Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido.
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Slash.
- Bill e Bushido si preparano per andare alla festa di Halloween che David ha organizzato a casa propria, ma qualcosa li fermerà lungo il cammino...
Note: Questa storia – scritta per il primo concorso di Fidelity, l’Halloween Fest – è nata dal desiderio del tutto assurdo di far dire a Bill che voleva chiamare sua figlia Samhain XD Non chiedetemi perché, visto che un motivo non esiste non saprei cosa dirvi. So che l’idea mi piaceva ed ho voluto buttarla giù. Era nata per essere una shot breve, fluff, abbastanza divertente, ed alla fine è di una tristezza sconcertante. Questo, suppongo, perché io credo che sia Bill che Bushido vivano la paternità in modo molto… sentito, ecco. Perciò, che dire, si sono fatti un sacco di film pucciosi. E poi arriva la madre e… ;_; Prima o poi riuscirò a dar loro dei figli. <- ha già plottato tre o quattro storie in cui accade.
Gli obblighi per il contest erano la zucca (e c’è XD) un colore (ed ho usato il nero della piuma e dei vestiti di Bill), la presenza di Halloween (…che mi pare sia palese XD) e la contestualizzazione della città (con Berlino, ho fatto il meglio che ho potuto XD). Spero di non aver toppato XD
Mi è piaciuto scrivere questa storia, nonostante odi farmi del male scrivendo. E me ne sono fatta XD Non c’è niente di più doloroso, per quanto mi riguarda, delle illusioni che si spengono nel nulla. Questa storia ne è schifosamente piena. Però la vita è anche questo, punkt. Per una Billshido felice aspetterò il prossimo schizzo d’ispirazione =P
PS: Un grazie e un enorme bacio a Nai per il betaggio.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
SAMHAIN

La serata era cominciata – e proseguita – così bene, che Bill stava seriamente cominciando a sentirsi fiducioso rispetto al mondo che lo circondava. Generalmente, quando usciva con Anis l’universo intero sembrava mettersi di mezzo per ostacolarli – Tom si faceva prendere da uno scoppio di gelosia acuta, David ricordava improvvisamente che il giorno dopo avevano delle interviste e non poteva andare a letto tardi, la madre di Anis pretendeva il figlio a cena, Chakuza si spaccava la testa contro un armadio e si doveva correre tutti in ospedale e così via discorrendo – perciò era davvero raro perdersi in tutta quella piccola serie di normalissimi gesti che compongono una normalissima serata fra fidanzati e be’, sì, godersela. La doccia mentre lui si fa la barba, asciugare i capelli mentre lui si veste, vestirsi mentre lui si lamenta che si sta facendo notte, raggiungerlo in salotto, i baci, gli “andiamo”, perdere tempo sulla soglia indecisi fra uscire e rituffarsi in camera da letto…
Decisamente non erano cose che potessero godersi tanto spesso. Perciò Bill era felice. Ed il fatto fosse la notte di Halloween lo rendeva solo più emozionato.
Halloween in Germania non era esattamente fra le feste più sentite – troppo americana, troppo confusionaria, non ce lo mandi il tuo bambino a bussare alle porte di ogni casa di Berlino, si sa mai cosa ci trovi dietro quando ti aprono – ma a Bill i travestimenti erano sempre piaciuti, perciò aveva letteralmente obbligato David ad organizzare una festa nel mega-appartamento che aveva comprato quando anche loro si erano trasferiti nella capitale. Qualcosa di semplice, giusto una cinquantina di persone, solo gli amici più intimi, il loro staff, la crew, qualche imbucato, cose così.
Ed Anis, naturalmente. Anis che, come da fantasia sessuale ricorrente, aveva provveduto ad avvolgere in cinquecento strati di tessuto dalle tonalità oscillanti dal blu notte all’azzurro cielo, prima di sentirsi rivolgere uno scocciato “Bill, da cosa cazzo sarei vestito?” cui aveva reagito con un sospiro rassegnato, prima di rispondere “Da tuareg, anche se ti manca il fascino, il mistero, la sensualità-”, “Il cammello,” aveva concluso Anis chinandosi a baciarlo sulle labbra, e la questione s’era chiusa lì.
Bill s’era vestito da principe – o almeno quella era stata la sua intenzione iniziale, ma quando aveva cominciato ad aggiungere borchie su borchie, reti su reti e chili di trucco su chili di trucco, Anis s’era giustamente voltato a guardarlo ed aveva commentato che dovrebbe essere vietato travestirsi da Bill Kaulitz ad Halloween. Se non a tutti, almeno a Bill Kaulitz stesso.
“Non sono travestito da me stesso!” aveva obiettato lui, offesissimo, mostrando con cipiglio fiero la lunga piuma nera che pendeva dal cappello a tesa larga, “Sono un principe! Un bellissimo principe!”.
“Con seri problemi di orientamento sessuale,” aveva sghignazzato Bushido, dandogli una pacca sul sedere.
“Esistono anche i principi gay,” era stata la sua secca e lapidaria risposta. Anis non aveva ribattuto – anche perché, se poteva esistere un re del ghetto, di sicuro poteva esisterne anche un principe. E se era gay il re, figurarsi il resto della famiglia reale.
Erano usciti nel gelo di fine ottobre avvolti in tanti di quegli strati di lana che i loro costumi neanche s’intravedevano, sotto. Tutto ciò che restava erano i pantaloni azzurrissimi di Anis, quello sciocco turbante che Bill gli aveva calcato sulla testa e la piuma nera del ragazzo, che ondeggiava libera lungo la sua schiena, fra le scapole magrissime e appuntite, mascherate appena un po’ dalla forma dal giaccone imbottito.
Stavano ancora camminando verso casa di David – a pochi isolati dalla loro – quando l’avevano sentito. Nella perfetta indifferenza generale – un ghiaccio, quello del popolo tedesco, che Anis riusciva a comprendere solo marginalmente e solo perché in Germania aveva sempre vissuto, e che a Bill invece non era mai appartenuto, probabilmente perché a Bill non importava moltissimo del proprio luogo di provenienza, preferiva divertirsi a conquistare il mondo piuttosto che restare attaccato alle proprie radici di sfigato campagnolo senza speranze.
L’avevano sentito, comunque, il pianto di un bambino. E non avevano potuto ignorarlo.
Anis aveva guardato Bill, Bill l’aveva fissato di rimando e poi s’erano annuiti a vicenda ed avevano cominciato a perlustrare la zona con gli occhi. L’avevano trovato accanto a un cassonetto dell’immondizia, come in ogni classico del genere. Non particolarmente nascosto, per la verità, era solo lì, dove non è che ti aspetti esattamente di trovare una culla addobbata di giocattoli come un albero di Natale prematuro, che custodisce al proprio interno un bambino frignante bianco e lucido di lacrime, una piccola perla, però più rumorosa.
Bill si avvicinò col timore che Anis gli aveva visto usare solo nei confronti delle cose fragili. Il timore col quale approcciava il proprio fratello quando lo vedeva triste, ad esempio. O quello col quale si avvicinava a lui dopo un brutto litigio – quando aveva paura di perderlo.
Sorrise rassicurante, stringendosi a lui mentre si chinavano a sbirciare all’interno del passeggino.
- Ma è piccolissimo… - fu il commento del ragazzo, esalato appena fra uno sbuffo di fiato condensato e l’altro, - Avrà un paio di mesi…
Per la verità il fagotto di copertine, peluche e sonagli era un po’ troppo grassoccio per essere davvero così piccolo, ma all’uomo non sembrò il caso di farlo notare al proprio compagno che, sempre più esitante, allungava una manina bianca e ghiacciata verso la creatura, probabilmente nel tentativo di sincerarsi della sua effettiva esistenza.
- Anis… - mormorò Bill sfiorando la guancia del bambino ed ottenendo in cambio un pianto ancora più dirotto ed un sacco di agitazione sotto le coltri di lana, comprensiva di braccina agitate e gambette scalcianti, - che facciamo? Non possiamo mica lasciarlo qui.
L’uomo si morse un labbro e cercò di riflettere, mentre Bill lasciava scivolare le dita lungo la guancia del bambino ed andava a cercarne la piccola mano – ora esposta al freddo della notte – fino a farsi catturare da quei salsicciotti paffuti che continuavano ad aprirsi e chiudersi convulsamente alla ricerca di qualcosa da stringere.
- Forse dovremmo portarlo alla polizia… - cercò di suggerire facendo leva sulla parte più razionale di sé e cercando di ignorare il proprio cervello che, alla vista di Bill che pasticciava col bambino piangente, aveva già fatto le valigie da tempo. – Magari i suoi genitori lo stanno cercando, non sembra… un bambino abbandonato.
Bill aggrottò le sopracciglia.
- Che esperienza hai tu, esattamente, circa i bambini abbandonati? – protestò animatamente, rimboccando le coperte attorno al corpicino ancora scosso dai singhiozzi, - E poi, che vuol dire? Se non sono chiusi in un sacchetto di plastica allora non possono essere stati abbandonati? È accanto a un dannato cassonetto dell’immondizia! Che altro ti serve?!
In realtà a Bushido non sarebbe servito altro, teoricamente. Solo che pensava anche ci fosse una bella differenza fra il rimanere colpiti da un bambino piangente e solo nella notte ed il prendersene la responsabilità.
Non era una cosa loro, di lui o di Bill. Era una cosa che gli era capitata fra le braccia.
Triste quanto vuoi, ma non da prendere sottogamba.
Gli occhi di Bill, comunque, urlavano “teniamolo”, e Bushido dovette farsi violenza per non ricordargli che non si stava affatto parlando di un cucciolo o di qualcosa di altrettanto semplice trovato per strada.
Sospirò profondamente e scrollò le spalle. Era una tipica situazione in cui, qualsiasi cosa fosse uscita dalle sue labbra, sarebbe stata quella sbagliata. Perciò preferì stare zitto e lasciare che Bill si esibisse in una delle proprie attività preferite – fingere di saper risolvere i problemi proponendo soluzioni al limite dell’assurdo, alle quali tutti poi sottostavano perché… perché lui era Bill e non esisteva davvero qualcuno capace di resistere a quelle labbra, quegli occhi e quelle sopracciglia, quando si atteggiavano in un determinato modo.
- Facciamo così, Anis… - sorrise infatti il ragazzo, posandogli distrattamente una mano sul braccio, in corrispondenza del tatuaggio col nome di sua madre che, quando veniva chiamato in causa, come in quel momento, risvegliava sempre la parte più tenera, più morbida e più drammaticamente scema della sua personalità, - Stanotte lo portiamo a casa, così almeno si scalda un po’. Domani mattina, con calma, ci ragioniamo su e vediamo se è il caso di portarlo alla polizia o procedere diversamente.
Sarebbe stata una soluzione perfettamente razionale, e Bushido sarebbe stato perfino d’accordo, non fosse stato per il piccolo particolare che lui amava Bill e, siccome lo amava, lo conosceva anche. Conoscerlo, nella situazione specifica, implicava leggergli dentro, però. E nel fondo degli occhi di Bill c’era ancora lo stesso urlo di pochi minuti prima. Teniamolo.
Sospirò.
- D’accordo. – concesse estenuato. D’altronde, erano comunque quasi le undici di sera ed aveva i suoi dubbi che portare il pargolo alla polizia avrebbe sortito effetti immediati. – La festa? – chiese quindi, estraendo già il cellulare dalla tasca del cappotto per avvertire chi di dovere che non si sarebbero presentati.
Bill inarcò un sopracciglio e lo fissò con curiosità.
- Che c’entra la festa? – chiese, con aria perfettamente ignara.
- …ci andiamo o no? – esplicitò lui, facendo scattare il flick del cellulare per invitare chiaramente Bill a rispondere “no, naturalmente torniamo a casa”. Bill non colse l’invito.
- Ovviamente sì. – rispose, disincastrando le ruote del passeggino dai sacchetti di plastica sparsi per terra, - Anzi, diamoci una mossa. Congelerà, se continua a stare qua fuori.
Bushido annuì e si mise al suo fianco per accompagnarlo lungo le poche vie che ancora li separavano dall’appartamento di David, dove, dato l’orario, tutti dovevano già aspettarli da almeno una buona mezz’ora, se non di più. A quel punto, riflettere sulla propria condizione di uomo asservito sarebbe stato deleterio ed inutile: poteva solo immaginare il putiferio che sarebbe scoppiato quando, alla festa, tutti i loro amici e conoscenti avrebbero posato gli occhi sul nuovo membro temporaneo della loro famiglia. Più che lanciarsi a peso morto sul materasso dell’autocommiserazione, gli conveniva restare attento e vigile e badare che Bill non perdesse troppo la testa.
*
David Jost era una persona estremamente semplice da capire, come tutte le persone puntigliose ed ordinate. Solo persone come lui potevano svolgere un mestiere come il suo con tanta bravura, perché per riuscire a governare quattro scalmanati in odore di successo ti serve comunque mantenere una certa rigidità. Uno schema mentale molto solido, insomma, qualcosa cui aggrapparti quando ti svegli al mattino e ti trovi immerso nel caos di un gruppo di adolescenti fuori di testa che sbraitano incolpandosi vicendevolmente per l’estinzione del latte all’interno del frigorifero, e tu non puoi fare altro che guardarti intorno, renderti conto di esserti addormentato sulla tastiera del computer e sperare di non avere i segni dei tasti su tutta la faccia, perché rimproverare dei ragazzini in quelle condizioni di certo non aiuta a renderti autoritario e serio.
A Bushido erano bastate un paio d’ore per inquadrarlo. Quando, spinto da un Bill in palese ansia da approvazione, s’era presentato all’ufficio del manager per ufficializzare la loro relazione, Jost aveva ascoltato ciò che aveva da dire e poi gli aveva posto tre semplicissime domande.
Numero uno: ci tieni davvero a lui?
Numero due: sai in cosa ti stai cacciando?
Numero tre: sei proprio sicuro di volertici cacciare?

Aveva incassato i suoi tre sì di risposta, aveva annuito e poi, semplicemente, aveva agito.
Tempo una settimana, il mondo sapeva che la relazione che migliaia di fangirl avevano immaginato per mesi era semplicemente diventata realtà. Tempo un’altra settimana, il fuoco fatuo della morbosa curiosità dei paparazzi s’era un po’ attenuato ed era tornato ai livelli – altissimi, ma tutto sommato normali – sui quali si attestava in qualsiasi altro periodo dell’anno.
Se le cose si erano svolte così pacificamente, Bushido sospettava lo si dovesse unicamente a quell’uomo. La sua metodicità era qualcosa di incrollabile ed incredibilmente utile.
Bushido, perciò, si fidava di Jost. E, entrando nel suo appartamento, si disse che non aveva niente di cui preoccuparsi, non sarebbe stato da solo a fronteggiare la palese follia di Bill – che aveva continuato a chiacchierare di stanzette con le pareti rosa o celesti per tutto il tempo della strada – e la giustificata curiosità del resto dei loro amici.
Jost, grazie a Dio, non lo deluse.
Stava appollaiato su una sedia a fianco di un’enorme zucca intagliata che sovrastava tutti gli ospiti di almeno una spanna. Non poteva essere vera, ma era bella come lo fosse. Non era palesemente fasulla: non era lucida né eccessivamente liscia e plastificata. Era, invece, opaca e piena di bitorzoli. Ed emanava anche un buon profumo.
Bushido e Bill fecero il loro ingresso all’interno dell’appartamento del manager che l’orologio aveva appena finito di scoccare l’undicesimo rintocco, e la zucca fu in effetti la prima cosa che Bushido vide. Fu anche la prima cosa che vide Bill, naturalmente, e fu per questo che squittì di gioia e batté le mani e per un secondo – un solo secondo – Bushido ricordò che era un ragazzino e sperò potesse essere infantile proprio in tutti i campi: compreso quello delle decisioni avventate.
La verità, però, era che Bill fosse sì un tipo da decisioni avventate, ma anche uno che quella stessa decisione, una volta che l’aveva presa, la portava avanti fino alle sue estreme conseguenze.
Anis pregò semplicemente che quella di Bill non fosse ancora una decisione. E sollevò una mano per salutare.
Tom, che aveva aperto loro la porta, li squadrava dalla soglia con un’espressione indecifrabile sul volto.
- …non capisco da cosa siete travestiti. – confessò alla fine, inclinando un po’ il capo, - Una famiglia di immigrati, tipo? – chiese, puntando il dito verso il passeggino. – Bill, ma dove l’hai trovata questa bambola? Dio mio, è così realistica che fa impressione… - mugolò con orrore mal dissimulato, lasciandosi andare perfino ad una smorfia.
Bill distolse gli occhi dalla zucca e li portò sul proprio fratello.
- Non è una bambola. – precisò candidamente, - È un bambino vero.
Il silenzio, che era ovvio crollasse su tutti loro dopo una rivelazione del genere, fece esattamente ciò che Bushido si aspettava. L’uomo si ritrovò quindi ad osservare Bill e suo fratello squadrarsi con aria incerta mentre, tutto intorno, i vari invitati – poteva perfino intravedere l’immancabile cappellino di Chakuza qualche metro più in là – si voltavano a spiare la scena.
In tutto questo, l’unico suono che sentì fu quello della sedia sulla quale David stava appollaiato. La sentì strisciare contro il pavimento per molti lunghissimi e sfiancanti secondi e poi fermarsi. L’uomo li guardava entrambi. Lui e la zucca sembravano guardarli con lo stesso cipiglio carico di… non era esattamente disapprovazione. Qualcosa più sul tipo del “ma esattamente, per quale motivo siete così stupidi?”. Una cosa più da padre rassegnato e bonario che non da uomo giudicante.
Già il secondo successivo, la perfetta illusione di silenzio che avevano vissuto s’era dissolta come una bolla di sapone e tutti gli invitati s’erano raggruppati attorno al passeggino per sbirciare all’interno. Il bimbo dormiva tranquillo, per niente disturbato dal vociare che riempiva la stanza. Bill osservò le sue guanciotte tonde prendere colore mentre il pancino si alzava e si abbassava al ritmo un po’ accelerato del suo respiro, e Bushido sorrise.
David si fece strada attraverso il capannello di invitati con un semplice colpo di tosse. La marea si aprì come di fronte a Mosè e lui poté guardare all’interno del passeggino, per poi scrutare le espressioni dei nuovi arrivati ed incrociare le braccia sul petto.
- Prima di tutto, Tom, - disse, rivolgendosi al rasta, - chiudi la bocca. Non ti hanno mica appena detto di averlo partorito. – sospirò pesantemente mentre Tom, imbarazzato, obbediva, e poi tornò a guardare Bill. – L’avete trovato da qualche parte, vero?
Il moro annuì, stringendosi lievemente nelle spalle.
- Era vicino ad un cassonetto. – spiegò sommessamente, in un tono che utilizzava solo col proprio manager, lui che in genere era tutto un’esplosione di esuberanza o, al limite, di scazzo cronico. – Non potevamo lasciarlo lì.
David annuì e si voltò a guardare Bushido, una domanda palese e silenziosa negli occhi.
Bushido scrollò le spalle e scosse il capo, arreso. David tornò a guardare il proprio cantante e fece la domanda di cui Anis aveva più paura in assoluto.
Ma avrebbe dovuto aspettarsela. David era un tipo da domande. Se non sai, non puoi gestire.
- Cosa avete intenzione di fare? – chiese a bruciapelo, come fosse un’informazione ordinaria, qualcosa di cui hai giusto bisogno per organizzarti la giornata, ed invece si stava parlando di organizzare un’intera esistenza. La loro, quella del bambino, tutte.
Bill si morse un labbro.
- Non potevamo lasciarlo lì… - ripeté con meno decisione. Bushido osservò la sicurezza vacillare nei suoi occhi e ricordò per quale motivo Jost riusciva ancora a stare dietro a quei ragazzi nonostante tutti gli anni passati e le confidenze condivise, cose che in genere trasformano i rapporti lavorativi in rapporti affettivi. Con lui non era successo, lui era riuscito a mantenere con i ragazzi un rapporto affettivo completamente avulso e parallelo a quello lavorativo. Era questo l’unico motivo per il quale ancora riusciva a portare un po’ di sale in quelle zucche.
David annuì a prese atto.
- Intendete tenerlo? – precisò dunque, e Bill sbiancò, terrorizzato.
- David, non mi sembra il caso- - cercò di intromettersi Bushido, che sì, non aveva alcuna voglia di ritrovarsi una responsabilità simile fra capo e collo così all’improvviso, ma non aveva nemmeno voglia di stare ad osservare il proprio ragazzo sciogliersi in un mare di lacrime perché si rendeva conto di essersi perso in fantasie poco raccomandabili nell’illusione di una notte stregata come quella.
Il manager, comunque, lo zittì con un cenno del capo.
- È una cosa importante. – spiegò a mezza voce, senza il minimo astio e senza neanche un pizzico d’irritazione, solo con competenza: da bravo amministratore di vite altrui. – Intanto, c’è da pensare alla denuncia. Poi, se pensate ci sia la possibilità di tenerlo, avviare le pratiche per l’adozione. Quando e se la madre dovesse ripresentarsi, naturalmente andrebbe tutto a quel paese, ma in caso contrario si dovrà formalizzare il tutto e-
- David, ma Cristo santo, non lo vogliono mica tenere, il moccioso! – sbottò Tom, scioccato, piantando una mano sul fianco e sporgendo un po’ l’anca in una posa molto simile a quelle tanto tipiche di Bill.
David inarcò un sopracciglio e tornò a guardare il Kaulitz minore.
- Bill? – lo chiamò, palesemente alla ricerca di una conferma o di una smentita rispetto alle parole del fratello.
Bill continuò a mordersi il labbro.
Bushido sospirò.
- Sarà il caso di pensarci domattina, David. – disse infine, stringendo con un braccio Bill attorno alle spalle, - È quasi mezzanotte, ormai, e siamo venuti qui per festeggiare. Il bambino, semplicemente, non potevamo lasciarlo lì. Al resto penseremo domani. D’accordo?
David lo guardò ed annuì sbrigativamente. Nei suoi occhi c’era ancora soltanto efficienza.
- D’accordo. – confermò, - Era solo per prospettarvi ogni possibilità. – poi sorrise, addolcendo lo sguardo e stendendo i lineamenti del volto, - Ma possiamo sicuramente farlo anche domani mattina. – concesse sereno.
Bill forzò un sorriso poco convinto, Tom sbuffò e si mosse verso il tavolo colmo di drink e stuzzichini e Bushido realizzò coscientemente di aver appena evitato al mondo una crisi isterica del proprio ragazzo.
Il mondo avrebbe dovuto cominciare a pensare ad un adeguato compenso nei suoi confronti.
- Ehi… - mormorò, rivolgendosi al ragazzo quando la folla si fu dispersa, - È tutto a posto, sì?
Bill ridacchiò nervosamente.
- Sì, certo. – annuì, - È che non mi aspettavo che gli altri la prendessero così seriamente.
- Così seriamente, Bill? – ritorse con un sorriso incredulo e vagamente ilare.
Bill esitò incerto.
- Lo so che un bambino è una cosa seria, Anis. – sospirò profondamente, - Solo non mi aspettavo che… va be’. – si arrese alla fine, scrollando le spalle, - Meglio trovare un posto silenzioso dove metterlo.
Bushido annuì e lo osservò allontanarsi a sguardo basso verso David, che ciarlava allegramente con Tobi accanto alla zucca. Bill richiamò l’attenzione del manager tirandogli la maglia – un gesto infantile che Bill ripeteva spesso con chiunque e che Bushido sospettava fosse stato generato dai vestiti extralarge di Tom, che imploravano per essere tirati – e poi Bushido li vide sparire insieme lungo il corridoio.
- Atze. – si sentì quindi chiamare, e quando si voltò trovò a guardarlo Chakuza, o almeno ciò che in una vita passata doveva essere stato Chakuza e che in questa era, invece…
- …da cosa sei travestito, Chaky?
- Uh? Da Peter Pan.
…un Peter Pan con un berretto da baseball calcato fin quasi sotto le orecchie.
Scoppiò a ridere senza ritegno e ringraziò Dio di avergli dato un amico naturalmente ridicolo, perché in situazioni come quelle ci si ricordava sempre che cose simili erano davvero indispensabili.
- Non mi prendere per il culo, Atze, ci ho messo due secoli a sceglierlo… - borbottò Chakuza, incrociando le braccia sul petto.
Bushido continuò a ridere, cercando invano di fermarsi.
- Scusa, scusa… - concesse quando infine gli riuscì di porre un freno a quello scoppio d’ilarità, - È che… è una calzamaglia, quella, Chaky?
- Era nel costume!!! – si giustificò lui, arrossendo furiosamente e macchiando di rosso quella tondissima faccia bianco latte.
- E non c’era anche un cappellino, assieme al costume? – inquisì, indicando il berretto con un cenno del capo.
- Sì, ma che cavolo, c’era una piuma sopra! Volevo far contento Bill perché sembrava tenerci a tutta questa storia dei costumi, ma ho ancora una dignità. – spiegò seriamente, annuendo. Poi si interruppe un secondo e fece una cosa che Bushido aveva imparato ad interpretare come segno di guai: assottigliò gli occhi. Quando Chakuza assottigliava gli occhi era perché stava per farti una domanda scomoda. E stava per fartela a bruciapelo, scorrettamente, di modo che non potessi proprio evitarla. – E tu? – chiese infatti, inarcando un sopracciglio inquisitore.
Bushido sospirò.
- Io… sono vestito da tuareg. – rise sfibbiando il cappotto e lasciandoselo scivolare lungo le braccia, prima di appenderlo alla spalliera di una sedia.
Chakuza ridacchiò scuotendo il capo.
- Non era quella la domanda. – precisò con un’occhiata dubbiosa.
Bushido scrollò le spalle e sospirò ancora.
- Non lo so se ho ancora abbastanza dignità per dirgli no su questo punto. – rispose guardando altrove, visibilmente in imbarazzo.
Chakuza gli allungò una poderosa pacca in mezzo alle scapole.
- Ti ha ridotto uno straccio, Atze. – commentò divertito, - Ma si tratta sempre di un bambino. Non vostro, oltretutto.
- Sì, sì! – esalò lui con tono lamentoso, alzando gli occhi al cielo, - Credi che non ci abbia pensato? È assurdo, ci è capitato fra le mani meno di un’ora fa e lungo la strada Bill è riuscito a farsi tanti e tali film da confondermi.
- …confonderti in che senso? – inquisì Chakuza, sospettoso.
- Non ne ho idea. – rispose sinceramente lui, - In tutti i sensi, temo. È che mi piacerebbe-
- Alt, alt! – lo fermò l’uomo, agitandogli le mani davanti al viso, - Fermati. Stai per dire una cosa di cui potresti pentirti fra qualche minuto.
Bushido si morse un labbro e rimase in silenzio.
Jost, nel mentre, era tornato in salotto. Da solo. Bill doveva essere rimasto con il bambino.
- È questa la cosa che mi spaventa. – disse alla fine, allungandosi a recuperare una lattina di birra dal tavolo poco distante, - Forse invece non me ne pentirei.
*
Era una femminuccia, doveva trovarle un nome.
David era andato via da dieci minuti ed era da quando s’erano ritrovati costretti a spogliarla e cambiarla – visto che aveva ricominciato a piangere e non aveva smesso fino a quando non avevano capito che il fastidio era nel pannolino, e perciò dovevano eliminarlo – che Bill non faceva che pensare a quel particolare.
Era una femminuccia, doveva trovarle un nome.
Fu per questo che, quando Tom, certo di trovarlo ancora lì, entrò in camera e si gettò sul letto accanto a lui, le prime parole di Bill furono proprio quelle.
- È una femminuccia, dovrò trovarle un nome.
Tom rise e si stese per tutta la lunghezza del materasso, allargando gambe e braccia e tirandolo per un lembo della maglia traslucida che, in teoria, doveva rappresentare la camicia del bellissimo principe che era.
- Cos’è, le hai sbirciato sotto la gonna? – chiese suo fratello quando ebbe ottenuto ciò che desiderava, cioè che lui gli si distendesse praticamente addosso, poggiando il capo contro la sua spalla ed una mano sul suo petto.
- No, scemo. – borbottò Bill, pizzicandolo attraverso la maglia, - Le ho cambiato il pannolino. – Tom inarcò un sopracciglio, dubbioso. – Be’… David le ha tolto il pannolino e l’ha avvolta in un telo di lino ripiegato in quattro… e poi l’ha fissato con una spilla da balia.
Il rasta scoppiò a ridere, passandosi una mano sugli occhi.
- Quando penso che quell’uomo non potrebbe essere più gay di com’è, ecco che lui mi contraddice! – commentò divertito. Bill lo punì con un altro pizzicotto.
- Non essere cattivo con David, la piccola aveva bisogno di essere cambiata! - ...ed io non avrei saputo dove mettere le mani per farlo, pensò distrattamente ed un po’ amaramente, ma evitò di dirlo ad alta voce. – E comunque da cosa diavolo saresti vestito? Mi sembrava di essere stato chiaro, costume obbligatorio!
Tom roteò gli occhi.
- Sono vestito da me stesso! – spiegò annuendo.
- Ma non puoi vestirti da te stesso! – protestò Bill, incredulo.
- Be’, tu l’hai fatto. – scrollò le spalle suo fratello.
Bill sbuffò.
- Ma perché lo dite tutti? Sono vestito da principe…
Tom ridacchiò e gli lasciò un bacino sulla tempia, stringendolo un po’ per le spalle.
- Non cambiare discorso, comunque. – lo riprese teneramente, - Stavamo parlando della bambina.
- Oh, sì. – annuì lui, - È femminuccia, - ricominciò immediatamente, - perciò-
- Non puoi tenerla, Bill. – lo interruppe seccamente Tom, stringendo un po’ di più la presa sulla sua spalla. – Non è tua.
- …be’, chi l’ha fatta non la voleva. – ritorse lui in un mugugno triste.
- Magari l’ha solo persa. – cercò di farlo ragionare il biondo.
- Ma non si perdono i bambini, Tomi! – sbottò, sollevando di scatto il capo per guardarlo negli occhi. Tom non lo evitò.
- Si perdono tante di quelle cose, nel mondo. – rispose con una scrollatina di spalle, - Comunque non puoi tenerla lo stesso. Non sei in grado. Guarda in faccia la realtà.
Bill tornò ad affondare il naso nel suo petto, giusto per ribadire ulteriormente che, in quel momento, di guardare in faccia la realtà non aveva proprio nessunissima voglia.
- Bill… - lo richiamò suo fratello. Il moro rispose con un mugolio indecifrabile e Tom sospirò e continuò a parlare. – Presente quell’enorme zucca che c’è in salotto? – chiese dal nulla, con tono divertito, - Ecco, pensa se ti dicessi: prendi quella zucca ed abbine cura fino all’anno prossimo. La voglio ritrovare nelle stesse precise identiche condizioni fra trecentosessantacinque giorni. Sarebbe una responsabilità mica male, eh? – Bill non rispose. Strinse la presa delle dita attorno alla sua maglietta e si limitò a sospirare. – Pensa tu con un bambino. Il bambino non deve neanche rimanere nelle stesse precise identiche condizioni, no, deve crescere, diventare più forte, imparare cose nuove. Tu ti stanchi di tutto dopo una settimana, Billi-
- Sarebbe diverso! – protestò finalmente lui, agitandosi furiosamente, - Non sarei solo, tanto per cominciare, e poi non potrei mai stancarmi di un bambino, non è mica un hobby del cavolo, è… - si morse un labbro, - …sarebbe una cosa mia e di Anis, capisci? L’abbiamo trovata insieme, sarebbe una cosa tutta nostra…
Tom rise sommessamente e lo circondò anche con l’altro braccio, stringendoselo contro.
- Tu stai facendo un mucchio di capricci, ma non sei proprio in grado di agire da persona responsabile. Una persona responsabile avrebbe preso il passeggino con tutti i sonaglini e, per prima cosa, l’avrebbe portato in centrale. Magari in ospedale, in alternativa, ma di certo non qui. E non fantasticando su quanto sarebbe bello tenerselo in salotto, quello stesso passeggino. – gli spiegò, coccolandolo lentamente, le dita fra i capelli ed il mento contro la fronte. – Né tu né Bushido avete fatto niente del genere. E questo dimostra che non siete ancora pronti per fare i genitori. – scrollò le spalle, - Prima o poi lo sarete. Ma adesso la bambina ha bisogno di un papà che sappia effettivamente come cambiarle un pannolino, non credi?
La bambina pensò bene di dargli ragione ricominciando immediatamente a miagolare scontenta, agitandosi fra le copertine. Bill si mise seduto e sbirciò all’interno del passeggino.
- Ma farà continuamente così…? – chiese sovrappensiero, allungando una mano ad accarezzarla su una guancia e sorridendo appena quando la vide calmarsi al suo tocco.
Tom si sedette al suo fianco.
- Non che io abbia un’esperienza particolarmente ricca, quanto a bambini, ma mamma si lamentava sempre dei bambini piagnoni, ricordi? Perciò probabilmente sì, fin quando non crescono, piangono.
- Mh. – annuì lui, vagamente triste.
Tom gli mise una mano sulla spalla.
- È che hanno solo questo modo di farsi capire. – spiegò con un sorriso.
Bill sorrise di rimando e si ripiegò contro di lui, alla ricerca di un altro po’ di coccole.
- Secondo te cos’è che sta cercando di dire adesso? – chiese a mezza voce, continuando a guardare la piccola.
Tom sospirò.
- Credo che le manchi qualcuno, Bill. Credo anche che a te manchi qualcuno come lei, ma… insomma. Lei dovrebbe venire prima, no?
Bill si morse un labbro ed annuì.
*
Si svegliò con la lieve risatina di Anis nelle orecchie e sorrise a propria volta, schiudendo gli occhi.
- Dormivi? – gli chiese l’uomo, sedendosi accanto a lui e facendogli passare un braccio attorno alla pancia, tirandoselo contro.
- Nnho… - mentì, mugolandogli addosso e stendendo il capo sulla sua spalla.
Anis rise ancora, fra i suoi capelli, e gli lasciò un bacio sulla tempia.
- Ho visto uscire tuo fratello e non te e mi sono un po’ preoccupato… - confessò, lanciando un’occhiata alla bambina profondamente addormentata nel passeggino.
- Deve essere andato via appena mi sono appisolato… - ipotizzò Bill, stringendosi nelle spalle. Poi lo guardò: - Appisolato, non addormentato, c’è differenza.
Bushido rise e scosse il capo, intenerito.
- Allora, oltre ad esserti appisolato, cosa stavi facendo?
Bill sorrise.
- La guardavo.
- …la?
- Già. – annuì entusiasta, - È una femminuccia. Dovremo trovarle un nome.
Bushido rise ancora, stavolta contro il suo collo, e lo strinse più forte.
- Se fai così, Bill, sarà difficile lasciarla andare.
Bill intrecciò le dita con le sue, mugolando mentre le labbra dell’uomo tracciavano una scia di calore un po’ umido lungo il suo zigomo.
- Non dobbiamo per forza. – protestò debolmente, chiudendo gli occhi.
- E invece sì. – gli sussurrò l’uomo, baciandogli la nuca, - Anche se eri bellissimo mentre la accarezzavi, per strada.
- Ed io muoio dalla voglia di vedertela prendere in braccio, Anis… - mugolò Bill, cercando di rivoltarsi nella sua stretta per baciarlo sulle labbra.
L’uomo lo lasciò muoversi e rispose al bacio perdendocisi dentro, Bill lo sentì abbandonare ogni resistenza in punta di lingua, mentre lasciava che l’abbraccio e le carezze sciogliessero ogni esitazione. Da qualche parte nella testa di Anis, Bill lo sapeva, c’era un mondo speciale in cui quella bambina era già loro e trotterellava felice per casa alla ricerca di un giocattolo o di qualcosa da mordicchiare. Quel posto, Bill lo conosceva bene. C’era anche nella sua, di testa.
Era orribile che l’unica realtà nella quale fosse proprio impossibile trovarlo, fosse anche l’unica realtà che contava qualcosa.
Si separarono l’uno dall’altro senza fare neanche un suono, restando per qualche secondo a respirare e basta, fronte contro fronte.
- Come la chiameresti? – chiese Anis senza aprire gli occhi.
Bill aggrottò le sopracciglia.
Il condizionale feriva un po’.
- Samhain. – rispose d’un fiato, stringendo le braccia attorno al suo collo.
Bushido sbuffò una mezza risata.
- Sarebbe?
- Celtico. – rispose Bill con un sorriso, - È la notte di Halloween in celtico.
- E pensi che sarebbe un nome adatto, per una bambina?
Il moro scrollò le spalle, abbandonandosi più comodamente contro di lui.
- Tu pensi che saremmo due genitori adatti, per una bambina?
Bushido strinse la presa attorno alla sua vita. Poi sospirò.
- Torniamo a casa?
*
C’era ancora molto freddo ed era decisamente molto tardi, ma Samhain s’era svegliata e, per la prima volta da quando l’avevano trovata, sembrava di buonumore. Appena aveva aperto gli occhioni aveva trovato Bill a fissarla dall’alto con una tenerezza disarmante, e non aveva avuto paura. Bill aveva sorriso. “Ciao stellina…” le aveva detto, “sei sveglia?”. Lei non aveva risposto, naturalmente, ma aveva afferrato un sonaglino a caso ed aveva cominciato a mordicchiarlo con quelle gengive rosa ed infantili, sbavando copiosamente sia sul giocattolo che sul telo di spugna che David aveva steso sulle coperte.
Bill e Bushido erano scesi per strada una decina di minuti dopo, nelle orecchie ancora le raccomandazioni del manager – controllare il pannolino, darle del latte tiepido come prima cosa appena tornati a casa, tenerla al caldo, coccolarla – e s’erano avviati sulla stessa strada che avevano percorso al contrario per arrivare da David.
Samhain stringeva fra le mani il sonaglio, Bill stringeva fra le mani il manubrio del passeggino e Bushido stringeva fra le mani le spalle fragilissime del proprio ragazzo.
Né Bill né Bushido – e probabilmente nemmeno Samhain – se ne accorsero, quando passarono di fronte al cassonetto dell’immondizia che li aveva visti unirsi. Era già nascosto sul fondo della mente, l’avrebbero riportato alla luce l’indomani mattina, quando tutto non sarebbe più stato magico e perfetto come in quell’istante ed avrebbe improvvisamente assunto toni più cupi e seri.
Davanti al cassonetto, però, ci passarono comunque. Ed anche quella seconda volta sentirono qualcosa.
- Karen!
L’urlo di una donna.
Si fermarono istantaneamente, stretti tutti l’uno all’altro, e si voltarono verso la fonte di quell’urlo: un corpo magro e slanciato, una donna bionda e pallida con un paio di enormi occhi celesti, avvolta in un cappotto beige ed affiancata da un bambino paffuto biondo anche lui, che stringeva per un polso.
- Oh mio Dio, Karen! – ripeté la donna, avvicinandosi a loro e tirando il bambino per il polso per un metro circa, prima di chinarsi e prenderlo in braccio per velocizzare le operazioni di spostamento, - Grazie a Dio!
Bill serrò automaticamente le dita attorno al manubrio. Bushido fece lo stesso con le sue spalle.
Era la madre.
Piangeva.
Era la madre.
La osservarono chinarsi sul passeggino e sfiorare la bambina con affetto e timore, come a volersi sincerare fosse ancora tutta intera, mormorando paroline dolci fra un singhiozzo e l’altro mentre il piccolino, accucciato accanto a lei, prendeva a piangere a propria volta, scosso dai suoi singhiozzi.
Samhain la imitò presto.
Bill si morse una guancia.
- I bambini… piangono molto spesso, Anis. – commentò a mezza voce, mentre si allontanava impercettibilmente dal passeggino, lasciandolo andare. Bushido non lasciò lui.
I due osservarono la donna riprendersi lentamente, smettere di singhiozzare e rimettersi in piedi, le mani strette saldamente attorno a quelle minuscole della bambina.
- Karl m’è scappato di mano… - spiegò la donna, asciugando le lacrime del bambino con un fazzoletto di carta, - C’era molta confusione e l’ho perso, ho dovuto rincorrerlo, non potevo lasciarlo andare via così, solo che quando sono tornata qui Karen era scomparsa e… - si morse un labbro, - Grazie a Dio siete tornati qui… grazie a Dio. Scusatemi. Grazie.
Bushido annuì lentamente. Bill si nascose contro di lui senza neanche un po’ di vergogna.
Quando la madre e i bambini furono spariti dietro l’angolo, i primi singhiozzi cominciarono a riempire l’aria, sovrastando il rumore dei tacchi dei passanti contro il marciapiede ghiacciato. Bushido li soffocò tutti uno dopo l’altro contro il proprio cappotto, stringendosi addosso Bill come il bambino fosse stato lui.
- Anis… - mormorò il ragazzo, andando alla ricerca di calore nell’incavo del suo collo, - Samhain…
- Va bene così, cucciolo. – lo rassicurò accarezzandogli la nuca, - Saremmo stati due genitori fantastici.
Bill annuì freneticamente contro la sua pelle, incapace di frenare le lacrime.
Prima o poi lo sarebbero stati davvero. In ogni realtà possibile.
back to poly

Vuoi commentare? »





ALLOWED TAGS
^bold text^bold text
_italic text_italic text
%struck text%struck text



Nota: Devi visualizzare l'anteprima del tuo commento prima di poterlo inviare. Note: You have to preview your comment (Anteprima) before sending it (Invia).