animanga: kaworu nagisa

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo.
Pairing: Kaworu/Shinji, Shinji/Asuka.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: What If?, Angst, Het, Slash, Flashfic.
- "La prima volta, Shinji non è nemmeno riuscito a salire sull’Eva."
Note: Dunque, questa storia - che volevo scrivere già da più di una settimana e che la Notte Bianca mi ha dato la possibilità di portare a termine - prende spunto da una serie di speculazioni della quale la Caska mi ha resa partecipe mentre rewatchavo tutta la serie di Evangelion e tutti i film ad essa collegati, compresi i due del Rebuild. Di base, si ispira alla possibilità che in realtà il Rebuild non sia una riscrittura, ma un seguito, dal momento che l'ipotesi di base sarebbe che, dopo il Third Impact in EoE, il tempo si sia "resettato" e sia tornato indietro, ricominciando tutto da capo, perché tale è il patto che Gendo e gli uomini della Seele hanno stipulato con Lilith nel tentativo di riuscire, prima o poi, a portare a termine il Progetto per il Perfezionamento dell'Uomo. Va da sé che, se non avete visto con attenzione tutto ciò che riguarda Evangelion, probabilmente questa storia vi prenderà appena un peletto alla sprovvista XD
Il prompt al quale mi sono ispirata, come già detto, appartiene alla VI Notte Bianca, ed è: "Some people are like violins, their whole song is beautiful but the music will always be sad."
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
TIME IS ON MY SIDE

La prima volta non è nemmeno riuscito a incontrarlo. Non riesce a superare questa consapevolezza, è qualcosa che non sapeva di essere in grado di provare, e che per questo lo confonde, e che per questo lo irrita. È anche qualcosa di cui non riesce a sbarazzarsi. Anche per questo, la odia.
La prima volta non è nemmeno riuscito a incontrarlo. Anche Gendo Ikari, sebbene preferisca non pensare a se stesso come ad un comune essere umano, è soggetto agli stessi errori di tutti gli altri Lilim. Sbaglia costantemente a prendere le misure, e per questo motivo, ogni volta, fallisce.
La prima volta non è nemmeno riuscito a incontrarlo, perché Gendo Ikari ha sbagliato troppo.
La prima volta, Shinji non è nemmeno riuscito a salire sull’Eva.
*
È un errore che non si ripete, la seconda volta. Shinji sale sull’Eva, sconfigge il terzo angelo, e poi il quarto, e poi il quinto. Dalla Luna, Kaworu lo osserva. Lo ha osservato fin da quando era un bambino, lo ha osservato da prima che nascesse, lo osserva da sempre. Lo vuole da sempre.
Non sa spiegarsi il perché. Comprende bene il significato della propria missione, ma la spinta irrazionale, magnetica, che lo conduce a Shinji, è troppo forte, e proviene da troppo lontano. Per il suo spirito è una missione molto più importante, anche se non ne comprende altrettanto bene il significato.
Qualcosa va storto anche stavolta, però. Un altro dettaglio da calibrare. Ancora qualcosa da sistemare.
Asuka Soryu Langley ha i capelli rossi e gli occhi azzurri. Parla ad alta voce. C’è un pozzo nero nella sua anima. Risucchia emozioni e non ne è mai sazia. Esplode con ogni singolo movimento. Quando arriva, Shinji ne viene spazzato via. È preso in pieno dalla detonazione, stordito si aggira fra le macerie di quella che era stata la sua vita prima di lei, e si ritrova ad odiarla, si ritrova a desiderare di più.
Quando Arael la attacca, Shinji ignora gli ordini di suo padre, spezza i sigilli che trattengono l’Unità 01 e combatte per lei.
Vince.
*
Il problema va ridimensionato. Gendo Ikari prende le contromisure adeguate. I dettagli che modifica, ogni volta che il calendario torna indietro, sono talmente insignificanti che per Kaworu è un gioco divertente osservare la situazione dalla propria postazione privilegiata e cercare di individuare le differenze. Riesce sempre a trovarle, anche se spesso non abbastanza in tempo da goderne appieno, mentre osserva gli avvenimenti dipanarsi in modo radicalmente diverso a partire da modifiche tanto minuscole.
Qualcosa va storto anche questa volta. Qualcosa non funziona, nella testa di Shinji. Qualcosa che gli è stato tolto – capelli rossi, occhi azzurri, le urla e le botte e la prepotenza e la violenza con la quale Asuka rivendicava ogni centimetro del suo corpo perché fosse di propria esclusiva proprietà –, qualcosa che gli manca troppo, anche se lui non ne è nemmeno consapevole.
Kaworu lo vuole per sé. Cerca di allontanare dalla mente il pensiero che potrebbe non averlo mai.
Distoglie lo sguardo quando Leliel getta un’ombra oscura sullo 01 e lo inghiotte. Versa una lacrima quando Shinji decide che non vale la pena tornare.
*
Gendo Ikari lavora come un alchimista. Invece di aggiungere e sottrarre elementi fisici o chimici, però, aggiunge e sottrae elementi propri dell’animo umano. Affetto, disagio, allegria, paura, empatia, dissonanza, solitudine, forza d’animo.
Alla quarta volta, nel corpo di Asuka c’è molta meno Asuka di quanta non ce ne fosse all’inizio. Ce n’è un po’ di più rispetto all’ultima volta, però.
Non è ancora la quota giusta.
Quando lo 01 reclama il corpo di Shinji, durante la battaglia contro Zeruel, c’è ancora qualcosa che manca, ed anche stavolta Shinji sceglie di non tornare.
Kaworu non è ancora riuscito a incontrarlo.
*
Ci riesce, la volta successiva, ed è un’esplosione tale da riuscire a stento a mantenere le emozioni sotto controllo. Shinji è indifeso, ma c’è di più dentro di lui. È testardo, ma c’è qualcosa anche in più di questo. Qualcosa che forse solo Kaworu riesce a vedere, qualcosa che ai suoi occhi brilla con la stessa intensità di un’esplosione, qualcosa di molto simile al modo in cui deve aver brillato anche Asuka la prima volta che Shinji l’ha incontrata.
Shinji dovrebbe essere suo, Kaworu lo sa. Ma lo vuole per sé. Lo vuole per sé e non riesce a non avvicinarsi, non riesce a non toccarlo, non riesce a non cercare di annullare qualsiasi barriera che li separa, per provare a conquistarlo.
Non riesce a impedirsi di sbagliare, ed anche questa volta fallisce.
Anche questa volta, Shinji torna da lei. Kaworu, almeno, non è più lì per osservarlo mentre, seduto con lei in riva, osserva il mare tingersi di rosso e la luna sanguinare.
*
Inspira ed espira profondamente, nello sfiorare con affetto fraterno l’interno dell’entry plug del Mark.06. Non riesce a trattenere uno stupido sorriso mentre osserva la Terra girare pigramente sul proprio asse e poi, all’improvviso, fiorire in un bocciolo rosso sangue. È il segnale, finalmente il tempo è giunto.
Si solleva in volo, la Luna alle sue spalle si fa sempre più piccola, la Terra sempre più grande. Shinji sempre più vicino.
Arriva appena in tempo. Come da copione. Gendo Ikari sarà soddisfatto.
Ma stavolta a cambiare i piani di quell’uomo sarà Kaworu, e nessun altro.
Stavolta, Shinji non avrà nessun altro da cui tornare. Nessuno dentro cui scomparire. Nessuno dentro il quale perdersi.
Stavolta, finalmente, Kaworu riuscirà a renderlo felice.
Genere: Romantico.
Pairing: Kaworu/Shinji/Asuka.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: AU, Lime, Threesome, Slash, Het, Flashfic.
- "Kaworu, ti ha mai detto nessuno che non dovresti mai parlare?"
Note: Scritta su istigazione criminale della Caska in occasione della VI Notte Bianca, su prompt Evangelion, Kaworu/Shinji/Asuka, "Credevo non fossi disposta a dividerlo."
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CAN’T SAY NO

La voce di Kaworu risuona morbida all’interno dell’ambiente chiuso della camera da letto di Shinji. Fa caldo – come sempre – dalla finestra chiusa i raggi del sole filtrano disegnando sagome buffe sul pavimento e sulle pareti e sul futon e sui loro corpi, e questo non era decisamente l’orario giusto per mettersi a fare qualcosa del genere, e quella non era decisamente qualcosa da dire in un momento come questo.
Ogni tanto Kaworu è semplicemente inopportuno. Rei dice che è sempre stato così – Rei, d’altronde, lo conosce meglio di tutti loro – che fin da piccolo ha sempre avuto un talento speciale per dire la cosa peggiore nel momento più sbagliato in assoluto, o anche la cosa migliore in un momento ancora più sbagliato, se possibile, e difatti la scia di silenzio che spesso Kaworu si lascia dietro ogni volta che apre bocca non fatica a ripresentarsi neanche in questo momento.
Shinji ricorda ancora la prima volta che Kaworu gli ha detto di volergli bene. Ricorda che per minuti interi non è neanche riuscito a registrare le sue parole come fossero reali, era come se il suo cervello stesse cercando di convincersi di non averle sentire per davvero. Suonavano così strane, sulle labbra di un altro ragazzo. Suonavano strane sulle labbra di un qualsiasi essere umano, per la verità, considerato il fatto che Shinji, fino a quel momento, non le aveva mai sentite pronunciare da nessuno. Ogni tanto ha la sensazione che sua madre gliel’abbia detto, ma d’altronde era troppo piccolo per poterlo ricordare precisamente, ed Asuka, be’, lei generalmente gli dimostra amore prendendolo a calci negli stinchi, non è esattamente tipo da sdolcinatezze simili. Non è che Shinji se ne lamenti, o meglio, sì, se ne lamenta, ma non è che possa farci niente, Asuka è così e lui per lei si getterebbe in un vulcano senza pensarci due volte – probabilmente perché si vuole male, come Toji gli ripete spesso – per cui, insomma, è stato strano sentirselo dire così all’improvviso, senza neanche che ce ne fosse motivo, peraltro.
Prima di quel momento, Kaworu era sempre stato “il fratello di Ayanami”, era una figura pallida e un po’ indistinta, un buon amico, d’accordo, ma insomma, niente che potesse giustificare slanci sentimentali simili, e invece nel giro di una settimana, la catastrofe. A Shinji era piaciuto, sentirsi rivolgere parole simili. Per Asuka era stato un problema perfino concepire che lui potesse avere bisogno di conferme simili.
Insomma, la strada che l’ha portato verso Kaworu è una di quelle strade accidentate e scoscese che spesso capita di incontrare camminando in montagna, una di quelle che imbocchi perché ti senti un genio e invece sei un cretino, e ti convinci di aver trovato la via più facile per arrivare a valle, e invece a valle ci arrivi rotolando, e con tutte le ossa rotte. Nello specifico, la valle era il futon sul quale adesso si trovavano, tutti e tre sudati e appiccicosi e più confusi che persuasi dall’intera situazione, e le ossa rotte rappresentavano le botte che Asuka aveva dovuto rifilargli prima di riuscire a convincersi che potesse valere la pena tentarne.
- Kaworu, ti ha mai detto nessuno che non dovresti mai parlare? – domanda lei, abbattendosi contro il cuscino, le labbra arricciate in un broncio da morsi. La luce del sole risplende fra i suoi capelli, li accende come fossero lingue di fuoco. Asuka ogni tanto è spaventosamente bella. Sembra che a toccarla ci si debba sciogliere per avere osato sfiorare qualcosa di tanto sacro.
Kaworu, apparentemente imbarazzato da se stesso, sorride appena, stendendosi su un fianco ed appoggiando il capo sul palmo della mano aperta, il gomito ben piantato contro il cuscino per tenersi sollevato dal futon.
- Chiedo scusa. – dice compitamente, - Ero solo curioso.
È bellissimo anche lui, ovviamente, e se lo fosse il problema non si sarebbe nemmeno posto. C’è qualcosa di così rassicurante, nei suoi tratti somatici, qualcosa che lo accomuna a sua sorella – i cui tratti somatici sono talmente rassicuranti che, con grande imbarazzo da parte di tutti, Shinji non riesce a guardarla senza pensare immancabilmente alla propria madre – ed allo stesso tempo in lui c’è qualcosa di oscuro e misterioso, qualcosa che fa paura ed attrae allo stesso tempo, un po’ come Asuka.
Shinji, disteso in mezzo a loro, completamente nudo e senza sapere cosa farsene del suo corpo, si sente un cretino e si chiede se sia salutare innamorarsi perdutamente di persone che lo terrorizzano nel profondo.
Comunque non è un pensiero che rimanga preoccupante troppo a lungo, e non solo perché Shinji ha lo span d’attenzione di un pesce rosso: Kaworu solleva una mano e la appoggia sul ginocchio piegato di Asuka – il suo avambraccio sfiora con falsa casualità il ventre di Shinji, che sente lo stomaco contrarsi in un’imbarazzante vampata di voglia – e poi le sue dita risalgono lente e sensuali lungo le sue cosce, tracciando sulla sua pelle appena arrossata dal sole una linea invisibile ma dalla quale Shinji non riesce a staccare gli occhi.
- Fingiamo che non abbia mai chiesto niente? – domanda dolcemente, le dita che si insinuano senza difficoltà fra le cosce dischiuse di Asuka mentre Shinji si chiede se si possa morire per così poco.
Lei sorride, le labbra rosa piene e un po’ gonfie di baci, e solleva appena il bacino.
- Mi sembra un’ottima idea. – risponde.
Ed improvvisamente Shinji non ha più paura di niente – ma probabilmente è solo a causa del deflusso di sangue dal cervello.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Kaworu/Shinji.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: (accenni) Slash.
- "'Pensi che lo ricorderai ancora, fra dieci anni?'"
Note: Scritta per la Notte Bianca #2 @ maridichallenge su prompt Kaworu/Shinji, "ricordi quando ci siamo incontrati?".
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FLY AROUND IN CIRCLES

- Ricordi quando ci siamo incontrati? – chiese Kaworu. La sua pelle umida, ricoperta di goccioline e avvolta nel vapore caldo che ancora riempiva il bagno, sembrava brillare alla luce della lampada. Sembrava perfino ancora più pallida, quasi trasparente. Se solo avesse guardato con un po’ di attenzione in più, avrebbe sicuramente potuto scorgere l’intreccio delle vene e dei capillari delle sue braccia. Non doveva guardare con un po’ d’attenzione in più.
- Non è successo molto tempo fa. – rispose, stringendosi nelle spalle ed abbassando lo sguardo, chinandosi a recuperare la bacinella piena d’acqua ancora tiepida più per darsi qualcosa da fare che non perché ne sentisse realmente il bisogno. – Come avrei potuto dimenticarlo?
Kaworu sorrise appena, guardando ostinatamente un punto sulla parete di fronte a loro.
- Pensi che lo ricorderai ancora, fra dieci anni? – chiese ancora, invece di rispondere. Shinji aggrottò le sopracciglia, incerto.
- Che vuol dire? – borbottò, - Perché mi fai queste domande?
Kaworu si voltò a guardarlo molto lentamente. I suoi occhi erano così dolci. E spaventosi.
- Prometti che lo ricorderai, qualsiasi cosa accada. – disse in un sussurro, sporgendosi appena verso di lui. Shinji, pietrificato, non ebbe il coraggio di muoversi. Neanche quando le sue labbra lo sfiorarono, senza mai toccarlo davvero. – Promesso? – insistette Kaworu, allontanandosi. Sorrideva ancora.
Shinji annuì, incapace di parlare. Kaworu si alzò e, con estrema calma, recuperò un accappatoio nel quale avvolgersi, prima di uscire dal bagno senza più voltarsi indietro. Shinji, la gola secca e lo sguardo perso nel vuoto, strinse con forza la bacinella fra le dita e poi si versò l’acqua sulla testa.
Fanfiction a cui è ispirata: "Kindan no Sonata" di Caska Langley.
Genere: Romantico, Triste, Introspettivo.
Personaggi: Rei, Kaworu.
Pairing: Rei/Kaworu, Rei/Shinji (solo parzialmente).
Rating: R
AVVISI: AU, Spin-Off, Spoiler, Death.
- Mentre sta sorvegliando suo padre, nascosta nel giardinetto di casa sua, Rei incontra un ragazzo albino che le sconvolge letteralmente l'esistenza.
Commento dell'autrice: … Oddio, ma l’ho finita davvero?! XDDD Dunque, prima di tutto, questo è il regalo di Natale dalla liz per la sua adorata Caska <3 La Caska ha fatto tanto per la liz, nell’ultimo suo anno di vita, così tanto che la liz pensa non riuscirà mai a sdebitarsi, e la liz è ben lungi dal credere che questa modesta storiella possa in qualche modo ripagarla per tutto – anche perché questo presupporrebbe la storiella fosse anche solo vagamente piacevole XD Insomma, diciamo che più che altro è un atto di devozione e basta <3
Tra l’altro, notare come nell’arco di un anno io abbia scritto all’incirca tre fanfiction basate su storie di questa benedetta donna. O c’è qualcosa di sbagliato in me o… o non lo so, ma va bene lo stesso XD
Per tornare un attimo all’origine di tutto questo, come ho già detto all’inizio, ‘sta storia è uno spin-off di “Kindan no Sonata”, una shot AU in cui i ragazzi sono vampiri <3 E’ una storia assolutamente stupenda, ma io ho sentito la mancanza di Kaworu, là in mezzo XD Perciò l’ho messo qui <3 Dando finalmente spazio a quello che, nonostante la furia slasher degli ultimi mesi, rimane uno dei miei fandom preferiti, ovvero il KawoRei. Poi comunque diciamo che io amo Kaworu forse troppo (ma no, non è mai abbastanza <3<3<3), e quindi tendo a infilarlo un po’ ovunque. E a parlarne in ogni storia come se fosse una specie di Dio ._. /liz è limitata, perdonatela. Insomma, ogni volta che lo descrivo sembra stia facendo una dichiarazione d’amore, sono quasi patetica XD ma va bene anche questo, oh ù____ù
Inoltre :O l’idea per questa storia è nata grazie al tema numero uno della community 52Flavours, “Five shades of white”, che poi dà anche il titolo a tutta la roba.
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FIVE SHADES OF WHITE
#1. Five shades of white


.SNOW


D’improvviso, si mise a piovere.
Concentrata com’era sulla finestra di casa sua – di quella che un tempo era stata anche casa sua, di quella che ora era casa di suo padre – in un primo momento lei neanche se ne accorse. Le gocce, prima debolmente, poi con insistenza sempre maggiore, le si schiantarono addosso lasciandola assolutamente indifferente, per molti minuti.
Suo padre, all’interno della casa, stava preparando un tè.
Non ricordava di avergli mai visto preparare un tè, prima di allora. Credeva che una cosa del genere non potesse in alcun modo piacergli. Così liquida, così dolce, oppure così amara.
In effetti, però, il tè era anche una cosa molto calda.
Quindi sì, non c’era dubbio che suo padre dovesse amarlo proprio tanto.
Si rammaricò di non averlo mai capito prima… e poi la pioggia cominciò a farsi fastidiosa, perciò si rifugiò dietro ai cespugli del giardino, sotto il ciliegio ormai nudo che provava, per quanto potesse, a ripararla coi rami.
Suo padre si sedette al tavolo della cucina, la tazza piena di tè fra le mani.
Poi si fermò.
Hai dimenticato il limone, gli ricordò mentalmente Rei, sorridendo fra sé.
Come l’avesse sentita, Gendo si alzò in piedi e raggiunse il cestello porta-vivande accanto al frigo. Guardò attentamente tutti i limoni accatastati l’uno sull’altro, scelse il più ovale, prese un coltello dal cassetto a tornò a sedersi.
Adesso è tutto a posto, mh, papà?
Sì, era tutto a posto. Suo padre sorseggiava il suo tè, tranquillo e soddisfatto, lentamente, assaporandolo.
Lei ebbe così tanta voglia di entrare che si sentì male.
Scosse il capo.
Devo allontanarmi un po’. Sono giorni, ormai, che sto qui fuori. Devo smettere di pensarci per un po’, tornerò poi, o questa voglia stupida non passerà mai.
Si alzò in piedi, senza alcuna cautela.
E infatti qualcuno la vide.
Un ragazzino. Un ragazzino fradicio di pioggia, che al primo sguardo la terrorizzò.
Cacciò un urletto, facendo un passo indietro e scivolando sul fango, per poi cadere di schiena sull’aiuola. Lui la guardò per tutto il tempo, non un’ombra di stupore negli occhi, non una scheggia di agitazione. Teneva le mani strette a pugno attorno alle bretelle dello zaino, e continuava a fissarla come… come fosse del tutto normale vedere una ragazza spuntare all’improvviso dal giardino privato nel quale si era nascosta.
Avanti, Rei, si disse, sorridendo amaramente, sei un vampiro, infondo. Non puoi spaventarti così per un semplice ragazzo albino.
- Ti sei fatta male? – le chiese lui, con un lieve sorriso sulle labbra, porgendole una mano al di là del muretto, per aiutarla ad alzarsi.
Lei fissò la mano e poi si sollevò da sola.
- No. Sto bene.
- Scusa se ti ho spaventata… non volevo.
- Non mi hai spaventata affatto.
Lui sorrise condiscendente, socchiudendo gli occhi.
Fu in quel momento che lei realizzò che doveva essere più grande di quanto non dimostrasse il suo aspetto.
- Comunque dovresti essere tu quello spaventato. Vedermi uscire così all’improvviso…
- In realtà sapevo che c’era qualcuno qui.
Sussultò.
- Mi… mi hai vista?
Lui scosse il capo. Arrossì lievemente, ma sulla sua pelle chiarissima il rossore risaltava come fosse trucco.
- Però… insomma, sapevo che c’era qualcuno.
Si era accorto della sua presenza, dunque.
Lei non l’aveva mai sentito.
Ma era anche vero che lei aveva smesso di sentire moltissime cose, e da molto tempo ormai.
- Capisco. – disse atona, scavalcando agilmente il muretto e atterrando in piedi sull’asfalto, proprio accanto a lui, - Be’, arrivederci.
Si incamminò lentamente verso il lato opposto del marciapiede, ficcando le mani in tasca e stringendosi nelle spalle, cercando di ignorare la pioggia battente.
- Dove vai? – le chiese lui, dopo un po’, senza urlare, ma con voce abbastanza alta e chiara perché lei potesse sentirla, nonostante la pioggia e la distanza.
Si voltò appena, squadrandolo con diffidenza da sopra la spalla.
- Che ti interessa?
- Posso accompagnarti?
Ghignò, mostrando i canini.
- Perché dovresti?
Lui non sembrò notare l’anomalia dei suoi denti. Probabilmente era troppo lontano.
- Ho un po’ di tempo. – rispose tranquillamente, muovendo qualche passo verso di lei, - E tu mi interessi.
- ...
- Non c’è bisogno che mi parli. Posso seguirti?
- Ragazzino, non ti sembra di essere un po’ importuno?
Lui le sorrise, porgendole la mano destra.
- Mi chiamo Kaworu. Ho quindici anni. Piacere.
Ancora una volta, adocchiò con diffidenza la mano bianca che si tendeva verso di lei, e poi la ignorò, scuotendo le spalle.
- Non penserai che mi presenti solo perché l’hai fatto tu per primo, vero?
Kaworu ridacchiò, profondamente divertito, stringendosi nelle spalle.
- No, no, non sono un illuso. Allora? Posso seguirti?
Sbuffò.
- Non me ne importa un accidenti. – concluse infastidita, voltandosi.
Mentre ricominciava a camminare, tese le orecchie. Per qualche secondo non sentì nulla oltre alla pioggia e al rumore dei suoi tacchi sull’asfalto, e non seppe se sentirsi sollevata o delusa. Poi, lentamente, le suole di gomma delle sneakers delle ragazzino cominciarono a gracchiare sulla strada bagnata.
E non c’era nessun dubbio nel sorriso che le nacque sulle labbra, quando scosse il capo e si rassegnò alla sua presenza.
*

- Perché proprio qui?
Sospirò, mettendo le mani sui fianchi.
- Avevi detto che non avremmo parlato.
Lui sorrise, avvicinandosi a lei.
- Avevo detto che potevi non parlarmi, se volevi. Non ho detto che non avrei chiesto niente.
- Fai il furbo, mh? – ghignò lei, - Tanto non mi freghi.
Lui scoppiò a ridere.
- Non voglio fregarti. Voglio solo parlare un po’ con te.
Rei sbuffò, tornando a guardare il muro rosso mattone davanti a lei.
- Era la mia scuola. – confessò, malinconica.
- Davvero? – chiese lui, retorico, stringendosi nelle spalle per il freddo.
Lei sorrise.
- Entriamo? – propose, adocchiando l’entrata poco distante.
- Perché no? – annuì lui, dirigendosi a passo spedito verso il cancello e cominciando agilmente a scalarlo.
Lei lo osservò da lontano, le braccia ancora incrociate sul petto, il sorriso ancora sulle labbra.
E va bene, si disse, scrollandosi un po’ di pioggia dai capelli e arrampicandosi a sua volta sulle grate di ferro.
Quando fu in cima, guardò in basso. Kaworu sorrideva, aveva allargato le braccia e sembrava solo in attesa di prenderla.
Ghignò, si sbilanciò lievemente in avanti e atterrò proprio al suo fianco, sorridendo soddisfatta.
- Sei un gatto? – le chiese lui, ridacchiando divertito.
- Sono un ninja. – rispose lei avviandosi tranquillamente verso il portone dell’edificio.
- No, non da quella parte.
Lei si fermò in mezzo al viale, e gli lanciò uno sguardo dubbioso.
- Il portone è chiuso. – spiegò lui, scrollando le spalle.
- Questo lo sapevo anche da sola, è ovvio. Stavo pensando di scassinarlo, in qualche modo.
- Sì, magari con una forcina, che fa tanto spy-movie. – ridacchiò Kaworu scuotendo il capo.
- Che fai, sfotti? – disse Rei con una smorfia, infastidita.
- No, no. È che non capisco perché vuoi prendere la strada più difficile quando c’è la porta sul retro che ha la serratura rotta.
- …non era così, quando venivo qui.
Lui annuì.
- Ormai è così da un paio d’anni. Figurati che dentro hanno rubato tutto il possibile, ormai non interessa più a nessuno. C’è solo qualche banco rotto e qualche lavagna inchiodata al muro che non sono riusciti a staccare.
- Vuoi dire che è abbandonata…?
Kaworu annuì tranquillo, sempre sorridendo.
- La mia classe non è neanche arrivata a diplomarsi in questo edificio. Siamo stati tutti smistati in altre scuole.
- Quindi anche tu hai fatto qui il liceo…
- Già, per quanto ho potuto. Magari eri anche una mia sempai.
- Non credo proprio. È passato molto tempo.
- Avanti, non essere crudele con te stessa, mi sembri giovane. Avrai un anno in più di me? Due?
- Ho quasi trent’anni.
Lui spalancò gli occhi.
- Che…?
- Ti sembro ancora giovane?
- Be’… in tutta sincerità, sì… ti… ti mantieni bene, devo dire… sarai mica stata conservata nel ghiaccio fino a oggi…?
- Aaah, non fare umorismo su questa cosa! È così di cattivo gusto! Sei proprio un ragazzino…
Kaworu rise di gusto, incamminandosi lungo un sentiero laterale sterrato e scavato nell’erba gialliccia e bagnata.
- Adesso dove vai?
- Che fai tu ancora ferma là, semmai. Dai, vieni, entriamo.
- Entriamo… - mormorò lei rassegnata, seguendolo.
Kaworu aveva l’aria di essere un trascinatore. Uno di quelli cui va dietro tutta la classe, che affascina le ragazze e riempie d’ammirazione i ragazzi, uno di quelli di cui la protagonista femminile degli shoujo manga è già perdutamente innamorata ancora prima che la storia cominci, e che è amico di tutti gli altri comprimari maschili, e che magari ha anche un fan club nella scuola privata femminile accanto al suo liceo.
Kaworu aveva l’eleganza.
Si muoveva con grazia, era sinuoso, era sicuro di sé, sembrava maturo. Aveva un bellissimo viso, un ovale perfetto, e gli occhi, per quanto dal taglio tipicamente giapponese, erano grandi e lucidi, luminosi, nonostante il colore inusuale, e i capelli erano lunghi e lisci e spettinati, erano quasi artistici, sembrava un’acconciatura da pubblicità.
Il cappotto lungo e nero gli dava un’aria misteriosa, la pelle nivea lo faceva sembrare un angelo, lo zaino tenuto diligentemente sulle spalle rafforzava la già palese aura di giovinezza che lo circondava e…
…in generale, sembrava proprio un ragazzo perfetto.
Ma che ci fa un ragazzo perfetto sotto la pioggia a fissare un giardino, in attesa che ne esca fuori qualcosa perché ha sentito che qualcosa c’è? Che ci fa un ragazzo perfetto senza una ragazza perfetta attaccata al braccio?, una ragazza perfetta con cui studiare, e scopare, e andare per club, e da presentare ai genitori? Che ci fa un ragazzo perfetto assieme a lei, nel cortile sul retro di una vecchia scuola di mattoni rossi, talmente insignificante e vuota e diroccata che le sembra assurdo averne mantenuto perfino il ricordo?
- Allora, vieni? – la richiamò lui socchiudendo la scardinata porticina in metallo arrugginito che era la gloriosa “entrata sul retro” della sua vecchia scuola.
Lei annuì e gli si mise alle calcagna.
All’interno, Kaworu sembrava perfettamente a suo agio.
Lei, invece, si sentiva costantemente scossa dai brividi.
- Che hai? – le chiese lui, spaventato dai suoi tremori.
- Niente. Ho solo un po’ di freddo.
Annuendo premuroso, lui si tolse il cappotto e glielo porse.
- Non ho bisogno di questo coso. E poi è tutto bagnato.
- Mi dispiace, è tutto quello che posso darti…
- Be’, allora non c’è niente che tu possa darmi che possa servirmi a qualcosa.
Lui sorrise amaramente, abbassando lo sguardo e il braccio che ancora teneva il cappotto – che cominciò a strisciare per terra.
Rei lo guardò e sbuffò, strappandogli con malagrazia l’indumento dalle mani e gettandoselo sulle spalle.
- Va bene, così?
Kaworu tornò a sorridere allegramente.
- Sì.
- Certo che sei proprio un bambino… vedi tu se devo stare appresso ai capricci e ai bronci di un adolescente…
- Non fare tanto la superiore, adesso! – rise Kaworu, scuotendosi tutto come un campanellino mosso dal vento, - Anche se mi hai detto che hai quasi trent’anni, a me sembri proprio un’adolescente anche tu!
Ma è perché lo sono, Kaworu.
Da qualche parte dentro il mio cervello, da qualche parte dentro il mio stomaco, da qualche parte dentro ai miei polmoni e da qualche parte dentro al mio cuore, da qualche parte dove Shinji non è riuscito a toccarmi, da qualche parte dove ancora i ricordi di lui non hanno preso il sopravvento su qualsiasi altro ricordo, assieme ai suoi baci rudi e ai suoi tocchi violenti e alle sue parole astiose, in quel piccolo punto ancora libero e puro di me, Kaworu, io sono ancora un’adolescente.
Grazie a Dio.

- Ah! Guarda! Nevica!
Con un balzo impetuoso e infantile, Kaworu si affacciò a una finestra dai vetri rotti e guardò fuori, fra i fiocchi congelati che cadevano a terra, imbiancando il terriccio giallastro del cortile e i radi cespugli secchi, e più in là la strada, le case, i palazzi più alti come quelli più piccini.
- Che bello! Usciamo fuori!
- Ma… siamo appena entrati… - protestò lei, stringendosi di più nel cappotto, - E poi io voglio vedere la scuola!
- Possiamo vederla domani, dai! – la incitò, porgendole la mano, - Usciamo!
Lei si tirò indietro, guardandolo in cagnesco. Lui scrollò le spalle.
- Come vuoi, non prendermi per mano. Ma usciamo fuori, dai.
E così dicendo, s’avviò entusiasta verso il cortile, senza mai guardarsi indietro.
Rei lo seguì poco dopo, e quando uscì all’esterno il cortile era già bianchissimo. Le neve leggerissima cadeva su tutto, e copriva tutto. Le si incastrava fra i capelli, sciogliendosi subito dopo e raccogliendosi sulle punte in enormi goccioloni in fremente attesa di lanciarsi in caduta libera verso il suolo, e poi le cadeva sulle spalle, dove lasciava piccolissime macchie traslucide sul tessuto del cappotto, e le cadeva sul naso, facendole il solletico, lasciandola sperare che magari il sangue sarebbe affluito alla pelle, cercando di riscaldarla, rendendola lievemente arrossata, ma no, si disse, Rei, non t’illudere, bianca sei e bianca rimarrai, la neve può renderti solo ancora più pallida.
Anche Kaworu era bianchissimo. Gironzolava nel gelo con disinvoltura, nonostante non avesse più il cappotto.
Chissà perché, pensò fosse semplicemente normale, per un tipo come Kaworu, comportarsi così.
E guardandolo correre allegramente da un lato all’altro del cortile, scuotendo i rametti scheletrici dei cespugli per scrollar loro di dosso la neve e tirando calci alla terra gialla perché si mischiasse all’acqua ghiacciata e biancastra, guardandolo ridere, guardando i suoi occhi vispi saettare ovunque, su di lei, sugli alberi, sulla strada, nel cielo, guardandolo perdersi in quel divertimento supremo e assurdo, si sentì più morta che mai.
- Che bello! – disse lui, gioioso, tornandole accanto, col fiatone, senza neanche sfiorarla, - E’ come se nel mondo ci fossimo solo io e tu.
Io ho l’impressione che solo tu esista davvero, Kaworu, pensò malinconica, stringendosi nelle spalle.
*

- Scusa, quindi adesso cosa intenderesti fare? Nasconderti dietro ai cespugli come prima e… rimanere qui tutta la notte?
Annuì.
- Ho fatto così da quando sono arrivata, non vedo perché dovrei smettere ora che sei arrivato tu. E poi comunque dovresti tornartene a casa, i tuoi genitori saranno in pensiero.
Kaworu sorrise.
- Sì, hai ragione. Ma tornerò domani!
- Non ci provare neanche. Non mi farò vedere.
- Ah! Ma perché devi essere così scostante?
- E tu perché devi essere così invadente, invece?
Il ragazzo ridacchiò.
- Immagino sia una questione di prospettive. Comunque tornerò, la strada oltre il muretto è suolo pubblico e non puoi impedirmi di venire.
- Fa’ un po’ come vuoi, per quello che mi interessa…
- Ok. – sorrise lui, annuendo. – Comunque devi ancora dirmi come ti chiami.
- …se avessi voluto dirtelo, te l’avrei detto quando ti sei presentato.
- Uhm… hai ragione. Però guarda che se non mi dici come ti chiami ti ribattezzo io. E ti avverto, corri il rischio di sentirti chiamare qualcosa come Chiquita per tutto il resto dei tuoi giorni…
- Che razza di nome è Chiquita?!
- Be’, il mio pappagallo si chiamava così. Cioè, in realtà si chiamava Cocorita come tutti i pappagalli normali, solo che mio padre non si è mai preso la briga di imparare il suo nome corretto, e invece di insegnargli che quando gli chiedevano “come ti chiami?” doveva rispondere “Cocorita” gli ha insegnato a rispondere “Chiquita”, e da quel momento…
- Mi chiamo Rei.
Kaworu s’interruppe, guardandola attentamente negli occhi.
- Piacere, Rei. – disse, porgendole la mano.
Mano che, ancora una volta, lei ignorò. Gli voltò le spalle e scavalcò con un balzo il muretto, tornando ad acquattarsi dietro i cespugli.
- Adesso vattene via.
- Ma sei sicura che starai bene, qui?
- Starò benissimo. E riprenditi questo dannato coso. – borbottò, sfilandosi il cappotto dalle spalle e porgendoglielo col braccio teso.
Lui sorrise.
- No, tienilo tu.
Lei neanche provò a insistere.
Desiderava quel cappotto come avrebbe potuto desiderare di tornare quella che era, se solo fosse stato possibile e lei non fosse stata così rassegnata.
Kaworu la salutò allegramente e scomparve dietro un angolo, lasciandola sola, avvolta nel suo profumo e nel suo calore come se la stesse abbracciando.
Kaworu profumava di gelsomino. Una fragranza insolitamente dolce per un uomo, ma a lei piaceva moltissimo.
Guardò la finestra sulla cucina, intravedendo suo padre curvo sul tavolo, intento a risolvere un cruciverba mentre il telegiornale davanti a lui parlava a vuoto di qualcosa di molto grave accaduto dall’altro lato dell’oceano.
Sono tornata, papà, pensò, accomodandosi meglio sulle radici del ciliegio, stando attenta a non bagnarsi i pantaloni, ti sono un po’ mancata?
Papà, ho conosciuto un ragazzo. Probabilmente ti sarebbe piaciuto. Ha più o meno la mia stessa età. O almeno, ce l’avrebbe se io avessi davvero l’età che dimostro.
È molto carino, papà.
Mi sembra un bravo ragazzo.
Forse un giorno potrei tornare, e potrei fartelo conoscere, e faremmo il tè, e tu ci chiederesti una stupida definizione delle parole crociate, una cosa cui non sai rispondere e che magari ti serve per terminare il tuo cruciverba, e noi ti risponderemmo all’unisono perché la sapremmo entrambi, e poi rideremmo e io ti prenderei magari un po’ in giro come non ho mai fatto, e forse finalmente il nostro sarebbe un rapporto rilassato, come mi sembri anziano, papà, come mi sembri anziano… devo decidermi a tornare, prima o poi, devo assolutamente decidermi, prima o poi, papà…

All’interno della casa, Gendo continuava a mordicchiare la penna, senza sentire neanche il bisogno di sbirciare a un palmo dal suo naso.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste.
Personaggi: Misato, Shinji.
Pairing: ShinjixKaworu (ma pochissimo), ShinjixAsuka (ma davvero, pochissimo XD).
Rating: PG
AVVISI: Shounen-ai (LIEVISSIMO, PRATICAMENTE IMPALPABILE), What If?.
- Dopo aver ucciso il diciassettesimo angelo, Shinji rimuove totalmente dalla sua memoria qualsiasi avvenimento collegato alla comparsa, alla presenza e alla sparizione di Kaworu. Misato lo sa. E non sa se esserne felice o triste.
Commento dell'autrice: Voglio ritornare a scrivere oneshot di tre pagine ç______ç””” Non è possibile scrivere cose così lunghe con soggetti inconsistenti come quello che ho usato per questa storia ._.” Non sono normale!
Dunque, questa storia è nata in un lampo d’ispirazione leggendo uno dei temi della Fanfic100 writing community che, se non lo sapete, è la versione italiana di quella originale inglese e consiste nello scrivere cento fanfiction ispirate dai temi proposti e incentrati sullo/gli stesso/i soggetto/i di cui s’è fatto il claim. Io ho claimato il fandom di Neon Genesis Evangelion <3 Perché lo amo <3 E non ha senso che io abbia scritto così poco su una serie che amo tanto e sulla quale c’è tanto da dire al di là degli sviluppi romantici dei rapporti sentimentali >.<
In questa storia sono andata un po’ a spingere con l’immaginazione, lo ammetto XD E’ lievemente assurda, come ipotesi, anche se, voglio dire, dopo la puntata ventiquattro ci sono la venticinque e la ventisei (ma no :O!) che non è che diano tante indicazioni su *cosa* sia accaduto al di fuori della mente di Shinji XD Non fosse esistito il film (<3) non l’avrei vista come un’ipotesi così assurda, in fondo.
Oh, insomma.
Devo smetterla di blaterare XD
Misato probabilmente è OOC O_ò A me non pare, ma d’altronde se mi fosse parso mi sarei organizzata per evitare che lo fosse (…). Invece questo Shinji puccioso tutto occhioni e sguardi carucci non so, sinceramente, da dove sia uscito XD Anche perché io Shinji a stento lo tollero XD Però la sua apparenza è effettivamente kawaii ._. Quindi niente. Questo è quanto. Adesso la smetto di parlare. Tanto sto dicendo robe senza senso XD
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AMNESIA
Prompt#76. Chi?


Mentirei se dicessi che sarei felice, se Shinji-kun recuperasse la memoria.
E mentirei anche se dicessi che mi dispiace che l’abbia persa.
Così come mentirei se dicessi che non avrei preferito che il diciassettesimo angelo fosse arrivato sotto forma di qualche altro essere dall’aspetto alieno e buffo o quantomeno strambo.
E mentirei ancora se dicessi che non avrei trovato più delicato se Kaworu-kun, piuttosto che diventare tanto amico di Shinji-kun, fosse riuscito a farsi odiare.
Si sarebbero risolti in partenza un sacco di problemi. Non ci sarebbe stato coinvolgimento affettivo. Shinji-kun non sarebbe stato costretto a uccidere un essere umano – anche se umano non era. Non sarebbe stato costretto a uccidere proprio lui.
Sarebbe stato davvero meglio se il diciassettesimo angelo fosse stato un gigante dai colori sgargianti e dall’apparente molliccia consistenza. Diamine, combatterlo avrebbe potuto rivelarsi perfino divertente. È già successo in passato. Nonostante tutta la tensione e l’angoscia e la responsabilità, progettare le strategie e preparare i ragazzi è stato spesso esilarante. Davvero.
Ma questo… questo è stato un colpo basso.
Questo è stato crudele.
E anche se capisco che probabilmente il modo in cui si sono risolte le cose è il migliore per tutti…
…e anche se mentire per me non è mai stato un problema…
…Shinji-kun apre gli occhi, ogni mattina, e mi si stringe il cuore.
Mi si stringe il cuore perché li vedo lucidi e spenti anche quando non lo sono.
E perché so che dietro quegli occhi manca qualcosa. Anche se lui non se ne rende conto.
Shinji-kun ha totalmente rimosso ogni avvenimento accaduto dalla prima all’ultima apparizione di Kaworu-kun. Non ricorda di averlo conosciuto, non ricorda di aver fatto amicizia con lui, non ricorda di aver dormito nella sua stessa camera, non ricorda di aver scoperto che era un angelo e, ovviamente, non ricorda di averlo ucciso.
Credo che in termini medici si chiami rimozione.
Credo sia una di quelle cose in grado di aiutare una mente fragile a non andare in frantumi quando si fa testimone di qualcosa di troppo terribile per poter essere normalmente ricordato.
E per quanto lo psicologo della clinica possa insistere nel cercare di convincermi che è un meccanismo di difesa utilizzato in maniera anomala e sbagliata, che dimostra che la mente di Shinji-kun è in una condizione di disagio e che sarebbe molto meglio per lui dedicarsi a una terapia per riuscire a recuperare questi ricordi perduti e accettarli senza per questo impazzire…
…io credo nell’utilità di questo sistema.
Io sono convinta che per Shinji-kun sia bene così.
Insomma, andiamo, un meccanismo del genere non può remare contro la sua sanità mentale! Non fa che difenderla! Non fa che proteggerla!
Ci sono cose… ci sono cose che anch’io avrei preferito rimuovere.
Shinji-kun è… fortunato.
E lo penso davvero.
Ma nonostante tutto questo…
…Dio, perfino credendo fermamente in tutto questo, anche io mi rendo conto che qualcosa non va.
Nei suoi sorrisi tristi e lontani… nella piega delle sue labbra, quando per un attimo, ogni tanto, il suo sguardo si oscura e cerca di ricordare senza riuscirci… nei suoi gesti lenti e ponderati… nei sospiri esasperati che si lascia sfuggire quando, annoiato dai tentativi senza riuscita, si getta sul divano e accende la tv per pensare ad altro.
Quelli sono i momenti in cui capisco che probabilmente la rimozione è la “scelta” migliore, oltre che la più conveniente, e magari l’unica possibile, ma…
…ma che non basta.
Come tutto, può servire solo a lenire appena il dolore.
Ad allontanarlo di qualche metro, per fingere di poterlo guardare con disprezzo da lontano.
Ma non lo cancella, né lo spazza via. Continui a sentire la mancanza di ciò che non hai, anche se non ricordi più quant’eri felice quando ce l’avevi.
Per Shinji-kun è così.
Io lo so.
Lo vedo.
È come se ci fosse un’enorme insegna luminosa sopra la sua testa.
C’è l’assenza, riflessa nei suoi occhi.
Anche se non sono occhi vuoti, non sono gli occhi di un pazzo e non sono gli occhi di un malinconico.
Solo gli occhi di un ragazzino che ha perso la parte migliore della sua adolescenza, e ancora neanche lo sa.
*

- Misato-san!
Sorrido, lievemente imbarazzata, mentre lo osservo scattare a sedere sul futon e tirare le coperte su fino al mento per coprirsi – e perché lo faccia credo lo sappia solo lui.
- Ben svegliato, Shinji-kun. – azzardo, agitando una mano in segno di saluto.
- Cosa ci fa qui…? – chiede lui, titubante, stringendosi nelle spalle.
È così piccino, soprattutto in questo momento…
Mi domando quando si deciderà a crescere come tutti gli adolescenti normali, una buona volta.
- E’ ubriaca, vero?
Ridacchio.
- Ma nooo! – be’, solo un po’, forse. Ma come scusa, vista l’assurdità di quello che sto facendo, potrebbe essermi utile. - Volevo solo fare un po’ di conversazione!
Il suo sguardo vaga agitato dal mio viso all’orologio a muro, per poi ritornare nuovamente su di me.
- …alle tre del mattino…?
Per tutta risposta, faccio per dargli una pacca sulla spalla, ma la mia manata arriva troppo forte, e lui cade di schiena, rotolando sul tatami.
- Ahi… - si lamenta, massaggiandosi il braccio e cercando di rimettersi seduto sul futon.
Non è solo piccino, è anche incredibilmente magro.
A guardarlo così sembra impossibile che un tipino tanto sottile possa governare un gigante come lo 01.
- Misato-san, avrei sonno…
- Sì, sì, - lo rassicuro, agitando una mano, - ci vorrà solo qualche minuto. Volevo chiederti… com’è che stai?
Shinji-kun spalanca gli occhioni, che brillano di curiosità e sospetto nel buio della stanza.
- Sto… bene… - azzarda sospettoso, guardandomi dal basso verso l’alto, - Perché me lo chiede?
- Pura curiosità! Assolutamente!
Dubbioso, arriccia le labbra.
- Misato-san…
Non ha bisogno di fare granché per farmi sentire scoperta.
Gli basta guardarmi così, con quel sopracciglio lievemente inarcato, come non credesse a una parola di quello che dico, per fare vacillare le mie difese.
- Cos’è che vuole dirmi?
Abbasso lo sguardo, alla ricerca delle parole giuste.
Con Shinji-kun c’è sempre questo pericolo, in agguato. Il pericolo di dire qualcosa di sbagliato, o di troppo pesante perché possa reggerlo… o, al contrario, di troppo leggero perché possa accorgersene.
- Tu non… non hai ricordato niente, vero, Shinji-kun?
Lui sbuffa, rilassando le spalle e piegando il capo.
- Ancora con questa storia, Misato-san? – si lamenta, annoiato, agguantando le coperte e facendo per distendersi nuovamente sul futon, - Ho già risposto mille volte a questa domanda. L’ho detto a lei, l’ho detto al vice-comandante Fuyutsuki, l’ho detto a mio padre, l’ho detto a tutti i dottori con cui mi avete fatto parlare, non faccio che ripeterlo da giorni! Può smetterla, per favore, di insistere su questo argomento?
Lo osservo rintanarsi velocemente fra le coperte, mentre continua a lamentarsi senza guardarmi mai negli occhi.
Questo ragazzino è… così spaventato.
Così solo…
Da quando Asuka è in quelle condizioni in ospedale non l’ho più visto sorridere serenamente neanche una volta.
E anche se lo psicologo non ha fatto altro che ripetermi di non dire una parola riguardo quello che è successo, adducendo come motivazione il fatto che “se Shinji-kun dovesse recuperare quei ricordi dovrebbe essere soltanto perché lui stesso lo vuole fortemente, senza che lei si azzardi a forzarlo in alcun modo”…
…io ci voglio provare, a dargli una storia migliore. Una storia cui guardare con nostalgica dolcezza, perché possa ricordare di quando sorrideva, di quando giocava come un bambino, di quando era felice.
E anche se per fare questo dovrò inventare qualcosa di totalmente nuovo, be’, l’ho già detto, mentire non è mai stato un problema per me.
- Sai, Shinji-kun, nel periodo che non ricordi hai conosciuto una persona.
Ancora, lui spalanca gli occhioni, puntandomeli addosso, luminosi come fari.
- Chi? – chiede immediatamente, senza esitazioni.
E io so che in questo momento si sta aggrappando a qualche strascico di ricordo che gli veleggia nella mente. Una qualche traccia di un qualcosa di vago che somiglia a un’immagine, o forse a un suono, e non è niente di tutto questo, niente più che un bruscolino di polvere fra un pensiero e l’altro.
Il semino di qualcosa che germoglia sottoterra.
Qualcosa cui basta un colpetto dal basso, per tornare in superficie.
- Un ragazzo. Kaworu Nagisa.
La luce nei suoi occhi trema per un istante, mentre incrocia le gambe e si accomoda sul futon, appoggiando il mento sulle mani giunte e i gomiti sulle ginocchia.
- Un tuo compagno di classe.
- …un nuovo compagno?
- Esatto.
- Trasferito?
- Proprio così.
Riflette un po’, piegando le labbra in una smorfia dubbiosa.
- Ma Misato-san, la città non era stata evacuata?
Ahi.
Forse sono un po’ troppo brilla per dirigere un teatrino così complesso.
E adesso come mi salvo…?
- Ehm… era stato individuato come un possibile nuovo children.
Un altro lampo negli occhi.
Il riflesso di una plug-suit nera…?
- Il fifth children.
- Sì.
Sospira e abbassa lo sguardo, digerendo l’informazione con difficoltà e scetticismo.
Non sto cercando di farti ingoiare un mattone, Shinji-kun! Vorresti provare ad essere un po’ più collaborativo?!
- Misato-san, - sbuffa, tornando a guardarmi con una smorfia seccata sul volto, - perché mi sta parlando di tutto questo?
Prendo un respiro profondissimo, sperando lui non si accorga della mia incertezza.
- Eravate molto amici. – spiego, fissandolo negli occhi.
Lui ha un attimo di esitazione, e stringe le labbra, mordendosi l’interno della guancia.
- Amici…? – chiede, incitandomi a continuare.
Io annuisco ma non aggiungo altro, anche perché non avrei nient’altro da aggiungere. Torturandomi nervosamente le dita, mi chiedo quale potrebbe essere la sua reazione, e nel frattempo lo guardo con attenzione, alla ricerca di un qualche segnale sul suo volto che possa svelare la presenza di un ricordo meno confuso nella sua testa.
Ma non ce n’è.
Nei grandi occhioni blu, solo nebbia.
- Va bene… - concede, incerto, con un lievissimo cenno del capo, - ma continuo a non capire… che fine ha fatto questo Kaworu Nagisa – per ricordare il nome non hai avuto bisogno di sentirlo ripetere nemmeno una volta, eh, Shinji-kun? – e perché… perché lei me ne ha voluto parlare… anche se ora non c’è più…?
Mi mordicchio un labbro, cercando le parole – o almeno una nuova menzogna che sia abbastanza convincente.
- Dal momento che non c’è più stato bisogno di lui, è stato rimandato a casa.
- Oh…
- E, Shinji-kun, te ne ho voluto parlare perché…
- …
- …perché… mi dà fastidio… che tu non sappia… che c’è stata una persona che ti ha veramente voluto bene. Che ti ha apprezzato per quello che eri, che sei, e che ha detto di tenere a te.
Mi guarda stupito, le labbra dischiuse e lievemente lucide, le sopracciglia inarcate come se qualcosa dentro di lui stesse lottando disperatamente per far emergere sul suo volto una traccia di tristezza mentre il suo cervello oscurato non ne capisce il motivo.
- Va… va bene, Misato-san. – ripete, sorridendo un po’ in imbarazzo, - Grazie.
Non so se stia ringraziando per educazione o perché davvero sente di dovermi qualcosa.
Non so se sono davvero riuscita a fare qualcosa per lui, in fondo.
Se non altro, sono felice di vedere che né le mie rivelazioni né le mie menzogne sembrano essere state in grado di ferirlo. Se non ci sono progressi positivi, è già qualcosa che non ce ne siano di negativi, per come la vedo io.
Mi alzo da terra, augurandogli la buona notte e osservandolo fissarmi da seduto fino a quando non sono uscita dalla stanza.
*

Oggi andiamo a trovare Asuka.
Non abbiamo dei giorni programmati per farlo. Non ci siamo detti “bene, da oggi una volta a settimana, ogni mercoledì, andremo a trovarla in ospedale”. Però ci andiamo abbastanza spesso. Forse anche più di una volta a settimana. Siamo piuttosto solerti, in questo senso.
Non che questo significhi qualcosa, per Asuka. Soprattutto nelle condizioni in cui è. Anche se personalmente ho qualche dubbio che significherebbe qualcosa, anche se fosse cosciente.
Non è per cattiveria nei suoi confronti, è che spesso ho avuto l’impressione, mentre vivevo con lei, che per Asuka sarebbe stato molto meglio non avere intorno né me né Shinji-kun. O almeno, non so se per lei sarebbe effettivamente stato meglio, ma sicuramente ne avrebbe avuto l’impressione. Si sarebbe sentita meno asfissiata, più libera, più… indipendente, forse.
Oddio, non lo so.
Certe volte mi chiedo che razza di demonio debba avermi consigliato per convincermi a prendere in casa non uno ma ben due adolescenti. È così chiaro e lampante che non ne capisco niente che mi stupisco che Ritsuko non mi abbia creduta ubriaca, quando l’ho detto, e non mi abbia trascinata per i capelli in una qualche cella di sicurezza nella quale rinchiudermi in attesa che mi fosse passata la sbornia.
…comunque Shinji-kun sembra tenere a queste visite, e quindi, che Asuka voglia o meno, è lì che andiamo – più spesso che in qualsiasi altro posto.
Non so se sarei così costante, se non ci fossero gli occhioni di Shinji-kun a ricordarmi costantemente “E’ l’ora di andare”, guardandomi come se mi stesse rimproverando di non averci già pensato io per conto mio.
Questo dovrebbe farmi riflettere, immagino.
Non sulla mia validità come tutrice, figurarsi, non faccio che pensare di essere una pessima tutrice.
No, ma su quanto Shinji-kun sia diventato importante per scandire passo dopo passo i momenti della mia vita. Sono i suoi ritmi che danno senso ai miei. Mangio perché mi rendo conto che lui ha fame, dormo perché lui sta dormendo e quindi non è in giro e non posso tenergli gli occhi addosso, lavoro perché so che lui è a scuola e si sta tenendo impegnato, e mi sembrerebbe di tradire i suoi sforzi se non mi tenessi impegnata anch’io.
È così.
E questo è strano.
Anche se mi sembra normale. E anche se non me ne importa poi molto.
- Misato-san, dobbiamo girare adesso. – mi informa atono Shinji-kun, indicando con un ditino appena sollevato l’uscita dell’autostrada ad appena un paio di metri da noi.
- Ah! Hai ragione! – grido allarmata, desiderando sprofondare in un buco nero per l’imbarazzo e sterzando vigorosamente a destra.
- E’ piuttosto distratta…
- Ho tanti pensieri per la testa… - mi giustifico, ridacchiando stentatamente mentre in lontananza comincio a scorgere l’austera sagoma della maestosa clinica privata in cui è ricoverata Asuka.
È un edificio davvero magnifico. Asuka sarebbe molto contenta di essere stata messa in un posto simile, piuttosto che in uno squallido ospedale pubblico.
…anche se, immagino, sarebbe stata molto più contenta di non aver avuto bisogno di alcun trattamento. O di non essere affatto in coma.
Shinji-kun si catapulta giù dall’auto prima ancora che abbia spento il motore, e si dirige a passi svelti verso l’entrata, rispondendo al saluto allegro delle infermiere che lo incontrano lungo il tragitto, e che ormai conoscono entrambi più che bene.
Mi prendo il mio tempo prima di corrergli dietro, e perdo qualche secondo a osservare il lussureggiante giardino che circonda la clinica. È pieno di pazienti in libera uscita che si concedono un’oretta d’aria, accompagnati o controllati a vista dal vigile occhio delle infermiere, disseminate strategicamente per tutto il perimetro del luogo.
A Shinji-kun piace stare un po’ da solo con Asuka.
Posso solo immaginare perché, ma non credo di andare tanto lontano dalla verità, quando credo sia perché Asuka in questo momento è la persona più importante in assoluto per lui.
Sospirando malinconicamente e ripetendomi in testa “ah, l’amore, ah, l’adolescenza” come fossi una vecchietta, mi seggo sull’erba sotto un albero, appoggiandomi al tronco, godendo del venticello fresco che fa frusciare le foglie e dell’ombra che mi regala la folta chioma, riparandomi dal sole.
È davvero un bel posto, questo.
Viene quasi voglia di fingersi malati per restarci.
*

- Misato-san?
Apro di scatto gli occhi, guardandomi intorno, allarmata.
Un momento fa ero in macchina, e stavo guidando in circolo su uno spiazzo di terra arida e gialliccia. Adesso sono circondata di verde come in una riserva naturale e ho in bocca il sapore amaro del sonno, e sulle palpebre tutta la sua pesantezza.
Si vede che un momento fa stavo sognando e adesso no.
- Shinji-kun. – lo chiamo, per fargli capire che è tutto a posto, stropicciandomi gli occhi con una mano.
Lui si siede accanto a me, con un sorriso sereno e indulgente sulle labbra.
- Certe volte ho l’impressione che sia io a doverle fare da tutore, Misato-san.
- Ehi, ehi, adesso non esageriamo! – ridacchio, contenta di vederlo allegro, - Mi dispiace di non essere venuta a visitare Asuka.
- Questo dovrebbe dirlo a lei, non a me…
Mi guardo intorno. Il sole sta percorrendo la via del tramonto già da un pezzo, e presto andrà a nascondersi dietro le colline rosate in lontananza.
- Sarà per la prossima volta. – sospiro abbattuta, incurvandomi su me stessa, - Ormai è tardi. Shinji-kun, perché non sei venuto a chiamarmi prima?
Sorride imbarazzato, socchiudendo gli occhi.
- Avevo tante cose da dirle. Ho perso tempo.
- Continui a parlarle? – sbuffo intenerita, abbandonandomi nuovamente contro la corteccia dell’albero.
Shinji-kun annuisce, sicuro e deciso.
- E cosa le dici?
- …le ho parlato di Kaworu Nagisa-kun.
Spalanco gli occhi, allarmata, voltandomi a guardarlo.
- Hai ricordato…?
Lui si stringe nelle spalle come dovesse scusarsi di un’imperdonabile mancanza.
- No. Le ho raccontato quello che mi ha detto lei ieri. E… altri miei pensieri.
- Del tipo?
- Misato-san, - ridacchia, - come fa a venirle tanto naturale essere così indiscreta?
Arrossisco, guardando altrove e incrociando le braccia sul petto.
- Sono la tua tutrice, - mi difendo, - è naturale che voglia sapere cosa pensi.
Lui sorride dolce ancora una volta, prima di spostare lo sguardo su un ciuffetto d’erba, col quale prende a giocare nervosamente con le dita.
- Le ho detto che sono stato felice di sapere di Nagisa-kun. – risponde, e io sento il mio cuore scoppiare di gioia.
- Davvero? – chiedo, titubante, cercando di afferrare il suo sguardo col mio ma senza riuscirci.
- Sì. – risponde lui, stringendo l’ebra tra le dita, - Grazie, Misato-san.
- Credevo… credevo di averti solo confuso le idee ancora di più.
- Be’, l’ha fatto. - ride, - Però mi ha fatto anche piacere. Sa, Misato-san, per tutte queste ultime settimane mi sono sempre ripetuto che se avevo dimenticato delle cose forse era stato perché era l’unica cosa che potessi fare. “Se non ci fossero stati dei problemi con quei ricordi, non li avrei dimenticati”, mi dicevo.
- …
- Però dopo quello che mi ha detto ieri ho capito che non è per forza così. In fondo, nel cervello non ci sono soltanto questi meccanismi psicologici di cui si parla tanto, ci sono anche… voglio dire, dei processi biologici, no? Tipo quando sbatti la testa e dimentichi le cose. Credo che mi sia successo questo, no? Magari mentre combattevo l’ultimo angelo ho preso un colpo e ho dimenticato certe cose. Può succedere. Vero?
Risolleva solo adesso lo sguardo su di me, e si accorge, col mio stesso stupore, delle lacrime pesantissime che mi rigano le guance.
- Misato-san! – grida, spaventato, - Che succede? Perché piange?
Piango perché ti ho mentito, Shinji-kun.
E perché sono felice per te.
E triste per Kaworu-kun, anche. Un po’. Solo un po’.
Ricordo che, dopo averlo ucciso, mi dicesti che credevi fosse lui l’unico ad avere diritto di vivere. E so che se lo dicesti fu solo perché gli volevi bene. Perché lo trovavi una persona straordinaria. Perché lui aveva trovato te una persona straordinaria, e questo ti aveva fatto felice.
E io sono felice di averti ridato almeno un briciolo di quel ricordo.
Ma sono anche triste, triste da morire, perché ti mancheranno sempre le cose più belle. Non è lo stesso, avere una reminiscenza fisica dell’affetto di qualcuno, la sensazione calda e rassicurante di una carezza o di uno sguardo tenero, non è lo stesso che saperlo per sentito dire.
Se mai l’affetto di Kaworu-kun ti ha toccato davvero, tu non lo saprai mai. Se una carezza c’è stata, è perduta per sempre. Come tutti gli sguardi, e i riflessi dei sorrisi.
Trovo ancora saggio che la tua mente abbia scelto di dimenticare.
Ma lo trovo anche terribile.
- Lasciamo perdere. – sorrido, asciugando velocemente le lacrime e alzandomi in piedi, - Sono contenta per te, Shinji-kun. Torniamo a casa? È già tardi…
Annuisce, guardandomi senza capire e alzandosi a sua volta, camminandomi a fianco mentre mi dirigo spedita verso la macchina.
Uscendo dal parcheggio e imboccando il viale che ci riporterà all’autostrada, dalla finestra aperta della sala d’ascolto della clinica, a pian terreno, fuoriescono delle note. La melodia ci viene incontro, scavalcando i finestrini semiaperti e intrufolandosi nelle nostre orecchie.
L’Inno alla Gioia solletica i miei sensi, e mi riempie di vibrazioni positive.
Lancio uno sguardo veloce a Shinji-kun.
La musica solletica anche i suoi sensi.
Ma lui non sembra felice.
Fissa la strada, dritto davanti a sé, le labbra strette e i lineamenti tesi. I pugni chiusi stringono isterici i pantaloni all’altezza delle ginocchia. E le palpebre sfidano il fastidio, opponendosi all’istinto di chiudersi per evitare di lasciare andare le lacrime che trattengono a fatica.
Deglutisco, tornando a guardare la strada, un po’ perché ho paura di sbandare, un po’ perché non posso reggere questa scena.
- Misato-san. – dice lui, con la voce tremante, dopo qualche secondo, - Grazie lo stesso.
Io chiudo gli occhi, solo per un attimo.
È un peccato che le mie menzogne non siano durate un po’ più a lungo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Malinconico.
Pairing: Kaworu/Shinji.
Personaggi: Kaworu, Shinji.
Rating: R
AVVISI: AU, Shounen-ai.
- “- [...] Tokyo mi fa sentire strano.
Kaworu sorrise comprensivo.
- Immagino sia più o meno così per ogni posto in cui non vai da molto tempo.
- Sì, immagino di sì.
” Shinji torna a Tokyo dopo quindici anni, convinto che non incontrerà nessuno se non sarà lui a volerlo. E invece...
Commento dell'autrice: Gyah *_* Dunque, tanto per cominciare, è la prima volta che scrivo di quei due <3 E sono estremamente timorosa a riguardo, perché batto una strada già battuta in passato da una ficwriter quale Caska Langley, che per quanto abbia letto è stata la migliore a scrivere su questo fandom, in passato. Detto questo, posso ammettere, mettendo da parte la modestia che non ho XD che sono sufficientemente soddisfatta di com’è venuta fuori questa storia ^_^ E’ comunque iperlontana dalla perfezione, ci sono un sacco di cose che avrei voluto dire, soprattutto su Rei e Asuka, ovviamente, e probabilmente l’avrei fatto se invece di una shot questa fosse stata un’AU lunga, però in qualche modo mi sembra “fuori posto” impelagarmi in una storia di questo genere °_°
Probabilmente, alla fine lo farò pure XD (anche se passeranno degli anni prima di riuscire a smaltire la quantità di fic che ancora aspettano di essere scritte, e da molto più tempo XD), magari utilizzando questa oneshot come traccia, come filo conduttore per un progetto più ampio.
Ma per ora è quello che è è_é E così resterà.
Uno degli obiettivi era cercare di rendere credibili questi due come trentenni ._____.””” Mi rammarico di non esserci affatto riuscita, me ne accorgo da sola, mi sembrano così adolescenti ç____ç Però, alla fine, visto che comunque è una storia sul ricordo, vissuta più nel ricordo stesso che nel presente, penso che ci possa stare O.o E spero non infastidisca troppo XD
Per finire, la canzone è l’adorabilissima “E ti ricordo ancora”, di Fabio Concato <3 Il testo è un pochino insulso, mi rendo conto, ma io AMO le canzoni romantiche e nostalgiche, e ho amato questa fin dal primo momento XD
Nota: Questa fanfiction ha partecipato al secondo concorso della True Colors Community.
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E TI RICORDO ANCORA


Il posto non era cambiato di una virgola, era ancora piccolo e scuro come lo ricordava. Le pareti erano ancora dipinte di blu, per quanto sbiadito e scrostato in più punti, e le luci erano dello stesso azzurrognolo e freddo colore di un tempo. Pochi sgabelli attorno al banco semicircolare del bar, qualche tavolino basso con relativi divanetti in pelle ormai talmente vecchia da aver perso qualsiasi lucentezza, e più in fondo le porte dei prive – quante volte s’era chiuso lì dentro con Asuka, quando era adolescente? Quante volte aveva dovuto chiedere aiuto a Rei, quando si era ritrovato a corto di soldi e il pensiero di un’ora con Asuka su un divano morbido e appartato lo abbagliava troppo per poter pensare a cosa fosse giusto fare e cosa no?
A guardare il locale in quel momento, con gli occhi di un adulto e col gravare odioso del tempo e dei ricordi sulle spalle, il pensiero di aver perso la verginità proprio su uno di quei divani lo infastidì da morire. Era tutto così squallido e vuoto, così vecchio, sapeva d’antico.
“Quindici anni”, si disse, e non riuscì a crederci.
“Quindici anni”, si ripeté, e gli sembrò non fossero passati nemmeno quindici secondi.
“Quindici anni, convinciti!”, si lamentò nella sua mente, esasperato dalla sua stessa ostinazione.
“Quindici anni, dai”, e ne sentì d’improvviso il peso sulla testa e sulle gambe, ed ebbe bisogno di sedersi.
Si avvicinò al bar e si appollaiò su uno sgabello qualsiasi, aspettando di decidere cosa prendere prima di richiamare l’attenzione del cameriere dall’altro lato del bancone.
Avrebbe voluto odiare quel posto ancor più di quanto non l’odiasse già. Gli sembrava di riflettersi su ogni superficie. Anche in lui non era cambiato niente. Anche dentro di lui c’erano ancora gli stessi stupidi divani vecchi, e gli stessi orribili tavolini scrostati. Per non parlare dei suoi prive.
- Cosa ti do? – gli chiese il barista, distrattamente, continuando ad asciugare i bicchieri.
- Una birra. – rispose lui, sospirando pesantemente e appoggiando entrambi i gomiti sul tavolo.
Perché era andato in quel posto?
Era il suo primo giorno a Tokyo dopo quindici anni, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, vedere chiunque, spendere qualche soldo in un luogo qualsiasi o semplicemente fare una passeggiata da qualche parte in centro, e invece ecco che si ritrovava a rivangare vecchi ricordi agrodolci, sorseggiando birra fredda nell’unico locale che avesse frequentato durante l’adolescenza, quando venire sballottato per club dai suoi amici più cari era l’unica cosa che gli piacesse veramente fare. Quando ancora poteva.
Rei e suo fratello Kaworu semplicemente adoravano quel posto. Fino a quel momento aveva sempre creduto fosse perché, essendo due animi piuttosto solitari, anche se in due modi completamente diversi, gradivano la tranquillità di quelle quattro mura, dovuta alla quasi perenne scarsità di clienti. In realtà, capiva solo adesso, probabilmente avevano capito già allora l’importanza nostalgica che avrebbe poi avuto, quando fossero cresciuti, aver ripetuto sempre gli stessi gesti, sabato dopo sabato, settimana dopo settimana e così via.
Specialmente Kaworu, amava con passione trascinante i ricordi. Amava sapere di averne tanti, e amava pensare che ne avrebbe avuti anche di più in futuro. Amava perdercisi. Amava fare di qualsiasi momento un ricordo prezioso, e forse per questo, troppo spesso e con troppo accanimento, si impegnava ad agire come se ogni movimento dovesse essere teso a diventare nient’altro che un ricordo piacevole, che avesse deciso di ripescarlo fra dieci, venti o trent’anni.
Pensando a Kaworu venne investito da una sensazione strana che non avrebbe saputo definire piacevole né spiacevole. La cosa lo inquietò, perciò smise di pensarci.
Anche ad Asuka quel posto piaceva. Ma a lei piaceva qualsiasi cosa sulla quale potesse esercitare un controllo stretto e continuo, e dal momento che lì regnava incontrastata, in quanto figlia adottiva del proprietario, era logico che quel posto esercitasse su di lei un fascino particolare, quasi magnetico, esclusivo.
In ogni caso, pensare alla connessione fra Asuka e quel locale l’aveva sempre fatto sentire un idiota. Insomma, era stato il ragazzo della figlia del padrone! Avrebbe dovuto pensare più a sfruttare quella quasi parentela per ottenere i prive gratis, piuttosto che pagare ogni volta profumatamente nella speranza di fare buona impressione su quell’uomo.
- Questo posto è ancora del signor Kaji? – chiese in un soffio al barista, finendo la birra e posando il boccale sul piano.
- No. – rispose quello, senza neanche guardarlo.
Gli bastava.
Lasciò i soldi sul bancone e si alzò, preparandosi ad uscire.
In quel momento, Kaworu Nagisa varcò la soglia e lo vide, congelandosi sulle scale e sferzandolo con uno sguardo talmente sconvolto che lo pietrificò.
*

E ti ricordo ancora
Le braghe corte di tuo fratello e le gambe viola
Tua mamma stanca costretta a farti un po’ da padre
Eh, me la ricordo ancora tutta bianca


Si lasciò ricadere indietro sullo sgabello, senza forze, schiudendo le labbra e spalancando gli occhi. Kaworu continuò a fissarlo per un bel po’ prima di realizzare, riscuotersi e scendere lentamente, uno scalino dopo l’altro, senza osare guardarlo ancora, con gli occhi colmi di confusione e ansia.
Era strano vedere Kaworu così. Sul suo volto, sempre così sereno e compassato, stonavano non poco sentimenti come quelli. Kaworu era un tipo da sorrisi. Non da lineamenti tesi.
Si rattristò un po’, sentendosi in colpa come avesse deturpato un’opera d’arte.
Nell’osservarlo avvicinarsi a lui e cercare di ricomporre sulle labbra un sorriso di gioiosa sorpresa, si accorse che era rimasto bello, proprio come lo ricordava. Era ancora incredibilmente esile. La sua pelle era ancora così chiara da sembrare trasparente. Non sembravano esserci rughe, non sembravano esserci segni d’età, sembrava ancora un ragazzino.
“Siamo sicuri siano passati davvero quindici anni…?”, si ritrovò a chiedersi, stupito.
Kaworu si fermò a un passo da lui, riuscendo finalmente a riprendere possesso delle sue facoltà espressive e sorridendogli.
- Shinji… – disse, con lo stesso trasporto di chi, finalmente, riesce a dare voce a un ricordo dimenticato da tempo.
- Ciao… - disse lui, incerto, sollevando una mano in segno di saluto.
Per un secondo, Kaworu sembrò chiedersi cosa fare, come fosse giusto salutarlo. Un abbraccio? Un bacio sulla guancia? Una stretta di mano?
Dovette decidersi per non fare nulla di tutto questo, perché non lo sfiorò neanche con un dito.
- Come stai? – gli chiese invece, continuando a sorridere e sedendosi su uno sgabello accanto a lui.
- Bene…
- Quando sei tornato?
- Stamattina…
- Sei in ferie?
- Sì…
- E quanto ti fermi?
- Uh? Ah… non so… non penso starò molto… forse un paio di giorni.
Kaworu spalancò gli occhi.
- Così poco? – chiese, inarcando le sopracciglia.
Shinji si strinse nelle spalle, scusandosi con un sorriso.
- Capisco… - mormorò infine l’uomo, facendo cenno al barista perché portasse una birra anche a lui.
- …e tu, Kaworu? Come stai? – chiese a sua volta, dopo un lasso di tempo che gli sembrò infinito.
Kaworu si voltò nuovamente a guardarlo. Gli sorrise ancora, socchiudendo gli occhi.
- Sono contento di rivederti. – disse.
“Questo non risponde alla domanda”, avrebbe voluto dire, ma si trattenne.
Tutto sommato, gli faceva piacere rivederlo dopo tanto tempo, anche se non aveva messo in conto un’eventualità simile. “Tokyo è così grande”, aveva pensato, scendendo dall’aereo, “che non vedrò nessuno se non sarò io a volerlo”. Aveva sottovalutato il potere della casualità?
…no. Aveva sottovalutato l’attaccamento di Kaworu al suo passato, molto più probabilmente.
- Ti sei ricordato di quando venivamo qua, eh? – gli chiese lui, tornando a guardarlo dolcemente.
Shinji si strinse di nuovo nelle spalle, imbarazzato.
- Anche tu… - rispose.
- No, io non ho avuto bisogno di “ricordarlo”. Vengo spesso qui.
- Solo?
“…ma sono completamente impazzito?”
- Sì. Solo.
Beh, aveva fatto trenta, perché non fare trentuno?
- …e come mai?
Kaworu ridacchiò, scuotendo il capo, e non rispose.
- Perché non mi chiedi quello che stai cercando di evitare da quando mi hai visto?
- …mh?
- Avanti, Shinji…
Abbassò lo sguardo. In realtà non stava pensando a niente, ma aveva sempre avuto cieca fiducia nella capacità di Kaworu di vedere oltre i suoi stessi pensieri, di cogliere le sue incertezze dove neanche lui sapeva che esistessero, di aprire botole dimenticate da tempo immemore. O di crearne di totalmente nuove.
Sì, Kaworu vedeva le sue domande anche dove non c’erano, dava loro vita per lui, quando lui dimenticava di farlo. Si rigirava la sua mente fra le mani come plastilina, le dava la forma che preferiva.
Era sempre stato così.
Era probabilmente colpa del fatto che si conoscessero da tutta una vita. Del fatto che lui fosse il suo migliore amico. Del fatto lo capisse meglio di chiunque altro. Della sua straordinaria sensibilità.
Di tanto altro.
Non che Shinji si fosse mai soffermato anche un solo momento, cercando di stabilire di chi o di cosa fosse la colpa dell’influenza di Kaworu su di lui.
O meglio, non che la ritenesse affatto una colpa, tanto per cominciare.
- Come stanno gli altri…? – chiese, incapace di guardarlo, rigirandosi il boccale vuoto fra le mani.
Kaworu sorrise.
- Non era questa la domanda. Comunque stanno tutti bene.
- …come sta Asuka?
- Ah! Eccola! Ecco la domanda!
Lo ascoltò ridere di gusto, sentendosi sempre più in imbarazzo.
- Sta bene. – rispose infine, - Non è rimasta traumatizzata o altro.
- Non… non intendevo niente del genere…
- Sì che lo intendevi.
Tornò a guardarlo.
Sorrideva naturalmente, e nella sua voce non c’era la benché minima traccia di malizia. Non lo stava stuzzicando, stava constatando una realtà.
Era vero, aveva pensato più volte che quello che aveva fatto l’avesse potuta sconvolgere.
- E’ un po’ strano – mormorò, inquieto, - sentirsi dire che la cosa le è passata addosso senza problemi.
- Non ho detto questo. – rispose lui, con la stessa calma di prima, - Ho detto solo che adesso sta bene. Shinji, tu aggiungi significati nascosti dove non c’è bisogno…
Perché, invece quando li aggiungeva lui aveva sempre ragione?
- E… lei ti parla, adesso?
Scrollò le spalle.
- Non nego che mi farebbe piacere riallacciare i contatti. Ma no, non mi parla. Non l’ha più fatto.
Allora, tutto sommato, non ne era uscita completamente indenne.
- E com’è che sei così sicuro che sta bene?
- Rei. – rispose, come fosse un’ovvietà, - E’ lei che mi informa.
- Come sta?
Kaworu rise ancora, di gusto.
- Bene. – disse infine, terminando la sua birra, - Ma se ci tieni tanto a sapere come stanno posso farti avere qualche risultato di analisi ospedaliera, così ti tranquillizzi. – propose ridendo, - Oppure possiamo organizzare qualcosa domattina, tutti insieme.
Abbassò lo sguardo, sorridendo lievemente.
- Probabilmente non è la cosa migliore da fare…
Kaworu sospirò.
- No, probabilmente no. Credo che Asuka non verrebbe.
- Non verrebbe neanche Rei. Lo sai che mi odia.
- Non ti odia…
- Sì che mi odia. Non odia te perché sei suo fratello, e anche perché nessuno è mai riuscito ad odiarti, che io sappia. Ma non ha mai avuto difficoltà ad avercela con me.
Kaworu si appoggiò coi gomiti sul tavolo, mentre un sorriso lontano gl’increspava le labbra.
- Le piacevi, infondo. – sussurrò.
Shinji guardò altrove, ricordando d’improvviso che se aveva accettato mestamente ma con sollievo l’ordine di suo padre di lasciare il Giappone in seguito a quello che era successo, e se aveva continuato a stare lontano da Tokyo fino a quel momento, non era stato solo per allontanarsi da Kaworu e da tutto quello che la sua persona implicava, ma anche da tutto il resto. Dalla situazione che, fra loro quattro, era sempre stata fin troppo complicata.
- Shinji – lo richiamò Kaworu d’improvviso, sorridendo entusiasta come un bambino, - ti ricordi quando ci siamo incontrati per la prima volta?
Annuì, arrossendo lievemente.
Kaworu non avrebbe dovuto obbligarlo a rivangare tutti quei ricordi.
Hai trent’anni, Shinji!
…si sentiva un quindicenne, di nuovo.
Aveva quattro anni quando aveva visto Kaworu per la prima volta. Ed era il suo primo ricordo.
Kaworu aveva più o meno la sua stessa età, era più alto di lui ed era un bambino stupendo, dai lineamenti delicatissimi ma nient’affatto femminili. Un bambino slanciato, un bambino esile ma non cagionevole, un bambino che catalizzava su di sé l’attenzione di adulti e coetanei con una naturalezza che aveva dell’incredibile.
Sembrava essere stato benedetto con un’aura miracolosa che lo rendeva magnetico agli occhi del mondo intero. Shinji era stato solo una delle vittime, una delle tante. Fra gli altri c’erano i maestri, gli altri compagnetti, la signora Nagisa… e sinceramente s’era sempre chiesto come fosse stato possibile che il padre di Kaworu riuscisse in qualche modo a sfuggire al magnetismo di suo figlio, abbandonandolo quando era ancora in fasce, lasciandosi dietro un’altra figlia di un anno più grande e una donna disperatamente sola che non avrebbe trovato niente di meglio da fare che aggrapparsi con foga al miraggio di rendere quei due figli perfetti, così impara, il bastardo, a mollarmi, ed erano venuti fuori Rei e Kaworu, la sociofobica e lo svagato, praticamente due alieni.
Shinji guardò l’uomo al suo fianco, sperando lui non se ne accorgesse.
Kaworu lo fissava, sorridendo.
…Kaworu non smetteva un secondo di fissare in quel modo i suoi interlocutori, chiunque fossero. Aveva uno sguardo strano, uno sguardo che lo faceva sembrare un essere di un altro mondo, giunto sulla terra per osservarla e carpirne i segreti, che intratteneva relazioni con i suoi abitanti al solo scopo di studiarli approfonditamente.
Eppure.
Eppure il suo sguardo aveva qualcosa di caldo. Qualcosa di devoto.
Qualcosa che aveva sempre fatto vibrare Shinji fin nel profondo delle sue viscere.
*

E ti ricordo ancora
L’ingenuità, la tua tenerezza disarmante
Eri un omino ma dentro avevi un cuore grande
Che batteva forte un po’ per me


Kaworu era cresciuto portandosi dentro il germoglio di qualcosa di eccezionale. S’era fatto grande, sotto gli occhi di tutti, come un miracolo quotidiano.
Era strano, a pensarci.
In fondo, era solo un essere umano, con pregi e difetti come tutti gli altri. E non che trovare i suoi difetti fosse poi un’impresa così impossibile. Era spesso distratto e svogliato nello studio, faceva solo ciò che gli interessava, ignorando i suoi doveri, era testardo e invadente, era curioso, era sottilmente supponente e presuntuoso, era sempre convinto di avere ragione – in parte perché molto spesso era vero – e nei confronti delle persone che non gli stavano a cuore era scostante in maniera quasi crudele.
Ma era chiaro, era lampante che c’era qualcosa, nei suoi occhi, sulla sua pelle, nei suoi gesti, qualcosa che brillava, qualcosa che prima o poi sarebbe esploso, no, qualcosa che esplodeva giorno dopo giorno, nel suo piccolo, qualcosa che faceva sentire anche i meno sensibili come se avere la possibilità di vederlo fosse qualcosa per cui dover sempre ringraziare qualche dio in qualche cielo.
Non era qualcosa che fosse possibile definire, e non era qualcosa che fosse possibile non provare.
Asuka, ad esempio. Asuka era l’essere umano più indisponente e orgoglioso e cocciuto del mondo. Asuka era una persona chiusa, una persona corazzata, una persona che detestava provare sentimenti che non potesse spiegare, che non desiderasse, o che non avesse volontariamente richiamato.
Eppure Asuka era totalmente affascinata da Kaworu. Pendeva dalle sue labbra. Kaworu era l’unica persona in tutto il dannatissimo mondo in grado di farla ragionare.
Forse per questo quello che era successo l’aveva ferita al punto da desiderare di non vederlo più.
E Rei, poi. Tutto sembrava passarle addosso come niente, non come se per lei nulla esistesse, ma come fosse lei stessa a non esistere. Le persone, i fatti, le passavano attraverso, e quando ne uscivano la lasciavano immacolata e intonsa, di nuovo tutto al suo posto, come prima, come sempre, era un ologramma.
Eppure Rei sentiva Kaworu così profondamente che ne era turbata. Nascondendosi dietro la scusa della sorella maggiore non faceva che preoccuparsi per lui, come volesse affermare al mondo di essere l’unica in grado di possedere quell’oggettino tanto splendido, quando in realtà era lei stessa ad essere posseduta dallo sguardo vago del suo fratellino miracoloso.
Kaworu sapeva tutte queste cose. Comprendeva a fondo l’effetto che aveva sugli altri. Non lo sfruttava con tutti semplicemente perché non trovava niente di stimolante nell’influenzare persone di cui non gli fregava un accidenti. Avrebbe potuto facilmente incantare professori, ragazzine di tutte le età, adulti, anziani, bambini, chiunque, con quel suo sguardo naturale e la parlantina sciolta, ma la cosa non lo interessava. Non lo interessava minimamente.
Kaworu sfruttava il potere della sua indole solo con le persone che amava. Non perdeva occasione per sottomettere Asuka, ed era incredibile osservare come ogni volta lei si lasciasse dominare, quasi senza accorgersene, e non perdeva occasione per rintontire Rei, ed era un piacere vedere i suoi lineamenti tesi sciogliersi quando la figura di suo fratello entrava nel suo campo visivo.
E non perdeva occasione per sconvolgerlo. Non perdeva occasione per andargli vicino, non perdeva occasione per regalargli una carezza distratta, o uno sguardo rassicurante, o un sussurro piacevole.
Era scritto nei suoi gesti teneri, che prima o poi sarebbe riuscito ad averlo.
Come aveva fatto, lui, a non accorgersene? Come aveva potuto permettergli di continuare a disegnare i suoi giorni con quei tocchi lievi, d’artista? Come aveva potuto permettere a sé stesso di cedere?
Come diavolo aveva potuto lasciare che lo baciasse?
*

E ti ricordo ancora
Dimmi che non è cambiato niente da allora
Chissà se parli ancora agli animali
Se ti commuovi davanti a un film


- Ehi! Sei ancora vivo?
Si riscosse, un po’ turbato dalla repentina fuga dal mondo dei ricordi.
Comprendeva come fosse possibile che Kaworu passasse pomeriggi interi semplicemente a ricordare. Ricordare è un processo centrifugo e continuo, è un processo dal quale non ti liberi facilmente, quando ci sei dentro.
I panni mica escono dalla lavatrice di loro spontanea iniziativa, quando sono lì a farsi venire l’emicrania, ruotando vorticosamente nel cestello.
Ci vuole sempre qualcuno che apra l’oblò.
- Scusa. – sorrise mestamente, - Non sono molto di compagnia, stasera.
- Sarai stanco.
- In realtà no. In realtà mi sento strano. Tokyo mi fa sentire strano.
Kaworu sorrise comprensivo.
- Immagino sia più o meno così per ogni posto in cui non vai da molto tempo.
- Sì, immagino di sì.
- Ti va un’altra birra?
Guardò l’orologio appeso al muro, alle spalle del barista. La mezzanotte era ormai passata da venti minuti, e il locale nel frattempo s’era lievemente animato.
- Perché no? – disse, scrollando le spalle.
*

E ti ricordo ancora
Nei pomeriggi di primavera dopo scuola
Tu mi parlavi di una colonia sopra il mare
Eh, vienimi a trovare, che si sta bene


Per un lunghissimo periodo, che era andato più o meno da quando l’aveva conosciuto all’inizio delle scuole medie, Kaworu non era stato semplicemente una parte del suo mondo. Kaworu era stato tutto il suo mondo. Aveva rappresentato ogni tipo di sentimento positivo e incoraggiante, aveva rappresentato la gioia, la compagnia, la tenerezza, la fantasia.
Era stato il suo fulcro.
A lui non interessava comprendere cosa ci fosse dietro alla centralità di quel ragazzo fra i suoi pensieri. Gli bastava che ci fosse. Gli bastava vederlo bene, nitido e rigido, lì in mezzo. Gli bastava che fosse evidente, che non potesse perderlo.
In tutti quegli anni non s’era mai permesso di perderlo. Kaworu non gli aveva mai permesso di farlo.
Kaworu aveva frequentato casa sua, conosceva tutti i suoi parenti, conosceva il parco dove andava a giocare e tutti i suoi giochi. Come una costante, dovunque fosse Shinji c’era anche Kaworu.
Per molto tempo era stato così. Per molto tempo, Kaworu s’era fatto inglobare dalla vita di Shinji, e Shinji non aveva mai sentito il bisogno di entrare a far parte della vita di Kaworu.
Poi, un giorno, semplicemente era successo. Complice un compito di geometria che si annunciava particolarmente complesso e un pomeriggio libero da passare studiando.
“Meglio se ripassiamo in due, no?”, gli aveva proposto, il solito sorriso sfavillante sul volto minuto da dodicenne.
“Non vorrei approfittare…”, aveva detto lui, stringendosi nelle spalle, imbarazzato.
Kaworu s’era limitato a fare un gesto con la mano, come dire “ma va’”.
Quel pomeriggio, per la prima volta, s’era introdotto in casa Nagisa.
Avrebbe dovuto capire allora che c’era qualcosa di strano. Avrebbe dovuto capire allora che quello che lui e Kaworu provavano non era affatto quello che credevano di provare. C’era tutta l’evidenza, c’era tutta l’attrazione, c’era tutto il magnetismo, c’era già allora.
Ma che vuoi capirne a dodici anni?
Quel pomeriggio, per la prima volta, aveva anche visto Rei.
Rei era un anno più grande di suo fratello, gli somigliava in maniera impressionante ma, al contrario di lui, era assolutamente glaciale. Non fossero stati fisicamente così identici, a stento si sarebbe potuto credere che provenissero dallo stesso ambiente familiare, tanto era diverso il loro approccio alla vita.
Se Kaworu era curioso e guardava tutto con interesse, Rei era il disinteresse personificato, il menefreghismo più ostentato, l’incuria più totale. Era sciatta anche nel modo di vestirsi, era sciatta nel parlare con le persone, non gliene fregava niente di niente, era chiaro come il sole. Si illuminava solo quando si trattava di suo fratello.
La prima volta che l’aveva vista, Rei l’aveva trattato come un essere insignificante e insopportabile. Anche se l’aveva salutato – incitata da Kaworu – non l’aveva mai guardato negli occhi, se non per un brevissimo istante, un istante che l’aveva davvero spaventato: da quegli occhi era venuta fuori una tale quantità d’astio e insofferenza da dargli i brividi.
Rei era mortalmente gelosa. Questo perché, a ragione, vedeva in lui la persona che, quando suo fratello sarebbe stato abbastanza grande da capire qualcosa di amore e attrazione, le avrebbe sottratto il suo unico tesoro, il suo unico interesse. Aveva sempre continuato a detestarlo in quel modo. Anche dopo averlo accettato come persona – a dispetto di quanto lui significasse per Kaworu. Anche dopo averlo osservato mettersi con Asuka e diventare dunque innocuo, almeno teoricamente. Sempre, sempre.
“Sei una minaccia”, diceva quello sguardo, “sta’ lontano”.
Quel primo incontro con Rei avrebbe dovuto sconvolgerlo molto di più – e probabilmente impedirgli di diventare suo amico, col tempo – ma la presenza di Kaworu era riuscita a proteggerlo anche da quel turbamento. Kaworu gli aveva sorriso, l’aveva tirato lievemente per una manica e l’aveva portato in camera sua senza dargli il tempo di accorgersi di nulla. E lui s’era lasciato trascinare senza darsi il tempo nemmeno di pensare.
Pensare era qualcosa di cui non aveva bisogno, quando c’era Kaworu a farlo per lui, e così brillantemente.
Avevano passato tutto il pomeriggio in camera, e finalmente Shinji aveva avuto prova dell’esistenza di Kaworu. Se n’era davvero reso conto per la prima volta.
Lui esiste. Esiste anche quando è qui da solo, esiste anche quando non è con me, non è solo una parte della mia vita, ha una sua vita anche per i cavoli suoi.
La playstation accanto al televisore, i manga ordinati nella libreria, i videogiochi impilati sulla scrivania, un libro aperto a metà sul comodino, CD musicali un po’ ovunque nelle vicinanze dello stereo, poster di Final Fantasy attaccati alle pareti, riviste musicali, il contrabbasso in un angolo – da quanto cavolo studiava quello strumento? Non se n’era mai accorto… - un cuscino per terra con sopra un gatto assonnato, la finestra dischiusa per il ricambio d’aria, i libri di scuola, il letto ordinato.
Il mondo di Kaworu. Un mondo che con lui non aveva niente a che fare.
Proprio niente.
La cosa l’aveva rattristato.
“Che c’è?”, gli aveva chiesto Kaworu, premuroso come sempre, avvicinandoglisi per poterlo guardar meglio negli occhi.
“Niente!”, aveva risposto lui, in fretta, agitato.
E Kaworu aveva sorriso.
E lui, oddio, in quel sorriso c’era morto.
“Ti faccio vedere una cosa”, gli aveva detto, e l’aveva condotto più vicino al letto, e l’aveva pregato di sedersi, e poi si era seduto al suo fianco, e quando Shinji aveva cominciato a intuire qualcosa, e quando il suo cuore aveva saltato un battito, scorgendo in lontananza la verità dei suoi sentimenti pur senza riuscire a percepirla con chiarezza, lui semplicemente s’era chinato sul comodino, aveva aperto il cassetto e aveva tirato fuori una fotografia di quando erano ancora due bambini, di quando frequentavano l’asilo. Una festa di carnevale o qualcosa di simile, erano mascherati. Shinji aveva un costume da cowboy che gli stava grandissimo, e sembrava ridicolo. Kaworu invece indossava una specie di frac nero che lo faceva assomigliare a Charlie Chaplin, e rideva, rideva come la più splendida delle consuetudini, stringendo Shinji per le spalle in un abbraccio bellissimo e spontaneo.
Non sapeva neanche che quella foto esistesse.
Aveva sollevato lo sguardo su di lui, aveva visto che era arrossito.
“E’ un po’ imbarazzante”, aveva mormorato Kaworu, guardando altrove, “ma è uno dei ricordi più belli che ho”.
Allora è così. Allora anche in questa stanza c’è un pezzetto di me. Allora c’è un pezzetto di me anche nella tua vita. È così, vero Kaworu?
Sì. Sì, sì, sì.

*

E ti ricordo ancora
Quando scoprirono che mi accarezzavi piano
E mi ricordo che ti tremavano le mani
Ed un maestro antico che non capiva


Asuka era arrivata dopo. Era arrivata col liceo. Ed era stata un fulmine a ciel sereno.
Aveva legato immediatamente con Kaworu. A suo dire, era “l’unico col quale si potesse avere una conversazione di pari livello intellettuale”. Asuka adorava far pesare al mondo la sua smisurata intelligenza.
Perché Asuka era intelligente. Il fatto che fosse scontrosa e che si rendesse insopportabile non era abbastanza per coprire le potenzialità di quel cervello enorme che si ritrovava.
E infatti era stato il suo intuito a suggerirle la verità, quando né lui né Kaworu avevano trovato il coraggio per dirgliela.
Come fosse diventato il ragazzo di Asuka non era mai riuscito a spiegarselo. Immaginava dovesse aver qualcosa a che fare con la sua bellezza mozzafiato, coi suoi ormoni in subbuglio, con l’attrazione che lei, così diversa e forte, esercitava su di lui, così debole e stupido. Ma non avrebbe saputo spiegarlo meglio. Quando l’aveva chiesto a Kaworu, lui aveva semplicemente risposto che era una cosa naturale.
“Intendi che siamo fatti l’uno per l’altra o qualcosa di simile?”, aveva chiesto lui, basito.
Kaworu aveva riso di gusto.
“Non direi.”, aveva risposto, “Solo che, Shinji-kun, noi siamo quattro. Era semplicemente ovvio che avresti scelto Asuka, nel gruppo.”
Dinamiche. Rapporti umani. Mah.
Scelte?
Aveva operato una scelta, lui, con Asuka?
Scegliere di non scegliere niente, scegliere di lasciare che sia un altro a scegliere per te può essere considerata una scelta?
Ho fatto una scelta, Kaworu?
Ho scelto, quando ho lasciato che fossi tu a pensare al mio posto? Ho scelto, quando ho lasciato che fosse Asuka a baciarmi per prima? Ho scelto davvero?

Non riusciva a considerare una scelta la sua passività. Non riusciva a vedere sé stesso in grado di scegliere qualcosa. Perché non l’aveva mai fatto.
Asuka, dando inizio a quella relazione, aveva combinato un disastro, e lui gliel’aveva lasciato fare. E quella volta non c’era Kaworu a proteggerlo. Non c’era Kaworu a proteggerlo dai suoi ormoni in subbuglio, e non c’era Kaworu a proteggerlo dalle labbra, dai seni, dalle gambe, non c’era Kaworu a proteggerlo dall’adolescenza, non avrebbe mai potuto esserci.
Soprattutto impegnato com’era a combattere la sua, di guerra.
Era stato così che Asuka era diventata la sua ragazza fissa. Era stato così che Asuka era diventata la costante dei suoi pomeriggi, e delle sue serate, e dei prive, e delle uscite, e delle bevute, e del letto, e degli anfratti bui a scuola, e delle ricreazioni, e del “fermati un po’, i miei sono ancora a lavoro”, e delle corse a casa in ritardo, e di tutto il resto.
Era stato così che il sempre-Kaworu era stato estirpato dal sempre-Asuka.
…ma forse estirpato non era il termine giusto. Kaworu non era stato estirpato. Non avrebbe mai potuto. Le radici erano piantate così profondamente che sradicarle avrebbe significato strappare via il cuore di Shinji con loro.
Kaworu era stato solo coperto.
Aspettava giusto il momento meno adatto, per rispuntare.
C’era proprio da dirlo: Kaworu era sempre stato perfetto con lui, l’aveva sempre capito benissimo; ma per quanto aveva riguardato la sua dichiarazione d’intenti nei suoi confronti, lì aveva sbagliato tempismo in maniera veramente colossale.
Era successo un pomeriggio non diverso dagli altri, se non per la tensione che s’era accumulata dentro di loro. Stavano studiando, come avevano fatto milioni di altre volte, solo che quella volta stavano studiando per l’esame d’ammissione all’università, e quello era un problema.
Sollevando lo sguardo da un tomo d’inglese, e sbuffando pesantemente, Shinji aveva chiesto a Kaworu perché alla fine non avesse deciso di provare ad entrare al conservatorio.
“E’ uno spreco”, gli aveva detto, “sei così bravo.”
Kaworu aveva scrollato le spalle.
“Ormai sono troppo grande. Il corso di studi al conservatorio è troppo lungo.”
“Sì, però una volta che lo finisci hai il lavoro assicurato.”
Risata.
“E chi te lo dice?”
“Tu sei eccezionale, se vuoi qualcosa sicuramente puoi ottenerlo. Lo sai che è così.”
Kaworu l’aveva guardato per un lunghissimo, indecifrabile e muto momento. L’aveva guardato, e i suoi occhi avevano perso tutta la loro caratteristica leggerezza, tutto il loro candore da curioso osservatore, tutta la loro piacevolezza, e s’erano fatti cupi, riflessivi, confusi e… semplicemente troppo profondi.
“Che c’è?”
“Niente. Solo che non è vero quello che hai detto.”
“Avanti, questo non è proprio il momento di fare il modesto…”
“Non lo sto facendo, infatti.”
Ancora silenzio.
Una folata di vento aveva forzato la finestra socchiusa, scombussolando le pagine del libro di Shinji.
Avrebbe dovuto cogliere l’occasione, utilizzare quella scusa perfetta per distogliere lo sguardo. Ma quegli occhi non l’avevano lasciato andare. O forse era stato lui incapace di sottrarsi.
“Cosa credi che stia pensando, Shinji?”, gli aveva chiesto Kaworu, atono, avvicinandosi a lui.
“…non lo so.”, aveva risposto lui dopo una lieve esitazione, “Non capisco dove vuole andare a parare questo discorso.”
Kaworu si era avvicinato ancora. Stavolta, fin troppo pericolosamente.
“Sicuro?”
Lui aveva deglutito.
E senza capire…
S’era tirato un po’ indietro.
Poi gli era tornato vicino.
E s’era ritirato ancora.
Kaworu l’aveva afferrato per una spalla, riportandolo nella posizione iniziale, con un lieve sospiro esasperato.
“Non posso avere tutto quello che voglio. E tu lo sai, perché voglio te e non riesco ad averti.”
Avrebbe dovuto essere qualcosa come sconvolto, o confuso, o adirato, magari. Ne aveva tutti i diritti.
Imbarazzato, era arrossito ed aveva distolto lo sguardo.
“Kaworu…”
“Non devi dire niente. Non mi aspetto che tu mi dica niente. Non mi sono mai aspettato che tu mi dicessi qualcosa.”
Aveva risollevato lo sguardo, ferito.
“Cosa intendi dire con questo?”
Kaworu aveva sbuffato, lasciandolo andare.
“Niente.”
“Col cavolo!”
“Non so come spiegarlo. Non è che il tuo essere così come sei mi infastidisca, solo che è difficile…”
“Aspetta! Che vuol dire ‘il mio essere come sono’?!”
“Così come sei. Shinji, tu… non hai mai soluzioni per niente, ti fai trascinare dalla corrente, non decidi mai autonomamente, insomma, Cristo, dico, stai con Asuka da qualcosa come quattro anni e non hai ancora capito perché! Hai diciott’anni!”
Confuso, s’era alzato in piedi ed era indietreggiato di qualche passo.
“Kaworu, vaffanculo! Ma che cazzo di discorsi mi stai facendo, cosa cazzo mi vuoi dire?! Spiegati!”
E Kaworu si era spiegato. Nell’unico modo chiaro e inequivocabile cui fosse riuscito a pensare.
Quando le loro labbra si erano separate, Shinji si era sentito come se gli stessero strappando lo stomaco dalla bocca.
Aveva spalancato gli occhi. S’era irrigidito.
Kaworu l’aveva guardato fisso per qualche secondo, stupito dal suo stesso comportamento. S’era messo una mano fra i capelli.
“Scusa. Non so che mi è saltato in mente. Non volevo.”, aveva detto, confusamente, guardando per terra. Poi era tornato a guardarlo negli occhi. Lui era ancora troppo sconvolto per muoversi, o parlare, o anche solo pensare.
Kaworu aveva sospirato e s’era allontanato di qualche passo, senza mai dargli le spalle, come volesse tenerlo d’occhio.
Lui s’era morso un labbro. Aveva vagato per qualche secondo nel limbo confuso della sua testa, aveva stretto i pugni, aveva combattuto contro le sue gambe e, alla fine, s’era slanciato in avanti. Gli era letteralmente caduto fra le braccia.
E poi, insieme, erano caduti sul letto.
*

E ti ricordo ancora
Dimmi che non è cambiato niente da allora
Chissà se parli ancora agli animali
Se ti commuovi davanti a un film


Sospirò pesantemente, mandando giù l’ultimo sorso di birra e posando poi il boccale sul tavolo.
- Pensi che dovremmo parlarne? – chiese a bassa voce, incapace di guardarlo.
Lo sentì ridere lievemente.
- Per dire cosa?
Sorrise anche lui.
- Non lo so. Solo che se ci ripenso mi sembra sia stato tutto assolutamente insensato.
- Dici?
- Sì. Insomma, avrei potuto continuare a stare con Asuka, lei non avrebbe piantato il casino che ha piantato quando l’ha scoperto, mio padre non mi avrebbe mandato a New York, io adesso probabilmente sarei laureato alla Todai, e io e Asuka ci saremmo sposati, e forse avremmo anche dei figli e saremmo ancora tutti amici come prima.
Kaworu sospirò.
Guardava un punto imprecisato del muro di fronte a lui, ma i suoi occhi sembravano puntati oltre, da qualche parte nell’universo, o da qualche parte nella sua mente.
- Ne dubito. – disse seccamente, - E non mi pento di averlo fatto. Se non l’avessi fatto sarei morto di frustrazione.
Shinji abbassò lo sguardo.
- E anche tu.
- …io non ci avevo mai pensato, a una cosa simile!!!
Kaworu rise.
- Cazzate!
- Be’, di sicuro non mi ero spinto tanto in là, anche pensandoci.
- E smettila di mentire… - disse dolcemente, tornando a fissare lo sguardo su di lui, - Ormai sono quasi vent’anni. Puoi anche ammetterlo che ti piacevo.
Perché, secondo te non mi piaci più?
Lo guardò e sorrise, stringendosi nelle spalle.
- Forse un po’.
Kaworu rise di gusto, e rise anche lui, godendo dell’aria tiepida e nostalgica che sembrava avvolgerli di nuovo, nonostante il tempo e le parole di troppo.
- Scusa, adesso farò una cosa volgarissima, che sicuramente ti metterà in imbarazzo e ti farà cadere le braccia, per non dire altro. Tu non farci caso, mh?
Senza capire, rimase a guardarlo infilare una mano nella tasca dei jeans, tirare fuori il portafogli, contare i soldi e poi annuire soddisfatto.
Quando Kaworu risollevò lo sguardo, Shinji rideva a crepapelle.
- Dimmi che non hai contato i soldi per il prive, ti prego!
- …mi aspettavo tutt’altro tipo di reazione. Qualcosa sullo stile di “Kaworu! Sei uno svergognato! Come puoi chiedermi una cosa simile?!” e cose del genere…
Shinji scrollò le spalle, dissimulando il disagio.
- Sono cambiate tante cose.
L’altro sorrise malizioso, appoggiando un gomito al tavolo.
- Davvero?
Shinji annuì, alzandosi in piedi.
- Vai via? – gli chiese, con un tremito nella voce.
- Mmmhno. Sbrigati, dai, sono già le due.
Nonostante le luci blu, nonostante le pareti scure, nonostante la confusione nel suo cervello, Shinji poté giurare di aver visto Kaworu arrossire.
Pochi minuti dopo, oltre la porta del prive, sullo stesso divano sul quale secoli prima Shinji aveva perso la verginità con Asuka, senza neanche togliersi i vestiti per la fretta, e l’ansia, e la smania, e il desiderio, fecero l’amore.
E nonostante Kaworu fosse lì, in carne e ossa, tangibile come quasi mai prima, reale, e perso, gli occhi serrati, le labbra dischiuse, la pelle sudata, i capelli arruffati, Shinji sentì chiaramente che non stava facendo l’amore con una persona vera. Non stava facendo l’amore con Kaworu perché era Kaworu, non stava facendo l’amore con Kaworu perché era bello, perché gli piaceva, perché adorava la sua voce quando ansimava e gemeva, o perché impazziva per il movimento ritmico del suo corpo, o per il contatto con la sua pelle; stava facendo l’amore con lui perché Kaworu era un fantasma, Kaworu era uno scrigno pieno zeppo di ricordi, Kaworu era la sua vita in quella città, Kaworu era tutto ciò che gli rimaneva di Tokyo, della sua adolescenza e dei suoi primi amori.
Era tutto ciò che sapeva, e che gli interessava sapere. Tutto ciò che ricordava. E che gli piaceva ricordare.