rp: gaia polloni

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico.
Pairing: CodyxJayJay.
Rating: R.
AVVISI: Boy's Love, OC, What If?.
- Brian Molko e Matthew Bellamy hanno lo stesso problema, ma non lo sanno. Brian Molko e Matthew Bellamy, ed entrambi hanno un figlio che è esattamente il loro problema. Brian Molko e Matthew Bellamy hanno anche la stessa soluzione da adottare: il problema è che potrebbe perfino ritorcersi contro di loro!
Commento dell'autrice: Ho cominciato questa storia alla fine di febbraio XD La sto finendo adesso che siamo alle porte della fine di maggio. Converrete con me che oltre due mesi di tempo siano vagamente eccessivi per una storiella priva del benché minimo senso e di appena (si fa per dire!) ventuno pagine, ma insomma, io avevo davvero bisogno di scriverla XD Tanto per cominciare perché io amo JayJay u.u (e se ve lo state chiedendo, no, per quanto la cosa possa dispiacermi, un figlio di Matt Bellamy ancora non esiste. Soprattutto perché lui preferisce letteralmente fuggire in Australia piuttosto che sistemarsi e moltiplicarsi come il buon Signore comanda!) e secondariamente perché Cody è un puccino e, pure se non si merita di essere già fangirlabile fino a questo punto nonostante abbia appena tre anni, immaginarlo in teneri atteggiamenti col figlio del nemico pubblico numero uno di papone è troppo bello çOç Come si fa a non amarli?! T^T
La canzone che dà il titolo alla storia (e dalla quale ho preso pure i tre versi che la aprono) è l’omonima Rawhide, che è il titolo di una sigla di non mi ricordo che telefilm sui cowboy americano, ma che comunque è stata portata alla ribalta dal film (quello vero, quello originale) dei Blues Brothers. È la canzone che i ragazzi cantano quando sono nel country-bar, per evitare di farsi ammazzare a suon di bottigliate dai gioiosi avventori del luogo XD Come titolo è adattissimo:rawhide, infatti, è la pelle grezza, non ancora conciata. Voglio dire, per una fanfiction che, in fondo, è un racconto di formazione, avrebbe potuto esserci titolo più azzeccato? XD *si vanta di meriti inutili*
Spero che leggere questa storia sia per voi piacevole quanto per me è stato scriverla <3 E lunga vita alla coppia principale *_* Prima o poi la rivedrete, prometto XD!
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RAWHIDE

All the things I'm missin',
Good vittles, love, and kissin',
Are waiting at the end of my ride

- Non ti perdonerò mai.
Stefan si limitò ad ascoltare silenziosamente il rollio della macchina sull’asfalto, prendendosi tutto il tempo necessario per sospirare pesantemente e roteare gli occhi, prima di rispondere.
- Cody, non è colpa mia, se ora stai andando in America.
Il ragazzino, seduto al suo fianco nella vettura, sembrò come arruffare le penne. Dal momento che, però, di penne non ne aveva, tutto ciò che arruffò fu l’enorme massa di boccoli corvini e ribelli, che si agitarono sulla sua testa quando si voltò a guardarlo, sgomento.
- Come fai a dire che non è colpa tua?! Sei stato tu a consigliare allo stronzo-
- Stavo cercando di dire – lo interruppe l’uomo, flemmatico, imboccando la strada che li avrebbe finalmente condotti all’aeroporto, - che non è una colpa.
- Oh, certo! – sbottò Cody, tirando celermente fuori dalla tasca del giubbotto un elastico, per racchiudere le ciocche in una corta coda ricciuta, - Non è colpa di nessuno, se passerò il prossimo mese della mia vita rinchiuso in una fattoria del nordovest statunitense, a pelare patate e raccogliere grano. È per merito tuo, Stefan! Grazie mille!
- Mi pare piuttosto improbabile ti mettano a pelare patate. – suppose Stef, accelerando impercettibilmente, - Si vede che hai le mani da pianista.
- Che vuoi che veda un villico ignorante?!
L’uomo sospirò ancora, più profondamente.
- Smettila di parlare come tuo padre alla tua età. – consigliò, - Tu sei molto più maturo di quanto non fosse lui.
- Quello che non concepisco – continuò Cody, ignorandolo, - è come sia stato possibile che mia madre fosse d’accordo! Non ha senso! E resta comunque colpa tua: se non fossi rimasto ad ascoltare le paranoie dello stronzo adesso non mi ritroverei a dovere andare ad espiare una colpa che non ho commesso!
- Ti ho già detto – lo corresse Stefan, - che nessuno ha colpa di niente.
- Bene! Allora non dovrei andare a risolvere un problema che non ho!
Stef gli lanciò un’occhiata perplessa.
- Quindi, stare chiuso in camera tua da quando torni da scuola fino all’ora di cena per poi non farti più vedere fino all’indomani mattina, secondo te, è “non avere alcun problema”.
- Sono solo asociale! – rimarcò Cody, sbigottito, gesticolando animatamente, - Ho diciott’anni, cazzo! E comunque, mio padre non mi manda in Ohio perché sono asociale, ma perché è convinto che io sia gay! – si lasciò andare ad una smorfia, incrociando ostinatamente le braccia sul petto. – Ed io non lo sono, ma se lo fossi che problema ci sarebbe?! Tu sei gay! Anche lui è gay!
- Oh, è come Vinny ha sempre sospettato, allora. – ridacchiò il bassista, entrando nel parcheggio dell’aeroporto e fermandosi di fronte al casello del bigliettaio per pagare i venti minuti di deposito che gli sarebbero serviti per accompagnare Cody al check-in, - Tua madre è solo una copertura!
Cody si mordicchiò un labbro.
- Sai benissimo cosa intendevo. – sbottò. – E dì al tuo fidanzato di non speculare sul mio stato familiare… è già abbastanza frustrante sapere che in genere mio padre lo accoppiano con te.
Stef si lasciò andare ad una risata di cuore, spegnendo la macchina ed uscendone fuori con la solita andatura sciolta della pertica alta più di due metri ma incredibilmente snodata che era. Cody, invece, faticò un po’ a liberarsi dalla cintura di sicurezza, recuperare lo zainetto rosso incastrato fra le gambe ed uscire dall’abitacolo. Ci mise tanto, probabilmente, anche perché in realtà di uscire non aveva alcuna voglia.
- Almeno poteva degnarsi di accompagnarmi lui. – commentò, avviandosi al fianco di Stefan verso l’entrata dell’aeroporto. Nella sua voce c’era una nota di rammarico che Stef non poté evitare di notare, ed alla quale rispose con un’amichevole pacca sulla spalla, chinandosi a recuperare l’enorme valigia del ragazzino dal portabagagli e sussurrando un blando “Sai che doveva lavorare” che, peraltro, per quanto fosse debole come scusa, rappresentava anche la candida verità.
Heathrow era la solita accozzaglia di volti, lingue e destinazioni. Anche ad essere pronti e ben disposti nei confronti di un viaggio transatlantico, non lo si sarebbe comunque trovato un posto rassicurante.
Cody si strinse all’uomo che lo affiancava, ricominciando a mordersi impietosamente il labbro inferiore e prendendo a torturarsi le dita come per porre l’accento sul proprio travaglio interiore. Stefan sorrise bonario e gli schiaffeggiò debolmente una mano.
- Non ti distruggere, o tuo padre è capacissimo di farti ricoverare in ospedale per un intervento di ricostruzione.
- Certo. – sputò Cody, astioso, - Gli interessano solo le cose importanti per lui. Quelle importanti per me non hanno alcun significato.
- Dio, Cody, perché non puoi essere come tutti i normali adolescenti della tua età? Stai andando in America! Per un mese!
- Sto andando a pelare patate in Ohio per un mese!!! – corresse il ragazzo, sedendosi sulla propria valigia in un evidente attestato di stizza.
- Da come la metti tu sembra una punizione.
- Prova a metterla in un modo in cui non lo sembri. – lo sfidò, senza neanche guardarlo. – Non capisco, sul serio. Quello non è mai stato costretto a fare cose simili. S’è goduto l’infanzia, l’adolescenza e pure la giovinezza. – continuò con una smorfia di disappunto, - Anzi, non mi risulta abbia mai smesso di godersela, in realtà. Ha fatto sempre quel cazzo che voleva, e-
- Rospetto… - lo apostrofò dolcemente Stefan, scompigliandogli i capelli e rendendo del tutto vano l’elastico che li reggeva, al punto che Cody, infastidito, si scostò e prese a pettinarsi velocemente con le dita, per ricomporre il codino, - Guarda che tuo padre, per fare quel cazzo che voleva, per poco ci lasciava la pelle.
- Ma tu guarda che sfiga. – commentò acido lui. Poi abbassò lo sguardo, aggrottando le sopracciglia. – È un ipocrita.
Stefan ripensò alla discussione che aveva avuto con Brian qualche giorno prima. A quanto l’avesse visto preoccupato da come il suo adorato figlio unico passasse le sue giornate chiuso in casa, privo di un qualsiasi stimolo esterno, rintanato in camera propria nei momenti peggiori, appiccicato al pianoforte e del tutto sordo ad ogni richiamo in quelli migliori, e di come avesse notato negli occhi del proprio migliore amico una traccia di smarrimento talmente evidente che proprio non aveva potuto fare a meno di proporre quella soluzione strampalata.
“C’è un amico di Vin che ha una fattoria nel nord-America… forse, passare un po’ di tempo a contatto con la natura gli farebbe bene”.
L’aveva detto perché era certo di tutta una serie di cose.
Prima di tutto, che Brian al solo sentire una cosa simile, di fronte alla reale possibilità di privarsi della propria ragione di vita per un mese intero, avrebbe immediatamente rinunciato all’idea, finendo per tranquillizzarsi di riflesso.
Secondo poi, che Helena non avrebbe mai accettato quel trasferimento, per motivi identici e probabilmente ancora più potenti di quelli che avrebbero dovuto muovere Brian.
Infine, che entrambi si rendessero conto, con quella soluzione eccessiva e paradossale, che in realtà Cody non aveva niente di sbagliato e sarebbe bastato aspettare un po’ per vederlo andare in giro nottetempo con un mucchio di amici ubriachi – ed allora che sarebbero stati dolori.
Ciò che l’aveva stupito, invece, era stata la facilità disarmante con cui sia Helena che Brian avevano accettato la sua proposta senza battere ciglio.
Questo gli aveva dato da pensare.
In fondo, lui non viveva in quella casa. Non poteva sapere esattamente in che modo si comportasse Cody.
Forse, le sue supposizioni erano troppo ingenue. Probabilmente, sia Helena che Brian sentivano quel problema più profondamente di quanto non potesse lui. Magari, addirittura, una soluzione che per lui era sembrata assurda, per loro invece era del tutto razionale, una specie di manna dal cielo.
Era stato questo sospetto a convincerlo della necessità di chiedere a Vincent di prendere contatto con quel suo amico, per organizzare il tutto.
La cosa, ovviamente, s’era rivoltata contro di lui, ma di questo non aveva mai dubitato: a Brian non era sembrato vero di poter obbligare il figlio ad una cosa simile, liberandosi allo stesso tempo di una parte delle responsabilità aggiungendo al proprio discorso un semplice “Stef ci ha consigliato”.
Sospirò, porgendo una mano a Cody per aiutarlo a rimettersi in piedi.
In fondo, quello era il mestiere ingrato del padrino.
- Sta solo cercando di evitare tu compia i suoi stessi errori. – disse, indirizzandolo verso la fila del check-in con una pacca sulla schiena.
Cody si lasciò andare ad una risata di scherno.
- È proprio vero che le colpe dei padri ricadono sui figli.
*
Matthew Bellamy avrebbe avuto bisogno di più mani rispetto a quelle che si ritrovava, per fare il conto preciso di tutti i motivi per i quali riteneva giusto e doveroso dare una raddrizzata al proprio omonimo figlio.
Uno di quei motivi era proprio lì, davanti ai suoi occhi, in quel momento.
Dalla porta, Matthew James Junior Bellamy lo fissava con aria profondamente scazzata, le braccia abbandonate lungo i fianchi e uno sbadiglio sfacciato nascente a tremare sulle labbra.
- Cosa hai combinato?! – si decise a sbottare Matthew, allargando le braccia ai lati del corpo, mentre Gaia, sua moglie, accorreva dalla cucina e si pressava una mano sulle labbra per evitare di erompere nell’urletto stridulo che il modo in cui suo figlio era conciato avrebbe sicuramente giustificato.
- Ti riferisci a…? – domandò Matthew Junior, con aria da sbruffone, appendendo una mano ad un fianco.
- Mi riferisco a quest’acconciatura e all’ennesimo piercing nuovo!
Suo figlio rise sonoramente, facendosi strada in casa spintonandolo con malagrazia. Il fatto fosse effettivamente più robusto e più alto di lui gli permetteva questo ed altro, in fondo. Sapeva che non avrebbero dovuto dargli da bere latte e cacao, quand’era piccolo!
- Tu – disse il ragazzo, sottolineando quel pronome con una dose di disgusto tale che Matthew ne ebbe paura, - sei proprio l’ultima persona al mondo a poter sindacare sulle acconciature altrui. – commentò, dirigendosi con nonchalance verso le scale, per salire al piano di sopra.
- Oh, senti, io i colori me li sono passati tutti, ma la cresta biondo platino proprio non sta né in cielo né in terra! – puntualizzò l’uomo, rincorrendolo fino alla base delle scale, - E quel coso al naso? A quanti siamo, quattro? Ti danno un premio se raggiungi i cinque?
- Il premio dei cinque l’ho già ritirato, mi avvio verso quello dei dieci. – ghignò il ragazzo, sfilandosi dalle braccia la giacca sdrucita che indossava e mostrando a coprire la pelle una maglia strappata in più punti che, di coprente, non aveva proprio nulla. – E questo è il sesto, comunque. Dobbiamo rifare l’appello?
- Ragazzino, bada a come parli, o-… Matthew! Torna subito qui!
- Jay, papà, Cristo santo! – sbottò lui, fermandosi a metà della rampa, appositamente per voltarsi a guardarlo con rabbia, - Quante cazzo di volte dovrò ancora dirtelo? Mi chiamo Jay!
- Tu ti chiami Matthew Bellamy, e non sarà certo lo stupido soprannome che ti hanno affibbiato quegli idioti che frequenti a farmi cambiare idea in proposito!
Jay roteò gli occhi, riprendendo a salire le scale senza più voltarsi indietro. Matthew continuò a strillargli addosso ancora per qualche minuto, prima di arrendersi al fatto che non l’avrebbe più ascoltato. Quando lo capì, si passò una mano fra i capelli, abbassando lo sguardo e sospirando pesantemente.
- Dovresti cominciare a chiamarlo Jay, sai? – suggerì Gaia, avvicinandoglisi con cautela ed intrecciando dolcemente le dita con le sue, - Non è un sacrificio enorme.
- Il sacrificio enorme è tollerarlo, Gaia. Dio, ma lo vedi?! Non ha rispetto di niente e di nessuno, fa solo quello che vuole, non studia, sarà sicuramente bocciato, non intende andare all’università-
- …e ti senti in grado di rimproverarlo tu, che non hai neanche concluso il liceo? – ridacchiò sua moglie, dandogli un buffetto su una guancia.
- Be’, tu che potresti non gli dici una parola! – fece notare lui, - Qualcuno dovrà pur rimproverarlo!
- Oh, avanti! – sbottò lei, roteando gli occhi e voltandogli le spalle per tornare in cucina, esattamente come aveva fatto suo figlio poco prima, - Ha appena compiuto sedici anni, è nel bel mezzo del suo periodo di ribellione… come fai a non ricordare il tuo?
- Io avevo qualcosa di serio contro cui ribellarmi! – strillò Matthew, afferrando al volo il coltello che Gaia gli aveva lanciato ed utilizzandolo immediatamente per tagliare a cubetti il pomodoro che aveva trovato sul tagliere, - Mio padre mi aveva mollato a sette anni, avevo un fratello stronzo che mi portava in giro come un fenomeno da baraccone, mia madre era una svampita come poche ed io ero uno sfigato colossale! La mia vita faceva schifo!
- Be’, la mia no. – commentò Gaia, scrollando le spalle e scolando la lattuga nel lavandino, - Ma mi vestivo comunque come Madonna e andavo comunque in giro a combinare casini.
Matthew si mordicchiò l’interno di una guancia, raccogliendo i pezzetti di pomodoro sul palmo della mano e rovesciandoli nell’insalatiera fiorata dove Gaia stava provvedendo a sminuzzare delle carote.
- Non sono tanto i piercing e le tinture che mi preoccupano, tesoro… - rifletté, passando a sciacquarsi le mani sotto il rubinetto, - È che è viziato da morire. Non capisco come abbiamo fatto a lasciarcelo sfuggire così di mano! – si chinò sul frigorifero, recuperando una bottiglia d’acqua ed una di coca cola e posandole sul tavolo, - Sul serio. È pigro e fa solo quello che gli dice la testa. È un totale irresponsabile. Io la scuola l’ho mollata, sì, ma perché avevo già in mano un EP ed un contratto con la Dangerous. Lui che ha, eh? Appena si avvicina ad uno strumento fa danni senza neanche toccarlo, ed è stonato come una campana! – richiuse il frigo con violenza, afferrando le due bottiglie sotto le ascelle e dirigendosi a passo spedito verso la sala da pranzo, - L’unica cosa che gli interessa è andare in giro a farsi figo con quell’altro gruppo di pseudo-punk dei suoi compagni di classe!
Gaia sospirò, ridacchiando a bassa voce dell’agitazione del marito. Terminò di preparare e condire l’insalata e poi lo raggiunse in sala da pranzo, portando con sé l’insalatiera che lui provvide immediatamente a toglierle dalle braccia per liberarla del peso.
- Non faticare troppo! – le disse premuroso, - Finisco io di preparare.
- Non fare il cretino, sono solo al secondo mese. – borbottò lei, spintonandolo fino alla sedia ed obbligandolo a sedersi. – Comunque, ascoltami. Hai ragione, quando dici che Jay sta un po’ esagerando. – si interruppe un attimo, giusto per osservare divertita Matthew annuire con foga, e poi riprese. – Sai, il cognato del cugino del fratello di Sveva, ti ricordi Sveva, vero? Ci frequentavamo un sacco, quando stavamo in Italia! Comunque, questo tipo ha una fattoria. Da qualche parte negli Stati Uniti d’America. Potremmo mandarlo un po’ lì, ti pare? Faticare potrà fargli solo bene, e chissà, magari trova la vocazione della sua vita.
Matthew la guardò, luccicando d’ammirazione.
- In momenti come questo mi ricordo perché ti amo!
- La cosa indecente è che tu possa scordarlo! – commentò lei con una smorfietta falsamente offesa, mentre lui si rimetteva in piedi e la stringeva fra le braccia.
- È fantastico. – concluse infine Matthew, dirigendosi di gran corsa verso le scale, - Chiama questa Svezia-
- Sveva, Matt!
- Quello che è! Chiamala e mettiti d’accordo con lei. Lo spiantato parte al massimo dopodomani. Tanto è in vacanza!
Gaia inarcò le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto.
- Matt, si può sapere dove stai andando? – gli chiese, osservandogli salire le scale due a due, - Mi sembra un po’ presto per ordinargli di preparare la valigia.
- Macché valigia e valigia! – sbottò lui, ormai in cima alla rampa, - Vado a sradicarlo dal letto per vedere se ci dà una mano a preparare la tavola!
Gaia ridacchiò, scuotendo rassegnata il capo. Quando cominciò a sentire le urla provenire dal piano di sopra, seppe che la battaglia era persa, e tornò in cucina per scolare la pasta.
*
Quando Cody Molko e Matthew James Junior Bellamy arrivarono al Cleveland Hopkins International Airport, capirono per quale motivo quella città fosse soprannominata “la metropoli della riserva occidentale”. Quella non era una città: era un’indecente accozzaglia di gente appartenente a qualsiasi razza e qualsiasi cultura. C’era una tale differenziazione che, più che un aeroporto, quella roba sembrava la sede del Parlamento Europeo… però all’americana.
In ogni caso, non era un luogo in cui fosse facile notarsi. Se poi neanche ti conoscevi…
Per questo motivo, i due ragazzi presero per la prima volta nota delle rispettive esistenze nel momento in cui si trovarono in un luogo meno affollato, più tranquillo e, soprattutto, più in movimento: il bus che, facendo il giro delle campagne circostanti, fuori dalla zona industriale, li avrebbe condotti al piccolo agglomerato rurale nel quale si trovava la fattoria di Jack Felton, che li avrebbe ospitati per tutto il mese successivo.
Naturalmente, nessuno dei due sapeva che si sarebbero trovati a condividere un solaio per tutta la durata della loro permanenza, né immaginavano minimamente cosa sarebbe successo dopo, ma si notarono.
Jay notò Cody perché sembrava l’unico essere vagamente coetaneo nel raggio di chilometri.
Cody, invece, notò Jay perché non notare quel tizio sembrava un’impresa impossibile. Alto, magro, con due occhi impossibilmente azzurri puntati nel niente di fronte a sé, quello strano ragazzo dall’aria tormentata stava letteralmente spalmato su due sedili, e si faceva aria con una mano, scostandosi di dosso con l’altra la maglia a rete che lo fasciava fino all’ombelico e sotto la quale si intravedeva un piercing al capezzolo sinistro, ascoltando distrattamente musica dal lettore mp3 che gli pendeva ozioso dal collo.
Rimase a fissarlo un po’ troppo a lungo, forse: perché alla fine lui se ne accorse, gli sollevò addosso quegli occhi incredibili, inarcando le sopracciglia con aria inquisitoria, e lo indicò con un cenno del capo. Cody sussultò e spostò lo sguardo sulla campagna sempre uguale – verde, gialla, verde, gialla – fuori dal finestrino. Sentiva il cuore battere ad un ritmo semplicemente indecente. Quella cosa non era normale.
Si riscosse soltanto quando sentì un lievissimo sbuffo d’aria al proprio fianco annunciargli orgogliosamente che qualcuno s’era seduto accanto a lui. Temeva anche di sapere chi.
Si voltò a guardare, ed i suoi timori trovarono immediatamente riscontro.
- Una ragazza carina come te non dovrebbe viaggiare da sola.
Ok. L’aveva preso per una ragazza. Ed il modo in cui stava insinuando potesse essere lui il “fortunato” che avrebbe potuto proteggerla era semplicemente disgustoso.
Ma quello era comunque un accento inglese. Non poteva ignorarlo!
- Da dove vieni? – chiese perciò, senza che la cosa avesse il benché minimo legame con quanto gli aveva detto lui.
Il ragazzo inarcò nuovamente le sopracciglia.
- Maschio? – chiese a propria volta, senza degnarsi di rispondere.
Cody annuì.
- Mi dispiace. – aggiunse senza nessun motivo valido. Non era neanche vero gli dispiacesse – cosa diavolo c’era da dispiacersi?!
L’altro ragazzo si lasciò andare ad una smorfia delusa, incrociando le braccia sul petto.
- Peccato. – borbottò, - Sembravi femmina.
Cody scrollò le spalle.
- Ognuno ha i suoi difetti. – buttò lì senza pensarci, e il tipo rise di gusto.
- Comunque, Inghilterra. – rispose finalmente, - Anche tu, no?
Cody annuì ancora, sorridendo brevemente.
- Londra. – precisò atono.
- Dai! – rise il biondo, battendosi una mano sulle ginocchia, - Anche io! Come ti chiami?
- Cody. – rispose lui, tendendo una mano che il tizio strinse con fin troppo calore. – Tu?
- Jay. – annunciò quello, una nota di orgoglio purissimo nella voce.
- …che razza di nome sarebbe? – ridacchiò lui, poco convinto.
Jay lo fissò, colmo di disappunto.
- Viene da JayJay. – spiegò.
- …che dovrebbe essere un nome più dignitoso?
Il biondo sbuffò, roteando gli occhi.
- Ho un nome da maggiordomo. – borbottò, - Anzi, da figlio di maggiordomo. Matthew James Junior. Perciò i miei amici hanno cominciato a chiamarmi JayJay, e poi semplicemente Jay.
Cody annuì comprensivo, invidiandolo pure un po’: se anche avesse avuto degli amici, nessuno gli avrebbe mai affibbiato un soprannome del genere. Lui non aveva un nome soprannominabile.
Cody era semplicemente un nome molto stupido. Non che fosse particolarmente brutto; era solo terribilmente inadatto ad accompagnare una persona per tutto l’intero corso della sua vita. Era carino per un bambino, grazioso per un adolescente, ridicolo per un ragazzo, imbarazzante per un adulto ed incredibile per un anziano. Praticamente, smetteva di essere utile a quindici anni. Lui ne aveva già diciotto, e suo padre non gli aveva mai permesso di cambiare nome – accidenti a lui e a quel suo stupido amico che aveva pensato bene di crepare in gioventù per poi condannare un povero innocente a portare quello stupidissimo nome.
L’unica sua fortuna era non avere neanche una persona che fosse così intima da sfotterlo per quella sua disgraziata condizione. Nessuno degli amici di suo padre si sarebbe mai permesso, ed i compagni di scuola potevano sfotterlo per così tanti altri motivi – il suo aspetto vagamente effeminato perché gracile e dai lineamenti dolci, il conservatorio, i concerti per vecchi bacucchi nel salotto di casa ogni sabato sera, i quaderni di Yugi-Oh che sua madre si ostinava a comprargli senza neanche guardare la copertina – che il suo nome passava decisamente in secondo piano.
- Tu hai un bel nome, comunque. – sentenziò a quel punto Jay, come avesse seguito il filo interiore dei suoi pensieri e si fosse preparato a smentirlo in quei pochi minuti, - È musicale.
- Oh. – ridacchiò lui, divertito, - E tu lavori per NME? Sei un esperto?
Anche Jay rise, o almeno sghignazzò, facendo ripartire l’i-pod da dove s’era interrotto, lasciando però un orecchio libero dalla cuffia, per poter continuare ad ascoltare lui.
- Io no, mio padre sì. – annuì, - Io sono un frana in campo musicale, però ho buongusto. E lì mi fermo.
- Ma dai, e tuo padre chi è? Magari lo conosco, sai, pure-
- Guarda, non mi va di parlarne. – lo interruppe lui, con una smorfia irritata, - Lo odio quello stronzo, è colpa sua se sono qui adesso.
- Ah, a chi lo dici. – annuì Cody, sbuffando pesantemente, - Vale lo stesso per me.
Jay rise ancora, offrendogli la cuffia libera.
- Pare che abbiamo un sacco di cose in comune. – commentò divertito, - Un po’ di Mozart?
Cody tese l’orecchio e, dall’auricolare che la mano di Jay – unghia mangiucchiate e smaltate di nero annesse – gli tendeva, sentì provenire la familiare Aria della Regina della Notte dal Flauto Magico. Lasciò scorrere incredulo lo sguardo sull’individuo che ancora gli sorrideva.
- E tu ascolteresti Mozart? – gli chiese, sbigottito.
- Te l’ho detto che ho buon gusto. – commentò supponente Jay, scrollando le spalle.
- Giurami che non stai cercando di fare colpo. – aggiunse malizioso, chinandosi impercettibilmente verso di lui.
Oddio, cosa diamine sto facendo?!
Jay sorrise con la sua stessa sfumatura di malizia divertita.
- Nah. Se avessi voluto fare colpo su un pianista, gli avrei dato da ascoltare Rachmaninov.
Cody sorrise apertamente e sinceramente – anche troppo – guardandolo con limpida ammirazione.
- Come hai fatto?
Jay sghignazzò.
- Le conosco bene le mani dei pianisti. – disse soltanto, ficcandogli l’auricolare nell’orecchio senza aspettare il suo permesso, - E adesso silenzio. – concluse.
E silenzio fu. Se non altro per omaggiare la melodia stupenda che passava dall’auricolare alle sue orecchie, rilassandolo e cullandolo in un abbraccio quasi paterno. Per la verità, non avrebbe saputo trovare un aggettivo si adattasse meglio al suo rapporto con Mozart, che non fosse proprio paterno.
Nonostante la sua entrata nel mondo della musica – nonché la sua iscrizione al conservatorio, ormai quasi decennale – fosse stata sostanzialmente una scelta obbligata impostagli da suo padre, lui non se n’era mai lamentato. A suo parere, suo padre faceva il mestiere più bello del mondo. Girava il mondo, ascoltava musica di ogni genere, la assimilava, la rielaborava, la faceva propria e poi ne produceva altra che riusciva ad essere allo stesso tempo nostalgica dei suoi ascolti e del tutto nuova rispetto ad essi.
Sì: suo padre aveva talento. Ed era per questo che, dopo aver smesso di comporre e cantare, era diventato un produttore.
Invece, in lui, il talento difettava del tutto. Sì, sapeva suonare il pianoforte, e sapeva suonarlo bene. Ma dipendeva più dall’eterno esercizio al quale si era sottoposto, che non da un vero e proprio talento di base. La sua, per certi versi, era la condizione più sfortunata di tutte: adorava la musica, adorava suonare ed avrebbe voluto riuscirci a livelli eccelsi. Purtroppo, per quel difetto di base, non ci sarebbe mai riuscito.
E non che suo padre non avesse cercato di stimolarlo in tal senso, peraltro: era stato tutto meno che un padre assente, nonostante i tour. Ed ogni volta che era a casa lo teneva con sé. Lo nutriva di musica. All’inizio di ogni genere e provenienza, ma quando aveva colto la sua spiccata preferenza per la musica classica aveva cominciato ad ingozzarlo letteralmente di opere e composizioni varie. Rachmaninov, ovviamente, su tutto.
Ma la vera passione di Cody era proprio Mozart. I compositori europei in generale, sì, quelli austriaci – Haydn, Strauss, Schubert! – in particolare, ma se avesse dovuto citare un nome, uno solo, che avesse per lui più significato di tutti gli altri, quel nome sarebbe stato Mozart.
Suo padre cercava di dargli tanto a livello culturale. E ci riusciva.
Riusciva a dargli molto poco, però, a livello affettivo.
Non che fosse esattamente una sua colpa, peraltro: Cody era sempre stato un bambino piuttosto timido, e suo padre non era noto per essere particolarmente esplicito con le proprie dimostrazioni d’affetto. A meno che stendersi in ginocchio di fronte al proprio bassista o baciarlo di fronte a mezzo mondo una cinquantina di volte nell’arco di vent’anni non fosse anch’essa considerabile una dimostrazione di vero affetto. Cody non ne era tanto sicuro. Tutt’altro: era fermamente convinto che le dichiarazioni d’amore di suo padre nei confronti di Stefan potessero essere trovate in tutt’altri tempi e modi – come ad esempio nei momenti in cui gli concedeva di decidere per la propria vita e per quella dei suoi cari, come aveva fatto in quell’occasione.
In compenso, Mozart lo faceva sentire amato. Amato davvero. Le Nozze di Figaro avevano scandito le sue giornate per mesi. S’addormentava fra le rassicuranti e dolcissime note dell’ultimo atto, quello che da sempre gli aveva messo in testa l’idea – sicuramente un po’ ingenua, ma tanto piacevole – che non ci fossero disastri o fraintendimenti ai quali non potesse essere posto rimedio.
Con quell’opera aveva un rapporto speciale, ma in realtà era un po’ con tutta la produzione del compositore che non poteva proprio fare a meno di sentirsi felice. Aveva sempre pensato Mozart componesse musica come volesse far sentire ad ogni singola persona in ascolto quanto quell’aria fosse stata appositamente pensata per lui. Per farlo sentire felice o triste o confuso o sollevato o divertito. Comunque per lui.
- Io ci sono cresciuto, con questa musica. – soffiò Jay quando l’aria si fu conclusa, spegnendo l’ipod e raccogliendone gli auricolari, prima di riporlo nel proprio tascapane.
- Sai che non si direbbe affatto? – ridacchiò lui, dondolando un po’ le gambe davanti a sé, nel tentativo di sgranchirle. Viaggiavano seduti ormai da quasi un’ora. – Sembri più il tipo che ascolta solo punk. O qualcosa di simile.
- Se dovessi andare in giro per come dettano i miei gusti musicali, sarei un improponibile miscuglio di moda settecentesca ed abbigliamento emo, credo. – rise apertamente lui, incrociando a propria volta le gambe sul sedile, incurante dell’enormità di spazio che occupavano, lunghe com’erano. – Trovare il broccato però non è così facile. – aggiunse poi, stringendosi nelle spalle, - Perciò dell’intenzione originale rimane solo la parte che riguarda l’emo, mi sa. – e rise ancora, tanto contagioso che Cody non poté proprio resistere all’idea di seguirlo.
- Comunque sia… - disse, voltandosi a guardare fuori ed adocchiando un’enorme distesa di campi coltivati e una figuretta abbronzata in salopette scamosciata che si agitava per farsi vedere dal limitare di un sentiero sterrato giallo di polvere, - mi ha fatto piacere di conoscerti, ma credo di essere arrivato. – lo informò, indicando la scena. – Mi hanno detto che avrei capito dove avrei dovuto scendere perché ci sarebbe stato qualcuno ad aspettarmi. Dev’essere lui.
Jay lo guardò con un misto di curiosità, stupore ed incredulo divertimento negli occhi.
- …comincio a pensare che il nostro incontro non sia stato casuale, sai? – insinuò malizioso, - A me hanno praticamente detto le stesse cose. Condite da un “Se ti azzardi a ignorarlo e non scendere, giuro che ti faccio fuori con le mie mani”, anche, ma il significato era più o meno lo stesso.
Il bus si fermò proprio davanti all’uomo in salopette, che continuava ad agitarsi concitato. Cody e Jay scesero dal veicolo con aria un po’ confusa, avvicinandoglisi timorosi.
- Siete voi due? – chiese loro l’uomo, un po’ rude, squadrandoli poco convinto dall’alto in basso. – Sembrate piuttosto gracilini. – commentò. Poi lasciò scorrere lo sguardo attentamente, prima su Jay e poi su Cody, e su di lui esitò parecchio. – Tu sei sicuro di essere maschio? – aggiunse, inarcando le sopracciglia.
- L’ultima volta che ho controllato lo ero ancora. – rispose cupamente Cody, con una smorfia infastidita, tra le risate divertite di Jay.
Il tipo scrollò le spalle, evidentemente insoddisfatto.
- Be’, tu sarai di sicuro frocio, ma quantomeno non pari del tutto inutile. – borbottò, riferendosi a Jay. – Io mi chiamo Thomas Felton. Sono il fratello minore del proprietario e mi occupo delle stalle. Seguitemi, vi porto in fattoria.
Stavano già cominciando a muoversi dietro al tipo, trascinandosi appresso i bagagli, quando videro un’altra figuretta concitata correre verso di loro. A prima vista, somigliava perfino all’uomo che li aveva accolti: abbronzantissimo, seminudo e biondo da far paura. Non come Jay, il cui biondo platinato faceva sì paura, ma per altri motivi. I capelli del ragazzo ondeggiavano nel vento ed erano dorati come il grano.
Così perfettamente americani da dare il voltastomaco.
- Li accompagno io! – disse il ragazzo, fermandosi ansante davanti a loro e poggiando le mani sulle ginocchia, piegandosi lievemente per riprendere fiato, sorridendo comunque come se fino a quel momento avesse solo passeggiato.
Il signor Felton lo guardò con severità.
- Dovresti essere con le vacche! – lo rimproverò aspramente, dandogli una manata sulla nuca.
Il ragazzo rise divertito, massaggiando il punto che aveva ricevuto lo schiaffo, senza però dare particolare segno di essersi fatto veramente male.
- Le ho già riportate in stalla! – si giustificò il ragazzo, continuando a ridere allegramente, - Posso pure accompagnarli io dallo zio.
L’uomo scrollò le spalle e, senza dire altro, li lasciò lì, avviandosi velocemente verso la fattoria – che, in lontananza, si scorgeva appena all’orizzonte.
Quando Cody si voltò a guardare il ragazzo, vide che Jay l’aveva adocchiato già da un po’, e lo scrutava curiosamente, come avesse dovuto studiarlo. Inarcò le sopracciglia e, abbandonando la propria enorme valigia lì dove stava, si avvicinò a loro.
- Io sono Sebastian! – proruppe il ragazzo in salopette, salutandoli entrambi con un sorriso ed un ampio gesto del braccio, - Ho quindici anni!
“Quindici anni”, pensò Cody, rabbrividendo vistosamente, “E fisicamente ne dimostra venti. Mentalmente, magari, anche dodici”. Ciononostante, non poteva fare a meno di sentirsi considerevolmente in difetto nei confronti di quel ragazzotto incredibilmente semplice ed anche così a proprio agio, sempre sorridente malgrado le corse e i rimproveri e disposto ad aiutarli senza pensieri dopo aver portato le vacche dalla stalla al pascolo e viceversa.
Lui, probabilmente, sarebbe morto di stanchezza al primo passo fuori dal letto.
- Seguitemi. Mio zio può essere piuttosto severo, quando vuole.
Il ragazzo si voltò e prese alla svelta il sentiero che già suo padre aveva percorso, senza voltarsi indietro neanche una volta.
Jay non aveva ancora detto una parola.
Non disse niente neanche allora. Si limitò a recuperare da terra il proprio striminzitissimo e sbrindellatissimo zaino ed inseguire alla svelta il ragazzino in allontanamento, mentre Cody rimaneva immobile a boccheggiare, a qualche passo dalla propria valigia.
- Ehi! – si forzò infine a dire il ragazzo, richiamandolo e gesticolando animatamente, - Jay! Aspetta!
Il biondo si fermò di scatto, voltandosi a guardarlo ed inarcando un sopracciglio inquisitore.
- Cosa? – chiese con disinteresse, cercando di non perdere di vista il Sebastian in allontanamento senza però privare dell’attenzione che necessitava il Cody in statuaria disapprovazione della sua condotta. – Che hai?
Cody abbracciò idealmente il mondo che lo circondava, con un gesto stanco ed esasperato.
- Potresti anche aiutarmi, no? – borbottò, indicando espressamente la valigia con un cenno del capo.
Jay sollevò anche l’altro sopracciglio, guardandolo adesso con palese incredulità.
- Scusa l’impertinenza, - inquisì, avvicinandosi comunque alla valigia e caricandosela in spalla senza una lamentela di più, - ma se sapevi che non saresti riuscito a portarla, perché l’hai riempita tanto?
Cody si strinse nelle spalle e guardò altrove, imbarazzato.
- Confidavo nella bontà del genere umano. – buttò lì, mentre Jay ridacchiava divertito. – Comunque sia… - borbottò, con una sorta di infastidita curiosità, cercando di mostrarsi disinteressato, - com’è che fissavi a quel modo quel tipo? Hai preso per femmina pure lui?
Jay scoppiò a ridere, fronteggiandolo con spavalda sicurezza.
- Non che la cosa sia importante. – rispose tranquillo. – Per te lo è?
Preso alla sprovvista, Cody si strinse nelle spalle.
- …non credo… - biascicò, - Aspetta, cosa? Che a te piaccia lui o che ti piaccia un maschio in generale?
Il biondo lo fissò malizioso, strizzando le palpebre fino a rendere gli occhi due minuscole striscioline azzurre.
- Entrambe le cose. – disse infine, prima di voltarsi ed avviarsi nella direzione verso la quale Sebastian era già sparito, senza neanche attendere una risposta.
Meglio così: perché Cody una risposta proprio non ce l’aveva. E, sinceramente, non sperava nemmeno di trovarla tanto presto.
*
Jack Felton fu duro e rude e totalmente disinteressato, esattamente come si erano aspettati entrambi. Non appena li vide apparire sulla soglia di casa, per prima cosa mandò Sebastian e dar da mangiare alle mucche quasi prendendolo a calci e strillandogli di “togliersi quel sorriso cretino dalla faccia, se non voleva farsi spaccare tutti i denti”, e per seconda cosa li fissò con estrema disapprovazione, le braccia serrate sul petto, rigide come quelle di un cadavere, e sul volto un cipiglio disgustato.
- Mai che fare un favore a qualcuno si riveli conveniente per chi il favore lo fa. – lo ascoltarono commentare, con tanto disprezzo da farli sentire perfino in colpa, - Sia ben chiaro che non accetterò nessun capriccio o niente del genere. – li redarguì seriamente, agitando un dito davanti alle loro facce basite, - Questa fattoria è enorme, ma guadagnare un sacco di soldi implica per forza dei sacrifici. I lavoratori, qui, sono pochi ma buoni. Spero lo siate anche voi.
Cody aveva deglutito, terrorizzato, mentre perfino Jay, dall’alto della sua spregiudicata spavalderia, sembrava vagamente inquietato da quelle che erano, a tutti gli effetti, minacce pure piuttosto consistenti.
- Sono già le sette e mezza di sera. – continuò il fattore, impietoso, - Ciò significa che siete in ritardo per la cena ed in perfetto orario per andare a letto. Sebastian vi mostrerà la vostra stanza.
Sebastian era tornato dalla stanza, trotterellando allegro, proprio in quel momento, come se l’avesse effettivamente sentito, e li aveva scortati celermente fuori dalla casa, lungo un vialetto sterrato ed infine ad una specie di enorme capannone diroccato dall’aria drammaticamente fatiscente.
- Le nostre stanze sono qui…? – aveva esalato terrorizzato Cody, mentre Jay si guardava curiosamente intorno, sistemandosi meglio i bagagli sulle spalle.
- Qui ci sono gli alloggi della manodopera. – aveva risposto tranquillo il ragazzo, aprendo senza alcuna difficoltà l’enorme portone in legno massiccio che chiudeva l’edificio, - Sono già tutti occupati, ma sotto il tetto c’è un solaio vuoto. L’abbiamo organizzato per farci stare voi due.
Non ci volle molto per scoprire che ciò che Sebastian intendeva per “organizzato” era ciò che un qualsiasi altro essere umano pensante avrebbe inteso come “arrangiato in fretta e furia e senza neanche particolare sentimento”: il solaio era un ambiente rettangolare di media grandezza, che soffriva però delle privazioni spaziali imposte da un tetto spiovente che lo rendeva sempre più ristretto e meno vivibile man mano che ci si avvicinava all’unica finestra – che in realtà era un’apertura circolare nel legno che mostrava ancora segni di avere avuto, un tempo, del vetro a chiuderla. Vuoto in maniera quasi desolante, era “arredato” solo da un paio di sottilissimi materassini sdruciti, privi di lenzuola, e da una lurida catasta di qualcosa che sembrava proprio paglia, ammonticchiata in un angolo talmente in fondo alla stanza che sembrava perfino irraggiungibile.
- Be’, buonanotte! – augurò giovialmente Sebastian, prima di sparire, chiudendosi la porta alle spalle.
- …Dio. – borbottò Cody, guardandosi intorno con aria sconsolata, - Passerò la notte a contare le pulci!
- Attività noiosa e poco utile. – fece notare JayJay con una smorfia, appendendo una mano al passacintura dei jeans.
- Tanto sicuramente non riuscirò a dormire! – si giustificò lui, indicando lo stanzone con un vago gesto di entrambe le braccia, - Dio, che schifo! Non ci sono nemmeno lenzuola!
- Su, su… - sorrise conciliante Jay, lasciandosi ricadere con un tonfo sul proprio materassino e producendosi subito dopo in un vagito di dolore che stava a significare il materasso non fosse abbastanza gonfio da sostenere neanche il suo pur non eccessivo peso, - In fondo, è estate pure qua. – annuì, come a darsi ragione da solo, - Non sentiremo freddo.
Dopodiché, si sfilò la giacca di pelle, rimanendo con indosso solo quell’improponibile maglia a rete che considerava un indumento.
Rimise su la giacca neanche un minuto dopo.
- Oppure sì. – biascicò sconsolato, stringendosi nelle spalle e frizionandosi le braccia, cercando di riscaldarsi, - Dannazione, perché fa tanto freddo anche se siamo in agosto?!
Cody sospirò profondamente, sedendosi cauto sul proprio materasso ed allungandosi ad arpionare la valigia, per poi trascinarla fino a sé.
- Siamo piuttosto a nord e in aperta campagna… - illustrò, - Ovviamente la temperatura è più bassa. E stanotte sarà anche peggio. Meno male che ho portato una coperta… - esalò sollevato, aprendo il valigione e prendendo a rovistare all’interno.
- …perché ti sei portato dietro una coperta? – chiese giustamente Jay, sporgendosi nella sua direzione con aria curiosa.
Cody si strinse nelle spalle.
- Non si può mai sapere. – concluse, spiegando un enorme plaid multicolore e rispedendo la valigia nell’angolo da cui proveniva con un calcio.
A quel punto, sfilò la giacca e la appallottolò con cura, sistemandola sul materasso a mo’ di cuscino, e solo allora si sistemò la coperta addosso, lanciando di tanto in tanto occhiate incuriosite a JayJay, che per propria parte sembrava intenzionato a fare tutto meno che abbassarsi a chiedergli di dividerla. D’altro canto, però, lo stava pure fissando come se nella sua persona si fosse trovata la risposta a tutte le domande dell’universo, perciò Cody poteva ragionevolmente supporre in realtà la voglia di chiedergli quel dannato favore fosse piuttosto forte, dentro di lui.
Sospirò ancora, sollevando un lembo della coperta con aria allusiva.
- Se avvicini il tuo materasso, possiamo usarla in due.
Jay s’illuminò tutto come un’allegra lampadina, e scattò in ginocchio, strisciando energico verso di lui prima di lasciarsi ricadere disteso sul materasso, rintanarsi a propria volta sotto il plaid e gettare lontano la propria giacca.
- …dovresti tenerla, per-
- Nah, non sarebbe comoda, come cuscino. È dura. – considerò il biondo, senza neanche lasciargli finire la frase, - E poi la tua è abbastanza grande e morbida per entrambi.
Cody gli lanciò un’occhiata incerta. Aveva detto che avrebbero potuto dividere la coperta, mica che da quel momento in poi avrebbero condiviso l’intera esistenza. JayJay, però, non sembrava il tipo da stare lì a sottilizzare su queste questioni, perciò il moro si rassegnò a sospirare per l’ennesima volta e poggiare il capo sul cuscino improvvisato, per provare a dormire.
- Non vorrei esserti sembrato cretino, poco fa. – precisò Jay, bene intenzionato a non lasciare che quella giornata orrenda finalmente si concludesse, - Non è che non ti ho chiesto di dormire insieme per timidezza. Non sono granché timido.
- L’avevo sospettato.
Jay ridacchiò, affondando il gomito spigoloso nel piumino ed abbandonando il capo sul palmo della mano, per guardarlo dall’alto. A disagio, Cody tirò su la coperta fino al collo, come a volercisi nascondere sotto.
- È che pensavo tu non fossi molto abituato a cose simili.
- Diavolo, no che non sono abituato a cose simili! – sbottò il ragazzo, aggrottando le sopracciglia, - Sono sperso da qualche parte in Nord-America, pelerò patate per tutto il prossimo mese rovinandomi per sempre le mani e sarò circondato solo da estranei fino a quando non potrò tornare a casa!
- Santo cielo, questa cosa delle patate da dove esce fuori?! – rise Jay, franando letteralmente al suo fianco, - Se ti turba così tanto, ti prometto che pelerò io la tua parte! Tanto, io ho ben poco da rovinare. – concluse, tirando fuori le braccia da sotto la coperta ed esponendo le mani alla luce della luna che filtrava attraverso i cocci di vetro ancora attaccati a ciò che restava della finestra.
Cody gli si avvicinò, scrutando silenziosamente la sagoma nettissima di quelle lunghe dita contro i pallidissimi raggi lunari.
- Guarda che le tue mani sono proprio belle. – commentò, - Hai delle belle dita. Affusolate ed aggraziate.
- Ed anche totalmente inutili! – aggiunse Jay, con l’ennesima risata, - Sono un disastro con qualsiasi strumento. Credo di essere stonato fin dentro al cervello! Ma comunque, - sbottò, fissandolo curioso, - non cambiare discorso. Non stavamo parlando delle mie mani. E quando ti ho chiesto se non fossi abituato a cose simili, non mi riferivo ai lavori di fatica!
- …ed a cosa?
Il sorriso di JayJay si fece più piccolo, ed anche vagamente più inquietante.
- Al dormire con qualcuno.
Cody distolse lo sguardo, mortalmente in imbarazzo. Cominciava a sospettare non dovesse esserci proprio modo di sottrarsi al fuoco incrociato delle sue domande.
- In… in che senso? – abbozzò, incapace di trovare sufficiente coraggio per fronteggiare i suoi occhi.
- Oh, in qualunque senso tu voglia. – spiegò Jay, scrollando lievemente le spalle, - Ce ne sono talmente tanti! – dopodichè ridacchiò, chinandosi più insistentemente verso di lui. – Però, se vuoi, sarò più esplicito: sei mai stato con qualcuno? Insieme, dico.
Se anche avesse ancora avuto dei dubbi, il modo sottile e insinuante in cui aveva calcato la voce su quella parola glieli avrebbe tolti tutti.
- No, credo… - borbottò quindi, giusto per rispondere qualcosa, - Almeno, non in senso stretto, ecco.
- Non esiste un senso stretto. – rise Jay, - Tutti i sensi sono stretti. Ed amplissimi. Per dire, io mi sono innamorato una volta sola, ma sono stato con un mucchio di persone. Ora, c’è chi mi direbbe “allora sei stato solo con chi hai amato” e chi, invece, mi direbbe “sei stato proprio con tutti quanti”. Io posso vederla come preferisco. E lo stesso vale per gli altri. – si sporse ancora un po’ verso di lui. Ormai erano talmente vicini che Cody poteva intuire la luce di quegli occhi assurdamente azzurri pure nel buio con il quale il loro cantuccio riparato dagli spifferi li proteggeva. – Tu come la vedi?
La vedo bellissima.
Dio, se la vedo bellissima.

- …no, credo di non essere stato mai con nessuno.
Jay rise ancora – il suono della sua risata era splendido. No, non c’era proprio neanche una possibilità che quel ragazzo potesse essere davvero stonato dentro – e gli si accucciò accanto, sistemando la coperta per entrambi.
- È un vero spreco. – commentò, - Dovresti decisamente trovarti una donna.
Cody inarcò le sopracciglia, cercando di riscuotersi dall’irreale torpore ammaliato in cui l’aveva gettato la vicinanza di Jay.
- Perché mi consigli una donna? – chiese, - Mi era sembrato di capire tu non facessi differenza fra i sessi.
- Non fare differenza, ora, andiamo. – borbottò lui in risposta, - È ovvio che delle differenze ci sono. Due uomini non sono geneticamente fatti per coesistere in una relazione romantica. – asserì, annuendo nuovamente in quel buffo modo che lo faceva sembrare in cerca d’approvazione continua prima di tutto da se stesso, - Due uomini possono pure scopare e trovarlo fantastico, ma l’amore…
Cody sbuffò. Stanco – e del tutto assurdamente offeso – si voltò su un fianco, dandogli la spalle.
- M’è venuto sonno. – si giustificò blandamente, - Buonanotte.
Jay si sollevò appena, scrutandolo curioso. Dio, si sentiva quegli occhi addosso, sulla schiena, oltre la felpa, fin sulla pelle. Era tremendo. Gli dava i brividi.
- Per quanto, se fossi tu… - sussurrò il biondo lentamente, chinandoglisi appena addosso, sfiorandogli un orecchio con le labbra. E poi si ritrasse, tornando a distendersi comodamente sul materassino. – Be’, buonanotte.
Dannazione.
Ed era andato lì per convincere suo padre di non essere gay, una volta per tutte!
Sarebbe stato dannatamente più difficile del previsto.
*
La prima settimana di lavoro passò sfiancante e noiosa come aveva previsto. Il tizio li mise davvero a pelare patate, altro che rispetto per le mani dei pianisti. JayJay fece il possibile per rendere il tutto meno pesante – nel senso che fisicamente dimezzò i suoi carichi di lavoro, prendendoli sulle proprie spalle – e la cosa lo fece sentire dannatamente in colpa, al punto che si sentì perfino in dovere di provare a riportare le cose alla normalità – una normalità in cui lui potesse lavorare esattamente quanto tutti gli altri esseri umani di sesso maschile e della sua età, senza per questo dover rantolare in un angolo come stesse per morire da un momento all’altro. Ogni volta che provava a riprendere parte di ciò che Jay gli aveva tolto di mano, però, si sentiva rispondere che “non era proprio il caso di fare complimenti”, e comunque lui era davvero abbastanza robusto e forte da lavorare per due. Il tutto, condito da un sorriso talmente splendente e sincero da mettere fuori uso perfino le più banali capacità di organizzazione mentale.
Inutile: quel ragazzo aveva su di lui effetti decisamente deleteri.
Molto più di quanto non fosse tollerabile, peraltro.
La riprova arrivò un pomeriggio a metà della seconda settimana. Avevano concluso il giro di mungitura delle vacche prima del previsto e si erano perciò buttati su una montagnola di pagliericcio abbandonata all’ingresso del fienile. Riparati dal sole all’ombra dell’enorme casolare, s’erano messi ad osservare il mondo circostante con aria annoiata, chiacchierando del più e del meno senza particolare interesse e cercando, in sostanza, di riprendere fiato dalle fatiche della giornata lavorativa.
Erano quasi le sette. Fra poco sarebbe toccato loro rimettersi in piedi e caracollare stancamente verso la casa padronale, per la distribuzione del rancio.
…il solo riuscire a pensare in quei termini metteva Cody in uno stato d’ansia difficilmente mitigabile: era sempre stato abituato a mangiare alle otto in punto, non ancora prima del tramonto. Ed in un salottino lindo ed ordinato, non alla mensa del padrone. Con una vera cena, non con una dannata minestra di rape.
Sospettava che, a quel punto, l’unico reale effetto di quella vacanza su di lui sarebbe stato un dimagrimento di proporzioni patologiche, in seguito al quale sua madre sarebbe probabilmente morta di crepacuore, visto che già di per sé lui non è che fosse granché robusto.
- La fattoria è molto tranquilla a quest’ora, vero? – disse JayJay, interrompendo il flusso del suoi pensieri e lanciando attorno a sé uno sguardo stranito, - È la prima volta che me ne rendo conto.
- Perché è la prima volta che riusciamo ad avere un momento di pausa. – commentò Cody, sospirando pesantemente, - Uuuh, guarda. – disse infine, ironico, - C’è la tua ragazza che viene da questa parte.
Jay inarcò le sopracciglia e poi gettò lo sguardo nella direzione che il cenno del capo di Cody gli indicava, ed i suoi occhi incontrarono Sebastian che, come al solito, trotterellava felice lungo il vialone.
- Che starà venendo a fare…?
La risposta arrivò da sola, pochi minuti dopo, quando il ragazzo si fermò a qualche metro da loro, su uno spiazzo di ciottoli rotondi e lucidi, e si chinò a cercare qualcosa fra i fili d’erba. Il qualcosa, venne poi scoperto, era un tubo. Uno di quelli che usavano per bagnare i germogli alla sera, prima di concludere la giornata lavorativa. Sebastian lo posò nuovamente per terra, in un punto in cui fosse visibile, poi si rimise dritto e sfibbiò i passanti della salopette, che ricadde a terra scivolando sul suo corpo nudo e bagnato di sudore.
Cody e Jay spalancarono gli occhi in un movimento simultaneo.
- Oddio… - bisbigliò il moro, portando una mano al viso, - Non dovremmo essere qui… - aggiunse, voltandosi a guardare timidamente il ragazzo che gli stava seduto accanto.
Lui si limitò a scrollare le spalle ed accomodarsi meglio sulla paglia, puntellandosi coi gomiti per evitare di scivolare verso le pendici della montagnola.
Frattanto, Sebastian aveva scalciato lontano la salopette e s’era nuovamente chinato a raccogliere il tubo, che poi aveva messo immediatamente in funzione e col quale aveva preso a lavarsi.
Dio santo…
Decisamente non avrebbero dovuto assistere a quella scena. Quel ragazzino aveva quindici anni! Quindici dannatissimi anni! Ed il movimento delle sue braccia mentre reggevano alto il tubo, la morbidezza dei suoi ricci che andavano stendendosi lungo il collo e le spalle sotto il peso dell’acqua, le gocce che scivolavano velocissime lungo le guance, il mento, il collo, giù verso i pettorali e gli addominali, che poi andavano a raccogliersi brevemente nel suo ombelico prima di diventare troppe per poter essere rette ancora, e che quindi scendevano verso punti che era più facile non guardare non nominare nemmeno pensare, che rimanevano imprigionate nella peluria biondissima del pube, che scivolavano lungo le anche ed i glutei, per poi scorrere ancora, divorando centimetri su centimetri di pelle delle cosce robuste e compatte, lungo i polpacci contratti e muscolosi, fino alle caviglie forti sporchissime di terra, per concludere la loro folle corsa sui piedi, enormi e sproporzionati rispetto alla sua altezza piuttosto modesta, che però denunciavano già la possibilità di farsi altissimo e fortissimo e grandissimo e bellissimo, Dio, Dio, Dio
Si obbligò prepotentemente a distogliere lo sguardo da quello spettacolo, piantandolo ansiosamente su JayJay, che per proprio conto invece sembrava del tutto intenzionato a goderselo fino alla fine. Non seppe nemmeno che fare, si limitò ad ansimare, sconvolto, quando vide il biondo leccarsi le labbra e morderle con forza, ed allora diventò quasi impossibile evitare di far scivolare lo sguardo più in basso, per assicurarsi che quella reazione nervosa non fosse dovuta proprio a quello, ed invece era esattamente a quello che si doveva, perché i jeans attillatissimi di Jay tiravano sull’inguine, e mostravano orgogliosamente qualcosa che Cody avrebbe preferito di sicuro non vedere.
- Jay… - annaspò, sconvolto, - È solo un ragazzino…!
Lui neanche lo guardò. Sollevò una mano e la poggiò neanche troppo gentilmente sulla sua faccia, in uno schiaffetto frontale che gli fece prudere fastidiosamente il naso e che poi si spostò lentissimo sulle sue labbra.
Il dorso della mano di Jay era morbido e lievemente umido di sudore.
Cody dovette perfino trattenere il respiro, per resistere alla tentazione di saggiarne il sapore.
La sua mano scese verso il mento e poi si lasciò ricadere sul petto, mentre Cody riprendeva a respirare e passava velocemente la lingua sulle labbra riarse dal caldo e dalla confusione e da Dio, tutto il resto.
La sua pelle era salata. Un po’ aspra. Il sapore di Jay era buonissimo.

- Cosa stai… - abbozzò, ma lui non lo degnò di nessuna risposta. L’unica cosa che fece fu scendere ancora, fino a sfiorarlo con la mano fra le gambe.
Malgrado i pantaloni dal tessuto pesante, Cody sentì quella pressione direttamente dov’era più pericolosa. Sulla propria eccitazione.
Non se n’era neanche accorto.
Scoppiò in un singhiozzo stupito ed impaurito quando Jay voltò la mano, toccandolo stavolta col palmo bene aperto, cominciando a muoversi lentamente verso l’alto e poi verso il basso.
Dio mio, cosa stiamo facendo?
Cosa mi sta facendo?
…cosa gli sto facendo?

Perché anche la sua mano s’era mossa. Indipendentemente dalla volontà che stava tentando senza successo di imporle.
Stai ferma. Torna a posto. Non farti coinvolgere.
Troppo tardi.

Quando Jay lasciò andare il primo di una lunga serie di sospiri soddisfatti, Cody chiuse gli occhi e si distese. La sensazione della mano di Jay fra le cosce era bellissima. Indescrivibile. Sporca e perversa e impossibile, e non avrebbe voluto lasciarla andare per nessuna ragione al mondo.
Sperò che Jay stesse provando le stesse cose. Sperò di essere abbastanza bravo, sperò di farlo godere nello stesso modo assurdo in cui stava godendo lui. Si rendeva anche conto di quanto assurda e pericolosa fosse la china che i suoi pensieri stavano discendendo, ma non riusciva veramente a dare importanza al dettaglio.
Le immagini di Sebastian continuavano a danzare perfino sotto le palpebre chiuse. Così come lo scrosciare dell’acqua ed i sospiri di JayJay che riempivano l’aria e si fondevano coi propri, in una melodia eccitante e perfetta. La migliore che avesse mai sentito.
*
Tutto ciò che aveva detto JayJay quando avevano finito, era stato “Sarà meglio saltare la cena in favore di una doccia”.
Cody aveva deglutito ed annuito confusamente, ancora tremante a causa dell’orgasmo. Non riusciva neanche a concepire come Jay fosse in grado di parlare, figurarsi ragionare, in un momento come quello. Si sentiva talmente scombussolato che aveva come l’impressione che, se avesse provato ad alzarsi e muovere qualche passo, sarebbe rovinato a terra dopo neanche due secondi.
Jay, invece, s’era alzato in piedi con un saltello soddisfatto ed aveva preso a camminare speditamente verso il casolare degli alloggi dei dipendenti. La doccia di quell’edificio doveva essere vuota, a quell’ora.
Cody aveva aspettato, disteso sulla montagnola di paglia, per una quantità di tempo imprecisata. Quando il sole era quasi scomparso all’orizzonte, finalmente, s’era sentito in grado di provare a rialzarsi e camminare. Aveva raggiunto il casolare – fortunatamente privo di JayJay – aveva fatto una doccia sbrigativa – inorridendo, ed anche giustificatamente, per lo stato dei pantaloni che avrebbe dovuto buttare, perché col cavolo che si sarebbe messo a lavarli – e poi s’era rintanato direttamente in solaio, arrotolandosi sotto la coperta e nascondendo il viso nel piumino, sperando di addormentarsi prima che JayJay tornasse.
L’unica cosa che voleva era evitare il dialogo con lui.
Con lui, come con tutto il resto del mondo.
Dio, partire era stato l’errore più grande che potesse fare. In assoluto.
Ovviamente, i suoi desideri non trovarono risposta alcuna, ed anzi, il destino si divertì a prenderlo in giro facendo entrare in solaio Jay proprio nel momento in cui lui si rivoltava sul materassino, in cerca di una posizione più comoda, rivelando così di essere perfettamente sveglio, ed anzi, ben lontano dall’addormentarsi. Ormai, il sonno sembrava solo una crudele utopia.
- Oh! – lo salutò il biondo, agitando un sandwich, - Me l’ha dato la signora Felton per te. Ha paura che tu stia male, visto che non ti sei fatto vedere per la cena.
Cody scosse il capo ed abbassò lo sguardo, imbarazzato.
- Non lo vuoi? – s’informò Jay, stupito, e lui rispose negando più decisamente e stringendo il piumino fra le mani. – Ok… - biascicò il biondo, - Lo mangio io, allora. Sono arrivato tardi ed il signor Felton mi ha mandato a letto senza cena.
Cody scrollò le spalle, socchiudendo gli occhi e rinunciando alla vana speranza di evitare il dialogo.
- Come mai sei arrivato tardi…? – chiese esitante, - Avevi abbastanza tempo…
- Sì, ma dopo la doccia sono andato a cercare Sebastian…
Cody si morse le labbra ed affondò le unghie con forza nel piumino, fino a sentir dolere le giunture delle dita.
Dio. Quella che gli pungeva fastidiosamente gli occhi in quel momento era gelosia. Inequivocabilmente.
…si conoscevano da una settimana! E per quanto avessero già fatto la maggior parte delle cose che in genere possono giustificare la gelosia nelle coppie – avevano dormito insieme, avevano condiviso i pasti, s’erano masturbati a vicenda, oddio! – loro non erano una coppia, perciò quell’insostenibile irritazione era del tutto ingiustificata.
Eppure c’era. E non poteva neanche ignorarla.
- Per fare che? – chiese, in uno slancio masochistico, cercando di fissare con interesse le crepe nelle assi del legno del pavimento.
Jay si lasciò ricadere sul materasso, fissandolo a lungo con aria curiosa. Le sopracciglia aggrottate e il piccolo broncio che gli increspava le labbra gli davano un’aria infantile e molto tenera. Dovette obbligarsi a non sorridere.
- Parlare. – disse infine il biondo, scrutandolo con attenzione, - Solo parlare. – precisò, - Gli ho chiesto di non rifarsi più la doccia all’aperto.
- Mh. – sbuffò, con un ghigno a metà fra l’ironico e l’irritato, - Non mi era parso che ti avesse dato tanto fastidio. – lo prese in giro.
Jay aggrottò ancora di più le sopracciglia, deluso.
- L’ho fatto per te. – gli rinfacciò, - Perché a te, invece, ha dato palesemente fastidio.
Cody sospirò, rilassando le spalle.
Quel ragazzo era veramente un caotico marasma di ovvietà. Sul serio, sembrava uscito fuori da un telefilm per adolescenti infoiate. Sensuale e sensibile e premuroso e intelligente e tutto il resto.
Sarebbe stato perfino disgustoso, se non fosse stato anche così… dannatamente…
- Quindi la prossima mossa che devo aspettarmi è che tu arrivi su un cavallo bianco a salvarmi da qualsiasi cosa mi metta a disagio? – soggiunse critico, fissandolo con scetticismo, - No, perché in quel caso faresti meglio ad assicurarti che il cavallo abbia le ali. Altrimenti come fai a riportarmi in Inghilterra?
JayJay si ritrasse neanche l’avesse punto con uno spillo.
- …perché cavolo ti stai comportando così?! – sbottò confuso, - Cos’è, ti fingi dolce e gentile fino a quando le persone non si fidano di te e poi le ripaghi prendendole a calci nelle palle?!
Sospirò, rilasciando lievemente la presa sul piumino e sistemandosi meglio sotto la coperta.
- Non è questo… - mormorò incerto, - È che… - deglutì, - quello che è successo oggi mi ha… un po’ confuso. – ammise, - Insomma, Sebastian ha quindici anni, e noi-
- Be’, io ne ho sedici. – commentò Jay, scrollando le spalle, - Non vedo cosa ci sia di male, siamo coetanei.
Cody aprì la bocca, la richiuse, cercò di respirare e non ci riuscì.
- …quanti anni hai? – boccheggiò, sporgendosi verso di lui con terrore.
- Sedici… - ripeté Jay, indietreggiando, vagamente spaventato dal suo sguardo invasato.
- …cazzo! – sbottò a quel punto Cody, saltando in piedi ed allontanandosi fino a che il soffitto glielo permise, - Cazzo!
- Ma che diavolo hai?! – strillò Jay, visibilmente infastidito, seguendolo nel movimento e rimanendo dritto sul materasso.
- Che diavolo ho?! Dio! – annaspò lui, prendendo a girare in tondo e ficcandosi nervosamente le mani fra i capelli, - Hai la minima idea di quanti anni abbia io?!
Jay scrollò le spalle, tirando a indovinare.
- Non saprei… quattordici? È per questo che sei sconvolto?
- …quattordici!!! – gridò lui a propria volta, sempre più stridulo, - Magari! Ne ho diciotto, cazzo, diciotto!
Il biondo spalancò gli occhi, fissandolo incredulo.
- Dici davvero? – chiese, a metà fra lo stupore e lo scetticismo.
- No, figurati! – ritorse lui, ormai ad un passo dall’isteria, - È solo che trovo molto divertente l’idea di poter essere accusato di pedofilia dalla maggior parte delle magistrature mondiali!
Jay inarcò le sopracciglia, tornando a sedersi in uno sbuffo di polvere.
- Adesso calmati. – consigliò pianamente, - Forza, torna qui. Nessuno ti accuserà di pedofilia.
- Oh, certo. – borbottò lui, tornando comunque a sedersi al suo fianco, - Questo migliora molto le cose. – piegò le gambe, poggiando i gomiti sulle ginocchia e stringendosi con disperazione la testa fra le mani, - Diosanto, non posso crederci…
- Avanti! – lo incoraggiò Jay con una breve pacca sulla spalla, - Abbiamo solo passato il pomeriggio in maniera piacevole…
- Questo è un modo di metterla. – mugugnò Cody, tornando a guardarlo, - Un altro modo, invece, è che abbiamo passato il pomeriggio spiando un minorenne nudo. Ed io, in particolare, poi mi sono pure fatto masturbare da un altro minorenne!
- Vestito.
- …questo sicuramente convincerà qualsiasi giuria della mia innocenza!
- Ma piantala! – rise Jay, dandogli uno spintone, - Anche io mi sono fatto masturbare da un maggiorenne!
- Sì, ma questo non è un reato! No, aspetta. Io sono il maggiorenne che ti ha masturbato, quindi per me è comunque un reato!
- Ma uffa! – sbottò lui, roteando gli occhi, - Come sei pignolo! Guarda che non è dispiaciuto a nessuno. Io, almeno, di sicuro non ho alcuna intenzione di denunciarti. E per quanto riguarda Sebastian, credo che lui non se ne sia nemmeno accorto…
- Il che vuol dire semplicemente che dovrò convivere per sempre con il fantasma della mia silenziosa colpa. – biascicò ancora lui, tornando a nascondere il viso fra le braccia.
Al suo fianco, Jay ridacchiò ancora e gli si arrotolò addosso, cercando di consolarlo con qualche sbrigativa carezza sulle spalle.
- Avrei dovuto capirlo prima che avevi diciott’anni. – sussurrò, direttamente al suo orecchio, - In effetti parli proprio da diciottenne.
- Non mi è utile che continui a rinfacciarmelo… - si lamentò lui, con un mugolio di puro dolore. Jay rise ancora, stringendolo più teneramente.
…avrebbe dovuto provare a trovare un altro modo, per consolarlo! Perché quello decisamente non serviva!
- Dai, dai. – sussurrò il biondo, oscillando avanti e indietro come volesse cullarlo, - Se le cose si mettono male, scappiamo in North Dakota e ci mettiamo a coltivare cereali. Tutti coltivano cereali in North Dakota!
Cody non poté fare a meno di lasciarsi andare ad una risatina nervosa e contratta, per quanto intimamente divertita, poggiando il capo nell’incavo della spalla di JayJay. Era così forte e muscolosa che non sembrava davvero potesse essere più piccolo di lui. Per certi versi lo inquietava, e per altri lo faceva sentire così al sicuro e tranquillo che quasi non gl’interessavano più, quei due anni di differenza.
- Una fattoria non voglio più vederla neanche da lontano… - mugugnò cupamente, lasciandosi cullare dal morbido dondolio del suo abbraccio, - In questo momento, voglio solo tornare il prima possibile alla civiltà.
- Mancano solo altre tre settimane… - lo redarguì il biondo, - Possiamo sopravvivere!
- Se saranno come quella che è appena finita, ho i miei dubbi! – sbuffò lui.
Ma stava respirando di nuovo. Si sentiva meglio.
Cercò di muoversi delicatamente all’interno della stretta di JayJay, per trovare una posizione più comoda senza dargli l’idea che volesse separarsi da lui – perché proprio non voleva.
Lui capì l’antifona, e lo lasciò andare quel tanto che bastava perché riuscisse a distendersi. Dopodichè, torno a chiudersi attorno a lui, stendendosi al suo fianco e respirando lentamente fra i suoi capelli.
E quello era decisamente il momento migliore di tutto il viaggio, fino ad allora.
- Seriamente. – continuò a parlare Jay, lentamente, a bassa voce, come se gli stesse cantando una ninna nanna, - Pensa a come sarebbe bello. Addormentarsi ogni sera così, col canto dei grilli ed il fruscio delle canne nelle orecchie. – lo strinse ancora un po’. Cody sollevò le braccia e lo strinse a propria volta, nascondendo il viso sul suo petto. – Te la compro davvero, una fattoria. Tu ci vieni a gestirla con me?
Chiuse gli occhi ed annuì impercettibilmente. Jay rise piano e gli sfiorò la fronte con le labbra.
- Alla faccia dell’incongruenza genetica di due maschi in una relazione romantica! – aggiunse il biondo con un’altra risata divertita, stringendolo ancora un po’ a sé.
Cody catturò il trillo bassissimo della sua voce ed il tocco delicato della sua pelle e li trattenne fra i pensieri come tesori preziosi. Fino a quando non si addormentò.
*
Una settimana dopo, qualsiasi metodo miracoloso avesse usato JayJay per consolarlo sembrava lontano anni. E tutti gli effetti di quegli abbracci erano svaniti, disgregandosi come mattoni d’argilla, martellata dopo martellata, fino a lasciare solo il vuoto e un senso di smarrimento impossibile da spiegare come da cacciare via.
Era stanco. Disgustato.
Decisamente la vita di campagna non faceva per lui.
Jay aveva smesso di guardare Sebastian come fosse l’ottava meraviglia del mondo, ma ciò non aveva impedito a lui di continuare ad esserne irrazionalmente geloso, cosa che lo turbava molto più del necessario e molto più del sopportabile.
Comunque sia, le loro fatiche avevano dato i loro frutti: quella mattina, Jack Felton li aveva convocati nel suo “ufficio” – uno studiolo dall’aria decisamente agreste, spoglio e puzzolente d’aia – per informarli che s’erano comportati bene durante il periodo di prova, ed erano riusciti a guadagnarsi la sua fiducia.
Il premio? Occuparsi del porcile. Dopo aver portato a termine tutti gli altri compiti della giornata, ovviamente.
- …è un disastro.
Cody si guardò intorno con aria smarrita. I maiali, nelle loro cuccette, grufolavano felici, zampettando oziosamente dalla parete alla mangiatoia e viceversa. Sotto di loro, attraverso le griglie che li separavano dagli scarichi, gli avanzi del cibo si mescolavano agli escrementi e scolavano sul metallo, raccogliendosi in piccole pozze sul pavimento.
La puzza era insostenibile.
Jay scrollò le spalle.
- È un porcile. – disse, come se questo potesse servire a giustificare il tutto. Ed era in effetti così, ma…
- Quel tizio non può davvero obbligarci a pulire tutto questo! Che razza di gratifica sarebbe?!
Il biondo fece una smorfia e gettò uno sguardo al panorama, ridacchiando brevemente di fronte a due maiali che caracollavano fino ad un angolo per abbandonarsi lì e dormire.
- Mi sembra di aver visto un tubo, giusto qua fuori. – considerò, - Probabilmente Felton lo usa per pulire tutto più in fretta. Lo prendo e vedo se è così.
Cody annuì senza pensarci. Non stava veramente seguendo il discorso. Si chinò platealmente, cercando un centimetro pulito sulla ringhiera al quale appoggiarsi per non scivolare troppo verso il basso, e cercò di capire in che condizioni versassero quelle specie di depositi di letame che stazionavano sotto ogni maiale.
…be’, “pessime” poteva riassumere bene il concetto.
- Nel frattempo… - riprese Jay, - Tu prendi ‘sta pala e comincia a raccoglierne più che puoi in un punto solo. Sarà più facile. – e così dicendo si allungò su di lui, si appoggiò tranquillamente alla base della sua schiena e si sporse verso dei ganci appesi in alto sulla parete, dai quali tirò giù due vanghe, una delle quali finì fra le braccia di Cody senza che lui nemmeno potesse effettivamente accorgersene.
- Mi… mi hai… - boccheggiò, sfiorandosi la schiena – il sedere, sarebbe stato più corretto dire – nello stesso punto in cui l’aveva toccato Jay.
- Non ricominciare con le paranoie, avanti, ormai abbiamo pure dormito insieme! Datti una mossa! – rispose il biondo senza ascoltarlo, dirigendosi celermente verso l’esterno del porcile, - Non possiamo mica restare qui tutta la notte! Io sono già esausto!
Quando lo vide uscire, stringendo la propria vanga fra le mani, Cody pensò che i vertici dell’economia mondiale avrebbero dovuto riunirsi e cominciare a pensare di utilizzare l’imbarazzo come fonte energetica: per conto proprio, si sentiva talmente agitato che se avesse avuto anche tre porcili da pulire, ciascuno contenente una o due tonnellate di letame in più di quello, non avrebbe avuto alcun problema a farlo.
Nel momento in cui Jay rientrò, tutta la sporcizia della stanza era stata accumulata in una montagnola di sterco proprio vicino alla porta sul retro. Cody la indicava con un ditino tremolante, ancora completamente rosso in viso.
- Ho finito! – disse, con fin troppa ansia, distogliendo lo sguardo.
Jay si avvicinò, guardando il tutto con aria soddisfatta.
- Bel lavoro! – si complimentò infine. E stavolta non si appoggiò. Il suo non fu un gesto accidentale, né una manovra obbligata. Gli schioccò una pacca sul sedere talmente forte e talmente convinta che il suono rimbombò echeggiando per tutto l’ambiente circostante.
- Ehi! – provò a protestare il ragazzo. Ma già Jay non lo ascoltava più: aveva azionato la pompa. E della montagnola, in pochi minuti, non rimase più niente. – Jay! – lo richiamò, ormai rosso fino alla punta delle orecchie, - Senti, dobbiamo parlare!
Lui fermò il getto d’acqua e si asciugò il sudore dalla fronte con un rapido gesto del braccio, sospirando stancamente.
- Di cosa, scusa? – chiese innocentemente, voltandosi a guardarlo.
Niente da fare. Restava comunque un ragazzino.
- Non lo so, dimmi tu! – borbottò inviperito, - Mi pare evidente che fra noi… - s’interruppe, cercando le parole. Ma che parole avrebbe dovuto usare?! Cosa poteva trovare, di adatto alla situazione che stavano vivendo? Siamo innamorati? Siamo attratti? Siamo due pazzi? - …c’è qualcosa! – concluse infine.
Ecco. Qualcosa si adattava bene.
Qualcosa non voleva dire niente.
A giudicare dal sorrisetto malizioso sulle labbra di Jay, però, qualcosa poteva anche dire tutto.
- …la tua espressione mi fa paura! – biascicò confusamente, indietreggiando di qualche passo.
Jay scoppiò a ridere.
- Certo che tu dai importanza a certe sciocchezze veramente assurde! – lo prese in giro, poggiandosi ad una ringhiera, mentre un maiale fraintendeva il suo gesto e si sporgeva verso di lui con un grufolo incuriosito.
- …che intendi? – borbottò lui, stringendosi nelle spalle come sulla difensiva.
- Le parole. L’età. Il sesso. – rispose Jay, fissandolo seriamente, - Le intenzioni. Le motivazioni. Le giustificazioni.
Pietrificato, Cody rimase immobile, mentre Jay si allontanava dalla ringhiera – con grande disappunto da parte del maiale deluso – e gli si avvicinava. Lento, ipnotico come una pantera.
Ricordava di aver visto quelle movenze sinuose e sensuali altrove.
Le ricordava benissimo.
Erano le stesse di suo padre durante i concerti. Le stesse che costringevano masse di migliaia di persone a seguire il suo movimento come stregate, senza riuscire a distogliere lo sguardo neanche per sbaglio. Gli stessi movimenti che costringevano tutti a cercarlo freneticamente oltre la folla, quando per caso accadeva che lo si perdesse di vista.
La stessa inconcepibile carica erotica. La stessa ineluttabile attrazione.
Si sollevava dalla pelle di Jay e si attaccava alla sua. Rendeva l’aria umida e irrespirabile, rendeva il pavimento molle ed instabile, rendeva il mondo confuso e sbiadito.
La realtà non è niente.
Non è vera la metà dei tuoi occhi.

- I fatti contano molto di più. – sussurrò Jay a voce bassissima, ormai giunto a pochi centimetri da lui. Il suo respiro gli s’infrangeva caldissimo contro le labbra, stordendolo. Non avrebbe potuto muovere un muscolo neanche volendo. E non era tanto sicuro di volerlo, dopotutto. – Se ti tocco, se ti accarezzo… - aggiunse, sollevando una mano a modellare il contorno del suo zigomo, scendendo poi lungo il collo ed appendendosi alla nuca, - …vale molto di più. – concluse, chinandosi a baciarlo.
Cody chiuse gli occhi e lo lasciò fare. Cercò di convincersi di avergli dato un permesso, da qualche parte fra il momento in cui s’era presentato e quello in cui avevano capito che avrebbero passato insieme tutto il mese successivo.
Un permesso non c’era stato affatto. Jay s’era infilato nella sua vita con una disinvoltura perfino irritante, e senza chiedere il permesso a nessuno.
…ma non c’era davvero nulla di irritante. Non nelle sue labbra morbidissime contro le proprie. Non nella sua lingua calda e bagnata e lenta, che accarezzava sensuale la propria con impudenza, affondando fino a spaventarlo e poi ritraendosi per lasciarsi rincorrere. Non nelle sue mani, pesanti e bollenti eppure così lievi contro la pelle, quasi impalpabili, al punto che sentiva perfino il bisogno di coprirle con le proprie per assicurarsi che fossero proprio lì dove le sentiva, e che non si allontanassero troppo presto.
Anche se sospettava che non sarebbe stato mai abbastanza.
Quando Jay si separò da lui, infatti, Cody accompagnò l’indesiderata assenza di contatto con un mugolio insoddisfatto, al quale Jay rispose con una risatina intenerita, appoggiandosi a lui fronte contro fronte, senza allontanare le mani dal suo corpo.
- …Dio. – borbottò alla fine Cody, quando riuscì a sentirsi abbastanza sicuro di sé da poter sollevare gli occhi nei suoi, - Un porcile! Ti rendi conto?! Il mio primo bacio, in un porcile!
I maiali, come si sentissero chiamati in causa, grugnirono tutti insieme il loro democratico sdegno, e poi trovarono di meglio da fare.
Jay rise e lo allacciò al collo con un braccio, trascinandolo fuori da lì. Non chiese il permesso neanche allora.
Sarebbe proprio stato il caso di abituarsi.
*
- Sei sicuro che non vuoi che chiami mio padre? – chiese Cody con un mezzo singhiozzo, intrecciando le dita con le sue e cercando già confusamente il cellulare all’interno della tasca dei jeans.
- Nooo, dai! – rise JayJay, fermando la sua mano con la propria e lasciandogli un bacetto sulla fronte, - È giusto che torni a casa. Sei stanco, ed odi questo posto.
- Sì, ma non sono del tutto sicuro di potermi fidare. – borbottò lui, mettendo su un broncio irrimediabilmente tenero e scivolando con la fronte sul suo collo, fino alla spalla, - E se poi ricomincia a piacerti Sebastian?
- …non potrei mai separarlo dai suoi veri grandi amori.
- …sarebbero?
- Le mucche!
- …che schifo, Jay! – inorridì, dandogli un pizzicotto sul fianco, - È solo un ragazzino, evita di dire cose tanto disgustose!
Per tutta risposta, il biondo si limitò a ghignare divertito, massaggiandosi il fianco dolorante.
- E va bene. – sospirò alla fine Cody, - Vuol dire che cercherò di fidarmi di te. Tanto, comunque, la base per un buon rapporto è questa, no? La fiducia.
- Ecco. – annuì decisamente Jay, - Bravissimo. Rimani così per sempre, ti prego. – implorò, chinandosi a baciarlo.
- Sì, certo, ti piacerebbe! – rise lui, evitando le sue labbra, - Appena torni a Londra mi appiccico a te come una patella sullo scoglio, altrochè!
- Mmmh. – mugolò lui, cercando e trovando finalmente la sua bocca, - Quando comincerai a sentirmi lamentare della possibilità, potremo riparlarne.
- Sei un irrimediabile cretino. – rispose lui, mordendogli il labbro inferiore, - Ti ho già dato il mio numero di cellulare, comunque dammi anche la tua mail, okay? Così appena arrivo a casa comincio ad intasarti la posta di roba assolutamente inutile sulla quale pretenderò il suo illuminato parere.
Jay rise ancora, abbandonandosi contro di lui. Il piercing al naso gli solleticava la pelle del collo. Cody sorrise. Era una sensazione piacevolissima.
- D’accordo. – concesse il biondo, - Imparala a memoria, tanto è facile. Emme punto Bellamy… ed ora che hai?
La definizione medica sarebbe stata “crisi respiratoria”. In realtà, stava semplicemente ridendo al punto che non riusciva nemmeno ad immagazzinare l’aria sufficiente per mantenersi in vita.
- Oh, Cody? Mi devi morire qui? Non è il caso. – borbottò Jay, afferrandolo per le spalle, lievemente preoccupato.
- No… - ansimò lui, reggendoglisi addosso, aggrappandosi con forza al tessuto già rovinato della sua canottiera strappata ad arte, - È solo che è molto divertente, pensavo che a mio padre prenderà un infarto quando vi presenterò… per svariati motivi, primo fra tutti che spera ancora io sia eterosessuale… – spiegò, trattenendo a stento le risate, - ma anche perché vedi, lui conosceva un tipo con lo stesso cognome, e lo odiava furiosamente! Penso che morirà nel sapere che il suo unico pargolo sarà associato ad un Bellamy per un lungo periodo di tempo a venire!
- …oh. – prese nota Jay, inarcando incuriosito le sopracciglia, - Che strano, pensavo che il mio cognome non fosse poi tanto diffuso, in Inghilterra. Non è che poi – ridacchiò, - scopriamo che era proprio mio padre quello che tuo padre odiava?
- Be’, non lo so! – rise a propria volta Cody, stando allo scherzo, - Quello di cui parlo io era Matthew Bellamy, il cantante dei Muse… e adesso sei tu quello che ha qualcosa che non va. – concluse, fissando perplesso il volto di Jay diventare pallidissimo.
- …Matthew Bellamy… - annaspò lui, spalancando gli occhi, - il cantante dei Muse… è mio padre…
Anche Cody spalancò gli occhi, boccheggiando per qualche secondo ed annegando nella propria confusione mentale per un’enorme quantità di tempo, prima di decidersi a parlare.
- Io mi chiamo Cody Molko. – rivelò infine, incredulo al punto che non avrebbe saputo se mettersi a ridere o a piangere, - Sono il figlio di Brian Molko.
I due rimasero immobili a fronteggiarsi per un po’, incerti sul da farsi.
Poi, Jay scrollò le spalle e si lasciò andare ad un piccolo sorriso divertito.
- Sarà eccitante. – asserì infine, strizzando malizioso gli occhi, - Come Romeo e Giulietta.
Cody scoppiò a ridere, gettandogli le braccia al collo.
- Speriamo almeno in un altro tipo di finale!
Fanfiction a cui è ispirata: "Try Something New" di Happy.
Genere: Romantico, Triste, Introspettivo.
Pairing: BrianxMatt, BrianxHelena, MattxGaia.
Rating: R - probabile futuro NC-17.
AVVISI: Angst, RPS, Spin-off, Incompleta.
- Un anno è passato dall'ultima volta in cui Matt e Brian si sono visti. Un anno, e sembra non sia cambiato niente. Un anno, e in realtà c'è stata una rivoluzione, dentro di loro. Rivedersi è davvero la cosa giusta? Matt non lo sa. Sa solo che non può fare a meno di vagare per Hyde Park sperando di incontrarlo.
Commento dell'autrice: Se ne parla alla fine è_é
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TRY SOMETHING BETTER
CAPITOLO 1
SLEEPING WITH GHOSTS

“Don’t waste your time
Or time will waste you”
Muse – “Knights of Cydonia”


In effetti s’era sempre sentito un po’ in colpa per quello che aveva combinato a dicembre, l’anno prima. S’era sempre sentito un po’ in colpa e s’era sempre sentito anche un po’ – molto – vigliacco per quella fuga repentina e ingiustificabile, pretesa e ottenuta con tanti di quegli allucinanti strepiti che aveva sempre avuto paura che Tom e i ragazzi, da quella volta, avessero maturato nelle loro menti un’idea di lui in versione pazzo isterico che di sicuro non giovava alla sua autostima. Se ne accorgeva ogni volta che, ad esempio, Dom o Chris gli facevano un suggerimento a riguardo di qualcosa che avesse scritto: si avvicinavano sempre con timore, premettendo sempre che trovavano il suo lavoro fantastico, prima di dire quello che avrebbero preferito cambiare.
Anche Tom aveva difficoltà a parlare con lui. Al punto che ogni tanto, quando aveva bisogno di fare un qualche cambiamento nelle date dei tour o delle uscite dei singoli, neanche glielo diceva. Si limitava a farlo e poi avvicinarlo con cautela, offrirgli una cena o qualcosa di simile e mormorare “Adesso non ti arrabbiare, Matt, ma ho dovuto modificare questo, questo e quest’altro…”, ricevendo puntualmente in risposta uno stupito “Perché dovrei arrabbiarmi, scusa? Se hai deciso così avrai avuto un motivo, e poi il manager sei tu, sei tu che devi occuparti di queste cose, il mio lavoro è un altro…”, al quale, spesso, seguiva un sorriso imbarazzato e un “No, ma era per essere sicuro che non ti saresti infastidito”, che lui poteva spiegare solo ed esclusivamente come uno strascico della furia che l’aveva preso quando s’era trattato di tornare in studio a registrare coi Placebo.
Né Tom, né Dom, né Chris avevano mai capito. Anche perché, sul momento, sì, non l’aveva presa benissimo, aveva pregato un po’ tutti gli déi dell’universo perché gli concedessero di sfuggire a quella tortura, e s’era lamentato, e aveva protestato, ma era anche eccitato, era anche emozionato, e non vedeva l’ora, dannazione a lui, non vedeva l’ora di rientrare in studio e registrare di nuovo, non… non vedeva l’ora di rivedere Brian…
Per settimane aveva collezionato idee e spunti. E per settimane, i suoi amici avevano assistito stupefatti allo spettacolo sconvolgente di lui che rientrava in albergo, afferrava il cellulare, si gettava sul letto e chiamava Brian, improvvisando conversazioni del tipo “Ho visto questa scena fantastica oggi, per strada, dobbiamo assolutamente infilarla da qualche parte nello studio album, poi!”. Li avevano ascoltati chiacchierare per ore intere con toni che a volte sfioravano il romanticismo, e vagavano da un isterico “Molko, piantala, una buona volta, di dire porcate!” a un trasognato “Sì, anche tu mi manchi… un po’…”, sussurrato a stento, buttato fuori a fatica, coprendo la cornetta con una mano nella speranza che non sentisse nessuno.
Scene quasi surreali.
Cose di cui si vergognava da morire.
Per circa un mese avevano dovuto credere che fra loro ci fosse davvero qualcosa. Che stessero pensando a metter su famiglia o chissà cos’altro.
Dio.
E poi era successo qualcosa. Qualcosa che perfino Tom, malgrado sentimentalmente fosse l’uomo più ottuso del mondo, aveva dovuto capire perfettamente. Ovvero era arrivata Gaia.
Gaia l’aveva… l’unico termine che gli veniva in mente e che potesse, anche se molto vagamente, descrivere la sua situazione, era “sconvolto”. Gaia era stata un vero e proprio tumulto.
Era una loro fan. L’aveva letteralmente assalito all’ingresso dell’albergo nel quale alloggiavano, rischiando di farsi ammazzare dalle guardie del corpo e uscendo dalla rissa con una spalla lussata. Ancora dolorante, quando i ragazzi della security l’avevano sollevata e, comprendendo di aver calcato un po’ troppo la mano, l’avevano adagiata su una panchina, chiamando un’ambulanza, la prima cosa che lei aveva mormorato, appena lui le era andato vicino per assicurarsi che fosse ancora viva, era stata “Sono felice di averti potuto vedere così da vicino…”. E quando lui, ridacchiando, le aveva risposto “Hai rischiato grosso… la prossima volta che tenti di avvicinarmi sta’ più attenta…”, lei, sempre sorridendo, nonostante la smorfia di dolore che le sconvolgeva le labbra, aveva detto “Se potessi vederti ogni mattina nel mio letto non dovrei più temere per la mia vita”.
Lui era arrossito, sentendosi nello stesso momento attaccato e già sconfitto.
In quel preciso istante aveva capito che era lei, la donna che cercava. Non sapeva nemmeno il suo nome, conosceva soltanto il suo caschetto biondo, i suoi occhi verdi, la sua pelle chiara e il suo fisico minuto. Non conosceva la sua età, non sapeva nulla della sua vita, ma lei era quella donna, la donna di cui aveva spesso parlato a Dom con aria sognante, la donna per lui.
E lei gliel’aveva confermato riapparendo davanti all’albergo il giorno dopo, col braccio ingessato e un adorabile sorriso sul volto.
“Mi chiamo Gaia”, aveva detto, porgendogli la mano, “Scusa se ti do la mancina”.
“Niente”, aveva detto lui, rispondendo al saluto. “Posso invitarti a bere un te? Sai, per scusarmi del comportamento delle mie guardie del corpo, ieri…”.
Lei aveva sorriso ancora, e lui l’aveva trovata angelica.
“Certo che puoi. E sei già scusato, comunque”.
Era cominciata così.
E nessuno ci avrebbe scommesso su un centesimo.
Nessuno tranne lui, ovviamente.
Un mese dopo, già convivevano. Lei era giovane, molto giovane, aveva appena diciannove anni, ma i suoi genitori erano due persone molto aperte, avevano semplicemente preteso di conoscerlo e sottoporlo a un interrogatorio di un paio d’ore, dopodiché avevano spalancato le braccia e gli avevano affidato la loro bambina con un gioviale sorriso sul volto.
Era stato in quel momento che lui aveva cominciato ad avere paura.
Mancava solo un mese a dicembre. Mancava solo un mese al momento in cui avrebbe rivisto Brian.
E sapeva, perché lo sentiva continuamente, perché parlavano continuamente, sapeva che Brian non era cambiato di una virgola, così come non erano cambiate di una virgola le sue idee su di lui, su di loro.
Ed erano un pericolo.
Perché la sua storia con Gaia era ancora una bambina, era appena nata, era così minuscola e indifesa che lui sentiva il bisogno fisico di proteggerla, avvolgerla fra le sue braccia e impedire al mondo esterno di intromettersi e rovinare tutto.
Ci teneva troppo, per permettere a un altro terremoto di buttare a terra le fondamenta della sua nuova casa.
Perciò, a dicembre aveva semplicemente fatto esplodere un casino. Aveva gridato e strepitato, aveva affermato con convinzione che non gli interessava più nulla di lavorare di nuovo coi Placebo, che la produzione poteva andare a farsi benedire, che non gliele fregava nulla del contratto e poteva anche stracciarlo davanti a tutti, che voleva concentrarsi su sé stesso, che voleva preparare i nuovi pezzi per il nuovo album, che, in definitiva, non se ne faceva più niente.
Avevano protestato un po’ tutti, com’era stato ovvio fin dall’inizio. Dom, soprattutto, s’era infuriato, e avevano litigato come i pazzi per la prima volta dopo tanto tempo. A Dom, come lui stesso gli aveva detto, non fregava niente di quali fossero i suoi problemi personali, non avrebbe dovuto permettersi di impedirgli di passare un altro po’ di tempo con Stefan. E quando lui, protestando, gli aveva detto che comunque di Stefan non gli era mai davvero fregato niente, Dom l’aveva guardato con disgusto e gli aveva semplicemente detto che della vita non capiva un cazzo. Dopodichè l’aveva snobbato per qualcosa come tre settimane e alla fine era crollato e l’aveva “perdonato”.
Lui s’era sentito una bestia insensibile per tutto il tempo.
Soprattutto quando ignorava le chiamate di Brian che tempestavano il suo cellulare.
Ma non era disposto a cedere. C’era troppo in palio. E lui era sempre stato un tipo tenace.
Però, ecco, migliaia di volte, durante quel periodo orribile, avrebbe voluto prendere i suoi amici per le spalle, scuoterli violentemente e urlare “non è che la cosa mi faccia piacere, accidenti a voi, non è che gioisca al pensiero di mandare a puttane un contratto, non è che gioisca al pensiero di mandare a puttane un rapporto, non è che mi piaccia pensare che non rivedrò Brian mai più, solo ho una paura fottuta che questo possa distruggermi la vita, com’è che non lo capite?, com’è che non lo vedete?, PERCHE’, CAZZO, NON VE NE ACCORGETE?!”.
E forse era per questo che, quando aveva saputo che i Placebo avrebbero preso parte al mega-concerto organizzato a Hyde Park, aveva colto la palla al balzo e, mentendo a chiunque, ci era andato. Gaia non aveva sospettato niente, ma di lei non aveva effettivamente motivo di preoccuparsi, perché quella ragazza si fidava di lui come fosse stato suo padre. Dom, probabilmente, aveva sospettato qualcosa. Infatti gli aveva sussurrato malignamente “Tanto se vai lì ci vediamo, perché io ci sarò sicuramente”.
Fortunatamente, Dom non s’era fatto sfuggire nulla con Gaia. Quello sarebbe stato un problema non indifferente, da risolvere.
Cavolo, poteva vedersi. Poteva vedersi vagare sperduto fra i gruppetti di persone intenti a chiacchierare in attesa dell’inizio dello show. Si prospettava una manifestazione musicale di proporzioni cosmiche, avrebbero partecipato tanti di quei gruppi, tra vecchie guardie ed esordienti, che non riusciva neanche a ricordare tutti i nomi.
Anche se be’, in realtà non è che ci avesse realmente provato a memorizzarli, tutti quei nomi. I suoi occhi avevano individuato i Placebo fra i tanti e il suo cervello aveva provveduto a isolarli dalla massa e cancellare tutto il resto, così non è che fosse rimasto molto spazio per i nomi degli altri.
…era semplicemente patetico.
Era lì per vedere Brian, questo era chiarissimo perfino per lui, che pure aveva cercato di ignorare quella verità per tutto quel tempo, che pure aveva cercato di convincersi fosse solo curiosità, voler vedere come stesse, come se la passasse…
Non voleva incontrarlo, gli faceva ancora troppa paura, ma vederlo, quello sì, anche solo da lontano, anche solo intravederlo, anche solo-
- Carino.
Oddio.
Si congelò sul posto, stringendo i pugni e sentendo un brivido scendergli lungo la schiena fino a fargli tremare le gambe.
Oddio.
*
Qualche minuto prima.

Non che fosse inquieto.
E non che sperasse in qualcosa, ovviamente.
Però Dominic l’aveva chiamato in gran segreto e gli aveva detto che sospettava che Matt pensasse di andare al concerto, magari senza farsi vedere, e allora gli sembrava ovvio provare un attimino d’agitazione in prospettiva, o no?
Insomma.
Matt era… era rimasto una parentesi, nel suo passato. Una parentesi che non si era mai chiusa.
E faceva male, ecco. La situazione sospesa, il pensiero che potesse essere ancora sospesa anche nella testa di quel dannato stupido, oltre che nella sua…
Il desiderio di lasciare che tutto si esaurisse nel tempo passato e sprecato, e quello contrastante e altrettanto forte di tenere il ricordo fisso nella mente, per non perderlo mai di vista.
Scosse il capo, massaggiandosi le tempie con due dita.
È mai possibile essere così emotivi?, si disse, sconsolato, scuotendo il capo come a volerlo svuotare da tutti i pensieri.
Doveva uscire da quel dannato umore. Doveva uscire da quella dannata ragnatela di ricordi e soprattutto doveva smettere di vagare per il parco sperando di beccare Matt in mezzo alla folla.
Cercarlo lo faceva solo stare male. Lo riempiva solo di pensieri riguardo a come si era sentito durante l’anno, e quello che aveva passato, e…
Insomma, era stata sua la colpa. Tutta di Matt. Lui si era limitato a comportarsi come sempre, era sempre stato il solito Brian.
Per quanto poteva immaginare potesse essere stato questo a convincere Matthew a comportarsi come aveva fatto.
Ma aveva fatto in modo che nessuno si preoccupasse per lui, durante quei lunghissimi dodici mesi. A Stef e Steve non aveva voluto dire niente, aveva continuato a comportarsi con naturalezza senza lasciar sospettare come si sentisse in realtà. Con Helena non aveva voluto neanche accennare alla cosa, e anche con Alex non aveva avuto voglia di parlare, sebbene lei fosse stata l’unica a immaginare che tutta la sua allegria non fosse altro che di facciata.
Dannate donne, sempre così sensibili.
Ma lui era sempre stato così, in fondo, no? Preferiva tenersi tutto dentro e sorridere, di giorno, e dormire coi suoi fantasmi la notte. Magari affondare nel cuscino e respirare con forza, fino a farsi dolere i polmoni, strizzando gli occhi fino a vedere macchie bianche vorticargli dietro le palpebre, e poi riaprirli e guardare il buio, e trattenere le lacrime a stento o non piangere affatto, e stringere i pugni attorno al lenzuolo ripetendosi “passerà, passerà”, sapendo perfettamente che non sarebbe mai passata, perché i fantasmi ti si attaccano alla pelle, sono come il tempo, che passa e ti rimane ancorato alle spalle, e ne senti il peso, giorno dopo giorno, e senti il rimpianto dei giorni perduti e ti fa male anche se sei fortunato e trovi qualcuno che ti consoli.
Lui era stato fortunato, in fondo. Aveva trovato Helena. E lei era stata fantastica, e comprensiva, e permissiva, e lui era convinto, fermamente convinto che fosse la compagna perfetta, l’unica possibile. E poi lei gli aveva dato Cody, e Cody era semplicemente la cosa più… più grandiosa che avesse mai pensato di ricevere in dono dalla vita.
Adesso era un padre, era un uomo quasi sposato, era tutto sommato contento. Era maturato, dall’anno prima.
Eppure non riusciva a lasciarsi quello che aveva vissuto alle spalle.
Non sarà una volta sola, aveva pensato dopo quell’unica notte insieme, e invece era esattamente quello che era rimasto. Un errore. Un episodio isolato nella vita perfetta e razionale di Matthew Bellamy; un episodio isolato, e neanche l’ultimo di una lunga serie, anche nella vita caotica e assurda di Brian Molko.
Un bruscolino di polvere.
Un’invisibile crepa nella parete.
Un niente.
E poi sollevò lo sguardo. Lo fece vagare sconsolato fra le migliaia di facce sconosciute che sembravano troppo impegnate ad aspettarsi di vederlo sul palco per guardare oltre ai suoi occhiali da sole e al berretto che indossava e alla sciarpa che gli copriva per metà il viso, e accorgersi che era lui. Lo fece vagare fra gli alberi di Hyde Park, fra le aiuole ben curate e pulite, così tipicamente inglesi, e gli ampi spazi di terreno mattonato, e poi lo fece vagare su, perdendolo nel cielo plumbeo che sembrava nero attraverso le lenti degli occhiali, e quando lo riportò giù Matt era davanti a lui, voltato di spalle, e camminava spedito guardandosi intorno come alla ricerca di qualcuno, e a lui sembrò per un attimo di impazzire di gioia, e si sentì sudare freddo mentre tra i suoi occhi e tutto il resto germogliavano le parole cerchi me?, cerchi me?, dimmelo, se cerchi me, Dio, ti prego, fa che cerchi me…
Tirò un respiro profondissimo. Rilasciò l’aria dalle labbra, e quella si condensò in vapore e si sparse davanti a lui, rendendo l’immagine di Matt opaca e sfumata – che ironia – proprio come quella di un fantasma.
E poi prese di nuovo fiato, e cercò di sorridere.
- Carino. – disse, e fu abbastanza perché Matt si congelasse sul posto, stringendo i pugni e voltandosi a guardarlo.
*
Non lo individuò subito, quando si girò. Ma era sicuro che fosse lì, doveva essere lì, non poteva esserci soltanto la sua voce, perciò guardò meglio e lo vide. Sì, il nanetto imbacuccato in un lungo cappotto nero, con la sciarpa quasi annodata intorno al viso come un terrorista, e i capelli coperti da uno sciocco berretto bianco e nero, doveva essere Brian.
Non sapeva cosa dire, ma non poteva rimanere zitto, perciò sputò fuori un saluto, faticando enormemente per ricordare il giusto ordine delle lettere nella parola “ciao”.
Brian… sembrava a suo agio. Non poteva vedere l’espressione del suo viso, ma la postura del suo corpo – le gambe leggermente divaricate, le mani mollemente abbandonate nelle tasche del cappotto, le spalle sciolte e distese – e in generale la sua disinvoltura naturale e il tono pacato e quasi divertito con cui l’aveva chiamato, lasciavano intendere proprio quello.
Che per lui fosse tutto a posto.
Che incontrandosi dopo un anno lui potesse chiamarlo ancora in quel modo senza sembrare inopportuno.
Questo lo irritava.
Cercò di mostrare indifferenza, mentre il suo cervello ribolliva.
- Che coincidenza. – disse atono, guadagnandosi in cambio una risata tonante da parte di Brian.
- Coincidenza? – chiese l’uomo, abbassandosi gli occhiali da sole sul naso e guardandolo da sopra le lenti, - Hai uno strano modo di intendere le coincidenze, tu.
- Se credi che ti stessi cercando, sbagli di grosso. – replicò, incrociando le braccia sul petto.
- Sì?
- Sì. Cercavo Dom, so che doveva venire.
Ancora, Brian rise forte.
- Se credi che lui o Stef siano ancora nei paraggi, dato che la prima cosa che hanno fatto rivedendosi è stata saltarsi addosso, allora sei tu quello che sbaglia di grosso. – disse sorridendo candidamente.
Lui si diede dello stupido. Avrebbe dovuto immaginare che una scusa simile non avrebbe funzionato, viste le circostanze.
Rimasto senza parole, totalmente incapace di reggere lo sguardo di Brian – cazzo – fissò la punta delle sue scarpe per una serie infinita di secondi.
Poi l’odore, la consistenza e la temperatura dell’aria attorno a lui cambiarono, e ancora prima di alzare lo sguardo lui seppe che Brian gli si era avvicinato.
- Posso offrirti una birra? – gli chiese l’uomo, gli occhi nuovamente coperti dagli occhiali, scrollando le spalle.
E lui sapeva che era un pericolo avvicinarglisi tanto.
Sapeva che era un pericolo, stare con lui.
E sapeva che era un pericolo anche bere qualcosa con lui.
Ma accettò senza pensarci neanche una volta.
*
Non voleva dargli l’idea che si fosse tenuto informato sul suo conto, durante quell’anno di assenza, perciò non poteva mica cominciare a chiedergli cose del tipo “Allora, ho sentito che finalmente stai mettendo la testa a posto! Com’è essere padre?” sperando che lui pensasse fossero solo informazioni sentite casualmente alla tv o intraviste di sfuggita su un giornale scandalistico.
Brian era scandalosamente portato ad osservare gli avvenimenti come se tutto avesse un perché.
Non ammetteva l’esistenza della casualità.
E Matt sapeva che mentre sorrideva sereno sorseggiando innocente la sua birra, in realtà stava pensando che se si erano incontrati era soltanto perché entrambi lo volevano fortissimamente, e che se lui aveva accettato di farsi offrire la birra era soltanto perché aveva voglia di stare con lui.
Non aveva pensato neanche un momento che avessero potuto incontrarsi per caso e che lui avesse accettato perché non vedeva per quale motivo non avrebbe dovuto.
No, decisamente, se gli avesse chiesto una qualsiasi cosa sulla sua vita privata Brian avrebbe pensato immediatamente che lui si fosse messo a raccogliere informazioni sul suo conto, ritagliare articoli di giornale e fotografie e costruire un altarino alla sua memoria – con candele e tutto – nel seminterrato di casa sua.
Cosa che effettivamente era stato tentato di fare, più di una volta.
Potenza della nostalgia.
Mentre rimuginava su cosa fosse giusto fare e cosa invece dovesse ricordarsi di non fare mai e poi mai, semplicemente Brian terminò la sua birra, sorrise e chiese “Allora, ho sentito che ti sei fidanzato. Sei felice?”.
Lui lo guardò, attonito, la labbra ancora dischiuse e il boccale a mezz’aria davanti al viso.
- Che vuol dire se sono felice?
Lui inarcò le sopracciglia, stringendo le labbra.
- E’ una domanda come un’altra. No?
- Sì, voglio dire… certo che sono felice! Amo la mia ragazza!
Brian sorrise.
- Vedi che non è difficile rispondere?
Che cosa diavolo gli stava succedendo? Non era mai stato così gentile, così ossequioso…
…così distaccato.
Odiava quel sorriso lontano. Odiava quelle domande di circostanza.
E odiava la consapevolezza che se Brian poteva permettersi senza troppi problemi di chiedergli se fosse veramente felice e come stesse con la sua ragazza era perché, evidentemente, lui l’aveva superato, quello che era successo fra loro.
E quindi, forse, in definitiva, quello che pensava troppo, fra loro due, era proprio lui.
Quello ancora spaventato.
Quello ancora attaccato al passato.
Quello ancora in- Dio, era lui, quello.
Abbassò lo sguardo, sentendosi colpevole nei confronti di tutto il mondo.
- Allora, chi sei venuto a vedere? – chiese Brian tranquillamente, con curiosità, - I Genesis? La reunion sta facendo parlare di sé. Pare che andranno in tour, dopo questo concerto.
- Mh… - disse lui, poco convinto, mentre metabolizzava la sensazione che, con tutto il rispetto per Collins e compagnia, con Brian là davanti dei Genesis gli fregava meno di niente.
- E’ proprio vero che il tempo rinvigorisce i legami, quando sono sinceri, no?
Spalancò gli occhi.
Eccola.
Eccola, eccola, eccola!
La mazzata.
Doveva arrivare, prima o poi.
Stupido, deficiente lui che aveva creduto di averla passata liscia.
Il tempo rinvigorisce i legami sinceri, sì.
E distrugge tutti gli altri.
Capito l’antifona, Brian.

Ora era tutto molto più chiaro, e molto più doloroso.
Brian non era semplicemente passato avanti. Non aveva conservato il ricordo del tempo che avevano passato insieme immergendolo in un barattolino di dolce malinconia. Aveva camminato sui suoi ricordi, pestandoli e riducendoli in brandelli, e poi aveva messo quanto rimasto sott’odio, e lì l’aveva lasciato, a marcire, fino a quel momento.
Ecco cosa c’era dietro ai suoi sorrisi sereni, dietro al suo cortese distacco, alle sue fredde premure.
Quintali, quintali e quintali di schegge di rancore a saltellare impazzite nella sua mente, conficcandosi ovunque.
- Be’, chiunque tu sia venuto a vedere, - concluse Brian alzandosi in piedi, - spero tu rimanga anche fino all’esibizione dei Placebo.
In realtà aveva già visto chi voleva vedere.
Fin troppo.
E se Brian l’avesse saputo gli avrebbe detto tranquillamente che allora poteva andare via.
Ma lui non disse niente, si limitò ad annuire. Brian rispose con un sorriso e poi si voltò per uscire dal locale.
Resistette all’impulso di richiamarlo solo fino a quando non lo vide sulla soglia della porta.
- Brian! – disse a voce alta, attirando gli sguardi degli altri clienti e rimettendoli tutti ai loro posti con una serie di occhiatacce torve.
- Sì? – chiese lui, voltandosi e sorridendo cortesemente.
Matt si sentì avvampare.
- Canterai… canterai la nostra canzone? – chiese infine, imbarazzato, fissando il pavimento.
Brian scoppiò a ridere così forte che lui pensò di aver fatto una battuta.
- Mio Dio, Bellamy: no!

Genere: Malinconico, Comico, Introspettivo.
Pairing: MatthewxBrian, in un certo qual modo strambo O.O
Rating: PG-13
AVVISI: RPS, OC.
- "Il passato ritorna.
È una frase fatta, sì, lo so, ma so anche che gli stereotipi esistono per un motivo ben preciso – ossia perché sono veri – e quindi non mi farò problemi ad usarla.
Il passato ritorna.
Sempre.
"
E il passato, in effetti, ritorna davvero. A farne le spese, come al solito, Matthew Bellamy :D
Commento dell'autrice: Ciao *_* Oddio, siete arrivati alla fine <3 Vi amo tutti <3
Questa è una storia atipica. Una storia che nasce mesi fa, mentre parlavo con la Nai (tanto per cambiare) e fantasticavamo su ipotetiche fanfiction che avessero per protagonista il piccolo Cody, che tutte noi amiamo alla follia perché è troppo tatopuccio per attirare qualcosa che non sia amore totale <3 Così, mentre raccontavamo, nascevano due storie. La sua, di cui non vi dico niente, perché non so neanche se la finirà mai XD E la mia. Che è nata come una stupidaggine random per infilare un po’ di mollamy anche nella storia di Cody. E che poi s’è trasformata in… be’, sostanzialmente nella stessa cosa, però un po’ meglio XD
Sono davvero affezionata a questa storia. Ci sono cose che ho voluto fortissimamente. E la sola idea di vedere Matt interagire col figlio adolescente di BriBri mi uccide di pucceria X3 (Mi uccide anche immaginare Matt e Bri ultraquarantenni, ma non è esattamente pucceria e quindi dimenticherò questa parte del racconto il più presto possibile ç_ç””””).
Mille grazie a Meg, che l’ha amata e ne ha preteso il finale XD Ad Ana, che mi ha messo su a lavorarci perché mi sbrigassi a terminarla per poter poi cominciare il sesto capitolo di Miles Away XD Alla Memuzza, perché è amore *-* E il Meffiu che avete visto – e che tornerà in un’altra storia con Cody XD Meno seriosa di questa, prometto è_é – è suo *-* Ed ovviamente a Nai, perché questa, come tante altre cose, se lei non ci fosse stata, non sarebbe mai esistita. E anche per tutti i complimenti e l’amore dimostrato, del tutto immeritati è_e ma sempre molto graditi. E per l’aiuto enorme col betaggio. E poi Luke è un personaggio della sua storia con Cody XD Solo che io l’ho un po’ rimaneggiato, e quindi non assomiglia più tanto all’originale – che è mille volte più carino (anche se lei non è d'accordo con questa mia convinzione XD). Comunque grazie :*
Devo stranamente ringraziare anche gli X-Japan O_ò Per la bellissima Kurenai, che mi ha accompagnato per qualche tratto durante la stesura. A lei (o meglio, alla sua traduzione inglese) appartengono i versi citati all’inizio.
E ora la pianto, promesso XD Fatemi sapere che ne pensate :*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
LOST AND FOUND

As if something’s gonna force you
now you’re running into the storm


Il passato ritorna.
È una frase fatta, sì, lo so, ma so anche che gli stereotipi esistono per un motivo ben preciso – ossia perché sono veri – e quindi non mi farò problemi ad usarla.
Il passato ritorna.
Sempre.
- Vorrei che tu mi dessi lezioni di pianoforte.
E dal momento che sono circa le sette e mezzo del mattino, io vorrei dormire.
Evidentemente, i desideri miei e quelli di questo moccioso che avrà all’incirca dodici anni e che mi sta di fronte in questo momento, proprio un passo oltre la soglia di casa, non coincidono.
Okay.
Ricapitoliamo.
Un minuto fa ero fra le coperte, mi stavo facendo coccolare dal dormiveglia, dai residui di un sogno fighissimo che già non ricordo più e dal profumo di shampoo alle mele dei capelli di Gaia placidamente addormentata al mio fianco.
Poi ho sentito squillare il campanello.
Ho mugugnato un “no”.
Gaia ha mugugnato un “vai”.
Mi sono arreso, ho mugugnato un “d’accordo” e mi sono alzato, senza neanche premurarmi d’infilare le pantofole o una maglietta.
Mi sono posizionato davanti alla porta.
Ho aperto la porta.
Ho guardato fuori.
E lui era lì.
Il moccioso.
Basso, magro e pallido, lunghi – lunghissimi – capelli neri sciolti sulle spalle e ingombrante frangetta cascante sugli occhi, un’ampia camiciola a quadrucci aperta su un’anonima maglietta bianca e jeans sbiaditi da adolescente alla mano.
Ed eccoci qui, dove tutto è iniziato.
- Vorrei che tu mi dessi lezioni di pianoforte.
Gaia appare alle mie spalle, avvolta in una vestaglia rosa, mentre ravvia dietro le orecchie qualche ciocca ribelle dei capelli ancora sconvolti dal sonno.
- Matt, cosa- oh, mio Dio. – si interrompe, spalancando gli occhi e coprendosi la bocca con le mani, - Un ragazzino…?
Scrollo le spalle, sentendomi né più né meno che un idiota fatto e finito.
Evidentemente non riesco a capire la situazione! È palese!
- Cos’hai detto che sei, tu…? – chiedo al bimbo, tornando a guardarlo con curiosità.
- Non ho detto di essere niente. – risponde lui, sorridendo appena e stringendosi nelle spalle con studiato e graziosissimo imbarazzo, - Ho solo chiesto se saresti disposto a darmi lezioni di piano.
Ed è in questo momento che me ne rendo conto.
Succederà un disastro!
Gaia lancia un urletto alle mie spalle, e nelle mie orecchie risuona come la tromba dell’Apocalisse.
- Matt!!! – gridacchia, saltellando come una bambina innamorata, - È così carino! È un tuo fan?
Spero di no, penso io, tornando a guardarlo, se tutti i miei fan cominciassero a bussare a casa mia all’alba chiedendomi di insegnar loro a suonare, potrei anche meditare di ritirarmi dal mondo della musica!
- Carino, Gaia…? – mi limito a chiedere, sconvolto, mentre il ragazzino ridacchia soddisfatto e io penso che è malefico e che mi ricorda qualcosa di poco piacevole.
- Sì! Sìììì!!! – risponde lei, agitata, strappandomi dalla soglia e spalancando la porta per invitarlo ad entrare.
- Gaia! È uno sconosciuto! Potrebbe- potrebbe essere chiunque!
- Sì, Matt… - risponde lei, quasi annoiata, - potrebbe essere il figlio di uno qualunque dei tipi assurdi che hai conosciuto durante la tua assurda adolescenza, tornato dalle campagne inglesi in cerca di vendetta. È ovvio.
- Be’, potrebbe essere davvero così!
- Amore. – dice lei, seria, incrociando le braccia sul petto dopo aver richiuso la porta alle spalle del ragazzino e averlo invitato ad accomodarsi sul divano del salotto, - Questa fissazione con la teoria del complotto andava bene quando avevi vent’anni, di sicuro. Poteva essere accettabile anche a trenta. Ma adesso hai superato i quaranta, e sarebbe il caso che, non so, crescessi un po’! Non vedi che è solo un bambino?
Un bambino!
Appunto!
- Come se i peggiori guai non venissero sempre da loro! Non hai visto Baby Birba?!
Gaia sbuffa contrariata, dicendomi di darmi una svegliata e tornare a ragionare da essere umano dotato di cervello, dopodiché scompare in cucina – probabilmente per recuperare del latte e dei biscotti.
Il suo istinto materno ci ucciderà, lo so.
So che un giorno un qualche dirigente senza scrupoli di una major nemica della nostra cercherà un modo per farmi fuori, e capirà che la soluzione migliore è mandare un moccioso carino dotato di 44 Magnum, per risolvere la pratica una volta per tutte.
Nel frattempo io rimango qui ad osservare questo ragazzino sorridente seduto sul divano, e sinceramente non riesco a non chiedermi perché il fato sia così crudele con me e non capisca che ho bisogno di dormire per lavorare.
- Cos’è che volevi…? – chiedo di nuovo, sperando che non se ne esca ancora una volta con la cavolata delle lezioni di piano.
- Mi chiedevo se fossi disposto a darmi lezioni di piano.
Ecco, appunto.
- Ti pagherei, ovviamente. – si affretta a precisare.
Come fosse questo il punto!
- Senti, ragazzino… - dico io, simulando una pazienza che non posseggo, - Io non ho mai preso lezioni di piano in vita mia. Quando avevo la tua età, a dodici anni, già andavo in giro col mio piccolo smoking da pinguino e il mio cravattino idiota per le case dei parenti a mostrare quant’ero bravo, quindi-
- Io non ho dodici anni.
- Non fa la benché minima differenza! Quanti anni hai?
- Quindici. E voglio che tu mi dia lezioni di piano.
- Bene, ma si dà il caso che io non dia lezioni di piano.
Il ragazzino mi guarda di sottecchi per qualche secondo, e poi lancia un’occhiata furtiva alla cucina, per assicurarsi che Gaia sia ancora là dentro a smanettare con tazze e piattini. Quindi solleva tranquillamente le gambe sul divano, incrociandole assieme sotto il sedere, e si sporge verso di me.
E io vedo i suoi occhi.
E capisco tutto prima ancora che parli.
- Ieri rovistavo nella soffitta… - sussurra spettrale, fissandomi quasi maligno, - e ho scovato per caso un vecchio baule di mio padre. Sai… - mormora, guardandosi distrattamente le unghie in un gesto che suo padre faceva spesso, lo ricordo, - papà è… un nostalgico, per così dire. Non getta mai niente. Anche quando dovrebbe.
E avrebbe decisamente dovuto farlo.
Se non altro perché avrebbe dovuto immaginare che un giorno avrebbe avuto un figlio demoniaco quanto lui!
- E quindi, rovistando rovistando… - continua il ragazzino, ostentando sicurezza da sotto le lunghissime ciglia che si ritrova, - ho trovato dei fogli.
Oh. Mio. Dio.
- Te li ricordi vero?
Come dimenticare?
Brian aveva il vizio di scrivere le canzoni sul cuscino, accanto a me…
E io avevo il vizio di correggergliele mentre dormiva, e lasciargliele accanto mentre facevo la doccia.
Firmandole.
Dio, le assurdità idiote che si fanno da innamorati…
- Tu non vuoi che questa cosa venga fuori, vero?
È un ricatto! È un dannatissimo ricatto!
- Sia tu che mio padre preferite che la cosa rimanga fra voi, vero?
Dio mio!
- E allora ti toccherà darmi lezioni di piano.
Gaia riemerge dalla cucina con un vassoio fra le mani. Sopra porta un enorme bicchiere di latte al cioccolato e un piatto talmente ricolmo di biscotti da far pensare che ci abbia rovesciato su l’intero pacchetto chiedendosi “avrà tanta fame?”. Sorride angelica, trotterellando come un cucciolo di cane davanti a un nuovo peluche da fare a pezzi.
- Allora, Matt? Che hai deciso?
Lancio uno sguardo al ragazzino, che sorride apertamente.
Gaia è decisamente fra le persone che non devono sapere.
- E va bene. – concedo sbuffando, - Cominceremo domani.
Il sorriso sul suo volto si apre ancora di più, rafforzando la sensazione spiacevole che provo – e che mi sta gridando nel cervello “ti sei messo in un pessimo, pessimo guaio, Matthew”.
Allunga una mano nella direzione di Gaia e socchiude gli occhi, angelico.
- Cody Molko, piacere di conoscerla.
Gaia arrossisce come una liceale, e i suoi occhi brillano per un secondo.
- Ma dai! – dice, stringendo calorosamente la mano del ragazzino, - Quel Cody Molko?
Cody annuisce, sempre sorridendo, tornando a intrecciare le dita in grembo.
- Dovresti essere fiero, Matt! – ridacchia la mia fidanzata, dandomi una gomitata gioiosa sulla spalla, - Il figlio del tuo più acerrimo nemico che chiede a te lezioni di piano! Una rivincita mica male!
Una rivincita, mh?
Sorrido debolmente, mentre Cody si alza e cinguetta “allora a domani”, e io non posso fare a meno di pensare che…
…se c’è qualcuno che meriterebbe una rivincita, be’, quel qualcuno di certo non sono io.
*
- Non parlerò di quello che è successo fra me e tuo padre! – affermo, ancora sconvolto da quello che mi ha detto, fissandolo con gli occhi spalancati.
Questo ragazzino ha preso una brutta abitudine in queste ventiquattro ore. Cogliermi alla sprovvista. Che è una cosa che odio e non permetto a nessuno. E che ancora meno permetterei a lui – certo, se lui si scomodasse a chiedermelo, il benedetto permesso!
È arrivato qui.
Felice e ridacchiante come ieri.
Così soddisfatto di sé e della sua scappatella – probabilmente si sta gloriando di averla fatta sotto il naso a quell’ingombrante imitazione di uomo che ha per padre – da farmi venire i nervi.
S’è seduto al pianoforte e l’ha guardato come se lo vedesse per la prima volta.
- Be’? – ho detto io, sbuffando e incrociando le braccia, mentre mi appoggiavo con un fianco allo strumento, - Intendi farmi vedere cosa sai fare?
E lui mi ha guardato con una tale innocenza che io quasi ci cascavo!
- Non so fare niente. – ha risposto con naturalezza, fissandomi con quegli occhioni verdi-celesti-grigi-fate-un-po’-voi che l’eredità paterna gli ha lasciato sulla faccia.
Allora io giustamente mi sono sentito preso per il culo. E mi sono massaggiato le tempie. E l’ho guardato di rimando. E gliel’ho chiesto.
- Tendenzialmente si chiedono lezioni quando hai strimpellato qualcosa da solo e vuoi imparare a strimpellare qualcosa di più complesso. – ci ho riflettuto un po’ su, - Oddio, i miei amici, quelli che frequentavano il conservatorio intendo, ragionavano così.
Lui mi ha guardato e non mi ha risposto.
- Tu invece vuoi che ti insegni da zero? Dal nulla? Senza che neanche io possegga le basi che speravo avessi tu per evitare l’impaccio iniziale?
Lui ha annuito lentamente, sempre senza staccarmi gli occhi di dosso.
Io ho sospirato.
Ho scosso il capo.
- Scusa la curiosità, - ho chiesto titubante, - ma perché?
E lui ha sorriso, strizzando le palpebre come un micio. E mi ha spiegato perché.
- Speravo che tu potessi dirmi qualcosa su quello che c’è stato fra te e mio padre. – ha detto tranquillamente, - Sai, l’intimità che c’è fra allievo e maestro, le confessioni, i ricordi annegati nelle lacrime… - mi ha lanciato uno sguardo, per vedere se il discorso aveva fatto effetto. E se l’effetto sperato era confondermi, allora complimenti, - Cose così, capisci?
Capisco? No.
Subodoro il pericolo? Decisamente sì.
- Non parlerò di quello che è successo fra me e tuo padre!
E da qui in poi lo sapete.
Panico, angoscia, cogliere alla sprovvista, non ti permetto mai detti, eccetera eccetera.
Cody si limita a un minuscolo sorriso, e ritorna a fissare i tasti d’avorio.
- Allora credo che per un bel po’ di tempo non parleremo d’altro che di musica. – bisbiglia affranto, lasciando scorrere due dita sulla struttura del pianoforte.
Okay.
No, davvero, okay.
Io potrò essere uno stupido, ma voglio dire, non sono uno stupido!
Ecco.
Credo di aver pensato una stupidaggine.
Ma non è questo il punto.
Intendo, io ci vedo, non sono mica cieco. È palese che questo moccioso ha dei problemi. Perché io non andrei mai in giro a intervistare gli ex amanti di mio padre sulle abitudini che avevano quando non erano ancora ex, se non avessi dei problemi veramente gravi da affrontare. E ora non so se sono strano io, ma sinceramente sono più propenso a credere che quello strano sia il ragazzino che ho di fronte.
- Fammi spazio. – dico sospirando.
Lui si fa più in là sul seggiolino, lasciandomi una ventina di centimetri dei quali mi approprio arrampicandomi al suo fianco.
- Io non sono abituato a fare cose simili! – mi lamento, e posso percepire l’imbarazzo farsi strada nella mia stessa voce, - Perciò se… se hai qualche rospo da sputare, fallo adesso che siamo all’inizio, una volta per tutte, e buonanotte!
Lui mi guarda attentamente per qualche minuto, il volto privo di espressione, come fosse incerto sulla reazione da adottare. E poi scoppia a ridere. Così. Semplicemente.
E la sua risata è così derisoria che mi viene improvvisamente voglia di buttarlo fuori.
- Matthew Bellamy! – dice, incapace di smettere di ridere, - Sei stupido proprio come dice mio padre!
Come, prego?
- Però… per certi versi sei anche… tenero. E questa è una cosa che non dice.
Cielo.
Qualcuno mi riporti indietro da cosa-cazzo-succede-landia.
Sto davvero avendo questa conversazione con Cody Molko?
- Vado in bagno. Dov’è?
Indico la prima porta del corridoio, ancora talmente basito da non riuscire a spiccicare parola, e mentre Cody sparisce dalla mia vista mi accorgo che c’è Gaia, appoggiata allo stipite, che mi guarda ridacchiando.
- Sì, certo, sfottimi anche tu! È esattamente ciò di cui ho bisogno! – mi lamento, allargando le braccia e sollevandomi dal seggiolino, muovendo qualche passo nervoso nel salotto.
- Non ti stavo sfottendo… - precisa lei, raggiungendomi alle spalle ed abbracciandomi da dietro, prendendo poi a dondolare come per cullarmi.
- Oh, no, figurati. – dico io con una smorfia, - Era una risata random.
Lei ridacchia ancora.
Adoro il suono della sua risata.
Può far sembrare minuscole cose enormi.
E la cosa in cui mi sto cacciando è decisamente enorme.
- Matt, saresti un padre adorabile. – bisbiglia sul mio collo, mentre io cerco di lanciarle un’occhiata sconvolta da sopra la spalla, - Solo che non hai una grande esperienza coi ragazzini.
Mi libero dalla sua stretta, tornando a guardarla negli occhi.
- Bene. Allora, dall’alto della tua esperienza di psicologa, illuminami.
Gaia sorride radiosa e riprende a dondolare.
È incredibile, qualsiasi abbraccio diventa una specie di danza. A Gaia piace infinitamente ondeggiare quando mi abbraccia.
- I ragazzini, Matthew, non parlano facilmente. I ragazzini che stanno attraversando un periodo difficile, poi, non parlano quasi mai.
- E lui sicuramente ha dei problemi.
- Be’, mi pare ovvio. Non sfiderebbe così l’autorità paterna se non avesse un problema con quella stessa autorità.
Oh, ma lui non sta sfidando l’autorità paterna, oho!
È un piccolo diavolo morboso cui piace scavare negli anfratti umidi e bui del passato paterno! È uguale a suo padre, altroché!
- E quindi, Matt, non puoi pensare che dopo un paio d’ore passate insieme tu possa sederti accanto a lui e dirgli “parlami dei tuoi problemi”, aspettandoti magari anche che lui si faccia un bel piantone consolatorio e ti indichi come salvatore della propria anima di adolescente frustrato.
Spalanco gli occhi.
- Io non ero così complicato! – mi lamento stridulo, ondeggiando con Gaia in cerca di consolazione.
- No, tesoro, non ho alcun dubbio a riguardo.
Qualcuno si schiarisce la voce da qualche parte alla mia destra. Mi volto a guardare. È Cody.
- Scusate. – mormora, con un mezzo sorriso imbarazzato, - Forse è meglio che io vada.
So di essere già in un guaio.
So che dovrei… boh, cercare di arginare il disastro, prendere le distanze, o qualcosa di simile.
Sbuffo.
- Avanti! – dico deciso, dirigendomi dritto al pianoforte, - Seduto.
Gli occhi del moccioso mi rimandano uno sguardo confuso e una domanda silenziosa.
- Allora? Che stai facendo lì fermo? Dobbiamo fare le scale.
- …le scale?
- Certo! Non hai visto Gli Aristogatti? Zitto e cuccia e segui gli ordini del maestro o avremo nel mondo un altro Molko che si improvvisa musicista senza esserlo, e nessuno di noi vuole qualcosa di simile, vero?
Mentre lo sguardo di Cody si illumina – e io riesco quasi a vedere la stessa sfumatura di verde brillante che riuscivo a vedere negli occhi di Brian le rare volte in cui era veramente felice – mi sembra di aver chiuso un cerchio, e mi sembra anche di essere pronto a ripercorrerlo di corsa da capo. E mi sento… soddisfatto, e mi sembra di aver acconsentito a tutta questa follia appositamente per ottenere una cosa simile.
Non è così, lo so. Non immaginavo neanche che gli occhi di Cody potessero dirmi una cosa come questa. Non immaginavo neanche che potessero dirmi qualcosa in assoluto.
Ma è successo.
E io sono nei guai.
E mi sembra di aver fatto bene a ficcarmici.
*
- Sono più bravo di mio padre?
Questo ragazzino è un pericolo pubblico.
Questo ragazzino, davvero, è pericoloso. Non sono io che lo fraintendo, è Gaia che non capisce. Lei è sempre lì a dire “è dolcissimo, è un amore, è uno zucchero, è un adolescente così carino!”. È una settimana che va avanti così. Gaia lo ama e io a stento lo tollero. Ma non è colpa mia, è lui che fa di tutto per rendersi il più irritante possibile!
Oggi, per esempio, no?
Oggi era cominciata bene.
È arrivato, puntuale alle tre come al solito, abbiamo scambiato qualche chiacchiera idiota su quanto odiasse la sua professoressa di filosofia, poi si è seduto al piano, gli ho detto di cominciare a fare qualche scala e lui l’ha fatta.
Sembrava docile.
Ci sono delle volte in cui sembra docile, in effetti. In cui non è lì sul piede di guerra che cerca di estorcere informazioni scabrose come se stesse parlando della lista della spesa.
Perciò ha fatto qualche benedetta scala, ed io ero lì che mi compiacevo, perché diamine, non ho mai imparato a suonare il pianoforte ma evidentemente sono abbastanza geniale da insegnare agli altri – al figlio di Brian! Quindi con una difficoltà in più! – come si fa.
E all’improvviso s’è fermato, mi ha guardato e mi ha detto “Ma non hai qualche spartito da farmi provare? Sono stufo di fare solo scale!”.
Ovviamente la domanda mi ha mandato nel panico.
Perché io non so leggere gli spartiti.
E quindi non ne posseggo.
Allora ho cercato di ricordare cos’è che diceva Duchessa a Matisse negli Aristogatti e me ne sono uscito con un discorso che è sembrato strampalato perfino a me, e il cui riassunto era più o meno “le scale e gli arpeggi sono divertenti! Non ricordi gli Aristogatti?”. Al quale lui ha ovviamente risposto che le scale e gli arpeggi potevano anche essere divertenti, ma alla lunga diventavano pallosi, e comunque Minou in quel film finiva con la coda spiegazzata e non era una fine che a lui andava di fare.
Non è valso a nulla fargli notare che non possedeva una coda. Ho dovuto arrendermi e confessare di essere un pianista privo di spartiti, e subire le sue risate sfacciate per qualcosa che m’è sembrata un’eternità. Le risate derisorie dei ragazzini fanno male e durano più di quelle degli adulti, sarà che loro ci mettono più passione. Si vede che deridere li diverte proprio.
Comunque subito dopo s’è rimesso a pigiare note a casaccio sul pianoforte, come non avesse la più pallida idea di dove andare – facendomi peraltro capire che no, non ero stato in grado di insegnargli un accidenti di niente, com’era ovvio – e poi se n’è uscito con quella frase malefica.
- Sono più bravo di mio padre?
E io sono caduto dal pero, finendo di nuovo in cosa-cazzo-succede-landia.
Questo ragazzino è veramente diabolico.
- Prego…? – chiedo, percependo l’angoscia che grava sulla mia voce.
Lui ridacchia, contento dell’effetto della domanda, e pigia qualche altro tasto prima di decidersi a esplicitare il concetto.
- In una delle note… nei foglietti che ho trovato… c’è scritto “Brian, sei uno zuccone”, e poco dopo “quando ti metti al piano meriteresti bacchettate sulle mani”… con… - risolino sfacciato – un cuoricino accanto alla frase. – si può morire di vergogna per un ricordo? Sì, si può. Non capisco perché non sono morto, davvero. – E quindi mi chiedevo… secondo te sono un allievo migliore di mio padre? Sono più bravo? Imparo più in fretta? Ho più talento?
Oh.
Quanto a stronzaggine, non hai proprio nulla da invidiare al tuo illustre antenato, caro Cody.
- Che-… cioè, cosa intendi?
Un’altra risatina maliziosa, di quelle fatte stringendosi nelle spalle e scuotendo appena l’enorme massa di capelli, mentre la frangetta rimbalza gioiosa sulla fronte.
- Non sto chiedendo niente di scabroso, Matthew… voglio dire, non ho mica chiesto che abitudini-
- Fermati immediatamente! – strillo, così ad alta voce che ho paura di far tremare i cristalli delle mensole.
Cody ridacchia ancora, e poi mi pianta addosso questo sguardo… indecifrabile. Cupo. E… brillante.
- Non sei ancora pronto a parlarne, vero? – mi chiede, quasi dolcemente, come se quello comprensivo dovesse essere lui, come se avessi io quattordici anni e fosse lui il quarantenne che mi dà lezioni di piano.
Lentamente, imbarazzato come mai in vita mia, abbasso gli occhi e scuoto il capo.
E credo che questa soggezione dipenda dal fatto che lui è il figlio di Brian, ma non ne sono sicuro. Potrebbe tranquillamente dipendere da Brian stesso. O… da me.
- Fa nulla. – conclude lui, cinguettando gioioso, - Vuol dire che faremo scale ancora per un po’.
*
Il ragazzino davanti a me – che non è Cody, anche se ha lo stesso sguardo spaventoso – sembra riprendere padronanza delle proprie facoltà di controllo del corpo. Mi fissa. Mi punta il dito contro. E strilla.
- Dove l’hai nascosto?!
Io indietreggio.
È il momento che il mio cervello mi aiuti con un piccolo flashback.
Allora, io ero felice.
Cody non era nei paraggi.
Le due cose possono sembrare considerazioni scontate, ma posso assicurare che durante le mie ultime due settimane di vita non lo sono state. Decisamente.
Stavo… credo sorseggiando un caffé, non ricordo bene, la memoria comincia a giocarmi brutti scherzi, quando subisco un trauma troppo forte. Di sicuro stavo ascoltando la demo di un gruppetto niente male che la Universal pretende io produca in qualche modo.
E poi hanno suonato alla porta.
Io ho lanciato un ululato di proporzioni enormi, perché Cody aveva giurato e spergiurato che oggi non sarebbe venuto, dal momento che domani ha una verifica di matematica e la cosa lo uccide d’angoscia, e io m’ero conseguentemente preparato a un pomeriggio di gioioso pseudo-ozio.
Ho aperto con intenzioni bellicose.
Fosse stato Cody probabilmente l’avrei rimandato a casa con un calcio, appiccicandogli un bigliettino sulla schiena dove avrei scritto “Brian, sant’Iddio, tienilo chiuso a chiave!!!”.
Il punto è che non era Cody. Era un ragazzino alto e robusto, il tipo che gioca a football ma nessuno caga perché non sarà mai il quarterback. Capelli corti, castani chiari, occhi tremendamente celesti, il visino pulito ed educato.
E questo moccioso urla.
- Oddio! – fa.
Cioè.
“Oddio”.
Poi si guarda intorno.
- Scusi. – continua, leccandosi le labbra secche e deglutendo a vuoto, - Lei è davvero… - accenna, ma poi si ferma. Gli occhi girano ancora, evidentemente confusi e incapaci di decidere verso che punto preciso rivolgere l’attenzione per non esplodere.
“Un fan”, penso io distrattamente.
Solo dopo qualche secondo di salivazione azzerata e continui sfregamenti di mani per impedirne la sudorazione eccessiva, il ragazzino riprende il controllo, solleva lo sguardo, mi fissa e mi chiede dove l’ho nascosto.
La mia vita era una vita tranquilla, fino al mese scorso.
Ogni tanto ci tengo a precisarlo, perché rischio di dimenticarlo.
- Scusa…? – chiedo confuso, rinsaldando la presa sulla porta, per paura che lui possa caricarmi e sfondarla.
- Cody! – dice lui.
AHA, penso io.
Tutto è perfettamente chiaro! Tutto splende come la luce del sole! È ovvio! Come non capirlo prima?
Se ho un guaio, è palese che è colpa di quel piccolo demonio!
Afferro il moccioso per la maglietta e lo trascino dentro casa, chiudendomi la porta alle spalle prima di scaraventarlo sul divano. Lui si lascia trascinare senza opporre resistenza, fissando la mia mano ancorata al tessuto della sua maglia come se fosse quella di un fantasma.
- A quante persone l’ha detto?! – sbraito, furente, fissandolo negli occhi come se volessi mangiarmelo.
Lui si fa minuscolo sul divano, stringendo le dita attorno alla fodera dei cuscini.
- Cos…?
- A quante persone l’ha detto?! – ripeto io, - Quanti sanno che viene qui? È una cosa di dominio pubblico?!
- Io non- non lo so… - soffia, a corto d’aria, - Non credo, solo… a me l’ha detto, e quindi…
- E quindi cosa?! – attacco, - Siccome non lo vedi da quando siete usciti da scuola, ommioddio!!!, sei venuto a cercarlo qui?! Dico, sei pazzo?!
- Non… - accenna lui, e si interrompe. Mi fissa. Ha gli occhi limpidi, posso leggere dentro l’iride che il criceto che muove i meccanismi del suo cervello sta gridando “È Matthew Bellamy!!! Stai litigando con Matthew Bellamy!!!”.
…Dio, quando faccio così mi sento dannatamente Brian.
Cancella, cancella.
- Non è questo! – protesta lui, che nel frattempo s’è ripreso e s’è risollevato in piedi, - È che non ha risposto al cellulare, quando l’ho chiamato! E quindi ho pensato che fosse venuto qui!
- Oh, bene! – sbotto, esasperato, - Ci mancava il fidanzatino apprensivo…
- Non sono il suo fidanzato!!! – strilla il moccioso, rosso fino alla punta delle orecchie, - E comunque non sono disposto a osservare questa cosa andare avanti senza fare niente per fermarla!
Lo fisso, un po’ stordito.
- Io non ho nessuna colpa se quel pazzo del tuo migliore amico, o quello che diavolo è per te, è pazzo! È venuto lui a chiedermi lezioni di piano! Di propria spontanea iniziativa!
- Ma Cody è uno spostato! – obietta lui, e io non posso che essere d’accordo, - Mica ragiona come le persone normali! – questo ragazzino potrebbe non essere un completo demente, - Sei tu che non l’hai capito e hai permesso che si infilasse in casa tua… e ora te ne approfitti!
…io potrei aver toppato con i giudizi.
- …io cosa?!
- Sì! – continua lui, enormemente convinto di ciò che sta dicendo, - Scommetto che è qui, adesso!
- Ossignore! Cody Molko non è qui, grazie a Dio!
Il ragazzino stringe i pugni e mi guarda.
Ha negli occhi una tale quantità di furore che faccio fatica a distinguere l’accento isterico, dato dal fatto che non trova il suo migliore amico, dall’accento ansioso, dato dal fatto che io sono io e gli sto parlando e lui è palesemente sconvolto da questa cosa e prima di uscire da questa casa opporrà più resistenza degli spartani alle Termopili.
- Provamelo! – mi sfida.
Capisco che, se non gli do retta, non me lo scollerò mai di dosso.
…sarà difficile che questo succeda anche dandogli retta, ma tentar non nuoce, in fondo.
Afferro il cellulare sul tavolo e cerco in rubrica il numero di Cody – che diavolo ci fa nella mia rubrica il numero di Cody?! – lo chiamo, attendo, risponde.
- Cosa vuoi?
…maleducato come il padre!
- Non so in che mondo viva tu, Cody, ma nel mio si risponde “pronto” o, al massimo, “posso esserle d’aiuto”!
Lui si scusa, agitato, e motiva la propria reazione avventata con un debole “non sono abituato a sentirti per telefono”.
- Comunque cosa vuoi?
- …senti. – comincio io, - A parte che dovrei essere io a chiedere a tutti voi cosa volete da me. Ma comunque, c’è qui un tuo amico – lancio un’occhiata al moccioso, che fissa me e il cellulare con gli occhi sgranati, come non gli riuscisse di credere che io e Cody stiamo realmente avendo questa conversazione, - che è mortalmente preoccupato per te. Penso che rivolterà il mio appartamento al contrario, se non ti fai vivo. Perciò scollati dalla sedia e vieni.
Cody si lascia andare ad un minuto di silenzio.
Poi ad una risatina allegra.
E mentre io penso che si sta lasciando andare a troppe cose, si lascia andare anche ad uno sbuffo spaventosamente tenero e ad un bisbiglio che somiglia a un nome. Poi mi assicura che è già con un piede fuori dalla porta e che salverà me e la mia casa dal disastro, perciò posso stare tranquillo.
Annuisco vagamente, interrompendo la chiamata.
Mi volto verso il moccioso.
- Ti chiami Luke, per caso?
Lui sgrana gli occhioni azzurri.
- Sì… - annaspa, sconvolto.
Ok.
Devo fronteggiare la realtà che il figlio del mio ex ha bisbigliato teneramente il nome del suo migliore amico al telefono.
Come io bisbigliavo il nome di Brian quando ne parlavo con Dom.
*
Sono seduti sul mio divano, l’uno accanto all’altro. Gaia volteggia fra loro come una fatina buona, ed è talmente in amore che penso che fra un po’ sbotterà e mi darà dell’orco insensibile.
Ne avrebbe tutte le ragioni.
Cody è arrivato da venti minuti.
Quindici minuti fa, lei ha offerto a lui e Luke del gelato al cioccolato. Loro, da bravi bambini, l’hanno accettato e hanno preso a divorarlo al ritmo di un mega-cucchiaio a testa ogni dieci secondi. Devono solo ringraziare che preferisca la vaniglia!
Dieci minuti fa, Cody ha sfilato le scarpe, abbracciato il proprio barattolo e sollevato i piedi da terra. S’è arrotolato su sé stesso e sul divano, e questo non è il ricordo di un gesto o un sorriso fugace, non è un’impressione, non è un’illusione, non sono io che cerco di convincermi della loro sconvolgente somiglianza: Brian si metteva così continuamente. Durante le interviste, quando passavamo la notte a parlare qui, quando passavamo la notte a parlare da lui, quando guardavamo insieme la televisione… a volte, quando entrambi ci lasciavamo abbastanza in pace da permetterglielo, ci si addormentava pure, in questa posizione.
Ora, non so se Cody stia deliberatamente cercando di farmi andare fuori di testa.
Però so che ci sta riuscendo.
Ed è per questo che, ormai da cinque minuti buoni, io sto sbraitando.
Anche se sto urlando “non è possibile che tu dia il mio indirizzo a destra e a manca, col rischio che poi orde di adolescenti imbizzarriti mi assalgano, invadendo la mia casa!”, indicando il povero Luke, che continua a mangiare il gelato con un’espressione giustamente estasiata sul volto – e se crede che non abbia notato le dieci spilline dei Muse che ha attaccate al tascapane, be’, si sbaglia – non è veramente questo, quello che intendo. Non è questo ciò che voglio dire.
Credo che Cody lo sappia.
Credo che sappia perfettamente che in realtà sto dicendo che mi piacerebbe buttarlo fuori dalla mia vita, perché la sta scombussolando più di quanto io non dia a vedere, ma che per qualche motivo non ci riesco. Non riesco a trovare il pretesto, il modo, le parole, la voglia
…e ricordare che, invece, quando avevo poco più di vent’anni, riuscire a farlo con suo padre è stato terribilmente facile, mi porta ad una realizzazione ancora più grave, ancora più enorme, ancora più pesante.
Io ho un conto in sospeso con Brian.
E mi sembra di stare risalendo pian piano tutti i gradi della conoscenza, come in non mi ricordo che religione o filosofia.
Concludo la mia tirata con un risoluto “non farlo mai più, o puoi anche fare a meno di tornare!”. Gaia mi fissa, arricciando le labbra. Sta faticosamente cercando un sinonimo per “Matt, fila in camera tua!” che sia meno ridicolo e renda ugualmente l’idea di quanto disapprovi il mio comportamento, ma Cody è più svelto di lei.
- Te la prendi troppo, - dice, infilando il cucchiaio in bocca e lasciandolo scivolare sulla lingua per leccare via il gelato dalla superficie, - Meffiu.

È definitivo.
Cody è molto peggio di suo padre!
- Mef-… - accenno io, a fiato corto, incapace di concludere.
- Meffiu! – ridacchia Gaia, illuminandosi in volto e battendo le mani sotto il mento, - Meffiu! Suona bene!
- Meffiu… - ripete Luke, poco convinto, come stesse rimuginando sulla questione “è moralmente giusto dare un soprannome ridicolo al mio idolo di sempre?”.
- Insomma! – protesto io, irritato, - Cody, non si parla con la bocca piena!
Lui ride felice, soddisfatto della situazione che ha creato, stendendo con grazia le gambe sulle ginocchia di Luke in un gesto così intimo e naturale che ho appena il tempo di pensare che se occhi azzurri ci crede, quando dice che non stanno insieme, è fuori strada. Poi esalo un “mio Dio” che mi lascia stremato e senza nient’altro da dire, e mi lascio ricadere pensoso sullo sgabello davanti al piano, poggiando i gomiti sulle ginocchia e cercando di capire. Ho decisamente bisogno di riflettere un po’ in pace. Gaia se ne accorge e attira i ragazzi in cucina, con la scusa di un’abbondante tazza di latte e biscotti, perciò io resto da solo e ho finalmente l’occasione di far ruotare i meccanismi del mio corpo con un po’ più di calma. Ultimamente non me ne è stata data molto la possibilità.
Dunque.
A Cody piace questo ragazzino.
E a questo ragazzino piace Cody.
Questo fatto è così palese che… mah, non so, l’alba e il tramonto a confronto perdono ovvietà.
C’è qualcosa, in questa consapevolezza – nel fatto che si piacciono a vicenda e io lo so, mentre probabilmente loro no – che non mi lascia in pace. C’è una strana vocina nella mia testa, che per nessun motivo particolare ha passato gli ultimi minuti della mia vita a ripetermi “impicciati”.
Non sono fatti miei.
O meglio, lo sono nella misura in cui Cody mi ha fatto diventare parte della propria vita, con o senza il mio consenso.
Ma non sono ancora abbastanza istupidito dall’età o dalla confusione che regna sovrana nel mio mondo, per adesso, da non capire che c’è comunque un enorme limite invalicabile che passa tra l’essere parte della sua vita e l’aiutarlo in questioni che non mi riguardano affatto.
…perché in teoria solo i suoi genitori possono valicarlo, quel limite. Solo i suoi genitori possono interessarsi a tutti gli ambiti della sua esistenza. Solo i suoi genitori hanno questo diritto. E io non faccio parte della categoria neanche in assoluto, figurarsi poi se si parla di lui in particolare.
- Meffiu! – cinguetta Gaia, raggiungendomi dalla cucina a passi lenti e rilassati, sorridendo tranquilla.
- Ti prego… - bisbiglio io, - Puoi almeno evitare di andar loro dietro?
Lei ridacchia, sedendosi sulle mie ginocchia e circondandomi il collo con le braccia, dando il via alla solita danza ondeggiante avanti e indietro.
- Te ne sei accorto anche tu, vero? – sussurra piano, contro il mio orecchio.
Sorrido. Lei aveva perfino meno elementi di me, e l’ha capito comunque.
- Dillo, che l’idea di fare il Cupido ti stuzzica! – ride.
- Non è assolutamente questo, non farmi passare per un personaggio da romanzo rosa…
Lei mi sorride, con le labbra e con gli occhi, e ondeggia ancora un po’, cullandomi.
Santo cielo, adoro tutto questo.
- D’accordo, d’accordo… - borbotto, mentre un flash di mio padre che borbotta la stessa cosa nella stessa identica maniera, decidendo di accompagnarmi sulle montagne russe alla tenera età di sei anni, mi attraversa la mente, spaventandomi non poco, - Ho capito.
Gaia si alza e ridacchia, precedendomi in cucina.
Resto qualche secondo fuori dalla porta, prima di entrare, e osservo. Cody e Luke stanno parlando. Luke lo sta rimproverando per non essersi reso reperibile. Cody lo fissa con la stessa intensità con cui fissa i biscotti al cioccolato sparpagliati sul tavolo. È bello fissare così qualcuno. È bello sentire gli occhi incandescenti, percepirli come il veicolo attraverso il quale irradiare ciò che proviamo sull’oggetto del nostro desiderio.
Cody è dannatamente trasparente, dopotutto.
Finge una malizia, una cattiveria e una furbizia che non gli appartengono davvero, e le finge bene.
…proprio come il papà.
Sospiro, mentre Luke finisce di rimproverarlo e Cody, per dimostrare che di quanto ha detto non ha percepito una parola, preso com’era a guardargli le labbra, gli lancia addosso un biscotto, che lui prende in pieno naso senza un fiato di disappunto.
- Ragazzi. – li richiamo, e loro si voltano a fissarmi.
Cody mi guarda e sembra voglia ringraziarmi di tante di quelle cose che faccio fatica ad elencarle, anche se le riconosco una per una. Probabilmente non gli capita spesso di mangiare latte e biscotti con Luke comodamente seduto al tavolo di casa propria.
…ossignore.
- Luke, vieni qui.
Lui solleva il capo, arrossendo d’improvviso, e poi ubbidisce silenzioso.
Ho come la vaga impressione che non si abituerà mai alla mia presenza, né tanto meno alla possibilità che possa davvero chiamarlo per nome. Dio, spero di no, perché se continua così sarò costretto a fare da testimone al loro matrimonio, quando si sposeranno.
…Gaia, fermami.
Infilo una mano nella tasca posteriore dei jeans, tirando fuori il portafogli e rovistando al suo interno. Afferro una banconota da cinque sterline e lascio che si affacci oltre la fodera, scoccando un’occhiata a Gaia, che inarca un sopracciglio e incrocia le braccia sul petto con enorme disappunto. Sospiro ancora e tiro fuori una banconota da dieci.
- Offrigli un gelato. – dico spiccio, porgendogli il denaro senza guardarlo negli occhi.
Gaia ridacchia. Sul viso di Cody si apre il sorriso più bello che abbia mai visto.
Vedo Luke voltarsi a guardarlo, li vedo arrossire entrambi, poi vedo Cody alzarsi e cominciare a sparare a raffica informazioni su una gelateria a suo parere stre-pi-to-sa, mentre afferra l’amico per un braccio e comincia a tirarlo verso la porta, lanciandomi un “ciao-e-grazie” leggero come l’aria che mi costringe a sorridere, nonostante tutto.
Inspiro ed espiro, osservando i due ragazzini catapultarsi fuori di casa, mentre Gaia mi si avvicina e si appende di nuovo al mio collo.
- Va meglio ora, vero? – chiede maliziosa, sollevandosi sulle punte per sfiorarmi lo zigomo con la punta del naso.
Sento il bisogno di annuire.
Poi il mio sguardo saetta per un secondo sul cellulare, che ho abbandonato sul pianoforte in salotto.
…dovrei avere ancora il suo numero…
Gaia mi dà un bacino sulle labbra.
Bah. Ci penserò un’altra volta.
*
- Tu che hai esperienza… - butta lì, casualmente, - Non è che potresti darmi qualche consiglio?
E io esplodo.
Questo ragazzino sarà la mia morte.
Allora, l’ho lasciato ieri che era ancora un verginello tranquillo, ok? È venuto, abbiamo suonicchiato, più che altro lui ha continuato a parlare a ruota libera di quanto sia figo il suo Luke, di quanto sia gentile e di quanto sia bravo a baciare. Lo fa da due settimane. Quindi, d’accordo, ormai mi sono abituato. Poi sono perfettamente consapevole del fatto che c’è di peggio nel mondo. Voglio dire, ci sono dei genitori che sono costretti a fronteggiare realtà allucinanti, tipo scoprire che il loro piccolo tesoro è il capo di, chessò, una babygang armata fino ai denti e ricercata in tutta l’Unione Europea, o, per non cadere troppo nel fantascientifico, ci sono dei genitori che scoprono all’improvviso che il loro piccolo tesoro di cui sopra va in giro con la gonna. Cioè, al mondo ci sono dei veri
drammi
. Non è poi così orribile che io sia costretto a sorbirmi lo sbrilluccichio amoroso degli occhi di un adolescente per me fondamentalmente random che mi ha scelto come proprio confidente personale e che mi ha permesso di appaiarlo con un altro adolescente per me fondamentalmente random, per la gioia di tutti.
Ma questo no.
Questo è troppo.
È troppo se lui arriva con aria trasognata e, sedendosi sullo sgabello davanti al piano, comincia a pigiare tasti a caso e sussurra uno “stasera esco con Luke…” che mi dà i brividi per tutto quello che implica.
È troppo se mi lancia uno sguardo indecifrabile e si appoggia ai tasti coi gomiti e col mento sulle mani incrociate, facendo un baccano infernale e disinteressandosene totalmente.
È troppo se bisbiglia “mangiamo fuori, e poi…”, interrompendosi solo per intensificare la luce che gli esce dagli occhi ed assicurarsi che mi colpisca esattamente come vuole lui.
È troppo se sorride come avesse trovato la soluzione di ogni guaio, schiude le labbra e…
- Tu che hai esperienza… non è che potresti darmi qualche consiglio? – mi chiede.
Esperienza!
No, dico, consigli!!!
Salto in aria. So che, se potessi, arriverei al tetto e mi aggrapperei con gli artigli al lampadario. Dovrei essere un gatto, per farlo, ma se lo fossi sarebbe indubbiamente la mia mossa.
- Io non ho esperienza! – grido stridulo, chiudendo i pugni con forza.
Lui solleva un sopracciglio, squadrandomi di sbieco.
- Sì, certo, Matt…
- Cody, cazzo! – continuo io, sempre più isterico, - D’accordo, sono stato con un uomo quando avevo… Dio, avevo tipo vent’anni!
- Ventidue.
- Quelli che erano! Perché diavolo ne sai più di me?!
Scrolla le spalle.
- Le agende…
Certo. Le dannate agende di Brian. Quelle che riempiva di stupidi segnetti quando ci organizzavamo perché, di soppiatto, lui scivolasse all’interno del mio appartamento o io del suo.
- Sono passati diciannove anni! Non si può neanche pretendere che lo ricordi!
Lui mi guarda come avesse una chiarissima percezione della dimensione esatta della menzogna che gli sto propinando.
E quando preciso che non intendo dargli alcun consiglio di natura sessuale, che ha solo dodici anni – quindici, ci tiene a ricordare lui – ed è praticamente un poppante e che oltretutto casa mia non è un consultorio, lui sbuffa. Scrolla le spalle. Sorride maligno. E decide che è il momento di farmela pagare.
- Già che siamo in argomento… - sibila, - È passato più di un mese da quando ci conosciamo… non credi che sia il caso di cominciare a dirmi qualcosa di più preciso sulla vostra relazione?
Lo guardo. Mi sento enormemente stupido.
- Cody! – vai in camera tua!, ma no, non posso dirglielo. Perché lui non ha una camera qui. Perché questa non è casa sua.
Dio mio, penso terrorizzato, ora chi glielo dice a Brian che suo figlio ha due padri?
Ma la verità è che no, Matthew, tu non sei suo padre.
A Gaia piace crederlo perché le manca un moccioso vagolante per casa.
A Cody piace crederlo perché evidentemente col padre che si ritrova per natura non ha il migliore dei rapporti.
Anche a te piace crederlo, più o meno, anche se non lo ammetti e non ti piace pensarlo.
Ma tu non sei suo padre.
- Torna a casa. – dico, glaciale.
- Oh, avanti! – sbotta lui, continuando a scherzare. Probabilmente non ha percepito il cambiamento nel mio tono di voce, o si rifiuta di accettarlo, - Ti ho solo-
- No, Cody. – continuo, deciso, - Non ci siamo. Questa cosa non ha senso.
Comincia a capire.
Spalanca gli occhioni e mi fissa spaventato.
Sta pensando “ops... passo falso”. So cosa pensa e questo mi terrorizza ancora di più.
Non posso prendermi questa libertà.
Non nei confronti di Brian.
Fosse un ipotetico figlio di Dom, potrei farlo. Fosse Alfie, o Ava Jo, o Frankie, potrei farlo lo stesso.
Non a Brian.
Non a lui, dannazione.
- Torna a casa. – ripeto.
- Matthew-
- No. Non servirà a niente dire che capisci che non posso ancora parlarne. Non è questo il problema, Cody. Se vuoi sapere qualcosa sul passato di tuo padre, devi chiederla a lui! Capisci che venire da me non ha senso? Non ha avuto senso fin dall’inizio…
Lui prova a protestare.
- Tu eri l’unico che- - dice, ma no, Cody, non ti lascerò finire.
- Non ero niente. – gli ricordo… quasi con dolcezza. Sorrido, perfino. – Non sono niente neanche adesso, Cody. Figurati se ero qualcosa prima.
- No, Matt! – insiste lui, stringendo i pugni e saltando in piedi, - Tu e mio padre-
- Siamo stati insieme. È vero. – ammetto sospirando, - E questo è successo molto prima che tu nascessi e molto prima che tuo padre conoscesse tua madre. Quindi non ha niente a che fare con te.
Questo lo fa tremare.
- Ma non sono nessuno per stabilirlo, in fondo. – mi correggo, - Dico solo che, se anche questa cosa ti importa sul serio, io non sono la persona a cui devi chiedere.
Si ferma.
Sembra che tutto in lui si intorpidisca e si congeli poco a poco.
Fine delle proteste.
Fine della rivoluzione, Cody, mi dispiace.
- Capisci quello che intendo?
Lui abbassa lo sguardo, in un’ammissione che non ammette commenti.
- Su. Da bravo. A casa.
Stavolta annuisce davvero, assottigliando lievemente gli occhi già semichiusi. Recupera lo zaino abbandonato per terra accanto al divano ed esce dall’appartamento. Non sento neanche l’eco dei suoi passi nel breve corridoio verso l’ascensore.
Non sentivo mai neanche quelli di Brian.
Hanno un’altra cosa in comune.
Sanno bene come sconvolgere una vita.
E sanno altrettanto bene come uscirne in silenzio.
*
Ho passato due giorni orribili.
Il cellulare è rimasto sul pianoforte, dove l’ho lasciato il giorno in cui Cody se n’è andato, e non ho osato neanche avvicinarmici per paura di afferrarlo e comporre il suo numero.
Gaia mi ha rimproverato.
Mi ha detto che mandarlo via non era quello che volevo.
Gaia non sa che voglio solo chiudere quella parentesi della mia vita – non Cody, no. Brian. Cody ha riaperto quel baule, su, in soffitta, e s’è infilato astutamente fra i miei ricordi per amalgamarsi meglio con ciò che è stato suo padre. Non è stato una nuova parentesi, è stato un continuo riaprirsi di quella vecchia. E Gaia non sa che voglio solo provare ad andare avanti senza che il fantasma degli occhi di Brian continui a perseguitarmi sotto forma degli occhi di Cody.
Quindi, a tutti gli effetti, Gaia non sa di che sta parlando.
O forse… la cosa che mi dà più fastidio è che lo sappia. Malgrado la mancanza di gran parte degli elementi che l’aiuterebbero a capire non le dia modo di afferrare il significato profondo delle sue stesse parole, Gaia sa esattamente quello che sta dicendo. E ha ragione. Perché io non avevo davvero voglia di allontanare Cody. Né tutte quelle piccole fatiche quotidiane che la sua presenza mi obbligava a portare a termine. Aprire la porta, convincerlo a suonare un po’ oltre che a parlare continuamente di tutto ciò che gli passava per la testa, magari anche a nutrirsi un po’ prima di diventare uno scheletro e a stare attento alle lezioni di matematica perché non si sa mai possa servirti in futuro. Quasi mi manca vederlo apparire sulla soglia, sorridente e con lo zaino sulle spalle. O, come mi aveva abituato nell’ultima settimana, mano nella mano con Luke, che poi abbandonava sul divano a sfogliare fumetti, salvo pretendere la sua attenzione, qualche complimento e qualche applauso quando riusciva ad arrivare senza errori in fondo a una melodia.
Non avevo neanche voglia di allontanare tutta l’angoscia e la fatica psicologica che la sua sola presenza comportava.
L’ho fatto perché…
…la porta.
Sguardo veloce all’orologio – è l’una meno venti.
Sguardo ancora più veloce a Gaia – dorme ancora.
Mi sollevo velocemente dal letto e raggiungo l’ingresso, accorgendomi distratto del temporale che infuria fuori, scagliando minuscole goccioline d’acqua perforanti come proiettili contro i vetri delle finestre, facendoli quasi tremare.
Apro.
- Cody!
Fradicio.
Triste.
Avrei preferito non vederlo mai così.
- Che diavolo… entra! – bisbiglio, infuriato, scostandomi dall’uscio e lasciandogli spazio per obbedire.
Lui non dice una parola, trascinandosi stancamente all’interno dell’appartamento e lasciandosi alle spalle una scenografia di pozze e strisce d’acqua. L’orlo dei suoi jeans striscia sulla moquette, appena strappato, come quello di tutti i ragazzini di quest’età.
- Che è successo? – gli chiedo, mentre lo spingo lievemente, costringendolo a sedersi sul divano e osservando per un secondo la macchia d’umido che si allarga sotto di lui, prima di correre in bagno, a prendere un telo di spugna con cui asciugarlo, e in camera da letto, per recuperare una coperta nella quale avvolgerlo perché non prenda freddo.
Lui fissa un po’ le goccioline d’acqua scivolare giù dalle punte della frangetta, sbattendo incidentalmente sul naso prima di schiantarsi contro le ginocchia.
Poi si stringe nella coperta, mentre io friziono i suoi capelli.
- Cody. – lo chiamo, - È notte fonda! Che ci facevi per strada a quest’ora?!
- …sono uscito con Luke… - ammette lui, con un filo di voce.
- E avete fatto troppo tardi? È per questo che non hai il coraggio di tornare a casa? – cerco di capire.
Lui scuote il capo.
- Sono tornato a casa… - racconta, - Ma era già tardi… papà… mi aspettava in piedi…
- …arrabbiato?
Annuisce, strofinando una mano su un braccio nel tentativo di riscaldarsi.
- Ti ha rimproverato?
- Non… - deglutisce, - Non mi rimprovera mai… - ammette debolmente, - È come se non sentisse abbastanza autorità per farlo… - sussurra con un sorriso stentato, enormemente triste, - Mi ha detto che era preoccupato, che avrei dovuto avvertire… che mamma non sapeva che pesci prendere e alla fine s’era addormentata esausta accanto al telefono…
Annuisco, sedendomi al suo fianco mentre faccio scivolare il telo sul suo collo e controllo se i suoi vestiti sono ancora indossabili o se faccio meglio a prenderne degli altri.
- E dopo che è successo?
Lui si passa una mano sulla fronte, scostando i capelli bagnati e mugolando come se sentisse male da qualche parte.
- Abbiamo litigato…
- Cody…
- Io non volevo! – si affretta a difendersi, - Non so neanche se si possa definire litigio… - commenta poi, abbassando lo sguardo per sfuggire al mio, che nel frattempo è riuscito in qualche modo a trovare i suoi occhi, - Il suo discorso mi ha infastidito… gli ho detto che può badare esclusivamente agli affari suoi, dal momento che io sono abbastanza grande per badare ai miei…
- …e hai dimostrato così perfettamente di non essere in grado di farlo.
Solleva di nuovo lo sguardo, schiudendo le labbra.
- L’ha detto anche lui. – sussurra con voce rotta.
Io sospiro, alzandomi in piedi.
- Vado a prenderti dei vestiti asciutti. Tu togliti quella roba, o ti verrà un febbrone.
Annuisce e si libera della coperta, sfilando la maglietta e lasciandola ricadere per terra dopo un attimo di indecisione. Quando torno in salotto, con una maglia e un paio di pantaloni che ovviamente gli andranno larghissimi, lui è di nuovo completamente avvolto nella coperta, ma tutti i vestiti sono ordinatamente ammucchiati sul pavimento, come ci tenesse ad occupare il minor spazio possibile.
- Scusa se sono tornato. – dice con un filo di voce, mentre afferra gli indumenti che gli passo e comincia a rivestirsi, - Non sapevo dove altro andare.
Sospiro ancora.
- Avresti potuto rimanere a casa.
- No. – dice lui, deciso, - Non avrei potuto.
So che è vero.
- Puoi restare qui a dormire, per oggi. – cedo. Tanto vale farlo adesso, tenerlo ancora sulle spine sarebbe crudele e del tutto inutile.
Lui lancia un respiro che somiglia tanto a quelli che lanci quando riprendi a respirare dopo molti secondi.
- Grazie. – sussurra.
- Figurati. – dico, togliendogli di dosso la coperta bagnata e passandogliene un’altra asciutta. – Dormi bene.
Faccio per alzarmi e tornarmene a letto, rimandando qualsiasi pensiero razionale all’indomani mattina, ma lui mi ferma, attaccandosi al mio braccio e costringendomi a ricadere indietro sul divano.
- Matthew… ti prego… - bisbiglia senza guardarmi, - Puoi raccontarmi cos’è successo fra te e mio padre?
Cosa vuoi che ti dica, Cody? Cos’è che vuoi detto, mentre stai accucciato sul divano e mi fissi, fradicio di pioggia, come fossi davvero il salvatore della tua anima frustrata?
Cosa vuoi detto? Che amavo tuo padre? Che lui amava me? Vuoi raccontato il momento in cui ci siamo conosciuti? Come fossimo entrambi troppo giovani e stupidi per capire cos’avevamo fra le mani? Vuoi descritti gli sguardi di fuoco che ci siamo lanciati per mesi, quando costringevamo i nostri migliori amici ad uscire in gruppo per dare luogo a uno strano rituale di corteggiamento, comprendente battutine e occhiate furbe, mentre gli altri ci fissavano sconvolti come provenissimo da un altro pianeta? Vuoi il primo bacio? Cos’è che vuoi? Sapere quanto è stato dolce? Quanto è stato appassionato? L’esatta gradazione di rossore che hanno raggiunto le mie guance? Come mi sia sembrato di stare bevendo acqua fresca e pura dopo anni di fango? Vuoi il dopo? Vuoi il sesso? Le sue mani su di me, le mie dita dentro di lui, la lingua, le labbra, la pelle, il piacere? Vuoi gli orgasmi e le risatine allegre durante i minuti in cui riprendevamo fiato? Vuoi le tenerezze? Vuoi sapere se, quando andava in cucina e io gli chiedevo di portarmi un po’ d’acqua, lui ubbidiva con gioia e senza lamentarsi, oppure se mi tirava addosso qualcosa borbottando “se hai sete, alzati e bevi”? Vuoi che ti racconti delle notti insonni passate a parlare di ispirazione, armonia, poesia? Vuoi i deliri di quando eravamo ubriachi? Vuoi i sospiri di quando eravamo eccitati? Cosa diamine vuoi, i primi litigi? Le prime guerre? Le prime trincee? Le prime barricate? Vuoi che ti descriva esattamente cosa si prova a vedere una storia a cui tieni mentre ti scivola fra le mani perché tu non sei in grado di trattenerla? Vuoi sapere in che modo Brian mi ha fatto capire che essere “l’amante segreto di Matthew Bellamy” non gli bastava? Vuoi che ti dica come mi sono sentito quando tuo padre mi ha detto che voleva di più? Vuoi sapere con quali esatte parole ho pensato che non potevo e neanche volevo darglielo? Vuoi che ti descriva la sua espressione mentre mi ascoltava ammetterlo, pretendi che io te ne parli senza scoppiare a piangere?
…potrei ancora disegnare le curve del suo profilo mentre lo vedo uscire dalla porta per non tornare mai più. Potrei contare da capo i minuti passati in attesa davanti al telefono, continuando a ripetermi che era tutta colpa mia e avrei dovuto decidermi a farmi sentire per primo, anche se sapevo perfettamente che non l’avrei fatto. Potrei parlare di ogni pomeriggio, ogni notte, ogni risveglio solitario. Potrei ripetere a memoria ogni lamentela propinata a Dom e Chris.
Potrei davvero dirti tutto, Cody. Ma tu non vuoi sapere da Matthew Bellamy che anche tuo padre è un essere umano. Tu non hai bisogno che te lo dica io. Tu lo sai.
Hai bisogno di correre da tuo padre e obbligarlo a dimostrartelo.
Ed è dannatamente diverso.
- Buona notte. – ripeto, liberandomi dalla sua stretta e tornando in piedi.
Vuoi parlare con qualcuno, Cody?
È con Brian che devi parlare.
Lo so bene.
Perché devo farlo anche io.
*
Il cellulare di Cody mi dà una mano a ritrovare il suo numero.
Trovarlo sotto la voce “papà” è vagamente divertente, ma dal momento che non è il caso di ridere ne faccio a meno e lo chiamo.
La sua prima reazione è uno sgomento silenzio, che si protrae abbastanza a lungo da farmi decidere d’essere io il primo a romperlo.
- Brian? – chiamo, per assicurarmi che lui sia davvero dall’altro lato della cornetta.
- …Matthew. – esala lui. Posso sentirlo sconvolto e un po’ mi dispiace.
- Scusa se ti chiamo così tardi. – dopo vent’anni, dovrei aggiungere, ma nonostante tutto non credo sia il caso, - È che immagino tu sia preoccupato per Cody, e-
- Che c’entra Cody? – ansima, - Cody è lì? Cody è da te? Che ci fa da te?
Sospiro, mugolando confuso.
Sono quasi le due. Non riesco neanche a ragionare correttamente e sto cominciando a pensare che chiamare Brian adesso sia stato un errore enorme. D’altronde, però, non riesco neanche ad immaginarmi andare a letto e addormentarmi come niente col pensiero che lui, a casa sua, si sta rigirando in una padella di angoscia mentre si convince di essere il motivo per il quale ritroveranno suo figlio annegato nel Tamigi domattina.
- È una cosa lunga da spiegare. – asserisco, massaggiandomi le tempie.
- Vengo da te. – dice lui d’impeto, ma poi si blocca. - …dove stai?
- Non è il caso. – dico, trattenendo a stento un risolino, - Anche perché svegliare Cody e trascinarlo a casa sotto il diluvio universale non mi sembra la cosa più saggia da fare.
Lo percepisco irrigidirsi, e comprendo di aver toppato di nuovo.
Non riesco proprio a misurare le parole, con questi due. Corro continuamente il rischio di dire troppo, o troppo poco.
- E poi qui c’è Gaia che dorme. – continuo, cercando di attirare la sua attenzione altrove, - Se vuoi ci vediamo da qualche parte, così… parliamo un po’.
Ci mettiamo d’accordo per un pub nei dintorni che dovrebbe essere ancora aperto.
Scendo di casa e arrivo davanti al locale, per accorgermi che invece, ovviamente, è chiuso. Rimango comunque lì davanti, cercando di farmi minuscolo sotto l’ombrello ed evitare le gocce di pioggia che ogni tanto mi sferzano il viso, portate dal vento.
Quando lo vedo arrivare, dall’altro lato della strada, lo riconosco subito.
È molto cambiato.
…è dannatamente invecchiato.
Mi adocchia, ha un momento d’esitazione e poi si avvicina. Stringe fra le mani il proprio ombrello e indossa dei guanti per ripararsi dal freddo. Dio sa se lo invidio.
- Ciao. – accenno incerto.
Lui mi guarda ancora un po’ e poi esala un “Dio santo” veramente disperato.
- Rivedersi è stata la peggiore delle scelte, Matt. – commenta distaccato, mentre mi si affianca, unendo il suo ombrello al mio per creare una piccola tettoia sotto la quale potremo entrambi ripararci meglio.
Io ridacchio in risposta alla sua battuta e gli chiedo come stia.
- Preoccupato. – risponde lui. – E confuso. E questa situazione mi irrita.
- Mi dispiace. Ma stavolta posso assicurarti che davvero non è colpa mia.
Mi scocca uno sguardo furente, mordendosi il labbro inferiore.
Ha ancora lo stesso modo provocatorio di mordersi le labbra… è così anche quando non è intenzionale, è una caratteristica insita nella pienezza stessa di quelle labbra, e nelle curve morbide del profilo dei suoi denti.
- Non è proprio il caso di fare richiami al passato. – mi rimprovera. La sua voce non è cambiata di una virgola. – Mi spieghi qualcosa? Sinceramente non ho la forza di fare domande.
Annuisco e racconto tutto. Di come Cody si sia presentato a casa mia dopo aver scoperto i suoi “ricordi” in soffitta, di come abbia cominciato ad assillarmi per le lezioni di piano, di come Gaia l’abbia preso in simpatia, dei suoi tentativi di estorcere informazioni, di Luke, di stasera.
Brian mi ascolta. All’inizio è solo confuso e perplesso. Poi sulle sue labbra si va a disegnare un sorriso consapevole immensamente triste, che mi strazia.
- Devo anche ringraziarti. – ammette, alla fine del racconto, - Ti sei preso cura di lui.
Io inspiro ed espiro. Mi sento dannatamente affaticato.
- Ci sono problemi fra voi?
Lui ride.
- Hai mai sentito di un adolescente e un genitore senza problemi fra loro?
Ha ragione anche lui.
E lo so, che ha ragione.
- Se posso permettermi di darti un consiglio-
- No che non puoi. – mi ferma lui, glaciale, - Cristo, Matt, è mio figlio! Non ti sembra di aver già fatto abbastanza?
Aggrotto le sopracciglia.
- È lui che-
- Sei tu che non sei stato in grado di respingerlo fin dall’inizio. – ragiona come Luke. Il che mi porterebbe a pensare che ho torto, se non sapessi perfettamente che Luke parla così solo perché è geloso. Che è esattamente quanto si può dire di Brian al momento. – Ma posso capirti. Cody è comunque un tipo che impone la propria presenza.
Già.
Vi somigliate, lo sai.
- Non gliene ho mai parlato. – dice all’improvviso, appoggiandosi contro un albero dietro di sé, mentre cerca di mantenere l’ombrello in equilibrio fra spalla e collo.
Io ridacchio, seguendolo nel movimento.
- Posso capirlo. Non è esattamente una cosa che sia facile dire al proprio figlio.
Scuote il capo.
- Gli ho detto molto altro. Ho sempre cercato di essere il più possibile onesto, con lui. È stato un errore, probabilmente. Ho perso in credibilità, in… in autorità. Se mai l’ho avuta.
- Non dire così…
- È così.
Serro le labbra, tornando silenzioso e riprendendo a guardarlo mentre aspetto che ricominci a parlare.
- Non ne ho mai parlato con nessuno. – continua infatti lui, fissando il vuoto come fosse in un altro luogo, - Non mi è mai sembrato ci fosse qualcosa da dire. – mi lancia uno sguardo breve e duro, doloroso, - Forse qualcosa da dire c’è, adesso.
Deglutisco.
- Sì. – ammetto, - Io ho qualcosa da dire.
È il momento.
Non credevo sarebbe mai arrivato.
Ma il passato ritorna, l’ho detto quando questa vicenda è cominciata e non posso fare a meno di dirlo adesso che mi sembra si stia avviando alla propria conclusione.
Brian sorride lievemente, ben conscio di aver raggiunto il proprio scopo.
- Scusami, Brian. Mi dispiace. – dico io, chinando il capo, - Non per averti lasciato. O per non aver cercato di riprenderti. Ma per averti illuso che tra noi potesse nascere qualcosa di stabile quando ero assolutamente convinto del contrario. – lo guardo in un lampo, e lui sorride ancora, sereno. – Ero molto giovane. Tu non lo eri altrettanto. Avevamo… obiettivi diversi. Non avrei mai dovuto farti credere-
- Non mi hai fatto credere niente. – precisa lui, e io la prenderei come una sterile lamentela se non la dicesse… con quel tono e con quel sorriso sulle labbra. – Mi sono convinto di ciò che volevo. Se ti si deve trovare una colpa… è che tu lo sapevi e non hai fatto niente per fermarmi.
Tocca a me mordermi le labbra.
È vero, e io lo so.
- Non ero ancora pronto a perderti, quando l’ho capito. – ammetto. – Sapevo che se avessi messo le cose in chiaro tu saresti andato via subito. Ma io ero davvero innamorato di te, Brian, e non volevo lasciarti andare via così presto.
Lui si lascia andare a una risatina breve che racchiude in sé tutta la malinconia, tutta la nostalgia e tutto il rimpianto condensato negli anni passati senza vedersi né sapere niente l’uno dell’altro. Scivola fuori dalle sue labbra e si perde nel rumore scrosciante della pioggia attorno a noi, diventando leggera come l’aria.
Fra altri vent’anni non lo ricorderemo più.
Questa consapevolezza mi uccide. E mi permette di sopravvivere più facilmente.
- Non volevo le tue scuse, Matt. – confessa Brian, avvicinandosi lentamente, - Volevo un addio vero. Probabilmente non mi è mai bastato il no di un ragazzino confuso troppo spaventato dai rischi di una “relazione seria con Brian Molko”. – ridacchia ancora, guardandomi negli occhi, - Forse volevo solo sapere che ora stai bene. Che sei… stabile. Che lo siamo entrambi. Cody a parte. – sussurra con un altro risolino.
Stabile.
Be’, sì, Brian.
Stabile.
- Mi ha fatto piacere rivederti. – sorride, staccandosi dall’albero e rimettendosi dritto in piedi, - Domattina chiamerò Cody e passerò a prenderlo sotto casa tua. Stai qui vicino, vero?
Annuisco, recitando a memoria l’indirizzo di casa mia.
Fa per andarsene, ma come Cody ha fermato me sul divano io fermo lui adesso.
- Aspetta. – gli dico. E non so cosa dovrebbe aspettare, perché non so cosa aspettarmi da me stesso. Ma lo costringo a voltarsi e lui ubbidisce docilmente.
Quando arriva a pochi centimetri da me sappiamo entrambi cosa succederà.
Ed è assurdo, perché siamo praticamente due vecchietti e questa cosa non ha senso.
Ma lo bacio, e mi fa piacere ritrovare la forma delle sue labbra sulle mie. Sorrido contro la sua bocca nel riconoscere il suo sapore, che è sempre lo stesso, e sono perfino soddisfatto quando le nostre lingue riportano alla luce tutto il campionario di toccatine brevi e sensuali che utilizzavano quando baci come questo erano all’ordine del giorno.
Lo stringo forte per non lasciarlo più andare, ma quando ci separiamo capisco perfettamente cosa esattamente non voglio mandare via. È la parte bella di noi. Quella che ho sempre nascosto per evitare di riesumare assieme a lei anche tutta la parte brutta.
Adesso so che potrò tirare fuori dal baule questo ricordo e anche tutti gli altri, senza sentirmi più in colpa.
È la sensazione che si prova quando finalmente si chiude la benedetta parentesi aperta.
Hai risolto l’equazione.
Indipendentemente dal risultato, sei arrivato alla fine.
Te lo fai bastare. Non capita quasi mai che il risultato che si trova in questi casi sia lo stesso riportato sul libro di testo.
*
Cody sorride, stringendo fra le mani le bretelle dello zaino che gli ho prestato. Dentro ci sono i suoi vestiti bagnati e i vestiti che gli ho prestato per la notte. Ha deciso che li vuole tenere, così come quelli che indossa ora, e ha motivato la decisione dicendo che sa che non mi vedrà più. Gli ho detto di non contarci troppo. Che li conosco, quelli della sua razza, e che so perfettamente che mi richiamerà fra una miriade d’anni nel momento più impensabile e meno propizio, obbligandomi a scapicollarmi ovunque si trovi per salvarlo da un qualche disastro incombente. Lui ha ridacchiato e ha detto che spera io non sia troppo vecchio, quando avverrà. Gli ho bisbigliato di non farsi sentire mai da suo padre, quando dice cose simili, perché non tutti la prendono bene come il sottoscritto, e gli ho dato un pizzicotto sul fianco. Il che, credo, gli ha dato l’esatta misura di quanto bene io l’abbia presa.
Esce dalla porta, dopo un breve bacio a Gaia, mentre il clacson della macchina di Brian fa sentire insistentemente la propria voce.
Dio, ho davvero l’impressione che un’intera era della mia vita si stia chiudendo adesso.
È una sensazione pesante.
Gaia sorride serena, appendendosi al mio collo e ondeggiando, mentre mi stringe forte.
- Alla fine non te la sei cavata poi così male. – bisbiglia contro la mia pelle, dandomi un bacetto sul pomo d’Adamo.
Sorrido, abbassando lo sguardo su di lei e baciandola sulle labbra.
Lei ridacchia mentre la sollevo, conducendola in camera da letto.
Sento come il bisogno di ricominciare.
Ed ho una mezza idea riguardo come farlo.
Pairing: BrianxMatt.
Rating: R
AVVISI: Boy's Love, OC, Incompleta.
- Quando, nella folla scalpitante che è il pubblico del concerto, Brian Molko intravede Matthew Bellamy, ha una "brillante" idea, le cui conseguenze saranno a dir poco devastanti per la sua vita, per quella di Matthew e per il gruppetto di fangirl slasher che assiste allo show e per le quali l'unico obiettivo degno di essere perseguito è quello di cercare di tramutare in realtà ciò che scrivono nelle loro fic...
Commento dell'autrice: Inserirò un commento quando avrò concluso la storia è_é
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
A LITTLE RESPECT
CAPITOLO 1
HAVE FAITH AND PREY


- COSA STAI ANDANDO A VEDERE?!
Incredulo, Matt fissò la ragazza di fronte a lui – quella che, è bene precisarlo, avrebbe, AVREBBE dovuto essere la sua ragazza – e si abbandonò sulla sedia, appoggiandosi allo schienale, sconsolato.
- Non posso crederci… - farfugliò, ancora sconvolto, portando una mano fra i capelli, - Non posso credere che lo farai davvero…
- Avanti, Matt… - disse lei, stringendosi nelle spalle, i corti capelli a caschetto a ondeggiare sul collo, - E’… è solo un concerto…
- Sì, ma… oddio, non riesco neanche a dirlo… un concerto dei PLACEBO!!!
La ragazza sbuffò, contrariata.
- Oh, insomma. Ho ascoltato abbastanza lamentele. Non avresti fatto così se ti avessi detto che stavo andando a guardare, che so, il concerto dei Dream Theater!
- Se mi avessi detto che stavi andando a vedere un concerto dei Dream Theater ti avrei implorato di portarmi con te!
- Matt, santo cielo, ho comprato i biglietti e non intendo…
- Gaia, quella sottospecie di essere umano è convinto che io lo invidi! E, cosa ancora peggiore, è convinto di essere più bravo di me! Non so se comprendi!
Gaia sbuffò, esasperata.
- Comprendo solo che secondo te Brian Molko è un pallone gonfiato. E dunque?
- Come “e dunque”?! Che poi, sinceramente, non capisco come uno possa arrivare a spendere soldi per guardarli dal vivo, neanche fossero miracolosi…
La ragazza scrollò le spalle, guardando un punto imprecisato nel vuoto.
- Be’, in realtà sono bravi. – disse, aspettando la detonazione.
- BRAVI?! Sono degli emokid troppo cresciuti, il cui unico punto di forza è saper giocare bene sull’ambiguità sessuale e avere un frontman che, pur essendo una testa di cazzo, qualche anno fa, prima delle rughe, era carino e sembrava femmina!
Gaia sospirò. Sapeva che Matt non si sarebbe spostato di un millimetro dalle sue convinzioni, e che avrebbe fatto di tutto per cercare di convincerla a non andare a quel concerto.
Così come sapeva che non c’era niente che lui potesse fare per riuscirci.
Si alzò in piedi, scrollando le spalle e gettando uno sguardo veloce all’orologio a muro.
- E’ già tardi. – disse, - Devo andare. Cos’hai deciso?
- Ah, no, se anche potessi consentire a te di andare a vedere questo… questo scempio, di sicuro io non andrò mai a vedere i Placebo dal vivo.
- Ma non ci sei mai stato, dai, potrebbe rivelarsi una sorpresa…
- Potrebbe sorprendermi solo ancor più negativamente!
- Matt, non vorrai costringermi a stare in fila da sola per cinque ore mentre aspetto che inizi il concerto e cerco di guadagnarmi un buon posto?!
- Sono problemi tuoi! Chi è causa del suo mal pianga sé stesso.
- Matt!
- Ho detto mai, Gaia!
- Così sprecheremo i soldi del tuo biglietto!
- Sono sicuro che troverai qualche morto di fame a implorare carità davanti alle porte del forum.
- Matt, smettila di fare il bambino e infilati quella giacca, andiamo!
- Non ho nient’altro da dire.
Si fronteggiarono, fissandosi negli occhi con rabbia omicida, i pugni stretti e i lineamenti tesi.
- E’ la tua risposta definitiva? – ringhiò Gaia, gli occhi ridotti a due fessure.
Matt fece un passo indietro, spaventato.
Aveva imparato ad avere paura della sua ragazza, quando lo guardava in quel modo.
*

L’aria.
È così naturale averla a portata di naso che non ne capisci mai l’importanza.
Almeno fino a quando non ti trovi schiacciato tra centinaia di persone che pressano spingono tirano si buttano avanzano e indietreggiano seguendo percorsi e strategie complicatissime solo per raggiungere l’agognato obiettivo della prima fila, e, una volta giunte lì, morire schiacciate dalla massa che pressa alle spalle.
Teresa detta Terry, Julianne detta Julie e Amanda detta Amanda – perché qualsiasi vezzeggiativo sembrava troppo idiota per potere essere usato seriamente – erano a buon punto. Perdute da qualche parte nel centro esatto del forum, riuscivano a intravedere in lontananza il palcoscenico.
Avevano fatto del suo raggiungimento lo scopo della loro vita – almeno per le prossime cinque o sei ore.
- Sono già due ore che stiamo qua in mezzo, Julie… magari ci fermiamo? – propose Amanda, già annoiata dal clamore, dalla puzza di sudore e dai corpi degli altri esseri umani, troppo vicini per non essere insopportabili.
- Neanche se mi offrissero la vita eterna mi fermerei adesso! – disse la ragazza, col fuoco negli occhi.
- E se ti offrissero la vita eterna e ti permettessero di passarla con Brian? – chiese Teresa, gli occhi brillanti, persa nelle sue fantasie da delirio pre-concerto.
- Terry, che razza di ipotesi fai? Allora, ci muoviamo?
Così dicendo, spintonò un po’ a destra e un po’ a sinistra, lasciò che Teresa si infiltrasse nel microscopico pertugio che le sue spinte avevano generato e poi, tirando Amanda per un braccio, forzò l’apertura, fiondandocisi in mezzo e trascinando con sé le sue amiche e buona parte dei cadaveri già persi e abbandonati per strada.
Guadagnarono due file.
Se di file si poteva parlare in mezzo a quella massa informe.
- Ha! Sono fiera di me! Amanda, guarda se si vede il palco!
Dall’alto del suo metro e ottanta, Amanda si issò sulle punte e mise teatralmente una mano sulla fronte, come volesse coprire gli occhi dal sole.
- Be’, io lo vedo, ma per voi non c’è speranza.
Teresa sbuffò. Amanda era molto alta, certo, ma questo non la consolava. Insomma, Julianne era più bassa di Amanda, ma parlando di lei si poteva ancora parlare di stature normali.
Maledisse quei nanerottoli dei suoi genitori per il suo metro e cinquanta scarso.
Julianne le diede una pacca sulla spalla, sorridendole rassicurante, una gocciolina di sudore che le scendeva lungo una tempia.
- Non fare così, tanto questo posto non va bene neanche per me. Avanziamo ancora!
- Per carità… - si lamentò Amanda, sbuffando e roteando gli occhi, ma non si oppose quando venne nuovamente arpionata per il braccio e costretta a fendere la folla.
Mentre le tre avanzavano utilizzando Amanda come uno spartighiaccio, successe un miracolo. Qualcuno, qualcuno di molto vicino al palco, venne malamente spintonato da qualcun altro e cadde di lato. A seguito di questo smottamento, molte delle persone che si reggevano in equilibrio precario su un piede, in cerca di spazio dove poggiare l’altro, capitombolarono rovinosamente per terra.
Si aprì un varco.
Per poco Amanda non prese le sue due amiche per la collottola, nel tentativo di guadagnare quella terra santa.
Quando ebbero preso possesso del luogo, le tre si lasciarono finalmente andare a un sospiro di gioia e sollievo: erano arrivate a qualcosa come la terza fila, sempre se di file si poteva parlare! Il palco era così vicino che quasi avrebbero potuto prenderlo d’assalto e salirci sopra.
- Allora, ricapitoliamo il piano. – disse Julianne, seria, cercando senza riuscirci di mettere una mano sul fianco, - Aspettiamo che cominci il concerto, assaliamo il gruppo e rapiamo Brian. Dopodiché lo cloniamo e facciamo uno a testa, no?
- No! – si agitò Teresa, come se quello di cui stavano parlando fosse realmente possibile, - A me dovete darne due, uno devo portarlo a Phil.
- Ah, già, - disse Amanda, supponente, prendendola in giro, - non solo dobbiamo improvvisarci genetiste per realizzare una clonazione umana, ma dobbiamo anche supportare la latenza omosessuale del tuo ragazzo canterino…
- Lui… non ha nessuna latenza omosessuale! Lo vuole perché dice che deve rubargli le corde vocali!
- Sì, sì, - disse Julianne, dandole un buffetto sulla guancia, - vedrai, tesoro, un giorno Phil capirà che il motivo per il quale le sue prestazioni sessuali sono deludenti…
- Julie!
- …non è altro che in realtà non è interessato al genere femminile. E allora sarà più facile per tutti: per lui lasciarti e per te finalmente cadere fra le mie braccia.
- Santo cielo…
- Sì, Julie, - aggiunse Amanda, - Smetti di provarci con lei almeno oggi, per carità, risparmiaci…
- Oh, - si giustificò lei, sbuffando, - che posso farci se mi viene dal cuore?
- Va bene, va bene… - sbuffò Terry, tirando fuori dalla borsetta un blocchetto per gli appunti, - Invece di parlare di questi argomenti inutili, vediamo di occupare il tempo in maniera fruttuosa: stabiliamo la trama della fic fino alla fine.
Parlare della fanfiction a sei mani che stavano scrivendo piaceva loro molto più che scriverla, perciò prendere appunti per capitoli futuri dei quali avrebbero scritto qualche parola solo mesi dopo era la loro attività preferita.
- Ah, sì! – disse Julianne, illuminandosi, - Proprio ieri sera, prima di andare a letto, ho preso qualche appunto!
Tirò fuori un fogliettino spiegazzato dalla tasca degli strettissimi jeans che indossava, uccidendo una ragazzetta vestita come una brutta copia di Amy Lee con una gomitata.
- Allora, pensavo che il prossimo capitolo si potrebbe farlo un po’ più umoristico del precedente, no? Anche perché il venticinquesimo è stato proprio deprimente, Amanda…
La ragazza sbuffò, contrariata.
- Non era “deprimente”, ignorante. Era drammatico. C’è una bella differenza.
- Sì, però devi ammettere – si intromise Terry, stringendosi nelle spalle, - che avrebbe potuto essere un attimino più soft.
- Oh, insomma! Se non volete guardare in faccia la realtà non è colpa mia!
- Amanda, non s’è mai visto uno che prende coscienza di essere gay e quasi si butta dal balcone per la disperazione, Cristo! – sbottò Julianne, esasperata.
Il genere entro il quale avrebbe dovuto iscriversi la loro fanfiction era sempre stato motivo di pesanti liti fra di loro. Questo perché, mentre Amanda provava una perversa attrazione per tutto il filone delle, a scelta, emo/drama/dark/angst/death fic, Julianne non smetteva un secondo di perorare la causa delle fic umoristiche/demenziali/nonsense e Teresa, per conto suo, cercava di infilare batticuori, rossori, dichiarazioni e tenerissime prime volte in tutto ciò che scriveva, trasformando qualsiasi tipo di fic in una romance in un battito di ciglia.
- Infatti secondo me adesso sarebbe proprio l’ora di una romantica re-union!!! – suggerì Terry giungendo le mani sul petto e sorridendo, persa nelle sue fantasie.
- Ma non esiste proprio! – si oppose Amanda, guardando le due amiche dall’alto in basso come fossero stati scarafaggi, - Questo è il momento perfetto per una bella e drammatica presa di coscienza da parte di Brian!
Le altre due ragazze la guardarono attonite.
Ah, sì, piccola precisazione: nella fic che stavano scrivendo, uno dei protagonisti era Brian Molko. E non avrebbe potuto essere altrimenti, visto il morboso amore che nutrivano per il cantante di Placebo.
- Non posso credere che tu dica sul serio… - disse Julianne, con lo sguardo perso nel vuoto, - già nello scorso capitolo la “presa di coscienza” di Matt gli stava costando la vita, a momenti…
Seconda piccola precisazione: l’altro protagonista della storia era Matthew Bellamy, mai-abbastanza-idolatrato frontman dei Muse.
Ebbene sì. Siamo davanti a tre fangirl slasher inglesi in piena regola.
Siete autorizzati a pregare per la salvezza delle vostre anime.
- Non capite! – cominciò Amanda, incrociando le braccia sul petto e battendo nervosamente un piede per terra, - Fino ad adesso, per Brian, quello che c’era con Matt è stato solo un gioco. Ma ora la cosa deve cominciare a muoversi, altrimenti qua non la chiudiamo più e io invece ho già in mente un altro progetto, ve ne parlo poi… comunque, secondo me adesso è perfetto far prendere coscienza a Brian che quello che prova per Matt è serio, capite?
Teresa sbuffò, sconsolata.
- Possiamo anche capire, ma questa cosa sta diventando troppo deprimente! Non dobbiamo mica farlo diventare una versione edulcorata di “The Juda’s kiss”!
- Cosa c’entra “Judas” adesso, quella è tutta un’altra storia!
- E poi comunque stai pilotando troppo la trama, Amanda! – sbottò Julianne, - Anche noi abbiamo diritto di decidere qualcosa!
- Ehm… scusate…
Tutte e tre si voltarono verso la fonte della vocina che s’era appena intromessa nel loro discorso.
La copia venuta male di Amy Lee che Julianne aveva quasi ammazzato poco prima li stava fissando, stringendosi nelle spalle, rossa in viso.
- Scusate se m’intrometto… - continuò la ragazzina, che avrebbe potuto avere più o meno quindici anni, - Vi ho sentito parlare di fanfiction su Brian e Matt, o sbaglio…?
Le tre ragazze gonfiarono il petto, orgogliose.
- Sì. – disse Julianne, sorridendo spavalda, - Ne abbiamo scritte molte per conto nostro, adesso ne stiamo scrivendo una tutte assieme…
- Ah… allora avevo capito bene! – disse la moretta, illuminandosi in viso, - Voi siete le tre autrici di “A little respect”!
Se possibile, le ragazze s’inorgoglirono ancora di più.
Ebbene sì. Venticinque capitoli e centotrentaquattro recensioni all’attivo, la loro fanfiction era la slash più amata del suo fandom.
- Non posso credere di avervi trovato nel mezzo di tutto questo casino! – continuò la ragazza, entusiasta, - La vostra fic è grandiosa, la apprezzo moltissimo!
- Grazie, grazie, non meritiamo tanto… - disse Julianne, deliziata, agitando una mano.
- Stavate decidendo come andare avanti?
- Sì, ma faresti meglio a non ascoltare… - disse Teresa ridacchiando, - Abbiamo un mucchio di capitoli ancora non pubblicati, non vorrei che ti spoilerassi qualcosa…
- Ma che dite, forza, sono un’affamata di spoiler io!
- Mmmh… se è così… - disse Amanda, con un sorriso di sufficienza, - Le sceme, qui, non capiscono che al punto della storia in cui siamo, cioè Matt che ha appena scoperto di essere gay, un bel capitolo d’introspezione angst su Brian starebbe troppo bene!
- Mmh… - rifletté la moretta, grattandosi il mento, - In realtà, se posso dare un’opinione…
- Sì, sì, certo! – la incoraggiò Julianne, entusiasta.
- Be’… ve l’ho già detto un paio di volte anche nelle recensioni… in realtà penso che… - il suo sguardo prese letteralmente fuoco, mentre serrava i pugni e si stringeva nelle spalle, come a prepararsi per una carica, - In realtà penso che in questo momento starebbe benissimo una bella parte NC-17 in cui Matt #&%/&£ Brian e Brian €€/&/(%%/$° Matt e poi tutti e due assieme fanno ][&%/&$(/(&/(%!!! Ecco quello che penso.
Le tre ragazze fissarono sconvolte la nuova arrivata. Mai sentita una sequela simile di sconcezze nella stessa frase, per il progetto di una fancition.
A meno che non si trovassero davanti a…
- Ma… ma… - mormorò Teresa, terrorizzata, - tu non sarai mica…?
- Ah! Scusatemi! Sono una maleducata, avrei dovuto presentarmi! – disse la moretta, scrollando le spalle, - Mi chiamo Marianne, ma probabilmente voi mi conoscete come MarySmut, anche se nelle recensioni mi firmo sempre Annette…
Un urlo si levò dalle tre, zittendo per un attimo tutta la folla.
- TUUUUUUUU SEI MARYSMUUUUUUT!!! LA REGINA INDISCUSSA DELLE LEMON SLASH!!! – ululò Julianne, indicandola, - NON CI POSSO CREDEREEEEEEEE!!!
La ragazza sorrise imbarazzata, arrossendo.
- Ecco… non pensavo di essere così famosa…
- Ma stai scherzando?! – disse Teresa, - Le tue fic sono bellissime! Io le ho lette tutte! Amanda è una tua grandissima fan!
- Grazie, grazie davvero…
- A proposito… - continuò Julianne, guardandosi intorno, - Dove diavolo è finita Amanda…?
- Già… è sparita quando Mary s’è presentata… e non è che sia così facile perdere una come lei…
Proprio in quel momento, tutte e tre abbassarono lo sguardo e la videro. Amanda s’era letteralmente prostrata ai piedi di Marianne.
- Tu sei la mia dea!!! Non ho mai visto una combinazione tanto perfetta fra sesso e introspezione come in “Map of the problematique”, la oneshot che hai scritto un mese fa, e “Interlude”, poi… l’ho trovata illuminante! Per non parlare poi dell’ultima fic che hai pubblicato, “Peeping tom”, mamma mia, quanto ho pianto per quella!!! E adoro anche il fatto che tutti i tuoi titoli siano canzoni dei Muse o dei Placebo, è stupendo!!! Aaaaaaah, non posso credere di averti incontrata sul serio, devi farmi un autografo oraaaaaaaaah!!!
Si fermò, ansante, gli occhi ancora colmi di ammirazione, un sorriso idiota sul volto.
Un po’ stordita, Marianne l’aiutò ad alzarsi.
- Ecco… magari l’autografo lasciamo perdere… - disse, imbarazzatissima, - Però ti ringrazio molto per i complimenti, mi fanno piacere… cercherò di non deluderti neanche con la mia prossima fanfiction…
- Cosa? Stai scrivendo qualcosa di nuovo? – indagò Teresa, emozionata, mentre Amanda, per l’emozione, sveniva definitivamente ai piedi del suo idolo.
- Sì. – annuì Marianne, - Una storia un po’ complessa in cui Brian e Matt, dopo una serie di incontri fugaci, smettono di vedersi, perché si sono accorti che la cosa sta andando un po’ oltre… dopo un po’ riprendono a cercarsi ma a causa di impegni vari et similia non riescono più a rivedersi… l’uno arriva in hotel l’attimo dopo che l’altro se n’è andato eccetera… cose così. – sorrise, - Sarà un po’ triste.
- Posso immaginare… - ridacchiò Julianne, - E il titolo?
- “Without you I’m nothing”. Comunque finisce bene!
- Non vedo l’ora di leggerla! – esplose Amanda, stringendo una mano a Marianne.
La ragazza ridacchiò lievemente.
- Spero che ti piaccia quanto le altre. – disse. – Allora, avete finalmente deciso cosa succederà nel prossimo capitolo di “A little respect”?
*

Si affacciò appena dalle quinte, gettando un rapido sguardo sulla folla. Qualcuno dovette vederlo, perché cominciò ad urlare, e venne presto seguito da tutti gli altri: il forum divenne tutto un’unica voce invocante la loro entrata in scena.
Brian tornò a guardare Stefan e Steve, con un gigantesco sorriso sul volto.
- Sono esaltati! – annunciò trionfante, indicando il pubblico fuori con un ampio gesto del braccio.
- Mmmmmh, che meraviglia, non vedo l’ora di salire sul palco! – gioì Steve, incapace di rimanere fermo e ballando nervosamente da una gamba all’altra.
- Ragazzi, quando volete, luci e sound sono a posto. – disse loro il responsabile del forum, rassicurandoli sulle condizioni della scena.
I tre si guardarono in viso per un attimo. Poi Brian si ravviò i capelli e fece strada.


Piccolo demenziario indispensabile (?) per capire la fic è_é

Fangirl: Una fangirl è una ragazza che ama ossessivamente un personaggio o una coppia di un determinato anime/manga o chi per loro. Il termine è usato dispregiativamente dai fan normali; dire fangirl d’altronde equivale un po’ a dire “pazza pervertita maniaca ossessiva” XD Le fangirl, invece, generalmente si gloriano di esserlo :D Io mi glorio, ad esempio è_é E’ anche vero che esistono parecchie reluctant-fangirl, che si vergognano di esserlo e lo dissimulano >_< Scrivono comunque fic yaoi XD ma si mascherano dicendo che lo fanno perché i loro protagonisti si innamorano l’uno dell’altro come persone e non come persone di sesso maschile *-*
Dream Theater: Gruppo progressive rock tuttora attivo. Sono mostri sacri <3 E sono bravissimi :)
Emokid: Termine usato con accezione esclusivamente negative, indica tutti quei ragazzini che si atteggiano a dark depressi ed emotivi.
Fanfiction: Sapete cosa sono le fanfiction, via XD
Emo/drama/angst/death fic: Fic dai contenuti pesanti e tristi.
Umoristiche/demenziali/nonsense fic: Fic dai contenuti allegri o demenziali.
Romance: Fic dai contenuti romantici.
Slasher: Casta di fic-writer che scrive (quasi) esclusivamente storie in cui i protagonisti sono omosessuali.
The Judas’ kiss: E’ tipo la più bella BrianxMatt che vi potrebbe mai capitare di leggere XD Peccato sia in inglese. E peccato sia massacrante da tradurre ç_ç Però non è massacrante da leggere, quindi, se con l’inglese ve la cavicchiate, fatelo (link). E’ un po’ duretta, mh? Solo per avvertire XD
Amy Lee: Cantante degli Evanescence, popolare gruppo emo pseudo-rock sulla scena da qualche anno.
Lemon fic: Fic ad alto contenuto erotico.