Fanfiction a cui è ispirata: "Try Something New" di Happy.
Genere: Romantico, Triste, Introspettivo.
Pairing: BrianxMatt, BrianxHelena, MattxGaia.
Rating: R - probabile futuro NC-17.
AVVISI: Angst, RPS, Spin-off, Incompleta.
- Un anno è passato dall'ultima volta in cui Matt e Brian si sono visti. Un anno, e sembra non sia cambiato niente. Un anno, e in realtà c'è stata una rivoluzione, dentro di loro. Rivedersi è davvero la cosa giusta? Matt non lo sa. Sa solo che non può fare a meno di vagare per Hyde Park sperando di incontrarlo.
Commento dell'autrice: Se ne parla alla fine è_é
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TRY SOMETHING BETTER
CAPITOLO 6
MAP OF YOUR HEAD

Allocate your sentiment
And stick it in a box


Aveva deciso di portarlo in albergo semplicemente perché i suoi pianti non accennavano a diminuire d’intensità, né tantomeno a scomparire, e lui aveva paura che la cosa potesse farsi troppo pericolosa. Gaia poteva essere dura d’orecchi e magari anche un po’ immatura, ingenua e infantile, ma di sicuro non era una stupida. Brian aveva davvero paura che potesse sopperire alle sue pecche quanto a capacità di osservazione con un intuito un po’ troppo sviluppato, capendo tutto in un baleno.
Non che Matt facesse molto per trattenersi, oltretutto.
Sperava che gli alberghi – le stanze impersonali, l’assenza di ricordi nascosti dietro ogni mobile ed ogni centimetro di carta da parati, la mancanza di Gaia e anche di tutti gli altri – potessero… tranquillizzarlo. Sollevarlo un po’.
Si sbagliava.
- Mi stai bagnando. – si limitò a constatare, quasi infastidito, guardando in basso le lacrime dell’uomo che lo abbracciava scivolare lungo le guance e cadere sul materasso quando non impattavano contro la sua pelle, solleticandolo.
Matthew mormorò un “vaffanculo” soffocato e si voltò dall’altro lato, affondando il capo nel cuscino e continuando a piangere rumorosamente.
Evidentemente, l’unico effetto delle stanze d’albergo su di lui era un rinnovato sentimento di liberazione per il quale poteva tranquillamente sputare i polmoni a furia di lamentarsi senza per questo preoccuparsi di venire scoperto.
Brian sospirò.
Doveva calmarsi.
Non poteva pretendere che Matthew prendesse con semplicità tutto quello che stava succedendo. Non sarebbe stato un comportamento “da Matt”. E probabilmente, se fosse stato un cinico menefreghista felice di scopare con l’amante in albergo senza più pensare a chi gli voleva bene e lo aspettava a casa, lui neanche l’avrebbe amato.
Sì, doveva decisamente calmarsi.
Lo guardò. Poteva vedere solo i suoi capelli, ancora arruffati, scuotersi al ritmo dei singhiozzi.
Catturò una ciocca fra le dita, giocherellandoci un po’.
- Perché continui a piangere quando facciamo l’amore…? – chiese, con tutta la dolcezza che gli fu possibile raccattare.
- Lasciami in pace. – rispose duramente Matt, incurvando di più le spalle, come volesse chiudersi a riccio.
Lui sospirò ancora, strisciando sulle lenzuola per avvicinarglisi e poggiargli una mano sulla schiena, cercando di domare i suoi singhiozzi.
- Non posso. – ammise, - Fosse stata una volta sola avrei potuto capire, ma tu continui a farlo ogni volta, e la cosa sta cominciando ad assumere connotati patologici…
- Fanculo tu e i connotati patologici pure. – si limitò a replicare Matt.
Rimase in silenzio, senza smettere un secondo di rigirarsi i suoi capelli fra le dita e far scivolare la mano lungo la sua spina dorsale. Continuò a farlo per qualche minuto – molti minuti – percependo Matthew rilassarsi sotto i polpastrelli.
Lo osservò voltarsi lentamente, mentre pian piano i singhiozzi tornavano respiri.
- Brian… - lo chiamò, agitato, stringendogli le dita attorno ai polsi, - Chi diavolo sono io?
Lui lo guardò esterrefatto per qualche secondo.
- Devo dirtelo io? – chiese a mezza voce.
Matt strinse le labbra, guardandolo negli occhi con stupore, come stesse realizzando solo in quel momento cos’aveva chiesto.
- Sì, lo so, hai ragione, - disse con tono lamentoso, tornando a fissare in basso, imbarazzato, - è una cosa che dovrei capire da solo e tutto il resto…
- No, no. – si affrettò a interromperlo Brian, - Stavo… stavo chiedendo. Vuoi che te lo dica io?
Lui rimase in silenzio, in attesa, come non credesse possibile che una cosa del genere potesse succedere.
E Brian lo baciò. Era consapevole del fatto che quella non fosse la risposta che Matthew cercava. Sapeva che un bacio in quel momento era solo uno stupido palliativo, sapeva che consolarlo a quel modo prima di dargli un colpo sulle ginocchia e spaccargli le gambe non era la cosa più corretta che potesse fare.
Ma lo fece lo stesso, perché, indipendentemente dai desideri di Matt, baciarlo era esattamente la risposta giusta.
- Sei il mio amante. – disse, serio.
Lui tornò a guardarlo con un paio d’occhi che strillavano “fermati”, stringendo la presa attorno ai suoi polsi fino a fargli male.
- Poi tornerai a casa tua, stasera, - proseguì lui, implacabile, - e sarai il fidanzato di Gaia. – si morse le labbra ed esitò un attimo, metabolizzando a propria volta la verità davanti alla quale stava ponendo Matt e sé stesso, e poi continuò. – Domani, quando entrerai in sala prove, sarai il cantante dei Muse.
- …dove vuoi andare a parare? – chiese Matt, deglutendo nervosamente.
- Sei tutte queste cose. – spiegò Brian, stringendosi nelle spalle, - Solo, non puoi esserlo contemporaneamente, Matt. Ed invece è esattamente quello che tu pretendi. – si interruppe, rifletté. Vide Matthew che continuava a implorarlo silenziosamente di smetterla…
…e capì una volta per tutte che Matthew non avrebbe mai messo in chiaro niente. Fosse stato per lui, sarebbero rimasti amanti a vita. Avrebbe continuato a stare con Gaia, magari l’avrebbe anche sposata, e avrebbe preteso che lui a propria volta continuasse a stare con Helena e Cody, per non doversi sentire in colpa nei loro confronti.
Risolvere non era fra le cose che Matthew voleva.
Averlo era fra le cose che Matthew voleva.
Ma per lui non era più abbastanza.
- Tu pretendi di essere l’appassionato amante di Brian, - riprese, abbassando lievemente le palpebre, - il fedele fidanzato di Gaia, il responsabile cantante dei Muse, il devoto figlio dei tuoi genitori, il gentile beniamino dei fan e tutto il resto.
- Non…
- E’ vero. Assolutamente. Credimi. E non ti rendi conto che voler essere tutte queste cose nello stesso momento è impossibile, perché alcune cozzano perfino fra loro.
- …
- Ti devi rilassare. Anche perché può non fregarmene niente dei Muse, di Gaia, dei tuoi genitori e di tutto quanto il resto, ma della persona di cui sono innamorato mi frega. E non voglio perderla. Capito?
Matthew abbassò lo sguardo, mordendosi le labbra per non piangere di nuovo. Piantò le unghie più a fondo nella carne di Brian, sperando di non lasciargli segni troppo evidenti.
Brian le vide, le lacrime, affacciarsi nuovamente alle sue ciglia. Ma vide anche l’enorme sforzo di Matt di ricacciarle indietro da dov’erano venute. Vide lo sforzo, e vide la sua vittoria, e vide le lacrime sconfitte.
E questo lo rincuorò.
Perché in effetti c’era ancora qualcosa che potesse fare per farlo smettere di piangere.
- Stronzo. – mormorò Matthew fra i denti, lasciando in pace i suoi polsi e appoggiandoglisi con la fronte al petto, - Grazie.
Brian sorrise, chinandosi a sfiorargli la fronte con le labbra.
- Però, - ridacchiò, - piangi spesso, per essere un uomo. E io che pensavo che fra noi due sarei stato io il meno virile!
- E piantala! – rise Matt, asciugandosi velocemente le lacrime dalle guance, - Che devo dirti? Sono un sentimentale.
Brian strinse i denti e sorrise ancora.
Era il suo turno di farsi bastare una risposta inutile.
*
Si organizzarono per rientrare separatamente.
Matthew si fiondò a casa e Brian si fiondò a fare shopping. Era un buon compromesso, avrebbe potuto giustificare davanti a Stef e Steve l’ennesimo acquisto improbabile, nascondendolo dietro ad una risatina e ad un “ero triste, avevo bisogno di tirarmi su”.
Lui avrebbe saputo che c’era della verità dietro allo scherzo, l’avrebbero saputo anche loro e tutto sarebbe stato perfetto.
Quando rincasò fu Stef ad aprirgli.
Lui lo guardò e sollevò un’elegante busta Prada, il bassista lo guardò di rimando e sollevò un sopracciglio.
- Matt? – chiese distrattamente, facendosi strada nell’ingresso e posando il sacco sul pavimento mentre sfilava il cappotto.
- In salotto. Con Gaia.
Appese il cappotto all’attaccapanni e tornò a guardare lo svedese, notando una punta d’ansia in fondo agli occhi che, a primo sguardo, gli era completamente sfuggita.
- Che aria tira? – chiese, quasi timoroso, chinandosi a recuperare il pacco e dirigendosi verso le scale per salire in camera propria.
Stef scrollò le spalle.
- Non ne ho idea. Tu che mi dici?
Sbuffò un “niente di particolare”, raggiungendo il corrimano e poggiando il piede sul primo scalino.
Stef gli si avvicinò alle spalle e lo trattenne per la maglietta, facendogli mancare il secondo scalino e mandandolo quasi a sedere per terra.
Quando Brian si voltò a guardarlo, per sbraitargli in faccia che se voleva ucciderlo bastava avvelenarlo, vide che la punta d’ansia nei suoi occhi non era più una punta, ma una macchia alquanto ingombrante.
Decise di tacere.
- Che sarebbe quella? – chiese il bassista, strattonandolo per obbligarlo a voltarsi e afferrandogli entrambi i polsi fra le mani, - Che sono questi, Brian?!
Brian lanciò un breve sguardo ai propri polsi, per non perdere il contatto visivo con gli occhi di Stef, e si accorse dei segni scuri sulla pelle. Doveva essere stato Matt prima…
- Brian, che diamine-
- Non preoccuparti, dai! – disse ridacchiando e staccandosi da lui con un gesto improvviso e quasi violento, - Sono solo segni d’amore. – concluse con una risata sprezzante e ironica.
- Segni… - annaspò lui, sconvolto.
- Segni d’amore! – ripeté Brian con un’altra risata, quasi fosse orgoglioso di tutto quello.
Stefan si passò una mano sugli occhi, e rimase in quella posizione per qualche secondo. Quando riemerse, fissò Brian e scosse il capo. Poi lo lasciò lì, davanti alle scale, e si diresse a passo spedito verso il salotto. Quasi sfondò la porta, irrompendo nella stanza e strillando “Matthew, devo parlarti!”. Lui e Gaia stavano seduti sul divano, e sembravano essere stati interrotti nel bel mezzo di una discussione che definire importante sarebbe stato riduttivo. Ciononostante, gli occhi di Matthew si riempirono di paura – dovette pensare che fosse successo qualcosa a Brian – e Stef lo vide alzarsi, scusarsi con la ragazza e avvicinarglisi con fare incerto.
Sospirando, Stef roteò gli occhi e lo afferrò per un polso, trascinandolo fuori dalla stanza fino all’ingresso, dove ancora Brian aspettava immobile. Il bassista li osservò scambiarsi uno sguardo agitato e parzialmente curioso, e poi fermarsi a fissarlo.
- Stef, che diavolo hai? – chiese infine Brian, dopo qualche secondo di silenzio.
- Che ho io, Brian?! – esplose lo svedese, allargando le braccia ai lati del corpo in un gesto esasperato, - Cosa avete voi, semmai! Sapevo che avrei dovuto oppormi a questo fatto dell’albergo, la cosa era sospetta fin dall’inizio!
Matthew si limitò a guardarlo, spalancando gli occhioni, come non capisse una parola di ciò che stava dicendo – cosa peraltro probabile. Brian incrociò le braccia sul petto e batté un paio di volte un piede per terra, nervoso.
- Stefan, stai delirando. E abbassa la voce.
Lui gli si avvicinò, afferrandolo per una spalla e facendo lo stesso con Matthew, spingendoli in modo che si guardassero negli occhi, faccia a faccia.
- Non sono io che sto delirando. Siete voi che siete nel bel mezzo di un delirio del cazzo, Brian. Che diavolo sono quei segni sui polsi?! Che vi siete fatti in quella cavolo di camera?!
Le sopracciglia di Matt e quelle di Brian si sollevarono contemporaneamente, ed entrambi si fissarono stupefatti negli occhi per qualche attimo, prima di voltarsi a guardare Stef con un’espressione a metà fra l’ebete e l’incredulo.
- Matt mi ha stretto un po’ mentre piangeva… - spiegò Brian infantilmente, incapace di trovare espressioni meno frivole per spiegare quanto era successo.
- Diamine, che cavolo pensavi gli avessi fatto?! – strillò invece Matthew, scrollandosi di dosso la sua mano con un movimento infastidito.
- Ma che ne so?! – s’infuriò a propria volta Stefan, passandosi le dita fra i capelli, completamente fuori controllo, - Chiedo a quel cretino cosa sono i lividi e lui risponde “segni d’amore”, scusate se sento il bisogno di preoccuparmi un po’!
- Stef, vai a cagare. – concluse Brian, scacciando la mano che ancora gli gravava sulla spalla con uno schiaffo irriguardoso, - Sei completamente impazzito o che?
Stefan si passò nuovamente la mano sugli occhi, massaggiandosi le palpebre.
- D’accordo. – disse in un fiato debole, - D’accordo. Non è successo niente. Ma cazzo, Brian, Matthew, questa cosa non può andare avanti così! Insomma, Brian, tu mi conosci! Accidenti, io non mi agito! Quasi mai! Ma guarda in che condizioni sono adesso!
- Se sei isterico non è un mio problema! – sbraitò Brian, stringendo i pugni.
- Che succede…? – chiese Gaia, facendosi timidamente strada nell’ingresso, - C’è qualcosa che non va?
La tensione sembrò crollare e farsi a pezzi come vetro, e tutti e tre si voltarono a fissarla con gli stessi sguardi sconvolti e arrossati dal nervosismo, ai quali lei rispose con un sorriso imbarazzato e insicuro.
- Non è niente. – cercò di rassicurarla Matthew, grattandosi la nuca e avvicinandosi a lei, prendendola delicatamente per le spalle e conducendola in cucina, - Andiamo a preparare un caffè, dai.
- Ma cosa- - cercò di insistere lei, ma Matthew la zittì con un perentorio “niente”, e quando i due si chiusero la porta della cucina alle spalle, Stefan e Brian rimasero soli a fissarsi come fossero due alieni provenienti da due pianeti diversi.
- Stef. – azzardò Brian, sistemandosi i capelli sulla fronte con un gesto veloce, - Devi calmarti. Ho tutto sotto controllo.
- Non hai un cazzo sotto controllo. – rispose Stefan, ormai tornato padrone del proprio comportamento, poggiando una mano sul fianco e scrollando le spalle, - E lo sai. Il fatto che te lo faccia notare non serve a niente.
- Stefan… - lo chiamò lui, lamentoso, chiudendo gli occhi e facendo per voltarsi e risalire in camera propria.
Il bassista lo afferrò per una spalla e lo costrinse a tornare giù e guardarlo.
- Sai che fra una settimana partiamo. – gli ricordò con tono grave, scrutandolo negli occhi, - Cosa pensi di fare da qui ad allora? Cosa pensi di fare con Matt? Cosa pensa di fare lui? Ne avete almeno parlato?
Ci abbiamo almeno pensato?, si chiese, vagamente annoiato dalla paternale e dalla situazione in generale.
- Senti, Stefan. – cercò di chiudere, agitando una mano davanti al viso come volesse scacciare una mosca, - Questa cosa è assurda. Sono io quello che dovrebbe correre per casa strillando come una checca isterica, non tu.
- Sì, ma dal momento che tu non lo fai…
- Puoi risparmiarti di fare le mie veci sotto quest’aspetto. – lo rassicurò lui con un ghigno ironico, - Perché non esci con Dom e ti distrai un po’?
- E tu perché non te ne vai un po’ a cagare?! – sbottò Stef, spazientito, abbandonando l’ingresso dopo aver rafforzato il proprio vaffanculo sollevando il dito medio.
Brian sospirò, appoggiandosi esausto al corrimano e passandosi una mano fra i capelli.
Diosanto.
Mai vissuta scena più allucinante.
Si guardò intorno. L’ingresso era completamente vuoto. Sentì Stef mandare al diavolo Steve in salotto, dopo che lui aveva osato chiedergli se fosse tutto a posto, dal momento che sembrava essere stato appena investito da un camion. Sentì anche Matthew alzare la voce con Gaia, in cucina, per ribadirle esasperato che “no, Cristo santo, non aveva alcun motivo di preoccuparsi e avrebbe comunque fatto meglio a badare ai cazzi propri, una volta ogni tanto”.
Si lasciò andare ad un singhiozzo poco convinto, che ricacciò a fatica sul fondo della gola prima che diventasse troppo fastidioso.
Su una cosa Stefan aveva ragione, in fondo.
Doveva risolvere quella situazione. E se aspettava che fosse Matt a muoversi per primo, avrebbe aspettato per sempre.
Per sempre decisamente non era un tempo accettabile.
*
Tornando a casa, quel giorno, e leggendo negli occhi di Gaia qualcosa di spiacevole che non riuscì o non volle decifrare, venne investito dalla chiara consapevolezza di stare facendo qualcosa di sbagliato.
Fu strano, perché non aveva mai riflettuto su quanto fosse ingiusto il comportamento che aveva adottato nelle ultime settimane. S’era limitato ad agire, spensierato come un bambino. Aveva semplicemente fatto tutto ciò che gli aveva suggerito la testa.
In realtà, si ritrovò costretto ad ammettere mentre Gaia si sforzava di sorridergli e gli chiedeva se poteva parlargli da sola per qualche minuto, era impossibile dire del cervello umano che fosse la parte più razionale del corpo. E se era vero, se davvero era la parte più razionale, gli uomini facevano bene a rivolgersi a un’entità superiore, pregandola di guidare le loro azioni. Perché il cervello era del tutto inaffidabile. S’era rivelato più assennato il suo cuore, accelerando i propri battiti per cercare di fargli capire tramite la paura che stava facendo una cazzata. S’era rivelato più assennato il suo stomaco, chiudendosi sistematicamente e dandogli la nausea ogni volta che faceva qualcosa che, se l’avesse fatta qualcun altro, avrebbe giudicato disgustosa.
La verità era che, nonostante tutto, s’era sempre considerato una persona buona. Innocua. Incapace di fare davvero del male a qualcuno.
La novità? No, Matthew Bellamy, non sei innocuo.
Stai probabilmente rovinando la vita di Gaia, sei sulla buona strada per rovinare quella di Brian e decisamente hai già rovinato la tua.
Innocuo?
Divertente.
Ingenuo, semmai. Per aver pensato, creduto, sperato di poter fare ciò che voleva senza generare delle conseguenze.
- Matt?
- Gaia.
Lei ridacchiò, stringendosi nelle spalle e accomodandosi sul divano.
- Volevi dirmi qualcosa? – chiese lui, deglutendo a discapito della gola secca, sedendosi al suo fianco.
Lei sembrò agitarsi all’improvviso, ravviandosi nervosamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio e mordicchiandosi il labbro inferiore, prima di inumidirlo fugacemente con la lingua.
Conosceva quei gesti. Quei movimenti irrequieti, quasi scattanti.
È il modo in cui ti muovi quando, preso da una spinta di onestà sentimentale, dici al mondo che vuoi mettere le cose in chiaro; per poi capire che in realtà il mondo ti spaventa a morte e non sei poi così sicuro di volerlo affrontare.
- Pensavo… stiamo passando poco tempo insieme, ultimamente, l’hai notato?
Matt deglutì ancora.
Stavolta lo fece per non soffocare.
- Ti sembra? – chiese, con una risatina debole.
Lei scrollò le spalle.
- Non lo so, sei un po’… distratto…?
Strinse le dita attorno alla fodera del divano.
Lo sa.
- Che intendi…?
Sa tutto.
- Ma non fare così, dai! – rise lei, mettendo le mani avanti per tranquillizzarlo, dimostrando di saperlo davvero, accidenti a lei, anche se magari non consciamente, - Era solo per dire, insomma, mi hai abituato a starmi appiccicato come una patella sullo scoglio e-
- Non lo faccio più?
Lei si ritrasse impercettibilmente.
La risposta giusta era “già”.
- Ma… no, dai, non è così grave, solo che… - lo guardò. La risposta giusta era ancora “già”. – Non volevo preoccuparti, so che fra poco tornate in studio e sei agitato…
Studio. Agitato.
Come se avesse pensato al lavoro anche per un solo minuto, negli ultimi giorni.
Sono agitato, Gaia, sì. Perché ho fatto tutta una serie di errori ed evidentemente intorno a me non c’è abbastanza fango per coprirli tutti. Un po’ perché Brian non ha mai permesso che questa relazione diventasse qualcosa di torbido… un po’ perché tu vedi e comprendi più di quanto tu stessa possa immaginare…
…un po’ perché io non sono in grado.
Non sono all’altezza.
E non lo sono mai stato.

E l’ammissione successiva sarebbe stata la definitiva.
Sarebbe stata quella che gli avrebbe permesso di alzarsi e abbandonare quel salotto, quella casa, quella città, perché non ci sarebbe stato più alcun motivo di restare.
Amava Gaia? Menzogne.
Amava Brian? Menzogne.
Non amava niente, non amava nessuno, aveva solo una paura fottuta, e la sua paura fottuta era l’unica cosa che, evidentemente, era in grado di amare sul serio, perché da lei proprio non riusciva a separarsi.
Ma non ammise altro. Il suo cervello si bloccò, sembrò incepparsi come un macchinario vecchio, dimostrando una volta di più la propria inefficienza, nel momento in cui Stefan irruppe in salotto e pretese di parlargli.
Non pensò a che motivazioni potessero esserci dietro.
Gli fu semplicemente grato per il pretesto di fuga, e fuggì.
*
La notte passò in fretta. Dopo il dialogo surreale che aveva avuto con Gaia e dopo quello – altrettanto surreale e doppiamente irritante – con Brian e Stefan, era piombato sul letto e s’era addormentato istantaneamente. Un sonno profondo come quello delle statue, sembrava dovesse durare in eterno. La mattina successiva, mentre lavava i denti, fissandosi nello specchio senza vedersi realmente, ricordò di essersi svegliato nel cuore della notte, e di essere andato verso la camera di Brian con lo stesso passo distratto dei sonnambuli. Ricordava anche, però, di essersi fermato proprio sulla soglia, ancor prima di dischiudere la porta per guardare all’interno, e di essere tornato sui propri passi, verso il proprio letto, accanto a Gaia che dormiva ancora e sembrava non essersi accorta di nulla.
Si trascinò fino agli studi della Universal come stesse preparandosi alla propria esecuzione capitale.
Quando arrivò, Chris e Dom lo ricoprirono d’insulti per essere arrivato così vergognosamente in ritardo – dieci minuti, più o meno, avrebbero anche potuto dimostrarsi più tolleranti, visto che era ovvio che non ci stesse con la testa – e poi lo trascinarono in sala riunioni, dove Tom li accolse con un osanna di ringraziamento e un paio di complimenti distratti su “quanto li vedesse in forma e pronti all’azione!”, prima di prenderli tutti e tre per la collottola e scaraventarli in una specie di stanzino insonorizzato pieno di strumenti e sintetizzatori, chiudendosi la porta alle spalle – probabilmente a chiave – dopo aver lasciato un augurio e un bigliettino colorato dal quale faceva bella mostra di sé la frase “chi non lavora non fa l’amore” scritta con l’uniposca rosa.
Non voleva neanche provare a chiedersi dove diavolo Tom potesse aver sentito quella stupida canzone. Non si sentiva legittimato a conoscerla neanche lui, per quanto avesse trascorso in Italia ormai quasi un anno – mese più, mese meno – era allucinante che Tom potesse arrivare a vantarsene citandola in giro per cartelli.
Ovviamente non avevano concluso un accidenti.
Perché, quando altrettanto ovviamente Dom e Chris s’erano messi ai loro posti e avevano sollevato lo sguardo su di lui, aspettandosi un’idea come fosse esattamente lo scopo per il quale si trovavano lì in quel momento, lui aveva risposto con un’occhiata del tutto vuota e sfuggente. E loro s’erano fissati negli occhi. Poi avevano fissato lui. Avevano abbandonato gli strumenti e gli si erano avvicinati, circondandolo quasi minacciosamente. Almeno, così lui aveva percepito quel movimento. E perciò s’era stretto contro il muro, nell’angolo.
Dom e Chris s’erano guardati ancora, leggermente spaventati.
E poi Dom semplicemente s’era chinato su di lui e gli aveva chiesto se si sentisse bene.
E Chris aveva annuito e gli aveva detto che se gli andava di parlare loro erano lì.
E lui aveva… aveva percepito chiaramente qualcosa nel mezzo del suo petto spezzarsi in due e privarlo dell’aria.
Rimase lì, con quel rumore sordo, quello strano “crick” rimbombante nelle orecchie, ripetendosi “mi è scoppiato il cuore” in maniera del tutto irrazionale, mentre mano a mano cominciava a mancargli il fiato.
- Matt…? – aveva chiamato Dom, già pronto a voltarsi e correre in cerca di aiuto, in caso ce ne fosse bisogno, ma… no, non ce n’era stato bisogno. Perché Matt l’aveva anticipato. S’era liberato della loro stretta – che stretta non era – ed aveva cominciato a correre come un disperato verso la porta. L’aveva quasi sfondata, aveva investito Tom e un altro paio di persone, e dopo un quarto d’ora di corsa disperata fra scale e corridoi s’era ritrovato per strada.
Taxi, taxi, taxi, si ripeté mentalmente, quasi cantilenando, mentre si guardava intorno alla ricerca della familiare sagoma gialla. Nessun taxi? No. Proprio no.
Cominciò a camminare.
Inizialmente gli sembrava di vagare senza meta.
Quando il suo cervello riuscì a raggiungere il suo corpo, permettendogli di accorgersi che in realtà si stava dirigendo piuttosto sicuramente verso casa, era troppo tardi. Era già davanti al portone.
Era lì per Brian.
Era lì perché non aveva mai smesso di essere una brutta giornata a partire dalla sera prima, e lui si sentiva sgretolare sotto il peso di tante di quelle cose che non sarebbe riuscito a distinguerle neanche volendo, e non voleva affatto.
Era lì perché a Brian bastava una parola per fare scomparire tutto il mondo e tutti i problemi.
Era lì perché aveva bisogno di scomparire dentro di lui, dentro il suo abbraccio, affondando nella sua voce vellutata, nella morbidezza della sua pelle, nella compattezza del suoi muscoli.
Era lì perché aveva bisogno di sentirsi amato, e Brian era bravissimo a farlo sentire amato.
Salì di corsa le scale fino al terzo piano. Arrivò sfiancato. Dimenticò di avere le chiavi di casa propria e bussò furiosamente. Successivamente avrebbe potuto ringraziare la propria buona stella perché Gaia era fuori a fare la spesa, ma sul momento non gli importò un accidente. Non gli importò che lei potesse sentirlo, che potesse vederlo in quelle condizioni, che potesse capire tutto.
Era un argomento del tutto secondario.
C’era solo Brian, solo Brian importava. Poteva già quasi vederlo, poteva immaginarlo aprire e sorridergli e baciarlo e condurlo piano in camera, dove l’avrebbe spogliato lentamente, con gentilezza, dove l’avrebbe ricoperto di baci fra le lenzuola morbide, dove gli avrebbe sussurrato parole consolanti, rassicurandolo.
Ad aprire la porta invece fu Steve.
Che quando lo vide roteò gli occhi e si tolse di mezzo.
- Brian…? – chiese lui a mezza voce, entrando in casa e richiudendosi la porta alle spalle, - Steve, dov’è Brian…?
- Bellamy… - mormorò faticosamente il batterista, agitando le mani e muovendosi rapidamente verso il salotto.
- Dov’è Brian? – chiese ancora, sempre più agitato, stringendo le dita attorno alla giacca.
- Che succede? – fu invece la domanda di Stef, che apparve in cima alle scale come un fantasma.
- Dov’è Brian? – ripeté lui, dicendosi anche che avrebbe dovuto cambiare domanda, visto quanto suonava ridicola già solo alla terza volta.
Stefan sospirò e scese le scale con tranquillità ma non con eccessiva lentezza, come stesse dosando intelligentemente i tempi per evitare di farlo impazzire.
- Calmati, Matt. – gli disse premuroso, - Brian non è qui, adesso.
- E dov’è? – insistette lui, evidentemente incapace di cambiare solfa.
- È… è andato a New York. – rispose incerto il bassista, afferrandolo per le spalle un attimo prima che lui desse chiaro segno di voler rovinare a terra.
- Che vuol dire a New York…? Perché è tornato lì…? – mormorò confusamente, afferrando i polsi di Stef e cercando di liberarsi dalla sua stretta, - Che è andato a fare a New York?!
- Non c’era nessun bisogno che glielo dicessi! – sbottò irritato Steve, incrociando le braccia sul petto e appoggiandosi di spalle contro il battente della porta del salotto, - Non hai risolto granché, l’hai solo mandato in paranoia! E poi Brian non avrebbe voluto-
- Brian non è qui, adesso. Mi sembra di averlo già detto. – lo fermò perentorio Stefan. – Senti, Matt, Brian ha delle cose da capire. Delle cose da risolvere. Riesci a seguirmi?
Ovviamente non ci riusciva, perciò scosse il capo, continuando a guardarlo negli occhi e a vedere solo ombre sfocate al posto delle persone e dei mobili.
- Matthew, devi calmarti. Steve, vai a prendere dell’acqua.
- Sì, certo, basterà. Credici. – borbottò l’uomo, contrariato, dirigendosi comunque in cucina per obbedire.
- Perché a New York…? – chiese ancora Matthew, ormai incapace di distinguere le cose le une dalle altre, - Perché è tornato lì?
Stefan sospirò, passandogli un braccio attorno alle spalle e aiutandolo a muoversi incerto verso il salotto e il primo divano utile.
- Qualcuno doveva pur fare qualcosa, Matthew. – commentò, lasciandolo ricadere con cura sui cuscini.
Matthew riuscì a sentire quello che disse. Riuscì a sentirlo chiaramente. Sapeva che Stef aveva detto “fare qualcosa”.
Ma nella sua testa la frase ci mise meno di un secondo a trasformarsi in uno spaventoso “qualcuno doveva pur mettere fine a quest’assurdità”. E nei suoi occhi le lacrime ci misero ancora meno a diventare enormi e smettere di trattenersi.

[to be continued…]
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