Fanfiction a cui è ispirata: "Kindan no Sonata" di Caska Langley.
Genere: Romantico, Triste, Introspettivo.
Personaggi: Rei, Kaworu.
Pairing: Rei/Kaworu, Rei/Shinji (solo parzialmente).
Rating: R
AVVISI: AU, Spin-Off, Spoiler, Death.
- Mentre sta sorvegliando suo padre, nascosta nel giardinetto di casa sua, Rei incontra un ragazzo albino che le sconvolge letteralmente l'esistenza.
Commento dell'autrice: … Oddio, ma l’ho finita davvero?! XDDD Dunque, prima di tutto, questo è il regalo di Natale dalla liz per la sua adorata Caska <3 La Caska ha fatto tanto per la liz, nell’ultimo suo anno di vita, così tanto che la liz pensa non riuscirà mai a sdebitarsi, e la liz è ben lungi dal credere che questa modesta storiella possa in qualche modo ripagarla per tutto – anche perché questo presupporrebbe la storiella fosse anche solo vagamente piacevole XD Insomma, diciamo che più che altro è un atto di devozione e basta <3
Tra l’altro, notare come nell’arco di un anno io abbia scritto all’incirca tre fanfiction basate su storie di questa benedetta donna. O c’è qualcosa di sbagliato in me o… o non lo so, ma va bene lo stesso XD
Per tornare un attimo all’origine di tutto questo, come ho già detto all’inizio, ‘sta storia è uno spin-off di “Kindan no Sonata”, una shot AU in cui i ragazzi sono vampiri <3 E’ una storia assolutamente stupenda, ma io ho sentito la mancanza di Kaworu, là in mezzo XD Perciò l’ho messo qui <3 Dando finalmente spazio a quello che, nonostante la furia slasher degli ultimi mesi, rimane uno dei miei fandom preferiti, ovvero il KawoRei. Poi comunque diciamo che io amo Kaworu forse troppo (ma no, non è mai abbastanza <3<3<3), e quindi tendo a infilarlo un po’ ovunque. E a parlarne in ogni storia come se fosse una specie di Dio ._. /liz è limitata, perdonatela. Insomma, ogni volta che lo descrivo sembra stia facendo una dichiarazione d’amore, sono quasi patetica XD ma va bene anche questo, oh ù____ù
Inoltre :O l’idea per questa storia è nata grazie al tema numero uno della community 52Flavours, “Five shades of white”, che poi dà anche il titolo a tutta la roba.
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FIVE SHADES OF WHITE
#1. Five shades of white


.SNOW


D’improvviso, si mise a piovere.
Concentrata com’era sulla finestra di casa sua – di quella che un tempo era stata anche casa sua, di quella che ora era casa di suo padre – in un primo momento lei neanche se ne accorse. Le gocce, prima debolmente, poi con insistenza sempre maggiore, le si schiantarono addosso lasciandola assolutamente indifferente, per molti minuti.
Suo padre, all’interno della casa, stava preparando un tè.
Non ricordava di avergli mai visto preparare un tè, prima di allora. Credeva che una cosa del genere non potesse in alcun modo piacergli. Così liquida, così dolce, oppure così amara.
In effetti, però, il tè era anche una cosa molto calda.
Quindi sì, non c’era dubbio che suo padre dovesse amarlo proprio tanto.
Si rammaricò di non averlo mai capito prima… e poi la pioggia cominciò a farsi fastidiosa, perciò si rifugiò dietro ai cespugli del giardino, sotto il ciliegio ormai nudo che provava, per quanto potesse, a ripararla coi rami.
Suo padre si sedette al tavolo della cucina, la tazza piena di tè fra le mani.
Poi si fermò.
Hai dimenticato il limone, gli ricordò mentalmente Rei, sorridendo fra sé.
Come l’avesse sentita, Gendo si alzò in piedi e raggiunse il cestello porta-vivande accanto al frigo. Guardò attentamente tutti i limoni accatastati l’uno sull’altro, scelse il più ovale, prese un coltello dal cassetto a tornò a sedersi.
Adesso è tutto a posto, mh, papà?
Sì, era tutto a posto. Suo padre sorseggiava il suo tè, tranquillo e soddisfatto, lentamente, assaporandolo.
Lei ebbe così tanta voglia di entrare che si sentì male.
Scosse il capo.
Devo allontanarmi un po’. Sono giorni, ormai, che sto qui fuori. Devo smettere di pensarci per un po’, tornerò poi, o questa voglia stupida non passerà mai.
Si alzò in piedi, senza alcuna cautela.
E infatti qualcuno la vide.
Un ragazzino. Un ragazzino fradicio di pioggia, che al primo sguardo la terrorizzò.
Cacciò un urletto, facendo un passo indietro e scivolando sul fango, per poi cadere di schiena sull’aiuola. Lui la guardò per tutto il tempo, non un’ombra di stupore negli occhi, non una scheggia di agitazione. Teneva le mani strette a pugno attorno alle bretelle dello zaino, e continuava a fissarla come… come fosse del tutto normale vedere una ragazza spuntare all’improvviso dal giardino privato nel quale si era nascosta.
Avanti, Rei, si disse, sorridendo amaramente, sei un vampiro, infondo. Non puoi spaventarti così per un semplice ragazzo albino.
- Ti sei fatta male? – le chiese lui, con un lieve sorriso sulle labbra, porgendole una mano al di là del muretto, per aiutarla ad alzarsi.
Lei fissò la mano e poi si sollevò da sola.
- No. Sto bene.
- Scusa se ti ho spaventata… non volevo.
- Non mi hai spaventata affatto.
Lui sorrise condiscendente, socchiudendo gli occhi.
Fu in quel momento che lei realizzò che doveva essere più grande di quanto non dimostrasse il suo aspetto.
- Comunque dovresti essere tu quello spaventato. Vedermi uscire così all’improvviso…
- In realtà sapevo che c’era qualcuno qui.
Sussultò.
- Mi… mi hai vista?
Lui scosse il capo. Arrossì lievemente, ma sulla sua pelle chiarissima il rossore risaltava come fosse trucco.
- Però… insomma, sapevo che c’era qualcuno.
Si era accorto della sua presenza, dunque.
Lei non l’aveva mai sentito.
Ma era anche vero che lei aveva smesso di sentire moltissime cose, e da molto tempo ormai.
- Capisco. – disse atona, scavalcando agilmente il muretto e atterrando in piedi sull’asfalto, proprio accanto a lui, - Be’, arrivederci.
Si incamminò lentamente verso il lato opposto del marciapiede, ficcando le mani in tasca e stringendosi nelle spalle, cercando di ignorare la pioggia battente.
- Dove vai? – le chiese lui, dopo un po’, senza urlare, ma con voce abbastanza alta e chiara perché lei potesse sentirla, nonostante la pioggia e la distanza.
Si voltò appena, squadrandolo con diffidenza da sopra la spalla.
- Che ti interessa?
- Posso accompagnarti?
Ghignò, mostrando i canini.
- Perché dovresti?
Lui non sembrò notare l’anomalia dei suoi denti. Probabilmente era troppo lontano.
- Ho un po’ di tempo. – rispose tranquillamente, muovendo qualche passo verso di lei, - E tu mi interessi.
- ...
- Non c’è bisogno che mi parli. Posso seguirti?
- Ragazzino, non ti sembra di essere un po’ importuno?
Lui le sorrise, porgendole la mano destra.
- Mi chiamo Kaworu. Ho quindici anni. Piacere.
Ancora una volta, adocchiò con diffidenza la mano bianca che si tendeva verso di lei, e poi la ignorò, scuotendo le spalle.
- Non penserai che mi presenti solo perché l’hai fatto tu per primo, vero?
Kaworu ridacchiò, profondamente divertito, stringendosi nelle spalle.
- No, no, non sono un illuso. Allora? Posso seguirti?
Sbuffò.
- Non me ne importa un accidenti. – concluse infastidita, voltandosi.
Mentre ricominciava a camminare, tese le orecchie. Per qualche secondo non sentì nulla oltre alla pioggia e al rumore dei suoi tacchi sull’asfalto, e non seppe se sentirsi sollevata o delusa. Poi, lentamente, le suole di gomma delle sneakers delle ragazzino cominciarono a gracchiare sulla strada bagnata.
E non c’era nessun dubbio nel sorriso che le nacque sulle labbra, quando scosse il capo e si rassegnò alla sua presenza.
*

- Perché proprio qui?
Sospirò, mettendo le mani sui fianchi.
- Avevi detto che non avremmo parlato.
Lui sorrise, avvicinandosi a lei.
- Avevo detto che potevi non parlarmi, se volevi. Non ho detto che non avrei chiesto niente.
- Fai il furbo, mh? – ghignò lei, - Tanto non mi freghi.
Lui scoppiò a ridere.
- Non voglio fregarti. Voglio solo parlare un po’ con te.
Rei sbuffò, tornando a guardare il muro rosso mattone davanti a lei.
- Era la mia scuola. – confessò, malinconica.
- Davvero? – chiese lui, retorico, stringendosi nelle spalle per il freddo.
Lei sorrise.
- Entriamo? – propose, adocchiando l’entrata poco distante.
- Perché no? – annuì lui, dirigendosi a passo spedito verso il cancello e cominciando agilmente a scalarlo.
Lei lo osservò da lontano, le braccia ancora incrociate sul petto, il sorriso ancora sulle labbra.
E va bene, si disse, scrollandosi un po’ di pioggia dai capelli e arrampicandosi a sua volta sulle grate di ferro.
Quando fu in cima, guardò in basso. Kaworu sorrideva, aveva allargato le braccia e sembrava solo in attesa di prenderla.
Ghignò, si sbilanciò lievemente in avanti e atterrò proprio al suo fianco, sorridendo soddisfatta.
- Sei un gatto? – le chiese lui, ridacchiando divertito.
- Sono un ninja. – rispose lei avviandosi tranquillamente verso il portone dell’edificio.
- No, non da quella parte.
Lei si fermò in mezzo al viale, e gli lanciò uno sguardo dubbioso.
- Il portone è chiuso. – spiegò lui, scrollando le spalle.
- Questo lo sapevo anche da sola, è ovvio. Stavo pensando di scassinarlo, in qualche modo.
- Sì, magari con una forcina, che fa tanto spy-movie. – ridacchiò Kaworu scuotendo il capo.
- Che fai, sfotti? – disse Rei con una smorfia, infastidita.
- No, no. È che non capisco perché vuoi prendere la strada più difficile quando c’è la porta sul retro che ha la serratura rotta.
- …non era così, quando venivo qui.
Lui annuì.
- Ormai è così da un paio d’anni. Figurati che dentro hanno rubato tutto il possibile, ormai non interessa più a nessuno. C’è solo qualche banco rotto e qualche lavagna inchiodata al muro che non sono riusciti a staccare.
- Vuoi dire che è abbandonata…?
Kaworu annuì tranquillo, sempre sorridendo.
- La mia classe non è neanche arrivata a diplomarsi in questo edificio. Siamo stati tutti smistati in altre scuole.
- Quindi anche tu hai fatto qui il liceo…
- Già, per quanto ho potuto. Magari eri anche una mia sempai.
- Non credo proprio. È passato molto tempo.
- Avanti, non essere crudele con te stessa, mi sembri giovane. Avrai un anno in più di me? Due?
- Ho quasi trent’anni.
Lui spalancò gli occhi.
- Che…?
- Ti sembro ancora giovane?
- Be’… in tutta sincerità, sì… ti… ti mantieni bene, devo dire… sarai mica stata conservata nel ghiaccio fino a oggi…?
- Aaah, non fare umorismo su questa cosa! È così di cattivo gusto! Sei proprio un ragazzino…
Kaworu rise di gusto, incamminandosi lungo un sentiero laterale sterrato e scavato nell’erba gialliccia e bagnata.
- Adesso dove vai?
- Che fai tu ancora ferma là, semmai. Dai, vieni, entriamo.
- Entriamo… - mormorò lei rassegnata, seguendolo.
Kaworu aveva l’aria di essere un trascinatore. Uno di quelli cui va dietro tutta la classe, che affascina le ragazze e riempie d’ammirazione i ragazzi, uno di quelli di cui la protagonista femminile degli shoujo manga è già perdutamente innamorata ancora prima che la storia cominci, e che è amico di tutti gli altri comprimari maschili, e che magari ha anche un fan club nella scuola privata femminile accanto al suo liceo.
Kaworu aveva l’eleganza.
Si muoveva con grazia, era sinuoso, era sicuro di sé, sembrava maturo. Aveva un bellissimo viso, un ovale perfetto, e gli occhi, per quanto dal taglio tipicamente giapponese, erano grandi e lucidi, luminosi, nonostante il colore inusuale, e i capelli erano lunghi e lisci e spettinati, erano quasi artistici, sembrava un’acconciatura da pubblicità.
Il cappotto lungo e nero gli dava un’aria misteriosa, la pelle nivea lo faceva sembrare un angelo, lo zaino tenuto diligentemente sulle spalle rafforzava la già palese aura di giovinezza che lo circondava e…
…in generale, sembrava proprio un ragazzo perfetto.
Ma che ci fa un ragazzo perfetto sotto la pioggia a fissare un giardino, in attesa che ne esca fuori qualcosa perché ha sentito che qualcosa c’è? Che ci fa un ragazzo perfetto senza una ragazza perfetta attaccata al braccio?, una ragazza perfetta con cui studiare, e scopare, e andare per club, e da presentare ai genitori? Che ci fa un ragazzo perfetto assieme a lei, nel cortile sul retro di una vecchia scuola di mattoni rossi, talmente insignificante e vuota e diroccata che le sembra assurdo averne mantenuto perfino il ricordo?
- Allora, vieni? – la richiamò lui socchiudendo la scardinata porticina in metallo arrugginito che era la gloriosa “entrata sul retro” della sua vecchia scuola.
Lei annuì e gli si mise alle calcagna.
All’interno, Kaworu sembrava perfettamente a suo agio.
Lei, invece, si sentiva costantemente scossa dai brividi.
- Che hai? – le chiese lui, spaventato dai suoi tremori.
- Niente. Ho solo un po’ di freddo.
Annuendo premuroso, lui si tolse il cappotto e glielo porse.
- Non ho bisogno di questo coso. E poi è tutto bagnato.
- Mi dispiace, è tutto quello che posso darti…
- Be’, allora non c’è niente che tu possa darmi che possa servirmi a qualcosa.
Lui sorrise amaramente, abbassando lo sguardo e il braccio che ancora teneva il cappotto – che cominciò a strisciare per terra.
Rei lo guardò e sbuffò, strappandogli con malagrazia l’indumento dalle mani e gettandoselo sulle spalle.
- Va bene, così?
Kaworu tornò a sorridere allegramente.
- Sì.
- Certo che sei proprio un bambino… vedi tu se devo stare appresso ai capricci e ai bronci di un adolescente…
- Non fare tanto la superiore, adesso! – rise Kaworu, scuotendosi tutto come un campanellino mosso dal vento, - Anche se mi hai detto che hai quasi trent’anni, a me sembri proprio un’adolescente anche tu!
Ma è perché lo sono, Kaworu.
Da qualche parte dentro il mio cervello, da qualche parte dentro il mio stomaco, da qualche parte dentro ai miei polmoni e da qualche parte dentro al mio cuore, da qualche parte dove Shinji non è riuscito a toccarmi, da qualche parte dove ancora i ricordi di lui non hanno preso il sopravvento su qualsiasi altro ricordo, assieme ai suoi baci rudi e ai suoi tocchi violenti e alle sue parole astiose, in quel piccolo punto ancora libero e puro di me, Kaworu, io sono ancora un’adolescente.
Grazie a Dio.

- Ah! Guarda! Nevica!
Con un balzo impetuoso e infantile, Kaworu si affacciò a una finestra dai vetri rotti e guardò fuori, fra i fiocchi congelati che cadevano a terra, imbiancando il terriccio giallastro del cortile e i radi cespugli secchi, e più in là la strada, le case, i palazzi più alti come quelli più piccini.
- Che bello! Usciamo fuori!
- Ma… siamo appena entrati… - protestò lei, stringendosi di più nel cappotto, - E poi io voglio vedere la scuola!
- Possiamo vederla domani, dai! – la incitò, porgendole la mano, - Usciamo!
Lei si tirò indietro, guardandolo in cagnesco. Lui scrollò le spalle.
- Come vuoi, non prendermi per mano. Ma usciamo fuori, dai.
E così dicendo, s’avviò entusiasta verso il cortile, senza mai guardarsi indietro.
Rei lo seguì poco dopo, e quando uscì all’esterno il cortile era già bianchissimo. Le neve leggerissima cadeva su tutto, e copriva tutto. Le si incastrava fra i capelli, sciogliendosi subito dopo e raccogliendosi sulle punte in enormi goccioloni in fremente attesa di lanciarsi in caduta libera verso il suolo, e poi le cadeva sulle spalle, dove lasciava piccolissime macchie traslucide sul tessuto del cappotto, e le cadeva sul naso, facendole il solletico, lasciandola sperare che magari il sangue sarebbe affluito alla pelle, cercando di riscaldarla, rendendola lievemente arrossata, ma no, si disse, Rei, non t’illudere, bianca sei e bianca rimarrai, la neve può renderti solo ancora più pallida.
Anche Kaworu era bianchissimo. Gironzolava nel gelo con disinvoltura, nonostante non avesse più il cappotto.
Chissà perché, pensò fosse semplicemente normale, per un tipo come Kaworu, comportarsi così.
E guardandolo correre allegramente da un lato all’altro del cortile, scuotendo i rametti scheletrici dei cespugli per scrollar loro di dosso la neve e tirando calci alla terra gialla perché si mischiasse all’acqua ghiacciata e biancastra, guardandolo ridere, guardando i suoi occhi vispi saettare ovunque, su di lei, sugli alberi, sulla strada, nel cielo, guardandolo perdersi in quel divertimento supremo e assurdo, si sentì più morta che mai.
- Che bello! – disse lui, gioioso, tornandole accanto, col fiatone, senza neanche sfiorarla, - E’ come se nel mondo ci fossimo solo io e tu.
Io ho l’impressione che solo tu esista davvero, Kaworu, pensò malinconica, stringendosi nelle spalle.
*

- Scusa, quindi adesso cosa intenderesti fare? Nasconderti dietro ai cespugli come prima e… rimanere qui tutta la notte?
Annuì.
- Ho fatto così da quando sono arrivata, non vedo perché dovrei smettere ora che sei arrivato tu. E poi comunque dovresti tornartene a casa, i tuoi genitori saranno in pensiero.
Kaworu sorrise.
- Sì, hai ragione. Ma tornerò domani!
- Non ci provare neanche. Non mi farò vedere.
- Ah! Ma perché devi essere così scostante?
- E tu perché devi essere così invadente, invece?
Il ragazzo ridacchiò.
- Immagino sia una questione di prospettive. Comunque tornerò, la strada oltre il muretto è suolo pubblico e non puoi impedirmi di venire.
- Fa’ un po’ come vuoi, per quello che mi interessa…
- Ok. – sorrise lui, annuendo. – Comunque devi ancora dirmi come ti chiami.
- …se avessi voluto dirtelo, te l’avrei detto quando ti sei presentato.
- Uhm… hai ragione. Però guarda che se non mi dici come ti chiami ti ribattezzo io. E ti avverto, corri il rischio di sentirti chiamare qualcosa come Chiquita per tutto il resto dei tuoi giorni…
- Che razza di nome è Chiquita?!
- Be’, il mio pappagallo si chiamava così. Cioè, in realtà si chiamava Cocorita come tutti i pappagalli normali, solo che mio padre non si è mai preso la briga di imparare il suo nome corretto, e invece di insegnargli che quando gli chiedevano “come ti chiami?” doveva rispondere “Cocorita” gli ha insegnato a rispondere “Chiquita”, e da quel momento…
- Mi chiamo Rei.
Kaworu s’interruppe, guardandola attentamente negli occhi.
- Piacere, Rei. – disse, porgendole la mano.
Mano che, ancora una volta, lei ignorò. Gli voltò le spalle e scavalcò con un balzo il muretto, tornando ad acquattarsi dietro i cespugli.
- Adesso vattene via.
- Ma sei sicura che starai bene, qui?
- Starò benissimo. E riprenditi questo dannato coso. – borbottò, sfilandosi il cappotto dalle spalle e porgendoglielo col braccio teso.
Lui sorrise.
- No, tienilo tu.
Lei neanche provò a insistere.
Desiderava quel cappotto come avrebbe potuto desiderare di tornare quella che era, se solo fosse stato possibile e lei non fosse stata così rassegnata.
Kaworu la salutò allegramente e scomparve dietro un angolo, lasciandola sola, avvolta nel suo profumo e nel suo calore come se la stesse abbracciando.
Kaworu profumava di gelsomino. Una fragranza insolitamente dolce per un uomo, ma a lei piaceva moltissimo.
Guardò la finestra sulla cucina, intravedendo suo padre curvo sul tavolo, intento a risolvere un cruciverba mentre il telegiornale davanti a lui parlava a vuoto di qualcosa di molto grave accaduto dall’altro lato dell’oceano.
Sono tornata, papà, pensò, accomodandosi meglio sulle radici del ciliegio, stando attenta a non bagnarsi i pantaloni, ti sono un po’ mancata?
Papà, ho conosciuto un ragazzo. Probabilmente ti sarebbe piaciuto. Ha più o meno la mia stessa età. O almeno, ce l’avrebbe se io avessi davvero l’età che dimostro.
È molto carino, papà.
Mi sembra un bravo ragazzo.
Forse un giorno potrei tornare, e potrei fartelo conoscere, e faremmo il tè, e tu ci chiederesti una stupida definizione delle parole crociate, una cosa cui non sai rispondere e che magari ti serve per terminare il tuo cruciverba, e noi ti risponderemmo all’unisono perché la sapremmo entrambi, e poi rideremmo e io ti prenderei magari un po’ in giro come non ho mai fatto, e forse finalmente il nostro sarebbe un rapporto rilassato, come mi sembri anziano, papà, come mi sembri anziano… devo decidermi a tornare, prima o poi, devo assolutamente decidermi, prima o poi, papà…

All’interno della casa, Gendo continuava a mordicchiare la penna, senza sentire neanche il bisogno di sbirciare a un palmo dal suo naso.
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