webcomic: roxy lalonde

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Romantico, Introspettivo.
Pairing: Roxy/Dirk, Dirk/Jake.
Rating: R
AVVISI: Het, Angst, AU, Lime.
- Una sera, nel bel mezzo delle vacanze estive, Dirk si presenta a casa di Roxy e le chiede di restare. Non le spiega perché, non le racconta quello che è successo, ma d'altronde Roxy lo sa già e non ha alcun bisogno di sentirselo ripetere. Comincia così il lento avvicinamento fra Dirk e Roxy, nella situazione più insperata, eppure forse nella migliore possibile, sullo sfondo nero pece del cielo stellato estivo.
Note: Dunque, prima di tutto un enorme ringraziamento ed anche un altrettanto enorme BUON NATALE \O/ a chiunque abbia promptato questa storia (#034. [Homestuck] Roxy/Dirk, in cui Dirk finisce con la sua migliore amica perchè il suo migliore amico per cui ha una cotta non lo degna di uno sguardo e sorprendentemente funziona, più o meno.) per il Santa Fest @ maridichallenge ♥ Non solo qualsiasi occasione è buona per scrivere Dixy, ma sono proprio stata felice di sapere che esiste qualcuno oltre me che li shippa non solo in Italia, ma nel circuito di MDC, doppia gioia XD
Oltre a questo, la fic partecipa anche alla sfida della 500themes_ita su prompt #66 (Perché lo chiamano cadere) e filla il prompt #25 (Coldplay - Yellow) della mia cartellina della Maritombola, sempre @ maridichallenge. Qualcuno ha parlato di crossposting? Non so neanche cosa sia u.u;
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WINDOWS IN THE SKY

Look at the stars, look how they shine for you

La prima volta che Dirk si ferma a dormire a casa sua, hanno sedici anni ed è stata una giornata strana.
Le vacanze estive sono sempre un po' una noia, per Roxy, perché in genere già il giorno dopo la cerimonia di fine anno Jane parte in vacanza con la sua ricchissima e detestabile madre adottiva, e Dirk e Jake, be', sostanzialmente smettono di vederla. Durante tutto il resto dell'anno non è che la ignorino, ed anche d'estate non è che lo facciano apposta a metterla da parte, è solo che, finita la scuola, ci sono tutta una serie di avventure che, fra un compito in classe e l'altro, hanno dovuto per forza mettere da parte durante l’inverno, e che invece adesso non aspettano altro che loro per poter essere vissute.
Ogni anno, da quando si conoscono, ce n'è sempre stata una diversa. Le gite in barca, le escursioni in alta montagna, le settimane in camper vicino al lago, le spedizioni di caccia nella prateria. Quest'anno è stato il campeggio.
Dirk ha preparato ogni cosa nei minimi dettagli, non ha fatto che parlare dei suoi progetti per mesi prima della partenza. Roxy ha dovuto ricorrere a tutto il proprio - già di regola inesistente - autocontrollo per non strillargli in faccia che non le frega un accidente dei suoi progetti romantici insieme a Jake, che lei è l'ultima persona con la quale dovrebbe parlarne e che il fatto di aver accettato senza battere ciglio la confessione sul suo orientamento sessuale - anche se ha praticamente dovuto strappargliela di bocca con le tenaglie - e sul suo interessamento nei confronti del loro comune amico non lo autorizza a rovinarle l'esistenza parlandone proprio a lei solo perché sa che anche Jane è innamorata cotta di Jake ed a lei non potrebbe mai dirlo.
Talvolta Roxy non ne può più di essere quella dalla quale tutti gli amici vanno a confidarsi, perché è aperta e capisce e sa ascoltare e, nello stupore alcolico nel quale si ritrova un giorno sì e l'altro pure da quando ha scoperto l'armadietto dei liquori di sua madre, riesce spesso a dare anche degli utilissimi e saggi consigli. Può farlo per Jane. Può farlo per Jake. Farlo per Dirk, per ragioni assolutamente ovvie a chiunque avesse osservato il modo in cui lo guarda anche solo distrattamente per cinque minuti, è molto più difficile.
Dirk e Jake sono partiti per il campeggio due settimane fa, e per tutto il tempo Roxy ha provato in ogni modo a non pensarci, con scarsi risultati, in effetti. Giorno dopo giorno non ha fatto che rimuginare su cosa stesse accadendo in quella tenda piantata in una qualche radura in mezzo al bosco, e quanto tempo mancasse al loro ritorno da quello stupido, insopportabile viaggio.
Poi le due settimane sono finite. E Dirk è tornato. Roxy non l'ha cercato. Sapeva che l'avrebbe fatto, se lui non si fosse fatto sentire per più di due giorni dopo il suo ritorno, ma d'altronde non è mai capitato che lui la ignorasse tanto a lungo senza nessun motivo, per cui sapeva di poterlo ignorare lei senza che ciò avesse la minima conseguenza sul loro rapporto.
E infatti, qualche ora dopo essere tornato a casa, Dirk l'ha chiamata.
"Posso venire da te?" le ha chiesto, "Devo parlarti."
Roxy ha finto di non sentirsi al settimo cielo anche solo dopo aver percepito il bisogno così chiaro che gli vibrava nella voce, e l'ha aspettato a casa finché non è arrivato. Ha bevuto un goccetto, ma solo per calmare i nervi, e quando Dirk è arrivato l'ha trovata raggiante e sorridente sulla porta, le braccia tese verso di lui.
Non è stato tanto il fatto che lui l'abbia abbracciata con particolare trasporto ad insospettirla, a farle capire che qualcosa di spiacevole doveva essere successo durante il viaggio, quanto più il fatto che, anche quando lei ha mollato la presa per sciogliere l'abbraccio, la stretta nervosa di Dirk attorno al suo corpo non si è mai ammorbidita. L'ha abbracciata sulla soglia della porta per minuti interi, affondando il viso fra i suoi capelli, premendosela contro come se il bisogno di percepire addosso un po' di calore umano fosse tale da inibire anche quella sua naturale ritrosia nei confronti di tutte quelle smancerie ridicole per le quali Roxy invece era sempre impazzita.
Per tutta la giornata, Dirk non parla molto. Non racconta niente. Si limita a stare lì. Ogni tanto le pone qualche domanda - cosa hai fatto, hai letto qualcosa di nuovo, ma hai bevuto ancora? Roxy, sei scema - ma quando è lei a porne a lui, lui sembra restio a rispondere, cambia argomento, scrolla le spalle e non dice niente. Anche quando si limita a chiedergli semplicemente se almeno si siano divertiti in campeggio, Dirk non apre bocca. Le lancia una lunga occhiata che Roxy non riesce a decifrare e poi le chiede se ha qualcosa da mangiare.
Fuori si fa sera, e mentre gli prepara un paio di uova strapazzate - unica cosa che sia in grado di cucinare senza fare esplodere la cucina - Roxy osserva il buio calare sulla città e le stelle cominciare a sbocciare sul manto nero del cielo. Si accendono una dopo l'altra come le luci nelle finestre delle case. Le stelle sono come le finestre del cielo, pensa distrattamente, sorseggiando vino rosso da un bicchiere di vetro solo per provare a sentirsi un po' meno a disagio con gli occhi tristi di Dirk seduto a tavola piantati addosso; se pensa che le stelle sono come finestre, può immaginare delle case dietro ognuna di esse. Persone che vivono nel cielo, in viaggio su asteroidi e pianeti in rotazione continua attorno al Sole.
E' un pensiero consolante. Il pensiero di non essere soli. Il pensiero che, se anche nessuno dei suoi amici sembra mai disposto a scegliere lei, forse qualcuno lì nel buio prima o poi lo farà. Qualcuno si affaccerà ad una di quelle finestre e chiederà a lei, proprio a lei di trasferirsi a vivere a casa sua. Diventare anche lei una di quelle persone che vivono nel buio dietro le finestre del cielo sarebbe stupendo.
E lei è già fin troppo ubriaca.
Dirk mangia in silenzio, solo il suono della forchetta contro il piatto riecheggia nel silenzio dell'enorme appartamento vuoto, e Roxy non gli toglie mai gli occhi di dosso.
Non dice una parola neanche lei, quasi avesse paura di spezzare quell'equilibrio tanto fragile che sembra essersi creato fra loro nel corso delle ultime ore. Poi Dirk finisce di mangiare, allontana da sé il piatto, sospira e le pianta gli occhi addosso.
- Non hai intenzione di chiedermi niente? - domanda. Dal tono della sua voce, dall'espressione del suo viso, dall'intensità dei suoi occhi, Roxy non riesce a capire se sia un modo sottile per esortarla a farlo, o un'altrettanto sottile richiesta di continuare a tacere.
Scrolla le spalle, scuotendo silenziosamente il capo.
- Non sei curiosa? - domanda ancora Dirk. Roxy annuisce. - Eppure non intendi chiedermi niente. - e Roxy nega ancora.
Dirk sospira, abbassa lo sguardo, si lascia sfuggire un sorriso stanco.
- Grazie. - bisbiglia, e poi torna a guardarla. - Posso restare a dormire qui?
Roxy non prova neanche a fingere di voler dire di no.
Guardano la televisione, accucciati sul divano in salotto per tutta la sera. Fa fresco, ed hanno entrambi bisogno di un abbraccio, ma restano ostinatamente lontani l'uno dall'altra fino a quando Roxy non si altra per recuperare un vecchio plaid a scacchi, che utilizza per avvolgere entrambi. Solo allora, quasi la coperta fosse in grado di nascondere i suoi gesti ai suoi occhi abbastanza da non farlo sentire a disagio, Dirk si allunga verso di lei, stringendola teneramente fra le braccia. Roxy lo sente sospirare sulla propria pelle, e riconosce in quel sospiro arreso l'evidente sollievo che Dirk prova adesso che può annegare la propria tristezza nell'affetto di qualcun altro.
Le passa una sensazione sulla pelle. E' come un brivido premonitore, tutto a un tratto le sembra di sapere dove tutto questo sembra stare andando a parare, ma decide di non pensarci, di non analizzare troppo quello che sta accadendo. L'idea di indovinare le fa paura quanto quella di sbagliare. Ha bisogno di bere, ma sa già che non riuscirà a farlo, non finché Dirk sarà nei paraggi, almeno, e lui non sembra intenzionato ad andarsene tanto presto, né Roxy crede di essere in grado di poterlo lasciare andare via, adesso.
Gli si stringe addosso e, del chiassoso programma televisivo che stanno guardando, non sente niente. L'orecchio premuto contro il petto di Dirk, ascolta il battito regolare del suo cuore e se ne riempie dentro come della più dolce delle melodie.
Poi Dirk le sussurra qualcosa, e lei non riesce a capire le parole.
- Mh? - chiede, sollevandogli addosso un paio d'occhi enormi e persi e assonati, di fronte ai quali il broncio quasi severo di Dirk si scioglie in un sorriso dolcissimo.
- Ho sonno. - ripete lui, - Andiamo a letto?
Roxy annuisce e si tira su dal divano a fatica. Abbandonare l'abbraccio caldo di Dirk e della coperta è quasi una tortura, ma d'altronde non può rischiare che sua madre torni a casa e li trovi lì; ci sarebbe troppo da spiegare, e Roxy non è pronta per quello, per dovere ammettere di fronte a qualcuno che Dirk non è il suo ragazzo, anche se spesso si comporta come tale, e che nulla mai nella vita potrà succedere fra loro in quel senso, a dispetto di quanto lei possa desiderarlo o sperarci.
E' più facile tenere Dirk segreto.
Recupera un vecchio materasso dall'armadio e lo stende sul pavimento accanto al proprio letto. Lo sistema con un paio di lenzuola, una coperta ed un cuscino un po' spiumato, poi afferra alla cieca il pigiama e corre in bagno per indossarlo, prima ancora che Dirk possa offrirsi di lasciarle la stanza libera per qualche minuto per prepararsi per la notte.
Aspettano sua madre alzati solo per non darle il pretesto per entrare in camera e controllare che Roxy sia davvero lì. Dirk resta nascosto in camera mentre Roxy dà la buonanotte alla signora Lalonde, e le sorride quando lei rientra in camera, sospirando sollevata.
- Mi dispiace. - le dice. Lei lo guarda, curiosa. - Per tutti i problemi che ti sto dando. - spiega.
Lei vorrebbe rispondergli che non le importa niente di qualsiasi problema possa darle la sua presenza lì. Invece scrolla le spalle, sorride ironica e gli dice che fa bene a scusarsi, ma che tanto non gli servirà a niente, perché lei troverà il modo di farsi risarcire, prima o poi.
Dirk le sorride un po' tristemente, e Roxy sente qualcosa incrinarsi nel petto.
- Dovresti. - le dice.
Lei distoglie lo sguardo.
- Andiamo a dormire. - sentenzia, solo per avere la scusa adatta a spegnere la luce e non doverlo più guardare.
Nel buio, Dirk sembra quasi un sogno. Roxy lo osserva fissare il soffitto, immobile sul materasso, e pensa a tutte le volte che l'ha immaginato proprio in quel modo. Si morde l'interno di una guancia ripensando anche a tutte le volte che l'ha immaginato fare ben altro.
Si lascia ricadere sul materasso e si volta a pancia in sotto, nascondendo il viso contro il cuscino e sentendosi stupida. Vorrebbe chiedergli qual è il problema, cos'è successo in campeggio, perché si trova lì, perché ne senta il bisogno proprio adesso per la prima volta dopo anni, ma non ne ha il coraggio. In qualche modo, la consapevolezza di essere solo un ripiego, di qualsiasi tipo sia, è più sopportabile se non si sente sbattere la verità in faccia.
Aspetta di calmarsi, poi torna a guardarlo. Lo osserva dormire in silenzio per tutta la notte.
*
Capita di nuovo un paio di giorni dopo. Inatteso come sempre - Roxy ha imparato a smettere di aspettare Dirk ormai da anni; è l'istinto di autoconservazione che lo impone, non puoi continuare in eterno ad aspettare qualcuno che sai non verrà mai, non puoi continuare a soffrire per sempre per qualcosa che sai già non sarai mai in grado di ottenere - Dirk si presenta a casa sua che è già quasi notte. Dietro le lenti scure dei suoi occhiali, i suoi occhi sono ancora più scuri, e nell'osservare la linea netta e tesa delle sue labbra Roxy si sente stringere lo stomaco in una morsa di inquietudine.
- Che succede? - domanda a bassa voce, uscendo sul pianerottolo e socchiudendosi la porta alle spalle perché sua madre non si accorga di loro.
Dirk le stringe entrambi i polsi fra le mani, ma non si muove.
- Ho bisogno di te. - le dice.
- Dirk, che succede? - ripete lei, preoccupata, avvicinandosi appena. Cerca di sollevare una mano per sfilargli gli occhiali dal naso, ma le dita di Dirk sono ancora strette con forza attorno ai suoi polsi, e le impediscono qualsiasi movimento.
- Ho bisogno di te. - ribadisce semplicemente lui.
Non le chiede se può restare a dormire con lei anche quella notte, non ne ha bisogno. E' una domanda implicita che Roxy non ha alcuna necessità di sentirsi ripetere.
Apre la porta e lo lascia passare, lo osserva correre silenziosamente lungo il corridoio ed infilarsi in camera sua, e poi rientra in casa, chiudendo la porta d'ingresso con forza per coprire il rumore soffice della serrature di quella di camera sua, quando scatta.
Sua madre le chiede chi fosse, lei inventa una bugia, sua madre non le crede, ma lascia correre per non litigare. Roxy raggiunge Dirk in camera e lo trova appoggiato al davanzale della finestra, le mani strette con forza quasi disperata attorno alla balaustra, le braccia tese, le spalle forti che, sotto il tessuto sottile della maglietta di cotone così bianca che quasi risplende della luce della luna, si alzano e si abbassano al ritmo isterico di quei respiri brevi ed affannosi così tipici di chi sta cercando in ogni modo di impedirsi di scoppiare in lacrime.
E' un ritmo che Roxy conosce bene, e si avvicina a Dirk con discrezione, quasi non volesse disturbarlo. Gli appoggia una mano sul centro della schiena e strofina appena verso l'alto e verso il basso, seguendo il disegno della sua spina dorsale. Dirk lascia andare un sospiro stremato ma sollevato, quando sente addosso il calore delle sue dita.
Deve stare malissimo, e Roxy lo riconosce perché è un dolore che comprende. Tutto a un tratto, non ha più bisogno di chiedersi cosa sia successo in campeggio fra Jake e Dirk, perché è evidente dal modo in cui Dirk sta soffrendo. E' evidente che c'è stato un no, un no definitivo, ed è evidente che questo no ha spezzato tutto. Tutto quello che c'era, tutto quello che avrebbe potuto esserci. Qualsiasi cosa ci fosse, ora non c'è più, e Dirk deve imparare a convivere con un vuoto che non ha mai provato prima.
Roxy lo riempie con l'alcool. Potrebbe offrire un goccetto anche a lui.
- Dirk... - sussurra incerta, affiancandoglisi di fronte alla finestra senza mai spostare la mano dalla sua schiena, - Lo sai che puoi restare tutto il tempo che vuoi.
- Solo stanotte. - si affretta a dire lui, arrossendo appena e voltandosi a guardarla con panico palese negli occhi, - Non ti disturberò oltre.
Roxy si morde un labbro quando sente le lacrime cominciare a pungere sotto le ciglia. Abbassa il viso e gli si avvicina, strusciandosi contro il suo petto come un gattino in cerca di coccole.
- Sei uno scemo. - bisbiglia, piangendo lei tutte le lacrime che Dirk si rifiuta di versare.
Lui la stringe in un abbraccio caldo, poggiando il mento sulla sommità della sua testa e continuando a guardare le stelle che disegnano costellazioni complicate sul nero uniforme della volta celeste.
- Non avrei mai voluto farti piangere, Roxy. - le dice a bassa voce, accarezzandole piano la schiena.
Con gli occhi ancora pieni di lacrime, Roxy getta un'occhiata fuori dalla finestra, cercando di indovinare il punto esatto sul quale si perdono anche gli occhi di Dirk, ma le lacrime diluiscono le stelle in pozzanghere di luce i cui contorni si sfumano gli uni negli altri, trasformandosi in una specie di velo opaco oltre il quale la notte resta solo appena intuibile.
- Avresti dovuto pensarci prima. - risponde.
E' l'unico colpo basso che si concede.
*
Apre gli occhi su di lui, quella mattina. E' la prima volta che dividono il letto, da quando si conoscono. Roxy non l'aveva mai creduto possibile. E' una fantasia che si è concessa spesso proprio perché ha sempre creduto fermamente nella sua assurdità. Lei e Dirk sono sempre stati vicini, fra loro è scattata fin da subito una confidenza speciale, una capacità di condivisione che non dividono con nessun altro, ma non sono mai stati propriamente intimi, mai al punto da dormire insieme, almeno.
La sera prima, Dirk è scivolato sotto le lenzuola al suo fianco senza chiederle niente. Si è sollevato dal materasso per terra sul quale si era girato e rigirato per tutta la mezz'ora precedente e poi l'ha guardata dall'alto, in silenzio, per minuti interi. Roxy non ha idea di cosa sia successo nel corso di quei minuti, non ha idea di cosa significassero le ombre che si muovevano dietro gli occhi di Dirk, lente come lo scorrere dei secondi. E' convinta di avere avuto una conversazione silenziosa con lui, ma non ha idea di cosa potrebbe avergli detto. D'altronde, lei non fa che avere conversazioni con le persone senza mai sapere davvero cosa sta dicendo, per cui non c'è davvero niente di cui stupirsi.
Poi, Dirk ha sollevato il lenzuolo e si è sistemato accanto a lei. I suoi occhi parlavano di un desiderio sordo e ovattato come sanno essere certi tipi di dolore. Il respiro appesantito dalle lunghe apnee alle quali Roxy si forzava per cercare di non produrre alcun suono, neanche il più lieve, Roxy è rimasta a guardalo mentre scivolava sul materasso, avvicinandosi a lei. Poi si è sentita stringere in un abbraccio caldissimo, ed ha chiuso gli occhi.
Non era mai stata così bene. Non è stata solo felicità, è stato qualcosa in più. Il contatto, la condizione assoluta degli spazi, una specie di passaggio di emozioni, una trasmissione per osmosi dei loro sentimenti, come i loro corpi ne fossero ormai pieni fino all'orlo ed avessero necessariamente bisogno di mescolarli insieme per sopportarli.
Si sveglia prima di lui, non è ancora nemmeno l'alba, e lo guarda a lungo. Dirk dorme pacifico al suo fianco, un braccio mollemente appoggiato sulla curva del suo fianco, l'altro a farle da cuscino sotto il capo. Non si è mosso di un millimetro, durante la notte.
Solleva un braccio, incastrandolo sotto il suo per quanto può, e sfiora il suo profilo con la punta delle dita. La fronte coperta dalla frangetta spettinata bionda, gli occhi chiusi, le ciglia che tremano appena, la linea dritta e perfetta del naso dalla radice alla punta, il disegno elegante delle labbra dischiuse, la curva del mento, la linea più netta e forte della mascella, e poi la curva ipnotica dell'orecchio, la peluria bionda sofficissima delle basette.
Lo vuole così tanto. Non ha mai voluto niente con tanta intensità. Lo vuole così tanto che fa male.
Quasi rispondendo ad un richiamo telepatico, una sorta di muta richiesta d'aiuto che Roxy non si accorge nemmeno di stargli inviando, Dirk apre gli occhi e la guarda. Roxy gli sta ancora accarezzando il viso, quando succede, ma il modo in cui i suoi occhi ancora velati di sonno la sfiorano la fa rabbrividire. Si morde il labbro inferiore e gli ricambia l'occhiata, sentendo il desiderio crescere dentro e farsi ingombrante, spingendo fuori tutto il resto.
Dirk non aspetta di sentirla gemere per la frustrante attesa, non aspetta di vederle sbocciare una lacrima minuscola agli angoli degli occhi. Si sporge verso di lei, appoggiando le labbra sulle sue.
Non è neanche un vero bacio. E' come una carezza labbra contro labbra. Le loro bocche si sfiorano e non c'è niente di intimo in quel contatto. Ed allo stesso tempo è la cosa più intima che abbiano mai condiviso con qualcuno.
Dirk si allontana da lei con calma, nei suoi occhi non c'è niente di diverso. Forse sono solo un po' più chiari, più limpidi.
Roxy stringe convulsamente le dita attorno al tessuto leggero della maglietta che indossa, e nasconde il viso contro il suo petto, singhiozzando più silenziosamente che può.
- Non farlo. - gli sussurra a fatica, - Per favore, non prendermi in giro. Questo non farlo.
Dirk la abbraccia stretta e lei si accorge di scomparirgli fra le braccia. E' la prima volta che se ne accorge davvero, che si accorge di quanto piccola si sente, in effetti, quando sta con lui. Non è solo una questione di dimensioni. C'è qualcosa, nel modo in cui Dirk la tratta, qualcosa nel modo in cui la guarda e la sfiora, perfino qualcosa nel modo in cui si affida a lei, qualcosa che la fa sentire minuta, fragile, esposta. Vorrebbe chiedergli "è lo stesso, per te? Ti senti anche tu così? Fa anche a te tanto male? E se sì, come resisti? Come lo sopporti?"
Dirk le sfiora le guance con le labbra, le chiede scusa, le dice che non vuole farle del male, le promette che starà attento. Lei vorrebbe avvertirlo di non farle promesse che non potrà mantenere, soprattutto visto che questa promessa destinata ad infrangersi è destinata anche a spezzarle il cuore. Ma la verità è che non le importa più neanche della possibilità di stare male, vuole solo continuare a lasciarsi abbracciare così. E se Dirk le proponesse un bacio, un bacio soltanto, da scontare con indicibili sofferenze per tutto il resto della sua vita, Roxy accetterebbe senza pensarci neanche un secondo.
*
Aspetta due giorni. Dirk non si fa vedere, non la chiama, non le manda messaggi sul cellulare, non la contatta neanche via chat. Non è un comportamento inusuale, tutt'altro, non sono mai stati abituati a sentirsi particolarmente spesso, ed in un qualsiasi altro momento Roxy non si sarebbe preoccupata più di tanto, non avrebbe nemmeno dato peso a quell'improvvisa sparizione. Ma questo non è un momento come gli altri, e quindi Roxy si preoccupa, ma mentirebbe se dicesse che è solo la preoccupazione a spingerla verso l'appartamento in cui Dirk vive con suo fratello - almeno in teoria; nella pratica, suo fratello è spesso in viaggio, e quindi Dirk vive sostanzialmente da solo - in centro città, alla sera del terzo giorno di assenza.
Dirk apre la porta e, nel vederla oltre la soglia, si irrigidisce immediatamente, stringendo una mano attorno allo stipite della porta e un'altra attorno alla maniglia in un gesto improvviso e nervoso, quasi non intenzionale. Roxy lo percepisce, percepisce la sua sorpresa e il suo disagio e la prima cosa che pensa è "ecco. Ecco, c'è Jake. E' qui. Hanno fatto pace. Ed io sono così idiota che non riesco neanche a farmi pena da sola".
Poi il momento passa, Dirk si scosta dall'uscio e la lascia entrare. L'intero appartamento è avvolto nell'oscurità e nel più assoluto silenzio. Jake non c'è, e Roxy si volta a guardare Dirk con aria interrogativa, chiedendogli implicitamente quale fosse il problema, se non è in compagnia, ma lui non la sta guardando, e non chiude la porta, come se stesse cercando di mantenere quello scambio il più breve possibile.
- E' successo qualcosa? - le chiede, ed in un primo momento lei questa domanda non la capisce neanche. Poi realizza che Dirk sta sottilmente cercando di dirle che non dovrebbe presentarsi all'improvviso a casa sua se non per qualche emergenza, ed in quest'ottica una domanda del genere è decisamente più comprensibile. "Che cosa ci fai qui, Roxy? Qual è l'emergenza?"
- No. - risponde lei, abbassando lo sguardo. Infila le mani nelle ampie tasche della giacca, nascondendosi a metà dietro il colletto chiuso e sollevato. - Volevo soltanto assicurarmi che stessi bene. Non mi hai chiamata.
Lui si morde con forza l'interno di una guancia, ostinandosi a non guardarla e stringendo ancora di più la presa attorno alla maniglia.
- Sto bene. - le dice, deglutendo a fatica, - Non preoccuparti.
Lei continua a guardarlo, guarda le dita attorno alla maniglia che tremano appena, poi guarda di nuovo lui.
- Dirk, non me ne vado. - dice quindi, - Non so se stai aspettando che lo faccia o se sei solo sorpreso perché sono venuta senza avvisare, ma non me ne vado.
Dirk si lascia sfuggire un sospiro arreso, scuotendo impercettibilmente il capo e rassegnandosi a chiudere la porta, e poi anche a guardarla. Lei gli offre un sorriso di scusa, stringendosi nelle spalle, e l'espressione di Dirk si addolcisce, mentre lui si porta una mano al viso e sbuffa stancamente.
- Roxy, perché sei qui? - le domanda. Lei abbassa lo sguardo, arrossendo stupidamente.
- Non è evidente? - ritorce. Sulle labbra di Dirk sboccia un gemito addolorato, mentre le si avvicina e la stringe in un abbraccio, ondeggiando appena, come a volerla cullare. Lei appoggia il capo al suo petto, stringe l'orlo della sua maglietta fra le dita e chiude gli occhi, lasciandosi coccolare e concedendosi un sorriso quasi soddisfatto.
- Non è che non volessi vederti. - le sussurra addosso lui, mentre lei percepisce tutti i suoi muscoli e i nervi tesi sciogliersi grazie al semplice contatto dei loro corpi, - Credimi. Sono rimasto qui e mi sono tenuto a distanza proprio perché volevo.
- Questo è semplicemente stupido. - risponde lei, sollevando finalmente le braccia per girargliele attorno alla vita, aggrappandosi a lui.
- No, non lo è. - si ostina lui, scuotendo il capo, - Ho combinato un casino, l'altra volta. Non avrei dovuto baciarti.
La sola parola è sufficiente per provocarle un brivido. Non si aspettava che Dirk ne parlasse, ancor meno che lo facesse in termini tanto espliciti. Nasconde il viso contro il suo petto, scuotendo il capo.
- Perché dici così? - bisbiglia con un filo di voce.
- Perché non può in alcun modo finire bene. - risponde lui, cupo, ma il tono della sua voce parla di qualcosa di diverso, e Roxy non riesce a capire se voglia semplicemente crederci perché sa che sarebbe più facile lasciar perdere, o se soffra perché sa davvero che non può che andare male, e vorrebbe che invece esistesse qualche speranza di far funzionare tutto.
Roxy non sa cosa pensare di quello che sta succedendo. Non ha la minime idea di cosa stia accadendo davvero, dopotutto, e non le importa. Non ha mai riflettuto troppo sugli avvenimenti, specie quando già accaduti. Si può riflettere prima, ma dopo aver già fatto qualcosa pensarci e ripensarci non serve a niente. Loro, be', quello che dovevano fare l'hanno già fatto. Tornare indietro non è un'opzione, e se Dirk si aspetta che lei dimentichi e basta, se Dirk si aspetta che lei possa credere che anche lui sia capace di dimenticare e basta, è fuori strada.
- Non voglio farti male, Roxy. - le sussurra a bassa voce. Roxy si scosta appena per cercare il suo sguardo. Non lo trova, perché Dirk ha gli occhi chiusi. Gli occhi chiusi e le sopracciglia aggrottate nello sforzo di conciliare il bisogno che ha di starle accanto con quello che sente di dover provare ad allontanarsi da lei. - Non possiamo farlo. Non posso farti questo. Distruggo tutto quello che tocco. Non voglio distruggere te.
Roxy solleva le braccia e gli stringe il viso fra le mani, avvicinandosi fino a sfiorarlo col proprio respiro.
- Ti sto chiedendo io di farlo. - dice in un gemito flebilissimo.
Dirk schiude le palpebre e le lancia un'occhiata offuscata di voglia, e Roxy sa che non è voglia di lei. E' voglia di calore, desiderio d'amore. Se è tutto quello che può dargli, se è tutto quello che Dirk vuole da lei, lei vuole darglielo. Pretende di darglielo. E' una sua scelta e non lascerà che Dirk gliela porti via.
- Sei pazza. - le sussurra Dirk sulle labbra. Però la bacia. E stavolta non è solo una carezza.
*
Si baciano a lungo. In un primo momento ne hanno come fame, si baciano confusamente, affannosamente, assaggiandosi con gusto, assaporandosi a lungo. Dirk stringe fra i denti il labbro inferiore di Roxy, lo morde appena, poi lo lascia andare e lo accarezza con la punta della lingua, dandole i brividi e costringendola ad un gemito arreso. Lei lo sfiora con le mani bene aperte da sopra la maglietta, insegue la sua lingua con la propria, la stringe fra le labbra e succhia. Dirk ansima fra le sue labbra, i loro respiri si mescolano mentre i loro corpi perdono i loro contorni definiti.
La luce in camera di Dirk resta spenta. La notte scivola loro addosso discreta e silenziosa, mentre un bacio dopo l'altro il loro desiderio si sazia. Dirk resta disteso su di lei ancora un po', guardandola da vicino. Sembra riuscire a vederla nonostante l'oscurità, come la debole luce della luna e delle stelle fosse abbastanza per guidare i suoi occhi e le sue dita mentre scivolano con uguale gentilezza lungo il profilo del suo viso.
La sfiora come fosse fatta di porcellana, e Roxy si sente importantissima e insignificante. I sentimenti che si agitano nel fondo del suo petto sono confusi e contraddittori, e di nuovo ha quella sensazione, come di potersi sentire tutto in una volta, come spesso le capita quando è con Dirk.
- Io non ti merito. - le sussurra lui, dolcemente, rapito dai suoi lineamenti. Roxy non si è mai sentita guardata in questo modo. Nessuno l'ha mai guardata così, Dirk non l'ha mai guardata così prima d'ora. I suoi occhi scuri parlano di un mistero quasi sacro. Dirk la guarda, e Roxy si sente un miracolo. - Sei bellissima.
E lei sente lo stomaco stringersi in una morsa dolorosa e disperata. Stringe la presa delle dita attorno alle sue spalle forti, le sente tese sotto i polpastrelli, muscoli e nervi ed ossa robuste, e vorrebbe dirgli Dirk, Dirk, Dio, ma tu ce l'hai la più pallida idea di quello che mi fai?
Non sa quante volte deve essersi fermata ad osservarlo come lui sta osservando lei adesso. Quando gli chiedeva aiuto per i compiti di matematica, fingendo di non saperli svolgere solo per poterlo tenere con sé un po' più a lungo. Quando lo osservava chinarsi sul quaderno e tracciare velocemente file infinite di numeri sulla pagina a quadretti, le dita che si muovevano veloci stringendo la penna, il polso dal movimento elegante che ne dirigeva i movimenti. Tutte le volte che lui la riaccompagnava a casa, a tarda sera, e lei si sorprendeva ad osservare la linea del suo collo nella luce gialla dei lampioni lungo la strada, ritrovandosi ad arrossire quando lui diceva qualcosa e lei osservava il suo pomo d'Adamo sollevarsi e poi abbassarsi ritmicamente quando deglutiva. Tutte le volte che è rimasta immobile per minuti interi ad osservare i contorni delle sue labbra, a chiedersi quale potesse essere il suo sapore, se mai avrebbe potuto assaggiarlo.
Riconosce il proprio sguardo in quello di Dirk e vorrebbe dirgli che lei si è sentita così per anni, prima di questo momento. Vorrebbe chiedergli "non ti brucia da dentro? Non ti fa paura? Non ti senti in pericolo? Non ti senti spacciato?".
Lui le sfiora un'altra volta le labbra con le proprie, e poi si sistema disteso al suo fianco, stringendola fra le braccia. Roxy si volta, aderendo con la schiena al suo petto e nascondendo il viso dietro ai suoi avambracci incrociati. Chiude gli occhi sentendosi meschina, perché sa che Dirk non la ama, che sta solo riempiendo un vuoto, e che lei gli sta rubando amore senza meritarselo. Chiude gli occhi sentendosi felice, perché in fondo è quello che ha sempre voluto, ed è più di quanto abbia mai osato sperare di ricevere.
*
Quando succede, non ha alcun bisogno di sentirsi spiegare perché. Era semplicemente inevitabile, e lei, sia da lucida che da ubriaca, è troppo intelligente per potersi concedere illusioni e speranze stupide quanto inutili.
Prima o poi, Dirk e Jake dovevano rivedersi. Doveva accadere per forza, per caso o per volontà che fosse. Doveva accedere, e doveva accadere il prima possibile, senza lasciar passare troppo tempo, prima che le loro vite si aggiustassero adeguatamente per fare a meno l'uno dell'altro come capita sempre quando perdi qualcuno.
Roxy non si è mai illusa che questo potesse non accadere. Voleva che accadesse, anzi, è fin dal primo giorno, fin da quando le labbra di Dirk si sono posate per la prima volta sulle sue, che prega perché accadesse il prima possibile.
Lei capisce che è successo, ma non perché Dirk lo racconti. Anzi, quando arriva a casa sua quel giorno, poco dopo pranzo, ha la faccia di uno che di parlare non ha per niente voglia. Ha la faccia di uno che vuole soltanto dimenticare il più in fretta possibile.
Quando le posa gli occhi addosso, ha la faccia di uno che ha appena trovato il suo incantesimo per dimenticare.
La stringe fra le braccia, tirandosela contro con slancio, cercando le sue labbra, affamato, e baciandola quasi con violenza.
Poi, per la prima volta da quando questa storia è cominciata, interrompe il bacio e scivola lungo il suo collo con le labbra ancora umide.
E' lì che Roxy lo capisce. Non avrebbe potuto capirlo tanto bene neanche se Dirk l'avesse urlato. Ma stringe i denti quel tanto che basta per superare quel momento di tristezza e delusione che la coglie sempre quando si rende conto che Dirk non è mai davvero lì per lei, e poi la sensazione calda e piacevole delle labbra di Dirk sulla sua pelle si fa forte abbastanza da schermare qualsiasi pensiero negativo, e lei chiude gli occhi e piega il capo per invitarlo a fare di più.
Le braccia di Dirk si stringono con fare possessivo attorno alla sua vita, le quasi inciampa sui propri stessi piedi mentre gli si appoggia addosso, e si lascia sfuggire un sorriso quando lo sente rabbrividire nel momento in cui le sue curve inevitabilmente si premono contro gli spigoli e le linee nette del suo corpo.
E' come azionare un meccanismo indipendente, e Dirk si muove come non fosse più nemmeno se stesso. Svuotato di tutto ciò che lo rende chi è, quella malinconia, quella tristezza profonda di chi vive nella persistente condizione dell'essere destinato per sempre ad amare alla follia qualcuno che non lo ricambierà mai non perché non voglia ma perché non ne è capace, Dirk è solo voglia primordiale, è solo basilare, quasi infantile desiderio di calore.
La spoglia perché ha bisogno del calore della sua pelle. La bacia perché ha bisogno di quello della sua bocca. Scivola con un gemito arreso dentro di lei perché ha bisogno di quello più avvolgente del suo corpo.
Roxy manda giù tutto. Manda giù la tristezza, manda giù la consapevolezza spaventosa di non essere più nemmeno lì con lui, manda giù le lacrime, il dolore, la paura, i pensieri tristi, quelli cattivi, quelli così pieni di rabbia da bruciarle sotto le palpebre come tizzoni ardenti. Manda giù lui fino a quando per lui non è abbastanza, e quando poi lui si svuota dentro di lei, ed assieme all'orgasmo scivola fuori dal suo corpo anche il bisogno, lasciando nuovamente spazio a sufficienza perché Dirk possa ritrovare se stesso e rendersi conto di ciò che è appena successo, manda giù anche ogni singola lacrima del pianto in cui scoppia quando le frana addosso e si stringe a lei, singhiozzando disperato come un bambino posto di fronte all'evidenza di aver combinato un guaio troppo grosso per poter essere sistemato o nascosto a mamma e papà quando saranno tornati a casa.
- Scusa. - le sussurra a fatica, strofinando il viso contro la curva del suo collo, - Dio, scusa.
Lei gli accarezza i capelli, sussurrando stupidaggini per aiutarlo a calmarsi. Non gli chiede se l'ha visto, gli chiede come sta. E quando Dirk risponde "bene", capisce che lui lo odia proprio perché sta bene. Perché Jake è fatto così. Vuole bene a tutti, ma il suo affetto è superficiale. Nessuno è indispensabile, nella sua vita. E questo è il motivo per cui Dirk lo ama, ma anche quello per cui lo odia, e fino a prima di rassegnarsi al fatto che questo sarebbe stato il motivo per cui non avrebbero mai potuto stare insieme, era sempre l'amore a pesare di più. Adesso, però, l'evidenza è tale da impedire a Dirk di potersi illudere ancora. E la bilancia ha cominciato a pendere dall'altro lato.
A Roxy dispiace, perché sa che questa non è solo la fine di Dirk e Jake, ma un po' la fine di tutti quanti loro, o almeno di quello che sono stati fino ad adesso, un quartetto indivisibile basato su un equilibrio spaventosamente precario.
Sa però anche che non c'è alternativa rispetto a questa strada. Dirk non smetterà di amare Jake fino a quando non sarà riuscito ad odiarlo. E non riuscirà a stare bene finché non sarà riuscito a smettere di amarlo.
Come sempre, Roxy decide di mettere lui prima di tutti gli altri, ed accetta le conseguenze di questa scelta sapendo che non riuscirà a pentirsene neanche se avrà motivo di farlo.
*
A Dirk non piace granché stare in casa propria da solo. E' molto legato a suo fratello, ma per forza di cose non può passare con lui tanto tempo quanto vorrebbe, e stare solo in casa gli ricorda questo fatto in maniera troppo intensa per poter essere sopportata, che poi è il motivo per cui trovare Dirk in casa, fino a poco tempo fa, era del tutto impossibile: ogni volta che aveva voglia di uscire, cosa che accadeva molto più spesso di quanto non avrebbe dovuto, gli bastava chiamare Jake per trovare un compagno sempre disponibile ad accompagnarlo nelle lunghe scorribande prive di una reale utilità per tutta la città; oggi, naturalmente, è tutto diverso, oggi Jake non è più disponibile, oggi Dirk neanche si sognerebbe di chiamarlo, e perciò trovarlo a casa, puntualmente di umore esecrabile, è quasi scontato. Quando Roxy arriva sono quasi le otto di sera. Si sforza di sorridere nonostante il suo muso lungo, e solleva il cestino di vimini coperto da un chiassoso quanto ampio tovagliolo a quadretti colorati, dondolandoglielo davanti al viso.
- Hai sbagliato porta, Cappuccetto Rosso, la nonna sta all'interno ventisei. - la prende in giro lui con un sogghigno divertito.
Lei ride divertita, colpendolo col cestino in pieno naso.
- Scommetto che non hai ancora neanche mangiato, oggi. - dice.
- Ed io scommetto che non c'è niente di commestibile, in quel cestino. - ribatte lui, inarcando ironico un sopracciglio.
Lei gli risponde con una linguaccia.
- Ha preparato tutto Janey, scemo. - sbuffa. Non le sfugge il modo in cui i lineamenti di Dirk si irrigidiscono all'istante, quando la nomina. Non le sfugge neanche - e come potrebbe? - il modo in cui distoglie lo sguardo, puntandolo ostinatamente su un punto a caso del pavimento, giocando nervosamente con l'orlo della canottiera che indossa quando le chiede se l'ha vista.
Roxy annuisce lentamente.
- Siamo uscite insieme, un paio di giorni fa. Sapeva già tutto. - Dirk le lancia un'occhiata inquisitoria, e lei ridacchia, - Jake le aveva già detto tutto. L'ha tipo beccata in chat e le ha raccontato ogni cosa, chiedendole consigli di qua e consigli di là.
Dirk abbassa nuovamente lo sguardo, e Roxy legge il senso di colpa farsi strada nei suoi occhi. Entrambi sanno che Jane ha una cotta spropositata per Jake fin da quando erano solo ragazzini, e Dirk non può fare a meno di sentirsi come se, dichiarandosi a Jake, avesse distrutto tutto quanto.
- Sta' tranquillo. - lo rassicura lei, sorridendo dolcemente, - Conosci Jane. L'ha mandato a quel paese e sembra che adesso siano in rotta anche loro.
Dirk aggrotta le sopracciglia e stringe i pugni.
- Ben gli sta. - commenta, - E' una persona orribile.
E' la prima cosa che si lascia sfuggire con lei sull'argomento.
Roxy sospira, si avvicina, chiude la porta, posa il cestino sul pavimento e lo allaccia al collo, abbracciandolo stretto.
- Non lo pensi davvero. - dice. Dirk le ricambia l'abbraccio e sospira, senza confermare né smentire, e Roxy sa che non parla solo perché lui per primo non sa se lo pensa davvero o meno. Odio e amore si stanno ancora mescolando in un vortice senza senso dentro di lui. E' ancora troppo presto. Un giorno Roxy gli chiederà "è passata?", e Dirk sarà in grado di risponderle sì o no. Ma non adesso. Chissà quando. Non adesso.
- L'hai visto? - le chiede invece, a bassa voce, come si vergognasse.
Lei sorride appena e scuote il capo.
- E' partito, - dice, - o almeno così mi ha detto sua nonna quando ho chiamato a casa sua.
- Cosa gli avresti detto, se ci fosse stato? - chiede ancora Dirk, e lei scrolla le spalle.
- Non lo so, le solite cose, penso. Avremmo cazzeggiato e parlato di telefilm e fumetti.
- E non gli avresti detto di noi?
- Nah. - Roxy ridacchia, divertita e un po' imbarazzata, - Non avrebbe avuto senso. Ma ora giuro che se continui a chiedermi di Jake giro i tacchi e me ne vado.
Dirk ride, scuotendo leggermente il capo. Si scusa, la bacia lievemente sulle labbra e poi indica il paniera per terra.
- Con quello che ci facciamo? - domanda.
Roxy risponde sorridendo.
- Un picnic.
*
Dentro il cestino ci sono dei panini buonissimi, riempiti fino a gocciolare delle salse speciali di Jane. Nessuno ha idea di come faccia a farle così buone, ha mucchi infiniti di ingredienti segreti dei quali non parla mai a nessuno, ed onestamente a nessuno interessa scoprire di che si tratta, finché Jane continua ad usarli.
Dirk e Roxy li hanno mangiati tutti, chiacchierando del più e del meno senza forzature e lasciandosi coccolare dal rassicurante silenzio che ogni tanto riuscivano a condividere.
Il cielo è una macchia blu uniforme. Non c'è una nuvola, non c'è neanche la luna. Solo un tappeto infinito di stelle su un fondale tanto scuro e liscio da sembrare finto. Una coperta di velluto.
Appena finiscono di mangiare, si sdraiano vicini sul plaid a scacchi che Dirk ha portato con sé quando sono saliti sulla terrazza in cima all'edificio per quell'improvvisato picnic all'aperto, e Roxy si lascia libera di vagare fra le costellazioni, come le è sempre piaciuto tanto fare. E' differente, però, sapendo di avere Dirk al proprio fianco. Percepisce il calore della sua pelle sulla propria, e le stelle non sembrano più così distanti come sono sempre state. Più che finestre chiuse oltre le quali osservare vite lontane che non le appartengono e non le apparterranno mai, sembrano piccole fiammelle nell'oscurità. Tremano nel freddo e nel vento della notte, ma continuano ad illuminare la strada di chiunque cammini al loro chiarore. E' un pensiero consolante proprio come lo era quello delle finestre, ma lo è in modo diverso. C'è un differente tipo di speranza, perché ora sa che essere scelta non è più un sogno impossibile, ma una possibilità concreta.
- A cosa pensi? - le domanda Dirk. Roxy sente la sua mano cercare alla cieca la propria, e sorride mentre le loro dita si intrecciano.
- Niente di che. - mente imbarazzata, - Solo che essere qui con te così è proprio strano. - ride.
- Sì, vero? - ride anche Dirk, lanciandole un'occhiata divertita e poi tornando a guardare le stelle. - Sai cosa, è che non ho mai visto nessuna alternativa che non fosse lui, capisci? - riflette ad alta voce, lo sguardo che si incupisce appena, - Ho deciso anni e anni fa che sarebbe stato lui o nessuno. Era perfetto-- cioè, mi sembrava perfetto. Mi sembrava di non potermi accontentare di nessun altro. Però adesso ci penso e mi chiedo... ma che vuol dire accontentarsi? E credo di essermi già accontentato abbastanza.
Roxy si avvicina ancora un po', voltandosi su un fianco per scrutare il suo profilo nel buio calmo della notte.
- Era accontentarsi, quello? - chiede piano.
- Ne sono convinto. - annuisce Dirk. - Io ho semplicemente visto lui, e ho deciso che non avrei potuto aver niente di meglio. Così facendo, non ho neanche provato a cercare qualcosa di meglio, dando per scontato che non esistesse. Ma sai, Roxy... - sospira faticosamente, guardando in basso per qualche secondo e poi tornando a fissare il cielo, - Sono stato così male. Per tutti questi anni, aspettando che lui mi notasse. Che mi desse qualche... non lo so. Qualche speranza di credere che avrei potuto significare qualcosa, davvero qualcosa per lui, alla fine. Ed ora che sto bene guardo indietro a tutto quel dolore sprecato, e tutto il tempo che ho buttato via, e penso a quanto sono stato cieco e stupido, e credo davvero di essermi accontentato di lui perché era più facile restare ad aspettarlo invece di fare qualcosa per me stesso. Per far felice me stesso.
Roxy gli posa un bacio leggero sulla spalla scoperta, e poi gli sorride addosso, strofinando la punta del naso contro la sua pelle, incapace di trattenere un sorriso per il ridicolo tatuaggio che la copre in quel punto.
- Sei felice, adesso? - gli chiede senza nessuna pretesa di sentirgli rispondere che lo è, ed è stato solo grazie a lei.
Dirk piega le labbra in un ghigno furbo, lanciandole un'occhiatina e premendole un dito contro la punta del naso.
- Dai che lo sai già. - le risponde. E le stelle brillano per un attimo più intensamente, come a dargli ragione.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Roxy/Dirk.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Angst, Het, Onesided, Flashfic.
- "Continuerebbe a farlo anche per tutta la vita, se dovesse, continuerebbe a recuperare Roxy ubriaca dagli angoli delle strade fino al giorno della propria morte, continuerebbe a cercarla nell’oscurità dello spazio profondo quando vola via nel sonno ogni notte, su Derse, finché gli restasse fiato abbastanza in corpo per farcela, continuerebbe a farlo senza dubbio, se dovesse, se Roxy non gli lasciasse altra scelta, ma se non dovesse più farlo, se non dovesse, sarebbe tutto diverso."
Note: Scritta in occasione della VI Notte Bianca, sul prompt "Something 'bout lonely nights and my lipstick on your face" (verso palesemente tratto da You and I di Lady GaGa).
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
IN TOO DEEP

Roxy si regge a malapena in piedi. Trema come una foglia presa a schiaffi dal vento, e Dirk riesce a stento a guardarla.
- Devi smetterla. – le dice, trascinandola delicatamente all’interno dell’appartamento vuoto e spaventosamente incasinato, - O forse devo smetterla io. – aggiunge a bassa voce, tirando un calcio ad un paio di peluche che ingombrano il corridoio.
Roxy lascia andare una risata lieve, leggera come aria calda.
- Niente paternali. – biascica, le lettere che inciampano le une sulle altre, mentre le si annoda la lingua, - Volevo solo divertirmi un po’.
- E questo sarebbe divertimento? – sbuffa Dirk, sollevando gli occhi al cielo mentre cerca di calmarsi. Continuerebbe a farlo anche per tutta la vita, se dovesse, continuerebbe a recuperare Roxy ubriaca dagli angoli delle strade fino al giorno della propria morte, continuerebbe a cercarla nell’oscurità dello spazio profondo quando vola via nel sonno ogni notte, su Derse, finché gli restasse fiato abbastanza in corpo per farcela, continuerebbe a farlo senza dubbio, se dovesse, se Roxy non gli lasciasse altra scelta, ma se non dovesse più farlo, se non dovesse, sarebbe tutto diverso.
- Per me lo è. – ghigna Roxy, lasciandosi condurre fino in camera propria ma non rendendogli il compito facile neanche per un secondo, tutto il suo corpo pesante come un sasso, nonostante sia così sottile.
- Davvero? – insiste Dirk, aggrottando le sopracciglia mentre la solleva e la stende sul materasso, - Ubriacarti fino a non renderti più conto di quello che ti succede attorno, di dove sei, perfino di cosa senti, questo è divertente?
Roxy allunga una mano in un gesto fulmineo di cui Dirk si accorge con estremo ritardo. Lo afferra per la scollatura della maglietta, lo trascina in basso, e nel movimento gli occhiali gli scivolano giù dal naso, rotolando lungo il bordo del materasso per poi finire per terra.
Le labbra di Roxy contro le sue sono dolci, sanno di lucidalabbra alla fragola. Sono appiccicose. Portano addosso la traccia di quel bacio anche dopo che Roxy lo lascia andare, lasciandosi ricadere sul cuscino e guardando altrove, le sopracciglia piegate verso il basso, i lineamenti tesi, le labbra strette in una linea dura e carica di dolore inespresso.
- È sempre meglio dell’alternativa. – dice a bassa voce.
Dirk deglutisce. Manda giù sapore di fragola, alcol e Roxy. Sospira, socchiudendo gli occhi e sistemandosi al suo fianco. Si accuccia contro di lei, come se fosse lui ad avere bisogno di protezione o consolazione.
- Per stanotte resto qui. – dice piano.
- Per far stare meglio chi? – domanda Roxy. I suoi occhi scrutano gelidi il soffitto.
- Me stesso. – risponde sinceramente Dirk, nascondendo il viso contro la piega del suo collo.
Roxy sorride appena, solleva un braccio e glielo gira attorno alle spalle. Dirk si schiaccia contro di lei, stringendola alla vita con tanta ostinazione da darsi l’illusione di poter fondere i loro corpi in uno solo.
Anche se è solo un’illusione, per quella notte può servire a consolare entrambi.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Angst, Gen, AU, Spoiler per l'Act6.
- Dopo svariati anni di relazione e troppo dolore nascosto, Dirk abbandona la propria famiglia. E Dave resta solo a cercare di rimettere a posto le macerie.
Note: Ci sono degli argomenti dei quali io non dovrei mai discutere, ed uno di questi è palesemente il divorzio XD Che poi alla fine divorzio nemmeno è. Comunque, per qualche strano motivo, proprio gli argomenti che dovrei rifuggire come la peste sono quelli dei quali mi interessa di più parlare, motivo per il quale, appena ho "conosciuto" Dirk e Roxy, la particolare condizione di entrambi e l'altrettanto particolare relazione con Dave e Rose, non ho potuto fare altro che immaginare una situazione come questa XD Diciamocelo, anche fomentata dallo stesso Hussie con tutto quel discorso di Roxy che chiede a Dirk di immaginare i loro possibili figli e lui che le va dietro nella fantasia. *cuore stretto* Omg, perché ogni volta che mi innamoro di personaggi vari ed eventuali sento il bisogno di devastare le loro esistenze? What is my problem? *sigh*
Comunque, è un'AU ma in realtà è talmente piena di riferimenti alla storia originale - tipo il rapporto particolare di Dave col tempo, nonché, be', praticamente tutto il resto della caratterizzazione XD - che, per quanto non sia impossibile da leggere senza conoscere Homestuck, in realtà si perde metà del divertimento a leggerla senza avere quella base da seguire. E se si toglie il divertimento, da questa storia, resta solo la disperazione /O\ Quindi non leggetela mai.
Scritta per la sesta settimana del COW-T @ maridichallenge (Missione 1, prompt: anno).
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IT SEEMS WORSE THAN IT IS
(but mostly the view is accurate)

Quella mattina, Dave apre gli occhi senza aver dormito. Non che restare sveglio gli sia stato in qualche modo utile, non che abbia captato chissà che particolare suono provenire da chissà che particolare angolo di quella enorme, ridicola casa, non che – in sostanza – abbia fatto poi molto più che perdere ore di sonno prezioso che rimpiangerà sicuramente più tardi durante matematica, ma in qualche modo gli sarebbe sembrato stupido dormire proprio quella notte.
Non sa perché, ma non voleva perdersi il momento. Non se n’è accorto, mentre accadeva, ma sa che era sveglio durante, che era vigile mentre le valigie venivano spostate dalla camera da letto all’ingresso, mentre lui indossava la giacca e il cappello ed usciva. Che sia stato a mezzanotte, alle due, alle tre o alle sei del mattino, Dave era sveglio, può dire di esserci stato. Forse i suoi occhi non l’hanno visto, ma tutti gli altri suoi sensi l’hanno percepito. E probabilmente è stato molto meglio così, perché Dave non è un piagnone ma, forse, se l’avesse visto coi propri occhi non sarebbe riuscito a sopportarlo. Invece così il passaggio è stato molto meno traumatico, quasi naturale, per quanto naturale possa essere una cosa simile, considerato che non ha mai visto neanche uno di quei corvi bastardi che hanno preso dimora sul suo balcone abbandonare il loro nido, mentre invece sembra che sia proprio questo che è successo, stavolta.
È stato meglio così, comunque, per una svariata serie di ragioni. È stato meglio che sia finita ed è stato meglio che, mentre finiva, Dave fosse sveglio ma non presente. È consolante pensare di non conoscere il momento esatto in cui non ci sono state più speranze, è consolante pensare che possa essere successo in un momento qualsiasi, in tutti i momenti, in un momento privo di importanza. Tipo mentre lui stava pensando all’unica equazione chimica che non è riuscito a bilanciare mentre faceva i compiti quel pomeriggio. Mentre lui ripercorreva i passaggi ad uno ad uno, ecco, fra un passaggio e l’altro, quella porta si è aperta e poi si è richiusa senza un suono, e lui stava pensando ad altro, mentre accadeva, ai fatti suoi, sostanzialmente.
È una sensazione liberatoria, lo fa sentire più leggero. Come se lui non avesse tempo da perdere dietro questioni di un’importanza talmente irrisoria. Ed è vero, perché lui ha le sue cose, i suoi problemi, la sua merda a cui badare. Non può star dietro anche a quella dei suoi genitori.
Mettendosi a sedere sul letto e cercando a tentoni le pantofole sul pavimento, stando attento a non toccarlo coi piedi perché quella casa enorme, anche coi riscaldamenti a palla, non diventa mai neanche lontanamente tiepida, neanche sbadiglia. Non ha sonno, non è stanco. Ha gli occhi spalancati, tanto svegli da bruciare, come se improvvisamente fossero diventati la parte più sensibile del suo corpo. Vede ogni cosa ed ogni dettaglio è come uno spillo che gli si conficca nella retina, è surreale. La parete grigiastra e tappezzata di poster è talmente chiassosa da dargli quasi la nausea.
Si mette in piedi, si passa una mano fra i capelli e si stiracchia pigramente, scrollandosi via di dosso il torpore in cui l’ha gettato l’immobilità notturna. Si sente come se si fosse appena risvegliato da una specie di letargo vigile. Vorrebbe poter pensare che si tratti solo dell’effetto della notte insonne sul suo sistema nervoso, ma in realtà sa che non è così. In realtà sa che sono mesi che ha l’impressione di vivere in letargo vigile. Quelle che si sta scrollando di dosso adesso non sono poche ore di immobilità. Sono giorni, settimane, mesi interi che gli scivolano giù dalle spalle e si schiantano contro il pavimento con un fracasso che può sentire solo lui nella propria testa.
Sarebbe un’apertura niente male per uno dei suoi beat, ma non è questo il momento di pensarci. Questo è il momento di uscire da camera propria, riprendersi, cazzo, ed affrontare qualsiasi cosa ci sia fuori dalla sua stanza, perché è perfettamente preparato per farlo.
Sono mesi che non pensa ad altro, cazzo. Mesi.
In corridoio è tutto abbastanza silenzioso. Dave lo percorre in passi lunghi e silenziosi, soffermandosi davanti alla porta di sua sorella e bussando un paio di volte.
- Rose? – la chiama. Lei non risponde. – Rose, andiamo. – sospira lui.
- Non sto bene. – si degna di rispondere finalmente lei, con uno sbuffo contrariato. Dave inarca un sopracciglio, perplesso.
- Cos’hai? – domanda schiettamente. Non le crede.
- Vuoi il programma esatto degli avvenimenti che avranno luogo fra le mie gambe durante il Festival del Ciclo Mestruale, Dave? – ritorce lei, aspra. – Lasciami in pace, - aggiunge poi, la voce attutita dal cuscino, - oggi non vengo a scuola.
Dave conosce a sufficienza Rose – e d’altronde, non potrebbe essere altrimenti – per sapere che si tratta dell’unico essere umano sulla terra più cocciuto di quanto lui stesso non sia. Sa quindi altrettanto bene che, se ha preso la decisione di non tirare fuori il naso da camera propria per tutto il giorno, niente riuscirà a convincerla a fare il contrario, ma mentre si allontana lungo il corridoio verso la cucina Dave sa che, anche se ci fosse stata una possibilità di farle cambiare idea, probabilmente oggi avrebbe lasciato perdere subito lo stesso. In qualsiasi altro giorno avrebbe insistito. Oggi no.
Sua madre è seduta a tavola. Dave ne scruta il profilo, lo sguardo assente, i capelli un po’ scomposti. Fa colazione con un fottuto martini.
Suo padre è appena andato via di casa.
*
Esce presto. Non fa colazione – non ha fame. Sua madre si offre di preparargliela, si alza perfino in piedi, puntellandosi con entrambe le mani al tavolo, ma quando la vede barcollare Dave le volta le spalle e le dice di lasciar perdere. Butta giù un sorso di caffè, fa una smorfia – non l’aveva mai preso amaro; suo padre, invece, non l’aveva mai preso zuccherato – e poi scappa in bagno, si sciacqua il viso e, pur non sentendosi ancora completamente sveglio, si affretta a tornare in camera propria, vestendosi velocemente ed afferrando lo zaino.
Sa che non è così, ma si sente come se stesse scappando di casa. Ovviamente sa che tornerà, ma più si allontana da casa, un passo dopo l’altro, più si pente di essere uscito e vorrebbe tornare indietro. È ancora in tempo, forse. Può tornare, mettere a letto la mamma, chiamare a scuola e spiegare la situazione, loro capirebbero, lo lascerebbero restare a casa almeno fino a che non fosse riuscito a trovare un modo per risolvere questa situazione, sempre che un modo esista.
Ma è solo un pensiero con cui si consola, una possibilità che concede solo ad uno dei mille se stessi immaginari che immagina popolino tutte le varie realtà alternative in cui la sua vita avrebbe potuto trasformarsi se avesse preso una decisione piuttosto che un’altra. Gli piace considerare il tempo un ciclo infinito di attimi che si ripetono continuamente, gli piace l’idea di poter scivolare di attimo in attimo, sapendo di lasciarsi alle spalle qualcosa che continuerà ad accadere all’infinito anche quando lui non potrà più vederla. Gli piace perché lo spinge a pensare che possa esserci un modo per risolvere ogni problema, uno stratagemma per rimediare ad ogni errore, una via per tornare indietro e rimettere le cose a posto. Farle funzionare.
Gli piace pensarlo, ma sa che non è vero. E quando pensa di poter tornare a casa, è già a metà strada fra il suo palazzo e la scuola, ed è troppo tardi per i ripensamenti.
Il sole è ancora basso, e lui riesce a vederlo solo di rado, quando gli capita di fare capolino fra un enorme edificio e l’altro, ma anche quando non è la luce ad abbagliarlo, quel dolore sordo che gli fa bruciare gli occhi è sempre lì. Il mondo, oggi, non sta facendo nessuno sforzo per risultare gradevole, e con una mezza smorfia Dave indossa gli occhiali da sole, e progetta di non sfilarli più fino a quando non dovrà per forza, all’inizio delle lezioni.
Dietro le lenti scure, si concede un paio di lacrime.
*
Rientra a casa quasi sette ore più tardi. La prima metà del tragitto per rientrare l’ha attraversata senza fretta, le mani in tasca e gli occhi a scrutare diffidenti ma disinteressati qualsiasi cosa intorno a lui, ma man mano che ha cominciato a scorgere il profilo slanciato del palazzo in cui abita, in fondo alla strada, ha distintamente percepito i propri passi farsi più veloci, quasi impazienti. Ne ha seguito il ritmo, lasciando che lo conducessero lungo il marciapiede, oltre il pesante portone in legno e vetro all’ingresso, all’interno dell’ascensore e fino all’ultimo piano.
L’appartamento è silenzioso, ma d’altronde lo è quasi sempre. E lo era prima come adesso, non è certo stato il fatto che ora suo padre non sia più qui a renderlo tale.
Non ha voglia di fare niente. Si guarda intorno e gli sembra tutto così stupido. Cos’è che dovrebbe fare lui adesso? Cos’è che può fare? Gli oggetti, i mobili, ogni cosa gli sembra irreale. Ha quasi paura ad allungare una mano perché non ha idea di cosa succederebbe se provasse a toccare qualcosa e finisse per non sentire nient’altro che aria sotto le dita. Probabilmente scoppierebbe a piangere, sì, gli cederebbero le gambe, si accascerebbe sul pavimento e scoppierebbe a piangere come un bambino, singhiozzando e lamentandosi senza neanche provare a fare piano.
È solo un momento. I mobili, gli oggetti, le pareti, le finestre, è tutto ancora lì. L’unica cosa che manca è suo padre, ma andandosene lui non s’è portato via niente, a parte – Dave immagina – le proprie cose. Tutto il resto, tutto ciò che Dave ha sempre chiamato casa, è tutto ancora qui. Non è cambiato nulla, niente a parte l’insignificante dettaglio che prima papà c’era, e ora non c’è più.
Non può essere così drammatico.
Dave inspira ed espira, e per convincersi una volta per tutte che ogni cosa sia ancora al suo posto si mette a preparare il pranzo. Non è mai stato granché bravo in cucina – anche lui, come Rose, ha preso da mamma, in questo: lei non è mai stata capace di preparare niente che non coinvolgesse l’utilizzo di uno shaker, è sempre stato papà ad occuparsi di pranzi e cene, fin da quando Dave riesce a ricordare – ma da adesso in poi dovrà imparare. Ed è comunque perfettamente in grado di preparare uno o due sandwich, se vuole.
Lo fa, e ci mette delle ore. Si muove al rallentatore, è come non riconoscesse più casa propria. Il frigorifero, ciò che contiene, lo sportello dietro il quale si trovano i piatti di plastica, fatica a trovare qualsiasi cosa. Ci mette una vita ad affastellare strati di salumi, lattuga e pomodoro, ce ne mette due a tagliare i sandwich quadrati in due sandwich triangolari, e poi gli sembra di metterci dei secoli a ripetere le operazioni con altre due fette di pane.
Quando finisce, si volta a guardare l’orologio appeso in alto sopra il tavolo addossato alla parete. È tornato a casa intorno alle due e mezza, e non sono ancora neanche le tre. Il tempo lo prende in giro.
Sospirando, recupera i due piatti in cui ha messo i sandwich e, reggendone uno sul palmo di una mano ed uno sul palmo dell’altra, percorre il corridoio fino alla porta chiusa dietro la quale si trova la camera di sua sorella. Sistema un piatto in equilibrio sull’interno del gomito e bussa piano, cercando di non far cadere niente per terra.
- Rose? – la chiama, - Come stai?
Rose, naturalmente, non risponde.
- Ti ho portato il pranzo. – annuncia. Prova ad aprire la porta, ma è chiusa a chiave dall’interno. – Seriamente, Rose, - borbotta con uno sbuffo contrariato, - ma cosa ti chiudi dentro a fare? Dai, ho fatto i sandwich senza maionese come piacciono a te. Ero talmente concentrato che non ho messo la maionese neanche nel mio. Ti va di mangiarli insieme?
Dave resta in attesa di una risposta per un paio di minuti, ma non ne arriva nessuna. Sospirando, si rassegna. Si siede per terra a gambe incrociate, spalle alla porta, e poggia sul pavimento il piatto coi sandwich di Rose, mentre sistema il proprio in equilibrio sulle ginocchia, e comincia a mangiare.
- Non potrai restare chiusa lì dentro per sempre. – cerca di convincerla nel frattempo, fra un morso e l’altro, - Prima o poi dovrai venire fuori, e quel giorno ti costringerò a mangiare sandwich che colano maionese per ore e ore. Puoi giurarci. – Rose continua a non dire niente, e Dave comincia a perdere la pazienza. – Che due coglioni, Rose. – sbotta, strappando un morso quasi violento al panino e masticandolo con furia, - Cazzo, ho capito che è tutto una merda, lo so che lo sai anche tu, ma a cosa cazzo pensi che possa servire chiuderti là dentro e non parlarne? – la rimprovera, dimenticando che non dovrebbe parlare con la bocca piena, - Così mi tagli fuori e basta, e non ho voglia di sentirmi tagliato fuori, Rose, non ne ho proprio voglia, perché come sensazione, lascia che te lo dica, fa schifo al cazzo.
Lancia nel piatto ciò che resta del proprio panino – un morso o due, ma non ne ha più voglia – e resta in silenzio, la testa fra le mani, gli occhi bassi. Non ha ancora nemmeno tolto gli occhiali da sole. Non vuole farlo, non sa cosa cazzo vedrebbe se li togliesse. Il mondo ha cominciato a fargli paura da quando ha capito cosa vuol dire vederlo cambiare in un attimo, per un dettaglio insignificante.
Sua sorella, oltre la porta, piange sommessamente. Chissà da quanto.
- Rose, Cristo. – quasi mugola, piegando indietro il capo e battendolo appena contro il legno, - Lasciami entrare. Non devi stare sola, adesso. Nessuno di noi deve.
- Vattene via. – singhiozza Rose, la voce spezzata. Dave chiude gli occhi, inspira ed espira. Non vuole piangere. Non può piangere. Si alza in piedi.
- I panini… li lascio qui. – mormora, recuperando il proprio piatto e riportandolo in cucina. Getta tutto nel cestino dell’immondizia e poi lancia un’altra occhiata all’orologio. Non sono nemmeno le tre e un quarto. Dio, questa giornata non finirà mai.
Non ha voglia di chiudersi in camera e fare i compiti. Non ha voglia di fare niente, per cui immagina di aver voglia di guardare la tv. Attraversa il corridoio un’altra volta, cercando di ignorare il piatto coi panini di Rose ancora per terra davanti alla porta chiusa, ed entra in salotto. Cristo, questa casa è enorme, e lui la odia. L’ha sempre amata, ma ora la odia.
Riesce a vedere il caschetto biondo ed elegante di sua madre fare capolino da sopra lo schienale del divano, rivolto verso il televisore appeso alla parete. Non si muove.
- Mamma? – la chiama piano. Lei non risponde. Dave sospira. – Sai cosa, mi sto rompendo le palle di parlare coi sordi, ma’. – sbuffa, avvicinandosi piano.
Sua madre sembra prendere un sospiro eterno.
- Non dire parolacce, Dave. – esala quindi. La sua voce è debole, roca, sembra quasi finta. Dave sospira un’altra volta e gira attorno al divano, lo stomaco stretto in una morsa di terrore perché non sa cosa aspettarsi. Non sa più niente di niente, sua madre potrebbe essersi trasformata in un fantasma, mentre lui non c’era, e lui potrebbe dire di non esserne stupito.
Non si è trasformata in un fantasma, però. Ci assomiglia, ma no. È sempre lei, gli occhi confusi e stanchi, il vestito bianco, le calze nere, la sciarpa rosa perennemente annodata attorno al collo, unico tocco di colore. Stringe quell’orribile pupazzo da ventriloquo al quale papà teneva tanto. Non l’ha portato via con sé. Questo è strano.
Ci sono un bicchiere ed una bottiglia di vino vuoti, sul tavolino da caffè. Dave li osserva con disappunto per qualche secondo.
- Ti dispiacerebbe prendermi un’altra bottiglia dal ripostiglio, tesoro? – domanda sua madre, un sorriso lievissimo a increspare le labbra secche, ma coperte di rossetto, come sempre.
- Sì, mi dispiacerebbe. – risponde lui, sinceramente, sedendosi al suo fianco, - E infatti non lo farò.
Sua madre si concede un mezzo sorriso e poi si allunga ad accarezzargli i capelli, ravviandogliene una ciocca più lunga dietro un orecchio.
- Sono così fortunata ad avere te, ad occuparti di me. – sussurra, la voce ridotta ad un fiato tremulo ma incomprensibilmente dolce, - Sono sempre stata fortunata ad avere qualcuno che si occupasse di me. Sono senza speranza, io. Da sola, non servo a niente. Tu e tuo padre siete… - singhiozza appena, una mano che si chiude attorno ad una delle sottilissime braccia del pupazzo, - Siete così simili. Siete buoni.
- Basta. – la interrompe lui, voltando lo sguardo. Non capisce come possa dire una cosa simile dell’uomo che l’ha appena lasciata, soprattutto non accetta che lei possa pensarli simili. Non adesso. – E getta via quella roba.
Sua madre abbassa lo sguardo sul pupazzo, accarezzandone una guancia rossa.
- Cal? Penso che lo terrò con me per un po’. – annuisce lentamente, - Sì, penso proprio che lo terrò con me per un po’.
Dave sospira, scalciando via le scarpe e sedendosi più comodamente sul divano, dopo aver recuperato il telecomando della tv. La accende, fa zapping. Non c’è niente di interessante da vedere.
Continua a fare zapping, mentre sua madre, lentamente, si addormenta al suo fianco.
*
Quando apre gli occhi, l’indomani mattina, lo fa dopo aver dormito, e in realtà si sente bene. Anche troppo bene, nota nello spostare lo sguardo sulla sveglia sopra il comodino. Non è ancora tardi, ma decisamente non è presto, e lui non è abituato a dormire così a lungo, ecco perché si sente così intorpidito.
Scalcia via le coperte, si stiracchia con una serie di mugolii compiaciuti e poi esce in corridoio. Già da dove si trova può vedere che il piatto che ha lasciato ieri per Rose è vuoto, e si avvicina con un sorriso alla sua porta per recuperarlo da terra. Bussa piano, Rose non risponde, ma lui può sentirla respirare piano, profondamente addormentata, e decide di lasciarla in pace, per oggi.
Anche sua madre dorme, tutta rannicchiata in metà del divano, stretta a quell’orribile pupazzo. Dave ricorda di averlo trovato figo, un tempo. Suo padre non faceva che farglielo dondolare davanti agli occhi, quando era piccolo, e così, forse per abitudine, forse perché era suo, era diventato il suo giocattolo preferito.
Adesso, se potesse, gli darebbe fuoco.
- Mamma? – la chiama, scuotendola delicatamente per una spalla, - Mamma, forse è meglio se vai a letto, se hai sonno.
Sua madre scuote il capo, sulle sue labbra aleggia l’ombra di un sorriso. Chissà cosa sta sognando. Dave la guarda e per un secondo gli sembra così piccola e indifesa, come fosse tornata ragazzina. È giovane, sua madre, lei e papà hanno avuto lui e Rose molto presto, ed anche adesso, guardandola, non le darebbe più di trent’anni. Ha potenzialmente tutta la vita, davanti. E sta rannicchiata su un divano scomodo, abbracciata ad un pupazzo orrendo, e sorride nel sonno perché ha ancora troppo alcool in circolo per rendersi conto di quanta tristezza la aspetta quando si sarà risvegliata.
Dave sospira, uscendo dal salotto ed allontanandosi verso l’enorme armadio a muro a scomparsa che copre quasi l’intera parete del corridoio. Ne apre un’anta a colpo sicuro, i cappotti di suo padre sono ancora lì. D’altronde, non li usava quasi mai. Non hanno nemmeno l’odore del suo dopobarba addosso.
Si piega sulle ginocchia, aprendo uno dei cassetti in fondo e recuperando una coperta di lana. Poi si rimette in piedi, chiude tutto e torna in salotto. Sua madre è ancora lì, le gambe piegate, le ginocchia strette al petto, come non volesse occupare troppo spazio. Le avvolge la coperta attorno al corpo e poi torna in camera per prepararsi ad uscire. Non prima di aver bevuto un sorso di caffè amaro.
Sono passate solo ventiquattro ore da quando suo padre è andato via.
*
A John non dice niente. È il suo migliore amico, e suppone che lui capirebbe cosa vuol dire ritrovarsi da un giorno all’altro con un solo genitore anziché due, considerato il fatto che vive solo con suo padre e la nonna, ma la verità è che Dave non ha alcuna voglia di parlare di cosa è successo, cosa sta succedendo e cosa succederà. Da un lato ne è quasi geloso, perché sono fatti suoi e della sua famiglia; dall’altro lato conosce abbastanza John da sapere che, di fronte a una notizia del genere, farebbe quella faccia, quella che fa sempre quando è molto, molto preoccupato per lui, gli si siederebbe di fronte e probabilmente allungherebbe perfino una mano a battergli un paio di pacche amichevolmente consolatorie sulla spalla, e gli chiederebbe “e tu come ti senti, Dave?”, e lui non avrebbe idea di cosa dirgli. Per cui meglio evitare di parlarne del tutto, piuttosto che dover star lì ad occhi bassi chiedendosi “e io come mi sento?”, senza sapere neanche che valore dare ad una domanda simile.
Lui come si sente? Che importa? Non gli importa davvero. Sua madre dorme sul divano. Sua sorella non è mai uscita da camera propria dal giorno prima. Suo padre è andato via. Cosa importa come può sentirsi lui?
Quando John gli chiede se gli va di pranzare a casa sua e passare il pomeriggio insieme, comunque, accetta. Il pensiero di sua sorella e sua madre a casa da sole lo tormenta per un po’, sa che il suo dovere sarebbe quello di tornare a casa, prendersi cura di loro, preparare il pranzo, passare un po’ di tempo con mamma, cercare ancora di convincere Rose a venire fuori dalla sua stanza, ma già nel momento in cui fa l’elenco di tutto ciò che lo aspetterebbe una volta varcata la soglia dell’appartamento, si rende conto che non ha nessuna voglia di farlo. Si sente in colpa, ma non riesce a convincersi che sarebbe meglio declinare e tornare a casa. Si sente soffocare al solo pensiero. Perciò accetta. Senza ripensamenti, accetta.
- Grande. – sorride John, - Mio padre ha preparato un’altra di quelle sue stupide torte. Mi servirà una mano per finirla. Magari se vuoi puoi portarne un po’ ai tuoi, stasera, tanto quello ne prepara una nuova ogni giorno. La quantità di avanzi che buttiamo via ogni giorno è surreale, stiamo ingrassando tutti i gatti del quartiere. Ormai, quando scendo a buttare la spazzatura mi circondano e mi si strusciano sulle gambe come se fossi una specie di messia, è ridicolo.
Dave si concede una risata, e anche di dimenticare tutto per un po’. Ferma anche il conto delle ore, tanto sa già che possono solo aumentare, e che quando guarderà nuovamente l’orologio sarà passato ancora troppo poco tempo.
*
Torna a casa dopo cena, portando con sé due fette di torta alla panna accuratamente protette da un guscio di piatti di plastica avvolti nella pellicola trasparente, in modo che non potessero aprirsi e rovesciare il loro contenuto per terra in nessun caso.
L’appartamento è così silenzioso che potrebbe non esserci nessuno. Sono le dieci passate quando Dave entra in cucina, posa i piatti sul tavolo e solleva gli occhi sull’orologio. Ricorda senza nessuna difficoltà che, solo fino ad una settimana prima, ogni sera a quest’ora lui era sempre in salotto, attaccato al televisore grande, a farsi massacrare da sua sorella a Tekken 7, mentre sua madre sorseggiava vino rosso da uno di quei bicchieri a coppa che le piaceva tanto tenere in mano, rileggendo per l’ennesima volta tutta la saga de La soddisfazione dell’Erudito fin dal principio, e dal computer di suo padre posto in un angolo arrivavano i suoni più disparati mentre le sue dita battevano veloci sulla tastiera.
Era solo una settimana fa. Prima che le cose cominciassero ad andare a puttane, prima che la casa piombasse nel silenzio.
Sospira e recupera due piatti di plastica puliti da uno stipetto. Una fetta per piatto. Poi due forchette.
Prende il piatto di Rose e bussa alla porta di camera sua. La sente sospirare pesantemente.
- Non ti arrendi mai? – dice. Dave aggrotta le sopracciglia.
- Non fare la stronza. – la rimprovera, - Ti ho portato una fetta di torta. L’ha fatta il signor Egbert. È buona.
- Non mi va.
- Dovrai pur mangiare qualcosa.
Rose sospira ancora, Dave le sente girare una pagina di qualcosa.
- Lasciala lì per terra.
Obbedisce senza averne voglia, perché non ha voglia neanche di litigare con lei. Non in generale, tantomeno attraverso una porta. È tardi, è stanco, non ne può già più.
- Fai come vuoi. – borbotta, allontanandosi verso la cucina e poi tornando a percorrere il corridoio con l’altro piatto. La luce in salotto è spenta, ma l’abat-jour sul tavolino accanto al divano è accesa. Sua madre è ancora seduta lì, e finché non la vede Dave può illudersi di pensare che abbia passato il pomeriggio a leggere, come ha sempre fatto.
Invece poggia il piatto sul tavolino da caffè, si volta e mamma è ancora rannicchiata e addormentata, nella stessa posizione in cui era stamattina. Perfino la coperta sembra che non le si sia spostata di dosso neanche di un centimetro.
- Mamma… - sospira, - Hai dormito tutto il giorno?
Sua madre schiude le palpebre, gli occhi velati di sonno, le labbra che si piegano in un sorriso evanescente.
- Cos’altro avrei dovuto fare, tesoro mio? – domanda con una vocina trasparente, stringendosi nelle spalle, - Cal mi ha tenuto compagnia.
- Devi buttarlo via. – quasi ringhia Dave, - Andiamo, ti porto a letto. – sospira poi, scostandole la coperta di dosso e passandole un braccio attorno alla vita, spingendola a sollevarsi in piedi. Lei lo fa, in una sinfonia di lamenti e piagnucolii che Dave cerca con tutte le proprie forze di ignorare. Sua madre è ancora più alta di lui, anche se di poco, e lui non riesce a non ripensare alle innumerevoli volte in cui ha visto suo padre riaccompagnarla in camera dopo averla trovata brilla sul divano. “Sei incorreggibile, Lalonde,” le diceva, e lei rideva, e la sua risata non suonava sgradevole come quelle degli ubriachi. Era un tintinnio dolce, gentile. E suo padre sorrideva, e tutto sembrava perfetto e giusto, e adesso è rotto, da qualche parte un ingranaggio s’è scheggiato, e Dave non sa come ripararlo. E forse, anche se lo sapesse, non riuscirebbe comunque.
Aiuta sua madre a mettersi a letto, così vestita per com’è, le rimbocca le coperte e, alla luce giallastra della lampada sul comodino, la vede piangere. Non se ne sarebbe mai accorto se non fosse stato per come le brillano addosso le lacrime. Non emette un suono, e sulle sue labbra c’è un sorriso ridicolmente dolce.
- Mamma… - sussurra, sentendosi stringere il cuore mentre si siede sulla sponda del letto e le asciuga le lacrime dalle guance, - Per favore, non piangere.
Lei apre gli occhi, lo guarda con affetto, gli accarezza una guancia.
- Credo che sia la cosa che tuo padre mi ha ripetuto più spesso da quando eravamo ragazzi. – dice a mezza voce, - Siete davvero identici.
Dave distoglie lo sguardo, ferito. Si alza in piedi.
- Cerca di dormire. – le dice. Una mano di sua madre scivola fuori dalle coperte e si chiude attorno al suo polso sottile.
- Vuoi restare ancora un po’ con la mamma, tesoro? – domanda. Dave si volta a guardarla ed è abbastanza sicuro che gli stia chiedendo soltanto di sedersi lì e parlare con lei ancora un po’. Forse per darle l’illusione che papà sia ancora lì, a prendersi cura di lei.
Dave ci pensa. Pensa a tutte le ore che ha passato fuori casa, lasciandola in balia di se stessa, disinteressandosi di lei, dimenticando perfino la sua esistenza.
Poi spegne la luce, gira attorno al letto, sfila le scarpe e scivola sotto le coperte, stendendosi su un fianco. Sua madre resta immobile, fissa il soffitto, sorride.
- Allora, tesoro, com’è andata oggi a scuola? – domanda.
Dave ha sonno, è stanco e ha voglia di piangere. In più, né a scuola né a casa di John è successo niente di particolarmente eclatante, perciò non è neanche sicuro di sapere cos’è che dovrebbe raccontare adesso a sua madre. Ma parte comunque dal principio, fin da quando s’è svegliato, omettendo il conto delle ore anche se sa che ormai ne sono passate almeno trentasei da quando suo padre è andato via di casa.
*
Dave non ha mai creduto a tutte quelle storie riguardo una supposta connessione telepatica fra gemelli. Lui, della testa di Rose, non sa niente. I suoi pensieri, le sue emozioni, le sue sensazioni, agli occhi di Dave sono sempre state insondabili. Sua sorella è l’enigma che non sarà mai in grado di risolvere, il quesito sospeso a cui non riuscirà mai a trovare una risposta. Per la maggior parte del tempo non la capisce, per la restante parte del tempo non vuole nemmeno provarci. La accetta così per com’è, con le sue arie da stronza e le sue reazioni passivo-aggressive e le occhiate colme di presuntuoso sdegno con le quali osserva quasi sempre tutto il mondo circostante.
È passata una settimana da quando ha cominciato a dormire con sua madre. Lei non ha più chiesto, ma lui ha continuato a farlo, e adesso sta semplicemente prendendo l’abitudine di stare con lei, la notte, perché gli sembra che ne abbia bisogno.
Suo padre è andato via da otto giorni. Lui non vede Rose esattamente dalla stessa quantità di tempo.
Sono le nove del mattino di domenica. Sua madre è ancora a letto, profondamente addormentata. Non fa che dormire, quando lascia il letto è solo per trascinarsi sul divano, dove Cal viene immancabilmente abbandonato ogni sera. Fa qualcosa solo quando Dave è con lei, che sia guardare la tv o fingere di aiutarlo a fare i compiti. Per il resto del tempo, fissa il vuoto, e Dave può leggerle negli occhi che non sa cosa fare di se stessa, e questa cosa lo terrorizza.
Non quanto, comunque, lo terrorizzi il fatto di non aver mai visto sua sorella in più di una settimana.
La domenica gli permette di prendere le cose con più calma, forse perché tutto sembra girare ad un ritmo più normale. Durante tutto il resto della settimana c’è quest’incongruenza che Dave non riesce a spiegare, per cui i minuti sembrano scorrere via velocissimi, nella sua mente, ma non è così. Quando gli sembra che siano già passate due o tre ore, in realtà a stento ne è passata una.
La domenica, questo divario fra tempo percepito e tempo effettivamente passato sembra ridursi. Le ore sono sempre interminabili, ma almeno quando Dave crede che ne sia passata una sola poi la supposizione si dimostra vera. Forse perché di domenica non c’è davvero niente da fare, per cui in qualche modo ha senso che ogni minuto sia davvero lungo un’eternità.
Lui s’è svegliato presto anche oggi, perché dormire a lungo nel letto grande non gli riesce. C’è ancora il profumo di suo padre attaccato a tutto, anche se le lenzuola sono state cambiate. Forse è trattenuto nelle molecole d’aria, Dave non saprebbe spiegarlo, sa solo che non si sente mai completamente a suo agio in quella stanza. Di solito, verso le sei sgattaiola via, prima che mamma possa accorgersene. Oggi s’è costretto a restare al suo fianco fino alle otto, ma poi non c’è l’ha più fatta. S’è alzato in piedi, ha pulito la cucina da cima a fondo, ha preparato il caffè, ne ha bevuto un sorso e ha fatto una smorfia chiedendosi se gli riuscirà mai di abituarsi a questo saporaccio amaro.
Ora guarda l’orologio e si chiede se sia il caso di andare a chiedere a Rose se, almeno oggi, le va di uscire da camera sua. Mamma resterà probabilmente a letto tutto il giorno, lui non ha in programma di vedere John né nessun altro e l’idea di passare l’intera giornata in giro per casa o chiuso in camera propria da solo lo fa sentire sull’orlo di una crisi di nervi.
Attraversa il corridoio e si ferma davanti alla porta chiusa di Rose. È quasi sicuro che, se bussasse, lei gli direbbe di sparire, perciò, anche se non è corretto e lo sa, dopo essersi assicurato di sentirla respirare lentamente e profondamente, prova ad aprire la porta.
Sorprendentemente, non è chiusa a chiave. Deve aver smesso di chiudersi dentro quando ha visto che lui non passava più così spesso a bussare.
Sbircia all’interno. La finestra è chiusa, le tende tirate, ma di fuori il sole è alto e passa attraverso gli scuri, illuminando appena l’ambiente. Abbastanza da vedere Rose seminascosta sotto le coperte, almeno, il caschetto biondo tutto scompigliato e gli occhi chiusi, un’espressione incredibilmente serena a distenderle i tratti del volto. Sembra che sia lei che mamma stiano meglio quando dormono, da quando papà è andato via. Dave non riesce, tutti i suoi sonni sono agitati. Dormire non gli piace più. In realtà non gli è mai piaciuto granché. È sempre stato abbastanza insonne. Anche papà lo era. Ogni tanto gli capitava di uscire dalla propria camera ad orari improbabili della notte per andare a bere un po’ d’acqua, e di trovarlo sveglio e seduto davanti al computer, oppure in cucina, intento a prepararsi un panino.
Parlavano sempre un sacco, in quelle occasioni. Quando erano soli. In qualche modo, Dave lo sentiva più rilassato. Era più facile avere a che fare con lui.
Si siede per terra, spalle contro la parete, accanto al letto di sua sorella. La guarda dormire per un po’, sorridendo appena, e poi scorge l’angolo di uno dei suoi quaderni fare capolino da sotto il letto. Rose è gelosissima di questi diari, li nasconde sempre nei posti più improbabili. È strano trovarne uno abbandonato con tanta incuria sotto il suo letto.
Si allunga a recuperarlo, stringendolo fra le dita ed appoggiandoselo sulle ginocchia per sfogliarlo. La prima pagina è divertente, perché comincia con tre “caro diario” che sono stati poi impietosamente cancellati per far spazio a qualche racconto breve, o stralci di racconti più lunghi magari continuati altrove. Dave ridacchia, accarezzando la pagina con due dita prima di girarla. I racconti proseguono per un po’, lui neanche li legge, in realtà, lascia solo scorrere gli occhi addosso alle lettere, cogliendone il senso generale, pensando che gli piacerebbe che Rose scrivesse il testo di una canzone, perché lui impazzirebbe alla sola idea di musicargliela.
- È divertente? – chiede Rose. Dave solleva lo sguardo e trova i suoi occhi vigili e attenti. Non è arrabbiata. Anzi, sorride appena.
- Scusa. – dice, richiudendo il quaderno e posandolo esattamente dove l’ha trovato, - Era lì.
- E tu non hai potuto fare a meno di leggerlo. – sospira, stiracchiandosi appena sotto le coperte, - Sei fortunato che è roba vecchia, altrimenti non avresti vissuto abbastanza per raccontarne il contenuto. – ridacchiano insieme per qualche secondo, e quando le risate tornano silenzio Dave guarda sua sorella e si sente stringere il cuore, perché il suo sorriso è identico a quello di sua madre. – Perché sei qui, Dave? – domanda lei a bassa voce, e lui si stringe nelle spalle.
- Mi mancavi. – risponde sinceramente, - E volevo chiederti se ti andava di uscire da qui, almeno oggi.
Lei sospira, lanciando uno sguardo alla porta che Dave si è richiuso alle spalle dopo essere entrato.
- È ancora presto. – risponde. Dave segue il suo sguardo, e nota il violino abbandonato sul ripiano del mobile ad angolo.
- Non te l’ho sentito suonare, ultimamente. – dice, rendendosene conto solo in quell’istante, - Non hai smesso, vero?
Rose sorride appena, allungando una mano a scompigliargli i capelli.
- Non ho smesso, - lo rassicura, - è solo troppo presto anche per quello.
Dave annuisce come se capisse cosa intende, ma la verità è che non lo capisce affatto. Che vuol dire troppo presto? A lui sembra già tardi. Anche se il tempo non passa mai, gli sembra che ne sia già passato a sufficienza. Che lo stato di immobilità in cui sono sia già durato fin troppo a lungo. Rose non può fermare lo scorrere del tempo chiudendosi in camera propria, ma lui non riesce a dirglielo.
- Speravo che potessi tenermi un po’ compagnia, oggi. – le dice però, abbassando lo sguardo.
Rose non risponde per molti secondi, ma poi si solleva sui gomiti e lo guarda.
- Io non voglio uscire, - dice, - ma forse tu puoi restare.
Dave gli ricambia l’occhiata, inarcando le sopracciglia.
- Qui? – domanda. Rose annuisce.
- Possiamo tenerci compagnia qui. – suggerisce. Il suo sguardo si fa indagatore, per un attimo. – Sembri stanco.
Dave guarda altrove, massaggiandosi nervosamente la nuca.
- Non dormo bene, ultimamente.
Rose sospira e scivola più in là sul proprio materasso.
- Vieni qui, dai. – lo invita con un sorriso.
Dave ride, scuotendo il capo.
- Scherzi? – domanda, - Questo letto è minuscolo.
- Ci stringeremo. – risponde lei seria, battendo la mano sulla porzione di materasso libero al suo fianco. – Dai.
Dave la guarda per un po’, chiedendosi se stia facendo la cosa giusta. Ma sente gli occhi pesanti, e dopo un po’ non gli importa più di quale potrebbe essere la cosa giusta. Si alza in piedi e scivola sotto le coperte accanto a sua sorella. Lei se lo stringe contro, accarezzandogli i capelli.
- Hai pianto, da quando è andato via? – gli domanda. Dave pensa alle due lacrime che s’è lasciato sfuggire, e stabilisce che quello non è piangere, perciò scuote il capo. – Io sì. – confessa Rose, annuendo, - E dovresti anche tu.
Dave chiude gli occhi, le stringe le braccia attorno alla vita, nasconde il viso contro il suo petto, e piange fino ad addormentarsi.
*
Rose ci mette un mese a riprendere in mano il violino. Dave sa perché suonare le costa tanta fatica: è sempre stato papà ad incoraggiarli a cominciare qualcosa. Mamma è sempre stata brava a spronarli a continuare per la strada che avevano intrapreso, ma la scintilla iniziale, quella che è sempre servita ad accendere il fuoco, è sempre stata una parola di papà, un suo suggerimento, una sua proposta. È stato così per i suoi beat, ed è stato così anche per il violino e per Rose. Papà adorava ascoltarla suonare.
Succede in un momento qualsiasi, ed ancora una volta Dave è felice che sia così. È contento che sia un momento qualunque, perché fra vent’anni non ricorderà che in quel momento era sul divano a ripassare storia mentre teneva d’occhio sua madre e in sottofondo la tv tenuta a volume bassissimo raccontava qualche stupida storia d’amore da soap opera sudamericana, no. Fra vent’anni ricorderà soltanto che era lì a fare qualcosa di assolutamente non importante e poi improvvisamente ha sentito il lamento nervoso e straziante del violino farsi strada fino a lui, ed il cuore si è messo a battere più in fretta.
Scatta in piedi, e non ha neanche il tempo di notare che sua madre, silenziosamente, comincia a piangere. Corre per il corridoio a piedi nudi, rischiando di scivolare e schiantarsi contro ogni singola parete, raggiunge la porta – come sempre chiusa – della camera di Rose e la spalanca senza neanche pensare che forse sarebbe il caso di bussare.
Rose è in piedi e, col suo pigiama rosa sgargiante addosso, i piedi fasciati in quei suoi ridicoli calzini antiscivolo con le dita e i capelli scompigliati, malamente tenuti indietro da una fascia nera, è probabilmente l’immagine meno poetica dell’universo, ma al solo vederla lì, il capo ripiegato, le dita di una mano elegantemente strette attorno all’archetto e le dita dell’altra che scivolano veloci sulle corde, a Dave viene da piangere, e per una volta – per la prima volta in trenta giorni e qualche ora e troppi minuti e una quantità infinita di secondi – non è una sensazione spiacevole.
Rose si interrompe e si volta a guardarlo, le lunghe ciglia chiare che tremano appena.
- Mi fanno un po’ male le dita. – dice a bassa voce.
- È perché non sei più abituata. – annuisce lui, fermo sulla soglia della porta, una mano ancora stretta attorno alla maniglia, come volesse restarci aggrappato per non cadere. Rose lo nota e sorride, e lui sorride stupidamente a propria volta, sentendo una scintilla di irrazionale felicità bruciargli nello stomaco e poi diffondersi ovunque. – Vuoi fermarti? – le domanda, e dentro la propria testa prega che risponda di no. E come se una fatina buona avesse deciso di accogliere le preghiere di Dave, Rose scuote il capo.
- Vuoi restare mentre mi esercito? – domanda quindi. Dave annuisce entusiasta, ed obbedisce quando lei gli chiede di entrare e chiudere la porta.
Sul divano, in salotto, sua madre continua a piangere. Dave non la sente, anche se sa che lo sta facendo. Sa che probabilmente dovrebbe tornare di là, sedersi al suo fianco e tenerle la mano mentre si sfoga, perché Rose adesso sta meglio e ha molto meno bisogno di lui di quanto possa averne bisogno lei, ma il canto del violino è una piccola vittoria, anche per lui, e Dave decide di godersela.
*
Quattro mesi dopo, Dave dorme ancora con sua madre, e sta lentamente ma inesorabilmente cominciando a diventare un’abitudine priva di lati negativi. Sono scivolati in una specie di confusa routine che – Dave ne è abbastanza convinto – qualsiasi psicoterapeuta al mondo non esiterebbe a descrivere come malsana – Rose, peraltro, non è (ancora) una psicoterapeuta, ma già lo fa – ma in fin dei conti Dave è arrivato perfino a trovarla comoda.
Un letto è solo un letto, alla fine. Non è che passi tutta la sua vita in camera con sua madre, anzi. Se non è a scuola, o da John, per lo più la camera in cui sta chiuso è la propria, solo che preferisce dormire con lei. Per non farla sentire sola, probabilmente, per non lasciare vacante quel posto al suo fianco.
Sua madre non lo abbraccia, non è eccessiva nelle sue effusioni – non lo è mai stata, d’altronde – non lo ha mai scambiato per suo padre, né per una bambola addosso alla quale piangere tutta la notte. Semplicemente, si sente più tranquilla quando non c’è una voragine vuota al proprio fianco, e Dave non vede per quale motivo dovrebbe privarla di un sonno sereno per rifiutarsi di fare qualcosa che – peraltro – nessuno gli ha mai chiesto, e che non gli costa alcuna fatica.
Ogni tanto, comunque, fatica ad addormentarsi, forse perché negli ultimi mesi non ha fatto altro che dormire, e in queste occasioni può passare ore a scrutare intensamente il soffitto, come cercando di identificare i contorni di una qualche macchia che solo lei è in grado di vedere.
Passa la quasi totalità delle proprie giornate in uno stato di ubriachezza costante, ma Dave è convinto che, per la maggior parte del tempo, finga, o esageri la propria condizione, per non dover affrontare necessariamente la realtà con le responsabilità di una persona lucida. Dev’essere per forza così, non c’è modo in cui, se fosse davvero ubriaca come dice, potrebbe poi ridursi alla sera così presente a se stessa.
- Che c’è, ma’? – le chiede Dave, voltandosi su un fianco e scrutando il suo profilo pallido ed elegante nell’ombra. È bella, sua madre, è una specie di copia più adulta e matura di Rose, e Rose è bella da morire, per cui Dave riesce ad immaginare con molta facilità quanto potesse essere bella mamma alla sua età. Ogni tanto immagina Rose da grande, e non può fare a meno di sorridere orgoglioso pensando a quanto le somiglierà.
In un primo momento, sua madre non sembra neanche sentirlo, ma Dave la conosce abbastanza da sapere che non è così. Sua madre ascolta sempre tutto, solo che a volte ha bisogno di qualche secondo per mettere le parole ordinatamente una dietro l’altra, e Dave, paziente, le lascia il tempo di farlo.
- Pensavo. – risponde infine, sospirando pesantemente.
- A cosa? – chiede Dave, e poi aggiunge, - Dovresti dormire, invece di pensare.
Sua madre sbuffa una mezza risata, allungando una mano alla propria destra per scompigliargli i capelli, un altro gesto tipico che lei e Rose hanno in comune.
- No, dovrei proprio pensare, invece. – lo corregge, gli occhi sempre fissi sul soffitto, lo sguardo che si tinge di una sfumatura più seria, quasi grave. – Dovremo parlarne, prima o poi. – dice, e Dave abbassa lo sguardo e si sente stringere lo stomaco in una smorfia che gli dà la nausea.
Non ha alcuna voglia di parlarne. Ha voglia soltanto di lasciarsi tutto alle spalle. Cinque mesi non sono stati sufficiente, ma forse lo saranno sei. Forse devono solo tenere duro ancora un pochino, e tutto tornerà al suo posto, anche se un ingranaggio resterà mancante.
- Cosa c’è da dire? – domanda controvoglia, stringendo le dita attorno al cuscino, quasi aggrappandovisi. Ogni volta che sente qualcosa scuotere la scombinata normalità che sta lentamente ricreando attorno a sé, ha bisogno di sentire sotto le dita qualcosa di presente, reale, fisico. Immagina che questo sia un segno di debolezza, ma al momento non può ancora farne a meno.
Sua madre sorride tristemente.
- Un sacco di cose. – risponde, - Davvero un sacco. Ma non è ancora il momento. – dice, scuotendo il capo. Poi si volta a guardarlo, gli scosta la frangetta dal viso e lo bacia piano sulla fronte. – Dormi, tesoro mio. – dice a voce bassa, quasi cullandolo.
Dave annuisce, e chiude gli occhi.
*
Altri quattro mesi, e Dave è tornato a dormire in camera propria. Non è stato un cambiamento voluto, ma d’altronde non lo era stato neanche trasferirsi da mamma, per cui la cosa non lo stupisce. Semplicemente, una sera si è fermato a lavorare ad alcuni beat fino a tardi e poi è crollato addormentato nel proprio letto. Non ha neanche avuto bisogno di un po’ di tempo per riabituarsi alle differenze, è stato molto naturale, per cui Dave immagina che fosse semplicemente il momento giusto.
Sono passati esattamente nove mesi – o forse poco più, o forse poco meno, alla fine non è che importi – da quando papà è andato via. Non c’è più il suo profumo da nessuna parte, molte altre delle sue cose sono sparite col passare del tempo – segno chiaro che mamma deve averlo rivisto, di tanto in tanto, o che lui deve comunque essere tornato a casa per riprendersele – e la vita è ricominciata monotona e dolce com’era prima che lui se ne andasse, con la differenza che lo spazio vuoto non si è colmato, e dopo nove mesi Dave sta cominciando a pensare che non si colmerà mai.
Pensava che questo potesse essere un tempo sufficiente perché qualcosa in questo senso potesse cambiare, una cifra quasi simbolica – nove mesi, il tempo che una vita impiega per formarsi, sperava potesse essere anche il tempo che ci avrebbe messo la sua a ricostruirsi identica a prima – ma ha imparato che non c’è niente di simbolico nella normalità, le cose non accadono mai in tempi prestabiliti, non ci sono tempistiche che puoi darti per qualcosa che non dipende neanche da te stesso.
Semplicemente a un certo punto succede, o non succede.
Suo padre non è più lì, e Dave vorrebbe poterci venire a patti, ma non crede che succederà.
Succede invece che sua madre ricomincia a lavorare, a leggere, a fingere di saper cucinare, a sbronzarsi regolarmente perché è una vita che si porta dietro il vizio – e che se lo tolga è un’altra di quelle cose che non accadrà mai – e una sera, mentre lui e sua sorella sono lì che si prendono a botte perché lei vuole giocare a Tekken e lui a Final Fantasy, improvvisamente chiude il terzo volume delle avventure di Calmasis e dice ad entrambi che è il momento di parlare.
Dave ha atteso questo momento con terrore per mesi, ormai, certo che sarebbe arrivato ed altrettanto certo che non avrebbe saputo come affrontarlo. È rimasto da solo a combattere la solitudine per settimane, s’è tenuto dentro il segreto anche con John, al quale continua a non aver detto niente anche adesso, ha tenuto in piedi una casa con le sue sole forze quando nessuno sembrava interessato o preparato o forte abbastanza da aiutarlo, ed ora che non c’è assolutamente niente che lui debba fare, ora che ci si aspetta da lui soltanto che resti calmo, ascolti ed accetti, non si sente in grado.
Rose ruota su se stessa, restando seduta sul pavimento a gambe incrociate ma voltandosi verso la mamma, seduta sul divano, le gambe raccolte sotto il corpo. Dave la imita, inspirando ed espirando profondamente. Nessuno dei due dice una parola mentre la mamma racconta di lei e papà da ragazzini, dell’amicizia profonda che li legava, di come – da parte di mamma – ci fosse ben più che solo questo, di quell’amico comune di nome Jake del quale poi hanno perso le tracce. Di quello che papà provava per lui. Del modo in cui fra loro non è mai nato niente. Di quello che papà ha provato in seguito al rifiuto, di come mamma gli sia rimasta vicina, di quello che hanno provato a fare, convinti che fosse meglio così, che fosse meglio restare uniti che soli. Dei fantasmi che papà non è mai riuscito a scacciare, perché sarebbe stato impossibile per lui farlo. Delle menzogne che ha raccontato solo ed esclusivamente a se stesso, perché neanche per un minuto, neanche per un secondo mamma si è illusa di non sapere perfettamente che lui le restava accanto per obbligo, per affetto, per abitudine. Mai per amore.
Mamma parla lentamente, senza rabbia. L’imitazione di sorriso che le arriccia le labbra rende il tutto ancora più triste di quanto già non sia.
*
Quando papà si fa sentire, è passato un anno da quando è andato via. Non è abbastanza da stentare a riconoscere la sua voce, naturalmente, ma è decisamente abbastanza da non credere a ciò che sente per una quantità infinita di secondi.
Anche stavolta, è un momento senza importanza. Dave sta lavando i piatti dopo pranzo quando il cellulare squilla, ed a lui tocca prodursi in acrobazie non indifferenti per recuperare il telefono senza che si bagni troppo e poi tenerlo in equilibrio fra la testa e la spalla dopo aver risposto.
E poi sente la voce di suo padre e il telefono quasi scivola per terra. Perché, si domanda, perché adesso, perché in assoluto, perché, è tutto ciò che vorrebbe sapere, ma non chiede. Ascolta e basta, ed è suo padre a chiedere. Chiede di vedersi più tardi, e Dave accetta. Vorrebbe strillargli addosso che col cazzo che si incontreranno, col cazzo che vorrà mai più rivederlo o anche solo risentirlo per tutto il resto della sua vita, dopo un intero anno di fottutissimo e ingiustificato silenzio, e invece accetta, e non si lamenta nemmeno, mentre lo fa. Accetta e basta.
Passa le ore che lo separano dall’incontro fissando il vuoto ed immaginando i mille possibili modi in cui potrebbe andare, le mille possibili cose che potrebbe dire a suo padre, e lo fa sapendo che non gliene dirà neanche una, che oltre tutti i mille modi che ha ipotizzato ce n’è sicuramente un milleunesimo che non ha considerato, e sarà quella la direzione che il loro incontro prenderà, proprio l’unica che non ha neanche preso in considerazione.
Sono quasi le sei quando comincia a muoversi. L’appuntamento è per mezz’ora dopo. Indossa una maglietta pulita, un paio di pantaloni casuali, gli occhiali da sole, e quando passa dal salotto, senza neanche pensarci, prende Cal per un braccio e lo infila in un vecchio zainetto vuoto per portarlo con sé.
Rose lo intercetta un attimo prima che esca di casa.
- Dove vai? – gli chiede, il tono tetro, l’aria di una che non accetterà una bugia come risposta.
- Da John. – risponde lui. Lei lo guarda come se volesse ucciderlo e poi si chiude in camera sbattendo la porta. Lui si chiede perché abbia mentito nonostante sapesse che lei si sarebbe arrabbiata, perché era chiaro che, evidentemente, doveva averlo ascoltato mentre parlava con papà, o quella scena non si sarebbe mai nemmeno verificata. Si risponde che l’ha fatto per proteggerla, che dirle una bugia ha significato poter evitare di parlarne, di dirle “sì, sto andando a incontrare papà, ma ha chiesto di vedere solo me”, ma in realtà sa che, più che proteggere Rose, mentendo stava proteggendo se stesso dal confronto. Dal dover dire la verità.
Quando lo realizza è già a metà strada e quasi si ferma in mezzo al marciapiede, lo stomaco schiacciato in una morsa tanto dolorosa da impedirgli di respirare, le dita strette attorno agli spallacci dello zaino. Gli tornano in mente le parole di sua madre – siete davvero identici – e lui non vuole, Dio, non vuole essere identico a papà, ma forse non c’è niente che può fare per evitarlo. Forse è un’altra di quelle cose che succedono o non succedono. O forse lui sta lasciando che succeda.
Arriva al luogo dell’appuntamento senza neanche accorgersene. È un piccolo diner aperto quasi ventiquattro ore al giorno, ad angolo fra la via residenziale in cui è situato il suo palazzo e la via più trafficata, quella che conduce verso il centro. Dave ci passa davanti ogni mattina quando va a scuola, ed ogni volta rallenta il passo per godersi più a lungo il profumo delle ciambelle appena sfornate. Ne compra una giusto per togliersi lo sfizio, mentre aspetta che suo padre si faccia vivo. Non è appena sfornata, e forse è un po’ troppo unta, ma è buona lo stesso. La granella di zucchero multicolore gli scricchiola fra i denti e gli solletica il palato, ed a lui viene voglia di comprarne una scatola intera da portare a casa, per dividerle con mamma e Rose. Forse lo farà. A Rose piacciono le ciambelle. Potrebbe essere un buon modo per chiederle scusa e fare pace.
Sta giusto cercando di ricordare se ha portato con sé soldi a sufficienza quando suo padre appare sulla porta. Si guarda brevemente intorno, ma non deve notarlo, perché si dirige verso un tavolo vuoto e prende posto, e solo allora, quando solleva lo sguardo, finalmente lo vede, gli sorride e gli fa cenno di avvicinarsi.
Dave si muove meccanicamente, un passo dopo l’altro. Sfila lo zaino dalle spalle e lo appoggia sulla metà della panca che non occupa quando si siede di fronte a lui. Resta in silenzio quando la cameriera passa a prendere la loro ordinazione. Ascolta la voce di suo padre scandire attentamente ciò che vuole – un caffè amaro ed una pasta alla crema, per il bambino un caffè zuccherato e un’altra ciambella – e poi continua a restare in silenzio per il lungo lasso di tempo che passa da quando la cameriera si allontana verso la cucina a quando torna indietro con ciò che hanno ordinato su un vassoio.
Neanche suo padre parla. Aspetta di aver visto la cameriera allontanarsi verso un altro tavolo, poi sorseggia un po’ del proprio caffè, e solo allora lo guarda.
- Come stai? – gli chiede. Dave sente già le lacrime pungere sotto le ciglia.
- Bene. – risponde.
- Rose? – domanda lui, - La mamma?
- Bene anche loro. – annuisce. Poi si interrompe, ma suo padre aspetta pazientemente, perché sa già cosa aspettarsi. – Mamma dice che non l’hai mai amata.
Suo padre sorride appena, guardando in basso e stringendo la tazza ancora calda fra le dita.
- Lei ne è sempre stata convinta.
- Ma ha ragione. – dice Dave, sporgendosi in avanti verso di lui, cercando il suo sguardo per fronteggiarlo da pari, - L’hai lasciata. Quindi non la amavi.
- Le due cose non sono quasi per niente in relazione. – obietta suo padre, sorseggiando un altro po’ di caffè, - Anzi, direi proprio il contrario.
- Stronzate. – protesta Dave, tornando ad appoggiarsi allo schienale della panca e guardando in basso, - Non prendermi in giro. Non puoi permetterti di farlo. Sono cresciuto, papà, non sono più come mi ricordi. È passato un anno intero, cazzo, e tu non ti sei più neanche fatto sentire. Ho visto che hai portato via tutte le tue cose, sei entrato in casa mentre non c’eravamo? Ridammi le tue chiavi. – quasi ringhia, porgendogli il palmo della mano aperta.
Suo padre lo osserva serio, ma alla fine infila le chiavi in tasca e recupera il proprio mazzo di chiavi, passandoglielo senza una protesta. Dave le stringe con forza fra le dita, fin quasi a farsi male col bordo seghettato.
- È vero, - annuisce suo padre, terminando il proprio caffè, - sei cresciuto. Sei un uomo, ormai. Dovrai prenderti tu cura di Rose e della mamma, lo sai, no?
- No. – ribatte lui, guardandolo freddamente, - No, ci prenderemo cura l’uno dell’altro, perché è così che funziona. Anche se cerchi di fare tutto da solo, non sei l’eroe di nessuno. Sei solo un egoista che vuole che ogni cosa giri esattamente come lui ha deciso di farla girare. – abbassa lo sguardo, le mani che tremano. – Tu forse ti senti un grande eroe perché hai liberato mamma dal pensiero di stare con un uomo che non la amava. Magari sei qui e stai pensando che quando saremo grandi capiremo e ti saremo grati e chissà che altra stronzata. Sono tutte cazzate, papà. – sospira, - Piantala di prenderti in giro.
Suo padre gli concede un sorriso stanco, annuendo ed alzandosi in piedi.
- Sei un ragazzo intelligente, Dave. – dice, - Sai già che non ci rivedremo più, vero?
- E non me ne frega niente. – ribatte lui, allunando una mano a recuperare lo zaino e tirandoglielo quasi addosso, - Ma questo portatelo via con te, io non lo voglio più vedere.
Suo padre sbircia appena all’interno dello zaino, e quando scorge la grande faccia lucida di Cal quasi gli viene da ridere. Dave gli è grato perché non lo fa – è l’unica cosa della quale lo ringrazia, in realtà.
Lo osserva avvicinarsi alla cassa, pagare e andare via senza neanche un saluto, e resta lì, seduto su quella panca, sentendosi svuotato di tutto e, allo stesso tempo, incredibilmente pesante. Gli si avvicina una cameriera poco dopo, chiedendogli se ci sia qualcosa che non va. Forse vuole che gli incartino la pasta alla crema e la ciambella, forse vuole portarle via? Dave guarda la ragazza distrattamente e ci pensa, ma poi scuote il capo. Piuttosto, le dice, mi dia una confezione di ciambelle da portare via, quella la prendo. La ragazza annuisce e si allontana, e Dave resta seduto fino a quando non riporta indietro le ciambelle chiuse in una graziosa confezione rettangolare in cartoncino bianco.
Somiglia a un regalo, e Dave sorride. Sarà un modo perfetto per fare pace.
Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: Roxy/Dirk.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Het, Flashfic, Spoiler per l'Act6.
- "Allora?"
Note: Scritta per il Carnevale delle Lande su prompt Lentiggini.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
COUNTING FRECKLES LIKE SHEEP

- Allora? – domanda Dirk, lanciandole un’occhiata dubbiosa e inarcando un sopracciglio, - Soddisfatta?
Ancora a cavalcioni su di lui, le braccia mollemente appoggiate alle sue spalle larghe ed il naso che sfiora il suo ad ogni movimento, fosse anche solo il lieve sollevarsi ed abbassarsi dei loro petti nell’atto di respirare, Roxy si passa la lingua sulle labbra, assaggia il sapore di Dirk che vi è rimasto intrappolato sopra e poi si avvicina appena, dondolando il bacino in un gesto così apparentemente casuale da non lasciare nessun dubbio su quanto invece fosse premeditato e calcolato.
- Non ancora. – sussurra, piegando il capo, - Non ho finito di contarle.
- Perché mi hai baciato arrivata a quindici. – le fa notare lui, - Non capisco perché, poi. Sono un pessimo baciatore.
- Dici? – Roxy ridacchia, ondeggiando i fianchi ancora una volta. Dirk si lascia strappare dalle labbra un gemito spaventosamente frustrato, e le stringe le mani attorno alla vita, inizialmente per cercare di fermarla, subito dopo per aiutarla ad indirizzare meglio i propri movimenti.
- Stai giocando sporco, Lalonde. – la rimprovera, cercando ancora le sue labbra mentre lei si ritrae, fingendo di giocare a fare la preda nonostante il ruolo di cacciatrice le si addica molto, molto di più. – Lo sfregamento meccanico non vale.
- No? – Roxy piega il capo, negli occhi grandi color cioccolata c’è tanta di quella finta innocenza che Dirk si sente rimescolare lo stomaco, e non è spiacevole come avrebbe potuto pensare. – E chi l’ha deciso?
- Io. – risponde, lasciandole scivolare una mano dal fianco alla base della schiena, per impedirle di indietreggiare ancora. Riesce finalmente a catturare le sue labbra in un altro bacio umido, ma Roxy pianta entrambe le mani sulle sue spalle e lo allontana ancora, un gemito infantile sulla punta della lingua mentre l’erezione ancora costretta dai pantaloni e dai boxer di Dirk comincia a premere contro il tessuto in maniera dolorosamente fastidiosa. – Roxy, Cristo santo, vuoi—
- Una, - ricomincia a contare Roxy, ogni numero un bacio in un punto diverso del suo viso, ogni numero un nuovo dondolio dei fianchi, ogni numero una collisione, ogni numero un gemito che Dirk cerca inutilmente di soffocarle fra le labbra, - due, tre… sono troppe. – ride, lasciandosi sfuggire un singhiozzo.
Dirk sospira, premendo la fronte contro la sua.
- Sei di nuovo ubriaca, uh? – domanda rassegnato.
La risata di Roxy va sfumandosi da sola, mentre lei appoggia il capo sulla sua spalla e, poco dopo, crolla addormentata.
Piagnucolando addolorato, Dirk rimane immobile, seduto per terra ad abbracciarla per impedirle di cadere di lato. Per delle ore.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Roxy/Dirk.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Onesided, Spoiler per l'Act6.
- "E' solo un’illusione, quella in cui si permette di credere. Che lo schermo di un pc possa farle da scudo rispetto alle emozioni che prova. Non ci riesce mai davvero. Le emozioni sono dentro, e lì non c’è nessuno schermo."
Note: ç_ç Il mio dolore concentrato. Quando ho detto a Tab che volevo scrivere questa storia lei era tipo "ti vuoi male", perché in effetti bisogna essere masochisti per ribadire in una fic un concetto già espresso nell'opera originale, e che mi aveva già fatto stare spaventosamente male solo a leggerlo lì ç__ç Ma insomma, che vi devo dire. Vogliamoci male tutti insieme.
Scritta per sconfiggere il crudele falco Coz per il secondo round della Zodiaco!Challenge @ fiumidiparole. Ello pretendeva storie che finissero male, per essere abbattuto. Ebbene io ti abbatterò a colpi di angst, uccello maledetto.
Ps: Titolo rubato ad un verso della splendida Never Bloom Again dei The Perishers, versi citati all'inizio rubati a Niente Di Più dei Lunapop, che è LA canzone Dixy per eccellenza. *piange tutte le sue lacrime*
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PARTLY HERE, PARTLY GONE

Quello che volevo, come sempre non c’è
Solo un po’ d’amore che diventa polvere

- Eccoti, finalmente.
La voce di Dirk le rimbomba nelle orecchie con un’eco spaventosa, e Roxy la odia. Le capita sempre, quando è in queste condizioni. Finisce sempre per volere un sacco male a Dirk per un sacco di motivi diversi, ma alla fine è sempre tutto là, non lo odia mai tanto quanto lo odia in situazioni come questa. Quando lei non ha alcuna voglia di essere trovata, ma lui la trova lo stesso.
- Non dovresti neanche essere qui. – borbotta, sorseggiando il suo martini. È già così fottutamente ubriaca che finisce a infilare tutto il viso nel bicchiere, la punta del naso che sfiora i cubetti di ghiaccio già mezzi sciolti dal calore dell’alcool. Aveva detto liscio, bastardo di un barman. Non si è neanche accorta del ghiaccio finché non l’ha praticamente toccato. È davvero ubriaca.
- Non abito così lontano da te. – dice lui, avvicinandosi e poggiandole una mano sul braccio, - Andiamo, Rox. Ti riporto a casa.
- Non ci voglio andare a casa. – piagnucola Roxy, ritraendo il braccio e scivolando – quasi cadendo – giù dallo sgabello sul quale è seduta, - E comunque non intendevo quello… non… non dovresti essere qui a prescindere. Lo sai. Io non—
- Rox, cazzo, devo prenderti in braccio? È questo quello che devo fare? – il tono di Dirk è severo, stentoreo. La sua voce è dura e spigolosa e le ferisce le orecchie. Roxy se le copre con entrambe le mani, chiudendo forte gli occhi, tanto forte che le fanno quasi male, e le tremano le ciglia. Dirk deve rendersi conto del suo dolore, in qualche modo – strano, pensa Roxy con tristezza, visto che non lo fa mai – perché il suo tono cambia istantaneamente quando torna ad avvicinarsi e le appoggia entrambe le mani sulle spalle, massaggiando piano. – Roxy, scusa. Scusami, davvero. – si avvicina e le lascia un bacio lievissimo sulla fronte. Le sue labbra sono fresche, Roxy gli si appoggia contro con un sospiro, le braccia che le ricadono inerti lungo i fianchi. – Scotti. – le dice Dirk, le labbra le sfiorano la fronte con ogni lettera che pronuncia, - Posso riportarti a casa?
- Non ci voglio andare… - quasi singhiozza lei, sollevando le mani e chiudendole in uno spasmo nervoso attorno al tessuto della sua maglietta. Schiude gli occhi e, pur nella penombra del locale, può vedere lo stupido disegno a forma di cappello sulla sua maglietta deformarsi sotto la presa delle sue dita. Ha voglia di strapparlo in due. Non solo per togliergli la maglietta di dosso. Non sa neanche lei perché. Ha solo voglia di farlo, ma non ne ha la forza. – È vuota. Non ci voglio andare. Mi sento sola.
Dirk le sospira contro la pelle, Roxy sente una fitta alla bocca dello stomaco e stringe con più forza le mani attorno alla sua maglietta.
- Resto con te. – le dice, - È troppo tardi per tornare a casa. E comunque non è che ci sia qualcuno che mi aspetta.
Roxy scuole il capo.
- Non ti ci voglio a casa mia. – piagnucola, ma lo spasmo con cui le sue dita si chiudono con forza perfino maggiore attorno al tessuto leggero della maglietta di Dirk mette in chiaro che si tratta solo di un’orgogliosa, ostinata bugia.
- Non m’importa. – risponde lui, abbracciandola stretta e nascondendo il viso contro la massa profumata dei suoi capelli biondi, - Non ti lascio da sola in queste condizioni.
- Sono sempre sola, quando sono in queste condizioni. – gli fa notare lei, tirando su col naso ed arrendendosi fra le sue braccia, lasciando in pace la sua maglietta per ricambiare la stretta.
- D’accordo, ma stavolta io sono qui. – insiste Dirk, muovendosi appena a sinistra e a destra, cullandola, - Quindi ora sta’ zitta e vieni via con me.
Roxy sa che non dovrebbe cascarci. Questo è troppo poco, non è neanche lontanamente abbastanza, non è neanche lontanamente ciò di cui avrebbe davvero bisogno, ma d’altronde Dirk non le darà mai quello di cui ha davvero bisogno, per cui Roxy si chiede se sia davvero così stupido, così infantile, così deprecabile aggrapparsi a quel poco che da lui può ottenere. Anche se sa già che l’idea di essersi accontentata la farà stare peggio dopo. In questo momento, “dopo” è un futuro lontano in cui Dirk sarà nuovamente lontano da lei, e finché lui è qui Roxy non riesce neanche a visualizzarlo.
Avrà tempo per sentirsi sola e stupida e ridicolmente innamorata. Avrà tempo per farsi del male fino a farsela passare anche controvoglia. Non ne avrà altro, però, per sentire Dirk così vicino, il suo respiro sulla pelle, il suo profumo addosso.
Chiude gli occhi ed annuisce, appoggiandosi a lui mentre lui se la stringe contro, conducendola fuori dal locale. Hanno addosso gli occhi di ogni singola persona presente, perché sono entrambi giovani – troppo per trovarsi in un posto come questo, troppo per essere nelle condizioni in cui sono, troppo anche per il dolore che le espressioni tese sui loro visi dimostrano – e perché sono rimasti immobili ad abbracciarsi e parlare a bassa voce per minuti interi, ma Dirk, nascosto dietro quei suoi assurdi occhiali da sole, sembra non curarsene, e Roxy è troppo confusa e ubriaca per pensarci, perciò a stento li nota, quegli sguardi curiosi e indagatori.
Le scivolano via di dosso, in ogni caso, appena lei e Dirk escono dal locale, e l’aria fredda della notte la colpisce come uno schiaffo in pieno viso, facendole lacrimare gli occhi.
- Sto congelando. – mugola. Dirk si toglie di dosso la giacca e gliela appoggia sulle spalle. Roxy scompare nel suo profumo e per un attimo si sente sottilmente soddisfatta al pensiero che a lui tocchi restare con addosso solo quella sua stupida maglietta a maniche corte, ma è un pensiero fugace, troppo fugace per dargli importanza quando, stringendosi in quella giacca, se chiude gli occhi riesce ancora a sentirsi come se fosse fra le sue braccia.
- Vieni, dai. – dice lui, passandole un braccio attorno alle spalle e conducendola lontano dal locale, lungo la strada. Casa sua non è così distante, ma la colpisce in questo momento per la prima volta il pensiero che Dirk non ha la macchina.
- Come sei arrivato fino a qui? – domanda. Lui scrolla le spalle.
- In treno. – risponde con naturalezza.
- La stazione è dall’altra parte della città. – gli fa notare lei, aggrottando appena le sopracciglia sottili.
- Poi mi sono mosso a piedi. – sospira Dirk, - Perché il terzo grado?
- Così. – risponde Roxy, abbassando lo sguardo e sentendosi irrazionalmente in colpa. Dirk ha fatto tutta quella strada solo per lei, e lei non riesce a fare altro che odiarlo, in questo momento. E volerlo lontano. E volerlo vicino. E volerlo e basta. Roxy sospira, e lui si ostina a guardare fisso davanti a sé, chissà se vede qualcosa oltre quelle lenti scure, ora che è così buio. – Stavo pensando… - comincia a bassa voce, - Gli occhiali potresti anche toglierli.
- Non mi danno fastidio. – risponde lui. Il suo tono è netto, quasi maleducato, ma non infastidito. C’è poca differenza fra le due cose, così poca. Roxy ne ha dovuta fare, di fatica, per imparare a distinguere le sfumature fra i caratteri sempre uguali sullo schermo di un pc. – A te?
Si stringe nelle spalle, abbassando lo sguardo. È ancora troppo ubriaca per riflettere, strascica i piedi contro l’asfalto e nella strada silenziosa è l’unico rumore che si sente assieme ai passi netti e decisi di Dirk.
- Ce la fai? – le domanda lui, fermandosi a guardarla. Lei si ferma di riflesso, ma non riesce a sollevare lo sguardo.
No che non ce la fa.
- Sì che ce la faccio.
Dirk sospira, si volta, cammina per qualche altro minuto, ma Roxy rimane indietro.
- No, non ce la fai. – sentenzia alla fine, avvicinandosi e dandole le spalle, - Salta su.
- È ridicolo. – si lamenta Roxy, - No.
- Salta su. – insiste lui, voltandosi a guardarla da sopra una spalla. Nonostante le lenti ridicolmente larghe che si allungano ai lati del viso di Dirk, Roxy riesce a scorgere un lampo dei suoi occhi scuri e delle sue sopracciglia corrugate. Si rassegna a poggiargli entrambe le mani sulle spalle, e poi le basta sollevare appena le ginocchia per appendersi ai suoi fianchi magri. Le mani forti di Dirk si chiudono con delicatezza sotto le sue cosce, sollevandole appena la gonna, sorreggendola mentre lei si aggrappa alla sua schiena e nasconde il viso nell’incavo del suo collo.
- È ridicolo. – ribadisce, strusciando il naso contro la linea così netta dei tendini tesi sotto la pelle, - Potevo camminare.
- Roxy, stai zitta. – intima lui con un sospiro spazientito, e lei si rassegna, perché d’altronde non è quello che fa continuamente, con lui?
Arrivano a casa in poco tempo. La strada è buia e silenziosa, così come il palazzo. Roxy guarda la finestra di camera sua, al terzo piano, e non vuole tornare a casa. Non ci vuole tornare per nessun motivo al mondo. Ma ci tornerà, perché è lì che Dirk la sta portando. E Roxy seguirebbe Dirk ovunque. Si farebbe ammazzare, cazzo. Forse alla fine ci riuscirà davvero. Sarà molto eroico e molto inutile, la fine perfetta per un’Eroina del Vuoto, sempre che le riesca di diventarlo. Un’Eroina del Vuoto. Non può che morire per niente.
- Se ti metto giù, poi ce la fai a salire le scale? – le domanda Dirk. Lei nasconde il viso contro il suo collo.
- Non voglio tornare a casa, Strider. – borbotta.
- Ma ci tornerai, perché io sono stanco, perché pesi e perché voglio dormire e non posso tornare a casa mia per farlo. – sbuffa lui. – Andiamo, tira fuori le chiavi.
Roxy abbozza una protesta, niente più che un paio di parole che si fondono e si confondono l’una con l’altra, facendole sentire la mancanza della tastiera, di uno schermo e della possibilità di riscrivere ciò che ha sbagliato, anche se spesso non ci riesce. Sembra tutto molto più facile, quando non sono vicini. Sembra anche meno doloroso, anche se è solo un’illusione, quella in cui si permette di credere. Che lo schermo di un pc possa farle da scudo rispetto alle emozioni che prova. Non ci riesce mai davvero. Le emozioni sono dentro, e lì non c’è nessuno schermo.
Si rassegna a recuperare le chiavi di casa, comunque. Apre il portone sbagliando ad inserire la chiave una quantità infinita di volte, ma Dirk non la rimprovera per questo. Aspetta che siano entrambi all’interno dell’ingresso del palazzo, e poi prende nuovamente Roxy in braccio.
Lei lancia un gridolino, aggrappandosi al suo collo, presa alla sprovvista, e lui se la stringe al petto, imboccando le scale.
- Potevo camminare da sola. – protesta. Dirk sbuffa, scrollando le spalle.
- Come ti ho detto, sono stanco. Ci avremmo messo le ore ad arrivare al terzo piano. Figurarsi. Preferisco portarti io. – poi sulle sue labbra si apre un sorriso gentile, quasi tenero. – È come quando fai la sonnambula su Derse. Se ti lasciassi andare, so che prima o poi torneresti da sola. Ma quanto ci metteresti? E io dovrei restare lì ad aspettare per ore i tuoi comodi? Preferisco recuperarti personalmente, perdo molto meno tempo.
Roxy nasconde il viso contro il suo petto, inspirando il suo profumo a pieni polmoni.
- Non ti ho mai ringraziato. – sussurra.
Dirk scrolla ancora le spalle.
- Io non te l’ho mai chiesto.
All’interno, l’appartamento è silenzioso come una tomba. Roxy si stringe a Dirk in un gesto quasi inconscio, come a chiedergli di non lasciarla andare, e lui obbedisce, sistemandosela fra le braccia.
- Mi porti in camera? – pigola lei, chiudendo una mano a pugno attorno al tessuto della sua maglietta.
Dirk annuisce, attraversando il corridoio senza una parola di più. Roxy lo guarda dal basso, cercando un frammento dei suoi occhi, uno spicchio della sua espressione, qualsiasi cosa oltre la piega severa delle sue labbra, e sorride fra sé, perché quello che succede su Derse deve essere molto simile a quello che sta succedendo qui adesso, e lei è contenta di poterlo vedere, almeno una volta.
- Eccoci qua. – dice Dirk. Roxy alza lo sguardo e vede il proprio letto, e la stretta delle sue dita attorno alla maglietta di Dirk si fa più ostinata. Lui se ne accorge, naturalmente, ma non si ferma. Muove un passo e poi un altro e in pochi secondi sono davanti al letto, ma lui la tiene ancora in braccio.
Lei sospira e chiude gli occhi.
- Mettimi giù, dai. – si arrende. Si arrende lei, ma il suo corpo no. Dirk la aiuta a stendersi sul letto, ma le sue dita restano saldamente aggrappate a lui, e lo trascinano giù. E Dirk non se lo aspetta, perché si lascia trascinare, o forse se lo aspetta e si lascia trascinare lo stesso. Roxy non è sicura di volerlo sapere. O che le interessi.
Sente tutto il peso del suo corpo sopra il proprio e si chiede “sarà così? È questo, quello che voglio?”, e lei sue mani scivolano in automatico a circondare le spalle di Dirk, stringendoselo contro il petto, e le sue labbra cercano le sue in gesti timidi e confusi, ma il corpo di Dirk resta immobile, le sue labbra sono fredde e secche, ed anche se, nel movimento, gli occhiali gli sono scivolati via dal naso, i suoi occhi sono inespressivi tanto quanto quelle stupide lenti.
- Rox. – dice a bassa voce, - Rox, lasciami andare, dai.
- No. – Roxy scoppia in un singhiozzo gonfio e stremato, aggrappandosi alle sue spalle, strattonando la sua maglietta, agitandosi sotto di lui, - No, voglio che resti con me. Dirk, ti prego.
- Rox. – ripete lui, la voce bassa, sollevando una mano ed accarezzandole il viso, - Ti prego.
Lei si volta, preme le proprie labbra contro le sue dita, lui ha un’esitazione, poi si stende contro di lei, quasi abbattendosi sul suo corpo, avvolgendole le braccia attorno alle spalle e stringendola forte.
- Perché non posso averti? – piange Roxy, guardando spicchi di soffitto fra i capelli di Dirk.
- Ma io sono tuo. – risponde Dirk, nascondendo il viso contro l’incavo del suo collo.
Roxy deglutisce, socchiude gli occhi e le lacrime cominciano a bruciarle addosso.
- Non abbastanza. – mormora, premendo entrambe le mani contro il suo petto.
Dirk si solleva, la guarda dall’altro. I suoi occhi sono lucidi.
- Mi dispiace. – le sussurra, strofinando la punta del proprio naso contro il suo.
Roxy si lascia sfuggire un sorriso amaro, perché non le importa.
- Ti conviene allontanarti. – lo avverte, - Mi sento male.
Lui sbuffa un mezza risata, e la sua voce rotta forse è abbastanza per consolare Roxy. Non può avere lui, ma può avere il suo dolore. Può condividerlo, perché è lo stesso.
- Cerca di riposare. – le sussurra Dirk, lasciandole un bacio fresco sulla fronte e poi alzandosi in piedi, - Io sarò di là sul divano.
Roxy annuisce, sgattaiola sotto le coperte, le usa per nascondersi, tirandosele su fin sopra la testa. Poi dorme, e su Derse comincia a fluttuare. E Dirk le corre dietro anche lì.