film: figaro

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo.
Pairing: Pinocchio/Lucignolo.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: AU, Slash, Angst, Lime.
- Rivisitazione in chiave moderna del momento in cui Pinocchio incontra Lucignolo. Più o meno.
Note: SALVE \O/ Questa storia doveva essere un porno random, inizialmente. *ride* Nato dopo la (re)visione di Pinocchio con le bellezze del Disney Sunday ♥ Riguardare vecchi classici Disney con un gruppo di fangirl una più matta dell'altra riserva sempre sorprese meravigliose. Comunque, alla fine la storia ha deciso di andare da tutt'altra parte, più sui binari della rivisitazione classica (infatti dentro ci sono un po' tutti i concetti base della storia di Pinocchio, conditi da una dose esorbitante di angst XD), e porno non ne è rimasto quasi niente, e infatti mezza storia l'ho tipo dovuta riscrivere perché la fic non sembrasse un piccolo Frankenstein venuto fuori dopo aver cucito assieme due storie diverse. Ma comunque. *cough* Spero possa piacervi *O*
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UN BAMBINO VERO

- Non ti ho mai visto da queste parti. – dice il ragazzo, praticamente disteso al suo fianco sul divanetto in fondo al locale. Pin si volta a guardarlo, il cuore in gola. Riesce appena a scorgerne i tratti, nel buio. Da quando è entrato al Paese dei Balocchi, nessuno gli ha ancora rivolto la parola, e lui non è proprio sicuro di esserne felice, ora che è successo.
- È la prima volta che vengo. – risponde nervosamente, distogliendo lo sguardo. Fissa la pista da ballo e la marea di sconosciuti che, ondeggiando a ritmo di musica, la affolla, e cerca di scorgere, fra una persona e l’altra, i lunghi capelli rossi di Cleo, o la scomposta zazzera corvina di Figaro, ma non riesce. Assalito dall’improvviso terrore di essere rimasto solo – forse si sono annoiati e l’hanno lasciato lì, bastardi, e lui non potrà neanche minacciarli di non passare più loro le versioni di latino corrette, visto che in genere quelli che copiano non sono proprio loro – medita di alzarsi e correre fuori a cercarli, ma poi lo sconosciuto gli parla ancora, e Pin ricorda perché si trova lì, e torna a concentrarsi su di lui.
- Fumi? – chiede. Pin arrossisce violentemente.
- Certo che sì. – risponde spavaldo, e il tizio sorride – può vedere il bagliore dei suoi denti nonostante l’aria oscura e appesantita dal fumo della discoteca.
- Bene. – annuisce, porgendogli il mozzicone della sigaretta che sta fumando, - Smezziamo.
Pin abbassa lo sguardo e la scruta dubbioso. Non ha idea di come dovrebbe reagire adesso, ma d’altronde se ha convinto Figaro e Cleo a venire fin qui è stato perché aveva voglia di provare qualcosa di nuovo, un brivido diverso – o qualcosa, un brivido e basta – e fatica a immaginare qualcosa di più da brivido di questo, per cui allunga la mano e recupera la sigaretta, portandola alle labbra e aspirando lentamente.
Non si aspetta né l’odore, né il sapore, né il modo in cui il fumo sembra diffondersi a macchia d’olio dentro il suo naso, dentro la sua bocca e giù per la sua gola, soffocandolo. Allontana la sigaretta da sé con uno scatto violento, e lo sconosciuto, ridendo divertito, gliela strappa via dalle mani prima che possa farla cadere a terra.
- Ma no, ma sei serio? – ride, tornando a fumare per conto suo, - Non ti sei mai fatto uno spinello? Eppure, mi sembri in età.
Pin tossisce ancora un po’, prima di tornare ad abbattersi contro il divanetto con un rantolo disperato.
- Ma che era quella merda? – esala con un altro paio di colpetti di tosse. Non gli è parso che assomigliasse in alcun modo né all’odore della pipa di suo padre, né a quell’odore acre e un po’ asfissiante che ogni tanto sente entrando in bagno a scuola durante le lezioni.
- Merda. – risponde lo sconosciuto, tirando sulle labbra un ghigno soddisfatto, - Roba da cui un bravo bambino come te dovrebbe stare lontano.
- Io non sono un bambino. – risponde Pin in un ringhio, voltandosi a guardarlo con rabbia.
- No? – lo incalza quello, ricambiandogli l’occhiata, - Perché, quanti anni hai?
- Quattordici. – risponde lui, con un certo orgoglio. Lo sconosciuto scoppia in una risata sguaiata e volgare, battendosi le mani sulle ginocchia.
- Quattordici! – ripete, prendendolo in giro, - E come hai fatto ad entrare qua dentro?
Pin ripensa al documento falso che tiene nascosto nella tasca posteriore dei jeans, e ai due tizi vestiti come accattoni che gliel’hanno venduto nella piazza dietro la stazione, ed abbassa lo sguardo.
- Non sono fatti tuoi. – risponde scorbutico.
Il sorriso sulle labbra dello sconosciuto sembra addolcirsi un po’, mentre gli porge la mano.
- Io sono Luc. – si presenta. Pin guarda la mano con sospetto, neanche la stringe, e ovviamente non risponde. – Ah, capisco. – ride quello, ritraendola, - I bravi bambini come te non dicono come si chiamano agli sconosciuti, vero?
- Ti ho già detto che non sono un bambino. – insiste Pin, tornando a guardarlo con occhi fiammeggianti di rabbia.
Luc si avvicina, e Pin riesce a scorgere i lineamenti del suo volto con più precisione, adesso. Non sono belli, anzi, e i capelli rossi sulla sua testa sono una massa confusa e sgraziata. Pin prova a contargli le lentiggini sul naso e sulle guance, ma continua a perdere il conto, e dopo un po’ rinuncia. Si sente arrossire, e non è sicuro che sia solo per la boccata che ha preso prima dallo spinello di Luc.
- Se non mi dai un nome con cui chiamarti, - riprende Luc, ed a Pin sembra passato tanto di quel tempo, dall’ultima cosa che gli ha detto, che fatica a recuperare il filo del discorso, - non posso fare altro che continuare a chiamarti bambino. Ti si addice abbastanza, peraltro. – conclude con una risatina divertita.
- ‘Fanculo. – risponde Pin, aggrottando le sopracciglia, e Luc ride ancora, di gusto.
- Senti, - sussurra dopo un po’. Pin solleva lo sguardo e Luc è più vicino che mai, - sto cominciando ad annoiarmi. Vieni a casa mia?
Pin arrossisce ancora, incapace di distogliere lo sguardo.
- Ma… ti ho detto che ho quattordici anni. – dice, stupidamente. E Luc sorride con condiscendenza.
- Ovviamente non ti farò niente che tu non voglia. – risponde, lasciandogli scivolare una mano sulla coscia da sopra i jeans, - Non può accadere niente di male, finché tu sei consenziente.
Pin aggrotta le sopracciglia, sfidandolo dalla distanza irrisoria del paio di centimetri che li separano.
- Stai giocando col fuoco. – lo avverte.
- È quello che faccio sempre. – risponde Luc, spavaldo, - Tu, piuttosto, dovresti stare attento a non scottarti.
È l’ultima cosa che gli dice, prima di appoggiare le proprie labbra sulle sue e baciarlo. Pin si lascia sfuggire un gemito sorpreso, serrando le labbra per riflesso, ma quando realizza cosa sta accadendo, nonostante senta il cuore martellargli nel petto con violenza, si rilassa. Chiude gli occhi, scioglie i muscoli delle braccia e della schiena, e prima ancora di accorgersene sta già accogliendo la lingua di Luc nella propria bocca, la insegue accarezzandola con la propria. I gemiti che scivolano fra le sue labbra umide non sono sorpresi né spaventati. Vorrebbe poterli descrivere come gonfi di una voglia senza nome alla quale non è sicuro di potersi abbandonare così presto, ma la verità è che non sono altro che suoni meccanici, risposte che si sente in dovere di dare.
Luc si allontana da lui e gli sfiora il labbro inferiore con il pollice, sorridendo.
- Allora, vieni? – domanda a bassa voce. Pin annuisce senza perdere troppo tempo.
- No che non viene! – dice una voce squillante alle spalle di Luc, e quando Pin si sporge per guardare a chi appartenga – perché, nonostante si tratti della sua migliore amica, in un primo momento è così confuso da non riuscire neanche a riconoscerla – la sua espressione si colora appena del rossore dell’imbarazzo, e lui abbassa lo sguardo. – Pin, dobbiamo riportarti a casa fra mezz’ora, muovi il culo. – borbotta Cleo, le mani piantate sui fianchi e la gonna nera troppo corta sulle cosce bianche come latte.
- Torno a casa da solo. – si affretta a rispondere, scrollandosi Luc di dosso per poter fronteggiare i due amici senza sembrare in trappola.
- Sì, certo. – ghigna Figaro, scuotendo il capo. Ha la camicia tutta stropicciata, e sia lui che Cleo sono sudati, e danno l’aria di essersi divertiti parecchio, in pista. Pin non può fare a meno di pensare che era per fare esattamente la stessa cosa – per sentirsi normale, almeno per una sera – che aveva scelto il Paese dei Balocchi, perché era conosciuto per la sua pista da ballo enorme e per la musica figa, ma ora che Luc è così vicino da poter sentire l’odore pungente ma non del tutto spiacevole del suo corpo, in realtà l’impressione di aver perso tempo sembra sbiadire almeno un po’.
- Posso riaccompagnarlo a casa io. – sorride Luc, squadrando entrambi da capo a piedi, - Vi dispiace?
- Ci dispiace eccome. – sbotta Cleo, incrociando le braccia sul petto e guardandolo con diffidenza, - Sparisci.
- Lui resta qui. – dice Pin, stringendo le dita attorno alla manica della giacca che Luc indossa sopra la maglietta, - E io pure.
Figaro assottiglia gli occhi, scrutandolo con attenzione.
- Vieni via, Cleo. – dice quindi, prendendola per mano, - Non verrà.
Cleo lo guarda, poi si volta verso Pin, e i suoi occhi grandi sono pieni di lacrime di rabbia. Cleo ha sempre pianto – e sorriso, e riso, e qualsiasi altra emozione, in realtà – troppo facilmente. Pin una volta le ha anche chiesto come ci riuscisse, ma s’è sentito dare dell’idiota, e allora non ci ha più riprovato.
- Sei una merda. – sibila la ragazza, cattiva, - Non te lo meriti, il padre che hai. – commenta, strattonando il braccio abbastanza forte da liberarsi della stretta delle dita di Figaro, e voltando loro le spalle per dirigersi speditamente verso l’uscita. Figaro la segue poco dopo. Lancia solo un’occhiata a Pin, non gli dice niente, ma non ne ha neanche bisogno, e Pin abbassa lo sguardo sentendosi al contempo colpevole di tutti i mali del mondo, ma sfacciato abbastanza da fregarsene.
- Forse era meglio se andavi con loro. – commenta Luc con una mezza risata. Pin si volta a guardarlo con rabbia.
- Cos’è, adesso non mi vuoi più? – lo sfida, digrignando i denti. Luc risponde sorridendo ancora, e poi alzandosi in piedi e tendendogli la mano.
*
L’appartamento di Luc non lo si può neanche definire un appartamento vero e proprio. C’è una stanza, c’è un bagno, un cucinino in un angolo. L’unica finestra dà sulla strada. Attraverso il vetro passa tanta di quella luce proveniente dai lampioni e tanto di quel chiasso proveniente dalle automobili che sfrecciano sull’asfalto, che se Pin chiude gli occhi non è più neanche tanto certo di trovarsi in un luogo chiuso.
- Merda. – sbotta Luc quando, entrando, preme l’interruttore della luce e quella non si accende. – Tagliata.
- Ma in che condizioni vivi? – domanda Pin, vagamente disgustato, avanzando a tentoni all’interno dell’appartamento.
Luc scrolla le spalle, guardando altrove mentre si chiude la porta alle spalle.
- Quelle che posso permettermi. – risponde, - Fa niente, comunque. – sorride, - La luce non ci serve.
Pin resta immobile nel centro della stanza. Abbassa lo sguardo, fissando le punte delle sue scarpe nuove, e stringe i pugni lungo i fianchi, ogni singolo muscolo del corpo teso e in allerta. Fa quasi un salto indietro quando Luc si para davanti a lui e gli sfiora le spalle con le mani.
- Cosa fai? – gli domanda in un soffio spaurito. Luc non risponde, lo bacia piano, lasciando scivolare le mani lungo le sue braccia, fino ai polsi, che stringe delicatamente, guidandolo verso un angolo scuro della stanza. Pin urta con le ginocchia la sponda del letto, e le gambe gli cedono appena, ma non importa, perché quando si lascia ricadere Luc lo sostiene, lo appoggia sul materasso e poi sale in ginocchio proprio accanto a lui, guardandolo dall’alto, nel buio.
Pin a stento riesce a riconoscere i suoi lineamenti. Non li ha mai visti chiaramente, da quando l’ha incontrato. Sta per andare a letto con uno sconosciuto senza volto.
Solleva una mano, vorrebbe accarezzargli una guancia. Luc gli bacia il palmo e glielo impedisce senza neanche accorgersene, chinandosi a baciarlo. Pin lascia perdere, in fondo non gli interessa davvero. Non gli interessa di Luc, non gli interessa di essere qui stasera. Voleva solo un brivido, ma il brivido non arriva, e Pin va avanti solo nella speranza che prima o poi si presenti a scuotergli le viscere, per potersi sentire vivo e vero almeno per una volta, fosse anche solo per un secondo.
Mugola appena quando Luc comincia a spogliarlo, esponendo centimetri su centimetri di pelle accaldata che copre di baci umidi e ininterrotti. Pin gli appoggia una mano sulla nuca, se lo tira contro, schiude le gambe e lo accoglie fra le cosce. Lo sente duro contro di sé e sa che quel brivido Luc lo sta provando. E lo odia, perché lui invece non sente niente, come fosse fatto di legno.
- Sei tu che stai giocando col fuoco, ragazzino. – gli dice Luc, bisbigliandogli baci fugaci sulle labbra mentre si libera dei propri pantaloni e, dopo un paio di carezze distratte e impazienti, scivola in un colpo rabbioso dentro di lui.
Pin pensa che non è vero. Se stesse giocando col fuoco, almeno si brucerebbe.
*
Luc si addormenta subito dopo. Cade di sasso al suo fianco, e Pin ci mette un po’ a disincagliarsi dalla stretta delle sue braccia, recuperare i propri vestiti e poi scivolare fuori dall’appartamento, nella notte ancora giovane e chiassosa sulla strada trafficata.
Non guarda il nome della via, né l’indirizzo del palazzo. Non cerca sul citofono per vedere se riuscirebbe ad intuire quale sia il cognome di Luc. Non è sicuro di voler ricordare qualcosa di questa serata, ma di sicuro non vuole ricordare questo luogo. Non intende più tornarci. Sarebbe inutile, com’è stato inutile venirci la prima volta.
Cammina in silenzio sul marciapiede, stando attento a restare nei cerchi di luce che i lampioni proiettano a terra, e guarda in basso, il volto nascosto per metà dalla sciarpa e le mani ficcate con forza in fondo alle tasche.
È già quasi vicino casa quando sente qualcuno suonare il clacson, troppo vicino per non essere rivolto a lui. Solleva lo sguardo e c’è Jiminy che guida la sua vecchia Cinquecento e cammina a passo d’uomo seguendo il suo incedere dalla strada, fissandolo con disappunto attraverso il vetro imperlato di gocce di pioggia del finestrino.
Pin solleva una mano ed abbozza un sorriso, salutandolo lentamente. Jiminy ferma la macchina con uno sbuffo talmente rumoroso che Pin lo sente nonostante il vetro, e il metro abbondante che li separa.
Si scansa appena in tempo per evitare una sportellata contro il fianco, e resta lì, immobile, le mani di nuovo ficcate nelle tasche, a guardare Jiminy che gli grugnisce un “avanti, sali!” impaziente e irritato. Pin non è sicuro di voler andare con lui, si sentiva bene a camminare per strada, si sentiva compreso, in qualche modo, forse dall’eco vuoto dei suoi passi, ma poi Jiminy aggiunge “tuo padre è in pensiero”, e Pin ha sopportato abbastanza, per stasera, e non vuole sentire più niente, perciò obbedisce.
Si sistema sul sedile passeggero, chiude lo sportello ed appoggia la fronte al finestrino, guardando la strada che scorre veloce di fuori.
- Cos’hai fatto stasera? – gli chiede Jiminy. Lui non risponde. – Pensavo che saresti tornato a casa con Figaro e Cleo. – ancora silenzio, - Tuo padre era così preoccupato che voleva uscire fuori a cercarti da solo. L’ho dovuto praticamente chiudere in casa per costringerlo a lasciarmi andare da solo.
- Mi dispiace. – butta lì Pin, continuando a guardare ostinatamente fuori.
- Sei un bugiardo. – commenta Jiminy, scrutando la strada ancora umida di pioggia oltre il parabrezza.
Pin pensa che è vero e lo sa, ed è felice che le bugie non si manifestino con una traccia fisica sul corpo di chi le dice, come macchie, ad esempio, perché se così fosse lui ne sarebbe ricoperto, e non riuscirebbe neanche a guardare il proprio riflesso allo specchio, la mattina. E già così gli riesce difficile, ogni tanto.
- Sta’ zitto. – dice, chiudendo gli occhi, - Sono stanco. Riportami a casa e basta.
Jiminy stringe le mani attorno al volante. È arrabbiato e Pin lo sente, ma non gli interessa. Non gli interessa di nulla. Niente riesce a toccarlo, anche il senso di colpa, perfino quando lo schiaffeggia violentemente, gli resta impresso sulla pelle in una botta di calore solo per qualche secondo.
Poi scivola via, sulla superficie impermeabile a qualsiasi emozione del suo corpo, come le gocce di pioggia che, sospinte dalla velocità dell’auto, scivolano lungo il vetro in sottili rigagnoli irregolari e trasparenti.