rp: maximilian ibrahimovic

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo.
Pairing: José/Zlatan, accenni miiiiinimi di Davide/Mario, se proprio li si vuole vedere.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, (Serie di) Drabble, Slash.
- Los Angeles, ritiro della squadra nerazzurra negli Stati Uniti d'America. Giunge una notizia inaspettata, e questo è ciò che ne consegue.
Note: È palese che io mi diverto a farmi del maleeeee XD *cerca di recuperare una qualche compostezza* Uhm, dunque. Serie di drabble che in realtà tutte assieme formano una oneshot (pure piuttosto corposa) ispirata ognuna ad un proverbio fra quelli forniti dal Challenge Speciale #5 indetto da It100. Il punto di tutto questo è che probabilmente Zlatan se ne andrà, d’accordo?, e io volevo – ancora – scriverci su. Ho della tristezza da buttare fuori a riguardo, quindi volevo farlo. Poi, fra capo e collo, m’è arrivata la notizia del probabile passaggio di Eto’o al Chelsea, e allora ho cominciato a vedere rosa (la vecchia zia sarebbe qualche dirigente di là XD). Motivo per il quale ho deciso che questa è una fan fiction e me ne sbatto se alla fine non andrà davvero così. È così che vorrei andasse, e le fan fiction esistono per questo. E poi conto molto sui miei poteri di P(l)izia. *accadiaccadiaccadi* ç_ç
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After Wisdom Comes Wit


Al povero mancano tante cose, all'avaro tutte.
Zlatan si guarda intorno – l’immenso campetto dell’UCLA, i compagni intorno che saltano, corrono e fanno stretching, José nel mezzo che impartisce ordini, somministra consigli, stila elenchi e compila programmi – e poi pensa a casa – Milano, Milano sa ancora di casa, la villa, Helena, i bambini, una città che si prostra ai suoi piedi, i tifosi che lo amano ed è amore vero, i tifosi che lo odiano ed è amore anche quello – e poi pensa alla Champions, lui la voleva in nerazzurro, e pensa al campionato, vincerne un altro sarebbe epico – e pensa alla faccia che farebbe José se lui gli dicesse “voglio restare, fammi restare”. E ci pensa, e ci pensa. E non è abbastanza. Non è abbastanza.

Il difficile sta nel cominciare.
La mensa ormai s’è quasi svuotata del tutto. Le signore delle pulizie passano pezze umide sui tavoli più distanti dal loro e l’unico suono che si sente è quello tintinnante delle stoviglie che vengono accatastate e portate via poco a poco. E la forchetta di Zlatan che ancora gioca a rincorrere le patate al forno nel suo piatto.
- Non dovremmo mangiare dell’insalata, con questo caldo? – chiede annoiato, lasciando rotolare una patata fino al bordo del piatto, - A me neanche piacciono le patate al forno.
José, seduto al suo fianco, consulta il proprio taccuino, e quando parla lo fa senza sollevare gli occhi su di lui.
- Hai lamentele, Zlatan? – chiede con un pizzico di fastidio, - Se sono serie, dimmi pure.
Zlatan schiude le labbra e quasi lo dice. Quasi lo dice davvero. Ma alla fine non ci riesce, e José, dopo qualche secondo, si alza e se ne va.

Il sonno della ragione genera mostri.
- Non è per farmi i fatti tuoi… - mormora appena Davide, mordicchiandosi distrattamente una pellicina del pollice, gli occhi fissi sul pallone che rotola pigro da un piede all’altro, - È solo che non capisco perché dovresti volerlo fare. Voglio dire, hai tutto. Le persone… - azzarda incerto, - intendo, già il fatto che pagherebbero così tanto per averti dovrebbe lusingarti abbastanza. Perché hai bisogno anche di andartene?
- Non è ancora deciso. – scolla lui, senza guardarlo.
- E allora! – sorride entusiasta Davide, chinandosi a recuperare la palla e stringendola fra le braccia in un gesto infantile, - È tutto a posto, no? Resta e basta!
Zlatan lo guarda. Aggrotta le sopracciglia, tende le labbra in un sorriso sarcastico e i suoi lineamenti diventano in un colpo se possibile ancora più sgradevoli.
- Hai ragione, Dà, sai? – sospira, e gli occhi di Davide brillano. Solo per un attimo. – Non farti i fatti miei.

La miglior vendetta è il perdono.
C’è una sola persona alla quale Zlatan sente il dovere di chiedere scusa, e quella persona è Mario. Non ha tenuto il conto delle numerose cose che gli ha insegnato nel corso dell’anno scorso e di quello in atto, ma è quasi sicuro che da qualche parte, purtroppo, ci sia stato anche un qualche discorso circa l’attaccamento alla maglia e quanto sia importante avere cura non tanto dei rapporti con la tifoseria quanto di quelli nello spogliatoio. È un discorso che sa di aver fatto e sa anche perché l’ha fatto – perché gli piacerebbe vederlo importante, quel ragazzino, un giorno, ed è una cosa che all’Inter possono garantirgli, è per questo che gli conviene restare – ma al momento non può che pentirsene, per certi versi.
Si avvicina a Mario che lui sta palleggiando distrattamente – testa testa ginocchio testa – e lo chiama a bassa voce. Lui risponde con un mezzo grugnito, senza guardarlo, continuando a palleggiare.
- Senti… - mormora Zlatan, grattandosi nervosamente la fronte, - Mi dispiace per tutto il casino che sta succedendo.
Mario si ferma, posa in terra la palla e sospira.
- Fa niente. – sorride appena, - È tutto ok. – e ricomincia a palleggiare.

Chi semina vento raccoglie tempesta.
Le urla di Helena, dall’altro lato dell’oceano e della cornetta, sono tanto forti che sono perfettamente comprensibili anche se Zlatan cerca di schiacciarsi il telefono contro l’orecchio con tutta la forza che possiede, sperando che il contatto con la sua pelle e la tenda di capelli che vi lascia scivolare addosso siano abbastanza per arginare quell’incredibile schiamazzo.
Non è abbastanza, a giudicare dalle risatine dei più giovani, che si allenano saltellando sul posto all’ombra di una pensilina e non hanno la più pallida idea di quanto tutto ciò che sta accadendo sia devastante.
- Io non intendo muovermi ancora, Zlatan! – urla Helena, furibonda, - Io ci sto bene qua! I bambini stanno bene qua! Cristo santo! Zlatan! – e la conversazione si interrompe che Zlatan non ha avuto neanche il tempo di parlare, di dirle qualcosa di Barcellona, del bel tempo che c’è sempre lì e tutto il resto. Nelle sue orecchie risuona il monotono tuu tuu della linea libera, e Zlatan non può che riporre il telefono nella borsa, restando un po’ fermo all’ombra a massaggiarsi le tempie, prima di tornare dagli altri a cercare di fare finta che sia ancora tutto perfettamente a posto.

Di buone intenzioni è lastricato l'inferno.
- Io volevo solo- - e la voce gli si spezza in gola, non sa nemmeno perché. Javier lo guarda con una certa curiosità, Zlatan non ha la minima idea del motivo che l’abbia spinto a parlare proprio con lui di tutto quello che gli sta girando per la testa. Forse perché Javi è sempre stato un punto di riferimento, una presenza rassicurante, una sorta di fratello maggiore cui chiedere consiglio nei momenti più confusi. Per lui non è mai stato niente del genere, Zlatan ce l’ha sempre fatta da solo, ovviamente – tutto da solo, sempre da solo – e non ha mai sentito bisogno di riferimenti né di rassicurazioni né tantomeno di consigli, ma in questo momento, il primo veramente confuso della sua intera esistenza, in questo momento sì, ne sente il bisogno, e forse è per questo che ne sta parlando con lui. – Credimi. – aggiunge in un lamento strozzato, - Non volevo che le cose andassero così.
Javier si allunga a tirargli una pacca contro la spalla.
- Deciderai per il meglio, Ibra. – sorride rassicurante. Zlatan non ne è così certo. Però spera che il capitano abbia ragione.

Buon sangue non mente.
- E poi zio Mino mi ha portato un pallone nuovo! – racconta Max, la mente che va più veloce della lingua, attorcigliandosi su se stesso mentre cerca di dire a papà tutto tutto tutto quello che ha fatto nella giornata di oggi, - E poi Vinny ha pianto perché voleva il pallone e io gliel’ho dato ma lui è caduto subito. Pa’, secondo me è scemo, un poco!
- È solo piccolo! – ride Zlatan, mentre la risata di Helena gli fa eco, un po’ attutita, e lui la sente appena.
- Comunque siamo stati al parco! – continua Max, e Zlatan può quasi vederlo scrollare le spalle con aria disinteressata prima di entusiasmarsi di nuovo pensando agli alberi e alle fontane e alla palla che rotola fra le aiuole, - È un parco bellissimo, è nuovo! Quando torni a casa ti ci porto, te lo faccio vedere! E anche la casa è un sacco bella, devi vederla perché mamma ha ri-… ha ri-…
- Ha ridipinto. – suggerisce Helena, incredibilmente lontana.
- Ha ridipinto! – conclude Maximilian, una risata nella voce.
Zlatan sorride e non sa se le vedrà mai, tutte queste cose di cui Max gli parla con tanta gioia. Il sangue buono, è evidente, dev’essere quello di Helena.

Il mattino ha l'oro in bocca.
Zlatan si tira in piedi, il sole entra attraverso le tende tirate disturbandogli gli occhi e lui li stropiccia, sbadigliando rumorosamente. Il cellulare squilla, rompendo il silenzio che ancora grava, pesantissimo, tutto intorno a lui. Si allunga a recuperarlo, stiracchiandosi pigramente e schiacciando il tasto di accettazione della chiamata senza neanche guardare il nome sul display.
- Sei in ritardo. – dice la voce di José, vagamente roca e resa fastidiosamente metallica dal cellulare, - Datti una mossa, non hai sentito le belle notizie?
La chiamata si interrompe, Zlatan guarda il cellulare con una certa curiosità e poi nota il segnale di un messaggio non letto. Smanetta un po’ sulla tastiera, legge il messaggio, rabbrividisce. Mino dice che l’Inter e il Barça hanno trovato un accordo. Improvvisamente, l’idea di uscire e andare ad allenarsi sembra assurda.
 Il più conosce il meno.
L’asciugamano che gli piomba sulla testa all’improvviso è umido e fresco, e per questo Zlatan ringrazia una buona quantità di dei – tanto la sua religione dovrebbe comprenderne un bel po’, o almeno crede, oltre quel dio che è l’unico che dovrebbe poterlo giudicare, anche se Zlatan, molto spesso, non gli lascia né quest’onore né quest’onere.
- Fa caldo, mh? – chiede José, sedendoglisi accanto e giocando distrattamente con quel suo dannato onnipresente taccuino per gli appunti, - Dovresti bere qualcosa.
- Sono a posto così. – borbotta Zlatan, burbero, bagnandosi il viso con l’asciugamano. – Grazie per questo.
José scrolla le spalle.
- Nulla. – sorride, - Sei stressato?
Zlatan ride amaramente.
- Non che a qualcuno importi. – sbotta sarcastico.
José ride a propria volta, decisamente meno cattivo.
- Be’, è vero. – ammette, - Barcellona non è poi tanto bella, sai?
- Ci sei stato?
- Sono portoghese! – ride ancora José, e Zlatan non può che ridere assieme a lui.
- Non è così bella, dici?
José scuote il capo.
- C’è tutto. Ma non è detto che questo la renda migliore del resto del mondo.

La fame è il miglior condimento.
Se fosse solo una questione di soldi, Zlatan al Barça non ci andrebbe mai. Non possono dargli più di quanto gli dia Moratti – nessuno può farlo, forse lui stesso sa di non valerli nemmeno, tutti i soldi che riceve – e per la verità non possono neanche offrirgli condizioni di gioco ottimali. La tifoseria lì già lo odia, parlano di lui come di un mercenario – e lui probabilmente lo è davvero, perciò non ha che smentire. Se “mercenario” è il nuovo nome di chi cerca il meglio per sé stesso, allora d’accordo, è un mercenario. Credeva di essere solo un bastardo egoista ed egocentrico, ma aggiungere l’ennesimo aggettivo a quelli già esistenti e attaccati al suo nome senza possibilità di scampo non sarà poi così traumatico.
Il punto del Barcellona forse è proprio quello. L’Inter non può dargli altro, oltre quello che già gli dà. Il Barça sì, però. Non può dargli di più, ma altro, oh quello è sicuro. E lui ormai ne è quasi convinto. Ne è quasi convinto davvero. È altro ciò che vuole. È altro ciò che vuole?

Mai tardò chi venne.
- Oh, Cristo.
Il sospiro di Marco è un po’ esasperato e un po’ sollevato, quando Zlatan entra in palestra, stringendo i manici del borsone fra le dita di una mano, mentre il borsone stesso pende dietro la sua schiena, ondeggiando ad ogni passo.
- Che c’è? – chiede Zlatan, poggiando il borsone per terra e prendendo dalle mani di un assistente il suo programma di oggi, - Che hai?
Marco si siede su un tappetino con uno sbuffo spazientito, riprendendo quasi subito coi propri addominali.
- Sei sempre in ritardo, ultimamente. – gli fa notare in un mezzo ringhio affaticato.
- Dormo male la notte. – risponde stancamente Zlatan, cominciando a sollevare pesi con le gambe.
Marco ride appena, fermandosi a guardarlo da seduto, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le braccia pendenti nello spazio vuoto fra le gambe.
- Anche se ci preoccupiamo, è bello vederti arrivare, poi. – commenta con leggerezza, prima di riprendere ad allenarsi.

Nel fiume che grida puoi passare sicuro.
Quando si trova imprigionato fra le braccia di José e il muro, Zlatan non può dire di non esserselo aspettato. Anzi, probabilmente è vero il contrario – che non solo se lo aspettava, ma lo aspettava e basta, come una specie di giudizio universale. Quello di quel dio lì. José dovrebbe venire dopo, qualsiasi sia la divinità di cui si stia parlando, ma forse non è vero. Forse José viene prima. Prima di… prima e basta.
- Se vuoi farlo, - gli sibila freddo sulle labbra, - è questo il momento. Quando se lo aspettano. Non posso permetterti di giocare a pallone con tutto, Zlatan, perciò se vuoi andartene fallo adesso. Non fra due mesi, non fra un anno, non la prossima volta che ti girano le palle. Adesso puoi farlo, hai il modo, hai la scusa, fallo, se devi.
Zlatan deglutisce incerto, gli occhi fissi nei suoi e brividi di paura a rincorrersi confusamente sulla sua pelle.
- …non so ancora se è quello che voglio.
José lo lascia andare senza toccarlo ancora, ravviandosi i capelli su una tempia.
- Be’, scoprilo in fretta, stronzo.

A combatter con il fango, che si vinca o che si perda, sempre ci si infanga.
- È che comunque, se vuoi il mio parere, ormai il danno è fatto.
Zlatan sospira pesantemente, incrociando le braccia sul petto mentre cerca di lasciare che i muscoli si rilassino nel bagno di acqua e ghiaccio dentro la piscinetta ai margini del campo.
- Non te l’ho chiesto, Deki. – borbotta scontento, mentre si massaggia le cosce per impedire che s’intorpidiscano.
- Sì, lo so. – risponde lui, vagamente offeso, - Stavo solo cercando di parlarne, visto che non ne parli con nessuno.
- Ma che differenza vuoi che faccia se ne parlo o meno?! – scatta Zlatan, irritato, - Qualsiasi cosa io possa dire adesso, non conta un cazzo! Nessuno vuole davvero ascoltarmi, e io probabilmente non ho nulla da dire, quello che doveva essere fatto magari è già stato fatto, proprio mentre noi stiamo qui a discutere del niente, ti rendi conto?! Cosa dovrei dirti?! Il danno è fatto! Okay! Hai ragione! E ora vaffanculo!
Abbandona la piscina senza una parola di più, e Deki, vagamente stupito ma neanche poi così tanto, invece resta lì.

Chi si è scottato con l'acqua calda ha paura anche dell'acqua fredda.
- Dà. – lo chiama a bassa voce Zlatan, quando se lo vede passare davanti, fresco di doccia e accompagnato dall’onnipresente Mario, sempre al suo fianco nemmeno fosse una specie di cavalier servente. In realtà, Zlatan lo sa, non sono davvero sempre appiccicati. Lo sono ogni volta che c’è nei paraggi lui, però, e questo non può fare a meno di fargli pensare che i due ragazzini abbiano stretto una sorta di tacito patto per cui cercano di evitarsi incontri ravvicinanti di tipo non meglio identificato, per risparmiare a tutti silenzi imbarazzanti e momenti eccessivamente dolorosi. Zlatan non saprebbe dire se questo sia un atteggiamento adulto o infantile. Di solito giudica gli atteggiamenti degli altri usando i propri come metro, ma sta cominciando a pensare di sbagliarsi, e di tanto anche.
Davide non si volta a guardarlo, lui e Mario stanno parlando, e neanche stavolta Zlatan può chiedergli scusa per come s’è comportato con lui qualche giorno prima. Poco da fare. Forse ha ragione Deki, ormai il danno è fatto davvero.

Con le mani di un altro è facile toccare il fuoco.
La risata di Maxwell, al telefono, suona davvero allegra e felice e soddisfatta.
- E quindi arrivi anche tu! – commenta divertito, - Ma sai che non ci speravo? Con tutta la storia del dieci sembrava una follia…
- Sì, eh? – annuisce Zlatan, appoggiandosi esausto alla parete. Non ne può più di sentire parlare di questa cosa. Non ne può più dell’Inter, non ne può più del Barcellona, non ne può più del calcio e non ne può già più nemmeno del numero dieci. Mai ricevute tante responsabilità in così poco tempo. E dire che l’anno prima si sentiva disposto perfino a diventare capitano.
Si chiede se sia davvero cambiato tanto, o se sia cambiato il mondo intorno a lui. Maxwell ride ancora, da quella che forse presto diventerà la sua nuova casa.
- Ehi, Max. – sussurra piano Zlatan, - Com’è lì, bello?
- Bellissimo. – conferma subito lui, - C’è un clima di aspettativa fantastico. Dovresti venire e vedere di persona.
Zlatan ride a propria volta, dell’eccitazione di cui Maxwell parla non riesce a provare nemmeno una briciola.

Errare è umano, perseverare è diabolico.
- Tu continui a non capire il punto.
- Il punto è che tu mi attacchi senza un cazzo di motivo.
- Il punto è che io ti attacco con un motivo ben preciso e tu, forse perché sei stupido, forse perché sei troppo impegnato a pretendere, ioioio! e tutto il resto, Zlatan, ti rifiuti di capirlo!
Zlatan lo guarda, un ringhio inespresso fra le labbra, le sopracciglia aggrottate in un’espressione di furia che in genere gli si vede addosso solo quando gioca e le cose non vanno come dovrebbero.
José lo fronteggia senza fare una piega. A Zlatan viene voglia di odiarlo, perché sembra a suo agio anche se non lo è, mentre lui non riesce a non sentirsi a disagio, anche se non dovrebbe. Forse è una situazione troppo complicata, perché lui possa gestirla tutto da solo lì in America. Mino saprebbe come aiutarlo. O forse peggiorerebbe solo le cose.
- Ho bisogno di te. – dice José, duro, - Prendi questa cazzo di frase nel senso che preferisci, è comunque quello giusto. Poi, fa’ ciò che credi.

Taci tu per primo ciò che vuoi sia taciuto da altri.
Zlatan ha ancora gli occhi chiusi e sente ancora nelle orecchie il respiro un po’ affaticato di José. È piacevole, è così piacevole che, se si concentra solo su quello, gli sembra di poter vivere solo di quel suono. Pensa a Barcellona, pensa che lì questo suono non c’è, e si chiede come riuscirebbe a sopravvivere senza. Ci sono momenti in cui gli sembra una prospettiva inaccettabile, ce ne sono altri in cui invece la voglia di partire è così forte che gli pizzica la pelle.
Quando torna a guardare il mondo, la vista un po’ appannata perché ha tenuto le palpebre serrate troppo a lungo e con troppa forza, José è lì al suo fianco che lo guarda, privo di espressione. È così normale, da parte sua, non lasciare affiorare al viso nulla di ciò che lo sconvolge dentro, che Zlatan ha quasi voglia di sorridere.
Una delle sue mani sale ad accarezzargli uno zigomo, scendendo poi lungo la mascella e fermandosi sul collo, per attirarlo in un bacio umido e stanco.
- Io- - prova a parlare Zlatan, ma José lo ferma.
- Non dirlo. – sospira, sollevandosi in piedi e cercando i propri vestiti in giro per la stanza, - Rendi tutto più facile a entrambi.

In amore e in guerra tutto è lecito.
- Senti, io ci ho pensato, e- - si interrompe quando lo vede parlare al telefono, dopo aver praticamente sfondato la porta di camera sua per entrare senza permesso.
- Aha, - annuisce José, chiunque sia la persona con la quale sta parlando con tanta serietà, - Yeah, thank you. It’s always a pleasure. Bye.
Zlatan inarca un sopracciglio, incrociando le braccia sul petto.
- Con chi parlavi? – chiede dubbioso, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
- Una vecchia zia. – risponde José con una risatina evasiva.
In inglese? – insiste Zlatan, arricciando le labbra in un mezzo broncio.
- Zia poliglotta. – ride ancora José, - Ti va un caffè?
- No, mi va-
- Un bacio. – e poi José lo zittisce. E sì, un bacio gli va, perciò sta bene così.

La goccia scava la pietra.
Non è che sappia esattamente come tutto ciò sia accaduto. Non è che nemmeno voglia starci granché a pensare, in realtà. Ha sempre pensato che la vita fosse un percorso unitario, una cosa che cominci e poi manovri piano piano, mani sempre sul timone, per indirizzarla dove vuoi. Insomma, una cosa in cui tutto ha una conseguenza, ogni cosa è concatenata, non c’è niente che sbavi.
Si trova a ricredersi, e deve per forza, perché in questo momento della sua esistenza è così palese che la fina è fatta di istanti casuali che non potrebbe contrastare quest’asserto neanche volendo. Ci sono cose che decisamente non puoi prevedere, ci sono cose che non puoi manovrare, ci sono cose che non si lasciano manovrare, punto.
- Dici davvero? – chiede Helena al telefono, una punta di sconcerto nella voce. Forse davvero non se l’aspettava. – Zlatan, ne sei sicuro?
Lui annuisce. Poi ricorda che lei non può vederlo, e quindi parla.
- Sì.

Non puoi vedere il bosco se sei tra gli alberi.
Mino annuisce, Zlatan lo sa perché lo sente mormorare tutta una serie di “mh-hm” che sono tipici suoi, quando ti sta ascoltando ma non ti sta davvero dando attenzione, visto che ha tutto un altro milione di importantissime cose da fare e tu sei esattamente l’ultimo della sua lista, ed anzi si sta chiedendo cosa esattamente sia questo ronzio tremendo che lo infastidisce, interrompendo i suoi prodigiosi calcoli.
- Di’, mi stai ascoltando o no? – borbotta Zlatan, infastidito, picchiettando con la punta del piede sul parquet del campo da basket, - Hai capito quello che ti ho detto?
- Mh? – chiede Mino, un po’ confuso, interrompendo un attimo il frusciare convulso di fogli attorno a sé, - Sì, certo che ti ho sentito, Ibra. Ma sono un tantino impegnato, - sbotta infastidito, - Cristo, che caldo. Si può capire perché mi hai chiamato per dirmi qualcosa che era palese da secoli?
Zlatan fa una mezza smorfia, guardandosi riflesso nello specchio dell’armadio di fronte a sé.
- Volevo dirlo a qualcuno! – biascica lamentoso, adesso che tutto è più chiaro ha voglia di urlarlo, perfino.
- L’hai già detto a Helena?
- Qualcun altro! – insiste. Mino non capisce. Nemmeno lui, s’è per questo. Comunque il suo procuratore sospira esasperato.
- Senti, Ibra. Come immaginerai, ho altro da fare. perciò vai a parlarne con chi devi ancora avvisare, su. Non sono nemmeno pochi.
Zlatan annuisce. Interrompe la conversazione subito dopo.

Quando il diavolo ti accarezza, vuole l'anima.
- Al Chelsea?! – spalanca gli occhi Zlatan. Ha fatto irruzione in palestra perché voleva essere lui a parlare, non certo perché voleva sentirsi dire una cosa simile dai suoi compagni, ed invece è esattamente quello che sta succedendo: Eto’o, principale pedina di scambio fra l’Inter e il Barcellona, è stato appena acquistato dal Chelsea, su pressante richiesta di Ancelotti congiuntamente al suo presidente, per uno sproposito di denaro.
- Insomma, non hai più dove andare, pare. – ridacchia Marco, mentre Mario, qualche attrezzo più in là, sgomita con una certa forza fra le costole di Davide.
- Bella fiducia. – borbotta Zlatan, offeso, - E io che ero venuto fino a qui per dirvi che avevo deciso di restare.
I suoi compagni di squadra si congelano ai loro posti, guardandolo sgomenti.
- Prima di saperlo? – chiede Deki, titubante.
- Me l’avete appena detto voi! – risponde Zlatan, sempre offeso, - Certo che l’ho deciso prima. – sospira e volta loro le spalle, lasciandoli lì a mormorare incerti. José lo sta guardando dalla soglia della palestra, un sorriso sornione a increspare le labbra sottili.
- …tu. – lo indica Zlatan, sconvolto, - La vecchia zia!
E José scoppia a ridere.

Uccello in gabbia non canta per amor, canta per rabbia.
- Insomma, cos’è che devo dirti ancora? – borbotta Zlatan, stretto fra le sue braccia, - Non ti dirò che non lo farò più, sarebbe da ragazzini. Non sono un ragazzino, te lo ricordi ancora questo, giusto? Anche se chiami le mamme degli altri bambini per impedirmi di fare cose.
José ride, stampandogli un bacio stupido su una guancia. Zlatan resiste appena all’istinto di mugolare compiaciuto, limitandosi a rigirarsi contro di lui, aderendo perfettamente al suo corpo.
- Lo sai che è assurdo? – chiede con aria sinceramente stupita, - Io sono rimasto per te.
- Per me nel senso che io ti ho impedito di andartene o-
- Per te e basta. – sbotta, pizzicandogli risentito un fianco, - Fattelo bastare, una volta tanto.
José annuisce.
- E tutta la voglia di andare via?
Zlatan lo pizzica ancora, più forte.
- Ahi! – si lagna José, massaggiandosi il punto dolente, - Ma la pianti?
Zlatan sbuffa e si sistema contro il cuscino. E poi la pianta, sì.

Tocca sempre agli scalzi andare sulle spine.
- Ma cosa, quindi sono stato di merda per niente! – piagnucola Davide, tirandogli addosso un asciugamano nel tentativo di fargli del male, - Che stronzo, Dio mio! Ma almeno hai pensato di andare via, almeno per un secondo da quando tiri avanti questa pagliacciata?
Zlatan gli scompiglia i capelli bagnati, mentre Mario ride e si affretta a risistemarglieli sulla fronte e sulle tempie non appena lui lo lascia andare.
- Per più di un secondo, Dà. Non vi ho mandato al manicomio per niente, non le faccio queste cose.
- Sì, sì, certo. – continua a lagnarsi il ragazzo, infilandosi svogliatamente i calzini, - Come se non fossimo già abbastanza sfigati così.
Zlatan si chiede cosa ci sia di sfigato al momento nell’Inter, ma poi sorge spontanea una domanda ben più interessante, perciò pone quella.
- Dà, ma perché ti fai sistemare i capelli da Mario?
Davide scrolla le spalle, mentre Mario, dietro di lui, si lascia andare ad un sorriso vagamente idiota.
- È bravo a maneggiarli. – risponde tranquillo, allacciando attentamente gli scarpini.
- Ah. – risponde Zlatan. Aaaah, si dice poi, annuendo fra sé.
 La rabbia di oggi serbala a domani.
C’è un bel venticello fresco, a Palo Alto. La partita sarà verso le quattro e mezza del pomeriggio, è quasi ora di pranzo, Zlatan ha fame e, in verità, non vede l’ora di sedersi a tavola per chiacchierare e scherzare con gli altri mentre José cerca per l’ennesima volta di rifilargli patate al forno. Però il venticello è davvero fresco e piacevole e un po’ gli secca rientrare in albergo, perciò resta lì, le mani in tasca e l’ampia maglietta smanicata che si gonfia e si sgonfia ad ogni capriccio del vento, a camminare tranquillo per il cortile, canticchiando fra sé. La voglia d’altro c’è ancora, non è scomparsa, è solo sopita, lì, da qualche parte nel fondo del suo stomaco. Zlatan lo sa che un giorno si risveglierà. Ma quel giorno non è adesso, a quel giorno penserà quando sarà il caso.
- Senti, te la dai una mossa? – lo rimbrotta José, affacciandosi dalla soglia dell’albergo e fissandolo con aria accigliata, - Stiamo aspettando solo te!
- Arrivo, un secondo! – sospira lui, simulando una noia che non gli appartiene neanche parzialmente. José torna dentro mormorando qualcosa sulle primedonne, e Zlatan sopprime la voglia di fargli una linguaccia alle spalle. Poi, ridendo a bassa voce, rientra.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Angst, Gen, (accenni) Het.
- "Zlatan si sveglia, sente un buon profumo provenire dalla cucina ed apre gli occhi."
Note: Ambientata in un momento randomico della sua permanenza in Spagna -- solo che dopo la giornata di ieri ha un significato ancora più profondo XD Titolo rubato a Hello degli Evanescence. Prompt: Unito/Diviso @ It100.
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DON’T TRY TO FIX ME// (UNITO)
Zlatan si sveglia, sente un buon profumo provenire dalla cucina ed apre gli occhi. Sorride, ascolta per qualche secondo Helena canticchiare in cucina e i bambini parlare di cose sicuramente fondamentali di cui lui, ancora seminascosto fra le coperte, non riesce a cogliere il senso, e solo dopo si alza. Cammina lungo il corridoio a piedi nudi, sente la moquette fargli il solletico sotto le dita e quando entra in cucina Vincent lo vede e si catapulta giù dal seggiolino agitando il minuscolo frisbee che ha trovato nella confezione di cereali. La sua foga è tale che inciampa nei suoi stessi piedi, e Zlatan lo osserva cadere di faccia e schiacciarsi il nasino a patata contro il pavimento reprimendo a stento una risata, facendoglisi vicino e tirandolo su prima per controllare, come già sa, che non sia successo niente, poi per rassicurarlo con un po’ di bacini sulle guance paffute e infine per distrarlo chiedendogli di spiegargli cos’è quel gioco che ha in mano. Helena gli versa il caffè in una tazza, lo allunga con un po’ di latte, gli sorride. Zlatan lancia un’occhiata fuori dalla finestra: Milano è il solito delirio caotico e ingrigito dallo smog, ma lui si sente completo, e sorride ancora.

(DIVISO) //I’M NOT BROKEN
Zlatan si sveglia, sente un buon profumo provenire da qualche parte imprecisata della stanza ed apre gli occhi. Si gratta stancamente la fronte – non ha dormito bene – e quando si tira a sedere ci sono Helena e i bambini seduti al tavolo nella stanza accanto, che sbocconcellano pigramente caffellatte e croissant dal vassoio del servizio in camera. Zlatan sente fra le dita il tessuto morbidissimo delle lenzuola di quella stanza d’albergo che, tutta assieme, deve costare molto più di una vita umana e probabilmente anche più di quanto abbia speso Laporta per portarlo fin lì, e si alza in piedi sentendo la pelle prudere, come non riuscisse più a sopportare la sensazione di quelle lenzuola addosso. La moquette gli solletica la pianta del piede e lui, quando si siede al tavolo ed osserva il vassoio per cercare di capire se gli vada di bere il caffè o se non preferisca un po’ di succo di frutta, gratta via il prurito sbrigativamente, senza rifletterci troppo, con una smorfia perfino infastidita. Helena cerca di sorridergli, poi distoglie lo sguardo. Sospirando pesantemente, Zlatan lancia un’occhiata fuori dalla finestra: Barcellona è splendida, calda e assolata, ma lui si sente mancare qualcosa, e non riesce a sorridere.
Seguito di Who's Returned From The Dead e Who's Living Upstairs.
Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: José/Zlatan, Davide/Mario, accenni di palese UST fra Maxi e Vinny.
Rating: PG13
AVVERTIMENTI: Angst, Fluff, Death, Slash.
- La vita di Zlatan non sembra destinata a concedergli tregua, soprattutto nel giorno in cui la sua povera casa è invasa da decine di invitati accorsi da ogni parte per festeggiare il matrimonio dell'anno. Fra uomini felici, ragazzi turbolenti e figli in crisi mistica, Zlatan riesce forse a raggiungere un punto d'intesa con José, non prima, però, che quest'ultimo si esibisca nello spettacolo che gli riesce meglio in assoluto.
Note: …sono perfettamente conscia di essere indecente X’D *ride felice* Questa saga continua ad essere del tutto schizofrenica, alternando momenti di drama emoangst a momenti di puro fluff a momenti di puro lol. Io non riesco a governarla, così come non riesco a governarne i personaggi (che, per dire, hanno cambiato trama a questa shot giusto quel paio di volte, mentre io cercavo di buttarla giù correndo contro il tempo sul filo del rasoio *ansima*), ma d’altronde è pur vero che la scrivo con una spensieratezza esaltante che sfocia a volte nel ridicolo. Ma tipo che mi gaso da sola e aweggio felice come una deficiente. No, sul serio. Compatitemi.
L’unico problema adesso è che mi serve un’altra challenge a tempo cui ispirare le prossime shot X’D
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WHO'S GOING TO GET MARRIED


Guardandosi intorno con aria circospetta, Zlatan individuò Helena tutta presa dalla propria attività di anima della festa e, assicurandosi di non essere alla portata del suo occhio indagatore, si defilò dietro una siepe, lasciandosi andare seduto per terra esattamente come faceva quando riusciva a scappare da un allenamento particolarmente duro quando era ancora un ragazzino, con l’unica differenza che allora, sedendosi, sfilava la maglietta e se la sistemava sulla testa per proteggersi dal sole e dal caldo, mentre in quel momento tutto ciò che poteva fare era cercare di allargare il nodo della cravatta perché non lo soffocasse, stroncandogli vita e carriera mentre era ancora nel fiore degli anni.
- Sarebbe troppo – chiese Davide, intromettendosi nella sua perfetta oasi di silenzio, - un sorriso, almeno nel giorno del mio matrimonio?
Zlatan lasciò andare uno sbuffo contrariato, per nulla stupito dalla sua apparizione.
- Io sorrido sempre. – borbottò, - Quando ho motivo di farlo. Oggi ho mal di pancia.
- Oh! – rise Davide, sedendosi al suo fianco anche a rischio di sporcare i pantaloni dello smoking, - Quindi volerai a Barcellona per la prossima stagione? Non so mica se ti vogliono, Puyol sta facendo bene.
- Bla bla bla. – sbottò Zlatan, agitando una mano come per zittirlo, - Non volerò da nessuna parte, è solo che sono convinto che questa storia sia una pagliacciata!
- Perché siamo due maschi? – indagò Davide, aggrottando lievemente le sopracciglia.
- Non fare lo stronzo con me, Dade. – ritorse subito Zlatan, lanciandogli un’occhiataccia offesa, - È il matrimonio in sé che è ridicolo!
- Ah, sì. – annuì l’uomo, - È per questo che sei sposato anche tu.
- No, è per questo che Helena c’ha messo vent’anni prima di prendermi per sfinimento. – precisò con un sospiro teatrale. – Ma d’altronde è la vostra vita, io non posso davvero decidere per voi.
- Avanti… - cercò di rabbonirlo Davide, - È una bella giornata di festa. E Mario mi ha confessato che è felicissimo di averti come testimone di nozze. Non sai quanto ci teneva.
Zlatan sospirò ancora, scuotendo lentamente il capo.
- E tu a Mario hai confessato niente? – chiese a bruciapelo, tornando a guardarlo. Davide si morse un labbro, distogliendo lo sguardo.
- Non ho ancora avuto occasione di farlo. – rispose in un bisbiglio un po’ tremolante.
- Dade, se aspetti l’occasione, non arriverà mai. – lo rimproverò il più grande, sistemandogli brevemente la frangia sulla fronte, - Non esiste l’occasione più adatta per dire al tuo futuro marito che il suo ex allenatore è tornato dal mondo dei morti. È un’occasione che devi ritagliarti tu. E comunque va fatto. – sospirò ancora, rassegnato, - Prima o poi dovrà venire fuori. È meglio che chi ci è vicino lo sappia prima e nel modo meno turbolento possibile.
- E tu? – lo rimbeccò Davide, con un mezzo sorriso, - Tu l’hai detto a Helena?
Zlatan si passò una mano fra i capelli, nel vano tentativo di rimetterli a posto, finendo invece per scompigliarli più di quanto già non fossero.
- Helena è una cosa diversa… - cercò di spiegare, sospirando pesantemente, - Queste sono cose da spogliatoio, non è necessario che-
- Non lo sarebbe, se José non vivesse nella sua soffitta. – gli fece notare Davide, annuendo compitamente con aria innocente.
Zlatan lo sferzò con un’occhiata disapprovante, inarcando supponente le sopracciglia e tirandosi in piedi.
- Senti, ma tua moglie? – lo prese in giro, - Perché deduco sia questo, visto quanto si sta facendo aspettare.
- La moglie – disse Mario, apparendo alle loro spalle con un grugnito affatto compiaciuto, - stava giusto cercando suo marito, visto che sta gironzolando per questo giardino enorme da mezz’ora senza trovarlo, quando lui era palesemente nascosto dietro un cespuglio a fare chissà cosa con un gitano pervertito.
- Ah, Dio, grazie! – sbottò Zlatan senza scomporsi più di tanto, afferrando Davide per le spalle e rimettendolo in piedi, spolverandogli i pantaloni e lisciandogli i vestiti prima di riconsegnarlo a Mario come fosse stato un pacco postale, - Riprenditelo. – disse annuendo, - È una cosa impossibile. Spero di non vedervi per un mese, vi do il permesso di sparire in Nuova Zelanda per la luna di miele, tutto il tempo che volete.
- Gentile come al solito. – borbottò Davide, sistemandosi orgogliosamente al fianco di Mario mentre quest’ultimo ridacchiava divertito e gli sistemava la giacca dello smoking sulle spalle, - Guarda che ti prendiamo in parola, e poi la settimana prossima, in posticipo col Milan, te la vedi tu.
- No, per carità. – deglutì ansioso Zlatan, riportando improvvisamente alla memoria il calendario dei prossimi impegni in Campionato, - Con Zuca ancora fuori uso ho bisogno di-- Zuca! – strillò, osservando il ragazzo dirigersi spedito verso casa, aiutato solo da due stampelle, - Punto primo! …ragazzi, - si rivolse brevemente a Mario e Davide, - scusatemi, ma il coglioncello lì vuole rovinarsi la carriera. – tagliò corto, lasciandoli lì dietro la siepe e correndo a perdifiato verso il figlio di José, - Punto primo, dicevo! – riprese, mentre Zuca lo osservava con aria vagamente infastidita, e si fermava solo perché obbligato dall’ostacolo del suo corpo, - Che diavolo ci fai qui?! Dovresti essere in centro a riposare!
- No, dico. – sbuffò Zuca, appoggiandosi alla stampella e sollevando la gamba malconcia dal peso del corpo, - Davvero ti aspettavi che me ne rimanessi ad Appiano, perso nel nulla, con le vecchine che mi salutano dalle case alla fine del vialone, mentre Dade e Mario si sposavano? Tu sei fuori. – concluse, riprendendo a muoversi verso casa.
- Fermo là! – lo bloccò nuovamente Zlatan, frapponendosi ancora una volta fra lui e la villa, - Io ci ho provato, a insegnarti l’educazione che la buon’anima di tuo padre non aveva fatto in tempo ad inculcare in quella tua testa marcia, ma tu sei impermeabile! – lo rimproverò, - Cosa ti ho detto ieri, Zuca? Eh? Cosa ti ho detto? – sospirò profondamente, massaggiandosi la fronte.
Zuca sospirò a propria volta, esasperato, roteando gli occhi e soffiando via la frangetta biondiccia scesa a solleticargli la punta del naso.
- Che la squadra ha bisogno di me. – rispose laconicamente, scrollando le spalle.
- Esatto. – annuì Zlatan, deciso, - Sostituire te è più difficile che sostituire qualsiasi altro giocatore, perché sei il perno dell’attacco. Senza di te, la squadra può forse funzionare, ma perde smalto. – sorrise, riavviandogli la frangia sulla fronte, - Ne servono undici, per sostituire te solo. Vuoi mettermi davvero in queste difficili condizioni?
Zuca inarcò le sopracciglia, fissandolo come se gli avesse appena recitato a memoria la tabellina del due.
- No, dico. – ripeté ancora, e Dio solo sapeva se ogni “no, dico” non aveva su Zlatan un effetto quasi devastante, portandolo a desiderare di possedere un’ascia come mai nella sua intera esistenza, - Per chi mi hai preso? Non sono mica il sempliciotto che eri tu ai tempi. A te bastava che mio padre ti tirasse su un teatrino di complimenti, ti facesse un po’ gli occhi dolci ed ecco che tu eri lì a sputare sangue sul campo anche per partite idiote, quando avresti potuto restartene a casa con il ghiaccio sul ginocchio, una bottiglia di birra in una mano e il telecomando nell’altra, a rintontirti di tv spazzatura. – sorrise furbo, inclinando lievemente il capo, - Non è che siccome tu non sei stato in grado di goderti la vita, allora io devo fare la tua stessa fine.
- Ti ricordo – grugnì Zlatan, indicandosi, - che questa fine è una fine da tredici milioni all’anno solo per osservare ventisette mentecatti come te correre dietro a una palla e godersi i complimenti dei giornalisti nel post-partita, eh? Quindi, forse, prima di parlare con tanto disprezzo della fine che ho fatto io, dovresti cominciare anche a capirla un po’, questa fine che ho fatto.
Zuca lo ignorò apertamente, aggirandolo svelto e ricominciando la propria marcia verso l’edificio.
- Zuca! – berciò Zlatan, correndogli dietro e rendendosi conto con sconcerto di dover faticare per tenere il passo nonostante lui fosse infortunato, - Cristo, ma perché non mi ascolti?! Dove stai andando?!
- A pisciare! – scattò lui, agitando una stampella nella sua direzione e colpendolo di malagrazia contro una spalla, - Ora mi lasci in pace?! Dio, quanto ti odio!
Zlatan si fermò in mezzo al selciato, una mano ancora sollevata in un accenno di gesto volto a fermarlo, e lo osservò finalmente raggiungere la porta di casa e infilarsi al suo interno senza una parola di più, sospirando profondamente e chinando il capo, deluso.
Quando era arrivato all’Inter, due anni prima, Zuca era già lì. Era l’anima dello spogliatoio, andava d’accordo con tutti e, complice anche il suo grande talento, era stato il pupillo dell’allenatore precedente. Sfortunatamente, era parso subito evidente come il ragazzo mancasse totalmente di ogni tipo di educazione – era un ribelle senza speranza, molto più di quanto non lo fosse stato Mario ai tempi e infinitamente oltre ogni limite Zlatan potesse dire di aver toccato in una carriera pur turbolenta e non certo scevra di contrasti. Tutti i suoi tentativi di inculcare un po’ di sale in quella zucca montata al contrario erano risultati in un odio pressoché devastante da parte del ragazzo, che comunque non è che l’avesse mai preso in reale simpatia, dal momento che la prima cosa che aveva fatto vedendolo arrivare era stata ignorare il suo saluto – quando lui era così felice di vederlo, così emozionato dall’idea di posare finalmente gli occhi addosso al figlio di José, così cresciuto, ed allenarlo.
Sospirando, tornò verso il gazebo, ignorando apertamente Maxi e Vinny appartati in un angolo a confabulare chissà che con due facce più scure di quelle che avevano avuto ai funerali dei loro nonni. “Che vita difficile”, si disse, prendendo posto di fianco a quella specie di altare improvvisato drappeggiato e decorato con della roba della quale non era sicuro di voler comprendere il disegno e che Helena aveva disegnato personalmente.
- Era ora. – borbottò Mario in una mezza risata, apparendo al suo fianco mentre gli invitati – ad eccezione di Zuca – prendevano posto, e Davide si affrettava a sistemarsi accanto a lui, aggiustandosi la cravatta e la camicia dopo quella che Zlatan non tardò ad identificare come un’intensa sessione di coccole pre-sposalizio. – Stavamo cominciando a pensare che alla fine la sposa fossi tu.
- Sto ridendo così tanto che mi stupisco l’eco delle mie risate non arrivi in Cina o anche su Marte. – sbuffò lui, sarcastico, - E comunque, quando finisce questa pagliacciata? E dov’è Zuca?
*
Una volta in casa, per prima cosa Zuca mollò le stampelle sul pavimento. Il ginocchio non doleva, era a posto, e se quel cretino del mister pensava di tenerlo fuori anche per la prossima era del tutto fuori strada: se anche non si fosse degnato di convocarlo, si sarebbe infilato di nascosto negli spogliatoi e contro il Milan avrebbe giocato, alla faccia sua.
Compiacendosi del silenzio che regnava sovrano all’interno della villa, si lasciò andare sulla prima poltrona disponibile in salotto – una che non fosse sommersa di cappotti, borsette e cianfrusaglie varie – e lasciò andare le braccia lungo i fianchi fino a sfiorare il pavimento, dondolandole un po’ avanti e indietro. Sorrise quando, in quell’ondeggiare calmo e rilassante, le sue dita incontrarono la forma rotonda, perfetta e familiare di un pallone. Lo recuperò chinandosi appena e prese a palleggiare piano, da seduto, provando ad usare solo la gamba sana ed arrendendosi poco dopo, saltando in piedi e palleggiando con entrambi i piedi, sorridendo soddisfatto nel momento in cui si rese conto che non sentiva davvero alcun dolore, e il suono ritmico e preciso della palla contro i suoi piedi, le sue ginocchia, il suo petto e la sua testa, era ancora in grado di cullarlo meglio delle ninne nanne di sua madre.
- Mi hanno detto – disse una voce conosciuta alle sue spalle, - che il ginocchio ti dà qualche problema, Zuca.
Raggelato, il ragazzo si interruppe immediatamente, lasciando che la palla ricadesse a terra e rotolasse lontano da lui. Si voltò lento, tremando appena, gli occhi spalancati e le labbra dischiuse in un’espressione di puro stupore.
- P-Papà…? – balbettò incerto, voltandosi di scatto e indietreggiando fino a cadere di peso sulla poltrona, quando riconobbe esattamente l’uomo che aveva davanti. Identico a suo padre, stessa voce, stessi occhi, lo stesso uomo che era praticamente morto sotto il suo sguardo, fra le braccia di Davide, vent’anni prima.
- Chi altri? – rispose José indicandosi e muovendo un passo verso di lui. Zuca lasciò andare un urlo terrorizzato, stendendo entrambe le braccia in avanti come in cerca di protezione. José sorrise diabolico, un ghigno che ricordava di avergli visto addosso solo nei casi delle punizioni peggiori. – Fai bene ad avere paura. – disse suo padre, glaciale, - So molte cose di te, Zuca. – continuò, - So che sei un giocatore indisciplinato e che impedisci al tuo allenatore di disporre di te come ritiene più opportuno. – aggrottò le sopracciglia, avvicinandosi ancora ed osservando Zuca tirare su le gambe fino a rannicchiarsi sulla poltrona quasi in posizione fetale, gli occhi sbarrati e il respiro mozzo. – È così che onori il tuo nome, José?! – tuonò agitando un pugno nella sua direzione, - È così che mi ripaghi?!
Una sola lacrima si azzardò a scivolare oltre le ciglia di Zuca, rotolando lungo la sua guancia mentre il ragazzo dimenticava tutto – di se stesso e della sua intera esistenza, di tutte le domande che avrebbe voluto fare a suo padre se mai avesse avuto per assurdo l’occasione di rivederlo, compreso chiedergli il perché di quel bacio a fior di labbra che aveva visto Zlatan dargli quando era già nella sua bara – e scattava in piedi, lasciando le stampelle all’ingresso e catapultandosi fuori dall’edificio senza neanche lasciare andare un urlo.
José sospirò pesantemente, recuperando le stampelle da terra ed appoggiandole ordinatamente alla poltrona, prima di tornarsene in soffitta.
*
- Lo voglio. – sorrise Davide, e Mario non aspettò nemmeno il permesso del funzionario per prendergli il volto fra le mani e tirarselo contro, baciandolo profondamente e a lungo mentre tutto intorno a loro gli ospiti si alzavano dalle loro sedie, applaudendo festanti.
Zlatan scosse il capo, roteando gli occhi.
- Che pagliacciata. – commentò mentre dall’altro lato il fratello di Davide, nelle sue stesse condizioni, sorrideva imbarazzato. Voltò in giro lo sguardo, appena in tempo per incrociare Zuca che si scapicollava verso il cancello come stesse fuggendo da una bestia inferocita o chissà che altro. – Zuca! – lo richiamò, correndogli dietro, - Ma Cristo santo, è mai possibile che sei sempre di corsa anche quando non dovresti?! – lo fermò, afferrandolo per una spalla, - Fermati un po’! Dove sono le tue stampelle? – chiese, guardandolo attentamente dall’alto in basso.
- Io non… - balbettò lui, visibilmente scosso, - Io non… non ne ho idea, io non…
- Zuca? – lo chiamò ancora Zlatan, sorreggendolo per le spalle, - Ma cos’hai?
- Niente! – disse immediatamente il ragazzo, scostandosi con un gesto secco, - Io… scusa. – deglutì, - Non posso restare qui, giuro che… ci vediamo in allenamento domani, io… mi dispiace, davvero, fai i miei auguri a Dade e Mario, ma non posso proprio… - continuò a balbettare confusamente, arretrando verso il cancello senza mai staccare gli occhi di dosso alla villa. Zlatan lo osservò andare via con un misto di sconcerto e preoccupazione, una mano sul fianco e il capo lievemente inclinato, finché non fu scomparso con la macchina oltre la strada privata che conduceva a Villa Ratti.
- Dio, che vita difficile. – ripeté ad alta voce, mentre Maxi gli passava accanto in un vortice di rabbia isterica, - E tu che diavolo hai adesso? – chiese in una mezza lagna già rassegnata, senza aspettarsi certo una spiegazione all’ennesima fuga del suo figlio maggiore dalla casa paterna.
- Fottiti! – si limitò a rispondere il ragazzo, raggiungendo la propria automobile ed abbassando il finestrino solo per berciare ancora: - E lega la bestia, o la prossima volta se viene lui di certo non vengo io!
Zlatan annuì meccanicamente, ripromettendosi di torchiare Vincent fino a fargli sputare sangue o, in alternativa, il motivo reale di tutti quei battibecchi ricorrenti, ma nel momento in cui si voltò verso il gazebo il suo sguardo venne inevitabilmente attratto da qualcosa che si muoveva oltre il vetro della piccola finestra in soffitta.
José lo stava salutando.
Invocando la forza di parecchi santi, inspirò profondamente per non mettersi ad urlare contro gli stessi e poi, mesto, entrò in casa e salì al piano di sopra, strascicando adeguatamente ogni passo perché José potesse comprendere alla perfezione e con largo anticipo l’esatta misura del suo scazzo.
- Dimmi che non sei stato tu a ridurre in quelle condizioni Zuca inscenando una qualche stronzata tipo apparizione del fantasma del padre morto. – implorò, lasciandosi andare seduto sul letto e passandosi stancamente una mano sugli occhi, - Dimmelo, perché se tu non me lo dici giuro che io tento il suicidio.
José rise – una risata quasi infantile – e si sedette al suo fianco.
- Chissà. – rispose enigmatico, - Magari è solo la sua coscienza che è tornata a farsi sentire. – ipotizzò con un mezzo ghigno.
- Mi stupirebbe. – ammise Zlatan, stendendosi sul materasso e fissando ostinatamente il soffitto spiovente, - Zuca non ha mai avuto una coscienza.
José rise ancora e si stese accanto a lui, guardando lo stesso soffitto. Ascoltarono l’uno i respiri dell’altro per tanto di quel tempo che, alla fine, riuscirono perfino a sincronizzarli.
Zlatan allungò una mano fra i loro corpi a cercare quella di José, e lui – quando la strinse – non rifiutò il contatto.
- Ti sei perso un bel matrimonio. – commentò distrattamente, - Ridicolo, ma bello.
- Come tutti i matrimoni. – rispose José, sorridendo appena, - Ricordo ancora quando ho detto “lo voglio” a Tami. È stato un bel momento.
- Già. – rise a propria volta Zlatan, stringendo ancora un po’ la presa sulle sue dita e accarezzando con un pollice il dorso della sua mano. – È una bella sensazione, quando ti leghi a qualcuno e vuoi farlo davvero. Riesce a farti sentire tranquillo. Sai, io – sorrise, stiracchiandosi un po’, - non mi sono mai sentito sereno quasi in nessun posto, non so perché. Mio padre mi diceva che il mio sangue bruciava come il fuoco, e che per questo, potendo, avrei cambiato perfino pelle. Però, quando ho detto “lo voglio” a Helena… in qualche modo, in quell’istante, ha smesso di bruciare. Solo per quell’istante, - precisò con un mezzo sospiro, - ma ne è valsa la pena.
José intrecciò le dita con le sue, e quando tirò un po’ Zlatan si voltò a guardarlo, una domanda palese negli occhi. José, però, non aveva nessuna risposta. O forse sì, anche se non era quella che Zlatan si aspettava.
- Lo voglio. – disse il portoghese, così piano che Zlatan, per un secondo, credette di aver sentito male. Ma si affrettò a deglutire e riprendere il controllo di se stesso, in tempo per non dare a José l’impressione che, proprio adesso, volesse tirarsi indietro.
- Lo voglio. – rispose annuendo. José sorrise.
- Adesso puoi baciarmi. – disse a mezza voce. Zlatan evitò di chiedergli se stavolta non si sarebbe allontanato, e si limitò ad eseguire l’ordine, mentre da fuori, un po’ ovattati, giungevano i brindisi degli ospiti in onore dei novelli sposi.
Seguito di Who's Returned From The Dead.
Genere: Commedia, Romantico.
Pairing: José/Zlatan, Davide/Mario, accenni di palese UST fra Maxi e Vinny.
Rating: PG13
AVVERTIMENTI: Death, Slash.
- Proseguono le tragicomiche avventure di Zlatan alle prese col ritorno dalla morte di José Mourinho, ex allenatore e uomo impossibile che non ha mai smesso di rendere la vita difficile a chiunque anche da morto. In questo episodio, Zlatan affronta le lagne di sua moglie, le lagne di José, le lagne dei suoi figli e le lagne di Davide, in un continuo lagnarsi universale che lo distrae e lo confonde fino a non fargli capire cosa sta accadendo in tutto ciò nel giardino di casa sua.
Note: Sbrigativamente: povero Zlatan. E comunque sappiate che ho provato a resistere all’UST Ibracest con tutte le mie forze, davvero, fino all’ultimo. Non c’è stato verso. *piange*
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WHO’S LIVING UPSTAIRS


- Zlatan? – lo richiamò alla realtà Helena, piantando entrambe le mani sui fianchi e fissandolo con aria enormemente disapprovante, - Allora? Hai sentito almeno una parola di quello che ti ho detto?
- Uh? – ribatté lui, cercando di concentrarsi su di lei ma tornando immediatamente a volgere lo sguardo altrove, puntandolo nel bel mezzo del nulla, distratto dai rumori tutt’altro che casuali che provenivano dalla soffitta.
- Zlatan! – urlò quindi lei, schioccandogli le dita proprio davanti al naso, - Lascia perdere i dannati topi nel sottotetto e ascoltami, una buona volta!
- Ma sì, sì, ti ho ascoltato… - borbottò lui, tornando a guardarla e cercando di simulare una qualsivoglia presenza di spirito, per evitare di restare lì ancora almeno altre due ore a riascoltare la spiegazione di sua moglie (spiegazione della quale, per inciso, non aveva colto una parola, ed alla quale peraltro, al momento, non poteva interessarsi di meno, con José a fare tutto quel rumore al piano di sopra), - Penso che sia un’ottima idea.
Dubbiosa, Helena inarco le sopracciglia.
- Davvero? – chiese, incrociando le braccia sul petto.
- Davvero. – le sorrise lui, condiscendente, accarezzandole una spalla, - Penso che sia un’idea molto carina, - inventò, cercando di far tesoro dell’unica regola che in tutti quegli anni aveva imparato a proposito delle donne (“i complimenti sono la via per il successo in ogni frangente”), - e penso anche che sarai grandiosa come sempre, tesoro. – concluse con un sorriso smagliante, tirandosi in piedi ed abbracciandola brevemente.
- …sei proprio sicuro? – cercò di sincerarsi ancora lei, scrutando nei suoi occhi un minimo cenno di incertezza. Zlatan, se possibile, tirò fuori un sorriso ancora più smagliante: mai mostrare debolezza davanti a una donna. – Mi era parso di capire che-
- Non ci sarà assolutamente nessun problema! – insistette, - spingendola verso la porta, - Anzi, perché non vai a fare un po’ di shopping? – suggerì, dato che con Helena lo shopping sembrava sempre funzionare alla perfezione.
- Be’, in effetti mi servirà almeno-
- Ecco, vedi? – la esortò compiaciuto, mentre da sopra sembrava che José volesse tirar giù il soffitto a furia di saltare come un bue isterico, - Vai, tesoro, e fammi sapere se poi ti serve aiuto a portar su le buste, ok? A più tardi.
L’eco delle parole di Helena – un confuso “ma amore!” sussurrato appena saltellando di gradino in gradino verso il vialetto che portava al garage – si perse dietro il legno spesso della porta, nel momento in cui Zlatan se la chiuse alle spalle e, ringhiando come un animale, salì le scale tre alla volta per raggiungere José in soffitta. Dal rumore che aveva sentito fino a quel momento, avrebbe dovuto aspettarsi di trovare come minimo la branda divelta dal pavimento e il tavolino con elegante sedia in pura plastica nera che gli aveva trovato rovesciato al contrario in un tripudio di fogli, a fare da coreografia all’apocalisse dalla quale si sarebbe salvato solo il palmare che gli aveva regalato un paio di giorni prima e che José venerava come un dio in terra.
Naturalmente, quando aprì la porta, José stava ordinatamente seduto sulla propria seggiolina di plastica e guardava video su YouTube con i suoi graziosi auricolari Sony ben piantati nelle orecchie, in perfetto e religioso silenzio.
- Oh, non provarci. – cominciò, puntandogli contro un indice accusatorio, - Non provarci nemmeno, José, non ho più vent’anni e non puoi prendermi per il culo come facevi allora!
- Non sapevo neanche che faccia avessi, quando avevi vent’anni. – gli fece notare educatamente José, senza nemmeno sfilare gli auricolari, - Ti ho conosciuto che eri molto più vecchio, ma in effetti potevo prenderti tranquillamente per il culo anche allora, quindi non vedo perché non continuare. Non è difficile. – precisò, agitando il palmare come a indicarlo come ovvia causa di tutte le sue gioie.
- José. – grugnì Zlatan, passandosi una mano sulla fronte, - Piantala.
- Voglio uscire! – scattò lui, pestando i piedi come un bambino, - È una settimana che sto chiuso in questa topaia! Voglio uscire!
- Sei uscito due giorni fa! – precisò Zlatan, allargando scandalizzato le braccia ai lati del corpo.
- Mi hai portato sul balcone! Quello non è uscire! Io voglio andare fuori, - si lagnò José cominciando a vagare per la stanza come l’anima in pena che in effetti avrebbe potuto essere, - girare la città, vedere gente, andare a mangiare in qualche bel ristorante…
- Tu sei morto! – cercò di ricordargli Zlatan, le mani nei capelli, - Quante volte devo dirtelo?! Hai dei desideri assurdi! Non ti basta esserti fatto l’account su FaceBook ed aver tirato su un casino colossale dicendo a tutti che eri proprio quel José Mourinho nella tua home page?!
- Ma nessuno ci ha creduto! – borbottò lui, - Ed era anche ovvio che non ci credessero, volevo solo divertirmi!
- Divertirsi, dice lui! – sospirò Zlatan, lasciandosi ricadere sulla brandina, improvvisamente sgonfio, - José, io seriamente non so che dirti. – cercò di ragionare, mentre José si sedeva al suo fianco, come in attesa di una qualche risposta ad una domanda che aveva accidentalmente dimenticato di porre, - Ho deciso di tenerti qui perché ovviamente non potevo mandarti da nessun’altra parte, e-
- Ah. – lo interruppe José, secco, inarcando le sopracciglia ad allontanandosi di qualche centimetro con aria disgustata, - Non perché mi volevi qui, no, eh? Perché non potevi mandarmi da nessun’altra parte.
- Gesù, ti prego. – piagnucolò lui, passandosi una mano sugli occhi, - Ti prego, non ricominciare.
- Io non ricomincio! – strillò José, come un’aquila isterica.
- No, tu non ricominci, perché a tutti gli effetti tu non smetti mai!
José aggrottò le sopracciglia, visibilmente offeso, e completò le operazioni di allontanamento andando a sedersi nel punto più distante possibile da Zlatan, pur restando sul letto.
- Va bene. – disse gravemente, - Allora torna pure di sotto a fare quello che vuoi e lasciami qui ad ammuffire. D’altronde, è quello che mi spetta, no? – aggiunse con un sorriso di vago scherno, - Sono morto, dovrei stare a decompormi dieci metri sottoterra. Posso farlo qui, almeno è comodo.
- José… - roteò gli occhi Zlatan, avvicinandosi impercettibilmente, - Okay, senti, ricominciamo. Abbiamo evidentemente sbagliato approccio. – ragionò calmo, annuendo pacatamente. José gli rispose con un lungo sguardo indispettito, prima di sospirare e sciogliere le spalle, tornando ad avvicinarsi a propria volta.
- Sto impazzendo a restare chiuso qui, Zlatan. – confessò, la voce bassa e seria, - Non ti sto dicendo che devi farmi uscire adesso e non ti sto neanche dicendo che devi risolvere da solo questa situazione del cazzo, ma una soluzione dobbiamo trovarla, perché io non so cosa mi succederà domani o anche solo fra due ore, ma c’è la possibilità che io ti resti fra le palle a lungo, e non vorrei dare più fastidio di quanto ne do già.
- Tu non-
- Oh, non provarci. – gli fece il verso José, sorridendo appena, - Non provarci nemmeno, Zlatan. – sospirò ancora, rimettendosi in piedi per andare a poggiare il palmare sul tavolo, prima di avvicinarsi alla minuscola finestra che adornava la parete esposta al sole di mezzogiorno. – Sai che non sono venuto fuori dalla tomba? – disse all’improvviso, osservando il giardino con aria un po’ persa.
- No? – chiese Zlatan, avvicinandosi a lui e sbirciando attraverso il poco spazio che gli restava senza per questo doversi avvicinare troppo, - Sei, tipo, apparso?
- Credo di sì, anche perché sarebbe stata dura prendere un aereo per venire fin qui. E comunque non ricordo di averlo fatto. – ridacchio, costringendo Zlatan ad una risatina simile, - Ho aperto gli occhi ed ero davanti al Duomo. Il sole mi ha abbagliato, e la prima cosa che ho pensato è stata che questo sole di ghiaccio, tutto luce e niente calore, il sole di Milano, mi era mancato tantissimo.
Zlatan deglutì, sorridendo un po’.
- Sì, è strano, no? – annuì, - Quando vai via da Milano ti dici sempre che è stupendo andarsene, che una città così assurda non ti mancherà per niente. E invece poi ti manca.
- È per questo che sei tornato? – chiese José, curioso, voltandosi a guardarlo.
- Chissà. – scrollò le spalle Zlatan, - Forse. In realtà Helena sentiva la mancanza dei ragazzi, solo che naturalmente non potevamo essere in due stati diversi contemporaneamente. Perciò ci siamo detti “andiamo a Torino, almeno stiamo con Maxi”, ma non ci siamo trovati bene. Così, semplicemente, quando è arrivata l’offerta non ci ho nemmeno pensato troppo su. E siamo tornati a Milano.
José rise, poggiandosi con le spalle contro la parete e guardandolo con aria furba.
- A-ha. – annuì interessato, e Zlatan sospirò, ridacchiando complice.
- Okay, sì, quando è arrivata l’offerta mi sono messo a saltare di gioia. – ammise, - Non me lo aspettavo e morivo dalla voglia di rivedere Appiano. L’hanno ampliato ancora, sai? Sembra un cazzo di centro sportivo olimpionico, tipo. È fantastico. Dovresti- - si interruppe, mordendosi un labbro prima di concludere la frase, per quanto fosse ormai evidentemente tardi. – Intendevo…
- Esattamente quello che hai detto- o meglio, che non hai detto. – rise José, sospirando piano, - Dovrei vederlo. Vorrei vederlo. Chissà, magari lo vedrò pure.
- Quanto ottimismo tutto assieme! – lo prese in giro Zlatan, tirandogli un colpetto lieve contro la spalla, - Attento, rischi di sorridere troppo. Poi ti si paralizza la faccia e non è bello.
- Che stronzo. – sbottò José, ricambiando il colpetto e ghignando divertito, - Sono fresco come una rosa, nonostante sia morto. Profumo di buono e sono morbido come un bambino.
- Ma la tua migliore qualità resta sempre la modestia. – annuì compitamente Zlatan, fra le sue risate compiaciute.
Il silenzio che si stese fra loro, per una volta, non li infastidì. Ricordò piuttosto ad entrambi il periodo in cui silenzi del genere erano abituali, fra loro. Quando, dopo un’intera giornata passata insieme fra campo e palestra, non riuscivano comunque a trovare motivazioni sufficienti per separarsi, e non avere nient’altro da dirsi sembrava assolutamente indifferente, soprattutto nel momento in cui la cosa più importante in assoluto pareva essere il rimanere lì a respirare nello stesso rettangolo d’aria, l’uno l’ossigeno dell’altro. Non avevano mai chiarito cosa fosse quel bisogno, ma in effetti era stato principalmente perché non ne avevano mai sentito il bisogno.
- Penso che non sarei più andato via. – disse José sottovoce dopo poco, tornando a sedersi sulla sponda del letto, stavolta visibilmente più rilassato, - Se non fossi morto, intendo, non me ne sarei più andato da Milano.
- Tu? – chiese Zlatan, inarcando dubbioso un sopracciglio, - Scherzi?
- No! – rise José, sistemandosi più comodamente contro la parete alle proprie spalle, - Sai cosa? Venti minuti prima che si concludesse la finale di Champions, quando il Real era già sotto di due gol e il Bernabeu sembrava San Siro per quanto urlavano i tifosi dell’Inter… Davide era seduto accanto a me in panchina. Io stavo lì, - ridacchiò teneramente, - non avevo niente da ridire sulla squadra ed era la prima volta da quando li allenavo. Mi godevo i fraseggi di Mario, gli assist di Diego per Samuel, le volate di Lucio fino ad oltre la linea di centrocampo, e Davide – rise ancora, - Davide prende e mi afferra un braccio. Allora io mi volto a guardarlo, pure un po’ stupito, ma non gli chiedo niente. E nemmeno lui mi dice niente, perché sta guardando il campo come se volesse divorarlo, e io… - si prese un momento per inspirare ed espirare. Zlatan guardò il suo petto gonfiarsi e poi sgonfiarsi e si chiese se avesse davvero bisogno di qualcosa di simile, essendo morto. Poi José riprese a parlare, e la questione divenne improvvisamente insignificante. – L’ho spedito in campo il minuto dopo, e dieci minuti dopo aveva insaccato una doppietta. E mentre lo guardavo correre in tondo e saltellare e lasciarsi atterrare a centrocampo da Mario, io ho pensato “resto”. E sarei rimasto per sempre. – si fermò ancora, sospirando profondamente e voltandosi a guardare Zlatan con un sorriso tanto tenero e nostalgico da dargli il batticuore fino a fargli dolere il petto. – Come sta il mio bambino, Zlatan? Come stanno tutti i miei bambini?
Zlatan resistette all’impulso di scattare ad abbracciarlo solo perché sapeva che a José avrebbe dato fastidio, e schiuse le labbra per rispondergli che i suoi bambini stavano benissimo, che Mario finiva per essere capocannoniere in Serie A un anno sì e un anno no, che Davide era uno dei migliori capitani che l’Inter potesse vantare in una storia di capitani sempre eccellenti, che Rene aveva fatto benissimo all’Inter per tutto il tempo in cui era rimasto e che s’era ritirato due anni fa dopo aver disputato una splendida stagione col Chelsea nonostante un tremendo infortunio al ginocchio, e soprattutto che – dannazione – avrebbe dovuto vedere Zuca. Avrebbe dovuto vederlo correre come un pazzo per il campo e bersagliare la porta avversaria con un’ostinazione tanto simile alla sua da rasentare l’assurdo, fino a segnare più di prepotenza che di tecnica. Avrebbe dovuto vederlo allenarsi con impegno e sopperire al fisico sottilissimo con una velocità, un’agilità ed una grazia che avevano dell’incredibile, avrebbe dovuto vederlo combattere in area di rigore avversaria e staccare tutti anche di un metro saltando per colpire di testa. E avrebbe dovuto vederlo l’anno prima, quanto sembrasse grande con la Coppa dei Campioni fra le braccia, quanto il suo sorriso risplendesse di orgoglio e di gioia.
Non ci riuscì, perché la voce di Helena, squillante e vagamente irritata, lo raggiunse dal piano di sotto come un fulmine a ciel sereno, costringendolo a scattare in piedi ed allontanarsi all’improvviso.
- Zlatan! – continuò ad urlare sua moglie, - Ma dove cavolo sei?! – e Zlatan deglutì.
- Io… - biascicò, - torno dopo. – annuì serio, - Stanotte.
- No. – sorrise José, - Tu dopo vai a dormire. Con tua moglie. Come sarebbe giusto.
- Jo-
- No, ti prego, non ricominciare. – rise José, alzandosi in piedi e tornando a sedersi alla scrivania, prima di prendere il palmare fra le mani, - Ne abbiamo già parlato.
- No, non ne abbiamo parlato. – borbottò Zlatan, deluso, - Senti, mi pare ridicolo continuare a ignorare quello che sta succedendo quando la prima cosa che hai fatto rivedendomi è stata baciarmi.
- Non è stata la prima. – gli fece notare José, ma Zlatan lo liquidò con un gesto spiccio.
- Dettagli. – sbottò, - Seriamente, io non capisco-
- No, sono io che non capisco. – rise ancora José, tornando a girovagare per YouTube, - Sembri sempre avere ben chiaro in mente che sono morto, tranne quando si tratta di mettermi le mani addosso. A quel punto, improvvisamente torno vivo. Ma non ti fa pure un po’ schifo toccarmi?
- Zlatan!!! – chiamò ancora Helena, esasperata, - Giuro che se non scendi subito faccio una strage! Di te e anche di quelle piaghe sociali dei tuoi figli!
Zlatan sospirò, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi in un mugolio esasperato.
- Ne riparliamo. – borbottò deciso all’indirizzo di José, mentre il portoghese lo salutava agitando distrattamente una mano per aria e si lasciava distrarre dalle highlight di una recente partita dell’Inter commentata con incredibile passione da Materazzi.
Al piano di sotto, Helena stava già indossando la giacca.
- Ma da quanto sei tornata? – le chiese Zlatan, salutandola con un lieve bacio su una guancia.
- Da abbastanza tempo per godermi l’inizio della drammatica videochiamata quotidiana dei tuoi due figli, Dio mio. – sospirò lei, recuperando la borsa, - Te li lascio ben volentieri, tanto più che ho ordinato prima due ghirlande ma pare che il fioraio non riesca a recuperare le rose blu che ho chiesto, per cui tanto vale vada a controllare di persona.
- Due ghi- Helena, a cosa ti servono due ghirlande?! – cercò di informarsi lui, mentre dal salotto proveniva il berciare un po’ metallico dei suoi due figli isterici.
- Zlatan, sciocchino. – ridacchiò Helena, imboccando la porta, - Due ghirlande sono assolutamente indispensabili, nella situazione contingente!
Fece per chiederle a cosa esattamente si riferisse, ma Helena era già sparita nel battito di ciglia successivo, e tutto ciò che restava a riempire la casa – a parte il battere secco e regolare di José dal piano di sopra, per ricordargli che era ancora lì – era il continuo strillare di Maxi e Vinny dalla stanza accanto, perciò Zlatan si decise ad affrettare il passo e raggiungere finalmente il salotto, dove – attraverso gli schermi e le webcam collegate in rete – i suoi due unici figli si tiravano addosso insulti della peggior specie coinvolgendo nelle offese anche la loro innocente madre, parlandone peraltro con lo stesso irriguardoso sdegno col quale avrebbero parlato della madre di chiunque altro, rivolgendole epiteti di dubbio gusto.
- Ragazzi! – strillò inorridito sull’ennesimo “puttana sarà tua madre” vomitato rabbiosamente nei confronti di Vinny da un Maxi che evidentemente dimenticava come la madre suddetta fosse la stessa per entrambi, - Datevi una calmata! È sempre la stessa storia, Dio mio! Che avete adesso?!
- Quello stronzo – sbraitò Maxi, indicando suo fratello a chilometri di distanza attraverso lo schermo, - s’è fregato la mia maglietta portafortuna!
Zlatan roteò gli occhi con un lamento sommesso, mentre Vinny metteva il broncio ed incrociava le braccia sul petto, guardando altrove.
- Maxi, ti prego… siete primi in classifica, non hai davvero bisogno di una maglietta portafortuna!
- Stronzo pure tu! – continuò a urlare il ragazzo, puntando il dito anche contro di lui, - State dietro a un punto e guardacaso domenica c’è Inter-Juve! Ho bisogno della mia maglietta portafortuna! Di’ allo stronzo di rispedirmela.
- Te lo puoi scordare, e vaffanculo. – concluse Vinny, interrompendo la chiamata senza una parola di più.
- Oh, si fotta. – commentò gentilmente Maxi, e quando Zlatan lo vide allungare una mano verso il pulsante, sbuffò platealmente.
- Non ci provare nemmeno! – lo fermò, puntandogli contro un dito a conti fatti inutile ma dotato ancora dell’aura di autorità paterna che ogni tanto i suoi figli ricordavano di dover temere, - Maximilian, dimmi cosa diavolo sta succedendo fra voi due. Ormai i vostri litigi si stanno facendo insopportabili! – sospirò, passandosi una mano fra i capelli, - Quando è rimasto da te un paio di giorni, dopo il turno di Champions, sembravate stare bene insieme. Eravate carini. Che cosa è successo dopo?
- È successo che lo stronzo s’è portato via la mia cazzo di maglia. – ringhiò Maxi, guardando altrove, - E lo sa che odio che mi spariscano le cose da sotto il naso. Doveva chiedermela! – insistette gesticolando, - Non gliel’avrei comunque data, ma doveva chiederla!
Zlatan si lasciò sfuggire un lamento sofferente, coprendosi il volto con le mani, mentre qualcuno suonava il campanello.
- Mi date il mal di testa, davvero. – commentò, stirandosi contro lo schienale della sedia, - Resta in linea. Chi è? – chiese, azionando col telecomando il videocitofono accanto alla porta. Davide apparve sullo schermo un istante dopo, sorridendo timidamente mentre agitava una mano per salutare. – Dade? – borbottò Zlatan, stupito, - Ma che diavolo ci fai qui?
- Come che ci faccio qui? – chiese a propria volta lui, ugualmente stupito, - Devo posare il barbecue, Helena mi ha detto di portarlo.
- Il barbecue?! – sbottò, spalancando gli occhi. – Mia moglie è impazzita. Maxi, - ripeté, rivolgendosi a suo figlio dall’altro lato dello schermo, - tua madre è impazzita. Prima le ghirlande, ora il barbecue, vuole invitare il vicinato per una festa in giardino?
- Uh? – chiese Maxi, inclinando lievemente il capo, - Ma come una festa in giardino? Sta-
- Ok, senti, aspetta. – lo fermò, tornando a rivolgersi al citofono. – Aperto! Dade, vieni dentro, su.
- Senti, pa’, se è un problema ci risentiamo dopo, tanto non è importante. – biascicò confusamente Maximilian, grattandosi la nuca prima di rivolgere un cenno di saluto a Davide che passava sullo sfondo, il suo ingombrante carico fra le braccia e un “dove lo metto?” un po’ impacciato sulle labbra.
- Nel ripostiglio, Dà. – rispose sbrigativamente lui, prima di rivolgersi a Maxi, - No, senti, noi ora ne parliamo e risolviamo questa cosa, perché così non può continuare, è evidente. Oltretutto, a Natale vi voglio entrambi qui e gradirei non dover raccogliere i vostri resti sparsi in salotto dopo che vi sarete presi a mazzate prima, durante e dopo il pranzo, per dire.
- …non credo che accadrà niente del genere. – sospirò Maxi, poggiando i gomiti sulla scrivania e piegandosi un po’ in avanti, i capelli biondissimi che scendevano sulla fronte fin quasi a coprirgli gli occhi.
- Se ora mi dici che non intendi venire a Natale, giuro che prendo il primo aereo per Torino e ti prendo a mazzate come non ho mai fatto in ventidue anni di vita, anche se te lo saresti meritato spesso. – lo minacciò con aria cupa, e Maxi scosse il capo.
- No, non intendevo quello. – ammise con un mezzo sorriso stanco, - Verrò a Natale. Sta’ tranquillo.
Zlatan schiuse le labbra e fece per chiedergli quale fosse il motivo di tutta quell’improvvisa arrendevolezza, ma non riuscì. L’urlo di Davide, dal piano di sopra, lo travolse come una valanga, e Zlatan ebbe appena il tempo di realizzare cosa quell’urlo stava a significare, che portò le mani ai capelli e fissò suo figlio con aria allucinata.
- Pa’…? – lo chiamò Maxi, preoccupato, ma Zlatan scattò in piedi prima che potesse concludere la domanda.
- Dopo. – disse sbrigativamente, prima di interrompere la chiamata, - Mi faccio sentire io.
- Tu! – strillò Davide, apparendo dalla tromba delle scale e puntandolo con un dito come sembrava ormai uso in quella casa, - Tu sei- sei- un vecchio porco!
- Ti avevo detto di metterlo nel ripostiglio! – strillò a propria volta Zlatan, evidentemente a corto di argomenti, - Non in soffitta!
- Non è il punto della questione! – insistette Davide, prendendo a girovagare per il salotto, visibilmente turbato, - Diosanto, ma che cos’è?! – chiese, più al soffitto che a Zlatan stesso, - Un- Un androide, una statua di cera, lui imbalsamato?! Cosa cazzo è?! Cosa cazzo ci fa qui?!
- Davide- - cercò di spiegarsi Zlatan, ma l’uomo lo zittì con un’occhiata furiosa.
- Niente Davide! – ringhiò, - Cazzo, non hai rispetto! Per te sarà stato probabilmente solo un allenatore stronzo qualsiasi, uno da dimenticare subito dopo essertene andato da Milano, ma per me… - si interruppe, tirando su col naso e resistendo stoicamente alla voglia di chiudere gli occhi e lasciare le lacrime libere di scivolare lungo le guance coperte appena dalla barba cortissima, - per me è stato come un padre, Zlatan, e mi è praticamente morto fra le braccia. Tu non puoi nemmeno immaginare… - singhiozzò, passandosi una mano sulla fronte a tirare indietro la frangia caduta davanti al viso nella concitazione degli ultimi minuti. - …Qualsiasi cosa sia, fallo sparire. – Zlatan provò a replicare, ma Davide non glielo lasciò fare, preferendo concludere il proprio discorso. – Non voglio più vederlo e di certo non mi sposerò in una casa con dentro una roba del genere. – e lasciandolo sbigottito.
- …tu cosadovequando e perché?! – strillò inorridito, scattando all’indietro. Davide inarcò un sopracciglio, sospettoso.
- Oh, bene, se pensi di distrarmi dalla mia rabbia facendo finta di non sapere che tua moglie ha organizzato qui il matrimonio, sei completamente fuori strada. – sbuffò con un sorriso sarcastico.
- Io non fingo! – sbraitò Zlatan, gesticolando come un ossesso, - Non lo sapevo! Nessuno in questa casa si degna mai- oh, porca miseria! – realizzò quindi in un mugolio di dolore, portando le mani alla testa e ciondolando per casa in cerchi irregolari e confusi, - Ecco di cosa mi ha parlato Helena stamattina! Dannazione, dannazione! Ma sono un deficiente!
- Piantala di fare questa parte ridicola, Zuzu!
- Non chiamarmi Zuzu, sai?! Non in questa situazione di merda nata perché in primo luogo a te convivere non bastava, no!, tu vuoi adottare!, e ci sono possibilità maggiori se si fa parte di un nucleo familiare stabile e bla bla bla, perciò o matrimonio o morte!
- Il mio matrimonio – ribatté Davide, piccato, - non c’entra niente col fatto che tu sei un porco pervertito che tiene in soffitta una bambola gonfiabile a immagine e somiglianza di José!
- Oh, finiscila, non-
Finitela tutti e due. – li interruppe la voce seria e pacata di José. Si voltarono entrambi a guardarlo con evidente confusione negli occhi, e lo trovarono ai piedi della rampa di scale, un paio di pantaloni un po’ stropicciati e la camicia aperta sul petto quasi per metà, che si grattava la testa con un’aria a metà fra l’indispettito e l’assonnato. – Se anche fossi stato ancora morto e sepolto, con tutto questo casino avreste trovato comunque il modo di svegliarmi.
- …mister… - annaspò Davide, irrigidendo le braccia lungo i fianchi.
- Non sono una bambola gonfiabile, bambino. – lo apostrofò severamente, guardandolo dritto negli occhi, - Per quanto possa essere assurdo chiamarti ancora così a quest’età. E non sono neanche una statua di cera o qualche altra diavoleria simile, sono io.
- Sei vivo! – puntualizzò, la voce resa acuta dall’agitazione e dalla sorpresa.
- Non esattamente. – scosse il capo José, - Io e Zlatan non siamo ancora riusciti a capire cosa mi sia successo. Non che ci abbiamo veramente provato, in realtà. – scrollò le spalle, - Comunque sia, per adesso diamo per scontato il fatto che sono risorto. O qualcosa del genere. – sospirò, schiudendo le braccia ed atteggiando le labbra ad un sorriso tenero, - E che evidentemente potrò esaudire in un colpo solo entrambi i desideri che serbavo nei tuoi confronti.
Davide scattò sulle gambe svelto come avesse dovuto involarsi sulla fascia per portare un compagno a rete, seguendo l’ordine di quelle braccia spalancate come un imperativo categorico assoluto.
- Quali erano, mister? – chiese fra le lacrime, stringendoselo contro dall’alto della decina di centimetri che li separava.
- Vederti capitano. – rispose José con una mezza risata, - E vederti sposato.
Zlatan li guardò a lungo, crogiolandosi un po’ nell’offesa – perché lui restava Zuzu, ma José, nonostante gli anni, era rimasto il mister – e un po’ nella tenerezza. Lasciò vagare gli occhi oltre l’abbraccio di due delle persone cui tenesse di più al mondo, perché non voleva intromettersi in quello che sembrava un momento tanto intimo, e lo sguardo cadde sull’ampia finestra del salotto, quella che dava sul giardino principale, davanti al porticato.
- …e no, questo no, però! – strillò inorridito, spalancando la porta e correndo di fuori, - Accetto tutto, il matrimonio, il barbecue, perfino di fare da dannato testimone di nozze, per quanto ritenga tutto ciò una solenne quanto ridicola pacchianata, ma il gazebo arabeggiante in seta bianca decorato con disegni floreali nerazzurri no, perdio!