rp: luise maria

Le nuove storie sono in alto.

Storia appartenente alla serie Jung Und Nicht Mehr Jugendfrei, prequel di Eine Kugel Reicht.
Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Nessuno.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Language.
- "Quando torno a spostare la mia attenzione su di lui, Anis sta ancora sorridendo. Io non riesco nemmeno a trovare un’espressione, perché sono troppo felice."
Note: Sono circa due ore che cerco di postare questa storia X’D Prendetevela con Tab, ella mi ha fatto leggere cose ed io mi sono enormemente distratta. Comunque! Ecco a voi il secondo episodio di Mini!Fler e Mini!Bu alle prese con le difficoltà dell’adolescenza, i primi batticuori, le prime consegne, le prime pistole *annuisce compitamente* Son ragazzini, d’altronde. E Fler è palesemente troppo piccino per ciò a cui lo sottopongo ;_; Ponfolo. Ma questo non fa che renderlo ai miei occhi più puccino e meritevole d’amore. Sono una madre asservita. E Bushido è bellissimo. E la Smith & Wesson (che è quella che Fler porta con orgoglio in Staatsfeind #1, oltretutto XD), potete vederla cliccando qui, io la amo, è meravigliosa, ne voglio una uguale e soprattutto me la sto coccolando da millemila milioni di mesi. 
A parte ciò, unica precisazione riguardo al titolo, rubato (e riadattato) da un verso della splendida Weapon di Matthew Good. Posso già sentire Meg urlare come una fangirl impazzita in sottofondo. \o/
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How He Made Me A Weapon


Anis entra in camera mia dalla finestra e sta già sorridendo. Io – che sono qua seduto sul letto e sfoglio un volume di Spider Man che dovrà avere trent’anni, e comunque lo so a memoria – faccio finta di non notarlo, perché vedo che sta già sorridendo in quel modo lì. Anis quando sorride in quel modo lì sta pensando cose. Quando Anis pensa cose bisogna cominciare a preoccuparsi, anche perché non è che lo capisci, cosa sta pensando, finché non te lo dice lui; sai solo che qualcosa c’è, ma non sai cosa, ecco.
- La grondaia sta cedendo. – mi fa, e si butta sul letto accanto a me, facendo saltare tutto il materasso.
- Continui ad appendertici… - gli faccio notare, scrollando le spalle e girando la pagina, - È solo una grondaia, lasciala in pace. Puoi entrare dalla porta.
- È più comodo così. – ride lui, - Evito tua madre che mi chiede se voglio mangiare perché “oh, Anis, sei così magro”!
- Patrick! – mi chiama mia madre dal piano di sotto, appunto, - È già salito Anis?
Io sbuffo e mi metto in piedi, abbandonando il fumetto aperto sul letto ed affacciandomi alla porta per parlarle attraverso la tromba delle scale, mentre Anis, giustamente, ride, prendendo il fumetto in mano e cominciando a sfogliarlo con aria perfettamente tranquilla.
- Sì! – urlo, - Ma la vecchia scala di papà c’è ancora da qualche parte? – chiedo.
- Sì, tesoro, c’è, - risponde lei, mentre la sento aprire il frigo, - ma non ti permetterò di mettere una scala davanti alla tua finestra.
Io sbuffo ancora, roteo gli occhi e mi chiudo la porta alle spalle, tornando a letto.
- Devasterai la grondaia perché mamma non mi fa mettere su la scala.
Anis ride ancora, e continua a sfogliare l’albo.
- Tua madre ha ragione. Chissà quanti omaccioni brutti e cattivi salirebbero.
Io ghigno.
- Te compreso?
- Io – continua a ridere lui, dandomi un colpo di fumetto sulla testa, - non sono un omaccione, non sono brutto e non sono cattivo.
Inarco le sopracciglia e potrei rispondere a tono a tutte e tre le cose. Faccio anche per dirlo, in realtà, apro la bocca e tutto, cercando di riprendermi il fumetto, ma mia madre apre la porta e, per evitare che mi trovi tutto spalmato addosso a lui, mi tiro indietro, schiacciando le spalle contro la parete e guardandola con aria un po’ irritata quando avanza all’interno della stanza reggendo fra le braccia un vassoio con due bicchieri di latte e un piattino con qualche biscotto al cioccolato. Mi sa che stavano pure finendo e quella era la mia colazione di domani, che palle. Mi toccherà tirare fuori da sotto il materasso qualche soldo e andare a comprare qualcosa per i fatti miei. Poi il resto glielo metto nel portafogli, tanto mamma i soldi non li conta mai, non li contava prima e non si accorgeva che sparivano e non li conta adesso, e non si accorge che appaiono.
- Anis, sei sempre più magro! – chioccia mia madre, posando il vassoio sul mio comodino e intrecciando le mani sul cuore in una posa apprensiva, - Bevi un po’ di latte e mangia un po’ di biscotti, per favore. Tua madre comincerà a chiedersi se non ti affamiamo, quando vieni qui da noi!
Io roteo gli occhi ed evito di dire che la madre di Anis, chiunque sia, probabilmente non sa nemmeno della mia esistenza, figuriamoci della sua e figuriamoci poi se sa che è qui che Anis viene a passare i pomeriggi quando non lavora. Chissà se sa che lavora, oltretutto. Magari è ancora convinta che frequenti il ginnasio, ‘cazzo ne so. Anis è capace di farti credere quello che vuole.
- Signora, - la saluta lui con un cenno del capo, e fa quel sorriso lì, quello delle femmine, che quando lo fa alle ragazze per strada va anche bene, ma se lo fa a mia madre io un po’ mi schifo, se devo dire la verità, perciò storco il naso e faccio una smorfia, distogliendo lo sguardo, e lui ride. – Grazie mille dell’ospitalità. – continua, e mentre mia madre si prende benissimo e comincia a chiedergli come sta e tutto a me viene voglia di mandarlo a fanculo.
Comunque, a un certo punto ci sono loro che continuano a parlare e io non so se mi dà più fastidio che Anis stia parlando con mia madre o che mia madre stia parlando con Anis, però non è neanche così importante, alla fine, e tutto ciò che riesco a fare è mettermi a sbuffare. Mia madre si lamenta che cerco di tenerla all’oscuro della mia vita – e non sa che è vero, e non sa che le sto facendo un favore – e Anis si mette a ridere. Lo odio quando ride così.
- In realtà oggi sono venuto perché volevo chiedere a Patrick quand’è che fa il compleanno. Giusto per sapere. – fa. Ed io mi sento gelare il sangue nelle vene.
- Oh! – s’illumina mia madre, e io per poco non mi spiaccico una manata sulla faccia, - All’inizio del mese prossimo, il tre aprile.
- Mamma, ma chi ti ha detto di-
- Oh… - ghigna Anis, e basta questo a zittirmi, - Fra poco. – mi fa notare con un altro di quelli sorrisi lì, tipo quelli delle femmine, però quando li fa a me non sono quelli delle femmine. Non so perché mi sorride in questo modo, a volte, però so che sa che mi mette un sacco in imbarazzo. Forse è per questo che lo fa, visto che è uno stronzo. – E sono quindici, giusto? – e io voglio sparire.
Mia madre spalanca gli occhi e mette su una faccia un po’ stupita e un po’ confusa, tipo che secondo me si sta chiedendo se Anis non abbia fatto male i conti, e quindi fa tipo “uhm” e io abbasso lo sguardo ed arrossisco, e lei tipo “no, Anis, ti sbagli, deve farne quattordici”.
Anis si ferma immobilissimo accanto a me. Si prende il tuo tempo, non so a cosa pensi, comunque quando sollevo gli occhi mi sta guardando fisso e sta ghignando in una maniera insopportabile, che io per forza devo aggrottare le sopracciglia e guardarlo come se volessi ucciderlo qui ed ora, anche se a lui la cosa non fa il minimo effetto, perché continua a ghignare in quel modo.
- Ti fai grande! – dice alla fine, e io un po’ apprezzo che non mi abbia sputtanato con mia madre, ma tanto dall’altro lato so che me la farà scontare tutta quando saremo da soli, quindi non lo apprezzo più di tanto, so già che non se lo merita.
Mia madre scende al piano di sotto qualche secondo dopo, e io nemmeno lo guardo, Anis: lo sento che sta ancora ghignando, qui accanto a me, ed è troppo vicino per poterlo guardare che ghigna in questo modo e restare tranquillo. Nel senso, so già che se mi volto e lo vedo che ghigna così e così vicino, faccio qualcosa. E sono quasi sicuro che sarebbe qualcosa di cui mi pentirei, anche se non so esattamente cosa farei, quindi preferisco non fare niente e basta. Lui mi spintona un po’.
- Quattordici ne avevi, mh? – mi prende in giro, - Ragazzino, sei stupidissimo.
- Non sono stupido! – sbotto, tornando a guardarlo, - Non ho mentito, ne ho quasi quattordici!
- Sì, ma tu mi hai detto che li avevi già compiuti… - fa un rapido calcolo, - tre mesi fa. – e ride. Poi sospira e mi guarda, inarcando un po’ le sopracciglia. – Sei bravo a raccontare balle. – mi fa, avvicinandosi appena, - Ci ero cascato, anche se a guardarti, adesso che lo so, è ovvio che sei un bambino. È un bel talento, ti sarà utile in futuro. – e poi si avvicina ancora e io respiro a fatica. È troppo vicino, non si va così vicini alle persone, invadi il loro spazio, rubi la loro aria, non si fa e basta. – Solo, non provarci mai più con me, ragazzino. Potrei arrabbiarmi.
E io boccheggio un po’, perché quando me lo dice è veramente troppo troppo vicino, e quindi mi tiro indietro, e nel tirarmi indietro mi dimentico che il mio, per quanto grande, giustamente è un letto singolo, e quindi casco. Si può essere più idioti? Casco. Col culo per terra. E mi faccio pure un cazzo di male, oltretutto. E Anis, manco a dirlo, ride come se non avesse mai visto niente di più divertente in vita propria. Che poi mi sa che è anche vero. Sto facendo una figura ridicola dietro l’altra.
- Insomma, il tre aprile. – lo vedo che prende nota, lui c’ha tipo questa cosa che si scrive le cose in testa, no? Fa così anche quando Arafat gli dice cosa fare e dove andare, lui segna tutto mentalmente e quando lo fa glielo vedi passare negli occhi, tipo. Che poi è strano, perché ha gli occhi scuri e torbidi, quindi non ti aspetti che possano parlare tanto. Però quando lui vuole lo fanno. Quando vuole che tu lo capisca senza sprecarsi a parlare, per esempio. Con me l’ha fatto ancora pochissime volte, però io l’ho afferrato, quelle volte, cos’è che mi stava dicendo. Quindi penso che lo farà più spesso, in futuro, e siccome Anis è uno cazzuto questo vuol dire che sono cazzuto anch’io. E ne sono orgoglioso, ecco.
In tutto questo però sono ancora seduto in terra come un cretino, perciò – siccome mi sento ancora più stupido a pensare in grande quando sembro un idiota – mi metto in piedi e lo fisso. Ormai sono alto quasi quanto lui. In tre mesi sono cresciuto un casino, e anche se lui dice che è merito suo, che mi tiene in forma, io penso sia solo merito del fatto che sto crescendo e basta, quindi in pratica non è merito di nessuno, al limite mio. E insomma, non può mica prendersi tutti i meriti lui.
- Sì, il tre aprile. – confermo, - Cosa, vuoi portarmi il regalo?
- La mia presenza sarebbe un regalo sufficiente. – ride lui, scendendo giù dal letto apposta per ricordarmi che mi supera ancora di almeno cinque centimetri, - Ma in realtà ho dei progetti migliori. Solo che, visto che sei ancora così piccino, li rimanderò all’anno prossimo.
Aggrotto le sopracciglia e sbuffo.
- Che progetti?
- Fidati.
- Riguardano me, ho il diritto di-
- Fidati. – ripete lui, voltandosi verso la finestra. – Andiamo? Siamo in ritardo di dieci minuti, Arafat ha parlato col cubano, stamattina, e dobbiamo andare al porto a recuperare un carico.
Io sbuffo, mentre lo osservo scavalcare il davanzale e cominciare a scendere lungo la grondaia. Lo imito, reggendomi al tubo come mi ha insegnato a fare lui una delle prime volte che è venuto, e solo quando siamo di nuovo a terra, sul prato tutto rovinato del cortile dietro casa mia, gli parlo ancora.
- Quanti chili dobbiamo portarci in giro, stavolta? Otto? Dieci?
Lui ghigna e annuisce.
- Dieci. Ma tanto ormai hai le spalle forti. Cosa vuoi che siano cinque chili di polvere? Mi sa che lo zaino della scuola pesava di più.
- Sì, ma – gli faccio notare, - i libri della scuola non mi attiravano addosso gli spiantati che volevano rubarseli.
- A proposito, - mi chiede lui, andando verso la macchina, - ci vai ancora, sì?
- Uh? – chiedo io, mentre lui apre lo sportello, facendo il giro della macchina, - Dove?
- A scuola, ragazzino. – borbotta sedendosi al proprio posto, - A scuola.
Io mi seggo lì di fianco e scrollo le spalle.
- Tu non ci vai più.
- Ti ho chiesto se ci vai tu, non se ci vado io. – mi fa notare lui, e io distolgo lo sguardo.
- Non avevano nient’altro da dirmi, al ginnasio. – rispondo a bassa voce.
Lui sospira e mette in moto.
- Sei stupidissimo, ragazzino. – commenta. Però poi ride. – Mi sa che hai ragione, comunque.
Il discorso lo chiudiamo così e io a scuola non ci metto più piede, e non me ne pento nemmeno, perché comunque andare in giro con Anis è un sacco più istruttivo, e poi guadagno bene, Arafat mi ha preso in simpatia perché dice che sono sfacciato e ho le palle – e se Arafat ti dice che hai le palle allora le hai davvero – e mi sa che presto mi farà fare qualcosa tutto da solo, che io ci spero, perché per quanto mi piaccia andare in giro con Anis lui è convinto che io non saprei fare niente, senza di lui, e questo non è vero, saprei cavarmela alla grande. Solo che ad Anis non basta dirgliele, le cose, per fargliele capire: devi fargliele vedere. Quindi lui non si rassegnerà ad ammettere che anche io sono capace di farcela, almeno fino a quando non mi avrà visto tornare vivo da un lavoro che ho portato a termine tutto da solo.
Comunque niente, le cose vanno bene, quel pomeriggio – e in realtà vanno bene anche i pomeriggi successivi, e settimana dopo settimana io entro sempre più nel giro, e i soldi diventano di più, e le sbronze più frequenti, e Anis diventa praticamente una costante della mia vita. E io che prima mi annoiavo un sacco comincio a fare un sacco di cose, comincio a uscire di notte – quando Arafat decide che sono pronto ed Anis è d’accordo con lui, non prima – e anche se il lavoro da solo continua a farsi attendere in realtà non posso lamentarmi, perché faccio un sacco di cose tutto il giorno, non mi riposo quasi mai e porto a casa un sacco di soldi e altrettanti posso tenerne per me. Finché mamma non capisce da dove vengono, va bene, e quando lo capirà sarà okay lo stesso, perché le farò capire che è tutto a posto, non sono in pericolo, sto diventando forte e comunque Anis mi aiuta. Si fida di lui, anche se non penso dovrebbe. Cioè, lei si fida di lui a livello generale. È questo che non dovrebbe fare. Però potrebbe fidarsi di lui per quello che riguarda me, perché con me Anis è onesto, e fa le cose per bene. Di questo si può fidare. Di questo posso fidarmi anch’io.
In sostanza, in questo periodo che c’ho un sacco da fare, mi passano di mente i grandi progetti che Anis ha per me e per il mio compleanno. Me li ricordo solo il tre aprile, che non c’ho nemmeno voglia di svegliarmi perché ieri sera sono rimasto ad aspettare Anis nel punto in cui dovevamo vederci per qualcosa come millemila ore, dalle undici alle due del mattino circa, e solo alle due, appunto, lo stronzo s’è degnato di farmi sapere che potevo tornarmene a casa perché lui aveva trovato da fare e non poteva farsi vedere. E al telefono sentivo ridacchiare una troia, ovviamente. Il suo da fare, quando dice che non ha tempo per me, in genere quello è. Quindi me ne sono tornato a casa pure coi coglioni girati, e sono riuscito ad addormentarmi che erano tipo le quattro del mattino. Perciò ora mi da fastidio che mi tiri i sassolini sulla finestra, che rischia anche di rompermi il vetro. E – apro un occhio e guardo la sveglia – sono le undici. Ho sonno. Stronzo due volte.
Mi alzo controvoglia, mi affaccio e lui mi tira una sassata sulla faccia. Cioè, fanculo. Non è che lo fa apposta, me ne rendo conto, ma fanculo lo stesso.
- Ahi! – ruggisco, tirandogli indietro il sasso, - Ma dico, che stronzo!
- Scusa! – ride lui, prendendo il sasso al volo e facendoselo saltare sul palmo, - Certo che quando dormi non ti smuove nessuno!
- Veramente mi hai svegliato mezz’ora fa. Non mi sono affacciato subito perché non volevo farlo. Sei uno stronzo, comunque, ieri potevi almeno-
- Oh, andiamo, Pat, ho avuto da fare, te l’ho detto e ti ho chiamato, cosa volevi di più, che venissi a salutarti e darti il bacio della buona notte mentre cercavo di infilarmi fra le gambe di Marina, ieri?
Aggrotto le sopracciglia e incrocio le braccia sul petto.
- È il mio compleanno. – dico. Non so perché lo dico.
Lui sorride.
- Lo so. È per questo che sono qui. – non mi fa tanti auguri. Dico, che stronzo. – Scendi?
Io sospiro e neanche gli chiedo perché vuole che scenda, tanto è palese che se non vado giù io con le mie gambe sale a prendermi e a portarmi giù lui, perciò richiudo la finestra, mi infilo un paio di pantaloni ed una maglietta a caso, recupero le scarpe, metto la giacca e saluto mamma, che fa la gnorri e fa finta di niente anche se ho visto un pacco regalo enorme nascosto dietro la poltrona, in salotto.
Quando esco in strada, Anis è già in macchina che suona il clacson.
- Sì, sono qui! – borbotto, scavalcando il cofano con un salto per fare prima. Sono cresciuto ancora, nell’ultimo mese. Le mie gambe sono diventate chilometriche, posso farci un sacco di cose. Comunque entro in macchina. – Tutta ‘sta fretta perché?
- Perché siamo in ritardo, ovviamente. – annuisce lui, mettendo in moto, - Arafat ti farà il culo, ragazzino, perché io gli dirò che è stata colpa tua.
- Ma lavoriamo anche oggi? – mi lagno, sollevando una gamba per incastrarmi fra il cruscotto e il sedile, anche se ormai non mi riesce più bene come mi riusciva quattro mesi fa, - Non ce l’ho il diritto a una vacanza, almeno oggi?
- Li vuoi i tuoi regali, ragazzino? Allora te li devi guadagnare. – risponde lui, pratico, sfilando svelto fra le strade di Berlino nonostante il catorcio.
- Ma i regali non dovrebbero arrivare gratis? Che regali sono, se me li devo guadagnare? – borbotto.
- La vita gratis non ti dà niente, ragazzino. – annuisce lui, - Quindi ora basta lamentarti, Arafat ha in serbo qualcosa di importante per te.
- Sì, però – scrollo le spalle io, - noi non stiamo andando da Arafat.
Lui si irrigidisce appena e poi ghigna.
- Ma bravo. Sappiamo già le strade a memoria?
- Tu sei convinto che io sia scemo, ma non è mica vero. – gli faccio notare, sollevando anche l’altra gamba e cercando una posizione più comoda.
- Ti sbagli, ragazzino. – mi corregge con un mezzo ghigno, - Io non sono convinto che tu sia scemo. Sono solo convinto di essere più intelligente di te.
- Oh, sì, immagino che ci sia una differenza. – protesto astioso, sferzandolo con un’occhiataccia, o almeno provandoci. Non che ci si riesca mai particolarmente bene, con lui. Il punto è che, se decide di ignorarti, tu puoi pure ricoprirlo di ingiurie, ma non lo scalfisci per niente. Quindi chiaramente ora lui guarda dritto sulla strada e se ne frega dei miei occhi, anche se sto facendo di tutto per cercare di perforargli il cranio col solo sguardo. Stronzo.
- Ragazzino, - ride lui, svoltando all’improvviso in una strada che non conosco, - vuoi piantarla di fissarmi così? Non te lo do il tuo regalo, sai?
- Non mi servono i tuoi regali. – sbotto, rimettendomi dritto, - Senti, ma dove mi porti? – chiedo poi, e non riesco a trattenere la curiosità nella voce, dannazione. Lui, comunque, la ignora del tutto, e si ferma alla prima parte di ciò che ho detto. Ne esce sempre facilmente, così, ascolta solo quello che vuole. O meglio, ascolta tutto, registra tutto e risponde solo a ciò che vuole.
- Potrei anche offendermi. Non sai cosa voglio regalarti, oltretutto. Potrebbe piacerti.
- Ma ti ho detto che non mi interessa! – insisto, - Dove andiamo?
- Se non ti interessa faccio il giro e ti riporto a casa, eh?
- Ma la vuoi piantare di non ascoltarmi?! – sbotto, saltellando praticamente sul sedile, - Ti sto chiedendo da mezz’ora dove andiamo e tu mi ignori!
- Non è esatto. – ghigna lui, parcheggiando di fronte ad una casetta bianca e grigia dall’aria non ricchissima ma nemmeno tanto ammaccata come le altre che costeggiano la via, - Mi hai chiesto dove stavamo andando ed io ti ho risposto che se l’articolo non t’interessava ti avrei riportato a casa. È una risposta.
- Del cazzo. – borbotto io, imitandolo quando, dopo aver spento il motore, apre lo sportello e scende dalla macchina, - Quale sarebbe l’articolo che dovrebbe interessarmi?
- Be’, - risponde con un sorrisino, imboccando un vialetto ghiaioso, - io, suppongo.
- Non erano i tuoi regali? – rispondo con un ghigno furbo.
- Io non sono un bel regalo? – continua lui, ridendo come il cretino che è.
- Tu sei uno stronzo. – gli faccio notare, e lui ride ancora.
- Una cosa non esclude l’altra. – risponde serafico, - E ora modera il linguaggio, ragazzino. Stai per conoscere la Mama.
Io non ho il tempo materiale di chiedermi cosa intenda lui con quest’epico “la Mama” che peraltro gli è scivolato fra le labbra avvolto in un’aura di sacralità che mi fa pure paura. Non ho neanche il tempo materiale di mandarlo a fanculo perché a me, di moderare il linguaggio, non me lo dici, tunisino del cazzo o quel che sei o qualunque sia il dannato luogo dal quale provieni. In realtà non ho il tempo materiale di fare niente, perché appena Anis apre la porta io finisco stretto fra due braccia e schiacciato contro un paio di seni, tipo, giganteschi, che profumano distintamente di cioccolata. E comincio ad agitarmi.
- Buon compleanno, Pat! – dicono le tette giganti, ed io sento Anis ridere da qualche parte intorno a me, anche se non riesco a identificare quale, visto che tutti i suoni mi arrivano ovattati. Il mio naso è perso da qualche parte assieme alla mia faccia, io inalo solo odore di dolci ma ciò non significa che io riesca a respirare. Infatti non ci riesco, e cerco di farlo notare alle tette giganti appendendomi un po’ ovunque e cercando di spingerle via, ma non ci riesco perché hanno una presa di ferro. Dico, delle tette con una presa. Non potevo aspettarmi niente di diverso dalla donna che ha partorito Anis, suppongo.
- Mama, Mama… - lo sento dire, e poi le due tette giganti, finalmente, mi lasciano libero. Quando torno a respirare, vedo che appartengono ad una signora bassa e rotondissima, pallida e incredibilmente tedesca. C’ha pure gli occhioni azzurri e i capelli rossi e lunghi e lisci e mi sa che quelle sono tipo lentiggini. Cioè, wow. Com’è che da questa signora bianchissima è venuto fuori il tunisino? – Non me lo soffocare, - continua Anis, ed io mi rendo conto che sono libero perché lui l’ha presa per un braccio per sbaciucchiarsela con un gusto che manco fosse fatta di zucchero, - mi serve ancora.
La signora mi guarda come se non avesse mai visto niente di più bello di me al mondo, tipo.
- Oh, Anis, - sospira stringendo le mani al petto mentre io guardo prima lei e poi il figlio con aria fra lo sconvolto e l’impaurito, - ma è carinissimo!
Io spalanco gli occhi e mi concentro su di lui. Però punto l’indice contro di lei.
- Mi conosce? – chiedo confusamente. Anis ride.
- Mi ha parlato moltissimo di te! – risponde la signora al suo posto. Io continuo a guardare Anis come se lo stessi vedendo per la prima volta, e la signora continua a parlarmi come se io non la stessi indicando in un modo che, peraltro, se ci fosse qui mia madre mi darebbe mestolate sulle mani, - Mi ha anche detto che oggi è il tuo compleanno, quindi tanti auguri, tesoro! Dentro c’è la torta e qualche amico coi regali, e- oh, a proposito, io sono Luise.
Io cerco di prendere tutte le informazioni che la signora mi sta passando e organizzarmele nel cervello, ma non mi viene tanto bene. Un po’ perché, boh, Anis che parla di me a sua madre mi stupisce e mi imbarazza pure. Voglio dire, boh. Cioè, boh. È strano. Eppoi di che gente parla? Non ho capito, chi c’è qua dentro? Ma è una festa a sorpresa o che?
E comunque non ho il tempo di lamentarmi – di nuovo – perché la signora mi tira ancora verso di sé, mi stringe e, mentre Anis ride di cuore e sale al piano di sopra – ‘cazzo mi lasci qui da solo con tua madre, stronzo?! – mi trascina verso la sala da pranzo, dove ovviamente trovo gli altri. E gli altri sono Arafat, Hussein, Mirko, Abdallah e tutti gli altri della banda, che io comincio a chiedermi se a questo punto anche la signora non sia una spacciatrice o chissà che. E nel frattempo Anis è ancora sparito al piano di sopra e io sono qui con tutti che mi fanno gli auguri e mi danno manate sulle spalle e mi passano pacchetti con le caramelle – perché sfottono, gli stronzi, e visto che sono quattordici anni mi regalano le caramelle, che cazzo – e la signora Luise mi propina una fetta di torta grande quanto la mia testa ed è tutta al cioccolato e con la panna sopra, quindi a un certo punto basta, me ne frego, mi siedo e comincio a mangiare, che tanto stanno ridendo tutti, quindi non vedo perché non dovrei farlo anch’io.
Il momento di grazia è interrotto da Anis, ovviamente, figurarsi se quell’uomo mi lascia in pace una volta che sono tranquillo per i fatti miei. Che poi non sono tranquillo per i fatti miei, al più sono tranquillo per i fatti suoi, perché questa gente con me fino a qualche mese fa non c’entrava niente, e invece ora sono diventato tipo parte della famiglia. Che non è come rinnegare mia madre, è più come… allargarsi verso qualcosa di più completo. Non lo so, Anis ogni tanto mi dice che ci sono cose che capisci solo col tempo, quando vai crescendo. Questa cosa io sto cominciando a capirla ma non è che so proprio spiegarla.
Comunque è una cosa piacevole. Allargarsi verso qualcosa di più completo, dico, non Anis che mi interrompe proprio mentre sto mandando giù la rosellina di biscotto che la signora Luise mi ha appena detto di avere intagliato per me durante la mattinata.
- Ragazzino. – dice, tutto serio, - Vieni di fuori, dai.
Io sollevo lo sguardo col biscotto mezzo in bocca e mi lamento.
- Ma sto mangiando! – protesto, e tutti ridono attorno a me. Anis aggrotta le sopracciglia ed Arafat, qui accanto a me, mi tira una mezza gomitata contro la spalla e mi dice di alzarmi.
- Vai con lui, - mi fa, - che ha anche preteso di pagartelo tutto da solo, il tuo regalo.
Io piego un po’ il capo e Anis neanche mi aspetta, prende e imbocca la porta. Che devo fare io? Lo seguo, ovvio.
Finisce che mi porta nel cortile dietro casa sua, che è un posto anche un po’ schifoso, nel senso che da davanti la villetta sembra pure carina, però qui dietro non solo si vedono tutte le case popolari vecchissime e piene di crepe, ma pure il cortile in sé non è che sia tutta ‘sta meraviglia. È pieno di erbacce e un sacco disordinato, e le lastre di pietra sono macchiate di umido e muschio a chiazze.
Resta un sacco in silenzio, comunque, ed io comincio pure ad innervosirmi. Primo perché c’è ancora la torta col biscotto che mi aspetta, dentro. Secondo perché voglio il mio regalo. E terzo perché vedo che è teso, cioè, è molto serio, come se stesse per dirmi qualcosa di importantissimo, quindi chiaramente sono teso e serio anch’io, però non è che sappia reggerle così bene, ancora, queste atmosfere, quindi finisco per innervosirmi un sacco. Se non sbotto “allora?!” è solo perché so che si arrabbierebbe.
Ed è lì che lui ovviamente sorride. La questione dei sorrisi, con Anis, è complicata, perché lui ride e sorride sempre, ma tu in genere lo capisci che non fa sul serio. Che al limite ti sta prendendo in giro. Però in questo momento lui mi sorride e io vedo senza fatica che è un sorriso sincero. Ed è una cosa un po’ strana, però mi piace la sensazione che mi dà, proprio a pelle. Ho un po’ di brividi. Spero di non essere arrossito, sarebbe ridicolo.
- Buon compleanno. – fa, e mi passa questa scatola nera legata da un laccio rosso sangue, scurissimo, di raso. Un sacco elegante, poi. Mi fa strano pure a prenderlo in mano, ma lo faccio lo stesso perché non posso mica lasciarlo in mano a lui.
- Cos’è? – chiedo mentre slaccio il nastro. È una cosa da bambini, ma sono curioso. Vorrei che me lo dicesse subito, cos’è, però allo stesso tempo vorrei anche che me lo lasciasse scoprire da solo. Mi sento un po’ emozionato, non ho mai ricevuto un pacchetto così bello.
- Aprilo. – risponde lui, e sorride ancora, appoggiandosi di schiena contro il muro della casa, al mio fianco. Io lo imito, dondolandomi un po’ sui piedi mentre scoperchio la scatola e frugo nella carta velina, cercando il mio regalo fra gli strati sottilissimi.
E lei viene fuori.
Anis ride quando mi osserva tirare su la Smith & Wesson guardandola come fosse… non lo so, penso che così si dovrebbero guardare tipo le donne. Quelle bellissime per le quali sai che faresti di tutto, tipo morire, tipo uccidere, ed io così ci sto guardando una pistola. Cazzo, è stupenda. Mi pesa contro la mano quando la impugno per guardarla da ogni lato, e nel tentativo di sentirla meglio sotto i polpastrelli lascio cadere in terra la scatola, che è sempre bellissima ma non bella quanto lei. È tutta intagliata. Tipo nei minimi particolari. È argentata e brilla nella luce del sole ed è tutto intagliato perfino il tamburo. E io una pistola non l’ho mai presa in mano prima d’ora, a parte la Heckler che Anis mi ha chiesto di reggergli un attimo una settimana fa, e ora che ci penso ho guardato la Heckler più o meno come ora sto guardando la Smith & Wesson, ma lei la guardo con più amore, perché è più bella, perché è il mio regalo, perché è mia.
Quando torno a spostare la mia attenzione su di lui, Anis sta ancora sorridendo. Io non riesco nemmeno a trovare un’espressione, perché sono troppo felice. Non lo so che espressione dovrei fare in questo momento, non sono mai stato così felice e mi riesce difficile trovare un sorriso adatto. Poi sembro sempre un cretino, quando sorrido, me lo diceva anche Martina della terza classe, che poi non mi ha mai voluto limonare per questo, stronza che era. Comunque al momento non importa, io però non so che espressione fare, quindi non ne faccio nessuna, lo guardo e basta.
- Ti piace? – chiede quindi lui, inarcando un sopracciglio.
Io annuisco lentamente.
- È stupenda. – aggiungo, - Non immagino neanche quanto ti è costata.
- Non importa. – scuote il capo lui, - Piuttosto, sai usarla?
Rido anch’io, stavolta per imbarazzo.
- Per niente. – ammetto, - Dovrai insegnarmi tu.
Lui fa una specie di sospiro teatrale, alzando gli occhi al cielo.
- Ti si devono insegnare un sacco di cose. – commenta in un mezzo borbottio.
Io annuisco. Voglio dire, ho quattordici anni. Cosa pensa, che nasci ed assieme a te viene fuori il manuale d’istruzioni per la vita?
- Mi fa piacere se me le insegni tu. – dico io, sinceramente. Perché è vero. Cioè, lui è un po’ il tipo che vorrei essere io da grande. Perché è cazzuto ed è uno stronzo ma è un sacco bravo in tutto quello che fa. È una persona alla quale non puoi dire niente. È uno stronzo, ok, sì, e ottiene tutto quello che vuole. E protegge i suoi cari. E non deve niente a nessuno. E ce l’ha fatta da solo. E io voglio essere uguale. Voglio essere come lui.
E lui, quando mi sente parlare, mi guarda a lungo, per un secondo infinito che io non capisco, mi guarda con quegli occhi che sembra mi vogliano scavare nel cervello o sotto la pelle, e poi si inumidisce le labbra e sbuffa qualcosa, dandomi un colpetto contro la fronte col palmo della mano.
- Vedrò di accontentarti, ragazzino. – mi fa, - E ora torniamo dentro, la torta della Mama aspetta.
La torta della Mama, naturalmente. Io rido, ripenso al biscotto a forma di rosa e penso che è un po’ stupido desiderare ancora quel biscotto con la stessa voglia con cui lo desideravo prima, perché adesso ho una pistola e dovrei essere più grande e meno scemo. Invece niente, sono uguale a prima e in fondo questa cosa mi piace. Seguo Anis in casa, nascondendo la pistola nella tasca dei jeans, dietro, coprendola con la maglietta. Ho paura che la vedranno tutti, ma insomma. Ne hanno una ciascuno. E poi è bellissima, la mia Smith & Wesson. Non vedo l’ora di metterla nel cassetto del comodino, stasera. Magari domani mi faccio accompagnare da Anis da qualche parte per comprare la fondina. Non vedo l’ora di cominciare ad usarla.