telefilm: libanese

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Comico.
Pairing: Freddo/Libano.
Rating: R/NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, AU.
- La signora Maria viene sfrattata da casa propria, e nonostante le reticenze iniziali dopo qualche ora non può che andare da suo figlio per cercare ospitalità. Quello che non sa è che, quando arriverà a casa, suo figlio non sarà solo.
Note: Che la vergogna scenda su di me. Precisazioni varie ed eventuali:
● Ispirata a una puntata di Forum XD Sì, quello con Rita Dalla Chiesa. *lacrima*
● L'AU non è temporalmente contestualizzato. Tutto è, sostanzialmente, molto casuale.
● La signora arancione esiste.
● Io la odio, la trovo la cosa più brutta che abbia mai scritto, ma va be'. *ride* Cosa non si fa per il #teamAngeli.
Scritta per la seconda missione dell'ultima settimana del COW-T @ maridichallenge, su prompt fandom!au.
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COSI’ È DECISO, L’UDIENZA È TOLTA

La signora Maria fu sfrattata verso le undici di una bella mattina di primavera. Dovettero accompagnarla fuori, perché lei non aveva alcuna intenzione di abbandonare l’appartamento di propria spontanea iniziativa. Aveva ricevuto l’avviso già da un paio di settimane, ed il giorno stesso lei aveva preparato le valigie, ma non se n’era andata. Era rimasta lì, coi suoi bagagli all’ingresso, ed aveva continuato la propria vita di sempre: faceva la spesa ogni tre giorni, comprava il minimo indispensabile, poi passava tutti i pomeriggi alla macchina da cucire, facendo la sarta per due lire per le signore del quartiere, che poi era l’unico modo che aveva trovato per sostenersi dopo la pensione senza chiedere un soldo a suo figlio, e la domenica andava in chiesa, senza mai saltare una funzione, non tanto perché avesse ancora qualcosa da chiedere a Dio – o, peraltro, qualche motivo per ringraziarlo – ma piuttosto perché si trattava di un’abitudine che le era entrata nelle ossa col passare degli anni, e non c’era modo di estirparla, ormai che era vecchia e tutti i cambiamenti la urtavano infinitamente.
Il padrone di casa s’era presentato quel giorno, convinto di trovare la casa già vuota, e invece la signora Maria era ancora lì, nel cucinino, che scolava maccheroni e mescolava il sugo nel tegamino. “Buongiorno, signor De Santis,” aveva detto, e il suo tono non era quello di una pazza che non si rendeva conto di quanto le stava accadendo intorno, quanto più quello di una donna perfettamente lucida, che vedeva con estrema chiarezza ogni cosa, e che di conseguenza stava agendo. Il signor De Santis l’aveva osservata preparare due piatti di pasta e metterli a tavola, poi la signora Maria s’era seduta al proprio posto e, scusandosi per la fretta, aveva cominciato a mangiare. “È che non so per quanto ancora c’avrò ‘n tavolo per appoggiarmi,” aveva detto.
Il signor De Santis era andato alla polizia subito dopo, aveva esposto la situazione e due agenti l’avevano seguito a casa per rendere effettivo lo sfratto. Al solo vederli, la signora Maria s’era alzata in piedi ed aveva riempito altri due piatti di pasta. Gli agenti avevano declinato l’offerta e si erano avvicinati con chiare intenzioni, sebbene vagamente intimoriti dalla situazione surreale. Lei non aveva aspettato altro: prima che i due uomini riuscissero a toccarla, s’era alzata in piedi – lasciando a metà il proprio pasto – si era ripulita con cura la bocca, s’era sciacquata le mani ed era andata all’ingresso, dove aveva recuperato le valigie.
Era uscita sulle sue gambe, e poi si era messa ad aspettare. E aveva aspettato a lungo, aspettò almeno sei o sette ore prima di prendere la decisione di presentarsi al figlio, ma quando cominciò ad imbrunire, quando il sole caldo della primavera andò a nascondersi dietro le colline all’orizzonte lasciandola in balia del venticello insistente della sera, che si prendeva gioco dei buchi e delle toppe del suo cappotto solleticandola fin nelle ossa, seppe di non avere altra scelta: l’assenza di una casa nella quale rifugiarsi diventò improvvisamente un problema ben più grave di tutti quelli che, solo pochi mesi prima, avevano posto fine alla sua relazione col proprio figlio.
L’indirizzo ce l’aveva. Arrivò poco prima di cena.
In quel momento, Freddo e Libano erano insieme.
*
Libano si lasciò sfuggire un mugolio profondo di fronte al quale Freddo non riuscì a trattenere un sorriso sbuffante che, vibrando attorno all’erezione del compagno, produsse un mugolio ben più convinto per il quale Freddo avrebbe volentieri riso un’altra volta, se non avesse saputo che ciò avrebbe innescato una reazione a catena che si sarebbe probabilmente conclusa con lui rantolante in un angolo di letto, scosso dalle risate fino alle lacrime, e il Libanese poderosamente incazzato – come ogni volta che si sentiva ingiustamente (o anche giustamente) preso in giro – che tirava giù tutti i santi del paradiso prima di lasciarlo lì ed andare a farsi una doccia. Per scongiurare il pericolo, cercò di rimanere serio e riprese a muoversi lentamente per tutta la sua lunghezza, scivolando lungo il suo sesso con la lingua ed accogliendolo in bocca fin quasi alla base, mentre Libano sollevava una mano e la perdeva fra i suoi ricci, spingendo la sua testa contro il proprio bacino e cercando di trattenere il più possibile il lento ondeggiare dei propri fianchi.
Quando Freddo sentì quel movimento cominciare a farsi più frenetico e incontrollato, si allontanò da lui, posando un lieve bacio sulla punta della sua erezione prima di risalire con la lingua lungo il suo corpo, insinuandosi fra le sue cosce per costringerlo a dischiuderle. Libano buttò lì un mugolio che si sarebbe potuto intendere come una vaga protesta, ma il Freddo lo ignorò, premendosi contro di lui in un gesto repentino e quasi violento che ricacciò ogni indugio di Libano nel profondo recesso della sua mente dal quale era partito, ed era già entrato quasi per metà dentro al suo corpo quando qualcuno suonò al campanello.
- Che, te fermi? – chiese Libano, spalancandogli addosso gli occhi con aria sinceramente sconcertata, - E movite! – sbottò, agitandosi sotto di lui per sopperire a quell’improvvisa, glaciale immobilità.
- Hanno suonato, Libano. – gli fece presente Freddo, uscendo dal suo corpo e mettendosi a sedere sul bordo del letto. – Aspetti visite? – domandò con aria seria, e per la prima volta il Libanese sembrò mettere a fuoco il motivo della sua preoccupazione.
- No. – rispose, tornando immediatamente padrone di se stesso ed allungandosi a recuperare i jeans appallottolati ai piedi del letto, - Tira fuori i feri.
Freddo annuì, alzandosi in piedi ed infilando i pantaloni in un gesto praticamente unico, prima di fare il giro del letto e recuperare le pistole conservate nel primo cassetto del comodino. Ne passò una a Libano ed aspettò che si fosse rivestito, mentre ascoltava il campanello squillare ancora, e poi entrambi uscirono dalla camera da letto, dirigendosi di soppiatto verso la porta. Dopo aver tolto la sicura alla propria pistola, Libano si sporse in avanti per guardare dallo spioncino, e quando Freddo lo vide spalancare gli occhi e la bocca, allucinato, si preparò al peggio, ed allungò una mano verso la maniglia con l’intenzione di aprire la porta e sparare a raffica su qualsiasi essere umano stesse in attesa lì sul pianerottolo.
Fortunatamente, Libano lo vide.
- Aò! – strillò, afferrandogli la mano e tenendola ben lontana dalla porta mentre contemporaneamente rimetteva la sicura alla pistola, - È mi’ madre! Che voi fa’?
- Che?! – sbottò Freddo, sottraendosi alla sua stretta con uno strattone e guardandolo come lo vedesse per la prima volta, - Che cazzo ce sta a fa’ tu’ madre qua?
- E che cazzo ne so io? Metti via er fero, va’. – concluse, nascondendo la propria pistola dietro la schiena mentre si affrettava ad aprire. – A ma’. – biascicò quindi, nel posare gli occhi sulla signora Maria che, contegnosa, rimaneva immobile sul pianerottolo con una valigia alla propria destra ed una alla propria sinistra. – Che succede?
La signora Maria gli lanciò una lunga occhiata inquisitoria e poi fece lo stesso con Freddo. Prese nota della loro seminudità, la soppesò, cercò di capirne i motivi, li capì e mandò giù anche quella.
- M’hanno sfrattata. – rispose. Avrebbe potuto ribattere al figlio con qualcosa come “so’ io che dovrei chiederlo a te,” indicando Freddo con un cenno del capo, ma lasciò perdere. Nella posizione in cui era, non si sentiva in diritto di farlo, e lei – contrariamente al figlio – era sempre stata brava a capire quale fosse il suo posto, e a rimanerci.
Libano spalancò gli occhi.
- Hanno fatto cosa? – esalò sconvolto, scostandosi dall’uscio per farle spazio, - Vie’ dentro. T’hanno buttata fori de casa? – ribadì, ancora incredulo. Lei annuì, dirigendosi in cucina come se conoscesse la planimetria dell’appartamento a memoria, cosa assolutamente impossibile, visto che non l’aveva mai visitato prima. – Ma’? – la chiamò Libano, andandole dietro come un cagnolino mentre Freddo tirava dentro le valigie per poi rimanere sulla porta ed occuparsi di chiuderla – dopo aver lanciato un’ultima occhiata sul pianerottolo, hai visto mai che magari la vecchia mamma era solo un’esca per distrarli, d’altronde la polizia ce l’aveva per vizio di usare i familiari dei criminali per spedirli al gabbio – prima di rifugiarsi in camera da letto per recuperare il resto dei suoi vestiti e rendersi quantomeno presentabile.
- Sì, Pietro. – disse la signora Maria, lanciando occhiate penetranti alla mobilia, ai fornelli ed al frigorifero, - Ce lo sapevi che prima o poi doveva succedere.
- È per questo che t’avevo detto de anna’ a stare in un posto mio! – si agitò immediatamente Libano, gesticolando isterico, - Ma io je faccio er culo a ‘sto bel tipo che t’ha buttata fori. Ma vedi se ‘n morto de fame qualunque se può permette’ di butta’ fori mi’ madre, ma vedi te.
- Statte bono, Pie’. – lo redarguì immediatamente lei, aggrottando le sopracciglia facendosi immediatamente rigida come un pezzo di marmo, ed ugualmente espressiva. – Quello che t’ho detto mesi fa nun cambia mica mo’. Non ce voglio anna’ a sta’ in una casa che chissà come l’hai pagata. Già venire qui… - si interruppe per qualche secondo, come cercando dentro di sé la forza per proseguire, - Già venire qui è stato abbastanza umiliante.
Libano la guardò con sgomento, sinceramente ferito, mentre Freddo, ormai completamente rivestito, si affacciava alla porta e stabiliva di restarsene lì sulla soglia, senza invadere troppo lo spazio, quasi appiattendosi contro la parete.
- Ma che stai a di’, ma’. – balbettò incerto, cercando di avvicinarsi a lei senza che lei mostrasse neanche la più pallida intenzione a sciogliersi un po’, - Che nun ce lo sai che casa mia è casa tua? Anzi, sai che famo, c’è ‘na bella casetta che ho comprato da mo’, nun ce sta nessuno dentro, è tutta ristrutturata, ‘n ce metto gnente a fa’ porta’ le tu’ cose là. Si voi—
- No. – lo interruppe lei, continuando a guardarlo con severa freddezza, - Non le voglio le case tue. O li sordi tuoi. – sospirò pesantemente, passandosi una mano sulla fronte. – Me serve solo che me fai sta’ ‘n po’ qui. Il tempo che m’organizzo, me cerco ‘na casa nuova. E poi nun me vedi più.
- Ma’. – cercò di insistere Libano, la voce quasi rotta da un singhiozzo, - Spe’ ‘n attimo. Parliamone.
- Non c’è niente da di’, Pietro. – disse lei, e per la prima volta da quando era arrivata gli rivolse un sorriso dolce, caldo. Materno. – Godemoseli, ‘sti giorni. Famo finta che te sei ‘na persona normale e che io so’ tu’ madre in vacanza da te pe’ ‘n po’. Va bene? – concluse, allungando una mano ad accarezzargli il profilo el viso, reso ruvido dalla barba.
Libano chiuse gli occhi e posò una mano sulla sua, stringendo dolcemente fra le proprie quelle dita pallide e sottili che l’avevano cresciuto.
- Va bene, ma’. – annuì alla fine. La lasciò andare subito dopo, abbandonando la cucina in gran fretta. Freddo, turbato da quello che aveva visto, ci mise un po’ a riscuotersi, ma quando ci riuscì si scusò con la signora e si affrettò a seguirlo in camera.
Lo trovò seduto sul letto, pensieroso come ogni volta che imprevisti di varia natura si presentavano sulla sua strada e lui si metteva a ragionare su come risolvere i problemi perché, finché questi non erano stati risolti, non riusciva a pensare a nient’altro.
- Mbe’? – gli chiese, sedendosi al suo fianco. Il Libanese gli sollevò addosso un paio d’occhi così spaesati da far pensare che non avesse neanche idea di dove si trovasse, in quel preciso istante.
- Mbe’ cosa? – chiese di rimando, e Freddo indicò la porta chiusa con il pollice.
- Mbe’ tu’ madre. – preciso, - Che famo?
Libano scrollò le spalle, tornando ad abbassare lo sguardo.
- Che dovemo fa’. – sbuffò, - Resta qua, almeno pe’ quarche giorno. Poi se vede.
Freddò inarcò un sopracciglio, incrociando le braccia sul petto.
- E ‘ndo la mettemo? Nun c’è mica ‘na stanza pe’ l’ospiti. – gli fece notare. Libano tornò a guardarlo, gli occhi pieni di incerta paura. Freddo seppe cosa stava per dirgli prima ancora che riuscisse a capirlo lui stesso. – Nun ce prova’. – disse infatti, ma Libano grugnì indispettito, fissandolo con astio.
- Nun c’è altro posto che ‘sta stanza, Fre’! – cercò di farlo ragionare, - Nun posso mica metterla sur divano!
- La poi manna’ da quarche altra parte! – sbottò lui, alzandosi in piedi e cominciando a camminare nervosamente attorno al letto, - O me ne posso anna’ io.
- Nun di’ cazzate, mo’. – borbottò immediatamente Libano, alzandosi in piedi per andargli dietro, - Sei ancora ferito. Te de qua nun esci, finché nun stai a posto.
- Sto a posto. – sbottò lui, quasi offeso, - È ‘n graffio, e te sei paranoico. Nun te capisco proprio, guardi ‘n faccia i feri che ti puntano contro come se so’ giocattoli, ma basta che me pigliano de striscio su ‘na spalla e fai er matto.
- Nun rompe’ li coglioni, Fre’. – tagliò corto Libano, afferrandolo per la spalla sana e costringendolo a voltarsi per guardarlo negli occhi, - Te resti qua. E pure mi’ madre.
- Bene! – strillò Freddo, spintonandolo violentemente, - Te dormi sul divano e io me metto in poltrona, me pare giusto, così ‘a signora può sta’ comoda ner letto.
- Nun parla’ così de mi’ madre, Fre’. – lo minacciò il Libanese, puntandogli un dito contro il naso e guardandolo storto. Freddo resistette a stento all’istinto di staccarglielo via dalla mano con un morso.
- Levame quel dito da davanti all’occhi. – ringhiò risentito, - E manda tu’ madre in un altro appartamento.
- Nun ce vole anna’. – rispose lui, abbassando la mano, - Senti, la cosa co’ mi’ madre è complicata, ma è così. E te muto, che nun me ne frega ‘n cazzo de quello che pensi. Te resti. Mi’ madre pure. – sospirò profondamente, cercando di calmarsi. – E poi che può succedere? È roba de ‘n par de giorni, al massimo. Porta pazienza.
Freddo sospirò a propria volta, rilassando le spalle e scuotendo lentamente il capo.
- A porta’ pazienza so’ bravo, a sopporta’ ‘e madri meno. – borbottò. Proprio in quel momento, dalla cucina, giunse l’urlo un po’ sguaiato della signora Maria che annunciava che la cena era pronta, calda e in tavola. Freddo si passò una mano sugli occhi e pensò di fuggire durante la notte. Libano sorrise.
- Te nun le hai mai assaggiate ‘e tagliatelle de mi’ madre, ve’? – domandò divertito, - Va’ che domani je chiedo se ce ‘e fa.
*
La cena si svolse nel più perfetto silenzio. Più che una madre in visita al figlio, la signora Maria sembrava una cuoca a disagio perché il padrone di casa, senza nessun motivo, aveva deciso di trattenerla per la cena, costringendola a sedersi con gli altri invitati ed a subire discorsi complessi e profondi di cui non capiva un accidenti. Nessun discorso complesso e profondo stava naturalmente avendo luogo, dal momento che Freddo per lo più non parlava e Libano, invece, non faceva che porre domande stupide tipo come t’a passi, ma’? – come voleva che se la passasse una donna appena sfrattata? – alle quali logicamente sua madre si rifiutava di rispondere.
Dopo aver mandato giù l’ultimo boccone di carne, fu la signora Maria stessa ad alzarsi per prima.
- Io me ne vado a letto. – annunciò con tono grave, dando per scontato di poter passare la notte in camera. Era così, naturalmente, ma Freddo avrebbe apprezzato di più se lei avesse chiesto il permesso di farlo. Fosse stata sua madre, l’avrebbe rimproverata per tutta quella sfacciataggine, ma era la madre del Libanese, e pertanto, se aveva capito bene come girava, era meglio stare zitti e tenersene alla larga, attività nella quale era praticamente un maestro.
Cercò di tenersi alla larga anche dal Libanese stesso, una volta che furono rimasti soli. La scoperta del divano-letto in soggiorno rese vagamente più leggero il suo animo, al punto da poter dire di non essere più così furiosamente arrabbiato con lui, ma comunque la presenza della signora Maria a non più di qualche metro di distanza lo inibiva a sufficienza anche senza bisogno di aggiungere il carico da undici della possibilità di ritrovarsi a scopare su un letto cigolante e con un Libanese al quale l’idea di stare zitto, mentre faceva sesso, non era mai andata giù.
Libano non fu, comunque, del suo stesso avviso. Non appena ebbero spento le luci e si furono infilati fra le coperte, sentì immediatamente le sue mani farsi strada sotto le lenzuola e fino al suo corpo, sulla sua pelle un po’ accaldata e resa ipersensibile dall’ansia e dal nervosismo.
- A Libano, - sbottò, cercando di allontanarsi da lui strisciando sul materasso verso il bordo del letto, - nun me pare ‘na grande idea.
- Mi’ madre c’ha er sonno pesante. – lo rassicurò lui, strisciandogli dietro fino a raggiungerlo, - E noi me pare che c’avemo ‘n discorso in sospeso.
- Quanno se ne va tu’ madre. – insistette Freddo, piantandogli entrambe le mani sul petto per spingerlo via. Libano oppose a quella spinta tutta la propria forza, schiacciandoglisi addosso fino a farsi sentire caldo e teso di voglia contro una sua coscia.
- Nun me vorrai mica fa’ aspetta’ così tanto. – sorrise Libano, scivolando lungo il suo collo con le labbra dischiuse, mordicchiando la sua pelle mentre gli accarezzava i fianchi e prendeva a muoversi contro di lui con lenta disinvoltura.
- Libano… - protestò Freddo, ma i suoi occhi chiusi, il capo inclinato, e le mani ancora poggiate sul petto del Libanese in una spinta ormai ridotta a carezza rassegnata parlavano molto più chiaramente della sua voce, e dicevano tutt’altro. La loro risposta piacque al Libanese più di quanto non gli fosse piaciuta l’altra, e lui decise perciò di accettarla come l’unica vaga mentre trascinava nuovamente Freddo verso il centro del letto e poi si sistemava sopra di lui, strusciando il proprio bacino contro il suo mentre insinuava senza la minima grazia un ginocchio fra le sue cosce, obbligandolo a dischiuderle.
- E ‘nnamo, Fre’… - implorò a bassa voce, unico uomo in grado di far sembrare un ordine ciò che in bocca a chiunque altro sarebbe suonato come una supplica. Non aveva alcun bisogno di chiedere, comunque, perché mentre le sue parole si infrangevano contro la pelle del collo di Freddo, sospinte dal suo respiro bollente ed erratico, lui l’aveva già accolto fra le proprie gambe, prendendo a muoversi lentamente sotto di lui per andare incontro alle sue spinte, riempiendo l’aria della stanza di ansiti incontrollati e ardenti, che scivolavano lungo le schiene di entrambi come fuoco liquido.
La luce si accese così all’improvviso che Freddo quasi si soffocò col proprio stesso cuore, sfuggito dal petto e risalito fino alla gola probabilmente alla ricerca di una via di fuga dal suo corpo. Scalciò il Libanese lontano da sé con una furia mai vista, tanto che quello dovette aggrapparsi al bracciolo del divano pur di non cascare sul pavimento trascinando con sé buona parte delle lenzuola ormai strappate dagli angoli a causa di tutto quel movimento.
- Disturbo? – chiese la signora Maria, apparendo da dietro lo schienale e guardandoli entrambi dall’alto come un avvoltoio pronto a scendere in picchiata per nutrirsi della carcassa di un qualche povero animale ucciso dall’afa del deserto.
- Ma’! – esclamò il Libanese, gli occhi spalancati, mentre Freddo afferrava le lenzuola e si copriva fin sotto al mento, - Che ce stai a fa’ qua?
- Nun me riesce de prende’ sonno. – spiegò la donna, scrollando le spalle, - A quest’ora fanno ‘e repliche de quella soap opera che me piace tanto. Oggi, co’ tutto quello che è successo, me la so’ persa. Che ve dispiace se me metto qua a guardare ‘a televisione finché nun m’addormento? – chiese, senza aspettare la risposta per prendere posto sulla poltrona tirando fuori da chissà dove un paio di ferri da uncinetto e un abbozzo di qualcosa che avrebbe potuto essere una sciarpa o un maglione e probabilmente non sarebbe mai diventato nessuna delle due cose.
Freddo si voltò a guardare il Libanese e lo implorò silenziosamente di fare qualcosa, ma lui non riuscì a fare altro che abbassare lo sguardo, in imbarazzo.
- E certo… - rispose, - Che problema c’è. – sospirò, mettendosi seduto ed allungandosi a recuperare il telecomando dal tavolino per accendere la tv.
Freddo sbuffò, si distese, si voltò su un fianco e cercò di dormire. Quando non ci riuscì, si alzò, andò in cucina, recuperò un paio di birre e poi tornò in salotto. A guardare la televisione, con Libano e sua madre.
*
Quando si svegliò, l’indomani mattina, la casa era invasa dal profumo della torta alle mele. L’ultima volta che si era svegliato con un profumo simile nelle narici era ancora un bambino, non aveva più di dieci anni, Gigio era un pupazzo rotondo col quale giocare dalla mattina alla sera e suo padre gli sembrava ancora l’essere umano più meraviglioso esistente sulla faccia della terra. Aprire gli occhi sul soffitto giallino del salotto di Libano, ancora rintontito da quell’odore, fu come continuare a sognare da sveglio. Mise i piedi per terra, si alzò in piedi, entrò in cucina e rimase per un paio di minuti buoni a fissare la signora Maria che maneggiava l’impasto per le tagliatelle, chiedendosi se fosse reale o se fosse solo frutto della sua immaginazione.
- Che c’hai da guarda’? – gli chiese lei ad un certo punto, seccata da quelle occhiate così insistenti, senza mai sollevare lo sguardo dal suo prezioso impasto, - Nun voi fa’ colazione?
- …sì, grazie. – rispose lui, annuendo vagamente e prendendo posto davanti all’unica porzione di tavolo non invasa dalla farina. C’erano già un piatto con una fetta di torta ed una tazzina fumante colma di caffè, davanti a lui.
- Come t’o sei fatto quello? – chiese la signora Maria. Non ebbe bisogno di guardarlo per fargli capire che si stava riferendo alla ferita sul braccio.
- Un incidente sul lavoro. – rispose lui, colto alla sprovvista da quella domanda. Lei gli sollevò addosso un’occhiata pesante ed ironica, inarcando un sopracciglio.
- Seh, lavoro. – commentò, e Freddo si morse un labbro. Era con la madre del Libanese che stava parlando, non c’era la minima possibilità che non fosse a conoscenza della vera attività del figlio, o che quantomeno non sospettasse qualcosa. – E te e mi’ fijo come ve siete conosciuti?
Freddo si schiarì la voce, allungando la mano a recuperare la fetta di torta e staccandone un generoso morso, trattenendosi a stento dal mugolare di piacere quando quella quasi gli si disciolse sulla lingua, tanto era morbida e dolce.
- Semo colleghi. – buttò lì, proseguendo con la metafora del lavoro e sperando che la signora Maria capisse e si risparmiasse le battute sarcastiche.
- L’avevo immaginato. – annuì lei, recuperando il mattarello per cominciare a schiacciare l’impasto. Freddo mandò giù un altro morso di torta. – E com’è che poi siete finiti a letto ‘nsieme? – domandò quindi la signora Maria, senza peli sulla lingua, e con quel pezzo di torta Freddo quasi ci si soffocò.
- Cosa…? – riuscì a biascicare fra un accesso di tosse e l’altro. La signora Maria smise di schiacciare l’impasto e si sedette, voltandosi a guardarlo con estrema severità.
- Com’è che siete finiti a letto ‘nsieme? – ribadì, - Nun so’ mica scema. Ce lo so cosa facevate ieri sera, quanno so’ venuta in salotto. E ce lo so cosa facevate pure quanno so’ arrivata. Mi’ fijo nun era mica come te, prima.
- Ferma ‘n attimo! – sbottò Freddo, mettendo via la torta e mandando giù il caffè in un unico sorso come per convincersi definitivamente che tutto ciò che stava accadendo stava accadendo davvero, - Ferma solo ‘n secondo, che vor di’ che su’ fijo nun era come me?!
- Che nun je piaceva de anda’ a letto coi maschi. – rispose la signora Maria, aggrottando le sopracciglia, - Che te serve che t’o scrivo?
Freddo scattò in piedi, allucinato.
- Signo’, io porto rispetto, ma si lei nun la finisce mo’ nun lo so se su’ fijo la ritrova, quanno torna a casa. – la minacciò, stringendo i pugni lungo i fianchi. Lei spalancò gli occhi, alzandosi in piedi a propria volta, oltraggiata.
- Ma come te permetti?! – scattò, stampandogli cinque dita contro una guancia e poi portando quella stessa mano al petto con aria melodrammatica, mentre Freddo spalancava gli occhi e la fissava sbigottito, - Che voi nega’ che te e mi’ fijo state ‘nsieme?
- No, signo’, - ringhiò lui, avanzando pericolosamente, - ma magari ero io che nun ero così prima de sta’ co’ su’ fijo, che dice? O magari non era così nessuno dei due ed è solo successo, no?
- Ma che stai a di’! – sbuffò lei, tirandogli un altro ceffone e poi tornando a rintanarsi dietro quell’aria da vergine pia, come se i ceffoni li tirasse per bontà d’animo, - Ce lo sanno tutti che quelli come voi portano l’altri sulla cattiva strada!
- Signo’, su’ fijo sulla cattiva strada ce stava già da mo’! – strillò lui, esasperato, - E mo’, si permette, prima de cavalle l’occhi co’ le mani mie, me ne vado! Mi stia bene e mi saluti Libano, je dica pure che mo’ nun se deve più preoccupa’ de che strada pija! – concluse, voltandosi per imboccare il corridoio ed andarsene. Libano, rientrato chissà da quanto, era lì sulla soglia della cucina, e li guardava entrambi, sconvolto.
- Ma che cazzo c’è? – esalò, le braccia inermi lungo i fianchi, - Che ve siete ‘mpazziti?
- Proprio a te cercavo! – sbottò Freddo, puntandogli un dito contro il petto, - Tu’ madre—
- Ce lo so che t’ha detto. – lo interruppe Libano, continuando a fissarlo con quell’aria sconvolta, gli occhi enormi che, sul viso pallido, sembravano perfino più grandi, - Sto’ a di’ solo che—
- A me nun frega un cazzo de quello che stai a di’! – strepitò istericamente Freddo, agitando le braccia e spintonandolo a caso, sfogando su di lui quello che non aveva potuto sfogare per rispetto dell’età sulla signora Maria, - Io so solo che o se ne va lei, o me ne vado io. – stabilì. Spintonato un’ultima volta, Libano andò a sbattere contro la parete, e oltre quella non poté più muoversi.
Spostò lo sguardo su sua madre che, gli occhi pieni di lacrime e le braccia sporche di farina fino ai gomiti, restava in un angolo della cucina come fosse assolutamente estranea a tutto quel casino. Poi prese un profondissimo sospiro, e si rassegnò.
- A ma’, - disse, - te devo parla’.
La signora Maria impallidì.
*
- Ed è quindi per questo motivo che siete venuti qui a Forum? – chiese la conduttrice bionda e un po’ cicciotta da dietro gli spessi occhiali rettangolari che indossava, riservando uno sguardo di tenera compassione per la signora Maria e regalandone uno aspro e severo a Libano, rannicchiato sulla poltroncina proprio accanto a quella di sua madre. – Suvvia, signor Proietti, sua madre s’è presa cura di lei per tutta la sua vita, si tratta solo di portare pazienza per qualche giorno, poi andrà via.
- Ma si je posso trova’ ‘na casa tutta sua, perché nun ce vole anna’ a sta’?! – insistette il Libanese, gesticolando animatamente e rivolgendosi al pubblico per un po’ di comprensione mentre sua madre, silenziosa, faceva la parte della genitrice sofferente e tradita.
- Se posso… - disse una signora la cui pelle verteva su una tonalità di arancione completamente innaturale e probabilmente modificato in laboratorio, - Questa situazione rispecchia in pieno la nostra società di oggi, dove figli ingrati preferirebbero lasciare le loro stesse madri a vivere sotto un ponte pur di non vedere intaccata la loro normalità quotidiana, e il fatto che lei viva con un uomo, signor Proietti, non è una giustificazione sufficiente per mostrarsi così ingrato nei confronti di chi, per lei, quando era ancora un bambino indifeso, ha fatto così tanto!
Libano smise di ascoltarla, incassando la testa nelle spalle e fissando con aria omicida un punto a caso nel vuoto, ingrugnito come non mai, fino a quando la conduttrice bionda non annunciò l’inizio della pubblicità. Solo allora, resistendo con sforzi sovraumani all’impulso di fiondarsi contro la donna arancione per decapitarla a mani nude approfittando dello stacco pubblicitario, si alzò in piedi e si concesse una passeggiatina dietro le quinte per sgranchirsi le gambe.
Freddo gli venne incontro quasi subito.
- Fre’! – lo chiamò sorridendo, genuinamente felice di vederlo, - Nun sapevo che volevi veni’ pure te.
- So’ venuto solo pe’ ditte che sei matto come un cavallo. – ribatté lui, fissandolo con tanto di quello sgomento da sembrare sotto l’effetto di qualche droga, - Tu’ madre ti convoca a Forum e tu ce vai? Ma te stai de fori! Basta, io chiudo. Parto, e te dico addio.
- Che?! – trasalì Libano, correndogli dietro quando lui si voltò e ricominciò a camminare per i corridoi degli studi, - Freddo! A Fre’! È mi’ madre, nun je potevo certo di’ de no!
- E no, certo! E chi t’o chiede! So’ io che dico no, e t’o dico adesso, bello chiaro e tondo: te nun me rivedi più, Libano! E tante care cose!
- Ma no, ma aspetta! – cercò di fermarlo lui, poggiandogli una mano sulla spalla. Freddo se ne liberò con uno strattone.
- Trenta secondi e si va in onda! – disse un assistente, passandogli velocemente accanto, e Libano sospirò pesantemente. Ci sarebbe stata un’occasione, nelle prossime ore, per corrergli dietro e riportarlo a più miti consigli. Ora doveva risolvere la questione con sua madre.
Mogio mogio, ritornò sui suoi passi, e tornò a sedersi alla poltroncina. Per tutto il tempo (anche quando il giudice, rientrando, gli faceva presente che la legge prevedeva per i figli l’obbligo di accudire i genitori al massimo delle loro possibilità, e che quindi, se la signora desiderava vivere in casa con lui, lui non poteva fare altro che accoglierla), non fece che fissare la signora arancione, desiderando di farla fuori nei modi più assurdi. Naturalmente, non riuscì ad attuarne neanche uno. Non per altro, solo che c’era il serio rischio che fosse radioattiva, o comunque tossica. Meglio starne alla larga.
*
- Scialoja! – lo chiamò Rizzo, entrando nel suo ufficio con uno stupido sorriso sulla faccia, - Mi sa che ti conviene mandare una lettera di congratulazioni a quelli di Forum, visto che sono riusciti a fare quello che tu in anni e anni non sei ancora riuscito a fare!
- Che…? – biascicò Scialoja, sollevando il naso dagli incartamenti che stava visionando e cercando a tentoni la caraffa piena di caffè per versarsene un po’ nel bicchierino di plastica che continuava a riempire al ritmo di una volta ogni quarto d’ora da quando era arrivato in commissariato quella mattina alle otto, - Rizzo, ma di che cavolo stai parlando?
- Ah, non hai saputo la bella novità? – continuò quello, sghignazzando divertito ed afferrando il telecomando immobile sulla scrivania di Canton – che lo squadrò con aria infastidita ma non osò dire altro – per accendere il televisore sistemato sul mobiletto ad angolo sul lato opposto della stanza. – Guarda qua, allora!
Sullo schermo apparve l’immagine del Libanese, intento a difendersi sul banco degli imputati di Forum, arringando le folle e rivolgendo loro ampi gesti ecumenici mentre spiegava per quale motivo non poteva ospitare in casa la propria madre, che nel frattempo restava in un angolo, pallida come un cencio e costantemente impegnata ad asciugarsi le lacrime con un fazzoletto di stoffa vecchio e logoro.
- Ma cosa…? – biascicò allucinato. Rizzo rise, posando il telecomando ed avviandosi verso il corridoio, tronfio e soddisfatto del proprio operato.
- Meraviglioso, no? Così adesso puoi tornare all’anagrafe, che è il posto che ti spetta di diritto. – considerò fra una risata e l’altra, sparendo in corridoio.
Canton fece fatica a richiudere la bocca, spalancata da parecchi secondi in segno di sorpresa. Si voltò verso Scialoja, notando che, pietrificato dallo sconforto, stava continuando a versare il caffè, che, ormai esondato dalla tazzina, stava provvedendo ad allargarsi in una macchia scura sulla scrivania per poi gocciolare sul pavimento.
- Commissario Scialoja…? – cercò di riscuoterlo, e Scialoja si voltò a guardarlo con gli occhi colmi di una tale sfiducia nel mondo che avrebbero commosso un sasso.
- Commissario Scialoja un cavolo, Canton. – disse alzandosi in piedi e recuperando il proprio cappotto, - Io do le dimissioni.
Fu l’ultima volta che lo vide.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Angst, Death, Spoiler per tutta la s1 e i primi due episodi della s2.
- "Che nun le voi ‘e porpette?"
Note: Niente, in realtà non ho proprio niente da dire, su questa storia, a parte il fatto che l'ho plottata e cominciata mentre ero lontana da casa, seduta su un letto non mio, e che quando l'ho cominciata accanto a me c'era la Tab, e che per questo motivo ho cercato di finirla in tempo per il suo compleanno, così da potergliela regalare. Lo so che non è un granché, più che altro è molto randomica, e poi - oh, mio Dio! - non è nemmeno slash, in realtà non è proprio un bel niente, ma mi sembrava un pensiero con un certo senso. Credo. Poi boh. XD Auguri, principessa.
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IN COMODATO D’USO

La macchina la riconosce subito, e non potrebbe essere altrimenti. Ricorda perfettamente quando ci ha messo le mani sopra la prima volta, quanto il ragazzino che la guidava gli sembrasse ridicolo e triste. Ricorda di aver guardato la vettura e di essersi chiaramente soffermato sul pensiero della sua evidente inutilità: chiunque altro, nella sua situazione, avrebbe tirato al Sorcio uno scapaccione in mezzo alla fronte e l’avrebbe rimandato a casa con la coda fra le gambe, ma a lui in qualche modo aveva fatto pietà. Sapeva dove sarebbero finiti i soldi di quella vendita: una siringa, una dose, un breve viaggio in paradiso prima di tornare sulla terra troppo velocemente per potersi fermare e poter evitare l’impatto. Uno schianto di quelli belli forti.
Ma Freddo quei soldi glieli aveva dati, nonostante Fierolocchio l’avesse preso da parte apposta per chiedergli se si fosse ammattito del tutto. “È uno scassone, Fre’,” gli aveva detto Fiero, guardandolo stupito, “nun ce li vale mica li sordi che je stai dando.” Ma Freddo sapeva che non era per la macchina che stava pagando. Non era quello lo scassone per il quale stava tirando fuori i soldi, no. Era per il Sorcio. Scassone uguale, neanche maggiorenne e già da rottamare. Ma ancora vivo. Meritava una possibilità, e magari con quei soldi invece di una pera ci si sarebbe comprato un bel caffè per svegliarsi e un paio di vestiti nuovi con cui presentarsi ad un colloquio di lavoro.
Il Sorcio poi coi suoi soldi ci si era fatto una pera, Freddo lo sapeva. Non la prima forse, ma una delle prime di tante. Una delle prime di troppe. Una delle prime di quelle che, una dopo l’altra, avrebbero lastricato la sua strada fino a portarlo dritto dritto fra le braccia di Scialoja, a sputtanare tutti quanti per paura, delusione e rabbia. Ma questo, ancora, in questo momento, Freddo non lo sa. In quel momento, tutto ciò che vede è la Mini di Libano, distrutta e sul fondo di un burrone.
È stato da Dandi, stamattina, e c’è andato apposta per chiedergli se fosse riuscito a recuperarla. “Sì,” gli ha detto lui, “quello stronzo de Priuetti padre ha fatto ‘n po’ de storie, ma ha mollato l’osso appena gli ho fatto ‘n po’ de paura.”
“E ‘ndo sta mo’ la Mini?” gli ha chiesto lui, e Dandi l’ha guardato con tanto d’occhi.
“Perché lo voi sape’?” ha domandato, inarcando un sopracciglio. Freddo s’è stretto nelle spalle.
“L’ho pagata,” ha risposto, “è mia.”
Dandi ci ha messo un po’ a fare mente locale, ma quando è riuscito s’è messo a ridere di gusto.
“E vor di’ che te devo ‘n centone, Fre’. La macchina nun ce sta più.”
Ed eccola lì, infatti, che non ci sta più. Freddo sa che, una decina di anni fa, quando il Terribile l’ha comprata, quella macchina doveva essere bella un sacco. All’ultima moda, compatta, elegante. Quando lui l’ha comprata dal Sorcio, era già vecchia e mezza scassata, ma adesso, semplicemente, non è più niente. Di ciò che era non resta che un mucchio di lamiere contorte e annerite dal fuoco ormai spento che le ha avvolte per ore in seguito alla caduta nel burrone.
Si avvicina circospetto: il fuoco e il calore si sono ormai estinti, ma la puzza di pelle e plastica bruciate è ancora forte nell’aria. Si sentiva già prima che lo scheletro bruciacchiato della vettura si mostrasse ai suoi occhi, smettendo di giocare a nascondino fra i radi cespugli che spuntano a ciuffi fra i sassi ricoperti di polvere e terriccio giallastro, ed è molto più intensa adesso che il cadavere della Mini è così vicino.
Freddo vorrebbe accarezzare ciò che resta della carrozzeria carbonizzata, ma non riesce – vede ancora troppo chiaramente un se stesso molto più giovane e spensierato allungare una mano e saggiare in punta di dita le imperfezioni della vernice scura sulle portiere e sui fianchi della macchina – perciò si limita ad accucciarsi accanto alla carcassa e scrutarla da vicino, ed è allora che lo vede.
Non ne resta molto – la fodera interna è andata, per esempio – ma qualcosa c’è ancora. Un pezzetto di una manica, brandelli del bavero, la zip quasi del tutto annerita. È la giacca di pelle del Libano. È assurdo che sia qui, ma c’è. E non è neanche una delle ultime che aveva comprato prima di morire, no, è quella che aveva addosso quando s’è introdotto nel suo garage a ferri spianati per riprendersi le armi che aveva comprato dal Terribile, è quella che aveva su durante il rapimento del barone Rosellini, ed è anche quella che indossava quella notte, la notte in cui il Freddo s’è presentato a casa sua per ridargli la macchina e l’ha trovato sulla porta, pronto a uscire, con sua madre alla spalle che urlava “ma ‘ndo vai? Che nun le voi ‘e porpette?”
*
- Che nun le voi ‘e porpette? – strilla la signora Maria, affacciandosi in corridoio dalla cucina. Ha i capelli scarmigliati ed il grembiule sporco di sugo, ma è una bella donna, dal volto giovanile, e queste imperfezioni, così come le piccole rughe che ridisegnano senza pietà il contorno del suoi occhi e della sua bocca, non fanno che renderla più interessante. È incredibile quanto somigli al Libanese. – Va’ che so’ bone, eh.
Libano ha una mano sullo stipite della porta e l’altra stretta a pugno attorno alla maniglia, e lo guarda. La sua espressione è così infantilmente stupita da fare quasi ridere.
- Che ce stai a fa’ qua? – chiede con un filo di voce. Freddo non fa in tempo a rispondergli, perché la signora lo nota e, asciugandosi le mani sul grembiule, esce in corridoio, guardandolo fisso.
- È ‘n amico tuo, Pie’? – domanda. Libano deglutisce, incapace di staccargli gli occhi di dosso, come non riuscisse a capacitarsi della sua presenza.
- Sì. – risponde alla fine, annuendo lentamente.
- Che resta a cena? – insiste la signora Maria, e Libano sembra riscuotersi dal proprio torpore tutto all’improvviso.
- Che? – scatta, la voce resa stridula dalla sorpresa e dall’agitazione, - No!
- E invece sì. – stabilisce perentoria la donna, allungandosi ad afferrare il figlio per un braccio sia per trattenerlo in casa che per scostarlo dall’uscio. – Vie’ dentro, - sorride, rivolgendosi al Freddo con aria divertita, - nun me capita spesso de incontra’ l’amici di Pietro. Com’è che ve siete conosciuti?
- Lavoriamo insieme, ma’. – cerca di tagliare corto Libano, roteando gli occhi, annoiato. – E ‘nfatti mo’ ce lasci anna’.
- Seh, lavorare, te? E quando mai? – ride amaramente la signora, spingendoli entrambi verso la cucina, - Assaggiate qualcosa, prima, che è già pronto in tavola. Com’è che te chiami, te?
- Fabrizio. – risponde immediatamente lui, teso come non gli è mai capitato di essere, neanche durante un interrogatorio. Ed ha solo dovuto dirle il proprio nome.
- Fabrizio. – annuisce lei, indicandogli la sedia ed invitandolo a prendere posto. Freddo lancia un’occhiata a Libano e lui la ricambia con sincero sconcerto, ma si stringe nelle spalle e poi, con l’aria di uno che non sa cos’altro fare, si siede. Freddo decide di imitarlo, accomodandosi a propria volta. – E te che fai nella vita? – chiede la signora Maria, servendo le polpette. Freddo si schiarisce la voce, imbarazzato, e Libano si passa una mano sul viso, evidentemente terrorizzato.
- Palazzinaro. – inventa. Libano lo guarda e Freddo gli legge negli occhi che vorrebbe scoppiare a ridere, ma fortunatamente non lo fa.
- Ah. – annuisce la signora Maria, servendogli un’abbondante mestolata di polpette al sugo, che si trasforma immediatamente in due mestolate di polpette al sugo, motivate probabilmente dal compiacimento che prova nel sentire che il figlio ha anche amici che lavorano, oltre ai tre scapestrati coi quali si ostina ad andare in giro di notte, - E senti, nun me lo poi trova’ ‘n lavoro pure a mi’ fijo? – domanda con una mezza risata, passando a riempire il piatto di Libano.
- T’ho detto che ce lavoramo già insieme! – insiste lui, visibilmente accigliato. La signora Maria sospira ancora, sollevando gli occhi al cielo in un’implorazione silenziosa.
- Pie’, te il lavoro nun sai manco ‘ndo sta de casa. – conclude, scuotendo solennemente il capo. Il Libanese posa la forchetta sul tavolo in un gesto secco e rumoroso. Mentre la porcellana del piatto contro il quale ha sbattuto ancora tintinna, scampanellando come le campane la domenica, lui si alza. Freddo non ha ancora toccato le sue polpette.
- ‘Nnamo, va’. – dice burbero, ignorando le proteste di sua madre e dirigendosi speditamente verso la porta. Non si guarda mai indietro, dà per scontato che Freddo lo stia seguendo, e in effetti, dopo essersi alzato a propria volta in piedi ed essersi scusato sommariamente con sua madre, Freddo lo segue.
- Nun lo sapevo mica che stavi ancora co’ tu madre. – dice dopo un po’. Stanno scendendo lungo la tromba delle scale, sono ormai arrivati al primo piano. Libano non aspetta di essere al piano terra per girarsi ed inchiodarlo contro la parete lì dove si trova, un braccio a schiacciargli il collo e l’altro a bloccare il suo quando, nel tentativo di difendersi, corre ad afferrare la pistola incastrata fra la schiena e i pantaloni.
- E allora come cazzo facevi a sape’ ‘ndo stavo? – chiede in un ringhio furioso, premendosi contro di lui per impedirgli di reagire e liberarsi dalla sua stretta, - Che cazzo de intenzioni hai, Soleri?
- T’ho detto… - ansima Freddo, cercando di scalciarlo lontano senza riuscirci, - T’ho detto che Soleri me ce chiamano solo ‘e guardie.
- E fra poco ‘n te ce chiamerà più nessuno si nun me dici che cazzo sei venuto a fa’ ‘n casa de mi’ madre. – insiste Libano, facendo scivolare una mano attorno alla sua vita e recuperando la sua pistola, prima di puntargliela dritta sullo stomaco, da sotto la maglietta. Nel sentire il metallo ghiacciato della canna contro il ventre, Freddo si riscuote all’improvviso, e con un colpo di reni più potente degli altri riesce a spingere lontano da sé il Libanese, aggrappandosi al corrimano per non cascare giù per terra mentre, indebolito dalla prolungata mancanza di ossigeno, cerca di riprendere fiato, ed osservandolo mentre anche lui recupera l’equilibrio, puntandogli sempre addosso la pistola.
- Calmati. – gli dice, - Nun so’ qui pe’ fa’ der male a tu’ madre. E quanto all’indirizzo tuo, l’ho trovato da me. C’avevo da parlatte.
Libano aggrotta le sopracciglia, scrutandolo incerto.
- E dimme. – lo invita con una scrollata di spalle.
- Metti via er fero. – ribatte Freddo con un mezzo sorriso, - E poi vie’ fori, che più che ditte ‘na cosa te la devo da’.
Il Libanese non sembra molto convinto dalle sue parole, ma mette via la pistola – naturalmente senza restituirgliela – e scende a piano terra, per poi uscire sul piazzale pieno di macchine parcheggiate proprio davanti casa. Fra le tante, c’è anche la sua.
- Nun te l’eri riportata al garage? – chiede, un mezzo sorriso ancora un po’ spaesato che nasce sulle labbra. Freddo scrolla le spalle, osservandolo mentre si avvicina alla vettura e ne accarezza le linee morbide con la stessa dolcezza con cui, suppone, accarezzerebbe i fianchi di una ragazza.
- Ho pensato che era meglio se la tenevi te. – risponde, avvicinandoglisi un passo dopo l’altro.
- E perché? – chiede ancora Libano, - L’hai pagata, no?
- Me puoi rida’ li sordi. – butta lì lui, e Libano si mette a ridere di gusto.
- Manco morto. – risponde, battendogli una pacca sulla spalla. – Tie’, te ridò er fero. – concede, sfilandosi la pistola dalla cintura e passandogliela, - È tutto quello che avrai da me.
Freddo sbuffa, recuperando l’arma e nascondendola immediatamente sotto la giacca.
- Famo che t’a lascio in comodato d’uso. – propone, incrociando le braccia sul petto. Libano gli lancia un’occhiata incerta.
- Sarebbe a di’?
- Sarebbe a di’ – spiega Freddo, sorridendo appena, - che mo’ nun me la ripaghi, ma io te la lascio lo stesso. Però te, quanno nun la usi più, m’a rendi.
La perplessità sul volto del Libanese si fa perfino più profonda, mentre lui soppesa le sue parole.
- E che ce guadagni te? – domanda, - Quanno smetterò de usalla sarà ‘no scassone.
Freddo sorride ironico, inclinando appena il capo.
- E perché, mo’ che te pensi che è? – lo prende in giro, e Libano scoppia a ridere, tirandogli una spallata che quasi lo manda a sbattere contro il cofano. – E piano, che si me l’ammacchi poi so io che ce perdo!
- Sì, sì, ce perdi, ce perdi… - ride ancora il Libanese, scuotendo il capo ed asciugandosi gli occhi, - ‘Nnamo, che te porto a pija’ ‘na birra, su ‘sto comodato d’uso. – lo invita, aprendo la portiera e prendendo posto al volante.
A Freddo non ci vogliono più che un paio di secondi per imitarlo.
*
Gli ci vuole molto più tempo per smettere di piangere. È la prima volta che piange da anni, e le due gocce che ha versato di fronte alla tomba del Libanese mentre lo seppellivano, naturalmente, non contano. Non erano niente. Questo sì che è pianto. Tanto forte che gli fa male il petto, la gola, perfino tutti i lineamenti del viso, contratti nello sforzo da minuti interi. Piegato su se stesso accanto alla carcassa fumante della mini, incapace di allungare una mano fra le lamiere per recuperare la giacca del Libanese – o almeno ciò che ne resta – piange per una quantità di tempo infinita. Gli sembra di veder tramontare il sole e vederlo poi di nuovo sorgere, anche se sa che è impossibile.
Quando si rimette in piedi, probabilmente non è passata più di mezz’ora. Ma non importa. Alla fine, è solo tempo. Lui la macchina non la riavrà più indietro. E qualcuno pagherà per questo.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno (accenni di Freddo/Roberta).
Rating: PG-13
AVVISI: Gen, (accenni di) Violence, spoiler fino alla 1x11.
- In seguito ai problemi col nipote del Puma, il Libanese chiede a Freddo di portargli i registri della sua zona per controllare che sia tutto in ordine. Nonostante la manzanza di fiducia che questo rappresenta, Freddo obbedisce. Ma quando arriva trova qualcosa che non si sarebbe mai aspettato.
Note: La mia gioia nel postare questa fic (si fa per dire, visto che io non sono mai felice di postare niente... diciamo, la mia gioia nell'aver scritto questa fic) sta tutta nel fatto che pur parlando di Freddo e Libano e della loro relazione non è una slash <3 Eppure loro riescono ad essere belli comunque ;__; Cioè, non sto dicendo che sia bella la storia, dico che loro sono belli sia in una relazione di quel tipo che in una relazione che invece col sesso non ha niente a che fare XD E mi andava di provare a raccontarla. :3
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DEVOTION
take me to safety

Non riesce a muoversi. Non saprebbe dire se sia paura o solo stanchezza, forse è un misto delle due cose. Se è stanchezza, però, non è per la fatica che ha fatto nell’ultima mezz’ora, per i colpi che ha inferto con quel posacenere alle teste di entrambi i fratelli Bordini. E se ha paura non è dei cadaveri che sono rimasti per terra di fronte al bar, o del sangue che gocciola fuori dai loro crani spaccati sul pavimento, o di quello che gli è schizzato addosso, o di quell’altro che gli macchia le mani. No, la sua stanchezza e la sua paura sono mostri molto più vecchi, non hanno la sua età ma quasi, c’erano quando ha cominciato a pippare, cerano quando girava attorno al tavolo da biliardo nella stanza sul retro da Franco e parlava ad un mucchio di spiantati di quanto sarebbe stato bello pigliarsi Roma e pigliarsela adesso, prima che se la pigliasse qualcun altro, e c’erano quando s’è infilato nel Garage del Freddo, quando è andato dal Terribile a comprare tutte quelle armi e probabilmente anche prima, fin da quel giorno, quando ha portato Sara sui colli con la macchina del Terribile e poi è successo quello che è successo, forse è stato in quel momento, col braccio aperto in due e le lacrime appiccicose sulla faccia e il pianto addolorato e pieno di vergogna di Sara persa qualche metro più in là – non sarebbe più riuscito a guardarla negli occhi per anni, dopo quella volta – in quel momento, su quel prato, in mezzo al suo sangue che si allargava in una chiazza cupa sotto di lui, per la prima volta ha avuto paura, e drenato dal dolore e dalle lacrime s’è sentito stanco.
Inizialmente aveva pensato che potesse bastare una doccia e un po’ di sonno per scacciare la stanchezza. E che bastasse diventare l’uomo più temuto di Roma per scacciare la paura. Per un po’, qualche anno, aveva quasi funzionato. Ma è adesso che prova ad alzarsi dalla fottuta poltrona in cui è sprofondato da ormai più di due ore, e non ci riesce, che capisce di aver vissuto un’illusione. La paura e la stanchezza sono ancora lì. Lo sono sempre state e lo saranno sempre, perché il mostro che gli fa paura ha una faccia tanto identica alla propria che è come guardarsi allo specchio – la faccia del mostro è insanguinata esattamente come la sua in questo momento – e il mostro che lo sfianca si muove sulle sue gambe, pensa con la sua testa, uccide con le sue mani. Libano si guarda le dita e sono sporche anche loro. Le porta al viso e si sente soffocare. Schiude gli occhi sul buio della stanza e prega che qualcuno, una persona qualsiasi, apra la porta e lo veda, gli parli, gli dica qualcosa, una cosa qualsiasi. Lo aiuti.
E quando la porta si apre davvero – anche se Libano non sa quanto tempo sia passato da quando ha lanciato quell’implorazione disperata nell’eco vuoto della sua testa confusa – non lo stupisce vedere che ad aprirla è stato Freddo.
Lo osserva avanzare nella stanza con aria circospetta, chiudendosi la porta alle spalle senza voltarsi indietro. Porta una borsa con sé, ha l’aria pesante. Libano non riesce neanche a chiedergli che cosa ci sia dentro. In realtà non riesce proprio a dire niente, o a pensare a qualcosa da dire, per quello che varrebbe – molto poco, visto che è come se la lingua gli fosse diventata di pietra, tanto sembra pesante e immobile.
- Ma che cazzo è successo qua? – chiede Freddo, aggrottando le sopracciglia e avvicinandoglisi per guardarlo più da vicino, - Aò, - dice con preoccupazione evidente, spalancando gli occhi quando nota il sangue, - che sei ferito? Chi è stato? Che è successo?
- Niente. – risponde lui, in un sussurro appena udibile. Freddo gli lancia un’occhiata incerta, rimettendosi dritto.
- Chi è stato? – chiede, indicando le sue mani e il suo viso in un gesto vago. Libano deglutisce.
- Io. – risponde.
Freddo lo fissa senza capire per qualche secondo, e poi nei suoi occhi si fa strada la consapevolezza di ciò che le sue parole significano, e quando lo vede voltarsi e correre nell’altra stanza Libano ha la chiara percezione di averlo scelto in previsione di questo momento. Anni e anni prima, quando erano entrambi niente di più che ragazzini con cuori troppo grandi e cervelli troppo pieni, la prima volta che l’ha guardato negli occhi Libano ha visto uno spicchio di futuro, e in questo spicchio di futuro c’era lui che aveva bisogno del Freddo in un momento proprio identico a questo qui.
- Libano, che cazzo hai fatto? – chiede Freddo, tornando davanti a lui. Nei suoi occhi c’è sconcerto e c’è paura, ma soprattutto c’è calma e c’è razionalità. Libano si mette in piedi, barcolla un po’ e gli si aggrappa quando sente di stare per cadere. Freddo lo sorregge, poi lo costringe a guardarlo negli occhi e, quando finalmente ci riesce, non ha bisogno di sentire alcuna risposta da lui. – Resta qua. – gli dice, rimettendolo a sedere, - Ce penso io.
Libano annuisce, e quando lo vede sparire ancora oltre la porta che conduce nell’altra stanza tira su le gambe e cerca di sdraiarsi sulla poltrona il più comodamente possibile. Finisce rannicchiato su un fianco con la testa incastrata nell’angolo formato dal bracciolo e dallo schienale, le gambe raggomitolate sotto il corpo e le braccia strette attorno al busto. S’è sporcato tutti i vestiti, ma non gli importa. Freddo esce dalla stanza tutto sporco anche lui, si mette a cercare qualcosa negli scaffali di fronte a lui aprendo cassetti e stipetti alla rinfusa e si placa soltanto quando riesce a scovare due coperte di lana pesante e scura.
- Fre’… - lo chiama piano, e Freddo si mette in piedi e si volta a guardarlo, le coperte strette fra le braccia. – Io me metto un po’ giù. – gli dice, socchiudendo gli occhi. Freddo annuisce lentamente, e non dice una parola. Libano si lascia scivolare nel sonno e non sa quante ore siano passate quando sente di nuovo la voce del Freddo che lo chiama pianissimo, scuotendolo appena.
- Libano, - gli sussurra, - avanti, svegliati, mo’. Te devi da’ ‘na ripulita.
Libano apre gli occhi, sente dolore ovunque. Non ha cambiato posizione neanche una volta da quando si è addormentato. Freddo è sporco di sangue e di terra, odora di sangue e di terra, e del gelo e del buio della notte. Odora di prati lontani sotto i colli dove nessuno va mai a guardare, odora di quanto sono più luminose le stelle in campagna, perché non ci sono luci artificiali e tutto ciò che puoi vedere è tutto ciò che i tuoi occhi riescono a mostrarti, cioè molto poco. Freddo odora di posti in cui ci si può muovere senza essere riconosciuti. Posti lontani, posti che non sembrano nemmeno Roma. Per un secondo, Libano si pente di non averlo accompagnato. Non perché avrebbe voluto dargli una mano, quanto più per illudersi per una mezz’ora di potere ancora camminare sereno sotto la luce della luna senza dover vivere nel terrore di vedersi spuntare davanti al viso l’occhio nero e senza fondo di una pistola puntata nel mezzo della fronte.
- ‘Ndo sei stato? – gli chiede, e la voce gli esce dalla gola roca e affaticata.
- Meglio che nun lo sai. – risponde Freddo, aiutandolo a mettersi in piedi, - Anzi, è meglio se pe’ quarche giorno nun te fai proprio vede’ pe’ niente.
- I Bordini… - prova a dire, ma Freddo lo zittisce con un gesto spiccio.
- Nun ce pensa’ ai Bordini. – dice piano, guardando altrove mentre lo accompagna fuori dalla bisca e fino in macchina, - Nun so’ più un problema.
Libano annuisce, si siede al posto del passeggero e appoggia la fronte contro il finestrino ghiacciato. La macchina parte pochi secondi dopo, la strada comincia a sfilare veloce sotto i suoi occhi e Libano si lascia ipnotizzare dal susseguirsi continuo delle linee bianche sull’asfalto. Alcune sono più lunghe, altre più corte, altre sono rovinate. L’effetto che hanno tutte quelle imperfezioni è che correndo così veloci quei segni diventano trattini e punti, suoni lunghi e suoni brevi, come quelli del telegrafo. Il Libanese non conosce l’alfabeto Morse, ma anche senza sapere come interpretare tutti quei segni gli sembra comunque di poter parlare con la strada, o almeno che lei stia tentando di comunicargli qualcosa. È quasi deluso quando, una mezz’ora dopo, la macchina si ferma, a due passi dal cancello di casa sua.
Freddo esce fuori prima di lui, gira attorno all’automobile e gli apre lo sportello. Libano, ancora appoggiato al finestrino, riesce a tirarsi indietro appena in tempo per non sentirsi venire a mancare il sostegno. Freddo lo aiuta a venire fuori e mettersi dritto, e quando vede in che condizioni è – dopo aver passato minuti interi a farsi rimbambire dalle voci della strada e da quelle più cattive nella sua testa – lo aiuta anche ad attraversare la strada e il selciato, fin dentro la villa.
- Che devo fa’ mo’? – gli chiede a mezza voce mentre sono ancora sulla porta. Freddo lo spinge dentro con delicatezza, entra a propria volta e, quando allunga una mano per accendere la luce, Libano lo ferma. – No. – dice, - No, voglio sta’ tranquillo per un po’.
Nel buio, Freddo inarca un sopracciglio.
- Volevo solo fa’ ‘n po’ de luce. – spiega.
Nel buio, Libano annuisce.
- Ce lo so. – risponde, - Lascia sta’. Dimmi che devo fa’, Freddo.
Freddo sospira ancora. Lo conduce verso il salotto, si guarda intorno e individua il corridoio.
- Spogliate. – gli dice, - Te preparo un bagno.
Libano resta immobile nel mezzo della stanza osservandolo allontanarsi, e quando è lì lì per sparire lo ferma un’altra volta.
- Nun intendevo proprio mo’, Fre’. – gli dice, - Intendevo dopo. Domani mattina, io che faccio?
Freddo si volta a guardarlo, gli occhi pesanti di stanchezza eppure ancora lucidi.
- Nun ce pensa’ a domani, Libano. – dice, quasi esasperato, - ‘Na cosa per volta. Intanto spogliate e datte ‘na lavata.
Libano aspetta di sentire l’acqua cominciare a scorrere in bagno, e poi calcia via le scarpe. Sfila la cintura dai passanti e la lascia cadere a terra. Sbottona i pantaloni e lascia cadere a terra anche loro. Se li toglie come quando era piccolo, pestandone gli orli per tenerli ancorati al pavimento mentre lui ne tira fuori le gambe una dopo l’altra. Sua madre lo rimproverava sempre, diceva che gli si rovinavano. Che già ne aveva pochi e per comprargliene un altro paio avrebbe dovuto fare i salti mortali. “Stacci attento alla roba tua, Pietro”, gli diceva sempre. Ma Libano non ci stava attento mai.
Mentre sfila la camicia sporca di sangue e la lascia cadere a terra nel mucchietto formato dai pantaloni e dalle scarpe, Libano pensa che sua madre forse pensa di odiarlo perché è un criminale, perché finirà ammazzato giovane, perché non è onesto, ma in realtà non è così. Sua madre lo odia perché lui non ha mai avuto cura dei suoi vestiti. E questo ha sempre voluto dire solo una cosa, e cioè che lui non l’ha mai rispettata. Ha sempre pensato di doverla proteggere, di doverla ricoprire d’oro, di farla diventare la donna più invidiata di Roma, ma non è stato mai capace di rispettarla per ciò che era. E ormai non riesce nemmeno più a capire se volesse farla vivere da regina perché l’amava o semplicemente perché non si dicesse in giro che la mamma del Libanese era una poveraccia sola, triste e arrabbiata con tutti.
Si toglie di dosso la canottiera, i calzini e le mutande. Quando attraversa il corridoio, vede che la luce in bagno è accesa.
- Spegnila. – dice a Freddo. Il rumore dell’acqua si interrompe, e Freddo per qualche secondo nemmeno respira.
- Te c’ho già visto nudo, Libano, nun me pare er caso de—
- Nun è perché so’ nudo. – dice lui, - Spegnila e basta. – insiste. Freddo sospira un’altra volta, ma si alza ed obbedisce. Solo quando la casa è piombata nuovamente nel buio e nel silenzio, Libano riprende a camminare. Quasi va a sbattere addosso al Freddo che lo aspetta sulla soglia per accompagnarlo. – Ce lo so ‘ndo sta la vasca. – dice, quasi offeso.
- E statte ‘n po’ zitto. – sbotta lui, afferrandolo per un braccio e conducendolo nella giusta direzione.
È dura mettersi a mollo nel buio più totale, è dura anche solo sollevare una gamba e infilarsi nella vasca, visto quanto si sente pesante, ma l’abbraccio dell’acqua calda è così piacevole che una volta superata la parte difficile Libano non sente più nemmeno la fatica. Si lascia andare seduto e si appoggia con la schiena alla parete liscia dietro le proprie spalle, restando immobile a respirare nel silenzio umido e saturo di vapore del bagno.
- Pulisciti. – gli dice Freddo, - Io te aspetto de là. – Libano non si muove. Neanche accenna a recuperare spugna e bagnoschiuma. – Libano? – lo chiama Freddo, e quando non ottiene risposta sospira ancora e si piega in ginocchio accanto alla vasca, tirando su le maniche del maglione fino ai gomiti e recuperando il necessario per lavarlo lui.
- Scusa, sai. – dice Libano, lasciandosi maneggiare come un neonato. Freddo gli passa la spugna gonfia d’acqua sulle braccia, sulle spalle, sul petto e sul viso.
- Perché te devo lava’? – chiede Freddo in una mezza risata. Libano si concede un sorriso.
- Anche. – risponde, tornando a rilassarsi contro la parete della vasca.
Non ci può restare molto, comunque, e di questo si dispiace.
- Avanti, Libano, vieni con me. – gli dice Freddo, la voce contratta nello sforzo di tirarlo su. Sono parole che Libano ha già sentito, ma allora è stata la sua voce a pronunciarla. Freddo gli sta ricambiando il favore o sta semplicemente facendo qualcosa di bello per lui? Libano non lo sa, e non lo saprà mai perché ha paura di chiederglielo. Questo, come le altre mille cose che non gli ha mai chiesto per il terrore di sentirsi rispondere qualcosa che non avrebbe gradito. Perché ti sei messo in batteria con me? Perché sei rimasto, anche mentre prendevo decisioni che non ti andavano giù? Perché sei ancora qui, nonostante siano già andati tutti via da un pezzo? Perché, anche se sei ancora qui, a volte mi sembra che tu non ci sia più?
- Io nun posso anna’ da nessuna parte. – gli dice, mentre lui recupera un asciugamano e glielo fa passare attorno alle spalle, aspetta di vedere se si muove e, quando vede che resta immobile, comincia ad asciugarlo. – Me dici de nun farmi vede’ pe’ quarche giorno, ma io ‘ndo vado, Fre’? Nun ce l’ho mica ‘n posto ‘ndo anna’.
- Nun ce pensa’ mo’. – dice Freddo, finendo di asciugargli il viso ed osservandolo divertito mentre arriccia il naso e sbuffa come un bambino. – ‘Nnamo, va’. L’unico posto ‘ndo puoi anna’ mo’ è er letto. Te fai ‘na bella dormita, poi domani se vede.
- Nun c’ho sonno. – ribatte lui, aggrottando le sopracciglia, ma si lascia condurre verso la propria camera, al piano di sopra. – Fre’, nun c’ho voglia de anna’ a dormi’.
- E ‘nvece mo’ ce vai, Libano. – scatta Freddo, interrompendo le sue lagne e voltandosi a guardarlo quando sono ormai a pochi centimetri dal letto, - Ora me fai er favore de smetterla ‘na buona volta de fare la testa de cazzo, e te fai consiglia’ da uno che te vole bene.
Libano aggrotta le sopracciglia, arrabbiato.
- Che saresti te? – chiede dubbioso.
- Che so’ io, sì. – ritorce lui. Lo spintona verso il letto, osservandolo cadere sul materasso e poi rannicchiarsi sotto le lenzuola con aria stanca e un po’ persa, mugolando ogni tanto di dolore come fosse appena tornato a casa dopo un pestaggio. Libano si accorge appena di Freddo che abbandona la stanza, è troppo preso a cercare di capire perché senta male ovunque, in ogni parte del corpo, come se davvero l’avessero preso a cazzotti quando così non è. Nessuno l’ha colpito, nelle ultime ore, ed in generale anche le numerose volte in cui qualcuno l’ha fatto il dolore che lui ha provato non è mai stato così devastante, così incredibilmente svilente come quello che prova adesso, che sembra schiacciarlo contro il letto come se la gravità avesse improvvisamente raddoppiato o triplicato la forza con cui insiste su tutta la superficie del suo corpo.
- Fre’, sto ‘no schifo. – geme, gli occhi chiusi ed entrambe le mani sugli occhi. Quando sente qualcosa di duro e spigoloso franargli sullo stomaco, sputa fuori l’aria in un gesto talmente improvviso che ha paura gli possa esplodere il petto, e strabuzza gli occhi, allarmato, solo per posare lo sguardo sul registro della zona del Freddo. Si tira a sedere con uno sforzo sovrumano, sentendo tendini e legamenti stirarsi fin quasi al limite della sopportazione, quasi scricchiolare per quanto si sono consumati, e per la prima volta detesta che la coca lo renda così incredibilmente sensibile e consapevole del suo corpo. È una sensazione che, tutte le altre volte che l’ha provata, l’ha riempito di potere, di forza. Ora fa solo male.
Scivola con due dita sulla copertina ruvida del quaderno rigido, e poi si volta a guardare Freddo, una domanda inespressa negli occhi.
- Controlla. – dice Freddo, indicando il quaderno con un cenno del mento, - È tutto in regola.
Libano torna a guardare la copertina blu scuro. La accarezza ancora, come fosse un animale domestico.
- Me l’hai portato. – dice con aria un po’ svagata. Freddo di stringe nelle spalle.
- Lo volevi. – risponde, come fosse ovvio che, siccome lui gliel’aveva chiesto, nonostante fosse una palese mancanza di rispetto nei suoi confronti, a lui toccava ingoiare il boccone amaro e portarglielo, a capo chino.
- Hai pensato de nun portarmelo? Anche ‘na vorta sola. – insiste Libano, la voce sempre più sottile, quasi lontana.
- Sì. – risponde prontamente Freddo, - Più di una. Ma ho deciso de fa’ le cose per bene, oggi. Perciò so’ ito da Roberta e c’ho parlato. E quanno ho risorto co’ lei, me mancava solo de risolve’ co’ te.
Libano si volta a guardarlo, i suoi occhi sono enormi, scurissimi, quasi neri.
- Stai di nuovo co’ Robertina? – gli chiede in un soffio. Freddo annuisce, e Libano si lascia sfuggire un sorriso minuscolo. – Me fa piacere. – dice, - Nun eri felice senza.
Freddo solleva un angolo della bocca, improvvisando un mezzo sorriso stanco in risposta a quello ugualmente provato del Libanese. Si siede sulla sponda del letto, le braccia abbandonate in grembo, ed accenna nuovamente al registro con un’alzata di spalle.
- Nun lo controlli?
Libano sorride un’altra volta, con più convinzione.
- Me fido. – annuisce, poggiando entrambe le mani aperte sulla copertina, come a volersi assicurare che il quaderno resti chiuso.
- Nun sembrava, tre ore fa. – gli ricorda Freddo, incrociando mollemente le braccia sul petto.
Libano annuisce ancora, in una mezza ammissione di colpa.
- Nun me so’ comportato bene. – concede.
- So’ mesi, ormai, che nun te comporti bene. – gli fa notare Freddo, e Libano torna a guardarlo, inarcando un sopracciglio.
- Mo’ nun t’allarga’. – protesta burbero in uno sbuffo offeso, e Freddo si mette a ridere.
- Senti, - dice, mentre Libano mette via il registro e si distende sotto le coperte, lasciandosi un po’ cullare da quel suono che sembra quasi resuscitare tutta la casa, - mo’ nun ce sta’ a pensa’. Ce so’ ‘n po’ de cose che nun funzionano più, Libano, nun me va’ de pijatte ‘n giro pe’ fatte sta’ tranquillo. Ma nun ha senso metterci a pensacce mo’. Fatte ‘na dormita. Domattina passo e—
- Che, vai via mo’? – chiede allarmato Libano, aprendogli di scatto gli occhi addosso. Freddo gli ricambia l’occhiata con un identico senso di allarme, stringendosi nelle spalle.
- Ho lasciato Roberta sola a casa mia. – dice a mo’ di scusa. Libano inarca le sopracciglia quasi impercettibilmente, e nel suo viso tutto cambia. È incredibile come un gesto così minuscolo possa stravolgere la sua espressione fino a questo punto. – Vabbe’. – dice Freddo, arrendendosi ed alzandosi in piedi solo per spostarsi di un paio di metri e mettersi a sedere sulla poltrona a pochi passi di distanza, - Famo che resto pe’ stanotte. Robertina la chiamo domani.
Libano si concede un mezzo sorriso. Fra le pieghe delle sue labbra distese in quella smorfia tranquilla, Freddo legge un po’ di soddisfazione, e piega l’angolo della bocca in risposta. Solo quello, però. È meglio che non s’allarghi troppo nemmeno il Libanese, che s’è già allargato a sufficienza per questa e pure per l’altra vita, se esiste.
Genere: Introspettivo, Romantico, (kind of) Erotico.
Pairing: Freddo/Libanese, Freddo/OMC.
Rating: NC-17
AVVISI: Slash, Lemon, Angst, OC, Spoiler per il finale della s2.
- Per le strade di Rabat, il Freddo vede Libano ad ogni angolo di strada, negli occhi di sconosciuti senza nome che ne evocano lo spirito come in una magia ogni volta che si addormentano al suo fianco.
Note: Questa storia palesemente esiste perché la mia capacità di elaborare i lutti a livello di fandom è inesistente "XD In realtà anche a livello generale, ma queste sono cose che non interessano a nessuno. Mi è piaciuto giocare con l'atmosfera onirica del tutto, la continua ricerca di concretezza del Freddo in una storia che alla concretezza non offre il minimo appiglio già concettualmente, viste le premesse. *blatera* Ho riflettuto fino all'ultimo sull'opportunità o meno di postare questa storia che, in questo fandom, è perfino più folle di tutte le altre che ho già scritto e postato e che già di per sé erano folli abbastanza, ma almeno si giustificavano col P0rn Fest, mentre questa nemmeno quello XD Però alla fine ho deciso di sì, perché sì. Spiegazioni razionali, noi ce le abbiamo.
(Per il titolo si ringraziano la Tab e Patrick Swayze. *cough*)
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GHOST

Più o meno, il ragazzo deve avere l’età di Libano quand’è morto. Freddo ci sta sempre attento a non trovarseli troppo giovani, che poi nemmanco gli interessano i ragazzini, a lui. Ce ne sarebbero a mai finire lì per le strade di Rabat, gratis e a pagamento, e se li volesse potrebbe pure permetterseli senza battere ciglio, e non solo quelli pescati negli angoli dei viottoli accanto al mercato o nei dintorni delle moschee, ma anche quelli buoni, quelli cresciuti e istruiti per farti stare bene, per farti dimenticare perfino come ti chiami, tutti i tuoi nomi uno per uno, e Dio sa se non ne avrebbe bisogno, ora forse più di sei anni fa. Ma non li vuole, non gli interessa pagare per un corpo giovane e morbido in grado di muoversi nel modo giusto. Lui li vuole ruvidi, forti, con pesi enormi sulle spalle. Li vuole sporchi e confusi e con la testa altrove. Li vuole tristi o esaltati dalle droghe – e quindi, forse, perfino più tristi di chi è triste e basta – li vuole soli, soprattutto, disperatamente soli. Per fare in modo che non lo siano più, almeno per una sera.
Più o meno, gli assomiglia anche. Non tantissimo, in realtà, ha la pelle molto più scura, è più alto, il suo fisico è più asciutto – niente sugo della signora Maria, per lui, ora o prima o mai – ma ha lo stesso disordinato casco di boccoli che gli ingombra la testa e gli stessi occhi persi nel vuoto dell’ultima volta che ha parlato con lui. Le stesse occhiaie, profonde e stanche, lo stesso modo disordinato di ciondolare da un lato all’altro anche per dare pochi semplici passi. È così sfatto che viene voglia di offrirgli il braccio per aiutarlo a stare in piedi. Perché con il Libanese non ha sentito questo bisogno? Forse perché ha sempre creduto che, in un modo o nell’altro, se la sarebbe cavata anche da solo? Ed è perché lui, morendo, gli ha insegnato che invece, se ti lasciano da solo, continuando a barcollare alla fine cadi, che adesso sente il bisogno di aiutare un qualche perfetto sconosciuto anche se non gli interessa niente di vederlo restare in piedi?
Freddo apre la porta e lo invita ad entrare in casa. Il ragazzo – non sa nemmeno il suo nome – neanche lo guarda: entra, e pure di corsa, così di corsa che inciampa sul gradino e si fa un paio di passi saltellando, in bilico su un piede solo, prima di rovinare a terra con un tonfo secco. Geme e si fa piccolo piccolo sul pavimento, porta le ginocchia al petto e le stringe con le braccia, nascondendo il viso sotto la frangia di boccoli che gli spiove sulla fronte appena fa tanto di abbassare il capo. Freddo sospira, chiude la porta e gli si avvicina. Si inginocchia accanto a lui e gli passa le braccia attorno alle spalle, tirandolo su. Il ragazzo non oppone resistenza, d’altronde nessuno lo fa mai, è la prima forza e il più grande vantaggio del pagamento posticipato. Non tira fuori un soldo prima di averli presi, e loro – tutti loro – sanno che non vedranno contante finché lui non sarà venuto, perciò non si lamentano, non protestano, lo lasciano muoversi. Il ragazzo si fa aiutare, lascia che Freddo lo tiri su e cantilena qualcosa nella propria lingua. I suoi occhi sono distanti, semichiusi ed incredibilmente liquidi, annegati in un velo di lacrime che non verranno mai piante. Altre lacrime, sì, sicuramente altre lacrime saranno piante quando lui sarà uscito, quando sarà tornato a casa propria, sempre che una casa ce l’abbia, ma queste no. Queste gli si asciugheranno fra le ciglia e Freddo non avrà mai modo di vederle, come non ha mai avuto modo di vedere piangere il Libano quando gli ha detto che sarebbe andato via – un’ombra di lacrime c’era anche lì, chissà se dopo essere uscito da casa sua qualcuna è riuscita a rotolargli sulle guance e perderglisi sulle labbra o nella barba – così come anche Libano non ha mai potuto vedere le lacrime che lui ha versato al suo funerale. Non si piange. Mai. Si soffre in silenzio. Sempre.
Lui e il ragazzo non parlano. D’altronde, non avrebbe idea di come comunicare. Non conosce ancora la sua lingua, e d’altronde, anche se la conoscesse, dubita che lui riuscirebbe a sentirlo, oltre la pesante cappa di svagatezza che lo avvolge per intero. Lo conduce verso il letto e lui si abbandona fra le lenzuola che sanno di pulito, prima di schiena e poi rigirandosi sullo stomaco, affondando il viso nel cuscino morbido e stringendolo fra le mani per schiacciarselo con più forza sul naso. Mugola compiaciuto e Freddo sorride appena, arrampicandosi sul materasso alle sue spalle ed appoggiando le mani sui suoi fianchi magri e appuntiti.
Non si lascia sfuggire un fiato, invece, quando Freddo spinge la punta della propria erezione contro la sua apertura. Trattiene il respiro per una manciata di secondi e gli si arrossano violentemente le guance. Freddo ignora quell’avvampare improvviso, una pelle troppo liscia per illuderlo di avere fra le mani qualcun altro, e si concentra sul modo in cui le punte dei suoi capelli, umide di sudore per l’afa soffocante della notte marocchina, sfiorano la sua nuca abbronzata. Tira via il colore dall’immagine, cerca di concentrarsi come stesse guardando una vecchia fotografia in bianco e nero, e d’improvviso i toni diversi della grana delle loro pelli non lo disturba più. Nel grigiore generico che i suoi occhi fingono per lui c’è una macchia troppo scura per ricordare il bianco quasi abbagliante della pelle di Libano, ma va bene così. Va bene così anche perché quando gli si appannano gli occhi – e lui stesso non saprebbe dire se sia colpa dell’orgasmo o del peso enorme che gli si scioglie sul cuore ogni volta che ripete lo stesso rituale ogni sera – non vede più niente. I gemiti, anche se la voce non è la stessa, gli bastano. Ed è perfino meglio che non siano ansiti di piacere, perché Libano, lui no, non sarebbe mai venuto gemendo come una ragazzina. E quindi, che il ragazzo sconosciuto ringhi e sospiri invece di mugolare compiaciuto va benissimo.
Si allontana da lui che ancora il ragazzo trema, le dita serrate attorno al cuscino con tanta forza da avergli sbiancato le nocche. Lo lascia sul letto e va in bagno. Si appoggia al lavandino e si guarda allo specchio, a lungo. Si cerca e non si trova. Il suo riflesso gli restituisce l’immagine di un uomo che dimostra molti più anni di quelli che può dire di portare sulle spalle. Tutto in lui è invecchiato, soprattutto gli occhi. Più opachi di un tempo, perfino più spenti. Se Robertina lo vedesse adesso, probabilmente gli chiederebbe dove siano finiti tutti i sogni che li riempivano, e lui le risponderebbe che sono morti da un pezzo, ma non saprebbe dirle quando, di preciso. Forse quando ha ucciso Sergio, forse quando ha posato gli occhi addosso a Donatella e ha deciso di concedersela, forse una notte lontana di tremila anni fa, una notte che pioveva e il mondo sembrava un posto orrendo in cui vivere, tutto, Brasile compreso.
Inspira ed espira, si sciacqua il viso, torna in camera da letto. Il ragazzo è crollato a pancia in giù con la faccia affondata nel cuscino. Respira regolarmente. Dorme. Freddo gli si avvicina, lo copre con un lenzuolo e poi si stende al suo fianco, abbastanza distante da non sfiorarlo nemmeno per sbaglio. Sente il sudore asciugarglisi addosso, come l’odore del sesso, l’odore di una pelle sconosciuta, speziata ed esotica, e chiude gli occhi solo per un attimo, illudendosi che quando li avrà riaperti sarà tutto esattamente come prima.
E invece Libano è sdraiato oltre il corpo del ragazzo addormentato, la schiena appoggiata alla parete, una gamba sollevata, l’altra distesa. Lo copre sono il lenzuolo. Sorride, comunque, anche se il suo è un sorriso distante. Tenero, ma come sbiadito. Può quasi guardargli attraverso, poi aguzza la vista e l’effetto si dissolve. Libano è più concreto che mai, e fa paura, perché non è reale.
- Nun tre trovo tanto bene, Fre’. – gli dice dolcemente. È più sereno di quanto Freddo non l’abbia mai visto, e si domanda se sia davvero così, se il suo spirito sia davvero in pace, o se piuttosto sia lui che vuole crederlo fortemente, e perciò se lo dipinge in questo modo.
- Nun me la passo tanto bene, per ora. – gli risponde, cercando di sorridere allo stesso modo, come per rassicurarlo. Probabilmente non gli riesce bene, però. – Te che stai a fa’ qua? Nun era comodo ‘ndo stavi prima?
Libano si stringe nelle spalle, guardando per un attimo la notte fuori dalla finestra.
- Che te devo di’, a me le cose troppo tranquille nun è che me piacciono tanto. – risponde, - Ce n’è ‘n sacco de tranquillità, ‘ndo sto mo’. È utile, da ‘n lato, te fa vede’ meglio certe robe. Dall’altro è ‘na rottura de cojoni. Fre’, accetta ‘n consiglio da ‘n buon amico, cerca de nun mori’ mai. – ride, e ride anche il Freddo, ma piano, per non svegliare il ragazzo. Ha l’impressione che, se lui aprisse gli occhi, l’incantesimo si spezzerebbe, e Libano volerebbe via. È un’impressione che ha avuto sempre con ogni ragazzo. Per questo, con ognuno di loro, è stato molto silenzioso.
- So’ felice che me sei venuto a trova’. – dice, sistemandosi meglio contro la parete per restare seduto, - Perché nun veni più vicino? – gli chiede, battendo un paio di pacche sulla minuscola porzione di materasso che separa il suo corpo da quello che dorme al suo fianco. Libano sorride, scuotendo il capo.
- Nun c’è spazio. – risponde.
- Se fa’, ‘o spazio. – ribatte lui, scostandosi appena.
- Nun è abbastanza. – sorride ancora Libano, - E te mo’ dovresti anna’ a dormi’.
Freddo sputa fuori un no affaticato, gravido di dolore, che gli si stende addosso come un vestito fradicio e appesantito dall’acqua. Allunga un braccio, ma lo fa con troppa violenza. Si sposta, urta il ragazzo addormentato, lui si sveglia e Libano scompare prima che Freddo possa riuscire a toccarlo. Non saprà mai se c’era davvero. Questo lo disturba in modi che non riesce neanche a spiegarsi, perché a rigor di logica dovrebbe esserne felice. Cosa avrebbe fatto se le sue dita, sfiorandogli il braccio, si fossero appoggiate su qualcosa di concreto? Pelle tiepida, ruvida, conosciuta? Come avrebbe reagito nel ritrovarsi davanti addosso il proprio mondo capovolto e sparpagliato in giro come in una camera disordinata? Se Libano fosse tornato dalla morte, se la forza della sua disperazione fosse stata tale da permettergli di sentirlo… cosa avrebbe pensato? Sarebbe riuscito a pensare qualcosa? O forse gli sarebbe esploso il cuore. Un battito dopo l’altro dopo l’altro e un altro ancora e poi più niente. Percepire il Libanese sotto le dita gli avrebbe aperto il cuore in due? O forse no?
Il ragazzo lo guarda solo un attimo, poi si gira dall’altra parte e si riaddormenta. I suoi occhi sono appannati e confusi, Freddo non è neanche sicuro che sappia dove si trova, o perché. Può capirlo bene, perché ogni tanto il dubbio sorge anche in lui.
Si rigira su un fianco, incassa la testa fra le spalle e si impone di dormire. Non ci riesce, ma per lo meno l’aria resta spenta e muta per tutto il resto della notte, e lui può fingere di non sentire gli occhi di Libano puntati contro la nuca, e ignorarli.
*
Il ragazzo di stasera è più giovane degli altri. Naturalmente non è un ragazzino, perché un ragazzino non avrebbe senso, ma è probabilmente il più giovane che si sia mai portato in casa. Più o meno, deve avere la stessa età che aveva Libano quando s’è infilato nel suo garage, la pistola spianata e i lineamenti del viso tesi dal nervosismo. Lo rivede con una facilità impressionante se solo prova a chiudere gli occhi, e infatti lo fa.
Il ragazzo lo spinge contro la parete ed appoggia le labbra sul suo collo. È molto più sveglio di altri, molto più attivo, molto più vivo. Freddo china il capo e gli lascia spazio, se lo stringe addosso ed affonda la mano fra i suoi ricci, percorrendoli in una carezza estasiata dalla radice alla punta e poi scivolando lungo il profilo ruvido del suo viso. Ha la barba piuttosto lunga, gli ricopre gli zigomi, le guance, il mento. Sorride nell’accarezzarlo piano, mentre il ragazzo gli si struscia addosso con urgenza. È incredibilmente silenzioso, e Freddo può sovrapporre la traccia della propria immaginazione a quella decisamente più fisica del suo tocco.
Nella sua mente, Libano entra nel suo garage come nella realtà, ma è solo. Ed è solo anche lui. E Freddo non perde tempo a cercare di spiegarsi perché avrebbero dovuto esserlo, così come non perde tempo a cercare di trovare una spiegazione logica quando lo immagina avvicinarsi, schiacciarlo contro lo sportello chiuso e impolverato della Mini e baciarlo con forza, infilandogli le mani sotto il maglione esattamente come il ragazzo le infila adesso sotto la camicia ampia e già sbottonata che indossa. Non servono spiegazioni, l’invenzione è più sicura. La bugia è confortevole. La verità è molto più aspra, appuntita, dolorosa. Freddo c’è passato in mezzo troppe volte per non saperlo. È coperto di cicatrici anche per questo.
Stringe fra le braccia la sua illusione per tutto il tempo che gli viene concesso – il tempo in cui i fianchi magri del ragazzo ondeggiano spingendosi contro i suoi, il tempo in cui la sua erezione si tende e si gonfia fra le sue dita, il tempo che ci mette l’orgasmo a montare nel suo bassoventre come l’onda anomala di un maremoto prima di esplodergli dentro – e quando gli crolla addosso gli rimane in mano solo realtà. Fianchi spigolosi, disgustosamente sconosciuti, il tessuto ruvido di un paio di jeans sdruciti, una vecchia maglietta bianca arrotolata fino a sotto le ascelle, la sua schiena flessuosa imperlata di sudore, i ricci scompigliati lungo il collo che spiovono ai lati del viso. Il ragazzo sorride, soddisfatto, ansimando un po’. Freddo si allontana da lui e si stende fra le lenzuola scombinate che sanno di troppi profumi troppo diversi per poterne identificare uno solo. Domattina le cambierà. Quando comincia a non identificare più gli odori, vuol dire che hanno già visto passare troppi ragazzi.
Il ragazzo si sistema fra le coperte e sprimaccia il cuscino prima di appoggiarvi sopra il capo. Continuando a sorridere, gli dice qualcosa. Non in arabo, però. In inglese. Freddo ne mastica un po’ – molto poco, in realtà – ma il suo accento è tanto forte che non ci capisce niente comunque. Gli fa un cenno che può significare tutto e niente, fiducioso che il ragazzo lo tradurrà nella cosa che vuole sentirsi dire in quel momento, e infatti così è. Il suo sorriso si allarga appena, mostrando una chiostra di denti bianchissimi, e i suoi occhi brillano allegri per un istante prima di chiudersi. Freddo ascolta il suo respiro, aspetta di sentirlo scivolare nella regolarità pigra del sonno, e quando questo accade percepisce un respiro diverso sovrapporsi al suo, e sorride, schiudendo gli occhi e voltando il capo.
- Nun te stanchi mai de viaggia’? – gli chiede. Libano si solleva sui gomiti, lanciandogli un’occhiata stranita. Indossa gli stessi vestiti del ragazzo che giace addormentato fra loro.
- Che vor di’ viaggia’? – domanda curiosamente, guardandolo fisso.
- Fa’ avanti e indietro da ‘ndo stai a qua. – risponde Freddo, reggendo lo sguardo e sorridendo un po’, - Tutti i giorni.
Libano ride appena, tirandosi su sulle braccia e mettendosi seduto. Il suo corpo, sprofondando nel materasso, non produce suoni, ne alcun altro effetto sul mondo che sembra stare toccando ma che, in realtà, è il primo a non riuscire a toccare lui.
- Chi te dice che sto da ‘n’artra parte, tanto pe’ comincia’? – gli chiede il Libanese, e Freddo si ferma a rifletterci per qualche secondo.
- Vuoi di’ che stai sempre qua? – domanda titubante. Libano ride ancora.
- Forse. – risponde enigmatico, - O forse voglio di’ che pe’ tutto er resto der tempo nun ce sto. Né qui né là. Qualunque posto sia là.
Freddo sospira, chiudendo gli occhi e gettando indietro il capo lentamente. Cerca di rilassare i muscoli ancora in tensione e si lascia avvolgere dal profumo di Libano mentre lo sente muoversi tutto attorno a sé. È l’unica cosa di lui che sia percepibile fisicamente, perché il suo corpo non fa rumore. Anche il suono del suo respiro sembra scomparso, ora assieme al proprio può sentirne solo un altro, ed è quello del ragazzo addormentato, sebbene il ritmo non sia quello del sonno. È buffo, si dice, ma a tratti sembra che il Libanese usi il ragazzo per respirare, perché il suo fantasma non può.
Quando riapre gli occhi, Libano è in piedi accanto al letto, dal suo lato. Lo guarda in silenzio, e Freddo ricambia.
- Perché vieni qui? – gli chiede a bassa voce. Libano piega le labbra in un sorriso vagamente tenero.
- E m’o chiedi proprio te? – risponde, chinandosi appena. Freddo trattiene il fiato, nel vederlo avvicinarsi. Poi chiude gli occhi. Quando li riapre, lui è sparito. Il ragazzo, al suo fianco, mugola a bassa voce e poi si sveglia. Gli chiede qualcosa, fa un discorso abbastanza lungo, ma la sua voce è ancora impastata e Freddo capisce solo le parole sorry e water.
- Seh. – gli risponde, alzandosi dal letto e dirigendosi in cucina. Sollevandosi sui gomiti come Libano ha fatto non più di cinque minuti fa, il ragazzo lo guarda interrogativo, senza capire, ma sorride dolcemente quando lo vede tornare indietro con un bicchiere pieno d’acqua fresca in mano. Freddo pensa solo che vuole restare solo, per avere la certezza che Libano non tornerà a fargli visita, stanotte. Se non c’è nessun altro nella stanza con lui, si dice, Libano non può respirare. A meno di rubare il suo, di respiro. Ma non è sicuro che questo possa verificarsi, in realtà non è sicuro di niente, l’unica cosa che sa è che vuole quel ragazzo fuori di lì al più presto.
Non arriva neanche a chiedergli di andarsene, comunque. Dieci minuti dopo, il ragazzo si mette in piedi, si risistema sommariamente, ringrazia per la bella serata e si dilegua.
*
Guardando distrattamente l’uomo che si dimena e scivola avanti e indietro sotto di lui, Freddo pensa che Libano avrebbe più o meno la sua età, se fosse ancora vivo. È un uomo più maturo degli altri, in genere non ne porta a casa di così vecchi, l’idea di potersi confondere più del solito lo terrorizza, anche se ne ha incontrati parecchi che avrebbero potuto fare al caso suo, se gli fossero interessati. Forse sono i suoi occhi che ormai trovano somiglianze perfino dove non ce ne sono. Lo tradiscono, come fanno ogni volta che uno dei suoi ospiti passeggeri s’addormenta, e loro gli mostrano le immagini di un uomo che non c’è più come fosse ancora in vita.
Freddo geme, affondando profondamente dentro al suo corpo e stringendolo per i fianchi ammorbiditi dall’età ma ancora piuttosto spigolosi. Guarda i capelli che gli si sono appiccicati al collo e per il resto giacciono in onde scomposte, sparsi sul cuscino bianco, e sente montare nel bassoventre un calore amico e familiare, che non è solo il calore dell’orgasmo che sta per esplodergli in corpo, è qualcosa di diverso, qualcosa di più antico, qualcosa di disperatamente simile a una sensazione che, quand’era a Roma, provava continuamente, che Libano fosse accanto a lui o meno.
Roma sapeva del Libanese in ogni luogo. Ogni strada, ogni palazzo, ogni piazza parlava di lui. A Freddo bastava uscire dal garage e fare una passeggiata per sentire lo stomaco fare le capriole, per sentirlo scaldarsi e tornare al suo posto più leggero.
C’è ancora un’ombra di quell’emozione ogni volta che viene fra le cosce di uno sconosciuto. Farebbe di tutto per riuscire a ritrovarla per intero, per riuscire a sentirsi anche solo per un attimo esattamente come si sentiva ogni volta in cui metteva piede da Franco e Libano era lì, seduto al solito tavolino, le carte da gioco già in mano, e gli diceva “oggi hai dormito fino a tardi, eh?”. Ma la completezza di quella sensazione è persa per sempre, Freddo ne ha sepolto una parte consistente quando Libano è morto. Ne resta solo una traccia sbiadita, ed è per riavere quel poco che Freddo fa ciò che fa, ogni notte. Visto che è tutto ciò che può sperare di conquistare, è tutto ciò per cui vale la pena di lottare.
Freddo crolla al suo fianco subito dopo essere venuto. Si sente stanco, vuoto e assonnato. Quasi rintontito, come se il mondo fosse improvvisamente diventato un luogo ostile, inospitale. Si sente come se ci fosse qualcosa, dentro di lui, che sta cercando di spingerlo fuori dai confini del proprio stesso corpo. Si sente traspirare attraverso la propria pelle, e pensa confusamente che dev’essere più o meno così, quando muori, solo più doloroso. Lui, invece, dolore non ne prova. Solo un vago senso di abbandono e nostalgia.
Piano piano, lentamente, il suo cuore riprende a battere ad un ritmo più normale. L’uomo accanto a lui si sta concedendo un po’ di riposo. Il suo respiro è lento, ma sta solo sonnecchiando. Freddo apre un occhio solo e sbircia intorno a sé. Il Libanese è lì, ovviamente, sdraiato a pochi centimetri da lui, sudato e ansante, il capo rovesciato all’indietro, i ricci umidi, gli occhi chiusi, le labbra semiaperte e gonfie di baci. Non l’ha mai visto così, e questo basta a stringergli lo stomaco in una morsa di desiderio che, se potesse, conserverebbe per sempre.
La sua immagine è sbiadita, come se ci fosse un’interferenza da qualche parte, qualcosa che gli impedisca di mostrarsi in modo più nitido. Freddo capisce che è così perché l’uomo non sta dormendo profondamente, ma solo riposando gli occhi. Vede i loro petti alzarsi ed abbassarsi allo stesso identico ritmo. Quello del Libanese ogni tanto scompare, e a Freddo viene da ridere. Solo che non ci riesce. Non trova il riflesso, non trova lo stimolo. Vorrebbe allungare una mano e lasciargliela passare attraverso per convincersi una volta per tutte che lui non c’è, è solo un’immagine con la quale il suo cervello si diverte a tormentarlo, ma non trova la forza si sollevare il braccio.
Pochi minuti dopo, senza mai essersi veramente addormentato, l’uomo spalanca gli occhi, si alza, si riveste e se ne va. Libano sparisce ben prima che sia sparito lui, oltre la porta. Nell’accomodarsi meno casualmente fra le lenzuola, mentre si lascia scivolare nel sonno, Freddo si rende conto improvvisamente che c’è una cosa che non è mai cambiata, sera dopo sera. Erano diversi i ragazzi, più o meno somiglianti, più o meno giovani, più o meno disponibili, ma una cosa restava sempre uguale.
L’immagine del Libanese nella sua testa non si è mai modificata di un dettaglio.
*
Non sa quanto tempo sia passato, quando sente la sua voce chiamarlo. Non tanto, comunque, visto che il nodo all’altezza dello stomaco è ancora lì, e ancora caldo, così come il desiderio che gli infiamma i lombi, schiacciato contro il materasso come fosse in punizione. Schiude gli occhi con addosso la netta impressione di stare sognando, e un po’ per questo e un po’ perché ormai ci ha fatto l’abitudine non lo stupisce trovare Libano sdraiato a pancia in giù sul letto accanto a lui. Neanche si rende conto della stranezza di poterlo vedere senza il tramite di nessun ospite sconosciuto addormentato al suo fianco. È normale trovarlo lì, e questo già da solo dovrebbe essere assurdo, perché quando era vivo non sarebbe stato normale affatto. Eppure ora lo è, e nel sollevargli gli occhi addosso Freddo si concede perfino un mezzo sorriso tenero, alzando un braccio e sfiorandogli una guancia con due dita.
Toccarlo. Quello sì è inaspettato. Sentire il tepore della sua pelle con le nocche, sfiorare i suoi capelli con la punta dei polpastrelli, quello è incredibile, è assurdo, è bellissimo. Freddo ritrae la mano e lo fa con terrore, schiudendo le labbra senza trovare la forza di dire niente.
- Che te pija? – gli chiede Libano, inarcando le sopracciglia.
- Te sei morto. – dice Freddo. Libano inclina il capo, continuando a guardarlo.
- Dimme ‘na cosa che nun so. – ribatte. Freddo ringhia infastidito, mettendosi a sedere di scatto. Libano rimane sdraiato e lo guarda dal basso, apparentemente a proprio agio.
- Sei morto. – ripete Freddo, - Nun ce potresti sta’ qua.
Lentamente, Libano si solleva e si mette seduto a propria volta, le gambe incrociate, le braccia abbandonate in grembo, le spalle un po’ curve. È chinato verso di lui abbastanza che potrebbe sfiorarlo col proprio respiro, se ne avesse uno. Ma il suo petto non si muove, non ci sono sbuffi d’aria tiepida che s’infrangono contro le labbra di Freddo, nonostante lo spazio che li separa sia quasi nullo. Gli si stringe lo stomaco nel rendersene conto. Libano fa per dirgli qualcosa, ma Freddo solleva un braccio ed appoggia le dita sulle sue labbra. Sono calde e un po’ umide. Sono morbide, soprattutto. Con la gola ingombra di un peso talmente enorme che potrebbe essere il suo cuore che si arrampica per venire fuori dal suo petto prima che si faccia troppo piccolo e lo schiacci, Freddo prova a deglutire, e ci riesce solo a fatica.
- Perché nun respiri? – gli chiede, la voce ridotta a un rantolo.
- Perché so’ morto. – risponde lui, le labbra che sfiorano le sue dita ad ogni parola.
- Ma sei caldo, te posso tocca’. – ribatte Freddo, - Perché l’unica cosa che te manca è er respiro?
- Perché so’ morto, Fre’. – ripete Libano, sollevando una mano e stringendo le sue dita fra le proprie, allontanandosele dalla bocca. – Er calore de ‘n corpo, er sapore che c’ha, l’odore, so’ tutte cose che te poi ricorda’ pe’ anni e anni. Ma er respiro quanno è finito è finito. E te nun c’eri quanno è finito er respiro mio.
Freddo geme ancora, il dolore che gli riempie il corpo sembra traboccare. Lo sente invadere vene e capillari, gonfiarsi, diventa più grande di lui e lo avvolge. Non ha mai provato niente di simile, non si è mai sentito così impotente. Non conosce un modo per scacciare questa sofferenza, e non ha un posto dove scappare, perché se l’ha inseguito in Marocco l’avrebbe inseguito anche in Brasile, e ci sarebbe stata anche se fosse rimasto a Roma. Il pensiero di dover convivere con una cosa simile lo terrorizza, lo sfianca, lo devasta.
- Er sapore tuo… - sussurra, lo sguardo basso, le dita immobili fra quelle di Libano, - Io nun me lo posso ricorda’. Nun l’ho mai assaggiato.
Libano sorride appena, sollevandosi sulle ginocchia e sporgendosi verso di lui.
- Inventatelo. – soffia sulle sue labbra, un attimo prima di coprirle con le proprie.
Per un secondo, Freddo ha l’impressione di essere stato baciato dal vento.
Poi chiude gli occhi, e qualcosa la sente. Nascosta in fondo, in fondo dentro il suo corpo, c’è qualcosa che germoglia e si fa grande in pochissimo tempo mentre le labbra del Libanese assumono una consistenza più fisica, aprendosi e chiudendosi sulle sue finché lui non si decide a schiudere le proprie, concedendo alla sua lingua il libero accesso che, accarezzandolo piano, stava chiedendo già da un po’.
Il sapore del Libano è più dolce di quanto non avrebbe mai pensato. È quasi inaspettato, ed è divertente sapere di averlo creato per lui. È strano ed è meraviglioso sapere di aver inventato da sé qualcosa di così sorprendente, di così simile a qualcun altro. Il sapore del Libano è dolce ma è forte, invasivo, prevaricatorio, come lui. S’insinua sopra e sotto la sua lingua, gli confonde i sensi. Freddo ringrazia di avere gli occhi chiusi, perché sente la stanza girargli intorno. Non vuole aprirli. Li terrà così.
Appoggia le mani sulle sue spalle, ne sente i muscoli contrarsi e stendersi quando, stendendosi sul materasso, trascina Libano con sé, e lui è costretto a puntare le mani ai lati del suo corpo per non rovinargli addosso. Freddo sorride fra le sue labbra perché se è un fantasma, quello che lo sta baciando, non dovrebbe avere nessun problema a restargli addosso senza schiacciarlo, a fluttuare a due centimetri dal suo corpo. Eppure Libano si tiene su con le mani, eppure la sua pelle è calda, eppure il suo cuore batte – perfino il suo cuore batte!, quando può averlo sentito? La memoria corre indietro, indietro, indietro, è notte e gli fa male il braccio, gli hanno sparato?, è sdraiato sull’asfalto, riesce a malapena a tenere gli occhi aperti, Libano lo chiama due, tre, quattro volte, lui gli risponde, “vie’ co’ me” gli dice Libano, si fa passare un braccio attorno alle spalle, lo aiuta a tirarsi su, eccolo lì il battito del suo cuore, thump thump thump, Freddo ha la testa appoggiata contro il suo petto per tutto il tempo, thump thump thump – il suo cuore batte e la sua voce ha un suono e i suoi baci sono carezze e le sue mani gli scorrono addosso ma lui non respira, il suo respiro non c’è, e quando Freddo prova a dargliene uno tutto quello che sente è il rumore lontano di migliaia, milioni di gocce di pioggia che s’infrangono sull’asfalto, sulle macchine, sulle persone, sull’ombrello del Dandi e sul suo corpo morto abbandonato per terra, e quello è un suono che non vuole sentire, perciò stringe i denti e schiude le gambe, distraendosi con l’esplosione improvvisa di calore che lo avvolge bruciando il dolore quando i loro bacini si scontrano l’uno contro l’altro.
Getta indietro il capo e s’inarca sotto il suo corpo, stranamente consapevole di ciò che lo aspetta, malgrado non si sia mai trovato in questa situazione con nessuno dei numerosi ragazzi che s’è portato a casa nel corso degli anni. Lo sente premere contro la propria apertura e si meraviglia nel rendersi conto di non provare alcun dolore. Sorride, spingendosi contro di lui e gemendo con forza.
- Che te ridi? – gli sussurra addosso Libano, e la sua voce è allegra, divertita.
- È perfetto. – risponde lui, senza fiato, - Ce lo sapevo io.
- Sapevi che? – chiede ancora Libano, spingendosi in profondità dentro al suo corpo e strappandogli dalle labbra un gemito così gonfio di piacere da sembrare quasi liquido. – Quante vorte t’o sei immaginato?
- Tante. – ansima Freddo, allacciandolo al collo e baciandolo piano, - Troppe.
Libano lo stringe fra le braccia, continuando a muoversi avanti e indietro dentro di lui, Freddo incrocia le gambe dietro la sua schiena e cerca di tenerlo contro di sé il più possibile, quasi aspettandosi di sentirselo svanire da sotto le dita da un momento all’altro. Ma lui non scompare, il segnale è chiaro è preciso, non c’è nessuna interferenza, stavolta, è lì come non è mai stato lì prima e come non riuscirà mai più ad esserlo dopo, probabilmente. Freddo strizza le palpebre e visualizza la sua immagine nel buio confuso e allo stesso tempo desolatamente vuoto della sua mente, la fissa a lungo, finché è sicuro di averla ormai impressa indelebilmente nella retina, e poi apre gli occhi.
Viene guardandolo, e Libano sorride venendo a propria volta dentro di lui. È l’unico momento in cui Freddo riesce quasi a credere che sia lì per davvero.
Si rilassa contro il cuscino, sentendo tutta la foga che l’ha tenuto sveglio e teso fino a quel momento scivolare lentamente via dal suo corpo, lasciandolo vuoto come se si fosse sgonfiato all’improvviso. Si sente pesante, stanchissimo, assonnato. Non ha la forza di schiudere le palpebre, ma sa che Libano è ancora lì.
- Quanno aprirò l’occhi, - chiede con rassegnazione, - domani mattina, dico, te nun ce sarai più, vero?
Libano sbuffa una mezza risata. Freddo si sente accarezzare i capelli, ma stavolta è davvero come sentire il vento scuoterli.
- Ce lo sai già. – risponde. Freddo annuisce, ma nell’attimo in cui comincia a scuotere la testa sa già che non c’è più nessuno a guardarlo.
Si azzarda ad aprire gli occhi. La stanza è più vuota del solito. Chiude gli occhi immediatamente, perché quello che vede non gli piace. Non sa come farà a farselo piacere in futuro. Ci proverà, però. E se non dovesse riuscirci, farà quello che avrebbe dovuto fare fin dall’inizio, e tornerà a Roma. Per restarci.
Genere: Erotico.
Pairing: Freddo/Libanese.
Rating: R/NC-17
AVVISI: Slash, Lemon, Angst.
- "'Fre', se po' sape' che c'hai?'"
Note: XD Avevo promesso che l'avrei fatto :3 Ho già scritto una drabble su questo stesso tema, il periodo di "riposo" che Freddo ha vissuto a casa di Libano dopo essere stato ferito per salvarlo dall'attacco dei fratelli Gemito, ma avevo già detto allora che quelle poche parole non avevano certo soddisfatto la mia voglia di scrivere porno su quella scena X'DDD Per cui alla fine mi ci sono messa ben benino ed è venuta fuori lei **
Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia, su prompt ROMANZO CRIMINALE Freddo/Libanese, “Ma se po' sapè che c'hai?”.
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THE GREAT COMPROMISE
ROMANZO CRIMINALE Freddo/Libanese, “Ma se po' sapè che c'hai?”

Il primo momento assolutamente imbarazzante che si ritrovano a vivere ha luogo quella sera stessa, e Freddo si dice che, se il buon giorno si vede dal mattino, allora può cominciare a prepararsi a un lungo calvario di giornate infernali. D’altronde era per questo motivo che non voleva restare a casa del Libanese. Passare insieme anche ogni singolo minuto della giornata va bene, non è un problema – non che loro lo facciano, anche perché Freddo diventa intollerante appena comincia a vedere sempre le stesse facce per più di tre ore di fila, ma potrebbero, volendo – ma infilarsi l’uno in casa dell’altro, quello no, quello è oltrepassare i confini. Non si fa. Non si vanno a cambiare le abitudini della gente, semplicemente perché le abitudini, in quanto tali, si ripetono ciclicamente. La vita di ognuno si basa sulle abitudini che si prendono, andare a cambiare le routine quotidiane non è meno grave che puntare la pistola al petto di uno sconosciuto e fare fuoco. D’altronde, esiste un cambiamento di abitudini più enorme della morte? Quella è la rottura definitiva, il momento in cui tutto ciò che conosci, tutti i tuoi piccoli rituali, si sfumano e poi scompaiono. Perfino quelli più banali, perfino quelli automatici – il respiro, il battito del cuore, il pulsare del sangue nelle vene – si spengono.
Cambiare le abitudini di qualcuno è un po’ come uccidere la sua quotidianità, uccidere lui. Il Freddo non vuole uccidere il Libanese, eppure è immobilizzato a casa sua perché il Libanese ha deciso di suicidare le proprie abitudini trattenendolo controvoglia nel proprio letto. E ora è qui davanti a lui, in mutande, i capelli arruffati sulla testa, che lo guarda come se non ricordasse nemmeno chi è, e Freddo ha solo voglia di rotolare su un fianco e raccogliersi a palla per non srotolarsi mai più. Ma naturalmente non può.
- Ah, già. – dice Libano, gli occhi che si rischiarano e sembrano improvvisamente prendere coscienza effettiva del mondo circostante, - Te stai qua, eh. – ordina, indicando il materasso, annuendo più per ricordare la decisione che ha preso a se stesso che per ricordarla a lui.
- Guarda che me ne posso pure torna’ a casa. – risponde lui, e come per dare maggior forza a quell’intenzione si scosta di dosso le coperte col braccio sano e, cercando di tenere quello ferito il più possibile vicino al corpo per non muoverlo troppo, fa per alzarsi in piedi.
- No, no, no! – dice subito Libano, afferrandolo per le spalle per riportarlo giù e togliendogli immediatamente le mani di dosso quando dalle sue labbra scappa un gemito sofferente, - E ‘ndo vai tu? – gli chiede, - Ce lo vedi come stai?
- Come sto, a Libano. – sbotta lui, digrignando i denti per cercare di tenere a bada il dolore finché non sarà passato, - È er braccio che fa male. ‘E gambe stanno a posto.
- Er braccio te serve più de’ ‘e gambe. – annuisce il Libanese, osservando le lenzuola come chiedendosi se sia il caso di rimboccargliele e decidendo saggiamente di non farlo.
- Nun ce cammino mica. – gli fa notare Freddo.
- Sì, ma ce spari. – ribatte Libano, lanciandogli un’occhiata eloquente. – E a te te serve de pote’ spara’, si voi anna’ in giro proprio mo’.
- Vabbe’, senti, - insiste Freddo, tornando a cercare di mettersi seduto, - te ‘ndo dormi, scusa? È chiaro che si sei venuto qua—
- Nun me ricordavo che ce stavi, Fre’! – lo interrompe Libano, - C’ho avuto ‘na giornata difficile, come puoi immagina’. C’ho er divano de là. È comodo.
- Ma me spieghi, - borbotta lui, - me spieghi perché ce devi dormi’ te sur divano? Ce posso anna’ io! Nun me serve de pote’ spara’ pe’ fa du’ metri e anna’ de là!
- Oooh! – sbuffa lui, roteando gli occhi, - A Fre’, ma che du’ palle! Basta, m’hai rotto i coglioni. Me senti? Mi hai rotto i coglioni! – ribadisce gesticolando e tirandogli una spinta contro la spalla sana per mandarlo di nuovo giù disteso in mezzo ai cinquecento cuscini che ha tirato fuori da chissà dove e che, prima di andare via, Vanessa ha avuto la compiacenza di sistemargli attorno col Bufalo, tirando peraltro ordini a destra e a manca e facendosi obbedire in un modo che il Libanese stesso la guardava con meraviglia, quasi sul punto di chiederle il segreto del suo successo. – Te dormi qua, stanotte. E domani notte. E dopodomani notte. E da mo’ a quanno mori, se necessario. Ce semo capiti?
- Ma vaffanculo, Libano.
- Ce semo capiti?
Freddo sospira, cedendo alla tentazione di voltarsi sul fianco – giusto per non doverlo più guardare mentre si fa rispettare anche insonnolito, mezzo nudo e genericamente ridicolo com’è – ma non a quella di appallottolarsi a riccio e morire di vergogna e consunzione.
- Ce semo capiti. – conferma a mezza voce.
- Mejo così. – sbuffa Libano, soddisfatto, sparendo lungo il corridoio meno di un minuto dopo.
*
Non va meglio, il mattino dopo. Freddo passa tutta la notte a fingere di dormire mentre Libano russa dal divano nella stanza adiacente. Lo invidia sempre più minuto dopo minuto perché riesce a stare tranquillo e farsi sostanzialmente i cazzi propri dopo aver guardato una pistola nel fondo del suo unico occhio nero da un centimetro di distanza, dopo aver visto cadere un amico ferito al braccio, dopo aver deciso cosa sarà della sua vita finché non sarà guarito. Forse è per questo che riesce a fare il capo tanto bene, a prendere decisioni così in fretta. Libano vive le cose e l’attimo dopo non ha dimenticato, no, però è passato oltre. Ha già elaborato e digerito, può andare alla cosa successiva. Lui non è capace. Lui è capace solo di restare in quel letto, fra lenzuola che non sono sue e sanno del Libanese così tanto da mandargli in confusione il cervello, e fissare la parete sperando, pregando che l’indomani possa andare meglio. Ma naturalmente non succede.
Libano esce dal bagno ancora umido, coi capelli bagnati, completamente nudo. Ha un asciugamano attorno alle spalle, e quando mette piede in camera e lo trova seduto sulla sponda del letto che lo fissa con tanto d’occhi la prima cosa che fa è afferrarlo ed annodarselo sommariamente attorno alla vita, mentre gira su se stesso fingendo disinvoltura, come volesse lasciargli intendere che no, non è che s’era scordato di nuovo della sua presenza e stava semplicemente agendo come avrebbe fatto normalmente se la casa fosse stata vuota, assolutamente, in realtà voleva andare da tutt’altra parte e ha solo sbagliato strada.
- Libano. – lo chiama con un sospiro rassegnato, e lui si ferma a metà del corridoio, irrigidendo le braccia lungo i fianchi come gli avessero appena puntato una pistola alle spalle. Solo che con una pistola puntata alle spalle probabilmente il Libanese si sentirebbe molto più a suo agio di quanto si sente adesso che l’unica cosa che gli preme sulla nuca sono gli occhi preoccupati e vagamente risentiti del Freddo. – Vie’ qua.
Si volta lentamente, lanciandogli un’occhiata incerta.
- Stavo andando a… - inventa, indicando un punto a caso dietro le proprie spalle, - prenne ‘na cosa.
Freddo sospira di nuovo, battendo la mano sul materasso.
- Vie’ qua. – ripete, e Libano si avvicina, tanto mogio che pare un ragazzino. – Nun se po’ mica anna’ avanti così. – dice, e il Libanese si agita tutto, tornando a guardarlo negli occhi.
- Nun ricomincia’ co’ la storia de tornattene a casa tua, Fre’, perché c’ho ancora li coglioni rotti da ieri. – dice subito in un ringhio infastidito. Freddo gli tira un cazzotto contro la spalla. – E sta’ bono co’ le mani! – borbotta lui. Freddo lo picchia ancora, nello stesso punto.
- Nun ricomincio niente. – dice, quando capisce che il Libanese ha afferrato l’antifona e intende tacere, - Sto solo a di’ che così nun se po’ continua’. Quinni o trovamo ‘na soluzione o me ne vado a sta’ da Fierolocchio o dai Buffoni. Ce li ho i posti ‘ndo anna’ pe’ sta’ protetto. Nun me serve sta’ qui per forza.
Libano incrocia le braccia sul petto. Il nodo dell’asciugamano appuntato ai fianchi si scioglie appena. Fortunatamente è seduto, e la cosa non ha conseguenze.
- Nun ce serve ‘na soluzione. – ribatte, - Ce serve solo de farci un po’ l’abitudine.
Freddo spalanca gli occhi. Se non sapesse che sarebbe ridicolo, arretrerebbe spaventato.
- Libano, io tempo tre giorni ‘sto fori de qua. – gli ricorda.
- Cor cazzo. – risponde istantaneamente lui, - Te te ne vai solo quando sei guarito.
- Cioè fra tre giorni! – insiste Freddo, sempre più sconvolto.
- Nun lo poi sape’ mo’! – gesticola il Libanese. L’asciugamano gli scivola un po’ lungo una coscia e lui lo afferra svelto, riportandolo al proprio posto. È abbastanza ridicolo anche questo, nel complesso. Freddo ne riderebbe, se avesse voglia di ridere in questo momento.
- Nun è la prima volta che me sparano, Libano. – borbotta esasperato, - Fra tre giorni io sto fori de qua, nun ce serve l’abitudine proprio a niente. Perché dopo io me ne torno a casa mia. È chiaro?
- Certo che è chiaro. – grugnisce Libano, incassando la testa nelle spalle, sulla difensiva, - Mica te voglio tene’ qua pe’ sempre, Fre’. Chi te l’ha detta ‘sta cosa?
- Nessuno me l’ha detta, Libano! – sbotta Freddo, allargando le braccia e poi soffiando come un gatto quando sente la pelle attorno ai punti sotto la spalla tirare dolorosamente. – E vaffanculo pure a ‘sti punti der cazzo.
- Certo che me fai proprio mori’ da ridere te. – dice Libano quasi con disprezzo, alzandosi in piedi. Non sta ridendo affatto. – Me parli de usci’, de anna’ ‘ndo cazzo te dice ‘a testa, e appena movi er braccio te metti a urla’. Ma vaffanculo te, Fre’. Vaffanculo te. – borbotta. Si volta, entrambe le mani chiuse attorno ai lembi dell’asciugamano per tenerlo al proprio posto, e muove qualche passo verso la soglia della porta.
- Libano. – sospira Freddo quando sente la ferita smettere di bruciare, - Nun te ‘ncazza’ mo’.
Il Libanese volta appena il capo, lanciandogli un’occhiata disgustata da sopra la spalla, assottigliando gli occhi fino a ridurli a due spiragli ai lati del naso.
- Io t’ho aperto le porte de casa mia. – dice, - E tu così me ringrazi. – scuote il capo, deluso. Freddo ha voglia di roteare gli occhi e mandare a fanculo pure lui, assieme a tutto il resto. – Te resti qua oggi. E nun te movi.
- Libano, devo anna’ ‘n po’ a casa mia. – cerca di fargli presente. Il Libanese non si ferma. Non lo guarda più.
- Te chiudo ‘n casa. – conclude abbandonando la stanza. Freddo gli tira dietro un cuscino, e poi torna a sdraiarsi.
*
Torna a notte inoltrata, senza essersi fatto né vedere né sentire per tutto il giorno. Quando apre la porta, trova Freddo seduto sul divano con gli occhi fuori dalle orbite dalla noia e dalla rabbia, e fa istintivamente un passo indietro, spaventato. Si muove tanto repentinamente da restare quasi appeso alle chiavi ancora incastrate nella serratura, il che sarebbe già abbastanza ridicolo se non fosse che è già assurdo in partenza che lui possa provare una paura simile di fronte a un uomo incazzato sì, ma palesemente ferito, che soffia come un gatto ogni volta che gli sfiorano il braccio malconcio, quando in genere di fronte a tipi ben più pericolosi che gli puntano la pistola a tre centimetri dal naso non fa una piega.
- Freddo. – lo chiama, - Che ce fai ‘n piedi? – chiede, entrando in casa e chiudendosi la porta alle spalle, approfittando del breve momento che deve passare voltato per chiudere il ferro per riacquistare un minimo di sicurezza di sé. Quando si volta, ha le sopracciglia aggrottate e le labbra piegate in un’espressione severa, quasi di rimprovero. – Nun t’avevo detto de resta’ a letto?
- No, nun me l’avevi detto. – risponde Freddo alzandosi in piedi ed andandogli incontro a passo marziale, - E comunque me ne sbatto er cazzo de quello che dici e de quello che nun dici, Libano. Basta. Famme usci’.
- Cor cazzo. – ribatte immediatamente lui, parandosi di fronte alla porta in un gesto quasi comico, - Nun ricomincia’, Freddo, che te prendo a ceffoni fino a farte dimentica’ che fori esiste, chiaro?
- Te ce devi solo prova’. – sibila Freddo a due centimetri dal suo viso, guardandolo con tanta di quella furia che Libano ne ha davvero paura, per la prima volta nella sua vita, - Te ce devi solo prova’ a metterme ‘e mani addosso, Libano. – lo minaccia, respirandogli forte addosso.
Libano deglutisce, poggiandogli le mani sulle spalle e spingendolo delicatamente indietro.
- Ora damose ‘na calmata. – dice a bassa voce, conciliante, portandolo a sedersi nuovamente sul divano. – Parlamone ‘n attimo.
- Nun c’è niente da di’. – ringhia Freddo, scrollandosi le sue mani di dosso con stizza, - Ma ce lo sai che vor di’ che so’ rimasto qua a nun fa ‘n cazzo tutto er giorno?
- E l’ho capito, - annuisce Libano, - te sei annoiato, ma—
- No, io me annoio quanno sto du’ ore senza fa’ niente, quanno ce sto venti ore a ‘n fa’ niente non è che m’annoio, Libano, me viene da tiramme ‘n corpo ‘n testa! – strilla lui, - È chiara la differenza?
- È chiara, è chiara! – lo rassicura lui, mettendo le mani avanti e poggiandogliele nuovamente sulle spalle, dove batte un paio di pacche amichevoli per cercare di calmarlo. – Me pare che stai meglio, comunque. Domani magari ce movemo ‘nsieme, uscimo ‘n po’, ce demo ‘n po’ da fare. Che dici?
- Dico che me devi molla’, Libano. – sbotta lui, esasperato, ma inspira ed espira per riacquistare la calma, e poi torna a guardarlo, concedendosi un sorrisetto un po’ stanco. Sembra che il suo ritorno a casa gli abbia permesso di esplodere, buttando fuori cose che, nella solitudine dell’appartamento, s’era tenuto dentro per troppo tempo. Nel guardare la piega intimamente divertita delle sue labbra, Libano si concede di sperare di poterlo tenere lì ancora almeno un paio di giorni. Ma questo a lui non lo dice. – Tanto ce lo so che nun voi, però. – sospira. Libano abbassa lo sguardo, sentendosi colpevole e irrazionalmente scoperto. – Vabbe’. Famo che ne riparliamo domani. Mo’ sarai stanco. Te che hai avuto modo de stancarti.
Libano sorride e si stiracchia, alzandosi in piedi e dicendo che in effetti oggi sono successe un po’ di cose – non così tante, Freddo, nun te sei perso niente de che – e Dandi di qua, e Bufalo di là, e quel coglione di Scialoja sempre in mezzo, e quindi sì, un po’ stanco è davvero, ma niente che non possa aspettare un bel piatto di pasta fatta come Dio comanda.
Tirano fuori dal frigorifero un barattolo di sugo pronto già consumato per metà, mettono un po’ di pasta sul fuoco e parlano del più e del meno. Freddo fa finta di non voler fuggire calandosi giù dalla finestra soltanto per respirare un po’ l’aria della strada, Libano fa finta di non capire quanto palese sia questo desiderio nei suoi occhi, e quando una mezz’ora dopo si salutano e decidono di andare a dormire, sono le quattro del mattino, e Freddo decide di non fare le bizze, calare la testa e chiudersi in camera senza una parola di più.
Si stende a letto e rimane lì, per un po’. Si rigira da un lato e dall’altro, affonda il naso nel cuscino e nelle lenzuola e sente solo il proprio stesso profumo. È un dettaglio che gli dà un fastidio enorme, quasi insopportabile. Quanto ci metterà quella stanza a riprendere l’odore del Libanese? Del suo bagnoschiuma, dei suoi capelli, della sua pelle, del suo respiro? Non sa se gli dia più noia l’idea che avrà ancora un pezzo così grande di sé – il proprio odore, santo Dio – in casa di Libano anche dopo che ne sarà uscito, o il fatto di essersi lasciato imporre in quel posto fino a lasciargli addosso una traccia così intensa da non poter più sentire quella che fino al giorno prima era ancora così forte.
Sente la mancanza del profumo di Libano intrappolato fra le fibre. È tutto qua, forse. Ma pensarlo gli mette addosso un’inquietudine intollerabile, perciò mette il pensiero da parte e si tira nervosamente a sedere.
Deve uscire di là. Subito, immediatamente.
I jeans li ha ancora addosso, le scarpe le infila alla cieca senza neanche controllare se son messe giuste. Cerca il maglioncino a tentoni nell’ombra della stanza e lo trova tutto avvoltolato e spiegazzato su una sedia. È strappato su un braccio e sporco di sangue in corrispondenza del punto in cui è stato ferito. La fibra sporca è ruvida, incartapecorita, friabile. Ne strappa via un pezzetto con rabbia, sbriciolandoselo fra le dita, mentre si rende conto di non averla più indossata – né quella, né nient’altro – da quando ha messo piede in quell’appartamento.
Sbuffa indossandola, ha un pessimo odore. Non vede l’ora di essere a casa sua.
Si affaccia dalla stanza e, attraverso lo spiraglio della porta, controlla la situazione. Libano dorme, steso sul divano, e russa piano, la faccia affondata in un cuscino rotondo che ha l’aria di essere la cosa più scomoda del mondo. Nella sua testa, Freddo lo rassicura: nun te preoccupa’, che fra ‘n po’ torni su quella meraviglia de letto tuo. E sorride appena uscendo in corridoio e richiudendosi silenziosamente la porta alle spalle, accompagnandola e poggiando una mano in corrispondenza della serratura per ovattare un po’ il rumore dello scatto.
Muove qualche passo silenzioso in corridoio, camminando sulle punte dei piedi per non rischiare di svegliare Libano coi tacchi degli stivali, e quando posa due dita sulla maniglia della porta quasi sorride, trionfante, prima di ricordarsi che il Libanese ha chiuso la porta dall’interno, rientrando, quindi lui per uscire dovrà prima trovare le chiavi.
Sospira pesantemente, e nel momento di delusione non si accorge che qualcosa è cambiato, nell’aria intorno a lui. Il Libanese non russa più.
Si volta, meditando sul da farsi, e gli salta il cuore in gola quando lo vede seduto sul divano, appoggiato di schiena al bracciolo. La sua pelle è azzurrognola nella luce della notte che filtra dalle imposte. La sua espressione è dura, cristallizzata nel solito grugno infastidito che gli piega verso il basso gli angoli della bocca. Freddo deglutisce, si sente a disagio e non vorrebbe.
- Ma perché me devi fa’ ‘ncazza’? – dice a bassa voce, scuotendo il capo, quasi deluso. Freddo abbassa gli occhi e si morde un labbro. – A Fre’. – lo chiama Libano, e la sua voce è molto più vicina. Freddo torna a sollevare il viso e lo trova a un respiro dal suo viso. Solo un respiro, sì, perché la distanza che li separa è talmente minima che qualsiasi unità di misura fisica, palpabile, sarebbe eccessiva. – Fre’, se po’ sape’ che c’hai?
E Freddo solleva entrambe le mani e lo afferra per le spalle, stringe forte anche se la ferita tira e i punti in tensione minacciano di strapparsi. Sente qualche goccia di sangue affiorare lungo i tagli irregolari che il proiettile ha prodotto strisciandogli addosso, e cerca di ritrovare in quel calore che brucia la serenità sufficiente per rispondere a Libano che non c’è niente che non va, vuole soltanto uscire da quella fottuta casa, ma in realtà non lo sa se il problema è la casa, se è lei o il sentircisi imprigionato dentro, se è lui, forse, che lo tiene bloccato fra quelle quattro mura peggio che in galera, o se semplicemente gli fa paura aggirarsi fra quelle stanze, quelle pareti, quelle lenzuola, e ritrovarcisi.
- Fre’? – sussurra il Libanese, gli occhi bene aperti ma non spalancati, non stupiti, non spaventati, e Freddo si sente tremare e si dice che non è giusto, non è giusto neanche per un cazzo che lui debba stare così. Qual è il problema, si chiede, quale cazzo è il problema?, e Libano solleva una mano, gli accarezza ruvido una guancia, lo guarda negli occhi e ripete – Fre’? – a voce così bassa che Freddo quasi nemmeno lo sente. E poi ricorda che le parole possono essere pericolose, perciò lui le sue al Libanese non le vuole dire.
Si sporge in avanti e le loro labbra si sfiorano appena. È solo un assaggio, ed è Freddo a tirarsi indietro per primo, perché il brivido che l’ha scosso tutto da capo a piedi a quel minimo contatto è stato quasi devastante. Ha sentito lo stomaco contrarsi ed è ancora lì annodato, e fa male. Qualsiasi cosa sia questa è terribile, letale. Freddo ne vuole stare il più lontano possibile. E ci prova, ad allontanarsi, ma per qualche motivo le sue dita restano strette attorno alle spalle del Libanese, per cui non ottiene granché.
- Fre’. – dice Libano. La sua voce è insolitamente dolce. Lo stomaco di Freddo si attorciglia un’altra volta, fa strage della sua lucidità mentale, Freddo geme perché il dolore è troppo forte e sente un rivolo di sangue scivolare lungo il braccio, verso il gomito. E poi non sente più niente, a parte la pressione delle labbra del Libanese contro le proprie. Non sente più niente, nemmeno il dolore.
Geme ancora, accogliendo la sua lingua nella propria bocca, lasciandosene accarezzare. Forse è perché è notte, perché è buio e perché entrambi sono completamente fuori di testa, pur se in due modi differenti, ma Freddo sa per certo che il Libanese non si sta ponendo delle domande su ciò che stanno facendo, come forse dovrebbe fare. Ne è sicuro, così come sa di non aver alcuna voglia di porsele nemmeno da sé, le domande. Eppure dovrebbe. Ci sono centinaia di cose che dovrebbe chiedersi adesso, centinaia di domande per cui dovrebbe trovare centinaia di risposte, ma non gliene interessa nemmeno una. Niente sembra concreto e importante come il tocco del Libanese sulla sua pelle, o le lunghe carezze affamate che la sua lingua impone alla propria, esplorando ogni angolo della sua bocca come volesse prendere familiarità – lasciargli dentro un’impronta.
Lo spinge verso la porta della camera da letto, perché se questa cosa deve accadere vuole che sia lì, nello spazio che era suo e che invece lui ha colonizzato tutto. Ricorda com’era quella stanza quando ci ha messo piede due giorni fa, ricorda che la prima cosa che ha sentito, nonostante il dolore e nonostante la confusione che regnava sovrana nella sua testa in quel momento, è stata l’odore del Libanese, una cosa talmente fisica da poterne quasi sentire il sapore sulla lingua, come in quei giorni in cui la cappa di umidità sopra Roma era tanto gonfia da farti sentire la pioggia sulla pelle prima ancora che cominciasse a cadere.
Il letto li accoglie con un cigolio dimesso, quasi non volesse disturbarli mentre si perdono nel suono confuso e aritmico dei loro respiri. Libano si stende sopra le coperte aggrovigliate e Freddo gli sale addosso, si struscia contro di lui affondando le dita nelle sue spalle e poi si lascia ribaltare sul materasso quando, dopo una spinta ed un grugnito più forte degli altri, capisce che Libano ha deciso.
Il suo sangue macchia il lenzuolo, ma Freddo non se ne cura. Libano nemmeno. Lo spoglia celermente, strappandogli e strappandosi i vestiti di dosso. S’insinua fra le sue gambe scivolandogli addosso con le labbra dal collo, al petto, allo stomaco, e Freddo lo lascia fare così come, quando lo sente premere fra le natiche, cerca di rilassarsi il più possibile, per lasciarlo entrare, e Libano entra, con la stessa facilità con cui è entrato nella sua vita rivoltandola al contrario, con la stessa facilità con cui lui è entrato in casa sua lasciando il proprio odore attaccato ad ogni superficie.
Si muove sotto di lui cercando di seguire i suoi movimenti, chiude gli occhi e le labbra del Libanese gli strappano via il dolore di dosso, confondendolo al punto che dopo un po’ Freddo non riesce più a capire se faccia più male la sua presenza scomoda e ingombrante dentro di lui, o il cuore che gli si è rimpicciolito nel petto, o forse semplicemente si è allargato troppo, perché fa male, fa malissimo, e le possibilità sono solo quelle, o è diventato minuscolo, spremendo di fuori sentimenti che Freddo non pensava di aver mai contenuto, o è diventato enorme, contenendone altri altrettanto misteriosi e sconvolgenti – e spaventosi – ed ora preme contro le sue costole, minacciando di spaccarle una per una e scappargli fuori dal petto per gettarsi in quello del Libanese.
Libano lo tiene stretto per i fianchi, gli morde il collo, le labbra, il mento, tutti i centimetri di pelle che riesce a conquistarsi combattendo una lotta armata e violenta contro il suo corpo che si dimena e scalcia e si inarca sotto di lui, premendoglisi contro ed allontanandosi subito dopo, accogliendolo fino alla base e poi tirandosi indietro quasi fino a lasciarselo sfuggire, e si lascia sfuggire un mezzo grido quando lo sente contrarsi tutto attorno alla propria erezione, e assieme alla voce gli sfugge dal corpo anche l’orgasmo. Freddo accoglie entrambe le cose dentro di sé – il suo piacere nel proprio corpo, i suoi gemiti fra le proprie labbra – e poi se lo tiene stretto contro finché i loro corpi non si raffreddano e la sensazione appiccicaticcia e sgradevole di una vicinanza inopportunamente protratta troppo a lungo non arriva a bussare con prepotenza ai loro sensi, obbligandoli a separarsi.
Libano si rigira sulla schiena, fissa il soffitto e respira faticosamente. Si morde l’interno di una guancia per impedirsi di chiedere a Freddo se voglia ancora andarsene, ma fortunatamente non deve mordere a lungo.
- Resto. – borbotta lui infatti, rimanendo immobile sulla propria metà di letto, - Però resti pure te.
Il Libanese annuisce. Gli sembra un buon compromesso.
Genere: Introspettivo, Erotico, Commedia, Romantico.
Pairing: Freddo/Libanese, accenni a Gigio/Libanese e a Freddo/Roberta.
Rating: NC-17
AVVISI: Slash, Lemon, What If?.
- "Er pischello che diceva Bufalo… era Gigio."
Note: Avevo promesso a Tab che l'avrei fatto... XD Dunque, questa fic è il seguito di Talk To My Troubled Brain, ed è di quel tipo di seguiti che non puoi capire se non leggi la fic da cui sono stati generati, per cui, se proprio volete godervi questa, andate prima a godervi quell'altra XD ...e niente. *sospira e piange sale* A parte questo, io amo Bufalo, unico sprazzo di normalità di tutto ciò. Mi sono divertita da morire a scrivere la prima scena X3 Belli lui e il Dandi che si scazzano di continuo. ♥
Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia, su prompt ROMANZO CRIMINALE Freddo/Libanese, "Sei uguale a tu' fratello. Con voi nun ce se sbaglia."
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BODY AND SOUL ARE BLOWN UP IN PIECES
ROMANZO CRIMINALE Freddo/Libanese, "Sei uguale a tu' fratello. Con voi nun ce se sbaglia."

- E ‘nsomma, sto pischello vie’ fori dar bar. – racconta Bufalo, gli occhi enormi, mentre gesticola animatamente per esprimere tutto il proprio sconcerto di fronte alla propria piccola platea improvvisata. Dandi gioca a biliardo con Trenta Denari e non sembra granché interessato a niente che non sia sferico e non rotoli su un tappeto verde, i Buffoni, Fierolocchio e Scrocchiazzeppi sono persi in una partita di poker che va avanti da almeno tre ore ed alzano gli occhi su di lui solo a tratti e Freddo sta appoggiato alla parete poco distante, unico nel mucchio che lo degni di un po’ d’attenzione, mentre Libano, con gli occhi chiusi e apparentemente impegnato altrove dentro la propria testa, sta seduto come il re dei poveri sulla sedia rinsecchita e cigolante che gli fa da trono dietro al suo solito tavolino, un bicchiere di whiskey in una mano e una sigaretta nell’altra. – E nun me degna de ‘n’occhiata. Esce come ‘na furia e si tiene su ‘e braghe come se je devono casca’ da ‘n momento all’artro.
Freddo inarca un sopracciglio, le labbra sottili strette in una smorfia che le rende ancora più sottili, quasi lineari.
- E chi era ‘sto pischello? – chiede, ma è più che altro una gentilezza che gli fa per permettergli di continuare a parlare. Bufalo si volta verso di lui, le braccia che gli ricadono lungo i fianchi come si fosse smosciato d’improvviso.
- E secondo te io che ne so? – chiede aggrottando le sopracciglia, - Era piccino, c’avrà avuto diciassett’anni. Poi entro qua e je chiedo si lui ne sa niente, - continua, indicando Libano con un cenno del capo, - e ce lo sapete lui che me dice? Ce lo sapete?
- No, Bufalo, e nun ce ne frega manco ‘n cazzo. – risponde Dandi, prendendo la mira, - Te stai ‘n po’ zitto, mo’? Nun me riesce de concentrarmi se parli de continuo.
- A Dandi, te te devi sta’ attento. – dice subito lui, infilando le mani in tasca ed abbassando considerevolmente il tono di voce, mentre gli si avvicina a gambe larghe e testa bassa, come volesse caricarlo né più e né meno di come fanno gli animali di cui porta il nome, - Te te devi sta’ attento perché mo’ ce stai proprio a rompe’ er cazzo.
- E si te sei rotto er cazzo perché nun te ne vai a casa a dormi’, Bufalo? – ribatte Dandi, posando la stecca sul bordo del tavolo e voltandosi verso di lui col solito sorriso spavaldo, le mani sui fianchi e il petto in fuori, - Che a me me sa che stai a dormi’ poco, visto che te stanno a veni’ ‘e visioni.
- A Dandi, sta’ attento a cosa dici, eh, - insiste Bufalo, andandogli tanto vicino da poterlo prendere a testate sul naso, volendo, - che io a te ancora te devo quarche cazzotto, ricordatelo sempre.
- E c’avete rotto er cazzo tutti e due mo’! – tuona Libano, posando il bicchiere sul tavolo con un tonfo secco. – Basta, è tardi e semo tutti stanchi. Tutti. – precisa, guardando Dandi per ricordargli che pensa lo stesso anche di lui, quando Dandi fa tanto di sorridere soddisfatto, - ‘Namosene a casa, va’. – conclude alzandosi in piedi, - Quanti sordi hai buttato ar cesso stasera, Scrocchiazze’? – chiede con un mezzo sorriso, voltandosi verso l’amico, per stemperare l’atmosfera improvvisamente tesa.
- Troppi, Libane’, c’hai ragione. – annuisce lui alzandosi in piedi e mettendo via il poco che gli resta, - Me sa che è meglio se la chiudiamo qua, pe’ stasera, rega’.
- E me sa de sì. – annuisce Fierolocchio, stiracchiandosi sullo schienale della sedia, - Che m’o dai ‘no strappo a casa? – chiede, e Libano torna subito a disinteressarsi dei loro discorsi, spostando lo sguardo su Bufalo e Dandi per assicurarsi che si allontanino senza prendersi a cazzotti e poi salutino tutti, dirigendosi uno dopo l’altro verso l’uscita.
- Te no. – dice indicando Freddo quando lo vede allungare una mano verso la giacca per indossarla, - Te devo parla’.
Lui inarca un sopracciglio e sembra piuttosto stupito dalla richiesta, ma lascia subito perdere la giacca e gli si avvicina, raggiungendolo dov’è ed aspettando finché la sala è vuota per voltarsi verso di lui e abbozzare un sorriso.
- Che so’ ‘ste formalità? – chiede divertito, - Che me devi di’?
Il Libanese schiude le labbra, convinto che quando l’avrà fatto le parole usciranno da sole nel modo migliore – l’unico modo possibile, in realtà, migliore o peggiore non ha mai fatto tanta differenza, per lui; d’altronde, se una notizia è brutta puoi infiocchettarla quanto vuoi, sempre brutta rimane, mentre se c’hai un camion pieno di mignotte che aspetta solo di essere scaricato per dare la notizia va bene un modo qualunque, tanto nessuno se ne accorge – e invece gli si blocca il fiato in gola, come ci si fosse affogato.
Annaspa per qualche secondo, si schiarisce la voce e poi torna a guardare il Freddo, che lo fissa con curiosità, le braccia incrociate sul petto e il capo lievemente inclinato. Libano si accorge solo ora di non sapere come dirgli che in mattinata suo fratello s’è presentato da lui chiedendogli se avrebbe accettato dei soldi per fargli del male. E che lui naturalmente ha rifiutato, sì, ma già che c’era se l’è scopato.
Sul momento l’idea non era sembrata male. Il Freddo e suo fratello, ha scoperto, hanno un sacco di cose in comune – e lui ha paura di essere diventata una di queste, tra l’altro – ed una di queste è che magari non si incazzano spesso, ma quando s’incazzano fanno il diavolo a quattro. E il Freddo lo si calmava in due modi soli, o gli si dava un cazzotto – poco raccomandabile, come soluzione: lui aveva il brutto vizio di rimandarlo al mittente – o gli si dava un modo alternativo per tenere impegnate le mani. Di solito funzionava a distoglierlo dal motivo per il quale era arrabbiato, e per quando tutto si concludeva l’incazzatura gli era passata del tutto e manco si ricordava più perché fosse stato arrabbiato in passato. E con Gigio era andata allo stesso modo, dopotutto, quindi magari scoparselo non è stata proprio una brutta idea a livello generale. È il doverlo dire a Freddo che proprio gli crea dei problemi che mai prima di oggi non si sono mai presentati, e che in realtà in prospettiva lo preoccupano. Se non riesce a dirgli una cosa del genere, quanti casini sarà in grado di creare in futuro per cose ben più difficili da sputare fuori?
- Er pischello che diceva Bufalo… - comincia con una certa difficoltà, passandosi una mano sulla nuca e districando i riccioli annodati alla base del collo, - era Gigio.
Freddo lo guarda per un lungo secondo come se non riuscisse a vederlo, come se le immagini che gli si stanno affollando nella mente – o forse le parole che gli si sono infilate nelle orecchie e che, fra i suoi pensieri, hanno preso forma fisica – lo stessero accecando.
- Che stai a di’? – sputa alla fine, senza fiato. Libano sospira profondamente.
- M’è venuto a fa’ ‘na visita. – spiega, cercando di mantenersi rilassato e tranquillo, come stesse riferendo una notizia della minima importanza. – Io nun è che vojo mette er naso ne l’affari tua, Fre’, - esita, in un borbottio per lui tremendamente inusuale, omettendo che in realtà il naso negli affari suoi lo vorrebbe mettere eccome, se non altro per strillargli in faccia “e questa ragazza chi sarebbe?”, - ma è er fratellino tuo e nun me pare er caso de mandallo in giro a di’ cose come quelle che ha detto a me oggi. – conclude, annuendo a se stesso, soddisfatto per come è riuscito a gestire il flusso d’informazioni che doveva comunicare e, fino a pochi istanti prima, non sembrava avere alcuna intenzione di venir fuori.
Freddo sbianca in volto, le labbra dischiuse e le braccia abbandonate lungo i fianchi.
- Che t’ha detto? – chiede in un rantolo, e Libano ha l’impressione che Freddo si aspettasse, in qualche modo, che suo fratello prima o poi avrebbe fatto qualcosa di pazzo, anche se non era riuscito a intuire quanto.
- M’ha detto che gl’hai fregato la ragazza. – butta lì. Freddo trema. – E m’ha chiesto se te potevo fa’ ‘a festa pe’ quarche spicciolo. Che poi so’ sordi tua, Fre’.
Freddo boccheggia come un pesce fuori dalla boccia per una quantità di secondi infinita. È sempre stato un tipo piuttosto riflessivo, Libano ha perso il conto delle volte in cui ha dovuto risvegliarlo con un “aò!” perché, mentre parlavano, s’era perso nella propria testa inseguendo un pensiero dei suoi, di quelli lunghi e articolati che finivano sempre per arrotolarglisi addosso imprigionandolo come una rete da pesca, ed anche adesso si prepara a tirarlo fuori da un labirinto simile nello stesso modo, se non che, un attimo prima che lui si decida finalmente a schiudere le labbra per richiamarlo, un lampo di qualcosa di pericoloso e preoccupante passa sul fondo scuro degli occhi del Freddo, e invece di chiamarlo Libano allunga una mano. E fa appena in tempo, perché riesce a chiudergli le dita attorno al braccio proprio mentre lui si sta voltando per recuperare la giacca ed uscire di gran corsa dal locale.
- Lasciami anna’, Libano. – dice con voce tremante, e il Libanese stringe ulteriormente la presa.
- ‘Ndo vai? – gli chiede. Freddo ringhia, cercando di allontanarlo con uno strattone. Non ci riesce.
- Da Gigio. – risponde quindi, cercando di mostrarsi più calmo e lucido. – A risolve ‘sta questione.
- Così? – dice il Libanese, indicandolo tutto con un ampio cenno della mano libera, - Nun ce lo vojo un cadavere de famiglia sulla coscienza.
Freddo inarca un sopracciglio, voltandosi a guardarlo e riuscendo finalmente a liberarsi della sua stretta.
- Come sarebbe a di’ de famiglia? – chiede a voce bassa ma decisa. Libano tira il petto in fuori. Freddo gli sta muovendo contro battaglia, e lui deve resistere.
- È fratello tuo, no? – gli chiede, facendo il vago.
- Nun hai mai considerato de famiglia er fratello di Scrocchiazzeppi. – dice Freddo, - E nun t’è mai fregato ‘n cazzo de Gigio fino a che… - i suoi occhi si spalancano all’improvviso, le labbra si schiudono modellandosi addosso ad un concetto al quale non riescono a dare forma in parole. – Libano…! – strilla all’improvviso, e lui gli preme una mano sulla bocca, per ogni evenienza.
- Sta’ ‘n po’ zitto, che so’ le quattro der mattino. – ordina. Freddo si fa indietro e si libera del suo bavaglio improvvisato, guardandolo con orrore.
- Libano, nun te sarai scopato mi’ fratello?! – gli chiede, le braccia larghe ai lati del corpo in segno di incredulità.
- In quarche modo dovevo prova’ a calmarlo. – risponde lui, stringendosi brevemente nelle spalle. Le braccia di Freddo ricadono inerti lungo i suoi fianchi e le sue labbra si schiudono ancora in una o di annichilito sconcerto.
- E t’o sei scopato?! – insiste dopo essersi ripreso, le braccia che si sollevano per un attimo prima di tornare molli e abbandonate lungo i suoi fianchi.
Il Libanese si concede un sorrisetto divertito.
- Co’ te funziona. – risponde. Freddo rotea gli occhi, accompagnando il gesto con un mugolio esasperato, e fa per voltarsi ancora. Ha già un braccio allungato verso la giacca – per la terza volta in meno di mezz’ora – quando Libano – per la terza volta in meno di mezz’ora – lo blocca, afferrando la mano protesa ed intrecciando le proprie dita con le sue in un gesto più intimidatorio che rassicurante, esattamente come ha fatto quella mattina con Gigio. Stringe la presa, ma Freddo non geme di dolore come ha fatto suo fratello. Si limita a guardarlo aggrottando le sopracciglia, infastidito ma non certo scosso, né tantomeno spaventato. – Mo’ resti qui. – gli dice, tirandoselo contro. Il gesto è improvviso, Freddo non se l’aspetta e gli frana addosso incespicando sui propri stessi piedi.
- Mo’ nun resto manco per cazzo. – ringhia Freddo, piantandogli una mano nel centro del petto ed allontanandosi di qualche centimetro prima che Libano riesca ad afferrarlo per un fianco e schiacciarselo nuovamente contro, - Libano, devo anna’.
- E ‘ndo dovresti anna’? – gli chiede, le labbra che già scivolano lungo la linea curva che dal suo collo si trasforma nella sua spalla, perdendosi dentro lo scollo del maglione, - A casa dei tuoi, a quest’ora? A sveglia’ la gente per bene pe’ pija’ a cazzotti tu’ fratello? – Freddo si agita fra le sue mani, prova a liberare le dita dall’intreccio con le sue ma Libano stringe più forte, e stavolta Freddo non riesce a fermare il gemito che gli sfugge dalle labbra. Libano ci legge dentro il dolore, ma anche la voglia, e gli sorride addosso. – Oppure devi scappa’ dalla squinzia che gl’hai fregato, ar fratellino tuo? – chiede con voce carezzevole, quasi prendendolo in giro. I denti di Freddo si chiudono improvvisamente e con forza sopra la sua gola, e Libano lascia andare una risata sorpresa, senza fiato, e anche vagamente divertita.
Se lo stacca di dosso afferrandolo per i capelli quando il morso comincia a farsi troppo doloroso. Sente la pelle bruciare nei punti in cui i denti di Freddo si sono quasi conficcati, ma gli sorride come se volesse sfidarlo nonostante il dolore. Freddo lo guarda con rabbia, i suoi occhi sono scurissimi. È in imbarazzo, e Libano sa che, più che per tutto il resto, è a disagio perché lui ha scoperto di questa ragazzetta prima che Freddo riuscisse a dirglielo di persona. Sa che, se lo lasciasse andare adesso, Freddo ci andrebbe davvero, da suo fratello. Lo butterebbe giù dal letto, sveglierebbe tutto il quartiere, se dovesse servire a parlargli adesso, immediatamente, per mettere in chiaro tutto. Perciò lo afferra per i fianchi, ribaltando le loro posizioni in modo che sia Freddo a premersi con la schiena contro il bordo del tavolo da biliardo, e lui gli si schiaccia immediatamente addosso, tagliando ogni possibilità di fuga e chiudendo con foga le labbra sulle sue.
Freddo prova a dibattersi, per qualche secondo, ma la sua bocca accoglie le carezze della sua lingua fin dal primo istante, e perciò ogni resistenza è futile, serve solo a divertire Libano, perfino a farlo sentire più forte. Ogni strattone che Freddo dà alla sua camicia nel tentativo di allontanarlo, gonfia il suo ego esattamente come, qualche secondo più tardi, fanno degli strattoni nuovi, non più mirati a respingerlo, bensì a sfilargli di dosso ogni abito che gli impedisca di sfiorare la sua pelle nuda e accaldata con le labbra e con le dita.
Libano lo agevola, togliendogli le mani di dosso il tempo necessario alla camicia per scivolare lungo le sue spalle e le sue braccia. Finisce sul pavimento, in un mucchietto inerte, e Freddo la scalcia lontano con un gesto casuale, perché non li impicci nei movimenti. Impiega solo un secondo ad afferrare il proprio maglione per gli orli inferiori, tirandoselo via dalla testa prima di saltare a sedere sul bordo del biliardo e schiudere le gambe nello stesso istante in cui il Libanese, dopo essersi liberato dei pantaloni, si schiaccia contro di lui.
I loro bacini collidono, e trovarsi così inaspettatamente e incredibilmente eccitati riempie entrambi di fitte di piacere, venate di uno stupore davvero duro a morire e quasi ridicolo, visto che ormai avrebbero dovuto fare l’abitudine al modo impetuoso in cui il desiderio esplode sempre fra di loro come fosse una sorpresa, indipendentemente dal luogo in cui sono o da quanto tempo sia passato dall’ultima volta che l’hanno estinto.
- Sei uguale a tu’ fratello. – gli sussurra all’orecchio il Libanese, lasciando scivolare le mani sotto le sue natiche mentre lui si solleva appena da dove è seduto per agevolarlo nel movimento. Le loro erezioni si sfregano ancora una volta l’una contro l’altra, e Libano geme, affondando i denti nella spalla del Freddo. – Con voi nun ce se sbaglia. – conclude con un sorrisetto soddisfatto. Freddo grugnisce qualcosa di incomprensibile e si spinge con forza contro di lui, per zittirlo. Il Libanese si concede una mezza risata senza fiato e poi lo tira di peso giù dal tavolo, rigirandoselo fra le mani ed osservandolo mentre si piega sul tappeto verde, la schiena che s’incurva flessuosa sotto le sue dita quando la percorrono dalla nuca alla base lungo il disegno preciso e in rilievo della spina dorsale.
Il solo pensiero che Freddo si trovi adesso steso nello stesso punto e nella stessa posizione in cui si trovava steso suo fratello fino a qualche ora prima, è sufficiente per riempirlo di desiderio al punto da sentirsi bruciare sottopelle. C’è qualcosa, nel sentirsi sotto le mani Freddo e nel sapere che potrebbe prendere qualsiasi cosa, dalla sua vita, e farla propria, senza che lui possa sognarsi minimamente di protestare sul serio, che lo fa sentire importante. Lo fa sentire forte, imbattibile, eterno. Ogni tanto si ritrova a pensare che, se anche dovesse morire, non morirebbe davvero. Gli si è infilato negli occhi così in profondità che continuerebbe ad esistere anche sepolto tre metri sotto terra.
Ma sono pensieri cupi, che lo accarezzano soltanto. Resistono il tempo giusto di regalargli un brivido che si trasforma in un gemito mentre affonda lentamente dentro di lui, e Freddo si solleva all’improvviso, andandogli incontro per prenderlo più in fondo e voltandosi a cercare le sue labbra, mentre lui gira attorno ai suoi fianchi con una mano e serra il pugno attorno alla sua erezione calda e così dura da spaventarlo, quasi, per l’intensità del desiderio di cui è testimone.
La bocca del Freddo è affamata e risentita, i suoi denti affondano nelle labbra del libanese mordendo senza pietà, sfiorano la sua lingua solleticandola per il gusto di confonderlo e riempirlo di desiderio, e il Libanese vorrebbe affondare nella sua bocca esattamente come sta affondando dentro il suo corpo, vorrebbe avere più mani, più lingue, vorrebbe essere due uomini per prenderlo di più, più in profondità, con più forza, vorrebbe essere due per stringerlo in trappola, vorrebbe essere due per avere fiato abbastanza da lasciargli addosso segni ben più duraturi di un succhiotto o di un morso, vorrebbe essere in grado di entrargli dentro fino a fargli male, ma male sul serio, perché sa che di quello Freddo non potrebbe mai dimenticarsi. Vuole di più e lo vuole tutto insieme, non gli basta sentirlo aprirsi e richiudersi strettissimo al suo passaggio, non gli basta sentire la sua voce mentre si fa sempre più alta e roca un gemito dopo l’altro, non gli basta sentire l’odore del suo corpo avvolgere il proprio, non gli basta sentirlo crescere, scaldarsi e poi esplodere fra le sue dita. Non basta a lui, ma basta al suo corpo, basta al suo orgasmo per esplodergli dentro, e Libano serra gli occhi con tanta forza da vedere bianco, mentre viene dentro di lui e se lo stringe contro, sperando di poterlo mangiare tutto intero nell’ultimo morso che gli posa alla base del collo.
Ci mettono entrambi più di qualche minuto a riprendere fiato. Il Libanese resta appoggiato addosso al Freddo, aderendo alla curva della sua schiena, recuperando il respiro e un minimo di lucidità mentale mentre il sudore gli si asciuga sulla pelle e la temperatura del loro corpo torna ad abbassarsi.
- Quanto me la volevi tene’ nascosta? – chiede a bassa voce, restandogli piegato contro e seguendo i suoi movimenti quando il Freddo si tira su e poi si volta, appoggiandosi di nuovo al bordo del tavolo per guardarlo negli occhi.
- Te dà fastidio? – gli chiede incolore, ma nel fondo delle sue pupille si agita un barlume di preoccupazione che chiarisce senza alcun dubbio chi venga prima nelle gerarchie serrate che riempiono ordinatamente la testa del Freddo.
Libano sorride.
- No. – risponde, - E poi co’ quarcuno lo dovrai fa’ ‘n erede. – lo rassicura, sorridendo quando vede i lineamenti del suo viso sciogliersi, finalmente rilassati. – Pe’ quella questione de Gigio… - riprende poco dopo, allontanandosi da lui di un passetto e tirando su i pantaloni, - ce pensi te, no?
Freddo sospira, scivolando giù dal biliardo e sgranchendosi un po’ le gambe.
- Seh. – risponde quindi, - Domani ce vado a parla’.
Libano annuisce. Anche lui domani avrà da parlare con qualcuno.
- Com’è che se chiama ‘sta squinzia tua? – chiede casualmente.
- Roberta Vann— - comincia il Freddo con naturalezza, recuperando il maglione da terra, ma si interrompe quasi subito, voltandosi a guardarlo con le sopracciglia aggrottate, - Nun ce prova’ nemmeno, Libano. – borbotta, e il Libanese si mette a ridere. Il nome per intero lo scoprirà quando ne avrà bisogno. Per ora, può anche lasciar correre.
*
- Che state a fa’ ancora qua? – chiede Bufalo entrando in sala una mezz’ora dopo, visibilmente assonnato ma anche visibilmente confuso dalla loro presenza. Il Libanese recupera la propria giacca dallo schienale della sedia alla quale era appesa, e lancia le chiavi della Porsche a Freddo, che le afferra al volo.
- Che ce stai a fa’ tu, semmai. – ribatte, lanciando al Bufalo un’occhiata estremamente disapprovante, - Nun v’ho mannati tutti a dormi’ ‘n’ora fa?
- Ho dimenticato le chiavi. – notifica Bufalo, passando davanti a loro senza mai voltare le spalle e fissandoli guardingo mentre si allunga a recuperare il mazzo dal tavolino dove l’ha lasciato, - Ce volevo anna’ a dormi’, ma nun potevo entra’ ‘n casa.
- E mo’ ce potrai entra’. – dice tranquillamente Freddo, tenendo le chiavi della macchina di Libano strette nel pugno mentre indossa la giacca, - Quinni vedi de moverte, che domani si non siete tutti a posto nelle zone vostre pe’ l’orario giusto giuro che ve vengo a prenne a casa uno per uno.
Bufalo gli lancia un’occhiata infastidita e un grugnito sbuffante, ma li saluta entrambi con un cenno della mano e si avvia, salvo poi fermarsi a due passi dalla porta per voltarsi nuovamente verso di loro.
- A Libano, - dice, - te sei proprio sicuro che nun ce lo sai chi era er pischello de stamattina?
Libano rotea gli occhi.
- Bufali’, - dice, passandogli accanto, - c’hai proprio rotto er cazzo co’ ‘sto pischello de stamattina. – conclude. Freddo si fa una risata, seguendolo.
Genere: Introspettivo, Erotico, Commedia. Triste.
Pairing: Gigio/Libanese, accenni aFreddo/Libanese.
Rating: NC-17
AVVISI: Slash, Lemon, Dub-con, What if?.
- "Aiutami a vendicarmi del Freddo."
Note: La pazzia. Nata in seguito a un totale viaggio mentale mio e della Tab, visto che nella serie originale questi due manco s'incontrano. Ma nemmeno di sfuggita, tipo. *si vergogna molto*
Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia, su prompt ROMANZO CRIMINALE Gigio/Libanese, "Aiutami a vendicarmi" "Te sembro Zoro?"
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
TALK TO MY TROUBLED BRAIN
ROMANZO CRIMINALE Gigio/Libanese, "Aiutami a vendicarmi" "Te sembro Zoro?"

Il Libanese inarca un sopracciglio, restando appoggiato al tavolino, gli occhi fissi sul ragazzino magro, impaurito e tremante seduto sulla seggiola in mezzo alla sala vuota, occupata solo da biliardi ai quali nessuno gioca e mazzi di carte abbandonati che nessuno fa frusciare nell’aria ancora densa del fumo della mezza dozzina di sigarette che la appestava finché non ha fatto sgombrare tutti.
- Scusa, è che nun ce sento bene. – disse, cambiando posizione ed infilandosi teatralmente un dito nell’orecchio, come volesse ripulirselo, - Me potresti ripetere ‘n attimo che voi?
Gigio si stringe nelle spalle, serrando i pugni sulle ginocchia. Ha le nocche talmente bianche che potrebbero cadergli le dita. È così uguale a suo fratello che il Libanese neanche ci può credere. L’ha riconosciuto subito, quando è arrivato, pure se non l’aveva mai visto prima e lui s’è presentato solo dopo un paio di minuti di imbarazzato silenzio. Già quando l’ha visto entrare da Franco e guardarsi intorno con aria persa, sulla difensiva, tutto stretto nelle spalle e avvolto in quell’enorme camicia a quadretti aperta su una canotta bianca un po’ lisa, s’è detto “e quello è er fratellino der Freddo”, e non ha avuto alcun dubbio a riguardo.
- Mi serve aiuto. – ripete Gigio, guardando ostinatamente un punto a caso sul pavimento sporco.
- E pe’ che cosa? – insiste il Libanese, sperando che, a questo giro, la risposta sia differente.
E invece non lo è. Gigio solleva il capo in un moto di orgoglio improvviso, i ricci che gli ricadono scompostamente sulla fronte, e serra le labbra per un attimo prima di decidersi a parlare.
- Aiutami a vendicarmi. – gli dice, - Aiutami a vendicarmi del Freddo.
Libano sospira, passandosi una mano sulla fronte e ravviandosi i capelli su un lato della testa, prima di massaggiarsi la nuca con evidente stanchezza. Non è davvero possibile che uno passi una giornata d’inferno, risolvendo un casino dietro l’altro, poi arrivi a sera e voglia solo starsene per i cazzi suoi, e invece debba stare dietro pure ai capricci di ragazzini che non gli competono.
Afferra una sedia e la sistema proprio davanti a lui, girandola in modo da potersi sedere a cavalcioni appoggiando le braccia sullo schienale, e poi lo fissa da vicino. Gigio indietreggia appena, deglutendo vistosamente.
- Guardame attentamente. – gli dice, indicandosi il muso, - Te sembro Zoro?
Gigio abbassa lo sguardo, profondamente imbarazzato.
- No… - risponde esitante, le sopracciglia inarcate verso il basso.
- Ce lo sai chi so’ io, regazzi’? – chiede ancora il Libanese, avvicinandosi un altro po’ senza preoccuparsi del fastidioso rumore scricchiolante che producono i piedi della sedia strisciando sul pavimento.
- Certo che lo so! – sbotta Gigio, alzando nuovamente il capo, stavolta quasi offeso dalla sua considerazione, come la ritenga un inappropriato giudizio sulla sua persona. – Sei il Libanese. – dice quindi, per provare che non sta mentendo.
Libano annuisce.
- E chi te fa pensa’ che c’ho tempo da perde co’ ‘n regazzino come te? – gli chiede, appoggiando il mento sulle braccia incrociate e sorridendo appena, divertito.
- Ti posso pagare! – ribatte immediatamente Gigio, infilando le mani in tutte le tasche che possiede per tirarne fuori una manciata di banconote spiegazzate di vario taglio. Il Libanese guarda i biglietti da ventimila e cinquantamila lire tutti appallottolati fra le sue dita magre e pallide, e poi torna a fissarlo negli occhi.
- Chi te l’ha dati ‘sti sordi? – gli chiede. Gigio esita.
- …mio fratello. – risponde quindi, in un fiato sottilissimo.
Il Libanese scoppia a ridere. Lo fa inaspettatamente perfino per se stesso: immaginava che i soldi di Gigio venissero dal Freddo, ma non sospettava minimamente che il ragazzino potesse avere tanta faccia tosta da ammetterlo in una situazione simile. Rovescia la testa indietro, inarcando la schiena, e si aggrappa con foga allo schienale della sedia per non ribaltarsi e ruzzolare sul pavimento mentre si lascia andare con gioia a quell’accesso di risate sorprendenti, prima di riacquistare il controllo e tornare a guardarlo, asciugandosi una lacrima malandrina dall’angolo di un occhio.
- Famme capi’ bene… - gli dice, scuotendosi ancora di tanto in tanto per le risate che faticano a sfumarsi, - Te voi pagarmi pe’ fa’ der male a tu’ fratello… e voi pagarme co’ li sordi suoi? – ride ancora, scuotendo il capo, - Armeno er funerale je lo paghi te o c’hai un conto aperto der Freddo pure pe’ quello?
Gigio aggrotta le sopracciglia, paonazzo. I suoi pugni si chiudono convulsamente attorno alle banconote, facendole crepitare.
- Non c’è bisogno che prendi per il culo. – gli dice, e Libano ride ancora.
- Ah, no? – chiede, - No, perché me sembrava de sì, invece. – annuisce, - Comunque… - continua poi, prendendo un respiro più profondo degli altri per placare una volta per tutte il bisogno di ridere che ancora sente premere fortissimo nel fondo della gola, - Io nun so’ ‘n cane, regazzi’. Anna’ in giro a fa’ fori la gente per bene, nun so cose che se fanno.
- Lui non è per bene! – sbotta subito Gigio, - Lui è un delinquente. Come te.
Il Libanese si trattiene dall’offrirgli la risposta più ovvia, e cioè che se c’è una persona in tutta Roma che sa perfettamente bene quanto Freddo gli sia simile, in quanto a professione, quella è lui. Decide di mantenere il segreto ancora per un po’, comunque. Dal modo in cui Freddo gli ha sempre parlato di suo fratello, Libano aveva immaginato che avessero un bel rapporto, particolarmente stretto. Vuole vederci chiaro, in questa faccenda, vuole scoprire per quale motivo Gigio sembra così deciso a fargli del male.
- Senti ‘n po’, - gli dice quindi, avvicinandosi ancora e riducendo la voce a un sussurro cospiratorio, - ma che t’ha fatto tu’ fratello pe’ farti incazzare ‘n questo modo?
Gigio arrossisce ancora, più violentemente di quanto non abbia fatto fino ad ora. La sua pelle così incredibilmente pallida, quasi cinerea, si colora tutta all’improvviso, e al Libanese viene di nuovo da ridere, ma stavolta la risata la trattiene.
- Mi ha rubato la ragazza. – risponde Gigio. E il Libanese spalanca gli occhi.
- Che hai detto? – chiede inebetito. Gigio sbatte le ciglia un paio di volte, inumidendosi le labbra.
- Mi ha rubato la ragazza. – ripete, e non è sicuro di come dovrebbe sentirsi. Imbarazzato, probabilmente, o meglio, ancora più imbarazzato di quanto già non sia, ma l’espressione del Libanese è così ingiustificatamente sconvolta che in qualche modo l’imbarazzo gli sembrerebbe comunque troppo poco. Finisce col sentirsi inadeguato e fuori posto, perfino un po’ irritato, come un bambino rimasto sveglio troppo a lungo e seduto accanto a papà mentre tutti gli adulti fumano, giocano a carte e parlano di politica. Distoglie lo sguardo, aggrottando le sopracciglia e tendendosi tutto. Il Libanese non parla, non lo fa per minuti interi, e Gigio accarezza più volte la possibilità di alzarsi, dirgli “va be’, fa niente” e tornarsene a casa. Mamma sarà preoccupata per lui, è già in ritardo di quasi due ore.
Quasi lo fa davvero, quando il silenzio si prolunga ancora, solo che poi il Libanese inspira profondamente e sembra tornare normale tutto assieme. I suoi occhi, comunque, sono diversi da com’erano prima. Più cupi, più pericolosi, forse. Non saprebbe dire in che modo, perché non ne ha proprio paura. Anche se forse dovrebbe.
- A regazzi’, - gli dice Libano, - nun je posso fa’ niente a tu’ fratello. Me sa che mentre stavi a cerca’ informazioni su de me t’hanno detto tutto tranne la cosa fondamentale.
- Che sarebbe? – gli chiede, inarcando nervosamente un sopracciglio. Libano sorride, gli occhi che si rischiarano per un attimo.
- Io e er Freddo lavoramo insieme. Da anni, ormai. È come un fratello, pe’ me. – risponde. Gigio trattiene il respiro, abbassa lo sguardo e stringe le banconote fra le dita per un secondo, prima di ficcarsele tutte sbrigativamente in tasca.
- Allora stai attento, - ringhia alzandosi in piedi, - perché magari come l’ha fregata a me la ragazza la frega pure a te.
Il Libanese allunga una mano ad afferrarlo. È più veloce di lui, che fa in tempo ad accorgersene ma non ad allontanarsi abbastanza da sfuggire alle sue dita che si chiudono con forza attorno al suo gomito, affondando nella morbidezza del suo braccio nonostante i vestiti.
- ‘Ndo vorresti anna’ mo’? – gli chiede, tirandolo indietro e obbligandolo quasi a sbattergli addosso, prima di farlo voltare nuovamente verso di sé.
- Non sono affari tuoi. – risponde Gigio a muso duro, e per tutta risposta il Libanese stringe più forte, facendogli male e costringendolo ad un gemito lamentoso di cui Gigio si pente immediatamente, appena lo sente prendere il volo dalle proprie labbra.
- Regazzi’, tutto quello che succede ‘n ‘sta città è affare mio. – ribatte Libano, appoggiandolo con rude gentilezza contro il bordo del tavolo da biliardo più vicino, - So’ er re de Roma mica pe’ niente, e te nun te poi aspetta’ che te lascio’ anna’ chissà dove dopo che m’hai detto che voi fa’ fori er socio mio.
- È mio fratello! – strilla Gigio, come se questo gli desse un qualche diritto di precedenza sul Libanese nei confronti del Freddo, - E smettila di chiamarmi ragazzino. Non sono un ragazzino!
- A me me pare de sì, invece. – considera Libano, e il suo sguardo è serio, sembra quasi studiarlo mentre lo schiaccia con tutto il proprio corpo contro il tavolo da biliardo. – Vediamo se funzioni allo stesso modo der fratello tuo. – dice quindi con un mezzo sorriso, inchiodandolo al legno per un polso con una mano e sbottonando i pantaloni con l’altra.
Gigio sbianca in volto, sentendosi gelare il sangue nelle vene.
- Che vuoi farmi? – gli chiede, la voce che gli trema sulle labbra. Il Libanese inarca un sopracciglio, quasi sorpreso dalla domanda, come non la ritenesse nemmeno degna di risposta da tanto quest’ultima è ovvia.
- Niente. – dice quindi, lasciandogli andare il polso e prendendo ad armeggiare con la cintura strettissima che gli tiene appesi i jeans ai fianchi. – Cazzo, ma siete du’ chiodi uguali, te e Freddo. – commenta divertito. Gigio capisce, capisce fin troppo bene, e troppe cose nello stesso momento. Si sente improvvisamente consapevole e confuso allo stesso tempo, non sa bene come questo sia possibile ma è così, ed è una sensazione devastante.
- No… - geme a corto di fiato, dimenandosi sotto di lui ed ottenendo in cambio dei propri sforzi solo che la mano del Libanese riesca a scivolare dentro ai suoi pantaloni con molta più facilità di quanto non avrebbe fatto se invece fosse rimasto perfettamente immobile.
- Rilassate ‘n po’. – gli suggerisce il Libanese con una mezza smorfia, chiudendo le proprie dita attorno a lui e quasi offendendosi personalmente nel trovarlo ancora floscio e perfino vagamente intirizzito. – Te sei più chiodo de’ tu’ fratello, però. – annuisce, accarezzandolo lentamente avanti e indietro mentre Gigio trattiene il respiro in gola quanto più può, lasciandolo andare solo quando comincia a sentirsi soffocare. – E sei pure più moscio, cazzo, a Gigio, damose ‘na svegliata, ma che è? L’adolescenti erano più vivi, ‘n tempo.
- Lasciami andare! – prova a protestare, piantandogli entrambe le mani sul petto e cercando di spingerlo lontano da sé. Il Libanese rotea gli occhi, sospira pesantemente e poi gli appoggia la mano libera sulla nuca, tirandoselo contro e baciandolo all’improvviso, le labbra aperte e la lingua umida che corre a insinuarsi nella sua bocca prima che lui abbia il tempo di sottrarsi alle sue carezze calde, mentre si percepisce indurirsi contro la propria stessa volontà fra le sue dita, che ogni volta che gli si stringono attorno e passano quasi inavvertitamente a sfiorarlo sulla punta lo riempiono di brividi di piacere tanto forti che gli stringono lo stomaco fino a fare male.
- Sta ‘n po’ zitto. – suggerisce il Libanese in un sussurro umido sulle sue labbra, quando si separa da lui. Gigio deglutisce, manda giù il suo sapore e sente gli occhi riempirsi di lacrime perché gli piace. Il Libanese è caldissimo contro il suo corpo, o forse sembra così caldo solo a lui, ma comunque non importa, perché inventata o no è una sensazione che lo terrorizza. Cerca di muoversi ancora, per spostarsi, ma tutto ciò che ottiene è l’inaspettata sensazione di qualcosa di duro a premere contro la coscia.
Strabuzza gli occhi, terrorizzato, ed annaspa alla ricerca d’aria mentre gesticola confusamente in cerca di un appiglio qualsiasi al quale aggrapparsi per trascinarsi lontano da lui, ma il Libanese lo afferra con l’unica mano libera che ha, intrecciando le proprie dita con le sue e stringendo per fargli male. La scarica di dolore che si diffonde velocissima fra le ossa fragili della sua mano gli annebbia la vista, al punto che Gigio è costretto a strizzare le palpebre, e due lacrimoni grossi come gocce di pioggia rotolano lungo le sue guance arrossate, mentre lui trattiene a stento un gemito di sofferenza pura.
Il Libanese sorride, sporgendosi a baciarlo lievemente sulle labbra e raccogliendo in punta di lingua il sale delle lacrime che lì si sono fermate. Non gli dice niente, ma riprende ad accarezzarlo, più velocemente di prima, e nello stesso momento allenta un po’ la presa sulle sue dita. Il sollievo è tale che Gigio non riesce a impedirsi un sospiro spezzato di piacere che si diluisce nella paura e nell’imbarazzo, che gli schiude le labbra e permette a Libano di trovare nuovamente la strada per la sua lingua.
Gigio pianta entrambe le mani sul bordo del biliardo e cerca di fare presa attorno a quello per tirarsi indietro, ma tutto quello che riesce a fare è sollevarsi abbastanza perché il Libanese possa afferrarlo per le natiche, stringendone con forza una fra le dita attraverso il cotone sottilissimo degli slip che sono l’unica cosa rimastagli addosso ora che i jeans, trascinati dalla fibbia della cintura, gli sono scivolati quasi alle caviglie, impedendogli ogni movimento. Prova a liberarsi dei pantaloni in un gesto disperato, dicendosi che non gli importa se dovrà correre via in mutande, purché riesca a farlo, ma nel momento in cui schiude le gambe il Libanese si spinge con forza contro di lui, i loro bacini collidono e Gigio si sente mancare il fiato nel sentirlo così incredibilmente duro contro la propria erezione ormai perfettamente formata e ancora stretta nel calore adesso un po’ umido del suo pugno.
- Ti prego, - supplica Gigio, la voce ormai ridotta a un ansito roco e quasi infantile, - non farmi male.
Il Libanese si lascia sfuggire una risata senza fiato, mentre gli si spinge ancora incontro.
- Nun te ne faccio male, tranquillo. – dice, ma nel momento in cui si allontana da lui abbastanza da rigirarselo fra le braccia e piegarlo sul tavolo, Gigio capisce che sta mentendo. Ciononostante, non è in grado di fermarlo, forse perché non vuole, forse perché le dita che tornano a stringersi immediatamente attorno alla sua erezione non gliene lasciano il tempo, forse perché la pressione di altre dita, dita più umide, svelte ad accarezzarlo fra le natiche, è piacevole più di quanto non riesca a dire o anche solo a pensare. Il perché non lo sa, non vuole saperlo, stringe i denti e pianta le mani bene aperte sulla superficie morbida e verde del tavolo, osservando la propria ombra ondeggiare avanti e indietro mentre segue i movimenti delle dita del Libanese, che prima paiono come bussare senza avanzare mai per davvero, e poi, quasi senza attrito, scivolano all’interno del suo corpo, costringendolo ad inarcare la schiena e gettare indietro il capo in un gemito sconnesso.
Gigio singhiozza, anche se ha smesso di piangere da un pezzo – più o meno da quando la vergogna s’è persa, dissolvendosi del tutto nelle scariche di piacere che le dita di Libano gli davano muovendosi avanti e indietro per tutta la sua lunghezza – e prova ancora a imbastire una protesta sterile, che si spegne subito quando sente la pressione di qualcosa di più grosso e più duro di un paio di dita contro la propria apertura.
Ha appena il tempo di prendere fiato, che subito dopo il Libano scivola dentro di lui con un po’ d’attrito in più rispetto a quanto ne abbiano incontrato prima le sue dita.
La scarica di dolore è improvvisa e violenta, si diffonde lungo tutta la sua spina dorsale e non è acuta e lancinante, ma piuttosto sorda e continua, e lo terrorizza, perché sembra di quei dolori che non ti abbandonano dopo qualche ora, ma che continui a portarti dentro a lungo, forse addirittura per anni, che ancora percepisci a livello mentale quando il fastidio fisico si è dissolto.
- Bugiardo. – sussurra, appoggiano la fronte agli avambracci incrociati mentre ricomincia silenziosamente a piangere, - Sei un bugiardo. Come mio fratello.
Il Libanese si muove lentamente dentro di lui, riesce ad essere perfino discreto, ma la pressione che Gigio sente è troppa, la confusione che gli ingolfa il cervello perfino maggiore. Singhiozza e si lamenta a bassa voce, come un bambino piccolo, nascondendo il volto fra le mani, e Libano si china sulla sua nuca a lasciargli un bacio consolatorio talmente inaspettato che, quando Gigio sente le sue labbra calde e un po’ umide posarglisi addosso più velocemente del battito d’ali di una farfalla, s’interrompe all’istante, abbassa le mani e solleva gli occhi ancora lucidi e arrossati.
- Dopo ‘n po’ smette de fare male. – gli spiega il Libanese, continuando a muoversi lentamente e tornando ad accarezzarlo anche fra le cosce, - Questo intendevo. E vale pe’ tutto, regazzi’. Pe’ quello che stamo facendo mo’, e pure pe’ quello che t’ha fatto tu’ fratello prima.
Gigio inspira ed espira profondamente, seguendo i suoi movimenti col proprio corpo, accogliendolo dentro di sé e spingendosi lento dentro il suo pugno chiuso attorno alla propria erezione. Annuisce e chiude gli occhi, ed è allora che il Libanese comincia a muoversi più velocemente, adattando il ritmo delle proprie carezze a quello delle proprie spinte. E Gigio si adatta a sua volta, scoprendo che è vero, dopo un po’ va meglio, dopo un po’ il dolore diventa sopportabile, anche se non si spegne mai del tutto, e le dita serrate del Libanese, le dita forti che lo accarezzano sulla lunghezza e sulla punta, compensano la sofferenza col piacere, allo stesso modo in cui immagina che la presenza di suo fratello nella sua vita, sempre pronto ad aiutarlo, compenserà il dolore che gli procurerà guardarlo negli occhi e sapere che la donna che amava e con la quale avrebbe voluto un futuro adesso è sua.
Il libanese viene in silenzio, pochi secondi dopo, sprofondando dentro di lui in un colpo secco al quale Gigio risponde con un gemito forte e denso, prolungato, mentre viene a propria volta fra le sue dita.
Il suono ancora riecheggia nell’aria pesante del loro odore, quando si tira frettolosamente su i pantaloni ed esce.
*
Bufalo si allontana dalla porta appena in tempo per impedire al ragazzino scarmigliato che gli viene incontro di investirlo. Ha gli occhi rossi e l’aria di uno che vuole solo tornarsene a casa, nascondersi sotto le coperte e piangere per giorni fino ad esaurirsi. Si tiene su i pantaloni con entrambe le mani, la cintura sfibbiata col gancio che gli pende lungo una gamba, tintinnando rumorosamente ad ogni passo che fa. Lo guarda passargli oltre senza nemmeno vederlo e resta lì perplesso per un paio di secondi, prima di cercare il pacchetto di sigarette a tentoni nella tasca posteriore dei pantaloni che indossa, ed accendersene una.
Quando entra da Franco, trova il Libanese seduto su uno sgabello di fronte al bancone del bar, con una bottiglia di birra appena aperta e ancora ghiacciata tenuta per il collo fra due dita. Ha gli occhi cupi e pensosi, e il solito grugno serio e un po’ schifato dal mondo stampato sulle labbra. Tutto sommato, è uguale a come l’ha sempre visto. Lo saluta con un cenno del capo e poi indica la strada con un pollice, tenendo gli occhi fissi su di lui.
- Ma l’hai visto quel pischello? – chiede basito, - Che, ne sai niente te? – il Libanese scrolla le spalle e manda giù un’abbondante sorsata di birra. Bufalo lo prende per un no. – Vabbe’. – sospira, sedendosi al suo fianco ed accettando la bottiglia che gli offre, - Certo che ‘sto bar non è più quello de ‘na vorta.
Genere: Introspettivo, Erotico, Romantico.
Pairing: Libanese/Freddo/Roberta.
Rating: NC-17
AVVISI: Het, Slash, Lemon, Threesome.
- Ormai i membri della banda fanno avanti e indietro dalla galera come fosse normale, ed ogni volta il processo si ripete sempre nello stesso modo - Scialoja li mette dentro per qualcosa di cui sa che sono responsabili, non riesce a provarlo ed è costretto a rilasciarli un paio di giorni dopo. La routine s'è fatta così comune che Freddo sta cominciando ad avere difficoltà a riconoscere i momenti in cui è fuori da quelli in cui è dentro, nonostante sappia che ci sono differenze sostanziali fra l'una e l'altra cosa. E poi, naturalmente, ci pensa il Libanese a ricordargli quanto quelle differenze siano evidenti e pressanti.
Note: ...no, ok, io amo questa storia XD *si vergogna come un cane* Non credevo, perché fino a un paio di giorni fa ero fermamente convinta che questi tre "funzionassero" bene solo fino a che Roberta e Libano restavano due figure contrastanti attorno al Freddo, ma giuro che scrivendo mi si è aperto un mondo. Cioè, è chiaro che il Freddo necessita di entrambi. Questa threesome s'ha da fare, ora e per sempre. *piange amore* Niente, tipo che l'affetto per la storia nei giorni è cresciuto al punto che, per quanto io volessi fortemente concluderla (anche perché la lemon minacciava di non voler finire più, Dio mio), ero triste mentre buttavo giù le ultime battute "XD Problemi, quanti.
Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia, su prompt ROMANZO CRIMINALE Freddo/Libanese/Roberta, “Gli serve un alibi.”
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
CRUEL TO BE KIND (MEANS THAT I LOVE YOU)
ROMANZO CRIMINALE Freddo/Libanese/Roberta, “Gli serve un alibi.”

Ormai era così abituato a fare entra ed esci dalla galera che neanche si accorgeva più della differenza fra la cella e la strada. Eppure sapeva che c’erano delle differenze piuttosto nette, fra le due cose. Gli odori, le sensazioni tattili, i sapori. Anche la semplice consapevolezza di poter saltare in macchina ed andare al bar, o a trovare Robertina, o anche in culo al mondo per fatti propri, quando in galera tutte queste certezze diventavano improvvisamente polvere più fina e leggera di quella che generava l’intonaco staccandosi dalle pareti e sgretolandosi ben prima di arrivare a toccare il pavimento. Erano tutte differenze concrete, palpabili, gli occhi e il sorriso di Roberta che prima c’erano e poi non più, gli occhi e il grugno del Libanese che apparivano solo di tanto in tanto oltre il vetro del parlatorio quando passava a trovarlo per rassicurarlo sul fatto che l’avvocato era già al lavoro e sarebbe uscito al massimo nel giro di un paio di giorni, tutte le brutte facce dei suoi compari che andavano e venivano – alle volte perfino in cella con lui – il Dandi che ogni volta che entrava al Regina Coeli inspirava a pieni polmoni quella che lui chiamava l’aria di casa, Scrocchia che non faceva che lagnarsi del bambino, Ruggero e Sergio sempre ad accapigliarsi, il Bufalo sempre con quella sua aria torva che sembrava volesse dirti costantemente di guardarti alle spalle perché si vive in un mondo d’infami, ecco, la sola possibilità di vederli tutti assieme, rilassati e tranquilli, mentre giocavano a biliardo o a carte, quando in galera questa possibilità naturalmente non c’era, avrebbe dovuto essere già da sola un motivo sufficiente per essere in grado di distinguere prigione e libertà, ma per quanto si sforzasse, sotto il cielo coperto di nubi del suo ennesimo rilascio dopo l’ennesima incarcerazione a vuoto orchestrata da Scialoja, Freddo non ci riusciva. Non riusciva a distinguere più niente. Forse perché s’era stancato di fare il gioco delle differenze fra la propria vita e la non-vita che viveva quando era costretto a vivere in una stanza chiusa a chiave e larga due metri per tre.
- A Fre’! – lo chiamò Sergio, avvicinandoglisi affiancato dal fratello, - Finalmente t’ha mollato, ‘o stronzo. Era pure ora.
- Aò. – sorrise lui, allungandosi ad abbracciare entrambi i Buffoni, - Che se dice?
- Tutto a posto. – lo rassicurò Ruggero, battendogli una pacca sulla spalla, - T’avemo portato ‘a moto tua. Così te poi anna’ a riposa’, si voi.
- So’ ‘n po’ stanco, in effetti. – annuì lui, massaggiandosi pensieroso la nuca. – Libano?
- Ha fatto er matto fino a stamattina, quanno l’avvocato gli ha detto che te stava a fa’ usci’ entro sera. – rise Sergio, scortandolo verso la propria motocicletta, parcheggiata sul ciglio del marciapiedi accanto alla macchina dei due fratelli, - Poi nun l’avemo più visto, sara’ annato a dormi’ pure lui, che stanotte nun ha chiuso occhio.
Freddo inarcò un sopracciglio, salendo a cavalcioni della sua Kawasaki e prendendo il casco che Ruggero gli porgeva.
- E com’è che nun ha chiuso occhio? – chiese curiosamente, rigirandosi il casco fra le mani. I Buffoni scrollarono le spalle quasi simultaneamente.
- Ha detto che ha avuto da fa’. – rispose Sergio, - Ma s’è lagnato tutto er giorno, lo dovevi sta’ a senti’. ‘Na rottura di coglioni che nun te dico.
Il Freddo rise divertito, infilandosi il casco e piantando per bene i piedi sull’asfalto mentre accendeva il motore.
- Ho capito, più tardi lo vado a trova’. – annuì.
- E magari je offri ‘na camomilla, che quando nun ce stai te ‘n mezzo ai piedi ce sta a fa’ lavora’ er doppio. – concluse Sergio, salutandolo con una mano ed entrando in macchina mentre suo fratello girava dall’altro lato per prendere posto sul sedile del passeggero. – Se vedemo, Fre’.
- Se vedemo. – rispose lui con un cenno del capo, prima di sollevare i piedi da terra e partire verso casa.
*
Capì subito che in casa c’era qualcosa di diverso. L’odore non era il solito, ma in qualche modo non era neanche sconosciuto. Gli era parso di sentire uno sbuffo del profumo di Roberta, mettendo piede nel garage, ma poi quella traccia s’era trasformata in qualcosa di vagamente più complesso, e lui aveva subito perso la voglia di starle dietro. Era così stanco che avrebbe potuto dormire per giorni, ne era sicuro.
Spalancò gli occhi all’improvviso – mentre il sonno, così come aveva cominciato a gravargli pesantissimo sulle palpebre, gli scivolava via di dosso con una facilità impressionante – quando vide Roberta seduta sul divano, un libro aperto sulle ginocchia, un quaderno per gli appunti stretto in una mano ed una matita mezza mangiucchiata fra le dita, impegnata a picchettare sulle pagine piene di scarabocchi e sottolineature del libro di testo.
Lei sollevò subito lo sguardo, sentendolo entrare, e gli rivolse un sorriso radioso mentre metteva via libro, quaderno e matita, e si srotolava tutta da sotto la coperta che s’era buttata addosso per alzarsi in piedi ed andargli incontro.
- Sei tornato. – disse allegra, sollevandosi sulle punte per allacciarlo al collo e baciarlo lievemente sulle labbra, - Hai fatto presto. Pietro l’aveva detto.
Lui inarcò un sopracciglio, cingendola alla vita e traendola verso di sé mentre ricambiava il bacio.
- Pietro l’aveva detto? – domandò, ripetendo il suo nome con una certa difficoltà, sentendolo scivolare sulla lingua con un attrito enorme dettato dalla scarsa abitudine che aveva a chiamarlo così, - Hai parlato col Libanese?
Lei annuì freneticamente, gli occhi brillanti e un sorriso felicissimo a schiudere le labbra tanto morbide e dolci che Freddo si sentì quasi obbligato a chinarsi ad assaggiarle ancora, seppure per un breve attimo.
- È passato a trovarmi quando ha saputo. – disse lei, ridacchiando, fra un bacio e l’altro, - E poi ogni volta che aveva qualche novità. Per tenermi aggiornata, sai? E poi… - aggiunse, stringendosi nelle spalle con un’esitazione minima, - …mi ha chiesto un favore.
Freddo si allontanò immediatamente, scrutandola dubbioso.
- Che favore? – chiese allarmato. Lei si strinse ancora nelle spalle, rimpicciolendosi fino a sembrare una bimba spaurita. I suoi occhi, però, brillavano svegli, denunciando una consapevolezza ben maggiore di quella che il suo atteggiamento dimesso e remissivo imitavano. Freddo le tirò una bottarella contro una spalla, lieve, e lei immediatamente si mise a ridere, assumendo una postura meno infantile e più simile a lei. – Che favore, Robbe’? – insisté, piegandosi su di lei fino a sovrastarla.
Lei sorrise ancora, per nulla intimorita dal suo comportamento.
- Lo so che mi hai ripetuto mille volte di non farmi coinvolgere… - cominciò conciliante, mentre lui annuiva brusco, perché in effetti era vero, gliel’aveva ripetuto mille volte, e non tanto per dire, - ma quando mi ha detto che era improbabile farti uscire velocemente se l’avvocato non forniva un alibi plausibile, ho dovuto per forza.
- Per forza? – ripeté lui, accigliandosi, - Per forza ‘n cazzo, a Robbe’, ma m’ascolti quanno parlo? T’ho detto sempre, quarsiasi cosa succede, te il nome tuo accanto ar mio a Scialoja nun lo devi fa’!
- Fabrizio, non cominciare con la paternale, ti prego… - si lagnò, sospirando sconfitta e sollevando gli occhi al cielo.
- Non la pianto no. – sbottò lui, afferrandola per il mento e riportando i suoi occhi nei propri, - Cosa t’ha detto Libano?
Roberta sospirò, mentre sulle sue labbra si apriva un sorriso lontano la cui sfumatura maliziosa Freddo non riuscì minimamente a ignorare, rabbrividendo lungo tutto il corpo.
- È entrato qui ed è partito subito con quel suo vocione burbero, - raccontò con divertita tenerezza, - “Gli serve un alibi, e gli serve mo’”.
- E poi? – la esortò lui, stringendo la presa attorno alle sue spalle e strattonandola un po’, come volesse riscuoterla da un sonno profondo, - Che t’ha detto pe’ farti decidere che ce dovevi anna’?
Lei sorrise ancora, piegando gli angoli della bocca verso l’alto in un’espressione vagamente felina.
- È stato piuttosto convincente. – disse, e lo stesso brivido che prima aveva scosso Freddo nell’osservare quell’increspatura inedita così maliziosa sulle sue labbra tornò a percorrerlo lungo tutta la spina dorsale, dandogli la pelle d’oca.
- Che vor di’ che è stato convincente? – chiese senza fiato, e non ebbe la forza di voltarsi quando sentì la voce del Libanese a qualche metro di distanza alle sue spalle.
- Che c’è, Fre’? – gli chiese, il tono perfettamente rilassato, - Nun te fidi più de me?
Freddo lasciò immediatamente andare Roberta, che rispose all’improvviso allontanarsi del suo calore dal proprio corpo con un risolino divertito e perfino vagamente compiaciuto. Sembrava che l’idea di averlo sconvolto tanto la entusiasmasse, quasi. Di certo entusiasmava il Libanese, Freddo ne era sicuro. Ne fu ancora più sicuro quando lo sentì avvicinarsi – i suoi piedi nudi schioccavano contro il pavimento ad ogni passo – e ridere brevemente alle sue spalle, uno sbuffo appena udibile ma incredibilmente caldo sulla sua nuca.
- Che ce fai qua te? – gli chiese, fissando Roberta, che però sapeva che non era con lei che stava parlando, e perciò si limitò a continuare a sorridere beata.
Il Libanese sbuffò un’altra risata, e subito dopo Freddo lo sentì agitare velocemente la testa da un lato e dall’altro, poco prima che una pioggia di goccioline d’acqua ancora tiepida investisse in pieno sia lui che Roberta, nonostante la copertura che le offriva col proprio corpo. Lei rise divertita, concedendosi un piccolo urlo stridulo mentre indietreggiava senza volerlo veramente fare e si schermava il viso con le braccia. Le sue spalle strette e magre si scuotevano con una naturalezza quasi fastidiosa. Non avrebbe dovuto essere così a proprio agio. Lui non lo era.
- C’avevo bisogno de ‘na doccia. – rispose il Libanese, passandosi lentamente le mani fra i capelli, come per districarne i nodi. Freddo riusciva a sentire lo scricchiolio che le sue dita producevano passando in mezzo ai capelli bagnati e puliti, e mentre si mordeva con forza l’interno di una guancia provò l’irrefrenabile desiderio di voltarsi a guardarlo. Ma non lo fece. – Robertina è stata tanto gentile da offrirme ‘n posto ‘ndo falla. Casa mia sta dall’artro lato d’a città.
- E dovevi veni’ qua pe’ farte ‘na doccia? – chiese in un ringhio infastidito, irrigidendo le braccia lungo i fianchi. Roberta sorrise, sollevando una mano per accarezzargli dolcemente il viso dalla tempia al mento, prima di appoggiarsi contro di lui sistemandosi fra il suo petto e l’incavo del suo collo.
Il Libanese rise, appoggiando la fronte bagnata alla sua nuca. I suoi capelli gli scivolarono sul collo e sulle scapole, bagnandogli la camicia.
- Ce stavo già qua, Fre’. – rispose con la massima tranquillità, - Io e la squinzia tua ce siamo fatti ‘na bella chiacchierata nell’ultimi giorni.
Freddo si voltò di scatto, incapace di trattenersi oltre. Roberta si allontanò istantaneamente, come se lo aspettasse ed avesse contato da dieci a zero per spostarsi nel momento esatto in cui lui si fosse mosso, per non farsi male né dargli fastidio. Tornò ad appoggiarsi a lui quasi subito, aderendo perfettamente alla sua schiena – Freddo sentì i suoi seni piccoli e sodi premuti contro le scapole attraverso la camicia resa sottilissima, quasi impalpabile, dall’acqua che gli era piovuta addosso dai capelli del Libano – e trattenne a stento un gemito mordendosi la lingua. Il Libanese rimase immobile, adesso di fronte a lui. Sorrideva sereno, i lineamenti più distesi di quanto non gli avesse visto addosso in mesi, e i capelli gli scendevano disordinati sulla fronte, sulle guance, sul collo. Indossava solo i pantaloni – sbottonati – e le sue braccia, le sue spalle e il suo petto brillavano di minuscole goccioline d’acqua che portava addosso come brina dopo una notte particolarmente fredda.
- Che me stai a di’, Libano? – gli chiese a corto di fiato, mentre Robertina gli faceva scorrere le mani lungo le braccia e poi gli si appendeva al collo, sollevandosi sulle punte per lasciargli un bacio umido appena sotto l’orecchio. Freddo osservò il Libanese sorridere in maniera appena più dolce nel vederla sbucare come una bimba da dietro la sua spalla, aggrappandosi alla sua camicia come volesse impedirsi di capitombolare sul pavimento, neanche si fosse issata su uno sgabello malfermo invece che sulle punte dei piedi.
- Hai detto ‘n sacco de cose su de me a Robertina. – disse Libano, tornando a guardare lui e scrollandosi dalla fronte qualche ciocca di capelli bagnati in un gesto spiccio. – Da quanno so’ ‘n tipo pericoloso, io? – chiese, fra il divertito e il fintamente offeso.
- Da prima che te posassi l’occhi addosso. – rispose immediatamente Freddo, cercando di concentrarsi per non cedere alle lusinghe delle labbra morbidissime di Roberta, che lo invitavano a rilassarsi, sciogliere i muscoli delle spalle e delle braccia e lasciarsi trascinare in qualcosa che Freddo non era certo di volere, o di avere del tutto capito, peraltro.
Libano rise ancora, avvicinandosi di un passo. Aveva addosso il profumo del suo bagnoschiuma.
- E c’hai ragione. – gli disse in un soffio, prima di sporgersi in avanti abbastanza da chiudere con forza le labbra sulle sue.
Freddo gli piantò le mani sul petto, il palmo bene aperto, e cercò di mantenere la presa sulla sua pelle bagnata abbastanza da spingerlo lontano da sé. Riuscì a staccarselo di dosso – anche perché il Libanese non gli oppose una vera resistenza – ma non ad allontanarlo di qualche metro come avrebbe voluto. Robertina gli rise addosso, strusciando il naso contro il suo collo fin quasi a infilarlo sotto il colletto della sua camicia. Le mani del Libanese si alzarono lentamente, abbastanza lentamente da permettergli di evitarle, se solo avesse voluto o ci avesse provato, ma Freddo non fece niente di concreto per impedire loro di serrarsi attorno ai suoi polsi, e così loro lo fecero.
- Che stai a fa’? – trovò la forza di balbettare, deglutendo a vuoto. Il Libanese gli lanciò un’occhiata gonfia di affettuoso fastidio, mentre il sorriso sulle sue labbra si disperdeva del tutto, lasciandogli addosso solo un’espressione concentrata e tesa, quasi ansiosa.
- Te devo proprio spiega’ tutto, eh? – lo prese in giro, costringendolo ad abbassare le braccia fino a stenderle lungo i fianchi e tornando a farsi avanti.
- Sì. – disse lui, scostandosi indietro per un paio di centimetri, quanto gli permetteva la presenza costante di Roberta, sempre più aderente alla sua schiena, sempre più vicina e calda.
Il Libanese si concesse un altro mezzo sorriso, gli occhi già chiusi, le labbra che sfioravano le sue.
- Stavorta no. – gli rispose, prima di baciarlo ancora.
Freddo provò a tirarsi indietro anche stavolta, ma nello stesso istante in cui le labbra del Libanese si posarono sulle sue, quelle di Robertina si appoggiarono con dolcezza sul suo collo, percorrendone la linea curva dall’alto verso il basso e ritorno, mentre le sue mani, con la stessa identica leggerezza, volavano all’orlo inferiore della sua camicia e lo tiravano fuori dai jeans.
Mugolando appena, Freddo provò a piegare il capo per vedere se, in questo modo, riusciva a sottrarsi dalle labbra di Libano ormai dischiuse e umide sulle sue, ma il movimento non portò altro che un gesto gemello e opposto da parte del Libanese, e nello stesso istante in cui anche il suo capo fu piegato Freddo sentì la sua lingua scivolargli in bocca e cominciare ad accarezzare la sua con una gentilezza perfino inedita, e che era l’unica della quale si potesse parlare riferendosi a Libano, soprattutto contando quanto strette erano ancora le sue dita attorno ai polsi, e quanto male facevano.
Le dita di Roberta scivolarono leste lungo i suoi fianchi, aprendosi sul suo petto e percorrendolo in lunghe carezze calde da sopra la camicia, prima di stringersi attorno ad ogni bottoncino, slacciandoli uno ad uno. Ogni volta che un bottone scivolava fuori dalla propria asola, le nocche di Roberta sfioravano il petto del Libanese, ormai tanto vicino da premere contro il suo ad ogni respiro, e le sue sopracciglia di corrugavano, mentre per un attimo, solo per un attimo, il suo bacio si faceva più affamato, come si sentisse divorare dall’insoddisfazione perché, impegnato com’era a tenerlo fermo, non poteva essere lui a spogliarlo.
Solo dopo molti secondi il Libanese si decise a smettere di baciarlo, scostandosi di qualche centimetro solo ed esclusivamente per riprendere fiato. Gli si appoggiò addosso, fronte contro fronte, mentre Roberta gli faceva scivolare la camicia lungo le spalle e poi scendeva a sbottonargli i pantaloni.
- Mo’ te lascio anna’… - disse il Libanese a voce bassa, gli occhi ancora chiusi, le labbra arrossate, dischiuse, umide e vergognosamente invitanti, - Ma te niente movimenti bruschi, ce semo capiti? – si raccomandò, spingendosi lievemente in avanti quando il dorso delle mani di Roberta sfiorarono accidentalmente il cavallo dei suoi pantaloni nello sfibbiare quelli del Freddo.
Lei rise, divertita dal movimento e dalla pressione improvvisa, ma non si lasciò distrarre. Anche Libano si concesse un sorriso ugualmente divertito, schiudendo gli occhi per lanciarle uno sguardo quasi orgoglioso.
- Te stai a diverti’, Robertina? – le chiese, lasciando andare un polso al Freddo solo per allungare una mano verso la guancia morbida e un po’ arrossata di Roberta, appoggiandole addosso solo due dita e lasciandogliele scivolare lungo il viso in una carezza lievissima, come avesse paura di romperla a pressare con un po’ di forza in più.
Lei annuì senza starci troppo a pensare, ridacchiando ancora. Freddo si lasciò sfuggire un grugnito fra il disapprovante e l’imbarazzato.
- Io nun me sto a diverti’ pe’ niente. – notificò con fastidio, stringendo i pugni lungo i fianchi.
- E mo’ ce pensamo a fa’ diverti’ pure te. – lo rassicurò il Libanese, spingendosi con forza contro di lui ed incastrando le mani di Roberta fra i loro bacini. Lei si lasciò sfuggire un urletto concitato nel sentire per la prima volta, all’improvviso e contemporaneamente, quanto duri fossero entrambi al di là del tessuto pesante dei pantaloni che ancora indossavano, ma non perse tempo prima di stringere le dita attorno alle forme appena intuibili delle loro erezioni, accarezzandole lentamente dall’esterno. Freddo mugolò, socchiudendo gli occhi e voltando il capo nel tentativo di sfuggire allo sguardo vigile e serio del Libanese, ma lui gli si avvicinò ancora, spingendosi in movimenti lunghi e lenti all’interno della stretta di Roberta. Le sue dita piccole e magre riuscivano a malapena a chiudersi per metà attorno alla loro voglia svettante fra le gambe, e questo lasciava libere le loro erezioni di sfiorarsi appena ogni volta che uno o l’altro spingeva all’interno dell’incavo generato dalle dita della ragazza, ed ogni carezza, ogni spinta, ogni sfioramento casuale era un brivido che si scioglieva fra di loro, sulle loro pelli, costringendoli a tremare di desiderio via via sempre più violentemente.
Le mani di Roberta si fermarono all’istante dopo una stretta più forte delle precedenti, come volesse saggiare la consistenza della loro voglia prima di stabilire il da farsi. Freddo riuscì solo distrattamente a chiedersi quando e come tutto questo fosse successo, dove Roberta avesse trovato il tempo di assimilare automatismi simili nei soli due giorni in cui lui era rimasto in galera, ma poi ricordò quanto semplice ed immediato potesse essere prendere le abitudini del Libanese dopo aver cominciato a girargli attorno, e strinse forte pugni e denti per impedirsi reazioni fuori controllo mentre lei si allontanava da loro e, quasi per riflesso, si allontanava da lui anche Libano, tornando improvvisamente a fargli sentire addosso l’aria gelida del garage.
Roberta lo prese per mano, sorridendogli deliziata mentre lo conduceva attraverso i pochi metri che lo separavano dal letto, e poi s’inginocchiò sul materasso, gattonando fino al centro e poi issandosi nuovamente sulle ginocchia e restando lì immobile per qualche secondo – aspettando che anche Libano si avvicinasse per poterla guardare da vicino – prima di cominciare lentamente a spogliarsi.
Freddo si sentì avvampare quando vide la sua pelle rosa e liscia cominciare ad emergere dai vestiti. Sotto il maglione a collo alto, che Roberta tenne fra le mani solo qualche secondo prima di lasciarlo scivolare sul pavimento, e sotto la gonna lunga e vaporosa e variopinta, che finì a pochi passi dai suoi piedi non più di un minuto dopo. La osservò stendersi sul letto restando in biancheria intima – le mutandine bianche e la canottiera leggerissima dello stesso colore le conferivano quell’aria dolce e un po’ infantile che Freddo aveva sempre adorato, e che improvvisamente, accompagnata dal sorriso carico di malizia che le increspava le gambe, sembrava la cosa più eccitante mai vista prima – e non riuscì a trattenersi quando le sue gambe si piegarono autonomamente, facendogli strada verso il materasso, verso il suo calore, verso il suo corpo.
Il Libanese rimase a guardarli entrambi, in piedi accanto al letto. Li guardò e sorrise, abbassando la cerniera già aperta per metà dei jeans e poi sfilandoli con lentezza una gamba dopo l’altra, decidendo però di rimanere ai margini della scena ancora per un po’ mentre Freddo si sistemava fra le cosce di Roberta – che lo accolse con sollecitudine, stringendolo in un abbraccio incredibilmente dolce e sollevando il bacino per non impedirlo nei movimenti quando lui fece cenno di volerle sfilare le mutandine, dopo essersi liberato della sua canottiera ed avere affondato il viso fra i suoi seni.
Fu solo quando vide il Freddo cominciare a perdersi sulla sua pelle, il bacino che già si muoveva in maniera scomposta cercando la via per la sua intimità, che si decise a salire sul materasso, avvicinandosi ai due senza far caso alla confusione che faceva muovendosi, semplicemente perché sapeva che Freddo nemmeno si sarebbe accorto della sua presenza finché lui non l’avesse obbligato a farlo, e Robertina non avrebbe avuto niente da ridire in nessun caso.
Si fermò alle spalle del Freddo, restando immobile per qualche secondo, finché lui non si sollevò appena per stringere la propria erezione alla base e guidarla all’interno del corpo di Roberta, che lo accolse dentro di sé con un gemito umido e tremante, gonfio di voglia, che quasi le esplose sulla lingua. Era solo per metà dentro di lei quando il Libanese si chinò sulla sua schiena e cominciò a lasciare una scia di piccoli baci umidi lungo la sua spina dorsale, solleticandolo ogni volta che gli sfiorava la pelle con la barba.
Freddo rabbrividì e sussultò, il Libanese intuì che avrebbe voluto protestare, e non gli lasciò il tempo di farlo. Gli girò un braccio attorno alla vita, afferrandogli il viso con la mano libera e costringendolo a voltarsi abbastanza da incrociare le sue labbra già dischiuse e umide, che lo coinvolsero in un bacio affamato e senza scampo mentre Roberta stringeva le gambe attorno ai suoi fianchi e si spingeva contro di lui, prendendolo dentro fino alla base ed inarcando la schiena in un mugolio compiaciuto.
Freddo sollevò una mano e la appoggiò su quella del Libanese che premeva con forza contro la sua guancia, per tenergli immobilizzato il viso, e quando quella stessa mano scivolò lungo il suo collo e poi lungo la sua schiena lui mandò la propria più indietro, la avvolse attorno al collo del Libanese e perse le dita fra i suoi ricci bagnati mentre si spingeva con forza dentro Robertina, che fremeva violentemente ogni volta che lui, spingendo, guadagnava centimetri dentro il suo corpo, solleticandola in profondità come mai prima di quel momento.
Libano insinuò due dita umide fra le sue natiche, lo stuzzicò dall’esterno accarezzandolo per tutta la lunghezza del solco e Freddo tremò di paura, confuso. Si separò dalle labbra del Libanese e quasi crollò in avanti, addosso a Roberta, che riuscì a reggerlo bene serrando le cosce attorno a lui ed accarezzandogli il viso con entrambe le mani, aiutata dal Libanese che mantenne forte la presa attorno alla sua vita. Lei lo guardò con indulgenza, accarezzandogli le tempie e ravviandogli i riccetti umidi di sudore lungo i lati della testa, sussurrandogli parole di zucchero sulle labbra e rassicurandolo dolce fra un bacio e l’altro. Il Libanese non si lasciò sfuggire un suono, invece: lo aiutò a spingersi dentro di lei dando piccoli colpetti al suo bacino col proprio e nel mentre continuò la propria esplorazione del suo corpo, attendendo finché Freddo non si fosse rilassato completamente prima di spingere un dito dentro di lui. Freddo si inarcò con violenza in risposta a quell’intrusione forzata, il suo bacino scattò improvvisamente in avanti e Roberta gemette con forza, stringendo convulsamente le dita attorno alla sua testa, affondandole fra i ricci e contraendosi attorno a lui, strappando lo stesso gemito gravido di piacere anche dalle sue labbra.
Anche il Libanese gemette allo stesso modo. Strinse con forza fra le dita la propria erezione ormai tanto tesa da fare male e si affrettò a spingere anche il medio all’interno del corpo del Freddo, muovendosi piano dentro di lui per guadagnare spazio, mentre lui gemeva perso dentro Roberta. Libano si morse un labbro con tanta forza da farlo sanguinare, e solo sentire sulla lingua il sapore metallico del proprio stesso sangue lo eccitò ancora di più. Sfilò le dita e tenne Freddo fermo per i fianchi, aspettando di vederlo affondare dentro Roberta per affondare a propria volta dentro di lui.
Freddo imprecò, aprendosi a fatica attorno alla sua erezione e contraendo tutti i muscoli attorno a lui per la sorpresa e il dolore. Era così stretto e caldo da togliergli il respiro. Libano affondò le dita nei suoi fianchi, scoprendoli più morbidi di quanto non avrebbe mai pensato, e cercò di trattenere l’istinto e la voglia che aveva di seppellirsi in fondo al suo corpo così in profondità da non poter più ritrovare la strada per uscire.
Si mosse piano, avanzando solo di un paio di centimetri per volta, mentre Freddo rimaneva perfettamente immobile, steso sotto di lui e sopra Roberta, abbandonato ed esausto, bersagliato da troppe sensazioni per poterle tenere a bada, per potere impedir loro di sopraffarlo. Roberta continuava a muoversi attorno a lui, scopandolo più di quanto lui non stesse scopando lei, e il Libanese non poté trattenersi dall’allungare una mano verso il suo viso così piccolo e dolce e perso nell’estasi del piacere che, a conti fatti, si stava procurando da sola. Le accarezzò una guancia con reverenza, prima di spingersi fino alla base dentro il corpo di Freddo ed osservarlo scattare in avanti all’improvviso ancora una volta, costringendo Robertina all’ennesimo gemito liquido e spezzato, mentre le sue gambe scioglievano la loro stretta attorno alla vita del Freddo per riannodarsi più indietro, sulla schiena di Libano, attirandolo con più forza dentro il corpo di Freddo e portando quest’ultimo a spingersi ancora più in profondità dentro di lei per riflesso.
- Oh, mio Dio… - esalò la ragazza in un ansito spezzato. Freddo trovò la forza di sollevarsi abbastanza da posarle sulle labbra un bacio umido e aperto mentre lei continuava a dimenarsi sotto di lui, e il Libanese si sentì in un secondo così incredibilmente pieno da esserne quasi nauseato. Piantò le mani sul materasso, puntellandosi fra le coperte per cominciare a spingere ad un ritmo più sostenuto, aumentando la pressione che esercitava sul Freddo carica dopo carica, abbattendosi contro di lui con decisione sempre maggiore e sentendolo rabbrividire e gemere ad ogni spinta, sentendo perfino la voce di Roberta alzarsi di tono e volume botta dopo botta, osservandoli baciarsi fra loro in una confusione di labbra e lingue e denti e scendendo a mordere con forza il Freddo sulla nuca per ricordargli che c’era pure lui, anche se non poteva vederlo, ricevendo in cambio una contrazione che gli riempì tutto il corpo di scariche di piacere intense e disordinate. Freddo sapeva esattamente dov’era, Freddo sapeva esattamente cosa stavano facendo, Freddo l’aveva capito senza che dovesse spiegarglielo a parole, e quando Robertina esalò uno stremato “vengo ancora!”, chiedendosi a quante volte fosse arrivata Libano si spinse ancora più in profondità dentro il Freddo, venendo dentro di lui e continuando a gemere ad ogni contrazione mentre, con un minimo di ritardo, anche il Freddo si riversava dentro Robertina, prima di crollarle esausto addosso.
*
Si azzardò ad uscire solo quando fu sicuro che Roberta si fosse addormentata, serena e soddisfatta, fra le sue braccia. Non sembrava aver bisogno di consolazione, dopo aver finito di scopare, ma sicuramente ne aveva bisogno lui, e trovava confortante stringerla fra le braccia ed osservarla scivolare lentamente nel sonno mentre le accarezzava distrattamente i capelli, per cui, pur nell’assoluta follia della situazione generale, fu molto grato al Libanese quando, pochi minuti dopo essere venuto, si separò da loro, si mise in piedi e recuperò i propri pantaloni, per uscire dal garage a piedi nudi e senza maglietta, i capelli ancora bagnati e, se possibile, perfino più ricci di prima.
Di fuori, la notte non era ancora tarda, ma era già buia e piuttosto fredda. Nonostante quello, il Libanese, appoggiato al cofano della propria macchina e col naso per aria, non sembrava soffrire il freddo. Aveva i piedi sporchi di terriccio, e le dita arricciate verso l’interno, come a voler esporre la minor quantità di pelle possibile alle spigolature della ghiaia che ricopriva il terreno.
Freddo avanzò verso di lui e si sedette al suo fianco, sfiorando il suo fianco col proprio e guardando le stelle a propria volta.
- Che ce troverete tutti d’interessante. – commentò il Libanese, scrollando le spalle ed abbassando lo sguardo sul suo viso, - A me m’annoia guarda’ er cielo.
Freddo sorrise appena, stringendosi nelle spalle.
- Nun è robba pe’ te. – rispose. Libano si accigliò appena.
- Che vor di’? – chiese brusco, e Freddo rise.
- Niente. – rispose, girandogli un braccio attorno alle spalle, - Solo che te sei fatto pe’ altra robba. – spiegò, e Libano non poté che concordare, annuendo lentamente. – Senti, - chiese Freddo dopo un po’, - ma se po’ sape’ che je hai dato a Robertina? – Libano inarcò un sopracciglio e poi si guardò il cavallo dei pantaloni con aria allusiva, e Freddo rise un’altra volta, battendogli un pugno contro una spalla. – A parte quello, intendo.
- Niente. – rispose lui, scrollando le spalle, - Giuro! – insisté sgomento di fronte all’occhiata dubbiosa del Freddo, il quale rise ancora e si limitò a scuotere con rassegnazione il capo, appoggiandosi a lui.
- Se po’ sape’ perché l’hai fatto? – gli chiese in un mezzo sussurro, tornando a guardare il cielo in cerca della propria stella. Quella notte non si vedeva, però.
Libano sospirò pesantemente, roteando gli occhi e lanciandogli un’occhiata infastidita.
- Aò, - disse lagnoso, - ma te devo mica spiega’ tutto pe’ davero? – chiese, prima di sospirare ancora ed afferrarlo per il mento, costringendolo a voltarsi per stampargli sulle labbra un bacio inizialmente goffo e incerto e poi via via sempre più affamato e sicuro.
Freddo sorrise appena, allontanandosi da lui per riprendere fiato.
- …stavorta no. – disse, un po’ facendogli il verso, un po’ credendoci per davvero.
Lanciò un’altra occhiata alla volta carica di stelle sopra di loro. Della sua, ancora nessuna traccia.
- A Fre’, la pianti o no de fissa’ er cielo? – gli chiese bruscamente Libano.
Freddo smise subito di cercare.
Genere: Introspettivo, Commedia.
Pairing: Freddo/Libanese.
Rating: PG-13
AVVISI: Slash, Drabble, Spoiler per l'episodio 1x07.
- "'È peggio che stare ar gabbio.'"
Note: Non potevo non scrivere qualcosa su quello che è palesemente il momento di maggiore slash di tutta la serie XD Quando Freddo viene ferito per salvare Libano e lui, per tutta risposta, se lo tiene nel letto i giorni in attesa che guarisca. *cade* La bellezza di quei due non si comprende XD (Per la verità volevo scrivere qualcosa di molto più lungo, e infatti penso che prima o poi, su questo stesso soggetto, scriverò una shot ben più consistente. Fino ad allora, mi glorierò di aver scritto qualcosa di meno lungo di 200 parole. Non mi capita quasi mai. XD)
Scritta per il Challenge: Special #9 @ it100, su prompt Everything's another excuse (We Are Scientists).
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THIS SCENE IS DEAD
everything’s another excuse

- A Libanè, sto bene. – borbotta Freddo, facendo per alzarsi dal letto. Libano lo afferra per il braccio sano e lo schiaccia nuovamente contro il materasso, guardandolo con severità. Non ha bisogno di dirgli niente, gli basta piantare gli occhi nei suoi e aggrottare le sopracciglia, le labbra piegate nel solito broncio cattivo che ormai al Freddo non fa più paura neanche per un cazzo, ma che in qualche modo riesce a tenerlo lì anche senza spaventarlo. Sospira, sistemandosi meglio sopra i due cuscini che il Libanese gli ha messo dietro le spalle ormai più di ventiquattro ore fa. – È peggio che stare ar gabbio. – si lamenta, guardando la notte oltre le serrande del balcone. – Me fai almeno annà sul divano? Er letto è piccolo pe’ due persone.
- A Fre’. – sbuffa il Libanese, alzando gli occhi al cielo e poi rotolando sulla pancia. Sulla propria, ma anche su quella del Freddo. – E stai un po’ zitto.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Freddo/Libanese.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Angst, Spoiler fino alla 1x08.
- "Il suono che ha sentito ricorda quello di un campanello. È come sentir suonare la sveglia."
Note: Mah, in origine tutto ciò doveva risultare in qualcosa di molto più violento XD Tanto per cominciare, i due bei tomi qui dovevano picchiarsi. Alla fine non l'hanno fatto, e per farmi capire se intendevano copulare o meno ci hanno messo tre giorni. No, dico. Vi pare? *li scappellotta tutti e due*
Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia, su prompt ROMANZO CRIMINALE Freddo/Libanese, “Underneath your clothes (…) there's my territory.” ('Underneath your clothes' - Shakira).
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UNDERNEATH YOUR CLOTHES
ROMANZO CRIMINALE Freddo/Libanese, “Underneath your clothes (…) there's my territory.” ('Underneath your clothes' - Shakira)

Libano è immobile, appoggiato alla porta in ferro del garage, con la giacca aperta e le maniche tirate su fino al gomito nonostante sia notte fonda e il piazzale sia spazzato da un vento gelido e impietoso che sulle colline, mentre Freddo guardava le stelle seduto per terra accanto al Nero, non c’era.
- È stata bella la festa? – gli chiede, tirando fuori le chiavi ed aprendo la porta. Il Libanese non risponde, ma Freddo non resta in attesa dei suoi comodi: entra in casa e si lascia la porta aperta alle spalle. Se vuole entrare, entrerà. Se non vuole entrare, andrà via. Lui, al massimo, ripasserà più tardi davanti alla porta per chiuderla.
Mentre il Libanese resta immobile a scrutarlo dalla soglia, Freddo sfila gli stivali e li manda a sbattere con due calci identici contro la parete in fondo. Toglie la giacca e la camicia, sbottona i jeans e poi si dirige scalzo verso il piano cottura, dove comincia a preparare la caffettiera. Non ha alcuna voglia di dormire, d’altronde non ha quasi fatto altro, in galera, quando non era impegnato a pestare gente per il solo gusto di ricordarsi che, come tutti loro, era venuto fuori anche lui dalla stessa merda.
Il Libanese finalmente si decide a entrare, chiudendosi la porta alle spalle con un tonfo pesante che riecheggia per tutto il garage. Freddo avvita la caffettiera e la mette sul fuoco. La fiamma alimentata dal gas produce un suono rilassante, come un soffio leggero. Freddo si appoggia al frigorifero e socchiude gli occhi, attendendo che l’aria si riempia del familiare e piacevole odore del caffè.
Il Libanese si ferma a guardarlo dall’altro lato del tavolo, immobile in mezzo alla stanza.
- Te te sei divertito? – gli chiede invece di rispondere alla sua domanda, incrociando le braccia sul petto.
Freddo lo guarda, senza muoversi dal punto in cui si trova. La caffettiera fischia un po’, il caffè comincia ad uscire depositandosi sul fondo in un gorgoglio sommesso. La notte, di fuori, è buia. Per quello che ne sa, potrebbero essere gli ultimi uomini rimasti al mondo, perché gli occhi del Libanese ardono di rabbia in un modo che glielo fa quasi immaginare mentre ammazza a colpi di pistola chiunque incontri sulla sua strada mentre si dirige verso il garage, solo per buttare fuori un po’ di frustrazione.
- Sì, me so’ divertito. – risponde con un mezzo sorrisetto sarcastico. – Che voi, Libano? – gli chiede quindi, spostando il peso del corpo da un piede all’altro mentre spegne il fornello sotto la caffettiera ormai piena, - La serata nun è finita bene? La mignotta che te sei portato a casa nun è stata capace? Che ce stai a fa’ in casa mia a quest’ora?
Libano scatta in avanti, divorando in un passo lo spazio che lo separa dall’isola, e batte entrambe le mani bene aperte sulla superficie del tavolo, sporgendosi in avanti con aria minacciosa. Inspira ed espira profondamente, prima di parlare, però. Perché anche lui sa che le parole possono essere pericolose.
- Ce lo sai chi era quello che te sei portato ‘n giro stanotte? – gli chiede, la voce calma ma scossa da un tremito profondo che solo chi lo conosce bene può riconoscere per il pericolo che rappresenta. Freddo si mette dritto, avvicinandosi al tavolo ed appoggiandosi esattamente com’è appoggiato il Libanese, le mani bene aperte, le braccia larghe ai lati del corpo. Si sporge verso di lui e i loro visi sono tanto vicini che potrebbero prendersi a testate annuendo.
- Sì. – risponde seccamente. Libano ringhia.
- Allora sai pure che è stata corpa sua si sei finito ar gabbio. – dice. Freddo sbuffa una mezza risata sarcastica.
- Ce lo so sì. – annuisce, allungandosi a recuperare una tazzina (una, solo per se stesso) e riempiendola di caffè. – E so pure che si nun era pe’ lui ar gabbio ce restavo pure.
- Ma che cazzo stai a di’? – grugnisce il Libanese, allontanandosi dal tavolo e facendo il giro per raggiungerlo davanti al piano cottura, - Che quello se n’è tornato cor rischio de fini’ ar gabbio pe’ vent’anni per bontà de cuore? A Fre’, ma che te credi? Chi pensi che t’ha fatto tira’ fori de là, er Nero? Ma te lo racconti solo o ce stai pure a crede?
- L’avvocato è stato abbastanza chiaro. – insiste Freddo, bevendo un sorso di caffè per poi mettere via la tazzina ancora bollente. Rischia di andargli tutto di traverso, stasera, e il caffè non è buono come aveva sperato. Troppo amaro, in una giornata che già di amarezza ne aveva avuta abbastanza. – Mentre io me ne stavo chiuso là dentro, voi stavate a chiederve si dovevate continua’ a cercare. Dimme ‘n po’, Libanese, quanto c’avete messo a decide che dovevo esse stato pe’ forza io a rapina’ quella banca? Er Freddo se ne sta troppo pe’ le sue, nun se fa più vede’ tanto, sicuro ha deciso de farse ‘n po’ di sordi da solo. Mentre quello stronzo di Scialoja me rompeva er cazzo da mattina a sera voi stavate ad apri’ bische pe’ mettece dentro i servizi segreti. Te dovrei di’ grazie? Voi questo? Perché si voi questo fai prima ad annartene a fanculo, Libano, te lo dico mo’.
- Ma statte ‘n po’ zitto, stronzo. – dice il Libanese dopo aver aspettato che lui abbia finito. La sua voce è bassa, perfino controllata, per quanto possibile, ma tradisce la sua furia. Solleva un braccio e lo afferra per il collo, senza violenza, stringendo abbastanza da dargli l’impressione di poter respirare solo quando lo decide lui, ma senza mai mozzargli il respiro per davvero. Freddo prova ad indietreggiare, ma incontra subito la superficie fredda del frigorifero con la schiena. Il Libanese stringe un po’ la presa attorno al suo collo, Freddo solleva il mento e digrigna i denti, e lo guarda. – L’artri l’hanno pensato, che potevi esse stato solo tu. Io no, però. So’ andato all’EUR a feri spianati, Fre’, a spaventa’ i regazzini pe’ fa’ sape’ in giro che Libano stava a cerca’ er Nero. Pensi che quello se sarebbe fatto vede’, si nun lo cercavo io? Io solo l’ho cercato. Te puoi pure nun ringraziamme, si nun voi, ma nun t’attacca’ ar culo der pischello, Fre’, perché questo nun me lo poi fa’.
Freddo gli pianta le mani sul petto, spingendolo con forza lontano da sé. Lo guarda con occhi furiosi, che brillano di qualcosa di molto simile all’odio. Per un secondo, il Libanese ne è intimorito. Poi ricorda chi è, ricorda che non c’è niente di cui debba avere paura – non c’è niente di cui possa avere paura, se vuole rimanere se stesso, se vuole trattenere tutto ciò che possiede, se vuole trattenere lui – e ricambia l’occhiata con la stessa rabbia. Si avvicina, Freddo prova a spintonarlo ancora ma lui oppone resistenza, e quando lo afferra per le spalle non ci pensa neanche due volte, prima di scaraventarlo nuovamente contro il frigorifero.
Freddo geme di dolore, un sussurro appena udibile che scivola faticosamente fra i denti digrignati e le labbra tese, e da dietro lo sportello giunge il tintinnio incerto delle bottiglie d’acqua che cozzano l’una contro l’altra. Il Libanese spalanca gli occhi, le mani ancora pressate con forza contro le sue spalle. Il suono che ha sentito ricorda quello di un campanello. È come sentir suonare la sveglia.
Guarda il Freddo e gli sembra di vederlo per la prima volta, guarda il Freddo come l’ha guardato la prima volta che hanno parlato sul serio in macchina, mentre gli spiegava cos’aveva in mente per il barone Rosellini, guarda il Freddo come l’ha guardato nel momento in cui tutti credevano che fosse scappato col riscatto e invece lui s’è presentato coi soldi al loro posto nella borsa, guarda il Freddo come l’ha guardato quella volta che s’è preso una pallottola per lui, guarda il Freddo come l’ha guardato tre giorni dopo svegliandosi presto dopo aver dormito sul divano, è andato in camera da letto e l’ha trovato ancora profondamente addormentato, e lì c’è rimasto i minuti, e s’è mosso solo quando l’ha sentito cominciare a svegliarsi, non prima di averlo guardato abbastanza a lungo da impararlo a memoria, lo guarda come allora, come lo guarda sempre, ma di più, e quando si accorge che il Freddo gli ricambia lo sguardo nello stesso identico modo trattiene il respiro e si fa avanti.
Incontra le sue labbra, le bottiglie oltre lo sportello tintinnano ancora, e Freddo non si scosta, sebbene Libano non sappia dire se non si scosti perché non vuole o semplicemente perché, schiacciato contro il frigorifero, non può. Non si muove ma non risponde neanche, e il Libanese ha di nuovo paura di cose che non può e non sa dire. Stringe la presa sulle sue spalle ancora per un secondo prima di scivolare lungo le sue braccia, giù fino ai polsi, e poi lo afferra alla vita, premendogli le dita nei fianchi con la speranza di fargli male, di costringerlo al gemito che lo obbligherebbe a schiudere le labbra. Confuso e arrabbiato e impaurito com’è, non gli importa di doverlo ingannare o di doverlo costringere con la forza, per assaggiare il suo sapore.
Il Freddo non geme, però. Forse nemmeno si fa male. Forse nemmeno lo sente. Libano aggrotta le sopracciglia, ha gli occhi chiusi ma ha l’impressione di potere indovinare la sua espressione, impassibile e fredda come il suo nome comanda. Non vuole vederla. È per questo che continua a tenere le palpebre abbassate anche quando si arrende – è la prima volta nella sua vita che si arrende, fa male, lo fa sentire debole e stupido – e si allontana da lui.
In risposta al movimento, le bottiglie nel frigo tintinnano ancora, per la terza volta, ed è allora che le mani del Freddo scattano in avanti, afferrandolo alla nuca e tirandoselo contro. S’è svegliato anche lui, ma il Libanese non ha tempo né modo di pensare a cosa questo possa significare, perché in un secondo si trova tutto schiacciato contro di lui, che è duro e lo tocca con ansia crescente, stringendolo con la stessa forza dolorosa con la quale l’ha stretto lui poco fa. Si allontana solo per prendere fiato, schiude gli occhi e il Freddo i suoi li ha chiusi da un pezzo, perciò li richiude anche lui, sbatte un pugno rabbioso contro lo sportello, le bottiglie fanno da colonna sonora al danno enorme in cui si stanno perdendo e Freddo sussulta, strusciandosi lentamente contro una sua gamba, appoggiando la fronte sulla sua.
Il Libanese trattiene il respiro e decide di lasciar perdere i pensieri su ciò che dovrebbe fare, che tanto non ha mai badato alla propria coscienza, nemmeno una volta da quando è nato, al punto da essere arrivato a pensare di non avercela proprio, una coscienza, per cui non vede per quale motivo la stronza dovrebbe farsi vedere proprio adesso, invece, proprio mentre è con Freddo e lo sta baciando e da qualche parte nel suo cervello ancora non troppo bruciato dalla droga c’è una vocina che gli dice che non dovrebbe, che sarà un casino, e lui sceglie deliberatamente di non ascoltarla, premendosi contro Freddo ed afferrando il suo maglione dall’orlo inferiore, per strattonarlo senza la minima delicatezza verso l’alto, sfilandoglielo dal capo.
Le testa di Freddo ne riemerge scompigliata, ha le guance arrossate e gli occhi lucidi e scuri, il Libanese è senza fiato e si vergogna di trovarlo tanto bello, ma si strappa via la camicia di dosso e gli si preme contro perché vuole sentire sulla propria pelle quanto è caldo, vuole sentirsi desiderato da lui, vuole sentire le sue mani chiudersi con forza attorno ad una qualsiasi parte del suo corpo per illudersi almeno per qualche minuto che tutto ciò di cui ha paura non si verificherà mai, e il Freddo non si sta veramente allontanando, e il Freddo non lo sta veramente abbandonando, e lui non glielo sta veramente lasciando fare perché ha troppa paura di parlargli per provare ad impedirlo.
Lo afferra per i capelli per tenerlo fermo, lo bacia ancora per occupare i pensieri di lui, Freddo geme nella sua bocca e gli accarezza le spalle, le braccia, la curva della schiena, e quando poi si scosta e subito dopo gli si schiaccia nuovamente addosso, con più forza, Libano inspira profondamente, si separa da lui con uno schiocco umido e gli infila una mano nei pantaloni. Freddo spalanca gli occhi, terrorizzato, e geme d’ansia e piacere quando le sue dita si chiudono attorno all’erezione che gli pulsa fra le cosce.
- Libano. – lo chiama senza fiato, gli occhi liquidi e brillanti, e il Libanese lo bacia ancora, più lentamente, adattando i propri movimenti al ritmo col quale Freddo si spinge nel suo pugno chiuso. Non si stupisce quanto dovrebbe quando sente le mani del Freddo scivolare giù lungo il suo petto e attaccare la cintura dei suoi pantaloni. Le sue dita fredde e un po’ tremanti disfanno la fibbia e sfilano il bottone dall’asola, tirando giù la cerniera prima di avanzare esitanti oltre l’orlo degli slip. Il Libanese lo chiama per nome quando Freddo sfiora appena la punta del suo cazzo teso, e si spinge istintivamente contro di lui, mandandolo a sbattere un’altra volta contro il frigorifero. Come tutte le volte prima, il frigorifero risponde col solito tintinnio consapevole e complice. Per la prima volta, invece, risponde anche Freddo. Dice solo “sì”, ma è sufficiente.
Lo afferra per i fianchi e prova a farlo voltare. Il Freddo oppone resistenza, lo guarda come se non avesse idea di cosa gli stia chiedendo, e il Libanese pensa che in realtà non ne ha idea lui per primo. Lo bacia piano, sporgendosi verso le sue labbra in un gesto appena accennato. Non è che uno sfregamento lievissimo, ma dà i brividi a entrambi. Quando il Libanese prova a farlo voltare un’altra volta, sa esattamente cosa gli sta chiedendo, e lo sa anche Freddo. Che trattiene il respiro e serra le labbra, lo guarda come a chiedergli se ne sia proprio sicuro, si fa strattonare piano senza muoversi ancora per un paio di volte e poi, finalmente, si gira, le mani aperte sullo sportello del frigorifero che trema violentemente quando Libano gli si schiaccia addosso da dietro, invitandolo a schiudere le gambe con un colpetto dietro le ginocchia e scivolando lungo il suo petto e la sua pancia fino ad afferrare nuovamente la sua erezione ancora costretta dentro le mutande.
Freddo appoggia la fronte contro il frigo e chiude gli occhi, espira rumorosamente dalla bocca e fra le sue labbra scivola un sospiro che è un gemito e una lamentela insieme. Libano stringe i denti, esita, e Freddo gli dice di darsi una mossa. E lui sorride, appoggiando la fronte alla sua spalla, mentre gli fa scivolare i pantaloni lungo le gambe magre e tese e poi si inumidisce con un po’ di saliva, mordendosi un labbro quando riesce finalmente a premersi contro la sua apertura e comincia ad intuirne il calore e la pressione.
Gli appoggia una mano su un fianco per cercare di tenerlo fermo, ma mentre sta lì a chiedersi come, e dove, e quando, ma non perché, perché quello lo sa già, Freddo gioca d’anticipo, è più veloce di lui e gli si preme addosso, accogliendolo con fatica nel proprio corpo con un gemito che gronda dell’eco di un dolore strano, di quelli che ti infliggi perché sai di volerli, quei dolori di cui ti piace soffrire, quei dolori che vuoi nella tua vita nello stesso modo assurdo in cui, arrivato a un certo punto, dopo gli anni e le sofferenze e i problemi e i cazzi al culo e le cose che non vanno mai come uno vorrebbe, cominci ad aspettare la morte come una soluzione. La stessa che hai rincorso e dalla quale sei fuggito per tutta la tua esistenza.
Da quanto stanno fuggendo, loro due? Dove si sono persi, prima di riuscire a ritrovarsi in quella cucina, sulla colonna sonora delle bottiglie in frigo e dei loro gemiti che impregnano l’aria come l’odore dei loro corpi che si sfregano velocemente l’uno contro l’altro?
Si fa strada dentro il suo corpo senza delicatezza, lo sente aprirsi al passaggio mugolando a bassa voce, e ringhia di gola mentre la pressione attorno alla sua erezione si fa sempre più alta, quasi dolorosa. Freddo cerca qualcosa a cui aggrapparsi ma non trova niente, si appoggia al frigorifero consapevole che se non ci fosse scivolerebbe a terra, e Libano cerca di spingersi dentro di lui con accortezza, muovendosi piano, ma i respiri sempre più concitati di Freddo non lo aiutano a mantenere la calma, perciò stringe le dita attorno alla sua erezione mentre Freddo contrae i muscoli attorno a lui in uno spasmo incontrollabile, e il Libanese aumenta il ritmo delle proprie spinte e delle proprie carezze perdendo consapevolezza di tutto il resto, al punto da non sapere più chi insegua cos’altro, se siano i suoi movimenti a inseguire il respiro di Freddo o se siano i suoi ansiti affaticati, invece, a inseguire le sue anche mentre scattano avanti e indietro, riempiendo l’aria del suono nuovo e sorprendente delle loro pelli che schioccano sbattendo ritmicamente l’una contro l’altra.
Affonda i denti nella sua spalla solo per un secondo, mentre si riversa dentro di lui con un’ultima spinta cercando di ignorare lo schizzo di piacere del Freddo che si intuisce appena sullo sportello del frigorifero, bianco su bianco, una cosa che c’è ma non la vedi, la senti al tatto ma per farlo ti devi avvicinare, che se ti affidi agli occhi apposta per starne lontano è come se non esistesse.
Gli si appoggia addosso, stremato, aderendo perfettamente alla sua schiena ancora inarcata. Lo sente ansimare faticosamente sotto di sé e sa di stare ansimando nello stesso modo. Sa che dovrebbe allontanarsi, dargli spazio per ricominciare a respirare più facilmente, ma continua a tenerlo stretto, le braccia serrate una attorno al suo petto ed una attorno al suo stomaco, e sa che adesso, esattamente come prima, quando l’ha afferrato al collo, sta solo cercando di dargli l’illusione di poter vivere solo alle sue dipendenze. Sono l’aria che respiri, suggeriscono le sue mani mentre lo stringono e lo stringono fin quasi a soffocarlo, lontano da me non vivi. Ed è una menzogna, naturalmente, perché la verità è che gli basterebbe allontanarsi dalla sua stretta soffocante per tornare a respirare con molta più libertà. Ma Libano non vuole che Freddo se ne accorga, perciò non lo lascia andare.
Freddo se n’è già accorto, naturalmente. Se n’è accorto mesi fa, quando ha sentito gli occhi del Libanese addosso per la prima volta, mentre stavano in macchina e gli spiegava dei suoi piani per il barone Rosellini, se n’è accorto nel momento in cui gli ha piantato addosso gli occhi quando tutti pensavano che fosse scappato coi soldi del riscatto e invece lui si è presentato al bar con tutti i soldi a posto nella borsa, se n’è accorto per come l’ha visto guardarlo con terrore palese quando è stato ferito per lui e se n’è accorto quella mattina che era prestissimo ma lui era già sveglio e si rifiutava di tenere gli occhi aperti solo per illudersi di poter restare in quel letto ancora qualche ora di più, e il Libanese s’è alzato dal divano sul quale aveva dormito quella notte e pure tutte le notti precedenti e s’è fermato a guardarlo per minuti interi, ore, eternità, e quindi Freddo lo sa, lo sa che ha un piede in una trappola e l’altro già mezzo in una fossa, lo sa che dovrebbe fare solo un passo e allontanarsi del tutto, lo sa che così risolverebbe almeno una parte dei suoi problemi. Ma lui è l’aria che respira, lo è davvero anche se per la maggior parte del tempo lo soffoca. È per questo che non si muove. È per questo che resta lì dov’è.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Freddo/Libanese (lievissimo).
Rating: PG
AVVISI: (vago) Slash, (doppio) Drabble, Spoiler vaghi per gli ultimi due-tre episodi della S1.
- "Ci sono degli ottimi motivi per i quali s’è cacciato in questo guaio."
Note: ;__; Su questo momento della serie, quello in cui Freddo e il Libanese si allontanano senza speranza, ci sarebbe da scrivere per eoni. Questo momento in particolare, quello del quale parlo in questa storia, poi, è esemplificativo del rapporto complesso e tormentato che li lega, e che è tale sia che li si voglia shippare sia che lo si guardi solo per quello che è. Belli che sono ;_; *cuore spezzato*
Scritta per il Challenge: Special #9 @ it100, su prompt Reasons like seasons / they constantly change (Something Corporate).
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ME AND THE MOON
reasons, like seasons, they constantly change

Gli dice che gli deve parlare, ma all’ultimo secondo non riesce a dirgli di cosa. Lo osserva andare via e si dice “vabbè, fa niente, la prossima volta”. Perché tanto non è che deve morire domani, non è che lui e il Freddo stanno andando da qualche parte nel giro delle prossime ventiquattro ore. Si rivedranno, potranno riparlarne in un momento in cui Freddo non sia appena uscito di galera, un momento in cui non si sia appena incazzato come una biscia perché la bisca che lui aveva detto di non aprire è stata aperta comunque, un momento in cui il Libanese non abbia ancora troppo chiare nelle orecchie le voci dei due tali dei servizi segreti che fino a un mese prima minacciava con una mazza da baseball, e coi quali invece adesso ha preso accordi, ben consapevole del fatto che a Freddo questa cosa non andrà giù né ora né mai.
Ne riparleranno quando saranno tutti e due più tranquilli, più rilassati, e allora il Libanese potrà spiegargli le sue ragioni, quelle che fino a qualche ora prima erano così chiare, quelle che sembrano essersi dissolte come niente negli occhi arrabbiati del Freddo pochi secondi fa.
Ci sono degli ottimi motivi per i quali s’è cacciato in questo guaio. Ce ne sono di ottimi davvero, è stata una decisione razionale. Doveva farlo. È stato meglio così per tutti. Ma c’è una voce, dentro di lui, che gli dice che quando parlerà con Freddo, quando finalmente gli dirà tutto e glieli spiegherà anche, tutti questi buoni motive, non sarà lui a capitolare. Non sarà lui ad avere ragione. E al Freddo basterà mezza parola, per farglielo capire.
Mezza parola che lui non vuole stare a sentire. E quindi forse al Freddo non dirà proprio un bel niente.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Freddo/Libanese.
Rating: PG-13
AVVISI: Slash, (triplo) Drabble, Spoiler vaghi per tutta la S1.
- "Quello è stato solo il primo di tanti cambiamenti."
Note: ...XD Sì. *sospira*
Scritta per il Challenge: Special #9 @ it100, su prompt I changed all the things that you told me to change (Our Lady Peace).
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DO YOU LIKE IT
i changed all the things that you told me to change

Quando il Libanese e la sua banda gli si sono presentati con quell’idea di rapire Rosellini e farci su tanti soldi da annegarci, all’inizio Freddo s’è chiesto “ma co’ chi me sto mettendo?”. Ed è un pensiero che s’è tenuto nel petto per tutti i giorni successivi, fino a quando non s’è risolto tutto, coi soldi al sicuro nel borsone fra le sue mani prima e sul tavolo da biliardo in mezzo agli altri dopo.
Ha continuato a pensarci, sempre senza dirlo, finché il Libanese non ha aperto bocca per davvero. E lì il Freddo ha capito intanto che prima di quel momento là il Libanese non aveva mai parlato. Sì, aveva detto cose, preso decisioni, dato direttive. Ma non aveva parlato sul serio. Invece in quel momento lo stava facendo, e le robe che stava dicendo non stavano né in cielo né in terra. Il delirio di un pazzo.
La seconda cosa che aveva capito il Freddo era stata che aveva fatto bene a tenersi tutto per sé, senza dire niente di quanto pensava che la batteria del Libanese fosse composta solo da poveracci pure un po’ scemi. Aveva fatto bene perché nelle parole di Libano c’era qualcosa che brillava. Qualcosa di rischioso e ambizioso e che probabilmente li avrebbe ammazzati tutti prima di permetter loro di vedere qualche frutto venire fuori da tutto il lavoro che ci sarebbe voluto, ma qualcosa di serio in ogni caso. Qualcosa che era bastato a convincerlo a tirare fuori i suoi venti milioni e spostare gli altri al centro del tavolo. La sua puntata. La sua scommessa sul Libanese.
Quello è stato solo il primo di tanti cambiamenti. Una batteria unica, la convinzione di non dover più prendere ordini da nessuno che andava indebolendosi piano, piano, piano, mentre faticosamente si rassegnava all’idea di essere sotto alla camorra, sotto alla mafia, sotto a chiunque Libano avesse deciso di mettergli sopra, semplicemente perché stava sotto a lui.
Perciò, quando il Libanese gli si presenta a casa con due occhiaie fino a terra e la camminata ciondolante di uno che sta per svenire da un momento all’altro, quando gli mette le mani addosso e lo spinge contro una parete e poi si fa sentire tutto nonostante i vestiti e l’ansia e la cazzata enorme che stanno facendo, il Freddo non fa una piega. Cambia pure questo. E sa che non sarà nemmeno l’ultima volta.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG
AVVISI: Gen, Angst, (triplo) Drabble, Drug Use, Death, Spoiler fino alla 1x12.
- "È così solo che neanche l’acqua gli bada, urla più forte di lui, soverchia la sua voce, la rende simile a un sussurro."
Note: Il titolo a questo giro non c'entra davvero niente con la ficlet in sé XD Ma era il titolo della canzone da cui era stata presa la citazione che mi faceva da prompt, perciò. #modipertitolarelepropriefic A parte questo, ci terrei a ripetere dolore ;_; E nient'altro. /o\
Scritta per il Challenge: Special #9 @ it100, su prompt Everything was moving so fast (Taking Back Sunday).
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CATHOLIC KNEES
everything was moving so fast

Si aggira sotto casa di sua madre, il Libanese, sfatto e confuso e fradicio di pioggia. È solo come non è mai stato in vita sua, manco da piccolo, e tutto gli vortica intorno con rabbia furiosa. I suoi ricordi si prendono gioco di lui, sua madre non risponde al citofono e lui continua a urlare, i capelli che gli si appiccicano alla faccia e le guance bagnate, che potrebbe essere pioggia ma anche no, e alla fine non gl’importa nemmeno tanto scoprirlo. È così solo che neanche l’acqua gli bada, urla più forte di lui, soverchia la sua voce, la rende simile a un sussurro. Lui che ogni volta che apriva bocca sembrava dovesse far tremare il cielo, adesso si arrende al rombo di un tuono molto più potente del suo. Freddo se ne va. La sua banda si è già sciolta senza chiedergli neanche cosa ne pensava. Sua madre, sua madre non gli risponde al cazzo di citofono.
E mentre è lì che gira su se stesso e piange e urla e strepita come un bambino piccolo, pesante di pioggia e di droga e di un dolore talmente profondo e sordo che neanche i lamenti sembrano in grado di alleggerirlo o tirarlo fuori, il Libanese ci arriva. Lo capisce perché gli ultimi mesi li ha passati in un’altra dimensione, stordito e rincoglionito dalla coca, col naso e i polmoni sempre in fiamme. Perché le cose si stavano muovendo troppo in fretta, tutto stava cambiando, si stava facendo enorme e gli stava scivolando di mano, e lui non poteva farci proprio un cazzo, a parte cercare di fermare il tempo. Se non davvero, per lo meno nella sua testa.
Mentre gli spari gli rimbombano nelle orecchie e nel petto, e lui è tanto fuori di sé che il dolore nemmeno lo sente – ma in compenso sente i secondi ricominciare a scorrere a velocità tripla, goccia dopo goccia come le gocce del suo sangue che si perdono in una pozzanghera annacquata sull’asfalto sotto di lui – il Libanese prova a chiudere gli occhi, e si rende conto che non vuole. Perché vuole vederla tutta fino alla fine, questa stronzata. Vuole viverla fino all’ultimo istante. Sapendo che aveva ragione. Che stava facendo bene. Che almeno lui ci ha provato, a fermare il tempo, prima che quello si decidesse a morirgli fra le braccia.
Genere: Introspettivo, Erotico.
Pairing: Freddo/Libanese, accennato Libanese/Sara.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Slash, Lemon, Angst, Spoiler fino alla 1x05.
- "'Vie’ con me,' gli dice. E Freddo va con lui."
Note: Prima o poi riuscirò a smettere di vergognarmi come una ladra ogni volta che faccio parlare questi due /o\ Lo dico adesso perché sì, ok, non è la prima volta che scrivo su RC, ma è la prima in cui questi due hanno una sottospecie di dialogo vero e proprio, il che significa dialetto romano a pioggia. Io, come molti di voi sapranno, non sono romana XD Per cui il tutto mi mette in grande imbarazzo, ma prima o poi riuscirò a superarla. Penso.
Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia, su prompt ROMANZO CRIMINALE Freddo/Libanese, cicatrice.
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WE WERE SO CLOSE (TO BEING CLOSE)
ROMANZO CRIMINALE Freddo/Libanese, cicatrice

- Famme vede’ la cicatrice.
Il Libanese solleva gli occhi dalla bottiglia di birra dalla quale sta bevendo, e li posa su Freddo, senza la minima grazia. Freddo alle occhiate ci tiene, secondo lui gli occhi sono importanti, e un’occhiata può dire tante cose, può essere tante cose. Può essere pesante, incredibilmente pesante, molto più di quanto non possano arrivare ad esserlo le parole. Può essere lieve, un’occhiata, può essere incoraggiante, intimidatoria, di rimprovero. Può essere impaurita o allegra o triste o scanzonata o vacua, può essere una miriade di altri aggettivi, può assumere un centinaio di sfumature diverse modificandosi di un nonnulla nello spazio di una manciata di secondi, ma prima di conoscere il Libanese Freddo non sapeva che le occhiate potessero essere anche sgraziate. Eppure, quelle di Libano lo sono, sono esattamente come lui, invadenti e presuntuose e fastidiose e sgraziate, sì, proprio sgraziate. Sono già mesi che gli gira intorno, e queste occhiate così non dovrebbero più avere alcun effetto su di lui, ma per qualche ragione il senso d’inquietudine e di – paura? – agitazione che gli mettono addosso non sembra intenzionato a passare. Ora, o in futuro.
- E perché? – gli chiede, stringendo il braccio lungo il fianco come a volerlo proteggere da sguardi indiscreti. Freddo scrolla le spalle e guarda altrove, e il Libanese aggrotta le sopracciglia, la smorfia sulle labbra che si fa perfino più grave e irritata. – Che t’hanno detto?
- Un po’ de robba. – risponde, tornando finalmente a guardarlo. Il solo gesto gli richiede uno sforzo di coraggio tale da lasciarlo stremato, al punto che, se non fosse già seduto, si lascerebbe volentieri andare lungo disteso sul pavimento.
Il Libanese poggia la birra sul tavolo, si alza in piedi – molto lentamente – e gli si piazza accanto, le mani sui fianchi e le gambe lievemente divaricate.
- Che voi sape’, Fre’? – gli chiede, e al Freddo si stringe un nodo in gola, perché la voce del Libanese è bassa, carica di dolore e nostalgia, e lui non ricorda di averlo mai sentito parlare così. Non è più tanto certo di volersi sentire ripetere da questa voce cose che già sa.
- Tutto. – risponde invece. E spera che al Libanese basti, come risposta, perché di descrivere e definire questo tutto – di cui vuole conto e ragione nonostante non ne abbia alcun diritto – lui non ha la minima voglia.
Libano sorride, comunque. Gli batte una pacca sulla spalla e poi lo afferra per il colletto del maglione in un gesto spiccio ma amichevole, e lo mette in piedi di peso.
- Vie’ con me. – gli dice. E Freddo va con lui.
*
Il Libanese frena la macchina nel mezzo di un prato enorme, perso nel nulla. L’aria scura e pesante della notte è densa del frinire dei grilli, non c’è luna e le stelle non bastano a vedere a un palmo dal naso. Quando i fari si spengono, non resta altro che buio, per chilometri e chilometri. È tanto buio che le luci della città, in basso, brillano più delle luci che puntellano il cielo. Colorate e vive, tremano nell’umidità notturna come fiammelle. Roma si muove, vive, respira sotto di loro. Freddo inspira aria gelida e se ne riempie i polmoni. Si sente grande e sfiora il dorso della mano del Libanese col dorso della propria.
È come premere un pulsante d’accensione.
- Stavamo qua. – dice il Libanese, e il suo respiro è forte, accelerato, come lo stessero inseguendo e lui stesse correndo per salvarsi, - Era bella, Sara, ce conoscevamo da pischelli. Je volevo bene, ma davero. Volevo portalla ‘n po’ in giro, ma nun c’avevo ‘na macchina mia. – inspira ed espira profondamente, stringe i pugni lungo i fianchi e ancora una volta i dorsi delle loro mani si sfiorano. – Così ho preso quella der Teribbile.
- La cicatrice… - deglutisce Freddo, cercando il suo profilo nel buio, - È stato pe’ quello, sì?
Libano alza un braccio e tira su la manica della camicia che indossa. La arrotola fino al gomito e poi gli mostra l’avambraccio deturpato da una cicatrice enorme e irregolare. Il Freddo immagina quello stesso braccio ancora tremante di dolore e tenuto insieme da punti disordinati e dati alla meno peggio. Accarezza la superficie della cicatrice con due dita e sente che ha ragione ad immaginare qualcosa di simile, perché i contorni della cucitura sono irregolari, la pelle è tutta un susseguirsi di colli e valli. Il Libanese rabbrividisce sotto il suo tocco, e Freddo ritrae subito la mano.
- Nun so manco perché t’ho portato qui. – dice Libano, sbuffando una risata un po’ incerta. Freddo si scosta appena quando lo sente muoversi, e cerca di capire cosa stia facendo nonostante il buio pesto, ma non riesce. Comprende solo quando il Libanese parla ancora, e la sua voce proviene da un punto molto più in basso rispetto a quello dove si trova lui. – Vie’ ‘n po’ qua, Fre’. – lo chiama, la voce di nuovo affogata in quella strana mistura di rimpianto e sofferenza che l’ha turbato così tanto quando era ancora a casa sua.
Freddo si siede nell’erba umida accanto a lui. Pianta le mani per terra e guarda la città, che da lì non sembra piccola come uno si aspetterebbe nel guardare una miniatura, no, anzi, è proprio da quella distanza, da quell’altezza, che si capisce quanto Roma sia grande. Perché anche in miniatura è sterminata. Ed è tutta loro.
- Quante vorte ce vieni qui, Libano? – gli chiede sovrappensiero. Il Libanese ride.
- Ar giorno? – Freddo si volta a guardarlo inarcando un sopracciglio, e il Libanese ride ancora. – Sto a scherza’. – dice, allungandogli un pugno contro una spalla, - In realtà nun ce vengo spesso. Però me capita.
- E quanno te capita cosa pensi? – insiste lui, e Libano trattiene un respiro spezzato.
- Nun penso a niente. – risponde quindi, - Nun me va proprio de pensa’ a niente. – aggiunge, e si volta a guardarlo. Freddo non lo vede, ma lo sente, sente i suoi occhi, il suo sguardo sempre così invadente, tanto invadente che la parola non basta a descriverlo. Libano gli entra nella testa, gli scivola sotto la pelle. Lo fa senza neanche avere bisogno di toccarlo, e questa cosa è assurda.
- Libano, - gli chiede, la voce che trema appena senza che lui possa fare niente per fermarla, - sei sicuro che nun ce lo sai perché m’hai portato qua?
Il Libanese trattiene il respiro. Ma non fa lo stesso con le mani.
Freddo se lo ritrova addosso due secondi dopo e gli piacerebbe poter dire che semplicemente gli è mancato il tempo di mandarlo affanculo, ma la verità è che quello potrà pure essergli mancato, ma più di ogni altra cosa gli è mancata la voglia di farlo. Schiude subito le labbra sulle sue, e il Libanese sembra perfino più stupito di lui. Si ritrae, ma non scosta la mano che gli ha appoggiato al viso. Lo guarda, il buio rende i suoi occhi più scuri di quanto non siano di solito, il suo viso è illuminato solo a tratti, sulla fronte si rincorrono le ombre nere dei ricci che gli cadono disordinatamente sul viso da ogni parte. Freddo sente il ventre contrarsi e poi rilassarsi, fa male ed è liberatorio. Solleva entrambe le mani, le appoggia ai lati del viso del Libanese, lo scruta, gli chiede qualcosa, non sa cosa, non sa nemmeno se gliela chieda a voce o con gli occhi e basta, comunque è sufficiente. Libano lo bacia ancora, arrabbiato, affamato, agitato, impaurito oltre ogni dire, e Freddo lo capisce perché per lui è la stessa cosa.
Si lascia andare sull’erba e sente macchie d’umido cominciare ad allargarsi ovunque, sulla sua camicia, sui suoi jeans, rendendogli pesanti il corpo, i capelli, perfino i movimenti. Libano si puntella per terra e gli sale addosso, lo guarda come non riuscisse a capacitarsi di cosa sta vedendo, e Freddo schiude le gambe e lo accoglie fra le cosce senza dire una parola. Libano gli scivola addosso e contro e sopra e sotto, si muove svelto, Freddo si aggrappa ai suoi vestiti e si morde un labbro per non gemere mentre i loro bacini si strofinano l’uno contro l’altro, duri di desiderio indefinito e vago ma forte e sconvolgente.
Perde la testa quando Libano si solleva appena e si regge sulle ginocchia, afferrandolo per i fianchi. Gli lancia un’occhiata allarmata, Libano risponde con un’occhiata uguale, e allora Freddo chiude gli occhi, perché non può aspettarsi una risposta adesso, una risposta o una soluzione o qualsiasi altra cosa possa servirgli per rendere questo momento meno assurdo. Se lo tira contro, affonda il viso nell’incavo del suo collo e gli va incontro, e il Libanese se lo scopa così, da vestito, senza neanche entrargli dentro. Gli scivola addosso attraverso gli abiti, si fa sentire nonostante tutto così in profondità da dargli il capogiro. Gli morde il collo, inspira con forza l’odore della sua pelle, e Freddo gli incrocia le gambe dietro la schiena muovendosi svelto contro di lui perché vuole sentirlo venire, e non vuole più lasciarlo andare.
Scosso dai brividi dell’orgasmo, pochi secondi dopo il Libanese si accascia su di lui, ansante, i ricci umidi appiccicati alla pelle madida di sudore e di brina. Il vento della notte ha cominciato a spazzare le colline, l’erba canta tutta attorno a loro, e loro non la sentono, persi nel suono concitato dei loro respiri. Freddo continua a tenerlo stretto, le gambe attorno ai fianchi, le braccia attorno al collo. Si sente in imbarazzo, dopo un po’, ma le mani del Libanese stanno ancora chiuse come tenaglie attorno alla sua vita, perciò va bene provare ancora per qualche minuto se è possibile entrargli dentro e prendersi un posto lì, per restarci qualunque cosa accada.
Freddo lo sa che stare vicini non basta. Lo sa. Ma deve farselo bastare per forza.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno. (No, davvero.)
Rating: PG
AVVISI: Gen, (triplo) Drabble, Spoiler fino alla 2x04.
- "Si passa una mano sulla faccia, i suoi lineamenti stanchi fanno male sotto quel semplice tocco. Il Freddo geme, e il Libanese lo chiama."
Note: Immediato seguito dell'episodio 2x04 ♥ Che ha tipo uno dei finali più foganti ever, Dio mio che roba bella. Dandi, cosa non eri. Ma! In questa ficlet il Dandi non c'è XD C'è il Freddo - un uomo distrutto - e c'è il Libanese, perché nella serie naturalmente c'è un motivo per il quale le visioni mistiche ce le ha solo il Dandi e non anche il Freddo, ma queste sono fanfiction e noi possiamo fare anche un po' quel cavolo che vogliamo, mi pare.
Scritta per il Challenge: Special #9 @ it100, su prompt All I gotta do / Is whisper in your ear / The words you long to hear (The Beatles). E' la prima roba che ho scritto su Romanzo Criminale, oltretutto. Pietà, abbiatela.
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ALL I’VE GOT TO DO
all i gotta do is whisper in your ear the words you long to hear

Rientra in casa tardi, stanco e sfatto, e non c’ha voglia di fare un cazzo, vuole solo togliersi di dosso tutto – la pistola che gli pesa sotto la giacca, i vestiti impregnati del fumo denso e asfissiante del bar, l’odore del sangue e della terra dalla pelle – e buttarsi sul letto, chiudere gli occhi e provare a dormire ignorando i ricordi ancora troppo vividi della giornata di oggi. L’ansia, il vento sulla pelle mentre attraversava strade sterrate e vuote fino alla villa del Sardo, il muso della pistola del Dandi puntato contro il suo naso, anche se solo per un attimo. La strage, i sacchi di plastica, il viaggio in macchina fino a quel posto dimenticato da Dio. Le pale, le buche, i cadaveri. L’alba all’orizzonte, dietro le montagne. Il freddo penetrante degli ultimi strascichi della notte che diventa giorno.
Si passa una mano sulla faccia, i suoi lineamenti stanchi fanno male sotto quel semplice tocco. Il Freddo geme, e il Libanese lo chiama.
- Aò. – dice, con quel tono così suo, come se si aspettasse di essere ascoltato a prescindere dall’importanza di ciò che sta per dire, - Te sei sistemato bene, me pare.
Il Freddo si volta piano, ghiacciato sul posto da una voce che credeva non avrebbe sentito mai più.
- Sto dormendo? – chiede in un sussurro, gli occhi spalancati, le braccia molli lungo i fianchi. Il Libanese sorride tirando su solo un angolo della bocca, e poi quel sorriso gli scompare dalla faccia, e si perde nella solita smorfia ingrugnita così familiare che Freddo sente quasi il bisogno di riderci su. Ma non lo fa.
Libano si alza in piedi, lo raggiunge, di sporge verso di lui.
- È bella davero, ‘sta casa, Fre’. – gli dice all’orecchio, - Vedi di nun fartela frega’.
E Freddo stringe i denti. Istintivamente, sa che da quella casa potrà anche andare via, ma da tutto il resto no.