rp: massimo moratti

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Angst (lieve), Slash.
- Martedì, Mercoledì, Giovedì, Venerdì, Sabato e Domenica.
Note: Scritta per la Criticombola su prompt 68. “Pensavo non saresti mai tornato.” “Non sei mai stato bravo con le valutazioni di questo tipo.”, e ispirata in gran parte dal telefilm Dollhouse, ma comprensibile anche senza averlo mai visto, per la gioia di noi tutti.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Doll
68. “Pensavo non saresti mai tornato.” “Non sei mai stato bravo con le valutazioni di questo tipo.”


Martedì, ore 10.30
 
- Sei in ritardo.
I campi di Appiano Gentile sono silenziosi e vuoti. Ed enormi. Zlatan non riuscirà mai ad abituarcisi, ne ricorda uno solo e pure sgangherato. Ormai sono due anni – due anni? Due anni – che è tornato, due anni che cammina su quella sterminata distesa d’erba e non riesce ancora a riconoscerla.
- L’aereo era in ritardo. – sorride imbarazzato, grattandosi la punta del naso. José scrolla le spalle e sbuffa.
- Non è granché come presentazione alla tua nuova squadra. – commenta, consultando i propri appunti. Chissà cosa ci avrà scritto, poi. Zlatan non può impedirsi di sorridere, mentre sistema i calzettoni lungo le gambe.
- Ma tu già mi conosci. – obietta, - E anche gli altri.
José lo ignora.
- Comincia a correre. – ordina, allontanandosi verso la panchina per recuperare una bottiglietta d’acqua.
Bentornato, Zlatan. – si lagna lui, incrociando le braccia sul petto e battendo ritmicamente un piede per terra, - Sono contento di rivederti. Sei emozionato? Fra poco rivedrai i tuoi compagni.
José si volta a guardarlo inarcando, un sopracciglio.
- Quando rivedrai i tuoi compagni, lo decido io. – annuncia, una mano sul fianco e l’aria di chi non vuole sentire ragioni. – Comunque… - concede poi in uno sbuffo che si distende in un sorriso, - Pensavo non saresti mai tornato.
Zlatan ride, tirando su le maniche. Comincia a far caldo.
- Non sei mai stato bravo con le valutazioni di questo tipo. – risponde, e poi comincia a correre.
 
 
Mercoledì, ore 12.00
 
- Fra una settimana da oggi – dice José guardando un punto imprecisato in mezzo al folto degli alberi che circonda la Pinetina, - ci giocheremo l’ingresso in Champions.
Zlatan annuisce, ma dal momento che continua a palleggiare questo suo assenso si perde nel naturale movimento della testa che segue i saltelli ritmici delle gambe e delle spalle.
- Come ti senti a giocare contro il tuo Barça?
- Il Barça non è mai stato mio. – risponde senza perdere la concentrazione, - Come dovrei sentirmi?
José scrolla le spalle, richiudendo il bloc notes ed infilandolo nella tasca interna della giacca.
- Questo non posso dirtelo io. Come ti sentivi quando stavi lì e giocavi contro di noi?
- Questo è un paragone scorretto. – ride lui. La palla rimbalza sul ginocchio e va troppo in alto, lui quasi la perde ma lei torna in bilico sulla sua fronte neanche un secondo dopo. La tiene là in equilibrio per un po’, più per dimostrarsi che può ancora fare il funambolo senza cadere di sotto, che perché ne abbia effettivamente bisogno. – L’Inter è sempre stata speciale.
- Non devi dirlo per forza perché ora sei tornato qui. – gli fa notare José, quasi irritato.
- Non ho mai detto o fatto niente  per forza da che gioco a calcio. – lo rassicura lui, mentre la palla scivola lungo il profilo del suo viso e lui la recupera a mezz’aria con un altro colpo di ginocchio, prima di riprendere a palleggiare coi piedi. – Figurati se mi salta in testa di farlo adesso.
- Guarda che l’allenamento si è concluso da un pezzo. – taglia corto José, richiudendo la giacca e lanciando un’occhiata furtiva all’orologio da polso, - Puoi anche smetterla di palleggiare.
Zlatan sospira, afferra la palla al volo e la stringe tra le mani come volesse farla scoppiare. José non se ne accorge.
- D’accordo. – cede, - A domani.
José non lo saluta.
 
 
Giovedì, ore 16.30
 
- La partita di campionato di sabato sera è comunque più importante di quella di mercoledì col Barça, sono stato chiaro?! – urla José, furioso, e Zlatan si costringe a tenere lo sguardo basso, senza cedere all’impulso dirompente e del tutto idiota di risollevarlo, sfidarlo con un ringhio e poi prenderlo a cazzotti fino a lasciarlo steso incosciente per terra. Sa di non poterselo permettere. – La prossima volta che arrivi in ritardo ad un allenamento, Zlatan, non te lo faccio solo saltare. Ti spedisco in tribuna fino alla fine dei tuoi giorni o fino a quando il presidente, mosso a pietà, ti rispedisce in Spagna. O in qualsiasi altro cazzo di posto tu voglia trovarti piuttosto che stare qui ed ubbidire agli ordini.
- Smettila di tirare fuori la Spagna. – si concede di grugnire, senza però muovere un muscolo per ribellarsi in maniera più vigorosa. – È qui che sono, è qui che voglio stare.
- Bene. – sputa José con un astio che neanche cerca di dissimulare, - Allora dimostralo.
Lo lascia solo nell’atrio vuoto neanche due secondi dopo.
Branca passa di lì solo verso le cinque, e quando lo nota, con addosso la divisa della stagione passata, si irrigidisce tutto, in imbarazzo.
- È… successo di nuovo, vero? – chiede titubante. Zlatan forza un sorriso.
- Come sempre. – conferma stringendosi nelle spalle.
Branca prende un respiro profondissimo e si gratta uno zigomo.
- Penso che non mi ci abituerò mai. – confessa a bassa voce.
Zlatan non risponde, ma vorrebbe poter dire “neanch’io”.
 
 
Venerdì, ore 14.00
 
- Sei nervoso?
Zlatan scrolla le spalle, sistemandosi la fascia sulla fronte e stando attento a non lasciare a nessuna ciocca la libertà di scendere ad infastidirlo.
- Non particolarmente. – risponde, fingendo di guardarsi attentamente nello specchio, quando in realtà sta cercando di cogliere uno spicchio di José, che resta defilato al suo fianco, di spalle, e fissa davanti a sé con un sorriso apparentemente sereno. – Tu?
- Chi non lo sarebbe? – chiede a propria volta José, invece di rispondere. – La Roma è una squadra tosta.
- Che se non sbaglio sta sotto di noi. – puntualizza Zlatan, tirando su i calzettoni, - A quindici punti.
- Questo è del tutto irrilevante. – spiega José, il sorriso che si allarga appena. – Ogni partita è un universo a sé in cui tutto può succedere, indipendentemente dal momento di Campionato in cui arriva. Puoi far parte della squadra più forte del mondo, prima in classifica, più forte perfino dei campioni d’Europa, e perdere tre a zero con l’ultima in classifica, neopromossa e già destinata a tornare in B. Dipende tutto dall’atteggiamento col quale affronti l’evento.
- E qual è il tuo atteggiamento? – chiede Zlatan, voltandosi a guardarlo, - Sei appena uscito da una conferenza stampa in cui hai detto di avere piena fiducia nei mezzi della squadra.
- Infatti è così. – annuisce José, mettendosi dritto e muovendo qualche passo verso l’uscita degli spogliatoi. – Sì, penso che sarà questo, il mio atteggiamento.
Zlatan lascia perdere e lo segue all’esterno. Abbandonata in un angolo c’è una bottiglietta di Gatorade semivuota. È avvolta in un fascio di scotch bianco, di quelli larghi, da imballaggio, e sopra c’è scritto 45 con un pennarello nero a punta larga. Si morde un labbro e si china a raccoglierla. Conosce Mario abbastanza bene da immaginare possa averlo tranquillamente fatto apposta.
- Ragazzini. – sorride José, sedendosi sulla panchina poco distante, - Chissà da quanto è qui quella roba. – “probabilmente da meno di mezz’ora fa”, si dice Zlatan, sospirando pesantemente e proponendosi di strigliare Mario fino a fargli cambiare colore appena finito con José, - Gettala via e comincia a correre, zingaro. – ordina lui.
- Sì, mister. – e Zlatan obbedisce.
 
 
Sabato, ore 22.30
 
- Non sembri nemmeno stanco. – ride José, battendogli una pacca piuttosto allegra sulla spalla ancora umida. – È valsa la pena di venire fino a qua per rifilargliene cinque, mh? – commenta compiaciuto, e Zlatan sorride a propria volta nel pensare con un po’ di tristezza che non si sono mai allontanati da Appiano, ma a José non può dirlo. – I ragazzi sono già andati? – chiede lui, e Zlatan annuisce sbrigativamente.
- Erano tutti molto stanchi. – spiega. Anche José annuisce.
- È stata una grande partita. – aggiunge, - Si meritano un po’ di riposo. Anche tu te lo meriti. Come mai sei ancora qui?
- Volevo aspettarti. – risponde con un sorriso sincero, - E complimentarmi.
José ride, tirandogli un buffetto intenerito contro una guancia.
- Sei sempre il solito cretino. – lo prende in giro, - È merito vostro. L’ho detto ai giornalisti, di sopra. Siete una grande squadra, quest’anno, me lo sento-- già mercoledì sarà tutto diverso. Andrà tutto meglio.
Zlatan annuisce e si solleva in piedi. Lo guarda dall’alto per un po’, prima di chinarsi verso di lui e baciarlo lievemente sulle labbra, tenendo le mani ben strette dietro la schiena per evitare che possano prendere iniziative del tutto inappropriate.
- Sono contento di essere tornato. – gli bisbiglia addosso, guardandolo dritto negli occhi. José non capisce, ma non si scompone più di tanto.
- Che ti prende? – chiede, vagamente in imbarazzo, - Ti pare il caso dì-
- Mister. – sorride il presidente, entrando nello spogliatoio con le braccia spalancate e gli occhi colmi di gioia. – Ottima partita.
- Grazie, presidente Moratti. – annuisce José, cedendogli immediatamente tutta la propria attenzione, - È stato bello poterle fare finalmente vedere di cosa siamo capaci.
- È un po’ che mi fate vedere di cosa siete capaci. – ride Moratti, sembra al colmo della felicità, - Se questa striscia così positiva dovesse continuare, comincerò a prendere in seria considerazione la possibilità di seguirvi in trasferta anche nei turni infrasettimanali.
- Sarebbe un onore, presidente. – ride José, stringendogli la mano.
- Ma ora basta con i complimenti. – lo interrompe Moratti, senza lasciare andare la sua mano, - Dobbiamo già prepararci per mercoledì, ci attende una partita importante. – José annuisce. – È pronto per il trattamento?
José annuisce ancora. Si volta appena verso Zlatan, salutandolo.
- Mi raccomando, lunedì puntuale. – gli ricorda, e poi segue il presidente che gli fa strada fuori dalla porta, lungo il corridoio.
 
 
Domenica, ore 09.00
 
Zlatan apre gli occhi e prima ancora di svegliarsi del tutto ha già posato una mano sul cellulare appoggiato sul comodino, portandolo all’orecchio dopo aver velocemente digitato sul tastierino illuminato un numero di telefono che ormai conosce a memoria.
- Ciao, Zlatan. – risponde il dottor Combi, il quale, a giudicare dalla voce, dev’essere già sveglio da almeno tre ore, - Stai bene?
- Io sì. – annuisce lui, tirandosi a sedere ed osservando con la coda dell’occhio Helena ancora addormentata al suo fianco, - Chiamavo per José.
- Lui sta benone. – lo rassicura il dottore, un accenno di risata a rendere più simpatica la voce, - Per quanto possa star bene un uomo nelle sue condizioni. È a riposo, al momento.
- Non… - fatica un po’ a chiedere ciò che vuole sapere. Deglutisce e prende tempo. – Non sta mostrando strane controindicazioni alla terapia, giusto?
- No. – risponde Combi, del tutto tranquillo, - D’altro canto, non si può esattamente dire che si stiano facendo dei reali passi avanti. – sospira, un po’ sfiduciato, - Quando è a riposo, è come un guscio vuoto. Ogni tanto riprende coscienza, ma è più una coscienza del tutto avulsa dalla sua personalità che un vero e proprio risveglio del Mourinho che conosciamo. O che conoscevamo un tempo.
Zlatan annuisce.
- Capisco. – sussurra, - Quindi dobbiamo solo continuare.
- L’esaurimento nervoso è una brutta bestia, Zlatan. – dice il medico, la voce carezzevole come ce l’avesse davanti e volesse avvolgerlo in un abbraccio paterno, - Avevo una zia che ne soffrì a lungo. È meglio che tu non sappia com’è finita. – si prende una pausa, probabilmente per lasciargli il tempo di assimilare l’informazione non detta ma ugualmente trasferita. – Credimi, ce ne stiamo prendendo cura nel modo ottimale. Lo so che è frustrante e che ti sembra di ripetere sempre le stesse cose senza arrivare in nessun punto, ma fino a quando non sarà José a sbloccarsi noi non possiamo che cercare di ricondurlo verso quel punto in cui ha perso il controllo di tutto, consapevoli del fatto che è lui a doverlo ritrovare.
Zlatan annuisce ancora, è già stufo di questi discorsi. E il dottor Combi ha ragione: per la maggior parte del tempo lui ha davvero come la sensazione di non fare altro che girare in cerchio senza mai neanche allargarne la circonferenza, fosse anche solo per pochi centimetri.
- Già. – taglia corto, - Scusi se l’ho disturbata. A martedì.
- A martedì. – lo saluta il medico, cordiale, prima di interrompere la chiamata.
 
 
Martedì, ore 10.30
 
- Sei in ritardo.
I campi di Appiano Gentile sono silenziosi e vuoti. Ed enormi. Zlatan non riuscirà mai ad abituarcisi.
Si morde l’interno di una guancia con forza per non scoppiare ad urlare.
Comincia un’altra settimana.
- L’aereo era in ritardo. – sorride imbarazzato, grattandosi la punta del naso. José scrolla le spalle e sbuffa.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: G
AVVERTIMENTI: Gen.
- "Quando Bedy arriva, avvolta nella sua giacca di pelle, sfoggia un sorriso talmente felice che Massimo non può che fissarla incredulo per lunghi minuti, mentre lei si accomoda tranquillamente al suo fianco, accavallando le gambe ed intrecciando le dita in grembo."
Note: Subito prima e subito dopo Barça-Inter. Titolo da God Put A Smile Upon Your Face dei Coldplay. Prompt: Grave/Leggero @ It100.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
WHERE DO I GO TO FALL FROM GRACE// (GRAVE)
Quando Bedy arriva, avvolta nella sua giacca di pelle, sfoggia un sorriso talmente felice che Massimo non può che fissarla incredulo per lunghi minuti, mentre lei si accomoda tranquillamente al suo fianco, accavallando le gambe ed intrecciando le dita in grembo. Lui si sente così teso che la tensione ha assunto quasi la consistenza fisica di un masso che gli grava sulle spalle incurvandolo, ed ecco sua sorella, gioiosa come fosse appena arrivata ad un matrimonio. Inconcepibile.
- Cos’è, mi sono perso qualcosa in piazza? Mentre ballavate, Scarpini distribuiva bibite alcoliche senza che io ne sapessi niente? – chiede con una punta d’ironia, e Bedy ride.
- In realtà non abbiamo neanche ballato. – risponde, ravviandosi i capelli dietro un orecchio, - Ma sei nervoso? – chiede, fissandolo sorniona, e lui sbuffa, distogliendo lo sguardo.
- Tu no? – ritorce un po’ acido. Lei ride ancora.
- Io no. – risponde sinceramente, fissando il campo con fierezza.

(LEGGERO) //GOD PUT A SMILE UPON YOUR FACE
La partita finisce, il Camp Nou è una bolgia, ruggisce come una bestia finalmente libera da un lungo periodo di cattività, e la prima cosa che Massimo fa è saltare in piedi, il pugno teso in segno di vittoria. Poi si accascia al proprio posto, la tensione scivola fuori dal suo corpo in un flusso continuo e quasi rabbioso e lui perde perfino il sorriso, mentre le lacrime cominciano a rotolargli lungo le guance senza che lui possa fare niente per fermarle.
Sente qualcuno battergli una pacca su una spalla, probabilmente Joan, ma il momento in cui si riscuote davvero coincide con quello in cui le braccia di Bedy lo circondano e le sue labbra morbide e sottili stampano un bacio soddisfatto sulla sua guancia ancora umida di lacrime.
- Ma cosa fai, piangi? – ride sua sorella, stringendolo ancora e dondolandolo un po’ come quando erano più piccoli e lui, dopo essersi fatto male, cominciava a piangere rumorosamente, inconsolabile. – Sorridi! – lo incoraggia, pizzicandogli una guancia, - Sorridi!
Massimo si volta a guardarla. Piange ancora, ma sorride anche, e Bedy è soddisfatta così.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Accenni di Philippe/OMC, ma è una gen, fondamentalmente.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Gen, (accenni) Slash, (raccolta di) Drabble, What If?, OC, Spin-Off.
- "È il cinque giugno duemiladieci quando José Mourinho si presenta in Pinetina di gran corsa."
Note: LOL Dunque. Aprendo questa fic potrebbe capitarvi di sentirvi vagamente disorientati, e questo perché, anche se mi sono premurata di renderla leggibile anche a prescindere, questo non è che uno spin-off di una storia parecchio più lunga e corposa che sto scrivendo per il bigbangitalia e che pertanto non potrete vedere prima di ottobre. *cade* Mi spiace per l'inconveniente, ma le date sono quelle che sono e questo spin-off s'è incastrato troppo bene sia con il prompt famiglia della dodicesima settimana del Challenge Trimestrale @ dietrolequinte sia con i prompt numerici dell'ultimo challenge di it100, e capite, non potevo rimandare il postaggio o avrei perso entrambe le challenge "XD Una donna schiava delle community. *piange*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
NOTHING IS WHOLE AND NOTHING IS BROKEN


2010
È il cinque giugno duemiladieci quando José Mourinho si presenta in Pinetina, di gran corsa. Il centro sportivo è un cantiere aperto, ovunque gente che prepara valige per partire alla volta dei Mondiali, e se non lo fanno per i Mondiali lo stanno comunque facendo per andare in vacanza. Davide gira per i corridoi in pigiama, a piedi nudi, lo sguardo perso nel vuoto. Ha Joel alle calcagna che cerca di convincerlo a fare colazione, ma lui non sembra interessato. La partenza di Mario per Manchester, così anticipata rispetto a quello che tutti avevano creduto, l’ha scosso più profondamente di quanto lui non voglia lasciare intendere al mondo, e il fatto che fino al giorno prima anche lui fosse dato in partenza per Madrid non ha certo contribuito a rendere l’atmosfera di casa più leggera.
José inspira profondamente stringendo al petto il fagotto che porta con sé e schiarendosi la voce mentre una buona decina di facce si voltano interrogative verso di lui.
- Avvicinatevi. – dice a bassa voce, cercando di risultare rassicurante, - Devo parlarvi.

0
- Quanti anni ha? – chiede Davide, pigiando la guancia del bambino con un dito. José inarca un sopracciglio, dandogli uno schiaffetto sulla mano.
- Non ne ha. – risponde atono, - È troppo piccolo, è nato solo da qualche giorno. E non pigiarlo così.
- È così gommoso… - commenta Davide con aria vagamente sognante, - Ma è figlio suo? Non le assomiglia.
José distoglie lo sguardo. Dejan, intento ad appaiare calzini dal mucchio enorme che ingombra tutto il tavolo della zona giorno, inarca un sopracciglio.
- Non è figlio suo, vero? – dice, col tono di uno che non ha nemmeno bisogno di una risposta.
- Non è figlio mio, no. – conferma José con un sospiro, - L’ho trovato.
- L’ha t— - i calzini gli cadono dalle mani e lui si china a recuperarli, - Che cosa intende dire?
José sospira ancora, gli occhi colmi di inquietudine e incertezza. Poi porge il bambino a Davide, che lo prende tra le braccia con un urletto sorpreso e, nel momento in cui quello comincia a piangere, si mette a saltellare sul posto nel tentativo di calmarlo. Parzialmente, ci riesce. In pochi secondi, il bambino smette di frignare, anche se il labbro inferiore resta tremulo e tutto sporto in avanti, gonfio e umido e minuscolo.
- Si chiama Christos. – dice, - Davide, abbine cura per un po’. Deki. – chiama poi il serbo, cercando i suoi occhi, - recupera Javier ed Esteban. Devo parlarvi.

1
Christos è troppo piccolo perché Davide possa maneggiarlo con disinvoltura. Vorrebbe, ma non riesce. Quando stanno soli, per la maggior parte del tempo lo lascia nella culla, e lui sta seduto lì accanto. Sfoglia una rivista, gioca col DS e tiene il volume attivo anche se lo odia perché a Christos le musichette dei videogiochi piacciono. Quando ci sono i grandi intorno è sempre diverso, perché comunque si occupano sempre loro di tutto – cambiano pannolini, mettono pagliaccetti colorati, fanno bagnetti, spargono colonia baby e volteggiano per la Pinetina tenendo il piccolo fra le braccia, reggendogli la testolina minuscola nel palmo di una mano, con una confidenza che ha dell’incredibile – ma quando Davide è da solo con lui va quasi sempre nel panico. Non riesce a prenderlo in braccio neanche per allattarlo, infatti i grandi si sono dati dei turni per essere sempre presenti all’ora della poppata, e pensarci loro.
Davide non saprebbe dire perché non ci riesca, forse solo perché la prima volta che gli è stato messo fra le braccia nessuno dei due lo voleva veramente, perciò lui ha sclerato pesantemente e Christos pure. Alle volte, quando si china sulla sua culla e lo guarda lì sdraiato, gli occhi bene aperti, enormi e così scuri da non riuscire a distinguere la pupilla dall’iride, ha l’impressione che la risposta sia un’altra, ma sente di non avere ancora materiale sufficiente per comprenderla. Allunga una mano e gli pigia una guancia con l’indice. Christos cerca sempre di metterselo in bocca. Davide non può fare a meno di sorridere.

480
- Sono quattrocentottanta grammi di albumi e—
- Aspetta. – Davide lo interrompe, fissandolo negli occhi con aria allucinata, - In che senso quattrocento grammi di albumi?
Joel inarca un sopracciglio e schiude le labbra. Sembra che abbia la risposta pronta, ma all’ultimo secondo torna a tuffare il naso nel libro di cucina che ha chiesto in prestito alla signora Livia in mensa, scrutando la ricetta da vicino e seguendo le istruzioni con la punta del dito, giusto per non farsi mancare niente.
- Un secondo, - confessa leggendo, - non ne sono sicuro.
- Ma cosa non ne sei sicuro, Joey! – strilla Davide, agitando le braccia, - Eravamo partiti con “ci serviranno sei uova” e ora tu prendi e mi parli di albumi! Ma albumi cosa?! E se non ci bastano?!
- Sì, ma calmati! – strilla in risposta Joel, picchiandolo col libro sopra la testa, - Ma tu stai male, ma che problema hai?!
- Il mio problema è che abbiamo promesso di prepararla noi, la torta! – insiste Davide, massaggiandosi la testa e mettendo su un broncio da manuale, - Fra due ore qui sarà pieno di gente che festeggerà e sarà felice e Christos vorrà spegnere la sua candelina e io voglio che lui lo faccia sulla torta che noi gli abbiamo preparato.
Joel aggrotta appena le sopracciglia e poi si lascia sfuggire un sorrisetto un po’ stupito ma più che altro intenerito, e si piega verso di lui.
- Da quand’è che è diventato così importante, per te? – gli chiede con aria maliziosa, come di uno che ne sa più di quanto non voglia lasciar credere.
Davide si stringe nelle spalle e guarda altrove. Ci mette tutta la propria forza di volontà a risparmiarsi di rispondere sinceramente “da sempre”.

10
- Oh, cielo, ma quanto sei cresciuto? – la signora Milly porta entrambe le mani al viso, guardando Christos con sorpresa e gioia, - Sei un ometto, ormai! Scommetto che zio Deki deve tenerti lontano dal campetto delle bambine, perché sennò si distraggono tutte. – ridacchia.
Christos, intimidito, si nasconde dietro le gambe di José, stringendo con forza in un pugno due lembi della sua giacca. Lui gli appoggia una mano sulla testa, accarezzando i morbidi capelli ricci e scuri.
- Avanti, non fare il tonto. – ride Philippe, capitano già da quattro anni e nonostante questo ancora ansioso di mostrarsi responsabile in ogni occasione, come se, peraltro, gestire un bambino di dieci anni potesse essere una credenziale sufficiente per poter dimostrare di essere maturo abbastanza da gestire sul campo anche una squadra di undici uomini adulti. Non che José abbia poi mai davvero dubitato di lui, in questo senso, e dal momento che la sua prima scelta per la fascia, nel momento in cui finalmente avrebbe dovuto prenderla, non era più disponibile, non se n’è nemmeno mai pentito, ma Philippe ci tiene sempre a ricordargli ogni giorno che la sua scelta è stata quella giusta.
È per questo che prende Christos per mano e lo tira verso di sé, finché esce dal suo nascondiglio.
- Allora. – dice la signora Milly, piegandosi appena sulle ginocchia mentre il marito, al suo fianco, guarda Christos come splendesse di luce propria, - Ce l’hai già la fidanzatina?
Christos abbassa lo sguardo, stringendosi alla gamba di Philippe.
- No. – scuote il capo, - Io da grande sposerò lui. – afferma con convinzione, strattonando la sua camicia.
La signora Milly si rimette dritta, spalancando gli occhi e ridendo di cuore.
- Oh, così piccolo e già con le idee così chiare! – commenta divertita, - Prima o poi, Philippe, dovrai spiegargli che per una persona non è possibile sposarne più di un’altra contemporaneamente.
Philippe si stringe nelle spalle, imbarazzato, allungando la mano sinistra a stringere quella di Adriano – che, al suo fianco, ride di gusto. I loro anulari si sfiorano, le fedi tintinnano. Christos distoglie lo sguardo.

76
Il regalo per il settantaseiesimo compleanno del presidente Moratti lo porta Christos. Ha undici anni e del trofeo che ha fra le mani capisce ben poco, a parte il fatto che è enorme, ha due orecchie giganti e fa piangere tutti quelli che lo guardano. Fatica a tenerlo da solo, e per questo Philippe è al suo fianco: indossa la divisa e la fascia da capitano al braccio, e guarda dritto davanti a sé con occhi colmi di una tale fierezza che anche Christos non può fare a meno di sentirsi importante, anche se – ne è abbastanza certo – per contribuire alla gioia che in questo momento riempie la stanza e i cuori di tutti quelli che ci sono dentro.
Si ferma appena si ferma anche Philippe, ad un solo passo dal presidente, al cui fianco José sorride sereno. Moratti allunga un braccio ed accarezza il fianco della Coppa come un innamorato devoto, i suoi occhi sono dolcissimi e pieni di lacrime.
- Come faccia a sembrarmi sempre più bella, io proprio non lo so. – commenta con voce sognante. José gli appoggia una mano sulla spalla con confidenza.
- È valsa la pena di aspettare a festeggiare, no? – chiede con una mezza risata. Il presidente Moratti non riesce a staccare la mano dal trofeo, dai suoi occhi cerchiati di rughe scendono lacrime copiose che gli rigano le guance. Il cuore di Christos batte con una forza che non avrebbe mai immaginato possibile, e si vede già fra quindici anni al posto di Philippe, con quella stessa maglia, con quella stessa fascia, con quella stessa coppa, di fronte allo stesso presidente, e silenziosamente scoppia a piangere.

59
- Okay, i genitori di Christos sono stati convocati in presidenza a scuola. – annuncia teatralmente Esteban piantando ambo le mani sulla superficie in legno della scrivania nell’ufficio di José. Dietro di lui si apre a ventaglio una delegazione di giocatori ed ex-giocatori dell’Inter da fare invidia ad una partita di beneficenza.
- …cosa ha fatto? – chiede José, sbalordito, accomodandosi meglio contro lo schienale della poltrona girevole.
Esteban sospira, qualcuno dietro di lui ridacchia.
- Ha picchiato un compagno di scuola. – risponde quindi l’argentino, - Gli ha dato del negr
- Ho afferrato. – lo interrompe immediatamente José, rimettendosi dritto e poi alzandosi in piedi. – Dovremo decidere chi… forse è meglio mandare qualcuno di non abbastanza conosciuto, penso che—
- Ci vado io. – dice Davide, spuntando da dietro le spalle di Esteban e guardando José con aria decisa.
- No che non ci vai tu. – sbotta Philippe, affiancandoglisi, - Ci vado io.
- Ma questi ragazzini che prendono ed usurpano il ruolo dei loro diretti superiori? – si lagna Dejan, incrociando le braccia sul petto, - Che impressione volete dare? Ci andrò io.
- Perché naturalmente mandando te daremmo di certo l’impressione giusta. – ride Javier, rivolgendosi poi direttamente a José. – Andrò io, non c’è niente di cui preoccuparsi. Parlerò col preside e risolverò il problema.
L’incontro col preside della Scuola Media associata all’FC Internazionale è il più breve e il più affollato della storia di tutti gli incontri con tutti i presidi di tutte le scuole medie che siano mai state associate ad un club calcistico di tale livello. Si presentano in venticinque. In cinquantanove anni di vita, José Mourinho non ha mai visto una cosa simile, ma mentre Christos gliela racconta entusiasta, saltellando sul posto come il bambino che è, non può fare a meno di sorridere e concedersi un complimento distratto per aver fatto – come al solito – la scelta più giusta.

14
Christos ha quattordici anni quando si ritrova fra le mani il primo trofeo vero della sua vita, il primo che si sia guadagnato allenandosi e sudando e mettendocela tutta. L’allenatore non ha fatto che parlare con José e gli altri per tutto l’anno. “Christos è diverso dai suoi coetanei,” ha detto loro, “ha una grinta che gli altri non hanno. Questi bambini,” ha continuato indicando i suoi giovanissimi nazionali, “questi bambini giocano a calcio. Ma Christos è un calciatore. E lo è anche se è il più piccolo della squadra.”
Quella dei Giovanissimi Nazionali è la sua prima fascia da Capitano. Vuole crescere in fretta per avere quella degli Allievi, della Primavera, ed arrivare all’età di Philippe già pronto per indossare anche quella della prima squadra. Vuole quella fascia, quella maglia, quel posto. Quella coppa, perché ci pensa ancora e non riesce proprio a togliersela dalla testa.
Passa direttamente in Primavera a quindici anni. Per gli Allievi era già troppo.

33
Il giorno in cui il suo matrimonio finisce, Philippe ha trentatré anni. Nel momento esatto in cui le labbra di Christos si poggiano sulle sue, fameliche e implacabili e inevitabili come una condanna di cui si è saputo già troppo tempo fa, e che da qualche anno s’è preso ad aspettare quasi con gioia, Philippe non può fare a meno di pensare per un attimo a Gesù Cristo, alla sua morte in croce, al bacio di Giuda, e poi risolvere in un secondo che credere tanto in Dio e nei dettami della sua religione non serve veramente a un cazzo se, nel momento in cui un quindicenne evidentemente confuso dal mondo si alza sulle punte e ti bacia sulle labbra, tu non sei nemmeno in grado di respingerlo. O di opporti. O di fare qualunque altra cosa che non sia stringertelo contro, accarezzargli la schiena, sentirlo sciogliersi sotto le tue dita, invitarlo a schiudere le labbra picchiettandovi appena sopra con la lingua e poi affondare dentro la sua bocca sentendosi già caldo al punto da esplodere al solo pensiero di affondare dentro di lui fra qualche minuto.
Philippe lo sa, il suo matrimonio è finito. Christos ancora non sa che questo, per lui, non sarà sufficiente.

120
L’esordio ufficiale di Christos in Champions League dura centoventi minuti, ed è la finale del duemilaventisei. André è fuori uso dall’ultima di Campionato ed è dal giorno successivo al suo infortunio che, nonostante abbia giocato in prima squadra solo due volte, quest’anno, Christos implora José di concedergli una chance. José gli concede quella chance, dal primo minuto. “Te lo devo,” gli dice. Christos non capisce perché.
Inter e Chelsea si affrontano per i due tempi regolamentari ed anche per i due tempi supplementari. Centoventi minuti in tutto. Christos non fa che guardare la coppa sul suo piedistallo a bordocampo. Correndo sulla fascia, ogni tanto le passa così vicino che se solo allungasse un braccio la toccherebbe.
Il risultato non si sblocca. Centoventi minuti non bastano. José piange per tutto il tempo, nessuno se ne accorge, e non è per il risultato della partita.
Al centoventesimo minuto, Christos abbandona il campo. È in fondo alla lista dei rigoristi e dubita fortemente che arriverà il suo turno anche per quest’ultima fase della partita. L’Inter perde sei a cinque ai calci di rigore. Tutti ricevono delle medaglie. José indossa la propria solo per il tempo delle foto, poi la sfila e la ripone in tasca. Christos non se ne accorge. Sta fermo a qualche metro dalla coppa. Pensa di sollevare una mano ed accarezzarla, solo per vedere come si percepisce al tatto una cosa simile dopo che hai corso e sputato sangue per centoventi minuti al solo scopo di conquistarla.
Gli addetti UEFA la portano via prima che lui possa anche solo provarci.