rp: zuca mourinho

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Gen, (accenni) Het, (lieve) Angst.
- "Da almeno mezz’ora, José sta seduto per terra accanto a Zuca, e cerca di venire a capo delle istruzioni per montare il modellino di macchina che gli ha comprato prima di rientrare a Villa Ratti per il weekend."
Note: Riflessioni di Tami su suo marito nel privato e nel pubblico. Titolo da Shape Of My Heart di Sting. Prompt: Privato/Pubblico @ It100.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
I’M NOT A MAN OF TOO MANY FACES// (PRIVATO)
Da almeno mezz’ora, José sta seduto per terra accanto a Zuca, e cerca di venire a capo delle istruzioni per montare il modellino di macchina che gli ha comprato prima di rientrare a Villa Ratti per il weekend. Tami ridacchia mentre lo osserva grattarsi incredulo la sommità della testa mentre commenta che è impossibile riuscire a risolvere partite perse portando la squadra alla vittoria e poi non riuscire a capire cosa montare dove in uno stupido modellino per bambini dai dieci anni in su.
- Seriamente, non ha senso. – borbotta, sbuffando come una teiera sul fuoco. Tami gli si accuccia accanto, prende Zuca fra le braccia e lo dondola un po’ per rassicurarlo. Sì che papà gliela sistemerà, la sua macchinina, d’altronde lui sa fare tutto, no?, anche se poi per appendere le mensole in cucina hanno dovuto chiamare il falegname, visto che José, provandoci, per poco non si staccava un pollice col martello.
Sussurra le sue rassicurazioni all’orecchio del suo piccolino, e lui annuisce sicuro, gli occhi che brillano d’ammirazione mentre fissa il papà trafficare con le parti della macchinina riservandole la stessa attenzione che in genere riserva ai suoi ragazzi mentre li allena, e così nessuno dei due – né Zuca, né Tami – si stupisce davvero quando, alla fine, José riesce a montarla sul serio. E funziona.

(PUBBLICO) //THE MASK I WEAR IS ONE
Tami non segue spesso suo marito nel suo lavoro. Non va mai agli allenamenti, ad esempio, ed anche quando José porta Zuca a vedere qualche amichevole lei non li accompagna mai, un po’ perché qualcuno dovrà pur restare a badare a Titi, che odia il calcio neanche fosse una piaga che il buon Dio aveva conservato risparmiandola agli egiziani per riservarla a lei, ed un po’ perché le poche volte in cui ha affiancato José in un’apparizione pubblica, per un festeggiamento o qualche cena di lavoro, nel momento in cui s’è voltata a guardarlo in viso non l’ha riconosciuto. José è il migliore dei padri, il più fedele dei mariti, il più affettuoso degli amanti, ma quando lavora si svuota, non è più un essere umano, di lui resta solo la passione per il calcio, infinita, strabordante, che lo riempie tutto fino all’orlo scalciando fuori dal suo corpo tutto il resto, visto che di spazio, per tutto il resto, non ce n’è più. È per questo che Tami non va quasi mai con lui, perché le volte in cui lui vince e lei è costretta a seguirlo, quando lo guarda negli occhi non vede niente a parte il fuoco che gli brucia dentro, quello che agita l’animo di un uomo che ha ottenuto ciò che voleva ed è già pronto a desiderare altro per continuare a combattere e ottenere anche quello.
Il più delle volte, Tami cerca di ignorare che suo marito, mentre lavora, possa diventare un altro. E spesso – non sempre, ma spesso – funziona.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno (ok, ci sono accenni di Jobra, se proprio li volete vedere *sbuffa*).
Rating: G
AVVERTIMENTI: Nessuno.
- Zlatan, in visita a villa Ratti, trova qualcuno che non si aspetta.
Note: Cerchiamo di ignorare tutti assieme quanto palese sia il subtext Jobra in questa storia, e fingiamo che sia davvero una gen \o/
No, va be’, scherzi a parte è una gen, perché in realtà io qui non volevo per niente raccontare dei non detti del rapporto fra Zlatan e José XD Piuttosto volevo concentrarmi sull’irrequietezza intrinseca di Zlatan, su come non riesca a sentirsi felice qualsiasi sia il posto in cui si trova. Se è a Barcellona, quando pensa a casa gli viene in mente Milano. E quando invece arriva a Milano, scappa verso casa, che è ritornata Barcellona. Benedetto ragazzo. *sospira*
Comunque l’idea mi martella in testa da quando José ha detto di essersi fatto male al mignolo giocando a basket con suo figlio XD (Sì, mi basta così poco. Oh, insomma.)
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This Will Tell You I Was There


Zuca non ha ancora imparato a giocare a basket, e questa è l’unica cosa che Zlatan può dire con certezza in questo momento, mentre lo osserva maneggiare la palla con aria tutt’altro che convinta, lasciandola rimbalzare a terra e provando a governarla con una mano sola, arrendendosi pochissimi tentativi dopo e sospirando profondamente mentre la regge alta sopra la testa, osservandola come fosse un qualche strano animale dotato di una propria coscienza e bene intenzionato a rendergli la vita difficilissima.
È abbastanza ridicolo, si dice, restare lì dietro la siepe a spiarlo come un ladro o qualcosa di ancora peggiore. Se qualcuno della sicurezza lo trovasse adesso, soltanto il suo nome potrebbe salvarlo da una ben meritata notte dietro le sbarre. Che è, per inciso, qualcosa che Zlatan di sicuro non può permettersi, dal momento che è praticamente fuggito via come un disperato cogliendo l’occasione della partita già giocata al sabato sera – no, non riuscirà mai ad abituarsi a giocare sempre costantemente il sabato – e del posticipo dell’Inter nella serata di domenica. “Parto”, si è detto, “saluto un po’ di vecchi amici, guardo la partita e per lunedì, massimo ad ora di pranzo, sono di nuovo a Barcellona”.
Per qualche motivo, però, l’indirizzo che ha dato al tassista recuperato subito fuori dall’aeroporto non era quello del centro sportivo ad Appiano, e non era neanche quello della sede in centro a Milano. Non era casa di Deki né casa dei bambini, non era casa di Marco, non era casa del presidente, ma Villa Ratti. Casa di José.
Non ha la minima idea del perché si trovi qui – il suo processo mentale è stato qualcosa di spaventosamente simile a “ok, non ho più una casa a Milano, dov’è che vado per non sentirmi del tutto fuori posto?”. Dovrebbe preoccuparsene, perché in fin dei conti a Villa Ratti lui nemmeno ci ha passato tutto questo tempo, dopotutto. Un po’ di cene, sì, qualche domenica pomeriggio con Helena e i bambini – anche perché Vinny adora Titi e Maxi adora la piscina – ma niente di più. Quanto, in tutto, una settimana, facendo il conto delle ore? Non abbastanza per definire quel luogo “casa”, visto che a stento ci riesce con Malmö.
- Puoi anche venire fuori, eh. – dice piano Zuca, riprendendo a far rimbalzare la palla.
Imbarazzato, Zlatan esce dal proprio nascondiglio, grattandosi nervosamente la punta del naso. Zuca sta venendo su incredibilmente simile a suo padre, ed è facile notarlo soprattutto nel suo atteggiamento: distaccato ma cordiale; è un po’ rigido, forse, ma il suo sorriso è caldo e tenero, sinceramente affettuoso.
- Ciao. – lo saluta timidamente, quasi sentendosi in soggezione nei suoi confronti e nei confronti dell’intimità di quel posto, un’intimità che sta violando. – Dov’è papà?
- È dentro ad aiutare mamma con qualcosa. – risponde Zuca vago, prendendo le misure fra se stesso e il canestro. – Volevi parlare con lui?
Per qualche secondo, Zlatan resta spiazzato da quella domanda posta con innocenza, perfino un po’ stupida: il tono di Zuca sembrava essere quello che avrebbe usato per chiedergli la stessa cosa se, per presentarsi all’improvviso a casa Mourinho, Zlatan avesse semplicemente dovuto attraversare la strada, e non prendere due taxi e un aereo come invece era stato costretto a fare.
- No, io… - comincia balbettando, - Forse. – ammette quindi, scrollando le spalle. – Non lo so con certezza.
Zuca gli solleva addosso gli occhi castani chiarissimi, e lo scruta con un po’ di sospetto.
- Tu stai a Barcellona adesso, vero? – chiede, come a volersene sincerare. Zlatan annuisce in silenzio. – E hai una bella casa? – continua Zuca, palleggiando un paio di volte.
- In realtà sto ancora in albergo. – risponde lui con un mezzo sorriso, grattandosi la nuca, - Non ho ancora trovato un posto adatto.
Zuca annuisce compitamente.
- Papà dice che non lo troverai mai. – commenta con distacco, - Dice che per te fermarti è impossibile, e che quando ti sembrerà di aver trovato un posto adatto, in quel momento vorrai già andartene via. Dice – continua – che è questo che è successo con la villa che avevi trovato qui a Milano, quella che hai dovuto vendere prima di partire per Barcellona. Dice che ti succederà anche lì.
- Tuo padre dice un mucchio di cose, mh? – chiede Zlatan, indispettito, mani sui fianchi e smorfia offesa sul volto.
- Sì. – ride Zuca, - Lui parla tanto. – e poi gli porge la palla da basket. – Giochi?
Zlatan lo guarda, un po’ stupito, prima di prendere la sfera fra le mani e palleggiare con una disinvoltura notevolmente maggiore rispetto a quella che ha sfoggiato Zuca fino a questo momento. Il bambino lo osserva riprendere confidenza con la palla, girare un po’ in cerchio attorno a lui palleggiando con concentrazione e poi correre a canestro, insaccando il pallone con un salto talmente fluido e naturale da non sembrare nemmeno vero.
- Aaah! – gioisce, battendo le mani e saltellandogli accanto con entusiasmo, - Era vero quello che diceva papà!
- Sentiamo, - ride Zlatan, scompigliandogli i capelli chiari, - cos’altro diceva papà?
- Che quando salti sembra che voli! – annuisce Zuca, ridendo a propria volta e grattandosi il naso infastidito dalle punte della frangetta lunghissima che è scesa a solleticarlo sotto la pressione delle lunghe dita di Zlatan.
E Zlatan sorride intenerito, consegnandogli la palla e poi stringendolo ai fianchi, sollevandolo abbastanza da permettergli di fare canestro ridendo entusiasta e sgambettando allegro ed agitato come il bambino che è, prima di adagiarlo nuovamente sul campetto di cemento.
- Vieni dentro, dai! – ride Zuca, prendendolo per mano e cominciando a trascinarlo verso casa, - Papà sarà contento di vederti, devi vederlo come borbotta da quando sei andato via! Sembra diventato nonno Félix!
- Ehi, piano, piano! – punta i piedi Zlatan, frenando così bruscamente che Zuca, già tutto proiettato verso la villa, rimbalza all’indietro come un elastico, finendo per rovinargli addosso. Lo regge per le spalle, rimettendolo dritto ed evitando i suoi occhi quando gli si posano addosso con curiosità, preferendo concentrarsi sullo zaino con poche cose che ha portato con sé da Barcellona ed ha abbandonato accanto al campo quando il bimbo gli ha chiesto di giocare. – Forse non è il caso di disturbare, dai. Devo tornare a casa, e poi è quasi ora di cena.
- Oh… - mugola Zuca, visibilmente deluso, - Papà sarà triste di non averti potuto salutare. – considera a bassa voce.
- Tu non dirgli che sono passato, ok? – chiede con una certa urgenza, recuperando lo zaino e sistemandoselo in spalla, - E… ehi. – richiama la sua attenzione con un sorriso, - Quando passi la palla, guida la traiettoria con la sinistra e dai la spinta con la destra, e che sia bella forte, ma precisa. – Zuca lo guarda come stesse parlando in aramaico. Aggrotta le sopracciglia sottili ed inclina un po’ il capo, prendendo poi a fissare nuovamente la palla come fosse tornato lo stesso oggetto oscuro e misterioso di mezz’ora prima. Zlatan ride di cuore. – Andrà meglio col tempo. – dice, sentendosi improvvisamente pieno di qualcosa che non riesce nemmeno a definire, e tranquillo. – Va sempre meglio, col tempo.
Zuca lo saluta debolmente con la mano, e Zlatan sparisce lungo il viale quasi correndo. Se prende il primo aereo, fa in tempo ad essere a casa prima di sera.

*

- Non capisco perché tua madre si ostini a chiedermi aiuto con le mensole in casa, quando è evidente che io le complico solo la vita. – si lagna José uscendo nuovamente in giardino e passandosi una mano fra i capelli scompigliati. – Giochiamo? – chiede, cercando il figlio con gli occhi e trovandolo a pochi centimetri da sé, sorridente come quando l’ha lasciato.
Zuca annuisce e si allontana saltellando. Palleggia impacciato, ma riesce almeno a governare la palla con una sola mano, nota José compiaciuto. Si vede che si è allenato, mentre lui era dentro.
- Palla! – grida il bambino, fermandosi all’improvviso e voltandosi verso di lui, tirandogli addosso una cannonata di invidiabile potenza e disastrosa precisione. José si allunga per cercare di recuperarla senza che faccia danni; la intercetta con il mignolo, deviandola abbastanza da impedire che vada ad infrangersi contro la finestra della cucina, e subito dopo lancia un grido che, per quanto abbia cercato di trattenerlo fino a mordersi a sangue il labbro inferiore, terrorizza Zuca abbastanza da costringerlo ad inarcare le sopracciglia e spalancare gli occhi, indietreggiando di qualche passo prima di riprendere coraggio e corrergli preoccupato accanto. – Papà! – lo chiama agitato, - Scusa!
- È tutto ok, è tutto ok… - tira fuori José, abbozzando un sorriso affaticato e tastando delicatamente il dito per cercare di capire cosa sia successo. Fa male, e parecchio anche. Sospira, cercando di riacquistare il controllo dei nervi abbastanza da costringersi a placare il dolore o costringere il cervello ad ignorarlo almeno in parte, e poi si rimette dritto. – Ma chi diavolo ti ha insegnato a tirare così? – chiede quindi, inarcando un sopracciglio.
Zuca storna lo sguardo, vago, e scrolla le spalle. José lo fissa con attenzione, incerto, e poi i lineamenti del suo volto si stendono in un attimo, mentre solleva lo sguardo e lo gira celermente intorno, come alla ricerca di qualcuno.
- Papà…? – lo chiama Zuca, guardandolo dal basso con aria colpevole, - È tutto a posto?
- …sì. – annuisce lui dopo un attimo di incertezza, circondandogli le spalle con un braccio e sospingendolo piano verso casa. – Torniamo dentro, dai. – conclude. Ma non riesce ad impedirsi di guardarsi ancora nervosamente intorno alla ricerca di Zlatan, pur rientrando in casa.
Seguito di Who's Returned From The Dead e Who's Living Upstairs.
Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: José/Zlatan, Davide/Mario, accenni di palese UST fra Maxi e Vinny.
Rating: PG13
AVVERTIMENTI: Angst, Fluff, Death, Slash.
- La vita di Zlatan non sembra destinata a concedergli tregua, soprattutto nel giorno in cui la sua povera casa è invasa da decine di invitati accorsi da ogni parte per festeggiare il matrimonio dell'anno. Fra uomini felici, ragazzi turbolenti e figli in crisi mistica, Zlatan riesce forse a raggiungere un punto d'intesa con José, non prima, però, che quest'ultimo si esibisca nello spettacolo che gli riesce meglio in assoluto.
Note: …sono perfettamente conscia di essere indecente X’D *ride felice* Questa saga continua ad essere del tutto schizofrenica, alternando momenti di drama emoangst a momenti di puro fluff a momenti di puro lol. Io non riesco a governarla, così come non riesco a governarne i personaggi (che, per dire, hanno cambiato trama a questa shot giusto quel paio di volte, mentre io cercavo di buttarla giù correndo contro il tempo sul filo del rasoio *ansima*), ma d’altronde è pur vero che la scrivo con una spensieratezza esaltante che sfocia a volte nel ridicolo. Ma tipo che mi gaso da sola e aweggio felice come una deficiente. No, sul serio. Compatitemi.
L’unico problema adesso è che mi serve un’altra challenge a tempo cui ispirare le prossime shot X’D
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WHO'S GOING TO GET MARRIED


Guardandosi intorno con aria circospetta, Zlatan individuò Helena tutta presa dalla propria attività di anima della festa e, assicurandosi di non essere alla portata del suo occhio indagatore, si defilò dietro una siepe, lasciandosi andare seduto per terra esattamente come faceva quando riusciva a scappare da un allenamento particolarmente duro quando era ancora un ragazzino, con l’unica differenza che allora, sedendosi, sfilava la maglietta e se la sistemava sulla testa per proteggersi dal sole e dal caldo, mentre in quel momento tutto ciò che poteva fare era cercare di allargare il nodo della cravatta perché non lo soffocasse, stroncandogli vita e carriera mentre era ancora nel fiore degli anni.
- Sarebbe troppo – chiese Davide, intromettendosi nella sua perfetta oasi di silenzio, - un sorriso, almeno nel giorno del mio matrimonio?
Zlatan lasciò andare uno sbuffo contrariato, per nulla stupito dalla sua apparizione.
- Io sorrido sempre. – borbottò, - Quando ho motivo di farlo. Oggi ho mal di pancia.
- Oh! – rise Davide, sedendosi al suo fianco anche a rischio di sporcare i pantaloni dello smoking, - Quindi volerai a Barcellona per la prossima stagione? Non so mica se ti vogliono, Puyol sta facendo bene.
- Bla bla bla. – sbottò Zlatan, agitando una mano come per zittirlo, - Non volerò da nessuna parte, è solo che sono convinto che questa storia sia una pagliacciata!
- Perché siamo due maschi? – indagò Davide, aggrottando lievemente le sopracciglia.
- Non fare lo stronzo con me, Dade. – ritorse subito Zlatan, lanciandogli un’occhiataccia offesa, - È il matrimonio in sé che è ridicolo!
- Ah, sì. – annuì l’uomo, - È per questo che sei sposato anche tu.
- No, è per questo che Helena c’ha messo vent’anni prima di prendermi per sfinimento. – precisò con un sospiro teatrale. – Ma d’altronde è la vostra vita, io non posso davvero decidere per voi.
- Avanti… - cercò di rabbonirlo Davide, - È una bella giornata di festa. E Mario mi ha confessato che è felicissimo di averti come testimone di nozze. Non sai quanto ci teneva.
Zlatan sospirò ancora, scuotendo lentamente il capo.
- E tu a Mario hai confessato niente? – chiese a bruciapelo, tornando a guardarlo. Davide si morse un labbro, distogliendo lo sguardo.
- Non ho ancora avuto occasione di farlo. – rispose in un bisbiglio un po’ tremolante.
- Dade, se aspetti l’occasione, non arriverà mai. – lo rimproverò il più grande, sistemandogli brevemente la frangia sulla fronte, - Non esiste l’occasione più adatta per dire al tuo futuro marito che il suo ex allenatore è tornato dal mondo dei morti. È un’occasione che devi ritagliarti tu. E comunque va fatto. – sospirò ancora, rassegnato, - Prima o poi dovrà venire fuori. È meglio che chi ci è vicino lo sappia prima e nel modo meno turbolento possibile.
- E tu? – lo rimbeccò Davide, con un mezzo sorriso, - Tu l’hai detto a Helena?
Zlatan si passò una mano fra i capelli, nel vano tentativo di rimetterli a posto, finendo invece per scompigliarli più di quanto già non fossero.
- Helena è una cosa diversa… - cercò di spiegare, sospirando pesantemente, - Queste sono cose da spogliatoio, non è necessario che-
- Non lo sarebbe, se José non vivesse nella sua soffitta. – gli fece notare Davide, annuendo compitamente con aria innocente.
Zlatan lo sferzò con un’occhiata disapprovante, inarcando supponente le sopracciglia e tirandosi in piedi.
- Senti, ma tua moglie? – lo prese in giro, - Perché deduco sia questo, visto quanto si sta facendo aspettare.
- La moglie – disse Mario, apparendo alle loro spalle con un grugnito affatto compiaciuto, - stava giusto cercando suo marito, visto che sta gironzolando per questo giardino enorme da mezz’ora senza trovarlo, quando lui era palesemente nascosto dietro un cespuglio a fare chissà cosa con un gitano pervertito.
- Ah, Dio, grazie! – sbottò Zlatan senza scomporsi più di tanto, afferrando Davide per le spalle e rimettendolo in piedi, spolverandogli i pantaloni e lisciandogli i vestiti prima di riconsegnarlo a Mario come fosse stato un pacco postale, - Riprenditelo. – disse annuendo, - È una cosa impossibile. Spero di non vedervi per un mese, vi do il permesso di sparire in Nuova Zelanda per la luna di miele, tutto il tempo che volete.
- Gentile come al solito. – borbottò Davide, sistemandosi orgogliosamente al fianco di Mario mentre quest’ultimo ridacchiava divertito e gli sistemava la giacca dello smoking sulle spalle, - Guarda che ti prendiamo in parola, e poi la settimana prossima, in posticipo col Milan, te la vedi tu.
- No, per carità. – deglutì ansioso Zlatan, riportando improvvisamente alla memoria il calendario dei prossimi impegni in Campionato, - Con Zuca ancora fuori uso ho bisogno di-- Zuca! – strillò, osservando il ragazzo dirigersi spedito verso casa, aiutato solo da due stampelle, - Punto primo! …ragazzi, - si rivolse brevemente a Mario e Davide, - scusatemi, ma il coglioncello lì vuole rovinarsi la carriera. – tagliò corto, lasciandoli lì dietro la siepe e correndo a perdifiato verso il figlio di José, - Punto primo, dicevo! – riprese, mentre Zuca lo osservava con aria vagamente infastidita, e si fermava solo perché obbligato dall’ostacolo del suo corpo, - Che diavolo ci fai qui?! Dovresti essere in centro a riposare!
- No, dico. – sbuffò Zuca, appoggiandosi alla stampella e sollevando la gamba malconcia dal peso del corpo, - Davvero ti aspettavi che me ne rimanessi ad Appiano, perso nel nulla, con le vecchine che mi salutano dalle case alla fine del vialone, mentre Dade e Mario si sposavano? Tu sei fuori. – concluse, riprendendo a muoversi verso casa.
- Fermo là! – lo bloccò nuovamente Zlatan, frapponendosi ancora una volta fra lui e la villa, - Io ci ho provato, a insegnarti l’educazione che la buon’anima di tuo padre non aveva fatto in tempo ad inculcare in quella tua testa marcia, ma tu sei impermeabile! – lo rimproverò, - Cosa ti ho detto ieri, Zuca? Eh? Cosa ti ho detto? – sospirò profondamente, massaggiandosi la fronte.
Zuca sospirò a propria volta, esasperato, roteando gli occhi e soffiando via la frangetta biondiccia scesa a solleticargli la punta del naso.
- Che la squadra ha bisogno di me. – rispose laconicamente, scrollando le spalle.
- Esatto. – annuì Zlatan, deciso, - Sostituire te è più difficile che sostituire qualsiasi altro giocatore, perché sei il perno dell’attacco. Senza di te, la squadra può forse funzionare, ma perde smalto. – sorrise, riavviandogli la frangia sulla fronte, - Ne servono undici, per sostituire te solo. Vuoi mettermi davvero in queste difficili condizioni?
Zuca inarcò le sopracciglia, fissandolo come se gli avesse appena recitato a memoria la tabellina del due.
- No, dico. – ripeté ancora, e Dio solo sapeva se ogni “no, dico” non aveva su Zlatan un effetto quasi devastante, portandolo a desiderare di possedere un’ascia come mai nella sua intera esistenza, - Per chi mi hai preso? Non sono mica il sempliciotto che eri tu ai tempi. A te bastava che mio padre ti tirasse su un teatrino di complimenti, ti facesse un po’ gli occhi dolci ed ecco che tu eri lì a sputare sangue sul campo anche per partite idiote, quando avresti potuto restartene a casa con il ghiaccio sul ginocchio, una bottiglia di birra in una mano e il telecomando nell’altra, a rintontirti di tv spazzatura. – sorrise furbo, inclinando lievemente il capo, - Non è che siccome tu non sei stato in grado di goderti la vita, allora io devo fare la tua stessa fine.
- Ti ricordo – grugnì Zlatan, indicandosi, - che questa fine è una fine da tredici milioni all’anno solo per osservare ventisette mentecatti come te correre dietro a una palla e godersi i complimenti dei giornalisti nel post-partita, eh? Quindi, forse, prima di parlare con tanto disprezzo della fine che ho fatto io, dovresti cominciare anche a capirla un po’, questa fine che ho fatto.
Zuca lo ignorò apertamente, aggirandolo svelto e ricominciando la propria marcia verso l’edificio.
- Zuca! – berciò Zlatan, correndogli dietro e rendendosi conto con sconcerto di dover faticare per tenere il passo nonostante lui fosse infortunato, - Cristo, ma perché non mi ascolti?! Dove stai andando?!
- A pisciare! – scattò lui, agitando una stampella nella sua direzione e colpendolo di malagrazia contro una spalla, - Ora mi lasci in pace?! Dio, quanto ti odio!
Zlatan si fermò in mezzo al selciato, una mano ancora sollevata in un accenno di gesto volto a fermarlo, e lo osservò finalmente raggiungere la porta di casa e infilarsi al suo interno senza una parola di più, sospirando profondamente e chinando il capo, deluso.
Quando era arrivato all’Inter, due anni prima, Zuca era già lì. Era l’anima dello spogliatoio, andava d’accordo con tutti e, complice anche il suo grande talento, era stato il pupillo dell’allenatore precedente. Sfortunatamente, era parso subito evidente come il ragazzo mancasse totalmente di ogni tipo di educazione – era un ribelle senza speranza, molto più di quanto non lo fosse stato Mario ai tempi e infinitamente oltre ogni limite Zlatan potesse dire di aver toccato in una carriera pur turbolenta e non certo scevra di contrasti. Tutti i suoi tentativi di inculcare un po’ di sale in quella zucca montata al contrario erano risultati in un odio pressoché devastante da parte del ragazzo, che comunque non è che l’avesse mai preso in reale simpatia, dal momento che la prima cosa che aveva fatto vedendolo arrivare era stata ignorare il suo saluto – quando lui era così felice di vederlo, così emozionato dall’idea di posare finalmente gli occhi addosso al figlio di José, così cresciuto, ed allenarlo.
Sospirando, tornò verso il gazebo, ignorando apertamente Maxi e Vinny appartati in un angolo a confabulare chissà che con due facce più scure di quelle che avevano avuto ai funerali dei loro nonni. “Che vita difficile”, si disse, prendendo posto di fianco a quella specie di altare improvvisato drappeggiato e decorato con della roba della quale non era sicuro di voler comprendere il disegno e che Helena aveva disegnato personalmente.
- Era ora. – borbottò Mario in una mezza risata, apparendo al suo fianco mentre gli invitati – ad eccezione di Zuca – prendevano posto, e Davide si affrettava a sistemarsi accanto a lui, aggiustandosi la cravatta e la camicia dopo quella che Zlatan non tardò ad identificare come un’intensa sessione di coccole pre-sposalizio. – Stavamo cominciando a pensare che alla fine la sposa fossi tu.
- Sto ridendo così tanto che mi stupisco l’eco delle mie risate non arrivi in Cina o anche su Marte. – sbuffò lui, sarcastico, - E comunque, quando finisce questa pagliacciata? E dov’è Zuca?
*
Una volta in casa, per prima cosa Zuca mollò le stampelle sul pavimento. Il ginocchio non doleva, era a posto, e se quel cretino del mister pensava di tenerlo fuori anche per la prossima era del tutto fuori strada: se anche non si fosse degnato di convocarlo, si sarebbe infilato di nascosto negli spogliatoi e contro il Milan avrebbe giocato, alla faccia sua.
Compiacendosi del silenzio che regnava sovrano all’interno della villa, si lasciò andare sulla prima poltrona disponibile in salotto – una che non fosse sommersa di cappotti, borsette e cianfrusaglie varie – e lasciò andare le braccia lungo i fianchi fino a sfiorare il pavimento, dondolandole un po’ avanti e indietro. Sorrise quando, in quell’ondeggiare calmo e rilassante, le sue dita incontrarono la forma rotonda, perfetta e familiare di un pallone. Lo recuperò chinandosi appena e prese a palleggiare piano, da seduto, provando ad usare solo la gamba sana ed arrendendosi poco dopo, saltando in piedi e palleggiando con entrambi i piedi, sorridendo soddisfatto nel momento in cui si rese conto che non sentiva davvero alcun dolore, e il suono ritmico e preciso della palla contro i suoi piedi, le sue ginocchia, il suo petto e la sua testa, era ancora in grado di cullarlo meglio delle ninne nanne di sua madre.
- Mi hanno detto – disse una voce conosciuta alle sue spalle, - che il ginocchio ti dà qualche problema, Zuca.
Raggelato, il ragazzo si interruppe immediatamente, lasciando che la palla ricadesse a terra e rotolasse lontano da lui. Si voltò lento, tremando appena, gli occhi spalancati e le labbra dischiuse in un’espressione di puro stupore.
- P-Papà…? – balbettò incerto, voltandosi di scatto e indietreggiando fino a cadere di peso sulla poltrona, quando riconobbe esattamente l’uomo che aveva davanti. Identico a suo padre, stessa voce, stessi occhi, lo stesso uomo che era praticamente morto sotto il suo sguardo, fra le braccia di Davide, vent’anni prima.
- Chi altri? – rispose José indicandosi e muovendo un passo verso di lui. Zuca lasciò andare un urlo terrorizzato, stendendo entrambe le braccia in avanti come in cerca di protezione. José sorrise diabolico, un ghigno che ricordava di avergli visto addosso solo nei casi delle punizioni peggiori. – Fai bene ad avere paura. – disse suo padre, glaciale, - So molte cose di te, Zuca. – continuò, - So che sei un giocatore indisciplinato e che impedisci al tuo allenatore di disporre di te come ritiene più opportuno. – aggrottò le sopracciglia, avvicinandosi ancora ed osservando Zuca tirare su le gambe fino a rannicchiarsi sulla poltrona quasi in posizione fetale, gli occhi sbarrati e il respiro mozzo. – È così che onori il tuo nome, José?! – tuonò agitando un pugno nella sua direzione, - È così che mi ripaghi?!
Una sola lacrima si azzardò a scivolare oltre le ciglia di Zuca, rotolando lungo la sua guancia mentre il ragazzo dimenticava tutto – di se stesso e della sua intera esistenza, di tutte le domande che avrebbe voluto fare a suo padre se mai avesse avuto per assurdo l’occasione di rivederlo, compreso chiedergli il perché di quel bacio a fior di labbra che aveva visto Zlatan dargli quando era già nella sua bara – e scattava in piedi, lasciando le stampelle all’ingresso e catapultandosi fuori dall’edificio senza neanche lasciare andare un urlo.
José sospirò pesantemente, recuperando le stampelle da terra ed appoggiandole ordinatamente alla poltrona, prima di tornarsene in soffitta.
*
- Lo voglio. – sorrise Davide, e Mario non aspettò nemmeno il permesso del funzionario per prendergli il volto fra le mani e tirarselo contro, baciandolo profondamente e a lungo mentre tutto intorno a loro gli ospiti si alzavano dalle loro sedie, applaudendo festanti.
Zlatan scosse il capo, roteando gli occhi.
- Che pagliacciata. – commentò mentre dall’altro lato il fratello di Davide, nelle sue stesse condizioni, sorrideva imbarazzato. Voltò in giro lo sguardo, appena in tempo per incrociare Zuca che si scapicollava verso il cancello come stesse fuggendo da una bestia inferocita o chissà che altro. – Zuca! – lo richiamò, correndogli dietro, - Ma Cristo santo, è mai possibile che sei sempre di corsa anche quando non dovresti?! – lo fermò, afferrandolo per una spalla, - Fermati un po’! Dove sono le tue stampelle? – chiese, guardandolo attentamente dall’alto in basso.
- Io non… - balbettò lui, visibilmente scosso, - Io non… non ne ho idea, io non…
- Zuca? – lo chiamò ancora Zlatan, sorreggendolo per le spalle, - Ma cos’hai?
- Niente! – disse immediatamente il ragazzo, scostandosi con un gesto secco, - Io… scusa. – deglutì, - Non posso restare qui, giuro che… ci vediamo in allenamento domani, io… mi dispiace, davvero, fai i miei auguri a Dade e Mario, ma non posso proprio… - continuò a balbettare confusamente, arretrando verso il cancello senza mai staccare gli occhi di dosso alla villa. Zlatan lo osservò andare via con un misto di sconcerto e preoccupazione, una mano sul fianco e il capo lievemente inclinato, finché non fu scomparso con la macchina oltre la strada privata che conduceva a Villa Ratti.
- Dio, che vita difficile. – ripeté ad alta voce, mentre Maxi gli passava accanto in un vortice di rabbia isterica, - E tu che diavolo hai adesso? – chiese in una mezza lagna già rassegnata, senza aspettarsi certo una spiegazione all’ennesima fuga del suo figlio maggiore dalla casa paterna.
- Fottiti! – si limitò a rispondere il ragazzo, raggiungendo la propria automobile ed abbassando il finestrino solo per berciare ancora: - E lega la bestia, o la prossima volta se viene lui di certo non vengo io!
Zlatan annuì meccanicamente, ripromettendosi di torchiare Vincent fino a fargli sputare sangue o, in alternativa, il motivo reale di tutti quei battibecchi ricorrenti, ma nel momento in cui si voltò verso il gazebo il suo sguardo venne inevitabilmente attratto da qualcosa che si muoveva oltre il vetro della piccola finestra in soffitta.
José lo stava salutando.
Invocando la forza di parecchi santi, inspirò profondamente per non mettersi ad urlare contro gli stessi e poi, mesto, entrò in casa e salì al piano di sopra, strascicando adeguatamente ogni passo perché José potesse comprendere alla perfezione e con largo anticipo l’esatta misura del suo scazzo.
- Dimmi che non sei stato tu a ridurre in quelle condizioni Zuca inscenando una qualche stronzata tipo apparizione del fantasma del padre morto. – implorò, lasciandosi andare seduto sul letto e passandosi stancamente una mano sugli occhi, - Dimmelo, perché se tu non me lo dici giuro che io tento il suicidio.
José rise – una risata quasi infantile – e si sedette al suo fianco.
- Chissà. – rispose enigmatico, - Magari è solo la sua coscienza che è tornata a farsi sentire. – ipotizzò con un mezzo ghigno.
- Mi stupirebbe. – ammise Zlatan, stendendosi sul materasso e fissando ostinatamente il soffitto spiovente, - Zuca non ha mai avuto una coscienza.
José rise ancora e si stese accanto a lui, guardando lo stesso soffitto. Ascoltarono l’uno i respiri dell’altro per tanto di quel tempo che, alla fine, riuscirono perfino a sincronizzarli.
Zlatan allungò una mano fra i loro corpi a cercare quella di José, e lui – quando la strinse – non rifiutò il contatto.
- Ti sei perso un bel matrimonio. – commentò distrattamente, - Ridicolo, ma bello.
- Come tutti i matrimoni. – rispose José, sorridendo appena, - Ricordo ancora quando ho detto “lo voglio” a Tami. È stato un bel momento.
- Già. – rise a propria volta Zlatan, stringendo ancora un po’ la presa sulle sue dita e accarezzando con un pollice il dorso della sua mano. – È una bella sensazione, quando ti leghi a qualcuno e vuoi farlo davvero. Riesce a farti sentire tranquillo. Sai, io – sorrise, stiracchiandosi un po’, - non mi sono mai sentito sereno quasi in nessun posto, non so perché. Mio padre mi diceva che il mio sangue bruciava come il fuoco, e che per questo, potendo, avrei cambiato perfino pelle. Però, quando ho detto “lo voglio” a Helena… in qualche modo, in quell’istante, ha smesso di bruciare. Solo per quell’istante, - precisò con un mezzo sospiro, - ma ne è valsa la pena.
José intrecciò le dita con le sue, e quando tirò un po’ Zlatan si voltò a guardarlo, una domanda palese negli occhi. José, però, non aveva nessuna risposta. O forse sì, anche se non era quella che Zlatan si aspettava.
- Lo voglio. – disse il portoghese, così piano che Zlatan, per un secondo, credette di aver sentito male. Ma si affrettò a deglutire e riprendere il controllo di se stesso, in tempo per non dare a José l’impressione che, proprio adesso, volesse tirarsi indietro.
- Lo voglio. – rispose annuendo. José sorrise.
- Adesso puoi baciarmi. – disse a mezza voce. Zlatan evitò di chiedergli se stavolta non si sarebbe allontanato, e si limitò ad eseguire l’ordine, mentre da fuori, un po’ ovattati, giungevano i brindisi degli ospiti in onore dei novelli sposi.