Genere: Erotico.
Pairing: Freddo/Libanese.
Rating: R/NC-17
AVVISI: Slash, Lemon, Angst.
- "'Fre', se po' sape' che c'hai?'"
Note: XD Avevo promesso che l'avrei fatto :3 Ho già scritto una drabble su questo stesso tema, il periodo di "riposo" che Freddo ha vissuto a casa di Libano dopo essere stato ferito per salvarlo dall'attacco dei fratelli Gemito, ma avevo già detto allora che quelle poche parole non avevano certo soddisfatto la mia voglia di scrivere porno su quella scena X'DDD Per cui alla fine mi ci sono messa ben benino ed è venuta fuori lei **
Scritta per il P0rn Fest @ fanfic_italia, su prompt ROMANZO CRIMINALE Freddo/Libanese, “Ma se po' sapè che c'hai?”.
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THE GREAT COMPROMISE
ROMANZO CRIMINALE Freddo/Libanese, “Ma se po' sapè che c'hai?”

Il primo momento assolutamente imbarazzante che si ritrovano a vivere ha luogo quella sera stessa, e Freddo si dice che, se il buon giorno si vede dal mattino, allora può cominciare a prepararsi a un lungo calvario di giornate infernali. D’altronde era per questo motivo che non voleva restare a casa del Libanese. Passare insieme anche ogni singolo minuto della giornata va bene, non è un problema – non che loro lo facciano, anche perché Freddo diventa intollerante appena comincia a vedere sempre le stesse facce per più di tre ore di fila, ma potrebbero, volendo – ma infilarsi l’uno in casa dell’altro, quello no, quello è oltrepassare i confini. Non si fa. Non si vanno a cambiare le abitudini della gente, semplicemente perché le abitudini, in quanto tali, si ripetono ciclicamente. La vita di ognuno si basa sulle abitudini che si prendono, andare a cambiare le routine quotidiane non è meno grave che puntare la pistola al petto di uno sconosciuto e fare fuoco. D’altronde, esiste un cambiamento di abitudini più enorme della morte? Quella è la rottura definitiva, il momento in cui tutto ciò che conosci, tutti i tuoi piccoli rituali, si sfumano e poi scompaiono. Perfino quelli più banali, perfino quelli automatici – il respiro, il battito del cuore, il pulsare del sangue nelle vene – si spengono.
Cambiare le abitudini di qualcuno è un po’ come uccidere la sua quotidianità, uccidere lui. Il Freddo non vuole uccidere il Libanese, eppure è immobilizzato a casa sua perché il Libanese ha deciso di suicidare le proprie abitudini trattenendolo controvoglia nel proprio letto. E ora è qui davanti a lui, in mutande, i capelli arruffati sulla testa, che lo guarda come se non ricordasse nemmeno chi è, e Freddo ha solo voglia di rotolare su un fianco e raccogliersi a palla per non srotolarsi mai più. Ma naturalmente non può.
- Ah, già. – dice Libano, gli occhi che si rischiarano e sembrano improvvisamente prendere coscienza effettiva del mondo circostante, - Te stai qua, eh. – ordina, indicando il materasso, annuendo più per ricordare la decisione che ha preso a se stesso che per ricordarla a lui.
- Guarda che me ne posso pure torna’ a casa. – risponde lui, e come per dare maggior forza a quell’intenzione si scosta di dosso le coperte col braccio sano e, cercando di tenere quello ferito il più possibile vicino al corpo per non muoverlo troppo, fa per alzarsi in piedi.
- No, no, no! – dice subito Libano, afferrandolo per le spalle per riportarlo giù e togliendogli immediatamente le mani di dosso quando dalle sue labbra scappa un gemito sofferente, - E ‘ndo vai tu? – gli chiede, - Ce lo vedi come stai?
- Come sto, a Libano. – sbotta lui, digrignando i denti per cercare di tenere a bada il dolore finché non sarà passato, - È er braccio che fa male. ‘E gambe stanno a posto.
- Er braccio te serve più de’ ‘e gambe. – annuisce il Libanese, osservando le lenzuola come chiedendosi se sia il caso di rimboccargliele e decidendo saggiamente di non farlo.
- Nun ce cammino mica. – gli fa notare Freddo.
- Sì, ma ce spari. – ribatte Libano, lanciandogli un’occhiata eloquente. – E a te te serve de pote’ spara’, si voi anna’ in giro proprio mo’.
- Vabbe’, senti, - insiste Freddo, tornando a cercare di mettersi seduto, - te ‘ndo dormi, scusa? È chiaro che si sei venuto qua—
- Nun me ricordavo che ce stavi, Fre’! – lo interrompe Libano, - C’ho avuto ‘na giornata difficile, come puoi immagina’. C’ho er divano de là. È comodo.
- Ma me spieghi, - borbotta lui, - me spieghi perché ce devi dormi’ te sur divano? Ce posso anna’ io! Nun me serve de pote’ spara’ pe’ fa du’ metri e anna’ de là!
- Oooh! – sbuffa lui, roteando gli occhi, - A Fre’, ma che du’ palle! Basta, m’hai rotto i coglioni. Me senti? Mi hai rotto i coglioni! – ribadisce gesticolando e tirandogli una spinta contro la spalla sana per mandarlo di nuovo giù disteso in mezzo ai cinquecento cuscini che ha tirato fuori da chissà dove e che, prima di andare via, Vanessa ha avuto la compiacenza di sistemargli attorno col Bufalo, tirando peraltro ordini a destra e a manca e facendosi obbedire in un modo che il Libanese stesso la guardava con meraviglia, quasi sul punto di chiederle il segreto del suo successo. – Te dormi qua, stanotte. E domani notte. E dopodomani notte. E da mo’ a quanno mori, se necessario. Ce semo capiti?
- Ma vaffanculo, Libano.
- Ce semo capiti?
Freddo sospira, cedendo alla tentazione di voltarsi sul fianco – giusto per non doverlo più guardare mentre si fa rispettare anche insonnolito, mezzo nudo e genericamente ridicolo com’è – ma non a quella di appallottolarsi a riccio e morire di vergogna e consunzione.
- Ce semo capiti. – conferma a mezza voce.
- Mejo così. – sbuffa Libano, soddisfatto, sparendo lungo il corridoio meno di un minuto dopo.
*
Non va meglio, il mattino dopo. Freddo passa tutta la notte a fingere di dormire mentre Libano russa dal divano nella stanza adiacente. Lo invidia sempre più minuto dopo minuto perché riesce a stare tranquillo e farsi sostanzialmente i cazzi propri dopo aver guardato una pistola nel fondo del suo unico occhio nero da un centimetro di distanza, dopo aver visto cadere un amico ferito al braccio, dopo aver deciso cosa sarà della sua vita finché non sarà guarito. Forse è per questo che riesce a fare il capo tanto bene, a prendere decisioni così in fretta. Libano vive le cose e l’attimo dopo non ha dimenticato, no, però è passato oltre. Ha già elaborato e digerito, può andare alla cosa successiva. Lui non è capace. Lui è capace solo di restare in quel letto, fra lenzuola che non sono sue e sanno del Libanese così tanto da mandargli in confusione il cervello, e fissare la parete sperando, pregando che l’indomani possa andare meglio. Ma naturalmente non succede.
Libano esce dal bagno ancora umido, coi capelli bagnati, completamente nudo. Ha un asciugamano attorno alle spalle, e quando mette piede in camera e lo trova seduto sulla sponda del letto che lo fissa con tanto d’occhi la prima cosa che fa è afferrarlo ed annodarselo sommariamente attorno alla vita, mentre gira su se stesso fingendo disinvoltura, come volesse lasciargli intendere che no, non è che s’era scordato di nuovo della sua presenza e stava semplicemente agendo come avrebbe fatto normalmente se la casa fosse stata vuota, assolutamente, in realtà voleva andare da tutt’altra parte e ha solo sbagliato strada.
- Libano. – lo chiama con un sospiro rassegnato, e lui si ferma a metà del corridoio, irrigidendo le braccia lungo i fianchi come gli avessero appena puntato una pistola alle spalle. Solo che con una pistola puntata alle spalle probabilmente il Libanese si sentirebbe molto più a suo agio di quanto si sente adesso che l’unica cosa che gli preme sulla nuca sono gli occhi preoccupati e vagamente risentiti del Freddo. – Vie’ qua.
Si volta lentamente, lanciandogli un’occhiata incerta.
- Stavo andando a… - inventa, indicando un punto a caso dietro le proprie spalle, - prenne ‘na cosa.
Freddo sospira di nuovo, battendo la mano sul materasso.
- Vie’ qua. – ripete, e Libano si avvicina, tanto mogio che pare un ragazzino. – Nun se po’ mica anna’ avanti così. – dice, e il Libanese si agita tutto, tornando a guardarlo negli occhi.
- Nun ricomincia’ co’ la storia de tornattene a casa tua, Fre’, perché c’ho ancora li coglioni rotti da ieri. – dice subito in un ringhio infastidito. Freddo gli tira un cazzotto contro la spalla. – E sta’ bono co’ le mani! – borbotta lui. Freddo lo picchia ancora, nello stesso punto.
- Nun ricomincio niente. – dice, quando capisce che il Libanese ha afferrato l’antifona e intende tacere, - Sto solo a di’ che così nun se po’ continua’. Quinni o trovamo ‘na soluzione o me ne vado a sta’ da Fierolocchio o dai Buffoni. Ce li ho i posti ‘ndo anna’ pe’ sta’ protetto. Nun me serve sta’ qui per forza.
Libano incrocia le braccia sul petto. Il nodo dell’asciugamano appuntato ai fianchi si scioglie appena. Fortunatamente è seduto, e la cosa non ha conseguenze.
- Nun ce serve ‘na soluzione. – ribatte, - Ce serve solo de farci un po’ l’abitudine.
Freddo spalanca gli occhi. Se non sapesse che sarebbe ridicolo, arretrerebbe spaventato.
- Libano, io tempo tre giorni ‘sto fori de qua. – gli ricorda.
- Cor cazzo. – risponde istantaneamente lui, - Te te ne vai solo quando sei guarito.
- Cioè fra tre giorni! – insiste Freddo, sempre più sconvolto.
- Nun lo poi sape’ mo’! – gesticola il Libanese. L’asciugamano gli scivola un po’ lungo una coscia e lui lo afferra svelto, riportandolo al proprio posto. È abbastanza ridicolo anche questo, nel complesso. Freddo ne riderebbe, se avesse voglia di ridere in questo momento.
- Nun è la prima volta che me sparano, Libano. – borbotta esasperato, - Fra tre giorni io sto fori de qua, nun ce serve l’abitudine proprio a niente. Perché dopo io me ne torno a casa mia. È chiaro?
- Certo che è chiaro. – grugnisce Libano, incassando la testa nelle spalle, sulla difensiva, - Mica te voglio tene’ qua pe’ sempre, Fre’. Chi te l’ha detta ‘sta cosa?
- Nessuno me l’ha detta, Libano! – sbotta Freddo, allargando le braccia e poi soffiando come un gatto quando sente la pelle attorno ai punti sotto la spalla tirare dolorosamente. – E vaffanculo pure a ‘sti punti der cazzo.
- Certo che me fai proprio mori’ da ridere te. – dice Libano quasi con disprezzo, alzandosi in piedi. Non sta ridendo affatto. – Me parli de usci’, de anna’ ‘ndo cazzo te dice ‘a testa, e appena movi er braccio te metti a urla’. Ma vaffanculo te, Fre’. Vaffanculo te. – borbotta. Si volta, entrambe le mani chiuse attorno ai lembi dell’asciugamano per tenerlo al proprio posto, e muove qualche passo verso la soglia della porta.
- Libano. – sospira Freddo quando sente la ferita smettere di bruciare, - Nun te ‘ncazza’ mo’.
Il Libanese volta appena il capo, lanciandogli un’occhiata disgustata da sopra la spalla, assottigliando gli occhi fino a ridurli a due spiragli ai lati del naso.
- Io t’ho aperto le porte de casa mia. – dice, - E tu così me ringrazi. – scuote il capo, deluso. Freddo ha voglia di roteare gli occhi e mandare a fanculo pure lui, assieme a tutto il resto. – Te resti qua oggi. E nun te movi.
- Libano, devo anna’ ‘n po’ a casa mia. – cerca di fargli presente. Il Libanese non si ferma. Non lo guarda più.
- Te chiudo ‘n casa. – conclude abbandonando la stanza. Freddo gli tira dietro un cuscino, e poi torna a sdraiarsi.
*
Torna a notte inoltrata, senza essersi fatto né vedere né sentire per tutto il giorno. Quando apre la porta, trova Freddo seduto sul divano con gli occhi fuori dalle orbite dalla noia e dalla rabbia, e fa istintivamente un passo indietro, spaventato. Si muove tanto repentinamente da restare quasi appeso alle chiavi ancora incastrate nella serratura, il che sarebbe già abbastanza ridicolo se non fosse che è già assurdo in partenza che lui possa provare una paura simile di fronte a un uomo incazzato sì, ma palesemente ferito, che soffia come un gatto ogni volta che gli sfiorano il braccio malconcio, quando in genere di fronte a tipi ben più pericolosi che gli puntano la pistola a tre centimetri dal naso non fa una piega.
- Freddo. – lo chiama, - Che ce fai ‘n piedi? – chiede, entrando in casa e chiudendosi la porta alle spalle, approfittando del breve momento che deve passare voltato per chiudere il ferro per riacquistare un minimo di sicurezza di sé. Quando si volta, ha le sopracciglia aggrottate e le labbra piegate in un’espressione severa, quasi di rimprovero. – Nun t’avevo detto de resta’ a letto?
- No, nun me l’avevi detto. – risponde Freddo alzandosi in piedi ed andandogli incontro a passo marziale, - E comunque me ne sbatto er cazzo de quello che dici e de quello che nun dici, Libano. Basta. Famme usci’.
- Cor cazzo. – ribatte immediatamente lui, parandosi di fronte alla porta in un gesto quasi comico, - Nun ricomincia’, Freddo, che te prendo a ceffoni fino a farte dimentica’ che fori esiste, chiaro?
- Te ce devi solo prova’. – sibila Freddo a due centimetri dal suo viso, guardandolo con tanta di quella furia che Libano ne ha davvero paura, per la prima volta nella sua vita, - Te ce devi solo prova’ a metterme ‘e mani addosso, Libano. – lo minaccia, respirandogli forte addosso.
Libano deglutisce, poggiandogli le mani sulle spalle e spingendolo delicatamente indietro.
- Ora damose ‘na calmata. – dice a bassa voce, conciliante, portandolo a sedersi nuovamente sul divano. – Parlamone ‘n attimo.
- Nun c’è niente da di’. – ringhia Freddo, scrollandosi le sue mani di dosso con stizza, - Ma ce lo sai che vor di’ che so’ rimasto qua a nun fa ‘n cazzo tutto er giorno?
- E l’ho capito, - annuisce Libano, - te sei annoiato, ma—
- No, io me annoio quanno sto du’ ore senza fa’ niente, quanno ce sto venti ore a ‘n fa’ niente non è che m’annoio, Libano, me viene da tiramme ‘n corpo ‘n testa! – strilla lui, - È chiara la differenza?
- È chiara, è chiara! – lo rassicura lui, mettendo le mani avanti e poggiandogliele nuovamente sulle spalle, dove batte un paio di pacche amichevoli per cercare di calmarlo. – Me pare che stai meglio, comunque. Domani magari ce movemo ‘nsieme, uscimo ‘n po’, ce demo ‘n po’ da fare. Che dici?
- Dico che me devi molla’, Libano. – sbotta lui, esasperato, ma inspira ed espira per riacquistare la calma, e poi torna a guardarlo, concedendosi un sorrisetto un po’ stanco. Sembra che il suo ritorno a casa gli abbia permesso di esplodere, buttando fuori cose che, nella solitudine dell’appartamento, s’era tenuto dentro per troppo tempo. Nel guardare la piega intimamente divertita delle sue labbra, Libano si concede di sperare di poterlo tenere lì ancora almeno un paio di giorni. Ma questo a lui non lo dice. – Tanto ce lo so che nun voi, però. – sospira. Libano abbassa lo sguardo, sentendosi colpevole e irrazionalmente scoperto. – Vabbe’. Famo che ne riparliamo domani. Mo’ sarai stanco. Te che hai avuto modo de stancarti.
Libano sorride e si stiracchia, alzandosi in piedi e dicendo che in effetti oggi sono successe un po’ di cose – non così tante, Freddo, nun te sei perso niente de che – e Dandi di qua, e Bufalo di là, e quel coglione di Scialoja sempre in mezzo, e quindi sì, un po’ stanco è davvero, ma niente che non possa aspettare un bel piatto di pasta fatta come Dio comanda.
Tirano fuori dal frigorifero un barattolo di sugo pronto già consumato per metà, mettono un po’ di pasta sul fuoco e parlano del più e del meno. Freddo fa finta di non voler fuggire calandosi giù dalla finestra soltanto per respirare un po’ l’aria della strada, Libano fa finta di non capire quanto palese sia questo desiderio nei suoi occhi, e quando una mezz’ora dopo si salutano e decidono di andare a dormire, sono le quattro del mattino, e Freddo decide di non fare le bizze, calare la testa e chiudersi in camera senza una parola di più.
Si stende a letto e rimane lì, per un po’. Si rigira da un lato e dall’altro, affonda il naso nel cuscino e nelle lenzuola e sente solo il proprio stesso profumo. È un dettaglio che gli dà un fastidio enorme, quasi insopportabile. Quanto ci metterà quella stanza a riprendere l’odore del Libanese? Del suo bagnoschiuma, dei suoi capelli, della sua pelle, del suo respiro? Non sa se gli dia più noia l’idea che avrà ancora un pezzo così grande di sé – il proprio odore, santo Dio – in casa di Libano anche dopo che ne sarà uscito, o il fatto di essersi lasciato imporre in quel posto fino a lasciargli addosso una traccia così intensa da non poter più sentire quella che fino al giorno prima era ancora così forte.
Sente la mancanza del profumo di Libano intrappolato fra le fibre. È tutto qua, forse. Ma pensarlo gli mette addosso un’inquietudine intollerabile, perciò mette il pensiero da parte e si tira nervosamente a sedere.
Deve uscire di là. Subito, immediatamente.
I jeans li ha ancora addosso, le scarpe le infila alla cieca senza neanche controllare se son messe giuste. Cerca il maglioncino a tentoni nell’ombra della stanza e lo trova tutto avvoltolato e spiegazzato su una sedia. È strappato su un braccio e sporco di sangue in corrispondenza del punto in cui è stato ferito. La fibra sporca è ruvida, incartapecorita, friabile. Ne strappa via un pezzetto con rabbia, sbriciolandoselo fra le dita, mentre si rende conto di non averla più indossata – né quella, né nient’altro – da quando ha messo piede in quell’appartamento.
Sbuffa indossandola, ha un pessimo odore. Non vede l’ora di essere a casa sua.
Si affaccia dalla stanza e, attraverso lo spiraglio della porta, controlla la situazione. Libano dorme, steso sul divano, e russa piano, la faccia affondata in un cuscino rotondo che ha l’aria di essere la cosa più scomoda del mondo. Nella sua testa, Freddo lo rassicura: nun te preoccupa’, che fra ‘n po’ torni su quella meraviglia de letto tuo. E sorride appena uscendo in corridoio e richiudendosi silenziosamente la porta alle spalle, accompagnandola e poggiando una mano in corrispondenza della serratura per ovattare un po’ il rumore dello scatto.
Muove qualche passo silenzioso in corridoio, camminando sulle punte dei piedi per non rischiare di svegliare Libano coi tacchi degli stivali, e quando posa due dita sulla maniglia della porta quasi sorride, trionfante, prima di ricordarsi che il Libanese ha chiuso la porta dall’interno, rientrando, quindi lui per uscire dovrà prima trovare le chiavi.
Sospira pesantemente, e nel momento di delusione non si accorge che qualcosa è cambiato, nell’aria intorno a lui. Il Libanese non russa più.
Si volta, meditando sul da farsi, e gli salta il cuore in gola quando lo vede seduto sul divano, appoggiato di schiena al bracciolo. La sua pelle è azzurrognola nella luce della notte che filtra dalle imposte. La sua espressione è dura, cristallizzata nel solito grugno infastidito che gli piega verso il basso gli angoli della bocca. Freddo deglutisce, si sente a disagio e non vorrebbe.
- Ma perché me devi fa’ ‘ncazza’? – dice a bassa voce, scuotendo il capo, quasi deluso. Freddo abbassa gli occhi e si morde un labbro. – A Fre’. – lo chiama Libano, e la sua voce è molto più vicina. Freddo torna a sollevare il viso e lo trova a un respiro dal suo viso. Solo un respiro, sì, perché la distanza che li separa è talmente minima che qualsiasi unità di misura fisica, palpabile, sarebbe eccessiva. – Fre’, se po’ sape’ che c’hai?
E Freddo solleva entrambe le mani e lo afferra per le spalle, stringe forte anche se la ferita tira e i punti in tensione minacciano di strapparsi. Sente qualche goccia di sangue affiorare lungo i tagli irregolari che il proiettile ha prodotto strisciandogli addosso, e cerca di ritrovare in quel calore che brucia la serenità sufficiente per rispondere a Libano che non c’è niente che non va, vuole soltanto uscire da quella fottuta casa, ma in realtà non lo sa se il problema è la casa, se è lei o il sentircisi imprigionato dentro, se è lui, forse, che lo tiene bloccato fra quelle quattro mura peggio che in galera, o se semplicemente gli fa paura aggirarsi fra quelle stanze, quelle pareti, quelle lenzuola, e ritrovarcisi.
- Fre’? – sussurra il Libanese, gli occhi bene aperti ma non spalancati, non stupiti, non spaventati, e Freddo si sente tremare e si dice che non è giusto, non è giusto neanche per un cazzo che lui debba stare così. Qual è il problema, si chiede, quale cazzo è il problema?, e Libano solleva una mano, gli accarezza ruvido una guancia, lo guarda negli occhi e ripete – Fre’? – a voce così bassa che Freddo quasi nemmeno lo sente. E poi ricorda che le parole possono essere pericolose, perciò lui le sue al Libanese non le vuole dire.
Si sporge in avanti e le loro labbra si sfiorano appena. È solo un assaggio, ed è Freddo a tirarsi indietro per primo, perché il brivido che l’ha scosso tutto da capo a piedi a quel minimo contatto è stato quasi devastante. Ha sentito lo stomaco contrarsi ed è ancora lì annodato, e fa male. Qualsiasi cosa sia questa è terribile, letale. Freddo ne vuole stare il più lontano possibile. E ci prova, ad allontanarsi, ma per qualche motivo le sue dita restano strette attorno alle spalle del Libanese, per cui non ottiene granché.
- Fre’. – dice Libano. La sua voce è insolitamente dolce. Lo stomaco di Freddo si attorciglia un’altra volta, fa strage della sua lucidità mentale, Freddo geme perché il dolore è troppo forte e sente un rivolo di sangue scivolare lungo il braccio, verso il gomito. E poi non sente più niente, a parte la pressione delle labbra del Libanese contro le proprie. Non sente più niente, nemmeno il dolore.
Geme ancora, accogliendo la sua lingua nella propria bocca, lasciandosene accarezzare. Forse è perché è notte, perché è buio e perché entrambi sono completamente fuori di testa, pur se in due modi differenti, ma Freddo sa per certo che il Libanese non si sta ponendo delle domande su ciò che stanno facendo, come forse dovrebbe fare. Ne è sicuro, così come sa di non aver alcuna voglia di porsele nemmeno da sé, le domande. Eppure dovrebbe. Ci sono centinaia di cose che dovrebbe chiedersi adesso, centinaia di domande per cui dovrebbe trovare centinaia di risposte, ma non gliene interessa nemmeno una. Niente sembra concreto e importante come il tocco del Libanese sulla sua pelle, o le lunghe carezze affamate che la sua lingua impone alla propria, esplorando ogni angolo della sua bocca come volesse prendere familiarità – lasciargli dentro un’impronta.
Lo spinge verso la porta della camera da letto, perché se questa cosa deve accadere vuole che sia lì, nello spazio che era suo e che invece lui ha colonizzato tutto. Ricorda com’era quella stanza quando ci ha messo piede due giorni fa, ricorda che la prima cosa che ha sentito, nonostante il dolore e nonostante la confusione che regnava sovrana nella sua testa in quel momento, è stata l’odore del Libanese, una cosa talmente fisica da poterne quasi sentire il sapore sulla lingua, come in quei giorni in cui la cappa di umidità sopra Roma era tanto gonfia da farti sentire la pioggia sulla pelle prima ancora che cominciasse a cadere.
Il letto li accoglie con un cigolio dimesso, quasi non volesse disturbarli mentre si perdono nel suono confuso e aritmico dei loro respiri. Libano si stende sopra le coperte aggrovigliate e Freddo gli sale addosso, si struscia contro di lui affondando le dita nelle sue spalle e poi si lascia ribaltare sul materasso quando, dopo una spinta ed un grugnito più forte degli altri, capisce che Libano ha deciso.
Il suo sangue macchia il lenzuolo, ma Freddo non se ne cura. Libano nemmeno. Lo spoglia celermente, strappandogli e strappandosi i vestiti di dosso. S’insinua fra le sue gambe scivolandogli addosso con le labbra dal collo, al petto, allo stomaco, e Freddo lo lascia fare così come, quando lo sente premere fra le natiche, cerca di rilassarsi il più possibile, per lasciarlo entrare, e Libano entra, con la stessa facilità con cui è entrato nella sua vita rivoltandola al contrario, con la stessa facilità con cui lui è entrato in casa sua lasciando il proprio odore attaccato ad ogni superficie.
Si muove sotto di lui cercando di seguire i suoi movimenti, chiude gli occhi e le labbra del Libanese gli strappano via il dolore di dosso, confondendolo al punto che dopo un po’ Freddo non riesce più a capire se faccia più male la sua presenza scomoda e ingombrante dentro di lui, o il cuore che gli si è rimpicciolito nel petto, o forse semplicemente si è allargato troppo, perché fa male, fa malissimo, e le possibilità sono solo quelle, o è diventato minuscolo, spremendo di fuori sentimenti che Freddo non pensava di aver mai contenuto, o è diventato enorme, contenendone altri altrettanto misteriosi e sconvolgenti – e spaventosi – ed ora preme contro le sue costole, minacciando di spaccarle una per una e scappargli fuori dal petto per gettarsi in quello del Libanese.
Libano lo tiene stretto per i fianchi, gli morde il collo, le labbra, il mento, tutti i centimetri di pelle che riesce a conquistarsi combattendo una lotta armata e violenta contro il suo corpo che si dimena e scalcia e si inarca sotto di lui, premendoglisi contro ed allontanandosi subito dopo, accogliendolo fino alla base e poi tirandosi indietro quasi fino a lasciarselo sfuggire, e si lascia sfuggire un mezzo grido quando lo sente contrarsi tutto attorno alla propria erezione, e assieme alla voce gli sfugge dal corpo anche l’orgasmo. Freddo accoglie entrambe le cose dentro di sé – il suo piacere nel proprio corpo, i suoi gemiti fra le proprie labbra – e poi se lo tiene stretto contro finché i loro corpi non si raffreddano e la sensazione appiccicaticcia e sgradevole di una vicinanza inopportunamente protratta troppo a lungo non arriva a bussare con prepotenza ai loro sensi, obbligandoli a separarsi.
Libano si rigira sulla schiena, fissa il soffitto e respira faticosamente. Si morde l’interno di una guancia per impedirsi di chiedere a Freddo se voglia ancora andarsene, ma fortunatamente non deve mordere a lungo.
- Resto. – borbotta lui infatti, rimanendo immobile sulla propria metà di letto, - Però resti pure te.
Il Libanese annuisce. Gli sembra un buon compromesso.
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