rp: roberto mancini

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG.
AVVERTIMENTI: Gen.
- Mario prova per una volta a salvarsi da sé. E stranamente ci riesce.
Note: Niente, boh, cioè. *ride* Potrei nascondermi dietro un dito e dire che questa storia l'ho scritta per la Maritombola @ maridichallenge (actually, sì, per il prompt #73, "Le favole sono la cosa più importante della nostra vita. Anche da grandi si scrivono favole." (Roberto Benigni)), ma la verità è che, anche senza tombole e binghi di mezzo, questa storiellina l'avrei scritta comunque. Non so perché, è che boh, ogni tanto Mario mi ritorna in testa di prepotenza, e si mette a parlare a macchinetta, e io in qualche modo devo dargli sfogo, o non me ne libero più. *ride*
Vorrei dedicarla alla Ary perché sì, comunque. Avrei voluto che la leggesse in anteprima, ma non siamo arrivate a beccarci, quindi niente XD Però è comunque tutta sua.
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PRINCIPI E PRINCIPESSE

Mario ha sempre creduto nelle favole. Favole un po’ strane, forse, sì, d’accordo, non certo le favole che chiunque altro racconterebbe ai propri figli nel tentativo di aiutarli a dormire, ma lui ci ha sempre creduto, ecco, nella sua personalissima visione favolistica del mondo lui ci ha sempre creduto, così come ha sempre saputo che, quando sarebbe stato abbastanza grande – non adesso, forse mai, non quantifica i tempi, e d’altronde nelle favole è tutto sempre c’era una volta, ma una volta quando?, e per sempre felici e contenti, ma per sempre da quando in poi? – quando si fosse sentito pronto, sarebbero state quelle le storie che avrebbe raccontato ai suoi bambini. Le sue.
Per Mario è importante credere nelle favole, perché lui da una favola è venuto fuori. Abbandonato da genitori troppo poveri per potersi permettere il lusso di amare un bambino che fin dalla nascita pretendeva troppo denaro anche solo per essere tenuto in vita – attaccato a tubicini troppo sottili, aperto in due su un tavolo operatorio fino a lasciargli sulla pelle segni irregolari e indelebili che si sarebbe portato dietro per sempre – poi adottato da due anziani sovrani che di figli ne avevano già avuti tre ma sembravano non poter fare a meno di un altro piccolo erede, poi cresciuto a sgomitate e calci, temprato dai campi di calcetto di una terra in cui resti negher anche quando parli lo stesso dialetto del tuo cazzo di vicino di casa, e poi trasferito altrove, in una realtà più grande, in un posto che invece coi luoghi in cui era cresciuto non c’entrava proprio niente. Un posto tutto pulitino, tutto perfettino, tanto, troppo per sentircisi a proprio agio.
E mentre lui stava lì in Pinetina a fare la principessa sul pisello e a non farsi piacere niente e a lamentarsi di quanto gli mancasse casa angosciando chiunque gli capitasse sottomano in uno stordimento di chiacchiere senza senso sulla polenta di sua madre che oh, come la faceva lei, minchia, nessuno, la favola intorno a lui si andava raccontando, e lui neanche se ne accorgeva.
E poi era successo che un giorno l’allenatore era tipo passato dal campo sul quale lui si allenava assieme a tutti i suoi compagni, e l’aveva visto. E l’aveva fermato. Ed aveva voluto parlare con lui.
- E tu da dove vieni? – gli aveva chiesto, e Mario aveva ghignato.
- Brescia. – aveva risposto, senza preoccuparsi di nascondere l’accento, anzi, sfoggiandolo sfacciatamente.
Mancini s’era fatto quasi indietro di un passo, stupito dalla cadenza inaspettata della sua voce, e poi aveva sorriso.
- Ah, Balotelli! – gli aveva detto, battendogli una pacca di quelle pesanti – di quelle da uomo – sulla spalla, - Proprio te cercavo. Vieni, vieni dall’altro lato.
E Mario era andato dall’altro lato, e da quel lato dal quale era venuto non ci era più tornato. Salvato da un principe in tuta di acrilico, senza mantello, senza cavallo e col più vezzoso ciuffo di capelli bianchi a spiovere sulla fronte che lui avesse mai visto.
*
Mario ha continuato a crederci, nelle favole, ha continuato a crederci intensamente anche quando la sua favola sembrava dovesse andargli a rotoli sotto i piedi. Quando l’idea di gestire il pallone non era neanche un problema perché tanto il pallone, al di fuori dell’allenamento, neanche lo vedeva. Quando tutti intorno a lui diventavano grandi, si laureavano campioni d’Italia e d’Europa e del mondo, e lui restava un po’ indietro, un po’ in disparte, assente a tutti gli appuntamenti importanti, in lotta con l’imperatore crudele che sembrava divertirsi a rifiutarsi di capirlo.
Mario ha continuato a crederci, anche se ad un certo punto della propria vita era arrivato a capire che i principi azzurri, specie se non hanno un cavallo e nemmeno un mantello, non puoi pretendere di restare lì ad aspettarli se non hai mai provato ad andarli a cercare.
È per questo che, a un certo punto, Mario solleva il telefono e chiama il Mancio per primo. Perché non può farcela da solo, ma non ci sta a restare principessa in un mondo in cui le principesse esistono solo per essere addobbate in trine e merletti ed esposte al fianco del loro principe salvatore.
Lui a salvarsi da solo non può riuscirci, ma può provarci, almeno, ad essere il principe di se stesso.
*
Quando arriva a Manchester, piove, e lui ha subito l’impressione di dovercisi abituare in fretta. Guarda il cielo grigio sopra la città e un po’ gli ricorda Milano, e distrattamente pensa che forse abituarsi non sarà poi così impossibilmente difficile.
Poi abbassa lo sguardo e c’è il Mancio che lo guarda con aria schifata, facendo la radiografia alla vecchia tuta da ginnastica che indossa e alle scarpe da tennis devastate dagli anni che calza ai piedi.
- Non credo di averti mai visto conciato così male. – commenta, - Si può sapere da dove vieni?
“Dritto da casa,” vorrebbe dirgli Mario, “avevo tanta fretta di partire che mi sono messo addosso la prima cosa che ho trovato, ho ficcato le prime quattro cose in vista alla rinfusa in un borsone e mi sono precipitato a Malpensa.” Ma non lo dice, perché un po’ si vergogna. Sorride, invece, e quando parla lo fa sfoggiando sfacciatamente il proprio accento come al solito.
- Da Brescia. – risponde, e nel farlo gli viene quasi da piangere. Mancini non capisce, non ricorda, forse, e a Mario non importa.
- Tu ti sei completamente rincretinito. – sospira, voltandogli le spalle e facendogli strada verso la macchina privata che li aspetta appena fuori dall’aeroporto, e Mario è così contento che potrebbe anche scoppiare, perché tutto è nuovo e ci sono mille storie che partono proprio da questo punto, e lui non vede l’ora di riuscire a raccontarsele. Poco importa che per Mancini questo momento non abbia il minimo significato, che per lui non sia un’emozione, forse non lo è stata neanche la prima volta, quando gli ha aperto le porte di una vita diversa senza stare a rifletterci poi molto, l’importante è che Mario lo sappia.
Che lo sappia. Che è stato salvato ancora. Ma stavolta è stato un po’ anche merito suo.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Dejan/Sinisa.
Rating: R/NC-17
AVVISI: Slash, Lemon, Angst.
- Una storia d'amore che dura anni e che fino alla fine non si riesce a chiamare col suo nome, ma che tale è e tale resta, per tutto il tempo che le verrà concesso -- per sempre.
Note: Allora... in genere non è proprio da me fare note molto lunghe in apertura o in chiusura di una storia-- o meglio, era da me, qualche tempo fa, ma ci ho perso gusto, motivo per cui le mie note ultimamente sono parecchio stringate, anche quando magari non dovrebbero. Ecco, qui non possono, oltretutto, ma farò del mio meglio per mantenerle di una lunghezza normale.
Dunque, il desiderio di questa storia è nato nel prendere in mano Fortissimamente Io, l'autobiografia che Deki ha scritto con l'aiuto di Mirko Vrbica e da un frammento della quale peraltro è preso anche il titolo di questa storia. E' un testo adorabile, pieno di spunti d'interesse di vario tipo, all'interno del quale per larga parte viene affrontato anche il rapporto di amicizia ormai decennale che lo lega a Siniša Mihajlović, altro storico giocatore di origine jugoslava. Due stralci determinati (e molto brevi) li potete trovare qui e qui, ma lungi da me obbligarvi a farvi una cultura su questi due, anche perché immagino che, se vorrete dare un'occhiata a questa storia, lo farete perché già v'interessano. *ride* O perché vi obbliga la sua partecipazione a un contest, ehm.
Oltre a Sini e Deki, all'interno della fic sono nominati alcuni altri personaggi di gran lunga meno famosi. Essendo quella che viene raccontata una storia piuttosto "privata", sono presenti anche personaggi che hanno avuto una minore esposizione pubblica rispetto ai protagonisti, e che pertanto potrebbero essere di difficile riconoscimento anche per chi è un po' più ferrato in materia. Per questo motivo, a fine storia è presente un minuscolo elenco con le nozioni di base riguardanti questi personaggi un po' più oscuri. Sono giusto un paio di righe ciascuno, niente di trascendentale, non preoccupatevi XD
In chiusura di queste chilometriche ed orrende note XD vorrei ringraziare dal più profondo del mio cuore il Def per il lavoro stupendo che ha fatto sia nel rileggere la fic che nel rassicurarmi sulla sua utilità. Se il contest al quale stiamo partecipando (ndLiz: è questo e tutti voi dovreste dargli per lo meno un'occhiatina u.u) è un'occasione per celebrare la figura del beta-reader, direi che noi l'abbiamo fatto nel migliore dei modi :°)
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PURO COME UNA LACRIMA

Quando Deki arriva in prima squadra, Siniša è il primo a saperlo. Petrović lo chiama in disparte dopo l’allenamento e gli dice di raggiungerlo nel suo ufficio fra una mezz’ora. Poi lo tiene a fare anticamera per dieci minuti mentre finisce di parlare col padre del ragazzo, e quando la porta si apre Siniša ne vede uscire un uomo alto, un po’ spelacchiato, decisamente stanco ma soprattutto soddisfatto. Dietro di lui viene fuori anche il presidente, poi un paio di avvocati, gli passano tutti davanti e lo salutano. Lui si profonde in ampi cenni del capo e li fissa un po’ sbigottito chiedendosi a chi appartenga tutto quel dispiegamento di uomini, e poi Petrović si affaccia e gli sorride, invitandolo ad entrare. È stanco anche lui, Siniša glielo legge in faccia, ma i suoi occhi brillano. Siniša ne è affascinato. Non gli è mai capitato di vederlo così.
- Che ti prende? – gli chiede inarcando un sopracciglio ed accettando il suo invito a prendere posto su una delle poltroncine di fronte alla sua scrivania. Petrović si siede al proprio posto, intreccia le dita all’altezza del naso e sorride felice. Inspira ed espira, lo fa per qualche secondo senza dire niente, come volesse limitarsi a percepire l’aria che entra ed esce dai propri polmoni, almeno per un po’.
- Ho fatto qualcosa di grande per la Serbia. – dice quindi. Siniša aggrotta le sopracciglia, incerto.
- Come sarebbe a dire? – chiede, e Petrović ride. – Ljupko, ti spieghi o no?
- Fra quindici, vent’anni, - risponde lui, lo sguardo sognante, - la gente si ricorderà di me. Dirà “è merito suo se abbiamo questo ragazzo, è lui che l’ha scoperto”.
- …Ljupko, stai cominciando a preoccuparmi. – sillaba Siniša, - Davvero, mi dici cosa succede?
Petrović ridacchia ancora per qualche secondo. Poi sembra riacquistare la sua usuale compostezza, e quando riprende a parlare, apparentemente, sta dicendo cose che con tutto il discorso che ha fatto prima non c’entrano niente.
- Ho preso un ragazzino nuovo, Miha. – dice, - Dejan Stanković. Non è affatto male. – spiega vago, come a dare alla faccenda un’importanza minima. – Voglio che te ne occupi tu. – dice quindi, guardandolo dritto negli occhi. Siniša lo fissa sconcertato.
- Io? – chiede, indicandosi confusamente, - Ma dai! – borbotta, - Perché?
Petrović sorride ancora, inclinando appena il capo ed alzandosi per battergli una pacca su una spalla.
- Perché voglio che fra quindici o vent’anni la gente si ricordi anche di te.
*
Deki è davvero, davvero piccolo. Ha sedici anni appena e sarebbe ancora troppo piccolo perfino per il giro della Primavera, ma Petrović è convinto, “il ragazzo viene con noi”, e quindi poco da fare, Siniša se lo tiene ben stretto perché appena fa tanto di distrarsi lui parte in ogni direzione, cerca di toccare tutto, quasi non riuscisse a credere di trovarsi su un volo diretto per Atene. Non è mai stato in aereo prima d’ora, e guarda ogni cosa con gli occhi che brillano di curiosità, sul volto un’espressione estatica che lo fa sembrare addirittura più piccolo della sua età. Per un istante, mentre lo osserva addormentarsi di botto con la testa reclinata sulla sua spalla, dopo aver fatto il diavolo a quattro passeggiando avanti e indietro per tutto l’aereo per almeno mezz’ora, si chiede cosa dovrebbe farci, lui, con un bambino così per le mani. Ljupko, si dice, mi sa che hai preso un abbaglio. Non può funzionare. Ci separano troppi anni, siamo troppo diversi. Non siamo nemmeno lontanamente paragonabili, siamo come alieni, a volte lui mi guarda con un’ammirazione fanatica che mi brucia sulla pelle come acido. Non mi piace.
Poi solleva lo sguardo e Petrović è lì, due sedili più avanti, che li guarda con l’aria tenera di un padre. Ha fatto grande lui e vuole fare grande pure Deki, e guardandolo negli occhi Siniša non riesce a trovare il coraggio di tirare fuori quelle parole. Se le lascia posate in mezzo alla gola, ostruiscono un po’ il passaggio dell’aria ma qualche istante dopo passa l’hostess col carrello, gli offre un caffè e Siniša manda giù quello e tutte le proprie rimostranze. Troverà un modo per andare d’accordo col ragazzino. Petrović è un amico, un fratello, una guida, e lui non intende deluderlo.
All’arrivo ad Atene Deki ricomincia a saltare di qua e di là come un indemoniato, e Siniša rimpiange l’assenza di un guinzaglio da agganciargli al collo per poterlo trascinare indietro quando il suo entusiasmo tracima i limiti della normale felicità per gettarsi a peso morto ed occhi chiusi nel vortice della pazzia.
Deki gli corre dietro da un lato e dall’altro, non gli dà tregua; per consolarsi, Siniša pensa che, giunta la sera, sarà così stanco da crollare addormentato di botto al massimo alle nove, e ciò gli aprirà le porte di almeno un paio d’ore di quiete, prima di dovere andare a letto a propria volta.
La previsione si rivela esatta: Deki si addormenta subito dopo cena, senza neanche essersi dato una ripulita. Ha ancora uno sbuffo della salsa che accompagnava il pollo su una guancia. Siniša lo guarda con una certa pietà, gli passa un fazzoletto umido sul viso – lui arriccia il naso e mugugna infastidito, voltandosi dall’altra parte – e poi gli rimbocca le coperte. Esce e lo chiude dentro per evitare casini, si concede un po’ di relax e, quando torna in camera, è stanchissimo. Gli fa male tutto il corpo, correre dietro a un ragazzino è decisamente massacrante, molto più che correre dietro ad una palla.
Doccia, pigiama, letto. Domani cominciano gli allenamenti in vista dell’amichevole, il ritiro sarà duro come lo sono sempre tutti i ritiri prima dell’inizio del Campionato, e l’idea di doversi trascinare dietro il ragazzino lo devasta. Chiude gli occhi per non pensarci e si addormenta come un sasso.
Lo risvegliano dei lamenti confusi e soffocati, non sa quante ore dopo. Schiude gli occhi nel buio della stanza, rischiarato appena dal fascio di luce lunare che entra da fuori attraverso le imposte accostate, e sbatte le palpebre un paio di volte per recuperare consapevolezza di chi è, dov’è e com’è possibile che ci sia qualcuno che non è lui a piangere nella sua stanza, a poco meno di un paio di metri di distanza.
Si mette a sedere in un fruscio scomposto di coperte che gli scivolano di dosso e si raccolgono attorno ai suoi fianchi, e i singhiozzi si interrompono per qualche secondo, prima di esplodere ancora, più fragorosamente di prima.
- Deki? – lo chiama, - Piccolo, che succede?
Dejan tira su col naso e si appallottola con maggiore ostinazione fra le coperte, ben deciso a non rispondergli. Siniša si alza e non si premura neanche di infilarsi le pantofole. In pochi passi è accanto al suo letto e lo scruta dall’alto, anche se tutto ciò che può vedere è un groviglio di lenzuola che si agita al ritmo dei respiri affannosi di un ragazzino triste.
- Mi manca casa. – piagnucola lui dopo qualche secondo di imbarazzato silenzio. Siniša sospira e gli toglie la coperta di dosso. Deki è stretto su se stesso come un nodo. Sembra così piccolo, così impreparato, e Siniša si sente esplodere il cuore del tutto all’improvviso quando pensa che non è che lo sembri, lo è. È piccolo, impaurito, impreparato e inadatto, e gli è stato affidato perché lo aiutasse a crescere, a diventare più coraggioso, a conoscere più cose possibile e diventare un uomo.
Scivola sul materasso accanto a lui e se lo stringe contro, inglobandolo in un abbraccio più caldo di quanto entrambi abbiano bisogno nei trenta gradi abbondanti della notte estiva greca. Dejan, comunque, non si ritrae, anzi. Si rigira fra le sue braccia e nasconde il viso contro il suo petto, continuando a piangere. Siniša gli accarezza i capelli, le braccia e le spalle tremanti.
- Vedrai che passa. – gli sussurra all’orecchio, cantilenando come in una ninna nanna, - Da domani avrai tante di quelle cose da fare che non ci penserai più. E quando torneremo a Belgrado, sarà ancora più bello rivederla.
Deki annuisce freneticamente. Si fida senza domande, come il bambino che è.
- Sei il primo a cui lo dico. – dice dopo essersi calmato, in un ultimo singhiozzo che gli spezza la voce. – Sarai anche l’unico. – promette. Siniša non sa precisamente cosa quella promessa possa significare. Ne coglie la forza, però, e tace rispettosamente.
*
Anche la prima volta che Deki viene convocato in Nazionale, Siniša è il primo a saperlo. Non è lui a dirglielo, perché in realtà da quando lui s’è trasferito a Roma non si sentono più granché. No, è Santrač a chiamarlo, svariati giorni prima che escano le convocazioni ufficiali. Siniša già sa di essere in lista, è stato Santrač stesso a confermarglielo qualche giorno prima per telefono, perciò ricevere un’altra telefonata da lui un po’ lo preoccupa. Nello spazio di pochi secondi gli passano per la mente infinite possibilità, tutte, peraltro, piuttosto spiacevoli, e il nodo allo stomaco che lo piega in due e lo costringe a cercarsi un posto per mettersi a sedere si fa perfino più stretto quando il CT si ostina a trascinare pigramente la conversazione una frase di circostanza dopo l’altra, come non avesse nessuna voglia di arrivare al punto.
- Ragazzo mio, - si rassegna a dire alla fine, dopo un enorme sospiro sconfitto, - mi sento molto stupido a parlare con te di questo, ma sento di potermi fidare. E quando ho chiesto in giro mi hanno tutti detto che saresti stato il migliore con cui discuterne.
Siniša è teso, agitato, sta quasi fisicamente male. Allarga il colletto della camicia e deglutisce.
- Mi dica, mister. – lo invita annuendo, anche se lui non può vederlo. Santrač sospira ancora.
- La lista è quasi pronta. – dice lui, - Ma praticamente non c’è nessuno che venga dal Campionato jugoslavo. La Federazione non è molto contenta.
- …immagino. – annuisce ancora Siniša, senza forzarlo a proseguire.
- Perciò pensavo… - dice precipitosamente Santrač, come avesse paura di pentirsene, - Pensavo a Stanković.
Siniša resta in silenzio per qualche secondo. Stupidamente, si chiede se ci sia un altro Stanković di cui Santrač possa stare parlando, uno che non sia ancora un ragazzino, almeno, ma risulta evidente dal silenzio imbarazzato del commissario tecnico che invece sta parlando proprio di lui. Deki.
- Ma… - balbetta Siniša, - quanti anni ha?
- Diciannove. – risponde Santrač dopo un’incertezza minima, ma carica di disagio. – Miha, tu lo conosci, no? Ci hai giocato insieme, gli sei stato vicino. Ci si può fidare?
Siniša si morde la lingua. L’ultima volta che ha visto Deki era poco più di un ragazzino. Ricorda ancora le sue spalle magre scuotersi in preda ad irrefrenabili singhiozzi sotto le sue dita. Ricorda la consistenza del suo corpo premuto contro il proprio alla ricerca di un calore che non fosse solo caldo, ma più di tutto accogliente, e ricorda i suoi occhi lucidi e ingigantiti dalle lacrime e dalla paura fissarlo con aria persa e un po’ svagata, e si rende conto di non sapere come rispondere. Fa appello a tutta la propria razionalità, si dice se tu fossi l’allenatore, cosa faresti?, e nel suo cervello di allarga una macchia di silenzio imbarazzato e imbarazzante.
Deglutisce.
- Convocalo. – risponde. Santrač geme, preso in contropiede. Probabilmente si aspettava una risposta diversa. – Fidati. – ribadisce Siniša, - Me ne occupo io.
E lo fa davvero.
Dejan ha diciannove anni, adesso, compiuti da pochissimo. Non è molto diverso da come lo ricorda, un po’ più alto, meno smilzo, ma ha ancora la faccia da ragazzino e quegli occhi scuri pieni di sogni che brillano e brillano e brillano. Siniša li guarda e sente brillare qualcosa di molto simile anche nel fondo dei propri occhi. Si dice che non ha più l’età per queste robe da ragazzino, ma in fondo non ci crede per niente.
Si incontrano in ritiro, in programma c’è il doppio spareggio contro l’Ungheria. La Francia è ancora lontana ma non è un miraggio, non è impossibile. Intanto, però, c’è da vincere queste due partite, e Deki sa già che non giocherà. Ma non è turbato, non è triste. Siniša è contento di vederlo così sereno. Forse è vero che non è cresciuto tanto fisicamente, ma è maturato dentro.
Dividono la stanza, parlano poco, ma si sorridono parecchio. L’Ungheria viene battuta, e Deki non fa in campo nemmeno un minuto, ma non è ancora finita. Arriva a Belgrado la Corea del Sud, Siniša gioca titolare, naturalmente, ma non gliene va bene una. A lui, o alla squadra. La pressione sulle spalle di tutti è pesante, si affannano ma sono brutti anche solo da guardare, Siniša se ne rende conto ed è una delle poche volte nella sua vita in cui pensa quasi di mollare, di dire a Santrač guarda, si capisce che non è proprio cosa, e passare tutto il secondo tempo negli spogliatoi, lontano dai fischi di tutta Belgrado che, amareggiata, osserva i dragoni soccombere un colpo dopo l’altro.
Vanno a riposo sull’1 a 0 per la nazionale coreana. Negli spogliatoi, Siniša sta seduto in un angolo e si guarda i piedi. Dentro la propria testa, li rimprovera aspramente, ed è molto preso da questo, al punto che scorge solo con la coda dell’occhio uno dei collaboratori di Santrač che chiama in disparte Dejan e parla con lui per un paio di minuti, prima di lasciarlo andare a prepararsi.
Siniša spalanca gli occhi quando vede Deki entrare in campo con la sua divisa immacolata, all’inizio del secondo tempo. Non se n’era accorto davvero, non aveva nemmeno pensato che fosse possibile. Lancia un’occhiata a Santrač che, in panchina, è teso come una corda di violino. L’ansia stravolge i lineamenti del suo viso e Siniša è preoccupato per lui, è preoccupato per la Jugoslavia ed è preoccupato per Deki. È molto, molto preoccupato per Deki. Ma lui sembra tranquillo, ciondola a centrocampo battendo ritmicamente la punta degli scarpini per terra per metterli a posto, tira su i calzettoni, sistema la maglia dentro i calzoncini. Siniša ha lo stomaco stretto in una morsa di paura e lo invidia.
Poi l’arbitro fischia, il secondo tempo comincia. E succede una cosa bellissima.
L’azione di gioco è normale, lui scende sulla fascia e scende fino in fondo, arriva in prossimità dell’area di rigore coreana ma ne resta fuori, neanche ci prova a tentare l’incursione all’interno. Non deve andare così. La chiarezza con cui vede il campo lo sconvolge, prima non c’era. Si sente scivolare al proprio posto come una tessera in un puzzle. È come rientrare nei propri panni dopo essere stato per un giorno intero in quelli – scomodi – di qualcun altro.
Deki è lì. Entra in area e lo fa con discrezione. Neanche si sbraccia per farsi notare, tanto sa che Siniša l’ha visto. E Siniša lo vede, lo vede così bene che quasi vede solo lui. Cross. Gol. Così semplice, così perfetto, quasi irreale. Ma la rete si gonfia e si gonfia lo stadio, il pubblico, la città, lo stato tutto. Si solleva una voce gigante che solletica il cielo ed esplode tutta assieme dentro le sue orecchie, dentro la sua testa, dentro il suo cuore. Deki gli corre incontro, esulta, lo abbraccia. Siniša lo tiene tanto stretto da sentirne la mancanza una volta che è costretto a lasciarlo per rimettere la palla a centrocampo.
Una cosa così meravigliosa, si dice, non capiterà mai più. E invece succede ancora, appena dieci minuti dopo. Non proprio allo stesso modo, ma con la stessa identica semplicità. Ed è fantastico. Siniša stringe di nuovo Dejan come non pensava avrebbe più avuto occasione di fare, e nel fondo della sua coscienza, senza quasi neanche accorgersene, prega perché possa accadere altre mille volte. Adesso che sa che è possibile, è tutto molto più facile.
*
Siniša è bene intenzionato a non lasciarsi sfuggire Deki dalle mani, anche se non ha la minima idea di cosa questo, in concreto, possa significare. Sa che non sta vivendo un periodo facile, sa che sta per lasciare la Stella Rossa perché in Italia lo vogliono, lo vogliono disperatamente, ma non ha idea di dove potrebbe andare a finire di preciso. I nomi sono tanti, e sono tutti altisonanti. Nomi che fanno paura. Ufficialmente, Siniša è ancora alla Samp, un nome che invece non fa paura a nessuno, ma se è il primo a sapere che fra tutte le squadre Deki finirà alla Lazio è perché si muove in prima persona perché questo accada.
Va da Sergio e gli parla con molta franchezza. Lui lo fissa per tutto il tempo come se fosse improvvisamente impazzito.
- Miha, ma sei serio? – gli chiede, boccheggiando come un pesce fuori dalla boccia. Siniša si concede un mezzo sorriso al quale non sa dare un valore.
- Sì. – risponde, - Procurami un incontro con Farinelli. Al resto ci penso io.
- Col cazzo. – risponde l’agente, - Con tutto il dovuto rispetto, Miha, l’unico incontro che ti procurerò nei prossimi giorni sarà una visita psichiatrica. Da uno bravo.
Siniša ride, e lo fa di cuore. Gli batte una pacca contro la spalla.
- Sono fuori di testa, Sergio, è vero. – conferma annuendo, - Ma ho in mente una cosa grande.
Sergio deglutisce, tendendosi tutto.
- Grande quanto? – chiede, - Più di te e me?
E Siniša annuisce. Sergio ha paura, è visibilmente preoccupato, ne ha tutte le ragioni, ma non dimentica qual è il suo lavoro, e gli procura l’incontro con Farinelli, che palesemente non ha nessuna voglia di ascoltarlo. È un decennio, ormai, che lavora come osservatore, e l’ha capito che i consigli altrui valgono come un soldo bucato. Non è per un consiglio che lo cerca Siniša, infatti.
Di fronte ad un caffè, con la massima calma, gli spiega ciò che vuole. Farinelli lo guarda per tutto il tempo e fa tanto d’occhi, sconcertato.
- Come, prego? – gli chiede, quando ha finito di parlare. Siniša sorride con molta più spavalderia di quella che sente realmente in corpo. Ostenta una sicurezza che affonda le proprie radici in una parte profonda e misteriosa di sé, e tutto quello che riesce a pensare è che si sente esattamente come, da ragazzino, s’è sentito il giorno del provino alla Stella Rossa. Quando sapeva ciò che voleva e sapeva anche che avrebbe fatto di tutto per prenderselo. E che, alla fine, sarebbe stato suo.
- Il ragazzo ha talento. – dice, scrollando le spalle.
- Ma non è nessuno. – ribatte Farinelli, - Mihajlović, questo Dejan Stanković non è nessuno, in Italia. Ha vent’anni appena. La conosci, la Serie A. Per quale diavolo di motivo dovrei andare fino a Belgrado ad osservare un nessuno di vent’anni per poi non farmene un accidenti di niente?
Siniša lo guarda, lo guarda a lungo; Farinelli legge in anticipo nei suoi occhi la risposta che sta per dargli.
- Io non sono un ragazzino e non sono un nessuno. – sorride, - La Lazio mi vuole? Prendete Deki, e avrete anche me.
Qualcosa brilla negli occhi di Farinelli, brilla intensamente, al punto che, quando si alza e lo saluta, prima di andare via, Siniša sa già di avere la vittoria in tasca, e non fa altro che pensare a tornare a casa e fare le valige per le vacanze, ma farle ben piene, infilandoci dentro anche roba invernale, perché a Genova non ci vuole nemmeno tornare.
Qualche giorno dopo, viene a sapere che è fatta, e che, prima di andare a Belgrado, Farinelli ha parlato con Jugović, per un consiglio in più. Le sue ultime parole prima di partire per Madrid sono state “prendetelo, il ragazzo. Ha futuro.” Sorride e segna sull’agenda di chiamare Vlada, più tardi, per ringraziarlo. Prima, però, ha un’altra cosa da fare.
Il telefono squilla a vuoto per qualche secondo, poi la voce nervosa e stanca di Deki si diffonde attorno a lui come una carezza, nonostante sia così incredibilmente spigolosa, quasi appuntita.
- La ricordi la prima volta che ti ho chiamato? – dice. Dejan trattiene il respiro.
- Miha. – dice quindi, affannosamente, come faticasse a riprendersi dalla sorpresa, - Miha, è un gran casino di periodo.
- La ricordi la prima volta che ti ho chiamato? – ripete lui. Dejan inspira ed espira profondamente.
- Sì. – risponde, - È stata alla mia prima convocazione in Nazionale maggiore. – la sua voce si distende in un sorriso nostalgico, - Mi hai detto “domani ci vediamo all’aeroporto, si parte per il ritiro”. Non sapevo ancora nemmeno di essere in lista.
Siniša sorride a propria volta, sente il cuore tanto gonfio da fare quasi male.
- Domani ci vediamo all’aeroporto. – ripete quindi, - Si parte per il ritiro.
Dejan boccheggia, esita, non parla.
- Miha. – sussurra senza fiato, - Miha, che mi stai dicendo? La Sampdoria? – chiede confusamente.
Siniša si concede una mezza risata divertita.
- Non temere, piccolo. – lo rassicura, - Non ti ci porto, a Genova. Ti porto in casa dei più grandi.
La loro conversazione si interrompe in quel modo. Sarà l’ultima volta in cui potranno dire di avere interrotto qualcosa. Dal giorno dopo, in aeroporto, non ne avranno più occasione per quasi dieci anni.
*
È il primo a saperlo anche quando Ana rimane incinta. Dejan lo chiama nel cuore della notte. Appena sente il telefono squillare, Siniša schiude le palpebre e lancia all’apparecchio un’occhiata furibonda, ma tutta la sua rabbia svanisce in un lampo quando, dopo aver sollevato la cornetta, sente nelle orecchie un pigolio che non ha più avuto occasione di sentire per anni, perché Dejan è cresciuto, non è più un ragazzino al suo primo viaggio lontano da casa, e in tutto questo tempo non ha mai pianto. Ma stanotte ha la voce rotta, è confuso, e Siniša non fatica ad immaginarlo mentre caracolla ansioso da un lato all’altro della casa, camminando scompostamente giusto per darsi qualcosa da fare.
- Piccolo, - lo chiama, quando i suoi lamenti si confondono in un farfugliare terrorizzato, - piccolo, mi dici che ti prende?
- Ana è incinta. – sputa fuori Deki in un solo fiato, - Proprio adesso, cazzo, proprio adesso. Ma perché queste cose devono capitare sempre quando comincia un periodo di merda? Cazzo, non gioco da mesi, sono in un momento in cui già vedere la panca sarebbe tanto, Zoff neanche mi calcola, e lei resta incinta!
- Avanti, Deki. – lo interrompe lui, appoggiandosi su un gomito per restare sollevato dal materasso, e parlando a bassa voce più per tranquillizzarlo che per non svegliare Arianna che dorme placida al suo fianco, - Lo sai che non è mica colpa di Ana se è successo proprio adesso.
- Lo so. – ammette Deki in uno sbuffo stanco. Inspira ed espira profondamente, e Siniša lo sente sedersi da qualche parte e restare in silenzio ancora per qualche secondo, prima di riprendere a parlare. – Ho bisogno di giocare, Miha. – confessa, la voce venata da uno strascico di dolore così puro che Siniša si sente stringere il cuore, - Ho bisogno di giocare davvero, non ce la faccio più.
- E che problema c’è. – risponde lui con sicurezza. Nasconde il fremito che gli infiamma la voce e stringe le mani a pugno per impedir loro di tremare. – Che problema c’è, piccolo? Ce ne andiamo.
- Che? – annaspa Deki, confuso, - Miha, ti prego, non dire stronzate.
- Ce ne andiamo. – insiste lui, - Non ti preoccupare.
- Miha, tu sei titolare fisso, cazzo. Piantala di dire stronzate. – ribatte Deki.
- Ti ho detto di non preoccuparti. – ripete allora Siniša, più dolcemente. Sta già pensando a cosa dire a Sergio domani mattina. – Vuoi che venga a farti un po’ di compagnia?
- No, Miha. – geme Deki, preso alla sprovvista, - No, ti prego, fai già tanto, non—
- Vengo, se vuoi che venga. – lo interrompe Siniša. Il silenzio di Deki si prolunga ancora per qualche istante.
- Sì, per favore. – risponde alla fine, - Per favore, vieni qui.
Siniša lo raggiunge a casa, passano insieme tutta la notte. Non chiudono occhio. Affacciati al balcone in salotto, discutono di matrimonio, di mogli, di padri, di figli. Discutono il nome del bambino, come chiamarlo quando nascerà. Ad un certo punto, guardando la luna bassissima nel cielo mentre, a est, il sole comincia ad affacciarsi, facendo capolino dietro ai colli, Deki sorride, e gli chiede di essere il padrino di suo figlio. Siniša volta appena il capo e scruta il suo profilo nella luce azzurrognola dell’alba, e sente che per lui potrebbe fare di tutto, essere qualunque cosa. L’enormità del sentimento che prova lo investe in maniera quasi dolorosa. Sopraffatto, gli appoggia entrambe le mani sulle spalle, costringendolo a voltarsi e guardarlo negli occhi. È un effetto collaterale e niente di più, perché tutto ciò che voleva era un appiglio per non cadere a terra, e le sue spalle adesso così forti e larghe gli erano sembrate quello migliore.
- Sì. – gli risponde. E fa fatica a dirlo una volta sola.
Il giorno dopo irrompe in ufficio da Sergio e gli dice ciò di cui ha bisogno. Sergio lo guarda con aria allucinata, lo indica e gli dice “tu sei pazzo”.
- Non ha senso! – aggiunge, - Zoff ha i giorni contati, comunque, non lo sai che c’è Zaccheroni in dirittura d’arrivo?
- Sì, ma Deki sta impazzendo. – gli risponde lui, e quando Sergio fa tanto di sbottare un “ma si fotta Deki!”, Siniša quasi gli salta al collo. – Non mi importa se devi fare carte false, non mi importa se devi mentire al mondo e a due squadre contemporaneamente, dammi tempo. E se devi mentire, che sia una menzogna credibile.
Sergio si stringe nelle spalle, crollando sulla propria poltrona, visibilmente terrorizzato. Abbassa lo sguardo e riflette in silenzio per qualche minuto.
- Posso provare con la Fiorentina. – sillaba, - Ma Miha, c’è il rischio che invece la presidenza regga. Se la presidenza regge e la Fiore non dichiara bancarotta, vi toccherà andarci. Sarebbe… sarebbe un disastro, magari non per Dejan che lì giocherebbe eccome, ma tu, Miha, tu qui sei titolare. Diosanto… - geme, prendendosi la testa fra le mani, - Ma perché fai così?
- Hai la procura per la mia carriera. – risponde Siniša, e sente male al petto mentre dice una cosa simile ad uno dei più cari fra i suoi amici, - Non per la mia vita privata. Fa’ come ti ho detto e non fare domande.
La giostra comincia a girare in quel momento. Da quel giorno, e per molti giorni successivi, Siniša ogni tanto non può fare a meno di guardarsi allo specchio e risentire nelle orecchie la voce di Sergio che gli chiede perché si comporta in questo modo.
Cominciano a fioccare i titoli sui giornali, comunque, e Deki ricomincia a sorridere. Un giorno gli si presenta in casa con in mano una copia del Večernje novosti. La prima pagina recita Stanković in viaggio verso Firenze. Lo abbraccia così a lungo che Siniša perde il senso del tempo. Nasconde il naso nell’incavo del suo collo ed inspira il suo profumo fino a riempirsene i polmoni. La voce di Sergio gli chiede ancora “perché fai così?”, e Siniša ha paura di risponderle.
La cosa si fa ogni giorno più seria – visite mediche, contratti – Sergio è nel panico, e Siniša pure. Il cuore è il soddisfatto, ma il cervello è alla deriva. Deki è così felice da confonderlo. Ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, Siniša non riesce a vedere altro. Lo accompagna ovunque come quando era un ragazzino perduto in Grecia, solo che stavolta non è Deki ad avere bisogno di aiuto, ma lui stesso. Lo insegue perché ha paura di poterlo perdere. Sarebbe la prima volta dopo troppi anni, e non è sicuro di essere pronto.
Il ventitré giugno, Siniša si sta annodando la cravatta intorno al collo per poi precipitarsi al battesimo di Stefi. È in ritardo, Deki l’ha già chiamato tre volte, sempre ridendo, facendogli presente che il padrino non può proprio mancare al battesimo del suo figlioccio. Siniša ha il cuore stretto in una morsa, e quando il telefono squilla ancora si prepara a rispondere per l’ennesima volta a Deki che è pronto e sta per arrivare, e invece no. Non è Deki. È Sergio.
- È saltato tutto. – dice, e Siniša lo sente piangere di gioia, - Cecchi Gori ha mollato, il CdA è saltato. Dio, grazie.
Siniša lascia andare un sospiro di sollievo puro, passandosi una mano sulla fronte sudata.
- Zoff? – chiede incerto.
- Due settimane al massimo ed arriva Zaccheroni. – risponde immediatamente Sergio, la voce rotta in un singhiozzo di felicità incontenibile, - Dio del cielo, quasi non ci credevo più.
- Sergio… - mugola Siniša, trattiene a stento le lacrime. – Grazie.
- Sì, vaffanculo. – ride lui, e Siniša ride a propria volta. – Datti una mossa, c’è il battesimo oggi, giusto? Scommetto che sei in ritardo.
Siniša annuisce, lo ringrazia ancora ed interrompe la chiamata. Lancia un’occhiata al telefono, chiedendosi se dovrebbe chiamare Deki e dirgli subito che restano alla Lazio, ma poi riattacca la cornetta e sistema un’ultima volta la cravatta, lanciando ad Arianna un urlo dal corridoio per chiederle se è pronta. Alla sua risposta affermativa sorride e recupera le chiavi della macchina. A Deki lo dirà di persona, quando saranno già sulla via per la chiesa.
*
Quando decide di darci un taglio, è Deki il primo a saperlo. Sono cambiate così tante cose, fra loro, da quando si sono conosciuti, che Siniša si sente riempire gli occhi di lacrime ogni volta che ci pensa. Quel giorno, dopo averlo sentito dire che lascerà il calcio giocato a fine stagione, Deki serra le labbra e spalanca gli occhi, e Siniša sorride intenerito nell’accarezzargli una guancia e nel sentirla ruvida di barba. A sedici anni era ancora così liscio, così piccolo. Ed invece adesso eccolo qua, uomo fatto. Sicuramente Petrović è molto fiero di lui, sicuramente è molto fiero di entrambi.
- Non lascio l’Inter, piccolo. – lo rassicura. La tensione sul volto di Deki si scioglie in un’espressione ancora impaurita, ma meno ansiosa. – Divento il secondo del Mancio. Voglio imparare sul campo. Voglio fare carriera.
- Allenare? – chiede Deki, azzardandosi finalmente a schiudere le labbra e rilassandosi quando, nel farlo, capisce che non scoppierà in lacrime come un pivellino. – Tu?
- Che, non mi ci vedi? – lo prende in giro Siniša, inarcando un sopracciglio.
Deki scuote il capo.
- Al contrario. – dice a bassa voce, - Spero che un giorno sarai il mio allenatore, così potrò ripagarti in campo di tutto quello che hai fatto per me.
Siniša lo abbraccia, ridendo come un bambino. Le lacrime pungono sotto gli occhi, ma quando sente Dejan singhiozzare contro il suo collo capisce che non tocca a lui piangere, nemmeno stavolta, perciò le trattiene.
- Piccolo, tecnicamente sarò già il tuo allenatore a partire dalla prossima stagione. – gli fa presente. Dejan gli pizzica un fianco.
- Hai capito cosa intendevo. – borbotta. E lui ha capito davvero.
*
L’unica volta della sua vita in cui Siniša non può condividere immediatamente qualcosa che gli è successo con Deki, è anche quella più dolorosa. Non può comunicargli subito cosa sta succedendo per prima cosa perché succede troppo in fretta, e per seconda cosa perché fa troppo male. Mancini entra nell’ufficio del presidente e ne esce tre minuti dopo. Lo guarda e ha un paio d’occhi così sconvolti e vuoti che Siniša si spaventa sul serio, per la sua salute, perfino, prima che per tutto il resto; anche se, pure per tutto il resto, quegli occhi non possono significare niente di buono.
- Cos’è successo? – gli chiede, facendoglisi incontro e protendendo le braccia come per aiutarlo a reggersi in piedi. Mancini accetta l’appoggio senza una protesta, lui che per tutto questo tempo ha mantenuto la stessa mentalità che aveva quando giocava, quando non voleva aiuto neanche per uscire dal campo zoppicando su un piede solo.
- Ero entrato per discutere dei piani per la prossima stagione. – risponde con un filo di voce, - Non riesco a crederci.
- Mancio? – lo chiama lui, il cuore in gola ed un peso enorme che gli si sistema sullo stomaco, ben deciso a non mollarlo più, - Che dici?
- Un minuto ci ha messo, a licenziarmi. – gli spiega, tornando a guardarlo negli occhi con aria persa, - Io ci ho messo il doppio del tempo per uscire. – abbassa nuovamente lo sguardo, la voce che diventa progressivamente sempre più bassa, fino a sparire. – Non riuscivo a venire fuori da là dentro.
Deki, in quel momento, è in vacanza. In America, dall’altro lato del mondo. Siniša non riesce a trovare il coraggio per disturbarlo. Raccoglie le sue cose e va via. Lui e Mancini si dividono non succedeva da anni. “Sei abbastanza grande per camminare da solo, ormai,” gli dice con tenerezza, “buona fortuna, Miha”.
L’estate si preannuncia lunga. Siniša non ha un lavoro, ma soprattutto non ha voglia di trovarsene uno, il che è perfino peggio. Affitta una villa in Sardegna e decide che li passerà là, con tutta la sua famiglia, i prossimi mesi. Cerca di godersi il sole, il mare, il sorriso di sua moglie, il tempo libero, ma è dura. Aveva un sogno e gli si è sbriciolato fra le dita. È la prima volta che non ha idea di cosa fare di se stesso, lui che ha sempre avuto un’alternativa pronta per qualsiasi cosa. Ogni tanto, il suo sguardo accarezza il telefono e si chiede se adesso sia passato abbastanza tempo, se Deki sia già sulla via del ritorno verso l’Italia. Se può semplicemente chiamarlo, perché ha una voglia di sentirlo che lo riempie tutto, e ogni volta che si abbandona allo sconforto e piange se la sente scivolare addosso, gli brucia sulla pelle e lui non la sopporta più.
Alla fine, è Deki il primo a chiamarlo.
- Ho parlato col Mancio. – gli dice semplicemente. Siniša si lascia sfuggire un sospiro pesante e rassegnato. Fa per dirgli qualcosa, ma Deki non gliene lascia il tempo. – Vuoi che venga a farti un po’ di compagnia?
Siniša deglutisce a fatica.
- Dove sei? – gli chiede.
- Non importa. – risponde lui, - Vengo, se vuoi che venga.
Siniša neanche si sogna di mentire.
- Vieni. – sussurra, - Ti prego.
Dejan annuisce, e lui riesce a vederlo con chiarezza nonostante la distanza.
- Solo, Miha… - sospira, - Cerca di essere solo, quando arrivo.
Siniša nemmeno gli chiede quando intende arrivare. Interrompe la conversazione dopo avergli detto dov’è, e subito dopo esce. Prenota una stanza in un albergo sulla costa, per l’indomani. Ha il cuore in gola. Per la prima volta, gli sembra di vedere chiaramente dove lui e Deki si stanno dirigendo, e gli fa una paura fottuta.
Quando va a prenderlo all’aeroporto, si abbracciano per minuti interi. Nessuno li guarda, nessuno sembra riconoscerli, o se lo fanno li lasciano in pace. È la prima volta negli ultimi due mesi che Siniša si senta grato per qualcosa nei confronti del mondo. Ha il cuore che batte così forte da minacciare di saltargli fuori dal petto.
- Deki— - fa per dirgli, ma lui lo ferma subito, appoggiandogli due dita sulle labbra.
- Dopo. – dice con un sorriso, - Andiamo.
La stanza in albergo è fresca. Dalla finestra socchiusa entra un alito di brezza che profuma di mare e scuote le tende leggere come fossero onde. Il suono dei cavalloni che si infrangono contro la spiaggia ad un paio di centinaia di metri da lì è appena più forte dei loro respiri.
- Non potrei mai perdonarmelo, se andassi via senza… - sospira un po’, abbassando lo sguardo. Siniša trema, il cuore minaccia di cedergli.
- Non posso credere che stia succedendo. – esala in un sospiro spezzato. Deki gli sorride. È così diverso da quando l’ha conosciuto, eppure allo stesso tempo non è mai cambiato. È il suo più grande orgoglio, il suo più grande amore, è un pezzo di vita che sta per lasciare andare. Ha sempre creduto che non sarebbe mai stato pronto ad abbandonarlo. Non era vero. Ora sente che è giusto. Sono passati così tanti anni che recidere il contatto sarà probabilmente la cosa più dolorosa che abbia mai affrontato, ma è giusto così. L’altra metà della sua vita lo aspetta. Lui deve correrle incontro.
Lo bacia piano, con timore. Sfiora appena le sue labbra con le proprie e sente Deki bruciargli fra le dita. È lui il primo a farsi avanti con più decisione. Lo allaccia al collo e gli si schiaccia contro, Siniša lo stringe fra le braccia e geme nella sua bocca.
- Piccolo, - gli dice, - Piccolo, Dio mio, quanto ti ho voluto sempre.
Dejan annuisce, conducendolo verso il letto. Lo aiuta a stendersi ed accomodarsi fra le lenzuola. Si spoglia, lo spoglia. Sulla sua pelle calda, quasi febbricitante, le dita fresche di Dejan scivolano come un lenitivo. Siniša si inarca ad ogni carezza, e quando Dejan gli si sistema in grembo ed accoglie la sua erezione dentro il proprio corpo, d’istinto cerca le sue mani, alla cieca, incapace di schiudere le palpebre. Deki intreccia le proprie dita con le sue, muovendosi attorno a lui ed accogliendolo come un vecchio amico, un eterno amante, un fratello per sempre.
- Piccolo, ti amo. – dice Siniša con gli occhi pieni di lacrime.
- Anch’io ti amo, Miha. – sorride Deki, scivolando su di lui ed abbracciandolo stretto mentre sente il suo orgasmo esplodergli dentro. Siniša gli circonda le spalle con le braccia, lo aiuta a sistemarsi al suo fianco e finalmente apre gli occhi e si concede di guardarlo. È così stanco, così addolorato, così bello.
- Resta un po’. – gli sussurra all’orecchio, sistemandosi dietro di lui come la prima volta che hanno dormito insieme. Come quella volta, Deki gli si rigira fra le braccia. Come quella volta, ha gli occhi pieni di lacrime.
- Tutto il tempo che vuoi. – gli risponde, nascondendosi contro il suo petto.
- Tutto quello che ci resta. – sorride Siniša. E sorride sinceramente. Il tempo non è tanto, ma non è neppure poco.




- Ljupko Petrović, allenatore della Stella Rossa quando Dejan Stanković arrivò in squadra, a soli sedici anni.
- Slobodan Santrač, commissario tecnico della Nazionale jugoslava dal 1994 al 1998, nonché primo CT a volere Dejan in nazionale. E' peraltro vero che Dejan debuttò con la Nazionale contro la Corea del Sud, e che segnò due gol, entrambi su Assist di Siniša.
- Sergio Berti, agente di Siniša.
- Vincenzo Proietti Farinelli, osservatore della Lazio dal 1993 e per una decina d'anni successivi. E' stato in effetti lui il primo a visionare Dejan su commissione della Lazio, ma naturalmente la storia non si è svolta come l'ho raccontata io. Allo stesso modo, la vicenda che coinvolse Dejan e Siniša in relazione alla Fiorentina è enormemente romanzata da parte mia, nonostante sia vero che Deki stesse vivendo un periodo piuttosto brutto, che ci furono contatti con la Fiorentina, che lui e Siniša quasi raggiunsero l'accordo e che poi tutto saltò in aria perché Cecchi Gori lasciò la presidenza.
- Vladimir Jugović, giocatore serbo che in effetti ebbe grande merito nel passaggio di Dejan dalla Stella Rossa alla Lazio, consigliando la mossa alla dirigenza nonostante stesse per partire verso l'Atletico Madrid.
- Ana e Arianna sono rispettivamente le mogli di Dejan e Siniša.
(A uso e consumo delle organizzatrici del contest, visto che le altre chi è dovrebbero saperlo XD, il Mancio è Roberto Mancini, storico calciatore italiano che militò nella Lazio assieme a Siniša e che poi divenne allenatore sia della Lazio stessa che dell'Inter. Quando Siniša si ritirò dai campi, lo prese sotto la propria ala, facendone il proprio secondo.)