Genere: Introspettivo.
Pairing: José/Zlatan.
Rating: PG-15
AVVERTIMENTI: Slash.
- Zlatan vuole il numero dieci. E intende guadagnarselo.
Note: No, non ringrazierò la Zoccola Major per essere rimasta, ha fatto meno del suo dovere XD Però boh, ero in vena di pseudo-angst ed UST (ci speravate nelle cosacce, eh? XD), e soprattutto volevo vederli scontrarsi un po’. Era un sacco di tempo che non mi litigavano, io li trovo bellissimi quando litigano <3 *perdutamente innamorata del Jobra, come il primo giorno (cit.)* E poi volevo festeggiarlo a mio modo, questo numero dieci. Ho umiliato Ibra solo un pochettino, niente di eccessivo, mh? XD Almeno spero. La Zoccola ha bisogno di qualcuno che gli faccia abbassare la cresta e_e José, pensaci tu.
Ps. Titolo rubato a una canzone degli Smashing Pumpkins. Lo amo. La canzone no, però XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
The End Is The Beginning Is The End


- Sei dimagrito. – dice seccamente José, appoggiato con una spalla allo stipite della porta neanche volesse fisicamente impedirgli di entrare in casa.
- E tu sei in costume da bagno. – annuisce Zlatan, incrociando le braccia sul petto. – Abbiamo altre ovvietà da puntualizzare?
Jose sorride fra i denti, scuotendo appena il capo – i capelli sono cresciuti un sacco dall’ultima volta che Zlatan lo ha visto, e lo svedese non riesce a stabilire se gli stiano bene o male. Da un lato sono strani, sembrano una specie di nuvolone da temporale che aleggia pesantemente sopra la sua testa, e questo lo fa sembrare sempre arrabbiato – cosa che in effetti non si discosta molto dallo stato d’animo in cui José versa per la quasi totalità della sua giornata, è incredibile la quantità di cose e persone con cui è in grado di prendersela quando le cose vanno male, cioè non vanno come lui si aspettava che andassero. Dall’altro, per quanto quell’intrecciarsi di mezzitoni stia lì a ricordargli che non è più un ragazzino e presto, probabilmente, sarà troppo grande anche lui per star dietro ai capricci di una primadonna di dubbia nazionalità, quei colori gli stanno da dio. E c’è poco altro da dire, in effetti, se solo rivederlo dopo un mese o poco più lo manda fuori di testa al punto da lasciarlo lì a rimuginare sul dannato colore dei suoi capelli e a quanto si adatti ai toni ambrati della sua pelle.
- Sei qui. – dice José a bassa voce, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Zlatan vorrebbe ribattere qualcos’altro di molto brillante sulle ovvietà di cui sopra, ma è costretto ad ammettere, almeno con se stesso, che il suo trovarsi lì in quel momento non è mai stato ovvio, nemmeno nella più rosea delle prospettive, perciò si morde la lingua e cerca di tirare fuori una battuta meno compromettente.
- Ehi, - borbotta, ancora fermo sulla soglia, - dov’è finita tutta la tua fiducia? Avevi detto che sapevi che alla fine sarei rimasto.
- Lo pensavo. – annuisce José, una mano che scivola appena lungo il ventre, a sistemare in gesti distratti il doppio nodo che stringe i boxer in vita, - Poi Matilde mi ha detto “è zingaro, José, è zingaro e giovane”, e allora non sono più stato certo di niente.
Il sorriso di Zlatan si allarga in un ghigno indisponente, e José indietreggia di qualche centimetro quando osserva lo svedese affacciarsi all’interno dell’appartamento per sbirciare curiosamente in giro.
- Matilde è in casa? – chiede in una nota beffarda.
- È giù al lago coi bambini. – risponde José, e Zlatan gli lascia a malapena il tempo di finire, prima di ridere a così pochi centimetri da lui da fargli sentire sulla pelle il calore del suo respiro.
- A Matilde piacerebbe se fossi uno zingaro davvero. – commenta, scrollando le spalle e tornando a una distanza ragionevole dalla sua persona, - Se me ne andassi, intendo.
- No che non le piacerebbe. – puntualizza José con un mezzo ringhio indisposto.
- Solo perché non sa che pericolo sono. – ghigna Zlatan, compiaciuto.
- No. – insiste José, risoluto, - Perché non sei per niente pericoloso.
Zlatan aggrotta le sopracciglia, piccato. Non è il benvenuto che si aspettava, non è il ringraziamento che si aspettava e non è il calore che si aspettava. In compenso, è esattamente il José che sa di volere, perciò sospira e rilassa i lineamenti del volto, lasciandosi andare a un’espressione che rifletta più sinceramente il suo sentire del momento. Un po’ di stanchezza, un po’ di paura. Niente di drammatico, lui è Zlatan Ibrahimović e nella sua vita non esiste nulla che sia meno che perfetto, ma sì. Un po’ di stanchezza. Un po’ di paura.
- Senti… - comincia in un sospiro arreso, - sono appena arrivato, okay? Ho litigato con Helena perché la prima cosa che ho fatto, arrivando a Linate, è stata chiamare un taxi per venire qui. Mi lasci entrare?
C’è una domanda, negli occhi di Zlatan, e quella domanda non è “mi lasci entrare?”. C’è qualcos’altro in quegli occhi, José non riesce a capire cosa sia e questo è inaccettabile, perciò si scosta dalla soglia, invitandolo a entrare.
- Vuoi fare una doccia? – gli chiede a bruciapelo, chiudendosi la porta alle spalle mentre Zlatan, neanche fosse a casa propria, avanza all’interno della villa senza neppure sentire il bisogno di accendere la luce. E dire che il corridoio principale è scuro e non ha nemmeno una finestra. – Scegli pure uno qualsiasi dei duemila bagni. Sono tutti liberi.
Zlatan continua a camminare, scrollando le spalle.
- Se volevo una doccia la facevo a casa mia. – borbotta, e dietro di lui José si lascia andare a una mezza risata.
- E allora cos’è che vuoi? – chiede seccamente, fermandosi in mezzo al corridoio. Zlatan si ferma a propria volta, girandosi a guardarlo con aria seria.
- Voglio il numero dieci. – sputa d’un fiato, - Sono rimasto. Voglio il numero dieci.
L’aria resta totalmente immobile solo per qualche secondo, prima che José si decida a spezzarla con una risata tonante di quelle che gli si sentono fra le labbra solo raramente, perché il mister non è tipo da ridere con tutti o per qualunque cosa. Evidentemente, pensa Zlatan con una certa irritazione, ciò che ha appena detto deve essergli sembrata una battuta particolarmente brillante. Peccato lui sia più che serio, serissimo.
- E lo vieni a chiedere a me, il numero dieci? – lo prende in giro José, le labbra piegate in una smorfia derisoria che fa desiderare a Zlatan di trovarsi già fuori da villa Ratti, nel taxi, diretto a casa. – Perché non sei andato dal presidente? Scommetto che sarebbe stato più che felice di accontentarti all’istante.
- Lo voglio da te. – insiste lui, le labbra strette per il nervosismo che sembrano una linea unica a tagliare la parte inferiore del viso. – Da te avrebbe un senso.
- Non hai fatto niente per me che meritasse questo numero. – scrolla le spalle José, e Zlatan digrigna i denti.
- La scorsa stagione-
- È stata una stagione da otto. – lo interrompe deciso lui, - Pensi che i numeri dieci possano permettersi mal di pancia o altre idiozie simili?
- Lo sai che non ho mai avuto intenzione di andarmene davvero.
- Non è questo il punto. – José incrocia le braccia sul petto, - Hai destabilizzato i tifosi, la società, i tuoi compagni di squadra e me. Non è un comportamento da dieci, questo. Ne abbiamo già avuto abbastanza di dieci incasinati, ti pare?
- Dest-… - Zlatan ride al alta voce, una risata cattiva e risentita, - Destabilizzare! Io! Tu dici a me che destabilizzo la squadra! Tu e i tuoi fottuti novantanove virgola nove percento!
- Io non sono te, Zlatan. – sbotta José, - E io non voglio il numero dieci.
- Sei l’allenatore!
- Ognuno è responsabile delle proprie azioni. – conclude lui, scrollando nuovamente le spalle, - Vuoi il numero dieci, Zlatan? Vai da chi può dartelo senza farti storie.
Lo svedese si avvicina, sfruttando i centimetri d’altezza per cercare di imporsi su quell’uomo ridicolo che continua a irritarlo perché evidentemente si diverte a farlo.
- Lo voglio da te. – insiste, - Me lo sono meritato, lo voglio.
- Non te lo sei meritato. – si ostina lui, guardandolo negli occhi senza un’esitazione, - Non per me.
Meno di un secondo dopo, José si ritrova schiacciato contro la parete, Zlatan così addosso da sentire ogni spigolo del suo corpo fare a pugni coi propri, il suo avambraccio a spingersi contro il suo collo, mozzandogli il respiro. Gli occhi scuri di Zlatan ardono come braci e il suo respiro è rovente sulle labbra.
- Vuoi meritarlo pestandomi? – gli chiede, ostentando una sicurezza che forse in fondo non possiede nemmeno – Zlatan è l’unico davanti al quale a volte riesce a sentirsi fragile.
- No. – risponde duro lui, ostentando una rabbia che non gli appartiene davvero – José è l’unico in grado di trasfigurarlo fino a fargli dimenticare chi è.
- Vuoi meritarlo con questi, Zlatan? – ringhia José, ed una mano scende ad afferrarlo con forza tra le gambe, stringendo senza pietà. Zlatan lotta contro se stesso e contro il dolore per non allontanarsi, e ringhia fra i denti, soffiando un respiro sofferente sulle labbra di José. – Non è a me che devi mostrarli. Ai tifosi, ai tuoi compagni. In campo e anche fuori, ma non qui in casa mia. – e poi lo lascia andare, stringendo un’altra volta apposta per fargli male, trattandolo con disprezzo.
Zlatan non sa se quel disprezzo lo merita o meno. Ha sempre fatto e detto ciò che ha ritenuto opportuno fare e dire, la sua vita è la sua, le sue scelte sono le sue, le sue responsabilità sono le sue, lui non ha mai rinnegato niente ed anche solo per questo, a fronte di tutti i mercenari che infestano il suo mondo – e non solo mercenari che vendono i colori di una maglia; ce ne sono di peggiori, che per un pugno di milioni vendono cose ben più preziose di un’effige sul lato sinistro del petto – a fronte di tutto questo sente di meritare almeno il rispetto minimo che riservi ad un essere umano quando parli con lui, un tipo di rispetto che possa impedirti di afferrarlo per le palle e cercare di castrarlo con una stretta bene assestata, almeno. E invece niente. Da qualche parte negli ultimi mesi, ha perso il rispetto di José, e non riesce a capire perché.
- Io – ripete a fiato corto, senza allontanarsi, - voglio il numero dieci. È mio, lo voglio. È già mio, tu lo sai.
- Il numero dieci è ancora Adriano, o quello che resta del suo ricordo, finché non sarai in grado di farmelo dimenticare. – sbotta José, spintonandolo malamente all’indietro, - E ora fatti da parte. Sono sudato, voglio farmi un bagno.
Zlatan indietreggia e gli lascia spazio per passare, e solo quando José si allontana di qualche passo lo svedese si decide a parlare ancora.
- Io non ti inseguirò. – dice orgoglioso, stringendo i pugni, - Non ti implorerò nemmeno.
José ride, voltandosi a guardarlo.
- Tu pretendi di ottenere ciò che vuoi alle tue condizioni, Zlatan, è questo il tuo problema. Come numero dieci saresti un fallimento. Un buon numero dieci, - precisa con un ghigno supponente, - deve ottenere ciò che vuole alle condizioni degli altri.
Zlatan lo osserva per qualche secondo muoversi a passi lenti lungo il corridoio, verso la portafinestra che dà sulla piscina in fondo, e si morde il labbro inferiore, incerto sul da farsi. Ogni tanto ha l’impressione che José sia un enigma e lui quello incaricato – da chissà chi, poi. Da se stesso, probabilmente – di risolverlo. E lui ci si impegna, davvero, ci sbatte la testa contro più e più volte, ma tutto ciò che ottiene quando riesce a svelare una risposta sono altre dieci domande almeno, che si affastellano l’una sull’altra neanche il suo cervello fosse un archivio incasinatissimo nel quale nessuno è mai stato capace di mettere un po’ d’ordine. È ormai quasi convinto di non possederla, Zlatan, la chiave per risolvere tutti i misteri di José, ma se c’è una cosa che proprio non si può dire di lui è che sia uno che si arrende facilmente. Perciò, passati i primi secondi di smarrimento, passata la rabbia e passato il dolore fra le gambe, Zlatan decide il da farsi. E decide anche che il da farsi è comportarsi da dieci. È ciò che vuole, José non intende accontentarlo se prima non dimostra di meritarlo e quindi ciò che deve fare è dimostrarlo. Punto.
- Dimmi quali sono le tue condizioni.
José si ferma sulla soglia della portafinestra; la sua sagoma si staglia contro il giardino illuminato in pieno dai raggi del sole di mezzogiorno, e Zlatan vede la sua ombra voltarsi appena, lanciargli un’occhiata poco convinta e poi riprendere il proprio cammino, ignorandolo.
Lo insegue.
- Dimmi quali sono le tue condizioni.
Lo implora.
- Ti prego.
Il giardino di casa si apre intorno a loro come un fiore, colorato e ricco di profumi – alcuni piacevoli, come quello dei fiori delle aiuole, altri meno, come quello del cloro che disinfetta l’acqua della piscina, altri intensi e basta, come l’odore acre dei tronchi degli alberi che circondano la proprietà – e per svariati secondi Zlatan è costretto a battere le ciglia con una certa forza, nel tentativo di abituarsi alla luce che lo inonda, rendendo tutto lucente in maniera quasi insopportabile. Il riverbero dei raggi sull’acqua appena scossa dal vento si proietta sulla pelle di José. Anche quel colore gli sta da dio. Zlatan si chiede se l’effetto sia lo stesso anche su di lui, che invece è di un pallore cadaverico che sembra non piacere a nessuno. Anche se ricorda la voce di José sussurrargli all’orecchio qualcosa di molto carino sul colore che ha dopo i morsi. Ma non è il momento di pensarci, questo.
- Resti almeno finché resto io. – dice lui, serio, appendendo una mano a un fianco. – Ho dei progetti, su di te, e non intendo lasciarli saltare per un altro mal di pancia, fra quattro o cinque mesi.
Zlatan annuisce.
- D’accordo. E-
- E vieni via con me, - aggiunge José, fissandolo senza neanche un minimo di vergogna, - quando me ne vado. Ho dei progetti anche in questo senso, e non intendo lasciar saltare nemmeno loro. Per nessun motivo.
Zlatan resta a corto di fiato perché il respiro che deve buttare fuori quando glielo sente dire è enorme. È che gli serve fare spazio. Una cosa del genere ne ha bisogno, per espandersi per bene, colonizzare tutte le cellule e imporre al corpo la comprensione che il cervello non sembra in grado di fornire. José gli sta dando molto più di un numero. E Zlatan finalmente ci arriva, a capire cos’è che intende il suo allenatore – il suo compagno, e lo è nonostante tutto. Le condizioni per ottenere qualcosa sono proporzionate al tipo di cosa che vuoi. Se già un numero vale tanto, ciò che José gli sta dando vale molto di più. Meritarlo è ancora più difficile. E i sacrifici dovranno essere adeguati.
- Sì. – risponde. Non d’accordo, perché non si stanno accordando su niente. José gli ha chiesto se lo ama. La risposta è .
- Zay? – trilla la voce di Matilde, mentre entra in casa nel vociare allegro e concitato di bambini esaltati e bambinaie isteriche, - Ci sei?
- Sì! – risponde José ad alta voce, senza muovere un passo né verso di lui né verso la portafinestra, - Abbiamo un ospite.
Matilde si affaccia sul giardino e sorride felice, i suoi occhi scuri si illuminano e Zlatan non può che ricambiare con un sorriso un po’ stanco ma tutto sommato simpatico, quando la donna lo saluta con un abbraccio caloroso.
- Zlatan, che sorpresa! Sei tornato oggi? Come sono andate le vacanze?
Zlatan ride, grattandosi la nuca, un po’ in imbarazzo.
- Movimentate. – risponde divertito, - Ho tempo di farmi una doccia, prima di pranzo?
- Oh, sì, naturalmente! – concede Matilde, allegra, - Mi metto subito al lavoro in cucina, tu prenditi pure tutto il tempo che ti serve!
José ghigna e gli passa accanto, richiamandolo con un cenno del capo.
- Ti mostro il bagno. – spiega, mentre lui lo segue, adattando il passo al suo.
- Uno dei duemila. – risponde Zlatan in una risata compiaciuta.
Non può vederlo, ma sa che il sorriso sulle labbra di José, mentre entrambi salgono lentamente al piano di sopra, è identico al suo.
back to poly

Vuoi commentare? »

your_ip_is_blacklisted_by sbl.spamhaus.org