rp: sido

Le nuove storie sono in alto.

Scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido, Fler/Chakuza (accennato).
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: AU, Angst, Violence, Lemon, Slash.
- Bill ha da poco compiuto diciott'anni, e batte le strade da quando ne aveva sedici. Ormai è abituato alla sua routine, e la notte e le strade fredde di Berlino sono il suo regno, ma quando prova ad adescare un agente in borghese tutto cambia: il ragazzo viene portato in prigione, dove subisce subito un tentativo di violenza al quale risponde altrettanto violentemente, riducendo il suo assalitore in fin di vita. Per questo motivo, viene condannato a scontare una pena di dodici anni nel carcere in cui è già recluso, ma fin dall'inizio è chiaro che la sua permanenza all'interno della struttura non sarà semplice e priva di pericoli: gli agenti di custodia lo odiano per quello che ha fatto al loro collega, gli altri detenuti lo vedono solo come un oggetto sul quale scaricare la frustrazione sessuale e non esitano a riempirlo di botte quando lui si nega, e in tutto questo ci si mette a rendere il tutto più difficoltoso anche Bushido, indiscusso boss del braccio in cui Bill è rinchiuso, che ha ricevuto ordine di proteggerlo direttamente dal direttore della prigione. Ma Bill è in grado di difendersi da solo, o almeno così crede, ed è bene intenzionato a dimostrarlo all'uomo e anche a chiunque altro voglia provare a mettersi sulla sua strada. Il problema è che, forse, non è così in grado di difendersi come crede.
Note: Il plot di questa storia risale ad anni fa - no, seriamente, non è che buttiamo lì le parole a caso, se diciamo anni state pur certi che intendiamo davvero anni - e riesce a vedere la luce solo adesso solo perché noi siamo estremamente culopese. E perché quando l'abbiamo plottato la Tab non aveva ancora visto Oz (dal quale questa storia attinge a piene mani in quanto ad ambientazione ed ispirazione generale), e non era pensabile scrivere una cosa simile senza aver prima visto almeno qualche episodio di quella serie.
Nel caso ve lo steste chiedendo, sappiamo perfettamente che ci sono delle incongruenze fra la realtà reale delle cose vere e il modo in cui certe cose accadono in questa storia (tipo che tutta la parte ambientata in prigione - quindi, uh, il 90%? *ride* - l'abbiamo scritta senza prima leggere trattati di 100 pagine sul sistema carcerario tedesco), e la cosa ci tocca molto limitatamente. Ma molto, credeteci. *rotolano felici per campi di tulipani alti venti metri* Buona lettura, se vorrete!
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ALLES GUTE KOMMT VON UNTEN

Come ogni mattina, quando si accendono le luci e le serrature automatiche che tengono chiuse le porte delle celle si aprono, Bushido si alza dal letto – che occupa da solo, forte del potere che esercita su tutto il braccio nonostante la propria condizione di detenuto – e si dirige verso il piccolo lavandino sormontato dallo specchio che occupa non più di una ventina di centimetri in un angolino della cella. Lancia un’occhiata annoiata al proprio riflesso e poi tira giù i boxer, concedendosi un po’ di sollievo davanti alla tazza del cesso, stando bene attento a non sporcare, perché alle pulizie in cella devono provvedere da soli, e lui ha preferito darsi alla criminalità organizzata piuttosto che pulire i cessi per guadagnare qualche spicciolo da ragazzino, figurarsi se si piega a farlo adesso che, facendolo, non vedrebbe neanche il becco di un quattrino.
Sbadiglia lavandosi attentamente le mani, e nel frattempo sbircia oltre le sbarre, nel corridoio. Qualche detenuto più mattiniero di lui è già uscito dalla propria cella ed ora si aggira per l’area comune come uno zombie, guardandosi intorno e studiando ogni particolare di quel luogo come se già non lo conoscesse a memoria. Le televisioni in fondo alla sala sono ancora spente, la sala computer, la biblioteca e la palestra sono ancora chiuse e gli unici suoni che si possono sentire sono quelli che producono le scarpe degli agenti di custodia che abbandonano le loro postazioni per farsi dare il cambio da quelli del turno di giorno, dopo le fatiche della notte passata in piedi a rigirarsi i pollici.
Pian piano, tutti i detenuti cominciano a venire fuori dalle coperte. Gli agenti di custodia prendono i loro posti e cominciano gli usuali giri. Presto, le varie sale ricreative saranno aperte, il biliardo posizionato lontano dai tavolini in un punto non troppo dislocato ma neanche troppo centrale dell’area comune sarà circondato di galeotti in cerca di un po’ di divertimento, e l’usuale vita del braccio A riprenderà a scorrere, pacifica, e niente turberà la sua quiete.
Niente succede mai, nel braccio A. Bushido tiene tutto sotto controllo.
Bushido è dentro da sei anni. Ne ha beccati molti di più, quando l’hanno preso, ma fra uno sconto e l’altro è riuscito a ridurli a sei. Entro un paio di mesi, finalmente avrà la sua udienza per provare ad uscire con la condizionale. Con la condotta che ha tenuto e con una buona lettera di presentazione da parte del direttore Jost, uscire sarà un gioco da ragazzi. E una volta fuori, potrà riprendere tranquillamente la sua vita.
Fino ad allora, però, nel braccio A deve continuare a non succedere niente. O meglio, tutto ciò che vi succede deve continuare ad essere tenuto costantemente sott’occhio, perché non accada nulla di troppo pericoloso. Le regole di Bushido sono chiare, cristalline: chi vuole, scopi, ma niente violenza; chi vuole farsi, si faccia, ma niente overdose; chi vuole prendere a cazzotti qualcun altro, non si crei troppi problemi, ma niente ammazzatine fuori controllo; chi vuole contrabbandare sigarette, riviste porno o il cazzo che gli pare, ne ha piena facoltà, ma se qualcuno viene beccato farà meglio a rimanere zitto, o a non farsi beccare affatto.
Così scorre la vita nel braccio A. Così Bushido fa buona guardia alla propria reputazione, ed anche alla propria futura libertà.
Nell’uscire finalmente dalla propria cella, quando le luci nella sala comune sono ormai state accese e perfino i televisori sono già stati sintonizzati sul telegiornale del mattino, lancia un cenno d’intesa ai suoi ragazzi sparsi in giro – Fler e Chakuza che si intravedono appena davanti ai lavandini nel bagno comune, intenti a lavarsi i denti, Eko e Kay già appollaiati sulle sedioline davanti alla tv che gridano alle guardie di cambiare canale per sentirsi rispondere di andarsene a fanculo, Saad seduto ad uno dei tavolini più distanti, le mani incrociate sotto il mento e un’aria pensosa a rendere duri e cupi i tratti del suo viso – e si compiace di vedere tutto in ordine. Fra un’ora al massimo, gli impiegati nel laboratorio tessile verranno smistati nella loro area, e dopo non molto anche gli addetti al servizio postale interno alla prigione abbandoneranno il braccio. Da ultimi, lui e i suoi ragazzi, verso le undici, andranno in cucina per cominciare a provvedere alla pulizia della sala mensa e al pranzo per tutti i detenuti. E la giornata passerà così, fra un’incombenza e l’altra, un po’ di svago in palestra e un’occhiata indagatrice lanciata in giro per il braccio per assicurarsi che nelle ore buche Sido e i suoi non combinino qualche cazzata di cui lui sarà costretto a pagare le conseguenze, fino al ritorno in cella e al buio.
Sbadigliando ancora un po’, si avvicina a Saad, prendendo posto accanto a lui. Il libanese lo saluta con un cenno del capo, continuando a fissare ostinatamente il vuoto, quell’espressione cupa dipinta sulla faccia. Lui e Baba Saad, com’è più noto per strada, si sono conosciuti per un caso fortuito; Bushido in quel periodo si trovava in carcere a scontare una pena di qualche mese per possesso illegale d’arma da fuoco. Saad, allora, era poco più che un ragazzino e infinitamente meno di un uomo. L’avevano fermato per guida in stato di ubriachezza e gli avevano trovato in tasca un po’ di merda, roba a basso costo, che intendeva rivendere per pagarsi qualche sfizio e magari un po’ di sesso, e così era finito dentro per qualche mese anche lui. Li avevano piazzati in cella insieme, Bushido s’era fatto raccontare la sua storia – la fuga dal suo paese devastato dalla guerra, i soldi che non bastavano mai, i genitori che avevano progressivamente smesso di interessarsi di lui, troppo pressati dalle difficoltà economiche – e poi gli aveva detto di fare il bravo per i mesi che gli restavano da scontare, ed andarlo a cercare a Tempelhof non appena fosse uscito. Avrebbe trovato lui un buon lavoro da affidargli, qualcosa per cui sarebbe stato protetto, entro i limiti per i quali si poteva essere protetti facendo un mestiere come il loro, e così, quando, qualche mese dopo di lui, anche Saad era uscito di galera, Bushido l’aveva subito preso fra i suoi, e l’aveva messo a spacciare su circuiti sicuri, roba buona. Non l’aveva più lasciato andare.
Quando Bushido è stato arrestato per la seconda volta, e s’è ritrovato a dover gestire la consapevolezza di dover rimanere in carcere per almeno altri sei anni, è stato a Baba Saad che ha lasciato tutto. Gli ha detto di tenere a bada ogni cosa, di circondarsi di amici fidati, nel caso dovesse succedere qualcosa anche a lui, e quando poi anche Saad è stato di nuovo messo dentro, salutandolo al suo arrivo non si è stupito di trovarlo sereno e sorridente. “Fuori è tutto a posto, Bu, si occupa di tutto D-Bo,” gli ha detto, e Bushido gli ha rifilato una gran pacca sulla spalla e si è sentito molto, molto orgoglioso di lui, come non si era mai sentito orgoglioso di nessun altro in vita sua.
- Mbe’? – gli chiede adesso, sistemandosi sulla sedia e tirando fuori dalla tasca dei pantaloni un mazzo di carte, che comincia immediatamente a mescolare, - Cos’è quella faccia scura?
Saad scrolla le spalle, come se improvvisamente, qualsiasi fosse il pensiero che l’aveva tenuto sulle spine fino a poco prima, ora non avesse più alcun problema nel mondo, e si volta a guardarlo, distogliendo gli occhi da quel punto vuoto che prima sembrava fissare con tanta intensità.
- Te lo dico io, non mi piace come si stanno mettendo le cose. – gli dice, facendogli cenno di distribuire pure le carte, se vuole. Bushido provvede immediatamente, senza risparmiarsi un sorriso di vago scherno per quel tono così cupamente profetico. Si fida di Saad, lavorando con lui ha imparato a tenere conto delle sue percezioni, ma ultimamente il ragazzo sembra essersi fatto inutilmente sospettoso, specie nei confronti di Sido, che è sì uno stronzo, ma non è un coglione, e sa bene quali sono i propri limiti, e quanto oltre può spingersi prima di sorpassarli.
- E come si starebbero mettendo queste cose? – domanda quindi, controllando con una rapida occhiata le carte che ha in mano e confrontandole con quelle che ha disposto sul tavolo.
Saad sospira, quasi offeso da quel suo tono così ilare, che deve giudicare estremamente fuori luogo.
- Ti dico che Sido sta macchinando qualcosa. – dice a bassa voce, cospiratorio, - Quello ormai non si accontenta più di niente. Droga, sigarette e porno non gli bastano più. L’altra volta l’ho visto parlare con due checche in un angolo del cortile, durante l’ora d’aria.
- E che ti devo dire? – scrolla le spalle Bushido, raccogliendo un paio di carte dal tavolo con una delle proprie e mettendole da parte in un mazzetto, - Si sarà svegliato con un certo languorino, quel giorno.
- Cazzone. – borbotta Saad per tutta risposta, allungandosi a tirargli uno scappellotto dietro la nuca e, già che c’è, sporgendosi per vedere cos’ha in mano, prima di fare la propria mossa. Bushido lo lascia libero di muoversi come crede, ridendo divertito, e poco dopo Saad riprende a parlare. – Bu, a quello non piace l’uccello, e il buco del culo nemmeno, e quella strafiga della sua signora viene a trovarlo due volte al mese. Ti dico che ha in mente qualcosa.
- Ma qualcosa tipo cosa? – ride Bushido, finendo di ripulire il tavolo dalle carte, - Scopa! Oggi ti tocca pulire la friggitrice.
Saad ignora sia l’ordine che l’esultanza con cui Bushido accompagna la vittoria, e continua a fissare l’ultima carta che gli è rimasta in mano, come fosse incerto sul da farsi.
- E se stesse organizzando un giro di prostituzione? – domanda curiosamente, e Bushido inarca un sopracciglio.
- Qui dentro? – chiede di rimando, accennando con le braccia all’ambiente chiuso che li circonda, e con un cenno del capo agli agenti di custodia che fanno la ronda tutto attorno a loro. Saad scrolla le spalle, come se questi fossero particolari del tutto irrilevanti.
- Sai meglio di me che se si vuole trovare un luogo appartato in cui fare qualcosa senza essere visti, qua dentro, lo si trova, esattamente come lo si trova di fuori. – gli fa notare. Bushido sbuffa, già annoiato dalla questione.
- Senti, facciamo così: - dice per tagliare corto, - io sono l’ultima persona che voglia guai in questo braccio, - lo rassicura, - per cui ti prometto che terrò le orecchie ben tese e, al primo segnale di pericolo, ci muoveremo per rimettere le cose a posto. Ok?
Saad sbuffa qualcosa, probabilmente un assenso, ma non è per niente soddisfatto dalla risposta. Tuttavia, evita di proseguire nelle proprie rimostranze quando vede avvicinarsi Fler e Chakuza che, giocando come due idioti a tirarsi colpi di asciugamano ancora umido sulla schiena e sul sedere, prendono posto sulle due sedie rimaste vuote attorno al tavolino. Fler, in particolare, gira la propria al contrario, in modo da potersi sedere a cavalcioni, il viso rivolto al grande cancello che separa il corridoio del braccio dal resto della prigione, insomma, la porta dalla quale chiunque voglia uscire e chiunque voglia entrare deve necessariamente passare.
- Oggi arriva un po’ di carne fresca. – dice con una certa eccitazione, le spalle tese sotto la canottiera così attillata da mostrare tutti i tatuaggi che ha addosso senza coprirne quasi neanche uno. La sua emozione è facilmente comprensibile, se si pensa che in prigione si hanno pochi svaghi oltre a quelli di vedere ogni tanto un po’ di facce nuove e prenderle di mira fino a quando non saranno diventate anche loro facce vecchie, ma Chakuza non coglie la sfumatura e, sbuffando infastidito, gli tira una scarpata.
- Attento che ti si vede sbavare da qui. – lo minaccia, mentre Fler ride e gli ritira indietro la scarpa, - Cazzo, guarda che non è femmina davvero, ci assomiglia soltanto. – borbotta, e Saad si volta a guardarlo, incuriosito.
- Allora è vero? – domanda, e Chakuza annuisce, incrociando le braccia sul petto.
- Sì, lo trasferiscono qui. E il mio consiglio personale e spassionato è di starne tutti alla larga. È un ragazzino instabile e pericoloso, e come ha staccato l’uccello a morsi a quella guardia giurata che ha cercato di farselo succhiare, può staccarlo a chiunque di noi.
Bushido ride divertito, recuperando le carte e riprendendo a mescolarle con destrezza.
- Capito, Saad? – dice in tono canzonatorio, - Stai attento a ciò che dice il Chaku! Se per caso una notte senti che l’uccello se ne sta uscendo dalle mutande da solo per andarsi a fare una passeggiatina in bocca alla puttana, svegliati di corsa e vallo a recuperare, o potresti non vederlo più tornare a casa!
- Sfotti, sfotti. – borbotta Chakuza, imbronciandosi, mentre Fler ride a crepapelle, piegato in due sulla spalliera della sedia, e Saad taglia il mazzo che Bushido gli porge, apparentemente nient’affatto divertito dalla piega che sta prendendo la conversazione. – Poi magari quello decide di ripetere la performance con qualche sventurato pure qui, e addio pace nel braccio. Chissà con chi se la prenderà Jost, quando avrà bisogno di un capro espiatorio?
- Oh, Chaku, ma quanto la fai lunga? – sospira Bushido, continuando a ridere e distribuendo carte a tutti e quattro, - Per evitare che uno ti stacchi il cazzo a morsi, basta non infilargli il cazzo in bocca, ti pare? Col fatto che questo Kaulitz arriva qui già famoso per meriti pregressi, scommetti che non dovrò nemmeno spargere la voce che è off-limits? Non gli si avvicinerà nessuno!
- Sarà. – commenta Fler, continuando a sbirciare il cancello di tanto in tanto, - Dicono che sia molto bello.
- Per quanto mi riguarda, - protesta Saad, - potrebbe avere pure il viso di un angelo, ma se in mezzo alle gambe ha un uccello, non è roba per me.
- Sei fortunato, dunque, il tuo arnese è salvo. – esulta Bushido, ridendo sguaiatamente mentre Fler gli fa eco e Chakuza, sentendosi probabilmente trattato con scarsa considerazione rispetto a quella che meriterebbe, continua a borbottare in una litania di grugniti intraducibili in dialetto austriaco stretto.
Passano solo un paio di minuti – in cui Bushido continua a battere tutti, distribuendo gli incarichi più disgustosi in cucina ogni volta che porta a casa un punto – e poi si sente scattare la serratura del cancello. Tutti i prigionieri che, nell’ultima mezz’ora, sono arrivati ad affollare la sala comune, alzano la testa, interrompendo le proprie attività di colpo per osservare i nuovi detenuti in arrivo. C’è qualche volto conosciuto, per qualcuno. Volano sorrisi e battute, qualche saluto in un italiano tanto finto e forzato da non riuscire nemmeno in parte a coprire l’accento tedesco – Bushido li odia quelli che fingono di saper parlare la lingua dei loro padri, pur essendo tedeschi che più tedeschi non si potrebbe; lui finge forse di saper parlare il tunisino, solo perché la sua pelle è del colore del caramello e quella testa di cazzo di suo padre ha avuto la geniale pensata di nascere in un paese pieno di morti di fame dal quale è dovuto fuggire prima di poter incontrare sua madre a Bonn? Certamente no – ma naturalmente in meno di un secondo tutti gli occhi vengono calamitati dalla figura magra e quasi trasparente che se ne sta rintanata dietro le figure più robuste degli altri detenuti.

Bill Kaulitz ha diciott’anni compiuti da tre settimane, e se ne sente addosso centodiciotto almeno mentre passeggia lentamente per la strada ormai quasi del tutto silenziosa, fatta eccezione per lo scalpiccio dei propri stessi passi sul marciapiede umido di brina. È tardi, o forse è molto presto. Saranno le cinque del mattino almeno, si vede già il sole rischiarare dal basso l’orizzonte e il cielo, fino a lambire perfino qualche nuvola. Le prime notti che ha passato solo per strada, Bill non poteva fare a meno di fermarsi affascinato a fissare l’alba, ogni volta che gli capitava di vederne una. Più che la poesia del fatto in sé, lo colpiva essere riuscito a sopravvivere alle notti, al loro gelo, al calore umido e appiccicaticcio delle mani che lo toccavano, lo tiravano, gli strappavano i vestiti di dosso, lo aprivano, lo frugavano, lo riempivano di lividi. Passeggiando verso la squallida stanzetta senza mobili che si ostina a chiamare casa più per rivendicazione di orgoglio che perché assomigli ad una casa vera, quante volte ha rallentato il passo per lasciare che l’aria fresca del mattino gli scacciasse un po’ di dosso quell’orribile calore che ormai aveva cominciato ad associare alla notte?
Ora questa poesia, o almeno quel poco che ne restava, s’è dispersa. Sopravvivere giorno dopo giorno ha smesso di essere un miracolo, è diventata routine. Il vero miracolo, si dice anche adesso, mentre intravede la propria scalcinata palazzina fare capolino in fondo alla strada e per questo comincia a rovistare nelle tasche della giacca per tirare fuori le chiavi del portone, il vero miracolo sarebbe crepare, una buona volta.
Suo fratello lo aspetta nascosto nell’ombra dietro un pilastro, dove la luce del lampione non può raggiungerlo. Nel notare l’ombra scura che gli si avvicina, Bill sussulta e tira fuori il coltellino che porta sempre con sé, puntandoglielo contro. Lui, però, si mette in favore di luce abbastanza in fretta da scampare a morte certa.
- Tomi. – esala Bill, richiudendo la lama e rimettendo a posto il coltellino nella tasca interna della giacca, - Quante volte ti ho detto di non arrivarmi mai alle spalle? Potevo ammazzarti.
- Scusa. – biascica Tom, tenendo le mani ben sollevate sopra la testa finché il coltello non sparisce, per poi lasciarsele ricadere come inermi lungo i fianchi. – Come stai? Era un po’ che non venivo a trovarti.
- Fa niente. – scrolla le spalle lui, distogliendo lo sguardo, - Ti ho detto mille volte di non farlo. Non voglio che ci vedano insieme.
- Bill, ti prego… - sospira suo fratello, allungando una mano verso di lui e accarezzandogli lievemente una guancia. Bill si ritrae all’istante, e Tom spalanca gli occhi. – È gonfia. – esala, avvicinandoglisi velocemente e scostandogli i capelli dal viso per guardarlo meglio mentre Bill cerca inutilmente di ripiegare il collo contro la spalla, come un cigno, nel tentativo di difendersi dal suo sguardo indagatore. – Ti hanno picchiato?
- Non è niente di grave. – risponde lui, minimizzando. – Adesso torna a casa, è quasi mattina. Devi andare a scuola.
Tom lo afferra per le spalle, e per qualche secondo sembra che voglia prendere a scuoterlo così forte da mandarlo in pezzi. Poi, però, si limita a tirarselo contro, appoggiandogli una mano sulla testa per costringerlo a reclinarla contro il suo petto. Bill fa un po’ di storie, ma quando il suo profumo dolce lo avvolge interamente non può fare a meno di lasciarsi andare, e stringere con forza fra le dita un lembo dell’enorme maglietta che indossa.
- Torna a casa con me. – gli chiede suo fratello, e Bill scuote il capo. Questa scena, negli ultimi anni, si è ripetuta talmente tante volte che a Bill ormai il solo pensiero di doverla ripetere ancora dà la nausea. Si allontana da suo fratello con un gesto secco.
- Vattene, Tom. – dice aspro, guardandolo con durezza. Tom si morde un labbro.
- Resto qui con te, stanotte, magari. – prova. Bill scuote il capo un’altra volta.
- Non sto ancora rientrando. – mente, ma quando capisce che Tom non ha intenzione di andarsene è costretto a cambiare i programmi per la serata, o quello che ne resta. – Sul serio, sto andando al bagno pubblico per vedere se c’è qualche vecchio rincoglionito insonne che ha ancora voglia di scopare. – dice, utilizzando di proposito tutti i termini più feroci, quelli che, lo sa, danno a Tom i brividi dal disgusto.
- Lascia stare, - insiste suo fratello, infilando le mani in tasca e tirandole fuori piene di soldi, - per stasera basta, ti do qualcosa io.
Bill prende le banconote dalle sue mani e le conserva, ma gli volta comunque le spalle.
- Tornatene a casa. – dice un’ultima volta, prima di dirigersi verso il bagno pubblico, un passo dopo l’altro.
Il posto è di uno squallore che lo atterrisce, ed è così ogni volta. Inizialmente, Bill pensava che sarebbe stato facile abituarsi a tutti quei terribili dettagli che ormai rappresentano la sua quotidianità, ma se questo è stato vero per il vivere da solo, per quel buco del suo appartamento, perfino per il dover battere le strade, per le scopate dolorose quando andava male e disgustose quando andava bene con i suoi clienti e per gran parte di tutte le altre cose che rendono la sua vita terribile e vergognosa, l’orrore che prova ogni volta che varca la soglia del bagno pubblico non è mai riuscito a sfumarsi in una sensazione meno spaventosa, o meno violenta. Ogni volta che entra lì dentro sente chiaramente un piccolo pezzo di sé che muore, ed è convinto che, quando finalmente creperà, sarà per colpa di questo dolore sordo e accecante che prova ogni volta che frequenta il bagno pubblico. Sarà lui ad ucciderlo, lui con le sue piastrelle sporche agli angoli e nelle intercapedini fra l’una e l’altra, quando il cemento emerge da sotto, lui ed i lavandini che funzionano uno sì e uno no, lui e le ragnatele agli angoli del soffitto, lui e le porte cigolanti dei cessi sempre sporchi, lui e i drogati che vengono a vomitare l’anima ogni notte, quelli che ogni tanto, accasciati contro la tazza del cesso, vomitano così tanto da non lasciarsi in corpo più niente, nemmeno il cuore che batte.
Bill morirà qua dentro, ne è certo, morirà perché sarà questo posto ad ucciderlo. Ma non stanotte.
Stanotte la luce al neon funziona a intermittenza e il bagno pubblico è silenzioso, eccezion fatta per un tipo che se ne sta in disparte, davanti all’ultimo lavandino, e si lava le mani con l’aria di uno che è lì a lavarsi le mani da un bel po’, in attesa di qualcosa che sembrava non dovesse arrivare mai, e che quando lo vede avvicinarsi si ferma istantaneamente, come se quel qualcosa che stava aspettando da tanto finalmente si fosse deciso a raggiungerlo.
Bill gli sorride, appoggiandosi alla parete accanto a lui e sporgendo in avanti il bacino mentre incrocia le braccia sul petto. È un bell’uomo, alto, magro, brizzolato. Ha occhi azzurri ed espressivi, appena segnati da qualche ruga d’espressione sul contorno. Potrebbe quasi andarci a letto solo per concludere in bellezza la serata, se non sapesse che la quasi totalità di quelli che vanno a puttane lo fanno solo perché nessun altro li vuole, il che automaticamente li inserisce nella categoria degli sfigati, o comunque di gente con la quale il resto della gente non va a letto. Certo, il tipo è carino, ma da qualche parte la fregatura dev’esserci. Magari puzza, magari non gli si rizza o resta su due minuti e poi si sgonfia subito, magari ce l’ha piccolo, o magari troppo grosso, magari è uno di quelli con la testa piena di un sacco di idee strane e pericolose e Bill sta andando a cacciarsi in un guaio ancora più enorme di quello in cui è già. La fregatura dev’esserci per forza, ma in questo momento tornare a casa non è un’opzione, perciò Bill non ci sta a pensare su più di tanto, e si butta.
- Ehi, - dice, guardandolo seducente, - ti va di divertirci un po’? Non costo molto, scommetto che resterai sorpreso.
E invece, a restare sorpreso è lui. Il tizio sorride, si apre la giacca, infila una mano nella tasca interna, tira fuori il distintivo.
- Polizia. – dice.
Eccola qua, la fregatura.
Si lascia condurre in centrale, anche perché sa che resistere non farebbe altro che peggiorare la sua situazione. Gli chiedono un documento d’identità, ma lui non ne ha uno. Il poliziotto che lo sta interrogando ghigna e gli fa sapere che una notte in gattabuia non gliela leva nessuno. D’accordo, pensa Bill, chi se ne frega, e quando il tizio gli chiede di identificarsi lui risponde sollevando il medio.
- È identificativo abbastanza? – domanda con aria di sfida. Il poliziotto gli sferra un manrovescio che, se non fosse ammanettato alla sedia, lo manderebbe giù per terra. Bill sente i muscoli delle spalle, delle braccia e del collo tirare dolorosamente, ma non fa una piega. Quando torna a guardare il poliziotto, gli scivola giù dalle labbra un rivolino di sangue.
- Mi fai schifo. – dice l’uomo, lanciandogli un’occhiata disgustata da così vicino che Bill può sentire l’odore del suo alito. Sa di mentine e caffè. Non è del tutto spiacevole. Quello di suo padre odorava allo stesso modo. – Tutti quelli come te mi fanno schifo.
Le similitudini fra il poliziotto e suo padre non si fermano all’odore dell’alito, pare.
Viene portato in carcere immediatamente. Il commissariato in cui l’ha trascinato il poliziotto che l’ha adescato per strada non è attrezzato per ospitare qualcuno per la notte. È un buco piccolo, squallido e triste all’interno del quale poliziotti assonnati che si tengono su un caffè dopo l’altro si aggirano con aria persa, consapevoli di stare gettando via la propria vita fra quattro mura, nascosti dentro una divisa, dietro a un distintivo, alle spalle di una pistola che avrà sempre più potere di loro. Per strada, Bill era altrettanto consapevole di stare buttando via se stesso, ma almeno non era costretto a nascondersi in una stanzetta satura di fumo e polvere. Le strade erano il suo regno, la sua casa, la sua unica, vastissima prigione. Lui aveva imparato a conoscerle e a non sentirsi solo e sperduto nella loro immensità.
Per questo motivo, la cella in cui lo scaraventano gli pare claustrofobica. In realtà è abbastanza consapevole del fatto che non si tratti di una cella propriamente piccola, anzi, è abbastanza spaziosa. C’è un letto, un letto vero, con un bel materasso di gommapiuma e la rete di metallo, che è molto più di quanto si possa dire del sottoscala in cui vive, c’è una finestra, un lavandino e un cesso pulito da usare, se ne ha voglia.
Non ne ha voglia. Resta tutta la notte raggomitolato in un angolo, sul pavimento, a tremare. Vuole uscire di lì, vuole uscire di lì immediatamente. È talmente sotto shock da non riuscire a pensare a niente. Si addormenta così, per inerzia, perché gli si svuota la testa e non riesce a tenersi sveglio solo ascoltando il rumore dei propri denti che battono.
Quando sente la serratura della cella scattare, si sveglia di soprassalto. È lucido, molto più di quanto non lo fosse quando si è addormentato, e non trema più. Anche la sua posizione è più rilassata. Fa per alzarsi da terra, d’altronde immagina che la guardia appena entrata sia venuta per accompagnarlo fuori, ma quello gli allunga addosso le mani con una tale velocità che Bill non fa in tempo a scansarsi, e lo manda a sbattere contro la parete alle sue spalle. Bill urla, sente il proprio grido vagare per tutto il corridoio silenzioso con la sola risposta dell’eco e contemporaneamente sente qualcosa nella propria spalla scricchiolare pericolosamente, e fa male, malissimo, ma non ha il tempo di urlare anche per quello che subito dovrebbe trovare la forza per urlare per il dolore che gli causa la mano della guardia stretta attorno al suo collo sottile, come volesse soffocarlo. Urlerebbe volentieri un’altra volta, adesso, sì, ma non riesce a trovare fiato a sufficienza.
Il poliziotto si prende tutto il tempo che gli serve per osservarlo accartocciarsi sul pavimento come una foglia morta, e poi slaccia la cintura e i pantaloni. La cintura la sfila proprio dai passanti, e quando si china su di lui la usa per legargli i polsi dietro la schiena. Bill geme di dolore e cerca di capire cosa cazzo stia succedendo, ma il poliziotto lo tira su di peso, lo scaraventa di nuovo contro la parete e subito dopo gli è addosso infilandogli l’uccello in bocca di prepotenza, tenendogliela aperta con il pollice e l’indice premuti contro le guance, la punta del cazzo che gli sfiora l’imboccatura della gola, costringendolo a tossire e contorcersi per lo stimolo di vomitare mentre quella bestia schifosa si muove, scopandogli la bocca senza vergogna, grugnendo come un animale, come l’animale che è.
Bill si sente soffocare, si sente soffocato dal vomito, dalla saliva, dalla presenza ingombrante che gli invade la gola con tanta forza e prepotenza da sembrare voglia attraversarlo tutto fino allo stomaco, e l’unica cosa che riesce a pensare è che lui, una cosa del genere, non l’ha mai fatta se non per soldi. Mai, mai nella sua vita.
E non intende cominciare a subirla adesso.
Cerca di rimettersi dritto, trova la forza di spingere l’erezione dell’uomo fuori dalla propria bocca di qualche centimetro, facendo pressione con la lingua, abbastanza per riprendere a respirare e consentirsi un po’ di tregua dai conati di vomito, per poter ragionare lucidamente. L’uomo si accorge subito di quello che sta succedendo, e ghigna, un po’ sorpreso, quando lo sente cominciare a succhiare docilmente.
- Troia…! – esala, riprendendo a spingersi dentro di lui, anche se, ora che sa di non doverlo più forzare, il suo ritmo s’è assestato su un tipo di violenza meno invasiva e più umiliante, - Lo sapevo che andavi solo addomesticato un po’… Che troia sei, succhialo, bravo.
Bill si permette perfino di mugolare appena, e quando l’uomo geme un “sì” arreso e perso, e molla la presa sul suo viso, Bill chiude i denti come tenaglie, stringendo forte.
L’uomo comincia a urlare immediatamente. Il suo grido è potente come una deflagrazione, non aumenta d’intensità coi secondi, è subito alto, rauco e grondante di dolore, e non fa che farsi sempre più disperato e senza scampo quando la guardia, in preda al panico, comincia a dimenarsi per sottrarsi a quella stretta mortale, con l’unico risultato di costringere Bill a stringere ancora di più la presa, come in un riflesso condizionato, come fosse un animale selvaggio che è finalmente riuscito ad agguantare la propria preda per il collo dopo un inseguimento sfiancante, e che adesso non ha la minima intenzione di lasciarla andare.
Non lo molla, neanche quando le luci nel corridoio si accendono. Neanche quando comincia a riempirsi di guardie. Neanche quando quelle stesse guardie si mettono a urlare, cercano di aprire la grata della cella che il bastardo, entrando, s’è richiuso alle spalle per evitare che lui fuggisse. Bill sorride storto, continuando a stringere quel cazzo disgustoso, ormai livido e sanguinolento, fra i denti serrati. Sono in prigione, in prigione insieme, e nessuno potrà salvarlo.
Per il momento in cui le guardie riescono a trovare un duplicato delle chiavi della cella per entrare, l’uomo è già svenuto. Si è accasciato a terra come senza vita, gli occhi chiusi, il respiro corto. Bill molla appena la presa, poi la stringe di nuovo e con uno scatto violento solleva la testa.
L’uomo spalanca gli occhi, lancia un grido lancinante e poi torna a stendersi per terra, contorcendosi come un’anguilla, mentre dal moncherino che gli è rimasto fra le cosce scorrono fiumi di sangue scuro e denso.
Bill sputa lontano il proprio pasto indigesto, e quando le guardie gli si avvicinano per tirarlo su e trascinarlo via, coi denti e le labbra ancora tutti sporchi di sangue, sta ancora sorridendo.
Di prigione non esce più. Non ha la minima idea di che fine abbia fatto l’agente che, a quanto pare, ha quasi ucciso. E sembra che a nessuno importi che quello la sua fine, qualunque sia stata, se l’è meritata, perché ha cercato di stuprarlo. Pare che il fatto che Bill non abbia quasi una casa, che si sia rifiutato di identificarsi, che faccia la troia per tirare a campare e che fosse stato rinchiuso in una cella per passare la notte in attesa di accertamenti, in qualche modo legittimasse lo stronzo che gli ha ficcato l’uccello in gola, che quasi lo incoraggiasse a farlo.
Lo tengono isolato in una cella finché il processo non finisce. Nel mentre, la sua storia fa il giro della prigione, o almeno così gli dice il detenuto incaricato dalla mensa di portargli da mangiare sotto la sorveglianza degli agenti di custodia. Bill piange ventiquattro ore al giorno, ma non vedere mai la luce del sole non lo aiuta a capire quanto tempo stia passando.
Lo tirano fuori di lì un giorno, gli dicono che è per presenziare al processo. Bill non ne capisce un cazzo. Non ha mangiato quasi niente, negli ultimi giorni, non si lava da settimane, o almeno così gli sembra, gli fa male una spalla e si sente debole, tanto da riuscire appena a camminare.
Una cosa, però, la capisce. I dodici anni che gli danno per aver quasi ammazzato quel figlio di puttana. Da scontarsi nel carcere in cui è già recluso. Capisce anche che, almeno, lo tireranno fuori dall’isolamento. Lo spostano al braccio A, o almeno così gli pare di capire. Perché è un braccio tranquillo, perché lì non ci sono mai casini, perché lì l’ordine è rispettato.
A Bill questo non interessa. Gli basta uscire dal buco dove è stato rinchiuso fino ad ora. Pensa che riuscirà perfino a sorridere quando, finalmente, si sarà lasciato alle spalle la cella d’isolamento.
Ma non è così.


Bushido gli lancia un’occhiata incuriosita, studiando la sua figura – il collo e i polsi magrissimi, la pelle quasi trasparente, gli occhi grandi e pesanti di trucco sbavato, i capelli lunghi e in disordine – e per un secondo il ragazzino incrocia il suo sguardo e sembra ricambiarlo con aria di sfida, corrugando le sopracciglia e tendendo le labbra fino a ridurle ad una linea sottile e livida di rabbia, che gli taglia in due il volto.
- È lui. – gli dice Fler, sporgendosi verso il suo orecchio per sussurrare, - Te l’avevo detto che era bello.
Bushido annuisce, pensieroso. Forse, dopotutto, un paio di voci gli toccherà farle circolare comunque.

*

La guardia viene a prenderlo a mezzogiorno, il momento meno opportuno per distoglierlo dalla cucina perché i suoi sono bravi ragazzi ma, senza l'ombra della sua persona a fargli venire la stretta al culo, quelli si siedono da una parte e se la prendono comoda, così poi i compiti si ammucchiano, le cose non vengono fatte, la gente s'incazza e la tensione sale. Vorrebbe fargli capire che fare quello che devono fare nei tempi in cui va fatto non ridurrebbe la loro virilità, ma permetterebbe a tutti quanti di farsi molto prima i cazzi propri; ma è difficile convincere qualcuno di una teoria astratta quando quello capisce soltanto le cose di cui può avere un riscontro immediato. E siccome lavorare quando nessuno ti guarda ti porta solo ad essere sfottuto dal resto della gente che ti circonda, quelli non fanno niente. Bushido, d'altronde, nemmeno si stupisce; lui lo sa che non tutti nascono capi e molti non nascono nemmeno soldati, ma stupide pecore incapaci di ragionare anche al livello più basilare. E' già abbastanza fortunato a dover gestire un branco di disadatti con poche perversioni che quando parla lo sta a sentire, non può anche pretendere da loro un'organizzazione di tipo pratico.
“Ferchichi,” lo chiama la guardia, porgendogli le manette già aperte e aspettandosi che lui faccia lo stesso con i propri polsi.
Bushido si volta aldilà del banco su cui poi appoggeranno i contenitori d'acciaio con il cibo da servire ai detenuti. Si pulisce la mano su uno straccio che tiene legato in vita e fa un cenno interrogativo alla guardia, senza mai staccare gli occhi dai suoi.
“Jost ti vuole nel suo ufficio,” precisa il secondino.
“Motivo?” Chiede Bushido, allungando le braccia perché quello possa chiudergli le manette intorno ai polsi. Il freddo del metallo e la stretta improvvisa – guarda caso sempre accidentalmente esagerata – non gli fanno nemmeno più effetto, sono diventati parte della routine che costituisce il tragitto per e dall'ufficio del direttore.
“Perché, Ferchichi? Se non ti piace, non vieni?” Sorride sprezzante la guardia, spingendolo in malo modo fuori dalla cucina.
Bushido ricambia con una smorfia strafottente, senza voltarsi verso l'uomo che gli cammina alle spalle. “Il grande capo chiama, dev'esserci qualcosa di grosso dietro.”
“Magari ti danno la grazia,” lo prende in giro la guardia, mentre lo scorta oltre l'area comune, dove i detenuti presenti si voltano a guardarli, subito incuriositi dalla novità. “Sei quello buono tu, no?”
Non capita spesso che Bushido finisca nei guai e sono in molti ad esserne contenti. Qualcuno più coraggioso ghigna nella sua direzione, altri si limitano a fissarlo con espressione indecifrabile.
Bushido serra la mascella e si sforza di non rispondere alla guardia. Sa per esperienza che c'è un limite ben preciso fin dove ci si può spingere a reagire con loro, poi quelle ti spaccano la testa a manganellate e tu hai comunque torto. Allunga il passo dietro suggerimento del secondino e, mentre cammina, lancia un'occhiata agli uomini di Sido che lo seguono con lo sguardo finché non sparisce oltre la prima cancellata. Sido però non c'è.
L'ufficio del direttore Jost è l'unica stanza del braccio A che sembri apparentemente un posto normale.
C'è una vera porta in legno, delle vere finestre – anche se sbarrate – e un vero arredamento.
L'uomo siede dietro una scrivania da ufficio larga quanto tutta la cella di Bushido e, quando lui e la guardia entrano dopo aver ottenuto il permesso, lo trovano indaffarato a firmare una gran quantità di fogli.
“Puoi andare, Hans, Grazie,” dice alla guardia, alzando soltanto una mano ben aperta.
Quella lancia un'occhiata a Bushido che ormai conosce la procedura e se ne sta in piedi a due metri dal direttore, le mani ammanettate bene in vista e il capo chino, anche se la sua espressione suscita più noia che ubbidienza. E' così che funziona con Jost, ti chiama e poi te ne stai tre ore ad aspettare che abbia finito i suoi comodi, come se tu non avessi niente di meglio da fare che contare i rombi sul suo tappeto indiano. Ancora non l'ha capito che pulire il pavimento dei cessi è sempre più emozionante che stare a sentire lui.
“Sta tranquillo, Hans,” dice Jost dopo qualche secondo di silenzio durante il quale non ha sentito la porta chiudersi, “il signor Ferchichi sa bene che aggredirmi non gli conviene.”
“Ma signore,” insiste Hans.
Jost mette ancora qualche firma, la sua stilografica graffia la carta con un suono fastidioso. Poi sospira e richiude la penna. “Vai pure, Hans,” ripete con calma ma con decisione. “Qua ci penso io.”
Nel braccio A non ci sono buone guardie. Ci sono solo guardie stronze e guardie che lo sono un po' meno. Bushido sa che Hans fa parte del secondo gruppo. E' uno che sa di fare un mestiere di merda che non vale i due spiccioli in più che guadagna, ma lo fa perché ha due marmocchi a casa e quelli devono mangiare. E' un coglione, naturalmente, come quasi tutte le divise, però è quel tipo di coglione che Bushido tollera perché almeno non ti colpisce per divertimento quando si annoia. Hans rompe i coglioni solo quando proprio gli gira male, che è più o meno quando comincia a pesargli di stare in questo buco con loro per delle settimane di fila e di vedere la moglie due ore al giorno mentre lei dorme, se va bene.
Hans gli lancia un'ultima occhiata e poi decide che se il direttore Jost vuole rischiare la vita di sua spontanea volontà, non è affar suo. Jost scrive ancora un po' e quando finalmente mette giù la penna, Bushido ha i crampi alle braccia, ma col cazzo che cambia posizione e lo dà a vedere.
“Ferchichi, siediti,” gli dice Jost, togliendosi gli occhiali da lettura e massaggiandosi la radice del naso.
Bushido non si muove, si limita a sollevare lo sguardo su di lui e a lasciar penzolare la testa di lato con aria annoiata. “Preferisco di no,” risponde.
Jost inspira tra i denti e poi si appoggia allo schienale della poltrona. “Fare il duro non ti servirà a niente,” gli dice per nulla colpito. “Non ti ho chiamato per qualcosa che hai fatto.”
“Non avrebbe potuto, non ho fatto niente,” ribadisce lui, sul viso un'espressione indecifrabile.
“Tu fai sempre qualcosa, Ferchichi,” commenta Jost. “Io devo solo provarlo.”
“Auguri,” sorride Bushido, scuotendo un po' le spalle in una risatina silenziosa.
Bushido e Jost possono dire di conoscersi da un sacco di tempo, anche se nessuno dei due la considera propriamente una conoscenza piacevole. All'epoca, lui faceva dentro e fuori dalla sua cella già da sei anni, quindi si può dire che quando Jost è arrivato a posare il culo sulla sua poltrona di pelle, la prigione gliel'hanno consegnata già con Bushido dentro che faceva il bello e il cattivo tempo come il capo quartiere che è. I primi tempi è stata dura perché lui non era affatto il direttore che è adesso, e Bushido ci godeva come un maiale a farlo impazzire. Gli isolamenti che si è fatto anche per delle cazzate durante i primi anni di Jost, sono quelli che sono valsi davvero la pena. Poi, col tempo, Jost ha tirato fuori le palle, si è guadagnato il suo rispetto – Bushido è disposto a capire solo quello, d'altronde – e le cose hanno iniziato ad ingranare diversamente. E' stato Jost a volere il suo trasferimento nel braccio A quando si è costituito e, anche se Bushido non ha mai promesso realmente di farlo, butta un occhio per impedire che la gente si accoltelli troppo, da quelle parti.
“Ti ho chiamato,” riprende Jost “Perché ho una questione da discutere con te.”
“Farà meglio ad essere interessante.” Bushido solleva un sopracciglio, scettico. “Perché la sala mensa è un posto delicato, Jost. E io sono in questo tuo ufficietto di merda da più di mezz'ora. Se qualcuno decide che era il momento buono per aprire in due qualche stronzo, non te la prendere con me.”
“Avrai notato i nuovi arrivi oggi,” dice Jost.
Bushido socchiude gli occhi e fa un cenno disinteressato col capo. “Può essere,” risponde vago.
“Uno di loro si chiama Bill,” continua Jost, pazientemente. “E' poco più che un ragazzino e gli hanno dato dodici anni per tentato omicidio.”
In quella descrizione Bushido non ha alcun problema a riconoscere il corpo esile ed emaciato che ha attraversato l'area comune incollato alla guardia, quella mattina, perciò annuisce. “E allora?”
“Sai perfettamente com'è la vita qua dentro per quelli come lui.”
Quando entri in galera puoi essere tre cose: puoi essere uno che si fa rispettare, uno che non lo fa e puoi essere morto. Difficilmente puoi farti i cazzi tuoi senza rientrare in nessuna delle tre categorie. Bushido conosce poche persone che ci riescono e sono tutti boss anziani, la cui morte scatenerebbe guerre di dimensioni tali che la gente preferisce starne alla larga. Naturalmente questo ragazzino, Bill, rientra nella seconda categoria. Non importa quanti uccelli abbia staccato a morsi, è carne da macello; se gli dice bene, diventerà la puttana personale di qualcuno. Se gli dice male, finirà per impiccarsi con le coperte come il frocio giamaicano quattro settimane fa.
“E' la legge della giungla, Jost” dice Bushido, con una scrollata di spalle. “Ma non si sa mai, magari tira fuori le palle e resta vivo.”
“Io preferirei non correre il rischio,” commenta Jost. “Vorrei che te ne occupassi tu.”
“Non se ne parla neanche,” risponde Bushido, immediatamente, lasciando perdere la calma mantenuta finora. “Io non faccio da balia a nessuno.”
“Devi soltanto tenerlo d'occhio,” spiega Jost. “Impedire che se ne approfittino e che si faccia ammazzare, o peggio, che si ammazzi da solo.”
“No,” Bushido scuote la testa con vigore.
“Tu dici di avere una certa influenza su questo carcere,” insiste Jost. “Se è davvero così, allora ti basterà far circolare la voce che è sotto la tua protezione e nessuno gli farà niente. Ti chiedo solo questo.”
Bushido ha cominciato a scuotere la testa a metà frase. “Tu non capisci, Jost,” gli dice avvicinandosi alla scrivania. Vorrebbe indicarlo, ma il movimento del polso si porta dietro tutte le manette, così rinuncia e cerca di essere convincente facendogli ombra sulla scrivania. “Quel tipo ha staccato l'uccello ad una guardia, ok? E' pazzo. Chissà che cazzo di casini potrebbe combinare. E io non voglio casini quando sono ad un passo dall'uscire da questo buco di merda con la condizionale.”
“Non è pazzo,” sospira Jost. “E' soltanto spaventato e probabilmente è stato aggredito.”
“Per me può anche aver morso la prima cosa che si è trovato in bocca perché aveva fame,” commenta Bushido. “Non me ne frega niente, Jost. Se quello combina qualche altra cazzata mentre è sotto la mia custodia, io di qui non esco più.”
Jost non vorrebbe arrivare a questo, ma non ha altra scelta. “La tua uscita dipende dalla mia parola,” gli fa notare con molta serietà. “E se ti rifiuti, io dirò che, a mio avviso, non ci sono gli estremi per darti la condizionale.”
Bushido trasfigura. “Che bastardo!” Sibila tra i denti. Fa un passo indietro come volesse andarsene, ma poi la rabbia è tanta che si riavvicina alla scrivania, battendoci sopra entrambe le mani. “Sei un grandissimo bastardo!”
“Se è l'unico modo di trattare con te...” Jost si stringe nelle spalle, allargando impotente le braccia.
“Questa me la paghi, Jost.”
Hans viene richiamato perché riporti Bushido nella sua cella. Stavolta il tragitto è più silenzioso e Bushido non guarda nessuno mentre attraversa l'area comune; è troppo impegnato a prevedere come gestire la catastrofe che potrebbe impedirgli di uscire.

*

Quando Bushido torna dall'ufficio di Jost, il ragazzino sta sistemando le sue cose sul letto di sopra.
Non ha perso tempo, quel bastardo, a spedirglielo come un pacco postale.
“Sembra che tu abbia un nuovo compagno di cella, Ferchichi,” commenta Hans ridendo di lui e lasciando scivolare gli occhi sul corpo di Bill. “Fate amicizia, mi raccomando.”
Bushido ignora le parole della guardia, troppo impegnato a cercare quelle adatte a spiegare al ragazzino come funzionano le cose qui, ma è Bill che lo anticipa non appena la porta della cella si chiude, dando loro una parvenza di privacy. “Tu sei Ferchichi, vero?” Chiede.
Bushido nota che lo hanno fatto lavare e cambiare. Pulito e con i capelli ancora umidi e tirati all'indietro sembra completamente diverso da come lo ha visto stamattina; è vagamente più adulto, ma solo alla prima occhiata. Poi la rotondità del viso e gli occhi impauriti e sgranati, nonostante i quintali di trucco, tradiscono la sua vera età.
“Mi chiamano Bushido,” risponde, annuendo. “E tu devi essere Bill.”
Il ragazzino annuisce, quindi si issa sul letto di sopra. Quando si siede le sue gambe penzolano fino a metà del letto inferiore. E' altissimo.
“D'accordo, Bill,” continua Bushido, grattandosi la nuca. “E' la prima volta che finisci in galera?”
“Sì,” risponde lui. “Per colpa di due sbirri di merda.”
“Gli sbirri non piacciono a nessuno,” risponde Bushido. E' una di quelle cose che vanno dette a prescindere, anche se in quel momento non servono a niente. Sono come le bestemmie, scaricano il nervoso. “D'accordo, le regole qua sono semplici. La cella dobbiamo pulirla noi, quindi vedi di non sporcare. Mangia quando ti dicono di mangiare, vai a letto quando ti dicono di dormire. Non cercare guai e loro non verranno a cercare te. ”
Bill lo guarda dall'alto del letto a castello, poi gonfia una guancia e sbuffa. “Illuminante. Senti Bushido,” dice, calcando sul suo nome come lo trovasse ridicolo. “So perché mi hanno spostato qui con te, d'accordo? Jost vuole che tu mi faccia da baby sitter. Ma io non so chi sei e nemmeno m'interessa saperlo. Non ho bisogno di protezione, so cavarmela benissimo da solo. “
Bushido solleva entrambe le sopracciglia. Un piccola ruga gli divide la fronte a metà mentre, per sicurezza, lo guarda di nuovo da capo a piedi per vedere se è ancora magro ed effeminato com'era due minuti fa, perché da come parla sembra uno capace di spaccare la faccia a parecchia gente. E invece no, è sempre il mucchietto d'ossa che gli sembrava.
“E, tanto per essere chiari,” continua Bill. “Anche se fuori di qui batto, non ti far venire strane idee perché non sono la puttana di nessuno, chiaro?”
Bushido ha l'impressione che il ragazzino abbia passato l'ultima mezz'ora a mettere insieme questo bel discorsetto da duro, convinto che qui dentro gli basti fare la voce grossa per essere lasciato in pace.
Se fosse un altro tipo di persona, diciamo una con i coglioni per davvero e non una che i coglioni li stacca e basta e solo perché glieli mettono a portata di mano, magari potrebbe anche andargli bene, ma se per aprire bocca e dare fiato ai denti si mette seduto e dondola i piedi, ecco, far finta di essere uno che sa come si sta al mondo non gli serve a niente. E' fortunato che Jost lo abbia spedito da lui. Solo due celle più avanti c'è uno che è dentro per stupro. Non lo avrebbe nemmeno fatto finire di parlare.
Bushido è rimasto fermo di fronte alla porta per tutto il tempo, per nulla impressionato.
“Hai finito?” Chiede, quando Bill, finito di usare la bocca a sproposito, la imbroncia cercando di darsi un tono.
“Sì,” risponde.
Bushido annuisce. “Bene,” commenta, un attimo prima di afferrarlo per la maglietta e tirarlo giù sul pavimento. “Allora, tanto per cominciare, questo è il mio letto e se non vuoi che ti prenda a pedate nel culo subito, ti conviene scendere,” gli dice, mentre il ragazzino si raccoglie dal pavimento. Bushido gli fa il favore di riconsegnargli anche la coperta e il rotolo di carta igienica che aveva ordinatamente riposto sul suo materasso. “Secondo, quello che fai fuori di qui sono cazzi tuoi. Se proprio vuoi farti scopare anche dentro la prigione, vai a chiederlo a qualcun altro. A me il tuo preziosissimo culo non interessa.”
Bill si spolvera i pantaloni aderenti e deglutisce forte per la rabbia che gli tende i lineamenti, ma non dice una parola mentre ripone di nuovo le sue cose sul materasso in basso.
“E terzo,” conclude Bushido afferrando con forza le sbarre del letto per riprendersi il suo legittimo posto. “Se non vuoi il mio aiuto, non sarò certo io ad insistere. Vedremo come te la cavi a proteggerti da solo.” Bushido si distende sul materasso e incrocia le braccia dietro la testa. Fissa il soffitto scrostato della cella, fingendo di pensare agli affari suoi e intanto ascolta il ragazzino che si muove piano e incerto per la stanza, mettendo a posto le sue cose. E' silenzioso e profuma un sacco. Bushido avrà un bel da fare ad abituarsi al suo odore ogni giorno per i prossimi mesi.

*

Quando Bill si sveglia, l’indomani mattina, non vede l’ora di uscire da quella gabbia di merda. Tutto, di quel luogo, lo infastidisce a morte. Le grate, le ombre scure agli angoli, il cazzo di rubinetto che gocciola e non ha smesso di gocciolare un secondo scandendo gli attimi di quella notte infinita, lo specchio sbeccato appeso alla parete che gli rimanda la placida immagine di Bushido addormentato, il viso contro la parete, la schiena che si muove appena al ritmo del suo respiro. Odia lui più di tutto il resto, lui e quel suo atteggiamento insopportabile, come se tutto gli fosse dovuto, perfino il rispetto che chiede senza avergli neanche mostrato perché pensa di meritarlo.
Quell’uomo non ha capito niente, di lui. Non sa niente di come ha vissuto, di quello che ha passato e di come è in grado di ridurre un uomo, se solo vuole, dentro e fuori da un letto – o da qualsiasi altro posto in cui sia possibile fare sesso.
Bill sa difendersi da solo. Bill non ha bisogno di nessuno. Tutto quello di cui ha bisogno adesso è poter uscire da questa prigione del cazzo e camminare in silenzio per le strade di Berlino di notte, ma questo semplicemente non accadrà, per cui gli tocca accontentarsi della cosa più simile che possa procurarsi al momento.
Lo fa immediatamente, appena le luci si accendono e le gabbie si aprono. Sente il rumore metallico e netto della serratura che scatta, e scatta anche lui, dritto in piedi, già pronto per uscire, i pantaloni e la maglietta ancora addosso. Non li ha tolti dalla sera prima, si è rifiutato di mettersi comodo, perché farlo avrebbe significato accettare quella sistemazione come definitiva. Non vuole farlo. Lui non appartiene a quella gabbia di metallo e musi duri. Lui appartiene alla notte fredda e alle stelle che puntellano il cielo scuro e spaventoso. È lì che tornerà. In qualche modo ci riuscirà.
Non oggi, però. Non oggi, né domani, probabilmente non fino a quando i dodici anni che deve scontare saranno terminati. Uscendo dalla cella e guardandosi intorno, Bill si fa qualche conto. Lui, di anni, adesso ne ha diciotto. Quando uscirà da quel buco di merda, ne avrà trenta. Mercato rovinato per sempre, dovrà cambiare completamente target e chissà se qualcuno lo vorrà ancora, rovinato come sarà a quell’età.
Sospira, lanciando occhiate disinteressate qua e là, e sta per sedersi ad uno dei tavoli quando una guardia gli si avvicina e gli chiede di seguirlo.
- Perché? – domanda lui, aggrottando le sopracciglia, e la guardia sospira scocciata, sollevando gli occhi al cielo.
- Il direttore vuole vederti. – spiega, - Ora piantala di fare storie e muovi il culo, se non vuoi che ti ci trascini.
Bill serra le labbra, quasi raggomitolandosi sulla sedia. Il suo istinto gli dice di non seguirlo. È un istinto che gli ha insegnato la strada, perché quando batti queste percezioni devi averle per forza. Certo, molto lo fa lo studio, moltissimo l’osservazione, ma ci sono certi uomini che apparentemente non forniscono nessun indizio, certi individui che ad un primo sguardo possono sembrare tranquilli, nient’affatto pericolosi, e che invece sono quelli dai quali dovresti guardarti di più. Sono quelli che possono fare male davvero. Sono quelli che impari ad evitare, perché nessuna quantità di denaro può valere la pena di ritrovarsi con la pancia aperta in due da un coltellino svizzero, o dall’aspettare che i conati di vomito di esauriscano, accasciato in un angolo di strada, dopo essere stato picchiato per ore fino a svenire, o peggio, dal ritrovarsi morto in un fosso senza neanche aver capito come, o perché, e senza che nessuno lo sappia mai, o abbia il minimo interesse a recuperare il tuo corpo.
Bill non è mai andato con qualcuno che gli desse una sensazione simile. A volte arrivavano ad offrire anche parecchio, cifre enormi, cifre che facevano pensare a Bill “che cazzo, non posso rinunciare ad una cosa simile solo per un fottuto presentimento, se invece è una persona normale con i soldi che mi offre campo senza scendere più in strada per i prossimi due mesi…”, salvo poi realizzare che nessuna persona normale offrirebbe tanto denaro per una semplice scopata in qualche lurido buco o in mezzo alla strada.
No, Bill segue sempre l’istinto, Bill con quella gente non ci va, Bill è sopravvissuto bene o male senza traumi troppo grossi proprio per questo motivo. E quest’uomo, questa guardia, gli dà la stessa sensazione, e perciò Bill vorrebbe potergli voltare le spalle ed allontanarsi nella notte come ha sempre fatto per difendersi da questi spaventosi presentimenti, ma stavolta non può. Non può perché non esiste un posto, in questa prigione, in cui lui possa fuggire, o sentirsi al sicuro. Non c’è la sua topaia a proteggerlo dalla strada e dal suo gelo penetrante, o dagli uomini e dal loro calore appiccicaticcio. Perciò, Bill si alza, si lascia ammanettare e segue la guardia fuori dal braccio A, a sguardo basso.
Naturalmente non conosce la prigione, e non sa dove si trovi l’ufficio del direttore – il quale, immagina, vorrà parlargli di quello che ha fatto a quell’altra guardia, probabilmente minacciarlo, che non gli salti in testa di rifarlo con qualche detenuto o, peggio, con un altro agente di custodia – perciò segue docilmente il proprio accompagnatore, cercando di non agitarsi troppo quando gli sembra di stare camminando da troppo tempo. In circolo.
Si fermano davanti a una porticina che Bill è abbastanza sicuro di avere già visto un paio di minuti prima, in mezzo a un corridoio che Bill è quasi certo di aver già percorso. Non può essere la stanza del direttore, perché non c’è neanche una fottuta targhetta, sopra. È una porticina ampia appena a sufficienza per far passare un uomo, è di un colore spento e smorto, lo smalto grigiastro sbeccato in più punti, e un minuscolo vetro opaco attraverso il quale è impossibile scrutare l’interno. La guardia la apre, e Bill vede che la stanza non è altro che uno sgabuzzino.
I polsi ancora stretti e immobilizzati dalle manette, si volta a guardare l’agente di custodia aggrottando le sopracciglia.
- Entra. – dice quello, seccamente.
- No. – risponde Bill, - Questo non è l’ufficio del direttore.
L’uomo stira sulle labbra un ghigno infastidito, ed estrae il manganello dalla propria custodia, appesa al cinturone proprio accanto alla fondina della pistola. Bill ha appena il tempo di realizzare cosa sta per succedere, e poi sente un dolore insopportabile alla base della schiena, il dolore come di qualcosa che si spezza, anche se è abbastanza sicuro di non essersi rotto niente. Ma le gambe gli cedono, gli si mozza il respiro all’altezza della gola e vede bianco all’improvviso, perdendo l’equilibrio e lasciando così alla guardia tutto il tempo ed il modo di spingerlo dentro la stanza con uno strattone violento, per poi entrare dietro di lui e chiudersi la porta alle spalle.
Bill finisce contro un mucchio di scatoloni semivuoti addossati contro la parete opposta. L’ambiente è piccolo, claustrofobico, non c’è modo di scappare. L’uomo non accende la luce, e quindi Bill non può vederlo arrivare. Cerca di aggrapparsi agli scatoloni per mettersi in piedi e provare quantomeno a schermarsi il viso e la testa con le braccia, ma lo scatolone al quale si aggrappa è quasi vuoto e cede immediatamente sotto le sue dita che si stringono convulsamente attorno al bordo, e al peso del suo corpo che sembra improvvisamente essersi raddoppiato, triplicato, quadruplicato, da quando la botta alla base della schiena gli ha messo fuori uso le gambe.
La guardia gli si avvicina – gli basta un passo – e comincia a picchiarlo col manganello. È buio, e non può vedere dove lo colpisce, ma Bill ha come l’impressione che non gli importerebbe anche se la luce fosse accesa. Si prende una manganellata sulla tempia, una sulla spalla, parecchie sulle braccia e poi una, più forte delle altre, sulla nuca. Vorrebbe svenire, o crepare, ancora meglio, ma nessuna delle due cose succede. Il colpo lo lascia rintontito, confuso, ma cazzo, fottutamente vigile. Si accascia sul pavimento, accartocciato nei pochi centimetri di spazio che le scope e gli strofinacci gli lasciano libero, e resta lì con gli occhi sbarrati, il dolore che gli esplode nel corpo come un bombardamento, e nessuna capacità di muoversi, neanche per urlare o piangere, mentre l’agente lo prende a calci sulla pancia, sui fianchi, sulla schiena, fra le gambe.
- Questo è per Jäger, stronzo figlio di puttana che non sei altro. – urla, continuando a picchiarlo, - E stai attento a dormire con un occhio solo, la notte, perché prima o poi ti strappo le palle nel sonno, testa di cazzo, così magari lo capisci quello che cazzo hai fatto.
Bill perde il senso del tempo. Dopo un po’, tutte le sue percezioni fisiche cominciano a farsi sbiadite, distanti. La voce dell’uomo si abbassa di volume, anche il dolore diventa meno pressante e intollerabile, è solo un’eco lontana. Bill trova perfino la forza di piegare l’angolo delle labbra in un sorriso sereno. Forse finalmente è la fine, forse sta crepando, forse riuscirà ad essere libero, finalmente. Non ci sarà più una prigione di metallo a costringerlo, ed anche la sua prigione di strade, fuori da lì, sarà finalmente dimenticata per sempre.
E invece no.
La guardia smette di picchiarlo, una volta soddisfatta la sua rabbia, e si allontana, col fiatone. Recupera uno degli strofinacci appoggiati su uno scaffale, trovandolo un po’ alla cieca e facendo cadere una bottiglia di detersivo che atterra sulla testa di Bill – lui nemmeno la sente, ovviamente – e ripulisce il proprio manganello, scaraventandogli lo strofinaccio sporco di sangue sul viso subito dopo. L’odore metallico e penetrante del sangue dà a Bill la nausea istantaneamente, ma non ha ancora recuperato abbastanza forza o capacità di muoversi per potersi lamentare.
La porta si apre, e Bill la vede appena. La guardia esce, e lo lascia lì riverso per terra. Lo trova un inserviente, più di un’ora dopo.
- Porca puttana. – sibila, e Bill, che ha tenuto gli occhi chiusi fino a quel momento, li riapre, e lancia un urlo devastante quando il tipo lo afferra da sotto le ascelle e lo rimette in piedi, per portarlo in infermeria.
Non male, come inizio.

*

Resta in infermeria una settimana. Ne odia l’odore, odia tutti i detenuti nei lettini attorno al suo, odia i medici e gli infermieri che lo trattano con supponenza, lo toccano appena, difficilmente lo curano. Lo lasciano semplicemente lì disteso, lo puliscono quando se la fa addosso perché non riesce a muovere le gambe abbastanza da arrivare fino al cesso, e poi aspettano che il suo corpo faccia tutta la fatica di rimettersi in sesto da sé.
- Sei giovane, - gli dice il medico che lo visita distrattamente il terzo giorno, verificando la buona strada di guarigione intrapresa dai suoi tagli e lanciando occhiate disinteressate agli ematomi che lo ricoprono per un buon novanta percento su tutto il corpo, - per due schiaffetti, non vale neanche la pena di tenerti qui troppo a lungo.
Bill vorrebbe sgranare gli occhi e rispondere “due schiaffetti?”, ma è abbastanza sicuro che non otterrebbe niente a parte uno sguardo gelido, ed in ogni caso è contento di potere uscire da lì prima possibile. Ha sempre odiato gli ospedali, l’ansia che gli mettevano addosso, il loro odore di malattia e morte e paura e medicinali. L’odore insopportabile dei guanti in lattice, poi, o quello delle garze disinfettate. È nauseante. Le rare volte in cui s’è messo nei guai abbastanza da avere bisogno di cure mediche, si è sempre assicurato di potersi rimettere abbastanza in fretta da lasciare l’ospedale dopo al massimo un paio di notti, anche se per questo gli toccava dover fingere di stare meglio di quanto in realtà non stesse.
Qui non può farlo, e piano piano i giorni si accumulano, diventano quattro, poi cinque, poi sei, e Bill non ne può più. Un giorno, il detenuto che porta il pranzo e la cena ai ricoverati dalla mensa si sofferma con lui un po’ più a lungo. È un uomo basso, tarchiatello, pelato, dal viso stranamente rassicurante, forse a causa degli occhi chiari dallo sguardo limpido. Bill non lo conosce, ma d’altronde non ha passato abbastanza tempo fra gli altri detenuti per poter dire di conoscere qualcuno, a parte Bushido.
- Ciao, - lo saluta l’uomo, organizzandogli il vassoio in grembo, per potergli servire il suo pasto, - io sono Chakuza. Bushido manda i suoi saluti.
Bill aggrotta immediatamente le sopracciglia, serrando le labbra in una smorfia infastidita.
- Puoi dirgli di ficcarseli su per il culo. – risponde acido, e Chakuza ridacchia, posando il piatto col pollo in mezzo al vassoio e sistemandogli attorno le posate e il bicchiere per l’acqua, lasciandogli un piattino con le verdure sul comodino.
- Può essere indisponente, alle volte. – commenta.
- Non me ne frega un cazzo. – ribatte Bill, - Non li voglio, i suoi saluti di merda.
- Mi ha detto anche di riferirti… aspetta, com’è che ha detto? - aggiunge l’uomo, fingendo di soffermarsi a pensare e picchiettandosi il mento con l’indice mentre piega le labbra in una smorfia ironicamente riflessiva, - Ah, sì: gran lavoro stai facendo, nel proteggerti da solo. – sogghigna, - Così ha detto.
Bill digrigna i denti, furioso.
- Vaffanculo. – risponde, - Tu e lui. – conclude, e getta il vassoio in terra con un ringhio stizzito.
Chakuza ridacchia e non fa una piega. Chiama un inserviente per pulire il disastro combinato da Bill per terra, e poi si allontana, per portare il pranzo agli altri detenuti.
All’alba del settimo giorno, i progressi di Bill sono sufficienti da permettergli di deambulare sulle proprie gambe, pur con una certa fatica. Due infermieri lo mettono in piedi, gli riconsegnano i propri vestiti e poi chiamano due guardie perché lo scortino fino al braccio A. Bill cammina lentissimo in mezzo a loro, e per tutto il tempo il cuore gli batte tanto forte che potrebbe esplodergli. È paura, Bill la riconosce. Continua a guardare con attenzione ogni angolo, ogni corridoio, ogni incrocio, per essere certo che i due non lo stiano facendo girare in tondo per poi ficcarlo in uno sgabuzzino e finire l’opera del compare, e quando finalmente vede l’enorme cancello che è l’ingresso del suo braccio esala quasi un sospiro di sollievo. Lo inghiotte subito, quando si ricorda che non c’è proprio niente di cui essere sollevato.
Si trascina faticosamente nella propria cella, lasciandosi andare sul letto e ringraziando mentalmente per non avere insistito nel pretendere quello di sopra. Chiude gli occhi e dorme, per la prima volta in sette giorni. In infermeria era sempre sotto antidolorifici, e si sentiva confuso, per la maggior parte del tempo. Non sentire gli arti lo terrorizzava. Chiudere gli occhi sembrava spaventoso come condannarsi a morte. Adesso riesce quantomeno a sentire tutto. E fa tutto piuttosto male, ma almeno è rassicurante abbastanza da potersi concedere di chiudere gli occhi e assopirsi. Sa che, in caso di pericolo, il dolore lo sveglierà e renderà i suoi sensi abbastanza acuti da poter fronteggiare il problema. O almeno lo spera.
Problemi, comunque, non se ne presentano. Quando riapre gli occhi, dev’essere già notte fonda, perché le luci sono spente, la gabbia è chiusa e non si sente volare una mosca, a parte il ronzio silenzioso del russare pacato di Bushido. Bill si mette a sedere e gli sfugge un gemito di dolore. La schiena fa ancora male. Bushido si sveglia immediatamente, Bill lo sente muoversi sul materasso e poi gettare le gambe nel vuoto per saltare a terra, e impreca sottovoce perché avrebbe preferito risparmiarsi questo momento, quello in cui questo stronzo di merda rigirerà il coltello nella piaga dandogli del coglione con tutte le ragioni per farlo.
“D’accordo,” pensa Bill, “andiamo,” e solleva gli occhi, aggrottando le sopracciglia in una smorfia scontrosa. Bushido lo guarda con una certa severità, le braccia incrociate sul petto, e resta in silenzio a lungo.
- Be’? – lo invita quindi Bill, il tono strafottente, - Coraggio, lo so cosa vuoi dirmi.
Bushido inarca un sopracciglio, e poi parla.
- Il direttore ha deciso di lasciarti a riposo per un altro paio di giorni, - dice, - finché non ti rimetti. Dopodiché, verrai assegnato alla mensa, e lavorerai con me e i miei ragazzi. Questo è quanto. – conclude, e poi si arrampica nuovamente al proprio posto.
Si riaddormenta quasi subito. Bill mormora un “vaffanculo” fra i denti, e poi torna a stendersi a propria volta, ma non chiuderà occhio per tutto il resto della notte.

*

I due giorni successivi gli passano addosso come polvere. Nemmeno li sente. Il dolore diminuisce, piano ma considerevolmente, e quando il secondo giorno riesce a trascinarsi in mensa per il pranzo – dopo aver digiunato per tutto il giorno precedente – riesce a sentirsi perfino abbastanza orgoglioso di sé.
Si guarda intorno con curiosità ed osserva il luogo in cui, da domani, comincerà a lavorare. La sala è enorme, ci sono tre grandissimi tavoli di metallo sistemati parallelamente in verticale, ed altri due sui due lati corti opposti della stanza, posizionati in orizzontale. L’effetto è abbastanza straniante, ma non fastidioso. C’è una certa idea di ordine che lo intriga. E poi sembra tutto molto pulito, che è una cosa sempre piacevole dopo aver passato una settimana in infermeria a rotolarti nel piscio e nel tuo stesso sangue.
Recupera il proprio pranzo e si siede in un angolo, lontano da qualsiasi cosa possa essere definita un gruppo. Non ha interesse a sviluppare relazioni con gli altri detenuti, e comunque non sta ancora abbastanza bene da poter considerare l’interazione sociale come un’opzione valida. A metà del purè di patate, cominciano a dolergli le ossa. È la posizione, immagina, sta seduto e con le spalle piegate per cercare di attirare meno attenzione possibile, e la sua schiena – abituata a restare perlopiù in posizione sdraiata negli ultimi giorni – non può sostenere il peso del suo corpo troppo a lungo. Lascia perdere il cibo, perché il dolore gli sta togliendo la voglia di mangiare, e comincia a prepararsi mentalmente al calvario che sarà alzarsi in piedi e percorrere il lungo corridoio che separa la mensa dal braccio A. Sta per alzarsi, quando sente addosso gli occhi di qualcuno, e nel guardarsi intorno scopre che si tratta di due detenuti che parlottano fra loro, ghignano, ridacchiano e lo indicano con evidenti cenni del capo. Aggrotta le sopracciglia e sporge il mento con aria strafottente, quando i ghigni e i gesti dei due cominciano a farsi troppo insistenti e allusivi.
- ‘Cazzo volete? – ringhia esasperato, e uno dei due gesticola indicando prima se stesso, poi il suo compare, poi Bill, e infine mimando un atto sessuale spingendo l’indice di una mano attraverso un cerchio formato da indice e pollice dell’altra mano. Bill rotea gli occhi, lascia andare uno sbuffo parzialmente annoiato e parzialmente esasperato, e solleva il medio. I due scoppiano a ridere e lui si riserva il diritto di considerare chiusa la questione, perciò si alza in piedi, svuota i resti del proprio vassoio nel cestino e poi comincia a muoversi lentamente verso il braccio.
Quando arriva in sala comune, gli viene quasi da piangere. Un po’ perché ce l’ha fatta, un po’ perché tutto il corpo gli fa male da impazzire. Ci ha messo tanto di quel tempo, a camminare, che per il momento in cui arriva la sala comune è già quasi tutta piena, perché anche tutti gli altri detenuti hanno già fatto ritorno. Bill cerca un tavolino vuoto al quale sedersi, ma non ne trova. I pochi posti liberi sono a tavoli già occupati, e lui non vuole avere a che fare con nessuna di quella gente.
Decide di tornare in cella, ma in questo momento non può muovere un passo in più. Non ce la fa proprio. Ha bisogno di respirare, di calmarsi, di riposarsi un attimo, perciò si lascia andare in un angolino per terra e si fa piccolo piccolo, stringendo le ginocchia al petto e raggomitolandosi in una palla, sperando che nessuno lo noti e tutti lo lascino in pace.
È una speranza vana, e se non altro Bill dovrebbe avere imparato almeno quello, nel corso dei suoi primi dieci giorni scarsi di permanenza in prigione, ma in qualche modo riesce comunque a sentirsi stupito quando sente qualcuno richiamare la sua attenzione e, nel sollevare lo sguardo, si rende conto che sono i due detenuti che ci hanno provato prima in mensa. Il più alto e grosso dei due ribadisce l’offerta, e Bill li fissa entrambi, incredulo.
- Sono ridotto una merda. – fa presente, allargando le braccia e mostrando il viso e il collo ancora pieni di ematomi, - Come cazzo fa a venirvi voglia di scoparmi? Io non lo so.
- Non rompere il cazzo, adesso. – dice il tizio più basso, allungandosi a cercare di afferrarlo per una spalla, probabilmente per tirarlo su e trascinarlo in un luogo più appartato. In un movimento del tutto istintivo, Bill allunga entrambe le gambe e gli tira un calcio su uno stinco, abbastanza forte da costringerlo ad allontanarsi con un lamento, per poi tirare su la gamba dolente e massaggiarla con entrambe le mani. La soddisfazione di averlo costretto a saltellare ridicolmente su un piede solo per il dolore dura non più di una manciata di istanti, però, perché subito gli effetti del movimento improvviso si fanno sentire, sotto forma di una scarica elettrica di dolore concentrato che si accende alla base della sua schiena e si arrampica lungo tutta la sua spina dorsale, annebbiandogli la vista e scombinandogli il cervello.
Bill cerca di muoversi, ma fa fatica a respirare e questo lo confonde ancora di più, e la parete è liscia, troppo liscia, non gli offre alcun appiglio, e pochi secondi dopo, quando lui è riuscito a piegarsi sulle ginocchia e sta cercando in qualche recondito anfratto del proprio corpo la forza sufficiente per puntare un piede a terra e sollevarsi in piedi, uno dei due detenuti comincia a prenderlo a calci nello stomaco, e poco dopo si aggiunge anche l’altro, e Bill pensa chiaramente no basta cazzo non ne posso più ammazzatemi o toglietevi dalle palle non le reggo più le botte non la reggo più la nausea non reggo più un cazzo voglio morire ammazzatemi ammazzatemi ammazzatemi cazzo o lasciatemi in pace, e non ha idea di quanto tempo duri quella tortura, ma sa che ad un certo punto s’interrompe bruscamente, e lui si ritrova riverso a terra, ancora vivo, scosso dai tremiti di paura e dolore, e i due detenuti hanno fatto un paio di passi indietro, e a frapporsi fra lui e loro c’è un uomo che non ha mai visto prima, e che quando parla fa sbiancare quei due con una facilità che a giudicare dalla sua stazza – è magro, e decisamente non alto – non ha alcun motivo di esistere.
- Avanti, ragazzi, le conoscete le regole. – li rimprovera con fare paternalistico, - Fuori dal braccio, potete fare il cazzo che volete. Qui dentro, però, non deve volare una mosca. Io per me vi lascerei pure divertirvi, - aggiunge sollevando le braccia, - ma Bushido, lo sapete, lui non è magnanimo come me. Fossi in voi, mi terrei alla larga. – conclude, annuendo compitamente. Bill trova forza sufficiente a tenere aperti gli occhi e seguire la scena, ma si azzarda a rimettersi seduto, raggomitolandosi tremante in un angolo, solo quando i due si sono allontanati abbastanza da non rappresentare più una minaccia.
Il tipo si volta verso di lui, avvicinandosi con aria circospetta. Si muove in maniera strana, vagamente scimmiesca, forse, anche se comunque sta moderatamente dritto e non ciondola. Ha solo un’aria particolarmente svagata e assurda, probabilmente motivata dai ridicoli baffetti che disegnano un arco sul suo labbro superiore.
- Ohi, stai bene? – gli domanda, e Bill lascia andare una risata amara che dura il tempo di capire che ridere fa troppo male.
- Secondo te? – domanda con supponenza, tirando su col naso e sentendo sulla lingua il sapore del sangue, - Cristo, odio questo posto. Non ne posso più di essere picchiato. – si lamenta, guardando per terra e stringendosi nuovamente le ginocchia al petto. il tizio si siede al suo fianco, una gambe distesa sul pavimento, l’altra piegata, a fare da appoggio per il braccio.
- Se ti unissi al gruppo di Bushido, non avresti più problemi. – considera, scrollando le spalle con naturalezza.
- Sì, il problema è che non voglio. – ribatte Bill in un mezzo ringhio, - Non me ne frega un cazzo di queste beghe da coglioni e da stronzi. Fate la voce grossa, ma siete chiusi in una fottuta prigione. E questo Bushido poi chi cazzo sarebbe, un qualche boss o qualcosa del genere? Be’, non governa un cazzo, a parte una decina di stronzi come lui, teste di cazzo abbastanza grosse da farsi beccare come stupidi.
Il tipo lo ascolta con attenzione e poi scrolla le spalle un’altra volta, per nulla colpito dalla sua arringa.
- Qualsiasi posto sia quello in cui uno vive, - spiega, - la cosa importante è averne il controllo, capito? Così ti eviti di venire abbordato da due troie come quelle, che poi perdono il controllo, e magari ti risparmi di finire picchiato ogni volta che cambia il vento. Io, comunque, sono Eko Fresh, ladro specializzato in furti e rivendita di automobili di lusso. – si presenta, porgendogli la mano. Bill la squadra con disinteresse ed inarca un sopracciglio, decidendo di non stringerla.
- Bill Kaulitz, puttana, specializzato in prenderlo su per il culo e staccarlo a morsi a quelli che glielo infilano a forza in gola. – procede sulla sua stessa falsariga, prendendolo in giro, - Ti basta, come curriculum?
Eko si mette a ridere, annuendo.
- Sono capacità sempre utili, specie in prigione. – dice con trasporto, come se per lui la faccenda fosse incredibilmente seria. – Comunque, Bushido ci ha spiegato che vuoi essere lasciato in pace. Se vuoi il mio parere, non sei capace di farti lasciare in pace, e neanche ti conviene, ma ehi, - scrolla le spalle un’altra volta, sollevando entrambe le braccia in un gesto di resa, - ognuno è padrone del proprio destino.
- Se il tuo capo del cazzo ti ha spiegato che non voglio balie intorno, perché ti sei messo in mezzo? – domanda Bill, aggrottando le sopracciglia, infastidito.
- Ah, ma quella è una questione completamente differente. – risponde Eko, scuotendo il capo, - Non l’ho fatto per te, l’ho fatto perché noi teniamo ordine nel braccio. Per “noi” intendo “il gruppo di Bushido”, e per “tenere ordine nel braccio” intendo… - ci riflette un paio di secondi, - be’, tenere ordine nel braccio. – conclude annuendo. – Se ti serve qualcosa, in ogni caso, io o uno dei miei compari possiamo darti una mano. C’è Baba Saad, - dice, indicando un tizio impegnato a confabulare di qualcosa con Bushido ad un tavolo, - che è il braccio destro di Bu.
- Bu? – domanda Bill, inarcando un sopracciglio e faticando a trattenere l’impulso di scoppiare a ridere, riuscendoci solo riportando a galla il ricordo di quanto gli avesse fatto male lo stomaco quando ci aveva provato poco prima.
- Sì, ma tu non chiamarlo mai così. – lo avverte Eko Fresh, - S’incazza anche con noi, quando lo facciamo, figurarsi cosa non farebbe con te. Poi, vediamo, ci sono Fler e il Chaku, Chakuza. – continua, indicando due tizi seduti accanto davanti alla tv, che ridono come deficienti per le battute di qualche stupido comico nel programma che sta andando in onda. – Fler fuori si occupava di corse clandestine e spaccio. Il Chaku invece era un individuo pericoloso. Ammazzava la gente, sai. Col cibo. Era uno chef.
- Non doveva essere granché bravo, allora. – ipotizza Bill, ed Eko scoppia a ridere.
- Ma no, - spiega, - era la sua copertura. Serviva i pasti, ed invece di condirli solo con le spezie, aggiungeva giusto quel tocco di cianuro. In modo da rendere la cena indimenticabile, capito come? – aggiunge ridacchiando, e facendogli l’occhiolino. Bill sbatte le ciglia un paio di volte, decisamente poco impressionato dalla battuta.
- E gli permettono di lavorare in cucina? – domanda.
- Ah! – esclama Eko, - Lo conosci, dunque.
- Portava il cibo in infermeria mentre ero ricoverato. – scrolla le spalle lui, - Cibo, e fastidiosi saluti da parte del vostro stupido capo.
Eko annuisce compunto, incrociando le braccia sul petto.
- Bushido ci tiene, alla buona educazione. – commenta, e Bill rotea gli occhi. – Comunque, questi che ti ho detto, be’, sono i buoni. – Bill lo guarda con inequivocabile ironia, ed Eko tossicchia, schiarendosi la voce, - Intendo, i meno cattivi dei cattivi. Se devi tenerti alla larga da qualcuno, quel qualcuno è Sido. – dice, indicando un tizio con gli occhiali e l’aria da nerd sfigato, seduto ad un tavolo con altre due persone. – Lui gestisce il traffico della droga e delle sigarette in tutta la prigione. Bushido glielo lascia fare, a patto che lui non crei problemi. Ma non è che Sido si diverta, a fare il sottoposto di Bushido, per cui bisogna sempre tenere gli occhi aperti.
- Ti ho già detto che a me di queste stronzate non frega un cazzo. – ribadisce Bill, tornando a raggomitolarsi su se stesso. Eko annuisce.
- Sì, ma io te lo dico perché è importante conoscere il luogo in cui si vive, se non lo si può comandare. Tieniti alla larga da Sido e da quei due lì, B-Tight e Tony D. Era gente che faceva roba sporchissima, fuori, e sarebbero perfettamente in grado di ricominciare a farla anche qua dentro, se si trovassero davanti all’occasione giusta.
- Va bene, d’accordo. – sospira Bill, guardando altrove, - L’hai finita la lezione? Mi sto annoiando.
Eko aggrotta le sopracciglia, offeso.
- Sai, - borbotta, alzandosi in piedi, - sei indisponente.
Si allontana senza una parola di più, e Bill sospira sollevato quando lo vede tornare a sedersi accanto a Bushido, al tavolino che divide con Saad. Dopodiché, cerca di spingersi in piedi facendo pressione sulle gambe, utilizzando tutta la poca forza che ancora gli resta, e si trascina in gabbia, lasciandosi ricadere sul letto come un peso morto.
Ripensa al primo giorno in cui s’è svegliato in quella cella e tutto ciò che voleva era uscirne il prima possibile. Ora, vorrebbe poterlo non dover fare mai più.

*

Jost firma documenti da quattro ore e non si sente più la mano.
I detenuti sono convinti che il suo ufficio sia una stanza dei bottoni dalla quale potrebbe far piovere oro, se solo lo volesse. La verità è che lui è solo un impiegato statale con una penna stilografica molto costosa. Dopo aver ascoltato i suoi collaboratori e aver preso decisioni per questioni di cui non ha esperienza di prima mano, il resto del suo tempo è diviso tra l'occuparsi delle cause legali che sono attualmente in corso per e contro il penitenziario – che sono un numero esageratamente alto – e cercare di seguire le direttive dei piani alti che sono spesso contraddittorie e seguono il soffio del vento.
Quando finalmente alza la testa dalla pila di fogli che non accenna ad esaurirsi, è solo perché hanno bussato alla porta. Una delle guardie lo avvisa che Ferchichi chiede un colloquio. Jost si appoggia allo schienale della poltrona in pelle e si massaggia gli occhi stanchi. “Fallo entrare,” dice, consapevole di aver appena permesso all'ennesimo problema di mettersi in fila insieme a tutti gli altri che deve ancora risolvere. Il tunisino non è mai latore di buone notizie.
“Che cosa vuoi?” Gli chiede, non appena quello mette piede in ufficio, trascinandosi svogliatamente fino alla solita zona di sicurezza a qualche metro dalla scrivania. La guardia di sicurezza si ritira ad un suo cenno.
“Ma come, David, non mi saluti nemmeno?” Ghigna lui, piegando la testa di lato e guardandolo con strafottenza.
“E' Jost per te, Ferchichi,” gli ricorda.
“Allora tu chiamami Bushido.”
Jost è direttore del penitenziario da più tempo di quanto sia effettivamente sano ed ha imparato che a volte con i detenuti è meglio trattare che non pretendere. Ma questa non è una di quelle volte. “C'è un motivo per cui ti trovi qui, Ferchichi o hai lasciato il tuo regno incustodito solo per venire fin qui a ricordarmi come ti chiami?”
“Il mio regno è ben sorvegliato, non si preoccupi,” Bushido sposta il peso da un piede all'altro e solleva le mani bloccate dalle manette per grattarsi il naso con l'indice. “Sono qui perché la sua bambolina non se la passa tanto bene.”
“La mia bambolina? …Intendi Kaulitz?””
Bushido mastica lo stecchino che tiene sempre incastrato tra i denti. “Sì, lui,” annuisce. “Non ce l'ha un altro posto dove metterlo? Se continua così, quello non supera la settimana.”
“Pensavo che il medico lo tenesse in infermeria.”
“C'è stato,” Bushido muove entrambe le mani a sinistra e poi le sposta di nuovo a destra. “Ma poi è tornato in prigione con tutti gli altri. Ed è qui che cominciano i casini.”
Jost sospira e si passa una mano sugli occhi; non che serva a qualcosa ma lo aiuta a tenersi occupato mentre Ferchichi gli racconta quello che già si era aspettato. “Che cos'è successo?”
“Niente, ancora,” dice lui. “Ma succederà e non sono sicuro che sarà un bel vedere. Quello non può andarsene in giro per i cazzi suoi senza che qualcuno gli metta gli occhi addosso, Jost. I guai se li tira addosso anche solo respirando. Senza contare che è una testa di cazzo, quindi non ha nemmeno abbastanza cervello per evitarli.”
“Se non mi sbaglio, tu e i tuoi dovevate tenerlo d'occhio.”
Bushido sposta lo stecchino da un lato all'altro della bocca. “Ci abbiamo provato, ma a quanto pare il ragazzino non gradisce la nostra protezione,” risponde, con un sospiro falsamente contrito. “E un paio delle sue guardie non ha familiarità con il concetto di etica professionale.”
Lo sguardo di Ferchichi è apertamente accusatorio, ma Jost preferisce soprassedere perché non ha né il tempo né la voglia di discutere al riguardo. Scuote il capo e si stringe nelle spalle. “Purtroppo non c'è molto che posso fare. Gli hanno dato dodici anni e deve passarli qui.”
“E' questa la nuova politica del penitenziario per diminuire il numero dei detenuti? Lasciarli al proprio destino sperando che crepino prima della fine della condanna?” Chiede Bushido, con noncuranza e come se, in effetti, la situazione dei suoi colleghi gli interessasse qualcosa.
Lui ha sempre accettato le cose per come stavano fin da quando è arrivato, salvo il fatto che ha preso il comando della situazione non appena ha messo piede nel braccio; per il resto, però, non si è mai mosso per migliorare le condizioni sue o degli altri detenuti, tutt’al più ha promesso di non farle peggiorare. E' per questo che Jost lo usa come mediatore: il suo attaccamento allo status quo è già più di quanto possa chiedere a qualunque altro detenuto.
“A te non è mai fregato niente di come vivete qua dentro.”
“Qua dentro,” annuisce Bushido, “inteso come la prigione in generale, ma non nella mia cella. Sono piuttosto interessato a che ne è di quei due metri di spazio in cui sono costretto a vivere.”
Jost sente l'emicrania partire dalla base del collo e risalirgli il cervello, pronta ad esplodere inesorabile in uno di quei mal di testa in grado di stenderlo su un divano per giorni. “Non ti seguo, Ferchichi,” geme, aprendo un cassetto laterale della scrivania e cercandovi dentro a casaccio, sicuro che ci sia una qualche pillola sparsa in grado di aiutarlo. “Cerca di farla breve. La vedi quella pila di fogli davanti a te? Aspetta ancora che ci lasci l'autografo.”
“Il ragazzino ha pensato bene di salvare il culo chiudendosi in cella,” spiega Bushido. “Non ne esce da giorni e io vorrei evitare che morisse di consunzione nel letto sotto al mio.”
“E che cosa vuoi che faccia? Non posso trascinarlo fuori di lì se non vuole.”
Bushido gli riserva uno dei suoi sorrisi storti. “Non avevo dubbi che l'avresti detto, David.”
“Jost.”
“Voglio il permesso di portare del cibo in cella,” spiega Bushido. “Per lui, s'intende.”
“Per lui, certo,” ripete Jost. La precisazione strappa un sorriso anche al suo mal di testa. “Sai perfettamente che non sono ammessi favoritismi.”
Bushido annuisce. “Conosco il regolamento,” annuisce. “Lo consideri una misura precauzionale. Se si sente male, sarà considerato un tentativo di suicidio. E lei sa meglio di me che è più facile gestire uno strappo alla regola che l'opinione pubblica.”
Jost lo sa molto bene. I cittadini desiderano sentirsi al sicuro, non vogliono i ladri, gli stupratori e gli assassini liberi per strada. Li vogliono dietro le sbarre e solo allora, quando non minacciano più i loro quartieri – quando in sostanza non sono più affare loro – sono subito disposti a dimostrare pietà e ad accusare la polizia carceraria di qualunque cosa accada. Se per qualche motivo un detenuto ne accoltella un altro oppure si appende per la gola, quelli non sono più il truffatore o l'assassino che fino al giorno prima dovevano essere mandati a morte. Sono vittime di un sistema carcerario violento e disumano. Ed ecco i picchetti, le petizioni, gli scioperi della fame di gente legata ai cancelli del penitenziario, gente che urla e strepita finché un politico non interviene per concedere la grazia prima delle prossime elezioni.
Jost è consapevole che le sue guardie non sono stinchi di santo, ma sa che fra le mura della prigione c'è sempre una forte tensione generata da un gran numero di uomini rinchiusi in un unico posto senza la possibilità di sfogarsi in alcun modo e con la sola compagnia di poliziotti che odiano per principio e di altri detenuti con i quali, quasi sicuramente, hanno qualche conto in sospeso. E' fisiologico che gli incidenti capitino e, per quanto lui cerchi di stare attento, è umano anche lui. Solo che, apparentemente, questa non è una giustificazione valida con cui rispondere ad un tentato suicidio, nel caso.
“Credi davvero che potrebbe aiutarlo?” Chiede Jost.
“Se è ancora vero che chi non mangia da giorni ha fame...”
Jost ha già preso un foglio bianco per scarabocchiarci velocemente sopra l'autorizzazione. “E va bene, facciamo questo esperimento,” gli dice, richiudendo la stilografica ma tenendosi il permesso che non rimane a Bushido, naturalmente, ma va ad infilarsi nella cartella di documenti che giornalmente lascia il suo ufficio per essere fotocopiata, inviata in triplice copia e poi archiviata dalla sua segretaria. “Torna pure con gli altri, avverto io le guardie.”
L'agente di custodia che ha accompagnato Bushido fino all'ufficio del direttore viene richiamato perché lo scorti di nuovo all'interno del penitenziario.
Bushido conosce ormai la strada a memoria, così avanza docilmente, un passo dopo l'altro, senza bisogno che la guardia alle sue spalle lo spintoni o gli dica di darsi una mossa. Non ci vede niente di ribelle nel piantarsi a gambe larghe in mezzo ad un corridoio come un mulo recalcitrante solo per dare a vedere che se ne frega degli ordini. Lui non ha bisogno di queste ridicole manifestazioni di testardaggine per farsi valere e lo ha insegnato anche ai suoi ragazzi, così che si distinguano fin da subito dalla feccia che segue Sido come le mosche la merda.
Quando arriva, la cella è silenziosa e il ragazzino è così raggomitolato in un angolo che alla prima occhiata nemmeno lo vede. Se ne sta seduto in terra, tra il cesso e il lavandino, le gambe strette al petto e lo sguardo fisso e un po' vacuo che gli ha visto addosso ogni giorno durante l'ultima settimana.
“Beh, se volevi disperarti e lasciarti morire, potevi anche farlo sul letto, sai?” Lo apostrofa, facendo un passo all'interno e lasciando che la guardia gli chiuda la porta alle spalle. Il ragazzino gli dedica appena un'occhiata ma non dice una parola mentre Bushido si volta e porge i polsi alla guardia attraverso le sbarre. “Ti spiace?” Chiede, con un sorriso sghembo. “I braccialetti cominciano a stringere.”
L'uomo sbuffa una mezza risata e lo libera dalle manette, poi si allontana facendo un cenno ad entrambi. “Fate i bravi, là dentro.”
“Hai sentito?” Bushido si rivolge di nuovo al ragazzino, ripiegando un po' le maniche della camicia. “Dovresti comportarti a modo e sederti come un essere umano.”
“Si può sapere tu che cosa cazzo vuoi?” Sbotta Bill.
Bushido non si scompone. “Fa piacere sapere che non ti è scomparsa la voce e che la usi sempre per dire cose tanto piacevoli,” lo prende in giro.
“Senti, non ho nessuna voglia di-”
“Sta' zitto, fammi il favore. Ti ho portato da mangiare,” dice Bushido, tirando fuori dalla tasca qualcosa avvolto in tovaglioli di carta e una di quelle bottigliette di plastica in cui viene distribuito il succo frutta. “Spero che tu non sia allergico alle fragole, perché questo era l'unico rimasto.”
Bushido appoggia il cibo sul letto di sotto e lo spinge verso il ragazzino, quindi si appoggia al tavolo che c'è nell'angolo della cella e resta in attesa. “Mangia,” ordina con un cenno del capo dopo che si è allontanato abbastanza da lasciar intendere che questo è il massimo dell'interazione che ha previsto con lui.
Bill rimane immobile per un lungo istante e poi allunga una mano a recuperare il fagotto. “Com'è che tu puoi portare cibo in camera?” Chiede sospettoso mentre svolge l'involucro di carta e ne estrae un panino rotondo e straripante di ripieno.
“Ho un permesso speciale” spiega Bushido. “Ma fossi in te non mi farei vedere.”
Lo stomaco di Bill fa le capriole di fronte a quel ben di Dio e, anche se vorrebbe continuare a fregarsene, il ruggito inarrestabile del proprio stomaco lo costringe a cedere. Il primo morso gli fa quasi salire le lacrime agli occhi, tanto che si ritrova a mugolare compiaciuto. “Questa non è come la merda che servono in sala mensa,” commenta. “Dove l'hai trovato?
Bushido sorride. “L'ho fatto fare a Chakuza appositamente per te.”
Bill allontana subito il panino dalla bocca e si chiede se è ancora in tempo per vomitare anche il morso che ha già mandato giù.
Bushido scoppia a ridere. “Tranquillo, è buono. Fidati,” gli dice. “L'ho fatto preparare a lui perché per poter avvelenare i cibi, prima doveva prepararli. Ed è un ottimo cuoco.”
Il ragazzino ci pensa su qualche istante e osserva il panino con la stessa diffidenza con la quale guarda Bushido. Quel tipo potrebbe volergli mettere le mani addosso un giorno o l'altro, ma di sicuro non ha alcun motivo per volerlo morto. E poi con tutti gli uomini che ha in giro per la prigione, perché prendersi la briga di portargli del cibo avvelenato in camera? Tanto valeva farlo ammazzare da qualcuno una delle tante volte che lo hanno pestato.
“Mangia, ti ho detto,” ripete Bushido, più severamente. “Il panino è a posto. Il direttore sa che ti ho portato del cibo, quindi se adesso cadi in terra morto stecchito, lui saprà che ti ho ammazzato io. Sei più tranquillo adesso? Forza.”
“Ora sì che mi sento più sollevato, sapendo che finirai in isolamento se crepo,” commenta ironico Bill, però tira un altro morso al panino. “Come fa uno come Chakuza ad avere il permesso di lavorare nelle cucine?”
“Infatti non ci lavora,” Bushido si stringe nelle spalle e, visto che Bill sta mangiando, può anche arrampicarsi sul suo letto e stendersi lì, con le braccia dietro la testa. “Porta solo i pasti in infermeria, ma se si vuole fare qualcosa, il modo lo si trova.”
Per qualche minuto sulla cella cade il silenzio, interrotto soltanto dal ruminare di Bill che si è evidentemente lasciato andare alla fame e sta divorando il cibo come non ne vedesse da giorni, cosa che in effetti non fa. Bushido attende pazientemente che il ragazzino abbia finito e, quando quello finalmente si alza in piedi, gli rivolge la parola senza nemmeno voltarsi a guardarlo. “Pensi di passare qui dentro tutti gli anni che ti hanno dato?”
“E anche se fosse?”
“Se così fosse ti direi che non mi pagano per portarti da mangiare,” risponde. “Tienilo a mente mentre cerchi di usare i tuoi super-poteri per campare dodici anni senza mettere in bocca neanche un pezzo di pane.”
Bill si stende sulla sua branda, il viso rivolto verso il muro di fronte a sé, reso più scuro dall'ombra del letto di sopra e solo allora, lontano dallo sguardo di Bushido, si permette di deglutire di preoccupazione. Non può passare tutto il suo tempo in quello schifo di cella ma, per come stanno le cose, non può nemmeno avventurarsi fuori. Bill non crede nel tempo che sistema le cose, soprattutto in galera, dove al massimo sono pronti a tirargliele di nuovo perché si sono scordati di averlo già fatto una volta.
“Ehi, ragazzino?” La voce di Bushido è calda e bassa, e sempre così impostata che Bill lo trova ridicolo. Ma chi si crede di essere questo marocchino impiantato in Germania? Che diavolo vuole da lui e dalla sua vita? Perché non lo lascia in pace un istante? E' per questo che non riesce a concentrarsi e a trovare una soluzione al suo attuale problema come fa di solito, perché quello lassù, abbarbicato sul suo stupido trono non sta mai zitto e pretende anche che lui gli risponda. “Cosa vuoi?”
“La mia offerta è sempre valida.”
“Fottiti,” Bill si raggomitola e diventa ancora più piccolo. “Ti ho già detto che non ne ho bisogno.”
“Il panino lo hai fatto fuori, però.” La voce di Bushido non cambia di tono. Resta pacata e venata da un leggero umorismo. “E un grazie sarebbe gradito, sai? Non è che se batti per strada devi essere maleducato.”
Bill sbuffa rumorosamente dalle narici. “Nessuno ti aveva chiesto niente.”
Non a parole, pensa Bushido. E' evidente che, da qui in avanti, se vuole evitare che la situazione degeneri, la volontà del ragazzino non va più presa in considerazione.

*

Proprio per questo motivo, la prima cosa che Bushido fa all’alba del terzo giorno di Bill Kaulitz nelle cucine, dopo averlo osservato finire in tre risse nel giro di quarantotto ore, e quasi violentato dietro le caldaie durante il suo turno di pulizie, è andare a fare una visitina al suo vecchio amico Jost.
Ci sono voluti tre giorni solo perché Bill si riprendesse abbastanza da decidere di potersi fare un giro fuori dalla propria cella. Ce ne sono voluti altri due di suggerimenti velati per convincerlo a mettersi a lavorare. Bushido non ha intenzione di sprecare tutta la fatica fatta solo perché questa prigione, come tutti i luoghi in cui le gabbie superano in numero le stanze, è abitata solo da animali.
Osservandolo sulla soglia della porta, accompagnato da un agente di custodia e con i polsi stretti nelle manette, Jost sospira. Bushido solleva una mano per salutarlo agitando le dita. L’altra segue la prima nel movimento, ma resta lì appesa alla propria manetta come un peso morto.
- Il mio non è un lavoro, - commenta, - è espiazione. Può andare, agente.
L’agente di custodia spinge poco delicatamente Bushido all’interno dell’ufficio e poi si allontana, chiudendosi la porta alle spalle.
- Buongiorno, David. – lo saluta Bushido, svaccandosi senza complimenti sulla poltroncina di fronte alla grande scrivania dietro la quale il direttore si nasconde.
David si pinza la radice del naso, inspirando ed espirando profondamente.
- Guarda, Ferchichi, usualmente sarei ben felice di rimproverarti, ricordarti che per te sono direttore o al massimo Jost e tutto il resto dei preliminari che ti piace tanto mettere in pratica quando devi parlare con me, - comincia, osservando un sorrisetto divertito farsi strada sulle labbra del detenuto, - ma sono giorni che non fai altro che entrare ed uscire dal mio ufficio, e sinceramente non ne posso più di vedere la tua brutta faccia giorno dopo giorno dopo giorno, perciò facciamola breve e tagliamo i convenevoli: cosa diavolo vuoi?
- Ci siamo alzati col piede sbagliato, stamattina, eh? – ride Bushido. David rotea gli occhi. Gli ha appena detto di voler tagliare i preliminari, ed ecco che lui insiste, come non l’avesse neanche sentito.
- Sempre, Ferchichi. Sempre, credimi. Ora, ti dispiacerebbe, per cortesia, vuotare il sacco e poi sparire dalla mia vista per sempre? – domanda con educazione, recuperando una pila di fogli da un cassetto e prendendo a fingere di leggerli con estremo disinteresse, giusto per darsi qualcosa da fare.
Bushido si prende il suo tempo, prima di rispondere. Non perché abbia bisogno di raccogliere i pensieri – Jost lo conosce abbastanza bene da sapere che Bushido non muove un passo per parlare con qualcuno se non sa già esattamente cosa deve dirgli e come deve farlo in modo da ottenere precisamente ciò che vuole – ma appositamente per snervarlo, sperando che infastidirlo in questo modo lo porti a concedergli una risposta veloce e affermativa, solo per toglierselo dai piedi quanto prima.
Inutile dire che sta funzionando.
- Dunque, a proposito del ragazzino che mi hai affibbiato… - comincia lentamente, e David rotea gli occhi, nauseato.
- Non ne posso più di sentirti parlare di quest’argomento. Non ne posso più di te in generale, ma di questa cosa in particolare, poi, non riesco più a tollerare nemmeno l’esistenza. Ora lo sposto in isolamento e tanti saluti. – minaccia in un ringhio impietoso, e Bushido, prevedibilmente, si mette a ridere.
- Mamma mia, David, dovresti prenderti un calmante. Una camomilla, almeno, se non vuoi ricorrere alla prescrizione del tuo psichiatra. – suggerisce con tono falsamente preoccupato. David deve dar fondo a tutto il proprio autocontrollo per impedirsi di afferrare il pesante fermacarte a forma di zampa di leone che ingombra una buona percentuale della sua lussuosa scrivania in legno massello e tirarglielo dritto sulla fronte, proprio in mezzo agli occhi. Sarebbe soddisfacente – oh, Dio, sarebbe così soddisfacente – ma con la fortuna sfacciata che ha Bushido riuscirebbe sicuramente a sopravvivere; lui, invece, finirebbe arrestato e incriminato per tentato omicidio, e probabilmente sarebbe recluso proprio nella stessa prigione che fino ad ora, con alterni risultati, ha diretto. Questo sarebbe di sicuro meno soddisfacente, perciò David pone un freno alla propria furia, e si limita ad inspirare ed espirare rumorosamente dal naso, provando a recuperare la calma.
- Non ho bisogno di nessuna prescrizione, Ferchichi. – ribatte, sospirando con rassegnazione. – Coraggio, sputa il rospo. Cos’è che vuoi ora? Il permesso di portarlo a pisciare e reggergli l’uccello mentre lo fa? Puoi. Contento? Ora vai.
Bushido rimane in silenzio per un paio di secondi, il sorriso abbandona velocemente le sue labbra e le sue sopracciglia si aggrottano visibilmente. David si permette un sorriso di trionfo.
- Sei il peggior direttore di prigione esistente sulla faccia della terra. – commenta.
- Oh, e il tuo parere mi interessa così tanto che penso che stanotte non dormirò. – ribatte David, con un altro mezzo sorriso. – Seriamente, Ferchichi. Sputa il rospo. Non ho tempo da perdere. Specialmente con te.
- D’accordo, d’accordo. – sospira lui, mettendosi seduto in maniera vagamente più composta, come a dargli un segnale tangibile delle proprie buone intenzioni a passare ad argomenti più seri. – Allora, lo voglio fuori dalla cucina.
David aggrotta le sopracciglia, accomodandosi meglio contro lo schienale della propria enorme poltrona girevole in vera pelle.
- Come, prego? – domanda incerto. Bushido non si scompone.
- Lo voglio fuori dalla cucina. – ribadisce, - Pensavo che sarebbe stato più semplice tenerlo sotto controllo lì, ma la verità è che non fa che creare problemi. O sono i problemi che continuano a trovarlo, questo non mi è ancora del tutto chiaro. In ogni caso, - scrolla le spalle, e le manette producono un suono tintinnante particolarmente fastidioso, in risposta al suo movimento, - non posso più tenerlo lì. Non solo non riesco a farlo stare tranquillo, ma finisce per rallentare il lavoro a tutti. I miei ragazzi si lamentano e una ciurma scontenta è una ciurma potenzialmente pronta all’ammutinamento. Lo sposti da qualche altra parte.
- Scusami mentre trattengo a stento le risate sulla metafora piratesca. – sbotta David, inarcando un sopracciglio, - E scusa anche mentre cerco di non soffocarmi d’ilarità mentre realizzo che tu supponi di poter venire qui in quest’ufficio a fare il bello e il cattivo tempo senza che io ti rida in faccia e ti mostri la via più breve per toglierti dalle palle presentando il tuo triste fondoschiena alla punta dei miei stivali da milleduecento dollari.
Bushido inarca le sopracciglia così tanto che sulla sua fronte si formano rughe ondulate e profondissime.
- Questa è la cosa più gay che io abbia mai sentito dire in assoluto in tutta la mia vita, non scherzo. – lo avvisa. Ancora una volta, David deve trattenersi dal reagire in maniera sconsideratamente ed inappropriatamente violenta. Questa conversazione lo sta portando sull’orlo di una crisi di nervi.
- Va bene, Ferchichi, basta così. – sospira, massaggiandosi stancamente le tempie, - Sono stufo. Non ne posso più. Dove vorresti che lo spostassi?
Bushido scrolla le spalle, come non ci avesse ancora pensato. David lo odia. Questi giochini lo irritano. Entrambi sanno perfettamente che Bushido ha già pianificato quella conversazione nei minimi dettagli, ed entrambi sanno anche che tutti i tentativi di David di accorciarla e modificarne il corso sono stati vani. Perché, quindi, continuare a trascinarla inutilmente per chissà quanti altri minuti?
- Magari in biblioteca. – si degna finalmente di rispondere, - È un posto tranquillo, ci sono solo due ingressi e non dovrebbe fare altro che stare seduto al computer a registrare i libri presi in prestito. Inoltre, lì i miei ragazzi potrebbero tenerlo d’occhio meglio e più discretamente, così anche lui non se ne accorgerebbe e la smetterebbe di rompere le palle e piantare casini apposta per dispetto nei miei confronti. – sorride, accavallando le gambe. – Mi sembra la soluzione migliore per tutti.
David lo fissa con malcelata rabbia per un paio di secondi, chiedendosi se quest’uomo sappia di fronte a chi si trova. Se ne abbia un minimo di consapevolezza, almeno.
- Lo sai perché ti ho affidato questo ragazzino, Ferchichi? – domanda, e quello fa una smorfia.
- Me lo chiedo continuamente. – risponde.
- Me lo sono chiesto anch’io. – annuisce David, - E la verità è che fino a questo momento non ne avevo un’idea precisa. Ma adesso sì.
L’espressione di Bushido cambia. Si fa più seria, perfino preoccupata, mentre sulle labbra di David si disegna un sorrisetto divertito.
- Sarebbe?
- Non me ne frega niente, di quel ragazzino. – spiega David, - O meglio, non più di quanto non mi freghi di un qualsiasi altro detenuto. Quindi, in realtà, molto poco. Ma sai quanti omicidi e suicidi ci sono stati fra i nuovi arrivati nel corso dell’ultimo anno? È meglio che non ti dica il numero preciso, perché sono di quelle stime che farebbero rizzare i capelli sulla testa anche a uno stronzo come te. Posso però dirti che in percentuale stiamo parlando di più della metà dei nuovi detenuti, la maggior parte dei quali ragazzi molto giovani, che in teoria uscendo di qui in una decina d’anni o meno avrebbero potuto rifarsi una vita. – David si prende qualche secondo per tenere Bushido sulle spine, osservando i suoi occhi farsi più scuri, perfino preoccupati. – La verità è che te l’ho affidato perché è un caso perso, Ferchichi. Perché se il ragazzino crepa, in qualsiasi modo, io avrò la scusa perfetta per tenerti ingabbiato qui dentro fino a che non avrai scontato la tua pena integralmente. Perché davvero, se c’è qualcuno in questa prigione che non merita di rivedere la luce del sole il più a lungo possibile, questo sei tu. E sai perché, Ferchichi?
- Perché lei è uno stronzo e mi odia, direttore? – risponde immediatamente Bushido, gelido, tornando ad una forma di cortesia che con lui non ha mai usato e che, per la prima volta, stabilisce fra loro una distanza, sintomo evidente del fatto che lui non ha più alcuna voglia di scherzare.
- No. – ridacchia David, stendendosi comodamente contro lo schienale della poltrona e intrecciando le mani in grembo, - Perché la prigione non ti ha insegnato niente, Ferchichi. Sei sempre la stessa feccia che eri quando sei entrato qui dentro, e non hai alcun diritto di uscire. Non sei stato rieducato. – il suo ghigno si allarga, - Ecco perché ti ho affidato il ragazzino. Perché tu fallirai, e io potrò tenerti qui dentro. Non perché ti odio, ma perché è quello che meriti.
Bushido scatta in piedi, osservandolo dall’alto con rabbia evidente. Le sue mani tremano.
- È tutto? – domanda. David si concede un altro sorriso soddisfatto.
- Il permesso per il trasferimento del detenuto Bill Kaulitz in biblioteca è accordato. – conclude, - È tutto, sì.

*

All’alba del terzo giorno di biblioteca, Bill si è già annoiato così tanto da ripensare alle botte e ai tentativi di stupro con nostalgia. Almeno, allora succedeva qualcosa. Invece, adesso ogni ora è una tortura, i minuti non passano mai, le giornate sono infinite. Se pensa che gli toccano dodici anni di questa merda, gli viene da vomitare. Saranno dodici e sembreranno ventiquattro, visto che, palesemente, il tempo in quella stanza silenziosa scorre due volte più lentamente di quanto non faccia in tutto il resto della prigione e del mondo.
Il primo giorno è stato perfino piacevole. Un agente di custodia l’ha scortato alla biblioteca, gli ha mostrato la postazione e gli ha gettato fra le mani un breve opuscolo che gli spiegava in sintesi ciò che doveva fare e il funzionamento di base del programma col quale avrebbe dovuto registrare i prestiti e le restituzioni.
La biblioteca non è molto frequentata, la maggior parte dei detenuti preferisce fare altro rispetto a leggere, evidentemente, e Bill non può certo biasimare nessuno, per questo – non si avvicinerebbe a un libro neanche se stesse morendo di noia e non ci fossero altri passatempi possibili nel raggio di chilometri – e per questo motivo fin dall’inizio non è che il suo lavoro sia stato granché faticoso. Ogni paio d’ore, al massimo, un detenuto che magari era rimasto lì a leggere per eternità, si avvicinava alla sua scrivania e gli sventolava il libro davanti, e Bill non doveva fare altro che inserire nel programma il codice del libro e il numero di riconoscimento del detenuto, e il suo lavoro era finito. È stato piacevole perché le sue ossa avevano ancora bisogno di riprendersi da una recente scarica di legnate, e poter stare sostanzialmente seduto a rigirarsi i pollici per una mattinata intera era stato riposante, perfino soddisfacente, allo stesso modo in cui era soddisfacente ritornare da scuola il venerdì pomeriggio e gettarsi a pancia in su sul proprio letto a fissare il soffitto per ore, come faceva spesso a quattordici anni.
Anche il secondo giorno è passato senza particolari traumi. L’unica cosa un po’ strana che è successa è stata quando, ad un certo punto del pomeriggio, dopo aver sghignazzato seduti ad un tavolo senza mai avere aperto un libro da quando erano entrati in biblioteca, tre detenuti gli hanno chiesto di trovare per loro un volume che non riuscivano ad individuare. Bill si è fatto dare il titolo ed ha scoperto che il libro si trovava in uno scaffale parecchio in alto. L’ha indicato ai detenuti sghignazzanti, chiedendosi cosa diavolo avessero da ridere e stabilendo in ultimo che non gli interessava minimamente, e poi ha detto loro di usare pure la scala per recuperarlo. A quel punto, uno di loro gli ha risposto che i detenuti comuni non hanno il permesso di utilizzare la scala per prendere i libri. È uno specifico compito del detenuto al quale è stata affidata la gestione della biblioteca, ha detto.
Bill li ha guardati tutti e tre aggrottando le sopracciglia.
- Ma che stronzata è? – ha chiesto. I detenuti hanno scrollato le spalle, e lui si è detto che, in fondo, si trattava di una regola abbastanza idiota da poter essere perfino vera, e sospirando pesantemente ha recuperato la scala da sé, spostandola in corrispondenza dello scaffale giusto per poi arrampicarsi verso l’alto, un piolo dopo l’altro, sentendo tutte le ossa scricchiolare sinistramente ad ogni passo.
È stato allora che i tre detenuti hanno ripreso a sghignazzare. E prima ancora che Bill potesse darsi del cretino e saltare giù dalla scala, quelli l’hanno afferrata per i due lati e hanno cominciato a scuoterla violentemente a destra e a sinistra.
Bill ha lanciato un gridolino terrorizzato, aggrappandosi all’ultimo piolo in alto e stringendolo forte fra le braccia nel tentativo di ancorarsi a sufficienza per non cadere rovinosamente per terra, mentre il suo corpo ondeggiava senza posa seguendo il movimento della scala, e quegli stronzi continuavano a ridere, senza fermarsi un secondo, e poi all’improvviso è finito tutto, senza che lui capisse come né perché. Un attimo prima il mondo oscillava pericolosamente da un lato all’altro, e l’attimo dopo invece era fermo.
- Che cazzo…? – ha sillabato, ancora terrorizzato, voltandosi a guardare i tre detenuti ed osservandoli arretrare un passo dopo l’altro mentre cercava di recuperare l’equilibrio sulla scala.
- S-Scusa… - ha detto uno dei tre, afferrando gli altri due per le maniche delle rispettive magliette per trascinarli indietro più in fretta, - Non volevamo…
- Non volevate cosa?! – ha strillato a quel punto lui, sconvolto, voltandosi per scendere dalla scala in due grandi passi, - Ma sparite, coglioni! Sparite!
I tre non se lo sono fatto ripetere due volte, e quello, bene o male, è stato l’unico episodio emozionante della giornata. Bill si è naturalmente ritrovato a chiedersi cosa sia stato a metterli in fuga in quel modo, perché – e di questo è abbastanza sicuro – di certo non è stato il suo stupido culo ondeggiante per aria in completa balia del loro ridicolo bullismo da adolescenti mai cresciuti. E d’altronde gli è capitato anche di chiedersi cosa ci facessero Chakuza e Baba Saad in un angolo della biblioteca, apparentemente intenti a rigirarsi i pollici, e da quanto tempo fossero lì in osservazione, visto che lui, prima di quel momento, non li aveva notati affatto.
Ma è stato solo un pensiero di fugace curiosità, ed è passato subito. Questo perché sostanzialmente non gli importa un accidenti di quello che succede in questa dannata prigione. Attorno a lui o a causa sua o per qualunque altra ragione. È tutto così incredibilmente stupido che lui semplicemente rifiuta di averci qualcosa a che fare.
Adesso, però, la domanda torna a farsi insistentemente avanti nel momento in cui, dopo una giornata intera a rigirarsi i pollici, accade qualcosa di perfino più strano. I due detenuti che l’hanno abbordato in mensa ormai quasi due settimane fa, e che poi l’hanno ridotto uno straccio quando lui si è rifiutato di scoparseli, entrano in biblioteca una decina di minuti prima dell’orario in cui usualmente l’agente di custodia passa a prenderlo e chiude la porta a chiave per la notte, prima di ricondurlo alla propria cella.
L‘ultimo ad entrare, il più grosso, si chiude la porta alle spalle. A parte loro due e Bill, la biblioteca è completamente vuota, e nell’accorgersene lui immediatamente aggrotta le sopracciglia, alzandosi in piedi ed affrontandoli a muso duro.
- Non è aria. – dice il più scontrosamente possibile. I due si lanciano un’occhiata divertita, e poi quello più basso si avvicina di un altro passo, mentre il suo compare afferra una sedia e la incastra fra il pavimento e la maniglia della porta, per bloccarla.
- Indovina a chi non frega un accidente di che aria tira? – dice il tipo più basso, ormai così vicino che Bill può percepire distintamente il puzzo nauseante del suo sudore. – Adesso fai il bravo e tirati giù i pantaloni, culetto d’oro. Mostraci per cosa pagavano i tuoi clienti quando stavi fuori. – conclude, avvicinandosi ancora, le mani protese verso di lui.
Bill scatta indietro, soffiando come un gatto.
- Non vi avvicinate. – ringhia. La maniglia della porta si muove, ma naturalmente chiunque si trovi al di là non riesce ad aprirla, - La guardia sarà qui a minuti.
- No, credo di no. – ridacchia il suo compare, il quale, Bill scopre quando si avvicina a propria volta, puzza anche più di lui, - Indovina chi ha messo da parte qualche risparmio per chiedere all’agente un gentile favore…?
Bill digrigna i denti, nauseato.
- Cos’è, un quiz a premi? – commenta, sbirciando la porta e notando che la maniglia continua a muoversi. Se la guardia è stata pagata, allora chi è che sta cercando di aprirla? Forse, se riesce ad essere abbastanza veloce da aggirare questi due stronzi e lanciarsi sulla sedia per toglierla di mezzo… prova a calcolare le proprie possibilità, ma scopre ben presto di aver fatto la scelta sbagliata. I due gli sono addosso molto prima che lui riesca a concludere i propri calcoli, e nel momento in cui sente le loro luride mani addosso Bill non può far altro che urlare.
La maniglia smette di girare convulsamente, e a Bill salta il cuore in gola. Magari un detenuto stava provando ad entrare ma, quando ha sentito il suo urlo, ha saggiamente deciso di evitare di farsi coinvolgere in qualche rissa o qualcosa di peggio. È stato stupido, è stato stupido a non scappare immediatamente quando questi due stronzi si sono intrufolati in biblioteca, è stato uno stupido a perdere tutto quel tempo invece di lanciarsi sulla sedia appena pensata la mossa, è stato stupido a urlare perché forse, se fosse rimasto in silenzio, chiunque stesse cercando di aprire la porta avrebbe continuato a provarci finché non ci fosse riuscito, e tutto quello che gli succederà da questo momento in poi è solo colpa sua e della sua stupidità. In qualche modo, lo merita perfino. Il suo corpo, intento a dibattersi fra le mani dei due detenuti, non la pensa allo stesso modo, ma è così.
In ogni caso, non importa: passano al massimo dieci secondi, e poi la porta viene letteralmente scardinata, e un uomo alto e pallido coi capelli cortissimi e gli occhi di un azzurro incredibilmente intenso fa irruzione all’interno della biblioteca, interrompendo i due detenuti nel momento in cui il più basso infilava una mano giù per i pantaloni di Bill mentre il più grosso lo teneva fermo.
- Oh. – dice il tipo, che Bill riconosce come quello che Eko Fresh gli ha indicato come Fler giorni prima, - Allora ho fatto bene a insistere. Mi serve un libro. È una faccenda di una certa importanza. – spiega, e proseguendo nel proprio discorso guarda più i due detenuti che Bill. – Il mio capo non sarà contento, se non torno con buone notizie. – conclude.
I due detenuti lo mollano con una serie di ringhi frustrati, e Bill deve aggrapparsi ad uno dei tavoli da lettura per non cadere per terra.
- Ho già spento il terminale. – balbetta, indicando il computer che giace immobile e silenzioso sulla scrivania, - Non posso registrare altri prestiti se non lo riavvio, e non c’è tempo. La guardia dovrebbe… - balbetta. Fler fa un gesto vago con la mano.
- Non verrà nessuna guardia a prenderti oggi. – borbotta, - Il libro non era urgente, comunque. Sta’ attento, quando torni al braccio. – conclude, voltandogli le spalle e attraversando la porta, o meglio, il passaggio al posto del quale prima c’era una porta che giace adesso per terra, quasi spaccata in due, con una crepa visibilissima che la taglia in due parti quasi uguali da sopra a sotto, e lasciandolo lì senza una parola di più.

*

Bill odia le cucine e la sala mensa.
Odia dover fare la fila con in mano il vassoio e doversi guardare alle spalle perché c'è sempre qualcuno che allunga le mani. Odia dover aprire bocca per chiedere quello che gli va o non gli va di mangiare. Odia dover fare il percorso a ritroso verso uno dei tavoli vuoti che sono sempre in fondo e rischiare che qualcuno gli faccia lo sgambetto o si avvicini con una scusa qualsiasi per sputargli nella minestra.
E' già successo, quando non lo hanno proprio sbattuto contro un muro e palpato fino all'arrivo sempre tardivo e rilassato delle guardie di sicurezza, naturalmente.
Preferiva quando poteva mangiare in cella, ma Jost si è degnato a venire di persona ad avvisarlo che il suo permesso speciale era stato revocato non appena è stato in grado di restare in piedi per più di dieci minuti senza stampelle. Grazie Jost, sempre il solito stronzo. E' qua da nemmeno un mese e ha già capito che la prigione è piena di teste di cazzo, gli altri detenuti sono degli animali ma tra guardie e direttore non è che la gente libera sia tanto meglio.
Si siede nell'angolo più lontano della sala, vicino al palco che per chissà quale cazzo di ragione è stato costruito proprio qui. Bushido gli ha detto che una volta ci facevano gli spettacoli, quelli di beneficenza, organizzati da qualche attore impegnato nel sociale ansioso di aiutare la comunità, ma poi c'è stata una rissa e Jost non ne ha più voluto sapere. Com'è nella sua politica, tutto quello che non può controllare viene eliminato. Pare che questo braccio non veda visite coniugali da due anni e mezzo, per dire, una roba che ha fatto impazzire un sacco di gente. E poi quello si stupisce che i suoi detenuti cerchino di infilarlo nel primo culo che vedono.
Bill infila la forchetta in quello che dovrebbe essere purè ma è solo un intruglio giallognolo della consistenza del cemento. Gli viene da vomitare solamente all'idea di mangiarlo, ma ha già sperimentato più volte che, nonostante stia praticamente seduto tutto il giorno, non sopravvive alla giornata se non mangia a sufficienza. Sarà che sta sempre teso come una corda di violino e così consuma più calorie di quando era fuori e passava il tempo scopando.
A furia di fare passi falsi e di rischiare la vita o lo stupro ad ogni sospiro, Bill ha imparato anche un'altra cosa, ossia a prendere coscienza della situazione che versa in ogni luogo in cui mette piede prima di decidere se è il caso di rimanervi. In realtà questo è un insegnamento che Bushido gli ha ficcato a forza nel cervello, ripetendolo fino alla nausea ogni volta che ha parlato nelle ultime settimane. Bill ha sempre finto di fregarsene, ma non può negare che fra le mille stronzate che quell'uomo si fa uscire di bocca ogni giorno credendo di avere una qualche importanza per lui, questa è una delle più sensate.
Al momento in sala ci sono tre guardie. Dovrebbero essere quattro, tanto per cominciare, e le uniche tre presenti non sono granché attente; questo potrebbe voler dire guai, se qualcuno ha qualcosa in mente, ma potrebbe anche voler dire che quelli non hanno voglia di lavorare.
Gli uomini di Sido siedono tutti insieme da una parte, ma ce ne sono alcuni sparsi per la stanza, come per non lasciare certe zone sotto il controllo totale degli uomini di Bushido. D'altronde anche quelli fanno la stessa cosa. Bill può più o meno inquadrare questa stanza come fosse il tabellone del Risiko con il quale lui e suo fratello passavano interi pomeriggi prima che la sua famiglia cadesse a pezzi.
A lui questo schieramento da battaglia sembra una gran cazzata, non capisce per quale motivo questa gente senta il bisogno di farsi la guerra. Per ottenere che cosa? Sempre in gabbia si dorme, alla fine.
Ha ingurgitato controvoglia primo e secondo e sta per attaccare una pallida imitazione di torta alla ricotta, quando l'ombra tozza di uno dei bestioni di Sido si allunga sul suo vassoio.
“Ehi, fiorellino,” grugnisce, per poi ridere divertito del modo esilarante con cui ha rotto il ghiaccio mentre si sedeva sul tavolo.
Bill cerca di ignorarlo, anche se come tattica non si è rivelata poi così utile in passato. Quando questi scimmioni ritardati non si sentono abbastanza considerati – il che significa, se non vedono che ti pieghi autonomamente a novanta per compiacerli – reagiscono in malo modo. “Che fai, fiorellino?” Dice di nuovo, invadendo il suo spazio e condividendo con lui l'alito pestilenziale. “Non mi guardi nemmeno? Sei timido?”
Bill sospira infastidito, la testa bassa e lo sguardo fisso sulla sua forchetta. Si sposta qualche posto più avanti con tutto il vassoio sperando che il tipo abbia altro di meglio da fare, ma ovviamente non è così. Anzi, quello lo segue sempre più divertito, scoppiando in una risata roca e catarrosa quando Bill raggiunge la fine del tavolo, dove si accorge che è seduto un altro degli uomini di Sido, pronto a ghignare sdentato nella sua direzione. “Vai da qualche parte, culetto d'oro? Non ti piace la compagnia?”
Bill sospira di nuovo, d'altronde era strano che nessuno lo avesse ancora importunato; è lì seduto da più di venti minuti. A pensarci bene non gli capita di essere inchiodato al muro da giorni e perfino nelle docce, alle quali deve avvicinarsi con estrema attenzione, nessuno si è più avvicinato.
“Senti bene, principessa,” sputa fuori il primo dei due uomini quando finalmente si accorge che non ha nessuna intenzione di rispondergli, “finora mi pare di essere stato gentile, ma la mia pazienza ha un limite.”
“Non ti conviene farlo incazzare, sai bellezza?” Gli fa eco quell'altro. “Potrebbe non essere piacevole.”
Bill fa in tempo ad alzare la testa per dirgli che in nessun modo uno dei due potrà mai essere piacevole visto il tanfo di morto che esalano, che Eko si siede di fronte a lui, mangiando placidamente un biscotto a piccoli morsi, proprio come il criceto a cui assomiglia.
“Sai, ragazzino, ci ho messo una vita a trovarti,” esordisce come se quei due non fossero nemmeno lì. “Sei sempre in un posto diverso. Non è che ho tempo che mi avanza per giocare a nascondino, sai?”
“Eko...?”
“Sì, sono io. Vedo che fai progressi.” Lui continua a smangiucchiare il suo biscotto e sputa le gocce di cioccolato in un angolo del vassoio per poi guardarle con malcelato disgusto. “Ti piace la cioccolata? Io odio la cioccolata. E' perché una volta, da piccolo, sono stato morso.”
I due uomini di Sido scendono immediatamente dal tavolo e ringhiano tra i denti qualcosa che Bill fatica a capire, ma è chiaro che non è stata la sola – e per altro modesta – presenza di Eko a farli desistere, ma quello che Eko in sé, con le sue quattro ossa scombinate, rappresenta.
Eko gli lancia un'occhiata apparentemente disinteressata, ma segue i due con la coda dell'occhio finché non sono spariti, andandosi a rintanare in mezzo ai loro comparsi.
“Non mi piace nemmeno l'uva passa,” continua allora Eko, come Bill si fosse dimostrato interessato in qualche modo all'argomento. “Come sapore non è neanche male, è solo che è facile scambiarla per cioccolata. Tu sei lì che mangi il tuo bel biscotto e lei se ne sta lì, tonda e scura, proprio come fa la cioccolata. E io non li sopporto quelli che si travestono e fanno finta di essere qualcun altro.”
Bill lancia un'occhiata intorno a sé: Chakuza, Fler e Saad fingono tutti di fare altro mentre lo tengono sotto controllo da punti diversi della stanza. Bushido naturalmente non c'è, ma Bill sa perfettamente che nessuno dei suoi uomini si muove senza che lui lo sappia.
Scatta in piedi e si dirige a passo spedito verso le celle. La guardia all'entrata non si spreca nemmeno a guardarlo abbastanza a lungo da capire di chi si tratti.
Eko non lo segue, chiede soltanto con estremo e calcolato ritardo: “Quello lo mangi?” Indicando la torta di ricotta, prima di appropriarsene.
Bill entra in cella come una furia, dando uno spintone a Bushido che se ne sta di fronte al lavandino, intento a lavarsi la faccia.
“Esattamente, quale parte di non mi serve il tuo aiuto non hai capito?” Sbraita, mentre Bushido fa un passo indietro senza scomporsi e recupera il proprio asciugamano.
Finisce anche di asciugarsi e rimettersi la maglietta prima di dedicargli il minimo sindacale della sua attenzione mentre ispeziona con cura il proprio riflesso. “Sentiamo, di quale assurda fantasia stai blaterando questa volta?”
“Prima quell'armadio a due ante che fa irruzione nella biblioteca spaccando in due la porta, poi il nano pelato in lavanderia e oggi quello schizzato, Eko, che mi si piazza davanti in mensa a parlarmi di quanto odia la cioccolata. Seriamente, sei tu che ti circondi di casi umani e malati mentali per sentirti normale o sono loro che vedono in te qualcosa di familiare e ti si avvicinano?”
Bushido si volta a guardarlo con estrema lentezza e quando i suoi occhi si fissano in quelli di Bill sono infastiditi. “Ekram non è affatto un malato mentale,” commenta con calma “e sta con me perché è un tipo a posto, ma sono certo che sia io che lui sopravvivremo anche se la pensi diversamente. Il tuo giudizio, d'altra parte, non ci tocca minimamente. C'è altro? Dovrei andare.”
Bill fa una smorfia oltraggiata. “Hai sentito quello che ti ho detto o sei anche sordo oltre che stronzo?”
Bushido, che lo ha appena superato per raggiungere l'entrata della cella, si ferma e inspira contando ben oltre il dieci per mantenere la calma. “Dovresti essere riconoscente,” gli fa notare. “Se puoi ancora camminare sulle tue gambe, non è certo per merito tuo.”
“Riconoscente? Non posso andare nemmeno al cesso senza che uno dei tuoi mi segua!”
“E' per la tua sicurezza,” ripete Bushido, la voce tesa dal nervosismo e dalla voglia, ormai fuori controllo, di prendere quel ragazzino insopportabile e scuoterlo finché non gli ha mescolato tutte quante le ossa.
“Nessuno ti ha mai chiesto di proteggermi!”
Bushido è un tipo paziente. Non è mai stato una di quelle teste calde che scattano alla prima offesa. E' uno che se l'è anche presa per niente, questo è vero, ma quando lo fai incazzare, prima di frantumarti la faccia ci pensa due volte perché così gli vengono in mente il doppio dei modi per farti fuori.
Questo ragazzino, però, petulante, lagnosa, potenzialmente pericolosa spina che Jost ha fatto in modo di ficcargli ben a fondo nel fianco, ha già sfidato la sua pazienza più di certi omicidi eseguiti per farlo uscire di testa. Per questo finisce per girarsi ed attaccarlo al muro. “Sentimi bene, ragazzino,” gli sputa addosso, premendogli forte la mano contro la giugulare perché, per una volta, cazzo, stia zitto. “Senza me che ti paro il culo, tu qua dentro non campi una settimana, il che per me non sarebbe un problema in generale, perché a me di te non me ne frega un cazzo. Il fatto è che io sto per uscire con la condizionale, ma Jost ti ha affidato a me. Il che significa che se tu muori, se ti violentano, se ti feriscono, qualunque cosa ti succeda mentre sei sotto la mia protezione, io mi fotto la condizionale.”
Bushido preme la mano contro il suo collo ancora una volta e poi allenta la presa, senza però lasciarlo andare. Il ragazzino boccheggia e tossisce, stringendogli forte le dita intorno al polso per cercare di sostenersi e non pendere floscio come uno straccio. “Quindi, come vedi,” continua Bushido, continuando a parlargli a due centimetri dalla faccia, “non è per te e per il tuo bel faccino che i miei uomini ti stanno addosso tutto il giorno. Il tuo culo è il mio foglio di via e non ho nessuna intenzione di perderlo solo perché tu credi di potertela cavare da solo. Sto proteggendo i miei interessi.”
Bushido resta a guardarlo in cagnesco ancora per qualche secondo, poi con un gesto stizzito lo lascia andare e Bill cade come un sacco vuoto a terra, tossendo forte e massaggiandosi il collo che è chiazzato di rosso là dove le dita di Bushido lo hanno stretto.
“A me non frega niente dei tuoi interessi,” dice roco, non appena ha recuperato fiato sufficiente per replicare. Bushido non si capacita di come questo ragazzino possa ancora aver voglia di fare lo stronzo quando palesemente ha appena rischiato di essere strangolato. E' controproducente perfino per lui, non ha nessun istinto di sopravvivenza e se lui – che deve tenerlo in vita per forza – ha già di nuovo voglia di ammazzarlo, quante probabilità ci sono che superi anche solo i primi sei mesi di permanenza?
“Fai un favore a te stesso e chiudi quella fogna,” replica.
“No,” Bill si rialza a fatica, aggrappandosi al muro e lo guarda furioso. “No, perché non sono io quello che ha bisogno di te. Io, in questa fogna, devo passarci sicuramente dodici anni. Ma tu? Tu hai bisogno che io faccia il bravo per uscire in anticipo. Non è così?”
Bushido si irrigidisce. I tratti del suo viso si fanno ancora più severi e tesi. Per un attimo lo guarda con tanto di quell'odio che se solo si lasciasse libero di seguire l'istinto probabilmente lo ammazzerebbe davvero. “Te lo dico per l'ultima volta, ragazzino. Chiudi quella cazzo di bocca, non hai la minima idea di quello che stai dicendo.”
In tutta risposta, Bill ride. E' un suono debole e ancora provato ma gli dà abbastanza forza da mettersi di nuovo dritto e guardarlo negli occhi. “Tu non puoi governarmi,” gli dice sprezzante. “Se io decidessi di dare il culo a tutta la fottuta prigione, se volessi sfondarmi di droga e scatenare risse per il solo gusto di vedere se sopravvivo, tu non potresti impedirmelo. Tu non potresti fare proprio un bel niente.”
Bushido ringhia e si fa avanti con tanta violenza da sbatterlo di nuovo contro il muro. Gli si preme addosso con tutto il corpo, sbuffandogli sul viso fiato caldo che sa di dentifricio e tabacco. “Col cazzo, ragazzino!” Sibila fra i denti. “Posso fermare chiunque cerchi di scoparti. Posso impedire alla gente di venderti la roba e posso terrorizzare a morte chiunque anche solo pensi di sollevare un dito su di te.” Mano a mano che elenca, riacquista la calma e la sua voce si fa più stabile e severa. “Tu qua dentro non vai nemmeno a pisciare se io decido che non puoi farlo. Io ho il controllo sulla tua vita, accettalo.”
Lo lascia andare con la certezza che Bill non replicherà.
Infatti, una volta libero, si limita a lanciargli un'occhiata infuocata, sbuffando inviperito, prima di sbattere violentemente le mani contro le sbarre della cella in segno di stizza e andarsene.

*

Sono le quattro e mezzo del pomeriggio e Fler è appena rientrato dalla palestra dove avrebbe voluto scaricare lo stress sollevando i pesi, come fa di solito, ma qualche stronzo si annoiava e ha scatenato la rissa. Bushido ha una politica molto severa riguardo alle risse, che consiste principalmente nel non scatenarle, non finirci in mezzo se non è necessario ed evitare di fermarle quando sono gli altri a cominciarle e tu non c'entri niente.
Così ha preso il suo asciugamano ed è tornato in cella con l'idea di fare qualche flessione mentre le guardie tentavano di impedire che quelli di Sido ammazzassero un povero Cristo la cui unica colpa, a quanto pare, è quella di essere arabo senza far parte del giro di Bushido.
Da quello che ha visto, Hassan o come diavolo si chiama, non ha molte speranze. Il pezzo di vetro acuminato gli ha perforato lo stomaco un po' troppo a sinistra per non aver preso il fegato.
Non che Fler sia un medico, ma dopo tre o quattro dei suoi compagni finiti in infermeria più o meno allo stesso modo, ci ha fatto l'occhio. Solo sei mesi fa, prima che Jost chiamasse Sido e Bushido nel suo ufficio per organizzare la tregua – che poi non è che l'abbiano fatta sul serio – Eko ha rischiato parecchio.
Un infame lo ha colpito alle spalle. Tre coltellate ben assestate su un fianco ed Eko si è accasciato a terra come una marionetta. C'era tanto di quel sangue che sembrava avessero sgozzato un vitello o roba simile. E' stato in coma una settimana. Fler era dieci metri più avanti a pulire una pentola quando è successo. Quando l'ha visto a terra era convinto che non si sarebbe più rialzato perché la ferita era davvero brutta e invece dopo sei giorni il turco apre gli occhi e chiede della gomma da masticare, così dal nulla. Un pazzo.
Mentre è lì che fa flessioni e pensa agli affari suoi, un'ombra si allunga sul pavimento proprio davanti a lui, così alza gli occhi e si trova davanti il ragazzino, appoggiato con noncuranza all'entrata della cella, così magro che sembra una sbarra anche lui.
“Bill,” mormora un po' spaesato mentre si alza da terra con un saltello.
“Bei muscoli,” commenta lui, con un sorriso che Fler non è ben sicuro di sapere interpretare. O meglio, lo saprebbe se non ci fossero tutta una serie di circostanze ad urlargli nelle orecchie che si sta sbagliando e, semplicemente, non capisce i ragazzi. “Devi allenarti parecchio.”
“Cosa ci fai qui? E' successo qualcosa?” Fler tossicchia e recupera l'asciugamano appeso al letto per asciugarsi la faccia.
Bill resta attaccato alle sbarre ma scivola comunque all'interno, con un movimento lento e calcolato finché non può aggrapparsi alla gamba del letto a castello per accarezzarla con fare allusivo. “Non posso venirti a trovare, adesso? ”
“No, no.” Fler ride. “Assolutamente. E' che di solito te ne stai sulle tue.”
“Sono solo timido,” risponde, guardandolo in modi che di timido non hanno assolutamente niente. “Ci metto del tempo a trovarmi davvero a mio agio.”
La risata che scappa di bocca a Fler è così squillante che lui si sente in colpa e mette le mani avanti. “Scusami, ma visto che fuori battevi...” si giustifica, senza per altro alcun tatto.
Bill non si scompone, il suo sorriso si tende e diventa più furbo. “Quello è solo lavoro,” commenta mentre si stringe nelle spalle e gli si avvicina, facendo strisciare un dito lungo il materasso. “Non è la stessa cosa.”
“Capisco,” commenta Fler. Fa un passo indietro e si guarda intorno, cercando qualcosa da fare, giusto per non dover stare lì immobile a guardare il ragazzino, visto che si muove in modi che scatenano in lui reazioni pericolose. “E adesso che ti senti a tuo agio, posso fare qualcosa per te?”
“In effetti sì,” risponde il ragazzino. “Mi hanno detto che potresti rifornirmi in caso... avessi bisogno.”
Fler comincia a scuotere la testa ancora prima di aprire bocca. “No, no, no, ragazzino,” sorride. “Niente droga da queste parti.”
“Non ne vendi?” Chiede Bill, ironico. Lo sanno tutti che a far girare la droga per Bushido ci pensa Fler, è un'informazione di dominio pubblico. Cultura Generale Carceraria, se perfino uno come lui lo sa.
“Di sicuro non a te,” specifica Fler che ora ridacchia quasi divertito. Appende l'asciugamano al suo gancio vicino al lavello e si schiaffeggia un paio di volte davanti allo specchio con un gesto molto simile a quello che Bill ha visto fare a Bushido nemmeno due ore prima.
“Guarda che posso pagarti,” lo rassicura.
Fler lo guarda attraverso il riflesso. “A parte che non credo tu abbia abbastanza soldi per farlo visto che non hai avuto modo di recuperarne da che sei qui dentro,” premette. “Non posso proprio. Ordini dall'alto.”
Per un attimo la maschera sul viso di Bill si frantuma, lasciando solo una smorfia infastidita.
Quel coglione di un tunisino ha proprio deciso di rendergli la vita un inferno, vero? Quello che più lo fa infuriare è che Fler sappia esattamente in che situazione si trova, che nessuno è venuto ancora a fargli visita e che perciò non ha un euro. Di tirare su due spiccioli succhiandolo in giro non c'è verso, chi non ha paura di quello che ha fatto alla guardia, ha paura degli uomini di Bushido che lo seguono come un'ombra; ma non hanno ancora fatto i conti con la sua testardaggine e il fatto che campa da solo per la strada da un sacco di tempo e non ha affatto bisogno di nessuno di loro.
Recupera il proprio sorriso smagliante e attraversa la cella, appoggiandosi al muro, appena accanto al lavello. I suoi fianchi distano solo qualche centimetro dalla mano di Fler che lancia loro uno sguardo con la coda dell'occhio e sposta impercettibilmente le dita più lontano. “E tu esegui gli ordini come un cagnolino?” Chiede Bill. “Lui comanda e tu stai a cuccia?”
Fler sospira. “Senti, va così, d'accordo?” Si stringe nelle spalle. “Devi stare pulito e rigare dritto. Sono le regole.”
“Le regole di chi?” Mormora Bill, spingendo in avanti il mento, le labbra appena dischiuse. “Uno come te non dovrebbe stare alle regole. Dovrebbe farle.”
Fler lo guarda intensamente per qualche istante, forse curioso o forse turbato, Bill non saprebbe dirlo, quale che sia, comunque, gioca a suo favore perché perde il sorriso e si fa teso. Non sembra più tanto convinto.
“Andiamo,” dice severamente, indicando l'entrata della cella con un cenno del capo. “Fuori di qui. Ti riporto nella tua cella.”
“E se invece trovassimo un accordo?” Chiede Bill, appoggiando la testa al muro dietro di lui e facendo ondeggiare il bacino, in quel modo un po' vezzoso che Fler ha visto usare solo alle ragazze e a certi uomini su cui non metterebbe mai le mani però. Bill è diverso, non fa parte esattamente di nessuna delle due categorie e questo gli sta fottendo il cervello in un modo che non gli piace per niente. “Quale accordo?”
Fler è così facile che Bill prova quasi della tenerezza.
Si stacca dal muro e gli si avvicina, ma non abbastanza perché lui senta il bisogno di indietreggiare, così quando ormai è a tanto così dal respirargli in faccia, Fler non ha più il tempo di muoversi e nemmeno vuole farlo. “Diciamo che tu mi dai quello che voglio,” dice Bill a bassa voce. Si allunga ad accarezzargli un braccio dal gomito al polso, intorno al quale poi stringe la mano chiusa a pugno. “ E io ti do quello che vuoi tu.”
Fler deglutisce e si schiarisce la gola, cerca se non altro di darsi un contegno mentre il suo corpo reagisce contro la propria volontà. Guarda altrove, cercando i motivi per cui dovrebbe continuare a rifiutare. Bushido gli ha salvato la vita più volte di quante riesca a ricordarne e di sicuro se vive bene in quel posto di merda è solo perché c'è il nome di Bushido a proteggerlo. Questo da solo dovrebbe essere sufficiente a fargli tenere le mani a posto, ma se gli serve qualche altra motivazione: Bushido è anche un amico e gli ha chiesto un favore – okay, glielo ha ordinato, ma Bushido è un po' quel tipo di amico che ti ordina le cose e tu le fai perché sai perfettamente che poi lui ricambierà il favore senza che tu nemmeno glielo abbia chiesto e quando più ne hai bisogno – e tu non dici di no ad un amico che ti chiede un favore.
“Non lo verrà a sapere nessuno,” continua Bill, facendosi così vicino che ormai gli sta spalmato addosso. Fler sente il calore del suo corpo attraverso la canotta leggera che indossa e le mani si muovono da sole per posarsi sui fianchi magri di Bill, che gli ridacchia in un orecchio. “Ti prometto che terrò la bocca chiusa,” mormora ancora, sollevandogli addosso uno sguardo da gatta in calore che ne basterebbe la metà perché lui gli saltasse addosso. “A meno che tu non voglia diversamente, ovvio.”
Fler sente le proprie restrizioni venire meno una ad una, come elastici troppo tirati che alla fine si spezzano. Si fotta Bushido, si fotta la prigione, si fotta il divieto di non toccarlo e non passargli niente; il ragazzino ha ragione, lui non è un balia. E gli ordini vanno bene, fintanto che hanno a che fare con loro, ma questo ragazzino chi cazzo è? Se ha tanta voglia di darlo via in giro e di farsi, non è un problema di Bushido. O magari lo è, ma di sicuro non è un problema di Fler.
Chakuza s'incazzerebbe come una bestia e gliela farebbe pagare cara se solo lo venisse a sapere, ma non sarà di certo lui a dirglielo e in questo momento, con lo stomaco che gli fa i salti di gioia al pensiero di poter infilare l'uccello da qualche parte, per una volta, invece di farselo sempre e solo menare – quando non deve fare da solo poi – , non ci pensa nemmeno che Bill potrebbe anche non mantenere la parola.
Così alla fine se ne frega, ringhia qualcosa e trascina Bill in un angolo della stanza, dietro al letto dove sarà più difficile notarli e soprattutto interromperli. Gli dà un bacio affamato e frettoloso, le sue labbra premono solo per un attimo contro le sue, nemmeno troppo convinte, come se fosse un convenevole da togliersi dai piedi il più in fretta possibile. Bill quasi trova interessante come Fler senta il bisogno di baciarlo prima di infilargli le mani nelle mutande. A quanto pare c'è della dolcezza sotto la scorza dell'uomo indurito dalla galera, pensa dando fondo ha tutta la malignità ironica di cui, fortunatamente, la natura lo ha provvisto.
Fler gli lecca le labbra, prima di spostarsi più in basso, sul suo collo, e lasciarvi una traccia umida di piccoli morsi confusi. Bill emette una risatina allegra – è trionfale, ma Fler nemmeno lo nota – mentre viene girato con poca grazia e appoggiato al muro. Apre bene i palmi delle mani contro la parete; lo ha già fatto così tante volte che il gesto di sistemarsi per mantenere l'equilibrio gli viene quasi automatico.
“Ehi, ragazzone,” dice mentre Fler, alle sue spalle, gli tira giù in fretta e furia i pantaloni, “Non dimentichi niente ?”
“Hmn?” Mugugna Fler, tenendogli una mano in mezzo alle scapole come avesse paura di vederselo scappare via di sotto gli occhi e armeggia con i propri pantaloni, imprecando perché, evidentemente, collaborano molto meno di quelli di Bill.
Il ragazzino, dal canto suo, manda indietro una mano, il palmo aperto e le dita che si chiudono e si aprono in un gesto molto chiaro. “Si paga in anticipo.”
Fler annuisce e si fruga nelle tasche dei pantaloni prima di lasciarli cadere a terra definitivamente.
Gli consegna la roba che lui si affretta ad infilarsi su per il naso, un po' perché ne sente improvvisamente il bisogno come non ne sentiva da giorni, e un po' perché sinceramente vuole già essere strafatto quando Fler gli entrerà dentro per iniziare a grugnire come un animale.
Ci mette più del previsto, in effetti. Quando lo sente farsi strada dentro di sé, Bill inarca la schiena e preme bene le mani contro la parete della cella che sembra improvvisamente un po' più sfocata e fa tanto ridere.
In ogni caso non ha molta importanza, perché lui non sa già più nemmeno dov'è.

*

Quando Bill torna in cella, si regge a stento sulle gambe. Ha un sorriso idiota sulla faccia che non promette niente di buono, e Bushido se ne accorge subito, perché li conosce, quei sorrisi lì. Li vede ogni giorno, stampati sulle facce instupidite dalla roba di tutti quei coglioni che non capiscono che quando sei chiuso in prigione – quando cioè sei confinato in un posto in cui altri decidono per te, stabilendo cosa devi fare, dove, quando e in che modo – l’unica possibilità che hai di mantenere un certo controllo sulla tua persona è evitare di fotterti la testa con la droga. Tanti la usano come una via di fuga, l’unico modo per evadere da una realtà di catene e sbarre di ferro, ma la verità è che la droga è l’esatto opposto. Cominciare a drogarsi quando si sta in galera significa rinchiudersi di propria spontanea iniziativa all’interno di una gabbia ancora più stretta di quella all’interno della quale ci si trova già, con possibilità di decidere per te stesso ancora più limitate rispetto a quelle che ti vengono concesse, che sono già fin troppo poche.
Drogarsi non è un problema perché fa male, drogarsi è un problema semplicemente perché è una cosa da idioti. E ti porta a fare cose idiote. E Bushido, in questo momento, non può permettere a Bill di fare cose idiote, non quando da ciò che fa può dipendere tanto di ciò che invece farà lui nel suo futuro.
- Ti vedo bene. – comincia, scendendo giù dal letto con un saltello e parandoglisi di fronte. Bill ride e scuote il capo.
- No, dai, oggi lasciami in pace, non mi va proprio di starti a sentire. – lo liquida, avvicinandosi al proprio letto con passo barcollante e lasciandovisi ricadere sopra con un sospiro soddisfatto e una mezza risatina. – Ah, sono tutto indolenzito. – commenta in un cinguettio compiaciuto, - Era un po’ che non mi divertivo così.
Bushido gli lancia un’occhiata disgustata, avvicinandoglisi e torreggiando sopra di lui, restando in piedi accanto al suo letto.
- Immagino. – commenta, - E immagino anche che ti sentirai un cazzo fiero di te stesso quando ti sarà passato lo sballo.
- Sai quanto me ne frega di essere fiero di me stesso? – ride Bill, rigirandosi sullo stomaco e dondolando le gambe in aria, - Faccio la troia, andiamo, quanta stima di me stesso pensi che abbia? E a cosa cazzo pensi che mi servirebbe averne? – ride ancora, ondeggiando con il capo a destra e a sinistra in un movimento fluido e delicato, come seguisse il ritmo ipnotico di una qualche canzone che solo lui può sentire. – Piuttosto, tu… - continua poi in un risolino ironico, voltandosi ancora sulla schiena e stiracchiandosi pigramente, - mi sa che faresti meglio a rivedere tutta l’alta considerazione che hai di te stesso, perché… ricordi tutte le tue belle parole sull’onnipotenza e tutta l’altra merda che hai in testa e con la quale ti sei convinto di essere chissà che cazzo di re dei re qua dentro? Be’, non vale una sega. – ride un’altra volta, dondolando ancora i piedi in aria.
Bushido inarca un sopracciglio, per nulla impressionato da quel suo continuo dimenarsi sul letto come un ragazzino di quattro anni.
- Cosa intendi? – domanda, una mano su un fianco e le sopracciglia aggrottate. Bill si lascia andare ad un altro risolino, e si sistema il cuscino sotto la testa, cercando di gonfiarlo per renderlo più comodo.
- Sono stato bravo, sai? – pigola, - Non sono andato da Sido a farmi dare la roba. Mh-hm. – scuote il capo, - Ho pensato che fosse più sicuro andare da qualcun altro. E poi… - ridacchia, - quando ho pensato alla faccia che avresti fatto sapendolo…! Cioè, non potevo rinunciare all’occasione.
Bushido trattiene il respiro per un paio di secondi, irrigidendo il braccio lungo il fianco mentre le dita della mano appoggiata sul fianco si contraggono impercettibilmente, tremando appena, dando a Bill una chiarissima idea di quanto sia arrabbiato, e di quanto stia cercando di tenere quella mano lì solo per non utilizzarla contro di lui.
- Cosa cazzo stai dicendo, ragazzino? – domanda Bushido, la voce bassa, cavernosa, pericolosa, e il sorriso di Bill si allarga.
- Sto dicendo che la droga me l’ha data uno dei tuoi ragazzi. – chiarifica una volta per tutte, stringendosi nelle spalle, - Evidentemente non ti sono tanto fedeli come pensi, visto che mi è bastato dimenare un po’ i fianchi per convincere Fler.
Bill non ha neanche il tempo di capire cosa esattamente stia succedendo. Un attimo prima è ancora disteso sul proprio letto e sente il corpo così piacevolmente pesante e intorpidito da riflettere sulla possibilità di farsi un pisolino come si deve, una volta tanto, e l’attimo successivo è in piedi, sollevato a qualche centimetro da terra, le dita di Bushido strette attorno al colletto della sua maglietta con tanta forza da chiuderglielo attorno al collo come una tenaglia, impedendogli di respirare. Si dimena, afferrando il polso dell’uomo con entrambe le mani e cercando di spingerlo ad allontanare la mano e lasciarlo andare, ma le dita dell’uomo neanche accennano ad allentare la presa, e Bill, sentendosi soffocare, perde la propria lucidità, e comincia a tempestargli il braccio di pugni e graffi, mentre tende spasmodicamente le gambe, per cercare di arrivare a toccare il pavimento almeno con le punte dei piedi, senza riuscirci.
- Potrei spezzarti in due con una mano sola. – ringhia Bushido, stringendo la presa e costringendo Bill a un gemito convulso, mentre gli occhi gli si riempiono di lacrime, - Sei talmente un’inutile testa di cazzo che nessuno piangerebbe la tua scomparsa. La tua unica fortuna è stata arrivare in un periodo in cui di teste di cazzo come te ne erano già crepate troppe, perché se così non fosse stato tu saresti già all’altro mondo, e Dio solo sa se non sarei più che felice di farti fuori io stesso, ma la verità è che non ne vali la pena neanche per un cazzo. – conclude, scaraventandolo nuovamente sul letto. Bill si porta una mano alla gola, ripiegandosi su se stesso, scosso dai colpi di tosse mentre cerca di riprendere a respirare, rantolando pietosamente. – La prossima volta che ti avvicini ad uno dei miei, ragazzino, posso assicurarti che le statistiche sulla mortalità dei nuovi detenuti saranno in fondo alla lista delle mie priorità. – dice gelido, guardandolo con disgusto, - Tienilo bene a mente.
Bill neanche gli solleva gli occhi addosso, ed anche se lo facesse, con la vista così offuscata non riuscirebbe neanche ad individuarlo. Lo sente andare via, però, ed è una sensazione incredibilmente fisica, come se ad abbandonare la cella non fosse solo un corpo, ma anche tutta la rabbia che conteneva.
Solo allora gli sembra di riuscire a ricominciare a respirare liberamente.

*

Fler era un ragazzino, quando Bushido l’ha conosciuto. Aveva quattordici anni ed era ridicolo in tutte le sue manifestazioni, specie in quella in cui si dava un sacco di arie da adulto senza poterselo minimamente permettere, con quegli occhi azzurri enormi e quelle guanciotte rosa, per non parlare dei capelli, che appena si azzardava a fare tanto di lasciarli crescere qualche centimetro cominciavano a diventare chiarissimi e ricci come quelli di un putto.
Al tribunale dei minori l’avevano spedito a ripulire i muri che aveva contribuito a imbrattare con le sue tag – che poi erano il motivo per cui, in quello stesso tribunale, ci era finito – e Bushido l’aveva conosciuto proprio durante uno dei suoi turni. Fler – allora era ancora solo Patrick – dipingeva di bianco un muro e ogni tanto ci sputava sopra, giusto perché fosse chiaro che non lo faceva per piacere, ma solo per obbligo, e che se fosse stato per lui l’avrebbe magari imbiancato lo stesso, si, ma solo per riprendere a scarabocchiarci sopra subito dopo.
A Bushido era piaciuto l’atteggiamento. Lo aveva trovato ridicolo, in generale, ma in realtà gli aveva ricordato molto di quel se stesso che, qualche anno prima, aveva affrontato le strade con la stessa stupida tracotanza, supponendo presuntuosamente di poterle comandare con uno schiocco di dita, prima ancora di conoscerle. Lui aveva imparato sulla propria pelle a non commettere più errori di valutazione come quello, ma al ragazzino poteva andare meglio. A lui poteva rendere le cose più facili.
Più di ogni altra cosa, gli erano piaciuti i suoi occhi. Lo sguardo ardente, colmo di passione. Per come la vedeva lui, l’unico modo di comandare la strada era amarla. Amarla con passione, non come un’amica, non come una sorella, proprio come un’amante, un’amante pericolosa, una di quelle dalle quali ti devi guardare le spalle, ma anche una di quelle dalle quali finisci sempre per ritornare, perché non puoi farne a meno, perché ti appartengono, perché tu appartieni a loro.
Fler aveva negli occhi il germoglio di quell’amore. Bushido aveva sempre pensato con un certo orgoglio di averlo aiutato a farlo sbocciare.
È per questo che adesso dover recidere il gambo fa male. Anche se Bushido sa che va fatto, perché un’insubordinazione del genere non può essere tollerata, non può essere perdonata, non può essere nemmeno punita e basta, perché per quanto esemplare possa essere la punizione il succo rimarrebbe lo stesso: Fler ha disobbedito ad un suo preciso ordine, e sotto nessuna circostanza Bushido può adesso permettergli di continuare a fare parte dei suoi uomini. Fler non può espiare. Fler è fuori e basta.
- Ma si può sapere che hai oggi? Sei un pezzo di legno. – sta dicendo Chakuza, con tono lamentoso, quando lui entra nella cella. Non ha molto tempo, fra poco le gabbie verranno chiuse e le luci spente per la notte. Vorrebbe potersi prendere il tempo che gli serve, non tanto per dire ciò che deve, quanto per accettare di doverlo fare, ma d’altronde non può dimenticare che è sempre in una prigione che si trova. Per quante siano le cose sulle quali può avere un’autorità, la propria libertà personale non rientra nell’elenco.
- Fler. – lo chiama con severità, per attirare la sua attenzione, - Patrick.
Nel sentire la sua voce, Fler si irrigidisce all’istante, e Chakuza fa lo stesso quando si accorge che l’ha chiamato per nome. Guarda prima Bushido e poi il proprio compagno con aria confusa, ma non si azzarda a spiccicare una parola. L’espressione ed il tono di voce di Bushido non glielo consentono.
- Mi chiedevo quando saresti arrivato. – dice Fler, teso come una corda di violino. Le sue labbra a stento si muovono. Ha i pugni serrati e poggiati sulle ginocchia, le nocche quasi bianche, e le dita che tremano impercettibilmente per il nervosismo. – Non so come scusarmi.
- Non puoi farlo. – risponde subito Bushido, la sua espressione non cambia di un millimetro, anche se dentro di sé sta urlando; sta urlando dalla frustrazione, sta urlando dalla rabbia, sta urlando a Fler che è stato uno stupido a buttare via tutto quando per una cosa così insignificante come una cazzo di scopata, ma non può lasciarsi travolgere dall’emotività adesso, e se è diventato ciò che è, è anche e soprattutto perché ha sempre avuto il controllo sulle proprie reazioni. Se vuole rimproverare a Fler di aver perso questo stesso tipo di controllo, non può farlo perdendolo a propria volta. – Non c’è niente che tu possa dire o fare per cancellare la tua colpa. Sai meglio di me cosa sono venuto a fare.
Fler abbassa lo sguardo, colpevole.
- Aspetta un attimo… - si azzarda ad intervenire Chakuza, - Di cosa cazzo stiamo parlando? Cos’è successo? – si volta a guardare il proprio compagno con apprensione evidente, - Fler, che cazzo hai combinato?
- Ascoltami bene, Chakuza. – dice Bushido, mentre Fler resta immobile, pronto ad affrontare la sua condanna, - E bada di dirlo anche agli altri. – precisa, ed a questo punto anche Chakuza non può fare altro che pietrificarsi, perché quello che sta accadendo lo capisce perfettamente; è un rituale rodato. – Questo pomeriggio, Fler ha disobbedito ad un mio ordine, fornendo droga a quella rottura di coglioni del ragazzino in cambio di una scopata del cazzo. Per questo motivo, da questo momento in poi Fler non fa più parte della banda. Non dovrete più rivolgergli la parola, né fraternizzare con lui in alcun modo. – si volta a guardarlo, aggrottando le sopracciglia, - In alcun modo, Chakuza.
Le labbra di Chakuza tremano appena, come in una protesta muta, perché è ancora troppo sconvolto dalle informazioni che ha appena ricevuto per realizzare appieno cosa le parole di Bushido significhino. Ma il silenzio di Fler è troppo prolungato, la sua rassegnazione troppo evidente per porsi ancora delle domande a riguardo. È tutto vero. E sono ordini ai quali non è possibile disobbedire.
- Sì, Bushido. – annuisce quindi. Lui risponde con un cenno del capo, abbandonando la cella subito dopo, e a quel punto Chakuza non può fare altro che voltarsi a guardare Fler, allibito.
Lui ha ancora lo sguardo basso.
- Mi dispiace, Chaku. – mormora, - Lui ha… insomma, mi ha offerto qualcosa che tu non hai mai voluto darmi. – prova a giustificarsi. Chakuza aggrotta istantaneamente le sopracciglia, stringendo i pugni attorno al lenzuolo del letto sul quale è seduto.
- Non provarci nemmeno, Fler. – ringhia, - Non provare a darmi la colpa per quello che hai fatto. Noi avevamo un patto. Hai tradito Bushido, hai tradito la banda. – rimane in silenzio per un secondo, mordendosi con forza la lingua per cercare di trattenersi dal concludere il proprio pensiero, senza riuscirci. – Hai tradito me. – sussurra. Fler gli solleva addosso uno sguardo perso e contrito che Chakuza non riesce ad ignorare come vorrebbe. Per questo guarda altrove, mentre le celle cominciano a chiudersi con gli usuali scatti metallici, e poco dopo anche le luci vengono spente.
Chakuza si spoglia meccanicamente, fissando il vuoto e tendendo l’orecchio. Fler sembra immobile, pietrificato. Lui prende posto nel proprio letto e si sistema sotto le coperte, il viso rivolto alla parete apposta per non guardarlo, né ora, né quando si spoglierà per salire sul proprio letto.
- Mi dispiace, Chaku. – dice la sua voce nel buio. È lontana, e non conta più niente. Chakuza nemmeno risponde.

*

Bill ha vomitato l'anima e si sente uno straccio. Non è che prima di finire in galera si facesse regolarmente – la regolarità sistematica è per i tossici, a lui serviva per sciogliersi – ma capitava di tanto in tanto e il suo corpo ne reggeva abbastanza da non disfarsi appena finiva l'effetto. A quanto pare è bastato un soggiorno da quelle parti per fargli passare del tutto il vizio. Quando ha riaperto gli occhi era buttato su una sedia della sala comune senza avere la minima idea di come ci fosse arrivato. Poi ha sentito il sapore di marcio in bocca e si è trascinato nei bagni per vomitare. Per un attimo, mentre era chino su uno dei lavandini e la testa gli girava da far paura, si è chiesto dove cazzo fosse perché il bagno era pulito come quello di casa dei suoi, ma era quasi certo di non aver mai fatto in tempo a vomitarci dentro prima che suo padre lo buttasse fuori a calci nel culo. Il cervello ci ha messo un po' a mettersi al passo e, intanto che lo faceva, Bill s'è trascinato fino al primo muro disponibile e si è seduto per terra, in attesa che il mondo smettesse di girare. Ora fissa il vuoto, di nuovo accasciato per terra. Potrebbe alzarsi, ma non ne ha voglia e comunque sul pavimento si sta bene e nei bagni c'è silenzio.
O almeno, c'era finché quel tipo assurdo, Eko, non spalanca la porta e si ferma sulla soglia, a metà di un passo, fissandolo con i suoi occhietti rotondi e idioti da topo. “Ah, bello mio, non hai mica una bella cera,” commenta schioccando la lingua e scuotendo la testa.
Bill emette un lamento e torna a nascondere la faccia nelle proprie braccia incrociate. “Fammi il favore, sparisci e lasciami in pace,” sibila.
Eko chiude la porta con un piede, ancora in quella ridicola posizione a metà di un passo e, visto che è semi-chinato in avanti, sembra uno di quegli angioletti che sputano acqua dalle fontane, solo tristemente più brutto. Si avvicina ai lavandini ignorando completamente la sua richiesta e apre con grande attenzione la sua busta da bagno, dalla quale esce ogni genere di oggetto inutile. “So che hai combinato un bel casino,” continua.
“Ti ho detto di andartene,” insiste Bill. “Lo farei io, ma è meglio se non mi alzo.”
“Infatti, sta' pure disteso,” annuisce Eko, del tutto sordo a qualsiasi cosa farfugli quando riesce a snodare la lingua intorpidita. “Sai, non è stata una mossa tanto furba la tua. Qua sono tutti piuttosto elastici con la proprietà privata, un oggetto non è mai veramente tuo finché anche gli altri possono vederlo, capisci cosa intendo? Per questo c'è un botto di gente che viene ricoverata con roba nella pancia o nel culo. Perché quando vuoi che nessuno ti tocchi qualcosa, è meglio se la butti giù. Con le persone però è diverso, specie se queste persone sono di qualcuno da un sacco di tempo,” Eko scuote ancora la testa, mentre si riempie la faccia di schiuma da barba. “Le persone non si toccano, quando le tocchi succede sempre casino, tanto casino. Sai quanta gente c'è morta perché aveva toccato qualcuno? Prova a dire un numero. No, ma non lo dire, tanto non ci avvicini nemmeno. Comunque tanta. E tu che cosa vai a fare? Non solo tocchi Fler che non era roba tua, era roba di Chakuza e prima ancora di Bushido, ma vai a farti, con la sua roba quando Bushido ti aveva espressamente proibito di fare una qualsiasi di queste cose.”
Bill si lamenta ancora una volta, a voce più alta. “Ma che problema hai tu quando ti si dice di toglierti dai coglioni?” Sbotta, decidendo infine che se quello non se ne va, tanto vale cercare di andarsene lui. Si tira su a sedere e il bagno gira ancora. La buona notizia è che smette subito, così lui può provare ad alzarsi.
“Non mi piace andarmene quando me lo dicono gli altri,” annuisce Eko, come fosse una domanda seria.
“Sì, come ti pare,” borbotta Bill, aggrappandosi al muro per tenersi su.
“Comunque, a mio modesto parere, dovresti ragionare su quello che è accaduto oggi,” continua Eko, radendosi con cura ma agitando anche il rasoio in maniera vaga e preoccupante. “Ma naturalmente non lo farai perché sei un deficiente.”
“Ehi!” Sbotta Bill. Vorrebbe farsi valere, ma quando stacca le mani dal muro, a stento si regge in piedi, così non gli rimangono che le parole. “Vacci piano, d'accordo?”
“Non devi mica vergognarti. Io ce l'ho un cugino deficiente. Si chiama Ismet e non capisce un cazzo di niente, ma gli vogliamo tutti bene lo stesso.”
Bill rotea gli occhi e si chiede se tornare in cella non sia comunque preferibile allo stare qui con questo pazzo che blatera. “Mi fa piacere,” commenta, decidendo di avanzare un lavabo dopo l'altro fino alla porta.
Quando però è quasi arrivato alla porta e ha faticosamente messo mano alla maniglia, Eko parla di nuovo. “Sei uscito dalla sua cella in condizioni pietose, non stavi nemmeno in piedi. Mentre lui buttava fuori Fler dal gruppo, tu facevi il giro della prigione, strusciandoti praticamente su qualunque cosa avesse un pisello e ti accasciavi in un angolo della sala comune, privo di conoscenza. E nonostante questo, nessuno ti ha toccato perché in questo posto ormai l'hanno capito che sei uno dei suoi. E le persone degli altri, come ho detto, non si toccano mai se non si è pronti a fare un gran casino.”
Bill si ferma, la mano ancora sulla maniglia e deglutisce forte, buttando giù saliva e vomito e anche qualcosa che non sa bene cos'è, ma non va giù e gli stringe la gola.
“Bushido sarà anche una testa di cazzo, te lo concedo, ma non è uno stronzo. Se ti tiene d'occhio è perché conosce questo posto meglio di te e conosce pure te più di quanto tu non ti conosca da solo,” dice Eko, fissandolo attraverso il riflesso dello specchio e battendo gentilmente il rasoio contro il bordo del lavandino. “Gli mancano due mesi per uscire di qui con la condizionale. Quindi si, a lui conviene che tu non ti faccia ammazzare ma più che a lui conviene a te, mi segui? Se ti sta col fiato sul collo, è perché il suo fiato qui è un fottuto campo di forza. Abbiamo perso uno dei nostri perché pensavi che il tuo culo non valesse abbastanza per tenerlo al sicuro. Pensaci prima di fare qualche altra cazzata e credere che Bushido fa lo stronzo con te perché non ha altro di meglio da fare. Prova a pensare a chi ha fatto lo stronzo per primo e a chi ha perso di più, per colpa di chi.”
Eko si volta e torna a radersi senza guardarlo più.
Bill resta lì ad aspettare che lo faccia per un po', la mascella serrata per la tensione. Le sue dita si stringono intorno al ferro della maniglia ancora una volta, poi la preme di scatto verso il basso e scivola fuori dal bagno in silenzio.

*

La loro cella non è molto grande e ha una sola finestra, ovviamente sbarrata; ma è così piccola che quando fuori fa brutto tempo entra a malapena un filo di luce e a metà pomeriggio sembra già sera inoltrata.
Quando supera la soglia e si guarda intorno, ci mette un po' ad inquadrare Bushido che è disteso immobile sul letto di sopra, ma è così sottile che, se non si gira di fianco, non sporge poi troppo dal materasso.
Anche se Bushido non si muove, però, Bill sa che è sveglio dal modo in cui respira. Per questo si aspetta di sentirlo aprire bocca non appena fa un passo all'interno e invece niente, il silenzio.
Bill ha la brutta abitudine di irritarsi quando non viene considerato, probabilmente perché attirare l'attenzione è l'unica cosa che sa fare e, quando non gli riesce nemmeno quello, non è una bella sensazione.
Rimane lì in piedi vicino alla porta per un po', senza sapere esattamente come comportarsi e poi decide di darsi qualcosa da fare lavandosi le mani nel piccolo lavandino della cella.
“Ho parlato con quel tipo, il turco,” dice, buttando lì il primo argomento che gli viene in mente. Non che Eko sia granché come argomento, ma visti i recenti sviluppi, è anche l'unico.
Dal letto non arriva nessuna risposta. Bushido continua a restare disteso con gli occhi chiusi.
“Tanto perché tu lo sappia, non l'ho avvicinato io,” continua Bill, ricordandosi di essere stato minacciato a riguardo nemmeno qualche ora prima. “E' venuto lui da me. Più che altro è andato al cesso e io ero già lì.”
Bushido si schiarisce la gola, ma senza aprire gli occhi.
Bill chiude il rubinetto e si asciuga le mani. “Quando parla non si capisce un cazzo,” dice ancora, buttando lì una mezza risata che però non copre la tensione crescente nella sua voce. “E poi tiene dei pastelli a cera nella bustina da bagno insieme al dentifricio. Non ci sta con la testa, vero?”
In tutta risposta, Bushido si volta di lato, dalla parte del muro. E Bill si rompe le palle.
“Guarda che lo so che sei sveglio,” gli fa presente e, quando l'uomo si ostina a non rispondere, afferra una delle gambe del letto a castello e lo smuove, producendo un rumore sgangherato di ferro che attira una delle guardie. Bill gli fa cenno che è tutto a posto e, dopo aver lanciato un'occhiata dubbiosa alla cella, l'uomo si allontana di nuovo. “Di' un po', hai intenzione di continuare a comportarti come un bambino di cinque anni ancora per molto?” Chiede, strafottente.
“Dovresti esserci abituato,” la voce di Bushido arriva un po' roca, forse perché è stato in silenzio per ore, ma non sgradevole come invece suona la sua la prima volta che apre bocca al mattino, “tu lo fai di continuo. Io mi sono solo adattato al tuo modello comportamentale.”
“Bel modo di dimostrare maturità, per uno che accusa me di essere una testa di cazzo,” replica Bill.
Fa per distendersi su letto ma, quando vede che Bushido si sta girando verso di lui, ci rinuncia per accoglierlo a braccia incrociate, guardandolo storto.
“Per tua informazione, io non devo dimostrare niente, ragazzino,” risponde, guardandolo dritto negli occhi senza nessuna esitazione, cosa che Bill non riesce a fare con continuità. “Tu invece, fino a prova contraria, sei ancora una testa di cazzo.”
Bill diventa paonazzo, incapace di controllare la propria rabbia. Per uno che, bene o male, ha dovuto imparare a tenere a bada le proprie emozioni per battere in strada, è un fallimento di proporzioni epiche non riuscire a sostenere una conversazione senza dare di matto. Ma la colpa è dello stronzo e del suo stupido modo di fare, come se il mondo dovesse sempre inginocchiarglisi ai piedi. E lui cretino, ha anche pensato che potesse esserci un modo per comunicare con questo idiota pieno di merda.
Tutte queste cose però non gliele dice perché anche se le sue labbra tremano e la sua lingua ha una gran voglia di sciogliersi e vomitargli addosso tutto quanto, la gola gli fa ancora male dove lui l'ha stretta.
“Sai che ti dico, torna a fare finta di dormire,” sputa quindi, infilandosi nel proprio letto infastidito, tanto per avere la scusa di allontanarsi per quel che può. “Non ho bisogno di te, né tanto meno di parlarti. Anzi, se non ti sento aprire bocca e sparare le tue stronzate, tanto meglio.”
“Per me va bene,” dichiara Bushido. “Se vuoi rinunciare alla mia protezione, sono affari tuoi. Ne riparliamo tra due settimane, magari per allora ti sarà tornato in mente come ti hanno conciato quando hai voluto fare per conto tuo.”
Bill fissa le molle del letto sopra il suo che ondeggiano un'ultima volta, segno che Bushido si è girato di nuovo. Pensava che si sarebbe sentito meglio dopo aver vinto una battaglia contro di lui, ma ha la bocca amara e non è sicuro si tratti solo di vomito.

*

È la prima volta che vede suo fratello da quando è rinchiuso in questo buco di merda, e non può fare a meno di sentirsi nervoso al riguardo. Ormai è in prigione da quasi due mesi, e naturalmente questa è la prima visita che riceve. È la prima volta che mette piede nella piccola sala accuratamente sorvegliata, piena di tavoli rotondi e sedioline basse e scomode. Le pareti sono grigie, il pavimento è grigio, anche i mobili sono tutti grigi, così come i distributori automatici sistemati in fondo alla stanza. L’unica cosa colorata, all’interno dell’ambiente, sono le merendine tutte in fila oltre i vetri, e naturalmente i vestiti dei parenti in visita.
Tom arriva in perfetto orario, e Bill ha immaginato questo momento molto a lungo durante i giorni che hanno seguito l’ultima telefonata che si sono scambiati, e ha sempre pensato che sarebbe stato composto, quando l’avrebbe visto, che non si sarebbe lasciato travolgere dalle emozioni, che l’avrebbe tenuto a distanza – d’altronde, era sempre stato bravissimo, in questo, almeno da quando era andato via di casa –, che avrebbe fatto di tutto per dare a Tom l’impressione di essere perfettamente in grado di cavarsela da solo, anche in un ambiente palesemente ostile come quello, ma la verità è che, dopo tutto quello che ha passato da quando è qui, vedere il suo volto lo scuote fin dentro, e non è capace di stare immobile, semplicemente deve seguire il primo impulso che gli attraversa i nervi e i muscoli, e salta in piedi, lanciandosi verso di lui per allacciargli le braccia al collo, nascondendo il viso contro il suo petto con un sospiro sollevato.
Tom lo accoglie fra le proprie braccia con la naturalezza di chi non ha mai perso l’abitudine a farlo, e Bill non può fare a meno di pensare che è incredibile che ci riesca ancora esattamente come quando erano più piccoli, anche se negli ultimi anni hanno passato molto più tempo lontani l’uno dall’altro che insieme. Il pensiero non manca di riempirlo di tristezza, come ogni volta, ma si forza a tenerlo lontano dalla propria mente fin da subito. È stata una sua scelta, in fin dei conti. Sarebbe ridicolo pentirsene adesso.
- Ehi. – lo saluta Tom, allontanandosi da lui per sorridergli un po’ tristemente e guardarlo da ogni lato, come ad assicurarsi che sia ancora tutto a posto, - Stai bene?
- Sì. – risponde Bill con un mezzo sorriso incerto, le mani ancora poggiate sul suo petto.
- Balle. – lo rimbrotta Tom, accarezzandogli una guancia, - Sei così magro che fai paura. Non mangi?
- Tomi, ti prego, da quando sei diventato nostra madre? – sbotta Bill, allontanandosi da lui e prendendo posto su una delle due sedie attorno ad uno dei pochi tavoli rimasti liberi. Lo sguardo di Tom si incupisce all’istante, quando lo sente nominare Simone. Si siede di fronte a lui e sospira.
- Perché non vuoi che le dica dove sei? – gli domanda apprensivo, - Verrebbe a trovarti.
- Appunto. – ribatte seccamente Bill, - Non ho mai voluto vederla quando vivevo praticamente per strada, cosa ti fa pensare che possa volerla vedere adesso che vivo in un posto ancora peggiore?
Tom sospira ancora, passandosi una mano sul volto.
- Non ha mai smesso di preoccuparsi per te. – dice a bassa voce.
- Non è esatto. – ritorce Bill, distogliendo lo sguardo, - Ha cominciato quando a me non serviva più, è diverso.
- Sei crudele, Bill. – lo rimprovera suo fratello, lanciandogli un’occhiata di fuoco, - Mamma ti ha sempre capito. Ti ha—
- Non mi ha mai difeso. – lo interrompe Bill, gelido, come non gli importasse nemmeno. – So che non l’ha fatto solo perché aveva paura di papà. Ma se pensi che questo possa giustificarla ai miei occhi, ti sbagli. Tu ti sei preso botte che non ti spettavano, per proteggere me. Lei non l’ha mai fatto.
Tom si copre il viso con entrambe le mani, scuotendo il capo.
- Dici cose agghiaccianti, Bill. – esala in un rantolo, - Per favore, sta’ zitto.
Bill obbedisce, serrando le labbra e guardando in basso, mordendosi con forza l’interno di una guancia. Riesce a capire perché Tom inorridisca al pensiero di suo fratello che giudica l’affetto dei propri familiari attraverso le botte che sono stati capaci di prendersi per difenderlo dalla furia di suo padre, ma allo stesso tempo non riesce ad immaginare nessun altro indice per misurare una cosa del genere, per cui per quale motivo non dovrebbe essere quello? Ha capito che poteva fidarsi di suo fratello quando Tom si era fisicamente messo di mezzo fra la sua guancia e il palmo ruvido della mano di suo padre. Sua madre non l’aveva mai fatto. Se poteva esserci un metro per stabilire chi dei due tenesse di più a lui, non poteva essere che quello, per quanto squallido e, probabilmente, fuori di testa potesse sembrare.
Aspetta che Tom si sia calmato, e quando lui finalmente smette di coprirsi il viso e torna a guardarlo si arrischia perfino a rivolgergli un sorriso incoraggiante. Tom risponde con un sorriso uguale, lasciando scivolare una mano sulla superficie del tavolo, a cercare la sua da stringere. Bill gliela concede senza indugiare, godendo del calore delle dita di suo fratello strette teneramente attorno alle sue.
- Non parliamone più. – dice Tom, scuotendo il capo, anche se è evidente che intende “almeno per ora”, - Sono felice che almeno tu abbia voluto vedere me. Finalmente. Sei uno stronzo.
Bill ridacchia, stringendosi nelle spalle e ravviandosi i capelli dietro un orecchio.
- Credimi, è stato meglio non vedersi fino ad adesso. – risponde. Se solo ripensa a tutti i lividi che ancora aveva addosso fino ad un paio di settimane fa, si sente male. Non avrebbe mai potuto farsi vedere da Tom ridotto in quelle condizioni, senza contare il dolore alla schiena che ancora ogni tanto lo tormenta. Sa bene, ad esempio, che quest’incontro non potrà durare più di una ventina di minuti, e questo non tanto perché gli incontri coi familiari siano regolati secondo una tabella oraria molto precisa e inamovibile – lo sono, comunque, come tutto in quel dannato posto – ma perché Bill sa che dopo venti minuti passati seduto su una sedia tanto scomoda la sua schiena comincerà a protestare molto vivacemente, e lui sarà costretto ad andare via se non vuole scoppiare a piangere davanti a Tom. È già tutto abbastanza difficile senza dover aggiungere l’umiliazione di una cosa simile.
È per questo che si è rifiutato anche solo di chiamarlo per così tanto tempo, ed è sempre per questo che, pur dopo averlo chiamato, aver parlato con lui due o tre volte ed avergli chiesto un po’ di soldi da mandargli con la posta e magari una maglietta ed un paio di pantaloni nuovi, visto che i suoi erano ormai ridotti a brandelli per i motivi più svariati, ha esitato ancora più a lungo prima di accettare che venisse a trovarlo, e questo nonostante sapesse – riusciva a sentirlo nella sua voce – quanto Tom fosse impaziente di vederlo, di sincerarsi che stesse bene osservandolo coi propri occhi.
Questo perché lui non sta bene. L’unico modo che ha di stare bene quando il dolore – non solo quello alla schiena – comincia a farsi troppo forte è andare da Sido, e farsi dare un po’ di roba. È per quello che gli servono i soldi. È per quello che continua a chiederne. Ma questo a Tom non può dirlo, non vuole dirglielo, malgrado suo fratello abbia dimostrato negli anni di essere perfettamente in grado di continuare ad amarlo nonostante tutta la merda che sputava o in cui si andava a cacciare ad intervalli regolari.
Tom lavora per sostenerlo. Piccoli lavoretti, naturalmente, perché suo padre non avrebbe mai accettato di dargli dei soldi da passare a lui, ma è sempre stato così, da quando Bill è scappato di casa. Bill ha cercato più e più volte, all’inizio, di dirgli di smetterla, di fargli capire che non aveva bisogno dei suoi soldi, che scopando in giro riusciva a mantenersi perfettamente, ma la verità è che erano tutte bugie, e Tom non ha mai sbagliato a leggerle nei suoi occhi, per cui per quanto Bill potesse tentare di allontanarlo Tom si rifiutava di lasciarglielo fare, ed è sempre tornato, portandogli sempre qualcosa. Dopo un po’, Bill ha smesso di sentirsi in colpa nell’accettare il suo denaro, ma quel senso di colpa è tornato a farsi sentire con prepotenza da quando quel denaro ha cominciato a finire puntualmente nelle tasche di Sido o di uno dei suoi spacciatori di fiducia sparsi per il braccio.
- Lo sai, Billi? – dice Tom, stringendo appena la presa delle proprie dita attorno alle sue, - Sono preoccupato.
Bill sospira, roteando gli occhi.
- Lo sei sempre. – sbuffa, scrollando le spalle.
- E ho sempre ragione ad esserlo, non ti pare? – insiste suo fratello, ma lo fa con un sorriso tanto dolce che è impossibile arrabbiarsi con lui.
- Sto bene. – ripete Bill, annuendo con più decisione. Non sa chi sta cercando di convincere, se Tom o se stesso. In ogni caso, non funziona granché bene.
Tom distoglie lo sguardo, stufo di sentirsi dire bugie e di poterle leggere così chiaramente nei suoi occhi. Preferisce ascoltare Bill mentire senza doverlo guardare. È più semplice fingere di potergli credere, così.
- D’accordo. – annuisce, alzandosi in piedi. Bill lo segue nel movimento all’istante. – Ti… ti manderò qualcos’altro, fra un paio di giorni. Al massimo una settimana. Puoi resistere, nel frattempo? – gli domanda, tornando a guardarlo negli occhi mentre gli accarezza il viso. Bill si appoggia al palmo della sua mano, annuendo lievemente, e stavolta non sta mentendo.
- Ho ancora qualcosa da parte, non preoccuparti. – lo rassicura. Tom sorride ed annuisce ancora, tirandoselo contro per un altro abbraccio.
Quando l’agente di guardia davanti alla porta comincia ad avvisare tutti i presenti che l’orario di visita sta per concludersi, Bill fa un sacco di fatica a lasciarlo andare.

*

Non passa neanche mezz’ora, che si sta già dirigendo verso la cella di Sido. Stringe le dita attorno alle banconote tutte spiegazzate che tiene in tasca, e non può fare a meno di pensare che incontrare Tom sia stato un errore madornale. Adesso la sola idea di spendere così quei soldi gli dà la nausea, ma è una nausea che non può permettersi, specie quando conosce quella che gli afferra lo stomaco e lo devasta quando sta troppo tempo senza una dose. Non è ancora mai andato in crisi d’astinenza – non ne ha avuto il tempo, e fortunatamente neanche il modo – ma quello che ha sentito nella sua vita, quello che ha visto durante gli anni di permanenza per le strade e la scossa di dolore nervoso che ha già provato sulla sua pelle quando ha lasciato passare troppo tempo fra una sniffata e l’altra sono tutte informazioni abbastanza circostanziate perché lui possa sapere al di là di ogni ragionevole dubbio che in quella condizione non intende trovarcisi proprio per un cazzo. E quindi, senso di colpa o meno, inghiotte amaro e si ferma davanti alla cella di Sido.
Appena fuori, proprio davanti alla porta, c’è un gorilla che sarà anche appena più basso di lui, ma in compenso è largo tre volte tanto. Bill ripensa con un po’ di nostalgia ai tempi in cui per strada per seminare uno stronzo come questo bastava un calcio nelle palle. Qui non può farlo – il rischio è di finire in buca, e non ci tiene affatto a farsi spogliare di tutti i suoi vestiti per finire abbandonato in una cella sotterranea sporca e maleodorante, senza finestra e con solo un secchio in un angolo per pisciare, per chissà quanto tempo – ed anche se potesse i giorni in prigione gli hanno insegnato la prudenza a suon di botte. E la sua schiena ancora ne risente, e ci tiene a ricordarglielo pungendo dolorosamente all’altezza dell’osso sacro. È già stato in piedi troppo a lungo.
- Fammi passare, Tony. – ringhia con evidente nervosismo. Quello sghignazza, incrociando le braccia sul petto.
- Magari oggi a Sido non va di vedere la tua faccia di cazzo, Kaulitz. Che ne pensi? – domanda, appoggiandosi con tranquillità alle sbarre dietro di lui. Sido, seduto su una sediolina di legno che tiene in equilibrio sui piedi posteriori, ha le gambe incrociate sulla superficie del tavolo di fronte a sé, e le mani intrecciate sullo stomaco. Osserva la scena senza mostrare né interesse, né disinteresse. Semplicemente attenzione.
- Tony, levati dai coglioni. – insiste Bill, le mani che tremano lungo i fianchi, - Ho i soldi. Non costringermi a ficcarteli su per il culo.
- Dici che mi piacerebbe? – chiede ancora quello, già ridendo fra sé per la battuta che sta per fare, - Te lo chiedo perché sai, il parere di un esperto è sempre importante.
Tutto il corpo di Bill è scosso da un tremito di frustrazione e impazienza, e sta quasi per tirargli un’unghiata in un occhio fregandosene della prudenza ed anche della paura di quante ne prenderebbe se si mettesse a litigare con Tony D, quando Sido tira giù le gambe dalla scrivania, mettendosi in piedi.
- Vatti a fare un giro, Tony. – dice gelido, incrociando le braccia sul petto ed appoggiandosi ad una parete. Tony D sta ancora ridendo, mentre si allontana verso la sala comune.
Bill irrompe nella cella come una furia, tirando fuori dalla tasca tutti i soldi che ha e schiantandoli contro la superficie del tavolo con stizza, guardando Sido negli occhi e digrignando i denti.
- Bella storia siete, voi maschi alfa di questo buco di merda. – non può fare a meno di commentare, - Vi nascondete tutti dietro chi ha le spalle più larghe di voi, sempre. Siete solo delle mezze seghe. Tu, quell’altro, tutti uguali. Avete tutti i vostri mastini favoriti coi quali fingere di poter fare la voce grossa anche se sapete perfettamente che se solo volessero potrebbero spezzarvi le gambe con uno schiocco delle dita. Mi fate pena.
Sido sorride, apparentemente neanche turbato dalle sue parole.
- Ciao, Bill. – lo saluta con un breve cenno del capo, - È un piacere anche per me.
- Non sono in vena di convenevoli, né di false cortesie, e sicuramente quello che ho detto fino ad ora non c’entra niente col piacere di vederti, che giusto per essere chiari non esiste. – batte con forza la mano sulle banconote sparpagliate sul tavolo, - Dammi quella merda e fammi tornare in cella.
Sido si prende il proprio tempo, prima di rispondere. Guarda lui, poi i soldi sul tavolo, poi di nuovo lui, e sorride ancora.
- Tu facevi la puttana, prima di finire qui. Correggimi se sbaglio. – comincia. Bill rotea gli occhi e lascia andare un lamento infastidito. Non c’è speranza di ottenere quello che vuole in tempi brevi, se ne rende conto anche da solo, sa capirlo quando qualcuno temporeggia nel tentativo di confonderlo, perciò lascia il denaro sul tavolo ed incrocia le braccia sul petto a propria volta, fissandolo dritto negli occhi, con attenzione.
- Non sbagli. Ora posso avere quello per cui ho pagato e andarmene? – domanda. Sido scuote il capo, smette anche di sorridere. La sua espressione si fa seria, perfino professionale, e Bill non sa più cosa aspettarsi da lui.
- Cosa penseresti, - dice, - se ti dicessi che ho una proposta per te?
- Penserei che non me ne frega niente e che ti sei bevuto il cervello. – sbuffa Bill, picchiettando nervosamente la punta del piede contro il pavimento, - Sido, qual è il tuo problema? – domanda annoiato, ma Sido non risponde. Si volta verso il tavolo, raccoglie tutte le banconote sparse sulla superficie, le spiana, le mette in ordine in un blocchetto che si prende perfino il tempo di pareggiare, e poi le porge a Bill.
- La mia proposta potrebbe permetterti di risparmiare questi spiccioli per qualcosa di meglio. – spiega, - Che ne so… ho sentito dire che se ne hai abbastanza da parte, puoi permetterti di corrompere qualche agente di custodia. – aggiunge con un mezzo sorriso, - E quando hai un agente di custodia dalla tua, la vita qua dentro può essere molto più semplice. E mi pare che a te un po’ di semplicità servirebbe eccome.
Bill gli lascia scorrere addosso un’occhiata incuriosita, anche se mantiene le braccia incrociate sul petto in segno di chiusura. Posa gli occhi sulle banconote che Sido continua tranquillamente a porgergli, e qualche secondo dopo gliele strappa di mano con un gesto secco, infilandosele sbrigativamente in tasca.
- Continua. – lo invita, senza però mostrare particolare interesse. Sido, comunque, sorride come se avesse vinto chissà che guerra.
- È da qualche mese che cerco di mettere su una nuova attività, da queste parti, - comincia vago, - ma purtroppo non ha ancora avuto modo di decollare perché, capisci bene, manchiamo in materia prima.
- …materia prima. – ripete Bill, inarcando un sopracciglio, - Posso solo immaginare di che tipo di materia prima si tratti, visto che ne stai parlando con me.
- Immagini bene. – ridacchia Sido, spostando il peso del corpo da un piede all’altro, per accomodarsi meglio contro la parete. – Insomma, ti sarai guardato intorno, da quando sei qua. Sei senza dubbio il più carino del gruppo. La gente pagherebbe per scoparti, come ben sai. E questo è un po’ il punto del mio discorso.
Bill rimane in silenzio per un paio di secondi, prima di concedersi un mezzo ghigno ironico.
- Non dirai mica sul serio? – sbotta, - Qui dentro? Vuoi farmi fare la puttana a tempo pieno qui dentro? Devo ricordarti che è per questo motivo che ci sono finito, qui?
Sido si stringe nelle spalle, sorridendo beato.
- Gli anni di esperienza nel campo contano, Kaulitz. – risponde semplicemente, - La mia proposta, comunque, è questa. Tu lavori per me, e in compenso… - si infila una mano in tasca, tirandone fuori una fialetta trasparente. Bill le lancia un’occhiata veloce e tutti i suoi sensi tornano ad acuirsi in un istante in maniera quasi dolorosa, pungendo sottopelle. La vuole. La vuole adesso. Direbbe di sì a qualsiasi cosa, per averla, e non riesce neanche a provare pena per se stesso mentre lo pensa. Ma se almeno può ottenerla senza per questo buttare via i soldi di Tom…
- D’accordo. – annuisce in fretta, afferrando la fialetta prima ancora che Sido possa aver sollevato completamente la mano. La stringe fra le dita con tanta forza che potrebbe spaccarla, ed è solo pensando a questo che cerca di allentare un po’ la presa. – Dimmi cosa devo fare.

*

Una delle docce gocciola. Solo nel bagno comune, appoggiato ad una parete e in nervosa attesa dell’uomo al quale ha appena venduto il culo per una fottuta dose il cui effetto non sarà durato più di cinque minuti, Bill non riesce a concentrarsi su nessun altro dettaglio. Gli effetti della dose stanno ancora scivolando via, sono lenti come l’acqua sporca agli angoli delle strade dopo che ha piovuto per ore, e si lasciano dietro la stessa velenosa traccia viscida e spiacevole. E il cazzo di rubinetto della doccia gocciola, e il suono si allarga dentro le sue orecchie in cerchi concentrici che gli fanno pulsare dolorosamente le tempie, e tutto quello che riesce a pensare è che plic il fottuto rubinetto della doccia plic gocciola plic. E lo stronzo non arriva. Plic.
Sta quasi per andarsene, dal momento che la schiena lo sta uccidendo e se resta in piedi un secondo di più palesemente morirà, quando il tizio che sta aspettando finalmente arriva. Solo che non è da solo. Non è uno, e non sono nemmeno due. Sono tre, e appena Bill riesce a mettere in moto il proprio cervello confuso abbastanza da contarli tutti, fa immediatamente un passo indietro.
- No. – dice risolutamente, - Io non le faccio queste stronzate. Potete tornare indietro e dire a Sido che per quello che mi interessa può anche andare a farsi fottere.
I tre si guardano fra loro, sembrano stupiti. Poi si lanciano sorrisi complici l’un l’altro, e riprendono ad avanzare verso di lui.
- Sai cosa, puttana? – dice uno di loro, allungano una mano ed afferrandolo per i capelli, tirandoli con forza ed obbligandolo a gemere di dolore mentre piega il capo all’indietro, cercando di seguire il suo movimento per non farsi troppo male, - Ce ne frega un cazzo di cosa fai o non fai. Abbiamo pagato, quindi ora tu stai buono e te lo fai mettere su per il culo, anche da tutti e tre contemporaneamente, se ci gira. Ci siamo capiti? – conclude con uno strattone. Bill quasi grida, ma poi si morde un labbro, e cerca di trattenere le lacrime che si stanno già raccogliendo fra le sue ciglia. Schiude gli occhi, guarda il tipo che lo tiene ancora stretto per i capelli, e digrigna i denti. Dopodiché, gli sputa in faccia.
- Certe cose le puoi ottenere solo pagando, quando sei una merda come quella che siete voi. – ringhia, e il tipo ringhia a propria volta, asciugandosi il viso col dorso della mano e poi afferrandogli la testa più saldamente, solo per spingerlo di faccia contro la parete.
Bill osserva il muro avvicinarsi quasi al rallentatore, e quando sbatte contro la superficie piastrellata e gelida il dolore gli esplode nella testa come una bomba, in macchie biancastre che gli offuscano la vista. Urla, e urla più forte quando qualcuno lo prende a calci nelle gambe, all’altezza delle ginocchia, che si piegano contro la sua volontà.
Il secondo dopo è rannicchiato sul pavimento, apre gli occhi e vede solo rosso e uno stronzo lo sta prendendo a calci nella schiena con tanta forza che lui non riesce a smettere di urlare. Semplicemente non riesce, ci prova a tenere la bocca chiusa, se non altro per non dare soddisfazione a questi psicopatici di merda, ma fa semplicemente troppo male, e il residuo della droga che ha sniffato non fa che amplificare la sensazione di dolore riempiendogli il corpo di brividi insopportabili, e lui continua a scuotersi e a urlare e gli stronzi continuano a calpestarlo, e quando uno dei tre gli sfila di dosso i pantaloni lui pensa “bene, cazzo, adesso almeno magari la smetteranno di picchiarmi e si concentreranno per scoparmi”, ma un altro dei tre stronzi gli si inginocchia accanto e gli sorride in un modo che gli fa quasi scoppiare il cuore di paura. Bill lo osserva sollevarsi la manica della maglietta fino al gomito e stringere la mano a pugno e pensa “no, cazzo, Dio, Dio, ti prego, no”, e ansima terrorizzato, e vorrebbe provare ad alzarsi in piedi e fuggire via, ma le gambe non rispondono, e la schiena fa male come gliel’avessero spezzata, e lui non riesce più a respirare, e poi le nocche dell’uomo premono contro di lui e lui urla così forte che si sente esplodere i polmoni nel petto, e strabuzza gli occhi, e poi qualcosa si spacca, e a lui non resta più fiato neanche per gridare.
Mentre la vista gli si annebbia, gli sembra di scorgere una figura familiare sulla porta del bagno. Una figura piccola, magra, che si muove in maniera strana. “Eko?” pensa, ma potrebbe essere un’illusione, così come la vocetta nasale che sillaba “merda”, un attimo prima che la figura scompaia, veloce com’è apparsa.
Un paio di minuti dopo, però, entrano in bagno cinque persone. Bill non vede un cazzo di quello che sta succedendo, non gl’importa nemmeno. Tutto quello che sa è che un attimo non respira, e l’attimo dopo qualcuno lo svuota, e lui può finalmente tornare a respirare. Anche se fa male. Come fa male tutto il resto.
Fa tutto così fottutamente male che non riesce a tenere gli occhi aperti abbastanza a lungo neanche per riconoscere Bushido che, mentre i suoi riducono quei tre bastardi in fin di vita, lo solleva di peso fra le braccia e lo trascina di corsa in infermeria.

*

Bill ha imparato a riconoscere l'infermeria dalla lampada che pende storta nel centro del soffitto pieno di crepe, così quando apre gli occhi non perde neanche un secondo a chiedersi dove si trovi. Impiega più tempo a capire perché sia di nuovo disteso su un letto e si senta stanco, assonnato e debole.
I ricordi arrivano insieme al dolore, quello sordo tra le gambe e quello più acuto e quasi insostenibile alla schiena che sembra essersi svegliata all'improvviso insieme a lui.
Geme infastidito e tenta di girarsi di fianco, che è l'unico modo che conosce per alleviare le fitte pungenti, ma non riesce. Non riesce nemmeno a capire quale arto sta muovendo quando lo muove. Se lo muove. Ha la testa così confusa, chissà quanti cazzo di antidolorifici gli hanno dato. Chissà quanto cazzo farebbe male senza; il solo pensiero lo fa rabbrividire.
Prova di nuovo a voltarsi, lancia un braccio sul materasso e afferra il lenzuolo. Cerca di usare quello per issarsi, ma gli sembra di pesare una tonnellata. Riesce soltanto a sollevarsi di qualche centimetro e, quando ricade giù, la schiena fa ancora più male e il dolore gli strappa di bocca un lamento disperato del quale si vergogna. E' così stanco che ha voglia di piangere.
Furioso, tira un pugno sul materasso mentre si morde forte un labbro per trattenere le lacrime di dolore e frustrazione. Non può stare disteso in quel modo un minuto di più, lo sa. “Dottoressa,” mormora. La voce gli esce debolissima e roca, rotta dal respiro affannato. Prova a chiamarla più forte ma non arriva nessuno. Gli fa male perfino la gola.
Mette insieme le forze, si concentra e si gira di scatto con un gesto rabbioso. Cercando alla cieca un appiglio a cui aggrapparsi, urta il vassoio che c'è sul comodino e quello cade, portandosi dietro una scodella, le posate e tutto il resto del suo pranzo, probabilmente. Ricade anche lui, sul materasso, e la fitta di dolore è così forte che lo riduce ai singhiozzi. “Vaffanculo!” Piagnucola. “Vaffanculo.”
“Ehi, piano” gli dice qualcuno, posandogli una mano sul braccio.
Bill fa uno scatto che gli strappa un'altra smorfia di dolore. Si volta a guardare chi è stato con tanto odio che quello fa un passo indietro. E' uno degli uomini di Bushido, quello basso e pelato.
“Tranquillo,” Chakuza tiene le mani bene in vista. “Non voglio farti niente. Mi sono avvicinato solo perché sembravi nei casini. Ti ricordi di me? Sono Chakuza.”
Bill lo guarda male un altro po' prima di sbuffare. “Mi hanno quasi stuprato, non ho mica perso la memoria,” replica infastidito. Si sforza di tirarsi su, ma anche mettersi seduto è un'impressa impossibile e per quanto tenti di nasconderlo, il dolore gli contorce i tratti del viso.
“Posso aiutarti?” Chiede Chakuza, prima di farsi avanti di nuovo.
Bill vorrebbe dirgli di andare a fanculo, ce l'ha sulla punta della lingua e la rabbia che prova per tutto e tutti indistintamente in questo momento vorrebbe tanto farglielo dire, ma non ce la fa più a stare in quella posizione. Così annuisce brevemente.
“Vuoi sederti?” Chiede l'uomo, sorreggendolo per il braccio.
Bill scuote la testa velocemente. “Di lato va bene,” lo informa mentre il peso sulla schiena si allenta e il dolore diventa più sopportabile. Adesso gli viene quasi da piangere per il sollievo.
“Ecco fatto. Va meglio?”
Bill annuisce sbrigativamente. Vorrebbe poter chiudere la conversazione adesso che non ha più voglia di accasciarsi e morire, ma Chakuza resta di fianco a letto e l'ombra della sua testa rotonda si allunga sulle coperte che sta fissando, impedendogli di ignorare completamente la sua presenza. Così sospira e si volta verso di lui con un sopracciglio sollevato. “Ti serve qualcosa?” Chiede.
“A me no, ma magari hai fame,” commenta lui. Voltandosi per recuperare un altro vassoio dal carrello che si trascina dietro.
Bill lancia un'occhiata al cibo che è finito per terra, dall'altra parte del letto.
“Lo avevo appoggiato sul comodino visto che dormivi,” si giustifica Chakuza, seguendo il suo sguardo mentre sistema il nuovo vassoio sul braccio mobile perché possa accedervi più facilmente.
Bill torna a guardare lui e quello che sta facendo. Chakuza dice cose talmente ovvie che non trova nessun argomento con cui replicare, perciò resta in silenzio mentre l'uomo appoggia con cura il piatto di carne e verdura, l'acqua, il pane e una porzione di budino alla vaniglia.
“L'hai fatta tu questa roba?” Chiede Bill.
“Non dirmi che hai paura,” commenta Chakuza, passandogli il tovagliolo e le posate, che poi sono solo una forchetta di plastica con le punte arrotondate e un cucchiaio, sia mai che gli venga in mente di sgozzare qualcuno. “Se serve a farti stare più tranquillo, non mi conviene avvelenare il cibo che servo. Non ho alcuna voglia di marcire qui dentro per sempre. “
Bill sbuffa dal naso, iniziando a tagliare la carne. “Lo dicevo perché ha un bell'aspetto,” precisa, con un ghigno. “Hai la coda di paglia, per caso?”
Chakuza non se la prende, ma a dirla tutta non sorride neanche. “Da queste parti è sempre meglio pensare al peggio e poi, nel caso, cambiare opinione,” commenta.
“Sì,” borbotta Bill. “Me ne sono accorto.”
“Sempre troppo tardi,” Chakuza nota l'occhiata che gli lancia una delle guardie e si affretta a fingersi indaffarato. In via del tutto eccezionale, decide che può raccogliere lui quello che è caduto. “Sei stato fortunato.”
Bill immagina che a fronte della possibilità di prendersi una malattia venerea, perdere un arto o l'uso cosciente del proprio corpo, lo strazio di una schiena a pezzi e dei dieci punti che gli hanno messo nel culo siano considerabili come una fortuna. Forse crepare lo sarebbe stato di più. “Infatti, non lo vedi come festeggio?” Chiede ironico. “Credo che lo champagne arriverà da un momento all'altro.”
“Dico sul serio,” insiste Chakuza. “Se non fosse stato per Eko, poteva andarti molto peggio.”
Allora era davvero lui la figurina magra che ha intravisto prima di perdere i sensi. “Mi è sembrato di vederlo,” mormora.
“Non doveva essere lì. Ti ha seguito di sua spontanea volontà, perché è pazzo o sa il cazzo perché,” spiega Chakuza, mentre impila i piatti sporchi sul carrello. “Dovresti ringraziarlo appena esci dall'infermeria.”
“Se mai uscirò, sarà il mio primo pensiero,” fa in modo di suonare ironico ma non gli riesce un granché bene, forse perché ogni volta che apre bocca gli torna in mente la paura che ha provato – che non era quella buona che ti tiene all'erta ma quella violenta e paralizzante che non ti serve a sopravvivere a niente, perché ti lascia inerme contro qualunque pericolo ti si pari davanti – ed è consapevole che se non ne ha provata di più lo deve soltanto a quell'uomo con la faccia da topo.
“Bene,” annuisce Chakuza, sollevandosi finalmente da terra. “E magari potresti provare a mostrare un po' di riconoscenza in generale. “
Bill gli alza subito addosso un'occhiata altezzosa e infastidita. “Prego?”
Durante tutto il tempo che ha passato là dentro, Bill si è abituato che alle sue reazioni scostanti la gente reagisce ridendo oppure trattandolo ancora più di merda di quanto lui non faccia con gli altri. Chakuza invece sospira. “E' normale che tu non voglia fidarti di nessuno qua dentro, soprattutto perché hai visto quanti pezzi di merda ci sono,” spiega. “Ma dopo che ti sei fatto un'idea di che aria tira, ti accorgi che un amico ti serve. Qua dentro da solo non puoi sopravvivere. Vale per tutti, non solo per quelli come te.”
“Che sarebbero?”
“Quelli che non si sanno difendere,” specifica Chakuza, con molta più pazienza di quanto, ancora una volta, Bill si aspetti da lui. “Ed è inutile che fai quella faccia, perché sei tu quello su un letto d'ospedale e io quello in piedi, quindi almeno su questo mi darai ragione.”
Bill non smette di fare nessuna faccia anzi, se possibile lo guarda perfino peggio, e fa schioccare la lingua. “Di' un po' ti manda lui, per caso?” Chiede, sviando il discorso.
“No, non mi manda nessuno perché, se ti è sfuggito, questo è il mio lavoro,” replica Chakuza. “Comunque Bushido era preoccupato per te. Quando Eko è venuto ad avvisarci, è sbiancato, che per lui è una bella impresa.”
Bill si fa scappare una risatina che gli esce camuffata come l'ennesimo sbuffo, ma è comunque riconoscibile, tanto che anche Chakuza ride.
“Non ci ha pensato un secondo, ragazzino,” aggiunge poi più serio, con una scrollata di spalle. “E dopo tutto quello che ci hai combinato e abbiamo... perso, per pararti il culo, forse sarebbe il caso che ti ricredessi, non ti sembra?”
A quel punto la guardia ne ha avuto abbastanza e si incammina verso di lui, costringendolo a recuperare il suo carrello senza poter aggiungere altro.
Bill è contento così perché sa di poter dire le parole che ha in gola una volta sola, e non sarà qui.

*

Jost è incazzato come una bestia.
Non che Bushido si aspettasse di trovarlo pacifico e pronto al dialogo, ma quando la guardia lo fa entrare nell'ufficio del direttore, lui ha appena finito di sbattere il telefono contro il muro dall'altra parte della stanza e quello, naturalmente, si è fracassato in tre pezzi.
“Sai che l'infarto è una delle più comuni cause di mortalità tra gli uomini della tua età, specialmente quelli che fanno un lavoro di merda come il tuo?” Commenta, mettendosi obbediente al suo posto, con le mani bene in vista davanti a sé.
“Stai zitto!” Urla Jost, senza che per altro Bushido sia colpito dalla violenza con la quale lo fa. “Abbi la decenza di tacere, almeno.”
Bushido chiude la bocca, ma con l'aria di uno che ti accontenta. Jost questa cosa di lui non la sopporta, come non sopporta tante altre cose, ma questa più delle altre perché Bushido non dovrebbe accontentare nessuno. Lui dovrebbe eseguire gli ordini perché è un detenuto. E i detenuti fanno questo, ma lui ovviamente si sente al di sopra di tutto. Ce lo ha scritto in faccia e alle volte Jost ha davvero una gran voglia di prenderlo a pugni finché non si stanca.
Alla fine si ricorda che non può e si ricorda anche che, fra tutte le cose che non può permettersi di fare, mostrarsi così vulnerabile è proprio l'ultima, pertanto emette un sospiro e lo guarda duramente. “Quello che è successo oggi è inammissibile,” inizia. “Da chiunque e da te più di chiunque altro.”
“Non mi sembrava di essere un detenuto speciale. “
“Ti sembra eccome, Ferchichi,” continua Jost. “Ti sembra eccome. Io garantisco per te per farti dare la condizionale e tu mi mandi d'urgenza tre uomini in ospedale?”
Bushido, in realtà, non ha mandato all'ospedale proprio nessuno. E' entrato in quel bagno, ha rotto il naso a uno dei tre e ha lasciato che i suoi si occupassero del resto mentre recuperava le quattro ossa di Bill per portarlo in infermeria. Jost lo ha fatto chiamare solo perché sa che Chakuza e gli altri ragazzi non si muovono senza che lui lo abbia ordinato.
“Chiamiamoli danni collaterali. Mi hanno attaccato, mi sono difeso.”
“Li hai quasi ammazzati.”
Bushido non fa una piega. “Quasi,” dice soltanto. “Si vede che sono scivolati e hanno battuto la testa nel modo sbagliato. Succede.”
“Piantala con le cazzate!” Sbraita David. “Con questa bravata hai messo a rischio la libertà vigilata! Non posso coprirti in eterno.”
Bushido fa qualche passo irritato verso la scrivania. “Vuoi parlare di cazzate, David?” Ringhia, a voce abbastanza alta da stabilire quanto sia incazzato ma non abbastanza da richiamare l'attenzione della guardia fuori. Jost si fa indietro per affrontarlo, ma senza paura. “Parliamo di cazzate! Pensi davvero che se mi sono mosso dalla mia cella per prendere a calci nel culo tre stronzi lo abbia fatto per divertirmi e rischiare di perdere tutto quello per cui ho lavorato finora? Te lo dico io, Jost, no. Li ho fatti pestare perché stavano per violentare il tuo fottuto ragazzino. “
“Avresti potuto chiamare le guardie.”
“Vuoi sapere la cosa divertente, Jost? Le ho avvertite le tue stramaledette guardie. Eko ha avvisato loro prima di me ma si vede che quelle sono sorde perché sono arrivate mezz'ora dopo. Se la prendono comoda i tuoi uomini, eh? Tanto c'è tempo. D'altronde che cazzo vuoi aspettarti da gente che sa benissimo quali zone è meglio non perlustrare se non si hanno né le palle né la voglia di intervenire!”
David si appoggia allo schienale della sedia e per un attimo guarda altrove. Fosse un qualsiasi altro detenuto, replicherebbe e magari negherebbe anche, ma con Anis Ferchichi no. Se fra loro c'è il rapporto che c'è – per quanto sbagliato possa essere – è anche e soprattutto perché non si sono mai detti cazzate a vicenda. Certo, Ferchichi ne spara di grosse ma non con la volontà di fargliele anche bere, e David non gli mente, nel bene e nel male. Pertanto annuisce, prendendo atto della pigrizia di guardie carcerarie che può permettersi di punire fino ad un certo punto.
C'è uno strano equilibro nelle carceri, fra gli occhi che si possono chiudere e i reati che non si possono commettere e mantenere la bilancia perfettamente in pari è il compito più difficile di tutti. Guarda caso il suo. “Chi è stato?”
“Sido, è stato,” sbuffa Bushido, mentre la rabbia lo abbandona come fosse bastato urlare per liberarsene. Torna anche al suo posto. “Non ti è arrivato l'ultimo numero del gazzettino ufficiale?”
“Siete sul piede di guerra, lo so,” replica Jost infastidito. Conoscere lo status quo della prigione è un fattore importante per mantenere tutto sotto controllo.
Bushido scuote la testa. “No, lui è sul piede di guerra,” precisa. “Io sto cercando di tenerlo buono.”
“Pestando a sangue tre dei suoi?”
“Ha iniziato lui.”
David annuisce ironicamente. “E questo non ha niente a che vedere con l'allontanamento di Fler?” Butta lì, come se fosse una cosa da nulla.
Bushido lo fulmina con lo sguardo. “No.”
David lo fissa dritto negli occhi per minuti interi e poi sorride. “Diciamo che faccio finta di crederti perché ne ho piene le palle di tutti e due,” commenta, recuperando qualche foglio e iniziando a scriverci sopra come se volesse in questo modo annunciare la fine della discussione. “Tu pensa a stargli lontano anche quando uscirà dalla buca. Spiegherò alla commissione la tua posizione, farò leva sul fatto che il tuo spirito comunitario è più spiccato di quello degli scagnozzi di Sido. E speriamo che questo faccia ombra sul fatto che è l'ennesima storia di droga.”
“Ti aiuterà il fatto che né te né la commissione avete prove a riguardo.”
“Le prove si trovano.”
Bushido ride. “Auguri, allora.”
Jost chiama la guardia e lo fa portare via senza abbassarsi a rispondergli ancora e a Bushido sta bene così. Sa che per un po' almeno le acque si calmeranno e lui potrà sistemare il macello che si è andato a creare, come al solito. Esce dalla stanza con la flemma di chi non ha nessuna fretta né di raggiungere qualche altro posto né di liberarti della sua presenza perché sa che ti dà fastidio e si lascia ricondurre docilmente nella cella che ancora vuota. Bill dev'essere ancora in infermeria.
Non si preoccupa però, Chakuza è lì a controllare e se fosse successo qualcosa, Bushido lo saprebbe già, pertanto si issa sul suo letto e si distende con uno sbuffo stanco, coprendosi gli occhi con un avambraccio.
E' così che Bill lo trova, quasi quaranta minuti dopo, quando faticosamente riesce a tornare in cella, con l'aiuto della guardia che è costretta a sostenerlo perché la schiena gli fa ancora male.
Rimane per un po' al centro della stanza, i rumori della prigione vanno affievolendosi, è quasi ora che spengano le luci, ormai.
“Sei tornato,” dice Bushido, senza cambiare posizione.
Bill annuisce e stringe i pugni lunghi fianchi, per darsi coraggio stavolta, ma le parole fanno tutto da sole. Escono più facilmente di quanto sperava, forse perché sono davvero sincere. “Grazie per oggi,” mormora.
Bushido gli fa solo un cenno. Non c'è bisogno di dire altro.

*

La vita nella prigione diventa più facile. Non che le pareti si colorino di rosa e i detenuti comincino a cantare in rima spargendo ovunque amore e gioia, ma almeno non tentano più di ammazzarlo, scoparselo o fare le due cose insieme e, per quanto lo riguarda, a Bill sta bene così. Naturalmente questo succede perché lui ha deciso di accettare la protezione di Bushido – il che significa che ovunque vada uno dei suoi uomini lo tiene d'occhio, in ogni momento della giornata – e quindi nessuno che abbia un cervello si azzarda anche solo ad annusarlo da lontano. Dopo la schiena a pezzi, i punti di sutura e una dose di legnate che in confronto quelle di suo padre erano carezze, Bill comincia quasi ad abituarsi e ad apprezzare la possibilità di farsi una passeggiata nel cortile senza rischiare la vita. Ad aiutare questo processo c'è anche il fatto che Bushido non gli fa mai pesare il fatto che glielo avesse detto. Non nomina mai quello che è successo in passato, non ne fa nemmeno un accenno. Dopo l'aggressione per volontà di Sido – che, intanto, pare non si sia ravveduto quando Jost glielo ha chiesto la prima volta dopo tre giorni e che, per questo, sia ancora chiuso in buca con nessuna prospettiva di uscirne tanto presto – Bushido ha ricominciato da zero, con lui e lo ha perfino trascinato via da quel buco di merda della libreria per farlo trasferire nelle cucine con i suoi ragazzi, adesso che può farlo senza rischiare niente.
Bill davvero non sa come possa ottenere sempre tutto quello che vuole con Jost. Lui e il direttore della prigione hanno parlato una volta soltanto, quando lui è entrato, e non è che si siano detti grandi cose.
Più che altro Jost ha tentato di avvisarlo che sarebbe stato un inferno, solo che non l'ha fatto un granché bene, perché è evidente che non ha proprio un'idea chiara di quello che succede là dentro, della droga che gira, della gente che sparisce le ore per poi tornare più sfatta di prima. Bill vuole credere che non lo sappia, anche se in fondo è consapevole che è così, perché se solo pensa che sia a conoscenza di tutto, ricomincia ad aver paura delle cose orribili che si nascondono dietro l'angolo e non ne ha proprio voglia; non ora che la tensione si è allentata al punto che arriva perfino a scherzare con gli altri, ogni tanto.
L'unica cosa che Bushido gli ha davvero ordinato di fare è andare alle sedute di recupero per la sua dipendenza. Non è che Bill abbia fatto i salti di gioia – lui non è certo il tipo che si alza in piedi e racconta i cazzi suoi ad un cerchio di altri disperati che si sono ridotti a sniffare qualunque cosa pur di dimenticarsi in che mondo vivono – ma questa al tunisino gliela doveva, anche solo perché grazie a lui cammina ancora. Lui è contento, il tipo che gestisce le sedute pure e tutti dicono che funzionerà. A Bill sembra che funzionerà perché non c'è più nessuno che gli venderebbe la roba ormai, ma che sia per un motivo o per l'altro va bene uguale, a lui conviene non avere più crisi. Non vuole trovarsi a strisciare ai piedi di qualcuno peggiore di Sido. Se qualcuno del genere c'è.
Insomma, per essere uno che i primi mesi li ha passati in infermeria, con l'unica speranza che, una volta uscito, non ce lo rimandassero troppo presto, la sua vita è sensibilmente migliorata e questo significa che, oltre ai doveri – fin troppi – ha anche un certo numero di piaceri che ora può godersi senza dover sempre pensare a quanto fa schifo la sua vita in generale. Anche perché, a ben pensarci, per come stanno le cose adesso, faceva ben più schifo fuori.
Qui dentro ha un letto, il riscaldamento e mangia tre volte al giorno, se si escludono le docce in comune e qualche detenuto che dovrebbe imparare ad usarle, giusto per non rischiare di ammazzarli tutti, sta quasi pensando che alla fine di questi dodici anni che gli restano da passare in cella, potrebbe mordere un altro paio di uccelli e prolungare il soggiorno. Ha cominciato a scherzare, appunto.
Ora che scandisce il suo tempo con le cose che ha da fare, è anche più facile farlo passare. Qualcuno gli ha detto che così è anche più facile rendersi conto di quanto ne passa, ma lui ha scrollato le spalle e come al solito è andato per la sua strada.
Bill ha il risveglio difficile, nel senso che potesse dormirebbe per metà della giornata e passerebbe l'altra metà a svegliarsi buttato su una sedia a caso, ma non può farlo naturalmente; per questo Bushido, fra le tante responsabilità, si è accollato anche quella di afferrarlo per l'orlo dei pantaloni e tirarlo giù dal letto, tutte le mattine alle sette precise, quando le luci si accendono. All'inizio è stato traumatico – leggi molto irritante – ma alla fine si è abituato e da qualche giorno a questa parte, riesce perfino a prevedere quando la sua mano si allungherà verso di lui e si scosta prima, saltando giù per conto suo.
Il lunedì non è diverso dalla domenica dentro una prigione, ma per chissà quale automatismo mentale sono tutti quanti più scorbutici. Loro delle cucine devono sistemare le scorte, ne arrivano di nuove ogni inizio settimana. Bill pensava che ci fosse qualcuno – chi, gli gnomi? Lo ha preso in giro Saad – che lo faceva per loro, perché non si intascassero qualcosa, ma poi ha scoperto che tutto il cibo arriva in grossi bidoni pesanti che per aprirli devi comunque portarli in cucina, aprirli e poi rimettere a posto. Quindi se proprio ti fotti qualcosa, hai comunque prima fatto il tuo dovere.
Il mercoledì, Eko lo ha convinto ad andare in palestra, anche se poi lui non solleva nemmeno un chilo e a Bill fare pesi non interessa, così finisce che si siedono sulla panca e Bill gli fa duemila domande su Bushido e sulla banda, cercando di dare un senso al groviglio sconclusionato di parole che è il linguaggio di quell'uomo.
Il venerdì ha le sedute di recupero, il che significa che deve recarsi in questa saletta adiacente l'infermeria, sedersi sulla sua piccola sedia di legno e stare a sentire gli altri che si pentono e si dolgono di aver fatto uso di droga, alcuni trovano anche la faccia tosta di assicurare ai presenti che senza si sta meglio. Sì, forse. A Bill non importa granché ma è molto bravo a fingere il contrario. Lui non ha ancora parlato. Il medico o quello che è che presiede le sedute gli ha chiesto un paio di volte come stava, lui ha risposto bene e poi sono stati a guardarsi negli occhi per cinque minuti annuendo. Ha ancora molta strada da fare, pare.
Il resto del tempo in cui non lavora, non finge di allenarsi in palestra e non si oppone ostinatamente all'auto analisi, lo passa con Bushido. Bill lo segue letteralmente passo passo ovunque vada.
Adesso che hanno sistemato la questione della protezione, quell'uomo lo incuriosisce. Si chiede che cosa lo abbia spinto a continuare a difenderlo nonostante tutto. Bill è perfettamente consapevole che la libertà vigilata di Bushido è legata al suo comportamento, ma sa anche che la possibilità di un privilegio così grande si perde anche solo per la metà delle cose che Bushido ha combinato per parare il culo a lui. Ad un certo punto avrebbe anche potuto andare da Jost, visto che sembrano tanto in confidenza, e fargli presente che Bill non era affare suo e invece non lo ha fatto.
In questi giorni lo ha osservato attentamente mentre parlava con i suoi ragazzi o tentava un dialogo con i suoi nemici che invece gli hanno riso in faccia. Bill era lì di fianco e nessuno gli ha posato gli occhi addosso, hanno fissato solo Bushido fintanto che ha parlato.
A quanto gli è sembrato di capire Bushido sta lavorando da tempo nel tentativo di trovare un accordo con Sido, una specie di tregua. Ci stava provando già prima che arrivasse lui ma con scarsi risultati e ora, con Sido chiuso in buca, è ancora peggio perché i suoi uomini gli si sono chiusi intorno e se hanno un qualche sentimento nei confronti della situazione è di odio profondo. Detestano Bushido e lo vorrebbero morto, così quando si presenta nelle loro celle accompagnato da Bill, è già tanto se lo fanno parlare. Bushido però non molla, così come non ha mollato con lui.
“Si può sapere chi te lo fa fare?” Chiede Bill mentre lasciano la cella di Tony D.
“Fare cosa?”
“Questo sforzo assurdo. Cerchi di entrare nella testa della gente anche se quella ha chiaramente il piombo fuso nel cervello. Insomma, guardali!” Bill accenna agli uomini di Sido che, alle loro spalle, ancora ridono di gusto. “Come puoi pensare che capiranno mai qualcosa?”
Le labbra di Bushido s'increspano in un sorriso appena accennato che Bill riesce a vedere solo perché lo sta fissando anche se lui non lo guarda. “Vuoi dire che dovrei lasciar perdere chi si ostina a ripetermi continuamente no?”
Bill alza gli occhi al cielo mentre lo segue nei bagni. “Questa è una situazione diversa,” precisa.
“No, non lo è.” Bushido si slaccia i polsini della camicia e li tira un po' su, quindi si toglie l'orologio e glielo passa prima di accingersi a lavarsi le mani. “Sono solo incredibilmente testardi perché credono che accettare una tregua sia segno di debolezza. Quello che non capiscono, perché sono così pieni di loro stessi da non vedere nient'altro, è che se smettessimo di farci la guerra potremmo ottenere molto di più qua dentro.”
“Tipo?” Chiede Bill, rigirandosi il grosso orologio da uomo tra le dita magrissime.
“Più sicurezza, più libertà, la fiducia di Jost,” elenca Bushido. “Se vedesse che non ci ammazziamo per un posto in mensa, forse sarebbe più ben disposto ad organizzare attività di cui finora non ha nemmeno voluto sentir parlare. Ha paura di quello che potrebbe succedere da un momento all'altro e non gli si può dare torto quando i detenuti non fanno che aggredirsi gli uni con gli altri.”
“Com'è che tu e Jost andate così d'accordo?”
Bushido scrolla le mani nel lavandino e le asciuga sui pantaloni. “Che cos'è, stamattina, la giornata delle domande?” Esclama ridendo e riprendendosi l'orologio. “Non dovresti essere da qualche altra parte?”
“Sfortunatamente per te no,” replica Bill, che è costretto ad asciugarsi le mani anche lui dopo che Bushido le ha sfiorate con le sue. “Allora?”
“Allora cosa?”
“Tu e Jost vi conoscevate?”
Bushido espira dal naso. “Lo sai, ragazzino, non vado molto d'accordo con gli interrogatori,” gli fa notare mentre si avviano insieme fuori dai bagni e di nuovo in direzione delle celle.
“Non è un interrogatorio, sto facendo conversazione.”
“Allora non ti dispiacerà se ti faccio io qualche domanda.”
Bill ha passato troppo tempo per strada a dubitare di chiunque gli si avvicinasse, nascondendo per questo ogni tipo di informazione personale, per essere entusiasta di quella prospettiva, perciò si irrigidisce un po'; ma trova comunque la faccia tosta di stringersi nelle spalle. “Che cosa vuoi sapere?” Chiede.
Si incamminano lungo il corridoio che porta alle celle. Apparentemente hanno un sacco di libertà, ma i percorsi sono segnati, non ci sono molte alternative. “Quello che ti è venuto a trovare è tuo fratello?” Chiede Bushido.
“Cosa fai, mi spii adesso?” Chiede Bill, lanciandogli un mezzo sorriso storto e nervoso, più che altro per prendere tempo.
“Con te non si sa mai,” scherza Bushido. “Comunque mi trovavo a passare da quelle parti. E, anche se non rispondi... siete due gocce d'acqua.”
“Tom ed io siamo gemelli,” sospira Bill.
“Ma non mi dire,” Bushido ride di cuore. Una cosa che prima faceva spesso, a quanto dice Eko, ma che Bill non gli aveva mai visto fare. E' un po' assurdo che rida proprio parlando di suo fratello che, per lui, è tutto tranne che un argomento di cui ridere. “E anche lui fa la tua stessa vita?”
Bill scuote la testa. “No, lui è il gemello buono.”
Per un po' smettono di discutere perché Bushido deve fermarsi a parlare con un paio di persone e Bill resta lì al suo fianco, in silenzio. Potrebbe allontanarsi per evitare definitivamente l'argomento, e accarezza l'idea di farlo, ma poi si rende conto che potrebbe andare in ben pochi posti e che alla sera Bushido lo inchioderebbe di nuovo, quindi tanto vale restare. O forse gli piace stare lì a guardarlo mentre ha a che fare con gli altri detenuti, il modo un po' impostato ed eccessivo con cui si presenta, la posa che assume – molto rilassata eppure autoritaria – Bill non ha idea di come ci riesca, ma sembra che per lui i muri della prigione non esistono. Da come si muove ti dà l'idea che una volta finito di chiacchierare potrebbe continuare a camminare oltre il corridoio, superare la cancellata e uscire all'aria aperta. Così, come niente.
“E il resto della tua famiglia?” Quando Bushido riprende il discorso, sono nella sala comune e lui era perso nei suoi pensieri. “Tuo padre e tua madre?”
Bill si stringe nelle spalle. “Ci hanno guardati e dopo un'attenta analisi hanno deciso che lui era più conveniente.”
“Vuoi dire che tu eri troppo problematico?”
“Troppo frocio,” precisa subito Bill, con un'asprezza nella voce che non nasconde niente dell'odio che prova.
Bushido annuisce come se quel breve scambio di frasi fosse stato sufficiente a fargli inquadrare l'intero problema. Si trattasse di qualunque altra persona, Bill ne dubiterebbe fortemente ma, trattandosi di Bushido, gli concede il beneficio del dubbio.
“Quindi tuo padre non accetta il tuo stile di vita.”
A Bill scappa da ridere. “Sì, è un modo come un altro di dirlo.”
Bushido gli lancia uno sguardo interrogativo, forse il primo da quando si conoscono. Bill sbuffa un'altra risata, una amara però. “Quando mio padre lo ha saputo mi ha preso subito a cinghiate per evitare che il Signore lo ritenesse responsabile, immagino. Dopodiché mi ha spedito da un prete e da un medico e quando il primo non mi ha esorcizzato come sperava e il secondo gli ha confermato che non era una malattia, mi ha preso a cinghiate di nuovo, perché secondo lui non se ne danno mai abbastanza di cinghiate a chi ama prenderlo nel culo, che è tutto ciò che ha capito lui quando gliel'ho detto.”
“E tua madre?”
Gli occhi di Bill si fanno più scuri, come se fosse più difficile per lui parlare con tanta leggerezza della madre. “Mia madre è rimasta in silenzio, come suppongo ci si aspettasse da lei,” sospira. “Mio fratello mi ha difeso per un po', ma casa mia non era più vivibile e così me ne sono andato. D'altronde gli rimaneva sempre un figlio con cui consolarsi.”
“Non li senti mai? Neanche adesso?”
“Non credo che sappiano che sono qui. L'ultima volta che ho visto mio padre è stato quando me ne sono andato. Mia madre ha continuato a volermi incontrare per qualche mese, cercando di convincermi a perdere le cattive abitudini. Poi si è stancata anche lei,” Bill si stringe nelle spalle. “Immagino fosse più facile fingere che ero morto piuttosto che sapermi per strada, non so.”
“Tuo fratello deve volerti molto bene,” commenta Bushido, mentre raggiungono la cella. Sistema alcuni articoli da bagno che gli sono arrivati per posta sulla mensolina sotto allo specchio. “E' lui che ti porta i soldi?”
Bill annuisce. “Non dovrebbe, ma è impossibile farlo smettere.”
“Ha la testa dura come suo fratello,” sorride Bushido. Davanti allo specchio si schiaffeggia piano la faccia, come fa di solito. Bill non ha capito se è per ridare tono al viso o per svegliarsi, anche se propende per la seconda visto che Bushido non sembra il tipo da maschere facciali. “Sei fortunato ad avere qualcuno che sta dalla tua parte. Quando sei nella merda fino al collo, anche una persona sola fa la differenza.”
Bill lo osserva con attenzione, non perde nemmeno il più piccolo dei movimenti. Quand'era più piccolo non era così bravo a notare i dettagli, ma col tempo le cose sono cambiate; ha dovuto imparare a riconoscere le situazioni dalle prime avvisaglie, in modo da potersi difendere. E ora scruta Bushido mentre si aggira per la cella e rifà il proprio letto in maniera metodica e veloce, la maniera di uno che abituato a fare gli stessi gesti da un sacco di tempo. “Per te chi c'era?”
“Chi ti dice che c'era qualcuno?” Chiede l'uomo, allungandosi a stendere bene il lenzuolo.
Bill si è seduto per terra e scrolla le spalle. “Hai l'aria di uno che aveva qualcuno dalla sua parte.”
Bushido non si volta, ma sorride. “Era mia madre,” risponde Bushido e Bill resta stupito perché in realtà non si aspettava che l'uomo rispondesse. “Mi ha sempre difeso, anche quando non me lo meritavo perché mio padre se lo meritava sempre meno di me.”
“Non andavate d'accordo?”
Bushido solleva una spalla. “Quand'era sobrio andava quasi tutto bene. Ma non lo era mai,” spiega con un sospiro. La sua voce ha il tono rassegnato di chi una situazione l'ha già vissuta ad ogni livello e, quale che sia, vi ha già trovato una soluzione. Mentre a Bill fa ancora male sapere che a casa sua non si può più fare il suo nome, Bushido sta solo raccontando un fatto come un altro che casualmente è successo a lui come poteva succedere a chiunque. “Picchiava mia madre ogni volta che poteva e picchiava me ogni volta che cercavo di difenderla. Ho sopportato finché non ha messo le mani su mio fratello, allora non ci ho visto più. Quella è stata la prima volta che sono finito in galera.”
“Lo hai ucciso?”
Bushido scuote la testa. “No, ma lui mi ha fatto arrestare per aggressione perché gli ho rotto il naso. Mi sono fatto sei mesi di riformatorio,” spiega. “Quando sono tornato a casa, però, lui non c'era. Mia madre lo aveva buttato fuori a calci.”
Bill annuisce e basta, perché non sa che cos'altro dire.
A quanto pare lui e Bushido non sono poi così tanto diversi.
Quando Chakuza compare sulla porta della cella ad avvertire Bushido che è ora di occuparsi della cucina, Bill si chiede cosa sarebbe cambiato nella sua vita se tornando dall'ospedale quel giorno, a sparire di casa fosse stato suo padre e non lui.
Poi scuote la testa e si affretta dietro Bushido quando lui lo chiama.

*

Decide di farlo quella notte. Non che ci abbia davvero pensato, in realtà, non l’ha certo programmato o pianificato, ma è qualcosa di cui il suo corpo sente un intenso bisogno, prima ancora della sua mente. Non può che immaginare che si tratti di un residuo di quando ancora viveva a casa sua, dove niente lo aiutava a capire di fronte a chi si trovasse più delle reazioni fisiche che aveva in sua presenza. Il modo in cui suo padre lo guardava, come se neanche riuscisse a reggere la sua vista tale era il disgusto che la sua persona gli suscitava, il modo in cui sua madre distoglieva dolorosamente lo sguardo trincerandosi dietro un muro di scuse e di falsa impotenza, il modo in cui invece Tom non smetteva mai, nemmeno per un secondo, di cercarlo con gli occhi, e con le braccia, ed a volte, nei momenti più duri, perfino con le labbra, quando sfiorava in un bacio infantile ma spaventosamente confortante qualche livido particolarmente vistoso su uno zigomo, o sull’angolo delle sue labbra.
Questa è probabilmente l’unica cosa che Bill ricorderà per sempre, di casa propria. E si tratta di un insegnamento che ha sempre seguito con scrupolosa attenzione.
Ed è per questo che quella notte scivola fuori dal proprio letto. Perché dopo le settimane che ha passato ad osservarlo, a seguirlo ovunque, a seguire perfino i suoi ordini fingendo che si trattasse di consigli per mandarli giù con meno difficoltà, c’è ancora qualcosa che vuole chiedere a Bushido, una domanda senza voce della cui risposta sente di avere bisogno più di qualsiasi altra cosa Bushido gli abbia mai detto, o dimostrato, o fatto capire a parole.
È un’azione che gli serve. Gli occhi che sfuggono o che restano incollati. Le mani che si avvicinano o si nascondono. I tocchi che si fanno curiosi o si ritraggono. Di questo ha bisogno. E dopo sarà facile, sì, sarà molto più facile capire il perché di molte cose. Perfino capire di più Bushido stesso.
La prigione è naturalmente avvolta nel buio più totale. Bill è rimasto sveglio tutto il tempo, per controllare gli agenti di custodia. L’ultimo è passato con la torcia una ventina di minuti fa, ed era il quarto. Ciò vuol dire che sono ormai quasi le cinque del mattino, fra un paio d’ore le celle verranno aperte e le luci riaccese, e nel frattempo nessun altro secondino dovrebbe passare a spiarli.
Bushido sembra dormire serenamente, il viso rivolto verso il muro. Le sue spalle si sollevano e si riabbassano lentamente, seguendo il ritmo placido del suo respiro, e Bill ne segue la linea con attenzione, rendendosi conto per la prima volta in quel momento di quanto in realtà sia quelle che tutto il resto del corpo di Bushido sia sottile. È strabiliante che, pur magro com’è, riesca a farsi rispettare da tutta quella gente. Se non lo conoscesse almeno un po’, se non sapesse che non è certo a causa della forza fisica di Bushido che tutti chinano il capo ad ogni suo ordine, non riuscirebbe neanche a crederci.
Gli viene perfino da sorridere, nel pensarlo, ma quando si accorge della piega che hanno preso le sue labbra – e i suoi pensieri – si affretta a scuotere il capo, liberandosi di quel fardello di melensaggini gratuite. Non è un ragazzino, non è stupido, e soprattutto di Bushido non gliene frega niente. Non in questo senso, almeno, e decisamente non prima di averlo sottoposto a quest’ultimo test.
Pianta le mani sul materasso e si issa senza difficoltà sul letto di Bushido, sedendosi sulla sponda per poi distendersi un attimo dopo, raggomitolandosi contro la schiena dell’uomo e strusciando il viso in mezzo alle sue scapole come un gattino in cerca di coccole, lasciandosi perfino sfuggire un mugolio minuscolo, giusto per attirare la sua attenzione e dargli una mano a svegliarsi, nel caso la sua improvvisa presenza da sola non sia riuscita nell’intento.
Bushido si sveglia – Bill lo sente nel ritmo del suo respiro, che cambia all’istante – ma non si agita. Sembra quasi che se l’aspettasse, anche se, in realtà, con Bushido non si può mai dire. Non ha quasi mai reazioni talmente improvvise o violente da far supporre che non immaginasse già che qualcosa dovesse prima o poi avvenire.
- Che cazzo stai facendo, ragazzino? – domanda, e infatti la sua voce è perfettamente tranquilla, perfino rilassata. Anche troppo.
Bill, comunque, sorride, allungando una mano a scivolare lungo il suo fianco, e poi avvolgendogli un braccio attorno alla vita.
- Non riuscivo a dormire, - risponde a bassa voce, lasciandogli baci lievissimi lungo la spina dorsale attraverso il tessuto di cotone sottile della canottiera che l’uomo indossa, - e perciò ho pensato di venire a farti una visitina. Magari potevi darmi una mano, - suggerisce, - o magari… - aggiunge con un altro sorrisino, la mano che scivola giù fra le gambe di Bushido, - potevo darla io a te.
Bushido non fa niente per fermarlo, e Bill non si accorge neanche di quanto questo dovrebbe deluderlo. Si è messo in questa situazione proprio perché voleva provare qualcosa a Bushido e a se stesso, d’altronde, perché voleva dimostrare che anche lui non è poi diverso da tutti gli altri uomini di quella prigione, perfino da tutti gli uomini che si sono avvicendati dentro e contro di lui per strada, e non stanno forse i fatti dimostrando che ha ragione? E non dovrebbe forse questo rattristarlo, o deluderlo, o perfino farlo arrabbiare, invece di costringerlo a sorridere stupidamente solo perché quest’uomo lo sta sostanzialmente lasciando fare?
Bushido lascia che la sua mano scivoli oltre l’elastico dei suoi pantaloni e lo stuzzichi lievemente attraverso i boxer. Si volta verso di lui, però, quando le dita di Bill superano anche quell’ultima barriera di tessuto, sfiorandolo leggermente. Non gli lascia il tempo di stringerlo, e nemmeno di accorgersi che i suoi tocchi non hanno davvero avuto su di lui l’effetto che Bill immagina abbiano avuto.
Bill allarga le braccia, accogliendolo contro il suo corpo, e non si accorge nemmeno che qualcosa non va, che Bushido non sta rispondendo come lui pensava che avrebbe risposto, come avrebbe dovuto rispondere.
Non se ne accorge finché non gli preme sulle labbra un bacio umido e gonfio di desiderio che non pensava nemmeno di stare provando. E sente quelle stesse labbra chiuse, e piegate in un sorriso sarcastico.
- Sul serio, ragazzino? – domanda Bushido, e Bill può sentire il trillo di una risata fra l’incredulo e l’ironico nella sua voce resa un po’ roca dalle ore di sonno, - Ci hai appena provato sul serio?
Bill ringhia, ritraendosi come si fosse scottato. Si stringe nelle spalle, aggrottando le sopracciglia e squadrando con fastidio l’espressione divertita di Bushido.
- Sei uno stronzo. – grugnisce, quasi tremando dalla rabbia e dalla vergogna. Bushido, per tutta risposta, ride.
- Ma davvero? – domanda, scuotendo il capo, - Forse, - ammette quindi, - ma tu sei ridicolo. Sentiamo, cos’è che pensavi, esattamente? – ridacchia ancora, - Che in fondo in fondo tutto quello che ho fatto l’ho fatto per il tuo bel culetto? O per la tua bella boccuccia? E sentiamo, - aggiunge in un’altra risata, sempre più divertita, - pensi davvero che, se fosse stato questo quello che volevo, non me lo sarei già preso? Con le buone o con le cattive?
Bill distoglie lo sguardo, stringendo i pugni.
- Chi se ne frega. – sbotta astioso, - Era solo una prova, comunque. Per cui, bravo, Bushido. L’hai superata. Non te ne frega un cazzo del mio corpo e non mi hai aiutato solo perché volevi scoparmi. Complimenti, sei il primo uomo onesto che incontro, peccato che tu sia in galera perché evidentemente la tua onestà è solo una stronzata di facciata. E vaffanculo. – cerca di concludere, voltandosi istantaneamente dall’altro lato per saltare giù dal letto, ma Bushido glielo impedisce, afferrandolo per un gomito e schiacciandoselo contro.
- Non puoi prendermi per il culo, ragazzino. – gli sussurra all’orecchio, - Una prova? Ma fammi il piacere. Questa non era una prova.
- Non so di cosa cazzo stai parlando. – soffia Bill, cercando di sfuggirgli, - Lasciami andare.
- Non prima di aver chiarito il punto. – insiste Bushido, stringendolo più forte. Bill si impedisce di gemere di dolore solo perché non intende in alcun modo dargliela vinta, non più di quanto non se la sia già presa lui da sé.
- Che sarebbe? – ribatte con supponenza, voltandosi a guardarlo da sopra una spalla, per quanto può. Bushido sta ancora sorridendo.
- Sarebbe che non ci sono vie d’uscita facili, nella vita, ragazzino. Mai. – risponde, - Qui dentro, poi. E men che meno con me. A me dici la verità, Bill. Anche quella che non vuoi dire a te stesso.
- Ti ripeto che non so di cosa cazzo stai parlando! – ringhia ancora Bill, riprendendo a dimenarsi per costringere Bushido a mollare la presa e ottenendo in cambio soltanto le sue dita che affondano con forza ancora maggiore nell’interno del suo gomito.
- Lo so io, allora. – dice Bushido, e sta ancora finendo di parlare quando la sua mano si posa ruvida fra le sue cosce, premendo appena, giusto per mettere in evidenza l’erezione svettante che gonfia il tessuto morbido dei suoi pantaloni. Bill si lascia sfuggire un gemito frustrato senza riuscire ad impedirselo per tempo, e subito dopo arrossisce così violentemente da farsi venire un capogiro. – Non dirmi che era solo una prova. – prosegue l’uomo, lasciandolo andare per poi quasi spingerlo giù dal letto. Bill atterra sui piedi, si piega appena per il dolore alla schiena e poi si volta a guardarlo. Bushido lo sta fissando con estrema serietà. Non ha bisogno di aggiungere “perché sappiamo entrambi che non lo era”.
- …tu sei solo un bastardo. – gli sibila contro, allontanandosi quasi di un passo. Bushido agita una mano come a scacciare via quelle idiozie, voltandosi nuovamente verso la parete.
A Bill non resta molto altro da fare che rintanarsi un’altra volta sotto le coperte. Molto più scomodamente di prima.

*

Bill non gli rivolge più la parola. Dal giorno dopo in poi, anzi, agisce quasi come se Bushido non esistesse davvero. Segue i suoi ordini in cucina solo perché non vuole problemi, e perché sa che ignorarlo anche in quel senso non avrebbe altra conseguenza che indurre Bushido a parlargli di più, fosse anche solo per rimproverarlo. Bill, invece, non ha alcuna voglia né intenzione di sentire ancora la sua voce, ed è per questo che fa in modo di rigare dritto quando sa che deve farlo, mentre per tutto il resto del tempo si limita a starsene sulle sue, le braccia incrociate sul petto e il broncio di uno che sia convinto di essere stato offeso in modo così plateale, palese e gratuito da non poter pensare nemmeno lontanamente alla possibilità di un perdono.
Il primo giorno, Bushido si limita a registrare la cosa sotto la categoria “stronzate da ragazzino capriccioso e infantile”, e non se ne preoccupa. Gli passerà, si dice, e anche se non gli passa, chi se ne frega? Purché stia lontano dai guai.
Il secondo giorno, la cosa comincia onestamente ad infastidirlo. Bill non risponde neanche ai più banali buongiorno e buonanotte, lo fissa come fosse un criminale – cosa che è, ma un tale livello di disgusto per la questione non dovrebbe certo rispecchiarsi negli occhi di Bill, dal momento che lui faceva la puttana – ed è generalmente indisponente quando non direttamente insopportabile.
Bushido sente lo scatto della serratura alle sue spalle quando le guardie spengono le luci augurando a loro modo la buonanotte ai carcerati, e sospira profondamente, restando in piedi accanto al letto. Bill finge palesemente di dormire, quasi completamente nascosto sotto le coperte.
- Bill. – lo chiama a bassa voce, ma lui, naturalmente, non risponde. – Bill! – ripete dunque, e Bill sbuffa rumorosamente, scattando a sedere e voltandosi a guardarlo.
- Cosa cazzo vuoi?! – sibila, onestamente dispiaciuto dal non potere urlargli in faccia come vorrebbe.
Bushido recupera la sedia di plastica accanto al tavolo e la trascina vicino al letto, sedendosi ed appoggiando i gomiti sulle ginocchia, piegandosi appena per poter guardare Bill più da vicino.
- Parlare. – risponde. Bill soffia, distogliendo lo sguardo.
- Io no. – ribatte secco. Bushido sospira un’altra volta, scuotendo il capo.
- Bill, non so cosa cazzo ti sia successo nella testa, ma qualsiasi cosa sia è un gran casino e ti tocca ripulirla. – dice quindi, - Credimi, posso capire per quale motivo tu possa esserti—
- Ma stai zitto! – lo interrompe Bill, voltandosi nuovamente a guardarlo con aria perfino incredula, - Ma sei un coglione o cosa?! Punto primo, qualsiasi cosa tu pensi di aver capito di me è sbagliata, questo posso dirtelo con sicurezza. Punto secondo, ti ho già detto che non voglio parlare, e potresti quantomeno fare finta di voler rispettare questo mio desiderio. E punto terzo, - i suoi occhi diventano sottili come quelli di un gatto, e ugualmente gelidi e distanti, - puoi comandare dentro questa prigione, Bushido, puoi comandare le mie azioni mentre lavoro, puoi perfino dirmi di stare zitto o levarmi dalle palle se non mi vuoi intorno, ma non puoi, Bushido, non puoi controllare quello che c’è nella mia testa. Per cui, piantala di ordinarmi di ripulire cose di cui non sai un cazzo, e vattene a dormire. Questa conversazione è finita. – conclude, tornando a distendersi sotto le coperte, fino a nascondersi quasi completamente.
Bushido ringhia fra sé, infastidito e frustrato. Non c’è proprio modo, si dice, di far funzionare le cose con questo ragazzino. E non riesce a capire perché non riesca a stargli bene anche così. Non è un uomo stupido, è sempre stato in grado di riconoscere una causa persa, ogni volta che se n’è trovata una davanti, ed è sempre stato abbastanza furbo da capire quando gli conveniva insistere su qualcosa, per quanto senza speranza potesse apparire, e quando invece fosse molto più utile girare i tacchi e scappare a gambe levate. Bill, decisamente, è qualcosa dalla quale dovrebbe scappare, anche perché ormai all’udienza per la libertà vigilata manca davvero pochissimo, ed a tutto dovrebbe pensare meno che a sistemare i rapporti con un ragazzino che, nel giro di un paio di settimane, se tutto va come pensa, non rivedrà mai più, ma semplicemente non riesce. Forse per ostinazione, forse per chissà quale altro motivo.
Ne parla con Saad, all’alba del terzo giorno di musi lunghi e occhiate al vetriolo. Lui lo fissa con una certa pietà, sospira e gli chiede “stai scherzando?”, e Bushido non saprebbe spiegare esattamente il perché di una reazione simile, perciò aggrotta le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto.
- Che cosa intendi dire? – borbotta contrariato, e Saad scuote il capo.
- Intendo dire che chi se ne frega, Bushido! – sbotta, - E in ogni caso, devi essere cieco, per non accorgertene. Ma poi fai sempre così, attorto a te succedono le cose più disparate, ma tu figurati se le noti. Ti ho detto mesi fa che credevo che Sido avesse in mente qualche stronzata delle tue, ma tu non mi hai creduto finché non hai visto coi tuoi occhi di che cosa stavo parlando! E anche stavolta è uguale, cose assolutamente palesi succedono tutte intorno a te e tu niente. È surreale come tu possa essere ancora vivo e soprattutto a capo di una qualsiasi banda.
- Saad, - grugnisce lui, - stai andando in cerca di rissa o cosa?
L’uomo si lascia sfuggire un mugolio esasperato, passandosi una mano sul volto.
- No, dico, - comincia, - esattamente, cos’è che ti aspettavi? Che non ti si appiccicasse al culo come una cozza? Quello come minimo il gesto più gentile che si è mai visto rivolgere è stata una bastonata sul naso. E tu gli hai salvato la vita qualcosa come duecento volte! Le sappiamo ancora fare le addizioni o no?
Bushido lo guarda, gli occhi bene aperti, le labbra appena dischiuse.
- …tu credi, mh? – riflette, abbassando lo sguardo, pensieroso.
- Io credo? Quanto te n’è mai fregato di quello che credeva chiunque che non fosse te stesso? – sospira Saad, lanciando uno sguardo supplice al cielo. – Quello che so, Bushido, è che qualunque sia il problema lo devi risolvere, ma non nella testa del ragazzino, nella tua. – precisa, puntandogli un indice contro, - Perché tu fra due settimane sei fuori di qui e noi che restiamo indietro, per non parlare dei fratelli che aspettano fuori, abbiamo tutti bisogno di una guida. E tu la testa devi averla dov’è giusto che sia. Sono stato chiaro?
Bushido gli lancia un’occhiata vagamente indisposta, sbuffando piano.
- Mi sto rompendo il cazzo di tutto questo rimproverarmi a caso. – sbotta, - Piantiamola.
- Chi è che ti ha rimproverato, oltre me? – domanda Saad, inarcando un sopracciglio.
“Bill,” sta per rispondere Bushido, ma si ferma per tempo. Saad, però, il suo mestiere lo sa fare bene, e lo capisce comunque. Fortunatamente, si limita a un mezzo sorriso ironico, e non commenta.
Quando arriva di fronte alla porta del bagno, dopo essersi preso almeno un paio d’ore per starsi un po’ a sentire e chiedersi se davvero intende esporsi in questo modo, ci trova davanti Chakuza, appoggiato alla parete, che fa la guardia, come pensava. Bill è incredibilmente abitudinario, un po’ perché l’abitudine è una sicurezza per chiunque, un po’ perché essere sorvegliato a vista ventiquattro ore su ventiquattro ti forza a fare più o meno sempre le stesse cose, più o meno sempre nello stesso modo, più o meno sempre allo stesso orario.
Chakuza spalanca gli occhi nell’accorgersi di lui, perché anche Bushido è un tipo abitudinario, ma contrariamente a Bill non lo si è mai visto fare una doccia a quest’ora del pomeriggio.
- Ohi. – lo saluta, sfilandosi il berretto per grattarsi confusamente la testa, - Com’è?
Bushido scrolla le spalle.
- È dentro, vero? – domanda, e Chakuza annuisce. – Fai in modo che non ci disturbi nessuno. – si raccomanda quindi, passandogli oltre con un asciugamano appoggiato sulla spalla. Chakuza lo osserva passare, incredulo, e quando Bushido si ferma, poco prima di oltrepassare il muricciolo che protegge le docce da sguardi indiscreti, quasi si paralizza sul posto. – Hai parlato con Fler, ultimamente? – domanda.
Chakuza abbassa istantaneamente lo sguardo.
- No. – risponde.
- Bene. – annuisce Bushido, cercando di ignorare la fastidiosa puntura di senso di colpa che percepisce da qualche parte fra lo stomaco e il cuore. Fosse anche solo per quello che ha fatto alla sua banda in generale e al suo rapporto con una delle persone che avesse di più care nel mondo nel particolare, non dovrebbe volere avere più niente a che fare con questo ragazzino. E invece dà le spalle a Chakuza, supera il muretto e si spoglia, entrando nella doccia accanto a quella che Bill sta usando ed aprendo l’acqua, armeggiando coi rubinetti per ottenere la temperatura che desidera prima di cominciare ad insaponarsi pigramente.
Per molti minuti non si sente altro che lo scosciare dell’acqua, e Bill riesce perfino ad illudersi che Bushido lo lascerà in pace, che magari sia entrato solo perché voleva farsi una doccia, non perché cercasse una scusa per parlargli. Ed invece, naturalmente, è così.
- Mi dispiace per quello che è successo. – dice. Bill si volta a guardarlo così di scatto che urta il sapone appoggiato sul muretto basso dietro di lui. Naturalmente, non si china a raccoglierlo.
- Cosa? – domanda, quasi senza fiato. Bushido si lascia sfuggire un sorriso vagamente intenerito, di fronte a tutta quella sorpresa.
- Cos’è, credevi che non fossi in grado di chiedere scusa a qualcuno quando mi rendo conto di essere nel torto? – lo prende in giro, inarcando un sopracciglio. Bill fa la stessa cosa, tornando a rilassarsi e sciacquarsi i capelli sotto la doccia.
- No, credevo proprio che non fossi in grado di renderti conto di quando avevi torto o meno. – risponde sarcastico, guardando altrove. Bushido ridacchia, scuotendo il capo.
- Sorpresa, dunque. – scrolla le spalle, e poi sospira. – Ascolta.
- Ho qualche speranza di risparmiarmi questa cosa? – chiede immediatamente Bill, lasciandosi sfuggire un mugolio già stanco, appoggiandosi alla parete.
- No. – ridacchia ancora Bushido, - Ora smettila di fare il bambino e stammi a sentire, prima che mi passi la voglia e ti mandi pesantemente a fanculo.
- Okay, okay… - sospira lui, stringendosi nelle spalle. – Parla.
Bushido finisce di sciacquarsi prendendosi tutto il tempo necessario per farlo, e solo dopo chiude i rubinetti e si volta verso Bill, appoggiandosi al muricciolo che separa le due cabine della doccia.
- Ragazzino, - sospira, concedendosi un breve sorriso rassicurante, - io ho trent’anni. – Bill inarca un sopracciglio, ed è lì lì per chiedergli “e allora?”, quando Bushido prosegue. – Io ho trent’anni, - ripete, - e tu sei un ragazzino convinto di avere visto tante cose, nella vita, ma la verità è che hai visto sempre le stesse, ripetute tante volte da sembrare tantissime, sì, ma sempre le stesse. Sei confuso, - dice, ignorando lo sguardo deluso e un po’ ferito di Bill che vaga altrove, sulle piastrelle bagnate lungo le quali scorre l’acqua che ancora gli piove addosso dalla doccia, - non hai idea di quello che vuoi, e qualsiasi cosa sia, io non potrei dartela, Bill. Ho l’udienza per la libertà vigilata fra due settimane, sarò fuori di qui prima che tu possa anche solo rendertene conto, e non posso… - si interrompe per un paio di secondi, osservando Bill stringersi nelle spalle così tanto da apparire improvvisamente minuscolo, molto più piccolo di quanto già usualmente non sia. – Non posso mettermi a giocare con te, non è così che mi comporto. Quello che volevi stanotte, io non posso dartelo. Non per poi uscire e lasciarti qui da solo. Capisci cosa intendo?
Bill mantiene lo sguardo basso, i capelli scuri fradici che scivolano a coprirgli il volto quasi nella sua interezza. Bushido non riesce a scorgere la sua espressione, ma la voce con cui parla, pochi secondi dopo, è sufficiente a dargliene un’idea più che precisa.
- Scopare o meno, a questo punto, non conta più un cazzo. – risponde, chiudendo di scatto il rubinetto ed afferrando l’asciugamano alle sue spalle, - Il danno ormai l’hai fatto comunque.
È sparito il secondo dopo, correndo sul pavimento bagnato, coperto a malapena dall’asciugamano avvolto attorno al corpo magro. Bushido lo osserva andare via sentendosi inspiegabilmente colpevole e stupido. Specie visto che tutto quello che riesce a pensare è che spera che, correndo a quel modo, non scivoli e non si faccia male da qualche parte.

*

Sido ci mette altri quattro giorni ad uscire dalla buca, e Bushido sa che non è certo per ciò che ha fatto che è stato rinchiuso là dentro così a lungo, quanto più per ciò che non ha detto. Se pensa a Jost e a quanti esaurimenti nervosi deve avere affrontato nel corso delle ultime settimane perché, ogni volta che scendeva in buca a chiedere a Sido una confessione, quello rispondeva sempre con un’alzata di spalle, gli viene da sorridere, e quasi la parte più cattiva di lui vorrebbe tirare a Sido una bella pacca sulla spalla e tornare amici come prima, anche se, applicata a loro, l’espressione perde di senso, dal momento che né quando stavano entrambi fuori, né da quando stanno entrambi dentro, si sono mai potuti chiamare amici.
In ogni caso, si tratta solo di una piccola parte di lui a desiderarlo, forse anche per quieto vivere, ma fortunatamente quella non è una voce alla quale Bushido si senta particolarmente incline a rispondere. Non adesso, forse mai.
Vederselo apparire di fronte in magazzino mentre fa la cernita della roba da mangiare e cerca di capire dove siano finiti i dieci barattoli di fagioli che mancano all’appello non lo aiuta ad essere condiscendente nei suoi confronti.
- Sido. – lo saluta con l’aria di uno che preferirebbe di gran lunga prenderlo a calci nelle palle, piuttosto che doverlo salutare, ma che comunque si piega a farlo per buona educazione, - Vedo che non sei neanche passato dal bagno, prima di venire a trovarmi. – osserva, accennando col capo alla barba che gli ricopre le guance e il mento, - Potevi quantomeno raderti, prima.
- Avevo fretta di venire a salutarti. – risponde Sido con un sorriso, gli occhi che lo scrutano febbrilmente, con tanto palese astio da poter fare quasi paura, se non fosse che Bushido sa di essere perfettamente in grado di gestire quest’uomo anche al suo peggio. – E poi, sai, dopo che passi in buca tanti di quei giorni da perderne il conto, l’ultima cosa che vuoi è tornare in cella. Preferisci gli ampi spazi, non so se rendo. La mensa è uno spazio molto ampio, e guarda caso volevo scambiare due parole con te, per cui ho pensato di prendere due piccioni con una fava. Ed eccomi qua.
- Bene. – risponde immediatamente lui, dando chiaramente segno di averlo a malapena ascoltato, - Ora che tutta questa montagna di cose di cui non m’interessa niente è finalmente uscita dalla tua bocca, e tu ti sei liberato di questo peso, che ne dici di tornartene in un luogo in cui puoi effettivamente stare e lasciarmi in pace, di modo che possa finire di lavorare?
Sido ghigna divertito, quasi compiaciuto dalla sua durezza.
- Non ti ruberò molto tempo. – lo rassicura, spostando il peso del corpo da un piede all’altro e muovendo qualche passo all’interno dell’ampio magazzino sul retro della mensa, sfiorando i vari barattoli e le varie lattine riposte sugli scaffali più per darsi un tono che perché gli interessi davvero cosa si trova lì. – Volevo solo ringraziarti per lo scherzetto che mi hai tirato. Mi ha fatto capire molte cose. È stato un bell’insegnamento.
- Ne sono lieto. – risponde Bushido con un sorriso smagliante, segnando sul bloc notes che porta con sé che all’appello mancano anche due interi sacchi di patate. Sarà esilarante andare da Jost a fare l’elenco degli assenti e poi osservarlo sclerare come un invasato per l’ennesimo furto di vettovaglie destinato a restare senza un colpevole. – Spero che non ti verrà più in mente di organizzare qualche altra stronzata delle tue. Hai visto che posso fermarti quando voglio, come voglio, e anche facendola franca. Cosa che di certo non rientra invece nelle tue competenze.
Il sorriso di Sido si allarga, mentre lui annuisce con sussiego.
- Hai ragione. – ammette, - Infatti, sai qual è la cosa più importante che questo sfortunato episodio mi ha fatto capire? – chiede retorico, appendendo entrambe le mani ai fianchi. Bushido si volta a guardarlo, aggrottando le sopracciglia, e Sido sorride ancora. – Mi ha fatto capire che tu la fai sempre franca, - prosegue, - e che questo gioca a mio favore. Sai perché, Bushido? Perché tu uscirai da questo posto. Presto, molto presto, il tuo culo nero sarà fuori da questa prigione, e per quanto solo Dio sappia quanto mi faccia incazzare la sola idea di te in libertà mentre io resto qui a marcire, non averti più fra le palle potrà portare solo benefici a me, ed a tutto quello che intendo fare una volta che a governare qui dentro sarò rimasto solo io.
Il tono di Sido si è fatto via via più serio man mano che il suo monologo proseguiva, ed in accordo con le parole che sentiva anche l’espressione di Bushido si è rabbuiata ed irrigidita sempre più. Le sue labbra sono ridotte ad una linea sottilissima, e i suoi occhi non sono che due macchie scurissime all’interno delle quali si agitano rabbia, irritazione e fastidio, e vedere il sorriso di Sido farsi sempre più ilare e compiaciuto con ogni secondo che passa non riesce a fare altro che indisporlo ancora di più.
- Sido, attento a te. – lo minaccia in un ringhio di gola, - Se ti azzardi a combinare qualcosa—
- Oh, ma non devi preoccuparti. – lo interrompe lui con una risata frivola, agitando una mano a mezz’aria come a scacciare via anche solo l’idea di poter complottare qualcosa mentre lui è ancora dentro, - Le settimane che ho passato in buca mi hanno insegnato il valore della pazienza. Saprò attendere, - precisa con un altro sorriso, più pericoloso degli altri, - e quando sarai fuori, Bushido, niente potrà più fermarmi. E quel tuo ragazzino, visto che ci tieni tanto, sarà il primo a pagarne le conseguenze.
Bushido si ferma, il sangue di ghiaccio nelle vene.
- Non ti permettere. – sibila. Sido sorride ancora.
- Ti lascio al tuo lavoro, Bushido. – conclude con un breve cenno del capo, prima di voltargli le spalle con la sicurezza di chi sa di non rischiare niente. – Buona giornata.

*

Bushido ha passato così tanto tempo in attesa di questa udienza che quando arriva, nemmeno riesce a crederci. E' come aver aspettato per anni qualcosa che, in fondo in fondo, non credeva si sarebbe mai davvero realizzata – anche se faceva di tutto per convincersi del contrario – e vedersela poi succedere davanti agli occhi di punto in bianco.
Tutto ciò che ha fatto in questi ultimi anni, e soprattutto in questi ultimi mesi, è stato in funzione del momento in cui si recherà in quell'aula di tribunale e ascolterà la volontà del giudice, ma è sempre stato un evento ancora lontano, vago, del tutto irreale, esattamente come la fine della condanna per qualunque carcerato che non abbia preso l'ergastolo. Tutti sanno che prima o poi usciranno; ma quel poi appare sempre un giorno troppo lontano per vederne l'alba.
Per questo Bushido è nervoso mentre si sistema la cravatta di fronte allo specchio nella sua cella; la tensione non lo ha fatto dormire e, nonostante la voglia che ha di lasciare questo buco di merda, era quasi meglio l'attesa infinita di un giorno ancora da definire che non quella ben calcolata delle ore e dei minuti precisi che lo separano da quell'aula di tribunale.
Bill è seduto sul suo letto, ma si finge estremamente interessato al libro che ha per le mani. Non gli parla da giorni – cioè dalla storia delle docce – ma Bushido al momento non ha il cervello abbastanza sgombro per potergli prestare attenzione. Non appena questa faccenda sarà sistemata, quando tornerà a prendere le sue cose prima di andarsene, gli parlerà di nuovo e cercherà di farsi odiare un po' di meno; anche perché di più gli sembra impossibile, a giudicare dal foro che Bill gli sta facendo dietro la testa quando lo guarda mentre crede di non essere visto.
Non riesce a tenere le mani lontane dalla cravatta, forse perché si sente strangolare e, per quanto la sposti e la muova e la snodi per riannodarla subito dopo, quella sembra sempre storta. Mentre se la fa passare di nuovo intorno al collo, ripassa mentalmente il percorso che dovrà fare. Jost è venuto personalmente ad informarlo in cella ieri sera. Ha detto che lo accompagnerà all'udienza e Bushido è contento di questo. Sa che ci saranno un sacco di stronzi in quell'aula e vuole averne almeno uno dalla sua parte.
La cella si fa improvvisamente più buia quando la figura massiccia di Fler si ferma sulla porta, occupandone praticamente tutta la superficie.
Bushido si volta e lo osserva, senza lasciar trasparire nessuna emozione. “Che cosa vuoi?” Chiede.
Bill solleva lo sguardo dal libro e li scruta entrambi con attenzione, facendosi istintivamente più piccolo nel tentativo di rendersi invisibile; d'altronde lo sa che la tensione che adesso rende elettrica l'aria l'ha generata lui e vorrebbe poter scomparire perché si sente pesare addosso la responsabilità.
“Devo parlarti,” mormora Fler, che sostiene il suo sguardo ma senza sfidarlo. La sua è un'occhiata coraggiosa ma piena di umiltà. Bill trova incredibile come sia chiaro e lampante che si sta scusando anche senza dire nemmeno una parola.
Bushido gli fa un cenno col mento.
Fler scuote la testa. “In privato,” precisa, indicando Bill con un movimento degli occhi che vorrebbe essere impercettibile ma non sfugge al ragazzino, il quale apre subito la bocca per parlare e viene puntualmente interrotto da Bushido che lo aveva già previsto.
“Bill, lasciaci da soli qualche minuto, per favore.”
“Questa è anche la mia cella,” gli fa notare lui.
Bushido nemmeno lo guarda. “Sono sicuro che puoi continuare a fare finta di leggere anche nel corridoio.”
Oltraggiato, Bill rimane letteralmente a bocca aperta per qualche secondo, forse in attesa di ipotetiche scuse che per nessun motivo potrebbero mai uscire dalla bocca del tunisino e, quando finalmente si rende conto che quei due – che stanno immobili a fissarsi – aspettano solo che lui se ne vada, sbuffa violentemente, afferra in malo modo il suo libro e quindi si piazza di fronte a Fler con aria imbronciata finché quello non si sposta e lo lascia passare.
Bushido lo osserva finché non lo vede sedersi per terra a gambe incrociate più avanti, nel corridoio, prima di invitare Fler all'interno. “Non ho molto tempo, quindi vediamo di farla breve,” commenta. “Tu non dovresti nemmeno essere qui.”
“Lo so, ma è una cosa importante e pensavo volessi saperla.”
Bushido allarga le braccia, invitandolo a proseguire.
Fler si guarda intorno, ma nelle vicinanze non c'è nessuno perché, quando alla mattina le porte si aprono, nessuno vuole rimanere in cella, così durante il giorno quasi tutti i carcerati sono in sala comune o in palestra e questo lascia a loro un po' di privacy. “Corre voce che Sido abbia in mente qualcosa per quando sarai all'udienza.”
“Sido si è premurato di venirmelo a dire di persona,” gli fa presente Bushido. “Ma stava solo facendo promesse che non può mantenere, come al solito, visto che non può fare nient'altro.”
Fler scuote la testa. “Stavolta no. Girano soldi. Qualcuno è stato pagato.”
Bushido torna subito serio e lo guarda, corrugando la fronte preoccupato. “Chi?”
“Non lo so, sto ancora cercando di scoprirlo,” risponde Fler. “La cosa certa è che si tratta di una cazzo di cifra enorme. Potrebbe essere per una persona sola, molto probabilmente per un gruppo, in ogni caso Sido si sta organizzando per quando sarai uscito di qui.”
Bushido rimane impassibile e solo la tensione dei suoi lineamenti lascia trasparire la rabbia che gli si agita nello stomaco. Le minacce a vuoto di Sido non le preoccupavano, ma i soldi sono tutt'altra storia. Da qualche parte, in quella prigione, c'è un uomo o un gruppo di uomini che hanno ricevuto del denaro e che devono tenere fede a quel pagamento. C'è un intero ingranaggio che si è messo in moto e va fermato.
Bushido si riscuote quando vede David, vestito di tutto punto imboccare il corridoio che porta alla cella. Il direttore si ferma a chiedere a Bill che diavolo ci fa buttato per terra come un barbone e il ragazzino risponde qualcosa di infastidito, agitando le mani. “Dovete scoprire di chi si tratta,” dice Bushido. “Uno, due, dieci uomini, non m'interessa. Trovateli e teneteli d'occhio, dovete essere pronti se e quando attaccheranno.”
Fler gli lancia un'occhiata a metà tra l'incredulità e la sorpresa e Bushido gli sorride quasi con tenerezza, anche se sul suo volto c'è anche quell'espressione preoccupata. “Di' pure ai ragazzi che ti mando io e se qualcuno ha da ridire, ci penserò appena torno dall'udienza,” commenta, abbracciandolo stretto e dandogli due pacche di bentornato sulle spalle.
“Non ti preoccupare, Losensky. Te lo porto via solo per qualche ora,” esclama la voce divertita di Jost, costringendoli a separarsi. “Cos'è, non vi parlate per settimane e ora fate la tragedia greca?”
“La nostalgia è una brutta bestia,” Bushido ride, dissolvendo l'aria cupa nella cella e Fler gli regge il gioco, scoppiando in una risata piena e cristallina che lascia basito soprattutto Bill, che è rientrato approfittando della presenza di Jost e si è rintanato di nuovo nel suo letto.
“Ragazzino, fai il bravo,” lo apostrofa Bushido. Bill vorrebbe replicare qualcosa di acido ma quello che legge negli occhi di Bushido lo fa rabbrividire. Si scolla dal letto per seguirlo fino all'entrata della cella, dove Jost gli sta facendo mettere le manette per portarlo via e lo fissa sperando che dica qualcosa di più, che lo rassicuri su ciò che gli è sembrato di scorgere in quell'occhiata, ma Bushido sta zitto.
Quando Jost gli chiede se è pronto, annuisce e basta.
Poi si incammina senza voltarsi più.

*

L'aula per le udienze si trova all'interno della prigione e, nonostante il nome, è appena poco più grande di uno stanzino. Quasi accostato alla parete più lontana dalla porta c'è un lungo tavolo di metallo che ospita le persone incaricate di sfogliare la sua documentazione e giudicare se sia pronto o meno ad uscire da quel carcere. David ha una sedia proprio accanto alla sua e a quella del suo avvocato. Nella stanza c'è un tale silenzio che anche il minimo spostamento produce un suono violento che rimbomba fino al soffitto e sbatte contro le tre piccole finestre rettangolari, di quelle che si aprono grazie ad un lungo bastone che arriva fino a terra. L'aria è fredda e pesante e gli occhi del giudice sono disinteressati, lontani, vedono già il campo da golf sul quale si recherà dopo aver deciso dei prossimi vent'anni della sua vita.
O almeno questo è quello che Bushido si immagina sarebbe successo se l'udienza avesse effettivamente avuto luogo, ma lui nell'aula nemmeno ci entra.
David lo accompagna fino alla porta e poi lo lascia seduto su una panca, appena fuori dall'aula, gli dice di aspettare e lo affida ad una guardia con le mani incrociate dietro la schiena, che non avrà più di vent'anni e da lì ad un paio d'ore sarà distesa per terra col naso rotto.
Il tempo scorre lento, soprattutto perché Bushido non stacca gli occhi dal quadrante dell'orologio; le lancette fanno fatica a muoversi, ogni scatto è faticoso. I secondi passano come minuti, i minuti come ore e, se qualche ora è passata, Bushido potrebbe giurare che sia stata una vita intera.
Quando Fler si presenta all'improvviso è sconvolto e ha il fiatone. Bushido si alza in piedi, risvegliando la guardia dal proprio torpore ma ne ignora i richiami mentre cerca sul viso di Fler una spiegazione alla sua presenza e all'agitazione che gli fa tremare le mani, nel caso non faccia in tempo a dargliela a voce.
Fler però sa come vanno queste cose, così gli frana addosso e gli artiglia la bella camicia elegante per rimanergli attaccato e darsi il tempo di sussurrargli all'orecchio che li hanno trovati e che la morte che aspetta il ragazzino non è né pietosa né veloce.
La guardia riesce ad agganciare Fler sotto le braccia e a strapparlo via da Bushido che per un istante resta immobile a fissare il vuoto, mentre le parole dell'amico si ripetono all'infinito nella sua testa.
Fler lo guarda mentre la guardia lo tiene fermo e inchiodato al muro, urlando ai suoi compagni di venire a dargli una mano.
L'aula per le udienze è a pochi passi da lì e Jost è lì dentro ormai da così tanto tempo che non può mancare molto al momento in cui lo chiamerà. Potrebbe davvero uscire di lì e – se è abbastanza furbo – non tornarci mai più, prendere sua madre e sparire per sempre.
Invece solleva i polsi ammanettati, chiude le mani a pugno e colpisce la guardia sulla nuca. Quella barcolla un attimo, si gira farfugliando impaurito nella radio e cercando a tentoni il manganello che gli pende dalla cintura. Bushido lo colpisce ancora e ancora, finché non cade a terra.
Fa un cenno a Fler che si dilegua prima che possano fermarlo e va ad avvertire la prigione che Bushido non se ne va. Quando Jost accorre al trambusto, Bushido è chino sul ragazzo a cui ha spaccato il naso, ma non resta fermo. Si avventa anche sulle guardie che sono appena arrivate in soccorso della prima, comincia a tirare pugni alla cieca finché in tre non lo bloccano e una manganellata sui denti non riduce al silenzio il suo ringhio furioso.
“Portatelo in buca,” ordina Jost alla fine, perché non può fare proprio nient'altro.
Quando i loro sguardi s'incontrano, sono in due a chiedersi se ne sia valsa la pena.

*

La notte passa lenta, esasperante. Seduto in un angolo, la schiena nuda contro la parete e l’umidità pesante dei sotterranei ad appesantirgli il respiro, Bushido guarda il soffitto, lo guarda ossessivamente, per ore, e cerca nelle variopinte chiazze di muffa che lo ricoprono un senso a quello che ha fatto, all’opportunità che ha mandato a puttane. Non sa se gli ricapiterà ancora di poter fronteggiare la reale occasione di uscire da quel buco di merda, ma il punto non è nemmeno più tanto quello. È diverso, ed è molto più spaventoso, e somiglia in maniera inquietante ad una domanda che Bushido non ha quasi nemmeno il coraggio di porsi. Ma è lì, riecheggia nel retro della sua mente, minacciosa e sospesa, come un fantasma, e per questo molto più difficile da ignorare di un qualsiasi altro fugace pensiero.
Se anche dovesse ripresentarsi l’occasione di uscire, fra sei mesi o un anno o due, uscirei? Oppure basterebbe sapere Bill in pericolo per rinunciare alla possibilità volta dopo volta dopo volta?
Jost arriva presto, l’indomani mattina. Bushido non sa se sia perché aveva fretta di chiudere la questione – forse l’agente s’è fatto più male di quanto Bushido non avesse previsto, forse ci sono state delle complicazioni, forse forse forse, non è che gli interessi più di tanto, in ogni caso, ed è agghiacciante pensarlo perché, quando ancora sperava di poter rivedere la luce del sole da uomo libero o quasi tale, di questi dettagli gli interessava sempre moltissimo, mentre adesso non sono che nebbia, confusi sullo sfondo, particolari insignificanti – o semplicemente perché vuole vederci più chiaro in prima persona, ma non perde tempo ad entrare e fare cenno all’agente di restare fuori dalla porta blindata.
- Che cazzo hai fatto e perché. – dice, restando in piedi accanto a lui. Non è nemmeno una domanda.
Bushido non ha motivo di nascondere niente.
- Sido ha minacciato l’incolumità di Bill. – risponde guardando fisso davanti a sé, - Se fossi uscito, avrei perso il controllo di tutto, qua dentro, e lui sarebbe finito male. – trattiene per un attimo il fiato, realizzando che tutte le risposte alle domande che si è posto sono racchiuse nella manciata di parole che sta per pronunciare. – Non potevo permetterlo.
Jost ci mette un po’ a capire cosa ciò che Bushido ha appena detto significhi, ma poi annuisce.
- Doveva essere il tuo lasciapassare per uscire, - commenta con un mezzo ghigno disilluso, - non il motivo per cui non avresti più voluto farlo.
Bushido scrolla le spalle, alzandosi in piedi. Si volta a guardarlo, e il direttore gli porge i suoi abiti.
- Cosa vuoi che ti dica, Jost? – scrolla le spalle, cominciando a rivestirsi, - Quel che è fatto è fatto. Ora voglio solo tornarmene in cella e smettere di pensare a quello che… - sospira, distogliendo lo sguardo. È la prima volta che David glielo vede fare. – A tutto. – conclude con un’altra scrollata di spalle, indossando anche la maglietta e poi tornando a guardarlo. – Posso andare?
Jost sospira, ma annuisce e si volta verso la porta, facendo segno alla guardia di aprire tramite il vetro che rende possibile spiare all’interno della cella.
Due agenti di custodia lo scortano fino al cancello d’ingresso del braccio A, e lì lo lasciano senza una parola. Lo guardano con odio per tutto il tempo – Bushido le conosce, le guardie carcerarie, sa che gli porteranno rancore per sempre per avere osato spaccare il naso ad un loro compagno, ma sa anche di essere abbastanza fortunato da non essere un bersaglio semplice per nessuna delle loro vendette; Bill, a suo tempo, non è stato altrettanto fortunato, e forse anche questo ha inciso sulla sua ultima decisione – ma si limitano a questo, allontanandosi in una sinfonia di borbottii sussurrati a mezza voce e niente più.
Bushido si avvicina alla propria cella, naturalmente già aperta, visto l’orario, e non ha bisogno di guardarsi troppo a lungo intorno per accorgersi di Bill, anche perché lui, quando lo vede arrivare, da seduto sul letto com’era scatta in piedi, le braccia rigide lungo i fianchi, le gambe dritte come fusi, la schiena quasi bloccata dalla tensione, così come i lineamenti del volto pietrificati in un’espressione ansiosa e perfino un po’ impaurita.
- Chakuza mi ha detto… - comincia incerto, - mi ha spiegato. Tutta la situazione. Quello che… - esita appena, mordendosi il labbro inferiore, gli occhi che vagano svelti intorno alla figura di Bushido come non riuscisse a inquadrarla correttamente, o come se si sentisse troppo in imbarazzo per farlo, - Quello che sarebbe potuto succedere. E il fatto che hai deciso di rimanere.
Bushido annuisce, distogliendo a propria volta lo sguardo. Si sente stupido, ma si sente perfino più stupido quando capisce che in realtà si sente così solo perché anche lui è in imbarazzo, proprio come il ragazzino che ha di fronte. Solo che il ragazzino è un ragazzino. È giustificato. Per lui non si può dire lo stesso.
- Stai bene? – gli domanda, - Non è successo niente?
- Niente. – risponde subito Bill, scuotendo il capo, per rassicurarlo. I capelli scuri, morbidi e setosi, ancora freschi di shampoo, gli scivolano lungo le spalle, e Bushido sente il bisogno di concedersi un atto tenero, ed accarezzarli. È il primo atto tenero che si concede da anni. È come sentirsi sciogliere sul cuore un grumo di lava. Brucia da impazzire.
- Bene. – commenta con un mezzo sorriso, - Sarebbe stato deludente se avessi mandato tutto a puttane e fossi tornato fin qui solo per trovarti ridotto ad un mucchietto d’ossa in frantumi in un angolo. No?
Bill si irrigidisce ancora una volta, le labbra strette in una linea sottilissima.
- Mi dispiace. – mugola piano, - Ma grazie.
Bushido si concede un altro mezzo sorriso, e vorrebbe replicare qualcosa di sarcastico, qualcosa che possa sollevare almeno in parte il velo di sacralità che è piombato loro addosso da quando lui è tornato in cella, ma Bill non gli dà il tempo di farlo. Si sporge in avanti ed approfitta delle sue labbra dischiuse per baciarlo piano, lentamente ma profondamente, stringendo le dita sottili attorno al tessuto della sua maglietta e tirando appena per stringerselo al petto.
Bushido posa le proprie mani sulle sue. Sono grandi il doppio, le coprono interamente. Ricambia il bacio con un abbandono al quale non si lascia andare da più tempo di quanto non riesca a ricordare, e si separa da lui con uno schiocco soffice e discreto solo quando sente il bacio concludersi naturalmente, di sua iniziativa.
Bill, così vicino da potergli leggere negli occhi qualsiasi cosa, lo guarda intensamente. Si sta già fidando di lui al punto da rimettere la propria vita nelle sue mani.
Bushido accetta la responsabilità. E stavolta è una sua scelta.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Bushido, Fler/Chakuza, Sido/Bushido/Bill/Fler/Chakuza (wut?).
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Crack, Slash, Fivesome.
- Tom Kaulitz ha cinque certezze. Sono poche, ma sono buone. O almeno così crede.
Note: Vorrei potermi liberare di un po’ di responsabilità concernenti questa storia, per cui: l’ha plottata Tab, Meg s’è rifiutata di scriverla passandomi la palla e Def me l’ha betata e mi ha istigata a postarla, mentre Gra, con la sua meravigliosa challenge per DispariSome, mi ha fornito il pretesto perfetto per farlo davvero. Oltre ciò, non ho poi molto da dire, a parte il fatto che dovreste avere molta pietà di me e di Tom. Ma molta davvero. *piange*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
PRINCIPLE OF UNCERTAINTY

Nel corso del mio ultimo anno di vita, gran parte delle mie certezze sono state prese, gettate in terra come pezze vecchie e poi calpestate senza ritegno né dignità come non avessero il benché minimo valore. Io capisco che la vita è sempre un divenire, non c’è mai nulla che sia uguale un minuto dopo averla vista, sono grato a David per il corso di filosofia accelerata cui mi ha sottoposto prima dell’Abitur e tutto il resto, ma comprendetemi, non è bello quando credi in qualcosa fino a un determinato secondo della tua esistenza e poi in quel determinato secondo succede qualcosa che devasta tutto come una specie di uragano, lasciandoti in mutande e con nient’altro in mano oltre alla tua disperazione.
E sì, mi rendo conto di stare esprimendomi in termini catastrofistici, emodepressivi e generalmente iperdrammatici, ma ci sarà un motivo per il quale condivido il cento percento del mio corredo genetico con mio fratello Bill; in qualcosa dovevamo pure assomigliarci, ed evidentemente questo qualcosa è la propensione al drammatismo spicciolo da tragedia catastrofenaturalistica americana. Oltre al talento nell’usare le parole, naturalmente, voglio dire, visto quanti termini nuovi di zecca sono stato in grado di coniare in meno di cinque minuti di monologo? Sono meraviglioso.
Comunque, mia meraviglia personale a parte, parlavo delle mie certezze. Ne avevo poche, ma tutte erano ben salde e costituivano le fondamenta del mio intero essere, per svariati motivi.
La prima e più importante di tutte era: Bill non è gay.
…non osate ridere né guardarmi in quel modo! Io sono la persona che conosce Bill meglio in assoluto in tutto l’intero universo, lo conosco da prima che venissimo al mondo, da prima che venissimo generati, da prima che la grande volontà dell’universo decidesse che era giusto che due Kaulitz uguali calpestassero il suolo del pianeta Terra contemporaneamente, io e Bill siamo una cosa sola da che il Big Bang è esploso generando l’universo e via discorrendo, se vi dico che mio fratello non aveva mai dato segno della sua inclinazione omosessuale dovete credermi. No, trucco, unghie e capelli non sono segno di inclinazione omosessuale, furbastri supponenti che non siete altro – e nemmeno i vestiti! Bill non era gay, posso giurarlo, so che scopava con delle donne e non fate queste facce sconvolte e nauseate, era un ragazzo assolutamente normale. Oh.
Poi, Bushido è piombato nelle nostre vite. Prego inserire musica drammatica in questo punto.
Ora, io non ho mai nascosto la mia preferenza per il lato cattivo del rap tedesco. Voglio dire, di fronte a una scelta, ho sempre scelto l’Aggro Berlin e Sido. Senza nemmeno rifletterci su, in realtà. Però, ecco, Bushido mi piaceva, per il semplice fatto che – voglio dire: è sfrontato, è cazzuto, è stato arrestato, è un rapper. Come poteva non piacermi?
Quindi, insomma, quando David mi ha detto che probabilmente ci sarebbe stata una collaborazione con uno dei suoi uomini, per il nuovo album, io naturalmente mi sono esaltato, e non dico di essermi messo a squittire come una fangirl – a questo proposito, non chiedete mai a Georg di raccontarvi la mia reazione, poi dovrei uccidere lui e voi e temo che questo causerebbe dei problemi non indifferenti alla mia carriera – dicevo, non mi sono certo stracciato le vesti di dosso crollando a piangere di commozione, anche perché le vesti che avevo addosso dovevano valere sul migliaio di euro tutto compreso, ma sono comunque stato molto felice. Certo, Kay One non era assolutamente il mio preferito nel mucchio degli artisti sotto contratto all’Ersguterjunge & Co., ma era meglio di niente. Ero ancora vagamente dubbioso riguardo quando fosse opportuno inserire del rap nelle nostre canzoni, ma mi fidavo di David.
Naturalmente non avrei dovuto. Alla fine non siamo riusciti a infilare il rap in nemmeno una delle nostre canzoni. In compenso, Bushido è riuscito a infilare le mani nelle mutande di mio fratello.
Voglio dire.
La seconda certezza fondante la mia esistenza, dato che apprezzavo l’uomo e tutto il resto, era Bushido non è gay. Poi l’uomo arriva, sparge sorrisi smaglianti e acqua di colonia da non so quante centinaia di euro per tutto lo studio e il minuto dopo lo trovo lì che flirta spudoratamente con mio fratello, costringendolo a stringersi imbarazzato nelle spalle esili e spostare altrove lo sguardo brillante di emozione. Io lo conosco mio fratello, lo so quando si sente compiaciuto, e il primo passo per scalare la montagna di gambe chilometriche che conduce al suo cuore è lusingarlo. Bushido ci stava riuscendo.
Insomma, per me è stato un disastro umano! Due certezze spazzate via in un colpo solo da un tunisino con un opinabile taglio di capelli ed un’ancora più opinabile propensione verso l’inchiostrazione indiscriminata del proprio corpo! Non si fa così, non è corretto.
Come potrete abbondantemente immaginare da voi, venire a patti con tutto ciò non è stato semplice. Vi risparmierò la cronaca dei lunghi mesi che ho passato, nell’ordine, a: ostracizzare mio fratello da qualsiasi mia decisione, fosse essa mettere o meno i cetrioli in un panino o cambiare radicalmente taglio di capelli; combattere una guerra di grugniti e ringhi di varia natura nei confronti di Bushido per aver privato mio fratello della sua innocenza o almeno di un’emanazione della stessa; combattere una guerra di pari violenza e pari intensità dotata però anche di scazzottate ai limiti del legale con David, che ritenevo primo e principale colpevole del disastro in atto, visto che avrebbe dovuto dire a mio fratello di piantarla una buona volta e stare lontano dal tunisino o, in alternativa, avrebbe dovuto prendere il suddetto tunisino e trascinarlo di fronte a un tribunale per circonvenzione e abuso di incapace e costringere i giudici a rinchiuderlo in uno sgabuzzino in compagnia di turchi che non vedono da anni la luce del sole, per tutto il resto della sua vita, tipo, e invece non stava facendo niente del genere e si limitava anche lui a spargere sorrisi e acqua di colonia come non ci fosse un domani, così, al solo scopo di mandarmi ai pazzi.
Alla fine, dopo numerose tribolazioni, ho accettato la realtà – nel senso che mi sono rassegnato, ecco. Accettare è un termine un po’ forte, ti fa pensare ad un uomo che si sveglia al mattino e, con tutto l’orgoglio dei suoi vent’anni, spalanca la finestra, alza gli occhi al cielo, inspira a pieni polmoni ed esclama “io posso farcela e ce la farò!” richiamando a sé le forze della natura perché lo pervadano e lo aiutino ad uscire dalla brutta situazione in cui s’è cacciato. Ecco, io non direi di essermi comportato proprio così, per questo “rassegnare” è un termine più preciso, perché ti fa pensare a un uomo che si sveglia al mattino e, con tutto l’orgoglio dei suoi vent’anni, incurva le spalle, sospira e sbotta “va be’, poteva andare peggio, poteva mettersi con Chakuza”. Per dire.
Comunque, da lì in poi le cose hanno cominciato a migliorare. Io ho ripreso a parlare con Bill, ho smesso di picchiare David e ho anche scoperto che in fin dei conti il Billshido diventato realtà non era nemmeno così male. Voglio dire, mio fratello era parecchio frustrato, ultimamente, e da quando andava a letto con Bushido invece le cose sembravano andare sensibilmente meglio, perciò evidentemente Madre Natura sapeva cosa fare quando li aveva chiusi entrambi in uno sgabuzzino per indagare sulle nuove frontiere della loro sessualità. Bisognerebbe sempre fidarsi di Madre Natura, lei sa cosa fa e non sbaglia mai. Ha fatto me etero perché non poteva privare le donne della mia bellezza, ha fatto Georg e Gustav etero perché non poteva dare agli omosessuali anche questa sfiga e ha fatto Bushido e Bill omosessuali perché potessero trovarsi e ristabilire gli equilibri dell’universo, evidentemente. Chi sono io per oppormi? Nessuno. E quindi non mi oppongo.
I problemi hanno ricominciato a bussare alla mia porta quando la storia fra Bill e Bushido ha cominciato a farsi seria. Intendiamoci, io non avrei avuto nulla in contrario se quei due avessero continuato a scopare come ricci fino ad esaurire la forza che li spingeva l’uno verso l’altro, ma loro no, volevano fare i romantici, gli innamorati, e si sa come finiscono queste cose, che poi ci si appiccica come crauti ai wurstel e non ci si stacca più nemmeno coi lacrimogeni. E quindi è cominciata la lunga trafila di cose che odio e che succedono sempre in questi casi: presentazione dei genitori – che poi in realtà è stata la cosa meno devastante, perché Bushido per qualche motivo adora la frittata con le cipolle di mia madre ed io per motivi ancora meno comprensibili adoro lo spezzatino con le patate della signora Luise Maria – pellegrinaggi continui negli appartamenti altrui, spostamento dei primi vestiti e, dulcis in fundo, presentazione degli amici.
E lì crolla la mia terza certezza. Nello specifico: se anche Bushido fosse gay, i rapper in generale non potrebbero esserlo.
Immagino lo sappiate già, comunque: Bushido vive in un’enorme villa gialla che io suppongo possa essere vista dallo spazio al pari della grande muraglia cinese, se non altro perché il suo colore è tale da dover essere per forza catarifrangente, quindi immagino che catturi la luce del sole e poi la proietti nell’universo per centinaia di migliaia di anni luce. Scommetto che esiste un qualche pianeta perso nel nulla dal quale vedono i suoi bagliori giallastri, e scommetto anche che la credono una stella. E l’avranno nominata in qualche modo tipo B-Ush1d0. O chessò io. Comunque! Il nostro tunisino preferito vive in questa villa, e naturalmente non ci vive da solo. Fino a qualche tempo fa ci viveva con Kay One e D-Bo, poi Kay One ha deciso giustamente di fuggire per rincorrere il miraggio dell’eterosessualità e D-Bo ha deciso di imitarlo per rincorrere quello dell’indipendenza, e quindi Bushido s’è visto costretto a cambiare coinquilino.
E qui entra in gioco Fler.
Dunque, Fler è un uomo che mi sono ritrovato ad apprezzare parecchio, in passato, se non altro perché Sido diceva un gran bene di lui, se lo portava ovunque e tutto il resto. E poi, ammettiamolo, l’uomo col rap ci sa fare, e ci dà dentro che è una meraviglia. L’ultimo album, poi, è una delle cose più grandiose siano state prodotte all’AB nei suoi quasi dieci anni di meravigliosa esistenza, perciò io, ecco, gli volevo del bene.
Quando ha deciso di riappacificarsi col vecchio amico e poi arcinemico, non è che ci abbia trovato qualcosa da ridire. Trovo però decisamente qualcosa da ridire nell’entrare in casa di Bushido in compagnia del sovrano della baracca e della sua regina – mio fratello – e ritrovarmi appunto Fler sul divano che limona selvaggiamente con Chakuza. Ecco, questo mi turba parecchio, ed ho da ridire eccome, per due motivi fondamentali: il primo è che una cosa del genere ovviamente distrugge la mia certezza sui rapper che non sono mai gay, il secondo è che non si limita a distruggere solo questo ma distrugge anche la quarta delle mie certezze – che, ve lo anticipo fin d’ora, sono cinque, quindi sopportate stoicamente, che il martirio sta per concludersi. Tale certezza era: se anche Bushido fosse gay e tutti i rapper in parata avessero deciso di seguire il suo illuminato esempio, per nessun motivo al mondo Chakuza sarebbe un essere umano sessualmente attivo. E invece, tutto insieme, scopro che non solo il rap tedesco in parata ha deciso di seguire le orme del suo principale esponente, ma ha deciso di farlo anche Chakuza e, cosa peggiore di tutte, ha deciso di farlo con Fler. Di fronte ai miei occhi!
Poi, per dire, mi sarei aspettato una reazione alla “cielo! Mio marito!” pur senza mariti implicati. Capite cosa intendo? Qualcosa tipo Fler e Chakuza che si tirano un inesistente lenzuolo fin sotto il mento ed urlano cose random tipo “oddio! Non ci aspettavamo una vostra visita! Ci dispiace! Ci spostiamo immediatamente al piano di sopra, e non certo per continuare ma per fare harakiri a seguito della nostra intimità violata” e via così. E invece niente, io mi vedo questi due uomini adulti che restano nell’esatta posizione in cui erano quando li abbiamo beccati – per la precisione e nel caso vi interessi, anche se ne dubito: Chakuza seduto sul divano con Fler a cavalcioni nell’atto di sollevarsi per liberarsi più facilmente dei jeans – e si voltano a sorriderci e salutarci come niente fosse, e insomma, mi prendo male! Chiunque si prenderebbe male, in una situazione del genere! E quindi raccolgo ciò che di mio è caduto fin sul pavimento di Bushido – la mascella, per lo stupore, non le palle, quelle le tengo sempre in gran conto e al loro posto – e fuggo via il più lontano possibile. Letteralmente.
È un peccato che mio fratello abbia gambe così lunghe, sia così leggero e, soprattutto, sappia esattamente dove trovarmi quando entro in depressione e mi chiudo in posizione fetale rinnegando l’esistenza del mondo esterno.
Insomma, sono stato riportato indietro al grido di “ma dai, Tomi, sono così carini!” e non ho potuto fare a meno di rassegnarmi ancora e prendere atto del fatto che la mia vita aveva deciso di tradirmi ribaltandosi al contrario mentre io dormivo o ero comunque momentaneamente assente, e senza nemmeno lasciare un messaggio dopo il segnale acustico. Ci sono tragedie alle quali uno dovrebbe essere preparato prima, e invece niente, un attimo prima sei un uomo felice e l’attimo dopo ti ritrovi su un divano giallo dentro una casa gialla che mangi pasticcini gialli bevendo tè al limone mentre un rapper tunisino divora di baci tuo fratello da un lato e altri due rapper dall’altro lato si fanno prendere da una sorta di delirio pro-gay e ti raccontano tutta la loro vita e, soprattutto, come e quanto in meglio sia cambiata la loro vita da quando hanno scoperto di amarsi. Che sono cose che uno non vorrebbe mai sentirsi dire, intendo, ascoltare Chakuza che ti racconta dei suoi piani di vita matrimoniale con Fler aggiungendo che prima o poi gli piacerebbe anche adottare dei bambini o, in assenza, almeno qualche cane? No, grazie, vivo felice anche senza.
Comunque niente – e aiutatemi a ripetere niente – di tutto questo poteva prepararmi al dramma cosmologico che da lì a poco si sarebbe verificato. Perché uno vede tante cose, nel corso della propria vita, e io ne ho viste un mucchio, credetemi, e dopo un po’ si convince che niente potrà più stupirlo o piombarlo in un baratro di disperazione, perché ci si riprende da tutto, no? Io mi sono ripreso da mio fratello, tanto per cominciare, poi mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo, mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo che è Bushido, mi sono ripreso da mio fratello con un ragazzo che è Bushido e ha due amici che sono Chakuza e Fler e che stanno insieme!, e dopo tutto questo pensavo che nulla più avrebbe potuto scalfirmi. E invece no. Non avevo tenuto conto del fatto che al peggio non c’è mai fine.
E tutto ciò mi riporta ad oggi. A una cena con tutta la crew di Bushido che è finita da almeno mezz’ora e a me che, svaccato su questa poltrona e con un bicchiere di vino rosso ancora quasi del tutto pieno in mano, osservo la scena che si presenta di fronte ai miei occhi e che coinvolge mio fratello, Bushido, Chakuza, Fler e Sido, che s’è fermato a chiacchierare un po’ dopo la fine del pasto.
Ricordate della quinta certezza cui accennavo prima? Ecco, recita pressappoco così: se anche Bushido fosse gay e tutti i rapper in parata avessero deciso di seguire il suo illuminato esempio, e se pure Chakuza dovesse rivelarsi un essere umano sessualmente attivo, una cosa non potrà mai cambiare, e questa cosa è che Sido non è gay né mai lo diventerà.
Capite bene che è un po’ difficile ripeterlo adesso che lo stesso Sido che mai e poi mai dovrebbe essere gay si spinge e sgomita per cercarsi uno spazio fra le braccia di mio fratello mentre Bushido lo tiene stretto da dietro strusciandosi contro di lui e Fler e Chakuza si danno alla pazza gioia baciandosi e spogliando contemporaneamente tutti gli altri, aiutati da una maestria che dimostra esperienza di un tipo che non sono certo di voler conoscere. E tutto questo qui, di fronte ai miei occhi.
- Ragazzi… - azzardo incerto, osservando il mio bicchiere di vino e allontanandolo con aria dubbiosa, sia mai il problema non sia negli appetiti sessuali ma nelle bevande, - non credete di stare un po’ esagerando? Siete tutti ubriachi e… - mi rispondono solo mugolii incomprensibili, che si protraggono a lungo come in una nenia.
- Shai qual è il tuo problema, Tooomi? – borbotta Bill, cadendo un po’ da un lato e un po’ dall’altro, sorretto dalle braccia malferme di Bushido che lo sistema esattamente nel mezzo fra il suo corpo e quello di Sido, mentre Fler e Chakuza si avvicinano, circondandolo ai lati con una serie di spaventose risatine compiaciute, - Che tu… non ti shai divertirrrre. – sentenzia mio fratello ridacchiando a propria volta e lasciandosi maneggiare come una bambola.
Io mi passo una mano sugli occhi, disperato. Dovrei fare qualcosa, tipo alzarmi, piantarmi in mezzo a tutti questi uomini concupiscenti e fuori di testa, prelevare mio fratello e portarlo il più lontano possibile da qui prima che abusino della sua persona…
- Oh, sì, A-Anis, così! – mugola Bill, allungando braccia e gambe a caso come se, oltre ad Anis, volesse inglobare dentro di sé pure tutti gli altri che lo stanno accarezzando baciando sfiorando ovunque in questo stesso momento. E lì io sospiro ancora, poso il vino e mi alzo in piedi diretto al piano di sopra, senza prelevare nessuno. Anche perché mi rendo conto che il piano originario, quello di salvare Bill prima che abusassero della sua persona, non posso più portarlo a termine: non sono più tanto sicuro di chi stia abusando di chi altri, in questo momento.
Le mie certezze ormai sono tutte sparite nel nulla. Non sono più sicuro di niente. Una cosa, comunque, la so: la prossima volta che Bill e Bushido mi invitano a cena, li mando tutti a fanculo senza nemmeno passare dal via.
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Death, Slash (accennato).
- "La sinfonia distorta di un omicidio."
Note: EmotivamenteDistrutta!Liz. Buonasera, signore care T_T Prima di tutto: io spero tanto che questa Saga non vi stia venendo a noia, per due motivi, uno stupido ed uno intelligente; quello stupido è che per ora mi va di scrivere solo questo, quindi, se non vi interessa, non leggerete più niente di mio per un sacco di tempo XD *minaccia gratuita* Il motivo intelligente, invece, è che questa trama è bellissima. Io e Tab abbiamo scelto il modo più difficile per portarla avanti – in un puzzle di POV che si completano e si sovrappongono lasciando sempre il dubbio sulla verità, visto che sono comunque le opinioni e i modi di vedere le cose dei personaggi – ma speriamo tanto che vi stiate affezionando. Noi siamo oltre il limite legalmente consentito di auto-amore, comunque XD Fra poco ci arresteranno.
Ho aspettato tanto a scrivere questa shot, volevo farmi di Fler un’idea più chiara possibile. L’ho plottata quasi tutta in una notte di agonia da febbre e mal di stomaco. Non so se si veda, ma l’ho anche scritta tutta il giorno seguente, con un mal di testa ed un mal di stomaco perforanti XD Sono sopravvissuta, comunque – io, almeno.
Un grazie enorme a Tab perché c’è stata dall’inizio alla fine e mi ha rassicurata tantissimo.
Io, comunque, amo Fler.
E adesso come la mettiamo, col mistero della morte di Anis? :3
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VERRÄTER

A quattordici anni, quando non hai un padre, la prima cosa che fai è cercartelo. Sei piccolo e stupido, perciò non pensi; l’unica cosa che vuoi è avere un figo davanti agli occhi e dirti “Cazzo, sì, è così che voglio essere quando sarò cresciuto. Esattamente così”.
Il primo padre che mi sono scelto era un coglione di dimensioni notevoli. Era sempre completamente fatto, l’unica cosa buona che si potesse dire di lui era che aveva un talento mica male per la… scrittura artistica, se così si può dire. È stato lui a mettermi la prima bomboletta spray in mano ed a mostrarmi come, dove e quando usarla.
E così sono finito di fronte al tribunale minorile.
Di quel giorno ricordo solo mia madre piangere sul più grande errore della sua vita ed il sollievo che provai quando il giudice mi condannò a sei mesi di servizio sociale.
Per la verità era anche ironico trovarsi a coprire il proprio stesso nome con la vernice bianca per le strade. Avevo scritto un enorme “Patrick” sul muro che delimitava il campo giochi di un asilo, ed era una scritta coi controcoglioni, azzurra e gialla, stupenda. Il pensiero di trovarmi di nuovo di fronte a quella scritta con l’obbligo di cancellarla mi dava i brividi, ma non erano brividi del tutto spiacevoli.
Annulli il passato e ti muovi verso il futuro. O qualcosa di simile.
Comunque sia, quando mi ripresentai ai servizi sociali per ricevere l’attrezzatura, i permessi e sapere chi avrebbe condiviso lo strazio con me per quel periodo di tempo, avevo rinunciato all’idea di cercarmi un nuovo padre. In qualche modo, pensavo, se non ce l’hai non ti serve.
E poi lo vidi.
Anis, tanto per cominciare, sembrava più grande di tutti gli altri. Forse perché era già così alto, così scuro, e l’atteggiamento era di quelli tipici di chi ti fa sapere senza dirtelo che è una persona pericolosa, e che perciò ti conviene stare alla larga se non vuoi trovarti coinvolto in qualcosa di brutto.
L’assistente sociale me lo indicò con un cenno del capo. Stava seduto su una sedia di plastica gialla, un piede sollevato sul sedile, la posizione svaccata di chi ha già vissuto troppo per badare alla buona educazione ed uno stecchino immobile fra le labbra.
La stanza era piena di ragazzetti ricoperti di piercing e bianchi come il latte, che si facevano fighi fra loro parlando delle loro ultime meravigliose imprese – tipo entrare nella casa del vicino per mettergli paura e rubare qualche centinaio di marchi – e che a causa di ciò avrebbero passato i prossimi mesi a portare il pranzo e la cena ai vecchi del quartiere.
Anis restava immobile. Nessuno gli rivolgeva la parola e la cosa non sembrava turbarlo.
- Ehi. – lo avvicinai, cercando di mostrarmi tosto quanto lui, - Sembra che dovremo farla insieme, questa cosa.
Lui mi lanciò un’occhiata assolutamente incomprensibile, sfilando lo stecchino di bocca senza neanche cambiare posizione.
- Tu che hai fatto? – chiese con una certa curiosità.
- Eh? – chiesi di rimando io, lasciando ricadere la mano che gli avevo porto e che lui, ne sono sicuro, non aveva pensato di stringere nemmeno per un secondo.
Anis rise.
- Come mai sei finito qui? – precisò, alzandosi lentamente in piedi.
Mi superava in altezza almeno di una ventina di centimetri. Era disturbante.
- Sono un tagger. – risposi con un certo orgoglio.
Lui non si scompose.
- E basta?
E a me diede i brividi.
Quella fu la nostra prima conversazione. Da quel momento in poi, Anis passò la sua intera esistenza a sfottermi.
So che può sembrare allucinante da dire così, ma io mi adattai subito. Voglio dire, mi adattai quando mi disse che lui era finito in galera perché spacciava. Io, che mi sentivo tanto figo ad andare in giro scrivendo il mio stupido nome sui muri di Tempelhof, mi sentii improvvisamente, oltre che scemo, anche puro come un neonato. Quello spacciava, cazzo. E gli spacciatori lo sapevamo tutti, com’erano. Non erano come noi, che giravamo col serramanico in tasca solo perché faceva figo. Loro lo usavano, il fottuto serramanico.
Mi sfotteva per il mio nome, mi sfotteva per il mio stile, perché ero troppo bianco, perché non avevo ancora mai accoltellato nessuno, mi sfotteva di continuo. Io gli davo del coglione ed ogni tanto un pugno sulla spalla o sul petto, ma Anis sembrava di ferro, cazzo. Incassava senza muoversi. E rideva. Di continuo. Di me e di qualsiasi altra cosa.
Non decidemmo noi di chiamarci Frank White e Sonny Black. Lui l’avevano già soprannominato così da tempo, come il capomafia, perché aveva tutto un suo giro di gente che già gli pendeva dalle labbra – ed aveva solo diciassette anni, cazzo, quando si dice il potenziale – perciò quando cominciai a farmi vedere sempre al suo fianco ai ragazzi venne naturale darmi del Frank White.
Anis mi sfotteva anche per quello.
- Lo sai chi è Frank White?
- No.
- Ma l’hai mai visto King of New York?
- No.
E giù risate.
- C’è questo qui, - mi spiegò, - che è Cristopher Walken, l’attore, dico, ma nel film è il signore della droga di New York. Uno cazzuto. Tu non ti sai neanche preparare gli spinelli.
Altre risate.
- E come finisce questo? – chiesi io, sbuffando, - Conquista l’America e diventa presidente?
- Ci prova. – rise lui, - Ma finisce morto ammazzato. Ovviamente. – un sospiro, - Perché, come pensi che finiremo noialtri?
Non mi spaventò, perché da quando andavo in giro con lui il pensiero della morte era molto meno spaventoso di prima. Voglio dire, puoi avere paura le prime due, tre volte che ti puntano un coltello alla gola. Ma quando la scampi – quando cominci a scamparla puntualmente – il brivido lo perdi. Ti riempi un po’ di stupido orgoglio e un po’ di presunzione, e ti ficchi in testa che morirai solo quando lo deciderai tu, perché fino a quando hai voglia di lottare puoi sempre tirare fuori un coltello più grosso o un calcio meglio assestato.
Però la sua rassegnazione aveva un che di deprimente.
Lui era in assoluto il più forte del quartiere, non avrebbe dovuto avere paura di nessuno. Eppure conosceva perfettamente la propria situazione e sapeva esattamente cosa aspettarsi dalla vita.
Era triste, in qualche modo.
- Comunque, sta’ tranquillo. – mi disse quel giorno, lanciandomi una pacca tale sulla spalla che io quasi caddi dal muretto sul quale c’eravamo arrampicati, - Prima di morire, altro che Re di New York. Io diventerò il Re dei Re.
Sul muretto, sotto di noi, avevamo appena finito di scrivere “King of Kingz”. Avevo eseguito gli ordini senza capire. Era un bel lavoro.
Scoppiai a ridere. Lui con me.
Decisi ciò che volevo essere. Uno di quei kingz ai quali lui avrebbe dato ordini. Era tutto ciò che volessi dalla vita.
*
Io lo so, cosa credono tutti. Io so tutto perfettamente. Perché Bushido mi ha chiamato traditore per anni, ma lui è così, ha un modo proprio di vedere la vita che, anche quando cozza contro la realtà, non cambia di un millimetro. Io non ho tradito proprio nessuno. Se qui qualcuno ha tradito qualcosa, quel qualcuno è Bushido e quel qualcosa siamo noi. Sono io. È ciò che c’era, ciò che sognavamo insieme.
Per la verità ogni tanto sospetto lui non abbia mai sognato in coppia con nessuno. Quando lui parlava di Re dei Re, non lo faceva come per dire “io sto sopra ma anche voi non siete malaccio, vi porto con me con piacere”. No, l’intento era un altro.
Stare sopra. Sopra tutti. Sopra tutto.
Io non ho tradito proprio nessuno. Quando siamo entrati all’Aggro Berlin, l’abbiamo fatto insieme. Quando abbiamo cambiato nome, l’abbiamo fatto insieme. Quando è uscito King Of Kingz, io ero lì. Ero in tutte le tracce. Ero nei sampler ed ero con Bushido quando Sido non gli avrebbe dato un centesimo.
Poi Bushido ha cominciato a fare i soldi. Quelli veri. Quelli che perfino Sido gli invidiava.
Chi è il traditore se, quando le cose cominciano a girarti bene, prendi e te ne vai?
Il traditore sei tu che sei andato via, o quelli che restano e che cominciano ad odiarti?
Bushido ha le idee chiare in merito. Tradisce chi resta ed odia. Chi non riesce proprio a dimenticarsi un vecchio sogno, e ci resta aggrappato con tutte le proprie forze.
Anche io ho le idee chiare in merito. Tradisce chi va via. Chi, quel sogno, lo prende e lo calpesta senza pensarci su neanche mezza volta.
In questi mesi, sia io che lui non abbiamo fatto altro che ribadire costantemente le nostre idee. Spalandoci merda addosso a vicenda. Per quanto inutile possa sembrare come modo di condurre un litigio, in realtà non abbiamo fatto altro che preparare questo giorno.
Tu non puoi adorare qualcuno e poi ficcargli un coltello nello stomaco da un giorno all’altro.
Hai bisogno di una scusa. E come scusa non basta che quella persona ti molli nella merda. Noi abbiamo avuto bisogno di lunghi mesi di diffamazione. Di dircelo in pubblico, cosa pensavamo l’uno dell’altro. Di far sapere al mondo che ora ad unirci c’era solo l’odio.
E così, giorno dopo giorno, abbiamo costruito le basi per stanotte. Offesa dopo offesa, insulto dopo insulto.
Sido pianta il freno e si lascia andare contro il sedile.
- Era qui? – chiede disinteressato. È chiaro che vorrebbe trovarsi da tutt’altra parte.
Sido ha una moglie ed una figlia. Sido è un rapper, non un criminale. Sido, con tutto questo, non c’entra niente.
- Sì. – rispondo, aprendo lo sportello, - Puoi andartene. Non c’è bisogno che resti.
Lui sospira.
- Fler, io lo voglio morto almeno quanto te. – borbotta, fissandomi con l’espressione tipica di quando vuole farmi una paternale, - Però non mi pare il caso… avanti, che ne sai che non ti si presenta con tutta la crew e ti lascia bucato come groviera sull’asfalto?
Scuoto il capo. Non può proprio capire.
- È una cosa fra me e lui. Bushido sarà di parola.
- Sì. – sospira esasperato, - Di solito lo è, eh?
Ghigno. Punto per lui.
Bushido è scorretto con chi non ritiene degno della sua onestà.
E sono in pochi.
Io, forse, avanzo delle pretese che non merito, ma voglio fidarmi. Stavolta voglio farlo.
- Non ti preoccupare, stanotte non crepo di certo. – butto lì, più per rassicurare me stesso che non per rassicurare lui. In realtà, ciò che rende questo buio così scuro, questa luna così brillante e queste strade così silenziose è proprio il brivido dell’incertezza.
Io non ho nessuna garanzia di sopravvivenza, perché la persona che un tempo mi difendeva oggi mi affronterà con una pistola in mano.
Io non ho nessuna garanzia di sopravvivenza anche perché tutto ciò cui ho potuto pensare in questi ultimi anni si condensa in stanotte. Tutti i miei obiettivi sono qui. Tutte le mie ossessioni, oggi finiranno.
La mia più grande ossessione. Me la troverò faccia a faccia in un vicolo vuoto. E toccherà a me ucciderla. O esserne ucciso.
Quando la mia ossessione arriva, mi trova seduto su un lastrone di cemento. Svaccato e perfettamente a mio agio. Per qualche secondo spero che questo possa servire a ricordargli due ragazzini in un tribunale minorile che aspettano i rulli, le tute e la vernice bianca.
M’illudo, lo so.
- Fler. – mi saluta con un cenno del capo. Io sollevo solo il mento.
- La puttanella l’hai lasciata a casa? – ghigno cattivo, mettendomi in piedi.
Lui non fa una piega. Non si muove. Neanche si offende, lo stronzo.
- Questa è una cosa tra me e te, Atze. – mi dice.
Il moto di stizza mi porta a serrare i pugni. Gli darei un cazzotto qui ed ora, senza pensarci. Ma non è il momento.
- Non chiamarmi Atze. Per me tu non sei più niente. – e sputo in terra. Sputo in terra perché lui è qui e può vederlo. Che ciò che eravamo era perfetto. E ciò che siamo adesso fa schifo.
Sputo su ciò che siamo. Sputo perché odio ciò che siamo. E perché stanotte lo ucciderò.
Lui sospira ed abbassa lievemente lo sguardo. Posso leggere perfettamente, al di là dei suoi occhi scuri come il petrolio, che sta cercando una via. Un modo per farmi ragionare, per convincermi a rivedere la mia posizione.
Questo atteggiamento un po’ mi indispone ed un po’ mi fa ridere. Bushido non è abituato a convincere gli altri con le parole. Bushido le impone, le cose. Come ha imposto la sua fidanzata nel mondo del rap tedesco, come ha imposto i propri soldi sulla giustizia austriaca quando ne ha avuto bisogno, come ha imposto se stesso su un mercato che non credeva di avere bisogno di un tunisino incazzato col mondo e pronto a sputare in faccia alla Germania per farle vedere tutte le sue brutture.
Bushido convince così, imponendosi. Ed il rap tedesco ha dovuto accettare Bill Kaulitz. E l’Austria ha dovuto chinare il capo. E la Germania ha capito che non aspettava altri che quel tunisino.
Però, con me vuole parlare.
- Fler, ascoltami. – dice a bassa voce, mettendo quasi le mani avanti, - Non abbiamo bisogno di questo.
- Quando mi interesserà sapere cosa pensi riguardo ciò di cui ho bisogno, te lo chiederò. Fino ad allora, tappa quella fottuta bocca e comportati da uomo, non da frocio accomodante.
Anche perché non lo sai, di cosa ho bisogno. Non più.
Infilo una mano in tasca. Il coltello arriva subito, neanche l’avessi chiamato. Forse lo stavo facendo. Comincio a girargli intorno come un predatore, fissandolo negli occhi.
- Cazzo. – dice lui. È frustrato. È deluso. È arrabbiato.
Ha paura.
Gli salto addosso. Non gli lascio neanche il tempo di guardarsi intorno, lo getto a terra e lo spingo sul marciapiedi con tutto il peso del mio corpo. Mi sfugge, il bastardo – ci tiene alla pelle, si vede. È cambiato anche in questo. Rotola su un fianco, io mi sollevo sulle ginocchia e lo attacco ancora, puntandolo col coltello. Ghigno, perché non è riuscito a recuperare il suo. Cerca di tenermi lontano a mani nude, ma io ho la lama. Io taglio.
Sono il traditore e faccio più male di te.
Sono il tradito, ed odio molto di più.
- Fler, piantala! – ringhia, mentre cerca di tenermi stretto per i polsi.
Forzo la sua stretta. È sempre dannatamente potente. Mi fa un male cane. Vorrei ficcargli questo coltello nella gola e risolvere il problema, ma non so se ne sarei veramente capace. Probabilmente, se mi lasciasse andare, mi fermerei.
- Vaffanculo, Anis. – digrigno i denti e gli sono così vicino che mi sento addosso il suo fiato. Ed è orribile, è tremendo, mi fa pensare cose che non dovrei, mi fa ricordare cose che non dovrei, cose che toglierebbero a chiunque la voglia di ammazzare chicchessia, pomeriggi noiosi passati a tirare le pietre nel canale, notti adrenaliniche e silenziose per fare la posta a questo o a quel debitore insolvente, fargli il palo mentre sgattaiola silenzioso fuori dal letto di una donna non sua ma che s’è preso lo stesso, ed io c’ero, io ero lì, ero davanti al suo sorriso e al suo “grazie, Atze, ti devo un favore”. E quanti favori mi devi, adesso? Te li inciderei tutti sulla pelle, Anis, uno dopo l’altro. Ma non so se ne ho davvero la forza.
Grido, rotoliamo sul marciapiedi, la felpa gli si strappa, io mi distraggo e ricevo in cambio una gomitata fra le costole che mi mozza il fiato. Cerca di riprendersi, lo stronzo, di recuperare il solito coltellino sul fondo della tasca dei jeans, ma non posso lasciarglielo fare.
Lo afferro per la gola. Stringo forte e premo fino a farmi sentire sottopelle. Fino a lasciargli addosso l’impronta delle mie dita, che poi è l’unica impronta che possa lasciargli, oltre allo strappo di una coltellata o al foro di una pallottola.
Lo sento che cede. Lo sento che smette di crederci. Lo sento e gli leggo negli occhi – annebbiati, confusi, tristi? – gli stessi sentimenti che agitavano me quando ha mollato l’Aggro Berlin. Quando mi è passato davanti come se, dentro di lui, di me fosse rimasto solo un ricordo sbiadito. Mi ha guardato sorridendo, mi ha detto “Non arrenderti”, ed io ho pensato “Allora è così che finisce, coi sogni? Ti esplodono dentro e ti lasciano devastato come neanche dopo una guerra, ma da fuori non si vede? È questo tutto quello che resta, una traccia invisibile?”.
E perciò gli faccio il verso.
Gli faccio il verso perché anche di lui resterà solo una traccia invisibile.
- Non ti arrendere. – sibilo, - Non ti arrendere… Bushido.
Ed io non so se è stata una distrazione o se in qualche modo volevo che recuperasse quel fottuto coltello e lo usasse contro di me, ma tutto quello che sento è un dolore acuto e forte sulla coscia, una quindicina di centimetri sopra il ginocchio.
Mentre grido e mi sposto di lato, tocco la ferita e sento il sangue. E penso che è giusto così. Che ce ne ha messo, di tempo, per farmi sanguinare. Ma alla fine è la cosa più giusta, perché io in realtà sanguino da anni, il problema è che il sangue non riusciva a venire fuori. Ed ora è ovunque – sulle mie mani, sui miei vestiti, sul marciapiedi. Ed è giusto così.
Ma manca ancora qualcosa.
- Chiudiamola qui. – ansima lui, tirandosi indietro.
No, non la chiudiamo qui. Manca qualcosa. Ora la sua traccia io ce l’ho addosso. Manca la mia su di lui.
- Col cazzo! – mi slancio in avanti e lo sbatto contro un muro.
Prima un calcio nelle palle, stronzo, così impari ad andare col primo fighetto di turno fottendotene perfino di ciò che sei.
E poi la coltellata. Il mio marchio. Avrei voluto piantartelo nel cuore, lo sai? Però è vero, non ci riesco.
Forse volevo solo il tuo sangue addosso. E non come le mille volte in cui sono andato recuperandoti per le strade dopo una rissa o un regolamento di conti, no. Volevo essere io a ferirti.
Sulle mie mani, il nostro sangue si mescola.
Ora siamo davvero fratelli. Ironia della sorte.
E mentre io sento il tepore del suo sangue sui polpastrelli, lo sente anche lui, scendere silenzioso lungo il braccio. E ne ha davvero paura. Sangue significa che puoi morire. Paura significa che hai qualcuno che ti aspetta.
Bushido non vorrebbe davvero essere qui.
Bushido ha qualcuno che lo aspetta.
Bushido non è più un criminale e nemmeno un rapper.
Bushido non ha più niente a che vedere con me.
Cerco ancora di schiacciarlo contro il muro, ma c’è qualcosa che non va. Si riprende. Mi tira nello stomaco un calcio tale che mi viene da vomitare. Mi allontano e ricevo come ringraziamento due cazzotti che mi fanno vedere doppio. Cado a terra. Mi fa male la gamba ed anche tutto il resto del corpo. Il coltellino è volato via. Lo vedo ad un metro circa da me, mi basterebbe allungare un braccio e recuperarlo, ma nonostante la ferita Bushido è più veloce. Lo scalcia lontano, ed io non lo vedo più.
La sua voce mi raggiunge alle spalle.
- La chiudiamo qui.
È netta e cupa.
È dolorosa.
È stupido, ma non ho più voglia di lottare. Lo ascolto allontanarsi e non mi muovo più.
*
Terremoto.
No. Mani. Mi scuotono.
- ‘ca puttana, Fler, riprenditi.
La voce. È Sido.
Apro gli occhi.
- Cazzo. – continua lui, - Cazzo. Sei ferito.
- Sì… lo so da me, grazie. – ansimo, cercando di rimettermi quantomeno seduto.
- È profonda?
Lancio un’occhiata alla mia gamba. Ovviamente non posso guardare attraverso i jeans, ma quello che sento lo so benissimo.
- Ho visto di peggio. – mormoro, mentre lui mi aiuta ad alzarmi, - Tranquillo. Te l’ho detto che non crepo, stanotte.
- Sì, certo. – borbotta Sido, tirandomi in piedi, - Ce la fai a reggerti?
Mi allontano da lui e ci provo. Annuisco.
- Perfetto. Allora vieni in macchina, ti porto all’ospedale.
Rifletto.
- Ho da fare.
- ‘Cazzo hai da fare, Fler, hai un buco in una gamba! – mi rimprovera lui, evidentemente esasperato dalla situazione. Per un attimo mi dispiace. Se sono rimasto lì arrotolato per terra non era per il dolore alla gamba. Era per il dolore a tutto il resto. Mi dispiace che si sia preoccupato per qualcosa di così stupido, Sido non merita niente del genere. Lui è un uomo d’affari ed un cantante. Non merita questo.
- Ho un conto da regolare. – spiego, il più pacatamente possibile, - E se non lo risolvo stanotte, non lo risolvo più.
C’è assolutamente qualcosa che devo dire ad Anis.
A me basta così. Io sono stato abbastanza male. Anche lui. Possiamo… siamo pari. Lo siamo davvero.
- Mi sono rotto i coglioni. – risponde Sido in un ringhio di frustrazione. Poi sospira. – Dov’è che devo portarti?
Gli sollevo addosso un’occhiata incredula.
- Come, scusa?
- Sei ferito ad una gamba. Prima risolviamo qui, prima ti porto all’ospedale. – ragiona nervosamente, - Devo ricordarti che sei la punta di diamante dell’Aggro Berlin? – chiede poi con un cipiglio dittatoriale che è ciò che ha permesso a questa sua faccia da nerd di sopravvivere nonostante tutto in questo mondo assurdo. – E certi legami contano sempre, Atze. – aggiunge poi, - Perciò, dimmi dove devo portarti.
Mi viene un po’ da ridere e lo seguo fino alla BMW. So esattamente dov’è andato Anis. So anche come raggiungerlo, il posto, perché una cosa non è riuscito a farla, ed è stato tenere nascosto l’indirizzo di casa sua. Cose che capitano, quando la tua fidanzata campeggia sulla copertina di Bravo una volta ogni due settimane. Qualcuno fa una foto e tu casualmente riconosci il quartiere e magari anche il palazzo.
Indico a Sido dove andare e, quando ci arriviamo, mi faccio lasciare a qualche metro dalla traversa giusta.
- Aspetta qui. – dico piano.
Lui non risponde, spegne il motore, le luci ed accende la radio.
Io mi muovo piano. La gamba mi fa un cazzo di male, ma non è il momento di pensarci. Il palazzo lo riconosco subito. Sto qui che cerco di capire se posso suonare il campanello o qualcosa del genere, ed oltretutto mi chiedo se conosco davvero Bushido al punto da indovinare le sue mosse – non è mica detto sia qui, in fondo – quando sento qualcosa che mi confonde.
Mi confonde perché è il nostro fischio. Ma non è Bushido a farlo, perché lo riconoscerei. E non sono nemmeno io. Posso esserne ragionevolmente certo.
Non so chi è che abbia fischiato, ma non avrebbe dovuto farlo.
Sollevo lo sguardo sul palazzo e vedo una figura scura affacciarsi ad una delle finestre. È lui. Lo vedo. Lo saprei anche se non lo vedessi. Mi guarda, lo guardo, non capisco cosa sta succedendo. Vorrei avvertirlo, c’è qualcosa che non mi torna. Vorrei dirgli che siamo a posto, più di ogni altra cosa.
Siamo a posto, Atze.

.....Denn eine Kugel reicht

- Cazzo è successo?! – è la prima voce che sento. Ed è Sido che, evidentemente, m’ha seguito. – Fler!
- Non sono stato io! – urlo a mia volta, agitato. Al primo sparo si sovrappone il secondo. L’eco dal primo non s’è ancora spenta nel vicolo vuoto. Si aggiunge un urlo. È la voce di Kaulitz. Passi. Non so di chi. Luci che si accendono, qualche cane che abbaia.
La sinfonia distorta di un omicidio.
Sollevo lo sguardo sulla finestra, che è ancora buia, ma non c’è più nessuna sagoma. Siamo solo io e Sido in un fottuto vicolo deserto, e questo è molto male.
Sido mi tira via.
- Vieni, porca troia! Merda… - mormora furioso, - Merda, siamo nella merda…
Ed io penso che è vero.
Fisso la finestra. Non urla più nessuno.
Cominciano a sentirsi le voci delle altre persone, però. Fra poco qui sarà un disastro, ed io so esattamente con chi se la prenderà l’universo intero quando Bushido sarà morto.
…la mia ossessione è morta.
Ed io non posso prendermela neanche con me stesso.
*
L’ultima settimana della mia vita è stata in assoluto la peggiore. Non mi hanno neanche lasciato il tempo di soffrire in pace. E questo, per uno come me – che s’è crogiolato nel dolore e nel risentimento per anni, prima di decidersi a farne qualcosa – è stato tremendo. Ho risposto a non so quante domande. Sido ha continuato a rimproverarmi per ore, ed io mi sono sentito molto un bambino. Molto stupido.
Stavo molto male.
Ecco tutto.
Ma sono qui. Sono qui perché c’è anche lui, qui. È dentro una bara e non può sentirmi, ma cazzo, mi ha visto, prima di morire. E quindi io dovevo esserci. Anche se forse non sono abbastanza uomo da farmi vedere – perché non hanno potuto incriminarmi, visto che la mia pistola non ha sparato, ma l’ersguterjunge non ha bisogno di documenti ufficiali per sapere su chi gettare il biasimo di questa morte.
Solo che no, non sono stato io.
Io non volevo neanche.
La signora Luise piange rumorosamente. Abbraccia Saad, che la sostiene come un cavaliere, fissando gelido di fronte a sé. La signora Luise mi fa una pena infinita.
La signora Luise probabilmente adesso mi odia, anche se è l’unica donna oltre mia madre che ricordi la mia data di nascita, e questo perché le feste di compleanno le ho organizzate a casa sua per anni, prima di entrare all’Aggro Berlin con Anis.
Prima di diventare grande.
Troppo grande.
Mi mancano, quei pomeriggi.
Sto molto male, vaffanculo.
Sido è quasi in prima fila, in rappresentanza dell’Aggro Berlin. So che non vorrebbe essere qui, ma lui è uno responsabile, ed è uno con le palle, perciò s’è presentato. Davanti a tutti e senza chinare il capo, anche se, lo so, tutta l’ersguterjunge lo tratta come fosse un mandante o chissà che.
Tutte balle. Non so come faremo ad uscire da questa rete di stronzate.
Quando arriva la macchina nera che accompagna Kaulitz, ce ne accorgiamo tutti. Si irrigidiscono tutti. È una sensazione che rende elettrica l’aria, ed arriva fino a me, che sono nascosto dietro una stupida enorme tomba di famiglia a metri e metri di distanza.
Lo osservo scendere dalla macchina. È in nero, sembra minuscolo e stravolto. Mi fa pena anche lui. C’è il fratello, al suo fianco, ma resta in disparte. Lo vedo che gli stringe appena una spalla, come per consolarlo, e poi Kaulitz si muove da solo. La fidanzata che si cerca un posto.
Fosse stato davvero una donna, la donna di Anis, l’avrebbero lasciato passare con tutti gli onori. Ed invece guardalo, non lo lasciano nemmeno avvicinarsi. Deve andare a prenderlo Chakuza. Chakuza, Cristo santo. Non ha diritti, il ragazzino.
Saad s’irrigidisce e lascia la signora Luise alle cure della propria madre. Si allontana e poi lo perdo di vista. Non ci bado molto, osservo il prete che si lancia in un discorso privo del benché minimo senso, che Anis odierebbe. Cazzo, la saltavamo insieme, la messa della domenica. Ed in ogni caso lui era sempre troppo scuro per piacere alle brave famiglie che trovavamo fra le panche in chiesa.
Io mi appoggio contro la parete del mausoleo e mi viene un po’ da ridere.
Sarebbe una bella cosa, farsi una risata. Peccato io stia piangendo come non mi capitava da anni.
- Bella faccia tosta a presentarti qui.
Mi volto, accanto a me c’è Saad.
Non rispondo.
- Sappiamo tutti che sei stato tu.
- Allora sapete molto più di quanto non sappia io. – rispondo seccamente.
Faccio per voltarmi ed andarmene, perché questo confronto è proprio l’ultima cosa che voglio.
- Ti incastreremo. – dice lui, freddo e pratico.
Scrollo le spalle.
Saad non piange.
È tutto ciò che riesco a pensare.
Shot facente parte della serie Und So Weiter.
Genere: Introspettivo, Romantico, Commedia.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: NC-17
AVVISI: Slash, Lemon.
- "'Sei innamorato, povero caro?'"
Note: In realtà il titolo di questa fic è un grossolano errore XD Stavo cercandone uno quando Nature 1 dei Muse mi ha colpita col suo you are a natural disaster, perciò ho brillato e ho detto "è lui *_*". Siccome io e la Tab non facciamo un cervello in due, lei mi ha subito seguita, per poi ricordare dieci minuti dopo che in realtà io l'avevo già intitolata così una shot della saga. *cade* Motivo per cui abbiamo stabilito che questa sarebbe stata Natural Disaster II, anche perché ci piaceva l'idea che pure il Flerkuza avesse il suo disastro naturale ♥
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NATURAL DISASTER II

A scanso di equivoci e prima di cominciare, vorrei mettere le mani avanti e dire che io non sono un idiota. So che a volte posso sembrarlo, ma non è la stupidità che regola le mie azioni. Sono tante cose, io, sono avventato e sono insensibile e sono alle volte un po’ tonto riguardo certe cose, me ne rendo conto perfettamente, ma non sono stupido, sono in grado di ragionare alla perfezione su ciò che dico e che faccio e so capire quando faccio una cazzata e quando invece ho ragione.
Ecco, forse il problema è che non sono tempestivo. Nel senso, so capire quando faccio una cazzata, ma lo capisco sempre con quel po’ di ritardo che in genere è quello che mi mette nei guai. Probabilmente ormai anche io, avendo avuto le esperienze che ho avuto, dovrei avere assimilato il senso del ghetto, che è un po’ l’equivalente del senso del ragno, solo che invece di percepire donne che urlano in lontananza cadendo da palazzi sotto ai quali devo passare saltando di ragnatela in ragnatela per afferrarle al volo, ti permette di percepire quando stai per fare qualcosa di potenzialmente pericoloso per la tua incolumità. Per qualche motivo, però, il senso del ghetto fatica a radicarsi in me, forse perché sono nato in montagna circondato dalle vacche, che non è proprio l’ambiente ideale per favorire l’attecchimento di una sensibilità simile.
Quale che sia la ragione, comunque, non sono mai riuscito a sviluppare questa capacità. Forse avrei dovuto farmi mordere da un bambino radioattivo del ghetto durante una visita scolastica, forse avrei dovuto chiedere a Daniel mentre lui era ancora un bambino ed io ero in visita scolastica a Tempelhof, ma non l’ho fatto, e quindi non ho mai imparato. Fler invece ha sempre saputo come si fa, per ovvi motivi, ed è per questa combinazione di fattori – il suo saperlo fare e il mio non essere capace – che lui ha provato, più volte, a fermarmi mentre io mi scavavo la fossa con le mie mani, ma io non me ne sono accorto, per cui ho proseguito imperterrito fino a quando non ho sollevato gli occhi e all’improvviso mi sono accorto di avere scavato tanto in profondità da riuscire a stento a intravedere ancora il cielo sopra la mia testa in un cerchiolino minuscolo e altissimo. Eccomi qua, adesso, sul fondo di una buca e senza scala per tornare su. Metaforicamente parlando ma anche no, visto che sono nella sala caldaie del palazzo e se n’è appena andata la luce, motivo per cui non vedo più un cazzo e non riesco a trovare l’uscita.
Immagino vogliate sapere perché mi trovo nella sala caldaie del mio palazzo, perché sia andata via la luce e perché io stia pensando a Fler proprio in questo momento. È presto detto: sono sceso nella sala delle caldaie perché le caldaie sono rotte e io sono l’unico nel palazzo con un minimo di manualità in questo senso – non si può certo pretendere che la signora Lotte si metta a prendere le caldaie a martellate quando queste smettono di funzionare – e pur non essendo un carpentiere posso vantare una certa competenza, se non altro perché disastri simili in casa mia accadono spesso e uno deve saperli fronteggiare, soprattutto se vive da solo. Poi, naturalmente, scendere qui sotto mi ha fatto ripensare all’ultima volta che una cosa simile è capitata, e quella volta ero con Fler. Era passato Capodanno solo da un paio di giorni, Bill se ne stava ancora molto sulle sue e io e Fler passavamo ancora un sacco di tempo insieme, anche se il nostro rapporto era un po’ più freddo di quanto non fosse prima, se non altro perché lui si rifiutava categoricamente di baciarmi, una roba che non ho mai capito, né allora né in seguito. Comunque, fatto sta che lui era a casa mia, stavamo guardando un film stupido in tv quando all’improvviso il gelo è calato su di noi. Viene fuori che le caldaie ci hanno abbandonati, perciò scendiamo entrambi e passiamo un paio d’ore piuttosto divertenti al termine delle quali vinciamo uno a zero contro la Caldaie FC, e giustizia è fatta. Quindi è chiaro che da quel giorno ogni volta che ho avuto a che fare con delle caldaie ho pensato a lui, con risultati alterni sulla mia concentrazione.
Il che ci riporta giustappunto alla questione delle luce che salta, perché poco concentrato com’ero mi sono avvicinato forse troppo avventatamente al quadro elettrico giusto per controllare che non ci fossero problemi con l’alimentazione delle caldaie, e mentre tocchicciavo qua e là per vedere se c’era una qualche ragione per cui la Caldaie FC sembrava chiusa nella propria area e non si muoveva, ecco che loro mi fregano. Contropiede assassino, trappola del fuorigioco che non scatta, rete, uno a zero, palla al centro. Cala il sipario, e pure l’oscurità.
- Merda. – borbotto vagando a tentoni per il seminterrato, agitando le braccia nel buio attorno a me alla ricerca di un qualcosa che possa fungere da punto di riferimento. Le caldaie stesse, o magari una parete, non lo so, qualche superficie che io possa seguire per provare a raggiungere l’uscita. Invece niente, sembra che all’improvviso con lo spegnersi della luce sia sparito anche tutto ciò che c’era in questa stanza prima. Sono perso nel vuoto cosmico, probabilmente non sto neanche camminando sul pavimento, fluttuo a mezz’aria e ho solo l’illusione di essere ancorato ben saldo al terreno perché non riesco a pensare che potrebbe andare diversamente. Forse sto sognando. O forse questo è solo il piano malvagio delle caldaie senzienti, forse non sono nemmeno più nella stanza delle caldaie ma è solo quello che le macchine vogliono farmi credere. Forse non dovevo guardare tutta la trilogia di Matrix da solo, ieri sera.
Comunque, mentre sono qui nel buio che cerco di uscire dal labirinto in cui la stanza delle caldaie s’è trasformata, continuo a pensare a Fler. Il che non è usuale per me, non per il fatto che è Fler, ma perché tendenzialmente io non sono tipo da pensare e ripensare alle cose, soprattutto se mi frustrano. Il pensiero di Fler al momento mi frustra perché non è qui con me e perché penso che, se ci fosse stato lui, a parte spingerlo contro le caldaie, immagino mi avrebbe anche dato una mano e io probabilmente non avrei finito col tagliare la luce a tutto il palazzo mettendomi nella prospettiva di dover pagare l’elettricista di tasca mia e i danni a tutti gli altri inquilini che hanno riposto le loro speranze in me per tornare ad avere il riscaldamento in casa, per dire, che in un palazzo vecchio e pieno di spifferi come questo serve un po’, alle porte di settembre, coi primi venticelli che cominciano a farsi sentire insidiando la salute delle povere ossa di tutti i vecchietti che abitano qui.
E quindi niente, ci penso e mi dico che non sono scemo, l’ho capito dove ho sbagliato. Però non è che l’abbia fatto apposta, non è che abbia pensato “aspetta che vomito addosso a Fler un po’ di rancore per il fatto che io e Bill non ci siamo mai lasciati ma lui si sente comunque in diritto di rifarsi una vita con Bushido”, perché non è così, e poi pure io non è che sia stato un santo, specialmente nell’ultimo periodo. Il fatto è che sul momento non ci ho pensato che poteva essere una cosa che avrebbe potuto offenderlo. L’ho letto e mi è stato sul cazzo il concetto, non so se mi spiego, che quei due molto carinamente potessero sentirsi in diritto di fare il cazzo che volevano anche se la situazione precedente non s’era ancora chiarita. Non ci ho pensato che io stavo facendo la stessa cosa, non sul momento. L’ho realizzato dopo. Non l’ho mica fatto con cattiveria.
In ogni caso, a un certo punto vedo la luce in fondo al tunnel. Sia in senso metaforico che in senso realistico, perché si accende una torcia da qualche parte ed io finalmente riesco ad inquadrare la cornice rettangolare della porta, oltre la quale sta in piedi una figurina minuta, ossuta e un po’ curva, con una gran massa di capelli sottili e cotonati sospesi come una nuvoletta attorno alla testa tonda. Si vede la sagoma degli occhiali enormi che sporge dai lati del viso, ed io sorrido riconoscendo la signora Lotte che mi punta la luce negli occhi. Non sento quasi nemmeno fastidio.
- Peter, - mi chiama con quella vocina da nonna, - stai bene?
- Io sì, signora. – sospiro, seguendo la luce e raggiungendola all’ingresso, - Ma non posso dire lo stesso del quadro elettrico. Credo di aver fatto un mezzo casino. Chiamerò qualcuno per sistemarlo e mi occuperò io di tutte le spese. – dico con rassegnazione.
- Oh, povero caro. – mugola lei, visibilmente preoccupata più per me che per il fatto che la luce sia andata via dall’intero palazzo, - Ma non potevi chiamare quel tuo amico, quel marcantonio, com’è che si chiamava? Patrick? Non lo vedo più da tanto, era così bravo con me.
Sorrido appena, appoggiando una mano sulla spalla esile della signora Lotte e stringendola un po’, delicatamente. Era bravo anche con me, lo sa, signora? Era un sacco bravo anche con me. Ho pasticciato con gli ingranaggi, proprio come stavo facendo poco fa nella stanza delle caldaie, e ho mandato tutto all’aria. Però per sistemare le cose con Fler non posso chiamare un elettricista. A parte che posso permettere a un elettricista di mettere le mani nel quadro elettrico di questo palazzo, ma non posso certo permettergli di fare la stessa cosa col quadro elettrico di Fler, che chissà dov’è, peraltro. Se poi viene fuori che ce l’ha nelle mutande? No, assolutamente. E poi comunque non c’entra, Fler non ha un quadro elettrico. Non è una cosa. È una persona. E io dovrei ricordarmelo più spesso.
- Abbiamo avuto qualche problema. – rispondo sinceramente, abbassando lo sguardo e stringendomi nelle spalle. La signora Lotte mi punta ancora la torcia negli occhi, prima di spegnerla. Stavolta dà un po’ fastidio.
- Povero caro. – ripete, - Vieni da me, ti offro una tazza di tè. Così potrai raccontarmi tutto.
E io mi lascio accompagnare nell’appartamento della signora Lotte, mi seggo su una di quelle sue belle seggiole antiche imbottite e foderate di stoffa pesante, come non ne fanno più al giorno d’oggi, e lascio che lei mi offra il tè col servizio buono, che è in porcellana bianca finissima, tutto ricoperto di decorazioni floreali colorate. Sembra una cosa d’altri tempi, ma mi riscalda il cuore, e non solo perché è calda la bevanda.
Comincio a parlare senza pormi freni, come faccio sempre. Per una volta, mi lascio libero di pensare che potrebbe non essere un errore, nel caso specifico. Fortunatamente, stavolta ho ragione.
- Io e Fler, per un certo periodo, siamo stati insieme. – confesso a capo chino, - Non è che stessimo proprio insieme nel senso canonico del termine, e non sono sicuro di poterglielo spiegare—
- Oh. – ride lei, - Via, via, Peter. Pensi che prima del mio Carmine io non abbia avuto scappatelle, o avventure con qualcuno? – sorbisce silenziosamente un po’ del suo tè, - E poi anche io ho avuto le mie esperienze trasgressive. – dice compitamente, e il modo in cui dice “trasgressive” è lo stesso in cui tutti quelli della sua età pronunciano questa parola, dandole un’accezione quasi tenera, che tu ti aspetti di sentir dire “ebbene sì, anche io mangiavo qualche stuzzichino fuori pasto!”, oppure “ebbene sì, anche io una volta non ho lavato i piatti per tre giorni di fila!”, e invece eccola lì, lei, bella pulita linda e profumata, con la sua faccia da vecchina per bene e la sua voce da vecchina per bene, che mi sgancia la bomba: - Io e la cugina Bertha ne abbiamo fatte, di cose, nella nostra adolescenza, e non erano cose che comprendevano la presenza di maschietti, se capisci cosa intendo, mio caro ragazzo. – dice con una risatina pettegola.
Io spalanco gli occhi e la bocca. Sento quasi la mascella toccare il pavimento, ma lei continua a guardarmi con quel sorriso assolutamente sereno e dolcissimo e allora cerco di ricompormi. D’altronde, le sto comunicando che sono gay. È anche giusto che lei si senta in diritto di ricordarmi che non sono l’unico al mondo.
- …sssì. – annuisco, grattandomi nervosamente la nuca, - Il fatto è che io e Fler— intendo, signora Lotte, noi non è che giocassimo. Nel senso, sì, giocavamo anche, alle volte, ma non era soltanto una… - cerco le parole, fatico a trovarle e mi rendo conto che forse non esistono, per cui invento, - una… esplorazione delle varie possibilità del nostro modo di vedere il sesso, intendo, noi eravamo— avevamo un certo rapporto, una storia.
La signora Lotte sfila gli occhiali, che mentre beveva il tè le si sono appannati tutti, e li pulisce col retro della tovaglia rotonda di raso che copre il tavolino al quale siamo seduti. Rimane lì in silenzio a strofinare le lenti con attenzione a lungo, le scruta quasi con aria decisa, come volesse imporre loro la propria volontà – “non vi graffiate, povere care”, la immagino dire con quel tono fra il severo e il compassionevole così tipico di lei – e poi li inforca nuovamente, sistemandoseli sul naso con un dito e tornando a guardarmi.
- Sei innamorato, povero caro? – mi chiede, con lo stesso tono che le ho immaginato usare prima con le lenti dei suoi occhiali. Sono innamorato, povero me?, mi chiedo, e mentre me lo chiedo cerco di seguire il ragionamento, ma mi s’inceppa. Non so, non è che ci veda come una cosa che abbia a che fare con l’amore, quando penso a me e Fler. Certo, ci ho pensato, alle volte mi è anche sembrato che forse magari in un certo senso in qualche modo da un certo punto di vista avrebbe potuto possibilmente esserlo, ma siamo incasinati un sacco, litighiamo continuamente e quando non litighiamo tendenzialmente ci guardiamo inarcando sopracciglia perché non ci capiamo su quasi nessun livello che non sia quello orizzontale – o anche verticale, se è coinvolta una parete, non poniamo limiti al cielo – quindi, non lo so, amore? Può essere amore anche questo? Signora Lotte, io non lo so.
- Forse. – rispondo, che è la cosa più sincera che posso dire senza dovere usare tutte le parole che ho usato prima pensandolo, e senza dover spiegare alla signora Lotte la questione del piano orizzontale, questione che ormai avrà capito da sé, suppongo, ma un conto è se lo capisce da sola, un conto è se ci mettiamo qui buoni a sorseggiare tè e io le spiego come giocavamo al dottore io e Fler quando fra noi era ancora la pace. Non esiste.
Lei annuisce compitamente, finisce il suo tè e giunge le mani in grembo. Per un attimo, così seduta sulla seggiola con le spalle dritte e il volto serio, mi sembra una di quelle vecchie educatrici severe tipo la signorina Rottenmaier. Mi scende un brivido lungo la schiena, ma poi lei si scioglie in un sorriso caldo e tenero, e allora un po’ mi sciolgo anch’io.
- Cos’è successo? – chiede premurosa, - Avete litigato?
Sospiro, le spalle che mi s’incurvano.
- No. – rispondo, - Non esattamente. Non ce n’era nemmeno bisogno, sono stato un cretino, mi sono comportato male e lui mi ha dato il benservito.
- Oh. – uggiola lei, sporgendosi a battermi una debole pacca su una spalla, - Povero caro. Scusami se te lo dico, ma sei proprio stupido.
L’effetto delle sue parole è paragonabile a quello di un pianoforte o di un quintale di mattoni che mi cadono dritti sulla testa, stile cartone animato. È assurdo, cose simili non succedono, ma sono talmente sorpreso dal sentirmi dire una cosa simile che nell’agitarmi quasi cado davvero dalla sedia.
- Come, scusi? – guaisco, alzandole addosso uno sguardo implorante. Ritiri tutto, signora Lotte. Mi voglia un po’ bene, almeno lei.
- Sei proprio stupido! – ripete lei, sempre sorridendo, ma a voce più alta, come se pensasse che ho problemi di udito o che so io. Non sono sordo, signora Lotte, solo incredulo. – Quanti giorni fa è successa questa cosa?
- U-Un paio di giorni fa, - balbetto io, incerto, - tre al massimo. Più o meno.
Lei scuote il capo, schioccando la lingua, insoddisfatta.
- Quanti giorni vuoi lasciare passare, caro? – mi rimprovera severa, incrociando le braccia sul petto, - Il tuo Patrick avrà tutto il tempo di rifarsi una vita che non ti comprenda, se continui così.
- …signora Lotte, io non credo che—
- Io credo – mi interrompe lei, sorridendo serafica, - che qualsiasi sia stato il motivo della vostra incomprensione, tu abbia capito di avere sbagliato. E mi sembri molto pentito e sofferente a riguardo. Sono sicura che lui non sta aspettando altro che vederti spuntare sulla soglia della sua porta con un mazzo di fiori in mano, pronto a scusarti. – dice con aria sognante. Io mi schiarisco la voce, vagamente a disagio.
- Signora Lotte, - azzardo, - Fler è maschio.
Lei aggrotta le sopracciglia, piccata.
- L’amore è un sentimento universale, - dice, - non conosce differenze di sesso, di razza o di credo religioso. – la fisso con tanto d’occhi perché non riesco a credere che stia facendo questo discorso proprio a me. – E inoltre, - continua con un mezzo sospiro, - non credere che solo alle donne piaccia sentirsi ricordare dal proprio innamorato cosa voglia dire sentirsi amati davvero.
E io lì mi blocco un po’, perché oggettivamente qui stiamo entrando in un terreno che io non conosco, quindi mi conviene muovermi in punta di piedi. Di essere pienamente e consapevolmente innamorato di qualcuno, a me è capitato una volta sola, e quella volta in cui è successo le cose sono filate lisce finché il nostro rapporto è rimasto una cosa nostra, circoscritta a noi due. Così avrebbe continuato probabilmente ad essere, se non si fossero messi di mezzo fattori esterni, ma il punto della questione non è tanto questo quanto più il fatto che, allora, né io né Bill avevamo bisogno di ricordarci l’un l’altro che eravamo innamorati. Era una cosa che sentivamo senza difficoltà in ogni bacio, in ogni parola, in ogni gesto, ogni volta che facevamo l’amore. Forse perché il rapporto che avevo con lui era molto più tranquillo, ripetersi continuamente che ci amavamo sarebbe stato ridondante, eccessivo, e quindi capitava di rado che ce lo dicessimo esplicitamente, o che facessimo in modo di ricordarcelo facendo l’uno per l’altro cose fuori dal normale. Ogni tanto capitava, sì, ma non era fondamentale, non dipendeva da quello la nostra tranquillità.
Mi rendo conto solo adesso che la signora Lotte me lo fa notare che non è così per tutti. Che io non posso pretendere che Fler si fidi di me in questo senso, che abbia delle certezze riguardo alla nostra relazione, che si fidi del rapporto che abbiamo, se non gli ho mai dato modo di crearsele, questa fiducia, queste certezze e questa tranquillità. Quando mai siamo stati tranquilli, noi due? Quando mai abbiamo chiarito qualcosa? Quando mai abbiamo posto delle basi serie per una relazione, basi che non affondassero nell’argilla, intendo. Eppure eccomi qui, a pretendere inconsciamente che Fler possa reagire bene al più sbagliato degli spunti di discussione, perché dentro di me pensavo che comunque ormai ci fossimo riavvicinati. Sì, ci eravamo riavvicinati davvero, ma cazzo, stavamo in bilico come sempre. E io non ci ho pensato. Perché ha proprio ragione la signora Lotte, sono proprio uno stupido.
Mi alzo e le sorrido dolcemente, chinandomi a lasciarle un bacio su una guancia.
- Grazie per il tè, signora Lotte, era veramente buonissimo. – le dico. Lei si stringe nelle spalle, imbarazzata.
- Non ho fatto poi niente di speciale. – si schermisce.
La verità è che invece sì.
*
Uscito da casa della signora Lotte, passo appena dal mio appartamento a darmi una ripulita sommaria e afferrare una giacca a caso e poi sono subito per strada, diretto a casa di Fler. Non sta lontanissimo da qua, ma la mia buona mezz’ora di cammino in genere per raggiungerlo me la faccio. Oggi corro. Cioè, non corro proprio, però cammino tanto velocemente che sicuramente marcio, e arrivo in poco più di dieci minuti, e col fiatone, tant’è che poi ne perdo cinque sotto casa sua a cercare di riportare il mio respiro ad un ritmo più normale, piegato in due e con le mani sulle ginocchia. Appena mi ritrovo un po’, mi rimetto dritto e mi attacco al citofono. Suono almeno sei volte, poi mi rassegno all’evidenza: non è in casa. Non che la cosa mi stupisca, visto che Fler odia quest’appartamento, soprattutto quando deve starci da solo.
Mi fermo a riflettere. Può essere solo in due posti. Il primo che mi viene in mente è casa di Bushido, ma siccome, come abbiamo avuto modo di appurare via giornaletto scandalistico ieri, c’è Bill da lui – ed io non immagino che, fra una manciata di mesi, quando tutto sarà preoccupantemente diverso rispetto ad adesso, fuggire a casa di Bushido non sarà più così improbabile, presenza di Bill fra le regali quattro mura o meno – penso che Fler si sarà risparmiato di andare a stabilirsi proprio là, col rischio di dover finire nella dependance con Karima, poi.
La seconda opzione è vagamente più rassicurante, da un certo punto di vista – più precisamente, il punto di vista nel quale non mi tocca andare a casa di Bushido per andarmi a riprendere Fler, che sarebbe una mossa sconveniente in molti più sensi di quanti non riesca a pensarne con un solo cervello – ma dall’altro è un disastro. Perché mi tocca andare a riprendermi Fler a casa di Sido, e io non lo so mica com’è che potrebbe andare a finire una cosa del genere.
Nonostante queste giustificatissime perplessità di base, prendo il coraggio a quattro mani, inspiro profondamente e poi faccio un giro di telefonate, al termine del quale sono un uomo pronto e dotato di un indirizzo verso il quale dirigermi. Arrivo a casa di Sido che sono quasi le sette di sera, il che già mi pone in una posizione di disagio, perché non solo io perfetto sconosciuto appartenente a un’etichetta rivale arrivo in casa del gran capo dell’Aggro Berlin per tirargli via da sotto le grinfie uno dei suoi ex-pupilli, ma ci arrivo anche in prossimità dell’ora di cena. Non riesco ad immaginare uno scenario più preoccupante neanche mettendomici di buzzo buono, e sì che in questo senso la mia fantasia è piuttosto fervida.
Suono al citofono di casa Würdig-Steinert con un po’ di preoccupazione addosso, ma la controllo pensando che non è che abbia davvero alternative rispetto al trovarmi qui in questo momento. Spero solo che Fler capisca il sacrificio che sono costretto a fare per riaverlo, lo apprezzi e mi ricompensi adeguatamente. Tipo calandosi giù dal balcone entro i prossimi cinque minuti.
- Chi è? – risponde la voce un po’ nasale di Sido. La riconosco subito. Quando uno ti dà pubblicamente della merda in una diss anche se tu di tuo non gli hai mai mai mai ma proprio mai fatto nulla di male, tendi a non dimenticarti più il suono della sua voce.
- Sono Chakuza. – rispondo con candore.
Dall’altro lato cala il silenzio per una infinita quantità di secondi.
- Chakuza…? – chiede, ed è come se col mio nome ci si stesse strozzando. – Che cazzo ci fai qui?
- Ecco, io… - borbotto grattandomi una guancia, - sarei venuto per parlare con Fler.
- Ma chi ti dice che sia qui?! – sbotta lui, agitandosi tutto, - Ma santo Dio, ma sei normale?! È casa mia, questa, mica casa di Fler! Sparisci.
- Sì, il fatto è che ci sono già stato a casa sua. – dico precipitosamente, con l’intenzione di fermarlo prima che possa riappendere, - E siccome non c’è ho pensato che potesse essere qui.
- Hai pensato male! – ribatte lui con naturalezza, - Ma vedi tu se posso avere a che fare con uno stalker mitomane. Ma poi fosse John Lennon, santo Dio. Ma io non lo so, veramente. Senti! – riprende, tornando palesemente a parlare con me come non ha fatto negli ultimi trenta secondi, - Quando e se rivedrò Fler, gli riferirò che sei passato a cercarlo. Ora evapora. Sciò. Tornatene da— - e si interrompe all’improvviso, troppo all’improvviso per non costringermi ad inarcare un sopracciglio, incerto. Sento suoni di colluttazione provenire dall’interno dell’appartamento. Sido urla un “no!” molto accorato, che quasi mi commuove. Sto cullandomi col pensiero che forse Fler era nascosto da qualche parte e ora sta picchiando il suo ex-datore di lavoro per il modo becero in cui mi ha trattato, quando una voce femminile, molto più dolce e giovane di quella di Sido, prende il suo posto, salutandomi cordialmente.
- Ehm, scusi il disturbo. – dico con evidente imbarazzo, stringendomi nelle spalle, - Io non voglio mandarvi a monte la serata, vorrei solo parlare con Fler, se fosse possibile.
- Ma certo che è possibile. – risponde la signora Sido. Anche lei ha la voce identica a come l’ho sentita registrata su cd, più precisamente in una canzone che ha cantato con Fler. – Prego, sali pure, non badare a mio marito. – cinguetta felice, aprendomi il portone, - Settimo piano.
Io lancio un’occhiata veloce al palazzo e noto che è l’ultimo. Deglutisco con paura: se qualcuno vorrà defenestrarmi dal settimo piano, sia quel qualcuno Sido o Fler, non avrò scampo. Dico io, pure voi, non potevate abitare al primo?
Quando esco dall’ascensore, sulla soglia della porta ad attendermi non c’è Sido, naturalmente, ma lei. E io mi c’incanto un po’, perché la signora qui è di una bellezza sconcertante. A parte che avrà massimo venticinque anni, in pratica è una ragazzina, che uno si chiede per quale motivo non solo stia con uno come Sido, che volendo ci può anche stare, ma gli abbia dato perfino una figlia. Ma comunque. Indossa un vestitino rosso corto che le lascia scoperte le spalle, ed attorno alla vita ha un grembiulino di quelli che si fermano a metà coscia, tutti svolazzanti. È truccata, indossa bracciali e orecchini, ha i capelli sciolti sulle spalle e un paio di deliziose décolleté nere ai piedi. Sembra un po’ uscita da una soap-opera, ma in generale non fatico a capire perché Sido dovesse essere così furioso solo perché avevo interrotto il rituale di preparazione della cena.
- Peter Pangerl, vero? – chiede lei, salutandomi con un sorriso ed una stretta di mano piuttosto femminile. Io ricambio con aria un po’ persa, ed immagino che il mio sguardo stupito parli per me, perché lei si affretta subito ad aggiungere: - Fler ci ha detto tutto, di te.
Ah, penso io. E non è un “ah” felice e soddisfatto, tutt’altro. Ho una brutta sensazione, che aumenta d’intensità man mano che avanzo e m’introduco in casa Würdig-Steinert, che per inciso è un appartamento enorme arredato in maniera molto calda, con la carta da parati alle pareti e le tende lunghissime e sbuffanti su tutte le finestre e tutti i balconi e un sacco di divani imbottiti ovunque. E quadri, foto e dischi d’oro e di platino appesi alle pareti.
- Guardi, davvero, non voglio disturbare, per cui—
- Dammi pure del tu. – sorride lei, - Mi chiamo Doreen. Che ne diresti di restare a cena? Ormai è quasi ora, sto preparando il pollo con le patate.
La prima cosa che mi viene da dire è: ma ce l’hai messo il rosmarino nel pollo, Doreen? Perché non viene altrettanto saporito senza. Trattengo il commento sulla lingua, fortunatamente, e la seguo mentre mi fa strada lungo il corridoio. L’odore che viene dalla cucina, dovunque essa sia, comunque è buono.
- Non sono sicuro di poter accettare adesso. – dico con un mezzo sorriso, - Se non dovessi risolvere le cose con Fler, poi restare a cena potrebbe essere imbarazzante.
- Oh, - ride lei, divertita, - Fler è il minore dei tuoi problemi, adesso. – e così dicendo, mi introduce in salotto, dove Sido sta seduto sul divano, le braccia incrociate sul petto e la testa incassata nelle spalle, e fissa il televisore senza nemmeno vederlo, le labbra piegate in un broncio talmente lungo che con un po’ di fantasia lo vedo sfiorare il pavimento.
- Buonasera. – saluto, agitando una mano con aria un po’ impacciata. Sido mi lancia un’occhiata imbufalita.
- A te pare una buona sera? – borbotta, tornando immediatamente a fissare la tv, - Perché a me no.
Aggrotto le sopracciglia e faccio per rispondergli che ho capito che la mia presenza qui lo infastidisce, ma non mi pare il caso di agire come un bambino di cinque anni, visto che siamo tutti uomini adulti e capaci di ragionare, mi sembra, quando un dolore lancinante a uno stinco mi costringe a retrocedere dai miei propositi e a piegarmi in due mugolando pietosamente e stringendomi la gamba.
- Che cosa…? – borbotto, chiedendomi se per caso non sia stata Doreen a rifilarmi un pestone con quelle sue deliziose scarpette alla moda dai tacchi a spillo, ma guardando in basso realizzo che non è stata affatto Doreen a farmi del male, ma piuttosto una copia di Sido in miniatura, con capelli scuri appena più lunghi acconciati in un caschetto corto alla base del collo e i lineamenti appena un po’ più dolci rispetto a quelli di suo padre, ma palesemente riconoscibili. La bambina brandisce una spada di legno, e suppongo sia questo l’attrezzo che ha usato per gambizzarmi. – E tu chi sei? – chiedo con un po’ di terrore. La bambina solleva la spada e me la cala sulla testa come una mannaia. – Ahi! – strillo, e, mentre Doreen si copre la bocca con entrambe le mani e poi si allunga a sfilare la spada dalle mani di quella che sospetto fortemente essere la figlia, Sido, dal divano, ride di gusto.
- Brava bella di papà. – dice compiaciuto, - Vieni qui, Maja. – prosegue, chiamandola a sé e battendo una mano sul cuscino al proprio fianco con aria orgogliosamente paterna.
- Paul. – borbotta Doreen, incrociando le braccia sul petto, - Ma quanto la vizi?
- Ma perché mi ha picchiato? – piagnucolo io, gettando dal settimo piano non me stesso ma la mia decenza, e pensando che forse sarebbe stato meglio il contrario.
Doreen si stringe pudicamente nelle spalle.
- Le abbiamo grossomodo spiegato perché Fler è qui. Sai, lei gli vuole molto bene.
Osservo lo scricciolo in salopette e camiciola bianca che si arrampica sul divano accanto a suo padre e mi dico che sono messo proprio bene. Ma proprio bene. Sospiro.
- Posso vedere Fler, adesso? – chiedo, col tono di uno che pensa che ciò che ha subito fino ad adesso rappresentasse il giusto tribolato percorso per giungere a destinazione, un po’ come quei principi azzurri che sanno di dover affrontare il bosco di rovi e il drago sputafuoco prima di giungere alla stanza della principessa nella torre più alta del castello. Con tutte le dovute distinzioni fra Fler e una qualsivoglia principessa, in fondo è un po’ così per davvero.
Doreen sorride, riaccompagnandomi in corridoio. Indica una scala a chiocciola in ferro battuto proprio in fondo al corridoio stesso, e mi dice che la stanza di Fler è nel sottotetto, al piano di sopra. Parto già ad immaginarmi Fler recluso in una stanza larga due metri ed alta uno e mezzo, tutto curvo su se stesso come il Gobbo di Notre-Dame, ma quando salgo effettivamente le scale vedo che il cosiddetto sottotetto di Doreen in pratica è semplicemente il piano di sopra. Sì, c’è il tetto spiovente, ma vorrei ridiscendere per spiegare a Doreen che il sottotetto al più è un’intercapedine polverosa alta venti centimetri, mica questa reggia inondata dal sole che filtra dall’enorme finestra tonda che c’è sul prospetto.
Mi avvicino all’unica porta chiusa sul piano – le altre, e sono due, sono aperte, e danno una su un piccolo bagno e l’altra su un ripostiglio dentro il quale fa bella mostra di sé una scaffalatura metallica piena di ogni ben di Dio, neanche in questa casa ci si fosse preparati accatastando provviste in caso di una guerra atomica – e sento provenire dall’interno i suoni campionati di un videogioco. Un uomo palesemente non italiano ma che fa di tutto per sembrarlo strilla “Mamma mia!” con aria addolorata, e Fler impreca. Ho il terrore di aprire questa porta e trovarmi davanti agli occhi una versione regredita ai quattordici anni del Fler che conosco. Me lo figuro incazzato col mondo e soprattutto con me e mi chiedo se la finestra tonda sia sigillata e se per caso nel ripostiglio ci siano delle lenzuola vecchie che potrei annodare per calarmi discretamente fino in strada senza dover disturbare nessuno uscendo dalla porta principale.
Scrollo via dalla testa queste immagini moleste e busso.
- Adesso scendo! – risponde Fler, senza neanche chiedermi chi sono. Avrà visto l’orario ed avrà immaginato che Doreen fosse venuta a chiamarlo. Sento i suoni provenienti dal videogioco interrompersi all’improvviso, e poi le molle del letto sul quale è sdraiato scricchiolano nel momento in cui si alza. I suoi passi un po’ strascicati attraversano la stanza per un paio di secondi e poi la porta si apre. E invece di Doreen ci sono io. Sorpresa. - …Chakuza. – esala, e che non è contento di vedermi sarebbe ovvio anche per un cieco sordo e muto.
- Ciao. – lo saluto un po’ incerto, - So che non ti aspettavi di rivedermi—
- No che non me lo aspettavo. – mi interrompe lui, glaciale, - Se non sbaglio, ti avevo avvertito di non farti più vedere.
- Lo so. – annuisco consapevole, - Ma ne ho parlato con la signora Lotte, e lei pensa che—
- Ne hai parlato con la signora Lotte?! – sbotta lui, interrompendomi ancora. Fler, lasciami finire un discorso, già che io ho problemi pure se mi si lascia parlare senza interrompermi dall’inizio alla fine, ti ci metti pure tu che mi blocchi ogni tre secondi, poi non ti lamentare se mi s’inceppano gli ingranaggi e dico stronzate.
- Il punto non è questo. – dico, cercando di riportarlo verso la questione principale, che sennò qui facciamo notte.
- Invece il punto è proprio questo! – insiste lui, alteratissimo, così tanto che è tutto rosso a chiazze per quanto si agita. La pressione, Fler. – Il punto è che per nostra grande sfortuna Dio o chi per lui ti ha dotato di una bocca ma non del manuale di istruzioni, e di conseguenza tu la utilizzi senza sapere come, motivo per il quale nove volte su dieci lo fai a sproposito! Il punto è che come ti muovi fai un casino, ed alle volte basta pure che stai fermo e semplicemente dai aria al cervello per via orale per combinare disastri inenarrabili! Ti si dovrebbe aprire una finestra sulla nuca, così quando senti che devi schiarirti le idee la apri e non devi necessariamente parlare per dare all’ossigeno una via per raggiungere i tuoi neuroni! Avrei dovuto pensarci quando te l’ho quasi spaccata in due, quella testa di cazzo che ti ritrovi, dovevo farlo allora! Alla signora Lotte lo va a dire lui, certo! Ma andare dal tuo padre confessore, se ne hai uno, che almeno è obbligato a mantenere il segreto?!
Si ferma all’improvviso, proprio quando cominciavo a pensare che non ci sarebbe più riuscito, e resta immobile davanti a me, ansimando un po’. Ha gli occhi lucidi, ma capisco subito che non è che stia per piangere, è soltanto la rabbia e l’agitazione. Inspiro profondamente.
- Posso entrare? – chiedo, e mi preparo a sentirmi rispondere di tutto.
- Sì. – dice invece semplicemente lui, scostandosi dall’uscio per farmi passare. Io muovo qualche passo all’interno della stanza, che è letteralmente un casino, con vestiti buttati ovunque, giocattoli – che spero non siano suoi – sparsi sul pavimento e il letto disfatto ai piedi del quale c’è un cestino per la carta straccia pieno di confezioni di dolciumi vuote. – Scusa il disordine.
Gli lancio un’occhiata perplessa, e noto che ha chiuso la porta.
- Dico, te la ricordi o no casa mia? – chiedo, inarcando un sopracciglio. Lui ride appena, superandomi e sedendosi sul letto. Io lo seguo e faccio lo stesso, sedendomi abbastanza lontano da non rappresentare un fastidio, mentre lui mi guarda e io lo guardo e sostanzialmente, per cinque minuti buoni e non sto esagerando, non facciamo altro che scrutarci a vicenda come fossimo un rompicapo e dovessimo cercare di risolverci. Cosa non del tutto distante dalla realtà, peraltro.
- Che cosa ci sei venuto a fare qui, Chaku? – mi chiede alla fine, sospirando affranto. È frustrato e nervoso, glielo sento addosso. Se abbassa lo sguardo, adesso, non è perché sia triste, o almeno, non è solo per questo. È solo che non sa più cosa fare con me, perché le ha provate tutte e nessuna funziona. Forse siamo solo incompatibili e dovremmo proprio smetterla di continuare a rincorrerci sapendo perfettamente qual è la fine che faremo ogni volta. Forse dovremmo. Forse.
- Volevo solo parlare un po’. – rispondo io. Lui mi lancia un’occhiata pesante come un macigno.
- Siccome spesso parlando tu risolvi i problemi… - borbotta, e io mi stringo nelle spalle.
- Magari non si risolverà niente, ma non mi andava di lasciare che si chiudesse senza che tu sapessi. – dico, facendo sfoggio di grande coraggio.
Fler inarca un sopracciglio, per nulla impressionato.
- Sapessi cosa? – chiede giustamente. Eh. Sapesse cosa? Che cos’è che voglio dirgli, se quando la signora Lotte mi ha chiesto se lo amo non sono riuscito a tirare fuori niente più che un forse? Se dico “ti amo, forse” a Fler adesso, mi sa che mi defenestra sul serio. Stavolta le parole mi tocca sceglierle con cura, e mi tocca farlo adesso. Non posso sbagliare e poi pentirmene fra tre giorni. Non ora.
- Che non ti voglio fuori dalla mia vita. – dico a bassa voce, sforzandomi di guardarlo negli occhi anche se mi imbarazza farlo, perché i suoi sono chiari e limpidi e molto spesso ho avuto l’impressione che riuscisse a leggermi nella testa meglio di quanto non potessi fare io con me stesso, e la cosa mi ha sempre fatto paura, perché in un certo senso questo gli dava delle possibilità di controllo su di me, possibilità che non potevo avere nemmeno io, e fino ad oggi forse inconsciamente io ho sempre pensato che questo fosse un male, un pericolo, o comunque qualcosa cui non volevo sottostare, e invece mi ritrovo adesso a guardarlo e chiedermi perché mai l’abbia pensato. Io a quest’uomo una notte di dicembre di due anni fa ho affidato la vita. Qual è la differenza, adesso, perché non potrei farlo ancora e ancora e ancora? Deglutisco. – Se mi chiedessero se posso fare a meno di chiunque altro… - mi mordo un labbro, ci rifletto davvero, e capisco che sto dicendo la verità, - Se mi chiedessero se posso fare a meno di Bill, direi di sì. Sì, potrei. Ma non voglio te fuori dalla mia vita. Non adesso, e probabilmente mai.
Mi ritrovo all’improvviso senza fiato. Credo di aver detto tutto quello che dovevo dirgli senza fare cazzate nel mentre, ed è possibile che la cosa mi abbia prostrato più di quanto non credessi, il che ci sta, perché è faticoso muoversi in una cristalleria essendo un elefante, ma comunque mi sento in un certo senso come se avessi compiuto la mia missione, come se adesso non ci fosse nient’altro che posso fare, a parte sedermi nella mia bella navicella spaziale e osservare dall’oblò se le cinquanta testate atomiche che ho seppellito nella pancia dell’asteroide in rotta di collisione verso la Terra saranno sufficienti a fermarne l’avanzata. Insomma, se potrò tornare a casa da eroe o se osserverò dallo spazio il mio pianeta – tutto quello che mi interessa proteggere adesso – mentre si disintegra in particelle minuscole, togliendomi una casa e perfino senso di esistere.
Fler resta in silenzio per un’eternità. È sempre così quando aspetti un verdetto da cui dipende tanto, ti pare ogni volta che chi deve dartelo si prenda tutto il tempo dell’universo solo per torturarti. Mi innervosisce, anche se razionalmente so che non lo sta davvero facendo apposta, e a un certo punto sono così nervoso che schiudo le labbra per dire una cosa qualsiasi, la prima che mi passi per la testa, e sono ben consapevole che potrebbe essere la cazzata che rovinerebbe tutto, per cui sono grato, immensamente grato, quando Fler allunga una mano e mi appoggia un dito sulle labbra, zittendomi.
- No. – dice, con aria piuttosto allarmata, ed è alquanto offensivo notarlo, visto che ci penso, in realtà, - Sta’ zitto.
Arriccio le labbra in un broncio poco compiaciuto, ma in realtà il movimento serve solo a lasciargli un bacio involontario e un po’ goffo sul polpastrello. E spero che il brivido che ho sentito io nel darglielo sia lo stesso che ha sentito lui nel riceverlo, e sia questo il motivo per cui ritira la mano e mi guarda con gli occhi spalancati, perché se non è così, se in realtà tutto quello che sta pensando è che sono un deficiente e non vuole più vedermi, giuro che dalla finestra mi ci butto da solo. Ma non per cosa, perché quegli occhi così incerti non li reggo, non li posso reggere, non ci bastano già i miei ad essere confusi per entrambi?, e mentre sono qui che mi faccio problemi enormi e controllo davvero quanti passi mi separano dalla finestra – o magari dalla porta, via, non vogliamo fare troppo i melodrammatici, o spaccare questo bel vetro pulito oltre le tendine rosa di una stanzetta in cui spero Fler non vorrà passare altro tempo oltre al necessario – all’improvviso qualcosa nei suoi occhi si schiarisce, si scioglie, e quando lo vedo avvicinarsi boccheggio a vuoto per un paio di secondi come un pesce fuori dalla boccia, un attimo prima di sentire le sue labbra che si premono contro le mie, e allora ciao, arrivederci, campane a festa, perché io smetto di capire qualsiasi cosa e non mi importa più di niente.
Mi sporgo in avanti, spingendolo sul letto, e sul momento non è che mi rendo conto del fatto che sto davvero per provare a fare sesso con lui qui e ora, penso solo che ce l’ho premuto addosso e mi piace e ne voglio di più. Lui, peraltro, non è che opponga resistenza più di tanto: tira su una gamba, puntando il piede contro il materasso e strisciando all’indietro, afferrandomi per il colletto della maglietta e trascinandomi con sé mentre io mi sistemo fra le sue cosce e nel momento stesso in cui i nostri bacini si toccano devo allontanarmi un secondo perché mi manca seriamente il fiato. Sto per scopare! Sto per scopare con Fler! Nessuno di voi che non sia me può capire quanto questo avvenimento sia glorioso e vada celebrato. Semplicemente non potete, è la cosa più bella del mondo, e siccome pensavo che non sarebbe più avvenuto al momento sono così felice che mi scoppia il cuore nel petto.
Fler sorride contro le mie labbra, appoggiando la fronte alla mia.
- Piantala. – borbotta divertito, gli occhi chiusi, le ciglia che tremano appena. Mi struscio contro di lui perché so che non è questo che mi sta chiedendo di smettere di fare.
- Ma non sto dicendo niente. – protesto, ritardando la sua risposta di qualche secondo coinvolgendolo in un altro bacio.
- Non ad alta voce, forse. – risponde lui, la voce sottilissima e persa. Non apre gli occhi, e mi tiene stretto a sé con possessività mentre faccio di tutto per spogliarci entrambi senza causare disastri, e penso che sia bellissimo che lui possa dirmi che non ho parlato ad alta voce ma qualcosa l’ho detta comunque, anche se era una cosa stupida. C’è qualcosa, nel modo in cui Fler mi capisce, che non ho mai provato con nessun altro. L’idea delle anime gemelle mi è sempre stata un po’ sullo stomaco, se devo dire la verità, ma se ci credessi, sono sicuro che crederei anche che Fler sia la mia. Perché è così evidente, così lampante, che anche uno stupido come me non può non accorgersene.
Il letto cigola rumorosamente sotto di noi – cigola quando mi avvicino, quando lui schiude, piega e solleva le gambe per farmi posto, quando entro piano dentro di lui e ritrovo nel suo corpo il posto che credevo di avere perduto per sempre e invece, a sorpresa, è ancora lì – ma io non ci bado, e non ci bada neanche Fler. Pensiamo entrambi solo distrattamente alla porta – lo so perché ci voltiamo a guardarla tutti e due nello stesso momento, prima di scoppiare in una risata senza fiato che ci scuote ma non c’impedisce di continuare a venirci incontro spinta dopo spinta – ma tutto comincia a farsi annebbiato e confuso nel momento in cui lui sussurra il mio nome sul mio collo, e io mordo il suo e mi muovo un po’ più svelto, con un po’ più di forza, e Dio, non mi capacito di quanto mi sia mancato il modo tutto suo in cui Fler mi prende dentro, il modo in cui è capace di farmi mancare il fiato piegando il collo o inarcando la schiena anche se niente di tutto questo dovrebbe turbarmi come invece fa. Eppure succede, e penso che questo in sé racchiuda un po’ tutto, i motivi per cui ci siamo trovati, e persi, e ritrovati, e ripersi, e ritrovati ancora, e i motivi per cui penso che continuerà ad essere così sempre, fra noi, perché non dovrebbe accadere, eppure succede. Eppure succede.
Lo stringo con forza fra le dita, accarezzandolo al ritmo delle mie spinte, e vengo molto prima di lui perché lui – lo so che lo fa apposta, lo vedo dal modo in cui sorride – rotea i fianchi e stringe i muscoli attorno a me apposta per tirarmi questo bello scherzetto, solo che non me ne frega niente di essere venuto per primo, in realtà non me ne frega proprio un accidenti di niente, continuo a muovermi dentro di lui, più piano, con calma, finché ancora sono duro e posso arrivare a sfiorarlo in quel punto che gli fa inarcare la schiena ed arricciare le dita dei piedi, ed è allora che lui getta indietro il capo, schiude le labbra, respira affannosamente e si abbandona completamente fra le mie braccia, soddisfatto, mentre viene fra le mie dita.
Per un po’, restiamo in silenzio, ad ascoltare il suono dei nostri respiri mentre, da concitati e spezzati, si fanno sempre più calmi. Resto completamente spalmato addosso a lui, e lui mi tiene sopra di sé senza spostarsi di un millimetro, come se non sentisse il minimo fastidio per il mio peso. O ci siamo incastrati benissimo, o semplicemente non gli va di allontanarsi. Mi stanno bene entrambe le opzioni.
- Sai? – dico dopo un po’, sollevando gli occhi. Lui abbassa lo sguardo a incontrare il mio e piega un po’ il capo in un gesto curioso. – Doreen mi ha invitato a cena. – rivelo con candore.
Lui inarca un sopracciglio.
- Qui? – chiede.
- No, a casa dei genitori di Sido. – mi acciglio io, - Per farmeli conoscere, sai com’è, visto che ormai sono di famiglia.
Lui ride, tirandomi uno scappellotto contro la nuca e muovendosi appena sotto di me. Vorrei dirgli di non farlo, che è una cosa molto pericolosa soprattutto adesso che sono ancora troppo sensibile e lui è ancora troppo nudo, ma ho appena il tempo di schiudere le labbra che sentiamo provenire un paio di tonfi dal pavimento. Bum bum, e basta.
Nella mia testa si affollano le ipotesi più disparate, compresa la possibilità che questa camera sia posseduta o che lo sia l’intera casa di Sido, o chissà, Sido stesso!, questo spiegherebbe perché sua figlia è in realtà Rosemary’s baby, ma poi Fler ride, si stringe nelle spalle e si stiracchia come un ragazzino.
- Mi sa che è pronta la cena. – ipotizza con tono divertito.
A me sa che ho proprio bisogno di qualcuno che mi spieghi come sono le cose quando nella mia testa si sono già trasformate in un delirio senza un perché, invece.
- Vieni a stare da me. – gli dico in un fiato, guardandolo dritto negli occhi. Lui mi ricambia l’occhiata con stupore sincero, e poi mi sorride.
- Parliamone dopo. – propone, - A pancia piena. E da vestiti. Okay?
Annuisco, perché come ho già detto mi serve che qualcuno mi guidi. E penso di averlo trovato.