa che, per inciso, accade molto più di rado di quanto uno non possa pensare. – risponde atono, stringendomi a sé.
- Sì… lo so. – sospiro, nascondendo il viso contro il suo collo, anche a costo di rovinarmi il trucco e macchiargli il colletto della camicia. Lui sospira, accarezzandomi ancora un po’ i capelli, il collo e la spalla.
- Lu, c’è qualcosa che mi devi dire? – chiede quindi, - Qualcosa che non sappia già, intendo.
Mi allontano, vagamente spaventata.
- Ma no. – scuoto il capo, cercando di suonare naturale, - È tutto a posto.
- Lo è? – insiste lui, lanciandomi un’occhiata severa. Lo vedo sospirare profondamente, prima di addolcire lo sguardo e sorridere appena. – Sai di cosa non sarebbe contento tuo padre? – mi chiede, - Di sapere che menti. – e nel momento stesso in cui lo dice io mi sento esplodere nel centro del petto un dolore sordo che quasi mi toglie l’aria. – Lu, sai che non devi farlo per forza? – domanda dolcemente, allungandosi ad accarezzarmi una guancia, - Se non è cantare quello che vuoi dalla tua vita, non hai che da dirlo. Io non voglio che tu salga su un palco e ti esibisca, se questo non è esattamente anche quello che vuoi tu.
Lo guardo senza sapere cosa dire per un paio di secondi. Io voglio cantare, DaDa. Non so se sia la mia vocazione, ma farlo mi piacerebbe. Sai cosa invece non voglio? Sai cosa non voglio proprio, al punto che sarei disposta a rinunciare a qualsiasi cosa per impedirlo?
Far soffrire il mio papà.
- Scusami. – sussurro in un gemito sconnesso, sollevandomi in piedi. Il quadernetto che tenevo in grembo cade per terra, aprendosi in due. La penna che avevo riposto fra le pagine per tenere il segno vola lontano. Mi chino a recuperare entrambe le cose, afferrando lo zainetto posato sulla sedia ed infilando tutto dentro alla rinfusa. Colgo appena un frammento dello sguardo che DaDa mi lancia, ed è un frammento sufficientemente doloroso da convincermi a non guardarlo più. Mi mordo un labbro, correndo verso l’ascensore proprio mentre la segretaria esce dal proprio ufficio e ci informa che Herr Briegmann è pronto a riceverci.
*
Mutti non sapeva di me. Nel senso che non solo non sapeva della mia esistenza, ma non sapeva nemmeno che cinque anni prima che io piombassi anche nella sua vita c’era stata la possibilità che nascessi e Vati aveva provato ad impedirlo pagando mia madre perché abortisse. Quando Vati ricevette la telefonata degli assistenti sociali che lo convocavano per discutere della mia sorte, lui già da qualche giorno sapeva che avrebbe dovuto prendere una decisione. L’avevano avvertito immediatamente dopo la morte di mia madre, prima di portarmi in Germania, lasciandogli un margine di qualche giorno per riflettere senza la spada di Damocle di una bambina che lo guardava da dietro un vetro attendendo di sapere cosa sarebbe stato di lei da quel momento in poi.
Non ho difficoltà a capire per quale motivo Vati non abbia ritenuto opportuno dire a Mutti cosa stava succedendo. Immagino debba essergli costato un grande sforzo, oltretutto, conoscendo il suo amore per la sincerità in tutte le sue manifestazioni. Per dire, il mio Vati non è uno che si consoli dicendosi “non sto mentendo, sto semplicemente omettendo una verità”. Per lui, le cose si equivalgono, e dovrebbe essere per tutti così, perché sarebbe molto meglio se tutti fossero onesti abbastanza da riconoscere che mentire non è soltanto dire qualcosa di falso, ma anche non dire qualcosa di vero. Io, per dire, sarei una persona migliore se… ma non è questo il punto, adesso. Fatto sta che non biasimo il mio Vati perché ha mentito alla mia Mutti nascondendogli la mia esistenza. Era spaventato, e quando hai paura di perdere le persone a te care fai cose pazze. Come mentire, che poi è la cosa più pericolosa da fare in assoluto, ma le bugie ti cullano nell’illusione che, se riesci a tenerle a bada, allora forse riuscirai a non perdere nessuno. Ma sono bugie, e in quanto tali mentono anche quando ti illudono di avere ancora questa possibilità quando invece tutte le menzogne che dici non fanno che allontanarti da tutte le persone che ami.
Fu per questo che Mutti si arrabbiò. Perché arrivò alla villa gialla, aprì con le proprie chiavi e dentro ci trovò un uomo con una bambina, e quest’uomo era il suo uomo ma i suoi occhi erano diversi, e quell’uomo uguale al suo uomo ma con occhi distanti gli presentò questa bambina come propria figlia e gli disse che lei sarebbe rimasta ma lui, se voleva, poteva anche andare.
Immagino che Vati abbia pensato che solo imponendomi avrebbe potuto chiarire fin da subito che intendeva tenermi e che tutto il mondo avrebbe dovuto semplicemente rassegnarsi di fronte a questo fatto. E non posso biasimarlo per questa scelta, ma come non posso biasimare lui non riesco a fare lo stesso neanche con Mutti, che si mise a strillare, strillare, strillare e piangere, piangere, piangere fino a farmi scoppiare la testa. Era la prima volta che lo vedevo e già non volevo vederlo più. Vati, poi, era così preso dal cercare di contrastarlo che sembrò come dimenticarsi totalmente della mia esistenza. Quando Mutti cominciò a prendere Vati a schiaffi, e quando lui prese a rispondere colpo su colpo senza la minima remora, scappai. Avevo paura di uscire fuori di casa, ma non conoscevo la villa e non sapevo dove avrei potuto andare a nascondermi, per cui semplicemente mi lanciai fuori dalla porta e lungo il sentiero che conduceva al cancello, oltrepassai anche quello e cominciai a correre a perdifiato lungo il marciapiedi.
- Ehi! – gridò qualcuno, ed io, preoccupata che Mutti o Vati si fossero accorti della mia assenza e mi fossero venuti dietro, presi a correre più forte, piangendo così tanto che mi faceva male il petto.
Mi fermai solo quando zio Tom piombò su di me, inchiodandomi a terra. Mi sbucciai un ginocchio e piansi ancora di più, lui mi guardò con aria sconcertata e cercò di tirarmi su e tapparmi la bocca contemporaneamente, senza riuscire davvero a fare nessuna delle due cose, peraltro.
- Lasciami, lasciami! – mi lagnai io, strofinandomi gli occhi coi pugni anneriti dallo sporco dell’asfalto. Lui si alzò in piedi e mi prese in braccio, resistendo ai calci che continuavo a sferrargli nello stomaco.
- Ma tu chi diavolo sei? – mi chiese, cercando di tenermi ferme le gambe. Io non risposi, continuando a piangere. – D’accordo, d’accordo, non dirmelo! – sbottò lui, quasi offeso, - Comunque sei uscita da casa di Bushido e sei troppo piccola per andartene in giro da sola. Ti riporto là.
- No! – strepitai io, ricominciando a scalciare, - No, non ci voglio andare! Non ci voglio andare! – strillai, aggrappandomi con forza ai dread biondi che gli scivolavano lungo le spalle.
- AhI! Ahi!!! – gridò a propria volta lui, strabuzzando gli occhi ed afferrandomi da sotto le ascelle per allontanarmi da sé, ottenendo come risultato solo quello di allontanare me assieme ai dread che continuai a stringere nei pugni come se dalla forza che ci avrei messo potesse dipendere la mia vita stessa. – Ferma! – si lamentò lui, stringendomi nuovamente al proprio petto ed utilizzando una mano per sciogliere le mie dita intrecciate attorno ai suoi capelli, - Per carità. Mi spieghi che diavolo è successo?!
- Quella ragazza è entrata e si sono messi a urlare! – cercai di raccontare. Mi faceva male la gola per quanto avevo pianto. Mi bruciavano gli occhi e mi sentivo sporca, stupida e spaventata.
- Ragazza…? – biascicò lui, - Oddio, mio fratello. – sospirò, sollevando gli occhi al cielo. – Ma tu chi sei? – chiese quindi. Io abbassai lo sguardo.
- È mia figlia. – disse Vati, raggiungendoci di corsa. Aveva il fiatone. – Cristo, Lu, scusami. – sospirò avvicinandosi a me e tendendomi le braccia. Io mi strinsi al petto di Tom, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. - …scusami. – ripeté Vati. Quando tornai a guardarlo, erano i suoi occhi a rimanere bassi, fissi sul marciapiedi.
- Mio fratello? – chiese zio Tom. Vati sospirò. Mutti stava camminando per strada strillando come un’aquila. Aveva già sorpassato l’enorme automobile nera dalla quale zio Tom era venuto fuori per inseguirmi, e sembrava bene intenzionato a tornarsene a casa sua a piedi. – Bill, per piacere, fermati. – gli gridò con aria esasperata.
- Vattene a fanculo. – ribatté Mutti, continuando per la propria strada, - Andatevene a fanculo tutti quanti! – ribadì. Piangeva. Zio Tom sospirò ancora, cercando di ridarmi a Vati, ma quando io tornai a stringermi a lui lasciò perdere.
- Ehi, - sussurrò, - senti, se vuoi posso portarti a prendere un gelato, così ti calmi. Ma poi devi tornare qui, perché io devo prendermi cura di quella bella ragazza che hai visto prima, che in realtà non è una bella ragazza ma un bel ragazzo, al più, ed è mio fratello. E sicuramente in questo momento avrà il cuore un po’ incrinato.
Vati distolse lo sguardo, anche se il tono di zio Tom non sembrava quello di un rimprovero.
- Che vuol dire incrinato? – domandai, giocando con la punta di uno dei suoi dread. Zio Tom sorrise appena, lasciandomi fare.
- Che non si è ancora spezzato, però c’è andato vicino. – spiegò dolcemente.
- E tu puoi rimetterlo a posto? – domandai ancora. Lui rise piano, stringendosi nelle spalle.
- Posso provarci. – rispose. E io ricordo distintamente di averlo guardato negli occhi e di aver pensato che se i principi delle fiabe esistevano, dovevano essere esattamente uguali a lui. Con quei capelli, con quel sorriso, con quegli occhi. Principi che riaggiustavano cuori spezzati. E sperai che un giorno, quando sarei stata grande, se si fosse spezzato anche il mio, ad aggiustarlo ci avrebbe pensato lui.
Non posso dire che fu lì che m’innamorai di lui, ma sicuramente fu lui il primo a darmi un motivo per restare, prima chiedendo a Vati se gli dispiaceva che mi portasse un po’ in giro e poi tenendomi con sé fino a tarda sera.
In realtà non mi ha più lasciata andare. Anche dopo che Vati e Mutti furono tornati insieme, quando Mutti mi accettò, quando divenni parte integrante della famiglia, quando diventammo effettivamente una famiglia dove prima c’erano solo due persone che si amavano, zio Tom non smise mai di tenermi con sé. Nonostante tutte le difficoltà che abbiamo incontrato da quando questa cosa s’è fatta più complicata, lui non mi ha mai lasciata andare.
Mi spezza il cuore dover essere io a lasciarlo andare per prima.
- Non ti aspettavo. – dice sorridendomi e scostandosi dall’uscio per lasciarmi passare, - David è andato via pochi minuti fa.
- …è stato qui. – considero a bassa voce, annusando l’aria. C’è ancora il suo profumo ovunque.
- Già. – ridacchia lui, chiudendo la porta e passandomi un braccio attorno alle spalle mentre mi trae a sé, stringendomi forte. – Era disperato. Non sa come dirlo a tuo padre e a Bill. O meglio, non sa come dirlo a Bill. Tuo padre suppongo che tirerà un sospiro di sollievo e si getterà questa storia alle spalle come tutte le cose brutte che gli sono capitate e che poi si sono risolte e che lui è convinto di aver risolto da sé quando in realtà a risolverle è stato il caso.
Premo le mani contro il suo petto e mi allontano, cercando i suoi occhi per un secondo ed abbassando immediatamente lo sguardo quando mi rendo conto di non poterlo reggere.
- Forse invece stavolta l’ha risolto lui davvero. – mormoro. Sento il suo sguardo incuriosito addosso, lo percepisco mentre si fa via via sempre più consapevole, e quando una delle sue mani mi afferra una spalla, per tenermi ferma, posso in qualche modo prevedere le due dita che, delicatamente, mi costringono a sollevare il mento e tornare a guardarlo.
- Hai mollato David in quel modo facendo saltare l’appuntamento con Briegmann solo perché sai che tuo padre non approva l’idea di farti fare carriera nel mondo dello spettacolo? – mi domanda, e la sua voce è dolce, sebbene venata da una sorta di nervosa preoccupazione che la rende tesa e un po’ indispettita. In qualche modo, riesco a capire che quel fastidio non è rivolto a me, e perciò non lo sento come una minaccia.
- Credo di sì. – ammetto, distogliendo lo sguardo senza riuscire ad abbassare il viso come vorrei solo perché le sue dita pressate contro il mento me lo impediscono. Lui ride un po’ tristemente, allungandosi verso di me per abbracciarmi ancora.
- Sei una ragazzina. – sussurra sulla mia pelle, - Non puoi lasciare che siano gli umori di tuo padre a regolare la tua vita. Altrimenti, - aggiunge con un’altra risata, - mi sa che ti tocca anche lasciarmi, visto che credo che approverebbe anche meno questo che non vederti cantare su un palco.
Faccio uno sforzo e torno a guardarlo. In qualche modo sento di doverglielo, anche se fa così dannatamente male.
- Forse è quello che dovrei fare. – sussurro, la voce rotta da un singhiozzo che non riesco in alcun modo a trattenere. Lui spalanca gli occhi, mentre poggia entrambe le mani ai lati del mio viso, avvicinandosi appena.
- Lu. – comincia, - Lu, non dire stronzate, adesso.
Cerco di abbassare di nuovo lo sguardo ma lui mi tiene immobile, ed allora chiudo gli occhi, strizzando forte le palpebre.
- Scusami. – mormoro.
- Lu, non dire stronzate, adesso! – ripete lui, a voce più alta, ed io chiudo gli occhi con più forza mentre sollevo le mani a coprirmi le orecchie.
- Ti prego. – piagnucolo, ma non so nemmeno per cosa lo sto pregando. Perché mi lasci andare, forse, o forse perché provi in tutti i modi a farmi cambiare idea.
- Non mi pregare. – ribatte lui, stringendo più decisamente la presa sul mio viso, - Non mi pregare, cazzo. Lu, cos’è successo?
- Niente…
- Cos’è successo?!
- Non voglio che stia male!
- Quindi preferisci soffrire tu? Preferisci che stia male io? Preferisci distruggere tutto quello che abbiamo solo perché così non dovrai mentirgli, né spezzargli il cuore dicendogli la verità?! È più importante che lui sia sereno, rispetto alla nostra vita, al nostro futuro, al—
- Tom, è mio padre! – strillo interrompendolo, ed allontanandomi da lui con uno strattone così forte da rischiare quasi di inciampare nella foga con cui indietreggio, - È mio padre, è l’inizio e la fine della mia vita, è la cosa più importante che ho, è il motivo per cui sono qui, è anche il motivo per cui ho te! Come puoi— come puoi non capire?! È mio padre, è lui che mi ha dato la vita.
- Ed è anche lui che te l’avrebbe tolta, se solo tua madre non avesse deciso di tenerti. – dice amaramente lui, ed io trattengo il respiro, indietreggiando ancora.
- Sì, forse. – annuisco cercando a tentoni la maniglia della porta, - Ma non è andata così. Io sono viva e lui ha già fatto ammenda per quello. Sono— sono dieci anni che fa ammenda per quello, Tom. – insisto, incapace di trattenere le lacrime, – Spero solo che non mi tocchi fare ammenda per un periodo altrettanto lungo per tutte le bugie che gli ho detto.
Di lui non resta che una macchia chiara sfocata davanti ai miei occhi.
Quando chiudo la porta, neanche quella.
*
Dopo quella scenata, le urla e i pianti isterici e i vaffanculo urlati per strada come in uno sceneggiato italiano, non rividi Mutti per molto tempo. Da un certo punto di vista fu un bene, perché in quel modo io e Vati riuscimmo a cominciare a conoscerci, ci ritagliammo i nostri spazi e poi li incollammo nuovamente insieme come in un collage, facendo in modo che coincidessero. Non è mai semplice quando devi cambiare le abitudini di una vita intera per far spazio alle abitudini di qualcun altro, soprattutto quando per certi versi questo cambiamento ti viene imposto, ma noi, devo dirlo, ce la cavammo alla grande. Mentre Vati prendeva confidenza con lo svegliarsi solo nella propria camera e venire a controllare che stessi ancora dormendo nel mio lettino nella stanza accanto, invece che svegliarsi accanto a Mutti e passare il resto della mattinata con lui prima di dover uscire per lavoro, io mi abituavo a tutte le differenze che c’erano fra la mia vecchia casa e quella nuova, il mio vecchio letto e quello nuovo, la mia vecchia vita e quella nuova. Non c’era più una mamma ma c’era un papà. Non c’erano più abbracci dal profumo dolce, ma c’erano strette forti dall’odore penetrante che mi rimaneva attaccato alla pelle, ai vestiti, ai capelli. Non c’era più la voce sottile e rassicurante che mi cantava le ninne nanne per conciliarmi il sonno, ma ce n’era un’altra, più profonda e intensa, quasi ipnotica, che mi riempiva la testa di fiabe con principesse guerriere, sovrani armati, draghi coi manganelli e castelli del ghetto, catapultandomi in sonni sempre ricchi di sogni che adoravo disegnare quando mi svegliavo, se erano rimasti abbastanza impressi.
Mutti non si fece mai vedere. Passarono delle settimane prima che si presentasse. Ogni tanto, lui e Vati parlavano al telefono, ma finivano sempre con l’urlarsi addosso. Urlavano così tanto che sentivo la voce di Vati anche se in quel momento mi trovavo in un’altra stanza, e se per caso invece quando accadeva ero proprio lì accanto a lui non di rado mi capitava di sentire strillare Mutti nonostante il telefono. Era un rumorino acuto e torrenziale, aspro e incattivito. Quando lo sentivo, non potevo fare a meno di ricordare la sua faccia stravolta dalle urla e dal pianto la prima volta che l’avevo visto. Scappavo sempre in camera, ogni volta che ci ripensavo. E poi chiedevo a Vati di chiamare lo zio Tom per farmi portare fuori a prendere un gelato.
Per quasi un mese, la mia mente si prese la libertà di rielaborare l’immagine di Mutti che aveva a disposizione – quella di un ragazzino addolorato e frustrato, in sostanza – e trasformarla in qualcosa di spaventoso, qualcosa di quasi fiabesco, una strega cattiva dai capelli irti e neri, dai denti aguzzi e dagli occhi iniettati di sangue, qualcosa che non avrebbe sfigurato in nessuna delle storie che Vati mi raccontava prima di spegnere la luce ed augurarmi la buonanotte. Qualcosa di molto cattivo, ma anche molto epico.
Per questo, fu quasi una delusione quando lo rividi. Si presentò in un pomeriggio piuttosto caldo e piacevole. Credo che Vati volesse portarmi al parco, perché ero vestita di tutto punto e lui stava cercando di convincermi che non era il caso di portare con me la bambola di porcellana che nonna Luise mi aveva regalato un paio di giorni prima e dalla quale io non avevo la benché minima intenzione di separarmi. Suonarono al campanello, Karima andò ad aprire ed eccolo là. C’era anche zio Tom, con lui, cosa che in qualche modo forse ridimensionò la sua apparizione nella mia testa, perché ricordo distintamente di averlo visto molto piccolo e indifeso, quel pomeriggio. L’immagine che mi dava era così lontana da quella che avevo immaginato per tutto quel tempo.
- Bill. – lo chiamò Vati. Era così incredulo che la sua faccia era quasi comica. – Cosa ci fai qui? – chiese. Mutti lo sferzò con un’occhiataccia infastidita.
- Non sono venuto per parlare con te. – scoccò superbo, - …non ancora, almeno. – sospirò, voltandosi verso di me e chinandosi sulle ginocchia per potermi guardare negli occhi. – Tu sei Luise Maria, vero? – chiese con aria un po’ timida, stringendosi nelle spalle. Era così magro, sembrava un ragazzino. Portava i capelli raccolti in una coda bassa che spioveva sulla sua spalla, solleticandogli il collo. Provai immediatamente il desiderio di toccarla. C’era qualcosa, in lui, che mi ricordava Tom. Potrei dire che fosse il profumo, ma fraintendereste. Non sto parlando dell’odore della pelle, ma di qualcosa di più profondo, quel qualcosa che ti avvolge quando sei di fronte a qualcuno, e che è capace di farti sentire a tuo agio o, al contrario, completamente fuori posto. Lui e Tom ce l’avevano, ce l’avevano uguale. Fu quella la prima volta che notai quanto si somigliassero. Annuii, nascondendomi per quanto potevo dietro la bambola di porcellana, che era alta quasi quanto me. Mutti sorrise, e quello fu un sorriso così bello che la bambola quasi mi scivolò via dalle braccia. – Vuoi uscire a prendere un gelato con me e Tomi? Mi piacerebbe parlarti un po’.
Annuii, tendendo le braccia verso zio Tom perché fosse lui a prendermi in braccio.
- La bambola… - dissi, non sapendo dove metterla. La sua generale enormità ci ingombrava.
- Lasciala qui, - suggerì Vati, - così non si rompe.
- Posso prenderla io, se vuoi. – mi sorrise ancora Mutti. Io considerai le opzioni per un po’. Volevo davvero portare quella bambola con me. Finii per lasciarla a lui, che la tenne in braccio esattamente come zio Tom stava tenendo in braccio me, per tutto il tempo.
Andammo al parco. Comprammo il gelato. Ci sedemmo su una panchina. Zio Tom si rifugiò nell’angolo più lontano, come gli desse fastidio la sola idea di intromettersi in quello che aveva tutta l’aria di voler essere un discorso molto privato. Appena ci fummo seduti, dopo aver finito il gelato, Mutti mi ridiede la bambola e lasciò che me la sistemassi in grembo.
- Tuo padre, sai, è un cretino. – mi disse quindi. Io lo guardai. Ero ancora arrabbiata perché lui aveva insistito tanto per cercare di impedirmi di portare la mia bambola con me. Annuii vigorosamente, e Mutti rise divertito. – Sai cosa? – disse quindi, - Se tuo padre fosse stato meno cretino, le cose si sarebbero risolte molto prima, e molto più facilmente.
Quella fu la prima volta che mi raccontò tutta la storia, quella che ormai da mesi sto cercando di mettere per iscritto su questo quadernetto per capire se c’è un punto al quale posso ritornare per rimettere a posto le cose. Per smettere di mentire. Per dire a tutti che sono innamorata, che non l’ho chiesto io, che è semplicemente successo e non posso farci niente se è andata così.
Ma immagino che a questo punto non mi serva più.
L’autobus si ferma a due passi da casa. Metto a posto il quaderno nello zainetto e medito di buttarlo via, più tardi. Potrei anche organizzare qualcosa di simbolico. Potrei bruciarlo, o seppellirlo. Gettarlo nel cestino della carta straccia sembra un po’ troppo poco per riuscire a cancellare dalla mia memoria quello che c’è scritto dentro, e anche tutto quello che non c’è scritto ma che scrivendo m’è venuto da pensare.
Pioviggina. Fa freschetto, ma è un bel tempo. Uggioso e malinconico. L’aria non è grigia, ma azzurrognola. Il sole è appena tramontato. Sono stanca perché sono fuori da stamattina, e mi sembra di aver buttato via una giornata intera. Una carriera, una vita, una storia d’amore.
Mi sento patetica quando, oltrepassando il cancello di casa, vedo Mutti steso sul dondolo sotto il porticato e, al solo posargli gli occhi addosso, mi metto a piangere. Lui si tira su, sollevandosi sulle braccia per mettersi a sedere non appena mi scorge.
- Lu? – mi chiama piano, eppure la sua voce sottile mi rimbomba nelle orecchie. Stringo i pugni lungo i fianchi e, quando sento il peso delle lacrime gonfiarsi nel petto, lo lascio andare tutto assieme con un singhiozzo stremato, lanciandomi verso di lui ed accucciandomi contro il suo petto quando mi stringe fra le braccia, accarezzandomi lentamente i capelli e sussurrandomi all’orecchio parole dolcissime per tranquillizzarmi. – Tesoro, cosa è successo? – mi domanda, baciandomi sulla fronte e sulle tempie, - David è stato qui, un paio d’ore fa. Eravamo così in pensiero per te.
- Sono una stupida… - mormoro fra i singhiozzi, nascondendo il viso fra le pieghe dell’ampia maglia che indossa, - Mi dispiace così tanto, Mutti…
- Calmati, adesso. – sorride lui, senza smettere di accarezzarmi neanche per un secondo, - Smetti di piangere e raccontami cos’è successo.
- Mi sono rifiutata di parlare con Briegmann… - comincio, restando nascosta contro di lui.
- Non vuoi cantare? – mi chiede lui, cullandomi fra le proprie braccia, - Credevo ti piacesse.
- Mi piace! – mi affretto a rispondere, - Mi piace, ma non lo so se è quello che voglio, e comunque non è quello il punto, Mutti, è che… - inspiro in un singhiozzo stremato, - ho una grande confusione in testa… Mutti, sono innamorata…
- Cosa…? – chiede lui, agitandosi immediatamente. Prova a mettersi seduto, ma visto che io non accenno a spostarmi e non glielo lascio fare si limita a stringermi il viso fra le mani, obbligandomi a guardarlo. – Perché non me l’hai detto, tesoro? Chi è?
- Non— non potevo. – singhiozzo, cercando di nascondermi un’altra volta contro il suo petto ma trovando la resistenza decisa della sua stretta ancora forte sui miei zigomi, - È… è successo tanto tempo fa, va avanti da un po’, io… mi vergognavo così tanto…
- Perché avresti dovuto? – insiste Mutti, e i suoi occhi sono pieni di dolore. Mi stringono il cuore. – Tesoro, tieni sempre a mente che per quanto complicata possa essere una situazione in cui ti cacci, io e tuo padre siamo qui per aiutarti. Anche per indirizzarti in quei momenti in cui ti sembra di non avere nessuna scelta. Ce l’hai sempre, una scelta, solo che a volte non riesci a vederla.
- Questa volta no. – mugolo, socchiudendo gli occhi per sottrarmi al suo sguardo così profondo e dolce, - Questa volta non ne avevo proprio una.
- Perché dici così? – mi chiede Mutti, e la sfumatura addolorata che prima era solo nei suoi occhi si è trasferita anche nella sua voce, che s’incrina appena. Non vorrei deluderlo così. Odio fargli questo. Odio questo momento e odio essere innamorata e odio non riuscire a smettere di pensare a quanto amo Tom e odio essere qui, piangere, stare così male e singhiozzare fino a sentirmi rimbombare nella testa i battiti del mio stesso cuore.
- Perché è innamorata di tuo fratello. – dice Vati. La sua voce è gelida, e ci paralizza entrambi. I miei occhi si spalancano all’improvviso su quelli di Mutti, che non stanno più guardando me, ma un punto oltre la mia spalla. La sua presa si fa più morbida e io ne scivolo via come tanti anni prima la bambola di nonna Luise è scivolata via dalle mie braccia.
Se non cado per terra, se non mi rompo in mille pezzi, è solo perché mentre scivolo un paio di braccia forti si chiudono attorno a me e mi sostengono, esattamente come hanno fatto le mie con quella bambola in quel pomeriggio estivo che nell’aria cupa di questa sera che odora di pioggia sembra così insopportabilmente lontano.
Il profumo di Vati mi avvolge all’improvviso. Oltre la sua spalla, vedo zio Tom appoggiato allo stipite della porta. Ci guarda e ha gli occhi grandi e rossi e lucidi. Sembra improvvisamente molto più giovane di quanto non sia, mi ricorda il ragazzino che mi è corso dietro quando l’unica cosa che volevo era scappare il più lontano possibile da questa casa.
Non ho mai smesso di scappare, da allora. Forse ho smesso di correre, ma di scappare, di nascondermi… non ho mai smesso di farlo.
- Mi dispiace. – sussurro senza fiato, stringendo le mani attorno al tessuto della sua maglietta. Mutti, ancora seduto sul dondolo accanto a noi, ha gli occhi spalancati e pieni di lacrime ed una mano premuta sulla bocca.
- Dispiace anche a me. – sussurra Vati, stringendomi così forte da darmi l’impressione di volermi nascondere dentro il suo stesso corpo. Al caldo, al sicuro, dove niente potrà ferirmi. – Mi dispiace che tu non me ne abbia parlato. Mi dispiace che tu mi abbia mentito così a lungo. Mi dispiace che, spinta dal senso di colpa, tu abbia incasinato ancora di più la situazione, facendo soffrire David, facendo soffrire Tom e facendo soffrire alla fine anche noi. Ma più di ogni altra cosa… - si allontana, accarezzandomi una guancia con due dita e poi appoggiando la fronte alla mia, chiudendo immediatamente gli occhi mentre io lo imito, fingendo che non esista nient’altro al mondo oltre al battito sincronizzato dei nostri cuori, - più di ogni altra cosa mi dispiace che tu abbia potuto pensare che sarei stato più felice sapendoti triste perché ti eri privata di qualcosa che amavi solo per farmi contento.
Mi si spezza il respiro in un singhiozzo sollevato, mentre sulle mie labbra si fa strada un sorriso più sereno. Mutti piange silenziosamente, allungando una mano ad accarezzarmi i capelli. Vati torna ad abbracciarmi stretta, ed io vorrei soltanto che zio Tom potesse avvicinarsi solo un po’, perché mi basterebbe sentire addosso il tepore del suo corpo per rendere questo momento finalmente perfetto.
Allungo un braccio alla mia destra, cercandolo nell’aria umida della sera. Le sue dita si intrecciano con le mie quasi subito. Sono tiepide e ruvide e sue. Quest’unione, invece, è nostra. Di tutti noi.
- Non so se voglio tornarci, da Briegmann. – confesso in un sospiro, - Forse non è cantare, quello che voglio.
- Qualunque cosa tu voglia, - sospira Vati, dondolandomi un po’ prima di lasciarmi andare, - a me andrà bene. – poi si ferma e riflette. – Cioè, non qualunque. Faremo una lista. Più tardi. – si corregge, annuendo a se stesso. Io sorrido, e sorride zio Tom, e sorride Mutti, e sta sorridendo anche Vati. Mi chino a recuperare lo zainetto che ho abbandonato per terra quando sono arrivata, rovisto al suo interno e ne tiro fuori il quadernetto gonfio della nostra storia. Lo porgo a Mutti, che lo prende a lo guarda da ogni lato prima di aprirlo e leggerne le prime frasi, per poi lanciarmi un’occhiata grande e gonfia di pianto.
- Forse è questo quello che voglio fare. – sorrido, - Ti piacerebbe leggerlo?
Mutti si stringe il quaderno al petto. Poi fa lo stesso con me.
Mentre rientriamo in casa, con la voce di Vati che continua a borbottare di quel famoso elenco che dovremo comunque assolutamente redigere, faccio in tempo a chiedermi se ho un quadernetto ancora nuovo, in camera. Il seguito voglio cominciare a scriverlo da stasera stessa.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Commedia, Romantico, (vagamente) Drammatico (?).
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Bushido, OMC/Fler, (vago) Bill/Chakuza.
Rating: R
AVVISI: Slash, OC.
- "Non sono un cazzo di sbirro. [...] Se proprio vuoi saperlo, l’unica cosa certa della mia vita è che in mezzo alla manica di matti coi quali vivo io sono solo il fottuto chef. Ma non se lo ricorda mai nessuno!"
Note: Vi chiedo perdono per questa shot perché è folle, parte da un presupposto folle ed è follemente lunga X'D Però io mi sono divertita troppo a scriverla, è una cosa completamente diversa da quello che abbiamo visto recentemente nella Saga, una sorta di "ritorno alle origini", ma più lol. Ormai abbiamo capito che, almeno per questo spicchio di storie, la parola d'ordine del ghettodrama più amato dagli italiani (?) è: ridi e fai ridere. Speriamo di riuscirci. Also: alta concentrazione di Danny fra queste pagine XD (E' un avviso? Avrei dovuto metterlo fra i warning? Mah.)
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DER CHEF

Io purtroppo non ho avuto il tempo fisiologico di abituarmi a Daniel.
Se Fler me l’avesse presentato nella giusta maniera – poco a poco, intendo, dandomi modo di capire esattamente di cosa si trattava e tutto il resto – probabilmente non proverei per lui tutto questo fastidio insopportabile. Magari sì, ok, mi farebbe rabbia l’idea di averlo ancora fra i piedi – e chi ci pensava, due anni fa, in quel vicolo, a Tempelhof? – però potrei tollerarlo, ecco.
E invece no.
Daniel per me era una cosa dispersa nella memoria di una notte da incubo, e poi è diventato d’improvviso “quello che era stato con Fler mentre io ero via”. E lo è diventato di botto, senza preavviso. E non è bastato neanche che Fler lo lasciasse, come mi ha poi confessato di aver fatto dopo la famosa cena in casa di Sido alla quale tutt’oggi non sono certo di essere sopravvissuto, no: Daniel è rimasto fuori dai piedi per qualche giorno, probabilmente rintanato a casa sua ad ascoltare i Cure o qualche altra variante sul tema e leccarsi le ferite, da bravo adolescente deluso e incazzato col mondo, e dopodiché, come nulla fosse successo, è tornato. Ha ricominciato a ronzare attorno a Fler, peraltro senza nascondere minimamente né l’astio che prova nei miei confronti – perché per lui è evidente che se Fler l’ha lasciato è stato per colpa mia, non perché era stufo di cambiargli i pannolini e nutrirlo col biberon otto volte al giorno – né tantomeno il suo essere ancora interessato all’uomo che al momento tra le altre cose oltre a non volerlo più sta con me. E non c’è stato verso di convincerlo a piantarla.
Da quel momento in poi, non ricordo un giorno in cui Daniel non ci sia stato tra i piedi o non sia stato fonte di inenarrabili guai. L’ultima volta, Fler ha fatto irruzione in casa mia tipo alle quattro del mattino, spingendo in avanti questa specie di cencio semovente che si è poi rivelato essere, appunto, Daniel avvolto in una felpa grande il doppio di lui e allegramente imbrattata di sangue. Al mio sguardo allucinato, sconvolto, stordito e pure un po’ assonnato, la risposta è stata “l’hanno inseguito con le spranghe, Chaku, non potevo lasciarlo lì nell’angolo dove l’ho trovato”. Al che, giustamente, io mi sono pure chiesto punto primo: che diavolo ci faceva Fler in giro per Tempelhof a quell’ora?, e punto secondo: spranghe?!, ma chiaramente non potevo mettermi lì a lamentarmi mentre il dannato moccioso perdeva sangue sullo zerbino.
E con Daniel è sempre così, peraltro. È sempre un ripetersi di “andiamo, Chakuza, non vorrai mica fregartene e lasciarlo sulla porta?”. Quando Fler pronuncia il mio nome a quel modo so sempre che, in caso di risposta affermativa – e Dio sa se ogni tanto non vorrei sbottare “sì, Fler, proprio lì sulla porta” – partirà una rappresaglia dalla quale difficilmente verrò fuori illeso. Perciò sono cose che cerco di evitare. Fler sa essere dannatamente convincente, quando vuole. Inoltre, effettivamente, il moccioso si presenta solo quando è davvero malconcio, ecco.
Il dramma è che gli capita anche troppo spesso.
Fino a due minuti fa io e Fler stavamo discutendo le possibilità della giornata. Visto che non è ancora nemmeno mezzogiorno, stavo cominciando a pianificare di andare a fare la spesa, cucinare qualcosa da mangiare e poi, non so, chiuderci in camera da letto fino a domattina anche se fuori c’è un bel sole e tira un bel venticello fresco – chissenefrega, insomma – e Fler stava giusto protestando in quel modo tipico di lui in cui continua a ripetere “no” intendendo “sì”, e quindi io ero pieno di buone speranze. E poi lo stupido campanello s’è messo a trillare.
Ovviamente io stavo illustrando a Fler il programma nel modo più pratico possibile – che poi è il motivo per cui continuava a dire “no”… ha dei problemi quando gli metto le mani addosso al mattino, dice sempre cose assurde tipo “dammi il tempo di svegliarmi”… non è necessario che sia proprio sveglio, mi piace quando è ancora semi-incosciente, fa dei bei suoni – comunque, in sostanza stavo cercando la via per la felicità e Fler invece non stava cercando che un pretesto per fermarmi, e lo stupido campanello è arrivato come una cazzo di ciliegina sulla cazzo di torta. Proprio a fagiolo, veramente.
Fler è corso ad aprire la porta scivolandomi dalle mani ed ora eccoci qua, inorriditi, che fissiamo questo mucchietto d’ossa pesto e livido che ci guarda oltre la soglia della porta. Sento Fler teso come una corda di violino, al mio fianco.
- Ciao. – borbotta Daniel, sollevando lentamente una mano per salutarci. Il braccio si ferma a metà. - …deve avermi slogato una spalla, stavolta.
Faccio per sbottare in un “Daniel!” che non so nemmeno cosa voglia dire – perché a un ragazzino così conciato, cosa gli dici? Davvero… - ma Fler mi anticipa, e la sua voce risuona secca e agitata per tutto l’appartamento.
- Daniel, Cristo! – lo richiama, avvicinandoglisi e sporgendosi a controllarlo da tutti i lati, - Ma che cazzo è successo? Sono stati di nuovo quei-
- No. – lo ferma lui, abbassando lo sguardo. Gli occhi azzurri si annebbiano appena, mentre si inumidisce incerto le labbra, - …mio padre. – confessa alla fine, sospirando pesantemente.
Fler si fa di ghiaccio per un secondo. Poi si allontana, tira un’imprecazione irripetibile e molla un calcio sconvolgente alla poltrona. Io lo fisso, allucinato, e Daniel continua a tenere gli occhi bassi, come si vergognasse.
- Fler…?
- Porca puttana! – urla ancora, afferrando un soprammobile a caso e gettandolo per terra. Quello rimbalza e s’infila sotto il divano con un suono sordo. – Fanculo a questa merda! – grida. Poi si ferma ancora, ed io riprendo a respirare.
- Pat. – lo chiamo a bassa voce. Lui solleva una mano.
- Un secondo, Chaku. – mi ferma, forzando un tono tranquillo nella voce. Io annuisco e lo aspetto. Vedo la tensione accumularsi nei muscoli delle sue spalle, sotto la maglietta leggera, ed i tendini tirarsi e scattare a chiudere e riaprire il pugno, come a cercare di scaricare la rabbia. – Daniel, entra.
Il ragazzino annuisce, fa un passo e casca. Allungo le braccia appena in tempo per recuperarlo, prima che si schianti contro il pavimento.
- Cristo… - borbotto, cercando di tenerlo dritto. Fler è ancora lì immobile e sospetto che, se si muovesse, tremerebbe il pavimento.
- Ce la fai? – mi chiede, la voce che trema. Io annuisco e lo porto verso il divano, dove cerco di stenderlo senza fargli male.
Ci inginocchiamo lì accanto e restiamo in attesa che si muova. Che è sveglio lo capiamo subito, perché apre le palpebre e ci guarda come volesse trovarsi da tutt’altra parte. Come volesse scusarsi. C’ha le scuse piantate negli occhi, questo ragazzino. Chiede perdono sempre, anche quando non fa niente. È una cosa che si vede solo quando lo si frequenta da un po’, perché la nasconde bene. Ora, io non è che lo frequenti da una vita, ma qualche settimana da quando gli ho posato gli occhi addosso è passata, ormai, perciò posso parlare con una certa cognizione di causa.
Comunque non si muove per un sacco di tempo. Solo dopo un bel po’ di minuti solleva un braccio lievemente meno malconcio per strofinarsi gli occhi.
- Mi ha pestato per bene, - dice poco dopo, un sorriso sghembo a deformare i tratti ancora infantili del viso, - ha scoperto la roba e ha dato di matto.
- Non c’entra un cazzo la droga. – trema Fler al mio fianco, - Quello dà di matto un po’ troppo, per i miei gusti. – si china su di lui e gli ravvia i capelli sulla fronte. C’è un taglio enorme proprio nel centro, sembra che gli abbiano tirato una cazzo di bottigliata. Mi dà i brividi. – Danny, io ne ho prese a pacchi, di legnate. Ma tu ne prendi il doppio, cazzo. Sei… guardati. – e sfiora appena il profilo dello zigomo violaceo e tumefatto. Deglutisco.
- …vado a prendere la cassetta del pronto soccorso. – mugugno alzandomi in piedi.
Fler asserisce senza nemmeno guardarmi, continuando a misurare i lividi sul suo viso, sul collo, sulle braccia.
- Ce la fai a sfilarti la maglia? – lo sento chiedere mentre, in bagno, recupero la valigetta.
Daniel dice che sì, certo che ce la fa, ma appena Fler prova a fargliela passare su per la testa comincia a lamentarsi in una maniera straziante.
- Fler… - lo chiamo avvicinandomi, la cassetta stretta in pugno, - Gliela tagliamo via, la maglietta? Così non-
- Ce la faccio. – ansima Daniel, liberandosi lentamente dell’ingombro di abiti, - Ce la… Cristo che male.
Il petto, il ventre e i fianchi sono una mappa di escoriazioni e lividi. Macchie rosse, giallastre e viola ovunque. Fler le fissa inorridito, le labbra dischiuse e gli occhi spalancati, ed io, credo, per la prima volta realizzo pienamente quanto schifo faccia la vita di questo ragazzino. Fler ha provato almeno una cinquantina di volte a dirgli per lo meno di piantarla di spacciare, che può dargli una mano lui, ma ogni volta Daniel gli ha risposto bruscamente di farsi i fatti suoi. È in questi piccoli dettagli che si vede quanto piccolo sia ancora, quanto disperatamente voglia che Fler si prenda cura di lui e al contempo quanto senta il bisogno di dimostrargli che ce la fa benissimo da solo.
- Cristo santo. – dice Fler, ed è appena un sussurro la voce non sembra neanche sua, tant’è debole e sconvolta.
Daniel deglutisce.
- …non guardarmi così. – chiede in una preghiera senza inflessioni. Lui e Fler si guardano a lungo, probabilmente si stanno anche dicendo qualcosa. Discretamente, senza parlare. Poi Fler si alza in piedi, facendo leva sul divano con entrambe le mani, come non avesse la forza di sollevarsi senza aiuto.
- Chaku. – mi chiama, tirandomi appena per la manica, - Posso parlarti di là un secondo?
Annuisco e mi sollevo, molleggiando un po’ sulle gambe. Guardo Daniel e lui mi fa cenno di andare senza neanche aspettare che gli chieda se possiamo lasciarlo qui da solo.
Fler mi anticipa in camera da letto muovendosi velocemente. Non ce la fa a restare in quella stanza, l’ho capito. Appena ci chiudiamo la porta alle spalle capisco subito che, se avesse qualcosa in mano, la stritolerebbe fino a distruggerla. Mi allungo a sfiorargli la spalla e lo sento tesissimo, un fascio di nervi sotto le dita.
- Pat, dai…
- Sono fuori di me, Chaku. – dice tutto d’un fiato, afferrando la mano e stringendola fra le sue, - Lo ammazzo, quel figlio di puttana. Lo ammazzo, Cristo.
So che ne sarebbe capace.
Mi avvicino, cerco di essere paziente anche se odio questa situazione ed odio le attenzioni di Fler nei confronti di Daniel.
Non so che dire, quindi mi limito a lasciar scorrere la mano libera lungo il suo braccio e poi stringerlo per una spalla, tirandomelo contro. Fler mi sfiora il collo col naso, una volta, due volte. Aspetto in silenzio e poi lo sento inspirare, ed allora mi rilasso: lo percepisco fare avanti e indietro lentamente, da sotto l’orecchio alla spalla, respirando piano, profondamente. Ogni tanto gli basta questo, il mio odore lo calma. Continuo a tenerlo stretto.
- Possiamo tenerlo un po’ qui? – mi chiede, proprio contro la pelle. Ed è un po’ buffo che me lo chieda, perché teoricamente lui sta ancora a casa sua. Ha un appartamento, a qualche isolato da qui, e ogni tanto ci dorme ancora. Però, invece di dirmi “lo porto a casa con me”, mi chiede se possiamo tenerlo qua.
- Non lo so, Pat. – lui mi lascia andare la mano e stringe appena le dita contro i miei fianchi. Resta lì per un po’, indeciso. Poi si rassegna e mi abbraccia. Io gli respiro addosso e lo stringo per le spalle. Siamo così vicini che non riesco a capire dove finisco io e dove comincia lui. Siamo intrecciati. – Ti sembra il caso?
- Non ce lo rimando, da quello. Lo ammazza, se continua così. – ripenso al torace stretto e magro di Daniel, tutti quei lividi, le ferite. È vero che finirà male, se non facciamo qualcosa. Ed è vero che, nonostante tutto, non voglio che finisca male. Perdio, è solo un ragazzino.
- Possiamo vedere di chiedere a Bushido se-
- Non c’entra un cazzo Bushido con questa storia! – mi ringhia addosso lui, stringendo la presa attorno alla mia vita, - Daniel è una cosa che non gli compete. Non è affare di nessuno.
Aggrotto le sopracciglia e provo l’irrefrenabile e improvviso desiderio di devastare qualcosa. Solo che l’unica cosa che posso toccare adesso è Fler e non ho alcuna intenzione di devastare lui – è già successo, so che non mi piace. So che non posso e non voglio farglielo – perciò mi trattengo, mi limito a stringerlo più forte.
- …va bene. – annuisco, - Okay, lo teniamo.
Lui si allontana un po’ e mi guarda. Ha gli occhi incredibilmente liquidi. Non credo riuscirò mai a capire davvero cosa leghi tanto Fler a questo ragazzino. Forse dipende dal fatto che ci sono ancora miriadi di cose che non so, sul suo conto. Su Fler, dico. Mi mancano dei tasselli enormi. Interi pezzi della sua vita. Forse, se li conoscessi, capirei. Ma ho sempre paura di capire troppo di lui. Non saprei quando fermarmi, me ne accorgerei in ritardo. Questa cosa che abbiamo ha rischiato di distruggersi troppo spesso perché io possa concedermi errori di questo tipo.
Si sporge a baciarmi ed io me lo tiro contro, baciandolo ed affondando dentro di lui perché adesso voglio sentire il suo sapore e voglio che sia quello a ricordarmi che è mio e non andrà da nessuna parte, Daniel o non Daniel. Fler mi lascia fare e risponde carezza su carezza; ora è lui che deve tranquillizzarmi. E lo fa.
- Grazie. – sussurra appena ci separiamo, - Lo sai che non succederà niente, vero? – e mi sfiora appena con la punta del naso.
- No? Davvero? – chiedo sarcastico, inarcando un sopracciglio.
- Davvero. – annuisce sicuro lui, - Io ti—
-Ok. – lo fermo, baciandolo prima che possa dirlo. Lo fermo perché odio che lo dica adesso, visto che lo fa come fosse un ringraziamento. E lo fermo perché io non gliel’ho ancora detto, mentre lui l’ha già fatto in svariati modi non so quante volte, non solo a parole, come ogni tanto gli è capitato in quest’ultimo periodo, ma anche con i fatti. Rispondere ad una cosa del genere è un problema, quando associato a quelle parole, per abitudine o per altro, c’è un altro volto, un altro sapore, un altro odore. – Ti credo. Non succederà niente.
Fler mi guarda e sembra un po’ deluso dal fatto che non gliel’abbia lasciato dire. Mi innervosisco perché così sembra volesse usarlo per ripulirsi la coscienza. So che non è veramente così, intendo, cazzo, so che quando lo dice lo pensa. Lo so che è vero. Sono ormai più di due anni che me lo dimostra, ogni giorno in cui torna, ogni volta che si fa toccare ed ogni volta che non mi manda a fanculo anche quando me lo merito ampiamente. Il problema non è quello.
Sono nervoso. C’è Daniel ricoperto di lividi di là ed ho appena accettato di tenerlo in casa per non so nemmeno quanto, e Fler sembra intenzionato a non togliergli le mani di dosso finché campa. In senso platonico o meno, mi scazza comunque.
È che Fler è una bella persona. Finisce per avere rapporti speciali con tutti. Non lo so. Non mi piace che… vorrei che non fosse così, ecco. Non so neanche se quello che penso ha un senso.
Quando torniamo di là, Fler mi sta ancora stringendo la mano – è successo quando abbiamo sciolto l’abbraccio, io ho lasciato scivolare la mano lungo il fianco e lui ha intrecciato naturalmente le dita con le mie, e là sono rimaste, senza un perché. Daniel lo troviamo impegnatissimo a sistemarsi da sé. S’è già bendato la testa ed ha spiaccicato cerotti e pomate un po’ ovunque. Nel momento in cui entriamo nella stanza, lo troviamo intento a coprire con un cerotto enorme un taglio sul mento. Si volta a guardarci, individua le mani strette e per un secondo io rafforzo la presa attorno alle dita di Fler. Poi non posso fare a meno di sentirmi in colpa – ed anche stupido: faccio il gradasso con un ragazzino, Dio mio – e lo lascio andare. Patrick non s’è accorto di niente perché sta guardando fisso il corpicino martoriato, facendo la conta dei danni.
- Lascia fare, ragazzino. – borbotta sedendosi al suo fianco e controllando la fasciatura attorno alle tempie. È troppo lenta. – Chaku… - mi chiama, ed io sospiro e mi avvicino, sciogliendo le garze per sistemargliele meglio ed andando alla ricerca di una retina da mettergli come cuffia, per tenerle ferme. Nel mentre, Patrick controlla i cerotti e asciuga gli sbuffi di pomata in eccesso con una pezzuola un po’ umida. La scena è surreale. Daniel resta immobile, arreso nelle nostre mani, per tutto il tempo.
Quando finiamo, sono ancora quasi convinto che il moccioso dovrebbe andare all’ospedale, ma sono anche ragionevolmente certo che, pur non andandoci, sopravvivrà; perciò sono soddisfatto così e non mi metto a fare storie. Anche perché so che ora arriverà la parte peggiore della giornata e voglio riservarmi di ringhiare per dopo.
- Danny, io e Chakuza abbiamo parlato e siamo d’accordo sul fatto che puoi restare qui, per un po’. – lo avverte lui, sfiorandogli un braccio, - Almeno fino a quando non ti troviamo un altro posto in cui andare. Comunque tu in quel posto di merda non ci torni.
- …ho una consegna a—
- No. – scuote il capo Fler, - Non hai capito. Te ne tiri fuori. Molli.
Il ragazzino digrigna i denti e si muove sul divano, agitato.
- Devo almeno andare ad avvertire i—
- No, cazzo, Daniel! – urla lui, battendo una mano contro il bracciolo del divano, - Cosa pensi, che queste cose si mollino salutando cordialmente quelli che ti hanno pestato e sfruttato negli anni? Credi che io sia andato casa per casa a porgere scuse e omaggi, quando Sido mi ha tirato fuori da quel merdaio? Cazzo! Te ne vai senza guardarti indietro, o non te ne andrai mai davvero.
Daniel incassa la testa nelle spalle e guarda per terra. Io resto qui in piedi e Fler resta lì seduto a guardarlo severamente, per una lunghissima serie di minuti che si conclude solo quando lo sento sospirare e passargli una carezza affettuosa sulla retina che ha sulla testa. Un gesto lento e tranquillo, per evitare di scombinarla.
- Riposati. – gli dice, adesso più dolcemente, - Io vado a casa tua a prendere la tua roba. Tornerò in un paio d’ore.
Ho appena il tempo di farmi passare per la mente la possibilità di restare da solo con Daniel, che lui subito la manda a puttane. Solleva una mano e la stringe attorno alla maglietta di Fler, tirando il tessuto leggero fino a deformare la scollatura.
- Resta qui. – dice a bassa voce, senza dimostrare di accorgersi della mia presenza, - Per favore.
Fler serra la mascella e lo guarda. Io stringo i pugni e guardo lui. Così intercetto l’occhiata che mi lancia ed ho tutto il tempo di cominciare ad incazzarmi furiosamente prima che esprima ad alta voce quello che già so mi dirà.
- Chaku, puoi—
- E va bene, Cristo! Va bene! – sbraito, agitando un braccio e dirigendomi a passi svelti verso l’ingresso, passando a strappare letteralmente la giacca dall’appendiabiti, - Fanculo.
Fler mi viene dietro due secondi dopo. Mi ferma sulla porta afferrandomi per le spalle e riportandomi indietro prima che imbocchi le scale.
- Aspetta, Chaku, non sai neanche dove andare… - mi ricorda, guardandomi con aria platealmente colpevole. Se spera che questo smorzi l’incazzatura, è del tutto fuori strada. Comunque ha ragione, non saprei dove andare a sbattere la testa, perciò resto lì zitto e buono a immagazzinare le indicazioni che sforna con una dovizia di particolari che mi fa venire voglia di demolire l’intero quartiere, vaffanculo a lui, perché sa così bene come arrivare da qui a casa di Daniel? C’è qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo. – Hai capito bene? – mi chiede alla fine, guardandomi dritto negli occhi come a cercare di leggerci dentro.
- Sì, certo. – borbotto io, - Quello che è.
Lui aggrotta le sopracciglia, irritato.
- Chakuza, ti ho solo chiesto un favore.
Rispondo afferrandolo per una spalla e schiacciandolo tra me e il muro. Gli sono addosso in meno di un secondo e lui neanche prova a fare resistenza. Non che la cosa mi stupisca, d’altronde. Non ricordo volte in cui sia successo.
- Il favore, se non te ne sei accorto, implica che io ti lasci qui da solo col tuo fottuto amante. – gli faccio notare, ringhiandogli a due centimetri dalle labbra. – Quindi non è solo un favore, Fler.
- Fanculo. – respira forte lui, cercando di liberarsi e riuscendo soltanto a strusciarmisi addosso, - Daniel non è il mio amante.
- Però te lo sei scopato. – sibilo sulla sua pelle, e se scendo ad annusare lungo il profilo della sua mascella posso quasi sentire l’odore di pomata e disinfettante, l’odore di Daniel. – Più di una volta. E ti è piaciuto.
Rabbrividisce sotto le mie dita e mi guarda. Non fa altro. Le labbra dischiuse e gli occhi spalancati su di me. Non li evito, mi avvicino ancora di più, fino a sentire la forma del suo corpo pressata contro la mia in maniera quasi dolorosa.
- Se tu lo tocchi, - lo avverto, sfiorandogli le labbra con le mie ad ogni parola, - io ti ammazzo. Se lui ti tocca, io ti ammazzo. Se succede qualcosa… - respiro forte e mi spingo un po’ contro di lui, - se succede una cosa qualsiasi, Fler, io ti… ti ammazzo. – e lui geme ad alta voce, senza nemmeno cercare di controllarsi.
Continuo a guardarlo e lo faccio finché Fler non mi dà quello che voglio. Quello che voglio arriva quasi subito, quando lo vedo annuire confusamente.
- Okay… - ansima, muovendosi a ridosso della parete e strofinandosi contro di me, - va bene, Chaku… va bene… - e mi guarda solo per un attimo, prima di socchiudere gli occhi ed abbassare lo sguardo mentre solleva le braccia a stringermi alle spalle, per muoversi più facilmente. Lo lascio fare per un po’, reggendogli il gioco finché non lo sento affondare le dita e trattenere il respiro, e poi mi allontano, guardandolo freddamente.
Resta talmente sbilanciato che deve aggrapparsi al muro, per non cadere. Ed a guardarlo così mi viene voglia di ribaltarlo contro la parete e scoparmelo adesso, un attimo prima di uscire, col ragazzino ancora di là sul divano. Gli occhi pesanti, le labbra umide, i pantaloni che tirano sull’inguine, la maglietta scomposta e il respiro affannoso. Cristo, Fler. Ma scuoto il capo e mi faccio indietro, infilando la giacca ed aprendo la porta.
- Non me ne fare pentire. – dico gelido.
Quando mi chiudo la porta alle spalle, sul pianerottolo, impreco contro un po’ di santi. Chi cazzo me l’ha fatto fare di avvicinarmi in quel modo? Ora palesemente non riuscirò nemmeno a camminare.
*
Quando Daniel si affaccia dal corridoio, mi trova ancora lì contro il muro che cerco di riprendere a respirare senza fare fatica. Mi guarda con aria un po’ incerta, come non sapesse minimamente cosa fare. Siamo in due, vorrei dirgli, io ho difficoltà anche a muovermi, al momento.
Cerco comunque di rimettermi dritto e mi schiarisco la voce con un paio di colpi di tosse, camminando lentamente verso di lui e riemergendo dalla penombra dell’ingresso di malavoglia. Ho addosso l’odore di Chakuza, ovunque, e questa cosa al momento mi sfianca.
- Non dovevi alzarti dal divano. – lo rimprovero, rimettendolo seduto con una spintarella.
Lui scrolla una sola spalla perché l’altra è ancora fuori uso. Non ha rimesso la maglietta ed è uno spettacolo angosciante.
- Le gambe stanno bene. – mi informa con una mezza risatina, - Le ho tenute nascoste sotto il corpo come mi hai—
- D’accordo. – lo fermo. Non riesco a liberarmi degli occhi di Peter e quando chiudo le palpebre mi sento addosso il suo corpo. Devo… cazzo. L’ha fatto apposta. Devo cercare di… devo assolutamente cercare di riprendermi. – Hai mangiato? Hai fame? – chiedo distrattamente, concentrandomi più sul tentativo di respirare con un ritmo meno affannoso, che non su quello che sto dicendo.
Lui risponde qualcosa che io non sento perché mi risuona ancora nelle orecchie la voce di Chakuza. Così non funziona, non ne esco. Forse avrei fatto meglio a non venire, oggi. Aspetta. Non ricordo da quant’è che sono qui. Di sicuro ieri ho dormito con lui e… forse anche l’altroieri e… è tutto troppo confuso da quando ho ricominciato a lasciare qui qualche vestito, non devo quasi più tornare periodicamente a casa mia e perdo il senso del tempo. Così non va per niente.
Vado verso il frigorifero e comincio a rovistare all’interno, magari trovo della roba con cui imbottire un panino. D’altronde Daniel i diciotto anni deve ancora compierli – e mi sa che, se non risolviamo la questione al più presto, festeggerà la maggiore età con una scarica di legnate non dissimile da quella di oggi, cazzo – perciò deve avere fame. A quell’età hanno sempre fame.
- Ma mi ascolti? – mi chiede piano, e la sua voce è troppo vicina per provenire dal divano, - Ti ho detto che non mi va di mangiare. – s’è alzato ancora.
Mi volto e sospiro. Parto con l’intenzione di rimproverarlo e me lo trovo a due centimetri dal viso che mi guarda incuriosito. Ormai è alto quasi più di me, nell’ultimo anno è cresciuto un sacco. Non so come ce l’abbia fatta. Insomma, intendo, ogni tanto lo guardo e mi chiedo come possa essere ancora vivo, addirittura. Poi ricordo che in fondo sono vivo anch’io e torna tutto.
Io però avevo Anis accanto, quando rischiavo di prendere botte ad ogni angolo di strada.
Daniel non ha mai avuto nessuno, prima di me.
- Dovresti andare a stenderti. – sospiro ancora, guardandolo dall’alto in basso, - …e rivestirti, anche.
Tira fuori un ghignetto che nelle intenzioni dovrebbe essere un concentrato di malizia ma, visto quanto è pesto e malconcio, in realtà fa solo ridere. E neanche poi così tanto.
- Cos’è, problemi? – chiede con aria strafottente. Io lo spintono verso il divano.
- Io no, Danny, ma se tu alle botte aggiungi la polmonite non sono sicuro di cosa potrebbe farti Chakuza quando tornerà a casa.
Lui cade sui cuscini con un tonfo e un mezzo lamento, e mi fissa con aria offesa.
- Lo lasceresti fare? – chiede in un sussurro, - Se mi mettesse le mani addosso, dico… lo lasceresti fare?
Sospiro, sedendomi sulla poltrona al suo fianco.
- Devo proprio rispondere a questa domanda?
Lui annuisce.
Io sospiro ancora.
- Sono il suo uomo, Danny.
Lui aggrotta le sopracciglia e fa per incrociare le braccia sul petto. Rinuncia appena si accorge che fa male.
- Tu non sei suo! – sbotta astioso, puntando le mani sui cuscini.
Io sorrido sarcastico.
- No? – chiedo, scrollando le spalle.
- Assolutamente no! – insiste lui.
- E sarei tuo, invece?
Lui abbassa lo sguardo e sulle sue guance il rossore si nota nonostante i lividi.
- Tu… potresti… - deglutisce e guarda altrove, - Io lo sono. Non sono di nessun altro. Solo tuo.
Sospiro ancora e scuoto il capo. Non so cosa dirgli, anche se so esattamente cosa si prova in situazioni come queste. Quando sai di appartenere a qualcuno ma non è quel qualcuno ad appartenere a te. Mi è successo abbastanza spesso da potermi dichiarare un veterano nel campo. So che fa schifo. So che si fanno assurdità. So che non ci si dà pace. Ma a questo ragazzino senza speranza io, davvero, non so cosa dire.
- Mi dispiace, Danny. – cerco di consolarlo, accarezzandogli una guancia, - Prima o poi ti passerà.
- Oppure insisterò fino a quando non cederai. – sbotta, appoggiandosi sulla mia spalla e strusciando il viso contro la maglietta, - Tu con Chakuza hai fatto così, in fondo…
Rido a bassa voce.
- No, Danny, non esattamente.
- Però più o meno.
Roteo gli occhi ed annuisco.
- Più o meno, sì. Ma non funziona sempre.
Solleva una mano – quella del braccio ancora a posto – e mi stringe alla vita.
- E come fai a sapere che non funzionerà fra noi?
Me lo stringo contro, coccolandolo un po’. Lui mugola subito e si attacca come un cucciolo di koala. Lo fa sempre. È una delle pochissime cose che gli concedo, da quando io e Chakuza abbiamo ripreso a frequentarci. È divertente, perché quando stavamo insieme non aveva bisogno di coccole, praticamente mai. Era molto estroverso ed espansivo, ma queste cose da femmine non gli interessavano per nulla. Ora che è l’unica parvenza di intimità che possiamo permetterci, le cerca come aria per respirare meglio.
So che la sto gestendo male, questa cosa. So che dovrei smettere di vederlo e basta, perché è l’unico modo per dimenticare davvero. Però non voglio. Non voglio prenderlo e cancellarlo dalla mia memoria. Non voglio prenderlo e cancellarlo nemmeno dal mio presente.
- Non funzionerà perché c’è Chakuza di mezzo, piccolo. – dico, facendogli scorrere una mano lungo il braccio e massaggiando piano, - Ci sono persone che ti colonizzano la testa. Quando ci entrano, non ne escono più. Chakuza l’ha fatto con me, io non riesco a immaginare di svegliarmi un domani e non averlo. Capisci cosa vuol dire questo?
Le sue ciglia si muovono appena contro la pelle del mio collo e mi fanno un po’ di solletico.
- Sì, lo capisco. – esala in un soffio.
Sorrido.
- Se lo capisci, dovresti anche rassegnarti.
Sorride anche lui, e mi sbuffa addosso.
- Non è la stessa cosa. E poi, scusa, se a te avessero detto “lascia perdere e rassegnati”, tu l’avresti fatto?
Ridacchio, scuotendo il capo.
- Daniel, Chakuza mi spingeva contro il muro ogni volta che ne aveva l’occasione. Rassegnarsi a quelle condizioni era molto molto difficile. Però ci ho provato.
Lui respira forte.
- E tu non… - comincia, cercando di insinuare la mano sotto la mia maglietta.
Lo fermo.
- No. – rispondo. – Io non voglio. D’accordo? Quindi no.
Daniel sbuffa, infastidito, e si separa da me con uno scatto secco.
- D’accordo. – borbotta in un mugolio di dolore, - Tanto mi fa tutto troppo male per scopare. – ammette, guardando altrove.
Io sorrido e torno a stringerlo piano, ondeggiando avanti e indietro.
Daniel è fondamentalmente un cretino ostinato e masochista.
Se Chakuza non capisce cosa c’è fra noi, vuol dire che ricorda poco dei miei primi mesi con lui.
Mi chino a baciarlo su una guancia e poi lo lascio andare.
- Ti prendo una coperta. – annuncio muovendomi verso la camera da letto, - Ma non dire a Chaku che ci siamo toccati, o finiamo entrambi sullo zerbino stasera, sai?
- Aaah, ma non posso dormire nel letto con voi? – borbotta agitandosi e mugolando come un bambino di tre anni.
Io rido.
- Assolutamente no! – e quando mi chiudo la porta alle spalle mi ritrovo nel buio della camera da letto e sospiro pesantemente. Sarà una giornata difficile. Sollevo un braccio ed annuso piano. L’odore di Chakuza è ancora lì. È più forte dell’odore del disinfettante. Sorrido ed apro l’armadio alla ricerca della coperta.
*
Poso i piedi sulla moquette che riveste il pavimento del corridoio e mi guardo intorno. Dunque, la casa è questa, c’era scritto Kobler sul cancelletto di fronte e la via non l’ho sbagliata. E questo nonostante questa sia una parte di Tempelhof in cui non sono mai stato, sono molto fiero di me.
Certo, sono un po’ meno fiero se penso che sto entrando in casa di sconosciuti per andare a mettere le mani nei cassetti della biancheria di un ragazzino che è stato col mio uomo e che, probabilmente, tra le mura di questo edificio ha visto solo legnate da quando è venuto al mondo. Ma comunque ormai ci sono, quindi basta lagnarsi e passiamo all’azione.
Tiro su le maniche fino a metà avambraccio e mi guardo intorno. Il posto non è tanto grande, è più corridoio che stanze, in realtà. Da qui si vede il bagno, la porta è socchiusa e il rubinetto perde. Faccio qualche passo girando gli occhi qui e là. In casa non c’è nessuno, a parte le gocce che si infrangono sulla ceramica non sento niente. Vago in giro e trovo una cucina sporca e piccola con un chilo di piatti ancora da lavare ammonticchiati nel lavabo, ed una specie di salottino con un divano e una tv. Sopra la tv c’è un’antenna tenuta insieme con lo scotch da imballaggio, quello marrone che lascia tracce ovunque quando lo tiri via. Ci sono tracce di scotch pure nei pezzi di antenna non incollati fra loro.
Ed io che pensavo di vivere in un porcile.
I gradini di legno scricchiolano mentre salgo al piano di sopra. Non me ne curo e, quando mi si apre davanti il corridoio del primo piano, mi salta il cuore in gola: dalla porta spalancata in fondo si intravede lo scorcio di una camera da letto ingombra di vestiti ammucchiati per terra e bottiglie rovesciate accanto al comodino. Sul letto – appena uno spicchio di materasso, è tutto quel che posso vedere da qui – c’è un uomo che dorme e russa. Una mano sulla pancia, l’altra pende verso il pavimento e sfiora la moquette.
Deglutisco forzatamente, muovendomi lento, in punta di piedi. Il respiro dell’uomo è pesante e rumoroso, ricorda quello di Fler quando collassava sulla poltrona, completamente ubriaco. Sospiro: è completamente ubriaco anche lui, e dev’essere il padre di Daniel. Non mi stupisce che la casa sia il casino che è.
Apro una porta a caso cercando di non fare rumore e mi meraviglio della mia fortuna. La camera non può che essere questa, le pareti sono tappezzate di poster e credo di non aver mai visto così tante immagini di Fler tutte insieme in vita mia. Questo ragazzino è palesemente una groupie.
Mi guardo intorno. Qui dentro, a parte un letto sgangherato, una scrivania in disordine ed un po’ di vestiti ammucchiati su una sedia, non c’è niente. Si può tranquillamente dire ci siano più poster attaccati alle pareti che non mobili nella stanza. Mi colpisce un manifesto pubblicitario enorme, sulla testiera del letto. È una vecchia pubblicità di un sampler dell’Aggro Berlin. Vecchia davvero, poi: c’è perfino Bushido. O almeno, dovrebbe esserci. La sua faccia è coperta quasi per intero da un’enorme x fatta col pennarello nero.
Mi lascio sfuggire una risata, senza pensare all’uomo addormentato nell’altra stanza, e quando mi ricordo della sua esistenza presso forte le dita contro le labbra, cercando di calmarmi, ma è molto difficile. La sola idea di Daniel che appende il poster al muro, lo squadra insoddisfatto e poi decide di eliminare la faccia di Bushido dalla superficie spennellandoci sopra è semplicemente troppo divertente perché io possa liberarmene.
Continuo a pensarci mentre vado in giro per la stanza raccogliendo i vestiti, che sinceramente non danno granché l’idea di essere puliti o altro. Cerco anche di pensare ad un modo per rifilarli a mia madre senza che si accorga che sono decisamente troppo piccoli per essere miei o di Fler. Peraltro, il fatto che mia madre ormai non trovi più nulla di strano nel lavare la mia roba assieme alla sua dovrebbe turbarmi, immagino. Certe volte ho l’impressione che il mondo intero abbia accettato l’idea di me e Fler come coppia prima di quanto non l’abbia accettata io. Mettiamoci di mezzo il fatto che ogni tanto faccio fatica ad accettarlo anche adesso, ecco.
Cerco in giro uno zainetto e ne prendo uno a caso in un angolo. È pieno di bustine di cui voglio ignorare il contenuto. Neanche faccio un tentativo con un altro zaino, mi limito a svuotare questo e riempirlo dei vestiti e della biancheria che sono riuscito a raccogliere.
Dopodiché tiro un enorme sospiro e comincio a staccare i poster dalle pareti. Immagino che, dovunque andrà a vivere Daniel dopo che l’avrò finalmente buttato fuori da casa mia, ne sentirà la mancanza, se non li avrà.
Comunque faccio un mezzo pensierino sul tenere io il poster della copertina di Deutscha Bad Boy. Mi frenano solo due cose: primo, non posso mica rubare un poster a un ragazzino così sfacciatamente innamorato; secondo… se anche lo tengo, dove cavolo lo metto? E non è un “dove cavolo lo metto” e basta, è un “dove cavolo lo metto per nasconderlo a Fler, dato che quando deve cercare cose rovista ovunque e, se mai dovesse avere la fortuna sfacciata di trovarlo, poi la mia vita sarebbe palesemente finita”.
Infilo tutto nello zainetto cercando di eliminare i pensieri molesti – tutti, in blocco, compresi i ricordi di Fler schiacciato contro il muro all’ingresso che mi hanno assalito appena mi sono distratto un attimo dall’obiettivo – e vengo fuori dalla stanza. Il signor Kobler ancora dorme ed io un po’ me ne dispiaccio: visto che quest’uomo è l’origine di tutti i miei mali, mi piacerebbe fargli capire cosa penso esattamente di lui e di tutti quelli come lui – ma soprattutto di lui, che cresce i figli in modo che poi quelli debbano sentirsi autorizzati ad infilare le mani nelle mutande degli uomini altrui. Comunque dorme ed immagino che Fler, quando mi ha mandato qui a recuperare le cose, non intendesse anche “ed uccidi quel bastardo”. Cioè, non sono proprio sicuro che Fler lo preferisca vivo. Comunque non è un mio diritto toglierlo di mezzo e francamente non ci tengo più di tanto, in realtà se anche ci tenessi non saprei da che parte cominciare, e comunque non voglio!, perciò scivolo al piano di sotto e poi oltre la finestra nel modo più veloce e furtivo possibile, e prendo a respirare serenamente solo quando mi ritrovo nuovamente immerso nell’aria fresca sul finire dell’estate di Tempelhof.
Mi guardo intorno.
Okay, un attimo di smarrimento.
Questa zona è, diciamo, la zona più “residenziale” del quartiere. Il che significa, in poche parole, che sto immerso in un quadrato di casette tutte uguali, con cancelli tutti uguali, giardinetti incolti tutti uguali, porte sgangherate tutte uguali e cassette delle lettere mezze abbattute tutte uguali. Non cambiano nemmeno i colori. Grigio e verde, grigio e verde, tutto grigio e verde. Così per chilometri, il quartiere è enorme.
Arrivare è stato un conto.
Andare via sarà più difficile.
Zaino sulle spalle e cappuccio calato sul volto, mi avvio in una direzione casuale di fronte a me. Prima o poi ne uscirò, immagino. O finirò per passare il confine, chissà. In ogni caso tutto voglio meno che restare qui. Sono quasi certo che la mia macchina non sia da quella parte, ma se mi toccherà uscire da questa merda di posto a piedi, allora lo farò. Verrò a recuperarla successivamente. Questo posto mi mette ancora i brividi.
Giro a vuoto per un po’. Un bel po’. Quando sono solo il tempo tende a passare sempre troppo lentamente perché io possa quantificarlo, quindi non saprei dire per quanto abbia girato, comunque sia quando mi infilo in una via e mi ritrovo di fronte alla casa del vicino del signor Kobler ho due scelte: o vado nel panico e mi siedo qui, afferro il cellulare e imploro Fler di venirmi a ripescare, o chiedo a un passante.
Visto che non ho la benché minima intenzione di implorare nessuno, e visto che sono uscito di casa mantenendo un certo tono e non ci tengo a fare la parte del cagnetto uggiolante proprio adesso, la scelta può essere una sola.
Mi avvicino al primo tizio che incontro. Avrà una ventina d’anni – per com’è vestito, con quei pantaloni aderentissimi di pelle nera e il vuoto sotto il chiodo borchiato, non più di venticinque – ma ha una faccia talmente sfatta che ne dimostra quasi il doppio. Occhiaie e rughe comprese. Al confronto io e Fler – ma anche Bushido, volendo – sembriamo ragazzini. Cammina ciondolando e nella tasca dei jeans si intravede chiarissima la forma di un serramanico ripiegato. Mi rendo conto che non si tratta della persona più affidabile cui chiedere delle indicazioni, ma non c’è nessun altro in giro e non mi pare di avere molta scelta. A parte quella scartata a priori del panico e di Fler che mi viene a riprendere neanche avessi dodici anni.
-Ehm… scusa? – chiedo, picchiettandogli con due dita sulla spalla perché si accorga di me.
Lui mi alza addosso un paio d’occhi celesti trasparenti come pezzi di vetro ma arrossati in maniera quasi allarmante. Non ho idea di cosa abbia mandato giù ma di sicuro non dev’essere stata roba buona.
- ‘Cazzo vuoi? – mi sbotta in faccia, e l’alito puzza di birra. Perfetto. Sono fottuto.
- Senti, ho bisogno di un’informazione… - comincio, nel modo più pacato possibile.
Lui mi guarda come fossi una merda pesticchiata sul marciapiedi.
- Li conosco gli sbirri come te. – mi accusa, tirando su col naso, - Stronzi figli di puttana, sbirri in borghese. Non so un cazzo.
- Ma io voglio solo—
- Non so un cazzo, ti dico, sbirro di merda.
Ringhio e cerco di mantenere la calma.
- Non sono un cazzo di sbirro. – grugnisco, le mani sui fianchi, - Se proprio vuoi saperlo, l’unica cosa certa della mia vita è che in mezzo alla manica di matti coi quali vivo io sono solo il fottuto chef. Ma non se lo ricorda mai nessuno!
Quello mi guarda per tutta una serie di secondi che non riesco a quantificare. La strada è immersa in un silenzio surreale, ci siamo solo io e lui e non riesco a sentire neanche i rumori delle macchine che sono quasi sicuro circolino ancora dalle parti del canale.
Mi schiarisco la voce.
- Ora… posso chiedere—
- Lo chef, dice lui… - mi interrompe il tipo, i lineamenti del volto deformati da un ghigno sghembo semplicemente terrificante, - Conosco una persona che non sarebbe per niente d’accordo. – ed ho appena il tempo di realizzare di aver detto una solenne cazzata, che lui ha già estratto il serramanico e me lo sta puntando alla gola. Faccio per indietreggiare e dire qualcosa, ma lui sfiora la pelle del collo con la lama appuntita e tagliente ed io deglutisco e rimango in silenzio. – Puoi chiedere dove ti porterò adesso? – mi fa il verso, continuando a ghignare, - No. Però puoi seguirmi senza fare storie.
- …non fare pazzie, amico, non—
- A-ha! – mi ferma, incidendo appena sotto la mascella, ed io trattengo perfino il respiro, - Senza fare storie, ho detto. Ci siamo capiti?
Annuisco. E lo seguo, che altro posso fare?
La prossima volta, giuro, vado nel panico e mi faccio venire a riprendere.
*
Sono passate sei ore quando comincio a preoccuparmi. La parte più razionale di me mi dice che non dovrei, che d’accordo, magari il Chaku è a Tempelhof, ma è pieno giorno. Cosa mai può succedergli in quel posto, per quanto pericoloso, alle due del pomeriggio? E poi in che guai può essersi cacciato dovendo semplicemente andare ad un indirizzo ben preciso per prelevare qualcosa prima di fuggire per sempre?
Devo stare calmo, mi dico. Calmo e rilassato. Fra qualche minuto mi chiamerà, si scuserà per non essersi fatto sentire per sei fottute ore e poi confesserà mugugnando che s’è perso, e mi implorerà di andarlo a recuperare in qualche angolo dimenticato da Dio che non saprà nemmeno descrivermi correttamente.
- Ho faaame. – miagola Danny, sbuffando platealmente, tutto arricciato sul divano, - Non si mangia?
- Aspettiamo Chakuza. – rispondo io, lanciando un’altra occhiata all’orologio. Sei ore e dieci minuti. Chakuza, Cristo, dove sei finito?
- Perché non lo chiami? – mi chiede lui, sporgendosi dal divano ed allungando un braccio verso il tavolino, per cercare di recuperare il telecomando poggiato sul ripiano, - Magari sta perdendo tempo da qualche parte e s’è dimenticato che lo stai aspettando. – suppone, la lingua fra le labbra e l’espressione concentrata mentre con un breve scatto si allunga abbastanza da afferrare il telecomando, per poi tornare ad abbattersi contro i cuscini sistemati con cura dietro la sua schiena, uggiolando di dolore.
- Non posso chiamarlo, Danny. – espiro in uno sbuffo contrariato, andando a sedermi sulla mia poltrona giusto per staccarmi dalla finestra prima che rimanga impressa sul vetro l’impronta indelebile del mio naso. – Magari ci sono stati problemi a casa tua. – gli spiego, lanciandogli un’occhiata risentita. Io ti adoro, Danny, ma tu non puoi mettere il mio uomo a rischio. Egli non è adatto. In generale. – Magari tuo padre s’è svegliato e lui ha dovuto nascondersi da qualche parte. Che faccio, lo chiamo rischiando che il cellulare riveli dov’è?
Daniel inarca un sopracciglio, guardandomi con aria scettica.
- Tutti sanno che quando si fanno cose simili il cellulare va tenuto silenzioso. – dice con naturalezza. E sì, certo, Daniel. Tutti lo sanno. Io lo so, tu lo sai. Se avessi mandato Anis a recuperare la tua roba potrei avere la certezza che lo sa anche lui. Ma Chakuza?
- Lascia che io ti dica che non hai capito niente del Chaku. – annuisco con aria professionale, - Come minimo non solo ha il cellulare con la suoneria attivata, ma pure al massimo volume. E personalizzata di modo che lo chiami per nome. – sospiro profondamente.
Daniel ride, incredibilmente divertito, ed accende la tv.
- Ma che ci fai con uno così? – mi chiede, con aria apparentemente distratta, concedendosi un po’ di zapping prima di fermarsi su un cartone animato a caso. La domanda è cosa ci faccio qui con te, semmai, Danny. – Cosa c’entri?
- Non ricominciamo. – borbotto, e in quel momento il cellulare vibra nella tasca posteriore dei miei pantaloni. Mi alzo in piedi all’istante, lo estraggo e lo guardo. Chakuza mi ha mandato un messaggio. – Era anche ora… - borbotto risentito, mentre mi affretto a premere il pulsante per leggerlo.
Ciò che i miei occhi vedono, comunque, è non affatto soddisfacente. Nel messaggio c’è scritto solo aiuto.
- Che ti prende? – chiede Danny, spegnendo istintivamente la televisione e lanciandomi un’occhiata preoccupata, - Sei sbiancato.
- Chakuza è in pericolo. – dico d’un fiato, girando sui tacchi e dirigendomi speditamente verso la porta d’ingresso, - Devo andare a cercarlo.
- Ehi— aspetta! – cerca di fermarmi lui, saltando giù dal divano e piegandosi immediatamente su se stesso per il dolore. Capisce che non ho tempo da perdere, comunque, e si rimette in piedi piuttosto alla svelta, tenendosi la pancia fra le mani e seguendomi. – Come sarebbe a dire che è in pericolo? Cos’è successo?
- Cosa vuoi che ne sappia! – urlo, voltandomi a guardarlo con rabbia. Lui arretra di un passo, serrando le labbra finché non diventano sottilissime e pallide. – Scusa. – cerco di calmarmi. Cazzo, non è colpa sua se Chakuza è in pericolo. Sapevo che avrei dovuto andarci io. Cazzo. – Mi ha mandato un messaggio, guarda. – dico, sollevando il cellulare per mostrarglielo. Daniel lo legge velocemente e i suoi occhi si fanno più cupi per qualche secondo, mentre annuisce sommessamente.
- Vengo con te. – dice quindi, tornando al divano per infilare le scarpe.
- Neanche per idea. – ribatto io, ignorandolo platealmente.
Lui mi passa davanti ed apre la porta, uscendo di casa prima di me.
- Non era una domanda. – conclude, cominciando a scendere le scale. Roteo gli occhi, correndogli dietro.
- Piccolo, torna in casa, dai. – dico dolcemente, accarezzandogli una spalla. Stavolta è lui a ignorare me.
- Potrei esservi utile. – dice. Ma esserci a chi? Io intendo andare da solo.
- Daniel, - sospiro, - sei ferito e dolorante, sei un rottame, dovresti essere in ospedale, che cazzo me ne faccio di te, me lo spieghi?
Lui mi lancia un’occhiata risentita, aggrottando le sopracciglia.
- Qualsiasi cosa. – risponde di getto, - È anche colpa mia se è nei guai.
- Danny, non—
- Sta’ zitto. – mi interrompe. Siamo già a piano terra. – Sai già a chi chiedere?
Lo guardo per qualche secondo, confuso.
- Che intendi? – gli chiedo, inarcando un sopracciglio. Lui sbuffa platealmente, roteando gli occhi.
- Dubito che sia stato mio padre a causargli guai. – spiega, - Se anche si fosse svegliato, nelle condizioni in cui era quando l’ho lasciato poteva sicuramente pestare me, ma non uno come Chakuza. Cioè, uno che possa rispondergli come merita. – sospira un po’, abbassando lo sguardo, e a me si stringe il cuore. – Deve aver fatto casino mentre era per strada. Magari ha preso uno dei miei zainetti speciali, quelli con la roba dentro. Hanno tutti una toppa particolare, così la gente del ghetto li riconosce e sanno che possono chiedermi. Se qualcuno l’ha vista, forse ha pensato che fosse del giro.
Non fatico a immaginare che, a partire da uno scenario simile, Chakuza possa essere finito in guai molto più catastrofici di quelli che riesco a immaginare in questo momento senza avere una crisi isterica. Inspiro ed espiro profondamente, cercando di razionalizzare. Potrei sbrigarmela da solo, andare a Tempelhof e perdere le ore partendo da zero, senza il minimo aggancio, per cercare di tirare fuori qualche informazione a qualche sconosciuto.
Oppure posso andare da Bushido, e chiedergli di contattare Arafat.
Vista la situazione, e visto soprattutto che una cosa so per certo, ed è che non voglio lasciare Chakuza da solo a Tempelhof troppo a lungo, faccio in fretta a decidere per il meglio. Daniel sorride soddisfatto, salendo in macchina e mettendosi comodo.
- Togliti quell’espressione dalla faccia. – mugugno io, talmente infastidito che per un attimo non faccio caso a quello che dico, - Sarai tu responsabile, se gli succede qualcosa.
Gli occhi di Daniel s’incupiscono un’altra volta, mentre lui si torce le dita in grembo, nervoso. È evidente che riesce a ragionare in maniera perfettamente lucida quando si parla di pianificare il salvataggio di qualcuno di cui tutto sommato gli importa pure poco, ma impazzisce d’ansia quando pensa anche solo per sbaglio che io potrei cominciare ad odiarlo per qualche motivo.
- Andrà tutto bene. – dice, più per rassicurare se stesso che per rassicurare me, anche perché io al momento non posso essere rassicurato.
Sospiro, allungando una mano ad accarezzargli piano la nuca.
- Sì, andrà bene. – confermo mettendo in moto.
Da Bushido ci arriviamo in tempo record, bruciando anche un paio di rossi. Per tutto il tempo, Daniel resta tranquillo al mio fianco, senza neanche muoversi in avanti quando freno o schiacciarsi indietro contro lo schienale quando accelero. Non ha nemmeno messo la cintura di sicurezza, cosa che suppongo dovrei trovare sconveniente al punto da fermarmi e cercare di convincerlo a metterla, ma non c’è nemmeno il tempo di razionalizzare il pensiero che la mia macchina si ferma perfettamente parallela al marciapiedi appena fuori dal cancello di casa di Bushido, ed a quel punto fargli indossare la cintura non avrebbe più molto senso.
Esco di gran fretta, e Daniel, per quanto le sue ossa peste glielo permettano, fa lo stesso, per cercare di non intralciarmi troppo. Karima ci mette troppo a rispondere al citofono, e quando sento la sua voce domandarmi chi sono e cosa voglio – è una donna d’altri tempi che non ha mai imparato ad usare il video nella parola videocitofono – rispondo sgarbatamente di farmi entrare e non perdere altro tempo. Lei rimane in silenzio per un altro paio di secondi, e io batto con forza una mano contro le grate del cancello, così improvvisamente che Daniel, al mio fianco, sobbalza lanciandomi una lunga occhiata colma di preoccupazione.
- Karima! – la chiamo, - Datti una mossa!
La serratura scatta il secondo successivo. Il cancello si apre sotto le mie mani e Skyline e Sherlee mi vengono incontro, saltellando ed abbaiando festosi. Io non ho tempo di star loro dietro, perciò passo in mezzo ai loro musi senza fermarmi neanche ad accarezzarli, e se non mi vengono dietro continuando ad abbaiarmi alle spalle è solo perché Danny, visibilmente più lento di me, non riesce a tenere il mio passo e non può sfuggire alla loro rumorosa richiesta di attenzioni, cedendo perciò a metà del vialetto e grattando entrambi dietro le orecchie in una sorta di pedaggio in seguito al pagamento del quale i due cuccioli lo lasciano libero di seguirmi.
Sulla soglia della porta non c’è Karima, probabilmente tanto oltraggiata dal mio comportamento da essersi già rintanata a pelare cipolle in cucina come fa sempre quando qualcosa non rientra nel ristretto campo delle sue approvazioni, perché, come ama dire, un po’ di cipolla tritata serve sempre ed è meglio averne un po’ di scorta per ogni evenienza. Quali evenienze improvvise potrebbero giustificare la presenza di terrine piene di cipolla già tritata nascoste in frigorifero io non lo so, ma tant’è, lei non è sulla porta ad attendere il nostro arrivo come dovrebbe essere. Ci sono sia Bushido che Bill, invece, e faccio appena in tempo a notare l’occhiata infastidita di Bill quando vede Danny alle mie spalle – a Bill non va granché giù che Danny sia tornato a ronzarmi intorno da quando io, invece, sono tornato a ronzare intorno a Chakuza – che quell’occhiata subito scompare, tramutandosi in qualcosa di diverso. I suoi occhi si spalancano, mentre porta una mano a coprirsi la bocca dischiusa in una smorfia inorridita.
- Ma che gli è successo? – chiede sconvolto, mentre Bushido prende atto delle condizioni del ragazzino con molta più praticità, osservandolo in lungo e in largo con aria concentrata, - Sta bene?
- Non è lui quello in pericolo, al momento. – rispondo seccamente io, spingendomi abbastanza in avanti per far sì che Bill e Bushido si scostino dall’uscio, lasciandomi entrare. – Chakuza è finito nei guai. – dico quindi, mentre Bushido aspetta che anche Danny sia entrato all’interno della villa, prima di chiudersi la porta alle spalle, - A Tempelhof. Da solo.
Bushido aggrotta le sopracciglia, i lineamenti del suo volto che si tendono repentinamente mentre irrigidisce le braccia lungo i fianchi.
- Cosa?! – strilla Bill, sconvolto, - Che c’è andato a fare lì da solo?
Bella domanda, ragazzino.
- Ne parliamo dopo. – taglio corto, - Anis, dobbiamo fare qualcosa. – tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans e mostro alla coppia reale il messaggio che ho ricevuto ormai quasi venti minuti fa. Dio, venti minuti. Sono milleduecento secondi. Per uccidere un uomo ne basta uno.
Bill si lascia scivolare fra le labbra un gemito addolorato che gronda preoccupazione. Bushido non ha ancora aperto bocca, continua a studiare la situazione in silenzio, incrociando le braccia sul petto.
- Che ci fa lui con te? – chiede quindi Bill per riempire il vuoto che sente pesargli sul petto. Ci metto un po’ a capire che parla di Daniel, in parte perché non sono concentrato e in parte perché Bill non si prende nemmeno il disturbo di indicarlo. – Perché deve stare qui? Guarda quant’è pesto, mi rovina l’arredamento. – sbuffa infastidito.
- Bill. – scatto io, aggrottando le sopracciglia, - Non è il momento.
- Ah, non lo è? – ribatte lui, le mani sui fianchi e un’espressione di insopportabile superiorità sul volto, - Intanto lui è qui e il tuo uomo è nel ghetto da solo. – ribadisce, come se non ne fossi già insopportabilmente cosciente.
- Bill, sai che ti voglio bene, - dico, mordendomi con forza l’interno una guancia per forzarmi a ripetere queste parole, perché so che è una cosa vera ma in questo momento non mi sembra affatto, - ma fatti i cazzi tuoi. – concludo con un’occhiataccia.
Bill spalanca gli occhi, oltraggiato. Apre le labbra e fa per dire qualcosa, ma non riesce. Bushido è più svelto.
- Taci. – dice guardandolo, - E anche tu. – aggiunge guardando me. Io mando giù un blocco d’aria che pesa come il granito, mentre lui si volta a guardare Danny. – In che zona è andato? – chiede a lui, e per un secondo penso che l’abbia fatto perché ha già capito tutto, e trattandosi di Bushido la cosa non mi stupirebbe affatto. Poi razionalizzo, e capisco che ha chiesto a lui solo perché Danny a Tempelhof ancora ci vive, contrariamente a tutti noi. Afferro solo vagamente quanto deve essere costato a Bushido ammettere una cosa del genere, pur se implicitamente, e forzarsi a chiedere a un ragazzino un’informazione simile per salvare Chakuza. Mi riservo di ringraziarlo dopo per questo, visto che so per certo che nessuno a parte me può comprenderlo, e nessun altro lo ringrazierà.
Daniel si mordicchia il labbro inferiore, pensoso.
- È nella zona residenziale, - dice, - quella coi prefabbricati. Ma lì intorno ci sono i vecchi magazzini del mercato ortofrutticolo, e non sono più usati per frutta e verdura da tempo.
- Che rischi ci sono che l’abbia preso qualcuno di pericoloso? – chiede ancora, avvicinandosi al tavolino basso e recuperando il cellulare posato sul ripiano di vetro.
Daniel sospira profondamente.
- Per tutta una serie di ragioni, potrebbe essere finito nei guai con qualche corriere, credo.
- Con qualche corriere?! – strilla Bill, incapace di trattenersi oltre, - Cosa diavolo l’avete mandato a fare?!
- Bill, sta’ zitto. – ribadisce Bushido, digitando velocemente un numero a memoria e portando il cellulare all’orecchio.
- Lo stai chiamando? – chiedo io, a corto di fiato, fissandolo speranzoso.
- Sta’ zitto anche tu, ho detto. – dice lui, lanciandomi un’occhiata indecifrabile. Poi sospira, inumidendosi le labbra. – Sì. – dice quindi. Mi si annoda lo stomaco finché resta in silenzio, e poi sento un click sommesso ed una voce dal passato che risponde chiedendo festosamente a Bushido come sta, perché è da un sacco di tempo che non lo sente. – Ari. – dice Anis, il tono grave e lo sguardo concentrato mentre fa segno a Bill di recuperare un pezzo di carta ed una penna, - Mi servono un paio di indirizzi.
*
Naturalmente non riesco a parlare, ma visto che sono state le mie parole a generare tutto questo gran casino da una parte è meglio così. Sì, mi sta bene tacere, quello che non mi sta bene è che per farmi stare zitto mi abbiano legato questa robaccia attorno alla testa, e mi abbiano infilato due chili e mezzo di polistirolo in bocca. A parte che il sapore fa schifo, e a parte che mi sto cagando sotto perché, voglio dire, chi cazzo è questa gente?, a parte tutto questo, lo scotch sulle guance tira e fa un male fottuto, e non riesco a muovermi perché ho le braccia legate dietro la sedia in una posizione innaturale che mi fa dolere le spalle, e le gambe legate strettissime con delle vecchie corde sporche ai piedi della sedia.
In generale, sono finito proprio in una bella situazione di merda. E mi piacerebbe poter dare la colpa a Daniel, perché almeno così non dovrei stare seduto qui a soffrire, ascoltare stronzate e dovere avere a che fare in aggiunta con la consapevolezza che a trascinarmi in questo magazzino abbandonato con le finestre inchiodate non è stato il ragazzino, non è stata la richiesta di Fler, no, sono state la mia ostinazione a non voler chiedere aiuto e la mia boccaccia del cazzo.
- Allora. – riprende l’uomo che mi ha ricoperto di cazzate da quando sono stato portato al suo cospetto un paio d’ore fa. È vestito con una tuta integrale in pelle bianca, aperta fino allo stomaco rotondo e prominente. Indossa un paio di occhiali da sole dei quali in questa penombra non dovrebbe avere il minimo bisogno ed i suoi capelli sono acconciati in un ciuffo che si protende contemporaneamente in avanti e verso l’alto. I tacchi dei suoi stivali bianchi a punta producono un suono che mi snerva, ticchettando sul pavimento pieno di crepe mentre lui gira intorno alla sedia, guardandomi circospetto. – Mi dicono che ti piace andare per strada facendoti grande agli occhi dei passanti. – dice, - Lo chef, mi dicono, è così che ti fai chiamare. Ma oh, hai fatto i conti senza l’oste, mio caro amico pelato.
Io mugugno qualcosa, ma non riesco a farmi uscire dalle labbra niente che abbia un senso. In realtà tutto quello che vorrei strillare è “ma sei cretino?! Ti sei completamente bevuto il cervello?! Da quale epoca sei venuto fuori, scherzo della natura?! Santo Dio!”, quindi forse è meglio che io sia obbligato a tacere. Cristo, è passata quasi un’ora da quando sono riuscito a mandare quello scampolo di messaggio a Fler, e tutto ciò che ho ottenuto in cambio è stato che mi portassero via il cellulare e lo spaccassero in due sotto i miei occhi sofferenti. Quando e se tornerò a casa, comprare un cellulare nuovo sarà drammatico. Non mi abituerò mai al tastierino nuovo, non riuscirò mai a memorizzare il nuovo menu e dovrò fare i salti mortali per trovare qualcosa che non possieda la parola touch nel nome o nella descrizione delle caratteristiche principali. Che odio. Fler, dove cazzo sei finito?!
- Cos’è che hai detto? – chiede il tipo, chinandosi su di me e tendendo un orecchio, - Non ti ho sentito! Forse perché sei imbavagliato. – si rimette dritto, grattandosi pensosamente il mento. – Dovremmo forse lasciarti libero? – chiede retorico, lanciando un’occhiata ai due che stanno alla sua sinistra e alla sua destra. Uno è quello che mi ha portato qui, e l’altro un suo degno compare. Anche lui indossa un giubbotto di pelle senza niente sotto, ed un paio di jeans chiari con più buchi che brandelli di stoffa. – No che non dovremmo. – si risponde da sé Elvis, tornando a guardarmi severamente. – Hai capito perché sei qui, nano? – mi chiede quindi, e io mi dimeno perché con questi nomignoli del cazzo mi ha veramente frantumato le palle.
- Attento a come ti muovi, sbirro di merda. – dice il tizio che mi ha portato qui, puntandomi il serramanico alla gola, - Rispondi alle domande e fa’ il bravo, e se te lo meriterai potrai uscire di qui sulle tue gambe, quando ti lasceremo libero.
Io smetto di muovermi ed inspiro profondamente, cercando di ritrovare una calma che ho in realtà perso troppo tempo fa per poterle chiedere di venire in mio soccorso adesso. Provo a mugugnare qualcos’altro, qualcosa a caso, tanto è evidente che non riuscirei a farmi capire anche se dicessi qualcosa di sensato, ma Elvis mi ascolta con attenzione, annuendo partecipe. Dio santo, ma dove sono finito?
- Certo, certo, hai ragione. – dice annuendo ancora, - Quindi forse dovremmo proprio lasciarti libero, ma sai, c’è una cosa a cui tengo molto, una lezione che penso tu debba imparare prima di andare via, e penso che le condizioni in cui sarai quando uscirai da questo magazzino dipenderanno molto da quanto bravo sarai ad apprendere. Ci siamo capiti?
Io abbasso lo sguardo. Odio cedere, ma odierei anche morire in questo posto lugubre senza aver cucinato un’ultima volta, senza aver salutato i miei genitori e mia sorella, senza aver rivisto Bill, senza aver rivisto Fler. Senza aver toccato Fler, senza avergli detto che—
- Ci siamo capiti? – ripete Elvis, strattonandomi per una spalla. Io annuisco freneticamente. Ci siamo capiti, Elvis, ci siamo capiti. – Bene. – sorride compiaciuto. – Ora voglio che tu te lo ficchi bene in testa, mio buon amico: - dice a bassa voce, - c’è un solo chef, in questo quartiere, soprattutto da quando io e i miei compari abbiamo cominciato a studiare un piano per ammazzare tutti gli altri. – inarco un sopracciglio. Un piano? Che cazzo sta dicendo? – Be’, sì, non ci siamo ancora riusciti! – strilla istericamente, come leggendomi nel pensiero, o forse semplicemente leggendo l’incredulità nell’espressione del mio viso, - Ma prima o poi li faremo fuori tutti, ed allora resterò solo io! Per cui, impara bene la lezione fin d’ora, nano: chi è l’unico chef di Tempelhof…?
È a quel punto che succede. Inizialmente non ci capisco molto, perché non vedo niente. Sento, quello sì, un botto terrificante e il fischio di qualcosa di incredibilmente veloce che passa da qualche parte alla mia sinistra prima di andarsi a schiantare contro il pavimento a pochi centimetri dall’anfibio dell’altro compare di Elvis, quello che non ha ancora aperto bocca, e che la apre adesso per la prima volta per strillare “merda!” con quanto fiato ha in gola, saltando repentinamente all’indietro.
- Cosa cazzo succede?! – strilla a propria volta il tipo che mi ha portato qui, occhieggiando spaventato il buco sul pavimento e la pallottola che vi si è conficcata dentro. – Cazzo!
- Chi c’è?! – grida Elvis, parandosi in mezzo alla stanza con le braccia spalancate e le gambe piegate in una posa ridicola, - Chi osa?!
Un altro sparo parte da un punto totalmente opposto del magazzino, piantandosi sulla parete alla mia destra. Sobbalzo sulla sedia perché non ho una cazzo di idea di cosa stia succedendo. E se fossi finito in mezzo a una guerra fra bande? E se quelli che Elvis minaccia di volere uccidere avessero scelto proprio questo momento per impedirglielo ponendo fine alla sua triste e misera esistenza da sfigato nato con vent’anni di ritardo?
Non ho modo di capirlo, perché per qualche secondo, dopo l’urlo che Elvis ha lanciato in seguito al secondo sparo, il magazzino ripiomba nel silenzio. Magari è stato solo un avvertimento, mi dico. Non so bene come funzionino queste cose, Fler saprebbe spiegarmelo ma lui non c’è, probabilmente è impegnato a spargere pomata sulle ferite del suo ex e di me se ne strafrega, per cui aggrotto le sopracciglia e decido che me ne strafregherò anch’io, ma i miei propositi reggono pochissimo perché il secondo successivo dieci cento o forse anche mille pistole si mettono a sparare tutte contemporaneamente, l’aria diventa incandescente, fischia attorno a me, ne sento il rombo fin dentro le orecchie, e ci sono proiettili che volano impazziti dappertutto e io me la sto facendo sotto, cazzo, e prego soltanto che nessuno di questi fottuti proiettili mi prenda perché voglio tornare a casa, stasera, voglio riportare a Danny la sua roba, voglio vedere Fler, voglio abbracciarlo e dirgli che lo so che non ci andrà a letto col ragazzino, lo so che non mi tradirà, lo so che mi ama, voglio dirgli tutte queste cose e non è vero per un cazzo che me ne strafrego di lui. Non è vero per un cazzo.
Chiudo gli occhi con forza, cercando di incassare il più possibile la testa nelle spalle, e prendo nota solo confusamente dei tre uomini che mi tengono prigioniero mentre danno di matto, confusi dai rumori degli spari e dalle pallottole che soffiano minacciose ovunque attorno a loro. Mi pare di sentire un “no!” strozzato provenire da dietro un mucchio di vecchie casse in fondo al locale, ma non ho modo di badarci troppo perché oltre ai rumori degli spari l’aria è piena delle urla dei miei aguzzini. Li sento urlare, muoversi in cerchio, urlare ancora e poi trovare un’uscita. Le loro voci si fanno sempre più deboli e distanti, e così gli spari, che diminuiscono d’intensità e poi si spengono del tutto. Io sono ancora vivo e non ho male da nessuna parte, e sono profondamente convinto che questo sia un miracolo.
Apro prima un occhio e poi un altro, guardandomi confusamente intorno. Il pavimento e tutte le pareti sono pieni di segni dove i proiettili sono andati a schiantarsi. Sudo freddo a pensare che se uno a caso di queste decine di proiettili avesse deciso di non andare a conficcarsi per terra o sui muri ed avesse preferito conficcarsi nella mia testa, sarei morto. Ci penso insistentemente per un paio di secondi e poi Bill – no, ripetiamolo perché non riesco nemmeno a crederci: Bill! – spunta fuori da dietro le casse dalle quali mi era sembrato di sentir provenire quel “no!” e mi si avvicina, affrettandosi a chinarsi davanti a me e sciogliere tutte le corde che mi tengono legato.
Non appena sono libero, scivolo giù dalla sedia , esausto, e Bill mi accoglie fra le proprie braccia reggendo il mio peso abbandonato e floscio con una forza che non gli riconosco. Mi chiedo quando sia arrivata, tutta questa forza, perché proprio non c’era quando i nostri corpi stavano vicini spesso e molto più a lungo di adesso, ed è allora che Bushido esce da un angolo in ombra alla mia sinistra e Fler fa lo stesso dall’angolo opposto, accompagnato da Danny che zoppica ed ha la faccia contratta in un’espressione di dolore continua.
Il tempo riprende a girare e io e Bill ci allontaniamo contemporaneamente. La forza di adesso, quella che guida le sue braccia e le sue gambe e rende i suoi occhi brillanti e presenti nonostante siano pieni di lacrime, è una forza che non gli ho dato io.
- Dimmi solo che stai bene. – mi sorride mentre mi libera dallo scotch. Mi giro appena per sputare la palla di polistirolo ormai tutta masticata, e mi asciugo la bocca col dorso della mano prima di offrirgli un sorriso stanco ed annuire lentamente.
Bushido butta lì un paio di colpi di tosse e Bill si alza in piedi. Vedo nell’espressione rilassata del suo viso che non lo fa perché deve o perché si sente in colpa, ma soltanto perché vuole e sa che è giusto così. Io mi alzo in piedi, guardo Fler ma lui non mi ricambia l’occhiata. Fissa la propria pistola accarezzandola con lo sguardo e, sbrigativamente, anche con due dita, prima di riporla in una tasca interna della giacca. Non gli dico niente, né d’altronde lui dice niente a me mentre usciamo o mentre, con la sua macchina, riportiamo Bill e Bushido a casa loro, prima di tornare da me. Io resto seduto sul lato del passeggero a guardarlo guidare in silenzio, gli occhi fissi sulla strada, mentre Daniel prova a fare un po’ di conversazione e rinuncia al terzo tentativo andato a vuoto. Si sistema con la schiena contro il sedile di dietro, anche perché suppongo sia tutto un dolore e non ce la faccia proprio più a reggersi dritto con le sue sole forze, e nel farlo gli cade l’occhio sul suo zainetto gettato in un angolo. Lo solleva e lo guarda da ogni lato, spalancando la bocca in segno di stupore prima di riuscire veramente a parlare.
- Ma non è uno di quelli speciali! – sbotta, - Non c’è la toppa! È uno di quelli che tengo a casa per nascondere la roba! – si sporge in avanti, agitandomi lo zainetto davanti al naso, - Chakuza, mi dici come hai fatto a metterti nei casini se non è stato il mio zaino ad attirare quel malato mentale in tuta di pelle?
Io prendo atto dell’espressione assolutamente allucinata che mi lancia Fler ed incasso la testa nelle spalle, aggrottando le sopracciglia e fissando la strada che scorre lenta sotto la macchina al di là del parabrezza. Spiego quello che mi è capitato, partendo dal principio e ammettendo che, fondamentalmente, non c’ho capito un cazzo. Ma cos’è? Ora non si può più andare in giro dicendo di essere un cuoco che finisci catturato da un trio di decerebrati che si sono messi in testa per chissà che motivo che vuoi essere tu il new kid on the block? Ma anche no, è profondamente ingiusto. Mi premuro di dire anche questo a Daniel e Fler, che nel mentre mi guardano con aria sempre più sconcertata, spalancando occhi e bocche lentamente ma progressivamente, finché non scorgo nel fondo delle loro pupille azzurre inquietantemente simili che forse non lo faranno a voce alta, ma nella loro testa mi stanno deridendo. Ampiamente.
Naturalmente, l’unico a risparmiarsi di prendermi per il culo a voce alta è Fler, e solo perché suppongo fosse realmente preoccupato: stringe le mani attorno al volante e torna ad osservare cautamente la strada, mordicchiandosi l’interno di una guancia; Daniel, invece, si dà alla pazza gioia, rovesciando il capo sullo schienale del sedile e tenendosi la pancia mentre rotola qua e là in preda alla crisi di riso più devastante di tutti i tempi, talmente devastante, in effetti, che a un certo punto le sue risate cominciano a diventare rantoli seriamente addolorati.
- Oddio, - piagnucola, incapace di trattenersi, - ma non lo sai che chef sta per capo, nel ghetto? Oddio, sto soffocando! – uggiola, le lacrime agli occhi, - Mi fa male tutto e non riesco a smettere, Chakuza! – protesta, come se fosse colpa mia o potessi farci qualcosa, poi.
- Sì, be’, potresti sempre provare cominciando a tapparti la bocca. – suggerisco con un’occhiataccia, alla quale Daniel risponde intensificando volume e frequenza delle risate. Roteo gli occhi, inspirando profondamente e tornando a guardare la strada.
- Sei stato uno stupido. – dice Fler a bassa voce. Non mi guarda neanche e il suo tono è gelido, quasi preoccupante.
- Mi dispiace. – ammetto abbassando lo sguardo, - Non credevo che—
- Avresti dovuto essere più prudente. – insiste lui. Noto solo adesso che ha le nocche bianchissime, tanto sta serrando le dita attorno al volante. – Mi sono molto preoccupato, Peter.
Annuisco piano. L’eco delle risate di Daniel si fa sempre più distante. Lui sta ancora ridendo, ma Fler è molto arrabbiato, più di quanto non mi stia lasciando intendere mentre mi parla, e questo rende tutto automaticamente molto meno importante, o degno d’attenzione.
- Scusami. – dico mesto, - Non lo farò più.
Se mi comporto come un bambino che si sente rimproverato dallo sguardo severo di suo papà, è solo perché mi ci sento.
*
Daniel crolla addormentato sul divano nel momento esatto in cui io e Chakuza glielo copriamo con un lenzuolo ed un paio di coperte. È esausto, devastato, e chiaramente non ce la fa più a reggersi in piedi.
- Dio, mi fa male tutto. – ripete in un mormorio straziante, mentre appoggia la testa contro il cuscino. Non è tipo da lamentele continue, ma questa frase l’avrà ripetuta almeno dieci volte negli ultimi venti minuti, è come se non riuscisse a dire altro, o non riuscisse nemmeno a formulare nella mente parole differenti. Forse è in questi istanti, mentre gli sistemo addosso la coperta e lui si lascia sfuggire un mugolio sofferente prima di chiudere gli occhi ed espirare a fatica, che decido quello che farò. Lo decido tutto, seguo un filo che mi porta fino all’uscita del labirinto e vedo dov’è che andrà a finire, quali conseguenze comporterà questa mia decisione, e forse, in qualche modo, inconsciamente le sto già accettando tutte. Ma solo inconsciamente, e questo non è il momento di parlarne: mi limito a rimboccargli le coperte trattenendo a stento un’imprecazione e una smorfia addolorata quando sento il suo corpo magro tremare sotto le mie dita, e poi mi rimetto dritto e vado in cucina.
Chakuza sta armeggiando con la caffettiera, anche se l’orario non è proprio adatto per un caffè, soprattutto considerato il fatto che siamo entrambi a stomaco vuoto da stamattina.
- Dorme? – mi chiede nervosamente, - Pensavo di mettermi a cucinare qualcosa.
- Dorme, sì, e credo che continuerà a farlo fino a domani mattina. – rispondo io, inarcando un sopracciglio, - Che è la stessa cosa che dovresti fare tu.
- Non sono stanco. – ribatte lui, posizionando la caffettiera sul fornello ed accendendo il fuoco.
- Chaku, - sospiro, - hai appena detto di volerti mettere a cucinare qualcosa. Sei uscito da un magazzino all’interno del quale per cinque minuti siamo stati tutti trasportati in un episodio speciale di Walker Texas Ranger, non più di un’ora fa. Se il tuo desiderio di metterti ai fornelli adesso non è un chiaro segno di squilibrio mentale, non so davvero cos’altro potrebbe essere.
Chakuza sospira a propria volta, spegnendo il fuoco ed appoggiandosi al ripiano, lo sguardo basso, tutti i muscoli ancora tesi. Lo osservo a lungo, aspettando che decida cosa fare. Alla fine, lo sento sospirare un’altra volta, e lo vedo annuire lentamente.
- Hai ragione, sono un po’ scosso. – ammette, - Magari mi riposo una mezz’ora.
- Magari vai a letto e ti svegli quando sarai in grado di andare in giro senza sentire ancora il fischio dei proiettili dentro le orecchie, che ne dici? – chiedo piano. Lui mi solleva addosso un’occhiata sconvolta, sembra stia chiedendosi quando sono entrato nella sua testa e come ho fatto a riuscirci senza che lui se ne accorgesse. – Mi è capitato, qualche volta, di trovarmi in mezzo ad una sparatoria. – rispondo, scrollando le spalle e distogliendo lo sguardo, - Quando ero più piccolo.
Chakuza resta per qualche secondo in silenzio, come a digerire l’informazione.
- Eri molto simile a lui? – chiede dopo un po’, tornando a guardarmi negli occhi. Io scrollo le spalle ancora una volta.
- Avevo la stessa convinzione di poter riuscire a risolvere tutto con le mie sole forze. – rispondo, - Che è il motivo per il quale molto spesso ci riuscivo davvero. Io sono stato più fortunato, però. Non ultimo perché almeno mio padre non mi picchiava, anche se suppongo fosse solo perché non c’era.
Chakuza annuisce, restando appoggiato al ripiano.
- Intendi prenderti cura di lui, vero? – chiede quindi. Io annuisco. – D’accordo. – dice, e io non faccio in tempo a dirgli che non mi serve la sua approvazione, perché lui mi sorride, un sorriso dolce, vagamente colpevole, ma più di ogni altra cosa complice. – Voglio starti accanto.
Io sbatto le palpebre un paio di volte, incredulo.
- In che senso? – chiedo confuso.
- Quanti sensi esistono per una frase simile? – ride lui, - Io ti amo. – spiega quindi, e quando mi guarda riesco a leggergli dentro che è vero, che lo pensa e che lo pensa sempre, anche quando fa o dice una cazzata, anche quando sa di stare per farmi incazzare eppure non riesce ad impedirselo, so che è il pensiero fisso che lo accompagna senza ossessionarlo da quando si sveglia a quando va a dormire, indipendentemente da quanti altri pensieri gli ruotino intorno, e so che è giusto così.
Gli sorrido, sentendo tutti i muscoli del mio viso sciogliersi in un solo istante.
- Ti amo anch’io. – rispondo piano. Lo accompagno a letto e lo osservo addormentarsi standogli semplicemente sdraiato accanto. Lui mi si spalma addosso istantaneamente e per una volta è palese che lo fa solo per sentire il mio corpo contro il suo, perciò gli circondo il collo con le braccia e lo lascio fare, ascoltando il ritmo del suo respiro mentre rallenta e poi si stabilizza. Dalla stanza accanto proviene il russare sommesso di Danny, che ha il naso troppo pesto per respirare bene e quindi fa un sacco di piccoli rumori che usualmente non farebbe. Sorrido. Penso che mi piace quello che sento, e ripenso a Chakuza che mi chiede se intendo prendermi cura di lui.
Intendo farlo, Chaku. Intendo davvero farlo.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia.
Pairing: Fler/Chakuza, Bill/Bushido, David/OMC.
Rating: PG-15
AVVISI: Slash, Lime, OC.
- "Due giorni fa, al KaDeWe, ho visto un paio di pantaloni meravigliosi, di pelle, attillati in maniera indecente, praticamente due guanti."
Note: Sì, lo sappiamo, questa shot è inutilmente enorme ma è divisa in cinque comode rate (una per ogni POV) in cui vi sarà più facile leggerla, magari mentre siete al gabinetto e avete finito il venerdì di Repubblica. Come sia nata questa faccenda dei pantaloni io non me lo ricordo, ma quasi sicuramente risale a due anni fa perché questa serie, che ci crediate o no, era in programmazione da che Bushido e morto, ed è stata plottata nei dettagli all'inizio di SE, quindi figuratevi xD
Con questo le scosse di assestamento sentimentale si considerano concluse. Possiamo dare il via... a tutto il resto.
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L’INCRESCIOSO CASO DEI PANTALONI DI PELLE (A MEZZANOTTE)

Il telefono squilla, ed io ho tutto il tempo per rimpiangere i bei tempi andati in cui tutta la gente che frequentavo abitualmente si odiava o non poteva vedersi per motivi vari ed eventuali, prima di rotolare sulla pancia – e su J.J. steso accanto a me, naturalmente – ed artigliare il cellulare abbandonato sul comodino accanto alla sveglia. Sveglia che, peraltro, indica le ore sette del mattino. Nessun cantante ha mai da fare alle sette del mattino. I cantanti dormono ancora profondamente, alle sette del mattino, e così fanno i loro manager, naturalmente. Prego che non sia Bill, prego che sia mia madre che mi chiama per annunciarmi qualcosa di incredibilmente grave, prego sia Tom che mi cerca nel panico perché dal suo losco passato di sedicenne imbizzarrito è venuta fuori una groupie con un figlio di tre anni in cerca di un assegno di mantenimento, prego che sia qualcosa, insomma, che dia un senso a questo mio svegliarmi all’alba mentre sotto di me un uomo con addominali perfettamente scolpiti anche nella placidità del sonno inspira ed espira profondamente, sistemandosi appena per permettermi di restargli appoggiato addosso mentre prendo il cellulare fra le mani e ne scruto il display illuminato con aria perplessa.
Prego intensamente per tutto ciò, e invece, ovviamente, è solo Bill.
Mi abbatto già esausto su quella paradisiaca superficie che è la meravigliosa pancia di J.J., e lui comincia immediatamente ad accarezzarmi la nuca. Non capisco se dorma ancora o meno, ma comunque non m’importa, quest’uomo è palesemente il modo in cui il karma cerca di riequilibrarsi ridandomi gioia dopo avermi riempito di dolore fino ad ora, e quindi egli, se vuole, può continuare a dormire mentre mi accarezza come fossi un gatto. Dio lo benedica.
- Pronto? – biascico con aria palesemente poco compiaciuta, sperando che Bill capisca l’antifona e strilli “ho sbagliato momento, penso fuggirò in Papuasia per i prossimi tre mesi!”. Naturalmente, però, è di Bill che stiamo parlando, perciò lui strilla comunque, ma naturalmente per dirmi tutt’altro.
- Dada! – cinguetta felice, - Come ti senti oggi?
- Assonnato, Bill. – rispondo, - Come ogni giorno a quest’ora. Si può sapere cosa ci fai già in piedi? Il tuo tappeto rosso non si srotolerà prima di un altro paio d’ore almeno, all’incirca.
- Anis non ne voleva proprio sapere di lasciarmi in pace, stamattina. – borbotta lui, falsamente corrucciato, mentre io realizzo che ha usato l’espressione stamattina e che ciò implica una mattina più mattiniera di questa, che a me pare già mattiniera a sufficienza. Bushido, io e te dovremo parlare a lungo, quando mi sarò rimesso completamente in forze. – Ha cominciato subito a tocchicciarmi appena gli ho portato la colazione, e allora—
- Non voglio sapere i particolari, Bill. – sospiro stancamente, - Sono cose che ho avuto modo di apprendere con dovizia di particolari negli anni, il ripasso conservalo per quando avrai dei figli gay a cui somministrarlo.
Lui borbotta confusamente qualcosa che assomiglia molto ad una protesta perché non lo lascio esprimere nel modo che lui trova più consono, ma fa presto a riacquistare il buonumore quando insisto a chiedergli cosa voglia da me in questo preciso istante. Lo sento trillare come un campanellino scosso dal vento e battere entusiasticamente le mani come il mentecatto treenne che diventa quando crede di avere avuto un’idea meravigliosa, ed alzo gli occhi al cielo perché so già che invece non sarà proprio niente di eccezionale.
- Senti, senti, - mi dice infatti, con aria vagamente cospiratoria, - ho avuto un’idea meravigliosa.
- Sento, sento. – gli faccio eco io, abbattendomi sul fianco di J.J. Al momento, le sue dita fra i miei capelli sono l’unica cosa che mi tenga lontano dalla pazzia.
- Ho pensato, sono passati già un paio di giorni da quando sei stato dimesso, no? – chiede con gioia. Io inarco un sopracciglio.
- No, Bill. – rispondo, - Sono stato dimesso ieri. Meno di dodici ore fa, in realtà.
- Dettagli. – mi liquida lui, del tutto disinteressato alla precisazione che io invece ritengo essere di una certa importanza, - È passato comunque abbastanza tempo da non dover temere che, per esempio, mangiando un piatto di sciorba tu possa aprirti e spargere budella nel mio salotto, no?
- Bill. – mugolo con dolore reale, passandomi una mano sugli occhi, - Un piatto di sciorba mi ucciderebbe anche se fossi perfettamente in salute. E poi c’è la carne, io non la mangio la carne, ma che te lo ripeto a fare? Mi conosci da un millennio e se non ti è ancora entrato in testo dubito che lo farà mai.
- Sì, infatti sarebbe senza carne, mi pare ovvio. – ribatte lui, quasi oltraggiato dalla mia palese mancanza di fiducia nei suoi confronti. – Senza carne va bene?
- La carne è il minore dei problemi della sciorba, Bill. – gli faccio presente, - In quella roba, fra fagioli, ceci, triplo concentrato di pomodoro e peperoncino, c’è tanto di quel potenziale omicida che non riesco a credere che cucinare e servire una pietanza simile, pur nel privato, possa essere una pratica legale in un paese civile quale la Germania è.
Lui resta in silenzio per qualche secondo, ponderando la questione, e poi sbuffa.
- Non importa, ne mangerai di meno. – conclude quindi.
- Bill! – lo rimprovero io, sconvolto, e lui sbuffa ancora.
- Non voglio andare da Karima per dirle di cambiare menu! Ha già preparato tutto! Non c’è abbastanza tempo per chiederle di cucinare altra roba! – butta lì, come se queste fossero cose che nella mia testa dovessero avere un senso. Non ce l’hanno, però, è evidente. Non c’è abbastanza tempo perché? Che appuntamento è stato preso al posto mio mentre io mi rilassavo fra le possenti braccia di J.J.? Ho quasi paura a chiederlo. Ma devo.
- Bill. – dico piano, inspirando ed espirando profondamente, - Di cosa diamine stai parlando?
Bill si interrompe ancora, riflessivo.
- Ho invitato tutti! – dice quindi, ostinandosi a non dirmi quale sia invece il fulcro della questione, limitandosi a lasciarlo scivolare fra le parole.
- Bill. – lo chiamo con disappunto. Lui mi ignora.
- Ho pensato fosse una cosa carina! – insiste.
- Bill! – insisto anch’io.
- Non arrabbiarti! – piagnucola lui, - Ho organizzato una cenetta qui a casa di Anis, in tuo onore, s’intende, e ormai è tutto organizzato, vi aspettiamo tutti per le sette e mezza, quindi più o meno fra altre dodici ore esatte, quando sarai stato dimesso da ventiquattro ore piene, e volevo avvertirti! Mi sembra che la scelta di tempo sia stata sufficientemente buona, tu che dici? – chiede quindi. Faccio per protestare che no, ma mi rendo conto che non sta parlando con me, perché Bushido gli risponde con una risata incredibilmente divertita, e allora io capisco.
- Bill. – lo chiamo per l’ennesima volta, atono, - Passami tuo marito.
- Ma Dadaaa. – sbuffa lui, mugolando risentito. Io non dico una parola e spero che lo sguardo disapprovante che sto lanciando alla parete bianca di fronte a me travalichi i limiti spaziotemporali che lo separano da Bill e gli appaia come in sogno. Forse questo non succede davvero, ma un paio di secondi dopo sento una risata familiare alla cornetta e so che sono stato telefonicamente introdotto di fronte al signore e padrone di tutti i popoli e specialmente di questo sparuto gruppo di persone che siamo e che non hanno ancora deciso di prendere tutti il primo aereo per i quattro angoli più distanti del globo al solo scopo di liberarci dal suo giogo oppressore.
- Bushido. – dico severamente, - È stata una tua idea?
- La cena no. – risponde lui, con tutta la sincerità di questo mondo, - Chiamarti alle sette del mattino sì.
- Ma sei un cretino o cosa?! – strillo io, agitandomi e piantando un gomito nella parete addominale di J.J., che sarà perfetto ma in fin dei conti è fatto di carne e sangue anche lui, e nel momento in cui il mio gomito si piazza fra le sue povere viscere strabuzza gli occhi, sputa un considerevole sbuffo di fiato e si piega in due, obbligandomi a rotolare fino ai piedi del materasso mentre ancora mi dimeno come un esagitato. – Ma ce l’hai un minimo di rispetto per l’altrui persona?! E, cosa ancora più importante, ma non hai proprio un cazzo da fare nella vita, tu?! Hai un ragazzo, adesso, vivaddio ti è stato restituito pressoché intatto perché palesemente anche il karma ti è asservito senza un motivo ben preciso, e tu cosa fai? Perdi il tuo tempo chiamando me, o facendomi chiamare dal suddetto ragazzo, invece di approfittare del suo giovane corpo fremente di desiderio al tuo fianco! Sei una vergogna per la tua razza, ritirerò il tuo patentino di omosessualità immediatamente, appena verrò a casa tua.
Bushido, naturalmente, ride per tutto il tempo, dalla prima all’ultima parola. J.J. striscia sul materasso rantolando e poi si alza in piedi, annunciandomi che si farà una doccia e poi andrà a lavorare, lui che un lavoro serio ce l’ha. Io mugolo “nooo, non te ne andare”, e J.J. ride, e Bushido ride pure lui, e riesco perfino a sentire la risata di Bill, un po’ più distante, perché lui è come i neonati, che quando ti vedono ridere ridono pure loro per imitazione. Siccome immagino cosa dev’essere vedere Bushido ridere mentre il suo viso è incorniciato dai suoi lunghi e morbidi capelli corvini e tutto il mondo ritrova la pace sul suono della sua voce, non fatico a credere che Bill stia ridendo come un mentecatto perfino in questo momento, ma il risultato finale è solo che tutti ridono, e ridono di me, e io li odio. Mi rannicchio ai piedi del letto e sbuffo platealmente, sono molto arrabbiato e Dio, mi sento così bene che alla fine scoppio a ridere a mia volta, nella soddisfazione di tutti, mentre dal bagno cominciano a venire i suoni tintinnanti dell’acqua lungo le pareti della doccia e Bushido schiocca un discreto bacio di trionfo sulla guancia di Bill. Sospiro profondamente. Sono felice davvero.
- Jost. – mi chiama Bushido, la sua voce è allegra ma è venata da quel pizzico di serietà che utilizza sempre quando sta per dirti qualcosa di veramente importante, perciò mi metto sull’attenti e drizzo le orecchie, per ascoltarlo al meglio. – È una cosa di cui abbiamo tutti molto bisogno. – mi dice con franchezza. Io penso a loro due, penso a quegli altri due e alla loro inaspettata quanto inopportuna entrata a pieno titolo nel mondo delle coppie omosessuali dello showbiz tedesco ed annuisco.
- D’accordo. – confermo a voce, visto che nessuno qui può vedermi, - A stasera.

Tutti noi qui abbiamo bisogno di una cena in famiglia, e ciò è molto vero. È vero soprattutto perché fino a un mese fa, non volendo considerare il ritorno di fiamma fra i gemelli, l’unica coppia che avesse ancora senso definire tale era quella composta da Tom e Cassandra, mentre tutti noialtri andavamo in giro ramenghi, privi di un amore e di uno scopo per cui valesse la pena vivere.
Ebbene tutto questo è cambiato nel giro di tre giorni quando, dopo un mese di convivenza a casa di Bushido – a mio parere inutile e paragonabile solo ad un lungo e melenso preliminare platonico – la coppia reale s’è ritrovata rifulgendo splendore e spargendo nell’aria tedesca un miliardo di minuscole particelle subatomiche cariche di energia omosessuale positiva. Tale energia ha permesso a me e J.J. di continuare a vederci anche se lui non doveva più passarmi creme cicatrizzanti sulla pancia, e non solo, ha portato alla luce anche delle tragiche vibrazioni nella forza, e queste vibrazioni nella forza hanno prodotto una relazione fra Fler e Chakuza. Per molto tempo, tutti noi abbiamo aspettato che anche Eko Fresh ci presentasse il proprio ragazzo, cosa che almeno ci avrebbe rassicurato sulla follia generale, ma ciò non è mai accaduto, per cui ci siamo dovuti arrendere al fatto che fra Fler e Chakuza non c’era proprio niente di folle, e che quindi questa gente ci doveva quantomeno delle spiegazioni.
Insomma, viene fuori che in realtà ad accostare le parole Fler, Chakuza e gay si ottengono un mucchio di ricerche correlate stile Google, di alcuni risultati delle quali Bill era perfino a conoscenza!, che portano alla luce numerosi dettagli come il fatto che in realtà Fler e Chakuza avevano già una storia un millennio di anni fa, poi s’erano lasciati, poi s’erano ripresi, e via così lasciandosi e riprendendosi a fasi alterne a seconda che Bushido fosse vivo o morto, che Bill fosse o meno disponibile e che gli astri fossero o meno allineati. Nella storia, a un certo punto, s’è inserito un ragazzino minorenne biondo di cui so poco e intendo continuare a sapere poco. Le uniche informazioni in mio possesso sono il suo nome – Daniel – la sua età e il dettaglio per cui mentre Bushido era in tour a farsi uccellare da Bill e Chakuza, lui invece era a Berlino e si occupava di Fler, rimasto solo a leccarsi le ferite, facendosi in un certo senso uccellare anche lui, ma in modo diverso.
Ora, vi lascio immaginare quale possa essere stata la reazione di Bushido a tutto questo: io e lui eravamo in pratica gli unici in qualche modo coinvolti a non sapere un beneamato piffero di tutti questi intrecci sentimentali, ma mentre per me si trattava in fondo solo di una serie di informazioni di cui prendere atto, per lui è stata una tragedia; era un uomo felice, stava vivendo una nuova primavera, e in un colpo solo scopre non solo che Chakuza gli ha manomesso entrambi i fidanzati, ma che uno dei due, mentre lui era lontano, l’ha tradito con un imberbe del ghetto. Onta e disonore. È rimasto immusonito per settimane.
In pratica, nel giro di un periodo di tempo troppo breve e palesemente insufficiente a metabolizzare il tutto come sarebbe stato giusto, ci siamo ritrovati a passare dall’essere un gruppo di persone eterogeneo con variabili di omosessualità sparsa, a diventare una cooperativa gay a tutti gli effetti, di quelle che hanno tesserini, liste elettorali e tasse d’iscrizione. Non so se rendo l’idea. Non è che ci serva una cena, ce ne servono trecento per entrare nell’ordine di idee, ed altre trecento almeno per abituarci al tutto.
Perciò, è non dico con piacere, ma con coraggioso spirito di sacrificio che mi presento a casa di Bushido all’orario convenuto, portando J.J. con me. Tra l’altro, lui è stato meraviglioso: avrebbe tranquillamente potuto dirmi che lui con questa mandria di scoppiati non ha niente a che fare, che non è nemmeno il mio medico, cosa peraltro vera, e che solo una combinazione di eventi e l’anzianità del dottor Neuer l’hanno portato a doversi prendere cura di me e poi a diventare il mio ragazzo, e che per tale motivo potevo venire qui da solo e ci saremmo visti al limite in nottata o al massimo l’indomani mattina, e invece s’è dimostrato molto disponibile, e brillando di luce propria s’è offerto di staccare prima da lavoro per passare da casa mia e venire qui insieme, invece di presentarci separatamente. Dopo questo, gli ho chiesto di sposarmi, ma lui ha riso e mi ha scompigliato i capelli come se fossi un tredicenne. Qui nessuno capisce che il mio desiderio di metter su famiglia con un Adone buono come un santo è tremendamente reale e forte.
Comunque, a cena ci sono tutti. Ci sono Tom e Cassandra, Fler e Chakuza, Eko e Kay One – non nel senso di coppia, fortunatamente, solo nel senso degli unici due uomini spaiati presenti a tavola, anche se in realtà Kay One la ragazza ce l’ha e tutti sappiamo che esiste perché è Mandy delle Monrose, ma non ce l’ha mai presentata e suppongo sia perché lei davvero con questa follia non vuole avere niente a che fare – io e J.J. e naturalmente i padroni di casa. Del minorenne del ghetto non c’è traccia, probabilmente perché Fler l’ha lasciato e lui non deve averla presa molto bene, come qualunque minorenne del ghetto o meno, e anche Karima non c’è, ha la serata libera, e questo dà a Bill l’occasione di fingersi una massaia e portare a tavola pietanze come fossero frutto del suo duro lavoro, cosa che tutti quanti sappiamo non essere vera, anche se nessuno, vedendolo così felice e soddisfatto di sé, ha cuore di farglielo notare.
La conversazione inizialmente è stagnante. Non ci ritroviamo così tutti assieme da… forse non è mai successo di ritrovarsi così tutti assieme, per dire la verità, per cui i primi minuti siamo tutti molto freddi e ingessati. Facciamo i complimenti (immeritati) a Bill per la sciorba, che nonostante non abbia neanche un pezzettino di carne in sé è pesante come un macigno, parliamo del lavoro, di quanto sia dura ultimamente per le case discografiche investire alla cieca visto il clima di recessione generale, parliamo perfino del tempo e del fatto che quest’anno abbia cominciato a fare freddo prima del solito, e poi, quando siamo qui sull’orlo della tragedia che pensiamo già con disperazione di parlare della morte del polpo Paul giusto per darci qualcos’altro da dire, Eko comincia a delirare qualcosa di sostanzialmente incomprensibile su quanto sia buffo stare a tavola tutti insieme e quanto tutto questo lo faccia sentire in una puntata di Verbotene Liebe “ma più gay, cioè, ancora più gay”, e questo fa la magia.
Non è che succeda qualcosa di particolare, semplicemente ci mettiamo tutti a ridere e sentiamo che queste risate non sono false, non suonano strane, anzi, c’è una certa chimica che le avvolge, le fa risuonare nel modo giusto in questa stanza ed alle nostre orecchie, e quando smettiamo di ridere ci guardiamo e c’è una nuova consapevolezza che ci pervade tutti. È una vocina sottile e ancora un po’ timorosa che ci spiega che adesso è troppo presto per fare passi da giganti, per dire “è già tutto a posto”, ma al contempo ci rassicura sul fatto che ci stiamo muovendo nella direzione giusta, e non sarà stasera, e probabilmente neanche durante la prossima cena che faremo, ma se continueremo di questo passo prima o poi ritornerà tutto a posto davvero, e questi fili monchi che pendono potremo riallacciarli correttamente, e i nodi saranno stretti abbastanza da non sciogliersi più.
È con questa voce carezzevole che ancora mi riecheggia nelle orecchie che, un paio d’ore più tardi, mi appresto a salutare tutti ed andare via. Una decina di minuti fa, Bill ha fatto una marea di scene, s’è stiracchiato, ha sbadigliato ampiamente almeno trenta volte e poi, con voce fintamente impastata dal sonno, ha annunciato di essere molto stanco e di volere andare a dormire. Un modo molto tenero per dirci che la rimpatriata gli era piaciuta ma ora voleva restare solo con Bushido, per cui se avessimo potuto levarci di torno senza fare grandi storie lui l’avrebbe apprezzato moltissimo.
Unanime, un coro di “sì, effettivamente s’è fatto un po’ tardi” s’è sollevato da tutti gli astanti, e questo nonostante fossero appena le dieci e mezza. Il potere della persuasione, dei cui mistici segreti Bill è sempre stato gran custode e conoscitore. Quindi Bill s’è alzato da tavola, ha salutato tutti come quei bambini che vanno a letto presto e lasciano i grandi a discutere delle loro faccende e s’è defilato al piano di sopra. Noi ci siamo lanciati tutti una serie di occhiate vagamente confuse e vagamente divertite, e poi abbiamo cominciato a defluire verso l’uscita.
Io e J.J. ci allontaniamo per primi, anche perché la sciorba comincia a fare effetto e io sento di essere pronto alla morte. Lo faccio presente a J.J. che si offre di restare con me stanotte, cosa che io apprezzo enormemente. Di ciò che segue la mia dipartita verso casa non posso parlare, perché non c’ero, ma alla luce di ciò che se ne racconterà favoleggiando nei giorni successivi, penso che passerò il resto della mia vita a rimpiangerlo. E se si tiene presente che questa cena e questa serata sono stati i punti fermi su cui abbiamo poggiato il primo mattone per la ricostruzione di ciò che eravamo… be’, è abbastanza evidente che il futuro non poteva che presentarsi come parecchio complicato già in partenza.

*

Due giorni fa, al KaDeWe, ho visto un paio di pantaloni meravigliosi, di pelle, attillati in maniera indecente, praticamente due guanti. Non è che fossi uscito di casa con l'idea di fare spese – anche perché non sono proprio in condizione di spendere più di quanto guadagno, che poi è niente visto che non abbiamo ancora un'etichetta – ma loro erano lì in vetrina che mi imploravano di comprarli e io non ho avuto cuore di passare oltre e lasciarli al loro destino. Sono costati un occhio della testa ma, visto che li ho comprati soprattutto per usarli con Anis, li considero una specie di piccolo investimento. Serviranno per riaccendere il fuoco della passione; anche se in realtà non è che si sia mai spento, anzi, tra tutte le cose possibili, forse si è addirittura propagato, dal momento che Anis non mi lascia in pace un minuto e ho sempre le sue mani addosso, molto più di quanto le avessi prima. Il fatto è che Anis si annoia in fretta, quindi se voglio che questa situazione si perpetui nei mesi a venire, devo lavorare di fantasia.
Adesso io mi infilerò questi pantaloni di pelle e magari quella maglietta che Anis finge non sia da donna solo perché lo fa impazzire il modo in cui mi esce una spalla dallo scollo a barca, e poi scenderò al piano di sotto dove lui potrà possedermi selvaggiamente sulla prima superficie disponibile, dopo avermi strappato i vestiti di dosso a morsi. Metaforicamente parlando, s'intende.
Quest'idea di vestirmi in un certo modo solo per farmi spogliare il più velocemente possibile e battere così ogni nostro precedente record di preliminari, la covo già da un po', da molto prima di comprare i pantaloni in realtà. E' che durante il giorno Karima è sempre in casa e quando arriviamo alla sera e lei finalmente si ritira nella sua cuccia in cantina – o dovunque dorma, non lo so, in una catapecchia in giardino forse – alla fine mi passa di mente e con Anis finiamo a fare sesso a letto, che è sempre una cosa meravigliosa, ma non quella che volevo fare io.
Questa è la serata perfetta per portare a termine il mio piano geniale perché è il giorno libero di Karima, il che significa che una volta salutati i nostri amici e chiusa a doppia mandata la porta d'entrata, questa casa gigantesca sarà solo mia e di Anis, con tutti i benefici del caso. Se penso che stamattina quella strega malefica voleva mandare tutto all'aria rinunciando alla sua partita settimanale di canasta con le amiche e restare qui a cucinare e servire per un reggimento quell'unica volta che nessuno le aveva chiesto di farlo, mi sale di nuovo la rabbia.
Mi sono svegliato presto, forse qualche minuto dopo le sette, e non potete capire il disappunto di scendere le scale, attraversare il corridoio, infilarsi in cucina con l'idea di mettere insieme una colazione decente per poi organizzare l'intera giornata e trovarci lei, con la sua divisa color grigio topo che rimesta dentro un paiolo gigante. Soprattutto quando mi ero addormentato la sera prima con la convinzione che non l'avrei più rivista per almeno ventiquattro ore.
Nessuno dovrebbe mai svegliarsi in questo modo, la sola presenza di quella donna disturbava l'intera estetica della villa illuminata dal sole, di Anis che ancora dormiva nudo tra le lenzuola di seta del nostro letto imperiale, ma soprattutto la mia, visto che io odio fare colazione circondato dall'olezzo di mille cipolle. Interrogata, per altro, lei ha avuto il coraggio di dirmi che qualcuno doveva pur preparare la sciorba per la cena di stasera visto che né io né tantomeno il signor Ferchichi sappiamo farlo. Ora, questo è tragicamente vero, ma ciò non significa che lei non potesse preparare questa cosa raccapricciante ieri e lasciarla in una pentola dentro al frigorifero perché noi potessimo usarla come ci pareva, e perfino buttarla se poi a guardarla ci avesse fatto ribrezzo e avessimo voluto farci una pizza.
E invece no. Lei ha risposto che la sciorba non si può preparare il giorno prima, che non può mica stare in frigo che sennò si sciupa e un sacco di altre cose che però non ho ascoltato perché mentre lei le diceva io ho prendevo la colazione mia e di Anis e tornavo in camera, dove mi sono ampiamente lamentato dell'intera faccenda.
Anis, però, queste cose non le prende mai sul serio perché trova Karima adorabile, il che non mi sorprende poi molto perché quella fa la strega soltanto con me e quando poi io lo chiamo per dimostrarglielo, lei diventa uno zucchero e fa tutto quello che le dico senza protestare. Così alla fine Anis non crede mai a quello che gli riferisco e dice che sono esagerato e che non è vero niente.
Lo ha detto anche stamattina mentre si mangiava da solo tutte le brioche che avevo portato senza lasciarmene neanche una. Ovviamente mi sono lamentato anche di quello e gli ho fatto notare che in questa casa non mi si tratta da principessa nemmeno un pochino, ma da lì in poi non ricordo bene come sia andata; so solo che Anis si è messo a ridere e mi ha spogliato di nuovo, così abbiamo finito per fare l'amore e io mi sono dimenticato tutto quello che volevo da lui, almeno fino a quando non abbiamo finito e lui ha ceduto dicendo che le avrebbe parlato.
Alla fine si sono messi d'accordo perché Karima si prendesse solo mezza giornata libera e facesse l'altra mezza domani mattina, il che mi torna ancora più comodo perché adesso lei non c'è e non ci sarà nemmeno quando domani ci sveglieremo, così se vogliamo possiamo pure addormentarci sul tappeto del salotto e lei non potrà svegliarci tirando le tende e dicendo che è tardi e dobbiamo alzarci o, ancora peggio, con la solita storia che siamo due uomini e non sta bene e il cielo ci fulminerà riducendoci in cenere.
Comunque infilarsi questi pantaloni non è facilissimo. Nel camerino del negozio ho fatto delle scene molto ridicole, saltellando per riuscire a tirarli su senza dover necessariamente chiamare qualcuno a darmi una mano e anche adesso non è che mi riesca meglio, nemmeno se mi distendo sul letto e allungo le gambe. Spero che ad Anis non venga l'idea di salire a cercarmi perché potrei dire addio all'atmosfera, e poi comunque sono ancora mezzo nudo, cosa che rovinerebbe un po' tutta l'idea dello scendere e farlo come animali su uno a caso tra i mobili del soggiorno, magari anche senza spogliarsi – anzi, di sicuro senza spogliarsi visto che una volta che sarò riuscito ad infilarmi questi pantaloni né io né Anis saremo mai in grado di togliermeli del tutto in un tempo ragionevole a mantenere una certa libido.
Ci metto quasi dieci minuti, ma alla fine i pantaloni cedono un po', e le mie gambe ci finiscono dentro alla perfezione, la pelle non fa nemmeno una piega. Quando mi guardo allo specchio, penso che mi salterei addosso da solo se non mi piacessero gli uomini più virili di me; il che mi ricorda che Bushido è al piano di sotto e mi viene da ridere all'impazienza che mi fa saltellare e mi arriccia le dita dei piedi.
Non mi sentivo così bene da non so nemmeno quando. Non ho solo voglia di stare con lui, ho proprio voglia di giocare e mi sembra giusto ricominciare a farlo stasera, dopo questa cena che ha fatto tornare le cose più o meno com'erano prima.
Altri cinque minuti per sistemare lo scollo della maglia in maniera strategica e sono pronto. Tendo l'orecchio al piano di sotto ma non sento più il chiacchiericcio degli ospiti che hanno evidentemente colto il mio velato invito a levarsi di torno e se ne sono tornati a casa loro mentre io mi cambiavo; così scendo le scale con un mezzo sorriso stampato sulle labbra e non aspetto di arrivare in fondo alla rampa, mi basta scorgere il profilo di Anis vicino alla porta per annunciargli la mia presenza. “Amore, dammi un parere, come mi stanno questi pantaloni?” La butto lì così, come se fosse una questione di poco conto e naturalmente mi aspetto una reazione entusiasta che possa dare il via ad un dialogo più o meno azzardato da concludersi nella maniera più classica, il che a ben guardare sembra l'inizio di uno di quei terribili porno di serie zeta che ogni tanto guardano tutti insieme nemmeno fossero tredicenni con una casa libera a disposizione e quindi la possibilità di masturbarsi mentre mamma non c'è.
Comunque quello che sembra non importa affatto, perché qualunque cosa fosse viene eclissato da ciò che poi effettivamente succede, ossia che la risposta entusiasta mi arriva da due voci diverse e per un attimo il tempo si ferma, la Terra smette di girare e rimane sospesa nel buio gelido dell'universo, in attesa che la forza di inerzia si esaurisca e la lasci andare alla deriva chissà dove.
Bushido mi guarda e risponde “Sei bellissimo” ma sono le note più basse della voce di Chakuza che dice la stessa identica cosa nello stesso identico istante a far calare il gelo nella stanza.
All'improvviso mi sento a disagio e penso che questa sia stata una pessima idea, o almeno lo è stata non guardare se c'era effettivamente qualcuno nella stanza insieme ad Anis.
Il silenzio pesantissimo che ci avvolge ha appena distrutto qualunque tipo di serenità avessimo raggiunto nelle ultime due ore.
Mi sento a disagio e vorrei correre di sopra a cambiarmi, o farmi inghiottire qui dove sono dalla rampa di scale, ma Peter è mortificato e Anis lo guarda così male che ho paura stia per saltargli alla gola. Così resto e provo a sistemare le cose, anche se non ho mai prevenuto un omicidio violento prima d'ora e sono quasi sicuro che mormorare “Ragazzi...” con voce incerta non sia la maniera giusta di farlo.
Nessuno si volta nella mia direzione, come se io e i miei pantaloni di pelle fossimo scomparsi subito dopo il disastro che abbiamo generato.
E' Fler che fa ripartire il tempo e la porta che sbatte, uscendo furioso da questa casa, fa girare di nuovo la Terra, che forse non andrà più alla deriva ma di certo ha un grosso problema.

*

Io stamattina non mi ero affatto svegliato con l'intenzione di essere la farfalla che sbattendo le ali in Europa provoca uragani in Cina. Innanzitutto perché mai nella mia vita ho desiderato essere una farfalla, e poi perché mi ero appena ripreso dalla fatica di riparare i danni del mio ultimo uragano e tutto volevo tranne che scatenarne altri, che fossero dall'altra parte del mondo oppure nel salotto di casa dell'uomo che meno li avrebbe apprezzati.
Quella di oggi, in realtà, si era rivelata una giornata molto piacevole e niente aveva lasciato presagire che sarebbe finita in tragedia. Fler ha dormito da me ieri sera, come la sera prima e tutte quelle precedenti – in realtà ha quasi tutta la sua roba da me quindi forse già viviamo insieme da settimane, solo che non ne abbiamo mai seriamente parlato, quindi è come se fosse ancora un ospite – così stamattina abbiamo fatto colazione insieme e poi siamo passati alla EGJ a provare qualcosa, giusto per vedere se ci riusciva ancora.
Gli uffici non sono ancora del tutto attivi ma il grande capo vuole riaprili a breve e, da quanto ho capito di quello che Fler non mi dice con le sue risposte vaghe e imbarazzate, credo che Bushido abbia in mente di far entrare anche lui a far parte della nostra grande famiglia, il che immagino porterà ad una guerra fratricida con l'Aggro Berlin durante la quale Sido e il tunisino si sfideranno a colpi di pistola per decidere chi dei due debba tenere Fler e chi invece dovrà pagare gli alimenti e potrà vederlo soltanto un fine settimana ogni quindici giorni.
Ad ogni modo, stamattina in studio non ci abbiamo trovato nessuno, perché questa crew è in realtà composta da lavativi che per più di un anno e mezzo non hanno fatto assolutamente niente e continueranno a farlo finché l'intera produzione non ricomincerà a pieno regime, ossia quando il grande capo non andrà a prenderli a casa uno per uno e li trascinerà in ufficio dove, in realtà, nessuno farà nulla lo stesso, ma l'importante è che il gruppo sia di nuovo compatto. Io e Fler ci siamo appropriati di una cabina di registrazione e mentre io gli mandavo le basi e missavo, lui ha fatto un po' di freestyle così come veniva, e non è andata affatto male.
E' strano lavorare sulla voce di Fler, perché sono abituato a sentirla e ne conosco ogni singola sfumatura ma non mi era mai capitato di metterci sopra le mani, prima d'ora. Ha una bella voce, molto simile a quella di Bushido ma più alta, e un rappato molto più pulito e lineare del suo. Me ne accorgo soltanto ora che posso lavorarci sopra perché lo avevo ascoltato solo nelle canzoni che ha fatto con l'Aggro Berlin, che sono un vero e proprio scempio; non sono stati in grado di valorizzarlo per niente, sporcando le tracce invece di semplificare le basi per dare più spazio al suo modo di cantare.
Quello su cui abbiamo lavorato stamattina è un accenno di canzone che Fler attacca ormai da una settimana quand'è sotto la doccia. All'inizio nemmeno se n'era accorto, io ero lì che mi lavavo i denti e lui cominciava a prendersela col sistema, il governo e la Berlino borghese che lascia i ragazzi liberi di ammazzarsi in strada per un etto di eroina purché che lo facciano lontano dalle case per bene.
L'ho ascoltato in silenzio per giorni, cercando la base giusta da mettergli sotto, e poi quando mi è sembrato di avere qualcosa, gliel'ho proposto e lui l'ha trovata una buona idea. Il ritornello è già piuttosto chiaro, quindi dobbiamo solo limare tutto il resto e cambiare un paio di rime perché funzionano solo con lo scroscio diseguale della mia doccia dell'anteguerra a coprirne la metà, un suono che mi rifiuto di inserire, nonostante l'insistenza di Fler, visto che rovinerebbe l'idea ben precisa che ho per questa canzone. Tra le altre cose io credo che ci vorrebbe una doppia voce, ma non una come la mia, qualcosa di molto più alto e caldo; una donna, probabilmente.
Stamattina sono uscito dallo studio molto soddisfatto del risultato, anche se in realtà per il momento abbiamo solo pasticciato; potrebbe essere un'ottima idea per ridare vita a quest'etichetta, ma per metterla davvero in cantiere devo parlarne con Bushido, più che altro perché la base è mia ma la canzone è di Fler e dobbiamo capire dove realizzarla. Naturalmente potrei chiedere a Patrick di produrla con la Beatlefield, ma questo scatenerebbe le ire di Bushido.
Io avrei avanzato volentieri l'ipotesi alla cena di stasera, ma Patrick mi ha chiesto per favore di non litigarci di proposito, quindi se non l'ho fatto è stato solo per lui.
Alla fine, durante questa bella rimpatriata – che è stata una palese idea di Bushido al quale, più di ogni altra cosa, piace stare seduto a capo tavola e guardare con aria soddisfatta un numeroso gruppo di persone fingendo di avere il comando assoluto – non c'è stato modo di tirare fuori l'argomento, anche perché le spirali di follia generatesi qualche settimana fa negli occhi di Bushido alla notizia che io sto con Fler non si sono ancora spente e quindi Patrick ha fatto di tutto per non farmi aprire bocca in quel senso.
Per quanto l'illuminato sovrano mi guardasse male, comunque, aveva ben poco da protestare e difatti è stato zitto. Non credo che lo farà adesso, però, e se devo essere sincero non me la sento nemmeno di dargli torto.
Siamo io, lui, Fler e Bill congelati nell'ultimo istante trascorso da quando Bill ci ha chiesto come stava con quei pantaloni praticamente disegnati addosso e io gli ho risposto che era bellissimo.
Cazzo! E' la prima cosa che penso non appena mi rendo conto di quello che ho detto. Avete presente quando dite qualcosa e nell'attimo stesso in cui la dite già sapete che è una stronzata ma ormai non potete più fare niente per evitarlo? Io questa sensazione non la provo così spesso, perché in genere non mi accorgo che quello che sto dicendo è una stronzata, sono anzi piuttosto sicuro di non stare facendo niente di male. Stavolta, però, ci arrivo anch'io e ci arrivo subito, nel momento stesso in cui quel “Sei bellissimo” mi esce di bocca, solo che esce così naturale e sovrappensiero che quando sarebbe l'ora di rimangiarselo lui è già lì che svolazza nell'aria dove tutti possono vederlo e sentirlo.
A mia discolpa posso dire che ero appunto impegnato ad informare Bushido che io e Fler, stamattina, stavamo lavorando ad un canzone e che se voleva poteva darci un'occhiata. Il mio cervello era talmente concentrato su questo che si è dimenticato di aggiornare la data e con essa il fatto che Bill non poteva stare parlando con me, visto che a quanto pare abbiamo rotto mentre ero in Austria.
Ad ogni modo la reazione di Bushido mi è completamente indifferente, sento il suo sguardo infuocato che mi perfora il cranio ma in sostanza lo ignoro perché in questo momento l'unica cosa che davvero mi preme è arginare la rabbia di Fler, che in piedi alle mie spalle si è acceso come una torcia umana e probabilmente esploderà nel giro di qualche secondo. Non faccio in tempo a girarmi per cercare di arginare il disastro che mi sono lasciato scappare di bocca che di lui non c'è già più traccia e la porta della villa ancora vibra per la forza con cui la sbattuta.
Gli corro dietro e intanto cerco di mettere insieme le parole giuste per scusarmi e spiegargli la situazione, anche se forse dovrei semplicemente scusarmi e basta perché non credo voglia sentirmi giustificare un bel niente. Si è trattato di una risposta automatica e non stavo pensando a Bill fino al momento in cui effettivamente non ho alzato lo sguardo e l'ho visto sulle scale, ma Patrick non sarà affatto disposto a sopportare anche questa dopo l'incidente al ristorante polacco.
Mi aspetto di dover chiamare un taxi perché avrà preso la macchina e se ne sarà andato, e invece lo trovo ancora in giardino che prende a calci la cancellata ricoperta di siepi. Ci mette tanta di quella violenza che ogni tanto il cespuglio di gelsomino sbuffa una nuvola di petali.
Quando si accorge che sono lì, mi guarda così male che perdo ogni speranza.
Se c'è mai stata una volta in cui avevo già perso in partenza, con lui, allora è sicuramente questa.

*

Chakuza ha due problemi fondamentali.
Il primo è che è una persona inopportuna, il secondo è che non si rende conto di esserlo; e anche se lo fa il suo ritardo è così oltraggioso che non lo si può giustificare in ogni caso. E' una di quelle persone capaci di farti gli auguri ad un funerale e le condoglianze ad un matrimonio, e in entrambi i casi accorgersene quando ormai è tornato a casa e si è messo il pigiama.
Così adesso si presenta qui davanti a me e la prima cosa che riesce a dirmi è che se continuo di questo passo probabilmente finirà per non rimanere più niente di questa dannata siepe di gelsomino.
Chi se ne frega del gelsomino, cazzo. E allora si rende conto e si scusa, in ritardo naturalmente.
“Non me ne faccio niente delle tue scuse,” gli dico.
Mi chiedo se sia consapevole del motivo per cui dovrebbe essere qui in questo momento, o se ha agito secondo il buon senso di qualcun altro.
“So che sei incazzato...”
“Io non sono incazzato Chakuza, io sono furioso,” preciso.
Lui si schiarisce la gola e guarda per terra, credo forse alla ricerca degli altri sei nani nascosti nell'erba per suggerirgli quello che deve dire. “D'accordo, so che sei furioso e hai tutti i motivi per esserlo, ma posso giurarti che non mi sono reso conto di quello che stavo dicendo.”
“Questa non è una novità, Chaku. Tu non hai mai la minima idea di quello che ti esce di bocca. Se questo fosse il mio problema, fra di noi sarebbe finita molti secoli fa e io, starei sicuramente molto meglio.”
Mi viene in mente che starei con Nicole, o starei con Daniel. Sarei con qualcuno che non si sarebbe mai sognato di volgere lo sguardo adorante verso il suo ex fidanzato e dirgli che è bellissimo quando è inguainato in un paio di pantaloni che sono così attillati che tanto varrebbe fosse nudo.
“Se non è quello che ho detto, allora...”
“Allora cosa?”
“Allora qual è il problema?” mormora incerto.
Io smetto di devastare il giardino di Bushido a calci e mi fermo ad osservarlo, ma nemmeno mi stupisco che sia qui di fronte a me e non abbia la minima idea di quello che ha fatto perché io lo sapevo che era così, quindi sarei stupido anche a sorprendermi. “Non sono le cazzate che dici il problema, perché quelle sono un flusso continuo ventiquattr'ore al giorno per tutti i giorni della settimana e non c'è modo di arginarle perché sono fatte della stessa merda di cui è foderato il tuo cervello! Il problema è tutto quello che c'è dietro.”
“Ma non c'è niente dietro!” Protesta lui che non ha mai capito che nelle discussioni in cui ha palesemente torto – cioè la quasi totalità di quelle in cui finisce – lui non ha nessun diritto di protestare. Mai.
“Certo come no.”
“Pat, dico sul serio.”
Sono felice che il suo catorcio sia di nuovo dal meccanico – d'altronde l'ho ridipinta e le ho messo un nuovo portellone, ma non è che potessi trasformarla in una macchina vera – così siamo venuti con la mia auto e posso decidere che ce ne andiamo ora. Anzi, posso anche decidere di lasciarlo a piedi, così può rimanere qui a fare la corte alla sua stupida principessa. Magari se aspetta un po' riesce a prenderla al volo quando Bushido la butterà fuori dalla finestra.
Lui invece mi segue allungando il passo e alla fine lo lascio salire, perché tanto alla fine devo andare a casa sua, quindi finirei per ritrovarmelo comunque tra i piedi. “Non stavo affatto pensando a Bill,” mi dice, chiudendo la portiera e regolando la cintura del sedile del passeggero perché non gli seghi la gola. Ogni volta che chiudo la macchina, quella li riporta automaticamente all'altezza iniziale, così le poche volte che si fa scarrozzare in giro, deve sempre rimetterci mano per non venirne strangolato.
“No, tu pensavi agli unicorni rosa che attraversano correndo gli arcobaleni del tuo cervello” commento lanciandogli un'occhiata impietosita mentre metto in moto. “Ed è ad uno di essi che hai detto che era bellissimo, casualmente nello stesso istante in cui Bill scendeva le scale.”
“Stavo parlando con Bushido, è stata una risposta automatica.”
“Vuoi peggiorare la situazione?”
“No, sto solo cercando di spiegarti come sono andate le cose,” insiste. “Ero distratto, lui ha detto quella cosa e ho risposto.”
“Quello che lui ha detto è: come mi stanno questi pantaloni, amore,” gli ricordo. “E mi pare chiaro che ti senti ancora compreso nella definizione.”
“Non mi sento affatto compreso nella definizione.”
Rido. “Oh ma ti piacerebbe tanto, vero?”
Chakuza tace perché sappiano entrambi che ho ragione, quindi è meglio se non replica dicendo che ormai Bill è acqua passata perché non è vero. Se quel ragazzino si svegliasse un giorno con la voglia di prenderlo a calci nelle gengive, Chakuza lo lascerebbe fare e gli chiederebbe pure di usare la punta rinforzata. Fa tanto l'uomo furioso, e poi si scioglie non appena la principessa lo guarda un po' più del necessario. E anche Bill avrebbe bisogno di una bella strigliata, ogni tanto, perché è vero che ora non vede che Bushido, ma se si risparmiasse di abbassare lo sguardo con le guance rosse quando Chakuza è in giro, risparmierebbe a tutti un sacco di acidità di stomaco.
Tutto il resto del viaggio lo facciamo in silenzio. O meglio, lui prova a dire qualcos'altro ma tanto sono solo cazzate per cui gli dico di stare zitto e almeno stavolta mi fa la cortesia di starmi a sentire.
Come se questa serata non fosse già stata abbastanza, torniamo a casa per scoprire che il tecnico che abbiamo chiamato nemmeno una settimana fa, in realtà non ha riparato un cazzo perché la caldaia è di nuovo rotta e nell'appartamento ci saranno due gradi e mezzo. In realtà non dovrebbe fare così freddo, perché non è ancora stagione, ma visto che viviamo in un perenne stato di sfiga nera, era anche piuttosto ovvio che la caldaia andasse a rompersi nell'unico anno in cui a settembre fa freddo come se fossimo in pieno inverno. Senza contare che questa casa ha i muri così sottili che basta un soffio di vento e c'è bisogno della sciarpa anche solo per passare un paio d'ore davanti alla TV in salotto.
Proviamo ad aprire al massimo i termosifoni ma non succede niente perché il problema è in cantina, come al solito. “Vado a dare un'occhiata,” dico prendendo la torcia. “Tu intanto cerca delle coperte pesanti, perché non credo che ci sia molto da fare. E guarda nel ripostiglio, dovrebbe esserci ancora quella ridicola stufa elettrica che abbiamo usato a Capodanno.”
Vado nel locale caldaie più per non averlo sotto gli occhi che per risolvere la situazione, anche perché sono quasi sicuro che non ci sia assolutamente niente da fare. Il tecnico ha detto che si trattava di un qualche pezzo – naturalmente costosissimo – da riparare e, dopo aver emesso una fattura che al confronto le estorsioni di Arafat sono plausibili richieste di pagamento per un servizio offerto, se n'è andato fischiettando e lasciando la caldaia esattamente com'era prima. La luce in questa specie di cantina non funziona mai e non c'è da sorprendersi visto che l'unica fonte di illuminazione è una lampadina da 25W appesa ad un filo che uno dei vecchi condomini deve aver tirato trent'anni fa, alla faccia dei sistemi di sicurezza dell'impianto elettrico. E' fulminata, naturalmente. E Meno male che il quadro elettrico è saltato di recente e Chakuza ha chiamato anche l'elettricista, sennò chissà che buio.
Quando apro la porta, che ovviamente cigola, la lampadina si mette ad oscillare macabra e io vedo l'ombra muoversi sul pavimento, nel cono di luce che ho creato entrando. Sembra la scena di un film dell'orrore. Adesso scendo per queste scalette anguste e chissà che cazzo ci trovo là sotto.
Accendo la torcia ed illumino un po' intorno, come se questo potesse salvarmi nel caso qualche esperimento genetico fosse davvero sfuggito da un laboratorio qui vicino e si fosse introdotto in questo palazzo fatiscente passando attraverso le fogne.
La caldaia che corrisponde all'appartamento di Chakuza è naturalmente quella più lontana dall'entrata e incastrata in un rientro nel muro che per raggiungerla devo fare i chilometri e lasciarmene alle spalle altrettanti di buio. Questa stanza non mi era sembrata così inquietante l'ultima volta che sono stato qui, forse perché ero troppo impegnato a tenere a bada Chakuza e le sue mani.
Quando alla fine arrivo alla caldaia, scopro che era esattamente come pensavo, ossia quella se ne sta lì e mi dice che non c'è pressione e io non so cosa farci. Provo a tirargli un paio di colpi con la torcia, ma quella rimane della sua idea e non funziona. Giusto per essere sicuri controllo anche un paio delle altre e sono tutte morte come quella del Chaku, quindi direi che è un problema dell'intero palazzo.
Torno all'appartamento recando pessime notizie, e trovo Chakuza che cerca di rimettere nel ripostiglio tutto il ciarpame che dev'essere esploso fuori quando ha aperto la porta. Là dentro c'è stipata talmente tanta roba sotto pressione che è sempre un pericolo passarci davanti, perché potrebbe esplodere. Almeno ha trovato la stufa e una pila di coperte.
“Non c'è pressione,” annuncio rientrando in casa, e vedo la sua testa che si affaccia subito dal corridoio. “Ma non è la tua caldaia. Tutto l'impianto è andato.”
“Fantastico,” commenta. Lotta con il mostro di cianfrusaglie che vive nel suo ripostiglio, ma alla fine vince lui e riesce a chiudere la porta. “Almeno la stufa funziona.”
“Bene. Vuoi quella o le coperte?”
“In che senso?” Chiede puntualmente lui.
“Non ho alcuna intenzione di dormire con te,” rispondo. “Quindi prendo il divano. Stufa o coperte?”
Lui trasfigura, come ogni volta che per qualche motivo succede qualcosa del genere. Se io sono qui in questa casa, la possibilità che non passi la notte nel suo letto non è nemmeno contemplata; quando ciò avviene, occupa istantaneamente il secondo posto nella sua scala delle tragedie. Visto che rimane con la bocca aperta un tempo sufficiente a farmi credere che sia morto in piedi, decido io. “Okay, tu prendi la stufa, io tengo le coperte,” dico, recuperandone un paio e sistemandole sul divano.
Solo allora lui si libera dall'incantesimo che lo aveva trasformato in pietra e mi segue, disfacendo il letto dove io lo faccio. “No, tu non dormi sul divano.”
“Invece è esattamente quello che farò,” ribadisco.
Sistemo il cuscino e lui lo toglie. “Tu non puoi dormire sul divano,” si corregge.
“Posso eccome, Chakuza.”
“Questa è casa mia e io non voglio che tu dorma sul divano,” sbotta lui, strappandomi dalle mani una coperta e gettandola via con stizza. Mi ricorda un po' quei ragazzini che prestano il loro pallone per giocare a calcio e poi se lo riprendono non appena iniziano a perdere.
“Ho capito,” annuisco e mi giro per rimettermi il cappotto.
Lui sospira, maledicendosi a voce abbastanza alta perché lo senta perfettamente anch'io. “No, Fler! Fler, aspetta! Non era questo che volevo dire. Mi è uscita male,” mormora, mentre mi segue verso l'ingresso.
“La cosa non mi sorprende affatto.”
“Non voglio che tu dorma in salotto perché sono io che ho fatto casino, quindi al massimo è il sottoscritto che deve dormire sul divano,” dice tutto d'un fiato, prima che io riesca ad aprire la porta. “Anche se preferirei che dormissimo entrambi nel letto.”
Io rimango fermo con la mano sulla maniglia qualche minuto e poi mi giro molto lentamente. “Peter...” mormoro frustrato. Giuro che a volte mi drena.
“Ho aperto bocca a sproposito, d'accordo. Allora fammi scusare. Se dormi sul divano è l'inizio della fine. Il passo successivo sarà riprenderti lo spazzolino da denti e la tazza per la colazione. Alla fine della settimana avrai già fatto le valige e sarai tornato da tua madre.”
“Peter, stai delirando!” Esclamo sconvolto.
“E allora fammi smettere di delirare e dormi nel letto!” Protesta lui, sgranando gli occhi.
Io scoppio a ridere, perché davvero non so che cos'altro fare.
Sono qui sulla porta e sto per andarmene senza sapere nemmeno se tornerò e lui si fa quasi prendere da una crisi isterica, cominciando a parlare di spazzolini da denti. E' una situazione surreale, eppure direi che dovrei esserci abituato.
“Per favore?” Tenta lui, in ritardo, come al solito.
Sospiro e mi tolgo il cappotto per la terza volta stasera. “D'accordo, Peter, ma sia ben chiaro che il fatto che io accetti di dormire nel letto con te non significa assolutamente che ti toccherà qualcosa stasera, anche perché sono ancora incazzato.”
“Naturalmente,” annuisce lui, tutto convinto.
Dieci minuti dopo siamo distesi a fissare il soffitto e io so che lui sta cercando nella sua testa le parole da dirmi, lo so perché non parla da un sacco di tempo e non tenta nemmeno di allungare le mani, il che può significare soltanto due cose, che dorme – ma dal respiro direi di no – o è molto concentrato.
“Ti esploderà il cervello con tutto questo pensare,” dico alla fine, perché voglio sapere se posso dormire oppure se devo aspettare che mi dica qualcosa.
“Non voglio sbagliare a parlare, stavolta,” si giustifica.
Sospiro, piegando una mano dietro la testa. “Sono quasi sicuro che lo farai lo stesso ma, andiamo, provaci. Ti sto ascoltando.”
Lui prende bene fiato, prima di rispondere. “Lo so che sentirmi rispondere in quel modo non è stato piacevole, ma ti giuro che non l'ho fatto apposta e che, se potessi, tornerei indietro e me lo rimangerei. Non posso farlo, però.”
“Va' avanti.”
Fa un sospiro di quelli fatti bene, che preannunciano cose che voglio sentire anche se non mi piacciono affatto. “Ho ancora difficoltà a dimenticare Bill,” ammette infatti “questo è vero e già lo sai, ma quella risposta non aveva nessuno significato. Mi è uscita di bocca come poteva uscirmi di bocca 'ancora cinque minuti' quando mia madre mi svegliava la mattina. Non è niente.”
Io rimango in silenzio e continuo a fissare il soffitto solo ed esclusivamente per farlo preoccupare ancora un po'. In realtà la rabbia mi è passata da un pezzo, più o meno quando ha cominciato ad agitarsi come se avessi minacciato di cambiare continente, ma voglio godermi un po' questo momento in cui, miracolosamente, sono una priorità.
“Fler?”
“Hmn.”
“Mi dispiace.”
Sorrido e mentre lo faccio, lui già mi scivola addosso, segno che mi stava osservando in attesa di una reazione. Dovrei dirgli di smettere perché non se lo merita, ma me lo merito io.
Quindi lo lascio fare.

Mattine come questa sono quelle che preferisco. Quelle in cui posso prendermi il mio tempo per aprire gli occhi, stiracchiarmi, stendere le gambe nel tepore immobile delle coperte e sgranchirmi tutto, piano piano, senza fretta. Mattine piacevolmente vuote, rilassate, tranquille. Di quelle che pensi di poter sentire sotto le mani, morbide. Mattine pigre come sbadigli, in cui il pensiero di non avere niente da fare ti culla un po’, e tu lo lasci fare perché sul serio, quante volte capita di potersi svegliare dicendosi che oggi potresti stare anche tutto il giorno a letto e non sarebbe un dramma perché tanto non sei atteso da nessuna parte, non devi incontrare nessuno e non c’è nessun beat ancora da limare che ti aspetta in sala incisioni per essere perfezionato e diventare una base.
Spesso, per non dire ogni volta, proprio perché una condizione simile è molto rara, in realtà non è vera. È una bugia che la tua mente ti sta raccontando. Tu sei lì al calduccio che ti fai i fatti tuoi e progetti vite intere sotto le coperte, chiedendoti se potrà esistere un modo per collegare con un filo e un paio di tubi, o magari una catena di montaggio elementare, il tuo letto, la cucina e il cesso, per avere tutto ciò che ti serve senza doverti praticamente muovere, e la tua testa avalla questi tuoi pensieri bisbigliando “ma sì, credici pure, progetta quanto vuoi, tanto oggi non c’è niente da fare!”, quando in realtà non potrebbe esistere niente di più lontano dalla verità. Però tu in quel momento non te ne accorgi.
La cosa vale anche per me, ma naturalmente in quel momento lì, come ho detto, non ci penso. E sono molto felice.
Quando apro gli occhi, c’è luce in tutta la stanza. Chakuza non chiude quasi mai le tapparelle, ma è raro che io riesca a vedere la luce del sole invadere completamente l’ambiente, perché quando mi sveglio in genere è troppo presto per assistere ad uno spettacolo simile. Le cose da fare, appunto, ci sono sempre. Quando ti svegli ogni mattina alle sette, sia perché devi andare agli studi o sia perché non è il caso di prendertela troppo comoda, visto che non sei a casa tua, al più puoi vedere le prime luci pallidissime che rischiarano l’ambiente, quando non è inverno e quindi di tiri su ancora col buio, ma stavolta invece c’è luce ovunque, si stende in lunghe strisce oblique per tutte le pareti, prendendone la forma, seguendone le linee.
Sollevo un braccio e il sole batte contro la mia pelle. Sulla parete si forma una macchia d’ombra, la guardo, sorrido e tiro giù il braccio, lasciandolo ricadere sul materasso per ridare alle strisce di luce la loro ordinata continuità.
Chakuza, qui accanto a me, all’improvviso si mette a ridere. Non mi ero accorto che fosse sveglio.
- Che stai facendo? – mi chiede. Io scrollo le spalle ed affondo fra i cuscini, ma non rispondo. Mi limito a sorridergli. Anche stanotte mi sono fermato a dormire qui come se fosse una cosa normale. Dopo aver scopato, esausti com’eravamo ci siamo lasciati ricadere sul materasso con un grugnito di approvazione. Chakuza s’è liberato del mio braccio che, in qualche modo, gli era planato sulla faccia nel movimento, e poi s’è voltato per dormire. Stessa cosa ho fatto io. E lui non mi ha chiesto conferme – niente domande del tipo “resti?”, che fino a qualche tempo fa un sacco frequenti, fra noi, anche se naturalmente parlo di un “qualche tempo fa” lontanissimo nel tempo – ha preso la mia presenza per un dato di fatto e io in realtà gliene sono stato grato, perché talvolta ricordarsi di mantenere un certo distacco e pensare di doversi alzare in piedi e fare almeno finta di cercare i vestiti per rimetterseli addosso a ritornare a casa prima che lui mi fermi chiedendomi di rimanere è talmente fastidioso – e ridicolo – da sfiorare l’assurdo.
Ieri sera, dunque, sono rimasto, e ora mi sento vagamente in difetto. Voglio dire, so che è assurdo, so che non dovrei, e tra l’altro è davvero ridicolo che due anni fa fossi già riuscito a superarlo, questo problema che adesso sembra tornato a farsi avanti, però davvero. Non è neanche il dormire con una persona che mi scombussola, con Danny l’ho fatto continuamente per mesi – Danny, santo cielo, devo proprio smettere di pensare a Danny, anche se negli ultimi giorni ha ricominciato a farsi sentire e io non sono granché sicuro di riuscire a gestirlo come dovrei, cioè allontanandolo di nuovo – è proprio lo stare con Chakuza, stare con lui come si sta in coppia che ogni tanto mi… non lo so. Mi turba troppo. È semplicemente strano, come sono strane quelle cose buffe che sembrano non avere spiegazione, come ad esempio quei trucchi di scena con cui i maghi ti fanno credere di aver segato in due il corpo della loro procace assistenza. Tu sai che dietro c’è una spiegazione perfettamente razionale, ma per quanto ci pensi non riesci a trovarla, quindi finisci per rimanere a fissare il tutto con aria ebete, come un bambino che non ha ancora visto nulla del mondo, e per quanto stupido ti sembri accetti quella cosa impossibile come possibile pure senza spiegartela, perché tanto, ti dici, non ci arrivi, è così e basta. E per me ora è uguale, io mi sento strano, sono convinto che ci sia una spiegazione razionale dietro, ma non la capisco. Che posso farci?
Talvolta, seriamente, credo di aver solo bisogno di sentirmi dire che sono normale, che sono ancora io, lo stesso che ero a quattordici, a diciotto, a venti, a venticinque anni. La cosa non è più tanto scontata com’era un tempo.
Nel mentre continuiamo a restare in silenzio, che non è una cosa brutta, in realtà, perché non è un silenzio di quelli imbarazzati. Non è che ci guardiamo negli occhi con aria confusa chiedendoci che cosa diamine stiamo facendo in questo letto così vicini, anche perché peraltro lo sappiamo benissimo cos’è che stiamo facendo in questo letto così vicini. Io guardo un po’ fuori, e c’è un bel sole. Dagli alberi che costeggiano la strada giunge il canto degli uccellini di città – questi esserini piccoli, fragili e spenti, che cantano solo alla mattina perché per tutto il resto del tempo la loro voce sarebbe inutile, sommersa dal traffico e dai rumori dei passanti – e io penso due cose contemporaneamente. Una è che sono ancora convinto di non avere niente da fare oggi, e vorrei che questa convinzione potesse durare ancora un po’, ma non è facile che sia così se penso alle ore che passano, al traffico che ci sarà e a quello che scorre fuori da quella finestra, motivo per il quale smetto di guardarla e torno a fissare la luce sulla parete. L’altra è che, malgrado io non abbia ancora ben chiaro quasi niente della giornata di oggi, quello che invece riguarda la giornata di ieri riesco a richiamarlo alla memoria senza la minima fatica.
Decido che è il momento di parlare, e dato che sto pensando a ieri tanto vale battere il ferro finché è caldo.
- Certo che non ho mai capito cosa ci trovi tu in Bill. – butto fuori d’un fiato, ma abbastanza tranquillamente da sperare di non preoccupare Chakuza. Non è che voglia farlo sentire attaccato o che, è solo che sono profondamente convinto che uno dei motivi per cui da questa cosa non ci si muove risiede nel fatto che Chakuza non ne parla. Mai. È il suo più grande tabù, non c’è modo di scucirgli informazioni al riguardo, e io se devo dire la verità non ci ho nemmeno provato granché, voglio dire, sono masochista ma non così tanto, ma è evidente che devo risolvere questo problema, se non voglio che scene come quella di ieri continuino a ripetersi all’infinito, anche quando noi quattro cavalieri dell’Apocalisse saremo vecchi decrepiti e Chakuza, Bushido ed io staremo seduti sulle nostre sedie a dondolo nel porticato della casa al mare che palesemente divideremo, e Bill uscirà chiedendoci se sta bene con la nuova dentiera. Ecco, vorrei evitare che allora Chakuza si permettesse ancora di rispondergli che sta benissimo all’unisono con Anis, perciò rimbocchiamoci le maniche e risolviamola adesso, finché siamo ancora in tempo.
Ovviamente, Chakuza si preoccupa lo stesso, perché nominare Bill di fronte a lui è un po’ come prendere una pistola e darla in mano al primo passante capiti a tiro: magari è un tipo freddo e tranquillo e la posa senza fare danni; magari invece è uno nervoso e isterico e fa partire un colpo, però. Quando nomini Bill non sai mai se Chakuza stia abbastanza bene da tenere ferma la mano, o se comincerà a tremare e sparerà a qualcuno.
- Niente. – risponde infatti, sulla difensiva, aggrottando le sopracciglia nell’unica espressione al mondo che fa sembrare cattivi i suoi lineamenti rotondi, l’espressione brevettata dei video musicali.
Io inarco un sopracciglio.
- Ci sei andato a letto per simpatia? – gli chiedo, con una mezza risata, e non posso davvero credere che stia cercando di rifilarmi la storia del non-è-stato-davvero-così-importante. Nel senso, ok, Chaku, capisco dove vuoi arrivare, sei molto carino a preoccuparti per me e a non volermi dire cose che potenzialmente credi che sarebbero in grado di farmi male, ma… no. Cioè, c’ero anch’io mentre accadeva, ricordi? Via.
- È carino. – insiste lui, socchiudendo gli occhi e grattandosi la fronte, naturalmente sordo alle mie mute protesta, - Fine.
Sospiro. È mai possibile che con quest’uomo non ci sia mai modo di avere una conversazione normale?
- È… strambo. – dico io, - E dolce. Secondo me è tutto qui. È come avere una sorellina. Almeno per me. – preciso, perché mi pare evidente che per lui non era così, anche se ora sta cercando di fare di tutto per darmi a bere il contrario.
La mano che grattava la fronte di Chakuza si abbatte contro il suo viso e poi scende a coprirgli gli occhi, mentre lui si lascia andare ad un sospiro affranto. A Chakuza non piace granché parlare, lo so, non è bravo a spiegarsi – non sempre, almeno. Anche lui ha i suoi momenti, comunque – io, invece, mi ci diverto da morire. Mettere in difficoltà il prossimo, irritarlo anche fino a fargli perdere il lume della ragione, è sempre stato un gioco divertente. Quando sei piccolo e cresci in un ambiente come il mio, la prima cosa che capisci è che ti devi fare grosso e muscoloso, perché devi costantemente avere a che fare con tipi che saranno sempre più grossi e più muscolosi di te, motivo per il quale devi cercare quantomeno di avvicinarti al loro standard per poter pensare di uscire vivo da una rissa. In attesa di quello, però, quando sei ancora un ragazzetto pelle e ossa senza un pelo e con gli occhi troppo grandi su una faccia troppo magra, devi sopperire ciarlando, e sperando che chi ti incontra sia stupido abbastanza da permetterti di rincoglionirlo quel tanto che basta da sfuggirgli dalle mani. Se hai la velocità delle gambe dalla tua, quella della lingua può completare il quadro che può riuscire a salvarti il culo anche in situazioni disperate. Il più delle volte è stato così che mi sono salvato io, nel periodo in cui cercavo di fare di tutto per portare a termine i miei compiti da solo, senza Anis in giro, per impressionare Arafat.
Chakuza, e lo dico con tutto l’affetto del mondo, credetemi, è abbastanza scemo da concedermi svaghi di questo tipo. Dico, non vuoi parlare seriamente di Bill per esorcizzarlo? D’accordo, va bene per me, ma allora lasciati torturare.
- Ma ti senti quando parli? - si lamenta, la voce un po’ attutita dalla mano ancora pressata con forza sul volto, - Come una sorellina? Mi sento male.
E certo che ti senti male, Chaku. Questo dimostra che tu non l’hai mai visto come una sorellina, tanto per cominciare, e anche che tutti quei bei discorsi di prima sul fatto che è solo carino ed è per questo che ci sei andato a letto per una vita e mezzo non erano altro che fesserie. Ma va be’.
Resto in silenzio per un intervallo di tempo che non sembra solo enorme, lo è. Chakuza ha bisogno di riprendersi, palesemente, e io gliene dà modo, perché non mi va di troncare la conversazione. Scherziamo? Mi sono divertito e vendicato ancora troppo poco, non esiste indisporlo al punto da costringerlo ad alzarsi in piedi e fuggire lontano. Voglio rosolarlo a fuoco lento.
- E a letto com’è? – chiedo quindi dopo un po’, senza muovermi di un millimetro.
- Fler! – sbotta lui, sconvolto, girandosi impercettibilmente a guardarmi.
- Be’, che c’è? – insisto io, scrollando le spalle e mantenendo una calma apparente tale che non capisco com’è che i membri dell’Academy non fanno irruzione dalla finestra appesi a delle funi per consegnarmi un Oscar estemporaneo per meriti acquisiti sul campo, - Sono curioso! Avrà delle qualità non da tutti, se è riuscito a rincoglionirvi senza speranza tutti e due.
Chakuza non risponde. Allunga una mano ad afferrare il cuscino in più che sta in mezzo fra i nostri guanciali e se lo schiaccia sul viso con un lamento disperato. In realtà in questi momenti così io mi diverto sempre tantissimo. Era una cosa che capitava spesso quando abbiamo cominciato a vederci più spesso, intendo, dopo l’incidente del tappeto e tutto. Ho usato una quantità spaventosa di armi, contro Chakuza, non solo la lingua. E non solo nel senso di usarla per parlare. E so che questi sono i momenti in cui Chakuza è sempre un po’ sul punto di mandarmi via, perché lo spalla che, in mezzo a tutti i poteri che lui ha su di me, ce ne sia uno che solo io posso vantare su di lui, ed è quello di riuscire a metterlo in imbarazzo. Lui, un uomo che non s’imbarazza praticamente mai. Quindi sì, lo so che in questo momento, come in tanti altri, si copre il volto e sta zitto solo perché vorrebbe potermi mandare via. In realtà mi esalta che non lo faccia mai.
Rido e mi giro sullo stomaco, sistemandomi a pancia in giù sul materasso ed allungando un braccio per togliere il cuscino di mezzo.
- Allora? – insisto curioso, - Dimmi!
- Non lo so! – si lamenta lui, cercando di coprirsi di nuovo con le mani.
- Sì che lo sai! – ride ancora io, - Anzi, dal fatto che non lo dici, immagino che debba essere parecchio bravo. Questo almeno spiega la follia di ieri sera.
- Possiamo smettere di avere questa conversazione? – implora debolmente Chakuza, sull’orlo di una crisi isterica. Io rido ancora, e naturalmente non gli do retta.
- Quante volte al giorno lo facevate? – chiedo, avvicinandomi un po’ per guardarlo in viso.
- Fler… - mugola lui, arreso.
- Una? – insisto io.
- Ma non hai niente da fare, stamattina? – piagnucola Chakuza. Qualche campanello dovrebbe suonare nella testa di entrambi, in questo momento, ma non suona. Io sono ancora perfettamente immerso nell’aura di beatitudine che mi accompagna dal risveglio, peraltro, convintissimo che il mondo non avrà mai più bisogno di me e che perciò posso anche mettere radici su questo materasso per tutto il tempo che mi resta da vivere, e nessuno avrà mai di che lamentarsene.
- No. – rispondo infatti, e sto mentendo, ma ancora non lo so. Che non se ne accorga neanche Chakuza, però, è abbastanza grave. – Due? – ritorno a insistere, - Tre, magari?
Chakuza non dice nulla, si limita a sospirare.
- Tre volte al giorno?! – sbotto sconvolto, e sento aprirmisi sulle labbra un sorriso incredulo ma anche parzialmente divertito. – Wow! Devi dirmi tutto. Cioè, seriamente, mai visto Bill in quelle vesti lì. Adesso sono curioso sul serio.
- Sei una piaga, Fler! – sbotta lui, scuotendo con decisione il capo, - Che devo fare per farti stare zitto?!
Io ridacchio, sistemandomi fra le lenzuola e piantando i gomiti sul materasso.
- Non so, che ne dici di rispondere? – suggerisco, - Quando sono soddisfatto, smetto.
Lui si volta a lanciarmi un’occhiata truce.
- Giuralo. – intima freddamente.
- Ma sì, sì, giuro. – concedo io, con un breve cenno del capo. – Allora?
Chakuza si prende il proprio tempo per sospirare ancora e sistemarsi meglio contro il cuscino. Solleva la schiena ed il lenzuolo che lo copre scivola giù lungo il suo corpo, arrotolandoglisi pigramente in grembo. Seguo il movimento del tessuto forse con un po’ troppa insistenza, ma mi riprendo subito, anche perché se si accorge che lo sto fissando troverà sicuramente modo di usare il dettaglio contro di me, e allora addio tortura.
- Cos’è che vuoi sapere? – si rassegna a chiedere, già palesemente esasperato prima ancora di cominciare a parlare.
- Be’, la prima volta, tanto per cominciare. – annuisco io, incrociando le braccia sul materasso, - Com’è stato?
Chakuza mi getta addosso un’occhiata dubbiosa.
- Non ti prenderà una delle tue solite paranoie, quando ti risponderò, giusto?
Rido ancora. Chakuza, ti prego, ma sei convinto di che? Guarda che lo sto portando avanti io il gioco in questo momento. Certo che ti sfuggono certi passaggi fondamentali che io veramente, boh, non so, alle volte, guardandoti, come sia possibile che tu esista. O sia sopravvissuto a te stesso.
- Ma va’. – rispondo rassicurante, - Avanti, sono solo curioso.
Chakuza sospira ancora ed aspetta qualche altro secondo. E in quei secondi riesco a vedere una sorta di soddisfazione mal dissimulata farsi strada nei suoi occhi e poi nella piega delle sue labbra, che si fa meno tirata e severa. La naturalezza con cui quest’espressione viene fuori è tale che, anche se dovrei arrabbiarmi un po’ – un bel po’ – nonostante l’abbia rassicurato sul contrario, non riesco. Sembra tutto così innocente che davvero non mi pare il caso.
Quando Chakuza parla, subito dopo, lo fa come si stesse tirando fuori dal petto un peso insostenibile.
- È stato grandioso. – annuncia seriamente, annuendo pure, come per dare forza alla cosa.
Mi viene da ridere in modi che nessuno che non sia me può comprendere. Cioè, guardatelo, tutto serio e compito, come se stesse dando un giudizio di merito di quelli che si danno durante le gare sollevando il cartellino col numero. No, ma io seriamente con quest’uomo non ce la posso fare, la sua pazzia è tale che pure nei momenti di normalità mi surclassa. E io tanto sano non sono di certo.
Comunque, riesco a trattenere le risate ed imito la sua espressione seriosa, annuendo a mia volta.
- Grandioso in che senso? – chiedo, - È stato come con una femmina o la faccia è tutta un bluff? – ridacchio. Mi fa bene prenderlo un po’ in giro, di tanto in tanto, il ragazzino. Davanti a lui non si può, che poi gli si riempiono gli occhi di lacrimoni perché non capisce mai se stai scherzando o sei serio, ma con Chakuza che non ci capisce niente, neanche che fra le altre cose sto prendendo per il culo anche lui, è molto più semplice.
- Ma non c’entra niente con le femmine, è tutta un’altra roba. – precisa infatti, agitando la mano come a voler dissolvere quell’ipotesi assurda, totalmente dimentico del fatto che pure io lo so perfettamente bene che con le femmine non c’entra niente. Dio, quant’è facile. – Cioè, di base è lo stesso, - mi illustra. Chaku, grazie, senza di te non l’avrei mai saputo, - ma ci ho perso la testa perché non me lo aspettavo, capisci, che la pressione fosse così forte. Insomma, Bushido nudo per voglia o per forza l’abbiamo visto un po’ tutti, - aggiunge, lanciandomi un’occhiata che nella sua testa è carica di allusioni. Ah, Chaku. Ti prego. – e conoscendo le dimensioni e sapendo quanto tempo erano stati insieme non me l’aspettavo per niente.
Annuisco ancora. Io non so se seriamente si rende conto del discorso totalmente allucinante che sta facendo, ma comunque starlo a sentire è uno spasso. Peraltro mi sovviene che la sua prima volta con un maschio è stata con me, che di sicuro non avevo il traforo del Monte Bianco nel culo, perciò mi viene da pensare che, se Chakuza quella notte fosse stato lucido abbastanza da accorgersi delle cose, probabilmente da quel momento in poi avrebbe decantato il mio sedere come la cosa più meravigliosa mai concepita da qualsiasi essere umano o divino che abbia mai calcato l’orbe terracqueo. Poi naturalmente c’è da dire che, se Chakuza quella notte fosse stato lucido abbastanza da accorgersi delle cose, difficilmente mi avrebbe piegato a novanta sul tappeto del suo salotto, per cui niente. Ho avuto la prima volta, ma non mi prenderò mai i complimenti dello chef. La vita a volte è ingiusta.
- È davvero così stretto? – chiedo con entusiasmo, - Dovrò provarci, qualche volta.
Chakuza si irrigidisce tutto come un pezzo di legno, e si allontana impercettibilmente. Oh, Dio. Lui doveva essere al bagno quando la mamma distribuiva i cervelli.
- C’è altro che volevi sapere? – butta lì frettoloso, spasimando per cambiare discorso.
- Non andare in paranoia, - lo prendo in giro, - non mi avvicinerei mai alla nostra illustre principessa. – aggiungo in un ghigno, al quale lui risponde con un’occhiataccia offesa. Fra le tante regole che vigono in questa casa, oltre alla prima che è quella di non nominare il nome di Bushido invano, c’è anche quella per cui è vietato perfino accennare alla sua esistenza e alle conseguenze che ha sul mondo circostante, almeno fino a quando non è impossibile fare altrimenti. Il fatto che io possa chiamare Bill “principessa” è palesemente una di queste conseguenze e, in ogni caso, adoro non rispettare nessuna delle regole che Chakuza crede di potermi imporre. Ha. – Comunque, - riprendo, - voglio sapere quante volte l’avete fatto quella notte. E se è venuto. E come l’hai fatto venire. E se è venuto tutte le volte. – mi fermo, faccio mentalmente il conto, poi torno a guardarlo, - E quante volte sei venuto tu, anche!
Chakuza lascia andare un mugolio irritato e confuso.
- E cosa vuoi, un resoconto dattiloscritto…? – biascica, - Comunque due. – risponde alla fine, cercando di ricordare tutte le domande, - E sì. Con la mano. Ancora sì. E… due. No, - precisa poi, - tre. – ammette con un certo imbarazzo.
A questo punto, il buon dio che protegge gli sfigati mi perdonerà, non ce la faccio più: rido e mi abbatto di faccia contro il materasso, affondando il viso sul cuscino per evitare di svegliare tutto il vicinato.
- Sei venuto tre volte?! – strillo incredulo, battendo un pugno fra le coperte, - Dev’essere stato bello davvero! E bravo Chaku!
Lui risponde con un borbottio indefinito, incrociando le braccia sul petto ed affondando col collo fra le spalle, fissando dritto la parete di fronte, come esistesse solo quella. Io cerco di riprendermi, per quanto non sia semplice, e torno a mettermi dritto. Ci metto un po’, a formulare la domanda successiva, perché è un tipo di domanda che conosco molto bene: quella che in genere ci porta lungo la china scivolosa di una mezza litigata che finisce per affogare invariabilmente nello stesso identico posto – fra le lenzuola. Oppure andandocene alternativamente di casa, ma più spesso fra le lenzuola, sì.
- E… - chiedo alla fine, - è stato così bello solo con lui?
Chakuza lascia andare un sospiro la cui traduzione letterale è “lo sapevo”. E io mi rimetto a ridere. Però più piano.
- Qui ti volevo… - commenta, scuotendo lentamente il capo, - No, non lo è stato solo con lui. – ammette infine, voltandosi a guardarmi, - Tu sei tutta un’altra cosa, però. Non ci sono paragoni da fare.
Rido ancora, e so che gli ho detto di non preoccuparsi, che l’avrei presa bene e tutto, ma un po’ mi piace sentirmi rassicurare così, anche su cose così idiote. E comunque gli riesce molto meglio quando dice la verità.
- Non fare il figo, adesso… - sbuffo divertito, - E comunque non volevo sapere se sono meglio di lui o no… solo se sono bravo anche io. – mi fermo per intercettare lo sguardo incredulo e vagamente ilare di Chakuza, ma blocco sul nascere qualsiasi battuta aggrottando le sopracciglia e tornando ad incrociare le braccia. Sia mai che ora mi faccia perculare da lui dopo essermelo rigirato sul palmo della mano per l’ultima mezz’ora. – E non guardarmi così. – borbotto, - Uno poi se le chiede, certe cose, se non è un cagasotto. Puoi rispondere, voglio saperlo. Ne va del mio onore di uomo.
Chakuza ride lievemente e mi guarda, ed a me per un secondo sembra di poter vedere solo i suoi occhi, sottili e verdi da far paura. Come riesca a sconfiggermi con un’occhiata nonostante tutto quello che gli ho fatto passare stamattina, proprio non lo so. È uno dei misteri che mi tengono attaccato a lui, suppongo.
- Hai detto che non hai niente da fare stamattina, giusto? – mi chiede, apparentemente senza nessun motivo. Qui non dovrebbe squillare un campanello, ma l’intero campanile di una chiesa. Solo che non ce n’è, nelle vicinanze, per cui continuiamo a illuderci rotolandoci idealmente nella deliziosa sensazione di ozio prolungato in cui ci siamo immersi senza pensare.
- No. – ribadisco, e visto che ormai sono quasi le nove la mia menzogna è talmente enorme che potrebbe quasi fare il giro e diventare una verità, - Ma che c’entra?
Chakuza si solleva e l’attimo dopo mi è addosso, ogni centimetro di pelle perfettamente aderente alla mia, il petto forte contro la schiena, il bacino già duro di desiderio contro il sedere, le gambe a cercare spazio fra le mie.
- Ottimo. – commenta solamente, chinandosi a baciarmi la schiena, seguendo il disegno della colonna vertebrale.
Io rido – ho i brividi fin nello stomaco – e faccio per scappargli da sotto le mani.
- Sei scorretto… - biascico, cercando di afferrare il cuscino per tirarlo via e scavarmi di prepotenza una via di fuga.
Chakuza allunga le braccia a coprire le mie e mi si spinge un po’ contro, in una domanda silenziosa.
- Mh-mh. – annuisce, - Anche tu, a fare certe domande. – e mi sospira sul collo, mentre io mi mordo un labbro.
- Mmmh… - mugolo, socchiudendo controvoglia gli occhi, - È vero, lo ammetto. Però… - m’interrompo un attimo, lanciando a Chakuza un’occhiata incerta oltre la spalla, e qui non ho davvero idea di cosa volessi aggiungere, perché appunto nel momento in cui mi volto a guardarlo del tutto accidentalmente i miei occhi finiscono sulla radiosveglia poggiata sul comodino e, tutto insieme, mi rendo conto di che ore sono, di che giorno e oggi e anche del fatto che la mia mente mi ha preso per il culo fino ad ora esattamente come fino a due secondi fa stavo facendo io con Chakuza, ed anche esattamente come lui avrebbe cominciato a fare in senso meno metaforico da qui in avanti se non l’avessi fermato. – Cazzo! – sbotto, agitandomi sotto di lui, - Cazzo, cazzo, cazzo, Chakuza!
- …sì, ne ho uno che si sente molto tirato in causa, al momento. – risponde lui, inarcando un sopracciglio ma scostandomisi di dosso quando vede che non accenno a placarmi. – Ma che ti prende? – domanda incerto, steso su un fianco, mentre io scatto in piedi e comincio a cercare i miei vestiti.
- L’Ersguterjunge! – sbotto io, infilando le mutande e i calzini al volo, saltellando prima su un piede e poi sull’altro, - La presentazione! Cazzo, devo andare a firmare il contratto! Siamo già in ritardo! Cazzo, cazzo, cazzo!
La luce della consapevolezza si fa strada negli occhi ancora un po’ annebbiati di Chakuza, e il secondo dopo lo vedo alzarsi dal letto come una furia, afferrando al volo il primo paio di mutande che incontra e correndo in bagno.
- Bushido mi ammazzerà. – annuncia lapidario, pallido come un cencio.
A me scappa di nuovo da ridere, e continuo a farlo anche se penso che è vero, ma che mi sa che se perdiamo altro tempo ammazzerà con gioia entrambi.

*

Ieri notte, io e Bill siamo andati a letto presto. Dopo che Chakuza è corso dietro a Fler nel tentativo di recuperare l’irrecuperabile, lasciandomi lì sullo zerbino a chiedermi nelle mani di chi stavo lasciando uno dei pochissimi esseri umani per la cui felicità darei volentieri la vita, non è che ci rimanesse molto altro da fare. Ci siamo guardati negli occhi per un lungo, infinito istante e poi Bill è arrossito tutto all’improvviso, come se solo in quel momento si stesse rendendo conto del casino che, palesemente senza volerlo, peraltro, aveva combinato. Si è voltato repentinamente e, visto che era ancora a metà delle scale, ha cominciato a correre per tornarsene in camera, senza lasciarsi sfuggire neanche un suono. Io ho sospirato pietosamente, lanciando uno sguardo supplice al cielo stellato fuori dalla villa prima di rassegnarmi a chiudere la porta e seguirlo in camera.
- Bill? – l’ho chiamato piano, schiudendo la porta e sbirciando all’interno. L’ho trovato già senza maglietta, tutto preso ad armeggiare coi pantaloni, - Bill, è tutto ok?
Lui s’è voltato a guardarmi con un paio d’occhi che sembrava l’avessi insultato invece di chiedergli come stesse.
- Come, scusa? – mi ha chiesto, basito, strattonando i pantaloni qua e là nel palese tentativo di strapparseli di dosso.
- Ti ho chiesto se è tutto ok. – ho sospirato ancora io, entrando nella stanza e chiudendomi la porta alle spalle. Ancora una volta, lui m’ha guardato con incredulità evidente.
- Ma che domanda è?! – ha sbottato quindi, tirando i pantaloni ancora un po’ e non ottenendo neanche una piccola vittoria all’interno della grande guerra che stava conducendo contro di loro, - Dovrei chiederlo io a te!
- E invece, guarda un po’, te lo sto chiedendo io. – gli ho sorriso, sedendomi ai piedi del letto. – Vieni qui, dai. – l’ho chiamato, schiudendo appena le gambe per fargli posto, - Ti do una mano con quelli, o finirai per distruggerli.
Lui ha abbassato lo sguardo, ma s’è avvicinato comunque, restando in piedi di fronte a me.
- Non me ne frega niente. – ha borbottato con aria colpevole, mentre sfilavo il bottone dalla sua asola e lasciavo scivolare la zip verso il basso, - Meglio se si rompono. Non li voglio più mettere.
- Bill, saranno costati un patrimonio. – ho riso, tirandoli delicatamente lungo le sue cosce bianche e magre, - E oltretutto sembra che te li abbiano disegnati addosso. Ti stanno molto bene.
- Ma cosa vuoi che me ne freghi dei soldi e di come mi stanno! – ha sbottato ancora lui, appoggiandosi alle mie spalle mentre lo invitavo a sollevare una gamba e poi l’altra per sfilarglieli del tutto. – Combino solo casini anche quando voglio fare cose belle. – ha mugolato quindi, stringendo la presa attorno alla mia maglietta, - Giuro che non volevo che andasse a finire così.
Ho sollevato lo sguardo, incontrando i suoi occhi scuri e brillanti pur nella luce fioca dell’abat-jour.
- Lo so. – ho risposto annuendo, - Non sentirti in colpa.
Lui ha sollevato una mano, accarezzandomi lentamente una guancia.
- È piuttosto difficile non sentirmi in colpa con te. – ha detto quindi, mordicchiandosi l’interno di una guancia. Io ho aggrottato le sopracciglia.
- Non voglio che sia così. – ho detto severamente, e lui ha sorriso un po’, piegando appena un angolo della bocca.
- Lo sai che non puoi farci niente? – ha ribattuto con dolcezza, - Fra le tante cose che puoi fare… - ha sussurrato sfiorandomi le labbra con due dita, - e sistemare… - le sue dita si sono fermate appena sotto il mio labbro inferiore, - e riaggiustare, - ha sospirato profondamente, - la possibilità di togliermi il senso di colpa dal petto quando ti ferisco non rientra nella lista.
Ho sospirato e scosso il capo, stringendogli la vita con le mani. Lui ha poggiato le braccia sulle mie, sfiorandomi appena il collo con la punta delle dita.
- Non mi hai ferito. – l’ho rassicurato.
- Non l’ho fatto intenzionalmente, forse, - ha protestato lui, - ma—
- No. – ho scosso il capo io, - Non mi hai ferito. Bill, - ho sospirato profondamente, - durante tutto l’anno scorso, sono successe molte cose. – lui ha trattenuto il fiato, serrando le labbra, - E tante di queste cose sono state spiacevoli, per usare un eufemismo. E come lo sono state per me, lo sono state per te. Non credere – sono tornato a sollevare lo sguardo, piantando gli occhi nei suoi, - non credere neanche per un minuto che io possa mai perdere di vista questo dettaglio fondamentale. È stata dura per tutti e due. Io non sono una vittima. Non lo sei neanche tu. Abbiamo fatto un casino infernale e ne abbiamo entrambi pagato le conseguenze, ma siamo qui, adesso. E tu – ho riso un po’, inarcando un sopracciglio con presunzione, - credi davvero che, dopo l’anno scorso, un paio di pantaloni che combinano un mezzo disastro possano ferirmi? Io sono d’acciaio, piccolo. – ho detto, accogliendo sulla pelle la sua risata un po’ triste ma soprattutto sollevata quando mi si è seduto in grembo, circondandomi le spalle con le braccia, - Niente mi scalfisce.
Bill ha pianto un po’, accucciato fra le mie braccia. L’ho sentito piangere molte volte, da quando lo conosco, ma questo è stato un pianto tutto diverso rispetto agli altri pianti che s’è fatto da quando sono entrato nella sua vita, e credetemi quando vi dico che stiamo parlando di numerosi pianti. S’è trattato di un pianto dolce, sommesso, sollevato. Venato da un pizzico di felicità che mi ha stretto il cuore. Giuro che non mi sono mai sentito bene come in questo periodo, in cui io e Bill ci stiamo affrontando con onestà, sciogliendoci poco a poco, ritrovandoci poco a poco, imparando a conoscerci di nuovo, con tutte le cose che sono cambiate in noi e che inevitabilmente non potremo più riavere, ma anche con tutte quelle altre cose che invece sono rimaste uguali, o comunque molto simili, rispetto a quelle che avevamo un tempo. È come riscoprirlo da capo. Ma è sempre lui. Credevo fosse impossibile tenere fra le mani qualcosa di così antico e così nuovo allo stesso tempo, eppure Bill per me lo è.
Per cui, sì, abbracciati com’eravamo poi siamo andati a dormire, perché seriamente, fare altro per quella sera non era proprio plausibile. E poi c’era anche da pensare a stamattina, naturalmente.
Stamattina ci siamo svegliati non prestissimo, ma di buon’ora, entrambi molto emozionati. Ho una idea abbastanza precisa di quello che è successo qui fra Bill e Fler mentre io non c’ero. Ne ho un’idea abbastanza precisa non soltanto perché Bill e Fler mi hanno più o meno raccontato tutti i fatti, ma anche perché conosco entrambi a memoria ed avrei potuto dirvi con largo anticipo come avrebbero reagito e come si sarebbero comportati l’uno con l’altro nel caso si fossero conosciuti, anche senza dover sapere niente delle situazioni che li avevano spinti a incontrarsi. Non fatico per niente a capire che Bill è felice per quello che sta per avvenire esattamente quanto me. Ed infatti il suo viso sembra splendere di luce propria ora che siamo qui nel mio ufficio all’Ersguterjunge, e attendiamo.
Eko, seduto sul divanetto in fondo alla stanza, si guarda intorno con aria incerta, come se lui in quel momento c’entrasse poco. Kay riempie il mondo di entusiasmo blaterando a caso su quanto sia una figata questa decisione, e su quanto è evidente che ci stiamo vendicando proprio bene su quegli stronzi dell’Aggro Berlin, quantomeno a livello commerciale.
- Vuoi mettere – mi dice, - la quantità di dischi venduti che si porta dietro Fler, rispetto a quelli che si porta dietro Nyze? Cioè, dai, palesemente ci stiamo guadagnando noi.
Io borbotto un assenso indefinito, lanciando un’occhiata nervosa all’orologio. Fler e Chakuza, naturalmente, sono in ritardo. Potrei approfittare di questo tempo concessomi per spiegare a Kay che prendere Fler sotto contratto all’Ersguterjunge ha ben poco a che fare con la guerra fra noi e l’Aggro, e ha ben poco a che fare anche con la quantità di dischi venduti in più che porteremo a casa a fine anno. È solo che lo rivoglio con me, li rivoglio tutti con me, e non intendo lasciarmene sfuggire uno che sia uno. Fler è solo il primo passo. Sto pensando a qualcos’altro. Ma prima devo parlarne con Jost, ed è ovvio che non posso farlo finché lui sarà ancora troppo impegnato a fingersi invalido per poter trascorrere le sue giornate a letto con Schüster. Ma non ha senso parlarne ora. Verrà il tempo.
E quello a mia disposizione adesso finisce nel momento in cui Fler e Chakuza fanno il loro ingresso nel mio ufficio, scompigliati e trafelati, scusandosi con tutti a destra e a manca. È abbastanza ovvio cosa abbiano avuto di così urgente da fare per non riuscire a presentarsi qui in orario. È ovvio non soltanto nel modo in cui si comportano o nel modo in cui sono conciati, ma nel modo in cui si sfiorano casualmente, si guardano, si sorridono, si parlano.
È inevitabile, per me, essere un po’ geloso. Stranamente, nei confronti di entrambi. Ma non m’importa più quando Fler si fa avanti e sorride, brandendo una penna.
- Dove devo firmare? – chiede.
- Sì, diamoci una mossa. – borbotta Chakuza, - Abbiamo tutti di meglio da fare.
Bill si lascia sfuggire una risatina divertita. Ed io faccio lo stesso, porgendo a Fler il suo contratto ed indicandogli il punto esatto in cui deve mettere la firma.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Fler/OMC.
Rating: NC-17
AVVISI: Slash, Lime, OC, Angst, What If?.
- "Avrei dovuto cambiare aria, magari perfino nazione, provare nuove collaborazioni – in Francia, per dire, fanno un ottimo rap" - Run Around In Circles ('Til I Run Out Of Breath)
Note: Allora, seguitemi e non confondiamoci XD Questa shot è una What If? rispetto alla saga. Ciò che avviene in questa storia non è che un'ipotesi, un qualcosa che avrebbe potuto verificarsi ma non s'è mai verificato, il ricamino di una fangirl (me stessa XD) su un'ipotesi solo paventata nella scorsa shot della LTP - che poi è la citazione che ho riportato nel riassunto.
Ambientato nel periodo in cui i ragazzi non si sono ancora ritrovati, e perciò a David non è ancora capitato niente. Mi raccomando, ripeto, non confondiamoci e teniamo ben separati ciò che succede in questa shot da tutto il resto XD Sono entrambe fantasie, ma questa è più fantasia dell'altra.
Partecipante altresì alla Maritombola @ maridichallenge su prompt "Ogni inizio infatti è solo un seguito, e il libro degli eventi è sempre aperto a metà." (Wislawa Szymborska)
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
A BEAUTIFUL LIE
"Ogni inizio infatti è solo un seguito, e il libro degli eventi è sempre aperto a metà." (Wislawa Szymborska) @ Maritombola

Quando mi sveglio, come prima cosa allungo il braccio alla mia destra, e cerco il corpo di Danny sul materasso al mio fianco. Non dormiamo mai particolarmente vicini, il che per me è un dettaglio abbastanza nuovo, visto che tutti e due gli altri maschi coi quali ho dormito nel corso della mia esistenza avevano questa tendenza piuttosto spiccata ad arrotolarmisi addosso il più possibile.
Danny non è così. Ha, probabilmente, una visione molto meno romantica, per così dire, del dormire insieme. È capace di starmi vicinissimo durante il giorno, appiccicarmisi addosso in momenti decisamente poco opportuni, saltarmi sulle spalle mentre sto facendo tutt’altro e Dio solo sa quanto gli piace starmi il più vicino possibile quando scopiamo, ma mentre dormiamo? Mentre dormiamo sostanzialmente se ne frega di dove cade il suo corpo appena chiude gli occhi. È incosciente, in ogni caso, per cui perché crucciarsi domandandosi se mi stia abbracciando o si stia facendo abbracciare nel modo giusto, o preoccupandosi della possibilità di rimanere per tutta la notte immobile nella stessa posizione e svegliarsi l’indomani mattina con un braccio o una gamba anchilosati?
Il suo è un ragionamento molto pratico, molto terra terra, incredibilmente concreto e adolescente. Non c’è nessun motivo di dimostrarci niente neanche in generale, ma pretendere di dimostrarci qualcosa stringendoci l’uno all’altro mentre dormiamo è davvero troppo ridicolo, per il suo modo di vedere le cose.
È terribilmente divertente osservarlo mentre mette in pratica questi ragionamenti: quando sarà più grande, quando avrà corso innumerevoli volte il rischio di vedere le persone che avrà amato scivolargli via di mano, stringersele contro durante la notte per evitare di lasciarle volare via sarà l’unico pensiero che lo porterà a chiudere gli occhi serenamente quando dovrà dormire. Ma ora ha diciassette anni, non ha mai amato nessuno né tantomeno ha rischiato di perderlo. È naturale che pretenda i suoi spazi per dormire comodo.
Naturalmente, per me la situazione è un po’ diversa. Io ho amato molte persone e le ho perse praticamente tutte, si sia trattato di amicizia o amori veri, perciò non riesco ad essere spensierato come riesce lui. È più facile non pensarci quando non resta a dormire con me – spesso, probabilmente, lo rimando a casa sua proprio per questo – ma quando rimane qui mi capita spesso durante la notte di svegliarmi di soprassalto solo per verificare che lui ci sia ancora. O svegliarmi presto al mattino, come adesso, ed allungare subito un braccio alla ricerca del suo corpo.
La nota positiva è che non mi è mai capitato di non trovarlo, le volte in cui una cosa del genere è successa. E anche adesso funziona allo stesso modo: il suo corpo è proprio qui, solo apparentemente immobile fra le lenzuola. In realtà Danny tende ad essere molto irrequieto anche quando dorme, perfino quando il suo è un sonno tranquillo, perciò non è che si possa dire, perfino adesso, che lui stia fermo.
Mi rigiro su un fianco e lo osservo attentamente nella luce fioca che passa in rivoli minuscoli attraverso le imposte serrate, e nei pochi secondi in cui lo guardo lui riesce a cambiare posizione, scalciare un paio di volte, tirarsi via metà coperta di dosso perché sente caldo e fare una smorfia e sbuffare per liberarsi da una ciocca di capelli che, mentre si muoveva, è sfuggita al codino e gli è scivolata sul naso. E lo ripeto, oggi, rispetto ad altri giorni, è tranquillo.
Sollevo una mano e scivolo con la punta delle dita lungo il profilo del suo viso, sulla sporgenza ossuta della clavicola giù lungo il petto tonico e magro e sulla pancia piatta, fino all’incavo dell’ombelico proprio sopra la curva un po’ più rotonda e morbida del suo bassoventre. Lui si sposta impercettibilmente, tremando appena sotto il mio tocco, ma non si sveglia. La mia mano risale su seguendo lo stesso percorso all’inverso, e poi si ferma all’altezza del suo naso. Sorrido, stringendo le sue narici fra il pollice e l’indice.
Lui resta tranquillo per un paio di secondi, mentre il sorriso sulle mie labbra si allarga. Poi aggrotta le sopracciglia, le guance cominciano ad arrossarglisi e infine spalanca gli occhi e le labbra all’improvviso, gettando in giro braccia e gambe alla rinfusa nel tentativo di liberarsi del suo assassino misterioso mentre io, avendo ottenuto ciò che volevo, lo lascio finalmente libero di respirare, ritraendo la mano.
- Ma sei pazzo? – sbotta arrabbiato, tirandomi uno schiaffo in piena fronte, - Potevo restarci secco.
- Sì, ti avrei ucciso nel sonno e poi ti avrei fatto a pezzi. – annuisco io, afferrandolo per il polso e torcendogli un po’ il braccio mentre me lo tiro contro, finché non lo sento lamentarsi con una serie di “ahi, ahi, ahi!” di protesta, - Poi parte di te sarebbe finita in fondo al canale. E qualcosa l’avrei tenuta per ricordo, non si sa mai.
- Sei uno stronzo maniaco e sadico. – sentenzia lui, dandomi una testata, - E mi lasci? Mi stai facendo un male cane!
Rido un po’ e lo ribalto sul materasso, sovrastandolo col mio corpo ed impedendogli di muoversi ancora mentre con una mano scivolo lungo il suo fianco, sfiorando una delle numerose cicatrici che segnano la sua pelle.
- Credevo che queste dimostrassero che sei abituato a sopportare ben altri dolori. – dico, guardandolo dritto negli occhi. Lui ha un sussulto e trema non appena le mie dita un po’ ruvide ripercorrono il tratto di pelle ipersensibile sopra l’anca. Lo stesso che ho sfiorato la prima volta che è venuto a casa mia, intenzionato a convincermi a scoparlo. Lo sento sciogliersi sotto la mia carezza e diventare immediatamente duro sotto di me, ed è allora che mi scosto, rotolando sulla schiena e poi giù dal letto. – Ti conviene muoverti, - dico quindi, stiracchiandomi un po’ sotto il suo sguardo confuso e lucido di voglia, - o farai tardi a scuola.
- Non devo andare a scuola! – protesta con veemenza, - Siamo in vacanza dall’altro ieri, e soprattutto non posso credere che mi avresti davvero fatto venire voglia di scopare per poi buttarmi fuori così senza un pensiero!
- Dannazione. – borbotto io, fingendomi estremamente preoccupato, - Era esattamente il mio piano. L’assoluta impreparazione del sistema scolastico tedesco manda a monte tutto, però. Dovrò trovare qualche altro motivo per buttarti fuori di casa.
- Sei. Uno. Stronzo. Maniaco. E. Sadico. – ripete lui, scandendo bene le parole e poi gettando scompostamente le gambe giù dal letto per mettersi in piedi, - Ed io palesemente non voglio più avere a che fare con te per le prossime dieci ore almeno, per cui mi troverò di meglio da fare. – annuisce deciso. – Vado a farmi la doccia, tanto per cominciare. – annuncia dirigendosi speditamente verso il bagno.
Io sorrido, sedendomi sul bordo del letto per fare mente locale e decidendo che quest’operazione può aspettare, dopotutto: lascio passare cinque minuti, giusto per essere certo che Danny sarà già sotto la doccia quando mi sarò mosso, e poi mi alzo in piedi e lo raggiungo, cercando di fare il minor rumore possibile. Serve a poco, comunque: Danny sente spessissimo anche un sacco di suoni minuscoli, una cosa che immagino abbia imparato a fare per preservare per quanto possibile la propria sopravvivenza, motivo per il quale appena scosto la parete scorrevole trasparente ed entro nella doccia al suo fianco lo trovo già sorridente che mi dà le spalle solo per dimostrarmi quanto se lo aspettasse e quanto la cosa non lo colga nient’affatto impreparato.
- In realtà sono io che non potrei stare lontano da te per dieci ore. – gli sussurro sulla pelle, abbracciandolo da dietro mentre lui rilascia il capo contro la mia spalla e chiude gli occhi.
- Infatti era inteso come una vendetta nei tuoi confronti. – mi spiega a bassa voce, mentre le mie mani scivolano giù lungo il suo ventre e prendono a giocare distrattamente con la sua erezione, - Per aver cercato di soffocarmi nel sonno.
- Penso di poter chiedere una riduzione della pena, se prometto di occuparmi di un po’ di servizi sociali adesso. – ipotizzo, stringendolo piano fra le dita e muovendomi lentamente avanti e indietro, finché lui non prende a seguire il mio movimento con spinte regolari del bacino. – Facciamo che stai via cinque ore e poi ci si vede di nuovo?
Lui mi si rigira fra le braccia, schiacciandosi contro di me. Si avvicina abbastanza da fare in modo che le nostre erezioni si tocchino, e poi le avvolge entrambe con una mano, strofinandole contemporaneamente fra le dita e l’una contro l’altra.
- Hai da fare? – mi chiede sulle labbra, mentre io lo spingo contro la parete piantando entrambe le mani sulle piastrelle bagnate ed un po’ scivolose per muovermi con più forza contro di lui, - Perché se sei libero posso anche restare. Annulliamo la pena. Facciamo che invece di stare via cinque o dieci ore la sconti scopandomi cinque o dieci volte.
- Mi vedo costretto a declinare l’offerta. – rido appena, senza fiato, mentre lui passa il pollice sulla punta del mio cazzo facendomi rabbrividire di piacere, - Ho da fare, sì.
- Potrei aspettarti qui. – dice lui, sollevandosi abbastanza per sfiorarmi l’orecchio con le labbra, - Nudo, ad esempio.
- Oppure, - rido ancora, scivolando con le mani lungo la sua schiena ed afferrandogli le natiche con decisione, stringendole fra le dita, - potresti uscire da questa casa e provare ad avere una vita, ogni tanto.
- Ora mi si ammoscia. – mi avverte lui, roteando gli occhi, - Cristo, quanto sei palloso.
- Davvero. – sorrido sul suo collo, mentre le mie dita si avventurano lungo il solco fra le sue natiche, sfiorando decise la sua apertura, - Ho un po’ di cose da sistemare. Preferirei non averti tra i piedi mentre lo faccio.
- Stai peggiorando la situazione. – si lagna, continuando a strusciarsi contro di me, - Voglia di scopare in questo momento uguale a zero, più o meno.
Mi allontano un po’, una cosa praticamente impercettibile, ma è abbastanza perché le sue braccia scattino a stringermi attorno alle spalle per impedirmi di allontanarmi ancora.
Sorrido, poggiando la fronte contro la sua, le punte dei nostri nasi che quasi si sfiorano.
- Stai mentendo. – sussurro prima di baciarlo.
Ovviamente ho ragione, perché nel momento stesso in cui la mia lingua prende ad accarezzare la sua Daniel smette di lagnarsi, e non solo perché adesso ha la bocca occupata. Chiude gli occhi e si abbandona completamente a me, con una fiducia cieca che non manca mai di stupirmi. Con Daniel è tutto molto più incerto e flessibile di quanto non sia mai stato con altre persone, perciò ogni singola cosa che faccio con lui è molto più preziosa, perché non è mai routine. È sempre un qualcosa che è accaduto all’improvviso dopo chissà quanto tempo che non accadeva, e tu non puoi fare a meno di cercare il più possibile di assaporare il momento, perché chissà quando ricapiterà.
E davvero non capita spesso che lui si metta nelle mie mani in maniera così totale. Ci sono volte in cui è tremendamente dispotico, sia che stia sotto sia che stia sopra, ce ne sono molte altre in cui è semplicemente partecipe, gioca con me nello stesso modo in cui io gioco con lui, e poi ci sono volte come questa in cui si lascia andare, stabilisce che può mollare la presa sul suo senso del controllo per un po’ e può lasciar fare a me.
Lo sollevo appena, appoggiandolo contro la parete ed aspettando che abbia stretto le gambe attorno ai miei fianchi prima di cercare in un colpo secco la via per il suo corpo, nel quale affondo senza timore, godendo del sospiro arreso che esala gettando indietro il capo ed allacciandomi al collo. Gli ricopro il petto ed il collo di baci, spingendomi con forza dentro di lui mentre il suo bacino viene incontro al mio in gesti rapidi e fluidi. Mentre lui geme il mio nome e mi accarezza la nuca, io penso al borsone che sto tenendo pieno per metà nello stanzino in fondo al corridoio da ormai una settimana. Penso allo zainetto nuovo che ho comprato l’altro ieri tornando a casa una sera e penso a quel paio di magliette palesemente troppo piccole per me che ho avvolto in un sacchetto di plastica e ho lasciato là dentro. Mi chiedo come farò questo pomeriggio quando sarà tornato a dirgli ciò che devo dirgli, come farò a trovare il coraggio di chiedergli ciò che devo chiedergli, e poi Danny geme ancora, con più forza, ed ogni muscolo del suo corpo si tende sotto le mie dita, ed io smetto di pensare a cosa dovrò fare fra cinque ore per concentrarmi su ciò che devo fare adesso. Voglio che esca sorridendo, da questa casa. Perciò mi impegno a farlo bene.
*
Danny è già uscito da un’oretta abbondante quando mi decido a tirarmi su dal divano e darmi una mossa. La verità è che se ho aspettato così tanto è che non ho la minima idea di cosa dovrei fare. Altre volte, in passato, m’è capitato di desiderare di partire, di andare via. Un anno fa l’ho desiderato così tanto che il pensiero si era radicato in me molto profondamente, al punto che credevo di essermi davvero organizzato per farlo, ma non era così. Il borsone era pronto, è vero, ma è facile infilare qualche vestito e della biancheria in uno zaino e metterlo in un angolo, dove puoi vederlo, di modo che passandoci di fronte tu possa ripeterti che sì, è vero, sei ancora lì, ma ciò non vuol dire che tu non abbia palle per partire, perché visto? I bagagli sono lì, pronti!
Non è così, naturalmente. I bagagli sono lì pronti solo per finta, tu non sei organizzato, non stai davvero pensando a niente e se passasse qualcuno e ti mettesse in mano cinquecento euro dicendoti espressamente che puoi usarli, ma solo per partire, non avresti idea di dove andare. Perché non ci hai pensato, l’unico posto in cui vuoi andare è quello in cui sei, che guardacaso è anche il posto da cui vuoi scappare, il che è veramente un casino.
Perciò sì, un anno fa io stavo spesso a ripetermi che sì, entro un paio di giorni, una settimana al massimo, sarei partito. E avevo il mio borsone pronto proprio accanto al letto, c’inciampavo quasi ogni mattina quando mi svegliavo, perché avevo bisogno di averlo in mezzo ai piedi per ricordarmi che esisteva, non mi bastava tenerlo nell’angolo, dovevo rischiare di spaccarmi l’osso del collo travolgendolo, o lo dimenticavo nel giro di tre minuti. Però non avevo niente di più concreto oltre questo, non avevo un piano, non avevo una destinazione, non avevo delle tempistiche, non avevo un’organizzazione. Tant’è vero che ho atteso che fosse Sido a fornirmela, peccato che poi sia arrivata un po’ in ritardo, ed Anis, per allora, fosse già tornato in vita.
Si sarebbe comunque trattato solo di un tour, un qualcosa di molto breve e con un termine ben preciso, per non parlare del fatto che in realtà poi si sarebbe svolto tutto in Germania, quindi sarebbe un po’ stato come girare attorno al problema senza saper decidere se affrontarlo o allontanarsene definitivamente, quindi, alla fine, suppongo sia stato meglio in quel modo. Allontanarmi dal problema abbastanza per credere che potesse andare meglio e poi ripiombare nel baratro non appena avessi rimesso piede a Berlino non sarebbe stato tanto piacevole, quindi sono quasi certo, anzi, sono proprio certo che sia stato meglio rimanere, osservare la situazione finché non è stata portata alle sue estreme conseguenze e, be’, a quel punto, decidere.
Che poi è quello che ho fatto io adesso.
Abbasso lo sguardo, lanciando un’occhiata ai biglietti aerei per Parigi che tengo in una busta sul palmo della mano. Su un foglietto di carta, che tengo in quella stessa busta, ho l’indirizzo e il numero di telefono dell’albergo nel quale ho prenotato una stanza per un paio di settimane, e salvato sul cellulare ho un altro numero che invece appartiene a un tizio che lavora per la Fédération Nationale de l’Immobilier al centoventinove di rue du Faubourg St. Honoré. Pierre, così si chiama il tizio, è stato molto gentile e carino quando abbiamo parlato al telefono. Ha parlato in inglese e molto lentamente, così che io potessi andargli dietro senza difficoltà eccessive. Jost me l’aveva detto che avrebbe fatto al caso mio. Io ho detto a Jost che lo ringraziavo ma gli sarei stato anche più grato se avesse mantenuto un certo riserbo su tutta la questione. Lui ha inarcato un sopracciglio e mi ha guardato come avessi detto una cosa molto, molto stupida, e la discussione s’è chiusa lì.
In ogni caso, Jost e le sue innumerevoli conoscenze nelle comunità gay di tutta Europa a parte, il succo della questione è che stavolta sono organizzato. Lo sono davvero. Non solo so dove andare, ma ho appuntamenti precisi, date fisse, luoghi in cui devo presentarmi, persone con le quali devo parlare, questioni che dovrò risolvere, prospettive di contratti da firmare. Roba eccezionalmente seria. Roba che se penso alla prima persona che vorrei con me quando sarò lì a dover fare tutte queste cose, il primo nome che mi viene in mente è il nome sbagliato.
Il secondo, però, è il nome di Danny. E non è detto che una domanda non possa avere due risposte giuste, dopotutto.
*
Giugno è già cominciato da un paio di giorni, e in giro per le strade ogni tanto si vedono fare capolino segnali dell’estate imminente. Sono soltanto avvertimenti, perlopiù molto blandi. Ogni tanto il sole ti batte sulla pelle con un po’ di forza in più rispetto a quella con cui s’è fatto sentire fino ad adesso, gli strati di vestiti che la gente si porta addosso si riducono gradualmente, c’è perfino qualche coraggioso che già va in giro in maglietta, con le maniche tirate su fino ai gomiti. Lo vedi rabbrividire appena e poi farsi forza e continuare a camminare con un sorriso smagliante stampato sulle labbra, perché alle volte non è importante che non ci sia freddo, alle volte conta molto di più la consapevolezza di riuscire a gestirlo, di potere andare in giro con le maniche arrotolate e magari non morire di caldo, ma non morire nemmeno congelato. Alle persone, ho scoperto, tenere sotto controllo le cose piccole e insignificanti come queste fa bene. È sistematicamente quando cerchi di controllare le cose più grandi e importanti che ti sfugge tutto di mano. Questa è la lezione che ho imparato negli ultimi due anni, una lezione di cui intendo fare tesoro ora che sto per fuggire dal posto che me l’ha insegnata.
Per prima cosa, vado da Bill. Arrivo fino al suo appartamento, busso più volte e nessuno risponde, per cui chiamo Tom ed è lui a dirmi, abbassando la voce fin quasi a non farsi sentire più, che suo fratello s’è trasferito a casa sua per un po’. Stanno organizzando un viaggio, mi dice, non una cosa breve, e comunque Bill per ora non può stare da solo. Io annuisco e lui mi ringrazia per essermi preoccupato, e sento distintamente che sta per chiudere la conversazione. È allora che gli dico che sto passando per un saluto, e per molti secondi lui nemmeno riesce a rispondermi. Immagino sappia, voglio dire, suo fratello deve avergli spiegato, in qualche modo, che nel lungo elenco di persone dalle quali Bill deve stare lontano al momento figuro anche io, seppure per motivi che col rapporto che io e Bill avevamo prima di tutto questo non c’entrano niente. È per questo motivo che ora Tom vorrebbe dirmi “ma sei matto?” e rispedirmi a casa mia con un paio di metaforici calci in culo, ma non lo fa. Perché è Tom, perché è un ragazzo intimamente molto buono, molto soffice, e perché quando si parla di me la parola soffice non basta nemmeno più a descriverlo. Perciò, si limita ad annuire mestamente e dirmi “ok, ci vediamo fra poco”. Lo dice così frettolosamente che quasi riesco a vedere le rotelle del suo cervello muoversi forsennatamente mentre lui cerca di trovare un modo adatto per comunicare il tutto a suo fratello senza generare un’Apocalisse. Sorrido un po’, anche se non dovrei.
Sono lì in un quarto d’ora circa. Visto che non sono nemmeno le undici e mezza, passo da una pasticceria e compro qualcosa di buono da mangiare. Un intero vassoio di paste assortite. Bill molto probabilmente non avrà alcuna voglia di mangiarle, ma mi sembra poco carino presentarmi per dire che partirò, molto probabilmente per sempre, senza neanche portare un regalo. Quando ci rifletto mi sembra poco carino anche portare un regalo, per la verità, ma ormai il danno è fatto, Tom apre la porta e per un attimo guarda solo me, dopodiché i suoi occhi cascano sul vassoio che tengo in equilibrio sul palmo della mano e il suo viso si illumina di un sorriso festoso.
- Hai portato dei dolci! – constata con entusiasmo, prendendo il vassoio fra le mani e facendomi strada in casa. – Bill è un po’ così. – mi dice subito, come mettendo le mani avanti, poggiando il vassoio sul tavolo e scartandolo. – Oddio, quanta roba buona… - miagola sognante, e prende una pasta alla panna e fragoline prima di tornare a guardarmi, - Non sono sicuro che voglia vederti, ma di sicuro non vuole non vederti. – dice con aria un po’ confusa, staccando un morso dal pasticcino e masticandolo con lenta soddisfazione. – Per cui niente, ora te lo chiamo, però vuole che resti mentre parlate. Per te va bene?
Sorrido ed annuisco, Tom manda giù il pasticcino in un altro morso e ne prende un altro prima di girare sui tacchi e scomparire in corridoio. Quando torna, il pasticcino non è più fra le sue dita, bensì fra quelle di Bill, che lo stringe con disinteresse, stando attento solo a non sporcarsi. Ha le labbra piegate in un sorriso sottile, ma distoglie lo sguardo con ostinazione mentre si siede sul divano. Io mi seggo accanto a lui e Tom si stabilisce dietro al tavolo, su una sedia, avvicinandosi il vassoio e ricominciando a mangiare dolci lanciandoci di tanto in tanto occhiate attente da supervisore.
- Come mai sei qui? – chiede Bill. I suoi occhi sono ancora distanti dai miei, e penso proprio che non riuscirò ad incontrarli per oggi.
Devo dirglielo.
- Sono solo passato a salutare.
Non glielo dico.
- …oh. – sussurra lui, guardando il pasticcino e poi allungandosi a posarlo sul tavolino basso di fronte al divano, facendo attenzione a non rovesciarlo. – È… tutto a posto, sì? In generale, dico.
- Non posso parlare per gli altri, perché non li sento da un po’. – rido appena, grattandomi nervosamente la nuca, - Ma io sto bene, sì.
Bill sorride con più sicurezza, anche se tutto, in lui, in questo momento, ha un che di nostalgico e lontano, quasi antico. Da quale quadro sei sbucato fuori, ragazzino? Da quale passato che io non conosco?
- Anche io sto bene. – mi dice. So che lo fa solo per rassicurarmi, me ne rendo conto subito perché Tom, trangugiando un bignè alla crema, inarca un sopracciglio con aria scettica, pure se fa di tutto per darci a intendere di non stare origliando. – Penso che la scelta che abbiamo fatto sia stata quella giusta. – continua, annuendo a se stesso. Io sorrido e mi alzo in piedi.
- Bene. – dico, spiegando i pantaloni lungo le gambe, - Allora direi che vado. Ho ancora un mucchio di cose da fare, non vorrei non riuscirci.
Bill solleva lo sguardo repentinamente, cambiando espressione all’improvviso. I nostri occhi si incontrano ed io nei suoi leggo la paura riflessa dai miei, quella che dice che guardandomi, adesso, lui possa capire quello che gli ho nascosto nonostante fossi venuto qui proprio per salutarlo un’ultima volta.
- …ma sei appena arrivato. – dice invece soltanto lui, mordendosi appena un labbro subito dopo aver finito di parlare. Io sorrido con indulgenza, mentre Tom tira un inaspettato quanto rumoroso sospiro di sollievo. Gli scompiglio i capelli.
- Volevo solo passare per un saluto, comunque. – dico dolcemente, e poi lancio un’occhiata al pasticcino ancora sul tavolino. – Mangialo qualche dolcetto. – consiglio, - Sono buoni.
- Confermo. – annuisce Tom, ingollando il quindicesimo nel giro di dieci minuti. Io rido per qualche secondo, ed osservo Bill chinarsi verso il pasticcino e poi infilarselo in bocca in un sol gesto, come avesse paura di poter cambiare idea se avesse tentennato troppo. Fa fatica perfino a deglutire, il suo pomo d’Adamo fa su e giù per la sua gola con una lentezza esasperante, a un certo punto mi preoccupo pure, ma alla fine lui apre gli occhi e sorride, e lo fa guardando suo fratello, non me.
- È buono davvero. – dice, e Tom gli ricambia il sorriso. Credo che qui sia appena successo qualcosa che con la mia presenza non c’entra niente, credo di aver aiutato una questione di cui ero completamente all’oscuro a risolversi. – Io torno di là. – riprende Bill, e quando si volta a guardarmi, stavolta, è sereno. – A presto, Patrick. – mi saluta. Passa a prendere un altro pasticcino, prima di allontanarsi nuovamente verso camera propria.
Tom si alza dal tavolo, prende un altro bignè e, visto che ne sono rimasti giusto un paio, conserva il resto. Mangia quello che tiene in mano in un morso solo e mi accompagna alla porta. Sorride, restandovi appoggiato mentre mi osserva chiamare l’ascensore.
- Grazie, eh. – dice, salutandomi con un cenno del capo. Io ricambio con un gesto della mano, so che sta ringraziando per un sacco di cose, molte delle quali non saprò mai, e mi sta bene.
*
Mentre salgo in macchina e m’incammino verso casa di Bushido, mi dico che a lui devo proprio dirlo. Me lo dico con una certa convinzione, del tipo che lo so che non posso abbandonare la Germania per sempre senza quantomeno fargli sapere che sto per farlo. Lo so come si sanno quelle cose certe dell’esistenza, quelle che sono conseguenze immediate delle azioni che compi. Metti il dito sul fuoco, ti bruci. Esci senza ombrello mentre di fuori infuria la tempesta, ti bagni. Vai da Chakuza una sera che è solo e non ti vede da tre o quattro ore, si scopa. Allo stesso modo, se decidi di partire per Parigi lasciandoti dietro tutta la tua vita, lo dici a Bushido. Certo, forse quest’ultima questione è un po’ meno ovvia delle altre, per quanto riguarda tutto il resto del mondo. Un perfetto sconosciuto, se decide di trasferirsi da Berlino a Parigi, non è che deve andare da Bushido a notificarglielo. Io sì, però, perché io sono Fler, non sono un perfetto conosciuto, ed anche quando eravamo in guerra stavamo bene attenti a dire sempre ad alta voce dov’è che stavamo andando, se andavamo da qualche parte, così che l’altro potesse saperlo, potesse tenerci d’occhio.
Per cui adesso che mi fermo davanti al cancello di casa sua, parcheggio la macchina all’esterno e mi avvicino al citofono per suonare, lo faccio pensando che non ci sono cazzi, a Bushido lo devo dire, devo e basta.
Aspetto un po’, e sono talmente preparato a rispondere “Fler” quando lui chiederà “chi è?” che non mi accorgo nemmeno che lui invece non me lo chiede. Probabilmente perché vede che sono io nello schermo del videocitofono, si risparmia la domanda ed apre direttamente il cancello, ed è mormorando un “Fler” perfettamente inutile che io lo spingo e mi avvio per il sentierino ghiaioso che conduce verso la porta di casa, sulla quale lui mi aspetta, una mano sullo stipite e l’altra stretta convulsamente attorno alla maniglia, quasi tutto il corpo proiettato all’esterno, in allarme. Sorrido appena, per cercare di tranquillizzarlo. Gli ho parlato, prima di perdersi di vista, gli ho spiegato perché sarebbe stato meglio tagliare un po’ i fili, quindi è naturale che ora, lui, vedendomi tornare qui così presto, non possa che pensare al peggio.
Nota il mio sorriso sereno, comunque, e si rasserena a propria volta. La presa sullo stipite ed attorno alla maniglia si fa più morbida, e tutti i suoi lineamenti si fanno meno tesi, mentre la sua espressione, da stupita e preoccupata, si fa semplicemente sorpresa, forse anche un po’ curiosa.
- Volevo chiederti se era successo qualcosa, - comincia lui, inarcando un sopracciglio, mentre si scosta dalla soglia per farmi passare, - ma a guardarti non si direbbe.
Io ridacchio un po’, entrando in casa e guardandomi intorno prima di rispondere. L’ultima volta che sono stato qui, c’era Bill che piangeva sul divano ed è stato il momento in cui ho deciso che tutto quello che avevo vissuto negli ultimi due anni non era una motivazione sufficiente per continuare a torturarmi. Ho deciso che dovevo darci un taglio, ed ho costretto tutti a farlo. Alle volte mi chiedo se sarebbe andata allo stesso modo se, invece di parlarne solo con Bill, che in quel momento era evidentemente troppo fragile e perso per contestare ciò che avevo da dire, ne avessi parlato allo stesso tempo anche con Bushido e Chakuza, prima di prendere una decisione definitiva. Probabilmente no, non sarebbe andata allo stesso modo. È una fortuna che invece sia andata così.
- No, non è successo niente, infatti. – dico, aggirandomi per la stanza con aria curiosa. Ricordo bene tutti i particolari di quel giorno, ed ogni cosa è ancora esattamente com’era allora. Sono passati tre mesi, quasi, ed è come se in questa stanza non fosse successo niente da quel giorno fino ad oggi.
- E quindi… - azzarda lui, avvicinandosi con fare circospetto, - …come mai sei qui?
Mi inumidisco le labbra, voltandomi a guardarlo. Devo dirglielo. Coraggio. Adesso glielo dico.
- Sono passato solo per un saluto. – rispondo invece. E non lo dico neanche a lui.
Bushido inarca nuovamente il sopracciglio, stavolta palesemente perplesso. È ovvio che non crede a una parola, mi conosce troppo bene per farlo. Per qualche motivo, però, non si sente abbastanza sicuro del proprio intuito da azzardare un terzo grado. Oh, riuscirebbe a tirarmi fuori di bocca qualsiasi cosa, se solo volesse, ma probabilmente non vuole. O forse non sente più di averne il diritto. Qualche anno fa si sarebbe concesso di spremermi fino al midollo anche solo per divertirsi a vedermi arrabbiato o in difficoltà, ma ora no, ora si trattiene. Abbassa lo sguardo, che è una cosa che non ha mai fatto di fronte a nessuno, tantomeno a me, e sospira.
- Ti va un caffè? – mi chiede distrattamente. Io annuisco. Potrebbe chiederlo a Karima e restare qui mentre prendo posto sul divano e continuo a guardarmi intorno come un ospite casuale, ma il fatto è che lui non vuole restare qui, per cui a preparare il caffè ci va da solo, e questo comporterà il dover bere un caffè orribile solo perché lui si sente a disagio. Quest’uomo non ha smesso di condizionare il buonumore del prossimo suo basandosi sui propri sentimenti, è evidente. La giornata era partita così bene, e invece ora mi tocca bere del caffè disgustoso.
Torna più di cinque minuti dopo, col caffè già nelle tazzine posate su un vassoio circolare in legno chiaro. Lo appoggia sul tavolino e si siede sul divano accanto a me, recuperando la propria tazzina e sorseggiando il caffè in silenzio senza guardarmi, prima di abbandonarsi a un mezzo sorriso.
- Cosa? – chiedo io, sorridendo a mia volta. Lui finalmente mi guarda.
- Mi stai prendendo per il culo. – dice con estrema tranquillità, - Questa cosa non è normale, e se dici che non è successo niente allora lo stai facendo per prendermi per il culo. Cos’è, un test? Volevi verificare che fossi davvero solo e non con Bill o chiuso in uno sgabuzzino a infierire sulle spoglie mortali di Chakuza?
Aggrotto le sopracciglia, allungandomi a recuperare la tazzina e bevendo il caffè tutto d’un fiato prima di tornare a guardarlo.
- Ti giuro che non volevo controllarti. – ribatto pacatamente, - Non mi è mai neanche passato per l’anticamera del cervello. Volevo solo salutarti.
- E perché? – insiste lui, continuando a guardarmi con calma quasi eccessiva.
Perché sto partendo, Anis. Sto partendo, ho un aereo domani mattina alle dieci e non ho prenotato il volo di ritorno, perché un volo di ritorno non ci sarà. Sto partendo e non ci vedremo più e visto che cambierò numero probabilmente non ci sentiremo nemmeno più, e volevo andare via ricordandomi bene come sei e qual è il suono della tua voce, perché non capiterà più che possa passare da casa tua a salutarti semplicemente quando mi va, e pensavo fosse giusto farlo adesso che posso ancora, anche se questo tu non puoi saperlo, e se non tiro fuori le palle al più presto non lo saprai mai.
- Perché mi mancavi. – mento. Non è vero, Anis. Sono stato bene senza averti intorno. Sono stato bene senza avere nessuno di voi intorno. Mi sono concentrato su un mucchio di cose piacevoli e la mia vita è tornata tranquilla, per lo più. Mi dispiace che l’ultima cosa che tu debba sentire da me sia una bugia, proprio tu le bugie le odi. Ma in questo momento sento di dovermi proteggere, e questo è l’unico modo che riesco a pensare.
Lui sorride intenerito, allungando una mano ad accarezzarmi una spalla. Mi ci batte sopra anche un paio di pacche.
- Anche tu mi sei mancato, Frank. – dice con naturalezza, - Magari il peggio è passato. Noi due, dico, potremmo anche ricominciare a vederci. Saltuariamente. – aggiunge giusto per mettere le mani avanti quando, probabilmente, nota il mio sguardo che si incupisce.
Mi sforzo di sorridere, battendo un paio di volte la mia mano contro il dorso della sua e poi alzandomi in piedi.
- Sì, certo. – butto lì, - mi faccio sentire io. – dico, sperando che questo basti a tenerlo ben lontano dal mio numero per almeno un paio di settimane, giusto il tempo di stabilirmi a Parigi e cambiarlo. Lui annuisce subito, precipitosamente, come volesse dare ad intendermi di non aver mai voluto imporre la propria volontà sulla mia.
- Certo. – dice, alzandosi in piedi e seguendomi mentre mi avvicino alla porta, - Certo, naturalmente. Quando vuoi, io sono qui.
Annuisco ancora, aprendo la porta.
- Stammi bene. – dico, salutandolo con un mezzo abbraccio un po’ impacciato. Lui lo ricambia altrettanto goffamente, e poi mi osserva allontanarmi lungo il vialetto, verso il cancello.
- Non sparire! – mi urla, e poi ci ripensa. – Troppo a lungo. – aggiunge. Io rido un po’.
- Non sparisco. – lo rassicuro, ed è una menzogna anche questa. E visto che è proprio l’ultima cosa che gli dico, me ne vado in fretta, per non cedere alla tentazione di tornare indietro, dirgli tutto e poi implorarlo di darmi anche solo un motivo per restare.
*
Chakuza non risponde al citofono, ma contrariamente a Bill non possiede un fratello con una cotta per il sottoscritto che io possa chiamare per informarmi sul suo stato di salute e sulla sua presenza fra gli esseri umani, perciò dopo dieci minuti attaccato al campanello mi rassegno, recupero il cellulare e lo chiamo. L’idea di parlare con lui senza un filtro in mezzo mi spaventa un po’. Voglio dire, quando mi sono presentato da Bill lui sapeva già che sarei arrivato perché avevo parlato prima con Tom, e quando ho visto Bushido lui sapeva già che ero io perché mi aveva visto sul videocitofono, ma il telefono? È una cosa completamente diversa. Quando ti chiamano tu vedi il numero sul display, ma la chiamata è già in atto, hai pochissimi secondi per decidere se vuoi rispondere o meno, e quando a chiamare non è qualcuno che ti aspetti può diventare una paranoia non indifferente.
Immagino che sia per questo che a rispondere Chakuza ci mette le ore. Squilla almeno dieci volte prima che lui si decida a schiacciare il pulsante e sputacchiare un “pronto…?” totalmente confuso e anche un po’ spaventato.
- Ehi. – dico io sorridendo, cercando di suonare il più a mio agio possibile. Chakuza boccheggia per qualche istante.
- Fler? – chiede con sorpresa palese. Ha visto il mio nome, dovrebbe sapere che sono io, dovrebbe saperlo anche senza bisogno che glielo confermi, visto che ormai ha anche sentito la mia voce, ma l’eventualità che potessi chiamarlo doveva essere così remota, nella sua testa, da obbligarlo a domandare ancora, per esserne proprio certo.
- Già. – annuisco, - Ero passato da casa tua, ma non risponde nessuno, perciò immagino tu non ci sia. Dove sei finito?
Lui esita per una buona quantità di secondi, prima di rispondere.
- In Austria. – confessa quindi, - Alla fattoria dei miei.
Esito anch’io, mentre me lo vedo chiarissimo a tenere il cellulare fra l’orecchio e la spalla perché ha le mani impegnate a mungere una vacca.
- …in Austria? – domando sconvolto, - Ma sul serio?
Lui ride un po’, passando il cellulare da un orecchio all’altro e dimostrando perciò di non stare mungendo alcuna vacca.
- Sì. – risponde, sensibilmente più tranquillo rispetto a poco fa, - Ho pensato di prendermela qui, la mia pausa. Si sta bene, c’è un bel tempo, tanto sole e il giusto freschetto. Tu che mi dici?
Per un po’ non dico proprio un bel niente, perché scoppio a ridere. Oggi non l’ho ancora fatto, ed è una sensazione bellissima. Mi prende a tutto il corpo, mi piego in due e rido così tanto che comincia a farmi male lo stomaco, ma non è un dolore fastidioso. Un bel tempo, tanto sole e il giusto freschetto, Chakuza? Oh, Dio.
- Niente di che. – rispondo quindi, mentre lo sento borbottare rumorosamente dall’altro lato della cornetta, - Stavo solo… in Austria, Chaku, ma tu non sei mica a posto con tutte le rotelle! – dico, impossibilitato a trattenermi oltre, e riprendo a ridere come se non avessi mai smesso.
- Di’ un po’, ma lo sai che per prendermi per il culo stai spendendo un sacco di soldi? – mi fa notare lui, sempre con quel borbottio offeso che me lo fa immaginare già vecchio e con un’enorme barba bianca e la pipa in bocca. E la testa lucida, sempre.
- Sì, lo so. – dico, mentre l’accesso di risate comincia piano piano a placarsi. Mi rimetto dritto, asciugo una lacrima dall’angolo dell’occhio e penso che glielo voglio proprio dire, a Chakuza, che sto partendo. Non so perché, ma voglio farlo. – Volevo salutarti, - dico quindi, e per un attimo non riesco a credere che lo sto facendo davvero, - domani parto.
Chakuza si congela all’istante. L’atmosfera era rilassata fino a meno di un secondo fa, ma è bastato dire che sto partendo perché lui cambiasse subito atteggiamento e, immagino, anche disposizione nei confronti della vita in generale. Il fatto è che Chakuza è uno cui non devi mai togliere le sue certezze. Ne ha già poche, e quando gli togli pure quelle è il panico. Perciò lui è fuggito in Austria per non dovere avere a che fare ogni giorno col pensiero di essere a Berlino e non poter posare gli occhi su me o su Bill, ma non gli è mai passata per la mente la possibilità di tornare a Berlino e sapere che io o Bill – o perfino Bushido – non eravamo più lì. È come dirgli “guarda, finché sei là sui monti con Annette dove il cielo è sempre blu il sole continuerà a sorgere pacifico ogni mattina, ma quando sarai tornato a Berlino non aspettarti che continui a farlo, perché qui il sole non sorge più”. È una cosa completamente priva di senso che lui non riesce ad accettare, e probabilmente immagina che non l’avrei chiamato se fosse stato un breve viaggio, e cioè se avessi immaginato che per il suo ritorno sarei già abbondantemente tornato anch’io.
- Come sarebbe a dire che parti? – chiede allarmato, - Dov’è che vai?
All’improvviso, non ho più tanta voglia di parlargliene. Il suo tono apprensivo è di quelli che da soli sarebbero capaci di farmi promettere tutto e il contrario di tutto, pur di non sentirglielo più addosso. Non vado da nessuna parte, Chaku. Da nessuna parte.
- In realtà è una cosa temporanea. – abbozzo distrattamente, - Sono giusto un paio di settimane.
- Dove? – chiede subito lui, insoddisfatto.
- In un posto non lontano da qui, - invento di sana pianta, - un agriturismo. Ho avuto un po’ di problemi con Sido, ultimamente, e quindi abbiamo pensato di andare qualche giorno in vacanza, lui si porta dietro tutta la famiglia e andiamo in questo posto dove mangeremo bene e faremo lunghe passeggiate e la vita ci sembrerà più semplice e potremo risolvere tutti i problemi che abbiamo.
Lui mugugna un assenso indefinito, mentre io penso che non è neanche una cattiva idea, questa dell’agriturismo. Se avessi più tempo, probabilmente correrei all’Aggro adesso per proporglielo. Abbiamo avuto un po’ di scontri per questa questione di Nyze, ultimamente, ma resta uno che mi è sempre rimasto accanto, perfino in momenti in cui nemmeno Bushido ha voluto farlo. Mi dispiace non avere il tempo di salutarlo, mi dispiace che sia già tardi e mi dispiace pensare che in realtà anche questa telefonata è durata fin troppo. Devo darmi una mossa, fra poco Danny sarà a casa. Non ho più tempo davvero per niente, lo sto risparmiando tutto per averne il più possibile da domani in poi, quando il futuro mi si aprirà tutto davanti agli occhi in un posto nuovo e potrò ricominciare da zero. Alle volte sembra una cosa così faticosa da fare, mentre altre volte ancora è l’unica cosa che vuoi davvero. È l’unica cosa che voglio io adesso, almeno, e tanto mi basta.
Faccio per dirgli che, appunto, non ho più tempo, e quindi arrivederci e grazie, ma lui me lo impedisce, mettendosi a parlare all’improvviso.
- Volevi vedermi? – chiede serio, - Se sei passato da casa mia, immagino volessi vedermi. Posso essere a Berlino per domani alle nove, se vuoi.
Mi mordo un labbro. Se gli dicessi di sì adesso, avrei tutto il tempo, domani mattina, per vedere lui e poi partire comunque. Sempre che, dopo averlo visto, voglia ancora farlo. Ci rifletto, ci rifletto a lungo e per tutto il tempo mi dico da solo che non è una cosa veramente fattibile, che non dovrei neanche starci a pensare. Devo lasciare perdere, devo proprio, decisamente lasciare perdere. Alla fine, è solo amore. Quanta gente s’innamora, ogni giorno? Milioni di persone incontrano una persona e si innamorano, continuamente, è una cosa che si ripete all’infinito perché milioni di persone, continuamente, si lasciano anche. Non è niente di che. Me lo ripeto con convinzione. Non è niente di che.
- No, davvero. – sorrido, - Ero solo passato per un saluto. Goditi il tuo bel tempo, il tuo sole e il tuo freschetto, Chaku. Noi ci si becca appena torni.
Lui mugugna qualcosa che non capisco.
- Sarai lì, quando tornerò, giusto? – chiede per esserne certo.
Mento anche a lui. Mi pesa meno di quanto dovrebbe.
*
Danny torna a casa portando con sé due tranci di pizza di dimensioni enormi. Ogni pezzo di wurstel ha un diametro più ampio di quello del mio pollice. Posa il vassoio sul tavolo con un certo orgoglio, guardandomi con evidente soddisfazione mentre si siede e comincia sistematicamente a rubare tutti i wurstel da entrambi i pezzi di pizza.
- E questi? – chiedo, indicando il tutto con perplessità palese. Lui scrolla le spalle.
- Avevo voglia di un pranzo veloce. – risponde.
- E avevi anche soldi da buttare, immagino. – borbotto, mettendo automaticamente mano al portafogli per restituirgli tutto, - Quanto hai pagato?
- Neanche un centesimo. – dice lui, sorridendo candidamente, - Ho fatto addebitare tutto sul tuo conto, non ho neanche chiesto quant’era. Ho preso anche un paio di lattine di Coca, ma quelle le ho bevute entrambe in metro mentre venivo qui. – conclude annuendo, - Avevo sete.
- Ti si sarà bucato lo stomaco. – considero inarcando un sopracciglio, - Bene, quindi domani mattina fra le altre cose dovrò svegliarmi all’alba per passare dal fornaio a saldare il conto, prima di partire.
Daniel si ferma immediatamente, un wurstel ancora fra le dita e lo sguardo un po’ perso.
- Parti? – chiede quindi, simulando indifferenza. Riesco a sentire la tensione sottile nella sua voce, e ne sorrido.
- Aspettami qui. – gli dico, girando attorno al tavolo ed uscendo in corridoio. Vado fino all’ingresso e tiro fuori la busta coi biglietti dalla tasca del giubbotto appeso all’attaccapanni, e quando mi volto per imboccare il corridoio a ritroso lo trovo lì affacciato dalla porta della cucina che mi fissa con curiosità. – Ti avevo detto di aspettarmi lì. – ridacchio avvicinandomi e spingendolo nuovamente all’interno della stanza semplicemente avanzando verso di lui.
- Infatti ti ho aspettato qui. – annuisce lui, sedendosi mentre mi osserva fare lo stesso. – Che c’è in quella busta?
Prendo un gran respiro, aprendola e tirandone fuori i due biglietti per Parigi. Lui me li ruba dalle mani, guardandoli incerto. Nota subito che su uno dei due c’è stampato il suo nome.
- Non ti sto chiedendo niente. – mi affretto a rassicurarlo, - L’ho fatto solo nel caso tu volessi.
Lui resta zitto per qualche secondo, ma è un’esitazioni che sembra durare secoli. Mi sento sfuggire il tempo da sotto le dita mentre aspetto che dica qualcosa, e so che è così solo perché ciò che aspetto di sentirmi dire è la cosa più importante che abbia atteso negli ultimi mesi. È così fondamentale che da questo dipende tutta la mia vita, tutto il mio futuro. Io andrò via comunque, ma sarà diverso farlo da solo o farlo con Danny.
- …non c’è scritta la data di ritorno. – dice quindi, deglutendo forzatamente. Mi guarda dritto negli occhi, solo che non capisco cos’è che vorrebbe sentirsi dire in questo momento, per cui opto per l’unica cosa certa che so, cioè la verità.
- Sì, non c’è una data di ritorno. – dico tutto d’un fiato, - Mi sto trasferendo, Danny. È la prima volta in vita mia che non mi sento a posto con questa città, e non ci voglio più stare. Mi rendo conto di quanto sia infantile, cioè, a volte mi sembra infantile, a volte no, in questo momento sì, ma stamattina no, e nemmeno quando facevo il biglietto, ma non cambia la sostanza dei fatti che io qui non ci voglio stare più, e mi trasferisco. E sarei felice se tu volessi venire con me, ma ti capirò se non vorrai.
Lui fa un’altra pausa, torna a scrutare i biglietti, se li rigira fra le mani.
- Sono per domani alle dieci e mezza… - sussurra incerto.
- Lo so. – annuisco io, - È una cosa improvvisa, ti sto chiedendo di prendere una decisione molto in fretta. Ma ehi, guarda che non c’è niente di definitivo, nella vita, voglio dire, magari arrivo là e i francesi mi stanno tutti sul cazzo a pelle. O magari no, ma se non ti va di venire subito puoi restare e fra una settimana o due o tre o quando vuoi non ci metto niente a farti avere un biglietto per raggiungermi, intendo, non sto mica andando in Patagonia, la Francia non è così lontana da qui, e—
- Non avrò il tempo di tornare a casa a prendere la mia roba. – dice lui, interrompendo il mio fiume di parole confuso ed anche vagamente privo di senso. Lo guardo.
- Cosa? – chiedo.
- Non avrò il tempo di tornare a casa a prendere la mia roba. – ripete Daniel, - È sabato, mio padre starà lì tutto oggi e tutto domani e se mi vede arrivare è capace di rinchiudermi fino a lunedì. Se vado, rischio di non tornare in tempo.
Continuo a guardarlo, perché non sono sicuro di aver capito bene.
- Stai dicendo che vuoi venire? – chiedo per sicurezza. Devo suonare come un perfetto imbecille, in questo momento.
- Sto dicendo che non potrò passare a casa mia a prendere la mia roba. – ripete lui, per la terza volta in meno di cinque minuti, aggrottando le sopracciglia mentre le guance gli si colorano appena. - …immagino che questo implichi che sì, voglio venire. Ma non avrò niente da mettere.
Trattengo il respiro per qualche secondo, alzandomi in piedi. Non gli dico di aspettarmi qui, tanto so che non lo farebbe in ogni caso, ed esco nuovamente in corridoio, dirigendomi stavolta verso lo sgabuzzino. Ne apro la porta e mi chino a recuperare lo zainetto nuovo ancora abbandonato in un angolo. Lo apro, ne tiro fuori le due magliette ancora avvolte nella plastica. Mi volto e Danny è esattamente davanti a me. Mi guarda e i suoi occhi sono macchiati d’incertezza e di un pizzico di paura.
Sventolo le magliette davanti al suo viso.
- Non è molto, ma per un paio di giorni ti dovrebbero bastare. – dico. Non so neanche che espressione dovrei avere in questo momento, è tutto così surreale. – Poi andremo a comprare qualcos’altro.
Daniel mi guarda ancora, a lungo. È palese che nemmeno lui sa che espressione dovrebbe avere. Poi mi afferra il viso fra le mani, così improvvisamente che io quasi indietreggio spaventato, e mi si avvicina, schiacciando le proprie labbra contro le mie. Mentre mi bacia con forza, sorride. E allora sorrido anch’io.
*
Pierre viene a prenderci all’aeroporto, qualcosa che non mi aspettavo ma che dopotutto mi fa piacere. Lo riconosco perché tiene dritto sulla testa un cartello col mio nome sopra, e lo agita elegantemente a destra e a sinistra per farsi notare. Le sue labbra si aprono su due file di denti bianchissimi e perfetti, i capelli ricci che incorniciano il volto dai lineamenti fini ed eleganti e gli occhi scuri ma brillanti danno l’impressione di avere davanti un ragazzo che ci sa fare, tutto sommato. Per qualche ragione, lo immaginavo più o meno così. Forse, avendo ben presente David Jost e gli esseri umani coi quali normalmente si accompagna, non avrebbe potuto essere niente di diverso.
- Ma è un tuo ex? – butta lì Daniel, indicandolo distrattamente. Gli schiaffeggio la mano.
- È maleducato indicare le persone. – lo rimprovero arrossendo, mentre lui borbotta un “ahi” risentito e si massaggia la mano dolente, - Comunque no, non l’ho mai visto prima di questo momento. E sforzati di parlare in inglese, non è carino parlare in una lingua che lui non conosce.
- Se sapevo che ti trasformavi in mio padre appena valicato il confine, me ne restavo a Berlino. – sbotta Daniel, facendomi una linguaccia. Io sospiro e sollevo gli occhi al cielo, e decido saggiamente di ignorarlo.
- Ohilà! – ci saluta Pierre, mettendo via il cartello e sorridendo amabilmente, - È un piacere incontrarvi, finalmente. Davìd mi ha parlato a lungo di voi. A proposito, come sta? Sta ancora con Antonio, quel pizzaiolo che aveva conosciuto a Ibiza? O aspetta, quello era stato prima o dopo Jean-Jacques? – si interrompe un attimo, grattandosi il mento. Parla un inglese simpatico, ha un accento fortissimo ma ogni tanto sembra che lo forzi apposta, è divertente. – Forse però venivano entrambi prima di Samuel, mi sbaglio?
Io ridacchio, stringendomi nelle spalle.
- Non ficco il naso nella vita privata di Jost, usualmente. – rispondo. Danny, accanto a me, studia Pierre con attenzione e a un certo punto indica il cappotto scamosciato beige che indossa e sbotta “ma che razza di colore sarebbe quello?!”. Io sollevo nuovamente gli occhi al cielo.
Pierre inarca un sopracciglio, guardandolo, ma sorride con aria indulgente quando i suoi occhi tornano a posarsi su di me.
- Se sei fuggito dalla Germania per evitare che ti accusassero di molestie su minori palesemente incapaci di intendere e di volere, devo avvertirti che non è che qui in Francia ci si vada giù meno pesantemente, su questo tipo di crimini.
Danny scoppia a ridere, dimostrando di comprendere perfettamente l’inglese e, perciò, di stare continuando a parlare in tedesco solo per sfregio.
- Exactement. – risponde al posto mio. Mi volto a guardarlo con aria palesemente offesa. – Cosa? – chiede lui, candido, - Studiamo francese a scuola.
Pierre ride divertito, battendomi una pacca sulla schiena.
- Spero per te che sia il tuo fratellino minore o un cuginetto che hai portato in vacanza, e non il tuo ragazzo davvero, perché altrimenti… come dire. – ride un’altra volta, stringendosi nelle spalle, - Buona fortuna.
Sospiro, abbattendomi un po’.
- Sì, mi sa che ne avrò bisogno. – brontolo mentre Danny, improvvisamente al settimo cielo, si sporge a lasciarmi un bacio un po’ umido e vagamente appiccicoso su una guancia. Che il cielo mi aiuti.
*
L’albergo è bellissimo, e mi viene un po’ da ridere quando, una volta rimasti soli in camera, Danny mi spinge sul letto. Sento il materasso cedere dolcemente sotto il nostro peso, accoglie i nostri corpi in un abbraccio morbido e tiepido ed al tatto sembra completamente diverso dal mio a casa, che è durissimo e, anche se l’abbiamo usato più spesso, ultimamente, non s’è mai abituato davvero a noi. O a me.
- Senti che buon profumo… - mugola Danny, scivolando oltre il mio collo ed affondando il naso fra i cuscini. Rido avvolgendolo fra le mie braccia e ribaltandolo sul materasso mentre lui ride a sua volta, schiudendo le gambe per farmi posto.
- Concentrati. – lo rimprovero sorridendo, - Siamo nella città dell’amore e tu ti perdi dietro al profumo delle lenzuola?
- Be’, è buono. – scrolla le spalle lui, fingendo indifferenza, ma il sorriso che piega le sue labbra è il riflesso identico di quello che piega le mie. Sollevo un braccio, ridendo come un bambino, come se io e lui avessimo la stessa età e fossimo amici e stessimo giocando, o come se fossimo due stupidi liceali che si piacciono e non sono ancora riusciti a dirselo, e sfilo un cuscino da sotto la sua testa, schiacciandoglielo con forza sul viso.
- È buono? – lo prendo in giro, facendogli il solletico e sentendolo dimenarsi sotto di me in preda agli spasmi e alle risate, - Allora? È buono?
- Lasciami! Lasciami! – dice lui a corto d’aria, sgambettando a casaccio ed agitando le mani alla cieca nel tentativo di allontanarmi. Lo torturo ancora per qualche secondo, prima di togliere di mezzo il cuscino e chinarmi sulle sue labbra. Non aspetto che abbia ripreso fiato, prima di baciarlo, e il risultato è che comincia prestissimo ad ansimare fra le mie labbra, ed i respiri che gli escono dal naso sono affrettati, irregolari, caldi e un po’ affannosi. Mi scorre un brivido lungo tutta la schiena mentre le sue mani trovano spazio fra i nostri corpi e mi afferrano saldamente per la felpa, aggrappandovisi prima e strattonandola con forza subito dopo.
Mi allontano, poggiando la mia fronte contro la sua e guardandolo mentre riprende fiato, le ciglia bionde che tremano appena, la luce gialla e calda dell’abat-jour sul comodino che ne proietta le ombre sulle sue guance un po’ scavate e arrossate dalla fatica e dai movimenti concitati di poco fa. Il cuore gli batte così forte che me lo sento rimbombare nel petto. Ha un suono molto simile al mio. È così felice che le labbra gli si piegano in un sorriso appena accennato, spensierato, irreale. Gli scorre felicità addosso in scariche elettriche che mi fanno bruciare la pelle. Penso che voglio restare qui con lui per sempre.
Lo bacio ancora, stavolta con più calma, e lui mi allaccia al collo, schiacciandosi con forza contro di me e strusciando il bacino contro il mio in movimenti lenti e regolari che mi fanno impazzire. Alle volte, gli capita di riuscire a controllarsi molto meglio di quanto mi controlli io. Sono quei momenti in cui mi rendo conto che in degli istanti precisi io e lui come coppia sfioriamo davvero la perfezione a livello di intesa, e per me sono momenti miracolosi, alle volte quando ci penso mi viene da piangere perché non mi sono mai sentito così con nessuno. Ho avuto delle relazioni meravigliose con quasi tutte le persone con cui sono stato, ma questa è la prima volta che mi capita di pensare all’eternità di una vita insieme come a qualcosa di possibile, qualcosa che sia plausibile da costruire, e non sulla quale si possa a malapena sognare ad occhi aperti, e solo correndo il rischio di sentirsi molto ridicoli una volta tornati alla realtà.
Per Daniel non è niente di speciale: io sono il primo di cui s’innamora, ed è stato fortunato a trovare subito questo tipo di connessione. Se davvero fra noi due non dovesse finire mai, fra quaranta, cinquanta, sessant’anni, morirebbe pensando all’amore come a ciò che l’ha reso completo sempre. Mi riempie di orgoglio, in qualche modo, avere la possibilità di essere l’unica persona che amerà per tutta la sua vita. Mi fa quasi venire voglia di dimenticare tutte le persone che invece ho avuto io, per potermi illudere di avere amato e voluto solo lui allo stesso modo.
Forse è per questo – per compensare, o per cancellare, o perché ci sta con la testa più di me, o magari semplicemente perché sento che ne ha voglia e voglio accontentarlo – che quando si allontana da me e mi sussurra sulle labbra di girarmi obbedisco. Mi stendo sullo stomaco, appoggiando il viso al cuscino e respirando profondamente mentre mi rilasso e lascio che mi spogli, mi accarezzi e mi afferri con urgenza per i fianchi, avvicinandosi a me così tanto che sento tutto il suo corpo aderire perfettamente alla curva della mia schiena. Perde le gambe fra le mie, mi morde con forza una spalla, io chiudo gli occhi e mi permetto di smettere di pensare. Mi fido abbastanza di Danny da lasciargli la responsabilità di farlo per entrambi, almeno per la prossima mezz’ora.
*
Parigi è bellissima, o forse mi sembra bellissima solo perché avevo una gran voglia di scappare da Berlino. Probabilmente, se io e Danny ci fossimo trasferiti in un qualche paesucolo sperduto sull’Appennino italiano, o un qualche borgo marittimo abitato da cento anime sulla costa portoghese, l’avrei trovato meraviglioso lo stesso. In ogni caso non importa, sono minuzie cui posso permettermi di non pensare. È un lusso che sto riscoprendo da quando non vivo più in Germania, e mi piace tantissimo.
Le prime due settimane le passiamo da turisti. Compriamo una cartina e tre guide che ci sembrano diverse ma alla fine scopriamo essere uguali ma edite in tre anni differenti (anche se forse i titoli – Come muoversi a Parigi 2008, Come muoversi a Parigi 2009 e Come muoversi a Parigi 2010 – avrebbero dovuto darci qualche indizio a riguardo), ed andiamo in giro come cani sciolti, un po’ a caso. Finiamo in un sacco di casini perché io non conosco la lingua e anche Danny, nonostante tutto il suo bullarsi, oltre ad exactement sa dire giusto bon jour, bonsoir e bonne nuit, per cui ci perdiamo regolarmente almeno una volta al giorno ed è Pierre a venirci a recuperare in macchina, sempre sorridente e sempre disponibile, indipendentemente dal luogo in cui siamo finiti e da quanto ci siamo allontanati dalle zone in cui lui ci ha consigliato di rimanere.
A mostrarci gli appartamenti è Bertrand, il ragazzo di Pierre. Inizialmente mi stupisce che abbia un ragazzo, un po’ perché l’ho vagamente identificato come un David Jost con la r moscia e David Jost difficilmente ha un ragazzo che possa permettersi di chiamare ragazzo, appunto, o almeno, io non l’ho mai visto andare in giro con nessuno in questo senso, però poi mi rendo conto che mi sto facendo problemi idioti su un qualcosa di idiota, che alla fine sono lì col mio ragazzo anch’io e non dovrebbe stupirmi di sapere che hanno un ragazzo anche il panettiere, il giornalaio e il salumiere all’angolo della strada.
Appartamenti ne vediamo un bel po’, ma nessuno ci convince. Vogliamo un posto bello grande in cui stare, io voglio rimettermi in carreggiata quanto prima, voglio lavorare, voglio uno studio di incisione e lo voglio in casa, ma per un motivo o per l’altro nessuno degli appartamenti che controlliamo sembra quello adatto, almeno fino ad oggi.
Bertrand si sistema gli occhiali dalla montatura spessa e nera sul naso ed appende una mano al fianco, sporgendolo appena mentre, con un ampio cenno della mano libera, ci mostra l’enorme sala rettangolare che sta esattamente al centro dell’appartamento che stiamo visitando. È del tutto indipendente dal corridoio che porta alla cucina ed alla camera da letto, ed ha un’enorme vetrata scorrevole su una parete. Dà sulla strada che si agita trafficata dodici piani sotto di noi, ma è perfettamente insonorizzata, non arriva neanche una minima parte del trambusto di fuori.
- La proprietaria precedente la usava come palestra. – dice, indicando il parquet un po’ ammaccato in qualche punto che ricopre il pavimento, - Era abituata a mettere la musica a volume altissimo durante le lezioni di step che faceva con qualche amica. Nessuno degli altri inquilini della scala s’è mai lamentato della confusione. Mi sembra—
- Perfetta. – conclude Daniel per tutti, lanciando attorno a sé un’occhiata sognante. – Bertie, ci porti a vedere la terrazza? – dice quindi, quasi saltellando sul posto.
Mentre Bertrand – che ormai Danny chiama Bertie perché sono settimane che, poverino, lo costringiamo a girare la città in cerca di appartamenti sempre più belli da mostrarci, e ormai siamo di famiglia, per così dire – ci accompagna lungo il corridoio e fino alla terrazza, Daniel allunga una mano all’indietro ed intreccia le dita con le mie. Sorrido mentre ripenso a quando, un paio di giorni fa, gli ho chiesto se si rendesse conto del fatto che stavamo andando a vivere insieme. Lui mi ha guardato con stupore non simulato, sbattendo un paio di volte le palpebre e inumidendosi le labbra. “Fler,” mi ha detto, “guarda che in pratica noi viviamo insieme ormai già da un paio di mesi.” Ed è vero, ha ragione, e io adoro questa sua praticità così tremendamente infantile, ma c’è una sostanziale differenza fra il fatto che noi vivessimo insieme prima e il fatto che stiamo andando a vivere insieme adesso. Quello è capitato. Questo lo stiamo volendo.
Mentre usciamo in terrazza e Parigi si apre splendente sotto di noi nel sole accecante di fine luglio, penso che mi basta essere custode di questa differenza da solo. Non c’è bisogno che la noti anche Danny. Fra qualche tempo, tutto ciò sarà così naturale che smetterò di pensarci anch’io.
*
Quando, quasi un mese dopo, il mio vecchio cellulare squilla, in un primo momento non lo riconosco nemmeno. Da quando sono partito, nessuno ha mai chiamato a quel numero. Alla fine ho comprato un cellulare nuovo per la scheda francese, e quella vecchia l’ho lasciata in questo, che però è stato quasi del tutto dimenticato. L’ho sempre tenuto acceso, e carico, ma più che altro pensando alla possibilità che mia madre potesse ritrovarsi ad aver bisogno di chiamarmi all’improvviso e non avesse a portata di mano il nuovo numero, che fatica ad imparare. Non ne ha mai avuto bisogno, però, ci siamo sentiti regolarmente e non mi sono mai arrivate chiamate improvvise o inaspettate. E la verità è che ho dimenticato la suoneria, tant’è che quando squilla ipotizzo sia il cellulare di Danny e mi chiedo perché invece l’abbia cambiata lui, visto che va matto per Love The Way You Lie e ha giurato e spergiurato per una settimana intera che l’avrebbe tenuta per sempre. In realtà io sospetto che gli piaccia Rihanna e basta, perché Love The Way You Lie fa schifo e io mi rifiuto di accettare che qualcuno possa apprezzarla e allo stesso tempo apprezzare anche la mia musica o il resto della produzione dell’Aggro. Poi in effetti dovrebbe darmi anche da pensare il fatto che uno che viene a letto con me poi possa farsi piacere anche Rihanna, ma per quanto la questione sia degna di attenzione io non riesco a fornirgliela, perché Daniel, semiaddormentato contro la mia spalla sul divano nella luce azzurrognola che viene dalla televisione, mugugna “che fai, non rispondi?”, e io mi volto a guardarlo con aria sinceramente curiosa.
- Ma non è il tuo? – gli chiedo, e lui si volta e struscia il muso contro il mio braccio, brontolando piano.
- No che non è il mio, coglione. – sbotta quindi, sbilanciandosi dall’altro lato ed accovacciandosi contro il bracciolo, - È il tuo vecchio cellulare. Vai a rispondere, o spegnilo, non riesco a seguire il film.
- Non riesci a seguire il film perché stai dormendo in piedi… - gli faccio notare, mettendomi comunque dritto ed avviandomi verso il corridoio, - Perché non vai a letto?
- Non rompere. – biascica lui, ed è l’ultima cosa che sento prima di avvicinarmi alla suoneria abbastanza da non sentire più nient’altro. La riconosco adesso, è proprio la mia. Il cellulare s’illumina a tratti e vibra, appoggiato sul cassettone d’ebano in camera da letto, davanti a una foto stupida che io e Danny ci siamo fatti scattare da un turista giapponese di fronte a Versailles. È stato più facile comunicare con lui che non con un parigino a caso.
Il display mi dice che è Bushido a chiamarmi, ma deve essere una bugia. Perché dovrebbe farlo? Io sono a Parigi.
E lui però non lo sa.
Rispondo in fretta, allarmato. È la prima volta in due mesi che penso a quello che mi sono lasciato indietro senza aver trovato le palle di dire a nessuno che lo stavo facendo.
- Fler! – mi chiama immediatamente lui, quando mi sente rispondere, - Cristo, ci hai messo i secoli… stai bene?
- Che? – sbotto stupito, - Certo che sto bene. È successo qualcosa?
- Diosanto— ma dove cazzo sei? – continua risentito, - Cazzo, la prossima volta fammi aspettare due ore, d’accordo? Cristo, non hai idea di quello che mi è passato per la testa. Si può sapere dove cazzo sei?!
- Si può sapere cosa cazzo è successo?! – insisto polemico, aggrottando le sopracciglia. Lo specchio rettangolare appeso di fronte a me mi rimanda l’immagine di un uomo teso e sulla difensiva. Mi sento minacciato. Lo riconosco senza difficoltà.
- Ho ricevuto una chiamata anonima. – mi spiega lui, - Qualcuno dei miei è in pericolo, ma non ho ancora capito chi. Almeno adesso so che non sei tu. Muovi il culo e raggiungimi, sto andando nella zona dei vecchi magazzini in periferia. Ci troviamo lì.
Sento che sta per interrompere la conversazione senza che io sia riuscito e dirgli niente di quello che dovrei dirgli, e lo fermo.
- Anis! – lo chiamo all’improvviso, e lui s’interrompe. Scommetto che aveva già il pollice sul pulsante. – Anis, di cosa cazzo stai parlando? – chiedo. Sono via da Berlino e non ho letto né sentito niente a riguardo, nelle ultime settimane. Potrebbe essere scoppiata la guerra e non lo saprei.
Lui inspira profondamente.
- Te lo dico appena ci vediamo. – cerca di tagliare corto.
- No, Anis. – lo interrompo, inspirando profondamente a mia volta. - …io sono a Parigi. – butto fuori in un fiato, stringendo convulsamente il telefono fra le mani. Lui rimane immobile e silenzioso per quasi un minuto. Non sembra neanche respirare. Penso ai soldi che sta spendendo per chiamarmi, non per i soldi in sé ma perché mi irriterebbe se gli restasse il cellulare a secco e la chiamata s’interrompesse proprio adesso. – Anis? – lo chiamo, cercando di riscuoterlo. Vorrei obbligarmi a smettere di chiamarlo per nome, ma non ci riesco.
- Che cazzo vuol dire? – sputa fuori a fatica, - Che ci fai a Parigi?
- …mi ci sono trasferito. – rispondo. Il mio tono di voce è basso e cupo. Colpevole. Mi vergogno molto perché non mi ci sento ma sto controllando la voce in modo da sembrarlo. – Da un paio di mesi. Scusa se non te l’ho detto—
- Scusa se non te l’ho detto?! – ripete lui, sconcertato, - Fler, ma scherzi? – chiede speranzoso. Io deglutisco a fatica. Non riesco a rispondere. – Non scherzi. – si risponde quindi da solo, - Fler, ma come ti è saltato in mente…? – comincia, e poi forse si rende conto anche lui del tempo che passa e dei soldi che vanno via, perché riprende a parlare a macchinetta, per fare più in fretta possibile. – Lascia perdere, - dice, - mi spiegherai quando sarai tornato. Ti voglio sul primo aereo domani mattina, capito, Frank? La situazione è complicata e mi servi qui. D’accordo? A domani.
Sento che prova a interrompere la conversazione una seconda volta, ed una seconda volta io lo chiamo, perché non posso lasciarglielo fare. Non posso dirgli d’accordo, perché non prenderò nessun aereo. Non potrò spiegargli niente quando ci vedremo, perché non accadrà. Io non tornerò in Germania. Sicuramente non adesso e probabilmente mai più.
- Anis… - lo chiamo ancora, e lui ha un fremito. – No. – concludo quindi, - Mi sono trasferito qui per restarci. – accarezzo per un attimo la possibilità di parlargli anche di Danny, ma stabilisco che non è il caso prima di affezionarmi troppo all’idea. Ci sarebbe troppo da dire, troppo da spiegare, e tutto considerato forse è meglio che lui non sappia. – Mi dispiace, - continuo, - ma non torno. Non— hai sicuramente qualcun altro su cui contare, in questo momento. D’altronde, - sorrido appena, - hai fatto a meno di me a lungo. Puoi ricominciare.
- Fler… - comincia lui, con tono polemico, ma si sgonfia quasi subito. Forse è qualcosa nel mio tono di voce, ad abbatterlo. Forse, semplicemente, si rende conto di non poter rispuntare nella mia vita dopo due mesi di silenzio ed aspettarsi che io sia pronto a corrergli dietro come avessi ancora quattordici anni. – Vaffanculo. – conclude quindi. Non sono sicuro se l’insulto sia rivolto a me o alla situazione generale. Per la verità ci rimango un po’ male, e guardo il telefono con aria torva quando lo allontano dall’orecchio.
Il display si oscura dopo qualche secondo, e spegnere il cellulare per me diventa una conseguenza ovvia. Lo spengo, lo apro, ne tiro fuori la scheda, lo richiudo e poi lo conservo nel primo cassetto, sotto i calzini. Non so esattamente perché lo sto facendo. O forse sì ma non voglio dirmelo perché mi sentirei malissimo.
Ritorno in salotto pensando che domattina dovrò chiamare mia madre per avvertirla che ho bloccato la scheda col vecchio numero, perciò si affretti a imparare il nuovo e non faccia troppe storie. Danny è ancora accucciato sul divano, sonnecchiante esattamente com’era quando l’ho lasciato. Si arrotola immediatamente al mio fianco appena mi sente sedermi accanto a lui.
- Chi era? – mormora, la voce impastata di sonno e gli occhi chiusi. Lo stringo a me, mentre sul televisore scorrono i titoli di coda del film che stavamo fingendo di guardare.
- Hanno sbagliato. – rispondo sovrappensiero. So che, se fosse solo un po’ più lucido, mi chiederebbe com’è possibile restare al telefono per più di dieci minuti con qualcuno che ha sbagliato numero. Fortunatamente, lui già dorme. Il dvd s’interrompe e si oscura anche lo schermo della tv. La stanza piomba nel silenzio. Daniel respira quieto al mio fianco, io sto bene ma non ho il coraggio di muovermi.
Mi sa che stanotte dormiamo sul divano.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bill/Bushido, David/OMC.
Rating: R/NC-17
AVVISI: Slash, Lime, OC.
- "Mi lavo e mi vesto piuttosto velocemente. So che Bill si prenderà più tempo di quanto già usualmente non faccia perché ci tiene ad essere perfetto, quando David poserà gli occhi su di lui. Non vuole dargli più preoccupazioni di quante ne abbia già, dice, e a me viene un po’ da sorridere perché se David si preoccupa per Bill non sarà certo un filo di trucco in più a dargli motivo di smettere. Alle volte Bill si perde del tutto nel provare in ogni modo a fare ammenda per la grave colpa che s’è addossato nascendo gay e destinato a innamorarsi di me, solo che non capisce che non sono colpe davvero, e che non c’è modo per cui potrebbe farsi perdonare per essere semplicemente com’è."
Note: Bushido era così impaziente di parlare (di nuovo) che stavolta non ce l'abbiamo fatta a mantenerci entro dei limiti umani XD Quindi, sì, altra shottona lunghissima, in cui probabilmente accade ciò che tutti voi stavate aspettando. O forse magari no. Chi può dirlo, se prima non leggete? :D
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WILL YOU RELEASE ME WITH A KISS?

Ricordo di aver già vissuto una situazione simile, anche se a parti invertite. Stiamo parlando di molti anni fa, di un periodo in cui io e Bill stavamo insieme da forse un annetto e non c’erano nubi sul nostro orizzonte. O forse c’erano già e io mi rifiutavo di prenderle in considerazione. Sì, sicuramente era così. E tra l’altro è terribile ripensare già a quel periodo come “molti anni fa”. Faccio una gran fatica a star dietro allo scorrere del tempo, da quando sono morto. Probabilmente perché per i morti il tempo non ha un valore granché fondamentale, ed io, chiuso nella mia bara di sole e mare a Miami, non lo sentivo scorrermi addosso. Vivevo in un presente immutabile in cui ogni giorno si susseguiva al precedente per inerzia, senza cambiamenti di alcun tipo se non in dettagli insignificanti che dimenticavo subito dopo aver notato, sempre che riuscissi a notarli.
Comunque, erano molti anni fa, ed io andavo spesso a trovare Bill nell’appartamento che condivideva con suo fratello. Fu durante una di quelle occasioni che Bill si decise una volta per tutte a comprare un appartamento tutto per sé, anche se alla fine non ci ha trascorso tanto tempo, finché sono stato in vita. In ogni caso, allora era molto facile osservare me e Tom mentre ci scrutavamo dubbiosi sulla porta, lui dall’interno dell’appartamento, io dal pianerottolo. Era divertente, perché Tom era molto più piccolo ed era molto più facile e più divertente prenderlo in giro. Da allora sono cambiate troppe cose, anche – assurdamente – nel rapporto fra me e lui, e non è più così semplice fronteggiare i suoi occhi limpidi e sinceri. Per qualche strano motivo, è ancora meno semplice adesso che sul pianerottolo c’è lui, e io invece sono al sicuro dentro casa mia.
- Ho portato il cambio per domani. – dice Tom, dubbioso, e mentre lo dice io so che si sta ripetendo per la cinquecentesima volta da quando questa routine è cominciata che tutto ciò non ha senso. E io so che ha ragione, e so anche che non dovrei vivere in maniera tanto comoda la permanenza di Bill in questa casa, che si protrae ormai da un paio di settimane, soprattutto perché peraltro si basa su regole ridicole e assurde, come ad esempio il fatto che Karima non debba lavargli la biancheria perché “tanto è una cosa provvisoria”, e quindi Bill abbia bisogno del cambio portatogli da suo fratello ogni giorno. Tuttavia, è una routine alla quale ho fatto in fretta ad abituarmi. Perché sono un uomo molto più debole di quanto non abbia mai pensato.
- Grazie. – rispondo annuendo e recuperando il sacchetto di plastica dalle sue mani. – Vuoi entrare? – chiedo risollevando lo sguardo sul vuoto, perché mentre io controllavo che dentro il sacchetto ci fosse tutto ciò di cui Bill aveva bisogno Tom, sottile com’è, è scivolato attraverso la fessura della porta e s’è già introdotto in casa mia senza che io avessi bisogno di invitarlo. – Tom? – domando chiudendo la porta e inarcando un sopracciglio, - Cosa stai facendo?
Lui si guarda intorno come se non conoscesse questa casa a memoria, e scruta ogni angolo con attenzione, neanche si aspettasse di veder saltare fuori assassini ninja mimetizzati con la carta da parati da dietro ogni vaso.
- Controllo che tu tenga mio fratello in un ambiente consono alla sua persona. – risponde lui, gettandosi dietro le spalle le treccine nere.
- E ti sembra consono, quest’ambiente? – chiedo, posando il sacchetto su un divano e incrociando le braccia sul petto. Tom si lascia andare ad un ghigno che ho imparato a vedergli addosso solo di recente, e del quale inizialmente non conoscevo il significato. Figurarsi, sono andato fino da Jost in clinica, disturbandolo mentre, come mi ha detto, “si faceva visitare dal dottor Schüster” (qualcosa che penso non mi perdonerà mai. Più ancora dell’essere la causa del suo sventramento, lui mi odierà per sempre perché ho interrotto la sua sessione pomeridiana di petting selvaggio col suo medico curante. E questo è l’uomo che ci gestisce. E ho detto tutto), e gli ho chiesto che cosa diavolo stesse ad indicare questo sorriso un po’ sghembo ed esageratamente indisponente, e lui ha sorriso trionfante ed ha detto “è tornato?”, e poi mi ha spiegato che si tratta del sorriso che affiora spontaneamente sulle labbra di Tom quando sta pensando che in ogni caso, nella lotta per il cuore del proprio fratello, fra tutti i partecipanti ha vinto ancora una volta lui. E Jost ha riso, spiegandomelo, perché è la prima volta che io ho a che fare coi gemelli Kaulitz come gemelli, e non come fratelli in rotta perché uno dei due ha deciso di sposarsi contro il parere dell’altro. Per dire.
Questa cosa è tragicamente vera, e devo dire che se c’è una cosa che mi dà veramente sui nervi, al momento, del tutto irrazionalmente, è la consapevolezza che non esista essere umano che abbia influenza sul pensiero di Bill più di suo fratello, ora come ora. Naturalmente, Bill fa sempre di testa sua, come ha fatto per ogni minuto della propria esistenza da quando è nato, ma le parole di suo fratello molto spesso bastano a cambiargli l’umore o a condizionarlo a sufficienza da fargli cambiare idea su certe cose. Per dire, io so che se Tom avesse approvato incondizionatamente la permanenza di Bill in questa casa, Bill non avrebbe avuto alcun problema a stabilirvisi in maniera un po’ più onesta, magari continuando a dormire nella stanza degli ospiti, ovviamente, ma facendosi lavare la roba sporca da Karima, quantomeno. E invece no, Tom non gradisce, quindi Bill resta qui lo stesso perché è quello che vuole, o si rende conto che è la cosa migliore da fare, ma lo fa cercando di dargli l’impressione di essere sempre sul punto di andarsene.
Probabilmente è così solo perché si sono persi per tanto di quel tempo che, ora che si sono ritrovati, Bill si farà strappare il cuore dal petto prima di rassegnarsi a perderlo di nuovo, e quindi magari è una cosa provvisoria. Peraltro, so che non dovrei essere geloso di tutto questo, in nessun caso e in nessun senso, ma lo sono. Non posso dirlo a Bill, né a nessun altro, ma lo sono.
- Mio fratello? – chiede a un tratto lui, e sono sicuro che, per tutto il tempo, mentre io mi perdevo in questi pensieri molesti, è rimasto a guardarmi con quel ghigno insopportabile stampato sulla faccia. Ne sono sicuro anche perché poteva benissimo chiedermi di Bill, e invece mi ha chiesto di suo fratello, lo stronzetto indisponente. Cerco di ricordarmi che non posso prendere a sberle il suo bel visino da copertina di Bravo, e cerco di ribattere con un sorriso ugualmente odioso, tirando su solo un angolo della bocca.
- E se io non volessi lasciartelo vedere? – chiedo sfidandolo, ed è a quel punto, naturalmente, che Bill appare dietro le spalle di suo fratello, uscendo dal corridoio con un sorriso beato sulle labbra ed entrambe le mani sui fianchi.
- Da quando sono segregato? – chiede inarcando un sopracciglio. Karima sceglie quel momento per urlarmi che Skyline s’è introdotto in camera mia e ha sventrato a morsi il mio cuscino preferito. Ho capito di non essere stato un uomo buono, nella mia vita precedente, ma penso di aver già pagato per tutti i miei peccati. E invece no, sono lo zimbello del karma.
- Billi. – dice Tom, voltandosi a guardarlo. Nel movimento, il suo sorriso si addolcisce immediatamente, petali di rosa avvolgono la sua persona e una musica melensa si diffonde nell’ambiente.
- Tomi. – risponde lui, intrecciando virginalmente le dita sotto al mento e guardandolo con occhi colmi d’amore e gratitudine. Io mi appoggio con una mano allo schienale del divano e li osservo, trattenendo a stento i conati di vomito. Hanno dei momenti in cui diventano di un romanticismo esagerato, roba che uno poi non può neanche chiedersi perché le fangirl si facciano certe idee e le mettano pure su carta, perché la risposta è lì, davanti ai suoi occhi, palese come il sole a mezzogiorno. – Prego, accomodati. – dice quindi. Le loro mani si stringono e restano strette mentre si siedono entrambi sul divano, proprio sotto i miei occhi, e vorrei alzare un dito e dire che questa è ancora casa mia, ma Bill si volta verso il corridoio e strilla a Karima di portare del tè, ed io sento a pelle la consapevolezza che le mie convinzioni non sono altro che menzogne: questa casa non è più mia da quando Bill ne ha preso possesso. Devo rivedere le regole di questo gioco, perché così come sono non mi piacciono.
- Come stai? – chiede Tom, i pollici che accarezzano in gesti circolari il dorso delle mani di Bill. Sta bene, Tom, sta bene. Viene servito, riverito e protetto ventiquattro ore su ventiquattro, come vuoi che stia?
- Così così. – risponde naturalmente lui, con un gran sospiro, - Sono molto afflitto, Tomi.
- Bushido non ti tratta bene? – chiede subito lui, premuroso.
- Bushido è qui e vi osserva. Ma soprattutto vi ascolta. – mi intrometto io, ma vengo ignorato, cosa che mi fa dubitare di ciò che ho detto. Forse Bushido non è davvero qui, forse sono ancora morto e sono un fantasma, e sto raccontando questa storia sotto forma di spirito incorporeo che può vedere e sentire tutto ma non può essere visto né sentito da nessuno.
Mi fermo un attimo. Mi osservo nell’enorme specchio parietale di fronte a me. Che sciocchezze vado cianciando?
- No, Anis mi tratta bene. – risponde Bill, abbassando teatralmente lo sguardo. Io lascio perdere le rimostranze, vedo Karima apparire col tè e ne sono felice, fino a quando non noto che ci sono solo due tazze sul vassoio. Sono annichilito da quanto sta accadendo. La mia casa si ribella contro di me, il mio cane mangia il mio giaciglio, la mia cuoca mi affama, la mia donna mi ignora e il di lei fratello mi massacra dieci a zero in casa mia. Miami ritorna improvvisamente un’ipotesi plausibile. – Sono angosciato da questa storia. David è ancora in ospedale, sai?
- Sì, sono stato a trovarlo ieri. – ride Tom, - Non preoccuparti troppo per lui, si sta dando molto da fare per tornare in forma, se capisci cosa intendo. – È evidente che perfino Jost, un uomo che è stato sventrato ed è quasi morto due settimane fa, si diverte più di quanto non mi diverta io. Questa cosa è estremamente ingiusta. – A parte questo, Bill, credo che non sia più il caso, per te, di restare qui. – dice quindi, risoluto, allungandosi a recuperare la propria tazza di tè. Io aggrotto le sopracciglia. Non dico una parola ma sento il bisogno quasi fisico di buttarlo fuori di casa. Bill, però, mi lancia un’occhiata repentina e profonda, di quelle con le quali a volte sembra studiarmi. Prende un paio di zollette di zucchero e le immerge nel tè bollente, lo mescola meticolosamente e poi prende la tazza con tutto il piattino, e me la passa con un mezzo sorriso. Mi basta questo per calmarmi. Mi basta davvero, solo sapere che ogni tanto mi guarda ed è consapevole del fatto che io sono qui, che c’è anche lui, che siamo qui insieme, adesso. Mi basta così tanto che a volte è quasi troppo.
- Non è ancora sicuro. – dice Bill, sorridendo teneramente, tornando a guardare suo fratello. – Preferirei restare qui ancora un po’, per ogni evenienza. Solo qualche giorno ancora. Almeno finché David non esce dalla clinica.
Tom rotea gli occhi, alzandosi in piedi.
- Ti rendi conto di quanto è assurdo? – dice quindi, guardandolo dall’alto in basso. Bill non risponde, perché sa che suo fratello ha ragione. Ciò che Tom sta dicendo, implicitamente, è che è ormai chiaro al mondo intero che Bill non corre alcun pericolo, ma non ha la minima intenzione di andarsene. Non so se voglia restare semplicemente perché vuole farlo o perché ha l’impressione che se mollerà anche solo di qualche centimetro, se retrocederà di un passo soltanto dal ruolo che ha silenziosamente accettato di ricoprire ancora una volta restando al mio fianco in questa situazione complicata, allora gli scivolerà tutto via dalle mani. E sospetto che la mia principessa abbia qualche problema molto serio con tutto ciò che le scivola via dalle mani senza il suo esplicito consenso.
- Tomi, voglio solo— - prova a ribattere, ma suo fratello non gliene lascia il tempo. Disperde le sue parole nell’aria agitando una mano con fare disinteressato e dirigendosi a grandi passi verso la porta. Bill si alza in piedi e gli va dietro, le sopracciglia incurvate verso il basso e un accenno di broncio già nascente sulle labbra.
Io sorseggio il mio tè con noncuranza, e lo faccio solo perché ancora non so che fra qualche secondo mi toccherà sputacchiarlo.
- Almeno combinaste qualcosa. – borbotta infatti Tom, guardandoci entrambi malissimo. Bill impallidisce e diventa bianco come un lenzuolo. Io, appunto, sputacchio il tè. – E invece niente, siete— siete quasi frustranti, nella vostra assurdità. Lo sareste, se me ne fregasse qualcosa di voi due come esseri coinvolti in una relazione interpersonale, dico. – sospira ancora, scuotendo il capo. – Va be’, come non detto. – dice quindi. Come non detto il cazzo, Tom. – Bill, - lo chiama, allungandosi a baciarlo su una guancia, - fatti sentire quando hai bisogno. A presto. – lo saluta, e poi esce, chiudendosi da sé la porta alle spalle. Ormai non ho più nemmeno diritto a buttare la gente fuori da casa mia. Si butta fuori da sola.
Quando restiamo soli, l’aria è così pesante che entrambi facciamo fatica a respirare. Lo facciamo in silenzio, inspirando boccate lunghe e lente. La sensazione di tensione che ci avvolge è così fisica che ho l’impressione di percepirla stringermi realmente all’altezza della gola. Bill si porta una mano al collo e lo massaggia un po’, come volesse liberarlo da qualcosa di troppo stretto che vi sta annodato attorno, e il mio cuore manca un battito.
Sento Karima entrare e portare via il vassoio con le tazze in perfetto silenzio, e poi uscire, lasciandoci nuovamente soli. Bill deve avere racimolato abbastanza coraggio, nel mentre, perché finalmente si volta a guardarmi. Ha le labbra piegate in un sorriso mesto e imbarazzato.
- Scusalo. – dice a bassa voce, stringendosi nelle spalle, - Non la sta prendendo bene.
- Già. – ridacchio nervosamente io, - L’ho notato. – e poi deglutisco a fatica, - Bill, lo sai che puoi andartene quando vuoi, vero?
Lui mi solleva addosso un paio d’occhi sgranati e un po’ smarriti, e per molti secondi non risponde perché non sa che cosa dirmi. Schiude le labbra, le muove un po’, cerca di modellare parole che abbiano senso, ma non ne trova. Perciò finisce per abbassare nuovamente lo sguardo e sorridere appena, massaggiandosi nervosamente la nuca.
- Penso che andrò di là ad ascoltare un po’ di musica. – conclude, passandomi accanto e scomparendo in corridoio. Io resto immobile fino a quando Karima non appare alle mie spalle chiedendomi se può procedere a rimpiazzare il cuscino in camera da letto o voglio prima dargli un’occhiata. A che dovrebbe servire dare un’occhiata ad un cuscino fatto a pezzi adesso, Karima?, vorrei chiederle. Qui nessuno mi interpella per le cose importanti, ma tutti hanno sempre pronta una qualche domanda sciocca da rifilarmi quando mi sento troppo ignorato, per farmi credere che in realtà non sia così.
Per un attimo, accarezzo l’idea di andare in camera di Bill, spegnere la musica e provare a fargli sentire quanto ci sono per davvero. Ma poi lascio perdere, e seguo Karima in camera da letto.
*
Io e Bill ci alziamo di buon mattino. Lo facciamo sempre e lo abbiamo sempre fatto, quando stavamo insieme. È una cosa buffa, perché sia io che lui, quando siamo da soli, siamo incredibilmente pigri. Mi capitava di chiamarlo e trovarlo ancora assonnato alle undici del mattino, quando non si fermava a dormire da me e per un motivo o per l’altro era costretto a tornarsene al proprio appartamento. E nonostante questo, quando poi la sera successiva o due sere dopo tornava a dormire qui alla villa, al mattino avevamo entrambi già gli occhi spalancati per le otto massimo, senza che dovesse tirarci su di forza la sveglia, o Karima. Non so perché succedesse, forse il pensiero di essere insieme e dormire quando avremmo potuto fare altro – una qualsiasi altra cosa – era abbastanza per costringerci a spalancare gli occhi, forse semplicemente era un’abitudine che avevamo preso per chissà che motivo, comunque accadeva sempre.
Accade anche oggi, com’è accaduto per ogni giorno durante le ultime settimane. Mi sveglio, mi metto in piedi, indosso la vestaglia ed esco in corridoio. Mi dirigo istantaneamente verso il bagno, ma quando sento la porta della stanza in cui dorme Bill aprirsi tiro dritto e mi infilo in cucina, così che possa andarci lui per primo. Karima mi attende con una tazzina di caffè fumante in mano, ed io l’accetto volentieri, ringraziandola con un cenno del capo.
- Quali sono i suoi programmi per oggi, signor Ferchichi? – chiede lei con aria austera. Come al solito, non parla come se riconoscesse Bill come parte integrante di questa casa. Si è inserita alla perfezione fra le regole sbilenche che Bill ha stabilito per questa convivenza, perciò nella sua visione delle cose Bill è solo un ospite, un ospite che con i miei normali programmi quotidiani non ha niente a che fare, come fosse un cugino venuto a passare qualche settimana di vacanza a casa mia e che approfitta di trovarsi qui per visitare tutta Berlino. Qualcuno, insomma, i cui programmi non debbano coincidere con i miei come invece i programmi di Bill, in barba a tutte le regole, finiscono spesso per fare.
- Quando saremo pronti, - rispondo, usando volutamente il plurale perché lei capisca che Bill resterà con me, - andremo a trovare David in clinica. Passeremo lì qualche ora, non credo che sia il caso di preparare il pranzo.
Karima annuisce, prendendo nota del fatto senza fare una piega.
- Allora, - dice, - se il signor Ferchichi non ha più bisogno di me, io comincerei a rassettare il piano di sopra.
Io annuisco, e lei prepara la colazione per Bill – una tazza di latte bianco e cereali – prima di uscire dalla cucina ed andare verso lo stanzino per recuperare ciò che le serve.
La principessa arriva pochi minuti dopo, i capelli tutti scompigliati sulla fronte e la testa un po’ ciondolante, ma i suoi occhi sono svegli e attenti, e so che se cominciassi a parlargli all’improvviso di qualcosa di fondamentale riuscirebbe a seguirmi senza la minima difficoltà. Lo lascio in pace, comunque. Sa già che dopo colazione dovrà prepararsi e poi seguirmi da David, non è necessario che io glielo ripeta adesso, perciò mi limito a sorridergli e ad augurargli il buongiorno. Lui ricambia sia il sorriso che il buongiorno, e poi affonda il naso nel suo latte e cereali, concentrandosi solo ed esclusivamente su quello con una devozione quasi commovente.
Io giro sui tacchi e vado in bagno, cercando di fare mente locale sulla situazione. L’ultima volta che siamo stati da David, abbiamo discusso a lungo sulla prima possibilità che avevamo, ossia quella di vuotare il sacco con la polizia. Per molti sarebbe stata non solo la cosa più ovvia, ma anche l’unica da fare davvero. Correre alla prima stazione di polizia – ma non due settimane dopo, il mattino dopo – e denunciare l’accaduto. Per molte ragioni, per noi non poteva essere così.
David mi ha chiesto subito se al magazzino fossero rimaste tracce di quanto accaduto. Gli ho risposto di no, naturalmente. Non sapevamo se se la sarebbe cavata e non potevamo correre il rischio di restare con un cadavere sfregiato e zero testimoni su cui fare affidamento. Lui ha annuito, comprendendo perfettamente. La cosa mi ha un po’ turbato, ma immagino che quando riesci a manipolare l’universo per fargli credere che un uomo sia morto quando invece così non è, più o meno sei pronto a manipolarlo ancora per fargli credere qualsiasi altra cosa, perciò in quel momento Jost stava semplicemente prendendo informazioni in vista del proprio prossimo compito. Qualcosa che ho sempre ammirato in lui, peraltro.
In ogni caso, tutto ciò che sappiamo è che Nyze ha voluto mandarci un messaggio. Gli sono già andate storte le cose quando David è sopravvissuto – cosa che credo non avesse previsto, e d’altronde quell’enorme vendetta inciso in profondità nel ventre di David sarebbe bastato a indirizzarmi verso la risposta esatta anche se lui, risvegliandosi, non me l’avesse detta a viva voce – e di questo dobbiamo considerarci fortunati, ma è tutto ciò che abbiamo. Non sappiamo chi sia la gente che ha mandato, dove l’abbia pescata, ed andare a cercare informazioni a Tempelhof adesso sarebbe una condanna a morte. David non saprebbe riconoscere chi l’ha attaccato neanche sotto tortura, naturalmente, e quando ho preso contatto con qualche amico dei tempi andati per chiedere discretamente in giro se Nyze avesse un alibi per quella serata è spuntato fuori che sì, ce l’aveva, e che dal momento che stava cantando ad un concerto di gruppo con l’Aggro Berlin ci sarebbero stati non solo fior di testimoni, ma anche biglietti pagati pronti a dimostrare che lui era davvero lì quella sera.
“Con la credibilità che ho,” ha aggiunto David, lo sguardo basso e venato di rabbia, “non posso pretendere che qualcuno si basi sulla mia testimonianza di quella notte. Tutti sanno in che rapporti siamo io e te, se facessi il nome di Nyze potrebbero pensare ad una montatura con la complicità di una clinica privata pagata fior di quattrini, solo per mettere in cattiva luce un rivale.”
Ho concordato, immaginando che se era ormai chiaro per tutti che David fosse stato capace di farmi sparire per quasi un anno agli occhi del mondo, chiunque l’avrebbe creduto perfettamente in grado anche di farsi apparire degli sfregi sospetti sullo stomaco, all’occorrenza. Non che la cosa avesse un vero senso, ma si sa come funzionano gli scandali, e io lo so meglio di tutti perché quando ero ancora un rapper all’apice del proprio successo gli scandali li cavalcavo tutti come le onde su una tavola da surf. Queste situazioni ci mettono pochissimo a diventare televisive, soprattutto nel nostro mondo, ed una volta che lo diventano è la fine, perché alle persone piacciono le spiegazioni semplici, vogliono un colpevole che sia facile da individuare, possibilmente il più debole, quello con le spalle più fragili e tanti, tanti motivi per cui essere disprezzato, ed è meglio tenerci il più lontano possibile da una prospettiva del genere, perché ho idea che la situazione ci sfuggirebbe di mano molto facilmente. E non è qualcosa che possiamo permetterci, ora come ora.
Il discorso s’è chiuso con una serie di puntini di sospensione, perché il dottor Schüster è entrato in camera ed ha avvertito giovialmente David di prepararsi per il suo trattamento quotidiano a base di creme ed unguenti lenitivi, e a quel punto David ci ha buttato fuori col desiderio di non vedere più i nostri brutti musi per almeno un paio di giorni, motivo per cui io e Bill, ridendo divertiti, siamo usciti ed abbiamo stabilito di lasciargli qualche giorno per riposare.
Bill è estremamente preoccupato per David, anche ora che è fuori pericolo. Fosse per lui, gli risparmierebbe anche queste visite estemporanee che ogni tanto gli facciamo per discutere la situazione, ma sa bene non solo che la situazione va discussa, ma anche che David, nonostante quanto si lagni, desidera essere informato su ogni svolta, ogni particolare ed ogni cosa che decidiamo di fare. Posso capirlo, peraltro: se io e Bill siamo tanto arrabbiati per ciò che gli è successo, posso solo immaginare quanto debba esserlo lui stesso.
Mi lavo e mi vesto piuttosto velocemente. So che Bill si prenderà più tempo di quanto già usualmente non faccia perché ci tiene ad essere perfetto, quando David poserà gli occhi su di lui. Non vuole dargli più preoccupazioni di quante ne abbia già, dice, e a me viene un po’ da sorridere perché se David si preoccupa per Bill non sarà certo un filo di trucco in più a dargli motivo di smettere. Alle volte Bill si perde del tutto nel provare in ogni modo a fare ammenda per la grave colpa che s’è addossato nascendo gay e destinato a innamorarsi di me, solo che non capisce che non sono colpe davvero, e che non c’è modo per cui potrebbe farsi perdonare per essere semplicemente com’è. E siccome anche lui, a qualche livello inconscio dentro di sé, lo capisce, non riesce a trovare il modo corretto per porgere le proprie scuse, e lo fa nei modi più disparati. Offrendomi il proprio tè per non farmi sentire invisibile, ad esempio. O truccandosi come dovesse diventare la prova vivente dell’esistenza dell’orgoglio gay quando va a trovare David. Non ne sono sicuro, ma credo che ci sia fra loro un qualche discorso sospeso speciale su questa questione dell’omosessualità. La trovo una cosa divertentissima.
Bill, come preventivato, è pronto solo tre quarti d’ora abbondanti dopo. È splendido, avvolto in una felpa sottilissima con un cappuccio enorme che gli cade sulla testa e attorno al viso come un velo. Gli occhiali da sole a mascherina coprono gli occhi il cui trucco sgargiante ed eccessivo sono appena riuscito ad intravedere, ed è, come al solito, talmente pieno di gioielli addosso che tintinna ad ogni passo. Conto almeno tre collane di diversa lunghezza sovrapposte e qualcosa come sei bracciali per polso. Dovrei trovarlo ridicolo, e in ogni caso dovrebbe essere quanto di più lontano possa esistere dalla mia idea di bellezza. Lo è, in realtà. Eppure lo guardo e mi manca il fiato, e quando lo vedo lanciarmi un’occhiata da dietro le lenti scure mi precipito ad aprirgli la portiera della macchina.
Lui inarca un sopracciglio che fa capolino da sopra la montatura nera, e le sue labbra si piegano appena in un mezzo sorriso divertito.
- Non devi farlo, sai? – mi dice, sedendosi comunque al proprio posto. Io non rispondo subito. Aspetto di aver fatto nuovamente il giro della macchina ed essermi seduto al suo fianco. Poso le mani sul volante e guardo dritto davanti a me mentre il cancello automatico in fondo al garage si apre.
- Tu non devi davvero restare a casa mia. – ribatto. Lo sento tendersi tutto accanto a me, ma dura solo per un attimo. Poi si scioglie in un sorriso intenerito, me lo sento addosso, e so che sa dove voglio andare a parare.
- Già. – risponde quindi. Si sistema sul sedile e, nello spostarsi, si avvicina impercettibilmente. Ogni volta che cambio marcia, le nocche della mia mano sfiorano appena il suo ginocchio. Non diciamo altro per tutto il tragitto fino alla clinica, ma d’altronde non ne sentiamo il bisogno, per cui va bene così.
*
Quando arriviamo, David e il dottor Schüster stanno pomiciando allegramente, ma non in modo normale, nel modo in cui ti aspetti che un medico e un paziente possano pomiciare – se è lecito aspettarsi che un medico e un paziente pomicino – col paziente steso sulla propria branda e il medico chinato premurosamente sulle sue labbra, no: David si è alzato, portando con sé la sua flebo con tutta l’asta come fosse un bastone da passeggio, ed è arrivato fino al davanzale della finestra in fondo alla stanza, sul quale s’è appoggiato con una posa molto tragica da diva del cinema muto – ogni tanto mi basta guardare lui per capire che Bill non avrebbe potuto essere diverso da com’è nemmeno in un universo parallelo – e addossato al quale ha probabilmente aspettato che il dottor Schüster lo raggiungesse guardandolo con aria severa ma al contempo indulgente, rimproverandolo perché tornasse a letto, salvo poi avventarsi su di lui dimenticando che quest’uomo meno di tre settimane fa è stato sventrato ed avrebbe bisogno di molte cose, ma decisamente non del proprio medico che lo ribalta e lo denuda di fronte alla finestra per scoparselo in favore di luce naturale, che gli fa risaltare l’incarnato.
Bill, al mio fianco, stringe convulsamente le mani attorno all’enorme mazzo di girasoli e gerbere che ha voluto fermarsi a comprare mentre eravamo per strada, e lancia un urletto fra il pudico e il sorpreso, sollevando il mazzo stesso fino a coprirsi metà del viso, lasciando saggiamente scoperti gli occhi. Sollevo uno sguardo pietoso al cielo perché la teatralità è palesemente un vizio di famiglia, e lo faccio pensando che in realtà è molto teatrale in sé anche questo sguardo supplice che sto lanciando al paradiso, se c’è, perché mi venga in aiuto.
- Oh. – dice il dottor Schüster, allontanandosi da David come uno che non ha per niente voglia di allontanarsi dalla cosa con la quale stava intrattenendosi così piacevolmente. Il suo camice è aperto ed abbassato sulle spalle, e la maglietta verde che indossa al di sotto è sollevata fino al petto, e lascia scoperti sia la pancia piattissima che i pettorali prominenti, dai quali sporgono con aria quasi di sfida i capezzoli piccoli e appuntiti. Si risistema sommariamente, mentre David si stringe nel proprio pigiama e ci lancia un’occhiata estremamente disapprovante.
- Salve. – dico io, con un sorriso incoraggiante, agitando una mano nella loro direzione. Bill capisce che coprire tutta la metà inferiore del viso lasciando scoperta quella superiore non è un atteggiamento abbastanza pudico, e solleva ulteriormente le mani. I fiori frusciano nel movimento, e lui si stringe nelle spalle così tanto che diventa minuscolo, e al mio fianco com’è quasi scompare. – Non volevamo disturbare.
- Avreste potuto restarvene a casa, dunque, così non avreste corso il rischio di farlo. – sbotta Jost, roteando gli occhi e tornando velocemente a letto, trascinandosi dietro la flebo. Mi chiedo velocemente per quale motivo sto continuando a pagare questa stanza quando è evidente che quest’uomo resta qui non perché sta male ma perché vuole dei figli dal suo medico. Cosa che, per inciso, non riuscirebbe ad ottenere in modo naturale neppure in un milione di anni.
- Non avete disturbato. – sorride angelico Schüster, i lunghi capelli biondi che gli incorniciano il viso, - Avevo giusto finito di somministrare al signor Jost la sua terapia giornaliera.
Bill abbassa il mazzo di fiori, ma in compenso solleva un sopracciglio.
- Per via orale? – domanda curiosamente. Il dottor Schüster sorride con molta convinzione, mentre io cerco di non soffocare dalle risate e David si stampa sul viso un’espressione oltraggiata che, considerate le condizioni in cui l’abbiamo trovato, penso sia del tutto fuori luogo.
Alla fine, Schüster abbandona la stanza riuscendo in qualche modo a non perdere nemmeno un pizzico della sicurezza di sé che io e Bill, trovandolo a fare cose decisamente inopportune col proprio paziente, avremmo dovuto abbattere a sprangate con la nostra sola presenza. Così non è, brillava come il sole quando siamo entrati e continua a brillare quando esce. Posso quasi sentire l’eco di stuoli di infermiere che svengono aprendosi come il mar Rosso al suo passaggio. Quelle donne non sanno che in realtà è gay e il suo cuore selvaggio, sotto la pelle abbronzata, batte solo per David Jost. E forse è meglio che non lo sappiano.
Quando riporto lo sguardo su David, lui è seduto a gambe incrociate sul proprio letto e sul viso non porta più i segni della furia che l’ha preso poco fa, quando l’abbiamo interrotto. Sta abbracciando Bill e si sta lasciando sommergere dal solito flusso infinito di parole in libertà col quale la principessa usa stordirti – non solo lui, proprio in generale – quando non vuole essere rimproverata.
Io mi avvicino, trascinandomi dietro una sedia abbandonata in un angolo. La sedia già posizionata accanto al letto di David sarà quella sulla quale si accomoderà Bill quando avrà finito di sistemare il mazzo di fiori nel vaso che David ha sul comodino. Lo osservo togliere i fiori vecchi nonostante non siano nemmeno un po’ avvizziti e cambiare l’acqua facendo la spola fra il frigorifero e il bagno privato sulla parete opposta, e il suo viso in questo momento è il ritratto della serenità. Sa che non sta facendo qualcosa di particolarmente utile, ma almeno sta facendo qualcosa per David, e questo gli è sufficiente perché sente che a David fa piacere.
- Come stai? – chiedo a David quando i miei occhi riescono a staccarsi dalla figura di Bill.
- Benone! – risponde impulsivamente lui, e poi lo vedo accartocciarsi un po’ su se stesso, tossicchiando. – Cioè, abbastanza bene. Intendo, miglioro. Naturalmente miglioro. Ma non sono ancora—
- Non vuoi uscire da questo posto neanche se ti puntano una pistola alla tempia, sbaglio? – rido io, e David ride con me, grattandosi distrattamente la nuca.
- Sto tranquillo, qui. – risponde quindi, stringendosi nelle spalle, - Ho bisogno di stare un po’ tranquillo. E poi ho la certezza che, almeno finché starò chiuso qua dentro, tu non potrai fare niente di stupido, visto che mi hai dato la tua parola. Quindi è un accordo vantaggioso per tutti.
- Per la verità… - comincio io, cogliendo la palla al balzo, - è proprio per questo che siamo venuti a interrompere il tuo rituale di accoppiamento, oggi. Dobbiamo parlare.
Lui aggrotta le sopracciglia, sedendosi immediatamente in maniera più composta.
- È successo qualcosa? – chiede allarmato, mentre Bill si siede al proprio posto e giunge le mani in grembo.
- No. – scuoto il capo io, - È proprio questo il punto. Ormai sono passate quasi tre settimane, e non ci siamo mossi in nessuna direzione. C’è qualche possibilità che la gente che ti ha aggredito sia stata reclutata e Tempelhof, se non altro perché lì ce n’è di gente disposta a tutto per incasinarmi l’esistenza, ma se non ci muoviamo adesso rischiamo di perdere anche quel po’ di tracce che devono essere rimaste ancora in giro. Ora, non so bene chi potrei mandare a farsi un giro nel ghetto, quando si trattò della questione della mia morte mi hai detto che il giro se lo sono fatti Fler e Chakuza, ma con tutta la visibilità che hanno avuto recentemente non mi sembra il caso di mandarli in un posto dove rischierebbero grosso. – sospiro profondamente, non mancando di notare il brivido che ha percorso tutto il corpo sottile di Bill mentre parlavo della visibilità che Fler e Chakuza hanno acquistato con gli ultimi avvenimenti. – Qualche suggerimento? – concludo infine, tornando ad alzare lo sguardo su David.
Lui riflette per qualche secondo, incrociando le braccia sul petto. Il suo sguardo si fa cupo, visibilmente preoccupato, ed improvvisamente l’atmosfera della stanza, fino a qualche secondo fa gioviale e serena, si appesantisce tutta insieme, al punto che me la sento gravare addosso, tutta sulle mie spalle.
- Io penso—
- Se posso… - lo interrompe Bill, la voce bassa ma decisa. Entrambi ci voltiamo a guardarlo con più stupore di quanto il momento non lo richiederebbe. Io, soprattutto, dovrei essere abituato a vederlo intervenire in una discussione come questa, considerato il fatto che lo faceva spesso, quando stavamo insieme. A volte anche del tutto a sproposito. Ma da quel periodo sembrano passati decine d’anni, secoli addirittura, e quindi la sua voce suona quasi stonata, alle mie orecchie, come provenisse da un tempo diverso, arrivando al presente sotto forma di un’eco lontana e un po’ irreale. – Se ho capito bene, vorresti provare a capire qualcosa di quanto è accaduto, magari raccogliendo informazioni sparse per il ghetto, e poi… poi? Andare da Nyze e chiedergli conto e ragione di ciò che hai scoperto?
Scrollo appena le spalle, annuendo brevemente.
- Almeno così lo metteremmo alle strette. Sarebbe più facile cavargli qualcosa di bocca, se riuscissimo a trovare le informazioni giuste.
Bill riflette per qualche secondo. Non noto il sorriso divertito sulle labbra di David. Lo vedo, ma non ne prendo atto, non capisco che quest’uomo sa già cosa uscirà dalla bocca di Bill adesso e sta già ridendo in anticipo. Avendo tutte le ragioni per farlo, peraltro.
- Mi sembra una stronzata. – dice quindi Bill, e per poco non cado giù dalla sedia.
- Cosa…? – boccheggio, mentre David lascia andare la risata che ha trattenuto fino ad adesso. Bill si concede una smorfia, incrociando le braccia sul petto.
- Rifletti un attimo… - mi invita, pensieroso, - Se anche qualche informazione dovesse venire fuori, chi ti dice che sarebbe sufficiente a inchiodarlo? Ma poi… - sospira, - …due anni fa la situazione era diversa. Quello che abbiamo fatto Peter, Patrick ed io… quello che è successo quella notte non possiamo ripeterlo adesso. – abbassa un po’ lo sguardo, - Non puoi ripeterlo tu, è pericoloso, e… Dio, Anis, non sei stufo marcio di tutte queste pose da ghetto? – solleva nuovamente gli occhi, cercando i miei e trovandoli all’istante, - David è vivo per miracolo. Non posso dirti che… se fosse morto, ecco, forse anche io sarei con te, adesso, e vorrei soltanto vedere Nyze aperto in due come un vitello in macelleria, ma… - sospira ancora, socchiudendo gli occhi e stringendosi nelle spalle, - Se provassimo a lasciar perdere? Possiamo almeno provarci? A non sollevare un polverone ancora più grosso?
Schiudo le labbra, giusto perché mi pare il caso di informare la principessa che questa non è una questione che dipende solo da noi, che c’è un’altra parte, in gioco, e che quella parte potrebbe ritorcerci contro il nostro silenzio, attaccandoci di nuovo per indebolirci ancora di più, ma David mi interrompe prima ancora che io possa iniziare, schiarendosi la voce ed aspettando di avere la mia completa attenzione prima di cominciare a parlare.
- Io penso che Bill abbia ragione. – dice quindi, - Magari non funziona, e fra un paio di mesi verrà sventrato qualcun altro al posto mio… o magari tornano indietro e concludono il lavoro con me ricalcando quello che hanno già fatto. – aggiunge, deglutendo a fatica, - Ma magari invece va bene e riusciamo a smorzare la vicenda prima che diventi troppo ingombrante. Sai cosa vorrebbe dire? Vorrebbe dire lasciare in pace il mondo perché il suo tempo scorra come natura comanda, senza imporsi stile deus ex machina sull’universo, e vedere se si può tornare ad uno stato di normalità. – sorride con convinzione non simulata, quando mi appoggia una mano sulla spalla, - Il rischio è grosso, ma lo sarebbe anche mandando qualcuno dei ragazzi a Tempelhof. E le prospettive in questo secondo caso sono quelle di guerra aperta, mentre se funziona come suggerisce Bill… be’, la prospettiva è di pace. Non ti alletta l’idea?
Sospiro, già sconfitto in partenza. Il discorso di David fila, se non si tiene conto delle probabilità che avvenga una delle due cose piuttosto che un’altra. Probabilità che nel mondo del rap arrivi infine la pace e tutti ci si sieda attorno ad una tavola rotonda brindando alla nostra salute ed augurandoci vicendevolmente una vita prospera e serena? Zero. Probabilità che Nyze si senta incoraggiato a farmi trovare una testa di cavallo nel letto stasera appena mi ritiro a casa? Magari un numero piccolo, ma comunque superiore allo zero.
Lascio perdere, comunque, perché alla fine non è solo della mia vita che stiamo parlando qui, ma anche delle loro, e di quella di persone alle quali siamo tutti affezionati, e che nessuno di noi vuol vedere spegnersi sul pavimento sporco di un altro magazzino, che sia ora o fra un mese. Posso decidere di mettere a repentaglio la mia incolumità, se voglio, ma non posso giocare con quella degli altri. È per questo che sono morto due anni fa, perché mettere a rischio Bill non era un’opzione contemplabile. Quella deve essere la mia unica priorità, adesso, con la differenza che purtroppo le cose sono cambiate al punto che non si parla più solo di proteggere Bill, ma anche un sacco di altra gente. Non so se sarò in grado di proteggerli tutti— al diavolo. Certo che lo so. E certo che lo sarò.
Mentre usciamo dalla camera di David, una mezz’ora dopo, lasciandolo sul letto a stiracchiarsi fintamente sonnacchioso per darci ad intendere che si metterà immediatamente a dormire dopo che saremo andati via quando invece attenderà Schüster per due minuti e, quando non lo vedrà arrivare di sua spontanea iniziativa, si attaccherà al telecomando che ha appeso al letto premendo il tasto di chiamata finché il suo eroe non sarà giunto a salvarlo in risposta al suo grido d’aiuto, io penso che posso accettare questa improvvisa svolta nella politica interna del mio regno, ma forse non sono pronto ad accettarne le conseguenze. Prima fra tutte il fatto che, se voglio imporre la pace, non posso comportarmi come se fossi ancora in guerra.
E quindi, giocoforza, la principessa dovrà abbandonare la fortezza reale.
*
Faccio a pugni col pensiero per tutta la settimana successiva. Bill se ne accorge, naturalmente, perché è impossibile non vedere quanto diversamente mi comporto nei suoi confronti. Anche il fatto che cerchi il più possibile di non stare con lui nella stessa stanza, o il fatto che, alla fine, per la gioia di Karima i nostri programmi giornalieri abbiano cominciato a non coincidere più, se non nelle volte in cui siamo andati a trovare David, deve suggerirgli che qualcosa è cambiato, e quel qualcosa è il bisogno di trovarsi in questa casa. Riesco perfettamente ad immaginarmelo al mattino, nel bagno che mi sono premurato di lasciargli usare per primo come sempre, guardarsi nello specchio e chiedersi cosa stia facendo ancora in questa villa, perché non se ne sia tornato nel proprio appartamento, come sarebbe stato forse più giusto. Ieri Tom è venuto a trovarlo per portargli il cambio, e ha insistito ancora per convincerlo dell’opportunità di andare a stare altrove. “Puoi venire anche da me, se vuoi,” gli ha detto, mordicchiandosi incerto il labbro inferiore e giocando distrattamente col piercing, “Ma stare qui è… davvero poco conveniente, Bill, per un sacco di motivi.” E ha ragione, Tom, ha ragione da vendere.
Tanta ragione che ho visto Bill vacillare, nell’ascoltarlo, e non mi ha stupito. Così come non mi stupisce oggi entrare in camera sua e trovarlo con lo zainetto sul letto, intento a rassettare le proprie cose. Fuori dalla finestra, agosto finisce e si appresta a diventare settembre, e lo fa discretamente. Sembra che niente sia cambiato da quando Bill ha messo piede in questa casa, ma in realtà è passato un mese. Un mese sono un sacco di giorni. Non saprei dire se siano giorni persi.
- Bill? – lo chiamo piano. Lui non deve avermi sentito entrare, perché raddrizza la schiena all’improvviso e fa un passetto indietro mentre si volta a guardarmi, sussultando visibilmente.
- Sei tu. – dice con un piccolo sorriso, tornando a rilassarsi e lanciando un’occhiata imbarazzata al proprio zainetto. Probabilmente avrebbe preferito che non lo vedessi prepararlo. L’avrei preferito anch’io.
- Cosa fai? – gli chiedo, e glielo chiedo anche se lo so benissimo, perché spero che gli manchi il coraggio di rispondermi. Forse, se non sarà in grado di dirmi che va via, resterà. Penso a quanto mi sono lamentato, all’interno della mia testa, ovviamente, delle stupide regole che Bill aveva stabilito per far durare indeterminatamente questa convivenza, ed ora mi sento ridicolo nell’aggrapparmi a quelle stesse ridicole regole, arrivando a dirmi che forse se non sento qualcosa quella cosa non accadrà, pur di concedermi una speranza. Una sola. Di poterlo avere qui un po’ più a lungo. Fossero anche solo un paio di giorni.
Bill schiude le labbra, e vedo la fatica che fa nel provare a parlare. Lo capisco lì, che non vuole farlo davvero. Prima ancora che lui possa dirmi qualcosa a voce, il suo corpo mi sta già dicendo che se ci fosse anche solo un altro motivo per cui restare, resterebbe, perché i motivi che ha utilizzato fino ad oggi hanno perso validità giorno dopo giorno, e lui ha fatto di tutto per rimanere attaccato ai fili sottilissimi che erano diventati, ma ormai deve mollare la presa. E che se voglio che resti, devo dargli un motivo nuovo per farlo. Qualcosa di reale, con una fibra forte. Qualcosa che non si consumerebbe col tempo, che gli darebbe motivo di restare a lungo senza dover accampare pretesti e scuse uno dietro l’altro.
- Io penso… - esala stancamente, distogliendo lo sguardo e fissandolo insistentemente su un punto a caso nella parete dietro di me, - Anis, penso che dovrei—
- Non farlo. – lo interrompo, stringendo i pugni lungo i fianchi. Lui serra istantaneamente le labbra, tornando a guardarmi. I suoi occhi sono spalancati e colmi di paura ed emozione allo stesso tempo. Ricordo di aver visto una luce simile in questi stessi occhi, tanti, tanti, tanti anni fa. Lui era molto più piccolo, io molto più stupido. Entrambi eravamo molto più felici. Improvvisamente, quei giorni sembrano lontanissimi e incredibilmente vicini insieme. Impalpabili come sogni, ma straordinariamente reali. Non me ne accorgo consciamente, ma semplicemente escono dalla dimensione di incertezza in cui li avevo racchiusi chiedendomi per lungo tempo se fossero stati veri o meno, e ridiventano ricordi. Qualcosa di concreto, qualcosa che è successo davvero. Qualcosa a cui aggrapparmi.
Mi avvicino cautamente, perché il suo corpo trema impercettibilmente e ho paura di vederlo scattare di lato per evitarmi e fuggire attraverso la porta ancora aperta alle mie spalle. Un passo alla volta, sento il suo calore farsi più intenso, i suoi occhi più grandi, il suo profumo più forte, le sue labbra più invitanti. Mi sto lasciando guidare dall’istinto e non sto riflettendo su ciò che sto facendo. Non so se questo mi renda più o meno colpevole circa il baratro nel quale sto per ripiombare entrambi.
Bill, in ogni caso, non si muove. Non si muove mentre mi avvicino e non si muove nemmeno quando mi fermo, ad un paio di centimetri da lui. Basterebbe che mi dondolassi appena in avanti per sfiorare le sue labbra con le mie, ma non voglio che sia un movimento casuale a riunirci adesso. Non c’è mai stato praticamente niente di casuale in ciò che ci ha uniti, è sempre stata una nostra scelta. Impulsiva a volte, ben ponderata in altri casi, ma consapevole.
Sollevo le braccia e prendo il suo viso fra le mani. Accarezzo i suoi zigomi coi pollici mentre lui respira profondamente e si inumidisce appena le labbra. I suoi occhi non si staccano dai miei neanche per un secondo, almeno fino a quando, con un sospiro liberatorio, li chiude. Mi si stringe lo stomaco in una morsa di desiderio ed impazienza, e mi chino su di lui, poggiando le mie labbra sulle sue ed assaporandolo lentamente prima di bussare appena con la punta della lingua, implorandolo nella mia testa perché mi lasci passare. E lui si aggrappa con forza alla maglietta che indosso, ne strattona l’orlo con violenza e con rabbia, e quando accoglie la mia lingua nella sua bocca la cerca immediatamente con la propria, allacciandomi repentinamente al collo per tirarmi il più possibile contro di sé mentre le mie mani scivolano lungo il profilo del suo viso e del suo corpo, stringendosi attorno ai suoi fianchi.
E poi mi confondo, perché non so più dove sono, e per dove non intendo solo il luogo fisico, intendo anche il quando. Il tempo, il punto della mia vita in cui mi trovo adesso.
Le sue labbra che si muovono contro le mie sono affamate e cariche di desiderio bruciante, sono bollenti e dolci e sue, sue in un modo che mi ricorda quello che era un tempo, ma più profondo, sue come se quel pezzo di lui, quel pezzo che era stato mio e che è rimasto sepolto dentro di lui per tutto il tempo da quando me ne sono andato, stesse lentamente riaffiorando. È un Bill più piccolo e ingenuo, stropicciato e malconcio, che è stato male da morire e s’è consumato a furia di piangere, e per smettere di soffrire s’è conservato in un cassetto così da non dover più pensare di esistere e stare male anche solo per quello. E ora fa capolino, coi capelli scompigliati – e sono le mie mani che li scompigliano perdendocisi dentro, anche se ora sono molto più corti di quanto non fossero allora – e le guance arrossate – e sono i miei baci ad arrossarle, a dare loro quel colore acceso e brillante che tanto amavo – e si guarda intorno e mi chiede se può venire fuori, se adesso è sicuro, se non c’è qualche altro motivo per piangere.
E io me lo stringo contro e lo faccio con dolcezza, piano, perché è già abbastanza fragile e non voglio rischiare di spezzarlo. Voglio solo rassicurarlo. Sì che puoi venire fuori. Salta giù da dove ti sei nascosto. Io sono proprio qui sotto. Ti prendo al volo.
- Resta. – sussurro sulle sue labbra, mentre lo sollevo appena e lui stringe le cosce attorno al mio bacino. I suoi occhi sono persi nei miei, il suo respiro è affannoso e so che in questo momento, per lui, in tutto il mondo non esiste altro che sia degno di tutta l’attenzione che sta concentrando su di me.
- Mi viene da piangere. – mi confessa in un rantolo soffocato, - Dio, Anis. Mi viene da piangere.
Indietreggio appena, tenendolo stretto per la vita mentre chiudo la porta con un colpo secco e poi lo conduco verso il letto. Lo stendo sulle coperte e, appena si ritrova su una superficie morbida, lui si mette seduto e poi in ginocchio, sfila la maglietta, sbottona i jeans e poi allunga le braccia, cercando il mio corpo. Mi avvicino subito, puntando un ginocchio sul materasso mentre lui afferra la mia maglietta e la solleva fino a farmela passare sopra la testa, avventandosi immediatamente sul mio collo quando riesce a tirarla via, per poi lanciarla lontano.
Si lascia andare supino sul materasso e schiude le gambe per farmi posto. Io gli sfilo i pantaloni, prima di sistemarmi su di lui, e nel movimento lo zainetto rotola per terra, e mi rendo conto che era ancora vuoto. Sorrido mentre mi chino sul suo collo, riempiendolo di baci e succhiandone piano la pelle morbida e profumata, mentre lui prima getta indietro il capo in un ansito perso e poi affonda i denti sulla mia spalla, stringendo forte senza preoccuparsi di quanto male mi fa. Sa che posso sostenerlo, ed è così davvero, così come io so che nonostante tutti i mugolii sofferenti che mi sta propinando adesso, lui può sostenere un po’ di lentezza, perciò mi prendo il mio tempo per entrare nuovamente in confidenza col suo corpo, con le sue forme, col suo profumo. Sento le ossa appuntite del suo bacino premere contro la mia carne quando, ormai nudi, ci strofiniamo l’uno contro l’altro, e sento la morbidezza della sua pancia contro la punta della mia erezione quando, strusciandomi su di lui, salgo abbastanza in alto da sfiorargli l’ombelico.
Lui geme con una forza nuova, afferrandomi sotto le orecchie ed inarcando la schiena mentre mi spinge verso il basso, ed io percorro in punta di lingua tutto il suo corpo, baciando a lungo la stella sul suo inguine e riscrivendo con le dita il tatuaggio che gli ricopre il fianco sinistro, mentre sfioro con le labbra la punta della sua erezione e poi la prendo appena in bocca, accarezzandola per tutta la lunghezza con la lingua ed accogliendola il più profondamente possibile dentro di me.
Bill lancia un mezzo grido, affondando le dita fra i miei capelli e percorrendoli dalla radice alle punte mentre muove lentamente il bacino, aumentando il ritmo delle proprie spinte pian piano. E capisco che trova difficile fermarsi quando all’improvviso mi chiama per nome, la voce spezzata dagli ansiti di piacere.
Mi allontano da lui, risalendo un bacio dopo l’altro la stessa scia che mi ha portato verso il basso. Appena torno all’altezza del suo viso, Bill pretende le mie labbra, e mi stringe al collo con tanta forza che mi sento quasi mancare l’aria.
- Non lasciarmi andare più. – mi sussurra addosso mentre premo piano contro la sua apertura, - Mai più.
In qualche modo sento che mi sta dicendo che se lo voglio adesso mi impegno a volerlo per tutto il resto della mia vita. Ci stiamo legando in questo momento più di quanto non ci sia mai capitato in passato, ci stiamo legando ora più di quanto ci abbia stretti insieme il momento in cui il nostro sangue s’è mescolato sul letto del suo appartamento il giorno in cui sono morto. Ci stiamo dicendo adesso che dopo tutto quello che abbiamo vissuto, dopo tutto quello che è successo, siamo ancora disposti a prenderci e stringerci fra le dita per tutti i giorni che ci separano dal momento in cui moriremo davvero.
Bill mi sta dicendo di non fare l’amore con lui se non ci credo quanto ci sta credendo lui adesso.
Ma non è solo per fare l’amore con lui che annuisco e lo bacio per sancire la promessa prima di entrare dentro il suo corpo e riprendermi un posto che non ha mai smesso di essere mio di diritto.
*
È molto facile e molto naturale, poi, ricadere sdraiati sul letto nella nostra solita posizione. È molto più faticoso, per la verità, andare a ripescare nella memoria prove tangibili che questa fosse davvero la nostra posizione, perché sto parlando di un periodo che sembra troppo lontano perfino per esistere davvero, come quando a scuola ti parlano della preistoria, dell’uomo di Neanderthal e tutto. Ora, io non ho passato molto tempo fra i banchi di scuola a lasciare che il sapere venisse a me, ma ricordo la sensazione che provavo quando da ragazzino stavo seduto sulla mia seggiola ed ascoltavo la maestra parlare di cose avvenute centinaia e centinaia di anni fa, e non riuscivo a sentirle reali. Era come se mi stesse raccontando belle favole, forse realistiche, ma del tutto prive di concretezza. Fino a ieri, quando pensavo a me e Bill felici e insieme, mi sentivo allo stesso modo. Era una cosa che sapevo essere esistita. Potevo credere al fatto che fosse esistita. Ma non la percepivo più come mia. E anche se l’ultima mezz’ora ha ribaltato passato e presente rendendo reali tutte le cose che credevo di aver soltanto sognato, è difficile rientrare da subito in quell’ordine di idee.
Proprio per questo, in qualche modo, è straniante la facilità con la quale io mi sistemo disteso sul materasso e Bill si sistema disteso su di me. Passa le dita sul mio petto disegnando ghirigori invisibili e privi di senso, e io faccio lo stesso arrotolandomi fra le dita le ciocche un po’ più lunghe sulla sua nuca. Restiamo in silenzio a lungo, lo sento sorridere debolmente sulla mia pelle e guardo il soffitto perché ho paura di guardare in basso e non trovarlo lì. So che sentirei la voce della mia vecchia maestra cominciare immediatamente a parlare di quel periodo storico in cui centinaia di anni fa il re e la sua principessa vivevano felici nel loro prospero regno, e so che non riuscirei più a crederci. Perciò evito, e non voglio guardarlo, anche se me lo sento addosso e questo dovrebbe bastarmi a rassicurarmi. Non ci riesce. Perciò non lo guardo finché, all’improvviso, non si mette a parlare.
- Quando ho deciso che era meglio non vedersi per un po’… - la sua voce è un po’ impastata, incerta, come stesse cercando di raccontarmi un sogno essendo ancora in dormiveglia, - ero molto lucido. Presente a me stesso, dico. Ma non era sempre così, in quel periodo. Sia prima che dopo.
Lo osservo dall’alto, vedo le sue spalle sottili muoversi appena al ritmo del suo respiro. Appoggio una mano sul suo braccio pallido e magro, me lo stringo contro. Lui mugola un po’.
- Com’era quando non eri lucido? – chiedo a bassa voce. Sento il suo corpo vibrare ad ogni mia parola. È così sottile, Dio. Così piccolo, nonostante tutto. La ragione mi chiede uno sforzo, mi chiede di trattarlo da uomo, ma per me resterà sempre un ragazzino infreddolito in piedi accanto alla porta di casa mia mentre la notte oltre i lampioni che costeggiano la strada si fa scura e senza stelle.
- Pauroso. – risponde lui, continuando a giocherellare con le dita sul mio petto, - Non riconoscevo le cose. O le persone. Alle volte… - ride appena, nervosamente, - Una volta mi sono svegliato dopo aver dormito tipo per quattordici ore consecutivamente, e non ho riconosciuto Tomi. L’ho guardato e non sapevo chi fosse. Sapevo solo che era uno con la mia faccia ma un po’ diversa, e mi sono spaventato così tanto, Anis, così tanto che ho creduto che sarei morto. Ti è mai successo? Il mio cuore stava battendo troppo forte, avevo troppa paura, mi mancava troppo il respiro. Avrei potuto morire davvero.
Stringo la presa sul suo braccio, e lui sorride ancora un po’.
- Succedeva spesso?
Bill scrolla appena le spalle.
- Ogni tanto. – risponde, - Non ti saprei dire ogni quanto, perché per lo più non… non ero in me, capisci? Facevo cose che poi… non è che le dimenticassi, era come se non fossero successe davvero. Non ero io. – inspira ed espira a fatica, muovendosi un po’ fra le mie braccia per trovare una posizione più comoda. Glielo lascio fare, e torno ad adattarmi a lui non appena ha finito. – Il mio corpo, Anis, alle volte agiva in maniera completamente scoordinata rispetto alla mia mente. Puoi immaginare cosa significhi? – solleva una mano e la guarda con aria un po’ malinconica. La gira e la rigira, ne studia la forma. Lo faccio anch’io. Non posso immaginare cosa significhi, piccolo. Io ho sempre avuto il controllo del mio corpo. Ho perso il controllo di tante cose, ma mai di me stesso. – Non avevo più nulla. E non avevo più nemmeno un’identità. L’avevo uccisa, l’avevo uccisa da solo. Non avevo idea di come uscirne, mi sentivo così solo, Anis, e inutile, e senza speranza. – lo sento muoversi con un po’ di difficoltà. Si rigira, pianta una mano sul materasso ed una suo mio petto e si solleva un po’. Mi accorgo solo dopo qualche secondo che sta cercando i miei occhi, e quando lo capisco gli concedo all’istante la mia completa e totale attenzione. – Anis, noi stiamo facendo una cosa molto pericolosa. – mi dice. È incredibilmente lucido, fa quasi paura. – Io però la voglio fare, perché ti amo. Tu però— tu devi esserci. Perché io ho paura che potrei non esserci, ogni tanto. E quando io non ci sarò, devi esserci tu. Devi tenermi qui. – si stende nuovamente su di me, così che il suo corpo possa aderire completamente al mio, ma non smette di guardarmi negli occhi. È un contatto che non ha nulla di sessuale, questo. Credo voglia solo sentirmi addosso. Per me è la stessa identica cosa. – Devi tenermi con te quando mi perdo. Ho bisogno che tu lo faccia. Puoi farlo per me? Per noi?
Mi inumidisco le labbra, sollevando una mano ed accarezzandogli una guancia, dallo zigomo fino al mento. Gli sorrido il più serenamente che posso, e non posso dirgli che non ho paura, perché ce l’ho. Mi sta consegnando la sua vita in mano, di nuovo, come tanti anni fa. Ma ora è più grande, lo sta facendo con una consapevolezza maggiore. Questo aumenta anche la mia responsabilità. Ma se mi chiede se sono disposto a prendermela, la mia risposta non può essere che una.
- Lo farò.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Commedia, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza (entrambi accennati).
Rating: R
AVVISI: Slash.
- "È come se avessi il cervello ingombro di cose che però non riesco a vedere, come una vecchia soffitta riempita di antichità tutte coperte da veli bianchi e polverosi."
Note: Immagino che molte di voi si stessero chiedendo se io fossi ancora parte di tutto ciò o non fossi piuttosto saltata giù dalla nave ammiraglia perdendomi fra i flutti XD Ci sono ancora, per vostra disgrazia. E anche per disgrazia di David, visto che tocca di nuovo a lui parlare. Aha! Già, non è morto. Come il titolo della storia suggerisce, d'altronde. :D
Vorrei dedicare questa shot a tutte le donne fra voi che hanno pensato "ma omg, da quand'è che le shot sono diventate così lunghe?" XDDD Il mio avvento nella LTP di USW si compie con una shot brevissima. Ma piena di sorprese. E di meraviglie.
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E IL GIORNO IN CUI SONO RISORTO

Apro gli occhi senza crederci, perché giuro che quando li ho chiusi ero convinto che non ce l’avrei fatta. La cosa che sento maggiormente, più ancora del dolore un po’ sordo, un po’ attutito, all’altezza dello stomaco, è un gran senso di confusione e, al contempo, vuoto in testa. È come se avessi il cervello ingombro di cose che però non riesco a vedere, come una vecchia soffitta riempita di antichità tutte coperte da veli bianchi e polverosi. Sai che sotto dev’esserci qualcosa, ma appena ci metti piede non hai idea di cosa. Quindi è come se non ci fossi niente, tu guardi questa distesa di bianco ingrigito e ti dici “oddio, ma cosa c’è qui dentro? Non c’è nulla”, quando magari hai sotto il naso un originale di Mirò, solo che non lo sai perché non puoi vederlo. Ecco, la mia testa è come se fosse questa enorme stanza piena di roba coperta di cui mi sembra di non sapere niente. Ho un po’ paura di sollevare i teli, però, perché magari se quei teli ci sono, in primo luogo, c’è un motivo. Uno non va in giro coprendo opere d’arte a caso, se lo fa dev’esserci una buona ragione.
- Signor Jost…? – la prima voce che sento non mi è nota. È una voce femminile un po’ acuta, piuttosto dolce, e non ricordo di averla mai sentita. – Oddio, s’è svegliato… dottor Schüster! – la sua voce si fa più alta e più fastidiosa, mi pizzica il timpano con violenza e per qualche secondo, mentre serro gli occhi infastidito dalla luce che entra dalla finestra, mi chiedo quanto tempo abbia passato qui a dormire se luci e suoni anche moderati mi sembrano così insopportabili.
Sento un frusciare di vestiti al mio fianco e mi forzo ad aprire almeno un occhio, per sbirciare cosa stia accadendo. Vedo poco, comunque, la mia vista è ancora annebbiata. Spero sia qualcosa di temporaneo.
- Abbassate le luci… - borbotto, e la mia voce suona aliena alle mie stesse orecchie. È gracchiante e ruvida, come non la usassi da mesi. Ho la gola secca. Comincio a preoccuparmi davvero: da quant’è che sono qui?
- Signor Jost, ricorda perché è qui? – chiede una voce maschile profonda ma calda, che immagino appartenga al dottor Schüster.
- Non proprio… - rispondo. Cerco di identificare la sua figura, ma la luce del sole si riflette sul biancore candido del suo camice e mi abbaglia, impedendomi di riconoscere la sua fisionomia. – Abbassate le luci, per favore.
- Infermiera. – dice immediatamente il dottor Schüster, e in pochi secondi la luce diventa più fioca. Sbatto le palpebre un paio di volte e poi, finalmente, apro gli occhi, trovandomi di fronte un uomo alto e abbronzato, con lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle e vagamente arricciati sulle punte e un pizzetto perfetto ad incorniciare labbra ugualmente perfette, mentre occhi azzurri dal taglio elegante mi scrutano con apprensione e partecipe benevolenza. Penso di essermi innamorato. – Signor Jost, sono il dottor Schüster, il medico di turno. Il dottor Neuer l’ha affidata alle mie cure. Mi dica come si sente.
- Ora molto meglio. – ammetto, ma tralascio di aggiungere “perché ho potuto posare gli occhi su di te, o divina creatura. Sfila il camice e mostrami i tuoi pettorali, li cospargerò di unguenti profumati e ti nutrirò coi frutti della terra. Infermiera! Spalanchi le finestre, che la luce entri e investa questo figlio dei cieli”. Mi sovviene all’improvviso che ancora non so da quanto sono qui. Guardo il dottor Schüster e cerco di non lasciar trasparire quanto voglio che butti fuori chiunque ci sia in questa stanza oltre noi, si denudi e mi prenda qui su questo letto. – Quanto tempo è passato da quando sono arrivato? – chiedo con finta serietà, mentre lo immagino sollevarmi tra le proprie possenti braccia e invitarmi a ballare la Lambada.
- Una settimana. – risponde lui, sedendosi sul bordo del letto. Oh, sì, dottor Schüster, perfino il cigolio delle molle del materasso sotto il tuo dolce peso è musicale. – È arrivato privo di conoscenza e quasi del tutto dissanguato. È un miracolo che siamo riusciti a prenderla in tempo, ed è ancora più miracoloso che lei sia riuscito a svegliarsi. È un uomo molto coraggioso, signor Jost.
No, vorrei dirgli, se fossi un uomo molto coraggioso mi solleverei, ti guarderei dritto negli occhi e ti direi di possedermi con forza, tanto da far sbattere la testiera del letto contro la parete fino a sfondarla. Lui però mi sorride all’improvviso, e il cielo si apre mostrando cori di angeli che cantano a festa per celebrare il momento, mentre il mondo diventa più bello, le guerre finiscono, la fame e la povertà nel mondo vengono sconfitte e putti alati coi sederini tondi suonano l’arpa volteggiando attorno a noi, leggeri come bolle di sapone. Mi sposi, dottor Schüster. Lei è l’uomo della mia vita.
- Che cosa mi è successo? – chiedo, ma non sono sicuro se gli sto chiedendo di spiegarmi com’è che sono finito qui o se piuttosto non voglio sapere se per caso nella mia flebo sia disciolta qualche sostanza stupefacente, o del viagra, o comunque qualcosa che possa giustificare le condizioni mentali pietose in cui mi trovo adesso guardando quest’uomo che riluce come una stella e sprizza testosterone da ogni poro della pelle caramellata e del tutto priva di imperfezioni.
- Per la verità, speravamo potesse dircelo lei. – dice lui, stringendosi appena nelle spalle, - Il dottor Neuer ha mantenuto il più stretto riserbo, sulla sua condizione, su esplicita richiesta del signor Ferchichi. Perciò immagino che se lei non ricorda cosa le è successo l’unica soluzione sia aspettare che il signor Ferchichi venga qui, non appena l’avremo avvertito, e possa spiegarglielo in prima persona.
Mi basta sentir parlare di Bushido perché nella mia testa improvvisamente tutto ritorni chiaro. Osservo quest’uomo stupendo entrare nella soffitta nascosta dentro al mio cervello e, invece di prendermi sul divano polveroso disteso sopra il quale io lo attendo nudo e con le gambe già spalancate e issate fin sopra le spalle, mettersi a sollevare tutti i teli da tutte le cose che coprono. Vengono fuori i tizi che mi hanno rapito, viene fuori l’incisione sul mio stomaco, che non ho ancora nemmeno visto, viene fuori il mio sangue, il magazzino buio e sporco, le casse accatastate in un angolo ed io che mi spacco qualcosa finendoci sopra. Viene fuori la storia degli ultimi mesi della mia vita, e non solo della mia, ma di quella di un’etichetta della quale non dovrebbe interessarmi niente, e che invece mi sta a cuore, perché ormai ne sono parte.
Soprattutto, comunque, vengono fuori le ultime parole che ho sentito prima di essere torturato fin quasi a morte. E sono parole che devo riferire a chi di dovere.
Sollevo gli occhi sul dottor Schüster e mi mordo un labbro per non pensare niente di sconveniente.
- Lo chiamo io. – dico. Lui inarca un sopracciglio perfettamente curato. Da ciò – dal sopracciglio e dal modo in cui lo inarca, dico – deduco che è gay, ma riprenderò la questione in seguito.
- Signor Jost, - mi informa, - non è la prassi.
Sorrido serenamente.
- Lo chiamo io. – ripeto. Il dottor Schüster sospira, solleva la cornetta, digita un codice sulla tastiera e poi mi appoggia il telefono in grembo, alzandosi in piedi ed uscendo dalla stanza dopo aver fatto cenno all’infermiera di seguirlo. Il telefono squilla un paio di volte, e poi Bushido risponde.
- Pronto? – dice, col tono casuale di chi non aspetta una telefonata importante. Io prendo un bel respiro, prima di parlare.
- Muovi il culo. – dico quindi, - Devo parlarti.
A lui il respiro manca del tutto, per qualche secondo.
- David? – annaspa. Sento accanto a lui un urletto agitato. È con Bill. – David, stai bene?
- Be’, sono ancora vivo. – rispondo scrollando le spalle. – E ora muoviti e vieni qui. Abbiamo un problema.
Bushido esita ancora per qualche secondo, e poi probabilmente intuisce di cosa sto parlando. Arriva meno di mezz’ora dopo, e con lui, come avevo immaginato, c’è anche Bill.
Nel tempo che passa fra il momento in cui la nostra chiamata s’interrompe e quello in cui lui arriva, io faccio mente locale e cerco di trovare un senso alle ultime parole che l’uomo col volto coperto mi ha sussurrato prima di cominciare ad aprirmi in due. Sono parole che in un mondo normale non dovrebbero avere senso, ma vivere a stretto contatto con Bushido, sapere che il suo uomo migliore, il più vicino a lui, voleva vederlo morto mi ha dato un’idea molto precisa di cosa significhino i legami fra uomini nel mondo da cui Bushido proviene, e che ha trascinato di forza nello show business tedesco perché voleva metterci le mani sopra, e poteva farlo solo conoscendolo bene. Ha dovuto portare il suo mondo nel nostro per stravolgerne le regole e riuscire a governarle, manipolarle come ha sempre fatto, in proprio favore, e quindi, sapendo questo, le ultime parole che ho sentito quando credevo sarei morto non solo assumono senso, ma assumono improvvisamente anche un peso non indifferente. Mentre aspetto, spero che Bushido porti con sé un paio di uomini di scorta in più, per lasciarmeli, perché ora che sono vivo si saprà in giro, ed è evidente che non posso restare da solo.
Vorrei chiederglielo subito, appena lo vedo spuntare, ma appunto noto che c’è Bill, con lui, perciò mi trattengo.
- David! – strilla Bill immediatamente, avanzando verso di me così velocemente che ho l’impressione che, se non avessi la flebo e fili che mi collegano a svariati macchinari da tutte le parti, mi salterebbe addosso e mi si siederebbe in grembo. Cosa che sono felice lui non possa fare, in parte perché oddiolamiapancia e in parte perché i segni del passaggio del dottor Schüster sono ancora evidenti sul mio corpo. Ciò che non può evitare di fare, comunque, è portare con sé un enorme cesto di frutta. Naturalmente non lo porta lui, anche perché deve pesare un quintale, e naturalmente non lo porta nemmeno Bushido, perché figurarsi, motivo per il quale due poveri infermieri un po’ sfigati, di cui uno con pancetta che tende il camice fino a sollevarlo e scoprire un po’ i fianchi, sono stati reclutati ad uso e consumo della sua tranquillità, e nel momento in cui lui fa il suo ingresso in questa stanza loro lo seguono con aria mesta, posano il cesto sul mio comodino e poi escono borbottando che la loro laurea non doveva servire a questo.
- Bill. – gli sorrido io, - Ma cos’è questa roba?
- Frutta. – risponde lui, annuendo compitamente ed aspettando che Bushido gli avvicini la sedia di plastica al mio letto per sedersi compostamente, la schiena dritta e le mani in grembo. – Mi hanno detto che fa bene.
- Ti hanno detto, eh? – rido io, e non appena lo faccio il dolore mi scoppia dentro così forte e improvviso da costringermi a piegarmi in due. Non riesco nemmeno a lamentarmi, ho il terrore che qualsiasi suono esca dalla mia bocca lo renda più forte, e voglio soltanto che smetta. Bill mi si piega addosso, poggiandomi una mano sulla spalla.
- Dada, stai bene? – chiede con aria preoccupata.
Mi volto a guardarlo per un secondo, e tra le lacrime – lacrime di dolore: di nuovo – riesco a vedere che sono pieni di lacrime anche i suoi occhi. Cerco di riprendermi, mi metto dritto, appoggio la schiena al cuscino sollevato dietro di me e respiro lentamente.
- Starò meglio quando le ferite si saranno richiuse, suppongo. – rispondo in un borbottio basso. Bill si morde un labbro, stringendosi nelle spalle.
- Che cosa ti hanno fatto? – mi chiede. Io esito, lancio un’occhiata a Bushido. Lui si schiarisce la voce e poggia entrambe le mani sulle spalle di Bill, in un gesto collaudato e paziente che mi fa inarcare un sopracciglio. Quant’è che ho dormito? Come ha detto il dottor Schüster? E cosa mi sono perso, nel mentre?
- Bill, forse è meglio se esci un attimo. – dice quindi. Bill si gira a guardarlo, oltraggiato.
- Cosa? – strilla, - No! Non esco affatto, stiamo parlando di David, qui, voglio sapere che gli è successo!
Mi allungo a stringere una delle sue mani fra le mie, e lui torna immediatamente a posarmi gli occhi addosso. Ha le sopracciglia inarcate verso il basso e l’espressione di chi sa già di dover cedere.
- Ti racconterò tutto dopo, Bill. – dico condiscendente, - Ora lasciaci da soli per un paio di minuti, vuoi?
Non vuole, naturalmente, ma lo fa. Se ho capito cosa sta succedendo – e l’ho capito – è solo una di tante cose che, per certi versi, riprenderanno a funzionare come un meccanismo ben oliato. La situazione è quella che è, e tutti noi non possiamo che affidarci alle mani di quest’uomo morto e risorto e sperare che non gli si aprano delle stimmate enormi sui palmi mentre noi cerchiamo di trovare posto per tutti fra le sue dita lunghe e proporzionate.
Sono ancora convinto che ci sia del viagra nella mia flebo.
Quando restiamo soli, l’atmosfera è tesa. Lui sa che ho qualcosa da dirgli, qualcosa di grave, e sta pensando che la situazione gli sembra già abbastanza brutta adesso che non la sa, perciò si chiede se sia effettivamente opportuno peggiorarla ulteriormente aggiungendo dettagli al quadro. Io, però, sono un manager. Sono uno che risolve i problemi. I dettagli sono il mio pane quotidiano. Quando Bushido è morto, si è affidato a me perché non poteva morire da solo. Ora gli toccherà fare lo stesso, se non vuole che capiti qualcosa di peggio.
- Chi è il medico? – gli chiedo quindi, - Lo conosci?
- Ma di chi parliamo? – chiede lui, preso alla sprovvista, spalancando gli occhi e sedendosi dove stava seduto Bill fino a poco fa, - Neuer?
- No. – rispondo io, scuotendo il capo, - Schüster. È lui che mi ha visitato quando mi sono svegliato.
- Ah. – annuisce Bushido, - È uno bravo. Lo conosco poco, ma sembra affidabile. Perché me lo chiedi?
- Perché voglio sposarlo. – annuisco compitamente, - È bellissimo. Dammelo. Me lo sono meritato. Sarà il mio indennizzo per essermi quasi fatto sventrare a causa tua.
Bushido ride di gusto, mentre io mi limito ad un sorriso divertito, visto che ho scoperto che da ora fino a chissà quando le risate rientreranno nella lunga lista di cose che non potrò fare.
- Mi dispiace. – dice quindi. Sta ancora sorridendo ed è bello come il sole. Io palesemente non potrò farcela a lungo. Medito di far causa all’ospedale. – Non ho mai voluto che ti succedesse una cosa simile.
- Ma sei venuto a salvarmi. – dico quindi, sistemandomi meglio contro il cuscino.
Lui mi lancia un’occhiata intensa, facendosi subito serio.
- Non ti avrei mai lasciato lì. Se anche mi fossi morto fra le braccia per strada— Non voglio nemmeno pensarci. Ti avrei portato in ospedale comunque e lo avrei messo sottosopra finché non ti avessero ricoverato.
Sorrido appena, piegando un po’ il capo.
- Anche se ciò avrebbe significato far ricoverare un cadavere? – chiedo a bassa voce.
- Sarebbe stato un cadavere a cui tenevo. – chiude il discorso lui. Io sorrido ancora.
- Grazie. Ma spero tu abbia pensato alle guardie del corpo da lasciarmi, perché ora che sono vivo—
- C’erano anche mentre eri morto. – mi interrompe lui. Alle volte, quando parlo con Bushido mi rendo conto che, quando siamo insieme, usiamo i termini vivo e morto con una naturalezza disturbante, come se entrambi stessero ad indicare due condizioni passeggere e semplicemente reversibili. Questa cosa mi dà i brividi. Per un lungo periodo, non sono riuscito a capire perché Bushido riuscisse ad usare espressioni tipo “quando sono morto” invece di “quando ho finto di morire”. Adesso che, fosse anche solo per una settimana, sono morto anch’io, riesco a capirlo meglio. Alla fine, l’unica conseguenza che ha la morte sul morto è quella di togliergli pezzi di vita. E questo è capitato a Bushido come pure a me, anche se nessuno di noi due è morto davvero, nel senso definitivo del termine.
Scivolo un po’ lungo il materasso, digrignando i denti quando sento i punti tirare. Devono essere un’infinità. Dio mio, la mia pancia sarà sfigurata per sempre. La mia bellissima, piattissima pancia. Sto soffrendo così tanto che il solo pensiero che Bushido possa rifiutarsi di regalarmi il dottor Schüster per il mio compleanno mi sembra un’eresia, un’ingiustizia bella e buona. Guarda cosa hai fatto alla mia pancia, Bushido. Dammi la mia ricompensa.
Lui mi aiuta, comunque. Scosta le lenzuola dal mio corpo e le tiene sollevate mentre io sollevo il camicione patendo le pene dell’inferno. Finalmente riesco a vedere quello che mi hanno scritto addosso.
Bushido schiude le labbra e spalanca gli occhi. Allunga una mano e sfiora i contorni delle lettere con la punta di un dito, così lieve che nemmeno lo sento. È come se si rendesse conto di quello che è successo per la prima volta, e probabilmente è davvero così dato che, per come mi avevano aperto e per tutto il sangue che dovevo avere addosso, non doveva essere semplice capire che forma avessero le mie ferite quando mi hanno trovato.
- Vendetta. – mormora pianissimo, deglutendo a fatica. Poi mi solleva gli occhi addosso, e il suo sguardo è pieno di timore. – Tu sai chi è stato. – dice, e gli trema la voce.
Io annuisco e inspiro. Moderatamente, però, sennò fa male.
- Nyze. – dico in un soffio, e vedo gli occhi di Bushido tornare indietro di mesi mentre ripensa all’etichetta che ha lasciato sprofondare nel nulla e agli uomini che ha perso e a Nyze, Nyze soprattutto, che non riusciva ad arrendersi al fatto che l’Ersguterjunge sarebbe affondata assieme al suo signore e padrone, e che ha piantato su un casino epocale prima, durante e dopo essersene andato. E mentre Bushido ricostruisce pezzi di storia e si rende conto di ciò che ci aspetta, io mi dico per un attimo che sono quasi morto per una lite fra rapper e poi mi correggo da solo. No, io non sono quasi morto per una lite fra rapper, io sono morto per una guerra del ghetto. Perché in qualche modo assurdo il ghetto è casa mia, anche se non ci ho mai messo piede. Perché Bushido l’ha portato di forza nella mia vita, perché qui non stiamo parlando di due rapper che si insultano a caso, qui stiamo parlando di fratelli che fanno giuramenti e si uniscono e fanno fronte comune contro sa Dio solo cosa, perché il problema del rap è che per farlo bene devi essere arrabbiato, ma arrabbiato davvero, e questa gente, in un modo o nell’altro, lo è, lo è tutta. E io non ho rischiato la vita per un’etichetta, ma per una famiglia. Una famiglia spaccata i cui membri adesso sono sparsi in giro per la città, e Nyze ne faceva parte, ma ora vuole solo distruggerla. E Dio solo sa fino a che punto.
Bushido deglutisce, annuendo lentamente. Ha le mani posate sulle ginocchia, adesso, e sono talmente in tensione che posso vedere le linee di tutti i tendini. I polpastrelli sono bianchi, tanta è la forza con cui li affonda contro il tessuto ruvido e spesso dei jeans scuri.
- Ho capito. – dice quindi, alzandosi in piedi. – Non preoccuparti di niente. Pensa solo a rimetterti. Riusciremo a gestire la cosa in maniera congrua.
- Qual è la maniera congrua? – chiedo stancamente, abbassando nuovamente il camicione e sistemandomi addosso il lenzuolo, - Rapirai uno dei suoi e gli scriverai addosso “marameo”?
Bushido ride un po’, grattandosi nervosamente la nuca.
- No, penso che—
- Non fare niente finché non sarò uscito da qui. – dico serio, - Aspettami, prima di prendere una qualsiasi decisione. Non fare niente di avventato.
La sua espressione un po’ stupita dall’interruzione si trasforma in un sorriso carico di tenerezza, mentre si avvicina e mi accarezza con una mano bene aperta la testa e il collo, prima di chinarsi a lasciarmi un bacio sulla fronte.
- Stavo appunto dicendo: “penso che aspetterò che tu sia uscito da qui”. E poi vedremo insieme, Jost. Per risolvere i problemi mi serve uno che sia capace di farlo.
Sorrido, tirando su un angolo della bocca con aria spavalda.
- E io, sfigurato o no, sono capace eccome.
- Appunto. – ride ancora lui. Poi mi volta le spalle, salutandomi con un cenno della mano. – Non addormentarti subito. – mi dice quindi, e io non capisco che intenda fino a quando, un paio di minuti dopo, il dottor Schüster mi raggiunge in camera.
- Il signor Ferchichi mi ha detto che aveva bisogno di me. – dice con un sorriso affabile, avvicinandosi e maneggiandomi con premura. – Sente fastidio da qualche parte?
Sorrido con estrema soddisfazione, mentre mi appresto a spiegargli esattamente dove il fastidio sia più pressante e come aiutarmi ad estinguerlo.
Genere: Commedia, Romantico, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Tom, Tom/David.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Incest, What If?, Slash.
- La maggior parte degli abitanti della Terra non lo sa, ma ciò che molti credono governato da un dio superiore - le leggi della fisica, l'equilibrio del pianeta, vita e morte di ogni organismo che calchi la superficie terrestre - è regolato in realtà da due dei, incarnazioni divine dei principi di Yin e Yang. Grazie a loro il pianeta può continuare a vivere, guidato dall'unico principio di compensazione che riesce a tenere in equilibrio tutto, togliendo da qualche parte per aggiungere altrove e preoccupandosi di rimettere tutto in pari quando gli equilibri vengono sconvolti.
Si tratta, comunque, di divinità un po' particolari: caricate dai sentimenti degli esseri umani, sopravvivono per un periodo di tempo ben preciso alla fine del quale la loro energia si esaurisce, ed esse decadono, costringendo i pochi esseri umani custodi di questo mistero a prendere provvedimenti, trovando qualcun altro che possa sostituirli.
Bill e Tom Kaulitz hanno una parte, in questo gioco del quale non conoscono le regole. Il loro destino sembra scritto dal momento stesso in cui hanno aperto gli occhi sul mondo, ma qualcosa, nel corso delle loro vite, è accaduto, qualcosa che ha cambiato le carte in tavola e che ora rischia seriamente di condannare al fallimento ciò per cui i protettori delle divinità stanno lavorando da ormai quasi vent'anni. Assieme al futuro del pianeta.
Note: Questa storia esiste ormai da anni. Avrei voluto scriverla per la scorsa edizione del Big Bang, ma in realtà già allora si trattava di un'idea vecchia, una cosa che avevo plottato almeno l'anno precedente e che mi tormentava, perché la amavo profondamente XD e morivo dalla voglia di buttarla giù, ma la consapevolezza della sua enormità mi rendeva impossibile il mettermi lì e farlo. Sapevo che mi avrebbe rubato le vite (poi invece è bastato mettermici tranquilla e credo di averla finita in un paio di settimane, ma ciò non è assolutamente il punto della questione u.u;;;), perciò me ne tenevo lontana. Alla fine, il Big Bang mi ha dato la spinta definitiva per scriverla per bene, e di questo sono molto felice <3 Anche perché così sono stata tanto fortunata da ricevere in dono l'art della Claudia, e voglio dire. *piange splendore* ♥
(Citazione iniziale rubata dalla splendida Hass, di Bushido e Chakuza. ♥)
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STARCHILDREN

Die Engel kamen wieder zu spät
ja der Teufel hat den Hass in meine Wiege gelegt
und er zwang mich seit dem es in mir zu tragen
deswegen hab ich mich als Kind oft geschlagen

Il sole era già alto nel cielo mattutino eppure vagamente fosco di quell’assaggio d’autunno a Lipsia, quando Jörgen Larsen, in un elegante completo nero liscio il cui unico tocco di colore era la camicia, di un bell’arancione acceso, che faceva capolino dal bavero della giacca chiusa, fece il proprio ingresso all’interno della clinica. Alle sue spalle, due ragazzi incastrati in completi simili ma decisamente fuori luogo sulle loro figure esili e giovanili, avanzavano silenziosi, cercando di tenere il passo. Li si sarebbe detti sui diciassette, massimo diciotto anni.
- Ora fate i bravi. – disse l’uomo, ufficialmente CEO della Universal Music International ma giunto di gran corsa a Lipsia sotto ben altre vesti, - E siate silenziosi. Parlate solo se interpellati, ma nessuno vi interpellerà, perciò limitatevi a tacere e basta. – ordinò senza voltarsi a guardarli.
David Jost, il più piccolo dei due, non visto, si lascio andare ad una mezza pernacchia silenziosa, ma fu l’occhiata truce del suo compagno, Frank Briegmann, proprio lì al suo fianco, a zittire sul nascere qualsiasi altro desiderio di rivolta simile, e David tornò a camminare silenziosamente dietro Larsen, lasciandosi condurre con decisione attraverso i bianchi e splendenti corridoi dell’ospedale, finché non fu invitato a fermarsi di fronte ad una porta chiusa, dall’interno della quale veniva il suono cristallino della risata di una donna.
Raccomandandosi un’ultima volta perché il silenzio fosse mantenuto dai suoi sottoposti, Larsen sorrise apertamente e spalancò la porta, osservando una donna piuttosto bella e giovane, per quanto forse un po’ troppo magra, giocare con un neonato paffuto coi capelli neri e la pelle arrossata, mentre un altro neonato, in tutto e per tutto uguale, restava silenzioso e dormiente fra le braccia dell’uomo che ai piedi del letto sedeva, e che i due ragazzi guardarono con curiosità, inquadrandolo subito come un uomo molto nervoso e tremendamente a disagio, nel suo completo pantaloni e camicia di lino bianco.
- Simone! – salutò Larsen, facendo il proprio ingresso nella stanza, - Carissima! Come stai?
- Jörgen. – lo salutò a propria volta lei, sorridendo estasiata e ravviando una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio, - Sto bene, è un piacere vederti. Non credevo saresti arrivato così presto.
- Sarei venuto anche prima, mia cara, – rise lui, chinandosi a stringerla in un abbraccio fraterno e baciandola lievemente su una guancia, - se non avessi creduto che sarebbe stato poco opportuno, da parte mia, presentarmi nel mezzo del tuo travaglio. Ho pensato – aggiunse con una risatina, - di lasciarti tempo per riprenderti. Ecco perché sono qui oggi e non c’ero già ieri.
Simone si allungò a stringergli cordialmente una mano, sorridendo ancora.
- Grazie. – annuì, gli occhi lucidi, - È importante per me sapere che mi siete vicini.
- Non potrebbe essere altrimenti, cara. – la rassicurò lui, spostando la propria mano libera su quella di Simone, e stringendo a propria volta. – Dunque! – disse poi, sedendosi sul materasso sottile, proprio al fianco della donna, - Guardiamoli, questi due prodigi!
Simone ridacchiò imbarazzata, mostrandogli il neonato che teneva stretto fra le braccia.
- Questo è Tom. – disse, indicando il bambino con un cenno del capo, - E il dormiglione lì con Jörg è Bill.
- Due nomi deliziosi. – annuì deciso Jörgen, mentre sia David che Frank non potevano fare a meno di pensare a quanto, più che deliziosi, quei nomi sembrassero adatti a due personaggi dei fumetti. – E due bambini deliziosi, in realtà. Ma non potevamo aspettarci niente di diverso da te, mia cara, sei sempre stata brillante e importantissima per tutti noi. Che gioia è stata quando in Sede abbiamo saputo che i Divini avevano scelto proprio te per continuare la loro eterna opera!
- Già… - annuì la donna, lanciando un’occhiata allarmata al marito, sempre più nervoso, ed osservandolo alzarsi in piedi e deporre il bambino nella propria culla, prima di uscire dalla stanza senza neanche salutare. – Perdonatelo. Non riesce proprio… - e scosse il capo, come a cacciare via i pensieri molesti. – Piuttosto, Jörgen, siete davvero sicuri che siano…
- I segni, mia cara! – la interruppe l’uomo, entusiasta, - I segni lo confermano! Presto il muro verrà smantellato, l’equilibrio si spezzerà ed i prodromi della Fine saranno chiari a tutti. Ma ci stiamo preparando, cara, e questi bambini sono la chiave. I nostri indovini – aggiunse con un sorriso, stringendole rassicurante una spalla, - concordano tutti, cara. Il tempo è giunto. Da qui a una ventina d’anni il mondo sarà sull’orlo del collasso, ma noi saremo pronti. Tu lo sarai. E questi meravigliosi bambini lo saranno.
Simone sorrise a propria volta, allungandosi a deporre Tom al fianco del fratello per poi lasciarsi stringere da Jörgen, commossa.
- Grazie. Davvero, grazie mille.
- E qui entriamo in gioco noi. – continuò subito l’uomo, sciogliendo l’abbraccio per indicare alla donna i due ragazzi, i quali – sentendosi improvvisamente investiti di un’attenzione che, fino ad un momento prima, non li aveva nemmeno sfiorati – si irrigidirono ai loro posti, stringendo i pugni lungo i fianchi. – Oltre che per congratularmi, naturalmente, sono venuto per presentarti David e Frank, mia cara. Saranno i tuoi referenti per il futuro, quando ci sarà bisogno.
- Ma sono poco più che ragazzini… - commentò lei, fissandoli entrambi con un certo stupore e costringendoli a distogliere lo sguardo, imbarazzati.
- Be’, lo sono adesso! – la corresse Larsen con una risata tonante, - Ma abbiamo già cominciato ad istruirli nel modo più completo possibile, e vedrai: saranno pronti, quando avrai bisogno di loro. Ora, mia cara… - aggiunse quindi, nella voce una nota grave del tutto straniante rispetto a quella cordiale di poco prima, - per quanto mi secchi ribadire l’ovvio, temo vada fatto. I bambini non dovranno mai sapere niente di tutto questo e, almeno fino ai quindici anni, farò in modo che non vi siano contatti fra voi e la Santa Sede.
- Quindici anni… - annuì mestamente Simone, - Così tanto?
- Sì, cara. – la consolò lui, accarezzandole bonariamente la schiena, - È necessario, perché nessuno sospetti niente. La prossima volta che sentirai parlare di noi, - aggiunse con un sospiro, - i tuoi bimbi saranno grandi, ed anche David e Frank lo saranno. Ed io… io spero solo di esserci ancora.
- Non dire così, ti prego. – disse la donna, un’espressione più triste a turbare i lineamenti dritti e fieri del viso, - Andrà sicuramente tutto bene.
- Oh, Simone, - sorrise ancora lui, - su questo non c’è il minimo dubbio. Credimi.
Simone rispose al suo sorriso e poi lo girò anche ai due ragazzi, salutandoli e ringraziandoli con un cenno del capo, prima di invitarli ad avvicinarsi alla culla, per sbirciare i bambini assopiti fra le lenzuola. David sorrise, allungando una mano verso il bambino ancora sveglio.
- Tom, mh? – chiese sottovoce. Il bambino gli strinse l’indice fra le dita paffute, e continuò a farlo finché, piangendo, suo fratello Bill si svegliò.
*
- Tomi… - lo chiamò Bill, mettendo su il tipico broncio sulle linee del quale acconciava le labbra ogni volta che voleva farlo sentire in colpa perché non gli concedeva qualche favore di importanza a suo dire fondamentale, - Ti prego, ho bisogno del tuo aiuto!
- Ed io ho bisogno che tu mi tenga fuori dalla tua storia con Bushido. – sputò fuori lui con disgusto, senza staccare gli occhi dallo schermo della tv, né le mani dal joystick.
- Tomi! – insistette lui, piagnucolando un po’, e Tom rispose con una mezza occhiata indispettita.
- Ne abbiamo già parlato. – disse seccamente, - Non posso impedirti di uscire con chi vuoi, ma non posso neanche favorirti mentre lo fai. Odio quell’uomo, è spregevole. Se proprio vuoi consegnarti nelle sue mani, fallo, ma non aspettarti aiuto da parte mia.
- Dici che non puoi impedirmi di uscire con chi voglio, - gonfiò le guance Bill, offeso, ignorando tutto il resto del suo discorso, - ma a conti fatti, rifiutandoti di coprirmi, è quello che stai facendo.
- Cristo santo— Bill. – sbottò, poggiando in terra il joystick e voltandosi verso di lui mentre lasciava che il proprio personaggio andasse a schiantarsi contro il primo muro con tutta la macchina e qualche pezzo di arredamento urbano raccattato nel mentre. – Non sei più un ragazzino, ok? Hai diciannove anni, e questa tortura fra alti e bassi va avanti da tre, ormai. Direi che non ti serve più la mia approvazione, ti pare? La mia, o quella di chiunque altro, visto che comunque fai sempre di testa tua.
- Infatti non cerco l’approvazione di nessuno. – ringhiò Bill, - Non la tua né quella di nessun altro, per tua informazione. Ho solo bisogno d’aiuto, perché approvazione o meno David non mi lascerà uscire.
Tom abbassò impercettibilmente lo sguardo al solo sentire il nome di David, ma tornò a fissarlo negli occhi abbastanza in fretta da impedire a Bill di registrare quel movimento come qualcosa di importante.
- Mi sono rotto di sentirti lagnarti ogni minuto. – sbuffò Tom, saltando in piedi ed afferrandolo per un polso, costringendolo a fare lo stesso. – Vuoi aiuto? D’accordo, l’avrai. – lo tirò dietro di sé fino a raggiungere la porta della camera. Da lì lungo il corridoio, ignorando le sue proteste ed ogni “Tomi” pigolato dapprima con tono incerto, poi con tono sempre più infastidito, e lo ficcò dentro il primo ascensore disponibile. – Ora vado da David, in camera sua. – gli disse, guardandolo a muso duro. Non era come gli stesse facendo un favore, sembrava più che volesse liberarsi di lui, - Così te lo tengo occupato. Tu va’, e fai il cazzo che vuoi, ma vedi di tornare ad un orario umano, e fammi sapere quando dovrò coprirti per la seconda volta, perché già mi basti tu, come rottura di palle, non voglio che ci si aggiunga anche lui, con le sue paternali del cazzo.
- Tomi… - mugolò Bill, guardandolo con aria colpevole e massaggiandosi il polso dolorante, - Io vorrei parlarti. Vorrei—
- Non c’è altro da dire. – mormorò Tom, rifiutandosi di guardarlo negli occhi, - Tu hai fatto la tua scelta. Non sono cose che si discutano.
Le porte si chiusero di fronte alla sua espressione ancora corrucciata, e Bill restò pensieroso per tutto il tragitto dell’ascensore fino al piano terra, stringendosi alla borsa e dentro la giacca e ricordandosi solo all’ultimo minuto di recuperare cappellino ed occhiali da sole, per schermarsi almeno in parte di fronte agli occhi del mondo. Sperò che Anis non fosse in ritardo – controllò l’orologio, lui era in orario – e si chiese ancora una volta di che razza di scelta stesse parlando il suo gemello. Lui non aveva mai avuto scelte, da quando aveva conosciuto Anis non c’era stata la possibilità di scegliere fra una cosa e l’altra, era sempre stato innamorato di lui. Odiava quando suo fratello si metteva su quello stesso piano di pensiero: scambiare l’affetto che provava per lui con quello che provava per Anis, metterli a paragone, pretendere di equipararli e poi tirargli addosso quella sciocca questione della scelta era assolutamente scorretto, nonché impensabile.
Di fuori, il tempo era pessimo. Bill osservò con un misto di paura e sconcerto gli enormi nuvoloni neri addensatisi nel cielo durante tutto il giorno, e si mordicchiò un labbro, perplesso.
- Aprile dovrebbe essere molto meno nuvoloso. – borbottò soprappensiero, appoggiandosi al muro e poi cambiando idea, prendendo a muoversi intorno per evitare di star sempre fermo in un punto e dare nell’occhio.
Passeggiò solo per pochi minuti, poi il cellulare, al riparo nella tasca posteriore dei jeans, prese a vibrare insistentemente. Lo tirò fuori col sorriso sulle labbra, rispondendo alla chiamata senza neanche sprecarsi a guardare il numero sul display.
- Sei in ritardo. – commentò con tono petulante, fermandosi in mezzo al marciapiedi e piantando una mano sul fianco, prendendo a battere ritmicamente un piede per terra, del tutto dimentico dei propri propositi riguardo al non dare nell’occhio.
- Davvero? – ridacchiò Anis, dall’altro lato della cornetta, - Non mi pare. Piuttosto, credo sia tu quello in ritardo, perché io sono dal lato della strada opposto rispetto a quello in cui stai andando.
- Sei già qui? – chiese immediatamente lui, illuminandosi all’improvviso e stringendo il telefono con entrambe le mani, come per paura che l’emozione potesse portarlo a lasciarlo cadere, - Perché non mi hai chiamato subito?
- Perché volevo guardarti, per un po’. – rispose lui, la voce soffice, eppure un po’ roca, quasi allusiva, - Volevo guardarti per bene.
- Anis! – lo richiamò Bill, a bassa voce, fingendo di essere arrossito per l’imbarazzo quando tutto ciò che rendeva più calda la sua pelle era pensare che di lì a poco sarebbe stata sfiorata da lui, - Sei terribile.
- E ti piaccio per questo. – rise lui. Bill si lasciò andare ad uno sbuffo intenerito, voltandosi intorno e fermandosi solo una volta che ebbe individuato la BMW nera parcheggiata di fianco al marciapiedi di fronte.
- E per un sacco di altri motivi. – aggiunse in un soffio, interrompendo la chiamata e riponendo il telefono nella borsa, prima di avviarsi nella sua direzione.
*
- Il presidente – attaccò Frank, mentre David approfittava dell’assenza di una webcam in camera propria per roteare gli occhi, annoiato, - non è affatto contento, David.
- Mi rendo conto. – disse, cercando di fare in modo che il suo tono sembrasse quanto più contrito possibile, - Mi dispiace enormemente, ma Bill—
- Il ragazzo va tenuto sotto controllo. – insistette Frank, aggrottando le sopracciglia, immobile dietro la propria scrivania, tanto fermo da sembrare finto, - Questa sua… relazione con Bushido è sulla bocca di tutti. Non possiamo permettercelo. Non è per questo che siamo stati nominati responsabili di questa questione, e tu dovresti saperlo bene.
- Lo so, infatti. – ribatté David, incrociando le braccia sul petto, irritato, - Sono pienamente consapevole delle mie responsabilità, così come dei miei compiti. E sto facendo tutto il possibile.
- Ebbene, non è abbastanza! – berciò l’uomo, battendo un pugno contro il tavolo nel primo movimento in cui si produceva da quando la sua conversazione con David aveva avuto inizio. – Insisti. Sii più convincente. Per gli dei, rinchiudilo a doppia mandata in camera con suo fratello, se devi! Ti rendi conto di cosa stiamo rischiando? E non parlo di te e me, parlo dell’intero cosmo, David!
- Lo so! – si permise di alzare la voce a propria volta, nonostante Frank gli fosse superiore sia in quanto ad età che in quanto a grado all’interno dell’Organizzazione, - Credi che non sappia a cosa stiamo andando incontro, o che non riesca nemmeno a guardarmi attorno? I maremoti, le trombe d’aria, la terra si sta sgretolando sotto i nostri piedi e ne sono perfettamente consapevole, Briegmann!
- E allora – gli rispose lui, gelido, - non dirmi che stai facendo il possibile. Di’ che ti spiace di non aver ancora fatto abbastanza. – concluse, prima di interrompere la videochiamata.
David rimase a fissare lo schermo del portatile con aria sconvolta, per parecchio tempo. Alle volte ignorava cosa s’aspettassero da lui— le scritture parlavano chiaramente: doveva essere amore perché i Prescelti potessero assurgere al divino. La loro unione doveva essere spontanea, intensa e passionale, nessuno poteva forzarla ad avere luogo, o ne avrebbe contaminato la purezza. L’Organizzazione esisteva per preservare i gemelli, per prendersene cura, per rivelare loro la verità al momento più opportuno e per istruirli sul da farsi quando il loro destino avrebbe dovuto compiersi, ma non poteva avere ragione dei loro desideri, erano quei desideri che avrebbero dovuto avere ragione di tutto il resto.
Quando sentì bussare alla porta, si prese solo pochi secondi per spegnere il portatile ed inspirare profondamente, prima di chiedere chi fosse. Il solo sentire la voce di Tom rese più pesante che mai il macigno che portava sulle spalle. Contrito ed amareggiato, lo accolse all’interno dell’ufficio con un sorriso mesto.
- Scusa, Dada. – sospirò Tom, visibilmente abbattuto, - Ti disturbo?
- Lo sai che tu non mi disturbi mai. – gli sorrise conciliante, chiudendosi la porta alle spalle mentre lo osservava girare un po’ per la stanza, prima di andarsi ad abbattere esausto sul divanetto poggiato alla parete, gettando gambe e braccia ovunque nel tentativo di accomodarsi più possibile. – È successo qualcosa?
Tom gli lanciò un’occhiata brevissima e incerta, prima di tornare a fissare la punta delle proprie scarpe come l’inizio e la fine dell’universo fossero posizionati esattamente lì – e non sapendo quanto un pensiero simile potesse essere vicino alla verità.
- È andato di nuovo con Bushido. – confessò alla fine, sospirando ancora, - Non sono riuscito a fermarlo. Né a dirglielo.
David sospirò a propria volta, andando a sedersi al suo fianco e poggiandogli una mano sulla spalla in una carezza consolatoria. Tom era, per certi versi, il loro splendido capolavoro. Era cresciuto esattamente come loro l’avevano voluto, forte e maschio e coraggioso e soprattutto perdutamente innamorato del proprio fratello, fin da tempi immemori, al punto che, quando aveva preso il coraggio a quattro mani ed aveva confessato i propri sentimenti a David, lui aveva faticato a non sorridere e trattenersi dal dargli un buffetto sulla guancia, rispondendo qualcosa di estremamente sciocco come “e dove sarebbe la novità?”.
Non c’era nessuna novità, in effetti: il presidente Larsen, che aveva sempre osservato i gemelli da lontano, ma anche da più vicino di quanto non si potesse sospettare, aveva capito fin dall’inizio che Tom sarebbe stato il primo a rendersi conto del proprio sentimento. “C’è qualcosa nei suoi occhi,” aveva detto a David, dopo una delle sue numerose visite ad Amburgo, ufficialmente per controllare il lavoro dei Tokio Hotel ed ufficiosamente per verificare che tutto stesse muovendosi come previsto, “C’è qualcosa nel modo in cui brillano quando parla del fratello. È qualcosa che Bill non ha ancora,” aveva aggiunto con preoccupazione.
In quel tempo, David era ancora giovane, pieno di fiducia nella propria missione, e soprattutto Bushido non si era ancora fatto abbastanza vicino da rappresentare una minaccia per tutti i loro piani, motivo per il quale nell’occasione specifica aveva sorriso e si era premurato perfino di rassicurare il presidente con parole cariche di fiducia. “Non si preoccupi, Herr Larsen,” aveva detto orgoglioso, “È solo questione di tempo. Presto ogni tassello troverà il suo giusto incastro.”
“Di questo non dubito, David,” aveva risposto Larsen con un sorriso sottile, “Non ho mai dubitato.”
David aveva capito solo molto tempo dopo che la fede di Larsen era qualcosa di molto più concreto rispetto alla propria. Larsen non poteva avere dubbi perché, qualora anche qualcuno si fosse presentato, l’avrebbe spazzato via in favore del bene superiore che era stato incaricato di proteggere – un bene superiore del quale non puoi rifiutare la responsabilità.
La sua fede, invece, aveva perso forza quando quel bagliore che Larsen tanto apprezzava negli occhi di Tom era germogliato precipitosamente anche in quelli di Bill, ma rivolto ad un uomo che non era suo fratello, e che anzi era quanto di più distante da lui potesse esistere al mondo.
“La fede,” gli aveva detto Frank durante una delle sue paternali, leggendo direttamente da una missiva a lui indirizzata ed inviata dal presidente Larsen in persona, “è una cosa degli uomini, non degli dei. Gli dei non possono che esistere, ma sono gli uomini a dover costruire ciò in cui credono, con le loro mani. Noi siamo i creatori dei nostri dei, David. Vedi di non dimenticarlo. Noi siamo i nostri dei.”
Questo era un insegnamento che in lui non aveva mai attecchito davvero. La sola idea di poter plagiare un corpo celeste intriso di divinità come era quello di Bill per piegarlo al volere degli uomini lo disgustava, il solo pensare che l’organizzazione di cui faceva parte potesse pensare a forzarlo come metodo per ottenere ciò che s’era prefissa gli dava i brividi dall’orrore. La conclusione alla quale era giunto, riflettendo molto a lungo, era stata che se i Prescelti non erano in grado di trovarsi, forse era perché i Divini non volevano. O perché i ragazzi non erano ancora pronti. O per chissà quale altro motivo, non era comunque importante abbastanza quanto la devastante consapevolezza che una cosa che era sempre andata a posto autonomamente nei secoli, per la prima volta da che l’uomo era al mondo rischiava di non potersi concretizzare se non con una decisa spinta da parte dell’uomo stesso.
Era una consapevolezza agghiacciante: David non poteva fare a meno di pensare che era triste che l’uomo fosse abbandonato a se stesso al punto da dover pensare da sé perfino per chi invece avrebbe dovuto pensare per lui.
- Non è colpa tua, Tom. – gli disse, cercando di sorridere conciliante, - Conosci tuo fratello, sai che non è facile fermarlo.
Tom mugolò un assenso indefinito, prima di sottrarsi alla sua carezza come la sua mano fosse stata incandescente e prendere ad aggirarsi per la stanza come un’anima in pena, lo sguardo perso e le sopracciglia corrugate, le labbra strette e sottilissime, acconciate in una smorfia colma d’ansia.
- Ci sto male. – disse, passandosi una mano sugli occhi ed appoggiandosi stancamente alla parete, - Tutta questa cosa, David, suona troppo male. È troppo sbagliata. Voglio dire, dev’esserci un motivo per cui la legge t’impedisce di innamorarti di un consanguineo tanto stretto, no? Probabilmente è solo sbagliato e basta.
- Ne abbiamo già parlato, Tom. Non è sbagliato solo perché sei innamorato di qualcuno che è anche tuo fratello. – disse David, alzandosi in piedi e facendo appello a tutte le proprie forze per non aggiungere “però sembra sbagliato perché ti fa tanto male”.
- Ma che discorso è?! – scattò subito Tom, lasciandosi scivolare lungo la parete fino a ritrovarsi praticamente seduto per terra, le braccia molli appoggiate alle ginocchia, - Forse dovrei semplicemente dimenticarmene. D’altronde, è stato mio per un sacco di anni. Ho potuto stargli vicino come nessun altro, ed il nostro tempo… forse è semplicemente finito.
David chiuse gli occhi, passandosi una mano fra i capelli. Se il loro tempo era finito, allora lo era anche quello del mondo intero.
Si accucciò al suo fianco, accarezzandogli la testa, quasi divertito dal solletico che il profilo delle treccine causava al palmo della sua mano.
- Sei un ragazzo forte, Tom. – gli sorrise, - Solo tu puoi scegliere cosa vuoi per te stesso. È un diritto che ti sei meritato.
Tom lo guardò e si sforzò di sorridergli a propria volta, ma aveva gli occhi lucidi.
- È un modo non troppo invadente per dirmi che non è il caso di arrendermi? – chiese, e poi si lasciò andare ad una risata vagamente amara, - Ti rendi conto che è mio fratello, David? Cosa posso fare se viene e mi dice di essersi innamorato di un’altra persona? Al di là del fatto che questa persona sia Bushido, poi… io non ho diritti, su di lui.
- Ed è appunto quello che stavo dicendoti. – insistette lui, lasciando scivolare la mano sulla sua spalla e stringendo la presa in una carezza colma di rassicurazione, - Non ne hai su di lui, ma ne hai su te. Tom, nessuno – cominciò, e si prese una pausa perché ciò che stava dicendo avrebbe potuto metterlo presto in guai ben più grossi di quelli in cui già non si ritrovava, - nessuno può obbligarti ad amare qualcun altro. Se non—
- Io sono innamorato di Bill! – ribatté Tom, scattando in piedi come una bestia ferita cui fosse appena stato rigirato un dito nel taglio aperto, - Io non… non posso improvvisamente smettere, non funziona così, David! È dentro di me da così tanto tempo che… - si morse un labbro, pensieroso, - Sono un essere umano, Dada, non posso… non ho diritti neanche su me stesso.
Ancora accucciato ai suoi piedi, David sollevò gli occhi nei suoi e pensò alla propria condizione ma anche alla sua. Era inspiegabile, inaccettabile, che un essere come Tom, uno dal quale dipendeva il futuro del globo, ma che sarebbe stato altrettanto importante e sarebbe valso allo stesso modo anche se fosse stato un uomo comune, potesse pensare cose simili. Potesse sentirsi così triste, abbandonato ed impotente.
Si alzò in piedi, poggiandogli una mano sulla spalla e massaggiando piano.
- Tom, ascoltami. – cominciò, fermamente intenzionato a rivelargli tutto, ma Tom lo scostò con un movimento brusco, allontanandosi di qualche passo, dapprima confusamente e poi con maggiore decisione, verso la porta.
- No, non mi va di ascoltare altro. – disse cupo, scuotendo il capo. – E… non… non toccarmi sempre così tanto. – aggiunse incerto, cercando i suoi occhi come volesse essere sicuro di non avergli fatto troppo male dicendolo, - È strano. Mi… - si morse un labbro e distolse lo sguardo. – Lasciamo perdere, non farlo e basta. – concluse, prima di uscire dalla stanza senza una parola di più.
David non provò a fermarlo, ed accolse quasi con gioia la sua decisione di andarsene, perché se fosse rimasto, se l’avesse fatto parlare, probabilmente nient’altro sarebbe riuscito a impedirgli di combinare un disastro che avrebbe avuto incalcolabili ed imprevedibili quanto drammatiche conseguenze. Abbassò lo sguardo sulla propria mano, studiò la punta delle proprie dita e cercò d’ignorare il calore che ne divampava. Non ricordava di aver letto da nessuna parte di un Guardiano la cui pelle bruciasse al solo sfiorare la pelle di un Predestinato. Il suo guaio, ammise con una certa preoccupazione, era perfino più ampio di quanto immaginasse.
*
All’inizio, era stata solo frizione. Non qualcosa di esclusivamente sessuale, non era solo uno sfregamento, non era così definito né così circoscritto, ma era questo, in definitiva: frizione. Li aveva accompagnati ogni volta che si erano incontrati, e non era stata nemmeno una conseguenza dovuta al frequentarsi o all’uscire insieme: c’era stata già da prima. Era stata lì da sempre, per tutto il tempo, come un istinto – con la stessa indisponente e ineludibile forza rabbiosa e magnetica.
Era frizione. Era così ancora prima che si conoscessero.
La prima cosa Bill aveva sentito quando, in quel video su YouTube, lo aveva sentito parlare di lui in termini che non avrebbe permesso nemmeno ad un amico di vecchia data, erano state le scintille. Non erano state piacevoli – era stato un misto di fastidio e rabbia e orgoglio in frantumi: lui, che dell’essere orgoglioso di ciò che era aveva fatto una religione – ma erano state scintille. Le aveva sentite sfrigolare nel centro del petto e poi farsi strada con le unghie lungo la gola, fino a bruciare sulla lingua e dietro agli occhi. Scintille, né più né meno. Ed era in fondo questo ciò che comporta la frizione: scintille. Se l’era sentite scoppiettare addosso, come le bollicine di una bevanda frizzante.
Era una sensazione che non l’aveva abbandonato per un sacco di tempo. Bushido aveva continuato a parlare pubblicamente di lui come non potesse impedirselo, e lui allo stesso modo aveva continuato a sentire le scintille. Era stata frustrazione, principalmente. Bushido, d’altronde, stava senza ombra di dubbio giocando, e Bill non era riuscito a trovare il modo di ribattere o di farsi valere. Era rimasto lì a subire. E bruciare.
Tom non era stato in grado di aiutarlo, né in quel momento specifico né successivamente. Nel momento specifico, era rimasto a guardare la TV al suo fianco e poi l’aveva osservato impotente alzarsi in piedi e cominciare a urlare minacce vuote contro uno schermo spento. E successivamente non aveva saputo cosa dirgli, dal momento che non sembrava capace di fare altro che ripetere ciò che lui stesso era già stato bravissimo a definire. Cose come “lo odio, è un individuo disgustoso, mi irrita”. Era facile dargli ragione, più difficile trovare un modo di aiutarlo a dare sfogo a tutta quella rabbia repressa.
Aveva dovuto pensarci Bushido, in buona sostanza: s’erano incontrati ai Comet qualche tempo dopo, ed erano riusciti a mantenere una parvenza di decenza solo fino all’afterparty; durante la premiazione avevano fatto i simpatici, giocato secondo le regole, ma era stato quando finalmente si erano ritrovati faccia a faccia, liberi di discutere la questione come meglio preferivano, che quella bolla di energia elettrica che li circondava era come esplosa. Non erano riusciti nemmeno a scambiarsi qualche parola, la prima cosa che Bushido aveva fatto dopo averlo avvicinato era stata spingerlo contro il primo angolo d’ombra trovato in fondo alla stanza e baciarlo. E Bill non aveva mai, neanche per un secondo, pensato di rifiutargli quel bacio. La sua lingua era rovente, così come le sue mani sui suoi fianchi, sotto la camicia nera troppo corta a leggera per poter rappresentare davvero una copertura, soprattutto se sommata ai jeans portati tanto bassi da rasentare la volgarità.
Mentre Bushido lo baciava, strappandogli l’aria dai polmoni e il cuore dal petto, tanto faceva fatica a respirare e tanto forte e concitato era diventato il suo battito cardiaco, Bill s’era chiesto distrattamente se per caso non fosse esattamente questo il tipo di sfogo di cui aveva bisogno, se non fosse questo quello che aveva sempre voluto da quell’uomo, fin dal primo momento in cui aveva sentito il suono della sua voce.
Poi, il bacino di Bushido s’era scontrato contro il suo, e lui aveva smesso di pensare.
“In bagno,” gli aveva detto, “adesso,” e non aveva aspettato più di un altro secondo per trascinarlo per un polso lungo i corridoi scuri del locale, sperando che il bagno fosse comodo, pulito e soprattutto sgombro di fastidiosi ostacoli pronti a frapporsi fra lui e ciò che voleva. E non aveva nemmeno idea di cosa fosse, perché era un ragazzino, perché era eccitato, perché era stupido, perché non riusciva nemmeno a pensare a cosa fare, a dove fermarsi, o comunque da dove partire; perché la risata di Bushido, dietro le sue spalle, lo stordiva e lo confondeva, e tutto ciò che riusciva a realizzare con chiarezza era che voleva sentire nuovamente addosso il sapore delle sue labbra, il calore delle sue mani, lo sfrigolare dell’energia elettrica che scaturiva da ogni singolo sfregamento della sua pelle contro la propria.
Bushido l’aveva guardato sorridendo strafottente, quando s’era chiuso la porta alle spalle.
“Non sai cosa stai facendo,” gli aveva detto, prima di avvicinarglisi e schiacciarlo contro un lavandino. “Fortunatamente, nemmeno io.”
Bill non avrebbe mai potuto spiegare quello che successe quella notte con qualcosa di diverso rispetto a “ho sentito tutto scivolare naturalmente al proprio posto”, che poi erano state le parole con cui, successivamente, aveva raccontato l’accaduto a Tom, Georg e Gustav, guadagnandosi una serie di risatine divertite da parte degli ultimi due ed uno sguardo parzialmente confuso e parzialmente preoccupato da parte del primo.
Eppure, per quanto Georg e Gustav potessero faticare a capire, e per quanto Tom si rifiutasse con tutte le proprie forze di ammettere che quanto stava accadendo era reale, ed era bellissimo, era proprio così che era andata. Bill non avrebbe saputo neanche ricordare se avesse fatto male – sicuramente era stato così, ma il dolore doveva essersi perso da qualche parte sulle labbra di Anis, intente a lenirlo in baci brevi, soffici e umidi, mentre le sue mani tracciavano disegni invisibili sulla sua schiena e sul suo ventre sudati, prima di scendere ad accarezzarlo fra le cosce e fra le natiche, dandogli alla testa come una droga.
E le scintille non avevano mai smesso di sfrigolare. Era una sensazione straniante, quel calore diffuso, bruciante e quasi fastidioso che lo ricopriva intensamente come si trovasse sotto una pioggia di fuoco, ogni volta che Anis lo toccava. E per quanto potesse suonare sconveniente, soprattutto sulle labbra di uno che, come lui, aveva sempre parlato di aspettare il vero amore e conservarsi vergine finché non fosse stato il momento giusto e via così, c’era da ammettere che lui ed Anis stavano insieme principalmente per quello, per il calore, per il fuoco, per la sensazione totalizzante, bellissima e spaventosa di volersi strappare la pelle di dosso a morsi ogni volta che scopavano, per cercare al di sotto e vedere se anche così bruciava ancora.
Poi, sì: stavano bene insieme, Bill si sentiva felice ogni volta che riusciva a farlo ridere o a convincerlo ad interessarsi di qualcosa che, non fosse dipeso da lui, non avrebbe considerato neanche per sbaglio, e si sentiva orgoglioso di se stesso e di quanto aveva ottenuto ogni volta che Anis gli sussurrava un “ti amo” improvviso e non richiesto, ma principalmente, alla base, era il fuoco a tenerli vivi. Il loro amore si consumava in una fiamma enorme ed eterna, e Bill, dopo tre anni, stava cominciando a credere che, contro tutti i principi della fisica, non si sarebbe mai esaurito.
Drenato come ogni volta, si lasciò ricadere al fianco di Anis, tanto vicino da poterlo comunque continuare a sfiorare ad ogni respiro, e rise un po’, completamente a corto di fiato.
- Non riuscirò mai a tornare in tempo. – commentò divertito, - David mi farà una paternale delle sue.
- E allora resta. – disse Anis, e sorrideva anche lui, girandosi sulla pancia ed imprigionandolo fra le sue braccia. La sua pelle era caldissima e Bill si sentì avvampare all’improvviso sentendolo strofinarsi inavvertitamente contro di lui. – Oggi, domani, quanto vuoi. Resta, una buona volta, sono stufo di questo andirivieni, e anche di doverci comportare come fossimo due criminali.
- Be’, tecnicamente tu mi hai scopato quand’ero ancora minorenne, per cui… - rise Bill, direttamente sulle sue labbra, un attimo prima che Anis lo zittisse con un altro bacio.
- Tecnicamente, – gli fece il verso lui, - se non ti avessi spogliato io, mi avresti strappato tu i vestiti di dosso, per cui
Bill rise ancora, allungando le braccia fino a stringerlo al collo e godendo della sensazione di protezione mista a tenerezza di cui tutti i suoi abbracci lo riempivano.
- Non posso restare, lo sai. – gli disse all’orecchio, strofinando il naso contro il suo collo, - Ma ci rivedremo presto.
- Promesse, promesse. – rise Anis, allungando una mano a stringere una delle sue e baciandone lievemente il dorso e poi il palmo, prima di guardarlo negli occhi, - Non ti posso domare in alcun modo, vero?
Bill sorrise furbo, strizzando gli occhi fino a renderli sottili come quelli di un gatto.
- Il fuoco non lo domi, lo spegni e basta.
Anis lo baciò col preciso intento di ricordargli per l’ennesima volta che si sarebbe guardato bene dal farlo.
*
Quando rientrò in camera propria ed accese la luce, Bill portò una mano al petto ed indietreggiò spaventato nello scorgere una figura seduta sul letto intenta ad aspettarlo. Ci mise effettivamente un po’ – il tempo di lasciare che i suoi occhi potessero abituarsi alla luce, dopo aver fatto al buio tutto il tragitto dalla porta di casa a quella della sua stanza – a riconoscere in quella figura suo fratello.
- Cos’è, adesso la mia sola vista ti terrorizza? – chiese Tom con un sorriso mesto, sistemandosi un po’ a disagio sul bordo del letto.
- Che sciocchezze. – borbottò Bill, scalciando lontano le scarpe e gettandosi sul letto al suo fianco, non prima di averlo salutato con un bacio sulla guancia, - Solo che non mi aspettavo di trovarti qui. Non riesci a dormire?
- Già. – rispose Tom, sistemandosi con la schiena contro la testiera mentre Bill tirava via pantaloni e maglietta e li lanciava alla rinfusa in giro per la stanza, sperando di prendere al volo qualche poltrona o, al massimo, la scrivania, - Hai sentito del vulcano?
- Mmhn? – chiese lui, passandosi le mani fra i capelli per scioglierli un po’, - No, non so niente. Che è successo?
- Un vulcano islandese, - scrollò le spalle Tom, - Eyaqulcosa, ha eruttato dopo tipo uno sproposito di anni. Un disastro, ci sono i cieli di mezza Europa completamente intasati dalla cenere. Non si muove un aereo neanche se lo comanda Dio in persona.
- Scherzi? – spalancò gli occhi Bill, mettendosi a sedere e recuperando le lenzuola da sotto il proprio corpo, per potersi coprire, - Ma che diavolo sta succedendo al mondo? Ogni giorno ce n’è una.
- Sì, vero? – rise Tom, sollevandosi appena perché suo fratello potesse coprirsi per bene, - Magari i Maya avevano sbagliato qualche conto. O forse hanno trascritto male ed hanno trasformato uno zero in un due, e moriremo tutti nel giro di due giorni.
- Altre sciocchezze. – ridacchiò Bill, - Io non intendo morire prima di essermi magicamente trasformato in Brian Molko, mi spiace. – osservò Tom ridere ed alzarsi in piedi, palesemente intenzionato a lasciarlo solo, e non poté fare a meno di allungare un braccio e trattenerlo, tirandolo per la manica dell’ampia camicia a scacchi che indossava. – Resti? – chiese, inarcando le sopracciglia verso il basso. Tom lo guardò per qualche secondo come non l’avesse mai visto prima, ma alla fine si decise a sfilare le scarpe e sistemarsi sul letto al suo fianco, permettendogli di prendere posto sul suo petto come erano abituati a fare anni prima, quando ancora Bushido non era entrato nelle loro vite e tutto poteva dirsi considerevolmente più facile. – Dici che a noi sta succedendo la stessa cosa che sta succedendo al mondo, Tomi? – chiese con un filo di voce, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore.
- …in che senso? – chiese lui, guardando il soffitto ed accarezzandogli lentamente i capelli corti sulla nuca.
- Ci stiamo disintegrando come si sta disintegrando la Terra? – insistette lui, gli occhi ormai semichiusi ed il corpo pesante, già quasi per metà scivolato nel sonno.
- Questo mai, Billi. – lo rassicurò Tom, stringendo involontariamente i denti e, più volontariamente, la sua presa attorno al suo corpo, in un abbraccio affettuoso. – Te lo giuro. Noi non ci disintegreremo mai.
*
L’unica certezza inoppugnabile della sua esistenza era sempre stata Bill. Questa era la spaventosa realtà di Tom, una realtà dalla quale trovava impossibile fuggire. C’erano state delle ragazze – c’erano state numerose ragazze – ma nemmeno una di loro era riuscita a durare abbastanza da offuscare anche solo in minima parte la spinta quasi animalesca e irrazionale che Tom aveva sempre sentito nei confronti del proprio fratello.
Era riuscito per parecchi anni ad ignorare il risvolto puramente fisico di quella spinta, il desiderio che provava quasi continuamente di mettergli le mani addosso, sentire il suo corpo cambiare forma, temperatura e colore sotto le sue dita. Per parecchio tempo era davvero stato convinto di essere solo un fratello un po’ troppo possessivo, un po’ troppo appiccicoso, un po’ troppo affezionato, forse, e niente di più. E fino a quando suo fratello non era stato suo ma nemmeno di nessun altro, aveva potuto continuare a crogiolarsi in quell’illusione, cullato dalle menzogne che raccontava a se stesso e sempre vicino al suo profumo rassicurante, al calore del suo corpo e al bagliore dei suoi sorrisi.
Quando Bill aveva deciso di donarsi a Bushido, però, qualcosa era esploso nel centro del suo petto. Era stato come se qualcuno lo avesse squarciato in due per prendergli il cuore, spremerne il sangue e poi rimetterlo a posto drenato, asciutto ed ormai del tutto inutile. A pensarci, alle volte, si sentiva mancare il respiro: nulla l’aveva debilitato quasi fisicamente quanto non avesse fatto il sentirsi per la prima volta derubato di qualcosa, come quando suo fratello gli aveva detto di essersi innamorato di un altro.
Sarebbe stato impossibile sopportare da solo una cosa del genere, il dolore devastante che lo scuoteva tutto ogni volta che la chiara consapevolezza del corpo di suo fratello fra le mani grandi ed abili di Bushido arrivava a schiaffeggiarlo, che fosse sveglio o in sogno. Era stato per questo motivo che era semplicemente crollato ed aveva vuotato il sacco con David, solo per questo. Fosse stato abbastanza forte, avrebbe nascosto la verità al mondo intero e si sarebbe portato il segreto nella tomba, ma evidentemente non lo era abbastanza.
David era l’unico che lo sapesse, l’unico al quale avrebbe mai potuto pensare di poter confessare una cosa simile. Era davvero stato quasi come un terzo padre, per loro, posto che il primo lo ricordava a malapena – non perché fosse stato esattamente assente, quanto più perché non aveva davvero rappresentato una parte attiva della loro vita – ed il secondo era stato molte cose – un compagno per mamma, un insegnante di chitarra, un cretino col quale scherzare fino a notte fonda quando non aveva voglia di dormire – ma decisamente non un papà. David era una figura rassicurante, uno dal quale si sarebbe volentieri fatto abbracciare per darsi un po’ di tregua e smetterla, almeno per qualche secondo, di sentirsi così dannatamente solo contro l’intero fottuto universo in rivolta.
Era anche per questo che quello che stava succedendo ultimamente fra loro era così disturbante. Non che qualcosa fosse cambiato, nei fatti – anzi: per dirla proprio tutta, era cambiato molto più il rapporto che lo legava a suo fratello rispetto a quello che continuava a legarlo a David – era una questione di sensazioni. Non puoi stare davvero accanto a qualcuno in grado di metterti a disagio con un solo sguardo. Non puoi lasciare che ti abbracci quando ogni volta che ti tocca hai l’impressione che le sue dita ti lascino un marchio a fuoco sulla pelle. Era una sensazione straniante, troppo fisica per loro due, che non avevano mai diviso più che qualche amichevole pacca sulle spalle e qualche altrettanto amichevole sguardo d’intesa. Tom aveva paura di dove quelle nuove sensazioni potessero portarlo, soprattutto dal momento che, senza più Bill costantemente al proprio fianco, si sentiva come una barca a riva ma senza ancora. Salvo, ma chissà ancora per quanto.
*
Le visite di Larsen ai loro studi di produzione non erano certo frequenti, ed ancora più rare in effetti erano le volte in cui, avvisando o meno, s’era presentato al loro appartamento.
I ragazzi stavano registrando qualche demo, quando una delle segretarie di David bussò discretamente alla porta, chiedendo di essere ricevuta. David l’ascoltò silenziosamente informarlo che Herr Larsen era appena arrivato in tutta fretta e chiedeva insistentemente di parlare con lui.
Bill, oltre il doppio vetro della sala d’incisione, non si accorse di niente, continuando a cantare senza fermarsi mentre invece Tom, Georg e Gustav, svaccati senza ordine sull’ampio divano di fronte all’impianto di missaggio, spostarono immediatamente l’attenzione su di lui, mostrando subito evidenti segni di preoccupazione.
- C’è qualcosa che non va? – chiese Georg, raccogliendo i capelli ed allontanandoseli dal collo e dalle spalle per ovviare almeno in parte al caldo che attanagliava la saletta. – È strano che non abbia chiamato, prima.
- È tutto a posto. – lo rassicurò David con un sorriso che rivolse prima a lui e poi anche a tutti gli altri, - Vuole solo assicurarsi che tutto stia procedendo come da programma. Vado, confermo e torno. Voi… - aggiunse, lanciando un’occhiata a Bill e sorridendo teneramente accorgendosi che non aveva ancora smesso di cantare, - siate un buon pubblico. – concluse con una risatina, prima di abbandonare la stanza.
Il suo volto subì un repentino cambio d’espressione quando si chiuse la porta alle spalle, ed anche l’incedere del suo passo si fece immediatamente più spedito. Era strano davvero che non avesse avvertito prima di presentarsi, e se la sua visita così improvvisa avesse avuto qualcosa a che fare con quanto era successo con quel vulcano in Islanda il giorno prima, allora David immaginava che quella di quel giorno sarebbe stata solo la prima di innumerevoli – e sempre più complesse – visite a sorpresa.
Quando entrò nel proprio ufficio, Larsen lo stava attendendo già seduto in poltrona, le gambe accavallate e le mani dalle dita intrecciate poggiate su un ginocchio. La sua espressione era dura e severa, i tratti del volto tesi e gli occhi macchiati di preoccupazione. David lo osservò inumidirsi le labbra ed alzarsi in piedi per porgergli la mano e poi trarlo a sé in un abbraccio cordiale ed affettuoso, prima di tornare a sedersi e sciogliere almeno in parte i muscoli tesi delle spalle e delle braccia, assumendo una posizione meno formale mentre quasi sembrava sgonfiarsi nel lasciare andare un sospiro contrito. Prese posto sulla propria poltrona al di là della scrivania, versando dell’acqua da una caraffa in uno dei due bicchieri approntati immediatamente al suo arrivo, e Larsen ne bevve un lungo sorso, prima di cominciare a parlare.
- David, la velocità con cui tutto sta accadendo lascia me per primo di stucco. – disse piano, la voce roca. Non doveva aver dormito granché bene, quella notte. O non doveva aver dormito affatto. – L’Eyjafjallajökull ha eruttato e il caos ha già cominciato a… - si fermò, inspirando ed espirando profondamente mentre appoggiava i gomiti alla scrivania e si prendeva la testa fra le mani, sconfortato.
- Herr Larsen, si sente bene? – chiese premurosamente David, riempiendogli nuovamente il bicchiere. Larsen sorrise mesto, sbuffando appena.
- Ho aspettato tanti di quegli anni, David. E sono diventato così vecchio. Stavo quasi cominciando a temere che nulla si sarebbe verificato sotto il mio mandato, lasciando tutto nelle mani di qualcuno più giovane e inesperto di me, ed invece, proprio alla fine… - sorrise ancora, prostrato. – Spero solo di riuscire a portare a termine il compito che i Divini hanno affidato a me e ad i miei pari prima di me. Ma per riuscirci, io ho bisogno della collaborazione di voi tutti.
- Sa che io sono sempre stato disposto ad aiutare, Herr Larsen. – annuì David, poggiandogli una mano sulla spalla, - Ho sempre fatto la mia parte in previsione dell’Avvento.
- E tutti siamo molto fieri di te, David. La nostra gratitudine è immensa. I saggi non hanno nessun dubbio riguardo la tua capacità di portare a termine il tuo compito di Guardiano. Ed io sono d’accordo con loro. – disse Larsen, sorridendogli orgoglioso. – È per questo che non ho alcun timore di dirti adesso che il momento è giunto, siamo anzi già in ritardo sui tempi. La profezia si sta già avverando, i gemelli devono unirsi e compiere il loro destino. Per quello che sappiamo, i Divini potrebbero essere sul punto di cadere, o essere già caduti.
- Herr Larsen… - David si passò una mano sul viso, inspirando profondamente, - Non possiamo.
L’uomo inarcò un sopracciglio, incerto.
- Come sarebbe a dire che non possiamo, David? – chiese, col tono di chi non vuole davvero una risposta, ma solo una marcia indietro. – Non potere non rientra fra le possibilità che ci è concesso avere. Se i ragazzi non sono ancora riusciti a trovarsi da soli, allora vanno spinti nella giusta direzione.
- È proprio quello di cui sto parlando. – obiettò David, le sopracciglia aggrottate. – Io ho studiato attentamente le scritture, Herr Larsen, e nulla di quanto è stato scritto dai grandi saggi passati parla di forzature, tutto si è sempre svolto con naturalezza. Il nostro compito dovrebbe essere solo di vegliare, non quello di indirizzare. – inspirò profondamente, incerto. – Sono creature divine, Herr Larsen, noi non possiamo—
- Credi di conoscere le scritture meglio di me, David? – lo interruppe Larsen, severo, - Io ho dedicato la mia vita a questa missione, e come me tutti gli altri prima di me. I tempi sono cambiati, duecento anni sono passati dall’ultima volta che i Divini sono caduti, allora la questione era del tutto differente. La nostra religione, così come il bilanciamento del karma universale da cui essa dipende, è mutevole, come il mondo. Non è preimpostata, non ci sono particolari che non possano cambiare. – i suoi occhi si fecero più cupi, scrutando quelli di David con gravità. – A parte uno. I gemelli devono unirsi ed assurgere al divino. O il mondo crollerà in una spirale di caos che lo devasterà.
David annuì pensoso, gli occhi bassi e le mani dalle dita intrecciate poggiate mollemente sul piano della scrivania. La loro presa si fece più forte, come volesse darsi coraggio da solo, un attimo prima di dare voce ai suoi dubbi.
- E se i loro sentimenti non andassero in questa direzione? – chiese a bassa voce, rifiutandosi di sollevare lo sguardo.
- Li obbligheremo a prenderla! – sbottò Larsen, battendo con furia un pugno sulla scrivania, - David, non lascerò certo che il mondo venga distrutto per i capricci dissennati di due sciocchi ragazzini che non sanno niente del perché sono venuti al mondo! E non permetterò nemmeno che sia tu a rovinare tutto. – si alzò in piedi, scrutandolo dall’alto. – David, un solo mio ordine e sarai rimosso dal tuo incarico di Guardiano. È questo che vuoi? Vuoi che i tuoi protetti, i ragazzi per cui hai vissuto fino ad ora, i ragazzi per cui sei stato istruito e di cui sei stato responsabile fino ad ora, vengano affidati a qualcun altro proprio nel momento più importante della loro vita?
- No, Herr Larsen. – rispose David fra i denti.
- Ottimo. – annuì lui, spiegando i pantaloni lungo le gambe e preparandosi ad andare, - Allora attieniti agli ordini che ti vengono impartiti.
David si morse l’interno di una guancia tanto forte da sentirsi pungere gli occhi.
- Quali sono gli ordini, Herr Larsen? – chiese ubbidiente, alzandosi in piedi a propria volta. Larsen sorrise, soddisfatto.
- I nostri indovini percepiscono degli squilibri profondi nel karma. – annuì pensieroso, - La storia fra Bill e quel Bushido sta rimescolando tutte le carte in tavola, e il karma stesso sta cercando di riportare tutto al proprio posto annullandosi. Questo, naturalmente, - sospirò stancamente, - implica l’entrata in scena di nuove figure che possano fungere da elementi di disturbo all’interno della relazione fra quei due.
- …nuove figure? – chiese David, arrischiandosi finalmente a sollevare lo sguardo ed inarcando un sopracciglio curioso.
- Gli indovini non sono ancora riusciti ad avere visioni chiare, sulla faccenda. – sbuffò Larsen, scrollando le spalle, - Parlano di dragoni, vedono maremoti e poi fuoco e fiamme, ma non sappiamo se le cose possano essere correlate o se non si tratti magari di ulteriori segnali ad annunciare la caduta dei Divini. – sospirò, tornando a sorridere più calorosamente. – Gli ordini sono di tenere i ragazzi lontano da qualsiasi cosa possa turbarne l’unione o metterne a rischio l’incolumità, al momento. Vedi? – ridacchiò appena, - Non è necessario che tu li forzi ad unirsi subito. Basterà tenerli in casa per qualche giorno, almeno finché le visioni degli indovini non si saranno fatte più chiare. D’accordo?
David sospirò, annuendo lentamente.
- D’accordo.
*
Cercando di fare il più silenziosamente possibile, Bill finì di ingioiellarsi e diede un ultimo tocco al trucco che gli adornava gli occhi. Spazzolò i capelli, appiattendoli ai lati della testa, ed infilò cappuccio ed occhiali da sole, prima di gettare uno sguardo fuori dalla finestra ed osservare i cupi nuvoloni che si stavano addensando velocemente sopra quella parte della città, spinti dal vento feroce che scuoteva gli alberi e s’infilava fischiando sinistro attraverso gli spiragli degli infissi.
- Se stessi per uscire, ti consiglierei di mettere una sciarpa. – disse Tom all’improvviso. Spaventato, Bill si voltò a guardarlo con uno scatto repentino, portando una mano al cuore.
- Tomi! – borbottò, - Non provare mai più a spuntarmi alle spalle così senza preavviso. – lo rimproverò, allungando una mano a recuperare la sciarpa poggiata sullo schienale della sedia. – E come sarebbe a dire “se stessi per uscire”? Sto per uscire.
- Sì, - rise piano Tom, ma la sua non era una risata di scherno. Sembrava solamente stanca e un po’ delusa. – magari uscire è quello che vuoi, ma dubito che tu ci riesca. Ci sono guardie del corpo appostate ovunque. Armate.
- Arm— - Bill spalancò gli occhi, affrettandosi a raggiungere suo fratello sulla soglia della porta e sbirciando i corridoi all’esterno per verificare che non lo stesse prendendo in giro. E non lo stava facendo. – Ma che diamine— perché? – chiese quindi, tornando a chiudere la porta e guardando Tom dritto negli occhi.
Lui scrollò le spalle, guardando immediatamente altrove.
- Non lo so, di preciso. – rispose vago, - David ha parlato di minacce di qualche fan invasata. Ha detto che per stasera è meglio restare in casa, uscire sarebbe pericoloso.
- …fan invasata? – chiese Bill, inarcando un sopracciglio, - Io non ho ricevuto minacce di nessun tipo. Tu?
- Nemmeno io. – disse Tom, scuotendo il capo, - Ma magari hanno intercettato la corrispondenza. Leggono sempre prima tutto.
- Ma mi sembra— voglio dire, che razza di storia è? – continuò a borbottare Bill, recuperando il cellulare e componendo celermente un numero, - Non ci sono stati avvertimenti, e nemmeno una riunione per comunicare il pericolo… cos’è, siamo chiusi dentro a tempo indeterminato e basta? Che stronzata!
- Si tratta solo di stanotte, Bill. – sospirò Tom, paziente, - In via precauzionale. Che stai facendo?
- Chiamo Anis. – rispose lui con una smorfia, interrompendo la chiamata dopo svariati squilli senza risposta e riprovando, - Dovevamo vederci.
- Oddio, Bill, potrete pure restare una serata lontani l’uno dall’altro senza impazzire. – sbuffò Tom, roteando teatralmente gli occhi e lasciandosi ricadere sul letto del fratello.
- Sta’ un po’ zitto, Tomi. – sbottò Bill, mordicchiandosi il labbro inferiore e provando a richiamare per la terza volta, - Qui c’è qualcosa che non va.
- Mh? – biascicò Tom, sollevando lo sguardo e fissandolo con curiosità, - Che succede?
Bill sospirò pesantemente, riponendo il cellulare sul comodino e guardando ansioso fuori dalla finestra, mentre la pioggia, pesante, cominciava a cadere.
- Non risponde.
*
Anis osservò il cellulare squillare per la terza volta a lungo, gli occhi fissi sullo schermo, e solo quando smise, sperando che non ricominciasse presto, lo ripose nella tasca posteriore dei jeans, tornando a prestare tutta la propria attenzione all’uomo che aveva di fronte. Era strano – e straniante – pensare a Fler in quei termini, visto che l’aveva conosciuto da ragazzino ed anche quando aveva piantato l’Aggro Berlin, be’, non è che fosse cresciuto più di tanto – non è che lui gli avesse lasciato il tempo di farlo, d’altronde – perciò fissare gli occhi su quell’uomo adulto, alto e robusto e innegabilmente arrabbiato non era piacevole come invece avrebbe potuto essere ritrovarselo davanti identico a com’era l’ultima volta che l’aveva visto.
- Fler, non ho tempo da perdere. – disse stancamente, cercando di ignorare i suoi occhi infiammati di rabbia, - Non mi pare che tra noi sia cambiato qualcosa, rispetto a una o due settimane fa. Perché hai voluto vedermi?
Patrick si morse un labbro e poi digrignò i denti in una smorfia infastidita. Sembrò non avere nulla da dire, Anis poté quasi vedere questa consapevolezza scivolare dietro i suoi occhi chiarissimi e ne fu turbato.
- Ci sto pensando da un po’. – rispose quindi, avvicinandoglisi minaccioso, - Settimane. Mesi. Non saprei dirti.
- Aha. – annuì Anis, cercando di fingersi totalmente disinteressato a quanto stava accadendo lì e, soprattutto, a quanto doveva stare accadendo a Bill, che stava chiamandolo per l’ennesima volta in dieci minuti. – Quindi?
Patrick quasi ringhiò, le braccia rigide lungo i fianchi e i pugni stretti tanto da imbiancargli le nocche.
- Odio questo tuo atteggiamento. – commentò astioso, - Parli con tutti come se non dovessi rispondere di niente con nessuno.
- E non è così? – chiese Anis, inarcando un sopracciglio e reggendo il suo sguardo nonostante quanto si sentisse turbato dalla sua sola presenza lì. C’era qualcosa che non tornava negli occhi di Fler – che ricordava ancora limpidi come quando l’aveva trovato la prima volta solo e sperduto e minuscolo in un centro di assistenza sociale – qualcosa che non tornava nel suo desiderio così improvviso e immotivato di vederlo, qualcosa che non tornava nel fuoco che sentiva inspiegabilmente agitarglisi nel fondo dello stomaco, qualcosa che non tornava nei nuvoloni che si addensavano minacciosi sopra le loro teste e nella pioggerella fine che si abbatteva su di loro diventando man mano sempre più fitta e pesante. – Dovremmo rientrare. – disse a mezza voce, ed era difficoltoso sentirsi parlare sotto lo scroscio rumoroso della pioggia. Patrick dovette gridare, perché lui lo sentisse. E quando lo sentì, Anis preferì di non averlo mai fatto.
- No. – disse con una decisione talmente improvvisa e fuori luogo da farlo sembrare sotto ipnosi, o posseduto, - No, dev’essere qui. Bushido! – lo sentì strillare all’improvviso, un attimo prima di ritrovarselo addosso.
Riuscì a malapena a sollevare le braccia per frapporle fra se stesso e il suo corpo, frenando la sua avanzata, ma il colpo fu tale che si ritrovò in terra, fradicio e con le sue mani strette attorno al collo non più tardi di pochi secondi dopo.
- Ah… - annaspò a corto d’aria, piantandogli entrambe le mani sulle spalle ed agganciando una delle sue gambe con una delle proprie, per ribaltare le loro posizioni e liberarsi della sua presa, - Ma cosa cazzo ti prende?! – gridò, afferrandogli entrambi i polsi e bloccandoglieli contro il marciapiede ormai ridotto ad una pozza d’acqua.
- Deve finire oggi. – rispose Patrick, mentre un sorriso inquietante si allargava sul suo volto, - Deve finire oggi! – ripeté urlando e dimenandosi sotto il suo corpo fino a sbalzarlo lontano con uno strattone più forte degli altri. Incredibilmente più forte degli altri.
Anis si ritrovò a sbattere di schiena contro un palo. Gemette dal dolore, ripiegandosi su se stesso e passandosi una mano lungo la spina dorsale per cercare di capire se fosse tutto a posto. Sembrava solo un colpo, per quanto incredibilmente forte, perciò tornò subito a tenere d’occhio Patrick, che nel mentre si era alzato da terra e, a distanza di qualche metro, lo fissava. I suoi occhi, incredibilmente azzurri, brillavano nella notte in maniera innaturale e spaventosa. Qualcosa non funzionava, qualcosa non stava andando come avrebbe dovuto andare, e quello non era un comune scontro. E Patrick non era un comune ragazzo in cerca di vendetta.
- Fler. – provò a chiamarlo, - Fler, cazzo, dimmi cosa sta succedendo.
Lui, però, non rispose. Si limitò a sorridere ancora, distante e terribile, e fu l’ultima cosa che Anis vide prima di venire improvvisamente investito da una massa d’acqua di proporzioni inimmaginabili. Quella non era pioggia. E quello non era Patrick.
Tossì parecchie volte, ed anche quando ebbe espulso l’acqua che l’aveva quasi soffocato gli restò addosso la sensazione di stare per annegare. Continuava a piovere così incessantemente da dargli l’impressione che il cielo volesse sciogliersi sulle loro teste.
- Fler! – chiamò ancora, cercandolo oltre la tenda spessissima di gocce di pioggia che sembrava isolarlo dal resto del mondo, - Cazzo. – imprecò, e fu costretto ad imprecare ancora quando l’acqua si aprì attorno a lui proprio come la tenda di un baldacchino, lasciandogli la possibilità di vedere. – Fler… - mormorò confuso, faticando a riconoscerlo. Di fronte a lui, Patrick s’era trasformato in qualcosa di diverso. La sua pelle, celeste e traslucida, sembrava ricoperta da piccole scaglie, come quelle di un pesce. Gli occhi brillavano violentemente, liquidi e ciechi, e sotto di lui si agitava una lunga coda da tritone mentre attorno alle sue braccia, larghe ai lati del corpo, si addensavano due sfere d’acqua talmente in agitazione da dare l’impressione di ribollire.
Anis spalancò gli occhi e dischiuse le labbra, incredulo, e fu tutto quello che riuscì a fare prima che le due sfere si schiantassero contro il suo corpo, violente come pugni ed altrettanto ben mirate. Urlò quando sentì una costola incrinarsi e sputò sangue quando una sfera lo colpì dritto al volto con tale forza da costringerlo a piegare dolorosamente il collo.
Annaspò, provò a difendersi portando entrambe le braccia davanti al corpo e, cercando di schermarsi dal getto d’acqua continuo e pressante che minacciava di aprirgli un buco nel centro dello stomaco, riuscì a sgusciarne al di sotto e correre via. Non si mosse velocemente, però, o almeno non abbastanza per evitare una seconda scarica d’acqua mirata proprio al centro della schiena. Il punto, già intorpidito per il colpo preso poco prima, riprese a dolere così forte che Anis non poté che accasciarsi lì dov’era, all’angolo del marciapiede, le mani del tutto affondate nell’enorme pozza d’acqua che tutta la strada era diventata e il respiro mozzo.
Dietro di lui, Patrick si avvicinava senza toccare per terra, fluttuando a mezz’aria in quello che sarebbe stato un perfetto silenzio se, assieme a lui, non si fosse mossa anche gran parte della pioggia. Anis lo sentì avvicinarsi in uno scrosciare d’acqua sempre più forte e chiuse gli occhi, pensando distintamente che quella sarebbe stata la sua fine, e sarebbe morto senza capire niente di quanto era successo negli ultimi venti minuti della sua vita.
Poi, una macchina si fermò di fronte a lui. L’autista spalancò lo sportello a dieci centimetri dal suo volto, ed Anis sollevò lo sguardo.
- Chakuza… - esalò stremato, piantando gli occhi sulla sua espressione e sul suo sguardo che saettava sconvolto da lui alla figura di Patrick dietro le sue spalle.
- …Sali! – gridò l’austriaco, decidendo di rimandare a dopo le spiegazioni. Anis sentì le sue mani afferrarlo per il bavero della maglietta resa ormai insopportabilmente pesante dall’acqua, e senza protestare si lasciò trascinare all’interno dell’automobile.
*
- Non posso credere a quello che ho visto. – ripeté Anis per la millesima volta in dieci minuti, talmente sconvolto da ostinarsi a cercare di asciugarsi il viso usando la propria maglietta grondante d’acqua, senza ovviamente riuscirci. – Non posso credere a quello che ho visto.
- Ma cosa cazzo era quella… quella roba?! – si azzardò a chiedere Peter, pestando sull’acceleratore e cercando per pronto accomodo di allontanarsi il più possibile dal quartiere, dal momento che era palese che, al momento, Anis non sarebbe riuscito a prendere una decisione riguardo dove dirigersi nemmeno se ne fosse andato della sua vita, cosa peraltro parecchio probabile.
- Era Fler! – rispose Anis, voltandosi a guardarlo con gli occhi spalancati, - Era Fler, cazzo, o almeno, era lui prima di diventare quella cosa!
- Ma— ma di cosa cazzo stai parlando?! – sbottò l’austriaco, frenando all’improvviso ed accostandosi al marciapiede. Non pioveva più, cosa che sembrò in qualche modo rassicurare Anis abbastanza da permettergli di riordinare le idee.
- Non lo so, con precisione. – rispose l’uomo, inumidendosi le labbra, - Anzi, in realtà non lo so affatto. So che stavo parlando con Fler— non guardarmi così, non so perché volesse parlarmi, credo volesse risolvere certe questioni passate, ma ad un certo punto tutto è cambiato. E non intendo solo lui.
Peter annuisce lentamente, incerto.
- Quindi quella cosa che ho visto era…
- Fler. – annuì Anis, ancora incredulo, - Dopo essere cambiato. Ad un certo punto è cominciato a piovere talmente forte che sembrava dovesse venire giù il cielo, e lui è diventato un altro. E… Dio, non so come dirlo senza sembrare completamente pazzo.
Peter inarcò un sopracciglio, guardandolo come avesse appena detto la cosa più stupida mai pensata.
- Io ho appena visto una specie di sirenetto che fluttuava a mezz’aria e sembrava avere la chiara intenzione di ucciderti, Bu. – gli ricordò, costringendolo perfino ad un mezzo sorriso divertito nonostante il dolore e la stanchezza, - Penso che ti crederei anche se mi dicessi di essere un dio sceso sulla terra per distruggere il mondo impuro o chessò io.
- No, indubbiamente io non sono niente del genere. – ridacchiò Anis, accomodandosi contro lo schienale del sedile, - Fler, però… o almeno, la cosa che è diventato, lui riusciva a governare l’acqua. La— non lo so, la raccoglieva attorno alle sue mani come un campo di forza e poi me la sparava addosso, cazzo, manco fossimo stati in un fottuto videogioco. Merda.
- Se fosse stato un videogioco, - sorrise Peter, rassicurandolo con una pacca sulla spalla, - te la saresti cavata sicuramente meglio.
- Questo è poco ma sicuro. – rise piano Anis, stendendo il capo all’indietro e sospirando pesantemente, lo sguardo fisso sul cielo scuro della sera oltre il parabrezza. – Solo che adesso… voglio dire, se Fler vuole uccidermi, prima o poi mi troverà. E devo pensare a Bill, intendo— non posso mica fuggire per sempre o espatriare e mollarlo qui senza una parola… e poi come? Dovrei fingermi morto per costringerlo a non seguirmi pure in capo al mondo. – sospirò ancora, piegandosi in avanti e poggiando i gomiti sulle ginocchia. – Chaku, onestamente: non so che fare.
Peter annuì, mordicchiandosi un labbro con aria incerta e nervosa per qualche secondo, prima di decidersi finalmente a parlare.
- Senti… liberissimo di prendermi per pazzo, - disse alla fine, - ma mia madre, sai, quando ero più piccolo, mi raccontava spesso di uomini che mettevano su le squame e governavano gli elementi. – si interruppe quando vide lo sguardo di Anis alzarsi su di lui, vuoto e vagamente terrorizzato, - Sì, lo so. – sospirò quindi riprendendo, - Mia madre è abbastanza fuori di zucca, dove per “fuori di zucca” intendo completamente matta, ma almeno è una che sa come ascoltarti senza far sembrare pazzo te, quindi… - sospirò ancora, scrollando le spalle, - se vuoi si passa da casa sua e le si fa una visitina. – propose, - Tanto è insonne. – Anis continuò a guardarlo fisso come un pesce appena caduto fuori dalla boccia, e Peter si strinse nelle spalle. – Era solo un’idea, comunque.
- Ma perché tua madre dovrebbe saperne qualcosa, di tutto questo?! – sbottò Anis, allargando le braccia in un gesto incredulo, per quanto lo spazio ristretto dell’abitacolo dell’automobile potesse permettergli.
- Non lo so! – rispose lui, - Potrebbero essere solo storie per bambini, ma se fosse qualcos’altro? Insomma, quello che abbiamo visto lo sappiamo entrambi, non mi sembra il caso di ostinarsi a ripetersi “è troppo assurdo, non può stare accadendo sul serio”. Non abbiamo alternative, ti pare?
Anis rifletté qualche secondo, lo sguardo basso e le sopracciglia corrugate.
- Non abbiamo alternative. – annuì quindi, tornando a sedersi compostamente sul sedile. – Parti.
*
- Stavo pensando… - disse Anis, scrutando curiosamente la palazzina di fronte alla quale si trovavano mentre Peter armeggiava con le proprie chiavi per aprire il portone, - io non ho mai conosciuto tua madre.
- E non ti sei nemmeno mai visto apparire davanti un mostro degli abissi pronto ad annegarti. – commentò lui, aprendo il portone e facendogli strada all’interno dell’atrio, - E se è per questo a me non era mai capitato di uscire per comprare un paio di birre, finire improvvisamente in una tempesta spuntata fuori da chissà dove e poi salvare la vita di un collega. Perciò direi che è una giornata di grandi prime esperienze per entrambi.
Anis rise ancora, stavolta più apertamente, appoggiandosi a lui mentre salivano le scale per raggiungere il primo piano, dove la signora Silvia abitava col marito, nonché padre di Peter.
- Ehi, Atze. – disse Anis a bassa voce, quando furono di fronte alla porta dell’appartamento, - Grazie. Non so cosa avrei fatto, se non mi avessi tirato via da quell’inferno.
Peter scrollò le spalle, aprendo anche quella porta ed invitandolo all’interno.
- Ringraziami quando saremo riusciti a dare un senso a questa follia. – rispose, prima di voltarsi verso il corridoio e chiamare sua madre a gran voce.
Invece della donna, comunque, fu suo padre a presentarsi.
- Peter, - lo salutò con un cenno del capo, - e… uomo sconosciuto. Buonasera.
- Perdoni l’intrusione. – sorrise Anis, - Non era mia intenzione gocciolare inaspettatamente sul vostro zerbino.
- Non è la prima né l’ultima cosa assurda che capita in questa casa. – rispose l’uomo, volgendo teatralmente gli occhi al cielo. – Peter, - ripeté quindi, tornando a rivolgersi al figlio, - tua madre è estremamente preoccupata per qualcosa di cui si ostina a non volermi parlare. Sta chiusa nel suo studiolo da ore e non mi riesce di tirarla fuori. Stavo per chiamarti. Vedi di fare qualcosa perché io ho esaurito le idee. – sospirò.
- È una delle solite lagne? – chiese Peter con una mezza smorfia. Suo padre sospirò ancora.
- Sì, forse. Non lo so. Non abbiamo esattamente avuto occasione di parlare. – confessò, prima di voltarsi a guardare Anis. – Mi spiace che debba assistere a questa scena, ma mia moglie ogni tanto tende a perdere il controllo. Non è pericolosa, comunque. – concluse con un sorriso, - È solo un po’ strana.
Anis sorrise rassicurante, cercando di reggersi in piedi da solo e appoggiandosi alla parete con fatica.
- Non si preoccupi, signor Pangerl. Quanto a stranezze, penso che nulla potrà più stupirmi.
Il signor Pangerl sorrise a propria volta e fece per ribattere, ma Peter lo fermò.
- Di mamma mi occupo io, papà. – disse, riprendendo a sostenere Anis e conducendolo lungo il corridoio verso lo studio privato di sua madre, - Tu torna pure di là.
- Niente male, come primo incontro con i tuoi. – ironizzò Anis, trascinando i piedi sulla moquette un po’ impolverata, - Ho una costola probabilmente incrinata e mi sento così stanco che potrei svenire, e tua madre è nel bel mezzo di una crisi di nervi.
- Ne sta avendo parecchie, ultimamente. – borbottò Peter, sollevando una mano per bussare alla porta, - Stanno succedendo tante di quelle cose, nel mondo… - considerò pensieroso, - Dio, solo adesso che ho visto quello che ho visto riesco a pensare che il tutto potrebbe non essere casuale.
La porta della stanza si spalancò davanti a lui prima che le sue nocche potessero toccarne il legno laccato bianco, e Peter fece un passo indietro, trascinandosi dietro Anis in un mugolio di dolore e di sforzo, per evitare di essere preso in piena faccia. Sua madre, ferma oltre la soglia, aveva gli occhi spalancati, una vestaglia coloratissima allacciata mollemente in vita sopra una sottoveste di raso color panna e i capelli tutti scarmigliati sulla testa, tenuti su da un fermaglio e spioventi in riccioli rossicci, striati qua e là di bianco e grigio, lungo le sue guance e il suo collo pallido, ricoperti di lentiggini.
- Peter! – gridò, afferrandolo stretto per un braccio e trascinando all’interno sia lui che Anis, prima di chiudere la porta, - Oh, per i Divini, dimmi che le mie preghiere hanno sortito l’effetto desiderato, dimmi che ti sei trovato al posto giusto e nel momento giusto e hai impedito la catastrofe!
- Mamma! – strillò a propria volta Peter, aiutando Anis ad abbandonarsi sulla prima poltrona libera disponibile, a fronte delle altre due ricoperte di pergamene e libri vari così come la scrivania e il tavolino basso poco distanti, - Che diamine ti prende?!
- Ho visto… - balbettò lei, perdendo una mano fra i capelli e dirigendosi spedita verso la scrivania, - Ho visto l’acqua e ho visto la morte e ho visto te, Peter, tu dovevi essere lì per impedirlo. Era importante che tu lo facessi. Ti prego, - aggiunse in un mugolio stremato, consultando incartamenti che Peter non aveva mai visto prima, - ti prego, dimmi che l’hai fatto.
Peter ed Anis si lanciarono un breve sguardo d’intesa, in seguito al quale l’austriaco raggiunse la propria madre e la strinse affettuosamente per le spalle, massaggiando piano i suoi muscoli tesi ed invitandola a sedersi prima di farlo a propria volta.
- Mamma, questo è Bushido, è uno con cui lavoro. Devo avertene parlato, qualche volta. E sì, - aggiunse annuendo, - gli è successo qualcosa di terribile, ma io ero lì e sono riuscito a tirarlo fuori prima che si facesse ammazzare.
- Ehi. – borbottò Anis, ma Peter lo fermò inarcando un sopracciglio.
- Non mi pare il momento di stare a difendere il tuo onore di guerriero, Bu. – gli ricordò, costringendolo a guardare altrove mugugnando offeso ma senza insistere nella sua protesta. – Mamma, cosa sta succedendo qui?
La signora Silvia si mordicchiò nervosamente il labbro inferiore, prima di inspirare profondamente e poi alzarsi in piedi, raggiungendo la libreria a muro e tirando fuori un libro dal caos che regnava sugli scaffali.
Si sedette ancora e poggiò il libro sulla scrivania, rivolto verso Anis e Peter, ma tenne entrambe le mani sulla copertina di modo che nessuno dei due potesse aprirlo o sbirciarne il titolo.
- Tutto ciò che sapete, o credete di sapere, - disse quindi con tono grave, - è una menzogna. Io posso raccontarvi cosa è successo, costa sta succedendo e cosa succederà, ma le vostre menti devono essere sgombre e pronte ad accettare ciò che vi dirò. In caso contrario, - sospirò, stringendosi nelle spalle, - non faremmo che perdere inutilmente tempo. E non possiamo permettercelo.
- Signora Pangerl, - disse Anis in un lamento sofferente, - mi creda, la mia mente non è mai stata più aperta di così.
La signora sorrise, scrutandolo serenamente con gli occhi verdissimi e brillanti.
- Lo so. – annuì, - Riesco a vederlo. – sospirò pesantemente, prima di allontanare le mani dalla copertina del libro ed aprirlo. – L’ecosistema di questo pianeta, - cominciò a raccontare, mentre sotto gli occhi di Peter ed Anis sfilavano immagini molto simili a quelle di un libro per bambini, - vive in perfetto equilibrio. Se anche a volte può sembrare che qualche parte di esso viva in condizioni di particolare disagio, questo è possibile solo perché queste situazioni sono bilanciate da altre situazioni vissute in condizioni di gran lunga migliori. Questo è il karma, è la legge che regola tutto, su questo mondo. Il karma è e deve essere sempre bilanciato, dei reali squilibri porterebbero al collasso del sistema come lo conosciamo. E potete chiamarla come volete, - scrollò le spalle, - fine del mondo, apocalisse, armageddon… non importa il nome che le date, non cambia la sostanza di ciò che è.
- Questo libro… - chiese Peter con un filo di voce, lasciando scorrere le dita su una pagina ingiallita e rovinata dal tempo, - che cos’è?
- Avrebbe dovuto essere il tuo primo regalo. – rispose sua madre, sorridendo tristemente. – È il libro che ogni famiglia appartenente all’Ordine utilizza per istruire i propri bambini. Tutti gli adepti ne hanno uno, e lo tramandano di generazione in generazione. Io non ho potuto tramandarti il mio. – aggiunse, la voce appena incrinata, - Ma avrei tanto voluto, tesoro. Davvero.
- Un attimo, un attimo. – s’intromise Anis, avvicinandosi a propria volta al libro per guardarlo più attentamente, - Di cosa diamine stiamo parlando? Ordine, adepti, karma? Che cosa è successo a Dio, alla Bibbia ed alla Santa Chiesa?
- Fumo negli occhi. – rispose lei, quasi offesa personalmente nel sentirsi accostata a cose simili, - Distoglie l’attenzione da ciò che è davvero importante. Il karma provvede da sé anche a dissimulare la propria presenza a chi non è preposto a comprenderla e vegliarne la serenità. Non è necessario che sette miliardi di persone sappiano. È sufficiente che sappia chi di dovere. – concluse seria, prima di voltare pagina e mostrare loro un simbolo che conoscevano entrambi.
- Yin e Yang. – mormorò Peter, - È di questo che stiamo parlando? Buddhismo o che so io?
- Peter! Ma quanta ignoranza! – sbottò sua madre, tirandogli uno scappellotto sulla nuca, - Quello dello Yin e dello Yang non è un concetto appartenente alla filosofia indiana, bensì a quella cinese. E spiega solo il cosa, ma non il come. O il perché.
- E invece è esattamente quello che noi vogliamo sapere. – disse Anis, picchiettando due dita contro il simbolo, - Il come e il perché. E se si può fermare, ovviamente.
- Fermare! – la signora Silvia rise di gusto, spalancando gli occhi, - Tu non sai di cosa parli, ragazzo. Si tratta di cose ben più grandi di te o di me, qui stiamo parlando di divinità.
- Divinità…? – disse Peter, - Quindi è questo quello in cui si è trasformato Fler prima? Una divinità? Con le scaglie, la coda e tutto?
- Le scaglie? – chiese la signora Silvia, stupita, - No, i Prescelti non— ragazzi, piano, la cosa è abbastanza complessa già senza scavalcare le spiegazioni di base. – borbottò massaggiandosi le tempie, - È più probabile che abbiate visto un dragone, ma ve ne parlerò a tempo debito. – inspirò ancora, prima di voltare pagina e mostrare loro l’immagine di due uomini praticamente stilizzati, uno abbigliato in nero ed uno abbigliato in bianco, stretti in un abbraccio e circondati di luce. – L’equilibrio del karma su questo pianeta è garantito dalla presenza di due esseri, detti “i Divini”, capaci di catalizzare in vita un carico di sentimenti nella gente abbastanza grande da permettere al karma di alimentarsi traendone la propria energia. È un’energia che giocoforza va esaurendosi, con gli anni, ed è per questo che ogni due secoli due bambini perfettamente uguali e perfettamente differenti, complementari in tutto, nascono e vengono protetti fino al giorno in cui sono pronti ad unirsi e prendere il posto dei vecchi Divini ormai caduti e privi di energia. È anche per questo che i Prescelti sono spesso esposti all’amore, all’odio, all’invidia, alla tenerezza, all’affetto, alla curiosità ed alla rabbia di tutti gli esseri umani. Quanti più sentimenti riusciranno a catalizzare, tanto più il loro regno sarà sereno.
- E questo cosa diamine c’entra con Bushido?! – sbottò Peter, grattandosi confusamente la testa, - Non mi pare che lui—
- Bill. – lo interruppe Anis, lo sguardo perso sulla figura abbigliata in nero, - Bill e Tom. È questo, quello che sta cercando di dirmi. Bill e Tom— sono loro. I Prescelti.
La donna sorrise tristemente, annuendo piano.
- Tu hai introdotto un elemento di disturbo non comune, innamorandoti di Bill e lasciando che lui s’innamorasse di te, ragazzo. I vostri sentimenti hanno approfittato di una falla nell’equilibrio karmico, probabilmente dovuta alla perdita di energia dei vecchi Divini ormai quasi senza forze, e sono germogliati. Ed ora è come quelle piccole piantine che s’insinuano nelle crepe del muro e poi crescono, crescono, crescono, fino a sgretolare interi edifici.
- Bill e Tom sono destinati ad unirsi. – mormorò Anis, ancora incredulo, - E io lo sto impedendo. Sto distruggendo il mondo…?
- Mamma, ma dico io, - sbottò Peter, allargando le braccia ai lati del corpo, - tu sapevi tutto questo e non ne hai fatto parola con nessuno? Hai semplicemente aspettato che accadesse?!
- Io ho pregato, Peter. – ribatté sua madre, piccata, - Ho pregato incessantemente e questo è stato tutto ciò che ho potuto fare. Non potevo aprire bocca sulla questione, io… ormai da molto tempo, non faccio più parte dell’Ordine. Da ben prima che nascessi tu. – aggiunse, gli occhi bassi sul libro ma persi oltre, nel vuoto.
- Perché? – chiese Anis, le sopracciglia aggrottate e lo sguardo serio, - Cos’è successo?
- L’Ordine è composto da adepti di vario rango e con varie funzioni specifiche. – spiegò la donna, - Io ero e sono un’indovina. Ben prima che i gemelli nascessero, ebbi la visione di un essere di natura divina, generato dal karma stesso, che avrebbe finito per frapporsi fra i gemelli, distruggendo le loro possibilità di unirsi, e cominciai a pensare che ci fosse qualcosa che non andava. Il karma stava cercando di… non saprei dire. – sospirò, - Si tratta di visioni antiche e confuse, ma sembrava proprio che il karma fosse intenzionato a porre fine alla questione dei Divini per come la conoscevamo. Cosa che avrebbe portato inevitabilmente alla fine del mondo.
- …un essere di natura divina. – mormorò Peter, voltandosi repentinamente a guardare Anis, - Bu…!
- Fler. – concluse l’uomo per lui.
- Un dragone. – precisò la signora Silvia, annuendo. – Sì, è… è probabile che la mia visione fosse riferita a lui. C’è qualcosa che questo individuo potrebbe fare per impedire l’unione dei gemelli? Qualcosa che potrebbe allontanarli?
- Fler mi odia. – spiegò celermente Anis, cercando di alzarsi in piedi il più velocemente possibile, - Vuole vendetta nei miei confronti, anche se il suo odio si è inspiegabilmente amplificato, in questo periodo.
- È la caduta dei precedenti Divini. – annuì la signora Silvia, scattando in piedi ed aiutando il proprio figlio a sorreggere l’altro uomo, - Sconvolge il mondo ed amplifica i sentimenti per favorire i Prescelti nella loro opera di catalizzazione. Quest’uomo potrebbe…?
- Potrebbe voler uccidere Bill per vendetta. – ipotizzò Peter, mordendosi nervosamente l’interno di una guancia, - E niente più Bill, niente più unione dei Prescelti, niente più Divini.
- E niente più mondo. – considerò Anis a bassa voce. Rimase in silenzio per qualche secondo, prima di parlare ancora. – Dobbiamo andare.
Peter annuì, lasciando per un attimo Anis alle braccia di sua madre per correre ad aprire la porta. La donna li accompagnò fino all’ingresso, e li abbracciò entrambi con affetto sincero, prima di lasciarli andare.
- Ragazzo, - disse la signora Silvia, poggiandogli una mano su un braccio quando lui era già per metà fuori dalla porta, - tu potresti essere la chiave. – mormorò, guardandolo negli occhi con aria distratta e persa ma, inspiegabilmente, perfino troppo attenta, - Anche se non riesco ancora a comprendere per quale serratura.
L’uomo aggrottò le sopracciglia, senza capire.
- Bu, dobbiamo muoverci. – disse Peter, scrutando la notte fuori dalla finestra in corridoio, - Sta ricominciando a piovere.
Anis annuì, salutando la signora Silvia un’ultima volta, prima di affidarsi nuovamente alla presa ferrea di Peter e lasciarsi condurre in macchina.
*
Patrick riprese conoscenza dopo un tempo che non riuscì a definire da sé. Non pioveva, ma sentiva la propria pelle bagnarsi continuamente come se invece stesse piovendo ancora, e quando aprì gli occhi e si ritrovò disteso sul marciapiede quella fu la cosa che lo colpì di più.
Si alzò in piedi, guardandosi intorno con aria confusa. La strada era irriconoscibile, sommersa in alcuni punti da pozzanghere profonde anche venti centimetri, ed immersa nel più perfetto silenzio. Si domandò se fosse il caso di chiamare qualcuno, ma capì da sé che nessuno avrebbe creduto a ciò che aveva da dire, e soprattutto ricordava tutto ancora troppo chiaramente per non sentirsene turbato, perfino spaventato, anche se sapeva di essere stato lui a farlo: mentre fronteggiava Bushido, del tutto all’improvviso, la rabbia che provava era cresciuta esponenzialmente fino ad invaderlo tutto, come acqua, e come acqua poi era tracimata, e lui aveva perso il controllo.
Non aveva mai smesso di sentire né di vedere, però. E quella era la cosa più allucinante. Quella, e le scaglie che gli coprivano le braccia e, a giudicare dalla sensazione ruvida che provava accarezzandosi viso e collo, anche tutto il resto del corpo, presumibilmente.
Almeno, si disse, in un tentativo di fare dell’ironia su una situazione che probabilmente avrebbe dovuto essere presa molto più seriamente, la coda era scomparsa. Ed aveva smesso di fluttuare a mezz’aria. Le due cose rappresentavano un indubbio passo avanti nella sua situazione, anche se tutti i passi avanti sembravano quasi annullarsi se pensava a quanto gli faceva male la testa, ed anche a quanto gli faceva male il fianco nel punto che aveva sbattuto svenendo. Si era accorto anche di quello, era stato come se la sua coscienza si fosse scissa dal suo corpo abbastanza a lungo da vederlo andare in berserk, attaccare Bushido spostando l’acqua con – non poteva quasi pensarci senza sentire il bisogno irrefrenabile di scoppiare a ridere – con la forza del pensiero e poi perdere immediatamente tutte le forze nel momento esatto in cui Bushido era scomparso dalla sua vista. Aveva sentito tutte le sue membra afflosciarsi e sgonfiarsi. Volteggiava a mezzo metro dal suolo ed era caduto scoprendo che la coda non era un punto d’appoggio abbastanza stabile da impedirgli di afflosciarsi a terra, e perciò era scivolato su un fianco, urtandolo contro il marciapiedi e perdendo i sensi subito dopo.
Era ancora inquietato da quanto tutto gli fosse sembrato semplicemente giusto, mentre stava avendo luogo. Attaccare Bushido con quella foga, nel chiaro intento di ucciderlo, volendolo fare… ne aveva fatte tante, nella sua vita, ma non era mai arrivato neanche lontanamente vicino al pensiero di voler uccidere un uomo. La sensazione di potenza che aveva percepito quando, in qualche modo, lo scricchiolio delle ossa di Bushido s’era dipanato attraverso le masse d’acqua che stava governando, giungendo a scuoterlo in un brivido sottopelle, l’aveva stordito, tanto quanto adesso lo stordiva il senso di colpa e quello, più ampio, di generale confusione.
Vagò per le strade senza una meta precisa per almeno mezz’ora, sentendosi completamente svuotato e privo di scopo. Estraneo all’interno della propria stessa pelle, non riusciva a percepire da nessuna parte la presenza di Bushido, e questo per qualche strano motivo lo portava a non sentire nient’altro. Le strade, il cielo, le rare persone che ogni tanto incontrava e che, nel vederlo, scappavano via terrorizzate, era tutto come se lo stesse guardando attraverso un velo d’acqua, una piccola cascata nascente da qualche parte al di sopra della sua testa e che gli oscurava la visuale. Vedeva quasi solo ombre acquerellate, e non riusciva a trovare un senso in niente di ciò che gli era capitato e gli stava ancora capitando.
La situazione non si fece più chiara quando, svoltando in una stradina secondaria nel tentativo di sfuggire alla folla ed evitare almeno di scatenare il panico nella popolazione, trovò un gruppo di militari quasi ad attenderlo.
- Cazzo, - disse uno di loro, - gli indovini avevano ragione! È qui, è qui! Chiamate la squadra di rinforzo!
Un fronte compatto di cinque o sei soldati si fece avanti immediatamente, mentre un altro recuperava la propria ricetrasmittente e comunicava col commando dislocato in un’altra zona della città. Patrick seguì il proprio istinto e si mosse all’indietro di qualche passo, sulla difensiva, gli occhi ben piantati su ognuno dei militari. Improvvisamente, i suoi sensi parvero acuirsi tutti assieme, guidati forse dalla paura, forse dall’istinto di conservazione. Riusciva a sentire tutto, a vedere tutto. Da qualche parte, in lontananza, riusciva perfino a sentire la presenza di Bushido. Di nuovo.
- Cosa volete da me? – chiese ai militari in un ringhio discreto ma abbastanza forte da poter essere sentito da ognuno di loro.
- Ma ti sei visto? – rispose lo stesso che aveva preso il comando delle operazioni quando l’avevano trovato, - Non opporre resistenza, dragone. Sei in arresto.
- Voi non potete arrestarmi! – protestò, stringendo i pugni lungo i fianchi. Cominciava a sentire la sensazione umida dell’acqua che si addensava attorno ai suoi pugni chiusi, prima come semplici goccioline, simili a brina, poi come gocce sempre più compatte. Era la stessa sensazione che aveva provato poco prima di perdere il controllo combattendo contro Bushido. Vedeva già chiaramente come sarebbe andata a finire, e si sentiva stranamente pieno di fiducia sull’esito di quella battaglia.
Era esausto, provato, il mal di testa era tale da dargli la nausea, ma nondimeno era certo che non sarebbe morto. Non lì, non in quel momento.
- Possiamo e dobbiamo. – disse il tizio, prima di sollevare una mano. – Prendetelo! – ordinò in un gesto perentorio.
Il commando si mosse verso di lui a mitra spianati, e Patrick si librò in aria il secondo successivo.
- Voi non potete arrestarmi. – ripeté con maggior calma. L’acqua era lì, lo proteggeva. E si preparava all’attacco, compatta. – Voi non potete nemmeno fermarmi. – concluse con un ghigno.
- Pronti! – disse il tizio, mentre gli uomini del commando si fermavano all’improvviso, - Mirare… - ordinò, e quelli presero posizione, - Fuoco!
Tutti i loro proiettili si infransero uno dopo l’altro contro il muro d’acqua che Patrick innalzò davanti a sé. E non riuscirono nemmeno a capire cosa accadde quando, senza che il muro dovesse dissolversi né aprirsi, due colonne d’acqua ne fuoriuscirono, dirette verso di loro a velocità disumana.
Quando Patrick toccò per terra e, stavolta, la sua coda tornò ad essere semplicemente un paio di gambe ben prima che lui potesse cadere ancora, capì due cose. Primo, stava imparando a controllare meglio i suoi poteri. Secondo, c’era chi, per quegli stessi poteri, lo voleva morto.
Mentre i membri del commando cercavano di riprendere coscienza di se stessi e tossicchiavano nel rigirarsi abbastanza da riprendere fiato – e alcuni di loro restavano immobili per terra: dovevano essere morti – Patrick, incredibilmente freddo e del tutto disinteressato alla loro vicenda, sollevò appena il capo e chiuse gli occhi. Riusciva a sentire la presenza di Bushido con una chiarezza che quasi lo stordiva. Era come vederlo muoversi su una mappa invisibile, una mappa di cui lui conosceva ogni dettaglio e che riusciva perciò a seguire perfettamente.
Riaprì gli occhi e l’istinto gli disse che doveva raggiungerlo, dovunque fosse. Non riusciva a capire per quale motivo, ma era evidente che Bushido doveva avere a che fare con la sua condizione, o comunque saperne qualcosa. Doveva trovarlo, non aveva alternative.
Si librò in volo senza pensarci due volte.
*
Il posto non gli era familiare. La strada era bene illuminata, ampia e pulita. Il palazzo era grande, di molti piani, anche se non abbastanza da far pensare alla sede di qualcosa di losco, o ad una casa di produzione. Sembrava un normale condominio, di quelli abitati solo da famiglie semplici, babbo mamma figli forse qualche nonno, eppure era circondato da militari. Patrick aggrottò le sopracciglia contandoli celermente – dodici solo davanti, divisi fra appostati intorno alla cancellata ed impegnati in vaghi andirivieni lungo il vialone asfaltato centrale, ma poteva percepirne almeno un’altra ventina sul retro e sui fianchi del palazzo. In pratica, un piccolo esercito.
Si chiese cosa potesse esserci di tanto importante all’interno di quel palazzo da giustificare un tale dispiegamento di forze – da parte di chi, poi? – ma pochi secondi dopo la consapevolezza dell’estrema vicinanza di Bushido gli tolse ogni possibilità di ragionare lucidamente in termini che non fossero quelli di raggiungerlo e discutere con lui, dove poi sul significato di discutere il suo cervello non sembrava avere le idee molto chiare.
Sentì distintamente una macchina frenare e spegnersi da qualche parte nei dintorni, ma nessuno dei militari sembrò mettersi in allerta. L’autovettura doveva essere parecchio lontana, perché Bushido, accompagnato da Chakuza e con una mano sul fianco evidentemente ferito, apparve solo diversi minuti dopo.
Al solo vederlo, qualcosa si mosse nel suo petto. L’ondata di rabbia liquida potente come la piena di un fiume, che qualche ora prima l’aveva costretto a perdere il controllo di sé ed attaccare Bushido, stava montando dentro il suo corpo, crescendo come un’onda. Si sarebbe infranta di lì a poco, travolgendo tutto. Patrick chiuse gli occhi e strinse con forza i pugni lungo i fianchi, inspirando ed espirando ritmicamente, aspettando pazientemente di calmarsi. Doveva imparare a gestire quell’insopprimibile istinto, doveva tenerlo a bada, almeno fino a quando gli sarebbe servito tenere Bushido in vita, per capire per quale motivo il suo corpo si ostinasse ad indicarglielo come la persona alla quale avrebbe dovuto chiedere per spiegare quell’incredibile cambiamento. Poi, sarebbe successo ciò che sarebbe successo. A lui, al momento, non importava.
Lasciò che Bushido e Chakuza avanzassero di qualche metro, ma prima che i militari potessero accorgersi della loro presenza si frappose fra loro, sfidando Bushido ad avanzare con lo sguardo. Lui gli si fermò proprio di fronte, e lo guardò per qualche secondo con gli occhi spalancati, quasi boccheggiando, come non potesse davvero credere di trovarselo davanti, o come se vederlo proprio lì e proprio in quel momento gli facesse incredibilmente male. Patrick inarcò un sopracciglio, incuriosito da quell’espressione della quale non riusciva a comprendere la ragione, ma quando fece per schiudere le labbra e parlare, Bushido lo anticipò.
- Speravo di sbagliarmi, ma a quanto pare avevo ragione. – disse in un ringhio basso e profondo, quasi disumano. Patrick lo guardò come se la voce stesse traspirando dalla sua stessa pelle, come fosse ovunque. Riusciva a sentirla scuoterlo fin nelle viscere, come il suono dei bassi a palla durante un concerto. – Tu non lo toccherai, Fler. – lo minacciò, e quando sollevò lo sguardo Patrick vide che i suoi occhi brillavano.
Indietreggiò di qualche passo.
- Io non—
- Tu non toccherai Bill neanche con un dito. – ribadì Bushido, la voce ormai più simile al rombo di un tuono che al suono di una voce umana. Chakuza, accanto a lui, si allontanò di qualche centimetro.
- Bu…? – lo chiamò piano, e Patrick capì. O meglio, seppe, pur senza capire, che a Bushido stava per succedere la stessa cosa che era capitata a lui. E questo, quantomeno, spiegava per quale motivo lui riuscisse a percepirlo così distintamente, e per quale motivo continuasse a gravitargli intorno.
- Chakuza. – lo chiamò, cercando di suonare rassicurante sia per lui che per se stesso, dal momento che la furia di Bushido gli si stava riversando dentro come una cascata, - Allontanati più in fretta che puoi.
- Cosa? – disse quello, lanciandogli un’occhiata per metà incredula e per metà astiosa, - Col cazzo, no!
- Sta perdendo il controllo! – gridò, indicando Bushido, - Non lo vedi?!
Chakuza si voltò a guardarlo molto lentamente, e quando gli ebbe posato gli occhi addosso impallidì: la sua pelle era diventata notevolmente più scura, assumendo una sfumatura rossastra che era la stessa del nuovo colore dei suoi occhi completamente vuoti. Tutta la superficie del suo corpo sembrava essersi fatta più dura, coriacea, e quando all’improvviso si piegò in avanti e cominciò quasi a gemere di dolore e rabbia Fler spalancò gli occhi e indietreggiò.
- Scappa! – gridò, rivolgendosi a Chakuza, - Scappa adesso, idiota!
L’austriaco riuscì ad allontanarsi appena in tempo, giusto un attimo prima che Bushido esplodesse in un grido devastante, mentre due ali gli perforavano la pelle sulle scapole e svettavano dietro la sua schiena, enormi, spalancate e bellissime. Tutto il suo corpo sembrava ardere.
- Tu non lo toccherai, Fler, tu non riuscirai nemmeno ad avvicinarti a lui! – gridò Bushido, sbattendo le ali ed alzandosi in volo mentre i militari, ormai accortisi di ciò che stava accadendo, li circondavano, armi spianate e pronte a far fuoco in attesa degli ordini.
- Non sono venuto qui per il tuo fidanzato del cazzo, Bushido! – rispose lui, affrettandosi a librarsi a propria volta in volo mentre sentiva le proprie gambe fondersi e scomparire per lasciar spazio alla coda.
Bushido non lo ascoltò – non poteva più: sollevò le braccia verso il cielo e Fler riuscì a malapena a tirar su uno scudo d’acqua abbastanza spesso, prima che due enormi sfere di fuoco si scagliassero contro di lui, partendo dalle sue mani.
- Bushido! – lo chiamò ancora, rendendosi conto di quanto più facile stesse diventando mantenere il controllo sulla propria rabbia, man mano che si abituava a trasformarsi, - Bushido, cazzo, torna in te!
Intorno a loro, i militari si agitavano: una delle due sfere di fuoco era stata inglobata dal suo scudo e si era dissolta, ma l’altra ne era stata solo deviata, ed era andata a schiantarsi contro il marciapiede a pochi passi da loro. I ranghi si erano quasi sciolti, e con la furia di Bushido che cresceva di minuto in minuto, come l’enorme sfera di fuoco crepitante che stava prendendo forma sopra la sua testa, nessuno sapeva più cosa provare a fare.
- Bushido, non sono venuto qui per Bill! – gli spiegò Patrick, creando a propria volta una sfera d’acqua, per avere qualcosa con cui contrastarlo nell’eventualità che Bushido avesse dovuto decidere di scagliare la propria, - Sono venuto qui per te! È stato il mio istinto a indicarmi dov’eri, o— dove saresti andato, insomma, sono arrivato prima solo perché ero più vicino! Devi credermi, io— io e te dobbiamo parlare, solo questo!
Bushido ruggì – molto probabilmente non aveva sentito una sola parola, del suo discorso – e sembrò sul punto di tirargli addosso la sfera quando, improvvisamente, si fermò, sollevando lo sguardo verso il cielo.
- …Anis. – disse la voce flebilissima di Bill, affacciato alla finestra svariati piani più in alto, - Anis!
Gli occhi di Bushido tornarono immediatamente a vedere, mentre la sua espressione tornava finalmente umana e la palla di fuoco svaniva in un enorme sbuffo di fumo.
- Bill! – gridò l’uomo, lanciandosi in volo alla volta della sua finestra.
- Anis! Anis! – continuò a strillare il ragazzo, spalancando e tendendo le braccia e sporgendosi dalla finestra il più possibile mentre qualcuno cercava blandamente di tenerlo ancorato all’interno dell’appartamento, più per impedirgli di cadere che per trattenerlo davvero.
Bushido passò davanti alla finestra così velocemente che, per un secondo, sembrò che Bill fosse stato sbalzato all’interno dell’appartamento per lo spostamento d’aria, ma quando l’uomo terminò il proprio volo e ridiscese lentamente, voltandosi verso Patrick e rimanendo a fluttuare a mezz’aria – le ali sbattevano lente dietro di lui, le ferite ancora fresche sanguinavano lungo la sua schiena, imbrattando la maglietta strappata in più punti – poté vedere che il ragazzino era stretto ben saldo fra le sue braccia, e lo guardava con aria allucinata.
- È tutto a posto, adesso. – sussurrò Bushido, mentre Patrick li osservava chiedendosi cosa diamine potesse aver spinto Bushido ad infuriarsi tanto al pensiero che lui volesse raggiungerlo, - Ci sono qua io, nessuno potrà farti del male.
- Non mi facevano uscire, Anis! – cominciò il ragazzo, apparentemente dimentico di stare fluttuando a mezz’aria fra le braccia di un uomo alato e rosso come il fuoco, - Ho provato a chiamarti, ma tu non rispondevi, e soprattutto hai le ali! Hai le ali e non me l’hai mai detto! – si fermò qualche secondo, guardandolo come se stesse comprendendo la gravità di ciò che aveva davanti agli occhi solo dopo averlo descritto a parole, - Ma cosa cazzo sei?
Bushido rise a bassa voce, strofinando il naso contro quello di Bill, che per tutta risposta arricciò il proprio come gliel’avessero solleticato con una piuma, e poi sporse le labbra per un bacio piccolo e asciutto, più una rassicurazione, un mero bisogno di contatto, che un gesto sensuale. Fler sorrise a propria volta: il calore che si divampava da Bushido aveva assunto sfumature di tepore completamente diverse da prima, e lui si stava sentendo sciogliere come un chicco di grandine in mano a un bambino.
- Fler! – lo chiamò quindi, voltandosi a guardarlo, - Anche se prima poteva non sembrare… ti ho sentito. Solo che non ti stavo ascoltando. – Patrick annuì, perché capiva esattamente cosa Bushido stesse cercando di esprimere. La sensazione di sentirsi ancora a contatto col mondo, in qualche modo, ma di non esserne più parte integrante. – Mi sembra di capire che stai cercando delle risposte. E io so chi può dartele. – abbassò lentamente lo sguardo, piantandolo sulla piccola pozza di sangue che si stava addensando sulla strada, proprio sotto di lui. – Chi può darle a noi tutti. – tornò a guardarlo con decisione. – Prendi Chaku e seguimi. Oppure resta qui e fatti ammazzare da quest’esercito di Big Jim incompetenti. – concluse con stizza, prendendo il volo in una direzione che Patrick non riusciva a ricondurre a nulla di conosciuto.
Si voltò lentamente, posando lo sguardo sui militari che, impauriti, cercavano di mantenere salda la linea e puntargli addosso i mitra. Individuò Chakuza su un marciapiede poco distante, troppo turbato perfino per nascondersi, e sospirando pesantemente distrasse i militari con una scarica d’acqua repentina e violenta, per quanto non mortale, approfittando della loro confusione per recuperarlo e, tenendolo stretto per la vita fra le sue proteste improvvisamente animatissime, sollevarsi in volo al seguito di Bushido.
*
La prima cosa che la signora Silvia fece, quando si vide spuntare davanti agli occhi l’intera comitiva, fu cadere in ginocchio di fronte a Bill ed abbracciarne le gambe, piangendo sommessamente.
- Non posso credere che questo stia succedendo davvero. – mormorò in un fiume di singhiozzi mentre Bill, imbarazzatissimo, si agitava come un’anguilla strillando che non c’era proprio alcun bisogno di prostrarsi di fronte a nessuno, - Ho pregato così tanto perché le cose potessero andare per il verso giusto, e forse…
- Mamma. – la interruppe Peter, sorridendo come a scusarsi ed aiutandola a staccarsi dalle gambe di Bill e rimettersi insieme, - Lascia perdere questi convenevoli. Sono successe delle cose.
- Lo so. – sorrise lei, abbracciandolo teneramente e poi invitando tutti ad entrare in casa, prima di chiudere la porta. – Le ho viste. La fenice s’è destata, lei e il dragone si sono riequilibrati. – sorrise ancora, sempre più serena. – Vi devo ancora qualche spiegazione, ragazzi. A voi, e… - accarezzò lievissima il volto di Bill, che cercò di non ritrarsi, per quanto ancora incredibilmente imbarazzato, - a questo bellissimo fiore. Ma saprete tutto, e speriamo che questo possa esservi utile per riportare l’equilibrio nel karma e nel mondo.
La signora Silvia condusse nuovamente tutti nel proprio studiolo, ora molto più ordinato di quanto non fosse quando Peter ed Anis ne erano usciti qualche ora prima, ed invitò Bill ad accomodarsi su una sedia di fronte alla scrivania, una sedia che sembrava fosse stata approntata espressamente per lui, in attesa del suo arrivo.
- Avrei preferito incontrarti assieme a tuo fratello, - commentò la signora Silvia, vagamente delusa, - ma vedo che non è stato possibile, perciò è importante che adesso io ti spieghi chi sei nel modo più chiaro possibile. Così che poi tu possa spiegarlo anche a lui, e insieme possiate compiere ciò per cui siete stati destinati.
Anis distolse lo sguardo, le ali ripiegate dietro la schiena e ormai imbrattate di sangue quasi quanto la maglietta. Si chiese distrattamente se potesse andare da qualche parte per cercare di curarsi, ma la signora Silvia sollevò lo sguardo su di lui e gli sorrise, scuotendo lentamente il capo.
- Non smetterà di sanguinare. – gli rivelò, mentre Bill si voltava a guardarlo con evidente preoccupazione e si mordicchiava nervosamente il labbro inferiore, - È lo scotto da pagare per avere quelle ali. C’è del divino, in te, intrappolato in un corpo umano. Un pegno va pagato, e il tuo è un pagamento di sangue.
Anis considerò la questione per qualche secondo, prima di limitarsi semplicemente ad annuire. Aveva bisogno di capire cosa fosse diventato – o fosse sempre stato – ma si rendeva conto di quanto prioritaria fosse la questione di Bill rispetto alla sua, perciò restò in piedi – unica posizione in cui poteva davvero sistemarsi senza soffrire le pene dell’inferno per le ali che sembravano piegarsi e schiacciarsi con una facilità tremendamente irritante – ed incrociò le braccia sul petto, restando in osservazione.
- Bill, - cominciò la donna, parlando con tono carezzevole, quasi materno, - Tu sei, per questo mondo, qualcosa di molto più importante di quanto tu non abbia mai immaginato. Tu e tuo fratello siete speciali, - raccontò sfogliando il libro che aveva precedentemente usato con Anis e Peter e mostrandogli le immagini fino a soffermarsi su quella rappresentante i due Divini stretti in un abbraccio eterno e luminoso, - siete due opposti identici e perfetti, come due metà di una stessa mela. Siete differenti, ma combaciate perfettamente. – lo guardò dritto negli occhi, - E c’è un motivo, per il quale siete nati così.
- Signora… - la interruppe Bill, torcendosi le mani in grembo e sospirando faticosamente, - Stanno succedendo un mucchio di cose strane. – disse, tornando a guardarla negli occhi, - A me, ma anche intorno a me. Ad Anis, alla città, al mondo… - sospirò ancora, quasi spaventato dalla portata di ciò che stava per dire. – Sta per accadere qualcosa di brutto, è così?
La signora sorrise ancora, allungandosi nuovamente ad accarezzargli il viso.
- Sì, Bill, sta per succedere qualcosa. – annuì, - E che sia una cosa bella o che sia una cosa brutta, tu ne sarai direttamente responsabile.
*
Bill ascoltò attentamente tutto il racconto, scrutando le figure dapprima con sincero sconcerto, poi con curiosità, quindi con consapevolezza sempre crescente di ciò che quella donna, quelle persone, tutti gli abitanti della terra, coscientemente o meno, si aspettavano da lui.
- Tomi non sa niente. – balbettò alla fine, sfiorando la copertina del libro con la punta delle dita, - Nemmeno io sapevo niente… perché non ce l’hanno mai raccontato?
- I Prescelti non vengono mai informati della loro missione prima di essere pronti a compierla. – scosse il capo la signora Silvia.
- Io non lo ero! – disse Bill ad alta voce, sollevandosi di scatto dalla sedia e lasciandola rotolare per terra dietro di sé senza degnarla di uno sguardo, - Io non lo sono.
- Lo sei, Bill. – sorrise la signora Silvia, senza scomporsi, - Niente avviene per caso, e se il ciclo del karma ti ha portato qui da me il motivo è che eri pronto per ascoltare questa storia. E farne parte.
- Io non faccio parte di niente! – strillò Bill, le braccia rigide lungo i fianchi, - Io sono un cantante, ho un fratello e un fidanzato e non intendo stare a sentire un’altra parola a riguardo! Dio! – sbottò, quasi in lacrime per il nervosismo, abbandonando la stanza. Anis fece per andargli dietro immediatamente, ma la signora Silvia lo frenò con un gesto, invitando sia lui che Fler ad accomodarsi sulle poltrone.
- Non abbandonerà l’appartamento, potete stare tranquilli. – disse con sicurezza, - Inoltre, ho ancora una questione da discutere con voi due, mi pare.
- Io penso che resterò in piedi. – sbottò Anis, appoggiandosi alla poltrona senza sedersi, - Queste stupide ali mi stanno dando il tormento.
- Queste stupide ali sono ciò che ti ha permesso di sfuggire vivo all’Ordine portando con te i tuoi cari. – gli ricordò la donna con un sorriso, - Il supplizio è il giusto prezzo da pagare per—
- Senta, signora Silvia, io la stimo, davvero, - la interruppe lui, gesticolando, - ma la vita mi ha insegnato solo che la storia del karma, a livello proprio concettuale, non è altro che una stronzata. Lei non ha idea di che cosa abbia passato io quando ero un ragazzino, e sinceramente questa roba delle ali mi sembra di averla già scontata pagando in anticipo in passato.
La signora Silvia si limitò a sorridere serenamente, stringendosi appena nelle spalle.
- Probabilmente, stavi pagando per qualcos’altro. – rispose enigmatica, prima di rivolgersi a Patrick. – Voi due non dovreste esistere. – rivelò quindi in un fiato, - Siete il risultato di una serie di errori per cui i Divini, la cui energia stava già cominciando ad affievolirsi, non hanno impedito ad anomalie che di solito bloccano sul nascere di prosperare ed avere una vita. Anis, ragazzo, tu sei quest’anomalia. – annuì, - Non era previsto che tu nascessi perché, in caso di tua nascita, non avresti potuto che allontanare Bill da suo fratello. L’essere divino delle mie visioni eri tu.
- Ed io? – chiese Patrick, impaziente, spostandosi sulla poltrona fino a sedersi in punta, - Io cosa sono, perché sono così?
La signora sorrise rassicurante anche a lui.
- Tu sei il modo in cui il karma ha cercato di riequilibrarsi. C’era un’anomalia in circolo, ed andava fermata. Ed ecco perché sei nato tu, il dragone marino, l’opposto karmico della fenice di fuoco e per natura più forte di lui. Come l’acqua spegne sempre il fuoco, tu eri e sei destinato a spegnere per sempre la fenice.
Patrick serrò le labbra, abbassando lo sguardo.
- Quindi lui deve uccidermi. – disse Anis, freddo come il ghiaccio e perfettamente padrone delle proprie emozioni, - Se tutto ciò che deve accadere, alla fine, accade… lui mi ucciderà. – constatò. La signora Silvia non rispose.
Al suo posto, lo fece Patrick.
- Non so te, Atze, - disse con un mezzo sorrisetto, - ma io non ci sto a farmi comandare a bacchetta da due divinità del cazzo che non sono buone nemmeno a vivere per sempre. Dovrebbero decidere della mia vita e di ciò che sarà di me? Di ciò che farò a chi ho intorno? Né ora, né mai.
La signora Silvia si lasciò sfuggire una risatina sorpresa, mentre Anis lo fissava come fosse improvvisamente impazzito.
- Fler, non so se hai afferrato, ma ne va della fine del mondo. – gli ricordò severamente.
- No, no! – lo fermò la signora Silvia, battendo entusiasticamente le mani davanti al viso, - Mi piace quest’atteggiamento! Ribelle! Costruttivo! Bisogna incoraggiare i giovani. – concluse annuendo e quasi saltellando sul posto.
- Incoraggiare i giovani? – sbottò Peter, appoggiato alla parete dietro di loro, - Non so te, mamma, ma io non voglio che il mondo venga spazzato via perché il sirenetto qui pensava fosse il caso di ribellarsi all’autorità costituita. Li ho passati da un pezzo i quindici anni.
- Peter! – lo rimbrottò sua madre con aria severa, - Qui stiamo parlando di esseri divini. Sanno esattamente ciò che fanno.
- No, non esattamente. – scosse il capo Patrick, guadagnando in cambio occhiate vagamente perplesse da parte sia di Anis che di Peter, - Ma in compenso so esattamente ciò che non farò, ed io non lascerò che quel ragazzino sia costretto a fare cose che non vuole fare con suo fratello, che cazzo. E non mi sporcherò le mani con il sangue del mio. – concluse, lanciando ad Anis un’occhiata colma di significato.
Anis sbuffò una risata parzialmente divertita e parzialmente preoccupata, ed annuì.
- D’accordo. – disse quindi.
- …d’accordo cosa? – interloquì Peter, staccandosi dal muro e guardandosi intorno con aria poco convinta, - Cosa mi sono perso?
- Signora Silvia, - proseguì Anis, ignorandolo platealmente, - ci serve un posto in cui andare. Un posto sicuro.
- Cosa avete intenzione di fare? – chiese lei.
- Non lo so ancora. – rispose Anis, pensoso, - In qualche modo, risolveremo questa situazione. Non lascerò che il mondo venga distrutto, ma stabiliremo noi come salvarlo. – concluse, sorridendo sereno.
La signora Silvia annuì comprensiva, incrociando le braccia sul petto e picchiettandosi il mento con un dito.
- È importante che lasciate Berlino immediatamente e troviate rifugio da qualcuno che conosca l’Ordine ma non ne faccia più parte. – considerò, - Qualcuno di cui possiate fidarvi e che tenga alla salvezza dei gemelli abbastanza da mettere a repentaglio perfino quella del mondo. – sorrise con maggior sicurezza, mentre disseppelliva un portatile da sotto una valanga di libroni polverosi, - Ed io ho esattamente la persona che fa al caso vostro.
*
Lo trovò arrotolato sulla poltrona in soggiorno, tutto stretto come un nodo di rabbia e paura e incertezza, proprio di fianco al divanetto sul quale il signor Pangerl stava semidisteso, il telecomando in una mano e una bottiglia di birra nell’altra. Anche Bill aveva entrambe le mani occupate – un biscotto in una ed un bicchiere di latte mezzo vuoto nell’altra, la confezione con i biscotti superstiti abbandonata fra le gambe incrociate – ed Anis sorrise appena nel vederlo così piccolo e furibondo, come l’adolescente che in effetti era. Come si poteva chiedere ad una creatura simile di reggere sulle proprie spalle il peso del destino del mondo? Non c’era abbastanza spazio su cui quel peso potesse posarsi. Le sue spalle erano troppo esili.
- Bill. – lo chiamò piano, lanciando un’occhiata distratta al cartone animato che sia lui che il signor Pangerl fingevano di guardare alla tv, - Devo parlarti.
Lui non si voltò, ed anzi dichiarò esplicitamente che non aveva alcuna voglia di ascoltarlo, incurvando le spalle e chiudendosi ancora più a riccio. Anis immaginò che, se avesse avuto degli aculei, li avrebbe puntati tutti verso l’esterno, sperando solo che lui si avvicinasse abbastanza da poterglieli conficcare nella carne. Probabilmente era per questo che, qualche anno prima, portava i capelli irti sopra la testa e tutto intorno: voleva sembrare pericoloso, velenoso, come certi animali dall’aspetto particolare creato apposta per scoraggiare i predatori. Dopo essersi messi insieme, e dopo essersi conosciuti meglio, quel bisogno era un po’ sparito, e così i suoi capelli, ma probabilmente in quel momento Bill stava pentendosi intensamente di non avere più la pettinatura di un tempo.
- Bill. – ripeté, la voce più soffice, - Ti prego.
- Ragazzino, - lo chiamò anche il signor Pangerl, cambiando canale e fermandosi a guardare una partita di calcio di chissà che divisione dilettantistica, peraltro con interesse di gran lunga maggiore rispetto a quello che aveva riservato al cartone animato, - se tu non gli dai retta, Icaro qui non si leva mica. Avanti.
Anis fece per rispondere che lui con Icaro non c’entrava niente, ma poi si rese conto che, come lui, s’era avvicinato troppo ad un sole che non avrebbe mai dovuto toccare. E, sempre come lui, stava rischiando di bruciarsi le ali. Perciò tacque.
Bill sospirò pesantemente ed allungò le gambe, stiracchiandole un po’ prima di piegarsi a poggiare latte e biscotti sul tavolino basso di fronte a lui ed alzarsi in piedi, voltandosi e guardandolo dritto negli occhi. Aveva pianto in silenzio fino a quel momento. I suoi occhi erano rossi e acquosi, le sue guance rigate di lacrime che non avevano avuto il tempo di asciugarsi.
- Mi dispiace, piccolo. – gli disse, consapevole di quanto quelle scuse fossero inutili. Bill annuì, più per prendere atto del suo – inutile – tentativo di farlo stare meglio, che perché sentisse davvero il bisogno di accettare delle scuse da lui.
- Non parliamo qui. – disse poi, e nella sua voce non c’era nemmeno la più piccola traccia delle lacrime così evidenti sul suo volto, - Dove possiamo stare soli?
- La camera da letto è libera. – disse distrattamente il signor Pangerl, e sia Anis che Bill arrossirono repentinamente per l’involontaria battuta celata dietro quelle poche parole. Nonostante questo, Bill dovette pensare che quella fosse la soluzione migliore, perché dopo quell’attimo di imbarazzo annuì deciso, chiedendo al signor Pangerl dove fosse e poi seguendolo quando, ottenute le indicazioni richieste, Anis lo condusse in fondo al corridoio centrale, oltre una porta bianca, sottile e un po’ cigolante che si chiuse subito alle spalle quando furono entrambi all’interno della stanza.
Anis rimase per qualche secondo voltato verso la porta, due dita ancora sulla maniglia e lo sguardo perso nel vuoto, mentre cercava il coraggio di voltarsi a guardarlo.
- Bill, dobbiamo—
- Sanguini ancora. – disse Bill, cogliendolo di sorpresa ed accarezzando lievemente con le punte delle dita la pelle sensibile e accaldata attorno alle ferite sulle sue scapole, - Vorrei provare a curarle, non so… disinfettarle, bendarle. Ma a che scopo, se so già che non si rimargineranno mai?
- Se voglio le ali, devo tenere le ferite. – rispose Anis, pratico, restando immobile.
- E tu le vuoi? – chiese pianissimo Bill, le dita ancora impegnate a ridisegnare i contorni di quegli squarci.
- Mi sono servite per salvare te. – annuì lui.
- Ma resteranno anche quando non avrai più bisogno di salvarmi. – insisté il ragazzo, corrugando le sopracciglia, - E tu continuerai a sanguinare.
Anis sbuffò una risata intenerita e, in parte, anche vagamente divertita.
- Finirà il mondo, quando non avrò più bisogno di salvarti. – rispose distrattamente, e Bill sorrise appena.
- È molto probabile che questo succeda comunque, sai? – commentò, quasi ironico. – Perché non posso avere una scelta? – chiese quindi, la voce venata da una nota di malinconia, - Vivo la mia vita e all’improvviso vengo a sapere che ogni momento, ogni dettaglio è stato curato in funzione di qualcosa che non voglio e che sarò comunque costretto a fare se non voglio avere sulla coscienza la vita di sette miliardi di persone. Sempre che io abbia ancora una coscienza, quando saremo tutti morti, s’intende. – sospirò pesantemente, poggiando la fronte contro la sua spalla. – Perché non posso scegliere? Voglio poter scegliere.
Anis inspirò profondamente, stringendo i pugni lungo i fianchi. Poi si voltò, fronteggiandolo immobile per qualche secondo prima di tirarselo contro. Le sue ali si dischiusero senza che lui potesse controllarle, tornando a richiudersi pochi secondi dopo attorno al corpo di Bill, ancora schiacciato contro il proprio, come volessero fargli da scudo.
- Io non ero previsto. – gli rispose, parlando direttamente sulla pelle calda del suo collo, umida di lacrime, - Non ero previsto e non intendo togliermi di mezzo. – si allontanò appena, guardandolo negli occhi e sorridendo. – Questo dimostra che hai una scelta. Me.
Bill distolse lo sguardo, mordicchiandosi il labbro inferiore.
- Io ho scelto te tre anni fa, e questo ci sta portando alla fine del mondo. – mormorò incerto.
- Fallo ancora. – lo pregò Anis, accarezzandogli una guancia, - Sceglimi ancora. Fidati di me.
- Sarò inutile, Anis. – sospirò lui, - Guardiamo in faccia la realtà e non illudiamoci, ti prego. Io non sono un bambino e non sono stupido. Non posso nemmeno curarti le ferite.
- Le mie ferite non hanno bisogno di cure. – sorrise Anis, - Io sono una fenice. Muoio e risorgo. Nessuno può uccidermi davvero.
- Ma possono farti dannatamente male nel mentre. – protestò lui, chinando appena il capo. – Comunque, sai già che ti sceglierò ancora. – disse però, sorridendo appena, - E ancora, e ancora.
Anis lo strinse con forza, baciandolo piano sulla fronte, su una tempia, sulla guancia, sulle labbra.
- Dobbiamo lasciare la città. – disse quindi, - La signora Silvia sa dove mandarci. Torna da lei, non è arrabbiata. Saprà cosa consigliarci.
Bill sospirò, ma annuì, e senza protestare si lasciò condurre nuovamente nello studiolo della signora Silvia, ben disposto a seguire qualsiasi consiglio, purché questo consiglio non implicasse per lui l’obbligo di scegliere qualcosa fra Anis e la salvezza del mondo intero, perché in quel caso non era sicuro di riuscire ad operare la scelta più saggia.
*
- …mio padre. – ripeté Bill, incredulo, fissando la signora Silvia come non potesse capacitarsi della sua esistenza, - Mio padre se n’è andato via di casa un centinaio di anni fa e da allora io l’ho visto solo raramente, signora Pangerl, non so se—
- Tuo padre non è andato via, Bill, tuo padre è stato allontanato. – disse lei, - Sono due cose ben distinte.
- Allontanato? – chiese Peter, curioso, - Come te?
- Esatto. – annuì la donna, - Chiunque faccia parte dell’Ordine ma non sia d’accordo sul modo in cui il suo operato viene condotto, viene allontanato. Non ucciso, quello in genere accade solo quando i saggi ritengono tu possa essere una minaccia, ma viene messo nelle condizioni di stare il più lontano possibile da ogni centro abitato, e gli vengono in genere tagliate tutte le possibilità di interferire con l’operato dell’Ordine stesso.
- Mio padre era in disaccordo con l’Ordine? – chiese Bill, confuso. Ricordava molto poco del periodo in cui i suoi genitori avevano vissuto insieme. La maggior parte dei ricordi che conservava di lui raccontavano di un uomo sfuggente che poteva passare a trovare lui e suo fratello solo per qualche ora ogni due settimane, e che ogni tanto chiamava a casa, ma col quale era impossibile discutere via telefono a causa della linea quasi costantemente disturbata, come stesse parlando da un punto privo di campo o attraverso un apparecchio rattoppato alla meno peggio che aveva dovuto assemblare da solo, perso chissà dove nel nulla cosmico.
- Diciamo che più che altro non ne è mai stato veramente parte. – rifletté la signora Silvia, picchiettandosi il mento con un dito, - Non potrei spiegartelo con certezza o dovizia di particolari, perché io fui buttata fuori qualche anno dopo che lui ne entrò a far parte sposando Simone, ma so che si piegò ad entrarvi solo per il grande amore che provava per tua madre. Immaginò che il tutto potesse essere un po’ inquietante, ma non dovesse avere chissà che conseguenze sulla sua vita. Poi – sospirò e sorrise appena, - nasceste tu e tuo fratello. E quando Simone gli spiegò cosa Larsen pensava e quale sarebbe stato il vostro destino, semplicemente non riuscì ad accettarlo.
- Non ha mai… - balbettò Bill, abbassando lo sguardo, - non ha mai provato a contattarci per parlarcene. Dannazione, quando ci sentivamo preferiva parlare dei trucchi che avevo comprato durante la settimana… come avrei mai potuto sospettare che—
- Tuo padre sapeva che se avesse cercato di intromettersi fra voi e l’Ordine non lo avrebbero mai lasciato vivere. – considerò la signora Silvia, - Non mi meraviglia che si sia frenato. È un uomo saggio. Venne subito a cercarmi, quando fu allontanato dall’Ordine, ed è sempre rimasto in contatto con me, fino ad oggi. Ha sempre saputo che il suo essere ancora in vita sarebbe tornato utile, un giorno. – la donna sorrise con maggior convinzione, recuperando un foglio dalla scrivania e porgendoglielo. – È il suo indirizzo, - disse, - o almeno, è il posto in cui vive adesso. È costretto a spostarsi spesso, per evitare di essere trovato. Anche l’Ordine preferisce così, un uomo in costante movimento non è in grado di creare nuovi legami. Fortunatamente per noi, però, - ridacchiò piano, - è stato perfettamente in grado di conservare quelli vecchi.
Anis allungò il collo, sbirciando l’indirizzo dal foglietto liscio dai margini irregolari che Bill teneva incerto fra le mani.
- Lo conosco. – disse annuendo, - È appena fuori città, in campagna. Possiamo raggiungerlo in un paio d’ore, in macchina.
- Macchina? – ridacchiò la signora Silvia, coprendosi la bocca con una mano, - Cosa mi tocca sentire… vi troveranno prima che riusciate a procurarvene una.
- Be’, stavo cercando di essere costruttivo, signora Pangerl. Spazio ai giovani, no? – borbottò Anis, offeso, mentre Bill si lasciava andare ad una risatina divertita.
- Sì, ma non quando dicono palesi idiozie, caro. – ribatté lei, serafica, - Dovete seguire vie poco battute, attraversare luoghi in cui nessuno penserebbe mai di andarvi a cercare, non potete mica—
- Le fogne. – propose Peter, pensoso, - Ovviamente si allungherebbero i tempi, - disse, stringendosi nelle spalle quasi a scusarsi, - Ma penso che nessuno verrebbe a cercarvi lì.
La signora Silvia s’illuminò tutta come l’avessero appena accesa dall’interno.
- …un genio! – commentò estatica, raggiungendo Peter dall’altro lato della stanza, nell’angolino in cui stava appoggiato, e gettandogli le braccia al collo, - Mio figlio è un genio!
Peter arrossì fino alla punta delle orecchie.
- Mamma… - si lagnò, cercando di farsi mollare senza peraltro riuscirci.
- Ha un senso. – considerò Patrick, grattandosi il mento, - E se anche dovessero pensare di cercarci là sotto, le fognature sono un labirinto. Potrebbero metterci ore anche solo per trovare la giusta direzione da seguire, e con un po’ di fortuna noi potremmo essere già lontani e in discreto vantaggio.
Bill annuì, ripiegando il foglietto con l’indirizzo ed infilandolo in tasca.
- D’accordo. – disse con sicurezza, - Mi sembra l’idea migliore che abbiamo. Seguiamola. – si voltò verso Peter, sorridendo dolcemente. – Grazie, Chaku.
- Oh, ma non ringraziarlo adesso. – rise la signora Silvia, agitando una mano come a voler scacciare via quella sciocchezza, - Ringrazialo quando tutto sarà finito. Mio figlio verrà con voi.
- Cosa? – sbottò Anis, incredulo, - Ora, non è che siccome ci ha aiutato deve approfittarne per piazzare suo figlio in giro, manco fosse un posto da impiegato bancario con contratto a tempo indeterminato, mi scusi.
La signora Silvia sollevò gli occhi al soffitto con aria supplice, scuotendo mestamente il capo.
- In mano a chi avete affidato il destino del mondo, Divini? – chiese a mezza voce, e poi tornò a guardare Anis. – Mio figlio vi sarà ancora utile. – disse, sorridendo sicura, - Io l’ho visto. Portatelo con voi.
- Lo portiamo sì. – sbottò Patrick, afferrando Peter per la maglietta e tirandoselo praticamente contro, - Io non intendo restare da solo a reggere il moccolo mentre questi due mi fanno la tragedia dei novelli Romeo e Giulietta nelle fognature di Berlino. Pretendo di avere qualcuno con cui parlare. – stabilì. La signora Silvia rise di gusto.
- Sì, anche quello. – annuì, - Ora affrettatevi. – consigliò, tornando immediatamente seria. – Il tempo stringe, e voi dovrete trovarvi nel luogo giusto al momento giusto, quando tutto si compirà. – sorrise rassicurante, abbracciandoli tutti uno per uno. – Siete una combriccola un po’ confusa, ma siete forti. E pieni di sentimenti che si agitano tutto intorno e dentro di voi. Non potrei giurarci… - disse infine, sorridendo ancora, - ma potreste perfino avere una speranza. Se crederete a sufficienza.
Si guardarono tutti negli occhi a vicenda per qualche secondo, prima di annuire e lasciare l’appartamento. Credere o meno sembrava l’unica scelta che fossero davvero in grado di fare, ed erano fermamente intenzionati a farla.
*

- Tom! – urlò David, spalancando la porta per trovare il ragazzo affacciato alla finestra col naso puntato per aria, mentre da fuori giungevano i rumori delle numerose automobili della scorta di Larsen in svelto avvicinamento verso il condominio, - È tutto a posto?
- Tutto a posto…? – mormorò lui, voltandosi a guardarlo, gli occhi spalancati e i lineamenti tesi dallo spavento e dal nervosismo, - Un— non sono neanche sicuro di poter riuscire a raccontarti cosa ho appena visto e tu mi chiedi se è tutto a posto?! – strillò, sfilando la bandana che portava annodata attorno alla testa e gettandola per terra con rabbia, - Cosa cazzo è successo? Cosa?!
- Tom, devi calmarti. – disse lui, avvicinandoglisi e poggiandogli le mani sulle spalle nel tentativo di tenerlo quantomeno fermo. Il ragazzo si allontanò, liberandosi dalle sue mani con uno strattone violento.
- Non voglio e non posso calmarmi! – ringhiò, - E ti avevo detto di non toccarmi più.
David indietreggiò di un paio di passi, ritraendo istantaneamente le mani.
- Scusami. – disse, abbassando lo sguardo. Tom si sentì stringere il petto in una morsa che lo privò del respiro, come avessero preso una cinghia e gliel’avessero legata attorno ai polmoni, e poi si fossero messi a tirare, tirare, tirare, nel tentativo di strapparglieli via dal petto.
- Non— - cominciò a dire, ma non riuscì a terminare la frase perché la porta della camera venne spalancata ancora una volta, e Larsen fece il suo ingresso, i capelli scarmigliati sulla testa e l’espressione stravolta dalla rabbia.
- David! – gridò furioso, - Cosa diamine è successo?!
- Herr Larsen, - cominciò lui, frapponendosi automaticamente fra l’uomo e Tom, - Bill è stato rapito da—
- So cosa è successo, stupido incompetente, gli indovini hanno visto tutto! – lo interruppe Larsen, gesticolando animatamente, - Come hai potuto permetterlo? Ti avevamo dato la nostra fiducia, mezzi a sufficienza per—
- Mezzi a sufficienza?! – sbottò David, esasperato, - I vostri uomini se la sono fatta sotto come ragazzine appena il dragone e la fenice sono apparsi!
- Il… il dragone e la fenice…? – mormorò Tom, gli occhi spalancati, appoggiandosi alla parete come ne avesse bisogno per non cadere a terra privo di forza.
David gli lanciò un’occhiata preoccupata: stava venendo a sapere troppe cose da troppi dettagli buttati lì alla rinfusa, in una situazione che non gli consentiva di assimilarli serenamente. Era un pericolo, Larsen stava combinando un disastro giocando con la vita e con la testa di un ragazzino che non era pronto e lui non era stato in grado di proteggerlo. Non era stato in grado di proteggere nessuno dei due.
- Questo è il colmo. – disse Larsen, ricomponendosi velocemente e fissandolo con aria severa, - Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te, dopo averti praticamente cresciuto, il tuo tradimento è tale da lasciarmi allibito. Di’ che non è quello che hai sempre voluto, - lo sfidò con un sorriso crudele, - hai sempre pensato che stessimo sbagliando, che non potessimo forzare il destino… ebbene ora il destino non è più nelle nostre mani, David, ora il nostro destino dipende… dalla pazzia di un ragazzino e del suo sciocco innamorato! Sarai contento, adesso.
- …questo non era quello che volevo. – disse David a bassa voce, - Io volevo soltanto che li rispettaste di più, che rispettaste i loro desideri.
- Bene! – sbottò Larsen, battendo una mano contro la scrivania accanto a lui, - Adesso i loro desideri saranno rispettati! E questo porterà alla distruzione del mondo!
- Distruzione del… David, di cosa diamine state parlando? – si riscosse Tom, allontanandosi dalla parete per avvicinarsi a loro, - Che cosa sta succedendo?
David si voltò a guardarlo mordendosi l’interno di una guancia, incerto.
- Tom, ci sono cose che tu non sai. – cominciò, cercando celermente le parole per esprimere chiaramente così tanto e in così poco tempo.
- E non è più compito tuo istruirlo. – lo fermò Larsen, cupo. – Ti avevo avvertito, David. Sapevi che te li avremmo tolti, se l’avessimo ritenuto necessario.
- No. – balbettò lui, voltandosi repentinamente a guardarlo, gli occhi spalancati e le labbra tremanti, - No, per favore.
- Non c’è niente che potrà farmi cambiare idea, David. – insisté l’uomo, tetro, - Da questo momento, sei sollevato dal tuo incarico di Guardiano e allontanato dall’Ordine. Oltretutto, vista la tua ostinazione nel contrastare le idee e l’operato dell’Ordine stesso, riconoscendo in te un pericolo per quest’organizzazione e per la salvezza del mondo intero, ti dichiaro in arresto.
- In arresto?! – quasi gridò Tom, incredulo, voltandosi a guardare Larsen, - Non ha fatto niente! Cosa vuol dire tutto questo?!
L’uomo gli sorrise, piegando appena il capo.
- David ha ragione, Tom. Ci sono cose che tu non sai. Provvederemo noi a spiegartele. Comandante! – disse quindi, ed un militare, seguito da molti altri, fece il suo ingresso nella stanza, afferrando David per le braccia e trascinandolo fuori, giù per le scale.
- No, io non… - biascicò Tom, indietreggiando appena, - Io non voglio sapere niente, io non… - i suoi occhi erano enormi, spalancati e pieni di lacrime che, per qualche motivo, si ostinava a rifiutarsi di lasciar scorrere lungo le guance.
Larsen sospirò, scuotendo il capo con amarezza.
- Si è complicato tutto così tanto. – commentò tristemente, - Comandante, prenda anche lui. Ma sia delicato.
L’uomo annuì, e lui ed un altro militare si avvicinarono a Tom, che provò a divincolarsi senza grande convinzione per qualche secondo, prima di abbattersi sul pavimento – le ginocchia molli, gli occhi vacui – e lasciarsi trascinare via come un peso morto. Larsen rimase immobile nel centro della stanza, il labbro inferiore fra i denti e gli occhi persi e colmi di preoccupazione, finché un paio di militari, qualche secondo dopo, non tornarono in camera, urlando agitati.
- Herr Larsen, il detenuto è riuscito a fuggire. – lo informarono.
- Cosa…? – sbiancò lui, sollevando lo sguardo nei loro.
- Ha spinto gli uomini che lo trattenevano giù per le scale, uno di loro è morto in seguito alla caduta. – rispose uno dei due, contrito, - Abbiamo perso le sue tracce. Ci dispiace.
Larsen chiuse gli occhi, trattenendo solo a stento un mugolio infastidito, stanco e frustrato.
- E continua a complicarsi. – considerò fra sé a bassa voce, prima di tornare a guardarli. – Trovatelo. Utilizzate tutte le squadre che vi serviranno, non è un problema. Abbiamo già fin troppi elementi che si intromettono in cose che non dovrebbero riguardarli, non abbiamo bisogno di qualcuno che conosca perfettamente-- - si interruppe, guardando per qualche secondo fisso davanti a sé come avesse appena capito improvvisamente qualcosa di fondamentale. – Lasciate perdere. – disse quindi, sorridendo soddisfatto, - Non sarà necessario trovarlo. Sarà lui stesso a trovare noi. Rientriamo alla Santa Sede.
*
- Fermiamoci. – ordinò Anis, perentorio, indicando un ambiente riparato e relativamente lontano dal canale pieno d’acqua sporca che stavano seguendo, - Riposiamoci un po’.
Bill aggrottò le sopracciglia, ostinandosi a proseguire come non l’avesse sentito.
- Bill? – lo chiamò Peter, incerto, dopo essersi già seduto per terra, - Ehi, dove stai andando?
- Io non sono stanco. – disse lui, voltandosi repentinamente a guardarli tutti, - Piantatela di trattarmi come una ragazzina.
- Oh, ma non ti stiamo trattando come una ragazzina. – negò Patrick, scacciando l’illazione con un gesto della mano, - Stiamo solo—
- Avete sollevato il tombino per me e mi avete invitato ad entrare per primo come fosse stato lo sportello di una dannata carrozza! – sbottò lui, esasperato, - Anis si è offerto di portarmi in braccio dopo dieci minuti di marcia, e Chaku ha perfino steso il suo giubbotto su una pozzanghera! Dico, ma le vedete le mie gambe? Quella pozzanghera non avevo nemmeno bisogno di saltarla!
- Bill. – mormorò Anis, passandosi una mano sulla fronte a scacciare via il velo di sudore provocato dal caldo umido che, assieme all’insopportabile puzzo, rendeva l’aria quasi del tutto irrespirabile, - Stavo solo cercando di—
- Di fare cosa? – sbottò Bill, una mano sul fianco e le gambe semidivaricate, - Di proteggermi? La notizia del giorno è che non puoi. – si fermò a prendere fiato, abbassando lo sguardo e passandosi una mano sugli occhi. – Ragazzi, - riprese quindi, più pacatamente, - io non sono una principessa e voi non siete i miei cavalieri serventi. Se questa è una battaglia, per strana che sia, dobbiamo combatterla l’uno al fianco dell’altro.
Anis sorrise divertito, sbuffando appena ed avvicinandoglisi per baciarlo lievemente sulla fronte.
- D’accordo, allora. – annuì serio, - In marcia.
- Sì, però io ero stanco. – si lagnò Peter, borbottando a bassa voce ma alzandosi comunque in piedi.
- E piantala, Dio mio. – disse Patrick, sollevando gli occhi al soffitto scuro e gocciolante, - Sei la cosa più nana dell’universo eppure sprechi energie con una velocità inaudita. Sarà perché parli troppo?
- Be’, sei tu che mi hai portato qui per parlare, mi pare, no? – sibilò lui, lanciandogli un’occhiataccia offesa, - La prossima volta mi lasci dove sto, immerso nella comodità di casa mia.
- Mentre il mondo esplode. – concluse Patrick per lui, e poi si fermò all’improvviso, immobile, quasi annusando l’aria.
- Che ti prende? – chiese Peter, guardandolo storto, - Sei diventato un cane da tartufo? Un’evoluzione infinita.
- Ssht. – sbottò lui, tappandogli la bocca con una mano, - Sento arrivare qualcuno. Bushido! – lo chiamò agitato, - Passi.
- Li sento. – annuì l’uomo, voltandosi e spingendo con gesto casuale Bill dietro le ali aperte per metà. – Avvicinatevi.
- Non vi allarmate. – disse una voce da un tunnel vicino. I passi si fermarono istantaneamente. – Non voglio farvi del male.
- David. – mormorò Bill, impallidendo, - David! – ripeté a voce più alta, cercando di divincolarsi dalla stretta di Anis.
- Fermo, Bill! – lo rimproverò lui, tenendolo stretto, - Non sappiamo—
- Scusatemi. – mormorò David, apparendo finalmente all’imboccatura di un tunnel poco distante. Si appoggiava alla parete con una mano, c’era un grosso livido che si stava allargando attorno al suo occhio destro e in generale sembrava davvero poco fermo sulle gambe. – Vi giuro che non ho cattive intenzioni. Sono fuggito e ho bisogno di parlarvi.
- David! – continuò ad agitarsi Bill, quasi saltando sul posto, - Dov’è Tomi? Come sta?
- Come ci hai trovato? – chiese invece Anis, guardandolo duramente negli occhi.
David sorrise appena, stringendosi nelle spalle.
- Ho seguito la voce di Bill. – rivelò divertito. Anis non poté impedirsi di ridere, così come Patrick e Peter, mentre Bill arrossiva fino alla punta delle orecchie.
- Ok. – annuì Anis, richiudendo le ali e lasciando a Bill la libertà di muoversi prima e correre incontro a David subito dopo, - Cos’è successo?
David inspirò profondamente, appoggiandosi meglio alla parete e rabbrividendo al pensiero di quanto a lungo avrebbe dovuto rimanere là in piedi a spiegare quali coincidenze astrali e cosmiche l’avessero portato a trovarsi lì in quel momento, partendo praticamente dall’inizio della storia del mondo.
- Ecco, - disse quindi, - so che potrà sembrarvi assurdo, ma dovete credermi se volete uscire vivi da questa storia. Ogni duecento anni—
- Nascono due Prescelti che vengono affidati a un Guardiano e bla bla bla. – roteò gli occhi Peter, gesticolando mollemente, - Siamo già passati al livello successivo, Jost, dicci qualcosa che già non sappiamo.
Patrick si voltò a guardarlo inarcando un sopracciglio.
- Guardalo come si fa bello. – sbuffò infine, tirandogli uno schiaffetto sulla nuca, - Lascia parlare gli esseri divini, nano. – lo prese in giro con un ghigno divertito.
- David. – mormorò Bill, cercando il suo sguardo. Lui rispose immediatamente col proprio e si guardarono negli occhi per qualche secondo, prima di abbracciarsi stretti, dapprima timidamente, poi con convinzione sempre maggiore, finché il corpo esile di Bill non sembrò quasi scomparire contro il suo.
- Dio, Bill. – disse lui fra le lacrime, - Mi dispiace così tanto. Ho provato a— non lo so. Non so nemmeno io cosa ho provato a fare. Ho provato a proteggervi entrambi e non sono riuscito a salvare nemmeno uno di voi due.
- Io sono al sicuro, Dada. – disse Bill, sforzandosi di sorridergli, - Ma ho bisogno di sapere dov’è Tomi, io non sono nemmeno riuscito a salutarlo e non so cosa— devi dirmi dov’è Tomi, Dada, io devo andare da lui.
David sembrò quasi stupito dalla sua affermazione, e gli accarezzò una guancia, notando con la coda dell’occhio lo sguardo di Anis farsi improvvisamente lontano e triste.
- Sai cosa succederà, se tu e tuo fratello doveste unirvi. – gli ricordò a bassa voce.
Bill si morse un labbro, incerto.
- Io ho bisogno di vederlo, Dada. – insisté, - Almeno un’ultima volta.
David si inumidì le labbra, pensoso, prima di allontanarsi deciso.
- D’accordo. – disse quindi, - Bushido, ho bisogno di parlarti. In privato.
Anis aggrottò le sopracciglia, dubbioso.
- Come faccio a sapere che non è una trappola? – chiese.
- Non puoi saperlo. – rispose David con una scrollatina di spalle, - Mi segui e basta. – concluse, allontanandosi lungo lo stesso tunnel dal quale era venuto.
Anis inspirò profondamente, ma affidò Bill a Peter e Patrick, prima di seguirlo senza fare storie.
- Senti, non facciamola troppo lunga. – sbottò, incrociando le braccia sul petto, - Abbiamo ancora molta strada da fare, e—
- Non voglio interferire coi vostri piani, - disse lui, pratico, - ma prima di ogni altra cosa dobbiamo andare a recuperare Tom. – Anis distolse lo sguardo, le labbra piegate in una smorfia addolorata. - …lo senti anche tu, vero? – chiese David con un sorriso mesto, - Ha bisogno di lui. Sono spinti l’uno verso l’altro. È il karma, sono nati a questo scopo, è scritto nei loro corpi, nella parte più profonda di loro. – sbuffò una mezza risata, - È una cosa che nessuno di noi può cambiare. Capisco molto bene quello che provi.
Anis sollevò gli occhi nei suoi, schiudendo le labbra.
- Tu… - cominciò. Il sorriso di David si allargò appena, e lui si fermò immediatamente.
- Quello che pensiamo io e te, comunque, non cambia la sostanza delle cose. – sospirò stancamente, - I gemelli devono ricongiungersi, o sarà una tragedia.
Anis abbassò lo sguardo, annuendo quasi impercettibilmente.
- Lo so. – disse quindi, - D’accordo. – annuì ancora, sollevando nuovamente lo sguardo, - Quello che deve essere, sarà. Ma alle nostre condizioni.
David inarcò un sopracciglio, incerto.
- Cosa intendi? – chiese.
- Lo vedrai. – rispose, prima di tornare dal gruppo fuori dal tunnel, - Ragazzi. – li richiamò, - Bill. – disse, la voce più dolce, - Devo andare. Accompagno David a recuperare Tom. Voi precedeteci a casa del signor Kaulitz, non fermatevi per nessun motivo e se qualcuno vi segue scappate senza voltarvi mai indietro. – si voltò a guardare Patrick, fissandolo deciso negli occhi, - Ve lo affido. – disse.
- Anis. – sbuffò Bill, gonfiando le guance, - Non ho bisogno di—
- Bill. – lo interruppe lui, tirandoselo contro e baciandolo profondamente per zittirlo. – Obbedisci. – concluse, allontanandosi da lui con uno schiocco ed un sorriso debole.
Dopodiché, si voltò verso David, che nel mentre era riuscito, non senza fatica, a raggiungerli.
- Andiamo? – chiese l’uomo, cercando di reggersi sulla gamba sana.
- Appoggiati a me. – offrì Anis, porgendogli il braccio, - Andiamo a vedere che serratura apre questa chiave.
*
- Sarebbe questa la Santa Sede? – chiese Anis, osservando con aria critica il palazzo che aveva di fronte, - Me l’aspettavo più… non so. Colorata?
- Sì, magari con un neon sul tetto con sopra scritto “è qui la salvezza del mondo”. – sbuffò David, avvicinandosi ad un citofono dall’aria piuttosto malandata e guardandolo bene da ogni lato, come lo stesse studiando.
- È così tetra. – considerò Anis, una mano piantata sul fianco e le ali in lento e appena percettibile movimento dietro le sue spalle, come volesse tenerle ancora in movimento dopo il lungo volo che li aveva condotti fin lì. – È un cliché, tutte le sedi di organizzazioni segrete devono essere tetre e cadenti.
- Stai delirando. – annuì David. – Tienimi questo. – disse poi.
- Questo cosa? – chiese Anis. David strappò via il citofono dalla parete.
- Questo. – ripeté, porgendogli il pannello divelto.
- …oh. – annuì Anis, prendendo il pannello fra le mani e guardandolo con interesse. - …ma—
- Era tenuto su solo da una vite. – sospirò David, intuendo il motivo della sua curiosità, - Questa è l’entrata sul retro. Vedi qui? – chiese, indicando il minuscolo pannello di controllo che il citofono nascondeva, - Bisogna far passare il tesserino identificativo attraverso questa fessura, e poi digitare il proprio codice segreto. Ogni adepto ne ha uno esclusivo e personale.
- Adesso improvvisamente riesco a riconoscere i tratti tipici di un’organizzazione paramilitare. – sbuffò ironico Anis, inclinando appena il capo. – Hai il tesserino, sì?
- Naturalmente. – rispose David, estraendolo dalla tasca interna della giacca, - Ma non so se l’hanno già disattivato. La banca dati dell’Ordine è organizzata in modo da avere un sistema di ricerca molto rapido, in modo da poter disattivare quasi all’istante tesserini e codici di chiunque venga allontanato. Per questioni di sicurezza, sai. – concluse, scrollando le spalle.
Anis annuì, incrociando le braccia sul petto.
- Be’, non ci resta che provare. – propose. David annuì a propria volta, facendo scorrere il proprio tesserino all’interno della fessura e poi digitando velocemente il proprio codice d’accesso sulla tastiera poco più sotto.
La porta si aprì con un click piuttosto discreto, senza neanche dischiudersi davvero, tanto che Anis dovette spingerla per assicurarsi che il tesserino avesse funzionato davvero. Non cigolò nemmeno come entrambi si sarebbero aspettati, e lo spiraglio lasciava intravedere un corridoio illuminato e pulito, e fortunatamente deserto.
- Ha funzionato. – constatò David, incolore, chiedendosi se fosse il caso di entrare alla svelta e richiudersi immediatamente la porta alle spalle o temporeggiare ancora un po’.
- È un po’ strano, no? – chiese Anis, dubbioso, - Proprio in questo momento di grande allerta, dimenticano di disattivare il tuo tesserino?
- Hai ragione. – annuì lui con una smorfia frustrata, - Ma forse, proprio perché per adesso sono presi da altro, non hanno pensato a… - Anis inarcò un sopracciglio, e David sbuffò, incurvando le spalle con rassegnazione. – Lo so, è molto, molto probabile che sia una trappola. Ma anche se fosse, non abbiamo scelta, no?
- Be’, io ce l’ho. – ridacchiò Anis, sdrammatizzando, - Potrei prendere il volo e tornarmene da dove sono venuto.
David rise appena, tornando a sbirciare il corridoio.
- Se anche dovessi rimanere solo, proverei comunque ad entrare e salvarlo.
Anis lo guardò per qualche secondo, cercando disperatamente di non scoppiare a ridere, ma dovette cedere quando rischiò seriamente di morire soffocato, e gli batté una pacca complice sulle spalle.
- Quanto sei epico. – commentò, sghignazzando senza freni, - Mi piace. – concluse con un sorriso più sincero. – Diamoci una mossa, adesso.
*
- Questi sono gli alloggi per gli ospiti. – illustrò David, attraversando l’ennesimo corridoio con migliaia di porte da quando erano entrati all’interno dell’edificio, - È qui che vengono portati tutti gli esterni che, per un motivo o per l’altro, sono legati all’Ordine o devono restare all’interno della Santa Sede per qualche tempo. Però la zona sembra deserta. – considerò dubbioso.
- Il che dovrebbe suggerirci che forse Tom non è qui. – ipotizzò Anis, guardandosi intorno con aria scettica.
- Ma non c’è altro luogo in cui potrebbe essere. – rifletté David, abbassando lo sguardo ed accostandosi ad ogni porta per cercare di percepire qualche rumore proveniente da qualcuna delle varie stanze, - Tutto il resto dell’edificio è occupato dagli uffici e dagli alloggi delle scorte, non c’è altro luogo in cui Tom potrebbe—
- Il sangue di Bill. – disse Anis, fermandosi all’improvviso in mezzo al corridoio e tendendosi tutto come volesse allungarsi ad ingombrare l’intero ambiente, - Sento— sento il sangue di Bill.
- …senti il sangue di Tom, non quello di Bill. – lo corresse l’uomo, illuminandosi repentinamente, - È lo stesso, è ovvio che tu lo percepisca! Avrei dovuto pensarci io stesso! Dov’è?
Anis si guardò intorno con aria persa per qualche secondo, estremamente turbato da ciò che stava percependo. Era come se il suo stesso sangue stesse ribollendo, smaniando all’idea di sfuggirgli dalle vene per unirsi a quello di Bill, dovunque fosse. Non era un particolare odore nell’aria, o un suo particolare sapore, non era una sensazione tattile né uditiva, era la sorda consapevolezza di quel sangue vivo presente da qualche parte intorno a loro.
Chiuse gli occhi e mosse qualche passo lungo il corridoio, fino a fermarsi davanti ad una porta apparentemente uguale a tutte le altre. Quando la spalancò, Tom – che fino a quel momento era rimasto immobile seduto sul letto – scattò in piedi, andando a rifugiarsi nell’angolo più distante da loro, in fondo alla stanza.
- …tu! – disse, quando l’ebbe riconosciuto, - Dove hai portato mio fratello?! È solo colpa tua!
- Tom, io non ho nessuna colpa di quello che sta succedendo. – cercò di spiegargli Anis, tendendo le mani in avanti come a volergli dimostrare di essere disarmato, e pertanto inoffensivo. – Io voglio solo che—
- Tom! – lo chiamò a gran voce David, spingendo Anis da parte perché le sue ali non lo intralciassero e correndo verso di lui. Al solo vederlo apparire, tutto il corpo di Tom si contrasse e poi si tese immediatamente, e il ragazzo deglutì con forza, dandosi lo slancio per scattare in avanti, e atterrare direttamente fra le sue braccia.
- Cristo. – singhiozzò, aggrappandosi convulsamente alla sua maglietta, - Cristo, Dada, come hai potuto farmi questo? Io sono sempre stato sincero con te.
- Lo so, Tom. – lo consolò lui, accarezzandogli lentamente i capelli ed il collo, - È stata tutta colpa mia, avrei dovuto dirti che— insomma, avrei dovuto dirti ogni cosa.
Tom lo guardò negli occhi, mordendosi un labbro. Non piangeva, anche se evidentemente ne aveva voglia, e David si ritrovò a dirsi che era così fiero di lui che al solo pensarci si sentiva quasi scoppiare il cuore dall’orgoglio.
- Tutto quello che credevo di sapere era una menzogna. – disse il ragazzo, incredibilmente lucido, - Anche l’amore che provo per Bill… è una menzogna anche quella.
- Non lo è, Tom. – scosse il capo David, poggiandogli una mano sul viso ed accarezzandogli una guancia col pollice, in piccoli cerchi, - Se lo senti, è reale. Solo ciò che senti lo è, tutto il resto— è tutto il resto ad essere falso.
Tom affondò con maggior forza i denti nel proprio labbro inferiore, stringendo le mani attorno al tessuto sgualcito della sua maglietta.
- David, tu non capisci, io—
- Merda. – li interruppe Anis, richiamando la loro attenzione, - Sembra che dovremo rimandare le confessioni a cuore aperto ad un altro momento.
- Sei sempre stato intraprendente, David. – commentò Larsen con un sorriso di scherno, apparendo sulla soglia della porta circondato da militari armati, - Ma mai davvero brillante. Avrei dovuto immaginare fin dall’inizio che avresti combinato un disastro, eppure scioccamente mi sono voluto fidare del mio intuito, nonostante i saggi mi avessero consigliato altrimenti. Certi errori si pagano, ed io probabilmente ho costretto il mondo intero a pagare per la mia presunzione, ma il vostro viaggio finisce qui. Non riuscirete a portare il Prescelto fuori da quest’edificio.
- Larsen. – ringhiò David, stringendosi contro Tom come a volerlo proteggere col proprio stesso corpo, - Ho lasciato che me lo portassi via una volta, ma non ti permetterò di farlo ancora.
- Idioti. – li interruppe Anis, stringendo i pugni lungo i fianchi ed aprendo le ali solo per metà, - La divinità ce l’avete qui, sotto gli occhi, eppure parlate come se foste due eroi. – si voltò appena verso David, richiamando la sua attenzione con un cenno del capo. – Tu e Tom qui mi intralciate. Per combattere questa gente ho bisogno di lasciarmi andare, e non posso farlo se so di dover proteggere voi due. E Bill non è qui, se dovessi perdere il controllo non so se riuscirei a recuperarlo senza sentire la sua voce.
- Sì, be’, grazie, anche io preferirei essere in vacanza su qualche isola tropicale! – protestò David, stringendosi maggiormente contro Tom mentre i militari si avvicinavano lentamente, con cautela, per evitare di spaventarli troppo, - Ma purtroppo sono qui, perciò trova un modo per risolvere la situazione.
- È facile per te parlare! – protestò lui, mentre Larsen sogghignava soddisfatto a qualche metro di distanza, le braccia incrociate sul petto, - Non è sicuro, non posso combattere finché— - si interruppe, guardando il vuoto per qualche secondo prima di lasciarsi andare ad un sorriso furbo. - …finché siete qui. Ma non ci resterete per molto. – concluse, e così dicendo si voltò repentinamente verso di loro, facendosi scudo con le proprie ali. – Reggetevi! – urlò quindi, afferrandoli entrambi per le spalle ed assicurandosi che avessero fatto girare le braccia attorno alla propria vita prima di scaraventarsi contro l’enorme vetrata sulla parete di fronte a lui come un proiettile impazzito, infrangendola e proteggendo David e Tom con le proprie ali dalle schegge di vetro mentre si librava appena nel cielo di Berlino prima di gettarsi in picchiata verso la strada ai piedi dell’edificio.
- Merda! – urlò Larsen, - Di sotto, di sotto!
Anis lo sentì ed accelerò il proprio volo, ritrovandosi in pochi secondi abbastanza vicino alla strada da poter lasciare andare David e Tom, rimanendo a volteggiare a mezz’aria.
- Scappate. – disse, - Troviamoci—
- No. – lo interruppe David, prendendo Tom per mano mentre il ragazzo si irrigidiva al solo tocco delle sue dita, - Quando avrai finito, precedici. Io e Tom arriveremo attraverso le fogne, abbiamo— - si voltò a lanciargli uno sguardo incerto, e Tom fissò il proprio altrove, mordendosi l’interno di una guancia. – Abbiamo bisogno di parlare. – concluse.
Anis annuì, sollevandosi in volo senza aspettare un minuto di più. Una volta rientrato all’interno dell’edificio attraverso la finestra che aveva sfondato, vide che solo Larsen era rimasto all’interno della stanza, e pregò perché David e Tom fossero riusciti a nascondersi in tempo per non farsi trovare dai militari.
- Sapevo che saresti tornato, fenice. – lo salutò Larsen con un cenno del capo ed un sorriso, - Mi sorprende l’ostinazione con la quale continui a batterti contro un destino già scritto. – commentò con stupore non simulato, - Ciò che deve accadere accadrà comunque, e questo tu lo sai, lo senti, non può essere diversamente, vista la tua natura. Non puoi vincere questa battaglia, fenice. Semplicemente non puoi.
Anis sorrise, sollevando una mano e lasciando fluire l’energia fino a vedere rosso e sentir bruciare ogni centimetro del proprio corpo.
- Forse no. – disse quindi, sorridendo divertito, - Ma posso farti dannatamente male nel mentre.
*
- Forse – provò David, voltandosi indietro a guardare e tendendo le orecchie per cercare di captare anche il più minuscolo suono di passi, - Forse possiamo fermarci un po’. – ansimò pesantemente, rallentando la corsa fino a fermarsi e piegandosi su se stesso, poggiando le mani sulle ginocchia e provando ad inspirare ed espirare con calma. – Devono aver smesso di seguirci, li avranno richiamati indietro alla Santa Sede. – ipotizzò incerto, osservando con la coda dell’occhio Tom infilarsi rapidamente in una rientranza del tunnel e poi sedersi sul pavimento, la testa fra le mani. Lo seguì, sedendosi al suo fianco e fissando di fronte a sé, concedendosi solo raramente il lusso di lanciargli un’occhiata, giusto per controllare che fosse ancora lì con lui.
- Questa cosa è così assurda. – mormorò Tom, gli occhi fissi sul pavimento lurido, - Sembra uno di quei documentari di History Channel, uno di quelli in cui qualche pazzo raduna un gruppo di deficienti e poi li porta in una casupola abbandonata nel mezzo della giungla selvaggia e li convince a suicidarsi bevendo pipì di scimmia o chessò io.
- Tom, dubito fortemente che la pipì di scimmia sia mortale. – disse lui, inarcando un sopracciglio dubbioso.
- Non è quello il punto! – sbottò Tom, voltandosi a guardarlo con aria offesa, - Hai capito cosa intendevo.
David sorrise, sollevando un braccio ed avvicinando una mano alla sua testa, ma la ritrasse immediatamente, come si fosse scottato. Tom se ne accorse, ed una delle sue mani scattò ad afferrarlo per il polso, conducendo la sua mano finché non giunse dove voleva arrivare fin da principio.
- Toccami. – disse, e chiuse gli occhi mentre David lo accarezzava piano, - Cioè… - aggiunse con evidente imbarazzo, - puoi farlo. Non mi arrabbierò più.
- …Tom, io—
- Io – lo interruppe Tom, stringendo con più forza le dita attorno al suo polso, quasi guidandolo in una carezza più lenta e morbida lungo il suo collo, - Io sono sempre stato innamorato di Bill. – confessò a mezza voce, - Fin da quando riesco a ricordare, capisci? Per me, nel mondo intero, non c’era altro. Era come se fossi nato solo ed esclusivamente per… riuscire a stare con lui, un giorno. E per quanto fosse assurdo— Dio, in fondo è di mio fratello che stiamo parlando. Ma per quanto fosse assurdo io pensavo davvero che alla fine sarei riuscito a vincerlo. Come un principe o un eroe dei cartoni animati, non lo so.
David se lo tirò contro, facendogli spazio fra le gambe e lasciandolo appoggiare con la schiena al suo petto.
- Be’, non hai ancora perso le speranze, no? – cercò di dargli coraggio, appoggiando il mento sulla sua spalla e trattenendosi a stento dall’inspirare con forza il suo odore. – Magari alla fine nonostante tutto la principessa—
- No, ecco. – rise Tom, scuotendo il capo, - Lo vedi che non capisci? Io non sono un principe e Bill non è una principessa e non è neanche l’unica cosa esistente nel mondo. – spiegò con decisione, - È una delle tante cose che mi piacerebbe salvare, ma non è l’unica. È una delle tante cose che ho, ma non è l’unica. Lui non… - inspirò profondamente, guardando fisso di fronte a sé nel buio del tunnel , - lui non è tutto il mio mondo, non è l’unica cosa che posso sperare di ottenere dalla mia vita. Non è la ragione per cui esisto. Io sono la ragione per cui esisto.
David sorrise, percependo chiaramente il brivido che corse lungo il collo e la schiena di Tom non appena sentì il suo sorriso premere contro la pelle.
- Sei cresciuto così tanto. – disse dolcemente, - Quando è successo?
- Mentre non guardavi. – rispose lui, - O mentre fingevi di ascoltarmi per ripetermi la lezioncina preimpostata che ti aveva insegnato Larsen, forse.
- …Tom, io non—
- Lo so. – lo fermò con un sospiro, chiudendo gli occhi e rilassandosi di nuovo contro il suo petto, - So che posso fidarmi di te, in qualche modo so che potevo farlo anche prima, solo che… se solo tu mi avessi ascoltato meglio, quando venivo a parlarti, avresti capito che…
David si tese immediatamente, e la tensione dei suoi muscoli sembrò quasi passare direttamente in quelli di Tom, che si tesero tutti a propria volta.
- Che…? – lo invitò a proseguire, la voce incerta.
- Che io non ho mai… - deglutì Tom, rifiutandosi di guardarlo, - che io non ho mai visto quante altre possibilità avevo. Ed era per questo che le rifiutavo a priori.
David deglutì a fatica, stringendo impercettibilmente la presa attorno alle sue spalle larghe ma esili – così esili, come quelle di suo fratello, spalle che non dovrebbero mai portare pesi simili, spalle che non avrebbero mai dovuto portare pesi simili se solo lui avesse potuto prendersene cura, in una situazione diversa, in un mondo diverso, in una vita diversa – per poi lasciarlo andare quasi di scatto e rimettersi in piedi.
- Dovremmo riprendere il viaggio. – disse, ricominciando a camminare senza voltarsi a guardarlo. Se l’avesse fatto, avrebbe visto Tom restare seduto qualche secondo in più di lui, la bocca dischiusa e gli occhi persi sulla sua figura familiare, inumidirsi le labbra come volesse provare a dire qualcosa e poi lasciare perdere, abbassando lo sguardo e rimettendosi a propria volta in cammino.
*
L’espressione del viso di Jörg Kaulitz, nell’aprire la porta e trovarsi di fronte Bill accompagnato da Patrick e Peter, non era riuscita a mascherare il suo stupore profondo nonostante la signora Silvia l’avesse avvisato immediatamente via mail del loro imminente arrivo. Era rimasto immobile, una mano sullo stipite e l’altra sulla porta, osservandolo come fosse la prima volta che gli posava gli occhi addosso, cosa che ovviamente non era possibile, essendo Bill rimasto quasi continuamente in tv, in radio e su svariati cartelloni pubblicitari in giro per tutta la Germania prima e tutto il mondo poi, per la gran parte dei suoi ultimi cinque anni di vita.
- …entrate. – aveva detto quindi, ritrovando compostezza e schiudendo l’uscio per lasciarli passare, - Sono stato avvertito della vostra situazione. Qui sarete al sicuro, nessuno sa dove mi trovo.
Bill s’era guardato intorno con aria incerta, mentre Patrick ispezionava prudentemente l’abitazione e Peter si dirigeva spedito in cucina incaricandosi – senza che nessuno gliel’avesse chiesto – di preparare da mangiare per tutti.
- Be’… ciao. – aveva detto quindi, voltandosi a guardarlo e sorridendogli un po’. – Non ci vediamo da tanto.
Jörg sorrise a propria volta, avvicinandosi quasi con cautela.
- Da troppo. – lo aveva corretto, - Posso abbracciarti? L’ultima volta che l’ho fatto eri così piccolo che mi stavi quasi in una mano.
Bill aveva ridacchiato imbarazzato, spostando il peso da un piede all’altro e scostando dal viso una ciocca di capelli.
- Puzzo da morire… - si era giustificato, stringendosi nelle spalle.
- Al momento è l’ultima cosa che m’importi. – aveva insistito Jörg, avvicinandosi di un altro passo.
- Ma non pensi che sarà strano? – aveva continuato Bill, agitandosi appena, - Voglio dire, è— io non ricordavo nemmeno il tuo volto, e—
- Bill. – lo aveva interrotto suo padre, fermandosi a pochi centimetri da lui, - Posso abbracciarti?
Bill gli aveva sollevato addosso uno sguardo perso e colmo di lacrime, e s’era morso un labbro.
- Sì. – aveva risposto, annuendo debolmente, - Sì, ti prego. Fallo.
Suo padre l’aveva stretto a lungo, immobile in mezzo all’ingresso, le sue mani grandi serrate attorno alle sue spalle ed il petto ampio contro cui nascondere il viso. Bill amava pensare di essere riuscito a venire su perfettamente anche se suo padre non era stato che una presenza fugace assente in quasi tutti i momenti veramente importanti della sua vita, ed era vero, ma stretto fra le sue braccia non poteva impedirsi di realizzare quanto intensamente una presenza simile gli fosse mancata, e quanto forse sarebbe stato tutto più facile se lui ci fosse stato più spesso. Se gli fosse stato permesso di esserci più spesso.
Jörg lo aveva presto condotto al piano di sopra, all’interno di una stanza quasi del tutto sgombra ma con una brandina approntata alla bell’e meglio sotto la finestra, le lenzuola pulite e già ripiegate su un angolo, pronte ad accoglierlo.
- Riposati. – gli aveva detto, stringendogli una spalla fra le dita con aria rassicurante, - Le prossime ore non saranno semplici, per te.
- Non posso dormire… - aveva risposto lui, inquieto, - Come faccio se succede qualcosa?
- Non succederà niente. – l’aveva rassicurato Patrick, passando davanti alla porta e sorridendogli deciso, - Veglieremo noi su di te. E quando ti sarai svegliato, il nano di sotto avrà finito di preparare cene per due eserciti, e potrai ingozzarti come devono fare tutti i ragazzini della tua età.
- Fler! – l’aveva chiamato Peter dal piano terra, - Allora, queste patate non si peleranno certo da sole!
- Arrivo… arrivo! – aveva sospirato lui, scendendo velocemente le scale. Bill aveva ridacchiato piano, gli occhi già pesanti, e suo padre l’aveva baciato dolcemente su una tempia prima di chiudere la porta e lasciarlo solo.
*
Si risvegliò molte ore dopo. Fuori dalla finestra, il sole stava per tramontare, e tutta la stanza era immersa in una nuvola di luce aranciata che rendeva i contorni delle cose molto più scuri e irreali di quanto non fossero. Anis stava seduto sul letto accanto a lui, le ali chiuse e ripiegate in modo da non dargli troppo fastidio, e gli accarezzava i capelli. Dalle sue scapole, il sangue scendeva lungo le braccia in rivoli sottili sempre vivi. Aveva macchiato tutte le lenzuola.
- Ho combinato un disastro. – disse sorridendo, - Tuo padre mi massacrerà.
- Anis! – lo chiamò lui, scattando a sedere e gettandogli le braccia al collo, - Dio… sei ferito? Quando sei arrivato?
- Calmati… - rise lui, stringendolo alla vita, - Non sono ferito, e sono arrivato una mezz’oretta fa.
- E perché non mi hai svegliato? – chiese lui, sbuffando platealmente, - Avrei potuto—
- Volevo restare un po’ solo col tuo bel visino senza la compagnia del tuo fastidioso chiacchiericcio. – rispose lui ridendo e guadagnando in risposta uno scappellotto sulla nuca, - Tu stai bene?
- Ma certo che sto bene, non ho due ali che mi spuntano dalle scapole, io. – sbottò Bill, gonfiando le guance ed incrociando le braccia sul petto. Le sciolse immediatamente, però, tornando ad accucciarsi contro di lui il secondo successivo, - Dov’è David? – chiese preoccupato, mentre Anis tornava ad accarezzargli i capelli.
- Tuo fratello era un po’ scosso, - rispose lui, - ha chiesto un po’ di tempo da soli. Dovrebbero essere in arrivo nel giro di un’ora, immagino.
Bill annuì, deglutendo a fatica prima di fare la domanda successiva.
- Larsen? – si rassegnò a chiedere infine, stringendo le mani a pugno attorno alla maglietta sporca e stropicciata di Anis.
- Morto. – rispose lui, gelido. – Mi dispiace.
Bill sospirò, allontanandosi di qualche centimetro.
- Immagino andasse fatto. – rispose, - Ci sono un sacco di cose che vanno fatte, ancora.
Anis gli accarezzò lentamente una guancia, lasciando sulla sua pelle una traccia di rosso già un po’ sbiadita.
- Ti ho—
- Non importa. – lo interruppe Bill con un sorriso.
Anis sospirò, chinandosi a baciarlo lentamente sulle labbra.
- Bill, io non devo dirti proprio niente. – disse quindi, poggiando la fronte contro la sua, - Quello che devi fare lo sai già.
Bill rise amaramente, sporgendosi a catturare le sue labbra in un altro bacio appena accennato.
- In realtà no. – rispose, - So quello che dovrei fare, ma non è esattamente la stessa cosa.
- No, non lo è. – annuì Anis, scivolando sul materasso fino a poterlo stringere più disinvoltamente fra le braccia. – Mi mancherai. – disse, baciandogli la fronte, le guance, la punta del naso, - Mi mancherai da morire.
- Non sai quello che farò. – disse Bill, stringendosi a lui e chiudendo gli occhi, - Non sai se andrò da Tomi.
- Saresti così irresponsabile? – chiese lui, lasciandogli scivolare la maglia sopra la testa.
- Non lo so. – sospirò Bill, agevolando i suoi movimenti sollevando le braccia, - Non mi sono mai ritrovato in una situazione simile, prima d’ora. – aprì gli occhi all’improvviso, piantandoli nei suoi. Erano lucidi, ma incredibilmente brillanti e presenti. – Posso solo giurarti che, qualsiasi decisione prenderò, la prenderò con la certezza che non dovrò pentirmene.
Anis sorrise, stendendolo sul materasso e sfibbiandogli i pantaloni. Bill sollevò il bacino per agevolarlo mentre glieli lasciava scorrere lungo le gambe, e sorrise divertito, sistemandosi meglio contro il cuscino e schiudendo le cosce per accoglierlo meglio quando lui si liberò celermente dei propri abiti, strappandosi letteralmente di dosso la maglietta ormai ridotta quasi a brandelli.
- Cos’è quel sorrisetto? – chiese Anis, chinandosi su di lui e sfiorandogli le labbra con un bacio, - Sei un ragazzino impertinente.
- Anis, cosa stiamo facendo? – rise lui, sollevando le braccia ed allacciandolo al collo per tenerlo più vicino possibile a sé, - Di fuori c’è la fine del mondo e noi scopiamo?
Anis rise a propria volta, sfiorando la sua apertura con la punta della propria erezione e baciandolo profondamente, quasi a distrarlo, nel momento in cui entrò dentro di lui con una spinta secca.
- Non riesco ad immaginare momento migliore. – rispose divertito, mentre Bill rideva ancora fra le sue labbra.
Accarezzò con devozione ogni centimetro del suo corpo, senza smettere di baciarlo neanche per un secondo. La sua mano scese lenta lungo il suo fianco, pressandosi per bene contro la sua pelle, come a voler lasciare l’impronta dei propri polpastrelli. C’era così tanto sangue sulle lenzuola, così tanto sangue sul suo corpo che cadeva come pioggia su quello di Bill. Minuscole gocce di ciò che c’era di più profondo in lui, della sua vita stessa, scivolavano lentamente lungo i suoi fianchi, lungo le sue braccia, e si posavano sui fianchi e sulle braccia di Bill, sul suo viso, sul suo ventre, scendendo giù fino a disegnare sul materasso la sagoma sottile del suo corpo. Anis sperò che quello potesse essere un modo come un altro di dargli forza. La sua forza. Sperò di riuscire a trasmettergliela, anche solo in parte, almeno così.
Quando sentì di essere vicino all’orgasmo, mormorò il suo nome fra le labbra e lo tirò su da sotto le ascelle, come un bambino piccolo, sistemandoselo in grembo e spingendosi con forza dentro di lui. Bill piangeva e rideva e gli sussurrava che lo amava da morire, e si aggrappò con forza alle sue spalle, in preda alle vertigini, quando lo sentì venire dentro di sé spalancando le ali, brillanti e rosse e gialle come lingue di fuoco, e pochi secondi dopo venne a propria volta nella stretta decisa delle sue dita.
- Sei così bello. – singhiozzò Bill contro la sua spalla, le mani imbrattate di sangue e gli occhi chiusi con tanta forza da sembrare due fessure bistrate di nero ormai quasi sbiadito, - Sei bellissimo e io ti amo così tanto. – pianse ancora, incapace di controllare le risate che continuavano a scuoterlo tutto, tanto che Anis non riusciva proprio a capire se fosse disperatamente felice o disperatamente triste, o fosse semplicemente impazzito del tutto. – Sono felice che tu sia mio, Anis, sono così felice che tu sia mio.
Anis gli ravviò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, baciandolo su una tempia e richiudendo le ali attorno al suo corpo.
- Anche io sono felice di essere stato tuo, Bill. – sussurrò piano, cullandolo dolcemente. Bill non rispose, e si limitò a stringerlo con più forza, cercando di imporsi di smettere almeno di piangere.
*
- Sta per arrivare un temporale. – disse Patrick, passando l’insalata di patate a Jörg, - Gradisce?
- Come fai a dirlo? – chiese Peter, mentre il signor Kaulitz riempiva abbondantemente il proprio piatto e poi faceva girare l’insalatiera attorno al tavolo, - Non hai nemmeno guardato di fuori.
- Lo sento, no? – scrollò le spalle lui in risposta, mangiando lentamente, quasi con attenzione.
- L’evoluzione procede, ora mi diventi un cane. Perché non lo sei diventato quando eravamo nelle fogne e quel terremoto ha buttato giù mezzo tunnel rischiando di schiacciarmi mentre cercavo di salvare Bill da morte certa? Avresti potuto percepirlo in anticipo ed avvertirmi.
- Tu sei un deficiente. – lo apostrofò Patrick, tirandogli uno scappellotto sulla nuca mentre Anis ridacchiava sommessamente e Bill restava trincerato nello stesso silenzio quasi autistico che l’aveva accompagnato da quando lui ed Anis erano scesi dal piano di sopra per unirsi alla cena, - Non sto diventando un cane, è solo che riesco a sentire l’acqua che si avvicina. Guarda. – disse quindi, sollevando una manica della felpa. La pelle del suo braccio era ricoperta di minuscole goccioline simili a condensa. – Toccala pure.
- Sarà mica velenosa? – chiese Peter, osservando curiosamente le goccioline mentre alcune di esse si gonfiavano e scivolavano lungo la linea curva del suo avambraccio, inumidendo la tovaglia sotto.
- È acqua, cretino. – sbottò Patrick, sfiorando le goccioline con un dito e ficcandoglielo in bocca per dimostrargli senza ombra di dubbio la verità delle proprie affermazioni. – Visto?
- …ma tu sei tutto scemo! – strillò Peter, tirandogli un mezzo pugno nel centro della fronte, - No, dico, e se fosse stata velenosa? Mi avresti ammazzato senza un ripensamento!
- Ma sapevo che non lo era! – obiettò Patrick, gesticolando animatamente con una mano e massaggiandosi la fronte con l’altra, - Pensi che avrei messo a rischio la tua vita in questo modo?
- Be’, nelle fogne non mi hai avvertito del terremoto in avvicinamento, quindi sì. – considerò lui, incrociando le braccia sul petto.
- Sono un dragone, non una talpa! – precisò Patrick, esasperato, - Sento i movimenti dell’acqua, mica quelli della terra!
Sul sottofondo del loro litigio, Anis si voltò a guardare Bill e, trovandolo incupito, smorzò il sorriso che gli piegava le labbra.
- Ehi. – lo chiamò piano, lasciando scivolare una mano sopra la sua. Era ghiacciata. Tentò di scaldarla. – Ehi, Bill.
Lui non diede segno di averlo sentito, ed Anis si voltò a cercare Jörg con gli occhi. L’uomo ricambiò il suo sguardo e si ripulì velocemente le labbra con un tovagliolino, prima di chinarsi a poggiare la propria mano sulla spalla di Bill, scuotendolo lievemente.
- Bill, è tutto a posto? – chiese. Bill sollevò gli occhi nei suoi, guardandolo con aria persa, come si fosse svegliato solo in quel momento.
- Ho bisogno di sapere dov’è Tomi. – disse, senza rispondere alla domanda, mentre la mano di Anis si allontanava dalla sua, - Sono inquieto, non riesco a capire dov’è.
- In genere ci riesci? – gli chiese Jörg con un sorriso indulgente. Bill si strinse nelle spalle.
- Non è che sappia sempre individuare le coordinate esatte del luogo in cui si trova, - rispose incerto, - ma riesco quasi sempre a sentire che è lì, da qualche parte. È una certezza che mi consola. Adesso però lo sento così lontano e trasparente, come si stesse volatilizzando… - sollevò una mano e la guardò a lungo da ogni lato, quasi si aspettasse di vederla diventare trasparente sotto i suoi stessi occhi. – Sta vacillando, riesco a sentirlo.
- Cosa sta vacillando? – chiese Jörg, inarcando un sopracciglio.
- Non lo so… - sospirò Bill, tornando ad abbassare la mano, - Lui. Io. Quello che siamo. – inspirò profondamente, come stesse provando un dolore troppo forte e temesse di non riuscire più a respirare, - Non mi sono mai sentito così, mi si spezza il cuore.
Il borbottio di Peter e Patrick si fece sempre più basso, fino a scomparire del tutto. Anis, immobile al fianco di Bill, si stava mordendo l’interno una guancia con tanta forza da sentire il sapore del sangue sulla lingua.
- Bill— - provò a chiamarlo suo padre, ma Bill scattò in piedi come se l’avessero sfiorato con un tizzone ardente.
- Lui l’aveva promesso. – mormorò fra sé assente, come si trovasse in un altro luogo e in un altro tempo, - Noi non ci saremmo disintegrati. Ed invece sta succedendo, e io non so dov’è. E non potrò salutarlo. E il mondo finirà senza che io possa toccarlo ancora e— - si piegò su se stesso, ansimando disperatamente e portando una mano alla gola, - Non riesco a respirare.
- Bill. – scattò subito in piedi Anis, e fu al suo fianco in meno di un secondo. – Bill, cosa—
- Stammi lontano, non mi toccare! – strillò lui in un rantolo esausto, - Non respiro, non respiro, devo— devo uscire!
- Bill, fermati. – disse Patrick, frapponendosi fra lui e la porta, - Può essere pericoloso, fuori.
- Devo uscire. – ripeté lui, muovendosi a fatica, appoggiandosi ai mobili, - Ti prego, lasciami uscire. Devo farlo.
Patrick cercò gli occhi di Anis, e quando li trovò vi lesse la consapevolezza di un momento che stava cercando stupidamente di ritardare all’infinito, nonostante sapesse che prima o poi sarebbe arrivato.
- Lascialo andare. – disse piano, - Credo sia ora.
Patrick si scostò dall’uscio, mentre Peter gli si affiancava e si preparava a seguire Bill dovunque fosse andato, come sembrava intenzionato a fare anche Anis stesso, assieme al signor Kaulitz. Bill schiuse la porta ed uscì fuori dall’abitazione, lanciando un’occhiata stanca al cielo scuro e gonfio di nuvole e pioggia. Rimase col naso puntato per aria finché non sentì le prime gocce bagnargli la pelle, e allora chiuse gli occhi e sorrise sereno, come improvvisamente sollevato da un peso.
- Eccoti… - mormorò a bassa voce, restando immobile.
Anis, dietro di lui, aggrottò le sopracciglia e venne presto catturato da un movimento appena percettibile delle spighe nel campo ad un paio di decine di metri da loro. Spalancò gli occhi quando riuscì ad identificare le sagome delle due persone che si stavano avvicinando.
- È Tom. – mormorò Jörg, riconoscendo il figlio, - Con Jost.
David corse velocemente fino a loro, fermandosi solo quando li ebbe raggiunti.
- Sta accadendo. – disse trafelato, - Metà rete fognaria è completamente distrutta, la città sta collassando su se stessa. Ben presto tutto il resto del mondo la seguirà a ruota, se non… - si voltò indietro, cercando Tom con una mano, e non si stupì poi così tanto quando vide che il ragazzo s’era fermato parecchi metri più indietro, perfettamente di fronte a Bill. Una crepa si aprì nel terreno nei pochi centimetri che li separavano, e s’allargò velocemente al punto da creare un piccolo cratere quasi perfettamente circolare, costringendo entrambi ad indietreggiare prudentemente.
- Tomi. – mormorò Bill, incerto. Gli tremavano le labbra.
- Lo so. – rispose lui, irrigidendo le braccia lungo ai fianchi per resistere all’impulso di lasciarle scattare a stringerlo, - Bill, tutto questo non è reale. – disse piano, - È una cosa che ci hanno messo in testa.
- Tomi, nessuno mi ha messo in testa un accidenti di niente! – disse lui, gli occhi che si riempivano di lacrime, - Ho il cuore che scoppia, non mi sono mai sentito così! Mi fa male tutto!
- Billi, ti prego. – cercò di fermarlo Tom, la voce rotta. A qualche metro di distanza, Anis cominciò a respirare con fatica sempre maggiore, mentre Patrick si voltava a guardarlo con aria spaventata.
- Cosa gli prende? – chiese Peter, incerto. Gli occhi di Patrick brillarono di un azzurro più intenso che mai, solo per un secondo.
- Sta cambiando. – rispose a mezza voce.
- Tomi, questo sta succedendo. – disse Bill, allargando le braccia come a comprendere in un solo gesto la rovina dell’intero pianeta, - Non è un’invenzione e non è un’illusione, sta crollando tutto e noi dobbiamo—
- Noi dobbiamo – sorrise Tom, guardandolo dolcemente negli occhi, - fare solo ed esattamente quello che vogliamo.
Bill si morse un labbro. Dietro di lui, a qualche metro, Anis inspirò ed espirò a fatica un’ultima volta e poi schiuse le ali all’improvviso, tanto che tutti coloro che aveva intorno per poco non ne furono colpiti.
- Cosa— - mormorò Jörg, caduto per terra nel cercare di evitare le ali di Anis, rialzandosi in piedi per seguirlo, - Dove sta andando? Bushido! – lo richiamò, ma David lo fermò piantandogli una mano sul petto ed osservando il suo movimento lento e deciso con curiosità e paura.
- Billi, tu per cosa vivi? – chiese. Suo fratello dischiuse le labbra, pronto a rispondere con la prima cosa che gli fosse venuta in mente – il suo nome – ma Tom lo fermò con un gesto deciso. – Hai vissuto tutta la tua vita per salvare il mondo? Per— per venire via con me chissà dove, per sparire per sempre, per diventare un dio? – sospirò, - Io no. Io ho vissuto perché mi piacevano le ragazze, perché volevo diventare famoso, perché volevo suonare in tutto il mondo, perché ti amavo da impazzire, Billi, ma non volevo scomparire, non volevo che amarci fosse un obbligo. Ho vissuto per la mamma, ho vissuto per i miei meravigliosi sandwich, per la pizza, per la Wii, ho vissuto perché volevo essere felice, ho vissuto perché volevo essere.
Lentamente, di fronte a lui, Bill si mise a piangere, in silenzio.
- Tomi… - singhiozzò piano. – Io non—
- Se tu hai vissuto tutta la tua vita per scomparire oggi, Bill, se hai vissuto per scomparire assieme a me, io ti seguirò, perché ti amo, perché sei mio fratello e perché voglio che tu sia felice. Ma se non è per me che hai vissuto fino ad adesso, non è nemmeno per me che devi morire.
Bill deglutì a fatica, le labbra tanto strette da sembrare un’unica linea dritta a tagliargli il volto, come una ferita. Mosse un passo in avanti verso il cratere che lo separava da suo fratello, poi ancora un altro, e poi le sue labbra si schiusero, ed i suoi occhi tornarono asciutti.
- Scusami. – sussurrò pianissimo, prima di voltarsi repentinamente. Anis era lì, a qualche passo da lui, braccia ed ali dischiuse.
- Bill. – lo chiamò, la voce rotta, - Ti prego. – anche se non avrebbe saputo nemmeno lui dire per che cosa lo stesse pregando.
Bill sorrise, muovendosi verso di lui prima lentamente, poi sempre più velocemente, fino a correre. Quando si lanciò fra le sue braccia, lo fece con una forza tale che Anis quasi vacillò.
- Io ti amo. – disse, lasciandosi sollevare in volo mentre si protendeva a baciarlo sulle labbra, - Ti amo da morire e sono tuo ed ero tuo e sarò tuo, qualunque cosa succederà. La mia metà della mela sei tu.
Anis gli sorrise, stringendolo a sé e richiudendo le ali attorno al suo corpo. La terra tremò con violenza appena i piedi di Bill se ne allontanarono, e il cielo di aprì in uno squarcio luminoso di fulmini e tuoni assordanti nel momento esatto in cui dai loro corpi si sprigionò una luce talmente abbagliante da investirli tutti e costringere gli altri a chiudere gli occhi e schermarsi il viso, per non esserne accecati.
Scomparve solo molti secondi dopo, assieme al brontolio sempre più soffuso della terra e del cielo. Quando David riaprì gli occhi – per primo rispetto a tutti gli altri – vide che le crepe e i crateri che avevano martoriato la terra fino a pochi secondi prima erano del tutto scomparsi, così come i nuvoloni che appesantivano il cielo. Stelle e luna rischiaravano appena l’ambiente, Patrick era tornato normale sotto lo sguardo allucinato di Peter e Tom era seduto per terra da solo, con gli occhi spalancati, a pochi metri dal punto in cui Bill ed Anis erano scomparsi.
Sentì l’impulso di ridere, e non riuscì a trattenerlo.
- Lo sapevo, - disse scattando in piedi e correndo verso Tom. – lo sapevo che i divini non potevano essere forzati! Lo sapevo che doveva essere una loro scelta! – si chinò accanto a lui, porgendogli una mano per aiutarlo ad alzarsi mentre Jörg, Peter e Patrick lo raggiungevano celermente.
- Di cosa diavolo stai parlando? – chiese quest’ultimo, ancora incerto sulle gambe a causa del proprio repentino cambiamento.
- Ma non capite?! – disse David, entusiasta, gesticolando animatamente, - Le due metà perfette non sono nate assieme, si sono ritrovate poi! Meglio ancora: si sono scelte! Questa cosa è— è incredibile! – rise, - È vero, noi creiamo i nostri dei, noi siamo i nostri dei. Larsen non l’aveva capito davvero, ma ora io sì. – e così dicendo, si voltò a guardare Tom, che lo fissava allucinato, comprendendo ad occhio e croce solo una parola ogni tre che pronunciava. Allungò le mani a coppa ad accarezzargli il viso rigato di lacrime ormai quasi asciutte, e si sporse in avanti a sfiorargli le labbra in un bacio umido e salato. – La metà della mia mela sei tu. – gli disse piano, sorridendo sereno, - È ancora tuo diritto scegliere se io posso essere la tua.
Tom schiuse la labbra, incerto. Le mosse impercettibilmente per un paio di secondi, come non riuscisse a trovare le parole e stesse cercando di plasmarle con le proprie labbra senza fermarsi a pensarle prima, e quando capì che non ci sarebbe mai riuscito lasciò andare un respiro profondissimo, come non avesse fatto altro che trattenerlo da che era venuto al mondo, e gli gettò le braccia al collo, stringendosi a lui e baciandolo affamato, gli occhi chiusi e le risate intenerite di David che si perdevano a tratti in mezzo ai suoi gemiti tristi e felici e impauriti e dannatamente completi.
Jörg rise, piantando una mano sul fianco e passandosi l’altra sugli occhi. Di Bill ed Anis non era rimasta traccia, e questo era un argomento che prima o poi avrebbero dovuto affrontare, ma il momento non sembrava quello opportuno.
- Sarò in casa, quando loro due avranno finito di… di trovarsi, suppongo. – ridacchiò a bassa voce, avviandosi verso l’abitazione.
- Qui si baciano tutti. – borbottò Peter, incrociando le braccia sul petto, - Se penso che io sono qui solo perché tu avevi bisogno di qualcuno con cui parlare, mi sale un nervoso che non ti dico.
Patrick si voltò a guardarlo, inarcando un sopracciglio con aria dubbiosa.
- Se pensi che anch’io ti bacerò, sei completamente fuori strada. – notificò atono, come stesse parlandogli della data di scadenza di una bolletta.
- Ma chi ti vuole baciare?! – strillò istericamente Peter, dandogli le spalle e muovendosi celermente per raggiungere Jörg, ormai già quasi arrivato a destinazione, - Ma vedi tu se— Ah, mamma, quanto ti farò pagare tutto questo, quanto! Non ne hai nemmeno idea. Pranzi e cene a casa tua per almeno sei mesi!
Patrick sorrise divertito, inumidendosi le labbra e facendo per andargli dietro. Si fermò all’improvviso, voltandosi verso Tom e David ancora presi dal bacio, e si schiarì la voce.
- Noi penso che, uhm… - cominciò incerto, - …ma non credo vi interessi. – concluse con una mezza risata, prima di lasciarli lì ed allontanarsi. Ed aveva ragione. A loro non interessava.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Commedia, Drammatico.
Pairing: Nessuno.
Rating: R
AVVISI: Angst, Slash, Violence.
- "Non so se vi è mai capitata una cosa del genere, ma alle volte la vita è come un labirinto."
Note: Mi rendo conto dell'assurdo del cominciare una nuova parte di questa saga con uno spin-off, ma per motivi logistici siamo riuscite a organizzarci solo così XD Oltretutto, immagino che tutte voi (?) foste molto impazienti di sapere cosa fosse successo al povero David. Ed ecco che lui, pronto, risponde. Partendo dal Big Bang, ma risponde.
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IL GIORNO IN CUI SONO MORTO

Se dieci anni fa, quando ho cominciato ad interessarmi di produzione e composizione di canzoni, mi avessero detto “guarda che questo mestiere sarà il motivo per cui, in un giorno non molto lontano e ancora nel fiore dei tuoi anni, tirerai le cuoia”, ci avrei riso su. Davvero. Tutti i mestieri che avevo fatto, perfino il breakdancer e il cantante in una boyband, sembravano decisamente più pericolosi di quanto non potesse sembrare restare dietro le quinte a comporre canzoni per gente varia ed eventuale. Perfino svegliarsi al mattino, scendere dal letto e prepararsi il caffè sembrava più pericoloso. Potevi scivolare sulle ciabatte, per dire. O scottarti con la caffettiera. A scrivere canzoni e produrle cosa poteva accaderti? Potevi pungerti con la penna? Poteva venirti un crampo alla mano dopo aver passato ore al computer a modulare voci stonate per farle sembrare meno raccapriccianti di quanto fossero al naturale? Che gran pericoli! Che rischi!
Nel tempo, naturalmente, le cose sono un po’ cambiate, come alla fine cambia tutto, che tu gliene dia la possibilità o meno. Quello del cambiamento è un deprimente destino che ci accomuna tutti, l’unica cosa nella quale in effetti la vita non faccia differenza a seconda di chi va a colpire. Vedete il mio viso, ad esempio? Vedete queste piccole rughe attorno agli occhi, segni del tempo che non è stato possibile cancellare neanche a furia di badilate di creme molto più costose di quanto non possa per decenza rivelare? Ecco, queste stesse rughe assumeranno magari meno fascino su qualcun altro, ma ci saranno. Ci saranno sul viso di un ragazzino che per ora ha tredici anni, e quando arriveranno saranno uguali a quelle dell’uomo sul viale nel tramonto che magari ne ha sessantacinque. E quindi, come è cambiata la mia fisionomia, la grana della mia pelle, il colore dei miei capelli, è cambiato anche il modo che avevo di vedere determinate cose. Più che altro, c’è da ammetterlo, a causa dei Tokio Hotel.
Cinque, ormai quasi sei anni fa, io e Dave, che è un uomo che ormai mi sopporta da molto tempo, nonché l’esempio perfetto di come dovrebbe essere un omosessuale al giorno d’oggi, quando invece io sono circondato solo da checche in mezzo al gruppo delle quali certe giornate sento di poter prendere posto con fin troppa disinvoltura, fummo mandati dalla Universal a Loitsche. Le prime reazioni – di entrambi, peraltro, ai tempi giovani e pieni di possibilità – furono di sconforto. Perché ci mandavano a Loitsche? Cosa c’era, a parte i campi di patate, la campagna e il vuoto cosmico?
Saltò fuori che invece in quel buco dimenticato da Dio c’era un diamante grezzo dal valore inestimabile. Quattro ragazzi che si volevano bene, erano amici davvero, suonavano insieme e volevano divertirsi. Quattro ragazzi in mezzo ai quali si trovava Bill Kaulitz, e Bill era già Bill allora, credetemi. Forse un po’ più spettinato, coi denti un po’ più storti e con addosso vestiti meno costosi, ma Bill comunque.
È stato allora che tutto ha cominciato a cambiare. Improvvisamente la questione non era più circoscritta allo scrivere canzoni o a produrle o ad avere un rapporto di tipo lavorativo con un cantante, no. Io avevo quattro ragazzini da gestire, quattro ragazzini che mi erano stati affidati dalle rispettive madri apprensive e, in certi casi – in tutti i casi, cioè, che non fossero Simone – anche piuttosto diffidenti, e dovevo gestirli in casa mia, a stretto contatto con me, all’interno di spazi che, fino a quel momento erano stati solo miei.
Improvvisamente, il pericolo del mio lavoro mi si palesava in tutta la sua raccapricciante serietà. Si correva il rischio di svegliarsi al mattino e inciampare in Gustav, ad esempio, che ha sempre avuto la passione per la sveglia molto mattiniera ma, quando era molto piccolo, molto goloso e molto tondo, tendeva ad addormentarsi sul pavimento ai piedi del divano verso le otto del mattino, dopo essere sorto col sole alle sei. Si correva il rischio in incappare inaspettatamente nelle mutande sporche di Georg abbandonate nei posti più impensabili, e quando dico impensabili intendo davvero impensabili, come quando una volta lo scarico del lavandino in bagno cominciò a vomitare liquami puzzolenti e scoprimmo che in realtà tutto questo avveniva perché un paio dei suoi boxer più vecchi e sbrindellati ci era finito dentro. Il come, tutt’oggi, è ancora un mistero. Si correva il rischio di irritare Tom, che giuro, è un ragazzo di una bontà infinita, praticamente un santo martire, ma quando gli girano è la fine, soprattutto se gli girano a causa tua, perché poi riconquistarlo è un delirio paragonabile solo a certe quest impossibili coinvolgenti draghi, fuoco e cespugli di rovi per chilometri e chilometri, e di questo fatto Bill è la prova vivente, perché pur amandolo a livelli veramente indegni Tom con suo fratello, per molti mesi, ha chiuso in modi così definitivi da lasciarmi basito.
E poi, naturalmente, si correva il rischio di Bill, un essere umano che, nella sua interezza, ha sempre rappresentato un problema. Bill è una creatura incredibilmente affascinante, e come tutte le creature incredibilmente affascinanti è perennemente in bilico, geneticamente instabile, un disastro, insomma. Vivere con lui era come vivere con una bomba a tempo a ricarica continua in casa. Sapevi che sarebbe esplosa, non sapevi quando ma sapevi che sarebbe successo, e la cosa veramente devastante era sapere allo stesso modo che una sola esplosione non sarebbe bastata, non sarebbe stata definitiva come tutte le esplosioni sono, perché avevi la certezza che alla prima, chissà quando, chissà perché, prima o poi ne sarebbe seguita un’altra, e un’altra ancora, senza mai fine. E poteva essere per qualsiasi cosa, il motivo più stupido o quello più fondamentale, o solo perché magari era sotto stress e sentiva il bisogno di scaricare, ed allora dovevi solo sperare di non essere tu la vittima designata a fargli da sfogatoio proprio in quel momento, oppure rassegnarti in silenzio al tuo destino e subire finché non fosse stato soddisfatto.
Anche quello, comunque, non era niente in confronto al pericolo che mi sarei ritrovato a subire poi, ma in un certo senso partire da quel punto era importante, e non perché volessi far vedere quanto Bill in realtà sia la fonte primaria e unica dei miei guai – cosa anche possibile, ma non completamente vera, visto che magari Bill mi ha offerto molte possibilità di mettermi nei guai, ecco, ma i guai in cui sono incappato poi me li sono scelti tutti da solo. A partire da una vasta gamma, ma li ho scelti da solo – bensì perché solo quando cerco di ripensare a tutto fin dall’inizio mi rendo conto di quanto in realtà la catena di azioni che mi ha portato fino a qua sia stata comunque un percorso che avrei scelto di rifare anche se per questo avrei dovuto farmi sventrare altre trenta volte. Si parla della mia vita, qui. Della mia fortuna, di ciò che ho amato fare, di persone a cui ho voluto bene, ma bene davvero.
Se nel giorno in cui ho conosciuto Bill lui mi avesse guardato negli occhi e mi avesse detto “io ti ho visto nei miei sogni, so chi sei e so che finirai ammazzato in un magazzino vuoto, sporco e puzzolente, dimenticato ai confini di Berlino, e questo solo perché io mi innamorerò dell’uomo più giusto e più sbagliato in assoluto”, avrei detto “va bene, Bill”, avrei detto “portami da questa gente che mi farà a pezzi, ma portamici tu”. Era quello che volevo. È stato quello che ho ottenuto.
Il fatto è che a questi ragazzi io voglio troppo bene. Quando vuoi bene a qualcuno in maniera così totalizzante, non ti curi del dolore che, per sbaglio o di proposito, ti infligge. Bill non ha chiesto di innamorarsi di un uomo problematico come Bushido – se è per questo, non l’ho chiesto neanch’io. È successo, e non c’è uomo al mondo che possa capire Bill, in questo o in altri momenti della sua vita negli ultimi tre anni, come l’ho capito io. Non c’è uomo al mondo che possa dire di aver sentito dentro il suo dolore come l’ho sentito io, e non solo perché condividiamo certi aspetti della nostra esistenza, ma perché lui è mio. Io l’ho voluto così tanto che alla fine è stato un po’ come l’avessi generato da me. È stato, è e sarà sempre la cosa più vicina ad un figlio che abbia mai avuto, e ciò che vale per lui vale esattamente allo stesso modo per suo fratello, per Georg e per Gustav. In questi ultimi anni ho dovuto subire molte cose, nel tentativo di preservare la felicità di questi ragazzi. Non sempre ci sono riuscito, ma posso dire di averci sempre provato.
È stato con l’intenzione di provarci ancora che, un mesetto fa, sono andato alla Universal, divorato dall’ansia ma cercando di restare lucido e presente a me stesso. La situazione era in stallo da un po’, Bill aveva abbandonato la Germania già da un bel pezzo ma nessuno dei pezzi grossi mi aveva chiamato. Erano rimasti in attesa, e questo raccontavano i loro sogghigni carichi di pietà quando mi hanno visto entrare nel loro ufficio, minuscolo di fronte a loro, molti di più, molto più ricchi, molto più importanti. I loro sorrisi dicevano “finalmente le hai trovate le palle per presentarti, eh, Jost?”. Finalmente le avevo trovate, sì.
In realtà non c’era molto da discutere. Se anche avessi giurato e spergiurato loro che Bill sarebbe tornato nel giro di due giorni già pronto per rimettersi al lavoro, immagino mi avrebbero buttato fuori comunque. Si sono mostrati pazienti e magnanimi – “abbiamo fatto tutto il possibile, David, abbiamo cercato di sfruttare questa cosa con Chakuza, vi abbiamo dato i vostri tempi e i vostri spazi, e con cosa ci troviamo in mano, adesso?” – ed io sapevo perfettamente che dovevo già ringraziare se si limitavano a rescindere il contratto senza trascinarci tutti in tribunale per inadempienza, perciò l’incontro è durato poco. Loro hanno espresso le loro ragioni. Io ho concordato. Venti minuti dopo ero per strada e, per prima cosa, chiamavo Tom.
- È andata male, vero? – mi ha detto subito lui, non appena ha risposto, prima ancora di sentire il mio tono di voce. La sensibilità di Tom in molti aspetti della sua vita è strabiliante. Suppongo sia perché, quando vivi in simbiosi con uno come Bill, i tremiti nella forza devi imparare a percepirli prima che diventino scossoni di terremoto, per provare quantomeno ad arginarli. Lui in questo riesce benissimo, e perciò quando l’ho chiamato, dalla Germania alle Maldive, lui non ha nemmeno dovuto ascoltare il suono della mia voce per sapere che sì, era andata male davvero.
- Mi dispiace. – ho detto io, piano, sospirando profondamente. Tom s’è lasciato andare ad una risatina quasi liberatoria. L’ho immaginato restare in tensione fino a quel momento e mi è dispiaciuto per lui al punto che mi sono sentito stringere il cuore in una smorfia fisicamente dolorosa.
- L’hai già detto ai ragazzi? – s’è informato, una punta di preoccupazione viva nella voce.
- Non ancora. – ho ammesso con una certa vergogna, - Conto di farlo appena chiuso con te. – e poi ho preso un respiro enorme, perché per chiedere di Bill, di questi tempi, mi serve sempre una dose extra di coraggio. – Tuo fratello?
Tom ha lasciato passare qualche secondo, prima di rispondere. Ho sentito qualcosa frusciare, lì, da qualche parte, e ho immaginato subito si fosse sporto ad accarezzargli dolcemente i capelli, un gesto che gli ho sempre visto fare quando Bill gli si addormentava addosso, per un motivo o per l’altro.
- Adesso dorme. – mi ha risposto lui, la voce ridotta a un sussurro quasi eccessivamente dolce, - Ti spiace se a lui ne parlo fra qualche tempo? Non è ancora il momento.
Mi sono sempre fidato ciecamente della profondità con la quale Tom conosce Bill, perciò non ho avuto da ridire in quel caso, così come non avevo avuto da ridire in tanti altri casi durante la nostra storia insieme. Così tanti altri casi, così tanti momenti… ho chiuso la telefonata con un groppo in gola quasi soffocante, e mi sono preparato al peggio. Per non scappare, mi sono ripetuto che era mio dovere dare a quei ragazzi la notizia da me, prima che arrivasse loro la notifica dello studio legale. E per evitare di mostrarmi troppo sconvolto di fronte all’inevitabile furia che mi avrebbe travolto, ho cercato di immaginare tutti gli scenari possibili, dal più pacato al più violento, ma nulla, nulla avrebbe potuto prepararmi a quella mezz’ora passata in compagnia di Georg e Gustav agli studi. Adesso la mia vista è offuscata, così come la mia memoria, ma non dimenticherò mai più lo sguardo profondamente deluso di Gustav, così come non dimenticherò più le parole di Georg, così secche e lucide, incredibilmente dolorose. “Avete giocato con la nostra vita”. Aveva ragione. Nessuno di noi l’aveva voluto, ma alla fine era ciò che era successo. A furia di giocare a fare dio, uccidere persone per poi riportarle in vita e via così, io per primo ho dimenticato quanto altro ci fosse in ballo oltre a Bill, Bushido e il mio affetto per loro.
La vita, comunque, va avanti. È una frase fatta, ma la sua ragione d’esistenza si riflette nel fatto che è vero. A Georg e Gustav ho detto di non perdersi di vista, perché i Tokio Hotel non erano morti, erano solo in stand-by. Gustav s’è lasciato andare ad una risatina afflitta e Georg mi ha guardato con una rabbia in quantificabile.
- Non ti preoccupare, - mi ha detto astioso, - non ci perderemo di vista, ma non certo per i Tokio Hotel.
Io ho incassato e ho lasciato perdere, me ne sono tornato a casa mia, mi sono spogliato, mi sono fatto una doccia, ho indossato il pigiama, ho riscaldato una tazza di latte di soia, ci ho messo dentro un cucchiaino di miele, ho acceso il portatile, mi sono seduto in poltrona, ho fissato lo schermo con una foto di noi cinque insieme come wallpaper e poi mi sono messo le mani nei capelli e ho pianto per ore. La mia vita m’era scivolata via di mano mesi prima, era rimasta intrappolata fra le dita di un tunisino triste e poi era scivolata via anche da lì, perdendosi da qualche parte nell’oscurità come i rivoli di pioggia lungo le strade. E io me ne stavo accorgendo solo in quel momento, quando era troppo tardi per riportare tutto indietro.
Non so se vi è mai capitata una cosa del genere, ma alle volte la vita è come un labirinto. C’è solo una via che può portarti all’uscita, ma di mezzo ce ne sono tante altre che invece ti portano solo verso un vicolo cieco. Alcune di queste altre non ti prendono in giro, fai qualche passo, svolti un paio di volte a destra e a sinistra e subito ti parano un muro davanti alla faccia, e tu allora puoi darti del cretino, concederti un sorriso triste e poi tornare indietro per imboccarne un’altra. Ma ce ne sono di differenti che invece non ti aiutano. Si inerpicano per vie e viottoli costringendoti a decine di cambi di direzione, a destra, a sinistra, dritto, torna indietro, vai avanti per tre metri, fai un giro su te stesso e poi imbocchi la prima porta a destra, e quando tu sei lì che cammini per anni e senti che ormai l’uscita è vicina ecco che invece di fronte a te c’è una parete vuota. E tu ti ritrovi in mano la consapevolezza di dover tornare indietro e ripartire da zero, ma la verità è che non sai nemmeno se ci riusciresti, a ritrovare il punto di partenza, perché sono passati secoli dall’ultima volta che l’hai visto e chi si ricorda se al tale incrocio eri andato a destra o a sinistra? Chissà.
Su quella poltrona, di fronte a quella foto, io ho realizzato che per anni – molto più di tre, in realtà, perché queste cose, quando succedono, poi ti portano a riconsiderare tutto, pure situazioni in cui credevi di essertela cavata bene davvero – avevo percorso una strada che credevo fortemente fosse quella giusta. E lei mi aveva illuso procedendo per tanto, tanto tempo senza il minimo intoppo, salvo poi piazzarmene uno di fronte proprio adesso. Quella notte lì io mi sono detto “cazzo”, mi sono detto, “cazzo, David, e ora cosa fai?”, perché seriamente, mi sembrava di non avere più soluzioni. Non sapevo più che fare, capite, avevo perso tutto. I Tokio Hotel erano la mia vita e si stavano sfaldando senza che potessi fare niente per fermarli, era il più grande fallimento della mia esistenza, non ero stato in grado di prevederlo e non ero più in grado di fermarlo. E mi sono chiesto “e ora come ci torno indietro? Da dove parto, dove ho speranza di arrivare?”, e mi sono visto girare per anni e anni e anni in questo labirinto vuoto cercando l’entrata per ripartire da lì senza riuscire ad uscire mai da quei tre corridoi in croce che avevo percorso girando in tondo negli ultimi mesi.
Poi mi sono addormentato. Lì, in poltrona, tutto piegato su me stesso, col portatile ancora acceso che s’è andato scaricando per tutta la notte fino a spegnersi. E quando l’indomani mattina ho aperto gli occhi e non avevo nemmeno mal di testa, l’ho fatto con stupore. È così che la vita ti stupisce più spesso, d’altronde, non con le cose veramente meravigliose, ma con quelle più brutte: può accaderti la cosa peggiore del mondo, puoi piangere fino a sfinirti e ripeterti che è troppo da sopportare, non puoi più farcela, e sono quelle occasioni in cui sei così depresso, ma così depresso che arrivi a pensare che morire sarà una cosa naturale. Chiuderai gli occhi sentendoli bruciare per via delle lacrime, continuerai a singhiozzare fino a farti dolere i polmoni e poi perderai conoscenza, e l’ultima cosa che pensi è che in qualche modo, intimamente, dentro di te, sai che non ti risveglierai mai più. Ti fa paura ammetterlo, ma è così. Il tuo corpo e la tua mente sono così devastati che implorano solo il riposo eterno, e tu ti abbandoni al buio con la speranza segreta di concederglielo. È stato così, per me, quand’è morto mio padre.
Ma allora come adesso, il giorno dopo ho riaperto gli occhi. Li ho riaperti davvero e mi sono detto “sono ancora vivo”, e il pensiero mi ha irritato, mi ha stancato e mi ha portato a scattare in piedi e darmi una sistemata, lavarmi, vestirmi ed uscire, perché tollerare una tale dose di tristezza con la consapevolezza di essere vivo e sentirne ogni spigolo premere dolorosamente contro tutti i punti deboli del tuo corpo non è davvero possibile. Te la scrolli di dosso, e lo fai per proteggerti, perché non puoi fare altrimenti.
Quando è morto mio padre, il giorno dopo sono andato da mia madre, l’ho abbracciata e le ho sorriso. E lei ha sorriso a me. È così che sopravvivi al dolore. Mettendolo da parte.
L’ho messo da parte anche stavolta, e per molti giorni ho vissuto la mia vita normale, semplicemente senza il lavoro. Per alcuni potrà sembrare folle, soprattutto pensando ad uno che praticamente non smette mai di lavorare come me, ma in realtà è stato piuttosto semplice ed anche alquanto divertente. Ho semplicemente rimosso dall’agenda tutto ciò che poteva avere a che fare con la mia professione e mi sono concesso tutte quelle cose che avevo trascurato in favore del resto. Ho letto bei libri, mangiato buon cibo, sono tornato in palestra e lì ho avuto un incontro ravvicinato del terzo tipo col sospensorio di uno schermidore fascinoso dall’aspetto vagamente italianeggiante di nome Bruno ed ho colto un assaggio perfino di ciò che conteneva, con estrema soddisfazione da parte di entrambi. Poi mi sono goduto la mia casa, un appartamento che adoro e che ho arredato con amore direi quasi maniacale. Le sue poltrone bianche ergonomiche, la cucina in acciaio, il letto col materasso in latex, la vasca a idromassaggio nell’ampio bagno piastrellato in nero e bianco. Mi sono preso del tempo per me perché avevo bisogno di sentirmi coccolato e nessuno a parte il sottoscritto sembrava disposto a farlo. Mi sono arrangiato con ciò che avevo e non è stato affatto male. Stavo solo aspettando di trovare una nuova ragione per ricominciare a vivere in maniera più piena, e puntualmente questa ragione è arrivata qualche settimana dopo per via aerea, sotto forma di Bill Kaulitz, come spesso accade. Magari non a tutti, ma a me sì.
Tornati Bill e Tom in patria, la mia vita è cambiata di nuovo. Ho cercato di tenere un posto per palestra, yoga, cibo biologico e menate varie, ma i gemelli hanno semplicemente ripreso ad occupare la quasi totalità delle mie giornate, ed è stato stupendo. Era bello vedere che in qualche modo loro continuavano ad affidarsi a me quasi totalmente, come se non fosse cambiato niente rispetto a prima. Avevo perso Georg e Gustav, ma avevo ancora loro. Egoisticamente, non potevo che essere felice di questo, anche se sapevo che, se Georg e Gustav si erano allontanati, era stato solo perché erano cresciuti bene, per la strada giusta, ed avrei dovuto augurarmi la stessa cosa anche per i gemelli, ma non ci riuscivo. Era splendido averli di nuovo in giro, ritrovarmeli in casa senza un perché, portarli a mangiare fuori perfino quando questo voleva dire entrare in un McDonald’s. E poi c’è stato da dare a Bill la notizia – perché in tutto questo era saltato fuori che no, Tom non gli aveva detto niente, benedetto ragazzo, sarà un padre perfetto, totalmente succube di sua moglie – e maneggiarlo con cura, e tenerlo d’occhio, accertarsi che mangiasse, coccolarlo un po’. Ho ripreso contatto con la parte di me che cercava di far funzionare le cose con dei ragazzini in casa, e mi sono accorto che alla fine il punto di partenza l’avevo ritrovato. Ci ero finito quasi per caso, ma adesso era lì, e da lì potevo provare a ricostruire qualcosa, se volevo. E volevo.
Da quel momento, la mia vita ha imboccato una spirale tantrica ascendente, e tutto ha ripreso a luccicare. Alle volte basta così poco, devi solo scendere in basso, tanto in basso, che lì ti ritrovi di sicuro, soprattutto se stai solo con te stesso abbastanza a lungo da riuscire nuovamente ad ascoltarti, e poi è una passeggiata. Ho cominciato a guardarmi intorno, a sondare il terreno, a vedere se per i Tokio Hotel potesse esserci qualche altra possibilità. Sono tornato da Georg e Gustav e loro erano ancora lì esattamente dove sapevo che sarebbero stati, pronti a rimontare in sella. Ho lasciato che Bill li incontrasse, li ho tenuti da soli in una stanza per il tempo sufficiente e, quando ne sono venuti fuori, sapevo che la via della ricostruzione era stata imboccata, bastava percorrerla, e in quel momento non m’interessava che fosse un altro potenziale vicolo cieco, anche perché non potevo saperlo in anticipo. Ho affrontato il cammino col sorriso sulle labbra, ed effettivamente è anche col sorriso sulle labbra che, questa sera, sono uscito da casa di Bill.
Mi guardo intorno e la strada è deserta ma bene illuminata, spazzata dall’aria calda di inizio agosto. Ho la schiena imperlata di goccioline di sudore perché in casa di Bill si muore di caldo visto che la sua gola sempre sull’orlo di una crisi di nervi ci impedisce di accendere l’aria condizionata, e di sicuro spostare scatoloni per le ultime tre ore non mi ha aiutato a mantenere la mia temperatura corporea ad un livello accettabile, ma in fin dei conti mi ha fatto piacere dare una mano, e poi il dottor Schillinger giustamente dice che non è possibile sistemare la testa di qualcuno se quel qualcuno vive nel caos, perciò il caos che casa di Bill è sempre stata va riordinato. Ne va della sua sanità mentale, qualcosa alla quale tutti, inspiegabilmente, teniamo moltissimo. Forse perché lui, invece, non se ne cura affatto.
Insomma, soddisfatto di me stesso attraverso la strada e mi avvicino alla mia macchina. Splende nella notte, nera come la pece. La accarezzo con lo sguardo ed infilo le mani in tasca per recuperare le chiavi. Mi chino appena per inserirle nello sportello ed aprirlo, ed è allora che spuntano. Da dove, non so. Non li vedo arrivare, appaiono. Prima non ci sono e all’improvviso invece sì.
Capisco subito il pericolo – una cosa che ti abitui a fare quando per lavoro tieni d’occhio quattro ragazzini costantemente circondati da fanciulle isteriche in delirio ormonale – e faccio per spalancare la bocca e gridare, ma non ci riesco perché qualcuno mi schiaccia qualcosa sulla faccia. È gonfio e punge, capisco al primo tocco che si tratta di un maglione di lana decisamente scadente, sicuramente misto acrilico. Faccio una smorfia, schifato, e il tipo ne approfitta per spingere il maglione con più forza, facendomi male, mentre uno dei suoi compari mi afferra per le braccia e mi tiene fermo. Mi dimeno e scalcio, ma qualcuno mi afferra anche per le gambe, ed il tipo che tiene il maglione lancia un’imprecazione e dice ad un altro di fare in fretta con lo scotch, perché sono un indemoniato e non mi si tiene più. Puoi scommetterci, stronzo, lascia solo che mi liberi e ti strapperò l’uccello a morsi, e poi vedremo chi è che non si tiene più.
Continuo a dimenarmi come un ossesso. Non posso più parlare e, dopo qualche secondo, quando mi legano polsi e caviglie, non posso più nemmeno muovermi. Cado a terra come un sacco di patate, le palle che, per la frustrazione, vorticano al punto che, se non fossero al sicuro dentro le mutande, farebbero da eliche e mi permetterebbero di librarmi in volo. Cosa che, peraltro, al momento sarebbe piuttosto utile.
Impreco e insulto chiunque, anche se non si capisce una singola parola di quelle che mi escono dalla bocca. I tipi, ignorando la mia ira funesta, mi sollevano e mi caricano in una jeep che arriva qualche secondo dopo, una roba scalcinatissima che deve aver visto almeno dieci estati come quella che, fra meno di un mese, volgerà al termine anche quest’anno. Mi tirano di malagrazia sul sedile posteriore, due si sistemano alla mia sinistra, uno alla mia destra e il quarto sul sedile passeggero accanto all’autista.
- Fatelo stare zitto. – dice quest’ultimo. Non riconosco nessuna delle loro voci, e la cosa mi inquieta, perché se qualcuno ha pagato dei professionisti per rapirmi in primo luogo questo qualcuno deve essere bene organizzato, ed in secondo luogo deve volermi parecchio male.
Sudo freddo, nonostante l’afa, e mi zittisco immediatamente.
- Bravo. – mi dice il tizio alla mia destra. Quello sul sedile del passeggero guarda l’autista con preoccupazione e si morde il labbro inferiore.
- Ha fatto un sacco di schiamazzi, là fuori… - comincia. L’uomo lo zittisce con una scrollata di spalle.
- Nessuno ha visto né sentito niente. – lo rassicura, - Procediamo come stabilito.
- Klaus, facciamolo adesso. – insiste quello, ed il fatto che lo chiami per nome mi dà una chiara idea di quanto non stia pensando alla possibilità che io possa riuscire a vedere la luce del giorno, domani mattina. – E molliamolo al primo angolo di strada. Lo troveranno di certo. Aspettiamo un paio d’ore per essere sicuri che crepi e poi avvisiamo del punto in cui l’abbiamo lasciato. L’importante è che il messaggio arrivi, no?
- Procediamo come stabilito. – insiste l’uomo al volante. Deve trattarsi del capo, perché il tizio al suo fianco si zittisce immediatamente, dopo aver mormorato un “d’accordo” stentato. Continuo a rimanere immobile, sono pietrificato dalla paura. Restano tutti in silenzio mentre usciamo dal centro ed anche dalla periferia, ritrovandoci in aperta campagna. Non c’è nulla, sulla strada che percorriamo, per moltissimo tempo. Poi, ad una ventina di metri di distanza da dove ci troviamo, nella notte più profonda vedo sorgere una specie di baraccone che dev’essere abbandonato da moltissimo tempo. La jeep si ferma proprio lì davanti, i tipi scendono dalla macchina e mi trascinano con loro, tenendomi ben stretto. Riprendo a dimenarmi perché sento che il momento è vicino e so con certezza che, se mi lasceranno qui, morirò. Qualsiasi cosa vogliano farmi, se anche io dovessi riuscire a non morire sul colpo, col passare delle ore morirei comunque. E non voglio che succeda. Cazzo, non voglio che succeda.
Niente di ciò che faccio è utile alla mia causa, comunque. Quelli mi lasciano cadere per terra di faccia, e poi due di loro mi afferrano per i piedi e mi trascinano per il ciottolato che porta all’ingresso del baraccone. La maglietta mi si solleva tutta, esponendo la pancia alle pietruzze taglienti. Riesco a tenere il viso sollevato, anche grazie al maglione che mi è stato legato attorno alla testa, ma la pancia e i fianchi proprio no. Più tardi, ringrazierò per il dolore che sto provando in questo momento, perché le ferite già aperte diminuiranno l’intensità del male che mi procureranno quelle nuove, ma in questo preciso istante non ringrazio proprio per un bel niente. Fa male e sono terrorizzato. Voglio tornarmene a casa mia. E non voglio morire.
Entriamo nel baraccone ed i tizi chiudono subito la porta. Non la sprangano. Lo noto e mi chiedo se potrei fare qualcosa, sfuggire alle loro mani e saltellare fino a lì… e poi correre a piedi uniti nella notte fino alla prima stazione di polizia? Non sembra granché fattibile, come cosa. Smette di esserlo del tutto quando i tipi mi risollevano in piedi e poi mi scaraventano contro un mucchio di casse accatastate in un angolo. Sento distintamente qualche osso scricchiolare, ma sono troppi contemporaneamente perché possa identificarli uno per uno. So solo che fa un male fottuto, fa tanto male che mi metto a piangere. Non piangevo di dolore da decenni, da quella volta in cui sono cascato di testa durante uno spettacolo e mi sono serviti sei punti di sutura per richiudere la ferita.
- La checca piange. – dice uno dei cinque, ridendo divertito. Uno degli altri gli tira uno schiaffo contro la nuca e gli intima di tacere. Non posso saperlo con certezza, perché i loro volti sono coperti, ma immagino sia l’uomo che ha guidato la jeep fino a qui. L’atteggiamento da capo, almeno, è lo stesso.
- Niente di personale, Jost. – dice accucciandosi davanti a me e tirando fuori dalla tasca dei jeans neri un coltellino a serramanico. Spalanco gli occhi e quello che gli sento dire dopo non fa che sconvolgermi ancora di più. Tuttavia, non ho il tempo di pensarci troppo, perché subito dopo l’uomo mi solleva la maglietta e comincia a incidere. Un taglio, poi un altro. Tutti abbastanza profondi, ma precisi. Millimetrici. Vorrei poter dire che il dolore è tale da costringermi a non sentire più niente, ma purtroppo non è così che va. Nonostante le ferite ancora fresche, il dolore è lancinante. E infinito.
Quando si allontana nuovamente da me, sento il mio intero corpo bruciare. Sono rovesciato per terra ed esausto. Non riesco a respirare. Il maglione mi si è infilato in bocca e non riesco a spingerlo fuori perché non ho più forze. È palese che non sopravvivrò. Lo stronzo di merda mi ha scritto qualcosa addosso, ma non riesco a capire cosa. Non lo capirò mai, non ne avrò il tempo né il modo.
I tipi escono in fretta. L’ultimo, il capo, resta a guardarmi finché da fuori non vengono a richiamarlo. Immagino gli piaccia vedere la vita che mi scivola via dagli occhi. Io la sento che se ne va e non è piacevole per niente. Sto di nuovo piangendo e non so neanche dove ho preso la forza per farlo.
- Niente di personale. – mi ripete ancora, prima di uscire. E poi rimango solo, sento la jeep allontanarsi lungo la strada e il tempo perde senso, perché non riesco a misurarlo. Non ho un orologio con me, ed anche se l’avessi non riuscirei a guardarlo. Naturalmente, non ce ne sono intorno, appesi alle pareti. Non ho idea di quanto tempo passi sdraiato per terra a ridosso delle casse. Sento il sangue uscire dalle ferite in grossi rivoli, così tanto non ne ho mai visto tutto assieme. Si allarga attorno a me come una pozzanghera, impregnando i miei vestiti e gonfiando le assi di legno.
Passano minuti, forse ore. Non lo so. So che a un certo punto sento dei rumori intorno a me, ma sono come un’eco lontana. Non riesco a credere che stia succedendo davvero, che qualcuno mi abbia trovato, e non riconosco nessuna delle facce che ho davanti, anche se sono abbastanza sicuro che dovrei.
E poi, all’improvviso, i miei occhi incontrano quelli di Bushido. Un attimo prima di chiudersi.
Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia, Triste.
Pairing: Chakuza/Fler.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, AU.
- Una sera, Fler torna a casa propria e trova un uomo sconosciuto e palesemente ubriaco steso sulle scale all'ingresso del proprio palazzo. L'uomo puzza e non sembra intenzionato a passare la notte restando in vita, se abbandonato a se stesso, e per tale motivo, dopo una discussione vagamente surreale, Fler decide di accoglierlo in casa propria, almeno per la notte. La cosa, però, avrà conseguenze di un certo spessore, conseguenze che cambieranno per sempre la vita di tutti i protagonisti di questa vicenda.
Note: Dunque, che questa storia esista, a partire da una foto in cui Chakuza era vestito come un pezzente, è già una cosa abbastanza allucinante XD Non contenta di aver dato il via ad una cosa simile partendo da un pretesto abbastanza ridicolo, ho scritto a lungo. Molto a lungo. Nel senso che la storia è lunga quasi trentamila parole ed ho perciò saggiamente deciso di dividerla in tre parti per evitare che chiunque voglia leggerla (se mai qualcuno vorrà o_ò) debba smazzarsi una roba infinita. Per cui niente, spero che vi piaccia e spero anche di ricordarmi di aggiornare con frequenza, visto che comunque è tutto già scritto XD (Tra l'altro, senza parole: ho cominciato a scrivere questa storia il giorno stesso in cui è scaduto il BBI... bastarda, potevi plottarti/scriverti tutta prima è.é Almeno avrei portato tre fic come avevo promesso ç.ç)
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EVERYTHING I OWN

You sheltered me from harm
Kept me warm, you kept me warm
You gave my life to me
You set me free, set me free

La prima cosa che lo colpì entrando all’interno del palazzo fu l’odore. Viveva in quel condominio da ormai cinque anni e non aveva mai sentito una puzza simile in quel luogo, tanto più che la signora delle pulizie passava non una ma due volte a settimana a lavare il pavimento e le scale, e lucidava perfino il corrimano, cosa di cui peraltro nessuno si accorgeva mai perché il primo piano era sfitto da secoli a causa della padrona di casa vecchissima e arteriosclerotica che abitava al quarto e non voleva mai darlo a nessuno di quelli che venivano a visitarlo, perciò usavano tutti l’ascensore, anche perché il palazzo era alto una cifra, ma fondamentalmente niente di tutto questo era davvero importante, l’unica cosa che contava davvero era che lì tutto era sempre splendente e profumato, e quella puzza, no, quella puzza non era affatto normale.
Allungò una mano verso la parete dove sapeva di trovare l’interruttore della luce e schiacciò il pulsante, sbattendo un paio di volte le palpebre mentre i suoi occhi si abituavano all’improvviso passaggio dall’oscurità più totale al biancore della lampada al neon, e lanciò uno sguardo dubbioso tutto intorno a sé alla ricerca di un qualche elemento di disturbo rispetto all’usuale, quieta normalità del luogo, soprattutto a quell’ora della notte.
Non ci mise molto a trovarlo.
L’uomo stava buttato in un angolo, apparentemente molto più rassomigliante ad un topo morto che non ad un essere umano. Anche l’olezzo era lo stesso, si ritrovò a pensare Fler, avvicinandosi con estrema circospezione. Per un attimo si chiese cosa avrebbe dovuto fare nel caso il tipo fosse morto per davvero, e naturalmente la prima risposta che si diede, già da solo, fu di non chiamare la polizia ma limitarsi ad avvertire Bushido. Lui avrebbe sicuramente saputo come far sparire un cadavere. D’altronde, era il suo mestiere.
Fortunatamente, comunque, il tipo non era morto. Non ancora, almeno, anche se Fler immaginò che, senza troppe difficoltà, sarebbe sicuramente passato a miglior vita entro l’alba se l’avesse lasciato lì steso per metà sulle scale a pancia in su e con ogni probabilità di soffocarsi col proprio stesso vomito al primo conato.
Puzzava d’alcool in maniera quasi insopportabile, ma nonostante questo Fler riuscì a farsi forza abbastanza da avvicinarsi ancora e scuoterlo un po’, dapprima con un paio di calci sugli stinchi e poi, dopo aver constatato che quelli, da soli, non bastavano a ridestarlo, con due calci decisamente meglio assestati contro un fianco.
L’uomo grugnì qualcosa di indefinibile, talmente anestetizzato dall’alcool da non riuscire nemmeno a sentire il dolore per i calci.
- Che cosa…? – borbottò con voce impastata, e Fler si piantò ritto davanti a lui, le gambe lievemente divaricate ed entrambe le mani sui fianchi, guardandolo dall’alto in basso.
- Come si è introdotto qui dentro? – gli chiese, prima ancora di chiedergli come stesse o se avesse bisogno d’aiuto, - È proprietà privata, questa, lo sa?
- Eh? – disse l’uomo, massaggiandosi stancamente le tempie e strizzando le palpebre sugli occhi lucidi per riacquistare un minimo di controllo sul proprio corpo, - Chi sei tu?
- Sono un inquilino di questo stabile. – annuì Fler, perfettamente a proprio agio, - Lei, invece, no.
- …sì, direi che questo è ovvio. – concluse l’uomo, aggrappandosi a fatica al corrimano per issarsi in piedi. Era piuttosto basso, notò Fler quando ebbe finito.
- Allora? – insistette Fler, sporgendosi verso di lui con l’intenzione di pressarlo fisicamente, in modo da spremere una risposta da quei suoi occhi incredibilmente stanchi, - Come ha fatto ad entrare?
- Sono salito su dalle fogne. – rispose quello, inarcando un sopracciglio. Fler fece tanto d’occhi.
- Davvero? – chiese, - E come ci è passato?
Il tizio lo fissò come se non potesse credere alla sua esistenza in vita.
- Stavo scherzando. – rispose.
- Oh. – mugugnò Fler, vagamente deluso, - Quindi come è entrato?
- Ma chi se lo ricorda, sarà stato aperto il portone o forse mi sono intrufolato seguendo qualcuno che è entrato prima di me… - borbottò quello, massaggiandosi ancora la fronte e poi sfilando il berretto per passarsi una mano sulla testa rasata. O pelata, non era facile capirlo a quell’ora di notte e con quella luce tremula e biancastra. – Perché è così importante saperlo?
- Perché se lei mi spiega come ha fatto ad entrare, io potrò dirlo a Bushido. – rispose tranquillamente lui, annuendo come a dar forza alla propria spiegazione, - E lui potrà risolvere il problema.
Il tipo sollevò un sopracciglio, le labbra strette come due linee.
- Bushido? Quel Bushido?
- Ne conosce altri? – chiese Fler, - Eppure credevo fosse un soprannome abbastanza particolare.
- No, no, non ne conosco altri. – sospirò l’uomo, cominciando forse a capire di fronte a che tipo di persona si trovasse, - E comunque piantala di darmi del lei, non l’ha mai fatto nessuno in tutta la mia vita e non vedo perché dovresti cominciare tu adesso, visto che avrai la mia stessa età e che io, in questo momento, non riesco neanche a distinguere i contorni delle cose.
- È una questione di educazione. – borbottò Fler, quasi offeso, - Con gli sconosciuti—
- Sì, sì. – lo liquidò il tipo, con un gesto sbrigativo, - Quanti anni hai detto che hai?
- Ne ho ventotto. – rispose Fler, piccato, - E lei, comunque, non può stare qui.
Il tipo si sollevò brevemente sulle punte per lanciare un’occhiata fuori oltre il portone in vetro smerigliato oltre al quale, sulla strada vuota e buia, infuriava la tempesta.
- Diluvia. – disse, indicando un punto a caso nel vuoto, - Non posso certo uscire.
- Ma non può nemmeno stare qui! – ripeté Fler, sempre più sconvolto, - Questa non è una casa, è l’ingresso del palazzo, e quello non è un letto ma una rampa di scale. – poi sospirò profondamente, scuotendo il capo e lanciando un’occhiata supplice al soffitto come a sottintendere che, in quell’universo, lui era l’unico a dover risolvere tutti i problemi, cosa di cui l’uomo che aveva di fronte, a giudicare dallo sguardo profondamente scettico, dubitava con decisione. – Mi segua. – disse quindi, facendogli strada verso l’ascensore.
- Dove? – chiese giustamente l’uomo, fissandolo dubbioso. Fler si voltò a guardarlo come se non riuscisse a capacitarsi della sua idiozia.
- Ma su da me, no? – disse premendo il pulsante e restando in attesa dell’apertura degli sportelli, - Ha bisogno di lavarsi e di… vestiti nuovi. – elencò, lanciando un’occhiata abbastanza disgustata ai pantaloni luridi e strappati ed alla camicia tutta sbrindellata che indossava, - E, naturalmente, di un posto dove stare stanotte, visto che fuori proprio non vuole.
- Vorrei ben vedere, ma hai visto come piove?! – insistette lui, indicando nuovamente la notte oltre il portone, - Comunque, - sospirò pesantemente quando gli sportelli dell’ascensore si furono aperti e Fler vi fu entrato, facendogli cenno di seguirlo, - io mi chiamo Chakuza.
- E che nome sarebbe? – chiese Fler, inclinando il capo come un cucciolo incuriosito, - Sua madre era giapponese?
- No che non era giapponese! – borbottò Chakuza, le labbra piegate in una smorfia infastidita, - Ma sei stupido o cosa? È il mio nome d’arte.
- Un nome d’arte per cosa? – chiese Fler, guardandolo con gli occhi azzurri spalancati nella luce giallognola dell’ascensore. La cabina si fermò e gli sportelli si aprirono sul pianerottolo vuoto e buio proprio in quel momento, dando a quella domanda e al silenzio che la seguì una connotazione così forzatamente comica che Chakuza si aspettò di sentir risuonare gli applausi preregistrati nell’eco della tromba delle scale il minuto successivo.
- In che senso “per cosa”? – chiese a propria volta.
- Un nome d’arte per fare cosa? – precisò Fler, - A cosa le serve un nome d’arte?
- A— ma cosa ne so, è—
- Io ce l’ho un nome d’arte. – annuì Fler con ovvietà, uscendo dall’ascensore ed accendendo la luce sul pianerottolo per infilare senza troppe difficoltà le chiavi nella serratura, - Mi serve perché sono un artista, appunto. Firmo tutti i miei murales come Fler, ma mi chiamo Patrick. Anche lei firma murales, o qualcosa di simile?
Chakuza rifletté per qualche secondo e concluse che l’unica cosa vagamente pittorica che gli fosse capitato di fare recentemente era stata quando quel tipo strambissimo gli aveva chiesto di disegnargli addosso un omino stilizzato venendogli sulla pancia. Guardò Fler negli occhi con evidente imbarazzo e, dopo un attimo di incertezza, rispose che no, non firmava murales né nient’altro di simile.
- È solo un nome che si usa per strada. – scrollò le spalle mentre Fler lo invitava ad entrare nell’appartamento e si richiudeva la porta alle spalle, dirigendosi poi con sicurezza verso il telefono poggiato su un mobiletto in un angolo dell’ingresso. – Comunque, mi chiamo Peter. Che fai?
- Chiamo Bushido, ovviamente. – rispose lui con naturalezza, digitando il numero a memoria ed appoggiandosi al tavolino mentre restava in attesa di risposta, - Non mi crederà uno sprovveduto? Gli darò disposizione di passare per di qua domattina, e sappia che, nel caso dovesse trovarmi morto, sto per fargli una descrizione molto precisa del suo aspetto fisico, di modo che possa trovarla e fargliela pagare ovunque lei si trovi.
Chakuza boccheggiò per qualche istante, senza parole.
- …non ne dubito. – concluse infine.
- Bene. – sorrise Fler, - Ora vada pure in bagno, corridoio, seconda porta a destra. Troverà nei cassetti tutto ciò che le servirà, compresa della biancheria nuova che tengo sempre per le emergenze. – Chakuza si chiese brevemente che tipo di emergenza potesse giustificare la presenza di biancheria intima intonsa in un cassetto del bagno, ma evitò di porre la domanda. – Quando avrà finito, torni pure qua. Le darò qualcosa da mettersi e le mostrerò dove dormire.
- S-Sì. – annuì Chakuza, ancora vagamente incerto e perfino un po’ spaventato dall’assurda naturalezza con la quale quello sconosciuto se lo stava tirando in casa senza altro motivo oltre al fatto che giù nell’atrio era d’ingombro. Si voltò con l’intenzione di seguire le indicazioni e rifugiarsi in bagno il prima possibile, spronato peraltro dal pensiero di una doccia calda, vecchia compagna della quale faceva ormai a meno da tempi inenarrabili, sennonché all’ultimo minuto sentì che c’era ancora qualcosa di sbagliato, in tutta quella situazione, e sollevò un dito, voltandosi giusto per intravedere la figura di Fler ancora in attesa di risposta da parte di quello che alla fine era solo il più importante capomafia di Berlino. – Solo una cosa… - accennò con aria vagamente intimidita. Fler allontanò la cornetta dall’orecchio e la coprì con una mano, sorridendogli incoraggiante. – Smettila di darmi del lei. Ci siamo presentati, ormai, no?
Fler diede perfino l’impressione di pensarci con una certa serietà, per una manciata di secondi.
- D’accordo. – disse infine, tornando a sorridere sereno, - Ora vai in bagno. – concluse perentorio. Chakuza obbedì.
*
L’idea di stare per lavarsi non lo colpì come sarebbe stato giusto lo colpisse fino a quando non entrò fisicamente nella doccia e si accorse di non avere più granché confidenza con le manopole che regolavano il getto d’acqua. Sperò di fare tutto per bene e non dover per forza uscire da lì dentro assiderato o bollito e rossissimo come Hummer Kummer, il peluche a forma di aragosta che si trascinava sempre ovunque da bambino, ma non si stupì più di tanto quando, invece, combinò un disastro, aprì tutti i rubinetti sbagliati e prima si ghiacciò fin nelle ossa e poi si scottò al punto da doversi aggrappare alla tendina della doccia per cercare di sfuggire al getto d’acqua bollente, gesto che naturalmente portò metà della suddetta tendina a scardinarsi dal proprio sostegno ed avvolgerglisi addosso, creando una specie di pellicola avvolgente attraverso le pieghe e gli spiragli della quale centinaia di minuscole goccioline incandescenti s’intrufolavano apposta per dargli il tormento.
Fu solo con parecchia fatica che, una decina di minuti dopo, riuscì a venire a capo del problema, prendendo confidenza con l’ambiente e riuscendo a regolare le manopole in modo che il getto d’acqua fosse tiepido e piacevole. E fu allora che chiuse gli occhi e si lasciò un po’ andare all’abbraccio dell’acqua, una stretta la cui piacevolezza aveva quasi del tutto dimenticato. Non che non si fosse lavato per niente, da quando viveva per strada, ma i bagni dei locali non gli permettevano mai di rilassarsi mentre lo faceva, era tutto un doversi sbrigare perché chissà quando sarebbe arrivato il custode o un sorvegliante a beccarlo, e comunque non poteva certo spogliarsi nudo, rimpicciolirsi più di quanto non fosse già piccolo ed infilarsi in un lavandino per farsi la doccia lì. Una doccia era un’esperienza mistica che prevedeva il dedicarsi un po’ a se stessi in solitudine, con calma e tranquillità, e fu per questo che gli saltò il cuore in gola al punto che quasi scivolò di testa all’indietro quando la porta del bagno, senza nessun preavviso, si spalancò sull’espressione fiduciosa e positiva di Fler e sui suoi occhi pieni di domande come quelli di un bambino di cinque anni.
- Scusa, Chaku, pensavo! – esordì entusiasta, e Chakuza tirò la tendina così forte che finì di staccarsi nella sua interezza, cosa che fu meno negativa del previsto da un lato perché a Fler non sembrò importare granché, e dall’altro perché così almeno aveva qualcosa con cui coprirsi.
- Chaku…? – borbottò lui, incerto. Fler si limitò ad annuire felice.
- Sì, pensavo, come ti piace la pizza? – domandò curiosamente. Chakuza lo fissò incredulo.
- Perché? – chiese, pur rendendosi conto di quanto idiota dovesse suonare una domanda simile. Per quale motivo qualcuno dovrebbe chiederti che tipo di pizza preferisci, se non per offrirtene una?
- È un sacco tardi e pensavo ti andasse di mangiare qualcosa. Anche se, ti avverto, dovrai chiamare tu. Io non sono capace. – rispose lui, come se l’idiozia della domanda non lo toccasse minimamente, cosa che effettivamente diede a Chakuza da pensare. E soprattutto cosa voleva dire che non ne era capace? Non era capace di fare cosa, chiamare un servizio di pizza a domicilio? – Per me non è un problema mangiare ancora, anche se ho già cenato, così ti faccio compagnia. Bushido ha detto di dirti di stare attento a cosa fai con le mani, perché potrebbe essere l’ultima volta che le vedi, comunque. Dico io, mangiare una pizza è decisamente l’ultima cosa che vorrei fare con le mie mani se temessi di perderle, per cui…
- No, senti, senti. – lo interruppe Chakuza, massaggiandosi stancamente gli occhi con l’indice e il pollice, finendo per pinzarsi la radice del naso come molto spesso aveva fatto sua madre, buonanima, prima che lui scappasse di casa per dedicarsi completamente alla vita dissoluta per la quale tanto spesso lei l’aveva rimproverato, - Non mi fa impazzire la pizza, preferisco cucinare qualcosa io, se hai l’occorrente in casa.
Fler lo guardò a lungo con gli occhi spalancati.
- Tu cucini? – gli chiese, come se fosse più strano questo rispetto a tutto il resto. C’era decisamente qualcosa che non tornava, nella testa di quel ragazzo. Chakuza non era sicuro di voler scoprire cosa, peraltro.
- Sì. – annuì comunque, tirando su la tendina che, nel mentre, aiutata dall’acqua, aveva preso a scivolare inesorabilmente verso il basso, - E se domani dovessi perdere le mani, ecco, cucinare vorrebbe essere l’ultima cosa che farò.
Fler rise appena, un suono piacevole, infantile, sentendo il quale Chakuza non poté fare a meno di concedersi una risata a propria volta.
- Non ti taglierà davvero le mani, se farai il bravo. – lo rassicurò. Il sorriso che buttò lì come fosse assolutamente normale sorridere in quel modo ad uno sconosciuto prima di uscire dal bagno che lui stesso gli aveva permesso di usare, fu abbastanza per far capire a Chakuza che Bushido, come d’altronde sospettava, doveva saperla decisamente lunga, se l’unica raccomandazione che gli aveva fatto era quella di tenere le mani a posto.
*
Quando uscì dal bagno avvolto nell’accappatoio più morbido che avesse mai indossato nella sua intera esistenza, a Chakuza pianse il cuore nel notare i vestiti che Fler aveva sistemato per lui sul ripiano di un cassettone di media grandezza posto proprio davanti alla porta, sull’altro lato del corridoio. C’era anche un post-it, proprio lì accanto, che gli indicava tramite una serie di disegnini e freccine dove fosse la camera da letto, invitandolo a recarsi lì per cambiarsi e mettersi a suo agio prima di raggiungerlo in soggiorno, dove lui stava giocando alla Wii. Chakuza sollevò lo sguardo e tese le orecchie: da qualche angolo lontano dell’appartamento giungevano suoni di guerriglia urbana intervallati ogni tanto da urla di gioia o momenti in cui Fler decideva di mettersi a cantare ad alta voce le canzoni che stava probabilmente ascoltando in cuffia, visto che non c’era traccia di melodia da nessuna parte.
Scoprì invece che il suo cuore non aveva nessun motivo di piangere, perché i vestiti erano morbidi e comodi esattamente come l’accappatoio, e passare dall’uno agli altri fu come essere un putto e passare da una nuvola a quella immediatamente successiva senza nemmeno dover spostare di troppo l’arpa. Un cambio incredibilmente naturale.
Quando raggiunse Fler in soggiorno, era ormai diventato un tutt’uno con gli abiti che lui gli aveva prestato. Li sentiva così intimamente propri che progettava di chiedergli se poteva bruciare i vecchi e tenere questi anche una volta che fosse andato via, ma capì subito che non era il momento di porre la questione, dal modo in cui Fler si alzò e, brillando di luce propria, mollò il videogioco al suo triste destino per afferrarlo per una mano e trascinarlo di peso in cucina.
Mentre veniva trainato, Chakuza posò lo sguardo sulla mano di Fler, così saldamente stretta attorno alla propria, e si chiese se questo fosse lo stesso ragazzo che, fino a mezz’ora fa, ancora gli dava del lei. Era normale, per lui, essere così entusiasta ed espansivo per ogni cosa? Era normale afferrare per mano uno sconosciuto e condurlo senza riserve nella propria enorme, splendida, lucente cucina ipermoderna da lacrime istantanee, ignorando ostentatamente il rischio che lui potesse magari rovistare in un cassetto, tirarne fuori un coltello da macellaio e sventrarlo con un colpo secco dalla gola alla pancia?
- Guarda, ti ho messo qui sul tavolo tutto quello che ho trovato. – illustrò, indicando il ben di dio di roba che doveva aver tirato fuori dal frigorifero, da tutti gli stipetti ed anche dalla dispensa, se ne aveva una. – Pensi che potresti tirarne fuori qualcosa di buono?
- Penso che potrei tirarne fuori qualcosa di buono per molti giorni di seguito e per molte più persone di quante non ce ne siano adesso in questa stanza. – gli fece notare, inarcando un sopracciglio, - Ma fai sempre tutta questa spesa?
- No, in realtà non ne faccio mai. – rispose Fler con una risatina divertita, - Mi compra tutto Bushido. Dice che devo tenermi in forze.
- E non dubito che tu ci riesca, con tutta questa roba. – commentò Chakuza con una mezza risata. Dopodiché, si avvicinò al tavolo e selezionò un paio di ingredienti, cercando di schiarire le idee per pensare a cosa preparare e realizzando con un po’ di tristezza che erano almeno un paio d’anni che non aveva più occasione di cucinare niente. – Potrei essermi un po’ arrugginito. – confessò imbarazzato, - Non mi esercito da un po’.
- Fa niente. – rispose Fler, scrollando le spalle, - Tanto io mangio tutto.
Chakuza rise ancora, chiedendosi a quando risalisse l’ultima volta in cui l’aveva fatto così spesso. Era un periodo tanto antico da essersi sbiadito quasi del tutto nella sua mente, non ne rimaneva che qualche traccia antica, la distante consapevolezza di averlo vissuto, di essere stato, un tempo, una persona talmente felice da potersi concedere di ridere e ridere e ridere senza avere bisogno di litri d’alcool per farsene venire la voglia. Dopodiché mise da parte questi brutti pensieri e si diresse risolutamente verso i fornelli, per scoprire che in realtà la mano non l’aveva persa affatto.
*
- Ti è piaciuto? – chiese con un sorriso nell’osservare Fler che si rovesciava sazio contro lo schienale della sedia, allungandosi un po’ per trovare il bottone dei jeans sotto la pancetta appena pronunciata, per sfibbiarlo.
- Un sacco, Chaku! – rispose lui entusiasta, sorridendo così sereno da rassomigliare a quei neonati che, nel sonno, si lasciano sfuggire un sorriso dopo una poppata particolarmente soddisfacente. – Io non sono uno che fa caso al gusto delle cose, in genere, ma questo era proprio buonissimo.
- Mi fa piacere. – rise Chakuza, alzandosi e mostrando la chiara intenzione di rassettare piatti e posate. Fler allungò un braccio, afferrandolo per un polso e fermandolo.
- Che combini? – gli chiese con una risatina, - Lasciali lì, non c’è bisogno.
- Ma posso occuparmene io, tu fai già tanto tenendomi in casa, non—
- Ma non lo farò nemmeno io. – rise ancora Fler, se possibile perfino più divertito di prima, - Ci penserà Bushido domani. Ci sta un sacco attento, lui, a queste cose.
Chakuza inarcò le sopracciglia al punto che quasi se le sentì scivolare oltre la fronte. Se ne preoccupò perfino, per qualche secondo.
- Vuoi dire che Bushido, quel Bushido, Anis Mohammed Youssef Ferchichi, anche conosciuto come Sonny Black, ti lava i piatti? – chiese con aria allucinata.
- E mi rifà il letto. – annuì Fler, alzandosi con una certa fatica. – Dio, quanto sono pieno. Ma che sonno ho? Chaku, ma ci hai messo dentro del sonnifero per stendermi e rubarmi tutte le cose? Non avrai più mani, domattina.
- Non ho messo nessun sonnifero da nessuna parte, e— aspetta! – gli corse dietro, mollando i piatti lì dov’erano, - Ma che vuol dire che ti rifà il letto? Ma chi è, la tua badante?
- Ma no, siamo solo amici! – borbottò Fler, voltandosi a guardarlo con aria decisamente offesa, - Non ho bisogno di nessuna badante!
Chakuza non poteva dire di esserne poi così sicuro, dopotutto. E, in ogni caso, tutta quella storia gli stava aprendo gli occhi su un lato della vita di Bushido che, vivendo per le sue strade e dovendo stare alle sue leggi, non aveva mai preso in considerazione.
Si trattava di un essere umano, dopotutto. Con affetti e debolezze. Per più di un attimo, attraverso la sua mente resa mille volte più incline a pensieri similari dalla vita che aveva condotto negli ultimi anni, passarono le possibilità più svariati. Tutte comprendevano la presenza di Fler, comunque. E non tutte erano in realtà granché oneste, soprattutto visto quanto quel ragazzo stava facendo per lui senza palesemente aspettarsi nulla in cambio.
Scrollò il capo con decisione. Se davvero ragionamenti del genere fossero diventati una tappa obbligata, ci avrebbe pensato nei prossimi giorni, quando almeno avrebbe abbandonato il suo appartamento. In quel momento, il solo pensiero di lasciarsi andare a considerazioni simili proprio lì gli dava il voltastomaco.
- Senti… - abbozzò, grattandosi nervosamente la nuca, - Grazie per tutto quello che stai facendo, davvero. Non ho mai incontrato una persona gentile… - o stupida, ma questo non lo aggiunse, - come te, da quando, be’, vivo per strada. Quindi, grazie.
- Oh, andiamo. – rise Fler, tirandogli una pacca su una spalla ed entrando in camera, lasciandolo lì sulla soglia mentre, con estrema disinvoltura, tirava via la felpa e la maglietta e restava con addosso solo i pantaloni, - Non potevo certo lasciarti lì. Chiunque l’avrebbe fatto, al mio posto.
- No, sono abbastanza sicuro del contrario, in realtà. – protestò Chakuza, ma senza troppa veemenza perché non gli andava di contraddirlo. Il senso di colpa per i pensieri molesti di poco prima stava prendendo il sopravvento. – Comunque, non mi hai ancora mostrato dove dormirò stanotte. – buttò lì con tono casuale, per non sembrare uno di troppe pretese. Gli andava bene anche una poltrona, purché Fler gliela indicasse, di modo che lui non dovesse sentirsi troppo invadente anche in quello.
Fler, invece, lo fissò con sincero stupore, prima di tirare giù i pantaloni in un gesto talmente improvviso che Chakuza quasi si ritrovò a fare un passo indietro per la sorpresa.
- Ma qui con me, ovviamente. – disse quindi con naturalezza, - Quante stanze pensi che abbia quest’appartamento?
Improvvisamente, tutto fu più chiaro, nella mente di Chakuza. Si concesse perfino un sorriso soddisfatto, perché ora sì che si cominciava a parlare la sua lingua. Non aveva alcun motivo di sentirsi in colpa, perché naturalmente Fler non lo stava aiutando così per bontà d’animo. E d’altronde era impensabile che uno che, a quanto pareva, aveva un rapporto particolarmente stretto con Bushido, non riconoscesse uno come lui alla prima occhiata. Non c’era dubbio che Fler l’avesse inquadrato per ciò che era fin dal primo minuto, e avesse deciso di tirarselo in casa magari per fare la propria buona azione quotidiana e guadagnarci in più anche una sana scopata priva di conseguenze sentimentali. Ma andava bene così, era ciò con cui Chakuza era abituato ad avere a che fare ogni giorno. Un mondo che potesse capire e che, per assurdo, suonava un sacco più rassicurante rispetto all’idea che s’era fatto fino a quel momento e che dipingeva un ragazzino fondamentalmente mai cresciuto al quale la sua sola presenza avrebbe potuto potenzialmente fare un male assassino semplicemente imponendosi come un corpo estraneo nella sua tranquilla quotidianità.
Si avvicinò guardando Fler dritto negli occhi, inclinando appena il capo e muovendosi lentamente, con fare suadente. Sfilò la maglia che Fler gli aveva prestato, così morbida da scivolargli sulla pelle come una carezza, e la trattenne per qualche secondo fra il pollice e l’indice, prima di lasciarla cadere per terra con uno sbuffo silenzioso. Sorrise per tutto il tempo, senza interrompere il contatto visivo neanche quando Fler si voltò per arrampicarsi sul letto. Lo osservò sistemarsi fra le coperte ed aspettò che si fosse seduto, con la schiena appoggiata contro la testiera in legno lucido e scuro, prima di procedere a sbottonare i pantaloni.
- Ti piace spogliarti così lentamente? – gli chiese Fler, e Chakuza sorrise dell’assoluta innocenza della sua voce. Il ragazzo sapeva come fare per fare impazzire un uomo, questo era evidente, e lui ne sentiva gli effetti fin dentro lo stomaco, che sentì contorcersi in un lieve spasmo di piacevole impazienza che si concesse di provare perché erano anni, Dio, che non scopava con un po’ di sentimento.
- Non lo so. – rispose con fare ammiccante, lasciandosi scivolare i pantaloni lungo le gambe e salendo a gattoni sul letto, avvicinandosi a Fler come un predatore silenzioso, - A te piace che mi spogli così lentamente?
Fler inarcò un sopracciglio, apparentemente poco convinto dalla risposta.
- Ma per me puoi spogliarti un po’ come vuoi. – rispose sinceramente, ed a Chakuza venne voglia di sporgersi a lasciargli un bacio nel mezzo della fronte per sussurrargli che aveva capito a che gioco stava giocando, poteva anche smetterla di fare la finta vergine innocente.
- Davvero? – chiese, mettendosi in ginocchio di fronte a lui ed appendendo entrambe le mani all’orlo elastico degli slip, - Quindi per te va bene se tiro giù lentamente anche questi…? – chiese pianissimo.
Fler dischiuse le labbra, lanciando un’occhiata alla sua biancheria e poi tornando a guardarlo negli occhi.
- Chaku… - comincio inumidendosi le labbra. A Chakuza parve di vedere una luce diversa, nel suo sguardo. Una luce carica di voglia. Sorrise fra sé: era fatta. - …si può sapere cosa diavolo stai facendo? Mettiti a letto e dormi.
Qualcosa, nel fondo del cuore di Chakuza, quella notte si spezzò inesorabilmente. Le sue certezze, probabilmente.
- Cosa…? – balbettò incerto, - Che…? Non vuoi…?
- Ma non voglio cosa?! – sbottò Fler, afferrandolo per le spalle e ribaltandolo nell’altra metà del letto senza troppe difficoltà, - Ma che avevi in mente di fare?
- Scopare! – rispose lui, allibito, mettendosi istantaneamente seduto e fissandolo con terrore e raccapriccio, come fosse una creatura aliena.
- Cosa?! – strillò Fler, tirandosi perfino indietro in una posa schifata, - Ma con chi?! Con me?!
- Vedi qualcun altro in questa stanza?! – ribatté Chakuza, sempre più allibito, - Pensavo che fosse per questo che mi avevi portato qui!
- Che?! Ma quando mai ti ho detto esplicitamente o implicitamente che volevo venire a letto con te, scusa?! – indagò Fler, peraltro vagamente incuriosito dal suo processo mentale a riguardo.
- Ma non lo so, mi hai portato in camera tua…
- …perché non ci sono altre camere da letto!
- E ti sei spogliato davanti a me!
- Ma perché, tu in genere vai a letto vestito?!
Si fermarono entrambi, guardandosi con ansia crescente per qualche secondo. Improvvisamente, niente era più sicuro. Soprattutto per Chakuza, che credeva di aver trovato la soluzione dell’enigma e invece si ritrovava di nuovo con in mano esattamente ciò da cui era partito, un ragazzino mai cresciuto che la sua presenza avrebbe palesemente devastato se avesse deciso di rimanergli intorno anche solo per due minuti in più dello stretto necessario, ammesso che già lo stretto necessario non fosse un periodo troppo lungo.
- …ok, scusami. – cedette per primo, distogliendo istantaneamente lo sguardo, - Non so cosa m’è preso. Cioè, sì, lo so, in realtà. – sospirò profondamente, - Ho pensato di risolvere con te nello stesso modo in cui risolvo generalmente nella vita.
- Che intendi dire? – chiese Fler, stendendosi sul letto e voltandosi su un fianco per guardarlo, perfettamente a proprio agio, come se fra loro non fosse mai successo niente di tremendo o che avrebbe giustificato Bushido a tagliare le mani a Chakuza quando e come avesse preferito.
Chakuza lo imitò, stendendosi al suo fianco ed incrociando le mani dietro la nuca, perdendosi a fissare il soffitto per non dover fissare lui.
- È quello che faccio. – disse quindi, - È il mio lavoro. Vado a letto con gli uomini. È così che mi guadagno da vivere.
- …senza offesa, Chaku, - ridacchiò un po’ Fler, - non che io abbia esperienza, a riguardo, ma non ti viene affatto bene.
Chakuza rise a propria volta, piegandosi un po’ su se stesso prima di tornare a stendersi, visibilmente più rilassato rispetto a prima.
- Questo spiega perché mi hai trovato sporco e ubriaco perso a dormire nell’androne del tuo palazzo. – rispose. Fler rise a propria volta, annuendo brevemente.
- Senti, io non voglio niente, da te. – lo rassicurò quindi, - Sentiti libero di restare quanto vuoi, io non ho problemi. Sei simpatico, comunque. E cucini bene. Potresti diventare la mia cuoca! – buttò lì con aria ilare, prima di concedersi uno sbadiglio enorme e borbottare un “buonanotte” vagamente infantile, per poi poggiare la testa sul cuscino e cadere istantaneamente nel più profondo dei sonni.
Chakuza lo guardò in silenzio per qualche secondo, sorridendo appena. Dopodiché, quando fu certo che si fosse addormentato davvero, decise di prendere alla lettera il suo suggerimento: il più silenziosamente e discretamente possibile, muovendosi così lentamente da arrivare quasi a dilatare il tempo, si alzò dal letto, ed in punta di piedi raggiunse la cucina. Dove cominciò immediatamente a rassettare.
*
- Chaku, ma cosa hai combinato?! – rise ad alta voce Fler, e fu effettivamente la prima cosa che fece quella mattina entrando in cucina e trovandolo ancora intento a lucidare le piastrelle già bianchissime dietro il piano cottura. Prima ancora di sbadigliare o grattarsi la testa o sistemarsi l’attrezzo come tutti gli esseri umani normali, prima ancora di prendersi magari un attimo per ricordarsi come quello sconosciuto fosse arrivato nel suo appartamento e, conseguentemente, nella sua cucina, Fler lo chiamò “Chaku” e cominciò a ridere.
Chakuza alzò lo sguardo e poggiò sul ripiano la pezzuola umida che stava utilizzando, voltandosi a guardarlo. Non aveva dormito neanche un minuto, quella notte, ma stranamente non era stanco. Non si sentiva né pesante né svogliato come spesso gli capitava svegliandosi alle sei del pomeriggio nel suo letto cencioso, nel baraccone di lamiere che lui, Nyze e Kay usavano come abitazione. E sì, il fatto che l’ingresso di un palazzo a caso in una via a caso di Berlino fosse decisamente più confortevole dell’unico luogo che potesse in qualche modo chiamare “casa” la diceva lunga su quali fossero le sue condizioni di vita generali.
- Ho pulito un po’. – rispose con una certa naturalezza, ricevendo in cambio una risata se possibile perfino più convinta.
- Ma era già tutto pulito, a parte i piatti! – gli fece notare Fler, - E quelli li avrebbe comunque puliti Bushido oggi!
- Senza offesa, eh, - rise Chakuza, asciugandosi le mani su un panno asciutto e versando il caffè che aveva già preparato in una tazzina che poi porse a Fler, - ma fino a ieri io vivevo in un mondo in cui Bushido era un uomo duro e potente, che sapeva il fatto suo e teneva in scacco tutta Berlino. Vorrei ritornare a vivere in quel mondo, quando sarò uscito da questa casa, perciò smettila di ricordarmi che in realtà stiamo parlando della tua donna delle pulizie.
- Se Bushido ti sentisse adesso, non si limiterebbe a tagliarti le mani. – osservò Fler con interesse quasi accademico, come stesse davvero ponderando l’ipotesi. Proprio in quel momento, neanche l’avessero invocato, una chiave girò nella serratura della porta d’ingresso e quest’ultima, pochi secondi dopo, si spalancò sulla figura gioviale e, per Chakuza, del tutto inedita in queste vesti, di Bushido.
Indossava un paio di jeans strappati in più punti e una vecchia maglietta scolorita, un paio di occhiali da sole e normalissime scarpe da tennis un tempo bianche ma ormai tendenti più che altro al grigiolino tipico che le colora dopo un po’ d’anni di utilizzo. Portava in mano un sacchettino di carta vagamente macchiato d’olio sul fondo e sembrava, in generale, un uomo che si fosse svegliato una decina di minuti prima della propria fidanzata ed avesse deciso di farle una sorpresa indossando a casaccio le prime cose che gli fossero capitate sotto mano per uscire a comprarle la colazione da portarle a letto.
Entrò all’interno dell’appartamento chiudendosi la porta alle spalle con estrema naturalezza, come fosse un’abitudine, cosa della quale peraltro Chakuza non si sognava nemmeno di dubitare. Ignorò platealmente la sua persona, come se per lui fosse normalissimo anche trovare sconosciuti nella cucina di Fler quando passava a trovarlo alle sette del mattino, preferendo dirigersi immediatamente verso di lui, girargli un braccio attorno alle spalle e tirarlo contro di sé, lasciandogli un bacio su una tempia.
- Ti ho portato la colazione, piccolo. – disse placido, posando il pacchetto sul tavolo ed osservando Fler mentre, con aria golosa, lo apriva e rovistava all’interno, tirandone fuori una ciambellina zuccherata con uno squittio entusiasta, - Il signore qui non ha fatto niente di sconveniente, vero?
Fler gli lanciò un’occhiata illegalmente divertita e Chakuza pensò “ecco, ci siamo, adesso gli racconterà di quello che ho fatto stanotte e quest’uomo mi taglierà le mani, e dovrò essere grato se si fermerà soltanto a questo”. Invece, Fler si limitò a girare un sorriso decisamente meno pestifero verso Bushido per rassicurarlo sbrigativamente.
- È stato bravissimo. – disse con sicurezza, - Un vero gentiluomo.
Chakuza tirò un discreto sospiro di sollievo e rimase un po’ in disparte, sentendosi vagamente e disagio e fuori luogo per la prima volta da quando era entrato in quella casa, mentre Bushido s’informava gentilmente con Fler su quali fossero i suoi programmi per la giornata – nello specifico, fare colazione, lavarsivestirsiuscire, detto tutto di seguito come avesse avuto cinque anni, fare un giro nei paraggi, poi tornare a casa e mettersi a giocare alla Wii.
- Ottimo. – approvò Bushido con un sorriso ed un cenno del capo, - Allora poi passo a prenderti per pranzo. Adesso accompagno il tuo nuovo amico a casa sua, d’accordo? Tu vatti a mettere qualcosa addosso. – suggerì, anche se più di un suggerimento sembrò l’ordine gentile di un padre bonario. Fler, comunque, sembrava abbastanza incline all’obbedienza, con lui, tant’è che salutò Chakuza con un mezzo abbraccio piuttosto caloroso e poi sparì in corridoio, con l’immancabile sorriso sempre sulle labbra.
Chakuza si strinse nelle spalle, abbassando lo sguardo, evidentemente in imbarazzo.
- Non c’è bisogno che mi accompagni, signor… signor Ferchichi. – provò.
- Bushido. – sorrise quello, perfettamente a proprio agio, - E non è un disturbo.
- No, ma davvero. – provò ad insistere lui.
- No, ma davvero. – insistette anche Bushido. La sua insistenza ebbe la meglio.
Rimasero perlopiù in silenzio mentre abbandonavano l’appartamento – dal bagno si sentiva arrivare lo scrosciare allegro dell’acqua e la voce di Fler che cantava a squarciagola il ritornello di Livin’ La Vida Loca, e Chakuza si ritrovò senza un perché a chiedersi se gli sarebbe dispiaciuto uscire da lì e non trovare nessuno ad aspettarlo – ed anche quando furono saliti in macchina – una BMW metallizzata incredibilmente bassa e lunga che doveva essere costata più di tutti i soldi che Chakuza aveva visto nel corso della sua intera esistenza – si limitarono ad una mezza conversazione di circostanza basata più che altro sulle indicazioni che Chakuza si sentiva in dovere di dare e che Bushido, d’altro canto, non sembrava avere alcun bisogno di ricevere.
Il perché Chakuza lo capì solo quando furono arrivati di fronte al suo baraccone e Bushido, dopo aver fermato la macchina, chiuse le sicure a tutti gli sportelli, voltandosi a guardarlo con aria estremamente seria, le sopracciglia aggrottate dietro gli enormi occhiali scuri.
- Io lo so chi sei. – gli disse tetro, e Chakuza si sentì scorrere un brivido di puro terrore lungo tutta la schiena.
- Mi… dispiace. – accennò quindi, anche se era piuttosto incerto sulla valenza da dare a quelle scuse. Di cosa avrebbe dovuto scusarsi, di esistere? Di fare la puttana? Non era granché chiaro nemmeno a lui stesso, per cui naturalmente non risultò chiaro neppure a Bushido, che inarcò un sopracciglio.
- C’è qualcosa di cui tu debba dispiacerti? – chiese dubbioso, e Chakuza si ritrovò a sollevare le braccia e prendere a gesticolare confusamente con una tale furia da spaventarsi da solo.
- No! – proruppe con enfasi, - No, assolutamente! Sono stato bravo! Lo giuro!
Bushido tornò a sorridere, le braccia abbandonate con naturalezza sul volante.
- Bene, allora. Ciò che volevo dirti è che so chi sei e so come si comportano quelli come te con quelli come Fler. Avrai capito, passando con lui la notte, che si tratta di un ragazzo abbastanza ingenuo.
Chakuza annuì, anche se in realtà era una consapevolezza che aveva acquisito ben prima di passarci la notte insieme.
- È un bravo ragazzo, signor Ferchichi. – disse con reverenza.
- Bushido. – lo corresse ancora lui, e Chakuza si morse la lingua. – Non voglio certo vietarti di rivederlo, se vorrai. Fler si affeziona facilmente alle persone e sono quasi certo che sarà lui a voler rivedere te quanto prima, ed è una cosa che io, naturalmente, non posso impedire. – Chakuza annuì ancora, anche se ebbe l’impressione che Bushido parlasse così solo per falsa modestia, come volesse lasciarti intendere che c’erano cose che nemmeno lui poteva controllare, quando invece le controllava eccome, anche solo terrorizzando gli astanti come stava abbondantemente facendo in quel momento. – Tutto quello che ti raccomando è di non farlo soffrire. Potrei diventare cattivo, allora.
Lo stesso brivido che l’aveva costretto a tremare prima risalì lungo la sua schiena, stavolta dal basso verso l’alto, costringendolo a tremare ancora. Annuì sbrigativamente, come se la sola idea di farlo aspettare fosse inconcepibile.
- Certo, signore. – disse obbediente, - Naturalmente. Non mi sognerei mai.
Bushido sorrise ancora, con maggiore convinzione, e tolse la sicura agli sportelli.
- Buona giornata, dunque. – lo salutò affabile.
Chakuza mormorò qualcosa in risposta e si affrettò ad uscire dall’auto, sentendo immediatamente tornare addosso stanchezza e pesantezza quando posò la mano sulla porta semi-scardinata del baraccone. La scostò appena, consapevole del fatto che, se avesse solo provato ad aprirla completamente, gli sarebbe rimasta in mano, e fu altrettanto attento a richiudersela alle spalle dopo essere sgattaiolato all’interno. Lanciò un’occhiata ai due lati opposti della stanza, assicurandosi che entrambi i giacigli di Nyze e Kay fossero occupati, e da Nyze e Kay, non da barboni piombati lì a caso durante la notte, e quando fu certo che, sotto le coperte cenciose, riposavano proprio loro due, si lasciò andare con un sospiro sul proprio letto, o almeno, su ciò che si ostinava a chiamare tale. Il materasso cigolò rumorosamente sotto di lui, e lui non poté fare a meno di pensare a quanto silenzioso fosse stato invece quello di Fler. E quante volte più comodo fosse, naturalmente.
Ciononostante, dopo una decina di minuti il sonno si fece tale che si rassegnò a chiudere gli occhi. Cadde addormentato senza neanche accorgersene, nel giro di dieci secondi.
*
- Sarà morto? – disse la voce di Kay, ancora un po’ impastata dal sonno, accogliendolo verso le nove di quella sera.
- Ma no che non è morto, coglione. – la rimbrottò la voce di Nyze, anche lei vagamente impastata, ma più che altro perché il suo proprietario sembrava impegnato a masticare qualcosa di non meglio definito.
Mugugnando con forza in segno di protesta, Chakuza aprì un occhio e con quell’unica finestra aperta sulle brutture del mondo – rappresentate in quel momento dai suoi due illustri coinquilini – cercò di trasmettere all’universo che tirava proprio una brutta aria e non era davvero il caso di dargli fastidio.
- Ah! Infatti ha aperto un occhio. – notò Kay, evidentemente poco incline a recepire il messaggio, di qualunque tipo esso fosse, - Ben svegliato, Chakuza! – lo salutò con entusiasmo, battendogli una pacca tanto forte quanto inopportuna sulla spalla, - Passato una bella nottata?
Chakuza grugnì qualcosa di vagamente somigliante ad un insulto e si rigirò su un fianco, tirandosi la coperta fin sopra la testa e desistendo meno di trenta secondi dopo, causa puzzo eccessivo. Da quant’è che non cambiavano quelle lenzuola? Mesi, almeno.
- Mi sa che non è stata una bella nottata affatto. – ghignò Nyze, avvicinandoglisi per scrutarlo con divertimento palese negli occhi e sbriciolandogli involontariamente – ma chissà poi quanto – addosso la fetta biscottata che stava trangugiando con la parsimonia di una formichina che raziona le scorte durante il gelido inverno.
- E sta’ lontano! – sbottò Chakuza, tirandogli una manata in piena fronte per allontanarlo dal suo letto, già abbastanza lurido senza dover aggiungere al tutto tracce di cibo, e rassegnandosi poi a tirarsi a sedere e stiracchiarsi un po’ nel tentativo di recuperare almeno un briciolo di lucidità, che tanto palesemente quei due non l’avrebbero lasciato in pace finché non si sarebbe deciso a scucire qualche informazione. Non era da lui uscire per le classiche quattro ore di lavoro notturno e non rincasare sfatto alle cinque del mattino. Non era da lui nemmeno tornare a mattina inoltrata con indossi vestiti nuovi palesemente non suoi, peraltro. – Non è stata una brutta serata. – si decise a confessare, gettando le gambe giù dal letto in un gesto repentino, prima di doversene pentire, - Direi più strana.
- Definisci strana. – ordinò Kay, saltando ai piedi del letto e facendo ondeggiare il materasso tanto da costringerlo a ricaderci sopra rotolando sulla schiena, sbattendo naturalmente la nuca contro la testiera.
- Kay, cazzo, ma datti una calmata… - borbottò lui, massaggiandosi il punto dolente, - Comunque voi come la definireste una serata in cui vi ubriacate fino a non riconoscervi manco quando vi guardate nelle vetrine dei negozi e alla fine di tutto passate la notte col pupillo di Bushido? – buttò lì con aria casuale, e prevedibilmente sul baraccone calò il silenzio.
- …definisci pupillo. – disse quindi Kay. Nyze lo spintonò giù dal letto.
- E piantala con questa storia delle definizioni! – sbottò prendendo il suo posto sul materasso, - Chakuza, che cazzo stai dicendo? – chiese quindi, tornando a rivolgersi a lui, gli occhi spalancati e colmi d’incredulità.
Chakuza scrollò le spalle, quasi a volergli lasciare intendere che alla fine non fosse poi niente di speciale.
- Questo tizio stranissimo, tipo, palesemente inadatto alla vita in genere, e viene fuori che Bushido lo conosce. – cominciò a spiegare, ma Nyze gli agitò entrambe le mani davanti alla faccia, interrompendolo all’istante.
- No, cioè. – disse quindi, - Tu hai conosciuto Fler. Tu hai conosciuto Fler!
Chakuza spalancò gli occhi e schiuse le labbra.
- …tu lo conoscevi? – chiese incredulo. Nyze lo fissò con aria ebete per un paio di secondi e poi si spalmò una mano sulla fronte, mugolando con evidente sofferenza.
- Ma con chi, - si lamentò, - con chi sono costretto a convivere?
Chakuza inarcò un sopracciglio, incrociando le braccia sul petto.
- Se evitassi le sceneggiate e mi dicessi semplicemente cosa ti frulla per la testa…? – propose con aria scettica, lanciandogli un’occhiataccia poco compiaciuta.
- Tu vivi nell’ignoranza! – berciò Nyze, indicandolo con aria accusatoria, - Come fai a sopravvivere per strada senza sapere queste cose basilari! Basilari! – agitò le mani in aria, sconvolto, mentre Kay si accucciava sul pavimento accanto al letto e lo fissava con occhi vacui, come aspettandosi di vederlo cadere a terra rantolante in preda ad una crisi epilettica da lì a pochi secondi. – Bushido protegge Fler da quando era un ragazzino. Il tipo ha sempre vissuto nella bambagia per non so che promessa Bushido abbia fatto alla sua povera madre morente o qualcosa di simile… comunque il succo è che tu sei andato a letto con la cosa più importante che esista in tutto il mondo per quell’uomo! Non so se te ne rendi conto!
- Aspetta, aspetta! – strillò immediatamente Chakuza, prendendo a gesticolare furiosamente, - Hai capito male! Non ci sono andato a letto.
Nyze si interruppe immediatamente, lanciandogli un’occhiata sconcertata.
- Non ci sei andato a letto. – ripeté, come se soltanto dando voce al pensiero potesse pensare di potersi abituare all’idea.
- Non ci sei andato a letto?! – chiese Kay, la bocca spalancata in una perfetta o di meraviglia, - Cos’hai, sei malato? – si informò premuroso, alzandosi in piedi e premendogli una mano sulla fronte nel tentativo di saggiare la sua temperatura corporea.
Chakuza se lo scrollò di dosso in un gesto infastidito, scuotendosi tutto come un cane bagnato.
- No, non ci sono andato a letto. – ripeté in favore di entrambi, aggrottando le sopracciglia. - …non che non ci abbia provato, comunque.
- Che? – ridacchiò Nyze, - Ci hai provato pur non sapendo chi era? Ma non è che ti piace?
- Ti sei preso una cotta? – miagolò Kay, con l’aria di un bambino di cinque anni di fronte allo svago perfetto per le prossime cinque ore almeno.
- Non— niente del genere. – sbuffò lui, distogliendo lo sguardo. – È stato gentile, con me. Ero sfattissimo, pioveva in maniera assurda e lui, senza neanche sapere chi ero, mi ha preso in casa, mi ha offerto la cena, una doccia calda e un tetto sopra la testa.
- Ah! Ecco perché non puzzi. – constatò Kay con aria seria. Chakuza rispose con uno scappellotto sulla nuca.
- Volevo solo ricambiare la gentilezza. – concluse, scrollando le spalle. – E comunque non mi ha voluto, anzi, direi che mi ha proprio rifilato un due di picche colossale, per cui pace.
- Oh. – mugolò Kay, abbassando lo sguardo con aria quasi sinceramente ferita, - Mi dispiace, Chaku. – lo consolò, allungandosi a battergli un’amichevole pacca su una spalla. Chakuza gli tirò addosso il cuscino.
- Non è che mi abbia lasciato la ragazza, Kay. – sbottò infastidito, - Non ho alcun bisogno del tuo dispiacere. O di… qualunque cosa tu stia pensando adesso, Nyze. – lo avvertì, voltandosi a guardarlo per un secondo e trovandolo immerso in una profonda riflessione. Ma di quelle profonde davvero, a giudicare dalla ruga che gli si era disegnata in mezzo alle sopracciglia ed alle dita che accarezzavano insistentemente il mento affilato, come gli servisse un atteggiamento simile per favorire la messa in moto dei pensieri dentro la sua testa.
- No, è che stavo pensando… - cominciò lui con aria assente, e Chakuza scattò in piedi, allontanandosi verso il cesso a grandi passi.
- Non mi interessa. – ribadì per buona misura, entrando in bagno e chiudendosi la porta alle spalle. Nyze si avvicinò, e lui, seduto sulla tazza, sentì la porta scricchiolare pericolosamente sotto il suo peso. Doveva essercisi appoggiato contro, alla faccia dei cardini arrugginiti e vecchi di mille anni. – E stai lontano dalla porta, prima di sfondarla!
Nyze ebbe l’accortezza di spostarsi qualche centimetro più in là, poggiando sulla parete. Non che quest’ultima fosse poi molto più stabile di tutto il resto, ma almeno non correva il rischio di scardinarsi e crollargli sulla testa come invece gli scricchiolii della porta avevano minacciato di fare.
- Facevo solo qualche considerazione sparsa. – continuò, e Chakuza roteò gli occhi, corredando il tutto con un uggiolio sconfitto.
- Non mi interessa, Nyze, davvero. – ripeté pulendosi e alzandosi in piedi, meditando sulla possibilità di tirare l’acqua e non averne più per lavarsi e decidendo infine di rinunciare alla salvaguardia del cesso per continuare a sentire addosso la sensazione di pulito che la nottata in casa di Fler gli aveva regalato. Si posizionò davanti allo specchio, aprendo il rubinetto dell’acqua rigorosamente fredda ed accontentandosi del rivolo che ne venne fuori per darsi una sciacquata veloce, ripensando con nostalgia crescente al bagno piastrellato, lucido, bianchissimo e profumato di casa di Fler.
- Ma sono più che altro curiosità, niente di che. – continuò Nyze, ignorandolo completamente. – Tipo, per dire, come vi siete trovati tu e Fler? In generale, dico.
- Abbastanza bene, grazie. – rispose Chakuza, cercando di concentrarsi sul proprio aspetto e rendendosi conto che rendersi più presentabile per andare in strada, quella sera, sarebbe stato meno difficile del solito: la sua pelle era meno ruvida, i vestiti che aveva addosso erano palesemente costosi e ben tenuti, e profumavano di buono. Sarebbe stata una serata proficua.
- E che tipo è? – chiese ancora Nyze, mentre Chakuza si osservava di profilo, da un lato e poi dall’altro. – A parte quella cosa dell’essere palesemente inadatto alla vita di cui parlavi prima.
- La sua inabilità a vivere è la parte più importante di lui. – disse senza pensarci, sistemandosi sbrigativamente i vestiti addosso, - Sembra un ragazzino di cinque anni, potresti fargli credere tutto e il contrario di tutto solo sorridendogli un po’.
Nyze rimase in silenzio per qualche secondo.
- Ed è un bel ragazzo? – chiese quindi. La sua domanda cadde nel silenzio.
- In che senso? – ritorse Chakuza poco dopo.
Nyze cambiò posizione e la parete scricchiolò in segno di protesta.
- Non è una domanda difficile, Chaku. – disse lui, - È un bel ragazzo?
Chakuza spalancò la porta, affrettandosi ad affacciarsi sulla stanza. Kay era ancora seduto per terra accanto al letto, e lo osservava senza espressione. Si voltò a cercare gli occhi di Nyze, appoggiato alla parete al suo fianco, apparentemente l’immagine stessa della purezza, ma Chakuza conosceva i suoi polli e sapeva che non c’era da fidarsi.
- Non è roba per te. – disse immediatamente, sentendo nella propria voce una nota di rabbia possessiva che non aveva la minima ragione di esistere.
Nyze sorrise come uno che aveva un motivo molto valido per cui sorridere.
- Non pensavo di allungare le mani. – lo rassicurò con voce soffice e suadente, - Non mi permetterei mai.
Chakuza spalancò gli occhi e credette di capire. Si disse che no, non poteva essere vero. Poi guardò Nyze con più attenzione, e capì che invece sì, era verissimo.
- Nyze. – disse piano, cercando di razionalizzare invece di scaraventarlo contro la parete più lontana come sarebbe stato più giusto, - Ho visto dove i tuoi pensieri mi stavano portando e non m’è piaciuto. Facciamo finta che tutto ciò non sia mai accaduto, vuoi?
- Oh, andiamo! – sbottò Nyze, roteando gli occhi e staccandosi dalla parete per andare a svaccarsi sul proprio letto con aria sfatta, - Non sai nemmeno cosa voglio proporti!
- No, ma sono sicuro al cento percento che si tratti di qualcosa che farebbe del male a Fler. – rispose lui, aggrottando le sopracciglia, - Gradirei evitare.
Nyze gli lanciò un’occhiata di traverso, stupito.
- Ma ti senti? – chiese con malcelato schifo, - Che cos’è, hai trovato il grande amore della tua vita?
Chakuza si ritrasse di qualche centimetro, sulla difensiva.
- Non ho detto niente del genere. – borbottò incerto, riascoltando in replay le proprie stesse parole nella propria testa e cercando di ignorare la vocina che, dal fondo del suo petto, gli diceva che invece sì.
- No, perché ti comporti come se fosse così. – rincarò la dose Nyze. – Chi è questo tipo, mh? Chi cazzo è, cosa cazzo ha fatto per te? Ti si è portato in casa, ti ha lavato, ti ha nutrito. Sei stato il suo giocattolino per una notte, Chakuza, niente di più. Non ti si è scopato, ma non è stato diverso da nessuno dei clienti con cui sei stato. Noi siamo i tuoi compagni, i tuoi amici, i tuoi alleati da una vita. E ci butteresti sotto un treno pur di non far soffrire Fler. – lo rimproverò, facendogli il verso.
Chakuza si strinse nelle spalle, fissandolo a muso duro.
- Non vi butterei sotto un treno, siete praticamente la mia famiglia. – rispose irritato, - Come puoi mettere in dubbio una cosa del genere?
Kay strisciò sul sedere, rigirandosi per poterli guardare entrambi più facilmente.
- Non capisco cosa sta succedendo. – disse con una certa franchezza, a bassa voce. Chakuza gli lanciò un’occhiata incerta. Era così sciocco, così giovane. Ovviamente lui e Nyze venivano prima di tutto il resto. Non era neanche una questione da discutere.
- Allora senti cosa faremo. – disse Nyze, la voce nuovamente affabile, - Hai idea di cosa potrebbe significare per noialtri avere Bushido in pugno? Avremmo una casa vera, con acqua sufficiente per lavarci ogni volta che ne avessimo bisogno. Mangeremmo del buon cibo e magari, forse, potremmo anche smettere di dare via il culo e l’uccello per soldi. Intendo, magari riuscirebbe a trovarci un posto dirigenziale, o che so io.
- Nyze… - lo interruppe Chakuza con un lamento stanco, massaggiandosi le tempie e chiudendo gli occhi, - Ma di cosa stai parlando, un posto dirigenziale…? Ma hai idea di quello che mi stai chiedendo?
- Sì, ne ho un’idea molto precisa, Peter. – insistette lui, alzandosi dal letto ed avvicinandoglisi con decisione. Chakuza lo scrutò con un po’ di paura. L’aveva chiamato Peter, e questo non poteva che lasciar supporre che stesse per fargli un discorso molto, molto serio. – Questa vita che facciamo è veramente una vita di merda. Non è una vita che puoi fare per sempre, ti ammazza prima. Abbiamo bisogno di tornare alla normalità, Peter, ma non possiamo andare da Bushido e chiedergli un lavoro diverso da quello che abbiamo, non è così che funziona. Quell’uomo ammazza i dissidenti sparandogli alla nuca nei vicoli delle strade. Se vogliamo che faccia qualcosa per noi, dobbiamo tenerlo per le palle.
- Ragazzi, ma di che cosa stiamo parlando? – chiese Kay, con aria palesemente preoccupata, scattando in piedi e guardando alternativamente prima l’uno e poi l’altro, in attesa di una risposta.
Chakuza trattenne il fiato per qualche secondo, senza mai perdere il contatto visivo con gli occhi di Nyze.
- Già. – disse quindi. Avrebbe voluto suonare caustico e astioso. Suonò soltanto come un soldato in attesa di chiarimenti sugli ordini impartiti dal proprio superiore. – Di cosa stiamo parlando?
Nyze non sorrise trionfante come Chakuza si sarebbe aspettato. L’atmosfera cospiratoria della situazione aveva alterato i suoi sensi ed i suoi processi mentali, per un attimo aveva creduto di trovarsi in un film di mafia e la cosa non gli era piaciuta. Ma Nyze distolse lo sguardo e si sedette a tavola, congiungendo le dita davanti al naso, e per qualche secondo si limitò semplicemente a riflettere, come avesse un gran bisogno di raccogliere le idee, prima di esporre il proprio piano.
- Potresti tornare da lui. – propose, fissando ostinatamente un punto vuoto sulla parete di fronte a sé, - E vedere come gira. Non voglio prenderti in giro, non si tratta di fare qualcosa di onesto, ma d’altronde da quant’è che non fai qualcosa di onesto, Chaku?
Chakuza sospirò pesantemente, ammettendo quantomeno con se stesso che Nyze aveva ragione.
- Avrei preferito non dover fare niente di disonesto che coinvolgesse Fler. – rispose. Nyze gli lanciò un’occhiata dubbiosa, inarcando un sopracciglio. – Non mi sono preso nessuna cotta. – precisò lui, sedendosi di fronte a lui e guardandolo dritto negli occhi, - Solo che gli sono grato, pur per quel poco che ha fatto. Voi, comunque, - concluse con un mezzo sorriso, - venite prima.
Nyze rispose al suo sorriso con uno ugualmente caloroso, e Kay, in piedi dietro di lui, pur continuando palesemente a non capire un accidenti di quanto stesse accadendo, fece lo stesso. C’erano dei momenti in cui Chakuza li odiava entrambi, o meglio, non riusciva a sopportare l’idea di dover dividere il proprio spazio vitale con loro. Ma c’erano altri momenti, ce n’erano stati tanti, in cui la loro presenza gli era sembrata indispensabile, e lo era stata davvero. Momenti in cui faceva troppo freddo per stare fermi, momenti in cui bisognava parlare tutta la notte per non avvertire i morsi della fame, momenti in cui si stracciava un paio di pantaloni e si mettevano insieme i risparmi di tutti per comprarne uno in sostituzione. Non poteva mettere da parte tutto questo per il calore delle mani di un ragazzino a caso. Sospirò profondamente.
- Sarà facile, per te. – disse Nyze, battendogli una pacca su una spalla, - Ci sai fare, con gli uomini. Ti cadrà ai piedi in un istante.
Chakuza sorrise fra sé. Non era proprio sicuro che sarebbe andata così, e qualcosa, nel fondo del suo petto, si stava agitando, rendendolo irrequieto. Si costrinse a cercare di ignorare almeno quello, e poi finì di prepararsi per uscire.

continua...
Shot facente parte della serie Schmetterlingseffekt.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Fler/OMC, Fler/Chakuza, Bill/Chakuza, Bill/Bushido, Fler/Bushido.
Rating: PG-13
AVVISI: Angst, Slash, OC.
- "Io non sto bene, è evidente."
Note: Per chiunque si chiedesse se Danny sarebbe riapparso in futuro, ecco la risposta XD (No, ma ve lo stavate chiedendo davvero? Cioè, Danny's here to stay, ladies.)
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Io non sto bene, è evidente. Cioè, è già un chiaro segno di squilibrio il fatto che io abbia acconsentito a continuare a vedere Daniel, decidendo di ignorare il fatto che è palesemente minorenne solo per quieto vivere e perché non ho nessuna voglia di ritornare a pensare a quanto potrebbe fare schifo la mia vita in prigione se questa faccenda saltasse fuori – sempre ammesso che Anis possa decidere in coscienza di lasciarmi lì a marcire senza ricoprirmi di avvocati come ermellino sul mantello di un re, nel caso succedesse, ma potrebbe, se scoprisse che l’ho tradito col minorenne di cui sopra, o almeno credo, e quello che sto dicendo manca evidentemente di senso compiuto, me ne accorgo da solo, non c’è bisogno di farmelo notare, grazie mille.
Comunque, il succo del discorso è che devo stare proprio male, cioè, proprio fuori di testa se, oltre a tutto questo, io Danny prendo e me lo porto anche in casa del Chaku. Perché l’ho fatto? Il mio letto è più comodo del suo, c’è il materasso ortopedico mentre qui non sono neanche sicuro che il materasso ci sia. E casa mia puzza di meno, i rubinetti non perdono, non devi effettuare un corso preparatorio di introduzione alle lingue morte degli scarafaggi della tribù dello scaldabagno orientale prima di entrare nel cesso, e voglio dire, genericamente le condizioni di abitabilità del mio appartamento sono molto migliori rispetto a quelle di questa topaia disastrata che neanche il tocco magico di Bill – riassumibile in “no, Chaku, devi pulire, perché sennò io non posso poggiare il tacco dei miei stivali Armani da millecinquecento euro sulla tua moquette” – è riuscito a rendere un luogo abitabile da esseri umani veri, esseri umani che non siano Chakuza, intendo.
Mentre ricado sul letto accanto a Daniel e la mia schiena urla pietà, realizzo che è evidente che il materasso sotto di noi è solo un’illusione: vogliamo fortemente credere che un materasso ci sia, perciò ci sembra di stare sul morbido quando così non è. No, scherzavo. In realtà realizzo che se ho portato Daniel qui è perché, nonostante tutto, il paragone fra casa mia e casa del Chaku non regge nemmeno. Non è che l’ho portato qui per una sorta di ripicca, a-ha!, non ci sei e io scopo con un altro nel tuo letto, no, è che da quando le cose con Danny si sono fatte più intime – e non sto parlando solo di una scopata o due, ovviamente – ho davvero sofferto l’impossibilità di renderlo un pezzo della mia vita vera. Presentarlo ai miei amici, portarlo in giro, portarlo in un appartamento che per me potesse significare qualcosa in più della scatola in cui dormo quando non ho nessun altro posto dove andare. E questa casa, per me, rappresenta tutto questo. Scusami, Chaku, non è per te che lo faccio. È per me.
Daniel non aspetta nemmeno di riprendere fiato – o meglio: lui il suo l’ha già recuperato, è il mio che ancora si fa rincorrere, ma questo naturalmente ci riporta al problema dell’età già frettolosamente affrontato prima e sul quale non intendo soffermarmi ancora – e mentre io sono ancora qui che cerco di capire chi sono, cosa faccio al mondo e che nome m’abbia dato quella povera donna di mia madre, lui scatta a sedere e si piega oltre il bordo del letto, riemergendo mezzo secondo dopo col proprio zainetto, che appoggia in grembo ed all’interno del quale comincia immediatamente a rovistare come in cerca della pillola del giorno dopo come rimedio estremo dopo una notte di sesso non protetto che naturalmente non ha avuto luogo, non fatevi strane idee.
- Non puoi rimanere incinto, sai? – lo avverto, seguendo il filo dei miei pensieri e rendendomi conto del fatto che si tratta di pensieri prevedibilmente solo miei nel momento in cui lui mi lancia un’occhiata vagamente allucinata e poi ritorna a ficcare la testa nello zaino, riemergendo qualche secondo dopo con una macchina fotografica in mano.
- Ah, eccoti qua. – dice soddisfatto, stringendola fra le mani per accenderla e verificare le impostazioni.
- Che sarebbe quella roba? – chiedo, inarcando un sopracciglio. È ovvio che so che si tratta di una macchina fotografica, ma mi aspetto una risposta ben più esauriente, nonostante la domanda poco centrata.
- Una macchina fotografica. – risponde invece lui, pacifico come un putto addormentato su una nuvola col suo gonnellino bianco e la sua arpa in miniatura sotto il cuscino.
- Sì, lo so cos’è, Danny. – mi lagno io, inarcando anche l’altro sopracciglio, - Intendevo cos’è che vorresti farci?
- Be’, allora avresti dovuto chiedermi quello, tanto per cominciare. – ride lui. E poi, semplicemente, solleva la macchina fotografica in modo da centrarmi all’interno dell’obbiettivo e poi scatta.
- No, dai! – mi lagno io, ricadendo sul mio cuscino con un tonfo rassegnato, - Per favore, sono uno straccio.
- Ti prego, sei stupendo. – ride lui, scattandomi un’altra foto, - Vuoi sapere quando sembravi uno straccio? Quando ti sei fatto quella foto pseudo-MySpace con la canottiera bianca. Dio mio, che roba squallida.
- Dio mio, quanto sei gay. – sospiro, gettando uno sguardo implorante al soffitto.
- Oh, da che pulpito. – ride ancora Danny, stendendosi accanto a me e scattando una foto a entrambi. Lui sorride come il ragazzino che è, io lo guardo male come il vecchio scarpone brontolone che sono.
- Le foto sono l’ultimo dettaglio prima di mettere in atto il piano per denunciarmi alle autorità? – chiedo schermandomi con un braccio. Lui ride divertito, e stavolta rido anch’io, gli rubo la macchina fotografica dalle mani e gli salgo addosso, sovrastandolo e costringendolo a restare steso sul materasso senza pesargli troppo sopra, anche se so che mi regge più che bene. Non riesco a impedirmele, queste premure, per quanto sia sciocco.
- Che fai? – mi chiede, guardandomi dal basso. Il modo in cui i suoi occhi scorrono lungo tutta la superficie del mio corpo mi dà i brividi. Mi mordo un labbro, puntandogli addosso la macchina fotografica e scattandogli una foto.
- Sei fotogenico. – commento, osservando il risultato sul display, - Anzi, in realtà sei proprio bello. – continuo, guardandolo con sincero interesse. Lui arrossisce subito. – Hai mai pensato di fare il modello? Pagano bene, se arrivi a certi livelli.
- Non è roba per me, quella. – borbotta lui, aggrottando le sopracciglia, vagamente offeso. Io rido un po’.
- E cos’è roba per te? – chiedo curiosamente, restando dove sono e scattandogli un’altra foto. Lui guarda altrove, le labbra appena piegate in una smorfia addolorata. L’obbiettivo cattura i suoi lineamenti affilati, ne sembra inspiegabilmente attratto. È qualcosa che posso capire. – Non oso nemmeno immaginare dove vivi.
- Ehi, casa mia è a posto, ok? – sbuffa, incrociando le braccia sul petto e tirandosi un po’ su, per fronteggiarmi da una posizione meno svantaggiosa, - È mio padre che la rende una merda, ma la casa è ok.
- Avanti, vuoi farmi credere che il tuo sogno è restare a Tempelhof? In quel posto di merda? – sospiro, sdraiandomi al suo fianco e mettendo via la macchina fotografica.
- Non ho detto questo. – risponde lui, duro, - Ho solo detto che fare il modello non è la mia cosa. Io voglio rappare.
Non riesco a trattenere una risata.
- Sì, è una frase che ho già sentito, questa. – commento, scompigliandogli i capelli. Lui si sottrae dal mio tocco con uno scatto da bambino offeso, ma prima che possa cominciare a protestare il mio cellulare, poggiato sul comodino accanto al letto, si mette a squillare, e lui si zittisce immediatamente. È una cosa così automatica che un po’ mi spaventa, non dovrebbe essere così naturale per lui farlo. Non così presto, almeno.
Mi allungo a recuperare il telefono. Sul display, lampeggia il nome di Bill. Sono un po’ stupito – non lo sento da quando è partito in tour coi ragazzi – ma rispondo.
- Pronto? – dico, e per molti secondi nessuno risponde. È come se Bill si fosse addormentato col telefono in mano mentre il telefono squillava. – Pronto? – ripeto, perché non voglio chiamarlo per nome di fronte a Danny. Non che sia possibile pensare che ignori le mie frequentazioni col ragazzino, ma insomma.
- …scusa. – risponde finalmente Bill, il tono trasognato, la voce flebilissima. – Come stai?
- …dovrei chiederlo io a te. – rispondo incerto, - Ragazzino, è tutto a posto? Ti sento strano.
- Strano? – chiede lui, un po’ confuso, - No, perché dovrei?
- Non lo so, era un’impressione, sei… non lo so. – rispondo sinceramente, - Ma c’è qualche problema?
Bill si prende qualche altro secondo, prima di rispondere.
- Sai che ho tagliato i capelli? – mi dice quindi, - O forse devo ancora farlo, non ricordo. O forse l’ho già fatto, ma tantissimo tempo fa, e sono già ricresciuti.
…ok, c’è decisamente qualcosa che non va.
- Bill? – lo chiamo, rinunciando a qualsiasi forma di pudore e discrezione ancora residue nella mia testa e mettendomi immediatamente a sedere, come se il fatto di cambiare posizione potesse rendermi più agile, pronto a scattare nel caso dovesse dirmi che ha bisogno d’aiuto. – Bill, ma stai male?
- Male? – chiede lui, e ride. La sua risata è talmente vuota che se ci urlasse dentro si sentirebbe l’eco. – Ma no. Sto bene. Non devi preoccuparti. – e posso immaginare il sorriso sulle sue labbra, e mi dà i brividi. Deglutisco a fatica. – Ora devo andare. – riprende subito, impedendomi di insistere ancora per farmi dire cosa diavolo ha, - Mi sa che è proprio ora di tagliare i capelli.
Interrompe la telefonata subito dopo. Io resto seduto, osservando il suo nome che ancora lampeggia sul display finché non cade la linea e lo schermo torna ad oscurarsi del tutto.
- Problemi? – chiede Daniel, piantando il gomito sul cuscino ed appoggiando il mento al palmo della mano aperta. Io faccio per rispondergli, ma il telefono squilla di nuovo. Spero sia Bill che mi dice che si è trattato di uno scherzo. Ti permetto di prendermi in giro perché ci sono cascato, ragazzino. Ci sono cascato con tutte le scarpe.
Invece è Anis. Non riesco a nascondere la delusione nello sguardo e nella piega delle labbra. Daniel se ne accorge, sicuro come la morte. È un bene che Anis non sia qui, così almeno potrà evitare di accorgersene lui.
- Ehi. – rispondo, e cerco di forzare un sorriso.
- Con chi eri al telefono? – chiede subito lui, senza nemmeno salutarmi. Mi passa subito la voglia di provare ad essere conciliante.
- …sto bene, Anis, qui le cose vanno alla grande, non preoccuparti. – sbuffo, e mi rendo conto di quanto suoni ridicolo, soprattutto considerato che c’è Danny qui accanto che inarca un sopracciglio e sta pensando tutta una serie di cose poco carine, a ragione, peraltro, ma mi viene spontaneo. Anis inspira ed espira lentamente, dovunque si trovi in questo momento, e quando torna a parlare lo fa con un tono di voce completamente diverso.
- Mi dispiace. – sospira, - Avevo— davvero bisogno di sentirti, ecco, e quando ho provato a chiamarti trovare occupato mi ha infastidito.
- Sì, be’, ho una vita, sai? A parte te e il vostro carrozzone di pazzi scriteriati, intendo. – continuo a borbottare. Daniel mi guarda malissimo, o forse sono solo io che voglio sentirmi rimproverato dai suoi occhi azzurri e un po’ assonnati. Sospiro. – Scusa. Giornata difficile.
- Dillo a me. – ridacchia lui, espirando profondamente. – Successo qualcosa in particolare?
Lancio un’altra occhiata a Danny. S’è sdraiato tranquillo sotto le coperte e s’è messo a scorrere le foto che abbiamo scattato stasera, osservandole tutte con interesse nonostante gli occhi che già si chiudono. Dormirà fra pochi secondi. Sorrido un po’.
- Niente di che. Da voi?
Anis sospira così profondamente che mi chiedo se i suoi polmoni siano abbastanza grandi da contenerla, tutta quell’aria.
- È tutto un gran casino. – risponde a bassa voce, - Se fossi qui sarebbe diverso.
- No, non credo. – rido piano. Danny sta già praticamente russando quando stringe una delle mie mani fra le proprie e la porta ad accarezzarsi i capelli.
- Io ne sono sicuro, invece. – insiste Anis, - Se tu fossi qui, Bill avrebbe almeno un po’ di pudore.
Mi mordo un labbro, sistemandomi meglio sul materasso nonostante possa sentire le doghe della rete premermi contro la spina dorsale.
- Senti, se posso darti un parere spassionato, Anis, - sospiro appena, - la tua principessa non sta un cazzo bene.
Anis sospira a propria volta, e sarà almeno il millesimo sospiro che ci concediamo da quando abbiamo cominciato a parlare.
- La mia principessa non sta un cazzo e basta, Pat. – risponde con un sorriso amaro, - Non sta e basta.
Se fosse qui, lo abbraccerei. Ma non è qui, qui c’è solo Danny, perciò abbraccio lui. Gli passo un braccio attorno alle spalle e me lo tiro contro. Nel dormiveglia, lui mugola appena, così a bassa voce che Anis nemmeno lo sente, e si sistema contro il mio petto.
- Mi dispiace, Anis. – rispondo, sperando che la mia voce sia abbastanza dolce da farlo sentire compreso davvero. – Lo sai che mi dispiace.
- Sì, lo so. – risponde lui. Il suo sorriso, lo sento dal tono, è già meno teso e più sincero. – Vado a riposarmi un po’. – dice quindi, la voce improvvisamente carica di stanchezza, come non potesse più farcela a reggere il proprio stesso peso dopo essersi scaricato tanto. – Buonanotte.
- Buonanotte. – rispondo piano. Ascolto la voce del telefono e della conversazione interrotta per qualche secondo, prima di rassegnarmi a chiudere la telefonata ed impostare la vibrazione. Poso nuovamente il cellulare sul comodino e mi stendo più comodamente. Daniel mi si stringe contro, si appoggia del tutto sopra di me e quella del suo corpo così caldo e così vicino è la sensazione più bella che ho provato negli ultimi mesi della mia vita.
Quando il suono della vibrazione contro il legno del comodino si diffonde fastidiosamente nell’aria, per prima cosa penso di nuovo a Bill. Poi mi rendo conto che è molto più probabile che sia Chakuza. Infine, capisco che dovrei lasciare quel telefono squillare e ignorarlo, ed invece mi allontano lentamente da Daniel e, sperando di fare in tempo, recupero il cellulare e mi trasferisco in salotto.
- Chaku. – lo chiamo piano, e il respiro che rilascia quando sente la mia voce lo sento quasi sulle mie stesse labbra. – Ehi, tutto a posto?
- A posto? – ride un po’ lui, e posso sentire che è in un ambiente piccolo e isolato, forse nella sua cuccetta dentro il tourbus. La sua voce è bassissima, ma c’è così tanto silenzio che la sento comunque con una chiarezza impressionante. – Per dirti se le cose sono a posto, dovrei ricordarmi com’è che erano quando ci stavano. – risponde con un’altra risata un po’ disillusa.
- Ma insomma, me lo spieghi cosa cazzo sta succedendo? – borbotto io, lasciandomi ricadere sul divano e tirando su le gambe per stendermi, - Che cazzo, la chiarezza sicuramente non è un vostro dono.
- Nostro di chi? – chiede subito lui, stupito. Io mi mordo un labbro.
- …degli austriaci. – invento io, - Intendo, sembri preoccupato ma non mi spieghi perché. Parla, no? – dico, sperando di essere stato sufficientemente convincente. Sono quasi sicuro di non esserlo stato e sento ancora gli occhi azzurrissimi di Daniel addosso mentre silenziosamente mi lasciano credere che mi stanno disapprovando, ma dal modo in cui Chakuza risponde è palese che la mia prova come attore di teatro dell’improvvisazione non era importante per farlo sentire libero di parlare: ne ha così tanto bisogno che le parole gli escono dalla bocca come un fiume in piena, travolgendomi.
- Sta andando tutto di merda, Pat. – comincia, talmente ansioso di dirmi tutto che le parole inciampano l’una sull’altra, si confondono, si intralciano a vicenda, - Bill sta dando di matto e io non so come aiutarlo. Perché sto dando di matto anch’io. E Bushido non riesce a fare niente perché non ci può riuscire nessuno, e se anche le cose non stessero andando poi così male questo tour rimarrebbe comunque un errore enorme, e so che quando torneremo a casa questa cosa ci avrà scombinato talmente tanto che rimetterci a posto sarà impossibile, ed ho pensato spesso a te, perché tu sei bravo a rimettere a posto le cose, ma mi sa che davvero, davvero, Pat, avrai vita dura quando saremo tornati.
La franchezza con cui ammette di aspettarsi che, quando saranno tornati a casa, io sarò lì armato di cerotti e pronto a rimetterli insieme, mi turba più di quanto non facciano le sue stesse parole, le cose che mi racconta, il disagio che esprime. Non riesco ad identificare un momento nella mia vita in cui ho permesso a questi uomini di farmi questo. Qualsiasi cosa questo sia. Perché qualsiasi cosa sia è dolorosa, ed io non voglio sentirmi così.
- Direi… - mi sforzo di rispondere, schiarendomi la voce, - Direi che potremo pensarci quando sarete tornati, no? – dico con una mezza risata incerta, alzandomi in piedi e prendendo a girare lentamente attorno al divano giusto per darmi qualcosa da fare. – Che ne dici?
- Dico che non ho granché altro da scegliere, ti pare? – ride anche lui, incerto tanto quanto me. Vorrei chiedergli perché ha sentito il bisogno di chiamarmi, ma so che la risposta a questa domanda è una risposta che in questo momento non voglio sentire. È una risposta che mi farebbe piacere, in qualsiasi altro momento, ma non qui, non ora. Non così.
- Hai ragione. – annuisco. E per la prima volta, stasera, sono io a chiudere la questione. – Buonanotte, Chaku.
Lui non mi risponde perché non vorrebbe chiudere la telefonata, lo sento nel modo in cui respira, come se stesse solo aspettando di trovare le parole giuste per dirmi di non riattaccare. Le parole non arrivano, comunque, e dopo qualche secondo di speranzosa e stupida attesa, io riattacco.
Torno in camera da letto, e Danny sta ancora dormendo, tutto raggomitolato nella stessa posizione in cui l’ho lasciato. Scosto le lenzuola e mi stendo al suo fianco. Il suo corpo trova il mio al primo contatto, e ci riannodiamo come prima così facilmente da darmi l’impressione di non essermi mai mosso da qui. È una sensazione che riconosco subito. Perché non mi muovo da tanto di quel tempo che se solo ci penso mi manca l’aria per respirare.
Nonostante questo, me lo stringo contro, affondo il naso fra i suoi capelli e chiudo gli occhi. Non mi accorgo del momento in cui mi addormento, ma il calore del suo corpo resta lì, legato al mio, per tutto il tempo, e quando mi sveglio, l’indomani mattina, c’è ancora.
Genere: Introspettivo, Drammatico, Romantico.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: R
AVVISI: Slash, What If?, Angst.
- Tre anni fa, Fler e Nadja Benaissa hanno collaborato per Mein Jahr, una traccia dell'album Fremd Im Eigenen Land, e questo lo sanno tutti. Quello che sanno solo loro due, è che durante la collaborazione hanno avuto una storia. E infine c'è qualcos'altro, qualcosa che sa solo Nadja, ma che adesso è arrivato il momento di dire.
Commento dell'autrice: Scrivere questa storia è stato una pena, come facilmente intuibile se si legge il riassunto associato all'articolo che l'ha ispirata. Voglio premettere che non è mia intenzione dare giudizi sul comportamento della Benaissa in questa o in qualsiasi altra sede, per cui nei commenti cercate di tenere le opinioni su ciò che ha fatto per voi, nel caso voleste commentare dopo aver letto XD
Per il resto, non so. La notizia mi ha scossa e la reazione immediata è stata quella di plottarci su. Avrebbe potuto essere una storia più lunga, ma già alla quinta pagina stava cominciando a drenarmi, perciò ho cercato di non perdermi troppo e restare ben attaccata al concetto principale. Spero che possa piacervi :)
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ALLES WIRD GUT


Fler si stupisce della propria capacità di respirare ancora. Immobile in un angolo della stanza, il cellulare ancora stretto fra le mani, resta appoggiato alla parete perché ha la certezza fisica che le sue gambe non sarebbero capaci di reggerlo se solo provasse ad allontanarsi di un passo. E respira. Respira ancora, sente l’aria entrare dal naso e dalla bocca, scivolare lungo la sua gola, riempire i suoi polmoni e poi ripercorrere la stessa strada all’inverso per venire fuori, e questa consapevolezza lo sconvolge più di tutto il resto. Sta respirando. Non si è mai sentito così intimamente consapevole di una cosa simile, il respiro come una qualsiasi delle altre attività del suo corpo.
- Patrick. – lo chiama Nadja dall’altro capo della cornetta, la voce rotta da un singhiozzo che lei cerca in tutti i modi di contenere, - Ti prego, ho bisogno di vederti prima che questa storia finisca su tutti i giornali. Ho bisogno di parlarti.
Fler solleva una mano e la guarda con attenzione. La mano si muove, i suoi occhi la guardano. Lui riesce a percepire con chiarezza il movimento del polso, dei tendini, delle falangi. Percepisce l’immagine che si imprime sulla sua retina e gli impulsi nervosi che la trasferiscono al cervello, rimbalzando di neurone in neurone per mostrargliela così com’è nella realtà, tridimensionale, morbida, un po’ arrossata a causa della forza con cui l’ha tenuta stretta a pugno fino a pochi secondi fa. E sotto tutto questo, costante, il suono lievissimo del proprio respiro. Qualcosa di cui in genere non si accorge, qualcosa che in genere c’è sempre in automatico. Nessuno si ricorda di dover respirare, è il corpo che possiede quell’ordine nella propria memoria fisica, nelle cellule, nelle molecole che le compongono. E lui respira perché il suo corpo respira, lui è vivo perché il suo corpo lo è.
- Patrick, per favore. – insiste Nadja, il singhiozzo che prima ha cercato di trattenere che finalmente esplode nella sua gola, mentre la voce le si spezza definitivamente, - Ho fatto tante cose… - singhiozza ancora, Fler la ascolta piangere ed una lacrima scende per riflesso anche lungo la sua guancia. Ha sempre odiato vedere o sentire piangere le donne. Sua madre, quando lui era piccolo, lo faceva continuamente. Invidiava tanto la vita di Bushido anche perché la signora Luise Maria era forte, indomita, non piangeva mai. Sua madre invece piangeva sempre. Le sue lacrime, quando lo cercava con una mano nella loro cucina minuscola, ogni volta che lui, sentendola piangere, andava a controllare se stesse bene o no, erano bagnate e salate, esattamente come immagina siano quelle di Nadja, esattamente come sono le proprie. – Ho fatto tante cose di cui mi pento, - riprende lei, cercando di riacquistare il controllo della voce, - ma tu sei stato importante. Quindi, per favore, incontriamoci. Ho bisogno di spiegarti.
È solo nell’ascoltare lei che Fler ricorda di avere una voce anche lui. Abbassa la mano, torna a guardare la parete di fronte a sé e d’improvviso gli sembra tutto molto più concreto, tangibile, reale. Schiude le labbra ed annuisce distrattamente, più a se stesso che a lei, visto che lei non può vederlo.
- Sì. – risponde quindi, la voce molto più sicura di quanto non avrebbe immaginato, - Anche subito, però per favore, smettila di piangere.
Lei mugola un assenso incerto, chiedendogli dove gli fa più comodo incontrarsi. Lui le dà l’indirizzo di un locale poco frequentato non tanto vicino da lì, e fissa l’appuntamento fra mezz’ora. Poi riattacca, senza neanche salutarla. Si ricorda che avrebbe dovuto farlo solo dopo aver premuto il pulsante, e con un mugolio dispiaciuto si chiede se non dovrebbe richiamarla per scusarsi e salutarla, solo che ci mette un niente a realizzare quanto sarebbe ridicolo, perciò lascia perdere e rimanda a quando la vedrà.
Entra in camera da letto camminando piano, cercando di non fare rumore. Le serrande sono tutte abbassate, le finestre socchiuse. Chakuza dorme a pancia in sotto, il lenzuolo attorcigliato attorno alle gambe ed un braccio che pende giù dal materasso sfiorando il pavimento, la testa nascosta sotto il cuscino. Fler sorride teneramente nell’avvicinarglisi, e si siede accanto a lui, in punta, per non svegliarlo troppo repentinamente. È stato alla Beatlefield a lavorare con Camora fino alle quattro del mattino, e quando è rientrato Fler l’ha sentito abbattersi al suo fianco borbottando un laconico “non svegliarmi fino a domani pomeriggio”, prima di crollare definitivamente.
- Chaku. – lo chiama piano, accarezzandogli la schiena nuda. Lui borbotta qualcosa di incomprensibile e si volta dall’altro lato, inspirando ed espirando profondamente. Fler ride. – Chaku. – lo chiama ancora, accarezzandolo un’altra volta, e stavolta il mugolio di Chakuza è più presente a se stesso, e Fler lo osserva riemergere da sotto il cuscino e guardarsi un attimo intorno con aria persa prima di voltarsi, individuarlo e tornare ad appoggiarsi subito dopo, stavolta, però, con gli occhi aperti.
- Ehi. – dice, la voce ancora un po’ roca, solo per fargli capire che è lì, è sveglio e ora può parlare.
- Ehi. – sorride Fler. Sente l’impulso di chinarsi a baciarlo sulle labbra, ma qualcosa lo trattiene, perciò evita. Non vuole dargli baci che non siano profondamente voluti, non vuole fare niente, con lui, che non sia profondamente voluto. È l’unica regola che si sono dati quando si sono messi insieme, non fare niente se non lo si vuole a tutti i costi, ed è una regola che Fler non intende tradire. – Devo uscire un’oretta.
- Mh-hm. – annuisce lui, rigirandosi supino e grattandosi mollemente lo stomaco mentre si stiracchia tirandogli inavvertitamente una ginocchiata lieve contro il fianco. – Scusa. Dov’è che vai?
- Incontro un vecchio amico. – risponde lui, alzandosi in piedi e sistemandosi i jeans attorno ai fianchi e poi lungo le gambe, - Tu puoi continuare a dormire, è ancora presto per te.
- Ok. – risponde Chakuza, spiegando il lenzuolo perché torni a coprirlo e rigirandosi su un fianco, col solo risultato di scombinare tutto da capo. Fler ride a bassa voce, uscendo dalla stanza, e quando si ritrova per strada, due minuti più tardi, si pente di non averlo salutato con un bacio. Anche stavolta, pensa che forse dovrebbe tornare indietro, baciarlo e poi uscire, ma esattamente come prima si rende conto di quanto sarebbe sciocco, perciò alla fine lascia perdere, si dice che in fondo starà fuori solo un’ora e potrà baciarlo quando sarà tornato a casa. Non è la fine del mondo.
Nadja è già davanti al locale, quando lui arriva. Visto anche l’orario, non lo stupisce vedere tutti i tavolini all’esterno vuoti. Spera sia così anche all’interno. Lei passeggia nervosamente a qualche passo dall’entrata, indossa un soprabito corto e scuro e gli occhiali da sole. I suoi capelli ricci sono raccolti in uno chignon un po’ disordinato alto dietro la testa, alcune ciocche ricadono a solleticarle la nuca e lei le allontana con una carezza nervosa mentre continua a passeggiare, più per darsi qualcosa da fare che perché ne abbia voglia. È sempre molto bella, non lo stupisce vedere che nell’anno che hanno passato distanti non è cambiata di una virgola.
- Nadja. – la chiama, cercando di non sembrare arrabbiato, anche perché in effetti non lo è. Lei si volta nella sua direzione, le labbra solitamente piene così tese da sembrare una linea sottilissima. – Hai fatto colazione? Io sono ancora a stomaco vuoto. Ti offro qualcosa. – sorride, invitandola ad entrare all’interno del locale ed aprendole la porta.
- Scusa se ti ho chiamato così all’improvviso. – dice lei, prendendo posto ad uno dei tavolini più nascosti in fondo e sfogliando distrattamente il menu, - Non l’avrei mai fatto, ma il mio avvocato ha pensato… - sospira, - Ed ha ragione. Non ho chiamato solo te, ho fatto un giro di telefonate per avvertire quante più persone possibile, ma ci tenevo ad incontrarti, altrimenti non so cosa avrei fatto se poi—
- Nadja. – la interrompe lui, sporgendosi in avanti e poggiandole una mano su una spalla, - Ho capito, ok.
Lei inspira ed espira a fatica, sfilando gli occhiali da sole e riponendoli sul tavolo. Ha gli occhi cerchiati ed arrossati, il pallore del suo viso è quasi spaventoso.
- Patrick, devi fare le analisi. – gli dice seria, le mani strette in grembo, - Devi davvero, perché c’è una… una buona possibilità che io ti abbia infettato.
Il corpo di Fler si tende tutto all’improvviso, e per molti minuti lui nemmeno parla, si limita a fissarla negli occhi, come se questo già da solo bastasse ad ottenere una qualche risposta per domande che non ha nemmeno formulato nella propria testa. Un cameriere si avvicina, Nadja prende solo un bicchiere d’acqua, lui chiede un caffè perché sa che ne avrà bisogno.
- Che possibilità c’è che io sia malato? – chiede a fatica quando il caffè arriva e con esso anche qualche biscotto. Nadja ne prende uno, prima di rispondergli.
- Tu non sei malato, Patrick. – gli dice, guardandolo dritto negli occhi con estrema serietà, - Nemmeno io lo sono e nemmeno la mia bambina lo è. C’è qualcosa, dentro di noi, qualcosa che potrebbe diventare una malattia, col tempo, ma per adesso è solo un virus. Solo questo, solo un virus, uno stupido organismo milioni e milioni di volte più piccolo di noi, dentro il nostro corpo.
Fler assimila l’informazione senza comprenderla veramente. Nadja morde il biscotto, ne morde uno anche lui.
- Che possibilità c’è che questo virus sia anche dentro di me? – le chiede allora lui, buttando giù il caffè tutto in un sorso.
Lei si mordicchia un labbro, distogliendo lo sguardo.
- C’è un’alta possibilità che tu possa essere sieropositivo. – risponde lei, - È per questo che vorrei che facessi subito il test. Prima lo sai, meglio sarà per te e per tutte le persone che ami. Non è una battaglia che puoi combattere da solo.
- È il mio corpo. – ribatte lui, aggrottando le sopracciglia, - Posso—
- Patrick, ascoltami. – sospira lei, chiudendo gli occhi e massaggiandosi stancamente le tempie, - Io so cosa significa tenersi dentro una cosa del genere, fronteggiarla in solitudine giorno dopo giorno per anni. Pesa sul cuore, sui polmoni, sullo stomaco. Puoi stare fisicamente bene e non riuscire comunque a dormire per giorni solo per l’ansia e la tristezza che il fatto in sé ti provoca.
Fler abbassa lo sguardo, mordendosi un labbro.
- Non è che abbia grande scelta, dopotutto. – dice a bassa voce, - Dovrò farlo per forza.
- Esattamente. – risponde lei, annuendo. – E noi sai quanto mi dispiace, davvero.
- Be’, avresti potuto pensarci prima. – le ricorda atono, poggiando la tazzina sul piattino.
- Lo so. – dice immediatamente Nadja, abbassando lo sguardo, - Patrick, credimi, mi dispiace davvero aver combinato questo gran casino. Ma ero confusa e sola, sono sempre stata confusa e sola, e ho sempre avuto paura che se l’avessi detto a qualcuno tutto ciò che avevo conquistato negli anni mi sarebbe stato strappato via. Cosa che, in ogni caso, è destinata ad accadere adesso. – aggiunge con un sorriso triste. – Queste sono le conseguenze del silenzio, Patrick. Tienile da conto, se intendi mantenere il segreto.
Fler annuisce, incerto su cosa dovrebbe fare adesso. Nadja lo toglie d’impaccio bevendo in pochi e lunghi sorsi tutta la propria acqua, e poi alzandosi in piedi, lasciando sul tavolino abbastanza denaro per pagare quello che hanno preso almeno tre volte.
- Posso— - dice lui, mettendo mano al portafogli, ma lei lo ferma con un sorriso.
- Lascia che sia io ad offrire. – dice, girando attorno al tavolino e chinandosi a baciarlo su una guancia, prima di allontanarsi. – Chiamami, quando vuoi. Proverò ad esserti d’aiuto, qualsiasi cosa mi succederà da qui a una settimana. – gli raccomanda poi. È scomparsa il secondo dopo. Fler sente la bocca amara ed è quasi sicuro che non sia solo colpa del caffè. Lascia tutti i soldi di Nadja sul tavolino e, un minuto dopo, esce anche lui, diretto a casa.
L’appartamento è ancora immerso nel buio quando lui sale le scale ed entra. Non s’è mosso niente, rispetto a quando è uscito, ed è quasi sicuro che, se entrasse in camera, troverebbe Chakuza arricciato su se stesso nella stessa posizione in cui l’ha lasciato.
Sta ben lontano da lì, comunque, e non perché non voglia vederlo, ma perché ha paura di trovarlo già sveglio e dovergli spiegare tutto adesso. Non è sicuro di sentirsi pronto, non è sicuro che lo sarà mai. Sa che prima o poi dovrà farlo, ma spera solo che non siano questi minuti, queste ore, questa giornata. Vuole aspettare, anche se non sa cosa significherebbe nell’atto pratico: aspettare quanto, e fino a cosa? Sono domande che razionalmente si pone, ma non è la stessa parte razionale di lui che le ha poste quella che risponde “non lo so, voglio aspettare e basta”.
Si inumidisce le labbra e va in cucina, cercandosi qualcosa da fare. Non lo trova perché in cucina non c’è nulla per lui. I piatti sono puliti – o per meglio dire, non sono mai stati sporcati, visto che lui e Chakuza non condividono un pasto in casa da almeno due settimane – e lui non sa cucinare abbastanza da pensare di mettersi lì dietro ai fornelli per lasciar scorrere via i pensieri come in un fiume come Chakuza fa abitualmente ogni volta che è triste o stanco e non sa cos’altro fare.
Visto che non ha nulla da fare, scosta uno degli sgabelli alti dal tavolino tondeggiante attaccato alla parete per un lato e si siede, restando a fissare le venature del legno sulla superficie liscia. Gli viene quasi da ridere se pensa che quelle venature, pur essendo il tavolo in legno – o almeno, in uno dei suoi derivati – non appartengono all’albero da cui quella tavola è stata ricavata. Perché dopo è stata trattata in mille modi, è stata scartavetrata, lucidata, foderata, lucidata ancora e poi le è stata applicato addosso uno strato di plastica sottilissima con quella stampa lì, che imita i disegni naturali del legno pur non avendoci niente a che fare. È assurdo se si pensa che sarebbe bastato prendere un albero e dividerlo in varie tavole per avere lo stesso effetto, anzi, migliore, ma questo non è stato fatto perché il legno dell’albero è troppo grezzo per finire nelle case delle persone. Le persone vogliono cose finte, cose morte. Fler si appunta mentalmente di comprare un tavolo in legno vero quanto prima, per sostituire questo.
- Si è rigato. – dice Chakuza, apparendogli alle spalle e sbadigliando sonoramente mentre si dirige verso i fornelli, intenzionato a preparare il caffè.
- Mh? – chiede lui, incerto, sollevandogli gli occhi addosso. Lui, perfettamente a suo agio in mutande di fronte al piano cottura, come sarebbe a suo agio anche se indossasse un casco di banane per cappello e una gonnella di noci di cocco allacciata attorno ai fianchi, per il semplice fatto che è l’ambiente della cucina in sé a renderlo così tranquillo e sicuro, gli indica la superficie del tavolo con un gesto distratto.
- Si è rigato quando ci ho posato su una teglia, qualche settimana fa. – spiega, concentrato sulla macchinetta del caffè da preparare, - Stavi guardando questo?
Non l’aveva neanche notato.
- Chaku. – dice, così piano che a stento si sente da sé, - Chaku, - ripete a voce più alta, - devo dirti una cosa.
Forse è a causa del tono della sua voce, ma Chakuza capisce subito che deve dirgli qualcosa di serio. Posa la caffettiera sul fornello ma non accende il fuoco, e si volta a guardarlo con aria preoccupata.
- Che succede? – chiede, faticando a mantenere la voce calma.
Fler distoglie lo sguardo. Non ha provato quel discorso neanche una volta, non sa come dovrebbe dirglielo. Si chiede se esista un modo migliore di un altro, per farlo, e conclude che probabilmente la risposta a questa domanda è no.
- Oggi, quando sono uscito, ho incontrato una mia vecchia amica. Nadja Benaissa. – comincia a raccontare, - Non so se la conosci.
- Ma secondo te come faccio a non conoscere la Benaissa? – ride nervosamente Chakuza, grattandosi la nuca, - Era una delle No Angels, no?
- Già. – annuisce Fler, sorridendo brevemente, - Noi abbiamo avuto una storia, qualche anno fa. L’avevo invitata a cantare con me una canzone per Fremd Im Eigenen Land e abbiamo passato molto tempo insieme, e sai, lei era molto bella, lo è ancora, e molto simpatica, e, voglio dire, una pazza, ti basterebbe conoscerla per saperlo, è una che la vita se l’è goduta tutta. – sospira pesantemente, abbassando lo sguardo. – Oggi mi ha detto di essere sieropositiva.
Chakuza non si muove, resta immobile sul posto, silenzioso. In quel silenzio, Fler ha tutto il tempo di pensare che è ridicolo, davvero ridicolo che durante la sua storia con Nadja – durata quanto? Tre mesi? – non abbiano fatto altro che scopare sempre senza pensare alle precauzioni, mentre con Chakuza, che frequenta ormai da quasi un anno, non ha mai fatto l’amore senza preservativo. È assurdo davvero, ma al momento non può che ringraziare per essere stati entrambi scrupolosi abbastanza quando contava.
- Voi avete… - la voce di Chakuza è ruvida e quasi fastidiosa, quando riesce a trovarne abbastanza da poter parlare, - Avete fatto sesso senza proteggervi?
Fler abbassa lo sguardo, sentendosi solo in quel momento, per la prima volta, incredibilmente stupido.
- Non mi ha mai detto di essere… - prova a giustificarsi, ma lascia perdere nel momento in cui si rende conto di quanto sciocca sarebbe questa come scusa: Nadja ha sbagliato, ma ha sbagliato altrettanto lui a pensare di potersi fidare di una ragazza sostanzialmente appena conosciuta che peraltro già ai tempi era abbastanza nota per essersi ripassata tutta Berlino e dintorni più di una volta e non sempre senza che questo portasse a conseguenze di vario genere. - …sono stato un idiota. – conclude quindi, - E adesso mi toccherà espiare.
Chakuza lo guarda per qualche secondo, il viso privo di espressione.
- Farai il test? – chiede. La sua voce è distante, distante anni luce da lui.
- Certo. – annuisce subito Fler, cercando di dare un’impressione di sicurezza che in realtà non possiede, un po’ perché spera di acquistarne così almeno una parte, ed un po’ perché ha bisogno di vedere Chakuza più sereno. È importante che Chakuza sia più sereno, adesso. Fler vuole provare a renderlo possibile.
- Io non… - mormora Chakuza, incerto, appoggiandosi al tavolo di fronte a sé e piegandosi un po’, come non riuscisse a sostenere il peso di quella confessione prima di tutto a livello fisico, e solo dopo a livello mentale, - …non sono pronto. Non— ho bisogno di tempo, Pat.
- Be’, io non ne ho molto. – risponde lui, stringendosi nelle spalle.
- Ma che cosa ti aspetti da me?! – quasi grida Chakuza, all’improvviso, fissandolo negli occhi con rabbia. C’è un fuoco che gli esplode dentro, ed è così repentino che Fler ne è spaventato. – Che cosa ti aspetti, che ti dica che non è un problema? Che non mi terrorizza a morte? Che ti starò accanto indipendentemente da tutto il resto? Io non— non posso farlo, non voglio mentirti e non me la sento di… - non conclude la frase, ma ciò che vorrebbe dire è evidente. Non se la sente di legarsi a lungo termine con qualcuno che un lungo termine potrebbe non avercelo più nel giro di un paio d’anni.
Fler non può biasimarlo. Ma così com’è certo di non poterlo fare, è anche certo, per qualche secondo, di smettere di sentire il proprio respiro che corre veloce dentro di lui – naso gola polmoni e inverso – e questo blocco dura tanto a lungo che lui per primo si chiede come sia possibile riuscire a sopravvivere tanto a lungo anche senza respirare per niente.
- Mi dispiace. – riesce a tirare fuori a fatica, e solo dopo essersi ricordato che deve essere lui a rimettere in moto il suo apparato respiratorio, perché il suo corpo sembra aver dimenticato del tutto che invece è compito suo. – Non so cosa dire, Chaku. Mi dispiace.
Chakuza appoggia i gomiti al tavolo e si prende la testa fra le mani, strofinandosi gli occhi chiusi coi palmi bene aperti per qualche secondo, prima di tornare a guardarlo.
- Ok, ho esagerato. – dice quindi, sospirando profondamente, - Non… non è ancora nemmeno detto che tu abbia il virus, magari sei stato fortunato. E anche allora, la medicina ha fatto dei passi da gigante, e… tutte quelle altre cose che si dicono per alleggerirsi la coscienza in questi casi. – sospira ancora, e Fler si sente stringere il cuore. – Aspettiamo di sapere qualcosa di certo, e poi ne parleremo tranquillamente. Vedrai che la risolveremo, in qualche modo. – si sforza di sorridergli, e Fler si sforza di rispondergli. Sorridere riesce male ad entrambi, ma tutti e due comprendono che più di così, in quel momento, non possono fare, per cui si accontentano. – Ora scusami, - riprende Chakuza subito dopo, - ma devo andare a farmi un giro. Ti prometto che torno presto, ho solo bisogno di…
- Ok. – annuisce subito lui, - Ok, Chaku, ti capisco. Credimi. Non ho smesso di capire i tuoi bisogni solo perché tre anni fa sono andato a letto con una donna che potrebbe avermi reso sieropositivo. Te lo assicuro.
Chakuza annuisce, ignorando volutamente la frecciata. Fler si alza in piedi, passandosi una mano sugli occhi e sulla fronte.
- Tu che fai, nel mentre? – chiede Chakuza a bassa voce. Fler scrolla le spalle.
- Penso che mi metterò a riposare. – risponde pensieroso.
- Stai male? – chiede subito Chakuza, ansioso, - Non ti senti bene?
- Sto benissimo, Peter. – risponde lui, lanciandogli un’occhiata infastidita e cercando subito dopo di tornare calmo. Non vuole litigare, non adesso. È l’ultima cosa che gli serve. – Ho solo voglia di mettermi a dormire. Sarà sempre meglio che vagare per casa senza niente da fare. Ora chiamo il medico e mi faccio prescrivere le analisi. E poi mi metto a dormire. Ok?
- Okay, okay. – annuisce Chakuza, sollevando le braccia in segno di resa, - Sono solo preoccupato, Pat. Vienimi incontro.
- Veniamoci incontro entrambi, Peter, o non ne usciremo facilmente. – borbotta lui, lasciandolo lì ed infilandosi in camera da letto. Mentre solleva la cornetta e cerca il numero del medico nella rubrica del cellulare, lo sente entrare in bagno. La porta si chiude, poco dopo l’acqua della doccia comincia a scorrere. La segretaria solleva la cornetta, dall’alta parte della città, e Fler si concede di smettere per un attimo di pensare a Chakuza per concentrarsi un po’ su se stesso. Prende appuntamento per l’indomani di buon mattino, non spiega alla segretaria perché, lei non ha alcun bisogno di saperlo. Discuterà la faccenda direttamente col medico.
Augura una buona giornata alla segretaria e chiude la conversazione, restando immobile seduto sul letto per qualche secondo prima di decidersi a scalciare via le scarpe e i vestiti e mettersi sotto le coperte dallo stesso lato ancora caldo del corpo di Chakuza. Quel calore lo rassicura, in qualche modo, e si addormenta subito. Non sente Chakuza entrare in camera per vestirsi ed uscire, pochi minuti dopo.
In compenso, lo sente rientrare. Sono le tre del mattino, quando accade. Ha dormito per tutto il giorno ed è abbastanza sicuro di averlo fatto non tanto per stanchezza o per qualche generico malessere, quanto più perché emotivamente incapace di sopportare lo scorrere lento delle ore fino a domani. Comunque lo sente rientrare molto più tardi di quanto non avesse promesso, eppure non riesce a chiedergli niente, e nemmeno a criticarlo. Da qualche parte, dentro di sé, sa di non avere alcun diritto a biasimarlo neanche questa volta.
Resta comunque sveglio fino all’indomani mattina.
*
Nella settimana che passa da quel giorno al giorno in cui lui e il dottor Falkenberg sono seduti uno di fronte all’altro nel suo ufficio, e Fler si torce le mani mentre il dottore fruga fra gli incartamenti della sua cartella clinica per trovare i risultati del test, Chakuza passa a casa pochissimo tempo. Fler lo sente rientrare a notte fonda più delle volte in cui lo sente uscire, e questo perché in genere Chakuza non aspetta nemmeno che lui sia rientrato dall’Ersguterjunge per uscire a propria volta. Quando s’incontrano a casa, o quando Fler lo chiama al telefono, non lo ignora e non è scostante, ma sono solo scampoli di tempo che gli concede mentre impiega tutto il resto della propria giornata ad occuparsi in tutti i modi possibili pur di non pensare a lui.
Il dottor Falkenberg gli ha già detto che, considerata la grande distanza di tempo intercorsa fra il rapporto sessuale non protetto e il test, ci sono ben poche possibilità che questo possa essere fallibile. Il risultato che ne verrà fuori sarà quello definitivo, e sebbene Fler non sappia che tipo di risultato aspettarsi sa esattamente cosa aspettarsi in generale dal test in sé: stabilirà cosa sarà del resto della sua vita, stabilirà se gli toccherà pagare un errore finché vivrà o se potrà farla franca, in modo da non doverlo ripetere in futuro. In ogni caso, è evidente che la lezione che la vita gli sta impartendo è inflitta con una violenza che non avrebbe mai sospettato.
Ha paura. Avrebbe voluto che Chakuza lo accompagnasse, ma Chakuza non c’è, perciò a lui tocca essere forte per entrambi, per se stesso che è già lì e per Chakuza che ci sarà comunque, anche se non subito. Fra qualche ora, anche domattina, non importa: prima o poi lo rivedrà, ed anche allora dovrà essere forte per tutti e due. Esattamente come adesso.
Il dottor Falkenberg sospira pesantemente, lasciando scivolare il foglio coi risultati delle analisi sulla scrivania, fino a lui.
- Il test mostra che nel suo sangue sono presenti gli anticorpi per il virus dell’HIV. – dice gravemente, - Stando a questo ed a ciò che mi ha raccontato, non c’è alcun dubbio né nessun motivo per ritenere che i risultati del test possano essere errati. – si sporge in avanti, accarezzandogli la spalla in un gesto consolatorio ma freddo, che dà da pensare a Fler su quante persone deve aver provato a consolare nella stessa maniera per tutta la propria vita, - Mi dispiace, signor Losensky.
Fler annuisce, abbassando lo sguardo sulle proprie mani abbandonate in grembo. Resta in silenzio, però, limitandosi a minuscoli cenni col capo mentre il dottor Falkenberg comincia a parlare di quanto sia stato fortunato a mantenere un regime di vita sano fino ad ora e quanto abbia del miracoloso che la diagnosi sia stata effettuata per tempo, e poi continua illustrandogli le terapie che dovrà seguire, e parla di farmaci e diete, no, regimi alimentari – Fler si ascolta respirare e si dice che “regime alimentare” è proprio una brutta parola, dieta è molto più simpatica, una di quelle cose leggere che si vedono nei settimanali femminili, la dieta del sedano, la dieta dei frutti rossi, la dieta solo pasta, regole alle quali puoi fare uno strappo, ma un regime alimentare? Duraturo? Una dittatura che si instaura nella sua vita, la dittatura legalizzata del suo corpo su tutto il resto di sé – e di tutto ciò che il dottore dice lui non coglie che frammenti. Sente il proprio respiro, l’aria che gonfia i polmoni e questi ultimi che poi si spremono per buttarla fuori quando non serve più, e questo copre tutto il resto. Tutto il resto, anche il virus. Lui respira ancora. È ancora lì.
Lui e il dottor Falkenberg si congedano con una ricetta e un appuntamento per la settimana prossima. La prima cosa di cui ha voglia Fler, quando si trova da solo per strada, è mangiare un gelato. Cerca di ricordare se un alimento simile fosse permesso nel regime alimentare del dottor Falkenberg, ma stava ascoltando solo distrattamente e molti dettagli gli sono completamente sfuggiti. Non sa se può permettersi un gelato e non si sente dell’umore di rischiare. Il dottor Falkenberg gli ha detto che è fortunato, perché è giovane e il suo fisico è forte, non crollerà immediatamente alla prima minaccia, dovrà solo stare un po’ più attento. Chissà se il gelato è una delle cose alle quali dovrà stare sempre attento, da ora in poi. Chissà a quante altre cose che prima notava solo per caso dovrà fare attenzione, fino a quando tutto non gli crollerà comunque fra le mani indipendentemente da quanto sia stato cauto prima.
Messo da parte il gelato, comunque, l’unica cosa che vuole fare è vedere Bushido. Ci pensa all’improvviso, senza seguire nessun tipo di filo logico. Non sa neanche se al momento sia a casa, e per la verità nemmeno ci pensa quando sale in macchina e si dirige verso quella sua villa enorme dal colore tremendo. Non importa se c’è o non c’è, lo aspetterà, in ogni caso. La verità è che non ha voglia di tornare a casa e trovarla vuota, e che lo sia è una certezza. Non ha voluto rischiare col gelato, ma rischia volentieri con Bushido. Alle volte, un’incognita è meglio di una certezza, e questo caso è esemplare in questo senso.
Bushido, comunque, c’è. È inverosimilmente teso, quando gli apre la porta. Fler lo guarda a lungo, senza dirgli una parola. Bushido capisce in quel silenzio tutto ciò che c’è da capire, e se lo trascina addosso, stringendolo forte fra le braccia, un braccio attorno alle spalle ed una mano pressata sulla sua nuca, per impedirgli di muoversi.
- Mi dispiace, Atze. – gli sussurra in un orecchio. La voce gli si spezza subito in un singhiozzo che dà a Fler i brividi per quanto è inatteso e strano. Lui non ha ancora pianto. – Mi dispiace un casino, cazzo.
Fra le sue braccia, Fler si rilassa subito. Improvvisamente, tutto torna e sembrargli più vivo e reale di quanto non fosse fino ad un minuto prima. Le lacrime di Bushido, il suo respiro che si mescola col proprio, il calore che sprigionano i loro corpi tesi e nervosi così avvinghiati nel mezzo dell’ingresso, e quando si accorge di stare piangendo a sua volta non riesce ad impedirsi di essere felice perché lo sta facendo, perché da qualche parte sente che ancora vale la pena di piangere per qualcosa, per la sua vita che sta cominciando a disintegrarsi, per Chakuza con cui non passa un’ora intera insieme da una settimana, per quello che ha e che perderà, per quello che ha avuto e perso in passato e non potrà più provare a riprendersi, per quello che aveva sperato di avere in futuro e invece non riuscirà ad avere mai. Vale ancora la pena di piangere, e lui può ancora farlo, e questa è una cosa bellissima.
- Vuoi restare qui, stanotte? – gli chiede Bushido, mezz’ora e un paio di bicchieri d’acqua per smettere di singhiozzare dopo, - Ci sono tutti i letti che vuoi.
- No, torno a casa. – risponde lui con un sorriso mesto, - E poi cosa dovrei farmene di tutti i letti che voglio? Legarli uno all’altro per i fianchi e poi farli scivolare giù dal tetto con le lenzuola legate a mo’ di pallone aerostatico per cercare di prendere il volo?
Bushido ride, tirandogli un cazzotto debolissimo contro una guancia, più un buffetto che altro.
- Sei un cazzone. – lo apostrofa, spingendolo verso la porta, - Fuori dai piedi.
- Me ne vado, me ne vado. – lo rassicura lui, sollevando entrambe le braccia in segno di resa e lasciandosi spingere senza protestare né opporre resistenza, - Ci si sente, comunque.
- Sì, ma che sia vero. – si raccomanda Bushido, guardandolo severamente, - Non mi rifilare balle, Fler. Se dici che chiamerai, fallo davvero.
- Lo farò. – annuisce lui, ridendo appena, - Davvero. – aggiunge più seriamente, prima di imboccare il viale e infilarsi nuovamente in macchina. Sente gli occhi di Bushido piantati sulla schiena per tutto il tragitto e anche per cinque minuti buoni dopo aver messo in moto l’autovettura ed essere partito alla volta di casa. Poi quella sensazione incredibilmente fisica comincia a scemare, lasciando il posto a quella altrettanto pressante che lo prende ogni volta che sente di essere vicino a vedere Chakuza, quella forza che, per prima, l’ha attratto così inesorabilmente verso di lui. È come sentirsi tirare nella sua direzione, e Fler si ritrova quasi senza accorgersene a pigiare ostinatamente il piede sull’acceleratore per fare il più in fretta possibile. È certo che Chakuza sarà a casa. Non ci sono più incognite, nella sua mente.
Quando apre con le proprie chiavi ed entra in casa, infatti, Chakuza è lì. Stava facendo qualcosa, anche se Fler non riesce ad identificare cosa. Tutto ciò che sa è che lo prende di sorpresa mentre è fermo a metà del corridoio, e che quando si volta a guardarlo Chakuza ha gli occhi umidi e arrossati, come avesse appena smesso di piangere. Fler riesce solo a stento a trattenere il sorriso che vorrebbe nascergli spontaneo sulle labbra al pensiero che, in due posti diversi, stavano entrambi piangendo contemporaneamente per lo stesso motivo.
- Ce l’ho. – gli dice all’improvviso, spezzando il silenzio perfetto che avvolgeva la casa, - Sono positivo. Ho l’HIV.
Chakuza molla ciò che sta tenendo in mano e lo lascia cadere a terra. Fler non riesce a vedere cos’è perché il secondo successivo Chakuza gli è addosso e lo sta stringendo come se dalla forza con cui se lo tiene ancorato addosso dipendesse il destino intero della loro relazione. Fler pensa che è così e prega con tutte le proprie forze che Chakuza non lo lascia andare mai più.
Invece succede. Chakuza sta di nuovo piangendo, quando si allontana. Lo sta facendo anche Fler.
Lo segue quando si incammina lungo il corridoio.
- Mi dispiace. – mormora confusamente Chakuza, - Mi dispiace, Pat, io non posso. Non ce la faccio.
- Chaku…? – lo chiama lui, senza capire cosa stia succedendo. Lo segue e non capisce, e continua a non capire almeno fino a quando Chakuza non entra in camera da letto, e lui lo segue anche lì, e nota il borsone aperto e già mezzo pieno sul pavimento.
- Mi dispiace. – ripete Chakuza, affaccendandosi fra la cassettiera e l’armadio. Prende cose alla rinfusa, non le sistema ordinatamente, giusto quello che gli serve per qualche giorno. Fler è combattuto fra il desiderio di pensare che si tratti solo di una cosa temporanea e il pensiero più razionale che stia semplicemente prendendo le prime cose che gli capitano sottomano per tornare poi quando sarà certo che non ci sia nessuno in casa, e recuperare il resto.
Serra le labbra, non parla più. Resta sulla soglia della porta osservandolo tirare su il borsone sul letto, chiuderlo e tirarselo in spalla. Si scansa per lasciarlo uscire dalla camera e lo segue anche in corridoio. Lo osserva chinarsi per recuperare qualsiasi cosa gli fosse caduta prima, e poi lo osserva anche quando posa il borsone a terra, apre uno spiraglio della zip ed infila – cosa sarà? Una maglietta? Un paio di calzini – alla come viene, richiudendola subito dopo con un gesto secco. La zip s’inceppa, Chakuza non le bada. Esce di casa il secondo dopo. Fler continua a non dire una parola. D’altronde, ora che è solo, non vede nemmeno perché dovrebbe farlo.
*

Non ha una chiara percezione di quando tutto, nella sua vita, cominci a muoversi a scatti. A volte si sente come se stesse guardando se stesso in un film la cui pellicola però continua a incepparsi nel proiettore. Ci sono inquadrature che durano infinità, blocchi improvvisi, momenti di nero assoluto di cui non ricorda niente già un’ora dopo. Conserva solo frammenti di quotidianità. Sa quando si sveglia, sa che si fa una doccia, fa colazione e prende le sue pillole. Sa che è dura abituarsi ad una routine che fatica a sentire propria. Sa che la casa resta vuota solo un paio di giorni, dopodiché comincia a riempirsi di gente ad orari alterni perché proprio nessuno vuole lasciarlo solo, proprio nessuno a parte Chakuza.
- Ci ho parlato, sai, - gli dice Bushido in un giorno a caso di una settimana a caso da quando lui è andato via, - con Chaku, dico. Non sta bene.
- Nemmeno io. – risponde lui, stringendosi nelle spalle. Bushido gli sorride, accarezzandogli la testa in un gesto tenero e incredibilmente intimo.
- Sai cosa intendevo. – gli dice. Fler annuisce, perché è vero, ma non gli interessa poi molto. Avrebbe bisogno di lui lì, sofferente o meno, ma Chakuza non c’è, e non c’è perché non vuole esserci. Cosa dovrebbe interessargli, dunque, del suo dolore?
- Mi dispiace. – dice, ma questa è una bugia. Non può dire che gli dispiaccia davvero, non può dire niente perché per lo più si sente come se stesse fluttuando a mezz’aria. Fa le cose, ma non c’è niente che riesca a toccarlo davvero. Le persone scivolano davanti a lui come ombre sulle pareti. Il sole sorge al mattino e tramonta alla sera, veloce come nei fast forward dei documentari su Discovery Channel. Il letto, in camera, ha ancora il profumo di Chakuza attaccato alle fibre stesse del materasso, perché le lenzuola le ha già cambiate parecchie volte, ma il profumo resta ancora lì. E Fler si dice che è assurdo non riuscire a mantenere un ricordo visivo o tattile che sia uno di persone che gli gravitano intorno continuamente e di cui dimentica ogni dettaglio dopo due minuti, ma conservare ancora la perfetta percezione di quella combinazione di odori conosciuti che, sommati assieme, compongono il suo profumo. È assurdo ed è ridicolo. E soprattutto fa male.
Cambia il materasso dopo un mese ed una settimana. Non ricorda di essere andato a comprarlo, ma sa che è nuovo perché, quando va a dormire, alla sera, improvvisamente il profumo di Chakuza è sparito.
Il tempo rallenta con una facilità impressionante, cose prima impensabili diventano la normalità senza la minima difficoltà. Svegliarsi e non sentire più il bisogno di allungare il braccio per cercare il suo corpo sull’altro lato del materasso. Oppure farlo ancora, ma non stupirsi più quando non trova niente. Buttare via il caffè che avanza perché se n’è preparato troppo e poi rassegnarsi a comprare una caffettiera più piccola. Tornare a casa senza chiedersi più se ci sia qualcun altro ad aspettarlo. La sua vita, a parte queste cose, è piuttosto normale. Il fatto che Chakuza sia andato via ha cambiato la sua quotidianità ben più di quanto non l’abbia cambiata il virus, perché il virus ha preteso da lui soltanto che aggiungesse qualche azione in più alle solite da compiere giorno dopo giorno, ma l’assenza di Chakuza lo obbliga a strapparsi di dosso abitudini che amava tanto quanto amasse lui. Rinunciare è molto più difficile che integrare, è la prima cosa che scopre dopo quasi due mesi che non lo vede e non lo sente nemmeno per sbaglio.
E poi, all’improvviso, così come ne è uscito, Chakuza rientra nella sua vita. In silenzio.
*

Squilla il telefono, Fler solleva la cornetta e chiede chi è. Dall’altro lato non risponde nessuno, ma del tutto irrazionalmente, senza sapersi spiegare perché né come, Fler sa che il respiro un po’ affannoso che sente rimbombargli nelle orecchie è quello di Chakuza.
- Chaku. – lo chiama, e l’ansia di pronunciare il suo nome dopo più di un mese in cui è stato lontano dalle sue labbra è tale che quasi gli si attorciglia la lingua, e le lettere si fermano lì a bloccargli la gola, soffocandolo fino a che non trova la forza per sputarle fuori.
Chakuza riattacca immediatamente, e Fler si morde un labbro con tanta forza da tagliarsi. Quando sente il sapore del sangue sul palato e sulla lingua, però, squilla il campanello, e lui si alza in tutta fretta, copre i metri che lo separano dalla porta in pochi, ampi passi e la spalanca. Chakuza è appena oltre l’uscio, lo guarda con gli occhi sgranati e umidi ed ha ancora il cellulare in mano, tenuto mollemente fra le dita che però tremano abbastanza da fargli pensare che scivolerà dalla sua presa, schiantandosi a terra quanto prima.
In effetti, è esattamente quello che succede nemmeno un minuto dopo, quando Chakuza si slancia in avanti e le sue labbra collidono con quelle di Fler, che però si allontana da lui di scatto, piantandogli le mani sul petto e muovendosi di qualche passo all’indietro.
Chakuza lo fissa con aria interrogativa, le sopracciglia inarcate verso il basso, lo sguardo ferito. Fler si succhia un po’ il labbro ferito.
- Mi esce sangue. – dice, la voce gli si spezza in un singhiozzo addolorato mentre pensa alle implicazioni che una semplice ferita riesce già ad avere sul suo comportamento, sulla sua intera vita. Roba alla quale non ha mai pensato. Roba alla quale ha dovuto cominciare a pensare. E Chakuza non era lì mentre lui cominciava a pensarci, ad elencare tutti i posso e i non posso, e Fler pensa che se intende restare dovrà insegnarglieli, e non fa che pregare che lui resti davvero e gli lasci il tempo di farlo.
Chakuza si chiude la porta alle spalle con un gesto brusco, e lo raggiunge in tre passi decisi. Gli appoggia le mani sui fianchi, stringendolo possessivo, e lo guarda serio, come se ciò che sta per dire fosse la cosa più importante che abbia mai pensato in vita sua. Fler riesce a vedersi riflesso nei suoi occhi chiarissimi ed è felice di essere, in questo momento, la cosa più importante cui Chakuza abbia mai pensato da quando è vivo.
- Io non sono ferito. – dice lui. Sono le prime parole che gli dice da quando è entrato. Suonano male, fuori posto, forse perché la sua voce è un po’ arrochita dal pianto e dall’ansia, per cui le ripete. – Io non sono ferito, Fler. – ribadisce, e poi se lo tira contro, e lo bacia profondamente, e stavolta Fler si lascia andare perché a Chakuza va bene così, lo sente sulle sue labbra e sulla sua lingua, lo sente in quel bacio che si muove lento contro la sua bocca. Non c’è pericolo. Può lasciarlo fare. Chakuza non è ferito. Solo lui lo è, ma finché uno solo di loro due è ancora sano c’è speranza per entrambi. – Andrà tutto bene. – gli dice Chakuza, allontanandosi da lui ed accarezzandogli una guancia. Fler non piange perché non vuole, perché non ne ha bisogno e perché è così stupidamente felice che non riesce a fare altro che sorridere. – Te lo prometto, - sorride anche Chakuza, - non me ne andrò più da nessuna parte.
Fler riesce a sentirlo perfettamente, subito dopo aver assorbito quelle parole per ciò che sono e per quello che significano. Il tempo riprende a scorrere, non è una cosa né veloce né lenta, è semplicemente una cosa che succede. Il labbro gli fa male, le mani di Chakuza sono calde, i suoi occhi umidi, il suo sorriso sincero. Tutto riprende a muoversi fluidamente, ed è solo perché entrambi, nonostante tutto, l’hanno voluto. E lui sta ancora respirando.
Shot facente parte della serie Schmetterlingseffekt.
Genere: Introspettivo, Triste, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido, Bill/Chakuza.
Rating: NC-17
AVVISI: Slash, Angst, Lemon.
- "Lo guardo, mi guarda. Per un solo secondo, ci chiediamo entrambi che senso abbia tutto questo."
Note: ...allegria. \o/ (Questa storia non doveva essere così. Per certi versi, le premesse dovevano essere più "soft", ed in qualche modo, di conseguenza, dovevano essere più leggere anche le ovvie conclusioni che da quelle premesse dovevano arrivare. Così non è stato, perché questa gente purtroppo sta male più di quanto io stessa non avessi capito. Chiedo scusa /o\)
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A SAD-EYED LIE


Mi lascio ricadere sul divanetto in fondo al tourbus con un sospiro stremato, e resto lì seduto a fissare il vuoto per qualche secondo, troppo stanco per provare a fare qualsiasi altra cosa, finché non mi sento letteralmente cedere e mi rassegno a stendermi lì per una decina di minuti, prima di trovare la forza di rimettermi in piedi, farmi una doccia e trascinarmi nella mia cuccetta. Lontano anni luce da me, sento Tom augurare la buonanotte a qualcuno e poi chiudere con forza lo sportello. Lo sento girare in tondo per qualche minuto, calmo, come stesse prendendo le misure dell’ambiente circostante, e poi sento i suoi passi avvicinarsi.
Apro un occhio.
- Sei vivo? – mi chiede. Sta dritto accanto a me, le mani sui fianchi, le fronte libera dalla solita bandana e la camicia aperta per metà sul petto.
- Chiedimelo di nuovo fra una decina di minuti. – rispondo a mezza voce. Lui si lascia sfuggire una mezza risata divertita.
- Stanotte esco. – m’informa poi, come fossi il suo cazzo di padre o chessò io. – Arriviamo a Magdeburgo verso le due. La notte, per allora, sarà ancora giovane, e ho tutta l’intenzione di riallacciare i rapporti con qualche vecchio amico.
- Amica è il termine esatto, Tom. – lo correggo aggrottando le sopracciglia. Se fossi solo un po’ meno stremato, salterei in piedi e lo prenderei a pugni su quel suo muso pulitino da Don Giovanni delle ragazzine, ricordandogli che sta con una delle mie donne, e in quanto tale le deve rispetto, ma sono veramente troppo, troppo stanco, e peraltro conosco Cassandra, so che non è una stupida ed immagino che il discorso del sesso in tour l’abbiano affrontato, prima che Tom partisse, per cui mi limito ad aggrottare le benedette sopracciglia e disapprovarlo silenziosamente.
- Sì, forse. – ride lui, malizioso.
- Jost te lo lascia fare? – chiedo, rassegnandomi a tirarmi su ed aggrappandomi al divano come ne andasse della mia vita.
- David è la tua balia, non la mia. – mi fa notare con un sorriso furbo. La cosa, purtroppo, è anche fin troppo vera. Purtroppo, Jost è umano. Se stringe la presa da una parte, deve mollarla dall’altra. E Dio solo sa quanto forte debba essere la presa, se si vuole avere a che fare con me. – E comunque al momento ha altro cui pensare. Il che mi fa molto comodo, visto che io, invece, non voglio pensare a niente.
Si allontana senza aggiungere una parola, e d’altronde non che ce ne sia davvero bisogno. Lui è, se possibile, quello che l’ha presa peggio, tutta questa storia del tour. Forse perché come noi non ne capisce il senso, ma differentemente da noi prima di imbarcarcisi stava bene. Io, Bill, Chakuza e per certi versi anche David, non è che fossimo sereni, prima di partire. Non è che ringraziassimo Allah ogni volta che aprivamo gli occhi al mattino, per dire. Tom invece no. Anzi, più precisamente, Tom invece chissà, perché chi l’ha visto, ultimamente? Chi ha visto lui o Cassie? Chi li ha visti ricostruirsi una vita mentre ancora noi vaghiamo sperduti e senza meta fra le macerie della vecchia?
Quindi, insomma, posso solo immaginare quanto doversi mettere in viaggio con noialtri possa averlo scazzato, soprattutto visti i risultati gloriosi che non facciamo che affastellare l’uno sull’altro da quando siamo partiti. Sono abbastanza sicuro che la macchia sulla mia reputazione, dopo questo tour, non andrà più via. C’è differenza fra l’improvvisare una piccola produzione e magari fare qualche spettacolo così alla buona ma con tanta passione, come quelli che facevamo io e Patrick da ragazzi, e l’avere a portata di mano una produzione potenzialmente perfetta, con tanto di scenografia del ghetto e robaccia simile – roba che se io e Bill avessimo avuto per le mani una proposta del genere un paio d’anni fa ne sarebbe venuto fuori un tour che la popolazione mondiale avrebbe ricordato nei secoli a venire, garantito – e buttare tutto nel cesso perché un po’ non ce la fai, e un po’ nemmeno vuoi provarci.
Io, per dire, non ce la faccio e nemmeno voglio provarci. Sono stanco, frustrato e voglio tornarmene a casa mia, come quando da piccolo mamma mi portava a cena la domenica dai nonni, e loro erano sempre rigidi e silenziosi come sputassi nei loro piatti. Non vedevo l’ora di potermene tornare a casa mia, non perché ci fosse chissà che ad attendermi – a conti fatti, ad attendermi non c’era proprio un bel niente – ma perché semplicemente casa era un posto sicuro. Avevo la mia cameretta col mio letto e i miei poster e i miei cd pirata e le mie cuffie enormi e il mio lettore cd gigantesco e vecchissimo e perennemente impolverato, e chiudevo gli occhi e smettevo di pensare. Adesso vorrei fare la stessa cosa, solo tornarmene a casa, chiudermi a doppia mandata nel mio studio e metter su della musica. Qualsiasi musica. Chiudere gli occhi e spegnermi, solo per un po’.
La parte peggiore del tutto, poi, non è nemmeno che il tour stia andando male dal punto di vista lavorativo. Un sacco di cose, nel corso della mia carriera, sono andate male da quel punto di vista, e lo dimostra il fatto che una roba che la gente comincia a fare quando ha meno di diciott’anni io ho cominciato a farla solo quando ne avevo ventuno, e neanche tanto seriamente – per la serietà, ho dovuto aspettare i venticinque. Solo che, quando le cose andavano male, io comunque andavo sempre bene. E quindi le cose potevano anche crollare tutte assieme come i castelli di carta che erano, perché tanto le mie spalle erano sempre abbastanza forti da reggere la frana.
Adesso è diverso. Adesso io sono troppo stanco per reggere alcunché. Tutto crolla e io non riesco a sopportarlo bene come avrei fatto dieci o cinque o anche un anno fa, ed a complicare tutto, naturalmente, c’è Bill. Che è la parte peggiore di cui parlavo, perché Bill può essere solo due cose, considerato ciò che è e ciò che fa e come lo fa, può essere la parte peggiore, o la parte migliore. Non ha mezzitoni, in questo senso, ed ha smesso di essere la parte migliore, per me, tanto di quel tempo fa che ogni tanto fatico perfino a ricordare com’era.
Sono rintanato nella mia cuccetta da almeno un’ora, quando sento il tourbus fermarsi. C’è silenzio, tutto intorno, ed è evidente che siamo nella piazzola di una stazione di servizio poco lontana dalla città, perché a quanto ho capito il servizio di sicurezza ha sconsigliato a Jost di entrare materialmente nelle città ed insediarci negli alberghi prima dei concerti. La pressione dei paparazzi e della critica su tutto quello che sta succedendo, la fame con cui ci strappano di dosso segreti misti a brandelli di carne è veramente esagerata, e sistemarci in un albergo, anche il più sicuro, sarebbe un suicidio. Perciò rimaniamo fuori, dove è più difficile che ci trovino. Il che non sarebbe un male nel complesso, se poi m’impedisse vie di fuga quando invece ne ho bisogno.
- Ohi. – dice Tom, sollevando la tenda e fissandomi. La sua è solo una sagoma nel buio, illuminata parzialmente dalle luci dei lampioni disseminati nella piazzola, di fuori. – Uno della security ci accompagna giù in città. – esita qualche secondo, mordicchiandosi un labbro. È così simile a suo fratello, certe volte. – Non è che ti va di venire?
Quello che vorrei chiedergli adesso è non è che a te va di restare?, ma lascio perdere.
- Vai tranquillo. – borbotto senza neanche sollevare la testa dal cuscino, - Sono stanco morto, nemmeno ti sentirò rientrare. Starò dormendo come un sasso entro dieci minuti al massimo.
Lui scrolla le spalle e non insiste.
- Come vuoi. – dice, lasciando andare la tenda. Sento i suoi passi pesanti allontanarsi lentamente lungo il corridoio e poi sparire, nel momento stesso in cui lo sento salutare giovialmente Schäfer e Listing ad alta voce, facendo qualche battuta sugli occhiali del primo e sui capelli del secondo.
Io mi tiro a sedere, dimenticando i propositi di sonno immediato, e piego le gambe, appoggiando gli avambracci alle ginocchia. Fisso il buio così a lungo che ad un certo punto riesco a distinguere le pieghe delle lenzuola stropicciate ed ammonticchiate ai piedi del materasso, ed è allora che sento lo sportello del tourbus aprirsi discretamente e poi richiudersi con un sottilissimo click.
Indossa le Adidas, riconoscerei quello scricchiolio infantile ovunque. So che strascica i piedi perché vuole che lo senta, e mi mordo con forza un labbro quando vedo le sue dita spuntare nella fessura fra le due tende che mi separano dal resto dell’universo, un secondo prima che lui le scosti. Lo guardo, mi guarda. Per un solo secondo, ci chiediamo entrambi che senso abbia tutto questo. Poi, lui mi sorride – un sorriso minuscolo, che sembra voglia scusarsi perfino di esistere – e si siede sul bordo della mia cuccetta, dandomi quasi le spalle. Lancia un’occhiata fuori dalla finestrella chiusa, sulla strada. La piazzola è già deserta, chi doveva andare in città c’è andato, gli altri si stanno riposando o sono all’interno della stazione di servizio per rifocillarsi o prendere un caffè.
- Ti andrebbe di andare a fare una passeggiata? – mi chiede a mezza voce, quasi trasognato. Inarco un sopracciglio, lui non lo vede ma precisa comunque, - Non ti ho chiesto di venire con me a passeggiare di fuori. Mi chiedevo… se io ti invitassi, tu verresti?
Sospiro profondamente, gettando le gambe giù dal letto e sedendomi accanto a lui.
- Perché vuoi rendere tutto più difficile, Bill? – gli chiedo a bassa voce. Lui sorride appena.
- Perché non c’è un modo facile per fare andare avanti tutto questo. Sapere che sei così vicino mi… - si interrompe, come cercando le parole. È probabile che non riesca a trovarle, comunque, perché lascia la frase sospesa. – Avevo voglia di vederti. – conclude quindi, come se questo potesse bastare a giustificare la sua presenza qui, ora, mentre il suo uomo presumibilmente dorme un tourbus più in là.
- Bill… - dico con un altro sospiro, grattandomi la fronte, - Sei un bimbo grande, ormai. Certe giustificazioni valgono sempre meno, man mano che cresci.
Lui ride piano, stringendosi nelle spalle.
- Il problema è questo qui, sai? Che sono cresciuto. – risponde, voltandosi a guardarmi. Anche nel buio, i suoi occhi brillano. Li sento addosso come fossero di fuoco.
- Forse non abbastanza, però. – obbietto io, - Ti stai comportando esattamente come quando eri un ragazzino e ti appostavi fuori da casa mia pregandomi di farti entrare per un po’. Continui a tornare.
Bill ride ancora, con maggiore convinzione.
- Questo forse dovrebbe dirci qualcosa. – commenta, - Anche perché continui a tornare pure tu. Torni anche dalla morte.
- Io non ero morto, Bill. – lo dico con durezza, severamente. Lui si volta a guardarmi come l’avessi offeso personalmente.
- Tu eri morto. – dice convinto, - Tu non annullerai il mio lutto solo perché sei risorto. Tu eri morto, Anis, tu sei stato morto per un sacco di tempo. Ora sei tornato, ma prima eri morto comunque.
Annuisco piano, guardando altrove. Sorrido, anche se solo un po’, quando riprendo a parlare.
- Fatico ancora a realizzare pienamente quanto male ti ho fatto. – confesso in un fiato, - Devi capire che la decisione che ho preso l’ho presa in un momento molto particolare, in cui la ritenevo necessaria. Ero convinto che sarebbe stata la cosa migliore da fare ed ho accettato l’eventualità che tu potessi soffrire perché riuscivo a vedere, in prospettiva, che prima o poi saresti stato nuovamente felice.
È la prima volta che riesco a dirgli una cosa simile esattamente come la penso e in maniera serena. È un po’ assurdo che noi si abbia avuto bisogno di sfiancarci, letteralmente, sia a livello fisico che a livello emotivo che a livello mentale, prima di poter parlare come persone civili. Intavolare questo discorso due o tre mesi fa avrebbe portato inevitabilmente ad un litigio in cui ci saremmo sputati addosso le cattiverie più indegne per il solo gusto di farci del male a vicenda. Oggi posso guardare il suo profilo nel buio del tourbus e dirgli tutto questo con tranquillità perché sono consapevole del fatto che se provassi a cercare dentro di me un briciolo di forza per attaccarlo, non ci riuscirei, e per lui vale lo stesso.
Se ci penso, facevamo così anche allora, quando tutto era più facile ed eravamo solo io e lui. Avendo sempre avuto i caratteri forti che abbiamo, ogni litigio era una guerra che poteva durare dei giorni, poteva essere logorante per davvero, ed era solo alla fine, quando entrambi eravamo stanchi di non poterci più toccare senza un velo di rabbia a coprire tutto il resto, che riuscivamo a riappacificarci, perché solo alla fine riuscivamo a ricominciare a parlare.
- Perché sei tornato? – mi chiede piano. Ho l’impressione che mi abbia già fatto questa domanda, in passato. Lui, o il lui che ho sempre avuto nella testa mentre stavo a Miami, che fossi ubriaco o meno. L’istinto mi direbbe di ripetere a lui quello che ho già detto agli altri, più e più volte. Il messaggio preimpostato per le riviste e i vecchi amici. L’Ersguterjunge stava crollando, l’unica cosa del tutto mia che mi rimaneva al mondo si stava sfaldando perché non avevo considerato troppi dettagli. Per una mia incuria, in definitiva.
Potrei farlo, potrei dirgli questo adesso, e so che in qualche modo questo porrebbe fine alle sue visite continuative in questo tourbus, ai discorsi sciocchi e privi di senso che facciamo sul cielo della notte, sul caffè dei distributori automatici e sullo scarico del cesso che nel suo tourbus funziona male, so che porrebbe fine anche a quello che in genere segue questi discorso, il vero problema principale che mi impedisce di accettare la sua presenza qui come qualcosa di positivo, ma so che, se voglio essere completamente sincero, io non voglio che questo finisca.
E non voglio che lui creda che sia solo per l’Ersguterjunge che ho deciso di rovinargli la vita, o ciò che ne restava dopo esserci passato sopra con un carro armato.
- Perché ti rivolevo indietro. – rispondo senza guardarlo, - Perché da qualche parte sentivo ancora che eri mio e non prendevo neanche in considerazione l’idea di potermi sbagliare. – inspiro ed espiro profondamente, voltandomi a guardarlo. Lui sta già guardando me. – Ti rivolevo indietro. – ripeto, - Tu sei il motivo per cui me ne sono andato, quello per cui sono tornato, e quello per cui continuerei ad andarmene e tornare all’infinito, se fosse necessario.
Bill smette di respirare. Per molti secondi non sento più aria passare attraverso le sue labbra, e lui resta immobile, come gli avessi sparato a bruciapelo nel centro del petto. Realizzo la portata di ciò che gli ho detto solo quando lui si sporge verso di me e poggia le proprie labbra sulle mie. Mi bacia in modo tenero, quasi infantile, come avesse dimenticato come si fa e stesse cercando sul mio corpo le tracce per imparare nuovamente a farlo. Allunga le braccia e me le allaccia al collo, mi scavalca con una gamba e si sistema impacciato sul mio grembo, pressandosi contro di me, ed io ho appena il tempo di lasciar scivolare le mani lungo la linea dritta della sua vita, sentendo la consistenza ossuta dei suoi fianchi sotto i polpastrelli quando scivolo appena sotto la maglietta leggera che indossa, che devo subito allontanarlo.
- No. – dico piano.
- Non dirlo, non dirlo, non dirlo. – mugola lui, disperato, - Ti prego, non dopo quello che mi hai detto. Fingi che tutto il resto non esista, ti scongiuro, sono stato così bene…
- No, Bill. – insisto, afferrandolo più decisamente per i fianchi e spostandolo di nuovo sul materasso, - Io ho voluto essere sincero, con te, ma fingere che tutto il resto non esista vuol dire tornare a mentirti, di nuovo. Ho deciso tempo fa che non l’avrei più fatto. Abbiamo entrambi due vite diverse, adesso, e—
- Io non ce l’ho! – strilla lui, fra le lacrime, - Io non ce l’ho una vita, tantomeno una vita diversa! Io ho uno schifo e sto male, Anis, e tu… - si abbatte quasi su se stesso, stremato, - Tu mi stai facendo impazzire. – dice in una serie di singhiozzi privi di forza, - Dici che mi vuoi, ma poi non mi vuoi mai. Dici che mi ami, ma fai di tutto per farmi credere che di me non t’importi niente. Io arrivo al punto che me ne frego del mondo, Anis, me ne frego di chi c’è e chi non c’è, me ne frego di Peter, me ne frego di Patrick, di Tom, di David, <>io non ce la faccio, non ce la faccio più…
- Io non posso salvarti da questa cosa, Bill! – dico ad alta voce, afferrandolo per le spalle e scuotendolo con forza, - C’è stato un tempo in cui io e te ci appartenevamo ed io potevo salvarti da questa e da un mucchio di altre cose, ma tu ora non sei mio, Bill, e se non sei mio e non sei di Chakuza non sei di nessuno. – lo lascio andare, alzandomi in piedi e scostando in una mossa le tende ancora un po’ basse della cuccetta. – E questo significa che devi salvarti da solo, perché nessun altro può farlo.
I suoi occhi si accendono di rabbia. Umidi come sono per via delle lacrime, sembrano quasi lampeggiare nel buio. Indietreggio per lasciargli spazio, e Bill scatta subito in piedi, fronteggiandomi furioso.
- Tu non hai mai potuto salvarmi da niente. – dice velenoso, - Tu non mi hai mai salvato da niente. Quando ti è sembrato di farlo, in realtà stavi solo preparando il terreno per farmi del male ancora, e ancora, e ancora. – si allontana di qualche passo, le braccia rigide lungo i fianchi, i pugni ostinatamente serrati, come quelli di un bambino. – Non capisco davvero perché continuo a pensare a te come la soluzione di tutti i miei guai, quando evidentemente ne sei la causa.
Non gli rispondo perché l’unica risposta che potrei dargli è che ha ragione. E ciò che dice vale anche per me. Ed anche io non riesco a capirne il motivo. Resto solo pochi secondi dopo, perché lui fugge via subito dopo aver pronunciato quelle poche parole, come l’aria del tourbus si fosse fatta improvvisamente irrespirabile. Cerco di trovare lo stimolo per tornare a stendermi, magari dormire un po’, ma la verità è che sono troppo nervoso. Mi tremano le mani.
Sospirando, lascio la zona notte e mi dirigo nella zona relax. Mi seggo ad un tavolo, osservo il portatile, lo guardo per un po’, poi lascio perdere ed accendo la Playstation. Molto meno impegnativa.
Tom rientra meno di un’ora dopo. Appena mette piede nel tourbus, lo vedo tirare su il naso come un segugio, e poi i suoi occhi si spostano su di me. Sembra considerare la possibilità di chiedermi direttamente se Bill è stato qui o meno, ma alla fine evita, e ripiega su qualcosa di meno compromettente.
- Tutto a posto? – chiede incerto, - Non avevi sonno?
Scrollo le spalle.
- Passato. – mento. Vuoi restare un po’ con me?, ma no, questo non posso chiederglielo.
- D’accordo. – risponde lui, scrollando le spalle, - Buonanotte. – dice disinteressato, scalciando le scarpe in giro ed infilandosi direttamente nella propria cuccetta. Avrei bisogno, un bisogno serio, di qualcuno con cui parlare. Quando una persona che non parla quasi mai con nessuno sente il bisogno quasi fisico di farlo, vuol dire che è molto, troppo vicina al punto di rottura.
Continuo a giocare. In silenzio.
*

Che qualcosa sia cambiato non c’è bisogno che nessuno lo dica. Si sente nell’aria, si avverte nella tensione nervosa che ci avvolge tutti l’indomani mattina, si legge negli occhi sfuggenti di Chakuza e nella linea tesa della sua mascella, nelle pupille dilatate di Bill che s’è fatto scopare nel bagnetto della toilette della stazione di servizio sapendo benissimo che noialtri saremmo stati qui davanti ai lavandini per sciacquarci il viso e lavarci i denti.
Quando lui e Chakuza sono usciti dal bagno, scarmigliati e arrossati e ancora ansimanti, Chakuza s’è teso come una corda di violino, ed è andato a sciacquarsi frettolosamente il viso al lavandino più distante possibile rispetto a quelli che stavamo usando noialtri. Listing e Schäfer hanno cercato di far finta di niente – so bene che è una situazione sulla quale in un momento diverso avrebbero ironizzato, ma in un momento diverso Bill non avrebbe mai fatto una cosa simile per vendetta, per cui è facile spiegare il loro imbarazzo – ma la cosa che mi colpisce di più, dopo la sfacciataggine di Bill che continua ad aggirarsi per il bagno come non avesse proprio un bel niente da farsi rimproverare, è come al solito una caratteristica di Tom: la sua incredulità.
Guarda suo fratello come non riuscisse proprio a credere a ciò che le sue orecchie hanno appena sentito, e io non so che idea avesse Tom di Bill prima che tutto questo gran casino scoppiasse, ma è evidente che, qualunque fosse, è stata devastata fino all’ultimo granello di purezza che conservava. Tom non sa, non ha idea di cosa Bill sia capace. Non ha idea di cosa io l’abbia reso capace di fare. Non insegnandogli a comportarsi in un certo modo – figurarsi: Bill, poi, non ha mai avuto bisogno che nessuno gli insegnasse alcunché – ma semplicemente mostrandogli un tipo di relazione diversa, più dura, in cui ottieni ciò che dai ma non prima di aver pagato pegno. Io non ne ho mai fatto passare una a Bill. Tanto ero accondiscendente coi suoi capricci più futili, tanto più m’incaponivo sulle questioni importanti.
Questa, per Bill, è una questione dannatamente importante. Ed è palese che non intende farmi passare niente.
L’argomento non esce con noi da quel bagno. Resta intrappolato lì, fra quelle quattro mura piastrellate di bianco. Nessuno ha voglia di parlarne, una volta fuori, comprensibilmente, e chi invece dovrebbe voler discutere la situazione sa che farlo, in fondo, sarebbe inutile. Jost ci osserva entrare ognuno nel proprio tourbus con gli occhi bassi e un imbarazzo generico a tendere i tratti del viso, e già sa che andrà male anche stasera. Come cazzo fai a lavorare con gente che non riesci nemmeno a guardare negli occhi?
Tom sta seduto sul divanetto davanti a me. Batte nervosamente un piede per terra ed appoggia una guancia al palmo della mano, reggendosi il capo col gomito ben piantato sul tavolino, in una posizione tale da impedirgli di incrociare il mio sguardo anche se io faccio di tutto per catturarlo. Non so con chi dovrei parlare, Tom mi sembra la soluzione migliore, ma io questo ragazzino in fondo non lo conosco, e non posso farlo.
La serata, naturalmente, va di merda. Ci rimettiamo in viaggio fra i fischi della folla che ci ha seguito fino a schiacciarsi tutta lungo le transenne. Qualcuno tira qualcosa – pezzi di carta arrotolati, per lo più – e noi ci rifugiamo ognuno al proprio posto con la testa bassa, vergognandoci come cani. Tom, seduto al proprio posto, incassa la testa fra le spalle e si lascia scivolare lungo la seduta del divanetto fino a che solo la sommità della sua testa spunta dal finestrino.
- Che schifo. – sussurra disgustato, - Che schifo. Vi odio tutti, stronzi irresponsabili di merda. Bambini del cazzo. Siete solo bambini del cazzo. Ma cosa stracazzo c’entravo io con questa merda, cosa.
Il suo è un mormorio continuo, somiglia vagamente allo sciabordio dell’acqua di quelle fontane zen che ti spacciano come perfette per dormire. Il mio ufficio ne è pieno, quello nuovo, dico. In quello vecchio non ce n’era bisogno. Comunque, il suono è simile. riesco ad ascoltarlo abbastanza a lungo – lui mormora abbastanza a lungo – da permettermi di scivolare in un sonno agitato e leggerissimo. Continuo a svegliarmi per ogni scossone e ad ogni singola curva. Quando mi sveglio definitivamente, è perché ci siamo fermati, e Tom mi sta scuotendo energicamente per una spalla.
- Io esco. – mi dice, - Ci fermiamo una ventina di minuti ed io non ne posso più di stare qua dentro.
Mi sollevo abbastanza da guardare il buio pesto della notte, fuori dal finestrino. Si vedono le luci di un paese, non troppo distante, ma sembra un buco minuscolo e non so cosa si aspetti di trovarci Tom alle quattro del mattino.
- Siamo in mezzo al nulla, Tom. – provo a dire.
- Sì, be’, è un miglioramento. – taglia corto lui, uscendo di corsa.
Io resto lì immobile per un paio di minuti, giusto il tempo di ascoltarlo chiedere ad una guardia del corpo a caso se lo accompagna giù in paese e di sentire il rombo del motore acceso subito dopo, dopodiché mi alzo in piedi e muovo un paio di passi incerti in giro. Mi sento a pezzi. Ho una voglia matta di un buon caffè, ma non so quanto distante da qui sia la stazione di servizio.
Mi affaccio al finestrino per controllare, ma non riesco davvero a vedere niente perché immediatamente il mio intero campo visivo si riempie della figura di Bill. Il tourbus che divide con Chakuza è parcheggiato proprio accanto al mio, il suo finestrino è alla stessa altezza di quello dal quale lo sto guardando. Vedo solo metà del suo corpo, ma quel che vedo è splendido, ed è nudo, ed è sporco e sbagliato. Appoggiato contro il finestrino, sta piegato in avanti, un avambraccio sollevato a reggere il peso del suo corpo e la fronte che lo sfiora lentamente ad ogni spinta. Si muove ritmicamente avanti e indietro, le sue labbra sono dischiuse ed umide, la lingua che ogni tanto saetta ad inumidirle, piccola e rosa come quella di un gattino.
Ha le palpebre abbassate, ancora bistrate di nero, e deglutendo a fatica riesco quasi a convincermi della casualità del tutto quando Bill si volta all’improvviso ed i suoi occhi incontrano i miei. Non sorride, ma so che vorrebbe. I suoi ansiti aumentano di volume e d’intensità ed io resto lì fino a che qualcuno non mi afferra per il colletto della maglietta, da dietro, e mi scaraventa sulla panca dalla parte opposta del tourbus.
- Cristo! – strilla David, tirando giù la tenda sul finestrino, - Cristo, Bushido! – e non aggiunge altro, prima di allontanarsi di nuovo ed uscire.
Decido che per oggi ne ho avuto abbastanza, e mi rintano nella mia cuccetta.
*

La sera successiva, Bill si fa più sfacciato. Tom esce con la solita fretta, complice il fatto che stasera siamo di nuovo vicini a un centro abitato che rischia perfino di essere ancora vivo verso le quattro del mattino, e io resto un po’ nel tourbus a non fare niente, guardandomi intorno e provando a sentirmi per capire come sto. A Miami avevo molto tempo per stare da solo a pensare, e questo tempo mi è stato quasi del tutto tolto, da quando sono tornato, e soprattutto da quando abbiamo ripreso a lavorare. Resto seduto con gli occhi chiusi, sento tutti i rumori che vengono da fuori. Il chiacchiericcio della corte di tecnici e guardie del corpo che ci accompagna, gli sbadigli degli autisti che danno il cambio a quelli che invece hanno dormito per tutto il pomeriggio in previsione del loro turno, le macchine che passano accanto a noi sfrecciando sull’autostrada.
Sento tutto, e poi sento anche qualcuno che bussa allo sportello.
Forse perché starmene un po’ tranquillo per i fatti miei mi ha messo di buon umore, mi alzo senza problemi e mi affaccio, cercando di mostrarmi sereno e rilassato. Naturalmente, fallisco nel momento esatto in cui vedo che, sulla strada, vestito solo con una maglietta larghissima, c’è Bill.
Non so a che gioco stia giocando. Non ha bisogno di bussare, per entrare. Avrebbe dovuto farlo sempre, ma dal momento che non l’ha fatto mai mi sembra soltanto un modo per stuzzicarmi. Ed il fatto che non abbia praticamente niente addosso peggiora le cose.
Sento qualche gocciolina di sudore scivolarmi lungo la schiena, e non capisco se sia solo caldo.
- Posso entrare? – mi chiede a bassa voce, - Non riesco a dormire.
- Bill. – cerco di interromperlo io, riducendo la fessura aperta dello sportello, - No. Che cazzo di ore sono? Tornatene a dormire.
- Ma non riesco! – insiste lui, sporgendosi verso di me e stringendo le mani al petto. Nel movimento, la maglietta gli si solleva sulle cosce, mostrando centimetri di pelle morbida e bianca. Ne ricordo il profumo, ricordo quando potevo affondarci il naso ed inspirare e mordere e leccare ovunque, perché tutto quel biancore e quella morbidezza erano miei. Miei e di nessun altro. – Ti prego, - mugola scontento, - voglio solo chiacchierare. Non sono venuto qui di nascosto, non voglio fare niente di male. Per favore.
- No, Bill, sono io che te lo chiedo per favore. – dico a corto di fiato, passandomi una mano sugli occhi con forza, - Tornatene a letto. Non darmi modo di fare cose di cui poi mi pentirei.
- Non faremo niente di cui potresti pentirti! – ribatte lui, mettendo un piede sul primo gradino della scaletta per salire, - Per favore, solo dieci minuti, giuro che me ne vado subito, e poi—
- Ma cosa cazzo stai facendo?!
La voce di Tom rimbomba nella piazzola silenziosa come il primo tuono di un temporale. Nessuno di noi se l’aspetta, perché nessuno l’ha sentito tornare. David stava sonnecchiando seduto su una panchina davanti ad un’aiuola alberata, poco più in là, gambe e braccia incrociate e capo chino sul petto, e si tira subito in piedi quando lo sente urlare così all’improvviso.
Bill si volta a guardare suo fratello e sbianca. Diventa così incredibilmente pallido che ho paura di vederlo scomparire.
- Tomi. – mormora terrorizzato. Suo fratello resta per qualche secondo a qualche metro di distanza da lui, le braccia rigide lungo i fianchi. Poi qualcosa nella sua espressione cambia, si accende, e divora lo spazio che li separa in pochissimi passi. Quando lo raggiunge, è troppo veloce perché io possa mettermi in mezzo.
Lo afferra per un polso e lo trascina lontano dal tourbus. Bill cade un paio di volte, i piedi e le gambe nude che si graffiano sull’asfalto ogni volta che scivola, e quando si sono allontanati abbastanza Tom lo costringe a rimettersi in piedi strattonandolo con violenza e poi lo schiaffeggia in pieno volto, con la mano bene aperta. La sua guancia, quando si rimette dritto, è tutta arrossata. So già che ne verrà fuori un livido di quelli enormi.
- Cosa cazzo stavi facendo?! – strilla Tom, tenendolo per il polso e schiaffeggiandolo ancora. Stavolta Bill è più preparato, e per quanto ancora scosso riesce a coprirsi col braccio libero. Tom s’infuria, e prende a picchiarlo con più decisione, contro quello stesso braccio con cui Bill cerca invano di difendersi. Altri lividi, posso quasi già vederli, anche se non spunteranno prima di domattina. – Cosa cazzo facevi là davanti nudo, brutto stronzo?! Coglione! – lo insulta e lo picchia, Bill si accascia per terra senza forze, scosso dai singhiozzi, e Tom lo prende a calci sugli stinchi e nello stomaco. – Sei una troia! Cosa cazzo vai in giro in quel modo?! Ma cosa cazzo vai a fare da Bushido?! Troia!
- Tom, cosa diavolo stai facendo?! – tuona Jost, avvicinandosi minaccioso.
- Stanne fuori, cazzo! – strilla Tom di rimando, afferrando suo fratello per i capelli e tirando finché non si rimette in piedi. Bill grida di dolore, il viso arrossato e gonfio rigato di lacrime. – Questa cazzo di cosa deve finire, Bill! Deve finire, è chiaro?!
- Basta! Tom! Lasciami andare! – piange Bill, e il suo grido è così forte che qualcosa, nelle coscienze di tutte le persone che stanno guardando questa scena, si risveglia. Chakuza, che non avevo visto uscire dal proprio tourbus ma che evidentemente deve averlo fatto mentre non guardavo, si precipita fra i due, stringe Bill in un abbraccio che lo nasconde tutto dagli occhi del mondo intero e lo porta via, mentre lui fatica perfino a camminare a causa delle botte e dei singhiozzi che lo scuotono tutto. David, nel mentre, si lancia in avanti, afferrando Tom per le spalle e stringendolo con forza mentre lui si dimena e urla, lasciandolo andare solo una volta che Bill e Chakuza sono ritornati a chiudersi nel loro tourbus. Tom si libera della sua stretta con uno strattone e un urlo da bestia ferita, aggirandosi per la piazzola in preda al nervoso per un paio di minuti prima di imprecare ad alta voce e dirigersi a passo spedito verso di me.
Mi spinge all’interno del tourbus, entra a propria volta e si chiude lo sportello alle spalle, superandomi mentre io resto immobile e prendendo posto su una delle panche.
- Siediti. – ordina a bassa voce, indicando il posto di fronte a sé con un cenno del capo. Io obbedisco. – Da quanto va avanti questa storia?
Scrollo le spalle e provo a ricordarmi quanto assurdo sia questo momento.
- Un po’. – rispondo quindi, espirando sconfitto.
- Perché non me l’hai detto? – chiede duramente, fissandomi negli occhi.
- Perché avrei dovuto farlo? – ritorco, inarcando le sopracciglia. Lui batte un pugno contro il tavolo, digrignando i denti.
- Perché stiamo parlando di mio fratello. – risponde, - Ti basta? Se non ti basta, fattelo bastare.
Sospiro, abbassando lo sguardo sulle mie dita intrecciate sul tavolo.
- Pensavo di poterlo gestire. – confesso stentatamente.
- Sì, è un errore che avete fatto in molti. – ringhia lui, - Ma la verità è che lo amate troppo per farlo. Tutti quelli che gli stanno intorno in questo momento lo amano troppo per farlo. E questo lo sta rovinando, te ne rendi conto?
- Abbiamo dei doveri, Tom. – ribatto serio, - Questo tour non l’abbiamo deciso perché ci divertiva l’idea.
- Dei doveri! – ride amaramente lui, guardandomi incredulo, - Ma ti sei accorto di come sta andando questo tour, Bushido? Ti pare di stare lavorando come uno che abbia dei doveri?
Abbasso nuovamente lo sguardo. Ha ragione, non c’è che dire.
- Io ci sto provando, Tom. – sospiro pesantemente, - Non è facile.
- Non lo è per nessuno di noi. – risponde lui, impassibile, - Cristo, - sbotta impaziente, - io non posso davvero crederci. Forse non avete capito che Bill è a tanto così dall’andare fuori di testa. Dico, ma l’hai guardato negli occhi? Ma cosa cazzo ci sei stato a fare per anni se poi non capisci nemmeno queste cose così elementari?
Mi mordo un labbro, ferito più di quanto non mi vada di ammettere.
- È così diverso da quando l’ho lasciato. – considero a bassa voce, - A volte lo guardo e non riesco a riconoscerlo. Eppure è lui, dentro di me lo sento ancora come prima. Questo è… - trattengo appena il fiato, - è peggio di morire e basta. Sono vivo e sto perdendo tutto.
Tom mi guarda a lungo – riesco a sentire i suoi occhi addosso anche se non ricambio il suo sguardo – e mi rassegno a sollevare il viso solo quando lo sento sospirare pesantemente e sistemarsi più comodamente sulla panca.
- Ti va una partita a PES? – chiede distrattamente, adocchiando la Playstation abbandonata in un angolo.
- Resti con me, stanotte? – chiedo io a bassa voce, senza rispondere.
Lui nemmeno annuisce, chinandosi a raccogliere i joystick da terra e passandomene uno, dopo aver tenuto il proprio per sé.
- Accendila, dai. – dice alla fine. Giochiamo fino all’alba. Quella sera, Bill va sul palco con gli occhiali da sole. Canta cinque canzoni. Poi si mette a piangere e dice a David che non ce la fa. Sono le nove e mezza di sera, quando impazzisce del tutto. E nessuno di noi se ne accorge.
*

- Vado a prendere un paio di birre, ti va? – chiede Tom, gettando via il volante della Wii e sollevando entrambe le braccia verso il soffitto, - Affoghiamo nell’alcool i dispiaceri della giornata di oggi. Se ne prendo quattro, magari ci affoghiamo anche quelli della giornata di ieri.
- Vuoi solo scappare perché il tuo Luigi non può nulla contro il mio Mario. – lo prendo in giro, agitando il mio volante in aria come un trofeo.
- Facciamo così, io vado a prendere la birra e poi sputo dentro alla tua. – ritorce lui, guardandomi malissimo, - Come ti va?
Rido ad alta voce, di cuore, e realizzo che mi è capitato di farlo più spesso nelle ultime ventiquattro ore con lui di quanto non si possa dire di tutto il resto del tempo da quando sono tornato in Germania.
- Vai, vai. – dico alla fine, - Nel mentre cerco un altro gioco, questo non mi va più. – dico. Lui mi osserva tirare fuori Mario e Sonic ai Giochi Olimpici, unico gioco al quale sia fino ad adesso stato in grado di battermi, e sorride uscendo. So che mi sto comportando in modo molto stupido, quasi da fratello maggiore, nei confronti di un ragazzino che ieri ha dimostrato di essere più che in grado di comportarsi da fratello maggiore nei confronti miei, ma non riesco a impedirmelo. È divertente, genuinamente divertente, in un modo che pensavo non mi sarebbe stato più accessibile. E invece eccolo qui.
Lo sportello si riapre nemmeno due minuti dopo. Mi volto per dire a Tom che ha fatto presto, ma sulla soglia del tourbus non c’è Tom. C’è suo fratello.
- Che ci fai qui? – chiedo a mezza voce, pietrificato. Non lo vedo da giorni. Dopo il crollo a Monaco sono già saltate due date, e Bill non è quasi mai uscito dal suo tourbus.
- Sei sorpreso? – mi chiede. La sua voce è soffice, sottilissima. Lo guardo e vedo che non si tratta del Bill degli ultimi giorni, e nemmeno di quello che è partito con noi per il tour. È un Bill diverso, più antico, ma non propriamente simile a quello che era mio. O forse sì, solo più ferito.
- Sì. – rispondo sinceramente, voltandomi ed alzandomi in piedi per guardarlo dritto in viso, - Non dovresti essere qui?
- E dove dovrei essere? – chiede lui con una risatina vuota, - Trovami un posto nel mondo e sistemamici. Un tempo era al tuo fianco. Adesso sono fuori posto dovunque vado. Dovunque mi metto. Sono sempre fuori posto. Fuori luogo. O fuori posto? Come si dice, Anis?
- …cosa? – chiedo incerto, - Bill, ti senti bene?
- Ma sì! – risponde lui, con una risata così tonante che lo piega in due, costringendolo a stringersi il ventre con entrambe le braccia, - Come potrei mai stare male? La mia vita è meravigliosa, vero? Non lo è? Tu sei tornato, e sei vivo!, e non sei il mio ragazzo, ma ho un ragazzo bellissimo che mi ama tanto e che per me farebbe di tutto! Ed ho un fratello così premuroso, lo vedi quant’è premuroso Tomi? – ridacchia, indicando un livido ancora enorme sullo zigomo, - È così premuroso che vuole che tutti lo vedano, perché tutti devono sapere quanto bene si prende cura del suo sciocco fratellino.
- …Bill. – sollevo entrambe le braccia e lo stringo alle spalle, cercando, non so, di calmarlo. Anche se a prima vista sembra abbastanza calmo, in realtà. I suoi occhi sono torbidi, però, non riesco a leggervi dentro. – Bill, tu non stai bene.
- Ma a te non importa. – si lagna lui, forzando la mia stretta per abbracciarmi alla vita, poggiando il capo contro il mio petto, - Non t’importa di niente, non t’importa di me. Ho fatto tante cose per capire se t’importasse, volevo vedere se era vero che te ne fregavi, ma non ci ho capito niente. Non ci capisco niente di un sacco di cose, ormai.
- Sì, di te stesso in primo luogo. – sospiro, - Bill, devi andartene. Tuo fratello sarà qui fra poco e non è il caso di—
- Oh, posso sopportare qualcun’altra delle sue tenerezze, se è per questo. – dice con un sorrisino storto, adocchiando il piazzale fuori dal finestrino, - I bambini crescono più forti quando li si picchia costantemente. Si fanno la pelle dura. Tomi ha cominciato a crescermi un po’ tardi, ma siccome sono già grande gli effetti non tarderanno ad arrivare. Vuoi provare? – chiede, tornando a guardarmi, - Picchia forte, dove fa male, dove ho ancora lividi e ferite aperte. Non piangerò nemmeno una lacrima, te lo giuro.
- Smettila subito! – dico inorridito, provando ad allontanarmi. Lui serra le dita attorno alla mia maglietta.
- Allora è vero che non te ne frega più niente! – quasi grida, improvvisamente sull’orlo delle lacrime, - Non vuoi neanche più farmi male! Cosa mi resta di te, me lo dici? Perché se è solo indifferenza, allora non la voglio, non ti voglio, tornatene all’inferno! – strilla, tempestandomi il petto di pugni.
- Bill, calmati. – dico piano, stringendogli i polsi fra le mani. Sono così sottili che, anche se cerco di fare piano, sento le sue ossa quasi scricchiolare sotto la presa salda delle mie dita. – Devi riposarti un po’.
- Mi riposo da giorni e non cambia mai. – dice lui, abbattendosi stremato contro di me, - Penso sempre le stesse cose, sempre le stesse cose. – solleva un braccio, accarezzandomi il viso con la punta delle dita, - A te importa ancora di me, vero Anis? Ti importa ancora.
- Mi importa, piccolo. – cedo. La voce mi esce fuori in un mugolio così addolorato che mi sento spezzare qualcosa dentro. Non ho mai parlato con questo tono, con nessuno. – Tu ti stai facendo del male, adesso, e devi smetterla.
- Sei tu che mi stai facendo del male. – insiste lui con un sorriso quasi sereno, come se avesse già sentito troppo dolore per poterne provare ancora, - Come fai a non accorgertene? È incredibile. È così evidente, eppure non lo noti.
Sospiro profondamente, ravviandogli una ciocca di capelli dietro un orecchio.
- Bill, non so cosa dirti. – ammetto sfiduciato, - Ti stai torturando. Vuoi darmene la colpa? D’accordo. Ma stammi lontano.
Lui sorride, sento le sue labbra tendersi attraverso il tessuto leggero della maglia che indosso.
- Te l’avevo detto che sarebbe successo, Anis. – dice a bassa voce, quasi cantilenando, - Io non voglio starti lontano, e non posso, e non ci riesco. Una sua mano scivola fra le mie. Le nostre dita si intrecciano, lui mi guarda e i suoi occhi sono pieni di lacrime, e vuoti di tutto il resto. – Vieni con me, per favore. – dice piano, tirandomi verso l’uscita del tourbus.
Non è abbastanza forte da trascinarmi, se oppongo resistenza. Il problema è che non la oppongo. Mi lascio accompagnare dolcemente fuori, sulla piazzola aranciata dalla luce del sole che tramonta dietro le montagne all’orizzonte, e Bill mi conduce fino all’entrata del proprio tourbus. Da dentro vengono i rumori di Chakuza che si affaccenda attorno ai fornellini elettrici… starà preparando il caffè. Immagino abbia una voglia smodata di cucinare, ma non potendo questa è l’unica cosa sulla quale possa ripiegare.
Bill si volta a guardarmi con un sorriso minuscolo a increspare le labbra pallide.
- Ora ho bisogno che tu resti qui, Anis. – dice sottovoce, dondolando un po’ il peso da un piede all’altro, - Ho bisogno di sapere che resterai qui, che non te ne andrai di nuovo. Resterai, vero? Me lo prometti?
Mi sento mancare il respiro ed ho paura di ciò che questa promessa potrebbe significare. Non voglio restare. Non voglio restare, Bill.
- Te lo prometto.
Bill sorride.
- Tornerò da te, quando avrò finito. – sussurra, sporgendosi fino a raggiungere il mio orecchio con le labbra, - Così potrai dirmi se t’importa ancora o meno.
Resto lì come pietrificato mentre lui risale in due saltelli la scaletta del tourbus, scomparendo oltre la soglia. Lascia la porta aperta e io fisso l’interno, incapace di spostarmi. Posso vedere perfettamente uno dei tavolini della sala relax, da questo punto. Non so ancora cosa mi aspetta, ma qualsiasi cosa sia ne ho paura. E io non ho mai paura di niente. Non ho mai paura di niente, ma Bill mi terrorizza.
Il tourbus è parcheggiato in un angolo riparato della piazzola, lo sportello dà su un muretto oltre il quale si estende un praticello che si sfuma alle pendici di una collina rocciosa. Nessuno verrà a cercarmi qui, se non sa dove sono. Chissà se Tom potrebbe immaginarlo. Chissà se ha già comprato la birra, chissà se è già tornato, chissà se si sta chiedendo dove posso essere sparito.
Sento dei mormorii dall’interno. Non riesco a capire una parola di ciò che Bill e Chakuza si stanno dicendo, ma è evidente che stanno parlando. Chakuza sembra stanco. Bill ridacchia come un ragazzino senza neanche un pensiero per la testa.
Il primo gemito lo sento con una forza tale che mi sembra di percepire la terra tremare sotto i piedi. Vorrei gridare, ma non ho voce abbastanza. Non ho forza abbastanza. Quando Chakuza adagia Bill sul tavolino, dandomi le spalle e insinuandosi fra le sue cosce mentre Bill si abbandona alle sue braccia e getta indietro il capo, sento il desiderio di piangere, ma non scende neanche una lacrima. Non riesco più a fare niente, a pensare a niente. C’è solo la figura di Bill che invade tutto il mio campo visivo, c’è il suo corpo che si muove contro quello di Chakuza, in sincronia perfetta con le sue spinte. Ci sono le sue braccia abbandonate sulle sue spalle, c’è la frenesia con cui serra le cosce attorno ai suoi fianchi e intreccia le gambe dietro la sua schiena, mentre il suo bacino si muove ritmicamente per accogliere la sua erezione più profondamente possibile. E io vedo tutto. Vedo tutto. Ed è un’immagine che non riuscirò più a levarmi dalla testa. E questo Bill lo sa. È per questo che l’ha fatto.
Quando Bill viene, le sue labbra si piegano in un sorriso minuscolo che è lo stesso in cui si piegavano quando erano le mie mani ed il mio corpo a portarlo all’orgasmo. Mi chiedo se Bill sia mai cambiato o se non si sia per caso trattato di un’illusione. Forse volevo credere con tutte le mie forze che non fosse più la persona di un tempo, semplicemente perché ammettere che fosse rimasto lo stesso ed avesse semplicemente smesso di amarmi era impensabile. Adesso non lo so più. Adesso lo guardo, completamente abbandonato contro il corpo di Chakuza, che respira con forza sulla sua pelle e lo stringe fra le braccia come fosse troppo piccolo e troppo prezioso e volesse proteggerlo da tutti i mali del mondo, e non so più niente.
Mi allontano lentamente, indietreggiando, senza mai dare le spalle al tourbus. Bill mi osserva andare via spalancando gli occhi, le sue mani si serrano attorno alle spalle di Chakuza in un gesto improvviso e nervoso. Qualcosa dentro di lui si sta spezzando. Anche dentro di me. È la promessa che ho fatto.
Accelero il passo, e quando esco sulla piazzola c’è Tom sull’uscio del nostro tourbus che mi cerca con gli occhi.
- Sei qui. – dice, scendendo celermente i gradini e venendomi incontro, - Dov’eri finito? – chiede curiosamente. Poi nota il mio sguardo ed aggrotta le sopracciglia, incerto. – Che ti prende? – domanda con evidente preoccupazione, - Che è successo?
Io faccio per aprire la bocca e dire qualcosa, ma gli occhi di Tom si spostano immediatamente a guardare un punto imprecisato dietro di me. Non ho bisogno di voltarmi, per capire che dove Tom sta fissando c’è Bill.
- Anis. – mi chiama debolmente, la voce rotta. Non riesco a voltarmi. Non voglio farlo.
- …andiamo dentro. – mi dice Tom, tornando a guardarmi e poggiandomi una mano sulla spalla, - Ho preso la birra.
Annuisco e lo seguo. Non so cosa faccia Bill o per quanto resti lì in mezzo alla piazzola. Del tutto irrazionalmente, però, so che sta piangendo. E non riesce ad importarmene.
Shot facente parte della serie Schmetterlingseffekt.
Genere: Introspettivo, Drammatico, Romantico.
Pairing: Fler/Bushido, Chakuza/Fler, Bill/Chakuza, Bill/Bushido.
Rating: PG-13
AVVISI: Angst, Slash.
- "Non ce ne sono mai, di problemi. Non ce ne sono mai."
Note: E' bello tornare a bomba con uno spin-off piccolo e breve. Ci ricorda un po' che all'inizio tutti gli spin-off erano piccoli e brevi X'DDD *muore* Sì, questa sono io che ritrovo la sintesi. Ma sono anche io che spezzo il cuore della Fedy, immagino. Comunque \o/ Ecco a voi lo spin-off precedente noto come "NonPossiamoContinuareAIncontrarciCosì!Fic". Lo dico perché Tab ha insistito per farmelo dire. *motiva stupidamente cose stupide* Buona lettura \O/
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BREAK THE CIRCLE


Sto gironzolando per casa annoiandomi terribilmente da quasi mezz’ora, quando Anis finalmente rientra. Ho passato il tempo giocando con Skyline e Sherlee, principalmente, rotolandomi nell’erba e sporcandomi al punto che, quando sono entrato in casa, a Karima è bastato uno sguardo per farmi capire che non avrei potuto muovere un altro singolo passo all’interno della villa senza prima andare a darmi una ripulita nella doccia. La doccia in giardino, ovviamente.
Non mi è pesato, dopotutto: ho buttato via i vestiti e mi sono infilato sotto il getto d’acqua gelida, magari un po’ esagerato visto che non è ancora precisamente estate, ma mi andava di fare le cose così, un po’ a caso. Mi sono sciacquato per bene, ho salutato i fotografi appostati dietro i cespugli intorno alla villa, ho evitato gli attacchi dei cuccioli che avrebbero visto di buon occhio la possibilità di saltarmi nuovamente addosso e rendere vana la mia doccia per giocare ancora un po’ e sono tornato dentro, dove Karima mi aspettava praticamente sulla soglia di casa con un accappatoio pulito in mano.
L’ho ringraziata indossandolo, e lei invece di rispondermi s’è espressa in una specie di sbuffo supponente che è un po’ il suo marchio di fabbrica ogni volta che le faccio notare che è stata carina a comportarsi gentilmente con me. È un po’ come volesse dirmi che non dovrei aspettarmi niente di diverso, visto che in fin dei conti si tratta del suo lavoro, ma visto che mi diverte continuo a ringraziarla. E lei continua a sbuffare.
Quando Anis si chiude la porta alle spalle, capisco subito che c’è qualcosa che non va, come l’ho capito sempre, fin da quando ero ragazzino. L’abitudine mi ha insegnato a tradurre i suoi gesti, i piccoli sospiri che rilascia gradualmente, per non farsi sentire mentre sospira in maniera troppo profonda o agitata, così come i gesti brevi e decisi, che danno sempre l’impressione che stia molto attento a controllare al massimo il proprio corpo, come lo percepisse come l’unica cosa della quale possa davvero decidere il destino. Suppongo sia normale, per uno come lui, da sempre abituato a tenere le redini di numerose vite, oltre che della sua, sentire con forza la paura di poter perdere il controllo da un momento all’altro. Ecco, quando lui sente questa paura, riparte sempre dalle basi, per ricordarsi che è ancora perfettamente in grado di gestire tutto. E le basi sono le facoltà motorie. La respirazione, i gesti, i movimenti degli occhi. Parecchi, quando sono nervosi e spaventati, perdono il controllo del proprio corpo. Per Anis è esattamente il contrario. È quando smette di sciogliersi che lo riacquista. Solo che quando smette di sciogliersi lo fa perché ha paura.
- Ehi. – lo saluto sorridendo. Un sorriso piccolo, niente di troppo entusiasta. A volte gli dà fastidio che gli si mostri della gioia quando lui non è felice. Ma d’altronde è così un po’ per tutti, suppongo. – Successo qualcosa? – mi informo con aria casuale, passandomi una mano sulla nuca per verificare che i capelli si siano asciugati.
Lui grugnisce qualcosa di poco convinto, appendendo la giacca all’ingresso e poi raggiungendomi in salotto attraversando tutto il corridoio senza fare nemmeno un rumore. Gli vado incontro, non so cos’è che voglio, un bacio forse. È una situazione strana perché da quando stiamo insieme, o qualsiasi cosa sia questa cosa in cui siamo invischiati adesso, insomma, non mi è mai successo di vederlo rincasare così cupo. In genere, tornando a casa mettermi le mani addosso è non dico il primo dei suoi pensieri, ma quasi. Non mi sono mai dovuto avvicinare io per salutarlo, è sempre stato lui a cercarmi, perciò mi sembra strano farmi avanti per primo.
Ed è ancora più strano quando lui mi ignora, passandomi oltre e mormorando un distratto “cosa c’è per cena?”, come non mi avesse nemmeno visto.
La cosa veramente grave, comunque, non è questa. La cosa veramente grave è che quando mi passa accanto io sento l’odore di Bill. Lo sento con forza, perché gli sono stato tanto vicino che ormai un po’ di quel profumo dolciastro così suo s’è aggrappato alle molecole che compongono le mie cellule, e lo riconosco con una facilità quasi dolorosa. Come l’ho sempre riconosciuto addosso a Chakuza, lo riconosco adesso addosso ad Anis, e mi tremano le mani. Mi tremano le mani perché non ne posso più di questo ragazzino che tocca e sporca tutto quello che voglio, tutto quello che amo. Lo odio, non lo sopporto, e poi ricordo che il problema non è suo, il problema è mio. Lui c’era prima. Sono io quello che s’è infilato in mezzo ad un gioco che non gli appartiene, e che non è ancora riuscito ad uscirne.
- Che ti prende? – mi volto a cercare i suoi occhi, seguendolo mentre si muove verso il divano. Vedo solo le sue spalle, non si volta a ricambiarmi lo sguardo.
- Niente. – risponde distrattamente, mettendosi a sedere ed accendendo la televisione. Sta mentendo.
- È successo qualcosa? – chiedo avvicinandomi. Mi siedo sul divano accanto a lui, ma non vicino come tutte le altre volte. Non addosso, nemmeno ci sfioriamo, in realtà. Sa che sta correndo un rischio enorme. Sa che posso fiutargli addosso la paura e l’incertezza e questo dannato odore dolce e infantile. Sa di avere sbagliato tutto, perché se solo avesse agito come se avere quell’odore addosso fosse naturale, io non mi sarei preoccupato. Avrei pensato che si fossero incontrati, salutati, abbracciati, che fossero andati a prendere un caffè insieme. Ma lui sta negando, io so che mente, e so che se lo fa ne ha motivo. – Qualcosa tipo Bill? – chiedo alla fine in un sospiro affranto, perché, seriamente, non ne posso più.
Tutti i lineamenti del suo viso si tendono all’istante. Cambia faccia all’improvviso, sembra una persona diversa. Il movimento con cui si volta a guardarmi è innaturalmente lento, tanto che ne ho quasi paura.
- Ma cosa ti salta in mente? – quasi ringhia, aggrottando le sopracciglia, - Non—
- Non vi siete visti. – dico, e sento tutto il mio corpo bruciare per la rabbia, - Né toccati. – mi avvicino appena, inspiro il suo odore a qualche centimetro dal suo corpo, così profondamente da farmi dolere i polmoni. – Né baciati. – concludo. E poi lo guardo dritto negli occhi. – Pezzo di merda.
- Pat—
- No, pezzo di merda! – ribadisco con maggiore convinzione, alzandomi in piedi e girando attorno al divano come se la sua sola vicinanza fosse sufficiente a mandarmi fuori di testa, cosa che in effetti è vera. – Ma cosa cazzo hai in testa? Ma cosa cazzo avete in testa tutti?! Ma per cosa cazzo mi avete preso?!
- Pat? – mi chiama lui, vagamente accigliato. È evidente dai suoi occhi che non capisce di che diavolo sto parlando, ed è evidente che non può, perché io non gliel’ho mai detto. Perché non l’ho mai detto a nessuno, cazzo, e sarà questa la cosa che mi farà andare fuori di testa, più di tutto il resto. Che io sto così male per una cosa che, agli occhi della quasi totalità delle persone che compongono il mio universo, non esiste nemmeno.
- Lascia perdere. – dico cupo, uscendo dal salotto ed infilando le scarpe da tennis abbandonate accanto alla porta una volta arrivato all’ingresso. Sento i suoi occhi addosso, so che mi ha seguito. Non voglio voltarmi a guardarlo.
- Pat. – mi chiama ancora, - Che problema c’è?
La sua voce è più seria, somiglia a quella che usava quando, da ragazzino, combinavo qualche guaio di cui non mi andava di fargli sapere. In qualche modo, riusciva sempre a sgamarmi e tirarmi fuori le parole di bocca. E tutto partiva sempre da questo tono qui.
Sorrido stancamente, schiudendo la porta e guardando di fuori il cielo che si fa più scuro dopo il tramonto.
- Nessun problema. – rispondo prima di allontanarmi. Non ce n’è mai, d’altronde.
*

Quando arrivo a casa di Chakuza, non realizzo che potrebbe essere in compagnia – in compagnia di Bill, ovviamente – fino a quando non ho già premuto il dito contro il bottone del citofono. È troppo tardi per scappare e non posso certo rimandare indietro il tempo, per cui resto là e riesco in qualche modo a non strillare quando sento la sua voce chiedermi chi sono.
- Fler. – rispondo. Sono evidentemente nervoso, e lui pure. Sento movimenti strani e la sua voce si abbassa di svariati toni quando parla ancora.
- Ma che… - comincia incerto, - È successo qualcosa? – chiede con una punta di preoccupazione.
- No… - rispondo io, grattandomi confusamente la nuca, - Ma c’è Bill? – chiedo quindi, e poi sospiro. – Scusa, mi tolgo dalle palle. Fingiamo che tutto questo non sia mai avvenuto.
- No! – mi ferma, la voce che torna alta e poi, neanche tanto sorprendentemente, si riabbassa, - No, dico… cioè, sì, c’è Bill, ma… - lo sento trafficare con qualcosa di indefinito, e solo dopo capisco che s’è infilato la giacca e, per farlo, ha poggiato la cornetta del citofono sulla consolle. – Scendo subito. – dice deciso, - Non te ne andare.
Non me ne vado. Mi appoggio al muro, proprio lì accanto al portone, e aspetto. Quando Chaku esce non si aspetta di trovarmi da qualche parte che non sia esattamente di fronte a lui, perciò si guarda intorno un paio di secondi buoni prima di voltarsi indietro e notarmi lì appoggiato con le mani nelle tasche. Sorrido appena e ne sfilo una, agitandola per salutarlo in silenzio.
- Ciao. – mi dice lui, avvicinandosi. Ha gli occhi un sacco preoccupati. Mi si scalda lo stomaco tutto insieme. – Che cos’hai? C’hai una faccia strana.
Evito i suoi occhi perché non voglio dirglielo, o almeno non così presto.
- Sto bene. – rispondo scrollando le spalle, - Avevo solo voglia di—
- Non raccontarmi balle. – mi interrompe lui, e mentre parla mi guarda e inarca un sopracciglio come a chiedersi quanto devo essere cretino per averci anche solo provato.
Io mi mordo un labbro, incerto su cosa fare. Facciamo qualche passo in silenzio, Berlino intorno a noi si agita tutta e nessuno sembra notarci. È completamente diverso rispetto a quando cammino accanto a Bushido, la sua presenza da sola basta ad attirarci addosso un mucchio di sguardi indiscreti, ma passeggiare accanto al Chaku è una cosa tranquilla e rilassante. C’è anche una temperatura piacevole, tiepida, un po’ incerta fra estate e primavera e mitigata appena da un venticello fresco e debole, per nulla fastidioso anche se ci viene contro.
Ci sediamo ad un tavolino fuori da un bar semivuoto e anche un po’ sfigato, sempre restando in silenzio. Non so quanto tempo passi – senza che nessuno venga a prenderci l’ordinazione, peraltro – prima che Chakuza parli ancora.
- Dimmi cosa ti è successo. – insiste, le mani appoggiate mollemente sul tavolo e gli occhi fissi su di me.
Mi inumidisco le labbra, guardandomi un po’ intorno.
- Mi mancavi. – dico, scrollando le spalle, - Non mi è consentito? Tutti quanti potete sentire nostalgia di tutto quello che volete e andare a prendervi tutto quello che volete senza pensare alle conseguenze, ma io no? Io non posso? E chi l’ha stabilito?
- …woah. – commenta lui, incerto, inarcando le sopracciglia, - Capisco. Cioè, in realtà no— cosa cazzo ti prende? – chiede, piegandosi un po’ in avanti, - Con chi hai parlato?
- Ma con nessuno! – insisto io, gesticolando animatamente e stabilendo poi che non è seduto a quel tavolino che voglio stare. – Ma quale cazzo è il vostro problema? – protesto ricominciando a camminare per la strada, mentre lui mi segue dubbioso, - Perché cazzo dovrei essere io quello che non sta bene? Ma vi siete guardati?! Siete un branco di disperati ed io sono il più sano di mente in mezzo, il che francamente è tutto dire. Eppure state tutti lì a chiedermi cos’ho. Io non ho niente, chiaro? Siete voi che vi comportate da pazzi, io cerco solo di tirare avanti, e sto benissimo!
- No, Fler, - sbotta lui, scuotendo il capo, - a parte il fatto che non ci sto capendo un cazzo, voglio dire, di chi stai parlando? Ma comunque, - e gesticola, come a voler mettere da parte questa prima considerazione in favore della successiva, di gran lunga più importante, - è palese dal fatto che stai straparlando che tu non stai bene. Ma tipo per niente.
- Be’, scusami se sono venuto a disturbare la tua vita perfetta e felice per farmi solo una chiacchierata. – sbuffo, allontanandomi di qualche passo, - Ma non ti preoccupare, mi tolgo subito dai coglioni. Non c’è problema. – non ce ne sono mai, di problemi. Non ce ne sono mai.
- La mia vita non è perfetta. – dice lui, cupo, ancora dietro di me. S’è fermato, perciò mi fermo anch’io, perché non volevo davvero allontanarmi. Lo guardo in silenzio, e lui sembra veramente stanco e un po’ sbattuto, come l’avessero preso a cazzotti e lui non fosse ancora riuscito a riprendersi. – La mia vita non è perfetta e non è felice, o almeno, sicuramente non è più felice o perfetta della tua, perciò piantala di dire stronzate e non cercare di farmi sentire in colpa per cose di cui non ho la responsabilità.
- Be’, se dobbiamo fare l’elenco delle responsabilità-- - comincio, ma non riesco a finire. Lui mi interrompe.
- Ti prego. – dice soltanto, sospirando profondamente, - Ti prego.
Io mi mordo un labbro e mi avvicino. Ci guardiamo negli occhi ed è così palese che questa cosa non funziona che mi viene voglia di pestarlo a sangue – di nuovo – e non vederlo mai più – sul serio – solo che so che non ci riuscirei, a fare nessuna delle due cose, peraltro, perciò sollevo le braccia e lo afferro per il colletto e lo strattono e non lo so.
- Peter. – lo chiamo. Lui respira e me lo sento addosso. Siamo in mezzo alla strada ed è tutto così strano e stupido e sbagliato e sconnesso. Mi sembra di stare sognando e non sono nemmeno ubriaco. Forse è l’effetto della rabbia, rende tutto ovattato e diverso, come se non lo stessi facendo davvero. Ma lo sto facendo.
- No. – dice, quando si rende conto di cosa gli stanno dicendo i miei occhi, - No, non— non esiste. – si allontana da me con uno strattone deciso e mi guarda come non mi avesse mai visto prima. – Io non sarò la persona da cui vieni quando ti girano.
- Tu l’hai fatto, con me! – urlo, e mi fa male il petto, - Tu— stronzo, tu l’hai fatto con me!
- Lo so! – urla anche lui. Ed io mi congelo sul posto, perché è la prima volta che lo ammette. – Lo so. – ripete a voce più bassa, - Ed è per questo che non posso farlo adesso. Fler, ma non capisci? Cazzo, sono quasi due anni che ci facciamo del male perché non siamo abbastanza forti da pensare prima di fare qualcosa. È un circolo vizioso e qualcuno deve pure venirne fuori per primo.
- Non adesso. – mi sto lamentando come un bambino e lo so. Mi avvicino di nuovo, lo allaccio al collo, me lo tiro contro e lui non si allontana, mi appoggia le mani sui fianchi e le nostre fronti si sfiorano. – Per favore. – dico con un filo di voce. Chakuza chiude gli occhi, inspira ed espira e so che gli sto facendo male.
- No. – insiste lui, deciso. – No, Pat. È il periodo, io ti capisco. È tutto confuso, e stanno cambiando delle cose, e… devi solo avere pazienza, poi andrà tutto a posto. – ed io non capisco cosa cazzo stia dicendo, e lui deve leggermelo negli occhi, perché sorride appena, spiegandosi meglio. – Andrà meglio. Le cose si calmeranno e potremo tornare tutti a pensare lucidamente. È solo che questo momento qui deve passare, perché è evidente che sennò usciremo tutti fuori di testa. Lo capisci cosa intendo?
E sì, lo capisco. Non del tutto, forse, c’è qualcosa che mi sfugge, ma al momento non posso pensare anche a questo, perciò chiudo gli occhi anch’io, cercando di adattare il ritmo del mio respiro al suo nella speranza che questo possa darmi un po’ della sua calma, per lo meno apparente, ma funziona poco. Però lo capisco.
Mi allontano, e lui non mi trattiene.
- Cosa sta succedendo? – chiedo. Lui distoglie lo sguardo. – Cosa è successo?
- Non è il caso di parlarne adesso. – risponde con un sospiro stanco. – Ma ti giuro che—
- Lasciamo perdere. – mi rassegno, abbassando gli occhi. Mi passa per la mente in un lampo la consapevolezza che il problema fondamentale che ci trasciniamo dietro da ormai quasi due anni è quest’assoluta incapacità che abbiamo di immaginarci a vivere una vita gli uni senza gli altri, e che se non superiamo questo scoglio non riusciremo mai a risolvere neanche la metà dei casini che ci rendono difficile l’esistenza.
Lui, comunque, annuisce. Quando mi volto per tornarmene a casa, non mi chiama. Mi lascia andare, e credo lo faccia con la consapevolezza che lasciandomi andare potrebbe anche non rivedermi più, ma da qualche parte dentro di sé la sente come la cosa giusta da fare, e io so che probabilmente è così. Perciò lo lascio andare anch’io, sperando che il Chaku abbia ragione. E cerco di non pensarci troppo.