rp: dejan stankovic

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Commedia.
Pairing: Davide/Mario, Zlatan/José.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash, What If?.
- Per un disguido tecnico, dopo il triangolare con Juve e Milan per il Trofeo Tim 2009, l'Inter è costretta a passare la notte a Pescara...
Note: Partecipante al Pigiama Party su Fanworld.it.
Se scrivessi con questa velocità e con questa continuità anche per il BBI, a quest’ora le mie sette storie sarebbero tutte pronte. *sospira* Comunque! Storia idiota nata da una serie di idiozie, elencabili più o meno in quest’ordine, dalla meno importante alla più fondamentale: il mio amore per Lorenzo Crisetig, il mio amore per Rene Krhin, il mio amore per Andrea Butti, il mio amore per José Mourinho, il mio amore per Bedy Moratti, il mio amore per l’Everlasting!Jobra e il mio amore per il Santonelli che più canon di così si muore. Yay XD
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LA TRAGICA LEGGENDA DELLO SPIRITO DEL MAL DI PANCIA

- Cosa vorresti dire con “non ci sono voli disponibili fino a domani mattina”, Andrea?
Il team manager esitò appena, stringendosi timorosamente nelle spalle e schiarendosi rumorosamente la gola, prima di spiegare meglio il concetto appena espresso. Era abbastanza ridicolo da osservare un uomo della sua stazza perdersi in tante incertezze a causa di un ometto alto più di venti centimetri in meno e pure decisamente più avanti di lui con gli anni, ma José tendeva ad avere quest’effetto di terrorismo psicologico sul mondo circostante, e se i ragazzi, essendo causa di problemi e rimbrotti continui, potevano dire di essercisi abituati piuttosto in fretta, altrettanto non era possibile affermare del povero Andrea, che per contro il suo lavoro lo faceva sempre e cercava sempre di farlo bene, perciò di fronte a quello sguardo intransigente e severo era costretto a ritrovarcisi decisamente meno spesso.
- Intendo dire che purtroppo il volo che avevamo prenotato è stato cancellato per problemi tecnici, mister, e non sarà possibile trovarne un altro prima di domattina, perciò-
- Chiama il presidente e fatti mandare un dannato aereo privato! – sbottò l’uomo, gesticolando animatamente, - Che razza di storie, chissenefrega se non c’è un aereo di linea disponibile fino a domani! Dopodomani abbiamo l’ultima amichevole prima del campionato, ed io ho bisogno che i ragazzi tornino a casa e si riposino, in modo da poterli obbligare a sputare sangue domani in allenamento! Perciò datti una mossa e risolvi questo problema, ora!
- Mister, se posso permettermi… - s’intromise Bedy, avvicinandosi con un sorriso e con la solita incontrastabile grazia, - Comprendo perfettamente le sue rimostranze, ma è troppo tardi per allertare il nostro pilota personale, soprattutto per circostanze che difficilmente si potrebbero definire di vita o di morte. – spiegò pacatamente, di fronte ad un José incapace di protestare di fronte a lei con la stessa veemenza utilizzata appena pochi istanti prima nei confronti di Andrea, ancora abbacchiato in un angolino a causa della sfuriata, - Perché non seppelliamo tutti l’ascia di guerra e chiediamo ad Andrea di trovare una soluzione ad un problema meno complesso? – concluse con un altro sorriso smagliante, piegando appena il capo e lasciando che la ciocca biondo platino sul davanti ricadesse graziosamente lungo i tratti tondi ma non sgraziati del viso senza età.
- Che donna. – mormorò Dejan, sgomitando Marco fra le costole, - Una botta gliela darei anche, cazzo. Pure due, in caso.
- Sei sposato. – rispose laconicamente il difensore, sollevando gli occhi al cielo, - E comunque daresti una o due botte a chiunque, tu. Ne sa qualcosa il povero Christian.
- Ehi! – borbottò Dejan, quasi offeso dall’insinuazione, - Non ho mai alzato un dito che fosse uno su Christi, lo rispetto troppo per portarmelo a letto.
Marco scosse il capo e sospirò platealmente, mentre Christian, accanto a lui, si tirava una rassegnata manata in piena fronte. Mario smise di ascoltare il discorso e ridacchiò appena – il peso di Davide ancora pressato contro una spalla e la solita interminabile tiritera di lamentele a scivolare fuori dalle sue labbra come una cascata. Seguì con gli occhi il mister mentre si rassegnava a sospirare e chiedere ad Andrea di trovar loro un albergo per la notte, prima di rifugiarsi in un angolo e cominciare a smanettare col cellulare, e poi Davide gli pizzicò un fianco talmente forte che lui, temendo per la propria vita, si rassegnò a concedergli un po’ d’attenzione.
- Sì, Dade. – rispose meccanicamente, - Hai ragione su tutto.
- Non hai la minima idea di cosa ti abbia detto, vero? – protestò il ragazzo, offeso a morte, tirandogli un mezzo calcio contro uno stinco, - Non hai ascoltato una parola!
- Per la verità, hai ragione. – annuì naturalmente Mario, sollevando un braccio e tirandoselo contro in un abbraccio sbrigativo, - Non ti stavo ascoltando. Ma so cosa stai pensando.
- E sarebbe? – lo sfidò lui, inarcando un sopracciglio.
- Che è tutta colpa tua se abbiamo perso, che se solo avessi segnato quel rigore noi ora avremmo un’altra coppa in bacheca e che il mister dovrebbe sgridarti perché è evidente che non hai dato il meglio di te. – tirò a indovinare, sulle labbra il sospiro rassegnato di chi sa già di avere ragione.
- …ecco. – ammise Davide, sistemandosi meglio sul suo petto, - …e pensi davvero che io abbia ragione?
- No, Dade. – sospirò ancora Mario, esasperato, - Penso che tu sia stato bravo, penso che tu abbia fatto il possibile e penso che tu ti sia mosso molto bene. Penso inoltre – specificò, - che entrambe le partite siano andate alla grande, abbiamo giocato bene, compatti, chiusi, organizzati, e che l’unico motivo per il quale abbiamo perso sia che i rigori sono un terno al lotto e la palla è tonda e, in quanto tale, gira, e non sempre nel verso che uno vorrebbe o si aspetterebbe.
- Parli bene, tu. – continuò a lagnarsi Davide, dispiaciuto, - Hai segnato, sei comunque l’idolo delle folle. – Mario inarcò un sopracciglio, come a dire “idolo delle folle? Io? Ma in che universo alternativo vivi?”, e Davide tossicchiò, affrettandosi a correggersi, - Intendo, il mister di sicuro starà comunque pensando un gran bene, di te. Si era tanto raccomandato di non sbagliare quel rigore, Mà, la voleva proprio quella coppa…
- Be’ – scrollò le spalle Mario, decisamente poco impressionato dal piagnisteo, - avrebbe voluto che Zlatan restasse ma non è successo, e s’è rassegnato. Avrebbe voluto Deco, Carvalho, Lampard, Drogba e un altro milione e mezzo di uomini, e nessuno di loro è arrivato, e s’è rassegnato anche a questo. Penso che potrà sopravvivere anche ad un Trofeo Tim in meno, considerando che in bacheca ne abbiamo ancora comunque, più di tutti gli altri, ti pare?
- Tu sei un cocciuto insensibile presuntuoso supponente e rompipalle. – borbottò ancora Davide, tirandogli un pugnetto parzialmente giocoso e parzialmente risentito fra le costole, costringendolo ad usa risatina divertita mentre lo fermava con un gesto tenero, - Ecco cosa mi pare.
- Intanto – continuò Mario, adocchiando nuovamente il mister muoversi in mezzo alla sala d’aspetto come un animale in gabbia, ancora attaccato al cellulare, - mi sa che per stanotte si resta qui. Chissà con chi cavolo sta parlando…
- Ma che ti frega, scusa? – chiese Davide, sollevandosi appena per guardarlo negli occhi, prima di crollargli nuovamente contro la spalla mentre, senza volere, ascoltava il mister biascicare un incerto “ma no… lascia perdere, i bambini” alla cornetta, - Sarà la moglie. Si aspettava che tornasse in serata, l’avrà avvertita.
- Mhmh… - mugolò dubbioso Mario, mentre il mister continuava a biascicare una sequela di “davvero, lascia perdere, ci vediamo domani a Milano”, - Sì, mi sa di sì.
-  Allora, ragazzi! – richiamò la loro attenzione Andrea, battendo sonoramente le mani, - Stanotte si resta a dormire qui, ho appena trovato l’albergo. – l’annuncio venne accolta con un fragoroso noooo di lagnoso disappunto, ed Andrea faticò non poco a ristabilire l’ordine, prima di poter continuare a parlare, - Dovremo stringerci un po’, - proseguì con un sospiro, - purtroppo l’albergo è molto bello, ma piccino. Molti di voi dovranno dividere la stanza, ma abituati come siete in Pinetina di sicuro la cosa non vi turberà più di tanto. Per il resto, avvisate mamme e mogli, così che non si preoccupino. Rientreremo a Milano nella mattinata di domani-
- E badate di riposare bene, stanotte. – lo interruppe burbero José, finalmente libero dalla conversazione con la signora, - Domani vi voglio freschi e pimpanti per l’allenamento, e se stanotte vi trovo svegli a bighellonare in giro giuro sui miei figli che vi sbatto in panchina fino alla finale di Champions, se ci arriviamo, vita natural durante se non ci arriviamo. Sono stato chiaro?
Il coro di sìììì che accolse le sue minacce non presentò sfumature di lagnoso disappunto molto diverse dal coro precedente, e la discussione si chiuse così – con tutti i ragazzi che prendevano posto sul bus, diretti alla volta del Victoria Hotel.

*

- Be’, almeno il posto è bello. – commentò Andrea di fronte all’edificio. José gli passò accanto, ruminando acredine.
- I balconi somigliano alle valve di una conchiglia. – borbottò aspramente, - Se volevo nascere mollusco, mi infilavo in un blocco di gelatina rosa e mi piazzavo una perla gigante in bocca, ti pare?
Bedy cercò di forzare una risata e consolò brevemente Andrea, mentre quest’ultimo si abbatteva in un angolo, disperato, e José prendeva posto nel centro del marciapiede, arringando i giocatori.
- Allora! – cominciò tuonando, - Le camere sono state sistemate in modo che possiate utilizzarle in quattro. – spiegò, spegnendo l’ennesimo coro di lagne con un’unica occhiata omicida, - Cos’è, volevate per caso che la camera della signora Moratti fosse aperta anche a voi, per distribuirvi meglio? Deki, non provarci nemmeno. – lo minacciò, prima ancora che il serbo potesse proferire parola, zittendo la sua battutina sul nascere e sfumandola in una risatina furba, - Allora, i gruppi sono… - cominciò ad elencare, e Davide smise immediatamente di ascoltare. Mario se ne accorse perché se lo sentì crollare rovinosamente sulla spalla con uno sbuffo annoiato, come al solito.
- E dire che prima per poco non mi mandavi in orbita, spintonandomi. – lo prese in giro, dandogli un colpetto tenero con la tempia contro la sua. Davide mugolò contrariato.
- Eravamo in mezzo al campo, c’erano ventimila tifosi e un altro centinaio di gente fra compagni, avversari e staff vario ed eventuale. – si lamentò, strusciando una guancia contro la sua spalla, - E tu prendi e mi salti addosso, chiaro che mi viene voglia di mandarti in orbita.
- Che palo in culo, Dio mio. – rise ancora Mario, osservando Diego guardare con una certa curiosità gli sguardi da belve inferocite che Deki e Marco gli lanciavano, traendo Christian fuori dalla sua portata prima ancora che lui provasse effettivamente a mettergli le mani addosso. Ah, calciatori. – E adesso va bene se ti strusci tu, invece? I compagni intorno ci sono sempre.
- Sì, ma ora sono stanco e ho sonno, – sbottò Davide, arpionando la sua maglietta e sprimacciandogli la spalla neanche fosse stata un cuscino, - per cui me ne frego.
- Sonno? – chiese Mario, cercando la sua fronte con le labbra, - Quindi stasera non si gioca?
- Non si giocherebbe comunque. – pigolò Davide, delusissimo.
- Balotelli, Crisetig, Krhin, Santon! – annunciò ad alta voce il mister, e Davide sospirò ancora, in sincrono con Mario. – E questo è quanto, diamoci una mossa prima che la mia naturale bontà si esaurisca e mi venga voglia di lasciarvi per strada solo per guardarvi arrotolarvi nelle coperte agli angoli della strada dalla comodità del mio letto.
Le camere non erano purtroppo particolarmente grandi. Pittoresche quanto si voleva, con quei dipinti sulle porte e tutto il resto, ma occupate per il cinquanta percento dal letto matrimoniale situato nel bel mezzo dell’ambiente e per il restante cinquanta dai due lettini singoli che vi erano stati trascinati e ficcati a forza, così che, per muoversi all’interno della stanza, si doveva praticamente camminare scalzi sui letti, o azioni di una normalità disarmante per un qualsiasi essere umano – come raggiungere il bagno o allungarsi verso il minibar alla ricerca di una bottiglietta d’acqua – si sarebbero rivelate impossibili.
Davide piantò un piede sul materasso occupato da Lorenzo – che per contro si spostò il più possibile per non intralciarlo nel movimento – lo superò, poggiò l’altro piede sul materasso immediatamente successivo, occupato da Rene, e naturalmente-
- Ah- cazzo, Davide! – si lamentò lo sloveno, scalciando furiosamente da sotto le lenzuola, - Le palle!
- Re- ferm- - poco da fare, non ebbe nemmeno il tempo di concludere la frase che si ritrovò a perdere l’equilibrio, ondeggiare incerto sul posto fra le urla di Rene e le occhiate incerte e divertite di Mario, prima di franare con pachidermica grazia proprio addosso a quest’ultimo, ficcandogli entrambi i gomiti e le ginocchia un po’ ovunque, fra pancia, palle e petto, ma ottenendo nonostante tutto in risposta solo un ahouff sbuffato in una mezza risata e un abbraccio protettivo e un po’ ondeggiante, condito da un sorriso tenero.
- Dio, perché? – continuò a lagnarsi Rene, massaggiandosi lentamente fra le gambe, - Perché mi odi così? Perché il mister non mi ha messo in camera di Tia e Luca, perché?
- Uh? – azzardò Lorenzo, stendendosi su un fianco e ripiegando un braccio sopra il cuscino, per tenere il capo sollevato e poterlo guardare più facilmente, - Perché dici così?
- Perché quei due – ringhiò Rene, infastidito, indicando Mario e Davide intenti a non dare l’impressione di volersi saltare addosso e stare in effetti ponderando la possibilità con o senza pubblico pagante, - sono due piaghe sociali. Al di là di quello che fanno continuamente e di cui hai anche avuto prova oggi sul campo… - raccontò roteando gli occhi, mentre Lorenzo ridacchiava al ricordo di Mario che si gettava a peso morto su Davide coinvolgendolo in un mezzo rotolio a centrocampo, proprio durante il blackout allo stadio, - sono incasinati, fanno rumore e chiunque vada in giro con loro il giorno dopo è talmente rincoglionito da fare per forza qualcosa di talmente idiota da mandare il mister su tutte le furie e giocarsi il posto in squadra. Matematico.
- …oh. – deglutì a fatica Lorenzo, tornando a voltarsi fra le coperte, dando la schiena agli altri tre, come sperasse che prendere le distanze in quel modo fosse abbastanza per continuare a mantenere il proprio posto fra le riserve.
Davide e Rene riuscirono appena a scorgere il sorriso semplicemente demoniaco sul volto di Mario, prima che tutte le luci si spegnessero, sprofondando quello che, a guardare fuori, sembrava l’intero quartiere in un buio talmente pesto da fare paura.
- …che città di merda. – commentò distrattamente Davide in un sospiro esausto. Mario rise, Rene si chiese un’altra volta il perché di tanta sfiga e Lorenzo chiuse gli occhi e cercò di astrarsi da tutto ciò che lo circondava, almeno fino a quando la porta della loro camera si spalancò, mostrando un inedito Andrea in versione notturna, completo di canottiera vecchia di cinque anni e boxer a righine, che li guardava con aria allucinata, illuminato appena dalla luce bianchiccia di una torcia elettrica.
- Tutto a posto, ragazzi? – chiese allarmato, illuminandoli uno per uno mentre Rene gli chiedeva per pietà di spegnere la dannata cosa, che gli infastidiva gli occhi.
- Aha. – annuì tranquillo Mario, Davide ancora steso sul petto neanche fosse stato perfettamente naturale, - Successo qualcosa?
Andrea sollevò gli occhi al cielo, mentre – dal profondo abisso del fondo scuro del corridoio – giungevano le urla belluine di José, impegnato ad imprecare in portoghese contro una lunga sfilza di divinità cristiane e non.
- …è saltata la luce. – biascicò stremato. – Che città di merda. – concluse quindi, richiudendo la porta. Davide rise piano e Mario gli fece il solletico, guadagnando in cambio uno schiaffone sul braccio talmente rumoroso che Lorenzo saltò a sedere e si guardò celermente intorno, allarmato dal fragore.
- Sapete che storia sarebbe perfetta da raccontare adesso? – chiese invece l’attaccante, mettendosi seduto così velocemente da costringere Davide a cadergli in grembo con un urletto sorpreso, - La vecchia storia del fantasma del mal di pancia.
- Mario… - cercò di rimproverarlo Davide, ritrovandosi immediatamente una mano schiacciata delicatamente sulle labbra, per impedirgli di proseguire.
- Oh, ti prego. – protestò Rene, tirandosi le coperte fin sopra la testa, - Risparmiami almeno questo.
- Che… che storia? – chiese invece Lorenzo, incrociando le gambe sul materasso e protendendosi interessato verso il matrimoniale.
- Mmh, non so se posso raccontartela… - rifletté Mario, mentre Davide roteava gli occhi e lo mandava discretamente a fanculo, tornando a stendersi sulla propria metà del letto nel tentativo di dormire, - Sei un po’ piccolo, ti pare?
- Ho sedici anni! – protestò lui, spalancando gli occhi. Mario sembrò considerare molto seriamente la possibilità di tacere e mettersi a propria volta a dormire, ma alla fine, fortunatamente, sospirò ed annuì.
- D’altronde, è giusto che anche tu sappia. Così potrai difenderti. – asserì serio, mentre Rene, dal fondo delle coltri che lo coprivano, lanciava al cielo un pietoso lamento.
- Mario, sei un cretino. – borbottò Davide, tirandogli un mezzo calcio da sotto le lenzuola, - Piantala, è solo un ragazzino.
- Non sono un ragazzino! – ruggì Lorenzo, profondamente offeso, ma Davide lo ignorò in modo così plateale da convincerlo a desistere da quell’inutile opera di persuasione e tornare a concentrare tutta la propria attenzione su Mario. – Che storia è?
- Be’, - scrollò le spalle lui, - naturalmente sai chi è Zlatan, no?
- Ovvio. – annuì Lorenzo, interessato. Lui non aveva avuto il piacere di conoscerlo, solo di osservarlo da lontano quelle poche volte che la Primavera s’era incrociata con la prima squadra durante gli allenamenti, ma la fama di Zlatan Ibrahimović non teneva conto né del tempo né dello spazio. E quindi sì, ovviamente sapeva chi fosse, e una volta fatto il suo nome anche tutto il resto della storia assunse un’importanza del tutto diversa.
- E, altrettanto naturalmente, - proseguì Mario, dosando attentamente i gesti e le pause per mantenere l’aspettativa al livello più alto possibile, - hai sentito parlare dei suoi numerosi mal di pancia.
Lorenzo annuì ancora, mentre Rene tornava a mostrarsi al di sopra delle lenzuola, solo per lanciargli un’occhiata sconvolta e mormorare un incerto “non vorrai mica…” che Mario ignorò apertamente, costringendolo a sospirare frustrato e tornare a nascondersi in un luogo sicuro.
- Insomma, la verità su Zlatan… - disse Mario a bassa voce, in tono cospiratorio, - è che era posseduto dallo spirito del mal di pancia.
- Lo sp-… - sbottò Rene, risorgendo ancora dalle coperte appena in tempo per notare Davide riemergere a propria volta e guardare quello che a buon diritto era possibile definire “il suo ragazzo” con un’occhiata a metà fra l’incredulo e l’ammirato, - …ma tu non puoi aspettarti che ci creda! – sbottò esasperato, - Lori, per carità. Mandalo a fanculo e mettiti a dormire.
Lorenzo si lasciò andare ad una risatina di puro disagio, grattandosi la nuca.
- Già… - biascicò incerto, - è… è sicuramente una cavolata, no? Mi stai prendendo in giro…
Mario scrollò disinvoltamente, come non gl’importasse certo se essere creduto o meno. Davide sospirò teatralmente e si spiaccicò una manata sulla fronte, tornando a stendersi su un fianco.
- Puoi credermi o non credermi. – buttò lì Mario, tranquillissimo, – Ma per quale altro motivo credi che uno dovrebbe voler rinunciare a un compenso da urlo come quello che Ibra aveva qui, per andarsene in un posto in cui lo pagano di meno, è odiato dai tifosi e non è nemmeno la stella della squadra? Semplicemente, - aggiunse con una scrollatina di spalle, - se non fosse andato via, lo spirito del mal di pancia avrebbe continuato a perseguitarlo per sempre. E adesso è ancora qui che si aggira in mezzo alla squadra, sotto forma di uno Zlatan scuro come la notte, impalpabile come una nuvola e con gli occhi rossi come quelli di un ratto bianco, e luminosi come stelle, che aspetta solo di prendere possesso del corpo di qualcun altro, per costringere anche lui a soffrire le pene dell’inferno finché non si rassegnerà ad andare via.
Un lungo silenzio seguì la dichiarazione di Mario. Un silenzio che fu riempito appena dal movimento degli occhi di Davide e Rene, che tornarono a fissarsi prima su Mario e poi su Lorenzo, come a volersi chiedere del primo come potesse essere così assurdamente perfido da perseverare in quell’atto di pura crudeltà verso un animale indifeso, e del secondo come potesse essere così assurdamente sciocco da cascarci.
Poi, Lorenzo ridacchiò imbarazzato, con considerevole difficoltà, e si ravviò la frangetta lungo la fronte.
- …andiamo… - deglutì a vuoto, - sono… voglio dire… non possono… - ma la sua frase, se mai aveva avuto intenzione di concludersi, non riuscì mai a farlo, perché venne presto sovrastata da un rumore nel corridoio, appena fuori dalla stanza, seguito da una serie di indistinguibili imprecazioni in una strana lingua a metà fra l’italiano, lo spagnolo e qualcos’altro che non era davvero possibile decifrare.
Lorenzo, Davide e Rene scattarono a sedere, trattenendo il fiato e portando entrambe le mani al cuore, mentre perfino Mario, che pure sapeva perfettamente di aver detto una marea di cazzate fino a quel momento, non poteva fare a meno di irrigidire tutti i lineamenti, fissando la porta con aria timorosa.
- Cosa… - biascicò Rene, inumidendosi le labbra, - Cosa è stato…?
- …non ne ho la più pallida idea. – ammise Davide, già moderatamente spaventato, - Qualcuno dovrebbe… andare a vedere.
Mario annuì, e per un secondo sembrò che dovesse essere lui l’eroe designato ad uscire, praticamente seminudo, per affrontare lo spirito del mal di pancia o chiunque altro avesse causato quell’improponibile tramestio là fuori. Poi, i ragazzi lo videro incrociare le braccia sul petto ed inspirare profondamente.
- Lori. – disse quindi, serissimo, quasi sacrale, - Vai tu.
- Cosa?! – strillò il ragazzino, portando le coperte a coprirsi fin quasi a metà viso, terrorizzato, - Assolutamente no! Se è lo spirito io non-
- Non esistono gli spiriti! – cercò di rabbonirlo Mario, alzando la voce, - Ti stavo prendendo in giro!
- E allora perché non esci tu? – replicò quello, ostinato, e Mario inarcò un sopracciglio.
- Perché – rispose Mario, ghignando supponente, - posso farti passare dei guai non indifferenti, se non obbedisci.
- Mario! – cercò di rimproverarlo Davide, ottenendo in risposta un mezzo cazzotto sulla spalla che lo stese letteralmente sul letto, mugolante di dolore.
- Va… va bene. – annuì quindi Lorenzo, sempre terrorizzato dallo spirito del mal di pancia ma indubbiamente più terrorizzato da Mario, - Esco.
I tre compagni lo osservarono sgusciare silenziosamente fuori dal letto, cercare a tentoni le proprie pantofole e poi muoversi lento verso la porta, appoggiandosi a qualsiasi superficie incontrasse con la mano tesa in avanti, per evitare di inciampare e cascare rovinosamente a terra. Poi lo osservarono schiudere la porta, trarre un profondo respiro e infine spalancarla e catapultarsi all’esterno della stanza, coinvolgendo lo spirito del mal di pancia in una capriola rotolante fino alla parete di fronte.
- Whoa! – esclamò stupito lo spirito del mal di pancia, battendo di spalle contro il muro. Davide sollevò la testolina arruffata dal cuscino, e Mario poté quasi vederlo tendere le orecchie e arricciare il naso, come subodorasse una presenza molesta o fuori posto.
- Zlatan. – disse quindi il ragazzo, prima di voltarsi verso di lui, - Zlatan! – ripeté, - Era la voce di Zlatan!
- Davide?! – strillò quindi Mario, turbato, - Che cazzo dici?!
- È impossibile! – rincarò Rene, saltando giù dal letto. La stessa cosa fecero anche gli altri due, iniziando poi a correre a perdifiato verso l’uscita della stanza, per poi fiondarsi in corridoio, inciampare nel peso morto del corpo di Lori ancora per metà steso in terra e carambolare anche loro contro lo spirito del mal di pancia, schiacciandolo ulteriormente contro la parete ed ascoltando non senza un certo stupore misto ad inquietante paura dovuta al fatto che effettivamente l’essere aveva la voce di Zlatan, si lagnava come Zlatan ed aveva perfino il suo stesso profumo.
- Cosa cazzo sta succedendo qui?! – strillò José apparendo da qualche parte in corridoio. E in quel momento si accese la luce, mostrando impietosa l’immagine di quattro adolescenti incastrati l’uno con l’altro come mattoncini del Tetris addosso al corpo di un ben noto svedese imprigionato senza scampo fra quegli stessi corpi, il muro e il pavimento. – Zla… Zlatan…? – mormorò l’allenatore, sgomento.
- Er… ciao… - biascicò Zlatan, sollevando una mano per salutarlo ed abbozzando un sorriso incerto.
- …ti avevo detto di aspettare a Milano! – protestò immediatamente José, gesticolando come un ossesso, - Mai che tu mi dia ascolto, Cristo santo! Mai!
- Scusa se avevo voglia di vederti! – sbottò Zlatan, sconvolto e offeso, scrollandosi di dosso i quattro corpi inerti ed alzandosi in piedi, per affrontare José da una posizione più vantaggiosa.
- Oh, non prendermi in giro con le romanticherie, adesso! Helena ricomincerà a rompere le palle. – sbottò l’altro, incamminandosi disinvoltamente verso la propria camera, subito seguito da Zlatan.
- La mia donna non rompe le palle più di quanto non faccia la tua! – corresse in un moto d’orgoglio, - E comunque non ho mica tutto questo tempo, io! Aspettarti! Domani devo tornare a Barcellona, che credi? Sono un uomo importante!
- Oh, certo, vostra maestà, scusatemi se ho dimenticato che ora siete voi la reginetta del ballo delle maturande, in quel di Spagna… - si fermò a due passi dalla porta, voltandosi a squadrare i ragazzi con aria truce, mentre loro cominciavano a riprendere i sensi dopo la collisione, - …parlatene con qualcuno e siete fuori squadra finché questo culo non lo vedrete sul campo. – minacciò, indicando con precisione il culo di cui stava parlando; per tutta risposta Zlatan si voltò indietro ad autoammirarsi con un sorrisino divertito. – Sempre che appunto ci si arrivi, come vi ripeto sempre. E ora, marsch! A fare la nanna! E di corsa! – e, così dicendo, si chiuse in camera con Zlatan.
Lorenzo, finalmente nel pieno di tutte le sue facoltà fisiche e mentali, si sollevò da terra e si spolverò i pantaloncini.
- Ma quindi… - azzardò, e se quello era il pieno di tutte le sue facoltà fisiche e mentali, non c’era da meravigliarsi che il mister non si fosse ancora convinto a fargli fare il salto di qualità per intero, - …mister Mourinho va a letto con lo spirito del mal di pancia, o che?
Davide, Mario e Rene lo guardarono con aria allucinata per molti secondi. Poi si alzarono in piedi ed entrarono in camera, chiudendo la porta. Rene si affacciò pochi secondi dopo, giusto per dirgli “tu dormi fuori”, e poi tornò a chiudersi dentro. A chiave.
Andrea passò per il consueto giro di controllo solo verso le sei dell’indomani mattina, ancora in canotta e boxer, e lo trovò seduto per terra in corridoio, spalle alla porta e testa pesante, ciondolante avanti e indietro.
- Lorenzo…? – lo chiamò appena, - Che ci fai qua fuori?
- Mmhn…? – biascicò lui, guardandolo con sincera gratitudine, - Sto attento che lo spirito del mal di pancia… non torni… per impossessarsi di qualcuno… - spiegò confusamente, fra un balbettio e l’altro. Andrea inarcò un sopracciglio, poi si chinò, lo tirò in piedi sollevandolo per le spalle e cercò di svegliarlo con qualche schiaffetto sulle guance, senza ottenere risultati granché rilevanti.
- Va be’. – annuì compiaciuto, - Dai, ti offro un caffè. – concluse, trascinandolo al piano di sotto. Lorenzo non trovò la forza di opporsi. 

Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Mario/Davide, Davide/Zlatan, Zlatan/José più varie assortite.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, AU.
- La Fondazione Paramilitare per la Sicurezza, la Protezione e il Contenimento dei Soggetti e dei Fenomeni Scientificamente Inspiegabili, comunemente conosciuta come SCP Foundation, si occupa di identificare, mettere in sicurezza, conservare e procedere alla classificazione e allo studio approfondito di tutti quei fenomeni e soggetti paranormali/sovrannaturali che comunemente interagiscono, più o meno evidentemente, con la realtà di tutti i giorni. Davide Santon è un Agente alle dipendenze di José Mourinho, direttore generale del distaccamento milanese della Fondazione, nonché suo padre adottivo. Sta ancora riprendendosi dall'addio forzato al suo partner precedente, Zlatan Ibrahimovic, trasferitosi recentemente al distaccamento parigino, quando suo padre gli affida un novizio, Mario Balotelli. E i due danno inavvertitamente inizio all'Apocalisse.
Note: Il mondo è un posto bello in cui io posso scrivere anche di queste cose non solo senza sentirmi in colpa, ma anche gloriandomene e divertendomi un casino XD Dunque, breve storia di questa storia: l'idea di base, il fulcro su cui tutto si sviluppa, l'idea di scrivere una storia sovrannaturale "a episodi", divisa in stagioni come una serie tv, nasce un paio d'anni fa, quando incappo per caso nella community LJ paranormal25, che decido di utilizzare come una traccia generica, seguendo i vari prompt proposti dalle varie tabelle. Ho subito capito che sarebbe stata una storia sul Soccerdom, perché la tipologia del racconto richiedeva tipo un fottio di personaggi, che solo il Soccerdom poteva darmi con l'adeguata abbondanza, ma per il resto un enorme velo nero è calato sulla storia e sui modi, finché Julie non ha inventato il Genetics Fest. Sono rimasta a brancolare nel buio chiedendomi cosa avrei potuto scrivere a riguardo, visto che avevo già deciso di prendere piume come prompt, quand'ecco che il progetto di questa storia è tornato a bussare alle porte della mia memoria, e giù a cascata tutto l'headcanon che in due anni non mi era mai passato per la testa XD
Dunque, in sostanza, per i primi quattro episodi dovresti essere abbastanza sicuri di poterli ricevere per tempo, uno a settimana, in coincidenza con le scadenze del Genetics Fest. Per i successivi, chissà! XD Mi conoscete, sapete che scrivo a cazzo di cane, ma prometto che cercherò di essere se non puntuale almeno dignitosa con le consegne e i postaggi ♥
Ciò detto, aspettatevi una storia potenzialmente infinita -- Supernatural ci fa una sega. E buon divertimento XD
L'ispirazione per la SCP Foundation viene da qui.
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THE UNSPEAKABLES
1x01 – Pilot

Avrebbe potuto voler diventare un avvocato, riflette fra sé, le gambe accavallate, le braccia incrociate sul petto, un piede che sbatte nervosamente contro il pavimento in resina lucida e bianca, il culo poggiato controvoglia sulla seggiolina in plastica grigia più scomoda mai concepita da mente umana. Avrebbe potuto diventare un avvocato, o chissà, un medico. Avrebbe potuto voler essere un poliziotto, o un professore. O un pilota automobilistico. Perfino un calciatore.
Ma no. Lui voleva seguire le orme paterne. Paterne, poi. Un blocco di cemento attaccato a una caviglia e in caduta libera giù da un ponte verso il mare sarebbe stato più paterno di quanto José Mourinho era stato nei confronti di Davide per tutta la sua intera esistenza, da che era stato adottato in poi, cosa che, davvero, aveva del crudelmente ironico. Se la natura non ti ha dato dei figli, perché disturbarti ad andartene a cercare uno fino in Italia per poi non stare mai con lui? Sempre lontano, suo padre, sempre immerso nel suo lavoro, sempre chiuso in ufficio, sempre impegnato ad incontrare gente che inevitabilmente finiva per non essere Davide. Un padre assente, per voler usare un eufemismo ancora gentile. Un trascurante figlio di puttana, a volere invece descrivere in termini più propri la realtà dei fatti.
Forse è per questo motivo che, posto di fronte alla scelta della vita, non appena concluso il liceo, Davide ha scelto la pillola rossa. Ha scelto di aprire gli occhi e guardare, uscire dalla realtà per cui “papà è il direttore generale di un’importante organizzazione che lo tiene molto, molto occupato, tesoro” per tuffarsi di testa nella verità che ha continuato a sfuggirgli per tutti gli anni della sua infanzia.
Una verità che ora vive quotidianamente, che gli piace più di quanto non ammetterà mai, e che a fasi alterne gli regala quanto di meglio la vita abbia da offrirgli, e subito dopo quanto di peggio.
I suoi pensieri si soffermano distrattamente sul profilo di Zlatan che si staglia contro il tramonto, in spiaggia, la tenda da campeggio appoggiata sulla sabbia qualche metro più in là, il carbone che scoppietta ed arde allegro nel braciere fra di loro mentre nell’aria si diffonde l’aroma invitante delle puntine di maiale annaffiate nel salmoriglio. “Andrà tutto bene, Dade,” la sua voce sempre così ruvida, dai semitoni così improvvisamente soffici, “Non hai davvero bisogno di me.” Il sapore di sale, chissà se dovuto alle lacrime o all’acqua di mare.
Scaccia via il pensiero con forza, chiudendo gli occhi e aggrottando le sopracciglia. È arrabbiato, con se stesso, principalmente, per essere nonostante tutti gli anni di servizio che ha ormai alle spalle ancora così ridicolmente debole. Ricorda ancora le parole di suo padre il giorno in cui, completato l’addestramento, gli ha consegnato il suo nuovo tesserino di Agente, e la sua arma. “Ti affido a Zlatan,” ha detto, e poi ha sorriso, “Anche se so che sto facendo un errore.” Davide si rivede, infinitamente più piccolo, la faccia ancora brufolosa tipica degli adolescenti ed una massa confusa di capelli castani sulla testa, l’uniforme ancora da riempire che gli cadeva addosso sformata come un sacco di patate, chiedere perché. E rivede di nuovo quel sorriso a piegare le labbra di suo padre, e quel suo “Non crescerai mai, attaccato al culo di Zlatan, ti proteggerà sempre. Ma sei mio figlio, e non posso mandarti lì fuori con nessun altro.” La prima volta che s’è sentito vagamente amato da lui.
Si decide a deviare nettamente dal viale dei ricordi quando sente le lacrime cominciare a pungere sotto le ciglia, ed in quel momento la porta metallica accanto alla quale era seduto in attesa si apre con un clic discreto, mostrando la mano abbronzata e dalle dita lunghe di Pep, che si affaccia dallo spiraglio e gli posa addosso un’occhiata che non presagisce nulla di buono.
- Tuo padre può riceverti, adesso. – dice con un breve cenno del capo, aprendo la porta per lui.
Davide si solleva con un sospiro ed entra nell’anticamera di medie dimensioni che funge da ufficio di Pep Guardiola, fedele segretario tuttofare e primo consigliere di suo padre da ormai più di dieci anni.
In quell’edificio, ed anche al di fuori dei suoi confini, tutti sanno che è il figlio adottivo di José Mourinho. Lui s’è premurato di spargere la voce non appena ha saputo della decisione di Davide di entrare nella Fondazione. Un misto di orgoglio paterno e desiderio di buttare giù qualche paletto per tenergli lontano qualche Agente anziano in vena di scherzi di cattivo gusto. Quelli della Fondazione Paramilitare per la Sicurezza, la Protezione e il Contenimento dei Soggetti e dei Fenomeni Scientificamente Inspiegabili, comunemente conosciuta come SCP Foundation, sono quanto di più simile ai ranghi di un esercito sia possibile trovare all’infuori di un esercito, e che qualcuno potesse voler mettere le mani sul nuovo arrivato senza conoscerne l’origine era un’eventualità che andava necessariamente presa in considerazione.
- Qualsiasi cosa accada lì dentro, - gli dice Pep, accompagnandolo di fronte alla porta chiusa dell’ufficio di suo padre e poi aprendola per lui, - Sappi che ho provato in ogni modo a fargli cambiare idea, ma non ha voluto ascoltarmi.
Davide gli lancia un’occhiata dubbiosa, ma è troppo tardi per indagare oltre. La porta è aperta e suo padre è seduto dietro la sua scrivania, tutto intento ad apporre il proprio timbro e la propria firma su una pila di documenti la cui altezza sfiora i venti centimetri. Un foglio via l’altro, ogni tanto scambia qualche parola con un tizio alto, scuro di pelle e coi capelli rasati secondo un pattern assolutamente ridicolo, seduto scompostamente su una delle due sedie metalliche di fronte al tavolo.
Davide decide di ignorarlo ed entra, richiudendosi la porta alle spalle con un tonfo.
- Papà. – lo saluta quindi, alzando un po’ la voce per costringerlo a guardarlo.
- Ah!, Davide. – annuisce José, invitandolo ad avvicinarsi con un breve cenno della mano, - Vieni, vieni. Sei perfettamente in orario, come al solito.
- Non avevamo un appuntamento. – ribatte lui, aggrottando le sopracciglia.
- Questo è del tutto irrilevante. – sorride José, - Vieni, dai, siediti. Di cosa volevi parlarmi? – Davide lancia un’occhiata al tizio, che gliela ricambia con aria un po’ stupita, e sta per dire che vorrebbe parlargli in privato quando la fragorosa risata di José lo interrompe. – Non preoccuparti, puoi parlare di fronte a lui. Dimmi.
Davide prende posto sull’unica altra sedia libera di fronte alla scrivania, serra le mani sulle ginocchia e prende un respiro profondo.
- Non voglio essere assegnato a nessun altro partner. – dice quindi, - Voglio lavorare da solo.
José inarca le sopracciglia, sollevando gli occhi su di lui ed interrompendo la propria interminabile trafila di apposizione di timbri e firme.
- Impossibile. – dice quindi, tornando ad abbassare lo sguardo.
- Non è vero. – insiste Davide, - Non sarei il primo.
- I casi si contano sulle dita di una mano. – gli fa presente José, riprendendo a siglare documenti.
- Vuol dire che si conteranno sulle dita di due, da oggi in poi. – ribatte Davide, appoggiando una mano sulla scrivania. – Non intendo essere assegnato a nessun altro. Non voglio qualche stronzetto nuovo arrivato attaccato al culo, e non voglio nemmeno fingere di dover portare rispetto a qualche stronzo più navigato che si sente più bravo o più intelligente di me solo perché ha all’attivo qualche anno di servizio in più. Non voglio, lo rifiuto. Posso lavorare da solo, sono pronto.
José lo guarda senza cambiare espressione, appoggia la penna sul tavolo e scambia una rapida occhiata col tizio seduto accanto a Davide. Poi sospira, congiunge le mani a qualche centimetro dal viso ed appoggia i gomiti sul tavolo, tornando a guardare Davide con aria seria.
- Ti sei mai chiesto il motivo per cui gli agenti sono obbligati a lavorare in coppia? – domanda. Davide si irrigidisce sulla sedia, ma scuote il capo con fare orgoglioso, come fosse fiero del fatto che, in realtà, della risposta non gli interessa niente. – Ovviamente. – sorride José, e poi prosegue. – È necessaria una grande quantità di forza spirituale e psicologica, oltre che fisica, per portare a termine gli incarichi che la Fondazione affida ai suoi Agenti. Non tutti gli individui sono in grado di fornire quello che serve da soli. Anzi, si tratta di casi estremamente rari ed estremamente preziosi. – si interrompe per qualche secondo, il suo sguardo è duro, severo, proprio come quello di un padre intento a rimproverare il figlio, a dargli una lezione che non sarà in grado di dimenticare facilmente. – Tu non sei uno di quei casi, Davide.
A giudicare dal bruciore che sente sottopelle, suo padre ha fatto centro.
Davide abbassa gli occhi, ritraendosi come una lumaca nel suo guscio, velocemente. Si ripiega su se stesso, sconfitto, e non dice una parola.
- Mi dispiace, Dade. – aggiunge José, il tono di voce improvvisamente tenero. Tutto quello a cui Davide riesce a pensare al momento è quanto lo irrita non essere solo con lui in questa stanza. Sente lo sguardo dell’altro ragazzo addosso ed è imbarazzante, è degradante, è mortificante. – Sapevo che avevi intenzione di chiedermi una cosa come questa. L’avevo intuito. Ecco perché ho ritenuto opportuno essere molto chiaro, con te, di modo che ti convincessi a lasciar perdere. Ed ecco anche perché ho scelto di farlo di fronte a Mario. – dice, e Davide gli solleva immediatamente lo sguardo addosso. Sentire chiamato l’altro ragazzo per nome suona come una nota stonata, per quale motivo dovrebbe volerlo includere nella conversazione al punto da riferirsi direttamente a lui col suo nome di battesimo?
Davide si volta a guardarlo, e il tipo lo sta ancora fissando di rimando, le iridi nere piantate sul bianco abbagliante dell’occhio e, sullo sfondo, l’uniformità scurissima della sua pelle.
Sta per domandare chi sia, ma José lo precede.
- Lui è Mario, appunto, - spiega con un sorriso, - E da oggi è il tuo nuovo partner.
Sull’ufficio cala un silenzio nervoso e imbarazzato. Mario non spiccica una parola e Davide, gli occhi fissi sulle proprie mani, serrate strette attorno alle ginocchia, non si azzarda nemmeno a sollevare lo sguardo.
Lo odia, lo odia come non l’ha mai odiato prima di quel momento, e di motivi, e ragioni, e occasioni, ne ha avute parecchie, nella sua vita. Ma questo momento, ora come mai prima d’ora, riassume tutta la loro relazione. Non è mai stato un figlio, per lui, quanto più un prodotto. Qualcosa da crescere, instradare, indirizzare. Qualcosa da concimare ed osservare alzarsi robusta verso il cielo. Avrebbe potuto diventare un giardiniere, con una vocazione simile, ed invece è diventato il direttore generale di un’organizzazione segreta per la protezione della stabilità del mondo conosciuto. Due occupazioni solo in apparenza totalmente dissimili, che si riducono in realtà allo stesso nocciolo, perché niente di quello che José gli ha mai detto è mai stato qualcosa in più che banale fertilizzante. Lezioni da imparare per rendere più dura la sua corteccia.
- D’accordo, ho capito. – si alza in piedi senza degnare suo padre di un altro sguardo. Per quello che gl’importa, un SCP potrebbe emergere dalle pareti e staccargli la testa a morsi in questo esatto istante, e lui non muoverebbe un muscolo per salvarlo. Si volta verso il ragazzo e gli fa un cenno col capo. – Muoviti.
Il ragazzo inarca un sopracciglio e non muove un muscolo. José piega le labbra in un sorriso amaro.
- Bene. – dice, - È così che vuoi farlo, dunque. BÈ, è una tua prerogativa. L’Agente anziano sei tu, adesso, lui è una tua responsabilità.
- Che non ho chiesto. – dice Davide, tagliente, - Che non mi sono scelto.
Il sorriso di José si allarga impercettibilmente.
- Come tutte le responsabilità. – risponde serafico. Poi sembra come ricordarsi all’improvviso di qualcosa. – Prima che andiate, - dice, rovistando nella sua bella pila di carte, - Il tesserino di Mario, - dice, porgendogli il suo tesserino plastificato, - La sua arma, - continua, aprendo il primo cassetto della scrivania e recuperando l’arma ancora sigillata, - E, già che siete qui, il vostro primo caso.
Davide osserva i suoi movimenti con aria incolore, fin quando non scorge come in un flash il giallo della cartellina portadocumenti passare dalle mani abbronzate di José a quelle scure di Mario.
- Un attimo. – dice, aggrottando le sopracciglia e intercettandola a mezz’aria, sottraendola alla stretta delle dita di Mario prima che possa rafforzarsi attorno al cartoncino, - Me l’hai appena affibbiato e devo già portarlo fuori?
- Anche tu sei uscito quasi subito, dopo essere stato affidato al tuo partner anziano. – risponde José, facendo spallucce.
- Due giorni dopo l’assegnazione. – precisa Davide, irritato, - Non ho avuto il tempo di testarlo. Non ho ancora neanche sentito la sua voce!
- Guarda che sono stato addestrato anch’io. – dice finalmente Mario. La sua voce è profonda e gutturale, e venata da un marcatissimo accento del bresciano. Davide la trova istintivamente antipatica. Quella cadenza strascicata, quella punta di orgoglio infantile, gli danno subito sui nervi.
Si volta verso di lui, sferzandolo con un’occhiata severa.
- Non ti ho chiesto di parlare. – dice.
Mario non la prende bene. I suoi occhi si velano di un’ombra scura, una punta di rabbia che frena evidentemente solo a fatica. Ma non compie nessun movimento brusco. Conserva il tesserino nel portafogli, lega la cintura con la fondina attorno ai fianchi e poi resta in piedi, le braccia ritte lungo i fianchi.
- Lo testerai sul campo. – chiude la questione José, alzandosi dalla propria sedia girevole ed indicando la porta in un gesto di congedo, - Quale migliore occasione.
*
Nessuno dei due dice una parola mentre attraversano i lunghi e bianchi corridoi degli uffici milanesi della SCP Foundation. Non si sente nessun suono, attorno, eccezion fatta per il ticchettio degli stivaletti di pelle di Davide, e lo scricchiolare insistente delle suole di gomma delle scarpe da tennis di Mario.
Davide cammina guardando dritto davanti a sé, stringendo la cartellina fra le dita. Fa strada attraverso l’ingresso e fuori dall’edificio, verso l’ascensore che conduce al parcheggio sotterraneo. E poi attraverso i grigi corridoi di cemento del parcheggio stesso, illuminati a stento dalle luci al neon, biancastre e tremule, fino al SUV nero e lucido dal disegno squadrato che è stato l’ultimo lascito di Zlatan prima di partire. “Dove vado, non mi servirà,” la sua risata sguaiata mentre gli lanciava le chiavi in aeroporto, “Ho una Citroën GT ad attendermi non appena metto piede a Parigi!”.
Davide respira forte, profondamente, poi fa scattare le sicure. L’automobile lo saluta lampeggiando e uggiolando di gioia un paio di volte. Davide apre lo sportello e si siede alla guida senza neanche invitare Mario ad accomodarsi. Fortunatamente, almeno per quello il ragazzo sembra non aver bisogno di alcuna direttiva, perché lo fa di propria spontanea iniziativa e, una volta sedutosi alla destra di Davide, resta composto ed immobile a fissare la parete grigia oltre il parabrezza. Davide lo imita per qualche secondo, cercando di concentrarsi, cercando di ricordare che è un uomo, ormai, che non deve lasciarsi manipolare così da suo padre, che deve essere professionale e che ha un compito da svolgere.
Solleva la cartellina e la appoggia al volante, aprendola ed esaminandone il contenuto.
- SCP di classe E, livello di pericolo due. – legge a bassa voce, scorrendo il documento di presentazione. Gli si piegano le labbra in un sorriso divertito, - Una succube! Mai vista una dal vivo? – chiede, voltandosi a guardare il ragazzo.
Lui è ancora piccato per la sua risposta sgarbata di prima, e si limita a scuotere il capo, silenzioso. Davide sospira e mette via la cartella.
- Non fare così. – gli dice, - Dobbiamo lavorare insieme.
- Sì, hai già espresso più che chiaramente il fatto che preferiresti leccare un cesso pubblico piuttosto che lavorare con me, ma sembra che non ci sia alternativa, per cui. – ribatte quello, guardando altrove.
Davide lancia un’occhiata esasperata al tettuccio e poi si passa una mano fra i capelli.
- Senti, non è una questione personale. – dice.
- Lo è diventata. – risponde Mario.
- No, non lo è diventata. – insiste lui, - Non lo diventa, se non vogliamo. Non è con te che ce l’ho.
Mario si degna di voltarsi a guardarlo. Con le sopracciglia aggrottate e le labbra piegate in un broncio infantile, sembra più piccolo di quanto non gli sia sembrato ad una prima occhiata. L’imponenza del suo corpo e la freddezza del suo sguardo traggono in inganno, ma Davide si rende conto adesso che devono avere più o meno la stessa età.
- Ce l’hai con tuo padre? – domanda.
Davide sospira, scrollando le spalle ed appoggiandosi allo schienale del sedile.
- Anche, sì. È tutto un insieme di cose, - agita una mano a mezz’aria, - Non preoccupartene. Quello che è importante, adesso, è portare a termine questa missione e chiudere questa giornata nel modo meno disastroso possibile. Per il resto, avremo tempo. – conclude. – Pensi di potercela fare?
Mario scrolla le spalle.
- E proviamoci. – dice, - Abbiamo una foto?
- Un’illustrazione. – risponde Davide, sospirando teatralmente, - Vedi, questi sono i momenti in cui verrebbe voglia di andare negli uffici del reparto Classificazione e Identificazione, e dare fuoco a tutto. – borbotta, sollevando la fotocopia di un’illustrazione in bianco e nero visibilmente antica. Mostra un demone dalle zampe caprine e dal seno prosperoso. Ha lunghi capelli scuri e ricci, intricati come un labirinto, che svolazzano nel vento, una larga bocca piena di denti aguzzi dalla quale fa capolino una lunga lingua biforcuta ed occhi come due tagli orizzontali, privi di pupilla. Da dietro la schiena spuntano due enormi ali dalle piume nere. Ha le unghie adunche come artigli e zoccoli ai piedi.
Mario inarca un sopracciglio.
- Non andrà mica in giro così? – dice.
- Naturalmente no. – sbotta Davide. – Coi tempi che corrono, è più probabile che si sia trasformata in qualche Barbie bionda superdotata, o in una velina. Ma naturalmente non abbiamo foto della sua forma corrente. Sembra che avremo a che fare con del sangue blu, comunque.
- Prego? – domanda Mario, cercando di sbirciare i documenti. Davide ride e gli solleva davanti al viso un’altra fotocopia.
- La tipa in questione dovrebbe essere Mahalath, una delle quattro regine dei demoni.
- Yuhuu, - sbuffa Mario, senza neanche premurarsi di fingere entusiasmo, - La famiglia reale.
- Già. – ride ancora Davide, tornando a sfogliare il contenuto della cartella.
- Niente di utile, là dentro? – domanda curioso Mario.
- Mmh. – Davide scorre il testo con attenzione, - Citazioni dal Malleus, descrizioni di vittime sfuggite al rapporto per tutto il secolo scorso… roba standard. Niente di che.
- In pratica, dobbiamo arrangiarci per conto nostro. – conclude Mario, e poi annuisce. – Okay, - dice quindi, - Si va?
Davide inarca un sopracciglio, le labbra che si piegano in un sorriso furbo.
- Prima passiamo dagli alloggi. – dice. E, di fronte all’espressione poco convinta di Mario, spiega, - Non vorrai mica andare in discoteca conciato così?
*
Mario non ha niente di adatto per l’occasione, solo qualche paio di jeans sdruciti e qualche maglietta sbiadita. Le sue cose sono già state sistemate fra l’armadio e la cassettiera addossata in fondo alla stanza. Qualche cosa è stata poggiata sul letto, perfettamente rifatto come il suo gemello a qualche metro da lui.
Le due metà della stanza non potrebbero essere più diverse l’una dall’altra, piena di poster e fotografie e libri che strabordano dagli scaffali della piccola libreria angolare quella di Davide, completamente spoglia ed anonima quella di Mario – nonostante le tracce di scotch sulle pareti dimostrino la presenza di qualcuno in quel luogo nel recente passato, qualcuno che ormai è andato via. Davide ha chiesto almeno cinquecento volte che le pareti venissero ridipinte, ma è stato ignorato ripetutamente, e niente riesce a togliergli dalla testa che si tratti in realtà di una delle piccole torture quotidiane che suo padre si diverte ad infliggergli nel tentativo di renderlo forte e duro e corazzato abbastanza da potergli cedere le chiavi dell’ufficio in un non troppo distante futuro.
Dopo un breve esame dei vestiti di Mario, Davide decide di prestargli qualcosa di proprio. Gli lancia addosso un paio di jeans aderenti blu scuro, una maglietta bianca così stretta da avvolgerlo come una seconda pelle ed un gilet nero, lucido e dal taglio moderno, che gli dice di indossare aperto sopra la maglietta. I jeans gli stanno corti ed il suo torace possente esplode nella maglietta, ma dovrà farsi bastare questo finché non riceverà il suo primo stipendio.
Davide prova a dargli un paio delle proprie scarpe, ma non portano la stessa misura, e Mario ritorna alle proprie sneaker consumate con un flebile sorriso di autentica gioia sul volto. Poi si alza in piedi e si sente scricchiolare tutto.
- Che palle. – borbotta, tirandosi giù la maglietta lungo i fianchi, - Perché stiamo facendo questa cosa?
- Perché i succubi frequentano esclusivamente locali notturni, preferibilmente discoteche. Dove si rimorchia meglio. – risponde Davide, sistemandogli il gilet sulle spalle e sollevandogli un’occhiata di rimprovero addosso, - Non hai studiato?
- Girano pochi libri in casa mia. – risponde Mario, guardando altrove, - I miei non credono nella parola scritta.
- Bella questa. – sbotta Davide, inarcando entrambe le sopracciglia e guardandolo adesso con curiosità, - Sai leggere, almeno?
- Sì, ovviamente. – grugnisce lui, offeso, - È solo che i miei preferiscono l’apprendimento sul campo a quello in classe.
Davide lo scruta con occhi attenti per qualche secondo, in perfetto silenzio. Poi scrolla le spalle.
- Che roba da pezzenti. – conclude, voltandosi e dirigendosi verso il proprio armadio per cambiarsi, - È come pretendere di diventare uno chef senza aver mai studiato come si cucina una frittata.
Irritato, Mario aggrotta le sopracciglia e serra i pugni lungo i fianchi.
- I miei genitori non sono dei pezzenti. – ringhia.
Davide si volta appena a lanciargli un’occhiata sufficiente da sopra una spalla.
- Non importa. – dice quindi, tornando ad esaminare i propri abiti, - Ragionano come se lo fossero.
- Ritira immediatamente quello che hai detto! – abbaia Mario. Davide si sente afferrare per un braccio e fa mezzo giro su se stesso. Mario lo schiaccia contro la porta chiusa dell’armadio e ringhia a due centimetri dal suo volto. – Non costringermi a ripetermi.
Davide lo affronta a muso duro, le sopracciglia aggrottate, le labbra serrate in una linea carica di disappunto. Gli pianta entrambe le mani contro il petto e lo spinge lontano da sé. Mario, sorpreso dalla sua forza inaspettata, finisce a sbattere contro la parete di fronte e gli solleva addosso un’occhiata smarrita. Davide si sposta il ciuffo da davanti agli occhi e mette le mani sui fianchi.
- Un’altra insubordinazione di questo tipo e faccio rapporto. Tre rapporti negativi sono un’ammonizione ufficiale. Tre ammonizioni sono una sospensione. Tre sospensioni portano all’espulsione. – elenca atono, - Questo giusto per avvisarti. Sono un Agente anziano, il tuo partner anziano, e devi portarmi rispetto.
- Be’, anche tu dovresti portarmene. – ribatte Mario, rimettendosi dritto e fronteggiandolo senza timore, - Sono un essere umano. O in questo posto del cazzo contano solo i gradi?
Davide non risponde subito. Lo guarda per qualche secondo, vagliando le sue parole, e poi cede.
- Ti chiedo scusa se ho mancato di rispetto ai tuoi genitori. Non li conosco e non ho il diritto di giudicarli. – dice, - Ciò non toglie, però, che ritengo il loro approccio alla materia assolutamente insufficiente. E penso che seguire i loro insegnamenti abbia fatto di te un Agente incompleto. Non so come tu abbia fatto a passare il test selettivo, ma—
- Non ho fatto nessun test per entrare. – risponde Mario, senza neanche lasciarlo finire di parlare.
Lo sguardo di Davide si incupisce, restando sempre fisso su di lui. Si illumina appena di un’intuizione indistinta quando Davide somma i fattori ed ottiene l’unico risultato possibile.
- Di chi sei figlio? – domanda.
Mario solleva il mento e gonfia il petto, prima di parlare. È una reazione ridicola ed esagerata, ma a suo modo tenera.
- Francesco e Silvia Balotelli. – risponde quindi. La voce gli trema d’orgoglio.
Davide è stupito dalla risposta. Non sapeva che i Balotelli avessero un altro bambino, oltre ai tre già da tempo entrati nella Fondazione, men che meno avrebbe mai potuto immaginare che l’avessero adottato. Quindi sì, è stupito dalla risposta, ma non esattamente sconvolto. José non avrebbe potuto accettare senza test d’ingresso nessuno che non fosse un prodotto certificato della famiglia Balotelli. Silvia e Francesco erano stati due Agenti di fama mondiale, negli anni ’80. Se ne studiava ancora le tecniche e le imprese, all’Accademia, durante l’addestramento.
A Davide non è mai piaciuto il loro stile. Sono noti per la loro intraprendenza ed il loro coraggio, ma anche per l’assoluta mancanza di programmazione e pianificazione dei loro assalti, che risultava spesso nella morte violenta dell’SCP che si sarebbe invece voluto acquisire. Lui preferisce altri tipi di tattiche.
- Capisco. – dice quindi, voltandogli nuovamente le spalle e tornando a passare in rassegna i propri vestiti. Sceglie per sé un paio di jeans neri ed una maglietta dello stesso colore, dalla profonda scollatura a v. – Insomma, un raccomandato. – conclude.
La rabbia di Mario è di nuovo chiarissima nella sua voce, quando parla.
- Sei un figlio di papà anche tu. – ringhia, i pugni che tremano lungo i fianchi.
Davide gli lancia una mezza occhiata ed un mezzo sorriso ironico. Poi si sfila la maglietta.
- Io i miei test ho dovuto sostenerli tutti. – ribatte, - Fra i banchi e sul campo.
Ignora la velocità con la quale Mario distoglie lo sguardo di fronte alla sua pelle nuda.
*
Sono di fronte all’Hollywood per le undici in punto, tardi abbastanza per trovare già un po’ di movimento ma presto abbastanza per avere di fronte almeno quattro ore buone di pattuglia. Entrano mostrando al buttafuori il tesserino e, una volta dentro, Davide si dirige dritto verso il bar, senza neanche guardarsi attorno. Almeno fino a quando non capisce di essersi perso Mario da qualche parte lungo la via.
Si volta per cercarlo in mezzo alla folla e lo trova immobile e rigido come un pezzo di legno a pochi passi dall’entrata, che si guarda intorno con aria smarrita. Sospirando e lanciando uno sguardo colmo di rassegnazione e pazienza in esaurimento al soffitto, gli torna accanto e lo strattona bruscamente, riportandolo alla realtà.
- Trovati. – borbotta, - Comportati con naturalezza.
- Con naturalezza? – esala Mario, fissandolo sconcertato, - Non riesco ad immaginare un comportamento più naturale di questo! Ma ce l’hai presente Concesio? Il buco del culo della Val Trompia! Quindicimila anime all’anagrafe! La cosa migliore che ne sia uscita dopo i miei genitori è stata un Papa! Ti pare che io possa mai aver visto cose di questo genere? – domanda, allargando le braccia in un gesto ecumenico che include tutta la discoteca, che si sviluppa di fronte a loro in un incessante rincorrersi di luci e suoni confusi, di corpi che si schiacciano fra loro al ritmo sempre uguale di tutti gli svariati successi dance dell’estate e dell’odore pesante ed avvolgente del sudore misto a quello più forte dei profumi da uomo e da donna ed a quello fruttato ed alcolico dei cocktail.
Per Davide, ambienti come questo sono la norma. È stato costretto a frequentarli più di quanto volesse per lavoro, e Zlatan ne andava matto nel tempo libero. Ma può comprendere come, per un tipo come Mario, siano invece una novità assoluta, da fissare con gli occhi sgranati e l’aria di un cieco miracolato del dono della vista che, come prima cosa dopo anni e anni di buio assoluto, posi gli occhi su un corpo di donna spogliato di ogni abito.
- Trovati lo stesso. – sbuffa Davide, afferrandolo per un polso e trascinandolo più in profondità all’interno del locale. – Concentrati sull’obiettivo, adesso. Qualunque bella ragazza è potenzialmente una succube.
- E come faccio a riconoscere quelle che lo sono da quelle che sono solo belle ragazze? – domanda lui, incerto.
Davide sbuffa, annoiato.
- Che ne so. – sbotta, - Lo percepisci, insomma. Non hai mai provato?
- Be’, abbiamo un piccolo Cerbero, a casa. – risponde lui, - So riconoscerlo rispetto a un cane normale.
- Sarà perché ha tre teste invece di una sola? – ribatte Davide con sufficienza, lanciandogli un’occhiata sarcastica.
- Intendevo ad occhi chiusi. – precisa Mario, offeso, - Dalla sua aura.
- È più complicato per i succubi. – sospira Davide, scuotendo il capo, - Sono demoni, la loro aura non è molto dissimile da quella degli esseri umani. Devi imparare a leggere le sfumature.
- Sì, certo. – sbuffa Mario, incrociando le braccia e raggiungendolo di fronte al bancone del bar, - Sono molto utili, le tue indicazioni, sai? Dimmi qualcosa di pratico, cosa stiamo cercando? Una donna eccezionalmente bella?
- Non saprei. – scrolla le spalle Davide, guardandosi intorno, - Sono tutte diverse.
- D’accordo, - insiste pazientemente Mario, - Ma nella tua esperienza, cos’hai visto? Ne avrai incontrate altre.
- Sì, - annuisce lui, - Un casino di volte.
- Bene. Ed erano belle?
Davide scrolla di nuovo le spalle, tornando a guardare altrove.
- Suppongo di sì. – dice, - Non faccio mai granché caso alla bellezza delle donne. Per me sono tutte abbastanza uguali.
- Ah. – dice Mario, lasciandosi cadere seduto su uno sgabello. – Ah. Okay.
Davide si volta a guardarlo, inarcando le sopracciglia.
- Problemi? – dice.
- No. – si affretta a rispondere Mario, - No, assolutamente.
Davide lo fissa ancora per qualche secondo, pensando che Mario dovrebbe rivedere il suo dizionario personale, visto che, chiaramente, alla definizione della parola “no” c’è quella della parola “sì”, ma taglia corto e torna a fissare la folla che sciama imperturbabile dentro e fuori dal locale quando si rende conto che una semplice occhiata non sarà in grado di scollare quello sguardo ebete dalla faccia di Mario.
- Okay. – dice quindi con una punta di presunzione, piantando lo sguardo su una ragazza dall’aspetto provocante, - Sta’ seduto qui e osserva il maestro all’opera.
Si allontana da lui senza degnarlo di un’occhiata, camminando a passo svelto a sicuro verso la ragazza. È vestita completamente di nero – pantaloni in pelle aderenti e dalla vita bassissima che mettono in evidenza le ossa appuntite del bacino e l’ombelico, top dello stesso materiale dei pantaloni incrociato sul petto, spalle nude, i capelli biondi lunghi e lisci che spiovono sulla schiena abbronzata in una cascata lucida che riflette tutto l’arcobaleno di colori che le luci stroboscopiche vomitano sulla folla. Ha un’aura appena più brillante delle altre ragazze, e sembra sola. Inusuale, per una ragazza di quell’età. A dir poco.
- Ehi. – la saluta con un mezzo sorriso, appoggiandosi al bancone vicino a dove è seduta lei, - Serata fiacca?
Lei gli solleva addosso un paio d’occhi enormi, da cerbiatta, di un colore indefinibile a causa della penombra multicolore della discoteca.
- Cosa te lo fa pensare? – domanda con un sorriso da Monna Lisa, le labbra piene dal disegno elegante appena appena arricciate agli angoli.
- Be’, - sorride Davide, avvicinandosi appena, - Una ragazza bella come te, in un posto come questo, a quest’ora, ancora tutta sola? O il mondo gira alla rovescia, o è una serata fiacca. Dimmi tu.
La ragazza ride, scuotendo il capo.
- Che fai, ci provi? – domanda.
Lui si concede una mezza risata, facendo cenno al barista di portargli la stessa cosa che sta bevendo lei, un cocktail che sa di albicocca dal colore talmente rosato e dall’odore talmente zuccherino da fargli venire la nausea senza averlo neanche assaggiato.
- Dipende. – dice, - Vuoi che ci provi?
Lei ride ancora, una risata cristallina e nitida, tentatrice. E quando ride la sua aura si illumina appena di sfumature rossastre.
- Spiacente. – dice quindi, e poi dà una risposta che Davide non si aspettava. – Non sono più sul mercato.
Deve guardarla in modo piuttosto esplicito, perché lei scoppia di nuovo a ridere, divertita, e sorseggia un po’ del proprio cocktail, chiudendo le belle labbra a cuoricino attorno alla cannuccia colorata.
- Non è possibile. – dice, e lei ride ancora.
- Dovrei offendermi? – chiede, - Mi avevi preso per una facile?
- Non esattamente. – risponde lui, passandosi le dita fra i capelli per scostarsi la frangia dalla fronte.
Lei ride un’altra volta.
- Oh. – dice quindi, - Allora i miei vecchi occhi avevano visto bene. – il suo sorriso si tinge di una sfumatura maliziosa, - Sei un Innominabile.
- Ah, per piacere. – sbuffa lui, - Ci chiamano ancora così, nei gironi infernali? È un vocabolo caduto in disuso da almeno un centennio.
- Be’, è più o meno da un centinaio d’anni che non rimetto piede all’Inferno. – risponde lei, - Quindi non saprei dire se adesso vi chiamino in altro modo. Per me siete rimasti Innominabili.
- Siamo Agenti, adesso. – sospira Davide, - E tu devi essere caduta.
- Da tempo, sì. – ride lei, allungando una mano verso di lui, - Chloé, piacere.
- Piacere mio. – risponde lui, stringendole la mano, e poi arrossisce appena, imbarazzato, - Non posso rivelare il mio nome.
- Ragioni di sicurezza? – chiede lei. La sua voce sembra ridere sempre, trilla come campanelli. – Non preoccuparti, capisco. – lui le sorride ancora e poi si abbatte sul ripiano del bar. Nel frattempo, il suo drink è arrivato, e lui ne assaggia un sorso e poi subito si ritrae con una smorfia. Come aveva previsto, troppo dolce. E lei si avvicina appena, e profuma di mandorle e zucchero filato. Certe caratteristiche non ti abbandonano neanche quando perdi l’anima, il profumo della pelle, la brillantezza dell’aura, la malizia negli occhi. Certe caratteristiche non ti abbandonano neanche quando te ne vai. – Giornata pesante? – chiede.
Davide sbuffa, chiudendo gli occhi.
- Annata pesante. – la corregge, - Ma è del tutto irrilevante, adesso.
- Immagino. – annuisce lei, e poi finge la voce grossa e misteriosa, - Sei in missione segreta?
- Già. – ride lui, voltandosi a guardarla, - Cerco un tuo superiore.
- Ah, sì, ho sentito. – Chloé piega il capo, i capelli le scivolano morbidi sulla spalla come una cascata dorata mentre lei accavalla le gambe, - Sua maestà, o almeno una delle, è scesa in campo.
- Corrono veloci le notizie all’Inferno. – commenta lui, inarcando un sopracciglio.
- Corrono più svelte in superficie. – precisa lei con un’altra risata cristallina. – Quindi sei alla sua ricerca, mh? Be’, mi spiace dirti che l’hai mancata di una manciata di secondi, letteralmente.
Davide spalanca gli occhi, piantandole addosso uno sguardo sconvolto.
- Prego? – domanda incerto.
Lei si stringe nelle spalle, gettando indietro i capelli in un gesto vezzoso.
- È appena andata via con un tipo, - dice, - Un bel ragazzo di colore, dall’aura potente. Il classico tipo che avrei preso di mira anch’io, se fossi stata ancora in servizio.
Davide ha appena il tempo di lanciarle un breve ringraziamento e una scusa impacciata, prima di saltare giù dallo sgabello e lanciarsi a rotta di collo verso l’uscita.
*
Li trova poche centinaia di metri più avanti, nascosti nell’ombra profonda di un vicolo. Segue l’odore dell’eccitazione di Mario nell’aria, prima, il suo profumo selvaggio appeso alle molecole di ossigeno. Poi comincia a sentire gli ansiti e i gemiti e a quel punto, più che seguire una traccia, imbocca una superstrada a duecento all’ora.
Mario sembra cosciente, ma è evidentemente fuori come un balcone. Ha gli occhi rossi e lucidi, le labbra dischiuse ed umide, gonfie di baci e di piccoli morsi, la maglietta strappata sul petto. La sua maglietta, pensa Davide con un certo risentimento.
Mahalath non è riuscita ad aspettare di trovarsi in un posto chiuso, in una camera d’albergo o chissà, magari proprio a casa sua. Gli Agenti hanno sangue forte da generazioni, hanno sangue potente, hanno resistenza e uno spiccato sesto senso, e non mancano in tutti loro una predisposizione verso il soprannaturale ed un’innata capacità di connettersi al paranormale molto più facilmente rispetto ai normali esseri umani. Per i demoni, rappresentano una tentazione più forte della mela per Eva. Se Mario si fosse degnato di aprire un libro e studiare, nella sua vita, lo saprebbe.
La regina dei demoni non ha avuto il tempo neanche di ritornare alla sua forma originaria, prima di iniziare l’accoppiamento. Si agita veloce, seduta sul grembo di Mario, tenendolo per il colletto stropicciato della maglietta come fossero redini e lui un cavallo che lei stesse cavalcando. La lunga e rigonfia massa dei suoi capelli riccissimi si agita lungo la sua schiena abbronzata e flessuosa, piegata in un arco elegante, quasi regale, mentre i suoi fianchi pieni ondeggiano avanti ed indietro. Dalle sue labbra dischiuse sfugge un gemito ed un sibilo da serpente ogni volta che l’erezione di Mario penetra dentro di lei e poi sguscia fuori, veloce, bagnata, pronta ad esplodere.
- Mahalath! – la chiama Davide, sperando di interromperli in tempo. Naturalmente, Mario viene in quell’esatto istante. – Merda. – ringhia lui, portando la mano alla propria arma ed estraendola velocemente dalla fondina. Un attimo dopo, Mahalat ruota la testa di centottanta gradi e gli offre uno sguardo spiritato e serpentino, poi soffia come un gatto e lui le punta la pistola addosso, l’indice già sul grilletto. – Ferma o sparo! – minaccia, il pollice che accarezza l’impugnatura decisamente, spostando verso l’alto il caricatore. Dall’arma comincia ad emanarsi un ronzio a bassa frequenza, e la bocca si illumina di un riflesso azzurrognolo.
Mahalath non reagisce bene. Si allontana dal corpo di Mario – il quale, non più sostenuto dalle sue braccia, si accascia per terra, svenuto – e gli ringhia contro. Quando parla, la sua voce è come divisa in due, una nota più bassa e cupa, l’altra acuta e stridula.
- Non puoi toccarmi, mortale! – gli urla contro, investendolo con l’onda d’urto della propria energia. Davide ha imparato a non contrastare questo tipo di colpi, a lasciarsi accompagnare dolcemente, perciò lascia che l’impatto con l’aria calda lo sollevi dal suolo e lo sposti di una decina di metri indietro. Quando sbatte contro i cassonetti in fondo alla strada e poi finisce di schiena per terra, però, fa un male fottuto lo stesso.
Si solleva da terra a fatica, stringe le dita aspettandosi di trovarci in mezzo la pistola e, quando non la trova, lancia un’occhiata allarmata tutta intorno a sé. La vede a pochi metri di distanza, per terra, spenta, probabilmente danneggiata. Mahalath non sembra interessata ad impadronirsene.
- Perché proprio ora? – le chiede, aggrappandosi ad un cassonetto per tirarsi in piedi. È persa, ormai, le possibilità che ha di catturarla viva o morta sono meno di zero. Tanto vale cercare di scucirle di dosso qualche informazione e sperare che Mario sia ancora vivo.
Mahalath si lascia andare ad un sorriso sghembo, la lingua che saetta fra le labbra.
- Il tempo è propizio. – dice semplicemente. Poi si solleva per aria, il corpo avvolto in una luminescenza rossastra. Lancia un urlo mentre getta il capo all’indietro e le si lacera la pelle all’altezza delle scapole. Due moncherini premono per uscire, sono solo ossa, all’inizio, poi le piume crescono, avvolgono la struttura e nel giro di pochi secondi sue enormi ali nere le si aprono alle spalle. Mahalath le sbatte pigramente a mezz’aria, una cascata di gocce di sangue si sprigiona dalle piume e piove su Davide, sulle pareti degli edifici, sulla strada, sull’immondizia, sul corpo di Mario disteso nell’ombra.
Le ali si chiudono svelte attorno al corpo nudo del demone, e Davide ha appena il tempo di scattare in piedi seguendo un riflesso involontario, afferrare la pistola e puntargliela contro – rendendosi conto che effettivamente non funziona – prima di vederla svanire in una fiammata rossa che divampa a mezz’aria e si consuma prima di toccare il fuoco.
Il vicolo rimpiomba nell’ombra, e Davide ripiomba seduto per terra quando le gambe lo abbandonano senza troppi ripensamenti. Fatica a processare l’enorme quantità di fallimenti che è riuscito ad impilare alla sua prima uscita senza Zlatan. È una situazione terribilmente imbarazzante. Come si possa passare da una percentuale di successo del novantanove virgola nove percento ad una catastrofe di epiche proporzioni come questa, durante la quale in meno di due ore è riuscito a sfasciare un’arma d’ordinanza, farsi rapire e violentare l’Agente di grado inferiore (cosa che potrebbe o non potrebbe avere conseguenze devastati per l’umanità se Mahalath è stata ingravidata), lasciarsi sfuggire un SCP e non riuscire neanche a strappargli dalla bocca un minimo di informazioni utili per farsi perdonare tutto il resto, è una cosa che francamente non riesce a spiegarsi, e che non ha idea di come spiegherà a suo padre.
Lentamente, si rimette in ginocchio, e poi in piedi. Barcolla fino al corpo di Mario, ancora riverso per terra, e gli si inginocchia a fianco. Ha i pantaloni calati fino alle ginocchia ed è passato direttamente dall’incoscienza al sonno profondo, almeno a giudicare dal compiacimento evidente col quale ha preso a russare.
Davide sospira, lo afferra per le spalle e lo scuote bruscamente.
- Oh! – borbotta, - Svegliati!
- Che?! – Mario apre gli occhi e glieli pianta addosso. È ancora così evidentemente confuso che, anche quando riesce a mettersi seduto, non la pianta un secondo di guardarsi intorno e sbattere le palpebre, cercando di mettere a fuoco il posto. – Che… Cos’è successo?
- Il nostro obiettivo ha fatto di te il suo obiettivo. – sbotta, alzandosi in piedi e trascinandolo con sé nel movimento, - I succubi hanno una predilezione per gli individui con una predisposizione per il paranormale. Se ti fossi degnato di studiare su un qualsiasi testo preparatorio per meno di mezz’ora, lo sapresti.
- Ah. – biascica Mario, la bocca impastata, - Ah. – poi si ferma, si china di lato e sputa per terra, - Che schifo di sapore di merda. – sbuffa, - Zolfo.
- Chiamiamolo battesimo del fuoco, - sospira Davide, - E rivestiti, che sei nudo come un verme. Se penso che potresti essere appena diventato padre…
- Che cosa?! – sbraita Mario, voltandosi repentinamente verso di lui. Davide sospira ancora.
- Lascia perdere, - dice, - Te lo spiego dopo.
- D’accordo. – annuisce Mario, placandosi istantaneamente, ancora scosso dall’esperienza, mentre tenta con scarso successo di riabbottonare i pantaloni e continua a mancare spettacolarmente l’asola anche di cinque centimetri buoni a tentativo.
- Lascia, da’ qua, - sbuffa Davide, irritato, prendendo letteralmente in mano la situazione. – Sei un soggetto impossibile.
- Okay. – annuisce Mario, - Ma offrimi una pizza.
- Come, scusa?
- Ho questo sapore orrendo in bocca e ti giuro che se non mi offri una pizza adesso mi metto a vomitare a spruzzo come ne L’Esorcista.
- Ah. – Davide inarca un sopracciglio, - Quello lo conosci, dunque.
- Quello l’ho studiato! – ribatte Mario, annuendo, - Lo so a memoria.
- Non ne dubitavo. – sospira Davide, facendo strada.
Finisce comunque per offrirgli una pizza, ed intimargli di godersela, anche, mentre manda giù un boccone dopo l’altro come non mangiasse da mesi. Visto che, con ogni probabilità, è l’ultima che mangeranno prima dell’Apocalisse.
*
- Insomma, che dire. – sospira José, scorrendo distrattamente il report dettagliato che Davide ha posato sulla sua scrivania non più di cinque minuti fa. Lui e Mario stanno dritti in piedi di fronte a lui, le braccia dietro la schiena, le gambe unite, il mento sollevato. Davide ci ha messo tre quarti d’ora ad insegnare a Mario come posizionarsi correttamente di fronte ad un suo superiore, e adesso è abbastanza convinto che l’Apocalisse incombente non sia più una minaccia così spaventosa. Se è riuscito a far sì che Mario avesse anche solo la vaga parvenza di un Agente per bene, può fermare a mani nude tutte le Apocalissi dell’universo. – Un vero disastro. – conclude l’uomo, mettendo giù la relazione. Un’ombra di sorriso gli piega le labbra e non sembra davvero irritato dall’accaduto.
Davide inarca un sopracciglio, stringendo le mani dietro la schiena.
- Non sarebbe successo niente di tutto questo, se non mi avessi affidato un impiastro simile. – dice, - Me la sarei cavata perfettamente da solo.
- Sì, provandoci con una ex-succube decaduta. Osserva il maestro all’opera. – lo prende in giro Mario, lanciandogli un’occhiataccia.
- Mario! – sbotta Davide, arrossendo violentemente prima di poterselo impedire, - Sta’ zitto!
José scoppia a ridere, voltando le pagine del rapporto fino all’ultima ed apponendo in calce il proprio timbro e la firma.
- Non battibeccate come bambini. – dice quindi, rimproverandoli bonariamente.
- Stronzate a parte. – riprende Davide, tornando a guardare suo padre, - Non puoi ritenermi responsabile. Me l’hai consegnato, tralasciando di informarmi che era completamente sprovvisto di una anche minima istruzione teorica di base, e non mi hai neanche dato il tempo di conoscerlo, ci hai buttati per strada cinque minuti dopo averci consegnato l’incarico! Rifiuto qualsiasi conseguenza disciplinare collegata a questo evento.
José gli solleva gli occhi addosso, inarcando le sopracciglia. Richiude il report nella sua cartella e poi si solleva per inserirla nel grosso archivio metallico alle sue spalle.
- Il blob di via Sforza, aprile 2010. – dice, estraendo lentamente la propria chiave dalla tasca posteriore dei pantaloni dell’abito ed aprendo il cassetto giusto, scorrendo le pratiche fino a trovare il corretto posto per il report, - A causa di una tua distrazione, sei stato contaminato dall’SCP. Ricordi su chi è ricaduta la responsabilità del fatto?
Davide si irrigidisce, serrando le labbra. Mario aggrotta le sopracciglia, lanciandogli un’occhiata indagatrice, ma dal momento che nessuno aggiunge altro, evita di chiedere.
- Bene. – riprende quindi José, richiudendo il cassetto con un tonfo e poi voltandosi verso di loro e tendendo entrambe le mani, - Le vostre armi, prego.
- La mia è stata danneggiata. – confessa Davide in un borbottio, consegnando la propria.
- Lo vedo. – commenta José, esaminando la pistola ed il meccanismo di caricamento inceppato, - Il costo del pezzo di ricambio sarà addebitato sul tuo conto corrente e detratto dai prossimi stipendi in tre rate bimestrali. – lo informa, - Per quanto riguarda il resto, siete sospesi per una settimana, durante la quale dovrete sottoporvi alla consueta profilassi preventiva. Vi prego di presentarvi dal dottor Combi per iniziare la procedura quanto prima.
- Cosa?! – Davide si lascia sfuggire un gemito strozzato. Non c’è niente che odi al mondo più della profilassi post-contatto, niente, nemmeno suo padre.
- Non lasciarti ingannare dalla mia aria tranquilla, Davide. – risponde José, sollevandogli addosso uno sguardo severo, - Il casino che avete combinato mi costerà lunghe e tediose ore di spiegazioni al presidente, una fastidiosa ammissione di responsabilità di fronte al consiglio e, ultimo ma non ultimo, probabilmente un grande numero di vite umane quando la gravidanza di Mahalath sarà giunta al termine. Dal momento che tutte queste cose sono conseguenze che un tuo errore mi costringerà ad affrontare, farai il bravo bambino e la pianterai di lagnarti perché ti obbligo a sottoporti ad una procedura che sarebbe comunque uno standard nel tuo caso.
- Non è uno standard affatto! – insiste Davide, sbattendo il pugno sul tavolo, - Ti ho già spiegato che tutto questo non è una mia responsabilità, e comunque soltanto Mario è entrato in contatto con l’SCP, io non l’ho nemmeno sfiorato, non—
- Agente. – la voce con cui José interrompe il suo sproloquio è fredda, ferma come il ghiaccio. Non lo chiama per nome e questo, per qualche motivo, dà i brividi anche a Mario. – Presentatevi dal dottor Combi istantaneamente per cominciare la procedura. Dopodiché siete sospesi per una settimana. E se non vuoi che le settimane diventino due, ti converrà obbedire agli ordini all’istante.
Davide si irrigidisce istantaneamente, raddrizzando la schiena e serrando i pugni lungo i fianchi.
- Agli ordini. – risponde quindi, con una voce cavernosa che chissà da quale anfratto di quel corpicino da eterno adolescente sta tirando fuori. – Mario, vieni. – lo richiama, prima di voltarsi ed abbandonare l’ufficio.
Mario lo segue docilmente lungo i corridoi, avrebbe mille domande da fargli, ma si rende conto di non poterlo fare adesso. José li osserva andare via, in piedi dietro la propria scrivania, e sospira pesantemente. Lo aspettano un paio di giorni letteralmente infernali, per non parlare di quello che accadrà fra qualche mese. Sospirando ancora, ripone entrambe le pistole nel doppio fondo dell’ultimo cassetto della sua scrivania, premurandosi di chiuderlo a chiave prima di raccogliere le proprie cose nella valigetta portadocumenti, indossare il cappotto ed uscire.
Come al solito, è rimasto l’ultimo negli uffici. L’eco dei suoi passi rimbomba rumorosamente per i corridoi e all’ingresso, e poi ancora all’interno del garage, nel quale la sua Mercedes è rimasta l’ultima macchina parcheggiata. Sta per far scattare la serratura ed entrare quando una voce conosciuta lo raggiunge alle spalle e lo inchioda sul posto.
- Ti trovo bene. – dice Zlatan, appoggiato ad uno degli enormi pilastri di ferro che reggono la struttura.
José si volta a guardarlo, ravviandosi una ciocca di capelli brizzolati sulla fronte.
- Sei stato via appena un mese, stavolta. – commenta con un mezzo sorriso, - Dev’essere un record.
- Che posso dire, - ride Zlatan, scrollando le spalle prima di allontanarsi dal pilastro con una discreta spinta del bacino, - Mi mancava Milano. – conclude, avvicinandosi a lui.
- Lo immagino. – annuisce José. – Sai già dove andrai a dormire stanotte? – domanda.
- Non posso fermarmi. – scuote il capo Zlatan, - Blanc e Leo mi aspettano a Parigi in tarda serata.
- Davvero? – ribatte José, piccato. Non vuole darlo a vedere, ma la risposta lo delude. – Dunque? Che ci fai qui?
Zlatan gli offre un breve sorriso di scuse non richieste ma ugualmente necessarie, e si stringe nelle spalle.
- Torno adesso da una breve visita a Yolee, in quel di Istanbul. – dice, e José subito lo interrompe con una smorfia.
- Per piacere, - borbotta, - Non ci vediamo da un mese e torni per parlarmi dei deliri di una ridicola fattucchiera?
Zlatan ride, divertito.
- Ha avuto una crisi proprio mentre ero lì. – riprende, - Visioni.
- Non mi interessa. – José gli volta risolutamente le spalle, infilando la chiave nella serratura, - Il giorno che vorrò seguire le indicazioni di una veggente pazza, ne comprerò una a dieci centesimi sul mercato nero. Fino ad allora—
- Il diavolo canta, Zay. – lo interrompe Zlatan. La sua voce è seria e, quando José si volta a guardarlo, scopre che lo sono anche i suoi occhi. – Sarà padre, presto, e non sarà piacevole per nessuno che non sia lui. Ne sai qualcosa?
José deglutisce, cercando di mantenere la calma. È impossibile che la notizia della disavventura di Davide sia già giunta alle orecchie di Yolanthe. La visione dev’essere stata reale. Mahalath è incinta.
- Qualcosa, sì. – ammette con un sospiro, - Ma è tardi. Sono stanco. E non mi va di parlarne.
Zlatan annuisce, e sulle sue labbra torna ad aprirsi un mezzo sorriso. I suoi lineamenti spigolosi si illuminano tutti assieme all’improvviso.
- Può aspettare. – dice quindi, avvicinandosi di un altro passo, - Non ci siamo ancora salutati per bene.
José schiude le labbra per ribattere, ma non ha il tempo di farlo. Si ritrova schiacciato contro la portiere della macchina pochi secondi dopo, la bocca di Zlatan premuta contro la sua, il suo sapore familiare e nostalgico sulla lingua, e decide che possono aspettare anche le battute e le proteste.

continua

Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Andrea/Dejan.
Rating: NC-17.
AVVISI: Slash, Lemon, PWP.
- Un uomo adulto deve sapere affrontare le proprie paure, anche se farlo comporta compiere azioni che possono cambiare irrimediabilmente il corso della propria vita.
Note: Prima di tutto, buon anniversario al mio sposo ♥ Deffolo, ti amo tantissimo e sono ogni giorno più felice di averti come regale consorte mentre, unitamente a mio fratello - nonché colei che ci ha unito in matrimonio, perché noi facciamo tutto in famiglia -, ruleggiamo sulla nostra ricca e bella landa ♥ Questa è tutta tua perché è la prima coppia che ci prende entrambi benissimo allo stesso modo dopo anni, e dimmi se non sono miracoli che vadano celebrati XD Also, tu sai quanto importante fosse per me scrivere di questi due, per cui :3
Inoltre, come da tradizione, la fic è anche un fill per il P0rn Fest #6, su prompt (RPF CALCIO, Andrea Stramaccioni/Dejan Stankovic, "You need a shape for your fear / that's why you're here / escapeless dreams / I keep climbing off the floor, lay down beside me / They've been knocking at your door, lay down beside me." ("They gave you a heart, they gave you a name", Ladytron)) gentilmente fornito dallo stesso Def XD #nonfarsimancareniente
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
A SHAPE FOR YOUR FEAR

You need a shape for your fear
That’s why you’re here
Escapeless dreams
I keep climbing off the floor, lay down beside me
They’ve been knocking at your door, lay down beside me

Dejan sa già che è lui, prima ancora di vederlo. E sa già che cosa vuole prima ancora di sentirglielo dire. Apre la porta e lo fissa senza pudore, la linea netta delle labbra sottili dà alla sua espressione un'indecifrabilità di fondo che Andrea riesce a sostenere solo a stento, e dalla quale i suoi occhi sono costretti a rifuggire presto, schiacciati sotto il peso di quelli di Dejan che, dal rettangolo luminoso della porta di camera propria, guarda i contorni del suo corpo sbiadirsi nell'oscurità del corridoio silenzioso e vuoto del dormitorio.
Le labbra di Dejan si piegano finalmente nel sorriso sereno e indulgente che Andrea è decisamente più abituato a vedergli addosso, e solo in quel momento l'uomo si lascia libero di rilassarsi un po', sciogliere le spalle, emettere un sospiro tremulo e, alla fine, sollevare nuovamente lo sguardo su di lui. Gli lancia un'occhiata colpevole, ma il sorriso di Dejan si addolcisce ancora, ed assieme agli angoli della sua bocca si solleva anche parte di quel senso di colpa.
- Entra, dai. - dice finalmente, scostandosi dall'uscio quel tanto che basta per farlo passare ma non a sufficienza da mettere davvero distanza fra i loro corpi quando Andrea, per entrare in camera, ha bisogno di scivolare il più discretamente possibile fra lo stipite ed il corpo di Dejan, che quasi si preme tutto contro il suo al passaggio. - Cristi mi ha lasciato camera libera. - dice quindi, chiudendogli la porta alle spalle e facendogli strada all'interno.
Andrea si volta a guardarlo, gli occhi pieni di smarrimento e sorpresa.
- Sapevi che sarei venuto? - domanda quasi senza fiato. Dejan lo guarda come se la sua domanda non meritasse nemmeno una risposta, ma ancora una volta il suo sguardo ed il suo sorriso si addolciscono quando decide di dargliela comunque.
- Sei come un libro aperto, mister. - dice, ed Andrea abbassa nuovamente lo sguardo, imbarazzato.
Sa che è vero. Sa di esserlo, e non solo per Dejan. Sente le risatine dei ragazzi in campo quando si avvicina cercando di non farsi notare, le sente affievolirsi e poi sparire quando invece finisce come ogni volta per farsi vedere, sa che, se non ha ancora perso il controllo dell'intero spogliatoio, è solo perché sta simpatico a tutti, perché lo guardano tutti con una certa indulgenza, perché in fin dei conti possono capirlo, perché ehi, mister, ci siamo passati tutti, come gli ha detto Antonio già praticamente meno di una settimana dopo il suo arrivo.
Ci sono passati tutti, sì, perché Deki è un po' così. Non lo fa mica apposta. E' qualcosa nei suoi occhi, nell'odore della sua pelle, nelle sue mani, nel suo corpo, nel modo in cui si muove. C'è qualcosa di inesplicabile che porta sempre la stessa conseguenza in chiunque lo guardi, anche solo una volta, anche solo di sfuggita.
Ci sono passati tutti, ed Andrea è solo l'ultimo della lunga serie di vittime di un assassino incolpevole, anche se niente affatto inconsapevole.
- Rilassati. - dice Dejan. Andrea solleva lo sguardo e se lo ritrova vicino, vicinissimo, troppo per potere ancora respirare liberamente senza finire giocoforza con l'inalare anche quelle microscopiche particelle di veleno tossico che è il suo profumo.
L'aria intorno a lui sa di Deki, e non sa più distinguere se sia davvero così o se sia solo il suo corpo ad avere ormai interiorizzato quell'odore così tanto da sentirlo anche quando non c'è proprio come se ci fosse davvero.
- Scusami. - dice Andrea, indietreggiando istintivamente di un passo, - Scusa, davvero, io non so a che pensavo. Non dovrei essere qui. Non--
Dejan gli stringe entrambe le mani attorno ai polsi, impedendogli di arretrare ancora. Andrea solleva un'altra volta gli occhi nei suoi e sente la propria capacità di giudizio appannarsi.
Ci siamo passati tutti, si ripete. E' un mantra rassicurante, quasi una giustificazione. Ci siamo passati tutti, perché dovrei rifiutarmi proprio io?
- E' tutto a posto. - sussurra Dejan, accorciando la distanza fra i loro corpi. E' tutto profumo e calore. Ogni molecola d'aria ripete il nome di Dejan con tanta forza da far sembrare che l'ossigeno stesso dentro il corpo di Andrea stia urlando per una dose. Percepisce il proprio corpo entrare in risonanza con quello di Dejan, vibrare di voglia. Emette un richiamo senza suono e senza odore, un richiamo invisibile che Dejan afferra al volo come solo lui sa fare.
Una volta, alla fine di un allenamento particolarmente lungo per i ragazzi e particolarmente spossante per Andrea - tenere gli occhi ad una distanza congrua dal corpo di Dejan, ogni volta, comporta un dispendio di energie fisiche e mentali che riducono Andrea quasi sulle ginocchia molto più di qualsiasi quantità di giri di corsa attorno al campetto possano fare con i giocatori -, Esteban gli si è avvicinato e, vedendolo cupo e infastidito, gli ha battuto un paio di pacche amichevoli su una spalla, sforzandosi di sorridergli in maniera convincente.
"So che è dura," gli ha detto, "Ma non devi preoccuparti. Nessuno te ne fa una colpa."
Nessuno tranne me stesso, pensa adesso lui, mentre le mani di Dejan scorrono veloci sotto i vestiti e sulla sua pelle, facendolo rabbrividire di paura e piacere.
Non dovrebbe volerlo quanto lo vuole. Non avrebbe mai dovuto diventare un sentimento così ingombrante, così doloroso. Se non guardarlo è difficile, guardarlo diventa ogni giorno sempre più impossibile. Ogni volta che gli posa gli occhi addosso, la voglia monta ed il senso di colpa cresce in maniera direttamente proporzionale. Trainato contemporaneamente da entrambe le forze in due direzioni diametralmente opposto, Andrea ogni tanto ha l'impressione di scricchiolare sotto quella pressione. Di sentire piccoli strappi aprirsi a forza dentro di lui. Prova a ricucirli ogni volta che si ritrova solo. Prova a pensare che in fondo non lo vuole davvero così tanto, prova a pensare che forse sì, lo vuole tanto davvero, ma magari è una cosa passeggera, magari se resiste a quell'assalto involontario abbastanza a lungo da corazzarsi contro ogni attacco, forse alla fine la sua presenza non gli farà più quest'effetto, ed andrà meglio.
I punti non tengono mai abbastanza a lungo da presentarsi di fronte a lui con uno stato d'animo calmo e compassato, però. Ogni giorno, gli occhi di Dejan scavano ferite profonde sulla sua pelle, e nel tentativo - costantemente fallito - di non mostrare a nessuno il sangue che gocciola dai tagli, Andrea trascura l'emorragia interna che lo sta lentamente dissanguando.
Le labbra di Deki, quando si posano sulle sue, hanno il sapore e l'effetto di una panacea. Tutto il suo corpo sembra rinascere, la voglia fino a quel momento compressa in un angolo perché ingombrasse lo spazio minore possibile viene finalmente soddisfatta, si libera in brividi carichi di piacere che scivolano sulla superficie della sua pelle, giocando a rincorrersi mentre si arrampicano lungo la sua spina dorsale. Andrea geme di gola, abbandonandosi alle sue mani senza più pensare a niente. Lascia che le dita di Dejan frughino dentro di lui, scacciando via ogni ombra di senso di colpa, ogni ombra di raziocinio, se necessario. Riflettere non serve più a niente, non mentre il piacere prende il posto di qualsiasi altra sensazione e si fa totalizzante, al punto da diventare l'unica cosa che il suo corpo sia più in grado di percepire.
Dejan lo guida verso il proprio letto un bacio dopo l'altro. Andrea si lascia andare sul materasso morbido, fra le lenzuola fresche di bucato. Schiude le gambe per lui e Dejan si sistema sul suo corpo per non pesargli troppo addosso, aiutandolo a sistemarsi nella posizione più comoda. Quando si accorge che Andrea sta ancora provando a fuggire il suo sguardo, gli afferra il mento fra le dita, riportando i suoi occhi nei propri e riservando a quel gesto l'unico scatto nervoso nei suoi confronti.
- Non farmi perdere la pazienza. - gli dice, la voce bassa, cupa, che rimbomba nelle orecchie di Andrea come una minaccia di fronte alla quale lui ha tutte le intenzioni di arrendersi.
E' più facile del previsto, forse perché l'ha desiderato così tanto e così a lungo. L'attesa, l'incertezza e la paura hanno ingigantito ogni cosa nelle fantasie di Andrea, ma la realtà, come sempre, lo stupisce con la sua linearità, la sua perfetta semplicità.
- Tu pensi troppo. - gli sussurra con un sorriso Dejan, una scia di baci umidi che si arrampicano svelti lungo il profilo squadrato della sua mandibola, fin sotto l'orecchio, il cui lobo trattiene fra i denti in una tortura apparentemente infinita che solo il passaggio della sua lingua sopra i segni arrossati che da quella tortura derivano può lenire.
Andrea lo sente farsi strada dentro il proprio corpo, sente il proprio corpo aprirsi al suo passaggio, fa malissimo ed in qualche modo, allo stesso tempo, è splendido. Questo dolore, pensa con un sorriso assente, è anche piacere, perché lo voglio con la stessa intensità.
Ne insegue le onde una dopo l'altra, fino a venire fra le sue carezze. Poi chiude gli occhi ed aspetta, ogni singola spinta con la quale anche Dejan insegue il proprio orgasmo spande in lui brividi sempre più profondi, e quando alla fine Andrea lo sente fermarsi all'improvviso, trattenere il respiro e poi lasciarsi andare sopra di lui con un sospiro soddisfatto, si dispiace quasi che sia già tutto finito, e che probabilmente non si ripeterà mai più.
Dejan traccia distratto disegni privi di senso sulla sua pelle illuminata da una patina di sudore, ed Andrea solleva una mano e la passa fra i suoi capelli corti in un gesto meccanico che lo fa sorridere.
- Mi hai fatto aspettare troppo a lungo. - gli dice Dejan, e poi aggiunge: - Non farlo mai più.
Andrea trattiene il respiro e spalanca gli occhi. Scruta il soffitto buio, incapace di formulare un pensiero coerente che sia uno mentre sente le labbra di Dejan piegarsi in un sorriso divertito contro la pelle ancora troppo sensibile del suo collo.
Sorride a propria volta solo quando si rende conto che il senso di colpa è ormai del tutto sparito.
Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: José/Zlatan, Pep/Zlatan.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, What If?, Slash, Death.
- Una telefonata nel cuore della notte, una vita che cambia per sempre. O forse più di una sola, forse la sua e tutte quelle ad essa connesse, perché ad ogni azione corrisponde una reazione, anche se l'azione non era nemmeno voluta. E questo José lo sa bene.
Note: Mentre compilavo lo schema di questa storia, più precisamente la voce sul pairing, mi sono sentita un attimino in imbarazzo, perché per quanto sia vero che due rapporti romantici si pongono alla base di quello che racconto, in realtà questa non è una storia romantica. E' una storia che in realtà non parla neanche di rapporti, o meglio, non completamente. E' una storia che parla di assenze, principalmente, di come ognuno possa reagire diversamente di fronte allo stesso tipo di perdita, di come, addirittura, la stessa perdita possa essere diversa in sé in relazione a coloro che ne subiscono gli effetti.
Sostanzialmente, lasciando da parte i seriosismi e i filosofeggiamenti, è una storia pesa, pesa e triste, ma io sono contenta di averla scritta, di essermi da lei lasciata trascinare, in un certo senso, fin quasi a provare fastidio all'idea di riprenderla in mano, o di scavare più a fondo.
Grazie al Def ed alla sua splendida coverart per averla portata alla luce. Ironicamente, sono convinta che, da qualche parte, questa storia già esistesse. Andava solo riesumata. *ride*
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HEARTS GONE ASTRAY

La telefonata arriva in piena notte. José ci ripenserà spesso, negli anni a venire, non smetterà mai davvero di pensarci. Perché è un momento quasi filmico, una di quelle situazioni surreali che nella vita vera non si verificano mai – o almeno così credi, naturalmente finché non ti capitano – ma delle quali la cinematografia, specie quella scadente, è costellata. La telefonata che arriva in piena notte. Quella che annuncia “c’è stato un incidente”. E chiunque parla, dall’altro lato della cornetta, lo fa con la voce rotta e sembra non riuscire mai ad arrivare al punto, come stesse rimandando coscientemente il momento in cui ti dirà il vero motivo per cui ha chiamato.
Nel suo caso, è Pep, il che rende la situazione ancora più assurda, perché non lo sente al telefono da sei mesi, almeno. La sua voce suona strana, irreale, tanto che in un primo momento José si chiede se sia sveglio davvero. Magari è un sogno, si dice. Perché mai Pep dovrebbe chiamarmi a quest’ora?
- C’è stato un incidente. – dice, e la sua voce è proprio come dovrebbe essere, incerta, spezzata dai singhiozzi, disperata. José si solleva a sedere. Accende la luce. Tami, accanto a lui, mugola infastidita e poi si volta su un fianco, scrutandolo attraverso il velo di sonno che ancora le annebbia la vista.
- Che succede…? – domanda, mettendosi a sedere a propria volta. José non risponde. Guarda dritto davanti a sé.
- Zay, sei lì? – chiede Pep, incerto, ed a José si ghiaccia il sangue nelle vene, perché quel soprannome riporta alla memoria troppe cose, ed in questo momento sembra troppo fuori luogo. Troppo strano, per non farlo pensare immediatamente a Zlatan, e mentre una parte del suo cervello si chiede per quale motivo dovrebbe pensare a lui proprio in questo momento, l’altra parte conosce già la risposta a questa domanda, e per questo tace.
- Sono qui. – dice, la voce rauca di sonno che gratta lungo le pareti della gola, faticando a venire fuori chiara come José avrebbe preferito. Non vuole mostrarsi debole. Non adesso, non con Pep. Ma è tutto orgoglio che in pochi secondi non gli sarà più di alcun aiuto.
- C’è stato un incidente. – riprende lui. Parla lentamente, nervosamente. José riesce solo a pensare “dillo. Dillo e basta”. – È Zlatan, Zay. È… è stato un incidente grave. Dovresti—
José non lo lascia finire. Interrompe la chiamata, e lo fa muovendosi lentamente, con pazienza. Ha tempo. Posa la cornetta, si piega oltre il comodino, stacca la presa dal muro. Poi si alza in piedi, dice a Tami di non preoccuparsi e tornare a dormire ed esce dalla stanza. Stacca ogni presa di ogni telefono che incontra sul proprio cammino. Con calma. Ha tempo. Si muove lentamente, raggiunge il salotto. Il suo cellulare è lì, poggiato sul tavolino da caffè. Lo spegne. Con calma. Ha tempo.
Si siede sul divano, davanti alla televisione. Recupera il telecomando e la accende. Con calma. Ha tutto il tempo del mondo perché non può succedere nient’altro, ormai. È tutto già finito. Prima ancora che lui potesse vederlo cominciare, è già finito.
Mentre fissa senza vederle realmente le immagini che scorrono sullo schermo del televisore – niente di particolarmente eclatanti: i due giornalisti di turno al notiziario di Sky Sport 24, i loro volti contratti, tesi in un’espressione grave e sinceramente sconvolta, la metà inferiore dello schermo sulla quale scorrono una dopo l’altra le varie notizie della giornata, in piccolo, così che quella più recente possa continuare a dominare lo schermo dal rettangolo rosso vivo che la mette in evidenza, il quadratino in alto a sinistra dal quale un giornalista infreddolito e stanco, avvolto in un cappotto che sembra non tenerlo per niente al caldo, stringendo convulsamente il microfono vicino alle labbra e sistemandosi continuamente gli occhiali sul naso in un gesto nervoso, continua a ripetere come in una cantilena “come potete vedere… l’incidente… l’uomo che l’ha causato è illeso… i rottami… le autorità… i soccorsi… l’ambulanza… non respirava già più” – mentre sta lì seduto sul divano e stringe il telecomando fra le dita come volesse strozzarlo, arriva la prima ondata di rabbia. Lo stronzo è morto sul colpo, il fottuto bastardo. La testa di cazzo che non è— che non era altro, è morto sul colpo, il maledetto figlio di puttana. Senza lasciargli neanche una speranza, senza nemmeno lasciargli la possibilità di accorrere al suo dannatissimo capezzale e piangere fino a sfinirsi stringendogli una mano e implorandolo di svegliarsi perché aveva promesso che sarebbe morto per lui, ma questo no, così no, questo non è morire per qualcosa, neanche per qualcuno, tantomeno per lui. Questa è una morte inutile, una morte del cazzo, una morte assurda, e lui non può accettarla.
- Zay?
La voce di Tami scivola dolce e sottile tra le pieghe della sua confusione mentale, si sovrappone alla immagini sullo schermo, le ricopre di una patina di irrealtà. José si volta a guardarla, e scopre che sembra sbiadita anche lei.
No, è lui che sta piangendo.
- Dio mio…
José si lascia abbracciare senza opporre alcuna resistenza. Lei se lo stringe contro, gli accarezza i capelli, gli sussurra di calmarsi, ma José singhiozza tanto forte da scuotere anche il corpo di sua moglie assieme al proprio. Lei non se ne lamenta, non si lamenta nemmeno della mani che le si chiudono attorno alla vita con violenza, con l’unico scopo di aggrapparsi disperatamente all’unica cosa viva che gli sia rimasta intorno. Lo lascia sfogare per tutto il tempo che gli serve, e José non sa nemmeno perché sta piangendo così.
Forse perché fa un male fottuto. La spiegazione semplice. Fa un male fottuto del cazzo, fa un male insopportabile, il solo pensiero che Zlatan non ci sia più gli lascia dentro un buco, un cratere, una voragine, un universo di vuoto, e José non sa gestirlo, perché fa troppo male. Non è un dolore che si sente in grado di tenere alla larga, è troppo invasivo, troppo totalizzante, troppo permanente.
È terrorizzato dalla consapevolezza senza speranza che questo dolore non andrà più via. Mai più. Dovrà imparare a vivere con la certezza che non imparerà mai a conviverci. Sarà come tenersi dentro per sempre un frammento di dolore fisico, impossibile da espellere, che non farà altro che scivolare assieme al sangue all’interno del suo apparato circolatorio. Un giorno, raggiungerà il cuore, e lo ucciderà, ed allora José potrà dire di essere morto per Zlatan, anche se lui non l’aveva mai promesso.
*
Tami lo convince a provare a dormire, almeno un po’. Lui si rifiuta di tornare a letto, però, perciò si raggomitola sul divano, la testa appoggiata sulle ginocchia di sua moglie, e si lascia accudire come fosse un bambino ammalato. Tami lo avvolge in una coperta di lana e passa tutto il resto della notte seduta ad accarezzargli i capelli, le tempie e il viso, nel tentativo di calmarlo. José ha gli occhi sbarrati, dormire non è un’opzione, sente il nervosismo montare sottopelle ma non vuole dire a Tami di lasciarlo andare, perciò rimane lì, in bilico fra la voglia di scoppiare a piangere e quella di mettersi a urlare istericamente, finché la luce del sole all’alba non comincia a riflettersi fastidiosamente sullo schermo ancora acceso del televisore. I giornalisti dietro al tavolo sono cambiati, ma la notizia scritta a caratteri cubitali in bianco su sfondo rosso è sempre la stessa. Incidente automobilistico. Zlatan è morto sul colpo. I soccorsi non sono serviti a nient’altro che a constatare il decesso.
Si alza in piedi alle sei meno un quarto. Da qualche parte nel corso della notte, Tami si è addormentata di nuovo. José la osserva, la testa elegantemente ripiegata sul petto, i lunghi capelli che le scivolano sulla fronte, lungo le guance, sul collo, incorniciandole il viso. È così bella. Gli piacerebbe riuscire a trovare in questo anche solo un minimo di consolazione. Ma non è abbastanza, non adesso. Non ancora, almeno.
Si passa una mano sul viso, cercando di scuotersi di dosso un po’ di stanchezza. Gli bruciano insopportabilmente gli occhi.
Va in bagno, si lava sommariamente, poi entra in camera e si cambia. Recupera un borsone dall’armadio, lo riempie di vestiti e biancheria pulita alla rinfusa, poi torna in salotto. Tami sta ancora dormendo. Le lascia un biglietto sul tavolino da caffè, le dice di non preoccuparsi, che la chiamerà più tardi, che deve andare a Barcellona, deve essere lì, deve esserci per Zlatan, deve farlo per forza, poi strappa via il foglio e ricomincia. Le ripete di non preoccuparsi. Che la chiamerà più tardi. Che deve andare a Barcellona. Che le spiegherà tutto. Le ultime parole le cancella. Strappa di nuovo il foglio e riscrive solo fino a “devo andare a Barcellona”. Poi aggiunge di salutargli i bambini appena si svegliano, di dire loro che papà tornerà presto. Uscendo di casa, pensa di buttare i fogli strappati nel cestino dell’immondizia, ma poi cambia idea. Li infila in tasca, li porta con sé, li butta nel primo cassonetto disponibile per strada.
Poi prende un taxi. Si fa portare in aeroporto, prende un posto sul primo volo disponibile per Barcellona. Deve attendere un paio d’ore. La ragazza al banco del check-in lo riconosce, gli dice “abbiamo una saletta privata, se preferisce aspettare lì”. José annuisce perché non ha nessuna voglia di essere assalito da chiunque possa vederlo lì.
La ragazza lo accompagna personalmente. La saletta privata è una piccola sala d’aspetto dall’aria elegante e pulita, le pareti bianche, le sedie dall’aspetto curato, praticamente nuovo. Sono nere e lucide, hanno l’aria di essere la cosa più scomoda mai concepita da mente umana.
All’interno della saletta ci sono un altro paio di persone, uomini d’affari, si direbbe, o qualcos’altro di ugualmente noioso. Nascosti dietro agli schermi dei propri tablet ed all’interno del loro involucro di cotone firmato Armani, restano appollaiati sulle loro sedie come se il mondo non fosse appena giunto al proprio capolinea. José si sente come l’unico protettore di questo terribile segreto: il mondo è già finito, ma nessuno se n’è ancora accorto. Si aspetta quasi di cominciare a vedere la realtà ridursi in pezzi sotto i suoi stessi occhi da un minuto all’altro.
È molto deludente quando, calmandosi un po’, capisce che non avverrà.
Le due ore passano in fretta, più in fretta di quanto non avrebbe mai pensato possibile. Non gli è mai capitato di veder scorrere i minuti con una tale furia, in realtà è sempre successo semmai il contrario: ogni volta che, per qualche motivo, ha desiderato che il tempo scorresse più in fretta, quello non faceva che rallentare.
Suppone che stavolta il punto fosse proprio che lui avrebbe preferito non vederlo passare mai.
Si concede di rilassarsi un po’ solo quando l’aereo prende quota. Chiede un tè all’hostess che passa fra le file di sedili, lo sorseggia solo fino a metà. Non sa di niente. È acqua sporca. Prova ad aggiungere un altro po’ di zucchero, ma resta acqua sporca. Un po’ più dolce, forse. Non abbastanza da costringersi a finire di mandarla giù.
Si accomoda meglio contro lo schienale al proprio posto, fissa fuori dall’oblò per un paio di minuti. Nient’altro che cielo e nuvole. Il sole picchia forte, adesso, costringendolo a socchiudere gli occhi. Ha le palpebre pesanti, ora che i nervi gli si distendono comincia a sentirsi stanco, assonnato. Si lascia andare, e nel sogno è in macchina con Zlatan. Forse è un ricordo, forse no. Zlatan sembra corrucciato, forse perfino offeso. “Non dovresti essere qui,” gli dice. José vorrebbe parlare ma non ci riesce. Zlatan guida piano, l’autostrada sulla quale la sua macchina sportiva viaggia sembra sistemata in un punto a caso di un universo immaginario in cui non c’è nulla a parte quella sottile striscia di asfalto che si prolunga oltre l’orizzonte in una linea retta sempre uguale. Non c’è niente a sinistra, né a destra. Solo terra bruciata dal sole.
Se è un posto che José ha visto, da qualche parte nel corso della propria vita, adesso non lo riconosce.
Zlatan continua a guidare, fissando dritto di fronte a sé. José prova ancora a dire qualcosa, ma è come se avesse le labbra incollate l’una all’altra.
“Lascia stare,” sospira Zlatan, “Perché non te ne vai?”
José vorrebbe rispondere “perché voglio stare qui. Perché voglio stare con te”, ma le sue labbra semplicemente non rispondono ai suoi comandi.
Poi, lo schianto.
José apre gli occhi, e sta piangendo silenziosamente. Fortunatamente, nessuno se n’è accorto. Si passa le mani sugli occhi frettolosamente, scacciando via le lacrime dalle guance. Si schiarisce la gola, sistemandosi più compostamente sul sedile.
Non ci sono nuvole, sopra Barcellona.
*
Pep ha un’aria distrutta. È la prima cosa che lo colpisce, anche con una certa violenza, nel momento in cui gli posa gli occhi addosso in mezzo alla folla assiepata dietro le transenne oltre la porta scorrevole agli arrivi. Lo riconosce subito. No, non è questo. Non è riconoscerlo, è naturale che l’abbia riconosciuto. Lo individua subito, questo sì è più strano, come se improvvisamente non ci fosse nient’altro da guardare, no, nemmeno, come se tutto il resto ci fosse, ma si mescolasse in una massa indistinte di forme e colori, e Pep fosse l’unica cosa chiara, quella che i suoi occhi riescono a mettere a fuoco più facilmente.
Ma non è una bella vista, perché Pep è stanco, provato, ha gli occhi di uno che si sia ritrovato controvoglia in una tragica condizione di esistenza quando tutto ciò che avrebbe voluto chiedere alla vita fosse la gentilezza di lasciarlo scomparire in modo discreto, silenzioso, indolore.
Per un attimo, viene investito da un’ondata di rabbia senza confini. È facile, pensa digrignando i denti oltre la barriera impenetrabile di labbra serrate prive di espressione, è facile lasciarsi devastare così dalla morte. Uscire per strada con la camicia scomposta, senza cravatta, gli occhi tanto rossi da costringere gli altri a distogliere lo sguardo come quando ci si ritrova per sbaglio ad essere presenti in un momento privato o imbarazzante, e per qualche motivo non si può andare via.
Ricomponiti, vorrebbe dirgli, ma poi, così com’è arrivata, l’ondata di rabbia scompare, ritirandosi con la marea. Alla fine, quella di Pep è una scelta. Ha scelto di lasciarsi calpestare. Non c’è colpa, in questo, probabilmente non c’è neanche debolezza, solo molto dolore. Al dolore, José lo sa, ognuno reagisce in maniera diversa. Ed è una materia troppo privata per rimproverare qualcuno solo perché il modo con cui lo affronta non è coraggioso, o deciso, o orgoglioso quanto il proprio.
Non sa cosa dirgli, quindi, quando si ritrova di fronte a lui in mezzo a una folla di persone vocianti e rumorose che potrebbero anche averli riconosciuti, dal modo in cui si dispongono a cerchio intorno a loro, come se non fossero sicuri se sia proprio il caso di disturbarli ma al contempo volessero restare in attenta osservazione di ciò che accade per essere pronti a saltar loro addosso nel caso l’occasione propensa dovesse presentarsi.
- Mi dispiace. – scolla a fatica, imbarazzato dalla propria stessa impreparazione.
Pep sembra non sentirlo nemmeno. Lo guarda, solleva le braccia, le avvolge attorno al suo corpo e se lo stringe contro, abbracciandolo disperatamente. José lo sente scoppiare a piangere e solleva solo un braccio, battendoglielo lievemente contro la schiena nel tentativo di consolarlo, in qualche modo. Si sente molto a disagio, inadeguato. Non riesce a percepire il dolore di Pep. Ne percepisce troppo del proprio.
Pep piange a lungo, minuti interi, e José lo ascolta mentre, intorno a loro, la vita dell’aeroporto riprende a scorrere, tornando ad ignorarli. Vorrebbe essere altrove. Per la prima volta da quando è partito da Milano, non è più tanto sicuro di voler davvero fare tutto questo. Di essere pronto, o anche solo di averne voglia. Di stare qui a cercare di consolare Pep per una perdita che non concepisce – Zlatan non è più suo da mesi, ormai, ma se José non è ancora stato in grado di accettare nemmeno questo, come potrebbe mai fare spazio nella propria mente già sufficientemente incasinata per accettare che, ormai da chissà quanto, era Pep a considerarlo proprio? E che è Pep, adesso, ad avere più diritto di piangere, se una cosa del genere esiste? – di stare qui in attesa di vedere il corpo, di stare qui in attesa del funerale, di stare qui in attesa di cosa? Che smetta di fare così male, probabilmente. Come se fosse possibile.
- Ti accompagno in albergo. – dice Pep, dopo essere riuscito a calmarsi almeno un po’. Gli tremano insopportabilmente le mani. Si regge a stento in piedi. José non ha voglia di vederlo così, probabilmente non ha voglia di vederlo affatto.
- Posso prendere un taxi. – offre, - Tu dovresti riposarti. Hai dormito, stanotte?
Pep scuote il capo.
- Ecco. – riprende José, quasi severamente, - Allora vai a casa e dormi.
Pep scuote il capo un’altra volta.
- Mi fa piacere accompagnarti. – insiste, - Lascia che ti accompagni.
José sospira, si guarda intorno, si passa una mano sulla nuca. È stanco, non gli va di litigare.
- D’accordo, - concede, tendendo il palmo della mano aperta, - ma guido io. Tu non sei in condizioni.
Pep sembra offeso, per un secondo, ma gli passa presto. Non ha forza abbastanza neanche per tenere aggrottate le sopracciglia.
Annuisce e gli porge le chiavi. José le stringe fra le dita e si concentra sul metallo gelido e appuntito che preme dolorosamente contro la sua pelle. Un dolore che può gestire. Può allentare la presa quando lo sente farsi troppo acuto, stringerla ancora quando lo sente sbiadire via. Un dolore necessario.
Il viaggio in macchina è silenzioso, almeno fino a quando Pep non decide di rovinarlo. José si era già comodamente sistemato fra le pieghe di quel silenzio duro, ostinato e innaturale, quando Pep schiude le labbra e si schiarisce la voce, e José prega fra sé che quest’idiota sia saggio abbastanza da cambiare idea e tacere, ma naturalmente non è così che va.
- È stata colpa mia. – dice a bassa voce. E José vorrebbe rispondere “sì”. Vorrebbe rispondere “sì, cazzo, lui era tuo e tu eri responsabile per la sua vita”. Ma non parla. – Non ero con lui, quando è successo. Ero a cena con la mia famiglia e lui è uscito per conto suo, e forse se fossi stato con lui sarebbe stato diverso.
“Sì,” pensa José, “sì, lo sarebbe stato. Magari saresti morto tu, al suo posto.”
- Non dire idiozie. – dice invece, severo, - L’unica cosa che sarebbe cambiata è che adesso sareste morti in due. Non è un pensiero consolante.
Pep abbassa lo sguardo, fissando un punto imprecisato di fronte a sé, e poi scuote il capo. Fortunatamente, non parla più.
In albergo, gli chiede se vuole che resti un po’ con lui. La prima cosa che José sente il bisogno di fare è spingerlo fuori dalla porta e dirgli di non farsi più vedere, ma riesce a mantenere su se stesso un controllo sufficiente a lasciare perdere.
- Preferisco restare un po’ da solo. – dice. Pep, stavolta, annuisce senza insistere.
- Verrò a prenderti più tardi. – dice, - Per… be’, è stata organizzata una veglia qui, prima del rimpatrio. I funerali sono in Svezia.
José annuisce. Deve parlare con Helena. Deve prenotare un volo. Deve restare solo.
- D’accordo, - dice, - a più tardi.
Non aspetta neanche che Pep abbia finito di salutarlo, prima di chiudere la porta e girare la chiave nella serratura.
*
Resta in quella camera d’albergo per ore. Pensa di chiamare Helena al cellulare, ma si rende conto da sé di quanto inopportuna sarebbe una cosa del genere. D’altronde, la vedrà alla veglia, per cui può aspettare. Chiama Tami, invece, e rispondendo al telefono lei scoppia a piangere. “Sei un bastardo,” gli dice, “hai idea della paura che mi hai fatto prendere?”. José la lascia sfogare, si scusa, dice “devi capire, Tami”. Non le spiega cosa, però, e lei non capisce, ma lui si scusa ancora e lei può vivere senza sapere.
La rassicura, le dice che tornerà a casa in un paio di giorni al massimo, le dice “salutami i bambini”, lei lo manda a quel paese un’altra volta, prima di interrompere la conversazione. José non sa come farà ad uscire da questo casino con Tami. Non può dirle quello che è successo, non può dirle cosa è stato Zlatan per lui, perché quello che lui è stato è ciò che lei sola avrebbe dovuto essere per sempre, e sapere di non essere stata la sola le spezzerebbe il cuore, e questo lui a Tami non può farlo. Non può farlo nemmeno a se stesso.
Ammettere gli errori non è mai stato il suo forte, preferisce correre dritto per la sua strada, coi paraocchi e i tappi nelle orecchie, passando sopra a qualsiasi ostacolo. È sempre stato convinto che il calcolo degli sbagli si potesse fare solo a partita finita, solo a fronte del risultato finale. Cosa sono un paio di errori se alla fine la vittoria è stata comunque guadagnata?
Solo che qua non c’è niente da vincere. Ma in realtà neanche niente da perdere. Ammettere di aver sbagliato ad innamorarsi di Zlatan – o forse solo ad andare a letto con lui, perché non può esserci niente di sbagliato nell’amare qualcuno di per sé – sarebbe irrilevante, in qualsiasi senso.
Rimane a fissare il telefono, per un po’. Sente il segnale sordo e regolare della linea libera, attutito dalla cornetta e dalla distanza fra l’altoparlante e le sue orecchie, e ripensa a ieri notte, alla voce di Pep, a quanto suonasse nervosa e disperata e spaventosamente distante, come facente parte di un mondo a sé, un mondo diverso dal suo, ripensa a quanto gli sia sembrato finto quel momento, surreale nella sua assurdità, e poi pensa che fra un paio d’ore sarà di fronte al cadavere di Zlatan, e la realtà lo colpisce in pieno viso con una violenza così priva di pietà, o riguardo, o rispetto, che José sente il bisogno di essere altrettanto violento nei suoi confronti, e lancia il telefono per terra, si piega su se stesso e si copre il viso con entrambe le mani, scoppiando a piangere come un bambino.
Dura solo una decina di minuti, è il massimo che può concedersi prima di cominciare a sentirsi ridicolo, fuori luogo. Zlatan ha una compagna e due figli che sono appena rimasti soli. Sono gli unici ad avere un qualche diritto di sentirsi persi e senza speranza. José vuole calmarsi anche per loro, essere d’aiuto, in qualche modo. Non ha idea del perché si senta così, adesso, come se dovesse sentirsi in colpa nei loro confronti e fosse finito a sentirsi in colpa perché non ci si sente per davvero. Ha solo voglia di risolvere le cose, di rimettere tutto a posto, e sapere di non potere lo fa sentire senza fiato.
C’è qualcosa di soffocante nell’irreversibilità della morte. Lo stringe alla gola, lo costringe a guardarsi nello specchio appeso alla parete di fronte a lui, e realizzare che è lì che non c’è niente, niente che lui possa fare per fermare questo dolore, adesso. È già tutto finito, e Zlatan non gli ha lasciato nemmeno il tempo di provare a fermare il disastro prima che si verificasse.
Come d’altronde non ha mai fatto.
*
La prima volta che si sono baciati, José s’è ritrovato schiacciato di prepotenza contro una parete, labbra ruvide e sottili premute contro le proprie, gli occhi aperti e cattivi dello zingaro fissi sui suoi. È stato un bacio senza amore, quasi perfino senza sottotesto sessuale, anche se dalle conseguenze non si sarebbe detto: no, è stato un bacio molto semplice, un bacio che faceva un punto. Io posso averti con le spalle al muro quando voglio. Quasi una dichiarazione d’intenti.
La seconda volta, è stato José a baciarlo. Dopo un allenamento di merda in cui Zlatan era sembrato del tutto incapace di produrre una qualsiasi cosa che avesse un senso, o anche solo di interagire efficacemente col resto della squadra. José l’ha trovato seduto su una panchina vicino al campo, intento a sciogliere la fasciatura attorno alla caviglia e al piede, e gli si è avvicinato. Si è chinato su di lui e l’ha baciato. Dolcemente. Lentamente. Prendendosi il tempo necessario per abituarsi alla sensazione differente che la pressione delle labbra di Zlatan sulle sue provocava in lui. Una dichiarazione d’intenti anche quella, a suo modo.
Zlatan ha risposto al bacio – a quello e a tutti i successivi, per un anno intero. Poi è finita, perché sono stati entrambi due teste di cazzo. Perché hanno, come al solito, frapposto l’orgoglio fra se stessi e tutto quanto il resto. Perché c’era un problema di obbiettivi, c’era un problema riguardo come fare a raggiungerli, c’era nello sport come nella loro vita privata. C’erano due famiglie, due mogli e quattro figli in gioco, c’era troppo da perdere, troppo sul piatto, e troppo poco a controbilanciare su cui scommettere.
E quindi è finita. Amaramente, lasciandosi dietro un senso di incompiutezza, di vuoto, di rimpianto. Di “avremmo potuto provare di più”, “avremmo potuto provare meglio”, “avremmo potuto provare e basta”.
È arrivato il Barcellona, col Barcellona Pep. José ha cancellato i loro visi dalle sue memorie perché pensarli insieme – dopo gli anni di amicizia che l’avevano legato a Pep in gioventù, dopo quello che l’aveva legato a Zlatan più recentemente – era una tortura che non si sentiva disposto a sopportare.
Poi il vuoto.
E poi lo schianto.
E mai una volta, in tutto ciò che è accaduto, Zlatan ha permesso a José si avere l’ultima parola, su qualsiasi cosa riguardasse lui o loro insieme.
Forse è proprio questo quello che tiene José inchiodato a quel letto per ore, incapace di darsi una mossa. Continua a pensare che se avesse preso delle decisioni, se Zlatan gliel’avesse lasciato fare, se avesse accettato qualche consiglio o suggerimento, se lui fosse riuscito a imporsi, in qualche modo, sarebbe andato tutto diversamente. E forse a quest’ora Zlatan sarebbe ancora vivo.
Realizza all’improvviso che si sta comportando esattamente come Pep. Non riesce a sopportarlo. Si alza in piedi mezz’ora prima che Pep passi a prenderlo, e va in bagno a prepararsi.
*
Non scambia una parola con Pep per tutto il tragitto. La veglia funebre è stata organizzata a casa di Zlatan, e José non ha idea di dove si trovi, per questo lascia che sia Pep a guidare. Per questo, e anche perché Pep sembra essersi ricomposto abbastanza da farcela. Si è cambiato, sbarbato, José può sentire l’odore forte del suo bagnoschiuma fin da lì. Per un attimo, sorride. “Così si fa,” vorrebbe dirgli, “bravo, Pep, sono orgoglioso di te,” ma non lo fa. Resta in perfetto silenzio e, quando arrivano, è infastidito quando Pep gli stringe una mano attorno al polso per trattenerlo un po’ più a lungo all’interno della macchina.
- Dovremmo parlarne, credo. – gli dice.
- Io credo di no. – risponde José. Si libera di lui con uno strattone e si dirige speditamente verso l’unica villetta del circondario col cancello aperto e il parcheggio pieno di auto. Cammina a piedi lungo il vialetto che conduce alla porta d’ingresso mentre Pep posteggia da qualche parte e, dietro di lui, arriva un’altra mezza dozzina di auto, a bordo un sacco di persone che sembrano trovarsi lì per caso, senza nemmeno capire bene come ci siano finiti. C’è una sorta di smarrimento, nell’aria, qualcosa che fa sentire José come se fosse tutto fuori posto. Si sente così per molti secondi, di fronte alla porta d’ingresso, finché non si spalanca e la figura minuta di Helena non appare sulla soglia.
- Mister Mourinho. – dice piano, un sorriso appena percettibile a piegarle le labbra, mentre tende una mano verso di lui, - Sono contenta di vederla.
Mentre lo invita ad entrare in casa, José la osserva. Indossa un abito nero, i capelli raccolti in uno chignon alto dietro la nuca, ed è perfettamente truccata. Ha l’aria di una donna stanca che non può permettersi di cedere. José vorrebbe abbracciarla, ma non ha idea di come potrebbe reagire. Non si sono mai davvero frequentati, lui e Zlatan hanno fatto il possibile per mantenere ciò che c’era fra loro ben separato dal resto delle loro vite, e sembra una forzatura fin troppo fastidiosa cercare di ricucire uno strappo tanto netto adesso che lui non c’è più.
- Condoglianze. – le dice, mentre lei attende vicino alla porta che anche Pep, dopo aver abbandonato la macchina, si avvicini, - Come stanno i bambini?
- Vincent non ne ha capito molto. – risponde lei con un mezzo sorriso affranto, - Maxi… - sospira, e poi scuote il capo. – Sono coi nonni, in questo momento. Non volevo…
- Capisco perfettamente. – annuisce José, posando una mano sulla sua e sorridendole appena. Lei risponde con un sorriso identico, tanto sottile e stentato da sembrare una smorfia di dolore. – Lui dov’è? – chiede quindi, abbassando rispettosamente lo sguardo. Helena gli fa un cenno, indica una porta. Tutta la casa è illuminata, ma quella è l’unica porta, oltre quella della cucina, dalla quale giungano voci di persone.
José annuisce e la saluta stringendole la mano un’ultima volta. Poi si allontana lungo il corridoio, e si muove lentamente. Non ha nessuna fretta di arrivare dove deve andare, non ha nessuna fretta di chiudere una volta per tutte questo capitolo della sua vita. Ci sarà il funerale, per dire addio, ma questo è il momento in cui tutto finisce. È il momento in cui c’è un corpo chiuso in una bara che lo aspetta per confermargli che non c’è più niente da fare.
Quando si avvicina, è abbastanza deluso nel notare che non l’hanno messo in una bara di vetro, di quelle col coperchio trasparente. Così, l’effetto che ha su di lui è un po’ meno forte. C’è un coperchio di legno a proteggerlo dall’immagine del suo viso immobile, inespressivo, pallido e gelido. Sa che è lì dentro, ma non vederlo lo aiuta a prenderla meglio, in qualche modo. Forse perché così può aggrapparsi a una menzogna gentile un po’ più a lungo.
- Non era in condizioni. – dice Pep, apparendo al suo fianco. José non lo guarda. Continua a fissare la bara finché le dita lunghe e scure di Pep non entrano nel suo campo visivo. Accarezzano il coperchio con tenerezza quasi imbarazzante, e José aggrotta le sopracciglia. Vorrebbe dirgli di contenersi, ma ancora una volta ha l’impressione di stare cercando di misurare il dolore di Pep con un metro troppo personale, e quindi lascia perdere. – Il suo corpo, intendo. – continua Pep, a bassa voce, - Non sono riusciti a sistemarlo abbastanza da renderlo presentabile.
Una scarica di dolore puro attraversa il cervello di José da parte a parte quando le parole di Pep gli scivolano dentro a sufficienza da essere comprese. Per un attimo riesce a vedere oltre il legno, il viso sfigurato di Zlatan, le sue membra scomposte e martoriate, il suo corpo irriconoscibile. È tutto così reale. Non ci sono più bugie. Un coperchio di legno non è sufficiente a nasconderlo.
Non sa se Pep sappia in quanti modi l’ha aiutato semplicemente con questa frase. Lo guarda, e pensa che in realtà non se ne sia reso conto. Che in realtà l’abbia pronunciata più per se stesso, per darsi qualcosa di reale a cui pensare, per non indugiare troppo col pensiero sul sorriso di Zlatan, sui suoi occhi, sul mondo in cui brillavano quando litigava con qualcuno, o sul modo in cui si muoveva dentro e fuori dal campo, ma non importa. Alle volte anche l’egoismo di qualcuno è utile per qualcun altro, così pensa José, l’ha sempre pensato. Lui ha perso il conto di quante migliaia di tifosi ha reso felici nell’egoistica rincorsa del maggior numero di titoli possibile. È così che funziona. Ad ogni azione di ognuno corrispondono conseguenze per milioni di altri. È giusto così.
- Grazie. – sussurra, guardando Pep con un mezzo sorriso a stendere le labbra. Gli appoggia una mano sulla spalla e stringe appena, nel tentativo di passargli almeno un po’ del calore che sta provando adesso. Gli occhi di Pep si riempiono di lacrime.
- Per cosa? – domanda in un singhiozzo.
- Non importa. – scuote il capo José, sorridendo, - Adesso vado.
- Dove? – insiste Pep, appoggiando la mano aperta su quella di José nel tentativo di trattenerlo.
- Torno in albergo. – risponde lui, - Sono stanco. Tu resta quanto vuoi. Prenderò un taxi.
- Posso—
- Sì, lo so che puoi. – José si sporge verso di lui, abbracciandolo per un istante. Quando si allontana, le lacrime hanno preso a scivolare lungo le guance abbronzate di Pep, scavando lunghe righe scure sulla sua pelle. – Ma io voglio che resti qui. Non preoccuparti per me. – sospira, - Preoccupati per te stesso, Pep. Tieniti molto da conto. Fallo anche per me. Mi raccomando.
Pep si morde un labbro e sembra del tutto intenzionato a continuare ad insistere fino a farlo cedere, ma poi qualcosa cambia, nei suoi occhi, mentre le dita che ancora tiene appoggiate sulla bara si serrano attorno al coperchio con uno scatto quasi spasmodico. Il suo corpo gli sta dicendo che non può ancora andare via, e José sorride perché invece le sue, di dita, sono libere, adesso.
Può andare.
*
Quella notte sogna Tami. “Perché sei qui?” le chiede, e lei sorride. È vestita di bianco, ha i capelli sciolti, è se stessa com’era a sedici anni, bellissima e pura e piena di aspettative nei confronti del futuro. Gli si avvicina, lo abbraccia, se lo stringe al petto e lo culla come un bambino.
“Perché ci sei tu,” risponde Tami, e la sua voce non è più quella di Tami. José alza lo sguardo e ci sono lui e Zlatan per strada, di notte, da qualche parte sull’autostrada. Ci sono delle fiamme che ardono in lontananza, si sollevano verso il cielo come volessero scorticarlo a unghiate. José non riesce a capire cosa le provochi. La giacca che Zlatan indossa è tutta bruciacchiata, ma lui, lui sta bene.
“Perché sei venuto?” domanda Zlatan, l’accento così forte da rendere la sua voce quasi ridicola.
José non riesce a parlare.
“Andiamo, Zay,” insiste Zlatan, l’espressione severa che si stempera in un sorriso più dolce.
José si sente piangere nel sonno. Improvvisamente, è consapevole di stare sognando, e che da qualche parte il suo corpo addormentato sta piangendo. Sente le guance bagnate, ma nel sogno non ci sono lacrime. “Volevo salutarti, zingaro,” dice. La sua voce suona incredibilmente serena mentre il sogno si trasforma in una macchia confusa e poi svanisce.
*
Il cielo sopra Malmö è di un grigiore pesante, uniforme. Sembra che qualcuno gli abbia dato una mano di cemento e poi l’abbia lasciato lì ad asciugare. José immagina che debba essere colpa delle nuvole, nessun cielo può essere di un colore simile se completamente sgombro, ma non può esserne certo perché, se quelle sono nuvole, sono talmente tante, e talmente ammassate le une contro le altre, da non riuscire nemmeno a distinguerne i contorni.
Non piove, almeno. Ma l’aria è pesante di umidità, ed onestamente, a questo punto, José non vede l’ora che tutto ciò sia finito per tornare in albergo, dormire una quantità spropositata di ore e poi tornare a Milano. Ha voglia di vedere i bambini. Ha voglia di vedere Tami. Ha voglia di tornare a lavorare, e se pensa che solo fino a un paio di giorni fa l’idea stessa di riprendere la propria vita come se niente fosse successo lo ripugnava, le labbra quasi gli si arricciano in un’ombra di sorriso amaro.
Dev’essere un meccanismo di difesa, si dice, mentre osserva distrattamente la bara sospesa sulla tomba di famiglia di Zlatan, immobile in attesa che il prete concluda le preghiere di rito. Dev’esserci qualcosa che impedisce alle persone sane di annegare troppo profondamente nel proprio dolore. Qualcosa che le salva, qualcosa che scatta, un meccanismo che entra in azione o qualcosa di simile, che a un certo punto le recupera da qualsiasi abisso nel quale sono sprofondate, e le riporta a galla.
Due giorni fa, José è riemerso da un sogno respirando a pieni polmoni come dopo una lunga apnea. Era da solo in una stanza d’albergo a Barcellona ed aveva appena perso uno degli amori più enormi della sua intera esistenza. Ne aveva salutato il cadavere dentro una bara appena poche ore prima.
Si sentiva rinato.
Ora, la bara comincia a scendere lungo il tunnel scavato nel terreno e pronto ad accoglierla. Helena piange silenziosamente a qualche metro da lui, composta nel suo dolore e bellissima nel suo lutto. Si è indurita, in questi due giorni. I suoi lineamenti sono più fieri, provati, il dolore immobile della linea netta e dritta delle sue labbra commuove José al punto da costringerlo a versare a propria volta un paio di lacrime. Non è nostalgia, è solidarietà. È condivisione di qualcosa di più grande di una semplice conoscenza. Di qualcosa di più profondo.
È amore, pensa José, lo sguardo che si sposta su Maximilian, che stringe forte la mano di sua madre, e su Vincent, disperatamente aggrappato a quella di suo fratello. È amore anche questo, in un certo senso.
- Come stai? – chiede qualcuno apparso al suo fianco. José si volta di scatto, stupito. Credeva di essersi messo abbastanza in disparte da non attirare l’attenzione.
- Deki. – esala confusamente, sbattendo un paio di volte le palpebre per metterlo a fuoco, come non riuscisse a capacitarsi di vederlo proprio lì in quel momento, - Cosa ci fai qui?
Dejan sorride, spostando per un attimo lo sguardo sulla bara ormai quasi completamente scomparsa sotto terra, come per un ultimo saluto.
- Eravamo molto amici. – risponde semplicemente, - E tu ci sei mancato molto, in questi ultimi giorni. – aggiunge con un sorriso appena più imbarazzato, tornando a guardarlo.
José abbassa lo sguardo sulla ghiaia che copre il vialetto secondario sul quale si è sistemato per osservare la funzione, sentendosi per qualche motivo colto in fallo, perfino a disagio.
- Dovevo—
- Non devi spiegarmi niente. – lo interrompe Dejan. José solleva nuovamente lo sguardo, e lui sta ancora sorridendo sereno, - Davvero, lo so. Non c’è bisogno. Volevo solo essere sicuro che adesso fosse tutto a posto. Perché se non lo è, noi siamo qui. Intendo, tutti. Tutti quanti. Ti aspettiamo a casa, e ci saremo.
José schiude le labbra, gli occhi che si riempiono di lacrime, le mani che tremano appena nonostante lui cerchi in ogni modo di controllarle, chiudendole a pugno lungo i fianchi.
- Non so che dire. – ammette, la voce rotta da un singhiozzo impossibile da nascondere. Dejan si concede una risatina incerta, scuotendo il capo.
- Lascia perdere. – gli dice, appoggiandogli una mano sulla spalla e battendovi sopra un paio di pacche consolatorie, - Ora scusami, vado a salutare Helena. – aggiunge, sporgendosi per abbracciarlo sbrigativamente, prima di correre dietro alla donna per evitare di lasciarsela scappare prima di essere riuscito, probabilmente, a migliorare la giornata perfino a lei, o almeno così pensa José nell’osservarlo allontanarsi.
Una volta rimasto solo, sfila il cellulare dalla tasca interna della giacca. Nessuna chiamata. Un messaggio di Pep. Dice “Grazie a te,” e José sorride, contento che finalmente anche lui abbia capito.
Compone a memoria il numero di Tami. Lei non risponde, e lui sorride ancora, perché se lo aspettava. Le lascia un messaggio in cui le dice che sta per andare all’aeroporto, che prenderà il primo aereo, che sarà a Milano in qualche ora. Di aspettarlo, perché fra poco sarà lì con lei, e tutto si risolverà.
Mentre la saluta, Tami solleva la cornetta. “Sono stufa di essere arrabbiata con te,” gli comunica in un mezzo piagnucolio che la fa sembrare per un attimo la stessa ragazzina, poco più che una bambina, che era quando José l’ha conosciuta. “Torna presto.”
José ride piano, rassicurandola. Quando interrompe la telefonata e solleva lo sguardo, accanto alla tomba di Zlatan non c’è già più nessuno. Si avvicina e, dalla lapide, una fotografia dai lineamenti sgraziati gli sorride, con l’aria di uno che è stato il più stronzo figlio di puttana di tutti i tempi e che se l’è goduta un mondo fino all’ultimo istante. José scoppia a ridere come un imbecille, passandosi una mano sugli occhi quando sente il familiare bruciore delle lacrime pungere sotto le palpebre. Non piangerà, però, basta così.
Il sorriso di Zlatan sembra salutarlo con calore, mentre lo osserva andare via.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Andrea/Dejan, kind of.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: AU, Gen, Slash, Lemon, Non-con, Angst.
- Andrea è stato addestrato a questo momento per tutta la sua vita. L'unico problema è che, se anche avesse vissuto una vita il doppio più lunga, tutti gli addestramenti del mondo non avrebbero potuto prepararlo a questo.
Note: BUON ANNIVERSARIO, DEFFY ;O; *gli salta addosso e se lo limona sulla pubblica piazza* Avrei voluto postare questa fic ieri, ma non ho fatto in tempo neanche a trovarle il titolo prima di dover uscire, e poi oggi la febbre ha deciso di uccidermi, quindi. Ma Def sa che il mio amore è imperituro e qualcosa di insignificante come un ritardo non può intaccarlo minimamente u.u
Ciò detto, io amo questa storia XD Amo il 'verse che racconta, amo come lo racconta e voglio esplorarlo ancora, anzi, sicuramente lo esplorerò ancora, in futuro :3 E niente, mon amour, spero che ti piaccia ♥
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HANGING BY A MOMENT

Desperate for changing
Starving for truth
I'm closer to where I started
I'm chasing after you

Andrea era stato addestrato a partire dai dieci anni, età in cui era stato reclutato. L’esercito ribelle girava spesso per i paesi e le piccole cittadine montane dell’entroterra, dicevano che la roccia temprava i corpi e gli spiriti dei giovani. Gli adolescenti, a quell’età, secondo loro erano già pronti per servire la Causa. Molto più di quanto non si potesse dire dei loro coetanei più vicini alle sponde dolci e sabbiose del mare. “Il mare fiacca lo spirito,” dicevano gli anziani generali attraverso il cui insindacabile giudizio si veniva accettati o respinti, “ha un profumo troppo buono, chi vi abita accanto difficilmente sente il bisogno di separarsene”.
Lui, invece, s’era gettato fra le braccia della milizia come fra quelle del Salvatore. Non vedeva l’ora di abbandonare Assisi e la sua mentalità da minuscola provinciale. Era insofferente all’ostinazione con cui i vecchi ruderi che chi li abitava si ostinava a chiamare “case” restavano aggrappati al fianco della montagna. Con uno sforzo di immaginazione, chiudendo gli occhi, poteva sentire le vecchie ossa di quell’altura scricchiolare sotto il peso del paese. A suo modo di vedere, era soltanto una questione di tempo: prima o poi, tutto sarebbe crollato, e non soltanto perché le forze dello Stato non si curavano più di centri poco popolosi e per di più scarsamente produttivi come quello. No, non sarebbe stato per incuria che quella cittadina sarebbe crollata, rovinando su se stessa. Sarebbe stato per vecchiaia, perché il suo ciclo si stava esaurendo, perché non c’era più motivo per cui dovesse restare in piedi.
Lui no, però. Lui voleva restare in piedi. E in quel periodo, se volevi restare in piedi, avevi solo due opzioni: lo Stato, o la Causa. Non esistevano alternative. Chi, specie al Sud, aggrappato agli scogli riarsi dal sole e profumati di salsedine, si ostinava a dire di non aver niente a che vedere con lo Stato perché neutrale, in realtà non si accorgeva – o fingeva di non accorgersi – di essere un complice. Se Stanković sedeva sulla poltrona presidenziale, era stato anche grazie agli innumerevoli complici silenziosi che, tacitamente, ne avevano favorito l’ascesa dopo il colpo di stato di vent’anni prima.
Andrea era sempre stato onesto. Era una spinta alla quale non poteva sottrarsi. Non era buonismo, e nemmeno vera e propria bontà, più che altro desiderio di pulizia, istinto di conservazione, testardaggine nel restare fedele a se stesso anche quando tutte le forze in gioco premono perché tu abbandoni la tua integrità in favore di una o più soluzioni di comodo.
A lui non erano mai interessate le soluzioni di comodo. Aveva sempre pensato che, prima o poi, il regime sarebbe stato abbattuto. Anni ed anni di ribellione, alla fine, non avrebbero potuto dimostrarsi vani.
Lui voleva arrivare pulito a quel giorno. Integro. Senza niente per cui rimproverarsi. Allora, la vita sarebbe stata diversa. Sarebbe stata più del misero gregge di pecore e delle due vacche di suo nonno, che ancora resistevano nonostante gli anni, e delle quali era toccato a lui prendersi cura. Sarebbe stato libertà, un lavoro vero, dei soldi, una casa sua, una famiglia. Sarebbe stata una vita migliore, e lui voleva sentirsi libero di godersela.
Dall’avamposto di Perugia si era spostato a quello di Arezzo che aveva solo sedici anni. Poi due anni lì, due a Bari e due a Genova avevano concluso l’opera. Si era ritrovato a ventitré anni di fronte ad un generale che, dopo un esame attento e approfondito, lo aveva giudicato pronto.
Pronto per Milano. Pronto per la Capitale.
Era arrivato alla fine di dicembre. Milano era avvolta nel gelo, grigia e spenta e senza neanche la bianca, lieve, quasi soave consolazione della neve che invece ad Assisi si vedeva spesso. Istintivamente, l’aveva trovata una città orribile, al di là degli sciocchi, inutili, arzigogolati orpelli dei palazzi presidenziali. Per lui, cresciuto in una fattoria, in un paese di case di legno e pietra, il marmo e il cemento non avevano significato. I pennacchi affilati del Duomo lo irritavano, gli sembravano contro natura. Spesso, passando per l’elegante piazza, diretto a Palazzo Durini, si era ritrovato a pensare che solo le montagne avrebbero dovuto mostrare una tale sfrontatezza nel cercare di grattare via l’azzurro ingrigito del cielo dalla volta celeste. Quella Madonna assisa là in cima sembrava un insulto nei confronti di Dio stesso.
Naturalmente, non si sarebbe mai permesso di esternare pareri simili con uno dei suoi superiori. Era riuscito – e non senza difficoltà – ad ottenere un incarico all’interno della guardia di Palazzo Durini solo da poco, e non aveva la minima intenzione di far saltare la propria copertura per così poco. Non dopo tutti gli anni che gli erano serviti a raggiungere un grado di preparazione tale da poter essere mandato lì. Non quando da lui dipendeva ormai il destino dell’intera nazione.
- Emozionato? – gli aveva domandato il generale Cambiasso nello scortarlo verso l’ufficio del presidente.
- Sono qui solo per fare il mio dovere, signore. – aveva risposto lui, asciutto, tenendo lo sguardo basso. Era stato l’unico scambio di battute che il suo superiore gli avesse concesso, prima di abbandonarlo da solo di fronte all’enorme porta che conduceva all’interno dell’ufficio dal quale Stanković gestiva tutto il proprio regno.
Non aveva mai ancora visto il presidente, prima di quel momento, ed era quello l’ultimo ostacolo che gli si parava davanti, prima di poter entrare a far parte della sua milizia personale. Allora sarebbe stato tutto più semplice. Il piano era stato studiato fin nei minimi dettagli, lui non aveva che da metterlo in pratica. Una volta morto Stankovic, l’esercito dei ribelli non avrebbe avuto alcuna difficoltà ad introdursi nel palazzo presidenziale, e da lì riprendere il controllo.
La sua vittoria era lì, lì ad un passo, e lui aveva vissuto più degli ultimi dieci anni della sua vita al solo scopo di prepararsi a quel momento. Ma nessuna delle sue lunghissime, interminabili, sfiancati sessioni di addestramento avrebbe mai potuto prepararlo per quello.
Stanković sorrise, chinandosi su di lui e forzandolo a schiacciarsi ancora di più contro la gelida superficie di cristallo che copriva il piano in legno dell’antichissima scrivania che occupava quasi metà della stanza con la sua mole austera.
- Non avresti mai pensato che fosse questo il modo in cui sceglievo i miei collaboratori più stretti, dico bene? – gli domandò in un sibilo divertito, le labbra che sfioravano il profilo teso e nervoso del suo collo.
- No, signore. – ammise Andrea, cercando di trattenere un ringhio mentre provava ad obbligare il ritmo del proprio respiro a farsi più calmo e meno affannoso.
- È il metodo migliore. – spiegò Stankovic, lasciandogli scivolare una mano sul ventre e fra le cosce e cominciando ad accarezzarlo lentamente, - La fedeltà della mente è un conto, ma quella del corpo è tutta un’altra cosa. – aggiunse, spingendosi col petto ancora coperto dalla divisa contro la schiena già nuda di Andrea, premendogli contro la colonna vertebrale tutte le proprie appuntite medaglie e costringendolo a schiacciare il petto e lo stomaco contro il cristallo. Era così freddo da farlo rabbrividire. – Quella del corpo è una fedeltà atavica. – continuò a spiegare, la mano che si muoveva sempre più velocemente attorno alla fastidiosa quanto indesiderata erezione svettante fra le gambe di Andrea. Non era mai stato toccato così, prima d’ora. Non era preparato alle sensazioni che la mano di un estraneo poteva scatenare su un corpo vergine come il suo. – Non conosce limiti né confini. Non conosce tempo né ostacoli. – ghignò ancora, ed Andrea se lo sentì sulla pelle, nel liberarsi dai propri pantaloni, premendo la propria erezione contro una sua natica. – L’unica fedeltà più assoluta di quella del corpo, è quella del ricatto.
Andrea si irrigidì, abbassando la guardia per un secondo che gli fu fatale. Soffocò un grido di dolore contro il proprio pugno chiuso, mentre Stanković si premeva contro di lui, oltrepassando la barriera delle sue resistente per penetrarlo senza il minimo riguardo.
- C-Cosa..? – balbettò lui, un singhiozzo per ogni gemito, cercando di voltarsi a guardarlo.
Stanković sorrideva soddisfatto. Sulle sue labbra sottili, sui suoi occhi scuri e piccoli, brillava una cattiveria rara, figlia dell’egoismo e della smania di potere più sfrenati. Andrea ne sentì il rimbombo nella testa, seppellito nella parte più oscura e profonda della sua anima come il seme del male con ogni movimento del bacino con cui l’uomo piantava la propria erezione sempre più in profondità dentro di lui.
- So chi sei. – disse l’uomo, tenendolo fermo per i polsi e bloccandoglieli dietro la schiena, mentre aumentava il ritmo delle proprie spinte, strappandogli dalle labbra gemiti sempre più confusi e liquidi, - So tutto di te. Da dove vieni, come sei arrivato qui, dove vivevi. – il suo sorriso si fece ancora più sottile e inquietante, - Chi sono i tuoi genitori.
Andrea si abbandonò a un singhiozzo stremato, abbattendosi contro la scrivania in una disperata ricerca di sostegno.
- No… - implorò in un mugolio carico di dolore, - No, ti prego.
- È qui che entra in gioco la fedeltà del ricatto. – continuò a spiegare Stanković, apparentemente neanche affaticato dai colpi tremendi che continuava ad infliggergli dentro con ogni spinta, - Ho dato disposizioni precise a tutti i miei generali. Se io muoio, tu e tutta la tua famiglia mi seguirete all’inferno. Se ti rifiuti di fare quello che ti chiederò, la vostra sorte sarà la stessa. Come la vedi?
Andrea gemette ancora, la gola, il petto e lo stomaco stretti in una morsa che gli dava il tormento. Chiuse gli occhi e ripensò a tutta la propria vita, a più di dieci anni di addestramento, e spostamenti, e lezioni infinite sull’importanza della Causa. Pensò ad Assisi, all’ardore folle col quale aveva voluto scapparne. Al fatto che probabilmente non l’avrebbe rivista mai più. Alle pecore e alle vacche della vecchia e stropicciata fattoria in cui viveva. Ai sorrisi stanchi e rugosi di mamma e papà. E se anche non avesse provato tanto dolore fisico da piangere ormai da minuti interi, quel pensiero soltanto sarebbe stato sufficiente a costringerlo a cominciare in quel momento.
- Cosa vuoi che faccia? – domandò fra un singhiozzo e l’altro. Stanković sorrise soddisfatto, spingendosi dentro di lui un’ultima volta, rilasciando il proprio orgasmo fra le sue gambe ed uscendo da lui subito dopo, come se, una volta ottenuta la propria soddisfazione, il solo pensiero di rimanergli dentro lo soffocasse.
- Ti hanno mandato qui per infiltrarti nella mia milizia. – disse tranquillamente, risistemandosi i vestiti addosso mentre gli lanciava un asciugamano di cotone sottile col quale ripulirsi le cosce, - Ebbene, io invece ho bisogno di qualcuno nella loro. Tu sarai il mio uomo. – concluse guardandolo negli occhi. Non era una domanda, perché c’era una sola risposta possibile. Andrea conosceva bene quell’atteggiamento, era lo stesso atteggiamento al quale aveva imparato ad ubbidire fin da quando era solo un bambino.
Ripensando ad Assisi aggrappata al fianco del monte Subasio, non poté che lasciarsi sfuggire una lacrima nell’accorgersi di quanto la forza con la quale stava aggrappandosi a quella possibilità di salvare i propri cari fosse in realtà simile a quell’ostinazione della città a rimanere attaccata a quelle vecchie rocce corrose dal tempo. Un’ostinazione che credeva insensata, e che invece, lo capì solo in quel momento, era soltanto necessaria.
Chinò il capo, annuendo. Un giorno, la ribellione avrebbe avuto ragione della dittatura. E allora la vita sarebbe stata più semplice. E ci sarebbero state case, e lavori veri, e famiglie felici, e nessun bambino sarebbe stato costretto ad arruolarsi in un esercito di ribelli a dieci anni per fuggire alla prigione rocciosa di un paese senza prospettive.
Lui, però, non sarebbe stato lì per vederlo.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Dejan/Sinisa.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Slash, Angst, Hurt/Comfort, Flashfic.
- "Ma ora Deki è qui, e Siniša inala l’ossigeno che gli serve direttamente dalla superficie fresca della sua pelle, e sembra tutto incredibilmente più facile."
Note: Scritta nel corso della Notte Bianca #4, su prompt RPF Calcio, Dejan Stankovic/Sinisa Mihajlovic, 'Una volta ero io a chiederti aiuto.'. Ambientata praticamente un paio di settimane fa, more or less, durante il Periodo di Grande Sconforto in cui la panchina sotto il sedere di Miha traballava in modi che ci hanno fatto piangere parecchio. Dedicata a Deffy perché lo lovvo. ♥
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MAKE ME YOUR RADIO, TURN ME UP WHEN YOU FEEL LOW

- Sono venuto appena ho letto il messaggio. – dice Dejan, abbracciandolo sulla porta non appena Siniša gli apre, - Ho fatto il prima possibile.
Siniša chiude gli occhi, abbandonandosi contro di lui. Gli sembra di riuscire a respirare solo adesso che può di nuovo toccarlo, come se fino a pochi istanti prima l’aria fosse troppo calda, troppo densa, troppo pesante, e lui non riuscisse ad assimilarla correttamente. Ma ora Deki è qui, e Siniša inala l’ossigeno che gli serve direttamente dalla superficie fresca della sua pelle, e sembra tutto incredibilmente più facile.
- Grazie. – mormora, incapace di allontanarsi da lui. Dejan prende la situazione nelle proprie mani, spingendolo delicatamente all’interno dell’appartamento e richiudendosi la porta alle spalle, per poi condurlo verso il divano. Aspetta che si sia seduto, prima di sedersi al suo fianco, e dopo stringe una delle sue mani fra le proprie, giocando con le sue dita come gli capitava spesso di fare da ragazzino, quando era nervoso. Prima delle partite in nazionale, soprattutto.
Siniša glielo lasciava fare allora, e glielo lascia fare anche adesso, pure se ora è lui quello nervoso, lui quello che ha bisogno di conforto.
- Cos’è successo? – gli domanda, e Siniša sospira, scuotendo il capo.
- Ultimatum. – confessa a bassa voce, e non deve dire altro. Dejan sa bene cosa questa parola voglia dire in bocca ad un allenatore. Specie visto quanto ha traballato la panchina della Fiorentina nell’ultimo periodo.
- Andrà tutto bene. – gli dice. Siniša sorride a metà. Gliel’hanno detto in tanti, negli ultimi giorni, ma se è Deki a dirglielo può perfino fare finta di crederlo possibile.
- Lascia stare, piccolo. – dice, scuotendo il capo, - Tutto quello che voglio adesso è smettere di pensare. Ho la testa che gira a velocità doppia da giorni e mi sembra di sentirla esplodere.
Dejan gli sorride teneramente, allungandosi verso di lui. Lo stringe a sé, gli lascia un bacio lievissimo sulla tempia e gli accarezza il viso con devozione infantile.
- È per questo che mi hai chiamato, vero? – sussurra dolcissimo sulla sua pelle. Siniša annuisce con la sincerità carica di abbandono di chi sa di non avere nessun motivo di mentire. – Una volta ero io a chiederti aiuto. – sussurra ancora Dejan. Nella sua voce non c’è nessun rimprovero. Solo una quantità enorme di nostalgia intenerita. – Ho aspettato per anni di potere finalmente ricambiare.
Siniša gli sorride direttamente sulle labbra, e poi si abbandona senza pensare alle sue carezze.
Genere: Introspettivo.
Pairing: José/Zlatan, accenni miiiiinimi di Davide/Mario, se proprio li si vuole vedere.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, (Serie di) Drabble, Slash.
- Los Angeles, ritiro della squadra nerazzurra negli Stati Uniti d'America. Giunge una notizia inaspettata, e questo è ciò che ne consegue.
Note: È palese che io mi diverto a farmi del maleeeee XD *cerca di recuperare una qualche compostezza* Uhm, dunque. Serie di drabble che in realtà tutte assieme formano una oneshot (pure piuttosto corposa) ispirata ognuna ad un proverbio fra quelli forniti dal Challenge Speciale #5 indetto da It100. Il punto di tutto questo è che probabilmente Zlatan se ne andrà, d’accordo?, e io volevo – ancora – scriverci su. Ho della tristezza da buttare fuori a riguardo, quindi volevo farlo. Poi, fra capo e collo, m’è arrivata la notizia del probabile passaggio di Eto’o al Chelsea, e allora ho cominciato a vedere rosa (la vecchia zia sarebbe qualche dirigente di là XD). Motivo per il quale ho deciso che questa è una fan fiction e me ne sbatto se alla fine non andrà davvero così. È così che vorrei andasse, e le fan fiction esistono per questo. E poi conto molto sui miei poteri di P(l)izia. *accadiaccadiaccadi* ç_ç
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After Wisdom Comes Wit


Al povero mancano tante cose, all'avaro tutte.
Zlatan si guarda intorno – l’immenso campetto dell’UCLA, i compagni intorno che saltano, corrono e fanno stretching, José nel mezzo che impartisce ordini, somministra consigli, stila elenchi e compila programmi – e poi pensa a casa – Milano, Milano sa ancora di casa, la villa, Helena, i bambini, una città che si prostra ai suoi piedi, i tifosi che lo amano ed è amore vero, i tifosi che lo odiano ed è amore anche quello – e poi pensa alla Champions, lui la voleva in nerazzurro, e pensa al campionato, vincerne un altro sarebbe epico – e pensa alla faccia che farebbe José se lui gli dicesse “voglio restare, fammi restare”. E ci pensa, e ci pensa. E non è abbastanza. Non è abbastanza.

Il difficile sta nel cominciare.
La mensa ormai s’è quasi svuotata del tutto. Le signore delle pulizie passano pezze umide sui tavoli più distanti dal loro e l’unico suono che si sente è quello tintinnante delle stoviglie che vengono accatastate e portate via poco a poco. E la forchetta di Zlatan che ancora gioca a rincorrere le patate al forno nel suo piatto.
- Non dovremmo mangiare dell’insalata, con questo caldo? – chiede annoiato, lasciando rotolare una patata fino al bordo del piatto, - A me neanche piacciono le patate al forno.
José, seduto al suo fianco, consulta il proprio taccuino, e quando parla lo fa senza sollevare gli occhi su di lui.
- Hai lamentele, Zlatan? – chiede con un pizzico di fastidio, - Se sono serie, dimmi pure.
Zlatan schiude le labbra e quasi lo dice. Quasi lo dice davvero. Ma alla fine non ci riesce, e José, dopo qualche secondo, si alza e se ne va.

Il sonno della ragione genera mostri.
- Non è per farmi i fatti tuoi… - mormora appena Davide, mordicchiandosi distrattamente una pellicina del pollice, gli occhi fissi sul pallone che rotola pigro da un piede all’altro, - È solo che non capisco perché dovresti volerlo fare. Voglio dire, hai tutto. Le persone… - azzarda incerto, - intendo, già il fatto che pagherebbero così tanto per averti dovrebbe lusingarti abbastanza. Perché hai bisogno anche di andartene?
- Non è ancora deciso. – scolla lui, senza guardarlo.
- E allora! – sorride entusiasta Davide, chinandosi a recuperare la palla e stringendola fra le braccia in un gesto infantile, - È tutto a posto, no? Resta e basta!
Zlatan lo guarda. Aggrotta le sopracciglia, tende le labbra in un sorriso sarcastico e i suoi lineamenti diventano in un colpo se possibile ancora più sgradevoli.
- Hai ragione, Dà, sai? – sospira, e gli occhi di Davide brillano. Solo per un attimo. – Non farti i fatti miei.

La miglior vendetta è il perdono.
C’è una sola persona alla quale Zlatan sente il dovere di chiedere scusa, e quella persona è Mario. Non ha tenuto il conto delle numerose cose che gli ha insegnato nel corso dell’anno scorso e di quello in atto, ma è quasi sicuro che da qualche parte, purtroppo, ci sia stato anche un qualche discorso circa l’attaccamento alla maglia e quanto sia importante avere cura non tanto dei rapporti con la tifoseria quanto di quelli nello spogliatoio. È un discorso che sa di aver fatto e sa anche perché l’ha fatto – perché gli piacerebbe vederlo importante, quel ragazzino, un giorno, ed è una cosa che all’Inter possono garantirgli, è per questo che gli conviene restare – ma al momento non può che pentirsene, per certi versi.
Si avvicina a Mario che lui sta palleggiando distrattamente – testa testa ginocchio testa – e lo chiama a bassa voce. Lui risponde con un mezzo grugnito, senza guardarlo, continuando a palleggiare.
- Senti… - mormora Zlatan, grattandosi nervosamente la fronte, - Mi dispiace per tutto il casino che sta succedendo.
Mario si ferma, posa in terra la palla e sospira.
- Fa niente. – sorride appena, - È tutto ok. – e ricomincia a palleggiare.

Chi semina vento raccoglie tempesta.
Le urla di Helena, dall’altro lato dell’oceano e della cornetta, sono tanto forti che sono perfettamente comprensibili anche se Zlatan cerca di schiacciarsi il telefono contro l’orecchio con tutta la forza che possiede, sperando che il contatto con la sua pelle e la tenda di capelli che vi lascia scivolare addosso siano abbastanza per arginare quell’incredibile schiamazzo.
Non è abbastanza, a giudicare dalle risatine dei più giovani, che si allenano saltellando sul posto all’ombra di una pensilina e non hanno la più pallida idea di quanto tutto ciò che sta accadendo sia devastante.
- Io non intendo muovermi ancora, Zlatan! – urla Helena, furibonda, - Io ci sto bene qua! I bambini stanno bene qua! Cristo santo! Zlatan! – e la conversazione si interrompe che Zlatan non ha avuto neanche il tempo di parlare, di dirle qualcosa di Barcellona, del bel tempo che c’è sempre lì e tutto il resto. Nelle sue orecchie risuona il monotono tuu tuu della linea libera, e Zlatan non può che riporre il telefono nella borsa, restando un po’ fermo all’ombra a massaggiarsi le tempie, prima di tornare dagli altri a cercare di fare finta che sia ancora tutto perfettamente a posto.

Di buone intenzioni è lastricato l'inferno.
- Io volevo solo- - e la voce gli si spezza in gola, non sa nemmeno perché. Javier lo guarda con una certa curiosità, Zlatan non ha la minima idea del motivo che l’abbia spinto a parlare proprio con lui di tutto quello che gli sta girando per la testa. Forse perché Javi è sempre stato un punto di riferimento, una presenza rassicurante, una sorta di fratello maggiore cui chiedere consiglio nei momenti più confusi. Per lui non è mai stato niente del genere, Zlatan ce l’ha sempre fatta da solo, ovviamente – tutto da solo, sempre da solo – e non ha mai sentito bisogno di riferimenti né di rassicurazioni né tantomeno di consigli, ma in questo momento, il primo veramente confuso della sua intera esistenza, in questo momento sì, ne sente il bisogno, e forse è per questo che ne sta parlando con lui. – Credimi. – aggiunge in un lamento strozzato, - Non volevo che le cose andassero così.
Javier si allunga a tirargli una pacca contro la spalla.
- Deciderai per il meglio, Ibra. – sorride rassicurante. Zlatan non ne è così certo. Però spera che il capitano abbia ragione.

Buon sangue non mente.
- E poi zio Mino mi ha portato un pallone nuovo! – racconta Max, la mente che va più veloce della lingua, attorcigliandosi su se stesso mentre cerca di dire a papà tutto tutto tutto quello che ha fatto nella giornata di oggi, - E poi Vinny ha pianto perché voleva il pallone e io gliel’ho dato ma lui è caduto subito. Pa’, secondo me è scemo, un poco!
- È solo piccolo! – ride Zlatan, mentre la risata di Helena gli fa eco, un po’ attutita, e lui la sente appena.
- Comunque siamo stati al parco! – continua Max, e Zlatan può quasi vederlo scrollare le spalle con aria disinteressata prima di entusiasmarsi di nuovo pensando agli alberi e alle fontane e alla palla che rotola fra le aiuole, - È un parco bellissimo, è nuovo! Quando torni a casa ti ci porto, te lo faccio vedere! E anche la casa è un sacco bella, devi vederla perché mamma ha ri-… ha ri-…
- Ha ridipinto. – suggerisce Helena, incredibilmente lontana.
- Ha ridipinto! – conclude Maximilian, una risata nella voce.
Zlatan sorride e non sa se le vedrà mai, tutte queste cose di cui Max gli parla con tanta gioia. Il sangue buono, è evidente, dev’essere quello di Helena.

Il mattino ha l'oro in bocca.
Zlatan si tira in piedi, il sole entra attraverso le tende tirate disturbandogli gli occhi e lui li stropiccia, sbadigliando rumorosamente. Il cellulare squilla, rompendo il silenzio che ancora grava, pesantissimo, tutto intorno a lui. Si allunga a recuperarlo, stiracchiandosi pigramente e schiacciando il tasto di accettazione della chiamata senza neanche guardare il nome sul display.
- Sei in ritardo. – dice la voce di José, vagamente roca e resa fastidiosamente metallica dal cellulare, - Datti una mossa, non hai sentito le belle notizie?
La chiamata si interrompe, Zlatan guarda il cellulare con una certa curiosità e poi nota il segnale di un messaggio non letto. Smanetta un po’ sulla tastiera, legge il messaggio, rabbrividisce. Mino dice che l’Inter e il Barça hanno trovato un accordo. Improvvisamente, l’idea di uscire e andare ad allenarsi sembra assurda.
 Il più conosce il meno.
L’asciugamano che gli piomba sulla testa all’improvviso è umido e fresco, e per questo Zlatan ringrazia una buona quantità di dei – tanto la sua religione dovrebbe comprenderne un bel po’, o almeno crede, oltre quel dio che è l’unico che dovrebbe poterlo giudicare, anche se Zlatan, molto spesso, non gli lascia né quest’onore né quest’onere.
- Fa caldo, mh? – chiede José, sedendoglisi accanto e giocando distrattamente con quel suo dannato onnipresente taccuino per gli appunti, - Dovresti bere qualcosa.
- Sono a posto così. – borbotta Zlatan, burbero, bagnandosi il viso con l’asciugamano. – Grazie per questo.
José scrolla le spalle.
- Nulla. – sorride, - Sei stressato?
Zlatan ride amaramente.
- Non che a qualcuno importi. – sbotta sarcastico.
José ride a propria volta, decisamente meno cattivo.
- Be’, è vero. – ammette, - Barcellona non è poi tanto bella, sai?
- Ci sei stato?
- Sono portoghese! – ride ancora José, e Zlatan non può che ridere assieme a lui.
- Non è così bella, dici?
José scuote il capo.
- C’è tutto. Ma non è detto che questo la renda migliore del resto del mondo.

La fame è il miglior condimento.
Se fosse solo una questione di soldi, Zlatan al Barça non ci andrebbe mai. Non possono dargli più di quanto gli dia Moratti – nessuno può farlo, forse lui stesso sa di non valerli nemmeno, tutti i soldi che riceve – e per la verità non possono neanche offrirgli condizioni di gioco ottimali. La tifoseria lì già lo odia, parlano di lui come di un mercenario – e lui probabilmente lo è davvero, perciò non ha che smentire. Se “mercenario” è il nuovo nome di chi cerca il meglio per sé stesso, allora d’accordo, è un mercenario. Credeva di essere solo un bastardo egoista ed egocentrico, ma aggiungere l’ennesimo aggettivo a quelli già esistenti e attaccati al suo nome senza possibilità di scampo non sarà poi così traumatico.
Il punto del Barcellona forse è proprio quello. L’Inter non può dargli altro, oltre quello che già gli dà. Il Barça sì, però. Non può dargli di più, ma altro, oh quello è sicuro. E lui ormai ne è quasi convinto. Ne è quasi convinto davvero. È altro ciò che vuole. È altro ciò che vuole?

Mai tardò chi venne.
- Oh, Cristo.
Il sospiro di Marco è un po’ esasperato e un po’ sollevato, quando Zlatan entra in palestra, stringendo i manici del borsone fra le dita di una mano, mentre il borsone stesso pende dietro la sua schiena, ondeggiando ad ogni passo.
- Che c’è? – chiede Zlatan, poggiando il borsone per terra e prendendo dalle mani di un assistente il suo programma di oggi, - Che hai?
Marco si siede su un tappetino con uno sbuffo spazientito, riprendendo quasi subito coi propri addominali.
- Sei sempre in ritardo, ultimamente. – gli fa notare in un mezzo ringhio affaticato.
- Dormo male la notte. – risponde stancamente Zlatan, cominciando a sollevare pesi con le gambe.
Marco ride appena, fermandosi a guardarlo da seduto, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le braccia pendenti nello spazio vuoto fra le gambe.
- Anche se ci preoccupiamo, è bello vederti arrivare, poi. – commenta con leggerezza, prima di riprendere ad allenarsi.

Nel fiume che grida puoi passare sicuro.
Quando si trova imprigionato fra le braccia di José e il muro, Zlatan non può dire di non esserselo aspettato. Anzi, probabilmente è vero il contrario – che non solo se lo aspettava, ma lo aspettava e basta, come una specie di giudizio universale. Quello di quel dio lì. José dovrebbe venire dopo, qualsiasi sia la divinità di cui si stia parlando, ma forse non è vero. Forse José viene prima. Prima di… prima e basta.
- Se vuoi farlo, - gli sibila freddo sulle labbra, - è questo il momento. Quando se lo aspettano. Non posso permetterti di giocare a pallone con tutto, Zlatan, perciò se vuoi andartene fallo adesso. Non fra due mesi, non fra un anno, non la prossima volta che ti girano le palle. Adesso puoi farlo, hai il modo, hai la scusa, fallo, se devi.
Zlatan deglutisce incerto, gli occhi fissi nei suoi e brividi di paura a rincorrersi confusamente sulla sua pelle.
- …non so ancora se è quello che voglio.
José lo lascia andare senza toccarlo ancora, ravviandosi i capelli su una tempia.
- Be’, scoprilo in fretta, stronzo.

A combatter con il fango, che si vinca o che si perda, sempre ci si infanga.
- È che comunque, se vuoi il mio parere, ormai il danno è fatto.
Zlatan sospira pesantemente, incrociando le braccia sul petto mentre cerca di lasciare che i muscoli si rilassino nel bagno di acqua e ghiaccio dentro la piscinetta ai margini del campo.
- Non te l’ho chiesto, Deki. – borbotta scontento, mentre si massaggia le cosce per impedire che s’intorpidiscano.
- Sì, lo so. – risponde lui, vagamente offeso, - Stavo solo cercando di parlarne, visto che non ne parli con nessuno.
- Ma che differenza vuoi che faccia se ne parlo o meno?! – scatta Zlatan, irritato, - Qualsiasi cosa io possa dire adesso, non conta un cazzo! Nessuno vuole davvero ascoltarmi, e io probabilmente non ho nulla da dire, quello che doveva essere fatto magari è già stato fatto, proprio mentre noi stiamo qui a discutere del niente, ti rendi conto?! Cosa dovrei dirti?! Il danno è fatto! Okay! Hai ragione! E ora vaffanculo!
Abbandona la piscina senza una parola di più, e Deki, vagamente stupito ma neanche poi così tanto, invece resta lì.

Chi si è scottato con l'acqua calda ha paura anche dell'acqua fredda.
- Dà. – lo chiama a bassa voce Zlatan, quando se lo vede passare davanti, fresco di doccia e accompagnato dall’onnipresente Mario, sempre al suo fianco nemmeno fosse una specie di cavalier servente. In realtà, Zlatan lo sa, non sono davvero sempre appiccicati. Lo sono ogni volta che c’è nei paraggi lui, però, e questo non può fare a meno di fargli pensare che i due ragazzini abbiano stretto una sorta di tacito patto per cui cercano di evitarsi incontri ravvicinanti di tipo non meglio identificato, per risparmiare a tutti silenzi imbarazzanti e momenti eccessivamente dolorosi. Zlatan non saprebbe dire se questo sia un atteggiamento adulto o infantile. Di solito giudica gli atteggiamenti degli altri usando i propri come metro, ma sta cominciando a pensare di sbagliarsi, e di tanto anche.
Davide non si volta a guardarlo, lui e Mario stanno parlando, e neanche stavolta Zlatan può chiedergli scusa per come s’è comportato con lui qualche giorno prima. Poco da fare. Forse ha ragione Deki, ormai il danno è fatto davvero.

Con le mani di un altro è facile toccare il fuoco.
La risata di Maxwell, al telefono, suona davvero allegra e felice e soddisfatta.
- E quindi arrivi anche tu! – commenta divertito, - Ma sai che non ci speravo? Con tutta la storia del dieci sembrava una follia…
- Sì, eh? – annuisce Zlatan, appoggiandosi esausto alla parete. Non ne può più di sentire parlare di questa cosa. Non ne può più dell’Inter, non ne può più del Barcellona, non ne può più del calcio e non ne può già più nemmeno del numero dieci. Mai ricevute tante responsabilità in così poco tempo. E dire che l’anno prima si sentiva disposto perfino a diventare capitano.
Si chiede se sia davvero cambiato tanto, o se sia cambiato il mondo intorno a lui. Maxwell ride ancora, da quella che forse presto diventerà la sua nuova casa.
- Ehi, Max. – sussurra piano Zlatan, - Com’è lì, bello?
- Bellissimo. – conferma subito lui, - C’è un clima di aspettativa fantastico. Dovresti venire e vedere di persona.
Zlatan ride a propria volta, dell’eccitazione di cui Maxwell parla non riesce a provare nemmeno una briciola.

Errare è umano, perseverare è diabolico.
- Tu continui a non capire il punto.
- Il punto è che tu mi attacchi senza un cazzo di motivo.
- Il punto è che io ti attacco con un motivo ben preciso e tu, forse perché sei stupido, forse perché sei troppo impegnato a pretendere, ioioio! e tutto il resto, Zlatan, ti rifiuti di capirlo!
Zlatan lo guarda, un ringhio inespresso fra le labbra, le sopracciglia aggrottate in un’espressione di furia che in genere gli si vede addosso solo quando gioca e le cose non vanno come dovrebbero.
José lo fronteggia senza fare una piega. A Zlatan viene voglia di odiarlo, perché sembra a suo agio anche se non lo è, mentre lui non riesce a non sentirsi a disagio, anche se non dovrebbe. Forse è una situazione troppo complicata, perché lui possa gestirla tutto da solo lì in America. Mino saprebbe come aiutarlo. O forse peggiorerebbe solo le cose.
- Ho bisogno di te. – dice José, duro, - Prendi questa cazzo di frase nel senso che preferisci, è comunque quello giusto. Poi, fa’ ciò che credi.

Taci tu per primo ciò che vuoi sia taciuto da altri.
Zlatan ha ancora gli occhi chiusi e sente ancora nelle orecchie il respiro un po’ affaticato di José. È piacevole, è così piacevole che, se si concentra solo su quello, gli sembra di poter vivere solo di quel suono. Pensa a Barcellona, pensa che lì questo suono non c’è, e si chiede come riuscirebbe a sopravvivere senza. Ci sono momenti in cui gli sembra una prospettiva inaccettabile, ce ne sono altri in cui invece la voglia di partire è così forte che gli pizzica la pelle.
Quando torna a guardare il mondo, la vista un po’ appannata perché ha tenuto le palpebre serrate troppo a lungo e con troppa forza, José è lì al suo fianco che lo guarda, privo di espressione. È così normale, da parte sua, non lasciare affiorare al viso nulla di ciò che lo sconvolge dentro, che Zlatan ha quasi voglia di sorridere.
Una delle sue mani sale ad accarezzargli uno zigomo, scendendo poi lungo la mascella e fermandosi sul collo, per attirarlo in un bacio umido e stanco.
- Io- - prova a parlare Zlatan, ma José lo ferma.
- Non dirlo. – sospira, sollevandosi in piedi e cercando i propri vestiti in giro per la stanza, - Rendi tutto più facile a entrambi.

In amore e in guerra tutto è lecito.
- Senti, io ci ho pensato, e- - si interrompe quando lo vede parlare al telefono, dopo aver praticamente sfondato la porta di camera sua per entrare senza permesso.
- Aha, - annuisce José, chiunque sia la persona con la quale sta parlando con tanta serietà, - Yeah, thank you. It’s always a pleasure. Bye.
Zlatan inarca un sopracciglio, incrociando le braccia sul petto.
- Con chi parlavi? – chiede dubbioso, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
- Una vecchia zia. – risponde José con una risatina evasiva.
In inglese? – insiste Zlatan, arricciando le labbra in un mezzo broncio.
- Zia poliglotta. – ride ancora José, - Ti va un caffè?
- No, mi va-
- Un bacio. – e poi José lo zittisce. E sì, un bacio gli va, perciò sta bene così.

La goccia scava la pietra.
Non è che sappia esattamente come tutto ciò sia accaduto. Non è che nemmeno voglia starci granché a pensare, in realtà. Ha sempre pensato che la vita fosse un percorso unitario, una cosa che cominci e poi manovri piano piano, mani sempre sul timone, per indirizzarla dove vuoi. Insomma, una cosa in cui tutto ha una conseguenza, ogni cosa è concatenata, non c’è niente che sbavi.
Si trova a ricredersi, e deve per forza, perché in questo momento della sua esistenza è così palese che la fina è fatta di istanti casuali che non potrebbe contrastare quest’asserto neanche volendo. Ci sono cose che decisamente non puoi prevedere, ci sono cose che non puoi manovrare, ci sono cose che non si lasciano manovrare, punto.
- Dici davvero? – chiede Helena al telefono, una punta di sconcerto nella voce. Forse davvero non se l’aspettava. – Zlatan, ne sei sicuro?
Lui annuisce. Poi ricorda che lei non può vederlo, e quindi parla.
- Sì.

Non puoi vedere il bosco se sei tra gli alberi.
Mino annuisce, Zlatan lo sa perché lo sente mormorare tutta una serie di “mh-hm” che sono tipici suoi, quando ti sta ascoltando ma non ti sta davvero dando attenzione, visto che ha tutto un altro milione di importantissime cose da fare e tu sei esattamente l’ultimo della sua lista, ed anzi si sta chiedendo cosa esattamente sia questo ronzio tremendo che lo infastidisce, interrompendo i suoi prodigiosi calcoli.
- Di’, mi stai ascoltando o no? – borbotta Zlatan, infastidito, picchiettando con la punta del piede sul parquet del campo da basket, - Hai capito quello che ti ho detto?
- Mh? – chiede Mino, un po’ confuso, interrompendo un attimo il frusciare convulso di fogli attorno a sé, - Sì, certo che ti ho sentito, Ibra. Ma sono un tantino impegnato, - sbotta infastidito, - Cristo, che caldo. Si può capire perché mi hai chiamato per dirmi qualcosa che era palese da secoli?
Zlatan fa una mezza smorfia, guardandosi riflesso nello specchio dell’armadio di fronte a sé.
- Volevo dirlo a qualcuno! – biascica lamentoso, adesso che tutto è più chiaro ha voglia di urlarlo, perfino.
- L’hai già detto a Helena?
- Qualcun altro! – insiste. Mino non capisce. Nemmeno lui, s’è per questo. Comunque il suo procuratore sospira esasperato.
- Senti, Ibra. Come immaginerai, ho altro da fare. perciò vai a parlarne con chi devi ancora avvisare, su. Non sono nemmeno pochi.
Zlatan annuisce. Interrompe la conversazione subito dopo.

Quando il diavolo ti accarezza, vuole l'anima.
- Al Chelsea?! – spalanca gli occhi Zlatan. Ha fatto irruzione in palestra perché voleva essere lui a parlare, non certo perché voleva sentirsi dire una cosa simile dai suoi compagni, ed invece è esattamente quello che sta succedendo: Eto’o, principale pedina di scambio fra l’Inter e il Barcellona, è stato appena acquistato dal Chelsea, su pressante richiesta di Ancelotti congiuntamente al suo presidente, per uno sproposito di denaro.
- Insomma, non hai più dove andare, pare. – ridacchia Marco, mentre Mario, qualche attrezzo più in là, sgomita con una certa forza fra le costole di Davide.
- Bella fiducia. – borbotta Zlatan, offeso, - E io che ero venuto fino a qui per dirvi che avevo deciso di restare.
I suoi compagni di squadra si congelano ai loro posti, guardandolo sgomenti.
- Prima di saperlo? – chiede Deki, titubante.
- Me l’avete appena detto voi! – risponde Zlatan, sempre offeso, - Certo che l’ho deciso prima. – sospira e volta loro le spalle, lasciandoli lì a mormorare incerti. José lo sta guardando dalla soglia della palestra, un sorriso sornione a increspare le labbra sottili.
- …tu. – lo indica Zlatan, sconvolto, - La vecchia zia!
E José scoppia a ridere.

Uccello in gabbia non canta per amor, canta per rabbia.
- Insomma, cos’è che devo dirti ancora? – borbotta Zlatan, stretto fra le sue braccia, - Non ti dirò che non lo farò più, sarebbe da ragazzini. Non sono un ragazzino, te lo ricordi ancora questo, giusto? Anche se chiami le mamme degli altri bambini per impedirmi di fare cose.
José ride, stampandogli un bacio stupido su una guancia. Zlatan resiste appena all’istinto di mugolare compiaciuto, limitandosi a rigirarsi contro di lui, aderendo perfettamente al suo corpo.
- Lo sai che è assurdo? – chiede con aria sinceramente stupita, - Io sono rimasto per te.
- Per me nel senso che io ti ho impedito di andartene o-
- Per te e basta. – sbotta, pizzicandogli risentito un fianco, - Fattelo bastare, una volta tanto.
José annuisce.
- E tutta la voglia di andare via?
Zlatan lo pizzica ancora, più forte.
- Ahi! – si lagna José, massaggiandosi il punto dolente, - Ma la pianti?
Zlatan sbuffa e si sistema contro il cuscino. E poi la pianta, sì.

Tocca sempre agli scalzi andare sulle spine.
- Ma cosa, quindi sono stato di merda per niente! – piagnucola Davide, tirandogli addosso un asciugamano nel tentativo di fargli del male, - Che stronzo, Dio mio! Ma almeno hai pensato di andare via, almeno per un secondo da quando tiri avanti questa pagliacciata?
Zlatan gli scompiglia i capelli bagnati, mentre Mario ride e si affretta a risistemarglieli sulla fronte e sulle tempie non appena lui lo lascia andare.
- Per più di un secondo, Dà. Non vi ho mandato al manicomio per niente, non le faccio queste cose.
- Sì, sì, certo. – continua a lagnarsi il ragazzo, infilandosi svogliatamente i calzini, - Come se non fossimo già abbastanza sfigati così.
Zlatan si chiede cosa ci sia di sfigato al momento nell’Inter, ma poi sorge spontanea una domanda ben più interessante, perciò pone quella.
- Dà, ma perché ti fai sistemare i capelli da Mario?
Davide scrolla le spalle, mentre Mario, dietro di lui, si lascia andare ad un sorriso vagamente idiota.
- È bravo a maneggiarli. – risponde tranquillo, allacciando attentamente gli scarpini.
- Ah. – risponde Zlatan. Aaaah, si dice poi, annuendo fra sé.
 La rabbia di oggi serbala a domani.
C’è un bel venticello fresco, a Palo Alto. La partita sarà verso le quattro e mezza del pomeriggio, è quasi ora di pranzo, Zlatan ha fame e, in verità, non vede l’ora di sedersi a tavola per chiacchierare e scherzare con gli altri mentre José cerca per l’ennesima volta di rifilargli patate al forno. Però il venticello è davvero fresco e piacevole e un po’ gli secca rientrare in albergo, perciò resta lì, le mani in tasca e l’ampia maglietta smanicata che si gonfia e si sgonfia ad ogni capriccio del vento, a camminare tranquillo per il cortile, canticchiando fra sé. La voglia d’altro c’è ancora, non è scomparsa, è solo sopita, lì, da qualche parte nel fondo del suo stomaco. Zlatan lo sa che un giorno si risveglierà. Ma quel giorno non è adesso, a quel giorno penserà quando sarà il caso.
- Senti, te la dai una mossa? – lo rimbrotta José, affacciandosi dalla soglia dell’albergo e fissandolo con aria accigliata, - Stiamo aspettando solo te!
- Arrivo, un secondo! – sospira lui, simulando una noia che non gli appartiene neanche parzialmente. José torna dentro mormorando qualcosa sulle primedonne, e Zlatan sopprime la voglia di fargli una linguaccia alle spalle. Poi, ridendo a bassa voce, rientra.
Genere: Introspettivo, Romantico, (Pseudo) Erotico.
Pairing: Alen/Dejan, Mario/Davide, accennati Dejan/Siniša e José/Zlatan.
Rating: R/NC-17
AVVERTIMENTI: Slash, Lime.
- Alen Stevanovic ci racconta la storia della sua personale fine del mondo, e già che c'è ci racconta anche quelle degli altri, fra partenze e ritorni, imparando a capire cosa vuol dire trovare un equilibrio.
Note: Questa è una storia assurda che ho cominciato a scrivere perché m’ero innamorata di Alen Stevanovic, giocatore serbo che probabilmente nessuno di voi conosce XD attualmente militante nella Primavera dell’Inter. Non so perché ho immediatamente deciso di darlo a Deki, sarà che le SerbsTP mi possiedono XD E alla fine ho concluso per infilare in questa storia semplicemente di tutto, per cominciare con la SerbsTP#1 (Deki/Sini ♥), continuando poi col Santonelli e il Jobra XD Insomma, tanto amore gaio di vario genere e tutto ciò che Ary ♥ che oggi compie gli anni ♥ Tanti auguri, tesoro, tutto per te :* Spero ti piaccia!
Ps. Titolo rubato a The Hardest Part dei Coldplay. Se dovevo dire altro, l’ho dimenticato XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
You Left The Sweetest Taste In My Mouth


C’è un periodo molto preciso dell’adolescenza, che varia da persona a persona, naturalmente – perché nessuno è uguale a un altro neanche a cercare con la lente d’ingrandimento fra tutti e sette i miliardi e passa di persone che vivono su questo pianeta in questo momento – in cui non è importante quanti anni tu abbia o cosa tu faccia nella tua vita o quali siano le tue origini o con chi tu vada in giro o quali siano le tue convinzioni politiche o i tuoi credo religiosi: sei comunque una testa di cazzo. Ci provi anche, a volte, a uscirne, da questa maledizione tremenda, solo che non ti riesce. Testa di cazzo sei e testa di cazzo resti.
Si può manifestare in molti modi diversi – nel mio caso si manifestava con lo scopare in giro. Le cose, in Primavera, girano molto diversamente da come girino in prima squadra. La società crede in te, naturalmente, e sei capitale spendibile in cui investire, senza dubbio, ma ciò non toglie che tu non sia esattamente un elemento indispensabile per il gruppo della squadra, perciò sei molto più libero di quanto tu non sia quando poi fai il salto di qualità – se ci riesci, è ovvio – e ti ritrovi in panchina accanto al mister, o sul campo a sputare sangue per cercare di contribuire alla vittoria della squadra.
Chiaro, quando sei una nullità e tutta la tua vita gira attorno alla speranza che il mister possa chiamarti in prima squadra, la routine della Primavera la odi a morte. Sì, ci sono gli allenamenti a due passi dai campioni, e ci sono le partite e il campionato e tutto il resto, ma se hai delle aspirazioni, se il tuo obiettivo è diventare un grande, dopo un po’ continuare a giocare così in piccolo ti frustra. Oggi so che bisognerebbe essere abbastanza saggi da apprezzare ciò che si ha nel momento esatto in cui lo si possiede, ma d’altronde – come dice sempre Mario quando finisce gli allenamenti col Milan e passa a prendere Davide per tornarsene a casa – uno non ci pensa mai, a godersi quello che ha per bene, fino a che non lo perde irrimediabilmente. E lui ne saprà decisamente qualcosa, visto il casino che è successo fra lui e Davide quando s’è trasferito.
Comunque non è dei due idioti che voglio parlare, tanto più che è ovvio che hanno passato gli ultimi tre anni in astinenza in attesa che Davide riuscisse a venire fuori da questa specie di lutto che l’ha preso dopo il trasferimento, e da qui a qualche mese capiranno che stanno perdendo tempo in maniera idiota e ricominceranno a stendersi vicendevolmente su ogni superficie spendibile in tal senso nel raggio di chilometri, come ai bei tempi in cui stavano entrambi in prima squadra all’Inter e non c’era verso di staccarli l’uno dall’altro neanche ad usare le tenaglie o i gas repellenti.
O forse sì, è anche di questi due idioti che voglio parlare, mentre cerco di spiegarvi il momento assurdo che mi ha cambiato l’esistenza senza cambiare una virgola di ciò che ero.
Quando Mario ha accettato l’offerta del Milan ed è andato via – troppa competizione in prima linea, decisamente troppi attaccanti, e il Milan aveva urgente bisogno di corpi giovani dai quali attingere forza e velocità per provare a ribaltare una situazione che era pessima già da un paio d’anni – lui e Davide stavano insieme da molto tempo. Quando io sono arrivato in Primavera, loro scopavano abitualmente già da un anno abbondante, e se non avevano ancora ufficializzato la cosa era solo perché, in effetti, sarebbe stato abbastanza ridicolo ufficializzare qualcosa di cui tutti erano a conoscenza e che comunque tolleravano senza alcun problema.
Poi Mario è andato via. Loro hanno continuato a condividere l’appartamento, ma il senso di tradimento che Davide ha sentito più profondamente di tutti gli altri s’è frapposto ingombrante fra loro, e quindi in qualche modo si sono lasciati. Dico “in qualche modo” perché è sempre dura dire di qualcuno che ha lasciato qualcun altro quando continua a guardarlo nel modo in cui Davide guardava Mario, o quando continua a pensare a lui nel modo in cui Davide pensava a Mario – essendo peraltro in questo totalmente ricambiato. Comunque sì, si lasciarono. E una volta – non potrò mai dimenticarlo, si sfottevano tutte le teorie di fine del mondo nel 2012, visto che nel 2012 c’eravamo in pieno e non era successo niente di così drammatico, dato che eravamo ancora tutti lì a cazzeggiare – insomma, quella volta Davide, aspettando che Mario passasse a prenderlo, mi disse che in realtà per lui la fine del mondo c’era stata eccome.
E io ho capito cosa intendeva solo perché la mia, di fine del mondo, aveva già avuto luogo. Nel 2010.

*

- Per favore, per favore! – sussurrai a Simone, mentre lui faceva cenno a Lorenzo di aspettarlo un attimo, - Ho bisogno di stare fuori casa, stanotte! Ho detto a tutti che avrei fatto centro con la bionda dell’altra volta all’Hollywood! Non posso-
- Senti, Alen. – roteò gli occhi lui, esasperato, - Non è colpa mia se la gallina ti ha dato buca, okay? Io vivo coi miei, non posso portarti a casa con me! Se proprio non vuoi far sapere a nessuno che il grande Stevanovic, per una volta nella sua vita, non ha inzuppato il biscotto, aspetta che se ne siano andati tutti e chiama i tuoi genitori per farti venire a prendere!
- Ma dai! – insistei, agitato, - Lo sai che c’è un gruppo che si ferma sempre fino a tardi per guardare tutti gli allenamenti della prima squadra! Fino a che ora vuoi farmi aspettare?!
- Simo! – lo chiamò ad alta voce Lorenzo, agitando il casco, - Guarda che devo passare a comprare i pomodori o mia madre mi uccide, ce la diamo una mossa?
- Arrivo, arrivo! – disse sbrigativamente Simone, tornando a guardarmi. – Ale, ascoltami. A me dispiace per te, okay?, dico sul serio. Ma se perdo il passaggio di Lori poi sarò costretto a chiederlo a Mario e… - deglutì profondamente, cercando di trattenere una smorfia, - non ho alcuna intenzione di esserci, quando lui e Davide ricominceranno con la solita menata dei fidanzatini conviventi, ok? Quindi trova qualcos’altro o tornatene a casa. A domani. – e così dicendo sparì dalla mia vista, dirigendosi velocemente verso Lorenzo e raggiungendolo un attimo prima che quello se ne andasse per i fatti propri.
Scopare in giro, dicevo prima, era il mio modo di essere testa di cazzo, ai tempi. Ognuno di noi ne aveva uno suo, personale, il mio era scopare in giro e farlo chiassosamente, di modo che si sapesse. Un giorno sarei stato il mito dello spogliatoio per le mie capacità atletiche, in quel momento mi limitavo ad esserlo per la quantità spropositata di ragazze che m’ero portato a letto. Solo che, per quello stesso motivo, oltre all’ammirazione arrivava a pacchi anche l’invidia, e il rischio di venir preso per il culo vita natural durante per un due di picche era forte. Non so se immaginate quanto possa essere umiliante ritrovarsi in uno spogliatoio con venti diciottenni che ti sfottono come se da questo dipendessero tutte le loro vite. Non è bello. Ecco perché avevo sperato nell’aiuto di Simone, dato anche che ai tempi eravamo molto vicini e dividevamo la stanza in Pinetina, perciò lui era l’unico che, per forza di cose, quando mi andava male veniva a saperlo. Lui teneva questo segreto per me, io evitavo di parlare della cotta di proporzioni mistiche che lui aveva per Davide, ed eravamo entrambi contenti.
Mugugnando deluso e preparandomi ad una nottata all’addiaccio – a costo di restare a dormire fuori dai cancelli, cazzo, non avrei chiamato mamma e papà, non mi sarei fatto venire a prendere e non sarei tornato a casa – raggiunsi il gruppetto di ragazzi che osservava gli ultimi minuti di allenamento della prima squadra.
- Che ci fai ancora qui, Alen? – chiese Mattia con aria furba, - Non dovevi uscire con quella tipa bella come la Hunziker e via così?
- Certo che ci esco. – grugnii in risposta, sferzandolo con un’occhiataccia cattiva, - Più tardi.
- Oooh. – rise ancora lui, per niente convinto, e poi Ricky provò una trivela e la trivela mandò Julio a gambe all’aria, e quindi non ci fu più spazio per me e la possibilità di prendermi in giro, che si perse come una nuvola di fumo in mezzo all’esaltazione che ci dava il solo fatto di poterli osservare così da vicino, questi fenomeni.
Naturalmente, non avevo dove andare. Altrettanto naturalmente, aspettai che tutti fossero andati via e poi mi misi all’uscita, proprio accanto al cancello, a guardarmi intorno con aria sospettosa, preoccupato dall’idea che qualcuno potesse vedermi, mentre con una mano incerta accarezzavo il cellulare riposto all’interno della tasca dei jeans, combattuto fra la mia ostinazione e l’idea tremenda di passare davvero la notte all’addiaccio – non è una cosa che esattamente ti auguri, non agli inizi di novembre e non col freddo che fa da quelle parti in quel periodo dell’anno.
Come a voler coronare una situazione già inesorabilmente di merda, si mise a piovere. Mi bagnai come un pulcino tirando improperi a destra e a manca, cercando con lo sguardo un riparo inesistente senza per questo decidermi a mettere da parte l’orgoglio e chiamare i miei. E poi, la fine del mondo.
- Alen?
Mi voltai a guardarlo. Dejan, da sotto l’ombrello, mi fissava con aria allucinata, le labbra dischiuse e le sopracciglia inarcate verso l’alto.
- Ehm… - cercai di abbozzare un sorriso di circostanza; nonostante la nazionalità condivisa, io e Deki non è che parlassimo poi tanto. Io ero tremendamente in imbarazzo, nei suoi confronti, perché Dejan era, ecco, tutto ciò che avrei voluto essere, nel senso che era uno come me, un serbo, anche se io poi a conti fatti ero nato a Zurigo, e ce l’aveva fatta, era titolare in prima squadra, titolare in nazionale, pluripremiato e trattato da tutti con rispetto. Tutti noi in Primavera avevamo un modello, ognuno lo sceglieva in base alle affinità di gioco, o personali, io avevo scelto lui perché era serbo e perché mi piaceva guardarlo sfondare la difesa avversaria per spingersi in attacco. Non era fantasioso, e non era tecnicamente magistrale, ma era potente e ostinato e pulito. Mi piaceva. – …ciao. – conclusi quindi, deglutendo faticosamente.
- Ma… - riprese lui, guardandosi intorno come a chiedersi dove fossero i miei amici, - ma che ci fai qui da solo, scusa? Sta diluviando, non te ne sei accorto? Sei fradicio! – mi fece notare, il tono stupito di chi si chiede se davvero la persona che ha davanti non si sia resa conto delle svariate ovvietà di cui gli si sta parlando.
- Sì, è che… - balbettai incerto, - ci sono stati dei problemi, e… - cercai di tirare fuori una scusa convincente, ma non ce n’erano ed ero troppo stanco e bagnato per pensare lucidamente, - …e non posso tornare a casa, quindi…
Lui inarcò ulteriormente un sopracciglio, sempre più allucinato.
- Non puoi restare qui. – disse, senza chiedermi perché non potessi tornarmene a casa mia, - Ce l’hai un amico cui chiedere un posto per la notte?
Spostai il peso da un piede all’altro, imbarazzato, e nel movimento le mie scarpe, bagnate fin dentro, scricchiolarono sinistramente.
- …ho chiesto un po’, - mentii, - ma niente. Erano tutti… impegnati. – buttai lì, scrollando le spalle. Dejan annuì, inumidendosi le labbra.
- Senti, - disse, grattandosi la nuca, - …intanto vieni qui sotto, dai. – mi invitò, accennando col capo all’ombrello che reggeva in una mano e sotto il quale mi rifugiai istantaneamente, scuotendomi tutto per cercare di liberarmi da un po’ dei litri d’acqua che il mio corpo dava l’impressione di voler cominciare ad assorbire, neanche fosse stato una spugna, - Piano, mi bagni tutto! – rise lui, divertito, - Comunque, ascolta. Ho un appartamentino ad Appiano, a pochi minuti da qui, per le emergenze. Se vuoi… - scrollò le spalle, - intendo, se per te non è un problema, puoi stare lì per stanotte. – e poi, sorridendo furbo, aggiunse: - Non lo saprà nessuno.
Se non fossi stato così bagnato da gelare perfino nelle ossa, sarei probabilmente arrossito. Fortunatamente rischiavo l’ipotermia, e perciò il commento di Deki si limitò a salvarmi la vita ridando al mio corpo quel minimo di calore sufficiente a sopravvivere ma non abbastanza forte da affiorare alle mie guance.
- Grazie! – annuii agitato, - No che non è un problema, naturalmente non lo è! Grazie! – ripetei ancora, e lui rise passandomi una mano sulla testa come in una mezza carezza, scuotendo ancora un po’ d’acqua dai capelli corti.
L’appartamentino era un bilocale molto grazioso che con l’idea che mi ero fatto di Dejan non c’entrava un accidenti di niente. Guardi lui e pensi a un appartamento enorme e incasinato, perché insomma, Deki è incasinato, fa un sacco di cose assurde, è rumoroso, è sempre in movimento e non è mai aggraziato quando si agita, perciò avevo quest’idea di appartamento con i divani pieni di roba, mucchi di vestiti ad ogni angolo, il letto sfatto, che ne so. Invece niente, era un posto carino con le tende a fiori e le pareti in legno, una cosa molto simile a una casina di caccia, però in versione bilocale alla moda, ecco. Non so se si capisce cosa intendo. Comunque c’era questa grande stanza che era il salotto, col divano e la televisione e tutto, e poi c’era un soppalco, un po’ defilato, nascosto da un paravento con degli uccelli gialli disegnati sopra, dietro al quale s’intuiva un letto di dimensioni modeste ed un altro televisore, più piccino, in un angolo. E poi c’era un bagno, una veranda con cucina e un terrazzino sormontato dallo scheletro di quello che un tempo doveva essere un gazebo, ma del quale era rimasta soltanto la struttura in ferro, pure un po’ arrugginita, perché del tendone non c’era traccia.
- Lo tengo per quando faccio tardi agli allenamenti e sono troppo stanco per tornare a Milano. – mi spiegò, sfilando l’impermeabile ed appoggiandolo all’attaccapanni, lasciandolo poi lì a gocciolare sul pavimento, - Mi spiace se è tutto un po’ fuori uso, voglio dire, non è che ci passi tutto questo tempo. – aggiunse, guardandosi intorno con aria incerta, - Vedi un po’ se funziona la tele, che io cerco se c’è qualcosa da mangiare. – poi si interruppe e mi guardò a lungo, dall’altro in basso, ridacchiando e muovendosi svelto verso una cassettiera vicina al soppalco, - Facciamo così. – propose, porgendomi un pigiama pesante, grigio ed enorme, - Va’ in bagno, fatti una doccia calda, asciugati e metti questo. Io, nel mentre, chiamo Ana e le dico che stasera non torno. E poi ordino due pizze. – concluse con un’altra risatina. – D’accordo?
Annuii senza spiccicare nemmeno una parola.
Non saprei dire se fossi a disagio – d’accordo, ci conoscevamo poco, ma non è che fossi preoccupato dal ritrovarmelo intorno, anche in un contesto così intimo come casa sua. Avevamo condiviso lo spogliatoio, quel paio di volte che il mister mi aveva chiamato in prima squadra per qualche amichevole, giusto per cominciare a fare un po’ di esperienza sul campo, coi grandi, e una volta che condividi lo spogliatoio con qualcuno, soprattutto se quel qualcuno è Deki, che può tranquillamente essere definito spigliato, usando un eufemismo elegante, insomma, il pudore a quel punto diventa un optional anche un tantino idiota, nel senso che pure condividere il letto alla fine è una cosa fattibile. Certo, non ti metti a saltare e ballare in preda all’euforia, ma non ti senti in imbarazzo né fuori luogo, non ne hai motivo.
E quindi, mentre usavo il suo bagnoschiuma e i suoi asciugamani e indossavo il suo pigiama grigio, non è che mi sentissi propriamente in imbarazzo o avessi voglia di andar via, anzi, gli ero grato di avermi trovato un posto in cui stare e di aver rinunciato alla possibilità di passare una serata con sua moglie e i suoi figli, solo per tenermi compagnia.
Non ero in imbarazzo, non ero a disagio. Ero solo agitato.
Quando uscii dal bagno, ancora un po’ umido ed avvolto nel suo pigiama, lo trovai che finiva di sistemare le stoviglie sul tavolo. Le pizze erano già arrivate, aveva preso due margherite semplici e una bottiglia di coca cola, probabilmente cercando di tirare a indovinare cosa potesse piacere ad un ragazzo della mia età, o forse rovistando nei ricordi per cercare di riportare alla mente cosa piacesse a lui quando aveva meno di vent’anni. In ogni caso ci aveva preso, mi sedetti a tavola con lo stomaco che borbottava deliziato, desolatamente vuoto ed impaziente di essere riempito.
Parlammo tranquillamente di un sacco di cose. Di com’era il clima negli spogliatoi della Primavera – “torrido e umido”, risposi, “quando apriamo tutti l’acqua calda sembra di essere nella foresta Amazzonica”, e lui rise divertito – di quanto il mister ci tenesse a coinvolgere noi “piccoli” nel lavoro coi più grandi, di quanto contasse su di noi per costruire per l’Inter un futuro più solido, con prospettive più ampie, e mentre discutevamo di questi argomenti serissimi Deki trovò anche il modo di sdrammatizzare tirandosi addosso mezzo litro di coca cola e bagnandosi tutto come uno scemo, per poi sfilarsi la maglietta e lasciarla piegata in due e appoggiata sulla spalliera di una sedia, continuando a mangiare e borbottando di essere troppo affamato per andarsi a fare una doccia adesso, ci avrebbe pensato poi.
Poi non venne mai, perché dal tavolo ci trasferimmo direttamente sul divano, sazi e ancora ridacchianti per le scenette che s’erano avvicendate a tavola – non solo Deki che si versava addosso mezzo litro di Coca Cola, ma anche io che inseguivo un filamento di mozzarella fin quasi a rovesciare nel cartone tutto il condimento della pizza, o il momento in cui ci accorgemmo che una decina di piccioni stavano litigandosi uno spazietto al coperto sul terrazzino a colpi di becco e ali.
Dejan accese il televisore ma lasciò il volume basso perché preferiva continuare a parlare con me, e perciò lo sciocco programma d’intrattenimento su non mi ricordo che canale scivolò sullo schermo senza che nessuno di noi due vi prestasse attenzione. La pioggia, da fuori, picchiettava sui vetri delle finestre riempiendo la stanza di ticchettii ipnotici che si fondevano col brusio delle risate preregistrate in sottofondo al programma e facevano da colonna sonora al chiacchiericcio incessante di Dejan, che continuava a sciorinare episodi comicissimi degli allenamenti o dei pranzi di gruppo o dei grandi festeggiamenti per gli scudetti o di altre duemila occasioni diverse cui io avevo preso parte solo da spettatore marginalmente coinvolto, e non so cosa successe, non so perché a un certo punto mi sembrasse così naturale appoggiarmi alla sua spalla e socchiudere gli occhi mentre lui mi traeva delicatamente a sé, accarezzandomi distrattamente un braccio. Persi il senso del tempo inseguendo il suono della sua voce – sembrava cullarmi come una ninna nanna, non ascoltavo cose simili da più anni di quanti non potessi contarne con entrambe le mani – ascoltai ogni singola parola vibrarmi nella testa attraverso il suo petto – non mi ero accorto di essermi steso tanto, lui non aveva fatto una piega quando mi ero allungato contro il suo corpo – e quando sollevai il viso, del tutto casualmente, per trovare una posizione più comoda e sciogliere i muscoli intorpiditi da quei minuti di immobilità, trovai le sue labbra come fossero già in attesa delle mie, non protese né alla ricerca di un bacio, semplicemente lì, immobili, vicinissime, e non dovetti neanche sporgermi per riuscire a sfiorarle.
La scarica elettrica che mi percorse tutto lungo la schiena, scalando le vertebre con velocità e furia assassine, fino a risvegliare dal torpore ogni singolo muscolo del mio corpo, mi costrinse a saltare in piedi. Le braccia rigide e larghe lungo i fianchi ed il respiro pesante, restai a guardare Dejan ancora immobile sul divano col cuore che martellava tanto forte nel petto da farmi male. Tumptumptump, era tutto quello che potevo sentire.
- Alen? – mi chiamo Dejan a bassa voce, e io indietreggiai. - …mi dispiace. – aggiunse immediatamente. Io non risposi. Non riuscivo a respirare normalmente, ogni volta che ci provavo mi doleva il petto. Strinsi i pugni con tutta la forza che avevo, gli diedi le spalle e mi mossi senza pensare.
Fuori si congelava. La pioggia era ghiacciata e picchiava con una forza incredibile. Le gocce, grosse e pesanti, mi si schiantavano addosso come chicchi di grandine – o almeno facevano altrettanto male. I piccioni, che prima avevano combattuto tanto per un po’ di posto sotto la grondaia, erano alla fine riusciti ad accordarsi: stretti l’uno all’altro, le penne umide arruffate e le teste incassate fra le ali, si scaldavano a vicenda, incuranti del temporale. Rimasi immobile al centro del terrazzo finché la voce di Dejan non mi scosse ancora, pacata.
- Non volevo spaventarti. – disse piano, - Ti osservo da un po’. – continuò, come dovesse giustificarsi, - Mi dispiace di avere esagerato.
Io non mi voltai a guardarlo. Continuai a fissare i tetti delle case di fronte a me e la pioggia cadere scrosciante, scivolando ovunque in rigagnoli grigiastri, fino a terra.
- Posso avvicinarmi? – chiese Dejan. Io deglutii, prima di annuire, e poco dopo sentii le sue braccia circondarmi le spalle e la sua guancia sfiorare la mia in un gesto tenero e rassicurante. – Hai paura? – chiese a bassa voce, le sue labbra mi sfioravano la guancia ad ogni movimento. Annuii ancora. – Non ti piaccio? – scossi il capo energicamente, e non so nemmeno perché. Quella domanda lui non avrebbe nemmeno dovuto pormela. Era senza senso, fuori luogo ed era anche una pazzia. Eppure scossi il capo, perché la pressione delle sue braccia mi piaceva, perché mi piaceva il suo profumo, perché mi piaceva la sua voce, perché mi piaceva il modo in cui il suo corpo bagnatissimo aderiva al mio. – E hai paura lo stesso. – constatò lui con una mezza risata. – Sai, la prima persona che ha avuto me, poco prima di… insomma, capito, no?, mi disse “la paura è una componente fondamentale. È giusto avere paura”. – sospirò profondamente, allontanandosi da me e spingendomi a rigirarmi fra le sue braccia, fino a potermi guardare dritto negli occhi. I capelli fradici gli si erano appiccicati alla fronte e alle tempie, le sue ciglia erano talmente bagnate che sembrava avesse appena finito di piangere, ma i suoi occhi erano scuri e tranquilli e brillavano di determinazione. – Io credo che sia vero.
Mi baciò lentamente, quasi esitando, ed io vorrei poter dire che risposi perché ero confuso e stanco e stordito, ma tradirei troppo di ciò che sono, tradirei troppo di quella sera – tradirei troppo Deki – se solo mi azzardassi a dire una bugia simile. Risposi perché lo volevo. Risposi perché era abbastanza vicino da permettermi di farlo, risposi perché la sua pelle bagnata scivolava bene sotto le mie dita, risposi perché la sensazione che mi dava la sua lingua intrecciandosi con la mia ed accarezzandola lentamente era impagabile. Risposi perché non mi ero mai sentito così con nessuna delle ragazze con cui avevo scopato – e so che è un cliché, ma non ho mai detto di essere meno banale degli altri.
Avrei dovuto avere l’impressione di stare facendo qualcosa di tremendamente sbagliato, lasciando che mi spingesse contro una parete e mi accarezzasse lento lungo i fianchi e il torace, ma non sembrava niente del genere. Sembrava solo giusto – era piacevole. Continuai a farmi accarezzare dalla pioggia, dalle sue mani e dalle sue braccia, finché non furono quelle stesse braccia a riportarmi dentro e stendermi sul divano.
- Il letto è lontano. – disse Deki, scivolando con le labbra lungo il profilo del mio collo, - Ma non potevamo restare là fuori.
Risposi con un mugolio, e fu tutto ciò che riuscii a dire anche dopo – mentre Deki mi sfilava il suo pigiama ormai fradicio e lo lasciava ricadere a terra, mentre baciava ogni centimetro del mio corpo come volesse conservarne per sempre in memoria una traccia, mentre disegnava sui miei fianchi l’impronta delle proprie mani stringendo come se volesse renderla indelebile, mentre si sistemava fra le mie gambe e mi accarezzava svelto, cercando di distrarmi, mentre entrava dentro di me uccidendo il mio gemito di dolore in un bacio più profondo e rovente degli altri, mentre spingeva e ansimava e mi teneva stretto e io chiudevo le palpebre con tanta forza da vedere bianco, non dissi una parola. Solo quel mugolio, e nient’altro. Ricordo ancora il suono preciso che fece la mia voce quando sfilò impalpabile fra le mie labbra e si perse sulle sue. Mmhn. Mi chiedo se anche Deki lo ricordi ancora.

*

- Ehi! – mi saluta Mario, battendomi una poderosa pacca sulla spalla mentre finisco di raccogliere le mie cose nel borsone, - Come va? Sei in partenza?
- Ciao. – rispondo io con un sorriso, - Sì, Mihajlović mi ha convocato per l’amichevole di venerdì. Ci puoi credere?
Mario ride divertito, annuendo lentamente.
- Ci credo sì. Congratulazioni. – poi si guarda intorno curioso, quasi circospetto. – Davide? – chiede quindi, chinandosi appena verso di me, come non volesse farsi sentire da altri. Io sospiro pesantemente, rilassando le braccia lungo i fianchi.
- Il mister gliene sta dicendo di tutti i colori da almeno mezz’ora.
- Andato male l’allenamento? – indaga, mordicchiandosi un labbro.
- Diciamo che avrebbe potuto essere più brillante. – rispondo io con un altro sospiro. – È successo qualcosa fra voi? – chiedo quindi, cercando di essere discreto e di scrutare una risposta negli occhi di Mario prima che debba essere lui a darmela. Non faccio in tempo, comunque.
- Succede sempre qualcosa, fra me e Davide. – ride, con un pizzico di rassegnazione. – E temo che mi toccherà aspettare parecchio, se ricordo ancora come striglia il Mou.
Rido anch’io, e ci sediamo entrambi su una panchina. Le nostre risate riecheggiano ovunque nello spogliatoio vuoto, ed io temo di essere già in ritardo.
- Ti penti mai di essertene andato? – chiedo a bruciapelo, guardandolo di sottecchi. Mario fissa dritto davanti a sé, serio.
- Te lo ricordi Ibra? – ribatte invece di rispondere. Io annuisco, mentre nella mia mente si forma il profilo di un giocatore col quale ho potuto confrontarmi solo da avversario, da quando gioco seriamente a calcio, - Quando è andato via lui, gli ho fatto la stessa domanda. Non erano passati nemmeno tre mesi, ci siamo incontrati qui a Milano per la prima partita del girone di qualificazioni di Champions. Sembrava felice di giocare in blaugrana, ed io allora ero molto meno felice di vederlo con quel colori addosso. – scrolla le spalle, - Ero giovane e ancora piuttosto ingenuo, nonostante tutto. Comunque, gli feci la stessa identica domanda di fronte al succo di frutta che aveva insistito per offrirmi nonostante mi fossi lagnato per un’ora di volere una birra.
- E lui che rispose? – rido io, divertito. Mario sorride.
- Rispose che l’unica regola che aveva sempre seguito nella sua esistenza era stata quella di agire senza mai doversene pentire in futuro. In pratica, fare qualcosa solo quando si è certi di volerlo davvero con tutte le proprie forze.
- Ma non pensi mai a cosa hai lasciato? – insisto io, gesticolando, - Anche fra te e Davide-
- Sai, - mi interrompe lui, alzandosi in piedi con un sorriso e guardandomi dall’alto, le mani sui fianchi e le gambe semidivaricate in una posa sbruffona che gli ho visto spesso addosso sia in partita che fuori dal campo, - io credo che il punto della partenza non sia tanto cosa lasci quando vai via, ma cosa trovi quando torni. Intendo, - scrolla brevemente le spalle, - se torni e ci sono ancora le stesse identiche cose di quando sei partito, sei a casa. E magari prima di partire non lo sapevi nemmeno.
Schiudo le labbra, incerto.
- …non capisco. – mi arrendo con l’ennesimo sospiro, - Cosa c’entra?
Mario ride ancora, come mi stesse prendendo in giro – e probabilmente lo sta facendo davvero.
- Il Barça – dice, apparentemente senza un senso preciso, - non vince da quasi cinque giornate, sai? E io – ridacchia, - ho quindici gol all’attivo solo in campionato, ed un contratto che scade a giugno. – sorride più apertamente, mentre io spalanco gli occhi, - E gennaio è alle porte.
- Cosa?! – strillo, scattando in piedi, mentre Mario ride più forte, - Scherzi! Non scherzi?! – scoppio a ridere anch’io, - E Davide lo sa?
- No! – continua a ridere Mario, - E non dirglielo. Tanto, vedrai, litigheremo anche per quello. Sembra tanto pacato e remissivo, ma è una piaga sociale ed è anche più ostinato di un mulo. Vedrai che arrufferà le penne più adesso di quanto non abbia fatto quando sono andato via.
- Incredibile! – commento con un altro sorriso, - Solo che… insomma, - inarco un sopracciglio, - capisco perché stai tornando tu, voglio dire, seguendo il discorso di prima e quello che trovi tornando… ma Ibra?
Mario si lascia andare a un sorriso furbo, e quando il mister fa irruzione nello spogliatoio urlando e sbraitando chiedendoci cosa diamine ci facciamo ancora qui e perché il nemico si sia intrufolato nello spogliatoio, ride perfino più apertamente. Mario non risponde, suppongo che dovrei aver capito qualcosa, ma qualunque cosa sia mi sfugge. Solo che adesso sono in ritardo sul serio, quindi non ci penso più.

*

Siniša Mihajlović è identico a come lo ricordavo. L’ultima volta che l’ho visto stava accanto al mister e mi guardava con aria interessata. L’unica cosa che Mourinho ha voluto dirmi, in seguito a quel colloquio, è stato un “mi toccherà ricominciare a combattere per tenerti in squadra” condito da un sospiro esasperato che mi ha divertito parecchio. Meno di un mese dopo, la convocazione. È stato Davide a spiegarmi per sommi capi cosa l’allenatore intendesse con quelle parole, la minicronistoria del suo odio nei confronti delle nazionali maggiori mi ha divertito anche più del suo sospiro. Mi sono sentito molto lusingato, e mi sento così ancora adesso, mentre Mihajlović sorride e mi batte una bacca compiaciuta sulla spalla.
- Ce l’hai fatta, alla fine, - mi prende in giro, e parla in italiano perché sa che è la lingua che conosco meglio, - a liberarti dalle grinfie del demonio ed arrivare. – rispondo con una mezza risata, annuendo distrattamente. – Hai paura? – mi chiede quindi, con un sorriso un po’ storto.
Io resto in silenzio per qualche secondo e ascolto il battito del mio cuore. Tumptumptump.
- Sì. – rispondo quindi, e la voce mi trema un po’.
Mihajlović, comunque, sorride.
- La paura è una componente fondamentale. – dice, - È giusto avere paura.
Tumptumptump dice il mio cuore, saltandomi in gola.
Quando rispondo, non so come faccia la voce a passare.
- Cercherò di ricordarmelo.
Genere: Commedia.
Pairing: *prende fiato* José/Zlatan/Davide/Mario/Adriano/Douglas/Ivan/Julio/Marco/Dejan/Cristian.
Rating: R?
AVVERTIMENTI: Slash, Flashfic, Elevensome, Crack vario ed eventuale, penso.
- Questa non è una fanfiction, è la trasposizione narrativa del Tetris.
Note: Io ho ancora delle oggettive difficoltà a capire come tutto ciò sia potuto succedere X’D Ricordo che Gra ha indetto questa challenge che aveva come obiettivo scrivere una storia sul rapporto di tre persone, o comunque un gruppo dispari di gente. Fiore ha quindi commentato il tutto dicendo qualcosa tipo “dillo che in realtà l’hai fatto perché vuoi che Liz scriva una 11some con tutta la formazione!” XD Sono seguiti commenti di chiunque – tra Fae scioccata, Chià che la chiedeva a gran voce e Gra che aggiungeva il proprio “potrei davvero averlo fatto apposta”, e insomma, mi sono sentita sfidata nel mio onore di fanwriter (?), perciò l’ho fatto. Una 11some. o_o Meriterei dei premi. E di essere rinchiusa, anche, e presto.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
ELEVEN'S A CROWD
Commedia @ Fanworld.it Pigiama Party
La Solitudine dei Numeri Dispari @ Gracalling


Già confuso ma fermamente intenzionato a non farsi abbattere dalle oggettive difficoltà della scena che gli si presenta davanti, José solleva lo sguardo ed incrocia le braccia sul petto nudo.
- Dunque. – comincia con fare competente, - Tutto quello che ci serve è un po’ di organizzazione.
Zlatan, steso sul letto al suo fianco e con addosso solo un angolo di lenzuolo, scoppia a ridere, mentre il resto dei nove undicesimi presenti si guarda intorno con aria vagamente imbarazzata.
- Non per porre un freno ai tuoi sogni di gloria, - contesta lo svedese con un ghigno furbo, - ma in una situazione simile non puoi mica adottare uno schema e risolvere così. Com’è, proviamo col classico albero di Natale? Quattro-tre-due-uno? Uno con dietro due con dietro tre e via così e tu guardi dal bordo del letto agitando le braccia come un indemoniato?
José si volta a guardarlo con aria omicida, borbottando un “be’, nessuno ti ha costretto a venire!” inviperito che si perde in parte tra le continue risate di Zlatan ed in parte fra le lamentele di Dejan.
- Sì, ma così non è giusto! – sbotta il serbo, mettendosi a sedere sul letto con le gambe e le braccia incrociate, neanche fosse un dodicenne offeso, - Mario si tiene Davide tutto per sé!
Per tutta risposta, il ragazzo ringhia, stringendosi contro il compagno.
- Io non volevo nemmeno venire! – motiva spiccio, - Mi ha costretto Davide, ha quella cosa che… - e naturalmente, in mezzo al suo lamentarsi continuo, Davide sorride con un’innocenza indecente in maniera quasi disturbante, e quindi tutto il gruppo è obbligato a prendere atto del fatto che sì, Davide ha quella cosa che e non è possibile sfuggirgli. Il secondo dopo, ci sono solo mani che si allungano verso di lui e labbra che cercano le sue. Davide risponde a tutti con un sorriso allegro dipinto sulle labbra piene, Mario prova a contrastare l’attacco mordendo dita a caso quando gli capitano a tiro, ma si stanca presto, perché Davide geme e, ad esempio, il solo vedere il suo corpo snello e asciutto schiacciato fra quelli decisamente più massicci di Deki e Marco, mentre Christian gli stuzzica il collo con la lingua, lo manda fuori di testa.
Adri, steso sul materasso, il capo poggiato contro il ventre di Zlatan che si solleva e si riabbassa al ritmo del suo respiro, ride, e la sua risata si riflette nella voce dello svedese, costringendoli entrambi a sobbalzare un po’. José li odia entrambi e li fissa con disapprovazione.
- Non ti arrabbiare, mister, constatavo solamente che paiono cavarsela alla grande anche senza la tua direzione. – lo prende in giro il brasiliano, tirando fuori la lingua. Zlatan ne approfitta per chinarsi e rubargli un bacio, e José scuote il capo, rassegnato.
- Oh- Ahi! – si lamenta qualcuno alle loro spalle, ed è Douglas. – Il ginocchio in mezzo alle chiappe no, Ivan, fa male! Sta’ attento!
- Tanto presto arriverà qualcosa di peggio. – commenta pratico Julio, battendo una pacca amichevole sulle spalle del connazionale prima di ribaltarlo sul materasso e voltarsi verso l’altro, - Dai, proviamo così, che qua se aspettiamo direttive restiamo immobili fino all’anno prossimo.
- Ma nessuno qui si fida della mia autorità ed esperienza sul campo?! – borbotta José, incredibilmente offeso. Zlatan, tanto per cambiare, ride di lui.
- Non hai nessuna delle due cose. – gli fa notare.
- Però hai qualcos’altro di decisamente più interessante. – commenta Adriano con un sorriso malizioso, avvicinandoglisi. José solleva gli occhi al cielo in cerca del Dio che lo precede ed al quale probabilmente vorrebbe chiedere perché gli abbia dato un appetito sessuale tale da provare ad organizzare un incontro fra una quantità di persone simili – e similmente fuori di testa – ma tutto ciò che trova è il soffitto e da qualche parte ci sono le labbra umide di Adriano che giocano lievissime sulla sua pelle, perciò lascia perdere le preghiere e socchiude gli occhi, respirando piano.
Zlatan sorride compiaciuto e si unisce al gioco, pensando che su quel materasso enorme sono tutti vicinissimi, e quindi forse in realtà un po’ di organizzazione non serve nemmeno: lo schema di gioco più adatto, lo troveranno sul campo.
Fandom: RP: Calcio
Personaggi:
Genere: Introspettivo.
Pairing: Dejan/OMC.
Rating: PG-13
AVVISI: Slash, OMC.
- Questa non è una storia d'amore, o forse sì. E' la storia di una scintilla, di un colpo di fulmine, della prima volta che Ilija ha toccato una palla e ha deciso cosa fare di tutto il resto della propria vita. Non è una storia d'amore. O forse sì.
Note: *si imbarazza in modi prepotenti* Salve è///é Dunque, questa fic, innanzitutto, è un regalo. Un regalo di quelli senza motivo, o meglio, di quelli senza occasione specifica. Un regalo per Def, semplicemente perché c'è. XD Si tratta infatti di una storiella che ho scritto a partire da un suo personaggio originale, Ilija, che potete trovare qui, mentre si shippa amorevolmente con Deki alla lettera I. In questa shot però io non parlo granché del suo rapporto con Deki - cioè, sì, anche, ma non è quello il punto - perché è di Ilija che mi sono innamorata, principalmente, ed è la sua storia che ho provato a raccontare.
Scritta nell'ambito del B.I.Bi.T.A @ maridichallenge.
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FLYING AT THE SPEED OF SOUND

Ilija riceve il suo primo pallone da calcio ad un anno. Non è il primo pallone da calcio che tocca, naturalmente. Il primo pallone da calcio che ha toccato è stato quello di suo padre, e lui non doveva avere più di otto, nove mesi. Suo padre l’ha preso in braccio, l’ha portato verso la bacheca in legno e vetro in fondo al salotto, ha aperto una delle ante finemente decorate e gli ha sussurrato “lo vedi questo pallone? Questo l’hanno toccato i piedi di Miha”. Ilija non aveva la minima idea di chi fosse Miha, o di cosa suo padre gli stesse sussurrando, con gli occhi brillanti e i fitti baffi scuri a coprire tutto il labbro superiore e, quando teneva la bocca chiusa, anche la quasi totalità del labbro inferiore, ma la forma del pallone, quella sì, era intrigante, interessante, piacevole, addirittura, e lui ha allungato un braccio, ha teso le dita della mano e l’ha sfiorato, e forse la scintilla era già lì, anche se lui non può saperlo, non l’ha mai saputo e non lo saprà mai, perché di questo episodio non conserva memoria. Suo padre sì, suo padre ne ha conservato memoria, ma è morto prima di poterglielo raccontare quando anche Ilija avrebbe potuto conservarlo dentro di sé, e perciò il momento è andato perduto, perduto per sempre.
La scintilla, però, no.
*
Il primo pallone tutto suo, però, sì, arriva quando compie un anno. Non a caso, è suo padre a regalarglielo. Dall’episodio che ha posto le basi per ciò che Ilija diventerà fra poco più di venticinque anni non sono passati che pochi mesi, ma la mente dei bambini si distrae facilmente, dimentica facilmente, e così, quando posa gli occhi sulla sfera bianca e nera che suo padre gli fa carambolare fra le braccia mentre stanno seduti sul tappeto colorato della sua cameretta, è come se la vedesse per la prima volta. È come innamorarsi di nuovo, da capo. Qualcosa gli esplode negli occhi, e suo padre la vede. Suo padre la vede e sorride.
Non gli dice niente, però, non vuole che questo diventi uno di quei momenti sacrali, uno di quelli che poi i giornalisti si sentono sempre in dovere di tirare in ballo come fossero chissà che segni di divina premonizione quando poi i giocatori diventano famosi davvero – ha sempre pensato in grande, Dragan, quando s’è trattato di suo figlio, era certo che non sarebbe diventato soltanto un professionista del gioco del calcio, ma un calciatore, di quelli veri, di quelli che di calcio vivono, respirano e si nutrono – no, Dragan non vuole che nessuno pensi che sia merito suo, se il suo piccolino diventerà una stella, non vuole che lo pensi neanche Ilija. Ciò che vuole è solo presentargli la palla. L’amore farà il resto.
E così, in effetti, è.
*
Due giorni prima che Ilija compia cinque anni, Dragan gli compra una maglietta dell’Inter. Ufficiale, naturalmente. E di Stanković, altrettanto naturalmente.
L’anno è il duemilanove, la stagione sembra quella giusta – non sarà giusta abbastanza, l’anno dopo andrà meglio, ma Dragan non sarà lì per vederlo – ma in realtà non importa, Dragan non tifa per l’Inter, tifa per la Stella Rossa, ma Stanković è una questione a parte, Stanković è Stanković, e Dragan vuole che suo figlio abbia la sua maglietta, per il suo quinto compleanno. Vuole che la indossi, quando giocherà a pallone per strada coi suoi amichetti la sera stessa in cui avrà spento le candeline, mangiato la torta e scartato i regali. Vuole che continui ad indossarla anche anni dopo, motivo per il quale la compra già grande, enorme, da adulti, così non smetterà mai di andare bene.
È cara, e doverla comprare online non aiuta granché col prezzo, e il periodo non è buono, ci sono tante spese, Ilija l’anno prossimo dovrà cominciare ad andare a scuola, i soldi andrebbero risparmiati, ma non oggi, non per questo, perciò la compra, e senza ripensamenti. È felice di averlo fatto. In realtà, “sono felice di averlo fatto” è l’ultima cosa che pensa prima di chiudere gli occhi, quella sera, andando a letto.
Non li riaprirà più.
*
La maglietta arriva il giorno dopo. Nessuno le bada. Sonja la prende in consegna dalle braccia del postino e poi infila la scatola nel ripostiglio, nascondendola sullo scaffale più in alto, dove pensa che Ilija non riuscirà mai a trovarla.
Dopodiché, torna a piangere suo marito.
*
Ilija ritrova la maglietta poco più di tre anni dopo. Ha invitato un paio di amichetti a casa per il pomeriggio, Sonja ha preparato loro i biscotti e lui, da bravo ometto di casa, li ha distribuiti con un bicchiere di latte ciascuno. Dopo un po’, giocare alla Playstation ha cominciato a diventare noioso, comunque, ed i suoi amici gli hanno chiesto se non avesse per caso un qualche gioco da tavolo. “Il Monopoli, magari!” ha chiesto Ivica, battendo le mani con entusiasmo. Ilija c’ha pensato per un po’ e poi ha ricordato la vecchia scatola di Risiko praticamente mai utilizzato che ha ricevuto per Natale un paio di anni fa – un paio d’anni, però, possono essere una vita, e per un bambino che comincia a dimenticare il suono della voce di suo padre possono equivalere anche a qualche secolo di silenzio – ed è andato a controllare nel ripostiglio, per vedere se per caso fosse stata conservata là.
Non l’ha trovata, ma in compenso ha trovato quella scatola impolverata e assolutamente anonima che non ricordava di aver mai visto, perciò l’ha presa fra le mani e si è arrampicato al contrario lungo l’impalcatura in ferro della parete attrezzata, tornando a terra. E poi l’ha aperta.
Ora stringe il tessuto fra le mani, e non sa che si tratta dell’ultimo regalo di suo padre. Non sa perché questa maglietta si trovi qui, non sa cosa rappresenta e non riesce neanche a capire perché dovrebbe rappresentare qualcosa per lui, visto che lui, a calcio, nemmeno gioca.
Di fronte ad un altro bicchiere di latte e a qualche altro biscotto, sua madre provvede a rispondere.
*
Sonja guarda suo figlio giocare, seduta a bordocampo. Sulla panchina, accanto a lei, c’è uno spazio vuoto ad occupare il quale lei si diverte ad immaginare le forme di Dragan. Le sue spalle ampie, la pancia appesantita dagli anni e dalla birra, i folti capelli neri, quei suoi baffi così ridicoli che lei ha sempre odiato, e che ora le mancano quasi più di tutto il resto. Vorrebbe che Dragan fosse lì, vorrebbe osservare l’espressione del suo viso adesso che Ilija rincorre il pallone e tutti gli avversari rincorrono lui nel tentativo di fermarlo, senza riuscirci. È sicura che il suo sorriso sarebbe estatico, gli brillerebbero gli occhi. A lei viene solo voglia di piangere.
- È bravo. – dice mister Mirković, avvicinandosi a lei ma restando in piedi, - È un peccato che non abbia cominciato prima.
- Non è ancora troppo grande, vero? – chiede Sonja, una punta di paura ad incrinare la voce. Mister Mirković le sorride rassicurante, battendole gentilmente una mano contro una spalla, come a volerle fare forza.
- Andrà bene. – le dice, - Ma dovrai parlargli.
Sonja si volta a guardarlo quasi di scatto, preoccupata.
- C’è qualcosa che non va? – chiede, e Mirković scoppia a ridere, scuotendo il capo e sedendosi sulla panca accanto a lei. Il cuore di Sonja si frantuma e se non scoppia è solo perché lei riesce a riprendersi abbastanza in fretta da capire che quello è il suo posto, non il posto di un fantasma.
- No. – dice l’allenatore, tornando a guardare i ragazzini che giocano, - È tutto a posto, solo che non vuole mai togliersi quella maglia. – ridacchia, indicando Ilija che tira e segna e poi esulta, stringendo la maglietta di Stanković fra le mani e strattonandola un po’, - Sta cominciando a diventare complicato. Cambia squadra ogni dieci minuti, gli altri ragazzini si confondono.
Sonja torna a guardare suo figlio, e sorride. Sa che Dragan ne sarebbe fiero, e questo le basta.
*
Ilija toglie la maglia da solo, a un certo punto. Sua madre non ha mai bisogno di chiederglielo. Semplicemente, si rende conto di non poterla più costantemente tenere addosso, e si rende conto di usarla un po’ come una protezione, la sua sicurezza, quella cosa minuscola e insignificante alla quale però si aggrappa per sentirsi forte. Sa che non è così che dovrebbe essere, sa che un calciatore dovrebbe sentirsi forte a prescindere dalla maglia che indossa.
È ancora un ragazzino – a quattordici anni, non potrebbe neanche sognare di riferirsi a se stesso con un altro nome – ma conosce il calcio, sa che il più delle volte militare nella propria squadra del cuore resta un sogno, un desiderio inespresso, un desiderio irrealizzabile e puerile, perciò sfila la maglia dell’Inter e, quando il gioco comincia a farsi serio, infila quella della Stella Rossa.
I colori che gli restano marchiati a fuoco sulla pelle, però, non cambiano.
*
Non ha il tempo di debuttare in campionato con la Stella Rossa. Vorrebbe, ed è quasi sicuro che questo potrebbe essere l’anno del salto, il suo nome ha cominciato a girare insistentemente nell’ambiente, gli manca tanto così per passare fra i grandi, ma l’Inter arriva prima. Prima di tutti. Prima perfino del suo desiderio di averla.
È sempre stata lì, in realtà, nascosta fra le pieghe di pensieri che lui stesso per primo preferiva non esplorare neanche in parte, ma quando il suo agente lo porta fuori a pranzo e, sorridendo davanti a un Big Mac, gli spiega che hanno ricevuto un’offerta per passare a Milano durante il mercato estivo, qualcosa dentro il cuore ed il cervello di Ilija si mette in moto. Una specie di meccanismo, un ingranaggio rimasto immobile troppo a lungo e che, quando si attiva, comincia a far ruotare anche tutti gli altri ingranaggi ad esso collegati. Ilija può sentirne il rumore, il martellare incessante di quella fantasia proibita, il richiamo atavico di quella maglietta nascosta nell’armadio ormai da anni. Parla con la voce di suo padre, un’eco che credeva sopita e che invece gli riecheggia nel cervello, rombante come il grido del tuono.
Il suo agente non ha neanche bisogno di sentirgli dire di sì. La risposta nei suoi occhi è sufficiente.
*
- E tu che ci fai qua? – gli chiede mister Stanković, ed Ilija si volta di scatto, cercando i suoi occhi, chiedendosi istintivamente come sia possibile che lui lo conosca e rispondendosi da solo, una volta che il primo attimo di confusione è passato, dicendosi che sicuramente anche lui sarà stato avvisato del suo arrivo. Ilija non è stato comprato per la Primavera, no, è stato comprato per la prima squadra, ma appena arrivato ad Appiano i campi della Primavera sono stati il primo luogo che ha chiesto di visitare. Stringendo fra le braccia il sacchetto di plastica stropicciato che contiene la sua prima maglietta.
- Curiosavo. – risponde, stringendo imbarazzato nelle spalle. – È un piacere conoscerla. – aggiunge con un mezzo sorriso, porgendogli la mano. Dejan la stringe con un po’ di stupore, annuendo brevemente.
- Tu sei Brajić, giusto? – domanda Dejan, sorridendogli dolcemente, - Ilija Brajić. Sono contento del tuo arrivo.
- Anche io lo sono, mister. – annuisce lui, ancora vagamente confuso, e Dejan scoppia a ridere.
- Non chiamarmi mister, non sono il tuo mister. – lo corregge, - E dammi del tu, già che ci sei. Ilija.
Ilija trattiene il respiro, annuendo lentamente, fissandolo negli occhi.
- Va bene. – mormora, - Dejan.
- Deki. – lo corregge ancora lui, - Gli amici mi chiamano così.
Ilija annuisce ancora.
- Deki. – sussurra.
Dejan annuisce compiaciuto, inspirando profondamente, le mani sui fianchi.
- Bene, Ilija. – dice quindi, - Cosa c’è dentro quel sacchetto?
Ilija trattiene il respiro, e poi tira fuori la maglietta. L’espressione che si disegna sul volto di Deki, quando gli chiede l’autografo, è impagabile.
*
- Fa sempre così schifo? – domanda Ilija, stretto nella coperta che Dejan gli ha gettato addosso appena l’ha visto presentarsi sulla soglia di casa sua, fradicio di pioggia, gli occhi già gonfi di lacrime e il fiato corto per la corsa.
- Cosa? – chiede di rimando lui, avvicinandoglisi con una tazza di caffè bollente, e sedendosi sul divano al suo fianco. È incredibile quanto poco spazio riesca ad occupare Ilija in questo momento, nonostante sia tanto alto e robusto. – Perdere una finale? Prendere un palo a tre minuti dalla fine? Doversi fare forza a presentarsi alla consegna delle medaglie per il secondo posto anche se vorresti soltanto prendere a calci sulle gengive chiunque ti si trovi intorno nel raggio di cinquecento metri?
- Tutte queste cose insieme! – quasi urla Ilija, cercando invano di sopprimere un singhiozzo sofferente. Non riesce a smettere di piangere, ed i suoi tentativi sono così plateali ed infantili da risultare quasi commoventi, ma Dejan lo sa – perché si è trovato in quella stessa situazione molte, molte volte – che non c’è niente che si possa provare per fermare il flusso prepotente di tutto quel dolore, di tutta quella frustrazione, di tutta l’ansia accumulata nel corso di dodici mesi, e che si sperava di poter diluire in lacrime di gioia, non certo in quelle – tanto più amare – di delusione.
- Sì. – risponde quindi, passando una mano fra i suoi capelli umidi, - Sì, fa sempre così schifo.
Ilija si raggomitola ancora di più su se stesso, nascondendosi sotto la coperta.
- Che mestiere di merda. – commenta amaramente, fra un singhiozzo e l’altro.
Dejan sorride appena, stringendoselo contro.
*
Torna a trovarlo a casa sua un paio di sere dopo. Va meglio, naturalmente, il dolore che sembrava così insopportabilmente acuto solo qualche giorno prima adesso è diventato meno invadente, più sordo. Sta lì, in un angolino, ogni tanto pulsa fastidiosamente quando, guardando la tv, becca un telegiornale che parla delle altre squadre che invece avanzano in Champions League. Tutte squadra che hanno ancora una possibilità di vincerla. La possibilità che l’Inter ha perso.
Ma sta bene, davvero, non fa più tanto male, e quando si presenta a casa di Dejan non sta certo cercando consolazione o chissà cos’altro – non ne ha mica bisogno, poi – per cui non è colpa sua se rivedere la sua faccia porta nuovamente a galla tutto. Porta nuovamente a galla troppo.
- Devo andare. – balbetta, ancora sulla soglia. Dejan inarca un sopracciglio.
- Ma sei appena arrivato. – gli fa notare.
Ilija, correndo giù per le scale, non ha modo, né tempo, né voglia di sentirlo.
*
Domani è il compleanno di Dejan, e Ilija sa esattamente cosa vuole fare. Non sa come dovrebbe farlo, non sa nemmeno come cominciare a pensarci senza sentirsi sciocco e fuori luogo e completamente pazzo, ma che lo vuole, questo è sicuro. Com’è sicuro che riuscirà a prenderselo.
Ci riflette a lungo, per tutta la notte. Guarda la maglietta che porta sempre con sé, l’autografo di Dejan in bella vista sul tricolore che la decora al centro del petto, e ne accarezza le lunghe strisce orizzontali. È tutto così buio che a stento riesce a distinguere un colore dall’altro, ed è abbastanza divertente pensare che in effetti questi colori sono nati proprio dalla notte, e quindi è normale che non riesca a distinguerli.
Non sa cosa ci sia di tanto divertente, in realtà. Ma è nervoso, e il suono debole della propria stessa risata sembra in qualche modo capace di consolarlo mentre si alza in piedi, ripone la maglietta al proprio posto in valigia e poi esce dalla sua stanza in ritiro.
*
Rivederlo è spaventoso. E allo stesso tempo bellissimo.
Non che l’abbia ignorato, negli ultimi giorni, ma non sono mai stati da soli. Ed esserlo adesso, sapendo cosa sta per chiedergli, sapendo cosa sta per prendersi e sapendo ciò che sta per regalargli, è perfino più emozionante. Gli batte il cuore così forte che potrebbe esplodere, non l’ha mai sentito spingere con tanta prepotenza contro la cassa toracica, neanche dopo gli allenamenti più stancanti, neanche dopo le partite più emozionanti.
È così ridicolo, ma nel momento in cui gli si avvicina tutto quello che riesce a pensare è il suo nome, sul retro della maglietta che suo padre gli ha regalato. Si fa più grande e più grande e più grande man mano che anche il calore emanato dal suo corpo diventa più intenso, così come diventa più ansioso e affannoso il ritmo del suo respiro.
Sfiorarlo è come chiudere un cerchio. Ed aprirne un altro, perfino più grande, subito dopo. Come sfiorare con un dito la superficie di un lago e guardare le onde spandersi una dopo l’altra, la perfetta immagine fisica dell’eco. Come l’eco della voce di suo padre. Quella che credeva di aver perduto.
E invece è ancora lì. È sempre lì. Ed è lì per sempre.
*
Ilija si stringe nelle spalle, ridendo imbarazzato.
- È solo una palla. – commenta divertito, ed Alen gli tira un calcio da sotto il tavolo.
- Peccato che pesi quel quintale, e sia fatta d’oro. – gli ricorda, e Ilija ride ancora, e come ride lui ridono tutti i suoi compagni di squadra, da un lato all’altro dell’enorme tavolata che hanno imbandito nella mensa ad Appiano, per festeggiare. Il Pallone d’Oro è lì, fa bella mostra di sé dall’altro lato del tavolo. Occupa un posto a sedere, come fosse una persona vera, ma non lo è. È solo una palla.
Quando lo dice, Ilija ci crede davvero. È solo una palla. Ma sorride fra sé, pensando che nessuno ha idea di quanto importante sia una semplice palla per lui.
*
- Non volevo disturbare. – sorride Dejan, ed Ilija sorride a propria volta, allontanandosi dall’uscio per lasciarlo entrare in casa. – Congratulazioni.
- È solo una palla. – ribadisce Ilija, ridacchiando divertito. Dejan annuisce, ma la luce nei suoi occhi parla chiaro, e racconta ad Ilija di un uomo che non ha bisogno di sentirsi dire la verità per comprenderla.
- Non abbiamo avuto più occasione di parlare, dopo quella volta. – riprende l’uomo, sedendosi sul divano. Ilija annuisce, sedendosi al suo fianco.
- Non volevo che pensassi che la mia intenzione fosse, tipo, di tenerti legato a me, in qualche modo. Lo so che non sei il tipo. Davvero, - insiste, - quella notte è stata… solo quella notte. Ne avevo bisogno io più di te.
Dejan sorride ancora, avvicinandosi di qualche centimetro.
- No, non credo. – commenta, ed Ilija arrossisce.
- Non capisco. – biascica, stringendosi nelle spalle. Dejan sorride, ed è così vicino. Così vicino.
- Bugia. – sussurra.
Ilija non ha bisogno di sentirsi dire altro. Chiude gli occhi ed ha nove mesi, poi un anno, poi cinque, otto, dieci, tredici, quattordici, diciotto, diciannove, e poi è un uomo, e non ha mai cambiato colore. E suo padre è sempre stato al suo fianco. E quella maglietta è sempre lì, c’è sempre il nome di Dejan stampato sulla schiena, come a guardargli le spalle. Ed ora assieme al suo nome ci sono anche le sue mani.
Ilija è abbastanza sicuro da non avere altro da chiedere al mondo.
Ed è lì che invece apre gli occhi e sorride al suo riflesso nello specchio sulla parete di fronte, mentre le labbra di Dejan scivolano morbide e affamate lungo il profilo del suo collo.
C’è sempre qualcos’altro da chiedere. E mille modi complessi per appropriarsene.
Genere: Erotico.
Pairing: Davide/Dejan, Davide/Mario e Dejan/Sinisa (entrambi accennati).
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, AU.
- "Ecco, io…" biascicò Davide, grattandosi nervosamente la nuca, "Mi hanno detto che avevate bisogno di me."
Note: Allora, qualche secolo fa io e Def abbiamo guardato Romanzo Criminale XD O meglio, io ho guardato Romanzo Criminale con la Tab e poi l'ho consigliato al Def, il quale ha accettato il consiglio e l'ha guardato anche lui. I pairing che shippavamo all'interno della serie non coincidevano, naturalmente (e figurarsi X'DDD), ma io avevo del disperato bisogno di leggere del Dandi/Patrizia, e lui me l'ha scritto. Solo che ha chiesto in pegno un tributo di sangue, che doveva essere una Dekiton su prompt ius primae noctis.
Essendo io la pigra culopesa che sono, naturalmente, ho lasciato lì il tributo di sangue a maturare finché non fosse stato il tempo, e ieri, finalmente, il tempo è giunto: in seguito al secondo OTW!Meme di Def, sono riuscita a promptargli del Kurtofsky, mia nuova ossessione che a lui, naturalmente, non piace X'D E per cercare di spronarlo a lavorare più felicemente al suo tributo di sangue nei confronti dell'ampia e totale conoscenza che ho della sua fandom!persona, ho pensato di ripagarlo con un po' di Dekiton X'D
Perché vi stia raccontando tutto questo è un mistero, ma insomma. Deffy, :*
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IUS PRIMAE NOCTIS

Incerto su cosa sua maestà si aspettasse da lui, Davide rimase immobile, stretto nelle spalle, gli occhi che saettavano veloci da un punto all’altro della sfarzosa camera da letto in cui uno dei servi l’aveva appena scortato, lo sguardo che cercava di fissarsi il più possibile su particolari della minima importanza – il colore acceso della carta da parati, quell’azzurro così intenso da sembrare il cielo di notte illuminato da mille stelle, quelle venature nere a formare ghirigori e arabeschi sempre più complicati man mano che risalivano verso il soffitto, il pesante lampadario di gocce di cristallo che irradiava una luce bianca e irreale per tutta la stanza, la lieve morbidezza delle lenzuola di raso, i tappeti pesanti e dall’intreccio complicato che rivestivano quasi tutto il pavimento – tutto, pur di non guardare il corpo nudo di sua maestà sdraiato sul letto, fra i cuscini, come in attesa di qualcosa o qualcuno.
- Ecco, io… - biascicò Davide, grattandosi nervosamente la nuca, - Mi hanno detto che avevate bisogno di me. – tentò, sollevando gli occhi quel tanto che bastava per cercare quelli del sovrano, e finendo poi per piantarli nuovamente sul pavimento quando, ben prima di riuscire a trovarli, incappò nell’immagine delle sue gambe piegate e mollemente dischiuse.
Re Dejan si mise a sedere, inspirando profondamente. Gli fece segno di avvicinarsi, e Davide, sempre a capo chino, obbedì. Quando gli fu vicino abbastanza, Dejan sorrise incoraggiante, e solo allora arrossendo confuso, Davide si azzardò a smetterla di fissare con interesse le punte dei propri piedi.
- Siediti qui con me. – lo invitò Dejan, battendo con la mano sul materasso accanto a sé. Rigido come un pezzo di legno, Davide obbedì, tenendosi a distanza e stringendo con forza le mani attorno alle ginocchia, terrorizzato. – Non essere così nervoso. – disse il re, la voce dolce, bassa e suadente, - Non voglio farti niente di male.
- Perdonatemi, sire. – si scusò Davide con un cenno del capo, non osando più ricambiare il suo sguardo intenso, - È solo che mi sento un po’ a disagio.
Dejan annuì comprensivo.
- Capisco bene. Fu così anche per me quando il sovrano da cui ero stato adottato mi chiamò a sé per salutarmi l’ultima volta, prima della mia partenza e del mio matrimonio. – gli sorrise ancora, accarezzandogli lievemente una spalla per cercare di rassicurarlo. – Ricordi quando sei arrivato? – domandò dolcemente, - Non eri che un ragazzino. Ed ora guardati, quasi un uomo fatto. – sospirò, proprio come un padre ormai rassegnato all’idea di dover salutare per sempre un figlio. – Sei emozionato, per domani?
Le guance di Davide si colorarono di un rosso perfino più acceso, al solo accarezzare con la mente il pensiero del principe che, a poche ore dall’alba, sarebbe giunto a chiedere la sua mano.
- Sì. – ammise con un sorriso un po’ imbarazzato, ma soprattutto felice.
- Nel corso delle sue ultime visite, - proseguì Dejan, - sei riuscito a farti un’idea del principe Mario? Come pensi che ti troverai, con lui?
Davide si strinse nelle spalle, incerto.
- Io lo trovo… trovo che il principe Mario sia molto bello, e molto particolare. È… - sorrise ancora, lievissimo e sognante, abbassando appena le palpebre sugli occhi castani screziati di verde, - è molto particolare. Non si può certo dire sia un ragazzo comune, o… di facile gestione, - ridacchiò, ripensando a quanto scontroso il principe si fosse mostrato nei suoi confronti all’inizio e a quanto fosse stato difficile aiutarlo a sciogliersi, a fidarsi e a sorridergli, - ma mi piace. Mi piace tanto.
- E pensi che sarà in grado di farti felice? – incalzò il sovrano, facendoglisi più vicino. Davide, perso com’era nei propri pensieri, non pensò nemmeno si allontanarsi, anche perché si trovava seduto già abbastanza vicino al bordo del letto per non rischiare di cadere al primo spostamento eccessivo.
- Questo non posso saperlo, maestà. – disse con una risatina dimessa, - Ma lo spero, perché vorrei davvero restare con lui per tutto il resto della mia vita.
Dejan sorrise più profondamente, sollevando una mano per accarezzare i capelli già scompigliati di Davide.
- Sono le stesse cose che pensai quando Sini venne a chiedere la mia mano al mio sire. – raccontò, la voce venata di nostalgia e affetto, - Ed io sono stato fortunato. Spero, con ciò che mi appresto a fare, di passare a te un po’ della mia fortuna. Perché te la meriti, Dade. – disse, utilizzando nei suoi confronti un soprannome che sovente gli aveva sfiorato le labbra quando Davide non era che un bambino, e che poi negli ultimi anni era stato ovviamente accantonato a causa del suo farsi gradualmente un uomo, ma che in quel momento, quando si trovavano così prossimi all’addio, sembrò per la prima volta dopo molto tempo nuovamente appropriato.
Davide arrossì, voltandosi a guardarlo. Il suo movimento fu appena percettibile, ma Dejan non mancò di notarlo, e non si fece pregare per approfittarne. Veloce, una delle sue mani risalì lungo il collo del ragazzo, salendo ad accarezzargli una guancia ormai ruvida di barba. Sorrise della sensazione che gli solleticò i polpastrelli, mentre Davide, comprendendo ciò che sarebbe successo di lì a poco, serrava gli occhi, schiudendo appena le labbra umide, sulle quali la luce del lampadario si divertiva a creare riflessi di un rosa così acceso da abbagliare quasi.
Dejan si sporse verso di lui, coprendo quelle labbra così invitanti con le proprie e sorridendo fra sé del mugolio arreso ed emozionato che Davide si lasciò sfuggire dal fondo della gola quando accarezzò la sua lingua con la propria. Fu il ragazzo stesso ad adagiarsi fra i cuscini, stendendosi in un gesto fluido ed intimo mentre, istintivamente, schiudeva le gambe per far posto al corpo di Dejan, che si era sollevato fino a coprire il suo quasi per intero.
Nel percepire quei movimenti così naturali, Dejan si allontanò appena, lanciandogli un’occhiata stupita prima di sciogliere le labbra in un sorriso divertito.
- Sembra che qualcuno sia stato un cattivo, cattivo bambino. – lo rimbrottò giocosamente, mentre Davide, imbarazzato, avvampava. – Il principe Mario non avrebbe dovuto. Meriterebbe di essere aspramente rimproverato.
- Non è stata colpa sua! – uggiolò Davide, inarcando le sopracciglia verso il basso, - È stato— è stato un incidente!
Dejan sorrise divertito, lasciando scorrere una mano lungo il suo fianco.
- Scommetto di no. – sussurrò, abbassandosi fino a sfiorare nuovamente le labbra di Davide con le proprie, - E d’altronde, non so dargli torto. Nonostante adesso sia ancora più geloso di prima.
Davide gemette di gola, seguendo i movimenti di Dejan col proprio bacino quando prese a strusciarsi lentamente contro di lui.
- Non dite così… - mormorò, gli occhi chiusi e i lineamenti vagamente contratti in una smorfia di eccitazione frustrata. Dejan sorrise ancora, intenerito da quanto simile al se stesso di un’altra epoca lo trovasse in quel momento.
Scivolando con le labbra umide lungo il suo collo, e fermandosi a succhiare la pelle tenera e bianca sotto il suo orecchio, prese a liberarlo lentamente dei vestiti che ancora indossava. Gli scoprì il petto slacciando la casacca, e lo liberò poco dopo anche dell’ingombro dei pantaloni, lasciandoli ricadere giù lungo le gambe così snelle e slanciate, scoprendo la sua erezione già così tesa da risultare quasi dolorosa.
La strinse fra le dita, lasciando che l’eco delle ultime parole di Davide si perdesse nella sinfonia di sospiri e gemiti che gli fiorirono sulle labbra quando cominciò a masturbarlo dolcemente e quando poi, dopo essersi inumidito le dita, scese ad accarezzarlo fra le natiche, stuzzicando la sua apertura dapprima solo con la punta dei polpastrelli, per poi scendere più in profondità quando sentì la resistenza dei suoi muscoli farsi sempre meno solida.
Poco dopo, Davide lo accolse dentro di sé con un sospiro spezzato, e Dejan si fermò immediatamente per permettergli di riprendere fiato, accarezzandogli lentamente i fianchi in gesti circolari dei pollici, prima di riprendere a spingersi dentro di lui, avanzando fino a quando non fu quasi completamente immerso nello stretto calore umido del suo corpo. Lo baciò con dolcezza, cercando di utilizzare le carezze accorte e lievi della propria lingua per distrarlo dai colpi che gli sferrava col bassoventre, sprofondando sempre più dentro di lui e producendo con ogni spinta un suono schioccante e improvviso che ben presto si fece più forte perfino dei loro sospiri.
Venne con un ringhio ruvido e profondo, rendendosi conto solo all’ultimo momento del fatto che, per tutto il tempo, Davide non aveva mai aperto gli occhi. Lo accarezzò ancora per qualche secondo, continuando a muoversi dentro di lui nonostante la sua erezione stesse ormai sfumando, fino a quando anche lui non fu scosso dai tremiti dell’orgasmo, e si sciolse fra le sue dita, tendendosi tutto per un istante per poi ricadere fra i cuscini e le lenzuola come fosse privo di forze, respirando affannosamente.
Dejan si allontanò da lui, sistemandosi al suo fianco sul materasso ed osservandolo mentre, a fatica, riprendeva fiato, le guance che, da rossissime, tornavano a colorarsi del suo naturale incarnato rosa, ancora così infantile, nonostante tutto.
Gli ravviò i capelli, scoprendo la fronte imperlata di sudore, e perdendosi poi ad accarezzargli il viso per qualche secondo mentre Davide riapriva gli occhi e, silenziosamente, gli sorrideva.
- Il principe Mario è fortunato ad averti. – disse quindi, stringendolo in un abbraccio improvvisamente casto e paterno, nonostante quello che era successo fra loro e nonostante fossero ancora completamente nudi. – Spero che tu possa avere la più felice delle vite. – concluse, tornando a guardarlo negli occhi.
Davide annuì, il sorriso che si apriva appena, in segno di gioia così sincera da poter essere contenuta solo a stento.
- Grazie. – disse in un filo di voce.
Quella notte, dormirono insieme.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Dejan/Sinisa.
Rating: R/NC-17
AVVISI: Slash, Lemon, Angst.
- Una storia d'amore che dura anni e che fino alla fine non si riesce a chiamare col suo nome, ma che tale è e tale resta, per tutto il tempo che le verrà concesso -- per sempre.
Note: Allora... in genere non è proprio da me fare note molto lunghe in apertura o in chiusura di una storia-- o meglio, era da me, qualche tempo fa, ma ci ho perso gusto, motivo per cui le mie note ultimamente sono parecchio stringate, anche quando magari non dovrebbero. Ecco, qui non possono, oltretutto, ma farò del mio meglio per mantenerle di una lunghezza normale.
Dunque, il desiderio di questa storia è nato nel prendere in mano Fortissimamente Io, l'autobiografia che Deki ha scritto con l'aiuto di Mirko Vrbica e da un frammento della quale peraltro è preso anche il titolo di questa storia. E' un testo adorabile, pieno di spunti d'interesse di vario tipo, all'interno del quale per larga parte viene affrontato anche il rapporto di amicizia ormai decennale che lo lega a Siniša Mihajlović, altro storico giocatore di origine jugoslava. Due stralci determinati (e molto brevi) li potete trovare qui e qui, ma lungi da me obbligarvi a farvi una cultura su questi due, anche perché immagino che, se vorrete dare un'occhiata a questa storia, lo farete perché già v'interessano. *ride* O perché vi obbliga la sua partecipazione a un contest, ehm.
Oltre a Sini e Deki, all'interno della fic sono nominati alcuni altri personaggi di gran lunga meno famosi. Essendo quella che viene raccontata una storia piuttosto "privata", sono presenti anche personaggi che hanno avuto una minore esposizione pubblica rispetto ai protagonisti, e che pertanto potrebbero essere di difficile riconoscimento anche per chi è un po' più ferrato in materia. Per questo motivo, a fine storia è presente un minuscolo elenco con le nozioni di base riguardanti questi personaggi un po' più oscuri. Sono giusto un paio di righe ciascuno, niente di trascendentale, non preoccupatevi XD
In chiusura di queste chilometriche ed orrende note XD vorrei ringraziare dal più profondo del mio cuore il Def per il lavoro stupendo che ha fatto sia nel rileggere la fic che nel rassicurarmi sulla sua utilità. Se il contest al quale stiamo partecipando (ndLiz: è questo e tutti voi dovreste dargli per lo meno un'occhiatina u.u) è un'occasione per celebrare la figura del beta-reader, direi che noi l'abbiamo fatto nel migliore dei modi :°)
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PURO COME UNA LACRIMA

Quando Deki arriva in prima squadra, Siniša è il primo a saperlo. Petrović lo chiama in disparte dopo l’allenamento e gli dice di raggiungerlo nel suo ufficio fra una mezz’ora. Poi lo tiene a fare anticamera per dieci minuti mentre finisce di parlare col padre del ragazzo, e quando la porta si apre Siniša ne vede uscire un uomo alto, un po’ spelacchiato, decisamente stanco ma soprattutto soddisfatto. Dietro di lui viene fuori anche il presidente, poi un paio di avvocati, gli passano tutti davanti e lo salutano. Lui si profonde in ampi cenni del capo e li fissa un po’ sbigottito chiedendosi a chi appartenga tutto quel dispiegamento di uomini, e poi Petrović si affaccia e gli sorride, invitandolo ad entrare. È stanco anche lui, Siniša glielo legge in faccia, ma i suoi occhi brillano. Siniša ne è affascinato. Non gli è mai capitato di vederlo così.
- Che ti prende? – gli chiede inarcando un sopracciglio ed accettando il suo invito a prendere posto su una delle poltroncine di fronte alla sua scrivania. Petrović si siede al proprio posto, intreccia le dita all’altezza del naso e sorride felice. Inspira ed espira, lo fa per qualche secondo senza dire niente, come volesse limitarsi a percepire l’aria che entra ed esce dai propri polmoni, almeno per un po’.
- Ho fatto qualcosa di grande per la Serbia. – dice quindi. Siniša aggrotta le sopracciglia, incerto.
- Come sarebbe a dire? – chiede, e Petrović ride. – Ljupko, ti spieghi o no?
- Fra quindici, vent’anni, - risponde lui, lo sguardo sognante, - la gente si ricorderà di me. Dirà “è merito suo se abbiamo questo ragazzo, è lui che l’ha scoperto”.
- …Ljupko, stai cominciando a preoccuparmi. – sillaba Siniša, - Davvero, mi dici cosa succede?
Petrović ridacchia ancora per qualche secondo. Poi sembra riacquistare la sua usuale compostezza, e quando riprende a parlare, apparentemente, sta dicendo cose che con tutto il discorso che ha fatto prima non c’entrano niente.
- Ho preso un ragazzino nuovo, Miha. – dice, - Dejan Stanković. Non è affatto male. – spiega vago, come a dare alla faccenda un’importanza minima. – Voglio che te ne occupi tu. – dice quindi, guardandolo dritto negli occhi. Siniša lo fissa sconcertato.
- Io? – chiede, indicandosi confusamente, - Ma dai! – borbotta, - Perché?
Petrović sorride ancora, inclinando appena il capo ed alzandosi per battergli una pacca su una spalla.
- Perché voglio che fra quindici o vent’anni la gente si ricordi anche di te.
*
Deki è davvero, davvero piccolo. Ha sedici anni appena e sarebbe ancora troppo piccolo perfino per il giro della Primavera, ma Petrović è convinto, “il ragazzo viene con noi”, e quindi poco da fare, Siniša se lo tiene ben stretto perché appena fa tanto di distrarsi lui parte in ogni direzione, cerca di toccare tutto, quasi non riuscisse a credere di trovarsi su un volo diretto per Atene. Non è mai stato in aereo prima d’ora, e guarda ogni cosa con gli occhi che brillano di curiosità, sul volto un’espressione estatica che lo fa sembrare addirittura più piccolo della sua età. Per un istante, mentre lo osserva addormentarsi di botto con la testa reclinata sulla sua spalla, dopo aver fatto il diavolo a quattro passeggiando avanti e indietro per tutto l’aereo per almeno mezz’ora, si chiede cosa dovrebbe farci, lui, con un bambino così per le mani. Ljupko, si dice, mi sa che hai preso un abbaglio. Non può funzionare. Ci separano troppi anni, siamo troppo diversi. Non siamo nemmeno lontanamente paragonabili, siamo come alieni, a volte lui mi guarda con un’ammirazione fanatica che mi brucia sulla pelle come acido. Non mi piace.
Poi solleva lo sguardo e Petrović è lì, due sedili più avanti, che li guarda con l’aria tenera di un padre. Ha fatto grande lui e vuole fare grande pure Deki, e guardandolo negli occhi Siniša non riesce a trovare il coraggio di tirare fuori quelle parole. Se le lascia posate in mezzo alla gola, ostruiscono un po’ il passaggio dell’aria ma qualche istante dopo passa l’hostess col carrello, gli offre un caffè e Siniša manda giù quello e tutte le proprie rimostranze. Troverà un modo per andare d’accordo col ragazzino. Petrović è un amico, un fratello, una guida, e lui non intende deluderlo.
All’arrivo ad Atene Deki ricomincia a saltare di qua e di là come un indemoniato, e Siniša rimpiange l’assenza di un guinzaglio da agganciargli al collo per poterlo trascinare indietro quando il suo entusiasmo tracima i limiti della normale felicità per gettarsi a peso morto ed occhi chiusi nel vortice della pazzia.
Deki gli corre dietro da un lato e dall’altro, non gli dà tregua; per consolarsi, Siniša pensa che, giunta la sera, sarà così stanco da crollare addormentato di botto al massimo alle nove, e ciò gli aprirà le porte di almeno un paio d’ore di quiete, prima di dovere andare a letto a propria volta.
La previsione si rivela esatta: Deki si addormenta subito dopo cena, senza neanche essersi dato una ripulita. Ha ancora uno sbuffo della salsa che accompagnava il pollo su una guancia. Siniša lo guarda con una certa pietà, gli passa un fazzoletto umido sul viso – lui arriccia il naso e mugugna infastidito, voltandosi dall’altra parte – e poi gli rimbocca le coperte. Esce e lo chiude dentro per evitare casini, si concede un po’ di relax e, quando torna in camera, è stanchissimo. Gli fa male tutto il corpo, correre dietro a un ragazzino è decisamente massacrante, molto più che correre dietro ad una palla.
Doccia, pigiama, letto. Domani cominciano gli allenamenti in vista dell’amichevole, il ritiro sarà duro come lo sono sempre tutti i ritiri prima dell’inizio del Campionato, e l’idea di doversi trascinare dietro il ragazzino lo devasta. Chiude gli occhi per non pensarci e si addormenta come un sasso.
Lo risvegliano dei lamenti confusi e soffocati, non sa quante ore dopo. Schiude gli occhi nel buio della stanza, rischiarato appena dal fascio di luce lunare che entra da fuori attraverso le imposte accostate, e sbatte le palpebre un paio di volte per recuperare consapevolezza di chi è, dov’è e com’è possibile che ci sia qualcuno che non è lui a piangere nella sua stanza, a poco meno di un paio di metri di distanza.
Si mette a sedere in un fruscio scomposto di coperte che gli scivolano di dosso e si raccolgono attorno ai suoi fianchi, e i singhiozzi si interrompono per qualche secondo, prima di esplodere ancora, più fragorosamente di prima.
- Deki? – lo chiama, - Piccolo, che succede?
Dejan tira su col naso e si appallottola con maggiore ostinazione fra le coperte, ben deciso a non rispondergli. Siniša si alza e non si premura neanche di infilarsi le pantofole. In pochi passi è accanto al suo letto e lo scruta dall’alto, anche se tutto ciò che può vedere è un groviglio di lenzuola che si agita al ritmo dei respiri affannosi di un ragazzino triste.
- Mi manca casa. – piagnucola lui dopo qualche secondo di imbarazzato silenzio. Siniša sospira e gli toglie la coperta di dosso. Deki è stretto su se stesso come un nodo. Sembra così piccolo, così impreparato, e Siniša si sente esplodere il cuore del tutto all’improvviso quando pensa che non è che lo sembri, lo è. È piccolo, impaurito, impreparato e inadatto, e gli è stato affidato perché lo aiutasse a crescere, a diventare più coraggioso, a conoscere più cose possibile e diventare un uomo.
Scivola sul materasso accanto a lui e se lo stringe contro, inglobandolo in un abbraccio più caldo di quanto entrambi abbiano bisogno nei trenta gradi abbondanti della notte estiva greca. Dejan, comunque, non si ritrae, anzi. Si rigira fra le sue braccia e nasconde il viso contro il suo petto, continuando a piangere. Siniša gli accarezza i capelli, le braccia e le spalle tremanti.
- Vedrai che passa. – gli sussurra all’orecchio, cantilenando come in una ninna nanna, - Da domani avrai tante di quelle cose da fare che non ci penserai più. E quando torneremo a Belgrado, sarà ancora più bello rivederla.
Deki annuisce freneticamente. Si fida senza domande, come il bambino che è.
- Sei il primo a cui lo dico. – dice dopo essersi calmato, in un ultimo singhiozzo che gli spezza la voce. – Sarai anche l’unico. – promette. Siniša non sa precisamente cosa quella promessa possa significare. Ne coglie la forza, però, e tace rispettosamente.
*
Anche la prima volta che Deki viene convocato in Nazionale, Siniša è il primo a saperlo. Non è lui a dirglielo, perché in realtà da quando lui s’è trasferito a Roma non si sentono più granché. No, è Santrač a chiamarlo, svariati giorni prima che escano le convocazioni ufficiali. Siniša già sa di essere in lista, è stato Santrač stesso a confermarglielo qualche giorno prima per telefono, perciò ricevere un’altra telefonata da lui un po’ lo preoccupa. Nello spazio di pochi secondi gli passano per la mente infinite possibilità, tutte, peraltro, piuttosto spiacevoli, e il nodo allo stomaco che lo piega in due e lo costringe a cercarsi un posto per mettersi a sedere si fa perfino più stretto quando il CT si ostina a trascinare pigramente la conversazione una frase di circostanza dopo l’altra, come non avesse nessuna voglia di arrivare al punto.
- Ragazzo mio, - si rassegna a dire alla fine, dopo un enorme sospiro sconfitto, - mi sento molto stupido a parlare con te di questo, ma sento di potermi fidare. E quando ho chiesto in giro mi hanno tutti detto che saresti stato il migliore con cui discuterne.
Siniša è teso, agitato, sta quasi fisicamente male. Allarga il colletto della camicia e deglutisce.
- Mi dica, mister. – lo invita annuendo, anche se lui non può vederlo. Santrač sospira ancora.
- La lista è quasi pronta. – dice lui, - Ma praticamente non c’è nessuno che venga dal Campionato jugoslavo. La Federazione non è molto contenta.
- …immagino. – annuisce ancora Siniša, senza forzarlo a proseguire.
- Perciò pensavo… - dice precipitosamente Santrač, come avesse paura di pentirsene, - Pensavo a Stanković.
Siniša resta in silenzio per qualche secondo. Stupidamente, si chiede se ci sia un altro Stanković di cui Santrač possa stare parlando, uno che non sia ancora un ragazzino, almeno, ma risulta evidente dal silenzio imbarazzato del commissario tecnico che invece sta parlando proprio di lui. Deki.
- Ma… - balbetta Siniša, - quanti anni ha?
- Diciannove. – risponde Santrač dopo un’incertezza minima, ma carica di disagio. – Miha, tu lo conosci, no? Ci hai giocato insieme, gli sei stato vicino. Ci si può fidare?
Siniša si morde la lingua. L’ultima volta che ha visto Deki era poco più di un ragazzino. Ricorda ancora le sue spalle magre scuotersi in preda ad irrefrenabili singhiozzi sotto le sue dita. Ricorda la consistenza del suo corpo premuto contro il proprio alla ricerca di un calore che non fosse solo caldo, ma più di tutto accogliente, e ricorda i suoi occhi lucidi e ingigantiti dalle lacrime e dalla paura fissarlo con aria persa e un po’ svagata, e si rende conto di non sapere come rispondere. Fa appello a tutta la propria razionalità, si dice se tu fossi l’allenatore, cosa faresti?, e nel suo cervello di allarga una macchia di silenzio imbarazzato e imbarazzante.
Deglutisce.
- Convocalo. – risponde. Santrač geme, preso in contropiede. Probabilmente si aspettava una risposta diversa. – Fidati. – ribadisce Siniša, - Me ne occupo io.
E lo fa davvero.
Dejan ha diciannove anni, adesso, compiuti da pochissimo. Non è molto diverso da come lo ricorda, un po’ più alto, meno smilzo, ma ha ancora la faccia da ragazzino e quegli occhi scuri pieni di sogni che brillano e brillano e brillano. Siniša li guarda e sente brillare qualcosa di molto simile anche nel fondo dei propri occhi. Si dice che non ha più l’età per queste robe da ragazzino, ma in fondo non ci crede per niente.
Si incontrano in ritiro, in programma c’è il doppio spareggio contro l’Ungheria. La Francia è ancora lontana ma non è un miraggio, non è impossibile. Intanto, però, c’è da vincere queste due partite, e Deki sa già che non giocherà. Ma non è turbato, non è triste. Siniša è contento di vederlo così sereno. Forse è vero che non è cresciuto tanto fisicamente, ma è maturato dentro.
Dividono la stanza, parlano poco, ma si sorridono parecchio. L’Ungheria viene battuta, e Deki non fa in campo nemmeno un minuto, ma non è ancora finita. Arriva a Belgrado la Corea del Sud, Siniša gioca titolare, naturalmente, ma non gliene va bene una. A lui, o alla squadra. La pressione sulle spalle di tutti è pesante, si affannano ma sono brutti anche solo da guardare, Siniša se ne rende conto ed è una delle poche volte nella sua vita in cui pensa quasi di mollare, di dire a Santrač guarda, si capisce che non è proprio cosa, e passare tutto il secondo tempo negli spogliatoi, lontano dai fischi di tutta Belgrado che, amareggiata, osserva i dragoni soccombere un colpo dopo l’altro.
Vanno a riposo sull’1 a 0 per la nazionale coreana. Negli spogliatoi, Siniša sta seduto in un angolo e si guarda i piedi. Dentro la propria testa, li rimprovera aspramente, ed è molto preso da questo, al punto che scorge solo con la coda dell’occhio uno dei collaboratori di Santrač che chiama in disparte Dejan e parla con lui per un paio di minuti, prima di lasciarlo andare a prepararsi.
Siniša spalanca gli occhi quando vede Deki entrare in campo con la sua divisa immacolata, all’inizio del secondo tempo. Non se n’era accorto davvero, non aveva nemmeno pensato che fosse possibile. Lancia un’occhiata a Santrač che, in panchina, è teso come una corda di violino. L’ansia stravolge i lineamenti del suo viso e Siniša è preoccupato per lui, è preoccupato per la Jugoslavia ed è preoccupato per Deki. È molto, molto preoccupato per Deki. Ma lui sembra tranquillo, ciondola a centrocampo battendo ritmicamente la punta degli scarpini per terra per metterli a posto, tira su i calzettoni, sistema la maglia dentro i calzoncini. Siniša ha lo stomaco stretto in una morsa di paura e lo invidia.
Poi l’arbitro fischia, il secondo tempo comincia. E succede una cosa bellissima.
L’azione di gioco è normale, lui scende sulla fascia e scende fino in fondo, arriva in prossimità dell’area di rigore coreana ma ne resta fuori, neanche ci prova a tentare l’incursione all’interno. Non deve andare così. La chiarezza con cui vede il campo lo sconvolge, prima non c’era. Si sente scivolare al proprio posto come una tessera in un puzzle. È come rientrare nei propri panni dopo essere stato per un giorno intero in quelli – scomodi – di qualcun altro.
Deki è lì. Entra in area e lo fa con discrezione. Neanche si sbraccia per farsi notare, tanto sa che Siniša l’ha visto. E Siniša lo vede, lo vede così bene che quasi vede solo lui. Cross. Gol. Così semplice, così perfetto, quasi irreale. Ma la rete si gonfia e si gonfia lo stadio, il pubblico, la città, lo stato tutto. Si solleva una voce gigante che solletica il cielo ed esplode tutta assieme dentro le sue orecchie, dentro la sua testa, dentro il suo cuore. Deki gli corre incontro, esulta, lo abbraccia. Siniša lo tiene tanto stretto da sentirne la mancanza una volta che è costretto a lasciarlo per rimettere la palla a centrocampo.
Una cosa così meravigliosa, si dice, non capiterà mai più. E invece succede ancora, appena dieci minuti dopo. Non proprio allo stesso modo, ma con la stessa identica semplicità. Ed è fantastico. Siniša stringe di nuovo Dejan come non pensava avrebbe più avuto occasione di fare, e nel fondo della sua coscienza, senza quasi neanche accorgersene, prega perché possa accadere altre mille volte. Adesso che sa che è possibile, è tutto molto più facile.
*
Siniša è bene intenzionato a non lasciarsi sfuggire Deki dalle mani, anche se non ha la minima idea di cosa questo, in concreto, possa significare. Sa che non sta vivendo un periodo facile, sa che sta per lasciare la Stella Rossa perché in Italia lo vogliono, lo vogliono disperatamente, ma non ha idea di dove potrebbe andare a finire di preciso. I nomi sono tanti, e sono tutti altisonanti. Nomi che fanno paura. Ufficialmente, Siniša è ancora alla Samp, un nome che invece non fa paura a nessuno, ma se è il primo a sapere che fra tutte le squadre Deki finirà alla Lazio è perché si muove in prima persona perché questo accada.
Va da Sergio e gli parla con molta franchezza. Lui lo fissa per tutto il tempo come se fosse improvvisamente impazzito.
- Miha, ma sei serio? – gli chiede, boccheggiando come un pesce fuori dalla boccia. Siniša si concede un mezzo sorriso al quale non sa dare un valore.
- Sì. – risponde, - Procurami un incontro con Farinelli. Al resto ci penso io.
- Col cazzo. – risponde l’agente, - Con tutto il dovuto rispetto, Miha, l’unico incontro che ti procurerò nei prossimi giorni sarà una visita psichiatrica. Da uno bravo.
Siniša ride, e lo fa di cuore. Gli batte una pacca contro la spalla.
- Sono fuori di testa, Sergio, è vero. – conferma annuendo, - Ma ho in mente una cosa grande.
Sergio deglutisce, tendendosi tutto.
- Grande quanto? – chiede, - Più di te e me?
E Siniša annuisce. Sergio ha paura, è visibilmente preoccupato, ne ha tutte le ragioni, ma non dimentica qual è il suo lavoro, e gli procura l’incontro con Farinelli, che palesemente non ha nessuna voglia di ascoltarlo. È un decennio, ormai, che lavora come osservatore, e l’ha capito che i consigli altrui valgono come un soldo bucato. Non è per un consiglio che lo cerca Siniša, infatti.
Di fronte ad un caffè, con la massima calma, gli spiega ciò che vuole. Farinelli lo guarda per tutto il tempo e fa tanto d’occhi, sconcertato.
- Come, prego? – gli chiede, quando ha finito di parlare. Siniša sorride con molta più spavalderia di quella che sente realmente in corpo. Ostenta una sicurezza che affonda le proprie radici in una parte profonda e misteriosa di sé, e tutto quello che riesce a pensare è che si sente esattamente come, da ragazzino, s’è sentito il giorno del provino alla Stella Rossa. Quando sapeva ciò che voleva e sapeva anche che avrebbe fatto di tutto per prenderselo. E che, alla fine, sarebbe stato suo.
- Il ragazzo ha talento. – dice, scrollando le spalle.
- Ma non è nessuno. – ribatte Farinelli, - Mihajlović, questo Dejan Stanković non è nessuno, in Italia. Ha vent’anni appena. La conosci, la Serie A. Per quale diavolo di motivo dovrei andare fino a Belgrado ad osservare un nessuno di vent’anni per poi non farmene un accidenti di niente?
Siniša lo guarda, lo guarda a lungo; Farinelli legge in anticipo nei suoi occhi la risposta che sta per dargli.
- Io non sono un ragazzino e non sono un nessuno. – sorride, - La Lazio mi vuole? Prendete Deki, e avrete anche me.
Qualcosa brilla negli occhi di Farinelli, brilla intensamente, al punto che, quando si alza e lo saluta, prima di andare via, Siniša sa già di avere la vittoria in tasca, e non fa altro che pensare a tornare a casa e fare le valige per le vacanze, ma farle ben piene, infilandoci dentro anche roba invernale, perché a Genova non ci vuole nemmeno tornare.
Qualche giorno dopo, viene a sapere che è fatta, e che, prima di andare a Belgrado, Farinelli ha parlato con Jugović, per un consiglio in più. Le sue ultime parole prima di partire per Madrid sono state “prendetelo, il ragazzo. Ha futuro.” Sorride e segna sull’agenda di chiamare Vlada, più tardi, per ringraziarlo. Prima, però, ha un’altra cosa da fare.
Il telefono squilla a vuoto per qualche secondo, poi la voce nervosa e stanca di Deki si diffonde attorno a lui come una carezza, nonostante sia così incredibilmente spigolosa, quasi appuntita.
- La ricordi la prima volta che ti ho chiamato? – dice. Dejan trattiene il respiro.
- Miha. – dice quindi, affannosamente, come faticasse a riprendersi dalla sorpresa, - Miha, è un gran casino di periodo.
- La ricordi la prima volta che ti ho chiamato? – ripete lui. Dejan inspira ed espira profondamente.
- Sì. – risponde, - È stata alla mia prima convocazione in Nazionale maggiore. – la sua voce si distende in un sorriso nostalgico, - Mi hai detto “domani ci vediamo all’aeroporto, si parte per il ritiro”. Non sapevo ancora nemmeno di essere in lista.
Siniša sorride a propria volta, sente il cuore tanto gonfio da fare quasi male.
- Domani ci vediamo all’aeroporto. – ripete quindi, - Si parte per il ritiro.
Dejan boccheggia, esita, non parla.
- Miha. – sussurra senza fiato, - Miha, che mi stai dicendo? La Sampdoria? – chiede confusamente.
Siniša si concede una mezza risata divertita.
- Non temere, piccolo. – lo rassicura, - Non ti ci porto, a Genova. Ti porto in casa dei più grandi.
La loro conversazione si interrompe in quel modo. Sarà l’ultima volta in cui potranno dire di avere interrotto qualcosa. Dal giorno dopo, in aeroporto, non ne avranno più occasione per quasi dieci anni.
*
È il primo a saperlo anche quando Ana rimane incinta. Dejan lo chiama nel cuore della notte. Appena sente il telefono squillare, Siniša schiude le palpebre e lancia all’apparecchio un’occhiata furibonda, ma tutta la sua rabbia svanisce in un lampo quando, dopo aver sollevato la cornetta, sente nelle orecchie un pigolio che non ha più avuto occasione di sentire per anni, perché Dejan è cresciuto, non è più un ragazzino al suo primo viaggio lontano da casa, e in tutto questo tempo non ha mai pianto. Ma stanotte ha la voce rotta, è confuso, e Siniša non fatica ad immaginarlo mentre caracolla ansioso da un lato all’altro della casa, camminando scompostamente giusto per darsi qualcosa da fare.
- Piccolo, - lo chiama, quando i suoi lamenti si confondono in un farfugliare terrorizzato, - piccolo, mi dici che ti prende?
- Ana è incinta. – sputa fuori Deki in un solo fiato, - Proprio adesso, cazzo, proprio adesso. Ma perché queste cose devono capitare sempre quando comincia un periodo di merda? Cazzo, non gioco da mesi, sono in un momento in cui già vedere la panca sarebbe tanto, Zoff neanche mi calcola, e lei resta incinta!
- Avanti, Deki. – lo interrompe lui, appoggiandosi su un gomito per restare sollevato dal materasso, e parlando a bassa voce più per tranquillizzarlo che per non svegliare Arianna che dorme placida al suo fianco, - Lo sai che non è mica colpa di Ana se è successo proprio adesso.
- Lo so. – ammette Deki in uno sbuffo stanco. Inspira ed espira profondamente, e Siniša lo sente sedersi da qualche parte e restare in silenzio ancora per qualche secondo, prima di riprendere a parlare. – Ho bisogno di giocare, Miha. – confessa, la voce venata da uno strascico di dolore così puro che Siniša si sente stringere il cuore, - Ho bisogno di giocare davvero, non ce la faccio più.
- E che problema c’è. – risponde lui con sicurezza. Nasconde il fremito che gli infiamma la voce e stringe le mani a pugno per impedir loro di tremare. – Che problema c’è, piccolo? Ce ne andiamo.
- Che? – annaspa Deki, confuso, - Miha, ti prego, non dire stronzate.
- Ce ne andiamo. – insiste lui, - Non ti preoccupare.
- Miha, tu sei titolare fisso, cazzo. Piantala di dire stronzate. – ribatte Deki.
- Ti ho detto di non preoccuparti. – ripete allora Siniša, più dolcemente. Sta già pensando a cosa dire a Sergio domani mattina. – Vuoi che venga a farti un po’ di compagnia?
- No, Miha. – geme Deki, preso alla sprovvista, - No, ti prego, fai già tanto, non—
- Vengo, se vuoi che venga. – lo interrompe Siniša. Il silenzio di Deki si prolunga ancora per qualche istante.
- Sì, per favore. – risponde alla fine, - Per favore, vieni qui.
Siniša lo raggiunge a casa, passano insieme tutta la notte. Non chiudono occhio. Affacciati al balcone in salotto, discutono di matrimonio, di mogli, di padri, di figli. Discutono il nome del bambino, come chiamarlo quando nascerà. Ad un certo punto, guardando la luna bassissima nel cielo mentre, a est, il sole comincia ad affacciarsi, facendo capolino dietro ai colli, Deki sorride, e gli chiede di essere il padrino di suo figlio. Siniša volta appena il capo e scruta il suo profilo nella luce azzurrognola dell’alba, e sente che per lui potrebbe fare di tutto, essere qualunque cosa. L’enormità del sentimento che prova lo investe in maniera quasi dolorosa. Sopraffatto, gli appoggia entrambe le mani sulle spalle, costringendolo a voltarsi e guardarlo negli occhi. È un effetto collaterale e niente di più, perché tutto ciò che voleva era un appiglio per non cadere a terra, e le sue spalle adesso così forti e larghe gli erano sembrate quello migliore.
- Sì. – gli risponde. E fa fatica a dirlo una volta sola.
Il giorno dopo irrompe in ufficio da Sergio e gli dice ciò di cui ha bisogno. Sergio lo guarda con aria allucinata, lo indica e gli dice “tu sei pazzo”.
- Non ha senso! – aggiunge, - Zoff ha i giorni contati, comunque, non lo sai che c’è Zaccheroni in dirittura d’arrivo?
- Sì, ma Deki sta impazzendo. – gli risponde lui, e quando Sergio fa tanto di sbottare un “ma si fotta Deki!”, Siniša quasi gli salta al collo. – Non mi importa se devi fare carte false, non mi importa se devi mentire al mondo e a due squadre contemporaneamente, dammi tempo. E se devi mentire, che sia una menzogna credibile.
Sergio si stringe nelle spalle, crollando sulla propria poltrona, visibilmente terrorizzato. Abbassa lo sguardo e riflette in silenzio per qualche minuto.
- Posso provare con la Fiorentina. – sillaba, - Ma Miha, c’è il rischio che invece la presidenza regga. Se la presidenza regge e la Fiore non dichiara bancarotta, vi toccherà andarci. Sarebbe… sarebbe un disastro, magari non per Dejan che lì giocherebbe eccome, ma tu, Miha, tu qui sei titolare. Diosanto… - geme, prendendosi la testa fra le mani, - Ma perché fai così?
- Hai la procura per la mia carriera. – risponde Siniša, e sente male al petto mentre dice una cosa simile ad uno dei più cari fra i suoi amici, - Non per la mia vita privata. Fa’ come ti ho detto e non fare domande.
La giostra comincia a girare in quel momento. Da quel giorno, e per molti giorni successivi, Siniša ogni tanto non può fare a meno di guardarsi allo specchio e risentire nelle orecchie la voce di Sergio che gli chiede perché si comporta in questo modo.
Cominciano a fioccare i titoli sui giornali, comunque, e Deki ricomincia a sorridere. Un giorno gli si presenta in casa con in mano una copia del Večernje novosti. La prima pagina recita Stanković in viaggio verso Firenze. Lo abbraccia così a lungo che Siniša perde il senso del tempo. Nasconde il naso nell’incavo del suo collo ed inspira il suo profumo fino a riempirsene i polmoni. La voce di Sergio gli chiede ancora “perché fai così?”, e Siniša ha paura di risponderle.
La cosa si fa ogni giorno più seria – visite mediche, contratti – Sergio è nel panico, e Siniša pure. Il cuore è il soddisfatto, ma il cervello è alla deriva. Deki è così felice da confonderlo. Ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, Siniša non riesce a vedere altro. Lo accompagna ovunque come quando era un ragazzino perduto in Grecia, solo che stavolta non è Deki ad avere bisogno di aiuto, ma lui stesso. Lo insegue perché ha paura di poterlo perdere. Sarebbe la prima volta dopo troppi anni, e non è sicuro di essere pronto.
Il ventitré giugno, Siniša si sta annodando la cravatta intorno al collo per poi precipitarsi al battesimo di Stefi. È in ritardo, Deki l’ha già chiamato tre volte, sempre ridendo, facendogli presente che il padrino non può proprio mancare al battesimo del suo figlioccio. Siniša ha il cuore stretto in una morsa, e quando il telefono squilla ancora si prepara a rispondere per l’ennesima volta a Deki che è pronto e sta per arrivare, e invece no. Non è Deki. È Sergio.
- È saltato tutto. – dice, e Siniša lo sente piangere di gioia, - Cecchi Gori ha mollato, il CdA è saltato. Dio, grazie.
Siniša lascia andare un sospiro di sollievo puro, passandosi una mano sulla fronte sudata.
- Zoff? – chiede incerto.
- Due settimane al massimo ed arriva Zaccheroni. – risponde immediatamente Sergio, la voce rotta in un singhiozzo di felicità incontenibile, - Dio del cielo, quasi non ci credevo più.
- Sergio… - mugola Siniša, trattiene a stento le lacrime. – Grazie.
- Sì, vaffanculo. – ride lui, e Siniša ride a propria volta. – Datti una mossa, c’è il battesimo oggi, giusto? Scommetto che sei in ritardo.
Siniša annuisce, lo ringrazia ancora ed interrompe la chiamata. Lancia un’occhiata al telefono, chiedendosi se dovrebbe chiamare Deki e dirgli subito che restano alla Lazio, ma poi riattacca la cornetta e sistema un’ultima volta la cravatta, lanciando ad Arianna un urlo dal corridoio per chiederle se è pronta. Alla sua risposta affermativa sorride e recupera le chiavi della macchina. A Deki lo dirà di persona, quando saranno già sulla via per la chiesa.
*
Quando decide di darci un taglio, è Deki il primo a saperlo. Sono cambiate così tante cose, fra loro, da quando si sono conosciuti, che Siniša si sente riempire gli occhi di lacrime ogni volta che ci pensa. Quel giorno, dopo averlo sentito dire che lascerà il calcio giocato a fine stagione, Deki serra le labbra e spalanca gli occhi, e Siniša sorride intenerito nell’accarezzargli una guancia e nel sentirla ruvida di barba. A sedici anni era ancora così liscio, così piccolo. Ed invece adesso eccolo qua, uomo fatto. Sicuramente Petrović è molto fiero di lui, sicuramente è molto fiero di entrambi.
- Non lascio l’Inter, piccolo. – lo rassicura. La tensione sul volto di Deki si scioglie in un’espressione ancora impaurita, ma meno ansiosa. – Divento il secondo del Mancio. Voglio imparare sul campo. Voglio fare carriera.
- Allenare? – chiede Deki, azzardandosi finalmente a schiudere le labbra e rilassandosi quando, nel farlo, capisce che non scoppierà in lacrime come un pivellino. – Tu?
- Che, non mi ci vedi? – lo prende in giro Siniša, inarcando un sopracciglio.
Deki scuote il capo.
- Al contrario. – dice a bassa voce, - Spero che un giorno sarai il mio allenatore, così potrò ripagarti in campo di tutto quello che hai fatto per me.
Siniša lo abbraccia, ridendo come un bambino. Le lacrime pungono sotto gli occhi, ma quando sente Dejan singhiozzare contro il suo collo capisce che non tocca a lui piangere, nemmeno stavolta, perciò le trattiene.
- Piccolo, tecnicamente sarò già il tuo allenatore a partire dalla prossima stagione. – gli fa presente. Dejan gli pizzica un fianco.
- Hai capito cosa intendevo. – borbotta. E lui ha capito davvero.
*
L’unica volta della sua vita in cui Siniša non può condividere immediatamente qualcosa che gli è successo con Deki, è anche quella più dolorosa. Non può comunicargli subito cosa sta succedendo per prima cosa perché succede troppo in fretta, e per seconda cosa perché fa troppo male. Mancini entra nell’ufficio del presidente e ne esce tre minuti dopo. Lo guarda e ha un paio d’occhi così sconvolti e vuoti che Siniša si spaventa sul serio, per la sua salute, perfino, prima che per tutto il resto; anche se, pure per tutto il resto, quegli occhi non possono significare niente di buono.
- Cos’è successo? – gli chiede, facendoglisi incontro e protendendo le braccia come per aiutarlo a reggersi in piedi. Mancini accetta l’appoggio senza una protesta, lui che per tutto questo tempo ha mantenuto la stessa mentalità che aveva quando giocava, quando non voleva aiuto neanche per uscire dal campo zoppicando su un piede solo.
- Ero entrato per discutere dei piani per la prossima stagione. – risponde con un filo di voce, - Non riesco a crederci.
- Mancio? – lo chiama lui, il cuore in gola ed un peso enorme che gli si sistema sullo stomaco, ben deciso a non mollarlo più, - Che dici?
- Un minuto ci ha messo, a licenziarmi. – gli spiega, tornando a guardarlo negli occhi con aria persa, - Io ci ho messo il doppio del tempo per uscire. – abbassa nuovamente lo sguardo, la voce che diventa progressivamente sempre più bassa, fino a sparire. – Non riuscivo a venire fuori da là dentro.
Deki, in quel momento, è in vacanza. In America, dall’altro lato del mondo. Siniša non riesce a trovare il coraggio per disturbarlo. Raccoglie le sue cose e va via. Lui e Mancini si dividono non succedeva da anni. “Sei abbastanza grande per camminare da solo, ormai,” gli dice con tenerezza, “buona fortuna, Miha”.
L’estate si preannuncia lunga. Siniša non ha un lavoro, ma soprattutto non ha voglia di trovarsene uno, il che è perfino peggio. Affitta una villa in Sardegna e decide che li passerà là, con tutta la sua famiglia, i prossimi mesi. Cerca di godersi il sole, il mare, il sorriso di sua moglie, il tempo libero, ma è dura. Aveva un sogno e gli si è sbriciolato fra le dita. È la prima volta che non ha idea di cosa fare di se stesso, lui che ha sempre avuto un’alternativa pronta per qualsiasi cosa. Ogni tanto, il suo sguardo accarezza il telefono e si chiede se adesso sia passato abbastanza tempo, se Deki sia già sulla via del ritorno verso l’Italia. Se può semplicemente chiamarlo, perché ha una voglia di sentirlo che lo riempie tutto, e ogni volta che si abbandona allo sconforto e piange se la sente scivolare addosso, gli brucia sulla pelle e lui non la sopporta più.
Alla fine, è Deki il primo a chiamarlo.
- Ho parlato col Mancio. – gli dice semplicemente. Siniša si lascia sfuggire un sospiro pesante e rassegnato. Fa per dirgli qualcosa, ma Deki non gliene lascia il tempo. – Vuoi che venga a farti un po’ di compagnia?
Siniša deglutisce a fatica.
- Dove sei? – gli chiede.
- Non importa. – risponde lui, - Vengo, se vuoi che venga.
Siniša neanche si sogna di mentire.
- Vieni. – sussurra, - Ti prego.
Dejan annuisce, e lui riesce a vederlo con chiarezza nonostante la distanza.
- Solo, Miha… - sospira, - Cerca di essere solo, quando arrivo.
Siniša nemmeno gli chiede quando intende arrivare. Interrompe la conversazione dopo avergli detto dov’è, e subito dopo esce. Prenota una stanza in un albergo sulla costa, per l’indomani. Ha il cuore in gola. Per la prima volta, gli sembra di vedere chiaramente dove lui e Deki si stanno dirigendo, e gli fa una paura fottuta.
Quando va a prenderlo all’aeroporto, si abbracciano per minuti interi. Nessuno li guarda, nessuno sembra riconoscerli, o se lo fanno li lasciano in pace. È la prima volta negli ultimi due mesi che Siniša si senta grato per qualcosa nei confronti del mondo. Ha il cuore che batte così forte da minacciare di saltargli fuori dal petto.
- Deki— - fa per dirgli, ma lui lo ferma subito, appoggiandogli due dita sulle labbra.
- Dopo. – dice con un sorriso, - Andiamo.
La stanza in albergo è fresca. Dalla finestra socchiusa entra un alito di brezza che profuma di mare e scuote le tende leggere come fossero onde. Il suono dei cavalloni che si infrangono contro la spiaggia ad un paio di centinaia di metri da lì è appena più forte dei loro respiri.
- Non potrei mai perdonarmelo, se andassi via senza… - sospira un po’, abbassando lo sguardo. Siniša trema, il cuore minaccia di cedergli.
- Non posso credere che stia succedendo. – esala in un sospiro spezzato. Deki gli sorride. È così diverso da quando l’ha conosciuto, eppure allo stesso tempo non è mai cambiato. È il suo più grande orgoglio, il suo più grande amore, è un pezzo di vita che sta per lasciare andare. Ha sempre creduto che non sarebbe mai stato pronto ad abbandonarlo. Non era vero. Ora sente che è giusto. Sono passati così tanti anni che recidere il contatto sarà probabilmente la cosa più dolorosa che abbia mai affrontato, ma è giusto così. L’altra metà della sua vita lo aspetta. Lui deve correrle incontro.
Lo bacia piano, con timore. Sfiora appena le sue labbra con le proprie e sente Deki bruciargli fra le dita. È lui il primo a farsi avanti con più decisione. Lo allaccia al collo e gli si schiaccia contro, Siniša lo stringe fra le braccia e geme nella sua bocca.
- Piccolo, - gli dice, - Piccolo, Dio mio, quanto ti ho voluto sempre.
Dejan annuisce, conducendolo verso il letto. Lo aiuta a stendersi ed accomodarsi fra le lenzuola. Si spoglia, lo spoglia. Sulla sua pelle calda, quasi febbricitante, le dita fresche di Dejan scivolano come un lenitivo. Siniša si inarca ad ogni carezza, e quando Dejan gli si sistema in grembo ed accoglie la sua erezione dentro il proprio corpo, d’istinto cerca le sue mani, alla cieca, incapace di schiudere le palpebre. Deki intreccia le proprie dita con le sue, muovendosi attorno a lui ed accogliendolo come un vecchio amico, un eterno amante, un fratello per sempre.
- Piccolo, ti amo. – dice Siniša con gli occhi pieni di lacrime.
- Anch’io ti amo, Miha. – sorride Deki, scivolando su di lui ed abbracciandolo stretto mentre sente il suo orgasmo esplodergli dentro. Siniša gli circonda le spalle con le braccia, lo aiuta a sistemarsi al suo fianco e finalmente apre gli occhi e si concede di guardarlo. È così stanco, così addolorato, così bello.
- Resta un po’. – gli sussurra all’orecchio, sistemandosi dietro di lui come la prima volta che hanno dormito insieme. Come quella volta, Deki gli si rigira fra le braccia. Come quella volta, ha gli occhi pieni di lacrime.
- Tutto il tempo che vuoi. – gli risponde, nascondendosi contro il suo petto.
- Tutto quello che ci resta. – sorride Siniša. E sorride sinceramente. Il tempo non è tanto, ma non è neppure poco.




- Ljupko Petrović, allenatore della Stella Rossa quando Dejan Stanković arrivò in squadra, a soli sedici anni.
- Slobodan Santrač, commissario tecnico della Nazionale jugoslava dal 1994 al 1998, nonché primo CT a volere Dejan in nazionale. E' peraltro vero che Dejan debuttò con la Nazionale contro la Corea del Sud, e che segnò due gol, entrambi su Assist di Siniša.
- Sergio Berti, agente di Siniša.
- Vincenzo Proietti Farinelli, osservatore della Lazio dal 1993 e per una decina d'anni successivi. E' stato in effetti lui il primo a visionare Dejan su commissione della Lazio, ma naturalmente la storia non si è svolta come l'ho raccontata io. Allo stesso modo, la vicenda che coinvolse Dejan e Siniša in relazione alla Fiorentina è enormemente romanzata da parte mia, nonostante sia vero che Deki stesse vivendo un periodo piuttosto brutto, che ci furono contatti con la Fiorentina, che lui e Siniša quasi raggiunsero l'accordo e che poi tutto saltò in aria perché Cecchi Gori lasciò la presidenza.
- Vladimir Jugović, giocatore serbo che in effetti ebbe grande merito nel passaggio di Dejan dalla Stella Rossa alla Lazio, consigliando la mossa alla dirigenza nonostante stesse per partire verso l'Atletico Madrid.
- Ana e Arianna sono rispettivamente le mogli di Dejan e Siniša.
(A uso e consumo delle organizzatrici del contest, visto che le altre chi è dovrebbero saperlo XD, il Mancio è Roberto Mancini, storico calciatore italiano che militò nella Lazio assieme a Siniša e che poi divenne allenatore sia della Lazio stessa che dell'Inter. Quando Siniša si ritirò dai campi, lo prese sotto la propria ala, facendone il proprio secondo.)
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste, Malinconico.
Pairing: Mario Balotelli/Davide Santon, Philippe Coutinho/OC/Adriano, (accennato) Zlatan Ibrahimovic/José Mourinho.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Angst, What If?.
- Sono passati quasi vent'anni - "diciotto" ripete una vocina fastidiosa nella sua testa - da quando Mario Balotelli è partito da Milano alla volta di Manchester, lasciando l'Inter per il City. E' partito senza una parola, perché era giusto così, e non ha mai avuto un ripensamento, nel corso di tutta la sua vita. La sua carriera è stata lunga e soddisfacente, e da quando ha appeso le scarpe al chiodo ha cominciato a lavorare nel settore giovanile. E' appunto mentre è in ritiro con il Manchester United di Walter Zenga che lo raggiunge la telefonata del suo vecchio mister, José Mourinho.
José a Milano c'è rimasto. Contro ogni previsione, forse anche contro la propria stessa volontà, è rimasto ancorato alla Pinetina per quasi vent'anni, ed ora ha una proposta per Mario. Qualcosa di cui può parlargli solo personalmente.
Mario non ha intenzione di accettare, ma sale comunque sul primo aereo per Milano, ben determinato ad arrivare fino a lì, ascoltare cosa José ha da dirgli e poi declinare la sua offerta per tornarsene a casa. Solo che le cose non vanno esattamente così, e l'offerta di José lui l'accetta.
Note: Una storia di cui avevo intuito l'enormità (delle dimensioni) fin dal momento del plottaggio (qualche mese fa) e che avevo accuratamente tenuta serbata nella mia mente fino all'arrivo del Big Bang XD Non ne avevo neanche parlato con qualcuno, se non per l'accenno di "voler scrivere qualcosa in cui bla bla" a Def, mi pare, accenno che poi lui ha gloriosamente dimenticato, per la mia gioia, visto che questo mi ha permesso di mantenere la suspanssss per un bel po', mentre scrivevo XD *crudeltà* Spero che possiate apprezzarla nonostante la lunghezza infinita (e il melodramma) (e Beautiful).
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VIA LE MANI DAGLI OCCHI

La Pinetina è cambiata un sacco. Mordicchiandosi distrattamente le unghie – un vizio che non ha mai perso nonostante le quasi due decine d’anni passate dall’ultima volta che ha messo piede in quel posto – Mario attraversa salette e corridoi di cui ricorda a memoria la planimetria e scopre in ogni metro qualcosa di differente, nuove piante, un nuovo parquet in palestra, nuovi tappeti, nuove foto incorniciate e appese alle pareti. Così, anche se le mura sono le stesse, i corridoi sono ancora lunghi allo stesso modo e sono invariati perfino i passi da fare per giungere da un posto all’altro, tutti i particolari minuscoli che rendono la Pinetina diversa si fondono in un’unica, grande massa di cose sconosciute che rendono ignoto l’intero ambiente, spaventandolo un po’.
Non è mai stato da lui lasciarsi spaventare, affrontare le cose come se potessero fargli del male. E non sono neanche le svariate coppe vinte dall’Inter negli ultimi diciott’anni ad intimidirlo – è stato molto attento a stare ben lontano dall’Italia, e tutte le vittorie di quella squadra, a parte le due Champions che hanno conquistato a distanza di sette anni precisi l’una dall’altra nel duemilaquattordici e nel duemilaventuno, non l’hanno mai toccato più di tanto – no, è qualcosa di diverso, la sensazione irrazionale di dovere qualcosa a quelle pareti, a quei luoghi, alle camerate del dormitorio, alle file di bagni sempre puliti e profumati, alla vasca del ghiaccio, alla cappella isolata in fondo al viale, agli studi di Inter Channel al piano di sopra, ai campi sempre perfettamente mantenuti di fuori. Un saluto, forse, o un ringraziamento. Niente che abbia mai avuto la possibilità di dire, essendo partito per l’Inghilterra direttamente dal ritiro negli Stati Uniti nel duemiladieci, ma in realtà niente che abbia mai avuto la reale voglia di dire, per cui immagina che, non fosse partito da Philadelphia ma da lì, non l’avrebbe detto comunque, ed ora si sentirebbe esattamente allo stesso modo.
Inizia a pentirsi di aver accettato quel colloquio con Mourinho, ma d’altronde non gli ha fatto alcun tipo di promessa, cosa anche logica, visto che non ha idea di che lavoro voglia proporgli. In realtà, però, attraversando i corridoi verso quella che ricorda perfettamente essere la sala d’aspetto di fronte al suo ufficio, si rende conto di essere stato sciocco ad accettare. Un viaggio a vuoto dal ritiro statunitense dello United – la fedeltà, d’altronde, non è mai stata parte del suo essere – fino a Milano, e già sapendo che, qualsiasi posto sia quello che Mourinho intende offrirgli, la sua risposta sarà comunque un no, sembra troppo stupido perfino per lui, che di cose stupide nella sua vita ne ha fatte. Sempre meno e sempre meno eclatanti, certo, ma le ha fatte, e continua a farle.
Dallo scorcio che riesce a vedere avanzando lentamente lungo il corridoio, la sala d’aspetto sembra vuota. Saluta con un sorriso di gioia sincera la prospettiva di restarsene un po’ seduto in silenzio per i fatti propri a riflettere. È un’abitudine che ha preso quando è partito, su consiglio di Mino, e non l’ha più abbandonata, anche adesso che Mino non è più lì a ricordargliela. “Tu non sei capace di ragionare,” gli diceva sempre, guardandolo con quel misto di severità e ironia che gli aveva sempre fatto pensare a quando i suoi fratelli maggiori lo guardavano nello stesso modo quando lo portavano in giro a farsi vedere dalle squadrette giovanili dei dintorni di Brescia, “perciò, quando ti senti confuso, mettiti seduto da qualche parte, preferibilmente in silenzio, ed elenca i pensieri. Dato che a ordinarli non sei capace, almeno fai una lista e poi cerca di scegliere il più conveniente. Questo dovresti essere in grado di farlo, sì?”
E quello era stato in grado di farlo, sì. Era l’unico modo in cui era davvero riuscito ad andare avanti e non perdersi fino a quel momento. Quando, dopo sei mesi di permanenza al City, il Mancio l’aveva estromesso dalla rosa dei titolari per aver litigato con mezzo spogliatoio – compresi i suppellettili e le docce – aveva davvero pensato di rassegnarsi a passare il resto dell’anno in panchina e poi chiedere a Mino di farsi trasferire ovunque fosse possibile, anche di nuovo all’Inter, pur di mollare quel posto di merda. Ma Mino gli aveva detto “siediti e fai una lista”, e Mario l’aveva fatta, ed alla fine si era calmato, ed era rimasto.
Era rimasto cinque anni, abbastanza a lungo da vincere tutto, Pallone d’Oro compreso – non aveva neanche fatto un grande effetto: era una cosa che si aspettava da se stesso, prima o poi sarebbe arrivato, l’aveva sempre aspettato con la fiducia di chi sa per certo di poterlo fare – e poi era andato via in pace, aiutando il City ad uscire dal brutto buco nero in cui gli sceicchi l’avevano mollato da un anno all’altro, scoperchiando un debito da fare invidia alla peggior gestione di una qualsiasi squadra spagnola o italiana a scelta. Era stata una cosa che aveva fatto con piacere, alla fine sarebbe anche rimasto volentieri: a Manchester s’era scavato il suo posto da titolare fisso inamovibile, posto che era sopravvissuto anche all’avvicendamento degli allenatori che avevano seguito il Mancio, e la tifoseria lo amava, per non parlare della fauna femminile locale. Ma gli era stato chiesto un sacrificio e lui l’aveva fatto a cuor leggero, e d’altronde l’offerta del Real era di quelle veramente irrinunciabili.
A lui era andata bene. Tutti quelli che gli avevano pronosticato una vita alla Cassano, piena di delusioni e con un ravvedimento solo tardivo, a scapito di anni che invece avrebbero potuto essere proficui, erano rimasti con un palmo di naso: Mario Balotelli era maturato subito, come fosse stata l’aria milanese a tenerlo ancorato al proprio infantilismo fino a quel momento, cosa che Mario, tra l’altro, tendeva a non escludere. La sua vita, così come il suo percorso calcistico, era stata bella, piena, regolare. Era rimasto sulla cresta dell’onda per un sacco di anni, aveva seguito un normale declino sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista tecnico, come tutti, senza grandi drammi, senza scadere nel ridicolo e nel patetico come altri grandi prima di lui, e dopo aver chiuso la carriera con un ultimo anno al City s’era trovato un lavoro nello staff tecnico di Zenga allo United, e lì era rimasto a lungo, in una posizione magari oscura, ma tranquilla, a contatto coi ragazzi, giusto perché almeno uno come lui sapeva come prenderli.
Inspira profondamente, pensando ai ragazzini delle giovanili che si sono aggregati con la prima squadra per il ritiro a Los Angeles aspettandosi di aver lui al fianco, mentre lui invece è lì a perdere tempo e ponderare su una decisione che sa di non voler prendere mentre peraltro ancora nessuno gli ha chiesto di prenderla, ed è con questo stato d’animo, nel mezzo della solita confusione di pensieri che gli fa desiderare una stanza vuota e una sedia per poter fare la sua lista e scegliere l’opzione migliore, che entra in sala d’aspetto e non la trova vuota come credeva.
Su una delle poltroncine c’è Davide, che appena gli posa gli occhi addosso si tende tutto come una trappola pronta a scattare, ed il cervello di Mario si annulla, niente più liste da fare, niente più masse di pensieri, niente più pensieri e basta, solo i suoi occhi, i lineamenti del suo viso segnato dal tempo, i capelli corti e brizzolati sulle tempie ed il pizzetto che ridisegna il contorno del suo mento e delle sue labbra con una precisione tale che solo quello basta a togliergli il fiato.
- Ciao. – mormora incerto, avvicinandoglisi di qualche passo. Davide non è cambiato moltissimo, non fatica per niente a riconoscerlo. Anche le sue reazioni sono le stesse. A Mario basta un assaggio fugace del suo profumo per ricordare giorni in cui una tensione simile nei suoi muscoli e nei lineamenti del suo viso poteva essere giustificata solo dalle sue mani che correvano lungo i suoi fianchi e il suo ventre, insinuandosi oltre l’elastico dei boxer alla ricerca della sua erezione.
- Sei già qui. – considera Davide, atono, alzandosi in piedi. Non sembra intenzionato ad avvicinarsi, però, anzi, sta piuttosto sulla difensiva. – Non sei neanche passato dall’albergo? Il tuo volo dovrebbe essere atterrato non più di un’ora fa.
- Per la verità, non ne ho nemmeno prenotato uno. – risponde con una mezza risata, grattandosi nervosamente il collo, - Non penso di restare poi molto.
Le labbra di Davide si tendono in una smorfia poco compiaciuta, mentre scrolla le spalle.
- Come preferisci. – commenta con una freddezza che Mario fatica ad associargli.
- Tu che fai? – chiede, cercando di scioglierlo parlandogli con lo stesso tono casuale e affezionato con cui soleva parlargli anni prima, - Aspetti di vedere il grande capo?
- Già. – annuisce lui, spostando lo sguardo sulla porta chiusa dell’ufficio di José, - Per la verità è almeno una settimana che cerco di fargli cambiare idea sull’opportunità della tua presenza qui. – aggiunge con una naturalezza che quasi lo turba. Parla di lui come di un possibile impiegato e basta, valuta i pro e i contro della sua presenza solo in un’ottica di convenienza lavorativa. È triste, ma Mario immagina fosse inevitabile. È cresciuto – sono cresciuti entrambi – e non c’è più niente, di ciò che avevano, la cui fibra sia resistita abbastanza da consentire loro di aggrapparvisi ancora.
- Come ti dicevo prima, - annuisce serio, - non intendo restare a lungo.
- E allora perché sei venuto? – ritorce Davide, sferzandolo con un’occhiata dubbiosa, - Se già sapevi che, indipendentemente da cosa ti sarebbe stato offerto, non saresti rimasto, perché hai fatto la fatica di muovere il culo e venire fin qui?
Mario si morde l’interno di una guancia, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
- Non tutto si può spiegare razionalmente. – risponde incerto.
- Sì, invece. – obietta Davide, bussando alla porta, - Se solo si vuole.
- Davide, levati dai coglioni. – risponde immediatamente una voce dall’interno. È invecchiata e arrochita dagli anni e dal fumo, ma l’accento è lo stesso, il tono strascicato e affascinante anche, e Mario non può impedirsi di sorridere, nonostante quella voce non risvegli solo ed esclusivamente ricordi piacevoli, nella sua memoria. – E lascia in pace Mario. Solo uno di voi due metterà piede in quest’ufficio, e mi auguro siate entrambi abbastanza intelligenti da capire chi.
Davide rotea gli occhi, lamentandosi a bassa voce e sputacchiando un flusso inarrestabile di parole inintelligibili, sul sottofondo del quale Mario lascia andare una mezza risatina e lo osserva allontanarsi lungo il corridoio, prendendosi un secondo per inspirare, espirare e poi tornare serio, prima di aprire la porta.
- Però, - commenta, osservando Mourinho seduto dietro la propria scrivania, intento ad osservare degli schemi scorrere sullo schermo ultrapiatto del pc mentre prende appunti a mano sul proprio taccuino, un’abitudine che non ha mai perso nonostante l’evoluzione tecnologica degli ultimi dieci anni, - sei invecchiato bene.
- Tu no. – lo rimbecca lui, senza neanche guardarlo, - Sei diventato una pappamolla. Farti rigirare come un calzino a quel modo da Davide.
- Non sono io che mi sono rammollito, mister. – gli fa notare, prendendo posto su una poltrona di fronte a lui, - È Davide che è diventato una macchina da guerra. Cosa che temo di dover imputare a lei.
Mourinho stacca lo sguardo dallo schermo del computer, posandoglielo addosso in una carezza distratta ma, in qualche modo, perfino affettuosa.
- Mi hai chiamato “mister”. – dice atono.
- Sì, me ne sono accorto a metà parola. – ridacchia Mario, accomodandosi meglio, - Le vecchie abitudini non muoiono mai, immagino.
- Sono passati vent’anni. – insiste Mourinho.
- Quasi vent’anni. – ribatte lui.
- Quasi vent’anni. – concede Mourinho con un mezzo sorriso, - Forse non sei cambiato poi così tanto.
Mario indica la propria testa e la pettinatura decisamente più sobria che porta da quando ha smesso di giocare.
- Un po’ sì.
- Sono differenze minime. – sbuffa l’uomo, agitando una mano davanti al viso con aria annoiata, - Ma Davide le ha notate.
- Non che mi aspettassi niente di diverso. – sorride Mario, lo sguardo che si perde un po’ sul verde rigoglioso della Pinetina fuori dalla finestra. Solo per qualche secondo, comunque, dopo il quale torna immediatamente a concentrare tutta la propria attenzione sul portoghese. – Allora, - comincia, - parliamo d’affari.
José sorride, spegnendo il computer con un tocco appena accennato alla base dello schermo, e poi si alza in piedi. Ha un po’ perso massa, soprattutto il tono muscolare non è più quello di una volta, ed ha perso anche centimetri in altezza, e non è che sia mai stato veramente alto, e nel complesso guardandolo così in piedi, molto più bianco e magro e minuto di quanto lo ricordasse, Mario non riesce ad evitare una stretta di nostalgia che gli avvolge i polmoni e lo stomaco in una morsa soffocante, e le sue labbra si piegano in una smorfia, che fortunatamente, dietro gli occhiali dalla montatura praticamente invisibile, lui non nota.
- Affari. – dice, girando attorno alla scrivania e dirigendosi senza guardarsi indietro verso la porta. Si aspetta che lui lo segua, e Mario si alza in piedi a propria volta, raggiungendolo ma restando dietro di lui di un passo o due, osservando la direzione che prende fra i corridoi e sorridendo quando si rende conto che vuole condurlo di fuori, ai campi. – Fossi in te, io non la metterei in questi termini.
- No? – chiede Mario, incuriosito, osservandolo camminare lentamente con le braccia dietro la schiena, - E come la metterebbe?
- Io non voglio fare affari con te. – dice José, imboccando un viale alberato senza neanche controllare che lui lo stia seguendo ancora, certo com’è della sua presenza pochi passi dietro di lui, - Un affare presupporrebbe del guadagno da parte di entrambi, qualcosa di vantaggioso sia per me che per te. Io, invece, voglio essere sincero e chiederti un sacrificio. Un accordo in seguito al quale io guadagno un giocatore, e tu praticamente niente.
Mario si lascia sfuggire una risatina incerta, inarcando le sopracciglia.
- Io non gioco più da tempo, mister. – gli fa notare, - Non può propormi una cosa del genere.
- Non ho mai pensato di rimetterti a giocare per me, Mario. – ride divertito lui, salutando il sorvegliante all’ingresso dei campetti sui quali si allena la Primavera, - Ho seguito il tuo percorso lavorativo, però, e devo dire che mi hai molto sorpreso.
- Nel senso che non si aspettava che durassi tanto? – chiede lui, ironico.
- Sciocchezze. – risponde José, - Mi sarei aspettato che durassi un po’ di più, s’è per questo, ma dal momento che è evidente che non hai mollato perché non ce la facevi più, ma perché t’era venuto a noia, direi che va bene così. Comunque, no. – spiegò, rallentando decisamente il passo in prossimità dei campi, - Parlo di quello che hai fatto dopo esserti ritirato. Il tuo è un lavoro di responsabilità, ed ho sempre pensato che, una volta appesi al chiodo gli scarpini, avresti cercato di rifuggirne il più possibile.
Mario scrolla le spalle, lasciando scorrere gli occhi sul campetto sul quale alcuni ragazzi si stanno allenando, divisi in piccoli gruppi.
- Me la cavo coi ragazzini. Mi adorano tutti. – risponde, osservando Davide entrare da un cancello secondario, molto distante da loro, e raggiungere subito un assistente, per recuperare una cartellina prima di piazzarsi al centro del campo e battere le mani con forza, richiamando l’attenzione dei ragazzi ed ordinando loro di radunarsi in cerchio attorno a lui. – È lui che allena la Primavera? – chiede con aria allucinata, puntandolo con un dito e voltandosi a guardare José con un sorriso incredulo sulle labbra.
- Già. – risponde lui, invitandolo a proseguire il cammino e fermarsi poco più avanti, molto più vicino alla squadra, per osservarli più facilmente, - La mia proposta ha a che fare proprio con la Primavera, nel caso te lo stessi chiedendo.
- Naturalmente. – ride Mario, osservando i ragazzi cominciare a giocare a torello divisi in due gruppi, - Altrimenti non mi avrebbe portato qui.
- L’ottimizzazione dei tempi e delle risorse è la prima regola sulla quale baso il mio lavoro, - annuisce il portoghese, - dovresti saperlo. E poi sono convinto di avere maggiori possibilità di farti accettare la mia proposta, se ti mostro dal vivo il soggetto in questione.
Mario si volta a guardarlo inarcando un sopracciglio, scettico.
- Di chi parliamo? – chiede, e segue il cenno del capo di José fino ad incontrare la figura solitaria di un ragazzino piuttosto magro, mulatto, che palleggia disinvoltamente e con aria abbastanza annoiata a bordocampo. – Chi è?
- Si chiama Christos. – risponde José, atono, - Ha diciott’anni compiuti da un pezzo. Tecnicamente è abbastanza maturo da poter andare in prestito, ed è ciò che dovrebbe fare se non vuole fare la riserva per sempre, visto che in prima squadra non c’è posto per lui.
- Però? – lo incita a proseguire, poggiando una mano sulla ringhiera quasi ad aggrapparvisi, mentre lo osserva con maggiore attenzione.
- Però non vuole. – risponde José in una mezza risata sconfitta, - Riesci a crederci? Sta per mandare a repentaglio un’intera stagione perché non ha intenzione di andare via.
- Vuole la prima squadra? – chiede Mario, concentrato. Il ragazzo continua a palleggiare come se nulla di ciò che gli succede intorno, loro che lo osservano o i suoi compagni che si allenano, possa davvero toccarlo.
- Non ne sono sicuro. – riflette José, - D’altronde, scoprirlo sarà uno dei tuoi compiti, per cui me ne tiro fuori.
Mario torna a posargli gli occhi addosso, aggrottando le sopracciglia.
- Di cosa stiamo parlando, nello specifico?
José sorride, riprendendo a camminare.
- Hai sei mesi. – gli risponde, - Nella finestra invernale, il ragazzo deve andarsene. Troveremo noi una squadra adatta ad accoglierlo, ma Christos deve andare in prestito. E con le buone, perché è un capitale molto importante per questa società. Non vogliamo rischiare di perderlo per colpa di un capriccio adolescenziale.
- Dico, - borbotta Mario, affiancandoglisi, - non avete pensato a mandarlo da uno psicologo o chessò io? O parlare col suo procuratore, magari? Di solito aiuta. – suggerisce con un sorriso furbo. José gli lancia un’occhiataccia ed è così palese che vorrebbe tirargli un ceffone sulla nuca che Mario quasi pensa di porgergliela.
- Il suo procuratore è d’accordo con noi, così come gran parte del suo entourage, almeno stando a quello che siamo riusciti ad intuire parlando con alcuni di loro, ma il ragazzo non si lascia convincere. Tu hai detto di saperci fare, no? Allora dimostralo. Ufficialmente farai parte dello staff tecnico di Davide, ma il tuo compito è risolvere il problema con Christos, quindi non lasciarti distrarre da altre questioni, siano esse lavorative o personali.
- Non mi parli come avessi già accettato. – gli ricorda lui, serio, - Non l’ho ancora fatto. Voglio prima parlare col ragazzo.
José sorride ancora, e Mario si accorge che, camminando, sono arrivati fino al cancello d’ingresso del campetto, solo quando José lo spalanca.
- Allora vai. – lo invita, sempre sorridendo, - Hai tutto il tempo che vuoi.
Mario si mordicchia l’interno di una guancia, ripensando ai ragazzi dello United, a Los Angeles, a Zenga che come minimo comincerà a cercare di rintracciarlo ininterrottamente nel giro di tre ore massimo quattro. E poi oltrepassa il cancello e si avvicina a Christos.
*
- Preferisci essere chiamato in qualche modo particolare? – chiede Mario sorridendo, mentre si avvicina a Christos all’ombra degli alberi che circondano il campetto. Il suo sguardo corre per un secondo a bordocampo, dove Davide sta scuotendo con un bastone piuttosto lungo le fronde di un albero dall’altro lato rispetto a loro, imprecando in ferrarese stretto. Da quando il Campionato Primavera è stato praticamente equiparato in importanza a quello maggiore, i giornalisti spiano anche i ragazzi, ed è divertente osservare il malcapitato spione mentre cerca di arrampicarsi più in alto per non essere preso a bastonate, mentre il servizio di sicurezza accorre, più per salvare lui che per aiutare Davide che, è evidente, se la caverebbe benissimo anche da solo. – Non so, - riprende, tornando a guardare il ragazzo, - Chris? Christi?
- Il mio nome è Christos. E non mi piacciono i nomignoli. – risponde lui, continuando a palleggiare. Quella che usa è una palla di quelle nuove, ultraleggere, perfettamente sferiche, con le cuciture invisibili ad occhi e tatto. È incredibile come riesca a controllarla al punto da compiere palleggi così brevi e precisi, senza mai sbavare. Dev’essere un pezzo che non gli viene permesso di allenarsi coi compagni.
- Davvero? – ride Mario, sedendosi su una panchina là accanto, - E Tramontana non ti ha affibbiato nessun soprannome?
- Gli ho chiesto di non farlo. – continua a palleggiare Christos, imperturbabile, - Il nome di una persona è importante. Voglio essere ricordato col mio nome, quando diventerò famoso.
- Ed è Christos come? – insiste Mario, - Ce l’avrai un cognome, no?
Il ragazzo gli lancia un’occhiata ironica e si produce in un palleggio lievemente più alto. Afferra il pallone sul palmo di una mano e poi lo lascia rotolare a terra, mentre quello trova subito la sua strada verso gli altri palloni accatastati in un angolo poco lontano.
- No, non ce l’ho. – risponde con un mezzo ghigno, piantando una mano sul fianco, - Non ho cognome perché nessun genitore s’è premurato di darmelo. E prima che tu possa pensare che alla base del mio comportamento ci sia un’enorme solitudine, ti dico subito che alla base del mio comportamento c’è esattamente il contrario. – si ferma per un secondo, Mario fa per aprire la bocca e, al solo vederlo, Christos ricomincia a parlare. – E prima anche che tu possa pensare che io e te ci assomigliamo… io so chi sei. E non ci assomigliamo per niente. Tu eri uno stupido ingrato e non sei per niente la persona più adatta ad aiutarmi ad entrare nell’ottica di idee di dover partire. Io questo posto non lo lascio. E non intendo stare a sentirti.
Mario serra le labbra, non perché sia davvero sorpreso – Christos è un ragazzino difficile; bella storia, non è il primo né l’ultimo che incontrerà nella sua vita – ma perché si rende conto di quanto inutile e frustrante potrebbe essere continuare questa conversazione adesso, mentre Christos non ha voglia di ascoltarlo e lui, be’, lui ha voglia solo di prenderlo a pallonate in faccia fino a far diventare la palla cubica.
- Come preferisci. – risponde, alzandosi in piedi. – Comunque, se mi conosci come dici, saprai anche che questo bel discorsetto non mi fermerà certo dal provare lo stesso a convincerti.
Christos scrolla le spalle, avvicinandosi al mucchio di palloni e recuperandone uno, per tornare a palleggiare.
- Accomodati. – gli risponde, senza più guardarlo.
Immediatamente fuori dal campetto, Mario trova Mourinho ad aspettarlo, con un sorriso enigmatico sul volto.
- È andata bene? – gli chiede.
- Malissimo. – risponde lui, - E non mi dica che si aspettava qualcosa di diverso, perché non ci credo neanche se me lo giura. – Mourinho ride divertito, riprendendo a passeggiare ed aspettandosi che lui gli vada dietro, cosa che d’altronde Mario fa immediatamente. – Comunque, accetto il lavoro.
- Adesso posso dire che non mi aspettavo niente di diverso. – annuisce il portoghese, - Posso chiederti cosa ti ha convinto?
- Mi ha dato dell’ingrato. – sbotta Mario, velenoso.
- E ha torto? – chiede José, inarcando un sopracciglio.
- Certo che sì. – insiste lui, offeso, - Ero giovane, non ingrato. Lui, in compenso, è giovane, vigliacco e terrorizzato. E crede di avere una risposta per tutte le domande del mondo. – José fa per chiedergli qualcosa, ma Mario lo ferma con un sorriso. – E sì, - annuisce sicuro, - ha torto anche su questo.
*
- Sei sicuro di volerlo fare, Davide? – gli chiede José, le braccia incrociate sul petto, - Non sarebbe certo un problema trovargli una stanza da qualche parte.
- Casa mia è abbastanza grande per ospitarlo finché non trova un posto dove stare in pianta stabile. – risponde lui, scrollando le spalle. Mario li osserva discutere appoggiato allo stipite della porta, dopo aver recuperato la valigia all’ingresso, dove l’aveva lasciata arrivando. – Non capisco per quale motivo la società dovrebbe anche sobbarcarsi il peso del suo vitto e del suo alloggio quando già ci toccherà pagargli un lauto stipendio. Per non parlare della penale che ci scucirà di dosso lo United, non siamo mica andati a pescare un assistente a caso, no, noi dovevamo andare a tirar loro via il dannato direttore dell’area tecnica del settore giovanile. – sbuffa infastidito, e José ride di gusto.
- Ti dispiacerebbe venirci a patti, Davide?
- E magari non parlare come se non ci fossi? – aggiunge Mario, agitando una mano come a volersi mostrare ai loro occhi. Davide ignora Mourinho, ma si volta repentinamente a guardare lui.
- Sarà dura cambiare abitudini, - dice amaramente, - considerando che ho sempre parlato di te come non ci fossi, negli ultimi vent’anni. Chissà perché. Ah, già, perché non c’eri.
- Il che ci riporta alla questione principale. – s’intromette José, sollevando gli occhi al cielo e poi tornando a posarli su Davide. – Sei sicuro di volerlo fare?
Lui sospira pesantemente, rilassando le spalle e massaggiandosi le tempie.
- Sì. – risponde, visibilmente più sereno rispetto a prima, - Sì, sono sicuro. Non mi pesa, davvero. E poi mi toccherà abituarmi, e questo è il modo migliore.
- Devi abituarti a lavorare di nuovo con lui, Davide, mica a conviverci. – ride José, ed un brivido identico scorre lungo le schiene di entrambi i suoi interlocutori, visto che nessuno dei due ha ancora dimenticato quando le due cose non facevano che mescolarsi l’una con l’altra.
Ma erano altri tempi, e loro erano altre persone. Davide saluta Mourinho con un abbraccio affettuoso, augurandogli la buonanotte, prima di passare accanto a Mario ed ordinargli di seguirlo, conducendolo verso la propria macchina nel parcheggio sul retro.
- Quindi sei tornato per restare? – gli chiede mettendo in moto, lo sguardo fisso sulla strada.
- Devo ancora fare un paio di telefonate per risolvere qualche questione e, naturalmente, sottopormi all’ovvia ramanzina di Walter, ma tendenzialmente sì. – risponde lui, sorridendo distrattamente. – Milano è molto cambiata, da quando sono partito. – commenta, lasciando scorrere lo sguardo sulle enormi campagne che attraversano, lontano dai terreni industrializzati dei quali si possono scorgere i contorni all’orizzonte.
- Sì, in peggio. – annuisce Davide, le mani ben salde sul volante, - Fortunatamente, Appiano resta un’oasi in cui il progresso non si è introdotto in modo troppo invasivo, anche se è ovviamente tutto merito della gestione. Adesso l’intero paese appartiene a noi. Abitiamo tutti lì, con le nostre famiglie.
- Dev’essere un vero paradiso. – ride Mario, guardandolo con attenzione. Gli occhi di Davide non si staccano mai dalla strada.
- È l’unico posto veramente abitabile nei dintorni. Almeno per me. – scrolla le spalle lui, - Milano è tremendamente inquinata, e così caotica. – aggiunge con malcelato disgusto.
- Ti piaceva, quando ci abitavamo insieme. – si lascia sfuggire lui, come fosse un aneddoto di poco conto. Gli occhi di Davide saettano immediatamente sulla sua figura, infuocati di rabbia.
- Troppo tempo fa perché possa ricordarmi per quale motivo una cosa simile potesse bastarmi per ignorare tutto il resto. – risponde acido. Mario incassa e non ribatte.
Casa di Davide è enorme, e stupenda. È una di quelle ville che da qualche anno a questa parte rappresentano il top per architettura e progettazione, completamente immersa nella natura, tutta in legno, vetro e acciaio. Le scorre accanto un torrente di quelli che Mario pensava si fossero drenati tutti. Un ruscellino allegro e scrosciante, c’è perfino una ruota attaccata ad una cabina che Mario immagina provveda a parte dell’energia elettrica che serve per rifornire la casa. Può scorgere i pannelli solari che provvedono al resto sul tetto, e si sente profondamente inadeguato nel ripensare al suo attico da scapolo incallito a Manchester. Cosa se ne debba fare Davide di una casa così grande, comunque, resta un mistero.
- Nella piscina – dice Davide, indicando la vasca colma d’acqua proprio davanti alla casa, - va l’acqua del torrente, depurata. Viene ulteriormente depurata e rimessa in circolo per uso domestico, ed è perfino potabile.
- Wow. – ride Mario, ammirato, - Devi andarne fiero.
- È così, in effetti. Non che sia un pezzo unico, visto che da queste parti è l’unico modo per vivere serenamente se vogliamo anche cercare di preservare l’ambiente, o nel giro di poco tempo anche Appiano farebbe la fine di Milano e dintorni, - sospira, - però sì, l’ho voluta con forza e ne sono molto orgoglioso. È l’ambiente ideale per crescere un figlio.
Fermandosi sulla soglia della porta, aspettando che Davide digiti il proprio codice per disattivare l’allarme e far scattare la serratura, cercando disperatamente di non mostrare quanto profondamente l’abbia scosso l’implicazione maggiore delle ultime parole di Davide, Mario si chiede se avrebbe potuto esistere un modo migliore per venirlo a sapere. Meno doloroso, meno violento, meno improvviso.
- Sei sposato. – constata seguendolo in casa, - E hai—
- Papà! – strilla un bambino di non più di sei anni, correndogli incontro inseguito da una babysitter scarmigliata, - Papà, sei— - si ferma all’improvviso, quando nota la sua presenza al fianco di Davide. Mario lo osserva divertito spalancare gli occhi e puntargli il dito contro, allucinato. – Ma è Mario Balotelli! – dice, saltellando sul posto, - È Mario Balotelli!!!
- Urrà! – borbotta Davide, roteando gli ochi, - È così che si salutano gli ospiti, Giovanni? – lo riprende poi, con tono pacato ma grave. Il bambino si calma un po’, incrocia le braccia dietro la schiena e china il capo, ma continua a pestacchiare incessantemente coi piedini contro il pavimento, e si vede che sta per esplodere. Mario ride pianissimo, sperando che Davide non lo senta. Ovviamente, Davide lo sente, e lo sferza con un’occhiataccia disapprovante prima di sospirare ed arrendersi. – Va bene, va bene. – mugola, sfilando la giacca ed appendendola all’attaccapanni, - Sciogliti, per carità, non voglio vederti scoppiare sul tappeto preferito di tua madre. – concede con un mezzo sorriso.
Giovanni urla qualcosa di non meglio definito e corre incontro a Mario, cominciando a saltellargli davanti e tutto intorno in preda ad una straordinaria eccitazione.
- Sei Mario Balotelli! – gli ripete per la terza volta in dieci minuti. Mario ride, accucciandosi davanti a lui per raggiungere la sua altezza. È piuttosto piccino, per avere la sua età, ed un sacco sottile. Assomiglia tremendamente a suo padre, tranne per gli occhi, di un anonimo castano che non ha niente a che vedere con quello più liquido e brillante di Davide, affogato in un verde di cui Mario non è mai riuscito a capire nemmeno come fosse possibile l’esistenza.
- Già. – dice annuendo, - Conosco il mio nome, sai? – lo prende un po’ in giro, molleggiando sulle punte.
- Sì, ma è che tu sei Mario Balotelli! – continua a squittire il bambino, battendo le mani, - Mangi con noi? Possiamo giocare un po’, dopo cena? Possiamo, sì?
Mario solleva gli occhi su Davide che, in fondo all’ingresso, scambia qualche battuta veloce con la babysitter, che scompare lungo il corridoio subito dopo.
- Allora? – chiede ad alta voce, per attirare la sua attenzione, - Possiamo, papà?
- Mario, non abusare della mia pazienza. – lo avverte lui con un sorriso pericolosamente teso, - Gio, Mario resterà qui per qualche tempo. – dice quindi, chinandosi a prendere in braccio il bambino.
- Un po’ di tempo quanto? – chiede quello, gli occhi che brillano d’emozione.
- Qualche giorno, penso. Un paio di settimane, forse. – risponde Davide. Giovanni, incapace di trattenersi oltre, comincia a saltellargli in grembo.
- Mi farò insegnare un sacco di cose! – strilla, dimenandosi come un’anguilla.
- Sì, sì, certo. – ride Davide, rimettendolo a terra, - Hai già sentito tua madre, oggi?
- Sì! – risponde subito Giovanni, sollevando le braccia con entusiasmo, - No, aspetta… - ci ripensa poi, assumendo una posa molto seria e riflessiva, tremendamente comica. – No, oggi no. – risponde quindi, incupendosi.
- E cosa stai aspettando? – chiede Davide, scompigliandogli i capelli vaporosi e biondicci, - Vai di là e telefonale. Niente cena se prima non le parli per almeno venti minuti!
- Vado! – dice Giovanni col solito entusiasmo, sollevando nuovamente le braccia e correndo via.
- Però. – ridacchia Mario quando il bambino scompare alla vista di entrambi, - Quanta gioia di vivere. La madre dov’è?
- Hera è in tour negli Stati Uniti, per ora. – risponde lui, sollevando gli occhi al cielo, perfettamente visibile oltre la cupola di vetro che fa da soffitto all’ingresso, - Starà via almeno fino a gennaio.
- Hera? – ride Mario, recuperando il proprio bagaglio e seguendo Davide quando anche lui imbocca il corridoio, - Non so se sia più comico il pensiero che tu abbia sposato la stessa ragazza con cui stavi a diciott’anni, o il fatto che gli armadietti dei miei ragazzini a Manchester sono tappezzati delle sue foto in topless per Rolling Stones. – commenta ironico. Davide si volta a guardarlo malissimo per qualche secondo, prima di procedere.
- Se sei venuto qui per insultare la mia famiglia, faccio sempre in tempo a buttarti fuori da questa casa. – lo minaccia blandamente, - O infilarti nell’inceneritore, chissà che almeno la tua presenza non porti qualcosa di utile, tipo energia elettrica sufficiente per cucinare la cena di stasera.
Mario ride ad alta voce, fermandosi subito dietro di lui quando Davide spalanca una porta, mostrandogli la sua stanza.
- …cazzo, Davide, questa stanza da sola è grande quanto metà di tutto il mio appartamento. – commenta, sinceramente ammirato, muovendo qualche passo all’interno della camera, - Quanto è grande questa villa?
- È abituata a contenere un mucchio di persone. – scrolla le spalle lui, - Persone che naturalmente non faranno i salti di gioia al pensiero di rivederti, come ho cercato insistentemente di spiegare a José per le ultime due settimane della mia esistenza, ma comunque. – sospira teatralmente, - Sistemati pure qui. – lo invita con un cenno del capo, - La cena sarà in tavola fra tre quarti d’ora. Non tardare, Giovanni deve andare a letto presto e dubito che si rassegnerà ad obbedire prima che abbiate giocato almeno un po’. – sospira ancora, scuotendo il capo, - Ma chi me l’ha fatto fare… - esala in un mugolio sommesso, avviandosi stancamente lungo il corridoio.
Mario lo osserva allontanarsi con un sorriso intenerito, stupito da quanto sia semplice, nonostante il figlio e l’atteggiamento ostile, sentirlo ancora tanto vicino anche e soprattutto nelle piccole cose, nei piccoli cenni che gli fa, nelle occhiate che gli lancia. Si chiude la porta alle spalle, sistemandosi in fretta. Non vuole fare tardi.
*
L’espressione sconvolta che rende ridicolo il viso di Zlatan non può che costringere ad una mezza risata Davide, nonostante tutto, nel momento stesso in cui appare sullo schermo del videotelefono.
- Ho chiamato appena ho saputo. – dice lo svedese, gli occhi spalancati e i capelli tutti arruffati, come si fosse appena svegliato, - Ma il portoghese è impazzito del tutto all’improvviso?
- Non faccio che chiedermelo da quando me ne ha parlato. – sospira Davide, lanciando un’occhiata al giardino illuminato di fuori, sul prato naturale del quale Mario e Giovanni si rincorrono fra loro fingendo di rincorrere entrambi il pallone, - Non mi ha neanche chiesto cosa ne pensavo, ha semplicemente preso una decisione. E tu sai com’è quando prende una decisione.
- Lo so anche troppo bene. – sbotta Zlatan con una smorfia, - Ma perché non me l’hai detto?
- Perché tu sei un procuratore, Zlatan. – risponde Davide, - E questi invece sono affari della società. Non potevo dirtelo.
- Professionalmente parlando, no. – annuisce Zlatan, - Ma considerata la nostra vecchia e proficua amicizia…
- Sempre no. – sorride lui, mentre Mario prende in braccio Giovanni e lo fa volare più in alto di quanto lui non sia mai riuscito a fare. – È un bel casino. – sospira quindi, abbattuto.
- E non può che peggiorare. – commenta Zlatan, pensoso. – Dade, ma Mario ha idea di chi sia la gente che Christos frequenta? I suoi amici, le persone che l’hanno cresciuto… non è veramente pensabile che ci possa lavorare in mezzo, me compreso. Sarà una guerra.
- Senti, a me non dici nulla di nuovo! – sbuffa lui, stendendosi contro lo schienale della poltrona ed allentando il nodo della cravatta, - È José che s’è fissato, io non avrei mai permesso che una cosa simile potesse accadere, se lui non mi avesse scavalcato. Fa’ il tuo mestiere, comportati da procuratore e rompi i coglioni alla società. Io non posso farlo, tu sì.
- Non posso farlo nemmeno io, Da’. – ride Zlatan, inarcando un sopracciglio, - Avrei potuto, fino a cinque anni fa, ma ormai il regolamento è tutto cambiato, e la nostra libertà di rompere i coglioni al nostro prossimo, che poi è stato il motivo principale che mi ha spinto a intraprendere questa carriera, s’è molto ridotta.
Davide torna ad avvicinarsi al videotelefono, sorridendo appena.
- Ora non raccontarmi balle. – borbotta, - Sappiamo entrambi che non è per questo che hai cominciato. - Zlatan rotea teatralmente gli occhi, gesticolando come a scacciare via una mosca molesta, e Davide torna a distendersi, molto più rilassato di quanto non fosse prima. – Senti, perché non gli parli? Christos è una cosa molto speciale, per lui, ma è evidente che se te l’ha affidato, dodici anni fa, l’ha fatto perché ritiene di potersi fidare di te. Prova a spiegargli che non è questo il modo per—
- E qual è il modo, Davide? – chiede Zlatan, abbattuto, - Perché io, sinceramente, non ho più conigli da tirare fuori dal cappello. Ho esaurito le risorse. Christos deve partire, se vuole avere una dannata carriera, e deve staccarsi da questo dannato posto, ed io non so come convincerlo a farlo.
- Il problema è che non so come potrebbe convincerlo Mario. – considera Davide, atono. – Ti saluto, adesso, sta rientrando. – dice frettolosamente, osservandolo avvicinarsi alla porta con Giovanni già addormentato appoggiato su una spalla, - Ci vediamo domani a pranzo, come al solito.
Zlatan lo saluta con un breve cenno del capo ed interrompe la chiamata. Il suo volto scompare dallo schermo prima che Mario possa raggiungerlo.
- Dove lo poso questo sacco di patate? – gli chiede in una mezza risata. Davide sorride intenerito, alzandosi in piedi e tendendo le braccia per farsi passare il bambino, che mugola appena ma resta addormentato nonostante gli smottamenti.
- Ci penso io. – risponde, - Tu va’ a riposarti. Non hai idea della giornata che ti aspetta, domani. – dice, quasi divertito. – Conosci la strada. – conclude, salutandolo con un cenno della mano ed avviandosi lungo il corridoio. Mario si guarda intorno e si chiede cosa abbia dato a Davide questa certezza, visto che è arrivato non più di un’ora e mezza fa, ma sospira, si rimbocca metaforicamente le maniche e parte alla ricerca della propria camera. È, invero, piuttosto soddisfatto quando, dieci minuti dopo, la trova.
*
Nonostante le parole tutt’altro che rassicuranti di Davide, non gli è riuscito di chiudere occhio. Mentre si cambiava per la notte, Zenga l’ha chiamato ed ha preteso che rimanesse in piedi accanto a letto senza mai sedersi mentre lo rimproverava strillandogli addosso quanto fosse irresponsabile, e stupido, e quanto in realtà stesse aspettando una cosa simile da anni e l’avessero capito tutti tranne lui. Mario non sa perché abbia obbedito, non sa perché sia rimasto in piedi quando avrebbe tranquillamente potuto sedersi o anche stendersi e non ci sarebbe stato modo, per Walter, di saperlo, dall’altro lato del mondo. Tutto quello che sa è che, anni fa, non l’avrebbe mai fatto. Sedersi o stendersi sarebbero state le prima cose che avrebbe fatto nel momento stesso in cui avesse sentito le parole “resta in piedi”. Oggi, ad anni di distanza, in una casa non sua, lontano dalla propria vita, dalla propria squadra, e catapultato nella vita e nella squadra che erano sue vent’anni prima, invece, non l’ha fatto. Qualcosa significherà, ma Mario non sa cosa, ed in ogni caso non è ancora pronto a chiederselo.
Incapace di restare ancora a letto a sudare nonostante la casa perfettamente rinfrescata, si alza ed esce dalla propria stanza, guardandosi intorno. Non vuole finire nella zona delle camere di Davide e Giovanni, per cui cerca di ricordare verso dove ha visto avviarsi Davide quando l’ha salutato prima di andare a dormire e si dirige verso un punto completamente opposto, sperando di trovare qualcosa. Qualsiasi cosa.
Gira a vuoto per almeno un quarto d’ora. Incontra porte chiuse, il salotto con la porta a vetri, un bagno con la porta socchiusa – probabilmente lasciata così apposta nell’eventualità che lui ne avesse bisogno – e poi, semplicemente, la porta di casa. Attraverso i vetri si vede tutto, il cielo pieno di stelle, la vegetazione rigogliosa ovunque, il torrente che scende lungo la collina e la piscina. E Davide che fa il bagno.
Esce cercando di non fare troppo rumore, ma nel silenzio totale che avvolge il giardino Davide fa in fretta a sentirlo comunque, e si volta a guardarlo. Non sembra infastidito, né sorpreso dal suo trovarsi lì.
- Non riesci a dormire? – gli chiede. Mario scrolla le spalle, avvicinandosi. Sfila le ciabatte e si siede a bordo vasca, dondolando i piedi, mentre Davide si issa sulle braccia, appoggiandosi sui gomiti e restando fuori dall’acqua solo per metà, proprio accanto a lui.
- Pensavo. – risponde, piantando le mani per terra e provando semplicemente a rilassarsi.
- A cosa? – chiede Davide. La sua voce è dolce, carezzevole, completamente diversa da quella che ha usato per rivolgersi a lui per tutto il resto del giorno.
- A domani. – risponde lui, vago, - A come mi organizzerò, a cosa dirò a questo benedetto ragazzo. Il mister mi ha detto che è importante.
- Allora evidentemente lo è. – risponde lui, lo sguardo fisso nel buio.
- Ti fidi di Mourinho? – chiede Mario, incerto.
- Hai dimenticato com’è con lui? – ritorce Davide, ironico, - O ti fidi, o ti rassegni. Per la maggior parte delle cose riesco a fidarmi, sì. Per tutto il resto, mi rassegno.
- Come con me. – suggerisce Mario. Davide sospira.
- Esatto. – risponde, - Come con te.
Mario lascia che qualche minuto passi in perfetto silenzio, riempito soltanto dallo sciabordio dell’acqua contro le rocce del letto del torrente, e poi schiude le palpebre, ritira le gambe e si piega per guardare Davide dritto negli occhi.
- Ho bisogno del tuo aiuto. – gli dice. Davide si ritrae appena, solo pochi millimetri, ma abbastanza perché Mario possa notarlo e interpretarlo come un segnale di sfiducia. – Professionalmente parlando. – precisa lui, aggrottando le sopracciglia, - Lavorare coi ragazzini non è facile. Ogni parola può essere quella sbagliata, e quello con Christos sarà un lavoro di precisione. A Manchester sono abituato a lavorare a stretto contatto con le famiglie, col loro supporto, mentre qui non ho niente. Mi serve tutto quello che sai. Come è arrivato qui questo ragazzino, chi ce l’ha portato e perché. E questo non perché sono Mario, non perché stavamo insieme e non perché ti ho lasciato, - dice tutto d’un fiato, - ma perché siamo colleghi.
Davide resta teso a lungo, anche dopo aver finito di ascoltarlo. Quando si scioglie, espirando stremato e tornando ad appoggiarsi a bordo vasca, i suoi occhi tornano distanti e un po’ smarriti. Perdono parte di quel bagliore che da sempre li rende più vivi e vispi di quelli degli altri, e istintivamente Mario sa che tutto questo sta avvenendo perché Davide sta spingendo la propria memoria a ricordare tempi antichissimi, che avrebbe preferito non dover rivangare mai più.
- Tu eri andato via da poco, e tutti noi eravamo ancora troppo esaltati dalla vittoria della Champions per preoccuparci. Di te o della trattativa in corso fra José e il Real. Io personalmente continuavo a pensare che tutto fosse andato come doveva andare, e che avrebbe continuato ad essere così anche da quel momento in poi, per cui se José doveva andarsene, che andasse. Così come avevi fatto tu. – si ferma per qualche secondo, inumidendosi le labbra, incerto. – Sarebbe andato via davvero, sai? La trattativa col Real era quasi chiusa. E poi una mattina si presenta in sede, a bordo di una macchina dai vetri oscurati, e mezz’ora dopo esce ed è ancora l’allenatore dell’Inter. – Davide sospira, dondolandosi un po’ nell’acqua. – Mario, cazzo, lo sai quanto sono lunghi vent’anni?
- Diciotto. – lo corregge lui, teso.
- Diciotto. – concede Davide, - Sono lunghissimi, per certuni sono una vita. Per Christos, per dire, lo sono. – solleva lo sguardo e incontra quello di Mario. I suoi occhi brillano di nuovo, adesso, e Mario può vederli con chiarezza.
- …Christos. – dice piano, - È lui la ragione per cui è rimasto.
Davide annuisce, inspirando profondamente.
- Non ci ha mai detto da dove sia spuntato. Ognuno di noi ha teorie diverse sul punto. Io credo sia suo figlio, per esempio, anche se non ho proprio idea di chi potrebbe essere la madre. Fatto sta che, da un giorno all’altro, Christos era sempre con lui. – sorride appena, gli occhi di nuovo persi nel vuoto, - Ci è praticamente cresciuto, in Pinetina, capisci? José non lo portava mai a casa, restava in dormitorio con noi. Ci prendevamo tutti cura di lui a turno, facevamo le notti in bianco quando era piccolissimo, e ci siamo abituati tanto alla sua presenza che dopo un po’ prendercene cura non è più stata una fatica, ma un piacere.
Mario annuisce composto, tornando a immergere i piedi nell’acqua.
- Almeno adesso è chiaro perché non vuole partire neanche morto. – considera. Davide annuisce.
- Christos ha grandi progetti, per il suo futuro. – dice, - È cresciuto in mezzo a grandissimi campioni e sa ciò che vuole. Il problema è che lo vuole all’Inter, dove è sempre stato, e non riesce ad accettare la possibilità di doversene separare per raggiungere i propri obiettivi. Sa che tornerebbe, il presidente Moratti è quasi un nonno per lui, ed Angelomario non lo manderebbe mai via senza avere la certezza di poterlo riprendere all’occorrenza, ma non accetta compromessi. Abbiamo… - sospira, - Abbiamo tutti cercato di spiegargli che non è così che funziona, ma lui vuole ottenere ciò che vuole alle sue condizioni e basta. E da lì non si muove.
Mario annuisce ancora, prendendo mentalmente nota di tutte le informazioni ottenute.
- Grazie. – dice infine, - Sono sicuro che tutto questo mi sarà utile.
- Anche perché io non ho altro da darti. – scrolla le spalle Davide, uscendo dalla piscina e sedendosi al suo fianco.
- Dovrò parlare con il suo procuratore, con chiunque frequenti di rilevante. – ragiona, - Sarà possibile?
Davide ride a bassa voce, stringendosi nelle spalle.
- Sarà obbligatorio, più che possibile. – risponde, - È tutta gente che in un modo o nell’altro continua a frequentare Appiano ancora oggi. Non sarà difficile ottenere quello che cerchi.
Mario sorride soddisfatto. Fa per alzarsi, ma all’ultimo secondo ci ripensa, restando là seduto.
- Tu perché non dormi? – gli chiede, lanciandogli un’occhiata fintamente casuale, - Pensieri per la testa?
Davide sospira, chiudendo gli occhi per una manciata di secondi.
- Non intendo mentirti, Mario: la tua presenza qui mi turba. – confessa, - Se sono riuscito ad andare avanti con la mia vita dopo che te ne sei andato, è perché la vita, che tu lo voglia o no, si muove, e tu puoi solo muoverti assieme a lei. Restare fermi non è proponibile. E così mi sono sposato, ho avuto un figlio, ho costruito questa bella casa, e ora faccio un lavoro che mi piace e sono un uomo soddisfatto. Ma quando guardo te… - mormora, voltandosi a sfiorarlo con un’occhiata improvvisamente dolce, quasi antica, - …torna tutto indietro. Tutto assieme. Ed è un po’ troppo, sai? – conclude con una risatina un po’ incerta.
Mario si inumidisce le labbra, sollevando un braccio con l’intenzione di sfiorargli una spalla. I suoi polpastrelli toccano appena la sua pelle nuda ed umida, e lui subito ritrae la mano, quasi si fosse scottato.
- Mi troverò presto un altro posto dove stare. – dice a bassa voce. Davide lo guarda con delusione palese negli occhi, e Mario si alza da terra, un po’ impacciato. Tanto che, quando la mano di Davide scatta ad afferrarlo per una manica, tirandolo repentinamente giù, lui inciampa sui propri stessi piedi e gli cade praticamente addosso, la maglietta che si inumidisce all’istante, a contatto con la sua pelle bagnata. Si guardano negli occhi per una quantità di tempo che non riescono né vogliono quantificare, e Mario ha l’impressione che possa spuntare il sole da dietro le colline troppo presto, ad un certo punto, ed è per questo, solo per questo, perché sente l’alba approssimarsi ed ha paura che, sorgendo, il sole possa togliergli la possibilità di fare ciò che vuole, che si china su di lui e copre le sue labbra con le proprie in un bacio che è bagnato solo perché lo è Davide, lo sono loro.
Si rimette in piedi subito dopo. È ancora notte, buia più che mai. Davide, sdraiato a bordo vasca, così perso e vulnerabile, lo tenta – senza volerlo, probabilmente – come mai niente l’ha tentato prima d’ora. E Mario distoglie lo sguardo.
Davide respira a pieni polmoni e poi si alza in piedi a propria volta, stando bene attento a non scivolare.
- Non metterti fretta. – gli suggerisce, - Non solo per la casa. In generale. Prenditi il tempo che ti serve. Non ti butterò in mezzo a una strada. – conclude passandogli accanto e rientrando in casa.
Mario sfiora con due dita la propria maglietta all’altezza del ventre. È calda e bagnata, di Davide e di lui. Ne stringe con forza un lembo in un pugno, prima di tornare in camera propria.
*
- Non vuoi parlare prima col suo procuratore? – chiede José, inarcando un sopracciglio mentre prepara sbrigativamente il programma della seduta di allenamento mattutina, picchiettando a memoria col pennino sul touchscreen del palmare. Mario lo osserva per qualche secondo, notando come non abbia nemmeno bisogno di stare a guardare cosa stia selezionando. Dopo vent’anni, malgrado tutti i cambiamenti che ci sono stati nel lavoro, nella società ed anche nel modo di intendere il calcio a livello nazionale e globale, Mourinho tende comunque a restare immutabile come ha sempre pensato che sarebbe stato.
- No. – risponde sinceramente, - Sarebbe perfettamente inutile. Non avrei niente da dirgli.
- Guarda che è una delle persone che lo conoscono meglio, in giro. – gli fa notare l’uomo, mentre dalla stampante in un angolo della stanza viene fuori il programma dell’allenamento su carta, pronto ad essere appuntato all’immancabile cartellina senza la quale José non sembra essere in grado di sopravvivere, abitudine che non ha mancato di passare anche a Davide.
- Non importa. – insiste Mario, - È comunque una figura di tipo professionale, nella sua vita. Non è direttamente parte del suo privato. Quindi, al momento, non mi serve.
José sospira, appuntando il foglio col fermaglio in cima alla cartellina.
- Scoprirai col tempo che, quando si parla di Christos, professionale e privato sono due concetti che vanno inaspettatamente a braccetto.
Mario sbuffa, esasperato, e José ride di gusto.
- Può lasciarmi fare come dico io? – ride a propria volta Mario, già dimentico dell’offesa, - Non ci riesce proprio, eh?
- Be’, sei stato tu il primo a chiamarmi “mister”. – risponde José, dandogli una pacca sulla spalla, - È ovvio che io mi sia adeguato. Comunque, - sorride, avviandosi verso l’uscita del proprio ufficio e facendogli cenno di seguirlo, - dimmi cosa ti serve.
- I nomi. – annuisce Mario, - Quelli che l’hanno cresciuto.
José rallenta il passo, riflettendo per qualche istante.
- Davide ti ha già detto tutto, vero? – chiede. Mario annuisce. – Non è mio figlio. – dice immediatamente lui, - So che Davide lo pensa, ma non è mio figlio. Non ho mai tradito Tami e non avrei mai potuto. Le ho chiesto molto, quando le ho parlato di Christos. Le ho chiesto di fidarsi di me, di non indagare, di rinunciare a sapere. Per lei non è stato facile. Christos ha passato la quasi totalità del suo tempo con me per i primi tre, quattro anni della sua vita, e dal momento che non potevo portarlo a casa, visto il rischio enorme che correvo di essere visto o fotografato con lui, non solo ero costretto a lasciarlo in Pinetina praticamente sempre, ma trascorrevo lì quasi tutti i giorni. Ogni giorno. Ventiquattro ore su ventiquattro. – sospira, scuotendo il capo. – Puoi immaginare cosa questo possa voler dire per un matrimonio? Non esserci mai perché troppo impegnato ad accudire un figlio non tuo.
Mario si inumidisce le labbra, incerto.
- Di chi è figlio Christos? – chiede a bassa voce. José si volta a guardarlo con severità, come lo avesse appena scoperto a rovistare fra i suoi documenti privati.
- Non ne ho idea. – risponde alla fine. Mente, e Mario se ne accorge, ma non ritiene opportuno insistere oltre. Se Mourinho non glielo sta dicendo, vuol dire che non ritiene possa essere un’informazione utile. Magari i suoi genitori sono morti, magari erano suoi cari amici. In sostanza, non sono fatti suoi. – Ed al contempo, lo so. – continua José, ora più pensieroso. Si prende qualche secondo, prima di proseguire. Mario lo scruta con attenzione. – Esclusi Davide e me, - dice quindi, - Javier, Esteban, Dejan e, per una strana combinazione di coincidenze, - aggiunge con un sorriso più dolce, - Philippe. Sono queste le persone che si sono occupate più spesso di lui, quando era piccolissimo. I suoi punti di riferimento, per così dire. Molti altri sono quelli che l’hanno seguito man mano che si faceva più grande, ma cercavo per quanto possibile di non coinvolgere troppo i nuovi arrivati, o comunque i più piccoli. Preferivo fidarmi dei senatori.
- L’ha sempre fatto. – ride Mario, inarcando un sopracciglio. – Come mai Coutinho? – chiede quindi, incuriosito, - Che vuol dire una strana combinazione di coincidenze?
José solleva gli occhi al cielo, parzialmente divertito, parzialmente rassegnato.
- Cose di cui sarebbe meglio evitare di parlare. – risponde enigmatico, - Cose, comunque, che potrà dirti lui stesso, se vorrai incontrarlo.
- Vorrò incontrare tutti loro. – annuisce Mario, tornando serio, - Dovrà dirmi dove e quando.
- Be’, gli allenamenti stanno per cominciare. – riflette José, lanciando un’occhiata all’orologio da polso, - Posso concederti dieci minuti con Philippe mentre gli altri si scaldano. Quanto agli altri, temo dovrai aspettare la pausa pranzo. A quest’ora, sono già tutti impegnati da un pezzo. E Javier non tornerà dall’Argentina prima di qualche giorno.
- È sempre stato… - mormora Mario, gli occhi bassi, mentre escono sui campi appena fuori dal centro sportivo, - …spiazzante, credo. Il modo in cui la maggior parte delle persone che hanno a che fare con questa società poi, per un motivo o per l’altro, insistono sempre per rimanerci incastrate a vita. C’è gente che non s’è mai mossa da qui. È una cosa che non riesco a comprendere.
José ride divertito, stringendogli affettuosamente una spalla.
- È per questo che sei la persona adatta a convincere Christos a darsi una mossa. – lo rassicura incoraggiante, - Adesso, forza, al lavoro. Per incontrare Deki e il Cuchu, durante la pausa pranzo, ti converrà andare in mensa. È probabile che Christos sia con loro, peraltro. – riflette, grattandosi il mento, - Dirò a Davide di trattenerlo con una scusa.
- Grazie. – annuisce Mario, sorridendo appena. – In generale.
José risponde al suo sorriso, salutandolo con un’altra pacca sulla schiena, prima di indicargli Philippe che fa il proprio ingresso in campo con un asciugamano poggiato sulle spalle.
Mario gli si avvicina sfoggiando un sorriso aperto, carico di fiducia, incoraggiante. Riflesso sul volto di Philippe, però, trova un sorriso molto diverso. Divertito, ironico, incuriosito, forse, ma non certo ben disposto. Si dà mentalmente del cretino per avere accettato l’incarico abbandonando un lavoro piacevole che amava profondamente, e poi si fa forza.
- Ciao. – lo saluta, tendendogli la mano. Philippe si ferma e gliela stringe con decisione, il suo sorriso ora è vagamente meno indisponente. – Noi due non abbiamo mai avuto propriamente modo di conoscerci.
- No, non direi. – ammette Philippe, allontanandosi verso una panchina ma aspettando che lui lo segua, - Quando sono arrivato, tu eri già andato via. Un trasferimento lampo, non c’è che dire.
- Conosci come me le tempistiche del calciomercato di allora. – scrolla le spalle lui, rimanendo al suo fianco mentre Philippe solleva una gamba e l’appoggia sulla seduta della panca per un po’ di stretching, - Tutto poteva avvenire in poche ore, oppure potevano volerci dei mesi. Da uscirci pazzi.
- Eccome. – ride Philippe, piegandosi e risollevandosi ritmicamente, - È vera quella storia su Raiola? Se n’è parlato tanto, qualche anno fa. L’esaurimento nervoso e tutto…
- Balle. – sbotta Mario, roteando gli occhi, - Di gente che non ha mai imparato a tacere. Mino stava male già da un po’, quando s’è messo in pensione. È sempre stato un testardo, ma contro il secondo infarto non poteva spuntarla nemmeno lui. Ero lì quando è successo, sai? I medici gli avevano detto di riguardarsi, mangiare leggero, ed invece a casa sua si organizzavano cene spaziali ogni tre giorni. Pollo, costolette alla brace, peperonata, pomodori ripieni… - ride, - Le sue ultime parole, poco prima dell’attacco di cuore, sono state “Mario, tu eri, sei e resterai per sempre un cazzone”. Gli avevo appena detto di volermi ritirare.
Philippe ride ad alta voce, rimettendo entrambi i piedi per terra e saltellando un po’ sul posto.
- Aveva ragione? – chiede curiosamente.
- Sì, abbastanza. – risponde Mario, ridendo a propria volta.
- Sembri averla presa bene, comunque. – commenta Philippe, inarcando un sopracciglio ironico.
- Be’, sì. – scrolla le spalle lui, invitandolo ad una breve passeggiata con un gesto. Philippe accetta. – Sembrava proprio non dovesse farcela, dopo il primo infarto. Ero molto amareggiato, temevo che non avrei avuto modo di salutarlo, o di ringraziarlo. Sai, quello che sono oggi, per quanto possa sembrare assurdo, è in gran parte merito suo. E invece poi s’è ripreso. Questo mi ha dato qualche mese in più. – guarda verso gli alberi che circondano il centro sportivo, sempre uguali, immutabili, le punte che fanno il solletico al cielo di un azzurro sorprendente sopra le loro teste. – Quando se n’è andato, eravamo a posto, se capisci cosa intendo. Tutti dovremmo avere il tempo per elaborare i lutti, di qualsiasi tipo siano.
- Che una cosa del genere venga proprio da te… - ridacchia Philippe, le braccia incrociate dietro la schiena, mettendo avanti un piede alla volta, serenamente, - Quando sei andato via, non hai proprio lasciato a nessuno il tempo giusto per elaborare, mi pare.
- Lo so. – ride Mario, - L’ho capito dopo. D’altronde, non ho mai fatto mistero di essere stato uno stronzo.
- Ed ora? – chiede Philippe, svoltando a sinistra per girare attorno al campo.
- Ora è diverso. – sospira Mario, - Sembra siano passati secoli, da quando me ne sono andato da Milano. Comunque, - si interrompe, ridendo divertito, - non è certo per psicanalizzare me che siamo qui, adesso.
- Aaah, eccoci qua. – solleva gli occhi al cielo Philippe, rassegnato, - La sfilza di domande su Christos.
- Ti dispiace? – chiede Mario con un mezzo sorriso. Philippe scrolla le spalle, ed anche il capo.
- Spara. Prima risolviamo questo problema, meglio sarà per tutti.
- Come l’hai conosciuto?
Philippe scoppia a ridere, divertito oltre il legale.
- Conosciuto? Tu quando sei arrivato come hai conosciuto i letti, i divani, le donne delle pulizie…?
Mario si lascia andare ad una risatina complice, tirando fuori dalla tasca un palmare sottilissimo e minuscolo corredato da un pennino col quale comincia immediatamente a prendere appunti sullo schermo.
- Credo di capire cosa intendi. – annuisce, incitandolo a continuare.
- Christos era già qui da più di un mese, quando sono arrivato io. – racconta il capitano, - Era già uno di famiglia. Dovevi vederla, tutta la squadra, un branco di omaccioni sudati che dopo l’allenamento fuggivano via per andare a coccolare ed allattare un infante piagnucoloso. – ride, perso nella propria memoria, - Erano uno spettacolo fantastico. Io a quei tempi non capivo una parola di italiano, per cui ero abbastanza confuso. Al mister, peraltro, non piaceva parlarne. Puoi immaginarti il casino?
- Lo immagino sì. – annuisce Mario, ridendo un po’, - E poi?
- Poi niente. – Philippe scrolla le spalle, - Christos è sempre rimasto qua, così per un motivo o per l’altro era sempre in giro. Io sono diventato capitano nel duemilasedici e quello è stato un anno piuttosto confuso, sai, con l’infortunio di Davide e tutto. – lo guarda per qualche secondo, prendendo atto solo distrattamente della sua occhiata vagamente perplessa, - Insomma, sentivo di avere una certa responsabilità, no? Christos aveva sei anni. Ed un giorno torna infebbrato e indisposto dopo l’allenamento dei pulcini, e comincia a ricoprirsi di pustoline. Varicella. – solleva gli occhi al cielo, - Abbiamo passato insieme qualcosa come una settimana, non mi sono mai allontanato da lui. Non poteva praticamente uscire dalla stanza, il campo sportivo come al solito era pieno di bambini e sarebbe stato pericoloso. E stando a stretto contatto con lui, ero contagioso anch’io. Non sapevo chi o meno nel centro avesse avuto la varicella da piccolo, perciò per evitare problemi siamo entrati entrambi in una mini-quarantena.
- Non dev’essere stato facile. – riflette Mario, picchiettando un po’ a caso col pennino sul touchscreen, disegnando puntini neri sul foglio virtuale che scompaiono immediatamente quando ci passa sopra con un dito, - Trascorrere tutto quel tempo da solo con un bambino praticamente sconosciuto.
- Invece è stato facilissimo. – sorride Philippe, - Ci siamo trovati subito. Era così incredibilmente affascinato da… tutto, più o meno. – ride appena, - La sua curiosità era irrefrenabile. Mi tempestava di domande, soprattutto sulla squadra, e su com’era giocare in Brasile. Io mi sposai quell’anno, - sorride più teneramente, - e ricordo di aver pensato distintamente che mi sarebbe piaciuto avere un figlio come lui. Per un certo periodo, dopo il matrimonio, pensammo anche di adottarlo. – ride, un’improvvisa nota amara nella voce, - Sai, non potendo avere figli nostri ci siamo detti “piuttosto che pagare un utero in affitto, perché non lui?”. Ma il mister non era d’accordo, andò su tutte le furie quando glielo proponemmo, ed alla fine non se ne fece più niente. – scrolla le spalle, guardando altrove.
- Tu di chi pensi sia figlio? – chiede Mario a bruciapelo, mettendo via il palmare.
- Non ne ho idea. – risponde sinceramente Philippe, lanciando un’occhiata ai propri compagni che già si allenano in mezzo al campo, - Suo, credo. Lo crediamo quasi tutti. Ma chi può saperlo. In ogni caso, - sospira, - dopo quell’episodio il rapporto fra me e Christos si fece particolarmente stretto. Si prese anche una bella cotta per me, ma di quelle di una certa entità, sai? Se l’è portata dietro per anni.
Mario inarca le sopracciglia, divertito.
- È gay? – chiede con un mezzo sorriso.
- Dio, - sospira Philippe, - non potrebbe essere più gay neanche se indossasse un corpetto ed una minigonna fucsia ed andasse in giro facendosi chiamare Veronique. Sai che a dodici anni l’ho beccato a scambiare scarpini per un bacio? – ridacchia, - Deki gli aveva comprato questo paio di Nike Vintage splendide, era l’edizione di quell’anno ispirata alle vecchie Superfly del 2009, una roba che gli invidiavano tutti dalle giovanili ai più grandi, soprattutto perché sai, c’era sopra l’autografo di Zlatan e tutto, e… - gli lancia un’occhiata, prendendo atto del suo sguardo a dir poco confuso, e ridacchia imbarazzato, - …sto divagando. Comunque, regalò gli scarpini a un ragazzo degli Allievi in cambio di un bacio. Avresti dovuto vederlo, ne andava orgogliosissimo. Del bacio, dico, non degli scarpini.
- …wow. – ride Mario, stupito ma nonostante tutto divertito, - Un tipino niente male.
Philippe sbuffa una mezza risata sarcastica, grattandosi nervosamente la nuca.
- Già. – risponde, - Forse è per questo che… Dio, dirlo è ancora così difficile. – ridacchia appena, guardando insistentemente qualsiasi punto circostante che non sia il viso di Mario, - Insomma, avemmo una storia. Non lunga, ma a suo modo… importante. E questa cosa ha distrutto completamente il mio matrimonio, mettendoci definitivamente una pietra sopra.
Mario gli batte una pacca sulla spalla, comprensivo.
- State ancora insieme? – chiede incerto.
- No, - ride Philippe, - e da parecchio tempo.
- E… insomma, non hai mai provato a ricontattare il tuo ex? – insiste Mario, inarcando le sopracciglia. Philippe ride ancora.
- Non ho bisogno di ricontattarlo, - risponde, - lo vedo ogni giorno. Ora sta insieme a Christos, - ride un po’, - e da parecchio tempo. – conclude, facendosi il verso da solo. – Ora scusami, - lo saluta, sottraendosi al suo tocco, - devo andare ad allenarmi. Non sarò più il capitano di questa squadra, dall’anno prossimo, perciò voglio godermi appieno ogni occasione di torturare i giovani che mi viene offerta da qui a fine stagione. Ci si becca in giro.
Quando lo vede allontanarsi, attraversando il cancello e correndo fino a centrocampo mentre Mourinho gli urla che non c’era bisogno di prendersi le ore per raccontargli l’intera storia della sua vita, per qualche secondo Mario rimane immobile a fissare il vuoto con aria perplessa, e non può fare a meno di chiedersi in che razza di trappola si sia andato a cacciare.
*
Quando Mario arriva, la mensa è piena di ragazzini che chiacchierano e fanno rumore spostando sedie, posando piatti e posate, tirandosi calci a vicenda e ridendo come idioti per ogni battuta. Li riconosce facilmente perché ricorda com’era avere la loro età e frequentare quella stessa mensa, mangiare quello stesso cibo – be’, forse non propriamente lo stesso, dopotutto – e ridere allo stesso modo delle stesse battute cretine.
Riconosce facilmente anche Deki e il Cuchu, comunque, perché non sono cambiati di una virgola. Sorride, o almeno ci prova, nonostante sia teso come una corda di violino, mentre si avvicina al tavolo al quale sono seduti, da soli. Non mangiano, parlottano fra loro con aria serena, e lui si sente quasi di troppo quando scolla un “ehi” impacciato che lo riporta a vent’anni prima e ad un se stesso molto più piccolo che si avvicinava agli stessi due uomini sperando che potessero dargli una mano ad ambientarsi in mezzo ai grandi.
Dejan si volta a guardarlo immediatamente, ed il suo movimento è così repentino e inaspettato da spiazzarlo. Mario fa un mezzo passo indietro mentre l’espressione del serbo si fa istantaneamente tesa e poi subito maggiormente rilassata, anche se si tratta palesemente di una forzatura volta a non metterlo troppo a disagio.
- Ciao. – sillaba Esteban, la voce incerta solo inizialmente, che va prendendo confidenza man mano che comincia a parlare, - José ci ha avvertiti che saresti arrivato. Sei un po’ in ritardo, però.
- Chiedo scusa. – sorride appena lui, grattandosi la nuca, - Avevo un po’ di appunti da riordinare. Pare che Christos sia uno su cui gli aneddoti si sprecano.
- Oh, potrei raccontartene alcuni piuttosto piacevoli. – ridacchia Dejan, incrociando le braccia sul tavolo, - D’altronde, è stato qui in giro parecchio a lungo. Ha assorbito tutte le influenze che poteva assorbire e le ha portate ad un nuovo livello evolutivo.
- Piantala, Deki. – ride Esteban, tirandogli uno schiaffetto sulla nuca. – Non ascoltarlo, - continua, tornando a rivolgersi a Mario, - va così orgoglioso del piccolo che ogni tanto straparla.
- Il piccolo? – domanda divertito Mario, - È alto quasi quanto me.
- Quando conosci qualcuno che è ancora così piccolo da poterlo tenere sul palmo di una mano, fatichi ad accettare che possa davvero crescere. – considera Esteban, malinconico.
- Confermo. – annuisce Dejan, - E ti assicuro che io ho provato in ogni modo possibile a convincermene, eh. Non c’è stato verso.
Mario annuisce, tirando fuori il palmare dalla tasca a picchiettando lievemente sul touchscreen per accenderlo.
- Quand’è arrivato qui? – chiede con tono professionale.
- Era una notte buia e tempestosa… - risponde Dejan, ironico, gesticolando e modulando la voce perché risulti più cupa di quanto in realtà non sia, - A che ti serve saperlo, Supermario?
- Dio. – ride lui, scuotendo il capo, - Non mi chiamano così da secoli. E non fate i vaghi, ho bisogno di queste informazioni, e se c’è qualcuno dal quale posso estorcerle, quelli siete voi.
- Puoi provarci. – ribatte Dejan, sorridendo sereno, - Ma non ci riuscirai.
- Vedi, Mario, - spiega Esteban pazientemente, - Christos, così come ciò che questa squadra è stata, soprattutto negli ultimi quindici anni, è famiglia. Tu sei un elemento che ha preferito smettere di farne parte prima che si formasse definitivamente. Quindi ci sono cose che non possiamo dirti.
- Ci sono cose che non vogliamo dirti. – precisa Dejan, guardandolo con una certa severità.
Mario aggrotta le sopracciglia.
- È stato José a chiamarmi. – fa presente, offeso.
- Senza prima consultare nessuno di noi. – ritorce Dejan, ora decisamente meno calmo.
- Deki. – lo riprende Esteban, lanciandogli un’occhiata disapprovante prima di tornare a guardare Mario con indulgenza, - Non prenderla sul personale. – si scusa stringendosi nelle spalle, - Quello di averti qui è un desiderio di José, non esattamente condiviso da gran parte della comunità. Aiuteremo come potremo, per il bene di Christos, ma se sei venuto qui per una cronistoria completa della sua vita da quando è arrivato ad Appiano fino ad ora, è mio dovere avvertirti che questo sarà solo il primo di una lunga serie di buchi nell’acqua, per te. Oltretutto, - continua con un sospiro, - noi sappiamo molte cose, e Christos ci vuole molto bene, ma è innegabile che i suoi punti di riferimento, al momento, siano altri. È a loro che dovresti rivolgerti.
- …il suo ragazzo. – riflette Mario, occhi bassi ed espressione concentrata, - E il suo procuratore. – qualcosa gli si illumina negli occhi, all’improvviso, - Il suo ragazzo è il suo procuratore? – chiede incerto.
- Ti piacerebbe. – scoppia a ridere Dejan, quasi piegandosi in due per le grandi risate, - Così almeno avresti una sola gatta da pelare. E invece no, caro mio, sono due ed entrambi problematici come si addice ad uno come Christos. Non si può che augurarti buona fortuna. Secondo me José l’ha fatto apposta, a gettarti in questa fossa di leoni. È la sua vendetta, dopo tutti questi anni.
- Dejan. – lo chiama Esteban, cupo e gelido, sferzandolo con un’occhiataccia peggiore di tutte le precedenti messe insieme, - Ora basta.
Dejan sospira, allungando una mano ad accarezzargli la testa perfettamente lucida.
- La pianto, la pianto. – annuisce alzandosi in piedi, - Vado a prendere una boccata d’aria. E tu, - dice, rivolgendosi a Mario, - farai meglio a tornartene a casa e riposarti. – il suo sorriso si fa più dolce, solo per un momento, - Scommetto che per oggi ne hai già avuto abbastanza. – conclude, prima di allontanarsi verso l’uscita.
Esteban gli si avvicina subito dopo, dandogli qualche pacca su una spalla, con la mano bene aperta.
- Scusalo. – dice sorridendo, - Devi un po’ capire che per tutti noi la questione della tua presenza qui è molto complessa. Sei un po’ una storia che non si è mai chiusa, - ridacchia, - sarà dura riviverti, e poi magari lasciarti andare di nuovo.
- Non è detto che vada così. – dice Mario, aggrottando le sopracciglia, - Potrei rimanere. Sono una persona diversa, adesso.
Esteban sorride con più convinzione, la presa della mano sulla sua spalla che si fa più stretta solo per un attimo, prima di lasciarlo andare.
- Potresti. – annuisce, - Chissà. Un passo alla volta, vuoi? – ride. Mario sbuffa un mezzo sorriso, ed annuisce.
- Cosa cazzo ci fai qui? – dice una voce tetra alle sue spalle. Quando si volta a guardare, si ritrova davanti Christos, ancora sudato e coi capelli ricci scarmigliati sulla testa, - Stai lontano da lui.
- Christos. – prova a intromettersi Esteban, ma lui non gli dà modo di farlo, scattando in avanti ed afferrando Mario per il colletto della camicia, prima di strattonarlo e spingerlo verso la parete.
- Stai lontano da lui! – tuona minaccioso, - Stai lontano dalla mia famiglia, stai lontano dalla mia vita! – grida, prima di dare loro le spalle e fuggire di fuori attraverso la portafinestra in fondo alla sala.
Mario respira a fatica, immobile contro la parete, Esteban al suo fianco che gli chiede come stia. Tutti gli sguardi dei presenti sono voltati verso di lui. Gli duole una spalla. Per un secondo, un secondo soltanto, ha avuto paura di Christos. È stato sufficiente a farlo dubitare di fin troppe cose che credeva al di fuori di ogni questione.
*
- Ho saputo che l’incontro in mensa non è andato esattamente bene. – commenta Davide, sistemandosi addosso la polo e tirandone su e giù il colletto mentre si guarda con attenzione nello specchio, alla ricerca del risultato migliore.
- Oh, e immagino come questo ti dispiaccia. – ride Mario, appoggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate sul petto, - Scommetto che avresti voluto essere lì per vederlo.
- Oh, sì. – ghigna Davide, decidendo per il colletto sollevato e dandosi una sistemata ai capelli, - Sarebbe stato grandioso.
- Stronzo. – ride Mario, tirandogli uno scappellotto contro la nuca. Davide ride a propria volta, sollevando una mano per fermarlo e, non riuscendoci, scattando ad afferrare quella che l’ha appena colpito, senza però lasciarla andare. La tiene stretta fra quattro dita, e Mario lo lascia fare anche quando si volta e la esamina lentamente, con gli occhi e coi polpastrelli, scivolando fra le dita, contando le falangi.
- Sicuro che non ti pesa restare qui con Giovanni? – gli chiede soprappensiero, continuando a guardare il palmo chiaro della sua mano, - Posso ancora chiamare la babysitter. Magari hai qualcos’altro da fare.
- Niente che non possa aspettare domani. – risponde lui, la mano libera che risale lungo il braccio di Davide e poi si poggia quasi casualmente sulla sua spalla, strofinandola piano al di sopra del tessuto leggero della maglietta a maniche corte. È come se i loro corpi stessero imparando da capo come trovarsi, come non l’avessero mai saputo. Ricorda quando succedeva davvero, quando davvero né lui né Davide avevano idea di cosa aspettarsi da una carezza o da un bacio, e pensa che quella condizione, rispetto a questa, era mille volte più lieve, mille volte meno dolorosa. Ora Mario sa di cosa saprebbe Davide se solo si sporgesse a coprire le sue labbra con le proprie. Conosce alla perfezione il tepore della sua pelle, il suo odore, la sensazione tattile dei suoi fianchi ossuti, delle sue natiche piene, della sua voglia dura fra le dita. Eppure non può prendersela. È lì e non può averla. – Esci spesso con Obi? – chiede quindi, cercando di far sì che il suo tono risulti il più casuale possibile.
Davide ride di gusto, e solleva gli occhi dalla sua mano, incontrando il suo sguardo.
- Sei geloso. – constata con divertimento palese.
Mario si stringe nelle spalle, incapace di trattenere un sorriso sornione.
- Forse. – concede in una mezza risata, - Ma questo non risponde alla mia domanda.
Davide inspira profondamente, tornando a guardare la sua mano, ed anche a rigirarsela fra le dita.
- Al contrario di te, - comincia con tono polemico, ma intimamente divertito, - Joey per me c’è stato in ogni momento in cui ne ho avuto bisogno. Quando sei andato via… - sospira, - Insomma, avevo bisogno di qualcuno a cui aggrapparmi, e ne avevo bisogno immediatamente, perché tu eri quello cui mi aggrappavo prima e te n’eri andato via troppo presto. Non mi hai… lasciato il tempo di recuperare l’equilibrio.
- Avete avuto una storia? – chiede Mario a bruciapelo.
- No, demente. – risponde Davide, tirandogli uno schiaffo contro la nuca, - C’è stato e basta. Per chiacchierare, per uscire, quando ho avuto qualche problema scemo con Hera… soprattutto, c’è stato quando mi è andato in pezzi il ginocchio.
Lo sguardo di Mario torna a farsi più serio, mentre con la mano che prima gli accarezzava una spalla sale ad accarezzargli anche il collo, e i contorni del viso.
- Fuori sono arrivate notizie frammentarie. – dice a bassa voce, inumidendosi le labbra, - La notizia ha fatto scalpore, ma i giornali dicevano tutti una cosa diversa, e dopo un po’ ho perso traccia di quello che ti stava succedendo.
- Avresti potuto chiamarmi. – sospira Davide, socchiudendo gli occhi.
- Potevo, sì. – annuisce lui, - Ma non volevo. Avrebbe riportato a galla troppe cose, non era passato abbastanza tempo.
- Erano passati sei anni, Mario.
- Non era passato abbastanza tempo, Davide. – ripete lui, calcando maggiormente le parole. Davide schiude le palpebre e torna a guardarlo.
- I medici l’hanno capito subito che non c’era più niente da fare. – racconta, il tono dimesso e spento, - Solo che hanno aspettato di esserne certi al cento per cento prima di dirmelo. Allora il trattamento a base di PFD non era ancora legale, per quanto fosse a un passo dallo sviluppo completo, e io potevo scegliere di farmi riempire il ginocchio di viti e convivere con ossa che si sarebbero ridotte in polvere ciclicamente dandomi il tormento, oppure… be’, ritirarmi.
- …e tu hai scelto di ritirarti. – conclude Mario per lui, guardandolo intensamente. Davide scrolla le spalle.
- Non volevo rischiare di gettare fango su quanto di buono avevo costruito nel corso di tutta la mia carriera. – spiega, - Non sarebbe stato giusto, e non solo per me, ma anche per tutti quelli che mi avevano aiutato a diventare quello che ero. Che sono.
- Avresti potuto diventare capitano. – insiste Mario, accarezzandogli una guancia col pollice seguendo le linee della barba rasata di fresco, - Anche solo per un anno.
- Solo per un anno? – ridacchia Davide, scuotendo il capo, - Io non volevo essere il capitano dell’Inter solo per un anno, Mario. Io volevo esserlo fino a che non mi fossi ritirato, io volevo morire con la consapevolezza di aver giocato l’ultima partita della mia vita con quella maglia addosso, con quella fascia al braccio. Ma non posso spiegartelo adesso, perché questa è la classica cosa che non hai mai capito, l’unica che tu non abbia mai afferrato di me, e se non l’hai compresa allora non la comprenderai mai.
Mario distoglie lo sguardo, abbassando la mano che lo accarezzava ma lasciando che Davide continui a stringere l’altra fra le proprie.
- Mi dispiace. – sussurra sincero. Davide sorride.
- Non dispiacerti. – scuote il capo, - Ci sono cose che semplicemente non sono destinate ad accadere. Tu sei stato felice, no? Non eri destinato a restare. E io sono stato felice, Mario, davvero. Te lo giuro. Per cui non è colpa tua. Non hai niente di cui scusarti.
Mario si morde un labbro. Improvvisamente, le sue dita si chiudono attorno a quelle di Davide, e le stringono teneramente.
- Posso baciarti? – chiede in un fiato. Non sa perché stia chiedendo il permesso quando potrebbe semplicemente chinarsi e prendersi le sue labbra come in passato ha sempre fatto senza che ci fosse bisogno di espliciti permessi di alcun tipo, sente soltanto che deve farlo. Che questa non è una cosa che può decidere da sé, che è una scelta che deve coinvolgere anche Davide. Perciò lo chiede. E lo ripete. – Posso baciarti?
Davide ride, scuote il capo con rassegnazione e si sporge in avanti, appoggiando la propria fronte contro la sua. È così vicino che potrebbe semplicemente spingersi di qualche centimetro verso di lui e baciarlo, ma non può. Non prima di aver ricevuto una risposta.
- No. – è la risposta di Davide. E quindi Mario non può baciarlo affatto. – Devo andare, adesso, sono in ritardo. – dice, allontanandosi da lui, - Giovanni a letto per le nove e mezza massimo, e niente ologiochi se prima non finisce tutti i compiti. – lo avverte con una mezza risata, recuperando la giacca dalla spalliera di una sedia e dirigendosi verso l’uscita.
- Quella roba lo fa impazzire. – commenta Mario divertito. Davide annuisce, strizzandogli un occhio.
- È mio figlio, d’altronde. Noi due sui videogiochi ci facevamo le nottate. – ridacchia, sparendo oltre l’uscio e richiudendosi la porta alle spalle. Mario non ha neanche il tempo di salutarlo.
*
Due letturine con protagonisti uccellini perduti che non riuscivano più a ritrovare la strada di casa – in inglese e in italiano – una cena e mezz’ora di tiri in porta fuori in giardino dopo, Giovanni giace sbadigliante nel proprio lettino con la luce accesa, e Mario sta seduto sul bordo, proprio accanto a lui, sistemandogli le coperte sul petto.
- E poi che hai fatto? – chiede il bambino, gli occhi così piccoli da sembrare solo due linee sottili che brillano a tratti nella luce giallognola dell’abat-jour sul comodino a fianco, - Gliele hai date di santa ragione, vero?
- No che non gliele ho date di santa ragione. – ride Mario, scuotendo il capo, - Ibrahimović era largo il doppio di me, io ero solo un ragazzino. Mi ha rincorso per tutto lo stadio e mi sono dovuto chiudere a chiave in bagno per impedire che a darmele di santa ragione fosse lui!
Giovanni ride, rotolandosi un po’ fra le coperte e scombinandole tutte, così che a Mario tocca sollevarle nuovamente e risistemargliele addosso tenendole dagli orli.
- Era davvero così manesco, da giovane? – chiede curiosamente il bambino, - Ora a guardarlo non sembra, è sempre gentile con me.
- Lo conosci? – chiede Mario, inarcando un sopracciglio, dubbioso. Giovanni annuisce freneticamente, entusiasta.
- Ogni tanto viene qui a pranzo o a cena! Papà borbotta sempre, perché Zlatan lo prende in giro.
- Sì? – ride lui, sporgendosi curiosamente verso Giovanni per incitarlo a continuare.
- Sì! – conferma il bambino, emozionato dall’aver trovato un argomento di discussione che possa interessarlo, - Io non è che capisco cos’è che dicono, in realtà, parlano sempre di cose successe tanti anni fa.
- Ed è molto cambiato, lui? – chiede ancora Mario, il tono che si ammorbidisce, nostalgico.
- Un po’. – annuisce Giovanni, - Ma ha sempre il nasone. – ride divertito, - E gioca ancora a calcio benissimo, una volta l’ho incontrato in Pinetina e mi ha portato sul campo dei grandi, e mi ha detto “stai fermo qui” e mi ha messo fermo davanti a una delle porte piccole per l’allenamento, e poi ha cominciato a prendermi a pallate!
- Ha cominciato a fare cosa?! – sbotta Mario, incredulo, e Giovanni ride.
- Si è messo lontano e ha cominciato a calciare, e segnava sempre, e non mi colpiva mai! E c’era la palla che mi passava sempre accanto e a un certo punto mi è passata a tanto così dall’orecchio, e l’ho sentita fischiare! A te ti è mai successo? È una cosa troppo bella! E io allora ho deciso che volevo diventare un calciatore, perché da grande volevo farla pure io questa cosa di calciare in porta senza prendere neanche una volta il bambino che ci ho messo dentro.
Mario ride divertito, chinandosi a scompigliargli i capelli.
- Saggia scelta. – dice, - Scommetto che sarai un calciatore grandioso. Ibra è il tuo preferito, vero?
- No no. – risponde Giovanni, scuotendo il capo, - Il mio preferito sei tu!
- Ah, sì? – chiede lui, inarcando un sopracciglio, - E cosa ne sai? Non ti ho mai messo in una porta per prenderti a pallate.
Giovanni ride, agitando le gambe sotto il lenzuolo.
- Papà mi ha raccontato tutto di te. – annuisce dopo essersi ripreso dall’accesso di risa, - Ha un’agenda nel suo studio ed è piena piena di foto tue vecchissime e anche più nuove, e poi mi ha fatto vedere un sacco di olotape con un sacco di cose bellissime che hai fatto. Prima capitava che la domenica ci mettevamo in salotto e lui metteva il lettore in mezzo alla stanza e proiettava gli ologrammi a grandezza massima, e tu sembravi proprio lì. – dice con aria sognante. Mario lo guarda e sorride, rimboccandogli un’ultima volta le coperte sotto il mento.
- Adesso dormi. – dice, ravviandogli la frangetta biondiccia sulla fronte, - È già tardi, tuo padre si arrabbierà moltissimo se torna a casa e ti trova ancora sveglio.
- Okay! – risponde il bambino, sistemandosi comodamente sul materasso e tirandosi la coperta fin sopra la testa. Mario spegne la luce e contemporaneamente vede spuntare quella di una torcia da sotto la massa di coperte, e nel silenzio perfetto della stanza cominciano a diffondersi i primi suoni del giochino elettronico portatile che Giovanni accompagna con la propria voce, facendo la telecronaca della partita che sta giocando.
Mario ride silenziosamente, scuote il capo e si allontana, lasciando la porta socchiusa. Passa di fronte alla porta dello studio di Davide, e non prova neanche a fare finta di voler rispettare la sua privacy.
*
- Allora… - comincia Joel, le mani sul volante ed un sorrisino sornione ad increspargli le labbra, - Com’è che sta andando?
- Oddio, no, ti prego. – mugola Davide, rilasciando il capo all’indietro contro il sedile mentre la macchina sfreccia veloce lungo le vie semivuote della notte nel tardo agosto milanese, - Abbiamo passato tutta l’intera serata parlando di qualsiasi cosa non fosse Mario, e proprio all’ultimo rovini tutto?
- Be’, era piuttosto ovvio che te l’avrei chiesto, dai! – ride Joel, - Vedila come una questione pratica, sono finiti gli argomenti di conversazione, a furia di ignorarlo è rimasto solo lui. Dunque, è successo qualcosa fra voi?
Davide sospira, guardando fuori dal finestrino. Il cielo è così ingombro di nubi che non si vede nemmeno la luna, figurarsi qualche stella. Non vede l’ora di essere di nuovo in campagna.
- Mi spieghi perché ci ostiniamo a venire a cena sempre da queste parti? – borbotta soprappensiero, - Ormai ad Appiano e dintorni hanno aperto un sacco di localini simpatici. Io la odio questa città.
- È la tua città, Davide, - gli ricorda Joel, - è la città dei colori che indossi ed è la città del tuo primo stadio.
- Sì, e fortunatamente è una città dalla quale sono anche scappato via. – ritorce lui, lanciandogli un’occhiata quasi infastidita.
- Stai ignorando la mia domanda. – gli fa presente Joel, atono.
- No, è la tua domanda che è del tutto imprecisa. – ribatte Davide, scrollando le spalle. – Mi chiedi se è successo qualcosa… - sospira stancamente, - Definisci qualcosa.
- Aaah, lo sapevo! – ride Joel, battendo divertito i palmi delle mani contro il volante, - È successo! Qualsiasi cosa sia, è successo!
- Ma quanto sei cretino? – ride anche Davide, tirandogli un cazzotto nient’affatto amichevole contro una spalla, - Qualcosa è successo, sì. Niente di davvero significativo, comunque.
- Sento della delusione, nella tua voce. – tira a indovinare Joel, lanciandogli un’occhiata divertita, - Ti vuoi davvero ficcare in questo casino impossibile? – gli chiede, e Davide si arriccia su se stesso, prendendosi la testa fra le mani e mugolando di dolore come in preda alla più fastidiosa delle emicranie.
- Non lo so. – borbotta con tono lagnoso, mentre la macchina, dopo aver brevemente attraversato le vie praticamente sterrate in mezzo ai campi, si ferma a pochi passi dal vialetto di casa sua, - Mario è sempre stato così, lo sai. Lui potrà essere cambiato, ma genera casini anche solo esistendo. Io sono sposato, ho un figlio, non posso— non voglio, però…
- Però quando lo guardi è la fine del mondo. – sorride Joel, guardandolo teneramente e scompigliandogli i capelli. – Dio, sei così palese. Sei rimasto un sedicenne dentro, ma guardati.
- Oh, e piantala! – sbotta lui, rimettendosi dritto e scansando via la sua mano, ma ride divertito, nonostante sia palesemente in imbarazzo. – Non lo so, davvero. – sospira alla fine, curvando le spalle solo per un attimo, come dovesse sostenere un peso troppo grande, prima di voltarsi indietro e recuperare la giacca abbandonata sul sedile posteriore. – Me ne vado a letto, va’. Domani sarà il massacro, José ha organizzato un’amichevole di allenamento fra la prima squadra e la Primavera e mi ha già anticipato che vorrà almeno dieci cambi per parte durante la partita.
- Uuuh. – ride Joel, osservandolo aprire lo sportello e scendere dalla macchina, - Dovrò tenere pronte le incubatrici, i ragazzi avranno bisogno di un trattamento ricostituente di quelli mica male.
- Sissì, senti che tono eroico… “dovrò tenere pronte le incubatrici”… - lo prende in giro Davide, facendo la voce grossa, - Mentre tu terrai pronte le incubatrici e ti rigirerai i pollici fino alle sei del pomeriggio, a me toccherà tenere a bada un mucchio di ragazzi smaniosi di farsi scegliere in prima squadra che entreranno sulle caviglie di chiunque senza capire che rischiano che la Regina di Cuori ordini che venga tagliata loro la testa.
Joel ride ad alta voce, gettando indietro il capo ed asciugandosi una lacrima dall’angolo di un occhio prima di scuotere la testa e guardarlo come guarderebbe un fratellino minore che abbia appena detto qualcosa di estremamente stupido.
- Vedi cosa intendevo? Sei rimasto un sedicenne dentro. – sbuffa appena, tornando a guardare davanti a sé mentre rimette in moto l’automobile, - La Regina di Cuori, ma sentitelo… buonanotte. – lo saluta con un cenno della mano. Davide gli fa una linguaccia, giusto per non smentirlo e sentirsi ridicolo una volta di più ad indulgere in comportamenti così infantili alla sua età, e poi richiude lo sportello, voltandosi per risalire il vialetto e rientrare in casa.
Tutte le luci delle stanze che danno sul prospetto frontale sono spente, il che significa che Giovanni è già a letto e, se è molto fortunato, sarà già a letto anche Mario. Non è proprio sicuro di volerlo affrontare adesso, perché se solo chiude gli occhi davvero non fatica a ritornare adolescente nel sentire ancora il tepore della sua pelle così vicina alla propria.
Attraversa il corridoio in silenzio, camminando a memoria senza sbattere da nessuna parte nonostante il buio pesto che lo avvolge. Tutto in quella casa è stato voluto così com’è espressamente da lui. Forme, dimensioni, posizioni. Riconosce ogni centimetro delle pareti che nemmeno sfiora, perfettamente bilanciato al centro esatto del corridoio, e percepisce ciò che lo circonda come una melodia che parla direttamente alla parte più profonda di lui. Una melodia tranquilla, regolare, priva di imperfezioni.
È per questo che nota subito la porta socchiusa dello studio e il lievissimo raggio di luce che esce dallo spiraglio, illuminando a ventaglio una minuscola porzione del corridoio. Inarca un sopracciglio e, nel momento in cui poggia una mano sulla porta e la spinge verso l’interno, aprendola, sa già chi deve aspettarsi là dentro.
Mario, d’altronde, non sembra stupito di essere stato trovato. È, anzi, così tranquillo che sembra non abbia cercato altro. Appoggiato alla sua scrivania, sfoglia l’agenda che aveva lasciato sul ripiano con attenzione quasi eccessiva, leggendo ogni parola degli stralci di articoli attaccati con lo scotch o trascritti a mano, e sfiora con la punta delle dita ogni foto. Voltando incautamente una pagina, si accorge di un biglietto per una partita che scivola fra le pagine e lo afferra deciso prima che possa cadere a terra. Lo guarda da ogni lato e sorride, e per tutto il tempo Davide resta lì, fermo sulla soglia, sereno come non avrebbe mai immaginato di poter essere, e lo osserva.
- Sei venuto a vedermi per il debutto al Real Madrid. – constata, riponendo il biglietto al suo posto e riprendendo a sfogliare le pagine, ora meno attentamente, - E in generale ci sei sempre stato, anche se eri lontano. Qui sono registrate cose che quasi non ricordo nemmeno io.
- È a questo che servono le agende. – risponde Davide, muovendo un passo in avanti verso l’interno della stanza e chiudendosi la porta alle spalle, - A ricordare le cose.
Mario annuisce.
- Non ho neanche dovuto cercarla davvero. – considera a bassa voce, - Era qui, in bella mostra.
- Non è mai stata pensata per essere segreta. – risponde lui, scrollando le spalle, - È una cosa a cui tengo. Volevo poterla mostrare a Giovanni senza dovergli riempire la testa di segreti.
- Ma avresti potuto farla sparire quando mi sono trasferito qui. – insiste Mario, richiudendola lentamente e posandola sulla scrivania al proprio posto.
- Forse volevo che tu la trovassi. – ipotizza Davide, lo sguardo lontano, perso in un punto vuoto oltre la sua spalla, - O forse ci speravo e basta, non lo so.
Mario resta appoggiato alla scrivania mentre Davide attraversa in pochi passi lo spazio che li separa, mantenendo il contatto fra i loro sguardi.
- Ti sei divertito con Obi? – chiede, ma è evidente nel brivido che gli corre lungo la schiena che qualcosa è cambiato, la consistenza dell’aria che respirano, forse, o il suo sapore.
- Smettila di chiamarlo per cognome. – sorride Davide, spostando il peso del corpo da un piede all’altro, - Siete stati amici.
- A volte – confessa Mario a mezza voce, - A volte faccio fatica a ricordare cose che risalgono al periodo in cui ho giocato per l’Inter, sai? Tutto si è disintegrato e mescolato e io a volte mi chiedo cosa sia successo in un determinato periodo e cosa in un altro, chi ho conosciuto prima e chi dopo, e questo vale per tutto, Davide, tutto tranne te. – conclude in un fiato. – E ora ti prego, dimmi che posso baciarti, perché giuro che se non lo faccio adesso impazzirò del tutto.
Davide si morde il labbro inferiore, irrigidendo le braccia lungo i fianchi al solo scopo di cercare di trattenersi dall’abbracciarlo di slancio.
- Baciami. – dice ansioso, il respiro già troppo pesante per poter essere sostenuto se non con l’aiuto delle sue labbra a dargliene di nuovo e più leggero, - Baciami, per favore.
Il sollievo di Mario si esprime in un lamento quasi strozzato mentre si lancia in avanti, afferrandolo per le spalle e tirandoselo addosso. Le loro labbra, i loro denti, le loro lingue collidono, e si scambiano un bacio umido, aperto e doloroso. Un bacio che assomiglia a un morso che assomiglia a una carezza che assomiglia ad uno schiaffo in pieno volto. Davide solleva le braccia e lo cinge al collo, sollevandosi un po’ sulle punte per raggiungere la sua altezza e lasciando il proprio corpo strusciarsi contro quello di Mario nel movimento, più in un tentativo di riprendere confidenza con le sue forme che in un invito di tipo sessuale.
Le mani di Mario si appendono ai suoi fianchi magri mentre si allontana nel tentativo di riprendere fiato, e quando Davide gli si schiaccia di nuovo contro quelle stesse mani corrono con naturalezza alla fibbia della sua cintura, e lì si fermano per un secondo, incerte.
- Posso? – chiede.
- Sì. – risponde lui, annuendo deciso. Ha gli occhi chiusi, perciò non può vederlo, ma ricorda ancora qual era la sua espressione in momenti come quello, quanto sembrasse concentrato, come pensasse che maneggiarlo con qualcosa in meno della massima premura possibile fosse criminale o chissà che altro. È certo che, se schiudesse le palpebre e lo guardasse in viso, troverebbe la stessa espressione di allora, perciò sorride mentre la cintura scivola fuori dai passanti dei suoi jeans e poi sul pavimento, producendo un fastidioso tintinnio attutito solo in parte dalla moquette che riveste la quasi totalità della casa.
Mario gli sbottona i jeans e li lascia scivolare giù lungo le sue gambe, e lui ha appena il tempo di scalciarli lontano da sé che si ritrova seduto sulla scrivania, mentre Mario si pressa spasmodicamente fra le sue cosce, cercando la via per il suo corpo con ansia quasi disperata.
- Cristo. – mormora Mario, senza fiato, cercando le sue labbra a casaccio, - Cristo, Dade.
A Davide fa male il cuore al solo sentirsi chiamare così dalla sua voce. Il vortice che si apre nei suoi ricordi ogni volta che ripensa a Mario si spalanca anche stavolta, solo mille volte più violento, improvviso e doloroso del solito. Si aggrappa alle sue spalle perché è certo che se non lo facesse non riuscirebbe a mantenere il contatto con la realtà, e Mario entra dentro di lui poco dopo con un sospiro di sollievo quasi ridicolo nella sua infantile serenità. Si muove lentamente, subito dopo, come se avesse avuto una gran fretta di ritrovarlo ma quella fretta si fosse esaurita immediatamente, sostituita dal desiderio ben più pressante di tenerlo stretto il più a lungo possibile.
Davide si muove in sincronia con il suo corpo, andando incontro alle sue spinte e ritraendosi quando anche lui si allontana, così che ogni colpo che gli viene inferto finisce con l’andare sempre un po’ più a fondo di quanto non fosse andato il precedente, e fa male come una coltellata, ma allo stesso tempo il piacere che lo scuote ogni volta è così intenso da dargli quasi il capogiro.
Stretto fra le sue dita, viene con tanta forza da non riuscire a trattenere il gemito che gli ingombra la gola, e che spinge per uscire al punto che è costretto a pressare le labbra contro il suo collo e mugolargli addosso, perché all’improvviso la camera di Giovanni e più in generale tutta la realtà sembrano troppo vicini per non fare paura. Ora che anche le spinte di Mario si fanno più incostanti, più lente, ora che anche lui sta venendo dentro il suo corpo e gli nasconde il viso fra il collo e il mento, è fin troppo facile riaprire gli occhi e vedere il buio e la casa vuota e la vita di tutti i giorni che non può comprendere l’esistenza di qualcosa che li leghi come li legava un tempo, semplicemente perché questo, la parte più profonda di loro, è rimasto uguale mentre tutto intorno il mondo cambiava, ed è cambiato così tanto che ormai non resta più spazio per ospitarlo, né per contenerlo. Non ha un posto, eppure dal posto che si prende con la forza straripa, tracima gli argini, e Davide si allontana da Mario con forza perché del tutto all’improvviso, senza un perché, si sente mancare l’aria, come gli si stessero riempiendo d’acqua i polmoni.
Mario lo guarda ferito, e per qualche secondo, Davide ne è sicuro, non comprende esattamente ciò che sta succedendo. Poi però torna in sé, e vede di nuovo tutto anche lui. Davide scende dalla scrivania e si risistema frettolosamente i vestiti addosso, osservando Mario fare lo stesso e poi restando immobile, sperando che sia lui a fare la prossima mossa, perché per parte propria non saprebbe nemmeno da dove cominciare.
Lo sguardo di Mario si fa più dolce mentre gli si avvicina, gli appoggia una mano sulla nuca e se lo tira nuovamente contro, baciandolo lievemente sulla fronte e trattenendolo immobile contro le proprie labbra per qualche secondo, secondo di cui Davide approfitta per chiudere gli occhi e rilasciare un respiro tanto profondo da dargli la sensazione di non avere più aria da buttare fuori.
- Buonanotte, Dade. – gli sussurra Mario sulla pelle, prima di lasciarlo andare. Non si volta a guardarlo mentre esce dallo studio, ma Davide non riesce a staccare gli occhi dalla sua schiena che si allontana. È un déjà vu troppo doloroso perché Davide possa sopportarlo senza vacillare, perciò si morde un labbro e, quando la porta dello studio si chiude, silenziosamente si mette a piangere.
*
Mario non ha chiuso occhio tutta la notte, ed il risultato di questa opinabile scelta del suo sistema nervoso è un mal di testa lancinante che lo accompagna per tutta la mattina, da quando mette piede giù dal letto in poi, affiancato ad una sonnolenza che lo rintontisce sbiadendo i contorni della realtà all’interno della quale si sta muovendo.
Prende un caffè, prima di uscire di casa. Lo trova ancora tiepido nella caffettiera. Lo stupisce, in qualche modo, la naturalezza dei propri stessi gesti. Sa dove cercare e trovare le tazzine pulite, sa che il manico non tiene bene e la caffettiera va sollevata con molta attenzione, ha preso l’abitudine di sciacquare la tazzina e riporla al proprio posto dopo averla usata. Sa già che il caffè farà schifo, perché a Davide non è mai piaciuto ma gli ha spiegato che adesso gli serve per svegliarsi completamente e in fretta al mattino, per cui lo prende, sì, ma incredibilmente annacquato, anche perché ogni volta Giovanni insiste a volerne un goccio e lui non potrebbe di certo propinarglielo se fosse fatto in grazia di Dio, forte e nero e denso e così amaro da dargli la pelle d’oca. A Mario invece piace, neanche a dirlo, forte e nero e denso e amaro, ma mentre butta giù la brodaglia quasi trasparente di Davide non ne sente nemmeno il sapore, così come a stento riesce a percepire la sensazione bagnata dell’acqua sul viso quando si lava prima di vestirsi.
In compenso, se solo chiude gli occhi, il profumo di Davide è ancora lì, come il calore della sua pelle, l’odore dei suoi capelli e il suono della sua voce. È tutto lì, concentrato sulla pelle sensibile dei suoi polpastrelli e sulla punta della sua lingua. Quelle legate a ciò che ha fatto con Davide la sera prima sono le uniche sensazioni che sente di essere in grado di provare, al momento.
Sa che è sbagliato, ed è consapevole di comportarsi in modo molto, molto stupido. Vorrebbe prendersi a schiaffi, ma sarebbe troppo stupido perfino per lui. Cerca di dirsi che deve concentrarsi, che ha un lavoro da portare a termine. Si aggrappa a questo pensiero con tutte le proprie forze quando, meno di venti minuti dopo, arriva in Pinetina e la prima cosa che vede è Davide. Sta discutendo serenamente con alcuni collaboratori, ha un’aria così perfettamente concentrata e seria, mentre si accarezza distrattamente il pizzetto e indica una serie di nomi facendo prove di formazione sul display del touchscreen di medie dimensioni che regge per un angolo, che Mario quasi fatica a riconoscerlo.
Davide annuisce, soddisfatto della formazione definitiva, e consegna il touchscreen ad uno dei suoi collaboratori perché cominci a radunare i ragazzi che, fra una mezz’ora, scenderanno in campo da titolari contro la prima squadra. Mario gli fa un cenno, e quando Davide si accorge di lui gli si avvicina, offrendo un sorriso come pegno di pace.
- Preparativi frenetici. – commenta divertito, e Davide sospira stancamente, lasciandosi andare sulla prima panchina disponibile ed aspettando che lui si sia seduto al suo fianco prima di rispondergli.
- José tiene molto a queste partitelle, soprattutto nel pre-stagione. Oggi, poi, è speciale. – sorride appena, - Mi ha lasciato intendere che due o tre ragazzi potrebbero fare il salto in prima squadra, se si mettono abbastanza in mostra.
- Posso immaginare l’emozione. – ride Mario, guardando i ragazzini che indossano una pettorina bianca sulla maglietta celeste e si riscaldano correndo, scattando e saltando qua e là.
- Puoi? Davvero? – lo prende in giro Davide, inarcando un sopracciglio, - Ti sei mai sentito sotto esame, tu? – chiede incredulo.
- Costantemente. – risponde Mario con naturalezza, senza guardarlo, - Immagino che Christos giocherà.
- Non fra i titolari. – nega Davide, scrollando le spalle, - Sa già cosa penso di tutta questa storia. Guarda con che ragazzini gioco oggi, sono tutti diciassettenni, c’è qualche diciottenne fresco di compleanno al massimo. Christos è il più grande. Dovrebbe essersene già andato l’anno scorso. – sospira affranto. Mario gli appoggia una mano su una spalla, cercando di rassicurarlo mentre lancia un’occhiata curiosa attorno al campo per individuare Christos.
- Toh. – ride divertito quando lo trova, - Fra le varie informazioni che mi sono state date, nessuno si è premurato di dirmi che Christos è molto amico del vostro vice-capitano.
Davide segue il suo sguardo e sorride quando i suoi occhi incontrano le figure di Christos ed André vicine sotto un albero. I due parlano del più e del meno, ogni tanto ridono, scherzano, si tirano qualche spallata giocosa. La pelle scura di André contrasta piacevolmente contro quella caramellata di Christos, sensibilmente più chiara, ed il sorriso di Mario si piega un po’ di più quando pensa che il contrasto fra la sua pelle e quella di Davide un tempo era molto simile, e nonostante tutto lo è ancora.
- Sono sempre stati piuttosto amici, sì. – annuisce Davide, la voce soffice, venata di tenerezza, - André s’è preso una cotta spaziale per lui, sai?
- Santo cielo. – sospira Mario, sollevando gli occhi al cielo, - Ma ce n’è uno che si salvi, qua dentro?
Davide ride di gusto, gettando indietro il capo.
- Spiritoso. – lo apostrofa, tirandogli uno schiaffo sulla nuca, - Direi che ogni situazione è particolare e va osservata nel suo contesto, ma tieni presente che con Christos è tutto sempre un po’ più inspiegabile del resto. È qui da così tanto tempo… è parte di tutti noi. Alcuni di noi ci sono caduti perché—
- Alcuni di voi? – lo interrompe Mario, incredulo. L’occhiata che lancia a Davide è sinceramente stupita, ma anche profondamente divertita. Davide risponde infilandogli due dita fra le costole e ridendo mentre lui si piega in preda alle risate e al dolore contemporanei.
- Alcuni di noi, sì. – annuisce continuando a torturarlo finché Mario non implora pietà, - Non io, comunque. Ma devi capire che è una cosa particolare, Mario. Tutti noi abbiamo, credo, cercato di essere dei buoni padri, per lui. Nessuno di noi c’è riuscito, ovviamente, visto che siamo sempre stati genericamente impreparati alla sua persona, ma ci abbiamo provato, ed ognuno di noi ha fallito in modo diverso. Christos è un po’ confuso, riguardo certe cose. Credo che si senta molto amato, in generale, stando qua, e credo che abbia molta paura di allontanarsi da questo posto in cui tutti pendono dalle sue labbra e per lui darebbero un braccio e vogliono solo il meglio per la sua vita. Ma d’altronde, - sospira, - penso che sia così per tutti. Io, però, non posso capirlo, perché non sono mai stato costretto ad andarmene. Forse tu puoi, però.
Mario scrolla le spalle, alzandosi in piedi.
- Il punto è esattamente questo, Dade. – dice, usando senza pensarci lo stesso soprannome che gli è sempre rimasto disegnato sulle labbra, - Io non sono stato costretto ad andarmene. Io sono stato costretto a capire che andarmene sarebbe stata la soluzione migliore, e solo a quel punto ho deciso di andarmene di mia spontanea volontà. – si volta a guardarlo, - Avrei potuto restare, e farmi un altro anno di scazzi e rotture di coglioni partendo da titolare cinque volte in tutto il Campionato, ma ho scelto di andarmene. E così dovrà essere anche per Christos. Noi possiamo solo spiegargli nel dettaglio che alternative ha, poi dev’essere lui a decidere.
- Ma le sa già le alternative che ha. – sospira Davide, scuotendo il capo.
Mario sorride.
- Il fatto che le conosca non vuol dire che le abbia davvero comprese. – conclude, allontanandosi a grandi passi verso la coppia ancora intenta a chiacchierare sotto le fronde dell’albero che li protegge dal sole spaccapietre di agosto, poco più in là. – La palança negra. – dice, sorridendo sereno e porgendo ad André la mano mentre finge di ignorare l’occhiata astiosa di Christos che ha accompagnato i suoi ultimi passi e continua ad accompagnarlo anche ora che è già arrivato, - Ti ho seguito con molta attenzione, dall’estero. Non si fa che parlare della tua Angola, dai Mondiali del duemilaventisei. È incredibile quello che siete riusciti a fare, sarebbe già stato leggendario anche solo arrivare in finale, ma costringere l’Olanda ai rigori e perdere con un solo gol di scarto, be’, che dire. L’Inter è fortunata ad averti.
- Sono stato fortunato io ad avere l’Inter. – sorride André, ricambiando la stretta della sua mano ed ignorando a propria volta Christos che, per protesta, incrocia le braccia sul petto. – Non sarei nemmeno vivo, oggi, se non fosse stato per quello che questa società ha fatto per me quando ero ancora un bambino. La mia gratitudine è immensa.
- Vedo che abbiamo tutti uno o più motivi per essere grati a questa società. – commenta Mario con un sorriso.
- Tu non sei grato. – sbotta Christos, interrompendo il proprio sciopero del silenzio con un fiotto d’acido diretto al centro del suo petto, - Tu sei solo uno stronzo opportunista che non sarebbe mai tornato se non per soldi.
Mario gli lancia un’occhiata severa, prima di voltarsi nuovamente verso André.
- Mi spiace, dovremo rimandare ad un altro momento la nostra conversazione. – dice, continuando a sorridere come se Christos non avesse mai parlato. André si scusa, saluta Christos con un bacio sulla tempia facendosi strada a fatica fra i ricci gonfi e leggeri che gli incorniciano il viso, e poi scompare oltre il cancello, deciso a riprendere il proprio posto in allenamento con la prima squadra. – Per inciso, - dice Mario non appena lo vede sparire oltre la siepe, - il mio stipendio come consulente tecnico qui non giustificherebbe il mio passaggio dallo United all’Inter neanche se fossi stato dichiarato clinicamente incapace di intendere e di volere prima di firmare il contratto.
Christos lo liquida con uno sbuffo contrariato, e prova a sorpassarlo girandogli attorno. Mario si muove lateralmente, piazzandoglisi di fronte e guardandolo dritto negli occhi in segno di sfida.
- Lasciami passare. – dice gelido, stringendo i pugni lungo i fianchi. Mario scuote il capo. – Lasciami passare! – insiste lui, stavolta più ad alta voce.
- Tanto non giocherai. – gli fa presente Mario, sorridendo beffardo. Alle volte, parlando con Christos, ha l’impressione di tornare ragazzino e litigare con lo specchio.
- Lo so già che non parto titolare. – ringhia lui, - Ma Davide mi—
- Il tuo mister – lo corregge Mario, incrociando le braccia sul petto, - non ti farà giocare nemmeno per il secondo tempo, che siano quaranta, dieci o anche solo cinque minuti.
- E questo perché l’hai deciso tu? – ribatte Christos, strafottente, ma il sorriso che gli piega le labbra svanisce in un lampo quando si ritrova a fronteggiare un sorriso identico da parte sua.
- Esattamente. – risponde Mario, - E visto che tenerti lontano dagli allenamenti e dal campo non basta a farti entrare un minimo di sale in zucca, farò quello che avrebbero dovuto fare altri con me quando avevo la tua età e ti toglierò il pallone.
- …che cosa? – balbetta Christos, incerto. Mario sorride ancora.
- Esci dalla Pinetina. Vai da qualche altra parte. Non ti è permesso entrare in questo centro sportivo per tutta la prossima settimana.
- Cos— io ci vivo qua dentro, stronzo di merda! – annaspa il ragazzo, gesticolando animatamente.
- Me ne sbatto le palle. – risponde Mario, sorridendo serafico, - Ora, vuoi che te lo ripeta io o preferisci che chiami mister Mourinho in persona per farti buttare fuori da questo posto a calci in culo? – Christos lo guarda come volesse saltargli alla gola e sbranarlo sul posto. Ringhia sommessamente, come una bestia in gabbia, e Mario sente il prurito più piacevole del mondo scivolargli lungo la schiena e crepitargli sulle mani. Il ragazzino non ha idea della persona contro cui si è messo. – Ti irrita, vero? – ride piano, - Ti irrita da morire che ad ordinarti una cosa del genere debba essere proprio io. Io che con te non c’entro un cazzo, sono arrivato da meno di una settimana e questa squadra che tu ami tanto l’ho mollata senza pensarci quando avevo quasi la tua stessa età. Che ingiustizia. – ride ancora, sottovoce. Le mani di Christos, lungo i suoi fianchi, si aprono e si chiudono a pugno alternativamente, come se solo provando a strangolare l’aria Christos potesse impedirsi di provare a strangolare lui. – Be’ ti insegno qualcosa che pare qui nessuno sia stato in grado di ficcarti in quella testaccia del cazzo: la giustizia non esiste. E ora fuori di qui.
Christos lascia andare un mezzo grido frustrato, muovendo qualche passo verso di lui e calciando con una forza inaudita un pallone lasciato lì per terra, prima di allontanarsi imprecando e continuando a prendere a calci qualsiasi cosa incontri al passaggio.
Mario sospira, rilassando le spalle ed i lineamenti del viso. Un tempo era abituato a tirare sulle labbra sorrisi falsi per lasciare intendere al mondo che stesse andando tutto bene quando in realtà non era affatto così, ma è un’abitudine che ha perso andando via da Milano, quando la gente ha smesso di pretendere, di chiedere, di accerchiare. Di soffocarlo.
Scuote con decisione il capo, per evitare che ricordi che non ha alcuna voglia di rivangare tornino inattesi e indesiderati ad ingombrargli il cervello. Sciogliendo le spalle, si dirige verso la panchina sulla quale è seduto Davide. I Primavera stanno ancora scaldandosi, la prima squadra, accompagnata da Mourinho, è appena arrivata. Davide non lo guarda, nemmeno quando lui si siede al suo fianco.
- L’hai fatta grossa. – lo avverte.
Mario scrolla le spalle.
- Non è la prima né l’ultima volta.
*
Il pomeriggio è già tardo, col sole ancora giallo e splendente ma basso a sfiorare già le punte degli alberi attorno alla Pinetina, quando Mario entra nella sala principale della zona medica. La luce è bassa e per lo più azzurrina, c’è solo qualche lampada bianca sparsa in giro, soprattutto vicino alle scrivanie dei dottori e in qualche punto strategico vicino alle incubatrici, così che i vari addetti possano controllare valori e funzioni vitali degli incubati senza doversi portare dietro una torcia elettrica.
Joel è vicino all’incubatrice di Philippe. Controlla scrupolosamente che tutto sia a posto e poi, sollevando gli occhi, ricambia il sorriso estatico che Philippe stesso gli rivolge, al di là dello spesso vetro che lo protegge, della maschera ad ossigeno che gli fornisce la quota di ossigeno in più che gli permette di respirare e dello straordinario liquido che lo avvolge interamente come un abbraccio.
- L’aria liquida. – commenta Mario, avvicinandosi a lui e spezzando discretamente il silenzio della sala, - È o non è stata la scoperta in assoluto più interessante dell’ultimo secolo?
- Indubbiamente. – annuisce Joel, scorrendo gli elenchi di valori sul proprio datapad, - Curare gli infortuni immediatamente, dimezzare i tempi di recupero, potenziare l’apparato respiratorio e rallentare l’invecchiamento cellulare, e tutto questo è possibile con una sola seduta a settimana, e nemmeno tanto lunga. – sbuffa appena un sorriso, - Personalmente, avrei preferito la UEFA lo legalizzasse qualche anno prima. Considerato che già allora le singole leghe calcistiche nazionali non esistevano più, e che già parecchi centri sportivi in tutta Europa erano pronti a partire ed aspettavano solo il via dei grandi capi, sarebbe bastato un niente per prendere il ginocchio di Davide in tempo ed aiutarlo a guarire.
Mario si volta a guardarlo, sorridendo appena.
- Sembri molto affezionato a lui. – considera, prendendo a passeggiare davanti alle incubatrici ed osservando i ragazzi godersi la terapia, chi più quietamente, con gli occhi chiusi e le braccia molli lungo i fianchi, chi in maniera più rocambolesca, saltellando sul fondo dell’incubatrice o azzardando qualche capriola dopo aver staccato la maschera ad ossigeno.
- Non è che lo sembro, lo sono. – risponde Philippe, affiancandoglisi e bussando ad una delle incubatrici al cui interno si verifica un’attività più turbolenta, - Aleks, vedi di darti una calmata. Sta’ buono e respira. – sbotta, prima di tornare a rivolgersi a Mario con un sospiro rassegnato, - La soluzione di Perfluorodecalin ossigenato funziona meno efficacemente se si agitano, ma molti sono ragazzini e lo vedono solo come un gioco. Educare i piccoli non è facile.
- Questa è decisamente qualcosa che non è cambiata. – ride Mario, appoggiando una mano al vetro di una delle incubatrici ed accarezzandolo lentamente. – Il che ci riporta al motivo per cui sono qui.
- Oh, non volevi parlare di Davide? – ride lui, stringendosi nelle spalle.
- No, Joey. – risponde Mario, facendogli eco, - Quello magari dopo.
- Hai smesso di chiamarmi Obi? – insiste lui, inarcando un sopracciglio.
- Ti ho detto do— aspetta, Davide ti ha detto perfino che ti chiamavo Obi?! – sbotta lui, spalancando gli occhi, e Joel ride di gusto, piegandosi in due ed appoggiandosi alla stessa incubatrice sulla quale Mario stava passando una mano prima. Alen, da dentro, tira un calcetto contro il vetro, guardandoli infastidito, e loro si allontanano.
- Ok, ok, basta idiozie. – ride Mario, girandogli un braccio attorno alle spalle e tirandoselo contro in un abbraccio affettuoso, - Dimmi di Christos.
Joel scrolla le spalle, ricambiando l’abbraccio.
- Sei venuto da quello che lo conosce di meno in assoluto, Mario. – confessa, - Nell’anno in cui Christos è arrivato in Pinetina, io feci il salto definitivo dalla Primavera alla prima squadra e allo stesso tempo decisi di cominciare a frequentare l’università. Fra allenamenti e studio non è che avessi davvero del tempo libero, perciò di lui si occupavano prevalentemente gli altri. Poi all’università ho conosciuto anche quella che ora è diventata mia moglie, per cui—
- Sei sposato? – chiede Mario, sorridendo, - Congratulazioni! Mi fa piacere sapere che la specie umana è ancora provvista di qualche esponente eterosessuale in grado di proseguirla.
Joel ride, scuotendo il capo.
- Sei sempre stato un cretino. – lo apostrofa divertito, - Comunque, - sospira, - mi spiace di non poterti dire molto. So meno di quanto sappiano altri con cui hai già parlato, Christos è arrivato dal nulla, nessuno sa chi sia il padre, quasi tutti crediamo sia José ma lui è tanto ostinato nel ripetere che non è suo figlio quanto lo è nel rifiutarsi di dirci allora chi sia questo padre misterioso. Hai perso tempo, me ne rammarico.
- Ah, io no. – sorride Mario, battendogli una pacca amichevole sulla spalla, - Mi andava di parlare un po’ con te, comunque. E, be’, sento il bisogno di ringraziarti, anche.
Joel inarca un sopracciglio, scettico.
- …vorrei chiederti perché, ma suppongo ci sia di mezzo Davide e non ci tengo minimamente a sentirti fare un discorso del tipo “grazie di esserti preso cura di lui mentre non c’ero”. Cercati un altro Pacey, Dawson.
Ridono entrambi, e continuano a farlo anche mentre le luci si accendono e le incubatrici si svuotano, lasciando i ragazzi all’interno liberi di tornare a poggiare i piedi per terra e respirare normalmente. È in quel momento che una segretaria entra in sala, cercando Mario, per riferirgli che Mourinho vuole parlare con lui nel proprio ufficio.
*
Zlatan irrompe nel suo ufficio sbraitando come una furia, la cravatta che svolazza ovunque e che lui immediatamente allenta e sfila, lanciandola sulla scrivania un attimo prima che entrambi i suoi pugni si abbattano sullo stesso piano, a pochi centimetri dalle mani di José.
- Oggi si è passato il segno! – strilla, chinandosi su di lui in modo da poterlo guardare dritto negli occhi, anche se José non sembra intimorito da questo, come neanche dal suo atteggiamento aggressivo in generale. – Cristo, José, sai che io sono il primo a desiderare che Christos muova il culo e si allontani da qui quanto prima, ma è già da due settimane che il ragazzo è rientrato e si allena a programma ridotto, ora arriva Mario e lo mette fuori squadra! Ma stiamo scherzando?! Vogliamo che giochi altrove o che perda la forma e si distrugga?! Ma Cristo!
L’espressione di José si incrina appena solo quando sente Zlatan dire che Mario ha messo Christos fuori squadra, ma torna immediatamente alla solita impeccabile maschera di controllato interesse già per la fine del suo monologo. Frustrato, Zlatan sbuffa e si lascia ricadere su una delle due poltrone di fronte alla scrivania, incrociando le braccia sul petto e mormorando un “di’ qualcosa!” estremamente risentito.
José sospira, intrecciando le dita ed avvicinando la propria poltrona girevole alla scrivania con un colpo di reni.
- Zlatan, da quanti anni segui Christos? – chiede con rassegnazione evidente nella voce, negli occhi, nei lineamenti del viso.
- Tanti. – risponde Zlatan, piegandosi verso di lui in modo da dare a quella conversazione il tono più intimo che José implicitamente gli ha chiesto avvicinandosi per primo. – Ma il fatto che io gli sia affezionato non può impedirmi di fare correttamente il mio lavoro, e— - ride un po’, - È assurdo che tu mi chieda di comportarmi come se non mi importasse essere scavalcato proprio da lui. L’ultimo arrivato, e sarebbe già abbastanza per farmi saltare i nervi, ma Mario, per giunta. José, sei stato tu a volere che imparassi questo lavoro. Per Christos. Non puoi chiedermi di svolgerlo male, adesso.
- Non te lo sto chiedendo, Zlatan. – scuote il capo lui, - Ti sto chiedendo di fidarti di me, è ben diverso.
- No, José, tu non mi stai chiedendo di fidarmi di te! – sbotta lui, esasperato, - Tu mi stai chiedendo di fidarmi di Mario, e questo è ben diverso!
- Io mi fido di lui. – ribatte José, serio.
- E non riesco a capire perché. – sbuffa Zlatan, tornando ad appoggiarsi contro lo schienale e incrociando le braccia sul petto, - Non ti ha mai dato motivo di farlo.
- Nemmeno tu me ne avevi mai dato. – gli ricorda il portoghese, sistemandosi gli occhiali sul naso.
- È diverso, - insiste Zlatan, - io sono tornato, quando me l’hai chiesto.
- Ed anche lui. – ridacchia José, - Zlatan, smettila. – lo rimbrotta divertito, - So quello che faccio.
- Forse tu sì, ma Mario no di certo. – sospira lui, alzandosi in piedi e recuperando la cravatta, girandosela attorno al collo senza però annodarla. Fa per voltarsi verso la porta e muovere qualche passo per uscire, ma nota subito Mario immobile sulla soglia, una mano sulla maniglia e gli occhi spalancati dalla sorpresa. – Da quanto sei qui? – gli chiede gelido, piantando una mano su un fianco. Mario boccheggia, fa per dire qualcosa, non ci riesce. Zlatan sbuffa. – Fa niente, - dice con un gesto di stizza, attraversando i pochi metri che li separano e uscendo dalla stanza per imboccare il corridoio, - non che m’interessi davvero.
Mario resta immobile senza essere capace di esprimere nemmeno uno dei pensieri che gli affollano la testa. José ha tutto il tempo di alzarsi dalla propria poltrona ed avvicinarglisi circospetto.
- Mario, - lo chiama a bassa voce, - devo parlarti.
Lui si riscuote, abbassando lo sguardo e incontrando i suoi occhi.
- È lui il suo procuratore? – gli chiede. José annuisce. – Perché?
- Perché era adatto. – risponde.
- Come sono adatto io adesso? – domanda ancora, stringendo la presa attorno alla maniglia.
- Esattamente. – annuisce ancora lui.
Al di là delle labbra serrate, Mario digrigna i denti.
- Forse ha fatto un errore di valutazione di troppo. – gli risponde seccamente, prima di voltarsi e inseguire Zlatan lungo il corridoio.
- Aspetta, Mario! – cerca di fermarlo lui, allungando un braccio per afferrarlo e ritrovandosi a stringere solo aria, - Devo parlarti!
- Dopo! – risponde semplicemente lui ad alta voce, prima di sparire dietro un angolo. José sospira e torna nel proprio ufficio, massaggiandosi stancamente le tempie e sperando che dopo non sia troppo tardi.
*

- Smettila di seguirmi. – dice Zlatan, senza degnarlo nemmeno di un’occhiata.
- Non lo farò fino a quando non avrai risposto alle mie domande. – ribatte lui, sicuro.
- Non ne hai posta nemmeno una, ancora. – gli fa notare lo svedese, inarcando un sopracciglio senza smettere di camminare.
- Sto aspettando che tu ti fermi e mi dia modo di cominciare! – sbotta Mario, allargando le braccia in un gesto rassegnato e fermandosi all’improvviso, sperando intimamente che Zlatan lo segua. Zlatan, però, continua a camminare imperterrito, e dopo pochi secondi Mario ha bisogno di corrergli dietro, se non vuole perderlo. – Zlatan. – lo chiama, il respiro un po’ affaticato per la corsa.
- Chiedi. – risponde lui, gelido.
- È figlio tuo? – domanda Mario a bruciapelo. Zlatan si ferma all’improvviso, così inaspettatamente che Mario ha bisogno di un paio di secondi buoni prima che il suo corpo comprenda che è successo e si decida a fermarsi. Si volta a guardarlo, e Zlatan lo sta fissando di rimando, gli occhi spalancati.
- Ma come ti salta in mente? – ritorce allucinato, - No che non è figlio mio! Mi spieghi come dovrebbe essere arrivato qui mentre io ero in Spagna?
- Cosa vuoi che ne sappia?! – sbuffa lui, allargando nuovamente le braccia ai lati del corpo, - C’è una qualsiasi cosa che abbia senso, in questa storia? Puoi biasimarmi se ormai non do più niente per scontato?
- Senti, Mario, - riprende Zlatan con un sospiro, ricominciando a camminare, - non so che idee ti sia fatto tu, ma ci sono molte più probabilità che il figlio sia tuo che non che sia mio, ed è tutto dire.
- Spiritoso. – quasi ringhia Mario, rimettendosi al suo fianco e riprendendo il passo, - Tu sei il suo procuratore e non sai di chi è figlio?
- Esattamente. – dice Zlatan, e fatica ad ammetterlo, Mario lo capisce, perché i suoi lineamenti si tendono tutti, indurendosi e dandogli l’aria di uno che non vede l’ora che il momento che si ritrova controvoglia costretto a vivere svanisca nel vortice dei momenti suoi simili già trascorsi e fortunatamente dimenticati.
- Come cazzo è possibile che nessuno oltre José sappia di chi questo ragazzo è figlio?! – strilla Mario, esasperato, affiancandosi alla macchina di Zlatan, parcheggiata a pochi passi dal cancello d’ingresso secondario del centro sportivo.
- Cosa vuoi che ti dica? – scrolla le spalle lui, aprendo lo sportello e sedendosi al proprio posto, - È stato bravo a mantenere il segreto.
Mario si affretta a spalancare lo sportello anche dal proprio lato, chinandosi poi sull’automobile sportiva bassissima per cercare gli occhi di Zlatan. Si scambiano uno sguardo lungo, intenso e combattuto, simile a certi sguardi che si lanciavano in allenamento troppi anni prima perché il ricordo possa essere ancora di una qualche importanza. Ciononostante, al termine del confronto, Zlatan sospira e lo invita con un cenno ad entrare, cosa che Mario termina di fare pochi attimi prima che l’auto parta, imboccando la strada per il centro residenziale di Appiano a velocità sostenuta per passare in mezzo al crocchio di giornalisti e curiosi ammassato poco fuori dall’uscita.
- Dove stiamo andando? – chiede timoroso. Zlatan fissa di fronte a sé.
- Da Christos. – risponde lapidario, - Capisco cosa hai avuto intenzione di fare, ma lui non ha nessun posto dove stare oltre alla Pinetina. Sarà andato a rompere i coglioni al suo ragazzo, e lì non ci può stare.
Mario inarca un sopracciglio, incerto.
- E perché no? – chiede, - Dovrebbero essere felici di stare un po’ insieme.
- Lo sarebbero indubbiamente se non fosse che in quella casa non c’è spazio. E naturalmente, se non fossero anni che Adri cerca di rompere con lui.
Mario spalanca gli occhi, prendendosi qualche secondo per cercare di digerire l’informazione e rassegnandosi a boccheggiare sconvolto quando si rende conto che non c’è modo per digerire una cosa simile. Non c’è modo, in generale, per comprendere quanto profondamente Christos abbia messo radici a Milano, con quanta forza si sia imposto su ogni singolo componente di questa società, del nucleo di persone che la compone e di tutti coloro che a queste persone sono in qualche modo collegati. È un bene che i suoi genitori, chiunque siano, stiano ben lontani da Milano, perché hanno sulla coscienza la vita di troppa gente, e da quando è tornato anche la sua.
- Quindi è lui il ragazzo di Christos. L’ex marito di Philippe. – considera con aria assente. Zlatan si concede una mezza smorfia, deviando dalla strada principale per entrare in paese e cominciando a vagare per le vie dei quartieri semivuoti.
- Senti, cerca di non darti troppa pena per quello che è successo mentre non c’eri. – lo avverte, - Anche perché è troppa roba, e per lo più sono cose di cui non hai colpa. Non è che se tu fossi rimasto Christos non sarebbe arrivato comunque, eh. Anzi, ci sarebbe solo stato un problema in più.
Mario annuisce, ma si mordicchia l’interno di una guancia, incapace di smettere di pensare a come sarebbero andate le cose se invece fosse rimasto davvero.
- Cosa sai di lui? – chiede quindi, più per distrarsi dalla piega che i suoi pensieri stanno prendendo che perché speri di cavare un qualche ragno dal buco.
Zlatan, infatti, scrolla le spalle.
- Niente più di quello che ormai saprai a memoria anche tu. – risponde, continuando a tenere d’occhio la strada nonostante la disinvoltura con cui guida lasci intendere che conosce quelle vie perfettamente a memoria, - José s’è presentato già col bambino, come l’avesse autogenerato. E lì è cambiato tutto. Doveva andarsene, ma è rimasto. Ora, io non so se lui cercasse solo una scusa per rimanere e questo bambino gli sia piovuto fra capo e collo regalandogliela, o se restare qui sia stata solo una conseguenza cui s’è dovuto abituare controvoglia, però so che è così che è andata. E per inciso, dei primi anni di Christos io non so niente, perché ho saputo della sua esistenza quando lui ne ha compiuti sei.
Mario annuisce serio, meditando sulla possibilità di tirare fuori il suo pad e prendere qualche appunto. Poi lascia perdere, decidendo di affidarsi alla propria memoria. Per qualche motivo, l’idea di fare con Zlatan come ha già fatto con tutti gli altri lo disturba. Vuole che questa continui ad essere una conversazione normale, per quanto – se ne rende conto – nella situazione contingente la parola normale perda un po’ senso.
- Com’è successo? – chiede, - Come l’hai saputo?
- José mi ha chiamato. – dice Zlatan con un mezzo sorriso, - E mi ha chiesto di fare un sacrificio.
Mario non può impedirsi di sorridere a propria volta.
- È la stessa cosa che ha detto a me, sai? – dice, guardando fuori dal finestrino Appiano sempre uguale, le sue palazzine basse, le villette sporadiche, le piazze semivuote, - Mi ha detto che non voleva propormi un affare, assumendomi, ma chiedermi un sacrificio.
Zlatan ride ad alta voce, i lineamenti molto più rilassati di quanto non fossero qualche minuto prima.
- Non è cambiato molto, in questi ultimi anni. – dice, nella voce una punta di tenerezza, - È pretenzioso e sfacciato adesso come lo era allora.
- Quando ti ha chiamato… tu non dovevi essere poi così vecchio. – riflette Mario, dubbioso, - Quanti anni avevi? Trentacinque, trentasei? Il PFD era appena stato legalizzato, il Barça aveva apparecchiature molto all’avanguardia. Avresti potuto fare almeno altri due, tre anni.
Zlatan annuisce.
- Avevo trentacinque anni, infatti. E sì, avrei potuto. Ma non l’ho fatto. – ride, - Ho lasciato Barcellona e sono tornato a Milano immediatamente.
- Cosa ti ha detto per convincerti? – chiede Mario, curioso, e Zlatan ride ancora.
- Assolutamente niente. – risponde divertito, - Non è neanche stato completamente chiaro, al telefono. Mi ha parlato di questo bambino e mi ha detto che voleva che fossi io il suo procuratore. “Sei abbastanza stronzo per farlo,” mi ha detto.
- E tu hai mollato tutto e sei tornato a Milano solo per questo? – insiste Mario, - Solo perché te l’ha chiesto?
Zlatan ride a bassa voce, scuotendo lievemente il capo con evidente rassegnazione.
- Assurdo, vero? – commenta, - Eppure, sì. È andata esattamente così. Ed è successo così anche con te, no? – gli chiede, lanciandogli un’occhiata complice.
Mario distoglie lo sguardo, un po’ in imbarazzo.
- Io non pensavo di rimanere. – risponde, - Pensavo di rifiutare.
- Certo. – ride Zlatan, ad alta voce, - Chiunque prende un volo transoceanico per andare a rifiutare una proposta di lavoro. Come no. – lo prende in giro, e Mario gli lancia un’occhiataccia solo fintamente offesa. – La verità – riprende Zlatan poco dopo, fermandosi a pochi passi da una bifamiliare con un bel cortile davanti all’interno del quale Mario nota due cani che sonnecchiano in un angolo e un piccolo pollaio sull’angolo opposto, tre o quattro galline che chiocciano nell’aia e i panni stesi in alto a pochi passi dal cancello d’ingresso. – Ma mi ascolti? – rimbrotta Zlatan, ridacchiando divertito. Mario annuisce, tornando a guardarlo ma non riuscendo a smettere di chiedersi per quale motivo si siano fermati. – La verità – ricomincia Zlatan, - è che il punto non è Mourinho e non è nemmeno quello che siamo venuti a fare qua. Sai perché sono convinto che Christos non sia stato altro che il pretesto di cui José aveva bisogno per rimanere? Perché è stato il mio pretesto per tornare. E credo che la stessa cosa valga per te. – annuisce deciso, - Il punto è Milano, Mario. Quello che ci siamo lasciati alle spalle andandocene. Ecco perché siamo tornati. Il motivo reale è questo.
Mario abbassa lo sguardo, incerto.
- Anche se mi dici così, se è vero io non posso saperlo, perché non me ne sono accorto. – risponde, - Io credevo davvero di voler rifiutare.
- E poi non l’hai più fatto. – scrolla le spalle Zlatan, aprendo lo sportello. – Matematico. Ora esci, dai. Siamo arrivati.
Mario solleva lo sguardo, tornando a guardare il cortile.
- Qui? – chiede allibito, indicando il pollaio, i cani, i panni, in generale tutto ciò che vede, - È qui che abita Adri?
Zlatan si mette a ridere, chiudendo la macchina ed avviandosi verso il cancello.
- È qui che abitiamo tutti. – risponde, tirando fuori le chiavi.
Mario non riesce ad impedirsi di lasciare andare un’esclamazione di puro stupore, nel sentire le sue parole.
- Come sarebbe a dire tutti? – domanda sconvolto, seguendo Zlatan oltre il cancello e dentro al cortile ed osservandolo con un certo sgomento mentre scaccia a pedate qualche gallina più stupida delle altre, convinta di potersi frapporre fra lui e il suo obbiettivo.
- Ti presento il Senato. – ride Zlatan, aprendo la porta ed invitandolo ad entrare, - Ma non azzardarti a chiamarlo così davanti ai vecchi, è il modo in cui lo chiamano i ragazzi in Pinetina per prenderli in giro.
- Il Senato? – chiede Mario, sempre più allucinato, seguendolo all’interno dell’edificio e lanciando occhiate curiose intorno per provare a mappare la casa, il cui piano terra è composto da due stanze a vista sull’ingresso, un salotto enorme e la cucina abitabile, ed un corridoio sul quale si aprono altre tre porte.
- Aha. – prosegue Zlatan, posando le chiavi sulla consolle all’ingresso e chiudendo la porta mentre Mario muove qualche passo incerto attorno a sé, giusto per non rimanere impalato in mezzo al niente come uno stoccafisso. – Lo sai com’è quando i figli crescono, no? Le famiglie si rimpiccioliscono e gli amici si avvicinano. – scrolla le spalle, - Javi, Deki e il Cuchu ne hanno solo approfittato per poter avere un posto in cui tenere Christos e prendersi cura di lui quando ha cominciato a farsi un po’ più grande. Poi le cose si sono complicate, naturalmente, prima sono arrivato io, molti anni dopo hanno dovuto trovare un posto anche per Adri, insomma, una serie di terremoti uno dietro all’altro. Che poi, se ci pensi, - continua, come perso nei suoi pensieri, - tutti i terremoti sono stati generati da Christos, in un modo o nell’altro. Tutto il resto è una conseguenza.
- …quindi vivete tutti qui. Tutti assieme. – commenta Mario, deglutendo a fatica, - Ma non è la cosa più opprimente del mondo? Il mio appartamento mi sembra già troppo affollato quando porto a casa qualcuno per la notte.
- Porti a casa qualcuno per la notte? – ridacchia Zlatan, divertito, - Dio, non sei cambiato per niente. – sbuffa scuotendo il capo, - Ci credo che continui a combinare danni, il danno ambulante sei tu. – sospira appena, prima di alzare la voce e rivolgersi genericamente a tutto il resto della casa. – Sono tornato! – annuncia, - E c’è un ospite.
Il primo a mostrarsi, affacciandosi alla porta del salotto con tanto slancio che ha bisogno di puntellarsi con entrambe le mani sugli stipiti per non cadere in avanti, è Javier.
- Mi sembrava di aver sentito una voce conosciuta. – dice, così piano che Mario a stento lo sente, - Speravo di sbagliarmi.
- Javi, bentornato. – lo saluta Zlatan, sfilando la giacca ed appendendola all’appendiabiti, - Andato bene il viaggio di ritorno?
- Quello sì. – sbuffa lui, - Il papà di Paula sta meglio, tra l’altro.
- Ah, ne sono contento. – sorride Zlatan, battendogli una breve pacca sulla spalla prima di sorpassarlo ed entrare in salotto.
- Certo, arrivare a Milano ed essere costretto a correre qui immediatamente perché Christos è stato buttato fuori dalla Pinetina mi ha un po’ scombussolato i programmi. – riprende Javier, accigliato, inseguendolo senza aspettare un attimo. – A chi devo dare la colpa di tutto questo?
Zlatan si lascia andare sul divano con un tonfo, lanciando un’occhiata al televisore acceso e cercando alla cieca il telecomando fra i cuscini con entrambe le mani.
- A lui. – dice, indicando Mario con un cenno del capo.
- E perché l’hai portato qui? – insiste Javier, comportandosi in tutto e per tutto come se Mario non esistesse, mentre lui resta immobile alle sue spalle, ancora all’ingresso, tremendamente a disagio.
- Perché ha bisogno di parlare con qualcuno con cui non ha ancora parlato. – sbuffa Zlatan, chiudendo l’argomento e trovando finalmente il telecomando. – Aaah, eccoti. – esala soddisfatto, prendendo a fare zapping. Solo allora Javier si volta e guarda Mario con la stessa espressione con cui l’ha osservato spesso scrutare gli avversari prima delle partite. Gli occhi di uno che sa chi ha davanti, ha ottenuto tutte le informazioni che gli servivano ed è perfettamente pronto ad affrontarlo.
- Scusami. – gli dice, i tratti del volto che si distendono tutti assieme, sciogliendosi in un sorriso rassicurante che ridà al suo volto l’età che la durezza di poco prima gli aveva tolto, riportandolo quasi a quando di anni ne aveva trentasei e guidava senza paura una squadra di pazzi a vincere quella che per certi versi è rimasta la Champions League più epica di tutti i tempi, - Non è colpa tua. È solo che José ha giustamente aspettato che io fossi via, per farti venire. Che uomo assurdo.
Mario si inumidisce le labbra, guardando Javier con un certo timore reverenziale che suona francamente assurdo, visto che non lo guardava in questo modo neanche quando avrebbe dovuto farlo per contratto.
- Non mi volevi qui? – chiede incerto. Javier sorride ancora e scuote il capo.
- Ma ancora una volta, non è colpa tua. – lo rassicura con una breve stretta di mano, - Purtroppo, la situazione è molto complessa, come immagino già saprai.
- Sì, - ride un po’ Mario, ricambiando la stretta e grattandosi nervosamente la nuca con la mano libera, - il mondo intero non fa che ripetermelo da quando sono arrivato.
- E non hai ancora avuto modo di vederlo coi tuoi stessi occhi? – chiede Javier, facendogli strada verso la cucina proprio di fronte al salotto.
- Per la verità sì. – sospira lui, prendendo posto su uno degli sgabelli attorno al tavolo alto nel mezzo della stanza ed osservando Javier che prepara il caffè meticolosamente, senza sporcare nulla. Ripensa al piano accanto al lavello a casa sua. Non ricorda se l’ha pulito prima di partire. È straniante come la sua permanenza a Milano, per quanto scombussolata e sconvolgente, gli stia dando modo di comprendere a fondo quanto disordinata e priva di qualsiasi criterio sia la propria vita di tutti i giorni a Manchester. – Capitano, non ho la minima idea di dove stia andando a parare questa storia.
Per niente stupito di sentirsi chiamare ancora così proprio da lui, quando nessuno più lo fa ormai da tempo, Javier sorride e continua a preparare il caffè. Altri capitani hanno preso il suo posto dopo di lui, alcuni meno longevi di altri. C’è stato Deki per un anno subito dopo il suo ritiro, poi c’è stato il Cuchu per un po’, Julio per l’ultimo anno all’Inter prima di cedere il passo e tornare in Brasile, poi Philippe, tanto a lungo da superare perfino i suoi record, ed André si appresta a prendere il suo posto l’anno prossimo, col benestare di tutti, e Javier non è più il capitano di nessuno che militi ancora nella formazione dell’Inter, non è il capitano di nessuno dei ragazzi che scendono in campo ogni domenica e nei turni infrasettimanali e durante le competizioni nazionali, europee e mondiali, ma è rimasto il capitano di Mario. Quello che gli hanno insegnato a chiamare così quando aveva sedici anni, lo stampo sul quale ha posizionato tutti gli altri capitani che si sono susseguiti nel corso della sua carriera, l’ombra scura sul muro sopra la quale proiettava le sagome degli altri, per vedere se le assomigliavano, se c’entravano qualcosa, il suo imprinting, il suo primo assaggio reale di cosa possa voler dire prendere sulle spalle una squadra e condurla dove ha bisogno di andare, dove è giusto che vada.
- Dove sta andando a parare quale storia? – chiede bonario, accendendo il fornello e voltandosi a guardarlo, per poi sedersi di fronte a lui. Mario si stringe nelle spalle e si sente molto più piccolo di quanto non si sia mai sentito, anche quando piccolo lo era davvero.
- Tutte. – risponde un po’ abbattuto. – Perché José mi ha voluto qui, cosa sto facendo con Christos e con tutto il resto… non ho avuto neanche il tempo di fermarmi a riflettere su quale fosse effettivamente la cosa di cui si stava parlando, sai?, perché c’era la possibilità di tornare, e il ragazzino indisponente era una sfida troppo allettante, e tutte le cose che ho lasciato qui vent’anni fa sembra che mi stiano chiamando per chiedermi di restare. – sospira, - Ma io che ci faccio qui? Questa non è più la mia vita, qui non è rimasto niente che sia solo mio. Non ho neanche un posto dove stare. – ride un po’.
- Cos’è, dormi sotto un ponte? – gli fa eco Javier, - Ti direi di trasferirti qui, che tanto è stata la frase che ho usato di più nell’ultimo ventennio, ma non abbiamo più stanze libere. Oh, ma abbiamo soppalcato lo sgabuzzino, un paio d’anni fa, se vuoi—
- Mi sta ospitando Davide, grazie. – ride di cuore Mario, sciogliendosi un po’. Javier sorride con affetto sincero, mentre gli appoggia una mano sulla spalla e la stringe calorosamente.
- Ho capito cosa intendi. – gli dice a bassa voce, - È esattamente il motivo per cui ero contrario alla tua presenza qui. Ma per qualche motivo José invece è convinto che tu possa essere la soluzione ideale per Christos, e sia io che tu sappiamo bene che sono rare le volte in cui quell’uomo ha torto.
- Già, perché nessuno sopravvive per raccontarle. – ride Zlatan, entrando in cucina e spegnendo il fornello. – Si stava bruciando. – risponde con un sorriso alle loro domande mute, prima di recuperare qualche tazzina e versare il caffè.
- Senti, - sospira Mario, sorseggiando il proprio con aria incerta e rivolgendosi nuovamente a Javier, - tu lo sai chi è il padre, vero? Se c’è una persona alla quale il mister può averlo detto, quella persona sei tu.
Javier trattiene il respiro solo per un attimo, mentre Mario resta in attesa, e in quell’attimo Zlatan inarca un sopracciglio e gli lancia un’occhiata incerta.
- Tu lo sai. – gli dice a bassa voce. Javier distoglie lo sguardo.
- Non è— - comincia, ma non ha modo di concludere la frase perché la tensione quasi sacrale del momento viene interrotta dal rumore che produce la mano di Christos quando si schianta contro lo stipite della cucina. Indossa solo i jeans e le pantofole, i capelli così arruffati che gli coprono tutta la fronte. Le punte dei ricci un po’ sudate gli accarezzano la nuca e i suoi occhi sono talmente pieni di rabbia che Mario, guardandoli attentamente, riesce già quasi a vederli lucidi di lacrime.
- Tu devi stare lontano da me. – dice il ragazzo, e la sua furia è tale che non riesce a nascondere il tremito che gli scuote la voce, - Devi stare lontano da me e dalla mia famiglia. Io non me ne voglio andare, io non andrò da nessuna parte e tu devi smetterla di ficcare il naso in cose che non ti riguardano! – il suo sguardo si allontana da Mario e si posa su Zlatan e Javier, dall’altro lato del tavolo. – E voi siete due stronzi. – conclude, la delusione che rende pesante il tono di voce, mentre volta loro le spalle e corre fuori. Dalla stanza, dalla casa, dal cortile.
Zlatan espira profondamente, come avesse trattenuto il fiato fino a quel momento, e si passa una mano fra i capelli.
- Era su con Adri, immagino. – sospira, scuotendo il capo. Javier annuisce, voltandosi a guardare Mario.
- Va’ da lui. – dice, indicando le scale per il piano di sopra con un cenno del capo, - Non potrà rispondere alla domanda che sembra più importante per te, perché non sa chi sia il padre, ma risponderà sicuramente a tutte le domande che sono più importanti per Christos. – conclude con un sorriso mesto.
Mario si morde un labbro, annuendo lentamente, e poi, a capo chino, si incammina verso il primo piano.
*
Adriano non si aspetta di vederlo, ma la sua espressione sorpresa è immediatamente mitigata dal sorriso sincero che gli si apre sulle labbra quando gli posa gli occhi addosso.
- Oh-mio-Dio. – dice incredulo, - Oh-mio-Dio! – ride, saltando giù dal letto ed andandogli incontro. Mario fa per stringergli la mano, incapace di trattenere un sorriso di fronte a tanta allegria, ma Adriano non gliene porge alcuna, preferendo di gran lunga avvolgerlo in un abbraccio tanto stretto da risultare quasi soffocante nel momento stesso in cui si avvicina abbastanza da poterselo tirare contro.
- Ehi. – ridacchia Mario, a corto di fiato, - Sei il primo che sembra così felice di vedermi.
- Be’, è abbastanza normale. – ride Adriano, allontanandosi da lui ma continuando a tenergli una mano sulla spalla, come non volesse in alcun modo interrompere il contatto fra i loro corpi, - Immagino che il ricordo che gli altri hanno di te sia piuttosto diverso da quello che ho io. Per me rimarrai sempre il ragazzino idiota che rideva a tirava fuori la lingua contro gli avversari quando si guadagnava una punizione o segnava. Non ho avuto modo di pensare a te come qualcosa di diverso, visto che quando sono tornato in Italia, be’, tu eri già andato via.
- Mi sei mancato. – sorride Mario, stringendolo in un altro abbraccio di propria iniziativa, un abbraccio molto diverso dal precedente, meno irruento ma più caloroso, - Non è che all’Inter non ci fosse nessuno in grado di capirmi, quando sei andato via tu, però ecco, con te mi sentivo molto più a mio agio. Eravamo più… simili.
- Verissimo! – annuisce Adriano, con un’altra risata, - Questo perché sia io che tu siamo sempre stati due casini ambulanti. Tu, però, sei stato più fortunato di me. – annuisce serio, - Figlio di un’altra generazione, una generazione di vincenti. Infatti ti è andata molto meglio.
- Non mi sembri granché infelice, però, nonostante tutto. – commenta Mario con un sorriso divertito, sedendosi sul letto quando Adriano lo invita a farlo, prima di piombare sgraziatamente al suo fianco.
- Perché non lo sono. – scuote il capo il brasiliano, - La mia vita è stata piena e carica di gioie. Se fosse stata del tutto priva di dolori, non sarebbe stata una vita, ti pare?
- Dolori come Philippe? – gli chiede Mario a bruciapelo, rifiutandosi di guardarlo negli occhi perché odia giocare al detective con la gente che l’ha cresciuto, anche se sa di non avere molte alternative a riguardo. Adriano s’interrompe un attimo, perfino il sorriso che ancora piega le sue labbra si fa meno convinto, più dimesso, prima di aprirsi nuovamente, con maggiore convinzione.
- Dritto al punto. – commenta, la voce ancora un po’ incerta, - Perché avrei dovuto aspettarmi qualcosa di diverso, d’altronde?
- Mi dispiace. – borbotta Mario, tornando a guardarlo solo quando l’imbarazzo comincia lentamente a scemare.
- Non scusarti. – lo rassicura Adriano, battendogli una robusta pacca su una spalla, - Immagino che tu non abbia avuto proprio modo di raccapezzarti in questo gran casino, da quando sei qui.
- No, infatti. – annuisce Mario, lasciandosi andare ad un piccolo sorriso, - È per questo che sto cercando di tornare il più indietro possibile, capisci? Cioè, - cerca di spiegarsi, e gesticola, e guarda altrove perché teme di non riuscirci, - so che c’è un passaggio che mi sono perso. C’è un corto circuito da qualche parte e non riesco ad individuarlo. Forse, se riesco a risalire fino al momento in cui ero ancora qui e questo posto per me non aveva segreti, riuscirò anche a… - sospira, - Non lo so. Andare avanti fino all’interruzione, e sistemarla.
Adriano annuisce lentamente, considerando le sue parole. Poi striscia all’indietro sul materasso, appoggiandosi contro la testiera e guardando un punto a caso nel vuoto per raccogliere i pensieri, prima di schiudere le labbra e riprendere a parlare.
- Con Philippe è cominciata molto tempo prima che ci trasferissimo entrambi in Italia. – racconta a bassa voce, perso nella propria memoria, - Era solo un ragazzino, allora, per cui non è che ci fossero state chissà che grande cose. – ridacchia, vagamente imbarazzato, - Però lui era così spontaneo, allegro e, be’, sì, stupido, che insomma, non riuscivo davvero a stargli lontano. È stato il primo essere umano che ho sentito il bisogno di proteggere. Che mi sono sentito in grado di proteggere. – ride un po’, ma è una risata molto più spenta della precedente, - Mi sbagliavo, come mi sono sbagliato spesso quando s’è parlato di relazioni umane, nella mia vita. Christos ne è solo l’ennesima prova, d’altronde.
- Cos’è successo? – si azzarda a chiedere Mario, sfilando le scarpe e sedendosi a gambe incrociate di fronte a lui, sentendosi sempre più bambino man mano che i secondi passano e la sua schiena si curva assumendo una posizione di curiosità infantile che le sue ossa non dovrebbero più nemmeno ricordare come comporre, visto quanto tempo è passato dall’ultima volta che se l’è concessa.
- Fra me e Philippe o fra me e Christos? – chiede Adriano, inarcando un sopracciglio. Mario ride.
- Fra te ed entrambi. – risponde. Adriano ride a propria volta, inspirando brevemente.
- Be’, io e Philippe ci siamo trasferiti, lui a Milano, io a Roma, e ci siamo un po’ persi di vista, ovviamente. E altrettanto ovviamente ci siamo ritrovati quando io mi sono ritirato e sono tornato a Milano. Non chiedermi perché l’ho fatto. – ride, - Non saprei risponderti.
Mario abbassa lo sguardo annuendo lentamente. Lo comprende più di quanto non riesca a dire, più di quanto non riesca perfino ad ammettere.
- E vi siete sposati. – aggiunge, incitandolo a continuare.
- Già. E siamo stati felici a lungo. – conclude lui, annuendo.
Mario si morde un labbro, prima di sollevare nuovamente lo sguardo su di lui, incerto.
- E Christos? – chiede, - Come diavolo— voglio dire, come è riuscito a passarvisi entrambi? Cioè, scusa la brutalità, ma—
Adriano ride ad alta voce, interrompendolo all’improvviso e gettando indietro il capo.
- No, ma è il modo migliore per dirlo. – ammette, - Anche se forse sarebbe più corretto dire che siamo stati noi a passarcelo, non lui a passarcisi. Ma sarebbe solo una questione di forma, la realtà è che Christos… - sospira, - Come te lo spiego? Ha sempre avuto un gran bisogno di sentirsi amato. Sempre. Da chiunque. Ed il fatto che sia sempre stato circondato da persone che per lui avrebbero fatto di tutto l’ha portato a cercare di fare qualunque cosa per, come dire, tenersele strette.
Mario si inumidisce le labbra, gli occhi che brillano appena.
- Da piccolo facevo così anch’io. – ammette, - Con la mia famiglia adottiva, intendo. Nessuno di loro, né i miei genitori né i miei fratelli, hanno mai colto la malizia con cui facevo certe cose, i ricatti morali che imponevo loro per cercare di evitare che mi abbandonassero. Piangevo ogni volta che mi sembrava non mi fossero stati vicini abbastanza, o abbastanza a lungo. Ho fatto in fretta a crescere, quindi questa cosa si è un po’ smorzata, col passare del tempo, ma è un atteggiamento che posso capire.
Adriano annuisce serio, grattandosi pensieroso il mento.
- Il problema è questo qua, di fondo. – cerca di spiegare con la massima chiarezza possibile, - C’è una questione irrisolta, nella vita di Christos, che è la questione dei suoi genitori. Cazzo, deve pure averceli un padre ed una madre. Tu, voglio dire, sei stato adottato, ma sai di avere due genitori naturali, sai chi sono, sai che esistono, da qualche parte, li hai visti, ci hai parlato. Sono presenze che magari hai rifiutato nella tua vita, però li conosci. – Mario annuisce, ed Adriano non aspetta altro per proseguire. – Lui invece no. I suoi genitori potrebbero aver fatto una fine qualsiasi, è come se non fossero mai esistiti, e sente di dovere troppo a Mourinho per costringerlo a dirgli la verità. E la cosa peggiore è che tutti intorno a lui si comportano come se questa questione non fosse poi così importante, cazzo, come se fosse normale per un bambino avere trecentocinquanta padri ed altrettante madri soltanto perché gli unici due che avrebbero dovuto crescerlo non ci sono.
Mario annuisce, un po’ abbattuto. Ha creduto di poter comprendere Christos presumendo di poter comparare le loro situazioni, ma la realtà è che non può affatto. Comparare, né comprendere. C’è una profonda differenza fra la sua infanzia e quella di Christos, e questa differenza è la chiarezza. Lui ha sempre saputo fin troppo bene da dove veniva e dove invece era andato, come e perché. Christos, invece, no.
- Quindi mi stai dicendo che si tratta solo di una banalissima sindrome da abbandono? – sospira, le spalle che tornano dritte nel momento in cui ricorda di avere ancora un lavoro da portare a termine.
- Banalissima? – chiede Adriano, scrollando le spalle, - Se preferisci considerarla banalissima, fai pure. Sarà anche banale, ma ha combinato un casino dietro l’altro. Christos voleva Philippe, e quando se l’è preso si è reso conto di non averlo voluto davvero. O meglio, di averlo voluto, ma non tanto profondamente da accettare di essere il responsabile della fine di un matrimonio. Si è depresso. Parecchio. Ha smesso di mangiare, di allenarsi, di alzarsi dal letto. Eravamo tutti preoccupati perché era ancora in fase di crescita e trascurarsi in questo modo poteva rovinargli la vita, oltre che la carriera. – Mario trattiene il fiato, ed Adriano lo imita per un secondo, prima di ricominciare a parlare. – Philippe non poteva più stargli vicino come un tempo. Fra loro era cambiato tutto e sarebbe stato un disastro. Allora ho cercato di avvicinarmi io, ho cercato— non lo so. Di aiutarlo. E Christos ha voluto me, ed è riuscito a prendermi, ed io ho cercato in tutti i modi, negli anni, di fargli capire che non è giusto così, non è amore, è solo paura, ma lui non ascolta. Non ascolta una parola di ciò che gli dici, mai.
Mario si mette in ginocchio, avvicinandosi quasi a gattoni ed abbracciando Adriano con tanta forza da sentirlo annaspare contro il proprio petto.
- Ha fatto così anche con me. – ammette a bassa voce, cullandolo piano. Adriano ricambia la sua stretta, aggrappandosi alla sua maglia come ad uno scoglio nel mezzo di una tempesta.
- Per te è diverso, Mario. – dice, - Per te, quando si rifiuta di ascoltarti, non si tratta che di un rifiuto. A me spezza il cuore ogni volta. Ogni santa volta.
Mario si morde un labbro, trattenendo il respiro mentre Adriano, silenziosamente, comincia a piangere contro la sua spalla. Non smette per un secondo di stringerlo, e per questo solo molti, molti minuti dopo, Mario riesce ad allontanarsi, salutarlo ed uscire dalla camera. Scende al piano di sotto guardando fisso davanti a sé, come in trance. Non bada ai gradini, imbocca il corridoio ed entra in cucina, parandosi davanti a Zlatan e Javier, ancora intenti a sorseggiare i propri caffè, restando in silenzio fino a quando non sono loro stessi a sollevargli gli occhi addosso. Ed è la voce di Zlatan a costringerlo a parlare, chiedendogli cosa ci faccia lì impalato.
- Riportami in Pinetina. – dice semplicemente, la voce ruvida come fosse disabituato ad usarla, - Devo parlare con José. Immediatamente.
Zlatan potrebbe domandargli perché, ma se lo risparmia. Mario gli è grato, mentre lo osserva posare la tazzina vuota nel lavabo e fargli strada all’esterno della casa, attraverso il cortile e poi in macchina.
- Non te lo dirà mai. – lo avverte lo svedese, intuendo i suoi pensieri. Mario non risponde. Continua a guardare fisso davanti a sé, come se potesse visualizzare il proprio obbiettivo in qualcosa di fisico eppure impalpabile, la linea dell’orizzonte, le punte degli alberi in lontananza, la sagoma sbiadita del centro sportivo nella luce azzurrognola della sera. José e tutte le sue rispose sono lì. Mario può vederlo.
Quando è arrivato ad Appiano, è stato José stesso a fargli giurare che niente sarebbe riuscito a distoglierlo dal suo obbiettivo. E così sarà.
*
- Mi chiedevo se saresti tornato, oggi. – sorride appena José, seduto alla scrivania, gli occhi bassi sulle proprie stesse dita intrecciate sul tavolo. – Avevo bisogno di parlarti e speravo di poterlo fare prima che scoprissi tutte le cose che avrai sicuramente scoperto andando a casa dai ragazzi.
Mario si morde un labbro, cercando di non prestare troppa attenzione a Davide in piedi accanto a José, appoggiato di schiena alla parete e con le braccia incrociate sul petto, ed a Zlatan seduto sulla poltrona accanto a lui.
- Speravo che avremmo potuto parlare a quattr’occhi. – non può evitare di dire, stringendo la presa sui braccioli della propria poltrona. Il sorriso di José si allarga un po’, venato da una sorta di tenerezza paterna che Mario non può fare a meno di trovare in qualche modo rassicurante, per quanto vagamente fuori luogo.
- Arrivati a questo punto, non c’è niente che io debba dire a te che non debba dire anche a loro. – sospira, - Perciò tanto vale farla breve.
- José. – lo interrompe Mario, usando con lui il suo nome di battesimo e la seconda persona per la prima volta in assoluto da quando lo conosce, per la prima volta in tutta la sua vita, mentre Davide e Zlatan, consci di ciò che sta per accadere, tendono tutti i sensi in attesa della risposta all’unica domanda che José si sia ostinato ad ignorare negli ultimi anni. – Ho parlato con Adri. Mi ha detto di quello che è successo a Christos. E mi ha detto perché gli è successo. È ridicolo ostinarsi in questo modo, non possiamo continuare ad ignorare il fulcro del problema. Devi dirmi chi sono i genitori di Christos. Non mi importa dei dati anagrafici o di sapere dove trovarli, devi solo dirmi chi erano, che persone erano, perché altrimenti io non—
- Perché questa questione ti sta così a cuore? – lo interrompe José, guardandolo dritto negli occhi, - Perché vuoi sapere chi sono?
- Per risolvere il problema di Christos. – risponde lui, seccamente. – Perché è il lavoro che mi è stato dato quando sono stato assunto, e voglio portarlo a termine. Perché non voglio essere preso in giro. E perché è giusto così.
- E anche per poter dire a Christos chi sono? – insiste José, duro. Mario si morde l’interno di una guancia.
- Sì, se sarà necessario. Se ciò servirà a spronarlo a partire, lo farò senza dubbio. – annuisce, senza interrompere il contatto coi suoi occhi.
José inspira profondamente, intrecciando le dita davanti agli occhi e chiudendo le palpebre, perso in qualche secondo di riflessione silenziosa. Davide sposta il peso del corpo da un piede all’altro, mordendosi nervosamente un labbro. Zlatan stringe la presa attorno ai braccioli della propria poltrona, picchiettando con un piede sul pavimento lucido e nero.
- E se invece saperlo lo intrappolasse qui? – chiede, - Se vi intrappolasse qui entrambi?
Mario trema.
- Che cosa…? – balbetta. Davide si avvicina di un passo. Zlatan si sporge verso José.
- Christos è tuo figlio. – dice l’uomo, gelido, tornando a guardarlo negli occhi. Mario smette di respirare, anche perché in un solo secondo la consistenza dell’aria si fa troppo densa, e il suo peso specifico troppo elevato. Respirare adesso equivarrebbe a soffocare, e Mario se lo risparmia. Non riesce a staccare gli occhi da Mourinho, anche se vorrebbe, e non riesce a smettere di ascoltarlo, anche se vorrebbe riuscirci anche più di quanto non vorrebbe riuscire a distogliere lo sguardo. – Betty venne a trovarmi a casa un paio di giorni dopo la tua partenza. Disse di non avere più il tuo numero, di non sapere come rintracciarti. Voleva parlartene, ma non aveva avuto il coraggio di farlo fino a quel momento e in tutta sincerità dubito che lo avrebbe trovato nel tempo. – José sospira, sfilando gli occhiali e passandosi due dita sugli occhi, massaggiandoli piano. – Voleva darlo via. Non voleva tenerlo ed avrebbe cercato di darlo via il più silenziosamente possibile. Mi disse che già doversi nascondere per quasi sei mesi le aveva rovinato la vita a sufficienza. Non c’era più nessuno che le offrisse un lavoro. Aveva perso la linea e recuperarla non sarebbe stato semplice. Era così… - sospira ancora, cercando le parole più giuste per descriverla, - arrabbiata. Con se stessa, principalmente. E anche con te, e con il suo bambino. Per questo non avrebbe avuto difficoltà a darlo a qualcun altro. – José solleva nuovamente lo sguardo, incontrando quello di Mario e restando silenzioso per qualche secondo, prima di proseguire. – Io non ci sono riuscito, però. Avevo lasciato andare te, ma lui volevo— non lo so. – ammette, un po’ abbattuto, - Volevo tenerlo. È stata una follia, e non ho avuto tempo di rendermene conto perché man mano che gli anni passavano Christos si faceva sempre più grande, e tutto sempre più normale. Ma non lo era. E quando ho capito cos’era a bloccarlo in questo modo, ho pensato che tu potessi riuscire a liberarlo, in qualche modo. Ma probabilmente mi sbagliavo.
Mario fa per dire qualcosa, Zlatan sembra più veloce di lui perché si sposta in punta alla sedia e batte un pugno violento contro la scrivania di José, ma l’unica voce che si riesca a sentire prima di quella di Christos è quella di Davide che, dalla propria posizione privilegiata in piedi dietro alla scrivania, lo vede prima di tutti, immobile sulla soglia della porta, ed ha il tempo di mormorare un “Dio” strozzato che dà i brividi a tutti. Poi è solo la sua voce, sottile, debole, sperduta come quella di un bambino intimidito di fronte all’enormità dell’edificio scolastico all’entrata del primo giorno delle elementari, e nonostante questo è un suono che deflagra nella mente di tutti i presenti, azzerando le loro capacità di pensiero.
- No. – dice, con una sicurezza impressionante, nonostante la sua voce sia appena udibile, pur nel silenzio caotico di quel momento. Zlatan e Mario si voltano a guardarlo così lentamente che sembra che il solo girare sulla sedia costi loro una fatica immensa. Si aprono come il mar Rosso e questo permette agli sguardi di José e Christos di incrociarsi, ed è guardandolo dritto negli occhi che Christos ripete “no”, a voce più alta, così che l’unico uomo cui vuole far sentire quella parola recepisca il messaggio senza possibilità di errore.
Poi si volta, e il minuto successivo è sparito oltre la porta, lungo il corridoio. Mario sente lo scricchiolio fastidioso delle suole di gomma delle sue scarpe da tennis che strisciano contro il pavimento lucido e liscio, e non si concede il tempo per pensare. Sa che, se si fermasse a riflettere, capirebbe che non è lui quello che deve alzarsi e corrergli dietro, al momento. Dopo, forse, per un chiarimento, per chiedergli scusa, anche se non riesce a immaginare esattamente per cosa. Ma non ora. Non proprio ora.
Ed è proprio questo il motivo per cui spegne il cervello. Non deve inseguire Christos, ma è quello che vuole fare, perciò mormora un “Davide” che sa di implorazione d’aiuto e si alza in piedi con uno scatto, correndogli dietro. Davide gli è accanto già prima che sia riuscito ad uscire.
Anche José si alza, visibilmente più lentamente degli altri due, schiacciato da troppi pesi per poterli contare, e per la prima volta anche dall’età. Gli cadono addosso gli anni uno ad uno, lo confondono e lo rattristano e lo riempiono di tante altre emozioni e sensazioni troppo vivide per poter essere sostenute su due gambe, motivo per cui appoggia entrambe le mani sulla scrivania e la usa per sostenersi mentre le gira intorno, ben deciso a seguire Christos a propria volta.
Zlatan si alza in piedi e lo afferra per un polso, tanto repentinamente che José si sente quasi cadere all’indietro. Quando si volta a guardarlo, nei suoi occhi legge troppa confusione e troppo dolore. Stringe forte le labbra e si gira, fronteggiandolo e reggendo il suo sguardo per qualche secondo prima di rassegnarsi a chinare il capo e fissare il pavimento. È la prima volta, la prima volta nella sua intera vita che si sente in colpa.
- …avresti dovuto dirmelo. – dice Zlatan, la furia trattenuta nella sua voce è così palese che José prova quasi fastidio nel percepire quanto lui si senta in dovere di moderarsi per non dargli troppo addosso. Che sia a causa dell’età o di chissà che altro motivo non gli interessa, vorrebbe avere la forza di tornare a guardarlo negli occhi e dirgli chiaro e tondo che può urlargli addosso quanto gli pare, come ha sempre fatto in passato, e che nulla di quello che potrà dire lo scalfirà, o riuscirà a sfiorarlo. Il punto è che sa che sarebbe una menzogna, e non può aggiungere al carico anche questa.
- Lo so. – risponde sommessamente, continuando a fissare per terra, - Non ci sono mai riuscito.
- La mia intera vita, José… - continua Zlatan, come non l’avesse nemmeno sentito, - La mia intera vita è così com’è oggi perché tu mi hai chiesto una cosa ed io ho risposto di sì. E ora—
- Non è cambiato niente, Zlatan. – prova a dire, - Te l’avrei chiesto comunque, anche se ti avessi detto che era figlio di Mario, io—
- Ma io l’avrei saputo! – tuona Zlatan, stringendo la presa sul suo polso per un attimo, prima di lasciarlo andare con delicatezza quasi forzata. – Non mi hai mai detto niente, e la cosa più assurda, la cosa più stupida, è che per me è andata bene così, fino ad adesso.
José si morde l’interno di una guancia, spostando il peso del corpo da un piede all’altro, a disagio. Si inumidisce le labbra e si schiarisce la voce, prima di parlare, perché ciò che ha da dire adesso è più difficile di tutto quello che ha dovuto dire nel corso della sua intera esistenza, e di cose difficili ne ha dette, tante, e a parecchie persone.
- Forse… - azzarda, sollevando lo sguardo per cercare i suoi occhi, - dovresti chiederti perché.
Zlatan deglutisce a vuoto un paio di volte, restando immobile nei pressi della scrivania. José osserva il suo corpo rigido, come si stesse volutamente impedendo di muoversi. Poi si scioglie, poco a poco, è come se il sangue piano piano riprendesse a scorrere attraverso le sue vene. Il suo viso riprende colore e si avvicina a José di un passo, poi di un altro, e quando solleva un braccio e gli accarezza una guancia José trattiene il respiro, terrorizzato e ad un passo dall’esplodere per l’emozione.
- …sarebbe stupido chiedersi qualcosa di cui conosco già la risposta. – conclude, abbassando ancora il braccio. José riprende a respirare e sul volto di entrambi nasce un sorriso.
*
- Christos! – lo chiama ad alta voce, ma Christos non si ferma. È naturale che non lo faccia, Mario si dà dell’idiota da solo per averci sperato, per aver sprecato chiamandolo fiato che avrebbe potuto utilizzare per correre più veloce, per cercare di stargli dietro. Davide gli è due passi dietro, così composto che a Mario viene quasi da ridere, soprattutto visto che lui ha un fiatone tale che se non si conoscesse si scambierebbe per uno che ha smesso di tenere il passo degli allenamenti già da almeno vent’anni. Mario gli lancia un’occhiata subito dopo essere uscito dal centro sportivo, e Davide gli ricambia lo sguardo come a dirgli che lui è lì, non deve preoccuparsi di chi lo sta seguendo, che badi solo a chi si ritrova a dovere inseguire a propria volta, ma anche che quella, comunque, è la sua lotta, e lui potrà anche aiutarlo, ma non potrà mai combattere al posto suo.
Mario torna a guardare di fronte a sé. Christos scavalca una recinzione e oltrepassa un nugolo di giornalisti assiepati nei pressi, per gettarsi come una furia in mezzo ai campi poco distanti, e mentre Mario prende distrattamente nota della pioggerellina fresca che gli cade addosso dal cielo grigio chiaro sopra Appiano, si chiede dove abbia sbagliato nella vita. Se sia stato un errore andarsene, se sia stato un errore tornare, se l’errore l’abbia fatto a monte concedendosi a vent’anni quello che poi, per una svariata serie di ragioni, avrebbe deciso di smettere di concedersi nel tempo. Da qualche parte un errore deve esserci stato, perché immaginarsi colpevole dell’aver rovinato la vita a così tante persone è già abbastanza senza dovere aggiungere il carico della consapevolezza che, anche cercando di impedire tutto questo, non sarebbe riuscito ad evitarlo.
Ha bisogno di qualcuno da incolpare. Se non se stesso, chi altri?
- Mario! – lo chiama Davide, e Mario solleva lo sguardo. Christos è più vicino, sta piangendo così forte che lo si sente singhiozzare nonostante il rumore della pioggia sempre più forte, e sta correndo molto più lentamente di quanto non stesse facendo fino a qualche minuto fa, nonostante l’ostinazione gli impedisca di fermarsi e lasciare che l’inevitabile avvenga. Mario lo capisce. Christos sa che prima o poi dovrà fermarsi, che lo prenderanno o se anche non dovessero riuscirci sarà lui a dover tornare a casa, prima o dopo. Sa che questa è una verità che dovrà affrontare, ma non vuole farlo. Mario sa come si sente perché s’è sentito così per vent’anni, già da prima di partire per Manchester. Ora sa che la sensazione di terrore che ha sentito quando è arrivato in Pinetina è la stessa che muove le gambe di Christos, adesso, ed è la stessa che, fosse stato più giovane, avrebbe costretto alla fuga anche lui: la certezza di essere arrivato alla resa dei conti, di avere qualcosa da confessare a quelle pareti, qualcosa da chiarire, qualcosa per cui scusarsi.
Scatta in avanti con l’ultimo respiro che gli sia rimasto nei polmoni, sperando di non scivolare sul fango che scricchiola sotto le sue scarpe per niente adatte a correre per campi, e quando riesce a sentire solida e fisica la spalla fradicia di Christos sotto le dita non può impedirsi di sorridere, anche se nel movimento si sbilancia e nell’aggrapparsi a lui finisce per trascinare entrambi a terra, facendosi male e, probabilmente, facendone anche a lui.
- Lasciami stare. – piange Christos, le mani sul viso e le lacrime che scorrono lungo le guance arrossate per lo sforzo, mentre i capelli, resi pesanti dalla pioggia, gli si afflosciano lungo il collo e la nuca, - Dio, perché proprio tu? Fra tutti quelli che potevano essere… Lasciami stare, vaffanculo, tornatene da dove sei venuto, lasciami stare
Mario cerca di riprendere fiato, appoggiandosi per terra mentre i vestiti gli si inzuppano d’acqua e fango, e quando Davide lo raggiunge e si china al suo fianco per chiedere ad entrambi come stiano non gli lascia nemmeno il tempo di aprire bocca.
- Io non sono tuo padre. – dice seccamente, e Christos abbassa le mani e solleva lo sguardo, trovando i suoi occhi. – Io non sono tuo padre. – ripete Mario con un sorriso più dolce. – Sai chi è Thomas Barwuah? – gli chiede. Christos scuote il capo. – È un uomo che ho conosciuto e ha vissuto un po’ fra Palermo e Brescia fino a settant’anni. È un uomo che ogni tanto parlava di me per portare a sua moglie e ai suoi due figli qualche soldo in più. È un uomo che ho odiato e che ho imparato a perdonare con la consapevolezza che è arrivata col tempo che per me lui non è stato nulla, non è stato in grado di farmi male. Thomas Barwuah è stato tutte queste cose, ma non è mai stato mio padre. E io non sono tuo padre. Non sono tuo padre, Christos. – conclude sorridendo con maggiore convinzione.
- …e chi è tuo padre? – chiede Christos, abbassando lo sguardo. La sua voce è debole, fioca come una fiammella persa in mezzo al temporale che si sta abbattendo sul campo e su di loro in quello stesso istante. – Tu lo sai? Perché io no. Io non lo so.
- Sì che lo sai. – sorride ancora Mario, e si allunga a ravviargli una ciocca di capelli bagnati dietro l’orecchio, scivolando poi con due dita lungo il profilo del suo viso fino a trovare il suo mento, costringendolo a tornare a guardarlo negli occhi. – Mio padre si chiamava Franco. Era un uomo buono. Mi ha sempre voluto bene. Quella del suo funerale è stata l’unica occasione in cui sono tornato in Italia in tutti questi anni.
- Sì, ma io non ce l’ho! – grida Christos, la voce spezzata dal pianto, - Io non ne ho uno. Non ho niente. Non ho niente— come faccio ad andarmene se non ho niente a cui tornare? Se me ne vado perdo tutto. Qui per me non resta nessuno. Perché non ho nessuno.
Mario sorride appena, avvicinandoglisi un po’.
- Mister Mourinho. – comincia ad elencare, - E Davide, e Philippe, e Joey. E Adri, e Zlatan. E il capitano, e il Cuchu, e Deki. E potrei farti altri cinquecento nomi. È tutta la gente che ti ha cresciuto, Christos, sono le tue radici. Sono i tuoi genitori.
Gli occhi di Christos si fanno enormi, così pieni di lacrime che Mario teme di poterli vedere sciogliersi nella pioggia. Ma poi Christos li chiude e il suo respiro si fa più pesante, più calmo, quasi si fosse addormentato. E dopo un attimo esplode in un singhiozzo enorme, come l’avesse trattenuto per tutta la sua vita da quando è venuto al mondo, aspettando il momento giusto per emetterlo. Allungandosi a stringerlo fra le braccia nel fango, una cosa che sa non farà mai più, Mario sa che è proprio così che è andata. Tutto torna al suo posto. Appiano gli piove addosso, Mario sente il suo celo grigio scivolargli goccia dopo goccia sulla pelle, e il suono flebile della pioggia sembra sussurrargli che adesso è libero, adesso può scegliere se andare o restare, ma restare non sarà più una prigione, ed andarsene non sarà più un obbligo.
Christos gli si abbandona lentamente fra le braccia, e Mario si accorge solo dopo qualche minuto che s’è addormentato, esausto. Si volta a cercare gli occhi di Davide, e li trova subito. Rossi e bagnatissimi, lo osservano in un misto di stupore e gioia. La sua mano calda sopra la spalla lo rassicura una volta di più. E quando gli chiede aiuto per tirare su Christos e riportarlo in Pinetina, Davide non si tira indietro, e Mario sa che i loro problemi non sono ancora risolti, ma sono comunque sulla buona strada per esserlo.
*
- Sei sicuro di aver preso tutto? – chiede Zlatan, trascinandosi dietro il proprio trolley ed inarcando un sopracciglio quando nota Christos intento ad amoreggiare senza vergogna con André in un angolo poco distante da loro. – Christos! Ma santo Dio, partiamo fra venti minuti e invece di salutare tutta la gente che è venuta fin qui per dirti arrivederci cosa fai?
- Quello che fa sempre da quando aveva dodici anni? – chiede innocentemente Philippe, chinando appena il capo con aria incuriosita e scatenando immediatamente la risata divertita di Adriano al suo fianco. Zlatan si passa una mano sugli occhi, espirando pesantemente.
- Ma chi me l’ha fatto fare… - si lagna, e chi gliel’ha fatto fare gli sorride spavaldo, riuscendo per un istante ad assomigliare più che mai al se stesso di tanti anni prima che con due parole era stato in grado di riportarlo a Milano senza nemmeno doverlo guardare negli occhi. – Lasciamo perdere. – sbuffa con una punta d’imbarazzo. – Ti chiamo appena arriviamo, così sai che— è andato tutto bene. – conclude. José gli sorride ancora, stavolta più dolcemente, senza aggiungere una parola.
- Christos, è davvero il caso che tu ti muova. – sorride Davide, afferrando il ragazzo per un orecchio e staccandolo di peso dalle labbra di André, che subito ride, intrecciando le dita con le sue e seguendolo quando Christos, una lamentela dopo l’altra, si trascina verso il resto del gruppo, dispensando abbracci a tutti i presenti, fra una rassicurazione di Javier, una battuta di Dejan ed un abbraccio caloroso di Esteban.
- Non sono ancora sicuro di quello che sto facendo. – borbotta fermandosi davanti a José e guardandolo dritto negli occhi, - Ma adesso so che se non va bene ho qualcuno che mi aspetta qui.
José sorride, accarezzandogli una guancia e tirandoselo contro per abbracciarlo stretto.
- Andrà bene. – lo rassicura, - Non può che andare bene.
Christos chiude gli occhi e prova a crederci. Si allontana pochi secondi dopo, cercando Mario con lo sguardo e trovandolo alle spalle di José, quasi defilato, come se lui, con tutto ciò che sta accadendo, non avesse niente a che fare.
- Ehi. – lo chiama con fare acido, - Grazie.
Mario sbuffa una risatina divertita.
- Perché? – chiede inarcando un sopracciglio.
Christos rotea gli occhi, voltandogli le spalle. Non si spreca a rispondergli, e d’altronde a Mario va bene così. Lo osserva attraversare il corridoio fino all’entrata dell’imbarco, seguito a ruota da Zlatan e da tutte le valige che lo svedese è costretto a portare per lui fra un borbottio e l’altro.
- Sai cosa pensavo? – gli chiede Davide, appoggiandosi contro la sua spalla mentre guarda André seguire Christos fin dove gli è possibile, prima di lasciargli la mano e tornare indietro per osservarlo da lontano mentre passa i controlli e imbocca il corridoio che lo porterà all’aereo, - La settimana prossima torna Hera, e sono tre-quattro giorni che Giovanni non fa che chiedermi se possiamo andare in campeggio tutti insieme. Non so da dove gli sia venuta in testa quest’idea, ma—
- Gliel’ho suggerita io. – ride Mario, voltandosi a cercare le sue labbra in un gesto discreto ma inequivocabile. Davide lo guarda, un po’ sorpreso, ma ricambia il bacio prima di ridere e scuotere mestamente il capo.
- Dimmi come si suppone che io possa resistere a un simile attacco combinato. – finge di lamentarsi con un sorriso.
- Non si suppone, perché non puoi. – ride ancora Mario, tirandoselo contro. – Allora? Ci andiamo in campeggio?
Davide si morde un labbro, guardandolo incuriosito.
- Questo vuol dire che resti? – gli chiede a bassa voce.
Mario sfiora le sue dita con le proprie in un gesto quasi casuale.
- Dici che se resto abbiamo qualche speranza? – gli chiede. Davide riflette qualche secondo e poi torna a guardarlo. Sta ancora sorridendo.
- La differenza fra allora ed adesso, è che adesso avremmo qualche speranza anche se te ne andassi di nuovo. – gli risponde.
Mario sorride più apertamente, stringendogli una mano con decisione.
- Allora resto. – conclude. La voce dell’aeroporto, con tutti i suoi piccoli e grandi rumori, il borbottio delle persone, il ticchettio di centinaia di tacchi contro il pavimento in marmo lucido, sembra complimentarsi con lui per la risposta esatta, e spingerlo ad uscire. Mario obbedisce. E nei suoi occhi non c’è più neanche un’ombra di paura.





(1) André è lui, è angolano e le Palanças Negras (Antilopi Nere) sono appunto i calciatori della nazionale angolana.
(2) Grazie a Def per il titolo, per tutto l'aiuto, per il betaggio e per il PFD :*
(3) Grazie alla Kya per il fanmix stupendo e per aver dato quella faccia a Christos ;____; *piange splendore e amore per sempre*
(4) Un bacio speciale ad Ary e Chià. Loro sanno perché. ♥
Genere: Introspettivo, Malinconico.
Pairing: Cristi/Deki/Matrix.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash, Threesome, (triplo) Drabble.
- "Dev’esserci un modo per tornare indietro, si dice alzandosi in piedi e facendo un po’ di stretching mentre Benitez batte le mani e comincia a richiamarli tutti al centro del campo."
Note: Scritta per la Notte Bianca @ maridichallenge, su prompt You're in my mind all of the time / I know that's not enough / if the sky can crack / there must be some way back / to love and only love (Electrical Storm, U2).
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
SOME WAY BACK TO LOVE AND ONLY LOVE

You're in my mind all of the time
I know that's not enough
if the sky can crack
there must be some way back
to love and only love

Seduto in panchina a bere un po’ d’acqua mentre si riposa fra la prima parte dell’allenamento e quella che a breve la seguirà, Cristian si chiede quanto tempo sia passato dall’ultima volta che ha sentito le labbra di Deki e Matrix addosso, e non riesce a ricordarlo. Sa che dev’essere un sacco di tempo, ma non riesce a recuperare la memoria del giorno, dell’ora, del momento preciso in cui è accaduto. È terribile perché, oltre a sentirsi deprivato di qualcosa che lo faceva stare incredibilmente bene, si sente anche mancare pezzi di passato, e scopre di non potersi più aggrappare a niente per fingersi più felice di quanto non sia. È per questo che, ogni tanto, non riesce a gestire la rabbia e si ritrova a rispondere male a chiunque solo perché non è abbastanza sereno da fermarsi a riflettere per scegliere un modo migliore di porsi.
Si guarda intorno e cerca le loro figure familiari sul campo. Matrix sta scherzando con Samuel, stanno un sacco per i fatti loro, quei due, ultimamente. Deki è decisamente più socievole, anche adesso è circondato da un sacco di gente, c’è il capitano, Douglas, Ivan e un bel po’ di piccini che lo stanno ascoltando mentre racconta chissà quale eroico aneddoto della sua vita, tratto probabilmente dalla biografia appena uscita e, ancora più probabilmente, del tutto inventato. Sorride un po’ al pensiero, così come sorride nel vedere Samuel e Matrix scoppiare a ridere e prendere a girare su loro stessi saltellando in quella danza che ormai è diventata un po’ il loro segno distintivo, ma il suo sorriso non può fare a meno di farsi via via più triste, e poi spegnersi del tutto.
Dev’esserci un modo per tornare indietro, si dice alzandosi in piedi e facendo un po’ di stretching mentre Benitez batte le mani e comincia a richiamarli tutti al centro del campo. Dev’esserci per forza, perché quello che avevano era così bello che l’idea di lasciarlo scivolare nel nulla gli spezza il cuore. Un modo dev’esserci. Però lui non lo conosce.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Accenni di Philippe/OMC, ma è una gen, fondamentalmente.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Gen, (accenni) Slash, (raccolta di) Drabble, What If?, OC, Spin-Off.
- "È il cinque giugno duemiladieci quando José Mourinho si presenta in Pinetina di gran corsa."
Note: LOL Dunque. Aprendo questa fic potrebbe capitarvi di sentirvi vagamente disorientati, e questo perché, anche se mi sono premurata di renderla leggibile anche a prescindere, questo non è che uno spin-off di una storia parecchio più lunga e corposa che sto scrivendo per il bigbangitalia e che pertanto non potrete vedere prima di ottobre. *cade* Mi spiace per l'inconveniente, ma le date sono quelle che sono e questo spin-off s'è incastrato troppo bene sia con il prompt famiglia della dodicesima settimana del Challenge Trimestrale @ dietrolequinte sia con i prompt numerici dell'ultimo challenge di it100, e capite, non potevo rimandare il postaggio o avrei perso entrambe le challenge "XD Una donna schiava delle community. *piange*
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NOTHING IS WHOLE AND NOTHING IS BROKEN


2010
È il cinque giugno duemiladieci quando José Mourinho si presenta in Pinetina, di gran corsa. Il centro sportivo è un cantiere aperto, ovunque gente che prepara valige per partire alla volta dei Mondiali, e se non lo fanno per i Mondiali lo stanno comunque facendo per andare in vacanza. Davide gira per i corridoi in pigiama, a piedi nudi, lo sguardo perso nel vuoto. Ha Joel alle calcagna che cerca di convincerlo a fare colazione, ma lui non sembra interessato. La partenza di Mario per Manchester, così anticipata rispetto a quello che tutti avevano creduto, l’ha scosso più profondamente di quanto lui non voglia lasciare intendere al mondo, e il fatto che fino al giorno prima anche lui fosse dato in partenza per Madrid non ha certo contribuito a rendere l’atmosfera di casa più leggera.
José inspira profondamente stringendo al petto il fagotto che porta con sé e schiarendosi la voce mentre una buona decina di facce si voltano interrogative verso di lui.
- Avvicinatevi. – dice a bassa voce, cercando di risultare rassicurante, - Devo parlarvi.

0
- Quanti anni ha? – chiede Davide, pigiando la guancia del bambino con un dito. José inarca un sopracciglio, dandogli uno schiaffetto sulla mano.
- Non ne ha. – risponde atono, - È troppo piccolo, è nato solo da qualche giorno. E non pigiarlo così.
- È così gommoso… - commenta Davide con aria vagamente sognante, - Ma è figlio suo? Non le assomiglia.
José distoglie lo sguardo. Dejan, intento ad appaiare calzini dal mucchio enorme che ingombra tutto il tavolo della zona giorno, inarca un sopracciglio.
- Non è figlio suo, vero? – dice, col tono di uno che non ha nemmeno bisogno di una risposta.
- Non è figlio mio, no. – conferma José con un sospiro, - L’ho trovato.
- L’ha t— - i calzini gli cadono dalle mani e lui si china a recuperarli, - Che cosa intende dire?
José sospira ancora, gli occhi colmi di inquietudine e incertezza. Poi porge il bambino a Davide, che lo prende tra le braccia con un urletto sorpreso e, nel momento in cui quello comincia a piangere, si mette a saltellare sul posto nel tentativo di calmarlo. Parzialmente, ci riesce. In pochi secondi, il bambino smette di frignare, anche se il labbro inferiore resta tremulo e tutto sporto in avanti, gonfio e umido e minuscolo.
- Si chiama Christos. – dice, - Davide, abbine cura per un po’. Deki. – chiama poi il serbo, cercando i suoi occhi, - recupera Javier ed Esteban. Devo parlarvi.

1
Christos è troppo piccolo perché Davide possa maneggiarlo con disinvoltura. Vorrebbe, ma non riesce. Quando stanno soli, per la maggior parte del tempo lo lascia nella culla, e lui sta seduto lì accanto. Sfoglia una rivista, gioca col DS e tiene il volume attivo anche se lo odia perché a Christos le musichette dei videogiochi piacciono. Quando ci sono i grandi intorno è sempre diverso, perché comunque si occupano sempre loro di tutto – cambiano pannolini, mettono pagliaccetti colorati, fanno bagnetti, spargono colonia baby e volteggiano per la Pinetina tenendo il piccolo fra le braccia, reggendogli la testolina minuscola nel palmo di una mano, con una confidenza che ha dell’incredibile – ma quando Davide è da solo con lui va quasi sempre nel panico. Non riesce a prenderlo in braccio neanche per allattarlo, infatti i grandi si sono dati dei turni per essere sempre presenti all’ora della poppata, e pensarci loro.
Davide non saprebbe dire perché non ci riesca, forse solo perché la prima volta che gli è stato messo fra le braccia nessuno dei due lo voleva veramente, perciò lui ha sclerato pesantemente e Christos pure. Alle volte, quando si china sulla sua culla e lo guarda lì sdraiato, gli occhi bene aperti, enormi e così scuri da non riuscire a distinguere la pupilla dall’iride, ha l’impressione che la risposta sia un’altra, ma sente di non avere ancora materiale sufficiente per comprenderla. Allunga una mano e gli pigia una guancia con l’indice. Christos cerca sempre di metterselo in bocca. Davide non può fare a meno di sorridere.

480
- Sono quattrocentottanta grammi di albumi e—
- Aspetta. – Davide lo interrompe, fissandolo negli occhi con aria allucinata, - In che senso quattrocento grammi di albumi?
Joel inarca un sopracciglio e schiude le labbra. Sembra che abbia la risposta pronta, ma all’ultimo secondo torna a tuffare il naso nel libro di cucina che ha chiesto in prestito alla signora Livia in mensa, scrutando la ricetta da vicino e seguendo le istruzioni con la punta del dito, giusto per non farsi mancare niente.
- Un secondo, - confessa leggendo, - non ne sono sicuro.
- Ma cosa non ne sei sicuro, Joey! – strilla Davide, agitando le braccia, - Eravamo partiti con “ci serviranno sei uova” e ora tu prendi e mi parli di albumi! Ma albumi cosa?! E se non ci bastano?!
- Sì, ma calmati! – strilla in risposta Joel, picchiandolo col libro sopra la testa, - Ma tu stai male, ma che problema hai?!
- Il mio problema è che abbiamo promesso di prepararla noi, la torta! – insiste Davide, massaggiandosi la testa e mettendo su un broncio da manuale, - Fra due ore qui sarà pieno di gente che festeggerà e sarà felice e Christos vorrà spegnere la sua candelina e io voglio che lui lo faccia sulla torta che noi gli abbiamo preparato.
Joel aggrotta appena le sopracciglia e poi si lascia sfuggire un sorrisetto un po’ stupito ma più che altro intenerito, e si piega verso di lui.
- Da quand’è che è diventato così importante, per te? – gli chiede con aria maliziosa, come di uno che ne sa più di quanto non voglia lasciar credere.
Davide si stringe nelle spalle e guarda altrove. Ci mette tutta la propria forza di volontà a risparmiarsi di rispondere sinceramente “da sempre”.

10
- Oh, cielo, ma quanto sei cresciuto? – la signora Milly porta entrambe le mani al viso, guardando Christos con sorpresa e gioia, - Sei un ometto, ormai! Scommetto che zio Deki deve tenerti lontano dal campetto delle bambine, perché sennò si distraggono tutte. – ridacchia.
Christos, intimidito, si nasconde dietro le gambe di José, stringendo con forza in un pugno due lembi della sua giacca. Lui gli appoggia una mano sulla testa, accarezzando i morbidi capelli ricci e scuri.
- Avanti, non fare il tonto. – ride Philippe, capitano già da quattro anni e nonostante questo ancora ansioso di mostrarsi responsabile in ogni occasione, come se, peraltro, gestire un bambino di dieci anni potesse essere una credenziale sufficiente per poter dimostrare di essere maturo abbastanza da gestire sul campo anche una squadra di undici uomini adulti. Non che José abbia poi mai davvero dubitato di lui, in questo senso, e dal momento che la sua prima scelta per la fascia, nel momento in cui finalmente avrebbe dovuto prenderla, non era più disponibile, non se n’è nemmeno mai pentito, ma Philippe ci tiene sempre a ricordargli ogni giorno che la sua scelta è stata quella giusta.
È per questo che prende Christos per mano e lo tira verso di sé, finché esce dal suo nascondiglio.
- Allora. – dice la signora Milly, piegandosi appena sulle ginocchia mentre il marito, al suo fianco, guarda Christos come splendesse di luce propria, - Ce l’hai già la fidanzatina?
Christos abbassa lo sguardo, stringendosi alla gamba di Philippe.
- No. – scuote il capo, - Io da grande sposerò lui. – afferma con convinzione, strattonando la sua camicia.
La signora Milly si rimette dritta, spalancando gli occhi e ridendo di cuore.
- Oh, così piccolo e già con le idee così chiare! – commenta divertita, - Prima o poi, Philippe, dovrai spiegargli che per una persona non è possibile sposarne più di un’altra contemporaneamente.
Philippe si stringe nelle spalle, imbarazzato, allungando la mano sinistra a stringere quella di Adriano – che, al suo fianco, ride di gusto. I loro anulari si sfiorano, le fedi tintinnano. Christos distoglie lo sguardo.

76
Il regalo per il settantaseiesimo compleanno del presidente Moratti lo porta Christos. Ha undici anni e del trofeo che ha fra le mani capisce ben poco, a parte il fatto che è enorme, ha due orecchie giganti e fa piangere tutti quelli che lo guardano. Fatica a tenerlo da solo, e per questo Philippe è al suo fianco: indossa la divisa e la fascia da capitano al braccio, e guarda dritto davanti a sé con occhi colmi di una tale fierezza che anche Christos non può fare a meno di sentirsi importante, anche se – ne è abbastanza certo – per contribuire alla gioia che in questo momento riempie la stanza e i cuori di tutti quelli che ci sono dentro.
Si ferma appena si ferma anche Philippe, ad un solo passo dal presidente, al cui fianco José sorride sereno. Moratti allunga un braccio ed accarezza il fianco della Coppa come un innamorato devoto, i suoi occhi sono dolcissimi e pieni di lacrime.
- Come faccia a sembrarmi sempre più bella, io proprio non lo so. – commenta con voce sognante. José gli appoggia una mano sulla spalla con confidenza.
- È valsa la pena di aspettare a festeggiare, no? – chiede con una mezza risata. Il presidente Moratti non riesce a staccare la mano dal trofeo, dai suoi occhi cerchiati di rughe scendono lacrime copiose che gli rigano le guance. Il cuore di Christos batte con una forza che non avrebbe mai immaginato possibile, e si vede già fra quindici anni al posto di Philippe, con quella stessa maglia, con quella stessa fascia, con quella stessa coppa, di fronte allo stesso presidente, e silenziosamente scoppia a piangere.

59
- Okay, i genitori di Christos sono stati convocati in presidenza a scuola. – annuncia teatralmente Esteban piantando ambo le mani sulla superficie in legno della scrivania nell’ufficio di José. Dietro di lui si apre a ventaglio una delegazione di giocatori ed ex-giocatori dell’Inter da fare invidia ad una partita di beneficenza.
- …cosa ha fatto? – chiede José, sbalordito, accomodandosi meglio contro lo schienale della poltrona girevole.
Esteban sospira, qualcuno dietro di lui ridacchia.
- Ha picchiato un compagno di scuola. – risponde quindi l’argentino, - Gli ha dato del negr
- Ho afferrato. – lo interrompe immediatamente José, rimettendosi dritto e poi alzandosi in piedi. – Dovremo decidere chi… forse è meglio mandare qualcuno di non abbastanza conosciuto, penso che—
- Ci vado io. – dice Davide, spuntando da dietro le spalle di Esteban e guardando José con aria decisa.
- No che non ci vai tu. – sbotta Philippe, affiancandoglisi, - Ci vado io.
- Ma questi ragazzini che prendono ed usurpano il ruolo dei loro diretti superiori? – si lagna Dejan, incrociando le braccia sul petto, - Che impressione volete dare? Ci andrò io.
- Perché naturalmente mandando te daremmo di certo l’impressione giusta. – ride Javier, rivolgendosi poi direttamente a José. – Andrò io, non c’è niente di cui preoccuparsi. Parlerò col preside e risolverò il problema.
L’incontro col preside della Scuola Media associata all’FC Internazionale è il più breve e il più affollato della storia di tutti gli incontri con tutti i presidi di tutte le scuole medie che siano mai state associate ad un club calcistico di tale livello. Si presentano in venticinque. In cinquantanove anni di vita, José Mourinho non ha mai visto una cosa simile, ma mentre Christos gliela racconta entusiasta, saltellando sul posto come il bambino che è, non può fare a meno di sorridere e concedersi un complimento distratto per aver fatto – come al solito – la scelta più giusta.

14
Christos ha quattordici anni quando si ritrova fra le mani il primo trofeo vero della sua vita, il primo che si sia guadagnato allenandosi e sudando e mettendocela tutta. L’allenatore non ha fatto che parlare con José e gli altri per tutto l’anno. “Christos è diverso dai suoi coetanei,” ha detto loro, “ha una grinta che gli altri non hanno. Questi bambini,” ha continuato indicando i suoi giovanissimi nazionali, “questi bambini giocano a calcio. Ma Christos è un calciatore. E lo è anche se è il più piccolo della squadra.”
Quella dei Giovanissimi Nazionali è la sua prima fascia da Capitano. Vuole crescere in fretta per avere quella degli Allievi, della Primavera, ed arrivare all’età di Philippe già pronto per indossare anche quella della prima squadra. Vuole quella fascia, quella maglia, quel posto. Quella coppa, perché ci pensa ancora e non riesce proprio a togliersela dalla testa.
Passa direttamente in Primavera a quindici anni. Per gli Allievi era già troppo.

33
Il giorno in cui il suo matrimonio finisce, Philippe ha trentatré anni. Nel momento esatto in cui le labbra di Christos si poggiano sulle sue, fameliche e implacabili e inevitabili come una condanna di cui si è saputo già troppo tempo fa, e che da qualche anno s’è preso ad aspettare quasi con gioia, Philippe non può fare a meno di pensare per un attimo a Gesù Cristo, alla sua morte in croce, al bacio di Giuda, e poi risolvere in un secondo che credere tanto in Dio e nei dettami della sua religione non serve veramente a un cazzo se, nel momento in cui un quindicenne evidentemente confuso dal mondo si alza sulle punte e ti bacia sulle labbra, tu non sei nemmeno in grado di respingerlo. O di opporti. O di fare qualunque altra cosa che non sia stringertelo contro, accarezzargli la schiena, sentirlo sciogliersi sotto le tue dita, invitarlo a schiudere le labbra picchiettandovi appena sopra con la lingua e poi affondare dentro la sua bocca sentendosi già caldo al punto da esplodere al solo pensiero di affondare dentro di lui fra qualche minuto.
Philippe lo sa, il suo matrimonio è finito. Christos ancora non sa che questo, per lui, non sarà sufficiente.

120
L’esordio ufficiale di Christos in Champions League dura centoventi minuti, ed è la finale del duemilaventisei. André è fuori uso dall’ultima di Campionato ed è dal giorno successivo al suo infortunio che, nonostante abbia giocato in prima squadra solo due volte, quest’anno, Christos implora José di concedergli una chance. José gli concede quella chance, dal primo minuto. “Te lo devo,” gli dice. Christos non capisce perché.
Inter e Chelsea si affrontano per i due tempi regolamentari ed anche per i due tempi supplementari. Centoventi minuti in tutto. Christos non fa che guardare la coppa sul suo piedistallo a bordocampo. Correndo sulla fascia, ogni tanto le passa così vicino che se solo allungasse un braccio la toccherebbe.
Il risultato non si sblocca. Centoventi minuti non bastano. José piange per tutto il tempo, nessuno se ne accorge, e non è per il risultato della partita.
Al centoventesimo minuto, Christos abbandona il campo. È in fondo alla lista dei rigoristi e dubita fortemente che arriverà il suo turno anche per quest’ultima fase della partita. L’Inter perde sei a cinque ai calci di rigore. Tutti ricevono delle medaglie. José indossa la propria solo per il tempo delle foto, poi la sfila e la ripone in tasca. Christos non se ne accorge. Sta fermo a qualche metro dalla coppa. Pensa di sollevare una mano ed accarezzarla, solo per vedere come si percepisce al tatto una cosa simile dopo che hai corso e sputato sangue per centoventi minuti al solo scopo di conquistarla.
Gli addetti UEFA la portano via prima che lui possa anche solo provarci.