Genere: Malinconico, Comico, Introspettivo.
Pairing: MatthewxBrian, in un certo qual modo strambo O.O
Rating: PG-13
AVVISI: RPS, OC.
- "Il passato ritorna.
È una frase fatta, sì, lo so, ma so anche che gli stereotipi esistono per un motivo ben preciso – ossia perché sono veri – e quindi non mi farò problemi ad usarla.
Il passato ritorna.
Sempre.
"
E il passato, in effetti, ritorna davvero. A farne le spese, come al solito, Matthew Bellamy :D
Commento dell'autrice: Ciao *_* Oddio, siete arrivati alla fine <3 Vi amo tutti <3
Questa è una storia atipica. Una storia che nasce mesi fa, mentre parlavo con la Nai (tanto per cambiare) e fantasticavamo su ipotetiche fanfiction che avessero per protagonista il piccolo Cody, che tutte noi amiamo alla follia perché è troppo tatopuccio per attirare qualcosa che non sia amore totale <3 Così, mentre raccontavamo, nascevano due storie. La sua, di cui non vi dico niente, perché non so neanche se la finirà mai XD E la mia. Che è nata come una stupidaggine random per infilare un po’ di mollamy anche nella storia di Cody. E che poi s’è trasformata in… be’, sostanzialmente nella stessa cosa, però un po’ meglio XD
Sono davvero affezionata a questa storia. Ci sono cose che ho voluto fortissimamente. E la sola idea di vedere Matt interagire col figlio adolescente di BriBri mi uccide di pucceria X3 (Mi uccide anche immaginare Matt e Bri ultraquarantenni, ma non è esattamente pucceria e quindi dimenticherò questa parte del racconto il più presto possibile ç_ç””””).
Mille grazie a Meg, che l’ha amata e ne ha preteso il finale XD Ad Ana, che mi ha messo su a lavorarci perché mi sbrigassi a terminarla per poter poi cominciare il sesto capitolo di Miles Away XD Alla Memuzza, perché è amore *-* E il Meffiu che avete visto – e che tornerà in un’altra storia con Cody XD Meno seriosa di questa, prometto è_é – è suo *-* Ed ovviamente a Nai, perché questa, come tante altre cose, se lei non ci fosse stata, non sarebbe mai esistita. E anche per tutti i complimenti e l’amore dimostrato, del tutto immeritati è_e ma sempre molto graditi. E per l’aiuto enorme col betaggio. E poi Luke è un personaggio della sua storia con Cody XD Solo che io l’ho un po’ rimaneggiato, e quindi non assomiglia più tanto all’originale – che è mille volte più carino (anche se lei non è d'accordo con questa mia convinzione XD). Comunque grazie :*
Devo stranamente ringraziare anche gli X-Japan O_ò Per la bellissima Kurenai, che mi ha accompagnato per qualche tratto durante la stesura. A lei (o meglio, alla sua traduzione inglese) appartengono i versi citati all’inizio.
E ora la pianto, promesso XD Fatemi sapere che ne pensate :*
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LOST AND FOUND

As if something’s gonna force you
now you’re running into the storm


Il passato ritorna.
È una frase fatta, sì, lo so, ma so anche che gli stereotipi esistono per un motivo ben preciso – ossia perché sono veri – e quindi non mi farò problemi ad usarla.
Il passato ritorna.
Sempre.
- Vorrei che tu mi dessi lezioni di pianoforte.
E dal momento che sono circa le sette e mezzo del mattino, io vorrei dormire.
Evidentemente, i desideri miei e quelli di questo moccioso che avrà all’incirca dodici anni e che mi sta di fronte in questo momento, proprio un passo oltre la soglia di casa, non coincidono.
Okay.
Ricapitoliamo.
Un minuto fa ero fra le coperte, mi stavo facendo coccolare dal dormiveglia, dai residui di un sogno fighissimo che già non ricordo più e dal profumo di shampoo alle mele dei capelli di Gaia placidamente addormentata al mio fianco.
Poi ho sentito squillare il campanello.
Ho mugugnato un “no”.
Gaia ha mugugnato un “vai”.
Mi sono arreso, ho mugugnato un “d’accordo” e mi sono alzato, senza neanche premurarmi d’infilare le pantofole o una maglietta.
Mi sono posizionato davanti alla porta.
Ho aperto la porta.
Ho guardato fuori.
E lui era lì.
Il moccioso.
Basso, magro e pallido, lunghi – lunghissimi – capelli neri sciolti sulle spalle e ingombrante frangetta cascante sugli occhi, un’ampia camiciola a quadrucci aperta su un’anonima maglietta bianca e jeans sbiaditi da adolescente alla mano.
Ed eccoci qui, dove tutto è iniziato.
- Vorrei che tu mi dessi lezioni di pianoforte.
Gaia appare alle mie spalle, avvolta in una vestaglia rosa, mentre ravvia dietro le orecchie qualche ciocca ribelle dei capelli ancora sconvolti dal sonno.
- Matt, cosa- oh, mio Dio. – si interrompe, spalancando gli occhi e coprendosi la bocca con le mani, - Un ragazzino…?
Scrollo le spalle, sentendomi né più né meno che un idiota fatto e finito.
Evidentemente non riesco a capire la situazione! È palese!
- Cos’hai detto che sei, tu…? – chiedo al bimbo, tornando a guardarlo con curiosità.
- Non ho detto di essere niente. – risponde lui, sorridendo appena e stringendosi nelle spalle con studiato e graziosissimo imbarazzo, - Ho solo chiesto se saresti disposto a darmi lezioni di piano.
Ed è in questo momento che me ne rendo conto.
Succederà un disastro!
Gaia lancia un urletto alle mie spalle, e nelle mie orecchie risuona come la tromba dell’Apocalisse.
- Matt!!! – gridacchia, saltellando come una bambina innamorata, - È così carino! È un tuo fan?
Spero di no, penso io, tornando a guardarlo, se tutti i miei fan cominciassero a bussare a casa mia all’alba chiedendomi di insegnar loro a suonare, potrei anche meditare di ritirarmi dal mondo della musica!
- Carino, Gaia…? – mi limito a chiedere, sconvolto, mentre il ragazzino ridacchia soddisfatto e io penso che è malefico e che mi ricorda qualcosa di poco piacevole.
- Sì! Sìììì!!! – risponde lei, agitata, strappandomi dalla soglia e spalancando la porta per invitarlo ad entrare.
- Gaia! È uno sconosciuto! Potrebbe- potrebbe essere chiunque!
- Sì, Matt… - risponde lei, quasi annoiata, - potrebbe essere il figlio di uno qualunque dei tipi assurdi che hai conosciuto durante la tua assurda adolescenza, tornato dalle campagne inglesi in cerca di vendetta. È ovvio.
- Be’, potrebbe essere davvero così!
- Amore. – dice lei, seria, incrociando le braccia sul petto dopo aver richiuso la porta alle spalle del ragazzino e averlo invitato ad accomodarsi sul divano del salotto, - Questa fissazione con la teoria del complotto andava bene quando avevi vent’anni, di sicuro. Poteva essere accettabile anche a trenta. Ma adesso hai superato i quaranta, e sarebbe il caso che, non so, crescessi un po’! Non vedi che è solo un bambino?
Un bambino!
Appunto!
- Come se i peggiori guai non venissero sempre da loro! Non hai visto Baby Birba?!
Gaia sbuffa contrariata, dicendomi di darmi una svegliata e tornare a ragionare da essere umano dotato di cervello, dopodiché scompare in cucina – probabilmente per recuperare del latte e dei biscotti.
Il suo istinto materno ci ucciderà, lo so.
So che un giorno un qualche dirigente senza scrupoli di una major nemica della nostra cercherà un modo per farmi fuori, e capirà che la soluzione migliore è mandare un moccioso carino dotato di 44 Magnum, per risolvere la pratica una volta per tutte.
Nel frattempo io rimango qui ad osservare questo ragazzino sorridente seduto sul divano, e sinceramente non riesco a non chiedermi perché il fato sia così crudele con me e non capisca che ho bisogno di dormire per lavorare.
- Cos’è che volevi…? – chiedo di nuovo, sperando che non se ne esca ancora una volta con la cavolata delle lezioni di piano.
- Mi chiedevo se fossi disposto a darmi lezioni di piano.
Ecco, appunto.
- Ti pagherei, ovviamente. – si affretta a precisare.
Come fosse questo il punto!
- Senti, ragazzino… - dico io, simulando una pazienza che non posseggo, - Io non ho mai preso lezioni di piano in vita mia. Quando avevo la tua età, a dodici anni, già andavo in giro col mio piccolo smoking da pinguino e il mio cravattino idiota per le case dei parenti a mostrare quant’ero bravo, quindi-
- Io non ho dodici anni.
- Non fa la benché minima differenza! Quanti anni hai?
- Quindici. E voglio che tu mi dia lezioni di piano.
- Bene, ma si dà il caso che io non dia lezioni di piano.
Il ragazzino mi guarda di sottecchi per qualche secondo, e poi lancia un’occhiata furtiva alla cucina, per assicurarsi che Gaia sia ancora là dentro a smanettare con tazze e piattini. Quindi solleva tranquillamente le gambe sul divano, incrociandole assieme sotto il sedere, e si sporge verso di me.
E io vedo i suoi occhi.
E capisco tutto prima ancora che parli.
- Ieri rovistavo nella soffitta… - sussurra spettrale, fissandomi quasi maligno, - e ho scovato per caso un vecchio baule di mio padre. Sai… - mormora, guardandosi distrattamente le unghie in un gesto che suo padre faceva spesso, lo ricordo, - papà è… un nostalgico, per così dire. Non getta mai niente. Anche quando dovrebbe.
E avrebbe decisamente dovuto farlo.
Se non altro perché avrebbe dovuto immaginare che un giorno avrebbe avuto un figlio demoniaco quanto lui!
- E quindi, rovistando rovistando… - continua il ragazzino, ostentando sicurezza da sotto le lunghissime ciglia che si ritrova, - ho trovato dei fogli.
Oh. Mio. Dio.
- Te li ricordi vero?
Come dimenticare?
Brian aveva il vizio di scrivere le canzoni sul cuscino, accanto a me…
E io avevo il vizio di correggergliele mentre dormiva, e lasciargliele accanto mentre facevo la doccia.
Firmandole.
Dio, le assurdità idiote che si fanno da innamorati…
- Tu non vuoi che questa cosa venga fuori, vero?
È un ricatto! È un dannatissimo ricatto!
- Sia tu che mio padre preferite che la cosa rimanga fra voi, vero?
Dio mio!
- E allora ti toccherà darmi lezioni di piano.
Gaia riemerge dalla cucina con un vassoio fra le mani. Sopra porta un enorme bicchiere di latte al cioccolato e un piatto talmente ricolmo di biscotti da far pensare che ci abbia rovesciato su l’intero pacchetto chiedendosi “avrà tanta fame?”. Sorride angelica, trotterellando come un cucciolo di cane davanti a un nuovo peluche da fare a pezzi.
- Allora, Matt? Che hai deciso?
Lancio uno sguardo al ragazzino, che sorride apertamente.
Gaia è decisamente fra le persone che non devono sapere.
- E va bene. – concedo sbuffando, - Cominceremo domani.
Il sorriso sul suo volto si apre ancora di più, rafforzando la sensazione spiacevole che provo – e che mi sta gridando nel cervello “ti sei messo in un pessimo, pessimo guaio, Matthew”.
Allunga una mano nella direzione di Gaia e socchiude gli occhi, angelico.
- Cody Molko, piacere di conoscerla.
Gaia arrossisce come una liceale, e i suoi occhi brillano per un secondo.
- Ma dai! – dice, stringendo calorosamente la mano del ragazzino, - Quel Cody Molko?
Cody annuisce, sempre sorridendo, tornando a intrecciare le dita in grembo.
- Dovresti essere fiero, Matt! – ridacchia la mia fidanzata, dandomi una gomitata gioiosa sulla spalla, - Il figlio del tuo più acerrimo nemico che chiede a te lezioni di piano! Una rivincita mica male!
Una rivincita, mh?
Sorrido debolmente, mentre Cody si alza e cinguetta “allora a domani”, e io non posso fare a meno di pensare che…
…se c’è qualcuno che meriterebbe una rivincita, be’, quel qualcuno di certo non sono io.
*
- Non parlerò di quello che è successo fra me e tuo padre! – affermo, ancora sconvolto da quello che mi ha detto, fissandolo con gli occhi spalancati.
Questo ragazzino ha preso una brutta abitudine in queste ventiquattro ore. Cogliermi alla sprovvista. Che è una cosa che odio e non permetto a nessuno. E che ancora meno permetterei a lui – certo, se lui si scomodasse a chiedermelo, il benedetto permesso!
È arrivato qui.
Felice e ridacchiante come ieri.
Così soddisfatto di sé e della sua scappatella – probabilmente si sta gloriando di averla fatta sotto il naso a quell’ingombrante imitazione di uomo che ha per padre – da farmi venire i nervi.
S’è seduto al pianoforte e l’ha guardato come se lo vedesse per la prima volta.
- Be’? – ho detto io, sbuffando e incrociando le braccia, mentre mi appoggiavo con un fianco allo strumento, - Intendi farmi vedere cosa sai fare?
E lui mi ha guardato con una tale innocenza che io quasi ci cascavo!
- Non so fare niente. – ha risposto con naturalezza, fissandomi con quegli occhioni verdi-celesti-grigi-fate-un-po’-voi che l’eredità paterna gli ha lasciato sulla faccia.
Allora io giustamente mi sono sentito preso per il culo. E mi sono massaggiato le tempie. E l’ho guardato di rimando. E gliel’ho chiesto.
- Tendenzialmente si chiedono lezioni quando hai strimpellato qualcosa da solo e vuoi imparare a strimpellare qualcosa di più complesso. – ci ho riflettuto un po’ su, - Oddio, i miei amici, quelli che frequentavano il conservatorio intendo, ragionavano così.
Lui mi ha guardato e non mi ha risposto.
- Tu invece vuoi che ti insegni da zero? Dal nulla? Senza che neanche io possegga le basi che speravo avessi tu per evitare l’impaccio iniziale?
Lui ha annuito lentamente, sempre senza staccarmi gli occhi di dosso.
Io ho sospirato.
Ho scosso il capo.
- Scusa la curiosità, - ho chiesto titubante, - ma perché?
E lui ha sorriso, strizzando le palpebre come un micio. E mi ha spiegato perché.
- Speravo che tu potessi dirmi qualcosa su quello che c’è stato fra te e mio padre. – ha detto tranquillamente, - Sai, l’intimità che c’è fra allievo e maestro, le confessioni, i ricordi annegati nelle lacrime… - mi ha lanciato uno sguardo, per vedere se il discorso aveva fatto effetto. E se l’effetto sperato era confondermi, allora complimenti, - Cose così, capisci?
Capisco? No.
Subodoro il pericolo? Decisamente sì.
- Non parlerò di quello che è successo fra me e tuo padre!
E da qui in poi lo sapete.
Panico, angoscia, cogliere alla sprovvista, non ti permetto mai detti, eccetera eccetera.
Cody si limita a un minuscolo sorriso, e ritorna a fissare i tasti d’avorio.
- Allora credo che per un bel po’ di tempo non parleremo d’altro che di musica. – bisbiglia affranto, lasciando scorrere due dita sulla struttura del pianoforte.
Okay.
No, davvero, okay.
Io potrò essere uno stupido, ma voglio dire, non sono uno stupido!
Ecco.
Credo di aver pensato una stupidaggine.
Ma non è questo il punto.
Intendo, io ci vedo, non sono mica cieco. È palese che questo moccioso ha dei problemi. Perché io non andrei mai in giro a intervistare gli ex amanti di mio padre sulle abitudini che avevano quando non erano ancora ex, se non avessi dei problemi veramente gravi da affrontare. E ora non so se sono strano io, ma sinceramente sono più propenso a credere che quello strano sia il ragazzino che ho di fronte.
- Fammi spazio. – dico sospirando.
Lui si fa più in là sul seggiolino, lasciandomi una ventina di centimetri dei quali mi approprio arrampicandomi al suo fianco.
- Io non sono abituato a fare cose simili! – mi lamento, e posso percepire l’imbarazzo farsi strada nella mia stessa voce, - Perciò se… se hai qualche rospo da sputare, fallo adesso che siamo all’inizio, una volta per tutte, e buonanotte!
Lui mi guarda attentamente per qualche minuto, il volto privo di espressione, come fosse incerto sulla reazione da adottare. E poi scoppia a ridere. Così. Semplicemente.
E la sua risata è così derisoria che mi viene improvvisamente voglia di buttarlo fuori.
- Matthew Bellamy! – dice, incapace di smettere di ridere, - Sei stupido proprio come dice mio padre!
Come, prego?
- Però… per certi versi sei anche… tenero. E questa è una cosa che non dice.
Cielo.
Qualcuno mi riporti indietro da cosa-cazzo-succede-landia.
Sto davvero avendo questa conversazione con Cody Molko?
- Vado in bagno. Dov’è?
Indico la prima porta del corridoio, ancora talmente basito da non riuscire a spiccicare parola, e mentre Cody sparisce dalla mia vista mi accorgo che c’è Gaia, appoggiata allo stipite, che mi guarda ridacchiando.
- Sì, certo, sfottimi anche tu! È esattamente ciò di cui ho bisogno! – mi lamento, allargando le braccia e sollevandomi dal seggiolino, muovendo qualche passo nervoso nel salotto.
- Non ti stavo sfottendo… - precisa lei, raggiungendomi alle spalle ed abbracciandomi da dietro, prendendo poi a dondolare come per cullarmi.
- Oh, no, figurati. – dico io con una smorfia, - Era una risata random.
Lei ridacchia ancora.
Adoro il suono della sua risata.
Può far sembrare minuscole cose enormi.
E la cosa in cui mi sto cacciando è decisamente enorme.
- Matt, saresti un padre adorabile. – bisbiglia sul mio collo, mentre io cerco di lanciarle un’occhiata sconvolta da sopra la spalla, - Solo che non hai una grande esperienza coi ragazzini.
Mi libero dalla sua stretta, tornando a guardarla negli occhi.
- Bene. Allora, dall’alto della tua esperienza di psicologa, illuminami.
Gaia sorride radiosa e riprende a dondolare.
È incredibile, qualsiasi abbraccio diventa una specie di danza. A Gaia piace infinitamente ondeggiare quando mi abbraccia.
- I ragazzini, Matthew, non parlano facilmente. I ragazzini che stanno attraversando un periodo difficile, poi, non parlano quasi mai.
- E lui sicuramente ha dei problemi.
- Be’, mi pare ovvio. Non sfiderebbe così l’autorità paterna se non avesse un problema con quella stessa autorità.
Oh, ma lui non sta sfidando l’autorità paterna, oho!
È un piccolo diavolo morboso cui piace scavare negli anfratti umidi e bui del passato paterno! È uguale a suo padre, altroché!
- E quindi, Matt, non puoi pensare che dopo un paio d’ore passate insieme tu possa sederti accanto a lui e dirgli “parlami dei tuoi problemi”, aspettandoti magari anche che lui si faccia un bel piantone consolatorio e ti indichi come salvatore della propria anima di adolescente frustrato.
Spalanco gli occhi.
- Io non ero così complicato! – mi lamento stridulo, ondeggiando con Gaia in cerca di consolazione.
- No, tesoro, non ho alcun dubbio a riguardo.
Qualcuno si schiarisce la voce da qualche parte alla mia destra. Mi volto a guardare. È Cody.
- Scusate. – mormora, con un mezzo sorriso imbarazzato, - Forse è meglio che io vada.
So di essere già in un guaio.
So che dovrei… boh, cercare di arginare il disastro, prendere le distanze, o qualcosa di simile.
Sbuffo.
- Avanti! – dico deciso, dirigendomi dritto al pianoforte, - Seduto.
Gli occhi del moccioso mi rimandano uno sguardo confuso e una domanda silenziosa.
- Allora? Che stai facendo lì fermo? Dobbiamo fare le scale.
- …le scale?
- Certo! Non hai visto Gli Aristogatti? Zitto e cuccia e segui gli ordini del maestro o avremo nel mondo un altro Molko che si improvvisa musicista senza esserlo, e nessuno di noi vuole qualcosa di simile, vero?
Mentre lo sguardo di Cody si illumina – e io riesco quasi a vedere la stessa sfumatura di verde brillante che riuscivo a vedere negli occhi di Brian le rare volte in cui era veramente felice – mi sembra di aver chiuso un cerchio, e mi sembra anche di essere pronto a ripercorrerlo di corsa da capo. E mi sento… soddisfatto, e mi sembra di aver acconsentito a tutta questa follia appositamente per ottenere una cosa simile.
Non è così, lo so. Non immaginavo neanche che gli occhi di Cody potessero dirmi una cosa come questa. Non immaginavo neanche che potessero dirmi qualcosa in assoluto.
Ma è successo.
E io sono nei guai.
E mi sembra di aver fatto bene a ficcarmici.
*
- Sono più bravo di mio padre?
Questo ragazzino è un pericolo pubblico.
Questo ragazzino, davvero, è pericoloso. Non sono io che lo fraintendo, è Gaia che non capisce. Lei è sempre lì a dire “è dolcissimo, è un amore, è uno zucchero, è un adolescente così carino!”. È una settimana che va avanti così. Gaia lo ama e io a stento lo tollero. Ma non è colpa mia, è lui che fa di tutto per rendersi il più irritante possibile!
Oggi, per esempio, no?
Oggi era cominciata bene.
È arrivato, puntuale alle tre come al solito, abbiamo scambiato qualche chiacchiera idiota su quanto odiasse la sua professoressa di filosofia, poi si è seduto al piano, gli ho detto di cominciare a fare qualche scala e lui l’ha fatta.
Sembrava docile.
Ci sono delle volte in cui sembra docile, in effetti. In cui non è lì sul piede di guerra che cerca di estorcere informazioni scabrose come se stesse parlando della lista della spesa.
Perciò ha fatto qualche benedetta scala, ed io ero lì che mi compiacevo, perché diamine, non ho mai imparato a suonare il pianoforte ma evidentemente sono abbastanza geniale da insegnare agli altri – al figlio di Brian! Quindi con una difficoltà in più! – come si fa.
E all’improvviso s’è fermato, mi ha guardato e mi ha detto “Ma non hai qualche spartito da farmi provare? Sono stufo di fare solo scale!”.
Ovviamente la domanda mi ha mandato nel panico.
Perché io non so leggere gli spartiti.
E quindi non ne posseggo.
Allora ho cercato di ricordare cos’è che diceva Duchessa a Matisse negli Aristogatti e me ne sono uscito con un discorso che è sembrato strampalato perfino a me, e il cui riassunto era più o meno “le scale e gli arpeggi sono divertenti! Non ricordi gli Aristogatti?”. Al quale lui ha ovviamente risposto che le scale e gli arpeggi potevano anche essere divertenti, ma alla lunga diventavano pallosi, e comunque Minou in quel film finiva con la coda spiegazzata e non era una fine che a lui andava di fare.
Non è valso a nulla fargli notare che non possedeva una coda. Ho dovuto arrendermi e confessare di essere un pianista privo di spartiti, e subire le sue risate sfacciate per qualcosa che m’è sembrata un’eternità. Le risate derisorie dei ragazzini fanno male e durano più di quelle degli adulti, sarà che loro ci mettono più passione. Si vede che deridere li diverte proprio.
Comunque subito dopo s’è rimesso a pigiare note a casaccio sul pianoforte, come non avesse la più pallida idea di dove andare – facendomi peraltro capire che no, non ero stato in grado di insegnargli un accidenti di niente, com’era ovvio – e poi se n’è uscito con quella frase malefica.
- Sono più bravo di mio padre?
E io sono caduto dal pero, finendo di nuovo in cosa-cazzo-succede-landia.
Questo ragazzino è veramente diabolico.
- Prego…? – chiedo, percependo l’angoscia che grava sulla mia voce.
Lui ridacchia, contento dell’effetto della domanda, e pigia qualche altro tasto prima di decidersi a esplicitare il concetto.
- In una delle note… nei foglietti che ho trovato… c’è scritto “Brian, sei uno zuccone”, e poco dopo “quando ti metti al piano meriteresti bacchettate sulle mani”… con… - risolino sfacciato – un cuoricino accanto alla frase. – si può morire di vergogna per un ricordo? Sì, si può. Non capisco perché non sono morto, davvero. – E quindi mi chiedevo… secondo te sono un allievo migliore di mio padre? Sono più bravo? Imparo più in fretta? Ho più talento?
Oh.
Quanto a stronzaggine, non hai proprio nulla da invidiare al tuo illustre antenato, caro Cody.
- Che-… cioè, cosa intendi?
Un’altra risatina maliziosa, di quelle fatte stringendosi nelle spalle e scuotendo appena l’enorme massa di capelli, mentre la frangetta rimbalza gioiosa sulla fronte.
- Non sto chiedendo niente di scabroso, Matthew… voglio dire, non ho mica chiesto che abitudini-
- Fermati immediatamente! – strillo, così ad alta voce che ho paura di far tremare i cristalli delle mensole.
Cody ridacchia ancora, e poi mi pianta addosso questo sguardo… indecifrabile. Cupo. E… brillante.
- Non sei ancora pronto a parlarne, vero? – mi chiede, quasi dolcemente, come se quello comprensivo dovesse essere lui, come se avessi io quattordici anni e fosse lui il quarantenne che mi dà lezioni di piano.
Lentamente, imbarazzato come mai in vita mia, abbasso gli occhi e scuoto il capo.
E credo che questa soggezione dipenda dal fatto che lui è il figlio di Brian, ma non ne sono sicuro. Potrebbe tranquillamente dipendere da Brian stesso. O… da me.
- Fa nulla. – conclude lui, cinguettando gioioso, - Vuol dire che faremo scale ancora per un po’.
*
Il ragazzino davanti a me – che non è Cody, anche se ha lo stesso sguardo spaventoso – sembra riprendere padronanza delle proprie facoltà di controllo del corpo. Mi fissa. Mi punta il dito contro. E strilla.
- Dove l’hai nascosto?!
Io indietreggio.
È il momento che il mio cervello mi aiuti con un piccolo flashback.
Allora, io ero felice.
Cody non era nei paraggi.
Le due cose possono sembrare considerazioni scontate, ma posso assicurare che durante le mie ultime due settimane di vita non lo sono state. Decisamente.
Stavo… credo sorseggiando un caffé, non ricordo bene, la memoria comincia a giocarmi brutti scherzi, quando subisco un trauma troppo forte. Di sicuro stavo ascoltando la demo di un gruppetto niente male che la Universal pretende io produca in qualche modo.
E poi hanno suonato alla porta.
Io ho lanciato un ululato di proporzioni enormi, perché Cody aveva giurato e spergiurato che oggi non sarebbe venuto, dal momento che domani ha una verifica di matematica e la cosa lo uccide d’angoscia, e io m’ero conseguentemente preparato a un pomeriggio di gioioso pseudo-ozio.
Ho aperto con intenzioni bellicose.
Fosse stato Cody probabilmente l’avrei rimandato a casa con un calcio, appiccicandogli un bigliettino sulla schiena dove avrei scritto “Brian, sant’Iddio, tienilo chiuso a chiave!!!”.
Il punto è che non era Cody. Era un ragazzino alto e robusto, il tipo che gioca a football ma nessuno caga perché non sarà mai il quarterback. Capelli corti, castani chiari, occhi tremendamente celesti, il visino pulito ed educato.
E questo moccioso urla.
- Oddio! – fa.
Cioè.
“Oddio”.
Poi si guarda intorno.
- Scusi. – continua, leccandosi le labbra secche e deglutendo a vuoto, - Lei è davvero… - accenna, ma poi si ferma. Gli occhi girano ancora, evidentemente confusi e incapaci di decidere verso che punto preciso rivolgere l’attenzione per non esplodere.
“Un fan”, penso io distrattamente.
Solo dopo qualche secondo di salivazione azzerata e continui sfregamenti di mani per impedirne la sudorazione eccessiva, il ragazzino riprende il controllo, solleva lo sguardo, mi fissa e mi chiede dove l’ho nascosto.
La mia vita era una vita tranquilla, fino al mese scorso.
Ogni tanto ci tengo a precisarlo, perché rischio di dimenticarlo.
- Scusa…? – chiedo confuso, rinsaldando la presa sulla porta, per paura che lui possa caricarmi e sfondarla.
- Cody! – dice lui.
AHA, penso io.
Tutto è perfettamente chiaro! Tutto splende come la luce del sole! È ovvio! Come non capirlo prima?
Se ho un guaio, è palese che è colpa di quel piccolo demonio!
Afferro il moccioso per la maglietta e lo trascino dentro casa, chiudendomi la porta alle spalle prima di scaraventarlo sul divano. Lui si lascia trascinare senza opporre resistenza, fissando la mia mano ancorata al tessuto della sua maglia come se fosse quella di un fantasma.
- A quante persone l’ha detto?! – sbraito, furente, fissandolo negli occhi come se volessi mangiarmelo.
Lui si fa minuscolo sul divano, stringendo le dita attorno alla fodera dei cuscini.
- Cos…?
- A quante persone l’ha detto?! – ripeto io, - Quanti sanno che viene qui? È una cosa di dominio pubblico?!
- Io non- non lo so… - soffia, a corto d’aria, - Non credo, solo… a me l’ha detto, e quindi…
- E quindi cosa?! – attacco, - Siccome non lo vedi da quando siete usciti da scuola, ommioddio!!!, sei venuto a cercarlo qui?! Dico, sei pazzo?!
- Non… - accenna lui, e si interrompe. Mi fissa. Ha gli occhi limpidi, posso leggere dentro l’iride che il criceto che muove i meccanismi del suo cervello sta gridando “È Matthew Bellamy!!! Stai litigando con Matthew Bellamy!!!”.
…Dio, quando faccio così mi sento dannatamente Brian.
Cancella, cancella.
- Non è questo! – protesta lui, che nel frattempo s’è ripreso e s’è risollevato in piedi, - È che non ha risposto al cellulare, quando l’ho chiamato! E quindi ho pensato che fosse venuto qui!
- Oh, bene! – sbotto, esasperato, - Ci mancava il fidanzatino apprensivo…
- Non sono il suo fidanzato!!! – strilla il moccioso, rosso fino alla punta delle orecchie, - E comunque non sono disposto a osservare questa cosa andare avanti senza fare niente per fermarla!
Lo fisso, un po’ stordito.
- Io non ho nessuna colpa se quel pazzo del tuo migliore amico, o quello che diavolo è per te, è pazzo! È venuto lui a chiedermi lezioni di piano! Di propria spontanea iniziativa!
- Ma Cody è uno spostato! – obietta lui, e io non posso che essere d’accordo, - Mica ragiona come le persone normali! – questo ragazzino potrebbe non essere un completo demente, - Sei tu che non l’hai capito e hai permesso che si infilasse in casa tua… e ora te ne approfitti!
…io potrei aver toppato con i giudizi.
- …io cosa?!
- Sì! – continua lui, enormemente convinto di ciò che sta dicendo, - Scommetto che è qui, adesso!
- Ossignore! Cody Molko non è qui, grazie a Dio!
Il ragazzino stringe i pugni e mi guarda.
Ha negli occhi una tale quantità di furore che faccio fatica a distinguere l’accento isterico, dato dal fatto che non trova il suo migliore amico, dall’accento ansioso, dato dal fatto che io sono io e gli sto parlando e lui è palesemente sconvolto da questa cosa e prima di uscire da questa casa opporrà più resistenza degli spartani alle Termopili.
- Provamelo! – mi sfida.
Capisco che, se non gli do retta, non me lo scollerò mai di dosso.
…sarà difficile che questo succeda anche dandogli retta, ma tentar non nuoce, in fondo.
Afferro il cellulare sul tavolo e cerco in rubrica il numero di Cody – che diavolo ci fa nella mia rubrica il numero di Cody?! – lo chiamo, attendo, risponde.
- Cosa vuoi?
…maleducato come il padre!
- Non so in che mondo viva tu, Cody, ma nel mio si risponde “pronto” o, al massimo, “posso esserle d’aiuto”!
Lui si scusa, agitato, e motiva la propria reazione avventata con un debole “non sono abituato a sentirti per telefono”.
- Comunque cosa vuoi?
- …senti. – comincio io, - A parte che dovrei essere io a chiedere a tutti voi cosa volete da me. Ma comunque, c’è qui un tuo amico – lancio un’occhiata al moccioso, che fissa me e il cellulare con gli occhi sgranati, come non gli riuscisse di credere che io e Cody stiamo realmente avendo questa conversazione, - che è mortalmente preoccupato per te. Penso che rivolterà il mio appartamento al contrario, se non ti fai vivo. Perciò scollati dalla sedia e vieni.
Cody si lascia andare ad un minuto di silenzio.
Poi ad una risatina allegra.
E mentre io penso che si sta lasciando andare a troppe cose, si lascia andare anche ad uno sbuffo spaventosamente tenero e ad un bisbiglio che somiglia a un nome. Poi mi assicura che è già con un piede fuori dalla porta e che salverà me e la mia casa dal disastro, perciò posso stare tranquillo.
Annuisco vagamente, interrompendo la chiamata.
Mi volto verso il moccioso.
- Ti chiami Luke, per caso?
Lui sgrana gli occhioni azzurri.
- Sì… - annaspa, sconvolto.
Ok.
Devo fronteggiare la realtà che il figlio del mio ex ha bisbigliato teneramente il nome del suo migliore amico al telefono.
Come io bisbigliavo il nome di Brian quando ne parlavo con Dom.
*
Sono seduti sul mio divano, l’uno accanto all’altro. Gaia volteggia fra loro come una fatina buona, ed è talmente in amore che penso che fra un po’ sbotterà e mi darà dell’orco insensibile.
Ne avrebbe tutte le ragioni.
Cody è arrivato da venti minuti.
Quindici minuti fa, lei ha offerto a lui e Luke del gelato al cioccolato. Loro, da bravi bambini, l’hanno accettato e hanno preso a divorarlo al ritmo di un mega-cucchiaio a testa ogni dieci secondi. Devono solo ringraziare che preferisca la vaniglia!
Dieci minuti fa, Cody ha sfilato le scarpe, abbracciato il proprio barattolo e sollevato i piedi da terra. S’è arrotolato su sé stesso e sul divano, e questo non è il ricordo di un gesto o un sorriso fugace, non è un’impressione, non è un’illusione, non sono io che cerco di convincermi della loro sconvolgente somiglianza: Brian si metteva così continuamente. Durante le interviste, quando passavamo la notte a parlare qui, quando passavamo la notte a parlare da lui, quando guardavamo insieme la televisione… a volte, quando entrambi ci lasciavamo abbastanza in pace da permetterglielo, ci si addormentava pure, in questa posizione.
Ora, non so se Cody stia deliberatamente cercando di farmi andare fuori di testa.
Però so che ci sta riuscendo.
Ed è per questo che, ormai da cinque minuti buoni, io sto sbraitando.
Anche se sto urlando “non è possibile che tu dia il mio indirizzo a destra e a manca, col rischio che poi orde di adolescenti imbizzarriti mi assalgano, invadendo la mia casa!”, indicando il povero Luke, che continua a mangiare il gelato con un’espressione giustamente estasiata sul volto – e se crede che non abbia notato le dieci spilline dei Muse che ha attaccate al tascapane, be’, si sbaglia – non è veramente questo, quello che intendo. Non è questo ciò che voglio dire.
Credo che Cody lo sappia.
Credo che sappia perfettamente che in realtà sto dicendo che mi piacerebbe buttarlo fuori dalla mia vita, perché la sta scombussolando più di quanto io non dia a vedere, ma che per qualche motivo non ci riesco. Non riesco a trovare il pretesto, il modo, le parole, la voglia
…e ricordare che, invece, quando avevo poco più di vent’anni, riuscire a farlo con suo padre è stato terribilmente facile, mi porta ad una realizzazione ancora più grave, ancora più enorme, ancora più pesante.
Io ho un conto in sospeso con Brian.
E mi sembra di stare risalendo pian piano tutti i gradi della conoscenza, come in non mi ricordo che religione o filosofia.
Concludo la mia tirata con un risoluto “non farlo mai più, o puoi anche fare a meno di tornare!”. Gaia mi fissa, arricciando le labbra. Sta faticosamente cercando un sinonimo per “Matt, fila in camera tua!” che sia meno ridicolo e renda ugualmente l’idea di quanto disapprovi il mio comportamento, ma Cody è più svelto di lei.
- Te la prendi troppo, - dice, infilando il cucchiaio in bocca e lasciandolo scivolare sulla lingua per leccare via il gelato dalla superficie, - Meffiu.

È definitivo.
Cody è molto peggio di suo padre!
- Mef-… - accenno io, a fiato corto, incapace di concludere.
- Meffiu! – ridacchia Gaia, illuminandosi in volto e battendo le mani sotto il mento, - Meffiu! Suona bene!
- Meffiu… - ripete Luke, poco convinto, come stesse rimuginando sulla questione “è moralmente giusto dare un soprannome ridicolo al mio idolo di sempre?”.
- Insomma! – protesto io, irritato, - Cody, non si parla con la bocca piena!
Lui ride felice, soddisfatto della situazione che ha creato, stendendo con grazia le gambe sulle ginocchia di Luke in un gesto così intimo e naturale che ho appena il tempo di pensare che se occhi azzurri ci crede, quando dice che non stanno insieme, è fuori strada. Poi esalo un “mio Dio” che mi lascia stremato e senza nient’altro da dire, e mi lascio ricadere pensoso sullo sgabello davanti al piano, poggiando i gomiti sulle ginocchia e cercando di capire. Ho decisamente bisogno di riflettere un po’ in pace. Gaia se ne accorge e attira i ragazzi in cucina, con la scusa di un’abbondante tazza di latte e biscotti, perciò io resto da solo e ho finalmente l’occasione di far ruotare i meccanismi del mio corpo con un po’ più di calma. Ultimamente non me ne è stata data molto la possibilità.
Dunque.
A Cody piace questo ragazzino.
E a questo ragazzino piace Cody.
Questo fatto è così palese che… mah, non so, l’alba e il tramonto a confronto perdono ovvietà.
C’è qualcosa, in questa consapevolezza – nel fatto che si piacciono a vicenda e io lo so, mentre probabilmente loro no – che non mi lascia in pace. C’è una strana vocina nella mia testa, che per nessun motivo particolare ha passato gli ultimi minuti della mia vita a ripetermi “impicciati”.
Non sono fatti miei.
O meglio, lo sono nella misura in cui Cody mi ha fatto diventare parte della propria vita, con o senza il mio consenso.
Ma non sono ancora abbastanza istupidito dall’età o dalla confusione che regna sovrana nel mio mondo, per adesso, da non capire che c’è comunque un enorme limite invalicabile che passa tra l’essere parte della sua vita e l’aiutarlo in questioni che non mi riguardano affatto.
…perché in teoria solo i suoi genitori possono valicarlo, quel limite. Solo i suoi genitori possono interessarsi a tutti gli ambiti della sua esistenza. Solo i suoi genitori hanno questo diritto. E io non faccio parte della categoria neanche in assoluto, figurarsi poi se si parla di lui in particolare.
- Meffiu! – cinguetta Gaia, raggiungendomi dalla cucina a passi lenti e rilassati, sorridendo tranquilla.
- Ti prego… - bisbiglio io, - Puoi almeno evitare di andar loro dietro?
Lei ridacchia, sedendosi sulle mie ginocchia e circondandomi il collo con le braccia, dando il via alla solita danza ondeggiante avanti e indietro.
- Te ne sei accorto anche tu, vero? – sussurra piano, contro il mio orecchio.
Sorrido. Lei aveva perfino meno elementi di me, e l’ha capito comunque.
- Dillo, che l’idea di fare il Cupido ti stuzzica! – ride.
- Non è assolutamente questo, non farmi passare per un personaggio da romanzo rosa…
Lei mi sorride, con le labbra e con gli occhi, e ondeggia ancora un po’, cullandomi.
Santo cielo, adoro tutto questo.
- D’accordo, d’accordo… - borbotto, mentre un flash di mio padre che borbotta la stessa cosa nella stessa identica maniera, decidendo di accompagnarmi sulle montagne russe alla tenera età di sei anni, mi attraversa la mente, spaventandomi non poco, - Ho capito.
Gaia si alza e ridacchia, precedendomi in cucina.
Resto qualche secondo fuori dalla porta, prima di entrare, e osservo. Cody e Luke stanno parlando. Luke lo sta rimproverando per non essersi reso reperibile. Cody lo fissa con la stessa intensità con cui fissa i biscotti al cioccolato sparpagliati sul tavolo. È bello fissare così qualcuno. È bello sentire gli occhi incandescenti, percepirli come il veicolo attraverso il quale irradiare ciò che proviamo sull’oggetto del nostro desiderio.
Cody è dannatamente trasparente, dopotutto.
Finge una malizia, una cattiveria e una furbizia che non gli appartengono davvero, e le finge bene.
…proprio come il papà.
Sospiro, mentre Luke finisce di rimproverarlo e Cody, per dimostrare che di quanto ha detto non ha percepito una parola, preso com’era a guardargli le labbra, gli lancia addosso un biscotto, che lui prende in pieno naso senza un fiato di disappunto.
- Ragazzi. – li richiamo, e loro si voltano a fissarmi.
Cody mi guarda e sembra voglia ringraziarmi di tante di quelle cose che faccio fatica ad elencarle, anche se le riconosco una per una. Probabilmente non gli capita spesso di mangiare latte e biscotti con Luke comodamente seduto al tavolo di casa propria.
…ossignore.
- Luke, vieni qui.
Lui solleva il capo, arrossendo d’improvviso, e poi ubbidisce silenzioso.
Ho come la vaga impressione che non si abituerà mai alla mia presenza, né tanto meno alla possibilità che possa davvero chiamarlo per nome. Dio, spero di no, perché se continua così sarò costretto a fare da testimone al loro matrimonio, quando si sposeranno.
…Gaia, fermami.
Infilo una mano nella tasca posteriore dei jeans, tirando fuori il portafogli e rovistando al suo interno. Afferro una banconota da cinque sterline e lascio che si affacci oltre la fodera, scoccando un’occhiata a Gaia, che inarca un sopracciglio e incrocia le braccia sul petto con enorme disappunto. Sospiro ancora e tiro fuori una banconota da dieci.
- Offrigli un gelato. – dico spiccio, porgendogli il denaro senza guardarlo negli occhi.
Gaia ridacchia. Sul viso di Cody si apre il sorriso più bello che abbia mai visto.
Vedo Luke voltarsi a guardarlo, li vedo arrossire entrambi, poi vedo Cody alzarsi e cominciare a sparare a raffica informazioni su una gelateria a suo parere stre-pi-to-sa, mentre afferra l’amico per un braccio e comincia a tirarlo verso la porta, lanciandomi un “ciao-e-grazie” leggero come l’aria che mi costringe a sorridere, nonostante tutto.
Inspiro ed espiro, osservando i due ragazzini catapultarsi fuori di casa, mentre Gaia mi si avvicina e si appende di nuovo al mio collo.
- Va meglio ora, vero? – chiede maliziosa, sollevandosi sulle punte per sfiorarmi lo zigomo con la punta del naso.
Sento il bisogno di annuire.
Poi il mio sguardo saetta per un secondo sul cellulare, che ho abbandonato sul pianoforte in salotto.
…dovrei avere ancora il suo numero…
Gaia mi dà un bacino sulle labbra.
Bah. Ci penserò un’altra volta.
*
- Tu che hai esperienza… - butta lì, casualmente, - Non è che potresti darmi qualche consiglio?
E io esplodo.
Questo ragazzino sarà la mia morte.
Allora, l’ho lasciato ieri che era ancora un verginello tranquillo, ok? È venuto, abbiamo suonicchiato, più che altro lui ha continuato a parlare a ruota libera di quanto sia figo il suo Luke, di quanto sia gentile e di quanto sia bravo a baciare. Lo fa da due settimane. Quindi, d’accordo, ormai mi sono abituato. Poi sono perfettamente consapevole del fatto che c’è di peggio nel mondo. Voglio dire, ci sono dei genitori che sono costretti a fronteggiare realtà allucinanti, tipo scoprire che il loro piccolo tesoro è il capo di, chessò, una babygang armata fino ai denti e ricercata in tutta l’Unione Europea, o, per non cadere troppo nel fantascientifico, ci sono dei genitori che scoprono all’improvviso che il loro piccolo tesoro di cui sopra va in giro con la gonna. Cioè, al mondo ci sono dei veri
drammi
. Non è poi così orribile che io sia costretto a sorbirmi lo sbrilluccichio amoroso degli occhi di un adolescente per me fondamentalmente random che mi ha scelto come proprio confidente personale e che mi ha permesso di appaiarlo con un altro adolescente per me fondamentalmente random, per la gioia di tutti.
Ma questo no.
Questo è troppo.
È troppo se lui arriva con aria trasognata e, sedendosi sullo sgabello davanti al piano, comincia a pigiare tasti a caso e sussurra uno “stasera esco con Luke…” che mi dà i brividi per tutto quello che implica.
È troppo se mi lancia uno sguardo indecifrabile e si appoggia ai tasti coi gomiti e col mento sulle mani incrociate, facendo un baccano infernale e disinteressandosene totalmente.
È troppo se bisbiglia “mangiamo fuori, e poi…”, interrompendosi solo per intensificare la luce che gli esce dagli occhi ed assicurarsi che mi colpisca esattamente come vuole lui.
È troppo se sorride come avesse trovato la soluzione di ogni guaio, schiude le labbra e…
- Tu che hai esperienza… non è che potresti darmi qualche consiglio? – mi chiede.
Esperienza!
No, dico, consigli!!!
Salto in aria. So che, se potessi, arriverei al tetto e mi aggrapperei con gli artigli al lampadario. Dovrei essere un gatto, per farlo, ma se lo fossi sarebbe indubbiamente la mia mossa.
- Io non ho esperienza! – grido stridulo, chiudendo i pugni con forza.
Lui solleva un sopracciglio, squadrandomi di sbieco.
- Sì, certo, Matt…
- Cody, cazzo! – continuo io, sempre più isterico, - D’accordo, sono stato con un uomo quando avevo… Dio, avevo tipo vent’anni!
- Ventidue.
- Quelli che erano! Perché diavolo ne sai più di me?!
Scrolla le spalle.
- Le agende…
Certo. Le dannate agende di Brian. Quelle che riempiva di stupidi segnetti quando ci organizzavamo perché, di soppiatto, lui scivolasse all’interno del mio appartamento o io del suo.
- Sono passati diciannove anni! Non si può neanche pretendere che lo ricordi!
Lui mi guarda come avesse una chiarissima percezione della dimensione esatta della menzogna che gli sto propinando.
E quando preciso che non intendo dargli alcun consiglio di natura sessuale, che ha solo dodici anni – quindici, ci tiene a ricordare lui – ed è praticamente un poppante e che oltretutto casa mia non è un consultorio, lui sbuffa. Scrolla le spalle. Sorride maligno. E decide che è il momento di farmela pagare.
- Già che siamo in argomento… - sibila, - È passato più di un mese da quando ci conosciamo… non credi che sia il caso di cominciare a dirmi qualcosa di più preciso sulla vostra relazione?
Lo guardo. Mi sento enormemente stupido.
- Cody! – vai in camera tua!, ma no, non posso dirglielo. Perché lui non ha una camera qui. Perché questa non è casa sua.
Dio mio, penso terrorizzato, ora chi glielo dice a Brian che suo figlio ha due padri?
Ma la verità è che no, Matthew, tu non sei suo padre.
A Gaia piace crederlo perché le manca un moccioso vagolante per casa.
A Cody piace crederlo perché evidentemente col padre che si ritrova per natura non ha il migliore dei rapporti.
Anche a te piace crederlo, più o meno, anche se non lo ammetti e non ti piace pensarlo.
Ma tu non sei suo padre.
- Torna a casa. – dico, glaciale.
- Oh, avanti! – sbotta lui, continuando a scherzare. Probabilmente non ha percepito il cambiamento nel mio tono di voce, o si rifiuta di accettarlo, - Ti ho solo-
- No, Cody. – continuo, deciso, - Non ci siamo. Questa cosa non ha senso.
Comincia a capire.
Spalanca gli occhioni e mi fissa spaventato.
Sta pensando “ops... passo falso”. So cosa pensa e questo mi terrorizza ancora di più.
Non posso prendermi questa libertà.
Non nei confronti di Brian.
Fosse un ipotetico figlio di Dom, potrei farlo. Fosse Alfie, o Ava Jo, o Frankie, potrei farlo lo stesso.
Non a Brian.
Non a lui, dannazione.
- Torna a casa. – ripeto.
- Matthew-
- No. Non servirà a niente dire che capisci che non posso ancora parlarne. Non è questo il problema, Cody. Se vuoi sapere qualcosa sul passato di tuo padre, devi chiederla a lui! Capisci che venire da me non ha senso? Non ha avuto senso fin dall’inizio…
Lui prova a protestare.
- Tu eri l’unico che- - dice, ma no, Cody, non ti lascerò finire.
- Non ero niente. – gli ricordo… quasi con dolcezza. Sorrido, perfino. – Non sono niente neanche adesso, Cody. Figurati se ero qualcosa prima.
- No, Matt! – insiste lui, stringendo i pugni e saltando in piedi, - Tu e mio padre-
- Siamo stati insieme. È vero. – ammetto sospirando, - E questo è successo molto prima che tu nascessi e molto prima che tuo padre conoscesse tua madre. Quindi non ha niente a che fare con te.
Questo lo fa tremare.
- Ma non sono nessuno per stabilirlo, in fondo. – mi correggo, - Dico solo che, se anche questa cosa ti importa sul serio, io non sono la persona a cui devi chiedere.
Si ferma.
Sembra che tutto in lui si intorpidisca e si congeli poco a poco.
Fine delle proteste.
Fine della rivoluzione, Cody, mi dispiace.
- Capisci quello che intendo?
Lui abbassa lo sguardo, in un’ammissione che non ammette commenti.
- Su. Da bravo. A casa.
Stavolta annuisce davvero, assottigliando lievemente gli occhi già semichiusi. Recupera lo zaino abbandonato per terra accanto al divano ed esce dall’appartamento. Non sento neanche l’eco dei suoi passi nel breve corridoio verso l’ascensore.
Non sentivo mai neanche quelli di Brian.
Hanno un’altra cosa in comune.
Sanno bene come sconvolgere una vita.
E sanno altrettanto bene come uscirne in silenzio.
*
Ho passato due giorni orribili.
Il cellulare è rimasto sul pianoforte, dove l’ho lasciato il giorno in cui Cody se n’è andato, e non ho osato neanche avvicinarmici per paura di afferrarlo e comporre il suo numero.
Gaia mi ha rimproverato.
Mi ha detto che mandarlo via non era quello che volevo.
Gaia non sa che voglio solo chiudere quella parentesi della mia vita – non Cody, no. Brian. Cody ha riaperto quel baule, su, in soffitta, e s’è infilato astutamente fra i miei ricordi per amalgamarsi meglio con ciò che è stato suo padre. Non è stato una nuova parentesi, è stato un continuo riaprirsi di quella vecchia. E Gaia non sa che voglio solo provare ad andare avanti senza che il fantasma degli occhi di Brian continui a perseguitarmi sotto forma degli occhi di Cody.
Quindi, a tutti gli effetti, Gaia non sa di che sta parlando.
O forse… la cosa che mi dà più fastidio è che lo sappia. Malgrado la mancanza di gran parte degli elementi che l’aiuterebbero a capire non le dia modo di afferrare il significato profondo delle sue stesse parole, Gaia sa esattamente quello che sta dicendo. E ha ragione. Perché io non avevo davvero voglia di allontanare Cody. Né tutte quelle piccole fatiche quotidiane che la sua presenza mi obbligava a portare a termine. Aprire la porta, convincerlo a suonare un po’ oltre che a parlare continuamente di tutto ciò che gli passava per la testa, magari anche a nutrirsi un po’ prima di diventare uno scheletro e a stare attento alle lezioni di matematica perché non si sa mai possa servirti in futuro. Quasi mi manca vederlo apparire sulla soglia, sorridente e con lo zaino sulle spalle. O, come mi aveva abituato nell’ultima settimana, mano nella mano con Luke, che poi abbandonava sul divano a sfogliare fumetti, salvo pretendere la sua attenzione, qualche complimento e qualche applauso quando riusciva ad arrivare senza errori in fondo a una melodia.
Non avevo neanche voglia di allontanare tutta l’angoscia e la fatica psicologica che la sua sola presenza comportava.
L’ho fatto perché…
…la porta.
Sguardo veloce all’orologio – è l’una meno venti.
Sguardo ancora più veloce a Gaia – dorme ancora.
Mi sollevo velocemente dal letto e raggiungo l’ingresso, accorgendomi distratto del temporale che infuria fuori, scagliando minuscole goccioline d’acqua perforanti come proiettili contro i vetri delle finestre, facendoli quasi tremare.
Apro.
- Cody!
Fradicio.
Triste.
Avrei preferito non vederlo mai così.
- Che diavolo… entra! – bisbiglio, infuriato, scostandomi dall’uscio e lasciandogli spazio per obbedire.
Lui non dice una parola, trascinandosi stancamente all’interno dell’appartamento e lasciandosi alle spalle una scenografia di pozze e strisce d’acqua. L’orlo dei suoi jeans striscia sulla moquette, appena strappato, come quello di tutti i ragazzini di quest’età.
- Che è successo? – gli chiedo, mentre lo spingo lievemente, costringendolo a sedersi sul divano e osservando per un secondo la macchia d’umido che si allarga sotto di lui, prima di correre in bagno, a prendere un telo di spugna con cui asciugarlo, e in camera da letto, per recuperare una coperta nella quale avvolgerlo perché non prenda freddo.
Lui fissa un po’ le goccioline d’acqua scivolare giù dalle punte della frangetta, sbattendo incidentalmente sul naso prima di schiantarsi contro le ginocchia.
Poi si stringe nella coperta, mentre io friziono i suoi capelli.
- Cody. – lo chiamo, - È notte fonda! Che ci facevi per strada a quest’ora?!
- …sono uscito con Luke… - ammette lui, con un filo di voce.
- E avete fatto troppo tardi? È per questo che non hai il coraggio di tornare a casa? – cerco di capire.
Lui scuote il capo.
- Sono tornato a casa… - racconta, - Ma era già tardi… papà… mi aspettava in piedi…
- …arrabbiato?
Annuisce, strofinando una mano su un braccio nel tentativo di riscaldarsi.
- Ti ha rimproverato?
- Non… - deglutisce, - Non mi rimprovera mai… - ammette debolmente, - È come se non sentisse abbastanza autorità per farlo… - sussurra con un sorriso stentato, enormemente triste, - Mi ha detto che era preoccupato, che avrei dovuto avvertire… che mamma non sapeva che pesci prendere e alla fine s’era addormentata esausta accanto al telefono…
Annuisco, sedendomi al suo fianco mentre faccio scivolare il telo sul suo collo e controllo se i suoi vestiti sono ancora indossabili o se faccio meglio a prenderne degli altri.
- E dopo che è successo?
Lui si passa una mano sulla fronte, scostando i capelli bagnati e mugolando come se sentisse male da qualche parte.
- Abbiamo litigato…
- Cody…
- Io non volevo! – si affretta a difendersi, - Non so neanche se si possa definire litigio… - commenta poi, abbassando lo sguardo per sfuggire al mio, che nel frattempo è riuscito in qualche modo a trovare i suoi occhi, - Il suo discorso mi ha infastidito… gli ho detto che può badare esclusivamente agli affari suoi, dal momento che io sono abbastanza grande per badare ai miei…
- …e hai dimostrato così perfettamente di non essere in grado di farlo.
Solleva di nuovo lo sguardo, schiudendo le labbra.
- L’ha detto anche lui. – sussurra con voce rotta.
Io sospiro, alzandomi in piedi.
- Vado a prenderti dei vestiti asciutti. Tu togliti quella roba, o ti verrà un febbrone.
Annuisce e si libera della coperta, sfilando la maglietta e lasciandola ricadere per terra dopo un attimo di indecisione. Quando torno in salotto, con una maglia e un paio di pantaloni che ovviamente gli andranno larghissimi, lui è di nuovo completamente avvolto nella coperta, ma tutti i vestiti sono ordinatamente ammucchiati sul pavimento, come ci tenesse ad occupare il minor spazio possibile.
- Scusa se sono tornato. – dice con un filo di voce, mentre afferra gli indumenti che gli passo e comincia a rivestirsi, - Non sapevo dove altro andare.
Sospiro ancora.
- Avresti potuto rimanere a casa.
- No. – dice lui, deciso, - Non avrei potuto.
So che è vero.
- Puoi restare qui a dormire, per oggi. – cedo. Tanto vale farlo adesso, tenerlo ancora sulle spine sarebbe crudele e del tutto inutile.
Lui lancia un respiro che somiglia tanto a quelli che lanci quando riprendi a respirare dopo molti secondi.
- Grazie. – sussurra.
- Figurati. – dico, togliendogli di dosso la coperta bagnata e passandogliene un’altra asciutta. – Dormi bene.
Faccio per alzarmi e tornarmene a letto, rimandando qualsiasi pensiero razionale all’indomani mattina, ma lui mi ferma, attaccandosi al mio braccio e costringendomi a ricadere indietro sul divano.
- Matthew… ti prego… - bisbiglia senza guardarmi, - Puoi raccontarmi cos’è successo fra te e mio padre?
Cosa vuoi che ti dica, Cody? Cos’è che vuoi detto, mentre stai accucciato sul divano e mi fissi, fradicio di pioggia, come fossi davvero il salvatore della tua anima frustrata?
Cosa vuoi detto? Che amavo tuo padre? Che lui amava me? Vuoi raccontato il momento in cui ci siamo conosciuti? Come fossimo entrambi troppo giovani e stupidi per capire cos’avevamo fra le mani? Vuoi descritti gli sguardi di fuoco che ci siamo lanciati per mesi, quando costringevamo i nostri migliori amici ad uscire in gruppo per dare luogo a uno strano rituale di corteggiamento, comprendente battutine e occhiate furbe, mentre gli altri ci fissavano sconvolti come provenissimo da un altro pianeta? Vuoi il primo bacio? Cos’è che vuoi? Sapere quanto è stato dolce? Quanto è stato appassionato? L’esatta gradazione di rossore che hanno raggiunto le mie guance? Come mi sia sembrato di stare bevendo acqua fresca e pura dopo anni di fango? Vuoi il dopo? Vuoi il sesso? Le sue mani su di me, le mie dita dentro di lui, la lingua, le labbra, la pelle, il piacere? Vuoi gli orgasmi e le risatine allegre durante i minuti in cui riprendevamo fiato? Vuoi le tenerezze? Vuoi sapere se, quando andava in cucina e io gli chiedevo di portarmi un po’ d’acqua, lui ubbidiva con gioia e senza lamentarsi, oppure se mi tirava addosso qualcosa borbottando “se hai sete, alzati e bevi”? Vuoi che ti racconti delle notti insonni passate a parlare di ispirazione, armonia, poesia? Vuoi i deliri di quando eravamo ubriachi? Vuoi i sospiri di quando eravamo eccitati? Cosa diamine vuoi, i primi litigi? Le prime guerre? Le prime trincee? Le prime barricate? Vuoi che ti descriva esattamente cosa si prova a vedere una storia a cui tieni mentre ti scivola fra le mani perché tu non sei in grado di trattenerla? Vuoi sapere in che modo Brian mi ha fatto capire che essere “l’amante segreto di Matthew Bellamy” non gli bastava? Vuoi che ti dica come mi sono sentito quando tuo padre mi ha detto che voleva di più? Vuoi sapere con quali esatte parole ho pensato che non potevo e neanche volevo darglielo? Vuoi che ti descriva la sua espressione mentre mi ascoltava ammetterlo, pretendi che io te ne parli senza scoppiare a piangere?
…potrei ancora disegnare le curve del suo profilo mentre lo vedo uscire dalla porta per non tornare mai più. Potrei contare da capo i minuti passati in attesa davanti al telefono, continuando a ripetermi che era tutta colpa mia e avrei dovuto decidermi a farmi sentire per primo, anche se sapevo perfettamente che non l’avrei fatto. Potrei parlare di ogni pomeriggio, ogni notte, ogni risveglio solitario. Potrei ripetere a memoria ogni lamentela propinata a Dom e Chris.
Potrei davvero dirti tutto, Cody. Ma tu non vuoi sapere da Matthew Bellamy che anche tuo padre è un essere umano. Tu non hai bisogno che te lo dica io. Tu lo sai.
Hai bisogno di correre da tuo padre e obbligarlo a dimostrartelo.
Ed è dannatamente diverso.
- Buona notte. – ripeto, liberandomi dalla sua stretta e tornando in piedi.
Vuoi parlare con qualcuno, Cody?
È con Brian che devi parlare.
Lo so bene.
Perché devo farlo anche io.
*
Il cellulare di Cody mi dà una mano a ritrovare il suo numero.
Trovarlo sotto la voce “papà” è vagamente divertente, ma dal momento che non è il caso di ridere ne faccio a meno e lo chiamo.
La sua prima reazione è uno sgomento silenzio, che si protrae abbastanza a lungo da farmi decidere d’essere io il primo a romperlo.
- Brian? – chiamo, per assicurarmi che lui sia davvero dall’altro lato della cornetta.
- …Matthew. – esala lui. Posso sentirlo sconvolto e un po’ mi dispiace.
- Scusa se ti chiamo così tardi. – dopo vent’anni, dovrei aggiungere, ma nonostante tutto non credo sia il caso, - È che immagino tu sia preoccupato per Cody, e-
- Che c’entra Cody? – ansima, - Cody è lì? Cody è da te? Che ci fa da te?
Sospiro, mugolando confuso.
Sono quasi le due. Non riesco neanche a ragionare correttamente e sto cominciando a pensare che chiamare Brian adesso sia stato un errore enorme. D’altronde, però, non riesco neanche ad immaginarmi andare a letto e addormentarmi come niente col pensiero che lui, a casa sua, si sta rigirando in una padella di angoscia mentre si convince di essere il motivo per il quale ritroveranno suo figlio annegato nel Tamigi domattina.
- È una cosa lunga da spiegare. – asserisco, massaggiandomi le tempie.
- Vengo da te. – dice lui d’impeto, ma poi si blocca. - …dove stai?
- Non è il caso. – dico, trattenendo a stento un risolino, - Anche perché svegliare Cody e trascinarlo a casa sotto il diluvio universale non mi sembra la cosa più saggia da fare.
Lo percepisco irrigidirsi, e comprendo di aver toppato di nuovo.
Non riesco proprio a misurare le parole, con questi due. Corro continuamente il rischio di dire troppo, o troppo poco.
- E poi qui c’è Gaia che dorme. – continuo, cercando di attirare la sua attenzione altrove, - Se vuoi ci vediamo da qualche parte, così… parliamo un po’.
Ci mettiamo d’accordo per un pub nei dintorni che dovrebbe essere ancora aperto.
Scendo di casa e arrivo davanti al locale, per accorgermi che invece, ovviamente, è chiuso. Rimango comunque lì davanti, cercando di farmi minuscolo sotto l’ombrello ed evitare le gocce di pioggia che ogni tanto mi sferzano il viso, portate dal vento.
Quando lo vedo arrivare, dall’altro lato della strada, lo riconosco subito.
È molto cambiato.
…è dannatamente invecchiato.
Mi adocchia, ha un momento d’esitazione e poi si avvicina. Stringe fra le mani il proprio ombrello e indossa dei guanti per ripararsi dal freddo. Dio sa se lo invidio.
- Ciao. – accenno incerto.
Lui mi guarda ancora un po’ e poi esala un “Dio santo” veramente disperato.
- Rivedersi è stata la peggiore delle scelte, Matt. – commenta distaccato, mentre mi si affianca, unendo il suo ombrello al mio per creare una piccola tettoia sotto la quale potremo entrambi ripararci meglio.
Io ridacchio in risposta alla sua battuta e gli chiedo come stia.
- Preoccupato. – risponde lui. – E confuso. E questa situazione mi irrita.
- Mi dispiace. Ma stavolta posso assicurarti che davvero non è colpa mia.
Mi scocca uno sguardo furente, mordendosi il labbro inferiore.
Ha ancora lo stesso modo provocatorio di mordersi le labbra… è così anche quando non è intenzionale, è una caratteristica insita nella pienezza stessa di quelle labbra, e nelle curve morbide del profilo dei suoi denti.
- Non è proprio il caso di fare richiami al passato. – mi rimprovera. La sua voce non è cambiata di una virgola. – Mi spieghi qualcosa? Sinceramente non ho la forza di fare domande.
Annuisco e racconto tutto. Di come Cody si sia presentato a casa mia dopo aver scoperto i suoi “ricordi” in soffitta, di come abbia cominciato ad assillarmi per le lezioni di piano, di come Gaia l’abbia preso in simpatia, dei suoi tentativi di estorcere informazioni, di Luke, di stasera.
Brian mi ascolta. All’inizio è solo confuso e perplesso. Poi sulle sue labbra si va a disegnare un sorriso consapevole immensamente triste, che mi strazia.
- Devo anche ringraziarti. – ammette, alla fine del racconto, - Ti sei preso cura di lui.
Io inspiro ed espiro. Mi sento dannatamente affaticato.
- Ci sono problemi fra voi?
Lui ride.
- Hai mai sentito di un adolescente e un genitore senza problemi fra loro?
Ha ragione anche lui.
E lo so, che ha ragione.
- Se posso permettermi di darti un consiglio-
- No che non puoi. – mi ferma lui, glaciale, - Cristo, Matt, è mio figlio! Non ti sembra di aver già fatto abbastanza?
Aggrotto le sopracciglia.
- È lui che-
- Sei tu che non sei stato in grado di respingerlo fin dall’inizio. – ragiona come Luke. Il che mi porterebbe a pensare che ho torto, se non sapessi perfettamente che Luke parla così solo perché è geloso. Che è esattamente quanto si può dire di Brian al momento. – Ma posso capirti. Cody è comunque un tipo che impone la propria presenza.
Già.
Vi somigliate, lo sai.
- Non gliene ho mai parlato. – dice all’improvviso, appoggiandosi contro un albero dietro di sé, mentre cerca di mantenere l’ombrello in equilibrio fra spalla e collo.
Io ridacchio, seguendolo nel movimento.
- Posso capirlo. Non è esattamente una cosa che sia facile dire al proprio figlio.
Scuote il capo.
- Gli ho detto molto altro. Ho sempre cercato di essere il più possibile onesto, con lui. È stato un errore, probabilmente. Ho perso in credibilità, in… in autorità. Se mai l’ho avuta.
- Non dire così…
- È così.
Serro le labbra, tornando silenzioso e riprendendo a guardarlo mentre aspetto che ricominci a parlare.
- Non ne ho mai parlato con nessuno. – continua infatti lui, fissando il vuoto come fosse in un altro luogo, - Non mi è mai sembrato ci fosse qualcosa da dire. – mi lancia uno sguardo breve e duro, doloroso, - Forse qualcosa da dire c’è, adesso.
Deglutisco.
- Sì. – ammetto, - Io ho qualcosa da dire.
È il momento.
Non credevo sarebbe mai arrivato.
Ma il passato ritorna, l’ho detto quando questa vicenda è cominciata e non posso fare a meno di dirlo adesso che mi sembra si stia avviando alla propria conclusione.
Brian sorride lievemente, ben conscio di aver raggiunto il proprio scopo.
- Scusami, Brian. Mi dispiace. – dico io, chinando il capo, - Non per averti lasciato. O per non aver cercato di riprenderti. Ma per averti illuso che tra noi potesse nascere qualcosa di stabile quando ero assolutamente convinto del contrario. – lo guardo in un lampo, e lui sorride ancora, sereno. – Ero molto giovane. Tu non lo eri altrettanto. Avevamo… obiettivi diversi. Non avrei mai dovuto farti credere-
- Non mi hai fatto credere niente. – precisa lui, e io la prenderei come una sterile lamentela se non la dicesse… con quel tono e con quel sorriso sulle labbra. – Mi sono convinto di ciò che volevo. Se ti si deve trovare una colpa… è che tu lo sapevi e non hai fatto niente per fermarmi.
Tocca a me mordermi le labbra.
È vero, e io lo so.
- Non ero ancora pronto a perderti, quando l’ho capito. – ammetto. – Sapevo che se avessi messo le cose in chiaro tu saresti andato via subito. Ma io ero davvero innamorato di te, Brian, e non volevo lasciarti andare via così presto.
Lui si lascia andare a una risatina breve che racchiude in sé tutta la malinconia, tutta la nostalgia e tutto il rimpianto condensato negli anni passati senza vedersi né sapere niente l’uno dell’altro. Scivola fuori dalle sue labbra e si perde nel rumore scrosciante della pioggia attorno a noi, diventando leggera come l’aria.
Fra altri vent’anni non lo ricorderemo più.
Questa consapevolezza mi uccide. E mi permette di sopravvivere più facilmente.
- Non volevo le tue scuse, Matt. – confessa Brian, avvicinandosi lentamente, - Volevo un addio vero. Probabilmente non mi è mai bastato il no di un ragazzino confuso troppo spaventato dai rischi di una “relazione seria con Brian Molko”. – ridacchia ancora, guardandomi negli occhi, - Forse volevo solo sapere che ora stai bene. Che sei… stabile. Che lo siamo entrambi. Cody a parte. – sussurra con un altro risolino.
Stabile.
Be’, sì, Brian.
Stabile.
- Mi ha fatto piacere rivederti. – sorride, staccandosi dall’albero e rimettendosi dritto in piedi, - Domattina chiamerò Cody e passerò a prenderlo sotto casa tua. Stai qui vicino, vero?
Annuisco, recitando a memoria l’indirizzo di casa mia.
Fa per andarsene, ma come Cody ha fermato me sul divano io fermo lui adesso.
- Aspetta. – gli dico. E non so cosa dovrebbe aspettare, perché non so cosa aspettarmi da me stesso. Ma lo costringo a voltarsi e lui ubbidisce docilmente.
Quando arriva a pochi centimetri da me sappiamo entrambi cosa succederà.
Ed è assurdo, perché siamo praticamente due vecchietti e questa cosa non ha senso.
Ma lo bacio, e mi fa piacere ritrovare la forma delle sue labbra sulle mie. Sorrido contro la sua bocca nel riconoscere il suo sapore, che è sempre lo stesso, e sono perfino soddisfatto quando le nostre lingue riportano alla luce tutto il campionario di toccatine brevi e sensuali che utilizzavano quando baci come questo erano all’ordine del giorno.
Lo stringo forte per non lasciarlo più andare, ma quando ci separiamo capisco perfettamente cosa esattamente non voglio mandare via. È la parte bella di noi. Quella che ho sempre nascosto per evitare di riesumare assieme a lei anche tutta la parte brutta.
Adesso so che potrò tirare fuori dal baule questo ricordo e anche tutti gli altri, senza sentirmi più in colpa.
È la sensazione che si prova quando finalmente si chiude la benedetta parentesi aperta.
Hai risolto l’equazione.
Indipendentemente dal risultato, sei arrivato alla fine.
Te lo fai bastare. Non capita quasi mai che il risultato che si trova in questi casi sia lo stesso riportato sul libro di testo.
*
Cody sorride, stringendo fra le mani le bretelle dello zaino che gli ho prestato. Dentro ci sono i suoi vestiti bagnati e i vestiti che gli ho prestato per la notte. Ha deciso che li vuole tenere, così come quelli che indossa ora, e ha motivato la decisione dicendo che sa che non mi vedrà più. Gli ho detto di non contarci troppo. Che li conosco, quelli della sua razza, e che so perfettamente che mi richiamerà fra una miriade d’anni nel momento più impensabile e meno propizio, obbligandomi a scapicollarmi ovunque si trovi per salvarlo da un qualche disastro incombente. Lui ha ridacchiato e ha detto che spera io non sia troppo vecchio, quando avverrà. Gli ho bisbigliato di non farsi sentire mai da suo padre, quando dice cose simili, perché non tutti la prendono bene come il sottoscritto, e gli ho dato un pizzicotto sul fianco. Il che, credo, gli ha dato l’esatta misura di quanto bene io l’abbia presa.
Esce dalla porta, dopo un breve bacio a Gaia, mentre il clacson della macchina di Brian fa sentire insistentemente la propria voce.
Dio, ho davvero l’impressione che un’intera era della mia vita si stia chiudendo adesso.
È una sensazione pesante.
Gaia sorride serena, appendendosi al mio collo e ondeggiando, mentre mi stringe forte.
- Alla fine non te la sei cavata poi così male. – bisbiglia contro la mia pelle, dandomi un bacetto sul pomo d’Adamo.
Sorrido, abbassando lo sguardo su di lei e baciandola sulle labbra.
Lei ridacchia mentre la sollevo, conducendola in camera da letto.
Sento come il bisogno di ricominciare.
Ed ho una mezza idea riguardo come farlo.
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