Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: José/Zlatan, Davide/Mario.
Rating: PG13
AVVERTIMENTI: Fluff, Death, Slash.
- Siamo nel 2028. Zlatan Ibrahimović si è ormai ritirato dai campi, ma non
altrettanto dal calcio: adesso vive a Villa Ratti - magione che fu
precedentemente del suo allenatore - ed allena l'Inter, all'interno della quale,
tra gli altri, gioca anche il figlio del suddetto allenatore, José Jr., detto
Zuca. Fra calciatori che si sposano (fra loro), figli che litigano, giovani
calciatori indisciplinati con tanta voglia di farsi notare e gente che torna in
vita non si sa per quale motivo e non si sa in che modo, seguite Zlatan nel
calvario in cui l'autrice ha intenzione di trasformare la sua vita, e
divertitevi :D
Note: Questa fic – in realtà questo universo – si è completamente plottata da sola nello spazio minimo di una mezz’ora, basandomi solo e unicamente sul punto focale del fest per cui volevo scrivere. Halloween era il pretesto, mostrilli mostruosi il tema. Ho pensato “zombie”, e subito una serie di idee l’una più strampalata dell’altra hanno cominciato a presentarsi sul foglio senza nessuna soluzione di continuità, quasi alla rinfusa, tant’è che io stessa ho fatto fatica a mettere loro ordine e fare una cernita di ciò di cui potevo parlare in questa shot e ciò che invece avrei fatto meglio a lasciare per le successive. Perché sì, ce ne saranno di successive – almeno due. E quindi tutti i piccoli dettagli sparpagliati qua e là – i figli di Zlatan che giocano sparsi per l’Europa ed hanno un rapporto palesemente ambiguo, il figlio di José che gioca nell’Inter come attaccante, Davide capitano, lui e Mario in chiusura di carriera, lui  e Mario che si sposano XD Sono tutte cose che sono arrivate alla rinfusa. Io le ho prese e le ho ficcate tutte dentro al calderone – che, trattandosi di Halloween, fa anche atmosfera – e poi ho cercato di tirarne fuori qualcosa di buono, partendo comunque dal punto cardine imprescindibile attorno al quale ruotava tutta la trama: Zombie!José. O qualsiasi altra cosa egli sia.
Spero di esserci riuscita XD
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WHO’S RETURNED FROM THE DEAD


All’alba dei propri quarantasette anni, Zlatan Ibrahimović poteva dirsi un uomo felice, sereno e soddisfatto della propria vita presente almeno quanto era orgoglioso di quella passata e colmo di speranze per quella futura.
Sollevandosi dal letto con un enorme sorriso a tirargli le labbra, anche quella mattina Zlatan si guardò intorno e compilò mentalmente l’elenco dei propri doveri: fare colazione con estremo comodo, rendersi presentabile e uscire di casa, per poi balzare in macchina diretto al centro sportivo di Appiano Gentile per il primo allenamento giornaliero, previsto per le dieci. Quindi – continuò ad elencare entrando in bagno e cominciando a lavarsi – attendere lì l’arrivo del presidente per pranzare insieme a lui e alla squadra prima del riposo e dell’allenamento pomeridiano, previsto per le quattro. Restare lì anche a cena, costringere i piccoli a mangiare le loro verdure, dribblare gli assalti di Davide per quella ridicola questione del volergli chiedere di essere il suo testimone di nozze, dribblare anche Zuca per quell’altrettanto ridicola questione del voler già rientrare in campo domenica prossima dopo l’infortunio al ginocchio e poi, finalmente, mollare il gruppo di squinternati per tornarsene a casa, salutare Helena con un bacio e poi assistere con estremo divertimento alla telefonata serale fra Maxi e Vinny, già abbondantemente fuori di testa per Juve-Chelsea del mercoledì successivo e bene intenzionati a suonarsele di santa ragione sul campo, per poi ovviamente rintanarsi nel primo angolo di spogliatoio appartato disponibile, scambiarsi un abbraccio fraterno, farsi qualche coccola e darsi appuntamento al prossimo incrocio di Champions. Dopodiché, finalmente, rintanarsi sotto le coperte e lì restare fino all’indomani mattina, in attesa di dover riprendere tutto da capo con lo stesso identico sorriso.
Sorseggiando il caffè un po’ annacquato di Helena, Zlatan accese la tv e si lasciò stordire dalle notizie del giorno, storcendo il naso e lasciandosi andare ad una smorfia disapprovante quando, nell’ambito del servizio dedicato alla recente legalizzazione dei matrimoni fra omosessuali in Italia ed a tutte le conseguenze del caso – il quinto in cinque giorni, sembrava che i telegiornali ci tenessero particolarmente a tenere un conto il più preciso possibile di tutte le coppie gay già convolate a nozze sul suolo italiano – il giornalista inserì qualche stralcio di un’intervista rilasciata da Davide qualche settimana prima, in cui l’uomo si diceva fiducioso riguardo l’esito delle votazioni in Parlamento e confessava di aver già preparato quasi tutto per il proprio matrimonio, laddove l’unico problema sembrava convincere il testimone di nozze a sacrificarsi in tal senso contro la propria volontà.
- Perché il mondo deve volermi male in questo modo? – si lagnò ad alta voce, mentre il frigorifero gli offriva un bicchiere di latte freddo che lui fu ben felice di accettare. – Mario. – chiamò poi ad alta voce, e nel giro di pochi istanti l’aria attorno a lui si riempì del rumore un po’ ovattato del telefono che componeva il numero di Mario, e poi del segnale della linea libera in attesa che qualcuno, dall’altro lato della cornetta, rispondesse.
- Pronto…? – si degnò di farsi sentire la voce di Mario, finalmente, dopo almeno una decina di squilli.
- Mario! – sbraitò Zlatan, sistemando il nodo alla cravatta davanti allo specchio del corridoio, - Dormivi?
- Nossignore! – scattò l’uomo, chiaramente appena sveglio, muovendosi confusamente in un frusciare di lenzuola supportato dalla colonna sonora dei mugolii sonnolenti e infastiditi di Davide al suo fianco, - Arriveremo in tempo all’allenamento, Zuzu, giuro.
- Punto primo, - riprese Zlatan in un lamento esasperato, - piantala con quel soprannome del cazzo. Punto secondo, sveglia il tuo uomo o l’allenamento non ve lo faccio neanche guardare dall’infermeria. Punto terzo- non ridere, testa di cazzo, punto terzo, io non sarò il vostro testimone di nozze, e piantala di ridere perché giuro che ti costringo al ritiro anticipato, sai? – si fermò, giusto per concedersi un sospiro stanco e massaggiarsi pietosamente le tempie. – Punto quarto, parla con Zuca. Non lo so, incatenalo a una branda, ipnotizzalo, gambizzalo, o comunque fa’ qualcosa. Il deficiente mi assilla perché vuole tornare subito in campo, ma il ginocchio non è ancora a posto, per cui, visto che pare ascoltare solo te, cerca di fare qualcosa di utile nella tua esistenza e fermalo.
Mario rise ancora, trattenendosi a stento.
- D’accordo, - rispose quindi, - ma non puoi stupirti del fatto che si comporti così. Voglio dire, suo padre…
- Mario. – lo interruppe, sospirando affranto e tornando stancamente in cucina, vicino all’apparecchio, per lasciar scivolare due dita sopra il tasto dell’interruzione di chiamata, come in una mezza carezza, - Non mi pare il caso di parlarne, al momento. – concluse, forzando un sorriso la cui debolezza era tanto evidente che Mario, dall’altro lato della città, fu costretto a deglutire, agitato. – A dopo. – lo salutò quindi, schiacciando il pulsante e lasciando nuovamente la casa al silenzio.
Si concesse di accarezzare con la memoria il ricordo antico ma mai sbiadito di José solo per qualche secondo, prima di mescolare ciò che restava del caffè con ciò che restava del latte, aggiungere un po’ di zucchero, mandare giù tutto in un colpo solo come fosse stata una medicina e poi indossare la giacca, diretto all’uscita. Aprì la porta col sorriso di nuovo sulle labbra – lo stesso sorriso che aveva preso in prestito da José in un bacio unilaterale l’ultima volta che l’aveva visto, da morto, e che per questo non aveva mai restituito – ma quello stesso sorriso si spense sulle sue labbra quando il ricordo antico ma mai sbiadito di José si rivelò non essere antico, né sbiadito, né tantomeno un ricordo: José, una mano sollevata e chiusa a pugno come nell’atto di bussare e le labbra dischiuse in un’espressione di puro stupore, lo osservava appena oltre la soglia, in piedi, sul patio di casa sua.
- …non ho sbagliato indirizzo. – disse, senza che nessuno gliel’avesse chiesto. La sua voce era esattamente identica a come la ricordava, l’accento portoghese pesante rendeva il suo italiano strascicato e sensuale, anche se ricordava un po’ il tono di un ubriaco pronto per crollare addormentato al primo angolo di strada disponibile. Zlatan deglutì, una mano ancora stretta attorno alla maniglia di ottone e l’altra pressata con forza contro lo stipite della porta, un po’ per reggersi, un po’ in un vano tentativo di porre una barriera fra l’ospite inatteso – ma chissà quanto indesiderato – e la propria casa.
Schiuse le labbra, comunque, ed ebbe bisogno di un po’ di tempo per formulare con ordine le parole adatte nella propria testa, prima di essere finalmente pronto ad esprimerle.
- Io invece credo di sì. – sputò fuori in un fiato, e subito dopo osservò i lineamenti di José cambiare repentinamente, esattamente come ricordava potessero fare vent’anni prima – Dio, vent’anni prima – per conferire al suo volto quell’aria disapprovante ma intimamente disinteressava che costituiva nei fatti la sua espressione severa.
- Non sei per niente diventato una persona migliore, dall’ultima volta che abbiamo parlato, zingaro. – lo rimproverò, costringendolo a spostarsi dalla soglia con un colpetto neanche tanto debole in pieno stomaco ed entrando in casa sua come fosse stata casa propria, - Offrimi un caffè.
- Farò tardi all’allenamento… - biascicò Zlatan, massaggiandosi il ventre ma richiudendosi comunque la porta alle spalle e dirigendosi comunque in cucina per azionare la macchinetta automatica, - Voglio dire, i ragazzi mi aspettano e… - i suoi occhi si sollevarono, dopo che ebbe posizionato due tazzine sotto gli erogatori dell’elettrodomestico, ed incontrarono quelli solo apparentemente più spavaldi di José, oscurati dallo stesso velo di incertezza che doveva offuscare anche i suoi. Si voltò per poterlo guardare più direttamente, appoggiandosi con un fianco al mobile come avesse bisogno di quell’appiglio per non cadere rovinosamente per terra, e poi si schiarì la voce. – Tu dovresti essere morto. – constatò seccamente, non con rabbia né con paura, solo con una certa praticità. D’altronde, José era sempre stato anche lui un uomo piuttosto pragmatico.
- Sì, questo me lo ricordo. – annuì, prendendo posto al suo tavolo. – Comunque non so se posso.
- Uh. – biascicò Zlatan, vagamente inebetito, - Cosa?
- Il caffè. – precisò José, indicando le tazzine già piene per metà, - Non so se posso berlo. Voglio dire, non so neanche esattamente come sia possibile che io mi trovi qui in questo momento, figurati sapere se posso bere o mangiare o chissà che altro.
Zlatan recuperò entrambe le tazzine e gliene porse comunque una, mentre si accomodava al suo fianco allo stesso tavolo.
- Cos’è che sei? – chiese quindi, fissandolo con curiosità quasi scientifica senza lasciarsi distrarre da quanto quel dialogo e quella situazione potessero essere oggettivamente allucinanti, - Intendo, un fantasma, uno zombie…
- Non lo so. – scrollò le spalle José, rigirandosi la tazzina bollente fra le dita, - Una cosa a metà, forse. Non sono trasparente e non passo attraverso i muri, ma non perdo neanche pezzi, non sono in putrefazione e non provo l’indomabile istinto di mangiarti il cervello. Secondo te cosa sono?
- Non ne ho idea! – rispose Zlatan, infastidito dal sarcasmo, - Uno stronzo, suppongo, ma quello lo sei sempre stato. – sbuffò, e José scoppiò a ridere, stendendo tutti i lineamenti e tornando perfino piacevole da guardare, - Comunque non puoi essere una cosa a metà, non ha senso.
- Ah, perché suppongo che, invece, se fossi un fantasma uno zombie, avrebbe molto più senso. – ritorse José con un sogghigno. – Suppongo di essere semplicemente resuscitato. – aggiunse quindi, con una scrollatina di spalle, - D’altronde, ho sempre creduto di essere divino, in qualche modo.
- José, fottiti. – ringhiò Zlatan, scattando in piedi e cominciando a muoversi nervosamente per la cucina, - È una cosa seria, voglio dire, se tu davvero sei tornato dalla morte… - si fermò all’improvviso, guardando la propria immagine riflessa nello specchio. – Ma che sto dicendo? Se tu davvero sei tornato dalla morte? Ma mi ascolto, quando parlo?! Non è semplicemente possibile! – quasi gridò, tornando a guardarlo con aria accusatoria, - Devo essere ubriaco.
José roteò gli occhi, restando seduto al proprio posto e sorseggiando il caffè. Zlatan lo osservò deglutire e poi si avvicinò per guardarlo bene da ogni parte, come aspettandosi di vedere il caffè scivolare all’interno del suo corpo come in trasparenza e poi magari cadere a terra, insozzando il pavimento pulito. Niente di tutto questo, ovviamente, accadde.
- No, direi che non sono un fantasma. Potrei ancora essere uno zombie, ma l’idea della resurrezione mi piace di più. Chiamami Gesù Cristo, da ora in poi, grazie. – ironizzò con un sorriso compiaciuto, e Zlatan tornò a sedersi, grugnendo stancamente e coprendosi il viso con entrambe le mani.
- Ma cosa diavolo sta succedendo…? – chiese a nessuno in particolare, massaggiandosi con forza la fronte e le guance, come a volersi risvegliare del tutto dopo un sogno particolarmente turbolento, - Questa cosa non può essere vera.
- Io sono del parere che bisognerebbe considerare come vere solo le cose che accadono realmente sotto i nostri occhi. – obiettò José, facendo schioccare la lingua infastidito, - Intendo, se vent’anni fa mi avessero detto che ti avrei trovato in questa villa… - rise un po’, indicando con un cenno del capo le stanze di Villa Ratti in ordinata esposizione lungo il corridoio a pochi metri da loro, - non ci avrei mai creduto. E invece guardati, sei qui e… cos’è che fai, esattamente?
- …alleno. – rispose lui, lasciandosi ricadere le braccia lungo i fianchi, - L’Inter.
José spalancò gli occhi strabiliato.
- Tu al- - riuscì appena a balbettare, prima di scoppiare a ridere piegandosi perfino in due e pressandosi un braccio contro lo stomaco, - Tu alleni l’Inter? Alleni l’Inter e poi vieni a dire a me che è impossibile che io sia resuscitato? Perdonami, ma fra le due cose il fatto che tu stia allenando questa squadra mi sembra perfino più improbabile.
- Ah, sì? – quasi ghignò Zlatan, incrociando le braccia sul petto, - E, nella tua personale scala dell’improbabilità, io che alleno l’Inter nella quale gioca anche tuo figlio su che gradino si colloca, più o meno?
José smise immediatamente di ridere, portando gli occhi scuri a cercare quelli di Zlatan.
- Scherzi. – tentò.
- Affatto. – sorrise Zlatan, e poi sospirò, condiscendente. – Dovessi farti un elenco di tutte le cose che sono cambiate, suppongo che ti verrebbe un infarto e moriresti di nuovo. Per non parlare di quelle che invece sono rimaste uguali.
José gli lasciò scorrere gli occhi addosso, forzando un sorriso.
- Il mio cuore non batte. – gli fece notare, - Dubito che potresti fare peggio di così.
Zlatan abbassò gli occhi, serrando le labbra e restando a lungo in silenzio, prima di passarsi stancamente una mano sulla fronte e sospirare.
- Questa dev’essere una maledizione. – biascicò, - Qualcosa tipo “e al compimento del tuo quarantasettesimo anno di vita, riceverai la visita del tuo ex allenatore, che porterà sventura su te e sulla tua casa”. Sei l’angelo della morte, José? Sei qui per dirmi che farò la tua stessa fine?
- Mi pare improbabile che un fanatico possa spararti dagli spalti del Bernabéu dopo la vittoria della Champions. – lo prese in giro, cercando i suoi occhi e tirando sulle labbra un sorriso quasi tenero, - Mi pare improbabile anche che tu possa vincere una Champions, fra le altre cose.
- L’ho già vinta. – ribatté Zlatan, stizzito, - L’anno scorso, al mio primo anno qui all’Inter.
- Davvero? – rise José, più genuinamente divertito che realmente deluso per la notizia, - Mi sa che avevi ragione.
- Su cosa? – chiese Zlatan, inarcando un sopracciglio.
- Sulla mia scala dell’improbabilità. – rispose José, annuendo, - Probabilmente è una stronzata.
- Io non ho detto niente sulla tua scala dell’improbabilità. – precisò Zlatan, sbuffando sonoramente.
- No, ma l’hai lasciato intendere. – rise ancora José, avvicinandosi a lui strisciando la sedia sul pavimento, - E credo che avessi ragione. Adesso mi dirai che Davide gioca ancora nell’Inter e- no, anzi! Mi dirai che Davide è il capitanodell’Inter, e che lui e Mario stanno per sposarsi.
Zlatan spalancò gli occhi e dischiuse le labbra, guardandolo come se – oltre ad essere risorto – fosse appena diventato blu sotto il suo stesso considerevole naso.
- In effetti- - provò a balbettare, ma José lo fermò con una risata tonante delle sue – di quelle che a ragione giustamente credeva non avrebbe mai più sentito.
- Questo lo so che è vero. – disse con aria furba, ghignando apertamente, - L’ho letto sulla Gazzetta mentre venivo qui.
- …hai comprato la Gazzetta? – fu tutto ciò che riuscì a chiedere Zlatan, sempre più sconvolto, - Cioè ti sei fatto vedere in giro e hai comprato la Gazzetta?! Tu sei morto vent’anni fa! – puntualizzò, spalancando le braccia in un gesto a metà fra il rassegnato e l’esasperato.
- Non credo che l’edicolante mi abbia riconosciuto, Zlatan. – sospirò lui, - E se l’ha fatto, si sarà giustamente detto che era una cosa impossibile, come d’altronde stai facendo tu adesso, e mi avrà archiviato nella propria memoria alla voce “sbalorditive somiglianze” o, peggio ancora, alla voce “inspiegabili allucinazioni”. Ma – continuò con un altro ghigno, stavolta meno compiaciuto, - sono più propenso a credere che non mi abbia riconosciuto affatto. Probabilmente, se anche gli avessi detto “salve, buon uomo, sono José Mourinho di ritorno dalla morte”, mi avrebbe guardato e mi avrebbe detto “e quindi?”. Si fa presto a dimenticare i morti, no?
- No. – rispose seccamente Zlatan, stornando lo sguardo e mandando giù il proprio caffè, giusto per darsi qualcosa da fare. – No, direi che, fra tutte le stronzate che hai detto da che sei apparso alla mia porta, questa è la peggiore in assoluto.
José sorrise – un sorriso a bassa frequenza, appena intuibile sul suo volto, quasi per nulla percettibile nell’aria – e si alzò in piedi, fronteggiando Zlatan da un’altezza alla quale s’era difficilmente trovato, quando era ancora vivo.
- Forse è meglio che io vada via. – propose, senza smettere di sorridere.
- E dove vorresti andare? – chiese Zlatan, in uno sbuffo condito da una risatina sarcastica, - Sei morto. Vuoi, che ne so, affittare una casa? Andare a trovare tua moglie, rivedere i tuoi figli, dire a Zuca che è una piaga sociale e dovrebbe pensare a recuperare l’infortunio al ginocchio invece di rompere le palle per tornare subito a giocare?
José rise divertito, e la sua risata riecheggiò in tutte le stanze della casa, raggiungendo le orecchie di Zlatan in un brivido dolce e nostalgico che lo scosse fin nel profondo, costringendolo ad un sorriso di reazione.
- Non lo so, dove andrò. Ma penso che sia meglio non rivedere gli altri. Insomma, guarda tu come hai reagito, - commentò, battendogli una pacca amichevole sulla spalla, - e tu sei solo Zlatan. Intendo, immagina cosa-
- Non dirlo. – lo interruppe Zlatan, guardandolo con aria quasi implorante, mordendosi un labbro, - Non dire che sono solo Zlatan, io… - abbassò lo sguardo, avvicinandosi impercettibilmente e poi, altrettanto impercettibilmente, ritraendosi. – Quando tu sei morto… voglio dire, i tuoi funerali sono stati a Setúbal, io sono venuto. Sono entrato nella camera ardente, durante la notte di veglia. – trattenne il respiro, tornandogli vicino, - Quando Tami mi ha visto, mi si è stretta contro ed ha pianto sul mio petto come se fossi- non lo so, suo fratello o il suo migliore amico, e io lì – rise un po’, imbarazzato, - io lì ho capito quanto fossi vicino a lei e a tutta la tua famiglia, e poi ti ho visto lì nella tua bara e… - trattenne il respiro, guardandolo negli occhi, - …Tami mi ha lasciato solo con te, dopo un po’, e io- - non riuscì a concludere il suo monologo, perché José annullò i pochi centimetri che ancora li separavano e si sporse a pressare le labbra contro le sue, restando lì, sospeso in un momento fra certezza e incertezza, abbastanza a lungo da farsi sentire, ed imprimere quella sensazione nella memoria di Zlatan. Labbra calde, con un sapore, labbra vive.
- Lo so. – disse allontanandosi, pochi istanti dopo. – Quello lo ricordo. Non so come, - aggiunse con un sorriso, - ma lo ricordo.  – e poi sospirò, infilando le mani in tasca e ristabilendo le giuste distanze fra i loro corpi. – Comunque, vado. – annuì decisamente, più per confermare l’idea nei propri stessi confronti che per ribadirla in quelli di Zlatan, - È decisamente meglio così.
Zlatan lo osservò voltarsi e muoversi con una sicurezza quasi eccessiva verso la porta, deglutendo faticosamente. Cercò di tacere mentre José poggiava due dita sulla maniglia e pressava, schiudendo l’uscio, ma non riuscì a trattenersi oltre quando, in un gesto involontario, tirò fuori la lingua per inumidirsi le labbra asciutte. E vi trovò sopra il sapore di José.
- No, senti… - lo fermò frettolosamente, correndogli dietro e tirandolo nuovamente all’interno della casa, chiudendosi subito la porta alle spalle, - Non andare.
- Zlatan, - cercò di obiettare José, - mi sembrava di averti spiegato-
- Non importa. – scosse decisamente il capo lui, - Non mi importa di chi ti vedrà, di cosa succederà quando ti vedranno né di un fottuto cazzo di resto. Non mi importa nemmeno della possibilità che- - rise un po’, a fatica, - che tutto questo sia un sogno, che ne so, o che tu possa sparire la prossima volta che chiuderò gli occhi. – la sua mano, ancora ferma sulla sua spalla, scese lungo il suo braccio e si fermò a stringergli una mano. – Resta. Okay? E non dirmi no. Resta e basta.
José schiuse le labbra, guardandolo per qualche secondo senza sapere nemmeno come rispondere.
- E non t’importa di non sapere nemmeno se sono uno zombie, un fantasma o sono resuscitato davvero? – chiese alla fine, con un sorriso piccolissimo.
Zlatan scosse il capo.
- Però m’importa che tu possa mangiare. – annuì convinto, recuperando la giacca ed infilandola sbrigativamente, - Perché voglio invitarti a pranzo.
José rise – finalmente, di cuore, e che battesse o meno a quel punto non era poi così importante – e lo seguì all’esterno della villa, verso la macchina. Avrebbe constatato sulla strada se avesse ragione o meno, riguardo alla possibilità di essere stato dimenticato del tutto.
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