rp: michel platini

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Comico.
Pairing: Nessuno in particolare, accenni a José/Zlatan.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Crack, What If?, pseudoSlash.
- "Era passato ormai un mese dalla sventurata eruzione dell’Eyjafjallajökull, la cui immediata e più angosciante conseguenza era stata spargere ceneri per i cieli di tutta Europa senza che nessuno potesse prevederlo, impedirlo o fare qualcosa immediatamente dopo per risolvere l’incresciosa situazione."
Note: Dunque, questa storia è a) totalmente inutile, b) totalmente folle. E' nata quando s'è cominciato vagamente a parlare del fatto che il Barça non avrebbe potuto raggiungere Milano in aereo, al che il mio cervello non poteva proprio starsene lì buonino ad osservare i fatti, no, doveva inventare XD E, insomma, questo è quello che è venuto fuori. Dedicata alla Jan perché sì, ecco XD
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Pepissea


Era passato ormai un mese dalla sventurata eruzione dell’Eyjafjallajökull, la cui immediata e più angosciante conseguenza era stata spargere ceneri per i cieli di tutta Europa senza che nessuno potesse prevederlo, impedirlo o fare qualcosa immediatamente dopo per risolvere l’incresciosa situazione. Il commento di Pep alla questione, dopo aver appreso la notizia al telegiornale, era stato: “Ma porca di tutte quelle troie, dopo centottantasette anni doveva risvegliarsi e rompere i coglioni proprio adesso?”, al quale era seguito a distanza ravvicinata il commento di Bojan che, guardando il cielo con aria assorta come dovesse vedersi piovere una rana sulla testa da un momento all’altro, aveva detto “Non mi meraviglia che stia spargendo tutta questa robaccia in giro… inutilizzato da tutto questo tempo, doveva essere così impolverato.” Il minuto di silenzio che aveva seguito questa deduzione sarebbe rimasto nella storia di tutti i più importanti minuti di silenzio mai verificatisi a Barcellona per lungo, lungo tempo. Ma questa è un’altra storia.
Dopo due rinvii di un paio di giorni e poi una settimana, era altresì parso evidente che se anche le benedette semifinali fossero state spostate nello spazio e nel tempo fino ad essere organizzate in un universo parallelo, ucronico e geograficamente traslato su un pianeta vicino, le ceneri non sarebbero scomparse ed avrebbero continuato ad affliggere i cieli europei rendendo impossibili le tratte aeree ancora a lungo, ed era stato in forza di questo che, esattamente tre settimane dopo il disastro, Michel Platini aveva chiamato Joan Laporta e gli aveva spiegato che continuare a rinviare sarebbe stato del tutto inutile. “De scioeu mast go on, monsieur Laportà”, aveva detto.
“Laporta,” l’aveva corretto lui, infastidito. “E comunque ne parli col mio allenatore, che io il culo dalla Catalogna lo schiodo solo in casi di estremo bisogno – ed una semifinale di Coppa dei Campioni decisamente non rientra nella casistica indicata.”
“Si chiama Sciampions Lig,” aveva borbottato lui, e poi, rassegnato, s’era fatto passare Pep. “Monsieur Guardiolà!” l’aveva salutato con entusiasmo, “Comment ça va?”
“È Guardiola,” l’aveva corretto anche Pep con un ringhio sommesso, “E non intendo portare la mia squadra in Italia in queste condizioni.”
Il battibecco che ne era seguito sarebbe entrato anche lui nella storia di tutti i più importanti battibecchi mai verificatisi a Barcellona, ma si era nondimeno dovuto concludere con la sconfitta plateale di Pep per esigenze superiori, fra i sospiri rassegnati di tutta la squadra.
Fissata una nuova data per la partita – una che stavolta fosse definitiva – la prima questione da dirimere era stata quella dei biglietti aerei.
- Cosa vuol dire che non ci sono voli? – aveva chiesto Pep, fissando con aria incredula e anche vagamente pallata l’operatrice dell’agenzia di viaggi, seduta di fronte a lui tutta stretta nelle spalle come volesse scusarsi anche solo di esistere.
- Non è colpa mia, signor Guardiola… - aveva mugolato la ragazza, continuando a scrollare con la rotellina del mouse, pressando F5 sulla tastiera di tanto in tanto per aggiornare l’elenco di voli desolatamente vuoto, - Le ceneri sono ancora alte e pesanti, gli aerei non sono sicuri. Nessun mezzo in realtà lo è, dato che ultimamente i temporali si sono fatti sempre più frequenti e intensi, e-
- Senta, - l’aveva quindi interrotta Pep, massaggiandosi stancamente le tempie, - noi dobbiamo essere in Italia fra meno di due settimane, e non possiamo certo andarci a piedi. E lei capisce che non posso ficcare trenta persone fra giocatori e staff tecnico e medico in un treno per poi mandarli in giro per l’Europa fino a Milano. Mi trovi una soluzione.
La ragazza aveva abbassato lo sguardo, mortificata.
- Temo non ce ne siano, signor Guardiola. – aveva affermato tristemente.
Era stato allora che Carles si era avvicinato ed aveva proposto un modo per sfangarla.
- Guardi, mister, - aveva detto con aria professionale, - io non prometto niente, ma c’è un cugino di un fratello di un amico di un compagno delle elementari del secondo marito della migliore amica di mia cugina Dolores che ha una barca.
- Una barca. – aveva ripetuto Pep, come a cercare di convincersi della fattibilità dell’impresa, - Una cosa tipo uno yacht? Una piccola nave?
- No, una barca. – aveva insistito Carles, grattandosi la sommità della testa, - Da pesca, tipo.
- …ma come ci dovremmo arrivare noi in Italia con una barca da pesca?! – aveva strillato Pep, agitando le braccia, - Santo Dio, Carles!
Le cose si erano fatte anche più complesse quando, dopo aver appurato che nessun battello in condizioni umane sarebbe salpato in tempo utile, non certo col mare continuamente martoriato da tempeste in quel modo, la squadra s’era recata in pompa magna a prendere atto delle condizioni dell’imbarcazione che avrebbe dovuto condurli sani e salvi a destinazione, nonché di colui che sarebbe stato il loro timoniere nella buona e nella cattiva sorte, che i venti fossero favorevoli o no.
Il cugino del fratello dell’amico del compagno delle elementari del secondo marito della migliore amica di Dolores, cugina di Carles, viveva la propria vita in un costante stato di ubriachezza che gli concedeva tregua solo per pochi minuti al giorno, e si trascinava in stato semicomatoso dal pontile mezzo coperto di alghe sul quale pareva vivere al ponte della sua pseudo-barca da pesca le cui travi si tenevano palesemente attaccate con lo sputo. Arrivando, Pep e i suoi ragazzi lo trovarono piegato in due oltre il parapetto a vomitare alimenti di incerta provenienza sia quanto a conformazione molecolare sia quanto a tempo trascorso all’interno dello stomaco. Quando gli chiesero se si sentisse male, lui rispose “È solo un po’ di mal di mare”, ed i ragazzi preferirono evitare di fargli notare che la barca era ferma.
- Signor… - provò a chiamarlo Pep quando lo vide scivolare come senza vita lungo il fianco della barca, per poi tornare a sedersi sul pontile, - Signore, mi chiamo Josep Guardiola, piacere. – disse porgendogli una mano, che l’uomo ignorò platealmente, continuando a fissare laconico l’orizzonte oltre il quale nubi nere cariche di pioggia si addensavano inesorabili. Bojan tirò su il cappuccio, sempre pensando alle rane. – Ehm, posso sapere come si chiama? – proseguì Pep, incerto.
- Ho dimenticato il mio nome molti anni fa. – rispose l’uomo tetro, dando i brividi a tutti, - Non serve un nome, quando si è soli col Mare. Il Mare non ti chiama per nome.
- …no, naturalmente. – rispose Pep, deglutendo a fatica, - Senta, a noi serve un passaggio in barca fino, facciamo, in Italia. – disse, gesticolando a caso per darsi un tono. – Lei sarebbe disposto?
L’uomo si voltò a guardarlo e poi, non senza una certa fatica, si erse sulle gambe, torreggiando su tutti loro.
- Josep Guardiola, - disse sempre più cupo, - temi tu la morte?
Pep inspirò profondamente.
- In realtà sì. – rispose con un certo imbarazzo, - Ma vede, non stiamo organizzando una missione suicida, davvero. Vogliamo solo andare in Italia. Speravamo che lei potesse esserci d’aiuto, tutto qua.
L’uomo si grattò il mento, gli occhi distanti persi in chissà che scenario mortifero.
- Potrei. – rispose quindi, e una nuova luce illuminò i visi di tutti i presenti, - Ma ho perso le chiavi della barca. – confessò, tornando a portare l’oscurità su di loro, - Sono finite dentro quella grotta. – disse, indicando un punto moderatamente lontano della scogliera, - Mentre inseguivo un cerbiatto.
- …un cerbiatto? – chiese Pep, gli occhi enormi.
- I misteri del Mare sono molti. – grugnì l’uomo.
- Sì, e quelli delle allucinazioni post-sbornia anche. – commentò in un sospiro Thierry, scuotendo teatralmente il capo mentre Pep gli lanciava un’occhiataccia volta a zittirlo.
- Senta… - disse l’allenatore, pinzandosi la radice del naso, - Noi dobbiamo assolutamente partire, in un modo o nell’altro. Dobbiamo recuperare quelle chiavi. La pagheremo profumatamente, se solo lei-
- Ci ho già provato. – disse l’uomo, solenne, - Ma il pertugio fra le rocce è troppo piccolo perché un essere umano di statura normale possa passarci.
Simultaneamente, tutti gli occhi si voltarono a fissare Lionel, che sbocconcellava un panino appoggiato a un palo di legno poco distante.
- Cosa? – chiese l’argentino, mandando giù un boccone. Venti minuti dopo, stava appeso con una corda alla vita, dondolante a picco sul mare, dando indicazioni ai compagni che lo tenevano da sopra perché lo indirizzassero il più precisamente possibile verso l’ingresso della grotta.
- Va bene così? – strillò Gerard dall’alto, sollevando una mano perché Dani e Victor, impegnati a manovrare la corda, si fermassero. Lionel aspettò di riprendersi dalle svariate botte in testa che aveva preso rimpallando da uno scoglio all’altro come in un flipper impazzito, e poi piantò i piedi contro la roccia bagnata e scivolosa, sollevando un pollice in direzione dell’amico prima di avventurarsi all’interno della grotta.
Alto non più di una cinquantina di centimetri, l’ambiente era stretto e angusto, e perfino il minuscolo argentino ebbe serie difficoltà a strisciare prono verso la fine della galleria e tirarne fuori le chiavi. Quando, mezz’ora dopo, fu riuscito a tornare in cima alla scogliera, stringendo forte fra le dita il frutto del proprio sacrificio umano, la prima cosa che chiese all’uomo senza nome fu di spiegargli come diavolo ci fossero finite quelle chiavi così in fondo, ma l’uomo non rispose, e sorrise in modo così inquietante che a nessuno passo neanche per l’anticamera del cervello la possibilità di insistere sul punto.
L’imbarcazione – senza nome come il suo proprietario e capitano – salpò nella notte spagnola, la stiva piena di viveri solo a metà, dal momento che l’altra metà era ingombra di tutte le bottiglie di vino catalano senza il quale il capitano non sembrava capace nemmeno di respirare, figurarsi camminare o ragionare lucidamente. Anche se, poi, pure in queste ultime due attività non è che brillasse, vino catalano o meno.
I primi problemi cominciarono a palesarsi quando le nubi scure, che li avevano minacciati quando erano ancora ancorati a terra, misero in atto i loro propositi guerrafondai scaricando sulle loro teste ettolitri d’acqua, tuoni e fulmini senza che loro potessero nemmeno ripararsi – a parte Bojan, che indossava ancora in cappuccio ma più per difendersi dall’eventuale caduta di rane che per altro.
- Finiremo alla deriva a mangiarci a vicenda per cercare di sopravvivere! – presagì immediatamente Pedro, agitando le braccia sopra la testa.
- Sta’ zitto, Pedrito. – lo minacciò Pep, stagliandosi contro il cielo scuro scosso a tratti da lampi lunghi e irregolari, abbaglianti come improvvisi fari nella notte, - O ti tengo fuori squadra fino all’anno prossimo.
- Non ci sarà una squadra e non ci sarà nemmeno un anno prossimo, per tutti noi! – continuò ad agitarsi Pedro mentre Bojan, spaventato dalle urla come un neonato, si metteva a piangere in un angolo, consolato da Thierry e Gerard, - Saremo già fortunati se arriveremo a vedere l’alba di domani mattina!
- Carles. – ordinò Pep, continuando a scrutare l’orizzonte appeso a una cima, gli occhi sottili e la pioggia che si faceva beffe del suo principio di calvizie, - Legalo. Ci serve una polena.
Le ultime parole che Pedro sentì prima di essere afferrato, imbavagliato e legato alla prua dell’imbarcazione furono “e spera che non si incontrino iceberg lungo il cammino”, suggerimento che il ragazzo accettò immediatamente cominciando a pregare in tutte le lingue a lui conosciute, che fendere le acque, per quanto agitate e violente, era una cosa, ma andare a sbattere di naso contro granitici blocchi di ghiaccio di svariate dimensioni era un affare del tutto diverso.
La tempesta cessò di infuriare solo l’indomani mattina. Stanchi e distrutti, i giocatori del Barça si aggiravano come marinai ubriachi sul ponte della nave, incerti sulle gambe, così come il capitano senza nome, che aveva dormito fino a dieci minuti prima ed aveva preso a bere non appena aperti gli occhi.
- Ma dove cazzo siamo? – si chiese Pep, gettando occhiate incuriosite in giro. Tutto attorno alla barca si apriva un corridoio di acque adagiato in mezzo a due rigogliose ali di vegetazione tropicale, con piante e fiori che mai avevano visto prima di quel momento.
- Ad occhio e croce, nella Foresta Amazzonica. – suppose Zlatan dopo essere riemerso dalla cabina del capitano della quale aveva preso possesso nell’esatto istante in cui erano saliti a bordo della barca, - Oppure su un altro pianeta. – scrollò le spalle, tirando fuori dal borsone il cellulare e componendo un numero a memoria. – Zay? – chiamò poco dopo, - Sì, siamo in viaggio. No, non ci crederai mai, ma ti racconterò appena sarò tornato a Milano. Senti, ma avete mica posto lì da voi? Perché io non ci ritorno a Barcellona in barca, beninteso. Aspetterò che la nube del cazzo si tolga dalle palle e poi tornerò in aereo, faranno a meno di me da qui a fine campionato.
Pep si voltò a guardarlo con aria sconcertata e anche un po’ oltraggiata.
- Potresti smetterla di parlare col tuo ex allenatore mentre siamo dispersi a risalire il corso del Rio delle Amazzoni che non si capisce come abbiamo raggiunto in una notte di viaggio col mare in tempesta?! – strillò, muovendosi tanto concitatamente da far ondeggiare la barca e pucciare Pedro nell’acqua come un savoiardo nel caffè.
Zlatan lo guardò malissimo, arricciando le labbra in una smorfia grandemente disapprovante.
- No. – rispose, prima di tornare a rivolgersi al suo interlocutore dall’altro lato dell’oceano, - Zaaaay, mi hai dato in mano a della gentaglia! – cominciò a lagnarsi, passeggiando nervosamente lungo il ponte, - Voglio tornare a casa, quando finisce il prestito? Sì, lo so che non è un prestito, ma potresti parlare col presidente…
Pep scosse il capo, sospirò profondamente e sollevò gli occhi al cielo plumbeo del Brasile – a quel punto, tanto valeva considerarsi davvero lì, se volevano avere una qualche speranza di venirne fuori – chiedendosi quanto ancora sarebbe durato quel supplizio.
La risposta tardò ad arrivare, perché mai, quando una risposta ti serve immediatamente, essa immediatamente arriva. Il viaggio durò tre giorni e tre notti, fu intenso e spossante, continuamente disturbato dal chiacchiericcio di Zlatan al telefono – chiacchiericcio che s’era poi trasformato in piagnisteo quando per qualche ragione le comunicazioni s’erano interrotte lasciandolo privo della sua dose di Mourinho quotidiana – dall’ondeggiare scomposto del capitano da un lato all’altro del ponte al solo scopo di sporgersi oltre il parapetto e vomitare e dalla rabbia e dalla frustrazione di un gruppo di uomini che pensava di costituire una squadra di calcio e che invece, per quel periodo di tempo, dovette dimostrare di essere in grado di pescare, nutrirsi dei crudi frutti del mare e sopravvivere a delle tempeste tali da lasciare incredulo chiunque sulle possibilità di sopravvivenza di quell’imbarcazione tanto malmessa quanto resistente.
Per tutta la durata del viaggio, attraversando oceani e osservando dalla barca gente sulle sponde delle terre che costeggiavano e che cercava di comunicare con loro tramite versi strani assimilabili a un certo “ma cu minchia sugnu?” che nessuno di loro era riuscito a interpretare, Pep rimase al proprio posto a prua, un piede ben piantato sulla punta della barca e il gomito poggiato sul ginocchio, lo sguardo sempre oltre l’orizzonte e la posa tipica dei comandanti colmi di onore e coraggio, quale lui d’altronde era.
Arrivarono a Genova sfiancati, smagriti, lerci e rattoppati come pantaloni vecchi, ma temprati da tutte le difficoltà che avevano superato e pronti ad affrontare l’Inter – e divorarne i calciatori, più per fame che per effettivo spirito combattivo. Una delegazione del club nerazzurro li accolse al porto come da programma. Furono rifocillati da deliziose cameriere in abitino nero e grembiule, furono loro donati dei vestiti umani e decenti e furono loro offerte brandine in un centro di prima accoglienza per immigrati, perché potessero riposarsi.
Solo dopo che si furono risvegliati José Mourinho in persona andò a porgere loro gli omaggi del presidente e della squadra tutta, ottenendo in cambio di essere schienato contro il pavimento dall’assalto del suo svedese preferito all’urlo di “ossantoddio, Zay, tienimi con te nella tua enorme villa con centinaia di servi per sempre”, robe che mai gli si erano sentite dire e probabilmente mai gli si sarebbero sentite ripetere.
Una volta ricompostosi, José si rimise in piedi e, accarezzando Zlatan placido al suo fianco come fosse un cucciolo di cane o qualcos’altro di spaventosamente simile, sorrise.
- Benvenuti! – li salutò, spalancando le braccia in un movimento quasi ecumenico, - L’Italia vi accoglie, o prodi giocatori del Barcellona. Prodi quanto stupidi, peraltro. – commentò, scoppiando a ridere come un cretino, - Gli aeroporti sono stati riaperti il giorno dopo la vostra partenza dalla Spagna.
Il silenzio calò sul dormitorio ricolmo di calciatori in pigiama appena riemersi da un sonno lungo dodici ore dopo aver attraversato il Mediterraneo su una barcarola piena di buchi come un groviera.
- …ma tu e Zlatan siete stati continuativamente al telefono per dei giorni… - balbettò Pep, le labbra tremule e lo sguardo vacuo, - Perché non avvertirci, perché… perché non mandare qualcuno…?
- E perderci lo spettacolo meraviglioso delle vostre urla in vivavoce per tutto il tempo? – chiese José, sorridendo placido e sistemandosi la cravatta, - Siamo la squadra più odiata d’Italia, che diamine, un motivo ci sarà pure. A proposito, - disse casualmente, avviandosi tranquillo verso l’uscita della camerata, - viste le ottime condizioni metereologiche, la partita è stata anticipata. Giochiamo stasera alle venti e quarantacinque a San Siro. Vi converrà partire al più presto. – numerosi ringhi di protesta accompagnarono la sua affermazione, così che lui si sentì quasi obbligato a sorridere più apertamente e precisare: - Però almeno potrete prendere l’aereo!
Pep e i suoi giocatori lo osservarono allontanarsi e poi scomparire oltre la porta, e fu solo dopo un paio di minuti che l’allenatore ritrovò la parola.
- Giocheremo sì alle venti e quarantacinque a San Siro, - grugnì, gli occhi scintillanti di furia omicida, - ma con la fascia nera al braccio. Avanti, miei prodi!
La rissa e il placcaggio della polizia che susseguirono sarebbero rimasti nella storia di tutte le risse e di tutti i placcaggi della polizia mai accostati alla stirpe del glorioso club catalano blaugrana, ma anche questa, come si suol dire, è un’altra storia.