animanga: fuuma mono

Le nuove storie sono in alto.

Fanfiction a cui è ispirata: "Pretty Piece of Flesh" di Juuhachi Go.
Genere: Romantico, Triste.
Pairing: Kotori/Kamui, Kamui/Fuuma.
Rating: R
AVVISI: AU, Shounen-ai, Spin-off, Spoiler.
- Kamui ha perso tutto. E nonostante questo, si rifiuta di tradire.
Commento dell'autrice: Finito XD Yay! Dunque, questa fic ha un'età decisamente alta °_° Pensate che l'idea di creare uno spin-off di questa storia è nata più o meno mentre la stessa era… circa alla sua metà. E fate conto che solo per scrivere l'ultimo capitolo alla Juccha sono voluti, tipo, sette mesi. Eggià. Assieme al concept, la prima cosa che è nata di questo racconto, incredibile a dirsi, è stata la scena in cui Kamui ha visto Fuuma per la prima volta *_* E' rimasta praticamente invariata in quanto a fatti, sebbene sia stata riscritta circa tre volte prima di raggiungere un risultato che trovasi stilisticamente almeno accettabile XD
A questa prima folgorazione è seguito un mesetto di silenzio, in seguito al quale ho ricevuto un'altra folgorazione XD stavolta per la parte KoKa. Che ho cominciato a scrivere mentre ero da mia nonna XD e che ho scritto quasi tutta in una volta. Dopodichè, parlando con la Juccha, lei mi ha fatto notare che sarebbe stato meglio aspettare la conclusione di Flesh, per vedere in che modo sarebbero finiti Fuuma e Kamui, e io l'ho accontentata, anche se avevo già deciso che, qualsiasi cosa potesse succedere a quei due alla fine, nello spin-off io avrei fatto in modo che il povero Kamuicchi finisse solo a abbandonato XD E non perché lo odi, non lo odio affatto ç___ç Solo che dal Fuuma di quella fanfiction non ci si può aspettare altro , mi sarei sentita una malvagia OOC se avessi parlato di amore eterno, e soprattutto, mi ci vedete a parlare di amore eterno in campo FuKa?!
Nonostante questo, credo che l'amore di Kamui per Fuuma non sia bistrattato in questo racconto :\ Anche perché, come ho già detto alla Juccha, sebbene io non l'approvi come pairing canon nel manga, nella sua storia sono molto affezionata a questa coppia, e rispetto moltissimo il sentimento che lega il Flesh-Kamui al Flesh-Fuuma ù_ù Ecco tutto è.é Spero vi sia piaciuta :*
Questo racconto è dedicato tutto alla mia Jucchola :O E non solo perché è uno spin-off della sua storia XD Ma perché è stato praticamente scritto in sua funzione. È un regalo nato solo per lei. È questa la motivazione più importante. Tutti i deliri pairistici sono venuti fuori dopo XD :*
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PRETTY PIECE OF MEMORY


08.30 A.M.
Il detenuto Shiro Kamui, età imprecisata, sesso maschile, viene condotto dalla sua cella alla sala interrogatori per procedere all'interrogatorio. Il detenuto mostra atteggiamenti ostili e, in un primo momento, si rifiuta di rispondere alle domande. L'agente S. riesce a cambiare la sua disposizione d'animo promettendogli che sarà un interrogatorio breve e che sarà lasciato in pace dopo aver risposto a tutto.
A domanda, Kamui Shiro risponde che prima – ed è un prima di anni, anche se non ci rivela quanti – lavorava a servizio di un'importante famiglia giapponese, della quale non fa il nome, ma che ricorda essere a capo di un grande tempio scintoista della città di Tokyo. Una famiglia rispettabile, tiene a precisare. Racconta anche di essere stato incredibilmente felice di quell'assunzione, perché gli avrebbe permesso di abbandonare l'orfanotrofio e la vita solitaria cui era abituato.
Dice di non sapere perché il signore della famiglia avesse scelto proprio lui, fra tutti i ragazzi disponibili. Non era forte, non era colto, non era neanche di buon carattere. Ma al signore sembrava non interessare niente di tutto questo, e lo portò a casa.
A questo punto l'interrogatorio si fa complesso. Il detenuto preferirebbe non rispondere ad altro e non proseguire nel racconto. Piange anche un po'. Risponde tuttavia alle incitazioni a continuare. E dunque dice di aver trascorso un primo, piacevolissimo mese di lavoro, e di essersi guadagnato, per riservatezza, fedeltà e gratitudine, la più profonda stima del padrone di casa, che un giorno, chiamandolo a sé, gli aveva parlato di sua figlia.
La signorina si trovava allora lontana da casa, in una villa di campagna ove era stata mandata a riprendersi dopo aver accidentalmente assistito al suicidio della madre, la padrona di casa, da tempo psicologicamente turbata.
Afferma che il padrone di casa gli chiese per favore di prendersi cura di lei al suo ritorno, in quanto in grado di capirlo perché anche lui orfano e unico, in quella casa, ad avere la sua stessa età. Dice inoltre che il padrone era perfettamente cosciente dei “pericoli” cui esponeva sua figlia mettendole al servizio una tale compagnia maschile, ma che di lui era certo di potersi fidare.
Il detenuto piange, confessando di essere stato molto felice di quel gesto, nessuno gli aveva mai dato fiducia, nessuno gli aveva mai dato un'occasione, nessuno gli aveva mai dato niente, in realtà, e piange ancora raccontando del giorno in cui la signorina Kotori era finalmente ritornata al tempio. Dice di aver capito subito che in lei c'era qualcosa che non andava, e afferma che l'avrebbe capito anche se non avesse saputo niente del suicidio della signora, perché la signorina aveva sulle labbra un sorriso dolcissimo ma vacuo, e sembrava dovesse crollare a piangere da un momento all'altro. Nega di aver fatto intendere alla signorina alcuno dei pensieri di cui sopra, e dichiara d'essersi semplicemente presentato come il suo nuovo cameriere personale. Ricorda inoltre che la signorina non aveva risposto al saluto, limitandosi a sorridergli, cosa che, commenta, l'aveva inspiegabilmente rattristato.
Dunque da quel giorno in poi Kamui Shiro trascorse la totalità del suo tempo con la signorina Kotori. Che descrive come splendida. Come angelica. Parla delle sue vesti come di candidi veli sempre in delicato movimento, della sua pelle come di prezioso avorio, dei suoi occhi come di ambrati brillanti e dei suoi capelli come dorata cascata di boccoli.
Sembra chiaro come il detenuto fosse profondamente legato alla signorina Kotori.
Racconta che agli inizi la signorina fu cordiale ma riservata, e che sovente gli permetteva di lasciarla sola e ritirarsi in camera sua ben prima che fosse giunta l'ora di andare a letto. Rivela inoltre di aver spesso trasgredito l'ordine della signorina di lasciarla completamente sola, e di essersi fermato poco oltre la porta, riuscendo così sovente a sentirla piangere.
Dice di non avercela più fatta ad ascoltare e basta, una sera. Dice di essere tornato indietro. Di non essere più riuscito a sopportare che una signorina tanto bella e gentile potesse singhiozzare al punto da ridursi ansante e senza fiato, e di essere dunque tornato dentro la stanza per cercare di consolarla. Ricorda di averla vista meravigliosa quella volta come mai prima, con le vesti scomposte e i capelli scarmigliati, gli occhi rossi e lucidi e le gote umide di lacrime. Ricorda di aver provato qualcosa di assoluto e indefinito, ricorda che gli batteva forte il cuore.
Alla domanda dell'agente S. che, un po' confuso dalle dichiarazioni del detenuto, chiede se quel qualcosa di indefinito e assoluto potesse essere chiamato amore, il detenuto risponde affermativamente. Ed aggiunge di saperlo solo adesso, perché l'ha provato solo due volte nella vita, e anche la seconda era assoluta e indefinita proprio come la prima, per quanto infinitamente più dolorosa.
Al richiamo del sottoscritto agente F. di attenersi a un racconto cronologicamente lineare, il detenuto reagisce violentemente. Scatta in piedi e getta la sedia su cui era seduto lontano da sé, imprecando e gridando che non ha alcun obbligo di “vuotare il sacco”, e pretendendo di tornare nella sua cella. L'agente T. lo riporta alla calma e lo convince a continuare.
Kamui Shiro racconta dunque di essersi avvicinato alla signorina e di averla abbracciata, scusandosi con lei per l'atto sconsiderato e impudente. E dice che però la signorina lo tenne stretto per un lembo della camicia, impedendogli di andare via mentre ancora continuava a piangere e, sfogandosi, gli raccontava di sua madre, di come le mancasse, di come desiderasse dimenticarsi di lei ma nonostante tutto non riuscisse a togliere la sua foto da sotto il cucino, per smettere semplicemente di guardarla. E allora lui l'aveva stretta più forte, e le aveva detto che poteva capirla, perché anche lui aveva perso sua madre, e se era per questo anche suo padre, e che quindi conosceva bene la sensazione di sentirsi legati a qualcosa che non c'è più senza poter far niente per cambiare la propria condizione, e la signorina, sentendo questo, s'era asciugata velocemente le lacrime e, affranta, gli aveva detto che le dispiaceva enormemente, che non sapeva niente di questa sua situazione, ma che lui avrebbe dovuto fermarla, ed impedirle di parlare da egoista, perché in fondo lei aveva ancora sui padre, mentre lui, Kamui, chi aveva lui?
E lui ricorda di averle sorriso e di averle risposto che tutto ciò che aveva adesso era lei, la signorina Kotori. Che era stato incaricato da suo padre di prendersi cura di lei, e che dunque lo scopo della sua vita da quel momento in poi sarebbe stato servirla. Al che la signorina aveva messo su un broncio molto carino, e aveva detto che non desiderava che lui le stesse accanto perché gliel'aveva ordinato suo padre, ma solo perché lo voleva; altrimenti, in una casa tanto grande e con tante cose a cui badare, non sarebbe di certo mancato modo di trovare una mansione a lui più congeniale.
Il detenuto ricorda di averla rassicurata sorridendo. Di aver detto alla signorina che la cosa che più desiderava in quel momento era osservarla addormentarsi serenamente, accarezzandole i capelli.
E la sua richiesta era stata esaudita.

*


10.30 A.M.
Nel momento in cui riprende l'interrogatorio, il detenuto è molto agitato e nervoso. Chiede al sottoscritto agente F. se per caso non si sia lasciato sfuggire il nome della famiglia di cui fin'ora ha parlato, e a risposta negativa pretende di visionare il rapporto per conferma. Dopo una scorsa veloce, soddisfatto ma di umore cupo, continua a raccontare. Non oppone particolare resistenza. Sembra aver capito che non si muoverà da questa stanza prima di aver detto ciò che vogliamo sapere.
Dice di aver portato via dalla stanza della signorina la foto di sua madre, e di averla nascosta per bene in camera sua. Dice che la signorina lo ringraziò con un sorriso, senza dire nulla, e non volle più parlare di quella storia, e ricorda anche che non la udì più piangere da sola, nessun'altra notte.
Fu allora, dice, che le cose cominciarono a complicarsi. Che la signorina smise di vederlo solo come un cameriere, che cominciò a considerarlo un amico, una persona di cui fidarsi, una persona da abbracciare e baciare in punta di labbra come se fosse normale. Fu allora, più o meno, che lui smise di considerarla intoccabile.
Il detenuto si porta le mani alla testa, sospira. Socchiude gli occhi e china il capo.
Ancora una volta, si rifiuta di continuare.
Ancora una volta, l'agente T. provvede a fargli cambiare idea.
E lui comincia a piangere. E piangendo racconta che i baci e le carezze tenere e audaci arrivarono naturalmente, senza pressioni, accompagnati da una dolce attrazione che giorno per giorno andava facendosi sempre più concreta, sempre più reale, sempre più tangibile, e infine sempre più viva. Viva, sì. Come ciò che ne fu frutto, e che cominciò a farsi posto nel ventre della signorina Kotori, mentre loro due, ignari di tutto, fra un nascondiglio e l'altro, continuavano a dare voce al loro sentimento.
Fino a quando fu impossibile da nascondere oltre.
Fino a quando, prima davanti ai loro occhi disperati, poi davanti a quelli attoniti del resto della famiglia, la pancia della signorina Kotori si gonfiò, annunciando una nascita.
Da lì in poi, le loro vite sembrarono imboccare una sdrucciolevole e infida via verso il basso, lungo la quale, senza freni, continuarono a precipitare. Il padrone di casa non poteva permettere che l'onore di sua figlia venisse fatto a brandelli dal figlio illegittimo dell'ultimo dei camerieri senza nome di Tokyo. Costrinse sua figlia all'aborto. E per reazione sua figlia costrinse sé stessa alla pazzia.
Il detenuto esita. Poi si abbandona tutto contro la sedia, senza forze.
Quando alla fine la signorina si suicidò, racconta, lui fu allontanato dalla casa. Era solo questione di giorni, d'altronde, confessa, in quanto era già da tempo obbligato a stare nella sua stanza, senza poter vedere nessuno, meno che mai la signorina Kotori.
La vide l'ultima volta passando davanti camera sua, mentre un cameriere lo accompagnava alla porta, senza neanche una valigia, come quando era entrato.
La signorina dormiva immobile nella sua bara, tutta la famiglia intorno piangeva, Kamui si augurò si stessero pentendo del suo omicidio. La signorina era ancora bellissima.

*


15.40 P.M
L'interrogatorio riprende dopo la pausa pranzo, resa assolutamente imprescindibile dalle pessime condizioni del detenuto, prostrato dalla fatica e dalle domande.
Il racconto del detenuto riprende col vicolo sporco e poco illuminato nel quale fu costretto ad andare a vivere date le sue pessime condizioni economiche. In quel vicolo non era il solo. Molti altri poveri disperati si trovavano già lì quando lui arrivò, e altrettanti ne arrivarono nel periodo in cui rimase, occupando il posto dei più sfortunati, che non si svegliavano dopo aver sentito per l'ultima volta la temperatura dell'aria toccare lo zero.
Lui era un fortunato. Era giovane e resistente, per quanto gracile.
Sopravvisse.
Fino a quando un giorno un uomo fece capolino nel vicolo e gli si parò di fronte, osservandolo dall'alto.
Fu in questo modo che il detenuto conobbe Fuuma.
L'uomo si chinò su di lui, scrutandolo attentamente. I suoi occhi andarono decisi oltre lo sporco, oltre la rada peluria incolta che cominciava a nascergli sulle guance, oltre l'untuosità dei capelli, oltre i vestiti sdruciti e maleodoranti, e intuirono il suo potenziale.
Sorrise, Fuuma, lasciò qualche moneta per terra, davanti a lui, e andò via.
Il detenuto afferma di essersi sentito un miracolato. Non era certo il più giovane fra gli abitanti del vicolo, e probabilmente neanche il più bello. Ma quell'uomo s'era fermato di fronte a lui e a lui soltanto aveva dato dei soldi. Se anche non l'avesse più rivisto, il pensiero di essere stato l'unico in grado di meritare qualcosa da quel visitatore inaspettato l'aveva riportato alla vita.
La cosa si ripeté. Fuuma tornò. Ancora e ancora. Per molti giorni.
Erano passate all'incirca due settimane, ricorda il detenuto, quando lui gli chiese se voleva un lavoro.
Lui annuì e si lasciò condurre senza fiatare all'Angels. Lì Fuuma lo ripulì, lo vestì e gli spiegò che il suo lavoro sarebbe stato prostituirsi. E lui non accettò perché non aveva altra scelta, o perché più in basso di com'era non avrebbe potuto essere, o perché gli servivano soldi, o perché voleva chiudersi là dentro e dimenticare tutto quello che gli era successo prima, rifiutandosi di avere un poi. Lui accettò per gratitudine. Perché quell'uomo gli aveva dato dei soldi per mangiare. Perché quell'uomo l'aveva fatto sentire speciale. Perché quell'uomo era tornato a trovarlo.
Fu in quel momento che giurò che avrebbe fatto di tutto per aiutarlo. Fosse stata anche la più bassa delle azioni.
Fuuma aveva un obiettivo, e desiderava con tutte le sue forze raggiungerlo. Poteva guidarlo. Poteva aiutarlo a concentrarsi solo su quello. Fuuma, per lui, era perfetto.
E Kamui si lasciò andare al suo compito, e quello che vide da quel momento in poi fu solo Fuuma. Nei corpi e nei gesti di chi lo amava con tenerezza, in quelli di chi lo violava brutalmente. Erano tutti Fuuma, erano tutti sacrifici in suo onore. Lui stesso lo era.
Fuuma era il suo mondo, Fuuma era tutto.

*


Il detenuto si interrompe. Guarda per terra, per molti secondi, senza spiccicare più una parola. L'agente T., credendolo perso nei suoi pensieri, lo riporta alla realtà con un lieve colpetto su una spalla. Allora il detenuto si riscuote, solleva uno sguardo ironico e dice “Il resto lo sapete”.
Sì, il resto lo sappiamo, ma ci manca ancora qualcosa.
“Dove diavolo è finito Fuuma?”
“Non lo so”
“Ti ha abbandonato nelle mani della polizia, così, ed è andato via senza dirti una parola?”
Sorride e non risponde.
L'agente T. non è più disposto a tollerare le sue intemperanze.

*


Mentre lo riportiamo nella sua cella, chiediamo un'ultima volta al detenuto di dirci dove si trova Fuuma.
Lui chiude il cancello da solo, e fissandoci al di là delle sbarre con un sorriso sadico, un rivolo di sangue giù dalle labbra, verso il mento, che mira a sporcare ulteriormente la già sudicia maglia bianca che indossa, dice “Vi piacerebbe saperlo, mh?”.