Fanfiction a cui è ispirata: "Try Something New" di Happy.
Genere: Romantico, Triste, Introspettivo.
Pairing: BrianxMatt, BrianxHelena, MattxGaia.
Rating: R - probabile futuro NC-17.
AVVISI: Angst, RPS, Spin-off, Incompleta.
- Un anno è passato dall'ultima volta in cui Matt e Brian si sono visti. Un anno, e sembra non sia cambiato niente. Un anno, e in realtà c'è stata una rivoluzione, dentro di loro. Rivedersi è davvero la cosa giusta? Matt non lo sa. Sa solo che non può fare a meno di vagare per Hyde Park sperando di incontrarlo.
Commento dell'autrice: Se ne parla alla fine è_é
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TRY SOMETHING BETTER
CAPITOLO 1
SLEEPING WITH GHOSTS

“Don’t waste your time
Or time will waste you”
Muse – “Knights of Cydonia”


In effetti s’era sempre sentito un po’ in colpa per quello che aveva combinato a dicembre, l’anno prima. S’era sempre sentito un po’ in colpa e s’era sempre sentito anche un po’ – molto – vigliacco per quella fuga repentina e ingiustificabile, pretesa e ottenuta con tanti di quegli allucinanti strepiti che aveva sempre avuto paura che Tom e i ragazzi, da quella volta, avessero maturato nelle loro menti un’idea di lui in versione pazzo isterico che di sicuro non giovava alla sua autostima. Se ne accorgeva ogni volta che, ad esempio, Dom o Chris gli facevano un suggerimento a riguardo di qualcosa che avesse scritto: si avvicinavano sempre con timore, premettendo sempre che trovavano il suo lavoro fantastico, prima di dire quello che avrebbero preferito cambiare.
Anche Tom aveva difficoltà a parlare con lui. Al punto che ogni tanto, quando aveva bisogno di fare un qualche cambiamento nelle date dei tour o delle uscite dei singoli, neanche glielo diceva. Si limitava a farlo e poi avvicinarlo con cautela, offrirgli una cena o qualcosa di simile e mormorare “Adesso non ti arrabbiare, Matt, ma ho dovuto modificare questo, questo e quest’altro…”, ricevendo puntualmente in risposta uno stupito “Perché dovrei arrabbiarmi, scusa? Se hai deciso così avrai avuto un motivo, e poi il manager sei tu, sei tu che devi occuparti di queste cose, il mio lavoro è un altro…”, al quale, spesso, seguiva un sorriso imbarazzato e un “No, ma era per essere sicuro che non ti saresti infastidito”, che lui poteva spiegare solo ed esclusivamente come uno strascico della furia che l’aveva preso quando s’era trattato di tornare in studio a registrare coi Placebo.
Né Tom, né Dom, né Chris avevano mai capito. Anche perché, sul momento, sì, non l’aveva presa benissimo, aveva pregato un po’ tutti gli déi dell’universo perché gli concedessero di sfuggire a quella tortura, e s’era lamentato, e aveva protestato, ma era anche eccitato, era anche emozionato, e non vedeva l’ora, dannazione a lui, non vedeva l’ora di rientrare in studio e registrare di nuovo, non… non vedeva l’ora di rivedere Brian…
Per settimane aveva collezionato idee e spunti. E per settimane, i suoi amici avevano assistito stupefatti allo spettacolo sconvolgente di lui che rientrava in albergo, afferrava il cellulare, si gettava sul letto e chiamava Brian, improvvisando conversazioni del tipo “Ho visto questa scena fantastica oggi, per strada, dobbiamo assolutamente infilarla da qualche parte nello studio album, poi!”. Li avevano ascoltati chiacchierare per ore intere con toni che a volte sfioravano il romanticismo, e vagavano da un isterico “Molko, piantala, una buona volta, di dire porcate!” a un trasognato “Sì, anche tu mi manchi… un po’…”, sussurrato a stento, buttato fuori a fatica, coprendo la cornetta con una mano nella speranza che non sentisse nessuno.
Scene quasi surreali.
Cose di cui si vergognava da morire.
Per circa un mese avevano dovuto credere che fra loro ci fosse davvero qualcosa. Che stessero pensando a metter su famiglia o chissà cos’altro.
Dio.
E poi era successo qualcosa. Qualcosa che perfino Tom, malgrado sentimentalmente fosse l’uomo più ottuso del mondo, aveva dovuto capire perfettamente. Ovvero era arrivata Gaia.
Gaia l’aveva… l’unico termine che gli veniva in mente e che potesse, anche se molto vagamente, descrivere la sua situazione, era “sconvolto”. Gaia era stata un vero e proprio tumulto.
Era una loro fan. L’aveva letteralmente assalito all’ingresso dell’albergo nel quale alloggiavano, rischiando di farsi ammazzare dalle guardie del corpo e uscendo dalla rissa con una spalla lussata. Ancora dolorante, quando i ragazzi della security l’avevano sollevata e, comprendendo di aver calcato un po’ troppo la mano, l’avevano adagiata su una panchina, chiamando un’ambulanza, la prima cosa che lei aveva mormorato, appena lui le era andato vicino per assicurarsi che fosse ancora viva, era stata “Sono felice di averti potuto vedere così da vicino…”. E quando lui, ridacchiando, le aveva risposto “Hai rischiato grosso… la prossima volta che tenti di avvicinarmi sta’ più attenta…”, lei, sempre sorridendo, nonostante la smorfia di dolore che le sconvolgeva le labbra, aveva detto “Se potessi vederti ogni mattina nel mio letto non dovrei più temere per la mia vita”.
Lui era arrossito, sentendosi nello stesso momento attaccato e già sconfitto.
In quel preciso istante aveva capito che era lei, la donna che cercava. Non sapeva nemmeno il suo nome, conosceva soltanto il suo caschetto biondo, i suoi occhi verdi, la sua pelle chiara e il suo fisico minuto. Non conosceva la sua età, non sapeva nulla della sua vita, ma lei era quella donna, la donna di cui aveva spesso parlato a Dom con aria sognante, la donna per lui.
E lei gliel’aveva confermato riapparendo davanti all’albergo il giorno dopo, col braccio ingessato e un adorabile sorriso sul volto.
“Mi chiamo Gaia”, aveva detto, porgendogli la mano, “Scusa se ti do la mancina”.
“Niente”, aveva detto lui, rispondendo al saluto. “Posso invitarti a bere un te? Sai, per scusarmi del comportamento delle mie guardie del corpo, ieri…”.
Lei aveva sorriso ancora, e lui l’aveva trovata angelica.
“Certo che puoi. E sei già scusato, comunque”.
Era cominciata così.
E nessuno ci avrebbe scommesso su un centesimo.
Nessuno tranne lui, ovviamente.
Un mese dopo, già convivevano. Lei era giovane, molto giovane, aveva appena diciannove anni, ma i suoi genitori erano due persone molto aperte, avevano semplicemente preteso di conoscerlo e sottoporlo a un interrogatorio di un paio d’ore, dopodiché avevano spalancato le braccia e gli avevano affidato la loro bambina con un gioviale sorriso sul volto.
Era stato in quel momento che lui aveva cominciato ad avere paura.
Mancava solo un mese a dicembre. Mancava solo un mese al momento in cui avrebbe rivisto Brian.
E sapeva, perché lo sentiva continuamente, perché parlavano continuamente, sapeva che Brian non era cambiato di una virgola, così come non erano cambiate di una virgola le sue idee su di lui, su di loro.
Ed erano un pericolo.
Perché la sua storia con Gaia era ancora una bambina, era appena nata, era così minuscola e indifesa che lui sentiva il bisogno fisico di proteggerla, avvolgerla fra le sue braccia e impedire al mondo esterno di intromettersi e rovinare tutto.
Ci teneva troppo, per permettere a un altro terremoto di buttare a terra le fondamenta della sua nuova casa.
Perciò, a dicembre aveva semplicemente fatto esplodere un casino. Aveva gridato e strepitato, aveva affermato con convinzione che non gli interessava più nulla di lavorare di nuovo coi Placebo, che la produzione poteva andare a farsi benedire, che non gliele fregava nulla del contratto e poteva anche stracciarlo davanti a tutti, che voleva concentrarsi su sé stesso, che voleva preparare i nuovi pezzi per il nuovo album, che, in definitiva, non se ne faceva più niente.
Avevano protestato un po’ tutti, com’era stato ovvio fin dall’inizio. Dom, soprattutto, s’era infuriato, e avevano litigato come i pazzi per la prima volta dopo tanto tempo. A Dom, come lui stesso gli aveva detto, non fregava niente di quali fossero i suoi problemi personali, non avrebbe dovuto permettersi di impedirgli di passare un altro po’ di tempo con Stefan. E quando lui, protestando, gli aveva detto che comunque di Stefan non gli era mai davvero fregato niente, Dom l’aveva guardato con disgusto e gli aveva semplicemente detto che della vita non capiva un cazzo. Dopodichè l’aveva snobbato per qualcosa come tre settimane e alla fine era crollato e l’aveva “perdonato”.
Lui s’era sentito una bestia insensibile per tutto il tempo.
Soprattutto quando ignorava le chiamate di Brian che tempestavano il suo cellulare.
Ma non era disposto a cedere. C’era troppo in palio. E lui era sempre stato un tipo tenace.
Però, ecco, migliaia di volte, durante quel periodo orribile, avrebbe voluto prendere i suoi amici per le spalle, scuoterli violentemente e urlare “non è che la cosa mi faccia piacere, accidenti a voi, non è che gioisca al pensiero di mandare a puttane un contratto, non è che gioisca al pensiero di mandare a puttane un rapporto, non è che mi piaccia pensare che non rivedrò Brian mai più, solo ho una paura fottuta che questo possa distruggermi la vita, com’è che non lo capite?, com’è che non lo vedete?, PERCHE’, CAZZO, NON VE NE ACCORGETE?!”.
E forse era per questo che, quando aveva saputo che i Placebo avrebbero preso parte al mega-concerto organizzato a Hyde Park, aveva colto la palla al balzo e, mentendo a chiunque, ci era andato. Gaia non aveva sospettato niente, ma di lei non aveva effettivamente motivo di preoccuparsi, perché quella ragazza si fidava di lui come fosse stato suo padre. Dom, probabilmente, aveva sospettato qualcosa. Infatti gli aveva sussurrato malignamente “Tanto se vai lì ci vediamo, perché io ci sarò sicuramente”.
Fortunatamente, Dom non s’era fatto sfuggire nulla con Gaia. Quello sarebbe stato un problema non indifferente, da risolvere.
Cavolo, poteva vedersi. Poteva vedersi vagare sperduto fra i gruppetti di persone intenti a chiacchierare in attesa dell’inizio dello show. Si prospettava una manifestazione musicale di proporzioni cosmiche, avrebbero partecipato tanti di quei gruppi, tra vecchie guardie ed esordienti, che non riusciva neanche a ricordare tutti i nomi.
Anche se be’, in realtà non è che ci avesse realmente provato a memorizzarli, tutti quei nomi. I suoi occhi avevano individuato i Placebo fra i tanti e il suo cervello aveva provveduto a isolarli dalla massa e cancellare tutto il resto, così non è che fosse rimasto molto spazio per i nomi degli altri.
…era semplicemente patetico.
Era lì per vedere Brian, questo era chiarissimo perfino per lui, che pure aveva cercato di ignorare quella verità per tutto quel tempo, che pure aveva cercato di convincersi fosse solo curiosità, voler vedere come stesse, come se la passasse…
Non voleva incontrarlo, gli faceva ancora troppa paura, ma vederlo, quello sì, anche solo da lontano, anche solo intravederlo, anche solo-
- Carino.
Oddio.
Si congelò sul posto, stringendo i pugni e sentendo un brivido scendergli lungo la schiena fino a fargli tremare le gambe.
Oddio.
*
Qualche minuto prima.

Non che fosse inquieto.
E non che sperasse in qualcosa, ovviamente.
Però Dominic l’aveva chiamato in gran segreto e gli aveva detto che sospettava che Matt pensasse di andare al concerto, magari senza farsi vedere, e allora gli sembrava ovvio provare un attimino d’agitazione in prospettiva, o no?
Insomma.
Matt era… era rimasto una parentesi, nel suo passato. Una parentesi che non si era mai chiusa.
E faceva male, ecco. La situazione sospesa, il pensiero che potesse essere ancora sospesa anche nella testa di quel dannato stupido, oltre che nella sua…
Il desiderio di lasciare che tutto si esaurisse nel tempo passato e sprecato, e quello contrastante e altrettanto forte di tenere il ricordo fisso nella mente, per non perderlo mai di vista.
Scosse il capo, massaggiandosi le tempie con due dita.
È mai possibile essere così emotivi?, si disse, sconsolato, scuotendo il capo come a volerlo svuotare da tutti i pensieri.
Doveva uscire da quel dannato umore. Doveva uscire da quella dannata ragnatela di ricordi e soprattutto doveva smettere di vagare per il parco sperando di beccare Matt in mezzo alla folla.
Cercarlo lo faceva solo stare male. Lo riempiva solo di pensieri riguardo a come si era sentito durante l’anno, e quello che aveva passato, e…
Insomma, era stata sua la colpa. Tutta di Matt. Lui si era limitato a comportarsi come sempre, era sempre stato il solito Brian.
Per quanto poteva immaginare potesse essere stato questo a convincere Matthew a comportarsi come aveva fatto.
Ma aveva fatto in modo che nessuno si preoccupasse per lui, durante quei lunghissimi dodici mesi. A Stef e Steve non aveva voluto dire niente, aveva continuato a comportarsi con naturalezza senza lasciar sospettare come si sentisse in realtà. Con Helena non aveva voluto neanche accennare alla cosa, e anche con Alex non aveva avuto voglia di parlare, sebbene lei fosse stata l’unica a immaginare che tutta la sua allegria non fosse altro che di facciata.
Dannate donne, sempre così sensibili.
Ma lui era sempre stato così, in fondo, no? Preferiva tenersi tutto dentro e sorridere, di giorno, e dormire coi suoi fantasmi la notte. Magari affondare nel cuscino e respirare con forza, fino a farsi dolere i polmoni, strizzando gli occhi fino a vedere macchie bianche vorticargli dietro le palpebre, e poi riaprirli e guardare il buio, e trattenere le lacrime a stento o non piangere affatto, e stringere i pugni attorno al lenzuolo ripetendosi “passerà, passerà”, sapendo perfettamente che non sarebbe mai passata, perché i fantasmi ti si attaccano alla pelle, sono come il tempo, che passa e ti rimane ancorato alle spalle, e ne senti il peso, giorno dopo giorno, e senti il rimpianto dei giorni perduti e ti fa male anche se sei fortunato e trovi qualcuno che ti consoli.
Lui era stato fortunato, in fondo. Aveva trovato Helena. E lei era stata fantastica, e comprensiva, e permissiva, e lui era convinto, fermamente convinto che fosse la compagna perfetta, l’unica possibile. E poi lei gli aveva dato Cody, e Cody era semplicemente la cosa più… più grandiosa che avesse mai pensato di ricevere in dono dalla vita.
Adesso era un padre, era un uomo quasi sposato, era tutto sommato contento. Era maturato, dall’anno prima.
Eppure non riusciva a lasciarsi quello che aveva vissuto alle spalle.
Non sarà una volta sola, aveva pensato dopo quell’unica notte insieme, e invece era esattamente quello che era rimasto. Un errore. Un episodio isolato nella vita perfetta e razionale di Matthew Bellamy; un episodio isolato, e neanche l’ultimo di una lunga serie, anche nella vita caotica e assurda di Brian Molko.
Un bruscolino di polvere.
Un’invisibile crepa nella parete.
Un niente.
E poi sollevò lo sguardo. Lo fece vagare sconsolato fra le migliaia di facce sconosciute che sembravano troppo impegnate ad aspettarsi di vederlo sul palco per guardare oltre ai suoi occhiali da sole e al berretto che indossava e alla sciarpa che gli copriva per metà il viso, e accorgersi che era lui. Lo fece vagare fra gli alberi di Hyde Park, fra le aiuole ben curate e pulite, così tipicamente inglesi, e gli ampi spazi di terreno mattonato, e poi lo fece vagare su, perdendolo nel cielo plumbeo che sembrava nero attraverso le lenti degli occhiali, e quando lo riportò giù Matt era davanti a lui, voltato di spalle, e camminava spedito guardandosi intorno come alla ricerca di qualcuno, e a lui sembrò per un attimo di impazzire di gioia, e si sentì sudare freddo mentre tra i suoi occhi e tutto il resto germogliavano le parole cerchi me?, cerchi me?, dimmelo, se cerchi me, Dio, ti prego, fa che cerchi me…
Tirò un respiro profondissimo. Rilasciò l’aria dalle labbra, e quella si condensò in vapore e si sparse davanti a lui, rendendo l’immagine di Matt opaca e sfumata – che ironia – proprio come quella di un fantasma.
E poi prese di nuovo fiato, e cercò di sorridere.
- Carino. – disse, e fu abbastanza perché Matt si congelasse sul posto, stringendo i pugni e voltandosi a guardarlo.
*
Non lo individuò subito, quando si girò. Ma era sicuro che fosse lì, doveva essere lì, non poteva esserci soltanto la sua voce, perciò guardò meglio e lo vide. Sì, il nanetto imbacuccato in un lungo cappotto nero, con la sciarpa quasi annodata intorno al viso come un terrorista, e i capelli coperti da uno sciocco berretto bianco e nero, doveva essere Brian.
Non sapeva cosa dire, ma non poteva rimanere zitto, perciò sputò fuori un saluto, faticando enormemente per ricordare il giusto ordine delle lettere nella parola “ciao”.
Brian… sembrava a suo agio. Non poteva vedere l’espressione del suo viso, ma la postura del suo corpo – le gambe leggermente divaricate, le mani mollemente abbandonate nelle tasche del cappotto, le spalle sciolte e distese – e in generale la sua disinvoltura naturale e il tono pacato e quasi divertito con cui l’aveva chiamato, lasciavano intendere proprio quello.
Che per lui fosse tutto a posto.
Che incontrandosi dopo un anno lui potesse chiamarlo ancora in quel modo senza sembrare inopportuno.
Questo lo irritava.
Cercò di mostrare indifferenza, mentre il suo cervello ribolliva.
- Che coincidenza. – disse atono, guadagnandosi in cambio una risata tonante da parte di Brian.
- Coincidenza? – chiese l’uomo, abbassandosi gli occhiali da sole sul naso e guardandolo da sopra le lenti, - Hai uno strano modo di intendere le coincidenze, tu.
- Se credi che ti stessi cercando, sbagli di grosso. – replicò, incrociando le braccia sul petto.
- Sì?
- Sì. Cercavo Dom, so che doveva venire.
Ancora, Brian rise forte.
- Se credi che lui o Stef siano ancora nei paraggi, dato che la prima cosa che hanno fatto rivedendosi è stata saltarsi addosso, allora sei tu quello che sbaglia di grosso. – disse sorridendo candidamente.
Lui si diede dello stupido. Avrebbe dovuto immaginare che una scusa simile non avrebbe funzionato, viste le circostanze.
Rimasto senza parole, totalmente incapace di reggere lo sguardo di Brian – cazzo – fissò la punta delle sue scarpe per una serie infinita di secondi.
Poi l’odore, la consistenza e la temperatura dell’aria attorno a lui cambiarono, e ancora prima di alzare lo sguardo lui seppe che Brian gli si era avvicinato.
- Posso offrirti una birra? – gli chiese l’uomo, gli occhi nuovamente coperti dagli occhiali, scrollando le spalle.
E lui sapeva che era un pericolo avvicinarglisi tanto.
Sapeva che era un pericolo, stare con lui.
E sapeva che era un pericolo anche bere qualcosa con lui.
Ma accettò senza pensarci neanche una volta.
*
Non voleva dargli l’idea che si fosse tenuto informato sul suo conto, durante quell’anno di assenza, perciò non poteva mica cominciare a chiedergli cose del tipo “Allora, ho sentito che finalmente stai mettendo la testa a posto! Com’è essere padre?” sperando che lui pensasse fossero solo informazioni sentite casualmente alla tv o intraviste di sfuggita su un giornale scandalistico.
Brian era scandalosamente portato ad osservare gli avvenimenti come se tutto avesse un perché.
Non ammetteva l’esistenza della casualità.
E Matt sapeva che mentre sorrideva sereno sorseggiando innocente la sua birra, in realtà stava pensando che se si erano incontrati era soltanto perché entrambi lo volevano fortissimamente, e che se lui aveva accettato di farsi offrire la birra era soltanto perché aveva voglia di stare con lui.
Non aveva pensato neanche un momento che avessero potuto incontrarsi per caso e che lui avesse accettato perché non vedeva per quale motivo non avrebbe dovuto.
No, decisamente, se gli avesse chiesto una qualsiasi cosa sulla sua vita privata Brian avrebbe pensato immediatamente che lui si fosse messo a raccogliere informazioni sul suo conto, ritagliare articoli di giornale e fotografie e costruire un altarino alla sua memoria – con candele e tutto – nel seminterrato di casa sua.
Cosa che effettivamente era stato tentato di fare, più di una volta.
Potenza della nostalgia.
Mentre rimuginava su cosa fosse giusto fare e cosa invece dovesse ricordarsi di non fare mai e poi mai, semplicemente Brian terminò la sua birra, sorrise e chiese “Allora, ho sentito che ti sei fidanzato. Sei felice?”.
Lui lo guardò, attonito, la labbra ancora dischiuse e il boccale a mezz’aria davanti al viso.
- Che vuol dire se sono felice?
Lui inarcò le sopracciglia, stringendo le labbra.
- E’ una domanda come un’altra. No?
- Sì, voglio dire… certo che sono felice! Amo la mia ragazza!
Brian sorrise.
- Vedi che non è difficile rispondere?
Che cosa diavolo gli stava succedendo? Non era mai stato così gentile, così ossequioso…
…così distaccato.
Odiava quel sorriso lontano. Odiava quelle domande di circostanza.
E odiava la consapevolezza che se Brian poteva permettersi senza troppi problemi di chiedergli se fosse veramente felice e come stesse con la sua ragazza era perché, evidentemente, lui l’aveva superato, quello che era successo fra loro.
E quindi, forse, in definitiva, quello che pensava troppo, fra loro due, era proprio lui.
Quello ancora spaventato.
Quello ancora attaccato al passato.
Quello ancora in- Dio, era lui, quello.
Abbassò lo sguardo, sentendosi colpevole nei confronti di tutto il mondo.
- Allora, chi sei venuto a vedere? – chiese Brian tranquillamente, con curiosità, - I Genesis? La reunion sta facendo parlare di sé. Pare che andranno in tour, dopo questo concerto.
- Mh… - disse lui, poco convinto, mentre metabolizzava la sensazione che, con tutto il rispetto per Collins e compagnia, con Brian là davanti dei Genesis gli fregava meno di niente.
- E’ proprio vero che il tempo rinvigorisce i legami, quando sono sinceri, no?
Spalancò gli occhi.
Eccola.
Eccola, eccola, eccola!
La mazzata.
Doveva arrivare, prima o poi.
Stupido, deficiente lui che aveva creduto di averla passata liscia.
Il tempo rinvigorisce i legami sinceri, sì.
E distrugge tutti gli altri.
Capito l’antifona, Brian.

Ora era tutto molto più chiaro, e molto più doloroso.
Brian non era semplicemente passato avanti. Non aveva conservato il ricordo del tempo che avevano passato insieme immergendolo in un barattolino di dolce malinconia. Aveva camminato sui suoi ricordi, pestandoli e riducendoli in brandelli, e poi aveva messo quanto rimasto sott’odio, e lì l’aveva lasciato, a marcire, fino a quel momento.
Ecco cosa c’era dietro ai suoi sorrisi sereni, dietro al suo cortese distacco, alle sue fredde premure.
Quintali, quintali e quintali di schegge di rancore a saltellare impazzite nella sua mente, conficcandosi ovunque.
- Be’, chiunque tu sia venuto a vedere, - concluse Brian alzandosi in piedi, - spero tu rimanga anche fino all’esibizione dei Placebo.
In realtà aveva già visto chi voleva vedere.
Fin troppo.
E se Brian l’avesse saputo gli avrebbe detto tranquillamente che allora poteva andare via.
Ma lui non disse niente, si limitò ad annuire. Brian rispose con un sorriso e poi si voltò per uscire dal locale.
Resistette all’impulso di richiamarlo solo fino a quando non lo vide sulla soglia della porta.
- Brian! – disse a voce alta, attirando gli sguardi degli altri clienti e rimettendoli tutti ai loro posti con una serie di occhiatacce torve.
- Sì? – chiese lui, voltandosi e sorridendo cortesemente.
Matt si sentì avvampare.
- Canterai… canterai la nostra canzone? – chiese infine, imbarazzato, fissando il pavimento.
Brian scoppiò a ridere così forte che lui pensò di aver fatto una battuta.
- Mio Dio, Bellamy: no!

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