Genere: Introspettivo, Malinconico.
Personaggi: Edward, Alphonse.
Pairing: Edward/Alphonse, ma visti in un'ottica di amore fraterno assolutamente puro.
Rating: PG
AVVISI: Nulla da segnalare.
- Edward ricorda perfettamente che quando suo fratello era piccolo era davvero uno scemotto. E lo ricorda tanto bene perché la sua attività preferita era cerca di evitarlo.
Commento dell'autrice: Finali ad effetto XD E sproloquio conclusivo, as usual *-*
Dopo il RoyEd e dopo uke!Ed era arrivato il momento per la liz di esplorare un altro tipo di depravazione: l’AlEd NON incest X’D Contrariamente a quanto la maggior parte di voi starà pensando, la liz non è una fangirl di quelle eccessive che vedono cose anche dove non ci sono neanche da lontano (be’, in realtà sì ._.) e incapaci di apprezzare i rapporti nella loro conformazione canon: io Ed e Al li vedo puccerrimi anche come semplici fratelli *-*
E per quanto lo shota mi attiri X’D per una serie di motivi avevo deciso che questa sarebbe stata una storia pura, ed è così che l’ho tenuta fino alla fine è_é Per la cronaca – e perché mi piace parlare – i motivi erano:
1) Questa storia doveva intitolarsi “Clean” XD per via della sfida sulle canzoni dell’album “Violator” dei Depeche Mode di cui vi ho già parlato più che a sufficienza XD E quindi doveva essere pulita ù_ù”””
2) Dovevo farmi perdonare per quella svarionata emo semi-porcellosa di “Redemption” (che voi non avete ancora letto perché è in fase di betaggio X3 Ma quando la leggerete capirete cosa intendo) e
3) Avevo letto un doujinshi puccissima con i due da piccoli, che mi ha fornito una storia super-ispirosa senza che io dovessi fare praticamente niente per modificarla X3 In gran parte, infatti, questa shot ricalca la trama dell’omonimo doujinshi di Uho Kiniromame, in cui Ed e Al hanno dieci e otto anni (immagino, perché non lo dice ma si suppone XD) e Ed non fa che lamentarsi perché quel tontolino di suo fratello lo segue ovunque XD Poi attua il piano malefico e le cose vanno esattamente come le ho descritte qui (ho fatto dei notevoli sforzi quanto a costruzione della trama, vero? :3), tranne per il fatto che alla fine del dj Ed si scusa con Al mentre il piccolo dorme e poi lo spuccia (platonicamente) un po’, mentre nella mia storia ho voluto ipotizzare un Ed meno spuccioso e più simile al ragazzino ancora immaturo ma ostinato e testardo che vediamo soprattutto all’inizio della serie.
Tra l’altro notare che una shottina così piccola ha addirittura tre titoli <3 Uno doveva necessariamente essere “Clean” XD, l’altro (“Kyoudai”) l’ho voluto mettere per riferimento al dj e il terzo (“Moonlight Sonata”) me l’ha suggerito mio fratello, e riprende il momento finale X3 (che tra l’altro mi fa da riferimento musicale XD).
Tutto sommato è stata una storia abbastanza piacevole da scrivere, anche se ha visto i suoi problemi XD Principalmente quello di trovare, nel testo della canzone che riprende, un qualsiasi riferimento alla storia che avevo in mente XD “Clean”, infatti, poteva essere il titolo solo di due tipi di canzoni: o una puccerrima lovesong o una roba sulla pulizia dopo la dipendenza da una qualche sostanza. Naturalmente, data la mia sfiga, è risultato essere nient’altro che la seconda possibilità :D Adattarla a due bambini che fondamentalmente giocano per tutto il tempo non è stato facile XD anche se fortunatamente l’animo emo di Ed mi ha dato un appiglio cui aggrappare i versi “I don’t understand / what destiny’s planned” XDDDD Sììì, adoro tirare le cose per i capelli *-*””” Spero vi sia piaciuta! XD
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CLEAN
(or Kyoudai)
(or Moonlight Sonata)
Violator#9. Clean


Da piccolo Al era veramente stupido.
Me lo ricordo bene perché io non facevo altro che cercare di sfuggire alla sua costante presenza, le mie giornate sembravano passare esclusivamente così: una fuga perenne dal sorriso inseguitore del mio allegro fratellino novenne.
Mia madre non capiva la mia irritazione, così come nessuna madre capisce l’irritazione del suo figlio maggiore quando è costretto a scarrozzarsi dietro il fratellino più piccolo.
Il che è strano, perché oltre ad essere la storia più vecchia del mondo non è neanche così assurdo da vedere in giro. Quando era una ragazzina mia madre non aveva nessuna amica che si lamentasse di costrizioni di questo genere? Qualcosa sul tipo “Mia madre mi ha costretta di nuovo a portare la piaga con me a giocare… dovremo fare da babysitter anche oggi, mi dispiace ragazze”, e così via.
Insomma, fatto sta che non capiva. Si limitava a sorridere dolce e beata – come sempre – stringendosi nelle spalle e rimproverandomi come se non lo stesse facendo, “Ed, tesoro, Al è piccolo e tu sei il suo fratellone, tocca a te prenderti cura di lui”.
Tante volte avrei voluto dirle qualcosa tipo “Ma la madre sei tu! Chi è che deve prendersi cura di lui?”, ma per quanto piccolo e ostinato fossi mi rendevo conto anche da solo che sarebbe stata un’offesa incredibilmente pesante, e non mi sono mai azzardato.
D’altronde mia madre non faceva altro che occuparsi di noi.
E io avrei dovuto semplicemente accettare di buon grado che il mio fratellino mi venisse dietro come fossi una specie di dio, e magari sentirmene anche lusingato.
Ma avevo dieci anni, insomma.
Comunque, non è che Al fosse uno stupido giusto perché mi veniva dietro, no. Avrei pure potuto tollerare la sua costante presenza se non fosse stato per il fatto che il moccioso sembrava godere del disturbare i nostri giochi, soprattutto quando giocavo con ragazzini un po’ più grandi di me.
Giocare a palla, per esempio, era impossibile. Al non capiva mai quando o a chi dovesse lanciarla, se dovesse tirarla coi piedi, o con le mani, o colpirla con la testa, e il più delle volte si limitava ad osservarla rotolare fino ai suoi piedi, chinarsi, prenderla fra le mani e poi portarmela, sorridendo candidamente mentre i miei compagni di gioco scoppiavano a ridere istericamente e mi chiedevano se non fosse per caso ritardato.
Queste erano cose che mi irritavano incredibilmente.
Certo, allora non capivo ancora che, molto semplicemente, non tolleravo che qualcuno si prendesse gioco di mio fratello – anche se ne aveva tutti i motivi. Mi limitavo a pensare che la sua tonta presenza fosse la causa di tutti i mali e credevo senza alcun dubbio che il sentimento di disagio che provavo quando lui c’era potesse miracolosamente sparire nel momento in cui lui non ci fosse più stato.
Perciò, un giorno, misi in atto il diabolico piano cui pensavo da qualche giorno, e quando uscii di casa e vidi che Al aveva cominciato a seguirmi come al solito, mi voltai e gli dissi “Sai, Al, non credo che oggi andrò a giocare con i miei amici”.
Lui mi fissò, spalancando gli occhioni e guardandomi come fossi pazzo.
- Perché? - chiese semplicemente, rimanendo immobile.
Io lasciai vagare lo sguardo in giro, scrollando le spalle come a dire “così, tanto per fare”.
Gli occhioni si riempirono immediatamente di lacrime talmente grosse che mi sembrò che schiantandosi a terra potessero scavare un buco o qualcosa di simile.
- Hai litigato con i tuoi amici per colpa mia, nii-san? - chiese Al, singhiozzando forte.
Io mi tirai indietro, allarmato.
- Ma no, non c’entra niente! - spiegai, cercando di tranquillizzarlo, - E’ solo che oggi non mi va di vederli!
Al tutto rosso in viso, prese ad asciugarsi frettolosamente le lacrime dalle guance, abbassando lo sguardo per terra.
- Facciamo così. - proposi quando mi assicurai che si fosse calmato e che potessi procedere col piano, - Tu adesso mi aspetti qui. Fra poco io tornerò e passeremo insieme tutta la giornata. Ci stai?
Lui sollevò immediatamente il viso, mentre gli occhi gli si illuminavano di gioia.
Annuì con convinzione, e io pensai distintamente “Evvai, ce l’ho fatta!”.
Ero… così felice… per una cosa così stupida, poi…
…certe volte, ripensando a quel giorno, mi rivedo come niente di più né niente di meno che un criminale.
Insomma, dannazione, l’avevo visto piangere! E la cosa non mi fermò! Non mi turbò neanche!
Sul serio.
Se oggi Al versasse anche una sola lacrima, intendo, se potesse, penso che capovolgerei il mondo, troverei il colpevole e lo truciderei senza pietà.
E allora il colpevole ero io e la cosa non mi infastidì per niente. Anzi, mi rese quasi orgoglioso l’essere riuscito a fregarlo – anche se, immagino, avrei dovuto vantarmi di meno di averla fatta a un bambino di otto anni, tra l’altro vistosamente scemotto, quale era Al.
Lo osservai sedersi sugli scalini davanti alla porta di casa e m’incamminai lungo il sentiero verso la collina, con l’aria di uno che va di fretta per sbrigare le commissioni che deve sbrigare per poi tornare di corsa a casa a giocare col suo fratellino.
Sulla strada incontrai Winry, e mi premurai di farle sapere che se per caso Al le avesse chiesto dov’ero, lei avrebbe dovuto dirgli che non ne aveva idea e non mi aveva visto.
Ero in una botte di ferro.
Raggiunsi la collinetta e mi sdraiai all’ombra dell’enorme quercia che la dominava, gioendo della mia solitudine e del frinire delle cicale nell’erba alta. Le foglie mi frusciavano sopra la testa, il venticello e i rami frondosi mi proteggevano dalla calura estiva e gli uccellini cinguettavano ovunque intorno a me.
Rotolando felice sul manto erboso, inspiegabilmente soffice, mi chiesi perché non avessi attuato quel piano già prima, che cosa mi avesse trattenuto dal concedermi quel piacere paradisiaco.
E il viso sorridente di Al mi apparve davanti agli occhi per un solo secondo, provocandomi un modo di fastidio non indifferente: adesso ero libero, non dovevo più badare a quel moccioso, potevo arrampicarmi sugli alberi senza avere paura che lui mi seguisse e potesse farsi male, potevo scivolare e fare le capriole sul dolce pendio della collina senza preoccuparmi che lui si rompesse una gamba franando giù fino a valle nel tentativo di imitarmi e potevo addormentarmi con le braccia dietro la nuca senza dover tenere un occhio aperto per tenerlo d’occhio ed evitare che si alzasse e magari si perdesse mentre seguiva una farfalla.
E questo fu proprio quello che feci. Mi sdraiai comodamente, chiusi gli occhi e, cullato dal silenzio pacifico del primo pomeriggio, mi addormentai.
Naturalmente, credevo che quello stupido di Al dopo un quarto d’ora, mezzora, al massimo un’ora, si sarebbe scocciato di stare ad aspettare e sarebbe tornato in casa, o magari sarebbe andato a giocare con Winry.
E naturalmente non avevo idea di quanto profondamente idiota fosse in realtà mio fratello.
Mio fratello che, mentre io dormivo beato, rimase accoccolato sulla gradinata davanti casa, le manine sulle ginocchia e le gambette raccolte al petto, in attesa del mio ritorno. Che quando mia madre, verso metà pomeriggio, uscì di casa e gli disse di rientrare, perché cominciava a fare freschetto, innocentemente rispose “Nii-san mi ha detto di aspettarlo qui”, e che quando lei ribatté “Però puoi tranquillamente aspettarlo in casa”, finse di rientrare e tornò a sedersi dov’era quando la vide scomparire.
Uno stupido che rimase lì fino a quando lei non tornò, praticamente ad ora di cena.
Uno stupido che, se mia madre non fosse tornata a quell’orario, avrebbe continuato ad aspettare là fuori che tornassi io, che mi svegliai quando praticamente era quasi mezzanotte.
Uno stupido che, ovviamente, si prese un gran febbrone.
Quando mi svegliai, quella notte, ero inquieto. Era buio, ero solo, e avevo sognato che Al sarebbe venuto a cercarmi, visto che su quella collinetta giocavamo sempre insieme, quindi, da qualche parte dentro di me, ero molto deluso nell’arrendermi all’evidenza che non l’aveva fatto. Percorsi correndo il sentiero, giù per la collina e poi dritto verso casa, e quando arrivai mia madre stava sciacquando una piccola bacinella di plastica e un panno bianco nel lavello della cucina.
- Ed, bentornato a casa. - disse lei, sorridendo tranquillamente, mentre io cercavo di riportare alla normalità il ritmo del mio respiro.
Certe volte avevo la sensazione che niente al mondo potesse demolire l’incrollabile sorriso di mia madre. Io e Al passavamo sempre le nostre giornate cacciandoci in un’infinita quantità di guai, ma non importava cosa facessimo, non importava in che condizioni tornassimo a casa, quante fossero le ginocchia e i gomiti sbucciati e quanti pantaloni stracciati e infangati potessero essere pronti per la spazzatura: mia madre sorrideva e ci diceva “bentornati”, come fosse assolutamente normale vedere rincasare i propri figli in quelle condizioni.
Questa cosa mi infastidiva, vagamente.
Però devo ammettere che risultava utile, soprattutto in casi come quello.
- Dov’è Al? - chiesi ansioso, ficcandomi le mani in tasca.
Ero arrabbiato, lui non era venuto a cercarmi, mi aveva lasciato dormire lì sulla collina fino a quell’orario assurdo.
Volevo fargli una ramanzina, appena l’avessi visto.
- E’ in camera. - sorrise lei, tranquilla, - Aveva la febbre alta quando l’ho trovato, ma ora sta meglio.
E… Al aveva cosa…?
Spalancai gli occhi, sollevando il capo per osservarla meglio in viso e capire se mi stesse prendendo in giro o meno.
- La febbre?
Lei annuì, stringendosi nelle spalle. Chiuse il rubinetto e posò la bacinella nel lavandino, per poi inginocchiarsi davanti a me ed accarezzarmi lievemente la guancia, sfiorando nel gesto la frangetta troppo lunga.
- Ed, tesoro, io capisco perfettamente che tu possa avere bisogno dei tuoi spazi, a volte. E capisco anche che, per ottenerli, tu possa dire una piccola bugia ad Al, ogni tanto.
Io abbassai lo sguardo, serrando le labbra e stringendo fra le mani il tessuto dei miei pantaloni così forte che mi fecero male le dita.
- Ma dal momento che tuo fratello si fida moltissimo di te, la prossima volta vedi che non sia una bugia che lo costringa a fare qualcosa di stupido, va bene? - concluse, sorridendo sempre come se stesse parlando di giocattoli, o del Natale.
Col senno di poi, mi rendo conto di quanto la cosa sia ironica.
Il me stesso di oggi vorrebbe andare a parlare con la sua mamma di ieri, accarezzarle il viso come lei spesso faceva quando ero piccolo e dirle “Non avresti dovuto avallare tutte le mie follie. Quel giorno, quando tornai a mezzanotte dopo aver abbandonato mio fratello completamente solo senza che mi sfiorasse il pensiero che avrebbe potuto essere pericoloso, avresti dovuto darmi uno schiaffo e dirmi ‘Ed, guai a te se lo rifai di nuovo!’, e io allora mi sarei calmato, forse”.
E quando lei fosse morta…
…quando lei fosse morta non avrei trascinato Al nell’assurdo tentativo di riportarla in vita.
“Non dire bugie pericolose a tuo fratello, Ed”.
Andrà tutto bene era la bugia più pericolosa di tutte.
Ce la faremo era un tradimento.
L’ennesimo tradimento della fiducia di Al. Da sempre mal riposta.
Quella notte, salii di corsa le scale, in preda a un’agitazione mai provata prima, e crollai accanto al letto di mio fratello. Guardai a lungo il suo viso arrossato, e le coperte che si sollevavano e si abbassavano al ritmo del suo respiro affannato.
- Ed? – mi richiamò mia madre, apparendo sulla soglia della porta, - Cerca di non svegliarlo, mi raccomando.
- Non… - mormorai, abbassando lo sguardo, sentendo già gli occhi bruciare per via delle lacrime, - Non pensavo che sarebbe rimasto davvero lì ad aspettare.
- Oh, - sorrise comprensiva la mamma, accarezzandomi il capo, - ma lo so, tesoro. Ho capito…
Io scattai in piedi, irritato, sottraendomi al contatto.
- E poi c’eri tu in casa! Pensavo che fosse al sicuro! E lui… lui mi segue sempre, sempre “nii-san, nii-san”, e mi dà fastidio e lo odio! – gridai, piangendo copiosamente.
Mi voltai e fuggii dalla stanza, andandomi ad accucciare sul pianerottolo davanti casa.
Al… era rimasto seduto lì per almeno cinque ore.
Avevo un solo modo per espiare la mia colpa.
Mia madre mi seguì, schiudendo discreta l’uscio e chiamandomi a bassa voce, come non volesse disturbarmi.
Io sollevai lo sguardo e lei subito mi disse “Non puoi stare qui fuori, Ed. Ti prenderai un malanno”.
- Non mi importa! – protestai io, stringendo ancora di più le ginocchia al petto.
- Andiamo, Ed, tesoro, ho capito che non odi davvero tuo fratello e ti senti in colpa per quello che hai fatto, ma di certo Al non sarà felice quando domattina lui starà bene e il suo nii-san sarà costretto a stare a letto con una pezza bagnata sulla fronte…
Il discorso di mia madre era perfettamente ragionevole.
E io non avevo nessun argomento altrettanto ragionevole con cui controbattere.
- No! – mi limitai a gridare, guardando fisso il buio della notte davanti a me.
Mia madre sospirò rassegnata, scomparendo all’interno della casa e riapparendo poco dopo con una coperta in mano.
- So che non riuscirò mai a farti cambiare idea. – disse, sorridendo quasi con dolce nostalgia, - Avvolgiti almeno in questa.
Io guardai la coperta e rabbrividii per il freddo.
Ma non la presi.
Non intendevo accettare niente che potesse rendere la mia prova meno dura.
Dovevo farmi perdonare. Dovevo passare sulla mia pelle quello che aveva passato Al.
Non vedevo altro modo per riparare a quell’errore, mi sembrava mastodontico, mi sembrava che non esistesse niente di altrettanto terribile come la prova alla quale avevo sottoposto il mio fratellino.
La mamma lasciò la coperta ai miei piedi e sembrò per un attimo incerta sul lasciare la porta socchiusa o chiuderla a chiave. Resembool era un paesino tranquillo, ma lasciare casa propria totalmente incustodita, con un bambino fuori ad aspettare l’alba e l’altro dentro a rigirarsi nel letto in preda ai dolori della febbre doveva sembrare assurdo persino a una persona naif come lei.
D’altronde non poteva chiudermi fuori.
Alla fine, sospirando pesantemente, chiuse la porta senza girare la chiave, probabilmente sperando che io decidessi al più presto di rientrare.
Io mi limitai ad appoggiarmi stancamente contro la parete, distendendo le gambe, che avevano cominciato a far male, e guardando la luna enorme che pendeva spaventosa dal cielo, sulla mia testa.
Ben presto, mia madre spense anche il lanternino che illuminava il pianerottolo, probabilmente pensando che sarebbe stato più sicuro che non mi vedesse nessuno, lasciandomi totalmente al buio.
E così rimasi.
Non dissi una parola e non pensai a niente.
Neanche mi guardai intorno.
Tremando per il freddo, mentre la coperta restava piegata e abbandonata al mio fianco, fissai la luna per ore, fino a farmi venire il torcicollo.
Mi bruciavano gli occhi, e ormai ogni sbadiglio era accompagnato da fiumi di lacrime involontarie, quando la porta si socchiuse e una figurina minuscola si stagliò scura contro il buio azzurrognolo della notte.
Dischiusi le labbra.
- Al! – mormorai agitato, scattando in ginocchio, - Cosa ci fai qua fuori?!
Lui mi cercò un po’ con gli occhi, e quando mi trovò si precipitò al mio fianco, attaccandosi alla manica della mia maglietta.
- Non devi stare qui! – esplose, le lacrime agli occhi, tirandomi con forza inaudita verso la porta.
- Al! – cercai di oppormi io, stupito da tanto impeto, - Hai la febbre! Torna a letto!
- Non ho più niente, nii-san! Ma tu starai male se continui a stare qui al freddo!
Irritato, tornai a sedermi incrociando le gambe.
Lui mi guardò a lungo. In quella posizione non poteva portarmi da nessuna parte, lo sapeva.
Sbuffò pesantemente e si sedette accanto a me.
- Non puoi rimanere. – lo rimproverai io, - Ti tornerà la febbre.
- Nii-san, non posso lasciarti qui da solo!
- Io ti ho lasciato solo, oggi! Quindi anche tu devi farlo!
- …ma io non voglio, nii-san…
Ricordo che mi accasciai su me stesso.
Era uno strazio, quel fratellino.
Non riusciva ad essere crudele con me neanche quando io lo ero stato con lui.
Cosa diavolo…
…cosa diavolo avevo fatto, cosa c’era, di tanto bello, fra le cose che avevo fatto, per meritarmelo?
Sospirai, allungandomi sul pavimento e recuperando la coperta, nella quale lo avvolsi.
- Almeno sta’ al caldo. – borbottai, imbarazzato, senza riuscire a guardarlo.
Al sorrise.
Ne sono sicuro.
Al sorrideva sempre.
E un secondo dopo anche io ero sotto la coperta assieme a lui.
La mia pelle reagì immediatamente al nuovo calore, e un brivido mi percorse tutto, dalla punta dei piedi ai capelli.
Al rise.
- Smettila! – mi lamentai io, infastidito, incrociando le braccia.
Poi al si appoggiò contro la mia spalla e chiuse gli occhi. Rimanemmo in silenzio per tantissimo, tantissimo tempo. La sua guancia era soffice e tiepida contro di me, ed era una sensazione piacevolissima.
Giuro che quella è stata la prima volta che ho pensato che avere un fratellino minore potesse essere piacevole.
Mentre io mi congelavo, pentendomi di tante di quelle cose che già allora mi sembrava di averne perso il conto, Al si mise a canticchiare. Canticchiò sommessamente la filastrocca che ci aveva insegnato mamma, una melodia che ci portavamo dentro da sempre. La sua vocina un po’ roca riempì l’aria, riempì il buio e raggiunse la luna, rendendola meno immensa e spaventosa, e più luminosa.
Continuò a cantare, a voce sempre più bassa, fino a quando non mi sembrò che si fosse addormentato.
- Al… - lo chiamai, atterrito e confuso dal sentimento che stavo provando, - Sei sveglio?
Lui si mosse appena, annuendo contro la mia spalla.
- Devi smetterla di fidarti così di me. – dissi, faticando incredibilmente a mettere insieme le parole, - Non penso mai prima di fare le cose. È pericoloso.
- Nii-san, - rispose lui, col tono di voce paziente che spesso usava mamma per spiegarmi cose ovvie che mi rifiutavo di capire, - se smetto di fidarmi di te, poi di chi mi fido?
- Della mamma? – suggerii io, guardandolo con la coda dell’occhio per osservare la sua reazione.
Lui ridacchiò.
- Ma mamma non mi aiuta ad arrampicarmi sugli alberi, però…
- Perché sa che è una cosa pericolosa!
Lui si prese un secondo per riflettere.
Doveva essere stanco, doveva essere ancora dolorante, doveva avere sonno.
Ma era lì a cercare di convincermi che fossi un buon fratello, anche contro la mia ostinazione.
- Però, nii-san… - disse infine, puntellandosi il labbro inferiore con un ditino paffuto, - io voglio arrampicarmi sugli alberi.
Io sospirai.
- E sei poi cadi?
Al sorrise, stringendosi meglio nella coperta e avvicinandosi il più possibile a me.
- Ma io non sono mai caduto. Tu mi hai sempre dato la mano, quando scivolavo.
Ecco.
Vedete? Uno stupido.
E io, più stupido di lui, non so per quanto tempo piansi, scusandomi, stringendolo forte sotto la coperta.
*

La mia testa è piena di ricordi di questo tipo. Di com’era Al da piccolo, di quello che facevamo, delle cose idiote che ci dicevamo prima di addormentarci, per ridere e conciliarci il sonno. Delle favole che mi costringeva a inventarmi quando mamma era troppo stanca e si addormentava senza raccontargliene una. Di quando provavamo a preparare il pranzo e venivano fuori solo schifezze disgustose, e poi mamma doveva ripulire il disastro che avevamo combinato in cucina e ricominciare daccapo a cucinare perché nel frattempo noi ci eravamo già attaccati alla sua gonna, lamentandoci perché ci brontolava lo stomaco. Di quando facevamo il bagno e Al insisteva per portarsi nella vasca un pupazzetto che puntualmente finiva sul fondo, e implorava me di recuperarlo perché da sopra la schiuma non riusciva a vederlo e non sapeva ancora immergersi e trattenere il respiro sott’acqua.
Di tutte queste piccole cose che ora mi danno un obiettivo da raggiungere.
Io, davvero, non so cosa potrebbe capitarci domattina. Non so se la pietra filosofale ci costringerà a seguirla fino in capo al mondo e poi indietro fino a ritornare da dove siamo partiti, magari lasciandoci anche con un nulla di fatto che ci porterà a ricominciare il nostro viaggio ancora, e ancora, e ancora per sempre. Non ho idea di cosa potrebbe riservarci il futuro così come non ho mai avuto idea di cosa ci sarebbe potuto capitare quando convincevo Al a seguirmi nell’esplorazione del bosco, o nella scalata di un albero, o nella discesa a valle lungo i pendii delle colline.
Ma so che alla fine sistemerò tutto. Sono abbastanza testardo e stupido per riuscirci, lo so. So che riporterò indietro il corpo di mio fratello, so che glielo ridarò, e so che quando Al sarà tornato quello che era, e io mi scuserò per tutto, mi abbraccerà e, ancora una volta, come sempre, cercherà di farmi capire quanto sia fortunato ad avere un fratello come me, anche se in quel preciso momento io starò pensando che per lui sarebbe stato meglio nascere figlio unico e risparmiarsi un sacco di complicazioni.
So per certo che sarà così. Che tornerò a sentire la morbidezza delle sue guanciotte, e che lui mi sorriderà, ancora, sempre.
Non perché vedo il futuro.
Ma perché, al di là dell’armatura, al di là delle lacrime che non può versare, al di là delle sue insicurezze e delle sue paure, io vedo Al. Al è sempre qui, nella mia testa. Incancellabile e inamovibile.
Mio fratello c’è. C’è sempre stato, anche quando detestavo il pensiero che ci fosse.
E ci sarà. Perché ho ancora qualcosa da farmi perdonare.
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