rp: chris wolstenholme

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Matthew/Brian.
Rating: NC-17
AVVISI: AU, Lemon, OC, Slash.
- Del giorno in cui suo padre è andato via di casa, Matthew ricorda solo che era estate, che sua madre piangeva, che piangeva anche la televisione e che lui voleva un jukebox. Da quel momento, la sua vita è stato un inseguirsi di vuoti, nel disperato tentativo di evitare di prendere atto di un problema che non c'è ma forse dovrebbe esserci. O forse non dovrebbe esserci e invece c'è. Il successivo momento di non-vuoto è Brian. E Matthew che comincia a imparare che il problema non è tale solo se lo vedi. Lui c'è comunque. Sta a te affrontarlo.
Note: WIP.
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MAKE-UP FOR BOYS
CAPITOLO 1
BUBBLER

Avevo quindici anni, quell’estate. Mamma piangeva nella stanza accanto alla mia. Alla TV, che era rimasta accesa per tutto il giorno, un uomo cominciò a piangere a bassa voce. Disteso sul letto, fissando il vuoto, pensai che il pianto di mia madre e quello dell’uomo alla TV si componessero in un duetto veramente meraviglioso. Poi, all’improvviso, il soffitto divenne grigio ed io pensai “Voglio un jukebox”.
Questo è tutto quello che ricordo della giornata in cui mio padre andò via di casa.
Mia madre mi ha raccontato molte cose, di quel giorno. Di avermi chiamato in salotto, di avermi detto di accomodarmi in poltrona mentre lei e papà continuavano a fissarmi dall’alto, semplicemente terrorizzati perché non avevano la minima idea di come gestirmi. Mi ha raccontato che mio padre prese la parola e disse “Matt, io e tua madre abbiamo deciso”, e che lei lo interruppe puntualizzando che era stato lui a decidere tutto, e che quasi scoppiarono a litigare davanti a me perché mio padre cominciò a sindacare su cosa trovava giusto far sapere “al bambino” mentre mia madre giustamente obiettava che per “il bambino” la cosa migliore sarebbe stata continuare ad avere un padre e non uno stronzo che va via di casa.
Mamma mi ha raccontato anche che, a quanto pare, dopo la scenata io semplicemente mi alzai e tornai in camera mia. Papà raccolse la propria roba ed uscì, e lei si rintanò in camera da letto. Quella che era stata la loro camera da letto, e che da quel momento in poi sarebbe rimasta per me la sua camera da letto, nonostante i numerosi uomini che si sono succeduti nell’occupare la metà di lettone che non è più di mio padre da oltre vent’anni.
Tutto questo susseguirsi d’eventi non è che uno sterile racconto. Io non ne posseggo immagini. Non ne ho ricordo. Potrebbe anche non essere mai successo.
Tutto quello che ricordo resta l’incrocio di quei pianti.
E il desiderio di avere un jukebox.
*
Ne parlai a mia madre solo molti mesi dopo, quando, nell’ingenuità egoistica della mia gioventù, credetti che, dal momento che aveva smesso di piangere ogni giorno, “le fosse passata”. Un giorno lei passò a prendermi da scuola, io mi sedetti tranquillamente nel posto del passeggero al suo fianco e le dissi che mi sarebbe piaciuto avere un jukebox.
Lei staccò appena gli occhi dalla strada, solo per qualche secondo. Giusto il tempo di voltarsi, incontrare il mio sguardo serio e pacato e tornare a fissare l’asfalto.
- Non avrei neanche idea di dove andartelo a comprare. – disse sinceramente, stringendo la presa sul volante, - Non potresti desiderare un IPod come tutti i ragazzi della tua età…?
Ridacchiai lievemente, coprendomi la bocca con una mano.
- Fa nulla. – dissi, scrollando le spalle.
In realtà faceva.
Erano passati all’incirca quattro o cinque mesi da quando mio padre era andato via, e quello del jukebox in camera era stato l’unico pensiero fisso a tenermi compagnia.
Non era come se fossi “stato male”. Non ero “stato male”. Ero rimasto tranquillo, ero tutto sommato rilassato. La partenza di mio padre per l’Australia – appena tre settimane dopo la sua uscita di casa – non mi aveva sconvolto. Il pensiero di non poterlo più rivedere se non per fantomatici viaggi di vacanze estivi che sapevo non si sarebbero mai verificati, non mi turbò affatto.
Mio padre cantava in una band piuttosto famosa a livello internazionale, ero abituato a non vederlo. Ero abituato al pensiero che non ci fosse. Ed ero abituato al pensiero che potesse trovarsi dall’altro lato del mondo rispetto a me, senza che questo dovesse procurarmi particolari traumi. Era una condizione del tutto normale. L’unica cosa che era cambiata era il rapporto fra lui e mia madre. Perché quel rapporto, in effetti, un tempo c’era stato. Quello fra me e lui, invece, era sempre mancato.
Ciononostante, malgrado il mio stato d’animo non potesse dirsi “sofferente”, di sicuro non ero rimasto lo stesso. Avevo progressivamente perso interesse per qualsiasi cosa mi stuzzicasse prima. Non era stata una cosa intenzionale – neanche me ne rendevo conto, a dirla tutta. Suonicchiavo il piano – e non lo toccai più, se non per una volta, ma il solo contatto con i tasti d’avorio mi infastidì al punto da convincermi a non provarci mai più. Scrivevo racconti – ma smisi. Ogni tanto disegnavo – non era mai stato un passatempo fisso, ma smisi anche con quello.
Passavo le mie giornate ad ascoltare musica. E non era solo una questione di udito. Potevo trascorrere interi pomeriggi ad esaminare le copertine dei CD, facendovi scorrere sopra la mano alla ricerca di imperfezioni nel cartone, o, se l’artwork era in rilievo, a saggiarne colli e valli per imprimerne la forma nei polpastrelli. Io e la musica avevamo un rapporto molto fisico. Mi sarebbe davvero piaciuto poter avere un jukebox, sarebbe stato il regalo perfetto, il giocattolo perfetto.
Chiaramente allora non la vedevo in questi termini.
Un jukebox non sarebbe stato un giocattolo, sarebbe stato l’altare del personalissimo santuario che avrei costruito in camera.
Ma quando sei adolescente vedi tutto in maniera talmente distorta che a ripensarci dopo ti dai i brividi da solo. Non hai percezione chiara di niente. È tutto esageramene grande. O esageratamente piccolo.
Io sapevo di avere un problema. O meglio, sapevo che avrei dovuto averlo. Avrei dovuto sentire il bisogno di parlare con qualcuno di ciò che provavo, di ciò che l’assoluta mancanza di mio padre significava in quel momento, di ciò che aveva sempre significato, in qualche luogo oscuro della mia testa.
Ma questo problema, in effetti, mi sembrava esageratamente piccolo. Insignificante.
Al contrario, la fissazione per la musica era enorme. Si gonfiava, come una spugna, occupava tutto lo spazio nella mia testa. Dom continuava a ripetere che avrei dovuto lasciarne un po’ anche per il cervello, quando cercavo di spiegare come lo sentivo. Chris si limitava a ridacchiare sotto i baffi, mandandolo su tutte le furie.
Potevo capire la paura di Dom. Avevo già stressato incredibilmente lui e Chris perché imparassero a suonare rispettivamente batteria e basso, dal momento che avevo intenzione di mettere su una band. Era stato molto felice nel momento in cui io avevo perso interesse nell’idea, ma ora quel ritorno di fiamma lo metteva in agitazione, aveva come il presentimento che da un momento all’altro avrei potuto investirlo di nuovo con quell’idea strampalata, e che lui non sarebbe stato in grado di sottrarsene.
Poverino.
Se penso a com’è finita, aveva ragione lui.
Ma non sarebbe successo prima di un altro anno, almeno, e il filo di pensieri che sto seguendo non è ancora arrivato a quel punto. Manca un tassello fondamentale.
Manca Brian.
Devo arrivare prima a lui.
Quando sarò arrivato a lui, arriverà anche il resto.
*
Il jukebox continuò a tormentarmi. Mia madre lo sapeva e sbuffava, e io passavo il tempo ad osservare immagini su internet, cercando qualcosa che potesse andare bene col disegno assurdo della mia carta da parati gialla e arancione.
Poi un giorno tornò a casa, irruppe in camera mia e mi trovò disteso sul letto ad osservare curioso la copertina di una rivista musicale random. Io mi voltai a guardarla, e le vidi passare negli occhi una quantità enorme di cose. Prima di tutto che in quel momento avrei dovuto studiare, e che quindi adesso era indecisa se dirmi o meno ciò che pensava. Poi che probabilmente quello che stava per dirmi avrebbe soltanto incasinato ancora di più la situazione. E infine che be’, io sembravo tenerci, e quindi così sia.
- Pensi ancora di volere quel coso?
Scattai a sedere, abbandonando la rivista sul copriletto.
- Me ne hai comprato uno?
Lei sospirò.
- No. – confessò abbassando lo sguardo.
- Oh. – dissi io, demoralizzato, imitandola.
- Però ne ho visto uno in quella creperia che c’è in Saint James street… - aggiunse, scrollando le spalle, - Puoi provare a parlare con il proprietario… magari te lo vende.
Ora, so che può sembrare idiota. Ma la mia giornata veramente cambiò sapore, colore e odore, in quel momento. Era la prima volta che mia madre mi dava una piccola speranza in quel senso, e dannazione, non avevo mai visto un vero jukebox, prima di allora!
Volai fuori di casa e la metropolitana mi portò, caotica e ordinaria come al solito, fino a destinazione.
La creperia era in realtà un piccolo bar. All’esterno aveva un giardinetto piuttosto grande, ricolmo di tavolini, mentre all’interno c’era solo la cassa, un bancone sempre stracolmo di panini e un ripiano enorme per fare le crepes, spalleggiato da un grandissimo frigorifero e da tutta una serie di scaffali contenenti ingredienti di ogni tipo.
Il jukebox era in fondo.
Spento, inutilizzato da chissà quanto tempo.
E bellissimo.
I colori scivolavano dal rosa al giallo passando per tutte le tonalità intermedie, il che gli dava un aspetto psichedelico davvero affascinante, ed era una riproduzione fedelissima di un modello che avevo visto online, il Bubbler, praticamente il jukebox più famoso della storia della musica.
Lo amavo.
Lo amavo, lo amavo e lo volevo.
- Prego. – disse una voce alle mie spalle, e io mormorai “il jukebox” prima ancora di voltarmi.
Quando lo feci, però, ripiombai nel silenzio. Davanti a me si stagliava un uomo non troppo alto ma decisamente robusto, che mi fissava sorridendo in un modo che probabilmente a lui doveva sembrare aperto e conciliante, ma in realtà era quantomeno spaventoso.
- Buonasera… - borbottai incerto, torturando gli orli delle tasche dei jeans fra le dita.
- Buonasera! – rispose lui entusiasta, restando in attesa della mia ordinazione.
Io mi guardai intorno e gli chiesi un panino.
- Un panino come? – insistette lui, senza capire che non si trattava d’altro che di una scusa.
Scrollai le spalle e buttai fuori un “cotoletta e patatine” poco convinto, preparandomi a spendere quella sterlina e mezzo e buttarla nell’immondizia appena uscito da quel posto.
Il tizio mi rifilò un panino enorme. Uscivano patate, pezzi di carne e foglie di lattuga da ogni lato. Mi sedetti al bancone del bar, su uno sgabello, e lo poggiai sul piattino che mi aveva passato, cominciando ad esaminarlo per togliere tutto ciò che non mi convinceva. A cominciare dalla lattuga.
- Pensavo… - dissi, dopo un’enorme serie di incertezze, senza riuscire a sollevare lo sguardo dal panino che stavo crudelmente sezionando, - …il jukebox è in vendita?
Lui posò nel lavandino il bicchiere che stava lavando e mi fissò.
- Perché? – chiese curioso. Il suo tono mi costrinse ad alzare gli occhi e guardarlo a mia volta.
- Io lo comprerei. – dissi serenamente, ripetendomi che la sola vista di Bubbler era abbastanza per ridarmi coraggio.
Lui continuò a scrutarmi con attenzione, prima di ridacchiare nervosamente.
- Mi dispiace, ragazzino, il Bubbler non è in vendita.
Il Bubbler.
Cioè era un modello originale?!
- Era tipo di mio nonno. O qualcosa del genere. Capiscimi, - disse sbuffando, - non è che a me interessi, te lo darei pure gratis, ma non sono io il proprietario, qui.
- No…? – piagnucolai indecentemente, giocando con la lattuga unta di maionese nel piatto.
- No. È tutto di quel vecchiaccio di mio padre. – spiegò con astio, - Credimi, se potessi cambierei praticamente il novanta per cento di tutto quello che c’è qui dentro. – borbottò, accompagnando le parole con ampi gesti delle braccia e schizzandomi d’acqua su tutta la faccia.
- E non c’è proprio niente da fare…? – chiesi io, asciugandomi il viso con una manica, cercando di non mostrarmi infastidito, - Vorrei davvero quel jukebox, ci penso da mesi…
- Mmmh. – mugugnò lui, pensieroso, - Senti, io qui devo fare tutto da solo. Il che in genere non è particolarmente faticoso, perché per la maggior parte del giorno questo posto è semivuoto. – illustrò con uno sbuffo annoiato, - Solo che da queste parti c’è una scuola, e quindi all’uscita d’improvviso mi ritrovo invaso da stupidi adolescenti che… - mi lanciò un’occhiata, - Be’, da ragazzini come te.
Non riuscivo a capire dove volesse andare a parare, perciò mi limitai ad annuire incerto e fissarlo ammirato.
- Quindi, tu vuoi il Bubbler. Io voglio una mano d’aiuto. Possiamo risolvere!
M’illuminai. Pensai che volesse propormi un accordo del tipo “lavori qui a pieno regime pulendo i cessi per due mesi e alla fine il Bubbler sarà tuo”, ed ero già pronto ad accettare con slancio, quando lui disse “Vieni a lavorare con me! Così potrai stare col Bubbler tutto il tempo che vorrai!”, ed io ero così preso da tutti i miei sogni di gloria che quasi neanche me ne accorsi, e accettai lo stesso.
Quando me ne resi conto, era troppo tardi.
- Aspetta. – balbettai, - Intendi lavorare qui a tempo indeterminato…?
Lui annuì tranquillamente.
- Ma è illegale! – protestai agitato, - Ho quindici anni!
- Basterà l’autorizzazione dei tuoi. – risolse lui semplicemente, con una scrollata di spalle.
- Ma… - cercai altro da dire, e non trovai niente. Lanciai un’occhiata a Bubbler, nell’angolino buio. Così, ricoperto di polvere e abbandonato a sé stesso, faceva veramente tristezza. – D’accordo. – annuii, - Ma ad una condizione.
Il tipo sorrise furbo.
- Lo rivuoi funzionante, eh?
Annuii ancora, con più decisione.
- E sia. – concesse lui, - Per quello che m’importa. Ma te ne occuperai tu, ok?
- Sì!!! – risposi entusiasta, scattando in piedi e rischiando di scivolare in terra dallo sgabello, - Certo che sì!
Un Bubbler originale sotto la mia unica e totale responsabilità!
Il mondo era un luogo bellissimo.
Fu così che venni assunto al Cafe Creperie.
Tom Kirk, il mio datore di lavoro, l’uomo che avevo incontrato quel giorno, decise che avevo un talento per le crepes alla nutella e mi mise a fare solo quello. Lo feci per mesi. Ogni giorno uscivo da scuola e mi fiondavo al locale; lì rimanevo ore: preparavo crepes per i miei stessi compagni di classe – che da quando avevano saputo che lavoravo lì avevano deciso di approfittare di me come mai avevano fatto prima, sperando in qualche sconto che il comportamento burbero di Tom mi salvò dal negare, dal momento che lo negava già lui più che bene – e rimiravo il mio Bubbler luminoso e colorato che mangiava vecchi dischi dei Beatles e di musica ballabile varia ed eventuale che naturalmente mi disgustava, ma non era quello il punto.
Fu così improvviso che è quasi assurdo pensarci.
Passai dal niente al tutto in un paio di giorni.
Dai pomeriggi noiosi riverso sul letto e fissare per la milionesima volta la copertina di Diamond Dogs a quelli pieni di chiacchiere e scherzi dietro il bancone della caffetteria, con Dom e Chris che cercavano di infilare le dita nel barattolone di Nutella da tre chili che tenevo su un tavolino lì a fianco e le ragazze che mi imploravano per un pezzettino di crepes gratuito.
Penso che in assoluto quella fu l’esperienza che più mi aiutò a risolvere il “problema” che non avevo ma che decisamente avrei dovuto avere. Anche se è stupido dirlo in questi termini.
Comunque sia, mi aiutò anche a non accorgermi di tutta una serie di cose delle quali, però, sarebbe stato utile prendere coscienza prima. Per dirne una, l’abitudine di mia madre di cambiare uomo ogni due-tre mesi senza nessun motivo apparente. Il continuo viavai di tizi sconosciuti dalla sua camera da letto. La sua tristezza.
Dal momento che non me ne accorsi, non riuscii ad accorgermi neanche di quando tutto questo finì. Mia madre ricominciò a rifiorire. Il viavai scomparve del tutto. E lei riprese ad uscire di sera.
Non mi accorsi di niente. E così, quando si presentò in camera mia e, imbarazzata come una ragazzina, mi confessò che le sarebbe piaciuto farmi conoscere “una persona speciale”, non ebbi immediatamente una percezione chiara di ciò che stava succedendo. Mi limitai a guardarla come se fossimo idioti entrambi e le chiesi chi fosse.
- Si chiama Brian Molko. – gorgogliò lei gioiosa, - S’è trasferito qui qualche mese fa, è un mio collega.
Allora cominciai a subodorare qualcosa. Non capii, ma mi sembrò che qualcosa da capire ci fosse. Il che non era mai stato del tutto automatico, per me.
- Ci vediamo da un po’… - continuò mia madre dolcemente, - Sai Matt, so di aver fatto tanti errori, con gli uomini, in quest’ultimo periodo… - errori dei quali io non ero a conoscenza, e per i quali non sentii il bisogno di perdonarla, - …ma credo davvero che lui sia quello giusto. – quello giusto, disse, me lo ricordo, disse proprio così, - E ci terrei a fartelo conoscere.
Rimasi lì, seduto alla mia scrivania, incerto sul da farsi. Annuii, lei lo prese come un “ok” ed uscì.
Io pensai solo che da quel momento in poi avrei avuto un “padre” per casa.
Non mi sembrò tanto diverso dall’idea di comprare un nuovo vestito o, chessò, un cucciolo di cane.
Preparai lo zaino per il giorno dopo, spensi il pc, infilai le cuffie dell’IPod che avevo finito per farmi comprare comunque nelle orecchie e mi misi a letto.
Mamma preparò l’incontro col signor Molko per il giorno dopo. Si informò sui miei orari scolastici, sui miei orari lavorativi, e quando le assicurai che sarei tornato a casa solo per cena lei annuì e disse “perfetto”.
Quando rincasai, il signor Molko era già lì.
Era un uomo sulla quarantina, sembrava decisamente più vecchio di mia madre e dimostrava certamente più anni di quanti non ne avesse in realtà. Corti capelli brizzolati, limpidi occhi celesti e un sorriso affascinante. Modi da galantuomo. Abbigliamento impeccabile. Mi salutò chiamandomi “Matt” e mi disse che gli faceva molto piacere conoscermi, che ero “esattamente come Marylin mi aveva descritto” e che gli sembravo un ometto simpatico.
Gli risposi che anche lui mi sembrava un ometto simpatico, e lui rise di gusto.
Risi anche io.
E rise mamma.
Ci sedemmo a tavola e mangiammo i pomodori ripieni che mamma aveva preparato con cura per tutto il pomeriggio, perché la salsa tonnata fosse densa e non sapesse troppo di maionese, e perché il mais non uscisse dai bordi, cadendo sul piatto. Divorammo tutto, antipasto, primo, secondo e contorno. Quando arrivammo al dolce – budino al cioccolato. A mamma non piaceva, ma si ostinava a dire fosse un dolce divertente. Io lo amavo, questo mi bastava. – sapevo già tutto quello che c’era da sapere sulla vita del signor Molko. Che era americano. Che era divorziato. Che aveva due figli ma stavano negli Stati Uniti.
E soprattutto che amava mia madre.
Mi bastò.
*
Non bastò al signor Molko, però. Per quanto mia madre cercasse di convincerlo a “non andare troppo di fretta” e “fare le cose con calma”, lui non volle sentire ragioni. Le chiese di sposarlo e lei accettò ma lo implorò di darle tempo. Lui annuì e disse che “tanto non correva loro dietro nessuno”, e che comunque avrebbe gradito che Junior fosse lì, quando si fossero sposati, quindi dovevano aspettare che arrivasse.
Io assistetti a quel discorso imburrando una fetta biscottata alle nove di una domenica mattina. Quando sentii la parola “Junior” d’improvviso gli sbuffi di burro che non riuscivo ad appianare persero interesse e sollevai lo sguardo.
- Junior…? – sillabai incerto, poggiando il coltello sul tavolo e allungando una mano verso il barattolo di marmellata.
- Oh. – rispose il signor Molko, sorseggiando il proprio caffé. E li si fermò.
- No, non gliene ho parlato. – disse mia madre, annegando lo sguardo nel cesto di biscotti in mezzo alla tavola.
Il signor Molko annuì compitamente.
- Non preoccuparti, Mary. – le sorrise, conciliante, - È meglio se a dirglielo sono io.
- Dirmi cosa? – insistetti, un po’ nervoso, aprendo il barattolo e affondando il coltello nella conserva.
Il signor Molko sospirò.
- Matt, tu sai che ho due figli, no?
Annuii, spalmando la marmellata sulla fetta e osservando il burro colorarsi di rosa.
- Ecco, io e tua madre – e mi accorsi che mamma non si lamentò, non negò, sorrise e basta, - pensiamo sarebbe una bella cosa se potessimo essere… più come una famiglia vera.
Addentai la fetta, continuando a guardarlo.
- Mio figlio minore, Brian, ha la tua stessa età.
Risi.
- Ha il tuo stesso nome! – commentai divertito, - È la prima volta che vedo una cosa simile dopo Indiana Jones!
Lui rise con me, continuando a bere il caffé.
- Abbiamo pensato di farlo venire qui. E vivere tutti insieme. – confessò tranquillo, - Speriamo che per te vada bene.
Finii la mia fetta biscottata, bevendoci su un po’ di latte caldo.
L’unica cosa che mi colpì, in quel momento, fu che lui e mia madre si consideravano un’unica entità pensante in sincronia, e che mi dispiaceva non essere parte di quel groviglio caldo e accogliente che la loro unione mi sembrava.
Sorrisi.
- Certo che mi va bene.
*
Passò solo una settimana. Il signor Molko chiamò gli Stati Uniti solo una volta, e più che chiedere ad un figlio di trasferirsi da lui sembrava stargli dando ordini. Non fu brusco, non fu perentorio, non fu neanche fastidioso, almeno non per me. Fissava il muro, parlando al cellulare, e disse al ragazzo dall’altro lato dell’oceano “Sto per risposarmi. Ovviamente voglio che tu venga a stare con me”.
Non credo che il ragazzo dall’altro lato protestò.
Il successivo sorriso del signor Molko non era il tipo di reazione che si ha quando si deve cominciare un litigio per convincere qualcuno delle proprie ragioni… era la reazione che si ha quando si sa di averla comunque vinta.
In ogni caso, la domenica successiva eravamo all’aeroporto. Io mi guardavo intorno con aria curiosa e mia madre si mordicchiava le unghia, ansiosa, mentre il signor Molko si sollevava sulle punte per superare un gruppo di giganti scandinavi in arrivo nella piovosa Inghilterra probabilmente per una partita di calcio.
Successe tutto in due secondi.
Due davvero.
Io adocchiai un manifesto con sopra la pubblicità di un nuovo panino di McDonald’s, decisi che lunedì avrei ucciso Tom e sarei fuggito al primo locale disponibile per mangiarlo, e quando tornai a guardare l’atrio della sala arrivi lo vidi.
Quasi contemporaneamente, il signor Molko sollevò un braccio e disse “Brian!”, ridendo felice come un bambino.
Furono due secondi.
So che è banale, so che è stereotipato, ma furono i più lunghi della mia vita.
Era una ragazzina.
Bassa e magra.
Con uno strano casco di capelli scuri e spettinati sulla testa.
Una maglia nera stretta con le maniche più lunghe dell’universo.
Una gonna.
Un paio di collant.
E un paio di anfibi.

Brian.
Si avvicinò sbuffando, ed io seguii il movimento delle sue labbra. Sembrarono arrotondarsi e gonfiarsi in una piccola morbida palla, increspandosi come le onde del mare.
Rosse, piene e leggermente umide.

Non mi degnò di uno sguardo. Si limitò a scrutare con malcelato odio il proprio padre, lanciando la valigia ai suoi piedi e mettendo una mano sul fianco.
- Contento? – sputò fuori, velenoso.
- Junior, ti prego… - mormorò il signor Molko, roteando gli occhi.
- Avresti almeno potuto costringere anche Barry a venire. – continuò il ragazzo, senza interessarsi a nient’altro che non fosse il proprio genitore.
- Barry ha una famiglia e dei figli, Junior… - rispose lui, prendendo la valigia da terra e rimettendola dritta sulle rotelle.
- Piantala di chiamarmi Junior. È meschino che tu lo faccia solo perché sai che mi infastidisce.
Il signor Molko ghignò apertamente.
- Posso presentarti la mia compagna, o la sbranerai?
- Non ne avrei motivo. – rispose Brian con un sospiro, socchiudendo gli occhi. Solo allora sembrò cominciare a guardarsi intorno sul serio. E, prima di guardare mia madre, lanciò un’occhiata alla propria sinistra e mi sfiorò. Non diede neanche segno di accorgersi della mia presenza… ma che mi vide lo so.
Perché sentii i suoi occhi addosso, e quegli occhi non guardano mai in maniera lieve, non sono mai leggeri, non sono mai discreti. Sembra vogliano spezzarti in due ogni volta che ti si posano sulla pelle.
L’incontro fra Brian e mia madre fu quanto di più esilarante successe quel giorno. Era ovvio che lo trovasse adorabile da guardare, ma che avrebbe preferito mille volte poter rimanere solo a guardarlo senza necessariamente doverselo portare in casa. In fondo, posso capirla. Lui non era esattamente il tipo di adolescente maschio nel pieno delle proprie facoltà fisiche e mentali che immagini verrà a bussare alla tua porta. Era decisamente atipico, e non solo sembrava fiero di esserlo, sembrava anche uno di quei casini ambulanti impossibili da sbrogliare.
Questo fu il motivo per cui mia madre ne fu terrorizzata e si comportò con lui come se Brian fosse una principessina d’altri tempi e lei la dama di corte incaricata di farle compagnia. Mi chiedo ancora come sia riuscita a resistere all’impulso di aprire per lui la portiera della macchina.
Mamma non era abituata ad avere il controllo delle cose, ma era sempre lei a perderlo. Non qualcun altro a sottrarglielo. Cosa che invece Brian sembrava del tutto intenzionato a fare.
Comunque per me fu abbastanza semplice. Mi limitai ad osservare quello scricciolo in azione, trattenendo a stento le risate per tutte le occhiatacce che lanciava al signor Molko e tutte quelle che si sforzava di non lanciare a mia madre.
Fu semplice, fino a quando il signor Molko non distrusse tutto con l’uscita più infelice della giornata.
- E lui sarà il tuo nuovo fratello. – disse, mettendomi un braccio attorno alle spalle e spingendomi verso Brian.
Lui mi guardò.
Inequivocabilmente. Per molti secondi.
Socchiuse le palpebre, e il suo sguardo divenne veramente cattivo.
Catalizzò su di me tutto l’odio che provava e incrociò le braccia sul petto.
- Io ho un solo fratello. – sentenziò secco, - Tu chi saresti?
Deglutii.
- Matthew. – risposi incerto.
Lui roteò gli occhi e scosse il capo come a dire “sì, be’, chissenefrega” e poi si allontanò senza più calcolarmi.
Finì così, praticamente. C’infilammo velocemente in macchina e prendemmo l’autostrada per tornare a casa.
- Non sei felice di essere in Inghilterra…? – chiese incerto il signor Molko, fissando il figlio riflesso nello specchietto retrovisore.
Brian si rincantucciò nell’angolino più lontano da tutti nel sedile posteriore, le braccia ancora strette e serrate sul petto e l’espressione più schifata che avessi mai visto in faccia a qualcuno.
- Non potrà essere peggio di casa. – borbottò impietoso, prima di ripiombare nel silenzio.
*
[Cercai di non calcolarti affatto.
Cercai di non calcolare nessuno, perché sinceramente speravo di fare uscire di testa mio padre prima che ci fosse bisogno di abituarmi a una convivenza con degli estranei. Speravo mi avrebbe rimandato a casa. Speravo che entro la fine della settimana successiva sarei tornato negli Stati Uniti. Alla mia vita schifosa. Che però quantomeno era prevedibile.
Speravo in un mucchio di cose, l’unica cosa in cui non speravo eri tu.
Il che dimostra che ho sempre avuto scarso intuito per le scommesse.]

continua…


Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13.
AVVISI: OC, What If?.
- I Muse sono persi nelle campagne del Devon e stanno registrando il loro nuovo album di studio. Il problema è che nessuno può esserne davvero sicuro, ed ecco perché Edgar Bronfman Jr., CEO della Warner, invia il proprio figlio in Inghilterra perché possa accertarsene al di là di ogni ragionevole dubbio...
Commento dell'autrice: Ovvero: parto plurigemellare di una fanfiction travestita da originale travestita da fanfiction, in cui nulla è ciò che sembra, tutto è storicamente documentato ma slittato avanti o indietro nel tempo in favore dei bisogni dell’autrice e c’è un unico OC, e non si tratta del protagonista.
Vorrei poter dire poco, di questa storia, e non annoiare i poveri lettori che hanno già fatto un considerevole sforzo ad arrivare fin quaggiù senza demordere nonostante i copiosi sbadigli, ma il giorno in cui mi riuscirà di essere breve e sintetica probabilmente cadranno le stelle ed avrà inizio la fine del mondo, perciò tolleratemi e continuate a volermi bene anche se mi preferireste maggiormente grafo stitica.
Dunque, l’idea per questa storia nasce nel momento in cui i Muse decidono di condividere parte del loro processo di registrazione. Se vi siete chiesti se le pecore, le mucche, le galline e gli schiocchi di dita nel cesso fossero finti o veri, ecco, un buon 50% di ciò che ho scritto (pecore e schiocchi) sono assolutamente reali. Per il resto ho inventato, ma voi capite bene che, se possono essere veri i primi, hanno buone probabilità d’essere veri anche i secondi, pure se i Muse non li hanno condivisi con noi XD
Poi. Benjamin. Dunque, Benjamin Bronfman, conosciuto dai più come Ben Brewer (che poi è il cognome della madre), voce/chitarra dei The Exit ed attuale fidanzato di M.I.A. nonché padre di suo figlio (Ikhyd Edgar Arular Bronfman <- ripetete dopo di me, tutte in coro: WTF?), esiste, naturalmente, sul serio. È il più grande fra i figli di Edgar Bronfman Jr., CEO della Warner. I miei piani iniziali non comprendevano l’utilizzo di quest’uomo, nel senso che volevo un OC che fosse il figlio di qualche pezzo grosso della Warner e che andasse a monitorare i Muse, tutto qui XD Poi, mentre mi perdevo nelle solite ricerche con le quali porto avanti le RPF, e che mi portano sempre a scoprire cose assurde, mi sono affezionata a quest’uomo dai millemila figli (parlo di Edgar) ed ho voluto fosse lui il mio pezzo grosso. Ben, poi, aveva l’età perfetta per essere il manager di produzione che mi serviva, e quindi, senza pensarci nemmeno due volte, ho finito per usarlo XD Vanessa ed Hannah sono davvero le sue sorelle e tutti e tre sono figli dell’ex-moglie di Edgar, Sherry. Non so nemmeno perché vi sto dicendo tutto questo, sono quasi sicura che non ve ne freghi un accidenti XD Ma io mi diverto moltissimo quando posso pucciare roba vera al 100% nelle fanfiction, quindi volevo condividere. Anche se poi qui non è proprio tutto vero al 100%, perché al momento in cui scrivo Ben è già frontman dei The Exit dal 2000, mentre qui viene ritratto come un nerd sfigatissimo che comincia a cantare solo in seguito all’esperienza coi Muse =P L’unico OC della storia è Stephanie. Ed io le voglio intimamente bene XD
Inizialmente non doveva essere una fanfiction epistolare, ma durante la stesura mi sono resa conto dell’inoppugnabile evidenza per la quale potevo continuare con la narrazione normale e scrivere sessanta pagine di storia nel tentativo di renderla credibile a livello crono-narrativo (se ciò che sto dicendo ha un senso), oppure potevo ripiegare sulle mail allo “scricciolo” e sperare che il buon Dio (del fangirling) me la mandasse buona. Spero l’abbia fatto XD
No, non sono mai stata né a Teignmouth né a Como, me ne strafrego e per tutto ciò che ho detto delle due cittadine mi sono basata sulle foto che ho visto e sulle sensazioni che le immagini mi hanno comunicato. Punto. Non intendo farvi vedere le foto che ho usato, googlate le due cittadine e verranno fuori da loro XD Oh.
Il cappellino di Matt esiste davvero. Nessun animale è stato maltrattato per la realizzazione di questa fan fiction :D Qualche autrice sì, però XD (La sottoscritta, nel caso sorgesse il dubbio).
PS. Scritta per lo Spring Party ’09 di Fidelity, secondo il regolamento del quale la fanfiction doveva rifarsi alla quote di Kitchen di Banana Yoshimoto “Nel flusso indefinito degli eventi e degli stati d'animo, gran parte della storia è incisa nei sensi.”, e che qui è presente all’interno della storia sulle labbra di Stephanie.
Scritta altresì per la challenge Temporal-mente di Criticoni. Il tema di riferimento ("It´s like a multicoloured snapshot stuck in my brain”, tratto dalla splendida It Takes A Fool To Remain Sane dei The Ark), è qui presente nel momento in cui Ben descrive ad Hannah il lungomare di Teignmouth, utilizzando le parole “È un fotogramma multicolore che mi porterò dietro a lungo”.
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Io non ho nessun talento particolare e non sono granché bravo a fare niente. Questo, quando non sei nessuno, probabilmente è un problema perché ti guardi intorno e non sai dove mettere le mani, non sai cosa fare della tua vita e come ti muovi sbagli, d’accordo, ma vi assicuro che quando sei “qualcuno” – o meglio: quando non sei nessuno ma nasci con l’etichetta qualcuno stampata sulla fronte, indipendentemente dai tuoi meriti personali – una totale assenza di capacità, più che un problema, è un disastro.
Sospiro profondamente, affondando nella poltrona di fronte alla scrivania di mio padre e cercando di farmi minuscolo come quando da piccolo rompevo i soprammobili con una pallonata e cercavo di muoverlo a compassione tirando fuori gli occhioni color cioccolato di mamma.
- Papà, io non penso sia il caso di mandare me, sai…?
Mio padre sospira a propria volta, sistemando carte sulla scrivania davanti a sé. Sono documenti che dovrei conoscere, visto che lavoro qui da circa tre anni, ma anche a guardarli con attenzione non mi dicono niente. Il che, penso, la dice lunga sul mio problema che più che un problema è un disastro.
- Ben, tu sei mio figlio. – mi ricorda pazientemente.
- Sì! – annuisco io, - E non sono mai uscito dagli Stati Uniti d’America. E non ho mai avuto a che fare con una band musicale. E tu vuoi mandarmi sei mesi in Inghilterra a seguire il lavoro di… come hai detto che si chiamano?
Mio padre sospira ancora.
- Muse, Benjamin. E sono uno dei nostri cavalli di battaglia sul mercato europeo.
- Ecco, sul mercato europeo, quindi perché non ci mandi qualcuno di là? Qualcuno che lo conosca, quel mercato! – così che non possa mandare tutto a puttane come presumibilmente farò io mettendo piede sul suolo inglese, vorrei aggiungere, ma l’occhiata severa di mio padre mi frena, perciò mi mordo la lingua, deglutisco ed abbasso lo sguardo sulle mie mani, che giacciono abbandonate e inermi sulle mie ginocchia.
Lui si alza dal proprio posto e mi raggiunge girando attorno alla scrivania e sedendosi sulla poltrona al mio fianco.
- Ben… - mi chiama dolcemente, - Io vorrei che un giorno tu potessi avere le competenze per diventare il presidente esecutivo della divisione inglese della Warner. – annuisce compitamente, - Penso che tu sia un ragazzo intelligente e capace, non capisco per quale motivo ti stai… - gesticola, indicandomi distrattamente, - sprecando così. Non è onesto nei tuoi confronti.
Non sollevo lo sguardo. Come si fa a dire “guarda che ti sbagli” ad una persona che ti dice cose simili?
Mio padre è sempre stato molto indulgente, con me. O forse il suo orgoglio paterno gli impedisce di vedermi per quello che sono – un inetto, in pratica. Ci sono figli che non riescono a vedere in se stessi qualcosa che invece i loro genitori intuiscono perfettamente, ma io non appartengo a quella categoria. In me non c’è proprio niente da vedere.
- Ci tengo molto a questo incarico, Ben. Potresti, per favore, portarlo a termine?
Da quando sono nato non ho fatto che dare delusioni a tutti. In qualità di primo figlio maschio, suppongo mio padre si sia sempre aspettato da me standard di resa piuttosto alti, ed invece la mia carriera scolastica è stata mediocre, le mie relazioni pubbliche sono state mediocri e ristagno nella mediocrità anche adesso che lavoro alla Warner. Sono fermo lì in amministrazione a catalogare contratti da tre anni e non sono ancora riuscito a tirarmene fuori. Mio padre mi ha già aiutato abbastanza assumendomi e s’è giustamente rifiutato di aiutarmi anche nelle promozioni – “quelle devi guadagnartele, Ben” – ed io cosa ho fatto? Ovviamente sono rimasto immobile. Non dipende da me. O meglio, dipende da me, ma non è una cosa che posso controllare. Non riesco a controllare niente, io.
Per questo ora sollevo lo sguardo e lo fisso su mio padre e, semplicemente, annuisco. In fondo è solo un viaggio transoceanico, ecco, non è neanche detto che succedano drammi enormi tipo schiantarci sull’Atlantico mentre lo sorvoliamo o perdermi in una giungla appena sceso dall’aereo. Non credo che ci siano giungle in Inghilterra, oltretutto.
Mio padre mi sorride conciliante, stringendo una mano sulla mia spalla. Le sue mani sono sempre state enormi, almeno, io le ho sempre viste così, fin da quando ero un bambino. Il fatto che continuino ad esserlo anche adesso, e che, a confronto, le mie sembrino tanto piccole, mi dà quasi fastidio.
- Vedrai, ti divertirai. – mi rassicura lui, alzandosi in piedi ed obbligandomi a seguirlo nel movimento, lasciandomi disinvoltamente intendere che la discussione è finita qui, - Ovviamente dovrai lavorare sodo. – aggiunge con un cipiglio più severo, quasi avesse paura di indorarmi troppo la pillola nel tentativo di galvanizzarmi. Apprezzo i suoi tentativi, ma dubito che riuscirei a galvanizzarmi anche se adesso tirasse fuori dal cappello qualche assurdità del tipo “ad attenderti ci saranno cinquecento vergini appena diciottenni pronte ad esaudire ogni tuo più piccolo desiderio”. – Ma riuscirai comunque a divertirti. – conclude con un sorriso più conciliante, - E poi vedrai, sono tutti dei bravi ragazzi. Ti troverai bene.
Mi troverò bene. Mi troverò bene.
Cerco di ripetermelo fino a quando non ci crederò davvero.

LONG ROAD TO RUIN
"It´s like a multicoloured snapshot stuck in my brain." (It takes a fool to remain sane – The Ark)

È già passata una settimana dal momento della mia investitura a manager di produzione per il quinto album dei Muse, quando metto piede in Inghilterra. E, giuro, ho passato gli ultimi sette dannati giorni a non fare altro che ripetermi che mi sarei trovato bene. Che non ho davvero nulla di cui preoccuparmi, intendo, andiamo, cosa diavolo può succedere? Avrò comunque a che fare con dei professionisti. Se non capirò qualcosa o mi troverò in difficoltà, certamente qualcuno di loro sarà in grado di aiutarmi. Posso farcela.
Sette giorni di questa solfa. Durante il viaggio in aereo non ho fatto che ripetermelo. Se nel lettore mp3 non avessi avuto tutta la discografia di questi fantomatici Muse – dovevo almeno fare un tentativo di approcciarmi a loro, giusto per cercare di capire con cosa avrò a che fare, e non sono affatto male. Un po’ schizzati, magari, ma niente affatto male – avrei sicuramente tenuto una registrazione vocale di una qualche signorina dal timbro suadente che non avrebbe fatto altro che ripetermelo, di modo che restasse bene fisso in testa: non ho niente di cui preoccuparmi, mi troverò bene, posso farcela.
Non ci credo ancora, per inciso. Ho maturato la convinzione che potrei passare anche tutto l’intero resto della mia vita a ripeterlo, e non ci crederei comunque. È difficile scardinare ventisei anni di ferrea convinzione in senso opposto, d’altronde. Io non ho mai creduto di potermi trovare bene e di potercela fare. In niente. Ho sempre sperato di risolverla in qualche modo. Non so se capite la sottile sfumatura di differenza. Crederci e sperarci, intendo.
Londra mi accoglie incasinata come l’ho sempre immaginata, anche se in realtà non sono mai uscito dagli Stati Uniti e non ho mai avuto veramente un’idea di come andassero le cose negli aeroporti europei. Il fascino che l’Europa esercita sugli statunitensi, suppongo, può capirlo solo uno statunitense. Non è che si immagini effettivamente qualcosa di così diverso dalla nostra realtà, pensando a ciò che capita oltreoceano. Anche perché, a conti fatti, non si saprebbe cosa immaginare: quando immagini una foresta fantastica, ci metti dentro gli elfi, i folletti, le piante parlanti, per dire. Ma lo fai perché non sai niente, puoi darci dentro quanto vuoi con la fantasia.
Con l’Europa, per forza di cose, non può essere lo stesso: se non altro perché comunque la studi a scuola; voglio dire, lo sai che non ci sono gli elfi e i folletti, in Europa. Quindi non è che la immagini come un luogo mistico e misterioso o chissà che. Però un po’ te l’aspetti che ci sia qualcosa di diverso. Poi rimani deluso quando arrivi che non cambia rispetto a quanto hai già visto mille volte nel resto della tua vita in luoghi diversi.
Londra mi accoglie, quindi, anzi, in realtà sarebbe meglio dire che Londra non mi accoglie, perché come metto piede sulla pista d’atterraggio, dopo aver abbandonato l’aereo, finisco trascinato sballottato e spintonato malamente da una massa di gente in agitazione verso il pullman parcheggiato a qualche metro di distanza.
Non so neanche bene come riesco ad uscire dall’aeroporto. Potrei dire di aver seguito le indicazioni, ma in realtà io le indicazioni le ho solo viste. Cioè, ho preso atto della loro esistenza e le ho lette. A trascinarmi fuori dall’edificio è stata la massa di persone. Siamo tutti così compressi che mi sembra di non avere più nemmeno i piedi, mi muovo con il flusso. E dire che qui è grandissimo.
Il treno per Teignmouth – una cittadina industriale il cui nome, ne sono sicuro, non sono ancora riuscito a pronunciare correttamente – non è il trabiccolo malmesso e cigolante che ho immaginato arrivando. Cioè, quel poco di Londra che ho visto di sfuggita mentre cercavo di afferrare un caffè ed una ciambella, mi ha dato l’impressione di essere una di quelle cose irripetibili di fronte alle quali tutto il resto perde colore. E invece il treno è carino, intendo, moderno, non va a vapore né niente di simile – no, non ho davvero immaginato che potesse essere a vapore, o forse un po’ sì, non saprei dire – ed è sedili sono comodi, non sono sfondati e non ci sono buchi. Mi sento molto un cretino, in questo momento, ma in realtà è così da giorni, quindi non mi stupisco nemmeno così tanto.
Quando arrivo a Teignmouth, non ho quasi nemmeno il tempo di guardarmi intorno, che subito vedo un cartello bianco col mio nome sopra, retto in alto da un tizio dall’aria simpatica e con la barbetta incolta che circonda un sorriso ampio e divertito. Sistemo il cappellino sulla testa e mi faccio avanti, stringendo la tracolla con una mano e la maniglia del trolley con l’altra. Le rotelline fanno a cazzotti con la ghiaia del piazzale, ed impreco a bassa voce mentre cerco di disincastrarle da un piccolo fosso e l’uomo si avvicina, dandomi una mano e salutandomi con una mezza risata divertita.
- Ben Bronfman, suppongo. – mi saluta con una vigorosa stretta di mano, - Posso chiamarti Ben, vero?
Annuisco, ancora un po’ rintontito dal viaggio. È una bella giornata, il sole è quasi fastidioso e sento i gabbiani stridere dalla spiaggia – che è davvero a due passi, ho guardato il mare dal treno per tutto il tempo, mentre arrivavamo in stazione. Non sembra quasi neanche di essere a febbraio, ed al momento l’Inghilterra non mi sembra tanto diversa da una realtà parallela rispetto all’America, dopotutto.
- È un posto carino… - commento sovrappensiero mentre salgo in macchina, dopo aver sistemato il trolley nel portabagagli, - Intendo, è un bel paesino di provincia. Col mare, la spiaggia, le colline e tutto. Ci sono dei bei colori. – aggiungo mentre passiamo davanti ad una sfilata di case dalle mura rosa e dai tetti spioventi azzurri che mi ricordano tantissimo le case delle bambole con cui Hannah e Vanessa si fracassavano le teste quando erano piccole.
Il tizio – che, mentre io mi perdevo nell’osservazione del paesaggio, s’è presentato come Tom Kirk ed ha ricevuto in risposta da parte mia, prima di un normalissimo “piacere”, uno sballatissimo “ODDIO, COME IL CAPITANO” seguito da squittii di varia natura… e mi chiedo come farà a considerarmi una persona seria, nonché l’uomo che dovrà supervisionare il suo lavoro, da ora in poi – insomma, questo Tom mi lancia un’occhiata dubbiosa e fa una smorfia.
- Quanto si vede che sei americano… - borbotta con aria saccente. Io, piuttosto che sentirmi offeso come probabilmente dovrei – anche se mi rendo conto di non fare altro che pensare per stereotipi, perciò non vedo perché anche gli altri non dovrebbero farlo – mi sento profondamente in imbarazzo, perciò non rispondo. – È un bordo di merda. – aggiunge poi, scrollando le spalle, - È di uno squallore nauseante e non c’è niente di niente. A parte le spiagge, le colline e tutto. – mi fa il verso con un mezzo ghigno.
- E allora… - deglutisco io, cercando di riportare la conversazione su un terreno meno accidentato, - come mai avete scelto proprio questo luogo, per registrare?
Il ghigno di Tom si allarga e diventa quasi un sorriso sincero, mentre abbandoniamo la strada principale immergendoci in una specie di tangenziale che taglia in due i campi coltivati.
- Perché i ragazzi sono cresciuti da queste parti… perché sono tre nostalgici… perché il quarto di Chris è appena nato e lui è un tipo molto casa e chiesa senza chiesa di mezzo… - ghigna ancora, - Ma soprattutto perché Matt ha sempre desiderato di tornare qui da eroe. E perciò, da eroe, ha preteso i suoi studi. In piena campagna. – e butta lì una risata che, in realtà, un po’ mi turba. Rido anch’io solo per non fare brutta figura, ma non posso fare a meno di chiedermi perché, con tutti gli studi già disponibili nel mondo conosciuto, questi qui abbiano preteso di costruirsene uno proprio perduto nelle campagne del Devonshire.
- Capisco. – annuisco mentendo, mentre la macchina che mi ospita svolta per una stradina sterrata laterale e, dopo qualche metro in cui scompare letteralmente nell’erba alta come cespugli, riemerge di fronte ad un cancello, superato il quale si ferma all’interno di uno spiazzo di terra bianca e polverosa.
- Ora, - mi avverte Tom, spegnendo il motore, - non ti spaventare troppo, okay? Ti assicuro che sono persone normali anche loro, una volta che ci fai l’abitudine.
“Normale”, però, non è esattamente la prima parola che mi viene in mente quando, appena sceso dalla macchina e prima ancora di recuperare il bagaglio, vengo accolto dall’immagine straniante di una pecora che mi taglia la strada belando disperata, inseguita da un nano impazzito che strilla “È lei! È lei! Non può scappare!”, a sua volta tampinato da un nano biondo vagamente meno nano del primo che lo implora di fermarsi e tornare a ragionare, a sua volta seguito a ruota da una mandria di bambini dai sei ai dieci anni che saltano e rotolano in ogni direzione, giustamente pedinati da una specie di gigantesco orso barbuto e ricciuto che porta in braccio un neonato di proporzioni microscopiche e borbotta burbero “Fermatevi!” senza che nessuno gli dia ascolto.
Il tutto coronato dal chiocciare insistente di un pollaio intero di galline, che si riversa nel cortile proprio appena passa la pecora e comincia a svolazzare istericamente qua e là fra i piedi di ogni singolo componente della carovana, bambini compresi. Potrei anche giurare di aver sentito qualcosa muggire, da qualche parte qua intorno, ma non sono sicuro di voler confermare.
Tom si passa una mano fra i capelli e sospira pesantemente.
- Ossignore… - biascica, più rassegnato che confuso. E dovrebbe essere confuso. Io so che dovrebbe. Io lo sono.
In tutto questo, l’unica nota di un colore vagamente normale è una signorina che sta un po’ defilata vicino alla porta d’ingresso di quelli che dovrebbero essere gli studi ma, comincio a pensare a questo punto, sono probabilmente solo una fattoria o un agriturismo o qualcos’altro del genere. Sta poggiata contro lo stipite, le braccia incrociate sul petto ed un sorriso ilare a curvare la linea morbidissima delle labbra.
Dico che è vagamente normale perché le pende dalla mano un cappello da Babbo Natale, quindi non si può proprio dire sia normale del tutto. Che ci si fa a febbraio con un capello da Babbo Natale in mano?
- Steph? – la chiama Tom. Capisco che è proprio lei quella a cui si sta riferendo, perché si volta e lo saluta indossando il cappello come un guanto ed agitandolo a mezz’aria, il pon pon che ondeggia avanti e indietro colpendola sul polso ogni volta che si muove, - Che cosa diamine stanno facendo?
Lei si stringe nelle spalle e si mette dritta, muovendo qualche passo verso di noi mentre le galline, ormai tranquille – visto che la folle processione di qualche minuto fa si sta allontanando verso le campagne – le razzolano intorno.
- Matt dice che l’ha trovata. – risponde quindi, con aria compita, poggiandosi il cappellino su una spalla e stringendo in una coda lenta la massa di boccoli castani che le scende lungo le spalle.
Tom rotea gli occhi.
- Ci mancava solo questa… - borbotta, tornando a recuperare il mio bagaglio mentre io, ancora un po’ sconvolto, cerco di passare attraverso le galline senza pestarle tutte.
La ragazza mi saluta con un lieve cenno del capo e mi sorride con calore.
- Benjamin, giusto? – chiede, stringendomi la mano, - Io mi chiamo Stephanie.
- È un piacere… - annuisco ricambiando la stretta, - Scusa, - chiedo poi, curioso, - ma ha trovato cosa, esattamente?
Tom arriva alle mie spalle, posando il trolley per terra con un tonfo.
- Vuole inserire in una traccia il belato di una pecora. – mi spiega con aria esasperata.
- E fa provini alle pecore dei dintorni da settimane per trovare quella con la voce giusta. – completa Stephanie con una risatina divertita.
- Provini alle pecore…? – sillabo con sincero sconcerto mentre la carovana errante riappare in cortile.
Il nano pazzo che prima inseguiva la pecora – e che suppongo sia il Matt Bellamy che compare come compositore e cantante e chitarrista e pianista e tutto il resto nei credit dell’album – ora la guida, spalle mogie e viso basso. Si muove ondeggiando come uno zombie depresso e i suoi occhi azzurri – che si vedono fin da qui! – sono acquosi e colmi di tristezza. Dietro di lui, il biondo incede con aria furiosa, borbottando qualcosa di incomprensibile, ed al suo fianco trotta il gigante con ancora in braccio il neonato e che però adesso, a differenza di prima, porta addosso anche tutti gli altri bambini, che pendono da svariate parti del suo corpo neanche fossero i rami di un albero. Tra quello che gli sta appollaiato sulle spalle, quella che gli pende dal braccio e quello che ondeggia avanti e indietro attaccato ad una delle sue gambe come uno scimpanzé ad un banano, faccio fatica a capire dove finisca il suo corpo e dove comincino i loro.
La pecora non è con loro, quindi suppongo sia riuscita a fuggire verso la libertà ed una vita migliore. Almeno glielo auguro. Comunque quest’assenza giustifica la tristezza di Matt, immagino.
- Ti è caduto il cappellino, Matt. – gli dice Stephanie porgendoglielo. Lui lo prende fra le mani con un borbottio incomprensibile e se lo calca bene sulla testa, finché la fettuccina di lana bianca che ne decora l’orlo inferiore non arriva a coprirgli il volto fino al naso.
Si infila nell’edificio dando un calcio ad una gallina che gli finisce malauguratamente fra i piedi – quella vola via con un pokòòò! oltraggiato – e non dà neanche segno di avermi in qualche modo notato. Tant’è che io resto lì immobile senza capire esattamente cosa fare di me stesso, almeno fino a che non vengo raggiunto dal biondo e dal porta-bambini ambulante, che mi salutano entrambi con un sorriso radioso e compiaciuto.
- Tu devi essere Benjamin. – dice il primo, e mentre io ricambio l’ennesima stretta della giornata penso che qui tutti sembrano sapere chi sono, e invece io non conosco nessuno. Forse avrei dovuto informarmi meglio. Forse avrei dovuto cercare qualcosa su internet, cazzo, sì che avrei dovuto, dai. È tipo la cosa più normale del mondo, no? Quando non si sa niente di qualcosa, la prima mossa è aprire la Wiki e cercare informazioni. Io non l’ho fatto per niente e, mentre saluto e sorrido e mi presento – ciao Dominic-posso-chiamarti-Dom, ciao Christopher-posso-chiamarti-Chris e ciao anche a voi Frankie, Ava Jo, Alfie ed Ernie, chi è chi, esattamente? – non posso fare a meno di pensare di averla proprio cominciata col piede sbagliato, questa cosa.
- Non ti preoccupare per Matt. – mi dice Dom con un mezzo sorriso, - È solo un po’ eccentrico, non è davvero pazzo. Ti sorprenderai di quanto possa essere normale, a volte.
Annuisco un po’ incerto e continuo a guardare le galline che chiocciano e razzolano tutto intorno. Mi chiedo se questo, Dom, lo definirebbe normale. Però evito di chiederlo anche a lui.
*
Date: Sun, 22 Feb 2009 10:41:25
From: Benny (benjamin_bronfman@wmg.com)
To:
Subject: È palese che io non sopravvivrò a tutto questo…


...e non vivrò abbastanza per vederti superare incolume i ventuno anni, scricciolo. Ma ti dirò tutto con calma.
Sto scrivendo a te, prima di scrivere a papà con il resoconto del mio primo mese di “lavoro”, per due motivi. Il primo è che mi piacerebbe sapere come state tu, mamma e Nessa, e mi piacerebbe saperlo prima che sia troppo tardi – ovvero che papà abbia mandato qui qualche squadrone della morte per punirmi per la mia inettitudine, ed io sia perciò morto.
Il secondo motivo è che spero di armarmi di un po’ di coraggio, perché io non sto lavorando, qui, o se sto lavorando non me ne sto accorgendo.
Sono arrivato qui il cinque febbraio, la nostra deadline è fissata per il 20 agosto ed io non so davvero come dire a papà che questo posto non è uno studio di registrazione ma una fattoria. E che la gente che lo gestisce è del tutto pazza. Completamente. Non se ne salva nessuno, pure quelli normali in realtà sono morbidi e accondiscendenti nei confronti dei pazzi, quindi sospetto siano pazzi anche loro. Vada per i componenti della band – sì, insomma, il genio e la follia vanno di pari passo, si dice, no? – ma il manager? Un uomo maturo che dovrebbe mandare avanti la baracca arginando l’infantilismo dei suoi protetti? Me lo trovo che ciancia con loro di alieni, guerre mondiali e svariate teorie del complotto, mentre stanno tutti seduti per terra in un angolo ad assemblare luminosi modellini di astronavi con la scusa di riutilizzarne poi in studio gli effetti sonori per simulare l’atterraggio di un U.F.O. Potrei anche crederci – voglio dire: ognuno ha i propri modi per tirar fuori la musica dalle cose, credo – se poi questi ci entrassero veramente, in studio!
Oppure, ecco, per dire: Stephanie. Stephanie è una ragazza di ventisette anni, diplomata al conservatorio da direttore d’orchestra. Capisci? S’è fatta tutti i suoi bei dieci anni di composizione e poi altri tre anni di corso ed ora è qui perché, a detta di Matthew – il cantante. Il più pazzo del gruppo – ha bisogno di qualcuno che lo aiuti ad armonizzare le varie parti che lui sta componendo per svariati strumenti che lui non suona. Vorrei farti notare che questo tizio pare abbia studiato chitarra per qualcosa come due mesi o ancora meno, nella sua intera esistenza, e poco ci manca che dove poggia i piedi la gente si chini a venerarlo neanche fosse Mozart o chessò io. Insomma, questa ragazza – che è una ragazza molto dolce, molto coi piedi per terra, cioè, almeno, a parlarle sembra così – dovrebbe star qui a fare il proprio mestiere, non a sprecare la propria esperienza, ed invece la ritrovo che regge il cappellino da Babbo Natale di Matthew quando lui non può tenerlo – sì, va in giro con un cappellino da Babbo Natale… mi dicono non se lo sia mai tolto di dosso da dicembre in poi – e si perde in questioni assurde come cercare di armonizzare i belati delle pecore con il chiocciare delle galline. Magari sono questi gli strumenti per cui Matthew sta scrivendo le partiture, chissà. Sempre ammesso che le scriva. O che sappia farlo.
Insomma, il consuntivo di questo primo mese scarso è zero tracce registrate in più di venti giorni.
Ed io, davvero, non so come farò a dirlo a papà.

Ben
*
Date: Sun, 22 Mar 2009 01:31:55
From: Benny (benjamin_bronfman@wmg.com)
To:
Subject: Scusa se scrivo così tardi…


…ma oggi è stata una giornata intensa. Non che da queste parti si sia capaci di lavorare, ovviamente – figurarsi – ma quando ci si ritrova di punto in bianco a gestire una fattoria, qualcosa da fare lo si trova sempre.
Ciao, Hannah, spero che tu, mamma e Nessa stiate bene. Io sono ricoperto di piume di gallina e distrutto, sono ancora senza neanche una traccia che sia una registrata e sono immobile davanti al computer da mezz’ora alla ricerca delle parole giuste da usare per dirlo a papà. L’ultima volta l’ha presa bene, ma ha anche detto “ma sì, dai, sei lì da meno di un mese”. Adesso sono qui da due e non so che scuse addurre al fatto che non solo qui nessuno fa un cazzo, ma io mi ci sto facendo trascinare dentro.
Stamattina, appena sveglio, sono sceso in cucina per la colazione ed ho trovato Matthew insaccato in una salopette vecchia il doppio rispetto a lui e probabilmente appartenuta a un qualche schiavo obeso di qualche piantagione di cotone inglese. Se è mai esistito uno schiavo obeso. E se mai ci sono state piantagioni di cotone qui in Inghilterra.
Comunque stava insaccato in questa tutaccia con in testa il suo fido berretto da Babbo Natale – un po’ l’ho invidiato, qui fa ancora un freddo disgustoso. Com’è il tempo a New York? C’è il sole? Comincia a far caldo? – e teneva in mano un sacco pieno di mais. Tutti gli altri, seduti al tavolo, stavano ruminando il loro latte e cereali con aria risentita, al che mi sono azzardato a chiedere cosa stesse succedendo e lui si volta e fa “oggi manutenzione pollaio”. Cioè, ti rendi conto? Questo tizio ha un album in uscita a settembre, e pensa a fare manutenzione del pollaio con la banale scusante del “voglio registrare le galline che chiocciano per metterle nella tale canzone, e se c’è tutto sporco il suono viene fuori poco limpido”. Come se ci credesse ancora qualcuno, a lui che registra le galline per metterle da qualche parte!
Ovviamente, oltretutto, non ha mosso un dito. No, lui è rimasto lì in cortile. Fa “io le attiro fuori col mangime e voi, nel mentre, pulite dentro”, e quindi, mentre lui passeggiava avanti e indietro per l’aia spargendo mais a destra e a manca, inseguito da gruppi di galline svolazzanti a becco spalancato che lo tampinavano neanche fossero stati cagnetti ubbidienti, noi ci siamo infilati all’interno del capannone ed abbiamo passato tutta l’intera giornata a ripulirlo da cima a fondo, con l’unico risultato che, quando siamo riusciti a finire e rificcare al loro posto tutte le galline, quelle – piene come botti – si sono accoccolate nei loro stupidi nidi e non c’è stato più verso di far loro emettere un suono. E Matthew che borbottava, “sì, ma io le volevo ben sveglie e chioccianti, che me ne faccio delle galline che dormono…?”. Che se ne fa delle galline, vorrei sapere io, in generale.
Due mesi di lavoro, zero tracce registrate. Spero che papà non voglia la mia testa entro la fine del prossimo mese.

Ben

PS: Realizzo solo adesso – ma scusa davvero, sono stanchissimo, devo ancora scrivere a papà e fare la doccia – che non so perché mi sono scusato per l’ora tarda, all’inizio. Voglio dire, lì da voi sarà un orario più che decente, anche se ammetto di non sapere quanto cambi il fuso da qui a lì. E poi comunque una mail non è mica una chiamata, la leggi quando sei sveglio per forza. Bah. Tuo fratello sta perdendo la testa, in questo posto. I tuoi figli non avranno uno zio, scricciolo.
*
Date: Wed, 27 Apr 2009 12:45:02
From: Benny (benjamin_bronfman@wmg.com)
To:
Subject: Caro scricciolo, abbiamo una mucca.


L’ho sempre sospettato, in realtà. Una delle prime cose che ho sentito arrivando in questo posto assurdo, è stato un muggito. Quando senti un muggito in aperta campagna, una volta, non ci fai caso. Voglio dire, ho sempre pensato che qui fosse circondato da fattorie tutte simili a questa. Ho scoperto che non era vero solo quando mi sono fatto coinvolgere da Chris, il bassista – che è pieno di figli come non facesse altro che scopare per tutto il giorno. E peraltro lo seguono per tutto il tempo. La madre l’avrò vista una volta, è passata a cambiare carta di credito prima di tornare a “prendersi il suo meritato riposo dopo il parto”. Almeno così mi è sembrato di capire.
…comunque mi sono perso. Anche questa è colpa di Matthew, quell’uomo parla solo per incisi e solo per tempi minimi di tre quarti d’ora. Una volta che l’hai azionato, fermarlo è impossibile.
Comunque, dicevo, ho scoperto che in realtà questa è l’unica fattoria dei dintorni, perché Chris ci ha coinvolti tutti in una specie di gita coi pargoli, quindi ho avuto modo di vedere che in realtà qui attorno ci sono solo boschi. Tra l’altro è stata una gita il cui unico risultato più o meno positivo è stato il riuscire finalmente ad imparare i nomi di tutti i bambini, visto che fino alla settimana scorsa ancora facevo confusione fra Alfie, Frankie ed Ernie. Ava Jo non si può confondere, primo perché è l’unica femminuccia, secondo perché è una furia su due piedi e terzo perché è carina da morire.
Sia come sia, io ero convinto che di mucche, qui intorno, fosse pieno. E invece non lo è. Invece c’è solo Clarissa.
Clarissa è un bellissimo esemplare di bovino pezzato bianco e nero. È una mucca da pubblicità. È anche la mucca che, secondo Matt, ha la voce giusta. Per cosa, io l’ho scoperto oggi quando Matthew ha fatto irruzione in camera mia saltellando come un bambino e strillando di darmi una svegliata ed anche una mossa, perché loro stavano partendo ed avevano bisogno di aiuto per caricare la mucca sul furgoncino – e comunque non volevo mica perdermi lo spettacolo, no?
Faccio: “No, figurati se voglio perdermi lo spettacolo, Matt. Che spettacolo sarebbe?”. E lui, candidamente, mi risponde che intendono andare nell’unico bel posto di tutta Teignmouth e dintorni.
Scopro che, a suo parere, l’unico bel posto di tutta Teignmouth e dintorni è il lungomare.
Io rimango del parere che Taignmouth non sia poi così male, intendo, quando l’ho vista ho subito pensato che come cittadina è piuttosto carina. Sarà che non ci ho mai vissuto, in un posto simile, ma passarci del tempo non mi darebbe fastidio – certo, se non fossimo costantemente impegnati a rigirarci i pollici o altre attività ancora meno interessanti ventiquattro ore su ventiquattro su in fattoria.
Matthew, invece, palesemente la odia. Tanto che non capisco davvero perché ci sia voluto tornare per registrare, è ovvio che qui non ci sta bene e vorrebbe essere da tutt’altra parte. Mi ha anche detto che in realtà lui qui non c’è nemmeno nato, è di Cambridge. Io a Cambridge non ci sono mai stato, ma per come ne parla lui sembra una specie di paradiso in cui la sua adolescenza sarebbe sicuramente stata un periodo molto più bello e fruttuoso e tutto il resto, se solo avesse potuto trascorrerla lì. Ho cercato di dirgli che l’adolescenza non è mai un periodo bello e fruttuoso per nessuno – tranne per te, eh, scricciolo? Ho visto le foto dell’ultimo party cui sei stata, ti fai sempre più bella man mano che passano i mesi! Spero di non avere dei nipoti troppo presto, anche perché è ovvio che dovrei ammazzarne il padre – ma insomma, lui non ascolta e Teignmouth, in tutti i suoi racconti, è la culla del male.
Il lungomare, comunque, è davvero bellissimo. Non è un golfo sterminato e non è nemmeno tanto grande, come spiaggia. Ma le colline sono verdissime, il cielo è una volta infinita, il mare è calmo e azzurro e la sabbia marroncina scorre granulosa sotto i piedi facendoti il solletico ed anche un po’ male quando per caso becchi qualche sassolino che i flutti non sono ancora riusciti a macinare per bene infrangendosi a riva. È un fotogramma multicolore che mi porterò dietro a lungo, scricciolo, se mai uscirò vivo da quest’avventura – e continuo a dubitarne, nonostante papà si ostini a non volere la mia testa su un piatto d’argento ed a liquidare la nostra tragica assenza di progressi alla voce “son ragazzi, cresceranno” – dicevo, se mai riesco ad uscirne vivo, voglio portartici. Voglio che tu la veda. Assieme ai famosi figli che avrai e che saranno stupendi.
Tutto quello che Matthew voleva dalla giornata, comunque, era che Clarissa muggisse in riva alla spiaggia deserta – motivo per cui ci siamo mossi così presto: fa ancora freschetto, ma gli inglesi sono fuori di zucca e ci vengono lo stesso, a mare, anche con così pochi gradi.
Per una volta, è andato perfino tutto bene. Clarissa ha muggito, il mare ha rombato, Matthew ha avuto la sua registrazione. Cosa voglia farne, resta un mistero.
Totale tracce registrate alla fine del terzo mese, zero. Però abbiamo una mucca. Questo è tutto quello che so.

Ben
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Date: Thu, 28 May 2009 15:02:02
From: Benny (benjamin_bronfman@wmg.com)
To:
Subject: Le pecore del destino.


Credevo che non sarebbe potuto accadere niente di peggio di Clarissa che muggiva in riva al mare, e scricciolo, non hai idea di quanto mi sbagliassi. A parte il fatto che nell’ultimo mese non abbiamo avuto modo di fare nulla – strano, eh? – perché c’è stata un’epidemia di non-so-cosa nel pollaio di Matthew, che ha portato alla dipartita di tutte le galline – e un po’, ok, mancano anche a me, in fondo erano bravi animali, potevamo perfino accarezzarle, di tanto in tanto – e, conseguentemente, alla disperazione da lutto profondo di Matthew, che perciò è caduto in una “profonda crisi creativa” – almeno così ha detto – ed ha passato la quasi totalità delle ultime due settimane ad ascoltare i Placebo – è a te che piacciono, giusto? – senza uscire praticamente mai da camera propria.
Comunque, adesso il periodo di lutto di Matthew sembra essere giunto al termine. Due giorni fa è riemerso dalla stanza ed è sceso in cucina per la colazione col berrettino moscio pendente su una spalla ed i vestiti stropicciatissimi addosso, e noi ci siamo tutti stretti intorno a lui chiedendogli come stesse, se gli andasse di fare qualcosa, cosa volesse mangiare e via così. Alla fine, siamo riusciti a convincerlo ad andare fuori a fare una passeggiata con Chris e i bambini, e noialtri siamo rimasti qui in fattoria, siamo saliti al piano di sopra ed abbiamo messo un po’ mano alla strumentazione per sistemarla per bene in attesa del loro ritorno – sia mai la natura fosse d’ispirazione – e nel mentre Stephanie ha potuto finalmente mettere mano a qualche partitura, anche se non so cosa ne abbia pensato – s’è messa le mani fra i capelli: vorrà dire qualcosa? – ed eravamo tutti molto presi dalle nostre mansioni – io spolveravo gli amplificatori e, per dire, mi sentivo molto partecipe. Finalmente utile! – quando all’improvviso arriva una chiamata sul cellulare di Tom.
Nessuno di noi capisce niente di quanto sta accadendo, tutto ciò che sappiamo è che Matt ci vuole “lì”, dobbiamo andarci subito e dobbiamo portare con noi una grancassa ed una mazza da gong. “Lì” si rivela poi essere uno spiazzo erboso poco fuori dalla fattoria e poco prima del bosco. “Lì” è stato imprigionato un gregge di pecore.
“Matthew,” fa Tom, allucinato, “Ma di chi sono? Da dove vengono?”
Matthew nemmeno risponde, sta lì a gironzolare attorno alle pecore come un cane da pastore, le spinge da un lato, le spinge dall’altro, le raggruppa e nel mentre borbotta “le ho ritrovate” e ride, “le pecore del destino”, e ci strilla “avete portato quello che vi ho chiesto?” e noi produciamo il materiale e restiamo in attesa.
Al che Matthew si volta verso Dom, lo piazza nel centro della radura, gli dà in mano un registratore e gli dice di ascoltare la melodia che c’è dentro e batterne il ritmo con la mazza sulla grancassa. Dice a Tom di registrare il sonoro in presa diretta, a noialtri di stare zitti come se dal nostro silenzio dipendesse la nostra vita e poi ci rassicura sul fatto che al resto penserà lui. “Vi fidate?” chiede. La risposta è no, ma decidiamo di fidarci comunque.
Al termine del quarto mese di lavoro, scricciolo, abbiamo zero tracce registrate, una mucca che muggisce in riva al mare ed una grancassa che batte regolare mentre, sullo sfondo, si sentono belare delle pecore impazzite e terrorizzate.
Preparo un caffè e cerco il coraggio per scrivere a papà. A presto.

Ben
*
Date: The, 30 Jun 2009 08:00:20
From: Benny (benjamin_bronfman@wmg.com)
To:
Subject: Se non mi ha ucciso un viaggio transoceanico, perché dovrei essere terrorizzato dall’Italia?


Scricciolo, oggi sarò breve perché ti sto scrivendo dall’aeroporto e devo ancora avvisare papà di quanto è accaduto nell’ultimo mese – non molto – e comunque il nostro aereo dovrebbe partire fra quelli che sembrano due minuti in costante dilatazione – rimandiamo già da mezz’ora, eppure pare che il trabiccolo sia già atterrato da un po’. Misteri delle compagnie aeree italiane di cui Matthew è un fan.
Riassumendo, ieri sera Matthew ha avuto una crisi isterica ed ha strillato, nell’ordine, che l’Inghilterra fa schifo, che il Devonshire è paragonabile ad un pozzo di melma fangosa, che Teignmouth non dovrebbe avere neanche il diritto di comparire nelle cartine geografiche – e infatti in realtà in molte non compare – e che è quest’aria insalubre ad uccidere la sua ispirazione. Insomma, che dovevamo trasferirci in Italia. Mare, sole ed allegria.
“Matt,” gli fa Tom, “Non è che ti manca Gaia?”
Matthew non ha risposto, ha solo borbottato qualcosa di non perfettamente comprensibile e non perfettamente gentile, prima di ritirarsi in camera. Sono quindi venuto a sapere che Gaia è la ragazza di Matthew, che è italiana, che vive a Como, che è bellissima e che Matt va blaterando in giro che sono una coppia aperta. Salvo poi ciclicamente sentirne la mancanza così tanto che rompe le palle a chiunque lo circondi per farsi ricondurre da lei.
“Dura poco, comunque,” mi ha rassicurato Tom, “Il più delle volte, tempo due mesi, ha già voglia di andarsene.”
La cosa non mi rassicura perché delle beghe sentimentali di Matthew, con tutto il rispetto e con tutto l’affetto, non mi frega un accidenti. So solo che a causa loro sto per trasferirmi in Italia almeno per i prossimi due mesi, che non so spiccicare una parola d’Italiano, che Teignmouth potrebbe perfino mancarmi – perché almeno ormai la conosco! – e che, a parte la mucca e la grancassa con sottofondo di pecore, siamo ancora a zero quanto a registrazioni.
Scrivo a papà. Spero di sopravvivere anche stavolta. Un bacio a Nessa, a mamma e, naturalmente, anche a te, scricciolo.

Ben, che palesemente non vedrà mai i tuoi figli
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Date: Fri, 31 Jul 2009 20:30:50
From: Benny (benjamin_bronfman@wmg.com)
To:
Subject: Io ho a che fare con dei pazzi.


Non so come ho fatto a sopravvivere agli scorsi sei mesi, scricciolo, ma di certo non sopravvivrò al settimo. E, poco ma sicuro, non sopravvivrò neanche a stasera.
Qui sono le otto e mezza, abbiamo appena finito di cenare e l’Italia, quanto a cibo, non rivaleggia con nessuno, poco da fare. Como è bellissima, confrontarla con Teignmouth sarebbe offensivo, anche se non so se nei confronti di Teignmouth o di Como. Nel complesso, comunque, dopo aver conosciuto Gaia, non mi riesce più tanto difficile capire come mai Matthew sentisse tutto questo bisogno insopprimibile di tornare da queste parti, anche se, in tutta sincerità, non sono proprio convinto che cambiare aria gli abbia fatto bene. Ora lo vediamo molto meno rispetto a prima; io suppongo passi tutta la giornata a letto, ma Dom è arcisicuro e convinto che le giornate le passi al piano, anche se non esattamente a comporre. Pare interpreti arie di Bellini per entrare in contatto col suo spirito. Io temo, veramente.
Tom sembra un po’ abbattuto e Chris è molto depresso perché lo spostamento l’ha privato dei bambini. Non credo affatto fosse pronto ad abbandonarli, ma tutto si è svolto in maniera così improvvisa che, a ripensarci, sembra quasi surreale. Stephanie continua a ripetermi di avere fiducia, che lei i Muse li conosce ed è assolutamente convinta che Matthew riuscirà a trovare qualcosa di assolutamente geniale prima della deadline. Io lo spero, visto che da tutto questo continua a dipendere la mia vita.
L’ultima, quella di oggi, è stata addirittura disturbante. Matthew è apparso agli studi, raggiante come un bambino, annunciandoci di avere appunto avuto un’idea geniale. Tutti noi ci siamo illuminati come lampadine pensando “magari è la volta buona, ci siamo!” e l’abbiamo seguito, ed eravamo così entusiasti che non ci siamo neanche accorti con precisione del posto in cui ci stava portando.
Quando siamo arrivati di fronte ad un bagno – uno di quelli piccini, con le porticine sottili, che dentro hanno solo la tazza e il coso che regge la carta igienica, presente?, senza nemmeno un lavandino – abbiamo cominciato a sospettare che ci fosse qualcosa che non andava. Il sospetto è poi divenuto certezza quando Matt ha stabilito che gli piaceva l’acustica di quella stanza – è sempre di un cesso che stiamo parlando, eh – e che gli effetti sonori delle dita che schioccavano e che lui voleva assolutamente infilare in una delle tracce del nuovo album andavano necessariamente registrati lì. Usando lo sciacquone come segnale per l’avvio.
Giuro, scricciolo, la cosa non mi avrebbe neanche sconvolto così tanto – dopo la mucca e le pecore, sai… - se solo avessimo avuto una traccia. Anche una sola. Una qualsiasi. E invece, Dio mio, siamo a fine luglio, la deadline è a fine agosto e, a parte le pecore e la mucca di cui sopra, non abbiamo niente. Niente di niente. Ed il fatto che papà continui a rispondere alle mie mail con aria bonaria e soddisfatta non mi aiuta. Mi terrorizza e basta, mi fa sentire nell’occhio del ciclone, qui tutto va storto e nessuno se ne accorge ed io so – perché lo so – che all’improvviso qualcuno esploderà ed allora sarà la fine. Niente zio per i tuoi futuri figli e niente nipotini per me, perché sarò bello che morto e sepolto. Me lo sento.
Scrivo a papà e dopo vado a dormire. Ho un mal di testa tale che non mi riesce neanche di pensare.

Ben
*
Date: Sat, 29 Aug 2009 17:16:02
From: Benny (benjamin_bronfman@wmg.com)
To:
Subject: Scricciolo, ho visto la luce.


D’accordo, mi sento ancora un po’ preso in giro, anche se tutti mi hanno spiegato in più lingue – italiano compreso, come servisse parlarmi in una lingua che non capisco! – che non è stato un modo per prendersi gioco di me, ma semplicemente il modo in cui i Muse lavorano, però al di là di tutto le sensazioni che sto provando adesso non sono niente male.
Sai, scricciolo, quando papà mi ha mandato qui, cioè, quando mi ha mandato in Inghilterra, ero assolutamente convinto che sarebbe andato tutto storto perché io non sarei stato per nulla in grado di gestire la situazione ed avrei rovinato tutto, o ancora peggio avrei portato avanti la baracca in maniera assolutamente mediocre ed il mio lavoro sarebbe stato così dimenticabile che sarebbe stato poi effettivamente dimenticato in men che non si fosse detto.
La verità è che probabilmente io non ho mai davvero avuto modo di crescere, ed invece oggi mi sembra di aver fatto dei passi da gigante perché ho imparato che la gente ha i propri ritmi. Ha le sue certezze e i suoi modi di procedere. Che il mio lavoro qui non è mai stato quello di obbligarli a seguire le mie direttive – anche perché non ci sarei mai riuscito… ed in effetti non l’ho proprio fatto – ma essere di supporto mentre loro trovavano la loro via.
Tra una mucca, una pecora, una gallina ed un berretto di Babbo Natale, i Muse la loro via l’hanno trovata. L’hanno trovata e l’hanno fatta vedere anche a noi questo pomeriggio, quando ci hanno richiamati in sala prove e Matt, sedendosi al piano con aria serissima, ci ha annunciato di avere pronto qualcosa, e che avrebbe voluto sentire da noi – me, Stephanie e Tom – cosa ne pensavamo.
Mi sono seduto nervosamente e Steph s’è seduta accanto a me, e quando mi ha visto così teso mi ha sorriso e mi ha chiesto cos’avessi. Al che io mi sono voltato e le ho detto con grande sincerità che non credevo proprio che quello che avremmo ascoltato sarebbe stato un buon lavoro, e visto come avevano condotto le registrazioni i ragazzi, anzi, non c’era da aspettarsi che un disastro.
Ed è stato allora che lei ha sorriso, no? E s’è alzata. Si è sistemata dietro di me e mi ha coperto gli occhi con una mano. “Ora sta’ tranquillo,” mi ha detto, “Nel flusso indefinito degli eventi e degli stati d’animo,” mi ha sussurrato dolcemente, “gran parte della storia è incisa nei sensi. Non badare a ciò che pensi. Bada solo a ciò che senti.”
Ed ho sentito. Note alte e tintinnanti sollevarsi dal pianoforte come campanelle, intrecciarsi ai colpi bassi e sensuali del basso e lanciarsi in una danza al ritmo delle battute precisissime della batteria. Ho percepito il canto muoversi lento e insinuante fra questi suoni, mi sono lasciato catturare e, senza guardare niente e nessuno, ho capito che era giusto così. Che sì, quello era un bel suono. Che le pecore non c’entravano, neanche le mucche e neanche nient’altro di tutto il resto che poi probabilmente sarebbe stato aggiunto in sala missaggio. A livello base, nel momento di creatività più pura, quel pianoforte, quel basso e quella batteria era tutto ciò che avevamo e tutto ciò che sentivo. E mi piaceva.
Il seguito m’è piaciuto meno, okay, non mi aspettavo certo che squillasse il cellulare di Matthew, lui rispondesse e trillasse allegramente “Edgar! Ciao! Che piacere! Si, è tutto pronto, da queste parti, dobbiamo rifinire le ultime liriche ma le registrazioni sono quasi ultimate. Tuo figlio è adorabile, comunque, ma ti assicuro che la sua via non è nella produzione”.
Però, in fin dei conti, va bene anche così. Ha ragione, sai, scricciolo? La mia via non è nella produzione.

Ben

*

Io non ho nessun talento particolare e non sono granché bravo a fare niente. Comunque, ho imparato un po’ a suonare la chitarra, ultimamente, e mi sto mettendo di buzzo buono per perfezionare le mie tecniche canore. Nel senso che sto studiando, ce la sto proprio mettendo tutta, e sta andando bene.
Sto organizzandomi con qualche amico, voglio provare a mettere su una band. Certe cose ti toccano nel profondo e tu nemmeno capisci perché; io credo che la musica l’abbia fatto, con me.
Vogliamo chiamarci The Exit. Perché ce n’è sempre una. Uscita, dico. Alla fine la trovi, in un modo o nell’altro.
Non credo che registreremo mai con pecore e mucche, dopotutto. Non sono nemmeno sicuro che prima o poi riusciremo davvero a registrare, o che mio padre riuscirà a venire a patti col fatto che non diventerò il presidente della divisione Europea della Warner, ma sono fiducioso. Mi troverò bene.
E stavolta, non ho nemmeno bisogno di ripetermelo, perché tanto ci credo davvero.
Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: BrianxMatt, accenni lievissimi di DomxMatt.
Rating: PG-13.
AVVISI: Boy's Love.
- I trent'anni sono un traguardo importante nella vita di un uomo. Brian Molko ne è perfettamente consapevole, ed è per questo che per il compleanno di Matthew vorrebbe organizzare qualcosa di molto speciale...
Commento dell'autrice: Buon compleanno, Matt ;O;!!! *si riprende* In realtà, questi trent’anni il nostro amato frontman li ha fatti *calcola* tipo una settimana fa *piange* Ma sono riuscita a concluderla solo oggi >.< Scusami, Matty, non volevo, è stata colpa del porno Kaulitzest çOç!
Comunque. Non fosse stato per il forum di MuseLive.com, questa roba non avrebbe visto mai la luce. Nel senso che, nel topic degli auguri a Matt, a un certo punto uno ha postato l’immagine di una tortina verde con alieno & navicella spaziale XD ed io non ho proprio potuto fare a meno di cogliere la palla al balzo e… creare questo, ecco XD
Che poi, non ho senso: una fic per fare gli auguri a Matthew, e il protagonista è Brian. Ma si può? Ho ragione quando dico che in realtà il mio gruppo preferito sono i Placebo, è solo che non l’ha ancora capito nessuno – me stessa compresa.
Ovviamente – precisazioni inutili – il Goldsmith College è la scuola d’arti drammatiche che ha frequentato Brian a Londra. (Peraltro, lolliamo insieme: il sito cita fra gli allievi famosi chiunque tranne lui, povero tato!). Ed Andy, come al solito, esiste – perché è vera la convivenza con uno spacciatore nei nel primo anno londinese di diciottenne!Matt – ma non si chiama veramente Andy. È solo che nella prima fic in cui l’ho usato l’ho chiamato in questo modo, ed io, be’, sono una donnina fedele XD
Nient’altro da dire è.é Vedete che il Mollamy non l’abbandono mai? Non preoccupatevi <3 Spero che abbiate gradito la storia! :*
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ALIEN-SHAPED CAKE

Per trovare una spiegazione razionale alla propria coesistenza con Brian Molko nella cucina in finto marmo di quell’anonimo appartamentino londinese, Chris dovette andare indietro con la memoria di molti giorni.
Dovette risalire, precisamente, ad una settimana prima.
Anche quel giorno si trovava con Brian, ma non era solo – con loro c’era anche Dom – e stava in un altro luogo – il proprio ordinatissimo salotto.
- È che vorrei organizzare una bella festa. – aveva mugolato in quell’occasione proprio Brian, arrotolato come gli si confaceva su una poltrona scamosciata bianco panna che, lo sapeva, Kelly avrebbe vendicato con la furia di un mohicano, - I trent’anni sono importanti.
- E tu lo sai bene, - aveva sibilato stizzito Dom, che, probabilmente, avrebbe preferito trovarsi in qualsiasi altro posto ed impegnato in qualsiasi altra faccenda, piuttosto che in quel salotto a parlare col fidanzato del proprio migliore amico del quale era inspiegabilmente e ferocemente geloso, - visto che li hai già passati da un pezzo.
- Ma che dici?! – aveva ribattuto Brian, saltando sulla poltrona come l’avessero punto con uno spillo e piantando con forza i tacchi squadrati degli stivaletti nella morbida imbottitura lanuginosa, - Lo sanno tutti che devo compierli l’anno prossimo!
- Seh. – aveva sospirato il batterista, roteando gli occhi, - È da cinque anni che devi compierli l’anno prossimo.
Brian non aveva raccolto la provocazione ed era tornato a rivolgere l’attenzione solo a Chris, come faceva sempre quando si sentiva incompreso. Chris aveva sospirato e l’aveva accontentato con un sorriso partecipe e curioso. Ormai le dinamiche di quel destrutturato gruppo che erano diventati da quando i Placebo erano entrati nelle loro vite erano così precise ed ovvie che riusciva a trovarle perfino noiose.
Lo sarebbero state, probabilmente, se non fossero state anche piuttosto rassicuranti.
- Insomma, una cosa informale. – aveva continuato Brian, annuendo, - Non voglio mica affittare Buckingham Palace e chiedere alla vecchia di presenziare e farlo cavaliere. Però mi serve il vostro aiuto…
Dom aveva incrociato le braccia sul petto ed aveva sbuffato come un bambino di tre anni, mentre Brian spiegava il proprio piano malefico nell’approvazione di Chris, che continuava – per proprio conto – ad annuire compitamente, prendendo nota.
In seguito a questi eventi, Brian aveva saggiamente pensato che fosse più utile tenere al proprio fianco l’uomo che lo sopportava, rispetto a quello che non lo tollerava.
Perciò, in definitiva, a Dom era toccato tenere fuori Matthew per tutto il pomeriggio adibito alla preparazione del party – con suo sommo gaudio – ed a lui, invece…
…a lui era toccato tenere compagnia a Brian mentre, in quella preparazione, finiva immerso fino al collo.
E non immaginava neanche in che guaio si fosse cacciato.
- Non trovi anche tu che sia bellissima? – stava appunto pigolando il frontman dei Placebo, quando Chris riuscì a distaccarsi dal tunnel dei propri ricordi abbastanza da dargli ascolto.
Le mani giunte sotto il mento ed uno sguardo brillante d’amore sul volto, Brian fissava ammirato un’enorme torta multistrato ricoperta letteralmente da cima a fondo di lucida glassa verde.
Chris dubitava perfino fosse commestibile.
- È… - si sforzò di rispondere, cercando furiosamente le parole per rendere il commento in modo che non suonasse drammaticamente offensivo come… be’, come in effetti era. - …particolare. – concluse quindi, annuendo soddisfatto per la propria prontezza di spirito.
Brian gli lanciò un’occhiata dubbiosa, e Chris deglutì, terrorizzato.
Accidenti.
- Particolare? – chiese ansioso il frontman, voltandosi a guardarlo ed assediandolo fisicamente, facendoglisi vicino e minaccioso in maniera quasi intollerabile, - Cosa intendi per particolare? Stai cercando di dire che è brutta? Che non ti piace? Che non piacerà a Matt?
- N-No… - ansimò Chris, tirandosi indietro. Avrebbe dovuto essere più cauto. Mai mentire ad una donna. - Particolare vuol dire particolare… - arrangiò celermente, - Nel senso, non è comune vedere una torta ricoperta di glassa verde, ecco, è… una scelta coraggiosa!
Brian sembrò soddisfatto dalla spiegazione. Si tirò indietro con un sorriso radioso e tornò ad affaccendarsi intorno alla torta, per procedere all’operazione successiva: distribuire palline di zucchero argentato sui bordi come si fosse trattato di luci direzionali su una pista d’atterraggio.
- Brian… - riprese il bassista, chinandosi ad osservare l’intricato disegno delle palline, - C’è un piano, dietro tutto questo?
Lui lo sferzò con un’altra occhiata poco convinta.
- Stai di nuovo cercando di dire che non ti piace?
- Ma no, assolutamente! – si affrettò a negare, - È ancora una scelta molto coraggiosa, ma… ecco, mi piacerebbe comprenderne i dettagli.
Brian sospirò come non riuscisse proprio a concepire la sua ottusità.
- È ovvio che tu non capisca. – spiegò pazientemente, - Non hai ancora visto la ciliegina.
Chris inarcò le sopracciglia, dubbioso.
- Non so se il color ciliegia starà bene con questa tonalità di verde… e va bene che Dom dice che qualsiasi cosa, vista dalla giusta angolazione, può sembrare fucsia, ma anche in quel caso non so se-
- Parlavo di una ciliegina metaforica. – sospirò ancora Brian, arricciando le labbra in una smorfia di profonda delusione, - Sto aspettando che Stef me la porti.
A questo punto, c’è solo da preoccuparsi, pensò distrattamente Chris, mentre osservava Brian ritoccare la traiettoria delle palline con scrupolosità perfino eccessiva.
Fortunatamente, l’attesa non durò troppo a lungo, perché pochi minuti dopo il particolarissimo campanello che imitava il muggito di una mucca nonché il tintinnio del suo campanaccio – che Matt aveva preteso di installare in un pomeriggio di folle passione per il fai-da-te – annunciò ai due l’arrivo di qualcuno, e quel qualcuno era appunto Stef. Stef che stringeva fra le mani una scatola bianca di medie dimensioni, ed aveva sul viso un’espressione abbattuta, confusa e stanca che Chris non faticò a riconoscere come un riflesso perfetto della propria.
- Brian, non chiedermelo mai più! – furono le prime parole dello svedese quando si fece strada all’interno dell’appartamento, dopo aver salutato Chris con un mugolio di sofferenza repressa, - Sono serio, la prossima volta ti uccido.
Chris lo osservò entrare, sinceramente perplesso, e poi gli si avvicinò per liberarlo dall’ingombro del pacco mentre sfilava la giacca e la posava su una poltrona.
- L’hai trovato? – fu l’unica, cinguettante risposta di Brian, mentre irrompeva in salotto portandosi dietro il profumo dello zucchero e della crema al cioccolato con la quale aveva farcito la torta.
- Trovato? Non direi. – rispose l’uomo, piantandosi di fronte al compagno di band con le mani sui fianchi e le gambe semidivaricate, in una piccata espressione di rimprovero, - Le cose trovate si trovano, appunto, non ti costringono al suicidio mentale per guadagnartele. Diciamo che il modo più preciso di dirlo è “ho minacciato il commesso perché me lo facesse su misura e dal vivo”. Ecco, questo rende.
Brian agitò disinteressato una mano davanti al viso ed informò il proprio bassista che stava utilizzando troppe parole per poter essere davvero ascoltato.
- Perciò dimmi solo dov’è il pacco e facciamola finita.
Stefan sospirò ed indicò la scatola bianca ancora fra le braccia di Chris, prima di lasciarsi andare con evidente disperazione su un divano a caso, coprirsi gli occhi con un braccio e annunciare a gran voce di stare schiacciando un pisolino.
Brian non gli augurò neanche un buon riposo: si diresse – come sempre minacciosissimo – verso Chris e gli strappò il pacco di mano, poggiandolo sul tavolo e scoperchiandolo con velocità inaudita.
- Eccolo!!! – esultò poi, al colmo della felicità, - Oddio, è ancora più bello di quanto non sperassi!!!
Mentre Stef mugugnava un’imprecazione random dal divano, Chris si avvicinò curioso e sbirciò quasi timidamente all’interno dell’involucro, per sincerarsi del contenuto.
Di fronte a lui si stagliava una statuina di zucchero a forma di tipico alieno verde che stazionava immobile in piedi accanto ad un’altra statuina, a forma di navicella spaziale, bianca e rossa.
Il tutto era grande abbastanza per coprire interamente la grandezza dell’ultimo strato della torta che, con tanto amore, Brian aveva preparato per il suo Matt.
- …allora c’era questo, dietro. – constatò incredulo, la gola secca ed un incipiente mal di testa a farsi strada fra i neuroni.
- Sì! – annuì allegro Brian, - Adesso sbrigati, aiutami a portarlo di là, voglio che la torta sia pronta quando cominceranno ad arrivare gli invitati!
- …invitati? – si ritrovò a chiedere soprappensiero, mentre aiutava Brian a trasportare la scatola in cucina con la massima cura, - Che invitati, scusa? A parte Matt e Dom siamo tutti qui…
Brian lo sferzò con l’ennesima occhiataccia disapprovante della giornata. Probabilmente stava pure cominciando a pentirsi di averlo scelto come collaboratore onorario, chissà.
- Non essere ridicolo, Chris. Ho detto che sarebbe stata una festa informale, mica deprimente.
- …e questo significa…?
- Aaah, non preoccuparti! – borbottò, afferrando la navicella e posandola con cura in cima alla torre di pan di spagna glassato, - Pochi amici intimi. Alex, Tom, Steve, cose così.
Chris annuì dubbioso e si dedicò ad aiutare Brian nella complicata operazione di piazzare il piccolo alieno verde accanto alla navicella senza distruggere quanto faticosamente creato fino a quel momento, e fu proprio in quell’istante che la mucca muggì annunciando l’arrivo dei primi ospiti.
- Stef, tesoro, ti dispiace andare tu? – chiese Brian con tono falsamente dispiaciuto, - Qui siamo un po’ occupati…
Stefan, nell’altra stanza, grugnì qualcosa di indefinito ma si alzò comunque, andando ad aprire la porta e facendo gli onori di casa.
Impegnato com’era nel posizionamento dell’UFO zuccherino, Chris non riuscì a farsi una chiara idea di cosa stesse succedendo. Fu forzato a realizzare tutto, però, quando Stef li raggiunse in cucina e dichiarò candidamente che David era arrivato e si stava chiedendo dove fossero tutti.
A quel punto, Chris si ritrovò obbligato a sollevare lo sguardo e fissare Brian con aria smarrita.
- David chi? – chiese incerto.
Brian si strinse nelle spalle e ridacchiò debolmente.
- Oh… David Bowie. – rispose timido, - Non potevo certo lasciarlo fuori, su! – aggiunse poi, come fosse una giustificazione.
Chris spalancò la bocca e fece per chiedere qualcosa. Poi la richiuse e rifletté un altro paio di secondi. Ed infine decise che sì: per quanto la verità potesse fare paura, urgeva chiarirla.
- Brian, chi altri hai invitato con precisione?
Brian si mordicchiò un labbro e fece finta di pensarci su.
- Solo un paio di amici comuni. Micheal Stipe, Robert Smith, Gerard Way, Chester Bennington, Bono Vox…
L’elencò continuò per un altro paio di minuti. Ed alla fine, fu chiaro che, almeno per un particolare, Brian era sempre stato sincero: non aveva invitato la Regina. In compenso, però, era proprio l’unica che mancasse.
Quando i due riemersero dalla cucina – solo nel momento in cui la torta fu, a parere di Brian, del tutto perfetta – il salotto era pieno e Stefan s’era tramutato in una specie di maggiordomo borbottante acredine e risentimento.
- Ti ucciderò. Lo so che ti ucciderò. – andava mugugnando mentre continuava a rispondere al citofono ed aprire la porta ad intervalli regolari di tre secondi.
Perso in mezzo a quel delirio di volti conosciuti, sorridenti ed allegramente chiacchieranti, Chris si sentì, per la prima volta nella propria vita, così irrimediabilmente confuso da dimenticarsi perfino come si chiamasse, quali fossero le proprie origini e cosa stesse facendo in quel posto.
- Allora io andrei… - sussurrò poco convinto a Brian, mentre faceva per raggiungere la propria giacca sull’attaccapanni.
- Ma che stai dicendo?! – strillò lui, afferrandolo per la collottola e tirandoselo dietro, - Matthew sarà qui fra pochi minuti! Dove credi di andare?!
Ah, già… Matthew. I trent’anni. La festa, realizzò finalmente, a fatica, mentre la mucca muggiva per la trecentesima volta.
- Dev’essere lui! – gioì Brian, saltellando sul posto e trascinando in quella strana danza un povero Chris del tutto inerme, - Forza, nascondetevi!
Gli ospiti si guardarono l’un l’altro confusi ed un po’ incerti, ma ubbidirono. In pochi secondi, ogni anfratto del piccolo salotto di casa fu occupato ed utilizzato come tana dalla quale sbucare fuori al momento opportuno.
Quando il risultato fu soddisfacente, ed ogni lembo di tessuto ribelle fu rintuzzato negli angoli alla meno peggio, Brian ridacchiò e si diresse giulivo verso la porta.
- Tesoro, sei tornato! – mugolò felicemente, sollevandosi per baciare Matt in punta di labbra, - Andato bene lo shopping?
Matthew annuì distrattamente ed entrò in casa, guardandosi intorno con aria cupa mentre Brian “dimenticava accidentalmente” la presenza di Dominic e gli chiudeva la porta sul naso, guadagnandosi in cambio un appellativo poco lusinghiero.
- Come mai così triste…? – indagò quindi il moro, avvicinandosi titubante ed aiutando Matthew a liberarsi della leggera giacchetta di cotone che indossava.
- È che per tutto il pomeriggio Dom non ha fatto che ripetermi “compra questo, compra quello, è il tuo compleanno, te lo meriti”… - mugugnò l’inglese, stringendosi nelle spalle e distogliendo lo sguardo, - Solo che io non ce l’ho mica tutta questa voglia di festeggiare. Insomma, trent’anni sono così tanti
Brian fece un passo indietro, scioccato. Dom ristette sulla soglia e spalancò gli occhi, come chiedendosi se fosse proprio vero ciò che aveva appena sentito.
Da ogni singolo divano, poltrona ed anfratto nascosto della stanza, si alzò un riecheggiante quanto spaventoso “oh” di stupore e vaga disapprovazione.
- …che razza…? – biascicò Matt, guardandosi intorno spaesato, - Brian, che era quel rumore?!
Ma Brian non ascoltava. Testa bassa ed occhi ardenti di rabbia, fissava il proprio uomo come se la sua prima intenzione fosse caricarlo con una testata degna del più potente toro da corrida dell’intera Spagna.
- Perciò trent’anni sarebbero tanti, eh…? – bisbigliò crudelmente, stringendo i pugni.
- …Bri, cosa… - accennò Matt, turbato da quel repentino cambio d’umore, - Cosa ho detto di sbagliato…?
Brian sbuffò e si rimise dritto, intrecciando le braccia sul petto.
- Nulla. – rispose, gelido, - Figurati.
Poi si girò, raggiunse l’attaccapanni, recuperò un giubbino a caso – era di Matt, ma non sembrò saggio farglielo notare – afferrò un berretto ed un paio di occhiali da sole e si diresse a passo deciso verso l’uscita.
- Goditi la torta. – sibilò acido, prima di andare via.
Fu in quel momento che David Bowie trovò appropriato affacciare la testolina bionda da dietro un divano, sorridere timidamente e – dopo aver osservato Matthew scattare indietro e strillare neanche avesse voluto ucciderlo – sussurrare un imbarazzato “Be’, sorpresa!”, in seguito al quale i mobili presero vita e si misero a partorire persone come madri evangeliste, lasciando il povero inglese ingolfato nel panico più nero.
- Quell’essere incommentabile del tuo uomo, - trovò opportuno informarlo Dom, mentre tutto intorno fiorivano occhiatacce disapprovanti e sguardi diffidenti, - ti ha organizzato una festa di compleanno a sorpresa. Potevi almeno evitare di rovinargli tutto dandogli del vecchiaccio!
Matthew spalancò gli occhi e cercò confusamente la rassicurante figura di Chris in mezzo alla folla, come se Dom lo stesse attaccando con troppa violenza per potersi difendere e lui avesse bisogno di un cavaliere senza macchia e senza paura che potesse proteggerlo adeguatamente. Chris, in effetti, rispondeva in pieno alla descrizione.
- Io non gli ho detto che è un vecchiaccio! Ma che hai sentito?! – sbottò infatti alla volta del proprio batterista, quando Chris fu abbastanza vicino da potersi nascondere per metà dietro le sue spalle ampie e robuste.
- È come se l’avessi fatto. – scrollò le spalle lui, - Gli hai detto che trent’anni sono già troppi.
- Ma che cazzo, lui li deve ancora fare! Anzi, sono io che mi sento a disagio nei suoi confronti, per essere ben un anno più vecchio di lui! – rispose Matt, sempre più agitato, aggrappandosi alle spalle di Chris ed usandole a mo’ di trampolino per saltellare istericamente sul posto.
A quel punto, perfino Chris – generalmente bonario nei confronti di un frontman che sapeva essere, in fondo, innocentemente e tenacemente ingenuo – non poté fare a meno che unirsi allo sguardo colmo di allucinata incredulità di Dominic, e si mise a fissare Matthew oltre la sua spalla, con aria inquisitoria.
- Ma parli sul serio? – chiese a bassa voce, mentre, tutto attorno, gli invitati riprendevano la classica routine festaiola di chiacchiere e risate.
Matthew regalò anche a lui l’occhiata del cucciolo innocente, ed inclinò il capo – come a dare maggior valore alla propria incolpevole idiozia.
- Che intendete dire? – aggiunse, come se già il quadretto non fosse abbastanza deprimente.
- Intendiamo dire che il tuo uomo i trenta li ha passati da un bel pezzo! – sbraitò Dom, agitando un pugno bellicoso nella sua direzione, - E non posso credere di stare dicendo qualcosa in sua difesa, ma tu decisamente non te lo meriti, eccheccazzo! – concluse infuriato, prima di voltarsi indietro e cominciare a sbottare rabbia e insofferenza verso la cucina, trotterellando isterico come uno scoiattolo ingiustamente deprivato delle ghiande che con tanta fatica aveva raccolto per tutta l’estate.
- …Chris…? – chiamò debolmente Matthew, osservando il biondo allontanarsi e cominciando a temere seriamente per la propria vita.
Il bassista gli sorrise condiscendente e gli batté un’amichevole pacca sulla spalla.
- Nessuno te ne fa una colpa. – mentì, perché Matthew sapeva che tutti, dannazione, gliene stavano facendo una colpa, - È normale che tu non l’abbia capito, Brian non dimostra la sua età e, se può, mente pure in merito. – scrollò le spalle, simulando un’indifferenza che avrebbe dovuto tranquillizzarlo ed invece lo mandò ancor più in paranoia, - Però, insomma, Brian ha trentacinque anni. Ne fa trentasei a dicembre.
…e lui gli aveva detto che trent’anni erano già troppi.
Trent’anni! Troppi!!!
E viene fuori che lui ne ha trentacinque!!!

In apparente stato di morte cerebrale, Matthew fissò Chris, le lacrime agli occhi e il labbro tremulo.
- Dimmi che non è vero. – biascicò indecentemente, scrollando incredulo il capo.
Impietosito, Chris si strinse nelle spalle, e probabilmente provò anche a ritrattare tutto e far finta di niente, ma era un uomo troppo onesto per riuscirci in maniera convincente, perciò Matt lo fermò con un breve cenno del capo e fissò attentamente le punte delle proprie scarpe per un enorme periodo di tempo, come a cercare nei ghirigori dorati che impreziosivano la punta nera la risposta a tutti i drammi della sua esistenza.
Frattanto, Dom s’era affacciato dalla cucina reggendo la torta fra le braccia con aria frettolosa.
- Visto che c’è, vediamo se è commestibile. – annunciò compitamente il batterista, planando agilmente in mezzo al fittissimo dialogo che Bono e Chester stavano intrattenendo di fronte al tavolo e poggiando l’enorme vassoio rotondo proprio fra di loro.
- Coraggio, Bells. – cercò di consolarlo Chris, stringendolo compassionevole attorno alle spalle, - Tornerà, chiarirete e domattina sarà tutto a posto. Andiamo a mangiare, almeno potrai fargli i complimenti per com’è bravo a cucinare i dolci! – propose incoraggiante. Poi si fermò e rifletté brevemente, arricciando le labbra in una smorfia poco convinta. – Be’, forse. – concluse saggiamente, annuendo come a darsi ragione da sé.
Matthew seguì l’amico fin davanti al tavolo e lì rimase per qualche secondo ad osservare contrito la splendida torta che gli si parava di fronte. Verde dalla punta alla base, cosparsa di palline di zucchero lucenti come perle e sormontata da una splendida scultura in zucchero raffigurante un piccolo alieno verde nell’atto di scendere dalla propria astronave per esplorare quel meraviglioso pianeta di pan di spagna e cacao.
Allungò una mano, come a voler verificare quella meraviglia fosse vera. Ma poi si ritrasse, e sorrise furbo.
Aveva avuto un’idea migliore.
*
Brian lo conosceva benissimo. Nel corso degli ultimi due anni passati insieme – e di insieme si poteva parlare, nonostante i tour, i viaggi e i continui impegni di lavoro, perché la verità, molto semplicemente, era lui e Brian fossero stati del tutto inseparabili nelle occasioni in cui stavano insieme, e continuamente tendenti l’uno verso l’altro anche quando stavano separati – Brian aveva imparato a memoria ogni sua passione, ogni suo divertimento, ogni sua opinione. Tutto ciò che lo faceva ridere e arrabbiare e disperarsi. Tutto ciò che gli piaceva e tutto ciò che odiava. Perfino le parole esatte per farlo star meglio quando stava male, e quelle per riportarlo a terra quando cominciava un’improbabile quanto fuori luogo scalata per la conquista del Paradiso.
“Perché – l’hai detto tu, no, Matt? – per entrare in Paradiso devi pagare un prezzo che non sei disposto a concedere.”
E nello specifico, ogni santa volta, voleva dire “Torna giù, piccolo, che sei bravo, bravo davvero, ma non sei ancora diventato un dio, né mai lo sarai, perché cose del genere proprio non esistono”.
Brian, con lui, non era stato prudente. Non s’era comportato come la maggior parte delle persone giunte all’apice di una brillante carriera ed alla metà di una triste vita. Non aveva trattenuto niente per sé, non era stato avaro d’emozioni – né nel darle né nel pretenderle – e non aveva evitato alcun momento spendibile insieme.
Al punto che sì: anche Matthew lo conosceva alla perfezione.
L’enorme edificio principale del Goldsmith College, immerso nella notte ambrata di luci di Londra, rendeva perfettamente onore alla propria essenza di vecchio maniero ottocentesco. Letteralmente ricoperto d’edera e fronteggiato da uno sterminato prato verdissimo ed umido di brina, era perfino inquietante. Al punto che Matt esitò nell’addentrarsi alle sue spalle alla ricerca della nicchia fra gli alberi del cortile interno che sapeva essere il luogo preferito di Brian.
Lo individuò subito: la giacchetta multicolore che aveva comprato secoli prima da Harrod’s, e che lui aveva distrattamente preso con sé prima di uscire, spiccava curiosamente nel verde scurissimo degli alberi nella notte. Era così piccolo – accucciato su una panchina, lo sguardo fisso nel vuoto ed il mento affondato fra le ginocchia – che non sarebbe stato strano prenderlo per un bambino che avesse perduto la mamma e non sapesse dove andare.
La verità di Brian era che non importava quanti anni avesse, perché era rimasto piccolo dentro. Non immaturo né egoista e capriccioso alla maniera sciocca dei bambini, ma insicuro e fragile come se la parte più pura di lui si fosse dibattuta negli anni per preservarsi integra comunque e nonostante tutto, e alla fine ce l’avesse pure fatta.
- Per quello che può valere, - sussurrò con un sorriso tenero, sedendosi al suo fianco e poggiando fra i loro corpi un piatto con l’ultimo piano della torta e la statuetta che le si accompagnava, - non sapevo che avessi più di trent’anni.
Brian si lasciò andare ad un ghigno amarissimo, senza guardarlo ma sciogliendo leggermente le gambe.
- Lascia perdere. – gli disse atono, - Non è davvero importante.
Matthew sorrise, accomodandosi meglio contro lo schienale della panchina ed indicando distrattamente la torta fra loro.
- È stato un pensiero carino. – commentò, - Grazie.
Brian rise a bassa voce e scosse il capo, rimettendo i piedi a terra.
- Ti ho detto che non importa. – lo rassicurò, rassegnandosi finalmente a guardarlo, - Non c’è bisogno che tu mi faccia i complimenti per farti perdonare. Non ce l’ho con te.
Matthew sorrise ancora e si sporse verso di lui, arrivando fino ad un centimetro dal suo viso e fissandolo intensamente negli occhi.
- …è vero. – constatò, tirandosi indietro, un po’ stupito. – Non sei arrabbiato.
Brian scosse il capo e si appoggiò a propria volta allo schienale.
- Sono solo uno stupido. – rispose in un soffio.
Matthew ridacchiò e gli fece passare un braccio attorno alle spalle, attirandolo a sé.
- Sì, lo sei. – annuì, - Ma ti amo anche per questo.
- Questo non mi lusinga granché. – borbottò Brian, fingendo un broncio infantile, - Mi piacevi di più in versione penitente.
Matt rise ancora, stringendolo con calore.
- Sai cosa ho pensato la prima volta che ti ho visto? – gli chiese poi, sfiorandogli la guancia con un bacio, - Non quando ci siamo conosciuti. Molto prima. Proprio la primissima volta.
Brian si adagiò contro la sua spalla e sospirò brevemente, prima di negare con un lento cenno del capo.
Matthew sorrise.
- Era il mio primo anno a Londra. Non avevamo i soldi per comprare un appartamento tutti insieme, dico, io, Chris e Dom, perciò abbiamo affittato delle stanze in giro. Ed io stavo con un tizio, Andy, faceva lo spacciatore ma era uno sfigato. – scrollò le spalle, - Uno si aspetta sempre che quelli che lavorano in quel ramo siano ricchi sfondati, ma Andy era tristissimo, stavamo praticamente in un bilocale che era uno sputo ed avevamo un televisorino minuscolo in cucina che-
- Matthew! – ridacchiò Brian, spostando la torta altrove per potersi sistemare meglio sul sui corpo, - Questo discorso va a parare da qualche parte?
- Ci sto arrivando. – rise lui, stringendolo a sé, - Insomma, una mattina facevo colazione e guardavo MTV. Ed è passato il video di Teenage Angst.
- Mio Dio! – rise forte Brian, allungando una mano a cercare le dita di Matt per stringerle e giocarci un po’, - Se è davvero la prima impressione, quella che conta…!
- Be’, - lo interruppe Matthew, affondando nell’incavo del suo collo, - per me è stato così.
- …ed è stata disastrosa? – inquisì lui, cercando i suoi occhi.
Matt scosse il capo.
- Ho pensato che tu fossi una creatura da un altro pianeta. – raccontò con aria sognante, - Sembravi troppo perfetto per venire dalla terra. E poi, sinceramente, non ero neanche sicuro al cento per cento di sapere cosa in effetti tu fossi. – ridacchiò sommessamente, - Perciò, siccome il fatto che tu potessi essere un maschio mi turbava tanto quanto quello tu potessi essere una donna, mi limitai a pensare che dovevi essere proprio un alieno.
- …un alieno.
- Sì. – rise lui, - Negli angeli non ho mai creduto.
- …okay. – sospirò lui, arrendendosi, - Quindi?
Matthew scrollò le spalle.
- Niente. – sbuffò, - Cioè, è una cosa stupida, e dopo una settimana l’avevo già dimenticata. Però, quando poi ci siamo conosciuti, me lo sono ricordato.
Brian sollevò gli occhi nei suoi e se ne lasciò catturare.
- E? – lo incitò impaziente.
- Ed era vero. – annuì Matt senza esitazioni, - Sei troppo perfetto per venire dalla terra. Confessalo, sotto questa maschera c’è un faccino verde e bitorzoluto! – lo prese in giro, tirandogli una guancia.
- …ma piantala! – sbottò Brian, offeso, trincerandosi dietro un broncio di circostanza e nascondendosi dietro l’intreccio della proprie braccia sul petto, dandogli le spalle, - Sei una merda.
Matthew ridacchiò e tornò a nascondersi contro la sua pelle, respirandogli addosso.
- C’è una vocina dentro di me che non fa che ripeterlo. – sussurrò sul suo collo, dandogli i brividi, - Se ti amo tanto, forse è anche un po’ per questo.
- …perché sono un alieno? – mugugnò lui, più per evitare l’imbarazzo che per reale curiosità.
Matthew strizzò gli occhi e si sporse a baciarlo sulle labbra.
- …d’accordo. – borbottò Brian, quando si furono separati, - Ma almeno l’hai assaggiata? – mugolò, indicando la torta dimenticata sul bordo della panchina.
Matt scosse il capo.
- Speravo di mangiarla insieme.
Brian sorrise ed annuì.
- Ma l’alieno lo mangio io! – precisò, afferrando l’omino verde e mettendone velocemente la testa in bocca.
Matthew fece una smorfia delusa e gli si chinò ancora addosso, addentando i piedi dell’omino e staccandoli in un morso.
- Facciamo a metà, no? – chiese poi, facendo ballare i piedini verdi fra le labbra.
Brian sospirò pazientemente, scuotendo il capo, simulando un’esasperazione che era quanto di più lontano dal suo stato d’animo esistesse in tutto il mondo.
- Facciamo a metà.
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Nessuno.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Language, What If?.
- Matthew Bellamy ha un sacco di paure cretine. Non che lo ossessionino, ovviamente, ma di certo non può ignorarle. Fra tutte, però, quella che sente più vicina è di sicuro la possibilità di potersi svegliare un giorno e riscoprirsi in tutto e per tutto uguale alla persona che più odia al mondo. Suo padre.
Note: Gh. Chiaramente non so che dire, perché nonostante sia stato un lavoro lungo, faticoso ed anche vagamente doloroso, non mi ha impegnato tanto intellettualmente quanto emotivamente. Ed alla fine, quando si scrive una cosa usando tanto il cuore e pochissimo il cervello, c’è poco da stare a ragionarci su.
Mi ha drenata.
E qualcuno dovrebbe fermarmi, quando mi metto in testa di marchiare nero su bianco cose che farebbero meglio ad essere dimenticate.
Comunque spero vi sia piaciuta, nonostante le ventiquattro pesantissime pagine di emoparanoia ^^
Devo creditare un mare e mezzo di canzoni dei Muse che sono il motivo preciso per cui amo Matt e per il quale ho seriamente paura di essergli per certi versi molto affine. E quando dico paura, intendo proprio paura. Io non voglio davvero essere affine alla mente di un uomo che produce musica per lucine colorate ;_; *depressa*
Comunque: la canzone che apre e chiude la storia è anche quella che le dà il titolo. Si tratta di Escape, tratta dal primo album dei Muse, Showbiz. Pare che dal vivo non l’abbiano proprio mai fatta, anche se non potrei giurarci. L’interpretazione “anti-paterna” me l’ha suggerita Stregatta, ed io mi ci sono appiccicata come una patella sullo scoglio, piangendoci su pure amarissime lacrime. Grazie gioia :* Se non me l’avessi suggerito tu, questa storia non sarebbe mai nata!
And if my wish comes true, you’ll never see me again” è un verso tratto dalla bellissima Host, una delle millemila canzoni anti-Teignmouth che Matty ha scritto mentre era palesemente depresso, e che oltretutto è anche la matrice da cui ho ripreso l’espressione “ed ammazzarli tutti, quei bastardi che l’avevano dissanguato a morte”. B-side del singolo di Cave.
You’re so happy now… burning a candle on both ends… Your self-loving soothes… and softens the blows you’ve invented…” sono invece versi tratti dall’altrettanto bellissima Fury, bonus track della versione giapponese di Absolution. Non si capisce perché i giapponesi debbano avere sempre il meglio -_- Comunque secondo me è una canzone che si adatta un casino al padre di Matt o.o Basta conoscere un attimino la storia della sua famiglia (qui ne avete un assaggio storicamente esatto, peraltro, tranne per i nomi dei fratellastri di Matt, che ho allegramente inventato io <3) per rendersene conto XD
Nel corso della narrazione cito anche Falling Down (sempre presa da Showbiz), che è la canzone in cui Matt dice che Teignmouth non l’ha mai fatto neanche “cominciare a cantare”, ed è anche lei un orgoglioso manifesto anti-patria, e Blackout, che è una canzone splendida tratta da Absolution e che mi sembrava si adattasse molto allo stato d’animo di Matt sul finale della storia. Ovviamente non c’è alcuna prova che le canzoni che io gli ho fatto scrivere in queste situazioni siano davvero state scritte proprio in questo modo. Licenza <3
Per essere totalmente sinceri, una cosa da dire su questa storia c’è: inizialmente doveva essere una BellDom o.o Ma non ce l’ho fatta XD Perdonatemi. E poi, secondo me ed anche secondo Nai, è meglio così u__u Prima o poi ne scriverò una è_____é *mente spudoratamente* Voi continuate a seguirmi, non si sa mai <3
PS: When Doves Cry è una canzone meravigliosa di Prince che parla – guarda un po’! – di divorzio, ed è una delle canzoni preferite di Matt.
PPS: Che Matt sia tifoso del Manchester United è una mia gioiosa invenzione è_é È che io amo il Manchester United. Punto <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Alla me stessa di dieci anni fa, perché proprio non se lo meritava.
Alla me stessa di cinque anni fa, perché il tempo, prima o poi, ricomincia sempre a scorrere, lo si voglia o no.
Alla me stessa di oggi, perché la rabbia potrà non essere il migliore dei sentimenti, ma come valvola di sfogo è insuperabile.
E infine, alla me stessa di domani. Perché non dimentichi. E non perdoni.

ESCAPE

You would say anything
And you would try anything
To escape your meaningless
And your insignificance
You’re uncontrollable
And we are unlovable
But I don’t want you to think that I care
I never would
I never could again

Matthew Bellamy aveva un sacco di paure cretine. Non che lo ossessionassero, chiaramente, ma c’erano, ed il più delle volte non poteva nemmeno ignorarle. Per dire, aveva una paura assurda di soffocare nel sonno – gli era rimasta attaccata addosso da quando aveva rischiato di finire davvero morto stecchito in quel modo allucinante, durante uno dei tour più folli che ricordasse, in Giappone l’anno precedente – che non riusciva a scacciare in nessun modo. Che nemmeno la prolungata sobrietà – per quanto sobrio potesse dirsi un inglese… sospettava che in realtà lui, come tutti i propri compatrioti, conservasse una quota d’alcool minima nelle vene pure quando non beveva da settimane. Giusto quanto bastava per carburare, ecco – o l’astinenza da qualsiasi tipo di droga erano riuscite a lenire. Tant’è che alla fine aveva pure smesso di privarsene.
Poi, va be’, questo lo sapevano tutti: aveva paura di restare incinto di un piccolo alieno da dover poi crescere ed accudire da solo, come figlio proprio. Ed aveva paura delle guerre, dei viaggi transatlantici, delle grandi città sconosciute, degli squali, degli orsi, di Tom quando si arrabbiava, del cane di Dom, di Chris quando si faceva crescere i baffi fino al mento e di perdersi negli aeroporti.
Soprattutto, però, Matthew aveva una paura che lo preoccupava fin nel profondo. Che sentiva molto più vicina e reale di tutte le altre, e che a volte lo tormentava proprio.
Matthew Bellamy era uguale al proprio padre. Solo fisicamente, almeno da quanto era riuscito a capire fino a quel momento della propria esistenza, ma era più che abbastanza per terrorizzarlo.
Suo padre aveva mollato sua madre – con due figli a carico – quando lui aveva appena compiuto tredici anni. Paul ne aveva tre di più. E sua madre era giovanissima, e di anni ne aveva appena trentaquattro.
Suo padre era l’uomo senza cuore che aveva lasciato tutti loro per rifugiarsi letteralmente nell’emisfero terrestre opposto a quello dove si trovavano, in Australia, per ricominciare una nuova vita con un’altra donna, altri figli e un nuovo lavoro nel quale impegnare tutto se stesso.
Suo padre era anche stato un musicista. Perfino piuttosto famoso, per quanto perennemente squattrinato.
Era un’altra somiglianza che Matthew proprio non poteva ignorare.
La sua più grande paura era questa: svegliarsi un giorno e scoprire di aver annullato tutte le differenze. Di essere diventato proprio lui.
La persona che più odiava in tutto il mondo.
*
- Io continuo a non essere d’accordo. – borbottò mestamente, accucciandosi in una posa molto emotivamente infantile sullo scomodo seggiolino della sala d’aspetto dell’aeroporto.
Dom roteò gli occhi e gli rispose con una botta neanche troppo delicata sulla spalla.
- Piantala di lamentarti, una buona volta. – lo rimproverò, - Non fai altro da quando abbiamo deciso di tornare per le vacanze!
- Non abbiamo deciso di tornare! – precisò lui, sollevando lo sguardo, - Voi avete deciso di farlo, e me ne avete parlato solo a giochi fatti!
- Probabilmente perché sapevamo che avresti reagito come un idiota isterico, non ti pare? – fu la laconica risposta di Dom.
Chris squadrò il batterista con manifesta disapprovazione e poi sedette accanto a Matthew, poggiandogli una consolatoria manona sulla spalla.
- Matt, avevamo davvero bisogno di una vacanza… - cercò di motivare, stringendogli calorosamente la nuca, come in un massaggio.
- Ma io sono d’accordo… - mugolò Matthew, lasciandosi andare contro quella mano dai balsamici poteri, - Però, a questo punto, non capisco per quale motivo non sono potuto andare in Costa Azzurra con Tom! Scommetto che mi sarei divertito di più!
Chris sospirò e gli diede qualche altra amichevole pacca sulla schiena, mentre Dom intrecciava le braccia sul petto e lo fissava astioso.
- Perché anche Tom aveva bisogno di una vacanza. – rispose, - Da te. E poi, Matthew, da quanto diavolo è che non vedi tua madre?! – riprese a rimproverarlo, - Quella poverina finirà col dimenticarsi di aver mai avuto un figlio minore!
Matthew mugugnò un qualcosa di indefinito e tornò ad accucciarsi sul seggiolino, fissandosi le ginocchia.
Nella sua ottica, sarebbe stato molto meglio che sua madre procedesse una buona volta con le “pulizie di primavera”, e si dimenticasse totalmente di lui. D’altronde, Paul era più che sufficiente, come figlio. Era responsabile ed aveva un lavoro solido e si prendeva cura di lei.

Non somiglia affatto a nostro padre.

Per di più, quando a sedici anni diceva di odiare Teignmouth al punto che avrebbe desiderato raderla al suolo – ed ammazzarli tutti, quei bastardi che l’avevano dissanguato a morte – era serio. Era dannatamente serio, perfino quando affermava che non sarebbe mai più tornato a casa se fosse riuscito a realizzare il suo sogno – diventare famoso, cantare e suonare per vivere, farsi ascoltare, una buona volta.

And if my wish comes true, you’ll never see me again.
Se ce la faccio, Dio, col cazzo che mi rivedrete più.
Cristo, ero serio davvero.


Valeva anche per Dom e Chris, allora, ma… be’, probabilmente il loro odio s’era smorzato. Considerevolmente. Forse addirittura fino a spegnersi.
Il punto era che da adolescenti erano stati tutti e tre piuttosto maltrattati dal mondo circostante. Fosse solo per il fatto che proprio non ce l’avevano fatta ad integrarsi con la parte migliore della scuola, fosse perché erano tutti piuttosto poveri – e quindi, anche volendo, altro che integrazione – fosse perché avevano comunque degli interessi che continuavano a sospingerli lontano dalla massa, o fosse, infine, perché ogni volta che mettevano mano ad uno strumento c’era sempre qualcuno pronto a dire loro che non sarebbero mai riusciti a concludere niente nella vita, non l’avevano mai capito. Non era nemmeno importante. Perché tanto il risultato era quello, no?
Le botte dei bulli, il disprezzo degli insegnanti, le prese in giro delle ragazze e la rassegnata frustrazione dei genitori. C’era poco da fare.
Crescendo, però, qualcosa era cambiato.
Di quello che era stato un comune desiderio di fuga, era rimasto molto poco.
Nel 2002, con un album universalmente adorato attualmente in cima alle classifiche di vendita di alternative praticamente in ogni stato del mondo, un tour trionfale che li aveva portati fino in Asia – in Asia, Cristo! – appena concluso ed una considerevole somma di denaro al sicuro in banca, c’era davvero poco, del loro passato, da cui valesse ancora la pena fuggire.
Perciò Chris aveva pensato di vendicarsi a modo proprio – comprando una villa in campagna per Kelly e i bambini. Proprio nei dintorni di Teignmouth – e Dom di far risalire in superficie quella vena di attaccamento mammone per la quale l’avevano sempre sfottuto perfino fra loro.
Il risultato di quella brusca virata emotiva era stato il ritorno a casa.
Era contento per i suoi amici, perché era evidente desiderassero recuperare le proprie radici, ma…

…ma cazzo. Io le mie radici le ho strappate a forza dal terreno. Ora si muovono con me. Le mie radici sono ovunque io vada.
Però il suolo del Devonshire è malato. È putrido. È saturo di ricordi che preferirei cancellare. Di fantasmi che non ho alcuna voglia di incontrare.
Se torno lì mi ammalo e muoio. Lo sento.
Se torno lì… chi mi salva da papà…?


Scosse il capo, ficcando con forza le mani fra i capelli rossissimi e disordinati sulla testa.
A sua madre sarebbe preso un colpo.
Gli avrebbe sicuramente detto che poteva anche essere d’accordo se decideva di mettersi a fare il pittore, ma che le tele da disegno esistono proprio per non dover utilizzare come tali i propri capelli, “perciò vedi di tornare al colore originario, ragazzino, che non ti ho dato quell’adorabile castano biondiccio per non godermelo!”.
Il castano biondiccio non era di sua madre, dannazione anche a lei.
Era di suo padre.
Sua madre aveva i capelli corvini ed era pallida come Biancaneve. Sua madre aveva trasferito i propri geni direttamente a Paul. Paul e lei erano identici.
Anche lui era il perfetto riflesso di qualcuno. Solo che era un qualcuno di cui neanche sopportava la vista.

Mamma, se non mi concio in questa maniera è difficile perfino guardarmi allo specchio, sai…?

Avrebbe dovuto abituarsi. E basta.
- Ehi… - mormorò Dom, scivolando spalla contro spalla su di lui, - Dai, calmati. Non sarai mica solo! – cercò di consolarlo, sorridendo dolcemente.
- Chris va a stare fuori… e tu vivi dall’altro lato della città!
- Teignmouth è un buco talmente minuscolo che se lo cerchi sulla cartina neanche lo vedi! – rise ancora Dom, omaggiandolo di una divertita pacca sulla spalla, - Non sarà difficile trovarmi, se avrai bisogno di me!
- E poi noi andremo in spiaggia praticamente ogni giorno… - aggiunse Chris, annuendo deciso, - Tu stai a due passi dal lido, vero? Potremmo andare insieme, ai bambini farebbe un enorme piacere giocare un po’ con te… devi ancora ad Alfie il più maestoso castello di sabbia di tutti i tempi, non fartelo ricordare ogni estate!
Si lasciò andare ad una risatina che aveva molto più di rassegnato che di effettivamente consolato, ma sperò che i suoi amici se la facessero bastare. Era il massimo che fosse disposto a concedere in quel frangente. Almeno in quel preciso istante.
Una voce metallica dagli altoparlanti li informò che l’imbarco del loro volo stava cominciando.
Il tour s’era concluso da meno di dodici ore. Da Leeds a Londra in volo.
E poi un treno che non sopportava, perché era già vecchio e distrutto quando lui era un bambino, e da allora non era mai cambiato.
Fino a casa.
Anche lei vecchia e distrutta da sempre.
Anche lei, da sempre identica a se stessa.
*
Il treno cigolava fastidiosamente già da una ventina di minuti. Succedeva sempre, ed era una normalità che gli portava alla mente tanti di quei ricordi agrodolci e terribili che a volte doveva necessariamente trattenere il fiato per non esplodere in singhiozzi di nostalgia pura.
Per un motivo che non aveva mai compreso – probabilmente ricercabile nel fatto Teignmouth fosse, in fondo, un florido porto di mare ed anche una produttiva cittadina industriale – dalla stazione passavano decine di treni ogni giorno. Perciò, tornare a casa significava ogni volta attendere che l’unico binario che passava per quei lidi sperduti fosse sgombro o allineato o chissà cos’altro, e l’unico modo per non pensarci era lasciare che il tempo si diluisse da solo nella noia e, se si era fortunati, nel sonno.
Quando erano ragazzini non era così. Quando erano ragazzini, il treno non lo prendevano mai. Però ne osservavano passare a dozzine per tutta la settimana. Dai prati verdissimi che circondavano quella stazione minuscola, si vedevano i binari mischiarsi con la linea dell’orizzonte fino a sparire. Era bellissimo immaginarne il tragitto fino a Londra, e poi magari ancora più in alto, fino al cuore del cielo.
Ma adesso non avevano più alcun bisogno di immaginare niente. C’erano arrivati, nel centro preciso di quel fottuto cielo. E l’avevano spaccato pure in mille pezzi, con la stessa furia grondante rabbia e frustrazione e dannato sollievo con la quale in genere spaccava le proprie chitarre o la batteria di Dom, durante i concerti.
Quel panorama – quella stupida cittadina, quella stazione spoglia da fare pietà, le esistenze grigie di coloro che non erano riusciti a sottrarsi a quella quotidianità fatta di silenzio e anonimato – non era più una cosa per loro.
Teignmouth era squallida. Squallidissima.
Il suo palcoscenico doveva essere un altro. Nel suo palcoscenico, le luci si accavallavano impetuose l’una sull’altra come le onde del mare. Sentiva il battito del basso di Chris fino in gola, come fosse stato il suo stesso cuore. Sentiva le botte delle bacchette di Dom sulla pelle dei tamburi fin dentro le viscere. Il battere simultaneo delle mani di migliaia di persone regolava il ritmo del suo respiro, e le loro voci, amalgamate in un’orgia di cacofoniche assonanze, reggevano i fili dei suoi pensieri.
Nel suo palcoscenico, lui era tutto. Era ognuno di loro ed era tutti loro.
E poteva essere qualsiasi cosa.
Un prete una puttana un padre un figlio un messia. Dio in persona.
- Recuperiamo le valigie! Siamo arrivati!
C’era troppo entusiasmo nella voce di Dom. Non riusciva proprio a capire cosa ci fosse di tanto entusiasmante.
Aveva un pessimo presentimento.
Aveva sempre pessimi presentimenti, quando tornava lì.
Arrivava fino alla porta della sua vecchia casa sempre con un’angosciante massa di pensieri cupi ad ingombrargli la testa. Poi la porta si apriva. E sua madre era sempre un po’ più vecchia. E Paul era sempre un po’ più scocciato. E dentro di lui si faceva strada, sempre più profondamente, un terrore viscido e strisciante che gli ricordava che no, non sarebbe rimasto sempre tutto bello e comodo com’era stato fino a quel momento. Prima o poi, Paul si sarebbe davvero rotto i coglioni di giocare al figlio devoto. Prima o poi, una delle numerose donne che continuavano a susseguirsi nella sua vita avrebbe preteso qualcosa di più di un eterno fidanzato.
A quel punto, davvero, sua madre avrebbe ricordato di avere un altro figlio.
O, forse, l’avrebbe dimenticato sul serio: e sarebbe rimasta sola per sempre.
Non sapeva quale delle due possibilità fosse la peggiore. In ogni caso, lo spaventavano entrambe.
Aveva salutato Dom e Chris in stazione e si era diretto stancamente all’esterno dell’edificio, lasciando cadere lo sguardo intorno a sé come un’ombra distratta, in cerca di un taxi. Ci mise effettivamente un po’ di tempo a ricordarsi che in quel buco di cesso dimenticato dalla civiltà i taxi neanche c’erano. Era inutile perfino che passassero gli anni, Teignmouth restava una fogna. Puzzava pure, di fogna: di pesce marcio e fumi di scarico e dell’aria appestata di qualche migliaio abitanti – chissà se poi era vero? Chissà con quante persone condivideva il respiro in quel momento? Erano poche e riuscivano a mangiarsi tutto l’ossigeno. Tutto.
Teignmouth era un’enorme fossa biologica a cielo aperto.
Ripiegò in favore del vecchio autobus che prendeva sempre. La solita linea.
Quella che l’avrebbe portato direttamente a casa.

Cristo. Mi sono mai mosso davvero, da quando avevo sedici anni?
Mi sento in gabbia. Dio, Dio, Dio, odio questo posto. Lo odio davvero.


Ed odiava davvero ritrovarsi coi propri parenti. Paul faceva almeno un po’ di fatica per star dietro a lui e ad i Muse, ogni tanto lo andava a vedere per qualche concerto nel circondario, e quando si fermava a Londra passava sempre a trovarlo, perciò l’impatto per lui era meno traumatico, ma sua madre, sua madre!, viveva una realtà propria fatta di antiche canzoni in gaelico e tele dipinte a metà destinate a sbiadirsi nell’incuria del tempo. Sua madre ogni volta aveva difficoltà ad abituarsi alla sua faccia, ai suoi vestiti, al suo modo di passare il tempo, ai suoi atteggiamenti, perfino all’idea di lui. Sua madre, a volte, gli dava l’impressione di non conoscerlo affatto.

Mi hai cresciuto tu. Sono così per te.
Sono così perché non hai fatto che ripetermi come fosse lui. Dovevo prendere le contromisure adeguate. Dovevo essere diverso. Dovevo essere un me stesso completamente diverso da mio padre, ma siccome, in realtà, di lui non ho mai avuto un’idea così precisa, dovevo essere un me stesso completamente diverso da tutto il resto del mondo.
Non è facile, mamma.
Essere Qualcuno.
Non è facile nemmeno essere qualcuno senza maiuscola.


Casa lo accolse come al solito. Silenziosa e squallida. Era quasi ora di cena – sarebbe stato perfino giustificato aspettarsi il tintinnare metallico delle pentole contro i fornelli, che avrebbe reso tutto molto classico e molto normale – ma sua madre non sapeva cucinare ed utilizzava gli utensili da cucina giusto il minimo indispensabile per sfamare la propria prole. Avevano quasi sempre mangiato alimenti cotti al microonde o in forno.
Aprì il cancelletto d’ingresso, la cui serratura era rotta da sempre, e s’inerpicò lungo il vialetto sterrato che conduceva alla porta, strascicando faticosamente l’enorme ed anonima valigia nera che aveva riempito alla rinfusa un’ora prima di partire.
Bussò e ad aprirgli fu Paul.
Suo fratello schiuse la porta con una certa violenza, come stesse aspettando qualcuno.
Quel qualcuno non poteva essere lui, perché lui non aveva avvisato.
Paul dischiuse le labbra e modulò qualcosa che avrebbe potuto essere una parola qualsiasi. Non era importante.
Matt sorrise timidamente.
- Se stavi aspettando la tua ragazza attuale, - ironizzò, stringendosi nelle spalle magrissime, - mi dispiace ma non posso aiutarti.
Paul sembrò riscuotersi solo in quel momento. Ridacchiò, scuotendo il capo, e lo avvolse istantaneamente in uno di quegli abbracci così tipici di lui – che era robusto e altissimo e forte – che Matthew avrebbe preferito chiamare “casa” loro, piuttosto che l’ammasso di mattoni in disgregazione in cui ricordava di aver trascorso i pomeriggi più orrendi della propria adolescenza.
- Scricciolo… - borbottò suo fratello, scrollandolo rude un po’ qua e un po’ là, - Non ti aspettavamo.
- Sì, lo so. – mugugnò lui, separandosi a malincuore dal corpo caldo dell’uomo.

Dannazione. Dannazione pure ai ventiquattro anni suonati che non mi permettono di pretendere qualche coccola in più.
Mi sento stupido perfino a pensarle, certe cose.
Coccole.
Eppure ne vorrei un po’. Davvero.


- Non hai scelto un buon momento, sai? – continuò suo fratello, impossessandosi della valigia e facendogli strada in casa, - Cristo, sei magrissimo! Ma ti danno da mangiare?
- Ero così pure l’ultima volta che mi hai visto… - si lamentò lui, stringendosi ancora nelle spalle, - E comunque che vuol dire che non ho scelto un buon momento? È un modo carino per farmi sapere che sono diventato indesiderato in questa famiglia?
Paul lo fissò offeso, dandogli uno scappellotto sulla fronte.
- Bestia che non sei altro. – sbottò, - Sei sempre il benvenuto, lo sai. Solo che in questi ultimi giorni c’è stato… un piccolo imprevisto.
- Insomma, la pianti o no di fare il misterioso? – mugolò lui, lasciandosi andare con un tonfo irritato sul divano del piccolo salottino di casa, mentre Paul abbandonava la valigia in corridoio ed andava a sedersi sulla poltrona di fronte a lui.
- Non sto facendo il misterioso. – rispose Paul, con un sorriso stanco, - E comunque faresti meglio ad alzarti dal letto di papà. Non sono sicuro di che parassiti possano essere arrivati con lui dall’Australia, e preferirei non provarli sulla tua pelle.
- …come fai a dire di non stare facendo il misterioso?! Non capisco un accidenti di ciò che stai dicendo! E comunque…

…che c’entra papà…?

Il suo silenzio improvviso diede a Paul un po’ di tempo per sospirare e stirarsi meglio sulla poltrona rovinata.
- Dai. Sveglia.
- …Paul…
- Mary si è laureata.
Mary Bellamy.
Mary Bellamy era la prima figlia che suo padre aveva avuto con l’altra. L’altra non era sua madre. L’altra era una donna che lui aveva visto pochissime volte in tutta la sua vita. L’altra si chiamava Vanessa ed era tutto ciò che gli interessava sapere di lei – era, anzi, fin troppo.
Mary Bellamy era l’unica figlia femmina di suo padre. Mary Bellamy era una dei figli privilegiati: suo padre stravedeva per lei, proprio in quanto figlia unica. George Bellamy stravedeva anche per Paul: il primogenito è sempre il migliore, agli occhi di un padre. E George Bellamy stravedeva anche per Marty, l’ultimogenito. Anche lui, l’aveva avuto con l’altra. Ed era proprio piccolo piccolo, l’ultima volta che Matt l’aveva visto. Doveva avere sei o sette anni, allora. Adesso, probabilmente, era un allegro adolescente australiano.
In realtà, tutti i figli di George Bellamy avevano degli ottimi motivi per considerarsi dei privilegiati.

Tutti tranne me.
Che non sono proprio niente.
Il terzo. Che razza di posizione è “terzo”? Pure negli sport, chi prende il bronzo non è altro che uno sfigato.
E dire che io sono ricco e famoso e le masse mi adorano e…


- A Yale. – continuò suo fratello, ignorando di proposito il suo disagio, - Proprio oggi c’era la cerimonia di consegna. Insomma, papà voleva essere presente, perciò è venuto a stare qui per un po’, piuttosto che andare in albergo. E mamma è andata con lui.
Matthew deglutì prepotentemente – no, non si sarebbe fatto sconfiggere da quella gola traditrice, che decideva di chiudersi, abbandonandolo proprio adesso che aveva più bisogno d’aria in assoluto – e strinse con forza le mani attorno al tessuto sdrucito dei cuscini del divano, prima di separarsene con uno scatto isterico ed alzarsi in piedi.
- Sì. – annuì incerto, fissando il vuoto davanti a sé, - Ho scelto proprio un brutto momento.
Paul scrollò le spalle.
- Be’, camera tua è libera e pulita, come al solito. Perciò, se sei venuto per stare qui qualche giorno, si può fare.
La verità era che avrebbe preferito di gran lunga prendere e tornarsene a Londra. Come non fosse mai arrivato. Ma il solo pensiero di andarsi a rinchiudere nell’enorme appartamento vuoto che condivideva con Dom, Chris e Tom gli dava i brividi, soprattutto se sommato al fatto che l’afa tipica degli agosti della capitale in genere impediva qualsiasi movimento pure ai lombrichi, figurarsi lui, che era ancora più pigro di un lombrico, quando si metteva in vacanza.
Insomma, piuttosto che tornare indietro e morire di solitudine…

…piuttosto cosa? Preferisco morire qui?
Dio.
Non ho mai voluto morire qui.


- …ok, d’accordo, ho capito. Recupero la valigia e ti riaccompagno in stazione. – biascicò suo fratello, visibilmente deluso, alzandosi stancamente dalla poltrona.
- …no, dai. – lo fermò lui. Quel tono rassegnato gli era bastato, per decidere. – Resto. – cercò di sforzarsi di sorridere sinceramente. Avrebbe dovuto immaginare che non sarebbe stato facile già dall’evidenza che la parola “sforzarsi” implicava una bugia. – È tutto a posto, tranquillo.
Paul si lasciò prendere in giro e lo strinse ruvidamente a sé ancora una volta, prima di cominciare letteralmente a trainare lui e la valigia al piano di sopra, verso la sua vecchia stanza.
Quella camera, in effetti, con gli anni era rimasta del tutto identica. Sua madre ne aveva un rispetto quasi sacrale – probabilmente perché le ricordava di un periodo sbiaditissimo nel tempo, in cui ancora capiva cosa passasse per la testa del proprio secondogenito e poteva perfino azzardare previsioni sulle sue decisioni future senza rischiare di sbagliarsi grossolanamente – e questo la portava a cercare di preservare tutto esattamente com’era rimasto nel giorno in cui Matthew – aveva poco più di sedici anni, allora – aveva sceso le scale trascinandosi dietro l’enorme valigia riempita di tutte le sue cose ed aveva annunciato che lui era pronto, perciò Paul poteva accompagnarlo in stazione.

Il primo treno della mia vita. Sedici anni, e quella valigia era piena più di speranze che di vestiti.
Esattamente il contrario rispetto ad adesso. Il mio bagaglio è pieno di stracci, ma la speranza l’ho perduta da qualche parte fra Londra e questo buco di merda.


Comunque, tornare in quella stanza era un po’ come tuffarsi nella parte migliore della propria adolescenza. Appesi alle pareti c’erano ancora i due poster dei Dream Theater che aveva comprato ad ognuno dei due concerti in cui era andato, il poster dei Metallica che aveva rubato impunemente a Jake al terzo anno delle medie e la sciarpa del Manchester United che s’era fatto comprare da Paul il giorno che, per andare allo stadio, aveva speso tutti i propri soldi e non gli era rimasto nulla neanche per una bandiera da sventolare mentre faceva il tifo.
Erano tutte cose che, da ragazzino, aveva amato con la passione di un devoto. Erano splendidi obiettivi irraggiungibili. Adesso l’autografo che aveva preteso da Heatfield in occasione del primo festival durante il quale s’erano ritrovati a condividere il palco suonava quasi una banalità, dal momento che continuava ad incontrarlo ovunque; avrebbe incontrato i Dream Theater al completo non appena fosse tornato a Londra – Petrucci, a quanto pareva era già lì: con un piede sull’acceleratore e un berrettino sulla testa, tanta era la voglia d’incontrarlo – e le partite del Manchester allo stadio erano diventate la normalità, quando non era in giro per lavoro.
- Sei stanco? – chiese suo fratello, sollevando di peso la valigia sulla scrivania, - Se vuoi puoi riposare un po’. Prima però togli dalla valigia qualsiasi oggetto strano o equivoco possa esserci. Sai che a mamma piace sistemarti la roba nell’armadio. Non voglio scene isteriche come l’anno scorso.
Scosse il capo con aria trasognata, lasciando scorrere le dita sul piumone celeste fresco di bucato che copriva il letto.
- Non ho portato niente di strano… - sussurrò assente, abbassando lo sguardo.
Paul sorrise.
- Starai mica mettendo la testa a posto? – lo prese in giro, - Guarda che non sono d’accordo. Ci tengo a mantenere il mio ruolo di figlio normale, io.
Matthew sorrise e Paul lo salutò brevemente, lasciandolo solo.
Si lasciò trascinare in un sonno leggero ed agitatissimo per le successive due ore circa. Continuò a rigirarsi nel letto in preda ad angosce di ogni tipo che non riuscivano però ad assumere una forma fisica tanto definita da permettergli di individuare il proprio nemico, fino a quando il cervello, esausto, non si arrese alle lusinghe di un sonno più profondo e desolatamente vuoto.
Quando si risvegliò, aveva del tutto perso il senso del tempo. Le tende in camera sua erano sempre state molto pesanti – in quel quartiere le case erano vicinissime, e sua madre era ossessionata dalla possibilità che i vicini si mettessero a spiare attraverso le tende troppo leggere, perciò aveva drappeggiato tutta casa con dei pesanti teli in spesso cotone dalla fibra grossolana, dei colori più impensabili. Le sue erano rosse. Un rosso talmente scuro da ricordare il colore del sangue. Contrastavano in maniera intrigante col chiarore azzurrino dell’intonaco sulle pareti, e col biancore immacolato dei pochi mobili dalle linee semplicissime che arredavano la stanza – il letto, la scrivania, un piccolo armadio ed una cassapanca da sempre sigillata della quale non aveva mai compreso l’utilità.
Quello era stato il suo mondo per una quantità d’anni che, a ripensarci, sembrava brevissima, ma nel momento in cui l’aveva vissuta era stata talmente lunga da dargli l’impressione non si sarebbe mai conclusa. Allora, il suo era un regno rosso e azzurro. Un regno in cui la luce del sole non riusciva a passare neanche al mattino, perché restava imprigionata nei nodi del tessuto della tenda, tingendola di rosso vivo. Ed anche quando riusciva a filtrare, almeno in parte, andava a scontrarsi contro le pareti e diventava solo un pallido riverbero celeste, più simile alla luce lunare che non a quella del giorno.
Aveva sempre adorato i colori di quella stanza. Forse per questo si sentiva tanto al sicuro fra quelle coperte.
Si voltò supino, decidendosi finalmente ad aprire gli occhi per cercare di capire che ore fossero. Quella lieve giravolta gli diede un sottile capogiro. Portò una mano a massaggiare la fronte e si rese conto che, in quel preciso istante, non avrebbe saputo dire neanche quanti anni avesse.
Sua madre lo guardava dolcemente dall’alto, seduta su una sponda del letto, esattamente come quando si costringeva a svegliarlo il sabato mattina verso le dieci e mezza, perché “non puoi mica dormire per sempre, anche se non hai da andare a scuola, piccolo”.
- La spazzatura l’ha portata fuori Paul ieri sera… - borbottò incerto, la voce ancora impastata dal sonno.

Ma che diavolo sto dicendo?
Che c’entra Paul, e che c’entra la spazzatura?
…che anno è? Dove sono?


Sua madre sorrise bonaria, nascondendo le labbra dietro una mano mentre sollevava l’altra in una carezza distratta lungo il profilo ossuto del suo viso.
- Ti vedo un po’ sciupato, Matty…
Lui la fissò con attenzione, mentre si sollevava pigramente a sedere. Nella penombra che invadeva la camera, sua madre non sembrava cambiata, rispetto all’anno precedente. In realtà, però, sapeva che, non appena la luce si fosse accesa, sarebbe stato inevitabile notare una nuova ruga d’espressione agli angoli della bocca o nel mezzo della fronte. Erano normali segni del tempo, ma non riusciva ad accettarli come tali. Gli sembravano solo inutili punizioni per chissà che crimine. I segni del tempo lo infastidivano.
- Sto bene… - si forzò a rispondere, scuotendo brevemente il capo, - Tu?
Marylin si strinse nelle spalle.
- Faccio del mio meglio per mandare avanti la casa. – rispose a bassa voce, - Tuo fratello mi dà una mano come può, ma come vedi l’edificio non fa che invecchiare… come tutto, più o meno.
Matthew si morse un labbro, aggrottando le sopracciglia.
- Questa stanza non cambia mai. – le fece notare, sostenendosi contro il materasso con le mani.
- Questa stanza è tutto quello che mi resta del mio bambino. – rispose lei, accarezzandolo ancora una volta dalla fronte al mento. – Ti ho disfatto la valigia. Ho messo tutto a posto nell’armadio. Hai portato tante cose…
- Sì, perché… - deglutì, - Abbiamo un po’ di tempo libero. Un bel po’. Il tour è finito e non abbiamo esattamente intenzione di infilarci immediatamente in studio, perciò… - si strinse nelle spalle, - pensavamo di restare per qualche settimana, ecco. Siamo qui tutti insieme.
- Oh! – il viso di sua madre si illuminò all’improvviso, mentre sulle sue labbra si apriva un sorriso tenero, - Anche Dom e Chris sono qui! – gioì allegramente.
Matthew non poté che rispondere a quella gioia con un altro sorriso, sistemando il cuscino dietro la schiena ed appoggiandosi contro la parete.
- Mi fa piacere. – concluse sua madre, ravviandogli indietro i capelli senza commentarne il colore, - Comunque dovresti scendere di sotto. – aggiunse poi, cautamente, - La cena è pronta.
Matt si lasciò andare ad un sorriso di scherno che aveva poco di crudele e fin troppo di nostalgico.
- Roast-beef e puré di patate in polvere, come al solito? – chiese ironico, inclinando lievemente il capo.
Sua madre non raccolse la provocazione. Evidentemente, non c’era proprio niente da ridere.
- Ha cucinato tuo padre. – sussurrò lentamente, quasi si sentisse colpevole. – Mi dispiace, Matt, non avevo idea che-
- Fa niente. – la interruppe lui, abbassando lo sguardo, - Immagino di essere comunque io in difetto.
- No. – corresse lei, fissandolo dritto negli occhi e trattenendolo lievemente per il mento, per impedire che lui distogliesse lo sguardo, - Anche se lo fossi in questa occasione, tuo padre ha raccolto talmente tanti torti nei vostri confronti, durante tutta la sua vita, che ne ha da compensare finché campa.
*
Aveva un ricordo molto preciso di suo padre, per due motivi diversi. Il primo era che, comunque, nonostante lui fosse andato via quando Matthew era ancora un bambino, tredici anni di vita non si possono cancellare. In tredici anni di vita hai tutto il tempo per imprimere nella memoria un’immagine più che precisa di tuo padre, anche se non lo vedi così spesso a causa del suo lavoro.
Il secondo motivo era invece di tipo più fisico ed immediato. Quando suo padre era andato via, Matthew l’aveva visto. Paul era andato a scuola, quel giorno, ma lui no. S’era sentito male. Era rimasto rintanato in camera, sotto le coperte, dimenticandosi perfino di avvertire, tant’è che i suoi genitori dovevano essersi convinti che fosse uscito presto, assieme a Paul, quando loro ancora dormivano. Era per quel motivo, probabilmente, che non ponevano freni al baccano che stavano facendo giù al piano di sotto. Si sentiva sua madre strillare attraverso il pavimento, e la voce bassa e grave di suo padre scuoteva l’edificio dalle fondamenta, come un terremoto.
Nonostante si sentisse debole e febbricitante, s’era alzato ed aveva arrancato lungo il corridoio, fino alle scale, e lì s’era fermato, aggrappandosi esausto al corrimano, ed aveva abbassato lo sguardo a spiare cosa stesse accadendo di sotto.
Proprio in quell’istante, suo padre era uscito dalla camera da letto e s’era diretto verso la porta, trascinandosi dietro la valigia. Non avrebbe mai dimenticato le spalle e la schiena sottili scosse da tremiti di rabbia, la mano stretta attorno al manico del bagaglio tanto violentemente da rendere le dita bianche come quelle di un morto ed i capelli, usualmente tenuti a posto da una quantità indecente di gel, scarmigliati e scomposti sul capo.
Non era riuscito a vederlo in faccia.
Ed aveva pure da ringraziare, per questo, perché era sempre stato convinto che, quel giorno, il volto di suo padre dovesse somigliare tragicamente a quello di un demonio.
Non l’avrebbe più dimenticato.
Per questo trovava quantomeno strana la figura che gli stazionava di fronte in cucina, quella sera, e che davvero era quanto di più dissimile al ricordo di suo padre avesse mai visto in tutta la sua esistenza. Quell’uomo tarchiatello, robusto, dalle spalle ampie e forti e dalle braccia muscolose, non assomigliava affatto a suo padre. Non poteva essere lui.
- …alla fine, sei proprio diventato un cantante.
Furono quelle le sue prime parole.
- Proprio quello che temevo.
Matt si morse le labbra a sangue.
- Ciao, papà.
*
Non era arrabbiato.
Gli sarebbe piaciuto poter dire di esserlo ed esserlo davvero, perché almeno sarebbe stato un sentimento chiaro cui aggrapparsi. Qualcosa di netto, di inequivocabile e, soprattutto, di abbastanza giustificato da non dare modo a nessuno di chiedergliene il motivo.
Invece si sentiva solo incredibilmente confuso.
Paul e suo padre parlavano tranquillamente della cerimonia di laurea di Mary, seduti l’uno di fronte all’altro sui due lati opposti del tavolo, e lui invece non riusciva a staccare gli occhi dal viso di sua madre, cupo e spento, che fissava intensamente il proprio piatto di pastasciutta come se la colpa della quale si sentiva responsabile fosse davvero troppo grande per pensare di sostenerla sulle spalle tese.
Il disagio di sua madre strideva fastidiosamente col tono rilassato e colloquiale della fitta conversazione di suo padre e suo fratello. Strideva al punto che, per un secondo, si sentì perfettamente in grado di odiare entrambi con la stessa intensità, perché era evidente Paul stesse tradendo anni ed anni di confessioni reciproche di disagio in favore di una tranquillità solo apparente e priva di sostanza.
Ricordava perfettamente le decine – centinaia – di volte in cui aveva fatto irruzione in camera di suo fratello, stringendo tra le mani qualcosa che era appartenuta a suo padre, che lui non aveva portato con sé e che sua madre non si decideva a gettare via. Non aveva neanche bisogno di parlare: Paul faceva una smorfia, si alzava in piedi – qualunque cosa stesse facendo – e borbottava “che ci fa questa spazzatura ancora qui?”, per poi coinvolgerlo in spericolati giochi pomeridiani in cui veniva scelto e portato a compimento il destino dell’oggetto – giù per lo scarico, sepolto nel letame di vacca delle fattorie appena fuori il circuito urbano, messo al rogo in giardino e così via.
Paul era entusiasta e triste e sollevato quanto lui, quando facevano cose simili.

E adesso gli parli come fosse tutto a posto. Come non avessi nulla da rimproverargli. Come fosse sempre stato un padre modello. Perché lo fai? Come diavolo ci riesci?

- Gli Stati Uniti d’America sono un bel posto, comunque. Penso che ti divertirai.
Sollevò lo sguardo dalla pasta che aveva a malapena toccato, posandolo su suo padre. Lui lo fissava a propria volta, sorridendo incerto.
- …come…? – biascicò, agitato. Non aveva la più pallida idea di quale fosse l’argomento di conversazione.
- Tuo fratello mi stava dicendo – gli spiegò lui, paziente, - che pensate di andare a Los Angeles per registrare il prossimo album.
- Oh, sì… - annuì lentamente. Ricordava di aver detto qualcosa di simile a Paul, nel delirio d’agitazione euforica che l’aveva colto quando Tom aveva ventilato l’idea, qualche settimana prima. – In realtà però stiamo aspettando di avere un po’ di materiale, prima di rimetterci a lavorare seriamente.
- Ma come? – inquisì suo fratello, stupito, - Mi avevi detto di aver scritto un sacco, in tour…
- Sì, ma…

Come dire? Non è niente di particolarmente convincente? Non sono dello stato d’animo adatto per produrre i deliri psichedelici che ho scritto mentre ero in viaggio in tutti i sensi? Sinceramente, al momento, preferirei attaccarmi al repertorio dei Cure come non faccio da quando avevo quindici anni, per lasciarmi morire in un letto di depressione?

- …posso scrivere di meglio. – concluse stringendosi nelle spalle.
Paul abbassò lo sguardo e mandò giù una forchettata di spaghetti, senza indagare oltre. Sua madre non aveva ancora detto niente.
Suo padre non mostrò segno di aver capito alcunché. Né di avere intuito il suo turbamento.
In effetti, non c’era poi molto da intuire.
Finirono di mangiare in perfetto silenzio. Sua madre sparecchiò mentre erano ancora seduti a tavola, e quello fu il segno che indicò a tutti fosse arrivato il momento di alzarsi e ritirarsi nelle proprie stanze. Che poi era esattamente ciò che aveva intenzione di fare Matthew stesso, indipendentemente da quale destino avrebbero scelto gli altri membri di quell’assurda famiglia improvvisata che si ritrovava.
Suo padre rimase in cucina ad aiutare sua madre, e Paul lo seguì in corridoio fino alla rampa di scale.
- Matt… - lo richiamò, mettendogli una mano sulla spalla, - Vuoi che salga su a farti un po’ di compagnia? Magari ti va di uscire?
Ridacchiò fra sé, scuotendo il capo.
- Per andare dove? – chiese ironico, - Cos’è, Teignmouth è improvvisamente diventata il paradiso inglese della movida, nell’anno in cui sono stato via?
Paul aggrottò le sopracciglia, infastidito.
- Be’, no. – borbottò, - Però magari potresti apprezzare le buone intenzioni.
- Ma le apprezzo. – sorrise lui, - Sono solo stanco. Usciremo domani sera.
- …e le buone intenzioni di papà? – chiese suo fratello a bruciapelo, senza guardarlo negli occhi.
Matthew ebbe un sussulto.
- Quali buone intenzioni? – sibilò ansioso.
- Ecco… - Paul si strinse nelle spalle, - Non sapeva che saresti venuto anche tu, ma indubbiamente venire a stare qui per un po’ è stato un passo avanti per cercare di ritornare non dico ad essere una famiglia unita, ma quanto meno a coesistere nello stesso universo senza sentire il profondo desiderio di sbranarci a vicenda…
- Tentativo un po’ tardivo. – rise amaramente lui, - Strano che gli sia venuto in mente proprio adesso, no? Adesso che i Muse stanno cominciando ad avere il successo che meritano, intendo…
- Ma non c’entra niente! – sbottò Paul, spalancando gli occhi, - Ti ho detto che è venuto per la laurea di Mary!
- Certo. – digrignò i denti, - Per quelli smuoverebbe i mari e i monti. Ed anche per te, ovvio. È venuto anche per la tua, di laurea.
- Se ti fossi laureato anche tu-
- L’equivalente della mia laurea avrebbe potuto essere il fottuto Leeds due anni fa! – precisò Matt, stringendo i pugni e smettendo di preoccuparsi per il tono della sua voce. – E invece no, tutto quello che ho ricevuto è stata una telefonata, e vuoi sapere cosa mi disse in quell’occasione? “Goditela finché dura e scopa”! Godermela e scopare, i suoi migliori auguri! Non un complimento, non un parere sulla mia musica, se n’è sempre fottuto alla grande, ed io adesso dovrei apprezzare le sue buone intenzioni?! Col cazzo!
Si voltò e risalì le scale a passo di carica, notando solo con la coda dell’occhio sua madre e suo padre affacciarsi dalla porta della cucina ed affiancarsi a suo fratello per fissarlo allucinati come fosse stato completamente folle.
Ed i folli erano loro, invece.

Fate passare me per pazzo, ma io so esattamente cos’è successo negli ultimi dieci anni. So perfettamente cos’è successo, perché il peso di quello che ho provato me lo porto ancora addosso.
Siete voi gli ipocriti, siete voi gli stronzi, siete voi che non avete capito un cazzo.


Decisamente tornare era stato un errore.
*
Ovviamente non era riuscito a dormire. I pochi ma intensi anni che aveva dedicato alla sperimentazione coatta di qualsiasi tipo di droga uscisse sul mercato – ma ricordati di non parlare mai di cocaina ed eroina, Matthew, va tutto bene fino a quando non si sniffa e non ci si buca – l’avevano convinto, per un certo periodo, di poter esercitare un controllo pressoché assoluto sulle proprie funzioni corporee. Quando prendeva qualcosa, gli bastava pensare intensamente “ho un mucchio di cose da fare, non posso assolutamente dormire!” per tornare in meno di un secondo vispo e sveglio come un grillo. Allo stesso modo, gli bastava pensare “bene, adesso voglio sognare un po’” per cadere in uno stato di sonno profondissimo dal quale, in genere, non riusciva a svegliarlo nessuno – almeno fino a quando non era lui stesso a decidere fosse arrivato il momento.
Aveva cercato di riprendere quel tipo di ritmo. Era dal Giappone non toccasse più alcuna sostanza stupefacente, perciò era ragionevolmente sicuro di non conservarne tracce nel sangue. Ciononostante, aveva davvero bisogno di annullarsi, almeno per il resto di quella notte.
Non c’era riuscito.
Alle due del mattino, sfiancato ed irritato, s’era rassegnato ad una notte insonne ed era uscito dalla stanza, dirigendosi al piano di sotto. L’intera casa era avvolta in una pesantissima cappa di silenzio. Riusciva a sentire il familiare russare di Paul solo se accostava l’orecchio alla porta della sua camera, e l’unico altro suono che, in qualche modo, riusciva a spezzare l’aria quieta dell’appartamento, era il respiro pesante e sommesso di suo padre, dal salotto.
Si diresse cautamente in cucina. Preparò un celere spuntino di mezzanotte – latte e cioccolato. In genere lo aiutava a dormire – e si piazzò davanti al piccolo televisore con antennina incorporata vecchio di millenni, che sua madre non riusciva proprio a buttare via.
Vagò brevemente fra i pochi canali che l’antenna riusciva a captare, prima di rendersi conto che a quell’ora non avrebbe trovato niente di interessante e perciò, a meno che non intendesse farsi beccare da qualcuno mentre fissava con aria incuriosita un porno soft da canale regionale, avrebbe fatto meglio a lasciare perdere.
Sintonizzò l’apparecchio su un canale che l’antenna non riusciva a captare, e rimase fermo a sorseggiare il latte, in ammirata contemplazione delle striscioline nere, grigie e bianche che invadevano confusamente lo schermo, perdendosi nello scratch fastidioso e straniante che veniva fuori dalle casse poste ai lati dell’apparecchio.
- Che stai facendo?
La voce di suo padre risuonò prepotente nell’ambiente isolato della cucina, infastidendolo. Si lasciò andare ad una smorfia e non si voltò a guardarlo, stendendosi più comodamente sulla sedia. Probabilmente era davvero troppo magro: a volte stare seduto sulle cose dure gli faceva dolere spaventosamente le gambe.
- Fisso l’origine dell’universo. – rispose seccamente, senza staccare gli occhi dallo schermo della tv.
Poté sentire sulla schiena l’occhiata perplessa di suo padre. Una sensazione fisica almeno quanto quella delle sue parole, poco più tardi.
- …è solo la televisione. – gli fece notare l’uomo, piuttosto confusamente.
Si lasciò andare ad un sospiro di compatimento.
- Quando non sono sintonizzate su nessuna stazione particolare, le antenne catturano anche una piccola percentuale di radiazione cosmica di fondo.
- …sarebbe?
- L’eco del big-bang. Una traccia di microonde che è tutto ciò che sia rimasto dell’esplosione che ha creato l’universo. È solo una minuscola quantità, ma-
- Minuscola quanto?
- …direi… il cinque per cento. Più o meno.
Suo padre si lasciò andare ad una mezza risatina, trascinando una sedia al suo fianco ed accomodandosi a propria volta di fronte alla televisione.
- Sei davvero cambiato, sai?
Matthew girò lo sguardo su di lui, fissandolo glaciale.
- Ma va’? Ricordi?, avevo tredici anni quando sei andato via.
- Allora non ti interessavi dello spazio… - continuò George, come se neanche l’avesse sentito, - Ti piacevano i cowboy ed i vecchi film con John Wayne…
Matthew sospirò, rotando lo sguardo.
- Ti prego. – sbottò lamentoso, - Quello era Paul. A dieci anni io volevo già fare l’astronauta.
L’uomo abbassò lo sguardo, colpevole.
- È vero… - mormorò, come stesse effettivamente rendendosene conto solo in quel momento, - Ed io ne ero pure felice, perché quantomeno se avessi fatto l’astronauta non saresti diventato un cantante.
Matthew ghignò e sbuffò una risata infastidita, distogliendo lo sguardo.
- E invece, guarda un po’.
George annuì e raccolse le mani in grembo.
- A te, comunque, pare stia andando meglio di come sia andata a me.

Ma tu, dannazione a te, sei andato in tour coi Beatles, cazzo. Fino alla fottuta Australia che è stato l’inizio di tutti i nostri guai.
Non è stata neanche colpa della tua incompetenza, se sei rimasto povero in canna. Avevi tutte le carte in regola per restare negli annali della storia della musica. Avevi fra le mani il primo singolo inglese avesse mai debuttato nelle classifiche americane al primo posto, Dio, sarebbe bastato solo perseverare un po’ e non dividerti fra due famiglie simultanee nelle due parti opposte del globo, e forse…


Scosse il capo.
- Be’, se permetti, questo era scontato!
- Sì. – rise lui, scuotendo il capo, - In effetti hai sempre avuto un talento straordinario. È incredibile la quantità di cose che hai imparato a fare tutto da solo.
Matthew pensò distrattamente che c’erano anche un sacco di cose che avrebbe decisamente preferito gli fossero insegnate, come per tutti i ragazzi normali. Andare in bicicletta, giocare a calcio, radersi. Le prime due non le aveva imparate affatto, tant’è che dalle bici cadeva sempre ed a giocare a calcio era una schiappa. Alla terza aveva dovuto pensare il padre di Dom, che, quando suo figlio aveva cominciato a dire di “voler portare la barba come Matt”, era corso ai ripari, indagando sulle sue intenzioni e scoprendo che lui non è che gradisse particolarmente quell’improvviso fiorire di peli molesti sulla sua faccia, semplicemente non aveva la più pallida idea di come prendere un rasoio in mano senza sfregiarsi, e non poteva certo chiedere aiuto a Paul, che in quel momento stava cercando disperatamente di accedere al Trinity College di Birmingham e quel benedetto rasoio avrebbe decisamente preferito usarlo per sgozzarsi piuttosto che per aiutare il proprio fratellino preadolescente a rendersi quantomeno guardabile.
- Comunque sono contento. – lo sentì aggiungere, quasi trasognato, - Scommetto che non ti sarebbe piaciuto granché ereditare la mia ditta.
Matt gli spostò addosso un’occhiata allucinata.
- …diciamo che non avrei accettato di farmene carico neanche se fossi stata l’ultima persona al mondo che potesse. È più corretto.
George sorrise ancora, più amaramente.
- In effetti è proprio così. Paul ha la sua vita qui, Mary ha altre ambizioni e Marty… - sospirò incerto, - Be’, Marty probabilmente non crescerà mai. Dovresti vederlo, va in giro vantandosi di essere un Bellamy… il fratello del cantante dei Muse… e tutti i suoi amici lo idolatrano…
Avrebbe voluto strillare che quello non era davvero suo fratello, ma sembrò troppo cattivo perfino a lui stesso, perciò si trattenne.
- E quindi che intendi fare?
George scrollò le spalle.
- Lascerò la ditta ad uno dei miei impiegati di fiducia. Ma sono comunque ancora troppo giovane per andare in pensione! – rise poi, stringendosi nelle spalle, - Quando accadrà, probabilmente mi ritirerò da qualche parte ad allevare vombati…
- …voche?
- Vombati. – rise George, divertito, - Enormi roditori carnivori tipici dell’Australia. Scommetto che ti piacerebbero.
Matthew scosse le spalle.
- Non li ho mai sentiti nominare.
Si sollevò dalla sedia e si sporse verso il televisore, spegnendolo dall’enorme pulsante rosso appena sotto lo schermo, e poi si diresse con noncuranza verso il corridoio, richiamando alla mente una memoria bambina di passeggiate notturne su quello stesso percorso, alla ricerca di qualche merendina da rubare in credenza e trangugiare in fretta e furia di fronte a un libro di Poe trafugato in libreria e letto sotto le coperte alla luce di una torcia elettrica.
- Matthew. – lo chiamò atono suo padre.
E istintivamente lui seppe che il momento che aveva sempre voluto evitare, e per il quale era scappato di fronte a qualsiasi possibilità di incontrare suo padre, in tutti quegli anni, era finalmente arrivato.
- Mi dispiace di essere andato via.
Matthew si bloccò sulla porta e strinse i denti.
- Non dirlo nemmeno per scherzo. – sibilò.
- Non sto scherzando… - si giustificò suo padre, a bassa voce.
- Be’, dovresti, cazzo! – ringhiò lui, voltandosi repentinamente, - Non ti è dispiaciuto, vent’anni fa, tenere il piede in due scarpe! Quindi vaffanculo, se speri che mi beva le tue scuse adesso, hai sbagliato persona!
- …gli esseri umani possono anche cambiare, Matt. – sussurrò suo padre, la voce rotta, - E pentirsi.
Matthew grugnì rabbioso e gli tornò davanti, fronteggiandolo a muso duro.
- Certo che possono. Ma aspettarsi un perdono a tutti i costi è da stronzi egoisti. – poi ghignò, allontanandosi di qualche passo. – In fondo, cos’altro avrei dovuto aspettarmi da te? – domandò retorico, prima di ripartire a passo di carica verso camera propria.

E Dio.
Guardami.
Siamo così uguali che mi faccio schifo da solo.
Sei sempre stato piuttosto impietoso ed assoluto tu, eh? Volevi delle cose e te le sei prese. Tutto ciò che desideravi, l’hai avuto.
Ed io, in fondo, sono così diverso?
Volevo la mia vendetta. Pare proprio che me la stia guadagnando.

*
You’re so happy now… burning a candle on both ends…
Your self-loving soothes… and softens the blows you’ve invented…


Dischiuse gli occhi nell’oscurità tipica della propria camera e l’unica cosa che pensò fu che quei versi non erano poi tanto male. Sarebbe probabilmente finita come con Escape, che non aveva ancora mai avuto il coraggio di cantare dal vivo, ma probabilmente sarebbe riuscito a tirarne fuori qualcosa di buono. Magari avrebbe potuto proporla per il nuovo album. Alla faccia di Dom che era convinto che dai periodi di riposo non venisse mai fuori niente di buono.
Suo fratello fece irruzione nella stanza senza bussare, agitato come se lo stessero inseguendo con un cannone carico.
- Matt! – strillò, varcando la soglia e richiudendosi la porta alle spalle con uno scatto secco, - Dio mio! – borbottò quindi, saltando a piè pari sul suo letto e sedendosi ai piedi del materasso a gambe incrociate.
Matthew, vagamente interdetto, lo fissò da sotto le coperte, spalancando gli occhi.
- Paul! – strillò quindi a propria volta, scattando a sedere, - Che diavolo ti sei messo in testa?! Ma sei mai cresciuto?!
- Senti chi parla! – lo rimbrottò suo fratello, afferrandolo per i capelli e strattonandolo rudemente verso di sé, per fissarlo negli occhi, - Che diavolo hai combinato stanotte?!
- …eh? – balbettò lui, incerto, tirandosi lievemente indietro.
- Eh. – sbottò Paul, lasciandolo andare, - Ieri sera ho lasciato papà tranquillo pronto a sprofondare nei propri universi onirici fatti solo di allevamenti di strani animali australiani, e stamattina lo ritrovo sulla soglia di casa con la valigia pronta per andare in albergo, chissà dove, poi, visto che qui notoriamente alberghi non ne esistono… cos’è, stai cercando di farlo scappare di nuovo?
Matthew smise di respirare con un singhiozzo strozzato, ed afferrò violentemente le coperte, inarcando le sopracciglia.
- …cioè. Non volevo insinuare che la prima volta fosse andato via a causa tua. – riparò suo fratello, mettendo le mani avanti, - Via, Matt, sai cosa intendevo.
- Non ho fatto niente! – ansimò lui, ancora turbato dalle sue parole, - Ha fatto tutto da solo!
- Ah-ha! – lo indicò Paul, come avesse appena verbalizzato la formula della quadratura del cerchio, - Allora è successo qualcosa!
Matt si strinse nelle spalle, sentendosi sotto attacco.
- Si è… messo a dire cose… - cercò di spiegarsi.
- Cose? – inquisì Paul, sollevando un sopracciglio curioso.
- Cose! – ribadì lui, palesemente infastidito, - Che gli dispiaceva, che non avrebbe voluto farci del male, cose così!
Suo fratello prese atto, annuendo pensoso.
- Quindi s’è scusato anche con te. Solo che a quanto pare tu non hai ritenuto opportuno reagire da persona assennata come me e mamma, chinando il capo e mettendoci una pietra sopra, e ti sei messo a litigare. – suo fratello lo squadrò con manifesta pietà, - Tipico.
- Piantala. – ringhiò Matt, sentendo montare la rabbia, - Fare le brave pecorelle remissive sarebbe agire da persone assennate?!
- Pecorelle remissive! – rise Paul, spintonandolo poco delicatamente verso il cuscino, - Hai una visione del mondo che s’è fermata all’adolescenza! Matthew, probabilmente non te ne sei accorto, ma nostro padre è invecchiato parecchio, e la vita familiare l’ha anche costretto a maturare considerevolmente…
- È maturato con la famiglia sbagliata. – ritorse lui, acido.
- Ah, sì? – chiese Paul, ghignando ironico e cattivo, - Ed è per questo che noi siamo stati abbandonati ed invece con loro sta da più di quindici anni?
- …questo è un colpo basso. – deglutì Matthew, stringendo la presa attorno al lenzuolo fino a sentire le dita perdere sensibilità, - E tu sei uno stronzo!
- Sto solo cercando – spiegò Paul, incrociando le braccia sul petto, - di costringere questo tuo cervellino bacato a lavorare come un cervello normale. Matthew, ognuno ha la vita che si sceglie. Lui avrebbe potuto restare per tenere fede ad un patto che non sentiva più di condividere, e rendere le nostre vite un inferno, tra litigi, incomprensioni e tradimenti. Non se l’è sentita di fare questa scelta.
- Adesso non farlo passare per un fottuto filantropo. – sibilò lui, - Ha solo inseguito la propria felicità, da egoista qual è!
- Non ho mica detto che il suo obiettivo primario fosse la nostra, di felicità. – precisò Paul, stringendosi nelle spalle, - Ho solo detto che la conseguenza del suo rimanere qui sarebbe stata causare a questa famiglia un disastro emotivo di molto superiore a quello che è stata costretta a subire.
- Senti, parla per il tuo disastro emotivo. – sbottò Matt, furioso, - Perché delle proporzioni del mio, a quanto pare, non hai la più pallida idea.
- Certamente. – cinguettò ironico Paul, in una moina che era una presa in giro pure piuttosto pesante, - Matty è stato quello che ha sofferto più di tutti. Quello che è stato peggio. Quello che ha subito le conseguenze peggiori. Non sai quante volte mamma mi ha ripetuto una cosa del genere, dicendo di andarci piano, con te, di assecondarti, di non farti mancare nulla. – sorrise sarcastico, inclinando il capo, - Sai cosa penso io, invece? Che probabilmente era vero, avevi sofferto più di tutti noi, perché tu e lui eravate così dannatamente identici da sembrare fratelli, a volte. Ma quello che è successo dopo, Matt, l’hai scelto solo tu. Tutta la sofferenza che hai continuato a provare in seguito a quello che è successo, te la sei andata a cercare. Ci sguazzi dentro da dieci anni. Cerchi di sublimarla in canzoni arrabbiate e stanche che non riesci nemmeno a cantare, ma cosa fai per essere felice? Eh? Te lo dico io: un bel niente. – sospirò, scuotendo il capo, - Che poi è anche colpa mia. Ti ho palesemente viziato.
- …hai finito? – si forzò ad interromperlo, la voce rotta e contratta di chi cerca di impedire a tutti i costi ai singhiozzi di trovare la via per fuggire dalle labbra.
Paul sollevò un braccio e gli posò una mano sul collo, accarezzandolo premuroso.
- Matthew, non mi fa piacere dirti queste cose. – ammise, inarcando le sopracciglia, - Ma qualcuno deve pur farlo. Mamma e papà si sentono prevedibilmente troppo in colpa per farlo, ma almeno a me, ti prego, dai un minimo di ascolto. Devi deciderti a venire fuori da questa cosa che ti trascini dietro, o non combinerai mai niente nella tua vita.
- Io sto combinando qualcosa! Lavoro come un mulo da quando avevo sedici fottutissimi anni, ho combinato più io di quanto non riuscirai a combinare tu in tutto ciò che ti resta da vivere!
Paul si scostò da lui, sorridendo tristemente.
- Davvero, ragioni ancora come un ragazzino. Le cose sono come le descrivi tu, oppure non sono affatto. Sono a tuo favore, oppure ti sono contro. Vedi tutto in bianco o in nero, malgrado i colori assurdi dei tuoi capelli.
Matthew abbassò lo sguardo. Era una battuta che, in qualsiasi altro momento, avrebbe trovato divertente.
In quel momento, però, no. Non c’era proprio un bel niente da ridere.
- Scricciolo. Mi fai un favore personale?
Sollevò appena lo sguardo, per fargli capire che lo stava ascoltando.
- Dagli una possibilità. Una sola. Non devi per forza volergli bene. Prova solo a non odiarlo.
Serrò le labbra, perché se non l’avesse fatto sarebbe davvero scoppiato a piangere. E poi scosse il capo.
- Non ci riesco. – biascicò sommessamente, - Non voglio. Lui non l’ha fatto, con noi. Dici che eravamo noi, la famiglia sbagliata, ma lui non ha mai davvero provato a verificarlo. Ha fatto solo ciò che era meglio per se stesso, e a noi non ha mai pensato. Tu riesci ad essere tanto buono da guardare avanti. O tanto adulto, non lo so. Non mi interessa. So solo che per me non è lo stesso. Io non ci riesco. – sollevò il capo, sorridendo tristemente, - Forse hai ragione tu. – ammise infine, sospirando stancamente, - Forse io e lui siamo proprio identici.
*
Era una giornata davvero splendida. Il cielo era terso ed il sole caldissimo. La spiaggia, affollatissima, si stendeva per chilometri di fronte a lui. Una striscia biancheggiante e luminosa, puntellata qua e là dalle macchie colorate dei costumi dei turisti.
Sorrise lievemente, sbottonando la chiassosa camicia hawaiana che indossava sul costume da bagno rosso e bianco, mentre scendeva la pedana che, dal marciapiede, portava alla sabbia caldissima rimestata da centinaia di piedi ogni giorno.
Chris lo individuò istantaneamente e sollevò un braccio, agitandolo in aria per farsi riconoscere. Matthew rispose con un breve saluto, affrettando il passo per raggiungere lui e la sua famiglia, accampati con tanto di ombrellone, sedie a sdraio, tavolino richiudibile e frigoborsa, in un angolino del bagnasciuga abbastanza lontano dalla riva per non essere soggetto agli assalti fragorosi e discontinui delle onde che si abbattevano ora rabbiose ora più quiete sulla costa.
- Cominciavo a credere che non saresti più venuto! – lo rimproverò scherzosamente il bassista, salutandolo con un mezzo abbraccio appiccicoso e sudaticcio che lo riempì di una strana contentezza nostalgica.
- Ho avuto qualche problema a svegliarmi. – si scusò lui, grattandosi nervosamente la nuca. – Kelly. – salutò poi, chinandosi a baciare la moglie di Chris, sdraiata su una sedia ed impegnata nella complicata operazione di visionare le vettovaglie che aveva portato da casa, in cerca di qualcosa di leggero da mangiare come spuntino di mezzogiorno, in attesa del pranzo.
- Matt, ciao. – lo salutò cordialmente lei, ricambiando il bacio, - I bambini impazziranno, appena ti vedranno.
- Ho cercato di prepararli ai tuoi capelli, ma parlare con dei topini di quell’età è del tutto impossibile, ho scoperto. – mugugnò Chris, vagamente agitato, - Vai a capire cosa gli gira per la testa. Alfie comincia pure a capire un po’ di come va il mondo, ma ha solo tre anni, in fondo, non posso mica pretendere la luna. Di Frankie non parlo nemmeno, si esprime per vagiti. Non so se mi capisce, ad ogni modo sono io che non capisco lui!
Matt si lasciò andare ad una risata divertita, lasciandosi andare sulla sabbia accanto a loro, riparandosi sotto l’ombrellone dalla luce bruciante del sole di mezzogiorno.
- Ma dove sono adesso? – chiese curioso, guardandosi intorno.
- Dom li ha portati a prendere un gelato. – rivelò Chris, con un ghigno ironico, - Il che vuol dire che, sintetizzando, Dom è andato a mangiare tre gelati di seguito. Alfie si annoia presto, coi cibi, soprattutto se sfuggono al suo controllo. Ed il gelato sfugge decisamente al suo controllo. Avresti dovuto vederlo ieri, poi magari ti racconto. E Frankie… voglio dire. Non sono neanche davvero sicuro sia un essere umano!
- Chris! – lo rimproverò Kelly, fissandolo come fosse un mostro.
- Senti, non è colpa mia! – borbottò scherzosamente lui, stringendosi nelle spalle, - Quando lo vedrai, capirai. Sembra un pupazzo! È bellissimo, ma…
- Piantala immediatamente, o ti sopprimo. – lo minacciò impietosa sua moglie, mentre Matthew si lasciava andare all’ennesima risata divertita.
Chris sogghignò e si chinò verso di lui.
- Adoro farla imbestialire così. – gli rivelò in un sussurro, - D’altronde, se non la faccio sfogare in questo modo, finirà per cominciare ad odiarmi davvero.
- Cosa stai borbottando lì in gran segreto?! – strepitò ancora la donna, tirandogli un panino avvolto in carta trasparente sulla testa.
- Niente, tesoro. – cinguettò lui, tirandosi dritto, - Commentavo con Matt quanto sia evidente e palese il tuo amore per me. – inventò, guadagnando in cambio un secondo panino, stavolta direttamente sul naso.
- E non ti azzardare a mangiarli! Sono i miei panini con l’insalata di pollo. – sbottò ancora Kelly, chinandosi a recuperarli per rimetterli nella frigoborsa.
Kelly e Chris erano la prova provata che l’amore potesse durare per sempre. Si conoscevano da quando avevano quindici anni. Non erano mai stati con nessun altro a parte loro stessi, e non avevano mai nemmeno sentito il bisogno di verificare se era proprio vero fossero fatti l’uno per l’altra o meno. Evidentemente, era una cosa che sentivano a pelle. E tanto bastava.

Vedi, Paul? Non sono io che vedo tutto bianco o tutto nero.
Il mondo è così.
Poi ci sono gli individui come nostro padre, che lo forzano a scoprire nuove tonalità di grigio. Ma sono loro quelli sbagliati.
La verità è unica. Ed inequivocabile.
Le mezze verità sono solo menzogne.


Il ritorno di Dom e della prole di casa Wolstenholme fu annunciato da uno strepitare euforico di bambini urlacchianti che miagolavano gioia saltellando qua e là come ranocchietti, battendo le mani e i piedini.
- Matt!!! – strillò Alfie, liberandosi dalla stretta della mano di Dom quando furono a qualche metro dall’ombrellone, per fiondarsi direttamente fra le sue braccia, - Aaah! Sei diventato un fungo!!! – commentò poi, indicando emozionato i suoi capelli.
- Un fungo? – biascicò Matthew, spalancando gli occhi, - Ah! Un fungo. Tuo figlio è diabolico!
Alfie rise con Chris, mentre il piccolo Frankie sghignazzava felice lasciandosi passare come un peluche dalle braccia di Dom a quelle della propria madre.
- Mamma, mamma, ho fame! – annunciò il primogenito del bassista, attaccandosi al prendisole della madre, - Tu non andare via, Matt! Dobbiamo fare il castello di sabbia!
Matthew annuì e sorrise, mentre Dom sospirava sfiancato e si abbandonava sulla sabbia al suo fianco, facendosi aria con una mano.
- I bambini sono un impegno troppo grande. – annunciò pomposamente il batterista, - Matthew, se mai dovesse venirmi qualche strana idea, ricordami che non ne voglio.
- Ah-ha. – annuì lui, sollevando sarcastico un sopracciglio, - Pulisciti il gelato alla fragola dal naso, però. Sembri la versione gay estiva di Rudolf.
- …che razza di immagine perversa. – commentò il biondo, sgranando gli occhi, - Ma ti ascolti, quando parli?! Ci sono dei bambini! E tu stai qui ad immaginare sodomie tra Babbo Natale e le sue renne…
- Ma io non ho mai parlato di niente di simile!!! – inorridì Matthew, tirandogli addosso una manciata di sabbia.
- Dom! – protestò a propria volta Chris, accigliandosi, - Alfie ripete le parole! Non è proprio il caso di-
- Che significa sodomia, papà? – indagò il bambino, tenendo evidentemente molto a dar ragione al proprio genitore – genitore, peraltro, che Kelly squadrò malissimo, e che non poté fare altro che sospirare e mugolare una richiesta di perdono indistinta, afflosciandosi sulla sedia a sdraio ed incassando a capo chino i rimbrotti esasperati di una moglie ciecamente convinta del fatto lui fosse davvero un pessimo padre.
- Sparite per un po’. – mugolò il bassista, prendendo entrambi i figli in braccio, - Mi tocca fare un po’ di coccole riparatrici, qui.
Matt e Dom sorrisero brevemente, tirandosi in piedi e scrollandosi svelti la sabbia di dosso, prima di indossare le scarpe e dirigersi nuovamente verso la pensilina in legno che, tramite le scale, li portò prima sul marciapiedi interno al lido e poi in strada.
- Andiamo a prendere un gelato! – esordì Dom, indicando un chioschetto variopinto e piuttosto folcloristico all’angolo in fondo alla strada che costeggiava la spiaggia.
- Ma sarà il millesimo… - lo rimbrottò Matthew, lanciandogli un’occhiata perplessa.
- Nah. – negò il batterista, scuotendo il capo e cominciando a contare sulle dita, - Ho mangiato solo metà di quello di Alfie. Naturalmente, ho dovuto mangiare tutto quello di Frankie. Gli ha appena dato una leccatina e poi ha cominciato a gorgogliare! – descrisse, gesticolando animatamente, - Sembrava un piccione. Glugluglu! E faceva le bollicine. Non ero mica sicuro che fosse normale. Perciò gliel’ho tolto di mano e l’ho mangiato io. Lui pare aver gradito. Chiaramente però dovevo anche mangiare il mio, quindi, alla fine-
- Alla fine, - lo interruppe Matt, sospirando e stringendosi nelle spalle, - meno male che hai uno stomaco di ferro. Altrimenti potevamo andare raccogliendo i tuoi resti per strada, davvero. E non sarebbero stati in una forma piacevole!
Dom fece una smorfia disgustata.
- Dio santo, oggi la tua mente è prodiga di immagini delle quali potremmo fare tutti a meno. – commentò, - C’è qualche problema?
Matt si lasciò andare ad un mezzo sorriso triste, stringendosi nelle spalle.
- Faccio prima a dirti i problemi che non ho.
Dom roteò gli occhi e cominciò a trainarlo con più decisione verso il chioschetto, prendendo posto su uno degli enormi sgabelli che ne fronteggiavano il bancone e sbuffando rumorosamente.
- Quando ti comporti così da ragazzina sei proprio intollerabile! – lo rimproverò, sollevando un braccio, - Cameriere! Due coppette al cioccolato!
- Ehi, aspetta! – cercò di fermarlo lui, agitandogli una mano di fronte al viso mentre “cameriere” lo squadrava con manifesta preoccupazione, visto che, evidentemente, anche lui aveva tenuto il conto dei gelati, - Io volevo un altro gusto!
- Quindi non lo mangi? Oh, be’, allora ho fatto bene a prenderlo di un gusto che piace a me! – concluse spiccio il batterista, stringendosi nelle spalle.
Matthew spalancò la bocca e gli occhi, e lasciò ricadere il braccio sul bancone, prima di rassegnarsi e scuotere il capo.
- Tutto questo non ha senso… - mugugnò, osservando la coppetta al cioccolato che prendeva forma davanti ai suoi occhi e poi si posava proprio di fronte a lui.
- Non siamo venuti qui per discutere del senso del gelato. – precisò Dom, rubandogli la coppa e prendendo a divorare avidamente la propria ordinazione, - Quindi, forza. Dimmi cos’è successo.
Matthew prese un respiro enorme e poi poggiò il viso contro una mano, incastrando il gomito spigoloso in una rientranza del bancone.
- Quando sono tornato a casa, ieri, ho trovato un ospite che non mi aspettavo e che, sinceramente, avrei pure fatto volentieri a meno di rivedere. – cominciò a raccontare, sollevando appena lo sguardo per registrare la curiosità di Dom, prima di proseguire. – Mio padre. – rivelò atono, - Mary, la mia sorellastra, s’è laureata a Yale, e lui è venuto ad assistere alla cerimonia.
- …e tua madre se l’è preso in casa? – inquisì Dom, giocando con il cucchiaino in plastica colorata fra le labbra, - Perdonami se te lo faccio notare, ma la tua famiglia è parecchio strana.
- Non mi dici niente di nuovo. – sospirò lui, stringendosi nelle spalle e lasciando ricadere le mani in grembo, - Fatto sta che lui è lì. E a quanto pare, mentre ero via, non è stato con le mani in mano.
- Spiegati?
- Be’, - borbottò evasivo lui, - sai tutto il repertorio di “mi dispiace avervi fatto soffrire” e “possiamo ancora volerci bene, nonostante tutto”? Ecco. E mia madre e mio fratello sembrano esserci cascati in pieno.
- Come si vede che siete geneticamente collegati! – rise Dom, mescolando il gelato con la palettina, - Ho avuto un lampo di te che parli coi giornalisti della fine del mondo e dell’importanza dei buchi neri mentre loro annuiscono interessati e devoti come se gli stessi sciorinando il Vangelo del nuovo millennio davanti!
Matthew aggrottò le sopracciglia ed abbassò lo sguardo, torturando con le dita il bordo dei boxer.
- …e questo è esattamente il problema, vedo. – commentò Dom quindi, chinandosi su di lui per cercare di intercettare il suo sguardo. – Ho detto qualcosa di sbagliato, anche se non sono ancora riuscito ad afferrare cosa. Risolvi tu, prima che la mia seconda coppetta si sciolga?
Matt si strinse nelle spalle, mordicchiandosi le labbra.
- …il fatto del collegamento genetico… - biascicò ansioso.
- Be’, è comunque tuo padre. – giustificò Dom, atono, - Mi sembra normale.
- Sì, ma – riprese il cantante, sempre più agitato, - non è questo il punto. È che lui a me fa veramente… - abbassò nuovamente lo sguardo, - veramente schifo. Dico sul serio. Mi ha fatto schifo quello che ha fatto vent’anni fa, mi ha fatto schifo quello che ha fatto dieci anni fa, e mi sta facendo schifo quello che sta facendo ora. Tornare indietro strisciando e chiedendo scusa… è disgustoso, Dom. E per di più è solo una farsa, perché comunque appena questo soggiorno terminerà lui tornerà in Australia e-
Dom lo zittì ficcandogli una cucchiaiata di gelato in bocca. Senza avvisarlo e senza smorzare l’impeto della propria decisione in previsione dell’impatto coi suoi denti. Matthew sussultò, mentre i suoi incisivi gelavano istantaneamente, ma il sapore che si diffuse sulla sua lingua era così inaspettatamente e piacevolmente dolce che dimenticò non solo di protestare, ma anche il filo del discorso che stava seguendo.
Sollevò lo sguardo e lo perse in quello chiarissimo di Dom, che lo fissava cupo, con un broncio familiare, uno di quelli con cui amava rimproverarlo tacitamente quando erano ancora due ragazzini e lui faceva o diceva qualcosa di platealmente stupido.
- D’accordo, Matt. – disse il batterista, - Questo l’ho capito. Ma tu che c’entri?
Matthew deglutì e fece per rispondere, ma Dom non gli tolse il cucchiaio di bocca, ed anzi, lo spinse più a fondo, come se volesse evitare a tutti i costi di farlo parlare.
- Tu non sei lui. – continuò infatti, lasciando il cucchiaino dov’era e procedendo all’assalto della seconda coppetta, - E non c’è neanche il rischio che ci diventi. Tu sei una brava persona, Matt.
*
Tu sei una brava persona. Sì. Proprio una brava persona.

Bellamy è sempre così disponibile. Così aperto. Gentile coi fan. Loquace con i giornalisti. Educato con i detrattori. Ha una buona parola per tutti, è proprio bravo, sì. Proprio una brava persona.

Me lo dicono tutti. Ho perso il conto delle volte in cui me l’hanno detto. Che sono gentile, che sono sensibile, che sono intelligente, che ho talento, che sono proprio proprio bravo, accidenti, in quello che sono ed in quello che faccio, proprio bravissimo.
Ha cominciato mio fratello. È stato lui, il primo. Mi ha preso, piazzato di fronte ad un pianoforte ed utilizzato come una marionetta per replicare sui tasti la sigla di Dallas. Io avevo cinque anni. Non capivo un accidenti di cosa stesse succedendo, lui era eccitatissimo e mi stava pure facendo male ai polsi. Sollevai gli occhi, lo fissai, lui mi sorrise e mi disse “Sei bravissimo!”, e da quel fottuto momento io non mi sono mai più staccato dal pianoforte.
Anche mia madre mi diceva sempre che ero bravo. Quando ho cominciato a portare i capelli lunghi, s’è accigliata come non l’avevo mai vista prima. “Sei così un bravo ragazzo”, ripeteva, “non capisco perché dovresti voler andare in giro conciato come un barbone”.
Per quanto riguarda Dom, mi disse che ero bravo ancora prima di sapere come mi chiamavo. Alle medie sembravo già patologicamente asociale. Quando lui mi si avvicinò, stavo seduto in un angolo del cortile e masticavo svogliatamente il panino al tonno che mi aveva preparato mia madre. Lui saltò giù dal muretto che stava disinvoltamente scalando alle mie spalle, piantò le mani sui fianchi, mi guardò sprezzante dall’alto per una quantità infinita di secondi e quando io, terrorizzato, mi azzardai a muovere un muscolo con l’intenzione di fuggire oltreoceano, mi sorrise e mi disse “Mi sembri una brava persona. Diventiamo amici?”.
Chris fu il primo a dirmi che ero talmente bravo che per me avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Non la mise esattamente in questi termini, ma il risultato delle sue decisioni, in fondo, non era che questo. M’invaghii totalmente di lui come musicista quando lo vidi passare dalla chitarra alla batteria nel giro di un anno, al liceo. Sembrava che nulla potesse sconvolgerlo davvero, era solido come una roccia ed a proprio agio di fronte a qualsiasi cosa. A me e Dom serviva un bassista. Lo avvicinai e gli chiesi di suonare con noi. Lui mi guardò un po’ diffidente, ma accettò di sentire almeno di cosa eravamo capaci, perciò costrinsi Dom a rinunciare ad un pomeriggio di – comunque infruttuosa – caccia alle donne per chiuderci nel garage di suo padre e suonare un po’ davanti a lui, e quando finimmo lui sorrise e disse “Però! A suonare il basso non sono proprio granché, ma tu sei veramente bravissimo! Accetto!”. A tutt’oggi, è il parere musicale di cui mi sia più importato in assoluto. Ancora più del giudizio dei fan.

Questa fottuta città. E mio padre. Solo loro due non mi hanno mai detto che sono bravo. Neanche hanno mai mostrato di capirlo. O di crederci.

Non avete mai compreso la mia voce. Non avete mai ascoltato davvero cosa c’era dietro. Non avete mai sfiorato il mio talento.
E come avreste potuto, d’altronde, se non mi avete mai nemmeno lasciato cominciare a cantare? Come avreste potuto, se non vi è mai interessato?

Quand’ero piccolo non facevo che strillare. Fino a sedici anni, fino a che non ho capito che per veicolare un messaggio dovevo anche farmi capire, per me la musica è stata solo uno sfogo. Sul palco io non cantavo, io sputavo i polmoni a furia di strepitare. E non suonavo, picchiavo la chitarra perché era l’unica cosa che potessi davvero tenere fra le mani e stritolare a morte. Lei miagolava la propria sofferenza ed io mi inebriavo della sensazione di potenza e di pienezza che mi dava. La trattenevo tutta dentro di me, fino a gonfiarmene, e quando diventava troppa ricominciavo a urlare e tiravo tutto fuori. C’erano certi concerti al termine dei quali rimanevo senza voce anche per una settimana intera. Erano i periodi migliori: perché la mia gola era esausta e la mia mente pure, e non avevo altro da dire. Avevo spazzato via tutto il veleno.
Poi la rabbia ricominciava a montare. Ed io ricominciavo ad urlare. Urlavo contro qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa.
Fortunatamente, poi, è arrivato Dennis Smith. Anche lui mi ha detto che ero bravo. Ci ha presi tutti e tre da parte, ci ha guardati estasiato, come fossimo dei messia, esattamente ciò che l’Inghilterra stava aspettando, ed in effetti poi ci disse proprio questo, “L’Inghilterra sta aspettando solo voi, siete delle gemme grezze perfette, avete solo bisogno di qualcuno che vi renda riconoscibili, perché per essere preziosi, quello lo siete già”.
Probabilmente, se non fosse arrivato lui, io avrei semplicemente continuato ad urlare. Ed a furia di urlare mi sarei fottuto la voce. E l’esistenza.
Ma cazzo. Contrariamente a Teignmouth e contrariamente a mio padre, io sapevo di avere talento. Ringrazio ogni giorno di essere sempre stato circondato da persone che mi hanno impedito di dimenticarlo.

Però adesso sto comunque dimenticando qualcosa. Lo sento, nello stomaco, nelle ossa e sul fondo confuso del mio cervello.
Io ero una persona.
Cazzo.
Io ero una brava persona.
Io lo sono ancora.
Io non ho proprio nulla a che vedere con mio padre.
Io sono onesto.
Ed è vero, cazzo.
Io sono onesto.
Con me stesso e con gli altri.

Io non ti assomiglio, maledetto stronzo.
Io non sono nemmeno tuo figlio.
Io sono figlio di mia madre, di mio fratello, dei miei migliori amici. Sono figlio della villa dei nonni e dei nonni stessi, sono figlio delle notti insonni passate ad ascoltare When Doves Cry e sono figlio di Jimi Hendrix. Sono figlio di Londra, sono figlio di Tom Waits e sono figlio di Tom, della Mushroom, dei funghetti allucinogeni e della mia musica.
Io non sono tuo figlio.
Io non sono il tuo fottuto figlio.
Io non sono te.

*
Suo fratello lo aspettava acquattato sugli scalini antistanti l’ingresso di casa, esattamente come si era aspettato. Sorrise divertito, nell’osservarlo sollevargli addosso uno sguardo terrorizzato ed ansioso, ed alzarsi in piedi per corrergli incontro.
- Peste! – lo rimproverò, avvolgendolo in un abbraccio caldissimo e sollevato, - Mi hai fatto preoccupare a morte. Potevi almeno avvertire che non tornavi per pranzo!
- Dom mi ha imbottito di gelato e ci siamo addormentati in spiaggia… - si giustificò lui, senza neanche provare a sottrarsi alla sua stretta, ed anzi godendosi il più possibile il tepore del suo corpo, nonostante l’arsura umida ed afosa del pomeriggio tipico dell’agosto marittimo.
- Spero almeno che non ti sia scottato come l’ultima volta. – borbottò suo fratello, trascinandolo in casa, - Non ci tengo a ripetere l’esperienza cui mi hai sottoposto tre anni fa. Dio, che schifo, al solo pensiero di passare addosso al tuo corpicino scheletrico tutta quella crema…
- E piantala! – borbottò lui, dandogli una debole quanto inutile manata sulla schiena, - Non mi sono scottato. C’era Chris con l’ombrellone.
- Ricordami di ringraziarlo per aver salvato il mio stomaco dalla nausea! – aggiunse Paul, ricevendo in cambio un maldestro tentativo di calcio allo stinco, degenerato poi in un mezzo autosgambetto con annessa pseudocaduta. – Sei un disastro umano. – commentò suo fratello, ridacchiando della sua goffaggine, - Mamma ti ha lasciato un po’ di pizza in forno. Entriamo e te la scaldo?
Annuì entusiasta e seguì Paul all’interno della casa. Sentì immediatamente l’eco attutita del televisore in camera da letto che annunciava che sua madre si stava sottoponendo alla visione dell’episodio odierno della telenovela che seguiva da ancora prima che loro nascessero, e sorrise ancora. Improvvisamente, tutte quelle piccole e monotone abitudini che l’avevano tanto infastidito, riuscivano soltanto ad intenerirlo.
In cucina, di fronte al televisore sintonizzato sulla radiazione cosmica di fondo, suo padre sgranocchiava oziosamente una mela. Paul ristette un po’ sulla soglia e lo guardò interrogativo, prima di entrare. Matthew gli sorrise rassicurante e gli chiese sottovoce se poteva lasciarli un po’ da soli. Suo fratello non sembrava molto convinto dalla possibilità, ma alla fine sorrise e salì in camera propria, dopo avergli ricordato di mangiare la sua pizza, se non voleva svanire nel nulla o volare via col prossimo soffio di vento.
George non ebbe bisogno di sentire la sua voce, per accorgersi che era entrato. Spense il televisore e scosse sconsolato il capo, incurvando le spalle.
- Stavo cercando di capire… - sussurrò, mentre Matthew si avvicinava al forno ed impostava la temperatura ed il timer per scaldare il proprio pranzo tardivo, - Ma proprio non ci riesco. Non ci sono mai riuscito, vero Matt?
- Temo di no. – rispose sommessamente lui, trascinando una sedia fino al suo fianco e sedendoglisi accanto. – Papà, ci ho pensato su. – annunciò quindi, osservandolo sollevare lo sguardo su di lui. Suo padre non mostrava nemmeno una scintilla di speranza, sul volto spento e sbiadito dagli anni. Probabilmente si aspettava già la sua risposta.

Perché probabilmente è vero. Ci assomigliamo molto.
Ma io sono cresciuto meglio.


- Io non posso perdonarti. – ammise, mantenendosi calmo esteriormente quanto interiormente, - Lo so che per te è dura. In qualche modo riesco a sentire… che per te è davvero pesante vivere con questo carico di rimorso. Però io non posso proprio perdonarti. Anche se ti dicessi che l’ho fatto, mentirei. E non sono bravo a mentire. Faccio casino con le varie versioni delle storie che invento e poi non faccio che contraddirmi da solo. Quindi, credimi, è meglio che ti dica la verità.
George abbassò nuovamente lo sguardo, annuendo tristemente.
- Va bene. – disse a bassa voce, - Lo apprezzo, Matt.
- Però, papà… - continuò lui, sollevando una mano a sfiorargli un braccio, - non devi più sentirti in colpa. Perché io non ti odio. – sorrise, - Odiarti significherebbe ammettere che mi fai ancora male. Ed anche questa sarebbe una menzogna, sai? Perché non mi ferisci più. Puoi stare tranquillo.
Suo padre tornò a guardarlo. I suoi occhi erano colmi di lacrime che lui non aveva intenzione di guardare, e George fu bravissimo e molto gentile a ricacciarle indietro e limitarsi ad annuire, sorridendo e ringraziandolo.

È il primo gesto veramente paterno che ti vedo compiere nei miei riguardi.
Non lo saprai mai, ma te ne sono grato. Solo un po’. Ma te ne sono grato.


Il campanellino del forno gli annunciò che la pizza era pronta. Lui si tirò in piedi e la recuperò, salendo poi di corsa in camera propria cercando di trangugiare l’intera fetta lungo il tragitto dal piano di sotto a quello di sopra.
Una volta al sicuro in quel paradiso rosso e azzurro che, grazie a sua madre, la sua stanza non aveva mai cessato di essere, si sedette alla scrivania ed aprì il cassetto che, quand’era ragazzino, utilizzava per conservare i fogli di carta sui quali finivano appuntati i versi delle canzoni che non voleva assolutamente dimenticare.
Negli anni, il contenuto di quel cassetto era stato evidentemente razziato da Paul. Non sopravvivevano che una matita mezza spuntata ed un paio di foglietti rosa.
Ridacchiò a bassa voce, posò ciò che restava della pizza al proprio fianco e cominciò a scrivere.
*
- Dio mio! – borbottò Dom, sobbalzando al ritmo del treno diretto a Londra, mentre lasciava scorrere lo sguardo sul foglietto scarabocchiato che Matt gli aveva passato, - Avresti dovuto dirmi che eri così depresso! Sarei stato più gentile nei tuoi confronti!
Matt incrociò le braccia sul petto, offeso.
- Ti ho chiesto un parere sul testo, non un’analisi psicologica della mia persona!
- Spiegami come potrei fare a scindere le due cose! – borbottò il batterista in risposta, agitandogli il foglio davanti al viso, - Vuoi un parere? È depressa e deprimente! Ecco il mio parere.
- Questa è bella… - mugugnò Chris, ripassandogli il foglietto che aveva dato a lui, - È triste, ma in qualche modo è anche intrisa di speranza… ce l’ha già un titolo?
Matthew annuì, dedicando la propria attenzione al bassista, evidentemente più ricettivo di Dom.
- Blackout. – rispose, - Piace un sacco anche a me. Però mi sa che dovrò insegnarti a suonare la tastiera, altrimenti non riusciremo mai a farla live…
Chris lo omaggiò di un sorrisetto sarcastico, incrociando le braccia sul petto.
- Dì la verità, stai cercando di trasformarmi in una one-man band, Bells?
Matthew rise con lui, mentre Dom gli strappava di mano l’altro foglio, consegnando il proprio a Chris.
- …be’, - commentò il bassista, scorrendo il testo con lo sguardo, - Dom non ha tutti i torti. È veramente triste. Però è anche bella incazzata. Mi piace.
- Tu salverai la mia anima, Chris. – cinguettò Matthew, battendo le ciglia come una liceale innamorata, - Si intitola Fury. Ti piace il titolo?
- Piantala di fargli le moine! – lo rimproverò Dom, dandogli una manata sulla testa, - È sposato, e comunque sareste disgustosi! Comunque il titolo mi piace, e pure la canzone. Ho detto che è depressa e deprimente, mica che fa cagare.
Matthew si lasciò andare ad un sorriso sollevato.
- Allora appena torniamo a casa proviamo ad inciderle e vedere se possono andare bene per il prossimo album?
I due lo guardarono esterrefatti per qualche secondo, prima di scoppiare a ridere. E la loro era una risata divertita, sollevata e complice. Esattamente ciò di cui Matt aveva bisogno per sentirsi di nuovo bene.
- Ma non avevamo promesso a Tom che questo sarebbe stato un album allegro? – lo prese in giro Dom, stringendosi nelle spalle.
- Avanti, Dom. – ironizzò Chris, agitando in aria un dito supponente, - Lo sai che “allegro” e “Matt” non sono due concetti destinati ad incontrarsi.
Ridacchiò a bassa voce, estraniandosi presto dal coro di motteggi che continuava a sollevarsi dai due, e lasciandosi andare stancamente contro il finestrino del treno, osservando lo spettacolo grandioso delle campagne inglesi che sembravano diventare sempre più belle, sempre più fresche e sempre più pure man mano che ci si allontanava dagli stabilimenti industriali di Teignmouth.
Prima di andare via, due giorni dopo il loro chiarimento, suo padre gli aveva fatto promettere di passare da lui, se fossero riusciti ad arrivare in Australia col prossimo tour. “Devo assolutamente farti vedere i vombati”, gli aveva detto salutandolo. “D’accordo”, aveva risposto lui, “Sono curioso”. Sua madre si era commossa neanche gli avesse appena detto che stava per renderla nonna. Valla a capire.
Si sentiva bene.
Bene davvero.
Magari quella canzone, Fury, sarebbe perfino riuscito a suonarla, dal vivo.

But I’ll still take all the blame
‘cause you and me are both
one and the same
And it’s driving me mad
And it’s driving me mad
I’ll take back all the things that I said
I didn’t realise I was talking to the living dead
But I don’t want you to think that I care
I never would
I never could again
Fanfiction a cui è ispirata: "Try Something New" di Happy.
Genere: Romantico, Triste, Introspettivo.
Pairing: BrianxMatt, BrianxHelena, MattxGaia.
Rating: R - probabile futuro NC-17.
AVVISI: Angst, RPS, Spin-off, Incompleta.
- Un anno è passato dall'ultima volta in cui Matt e Brian si sono visti. Un anno, e sembra non sia cambiato niente. Un anno, e in realtà c'è stata una rivoluzione, dentro di loro. Rivedersi è davvero la cosa giusta? Matt non lo sa. Sa solo che non può fare a meno di vagare per Hyde Park sperando di incontrarlo.
Commento dell'autrice: Se ne parla alla fine è_é
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TRY SOMETHING BETTER
CAPITOLO 1
SLEEPING WITH GHOSTS

“Don’t waste your time
Or time will waste you”
Muse – “Knights of Cydonia”


In effetti s’era sempre sentito un po’ in colpa per quello che aveva combinato a dicembre, l’anno prima. S’era sempre sentito un po’ in colpa e s’era sempre sentito anche un po’ – molto – vigliacco per quella fuga repentina e ingiustificabile, pretesa e ottenuta con tanti di quegli allucinanti strepiti che aveva sempre avuto paura che Tom e i ragazzi, da quella volta, avessero maturato nelle loro menti un’idea di lui in versione pazzo isterico che di sicuro non giovava alla sua autostima. Se ne accorgeva ogni volta che, ad esempio, Dom o Chris gli facevano un suggerimento a riguardo di qualcosa che avesse scritto: si avvicinavano sempre con timore, premettendo sempre che trovavano il suo lavoro fantastico, prima di dire quello che avrebbero preferito cambiare.
Anche Tom aveva difficoltà a parlare con lui. Al punto che ogni tanto, quando aveva bisogno di fare un qualche cambiamento nelle date dei tour o delle uscite dei singoli, neanche glielo diceva. Si limitava a farlo e poi avvicinarlo con cautela, offrirgli una cena o qualcosa di simile e mormorare “Adesso non ti arrabbiare, Matt, ma ho dovuto modificare questo, questo e quest’altro…”, ricevendo puntualmente in risposta uno stupito “Perché dovrei arrabbiarmi, scusa? Se hai deciso così avrai avuto un motivo, e poi il manager sei tu, sei tu che devi occuparti di queste cose, il mio lavoro è un altro…”, al quale, spesso, seguiva un sorriso imbarazzato e un “No, ma era per essere sicuro che non ti saresti infastidito”, che lui poteva spiegare solo ed esclusivamente come uno strascico della furia che l’aveva preso quando s’era trattato di tornare in studio a registrare coi Placebo.
Né Tom, né Dom, né Chris avevano mai capito. Anche perché, sul momento, sì, non l’aveva presa benissimo, aveva pregato un po’ tutti gli déi dell’universo perché gli concedessero di sfuggire a quella tortura, e s’era lamentato, e aveva protestato, ma era anche eccitato, era anche emozionato, e non vedeva l’ora, dannazione a lui, non vedeva l’ora di rientrare in studio e registrare di nuovo, non… non vedeva l’ora di rivedere Brian…
Per settimane aveva collezionato idee e spunti. E per settimane, i suoi amici avevano assistito stupefatti allo spettacolo sconvolgente di lui che rientrava in albergo, afferrava il cellulare, si gettava sul letto e chiamava Brian, improvvisando conversazioni del tipo “Ho visto questa scena fantastica oggi, per strada, dobbiamo assolutamente infilarla da qualche parte nello studio album, poi!”. Li avevano ascoltati chiacchierare per ore intere con toni che a volte sfioravano il romanticismo, e vagavano da un isterico “Molko, piantala, una buona volta, di dire porcate!” a un trasognato “Sì, anche tu mi manchi… un po’…”, sussurrato a stento, buttato fuori a fatica, coprendo la cornetta con una mano nella speranza che non sentisse nessuno.
Scene quasi surreali.
Cose di cui si vergognava da morire.
Per circa un mese avevano dovuto credere che fra loro ci fosse davvero qualcosa. Che stessero pensando a metter su famiglia o chissà cos’altro.
Dio.
E poi era successo qualcosa. Qualcosa che perfino Tom, malgrado sentimentalmente fosse l’uomo più ottuso del mondo, aveva dovuto capire perfettamente. Ovvero era arrivata Gaia.
Gaia l’aveva… l’unico termine che gli veniva in mente e che potesse, anche se molto vagamente, descrivere la sua situazione, era “sconvolto”. Gaia era stata un vero e proprio tumulto.
Era una loro fan. L’aveva letteralmente assalito all’ingresso dell’albergo nel quale alloggiavano, rischiando di farsi ammazzare dalle guardie del corpo e uscendo dalla rissa con una spalla lussata. Ancora dolorante, quando i ragazzi della security l’avevano sollevata e, comprendendo di aver calcato un po’ troppo la mano, l’avevano adagiata su una panchina, chiamando un’ambulanza, la prima cosa che lei aveva mormorato, appena lui le era andato vicino per assicurarsi che fosse ancora viva, era stata “Sono felice di averti potuto vedere così da vicino…”. E quando lui, ridacchiando, le aveva risposto “Hai rischiato grosso… la prossima volta che tenti di avvicinarmi sta’ più attenta…”, lei, sempre sorridendo, nonostante la smorfia di dolore che le sconvolgeva le labbra, aveva detto “Se potessi vederti ogni mattina nel mio letto non dovrei più temere per la mia vita”.
Lui era arrossito, sentendosi nello stesso momento attaccato e già sconfitto.
In quel preciso istante aveva capito che era lei, la donna che cercava. Non sapeva nemmeno il suo nome, conosceva soltanto il suo caschetto biondo, i suoi occhi verdi, la sua pelle chiara e il suo fisico minuto. Non conosceva la sua età, non sapeva nulla della sua vita, ma lei era quella donna, la donna di cui aveva spesso parlato a Dom con aria sognante, la donna per lui.
E lei gliel’aveva confermato riapparendo davanti all’albergo il giorno dopo, col braccio ingessato e un adorabile sorriso sul volto.
“Mi chiamo Gaia”, aveva detto, porgendogli la mano, “Scusa se ti do la mancina”.
“Niente”, aveva detto lui, rispondendo al saluto. “Posso invitarti a bere un te? Sai, per scusarmi del comportamento delle mie guardie del corpo, ieri…”.
Lei aveva sorriso ancora, e lui l’aveva trovata angelica.
“Certo che puoi. E sei già scusato, comunque”.
Era cominciata così.
E nessuno ci avrebbe scommesso su un centesimo.
Nessuno tranne lui, ovviamente.
Un mese dopo, già convivevano. Lei era giovane, molto giovane, aveva appena diciannove anni, ma i suoi genitori erano due persone molto aperte, avevano semplicemente preteso di conoscerlo e sottoporlo a un interrogatorio di un paio d’ore, dopodiché avevano spalancato le braccia e gli avevano affidato la loro bambina con un gioviale sorriso sul volto.
Era stato in quel momento che lui aveva cominciato ad avere paura.
Mancava solo un mese a dicembre. Mancava solo un mese al momento in cui avrebbe rivisto Brian.
E sapeva, perché lo sentiva continuamente, perché parlavano continuamente, sapeva che Brian non era cambiato di una virgola, così come non erano cambiate di una virgola le sue idee su di lui, su di loro.
Ed erano un pericolo.
Perché la sua storia con Gaia era ancora una bambina, era appena nata, era così minuscola e indifesa che lui sentiva il bisogno fisico di proteggerla, avvolgerla fra le sue braccia e impedire al mondo esterno di intromettersi e rovinare tutto.
Ci teneva troppo, per permettere a un altro terremoto di buttare a terra le fondamenta della sua nuova casa.
Perciò, a dicembre aveva semplicemente fatto esplodere un casino. Aveva gridato e strepitato, aveva affermato con convinzione che non gli interessava più nulla di lavorare di nuovo coi Placebo, che la produzione poteva andare a farsi benedire, che non gliele fregava nulla del contratto e poteva anche stracciarlo davanti a tutti, che voleva concentrarsi su sé stesso, che voleva preparare i nuovi pezzi per il nuovo album, che, in definitiva, non se ne faceva più niente.
Avevano protestato un po’ tutti, com’era stato ovvio fin dall’inizio. Dom, soprattutto, s’era infuriato, e avevano litigato come i pazzi per la prima volta dopo tanto tempo. A Dom, come lui stesso gli aveva detto, non fregava niente di quali fossero i suoi problemi personali, non avrebbe dovuto permettersi di impedirgli di passare un altro po’ di tempo con Stefan. E quando lui, protestando, gli aveva detto che comunque di Stefan non gli era mai davvero fregato niente, Dom l’aveva guardato con disgusto e gli aveva semplicemente detto che della vita non capiva un cazzo. Dopodichè l’aveva snobbato per qualcosa come tre settimane e alla fine era crollato e l’aveva “perdonato”.
Lui s’era sentito una bestia insensibile per tutto il tempo.
Soprattutto quando ignorava le chiamate di Brian che tempestavano il suo cellulare.
Ma non era disposto a cedere. C’era troppo in palio. E lui era sempre stato un tipo tenace.
Però, ecco, migliaia di volte, durante quel periodo orribile, avrebbe voluto prendere i suoi amici per le spalle, scuoterli violentemente e urlare “non è che la cosa mi faccia piacere, accidenti a voi, non è che gioisca al pensiero di mandare a puttane un contratto, non è che gioisca al pensiero di mandare a puttane un rapporto, non è che mi piaccia pensare che non rivedrò Brian mai più, solo ho una paura fottuta che questo possa distruggermi la vita, com’è che non lo capite?, com’è che non lo vedete?, PERCHE’, CAZZO, NON VE NE ACCORGETE?!”.
E forse era per questo che, quando aveva saputo che i Placebo avrebbero preso parte al mega-concerto organizzato a Hyde Park, aveva colto la palla al balzo e, mentendo a chiunque, ci era andato. Gaia non aveva sospettato niente, ma di lei non aveva effettivamente motivo di preoccuparsi, perché quella ragazza si fidava di lui come fosse stato suo padre. Dom, probabilmente, aveva sospettato qualcosa. Infatti gli aveva sussurrato malignamente “Tanto se vai lì ci vediamo, perché io ci sarò sicuramente”.
Fortunatamente, Dom non s’era fatto sfuggire nulla con Gaia. Quello sarebbe stato un problema non indifferente, da risolvere.
Cavolo, poteva vedersi. Poteva vedersi vagare sperduto fra i gruppetti di persone intenti a chiacchierare in attesa dell’inizio dello show. Si prospettava una manifestazione musicale di proporzioni cosmiche, avrebbero partecipato tanti di quei gruppi, tra vecchie guardie ed esordienti, che non riusciva neanche a ricordare tutti i nomi.
Anche se be’, in realtà non è che ci avesse realmente provato a memorizzarli, tutti quei nomi. I suoi occhi avevano individuato i Placebo fra i tanti e il suo cervello aveva provveduto a isolarli dalla massa e cancellare tutto il resto, così non è che fosse rimasto molto spazio per i nomi degli altri.
…era semplicemente patetico.
Era lì per vedere Brian, questo era chiarissimo perfino per lui, che pure aveva cercato di ignorare quella verità per tutto quel tempo, che pure aveva cercato di convincersi fosse solo curiosità, voler vedere come stesse, come se la passasse…
Non voleva incontrarlo, gli faceva ancora troppa paura, ma vederlo, quello sì, anche solo da lontano, anche solo intravederlo, anche solo-
- Carino.
Oddio.
Si congelò sul posto, stringendo i pugni e sentendo un brivido scendergli lungo la schiena fino a fargli tremare le gambe.
Oddio.
*
Qualche minuto prima.

Non che fosse inquieto.
E non che sperasse in qualcosa, ovviamente.
Però Dominic l’aveva chiamato in gran segreto e gli aveva detto che sospettava che Matt pensasse di andare al concerto, magari senza farsi vedere, e allora gli sembrava ovvio provare un attimino d’agitazione in prospettiva, o no?
Insomma.
Matt era… era rimasto una parentesi, nel suo passato. Una parentesi che non si era mai chiusa.
E faceva male, ecco. La situazione sospesa, il pensiero che potesse essere ancora sospesa anche nella testa di quel dannato stupido, oltre che nella sua…
Il desiderio di lasciare che tutto si esaurisse nel tempo passato e sprecato, e quello contrastante e altrettanto forte di tenere il ricordo fisso nella mente, per non perderlo mai di vista.
Scosse il capo, massaggiandosi le tempie con due dita.
È mai possibile essere così emotivi?, si disse, sconsolato, scuotendo il capo come a volerlo svuotare da tutti i pensieri.
Doveva uscire da quel dannato umore. Doveva uscire da quella dannata ragnatela di ricordi e soprattutto doveva smettere di vagare per il parco sperando di beccare Matt in mezzo alla folla.
Cercarlo lo faceva solo stare male. Lo riempiva solo di pensieri riguardo a come si era sentito durante l’anno, e quello che aveva passato, e…
Insomma, era stata sua la colpa. Tutta di Matt. Lui si era limitato a comportarsi come sempre, era sempre stato il solito Brian.
Per quanto poteva immaginare potesse essere stato questo a convincere Matthew a comportarsi come aveva fatto.
Ma aveva fatto in modo che nessuno si preoccupasse per lui, durante quei lunghissimi dodici mesi. A Stef e Steve non aveva voluto dire niente, aveva continuato a comportarsi con naturalezza senza lasciar sospettare come si sentisse in realtà. Con Helena non aveva voluto neanche accennare alla cosa, e anche con Alex non aveva avuto voglia di parlare, sebbene lei fosse stata l’unica a immaginare che tutta la sua allegria non fosse altro che di facciata.
Dannate donne, sempre così sensibili.
Ma lui era sempre stato così, in fondo, no? Preferiva tenersi tutto dentro e sorridere, di giorno, e dormire coi suoi fantasmi la notte. Magari affondare nel cuscino e respirare con forza, fino a farsi dolere i polmoni, strizzando gli occhi fino a vedere macchie bianche vorticargli dietro le palpebre, e poi riaprirli e guardare il buio, e trattenere le lacrime a stento o non piangere affatto, e stringere i pugni attorno al lenzuolo ripetendosi “passerà, passerà”, sapendo perfettamente che non sarebbe mai passata, perché i fantasmi ti si attaccano alla pelle, sono come il tempo, che passa e ti rimane ancorato alle spalle, e ne senti il peso, giorno dopo giorno, e senti il rimpianto dei giorni perduti e ti fa male anche se sei fortunato e trovi qualcuno che ti consoli.
Lui era stato fortunato, in fondo. Aveva trovato Helena. E lei era stata fantastica, e comprensiva, e permissiva, e lui era convinto, fermamente convinto che fosse la compagna perfetta, l’unica possibile. E poi lei gli aveva dato Cody, e Cody era semplicemente la cosa più… più grandiosa che avesse mai pensato di ricevere in dono dalla vita.
Adesso era un padre, era un uomo quasi sposato, era tutto sommato contento. Era maturato, dall’anno prima.
Eppure non riusciva a lasciarsi quello che aveva vissuto alle spalle.
Non sarà una volta sola, aveva pensato dopo quell’unica notte insieme, e invece era esattamente quello che era rimasto. Un errore. Un episodio isolato nella vita perfetta e razionale di Matthew Bellamy; un episodio isolato, e neanche l’ultimo di una lunga serie, anche nella vita caotica e assurda di Brian Molko.
Un bruscolino di polvere.
Un’invisibile crepa nella parete.
Un niente.
E poi sollevò lo sguardo. Lo fece vagare sconsolato fra le migliaia di facce sconosciute che sembravano troppo impegnate ad aspettarsi di vederlo sul palco per guardare oltre ai suoi occhiali da sole e al berretto che indossava e alla sciarpa che gli copriva per metà il viso, e accorgersi che era lui. Lo fece vagare fra gli alberi di Hyde Park, fra le aiuole ben curate e pulite, così tipicamente inglesi, e gli ampi spazi di terreno mattonato, e poi lo fece vagare su, perdendolo nel cielo plumbeo che sembrava nero attraverso le lenti degli occhiali, e quando lo riportò giù Matt era davanti a lui, voltato di spalle, e camminava spedito guardandosi intorno come alla ricerca di qualcuno, e a lui sembrò per un attimo di impazzire di gioia, e si sentì sudare freddo mentre tra i suoi occhi e tutto il resto germogliavano le parole cerchi me?, cerchi me?, dimmelo, se cerchi me, Dio, ti prego, fa che cerchi me…
Tirò un respiro profondissimo. Rilasciò l’aria dalle labbra, e quella si condensò in vapore e si sparse davanti a lui, rendendo l’immagine di Matt opaca e sfumata – che ironia – proprio come quella di un fantasma.
E poi prese di nuovo fiato, e cercò di sorridere.
- Carino. – disse, e fu abbastanza perché Matt si congelasse sul posto, stringendo i pugni e voltandosi a guardarlo.
*
Non lo individuò subito, quando si girò. Ma era sicuro che fosse lì, doveva essere lì, non poteva esserci soltanto la sua voce, perciò guardò meglio e lo vide. Sì, il nanetto imbacuccato in un lungo cappotto nero, con la sciarpa quasi annodata intorno al viso come un terrorista, e i capelli coperti da uno sciocco berretto bianco e nero, doveva essere Brian.
Non sapeva cosa dire, ma non poteva rimanere zitto, perciò sputò fuori un saluto, faticando enormemente per ricordare il giusto ordine delle lettere nella parola “ciao”.
Brian… sembrava a suo agio. Non poteva vedere l’espressione del suo viso, ma la postura del suo corpo – le gambe leggermente divaricate, le mani mollemente abbandonate nelle tasche del cappotto, le spalle sciolte e distese – e in generale la sua disinvoltura naturale e il tono pacato e quasi divertito con cui l’aveva chiamato, lasciavano intendere proprio quello.
Che per lui fosse tutto a posto.
Che incontrandosi dopo un anno lui potesse chiamarlo ancora in quel modo senza sembrare inopportuno.
Questo lo irritava.
Cercò di mostrare indifferenza, mentre il suo cervello ribolliva.
- Che coincidenza. – disse atono, guadagnandosi in cambio una risata tonante da parte di Brian.
- Coincidenza? – chiese l’uomo, abbassandosi gli occhiali da sole sul naso e guardandolo da sopra le lenti, - Hai uno strano modo di intendere le coincidenze, tu.
- Se credi che ti stessi cercando, sbagli di grosso. – replicò, incrociando le braccia sul petto.
- Sì?
- Sì. Cercavo Dom, so che doveva venire.
Ancora, Brian rise forte.
- Se credi che lui o Stef siano ancora nei paraggi, dato che la prima cosa che hanno fatto rivedendosi è stata saltarsi addosso, allora sei tu quello che sbaglia di grosso. – disse sorridendo candidamente.
Lui si diede dello stupido. Avrebbe dovuto immaginare che una scusa simile non avrebbe funzionato, viste le circostanze.
Rimasto senza parole, totalmente incapace di reggere lo sguardo di Brian – cazzo – fissò la punta delle sue scarpe per una serie infinita di secondi.
Poi l’odore, la consistenza e la temperatura dell’aria attorno a lui cambiarono, e ancora prima di alzare lo sguardo lui seppe che Brian gli si era avvicinato.
- Posso offrirti una birra? – gli chiese l’uomo, gli occhi nuovamente coperti dagli occhiali, scrollando le spalle.
E lui sapeva che era un pericolo avvicinarglisi tanto.
Sapeva che era un pericolo, stare con lui.
E sapeva che era un pericolo anche bere qualcosa con lui.
Ma accettò senza pensarci neanche una volta.
*
Non voleva dargli l’idea che si fosse tenuto informato sul suo conto, durante quell’anno di assenza, perciò non poteva mica cominciare a chiedergli cose del tipo “Allora, ho sentito che finalmente stai mettendo la testa a posto! Com’è essere padre?” sperando che lui pensasse fossero solo informazioni sentite casualmente alla tv o intraviste di sfuggita su un giornale scandalistico.
Brian era scandalosamente portato ad osservare gli avvenimenti come se tutto avesse un perché.
Non ammetteva l’esistenza della casualità.
E Matt sapeva che mentre sorrideva sereno sorseggiando innocente la sua birra, in realtà stava pensando che se si erano incontrati era soltanto perché entrambi lo volevano fortissimamente, e che se lui aveva accettato di farsi offrire la birra era soltanto perché aveva voglia di stare con lui.
Non aveva pensato neanche un momento che avessero potuto incontrarsi per caso e che lui avesse accettato perché non vedeva per quale motivo non avrebbe dovuto.
No, decisamente, se gli avesse chiesto una qualsiasi cosa sulla sua vita privata Brian avrebbe pensato immediatamente che lui si fosse messo a raccogliere informazioni sul suo conto, ritagliare articoli di giornale e fotografie e costruire un altarino alla sua memoria – con candele e tutto – nel seminterrato di casa sua.
Cosa che effettivamente era stato tentato di fare, più di una volta.
Potenza della nostalgia.
Mentre rimuginava su cosa fosse giusto fare e cosa invece dovesse ricordarsi di non fare mai e poi mai, semplicemente Brian terminò la sua birra, sorrise e chiese “Allora, ho sentito che ti sei fidanzato. Sei felice?”.
Lui lo guardò, attonito, la labbra ancora dischiuse e il boccale a mezz’aria davanti al viso.
- Che vuol dire se sono felice?
Lui inarcò le sopracciglia, stringendo le labbra.
- E’ una domanda come un’altra. No?
- Sì, voglio dire… certo che sono felice! Amo la mia ragazza!
Brian sorrise.
- Vedi che non è difficile rispondere?
Che cosa diavolo gli stava succedendo? Non era mai stato così gentile, così ossequioso…
…così distaccato.
Odiava quel sorriso lontano. Odiava quelle domande di circostanza.
E odiava la consapevolezza che se Brian poteva permettersi senza troppi problemi di chiedergli se fosse veramente felice e come stesse con la sua ragazza era perché, evidentemente, lui l’aveva superato, quello che era successo fra loro.
E quindi, forse, in definitiva, quello che pensava troppo, fra loro due, era proprio lui.
Quello ancora spaventato.
Quello ancora attaccato al passato.
Quello ancora in- Dio, era lui, quello.
Abbassò lo sguardo, sentendosi colpevole nei confronti di tutto il mondo.
- Allora, chi sei venuto a vedere? – chiese Brian tranquillamente, con curiosità, - I Genesis? La reunion sta facendo parlare di sé. Pare che andranno in tour, dopo questo concerto.
- Mh… - disse lui, poco convinto, mentre metabolizzava la sensazione che, con tutto il rispetto per Collins e compagnia, con Brian là davanti dei Genesis gli fregava meno di niente.
- E’ proprio vero che il tempo rinvigorisce i legami, quando sono sinceri, no?
Spalancò gli occhi.
Eccola.
Eccola, eccola, eccola!
La mazzata.
Doveva arrivare, prima o poi.
Stupido, deficiente lui che aveva creduto di averla passata liscia.
Il tempo rinvigorisce i legami sinceri, sì.
E distrugge tutti gli altri.
Capito l’antifona, Brian.

Ora era tutto molto più chiaro, e molto più doloroso.
Brian non era semplicemente passato avanti. Non aveva conservato il ricordo del tempo che avevano passato insieme immergendolo in un barattolino di dolce malinconia. Aveva camminato sui suoi ricordi, pestandoli e riducendoli in brandelli, e poi aveva messo quanto rimasto sott’odio, e lì l’aveva lasciato, a marcire, fino a quel momento.
Ecco cosa c’era dietro ai suoi sorrisi sereni, dietro al suo cortese distacco, alle sue fredde premure.
Quintali, quintali e quintali di schegge di rancore a saltellare impazzite nella sua mente, conficcandosi ovunque.
- Be’, chiunque tu sia venuto a vedere, - concluse Brian alzandosi in piedi, - spero tu rimanga anche fino all’esibizione dei Placebo.
In realtà aveva già visto chi voleva vedere.
Fin troppo.
E se Brian l’avesse saputo gli avrebbe detto tranquillamente che allora poteva andare via.
Ma lui non disse niente, si limitò ad annuire. Brian rispose con un sorriso e poi si voltò per uscire dal locale.
Resistette all’impulso di richiamarlo solo fino a quando non lo vide sulla soglia della porta.
- Brian! – disse a voce alta, attirando gli sguardi degli altri clienti e rimettendoli tutti ai loro posti con una serie di occhiatacce torve.
- Sì? – chiese lui, voltandosi e sorridendo cortesemente.
Matt si sentì avvampare.
- Canterai… canterai la nostra canzone? – chiese infine, imbarazzato, fissando il pavimento.
Brian scoppiò a ridere così forte che lui pensò di aver fatto una battuta.
- Mio Dio, Bellamy: no!

Genere: Comico, Demenziale, Parodia.
Pairing: MatthewxBrian. Be', sì XD
Rating: R
AVVISI: Boy's Love, CrackFic, RPS.
- Una notte, Matthew si sveglia d'improvviso e chiede al suo uomo se pensa che sia gay o bisessuale. E questo è solo l'INIZIO del disastro.
Commento dell'autrice: Avete assistito alle nuove quasi-dieci pagine di follia made by liz ^___^ (come se ne sentiste il bisogno…).
Anyway, è tutto vero >O< Matthew è gay. Non può essere altrimenti!
Nah, si scherza :D
Grazie alla Nai per il betaggio >.<
Dedicata con affetto enorme a Bea, che illuminandomi sulla palese gayezza (o era gaytudine?) di Supermassive Black Hole mi ha aperto un nuovo mondo çoç E all’Ele, perché… siamo in sintonia in questo senso <3
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ASK FOR ANSWERS
ovvero
Capra E Cavoli

Quando aprì gli occhi, si spaventò.
- Matt! – strillò agitato, scattando a sedere sul letto, - Che diavolo hai?
Matthew Bellamy, il suo uomo, stava fissando la parete di fronte al letto con sguardo vacuo e labbra dischiuse. Come ipnotizzato. O come fosse totalmente pazzo.
Cosa che in effetti era. Dannazione!
- Matthew! – chiamò ancora, sempre più sconvolto, - Matt, ti dai una svegliata e mi dici cosa c’è?
Lui si voltò a guardarlo con un movimento lentissimo, ruotando appena il capo sul collo – e fu una visione talmente inquietante che Brian a un certo punto pensò che l’avrebbe visto fare come la bambina protagonista dell’Esorcista, e che si sarebbe trovato a fissare negli occhi un Matt con la testa avvitata sul collo come una lampadina. Ma la testa di Matt non ruotò così tanto, e quindi Brian si ritrovò a fissare solo un enorme paio d’occhioni cucciolosi celesti che imploravano aiuto dal fondo della confusione mentale in cui erano intrappolati.
“Avrà fatto un brutto sogno”, si disse, sorridendo teneramente e cingendolo con un braccio intorno alle spalle per abbracciarlo.
Ma Matthew Bellamy non poteva certo lasciarsi consolare senza approfondire l’argomento, no.
Lui doveva esprimersi.
- Brian… - disse, col tono infantile e dispiaciuto di chi sa che sta per fare una domanda sciocca, ma non per questo si fermerà, - secondo te io cosa sono?
Brian lo guardò, inarcando le sopracciglia.
- Pensavo un “essere umano”, ma ormai comincio ad avere dei dubbi.
- …
- Sicuramente nella tua linea genealogica ci sono delle capre. Ed evidentemente, per i principi mendeliani, tu presenti i caratteri recessivi di questa tua discendenza.
Matthew lo fissò, attonito e perplesso, per molti secondi.
Poi scosse il capo.
- Sì, ok. – disse condiscendente, annuendo convinto, - Ma io dicevo… secondo te, no?... cioè, visto che hai anche più esperienza di me a riguardo… insomma, io sono gay o bisessuale?
Anche Brian lo fissò, cercando di capire se fosse serio e arrendendosi al fatto che, come sempre, quando si trattava di idiozie colossali, lo era.
- Capra. – concluse tranquillamente, con un lieve sbuffo di disapprovazione.
Quello fu abbastanza perché Matt cominciasse ad agitarsi sul posto, cercando di svoltolarsi dalle lenzuola per protestare con più veemenza contro il suo uomo insensibile.
- Perché mi dai della capra?! – strillò l’inglese quando riuscì nell’impresa, - Io ti ho fatto una domanda seria!
Brian sospirò, tornando a distendersi sul cuscino e sistemandosi le lenzuola sul petto.
- Matt, perché dev’essere un problema? – chiese, per poi passare a spiegare pazientemente la sua teoria, - Quando ti fai domande simili, risponditi che lasci che la tua sessualità fluisca liberamente dove vuole. Questione risolta.
- …perché questa frase non mi è nuova? – domandò Matt, guardandolo di sbieco e gonfiando le guance come uno scoiattolo.
- Perché è quella che si rifila ai giornalisti impiccioni. – rispose Brian con naturalezza, osservando le unghie ancora perfettamente laccate di nero.
Matthew lo guardò per qualche secondo, prendendosi il tempo necessario per realizzare.
- Bri. – lo richiamò poi a bassa voce, - Mi stai liquidando senza darmi retta?
Brian sorrise appena, guardandolo furbescamente di rimando.
- Adesso è la tua parte umana a parlare… - commentò soddisfatto, rivoltandosi sul materasso e prendendo a far dondolare le gambe sotto le lenzuola.
Matthew incrociò con disappunto le braccia sul petto.
- Ok. – borbottò deluso, - Ho capito. Se mi aspetto una soluzione da te, posso aspettare anche in eterno!
- Come sarebbe a dire “una soluzione”?! – si lamentò Brian, lasciandosi andare sul cuscino con un movimento stanco, - Ti aspetti davvero che sia io a definire la tua sessualità?
- Be’! – disse Matt, allargando le braccia, - Scusa se ti ho preso per un uomo sensibile che avrebbe potuto aiutarmi!
Brian si limitò a sospirare pesantemente, chiudendo gli occhi e ripetendosi di star calmo e dormire, ché quella follia prima o poi sarebbe passata come in passato erano volate vie le allucinanti tinture per capelli e le camice a righe bianche e gialle con il panciotto.
- Chiederò a Dom. – mormorò appena Matt, accomodandosi disteso al suo fianco e spegnendo il lume sul comodino per tornare a dormire, - Lui di sicuro saprà darmi una mano.
*
- Tu sei pazzo. – disse semplicemente Dominic, guardandolo con occhi vuoti.
- Non dire così! – si lamentò Matthew, stringendo i pugni come un bambino deluso, - Ti ho solo chiesto se pensi che io sia gay o bisessuale!
- Non è questo!!! – strillò Dominic, allargando le braccia in un gesto esasperato, - Per quanto sia già assurdo essere presi alla sprovvista con una domanda simile alle otto e mezzo del mattino, Matthew, è il discorso che hai fatto prima che mi ha sconvolto!
- Uh? – uggiolò Matt, come cadendo dalle nuvole, - Non capisco. A cosa ti riferisci? Al fatto che ho detto “tu che sei gay…”?
- ESATTO, Bellamy!!! Io non sono gay!
Chris scelse quell’esatto momento per apparire dal corridoio e sgranare gli occhi, avvicinandosi ai due litiganti.
- Che diavolo sta succedendo? – chiese curioso, incrociando le braccia sul petto, - Non mi pare che generalmente tu abbia bisogno di fare dichiarazioni simili così presto al mattino… - commentò, ridacchiando lievemente in direzione di Dom e poi restando in ascolto.
- Matthew è un idiota! – rispose semplicemente Dominic, cercando di fuggire attraverso la porta mentre Matt lo arpionava per un braccio, tenendolo fermo.
- Chris! Dom non mi capisce!
- E cos’è che non capisce?
- Sono venuto qui, disperato, mettendo il mio cuore nelle sue mani e chiedendogli se pensava che fossi gay o bisessuale e lui-
- A-Aspetta un attimo, Matt… - lo interruppe il bassista, aggrottando le sopracciglia, - cos’è che ti fa pensare che Dom possa avere la risposta per una domanda simile?
- Perché lui è gay! – asserì il cantante con estrema decisione, mentre Dom esplodeva in un potentissimo grido esasperato e Chris scuoteva il capo.
- Matt… - cercò di spiegare, liberando Dom dalla stretta, - Dominic non è gay. Non lo è mai stato.
- BALLE! – strillò Matt, riafferrando Dom per la collottola e scuotendolo energicamente, - Lui è stato assieme a Roger Teabing, al liceo! Non è che lo guardava da lontano e ci fantasticava, no! Lui c’è stato! A scuola lo sapevano tutti!
Chris sospirò, mentre Dom urlava ancora.
- Dominic, calmati. – disse il bassista, tappandogli la bocca, per poi tornare a rivolgersi al cantante, - Matthew, anche a te piaceva Roger Teabing. Perdio, a tutti piaceva Roger Teabing! E lui era una puttana, s’è ripassato tipo mezza scuola, e-
- Non ha mai ripassato me!!! – gridò Matthew, mollando all’improvviso Dominic per portare le mani ai capelli in un gesto disperato.
- …okay. Sorvolerò su quest’ultima cosa che hai detto. Il punto è, Matthew, che da quel momento Dom non è mai stato con nessun maschio, e che, per quanto ne so, relega Roger Teabing nella “parte dell’adolescenza di cui preferirebbe non parlare mai più”. È così, Dom?
Dom annuì con decisione, così velocemente che Chris temette per il suo collo.
- Quindi. – continuò il bassista, cercando di risolvere la situazione, - Il problema sarebbe…?
- Il problema è – inizio Matt, infervorandosi, - che ho bisogno di sapere se avete notato qualcosa… qualcosa di strano! Nei miei comportamenti, nei miei modi di fare… qualcosa che possa aiutarmi a stabilire se sono gay o no!
Dom strillò ancora una volta – evidentemente il fatto che Matt avesse riportato a galla una parte oscura e tranquillamente dimenticabile del suo passato aveva bruciato tutti i neuroni che gli erano rimasti.
Chris si limitò a guardare il proprio cantante con aria interrogativa, per poi esplodere in un ennesimo sospiro e scuotere il capo.
- Matthew. – disse dolcemente, con pazienza, - Ti scopi Brian Molko. Cioè… Brian Molko. Mi pare evidente che la tua sessualità è quantomeno… disordinata. Ma al di là di questo, che differenza vuoi che faccia? È… Brian Molko! Non puoi mica angosciarti perché non sai se ti piace scopare con gli uomini o con le donne o con entrambi… Molko è entrambi!
- Tu non capisci! – continuò Matt, intenzionato a non arrendersi, - Per me è importante! Ho bisogno di definirmi come persona! Ho bisogno di saperlo! E per inciso, Brian non è entrambi, Chris!
Il bassista si limitò a scrollare le spalle mormorando “be’, se lo dici tu…” e dirigendosi con aria neutra verso un divano, sul quale si abbandonò, prendendo a sfogliare distrattamente una rivista.
Dominic, frattanto, era tornato in sé.
- Senti, Matt. – disse, più per chiudere definitivamente l’argomento e rimandare Teabing negli abissi della memoria dal quale era stato riesumato, che per desiderio effettivo di aiutare il proprio migliore amico, - L’unico modo per uscire da questa situazione è rapportarti con gli altri. Guarda le persone! Frequentale! Insomma, Dio mio, sei passato da Gaia a Brian senza neanche prenderti un attimo di pausa! Devi volare di fiore in fiore, vedere che effetto ti fanno anche le… le margherite, e le… le violette! Mica solo… chessò, rose e gelsomini!!!
E questo fece accendere qualcosa negli occhi di Matthew.
Un qualcosa talmente inquietante che Dom si pentì subito di aver parlato.
- Matt… - cercò di chiamarlo, ma era già troppo tardi. Matthew si stava dirigendo a passo spedito e deciso verso l’ufficio di Tom
Ufficio nel quale irruppe gioiosamente, strillando “Tom! Credo di essere gay! Indiciamo una conferenza stampa!”, con l’unico risultato che il manager cadde dalla sedia e rischiò seriamente di spaccarsi l’osso del collo.
Presagendo la catastrofe, Dominic si introdusse a sua volta nella stanza, guardandosi intorno con occhi spaventati alla ricerca di Tom, che nel frattempo stava faticando per riemergere dal pavimento sul quale si era abbattuto.
- Cos’è che ha detto…? – furono le prime parole del povero Tom, quando riuscì a risollevarsi e riprendersi almeno un po’.
- Ah! Non chiedermelo! – si lamentò Dominic, agitando le mani, - È da quando è arrivato che dice idiozie e cerca di far decidere agli altri se è gay o no! Scommetto che è stato Molko a ficcargli qualche strana idea in testa…
- Va bene. Okay. – disse Tom, massaggiandosi le tempie e riportando l’attenzione su Matthew, che aspettava trepidante una sua risposta, - Matt, di che diavolo blateri?! Una conferenza stampa? Per dire cosa?!
- Dom mi ha convinto che-
- Dom non ti ha convinto di niente! – lo interruppe il batterista, arrossendo d’improvviso al ricordo delle idiozie che gli aveva detto per tranquillizzarlo.
- Sia come sia! – sbuffò Matthew, contrariato, - Adesso so come posso stabilire se sono gay o no!
- E come? – chiese Tom, per pura formalità, dal momento che già sapeva che risposta avrebbe dato Matt.
E infatti lui non lo deluse.
- Devo chiederlo a più persone possibile! Anzi, devo chiederlo a più giornalisti possibili! Loro sono abituati ad osservare, a prendere appunti, a ricordare le cose! Di sicuro sapranno darmi una risposta!
- Certo, Matt… - lo blandì Tom, condiscendente, - Ma vedi, questa cosa si chiama suicidio mediatico. Vuol dire che vai lì e consapevolmente prendi il tuo povero corpo e lo lanci ai lupi affamati, incitandoli a divorarti. Capisci cosa voglio dire?
- …no. Voglio solo parlare con i giornalisti! Che sarà mai?
- Che sarà mai?! – gridò Tom, evidentemente giunto al limite della propria capacità di sopportazione, - Capisco che tu possa esserti confuso con la metafora dei lupi famelici, ma la parola “suicidio” avrebbe dovuto metterti in guardia, no?!
Matthew si adirò, ed era lì lì per ribattere che non aveva alcuna intenzione di suicidarsi ma solo di parlare, e che se Tom non capiva le diverse sfumature di significato delle due parole era palesemente un cretino, quando Alex Weston apparve sulla soglia della porta, splendido sorriso predatore sul volto e criniera ricciuta come sempre sciolta sulle spalle, avanzando sicura di sé come una pantera in battuta di caccia.
- Allora! – esordì con una mezza risata, - Questa storia di Matthew che indaga sulla propria identità sessuale è vera o è una chiacchiera da assistenti repressi?
- Ossignore! – esclamò Tom, sconvolto, - Matt! Ma a quante persone l’hai detto?!
- Be’… - si giustificò lui a mezza voce, - Quando sono arrivato non riuscivo a trovare Dom… e così ho chiesto un po’ in giro…
- Mi auguro che in giro tu abbia chiesto dov’era Dominic!!!
- No. – rispose innocentemente Matthew, - Ho chiesto a chi incontravo se loro pensavano che fossi gay o no.
- Oh, tesoro! – esclamò Alex, stringendolo fra le braccia ed avvolgendolo in una nuvola di Chanel, - Sei così carino! Per curiosità, - aggiunse poi, con una risatina maligna, - i risultati del sondaggio quali sono stati…?
- Ho scoperto che tante persone credono che io sia stupido! – rispose Matt, agitandosi, - Il che è assurdo!
- Povero caro… - continuò Alex, sghignazzando tanto che non riusciva più neanche a darsi una parvenza di serietà, - Questo non c’entra niente con la tua sessualità!
- È quello che dico anche io! Se io vengo da te e ti chiedo “credi che io sia gay o bisessuale?”, tu non puoi rispondermi “secondo me sei stupido”! Cosa c’entra?!
- Quanto hai ragione, amore! – rise Alex, stringendolo di più perché non notasse la palese ombra di derisione che le oscurava lo sguardo, - Il mondo è cattivo con te!
- Anche Brian lo è stato! – proseguì Matt, contento di aver trovato finalmente qualcuno in grado di capirlo, - Quando l’ho chiesto a lui mi ha dato della capra!
- Non capisco come sia possibile! – sbuffò Alex, lasciandolo finalmente andare e mettendo le mani sui fianchi, - E come intendiamo risolvere questa spiacevole situazione?
- Io vorrei indire una conferenza stampa! – disse Matt con convinzione, - Ma Tom non vuole lasciarmelo fare!
La stessa luce che si era accesa poco prima negli occhi di Matt si accese anche in quelli di Alex. Ma nelle sue iridi verdastre assunse una sfumatura semplicemente demoniaca, una di quelle sfumature che volevano dire “ho trovato un nuovo modo osceno per far soldi”, e che mettevano sempre in agitazione il povero Tom.
- Una conferenza stampa…? – ripeté la donna come stesse recitando un incantesimo, - Be’, io non ci vedo niente di male.
- Ecco! Sapevo che sarebbe successo! – disse Tom, portando le mani ai capelli e cominciando a sudare, - L’idiota e il diavolo! Un dramma!
- Oh, Tom! Non farla così grave! – disse Alex, ragionevole, aiutandolo a sedersi e sistemandosi poi di fronte a lui, senza dimenticare di appoggiarsi sulla scrivania, per guardarlo dall’alto e non perdere il dominio della situazione, - Prova a pensarci: tutti i suoi problemi relazionali sarebbero risolti! Avreste un leader finalmente sereno, rilassato, felice… insomma, normale! E poi è notorio che fare outing aiuta… pensa a Brian!
Brian passò davanti alla porta dell’ufficio – ancora aperta – proprio in quel momento. Aveva gli occhi persi in una quantità infinita di scartoffie – i fogli che teneva fra le mani erano così tanti che davano l’impressione di dover cadere a terra da un momento all’altro – e un paio di cuffiette affondate in profondità nelle orecchie, e camminava velocemente, con incedere quasi isterico, borbottando a mezza voce frasi incomprensibili, intervallate con convinti “sì” o delusi “no”.
- …normale, dicevi…? – esalò Tom, sconvolto, mentre Alex ridacchiava imbarazzata.
- Secondo me siete tutti pazzi. – concluse Dominic, imboccando la porta per fuggire da quella situazione, - So già come finirà questa storia, e so già di non volerci avere niente a che fare.
*
Puntualmente, due ore dopo, la sala conferenze era gremita di giornalisti affamati di notizie, e Tom e i Muse – sudati e imbarazzati come mai, ad eccezione di Matt, che sembrava in agitazione solo perché la discussione che stava per avere luogo avrebbe, a sua detta, “cambiato la sua vita” – stavano seduti al tavolo, aggiustando nervosamente giacche e cravatte e sbottonando colletti quando eccessivamente stretti, mentre Alex, Stef e Steve monitoravano la situazione dal fondo della stanza e cercavano di riportare un Brian, ancora impegnato in chissà cosa, alla realtà.
- Io vorrei solo capire… - borbottò Dom, guardandosi intorno con fare isterico, - perché anche noi?! È lui l’omosessuale!
- Sta’ un po’ zitto, Dom! – lo rimproverò Tom, - E poi è sempre meglio essere uniti e compatti di fronte alle disgrazie. Sarà più facile salvare Matt e i Muse dal disastro, se staremo insieme!
Inutile dire che l’arringa non convinse affatto il batterista, che incrociò le braccia sul petto e guardò altrove, concentrandosi fortemente sul pensiero “in realtà non sono qui, sono alle Hawaii e una bella isolana sta ballando per me vestita solo di gusci di cocco”.
In quel momento, Matthew decise che aveva aspettato abbastanza e che era il momento di risolvere la questione. Prese il microfono fra le mani, si schiarì la voce, aspettò imbarazzato che il microfono smettesse di fischiare per protesta e infine parlò.
- Secondo voi… - chiese esitante, guardandosi intorno, - io sono gay?
Il momento di silenzio che seguì fu il più carico di aspettativa della storia di tutti i silenzi.
Ma non ebbe una conclusione soddisfacente.
I giornalisti, infatti, invece di rispondere alla domanda, letteralmente assaltarono i propri taccuini, prendendo a scrivere come forsennati e implorando i colleghi perché facessero riascoltare loro la registrazione, per descrivere ogni sfumatura della voce di Matthew Bellamy che confessava al mondo la propria omosessualità.
- No, no! – disse Matt, comprendendo che la piega che la situazione stava prendendo non era quella che lui si sarebbe aspettato, - Non stavo dicendo di essere gay! Avete capito male!
Tutti i giornalisti si fermarono d’improvviso, le penne a mezz’aria e qualche ghirigoro scarabocchiato sui fogli a quadretti.
- Stavo chiedendo a voi se pensate che io sia gay! – precisò con foga, alzandosi dalla propria seggiola e andando a sedersi in punta sulla pedana, i piedi dondolanti nel vuoto, molto più vicino ai giornalisti di quanto non fosse prima e ben deciso a dare il via a un serio dibattito sull’argomento.
E mentre Tom organizzava le guardie del corpo perché fossero pronte a recuperare il frontman prima che venisse mangiato vivo, successe l’impensabile.
Ovvero, i giornalisti cominciarono effettivamente a discutere.
Ipotizzavano.
Facevano esempi.
Riportavano alla luce fatti e capi di vestiario dei quali neanche lui ricordava più l’esistenza.
In un marasma concitato di voci diverse e contrastanti all’interno del quale non si capiva niente.
E Matt… Matt sembrava perfettamente a suo agio. Ascoltava tutto. Annuiva, ANNUIVA, di tanto in tanto. Spiegava, forniva giustificazioni, commentava, negava e asseriva.
- In effetti, quando siete usciti con la demo lei aveva un maglioncino rosa, signor Bellamy…
- Be’, sì, in effetti è vero…
- E in uno degli ultimi servizi fotografici che avete fatto, signor Bellamy, lei ha nuovamente indossato una maglietta rosa…
- Dite che il rosa può essere un indizio?
- Certo, signor Bellamy!
- E poi c’è il suo famoso falsetto…
- Ma il falsetto c’entra con l’omosessualità?
- Ma è ovvio, signor Bellamy! Per non parlare di certi completini che indossa…
- Ma siamo tornati ai vestiti?
- I vestiti sono spesso la più evidente prova di omosessualità, signor Bellamy!
Questo sembrò convincerlo più di tutto il resto.
Annuì vigorosamente, lasciando dondolare ancora un po’ le gambe giù dalla pedana.
- C’è anche il cappellino coi brillantini… - disse lui stesso, - In effetti sembrava strano anche a me…
- Ma allora, signor Bellamy… - azzardò un giornalista, pronto a scrivere qualora ce ne fosse stato bisogno, - lei è omosessuale?
E lì sarebbe successo il disastro.
Perché Matt avrebbe senza dubbio alcuno risposto “sì”. Se Dominic non avesse creduto opportuno darsi una manata sulla faccia, riscuotersi dallo sconvolgimento in cui quella situazione l’aveva gettato, afferrare due gorilla e correre in soccorso del proprio frontman, prelevandolo da dove si trovava prima che potesse dire qualcosa in grado di far esplodere una bomba dalla potenza tale che avrebbe distrutto tutta la loro vita per sempre.
- Lo spettacolo è finito. – annunciò teatralmente Tom, afferrando anche Chris per la collottola e fuggendo al piano di sopra, - Arrivederci e grazie.
Ben presto, fra lo sghignazzare convulso dei giornalisti che prendevano a chiamare in direzione per dire di avere “il silenzio-assenso del secolo”, la sala rimase praticamente vuota, e davanti alla porta restarono solo un’Alex con le braccia incrociate sul petto, perfettamente sorridente e soddisfatta, uno Stefan e uno Steve palesemente sconvolti che cercavano ancora di capire cosa diavolo stesse succedendo, ed un Brian che non sapeva più dove posare i fogli di carta e continuava a borbottare frasi senza senso mugugnando come un pazzo.
- Bri… - lo chiamò Stef, picchiettandogli con un dito sulla spalla, - che cosa sta combinando il tuo uomo…?
Brian non gli diede retta, scrollando le spalle e continuando a segnare appunti su appunti, cerchiando in rosso alcune parole sul testo che aveva davanti.
Il bassista lanciò uno sguardo a Steve, il quale si limitò a scuotere il capo e allargare le braccia in segno di resa.
- Stef! – chiamò all’improvviso il cantante, alzandosi in piedi e sventolandogli un foglio sotto al naso, - Secondo te l’espressione “spiral static” è equivocabile?
Stefan guardò Alex e vide che ridacchiava gioiosa.
Guardò Steve e capì che non poteva pretendere che riflettesse su una cosa simile.
Guardò Brian e lo vide in fiduciosa attesa di una risposta.
Perciò sospirò. E rispose.
- Brian, non ho idea di cosa tu stia dicendo.
Il cantante, per tutta risposta, arruffò le penne e strillò che nessuno di loro aveva capito niente, che alla fine toccava sempre a lui perdere vite per cercare di risolvere i problemi, e, minacciando di ucciderli tutti se si azzardavano a disturbarlo prima che avesse trovato una soluzione, fuggì di corsa dalla sala riunioni, raccogliendo fogli a destra e a manca se nella fretta ne faceva scivolare qualcuno per terra.
- Frequentare Bellamy gli sta facendo prendere cattive abitudini. – commentò semplicemente Steve, battendo un paio di volte con la mano sulla spalla del bassista e invitandolo ad andare fuori a prendere una boccata d’aria, mentre lui annuiva sconsolato.
*
Brian era un uomo molto innamorato. E perciò poteva percepire esattamente quanto frustrato e deluso e confuso fosse il suo uomo quella sera, quando se lo ritrovò nel letto, braccina incrociate sul petto e adorabile broncio a increspare le labbra sottili.
Ma dal momento che Matt non aveva fatto altro che sbuffare e contorcersi nell’angoscia da quando era tornato a casa, probabilmente il fatto che Brian avesse compreso il suo stato d’animo non dipendeva esattamente dall’enorme amore che provava per lui.
Matthew si rigirò fra le lenzuola per l’ennesima volta, agitandosi al punto da far dondolare il letto, e Brian capì che quello era il momento di rendere pubblici – almeno con lui – i risultati delle ricerche estenuanti che l’avevano tenuto impegnato per tutte le ventiquattro ore di quella giornata.
- Matt. – disse seriamente, aspettando che l’uomo si voltasse e lo fissasse negli occhi, prima di continuare, - Sei gay.
Si sarebbe aspettato molte cose.
Che le sue labbra si aprissero in un sorriso sereno e soddisfatto, che lui gli saltasse addosso ringraziandolo, o che dicesse malizioso “mettiamo in pratica le tue teorie” – anche se Matt non aveva mai fatto una cosa simile, purtroppo.
Ciò che vide non assomigliava a niente di quanto aveva immaginato.
Matthew… rimase lì.
Immobile come un rospo congelato.
Gli occhioni fissi e vuoti su di lui e le labbra strette in una smorfia di puro stupore.
Brian immaginò che volesse una qualche… prova… e quindi si affrettò a fornirgliele.
- Io… - cominciò, prendendo fiato, - non sono come quegli idioti dei giornalisti! Non starò a farti l’elenco dei vestiti che hai indossato o delle volte in cui sei saltato addosso a Dominic o a Christopher mentre eravate sul palco. No! Io ho portato avanti uno studio scientifico! Mi segui, Matty?
“Matty” annuì, incapace di fare altro.
- Ho stampato tutti i vostri testi! – spiegò Brian, riempiendosi d’entusiasmo di parola in parola, - E… sai, Matty, si dice che quando si scrive si è molto più sinceri rispetto a quando si parla…
- …io non scrivo i testi delle mie canzoni…
- Che c’entra? Componi! Crei! Butti giù!
- …no. Più che altro ricordo.
Brian si prese un attimo di pausa.
La nuova consapevolezza che il proprio uomo non mettesse su carta le robe che creava nella testa, cambiava qualcosa nelle sue convinzioni?
…no.
Annuì serenamente e ricominciò a spiegare.
- Vedi, Matt, in effetti tutto è cominciato molto tempo fa. In realtà tu già hai detto al mondo di essere gay nel vostro primo album!
- …nel… nel primo…?
- Sì! – annuì Brian, convinto, tirando fuori un foglio ricoperto di segnetti rossi da sotto il cuscino, - Vedi, in Sober…
- Sober era una canzone sull’alcool!
Brian gli scoccò un’occhiata severa, fissandolo di sbieco.
- L’alcool, Matt? Solido?
…in effetti…
- Insomma, per tutto il ritornello tu non fai che parlare di questa cosa dura che brucia dentro di te… a me sembra ovvio che o parlavi di una supposta o parlavi di un-
- Non dirlo!!!
Il cantante dei Placebo si interruppe di colpo, sgranando gli occhioni. Cosa stava succedendo a Matthew? Durante la conferenza stampa sembrava così impaziente di scoprire la verità sulla propria sessualità! E adesso stava lì a fare i capricci?
- Ma quello non è l’unico indizio, Matty… - continuò Brian, picchiettando con due dita su un altro foglio tirato fuori da chissà dove, - Pensa al testo di Fillip… qualcosa di nuovo, qualcosa di strano…
- Ma-ma-!!!
- Poi è ovvio che in Citizen Erased tu fai un passo indietro e cerchi di negare tutto. – proseguì Brian, sempre più deciso, annuendo, - Quando dici che devi mentire e coprire ciò che non va condiviso con gli altri. È ovvio!
- Ma questa ovvietà…
- Ah, be’, - lo interruppe Brian, continuando a fornire prove su prove, - poi in Time Is Running Out c’è quella famosa cosa del succhiare la vita… - un’occhiata languida, un sorriso appena malizioso, - …succhiare la vita fuori da te, ma non ricordo in questo momento se l’avevo presa come una prova di omosessualità o come un riferimento sessuale e basta…
- E io che pensavo che non fosse nessuna delle due cose… - sospirò Matt, esausto, abbandonandosi contro lo schienale del letto e fissando sconvolto i decori delle lenzuola.
- Ma la prova più schiacciante, Matt, - concluse Brian, tirando fuori un ultimo foglio da… da sotto la maglia del pigiama che indossava, - è il vostro ultimo album.
- Black Holes…?
- Esatto Matt.
- And…
- Sì, Matt.
- …And Revelations…
- Proprio così, Matt. Buchi neri e rivelazioni. E Supermassive Black Hole, Matt… Matt, è una canzone palesemente gay.
- …palesemente gay…
- Be’, sì, prova a pensarci… il falsetto… e… voglio dire, le superstar che finiscono risucchiate nel…
- …
- …ecco…
- …nell’enorme buco nero. Sì, Brian.
Brian guardò il proprio uomo.
Sembrava… disorientato forse non rendeva appieno, ma era di sicuro un modo per descriverlo.
Fissava angosciato un punto vuoto nell’aria davanti a sé, e non trovava neanche la forza per sospirare un assenso o un dissenso.
- Oh, be’. – disse a mezza voce Brian, sporgendosi verso di lui per baciarlo teneramente su una guancia, - Devi metabolizzare. È normale. Buonanotte! – e così dicendo si affrettò a spegnere il lume sul comodino, arrotolarsi fra le lenzuola e addormentarsi di botto.
Matthew rimase lì, seduto a fissare il niente.
- Brian… - mormorò appena, ancora incapace di muoversi, - Brian, tesoro.
L’altro mugugnò un “ti ascolto” trasognato, e Matthew sospirò.
- La prossima volta… - sbuffò, abbandonando il capo indietro, contro il legno, - quando ti faccio una domanda, ignorami.
Genere: Erotico, Comico.
Pairing: MatthewxBrian. Totally <3
Rating: NC-17
AVVISI: CrackFic, Lemon, RPS, Slash.
- Un giorno, Matt Bellamy torna a casa e trova il suo uomo impegnato in quella che sembra una serissima telefonata di lavoro. In realtà, si tratta di ben altro.
Commento dell'autrice: Dio, voglio scrivere questa cosa da quando ho letto la storia di “Evil Dildo” XD Per chi non lo sapesse, è la traccia nascosta di Without You I’m Nothing, ed è praticamente una musicaccia (X’D) alla quale è stato applicato un messaggio che il povero Bri ha trovato nella sua segreteria telefonica (quando ancora aveva il numero sull’elenco) che, in sostanza, dice “so dove vivi, verrò a casa tua, ti taglierò il cazzo e me lo mangerò dopo averti scopato a sangue” è____é””” Povero tato ._. Chiaramente NON POTEVO scrivere una fic su Brian che ha a che fare con questa gentaccia <_< Per cui ho preferito scriverne una in cui avesse a che fare con ALTRA gentaccia X’D Ovverosia il suo uomo e quei traditori dei suoi migliori amici.
Perché Matt è un cretino, ecco >_<
A parte questo, volevo pure un’occasione per fare apparire tutti i miei tati ç___ç Non ricordavo più neanche da quanto non facevo agire il povero Chris! Continuo a riempire d’amore Matt e Bri senza che nemmeno se lo meritino (>_<) e non faccio fare nulla a quegli altri poveri tati che invece meritano tutta la comprensione e l’affetto del mondo. Oh. Se ve lo state chiedendo, sì, è questo il motivo per il quale sono tutti così totalmente fighi e intelligenti. Perché volevo dimostrare loro la mia profondissima devozione. Oh.
Fin dall’inizio ero indecisa se farla diventare lol o porno :O Alla fine mi sono adattata e ho fatto un porno-lolololol-porno che tra l’altro ha una struttura linearissima e quindi spero non sia noiosa XD
Dedicata con tanto amore alla Nai, alla Nacchan e alla Mika che l’hanno letta passo dopo passo assieme a me, di dieci minuti in dieci minuti, e alla Juccha e alla nee-chan che hanno letto in anteprima assoluta la prima scena di sesso XD Amo essere circondata da donnine perverse. Perché lo sapete, che siete perverse, vero? X3 *ama il mondo*
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TRY AND RUN


You make me sick
Because I adore you so
I love all the dirty tricks
And twisted games you play
On me
“Space Dementia” – Muse


Quando entrò in casa, Brian era in piedi davanti alla finestra, e guardava Londra ai suoi piedi con grande interesse, annuendo di tanto in tanto.
- Mh. Sì. Capisco. – disse, mettendo una mano sul fianco.
Matthew capì che stava parlando al telefono, e in effetti il cordless non si trovava dove avrebbe dovuto essere, sul comodino.
Lo salutò con la mano, posando cautamente le chiavi sulla consolle all’ingresso, senza fare rumore, per non disturbarlo. Brian rispose al saluto e alla gentilezza con un semplice cenno del capo.
- Bene. Grazie e arrivederci. – disse infine, terminando la chiamata e gettando distrattamente il telefono sul divano.
- Era Alex? – s’informò Matt, che dal suo tono aveva ipotizzato potesse trattarsi di una telefonata di lavoro.
- Oh, no. – rispose Brian con un naturale mezzo sorriso, - Solo una telefonata oscena.
Matthew spalancò gli occhi.
- Prego?
- Una telefonata oscena. – ripeté Brian, come stesse parlando del tempo, - Di quelle con gli ansiti e i vocioni che ti dicono “entrerò in casa tua e ti sfonderò il-
- Ho capito!!! Ma che storia è?!
Brian ridacchiò.
- Non ti è mai capitato di assistere perché stai qui da poco, ma succede abbastanza spesso. Quando non sono oscenità sono minacce, e comunque preferisco le prime alle seconde.
- …ma scusa, - chiese incredulo Matt, - perché non gli chiudi il telefono in faccia? Perché ascolti?
- Be’, perché se non lo facessi richiamerebbe. Devo lasciarlo sfogare…
- Perciò aspetti che si faccia una sega e nel frattempo intrattieni un’amabile conversazione?! Perché parli? E cosa significa “grazie e arrivederci”?!
- Dovrò pur dire qualcosa, se non mi sente partecipe non si soddisfa mica…
- Grazie e arrivederci?!
- Mi ci vedi ad ansimare “sì, continua, così”?
- PER CARITA’ DI DIO!!!
- Ecco, appunto.
Esterrefatto, Matthew lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e si limitò a guardarlo come fosse pazzo.
- Oh, non c’è bisogno di angosciarti così! – sbuffò Brian, - È solo una telefonata, non mi hanno mica violentato!
- A parte il fatto che a quanto pare è un’abitudine, - replicò Matt adirato, - scusa se mi preoccupo per te!
- Ma non hai niente di cui preoccuparti… anche perché… insomma, diciamocelo, le telefonate oscene… - continuò Brian, il sorriso che diventava mano a mano lascivo, sulle belle labbra, - …possono essere parecchio interessanti
Matthew, per un momento, davvero non seppe cosa dire.
- Se per interessanti intendi eccitanti, - dichiarò infine, il volto senza espressione, - sappi che ti ucciderò.
Per tutta risposta, Brian rise come una scolaretta, e a Matt venne quasi davvero voglia di ammazzarlo.
- No, senti. – disse invece, massaggiandosi le tempie, cercando di riacquistare padronanza delle sue facoltà mentali, - Non capisco. Come faccia tu a trovare eccitante il pensiero di un gigante nerboruto che si fa una sega ansimando oscenità al telefono, per me, è fuori da ogni logica.
Brian rise ancora, avvicinandoglisi con fare civettuolo.
- Non pensare al gigante nerboruto, adesso. – disse dolcemente, scivolando sulla sua spalla con un movimento falsamente casuale, - Prova a pensare alla mia voce.
Matthew inspirò profondamente, cercando di non pensare al bacino di Brian pressato contro la sua mano inerte lungo il fianco.
- Brian, senti- - cercò di controbattere, ma l’uomo glielo impedì, poggiandogli due dita sulle labbra.
- Ssssh. Chiudi gli occhi.
- Brian!
- Chiudi gli occhi. – insistette guardandolo, l’espressione del volto completamente indecifrabile.
Si ritrovò ad ubbidire, costretto neanche lui sapeva bene da cosa.
Brian sorrise – Matt poté percepire il movimento delle sue labbra – e lo guidò delicatamente a sedersi sul divano, accomodandosi poi al suo fianco.
- Immagina che io sia lontano da te. In un’altra casa. Un’altra città. Un altro universo. – sussurrò a un millimetro dalla pelle del suo collo.
Matthew rabbrividì e strinse le mani attorno al tessuto leggero del pantaloni di lino.
- Non puoi vedermi. Non puoi… - esitazione, sfregamento lievissimo, labbra contro pelle, un millisecondo, quasi impercettibile, sconvolgente, - non puoi toccarmi. Hai solo un telefono.
Matt deglutì.
Dio solo sapeva se non aveva voglia di saltargli addosso in quell’esatto momento.
- Mi chiami… io ti rispondo…
- Brian…
- Sssh… mi chiedi come sto, parli del più e del meno, sei gentile…
Lo sentì spostarsi. Adesso si trovava davanti a lui. Non poteva vederlo, ma sarebbe riuscito a indovinare la strada per la sua bocca al primo tentativo.
- A me manchi… mi manca il tuo corpo e non posso averlo… mi mancano le tue carezze e non posso sentirle… te lo dico… e tu rispondi che anche per te è così… che vorresti toccarmi, che vorresti baciarmi, che vorresti scoparmi…
- Brian… - lo chiamò, quasi implorante, l’erezione ormai fastidiosamente dolorante sotto i vestiti, - Brian, ti prego…
Provò ad allungare la mani nella sua direzione, ma Brian lo fermò, inchiodandogliele al divano con le proprie.
- Non puoi toccarmi… - gli ricordò, in un sussurro roco, - Puoi solo ascoltare la mia voce…
Matthew si leccò le labbra.
E dal momento che non c’era molto altro che potesse fare, in un impeto di frustrazione se le morse pure.
La cosa divertì molto Brian, che si lasciò andare ad un altro risolino da ragazzina maliziosa – facendolo morire.
- Sì, ti immagino fare una cosa simile… al telefono mi dici che mi stai immaginando nudo… sul letto… stai immaginando di sfiorarmi con le dita… di baciarmi sul petto, sulla pancia, di giocare con la lingua nel mio ombelico, come fai sempre…
- Cristo… - mormorò a mezza voce, provando a liberarsi dalla stretta di Brian, - lasciami andare… non ti tocco, giuro, lasciami le mani…
Lui lo lasciò andare con uno sbuffo divertito.
- E mentre tu continui a parlare al telefono, Matt, tesoro… io mi spoglio sul serio… e chiedo anche a te di farlo… e ti dico “toccati”, e tu rispondi che lo stai già facendo… allora lo faccio anch’io… mi senti ansimare…?
Come avrebbe potuto non sentirlo? Lì, a un millimetro da lui! Avrebbe potuto semplicemente sporgersi, gettarlo a terra e scoparselo, e invece stava lì, immobile, sul divano, ascoltandolo gemere mentre si masturbava.
- Puoi toccarti anche tu, Matt… - concesse Brian a mezza voce, e Matt non se lo fece ripetere due volte. Si rilassò contro lo schienale del divano e assalì bottone e lampo dei pantaloni, alla ricerca spasmodica di un po’ di soddisfazione per la sua eccitazione pulsante fra le gambe.
Brian si agitava sulle sue gambe, era così vicino… sentiva il tessuto ruvido dei loro pantaloni sfregare, rapido e insensibile, ah, quanto avrebbe desiderato che ci fosse pelle nuda e palpitante al suo posto…
- Matt- - gemette Brian un’ultima volta, e quando lo sentì inarcarsi e respirare più velocemente seppe che era venuto, - Matt, ti sto aspettando, vieni anche tu… - e immaginò che al posto della propria mano ci fosse quella di Brian, che lo stesse stringendo, deciso e delicato come l’aveva abituato, e il solo pensiero, il solo pensiero del suo tocco, del suo calore, del suo profumo lo costrinse a venire a sua volta.
Rovesciò il capo all’indietro, ansimando esausto, ancora incapace di aprire gli occhi.
Brian era pazzo.
Gli avrebbe fatto pagare quello scherzetto.
Solo… non in quel momento.
Lo sentì scendere dalle sue gambe e accucciarsi al suo fianco sul divano.
- Matt… - lo chiamò, - Matt, ti è piaciuto…?
- Mpf. – grugnì, irritato, - Non fare queste domande.
Brian rise.
- Lo possiamo rifare…?
- Adesso?
- No, adesso no… - ridacchiò l’uomo, - Un’altra volta.
- Senti, per me sarebbe molto più soddisfacente-
- Però… la prossima volta… lo facciamo davvero al telefono.
Si sentì come mozzare il respiro. Come se i suoi polmoni fossero stati compressi dalla sorpresa, e si fossero ritrovati incapaci di pompare sufficiente ossigeno per tenerlo in vita.
Dischiuse gli occhi e cercò Brian.
Lo trovò accanto a sé, una guancia graziosamente poggiata contro una mano, il gomito sulla spalliera del divano, le gambe accavallate.
Sorrideva.
Era serio.
Costringerlo a non poterlo toccare senza neanche poter sentire il suo dolce peso sulle gambe? Senza poter sentire la sua presenza, senza poter sentire il suo odore, costringerlo a masturbarsi al ritmo metallico di una voce lontana chissà quante miglia e deformata dalla cornetta del telefono?
Era serio.
Era pazzo!
Si alzò in piedi di scatto, e Brian lo osservò stupito, stringendo le labbra con disappunto.
- Tu stai scherzando, forse.
L’uomo spalancò un paio di enormi occhi grigi ed arricciò le labbra, scuotendo il capo.
- Non se ne parla. – disse Matt categorico.
- Avanti-
- Non se ne parla. – ripeté.
Stava già indietreggiando verso la porta, mentre risistemava i pantaloni senza neanche ripulirsi.
Brian incrociò le braccia sul petto.
- Non vorrai andartene? – chiese, incredulo e lievemente offeso.
Matt neanche rispose.
*

Sollevò stancamente la cornetta, il panino ancora pendente dalle labbra, e biascicò un incomprensibile quanto nervoso “pronto”.
- Dominic? – chiese la voce all’altro capo del filo.
Ciò che restava del panino cadde a terra, disfacendosi lungo il cammino.
- Brian? – chiese il batterista, - È successo qualcosa?
Era abituato a sentirsi chiedere cose simili, quando chiamava, perciò ridacchiò lievemente.
- Niente di particolare. Avevo solo voglia di sentirti.
- Sì. Ed io sono una pecora ed in questo momento sto belando. – rispose Dom con uno sbuffo divertito, mentre Brian si lasciava andare ad un’altra risatina delle sue, - Comunque, sul serio. Qualche problema?
Brian sospirò, prendendosi un attimo di tempo per riflettere.
- Senti, Dom. – disse infine, - So che non approverai quello che sto per dirti-
- Hai fatto del male a Matt?
- …be’, no. Non in senso stretto, almeno.
- Spesso il senso lato è molto più simile al senso stretto di quanto non si pensi.
Brian rise ancora.
Adorava il lato protettivo di Dom. Il lato protettivo di Dom metteva al sicuro Matt. E metteva lui in condizione di poter osare un po’ di più, quando era il caso.
- Non gli ho fatto del male. L’ho solo frustrato un po’.
- …in senso sessuale, chiaramente.
- Sì, chiaramente.
- E allora non vedo per quale motivo dovrei disapprovarti. – commentò Dom ridacchiando. Non la risatina derisoria che Brian si sarebbe aspettato – nei propri confronti per essere così ostinatamente infantile quando giocava? O nei confronti di Matt, per essere così succube dei suoi tentativi di renderlo pazzo?! – bensì una risatina comprensiva, quasi complice. - Cosa gli hai combinato?
- Uhm… - spiegò titubante Brian, - Qualcosa sulle telefonate erotiche.
- Dio! Sarà scappato!
- …complimenti. Hai vinto un pacco di biscotti.
- Lo conosco da tre vite e mezzo, figurati. Se voglio dei biscotti me li compro. Comunque povero Brian, spero che almeno ti abbia lasciato concludere!
- Sì. Be’, in effetti l’ha fatto perché per prima cosa doveva concludere anche lui, e per seconda cosa perché… non sapeva ancora cos’è che avevo in mente per l’esattezza, secondo me.
- Uuuh, l’hai proprio preso in giro, allora. Si sarà sentito usato e abbandonato come un moccioso trovato in discoteca!
Poteva sentire dei cuoricini malefici nella voce di Dom.
Era quasi inquietante.
- Dominic, sei sicuro sia tutto a posto?
- A parte il fatto che dovrei chiederlo io a te. Se lui si sente come un moccioso da una notte e via tu come minimo ti senti abbandonato all’altare.
- …mi sembri ubriaco.
- No, tranquillo, non lo sono. – disse gentilmente, - Sono solo estremamente divertito. Sapevo che prima o poi sarebbe successo qualcosa di simile.
- …di simile a cosa?
- Di simile a te che chiami me per chiedermi di rimandarti Matt a casa appena lo vedo.
Sapeva che Dom era una persona intelligente.
Conosceva l’assoluta assenza di limiti della sua perspicacia. Era stato lui il primo a capire della relazione che era cominciata fra lui e Matt, ed aveva vero un talento per le risposte di “Chi vuol esser milionario?”.
Non avrebbe dovuto stupirsi.
Perciò sogghignò, rigirandosi il filo fra le dita.
- Grazie mille. – cinguettò allegro, - E se avverti anche Chris mi fai un favore.
Poté immaginarlo sollevare un pollice di approvazione verso di lui.
- Sarà fatto, mio capitano! – concluse Dominic prima di riappendere e chinarsi a raccogliere ciò che restava del suo pranzo.
*

Quando Matt apparve sulla sua soglia, disfatto, sudato, coi capelli scompigliati e con un’oscena macchia scura all’altezza del cavallo dei pantaloni, non poté fare a meno di impietrirsi e guardarlo da capo a piedi con una smorfia disgustata.
- Oh. – disse, incapace di dire altro.
- Sì, be’, - sbuffò Matt, contrariato, - “oh” è riduttivo. Mi fai entrare?
Ancora incapace di trovare voce per commentare, annuì e si scansò dall’uscio.
Quando Matt fu in casa, Dom si richiuse la porta alle spalle con uno scatto isterico e tornò a puntare gli occhi su di lui.
- Che… schifo, Matt! – fu la prima cosa che riuscì a trovare il fiato di dire.
Matt si guardò per benino e poi sospirò pesantemente.
- Non dire niente. Lo so.
Poi fece per sedersi sul primo divano che gli capitò a tiro, ma Dom lanciò un urlo disumano e lo tirò per entrambe le braccia, impedendoglielo.
- Tu sei completamente idiota se pensi che ti lascerò sedere sul mio divano con quei pantaloni! Adesso fila in bagno e datti una lavata, ed escine solo quando potrò guardarti senza vomitare. Ci siamo intesi?
Matt annuì, lievemente confuso, e si diresse a passo incerto verso il bagnetto, mentre Dom volava in camera propria per cercargli qualcosa di pulito da indossare. Quando il biondo ritornò in corridoio, la porta del bagno era già chiusa, e il tintinnare gioioso delle gocce d’acqua contro le pareti di plastica del box doccia lo rassicurò decisamente sullo stato dell’igiene intima di Matthew, cosa che gli fece tirare un enorme sospiro di sollievo.
Si sedette sul pavimento, la schiena contro il legno, e chiamò a gran voce il suo cantante, il quale rispose con un mugugno abbattuto.
- Cosa diamine ti è successo? – chiese, simulando stupore, preparandosi a sentire il racconto dal punto di vista di Matt.
- Brian è impazzito! – borbottò l’uomo al di là della porta, agitandosi al punto da provocare un considerevole smottamento del box.
- Sì, - ridacchiò Dom, abbandonando il capo contro la superficie liscia dietro di lui, - diciamo che vedendoti apparire con un orgasmo ancora fresco… o dovrei dire caldo…? …insomma, un orgasmo fra le cosce l’avevo immaginato.
- Non prendere per il culo adesso, eh?
- No, no, sia mai. Allora, mi racconti cos’ha fatto di così pazzo per farti fuggire da casa senza nemmeno darti il tempo di ripulirti?
- Be’! – disse Matt, e Dom si mise comodo: nei lunghi anni di conoscenza aveva imparato a capire che quando Matthew Bellamy iniziava un discorso con un “be’” ne avrebbe avuto almeno per una mezz’ora. – Oggi sono tornato a casa a pranzo, no?
- Sì.
- E lui era lì al telefono. Mi segui?
- Sì, Matt.
- Ed era tutto un buongiorno e buonasera, arrivederci e grazie! Cioè, capisci, come stesse parlando, chessò, con una sarta! O un qualsiasi altro onesto lavoratore!
- Non era così?
- No che non era così! Stava al telefono con chissà che gigante nerboruto e baffuto che si menava l’uccello ascoltandolo parlare! Cioè, ma ti pare normale?
- Una telefonata oscena? – chiese, fingendosi scioccato, - Ma dai!
- Ma sì!
- Be’, - sospirò, ingannando il tempo piegando i pantaloni e la maglietta che avrebbe dato a Matt quando fosse uscito dalla doccia, - in fondo si tratta di Brian. Non mi stupisce poi molto che riceva telefonate simili.
Matt si agitò al punto che Dom credette che la sua doccia fosse crollata in pezzi.
- Ti vuoi calmare? Fino a prova contraria, la doccia è mia! – si lamentò, disgustato dalla mancanza assoluta di buona educazione da parte del suo migliore amico.
- Mi vuoi spiegare come faccio a calmarmi?! – strillò Matt, isterico, - A parte il fatto che il mio uomo mi tradisce con tipi che gli dicono porcate al telefono!
- Il tuo uomo non ti tradisce, Matt…
- A parte questo! Dopo questa telefonata Brian s’è messo in testa che doveva farmi provare questo fatto allucinante delle telefonate erotiche…
- …e ti lamenti? – rise Dom, battendo una mano sul pavimento, - Un po’ di kinky sex non ha mai fatto male a nessuno. Tanto meno a te e tanto meno in questa occasione, come testimoniano i tuoi poveri pantaloni.
- Tu vuoi scherzare!!! – gridò Matt, chiudendo finalmente il rubinetto dell’acqua e uscendo dal box con uno scatto isterico, - È stato una tortura!!!
Dom lo osservò uscire dal bagno scavalcandolo, avvolto appena in un asciugamano, e guardarsi intorno alla ricerca di vestiti da indossare. Gli porse gli indumenti che ancora teneva in mano, sollevandosi da terra.
- Una tortura, Matt? – chiese con sufficienza, osservandolo rivestirsi davanti a lui senza un briciolo di pudore – benedetto ragazzo.
- Una tortura! – ripeté l’uomo, abbottonando i jeans e sistemando alla bell’e meglio i capelli perché non sporgessero da troppi lati, - Mi si è seduto addosso e ha cominciato a dire porcate e masturbarsi, e pretendeva che io non lo toccassi! Non so se ti rendi conto!
- …comunque siete venuti entrambi, mi pare.
- Sì! Ma il problema non è stato tanto questa pratica sessuale allucinante, - Matt ha un’idea un po’ limitata delle pratiche sessuali allucinanti, pensò Dom con rassegnazione, - quanto il fatto che dopo, come se niente fosse, prende e mi cinguetta “la prossima volta lo facciamo sul serio al telefono, ci stai?”!!! Ma ti rendi conto?!
Dominic sospirò, incrociando le braccia sul petto.
- Quindi il tuo problema in sostanza sarebbe… che non vuoi scopartelo a distanza ma vuoi farlo solo dal vivo.
- Esatto!
- …e per risolvere questo problema tu vai via di casa?
Matt sembrò realizzare all’improvviso cosa aveva fatto, e si congelò sul posto.
- Matt…?
Dom lo osservò accartocciarsi su sé stesso e nascondere il volto fra le braccia, mentre dalla sua gola fuoriusciva un lamento disperato da cane ferito.
- Cosa ho fatto…? – chiese piagnucolando, - Cosa diamine ho risolto…?
Dominic si chinò al suo fianco, dandogli qualche colpetto sulla spalla nel tentativo di confortarlo.
- Avanti, - disse dolcemente, - hai fatto una stupidaggine, ma non l’hai mica mollato. Puoi sempre tornare a casa e chiedergli scusa e magari provare a fare ciò che ti chiede, sia mai scopri che ti piace.
- Mai! – strillò Matt, risollevando improvvisamente il capo, - Tu non puoi capire! Non puoi capire cosa significa avere Brian a un centimetro, essere eccitati e non poterlo toccare! È già successo in passato e oggi ho riprovato la spiacevole sensazione, e non ci tengo a riprovarla in futuro!
- Ma se tu accettassi il fatto della telefonata – spiegò Dom atono, battendo nervosamente un piede per terra, - non sareste a un centimetro di distanza. Sareste lontani.
- No, no e no! Non capisco! Se posso scoparlo io, per quale motivo dovrebbe volere farsi una sega mentre ascolta la mia voce?! Non ha senso! È malato!
- Però, vedi, Matt, - continuò il batterista, ormai sull’orlo dell’esasperazione, - Brian in passato ha fatto tante cose per te.
- Dimmene una sola!
- E poi comunque non è giusto deluderlo così. Lui ti soddisfa sempre.
- Ma che c’entra?! Non mi sta soddisfacendo adesso!
- E inoltre non devi dimenticare che ti lascia sempre fare l’attivo ogni volta che vuoi.
- Ma a lui il ruolo del passivo piace!!! Non stiamo a prenderci per il culo!
- Sì, però lui è sempre gentile con te.
- Ma-
- E non ti fa pesare quando scrivi qualche cazzata per i testi…
- Ma vorrei ben vedere! Proprio lui!
- E anche quando stoni, non ti rimprovera mica, mentre tu non sei mai carino con lui.
- Ma…! Ma non è vero, e poi-
- E quindi io trovo veramente poco sensibile che tu l’abbia lasciato in quel modo per venire qui da me senza neanche lavarti.
- Ma renditi conto delle condizioni in cui ero, brutto coso insensibile che non sei altro!
Dominic sospirò ancora, spintonando Matt sul divano e guardandolo dall’alto in basso.
- Adesso segui il ragionamento logico, ok Bells?
Stupefatto, Matt rimase immobile, fissandolo con occhi enormi.
- Brian è gentile con te. Ti ama. Ti ha fatto godere. Poi ti ha chiesto un giochino innocuo, così, per soddisfazione, e tu invece di dire sì con tutto lo slancio e l’amore di cui sei capace, nemmeno ti fermi a discuterne due secondi, no, scappi come se ti avesse appena chiesto di infilarti degli aghi nelle palle. Dico, ma sei normale?
- …
- Ti rendi conto che qua si parla di giochini? E di giochini piacevoli, per di più?
- …ecco… io…
Matt stava cominciando a cedere, registrò il batterista con un ghigno vittorioso sulle labbra.
In quel preciso istante, il telefono decise di squillare. Ma lui non poteva lasciare che il momento di debolezza di Matt passasse. Non poteva mettere a repentaglio il lavoro di costrizione di un’ora, e rischiare di dover ricominciare tutto da capo dopo aver richiuso la cornetta.
Perciò aspettò che scattasse la segreteria telefonica, e che fosse lei a rispondere per lui.
E quello si rivelò l’errore più grande che potesse fare.
La voce di Brian si sollevò gioiosa dall’apparecchio, ignara dello sconvolgimento emotivo che avrebbe provocato di lì a poco.
- Dom? Sono io. Spero che sia andato tutto bene e che Matty si stia già dirigendo verso casa sano e salvo. Be’, fammi sapere. Bye! – gorgheggiò allegramente, prima di spegnersi in un anonimo puh.
Dom e Matt si guardarono in silenzio per un lunghissimo istante.
Poi, d’improvviso, gli occhi del cantante si fecero minuscoli e brillanti di rabbia, mentre sul volto del batterista si dipingeva un imbarazzato sorrisino di circostanza.
- Ecco… posso spiegare… - balbettò il biondo, mettendo le mani avanti.
Matt letteralmente saltò in aria, afferrandolo per il colletto della polo e strattonandolo verso il muro.
- Puoi spiegare cosa, esattamente, Dominic?! Il fatto che ogni tua singola parola non fosse che un tentativo di traviare la mia povera mente per rimandarmi fra le braccia di quel maniaco sessuale?!
- …adesso… non ti sembra di stare un po’ esagerando coi termini…?
- No! – sbottò l’uomo, lasciandolo andare di colpo, al punto che lui quasi perse l’equilibrio, - E non solo! Da oggi in poi, considerati pure un ex migliore amico! Arrivederci e grazie! – dichiarò furente, dirigendosi ad ampie falcate verso la porta d’ingresso.
- Matt…? Dove stai andando…? – azzardò Dom, mentre già lo vedeva sparire oltre l’uscio.
- Da chi potrà capirmi! – annunciò teatralmente Matt, - Dal mio ultimo vero amico!
Chris, registrò Dom.
Quando la porta si richiuse di fronte a lui, e di Matt non fu rimasto che il profumo del bagnoschiuma e i vestiti sporchi – e da bruciare al più presto – gettati per terra, Dominic riprese a ragionare lucidamente.
Chiamare Brian, calcolò, freddo come un cecchino, e poi Chris.
*

- Tu sei un maledettissimo idiota! – sbraitò istericamente Brian, perforandogli il timpano con migliaia di acutissimi decibel da principessina offesa, - Cos’hai al posto del cervello?! Pelo?!
- Brian, - cercò di spiegare Dom, sospirando pesantemente, - devo ricordarti che è stata la tua voce a sputtanare il nostro accordo?
- E io devo ricordarti che è stata la tua stupidissima segreteria telefonica a invitarmi a parlare?!
- E quindi nel giorno in cui la mia stupidissima segreteria telefonica deciderà di suggerirti di buttarti a testa in giù da un palazzo di venti piani, tu lo farai?
- Sei un cretino e questo non c’entra niente! Si suppone che le segreterie telefoniche stiano lì per prendere i messaggi, non per istigare al suicidio!
Dominic roteò gli occhi esasperato.
- Hai ragione, Brian. Per istigare al suicidio basti tu.
- Cosa?! Come osi?!
- Per quale motivo non puoi scopare come le persone normali? Sai che Matt è limitato in quel senso!
- Appunto! Voglio allargare i suoi orizzonti! Ma lui è un ingrato! E tu sei un idiota! Eri d’accordo con me, com’è che adesso te ne esci con tutte queste proteste?!
- Stavo solo cercando di ragionare. Tutto qua.
- Ah-ha, Dominic James Howard! Non credere che non abbia sentito nella tua voce quella sottile nota di “dal momento che io sto ragionando e tu non mi capisci, è chiaro che tu non ragioni”! Davvero, mi stupisco di te, sei un traditore e un cretino! Non ti si può affidare niente! Se mai un giorno dovessi trovarmi sull’orlo di un burrone, e ci fossi solo tu cui aggrapparmi, ricordami di questo episodio, così potrò prepararmi a morire in pace in ogni caso!
- …Brian?
- COSA?!
Prese un enorme sospiro.
Strinse pazientemente la cornetta fra le mani.
Dischiuse le labbra.
Parlò.
- Matt mi ha praticamente confessato che sta andando da Chris per stringere un’alleanza. Ora. Vuoi che salvi il tuo depravatissimo culo chiamando il mio bassista e avvertendolo del pericolo oppure preferisci stare qui a ricordarmi quanto faccio schifo e lasciare che Matt ti molli?
- …
Godette del silenzio che era riuscito a imporre alla dannata lingua lunga dell’uomo del suo migliore amico, e si concedette un sorriso soddisfatto.
- Ti chiamo per farti sapere com’è andata. – concluse serafico mentre, irritato come una faina, Brian metteva giù il telefono con inaudita violenza.
Un secondo di pausa per riordinare i pensieri e stava già chiamando Chris per scongiurare il disastro.
- Pronto…? – rispose l’uomo dall’altra parte del filo.
Chris aveva questo modo totalmente indisponente di rispondere al telefono… come se si aspettasse che le tue prime parole dovessero essere sempre e comunque “domani morirai”! Era insostenibile, insopportabile, odiava parlare con Chris al telefono!
Ma odiava ancora di più la prospettiva di dover passare i prossimi dieci anni della sua vita ad ascoltare i piagnistei di Brian Molko che non sembrava avere niente di meglio da fare che non fosse incolparlo dei suoi fallimenti nel tenere in piedi una normale relazione di coppia.
Perciò si fece forza, soppresse l’irritazione e si forzò ad un sorriso e a un tono di voce il più amichevole possibile.
- Chris? Dom.
- Oh… ciao Dom.
- Ti prendo in un brutto momento?
- Temo di sì. – sospirò il bassista, e Dom poté quasi vederlo afflosciarsi stancamente su sé stesso, - Hanno appena bussato alla porta e ho la vaga impressione che sia Matthew.
- La vaga impressione…?
- …lo sento strillare.
- Ah.
- È successo qualcosa, vero?
- Così pare.
- Qualcosa fra lui e Brian?
- Già.
Chris si lasciò andare ad un mugolio di dolore puro.
- Perché ci devo andare di mezzo io? – chiese sconsolato, - Perché non è venuto da te?
- È venuto da me. – precisò Dom, comprensivo, - Ma ho fatto un disastro. Mi dispiace veramente tantissimo!
- Se ti dispiacesse sul serio – la voce dell’uomo sembrava sul punto di esplodere in un singhiozzo, - verresti qui e lo porteresti via prima che possa entrare!
- Non posso farlo, Chris, mi dispiace. Al momento Matt mi odia.
Il singhiozzo tanto atteso non tardò ad arrivare.
- Cosa devo fare?
- Sii gentile. – suggerì premuroso, - Fagli fare quello che vuole. Vizialo un po’. Ascoltalo, coccolalo, portalo a fare una passeggiata, vedi tu, ma lascia che smontino i nervi. Dopodiché… - si massaggiò le tempie con due dita, - rimandalo da Brian.
- …ma non hanno litigato?
- Sì.
- E devo rimandarlo da lui?
- Sì.
- …Dom, mi sbranerà!
- Ti prego, - latrò esasperato, - corri il rischio. C’è in gioco molto più della tua vita, qui.
Chris si abbandonò a un momento di atterrito silenzio.
- Va bene. – disse poi, cercando di ritrovare forza e convinzione quantomeno nella voce, - Farò del mio meglio.
Dominic sorrise, per nulla rassicurato.
- Conto su di te. – disse, e nel momento in cui interruppe la chiamata e riattaccò la cornetta seppe chiaramente che non aveva alcuna speranza di salvarsi.
*

Chris era un uomo facile alla pietà. Lo sapeva da tanto tempo. In fondo, era per pietà che aveva accettato di entrare nei Gothic Plague – e quale essere umano sano di mente avrebbe accettato di entrare in un gruppo con un nome simile se non per pietà?
Ricordava Matthew Bellamy al liceo.
Questo ragazzino minuscolo, magrissimo, con questa espressione inquietante da pazzo scatenato perennemente sul volto. Lo stesso ragazzino che l’aveva avvicinato con titubante arroganza – ma si può essere titubanti e arroganti insieme? Matt lo era! Ma Matt era anche uno strano animale, dopotutto… - e sfoggiando la migliore delle sue espressioni strappalacrime gli aveva praticamente detto che la sua via non era quella della batteria bensì quella del basso, e che gli sarebbe “proprio convenuto” entrare nei Gothic Plague, che sarebbero sicuramente diventati famosissimi.
Fortunatamente i Gothic non lo divennero mai.
Quando cominciarono a godere di un po’ di notorietà avevano già cambiato nome qualcosa come milleduecento volte.
Comunque, lo stesso ragazzino folle di allora gli si parava davanti in tutta la sua allucinata disperazione, ansimando, le lacrime agli occhi e degli abiti evidentemente troppo larghi per lui gettati addosso come stracci e che riconobbe come proprietà di Dom – ma Dom era magro! Diosanto, quanto era sottile Matthew?!
Nel vederlo in quel modo, perfino un uomo dal cuore di pietra si sarebbe sciolto in singhiozzi e gli avrebbe offerto ospitalità per la notte per difenderlo dalle insidie del mondo esterno. E Chris era tutt’altro che un uomo dal cuore di pietra. Perciò, la vista del suo povero cantante, bistrattato dalla perversione del suo uomo e dalla cattiveria del suo migliore amico, semplicemente lo commosse.
- Matt! – disse accorato, aprendo le braccia.
Non si aspettava certo che Matt gli crollasse addosso e scoppiasse in lacrime, ma fu esattamente ciò che successe.
Il che gli diede molto da pensare.
Non tanto sulla sanità mentale del suo frontman, quanto sulla crudeltà infinita che doveva credere di stare soffrendo in quel momento. Matt era decisamente una strana creatura, sì.
- Matt, povero caro… - disse, pensando già con terrore al momento in cui avrebbe dovuto mandarlo via senza pietà, - Cosa cavolo ti è successo?
- Mi odiano tutti! – esplose Matt, separandosi da lui e gettandosi a peso morto sul primo divano che trovò, nascondendo il volto fra i cuscini.
- Nessuno ti odia… - lo rassicurò il bassista, sedendosi al suo fianco e accarezzandogli la testa con fare amorevole, - Ti vogliamo tutti bene…
- Be’, Brian mi vuole uccidere! E Dom non vede l’ora che questo avvenga! Quindi sì, mi odiano!
Chris sospirò, accomodandosi sul divano e aiutando Matt a sedersi in maniera più consona alla sua età, al suo sesso, alla sua dignità, insomma, un po’ a tutto.
- Se vuoi puoi restare qui per un po’. – suggerì pacato.
Matt spalancò gli occhioni. Dovette credere che gli artigli ricurvi e malefici di Brian e Dom non fossero ancora arrivati a lui, perché si lasciò andare ad un sorrisone confortato e annuì decisamente.
- Possiamo fare qualcosa, magari guardare un film… Dio, mi sembri sconvolto! – continuò Chris, premuroso, - Vuoi uscire? Andiamo a mangiare cinese da qualche parte, dai!
- Non mi va tanto di uscire… - confessò Matt, rabbrividendo di paura – cosa si aspettava, che Brian lo attendesse con un cellulare e un biglietto per il Canada appena svoltato l’angolo?
- Allora vuoi semplicemente… rimanere qui e lagnarti un po’?
Matt annuì di nuovo, con rinnovata decisione, mentre si accucciava sul cuscino, incrociando le gambe, pronto a partire con quella che sarebbe sicuramente stata una filippica di un’ora e mezzo sulla crudeltà del mondo, la vacuità dell’animo umano e la perversione delle menti nel ventunesimo secolo – insomma, qualcosa dalla quale avrebbe potuto tranquillamente tirare fuori una canzone per un nuovo album – se…
- Comunque dopo torni da Brian, eh.
…se Chris non avesse distrutto i suoi sogni di gloria e consolazione uccidendolo con quella frase.
- Cosa?! – strillò agitato, saltando in piedi e indietreggiando terrorizzato fino a schiacciarsi contro la porta d’ingresso.
Chris sospirò addolorato.
- Senti Bells, lo so che è difficile – perché diamine i suoi amici si sentivano in diritto di chiamarlo Bells mentre cercavano di convincerlo a rigettarsi tra le braccia del porco?! – ma devi farti forza e tornare dal tuo uomo. Non so cosa sia successo con esattezza, ma-
- Ma niente!!! – ululò esasperato, - Quel tipo orribile esercita violenza di tipo sessuale su di me e voi continuate a dire “povero Brian”?! Ma siete tutti pazzi!!!
Chris spalancò gli occhi.
Non credeva si fosse a un punto simile!
- Come violenza sessuale?! – chiese incredulo, sentendo un altro improvviso moto di protezione nei confronti del suo frontman, - Che diamine ti ha fatto?!
Matt sembrò riconsiderare un attimino ciò che aveva detto.
- Be’, ecco… - spiegò titubante, - non è che proprio mi abbia violentato o che… - esitò lievemente, - …ma ho ragione io, comunque!
Eccola lì.
La titubante arroganza.
- …Matt. Anche io penso che la definizione di violenza sessuale sia molto ampia e definita. Ma ci sono dei canoni dai quali non si può trascendere, renditi conto.
- …sarebbero?
- Uhm. – si prese un secondo di tempo per formulare esattamente il concetto che vagava per la sua mente ormai confusa, - Fondamentalmente, Matt, si è trattato di una violenza costrittiva e dolorosa o di una… “violenza” un attimino frustrante ma alla fine piacevole?
Matthew deglutì.
- È stato orribile! – disse poi, come se questo dovesse bastare a spiegare ogni cosa.
Chris sospirò ancora.
- Matt, rispondi alla domanda.
- …se mi stai chiedendo se sono venuto, ecco, sono venuto! Penso che me ne pentirò per sempre, a questo punto!
Il bassista scosse il capo, sconsolato.
- Non è che voleva solo farti fare qualche giochetto un po’ particolare e tu hai dato di matto?
Matthew rabbrividì, e Chris capì di aver centrato il bersaglio.
- Santo cielo, Matt… - cominciò in tono lamentoso, ma Matt non lo lasciò finire.
- Oh, senti! Se fosse stato un normale giochetto non avrei avuto problemi! Non ho la mente così chiusa, io!
- …Matt, al liceo quando si giocava al gioco della bottiglia pretendevi che tutti si rinunciasse ad usare la lingua perché lo trovavi osceno…
- Avevo sedici anni!
- …e la causa della verginità fino al matrimonio che hai continuato a perorare fino a ventisette anni…?
- Ma ho cambiato idea, poi!
- Sì, perché grazie al cielo hai conosciuto Brian e hai capito che andare avanti a bacetti e ti voglio bene con lui non era nemmeno pensabile!
- Oh! Io sono un uomo dalle amplissime vedute! Ma se Brian mi propone cose oscene io non posso che rifiutare, ecco!
Chris incrociò le braccia sul petto, gonfiando le guance con aria infastidita.
- Bene, allora. Sentiamo quest’oscenità.
Matt aggrottò le sopracciglia.
- Credo che il termine tecnico sia phonesex o qualcosa di simile.
Il silenzio cadde sulla stanza come un enorme pianoforte, schiantando quel minimo di pazienza che ancora Chris possedeva.
- Tu sei un idiota. – constatò il bassista con la massima calma apparente, - Completamente, irreversibilmente idiota.
- Come?!
- Avevo immaginato che ti avesse chiesto come minimo una threesome. Come minimo, Matt.
- Ma-
- Ma niente. – gli fece il verso, le mani sui fianchi, - Tu adesso raccogli questi straccetti che ti porti addosso e fili dal tuo uomo. Ci siamo intesi?
Se possibile, Matthew si schiacciò ancora di più contro la porta.
- È una congiura… - mormorò sconvolto, - una congiura…!
Cercò a tentoni la maniglia della porta, e quando la trovò non perse tempo a rigirarla per fuggire.
- Matt, non fare idiozie. – consigliò un’ultima volta Chris, prima che Matthew sparisse definitivamente, ma lui probabilmente neanche lo sentì – doveva essere terribilmente impegnato ad autocompatirsi.
Con un ultimo sospiro esasperato, si diresse stancamente verso il telefono, e chiamò Dom.
- Dimmi che non è stato un completo disastro. – esordì il batterista, poco convinto, senza neanche salutarlo.
- Okay. Come vuoi. Non lo è stato. – confermò lui atono.
- …lo è stato, vero?
- Totalmente. Comunque il nostro frontman è un idiota.
- Non dirmelo! – si lamentò Dom, come se gli stessero ficcando un palo appuntito nel fianco, - Lo so già. È fuggito?
- Giusto adesso. Di sicuro non sta tornando a casa…
- …Dio. Non lo riprenderemo più. Dove può andare…?
- Be’, penso che continuerà ad andare cercando protezione contro la presunta perversione di Brian. A proposito, se lo senti, fagli sapere che se proprio vuole giocare ci sono io disponibile. Non sarò Matt ma almeno non sono pazzo.
- …lasciamo perdere, eh, Chris? Certe volte dici cose che mi sconvolgono.
- Ma…
- Ho detto lasciamo perdere! – sbottò irritato Dominic, - Comunque, se cerca comprensione andrà da qualcuno che lui è certo possa offrirgliela… una persona che è abituata a vedere con la testa sulle spalle… razionale, paziente, protettiva, dolce a suo modo…
- …
- …
- Stefan. – conclusero all’unisono.
Chris si lasciò andare all’ennesimo sospiro tragico.
- Vado a chiamare Brian. – disse Dom.
- Farà in tempo ad avvertire Stef?
- Oh, sì. – ghignò il batterista, - Mai sottovalutare la velocità di una donna col telefono.
*

Stefan stava sorseggiando un caffè.
Nell’arco della sua giornata, il Momento Del Caffè era un momento mistico. Il momento in cui non importava quanto lui potesse essere stanco, o angosciato, o frustrato, o irritato: la Gioia s’impossessava di lui; l’Energia guidava i suoi arti; l’Entusiasmo pervadeva la sua mente e lo rendeva velocissimo, efficace, determinato, brillante.
E poi il caffè era buono.
Ma quel giorno, il suo Momento Del Caffè sembrava destinato a una tragica conclusione.
Brian stava sbraitando qualcosa nel suo orecchio da almeno mezzora, e il suo tono di voce era talmente elevato e acuto che la cornetta era diventata bollente.
Brian era capace di far surriscaldare gli oggetti con la sola voce, era inquietante.
- Bri, tesoro… - cercò di calmarlo, poggiando la tazzina ancora mezza piena sul tavolo con enorme sofferenza, - non capisco una parola di quello che dici. Ti ricordo che non sono in grado di sentire gli ultrasuoni.
Brian si schiarì la voce e cominciò a parlare normalmente.
- Sai quel giochino che volevo fare con Matt, e di cui ti ho tanto parlato?
Stefan lanciò un mugolio di sofferta esasperazione, roteando gli occhi.
- Brian, sono mesi che cerco di convincerti che il bondage non fa per Matt.
- No, non quello! L’altro!
- …quello del soffocamento…?
- No!!!
- Ehm…
- La telefonata erotica, idiota!
- Ebbe’, Bri, cerca di capirmi, è difficoltoso stare dietro a tutte le tue fantasie…!
- …
- …comunque. Il giochino. Sì. Ci sono.
- Ecco. Gliel’ho finalmente proposto… - disse in tono lugubre.
- …e non è andata bene, mh? – intuì Stef, allungandosi per recuperare la tazzina ma venendo interrotto sul più bello dallo squillo del citofono all’ingresso.
- È andata malissimo. Non usare eufemismi sciocchi.
- Aspetta, qualcuno sta suonando alla porta, devo vedere chi è…
- È lui! È lui!!! Ne sono certo!!!
- …Matt?
- Sì!
- Perché dovrebbe essere venuto qui?
- Perché sia Dom che Chris non hanno soddisfatto la sua fame di amore!
- …io non soddisferò la sua fame di amore!!!
- …non in quel senso! Stef! Non azzardarti ad alzare un dito su di lui!
- Ma se ti ho appena detto che non ho intenzione!!!
Il citofono trillò ancora, e Stefan cominciò a percepire il mal di testa farsi strada fra le pieghe del suo cervello.
- Bri. Devo aprire.
- No, prima devi ascoltare! Matt vorrà comprensione e consolazione! Tu dagli pure tutto quello che vuole o che vuoi, a parte il sesso!, e dopodiché rimandalo da me!
- Non tornerà mai.
- A questo non pensarci! Tu rimandamelo!
- Brian… - sospirò Stef, adocchiando il suo ormai lontano caffè con innamorata nostalgia, - da quand’è che hai di nuovo sei anni? Mi preoccupi.
Brian ridacchiò malizioso.
- Un seienne con gli appetiti sessuali di un vecchio maniaco. – precisò Stef.
- Ehi! – si lamentò Brian, ma già il bassista non lo ascoltava più, e rivolgeva tutta la sua attenzione al citofono che ancora trillava isterico all’ingresso.
- Sì, chi è? – chiese annoiato, allontanando la sbraitante cornetta del telefono dall’orecchio.
- Io… - rispose Matt in un pigolio demoralizzato.
Stefan sospirò, al colmo della disperazione.
- Matt. Che sorpresa. – disse atono.
- …non è una sorpresa? – chiese Matt, incuriosito.
- Per la verità no. Stavo giusto parlando con Brian.
Matt si lasciò andare a un suono strozzato molto simile a un singhiozzo, mentre dalla cornetta Brian strillava qualcosa di fin troppo simile a uno “Stefan, brutto traditore, me la pagherai!”.
- Stef! Non puoi abbandonarmi anche tu! – disse il frontman dei Muse, a un passo dalle lacrime, - Tu sei una persona intelligente e affidabile! Non farmi questo!
Stefan avrebbe tanto desiderato potersi massaggiare gli occhi. Ma aveva entrambe le mani occupate.
Questo lo portò a detestare definitivamente la situazione in cui si era involontariamente cacciato, e a decidere che era il momento di prenderne le redini per ribaltarla.
- Matt. Tesoro. Io ti voglio bene, sei un caro ragazzo e tutto, ma posso badare solo a un pazzo per volta. Va’ da tua madre e lasciami in pace. – e così dicendo ripose il citofono, e la comunicazione si spense con la voce di Matthew che, in dissolvenza, implorava pietà, - E quanto a te, Brian. – continuò impaziente, riavvicinando la cornetta all’orecchio, - Sei uno scemo. Non hai pietà. E non meriti comprensione. Quando capirai i tuoi errori, va’ da Matt e implora il suo perdono e speriamo che vada tutto bene. Per il momento, non ho altro da dire.
Chiuse così anche la conversazione telefonica, senza lasciare a Brian neanche il tempo di dire “bah”.
Dopodiché ci pensò su e decise che era opportuno staccare il telefono, cosa che fece prontamente.
Ritornò in cucina, dove la tazzina di caffè ormai gelato lo aspettava impaziente. Poteva percepire la sua tristezza di ceramica, e il suo cuore ne era straziato. La prese delicatamente fra le mani e provò appena ad assaggiare il liquido che conteneva, ma per quanto il suo amore per il caffè potesse essere grande dovette arrendersi al fatto che quello non era più caffè e non meritava alcun affetto.
Gettò tutto nel lavandino e mise su un’altra caffettiera.
*

- Ti ucciderò!
Generalmente, Steve era una persona pacata e tranquilla. Si sarebbe potuto dire perfino inamovibile. Quasi un panda, nella sua enorme, serafica calma.
Ma le minacce di morte di Brian erano terribili! Lo erano dal vivo, quando ti guardava con quegli occhi enormi iniettati di sangue, e lo erano anche il doppio via telefono, quando la sua voce era resa metallica e acuta in maniera quasi perforante dalla connessione via cavo.
Perciò, nonostante la pacatezza, la tranquillità, l’inamovibilità, la panditudine e la serafica calma, Steve fece un saltello sul divano e lanciò un “gh” di puro terrore.
- Perché?! – chiese giustamente, stringendo la cornetta fra le mani.
- Perché – si affrettò a spiegare Brian, - se mi tradisci anche tu giuro che vengo a casa tua, ti sventro e ti divoro!
- …non capisco perché dovresti volere divorarmi, Brian!
Il cantante prese un enorme sospiro e si apprestò ad illustrare la situazione.
- Matt è stato terrorizzato da una mia proposta sessuale.
- Non stento a crederlo.
- Non era così drammatica!
- Non stento a credere neanche questo. Conosco te e conosco Matt. Ma io cosa c’entro?
- Be’, Matt è andato in giro per il mondo cercando comprensione per questa sua fuga francamente immotivata…
- …e tu hai creato terra bruciata attorno a lui?
- Una specie.
Steve gemette drammaticamente, passandosi una mano sulla fronte.
- Brian, perché devi fare questo?
- Non ho fatto niente!
Steve gemette ancora, socchiudendo gli occhi.
- Va bene. – disse, - Immagino stia venendo qui.
- Credo di sì. Sei l’ultimo che gli è rimasto.
- …fa sempre piacere sentirselo dire. – borbottò irritato, - Comunque tranquillo, non lo strapperò dalle tue grinfie malefiche.
- …perché mi sembri totalmente disinteressato alle sorti del mio uomo?
- Perché lo sono?
- …guarda che devi trattarlo bene! Ne ho solo uno!
- A parte il fatto che ti basterebbe fare una passeggiata per strada per averne almeno un centinaio, queste bagattelle sessuali tra te e Matthew si risolvono sempre allo stesso modo: lui cede e alla fine siete soddisfatti entrambi. Quindi per quale motivo dovrei preoccuparmi adesso?
- Perché adesso è diverso!
- E perché, se è lecito chiedere?
- …
- Ecco, bravo. Comunque sta’ tranquillo. Vedrai che andrà tutto bene. Saluti. – e interruppe la chiamata prima che Brian potesse aggiungere una qualche altra idiozia.
Sul momento, pensò di tornare all’attività che lo stava tenendo gioiosamente occupato prima che il telefono squillasse – ossia dormire, da bravo panda – ma un minuscolo quanto fastidioso pensiero lo turbò al punto che non poté ignorarlo.
Matthew Bellamy era uno degli individui più lagnosi dell’universo.
E uno dei più cocciuti.
E uno dei più stupidi, anche.
…sarebbe bastato dirgli “vai via” perché si rassegnasse a farlo…?
Nel momento in cui il no che il suo cervello gli diede in risposta lo colpì dritto in fronte come una tegola, scattò in piedi e si attrezzò per barricare la porta d’ingresso del suo appartamento. Sfoggiando un’invidiabile presenza di spirito e di fisico, spostò un divano davanti all’uscio e bloccò la maniglia con una sedia posizionata per traverso.
Non c’era modo che una simile barricata potesse essere divelta da quell’esserino gracile e smunto che era il frontman dei Muse.
Il quale, puntualmente, bussò alla porta nel giro di dieci minuti, chiamandolo a gran voce come se dalla sua bontà dipendesse la sua stessa vita – cosa che in effetti, vagamente, rispecchiava la realtà.
- Vattene via! – disse, con un tono più allarmato di quello che avrebbe voluto.
Matthew lanciò un miagolio sofferente.
Poteva immaginare quanto il pover’uomo fosse provato dalla faticosissima giornata che aveva dovuto sopportare, ma non intendeva cedere, né tantomeno mettersi in pericolo.
- Non posso farti entrare! – confessò, ribadendo implicitamente l’invito a sparire.
- Steve! – piagnucolò Matt, attaccandosi alla porta e cominciando a tempestarla di pugni, - Sei la mia ultima speranza! L’ultima che mi resta!
- Allora, - concluse seccamente, sinceramente straziato dalla crudeltà che gli toccava mostrare e che di sicuro non lo riempiva di orgoglio, - non ti è rimasto nessuno. Mi dispiace Matthew. Va’ a casa.
Percepì Matt congelarsi oltre la porta. Lo sentì indietreggiare, lanciare un ultimo lamento disperato e poi correre giù per le scale, come se non gli importasse di cadere e spezzarsi il collo.
Sospirò, abbandonandosi stancamente contro il divano.
Non che fosse preoccupato di aprire il giornale l’indomani mattina e trovare in prima pagina un titolo tipo “Giovane frontman di una celebre rockband inglese trovato annegato nelle sue stesse lacrime in un bidone della spazzatura!”, ma…
…Matthew era pazzo!
Dio solo sapeva cosa avrebbe potuto fare in una situazione del genere!
Improvvisamente preda dei sensi di colpa, corse al telefono e chiamò Brian, ma l’apparecchio dell’appartamento squillò a vuoto.
“Sarà sceso a cercarlo?”, si chiese, non senza una buona dose di incredulità.
Alla fine, concluse che sarebbe stato meglio per la propria sanità mentale credere intensamente che sì, Brian fosse andato alla ricerca di Matthew, l’avesse trovato, avesse fatto pace con lui e risolto il dramma prima che riuscisse a consumarsi.
E, credendo fermamente in tutto questo, si appisolò beato.
*

Si rassegnò semplicemente a tornarsene a casa, come gli aveva detto di fare Steve. Evidentemente nessuno capiva cosa stava provando. Evidentemente nessuno capiva il suo dramma.
Probabilmente avevano ragione loro.
Probabilmente lui era solo uno stupido che non aveva capito niente della vita, del sesso, di Brian e di nient’altro in generale.
Probabilmente avrebbe dovuto semplicemente sottomettersi una volta di più e accettare anche quella sfida, d’altronde Brian non faceva altro che lanciargli sfide, continuamente, e da un anno a questa parte lui aveva ormai imparato ad accettare la sottomissione come il metodo più facile per ottenere ciò che anche lui voleva senza deludere Brian e senza perdere troppo tempo in chiacchiere o in litigi.
Ma…
…ma dannazione.
Il corpo di Brian era una fottutissima droga.
Il problema non era la distanza o l’obbligo di usare il telefono. Il problema era che ormai, dovunque fosse stato non avrebbe fatto la minima differenza, perché avrebbe inseguito il suo profumo e il calore della sua pelle, l’avrebbe trovato e se lo sarebbe preso.
Non poteva pensare di sottoporsi volontariamente a una pratica che lo privasse di quel contatto. Il contatto con Brian era a tratti l’unico motivo per il quale respirava! Quando qualcosa andava storto, quando una dannata canzone non veniva bene, quando cannava un live, stonava, mandava a monte una giornata di registrazione per una vaccata qualsiasi, era il pensiero che sarebbe tornato a casa e avrebbe toccato Brian a tirarlo su di morale, a impedirgli di abbandonarsi sconfortato in qualche angolo umido e buio e lasciarsi disciogliere nella disperazione così.
E avrebbe dovuto accettare il phonesex? Per carità!
Brian doveva solo ringraziare se non pretendeva di scoparlo ogni minuto del giorno e della notte!
Aprì la porta con un sospiro rassegnato, guardandosi intorno e notando immediatamente che qualcosa non andava.
Non c’era la minima traccia del profumo di Brian, in casa.
E, assieme a questo, le tapparelle completamente chiuse delle finestre e il silenzio innaturale che regnava nell’appartamento, contribuirono a fargli realizzare in un istante che… se n’era andato.
Via.
Sparito.
Volatilizzato.
Come non fosse mai esistito.
Pa-ni-co.
Si gettò in una disperata ricerca per tutte le stanze, salotto bagno studio cucina stanza da pranzo, e quando approdò in camera da letto, e vide il cordless graziosamente appoggiato sul piumone, e intuì la sagoma di un biglietto poggiato appena accanto alla cornetta, capì.
Era. Fottutamente. In. Trappola.
Si gettò a peso morto sul letto, affondando col viso nel cuscino e lamentandosi istericamente – perché, perché devo essere così sfigato? Perché non posso trovarmi un uomo normale? Perché DIAMINE Brian dev’essere così perfetto e così dannatamente odioso?
Si rigirò sul materasso, afferrando il biglietto con un gesto stanco e vagamente irritato. “Call me”, recitava in rotondeggianti letterine rosse.
- Bastardo… - mugugnò.
Chissà dov’era finito.
Quello era un tipo capace di nascondersi in un bunker sotto terra, in una situazione come quella!
Non sarebbe mai riuscito a trovarlo.
Cazzo, cazzo e ancora cazzo.
Lo odiava.
Prese il cordless e fece per rimetterlo a posto sul comodino, ma se ne pentì un attimo prima di farlo. Rimase come inebetito a fissare il display appena illuminato, e i tasti grigi e gommosi che sembravano suggerirgli “spingici, è facile!”, tutti sorrisetti malvagi e vocine melliflue.
Socchiuse gli occhi. Poggiò un braccio sul viso, giusto per assicurarsi di non riuscire a vedere niente neanche riaprendoli. E compose il numero del cellulare di Brian.
Lui rispose subito.
- Pronto?
Vocina melodiosa e risata argentina.
Dannato, dannatissimo bastardo.
- Dove cazzo sei? – chiese, e mai la sua voce gli era sembrata tanto simile a un’invocazione disperata.
- Parigi. – rispose naturalmente Brian, con un’altra allegra risatina.
- Parigi! – ripeté lui, sconvolto. Sapeva che sarebbe successo! Lo sapeva!
E malgrado tutti i vaneggiamenti sull’andare inseguendo il suo profumo in giro per il mondo… la sua giornata era stata davvero troppo massacrante perché si pretendesse da lui che saltasse in piedi, corresse a comprare un biglietto aereo e volasse dovunque Brian si trovasse solo per scoparlo.
Aveva dei limiti umani, in fondo.
- Brian, questa cosa non può andare avanti.
- Infatti, Matt. Sono qui proprio per chiuderla.
- …
- Indovina che sto facendo…?
- …ma cosa vuoi che ne sappia…
- Eh, ma se non giochi…
- Brian, senti-
- Indovina cosa sto facendo, dai.
C’era qualcosa, nel suo modo di mantenere un tono di voce tranquillo, pacato… una sicurezza tutta sua, un atteggiamento che gli aveva sempre invidiato, una delle cose che più amava di lui.
Brian sapeva davvero giocare bene.
Aveva un vero talento per i giochi.
Dettava legge.
Le sue non erano mai richieste, solo ordini. Espliciti, il più delle volte. Ma anche quando un sorriso o uno sguardo riuscivano ad essere talmente impliciti da farti domandare se per caso non volesse solo una carezza e un bacino, bastava che passasse un attimo, che la curva delle sue labbra si ricoprisse di malizia, che le sue ciglia lunghissime si abbassassero un po’, dando un’aria languida ai suoi occhi, per farti capire esattamente ciò che voleva. E gettarti in faccia la consapevolezza che lo volevi anche tu. Infiammando i tuoi lombi.
Non c’era niente di Brian che non richiamasse il sesso.
Lui lo sapeva.
E amava sfruttarlo.
- …sei sul letto…? – chiese arrendendosi, e notò un brivido nella propria voce che lo sconvolse.
Brian ridacchiò, e Matt ebbe l’impressione che si stesse coprendo la bocca con una mano.
La semplice immagine lo mandò in estasi.
- Nono. – rispose giocoso, - Indovina… - e così dicendo allontanò la cornetta da sé.
Pochi secondo dopo, Matt sentì scorrere dell’acqua.
Dio. Cristo.
Era in bagno.
- Cosa stai facendo…?
Lo sentì accomodarsi meglio nella vasca.
- Sto facendo un bel bagno caldo… schiuma, oli essenziali… e dopo crema profumata…
- Dio… sei una femmina… - disse, con poca convinzione, sperando di salvarsi in corner spezzando la tensione che s’era creata.
Brian si limitò a ridere e riportare tutto in carreggiata.
- Se fossi qui… e mi vedessi… non la penseresti così.
Ed era finita.
Lo sapeva.
Tanto valeva lasciarsi andare, una buona volta.
- …sei eccitato?
- Mmmh… - rispose lui, - Sì…
- Mi vorresti lì, vero…? – e la mano non era più sugli occhi. E gli occhi erano perfettamente aperti. E coscienti. E Dio, poteva sentirsi grondare eccitazione.
- Sì, Matt… mi manchi un casino… ho una voglia pazzesca…
- Anche io… - bisbigliò, e in un certo senso era piacevole rendersi conto di stare guidando lui il gioco, - Dio, ti vorrei avere qui davanti agli occhi… tutto bagnato…
- …cosa mi faresti…?
La mano scese pericolosamente sul cavallo dei pantaloni, dove si fermò esitante.
- Ti bacerei… le labbra, il collo… mi spingerei contro di te…
- Mmmh, sì, Matt… fallo…
La mano si nascose sotto i pantaloni, sfiorando quasi con timore l’erezione pulsante nei boxer.
- Lo sto facendo… - basta esitazioni, basta paure, una stretta decisa, come quella di Brian, morbida e sicura intorno a lui, - Mi senti…? – ansimava, ansimava al punto che non sapeva se sarebbe mai più riuscito a respirare normalmente.
- Ti sento… - i sospiri di Brian lo raggiungevano attraverso la cornetta, spezzati, profondi, ed era come averlo lì, era quasi come se lo stesse toccando, - Continua Matt…
E lui continuò. Risalendo la lunghezza e riscendendo fino alla base, lento, quasi esasperante, non voleva venire prima di lui, voleva ascoltarlo gemere, gridare, voleva sentirlo come se fosse sotto di lui.
- Ti piace Bri…? Ti piace…?
- Sì… sì, amore… mmmh… a te piace…?
- Dio, sì… continua Bri, toccati… così… - si morse le labbra, strizzando forte le palpebre, e quasi lo vide, il riflesso dell’acqua sulla sua pelle bianca, gli occhi semichiusi, così, abbandonato nella vasca, la mano in movimento veloce sotto la superficie dell’acqua, ed era bellissimo già nei suoi sogni, figurarsi quanto avrebbe potuto esserlo in realtà…
- Matt… Matt sto venendo…
- Sì amore, sì… anche io sto venendo…
Lo sentì chiamare il suo nome un’ultima volta, in un singhiozzo spezzato, e poi sentì il suo respiro rilasciarsi tutto in un’unica volta, e immaginò il suo volto arrossato, le labbra dischiuse, Dio che voglia di baciarlo, che voglia assurda di toccarlo, stringerlo, accarezzarlo, e-
Lanciò un suono profondo e gutturale, inarcando la schiena e stendendo le gambe.
- Dimmi che non ti ho perso. – disse Brian, la voce bassa e sensuale, ancora un po’ affaticata, - Dimmi che sono tuo e che tu sei mio.
Quando aprì gli occhi, l’orgasmo gli era già esploso fra le mani.
Si rilassò contro il materasso, gettando indietro il capo, cercando di ritrovare il fiato che aveva perduto fra le parole di Brian.
- Ti amo. – rispose poi, incapace di esprimere in altro modo quello che pensava.
Dall’altro capo del filo, un silenzio un po’ stupito.
E poi una risatina allegra.
- Ti amo anche io. – disse la voce di Brian, nuovamente giocosa, - Tanto tanto.
Il tono da bimbo lo divertì, e non poté fare a meno di sorridere a sua volta.
- Sei uno scemo… - disse con un sospiro, - Dimmi che sei soddisfatto e ora puoi tornare a casa.
Brian rise e lo rassicurò sul fatto che sì, sarebbe saltato fuori dalla vasca e poi sul primo aereo disponibile per Londra, e quando fosse arrivato avrebbero fatto sesso per tutta la notte.
- La prima bella notizia della giornata. – commentò Matt, guardandosi intorno alla ricerca di un qualche fazzolettino con cui ripulirsi.
- Però, amore… - lo richiamò Brian cinguettando, - la prossima volta possiamo provare un altro giochino…?
La sua ricerca s’interruppe d’improvviso, così come la sua mano, che si fermò a mezz’aria lungo il tragitto per il cassetto del comodino.
- …a quanti chilometri dovrai stare…?
- Ma no, al massimo un paio di metri…
- …e cos’è che avevi in mente…?
- Uhm. – mormorò Brian, come avesse davvero bisogno di pensarci su, quel dannato maniaco sessuale, - Hai mai sentito parlare di voyeurismo?
- …cioè vorresti guardarmi mentre mi scopo un altro?!
- Be’, per me non fa alcuna differenza se guardi tu e scopo io. – rispose Brian con estrema innocenza.
Era esausto.
Spossato.
E al momento aveva solo voglia di dormire – altro che sesso per tutta la notte.
La mano raggiunse il cassetto del comodino, lo aprì, né tirò fuori un kleenex e si ripulì nel tempo in cui lui lanciò il sospiro più enorme e rassegnato della sua vita.
- Senti. – disse, esasperato, - Ora torna a casa. Poi ci pensiamo.
Brian ridacchio, lo salutò e interruppe la conversazione.
Matt sapeva già di essere stato sconfitto in partenza.
Ma preferì non pensarci, voltandosi a pancia in giù sul materasso e cercando sul piumone tracce del profumo di Brian con le quali ingannare il tempo fino al suo ritorno.