rp: matilde mourinho

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: José/Zlatan, Pep/Zlatan.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, What If?, Slash, Death.
- Una telefonata nel cuore della notte, una vita che cambia per sempre. O forse più di una sola, forse la sua e tutte quelle ad essa connesse, perché ad ogni azione corrisponde una reazione, anche se l'azione non era nemmeno voluta. E questo José lo sa bene.
Note: Mentre compilavo lo schema di questa storia, più precisamente la voce sul pairing, mi sono sentita un attimino in imbarazzo, perché per quanto sia vero che due rapporti romantici si pongono alla base di quello che racconto, in realtà questa non è una storia romantica. E' una storia che in realtà non parla neanche di rapporti, o meglio, non completamente. E' una storia che parla di assenze, principalmente, di come ognuno possa reagire diversamente di fronte allo stesso tipo di perdita, di come, addirittura, la stessa perdita possa essere diversa in sé in relazione a coloro che ne subiscono gli effetti.
Sostanzialmente, lasciando da parte i seriosismi e i filosofeggiamenti, è una storia pesa, pesa e triste, ma io sono contenta di averla scritta, di essermi da lei lasciata trascinare, in un certo senso, fin quasi a provare fastidio all'idea di riprenderla in mano, o di scavare più a fondo.
Grazie al Def ed alla sua splendida coverart per averla portata alla luce. Ironicamente, sono convinta che, da qualche parte, questa storia già esistesse. Andava solo riesumata. *ride*
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HEARTS GONE ASTRAY

La telefonata arriva in piena notte. José ci ripenserà spesso, negli anni a venire, non smetterà mai davvero di pensarci. Perché è un momento quasi filmico, una di quelle situazioni surreali che nella vita vera non si verificano mai – o almeno così credi, naturalmente finché non ti capitano – ma delle quali la cinematografia, specie quella scadente, è costellata. La telefonata che arriva in piena notte. Quella che annuncia “c’è stato un incidente”. E chiunque parla, dall’altro lato della cornetta, lo fa con la voce rotta e sembra non riuscire mai ad arrivare al punto, come stesse rimandando coscientemente il momento in cui ti dirà il vero motivo per cui ha chiamato.
Nel suo caso, è Pep, il che rende la situazione ancora più assurda, perché non lo sente al telefono da sei mesi, almeno. La sua voce suona strana, irreale, tanto che in un primo momento José si chiede se sia sveglio davvero. Magari è un sogno, si dice. Perché mai Pep dovrebbe chiamarmi a quest’ora?
- C’è stato un incidente. – dice, e la sua voce è proprio come dovrebbe essere, incerta, spezzata dai singhiozzi, disperata. José si solleva a sedere. Accende la luce. Tami, accanto a lui, mugola infastidita e poi si volta su un fianco, scrutandolo attraverso il velo di sonno che ancora le annebbia la vista.
- Che succede…? – domanda, mettendosi a sedere a propria volta. José non risponde. Guarda dritto davanti a sé.
- Zay, sei lì? – chiede Pep, incerto, ed a José si ghiaccia il sangue nelle vene, perché quel soprannome riporta alla memoria troppe cose, ed in questo momento sembra troppo fuori luogo. Troppo strano, per non farlo pensare immediatamente a Zlatan, e mentre una parte del suo cervello si chiede per quale motivo dovrebbe pensare a lui proprio in questo momento, l’altra parte conosce già la risposta a questa domanda, e per questo tace.
- Sono qui. – dice, la voce rauca di sonno che gratta lungo le pareti della gola, faticando a venire fuori chiara come José avrebbe preferito. Non vuole mostrarsi debole. Non adesso, non con Pep. Ma è tutto orgoglio che in pochi secondi non gli sarà più di alcun aiuto.
- C’è stato un incidente. – riprende lui. Parla lentamente, nervosamente. José riesce solo a pensare “dillo. Dillo e basta”. – È Zlatan, Zay. È… è stato un incidente grave. Dovresti—
José non lo lascia finire. Interrompe la chiamata, e lo fa muovendosi lentamente, con pazienza. Ha tempo. Posa la cornetta, si piega oltre il comodino, stacca la presa dal muro. Poi si alza in piedi, dice a Tami di non preoccuparsi e tornare a dormire ed esce dalla stanza. Stacca ogni presa di ogni telefono che incontra sul proprio cammino. Con calma. Ha tempo. Si muove lentamente, raggiunge il salotto. Il suo cellulare è lì, poggiato sul tavolino da caffè. Lo spegne. Con calma. Ha tempo.
Si siede sul divano, davanti alla televisione. Recupera il telecomando e la accende. Con calma. Ha tutto il tempo del mondo perché non può succedere nient’altro, ormai. È tutto già finito. Prima ancora che lui potesse vederlo cominciare, è già finito.
Mentre fissa senza vederle realmente le immagini che scorrono sullo schermo del televisore – niente di particolarmente eclatanti: i due giornalisti di turno al notiziario di Sky Sport 24, i loro volti contratti, tesi in un’espressione grave e sinceramente sconvolta, la metà inferiore dello schermo sulla quale scorrono una dopo l’altra le varie notizie della giornata, in piccolo, così che quella più recente possa continuare a dominare lo schermo dal rettangolo rosso vivo che la mette in evidenza, il quadratino in alto a sinistra dal quale un giornalista infreddolito e stanco, avvolto in un cappotto che sembra non tenerlo per niente al caldo, stringendo convulsamente il microfono vicino alle labbra e sistemandosi continuamente gli occhiali sul naso in un gesto nervoso, continua a ripetere come in una cantilena “come potete vedere… l’incidente… l’uomo che l’ha causato è illeso… i rottami… le autorità… i soccorsi… l’ambulanza… non respirava già più” – mentre sta lì seduto sul divano e stringe il telecomando fra le dita come volesse strozzarlo, arriva la prima ondata di rabbia. Lo stronzo è morto sul colpo, il fottuto bastardo. La testa di cazzo che non è— che non era altro, è morto sul colpo, il maledetto figlio di puttana. Senza lasciargli neanche una speranza, senza nemmeno lasciargli la possibilità di accorrere al suo dannatissimo capezzale e piangere fino a sfinirsi stringendogli una mano e implorandolo di svegliarsi perché aveva promesso che sarebbe morto per lui, ma questo no, così no, questo non è morire per qualcosa, neanche per qualcuno, tantomeno per lui. Questa è una morte inutile, una morte del cazzo, una morte assurda, e lui non può accettarla.
- Zay?
La voce di Tami scivola dolce e sottile tra le pieghe della sua confusione mentale, si sovrappone alla immagini sullo schermo, le ricopre di una patina di irrealtà. José si volta a guardarla, e scopre che sembra sbiadita anche lei.
No, è lui che sta piangendo.
- Dio mio…
José si lascia abbracciare senza opporre alcuna resistenza. Lei se lo stringe contro, gli accarezza i capelli, gli sussurra di calmarsi, ma José singhiozza tanto forte da scuotere anche il corpo di sua moglie assieme al proprio. Lei non se ne lamenta, non si lamenta nemmeno della mani che le si chiudono attorno alla vita con violenza, con l’unico scopo di aggrapparsi disperatamente all’unica cosa viva che gli sia rimasta intorno. Lo lascia sfogare per tutto il tempo che gli serve, e José non sa nemmeno perché sta piangendo così.
Forse perché fa un male fottuto. La spiegazione semplice. Fa un male fottuto del cazzo, fa un male insopportabile, il solo pensiero che Zlatan non ci sia più gli lascia dentro un buco, un cratere, una voragine, un universo di vuoto, e José non sa gestirlo, perché fa troppo male. Non è un dolore che si sente in grado di tenere alla larga, è troppo invasivo, troppo totalizzante, troppo permanente.
È terrorizzato dalla consapevolezza senza speranza che questo dolore non andrà più via. Mai più. Dovrà imparare a vivere con la certezza che non imparerà mai a conviverci. Sarà come tenersi dentro per sempre un frammento di dolore fisico, impossibile da espellere, che non farà altro che scivolare assieme al sangue all’interno del suo apparato circolatorio. Un giorno, raggiungerà il cuore, e lo ucciderà, ed allora José potrà dire di essere morto per Zlatan, anche se lui non l’aveva mai promesso.
*
Tami lo convince a provare a dormire, almeno un po’. Lui si rifiuta di tornare a letto, però, perciò si raggomitola sul divano, la testa appoggiata sulle ginocchia di sua moglie, e si lascia accudire come fosse un bambino ammalato. Tami lo avvolge in una coperta di lana e passa tutto il resto della notte seduta ad accarezzargli i capelli, le tempie e il viso, nel tentativo di calmarlo. José ha gli occhi sbarrati, dormire non è un’opzione, sente il nervosismo montare sottopelle ma non vuole dire a Tami di lasciarlo andare, perciò rimane lì, in bilico fra la voglia di scoppiare a piangere e quella di mettersi a urlare istericamente, finché la luce del sole all’alba non comincia a riflettersi fastidiosamente sullo schermo ancora acceso del televisore. I giornalisti dietro al tavolo sono cambiati, ma la notizia scritta a caratteri cubitali in bianco su sfondo rosso è sempre la stessa. Incidente automobilistico. Zlatan è morto sul colpo. I soccorsi non sono serviti a nient’altro che a constatare il decesso.
Si alza in piedi alle sei meno un quarto. Da qualche parte nel corso della notte, Tami si è addormentata di nuovo. José la osserva, la testa elegantemente ripiegata sul petto, i lunghi capelli che le scivolano sulla fronte, lungo le guance, sul collo, incorniciandole il viso. È così bella. Gli piacerebbe riuscire a trovare in questo anche solo un minimo di consolazione. Ma non è abbastanza, non adesso. Non ancora, almeno.
Si passa una mano sul viso, cercando di scuotersi di dosso un po’ di stanchezza. Gli bruciano insopportabilmente gli occhi.
Va in bagno, si lava sommariamente, poi entra in camera e si cambia. Recupera un borsone dall’armadio, lo riempie di vestiti e biancheria pulita alla rinfusa, poi torna in salotto. Tami sta ancora dormendo. Le lascia un biglietto sul tavolino da caffè, le dice di non preoccuparsi, che la chiamerà più tardi, che deve andare a Barcellona, deve essere lì, deve esserci per Zlatan, deve farlo per forza, poi strappa via il foglio e ricomincia. Le ripete di non preoccuparsi. Che la chiamerà più tardi. Che deve andare a Barcellona. Che le spiegherà tutto. Le ultime parole le cancella. Strappa di nuovo il foglio e riscrive solo fino a “devo andare a Barcellona”. Poi aggiunge di salutargli i bambini appena si svegliano, di dire loro che papà tornerà presto. Uscendo di casa, pensa di buttare i fogli strappati nel cestino dell’immondizia, ma poi cambia idea. Li infila in tasca, li porta con sé, li butta nel primo cassonetto disponibile per strada.
Poi prende un taxi. Si fa portare in aeroporto, prende un posto sul primo volo disponibile per Barcellona. Deve attendere un paio d’ore. La ragazza al banco del check-in lo riconosce, gli dice “abbiamo una saletta privata, se preferisce aspettare lì”. José annuisce perché non ha nessuna voglia di essere assalito da chiunque possa vederlo lì.
La ragazza lo accompagna personalmente. La saletta privata è una piccola sala d’aspetto dall’aria elegante e pulita, le pareti bianche, le sedie dall’aspetto curato, praticamente nuovo. Sono nere e lucide, hanno l’aria di essere la cosa più scomoda mai concepita da mente umana.
All’interno della saletta ci sono un altro paio di persone, uomini d’affari, si direbbe, o qualcos’altro di ugualmente noioso. Nascosti dietro agli schermi dei propri tablet ed all’interno del loro involucro di cotone firmato Armani, restano appollaiati sulle loro sedie come se il mondo non fosse appena giunto al proprio capolinea. José si sente come l’unico protettore di questo terribile segreto: il mondo è già finito, ma nessuno se n’è ancora accorto. Si aspetta quasi di cominciare a vedere la realtà ridursi in pezzi sotto i suoi stessi occhi da un minuto all’altro.
È molto deludente quando, calmandosi un po’, capisce che non avverrà.
Le due ore passano in fretta, più in fretta di quanto non avrebbe mai pensato possibile. Non gli è mai capitato di veder scorrere i minuti con una tale furia, in realtà è sempre successo semmai il contrario: ogni volta che, per qualche motivo, ha desiderato che il tempo scorresse più in fretta, quello non faceva che rallentare.
Suppone che stavolta il punto fosse proprio che lui avrebbe preferito non vederlo passare mai.
Si concede di rilassarsi un po’ solo quando l’aereo prende quota. Chiede un tè all’hostess che passa fra le file di sedili, lo sorseggia solo fino a metà. Non sa di niente. È acqua sporca. Prova ad aggiungere un altro po’ di zucchero, ma resta acqua sporca. Un po’ più dolce, forse. Non abbastanza da costringersi a finire di mandarla giù.
Si accomoda meglio contro lo schienale al proprio posto, fissa fuori dall’oblò per un paio di minuti. Nient’altro che cielo e nuvole. Il sole picchia forte, adesso, costringendolo a socchiudere gli occhi. Ha le palpebre pesanti, ora che i nervi gli si distendono comincia a sentirsi stanco, assonnato. Si lascia andare, e nel sogno è in macchina con Zlatan. Forse è un ricordo, forse no. Zlatan sembra corrucciato, forse perfino offeso. “Non dovresti essere qui,” gli dice. José vorrebbe parlare ma non ci riesce. Zlatan guida piano, l’autostrada sulla quale la sua macchina sportiva viaggia sembra sistemata in un punto a caso di un universo immaginario in cui non c’è nulla a parte quella sottile striscia di asfalto che si prolunga oltre l’orizzonte in una linea retta sempre uguale. Non c’è niente a sinistra, né a destra. Solo terra bruciata dal sole.
Se è un posto che José ha visto, da qualche parte nel corso della propria vita, adesso non lo riconosce.
Zlatan continua a guidare, fissando dritto di fronte a sé. José prova ancora a dire qualcosa, ma è come se avesse le labbra incollate l’una all’altra.
“Lascia stare,” sospira Zlatan, “Perché non te ne vai?”
José vorrebbe rispondere “perché voglio stare qui. Perché voglio stare con te”, ma le sue labbra semplicemente non rispondono ai suoi comandi.
Poi, lo schianto.
José apre gli occhi, e sta piangendo silenziosamente. Fortunatamente, nessuno se n’è accorto. Si passa le mani sugli occhi frettolosamente, scacciando via le lacrime dalle guance. Si schiarisce la gola, sistemandosi più compostamente sul sedile.
Non ci sono nuvole, sopra Barcellona.
*
Pep ha un’aria distrutta. È la prima cosa che lo colpisce, anche con una certa violenza, nel momento in cui gli posa gli occhi addosso in mezzo alla folla assiepata dietro le transenne oltre la porta scorrevole agli arrivi. Lo riconosce subito. No, non è questo. Non è riconoscerlo, è naturale che l’abbia riconosciuto. Lo individua subito, questo sì è più strano, come se improvvisamente non ci fosse nient’altro da guardare, no, nemmeno, come se tutto il resto ci fosse, ma si mescolasse in una massa indistinte di forme e colori, e Pep fosse l’unica cosa chiara, quella che i suoi occhi riescono a mettere a fuoco più facilmente.
Ma non è una bella vista, perché Pep è stanco, provato, ha gli occhi di uno che si sia ritrovato controvoglia in una tragica condizione di esistenza quando tutto ciò che avrebbe voluto chiedere alla vita fosse la gentilezza di lasciarlo scomparire in modo discreto, silenzioso, indolore.
Per un attimo, viene investito da un’ondata di rabbia senza confini. È facile, pensa digrignando i denti oltre la barriera impenetrabile di labbra serrate prive di espressione, è facile lasciarsi devastare così dalla morte. Uscire per strada con la camicia scomposta, senza cravatta, gli occhi tanto rossi da costringere gli altri a distogliere lo sguardo come quando ci si ritrova per sbaglio ad essere presenti in un momento privato o imbarazzante, e per qualche motivo non si può andare via.
Ricomponiti, vorrebbe dirgli, ma poi, così com’è arrivata, l’ondata di rabbia scompare, ritirandosi con la marea. Alla fine, quella di Pep è una scelta. Ha scelto di lasciarsi calpestare. Non c’è colpa, in questo, probabilmente non c’è neanche debolezza, solo molto dolore. Al dolore, José lo sa, ognuno reagisce in maniera diversa. Ed è una materia troppo privata per rimproverare qualcuno solo perché il modo con cui lo affronta non è coraggioso, o deciso, o orgoglioso quanto il proprio.
Non sa cosa dirgli, quindi, quando si ritrova di fronte a lui in mezzo a una folla di persone vocianti e rumorose che potrebbero anche averli riconosciuti, dal modo in cui si dispongono a cerchio intorno a loro, come se non fossero sicuri se sia proprio il caso di disturbarli ma al contempo volessero restare in attenta osservazione di ciò che accade per essere pronti a saltar loro addosso nel caso l’occasione propensa dovesse presentarsi.
- Mi dispiace. – scolla a fatica, imbarazzato dalla propria stessa impreparazione.
Pep sembra non sentirlo nemmeno. Lo guarda, solleva le braccia, le avvolge attorno al suo corpo e se lo stringe contro, abbracciandolo disperatamente. José lo sente scoppiare a piangere e solleva solo un braccio, battendoglielo lievemente contro la schiena nel tentativo di consolarlo, in qualche modo. Si sente molto a disagio, inadeguato. Non riesce a percepire il dolore di Pep. Ne percepisce troppo del proprio.
Pep piange a lungo, minuti interi, e José lo ascolta mentre, intorno a loro, la vita dell’aeroporto riprende a scorrere, tornando ad ignorarli. Vorrebbe essere altrove. Per la prima volta da quando è partito da Milano, non è più tanto sicuro di voler davvero fare tutto questo. Di essere pronto, o anche solo di averne voglia. Di stare qui a cercare di consolare Pep per una perdita che non concepisce – Zlatan non è più suo da mesi, ormai, ma se José non è ancora stato in grado di accettare nemmeno questo, come potrebbe mai fare spazio nella propria mente già sufficientemente incasinata per accettare che, ormai da chissà quanto, era Pep a considerarlo proprio? E che è Pep, adesso, ad avere più diritto di piangere, se una cosa del genere esiste? – di stare qui in attesa di vedere il corpo, di stare qui in attesa del funerale, di stare qui in attesa di cosa? Che smetta di fare così male, probabilmente. Come se fosse possibile.
- Ti accompagno in albergo. – dice Pep, dopo essere riuscito a calmarsi almeno un po’. Gli tremano insopportabilmente le mani. Si regge a stento in piedi. José non ha voglia di vederlo così, probabilmente non ha voglia di vederlo affatto.
- Posso prendere un taxi. – offre, - Tu dovresti riposarti. Hai dormito, stanotte?
Pep scuote il capo.
- Ecco. – riprende José, quasi severamente, - Allora vai a casa e dormi.
Pep scuote il capo un’altra volta.
- Mi fa piacere accompagnarti. – insiste, - Lascia che ti accompagni.
José sospira, si guarda intorno, si passa una mano sulla nuca. È stanco, non gli va di litigare.
- D’accordo, - concede, tendendo il palmo della mano aperta, - ma guido io. Tu non sei in condizioni.
Pep sembra offeso, per un secondo, ma gli passa presto. Non ha forza abbastanza neanche per tenere aggrottate le sopracciglia.
Annuisce e gli porge le chiavi. José le stringe fra le dita e si concentra sul metallo gelido e appuntito che preme dolorosamente contro la sua pelle. Un dolore che può gestire. Può allentare la presa quando lo sente farsi troppo acuto, stringerla ancora quando lo sente sbiadire via. Un dolore necessario.
Il viaggio in macchina è silenzioso, almeno fino a quando Pep non decide di rovinarlo. José si era già comodamente sistemato fra le pieghe di quel silenzio duro, ostinato e innaturale, quando Pep schiude le labbra e si schiarisce la voce, e José prega fra sé che quest’idiota sia saggio abbastanza da cambiare idea e tacere, ma naturalmente non è così che va.
- È stata colpa mia. – dice a bassa voce. E José vorrebbe rispondere “sì”. Vorrebbe rispondere “sì, cazzo, lui era tuo e tu eri responsabile per la sua vita”. Ma non parla. – Non ero con lui, quando è successo. Ero a cena con la mia famiglia e lui è uscito per conto suo, e forse se fossi stato con lui sarebbe stato diverso.
“Sì,” pensa José, “sì, lo sarebbe stato. Magari saresti morto tu, al suo posto.”
- Non dire idiozie. – dice invece, severo, - L’unica cosa che sarebbe cambiata è che adesso sareste morti in due. Non è un pensiero consolante.
Pep abbassa lo sguardo, fissando un punto imprecisato di fronte a sé, e poi scuote il capo. Fortunatamente, non parla più.
In albergo, gli chiede se vuole che resti un po’ con lui. La prima cosa che José sente il bisogno di fare è spingerlo fuori dalla porta e dirgli di non farsi più vedere, ma riesce a mantenere su se stesso un controllo sufficiente a lasciare perdere.
- Preferisco restare un po’ da solo. – dice. Pep, stavolta, annuisce senza insistere.
- Verrò a prenderti più tardi. – dice, - Per… be’, è stata organizzata una veglia qui, prima del rimpatrio. I funerali sono in Svezia.
José annuisce. Deve parlare con Helena. Deve prenotare un volo. Deve restare solo.
- D’accordo, - dice, - a più tardi.
Non aspetta neanche che Pep abbia finito di salutarlo, prima di chiudere la porta e girare la chiave nella serratura.
*
Resta in quella camera d’albergo per ore. Pensa di chiamare Helena al cellulare, ma si rende conto da sé di quanto inopportuna sarebbe una cosa del genere. D’altronde, la vedrà alla veglia, per cui può aspettare. Chiama Tami, invece, e rispondendo al telefono lei scoppia a piangere. “Sei un bastardo,” gli dice, “hai idea della paura che mi hai fatto prendere?”. José la lascia sfogare, si scusa, dice “devi capire, Tami”. Non le spiega cosa, però, e lei non capisce, ma lui si scusa ancora e lei può vivere senza sapere.
La rassicura, le dice che tornerà a casa in un paio di giorni al massimo, le dice “salutami i bambini”, lei lo manda a quel paese un’altra volta, prima di interrompere la conversazione. José non sa come farà ad uscire da questo casino con Tami. Non può dirle quello che è successo, non può dirle cosa è stato Zlatan per lui, perché quello che lui è stato è ciò che lei sola avrebbe dovuto essere per sempre, e sapere di non essere stata la sola le spezzerebbe il cuore, e questo lui a Tami non può farlo. Non può farlo nemmeno a se stesso.
Ammettere gli errori non è mai stato il suo forte, preferisce correre dritto per la sua strada, coi paraocchi e i tappi nelle orecchie, passando sopra a qualsiasi ostacolo. È sempre stato convinto che il calcolo degli sbagli si potesse fare solo a partita finita, solo a fronte del risultato finale. Cosa sono un paio di errori se alla fine la vittoria è stata comunque guadagnata?
Solo che qua non c’è niente da vincere. Ma in realtà neanche niente da perdere. Ammettere di aver sbagliato ad innamorarsi di Zlatan – o forse solo ad andare a letto con lui, perché non può esserci niente di sbagliato nell’amare qualcuno di per sé – sarebbe irrilevante, in qualsiasi senso.
Rimane a fissare il telefono, per un po’. Sente il segnale sordo e regolare della linea libera, attutito dalla cornetta e dalla distanza fra l’altoparlante e le sue orecchie, e ripensa a ieri notte, alla voce di Pep, a quanto suonasse nervosa e disperata e spaventosamente distante, come facente parte di un mondo a sé, un mondo diverso dal suo, ripensa a quanto gli sia sembrato finto quel momento, surreale nella sua assurdità, e poi pensa che fra un paio d’ore sarà di fronte al cadavere di Zlatan, e la realtà lo colpisce in pieno viso con una violenza così priva di pietà, o riguardo, o rispetto, che José sente il bisogno di essere altrettanto violento nei suoi confronti, e lancia il telefono per terra, si piega su se stesso e si copre il viso con entrambe le mani, scoppiando a piangere come un bambino.
Dura solo una decina di minuti, è il massimo che può concedersi prima di cominciare a sentirsi ridicolo, fuori luogo. Zlatan ha una compagna e due figli che sono appena rimasti soli. Sono gli unici ad avere un qualche diritto di sentirsi persi e senza speranza. José vuole calmarsi anche per loro, essere d’aiuto, in qualche modo. Non ha idea del perché si senta così, adesso, come se dovesse sentirsi in colpa nei loro confronti e fosse finito a sentirsi in colpa perché non ci si sente per davvero. Ha solo voglia di risolvere le cose, di rimettere tutto a posto, e sapere di non potere lo fa sentire senza fiato.
C’è qualcosa di soffocante nell’irreversibilità della morte. Lo stringe alla gola, lo costringe a guardarsi nello specchio appeso alla parete di fronte a lui, e realizzare che è lì che non c’è niente, niente che lui possa fare per fermare questo dolore, adesso. È già tutto finito, e Zlatan non gli ha lasciato nemmeno il tempo di provare a fermare il disastro prima che si verificasse.
Come d’altronde non ha mai fatto.
*
La prima volta che si sono baciati, José s’è ritrovato schiacciato di prepotenza contro una parete, labbra ruvide e sottili premute contro le proprie, gli occhi aperti e cattivi dello zingaro fissi sui suoi. È stato un bacio senza amore, quasi perfino senza sottotesto sessuale, anche se dalle conseguenze non si sarebbe detto: no, è stato un bacio molto semplice, un bacio che faceva un punto. Io posso averti con le spalle al muro quando voglio. Quasi una dichiarazione d’intenti.
La seconda volta, è stato José a baciarlo. Dopo un allenamento di merda in cui Zlatan era sembrato del tutto incapace di produrre una qualsiasi cosa che avesse un senso, o anche solo di interagire efficacemente col resto della squadra. José l’ha trovato seduto su una panchina vicino al campo, intento a sciogliere la fasciatura attorno alla caviglia e al piede, e gli si è avvicinato. Si è chinato su di lui e l’ha baciato. Dolcemente. Lentamente. Prendendosi il tempo necessario per abituarsi alla sensazione differente che la pressione delle labbra di Zlatan sulle sue provocava in lui. Una dichiarazione d’intenti anche quella, a suo modo.
Zlatan ha risposto al bacio – a quello e a tutti i successivi, per un anno intero. Poi è finita, perché sono stati entrambi due teste di cazzo. Perché hanno, come al solito, frapposto l’orgoglio fra se stessi e tutto quanto il resto. Perché c’era un problema di obbiettivi, c’era un problema riguardo come fare a raggiungerli, c’era nello sport come nella loro vita privata. C’erano due famiglie, due mogli e quattro figli in gioco, c’era troppo da perdere, troppo sul piatto, e troppo poco a controbilanciare su cui scommettere.
E quindi è finita. Amaramente, lasciandosi dietro un senso di incompiutezza, di vuoto, di rimpianto. Di “avremmo potuto provare di più”, “avremmo potuto provare meglio”, “avremmo potuto provare e basta”.
È arrivato il Barcellona, col Barcellona Pep. José ha cancellato i loro visi dalle sue memorie perché pensarli insieme – dopo gli anni di amicizia che l’avevano legato a Pep in gioventù, dopo quello che l’aveva legato a Zlatan più recentemente – era una tortura che non si sentiva disposto a sopportare.
Poi il vuoto.
E poi lo schianto.
E mai una volta, in tutto ciò che è accaduto, Zlatan ha permesso a José si avere l’ultima parola, su qualsiasi cosa riguardasse lui o loro insieme.
Forse è proprio questo quello che tiene José inchiodato a quel letto per ore, incapace di darsi una mossa. Continua a pensare che se avesse preso delle decisioni, se Zlatan gliel’avesse lasciato fare, se avesse accettato qualche consiglio o suggerimento, se lui fosse riuscito a imporsi, in qualche modo, sarebbe andato tutto diversamente. E forse a quest’ora Zlatan sarebbe ancora vivo.
Realizza all’improvviso che si sta comportando esattamente come Pep. Non riesce a sopportarlo. Si alza in piedi mezz’ora prima che Pep passi a prenderlo, e va in bagno a prepararsi.
*
Non scambia una parola con Pep per tutto il tragitto. La veglia funebre è stata organizzata a casa di Zlatan, e José non ha idea di dove si trovi, per questo lascia che sia Pep a guidare. Per questo, e anche perché Pep sembra essersi ricomposto abbastanza da farcela. Si è cambiato, sbarbato, José può sentire l’odore forte del suo bagnoschiuma fin da lì. Per un attimo, sorride. “Così si fa,” vorrebbe dirgli, “bravo, Pep, sono orgoglioso di te,” ma non lo fa. Resta in perfetto silenzio e, quando arrivano, è infastidito quando Pep gli stringe una mano attorno al polso per trattenerlo un po’ più a lungo all’interno della macchina.
- Dovremmo parlarne, credo. – gli dice.
- Io credo di no. – risponde José. Si libera di lui con uno strattone e si dirige speditamente verso l’unica villetta del circondario col cancello aperto e il parcheggio pieno di auto. Cammina a piedi lungo il vialetto che conduce alla porta d’ingresso mentre Pep posteggia da qualche parte e, dietro di lui, arriva un’altra mezza dozzina di auto, a bordo un sacco di persone che sembrano trovarsi lì per caso, senza nemmeno capire bene come ci siano finiti. C’è una sorta di smarrimento, nell’aria, qualcosa che fa sentire José come se fosse tutto fuori posto. Si sente così per molti secondi, di fronte alla porta d’ingresso, finché non si spalanca e la figura minuta di Helena non appare sulla soglia.
- Mister Mourinho. – dice piano, un sorriso appena percettibile a piegarle le labbra, mentre tende una mano verso di lui, - Sono contenta di vederla.
Mentre lo invita ad entrare in casa, José la osserva. Indossa un abito nero, i capelli raccolti in uno chignon alto dietro la nuca, ed è perfettamente truccata. Ha l’aria di una donna stanca che non può permettersi di cedere. José vorrebbe abbracciarla, ma non ha idea di come potrebbe reagire. Non si sono mai davvero frequentati, lui e Zlatan hanno fatto il possibile per mantenere ciò che c’era fra loro ben separato dal resto delle loro vite, e sembra una forzatura fin troppo fastidiosa cercare di ricucire uno strappo tanto netto adesso che lui non c’è più.
- Condoglianze. – le dice, mentre lei attende vicino alla porta che anche Pep, dopo aver abbandonato la macchina, si avvicini, - Come stanno i bambini?
- Vincent non ne ha capito molto. – risponde lei con un mezzo sorriso affranto, - Maxi… - sospira, e poi scuote il capo. – Sono coi nonni, in questo momento. Non volevo…
- Capisco perfettamente. – annuisce José, posando una mano sulla sua e sorridendole appena. Lei risponde con un sorriso identico, tanto sottile e stentato da sembrare una smorfia di dolore. – Lui dov’è? – chiede quindi, abbassando rispettosamente lo sguardo. Helena gli fa un cenno, indica una porta. Tutta la casa è illuminata, ma quella è l’unica porta, oltre quella della cucina, dalla quale giungano voci di persone.
José annuisce e la saluta stringendole la mano un’ultima volta. Poi si allontana lungo il corridoio, e si muove lentamente. Non ha nessuna fretta di arrivare dove deve andare, non ha nessuna fretta di chiudere una volta per tutte questo capitolo della sua vita. Ci sarà il funerale, per dire addio, ma questo è il momento in cui tutto finisce. È il momento in cui c’è un corpo chiuso in una bara che lo aspetta per confermargli che non c’è più niente da fare.
Quando si avvicina, è abbastanza deluso nel notare che non l’hanno messo in una bara di vetro, di quelle col coperchio trasparente. Così, l’effetto che ha su di lui è un po’ meno forte. C’è un coperchio di legno a proteggerlo dall’immagine del suo viso immobile, inespressivo, pallido e gelido. Sa che è lì dentro, ma non vederlo lo aiuta a prenderla meglio, in qualche modo. Forse perché così può aggrapparsi a una menzogna gentile un po’ più a lungo.
- Non era in condizioni. – dice Pep, apparendo al suo fianco. José non lo guarda. Continua a fissare la bara finché le dita lunghe e scure di Pep non entrano nel suo campo visivo. Accarezzano il coperchio con tenerezza quasi imbarazzante, e José aggrotta le sopracciglia. Vorrebbe dirgli di contenersi, ma ancora una volta ha l’impressione di stare cercando di misurare il dolore di Pep con un metro troppo personale, e quindi lascia perdere. – Il suo corpo, intendo. – continua Pep, a bassa voce, - Non sono riusciti a sistemarlo abbastanza da renderlo presentabile.
Una scarica di dolore puro attraversa il cervello di José da parte a parte quando le parole di Pep gli scivolano dentro a sufficienza da essere comprese. Per un attimo riesce a vedere oltre il legno, il viso sfigurato di Zlatan, le sue membra scomposte e martoriate, il suo corpo irriconoscibile. È tutto così reale. Non ci sono più bugie. Un coperchio di legno non è sufficiente a nasconderlo.
Non sa se Pep sappia in quanti modi l’ha aiutato semplicemente con questa frase. Lo guarda, e pensa che in realtà non se ne sia reso conto. Che in realtà l’abbia pronunciata più per se stesso, per darsi qualcosa di reale a cui pensare, per non indugiare troppo col pensiero sul sorriso di Zlatan, sui suoi occhi, sul mondo in cui brillavano quando litigava con qualcuno, o sul modo in cui si muoveva dentro e fuori dal campo, ma non importa. Alle volte anche l’egoismo di qualcuno è utile per qualcun altro, così pensa José, l’ha sempre pensato. Lui ha perso il conto di quante migliaia di tifosi ha reso felici nell’egoistica rincorsa del maggior numero di titoli possibile. È così che funziona. Ad ogni azione di ognuno corrispondono conseguenze per milioni di altri. È giusto così.
- Grazie. – sussurra, guardando Pep con un mezzo sorriso a stendere le labbra. Gli appoggia una mano sulla spalla e stringe appena, nel tentativo di passargli almeno un po’ del calore che sta provando adesso. Gli occhi di Pep si riempiono di lacrime.
- Per cosa? – domanda in un singhiozzo.
- Non importa. – scuote il capo José, sorridendo, - Adesso vado.
- Dove? – insiste Pep, appoggiando la mano aperta su quella di José nel tentativo di trattenerlo.
- Torno in albergo. – risponde lui, - Sono stanco. Tu resta quanto vuoi. Prenderò un taxi.
- Posso—
- Sì, lo so che puoi. – José si sporge verso di lui, abbracciandolo per un istante. Quando si allontana, le lacrime hanno preso a scivolare lungo le guance abbronzate di Pep, scavando lunghe righe scure sulla sua pelle. – Ma io voglio che resti qui. Non preoccuparti per me. – sospira, - Preoccupati per te stesso, Pep. Tieniti molto da conto. Fallo anche per me. Mi raccomando.
Pep si morde un labbro e sembra del tutto intenzionato a continuare ad insistere fino a farlo cedere, ma poi qualcosa cambia, nei suoi occhi, mentre le dita che ancora tiene appoggiate sulla bara si serrano attorno al coperchio con uno scatto quasi spasmodico. Il suo corpo gli sta dicendo che non può ancora andare via, e José sorride perché invece le sue, di dita, sono libere, adesso.
Può andare.
*
Quella notte sogna Tami. “Perché sei qui?” le chiede, e lei sorride. È vestita di bianco, ha i capelli sciolti, è se stessa com’era a sedici anni, bellissima e pura e piena di aspettative nei confronti del futuro. Gli si avvicina, lo abbraccia, se lo stringe al petto e lo culla come un bambino.
“Perché ci sei tu,” risponde Tami, e la sua voce non è più quella di Tami. José alza lo sguardo e ci sono lui e Zlatan per strada, di notte, da qualche parte sull’autostrada. Ci sono delle fiamme che ardono in lontananza, si sollevano verso il cielo come volessero scorticarlo a unghiate. José non riesce a capire cosa le provochi. La giacca che Zlatan indossa è tutta bruciacchiata, ma lui, lui sta bene.
“Perché sei venuto?” domanda Zlatan, l’accento così forte da rendere la sua voce quasi ridicola.
José non riesce a parlare.
“Andiamo, Zay,” insiste Zlatan, l’espressione severa che si stempera in un sorriso più dolce.
José si sente piangere nel sonno. Improvvisamente, è consapevole di stare sognando, e che da qualche parte il suo corpo addormentato sta piangendo. Sente le guance bagnate, ma nel sogno non ci sono lacrime. “Volevo salutarti, zingaro,” dice. La sua voce suona incredibilmente serena mentre il sogno si trasforma in una macchia confusa e poi svanisce.
*
Il cielo sopra Malmö è di un grigiore pesante, uniforme. Sembra che qualcuno gli abbia dato una mano di cemento e poi l’abbia lasciato lì ad asciugare. José immagina che debba essere colpa delle nuvole, nessun cielo può essere di un colore simile se completamente sgombro, ma non può esserne certo perché, se quelle sono nuvole, sono talmente tante, e talmente ammassate le une contro le altre, da non riuscire nemmeno a distinguerne i contorni.
Non piove, almeno. Ma l’aria è pesante di umidità, ed onestamente, a questo punto, José non vede l’ora che tutto ciò sia finito per tornare in albergo, dormire una quantità spropositata di ore e poi tornare a Milano. Ha voglia di vedere i bambini. Ha voglia di vedere Tami. Ha voglia di tornare a lavorare, e se pensa che solo fino a un paio di giorni fa l’idea stessa di riprendere la propria vita come se niente fosse successo lo ripugnava, le labbra quasi gli si arricciano in un’ombra di sorriso amaro.
Dev’essere un meccanismo di difesa, si dice, mentre osserva distrattamente la bara sospesa sulla tomba di famiglia di Zlatan, immobile in attesa che il prete concluda le preghiere di rito. Dev’esserci qualcosa che impedisce alle persone sane di annegare troppo profondamente nel proprio dolore. Qualcosa che le salva, qualcosa che scatta, un meccanismo che entra in azione o qualcosa di simile, che a un certo punto le recupera da qualsiasi abisso nel quale sono sprofondate, e le riporta a galla.
Due giorni fa, José è riemerso da un sogno respirando a pieni polmoni come dopo una lunga apnea. Era da solo in una stanza d’albergo a Barcellona ed aveva appena perso uno degli amori più enormi della sua intera esistenza. Ne aveva salutato il cadavere dentro una bara appena poche ore prima.
Si sentiva rinato.
Ora, la bara comincia a scendere lungo il tunnel scavato nel terreno e pronto ad accoglierla. Helena piange silenziosamente a qualche metro da lui, composta nel suo dolore e bellissima nel suo lutto. Si è indurita, in questi due giorni. I suoi lineamenti sono più fieri, provati, il dolore immobile della linea netta e dritta delle sue labbra commuove José al punto da costringerlo a versare a propria volta un paio di lacrime. Non è nostalgia, è solidarietà. È condivisione di qualcosa di più grande di una semplice conoscenza. Di qualcosa di più profondo.
È amore, pensa José, lo sguardo che si sposta su Maximilian, che stringe forte la mano di sua madre, e su Vincent, disperatamente aggrappato a quella di suo fratello. È amore anche questo, in un certo senso.
- Come stai? – chiede qualcuno apparso al suo fianco. José si volta di scatto, stupito. Credeva di essersi messo abbastanza in disparte da non attirare l’attenzione.
- Deki. – esala confusamente, sbattendo un paio di volte le palpebre per metterlo a fuoco, come non riuscisse a capacitarsi di vederlo proprio lì in quel momento, - Cosa ci fai qui?
Dejan sorride, spostando per un attimo lo sguardo sulla bara ormai quasi completamente scomparsa sotto terra, come per un ultimo saluto.
- Eravamo molto amici. – risponde semplicemente, - E tu ci sei mancato molto, in questi ultimi giorni. – aggiunge con un sorriso appena più imbarazzato, tornando a guardarlo.
José abbassa lo sguardo sulla ghiaia che copre il vialetto secondario sul quale si è sistemato per osservare la funzione, sentendosi per qualche motivo colto in fallo, perfino a disagio.
- Dovevo—
- Non devi spiegarmi niente. – lo interrompe Dejan. José solleva nuovamente lo sguardo, e lui sta ancora sorridendo sereno, - Davvero, lo so. Non c’è bisogno. Volevo solo essere sicuro che adesso fosse tutto a posto. Perché se non lo è, noi siamo qui. Intendo, tutti. Tutti quanti. Ti aspettiamo a casa, e ci saremo.
José schiude le labbra, gli occhi che si riempiono di lacrime, le mani che tremano appena nonostante lui cerchi in ogni modo di controllarle, chiudendole a pugno lungo i fianchi.
- Non so che dire. – ammette, la voce rotta da un singhiozzo impossibile da nascondere. Dejan si concede una risatina incerta, scuotendo il capo.
- Lascia perdere. – gli dice, appoggiandogli una mano sulla spalla e battendovi sopra un paio di pacche consolatorie, - Ora scusami, vado a salutare Helena. – aggiunge, sporgendosi per abbracciarlo sbrigativamente, prima di correre dietro alla donna per evitare di lasciarsela scappare prima di essere riuscito, probabilmente, a migliorare la giornata perfino a lei, o almeno così pensa José nell’osservarlo allontanarsi.
Una volta rimasto solo, sfila il cellulare dalla tasca interna della giacca. Nessuna chiamata. Un messaggio di Pep. Dice “Grazie a te,” e José sorride, contento che finalmente anche lui abbia capito.
Compone a memoria il numero di Tami. Lei non risponde, e lui sorride ancora, perché se lo aspettava. Le lascia un messaggio in cui le dice che sta per andare all’aeroporto, che prenderà il primo aereo, che sarà a Milano in qualche ora. Di aspettarlo, perché fra poco sarà lì con lei, e tutto si risolverà.
Mentre la saluta, Tami solleva la cornetta. “Sono stufa di essere arrabbiata con te,” gli comunica in un mezzo piagnucolio che la fa sembrare per un attimo la stessa ragazzina, poco più che una bambina, che era quando José l’ha conosciuta. “Torna presto.”
José ride piano, rassicurandola. Quando interrompe la telefonata e solleva lo sguardo, accanto alla tomba di Zlatan non c’è già più nessuno. Si avvicina e, dalla lapide, una fotografia dai lineamenti sgraziati gli sorride, con l’aria di uno che è stato il più stronzo figlio di puttana di tutti i tempi e che se l’è goduta un mondo fino all’ultimo istante. José scoppia a ridere come un imbecille, passandosi una mano sugli occhi quando sente il familiare bruciore delle lacrime pungere sotto le palpebre. Non piangerà, però, basta così.
Il sorriso di Zlatan sembra salutarlo con calore, mentre lo osserva andare via.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Gen, (accenni) Het, (lieve) Angst.
- "Da almeno mezz’ora, José sta seduto per terra accanto a Zuca, e cerca di venire a capo delle istruzioni per montare il modellino di macchina che gli ha comprato prima di rientrare a Villa Ratti per il weekend."
Note: Riflessioni di Tami su suo marito nel privato e nel pubblico. Titolo da Shape Of My Heart di Sting. Prompt: Privato/Pubblico @ It100.
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I’M NOT A MAN OF TOO MANY FACES// (PRIVATO)
Da almeno mezz’ora, José sta seduto per terra accanto a Zuca, e cerca di venire a capo delle istruzioni per montare il modellino di macchina che gli ha comprato prima di rientrare a Villa Ratti per il weekend. Tami ridacchia mentre lo osserva grattarsi incredulo la sommità della testa mentre commenta che è impossibile riuscire a risolvere partite perse portando la squadra alla vittoria e poi non riuscire a capire cosa montare dove in uno stupido modellino per bambini dai dieci anni in su.
- Seriamente, non ha senso. – borbotta, sbuffando come una teiera sul fuoco. Tami gli si accuccia accanto, prende Zuca fra le braccia e lo dondola un po’ per rassicurarlo. Sì che papà gliela sistemerà, la sua macchinina, d’altronde lui sa fare tutto, no?, anche se poi per appendere le mensole in cucina hanno dovuto chiamare il falegname, visto che José, provandoci, per poco non si staccava un pollice col martello.
Sussurra le sue rassicurazioni all’orecchio del suo piccolino, e lui annuisce sicuro, gli occhi che brillano d’ammirazione mentre fissa il papà trafficare con le parti della macchinina riservandole la stessa attenzione che in genere riserva ai suoi ragazzi mentre li allena, e così nessuno dei due – né Zuca, né Tami – si stupisce davvero quando, alla fine, José riesce a montarla sul serio. E funziona.

(PUBBLICO) //THE MASK I WEAR IS ONE
Tami non segue spesso suo marito nel suo lavoro. Non va mai agli allenamenti, ad esempio, ed anche quando José porta Zuca a vedere qualche amichevole lei non li accompagna mai, un po’ perché qualcuno dovrà pur restare a badare a Titi, che odia il calcio neanche fosse una piaga che il buon Dio aveva conservato risparmiandola agli egiziani per riservarla a lei, ed un po’ perché le poche volte in cui ha affiancato José in un’apparizione pubblica, per un festeggiamento o qualche cena di lavoro, nel momento in cui s’è voltata a guardarlo in viso non l’ha riconosciuto. José è il migliore dei padri, il più fedele dei mariti, il più affettuoso degli amanti, ma quando lavora si svuota, non è più un essere umano, di lui resta solo la passione per il calcio, infinita, strabordante, che lo riempie tutto fino all’orlo scalciando fuori dal suo corpo tutto il resto, visto che di spazio, per tutto il resto, non ce n’è più. È per questo che Tami non va quasi mai con lui, perché le volte in cui lui vince e lei è costretta a seguirlo, quando lo guarda negli occhi non vede niente a parte il fuoco che gli brucia dentro, quello che agita l’animo di un uomo che ha ottenuto ciò che voleva ed è già pronto a desiderare altro per continuare a combattere e ottenere anche quello.
Il più delle volte, Tami cerca di ignorare che suo marito, mentre lavora, possa diventare un altro. E spesso – non sempre, ma spesso – funziona.
Genere: Triste, Introspettivo, Romantico.
Pairing: Zlatan/José.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Angst, Slash.
- Uno scambio epistolare per provare a riaprire una storia. O chiuderla definitivamente.
Note: Sia messo a verbale che odio Gra e le sue regole riguardanti i limiti di parole, perché se solo fossero state un po’ meno restrittive questa fic si sarebbe fermata alle 800 parole. E invece niente, Gra ne voleva mille e mille, perciò ve ne beccate duemila. Di delirio Jobra a distanza emoangst. Grr. Prima o poi riuscirò a smettere- credo. Spero. Dio.
Comunque la amo e non poteva essere altrimenti, perché è catartica, perché è triste e perché è particolare. E no, non mi sono dimenticata come si usa l’invio, e nemmeno ho fatto casino con l’HTML, sono monoblocco perché sono sequenze uniche XD Tutte da cinquecento parole contate con Word. E- oh, basta. Ho sonno XD
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The Unsaid


first kind of lie – truth said over time
04. Lettera stropicciata @ Double Drabble Challenge
Sabbia @ Operazione Tutti Al Mare/Scappatella Estiva


È assurdo scriverti una lettera, contando che potrei telefonarti…” José lascia scorrere silenziosamente le dita sulla carta. S’è rigirato quella lettera fra le mani così tante volte che ormai è tutta stropicciata, sembra vecchia di mille anni, s’è pure un po’ ingrigita, e invece è arrivata solo una settimana fa. E lui non ha ancora risposto. “Il fatto è che, per quanto mi piacerebbe parlarti, ho paura che non avrei niente da dirti. Il che è stupido, perché se fosse davvero così non dovrei nemmeno stare scrivendo questa lettera. Quindi forse le cose da dirti ci sono, è solo il coraggio che manca”. Sorride, mentre si lascia cullare dalla sensazione di ruvida morbidezza della carta sotto i polpastrelli, e una ruvidezza decisamente meno morbida – quella della sabbia del lungomare – gli solletica le piante dei piedi. “Lo so che fra noi le cose sono andate male”. E José non fatica a immaginarlo dire una cosa simile. Perché lui era così anche dal vivo, ha perso il conto delle volte in cui s’è fermato a scherzare con lui dopo una partita o dopo un allenamento e all’improvviso il suo sorriso ampio e divertito s’è trasformato in una smorfia seria che accompagnava le parole “devo parlarti”. È così che è cominciata la loro relazione, con un “devo parlarti” dopo il quale José s’è fermato ad ascoltare. È anche così che è finita, con un “devo parlarti” dopo il quale José non ha voluto sentire ragioni. “Lo so che avrei dovuto insistere di più, convincerti- no, costringerti ad ascoltarmi, ad accettare i miei desideri. E forse da lì saremmo potuti ripartire e saremmo rimasti insieme nonostante tutto. Non l’ho fatto e mi dispiace, ma devi capire che l’unico motivo per cui non l’ho fatto è che ho sempre sperato fino all’ultimo che lo capissi da solo. Che non era per te che andavo via, e che tu, anzi, saresti stato l’unica ragione per restare, se restare fosse stata un’opzione. Solo che non lo era, José, io non potevo restare e non potevo permetterti di obbligarmi a farlo. Io non sono fatto per restare nello stesso posto per più di tre anni. Il mio sangue è quello che è. Dicevi di amarlo com’era. Anche se, a pensarci adesso, mi viene da ridere: hai detto di amare tante cose, di me, ma mai me e basta”. José si lascia andare ad una smorfia mentre il mare comincia a rombare annunciando tempesta. E servirebbe, servirebbe davvero, perché fa caldo, l’aria è umida, i bambini sono insofferenti e Tami ha mal di testa. E José vuole la pioggia, perché rispetto al sole sarebbe più simile al suo stato d’animo. “Ho sbagliato io”, continua Zlatan da Barcellona, “non nell’andarmene, ma nello smettere di pretenderti al mio fianco”. E José si ferma. Si volta indietro a guardare il bungalow che dà sulla spiaggia. Tami avrà già finito di preparare la cena. “Chiama tu, quando vuoi”. La lettera finisce ripiegata e se ne torna in tasca, a spiegazzarsi un altro po’.


second kind of lie – truth never said
16. Post Scriptum @ Double Drabble Challenge
Scottatura @ Operazione Tutti Al Mare/Scappatella Estiva


Non ricevevo una lettera scritta a mano da anni. Devi avere davvero poco da fare a Barcellona, di questi tempi”. Zlatan non può fare a meno di ridere, appoggiandosi di spalle allo schienale della sedia a bordocampo, mentre i suoi nuovi compagni si allenano davanti a lui, salvo poi scostarsi immediatamente con una smorfia di dolore, appena il bruciore della scottatura frutto del suo ozio in quel posto torna a farsi sentire. Non è a Barcellona, è tornato a Los Angeles col Barça e gli fa strano stare lì con un’altra maglietta, altri compagni, un altro allenatore ed altri obiettivi, quando fino a pochi giorni prima quegli stessi campi li calpestava ammantato in altri colori. Controvoglia o meno. “Spero che la tua mano stia bene. O il tuo polso. O quel che era a farti male, devo confessarti di non averti seguito granché, da quando sei andato via. Non so perché l’ho fatto, probabilmente non volevo vedere cose che avrebbero distrutto l’idea che ancora conservavo di te. Altri non sono stati così saggi – Mario ha visto tutto ed è mio dovere informarti che ti conviene stare alla larga dal ragazzo, se mai dovesse capitarti di incontrarlo, perché credo abbia voglia di staccarti la testa dal collo a morsi”. Ancora, Zlatan vorrebbe ridere, ma stavolta non ci riesce. Il suo sorriso è una smorfia un po’ storta e ghignante, niente di granché piacevole o rassicurante – Zlatan se ne accorge perché il tizio che è incaricato di passargli le bottigliette d’acqua e di cui ancora non ricorda il nome, ma che sta sempre lì seduto accanto a lui e non si stacca dal suo fianco neanche fosse una fottuta ombra, si allontana da lui con un’espressione turbata. Questo lo fa ridere più sinceramente. Continua a leggere. “Qui le cose procedono senza intoppi”, lo informa José, e Zlatan può immaginarlo scrollare le spalle con una precisione quasi assassina – perché fa male come un coltello piantato nel cuore. E forse lo è, José è quel coltello che Zlatan tiene volontariamente conficcato nel mezzo del petto, perché certe volte la vita non ha senso se non stai male per qualcosa, ché il dolore persiste e resiste più della gioia, se è abbastanza profondo. “A breve partiremo per Pechino” continua, e Zlatan non riesce davvero a capire perché abbia scritto, se tutto ciò che voleva era rimpinzarlo di dettagli inutili a riguardo di una squadra che non è nemmeno più la sua e della quale, a rigor di logica, non dovrebbe importargli un accidenti. “Tami e i bambini ti salutano, un po’ manchi anche a loro. Si erano abituati ad averti sempre fra i piedi”. Zlatan ride ancora, stavolta non fatica a recuperare la sincerità che prima sembrava tanto lontana. “E per la verità non so che altro dirti, se non che manchi anche a me. E ti saluto”. Il sorriso gli si cristallizza sul volto, quando legge il post scriptum in coda alla lettera. “Forse, se fossi rimasto, ti avrei detto anche tutto il resto.


third kind of lie – truth mystified
30. Con tutto il mio affetto *firma* @ Double Drabble Challenge
Grigliata familiare @ Operazione Tutti Al Mare/Scappatella Estiva


Io penso che il tuo più grande problema, José, stia nel non saper dire le cose come stanno”. José inarca un sopracciglio, con disappunto. L’odore forte e gustoso della carne che cuoce sulla griglia riempie l’aria del piccolo cortile sul retro del bungalow, e lo stesso fanno le risate di Zuca e Titi, vistosamente più allegri dopo che il temporale di qualche giorno prima ha spazzato via il caldo asfissiante che attanagliava la riviera. Tami guarda il tutto con aria benevola e ogni tanto lascia scorrere gli occhi anche addosso a lui. José se ne accorge solo perché conosce il peso e la sensazione che danno quegli occhi quando gli accarezzano la pelle, ma non riesce a darle davvero attenzione perché Zlatan ha risposto subito, dopo la breve lettera che gli ha inviato qualche tempo prima. E non sa perché sia tanto impaziente di leggere il suo rimprovero severo tra le righe, ma sa che ne sente il bisogno. Perciò, disappunto o meno, va avanti. “Io sono sempre stato sincero con te, riguardo quello che c’era tra noi. Te l’ho detto quando ti volevo, ti ho mandato via quando non sopportavo di averti intorno, e soprattutto quando ho capito che era amore te l’ho detto. Questo forse non fa di me una persona migliore di te – anzi, sicuramente non è così, perché mi rende più egoista, più egocentrico e più infantile di quanto non lo sia tu – ma, poco ma sicuro, fa di me una persona più sincera”. José ringhia offeso, mentre Tami rigira gli hamburger sulla griglia e gli chiede a bassa voce come se la passi Zlatan in Spagna. Risponde con un grugnito poco convinto e lei gli fa eco con una risata cristallina delle sue, prima di lasciarlo alla conclusione della lettera. “D’altronde,” continua Zlatan, e José può quasi sentire il suo tono stanco e disilluso, nonostante i chilometri che li separano, “se avessi preteso della sincerità, da te, probabilmente non sarei mai partito. Oppure, con te non ci sarei mai nemmeno venuto a letto, figurarsi innamorarmi. Ti ho conosciuto che eri già un manipolatore, quello mi piaceva. Ma suppongo che a questo punto non possa lamentarmi del fatto che tu fossi esattamente come ti amavo. Come ti amo. Come… non lo so”, e qualcosa nel petto di José si spezza e nello spezzarsi cambia forma, così da dargli l’impressione che non sarà più in grado di riportarla alla normalità neanche ad utilizzare tutta la colla e la maestria che possiede. “Non rispondere a questa lettera se non vuoi dirmi quello che voglio sentire, José. Sarà meglio per entrambi. Con tutto il mio affetto, Zlatan”. José sospira e Tami lo informa che gli hamburger sono pronti. Lui le risponde che deve fare una cosa, ma torna subito. S’infila nel bungalow svelto e discreto come un ladro, si guarda intorno e poi si siede all’unica cosa che possa ricordare una scrivania nel raggio di chilometri, un tavolo in legno chiaro e levigato. E tira fuori carta e penna.


fourth kind of lie – truth denied
19. Lettera mai aperta @ Double Drabble Challenge
Fuochi d’artificio @ Operazione Tutti Al Mare/Scappatella Estiva


Helena è entusiasta e la Spagna le piace da impazzire, questa è l’unica cosa che Zlatan può dire di sapere con certezza, ora che sta sdraiato sull’erba di chissà che giardino gremito di persone e Max fissa con devozione il cielo che si illumina a tratti dei giochi di colore dei fuochi artificiali, mentre lei culla Vincent dondolandolo un po’ avanti e indietro, cercando di farlo addormentare nonostante il baccano. È appena tornato a casa dall’ennesima sessione di allenamento immobile – il braccio guarisce, non guarisce, “deve tenerlo fermo, signor Ibrahimović!”, “ho due figli, signor Vattelappesca!” – s’è appena ritrovato fra le mani la lettera di José, che subito Helena l’ha afferrato per il braccio sano, i bambini già nei passeggini, e gli ha cinguettato addosso tutta una serie di “ommioddio una festa di paese così carina mamma mia dobbiamo andarci i fuochi d’artificio!”, così confusa che Zlatan non ha nemmeno provato ad opporsi e l’ha seguita senza una protesta. E sono andati dietro al corteo in onore di chissà che santo patrono, hanno mangiato il marshmallow, Max ha storto il naso di fronte alle mele candite e Vinny ha dormito – come sempre – per l’ottanta percento del tempo, e ora sono lì che guardano i fuochi d’artificio esplodere nel cielo ed è il primo momento di vera quiete della sua giornata. Perciò, steso com’è, sperando che le luci delle bancarelle che costeggiano la strada siano abbastanza forti da illuminare la scrittura minuta e disordinata di José, recupera la lettera e la apre. All’interno della busta ce n’è un’altra più piccola, e c’è anche un foglietto a parte che gli scivola sul petto non appena fa tanto di guardarlo. Lo prende tra le dita e lo apre tenendolo sospeso sulla testa. “Io lo so qual è stato il mio errore più grande, Zlatan”, dice José, “lasciarti sempre decidere tutto. Ma è stata una mia scelta e non intendo smentirmi proprio adesso. Perciò d’accordo, decidi tu anche ora. Ma prenditi le tue responsabilità. Sai già cosa c’è nella busta più piccola che accompagna questo biglietto. Se apri e leggi, fallo solo perché vuoi tornare. Altrimenti, lascia tutto com’è. Questo sarà meglio per entrambi”. Il biglietto non dice altro. “Problemi?” chiede distrattamente Helena, allungandosi a risistemare Vincent nel suo passeggino. Zlatan risponde scuotendo il capo, e non sa cosa dire. Guarda la busta più piccola dentro la busta più grande e sembra così piccola e innocua che si sente stupido ad averne tanta paura. Ma lì dentro c’è ciò che avrebbe sempre voluto sentirsi dire e José non gli ha mai detto, e lui sa che, se solo lo leggesse adesso, poi nulla sarebbe più come prima. Perciò ci riflette accuratamente. Esita. E afferra la busta fra le dita e l’accarezza piano coi polpastrelli, sperando che quella carezza non si fermi sulla carta e in qualche modo arrivi dove vuole. Dove deve. Dov’è giusto. Ma quella busta lui non la apre. A Helena piace la Spagna. E certe cose, dopotutto, è meglio non saperle affatto.
Genere: Introspettivo.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG-15
AVVERTIMENTI: Slash.
- Zlatan vuole il numero dieci. E intende guadagnarselo.
Note: No, non ringrazierò la Zoccola Major per essere rimasta, ha fatto meno del suo dovere XD Però boh, ero in vena di pseudo-angst ed UST (ci speravate nelle cosacce, eh? XD), e soprattutto volevo vederli scontrarsi un po’. Era un sacco di tempo che non mi litigavano, io li trovo bellissimi quando litigano <3 *perdutamente innamorata del Jobra, come il primo giorno (cit.)* E poi volevo festeggiarlo a mio modo, questo numero dieci. Ho umiliato Ibra solo un pochettino, niente di eccessivo, mh? XD Almeno spero. La Zoccola ha bisogno di qualcuno che gli faccia abbassare la cresta e_e José, pensaci tu.
Ps. Titolo rubato a una canzone degli Smashing Pumpkins. Lo amo. La canzone no, però XD
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The End Is The Beginning Is The End


- Sei dimagrito. – dice seccamente José, appoggiato con una spalla allo stipite della porta neanche volesse fisicamente impedirgli di entrare in casa.
- E tu sei in costume da bagno. – annuisce Zlatan, incrociando le braccia sul petto. – Abbiamo altre ovvietà da puntualizzare?
Jose sorride fra i denti, scuotendo appena il capo – i capelli sono cresciuti un sacco dall’ultima volta che Zlatan lo ha visto, e lo svedese non riesce a stabilire se gli stiano bene o male. Da un lato sono strani, sembrano una specie di nuvolone da temporale che aleggia pesantemente sopra la sua testa, e questo lo fa sembrare sempre arrabbiato – cosa che in effetti non si discosta molto dallo stato d’animo in cui José versa per la quasi totalità della sua giornata, è incredibile la quantità di cose e persone con cui è in grado di prendersela quando le cose vanno male, cioè non vanno come lui si aspettava che andassero. Dall’altro, per quanto quell’intrecciarsi di mezzitoni stia lì a ricordargli che non è più un ragazzino e presto, probabilmente, sarà troppo grande anche lui per star dietro ai capricci di una primadonna di dubbia nazionalità, quei colori gli stanno da dio. E c’è poco altro da dire, in effetti, se solo rivederlo dopo un mese o poco più lo manda fuori di testa al punto da lasciarlo lì a rimuginare sul dannato colore dei suoi capelli e a quanto si adatti ai toni ambrati della sua pelle.
- Sei qui. – dice José a bassa voce, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Zlatan vorrebbe ribattere qualcos’altro di molto brillante sulle ovvietà di cui sopra, ma è costretto ad ammettere, almeno con se stesso, che il suo trovarsi lì in quel momento non è mai stato ovvio, nemmeno nella più rosea delle prospettive, perciò si morde la lingua e cerca di tirare fuori una battuta meno compromettente.
- Ehi, - borbotta, ancora fermo sulla soglia, - dov’è finita tutta la tua fiducia? Avevi detto che sapevi che alla fine sarei rimasto.
- Lo pensavo. – annuisce José, una mano che scivola appena lungo il ventre, a sistemare in gesti distratti il doppio nodo che stringe i boxer in vita, - Poi Matilde mi ha detto “è zingaro, José, è zingaro e giovane”, e allora non sono più stato certo di niente.
Il sorriso di Zlatan si allarga in un ghigno indisponente, e José indietreggia di qualche centimetro quando osserva lo svedese affacciarsi all’interno dell’appartamento per sbirciare curiosamente in giro.
- Matilde è in casa? – chiede in una nota beffarda.
- È giù al lago coi bambini. – risponde José, e Zlatan gli lascia a malapena il tempo di finire, prima di ridere a così pochi centimetri da lui da fargli sentire sulla pelle il calore del suo respiro.
- A Matilde piacerebbe se fossi uno zingaro davvero. – commenta, scrollando le spalle e tornando a una distanza ragionevole dalla sua persona, - Se me ne andassi, intendo.
- No che non le piacerebbe. – puntualizza José con un mezzo ringhio indisposto.
- Solo perché non sa che pericolo sono. – ghigna Zlatan, compiaciuto.
- No. – insiste José, risoluto, - Perché non sei per niente pericoloso.
Zlatan aggrotta le sopracciglia, piccato. Non è il benvenuto che si aspettava, non è il ringraziamento che si aspettava e non è il calore che si aspettava. In compenso, è esattamente il José che sa di volere, perciò sospira e rilassa i lineamenti del volto, lasciandosi andare a un’espressione che rifletta più sinceramente il suo sentire del momento. Un po’ di stanchezza, un po’ di paura. Niente di drammatico, lui è Zlatan Ibrahimović e nella sua vita non esiste nulla che sia meno che perfetto, ma sì. Un po’ di stanchezza. Un po’ di paura.
- Senti… - comincia in un sospiro arreso, - sono appena arrivato, okay? Ho litigato con Helena perché la prima cosa che ho fatto, arrivando a Linate, è stata chiamare un taxi per venire qui. Mi lasci entrare?
C’è una domanda, negli occhi di Zlatan, e quella domanda non è “mi lasci entrare?”. C’è qualcos’altro in quegli occhi, José non riesce a capire cosa sia e questo è inaccettabile, perciò si scosta dalla soglia, invitandolo a entrare.
- Vuoi fare una doccia? – gli chiede a bruciapelo, chiudendosi la porta alle spalle mentre Zlatan, neanche fosse a casa propria, avanza all’interno della villa senza neppure sentire il bisogno di accendere la luce. E dire che il corridoio principale è scuro e non ha nemmeno una finestra. – Scegli pure uno qualsiasi dei duemila bagni. Sono tutti liberi.
Zlatan continua a camminare, scrollando le spalle.
- Se volevo una doccia la facevo a casa mia. – borbotta, e dietro di lui José si lascia andare a una mezza risata.
- E allora cos’è che vuoi? – chiede seccamente, fermandosi in mezzo al corridoio. Zlatan si ferma a propria volta, girandosi a guardarlo con aria seria.
- Voglio il numero dieci. – sputa d’un fiato, - Sono rimasto. Voglio il numero dieci.
L’aria resta totalmente immobile solo per qualche secondo, prima che José si decida a spezzarla con una risata tonante di quelle che gli si sentono fra le labbra solo raramente, perché il mister non è tipo da ridere con tutti o per qualunque cosa. Evidentemente, pensa Zlatan con una certa irritazione, ciò che ha appena detto deve essergli sembrata una battuta particolarmente brillante. Peccato lui sia più che serio, serissimo.
- E lo vieni a chiedere a me, il numero dieci? – lo prende in giro José, le labbra piegate in una smorfia derisoria che fa desiderare a Zlatan di trovarsi già fuori da villa Ratti, nel taxi, diretto a casa. – Perché non sei andato dal presidente? Scommetto che sarebbe stato più che felice di accontentarti all’istante.
- Lo voglio da te. – insiste lui, le labbra strette per il nervosismo che sembrano una linea unica a tagliare la parte inferiore del viso. – Da te avrebbe un senso.
- Non hai fatto niente per me che meritasse questo numero. – scrolla le spalle José, e Zlatan digrigna i denti.
- La scorsa stagione-
- È stata una stagione da otto. – lo interrompe deciso lui, - Pensi che i numeri dieci possano permettersi mal di pancia o altre idiozie simili?
- Lo sai che non ho mai avuto intenzione di andarmene davvero.
- Non è questo il punto. – José incrocia le braccia sul petto, - Hai destabilizzato i tifosi, la società, i tuoi compagni di squadra e me. Non è un comportamento da dieci, questo. Ne abbiamo già avuto abbastanza di dieci incasinati, ti pare?
- Dest-… - Zlatan ride al alta voce, una risata cattiva e risentita, - Destabilizzare! Io! Tu dici a me che destabilizzo la squadra! Tu e i tuoi fottuti novantanove virgola nove percento!
- Io non sono te, Zlatan. – sbotta José, - E io non voglio il numero dieci.
- Sei l’allenatore!
- Ognuno è responsabile delle proprie azioni. – conclude lui, scrollando nuovamente le spalle, - Vuoi il numero dieci, Zlatan? Vai da chi può dartelo senza farti storie.
Lo svedese si avvicina, sfruttando i centimetri d’altezza per cercare di imporsi su quell’uomo ridicolo che continua a irritarlo perché evidentemente si diverte a farlo.
- Lo voglio da te. – insiste, - Me lo sono meritato, lo voglio.
- Non te lo sei meritato. – si ostina lui, guardandolo negli occhi senza un’esitazione, - Non per me.
Meno di un secondo dopo, José si ritrova schiacciato contro la parete, Zlatan così addosso da sentire ogni spigolo del suo corpo fare a pugni coi propri, il suo avambraccio a spingersi contro il suo collo, mozzandogli il respiro. Gli occhi scuri di Zlatan ardono come braci e il suo respiro è rovente sulle labbra.
- Vuoi meritarlo pestandomi? – gli chiede, ostentando una sicurezza che forse in fondo non possiede nemmeno – Zlatan è l’unico davanti al quale a volte riesce a sentirsi fragile.
- No. – risponde duro lui, ostentando una rabbia che non gli appartiene davvero – José è l’unico in grado di trasfigurarlo fino a fargli dimenticare chi è.
- Vuoi meritarlo con questi, Zlatan? – ringhia José, ed una mano scende ad afferrarlo con forza tra le gambe, stringendo senza pietà. Zlatan lotta contro se stesso e contro il dolore per non allontanarsi, e ringhia fra i denti, soffiando un respiro sofferente sulle labbra di José. – Non è a me che devi mostrarli. Ai tifosi, ai tuoi compagni. In campo e anche fuori, ma non qui in casa mia. – e poi lo lascia andare, stringendo un’altra volta apposta per fargli male, trattandolo con disprezzo.
Zlatan non sa se quel disprezzo lo merita o meno. Ha sempre fatto e detto ciò che ha ritenuto opportuno fare e dire, la sua vita è la sua, le sue scelte sono le sue, le sue responsabilità sono le sue, lui non ha mai rinnegato niente ed anche solo per questo, a fronte di tutti i mercenari che infestano il suo mondo – e non solo mercenari che vendono i colori di una maglia; ce ne sono di peggiori, che per un pugno di milioni vendono cose ben più preziose di un’effige sul lato sinistro del petto – a fronte di tutto questo sente di meritare almeno il rispetto minimo che riservi ad un essere umano quando parli con lui, un tipo di rispetto che possa impedirti di afferrarlo per le palle e cercare di castrarlo con una stretta bene assestata, almeno. E invece niente. Da qualche parte negli ultimi mesi, ha perso il rispetto di José, e non riesce a capire perché.
- Io – ripete a fiato corto, senza allontanarsi, - voglio il numero dieci. È mio, lo voglio. È già mio, tu lo sai.
- Il numero dieci è ancora Adriano, o quello che resta del suo ricordo, finché non sarai in grado di farmelo dimenticare. – sbotta José, spintonandolo malamente all’indietro, - E ora fatti da parte. Sono sudato, voglio farmi un bagno.
Zlatan indietreggia e gli lascia spazio per passare, e solo quando José si allontana di qualche passo lo svedese si decide a parlare ancora.
- Io non ti inseguirò. – dice orgoglioso, stringendo i pugni, - Non ti implorerò nemmeno.
José ride, voltandosi a guardarlo.
- Tu pretendi di ottenere ciò che vuoi alle tue condizioni, Zlatan, è questo il tuo problema. Come numero dieci saresti un fallimento. Un buon numero dieci, - precisa con un ghigno supponente, - deve ottenere ciò che vuole alle condizioni degli altri.
Zlatan lo osserva per qualche secondo muoversi a passi lenti lungo il corridoio, verso la portafinestra che dà sulla piscina in fondo, e si morde il labbro inferiore, incerto sul da farsi. Ogni tanto ha l’impressione che José sia un enigma e lui quello incaricato – da chissà chi, poi. Da se stesso, probabilmente – di risolverlo. E lui ci si impegna, davvero, ci sbatte la testa contro più e più volte, ma tutto ciò che ottiene quando riesce a svelare una risposta sono altre dieci domande almeno, che si affastellano l’una sull’altra neanche il suo cervello fosse un archivio incasinatissimo nel quale nessuno è mai stato capace di mettere un po’ d’ordine. È ormai quasi convinto di non possederla, Zlatan, la chiave per risolvere tutti i misteri di José, ma se c’è una cosa che proprio non si può dire di lui è che sia uno che si arrende facilmente. Perciò, passati i primi secondi di smarrimento, passata la rabbia e passato il dolore fra le gambe, Zlatan decide il da farsi. E decide anche che il da farsi è comportarsi da dieci. È ciò che vuole, José non intende accontentarlo se prima non dimostra di meritarlo e quindi ciò che deve fare è dimostrarlo. Punto.
- Dimmi quali sono le tue condizioni.
José si ferma sulla soglia della portafinestra; la sua sagoma si staglia contro il giardino illuminato in pieno dai raggi del sole di mezzogiorno, e Zlatan vede la sua ombra voltarsi appena, lanciargli un’occhiata poco convinta e poi riprendere il proprio cammino, ignorandolo.
Lo insegue.
- Dimmi quali sono le tue condizioni.
Lo implora.
- Ti prego.
Il giardino di casa si apre intorno a loro come un fiore, colorato e ricco di profumi – alcuni piacevoli, come quello dei fiori delle aiuole, altri meno, come quello del cloro che disinfetta l’acqua della piscina, altri intensi e basta, come l’odore acre dei tronchi degli alberi che circondano la proprietà – e per svariati secondi Zlatan è costretto a battere le ciglia con una certa forza, nel tentativo di abituarsi alla luce che lo inonda, rendendo tutto lucente in maniera quasi insopportabile. Il riverbero dei raggi sull’acqua appena scossa dal vento si proietta sulla pelle di José. Anche quel colore gli sta da dio. Zlatan si chiede se l’effetto sia lo stesso anche su di lui, che invece è di un pallore cadaverico che sembra non piacere a nessuno. Anche se ricorda la voce di José sussurrargli all’orecchio qualcosa di molto carino sul colore che ha dopo i morsi. Ma non è il momento di pensarci, questo.
- Resti almeno finché resto io. – dice lui, serio, appendendo una mano a un fianco. – Ho dei progetti, su di te, e non intendo lasciarli saltare per un altro mal di pancia, fra quattro o cinque mesi.
Zlatan annuisce.
- D’accordo. E-
- E vieni via con me, - aggiunge José, fissandolo senza neanche un minimo di vergogna, - quando me ne vado. Ho dei progetti anche in questo senso, e non intendo lasciar saltare nemmeno loro. Per nessun motivo.
Zlatan resta a corto di fiato perché il respiro che deve buttare fuori quando glielo sente dire è enorme. È che gli serve fare spazio. Una cosa del genere ne ha bisogno, per espandersi per bene, colonizzare tutte le cellule e imporre al corpo la comprensione che il cervello non sembra in grado di fornire. José gli sta dando molto più di un numero. E Zlatan finalmente ci arriva, a capire cos’è che intende il suo allenatore – il suo compagno, e lo è nonostante tutto. Le condizioni per ottenere qualcosa sono proporzionate al tipo di cosa che vuoi. Se già un numero vale tanto, ciò che José gli sta dando vale molto di più. Meritarlo è ancora più difficile. E i sacrifici dovranno essere adeguati.
- Sì. – risponde. Non d’accordo, perché non si stanno accordando su niente. José gli ha chiesto se lo ama. La risposta è .
- Zay? – trilla la voce di Matilde, mentre entra in casa nel vociare allegro e concitato di bambini esaltati e bambinaie isteriche, - Ci sei?
- Sì! – risponde José ad alta voce, senza muovere un passo né verso di lui né verso la portafinestra, - Abbiamo un ospite.
Matilde si affaccia sul giardino e sorride felice, i suoi occhi scuri si illuminano e Zlatan non può che ricambiare con un sorriso un po’ stanco ma tutto sommato simpatico, quando la donna lo saluta con un abbraccio caloroso.
- Zlatan, che sorpresa! Sei tornato oggi? Come sono andate le vacanze?
Zlatan ride, grattandosi la nuca, un po’ in imbarazzo.
- Movimentate. – risponde divertito, - Ho tempo di farmi una doccia, prima di pranzo?
- Oh, sì, naturalmente! – concede Matilde, allegra, - Mi metto subito al lavoro in cucina, tu prenditi pure tutto il tempo che ti serve!
José ghigna e gli passa accanto, richiamandolo con un cenno del capo.
- Ti mostro il bagno. – spiega, mentre lui lo segue, adattando il passo al suo.
- Uno dei duemila. – risponde Zlatan in una risata compiaciuta.
Non può vederlo, ma sa che il sorriso sulle labbra di José, mentre entrambi salgono lentamente al piano di sopra, è identico al suo.
Genere: Generale.
Pairing: Davide/Mario, Zlatan/José, Davide/José (onesided).
Rating: R
AVVISI: AU, Slash.
- Mario fa entra ed esci dall'orfanotrofio da quando aveva due anni. Nessuna famiglia sembra riuscire ad accoglierlo nel giusto modo, e perciò non vede perché dovrebbe essere diverso, stavolta. Solo che lo sarà. Lo sarà eccome.
Note: ;___; Commozione, è finita!!! Voi non potete capire cosa vuol dire per una donna come me – una che le storie sa (quasi) sempre quando le comincia ma mai quando (e se!) le finisce – riuscire a concludere una fic a capitoli. In un tempo prestabilito, poi, e senza sbavature! Sette settimane, ci ho messo, e mai un ritardo. E amo oggi questa famiglia di disastrati esattamente quanto l’amavo il primo giorno, perché piano piano ho imparato a conoscerli assieme a Mario. E nonostante il finale tremendo (me lo dico da sola ._. Odiatemi) mi resteranno sempre nel cuore. *sparge affetto*
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lady in red

La signora è vestita di rosso, quando arriva all’orfanotrofio. Assieme a lei c’è un uomo che, al suo fianco, sembra altissimo, anche se in realtà può vantare al massimo un metro e settantacinque d’altezza, qualcosa di più forse, qualcosa di meno probabilmente, Mario non è mai stato granché bravo con questo tipo di stime, anche perché è cresciuto molto in fretta ed è diventato altissimo altrettanto frettolosamente, perciò ha perso il senso della misura da qualche parte fra i quindici e i sedici anni. Alla fine di tutte le considerazioni, non saprebbe dire se l’uomo in questione sia basso davvero o gli sembri tale solo perché è più basso di lui, tutto ciò che sa è che è con la signora e che la signora è vestita di rosso, ed è bellissima. Non una bellezza canonica, non di quelle che vede sui giornali e non certamente di quelle con cui si concede di uscire ogni tanto – le altre ragazzine dell’orfanotrofio, sedicenni e diciassettenni fasciate in jeans e top aderenti, che gli corrono dietro solo perché è alto e gioca a calcio, perciò il fisico è quello che è e non è niente male. La signora è bella perché è elegante, la signora è bella perché emana una piacevole aura di tranquillità e la signora è bella perché ha due begli occhi castani che si guardano attorno con aria svagata e persa. La signora è bella perché chissà quanti anni ha ma sembra una ragazzina che scopre tutto all’improvviso, una che esce di casa per la prima volta, ed è bella anche per come si stringe all’uomo che la accompagna, che la trae a sé in un gesto protettivo e intimo, stringendole un braccio attorno alle spalle e voltando appena il capo per baciarle una tempia e sussurrarle qualcosa all’orecchio – qualcosa che le provoca una risata divertita e infantile, che lei cerca di soffocare con poco successo portando una mano alle labbra.
Mario non è proprio sicuro che restare a fissare i due nel modo in cui lui li sta fissando sia la cosa più giusta da fare, ma è altrettanto vero che proprio non riesce a smettere di farlo, perciò resta lì con aria ebete mentre intorno a lui il giardino dell’orfanotrofio si agita tutto, ogni ragazzo intento nelle proprie attività, e lui dovrebbe stare più attento a come muove le cesoie attorno a quel cespuglio tondo, o finirà per tranciarlo a metà e fare un disastro. Non che abbia paura di una punizione, il direttore non è esattamente noto per il suo pugno di ferro, ma gli è sempre dispiaciuto rovinare le cose belle, perciò sì, dovrebbe stare più attento, ma la signora e il suo uomo continuano a passeggiare per il giardino come fossero in visita ad un parco o chissà che, e lui non può fare altro che continuare a guardarli, perciò poco da fare, sono comunque molto più belli loro di qualunque cespuglio tondo decori quel giardino.
La signora si volta a guardarlo e gli lascia scivolare gli occhi addosso in una carezza distratta. Sorride serena, ed il suo sorriso si allarga lievemente quando incontra gli occhi scuri e stupiti di Mario, che la osserva fermarsi all’improvviso con una certa curiosità, le cesoie ancora a mezz’aria. L’uomo si ferma contemporaneamente a lei, con una naturalezza che sa di comportamenti rodati: chissà quante volte la signora si ferma all’improvviso e chissà quante volte l’uomo, semplicemente, la segue, fluido, senza scatti, immediato.
La signora si allontana dalla stretta del compagno e lui non la trattiene, si limita a seguirla, un solo passo indietro, fino a quando non si ferma davanti a Mario, continuando a guardarlo con quel sorriso entusiasta e un po’ bambino, che contrasta in maniera piacevole con le rughe sul suo viso e che, adesso che sono vicini, Mario può vedere distintamente.
- Che bel colore. – dice la signora, trasognata, sollevando una mano ad accarezzargli una guancia. È avvolta in rosso anche quella manina così piccola e delicata, Mario se la sente scorrere morbidamente addosso e resta a guardare la signora, rapito dai suoi occhi persi. Nessuno l’ha mai guardato con tanta palese adorazione, e lui non sa se sentirsi più lusingato o più in imbarazzo. – Zay, hai visto che bel colore?
- Sì, Tami. – annuisce l’uomo, sorridendo appena, - È bello davvero.
Mario sposta lo sguardo sull’uomo e cerca di decifrarne gli occhi, ma pur essendo di un colore banalissimo sono assolutamente incomprensibili.
- Tami! – dice la voce del direttore alle sue spalle, e qualcosa in quel momento perfetto si spezza. La signora abbassa la mano e smette subito di accarezzarlo, sollevandosi sulle punte per cercare oltre il suo corpo la figura che si avvicina, e sorridendo entusiasta come una bambina non appena riesce ad individuarla.
- Massimo! – lo chiama, agitando un braccio, - Zay, c’è Massimo! – richiama l’attenzione dell’uomo, che sorride ancora e saluta il direttore con un cenno del capo.
- Ma che piacere rivedervi! – saluta anche il direttore, chinandosi sul corpo minuscolo della signora per avvolgerlo in un abbraccio amichevole e poi voltandosi a stringere la mano dell’uomo, - José, quanto tempo.
L’uomo sorride ancora, e si ravvia distrattamente i capelli sulla testa, con una smorfia buffa.
- È stata bene, ultimamente. – butta lì, come non avesse importanza. Mario non capisce a cosa si stiano riferendo, d’altronde il direttore non ha chiesto a nessuno come stesse qualcun altro, quindi la risposta dell’uomo è veramente incomprensibile, ma il direttore sembra capire tutto al volo, e Mario lo osserva annuire serio per un secondo, prima di tornare a sorridere allegramente, poggiando una mano sulla spalla della signora.
- Coraggio, Tami, ti offro un tè. Vaniglia?
- Con piacere. – sorride la signora, e si volta a cercare il marito con lo sguardo, un po’ incerta.
- Precedetemi. – la rassicura lui, chinandosi a baciarla lievemente sulle labbra, - Io vi raggiungo subito.
Mario osserva la signora e il direttore allontanarsi lungo il vialetto, verso l’edificio principale dell’orfanotrofio, e poi torna a portare lo sguardo sull’uomo – José, come l’ha chiamato il direttore, che lo sta a propria volta scrutando con un certo interesse, come lo stesse studiando.
- Non parli molto, mh? – chiede curioso. Mario serra le cesoie attorno ad un rametto fuori posto. Il suono che producono è secco e fastidioso. Il rametto, cadendo a terra, invece, è silenzioso come una piuma.
- Preferisco tacere, se non ho qualcosa da dire. – risponde scrollando le spalle, - Cerco di evitare di mettermi nei guai.
- E ti capita spesso? – chiede ancora José, - Di metterti nei guai, intendo.
- …ogni tanto. – risponde Mario, sinceramente. – Prima, però. Adesso non più.
- E come mai?
Mario si prende un secondo, prima di rispondere. Pota ancora un paio di rametti qua e là, cercando di mantenere la forma del cespuglio, e poi sospira.
- Il direttore mi ha fatto capire che, passati i diciott’anni, non è più possibile creare problemi.
José scoppia immediatamente a ridere, una risata piena, tonante e divertita. Mario lo osserva gettare indietro il capo e poi tornare a guardarlo con una luce compiaciuta negli occhi.
- Per quante famiglie sei passato? – chiede a bruciapelo.
- Due. – risponde lui, altrettanto immediato e altrettanto privo di filtri.
- Non eri abbastanza per loro?
- O forse loro non lo erano per me.
José lo guarda con compiacimento se possibile addirittura maggiore, incrociando le braccia sul petto.
- Mi piace quest’atteggiamento. – commenta annuendo, - E a Tami piace il tuo colore. – si interrompe solo per un attimo, inumidendosi le labbra. – Ti andrebbe di provare ancora?
Mario non può nascondere il suo stupore, quando sente la domanda, ed inarca entrambe le sopracciglia, abbassando la cesoia lungo il fianco.
- Solo perché alla signora piace il mio colore? – chiede.
José annuisce.
- Ce l’hai un sogno? – domanda a propria volta, salutando con la mano la signora che si sta sbracciando come una ragazzina dalla terrazza sul fronte dell’enorme quanto sobrio castello che ospita l’orfanotrofio. – Una cosa per la quale sei disposto a tutto?
Mario scrolla le spalle.
- Aspetto che arrivi. – sospira profondamente. José annuisce ancora, prendendo atto.
- Tami è il mio. – dice a bassa voce. E stavolta annuisce Mario.
- Non c’è due senza tre, immagino. – concede con un’altra scrollatina di spalle.
José ride ancora. Anche Mario è divertito, perciò ride anche lui.
- Comunque mi chiamo Mario. – precisa il ragazzo, tornando a potare il cespuglio, - Giusto per informazione.
José annuisce, prendendo atto, e poi sorride ancora.
- Fantastico. – commenta, infilando una mano in tasca e continuando a fissare la signora, seduta col direttore ad un grazioso tavolino bianco in terrazza, mentre sorseggia il tè, - Mario è anche il mio secondo nome.
*
Mario arriva a Villa Ratti appena due giorni dopo e, quando oltrepassa il cancello, perdendo lo sguardo sull’immensità del giardino – ed è un eliporto, quello che intravede al di là degli alberi, in quella radura assolata? – gli riecheggia ancora nelle orecchie l’ultima conversazione avuta col direttore Moratti, mentre sistemava le poche cose cui tiene nel borsone già al quinto trasloco.
- Se dovesse andare male… - gli ha chiesto con falsa distrazione, appallottolando calzini e schiacciandoli nel fondo del borsone senza cercare gli occhi del proprio interlocutore, il quale non ha neanche sentito il bisogno di interrompere il suo discorso parlando, e s’è limitato a coprire le sue ipotesi con un rassicurante sorriso dei suoi, di quei sorrisi che raggiungono come una specie di mistica incrollabilità, che quando li guardi capisci che sono così splendenti e sicuri solo perché si sono guadagnati con la forza il diritto di esserlo.
- Non mi sembra il piede giusto con cui partire. – gli ha fatto notare, battendogli un’amichevole pacca sulla spalla, - E comunque non credo che andrà male. Nel caso dovesse proprio essere un disastro, - ha aggiunto con un sospiro stanco, osservandolo rilassarsi visibilmente, rassicurato, - qui c’è sempre un posto per te, Mario, naturalmente.
Mario ha annuito senza sollevare lo sguardo dalla maglietta che stava piegando.
- E che tipi sono, questi qui? – ha chiesto poi, cercando di dissimulare la curiosità fra le pieghe di un disinteresse costruito ad arte.
Il direttore ha riso, aiutandolo a piegare i pantaloni.
- Sono brave persone. – gli ha risposto con sicurezza, - Li conosco da moltissimo tempo. Sono molto affettuosi e tu non sei il primo che adottano.
Mario ha sollevato lo sguardo, finalmente, cercando gli occhi castani del direttore coi propri, sempre castani ma di una tonalità decisamente più scura, retaggio di un codice genetico che non sente proprio perché lui, nonostante il colore della sua pelle, è nato in Italia e in Italia ha sempre vissuto, dell’Africa non sa nulla e in realtà non sa nulla neanche dei suoi genitori naturali che, dopo averlo messo al mondo, non hanno trovato niente di meglio da fare che mollarlo nel primo ospedale disponibile quando si sono accorti che non è nato perfetto ma con un difetto di fabbrica che – non avesse trovato brava gente a prendersi cura di lui in ospedale, e il direttore, naturalmente – gli sarebbe quasi sicuramente costato la vita.
- Brave persone? – ha ripetuto Mario, inarcando un sopracciglio e infilando un paio di scarpe da tennis in un sacchetto di plastica, - Non saranno mica di quelli che vanno in giro recuperando bambini e ragazzi negli orfanotrofi di tutto il mondo solo per mostrare alla gente quanto sono fighi e generosi e antirazzisti? Guardi che non ci voglio finire in casa col Brangelina di Milano e provincia. – ha borbottato irritato, o forse solo innervosito dall’imminente cambiamento.
Il direttore ha riso ancora, scuotendo appena il capo.
- No, Mario, niente del genere. Puoi stare tranquillo, in casa Mourinho si adotta solo perché si vuole un figlio.
Mario ha scrollato le spalle ed ha recuperato tutta la propria biancheria dal primo cassetto del comodino.
- E la signora… - ha aggiunto in un soffio, quasi percepisse la propria curiosità come una violenza nei confronti di quella bella donna vestita di rosso, - …intendo, non è mica tanto normale.
Il direttore ha sospirato, aiutandolo a tenere ben fermo il borsone dai lati mentre lui cercava di chiudere la cerniera sulla sommità.
- Di questo dovrà parlarti José, e lo farà quando sarà il momento giusto. Ma non hai ragione di preoccuparti, Tami è splendida. Ed è accudita bene sia da suo marito che dai suoi figli.
- Di solito – ha aggiunto quindi Mario, ricontrollando per l’ennesima volta tutta la stanza per essere certo di non dimenticare niente, - non è la mamma che si prende cura di tutti gli altri?
Il direttore ha riso per la centesima volta in mezz’ora e Mario s’è chiesto se non fosse per caso ubriaco o non si trattasse piuttosto di lui, che si stava effettivamente rendendo ridicolo, con tutte quelle domande del cavolo, neanche avesse avuto dieci anni e tutto ancora da imparare.
- Scoprirai che in famiglia le cose sono quasi sempre molto più complicate di così. – ha risposto il direttore, sollevando il borsone dal letto e poi lasciandolo planare disinvoltamente fra le sue braccia, rischiando di mandarlo col sedere per terra causa eccessivo carico da sostenere troppo improvvisamente, - Ed anche molto più semplici.
In realtà, comunque, attraversando il giardino lungo il selciato e andando incontro all’uomo in giacca e cravatta che lo attende sulla soglia di casa, Mario non riesce a immaginare cosa possa esserci di complicato in una situazione come questa. È altrettanto vero, in realtà, che non riesce nemmeno ad immaginare cosa possa esserci di semplice, per cui resta in silenzio e lascia che l’uomo recuperi il suo borsone direttamente dalle sue mani e lo introduca all’interno della casa, dove un altro tipo lo aspetta, avvolto in un abito elegantissimo, tipo Ambrogio, per intendersi, solo che il tizio con Ambrogio non c’entra granché, perché più che un maggiordomo sembra una specie di topo da biblioteca tirato lontano di prepotenza dai libri, infilato in una livrea grande almeno due taglie più della sua e costretto a fare un lavoro che non gli compete minimamente.
- Benvenuto a casa, Mario. – dice il maggiordomo, - Il mio nome è Beppe e mi occupo della gestione della casa. Non lasciarti intimorire dalla livrea, a Tami piace come mi sta, ma non c’è bisogno di trattarci formalmente. Lavoro per José da più di dieci anni, ormai.
Mario annuisce, con aria poco convinta.
- La mia borsa… - accenna, e Beppe gli sorride conciliante.
- Se ne sta occupando Andrea. – gli rivela, - Più tardi tornerà a portarti in camera tua.
- Ma sta rovistando nella mia roba? – chiede Mario, allarmato, cercando di fare mente locale per assicurarsi di non aver ficcato qualche calzino sporco in qualche tasca laterale del borsone.
- Rovistando? – chiede Beppe, con un certo stupore, - Sta mettendo a posto. Per te le due cose coincidono?
- Be’! – borbotta Mario, irritato, - Sì, se per mettere a posto ci ficchi il naso dentro!
Beppe ride, e Mario mette su un broncio scontento, ripromettendosi di dire a José che lui è abituato a badarci da solo, alle proprie cose, e quindi gradirebbe che nessuno lo facesse al posto suo, e non gliene frega niente di quale sia la prassi di quella stupida villa in riva a uno stupido lago nel mezzo di una stupida palude umidiccia e piena di stupide zanzare. Naturalmente, tutti i suoi buoni propositi vanno a farsi benedire quando Beppe torna a parlare.
- Tami… - esordisce, e tutti i sensi di Mario si tendono nel tentativo di captare ogni singola sfumatura di quel discorso, - è in una condizione un po’ particolare. È lei che decide come ci si muove in questa casa, chi fa cosa e quando e come. Lei vuole i maggiordomi e lei vuole che si occupino loro di tutte le questioni pratiche. Quindi, che ti piaccia o no, Andrea continuerà a badare alla tua roba, ed io a tutto il resto. Mi sono spiegato?
Mario annuisce – non gli pare ci sia molto altro da fare – ed esita appena, prima di concedersi una domanda.
- Ma la signora… sì, cioè, Tami, dico… sta bene o no? Perché a me-
- A me pare che tu stia già chiedendo più di quanto non debba sapere in questo momento. – lo interrompe Beppe con un sorriso serafico, allargando un braccio verso una porta a vetri che porta su un’altra parte del giardino, - Ora seguimi, avvertiamo la tua famiglia del tuo arrivo.
La prima cosa che Mario vede, comunque, uscendo in giardino, non è la sua famiglia, ma un’enorme piscina dalle forme tondeggianti che si allunga per almeno una quindicina di metri. Ci sono le scalette, c’è un trampolino azzurro e c’è tutto un corridoio di sassolini rotondi e lucidi che brillano nel sole e portano dalla piscina alle docce – alti tubi verdi che somigliano a gambi di fiori, così come fiori sembrano i doccini – di una bel rosso acceso – che li terminano e dai quali esce un getto continuo d’acqua tiepida e cristallina.
Il sole abbaglia Mario colpendolo dritto negli occhi e, quando lui li scherma per mettere a tacere il bruciore, riesce finalmente ad individuare Josè – in camicia a mezze maniche e bermuda, steso su una sdraio a prendere il sole come una lucertola. Il portoghese solleva una mano e lo saluta sorridendo.
- Spero tu abbia portato un costume da bagno. – scherza, tornando a sistemarsi comodamente sul telo di spugna che gli impedisce di bagnare di sudore il tessuto in cotone pesante della sdraio che lo ospita.
- …dovrei averne uno nel mio borsone, ma me l’hanno rubato. – si lamenta lui, sedendosi tranquillamente su una sdraio accanto a quella di José. L’uomo ride divertito, chinandosi a recuperare da terra un bicchiere colmo di succo di frutta fresco.
- Andrea te lo porterà sicuramente quando avrà finito di mettere ogni cosa al suo posto. – lo tranquillizza, e Mario annuisce. Poi viene colpito da qualche gocciolina d’acqua in pieno viso, ed ha appena il tempo di sollevare lo sguardo che i suoi occhi impattano contro la figura snella di un ragazzino dalla pelle rosata e dai capelli di un castano talmente chiaro da sembrare biondo sotto i raggi del sole. Mario lo osserva emergere dalla piscina, tirandosi su con la sola forza delle braccia, e poi camminare lentamente lungo il sentiero di sassolini, dopo aver infilato le infradito, per concedersi una breve doccia che scacci via dalla sua pelle il sapore vagamente salato del cloro disciolto in acqua.
- Davide. – risponde José alla domanda muta di Mario, mentre il ragazzo recupera un accappatoio bianco e lo indossa, scomparendo all’interno delle pieghe del morbido tessuto di spugna e dirigendosi poi con disinvoltura verso l’interno della casa, - Tuo fratello. Uno dei.
- …quanti altri? – chiede con un po’ di terrore, tornando a guardare il proprio patrigno. José ride, sempre più divertito.
- Ce n’è solo un altro, oltre lui. Ma ho i miei dubbi che lo vedrai spesso da queste parti. – soggiunge scrollando le spalle. Poi chiude gli occhi e torna silenzioso, perciò Mario non può fare nient’altro che aspettare quei due secondi di rito che non lo portino a pensare lui conservasse quella domanda sulla punta della lingua da quando l’aveva visto – cosa peraltro vera – prima di lasciarsi andare, e chiederlo e basta.
- Senti, José… - accenna timoroso, - ma Tami-
- È presto per parlare di Tami. – lo ferma José, senza guardarlo nemmeno, - Per ora goditela e basta. Avrai tempo, per tutto il resto.
- Sei arrivato! – cinguetta una voce allegra da qualche parte alla sua sinistra. Mario si volta in quella direzione ed inquadra la signora nel bel mezzo di un roseto, intenta a potare spine da cespugli che ne sono già stati abbondantemente privati molto tempo prima che lei potesse cominciare a toccarli, pasticciando ovunque con quelle manine minuscole sempre avvolte in un paio di guanti. È ancora vestita di rosso, la signora. Oggi non indossa un abito ma un paio di pantaloni, una casacchina smanicata ed un cardigan di cotone grosso a coprirle le spalle, ed è comunque bellissima. Mario la saluta con un sorriso ed un gesto affettuoso, ed è così piccolina in mezzo a quell’enorme roseto bianco che sembra una goccia di sangue persa sopra chilometri di lenzuola candidissime.
- La aiuti col giardinaggio? – chiede la voce di José, dolcissima, proprio accanto a lui.
Mario annuisce distrattamente, rapito da Tami che sorride e si sbraccia ed agita una rosa per attirare la sua attenzione, e si alza in piedi, per raggiungerla subito dopo. Per il resto avrà tempo. Al momento, intende godersela.
 
*
 
Note. Questa fic nasce praticamente su richiesta XD Stavo istruendo la mia primogenita ai misteri del Santonelli, spiegandole quanto esso sia canon in virtù del fatto che chiunque ama Davide e nel “chiunque” rientra abbondantemente anche il Mou, quando lei a un certo punto s’è messa a sbrilluccicare di luce propria ed ha urlato che voleva una fic con PapàDiMario!Mou. Attenzione, non voleva solo che fosse padre di qualcuno e basta (a quel punto mi sarebbe bastato scrivere la What If? spostata in avanti nel tempo di quindici anni), voleva proprio che fosse il padre di Davide. E quindi il mio cervellino ha cominciato a lavorare alacremente per creare un universo alternativo in cui tutto ciò fosse possibile senza tirare in conto l’Inter. È soddisfacente quando prendi dei calciatori e li metti a fare robe non loro XD
In concomitanza al desiderio di scrivere quest’AU è arrivato il Challenge di FanWorld, che voleva sette storie (o sette capitoli) ispirati ognuno ad un colore diverso. Ho pensato che questo fosse ciò che mancava a questa storia, un’impostazione narrativa ordinata, ed in effetti quando ho deciso che avrebbe partecipato al challenge tutto s’è messo a posto quasi da solo – tranne qualche nodo di trama: quelli sono stati risolti con tempestività, amore e meravigliosa efficacia dal Def, che peraltro questa storia se la beta pure. Onore all’uomo che ha del coraggio – ed è decisamente una delle cose migliori del fandom.
Le coppie principali non ve le dico XD Se mi conoscete, le immaginate. Se non mi conoscete è più divertente *_* E comunque spero di farvi piangere almeno un po’, col prosieguo della storia u.u Uniche noticine: il titolo della storia è preso da un verso di Weapon, di Matthew Good, mentre tutti i titoli di tutti i capitoli sono presi da canzoni più o meno famose (quella di questo giro è appunto l’omonima Lady In Red di Chris de Burg); il nome della moglie del Mou dovrebbe essere Matilde, e Tami dovrebbe essere il suo soprannome, l’ho letto in un articolo di gossip. Lo stesso nel quale ho letto di Zay, che in teoria è il modo in cui José veniva chiamato dalla sua prima amante mai confermata :\ A me di questi retroscena a livello narrativo non interessa poi molto, ma i soprannomi mi piacevano, per cui li ho usati XD
A presto <3