Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bill/Bushido (accennato).
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Death, Slash (accennato).
- "La sinfonia distorta di un omicidio."
Note: EmotivamenteDistrutta!Liz. Buonasera, signore care T_T Prima di tutto: io spero tanto che questa Saga non vi stia venendo a noia, per due motivi, uno stupido ed uno intelligente; quello stupido è che per ora mi va di scrivere solo questo, quindi, se non vi interessa, non leggerete più niente di mio per un sacco di tempo XD *minaccia gratuita* Il motivo intelligente, invece, è che questa trama è bellissima. Io e Tab abbiamo scelto il modo più difficile per portarla avanti – in un puzzle di POV che si completano e si sovrappongono lasciando sempre il dubbio sulla verità, visto che sono comunque le opinioni e i modi di vedere le cose dei personaggi – ma speriamo tanto che vi stiate affezionando. Noi siamo oltre il limite legalmente consentito di auto-amore, comunque XD Fra poco ci arresteranno.
Ho aspettato tanto a scrivere questa shot, volevo farmi di Fler un’idea più chiara possibile. L’ho plottata quasi tutta in una notte di agonia da febbre e mal di stomaco. Non so se si veda, ma l’ho anche scritta tutta il giorno seguente, con un mal di testa ed un mal di stomaco perforanti XD Sono sopravvissuta, comunque – io, almeno.
Un grazie enorme a Tab perché c’è stata dall’inizio alla fine e mi ha rassicurata tantissimo.
Io, comunque, amo Fler.
E adesso come la mettiamo, col mistero della morte di Anis? :3
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VERRÄTER

A quattordici anni, quando non hai un padre, la prima cosa che fai è cercartelo. Sei piccolo e stupido, perciò non pensi; l’unica cosa che vuoi è avere un figo davanti agli occhi e dirti “Cazzo, sì, è così che voglio essere quando sarò cresciuto. Esattamente così”.
Il primo padre che mi sono scelto era un coglione di dimensioni notevoli. Era sempre completamente fatto, l’unica cosa buona che si potesse dire di lui era che aveva un talento mica male per la… scrittura artistica, se così si può dire. È stato lui a mettermi la prima bomboletta spray in mano ed a mostrarmi come, dove e quando usarla.
E così sono finito di fronte al tribunale minorile.
Di quel giorno ricordo solo mia madre piangere sul più grande errore della sua vita ed il sollievo che provai quando il giudice mi condannò a sei mesi di servizio sociale.
Per la verità era anche ironico trovarsi a coprire il proprio stesso nome con la vernice bianca per le strade. Avevo scritto un enorme “Patrick” sul muro che delimitava il campo giochi di un asilo, ed era una scritta coi controcoglioni, azzurra e gialla, stupenda. Il pensiero di trovarmi di nuovo di fronte a quella scritta con l’obbligo di cancellarla mi dava i brividi, ma non erano brividi del tutto spiacevoli.
Annulli il passato e ti muovi verso il futuro. O qualcosa di simile.
Comunque sia, quando mi ripresentai ai servizi sociali per ricevere l’attrezzatura, i permessi e sapere chi avrebbe condiviso lo strazio con me per quel periodo di tempo, avevo rinunciato all’idea di cercarmi un nuovo padre. In qualche modo, pensavo, se non ce l’hai non ti serve.
E poi lo vidi.
Anis, tanto per cominciare, sembrava più grande di tutti gli altri. Forse perché era già così alto, così scuro, e l’atteggiamento era di quelli tipici di chi ti fa sapere senza dirtelo che è una persona pericolosa, e che perciò ti conviene stare alla larga se non vuoi trovarti coinvolto in qualcosa di brutto.
L’assistente sociale me lo indicò con un cenno del capo. Stava seduto su una sedia di plastica gialla, un piede sollevato sul sedile, la posizione svaccata di chi ha già vissuto troppo per badare alla buona educazione ed uno stecchino immobile fra le labbra.
La stanza era piena di ragazzetti ricoperti di piercing e bianchi come il latte, che si facevano fighi fra loro parlando delle loro ultime meravigliose imprese – tipo entrare nella casa del vicino per mettergli paura e rubare qualche centinaio di marchi – e che a causa di ciò avrebbero passato i prossimi mesi a portare il pranzo e la cena ai vecchi del quartiere.
Anis restava immobile. Nessuno gli rivolgeva la parola e la cosa non sembrava turbarlo.
- Ehi. – lo avvicinai, cercando di mostrarmi tosto quanto lui, - Sembra che dovremo farla insieme, questa cosa.
Lui mi lanciò un’occhiata assolutamente incomprensibile, sfilando lo stecchino di bocca senza neanche cambiare posizione.
- Tu che hai fatto? – chiese con una certa curiosità.
- Eh? – chiesi di rimando io, lasciando ricadere la mano che gli avevo porto e che lui, ne sono sicuro, non aveva pensato di stringere nemmeno per un secondo.
Anis rise.
- Come mai sei finito qui? – precisò, alzandosi lentamente in piedi.
Mi superava in altezza almeno di una ventina di centimetri. Era disturbante.
- Sono un tagger. – risposi con un certo orgoglio.
Lui non si scompose.
- E basta?
E a me diede i brividi.
Quella fu la nostra prima conversazione. Da quel momento in poi, Anis passò la sua intera esistenza a sfottermi.
So che può sembrare allucinante da dire così, ma io mi adattai subito. Voglio dire, mi adattai quando mi disse che lui era finito in galera perché spacciava. Io, che mi sentivo tanto figo ad andare in giro scrivendo il mio stupido nome sui muri di Tempelhof, mi sentii improvvisamente, oltre che scemo, anche puro come un neonato. Quello spacciava, cazzo. E gli spacciatori lo sapevamo tutti, com’erano. Non erano come noi, che giravamo col serramanico in tasca solo perché faceva figo. Loro lo usavano, il fottuto serramanico.
Mi sfotteva per il mio nome, mi sfotteva per il mio stile, perché ero troppo bianco, perché non avevo ancora mai accoltellato nessuno, mi sfotteva di continuo. Io gli davo del coglione ed ogni tanto un pugno sulla spalla o sul petto, ma Anis sembrava di ferro, cazzo. Incassava senza muoversi. E rideva. Di continuo. Di me e di qualsiasi altra cosa.
Non decidemmo noi di chiamarci Frank White e Sonny Black. Lui l’avevano già soprannominato così da tempo, come il capomafia, perché aveva tutto un suo giro di gente che già gli pendeva dalle labbra – ed aveva solo diciassette anni, cazzo, quando si dice il potenziale – perciò quando cominciai a farmi vedere sempre al suo fianco ai ragazzi venne naturale darmi del Frank White.
Anis mi sfotteva anche per quello.
- Lo sai chi è Frank White?
- No.
- Ma l’hai mai visto King of New York?
- No.
E giù risate.
- C’è questo qui, - mi spiegò, - che è Cristopher Walken, l’attore, dico, ma nel film è il signore della droga di New York. Uno cazzuto. Tu non ti sai neanche preparare gli spinelli.
Altre risate.
- E come finisce questo? – chiesi io, sbuffando, - Conquista l’America e diventa presidente?
- Ci prova. – rise lui, - Ma finisce morto ammazzato. Ovviamente. – un sospiro, - Perché, come pensi che finiremo noialtri?
Non mi spaventò, perché da quando andavo in giro con lui il pensiero della morte era molto meno spaventoso di prima. Voglio dire, puoi avere paura le prime due, tre volte che ti puntano un coltello alla gola. Ma quando la scampi – quando cominci a scamparla puntualmente – il brivido lo perdi. Ti riempi un po’ di stupido orgoglio e un po’ di presunzione, e ti ficchi in testa che morirai solo quando lo deciderai tu, perché fino a quando hai voglia di lottare puoi sempre tirare fuori un coltello più grosso o un calcio meglio assestato.
Però la sua rassegnazione aveva un che di deprimente.
Lui era in assoluto il più forte del quartiere, non avrebbe dovuto avere paura di nessuno. Eppure conosceva perfettamente la propria situazione e sapeva esattamente cosa aspettarsi dalla vita.
Era triste, in qualche modo.
- Comunque, sta’ tranquillo. – mi disse quel giorno, lanciandomi una pacca tale sulla spalla che io quasi caddi dal muretto sul quale c’eravamo arrampicati, - Prima di morire, altro che Re di New York. Io diventerò il Re dei Re.
Sul muretto, sotto di noi, avevamo appena finito di scrivere “King of Kingz”. Avevo eseguito gli ordini senza capire. Era un bel lavoro.
Scoppiai a ridere. Lui con me.
Decisi ciò che volevo essere. Uno di quei kingz ai quali lui avrebbe dato ordini. Era tutto ciò che volessi dalla vita.
*
Io lo so, cosa credono tutti. Io so tutto perfettamente. Perché Bushido mi ha chiamato traditore per anni, ma lui è così, ha un modo proprio di vedere la vita che, anche quando cozza contro la realtà, non cambia di un millimetro. Io non ho tradito proprio nessuno. Se qui qualcuno ha tradito qualcosa, quel qualcuno è Bushido e quel qualcosa siamo noi. Sono io. È ciò che c’era, ciò che sognavamo insieme.
Per la verità ogni tanto sospetto lui non abbia mai sognato in coppia con nessuno. Quando lui parlava di Re dei Re, non lo faceva come per dire “io sto sopra ma anche voi non siete malaccio, vi porto con me con piacere”. No, l’intento era un altro.
Stare sopra. Sopra tutti. Sopra tutto.
Io non ho tradito proprio nessuno. Quando siamo entrati all’Aggro Berlin, l’abbiamo fatto insieme. Quando abbiamo cambiato nome, l’abbiamo fatto insieme. Quando è uscito King Of Kingz, io ero lì. Ero in tutte le tracce. Ero nei sampler ed ero con Bushido quando Sido non gli avrebbe dato un centesimo.
Poi Bushido ha cominciato a fare i soldi. Quelli veri. Quelli che perfino Sido gli invidiava.
Chi è il traditore se, quando le cose cominciano a girarti bene, prendi e te ne vai?
Il traditore sei tu che sei andato via, o quelli che restano e che cominciano ad odiarti?
Bushido ha le idee chiare in merito. Tradisce chi resta ed odia. Chi non riesce proprio a dimenticarsi un vecchio sogno, e ci resta aggrappato con tutte le proprie forze.
Anche io ho le idee chiare in merito. Tradisce chi va via. Chi, quel sogno, lo prende e lo calpesta senza pensarci su neanche mezza volta.
In questi mesi, sia io che lui non abbiamo fatto altro che ribadire costantemente le nostre idee. Spalandoci merda addosso a vicenda. Per quanto inutile possa sembrare come modo di condurre un litigio, in realtà non abbiamo fatto altro che preparare questo giorno.
Tu non puoi adorare qualcuno e poi ficcargli un coltello nello stomaco da un giorno all’altro.
Hai bisogno di una scusa. E come scusa non basta che quella persona ti molli nella merda. Noi abbiamo avuto bisogno di lunghi mesi di diffamazione. Di dircelo in pubblico, cosa pensavamo l’uno dell’altro. Di far sapere al mondo che ora ad unirci c’era solo l’odio.
E così, giorno dopo giorno, abbiamo costruito le basi per stanotte. Offesa dopo offesa, insulto dopo insulto.
Sido pianta il freno e si lascia andare contro il sedile.
- Era qui? – chiede disinteressato. È chiaro che vorrebbe trovarsi da tutt’altra parte.
Sido ha una moglie ed una figlia. Sido è un rapper, non un criminale. Sido, con tutto questo, non c’entra niente.
- Sì. – rispondo, aprendo lo sportello, - Puoi andartene. Non c’è bisogno che resti.
Lui sospira.
- Fler, io lo voglio morto almeno quanto te. – borbotta, fissandomi con l’espressione tipica di quando vuole farmi una paternale, - Però non mi pare il caso… avanti, che ne sai che non ti si presenta con tutta la crew e ti lascia bucato come groviera sull’asfalto?
Scuoto il capo. Non può proprio capire.
- È una cosa fra me e lui. Bushido sarà di parola.
- Sì. – sospira esasperato, - Di solito lo è, eh?
Ghigno. Punto per lui.
Bushido è scorretto con chi non ritiene degno della sua onestà.
E sono in pochi.
Io, forse, avanzo delle pretese che non merito, ma voglio fidarmi. Stavolta voglio farlo.
- Non ti preoccupare, stanotte non crepo di certo. – butto lì, più per rassicurare me stesso che non per rassicurare lui. In realtà, ciò che rende questo buio così scuro, questa luna così brillante e queste strade così silenziose è proprio il brivido dell’incertezza.
Io non ho nessuna garanzia di sopravvivenza, perché la persona che un tempo mi difendeva oggi mi affronterà con una pistola in mano.
Io non ho nessuna garanzia di sopravvivenza anche perché tutto ciò cui ho potuto pensare in questi ultimi anni si condensa in stanotte. Tutti i miei obiettivi sono qui. Tutte le mie ossessioni, oggi finiranno.
La mia più grande ossessione. Me la troverò faccia a faccia in un vicolo vuoto. E toccherà a me ucciderla. O esserne ucciso.
Quando la mia ossessione arriva, mi trova seduto su un lastrone di cemento. Svaccato e perfettamente a mio agio. Per qualche secondo spero che questo possa servire a ricordargli due ragazzini in un tribunale minorile che aspettano i rulli, le tute e la vernice bianca.
M’illudo, lo so.
- Fler. – mi saluta con un cenno del capo. Io sollevo solo il mento.
- La puttanella l’hai lasciata a casa? – ghigno cattivo, mettendomi in piedi.
Lui non fa una piega. Non si muove. Neanche si offende, lo stronzo.
- Questa è una cosa tra me e te, Atze. – mi dice.
Il moto di stizza mi porta a serrare i pugni. Gli darei un cazzotto qui ed ora, senza pensarci. Ma non è il momento.
- Non chiamarmi Atze. Per me tu non sei più niente. – e sputo in terra. Sputo in terra perché lui è qui e può vederlo. Che ciò che eravamo era perfetto. E ciò che siamo adesso fa schifo.
Sputo su ciò che siamo. Sputo perché odio ciò che siamo. E perché stanotte lo ucciderò.
Lui sospira ed abbassa lievemente lo sguardo. Posso leggere perfettamente, al di là dei suoi occhi scuri come il petrolio, che sta cercando una via. Un modo per farmi ragionare, per convincermi a rivedere la mia posizione.
Questo atteggiamento un po’ mi indispone ed un po’ mi fa ridere. Bushido non è abituato a convincere gli altri con le parole. Bushido le impone, le cose. Come ha imposto la sua fidanzata nel mondo del rap tedesco, come ha imposto i propri soldi sulla giustizia austriaca quando ne ha avuto bisogno, come ha imposto se stesso su un mercato che non credeva di avere bisogno di un tunisino incazzato col mondo e pronto a sputare in faccia alla Germania per farle vedere tutte le sue brutture.
Bushido convince così, imponendosi. Ed il rap tedesco ha dovuto accettare Bill Kaulitz. E l’Austria ha dovuto chinare il capo. E la Germania ha capito che non aspettava altri che quel tunisino.
Però, con me vuole parlare.
- Fler, ascoltami. – dice a bassa voce, mettendo quasi le mani avanti, - Non abbiamo bisogno di questo.
- Quando mi interesserà sapere cosa pensi riguardo ciò di cui ho bisogno, te lo chiederò. Fino ad allora, tappa quella fottuta bocca e comportati da uomo, non da frocio accomodante.
Anche perché non lo sai, di cosa ho bisogno. Non più.
Infilo una mano in tasca. Il coltello arriva subito, neanche l’avessi chiamato. Forse lo stavo facendo. Comincio a girargli intorno come un predatore, fissandolo negli occhi.
- Cazzo. – dice lui. È frustrato. È deluso. È arrabbiato.
Ha paura.
Gli salto addosso. Non gli lascio neanche il tempo di guardarsi intorno, lo getto a terra e lo spingo sul marciapiedi con tutto il peso del mio corpo. Mi sfugge, il bastardo – ci tiene alla pelle, si vede. È cambiato anche in questo. Rotola su un fianco, io mi sollevo sulle ginocchia e lo attacco ancora, puntandolo col coltello. Ghigno, perché non è riuscito a recuperare il suo. Cerca di tenermi lontano a mani nude, ma io ho la lama. Io taglio.
Sono il traditore e faccio più male di te.
Sono il tradito, ed odio molto di più.
- Fler, piantala! – ringhia, mentre cerca di tenermi stretto per i polsi.
Forzo la sua stretta. È sempre dannatamente potente. Mi fa un male cane. Vorrei ficcargli questo coltello nella gola e risolvere il problema, ma non so se ne sarei veramente capace. Probabilmente, se mi lasciasse andare, mi fermerei.
- Vaffanculo, Anis. – digrigno i denti e gli sono così vicino che mi sento addosso il suo fiato. Ed è orribile, è tremendo, mi fa pensare cose che non dovrei, mi fa ricordare cose che non dovrei, cose che toglierebbero a chiunque la voglia di ammazzare chicchessia, pomeriggi noiosi passati a tirare le pietre nel canale, notti adrenaliniche e silenziose per fare la posta a questo o a quel debitore insolvente, fargli il palo mentre sgattaiola silenzioso fuori dal letto di una donna non sua ma che s’è preso lo stesso, ed io c’ero, io ero lì, ero davanti al suo sorriso e al suo “grazie, Atze, ti devo un favore”. E quanti favori mi devi, adesso? Te li inciderei tutti sulla pelle, Anis, uno dopo l’altro. Ma non so se ne ho davvero la forza.
Grido, rotoliamo sul marciapiedi, la felpa gli si strappa, io mi distraggo e ricevo in cambio una gomitata fra le costole che mi mozza il fiato. Cerca di riprendersi, lo stronzo, di recuperare il solito coltellino sul fondo della tasca dei jeans, ma non posso lasciarglielo fare.
Lo afferro per la gola. Stringo forte e premo fino a farmi sentire sottopelle. Fino a lasciargli addosso l’impronta delle mie dita, che poi è l’unica impronta che possa lasciargli, oltre allo strappo di una coltellata o al foro di una pallottola.
Lo sento che cede. Lo sento che smette di crederci. Lo sento e gli leggo negli occhi – annebbiati, confusi, tristi? – gli stessi sentimenti che agitavano me quando ha mollato l’Aggro Berlin. Quando mi è passato davanti come se, dentro di lui, di me fosse rimasto solo un ricordo sbiadito. Mi ha guardato sorridendo, mi ha detto “Non arrenderti”, ed io ho pensato “Allora è così che finisce, coi sogni? Ti esplodono dentro e ti lasciano devastato come neanche dopo una guerra, ma da fuori non si vede? È questo tutto quello che resta, una traccia invisibile?”.
E perciò gli faccio il verso.
Gli faccio il verso perché anche di lui resterà solo una traccia invisibile.
- Non ti arrendere. – sibilo, - Non ti arrendere… Bushido.
Ed io non so se è stata una distrazione o se in qualche modo volevo che recuperasse quel fottuto coltello e lo usasse contro di me, ma tutto quello che sento è un dolore acuto e forte sulla coscia, una quindicina di centimetri sopra il ginocchio.
Mentre grido e mi sposto di lato, tocco la ferita e sento il sangue. E penso che è giusto così. Che ce ne ha messo, di tempo, per farmi sanguinare. Ma alla fine è la cosa più giusta, perché io in realtà sanguino da anni, il problema è che il sangue non riusciva a venire fuori. Ed ora è ovunque – sulle mie mani, sui miei vestiti, sul marciapiedi. Ed è giusto così.
Ma manca ancora qualcosa.
- Chiudiamola qui. – ansima lui, tirandosi indietro.
No, non la chiudiamo qui. Manca qualcosa. Ora la sua traccia io ce l’ho addosso. Manca la mia su di lui.
- Col cazzo! – mi slancio in avanti e lo sbatto contro un muro.
Prima un calcio nelle palle, stronzo, così impari ad andare col primo fighetto di turno fottendotene perfino di ciò che sei.
E poi la coltellata. Il mio marchio. Avrei voluto piantartelo nel cuore, lo sai? Però è vero, non ci riesco.
Forse volevo solo il tuo sangue addosso. E non come le mille volte in cui sono andato recuperandoti per le strade dopo una rissa o un regolamento di conti, no. Volevo essere io a ferirti.
Sulle mie mani, il nostro sangue si mescola.
Ora siamo davvero fratelli. Ironia della sorte.
E mentre io sento il tepore del suo sangue sui polpastrelli, lo sente anche lui, scendere silenzioso lungo il braccio. E ne ha davvero paura. Sangue significa che puoi morire. Paura significa che hai qualcuno che ti aspetta.
Bushido non vorrebbe davvero essere qui.
Bushido ha qualcuno che lo aspetta.
Bushido non è più un criminale e nemmeno un rapper.
Bushido non ha più niente a che vedere con me.
Cerco ancora di schiacciarlo contro il muro, ma c’è qualcosa che non va. Si riprende. Mi tira nello stomaco un calcio tale che mi viene da vomitare. Mi allontano e ricevo come ringraziamento due cazzotti che mi fanno vedere doppio. Cado a terra. Mi fa male la gamba ed anche tutto il resto del corpo. Il coltellino è volato via. Lo vedo ad un metro circa da me, mi basterebbe allungare un braccio e recuperarlo, ma nonostante la ferita Bushido è più veloce. Lo scalcia lontano, ed io non lo vedo più.
La sua voce mi raggiunge alle spalle.
- La chiudiamo qui.
È netta e cupa.
È dolorosa.
È stupido, ma non ho più voglia di lottare. Lo ascolto allontanarsi e non mi muovo più.
*
Terremoto.
No. Mani. Mi scuotono.
- ‘ca puttana, Fler, riprenditi.
La voce. È Sido.
Apro gli occhi.
- Cazzo. – continua lui, - Cazzo. Sei ferito.
- Sì… lo so da me, grazie. – ansimo, cercando di rimettermi quantomeno seduto.
- È profonda?
Lancio un’occhiata alla mia gamba. Ovviamente non posso guardare attraverso i jeans, ma quello che sento lo so benissimo.
- Ho visto di peggio. – mormoro, mentre lui mi aiuta ad alzarmi, - Tranquillo. Te l’ho detto che non crepo, stanotte.
- Sì, certo. – borbotta Sido, tirandomi in piedi, - Ce la fai a reggerti?
Mi allontano da lui e ci provo. Annuisco.
- Perfetto. Allora vieni in macchina, ti porto all’ospedale.
Rifletto.
- Ho da fare.
- ‘Cazzo hai da fare, Fler, hai un buco in una gamba! – mi rimprovera lui, evidentemente esasperato dalla situazione. Per un attimo mi dispiace. Se sono rimasto lì arrotolato per terra non era per il dolore alla gamba. Era per il dolore a tutto il resto. Mi dispiace che si sia preoccupato per qualcosa di così stupido, Sido non merita niente del genere. Lui è un uomo d’affari ed un cantante. Non merita questo.
- Ho un conto da regolare. – spiego, il più pacatamente possibile, - E se non lo risolvo stanotte, non lo risolvo più.
C’è assolutamente qualcosa che devo dire ad Anis.
A me basta così. Io sono stato abbastanza male. Anche lui. Possiamo… siamo pari. Lo siamo davvero.
- Mi sono rotto i coglioni. – risponde Sido in un ringhio di frustrazione. Poi sospira. – Dov’è che devo portarti?
Gli sollevo addosso un’occhiata incredula.
- Come, scusa?
- Sei ferito ad una gamba. Prima risolviamo qui, prima ti porto all’ospedale. – ragiona nervosamente, - Devo ricordarti che sei la punta di diamante dell’Aggro Berlin? – chiede poi con un cipiglio dittatoriale che è ciò che ha permesso a questa sua faccia da nerd di sopravvivere nonostante tutto in questo mondo assurdo. – E certi legami contano sempre, Atze. – aggiunge poi, - Perciò, dimmi dove devo portarti.
Mi viene un po’ da ridere e lo seguo fino alla BMW. So esattamente dov’è andato Anis. So anche come raggiungerlo, il posto, perché una cosa non è riuscito a farla, ed è stato tenere nascosto l’indirizzo di casa sua. Cose che capitano, quando la tua fidanzata campeggia sulla copertina di Bravo una volta ogni due settimane. Qualcuno fa una foto e tu casualmente riconosci il quartiere e magari anche il palazzo.
Indico a Sido dove andare e, quando ci arriviamo, mi faccio lasciare a qualche metro dalla traversa giusta.
- Aspetta qui. – dico piano.
Lui non risponde, spegne il motore, le luci ed accende la radio.
Io mi muovo piano. La gamba mi fa un cazzo di male, ma non è il momento di pensarci. Il palazzo lo riconosco subito. Sto qui che cerco di capire se posso suonare il campanello o qualcosa del genere, ed oltretutto mi chiedo se conosco davvero Bushido al punto da indovinare le sue mosse – non è mica detto sia qui, in fondo – quando sento qualcosa che mi confonde.
Mi confonde perché è il nostro fischio. Ma non è Bushido a farlo, perché lo riconoscerei. E non sono nemmeno io. Posso esserne ragionevolmente certo.
Non so chi è che abbia fischiato, ma non avrebbe dovuto farlo.
Sollevo lo sguardo sul palazzo e vedo una figura scura affacciarsi ad una delle finestre. È lui. Lo vedo. Lo saprei anche se non lo vedessi. Mi guarda, lo guardo, non capisco cosa sta succedendo. Vorrei avvertirlo, c’è qualcosa che non mi torna. Vorrei dirgli che siamo a posto, più di ogni altra cosa.
Siamo a posto, Atze.

.....Denn eine Kugel reicht

- Cazzo è successo?! – è la prima voce che sento. Ed è Sido che, evidentemente, m’ha seguito. – Fler!
- Non sono stato io! – urlo a mia volta, agitato. Al primo sparo si sovrappone il secondo. L’eco dal primo non s’è ancora spenta nel vicolo vuoto. Si aggiunge un urlo. È la voce di Kaulitz. Passi. Non so di chi. Luci che si accendono, qualche cane che abbaia.
La sinfonia distorta di un omicidio.
Sollevo lo sguardo sulla finestra, che è ancora buia, ma non c’è più nessuna sagoma. Siamo solo io e Sido in un fottuto vicolo deserto, e questo è molto male.
Sido mi tira via.
- Vieni, porca troia! Merda… - mormora furioso, - Merda, siamo nella merda…
Ed io penso che è vero.
Fisso la finestra. Non urla più nessuno.
Cominciano a sentirsi le voci delle altre persone, però. Fra poco qui sarà un disastro, ed io so esattamente con chi se la prenderà l’universo intero quando Bushido sarà morto.
…la mia ossessione è morta.
Ed io non posso prendermela neanche con me stesso.
*
L’ultima settimana della mia vita è stata in assoluto la peggiore. Non mi hanno neanche lasciato il tempo di soffrire in pace. E questo, per uno come me – che s’è crogiolato nel dolore e nel risentimento per anni, prima di decidersi a farne qualcosa – è stato tremendo. Ho risposto a non so quante domande. Sido ha continuato a rimproverarmi per ore, ed io mi sono sentito molto un bambino. Molto stupido.
Stavo molto male.
Ecco tutto.
Ma sono qui. Sono qui perché c’è anche lui, qui. È dentro una bara e non può sentirmi, ma cazzo, mi ha visto, prima di morire. E quindi io dovevo esserci. Anche se forse non sono abbastanza uomo da farmi vedere – perché non hanno potuto incriminarmi, visto che la mia pistola non ha sparato, ma l’ersguterjunge non ha bisogno di documenti ufficiali per sapere su chi gettare il biasimo di questa morte.
Solo che no, non sono stato io.
Io non volevo neanche.
La signora Luise piange rumorosamente. Abbraccia Saad, che la sostiene come un cavaliere, fissando gelido di fronte a sé. La signora Luise mi fa una pena infinita.
La signora Luise probabilmente adesso mi odia, anche se è l’unica donna oltre mia madre che ricordi la mia data di nascita, e questo perché le feste di compleanno le ho organizzate a casa sua per anni, prima di entrare all’Aggro Berlin con Anis.
Prima di diventare grande.
Troppo grande.
Mi mancano, quei pomeriggi.
Sto molto male, vaffanculo.
Sido è quasi in prima fila, in rappresentanza dell’Aggro Berlin. So che non vorrebbe essere qui, ma lui è uno responsabile, ed è uno con le palle, perciò s’è presentato. Davanti a tutti e senza chinare il capo, anche se, lo so, tutta l’ersguterjunge lo tratta come fosse un mandante o chissà che.
Tutte balle. Non so come faremo ad uscire da questa rete di stronzate.
Quando arriva la macchina nera che accompagna Kaulitz, ce ne accorgiamo tutti. Si irrigidiscono tutti. È una sensazione che rende elettrica l’aria, ed arriva fino a me, che sono nascosto dietro una stupida enorme tomba di famiglia a metri e metri di distanza.
Lo osservo scendere dalla macchina. È in nero, sembra minuscolo e stravolto. Mi fa pena anche lui. C’è il fratello, al suo fianco, ma resta in disparte. Lo vedo che gli stringe appena una spalla, come per consolarlo, e poi Kaulitz si muove da solo. La fidanzata che si cerca un posto.
Fosse stato davvero una donna, la donna di Anis, l’avrebbero lasciato passare con tutti gli onori. Ed invece guardalo, non lo lasciano nemmeno avvicinarsi. Deve andare a prenderlo Chakuza. Chakuza, Cristo santo. Non ha diritti, il ragazzino.
Saad s’irrigidisce e lascia la signora Luise alle cure della propria madre. Si allontana e poi lo perdo di vista. Non ci bado molto, osservo il prete che si lancia in un discorso privo del benché minimo senso, che Anis odierebbe. Cazzo, la saltavamo insieme, la messa della domenica. Ed in ogni caso lui era sempre troppo scuro per piacere alle brave famiglie che trovavamo fra le panche in chiesa.
Io mi appoggio contro la parete del mausoleo e mi viene un po’ da ridere.
Sarebbe una bella cosa, farsi una risata. Peccato io stia piangendo come non mi capitava da anni.
- Bella faccia tosta a presentarti qui.
Mi volto, accanto a me c’è Saad.
Non rispondo.
- Sappiamo tutti che sei stato tu.
- Allora sapete molto più di quanto non sappia io. – rispondo seccamente.
Faccio per voltarmi ed andarmene, perché questo confronto è proprio l’ultima cosa che voglio.
- Ti incastreremo. – dice lui, freddo e pratico.
Scrollo le spalle.
Saad non piange.
È tutto ciò che riesco a pensare.
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