animanga: alphonse heiderich

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo, Malinconico.
Personaggi: Edward, Alphonse.
Pairing: Edward/Alphonse, ma visti in un'ottica di amore fraterno assolutamente puro.
Rating: PG
AVVISI: Nulla da segnalare.
- Edward ricorda perfettamente che quando suo fratello era piccolo era davvero uno scemotto. E lo ricorda tanto bene perché la sua attività preferita era cerca di evitarlo.
Commento dell'autrice: Finali ad effetto XD E sproloquio conclusivo, as usual *-*
Dopo il RoyEd e dopo uke!Ed era arrivato il momento per la liz di esplorare un altro tipo di depravazione: l’AlEd NON incest X’D Contrariamente a quanto la maggior parte di voi starà pensando, la liz non è una fangirl di quelle eccessive che vedono cose anche dove non ci sono neanche da lontano (be’, in realtà sì ._.) e incapaci di apprezzare i rapporti nella loro conformazione canon: io Ed e Al li vedo puccerrimi anche come semplici fratelli *-*
E per quanto lo shota mi attiri X’D per una serie di motivi avevo deciso che questa sarebbe stata una storia pura, ed è così che l’ho tenuta fino alla fine è_é Per la cronaca – e perché mi piace parlare – i motivi erano:
1) Questa storia doveva intitolarsi “Clean” XD per via della sfida sulle canzoni dell’album “Violator” dei Depeche Mode di cui vi ho già parlato più che a sufficienza XD E quindi doveva essere pulita ù_ù”””
2) Dovevo farmi perdonare per quella svarionata emo semi-porcellosa di “Redemption” (che voi non avete ancora letto perché è in fase di betaggio X3 Ma quando la leggerete capirete cosa intendo) e
3) Avevo letto un doujinshi puccissima con i due da piccoli, che mi ha fornito una storia super-ispirosa senza che io dovessi fare praticamente niente per modificarla X3 In gran parte, infatti, questa shot ricalca la trama dell’omonimo doujinshi di Uho Kiniromame, in cui Ed e Al hanno dieci e otto anni (immagino, perché non lo dice ma si suppone XD) e Ed non fa che lamentarsi perché quel tontolino di suo fratello lo segue ovunque XD Poi attua il piano malefico e le cose vanno esattamente come le ho descritte qui (ho fatto dei notevoli sforzi quanto a costruzione della trama, vero? :3), tranne per il fatto che alla fine del dj Ed si scusa con Al mentre il piccolo dorme e poi lo spuccia (platonicamente) un po’, mentre nella mia storia ho voluto ipotizzare un Ed meno spuccioso e più simile al ragazzino ancora immaturo ma ostinato e testardo che vediamo soprattutto all’inizio della serie.
Tra l’altro notare che una shottina così piccola ha addirittura tre titoli <3 Uno doveva necessariamente essere “Clean” XD, l’altro (“Kyoudai”) l’ho voluto mettere per riferimento al dj e il terzo (“Moonlight Sonata”) me l’ha suggerito mio fratello, e riprende il momento finale X3 (che tra l’altro mi fa da riferimento musicale XD).
Tutto sommato è stata una storia abbastanza piacevole da scrivere, anche se ha visto i suoi problemi XD Principalmente quello di trovare, nel testo della canzone che riprende, un qualsiasi riferimento alla storia che avevo in mente XD “Clean”, infatti, poteva essere il titolo solo di due tipi di canzoni: o una puccerrima lovesong o una roba sulla pulizia dopo la dipendenza da una qualche sostanza. Naturalmente, data la mia sfiga, è risultato essere nient’altro che la seconda possibilità :D Adattarla a due bambini che fondamentalmente giocano per tutto il tempo non è stato facile XD anche se fortunatamente l’animo emo di Ed mi ha dato un appiglio cui aggrappare i versi “I don’t understand / what destiny’s planned” XDDDD Sììì, adoro tirare le cose per i capelli *-*””” Spero vi sia piaciuta! XD
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CLEAN
(or Kyoudai)
(or Moonlight Sonata)
Violator#9. Clean


Da piccolo Al era veramente stupido.
Me lo ricordo bene perché io non facevo altro che cercare di sfuggire alla sua costante presenza, le mie giornate sembravano passare esclusivamente così: una fuga perenne dal sorriso inseguitore del mio allegro fratellino novenne.
Mia madre non capiva la mia irritazione, così come nessuna madre capisce l’irritazione del suo figlio maggiore quando è costretto a scarrozzarsi dietro il fratellino più piccolo.
Il che è strano, perché oltre ad essere la storia più vecchia del mondo non è neanche così assurdo da vedere in giro. Quando era una ragazzina mia madre non aveva nessuna amica che si lamentasse di costrizioni di questo genere? Qualcosa sul tipo “Mia madre mi ha costretta di nuovo a portare la piaga con me a giocare… dovremo fare da babysitter anche oggi, mi dispiace ragazze”, e così via.
Insomma, fatto sta che non capiva. Si limitava a sorridere dolce e beata – come sempre – stringendosi nelle spalle e rimproverandomi come se non lo stesse facendo, “Ed, tesoro, Al è piccolo e tu sei il suo fratellone, tocca a te prenderti cura di lui”.
Tante volte avrei voluto dirle qualcosa tipo “Ma la madre sei tu! Chi è che deve prendersi cura di lui?”, ma per quanto piccolo e ostinato fossi mi rendevo conto anche da solo che sarebbe stata un’offesa incredibilmente pesante, e non mi sono mai azzardato.
D’altronde mia madre non faceva altro che occuparsi di noi.
E io avrei dovuto semplicemente accettare di buon grado che il mio fratellino mi venisse dietro come fossi una specie di dio, e magari sentirmene anche lusingato.
Ma avevo dieci anni, insomma.
Comunque, non è che Al fosse uno stupido giusto perché mi veniva dietro, no. Avrei pure potuto tollerare la sua costante presenza se non fosse stato per il fatto che il moccioso sembrava godere del disturbare i nostri giochi, soprattutto quando giocavo con ragazzini un po’ più grandi di me.
Giocare a palla, per esempio, era impossibile. Al non capiva mai quando o a chi dovesse lanciarla, se dovesse tirarla coi piedi, o con le mani, o colpirla con la testa, e il più delle volte si limitava ad osservarla rotolare fino ai suoi piedi, chinarsi, prenderla fra le mani e poi portarmela, sorridendo candidamente mentre i miei compagni di gioco scoppiavano a ridere istericamente e mi chiedevano se non fosse per caso ritardato.
Queste erano cose che mi irritavano incredibilmente.
Certo, allora non capivo ancora che, molto semplicemente, non tolleravo che qualcuno si prendesse gioco di mio fratello – anche se ne aveva tutti i motivi. Mi limitavo a pensare che la sua tonta presenza fosse la causa di tutti i mali e credevo senza alcun dubbio che il sentimento di disagio che provavo quando lui c’era potesse miracolosamente sparire nel momento in cui lui non ci fosse più stato.
Perciò, un giorno, misi in atto il diabolico piano cui pensavo da qualche giorno, e quando uscii di casa e vidi che Al aveva cominciato a seguirmi come al solito, mi voltai e gli dissi “Sai, Al, non credo che oggi andrò a giocare con i miei amici”.
Lui mi fissò, spalancando gli occhioni e guardandomi come fossi pazzo.
- Perché? - chiese semplicemente, rimanendo immobile.
Io lasciai vagare lo sguardo in giro, scrollando le spalle come a dire “così, tanto per fare”.
Gli occhioni si riempirono immediatamente di lacrime talmente grosse che mi sembrò che schiantandosi a terra potessero scavare un buco o qualcosa di simile.
- Hai litigato con i tuoi amici per colpa mia, nii-san? - chiese Al, singhiozzando forte.
Io mi tirai indietro, allarmato.
- Ma no, non c’entra niente! - spiegai, cercando di tranquillizzarlo, - E’ solo che oggi non mi va di vederli!
Al tutto rosso in viso, prese ad asciugarsi frettolosamente le lacrime dalle guance, abbassando lo sguardo per terra.
- Facciamo così. - proposi quando mi assicurai che si fosse calmato e che potessi procedere col piano, - Tu adesso mi aspetti qui. Fra poco io tornerò e passeremo insieme tutta la giornata. Ci stai?
Lui sollevò immediatamente il viso, mentre gli occhi gli si illuminavano di gioia.
Annuì con convinzione, e io pensai distintamente “Evvai, ce l’ho fatta!”.
Ero… così felice… per una cosa così stupida, poi…
…certe volte, ripensando a quel giorno, mi rivedo come niente di più né niente di meno che un criminale.
Insomma, dannazione, l’avevo visto piangere! E la cosa non mi fermò! Non mi turbò neanche!
Sul serio.
Se oggi Al versasse anche una sola lacrima, intendo, se potesse, penso che capovolgerei il mondo, troverei il colpevole e lo truciderei senza pietà.
E allora il colpevole ero io e la cosa non mi infastidì per niente. Anzi, mi rese quasi orgoglioso l’essere riuscito a fregarlo – anche se, immagino, avrei dovuto vantarmi di meno di averla fatta a un bambino di otto anni, tra l’altro vistosamente scemotto, quale era Al.
Lo osservai sedersi sugli scalini davanti alla porta di casa e m’incamminai lungo il sentiero verso la collina, con l’aria di uno che va di fretta per sbrigare le commissioni che deve sbrigare per poi tornare di corsa a casa a giocare col suo fratellino.
Sulla strada incontrai Winry, e mi premurai di farle sapere che se per caso Al le avesse chiesto dov’ero, lei avrebbe dovuto dirgli che non ne aveva idea e non mi aveva visto.
Ero in una botte di ferro.
Raggiunsi la collinetta e mi sdraiai all’ombra dell’enorme quercia che la dominava, gioendo della mia solitudine e del frinire delle cicale nell’erba alta. Le foglie mi frusciavano sopra la testa, il venticello e i rami frondosi mi proteggevano dalla calura estiva e gli uccellini cinguettavano ovunque intorno a me.
Rotolando felice sul manto erboso, inspiegabilmente soffice, mi chiesi perché non avessi attuato quel piano già prima, che cosa mi avesse trattenuto dal concedermi quel piacere paradisiaco.
E il viso sorridente di Al mi apparve davanti agli occhi per un solo secondo, provocandomi un modo di fastidio non indifferente: adesso ero libero, non dovevo più badare a quel moccioso, potevo arrampicarmi sugli alberi senza avere paura che lui mi seguisse e potesse farsi male, potevo scivolare e fare le capriole sul dolce pendio della collina senza preoccuparmi che lui si rompesse una gamba franando giù fino a valle nel tentativo di imitarmi e potevo addormentarmi con le braccia dietro la nuca senza dover tenere un occhio aperto per tenerlo d’occhio ed evitare che si alzasse e magari si perdesse mentre seguiva una farfalla.
E questo fu proprio quello che feci. Mi sdraiai comodamente, chiusi gli occhi e, cullato dal silenzio pacifico del primo pomeriggio, mi addormentai.
Naturalmente, credevo che quello stupido di Al dopo un quarto d’ora, mezzora, al massimo un’ora, si sarebbe scocciato di stare ad aspettare e sarebbe tornato in casa, o magari sarebbe andato a giocare con Winry.
E naturalmente non avevo idea di quanto profondamente idiota fosse in realtà mio fratello.
Mio fratello che, mentre io dormivo beato, rimase accoccolato sulla gradinata davanti casa, le manine sulle ginocchia e le gambette raccolte al petto, in attesa del mio ritorno. Che quando mia madre, verso metà pomeriggio, uscì di casa e gli disse di rientrare, perché cominciava a fare freschetto, innocentemente rispose “Nii-san mi ha detto di aspettarlo qui”, e che quando lei ribatté “Però puoi tranquillamente aspettarlo in casa”, finse di rientrare e tornò a sedersi dov’era quando la vide scomparire.
Uno stupido che rimase lì fino a quando lei non tornò, praticamente ad ora di cena.
Uno stupido che, se mia madre non fosse tornata a quell’orario, avrebbe continuato ad aspettare là fuori che tornassi io, che mi svegliai quando praticamente era quasi mezzanotte.
Uno stupido che, ovviamente, si prese un gran febbrone.
Quando mi svegliai, quella notte, ero inquieto. Era buio, ero solo, e avevo sognato che Al sarebbe venuto a cercarmi, visto che su quella collinetta giocavamo sempre insieme, quindi, da qualche parte dentro di me, ero molto deluso nell’arrendermi all’evidenza che non l’aveva fatto. Percorsi correndo il sentiero, giù per la collina e poi dritto verso casa, e quando arrivai mia madre stava sciacquando una piccola bacinella di plastica e un panno bianco nel lavello della cucina.
- Ed, bentornato a casa. - disse lei, sorridendo tranquillamente, mentre io cercavo di riportare alla normalità il ritmo del mio respiro.
Certe volte avevo la sensazione che niente al mondo potesse demolire l’incrollabile sorriso di mia madre. Io e Al passavamo sempre le nostre giornate cacciandoci in un’infinita quantità di guai, ma non importava cosa facessimo, non importava in che condizioni tornassimo a casa, quante fossero le ginocchia e i gomiti sbucciati e quanti pantaloni stracciati e infangati potessero essere pronti per la spazzatura: mia madre sorrideva e ci diceva “bentornati”, come fosse assolutamente normale vedere rincasare i propri figli in quelle condizioni.
Questa cosa mi infastidiva, vagamente.
Però devo ammettere che risultava utile, soprattutto in casi come quello.
- Dov’è Al? - chiesi ansioso, ficcandomi le mani in tasca.
Ero arrabbiato, lui non era venuto a cercarmi, mi aveva lasciato dormire lì sulla collina fino a quell’orario assurdo.
Volevo fargli una ramanzina, appena l’avessi visto.
- E’ in camera. - sorrise lei, tranquilla, - Aveva la febbre alta quando l’ho trovato, ma ora sta meglio.
E… Al aveva cosa…?
Spalancai gli occhi, sollevando il capo per osservarla meglio in viso e capire se mi stesse prendendo in giro o meno.
- La febbre?
Lei annuì, stringendosi nelle spalle. Chiuse il rubinetto e posò la bacinella nel lavandino, per poi inginocchiarsi davanti a me ed accarezzarmi lievemente la guancia, sfiorando nel gesto la frangetta troppo lunga.
- Ed, tesoro, io capisco perfettamente che tu possa avere bisogno dei tuoi spazi, a volte. E capisco anche che, per ottenerli, tu possa dire una piccola bugia ad Al, ogni tanto.
Io abbassai lo sguardo, serrando le labbra e stringendo fra le mani il tessuto dei miei pantaloni così forte che mi fecero male le dita.
- Ma dal momento che tuo fratello si fida moltissimo di te, la prossima volta vedi che non sia una bugia che lo costringa a fare qualcosa di stupido, va bene? - concluse, sorridendo sempre come se stesse parlando di giocattoli, o del Natale.
Col senno di poi, mi rendo conto di quanto la cosa sia ironica.
Il me stesso di oggi vorrebbe andare a parlare con la sua mamma di ieri, accarezzarle il viso come lei spesso faceva quando ero piccolo e dirle “Non avresti dovuto avallare tutte le mie follie. Quel giorno, quando tornai a mezzanotte dopo aver abbandonato mio fratello completamente solo senza che mi sfiorasse il pensiero che avrebbe potuto essere pericoloso, avresti dovuto darmi uno schiaffo e dirmi ‘Ed, guai a te se lo rifai di nuovo!’, e io allora mi sarei calmato, forse”.
E quando lei fosse morta…
…quando lei fosse morta non avrei trascinato Al nell’assurdo tentativo di riportarla in vita.
“Non dire bugie pericolose a tuo fratello, Ed”.
Andrà tutto bene era la bugia più pericolosa di tutte.
Ce la faremo era un tradimento.
L’ennesimo tradimento della fiducia di Al. Da sempre mal riposta.
Quella notte, salii di corsa le scale, in preda a un’agitazione mai provata prima, e crollai accanto al letto di mio fratello. Guardai a lungo il suo viso arrossato, e le coperte che si sollevavano e si abbassavano al ritmo del suo respiro affannato.
- Ed? – mi richiamò mia madre, apparendo sulla soglia della porta, - Cerca di non svegliarlo, mi raccomando.
- Non… - mormorai, abbassando lo sguardo, sentendo già gli occhi bruciare per via delle lacrime, - Non pensavo che sarebbe rimasto davvero lì ad aspettare.
- Oh, - sorrise comprensiva la mamma, accarezzandomi il capo, - ma lo so, tesoro. Ho capito…
Io scattai in piedi, irritato, sottraendomi al contatto.
- E poi c’eri tu in casa! Pensavo che fosse al sicuro! E lui… lui mi segue sempre, sempre “nii-san, nii-san”, e mi dà fastidio e lo odio! – gridai, piangendo copiosamente.
Mi voltai e fuggii dalla stanza, andandomi ad accucciare sul pianerottolo davanti casa.
Al… era rimasto seduto lì per almeno cinque ore.
Avevo un solo modo per espiare la mia colpa.
Mia madre mi seguì, schiudendo discreta l’uscio e chiamandomi a bassa voce, come non volesse disturbarmi.
Io sollevai lo sguardo e lei subito mi disse “Non puoi stare qui fuori, Ed. Ti prenderai un malanno”.
- Non mi importa! – protestai io, stringendo ancora di più le ginocchia al petto.
- Andiamo, Ed, tesoro, ho capito che non odi davvero tuo fratello e ti senti in colpa per quello che hai fatto, ma di certo Al non sarà felice quando domattina lui starà bene e il suo nii-san sarà costretto a stare a letto con una pezza bagnata sulla fronte…
Il discorso di mia madre era perfettamente ragionevole.
E io non avevo nessun argomento altrettanto ragionevole con cui controbattere.
- No! – mi limitai a gridare, guardando fisso il buio della notte davanti a me.
Mia madre sospirò rassegnata, scomparendo all’interno della casa e riapparendo poco dopo con una coperta in mano.
- So che non riuscirò mai a farti cambiare idea. – disse, sorridendo quasi con dolce nostalgia, - Avvolgiti almeno in questa.
Io guardai la coperta e rabbrividii per il freddo.
Ma non la presi.
Non intendevo accettare niente che potesse rendere la mia prova meno dura.
Dovevo farmi perdonare. Dovevo passare sulla mia pelle quello che aveva passato Al.
Non vedevo altro modo per riparare a quell’errore, mi sembrava mastodontico, mi sembrava che non esistesse niente di altrettanto terribile come la prova alla quale avevo sottoposto il mio fratellino.
La mamma lasciò la coperta ai miei piedi e sembrò per un attimo incerta sul lasciare la porta socchiusa o chiuderla a chiave. Resembool era un paesino tranquillo, ma lasciare casa propria totalmente incustodita, con un bambino fuori ad aspettare l’alba e l’altro dentro a rigirarsi nel letto in preda ai dolori della febbre doveva sembrare assurdo persino a una persona naif come lei.
D’altronde non poteva chiudermi fuori.
Alla fine, sospirando pesantemente, chiuse la porta senza girare la chiave, probabilmente sperando che io decidessi al più presto di rientrare.
Io mi limitai ad appoggiarmi stancamente contro la parete, distendendo le gambe, che avevano cominciato a far male, e guardando la luna enorme che pendeva spaventosa dal cielo, sulla mia testa.
Ben presto, mia madre spense anche il lanternino che illuminava il pianerottolo, probabilmente pensando che sarebbe stato più sicuro che non mi vedesse nessuno, lasciandomi totalmente al buio.
E così rimasi.
Non dissi una parola e non pensai a niente.
Neanche mi guardai intorno.
Tremando per il freddo, mentre la coperta restava piegata e abbandonata al mio fianco, fissai la luna per ore, fino a farmi venire il torcicollo.
Mi bruciavano gli occhi, e ormai ogni sbadiglio era accompagnato da fiumi di lacrime involontarie, quando la porta si socchiuse e una figurina minuscola si stagliò scura contro il buio azzurrognolo della notte.
Dischiusi le labbra.
- Al! – mormorai agitato, scattando in ginocchio, - Cosa ci fai qua fuori?!
Lui mi cercò un po’ con gli occhi, e quando mi trovò si precipitò al mio fianco, attaccandosi alla manica della mia maglietta.
- Non devi stare qui! – esplose, le lacrime agli occhi, tirandomi con forza inaudita verso la porta.
- Al! – cercai di oppormi io, stupito da tanto impeto, - Hai la febbre! Torna a letto!
- Non ho più niente, nii-san! Ma tu starai male se continui a stare qui al freddo!
Irritato, tornai a sedermi incrociando le gambe.
Lui mi guardò a lungo. In quella posizione non poteva portarmi da nessuna parte, lo sapeva.
Sbuffò pesantemente e si sedette accanto a me.
- Non puoi rimanere. – lo rimproverai io, - Ti tornerà la febbre.
- Nii-san, non posso lasciarti qui da solo!
- Io ti ho lasciato solo, oggi! Quindi anche tu devi farlo!
- …ma io non voglio, nii-san…
Ricordo che mi accasciai su me stesso.
Era uno strazio, quel fratellino.
Non riusciva ad essere crudele con me neanche quando io lo ero stato con lui.
Cosa diavolo…
…cosa diavolo avevo fatto, cosa c’era, di tanto bello, fra le cose che avevo fatto, per meritarmelo?
Sospirai, allungandomi sul pavimento e recuperando la coperta, nella quale lo avvolsi.
- Almeno sta’ al caldo. – borbottai, imbarazzato, senza riuscire a guardarlo.
Al sorrise.
Ne sono sicuro.
Al sorrideva sempre.
E un secondo dopo anche io ero sotto la coperta assieme a lui.
La mia pelle reagì immediatamente al nuovo calore, e un brivido mi percorse tutto, dalla punta dei piedi ai capelli.
Al rise.
- Smettila! – mi lamentai io, infastidito, incrociando le braccia.
Poi al si appoggiò contro la mia spalla e chiuse gli occhi. Rimanemmo in silenzio per tantissimo, tantissimo tempo. La sua guancia era soffice e tiepida contro di me, ed era una sensazione piacevolissima.
Giuro che quella è stata la prima volta che ho pensato che avere un fratellino minore potesse essere piacevole.
Mentre io mi congelavo, pentendomi di tante di quelle cose che già allora mi sembrava di averne perso il conto, Al si mise a canticchiare. Canticchiò sommessamente la filastrocca che ci aveva insegnato mamma, una melodia che ci portavamo dentro da sempre. La sua vocina un po’ roca riempì l’aria, riempì il buio e raggiunse la luna, rendendola meno immensa e spaventosa, e più luminosa.
Continuò a cantare, a voce sempre più bassa, fino a quando non mi sembrò che si fosse addormentato.
- Al… - lo chiamai, atterrito e confuso dal sentimento che stavo provando, - Sei sveglio?
Lui si mosse appena, annuendo contro la mia spalla.
- Devi smetterla di fidarti così di me. – dissi, faticando incredibilmente a mettere insieme le parole, - Non penso mai prima di fare le cose. È pericoloso.
- Nii-san, - rispose lui, col tono di voce paziente che spesso usava mamma per spiegarmi cose ovvie che mi rifiutavo di capire, - se smetto di fidarmi di te, poi di chi mi fido?
- Della mamma? – suggerii io, guardandolo con la coda dell’occhio per osservare la sua reazione.
Lui ridacchiò.
- Ma mamma non mi aiuta ad arrampicarmi sugli alberi, però…
- Perché sa che è una cosa pericolosa!
Lui si prese un secondo per riflettere.
Doveva essere stanco, doveva essere ancora dolorante, doveva avere sonno.
Ma era lì a cercare di convincermi che fossi un buon fratello, anche contro la mia ostinazione.
- Però, nii-san… - disse infine, puntellandosi il labbro inferiore con un ditino paffuto, - io voglio arrampicarmi sugli alberi.
Io sospirai.
- E sei poi cadi?
Al sorrise, stringendosi meglio nella coperta e avvicinandosi il più possibile a me.
- Ma io non sono mai caduto. Tu mi hai sempre dato la mano, quando scivolavo.
Ecco.
Vedete? Uno stupido.
E io, più stupido di lui, non so per quanto tempo piansi, scusandomi, stringendolo forte sotto la coperta.
*

La mia testa è piena di ricordi di questo tipo. Di com’era Al da piccolo, di quello che facevamo, delle cose idiote che ci dicevamo prima di addormentarci, per ridere e conciliarci il sonno. Delle favole che mi costringeva a inventarmi quando mamma era troppo stanca e si addormentava senza raccontargliene una. Di quando provavamo a preparare il pranzo e venivano fuori solo schifezze disgustose, e poi mamma doveva ripulire il disastro che avevamo combinato in cucina e ricominciare daccapo a cucinare perché nel frattempo noi ci eravamo già attaccati alla sua gonna, lamentandoci perché ci brontolava lo stomaco. Di quando facevamo il bagno e Al insisteva per portarsi nella vasca un pupazzetto che puntualmente finiva sul fondo, e implorava me di recuperarlo perché da sopra la schiuma non riusciva a vederlo e non sapeva ancora immergersi e trattenere il respiro sott’acqua.
Di tutte queste piccole cose che ora mi danno un obiettivo da raggiungere.
Io, davvero, non so cosa potrebbe capitarci domattina. Non so se la pietra filosofale ci costringerà a seguirla fino in capo al mondo e poi indietro fino a ritornare da dove siamo partiti, magari lasciandoci anche con un nulla di fatto che ci porterà a ricominciare il nostro viaggio ancora, e ancora, e ancora per sempre. Non ho idea di cosa potrebbe riservarci il futuro così come non ho mai avuto idea di cosa ci sarebbe potuto capitare quando convincevo Al a seguirmi nell’esplorazione del bosco, o nella scalata di un albero, o nella discesa a valle lungo i pendii delle colline.
Ma so che alla fine sistemerò tutto. Sono abbastanza testardo e stupido per riuscirci, lo so. So che riporterò indietro il corpo di mio fratello, so che glielo ridarò, e so che quando Al sarà tornato quello che era, e io mi scuserò per tutto, mi abbraccerà e, ancora una volta, come sempre, cercherà di farmi capire quanto sia fortunato ad avere un fratello come me, anche se in quel preciso momento io starò pensando che per lui sarebbe stato meglio nascere figlio unico e risparmiarsi un sacco di complicazioni.
So per certo che sarà così. Che tornerò a sentire la morbidezza delle sue guanciotte, e che lui mi sorriderà, ancora, sempre.
Non perché vedo il futuro.
Ma perché, al di là dell’armatura, al di là delle lacrime che non può versare, al di là delle sue insicurezze e delle sue paure, io vedo Al. Al è sempre qui, nella mia testa. Incancellabile e inamovibile.
Mio fratello c’è. C’è sempre stato, anche quando detestavo il pensiero che ci fosse.
E ci sarà. Perché ho ancora qualcosa da farmi perdonare.
Genere: Introspettivo, Dark, Drammatico.
Personaggi: Edward, Alphonse, Heiderich, Winry, Hohenheim, Dante.
Pairing: Edward/Alphonse
Rating: NC-17
AVVISI: AU, Angst, Incest.
- "Il suo rapporto con suo fratello aveva smesso di essere puro subito dopo la morte di sua madre."
Commento dell'autrice: Prima che mi chiediate da dove ho tirato fuori questa storia XD sappiate che è tutto frutto del mio cervellino morboso e fangirlante (chi mi conosce SA che ne sono capace :D) ispirato da due oekaki comics che ho trovato su un sito giapponese (un oekaki è uno schizzo fatto al computer, abbastanza stilizzato e generalmente povero di colori, ma che ha un suo fascino particolare. Un oekaki comic è, ovviamente, un fumetto realizzato mettendo una serie di oekaki uno di seguito all’altro :’D). Questi oekaki comic voi NON li volete leggere, primo perché non sono neanche tutto questo granché, se ricordo bene, secondo perché uno dei due era perfino RoyEd (brr), terzo perché poi in effetti con questa storia non c’entrano una cippa e fatichereste a trovare il collegamento contorto che ha prodotto la mia mente bacata e quarto e ultimo perché ho perso il link °_°
Per le atmosfere pesanti e cupe, invece, sono responsabili doujinshi stupendi angstissimi e darkissimi quali “Nightengale”, “Scarlet on the tile” e “Living will” (soprattutto il primo e soprattutto nell’ultima parte della shot): con la storia che ho messo su io non c’entrano niente, ma hanno contribuito a impantanarmi nel mood che mi ha permesso di realizzarla :’D Questi li ho, e vale la pena leggerli, per cui, se volete, non avete che da contattarmi, così vi mando le scanlation in inglese :* Tranne di “Living will”, di quello posso darvi solo il link – se lo ritrovo – ma comunque è un HeiEd :\
Dunque, “Your door” è stata una piccola impresa ^^ Prima di tutto perché è stata la mia prima vera e propria Elricest – se si esclude il piccolo drabble che ho scritto tempo fa per vedere come mi trovavo a narrare col POV di Alphonse, per poi decidere che scrivere col suo POV è stupendo ma è troppo difficile ed è meglio Ed :D. Non sono esattamente nuova al tema incesto, e più o meno tutti i lettori di fanfiction italiani – e buona parte di quelli inglesi, spagnoli, portoghesi e americani – sanno quanto questo argomento mi stia a cuore, quindi non è stato particolarmente difficile “immergermi” nell’atmosfera adatta. Inoltre, a mio vantaggio veniva il modo in cui ne avrei dovuto parlare: niente conflitti con la società, niente problemi di “venire allo scoperto”, perché la cosa si svolge tutta all’interno nei personaggi e fra Edward e Alphonse, e basta, e oltretutto perché entrambi realizzano fin da subito molto chiaramente cosa provano l’uno per l’altro, quindi non c’erano problemi di momenti generalmente “imbarazzanti” per il ficwriter medio – quali appunto drammatiche prese di coscienza o restie dichiarazioni ad alta voce.
Semmai il problema è stato esprimermi. Mi spiego meglio. Sia Alphonse che Edward sono stati fin da piccoli convintissimi che il loro rapporto non fosse di tipo fraterno. È stata una cosa sulla quale non si sono neanche mai fermati a riflettere, tanto era palese. E questa è una cosa assolutamente innaturale, è vero. Ma è naturale nelle loro teste. Nei loro cervellini, profondamente traviati dalle vicende della loro infanzia e dalla loro naturale predisposizione al dramma – peggiorata dalle varie calamità che li hanno scossi XD – quello che c’è fra loro non è che una normalissima conseguenza. Ed era importante che questo venisse fuori dai loro pensieri – va be’, dai pensieri di Ed, visto che, nonostante la terza persona, il POV è suo – e dalle loro azioni – quantomeno nella sfera privata, dal momento che non erano comunque due personaggi talmente fuori di testa da fare sozzerie in pubblico et similia.
Era fondamentale che questo venisse fuori perché altrimenti il lettore si sarebbe sentito spaesato di fronte all’assoluta assenza di complessi da parte dei due fratelli. Sia Ed che Al, fin dall’inizio, sono fortissimamente attratti l’uno dall’altro, e vivono i loro sentimenti con assoluta sincerità, senza ipocrisie o negazioni di alcun tipo. E allora qual è l’unico motivo per cui non lo fanno? Qual è l’unico motivo per cui non concludono subito e si trascinano stancamente per tutta questa storia per ben tot pagine? Non perché hanno paura della società e manfrine simili, ma perché Edward è terrorizzato da suo fratello. Questa è l’unica cosa che lo frena.
Alphonse da piccolo è tremendamente confuso. Edward è terrorizzato da questa confusione. Se ne sente il motivo, si sente colpevole, e questo, assieme alla mancanza della figura di riferimento paterna e di quella di consolazione materna, lo convince di essere la causa della sofferenza di suo fratello. Poi Alphonse va via. Quando torna la prima volta è un ragazzino distrutto. Ed Edward ne ha una paura folle, soprattutto quando scopre che si prostituisce, perché sente chiaramente di avere perso totalmente il controllo – inteso più come “capacità di protezione” che non come controllo dispotico vero e proprio – della sua persona. Per non parlare di quando poi Alphonse torna, dopo altri cinque anni, ed è completamente bruciato. Non lo trattiene più niente, è estremamente spontaneo, sa quello che vuole e vuole ottenerlo. Sfido chiunque a non sentirsi terrorizzato da questo XD
Il fatto che poi arrivi la scossa tale da far capitolare Ed, facendogli dimenticare tutte le sue paure, almeno per una volta, è tutto puro fangirling XD Perché volevo soddisfazione e volevo darla a voi :D* Ma la cosa principale qui era riflettere su quanto spaventoso, gigantesco e sporco potesse diventare un sentimento di per sé anche piccolo e tenero, e non per colpa di chi lo prova, ma semplicemente per colpa delle avversità che la vita pone davanti alle persone in maniera assolutamente casuale.
Perché può succedere.
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YOUR DOOR

“Amor può troppo più che né voi né io possiamo.”
“Decameron” – Boccaccio


OGGI.

Il suo rapporto con suo fratello aveva smesso di essere puro subito dopo la morte di sua madre.
Zia Pinako li aveva pregati a lungo di andare a vivere con lei e Winry, dopo il funerale, abbandonando subito quella casa piena di ricordi nostalgici, ma per quanto lui, ogni volta che lei gli faceva pressioni in questo senso, potesse salvarsi in extremis rispondendo che ci avrebbero riflettuto su, né lui né Al avevano mai pensato per un secondo di potersi trasferire davvero. Un po’ perché avevano sempre vissuto in quella casa, e impressi negli oggetti c’erano ricordi troppo dolci e consolatori per separarsene; un po’ perché quando stai così male non ti serve altro che il tuo dolore, che riempie fin troppo bene i giorni e le notti per poter pensare anche ad altro, come ad esempio vivere la tua vita; e poi perché logorarti nell’abbraccio umido e salato della sofferenza è l’unica cosa che pensi di saper fare bene, perché piangere e lamentarsi è così dannatamente naturale da farti credere di essere nato apposta.
Ed ripensava a quei giorni sempre come se non li avesse mai vissuti veramente; gli sembravano troppo strani, troppo evanescenti per essere proprio ricordi, e non sogni o fantasie.
Ok, le cose non andavano benissimo neanche prima che mamma morisse. Prima che mamma morisse lui era un diciottenne irrequieto e arrabbiato col padre che non vedeva da quando aveva dieci anni, e Al era un sedicenne confuso – molto confuso – e assolutamente incapace di esprimere chiaramente ciò che provava, ma dopo, dopo era stato il disastro, e lui era diventato un diciottenne ancora più arrabbiato e mortalmente solo, mentre Al si trasformava in un sedicenne troppo, troppo confuso, che di notte s’infilava nel suo letto.
Al dormiva con lui, sì. E gli si stringeva contro con movimenti e intenti sempre meno fraterni, notte dopo notte. Diceva di sentire freddo. Diceva che nii-san era l’unico in grado di scaldarlo.
E lui si sentiva in imbarazzo tremendo.
Non avrebbe dovuto. Avrebbe dovuto piuttosto essere tranquillo, sicuro di sé e dell’innocenza del loro rapporto. Così Al prima o poi si sarebbe calmato e sarebbe tornato tutto a posto.
E invece non aveva fatto altro che mandargli segnali contrastanti, con tutti quei rossori, quegli abbracci impacciati e quelle inaspettate… reazioni corporee.
Un po’ lo aiutava il fatto che quella situazione non fosse ufficiale, che non ne avessero mai parlato, che rimanesse circoscritta al suo letto. Se non altro, così poteva prendere solo il meglio di quell’inconveniente, sfiorando lentamente la pelle di suo fratello addormentato di notte e facendo finta di nulla il giorno.
E Al sapeva. Al capiva tutto. E nessuno dei sorrisi che gli rivolgeva era privo di malizia.
Al…
Al era estremamente piccolo, per quanto fosse già più alto di lui, ed estremamente infantile, estremamente immaturo, estremamente spaventato. Era anche pericolosamente affezionato. E dipendente. E lui, nei suoi confronti, era assurdamente arrendevole. Bastava una sua occhiata triste, un sopracciglio inarcato verso il basso, un tremito delle labbra, ed Ed era ai suoi piedi, pronto a fare di tutto perché quei sintomi di sofferenza svanissero.
Ma nulla di ciò che faceva sembrava essere abbastanza dolce, o sensuale, o innamorato per consolare Al, quando alla notte gli si strusciava addosso.
Al era triste. Al voleva di più.
E sì, in quel letto, nascosti dalle coperte e dal manto scuro della notte, avevano attraversato spesso il confine, ma mai, mai Al era stato pienamente accontentato. A quel tipo di richiesta Ed non aveva mai ceduto. Poteva andarne fiero, per quello che valeva.
E Al continuava a essere triste. Continuava a desiderare.
Parlava poco, mangiava meno e non dormiva affatto. Dimagriva. Si sciupava. Non voleva vedere nessuno. Solo il suo nii-san. E il suo nii-san non lo abbandonava mai.
Per tre mesi non uscirono mai di casa. Winry portava loro da mangiare, prendeva i panni sporchi e li riportava puliti, si preoccupava da morire e riceveva in cambio solo ringraziamenti vaghi e distratti e sguardi schivi. Mai una parola gentile. E soffriva. Ma lui non poteva accorgersene, impegnato com’era nel cercare di fare stare meglio Al senza per questo dovere arrendersi alle sue mute richieste.
Chiudersi in casa e non vedere nessun altro non era stato difficile. Per loro due era stata una reazione naturale alla scomparsa della mamma. Perdere lei era stato come perdere un braccio o una gamba. E quando perdi un pezzo del tuo corpo, e senti quanto fa male sentirselo strappare via di dosso, stai bene attento a fare di tutto per non perderne altri. Chiudere la porta era come chiudersi in un guscio minuscolo, all’interno del quale non avrebbero mai potuto perdersi.
Ed era durata. Per tutto il tempo in cui gli occhi di Al avevano continuato a implorare in silenzio, e quelli di Ed, con lo stesso identico silenzio, avevano continuato a negare, era durata.
E poi la richiesta di Al aveva smesso di essere silenziosa, e lì l’aveva capito anche Ed che non c’era più alcuna possibilità che di loro due potesse salvarsi qualcosa.

^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^


OTTO ANNI PRIMA.

- Nii-san…
Suo fratello tirò la coperta, avvicinandosi al letto, chiedendo il permesso per entrare. Ormai abituato a quel rituale notturno, e ancora assonnato, Ed si limitò a grugnire un assenso e scostare le lenzuola, aspettando che lui si sistemasse al suo fianco.
Quando sentì il suo odore farsi più vicino, il sonno gli svanì completamente dagli occhi.
Al si strinse a lui, costringendolo ad abbracciarlo. Bè, non che lui protestasse, comunque.
- Nii-san, ho freddo…
Sospirò, abbracciandolo più stretto e sistemandogli le coperte sulle spalle.
- Va meglio? – chiese, più dolcemente possibile, perdendosi nel profumo dei suoi capelli.
- Mh… - mormorò lui, chiudendo gli occhi.
Quel momento di pace durò solo pochi secondi. Al riprese subito ad agitarsi e sospirare, inquieto.
- Al, che cavolo hai?
- Nii-san, - disse lui con voce rotta, - vieni più vicino!
Ed sospirò ancora, e si avvicinò a lui fino a fare combaciare perfettamente ogni centimetro dei loro corpi. Al lo abbracciò stretto in vita.
E fu in quel momento che la sentì. La sua inequivocabile erezione.
Il corpo di Al stava gridando, anche se lui rimaneva in silenzio.
Si spaventò. Cercò di divincolarsi, ma lui glielo impedì.
- Nii-san, non te ne andare! – gridò all’improvviso, afferrandolo per la maglietta; lui si spaventò ancora di più, ma cazzo, non poteva allontanarsi e lasciarlo in quel modo.
- No. Non vado. – lo rassicurò, forzandosi a tornare ad abbracciarlo.
Al sospirò e si accomodò nuovamente fra le sue braccia, nascondendo il viso sulla sua spalla.
- Nii-san… - bisbigliò poco dopo, labbra contro pelle, - ti prego…
E non disse altro. Ma quella preghiera soffiata fuori a fatica, con le labbra umide e gli occhi chiusi, quella preghiera caldissima sulla sua pelle bollente umida di sudore, quella preghiera desiderata, repressa e infine espressa, mandata in avanscoperta alla ricerca di un briciolo di soddisfazione, quella preghiera innamorata diceva tutto, e non aveva bisogno di sottotitoli, così come il corpo di Ed non aveva bisogno del permesso del suo padrone per reagire di conseguenza.
Riprendendo possesso di sé, lo spinse lontano repentinamente, prima che potesse sentire la sua eccitazione attraverso il cotone sottile dei boxer e, siccome Al non sembrava intenzionato a mollare la presa sulla sua maglietta, gli diede un calcio e lo buttò giù dal letto. Ascoltò il tonfo del suo corpo contro il pavimento, e il suo breve lamento di stupore e dolore, e poi si sedette, reggendosi sulle braccia e guardandolo dall’alto, gelido.
- Vattene.
Al lo fissò, gli occhi pieni di lacrime, scosso da singhiozzi profondi e dolorosi, anche se non si capiva a chi facessero più male.
- Nii-san…
- Va’ in camera tua, Al.
Dopo un attimo di smarrimento, abbassò lo sguardo, si alzò in piedi e obbedì all’ordine, uscendo dalla stanza, tirando su col naso come un bambino piccolo.
Guardandolo allontanarsi così, di schiena, curvo e raggomitolato su sé stesso, gli sembrò minuscolo, ed ebbe voglia di corrergli dietro.
Si distese e si seppellì sotto le coperte.
Pessima idea.
Il profumo di Al, attaccato al tessuto, lo investì in pieno, al punto che se ne sentì stordito. Il suo calore impregnava le fibre, lo circondava, lo stringeva. Come un abbraccio. Tutto intorno. Di più. La stretta di un amante.
Spalancò gli occhi. D’improvviso, non gli importava più niente di niente. Fino a quando stavano in casa, solo lui e Al, non dovevano dare spiegazioni a nessuno, non dovevano scusarsi di niente, potevano fare quello che volevano. E lui poteva anche concedergliela, al suo fratellino, quella dannata soddisfazione. Poteva anche concedersela.
Si alzò talmente in fretta che rimase impigliato fra le lenzuola, e quando riuscì a liberare la parte superiore del corpo e provò a scendere dal letto un piede rimase in trappola fra le coperte, e se non si spaccò la faccia per terra fu solo perché ebbe la prontezza di riflessi di mettere le mani avanti e atterrare sui palmi – facendosi comunque un male cane. Si tirò su, senza darsi neanche il tempo di riprendersi dal dolore, e corse verso la camera di suo fratello.
Davanti alla quale si congelò.
Oltre la porta, Al piangeva. Soffocava i gemiti nel cuscino, ma i bastardi sfuggivano al controllo, e lo raggiungevano, raggiungevano Ed al di là del legno, al di là del muro, al di là del suo assoluto desiderio di non sentirli, e…
…ad Al sarebbe davvero bastata quella piccola soddisfazione, per smettere di piangere? Gli sarebbe bastato che lui cedesse e gli consentisse dieci o quindici minuti di fuga dall’angoscia? E poi? E lui? Cosa avrebbero significato, dopo, per lui, quei quindici minuti?
Indietreggiò. Un passo alla volta. Fissando con l’immaginazione il corpo di suo fratello aggrovigliato su sé stesso, al di là del muro, affondato del materasso.
I lamenti di Al lo accompagnarono in camera, a letto, negli incubi.
*

Il giorno dopo, suo fratello era sparito. A nulla era valso cercarlo per tutto il paese, per giorni interi, pensando al peggio e pregando di sbagliarsi; a nulla era valso l’aiuto di Winry e di zia Pinako, e soprattutto a nulla era valsa la sua disperazione, e le sue urla imploranti, Al, torna a casa, che scuotevano l’aria giorno e notte, senza sosta.
Al era andato via, portando con sé tutte le sue cose. A casa non era rimasto neanche un oggetto che conservasse il suo profumo.
Allora, allora sì Ed poteva andare via.

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OGGI.

Non aveva sposato Winry per noia, o per solitudine, o per ripicca nei confronti di Al, che l’aveva abbandonato e col quale, prima che fra loro scoppiasse quell’incendio mai veramente divampato e per questo mai estinto, litigava per decidere chi avrebbe avuto la sua mano alla fine. No. L’aveva sposata perché Winry era un ricordo vivente nel presente, era un monumento di carne e sangue alla memoria della parte bella della sua infanzia.
E perché Winry lo amava e sapeva amarlo bene, sempre discreta, sempre premurosa. Senza sapere niente, intuiva quando lui aveva bisogno di sentire la sua presenza e quando invece preferiva ignorarla. E di notte, di notte Winry era chiunque. Se voleva stringere la sua amante, lei era lì, pronta a concedersi; se voleva illudersi di poter abbracciare ancora sua madre, anche in quel caso lei era lì, e ricopriva il ruolo alla perfezione.
E se poi voleva concedersi una deviazione, se voleva provare a dipanare la matassa della situazione irrisolta nella sua testa, sì, senza troppi giri di parole, se voleva ricordarsi com’era abbracciare Al, se voleva provare come sarebbe stato farlo sul serio, Winry obbediva, si voltava e non fiatava, lasciandogli immaginare i gemiti e gli ansiti di suo fratello fino a farsene rimbombare il cervello.
Winry era preziosa. Era la preziosissima ancora che gli impediva di fluttuare via nella melma dei suoi desideri.

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CINQUE ANNI PRIMA.

Ingoiò l’ultimo boccone di carne e versò un po’ di vino rosso nel bicchiere, prendendosi un attimo di pausa prima di bere, consapevole del fatto che quando avesse finito di mangiare avrebbe dovuto aiutare Winry a sparecchiare – cosa della quale non aveva affatto voglia, era sempre stato pigro nei lavori domestici.
Suonarono alla porta e, seppure un po’ stupita, Winry andò ad aprire sorridendo, come sempre quando riceveva visite.
Molti secondi di silenzio. Poi una voce disse “Speravo che abitaste ancora qui”, e tutti i neuroni di Ed esplosero contemporaneamente, assieme al suo cuore.
Si precipitò all’ingresso.
Al.
Non lo vedeva da tre anni.
Era magrissimo, e molto sciupato, soprattutto in viso. Sembrava debole.
- Nii-san…? – bisbigliò, ancora sulla soglia, - Vivi qui anche tu? – chiese, stupito, prima di poter realizzare. Poi capì. Abbassò lo sguardo e sorrise – un sorriso lontano, un sorriso tristissimo.
Lo aveva chiamato nii-san. Lo chiamava ancora così.
- Certo. Che domande faccio? – domandò, più a sé stesso che a loro.
Winry si riprese dallo stupore e lo attirò a sé, abbracciandolo.
- Al! Stai bene? Oddio, come sei magro!
Fra le braccia di Winry, suo fratello lo guardava, quel sorriso ancora addosso. Lui era troppo contento e agitato per pensare.
Quando Winry sciolse l’abbraccio, Al gli si parò di fronte, imbarazzato e incerto sul da farsi. Ed capì chiaramente che l’unica cosa che avevano bisogno di fare davvero, in quel momento, era annullare le distanze. Per i saluti, per i pianti, per le scuse ci sarebbe stato un altro momento. Allora erano i loro corpi a governare. Perciò spalancò le braccia e non fu stupito di vedere suo fratello gettarglisi addosso e scoppiare a piangere, cercando di affondare nel suo petto.
Lo strinse.
Era scheletrico. E caldissimo.
La sua mente lo riportò al calore degli abbracci di tre anni prima, e il suo cervello registrò l’odore di Al, confermandogli che, nonostante gli anni di lontananza, era rimasto lo stesso. Non era un semplice profumo, era la sua essenza che odorava così. Qualsiasi cosa potesse succedergli, per quanto lontano potesse andare, e per quanto a lungo potesse stare via, non sarebbe mai cambiata.
Avevano milioni di cose da dirsi.
- Al, sei stanco? Vuoi riposarti? – chiese premurosa Winry, posandogli una mano sulla spalla.
- No, grazie… ho dormito in treno. – rispose lui, sorridendo lievemente.
- Come preferisci. – disse lei, dandogli un bacio sulla guancia, - Allora vi lascio, avrete molto da dirvi.
Ed la ringraziò con lo sguardo, stupendosi una volta di più della sua quasi fastidiosa perspicacia – quella che gli faceva sempre pensare che forse, di lui, Winry sapesse molto più di quanto non avrebbe voluto – e condusse suo fratello nello studio.
- Accomodati… - gli disse, indicandogli una poltrona. Lui annuì.
Lo guardò sedersi e chiuse la porta a chiave pensando chiaramente “non si sa mai”. Quel pensiero gli diede i brividi, e si pentì del suo gesto appena gli si fu seduto di fronte, ma non tornò sui suoi passi.
Avrebbe voluto chiedergli immediatamente perché era andato via. Lui, però, fu più veloce a parlare.
- Alla fine l’hai vinta tu. – disse, allegro, sorridendo, - L’hai sposata.
Gli ci volle qualche secondo per capire che si riferiva a Winry.
- Ah… sì… - mormorò, impacciato, - Sì, in effetti… sono cambiate un po’ di cose, da quando… te ne sei andato.
Al annuì.
- E avete figli?
- No! Voglio dire… pensiamo sia ancora troppo presto.
Bugia. Non ne avevano mai parlato.
- Capisco…
Rimasero in silenzio per qualche secondo.
- E tu? – chiese Ed, poco dopo, - Che fai? Come ti va?
Lo sguardo di Al si fece grave e addolorato, malgrado sul suo viso permanesse quell’ombra di sorriso fisso che lo accompagnava sempre, in ogni momento, come un’abitudine.
- Non benissimo… - bisbigliò, stringendosi nelle spalle.
- Come? Che succede? – si allarmò lui sedendosi in punta alla poltrona, pronto ad alzarsi in caso fosse servito un suo intervento immediato – anche se non poteva immaginare per cosa.
- Ho… qualche problema di soldi…
Ed tirò un sospiro di sollievo.
- Oddio, mi hai fatto spaventare… non è un problema, dai, queste cose in qualche modo si risolvono…
- Nii-san…
- Dimmi tutto.
Al lo guardò fisso negli occhi, a lungo. Poi sospirò.
- Non sarei mai dovuto venire qui.
- Semmai, - disse Ed, corrugando le sopracciglia, - non saresti mai dovuto andare via.
- Sì, lo so. Ma dal momento che me ne sono andato, non sarei dovuto tornare.
Ed strinse le labbra. Era quello il momento per chiedergli tutte le spiegazioni che gli doveva. Avrebbe dovuto insistere per ottenerle.
Però lui non voleva davvero sapere.
Se ne rese conto guardando Al, contrito, che si faceva minuscolo su quella poltrona grandissima, così magro, così distante e quasi trasparente.
Ridotto così. Ridotto male.
Non voleva sapere da cosa. Era già abbastanza doloroso vedere che lo fosse.
- Nii-san, so che non ho alcun diritto di chiedertelo, ma se tu potessi prestarmi qualcosa…
- Ti ho già detto che non c’è problema, per questo.
Al annuì e si prese il suo tempo per pensare, stropicciando fra le dita l’orlo del vecchio maglione che indossava.
- Nii-san… anche per me sono cambiate molte cose, sai…?
Cercò di sorridere.
- Be’, tre anni sono lunghi, è normale…
- Quando me ne sono andato, - disse, osservandolo di sottecchi e fingendo di non farlo, - mi sono trovato nei guai. E purtroppo quando non hai un soldi e non sai dove andare non puoi fare tanto lo schizzinoso quando si parla di lavoro. Mi capisci, vero?
Annuì.
- E quindi quando mi hanno proposto di lavorare non ho potuto rifiutare, soprattutto perché assieme al lavoro mi hanno offerto anche un posto dove dormire. Mi capisci?
- Sì, sì, Al, ti capisco! Si può sapere che lavoro fai, alla fine?
- Vado… con gli uomini, nii-san. – disse in un sussurro.
- …cosa? – chiese Ed, incredulo, spalancando gli occhi.
- Vado con gli uomini, nii-san. – ripeté Al, più deciso, fissando il pavimento.
- …stai scherzando, Al?
Il ragazzo si limitò a scuotere il capo.
- Stai scherzando, Al?! – urlò lui, scattando in piedi.
- No! – gridò Al, seguendolo nel movimento, - Non scherzo! Mi prostituisco, hai capito?!
Cosa dire ancora?
Sconvolto, gli voltò le spalle e si diresse verso la porta.
- Nii-san… - provò a chiamarlo debolmente Al, ma Ed non lo sentì, o non lo volle sentire, girò la chiave nella toppa e uscì.
*

La tensione, a cena, era talmente densa che Winry pensò che se avesse tirato un coltello da un lato all’altro della stanza l’avrebbe vista squarciarsi. E forse sarebbe stato un bene. Forse, se avesse veramente tirato un coltello, sarebbe riuscita a scuotere l’assurdo silenzio che regnava indisturbato a quella tavola.
- Allora… come è andato il viaggio, Al? – chiese, cercando di fare un po’ di conversazione.
- Bene… - rispose lui, sbrigativamente, con un mezzo sorriso.
Il suo non era un obiettivo facile da raggiungere. Voleva parlare, sì, ma doveva stare attenta a evitare tutti gli argomenti scottanti – perché fosse andato via, perché fosse tornato proprio ora, perché Ed fosse così arrabbiato.
Il problema era che, tolti quelli, c’era ben poco di cui parlare.
Oh, insomma. Al diavolo.
- Ed. – disse, irritata, posando la forchetta sul tavolo poco delicatamente, - Non capisco perché fai così! Da quando ti sei seduto a tavola non hai spiccicato neanche una parola!
Ed non rispose. La cosa la fece infuriare.
- Non posso crederci! Quanto hai sperato che Al tornasse? E ora che finalmente è qui ti comporti così! Non me lo aspettavo, da te!
Ed scattò in piedi, tirando le posate per terra, facendo un fracasso infernale.
- Le cose non vanno sempre come ti aspetti, Winry! Io, per esempio, di certo non mi aspettavo che mio fratello piombasse in casa mia dopo tre anni e per prima cosa mi dicesse che gli servono soldi perché, evidentemente, prostituirsi non rende abbastanza!
Al e Winry si pietrificarono sulle loro sedie.
- Che hai detto...? – mormorò lei, sconvolta, fissando prima suo marito e poi Al, in cerca di una spiegazione, o meglio, di una smentita.
Ed sorrise sarcastico, incrociando le braccia sul petto.
- Più o meno è la stessa reazione che ho avuto io. La differenza è che con me il signorino si è perfino permesso di ripeterlo ad alta voce, guardandomi negli occhi, come se fosse una cosa di cui vantarsi!
La donna rimase immobile, le labbra dischiuse, alla disperata ricerca di qualcosa da dire per salvare la situazione.
Non trovò nulla.
Al si alzò lentamente in piedi, posando educatamente le posate sul piatto.
- Scusatemi. – bisbigliò, uscendo dal soggiorno.
Quando fu scomparso oltre la porta, Ed si lasciò ricadere sulla sedia, poggiando i gomiti sul tavolo e la testa fra le mani.
- E’… vero…? – chiese Winry, incerta, fissando un punto bianco e vuoto sulla tovaglia.
- Cosa vuoi che ne sappia… - sputò fuori lui, con rabbia, - E’ quello che mi ha detto.
- Potrebbe essere… una bugia, forse?
- Winry, che ragioni potrebbe avere per dire una bugia che ci fa incazzare?! Uno quando dice una bugia la dice per ottenere l’effetto contrario, o no?!
- Scusa, scusa, io non…
- Basta. Non ne voglio parlare.
Lei annuì e si alzò in piedi, per cominciare a sparecchiare. Tolse i piatti, buttò gli avanzi. Tornò da suo marito.
- Dovresti parlargli.
- Per dirgli che?
- Non lo so, Ed… - disse dolcemente, mettendogli una mano sulla spalla, - Qualcosa. Avanti, sai anche tu di doverlo fare.
Lui annuì, rimanendo silenzioso.
- Magari prova a convincerlo a rimanere.
Dio sapeva se avrebbe voluto riuscirci.
*

Fissò la porta con ostilità, come se fosse lei il suo nemico e non la paura che aveva di rivederlo dopo la scenata a tavola.
Era tardi. Molto. Saranno state le tre del mattino. Di sicuro Al dormiva profondamente, protetto dall’odore di bucato fresco delle lenzuola del suo letto degli ospiti, con un suo pigiama addosso, profumato del suo bagnoschiuma dopo aver fatto la doccia nel suo bagno.
Non gli sembrava abbastanza per poter dire che Al era tornato a casa. Neanche se stava lì, a due metri da lui. Al era altrove.
Bussò lievemente, sperando che nessuno rispondesse. E infatti nessuno rispose.
Fu tentato di fare dietro-front e tornarsene a dormire accanto alla rassicurante presenza addormentata di Winry, ma rimase immobile.
Insomma, era il fratello maggiore, infondo. Doveva pur fare qualcosa per quel disastrato di suo fratello minore.
Magari fosse stato semplice come sembrava.
Dischiuse la porta e fece capolino nella stanza, cercando di capire se Al stesse dormendo davvero o facesse solo finta.
Al giaceva disteso, gli occhi spalancati, il respiro regolare. Supino, fissava il soffitto, con le braccia incrociate dietro la nuca. Non mosse un muscolo quando lo sentì entrare.
- Al… - lo chiamò a bassa voce, avvicinandosi al letto.
- Non avresti dovuto dirlo a Winry.
Sospirò.
- E’ vero. Scusa. Ma ero arrabbiato…
- Anche io lo sono, adesso.
Si fermò, a due passi dal letto.
- Vuoi che vada via?
Al prese un respiro profondissimo e poi si mise seduto.
- No. – rispose, sorridendo tristemente, - E non mi risulta di avere mai voluto. – aggiunse, nostalgico.
Ed si sedette al suo fianco, accomodandosi fra le lenzuola.
- Nemmeno io ho mai voluto che andassi via. Tu, però, l’hai fatto lo stesso.
Al scrollò le spalle, come a dire “è passato, ormai, non ci possiamo fare niente”.
- Senti, nii-san, è da quando sono arrivato che me lo chiedo… ma zia Pinako…?
- Sì. – disse Ed, sbrigativamente, sospirando.
- Capisco… - sussurrò Al, - E…?
- Vecchiaia. È stato naturale, penso. Non ha sofferto. Almeno, così ha detto il medico.
Al annuì.
- E senti, nii-san, ma casa nostra…?
- Ah! – disse Ed, a disagio, - Dopo… dopo che sei andato via c’è stato un piccolo incidente, e…
Lui lo fissò sconvolto.
- …che tipo di incidente…?
- Ecco… è scoppiato un piccolo incendio…
Suo fratello lo scrutò, pensieroso. Poi sembrò realizzare.
- … l’hai bruciata…?
- Come?! Cosa ti viene in mente?! – protestò, agitato.
- …l’hai bruciata davvero!
Per qualche secondo, sul suo viso permase quell’espressione di smarrito sconcerto. Poi, si tramutò in una risata leggera. Che una mano pressata sulle labbra non riuscì a sopire.
- Non posso crederci! – singhiozzò, fra una risata e l’altra, piegandosi su sé stesso.
- Non l’ho bruciata, Al! Te l’ho detto, è stato un incidente!
- Sì, sì, certo… - sospirò l’altro, asciugandosi le lacrime dagli occhi, - Nii-san, non l’avresti mai lasciata, quella casa, se non fosse stata distrutta.
Ed si strinse nelle spalle.
- Avrei anche potuto farla abbattere. – obiettò, guardando altrove.
- Oh, non sarebbe stato abbastanza melodrammatico per te! – disse Al, ricominciando a ridere.
- Primo, non sono una persona melodrammatica! Secondo, smettila di ridere, lo sai che ore sono?!
Al si ricompose, tossicchiando lievemente e scuotendo la testa.
- Be’, sono le tre passate.
- Nii-san, dovresti dormire, adesso…
- Anche tu!
Al sorrise.
- Non ho molto sonno.
- Allora neanche io.
- Che significa?!
- Volevo parlarti, Al.
Suo fratello rimase in silenzio, appoggiandosi al muro.
- Al, perché non rimani…?
Scoppiò a ridere.
- Sono contento che lo trovi divertente. – si lagnò lui con una smorfia.
- Non lo trovo affatto divertente, nii-san. – disse Al, tornando serio, - Non posso rimanere.
- Perché?! – quasi gridò lui, avvicinandoglisi.
Al lo fissò, sinceramente stupito.
- Come, perché? Per lo stesso motivo per cui sono partito.
- Perché, ce n’è uno?
- ...ovvio che c’è, nii-san…
- Ovvio il cazzo, Al, ho passato gli ultimi tre anni a chiedermi quale fosse!
Suo fratello lo scrutò, incredulo. Gli si avvicinò. Gli sfiorò una guancia con due dita. Lo costrinse a guardarlo negli occhi.
- …davvero non ricordi…?
- …cosa dovrei ricordare…?
Cosa avrebbe dovuto ricordare?
Non certo il viso di Al così vicino, l’approssimarsi della sua bocca, quel tocco lieve, poi un po’ più deciso, la sua lingua bagnata a infiltrarsi fra le sue labbra, la sua mano lenta scivolargli sotto la maglietta e lasciarsi dietro una scia bollente al passaggio sulla sua pelle, non…
Si scansò, terrorizzato.
- Al, cosa… che stai facendo…?
Al sospirò e si rimise seduto.
- Hai dimenticato sul serio…
- No, non… non ho dimenticato questo… speravo solo che ti fosse passata… - mormorò confusamente, accorgendosi di stare tremando.
- Passata? – disse Al, sarcastico. Poi scosse il capo, - Ecco, diciamo che è per questo che non posso restare.

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OGGI.

Gli aveva messo i soldi in mano, il suo vecchio cappotto rosso sulle spalle e l’aveva lasciato andare via. Perché era quello che Al voleva. E perché era quello che lui stesso voleva, dal momento che l’aveva trovato spaventoso al punto di preferire continuare a preoccuparsi per lui senza vederlo, piuttosto che averlo così vicino e pericoloso, in casa sua, a pochi passi da lui.
Winry non aveva approvato. Lei avrebbe preferito averlo sempre sott’occhio. Gli aveva anche spiegato perché. “Ma non l’hai visto, Ed?”, gli aveva detto, dopo averlo osservato salutare suo fratello sulla soglia di casa, “Al è un bambino. Aveva lo sguardo di un bambino spaventato. Non importa se ha diciannove anni e si prostituisce, sembra non sia cresciuto mai. Come fai a non capirlo?”.
Eh, come faceva. Come faceva lei a non capire che per lui era difficile? Che faticava? Non riusciva neanche a immaginarselo, in quel tipo di situazioni. Al fra le braccia di qualcuno che non era lui? Al a letto con qualcuno che non era lui? A lasciarsi stringere, e toccare, e sfiorare? Le braccia di un altro, le dita di un altro, qualcuno che lo scopriva, lo assaggiava, se lo mangiava tutto, e quel qualcuno non era lui?
No, non poteva capirlo. Non poteva capire perché avesse lasciato la sicurezza della loro casa, non poteva capire perché avesse lasciato lui, per gettarsi a capofitto in una vita insicura e pericolosa, e non poteva capire perché non fosse tornato immediatamente quando le cose avevano cominciato a mettersi male.
Però poteva capire che, per come stavano le cose allora, una convivenza era improponibile.
Perciò l’aveva lasciato andare. Sperando che all’ultimo momento lui cambiasse idea e decidesse di restare, contraddicendolo, imponendogli la sua presenza, dimostrandogli che la convivenza era giusta, no, necessaria.
Ma niente.
All’inizio, aveva sperato che tornasse presto, nel giro di un mese o due. Quando fu passato un anno, sperò che tornasse almeno una volta ogni tre, ciclicamente, come certe perturbazioni atmosferiche. Ma poi i tre anni passarono, un migliaio di giorni, uno dopo l’altro, infiniti e spossanti. E lui aveva cominciato ad arrendersi.
Cinque anni sono milleottocentoventicinque giorni. Ed ne sentiva la pesantezza come se non avesse fatto altro che contarli. Eppure non era così. Eppure era stato felice, con Winry. Niente figli per consolarlo, vero, ma felice lo stesso.
Ma avrebbe dovuto capirlo prima; così come aveva capito che per lui e Al non c’era speranza di essere felici insieme – sì, “felici insieme”, neanche fossero in un dannato Harmony – allo stesso modo avrebbe dovuto capire che non c’era speranza di sopravvivere separati.
Ogni giorno, a causa della normale tendenza a decomporsi del corpo umano, perdeva cellule, capelli, giorni di vita. E a cause dell’assenza di Al perdeva pezzi d’anima, pezzi di sé stesso. Pezzi del bambino e del ragazzo che era stato, pezzi dell’uomo che era o che avrebbe potuto essere.
Non faceva che pregare per il suo ritorno.
*

Odiava stare solo a casa, principalmente perché ricordava bene che, nonostante la tristezza ovattasse i suoni, quando viveva con Al c’era sempre uno scalpiccio di piedi per terra, o il rumore di un lamento, o dell’acqua che scorreva, insomma, un suono qualsiasi che riempisse l’aria, facendolo sentire meno abbandonato anche quando non si vedevano o non parlavano. Invece, nel silenzio della casa vuota che abitava quando Winry era fuori per una commissione o per fare la spesa, i suoi passi rimbombavano, ed erano solo suoi. Ogni eco gli ricordava che non c’era nessuno a tenergli compagnia.
D’altronde, odiava anche di più andare al supermercato con Winry. Lei era sempre così… entusiasta. Cercava di coinvolgerlo nelle scelte, gli chiedeva cosa desiderasse per cena, se preferisse un determinato tipo di pasta rispetto a un altro. Non lo infastidiva sentirla parlare, lo infastidiva trovare poco interessante ciò che diceva e, per questo, rispondere freddamente. Intuiva che la cosa la faceva star male, e gli dispiaceva, ecco tutto.
Ma non riusciva, davvero, a provare interesse per nient’altro che non fosse chiedersi dove Al fosse, come si sentisse, cosa stesse facendo.
Quando stava seduto in poltrona, immobile e silenzioso, e i pensieri di Al gl’invadevano il cervello, almeno smetteva di sentirsi isolato.
Sospirò.
Be’, serviva a poco, infondo.
Bussarono alla porta. Ed gioì. Finalmente Winry era tornata a casa. Quasi non vedeva l’ora di aiutarla con la spesa e ascoltare le storie stupide dei litigi che frequentemente aveva con le vecchiette che la sorpassavano in fila.
Aprì la porta.
Si trovò davanti un gigante biondo, pallido e con gli occhi azzurri.
E non era Winry.
- …sì?
Il ragazzo sembrava confuso. Si guardò alle spalle.
- Al, vieni fuori, dai… - mormorò, rivolto a qualcuno nascosto dietro di lui.
Una risatina.
E poi Al venne fuori.
Sorrideva sereno, anche se era magrissimo e più sciupato che mai. Ancora avvolto nel suo cappotto rosso, ormai ridotto come una pezza vecchia, i capelli raccolti in una lunga coda dietro la testa, teneva le braccia incrociate dietro la schiena e lo guardava con occhi divertiti e lucenti, da bambino che gioca.
- Ciao, nii-san. – disse, facendo un passo in avanti e baciandolo su una guancia.
Basito, lui rimase immobile.
- Al… - mormorò, confuso, facendo vagare lo sguardo da suo fratello al suo misterioso accompagnatore.
Al rise.
- Stupito?
Quell’allegria era terribile. Non era come se fosse appena tornato da una vacanza! Non lo capiva?
- Possiamo entrare? – chiese suo fratello avanzando ancora.
Lui annuì, ancora perplesso, no, ancora sconvolto, ecco, sì, era sconvolto dall’averlo rivisto, e si scostò dalla porta per farli passare. Il ragazzo biondo, entrando, chiese permesso.
- Sei solo? – chiese invece Al, guardandosi intorno.
Lui annuì ancora.
Al sorrise. Un sorriso diverso dai precedenti. Gli saltò al collo.
- Nii-san! Non vedevo l’ora di rivederti!
Era ancora così frastornato che non ricambiò nemmeno l’abbraccio.
- Al, ma…
- Dopo, dopo. Hai qualcosa da mangiare? – gli chiese, scostandosi, - Heide, tu hai fame? – domandò, rivolgendosi all’altro.
- Scusa, Al, ma…
- Hai ragione, almeno le presentazioni devo farle. Heide, lui è mio fratello Edward. Nii-san, questo è Alphonse Heiderich.
Alphonse?
- E’ il mio ragazzo.
Ah.
*

Dal momento che la confusione regnava ancora sovrana nel suo cervello, lasciò che Winry conducesse le danze, obbligandola a uscire in fretta e furia dallo stato di shock in cui era entrata nel vedere un Al matematicamente ventiquattrenne e fisicamente diciottenne sdraiato sul divano fra le braccia di… un altro Al, apparentemente, più alto, più biondo, non proprio uguale, ma somigliante più di suo fratello, che rideva e scherzava come fosse di casa, come fosse un’abitudine.
- Ok. – disse la donna, osservando suo marito abbandonato sulla poltrona e i due ragazzi ancora aggrovigliati sul divano, - Scioglietevi.
Al la guardò per qualche secondo, prima di scoppiare a ridere e ubbidire.
- Tu sei…?
- Alphonse…
- Anche tu?!
Al sembrava trovare il tutto molto più che divertente.
- Alphonse Heiderich… chiedo scusa…
- Non scusarti del tuo nome, santo cielo… - sospirò Winry, mettendo una mano sul fianco, - Edward, si può sapere cosa diavolo sta succedendo qui?
Lui alzò le braccia al cielo, sconfitto.
- Non chiedermelo. Ci hanno invaso.
Winry annuì.
- Ok. – ripeté, sedendosi a sua volta, - Cominciamo dall’inizio. Al, chi è questo ragazzo?
- E’ il suo ragazzo. – mormorò Ed col tono di chi dice un’ovvietà ma non riesce a capacitarsene.
- Il tuo ragazzo?
Al annuì, sempre sorridendo.
- Ah. Capisco. E… come… dico, come vi siete conosciuti?
- E’ un collega. – rispose il ragazzo con naturalezza.
- Al! – si lamentò Heiderich, - Avevi detto che potevamo parlarne solo con tuo fratello!
- Ma lei sa tutto… - disse Al, scrollando le spalle, - E’ stato mio fratello a dirglielo. L’ultima volta che sono stato qui.
- Va bene, va bene. – si intromise Winry, agitando una mano, - Non perdiamo il filo del discorso. Al cos’è successo?
- Una bella cosa.
Sia Winry che Ed trovarono molto più intelligente tacere e aspettare che fosse lui ad aggiungere qualcosa, piuttosto che domandare ancora, dal momento che Al, con quel sorriso bambino in volto, sembrava divertirsi parecchio a creare suspense intorno alle sue rivelazioni.
- Ho deciso di lasciare il… lavoro di cui vi ho parlato quando sono venuto qui la prima volta. E ho convinto Heide a venire qui con me. – concluse infine il ragazzo, sorridendo trionfante.
Be’, era davvero una bella notizia, infondo.
A parte l’implicazione Heide.
Sapeva quanto stupido fosse, ma non poteva fare a meno di essere geloso. Ancora più di quanto non fosse stato immaginandolo fra braccia sconosciute. Adesso che sapeva a chi erano davvero appartenute quelle braccia, adesso che vedeva in faccia la persona a cui probabilmente suo fratello pensava mentre cercava di non sentire i movimenti e le parole degli sconosciuti che se lo portavano a letto, adesso che sapeva che, mentre lui era rimasto impantanato nella cosa che provava per lui, suo fratello era andato avanti, s’era innamorato e tutto, adesso stava male. E il male dei cinque anni precedenti era semplicemente niente, a confronto.
Winry annuiva, l’espressione del volto combattuta fra l’essere semplicemente felice o ancora un po’ dubbiosa e stupita.
- Ok, quindi immagino vi servirà un posto dove stare, no…?
- Logicamente.
- Mh. Sì, penso… Ed, dì qualcosa, santo cielo!
- Uh? Ah, sì… cioè, c’è la stanza degli ospiti, quella dove hai dormito l’ultima volta… insomma, il letto è singolo, ma – avrebbe voluto prendersi a testate da solo – immagino non avrete problemi.
Al sorrise. Ed trovò quel sorriso crudele. Si alzò in piedi.
- Bene. Se è tutto qui… penso che andrò di là…
Alphonse lo seguì nel movimento, lasciando repentinamente la mano di Heiderich – che fino a quel momento aveva stretto con fastidiosa tenerezza.
- Aspetta, nii-san! Vengo con te!
- N-Non c’è bisogno… - disse lui, stringendosi nelle spalle, - Non sto uscendo, vado nello studio…
- No, davvero, vorrei…
- Al, sono un uomo adulto, sai? Posso anche arrivarci da solo!
Non lo voleva intorno, non voleva, non voleva e non voleva, ecco.
- Nii-san… volevo parlarti…
Oddio.
Perché non poteva semplicemente dirgli “sì, Al, certo che puoi venire con me”?
Scosse le spalle e si allontanò verso lo studio, sforzandosi di non guardare indietro per vedere se suo fratello lo stesse seguendo. Grazie a Dio, lui lo stava seguendo comunque.
*

Al, seduto sul bracciolo della poltrona di fronte alla scrivania, faceva dondolare le gambe, sorridendo come davanti a un regalo di Natale. Lui, pur di non guardare quell’espressione assurda, s’era seppellito fra le pagine del giornale del giorno prima, sperando che suo fratello non si accorgesse che era solo una scusa.
Ma evidentemente Al non aveva bisogno di accorgersene, per sentirsi autorizzato a interromperlo.
- Nii-san, ti sono mancato?
Mancato?
La risposta esatta sarebbe stata gettarsi ai suoi piedi, piangendo disperatamente e gridandogli addosso, “Mancato? Mancato, Al? Credi di essermi mancato?”.
Sollevò appena lo sguardo dalle notizie sportive.
- Certo, Al.
Al annuì, digerendo l’informazione come se avesse appena sentito le previsioni meteorologiche.
- E Heide ti piace?
- Perché lo chiami per cognome? Si chiama Alphonse, no…?
Suo fratello rise.
- “Heide” non è il suo “cognome”. Il suo cognome è Heiderich. Heide è un soprannome.
- Sì, va be’, Al, se io ti chiamassi “El” sarebbe comunque un pezzo del tuo cognome, o no…?
- Scusa, - lo interruppe Al, ancora ridendo, - perché fai storie sul soprannome che ho affibbiato al mio ragazzo?
Già, perché faceva storie bla bla bla?
Santo cielo.
Scrollò le spalle e continuò a leggere cose di cui non gli importava un fico secco, quando l’unica cosa che gli sarebbe interessato vedere era a due metri da lui.
Edward Elric, tu sei un uomo senza palle.
- Non ti dà fastidio se rimaniamo qui per un po’, vero?
Gli avrebbe dato meno fastidio se, una buona volta, lui avesse deciso di rimanere per sempre. Heiderich o non Heiderich.
- Certo che no.
Al fece dondolare i piedi ancora un po’. Poi si alzò e gli andò vicino, strappandogli repentinamente il giornale dalle mani. Senza difese, Ed non poté che guardarlo e deglutire, sperando che tutto andasse per il meglio e che il suo corpo non cedesse a nessuno dei suggerimenti del suo cervello, che andavano dal prenderlo a sberle al saltargli addosso.
- Nii-san, tu mi sei mancato.
Ed annuì.
- Ma non mi sei mancato tipo “Certo, nii-san”. Mi sei mancato tipo “Ho avuto paura di non potere più riuscire a vivere senza di te, nii-san”.
Imbarazzato, distolse lo sguardo.
- Poi sono io quello melodrammatico…
Alphonse rise.
- Be’, lo sei. Ma questo non vuol dire che non possa esserlo anche io. Insomma, guardami! – disse, stringendosi nelle spalle, - Porto ancora questo cappotto nonostante faccia schifo e nonostante Heide mi abbia offerto circa duemila volte di prendere una delle sue giacche.
Sorrise. Dopotutto, c’era ancora qualcosa sulla quale poteva battere Heiderich.
…decise di smettere di pensare, quando si rese conto dell’idiozia che motivava la sua gioia.
Sospirò, guardando per terra, incapace di reggere lo sguardo gioioso di suo fratello per un secondo di più.
Al si chinò davanti a lui, guardandolo dal basso.
- Nii-san… - lo chiamò, sollevando un braccio e sfiorandogli una guancia, - Posso baciarti?
Cristo, fa’ quello che vuoi.
Scattò in piedi, terrorizzato dall’audacia di suo fratello e dall’arrendevolezza dei suoi pensieri.
- Che cazzo dici?!
Al ridacchiò, alzandosi a sua volta.
- Sapevo che avresti risposto così. – mormorò con tono quasi canzonatorio, voltandosi per uscire dallo studio.
- Al… - lo chiamò lui, agitato.
Suo fratello si voltò a guardarlo.
Smettidisorridere, smettidisorridere, smettismettismetti…
- Al, io…
Ti prego, dì qualcosa…
- Voglio dire…
Merda, merda, merda…
- Nii-san.
Sollevò lo sguardo. Alphonse lo guardava, serio, una punta di tristezza negli occhi. Gli si avvicinò, mentre lui sentiva le gambe paralizzate e incollate al terreno.
- Te lo chiederò di nuovo. E stavolta cerca di rispondermi quello che vuoi veramente. O non rispondere affatto.
Il mondo prese a girare troppo velocemente.
Alphonse gli chiese di nuovo se potesse baciarlo.
Lui non disse una parola.
*

Quando mai la notte gli era sembrata così lunga e pesante da sopportare?
Winry giaceva esausta al suo fianco, cercando di riportare il respiro a un ritmo normale. La sua pelle bianca splendeva d’azzurro nella luce della luna, lucida di sudore e ancora calda d’amore. Sorrideva soddisfatta, i capelli sparsi ovunque sul cuscino, le lenzuola perse da qualche parte ai piedi del letto.
Sì, Winry, era tanto che non lo facevamo così.
Così tanto che sicuramente a lei era dovuto sembrare come qualcosa di completamente nuovo. Più o meno quanto a lui sembrasse nuovo e inedito fare del sesso non per particolare voglia, non per dare corpo a una fantasia, ma solo per passare il tempo. Perché aveva sonno e non riusciva a dormire, e quella nottata in qualche modo doveva passare, doveva scivolare via, perché lui non potesse più sentirne gravare la massa ingombrante sulle spalle.
S’era lasciato baciare da suo fratello.
Aveva baciato Al.
Perché continuava a sembrargli così spaventoso ma non riusciva a trovarci niente di assurdo?
Si sollevò lentamente a sedere. Winry mugugnò qualcosa, ancora distesa, il volto già mezzo nascosto dai cuscini.
- Vado a bere. – disse lui, a bassa voce, - Tu dormi, non preoccuparti.
- Mh… - fece lei, sistemandosi meglio fra le lenzuola che aveva recuperato e affondando del tutto fra le braccia di Morfeo.
Quando uscì dalla sua stanza, con solo un paio di calzoncini addosso, si accorse con sgomento che non sapeva per quale diavolo di motivo si trovasse lì. Non aveva sete, non aveva neanche voglia di muoversi, era stanco e non voleva intrattenersi con niente, avrebbe solo voluto dormire. Perché, perché s’era alzato?
Si diresse lentamente verso lo studio, affacciandosi al balcone che, dalla stanza, dava sulla strada deserta.
Lì si stava bene.
- Ah… scusa… cercavo il bagno e invece sono finito qui, e quando ho visto il balcone aperto…
Si voltò.
Heiderich, maglietta e pantaloncini di Al – gli stavano stretti – lo guardava, con un sorriso di scuse aperto sul viso.
- Non volevo disturbarti.
Era infastidito dalla sua presenza, ma non poteva dire di provare odio nei suoi confronti.
Sorrise lievemente.
- Non mi disturbi.
La cosa sembrò incoraggiarlo. Heiderich si mise al suo fianco, appoggiando le mani sulla ringhiera, ma al contrario di lui, invece di guardare per strada, aveva subito alzato gli occhi al cielo, in cerca delle stelle.
Ok, doveva essere un animo romantico.
Era quello che aveva attratto tanto suo fratello?
- Sai, io e Al non stiamo insieme.
E se gli avesse lanciato una bomba dritta sulla testa l’avrebbe tramortito di meno.
- Voglio dire, è lui che mi ha detto di reggergli il gioco. Però senti, lui mi ha raccontato tanto… anche se non mi ha detto proprio tutto… e io ho capito perché mi ha detto di farlo.
…quanto diavolo sapeva quel ragazzo di loro due? Quanto diavolo gli aveva detto Al, di quanti segreti era stato custode, in tutti quegli anni? Quante confessioni, quante nostalgie, di quante e quali voglie Al l’aveva reso partecipe?
D’improvviso, Ed capì che se era così arrabbiato, se si sentiva così tradito, non era solo perché suo fratello era stato di qualcun altro invece che solo suo, ma soprattutto perché aveva permesso a un completo estraneo di frapporsi fra loro due, di sapere tutto, di guardarli e pensare “io so cosa c’è dietro”. Quando avrebbe dovuto essere un segreto. Quando avrebbe dovuto essere solo loro. Quando avrebbe dovuto essere l’unica cosa che li tenesse uniti per sempre, fino alla fine, nonostante gli anni e le distanze.
- Comunque tuo fratello non è un tipo facile con cui trattare.
- Già… - mugugnò, ancora frastornato dal flusso dei suoi pensieri.
- Anche se capisco perché sei così attaccato a lui. – mh? Perché, si nota? - È semplicemente impossibile non provare il desiderio di prendersene cura.
Io non voglio prendermene cura. Non ho mai desiderato cose che, direttamente o indirettamente, non finissero per fargli male.
Questo non è prendersi cura delle persone, ingenuo di un Heiderich. Se sai un terzo di quello che succede fra noi, dovresti capirlo.

- Lui dice che gli somiglio, ma in realtà siamo molto differenti l’uno dall’altro. Per esempio, - disse, con una lieve risata, - lui è alto, ma io lo sono molto di più!
Ed sollevò lo sguardo.
In realtà si somigliavano. Davvero. E davvero tanto.
Sì, c’erano quei piccoli particolari che avrebbero reso impossibile confonderli, ma il quadro generale era quasi spaventosamente somigliante.
Gli fece impressione che potesse esistere un essere umano così simile a suo fratello – senza essere lui.
Sospirò profondamente.
- Scusa. Ti infastidisco?
- Eh?
- Hai sbuffato…
- Ah… no, stavo pensando a cose mie…
- Mmmh, capisco…
Santo cielo, lo odiava.
- Adesso sarà meglio che torni a dormire. – disse, cercando di frenare l’astio e l’impazienza nella voce.
Heiderich sorrise.
- Io invece penso che rimarrò un altro poco qui.
- …non faresti meglio a tornare da Al?
Lui scosse decisamente il capo.
- Al di notte fa paura. Sembra un indemoniato. – si giustificò, arrossendo violentemente.
Come diavolo fa ad arrossire così, uno che fino a ieri si prostituiva?
Scrollò le spalle.
- Come vuoi. Buonanotte.
Heiderich sorrise, salutandolo con una mano mentre rientrava in casa e fuggiva al sicuro fra le coperte.
*

In realtà non sapeva proprio cosa pensare. Era successo tutto troppo in fretta. Il giorno prima si struggeva perché non vedeva suo fratello da cinque anni, il giorno dopo eccolo lì, a colazione, a malsopportare il chiacchiericcio confuso e assonnato del primo mattino fra piatti e posate che si agitavano e tintinnavano fra loro.
Tutti sembravano felici e contenti.
Al non aveva mai abbandonato il sorriso giocoso con cui l’aveva visto arrivare il giorno prima, Heiderich continuava a seminare in giro quei sorrisi imbarazzati e colmi di scuse che gli ricordavano tanto suo fratello quando era venuto a trovare lui e Winry per la prima volta.
Ma la più felice di tutti era Winry. Winry era pervasa dall’entusiasmo. Si affaccendava, discreta e leggera come una farfalla, fra frittelle, pane tostato e marmellate varie, sistemando tovaglioli, tazze colme di latte e vassoi di biscotti come fosse nata esclusivamente per servire la colazione.
Si vedeva che la presenza di Al la mandava su di giri. Si vedeva che saperlo felicemente legato a qualcuno la rassicurava. Si vedeva che, quando guardava quell’accozzaglia di casi umani impegnati a imburrare il pane, il miraggio della famiglia perfetta che aveva sempre desiderato prendeva corpo, riempiendola di forza e speranza.
Winry stonava fra loro. Era troppo positiva per non sembrare fuori posto.
Anche Heiderich stonava, a suo modo. Solo che lui aveva quel tipo di personalità multiforme e sfuggente che lo faceva sembrare perfettamente a suo agio in ogni situazione, perfino nelle più imbarazzanti, perfino quando il tuo migliore amico dal cervello un po’ fuso ti costringe a fuggire in piena notte dal tuo scomodo giaciglio, rischiando di essere acciuffato e condannato immediatamente se non a morte comunque a qualcosa di molto doloroso, per il solo fatto di aver provato a scappare.
Subito dopo colazione, Alphonse insistette per raccontare a Ed e Winry cosa gli fosse successo in quegli ultimi cinque anni.
Dopo essere ripartito, era tornato dal suo capo, il signor Archer, per riportargli i soldi che gli doveva; dopodichè, aveva ripreso a lavorare normalmente. Qualche giorno dopo, era arrivato Heiderich – occhiata tenera, Al, puoi smetterla, so tutto – ed erano subito diventati molto amici, soprattutto perché Al aveva trovato incredibilmente divertente la loro somiglianza.
Avevano preso a lavorare più che altro insieme, facevano buoni guadagni, il signor Archer era addirittura entusiasta dell’idea.
Al aveva cominciato a risparmiare qualche soldo. Mangiava meno per conservare parte del suo compenso quotidiano. Quando Heide, spaventato dal suo continuo dimagrire, gli aveva chiesto cosa diavolo stesse facendo, lui aveva spiegato che si stava preparando a scappare. Che i soldi erano per il biglietto del treno. Che sapeva già dove andare per trovare aiuto. E gli aveva chiesto se per caso non desiderasse farsi coinvolgere in quel piccolo progetto.
Perché diavolo hai accettato, Heiderich? Perché non hai capito in tempo che quel ragazzino sorridente era solo un mucchio di guai travestito da fratellino innamorato?
Heiderich aveva accettato semplicemente perché aveva realizzato che Al, con o senza di lui, sarebbe scappato comunque. E non gli piaceva l’idea di saperlo da solo a viaggiare per l’Europa in cerca del suo buon fratello lontano.
Il racconto spossò Edward più del narratore che, entusiasta, continuava a divorare frittelle come se la colazione non si fosse già conclusa per tutti gli altri da più di mezz’ora.
No, non era bello riaverlo in casa. Non era bello per niente.
Era stressante, era doloroso, e lui era un dannatissimo diavolo tentatore, e quanto se ne sentisse attratto non riusciva a capirlo più neanche lui, e passava le ore, i giorni a guardarlo senza volerlo guardare, sperando che se ne andasse, e che restasse, e tutto insieme.
Alphonse passava le giornate a seguire suo fratello. Era la sua ombra, era un pezzo del suo corpo. Dovunque fosse Ed si sentiva il chiacchiericcio incessante del suo fratellino che narrava pezzi della sua vita lontana, facendolo impazzire di rabbia e frustrazione senza neanche accorgersene, o chissà, magari accorgendosene e infischiandosene bellamente, o ancora, addirittura, assaporando ogni segnale di quella furia con golosità e piacere.
Heiderich, a sua volta, imbarazzato e a disagio nelle vesti di parassita e intruso in casa Elric, seguiva Al come un cagnolino fedele, sperando che la sua vicinanza lo facesse sentire meno fuori posto di quanto fosse.
E fu così che, poco a poco, Ed cominciò ad abituarsi alla loro presenza.
E ai gesti teneri, e ai sorrisi consapevoli e vittoriosi, di chi dice vedi? Ce l’abbiamo fatta!, di chi non ha mai creduto che una torta a dieci strati ricoperta di cioccolato e panna potesse esistere, e ora ce l’ha proprio davanti agli occhi, e gli sembra tanto bella che ha quasi paura di allungare una mano e strapparne un pezzo per mangiarla, finalmente, dopo tanto penare.
E poi, ancora più lentamente, quella realtà cominciò a farsi anche un po’ sua. Partecipava dei sorrisi, partecipava degli sguardi trionfanti. Era la conferma di tutto quel gioire. La sua vicinanza rappresentava tutti i chilometri che li separavano da Archer, e dall’appartamento disastrato, e dalle cuccette puzzolenti, e dall’odore di uomo eccitato e smanioso, e dalle macchie giallastre sulle lenzuola, e da tutte quelle altre cose odiose e terribili che avevano fatto loro compagnia in tutti quegli anni.
Edward era il loro premio. Era il loro traguardo. Era il fulcro della loro esistenza, la ragione della loro vita.
E a Edward piaceva da morire.
*

Heiderich non era bellissimo.
Non era bello neanche la metà di Al, comunque.
Al, con tutta la sua esasperante magrezza, e i suoi lunghi capelli lisci e lucenti. Al, con gli occhi ambrati e il sorriso vispo perennemente sulle labbra. Al, con tutti i suoi modi da lolita giocosa, e gli sguardi accattivanti, e le labbra che chiedevano un assaggio ogni volta che si schiudevano.
Al, con tutta la sua sinfonia di "posso, nii-san?" e di bacetti segreti e intimissime tenerezze, quando erano soli, schiacciati contro il muro, terrorizzati a morte che qualcuno potesse vederli, che Winry potesse sospettare qualcosa, che il fantasma di zia Pinako o della loro mamma potesse guardarli a qualche metro da loro, o che le loro anime potessero spiarli dal Paradiso e disapprovarli con disgusto, o che Heiderich si lasciasse sfuggire qualcosa, magari in una battuta che credeva divertente e innocua, o che il danno potessero farlo loro stessi, abbandonandosi senza troppi pensieri davanti a chi non avrebbe mai dovuto vederli.
Al, sempre bravo a sfiorarlo, sempre bravo a stringerlo, sempre bravo ad aderire, sempre così a suo agio, sempre così dannatamente irresistibile, e piccolo, e spaventoso, e fragile, e fortissimo nel trascinarselo in mezzo al cespuglio di rovi che era diventata la loro relazione, mai disperata come allora, eppure mai così semplice.
E lineare.
E sicura.
Protettiva.
Per quanto pericolosa.
Mai, mai, mai come allora così sentita.

E allora com’è che hai cominciato a fuggire dal tuo amato fratello, Edward? Com’è che ti senti tanto attratto da Heiderich, così all'improvviso?
Non si somigliano, lui e Al. Neanche un po’. Non davvero.
E lo sai.
E hai cercato di convincerti in ogni dannatissimo modo che fossero identici, cerchi di convincertene ogni volta che lo vedi, ogni volta che immagini, ma dì, Ed, quanto ti attraggono quelle minuscole differenze? Quanto ti eccita il suo biondo troppo chiaro, e il suo azzurro troppo limpido? E quanto, esattamente, ti fa diventare matto il biancore abbagliante della sua pelle di nordico? Quanto invidi, e ammiri, e desideri quelle spalle larghe, quel torace ampio, quelle grandi mani? Quella mascella squadrata ed elegante, quella durezza dei lineamenti, quell’altezza spaventosa?
Quando hai preso a sentirne il bisogno, e perché?
Quanto ti sembrano importanti quelle piccole prove fisiche che, sommate, ti ricordano con violenza che l’hai trovato, l’uomo perfetto, il tuo perfetto fratello senza legami di sangue, il tuo perfetto fratello senza quella vena di follia e incostanza che pure tanto ti piace in Al, il fratello perfetto da amare, e toccare, e scopare senza rimpianti?


- Ed!
Sollevò lo sguardo.
Sua moglie lo fissava, inorridita.
- Non hai sentito una parola di quello che ti ho detto! – sbottò, infastidita, incrociando le braccia sul petto, - A cosa diavolo stai pensando…?
Si portò una mano alla testa, sbuffando.
- Niente… non mi sento molto bene…
Con la coda dell’occhio, osservò lo sguardo di Winry mutare da furioso a preoccupato.
- Oh, scusa! Non me l’avevi detto, come potevo saperlo? - gli chiese, chinandosi su di lui e poggiandogli una mano sulla spalla, - Cos'hai?
Scrollò le spalle.
- Mal di testa? - suggerì lei, premurosa.
- Mmmhsì... e un po' di nausea...
Winry annuì.
- Forse ti sta venendo un po' d'influenza... - suppose, aiutandolo ad alzarsi, - E' meglio se ti metti un po' a letto. Io prendo il termometro...
- Non mi sento la febbre, Winry...
- Be', fino a poco fa non avresti neanche saputo dire cosa avessi, quindi scusa se non mi fido delle tue capacità di analisi...
Ridacchiò, seguendola nel suo sorriso ironico e annuendo, cominciando a dirigersi verso la camera da letto.
Cristo santo.
Non stava male, accidenti a lui!
Però, forse, dormire gli avrebbe fatto bene comunque.
In quel momento, Al e Heide rientrarono dallo shopping; un nuovo, coloratissimo maglione faceva sfoggio di sé sotto il vecchio cappotto rosso. Edward era ancora nel mezzo del corridoio, che arrancava stancamente verso la sua stanza. Winry apparve dal bagno, agitando il termometro per riportare il mercurio allo zero.
- Oh, siete tornati! Al, che bel maglione! - commentò, entusiasta.
- L'ha scelto Heide per me. - sorrise Al, socchiudendo gli occhi.
- Sì, però la prossima volta lascia che Heide scelga per te anche un nuovo cappotto, santo cielo, posso capire l'affetto fraterno, ma ti prenderai un malanno anche tu se continui a girare così...
- Perché "anche" io?
Winry sbuffò, raggiungendo Ed, ancora immobile in piedi.
- Credo che a Ed stia venendo l'influenza... non si sente bene...
Gli occhi di Al presero a brillare.
- ...posso accudirlo io? - chiese, titubante, tutto proteso in avanti, in preghiera.
- Cosa? - scoppiò a ridere Winry, stringendo il termometro perché non le cadesse per terra.
- E' una cosa che ho sempre sognato di fare... - si giustificò Al, imbarazzato, - Accudire un ammalato, intendo. Sai, pezze bagnate sulla testa e brodini caldi e tutto...
- Al, hai letto troppi manga... - ridacchiò Heiderich al suo fianco, stringendosi nelle spalle.
- Be', per le pezze bagnate magari sì... - commentò Winry, facendosi pensosa, - Ma per i brodini caldi ha ragione. Ed, va bene se Al ti fa un po' di brodo e te lo porta a letto?
- ...perché parlate come se fosse già certo che ho la febbre...?
C'erano anche momenti come quelli, fortunatamente, una volta ogni tanto.
Finì che fu costretto a mettersi a letto e subire le torture di suo fratello che lo imboccava con giganteschi cucchiai di brodo bollente troppo salato e gli inondava la faccia con le goccioline d'acqua ghiacciata che cadevano dalla pezza che aveva dimenticato di strizzare.
Quando ebbe finito di mangiare, Al gli rimboccò le coperte e poi gli si inginocchiò accanto, poggiandogli premurosamente una mano sulla fronte.
- Sai, nii-san? Non credo che tu abbia veramente la febbre...
- E' quello che cerco di dire da almeno due ore. - rispose, scorbutico, sbuffando.
Al sorrise, posando il capo sul cuscino accanto a lui, e guardandolo con devozione.
- Che c'è? - chiese, imbarazzato, voltando lo sguardo altrove.
Suo fratello lo costrinse a guardarlo ancora, catturandogli il viso fra le mani.
- Ti risulta così difficile fissare lo sguardo su di me, una volta ogni tanto? - sbuffò, offeso, avvicinandoglisi.
- Non mi risulta affatto difficile. - rispose lui, sgarbatamente.
- Mmmh... - mormorò Al socchiudendo gli occhi e sollevandosi fino a distendersi al suo fianco, - Sei un bugiardo, nii-san.
E tu sei troppo vicino, Al...
Come leggendogli nel pensiero, suo fratello sorrise maliziosamente e gli si strinse contro.
- Nii-san, posso baciarti?
- Perché non la smetti di chiedermelo?!
Al scosse il capo.
- Non intendo darti nessun altro appiglio per prendertela con me.
Sbuffando, si voltò dall'altro lato, dandogli le spalle.
- Be'? - chiese Al, un po' stupito, cercando di farlo girare nuovamente, ma senza riuscirci, - Sei offeso?
- Sì. Come puoi pensare che potrei prendermela con te per questo, Al?
Il ragazzo scoppiò a ridere.
- Che idea angelicata hai di te stesso, nii-san? Tu te la stai già prendendo con me, da quando sono arrivato.
Si voltò, tornando a guardarlo.
- Io non... non ce l'ho con te. Se è questo che pensi, sbagli.
- Magari invece non sbaglio. Magari è quello che dimostri. Magari è quello che arriva a me.
- ...
- Nii-san, quello che c'è nella tua testa lo sai solo tu. Perché non parli mai con nessuno. Quello che c'è nella mia testa, invece, lo sai. Perché sono anni che te lo ripeto in tutti i modi.
- Non è vero che so quello che c'è nella tua testa, Al... non so com'è cominciata questa cosa dentro di te, non so cosa provi, non capisco cosa senti per Heiderich, non capisco cosa intendi fare di noi, non so...
- Sai che ti amo. Quindi sai l'unica cosa essenziale.
Basito, rimase ad osservarlo.

Sei sicuro, Al? Sei sicuro di volerlo dire ad alta voce?

Un tocco lieve, alla base del collo. Poi più in basso, sul primo bottone della camicia del pigiama. Una pressione veloce, e il bottone non c'è più, e al suo posto compaiono le labbra di Al, avide, gentili, morbide.


- Al... no...

I bottoni scompaiono, uno dietro l'altro, e le labbra di Al si schiudono, fanno spazio alla lingua, la lingua che scorre, la lingua che scende, centimetri di pelle bagnata.
Una mano corre già ai pantaloni, fulminea. Una mano che tocca, prima timida, poi sempre più sicura, attraversa i vestiti, si ferma sulla pelle, scivola in basso, poi verso l'alto, e giù, e su, e ancora, è Al che gioca, è Al che geme, strusciandotisi contro, è Al che fa il suo mestiere...
...e lì lo fermi.
Perché lo vuoi disperatamente, e disperatamente non vuoi concedertelo, e t'infastidisce, anzi, averlo lasciato fare fino a quel momento.
Tuo fratello ti guarda, rosso in viso. Tuo fratello non ti dice niente, ma ti sta odiando. Ti sta odiando, e potrebbe elencarti mille motivi diversi, ma tu lo sai, e lo sa anche lui che il motivo è uno solo. E cioè che è stufo di essere fermato, Edward. E' stufo di stare al tuo gioco. Vorrebbe giocare anche con le sue regole, almeno un po', almeno per una volta.
Anche tu lo guardi e scuoti il capo, dall'alto della tua saggezza da fratello maggiore; perché ti vanno bene i baci rubati quando nessuno vi vede, e ti va bene pensare di amarlo e sapere che è vero, e ti va bene che lo pensi anche lui, ti va bene tutto finché non diventa troppo concreto. Perché le cose che tocchi ti spaventano, le cose che tocchi sono piene di spigoli. Al stesso è pieno di spigoli, così ossuto e difficile. Non puoi più toccare neanche lui.
Tu lo guardi e scuoti il capo, Edward, ma la voglia ti pulsa fra le gambe. E riesci ancora a guardarlo negli occhi, bastardo, anche mentre pensi che sai già dove andrai ad estinguerla.

*

Sarebbe stato sincero con Heiderich, non perché si sentisse in debito dal momento che lui lo era stato, e neanche per correttezza nei suoi confronti, ma solo perché sapeva perfettamente che se non fosse stato completamente sincero non avrebbe ottenuto niente.
- Ti pagherò. - disse, a conclusione del ragionamento contorto e confuso col quale gli aveva spiegato che sì, aveva capito bene, che lui, che Al, che il desiderio se lo stava mangiando vivo, che aveva bisogno di una valvola di sfogo, che lui era perfetto.
Lui rimase a guardarlo per molti secondi, gli occhi spalancati, le braccia abbandonate in grembo, come se si trovasse davanti un pazzo in pieno delirio.
Si alzò dalla sedia, sorridendo lievemente, andandogli incontro, chinandosi su di lui, quant'è alto, accidenti, posandogli una mano sulla spalla.
- Questo non posso farlo. - sussurrò, scusandosi.
Gli si spezzò il cuore.
- Ti prego! Non puoi lasciarmi in queste condizioni!
Heiderich lo guardò di nuovo, stupito.
- Non... non ti lascio in nessuna condizione, Edward... sto dicendo solo che non posso farti pagare. - concluse con un sorriso condiscendente.
- No. Questo no. Non sarebbe giusto. - mormorò lui, torcendosi le dita, incapace di reggere il suo sguardo.
Heiderich lo costrinse a risollevare gli occhi.
- Decido io cosa è giusto e cosa non lo è per il mio lavoro. - disse, deciso.
Ed cedette.
Heiderich lo lasciò accomodare sulla poltrona.
- Vuoi che resti vestito?
Ed scosse il capo.
- Vuoi che mi volti?
A fatica, Ed annuì.
Heiderich si sfilò la camicia.
*

Gli occhi di suo fratello lo stavano implorando per una spiegazione, ma come poteva lui formularne una qualsiasi in quelle condizioni?
Heiderich sussultò sotto di lui e se lo scrollò di dosso, afferrando il lenzuolo stropicciato per coprirsi alla meno peggio.
- Al, aspetta... - articolò confusamente, ma Al non aveva bisogno che qualcuno gli dicesse di aspettare. Non si muoveva, non aveva alcuna intenzione di farlo e anche se avesse voluto non ci sarebbe riuscito.
Fece per alzarsi, ma Heiderich lo fermò.
- Al. - disse seriamente il ragazzo, dopo essersi schiarito la voce, - E' esattamente quello che sembra. E sai perché è successo. Quindi non fare scenate e vediamo di...
Al scoppiò a ridere.
- Certo. - disse, incapace di trattenere un sogghigno crudele, - Certo, so perché è successo. E questo dovrebbe farmi pensare cosa, esattamente, Alphonse? Qualcosa tipo "oh, che tenero, soffre tanto e si consola così"? Questo dovrebbe giustificarvi?
- Non... non sto dicendo questo, e lo sai. - disse Heiderich, sospirando, - Solo che questo è il momento di fare l'indisponente, vero Al?
- Come puoi dirmi una cosa del genere adesso?! - gridò il ragazzo, stringendo i pugni, inorridito.
- ...scusa... hai ragione... quello che intendo dire... insomma, lo sai, dai. Stavo solo dicendo che magari, parlandone...
- Non c'è nulla da dire. - concluse Al abbassando lo sguardo, - Finché quello stronzo non tira fuori le palle...
- Al! - urlò Ed, ancora completamente nudo, come riprendendosi in quel momento dalla catatonia, - Guarda che io sono qui!
- Questo non fa di te uno stronzo meno grosso!
- Ah! Certo! Quindi adesso chiunque non prenda l'incesto come una cosa normale, come fai tu, è uno stronzo! Bene!
- Vaffanculo, ti fa comodo tirare fuori adesso questa scusa, eh?!
- Però non mi hai risposto, mh?
Tremando di rabbia, Al strinse le labbra e si voltò.
Ed capì che doveva averlo fatto per non farsi vedere mentre piangeva.
Ma non riuscì a fermarsi.
- Molto maturo da parte tua, Al.
Suo fratello si voltò con uno scatto, gli occhi pieni di lacrime.
- Non venirmi a parlare di maturità, proprio tu. Sei tu quello che non vuole crescere!
- A me non sembra, Al! La mia vita è andata avanti! Io mi sono sposato, ho cambiato casa, l'ho superato quello... - quello cosa? - quello che c'è stato fra noi! - avanti, puoi fare di meglio... - Tu invece ci sei rimasto in mezzo - santo Dio, Ed, con quante menzogne vuoi ricoprire tuo fratello...? - e ora arrivi qui in casa mia e distruggi la serenità della mia famiglia - sottolinealo, sì, quanto ti piace? - per dire a me che non sono cresciuto?!

E osserva l'opera compiuta, Ed. Osserva il quadretto desolante di tuo fratello devastato dai singhiozzi, del suo volto rigato di lacrime grosse e amare, osserva lo stupore allucinato degli occhi di Heiderich che si chiedono cosa cazzo ti si muova nella testa per costringerti a comportarti così, che si chiedono perché tu dica cose che non dovresti sentire veramente, e invece sai cosa, Heiderich? Sai cosa, Al? Le senti tutte, quelle cose. Lo odi, e odi la paura che ti fa, e odi amarlo perché non conosci un sentimento più spaventoso, e vorresti che tutto l'amore umanamente sensibile fosse uguale a quello che provi per Winry, dolce e caldo e protettivo come immagini il ventre delle mamme, e intanto Al si volta e scappa lontano, e tu non vorresti neanche fermarlo, ebbene sì, vuoi che vada via, vuoi che sparisca, vuoi che muoia, cazzo, saperlo morto e piangerlo fino allo sfinimento ti farebbe stare così bene che quasi hai voglia di ammazzarlo tu stesso, e Al è sparito e Heiderich si lascia andare seduto sul letto, "Edward, cos'è successo...?", ti chiede, guardando nel vuoto, ma sta parlando più con sé stesso che con te, e tu lo sai, quindi non rispondi, e meno male, perché cosa è successo non lo capisci affatto, ma stai bene, non pensi a nulla, sei un concentrato di rabbia e ti piace, quindi lasciati cullare da questo sentimento fino a quando ne avrai bisogno.
*

Smise di sentirne il bisogno quando Winry fu tornata dalla spesa e, guardandola in volto, si chiese come avrebbe fatto a spiegarle l'assenza di Al. Come avrebbe potuto spiegarle, senza che lei sospettasse niente, che avevano litigato per una cosa importante e lui era scappato di casa arraffando poche cose e un po' di soldi - neanche tanti, neanche tutti quelli che aveva - diretto chissà dove e probabilmente intenzionato a non tornare mai più.
- Ho comprato le verdure per il minestrone! - annunciò entusiasta, scrollando le spalle per aggiustare i sacchi della spesa che le pendevano sulla schiena, - Ad Al piaceva, quando era piccolo, vero?
Per la verità, non lo ricordava.
Si perse, cercando di riportare alla memoria una qualsiasi occasione in cui Al gli avesse mostrato un particolare interesse per i minestroni.
- Ed? Che hai? Sei strano.
- Eh... Winry, c'è un piccolo problema... - disse, cercando di farle credere che fosse una cosa da niente, - Al non è qui...
- Uscito di nuovo con Heide, vero? Spero comprino un cappotto.
- No, dico... - deglutì a fatica, mentre Heiderich, finalmente rivestito, appariva dietro la sua schiena, - Io e Al abbiamo avuto... abbiamo litigato, ecco. E lui se n'è andato.
Winry poggiò i sacchi per terra e lo guardò attentamente, rimanendo in silenzio, come in attesa del seguito. Visto che il seguito non arrivava, dopo un po' cominciò a indagare personalmente.
- E quindi dov'è?
Ecco la parte difficile.
- E'... è stata una cosa improvvisa, non so dove sia finito... non ne ho idea...
- Ma scusa... - mormorò lei, confusa, - non ho capito, perché avete litigato?
Per un attimo aveva creduto che non gliel'avrebbe chiesto. Povero illuso.
Il punto era che non poteva dire niente. Non poteva inventare niente di tanto grande che potesse essere un motivo convincente, e non aveva pensato a niente, fino a quel momento. La sua testa era un contenitore vuoto, non era operativa. E Heiderich non sembrava intenzionato a parlare.
Abbassò lo sguardo, come un bambino colpevole, e non spiccicò una parola.
- Ed...?
Niente, Winry, non ti risponderà.
- Ed!
Di cosa t'illudi? Che se non ha detto niente fino ad ora, sicuramente lo farà appena alzerai la voce?
No, Winry. Generalmente succede così, con quel testone di tuo marito, generalmente sta rinchiuso nel suo guscio di silenzio denso e contorto, ma pressi un po' e ti dice tutto. Stavolta no. Stavolta è una cosa che a stento riesce a dire a sé stesso, come puoi pretendere possa dirla a te?

- Heide, almeno tu, dì qualcosa!
E cosa cerchi in quell'estraneo, Winry? Cerchi aiuto, nel primo alleato di Ed e Al? Cerchi una via per capire, in chi non te la darebbe neanche se provassi ad ucciderlo?
Insomma, dì la verità, Winry. Dilla almeno a te stessa. E smetti di sorridere e distrarti con le faccende domestiche mentre tutto va a rotoli intorno a te. Dillo, che hai sempre sospettato che ci fosse qualcosa che non andava, che le reazioni di quei due quando stavano insieme ti sono sempre sembrate esagerate e preoccupanti, dillo che quando Ed ti faceva voltare e ti costringeva a nascondere il viso sul cuscino, e a schiacciarti contro il materasso perché non si vedessero i seni, tu pensavi "Ma è giusto così? Non puoi guardarmi in faccia sempre, quando facciamo l'amore?". E dillo che questa cosa ti ha sempre fatto diventare pazza. Che l'unica cosa che hai sempre desiderato era penetrare il mistero insondabile di quei due fratelli, esserne parte, e dillo che fallire ti uccide.
Potresti sfogarti, almeno su Ed. Sai che subirebbe. Potresti esplodere con tutta la tua aggressività, potresti perfino picchiarlo e sai che non reagirebbe. Sai che forse Heiderich cercherebbe di fermarti, ma se avessi un pugno anche per lui si tirerebbe indietro all'istante, ti lascerebbe fare.
Perché non lo fai, Winry? Sei troppo buona anche per questo?
O sei solo troppo stupida?

*

Diverse ore più tardi, in Baviera, a Monaco, un uomo e una donna, conviventi ormai da più di dieci anni, facevano le pulizie di casa, come sempre di domenica, ignari del fatto che a momenti un ragazzo bruno e magro sarebbe spuntato sulla soglia di casa, chiedendo asilo. Hohenheim passava l'aspirapolvere sul tappeto del salotto, mentre Dante spostava con cautela gli antichi libri dell'uomo dalla libreria alla scrivania, per spolverare gli scaffali.
Si erano conosciuti molto tempo prima, a Düsseldorf, in occasione di un viaggio di lavoro. Questo fatto li aveva sempre riempiti di stupore e di una grande fiducia nel destino, perché né lui né lei erano originari di quella città - lei bavarese, lui di Berlino - eppure erano stati in grado di trovarsi anche se non erano accomunati neanche dai motivi che li avevano spinti in quella città. Hohenheim vi era infatti giunto per un convegno, mentre lei era solo una cameriera in un bar qualsiasi del centro, e neanche tanto vicino rispetto all'albergo dove il convegno si sarebbe tenuto.
Il loro amore era stato fulminante, e del tipo di quelli che ti convincono di avere sbagliato tutto fino a quel momento - moglie, casa, figli, perfino luogo di nascita, vita in generale - ma che allo stesso modo ti sussurrano dolcemente in un orecchio che hai ancora una possibilità, che ti è stata offerta, boh, forse per bontà dell'universo, e che puoi ricominciare daccapo, che puoi fare di meglio e ti basta accettare quello che ti è stato donato così, naturalmente.
Anche se hai diciott'anni e l'uomo che ami ne ha venti più di te e non possiedi nient'altro oltre a un visetto carino e tanta voglia di smettere di viaggiare da un capo all'altro della Germania in cerca di lavoro.
Anche se hai quarant'anni e ami una ragazzina, e c'è tua moglie a casa che ti aspetta con due bambini piccoli che chissà come tireranno avanti senza di te.
Sapevano di essersi volontariamente gettati nel vuoto, e non avevano mai pensato a loro stessi come qualcosa in meno di una coppia di bastardi egoisti pronti a tutto per soddisfarsi. Sapevano che era la verità. Avevano imparato a non illudersi credendosi persone superiori perché in grado di rischiare e rinunciare a tutto per amore, avevano imparato a vedersi solo per quello che erano, amanti in fuga perenne ed eterna, se non da qualcuno almeno dai loro sensi di colpa, e avevano imparato a sopportare il guardarsi allo specchio e odiarsi, e anche a consolarsi col pensiero che la persona che amavano si odiava allo stesso modo e con la stessa intensità.
Non erano mai stati sereni.
Ma erano stati felicissimi.
E ora pulivano il salotto, sorrisi lievi e gesti lenti di tiepida abitudine.
Il campanello all'ingresso squillò, Dante sollevò il viso dalle pile di libri e, per un secondo, guardò Hohenheim, interrogativa. Lui scosse le spalle, rispondendo alla sua muta domanda. Lei lo imitò e, sospirando, si diresse verso la porta.
Lo riconobbe subito, anche se l'aveva visto per l'ultima volta sedici anni prima, quando era un bimbo paffutello che cercava di trattenere le lacrime mentre sua madre cercava di spiegargli che papà non avrebbe vissuto più con loro, ma in un'altra città, un po' lontana, ma che se avessero voluto vedersi sarebbe bastato fare una telefonata e sicuramente si sarebbe trovato il modo, e Hohenheim annuiva, cercando di essere convincente e ben consapevole del fatto che i volti dei suoi figli non li avrebbe visti più neanche in fotografia.
Spalancò gli occhi di fronte al suo sorriso disarmante, e si chiese cosa fosse giusto fare in una situazione come quella.
- Sei... il figlio di Hohenheim... - mormorò, ancora sconvolta, senza staccare le mani dalla porta.
- Non posso credere che abitiate ancora qua... - commentò lui, ridacchiando, - Cos'è, tutte le persone che conosco sono restie a lasciare casa e trasferirsi altrove?
Quando si era trasferito con lei a Monaco, in un momento di sconforto Hohenheim aveva scritto una cartolina ai suoi figli, invitandoli ad andarlo a trovare e accludendo l'indirizzo di casa sua.
Ecco come aveva fatto a trovarli.
- Mi fa entrare? - chiese il ragazzo, cortesemente, stringendosi nelle spalle.
Lei annuì, macchinosamente, ancora troppo stupita per pensare razionalmente, e si scostò dall'uscio.
Hohenheim apparve in corridoio, le labbra dischiuse - stava per chiederle chi fosse. La voce gli morì in gola quando lo sguardo si posò sul corpo magro di Al, avvolto in una pezza rossa vagamente somigliante a un cappotto.
Il sorriso apparentemente imperturbabile del ragazzo si spense assieme ai suoi movimenti.
- Papà. - disse seccamente, come stesse cercando di capire cosa si provasse a dire una cosa simile.
- Al...? - chiese Hohenheim, col fiato corto, spalancando gli occhi.
Il sorriso tornò a formarsi sulla labbra del ragazzo, che nuovamente si strinse nelle spalle.
- Scusa per essere piombato qui all'improvviso. Posso restare qualche giorno?
*

Cos'è che aveva Al?
Gli sembrò stupido chiederselo così all'improvviso, quando ormai era inutile e Al era chissà dove, a chilometri di distanza, ma non poté farne a meno. Cos'è che aveva Al?
Cos'è che era esploso, in quegli anni di lontananza, e l'aveva portato a pretendere un passo avanti - da lui! Il re della staticità in persona! - quando fino a qualche tempo prima tutto quello di cui aveva bisogno e che gli bastava era una carezza, un bacio, uno sfregamento?
Cos'è che era cambiato, in Al? Cos'è che aveva capito?
...cosa diavolo gli sfuggiva? Perché non riusciva a raccapezzarsi?
- Ed, sono già le nove...
Winry lo guardava, dalla soglia della stanza. Osservava suo marito sprofondare nella poltrona e nei suoi pensieri ogni giorno, sera dopo sera, con una gamba a pendere disordinata da un bracciolo e il viso appoggiato a una mano, lo sguardo fisso sulle pareti o sul pavimento, totalmente vuoto, totalmente assente, brillante di Al in ogni millimetro dell'iride. Lontano, lontano, lontano. In qualunque posto fosse suo fratello.
- Heiderich non è ancora tornato. - lo avvertì.
Lui ebbe un tremito.
- Non sarebbe meglio che andassi a cercarlo? Sono preoccupata...
Faceva sempre più tardi. Usciva la mattina presto, probabilmente aveva trovato un lavoretto o qualcosa del genere, ma stava fuori anche la sera e tornava quasi a notte fonda.
Non osava neanche pensarlo, ma probabilmente stava facendo qualcosa di poco onesto.
Portava sempre qualche soldo a casa, e dava sempre tutto a Winry. "Per le spese di casa", diceva. Si sentiva mortalmente in imbarazzo, poverino.
Ed si alzò in piedi, annuendo gravemente.
- Sì, vado.
Uscì di casa e subito vide la luna piena enorme e rossastra sulla sua testa. Quella luce strana lo inquietò. Si strinse nel cappotto e si diresse velocemente verso la macchina, trattenendo a stento il tremito dei denti.
Era già dicembre.
Era passato già un mese da quando Al era andato via.
Fra poco sarebbe stato Natale.
L'ottavo Natale senza di lui.
Sospirò, guardando fuori dal finestrino, nella sera agitata di quell'inizio di feste. Miriadi di persone si muovevano tra i negozi dalle vetrine illuminate, indaffarati con gli ultimi regali da comprare; quell'anno Winry non aveva comprato niente, strano, gli altri anni la routine dello shopping natalizio era sempre stata una gioia per lei; si meravigliò nel prendere nota di tutti i sorrisi allegri dei passanti, nonostante il freddo pungente, nonostante la pioggerellina lieve e gelata che già rigava il finestrino, nonostante Al non fosse più con lui, il mondo andava avanti, il mondo gira ancora, Ed, ha smesso di girare solo un attimo, solo quando tuo fratello ti ha baciato la prima volta, è rimasto immobile finché hai continuato a sentire quelle labbra addosso, e poi ha ripreso a vorticare, guarda come vortica, guarda come si muovono svelte le persone, non sembra che ballino?, non sembrano...?
Cominciò a nevicare.
Scosse il capo. Aprì il finestrino. Sperò che il gelo gli sgombrasse la testa.
Sapeva già dove andare a cercare Heiderich.
*

Passando in mezzo a tutti quei ragazzi che facevano bella mostra di sé, da un lato all'altro del viale, si sentì tremendamente disturbato. Gli sembrava di vedere Al in tutti quegli occhi, in tutti quei corpicini emaciati e in tutti quei capelli al vento.
Perché lo fanno?
Non sentono freddo?

Heiderich stava in piedi, di spalle, a qualche metro da lui. Sicuramente l'aveva visto, sicuramente stava cercando di non farsi notare, o di fargli credere di essere qualcun altro.
Mi dispiace, non c'è nulla che tu possa fare per non farti riconoscere da me.
Gli diede due colpetti su una spalla e gli sorrise tristemente, quando si voltò a guardarlo. Ebbe un attimo di vertigine, fissandolo negli occhi - dannazione a lui e alla sua altezza - ma si riprese subito.
Heiderich rispose al sorriso, stringendosi nelle spalle e facendosi minuscolo per la vergogna.
- Torniamo a casa. - gli disse in un fiato.
Si perse ad osservare le nuvolette di aria calda condensata che gli uscivano dalle labbra, mentre Heiderich annuiva e si stringeva nel piumino, preparandosi a seguirlo.
Si rifugiarono nella vettura appena un attimo prima che la neve sciogliesse le sue miriadi di fiocchi morbidi in una violentissima scarica d'acqua. Edward mise in moto e azionò i tergicristalli. Guidare sotto la pioggia lo spaventava, ma di certo non potevano rimanere fermi in mezzo al viale fin quando non avesse smesso, quindi si fece forza e spinse sull'acceleratore.
- Non volevo che vedessi. - disse Heiderich, senza guardarlo.
Lui scrollò le spalle.
- Che lo vedessi o meno era secondario. Tanto già lo sapevo.
Solo allora il ragazzo lo guardò, spalancando gli occhi.
- Davvero...?
Ed annuì, sempre fissando la strada.
- Non che lo sapessi per certo, intendo. Però l'avevo supposto.
- Capisco... - disse lui in un soffio, torturandosi le dita, contrito.
- Guarda che non devi farlo per forza. - continuò, cercando di rassicurarlo, - Non sei un peso, per me e Winry.
- Anche se dici così, mi sento a disagio. Mi sono sempre guadagnato il pane da solo, non ho mai vissuto sulle spalle di nessuno.
- Non vivi sulle nostre spalle, Heide. Vivi con noi. E' diverso.
Heiderich gli lanciò un sorriso a metà fra l'imbarazzo e la gratitudine, e tornò a fissarsi le mani.
- Perché si fa una cosa del genere? - chiese Ed dopo un po', dando finalmente voce alle sue perplessità.
Heiderich scoppiò a ridere.
- Non è uno scherzo. Sto parlando seriamente.
- Sì, lo so, - disse il ragazzo, sorridendo, - solo che l'hai detto con un tono da bambino che chiede alla mamma "perché il cielo è blu?", tenerissimo.
Imbarazzato, guardò altrove, nella sera sempre più buia e piovosa.
- Comunque, Ed, di sicuro non si fa per hobby. Tutti possono dare motivazioni diverse, ma alla fine è per soldi che si fa.
- Ma perché non chiedere aiuto?... io non penso che un padre, o una madre, o un fratello, o un amico, non penso che qualcuno che ti ama potrebbe ignorare una domanda d'aiuto!
Heiderich lo guardò, gelido, per qualche secondo, prima di riempire di nuovo gli occhi e il sorriso di calore.
- Come ti ho già detto, non si fa certo per piacere. E ti dirò di più. E' una cosa schifosa da farsi. Chi lo fa lo sa. Che fa schifo non è una cosa che si vede solo da fuori. E anche se l'abitudine ti ammazza, non è una cosa alla quale col tempo impari a dare meno peso. Non è come essere costretti un noioso lavoro da scrivania quando avevi voglia di stare in prima linea o chessò io, capisci Ed?
Deglutì e annuì lentamente. La voce rassicurante di Heiderich, che cercava di spiegargli il mondo dal quale si era volontariamente astratto, lo cullava come la voce di sua madre quando gli raccontava le favole della buonanotte.
Strinse la presa sul volante. Gli veniva da piangere ma si sarebbe svenato prima di versare una lacrima.
- Il fatto che si finisca a fare una cosa simile vuol dire che non hai potuto chiedere aiuto, o che non te l'hanno potuto dare. Quindi, per favore, non fare più considerazioni stupide.
Si morse il labbro inferiore.
Al, tu mi hai mai chiesto aiuto?
Non riusciva più a ricordarlo.
*

- Hohenheim... sei ancora sveglio?
Dante entrò in camera da letto, avvolta nella vestaglia di lana, i capelli raccolti dietro il capo. Raggiunse l'uomo, già al caldo sotto le coperte, immerso nella lettura di uno dei suoi adorati antichissimi trattati sull'alchimia.
L'uomo sollevò appena gli occhi dal libro, sorridendole lievemente.
- E come mai hai ripreso in mano questo libro...? Non lo rileggevi da tempo...
- Già... da quando Al è qui penso spesso agli hobby che avevo quando stavo ancora a Berlino...
La donna sorrise.
- Ti fa piacere che sia qui, vero?
Il volto di Hohenheim si riempì di tenerezza.
- Be', sì. Anche se in realtà sono terrorizzato dai motivi che potrebbero averlo spinto fino a venire.
- Oltre che dalla sua magrezza...
- Ha mangiato?
- Oh, sì. Con appetito, anche. Insomma, sembra stare bene... anche perché ha recuperato qualche chilo da quando è arrivato, ma... Dio, non posso dimenticare com'era ridotto un mese fa...
- Mh...
- E... senti, non ti ha detto niente neanche oggi...?
Hohenheim scosse il capo.
- Non so più che pesci prendere. - confessò, sconsolato, posando il libro sul comodino e abbandonandosi sulla spalliera del letto, - Alphonse è sempre stato un po' così. Un bambino problematico, intendo.
- ...davvero? Sorride sempre, non si direbbe...
- Sì, appunto. Vedi, quando si trattava di Ed... - un lampo d'incertezza gli balenò fra le palpebre, Dante non poté non notarlo, - Insomma, Edward era un ragazzino molto diretto. Se ce l'aveva con te, non ti calcolava, oppure ti riversava addosso la sua rabbia, in qualche modo. Era anche manesco a volte.
- Santo cielo...
- Sì, però, almeno sapevi cosa gli passava per la testa. Al no. Al è una specie di enigma ambulante. Anche quando ti dice qualcosa non puoi mai essere certo di cosa voglia dirti in realtà, e anche quando è gentile con te non puoi mai sapere se lo fa perché è così che si sente oppure per qualche altro strano motivo...
Dante ridacchiò, un po' amaramente.
- Ora non atteggiarti a padre vissuto, ti ricordo che non vedi i tuoi figli da quasi vent'anni...
Anche Hohenheim sorrise, sulle labbra la stessa sfumatura di amaro rimpianto.
- Però la prima cosa che ho pensato quando ho visto Al è stata "non è cambiato". E da quello che ho visto in questo mese, avevo ragione. E' per questo che riesco a capirlo, più o meno.
Sospirò.
- Sai, in realtà preferirei non capirlo affatto. Significherebbe che è cresciuto, almeno.
E invece tutto lasciava intendere esattamente il contrario. Che Al si fosse messo in pausa, da quando suo padre era andato via, che non fosse più cambiato di una virgola, che si fosse preso una vacanza perenne dalla crescita.
- Hohenheim...
- Mh?
- ...perché quando hai saputo che la loro mamma era morta non li hai presi con te?
Gli occhi dell'uomo si ridussero a due fessure, mentre si toglieva gli occhiali e li poggiava sul comodino.
- Paura, immagino. - rispose in un soffio, spegnendo la luce.
*

Non era un giorno diverso dagli altri, quando ricevette la telefonata di suo padre. Il freddo era lo stesso degli altri giorni, le facce di Winry e Heiderich gli chiedevano sempre la stessa cosa - Ed, com'è che dimagrisci? Perché i tuoi sorrisi sono tutti vuoti e distanti, e sembrano più abitudini che altro? Perché non fai più la treccia? Perché lasci i capelli sciolti, o, sempre più spesso, li raccogli solo in una coda? Insomma, perché somigli tanto ad Al, Ed? - le persone attorno continuavano a comprare regali in attesa del Natale, e il mondo vorticava, vorticava ancora attorno a lui, come sempre.
E poi non c'era nessun motivo per cui avrebbe dovuto supporre che una chiamata da parte di suo padre volesse dire che Al era lì, che l'avevano ritrovato, alla fine.
Ma lui lo fece. Quando sentì la voce di suo padre, l'associazione mentale fu immediata. Al.
Scoppiò in lacrime subito dopo che suo padre l'ebbe salutato. "Ciao, Ed", dopo quasi vent'anni.
- Ed... scusa... so che non è il momento adatto, non vorrei...
- Non... non sto piangendo perché hai chiamato tu... Al... Al è lì, vero...?
- Sì. E' qui.
- Quando è arrivato...?
- Un mese, un mese e mezzo fa. Più o meno.
- E ti sei deciso a chiamarmi solo ora?!
- Credevo... speravo che avrei potuto risolvere la cosa da solo...
- Ti sbagliavi.
- Sì. Adesso lo so. E' per questo che ti ho chiamato.
- Lui lo sa?
- No. Ma intendo dirglielo.
- Perché non gliel'hai detto prima?
- Credo... che me l'avrebbe impedito. Non vuole parlare di te. Quando si parla di te diventa un altro.
Si passò una mano sugli occhi.
Dio, era felice. Se quello era il suo regalo di Natale, poteva ritenersi soddisfatto a vita.
- Come sta? - chiese, con un filo di voce, sentendo le lacrime tornare alla carica e cercando, invano, di ricacciarle nel fondo della gola.
- Bene. Sicuramente meglio rispetto a quando è arrivato. Ha preso qualche chilo, e anche un po' di colore.
Sospirò.
- State ancora a Monaco?
- Sì. Hai l'indirizzo...?
- No. Ho buttato la cartolina che ci mandasti anni fa.
- ...Al deve averla recuperata dalla pattumiera. E' con quella che è arrivato qui.
Sorrise teneramente.
- Avrei dovuto immaginarlo.
- Allora...
- Sarò lì domattina presto. Prendo il primo treno utile che trovo. Dimmi dove stai.
Suo padre ubbidì.
- Senti, Ed... ci sono milioni di cose che ti dovrei chiedere... e delle quali dovrei scusarmi, anche...
- Ne parleremo domani. Non preoccuparti.
Suo padre sospirò, sollevato, lo salutò e terminò la conversazione.
- Ed... - lo chiamò Winry, preoccupata dall'averlo sentito piangere, - Che è successo?
- Al. E' andato a Monaco da mio padre. E' lì che è stato fino ad ora. - annunciò con un sorriso immenso sulle labbra. - Parto subito.
- Eh?
- Vado a prenderlo. Anche mio padre è d'accordo. Al... deve avere qualche problema.
- Te l'ha detto tuo padre?
- Mh? Be', no, ma se mi ha chiamato...
- Magari... - suppose Winry, incapace di guardarlo negli occhi, - Magari voleva solo rassicurarti sul fatto che stava bene.
- ...Winry, cosa stai cercando di dirmi...?
Ahi, Winry. L'ha capito.
Ha capito che non vuoi che parta, ha capito che il pensiero di riavere Al in casa ti terrorizza. Sei stata tremendamente poco attenta.

- Io... niente...
- Credevo che fossi anche tu preoccupata per Al.
- Infatti lo sono!
- E allora che c'è adesso?!
- Niente! Penso solo che se Al è andato via vuol dire che forse non è qui che vuole stare!
Lui la fissò, attonito, come se stesse dicendo cose assolutamente illogiche.
- Ho sentito abbastanza. - concluse poi, dirigendosi svelto verso l'ingresso, - Tornerò con Al. E basta.
Winry si strinse nelle spalle, abbandonandosi contro la parete.
Heiderich fece capolino dal soggiorno, e le andò incontro, preoccupato.
- Win... cosa c'è...?
- Niente. - disse lei immediatamente, rimettendosi in piedi e riavviandosi i capelli dietro le orecchie, - E' tutto a posto. Abbiamo ritrovato Al. Ed è appena uscito per andarlo a prendere.
- Ma... dove...?
- A Monaco.
- Monaco?!
- Insomma, basta! - esplose, stringendo i pugni, - Basta parlare di Al! Cristo, è sano e salvo, non vi basta sapere questo, a te e a quell'altro stronzo?!
Heiderich fece un passetto indietro, stringendosi nelle spalle.
- Scu...
- Niente scuse! - gridò ancora lei, le lacrime agli occhi, - Basta.
Si prese il tempo per un respiro profondo. Capì che uno non bastava a calmarsi. Respirò ancora. E ancora.
- Non ce l'ho con te, Heide. Sei tu che devi scusarmi. - disse, fissando il pavimento, - Non mi sento molto bene.
- Ma...
- Scusa. - ripeté, tornando a guardarlo e forzandosi a sorridere, - Non chiedermi niente.
- ...
- Voglio dire. Ci sono cose che uno si tiene dentro per anni. E non per qualcosa contro di te, ma non sarai certo tu a farmi sfogare.
Non c'era altro da dire. Si trincerò in cucina, sperando che Heiderich capisse e si chiudesse in camera. Guardò i piatti nel lavandino.
Aprì l'acqua calda e aspettò che diventasse bollente. Ficcò le mani sotto il getto, strizzando gli occhi per il dolore. Piano piano, la sensibilità della sua pelle impazzì, e l'acqua le sembrò a tratti gelida. Aprì gli occhi. Le mani erano gonfie e rosse, spaventose.
Prese la spugna e cominciò a lavare.
*

- Come stai, Ed?
Voglio vedere Al.
- Bene.
- Il viaggio ti ha stancato?
Voglio vedere Al.
- No, sto bene.
- Mi fa piacere che tu sia venuto. Ricordi Dante, vero?
Gettò uno sguardo alla donna accanto a suo padre. Sì, la ricordava.
Ma non gli interessava niente di niente, né della gratitudine di suo padre, né dell'imbarazzo di quella donna.
Voglio solo vedere Al.
- Dov'è?
- Ecco...
Suo padre era insicuro.
- Non so se è una buona idea vederlo adesso.
- ...perché?
- E' un po' agitato. Quando gli ho detto che ti avevo chiamato... non ha reagito bene.
Lo aveva immaginato.
- Non ha voluto mangiare niente, ieri sera. S'è chiuso in camera e non ne è ancora uscito.
- Cos'ha detto?
Hohenheim sospirò.
- Niente. Neanche una parola. Ha... ha fatto un disastro, buttando a terra varie cose... ma non ha detto nulla.
- Capisco...
- Edward. Senti. C'è qualcosa che non va. Questo ragazzo ha qualche problema. Me ne sono accorto perfino io che di lui non so niente! Cosa gli è successo?
Magari lo sapessi.
O fossi davvero certo di non saperlo.
Almeno non starei impazzendo.

- Devo vederlo. Dov'è?
Suo padre si alzò in piedi. Lui lo seguì.
Hohenheim lo guidò attraverso la stanza, lungo il corridoio, di fronte alla sua camera. Poi lo lasciò davanti alla porta e andò via.
Fissando il legno scuro e levigato, realizzò d'improvviso quanto fosse stata fondamentale l'importanza delle porte chiuse nella sua relazione con suo fratello. Le porte chiuse che lo salvavano continuamente, ricordandogli che ci sono confini che non possono essere superati, ci sono soglie che non vanno oltrepassate, ci sono ostacoli che vanno lasciati lì dove sono, ci sono barriere che non vanno assolutamente rimosse.
Era stata una porta a salvarlo dall'incesto, quello vero, quello realizzato, non quella specie di gioco che avevano portato avanti l'ultima volta che era andato a stare da lui, era stata la sua porta a salvarlo, otto anni prima.
Puoi farti salvare ancora, Ed. Puoi lasciare chiusa questa porta e andare via. Magari ha ragione Winry. Magari il motivo per cui Al è così furioso è che non vuole più vederti, che preferisce stare qui, con suo padre, e rifarsi una vita. Magari dovresti concedergli questo, Ed. Magari non era sesso, né baci, che avresti dovuto concedere a lui e a te stesso. Magari hai sbagliato tutto fin dall'inizio. Magari puoi risolvere le cose, adesso, se vai via.
Chiuse gli occhi. Poggiò due dita sulla maniglia. Prese un respiro talmente profondo che gli fecero male i polmoni.
Aprì la porta.
*

"Find the one who'll guide you
to the limit of your choice"
Enigma - "Gravity of Love"

"Tu sei, tu sei, lo so, la mia rovina..."
Mango - "Amore per te"


Raggomitolato fra le lenzuola, raccolto su sé stesso come un cane pronto ad attaccare, Al lo fissava con odio, i lineamenti del volto tesi e gli occhi lucidi.
S'era preparato tutto un discorso importantissimo, col quale intendeva rimproverarlo aspramente, fargli presente quanto stupida fosse stata la sua fuga, dirgli come in realtà si sentisse, cosa provasse realmente per lui e, infine, implorarlo di tornare. Nel vederlo lì, su quel letto, bianco come un cencio, i capelli sciolti e disordinati sulle spalle e quella rabbia furiosa brillante nelle pupille, la sua testa si fece di nebbia, e di tutto il discorso rimase soltanto la voglia di gettarsi ai suoi piedi e implorarlo.
Non solo perché tornasse. Per tutto in generale. Anche per cose che erano in aperto contrasto fra loro. Avrebbe voluto implorarlo per riaverlo accanto, e perché se ne andasse via il più lontano possibile, più lontano di Monaco, fuori dalla Germania, fuori dall'Europa, perché non sparisci dal mondo, Al?, e poi avrebbe voluto implorarlo perché lo lasciasse in pace, perché frenasse i suoi sentimenti, e anche, Dio, soprattutto perché continuasse ad amarlo in eterno.
Al non si mosse. Rimase fermo, seduto sul letto, a fissarlo. Gli si avvicinò, e lui si ritrasse.
- Al... - lo chiamò, sperando che dicesse qualcosa. Ma niente.
Allora si sedette sul letto, proprio accanto a lui, e attese. Rimase semplicemente in silenzio, aspettando un segno qualsiasi da suo fratello.
Suo fratello, che continuò a guardarlo allo stesso modo per una serie interminabile di minuti pesanti e soffocanti e infiniti, e che alla fine si frantumò in un singhiozzo, e si coprì gli occhi con le mani, e si accasciò su sé stesso, e lamentandosi come se stesse provando dolore fisico gli chiese "Perché sei venuto?".
Lui allungò una mano. Gli sfiorò una guancia, aspettandosi di essere respinto. Ma Al lo lasciò fare. E anzi, gli si abbandonò contro, come fosse stato un cuscino.
- Sono venuto a riprenderti. - disse a bassa voce, spaventato che qualcuno, forse le pareti, potessero sentire quella che, nella sua testa, era la dichiarazione d'amore più esplicita che avesse fatto.
- Non te l'ho chiesto. - rispose Al, deglutendo a fatica, - Vai via.
Quando Al cercò di scostarsi, lui lo trattenne, ancorandoselo addosso, stringendolo per le spalle.
- Lasciami andare. Lasciamo perdere. Basta. - continuò a lamentarsi lui, singhiozzando sempre più violentemente.
- No. Non voglio lasciare perdere. Ti rivoglio in casa, con me. Ti rivoglio assolutamente.
- Non può essere. Non può essere.
- Perché?
- Perché non può essere. Tu... non sei pronto.
- Sono pronto. Non sarei venuto fino a qui, se non lo fossi stato.
- ...vuol dire che hai ricordato...?
- ...ricordato cosa?
Suo fratello sollevò lo sguardo sul suo viso, fissandolo a lungo. Poi scosse il capo, sorridendo amaramente.
- Visto? Non sei pronto.
Cercò di nuovo di divincolarsi dalla stretta, pressandogli le mani sul petto. Ma lui lo fermò ancora, stringendoselo contro al punto da fargli male, al punto da farsi male, al punto di sentire il suo mento appuntito pressargli contro il collo, al punto di sentire le dite affondargli nelle braccia ancora magre.
- Ti amo. - gli disse, labbra contro pelle, - Ti amo e ti voglio.
Si scostò da lui quel tanto che bastava per poterlo guardare negli occhi. Lesse tutto il suo smarrimento, e la sua paura, e la sua incredulità.
Si chinò su di lui e lo baciò. Un bacio vero. Senza chiedere il permesso a nessuno. Un bacio lento e profondo, un bacio tutto per loro, per sentire il sapore, per godere della morbidezza bagnata, per la sensazione dei respiri affannosi a infrangersi con foga sui loro visi, per la consapevolezza che erano lì, in quel momento, e finalmente era tutto chiaro e preciso, finalmente davano un nome a quello che c'era fra loro, finalmente entrambi erano sicuri, finalmente era vero. Reale. E molto meno spigoloso e doloroso di quanto Ed non avesse mai pensato.
- L'hai fatto sul serio...?
- Pare di sì...
Godette della sua risatina leggera e lo baciò di nuovo.
- Questo l'hai fatto sul serio. Ne sono sicuro.
- Sì, stavolta anche io...
Si lasciò andare disteso sul letto, sentendosi come sgonfio. Effettivamente, dentro di lui non c'era più traccia di tutti quei sentimenti che l'avevano tenuto rigido e attivo nell'ultimo... secolo e mezzo circa che gli sembrava la seconda metà della sua vita.
In realtà non aveva mai creduto al potere meraviglioso e spossante della sincerità. Credeva che la sincerità fosse una cosa utile solo a complicare la vita. Azzardati a dire un minimo di quello che pensi in realtà e crolleranno perfino le fondamenta del palazzo in cui vivi. Aveva sempre pensato alla verità come a una bomba, perché per lui era stato sempre devastante ammetterla, e perché prima di vederla doveva sempre subire una guerra all'interno del suo cervello. Sì, le bombe erano la cosa più simile alla verità che conoscesse, per quanto in realtà trovasse le bombe molto meno distruttive. Almeno per la sua esperienza.
E invece si trovava ora a ventisei anni con nient'altro in mano oltre alla verità inequivocabile dei suoi sentimenti, e si sentiva libero davvero. Il pensiero del dopo, del come affrontarlo, del come spiegarlo a Winry, del dove diavolo andarsi a nascondere per vivere quel sentimento senza che nessuno sapesse cosa c'era dietro, era assolutamente irrilevante. Era una parentesi alla quale avrebbero potuto dedicarsi dopo.
Suo fratello gli si arrampicò addosso, guardandolo con curiosità.
- Quindi?
- Non saprei. - rispose lui, scuotendo il capo. - Voglio dire, in qualche modo ce la caveremo.
- Mmmh, mi fa piacere sentirtelo dire, ma non era questo quello che ti stavo chiedendo.
- No?
Scosse il capo.
- No. Mi chiedevo cosa avessi intenzione di fare ora. Cioè adesso. In questo momento. In questo letto.
Guardò altrove.
Era legittimo non averci ancora pensato?
Alphonse lo costrinse a guardarlo e lo baciò di nuovo.
- Mh... aspetta, Al... cos'è... di cosa parlavi poco fa?
Ma Ed, avanti, c'è una mano che ti scorre sul corpo, puoi pensare ad altro...?
- Mh-?
- Poco fa... cos'è che non ricordo...?
Cos'è che non ricordi, Ed?
T'interessa davvero?
Ed, tuo fratello ti sta baciando, lo sai cosa vuole, stai tergiversando?

Al sorrise.
- Non ha importanza.
E sai che in un certo senso ha ragione. Non t'importa di cosa succederà nelle prossime ventiquattro ore, dovrebbe importarti di cosa è successo milioni di ventiquattro ore fa?
- Al... - soffocò un sospiro, quando la mano di suo fratello s'intrufolò nei suoi pantaloni, - Aspetta...
Dovrebbe, Ed?
- Sssh... lasciami fare...
Bottone dopo bottone, la camicia scomparve dal suo petto e ricomparve sul pavimento accanto al letto.
Dovrebbe, Ed...?
- ...
Dovrebbe, Ed.
Ma Al che ti lecca e ti tocca ovunque, Al che si toglie il pigiama, Al che ti si offre, così, spontaneamente, invitandoti a entrare, guidandoti con incantevole precisione, indirizzando le tue mani e le tue voglie dove preferisce, dove preferisci, dove preferite, è così meraviglioso che no, non t'importa, anche se dovrebbe e dovrebbe davvero.
E ora sei lì, Ed. Ora sei a un passo. Ora, a separarti dal tuo crimine c'è una piccolissima spinta. E non c'è neanche bisogno che sia tu a farla.
E infatti Al si avvicina, e tu lo senti contro di te, e d'improvviso provi qualcosa, qualcosa che è come un'illuminazione, ma meno fulminea, qualcosa che è come una fantasia, ma molto più concreta, qualcosa che somiglia spaventosamente a un ricordo, e tu puoi anche pregare perché non lo sia, ma lo sai che speranze ne hai poche.


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OTTO ANNI PRIMA.

Anche nei tuoi ricordi sei lì a un passo, Ed. Solo che non sei a un passo da Al, sei a un passo dalla porta di camera sua. Ancora porte, mh? Ed è la porta davanti alla quale tutto e cominciato, o meglio, davanti alla quale tutto si è fermato in un momento infinito, si è cristallizzato dentro al tuo cervello e ti ha portato ad essere quello che sei oggi, che diciamocelo, è un disastro d'uomo. Sì, possiamo dircelo, dal momento che siamo solo io e tu, nel tuo cervello, fra i tuoi ricordi.
E non chiederti chi sono, non chiederti cos'è questa voce che ti rimbomba nei pensieri ed è "come se" ti facesse vedere le cose che hai vissuto e che vivi da un'altra prospettiva, come ti fossero estranee. Perché non è "come se". E'. E basta.
E quindi stiamo davanti a questa porta, adesso, io e tu e il legno e la maniglia gelida, e ti ricordi che notte è questa, Ed?
Sì, proprio così. E' la notte in cui hai cacciato tuo fratello dal tuo letto per la prima e l'ultima volta. E' la notte prima della sua fuga, la notte prima della tua ansia, e della tua disperazione, e della scomparsa, e del senso di vuoto, e dell'incendio, e di Winry in lacrime che ti scongiura, "Vieni a vivere con noi", e di te che accetti e ti aggrappi a lei perché ti sembra di non avere nient'altro.
E' esattamente quella notte. Quella in cui sei convinto di aver risparmiato a tuo fratello la falsa consolazione che nasce dal piacere soddisfatto di due corpi che si sfiorano, tremando, nell'abbraccio buio e sudato del sesso.
Sì, sei davanti a quella porta, e stai ascoltando tuo fratello piangere, e ti stai chiedendo se entrare sia la cosa giusta da fare, e se le cose fossero veramente andate come ricordavi fino a un minuto fa adesso dovresti girare sui tacchi e tornartene in camera tua, senza aver combinato niente, è vero?
E' vero.
E allora perché la tua mano indugia tanto su quella maniglia? Perché continua a stringere e mollare la presa, incerta? Perché, alla fine, si decide, e pressa, e spinge, e apre? Perché quella porta cigola, e riesci a vedere Al che ti guarda, stupito e felice, quando dovresti essere già in corridoio, a farti strada verso il tuo letto?
Cos'è successo veramente quella notte di otto anni fa, Edward?
Cos'è che tuo fratello ricorda e tu hai rimosso?
Che hai fatto?
Oddio, che hai fatto?
Ma guardati. Guarda come ti avvicini. Guarda come eviti i suoi occhi, non ti senti orribile?, non ti senti una merda?, guarda come ti siedi sul letto e lo abbracci. Guarda lui come ti si stringe contro. Come si scusa. Guarda la tua mano che gli passa fra i capelli, guardala indugiare sulle sue spalle, e allora?, come ti senti?, non ti senti orribile?, non ti senti una merda?, e guardalo sussultare al tuo tocco, guarda Al che ti prende la mano, ti invita a scendere, e guarda come lo segui, guarda come ubbidisci, guarda, guarda, neanche il pigiama ti ferma, il tessuto non è più niente, non esiste, è già lontano da voi, per terra, forse, forse ancora sul letto, ma che importa?, non ti senti orribile?, guarda la sua pelle sudata, Ed, si sta agitando, senti come si agita, senti l'ansimare?, senti i gemiti?, li senti?, sì che li senti, però senti anche le sue parole, è vero che le senti?, "Aspetta, nii-san...", e che fai, lo ignori?, "A-Aspetta un attimo...", niente, lo senti e non lo senti, sei strano, Ed, sei strano, "Asp- ah! Nii-san! No! Aspetta!", ma non lo senti, adesso no, le parole non le senti più, puoi sentire solo il suo corpo, tutto Al che ti circonda, puoi solo spingere dentro di lui, puoi solo muoverti, non ti senti orribile?, non ti senti una merda?, come ti senti, Ed? BENE, BENE, BENE, CRISTO, BENE!
D'ACCORDO!
Ma ora fermati. Fermati un attimo. Allontanati da tutto questo. Torna al presente.
E' meglio.


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OGGI.

Sedeva sul letto, nudo. Le ginocchia al petto, si copriva gli occhi con una mano, mordendosi l'interno delle labbra per non farsi sfuggire lamenti troppo rumorosi mentre piangeva tanto disperatamente che l'intero suo corpo era scosso da brividi e singhiozzi. Al gli stava raggomitolato al fianco, in ginocchio, e gli appoggiava il capo sulla spalla. Fissava un punto vuoto sulla parete opposta, con espressione triste.
- Hai ricordato, vero?
Ed annuì a fatica, stringendo la presa delle dita sulle tempie, fino a farsi male.
- Non devi piangere per questo...
- Al, ti prego, non...
- Non sto cercando di consolarti. Ehi. Guardami.
Al cercò di scostargli la mano dagli occhi, ma lui oppose resistenza.
- Nii-san. Non sono più forte di te, non riuscirei a smuoverti di un millimetro. Mi puoi guardare, per favore?
Lentamente, allentò la presa. Quando fu libera, la mano perse tutta la sua forza, e il braccio la seguì immediatamente. Caddero entrambi sul materasso con uno stupido tonfo sordo.
Ed aveva gli occhi rossi e le guance rigate di lacrime.
- Non piangere. - ripeté Al, guardandolo fisso.
- Mi dispiace, Al.
- Non dispiacerti.
- Al...
- Non devi, ti dico. Ti sembrerà assurdo, - disse, sorridendo lievemente, - ma è uno dei ricordi più belli che ho.
Come fosse una consolazione.
Dio, di che razza di ricordi doveva essere piena la mente di suo fratello, perché quello fosse uno fra i più belli...?
- Ti ho fatto del male. Ho fatto l'errore più grosso della mia vita. - ribatté lui, incapace di capire se si sentisse peggio per avergli causato sofferenza o per averlo spronato a continuare ad amarlo con quel gesto.
Al gli si avvicinò, continuando a sorridere, sfiorandogli la fronte con la propria.
- Mi hai voluto, in quel momento. Sei stato sincero. Rude, - ammise, ridacchiando, - ma sincero.
- Cazzo, Al...
- E a me è piaciuto avere quel ricordo, in tutti questi anni. Quindi non dispiacerti. E basta.
Lo guardò.
Sembrava essersi rinvigorito dall'ultima volta che l'aveva visto, a casa sua. Sembrava rinato.
"Stare lontani ci uccide o ci salva?", si ritrovò a chiedersi. Ma non c'era risposta, e lo sapeva. E per questo motivo non ebbe bisogno di chiedergli perché fosse andato via, otto anni prima. Non ebbe motivo di indagare ancora.
Inoltre, aveva sentito e scoperto abbastanza, per quel giorno. Adesso doveva riflettere. Non poteva continuare a rimandare quel momento. Doveva pensare a cosa fare, a dove andare, a come spiegare tutto a Winry - santo cielo - e doveva pensare... ai biglietti del treno, prima di tutto.
Sì, lontano da Monaco. Sarebbero tornati a Berlino. Sarebbero tornati a casa. Con Heide e Winry. Magari prima avrebbero potuto andare in qualche paesino vicino, o in qualche località di mare o montagna, fare una vacanza, lui e Al soli, per due o tre giorni.
Ma tornare, decisamente, quello sì.
- Al. Cosa vuoi fare? - gli chiese, alzandosi dal letto.
- Mmmh... colazione. - rispose lui, ridacchiando, - Portami a fare colazione in qualche posto carino. Poi si vedrà.
Sorrise.
Sì, avrebbe visto poi. In quel momento aveva qualcosa di più importante a cui pensare.